Daughter of Winter

di Mary_Julia_Solo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cap.1 - Daphne ***
Capitolo 2: *** Cap.2 - No mercy ***
Capitolo 3: *** Cap.3 - Memories ***
Capitolo 4: *** Cap.4 - Death, again ***
Capitolo 5: *** Cap.5 - Alone ***
Capitolo 6: *** Cap.6 - Doubts ***



Capitolo 1
*** Cap.1 - Daphne ***


Capitolo 1. – Daphne
17 novembre 2015
Steve Rogers si era appena appoggiato allo schienale della sedia e aveva posato la matita sul tavolo quando Natasha Romanoff entrò nella sua stanza per chiamarlo. Rimase un attimo ferma sulla soglia, osservandolo. Dopo quanto era successo in Sokovia, i due Avengers stavano addestrando i cadetti. Capitan America a volte era distratto e sembrava malinconico. Natasha capiva il motivo, certo, ma non aveva mai nemmeno provato a parlarne con lui. Non ci riusciva semplicemente. La ex-spia russa si schiarì la voce e, quando Steve si voltò a guardarla, sorrise.
-Steve. Fury ti sta cercando. Non so per cosa, ma deve essere importante se è venuto fin qui. -il Capitano abbassò lo sguardo sul suo taccuino. Poi, con qualcosa di strano negli occhi, la solita malinconia constatò Natasha, si alzò e la raggiunse. Camminando per lo stabilimento messo a disposizione per i vendicatori da Tony Stark, non parlarono. Steve rifletteva sul perché Fury si fosse spinto fino a lì. Doveva essere una questione importante, molto più di una semplice missione. Natasha, invece, non faceva altro che guardare di sottecchi l’amico, che aveva lo sguardo azzurro perso nel vuoto, come la maggior parte del tempo. Stavano per entrare nella sala delle riunioni, quando la Vedova decise di fermare il Capitano. Lo superò in due passi e gli si piazzò davanti, a braccia conserte.
-Steve, che c’è ? Ultimamente sei molto distratto. -lui sembrò stupito, all’inizio, ma poi le sue labbra si sollevarono a formare un piccolo sorriso. Natasha non sapeva quanto le fosse grato per quella domanda.
-Niente. Solamente che non sento più davvero di avere uno scopo. La Sokovia ha messo fine all’Hydra e ai Chitauri e adesso non sono certo che ci siano altri veri pericoli. Mi chiedo che cosa ci faccio ancora qui. -sorrise di nuovo, più mestamente.
-E i cadetti ? -domandò Natasha. Non voleve che Steve si sentisse inutile, considerando che non lo era affatto. -Loro non sono il tuo scopo ora ? -
-Si. Però… -il Capitano abbassò lo sguardo, per poi continuare. -Non riesco a sentirmi parte di questo mondo Nat, lo sai. Sarò sempre perso. A volte mi sento molto solo… -la Vedova si trattenne dall’istinto di schiaffeggiarlo. Non sarebbe stato giusto. Ma lei sapeva come ci si sentiva ad essere soli e a sentirsi non adatti. Non ci aveva mai pianto sopra.
-Qualunque cosa Steve, io ci sono, ricordalo. -lui alzò lo sguardo su di lei e sorrise.
-Lo so che ti faccio arrabbiare. -disse solo, facendo per entrare nella sala riunioni. Ma, di nuovo, la Vedova Nera lo fermò.
-Certo, a volte sì. Ma lo sai come sono fatta. -lo osservò con le sue iridi verdi, seria. -Soprattutto quando non dici l’intera verità. -Steve sospirò. Natasha capiva sempre tutto, e questo a volte era irritante. Lei sosteneva di fingere di sapere sempre tutto, ma lui sapeva che non era vero. Riusciva a leggere la mente, gli occhi e il corpo. -So che qualcos’altro ti pesa sulla coscienza. Puoi dirmelo, davvero. -Capitan America smise di guardarla negli occhi e si concentrò sulla parete grigia.
-Bucky. -esalò dopo parecchio tempo. Era per questo che Natasha non era mai riuscita a parlare con Steve. Quel nome, quel semplice nome, non le diceva nulla, ma la persona che lo portava, il suo solo pensiero, le mandava brividi freddi lungo la schiena. -Non mi perdonerò mai per quello che gli è successo. -continuò il Capitano, lo sguardo ormai perso.
-Steve, non è colpa tua, lo sai. -mormorò la Vedova. Steve sorrise in modo mesto e sarcastico.
-Parli come Peggy. -Natasha capì che avrebbe probabilmente peggiorato la situazione così. Aveva letto di Peggy Carter dopo quello che era successo un anno prima a Washington. Era uno dei fondatori dello S.H.I.E.L.D.. Avevano deciso di fondarlo dopo l’apparente morte di Steve, alla fine della seconda guerra mondiale, quasi come qualcosa di commemorativo. E, come era ovvio, Steve era innamorato di lei, e doveva essere stato uno shock per lui ritrovarla ormai novantacinquenne.
-Parlo come lei perché aveva ragione. Non potevi fare nulla per Bucky, e lo sai. -
-E invece sì. -il capitano chiuse gli occhi e finì quasi in un soffio. -Avrei potuto salvarlo… -Natasha fece per ribattere, ma proprio in quel momento la porta della sala riunioni si aprì e davanti a loro comparve Maria Hill.
-Eccovi. -disse la donna. -Fury si stava chiedendo dove foste finiti. Venite. -Natasha e Steve si guardarono. Gli occhi della Vedova dicevano : « Questo discorso non è finito qui. ».
I due Vendicatori entrarono nella sala, preceduti dalla Hill. Steve fece vagare subito lo sguardo nella stanza. Nick Fury era seduto su una sedia, le mani davanti a se, le dita congiunte. E non era solo. Poco lontano dal tavolo, c’era una ragazza, che osservava il prato, dove ancora campeggiava il nodo celtico lasciato dal Bifröst quando aveva prelevato Thor per riportarlo ad Asgrad, oltre la finestra. Aveva i capelli biondi, raccolti in una stretta coda di cavallo, e indossava dei semplici jeans e una maglia, il tutto abbinato a un paio di scarpe da ginnastica e a una giacca di pelle.
-Capitano. Agente Romanoff. -cominciò a mo’ di saluto Fury, scrutandoli con il suo unico occhio. -Vi ho chiamato per una questione importante. Molto importante. Tuttavia questa faccenda non riguarda i Vendicatori o lo S.H.I.E.L.D., ma voi due personalmente. -Natasha e Steve si guardarono confusi. L’unica cosa, l’unica persona, che riguardava loro e solo loro era… I loro pensieri furono interrotti da Fury, che continuò a parlare. -Lei è Daphne. -disse, indicando la ragazza bionda, che si voltò verso i due nuovi arrivati, sorridendo. I suoi occhi erano di uno strano blu oltremare. Steve si sentì il fiato bloccato in gola, asfissiato. Era un caso. Era un semplicissimo caso. Doveva esserlo. Dopotutto tutti potevano avere gli occhi di quel colore. Giusto ?
-Capitano. Sono contenta di poterla conoscere finalmente. Ho sentito molto parlare di lei. -la ragazza, Daphne, gli tese una mano, quella destra, dove capeggiava una cicatrice bianca e lucida, che le correva lungo il palmo. Steve gliela strinse senza dire niente.
-Daphne ha delle informazioni per noi. Penso… -Fury osservò il Capitano e la Vedova, con una punta di preoccupazione nell’unico occhio. Era strano. L’ex- direttore dello S.H.I.E.L.D. non era mai preoccupato. Per le persone, almeno. -Penso che potrebbe non essere facile da accettare per voi. -
-Niente può essere peggio dell’Hydra, dei Chitauri o di Ultron. -commentò Natasha, sicura. Steve, invece, non ne era del tutto certo. -E poi, è il nostro lavoro. Non possiamo lamentarci. -si affrettò ad aggiungere l’ex-spia. Fury la fissò per qualche secondo, annuendo lentamente.
-Già… -mormorò Steve. -Ma le torture fisiche e della mente si possono curare… Ma quelle del cuore ? -terminò, sentendo lo sguardo di Natasha sulla schiena.
-Non so cosa tu abbia capito Rogers. Penso comunque che tu non abbia potuto capire davvero quello che sta accandendo. Ti sei perso molte cose mentre eri congelato nel ghiaccio. -Fury spinse verso di loro un fascicolo che teneva davanti a sè. -Dubito che tu la conosca Capitano. -Steve lesse il nome scritto in corsivo sulla cartella : Katharine Hewlett. Scosse la testa, rialzando lo sguardo sull’uomo con un occhio solo.
-Non mi dice nulla. -
-Come sospettavo. Romanoff. -fece segno alla donna di avvicinarsi. -A te dovrebbe dire più di qualcosa. -Natasha affiancò Steve e prese con mani tremanti -una cosa che stupì Steve. Sembrava spaventata, e non era da lei. -il fascicolo. Quando lesse il nome le si illuminarono gli occhi.
-Katharine. Mi ricordo di lei. I suoi genitori e il suo fratello furono uccisi quando aveva solo sei anni da… -si fermò a metà della frase, guardando Steve di sottecchi. Non voleva fargli male.
-Dal Soldato d’Inverno. -continuò infine. Capitan America non disse niente e rimase quasi immobile, ma Natasha riuscì a vederlo stringere i pugni. -Dieci anni dopo si unì allo S.H.I.E.L.D., con l’unico pensiero di vendicare la sua famiglia. Nel 1996 morì in un incidente d’auto… -
-Non fu un incidente d’auto. -intervenne Daphne, stringendo le labbra sottili. -Mandarono il Soldato d’Inverno a finire ciò che aveva iniziato. -
-Ma qualcosa non funzionò. -si intromise Fury. -Infatti pochi mesi dopo l’attentato ricevetti un messaggio criptato della Hewlett, dove mi diceva di voler lasciare lo S.H.I.E.L.D.. Non le feci domande. -Natasha posò la cartella sul tavolo ed esclamò :
-Era viva ?! Era viva e non me lo dicesti Fury ? Mi ritenevo responsabile per la sua morte ! Avresti potuto dirmelo. Era mia amica ! -
-Non potevo Natasha. Era l’unico modo per proteggerla. Non avrebbe mai più dovuto avere a che fare con altri agenti dello S.H.I.E.L.D. -Steve smise di ascoltare e aprì il fascicolo. Prese la foto che stava all’interno e si ritrovò davanti una coppia sfacciata di Daphne. Ci mise qualche secondo a realizzare che non era lei. Erano praticamente identiche, diverse solamente per un piccolissimo dettaglio: Katharine aveva gli occhi marroni. Daphne era ovviamente sua figlia.
Guardò il foglio con i dati personali.
-Qui… -tutti smisero di parlare, o meglio, di litigare, e si concentrarono sul Capitano. -Qui c’è scritto che è morta… Una settimana fa. -terminò, sollevando lo sguardo sugli altri quattro.
-Per questo sono qui. -disse semplicemente Daphne. Steve la osservò e riuscì a vedere solo ghiaccio in quegli occhi oltremare. Sua madre era appena morta e lei si comportava come se nulla fosse.
-Com’è successo ? -domandò Natasha, pensierosa.
-Dopo vent’anni il Soldato d’Inverno ha finalmente terminato il suo compito. -Daphne era troppo tranquilla. O forse era davvero molto addolorata, ma lo nascondeva bene.
-Come puoi esserne certa ? -chiese Steve stringendo i pugni. Stava sempre male quando parlavano di Bucky. Dell’assassino che era diventato. Che era stato costretto a diventare.
-Non ho solo trovato mia madre morta se è questo che volete sapere. Ha cercato di telefonarmi, ma io ero a scuola. Ma ho questo messaggio vocale. -prese il telefono dalla zaino che aveva con se e lo buttò con noncuranza sul tavolo. Il messaggio partì :
« (respiri confusi) Daphne, tesoro. Quando riceverai questo messaggio è probabile che sarò morta. (suono di vetri infranti) Mi ha trovato. Mi ha trovato, non posso più scappare. Mi dispiace. (un colpo su legno, la porta probabilmente) Non tornare, non tornare tesoro. Devi trovare il quartier generale dello S.H.I.E.L.D.. I Vendicatori ricordi ? Li abbiamo visti alla televisione poco tempo fa… (un altro colpo, un sussulto, una pistola che viene caricata) Non so dove sia, mi dispiace. Mi dispiace per tutto. Per non averti mai detto la verità sulla mia vita, sulla nostra vita. Per non averti mai detto la verità su tuo padre. Ma credimi… (altro colpo, altro sussulto) molto meglio che mi dessero della prostituta o che ti chiamassero figlia di puttana. Sapere la verità su tuo padre gli avrebbe spinti ad odiarti più di quanto già facciano. (ennesimo colpo) Non ho più tempo, mi dispiace, mi dispiace. (singhiozzo, la porta che viene sfondata. Un colpo di pistola. Un altro. Oggetti che si rompono. Poi un colpo molto forte. Il telefono caduto. Un tonfo. Poi, una voce confusa.) J-James, ti prego… (colpo, le parole si bloccano. Colpo di tosse violento.) James ti prego, non lasciare che ti usino. Cerca di ricordare… (un’ altra voce, d’improvviso) Non so di cosa stai parlando. Sono qui per ucciderti, e lo farò. (la voce di Katharine, strozzata) J-James, ti prego, non farlo, risparmiami, possa aiutarti… (le parole si bloccano di nuovo) Smettila di chiamarmi così. Non mi chiamo James. Dalle mie parti mi chiamano Soldato d’Inverno. È l’unico nome che conosco e che mai conoscerò. N-no… Non mentire a te stesso… Tu sei l’unica che mente. (colpi di pistola. Tre. Consecutivi. Senza pietà. Passi che si avvicinano al telefono. Altro colpo di pistola. Fischio.) »
Rimasero tutti zitti nella sala riunioni. Non c’era niente da dire. Almeno per i primi venti secondi. Poi, successe tutto all’improvviso. Natasha cercò di fermare Steve, ma senza risultato. Il Capitano sbattè a terra Daphne, senza un minimo di pietà, senza pensarci.
-BE’, COSA DOVREMMO OTTENERE CON QUESTO?! COSA SAREBBE CAMBIATO SE TU NON CI AVESSI FATTO ASCOLTARE QUESTO MESSAGGIO?! COSA ?! SE SEI QUI SOLTANTO PER RICORDARMI CHE IL MIO MIGLIORE AMICO È DIVENTATO UN ASSASSINO, ALLORA VATTENE !!! -Natasha accompagnò poco gentilmente Steve fuori dalla sala riunioni, mentre la Hill aiutava Daphne ad alzarsi. Una volta usciti Steve si passò le mani tra i capelli, cercando di tornare calmo, inutilmente. Tirò un destro al muro, cadendo poi sulle sue ginocchia, urlando, frustrato. Non era da lui. Non era da lui perdere il controllo in quel modo. Ma quella ragazza era una strega. Una maledetta strega. Non sembrava essere per nulla rattristata dalla morte della madre. Natasha lo aveva osservato senza fare nulla. In fondo capiva il motivo della sua rabbia. Gli si avvicinò e si sedette con noncuranza sul pavimento, accanto a lui.
-Steve, guardami. -l’uomo posò titubante il suo sguardo azzurro su quello verde della Vedova.
-Mi dispiace Natasha. Mi dispiace davvero. Mi sento male ogni volta che parliamo di lui, mi manca il fiato, è come se mi tirassero dei pugni allo stomaco. E poi… La sua voce. La sua voce nell’affermare che il suo nome non è James. A volte penso… -smise di guardare l’amica. -A volte penso che non lo recupererò mai più. Che James Buchanan Barnes è perduto per sempre. Ma non voglio accettarlo… -Natasha gli posò un dito sulle labbra.
-Ssssh… Non dirlo, ti prego. Comunque capisco la tua rabbia. Quella ragazza avrebbe potuto dirci direttamente quello che voleva, senza girarci intorno. -senza aggiungere nulla, la donna sorrise metstamente e abbracciò l’amico. Steve la strinse a sè e le chiese, nella sua chioma rossa :
-Natasha ? -
-Mh-mh ?
-Fury ha detto che la faccenda ci riguarda personalmente. E riguarda Bucky. -si fermò un secondo, indeciso, per poi continuare. -Perché ti colpisce personalmente ? Non penso che la faccenda riguardi solamente Odessa e Washington. -Natasha sospirò. Non voleva che arrivassero a questo. Non voleva rispondere.
-Diciamo che riguarda il mio passato. Ma non voglio parlarne. -
-Ok, capisco. -ribattè semplicemente Steve. I due amici rimasero zitti, abbracciati. Poi, la Vedova mormorò :
-Dai, torniamo dentro. Sentiamo cos’ha di tanto importante da dirci quella ragazza. Ma giuro che se si mette di nuovo a girarci intorno le faccio un buco in testa. -Capitan America riuscì a sorridere vedendo come la donna reagiva alla cosa. Tornarono nella sala riunioni e Steve cercò di stare più lontano possibile da Daphne.
-Spero tu sia riuscito a calmarti Capitano. -commentò Fury, guardandolo attento. L’uomo annuì, mentre Natasha domandava :
-Cosa di tanto importante avevi da dirci ? -Daphne incrociò le braccia al petto e dopo aver lanciato una lunga occhiata a Steve disse :
-Potrebbe essere uno shock. Non sono sicura che il Capitano la prenderà bene. -
-Parla. -l’uomo strinse i denti, combattendo con se stesso per non attaccarla di nuovo. Lui non era un debole. Non gli piaceva che lo credessero.
-Non so cosa sia successo nel 1996, ma so per certo di essere nata nel gennaio del 1997. Perciò, mia madre ha lasciato lo S.H.I.E.L.D. per me. Per sua figlia. Avete detto che il Soldato d’Inverno non l’ha uccisa. Ma sappiamo che quando lui ha una missione la porta a termine. -era falso. Steve avrebbe voluto spaccarle la faccia con un pugno. Non era vero. Non sempre.
-Quindi sono giunta a una conclusione che non piacerà a nessuno di voi. -si fermò un secondo, lasciò vagare lo sguardo sui presenti: Natasha era ferma con le braccia incrociate, dietro la sedia di Steve, l’espressione indecifrabile ; la Hill controllava il Capitano ; Fury aveva le mani congiunte davanti a sè, l’unico occhio fisso su di lei, in attesa che parlasse. Il Capitano stringeva i denti e i pugni, ma sembrava triste più che arrabbiato. Daphne continuò a guardarlo, mentre diceva :
-Ho capito che… Be’… -sospirò e poi terminò, intuendo quello che sarebbe seguito. Sua madre l’aveva detto, poco prima di morire: « Ma credimi… molto meglio che mi dessero della prostituta o che ti chiamassero figlia di puttana. Sapere la verità su tuo padre gli avrebbe spinti ad odiarti più di quanto già facciano. ». -Il Soldato d’Inverno… È mio padre. -

Angolo autrice:
Salve fantastico popolo di EFP! Spero che ve la passiate bene! :)
Allora, questa è la seconda fanfiction che pubblico ma la prima su questo fandom e spero davvero che vi piaccia. Non sono esattamente certa che il rating sia arancione, ma sono un po' paranoica, perciò...
Prima devo avvertirvi: sono assolutamente ignorante quando si parla dei fumetti di Captain America e in certi punti faccio un po' di confusione anche con i film, quindi per favore, non fucilatemi. :/
Be', nient'altro da dire, oltre che sono completamente fuori con Bucky (occhi a cuore)! >.<. Ma naturalmente adoro anche Steve, perchè non si può non adorarlo. È troppo cuccioloso! Ehm, ok... Devo fingere di essere una normalissima Fangirl, avanti (XD Ok, non prendetemi per pazza)
Spero che qualcuno finisca almeno per sbaglio su questa fanfiction! :) 
 

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Capitolo 2
*** Cap.2 - No mercy ***


 Allora, be’ salve a tutti ! :)
Ho effettivamente cambiato il titolo della storia perché sarebbe proprio fantastico riuscire a scrivere la trilogia che avevo in mente. Sfortunatamente temo di avere il blocco dello scrittore quindi potrebbero rimanere sogni. :( Con tutta la mia sbadataggine non mi sono ricordata di dire che questa storia è composta da due parti. Infatti i capitoli dispari continuano con la storia di Daphne, mentre quelli pari raccontano la storia di sua madre (almeno la parte che ci interessa).Poi ho anche dimenticato di dire che la storia si svolge poco dopo Age of Ultron e di conseguenza prima di Civil War.
 
Capitolo 2. - No mercy
Settembre 1979
Poteva essere una giornata come le altre. Una giornata forse noiosa, ma almeno normale. Però no, non lo sarebbe stata, sfortunatamente. Nella piccola casa di campagna la famiglia Hewlett si era appena svegliata. La bambina saltò giù dal letto sbadigliando rumorosamente e scese le scale a corsa, per fare colazione. Suo fratello di dodici anni stava già versando il latte sui cereali, stanco. La salutò scompigliandole i capelli e Katharine sorrise e si arrampicò sulla sedia, osservando suo padre che preparava delle frittelle. Sua madre le porse una cioccolata calda e alla bambina si illuminarono gli occhi, mentre prendeva la tazza troppo grande per le sue mani. Tutto normale, no? La situazione rimase stabile fino all’incirca alle tre di pomeriggio. Fu allora che il mondo di Katharine Hewlett crollò irrimediabilmente.
La bambina stava giocando sul prato con suo fratello e il loro pastore tedesco quando sentì arrivare le auto. All’inizio non si agitò, anche se non aspettavano nessuno. Ma poi, all’improvviso, la voce della madre dalla porta della casa :
-Katharine ! John ! -era preoccupata, molto preoccupata. La bambina non riusciva a capire tutta quella preoccupazione. Ma avrebbe capito. Presto. -Venite ! In fretta ! -John prese la sorella di peso, cercando di sollevarla il più possibile da terra. Quando si fiondò oltre la porta, la madre la richiuse e la sbarrò in fretta. Poi, si rivolse a suo marito :
-Peter, com’è la situazione ? -aveva la fronte corrucciata e si mordicchiava le labbra. Katharine notò che avevano abbassato tutte le imposte e che suo padre guardava furtivo oltre la finestra.
Lui si voltò verso la moglie, con il terrore negli occhi.
-Julia… -rivolse lo sguardo ai suoi figli. -Falli nascondere. -lei annuì e, presa per mano Katharine, guidò lei e suo fratello al piano superiore e diede precise istruzioni a John.
-John, tesoro, state nascosti qui. Quando arriveranno dovete riuscire ad uscire dalla finestra. Non so come farete, ma dovete farlo. Non me lo perdonerei mai, altrimenti. -fece per voltarsi ed andarsene, ma Katharine la fermò prendendola per una manica.
-Mamma… Chi dovrebbe entrare ? Perché dobbiamo scappare ? -quando le lacrime le scivolarono lungo le guancie paffute, Julia si inginocchiò davanti a lei, per raggiungere la sua altezza.
-Tesoro, mi dispiace, davvero ma… -una voce dal piano inferiore :
-Julia, devi venire ad aiutarmi ! In due daremo più tempo ai bambini ! -la donna si voltò di nuovo a guardare sua figlia, le lacrime agli occhi.
-Katharine, davvero mi dispiace. È una cosa che non possiamo evitare. Voi dovete andarvene, senza fare altre domande, senza voltarvi indietro. Andate dalla zia Emily, ok ? John, tu sai bene dov’è. -il ragazzino, annuì, cercando di mostrarsi calmo, per il bene della sorella.
-Julia !! -ci fu un colpo molto forte alla porta d’ingresso e uno sparo. Julia si alzò e aprì un cassetto alla svelta, estraendo una pistola. Poi, fece per correre di sotto, ma Katherine quasi gridò, in lacrime :
-Mamma, non voglio che tu vada ! -Julia si fermò e si voltò verso di lei, sorridendo mesta.
-Devo farlo. Mi dispiace ragazzi, davvero. -detto ciò tornò al piano di sotto, al fianco del marito. Katharine avrebbe voluto seguirla, andare con lei, ma John la fermò abbracciandola stretta. La bambina cercò di divicolarsi, ma poi sentì altri colpi alla porta e altri spari. Si strinse di più al fratello, e, insieme, aspettarono quello che sarebbe arrivato. Da quel momento in avanti furono solo colpi alla porta, che si sfasciò poco dopo. Una raffica di spari, forti e assordanti. Un grido di dolore. La voce della madre.
-Peter ! -una altro colpo di pistola. Un gemito. Più nulla.
-Kat. -mormorò John, facendola alzare. -Adesso, con il meno rumore possibile, devi riuscire a scendere dalla finestra. -la bambina singhiozzo piano.
-Cos’é successo a mamma e papà ? Li rivedremo ? -il fratello la fissò per qualche secondo. Non sapeva cosa rispondere. Alla fine non lo fece.
-Vai Katharine. Puoi buttarti sopra l’ammasso di fieno sotto la finestra. Sei piccola, nessuno ti noterà. -passi al piano inferiore, voci.
-E tu cosa farai ? -John ancora non rispose. Non avevano più tempo.
-Se non lo fai sarò costretto a buttarti io. -la bambina lo guardò spaventata, senza capire. Cosa stava succedendo ? Cos’era già successo ? -Quando arriverai di sotto, vattene. Non aspettarmi. Corri, corri come il vento e non voltarti indietro. -Katharine smise di fare domande e aprì lentamente la finestra. Si sedette tremante sul davanzale e guardò il vuoto davanti a sè. Il salto era alto. Aveva paura.
-J-John… Ho paura… -mormorò con voce rotta.
-Temo che avrai molta più paura tra poco, se non salti. -la bambina lo guardò con sguardo interrogativo e preoccupato. Ma poi chiuse gli occhi e si lanciò in avanti. Cadde nel vuoto per alcuni secondi, poi sentì il fieno contro le braccia nude. Riaprì gli occhi e scese dal cumolo. Si sentiva in colpa, ma iniziò a correre, senza aspettare il fratello, come lui le aveva detto.
Aveva percorso diversi metri lontano dalla casa, quando sentì un esplosione. Venne sbalzata in avanti, le orecchie che fischiavano. Si voltò verso la casa, casa sua, e la trovò in fiamme, quasi ridotta in briciole. Per la prima volta nella sua vita non sentì il bisogno di piangere, ma solamente odio. Odio, odio profondo. Troppo per una bambina di sei anni. Qualcuno aveva ucciso la sua famiglia e l’avrebbe pagata. L’avrebbe pagata cara. Si alzò da terra e riprese a correre, ignorando il fischio alle orecchie. Se prima correva per salvarsi, ora correva per rimanere viva e uccidere con le proprie mani chi le aveva rovinato la vita. Nulla importava di più. Nulla. Quando finalmente avrebbe ottenuto la sua vendetta, sarebbe potuta morire, ma ora era troppo presto. Stava per raggiungere il bosco, alimentata dalla sua sete di vendetta. Era così arrabbiata che quasi non sentì arrivare la pallottola. Sentì solo un fischio prolungato, che si mescolò a quello fastidioso dei timpani, e poi ruzzolò a terra. Lanciò un grido di dolore, la spalla destra sanguinante. Il dolore la sbilanciò per qualche secondo e la sua vista si riempì di puntini neri e divenne sfocata. Sentì indistintamente dei passi, attutiti dall’erba secca e risucì a vedere qualcuno entrare nella sua visuale. Sentì una pistola che veniva caricata e trattene il respiro. « Pietà, pietà, pietà… Ti prego. » erano le uniche cose che riusciva a pensare. Non sapeva chi avesse davanti, ma doveva essere un uomo senza pietà. Implorarla sarebbe quindi stato inutile. L’uomo la fece voltare poco gentilmente, probabilmente per controllare che non fosse già morta. Fu quella la prima volta che lo vide. Il Soldato d’Inverno. A quel tempo non sapeva ancora chi fosse, ma le diede i brividi. Lo osservò, terrorizzata: i capelli castano scuro gli coprivano gli occhi blu oltremare, che in quel momento le sembrarono di ghiaccio. La maschera che gli compriva metà del viso gli dava un’ aria davvero strana, inquietante. Era vestito interamente di nero, come i cattivi delle storie che la mamma raccontava a lei e John prima che andassero a dormire. E la cosa che la spaventò di più in assoluto fu il suo braccio d’acciaio. Con quello sembrava essere in grado di uccidere un uomo in pochi secondi, anche solo con un pugno.
Il Soldato le puntò la pistola alla testa e Katharine chiuse gli occhi, preparandosi a morire. Ormai a quanto pare questo era il suo destino. Ma sperò con tutto il cuore che quel uomo morisse. Che venisse ucciso. Per quello che le aveva fatto e che probabilmente aveva fatto ad altre persone. Lo sparo esplose nell’aria, facendo volare via dagli alberi circostanti dei terrorizzati volatili. Katharine aprì lentamente un occhio, tremante. Perchè non era morta? Il colpo di pistola aveva colpito il prato a poco meno di un metro da lei, notò con stupore. Ma non lei. Alzò lo sguardo sull’assassino della sua famiglia e riuscì a leggere i suoi occhi. « Scappa. Vattene. E non voltarti indietro. », dicevano. Katharine lo guardò confusa, ma poi lentamente si alzò e, ignorando il dolore alla spalla, e corse nel bosco, incespicando nelle radici e urtando i rametti bassi. Prima di allontanarsi troppo si voltò verso l’uomo in nero per controllare che non la stesse seguendo, che non si stesse solo divertendo con lei. Ma, lo vide ancora fermo dov’era prima, a guardarla correre via. All’improvviso Katharine si chiese chi  fosse. Se davvero avesse voluto uccidere la sua famiglia. O tutti gli altri che probabilmente aveva ucciso. Si chiese se davvero fosse cattivo. Se davvero fosse senza cuore come lo credeva.
 
 
Angolo autrice:
Si, lo so sono cattiva (soprattutto perché dovrete aspettare un altro capitolo prima di scoprire come reagiranno Cap e Nat alla fantastica notizia del capitolo precedente! MUAHAHAH!)
Vabbè, evitiamo di esagerare e be’ spero che il capitolo vi sia piaciuto! :)
(e poi io sono contenta quando devo scrivere capitoli dove c’è il nostro adorato Soldato d’Inverno ;))

 

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Capitolo 3
*** Cap.3 - Memories ***


Capitolo 3. - Memories
Un battito di cuore. Due battiti. Tre. Respirava ancora? Non ne era del tutto certo. Si sentiva soffocare, come se qualcuno gli stesse stringendo una mano intorno alla gola. Daphne era la figlia di Bucky? Del Soldato d’Inverno? Ma come…? Si era rinsavito in quel momento o… Scosse la testa e guardò Fury, ammutolito. L’ex-direttore mantenne la sua usuale calma. Steve non riusciva a capire come ci riuscisse. Quella notizia li metteva davanti a cose quasi inimmaginabili. Si voltò per cercare lo sguardo di Natasha e si accorse con stupore che la donna non era più li. Non era da lei scappare, indietreggiare davanti alle difficoltà. E se lei era scappata, lui non poteva fare altro. Non aveva nessuno su cui contare, e in quel momento ne aveva bisogno. Confuso, si alzò dalla sedia e corse fuori, per cercare la Vedova. Lo lasciarono andare, senza dire nulla. Era meglo così. Steve corse lungo il corridoio, cercando l’amica. Infine, la vide. Era ferma davanti all’enorme vetrata che dava sul prato. La raggiunse e, per l’ennesima volta, si stupì. Le lacrime solcavano il viso di Natasha, i suoi occhi erano rossi.
-Natasha? -chiamò il Capitano, notando che lei non si era per nulla accorta della sua presenza.
-Oh, Steve… -mormorò la Vedova, asciugandosi in fretta le lacrime.
-S-stai… Piangendo? -lei si voltò di scatto verso di lui, quasi con rabbia, ed esclamò:
-Io non piango mai! -ma nel dirlo strinse i pugni e distolse lo sguardo da quello di Steve. -Mi dev’essere entrato qualcosa negli occhi… -
-Nat. Non mentire. A me puoi dirlo. -se Natasha piangeva, la situazione doveva essere grave.
-Sai, a volte mi fai proprio arrabbiare, Steve! -quasi gridò la donna, facendo per andarsene. Ma, poi, tornò indietro e quasi si gettò tra le braccia dell’amico, che la strinse a sé, confuso come non mai.
-A me puoi dirlo Nat. Lo so che non sei senza cuore. Quello che è successo con Banner lo dimostra. -la Vedova strinse di nuovo i pugni, dietro la schiena del Capitano.
-Non c’è spazio per i sentimenti, in questo lavoro. -poi, sospirò e si allontanò un poco da Steve, per poi dire. -Lo conosco. Bucky. Quasi bene quanto te. Mi ha addestrato nella Stanza Rossa, mi ha fatta diventare l’assassina che ero. E che rimarrò sempre… -il suo sguardo smeraldino si perse nel vuoto per qualche secondo, ma poi continuò. -Ho imparato a conoscerlo. Ho capito che non era senza cuore. Che era umano. -sorrise, un sorriso sarcastico. -Troppo tardi mi sono accprta di essermi innamorata di lui. Eravamo nella stessa identica situazione. Ho visto quello che gli hanno fatto. Tutti quei lavaggi del cervello. Ho provato quello che gli hanno fatto. Perché l’hanno fatto anche a me. Perciò non… -si morse le labbra quasi a sangue. -Non riesco ad accettare che abbia una figlia. Spero solo che quella ragazza si sbagli. -Steve si sentì strano, più legato a Natasha di quanto non lo fosse pochi minuti prima. La abbraccio di nuovo e mormorò:
-Temo che non si sbagli, Nat. -
-Lo so… -rispose lei in un soffio, sentendosi una stupida ragazzina sentimentalista. Rimasero così per qualche secondo, poi Capitan America la lasciò andare e fece per andarsene. C’erano molte cose di cui doveva discutere con Daphne. La voce di Natasha lo fece voltare:
-Steve ? -fissò su di lei le sue iridi azzurre. -Mi è entrato qualcosa negli occhi. -lui annuì.
-Certo, Natasha. -disse semplicemente, poi si avviò verso la sua camera, pensando. Forse Bucky era ancora salvabile, dopotutto. Però aveva appena ucciso Katharine. C’era qualcosa di molto strano. Due volte non l’aveva uccisa, quando ne aveva la possibilità, e dopo quasi trent’annidalla prima volta, l’aveva fatto. Ma perché? E poi l’Hydra era ormai crollata. Non avrebbe più dovuto esistere nessun Soldato d’inverno. Sovrappensiero, Steve entrò nella sua stanza, e si ritrovò davanti Daphne, seduta sulla sua sedia, con il suo taccuino aperto sulle ginocchia. La ragazza alzò lo sguardo su di lui e sorrise.
-Capitano. Mi dispiace essermi intrufolata qui ma Fury mi ha detto di aspettarla, dopo avermi guidata fino a questa stanza. Mentre la aspettavo ho trovato questo quadernetto e perciò… -Steve annuì. La sua rabbia verso quella ragazza era scomparsa. Ora rimaneva solo curiosità. Daphne era intelligente. Arrivare a capire di essere la figlia del Soldato d’Inverno da informazioni minime era notevole.
-Non fa niente Daphne. -rispose l’uomo, sorridendo. -Sono io che mi devo scusare con te. Mi dispiace di averti attaccata. -abbassò lo sguardo, aspettando una risposta da parte della ragazza.
-Capisco che fosse arrabbiato. È stato un mio errore. Non sono abituata a trattare con delle persone con dei sentimenti. -Steve sollevò un sopracciglio, in una muta domanda. -Penso che abbia sentito quello che mia madre mi ha detto nell’ultimo messaggio che mi ha lasciato. Sono stata presa di mira dai miei coetanei da quando sono piccola. Nessuno sopportava che io non avessi un padre. Se lui fosse stato morto o i miei avessero divorziato avrebbero capito, ma così… Le loro menti inferiori non arrivavano a capire che mia madre non era una prostituta. Ma non è solo per questo. Ho dovuto farmi le ossa. Imparare a rialzarmi. Tutti mi hanno sempre odiata. Sono sempre stata più intelligente, troppo per la mia età. Troppo avanti rispetto a loro. E siccome sono sempre stata gracile, non perdevano un secondo per farmela pagare. -sorrise mesta e osservò Steve, che capiva perfettamente come lei si sentiva. Non era bello essere poco considerati. -Ma nella vita ho quasi sempre avuto un obiettivo. Come mia madre. Il suo era vendicare la sua famiglia, il mio scoprire chi fosse mio padre. Da quando sono stata abbastanza grande per intendere e volere ho compreso che mio padre non era morto. Pensai che fosse scappato all’inizio. Che fosse un codardo. Lo chiesi a mia madre, e lei mi rispose che lui non era un codardo, che era l’uomo più coraggioso che avesse mai conosciuto, ma che era stato costretto ad andarsene. Ed ora capisco, ora sì. -chiuse gli occhi e una lacrima le scivolò lungo il viso pallido. -Ma non sono venuta da voi per la morte di mia madre. Quando lei ha menzionato lo S.H.I.E.L.D., ho compreso che avrei potuto capire la verità su mio padre, cominciando a comprendere quella su mia madre. Non ho trovato io lo S.H.I.E.L.D., lui ha trovato me. Fury mi ha trovata. Mi ha mostrato il fascicolo su mia madre, e lì ho capito. Poi ho voluto parlare con lei. -Daphne si fermò e si leccò le labbra secche dal troppo parlare. -Forse può dirmi qualcosa su chi era mio padre, perché sono certa di non saperlo. -
Capitan America la osservò per qualche secondo, un poco sconcertato da quella storia, pensando a cosa dire. Ma capiva. Tutti avevano un obiettivo nella vita. Il suo era stato distruggere l’Hydra, e c’era riuscito, e ora era salavare Bucky. Aiutare sua figlia poteva essere un buon inizio. Deglutì e poi disse:
-Hai guardato i miei disegni. -più un’ affermazione che una domanda, ma Daphne rispose comunque.
-Sì. E devo dire che ha un talento, davvero. - il quaderno si era chiuso, perciò la ragazza lo risprì sull’ultima pagina, sul disegno che Steve aveva appena terminato. -Ho visto che ha disegnato il Soldato d’Inverno… -il Capitano allungò una mano verso di lei, che gli porse il taccuino, senza dire nulla.
-Questo taccuino mi fu dato da Peggy Carter, -commentò Steve, mentre cercava la pagina giusta. -la fondatrice dello S.H.I.E.L.D., quando tornai nel mondo dei vivi. Lo tenne per settant’anni, tutto il tempo in cui rimasi congelato, per questo è così rovinato. -mostrò il disegno che aveva trovato a Daphne. -Riesci a capire chi è. Mi dispiace, il tempo lo ha rovinato, non si vede molto bene. -la ragazza prese il quadernetto e osservò il disegno. Poco dopo scosse la testa. Il soldato ritratto non le diceva praticamente niente. -Dimmi, quante immagini del Soldato d’Inverno hai visto? -domandò allora il Capitano.
-Poche. E tutte con la maschera. -Steve le fece segno di guardare di nuovo il disegno. Daphne abbassò lo sguardo sulla carta.
-Lui è il Soldato d’Inverno. -la ragazza lo guardò stupita. -Lo so, non sembra lui. -
-No, infatti. Sembra… Normale. -il Capitano intanto si era alzato e frugava in un cassetto della sua scrivania.
-Perché lo era. Non è sempre stato un assassino. -mentre parlava le porse una foto. Era in bianco e nero, un rovinata su tutti i lati e un po’ segnata dal tempo, ma si vedeva perfettamente. -Lo so, non è il massimo, ma per ora è tutto quello che posso mostrarti. -
-Risale alla seconda guerra mondiale, non è vero? A quando sei diventato Capitan America. -Steve annuì e poi, con un sorriso triste, disse:
-Lui è tuo padre. Quando ancora non era il Soldato d’Inverno. Si chiamava, -parlare di lui al passato, come se fosse irrecuperabile, gli faceva male, ma in quel momento sembrava il modo più giusto. -James Buchanan Barnes, Bucky per gli amici. Era un sergente della 107 divisione. Ed era il mio migliore amico. -Daphne alzò lo sguardo sul Capitano, stupita.
-Il suo migliore amico? Cosa capitò poi? -Steve non si sentiva di rispondere. Non voleva dover spiegare tutto dall’inizio, quindi domandò:
-Sei mai stata allo Smithsonian di Washington? -
-Una volta forse, molto tempo fa, con mia madre. Ma perché? -Daphne non capiva molto bene quella domanda.
-Molto tempo fa non ero tornato. -si limitò a dire Capitan America, prendendo la giacca dallo schienale della sedia e alzandosi, subito seguito dalla ragazza. -Quando mi sono scongelato hanno creato una sezione del museo dedicata a me. Lì forse troverai risposte. -continuò Steve, mentre percorrevano i corridoi dello stabilimento degli Avengers. Daphne non fece altre domande. Stava pensando. Non pensava che arrivando allo S.H.I.E.L.D. avrebbe trovato qualcuno che conosceva tanto bene suo padre. Non si era mai interessata alla storia di Capitan America o adirittura dell’America in generale. Sapeva a malapena quando era stata firmata la dichiarazione di indipendenza o l’anno del crollo delle torri gemelle. Aveva vissuto la maggior parte della sua vita in Inghilterra, e poi, un anno prima, sua madre aveva deciso di tornare negli States, a Los Angeles. Forse credeva di essere finalmente al sicuro. Ma si sbagliava. All’improvviso Daphne si sentì meno sola. Per lei era stato uno shock comprendere che il probabilmente più pericoloso assassino del mondo era suo padre. Ma capiva che Steve Rogers non avrebbe mai davvero potuto credere a quello che era successo -a quello che avevano fatto- al suo migliore amico. Steve e Daphne uscirono nell’aria troppo calda di quel pomeriggio di novembre, e, con tranquillità, il Capitano si avvicinò ad un auto posteggiata lì vicino. Con calma aprì la portiera, e, mentre armeggiava con i cavi del cruscotto, si voltò verso Daphne e disse:
-Mi dispiace, ma io possiedo solo una moto. Quindi… -tornò un attimo a concentrarsi sul suo lavoro. -dovremo prendere quest’auto. -
-Da quando Capitan America ruba le automobili? -domandò la ragazza, sorridendo divertita.
-Non… Non la sto rubando. È di Natasha. -si giustificò l’uomo, mentre si sistemava sul sedile del guidatore. -La prendo in prestito. -Daphne fece il giro del mezzo e aprì la potiera dall’altra parte, quella del passeggero.
-Non avrebbe semplicemente potuto chiederle le chiavi? -
-Così non sarebbe stato divertente. -rispose ghignando Steve. Premette il piede sull’accelleratore e partì lungo il viale.
-Non sono sicura che sia una buona idea. -esclamò Daphne guardando preoccupata l’orario sul suo telefono rigato. -Quando arriveremo a Washington sarà un poco improbabile che troveremo lo Smithsonian ancora aperto. -lanciò un’occhiata oltremare al Capitano, che sorrise.
-Tranquilla. Dopotutto… Sono Capitan America. -di nuovo riuscì a strappare un sorriso alla ragazza di ghiaccio. -Ah, dammi pure del tu. E chimami Steve. -aggiunse, prima di concentrarsi sulla guida. Daphne osservò il cielo chiaro oltre il finestrino, sorridendo. In pochi -quasi nessuno- avevano il potere di farla ridere. Si accorse di essere simile al Capitano. Non sapeva perché. Però, in fondo avevano uno scopo comune. Trovare James Buchanan Barnes.
 
Angolo autrice:
Prima di tutto, mi scuso per eventuali errori di battitura
Bene, questo capitolo è più noioso degli altri, non trovate? Well, I'm sorry, prometto che il prossimo sarà meglio!
Nessuno mi odi per il fatto che Natasha rivela di essere innamorata del nostro James (non so perchè dovreste ma magari shippate (?) la Brutasha, la Clintasha o la Romanogers)
Vabbè, grazie di aver letto e alla prossima! :) ^^

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Capitolo 4
*** Cap.4 - Death, again ***


Capitolo 4. - Death, again
13 marzo 1996
L’automobile viaggiava a velocità costante sulla strada di periferia. Una canzone stile anni ’80 risuonava allegra nell’abitacolo dall’autoradio. Al posto del guidatore era seduta una giovane donna bionda che non doveva avere più di ventitré anni, e a quello del passeggero un uomo robusto, poco più grande di lei.
-Ancora non capisco perché abbiano preteso che andassimo noi. Non potevano inviare… Che ne so… Natasha? -chiedeva la donna al suo compagno, gesticolando con la mano che non teneva sul volante. L’altro sorrise.
-No, Kat, lo sai. Dai, non penso che sarà una missione così orribile, dopotutto. -la giovane, Katharine, Katharine Hewlett, lo guardò storto e lui sollevò le spalle.
-Clint. Non prendermi in giro. Quel senatore è la persona più antipatica, ipocrita e ignorante che io abbia mai conosciuto. Ogni tanto gli pianterei una pallottola in testa, ma sfortunatamente penso che questo comprometterebbe la mia carriera nello S.H.I.E.L.D.. -Clint Barton annuì semplicemente, e Katharine tornò a concentrarsi sulla guida. La giovane si morse il labbro inferiore, mentre pensava. Guidava sempre lei, per dimostrare di non essere troppo debole. Ma il fatto era che a volte la spalla le duoleva ancora. Erano passati diciassette anni, ma quel dolore era un fantasma, come chi le aveva procurato quella ferita.
-Kat ? Katharine ? -la voce di Clint la riportò alla realtà, ricordandole dov’era. Ricordandole che non aveva più sei anni, ma ventitrè, e che era agente dello S.H.I.E.L.D.. -Sembri distratta. -rimase un attimo ad osservarla, indeciso su cosa dire. Poi continuò. -Non riuscirai mai a perdonartelo, vero ? -la giovane capì subito a cosa si riferisse. Era ormai abituato a capire le persone come lei, a quanto pareva.
-Non posso perdonarmelo. Non avrò pace finchè non avrò giustizia. -
-No. Tu non avrai pace finchè non avrai vendetta. Ti conosco. -Katharine smise di guardarlo e fissò la strada davanti a sè, senza rispondere. Hawkeye sospirò e scosse leggermente la testa.  -Capisco perchè tu e Natasha siete amiche. Piene di segreti, problematiche. E testarde anche. Più cocciute di un mulo. -la giovane stava per voltarsi verso il suo compagno e ribattere a tono, quando il suo sguardo cadde sullo specchietto retrovisore. Erano seguiti da due auto scure. Si fermò un secondo a riflettere. Tutta quella situazione le ricordava qualcosa. Un dettaglio che forse aveva dimenticato… Scavò a fondo nella sua memoria… Il motore di un auto -anzi, di parecchie auto- la fece voltare. Tre auto scure e gigantesce ai suoi occhi percorrevano il vialetto sterrato, mangiando il terreno con avidità. Rimase tranquilla. Dopotutto, di cosa mai avrebbe dovuto preoccuparsi. Terry, il loro pastore tedesco, abbaiò, e lei si voltò a guardarla, ridendo. John lanciò la pallina lontano e il cane le corse dietro, saltando gioiosa. Tutto normale. Poi, all’improvviso, la voce di sua madre dalla porta sul retro della casa :
-Katharine ! John ! -era preoccupata, molto preoccupata… Strinse le mani sul volante, e si voltò lentamente verso Clint che aveva percepito la sua agitazione.
-Spero che tu abbia portato la tua arma. Perchè potrebbe essere molto utile. -lui annuì, senza capire pienamente. -Non prenderla ora. Prendila solo se la situazione si fa intollerabile. -strinse le labbra sottili, mentre Hawkeye le domandava cosa stesse succedendo. Lanciò un’occhiata veloce allo specchietto. -Non lo so. Ma niente di buono. Ho visto quelle stesse auto quando la mia famiglia fu uccisa. -lui spalancò gli occhi.
-E quando la situazione dovrebbe farsi « intollerabile » ? -Chiese poi, mimando le virgolette intorno a intollerabile con due dita della mano destra. Katharine alzò gli occhi al cielo.
-Quando inizieranno a spararci addosso probabilmente capirai che è un buon momento per i duri per iniziare a giocare… -non aveva neanche finito di parlare che udì degli spari. Stavano mirando alle ruote. La giovane sentì la rabbia salirle in corpo e si morse l’interno della guancia a sangue.
-Be’ ci stanno sparando addosso ! -esclamò Clint, cercando di non andare a sbattere contro la portiera dell’auto mentre Katharine sterzava nella strada deserta.
-Allora è un buon momento per prendere il tuo arco ! -esclamò di rimando lei a quella stupida affermazione, mentre venivano raggiunti da un altra scarica di proiettili. Hawkeye si sporse oltre lo spazio tra i sedili per raggiungere la sua arma, sistemata sui sedili posteriori. Un’altra sterzata dell’auto lo fece quasi cadere in avanti.
-Certo che non sei d’aiuto ! -le gridò, mentre lei prendeva la pistola dal cruscotto e iniziava a sparare alla cieca, cercando di non perdere il controllo dell’automobile. I loro inseguitori accellerarano e Katharine fece lo stesso.
-Clint, se ti sbrigassi sarei davvero contenta, sai ?! -la voce del suo compagno le giunse dai sedili posteriori :
-Arrivo, arrivo. Non è la cosa più facile usare un arco dentro un’automobile. -uno sparo andò troppo vicino a una delle ruote, per i gusti di Katharine.
-Clint ! -
-Sì ! -gridò lui. Un secondo dopo, un rumore di vetri infranti invase l’abitacolo. Katharine osservò la prima auto dietro di loro esplodere, colpita dalla freccia tirata da Hawkeye. Sorrise compiaciuta. Un inseguitore in meno. Poi, il suo sorriso si spense. Nel denso fumo dell’esplosione, una figura cominciò a delinearsi. Non le servì nemmeno che emergesse da quella cortina scura per riconoscerlo. Era il Soldato d’Inverno.
-Cazzo. -mormorò la giovane a fior di labbra. Troppo tardi si accorse di aver perso la concentrazione. Un proiettile perforò lo pneumatico posteriore di destra, e l’auto rallentò notevolmente. Poco dopo, attraverso il vetro spaccato, una piccola bomba rotolò all’interno dell’abitacolo.
-Cazzo ! -esclamò Clint, con un po’ meno contegno di lei. Senza dirsi una parola, i due agenti dello S.H.I.E.L.D. si fiondarono oltre le portiere, ruzzolando sull’asfalto. Katharine si alzò, dopo aver raccolto la sua calibro 22, mentre l’automobile dove pochi secondi prima ancora stava esplose. I suoi timpani avevano imparato a non soffrire più per il fischio di un esplosione. Voleva chiamare Clint, controllare se stava bene, se era vivo. Ma sapeva di non potere. Si guardò intorno, la pistola in pugno, pronta a sparare a qualunque nemico le si parasse davanti. Il fumo scuro si dissolse prima dal bordo della strada e Katharine constatò che erano su un ponte. Fuggire dal fiume era impensabile, anche per una nuotatrice come lei. La corrente era troppo forte. E la sua spalla le dava particolarmente delle noie in quel periodo. Corse nella direzione opposta a quella da cui erano arrivati, all’improvviso spaventata. Si sentiva terrorizzata e questo la fece arrabbiare. Aveva giurato che avrebbe ucciso il Soldato d’Inverno ed ora lui era lì. Non era il momento di essere spaventati. Corse nella cortina di fumo, alla ceca, per qualche metro. Poi, le parve di vedere un luccichio, vicino a lei. Si abbassò di scatto, evitando il pugno di ferro del Soldato e buttandolo a terra aggrappandosi alle sue gambe. Lui era forte, certo. Ma lo era anche lei. Aveva aspettato per diciasette anni quel momento, e non se lo sarebbe lasciato sfuggire. Gli avrebbe tagliato la gola con le sue stesse mani. O forse gli avrebbe piantato una pallottola in testa, chissà. Si rialzò agilmente, come le aveva insegnato Natasha. Stava per sparare al Soldato, ma lui si era alzato a sua volta ed era tornato all’attacco, estraendo un coltello a serramanico e lanciandosi verso di lei. Katharine sparò alla cieca, e lui fu costretto a scostarsi di qualche centimetro. La giovane ne affrofittò e si buttò in avanti, correndo il più veloce possibile. Anche se non abbastanza a quanto pareva. Lui riuscì a colpirla di striscio con il coltello. Lei strinse i denti ignorando il dolore e balzando all’indietro, dritta sulla schiena del Soldato. Lo fece cadere in avanti e in questo modo lo disarmò. Stava di per colpirlo con un calcio in viso, ma lui la fece cadere, afferrandole una gamba con la mano destra. Katharine cadde, mentre la pistola le sfuggiva dalle dita scivolose di sudore. In un attimo, lui fu sopra di lei. Quando le afferrò la spalla destra, quella che lui stesso le aveva ferito anni prima, con il braccio di ferro le si riempì la vista di puntini neri. Si morse la lingua fino al sangue, pur di non dargli la soddisfazione di urlare di dolore. Riuscì a colpire con un pugno il viso del Soldato, con il solo risultato di riceverne un altro indietro. La vista già compromessa le si offuscò. Non riuscì più a trattenere il dolore e fu costretta a gridare, odiandosi immensamente per questo, mentre un rivolo di sangue le scendeva lungo la mascella. Il Soldato non battè ciglio e all’improvviso Katharine capì che stava cercando di farla svenire. Forse ancora non voleva ucciderla. Ma perchè ? Perchè non terminava semplicemente il suoo compito ? Perchè non le piantava una pallottola in testa ? Perchè non voleva che smettesse di soffrire ? Solo in quel momento la giovane si ricordò che Clint era ancora lì da qualche parte e che probabilmente stava combattendo chi era venuto con il Soldato. Non riuscì nemmeno a mettere insieme quei pensieri che una freccia si conficcò nel terreno poco lontano da loro. Voltò il viso dalla parte opposta -non voleva una bella cicatrice anche lì- mentre la freccia esplodeva. Venne sbalzata via, lontano dal Soldato. Sputando sangue Katharine prese la sua calibro 22, e strisciò fino al bordo della strada, mentre altre esplosioni arrivavano alle sue orecchie lesionate. All’improvviso tutto era cambiato. Non voleva più giustizia, non voleva più vendetta. All’improvviso voleva solo morire. Il suo destino era morire da piccola, diciassette anni prima, con la sua famiglia. La famiglia che forse presto avrebbe rivisto. Sorrise, le lacrime che le brillavano sul viso. E senza pensare a nulla, ne alla sua famiglia, ne alla vendetta, ne allo S.H.I.E.L.D., ne a Clint, si lasciò cadere nel fiume, mentre il sangue della ferita sul fianco colorava l’acqua di rosso. Presto sarrebe stata lontana. Lontana da lì. Dal Soldato d’Inverno. Lontana dalla vita. Scivolò verso il fondo, mentre tutto l’azzurro si illuminava di arancione, nel fuoco di altre esplosioni. Katharine chiuse gli occhi brucianti, ma poi li riaprì, quando un tonfo invase lo sfazio intorno a lei, scoprendo che faticava a vedere. In un secondo, all’improvviso -o almeno così le sembro-, non si trovava più in mezzo al fiume, ma sulla riva. Sentì in lontananza, come attuttita, come se avesse pezzi di cotone nelle orecchie, la voce di Clint, chiamarla. Forse vrebbe voluto rispondere, forse no, ma comunque non poteva. Di nuovo. Era ancora viva. Non riusciva più a sopportarlo, si era stufata di vivere. Non poteva, non poteva più sopportare quella vita. Sentì tutti i rumori scivolare via, quasi come se fossero appena sfrecciati anni luce lontano. L’utima cosa che vide prima di perdere i sensi, furono un paio di occhi blu oltremare.
 
Angolo autrice:
E qui riprendiamo con la storia di Katharine che per fortuna (soprattutto sua) non è più una bambina. Come avete visto in questo capitolo c’è anche Clint (perché io lo adoro). Calcolando che a parte Cap e Thor gli Avengers sono nati lo stesso anno degli attori lui dovrebbe avere 25 anni. Ovviamente poi Nat è un po’ differente dal film. Credo che nel fumetto fosse nata molto prima del 1984. Quindi vabbè, spero che vi sia piaciuto anche questo capitolo! :) La prossima volta riprenderemo con Daph e Cap allo Smithsonian!
Ciauu! ^^ (scusate per eventuali errori di battitura)

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Capitolo 5
*** Cap.5 - Alone ***


Capitolo 5. - Alone
Il cielo si faceva sempre più scuro, oltre il finestrino. Daphne tornò a guardarlo, dopo aver distolto lo sguardo da Steve. I ricordi non volevano abbandonarla, seguendola come un fantasma. Di solito riusciva a non pensarci, ma conoscere il Capitano Rogers aveva cambiato tutto. L’ennesima memoria la invase, facendola sentire intorpidita…
-Mamma ? -domandò, stringendo l’orsetto di peluche tra le piccole dita pallide. Katharine si voltò verso di lei, sorridendo, lasciando da parte il pomodoro che aveva appena finito di tagliare. Daphne ancora non capiva che quel sorriso era falso, creato soltanto per convincerla che tutto andasse bene. Sua madre stava sempre male, e presto lo avrebbe compreso anche lei.
-Si, tesoro ? -le chiese di rimando, prendendo un’altro pomodoro dalla cesta della verdura e iniziando a tagliarlo.
-Dov’è mio padre ? -chiese, senza nemmeno pensarci un attimo, con la sua ingenuità da bambina sette anni. La schiena di sua madre si irrigidì appena, ma Daphne non lo notò. Katharine tornò a guardarla, la fronte corrucciata.
-È morto. -disse semplicemente, ma la bambina non le credette. Erano solo bugie. Lei le bugie le percepiva nell’aria, come l’aria salmastra. Si avvicinò imperiosa alla madre.
-Non è vero. Lo so. -Katharine si inginocchiò, per arriavare alla sua stessa altezza.
-Come puoi saperlo ? -le chiese, quasi esasperata dal comportamento della figlia.
-Lo vedo da come ti agiti ogni singola volta che ti domando di lui. Non sono più una bambina, ho quasi otto anni. Devi dirmi dove sia mio padre. Devo saperlo ! -la madre la osservò preoccupata. Daphne era troppo intelligente per la sua età. Ma… Come spiegare ? Non poteva, no.
-Non è morto. -disse allora, sistemando una ciocca bionda dietro l’orecchio di sua figlia. -Diciamo che se n’è andato. -si alzò e riprese il suo lavoro con i pomodori.  -Quando sarai più grande ti spiegherò. Credimi, è meglio così. -Daphne non era per nulla soddisfatta, ma quello che la madre le aveva detto era un inizio. Alzò le spalle e saltellò fuori dalla stanza, l’orsetto ancora stretto in mano. Non si accorse che sua madre si stava sfiorando il fianco sinistro, dove aveva una vecchia ferita, quasi senza accorgersene. Katharine era persa nei suoi pensieri e distrattamente di ferì l’indice. All’improvviso, sentì le lacrime agli occhi. Si prese il viso tra le mani, appoggiando i gomiti sul bancone, scoppiando in un pianto liberatorio…
Quella era la prima volta che aveva chiesto a sua madre cosa realmente fosse successo a suo padre. Non aveva mai capito come avesse realizzato che lui non era morto. Era una cosa che si era sentita dentro, come un presentimento. E da quel momento in avanti non si era più data pace. Voleva, doveva, sapere perchè sua madre non le diceva mai niente. Aveva promesso che non si sarebbe data pace, e non lo aveva fatto. All’improvviso capì che trovare suo padre era l’unica cosa che l’aveva mantenuta in vita per molti anni, quando non aveva nulla se non sua madre. Sentì un altro ricordo premerle nella mente e chiuse gli occhi…
Era una fredda giornata di febbraio e Katharine e Daphne Hewlett stavano passeggiando nel bosco vicino alla loro casa, che qualcuno avrebbe definito « sperduta nel nulla ». Stavano in silenzio, stavano sempre in silenzio. Avevano poco da dirsi. E quello che avevano da dirsi era troppo doloroso per entrambe. Daphne osservò un piccolo scoiattolo correre lungo la corteccia di un albero e correre sulle foglie secche. Lanciò un occhiata a sua madre, che aveva gli occhi socchiusi. Sembrava che il freddo le piacesse, per qualche motivo. La ragazza si azzardò a fare una domanda. Una domanda che invadeva la sua mente da settimane. O forse da anni.
-Perché mio padre è scappato ? -Katharine scosse la testa, sospirando.
-Non è scappato, tesoro. -disse lentamente. Daphne la osservò stupita. Odiava tutte quelle risposte minimali che sua madre sempre le dava.
-Ma quello che mi hai detto quattro anni fa, me lo ricordo ! O hai mentito anche su questo ? -esclamò, facendo fuggire lo scoiattolo.
-Stai calma, ti prego. -cercò di tranqullizzarla Katharine, guardandola con i suoi profondi occhi color ciccolato.
-Come… Ma… Non posso ! Mi menti sempre ! Perchè non puoi semplicemente dirmi la verità su mio padre ? Perchè vuoi tenermela nascosta ?! -strinse pugni. Non era da lei reagire così, ma era arrabbiata. Voleva la verità. Doveva averla ! Era davvero così difficile venirne a conoscenza ?
-Daphne… -sua madre non riusciva a capire quanto questa cosa fosse importante per lei. Non ci riusciva proprio.
-No, no, no ! Voglio saperlo ! Dimmelo ! -non riusciva a smettere di urlare, e fu felice di abitare in quel « luogo sperduto nel nulla ». -Perché è così difficile ? In tutta questa storia c’entra per caso la cicatrice che hai sulla spalla destra ? -era forse una domanda a sproposito, ma dallo sguardo di Katharine, Daphne comprese di aver fatto centro. Dovava soltanto insistere un altro po’, e forse finalmente avrebbe avuto tutta la verità. -Perché non ammetti che mio padre è scappato quando ha scoperto che eri incinta ? Perché non ametti che era un codardo ? -finalmente sua madre reagì.
-Lui non era un codardo ! -esclamò, con una forza che stupì Daphne. L’aveva fatta arrabbiare, l’aveva fatta arrabbiare davvero. Non l’aveva mai vista così. Era quasi spaventata. -Adesso ascoltami bene Daphne Hewlett. Tuo padre non era un codardo. -il suo sguardo si fece all’improvviso triste e malinconico. -Era l’uomo più coraggioso che avessi mai conosciuto. -la ragazza non si sentì più di urlare a sua madre, poiché le sembrava molto triste, quindi mormorò :
-Allora perchè ti ha lasciata ? -Katharine sospirò, stringendo i pugni, sperando invano che la figlia non la vedesse. Daphne giurò che avesse gli occhi lucidi.
-Perchè doveva. Non poteva restare. Non è stata una scelta sua. E… Lui non sapeva nemmeno della tua esistenza. -a quel punto la ragazza non seppe più cosa dire. Forse doveva semplicemente lasciare che su madre continuasse a parlare, invece di farlo lei. -Ma lui mi amava. Mi amava con tutte le sue forze. E avrebbe amato anche te se solo… -le venne un irrefrenabile tremolio al labbro. Katharine sentiva che presto sarebbe scoppiata in lacrime, e non poteva permetterselo. Daphne fece un passo indietro, quasi spaventata da tutte le informazioni che la investivano come uno tsunami.
-Ma… perché ? -non riusciva a comprendere. -Perché non è stata una scelta sua ? L’America è un paese libero, no ?-
-Gli U.S.A. sì, lo sono. Ma… Ma lui non lo era. -Katharine trattene un singhiozzo, conficcandosi le unghie nelle mani, soltanto per sentire più male lì che all’altezza del cuore.
-Perchè parli di lui al passato ? Come se fosse morto ? Perché… -all’improvviso Daphne non ne era più sicura. -Perché non lo è, giusto ? -sua madre non potè fare più nella per impedirlo. Cadde sulle ginocchia, mentre le lacrime le diluviavano dagli occhi. -Mamma ! -esclamò Daphne, correndo subito al suo fianco, ignorando la terra umida che le sporcava il cappotto. Katharine la guardò con occhi lucidi, poi la strinse a sè, mormorando :
-Non è morto, no. Ma non c’è più, non c’è più… -Daphne decise che era meglio rimanere in silenzio, ma la testa le si riempiva di interrogativi. Cosa era successo a suo padre ? Cosa ? -Ti prego, prometimi che non mi chiederai più di lui… -la ragazza annuì piano. Non aveva mai visto sua madre così distrutta. Quel giorno promise i non fare più domande. E mai più ne fece…
-Daphne ? Daphne ? -la ragazza venne riportata alla realtà da Steve, che la guardava preoccupato. Si voltò verso di lui, che chiese se stesse bene. Lei annuì solamente e il Capitano le lanciò un occhiata che significava : « Lo so che non è vero. »
-Stavo pensando. -disse allora, decidendo di essere sincera con lui. Si fidava. Si era fidata di poche persone in tutta la sua vita. O forse di nessuno. Fino ad allora. -Mia madre sembrava distrutta quando parlava di mio padre. Solo quando parlava di lui. Avrebbe potuto attraversare un uragano, ma lui la faceva sentire debole. -lanciò un’ occhiata svelta a Steve. -In quei momenti ho capito quando sia stupida la mente umana. Farsi distruggere per amore è… è… -cercò la parola giusta. -Ridicolo. Vedendo cosa aveva fatto a mia madre decisi che non mi sarei innamorata mai.  -il Capitano alzò le spalle.
-In fondo ti capisco. Devo dire di non avere avuto molta fortuna io stesso. -Daphne lo osservò silenziosamente, lo sguardo indagatore, poi constatò :
-Eri innamorato di Peggy Carter, vero ? -lui la guardò stupito ma non troppo. Aveva capito che era intelligente. Una specie di Sherlock Holmes, in pratica. -Ho visto i tuoi occhi mentre parlavi di lei. Dev’essere stato uno shock per te risvegliarti dopo settant’anni, anche per questo. -Steve si concentrò sulla strada, dove in lontananza si cominciavano a vedere le luci notturne di Washington.
-Sì. All’inizio pensai che fosse morta, poi scoprì che era viva. Fui molto felice però… Quello che tra noi c’era stato per lei si era dissolto nel tempo, era diventato un semplice ricordo. -esitò un attimo prima di continuare. -Invece era ancora impresso nella mia anima, come una cicatrice. Per me non era passato che poco tempo. -si voltò verso di lei e sorrise mestamente. -Ma prima o poi bisogna lasciar andare tutto, ed è quello che ho fatto io. -
-Ma non hai mai lasciato andare il Soldato d’Inverno, -disse, mentre lo sguardo del Capitano si incupiva. -cioè, Bucky. -si corresse ricordando come Steve lo aveva chiamato.
-Forse non lo sai, ma tuo padre è così a causa mia. -Daphne lo guardò si sottecchi, ma non gli credette. Stava troppo male, lo vedeva. Non era stata colpa sua, ma lui si sentiva in colpa.
-No, sono certa di no. -disse allora. I due rimasero in silenzio, mentre entravano a Washington. La ragazza non si stupì troppo a vedere tutto quel inquinamento luminoso. Dopotutto aveva abitato a Los Angeles, la città di Hollywood. Quando arrivarono allo Smithsonian lo trovarono ovviamente chiuso.
-Ecco, te lo avevo detto ! -esclamò Daphne, temendo di aver fatto quel viaggio per niente.
-Tranquilla dai. -le disse Steve sorridendo divertito. -Ricordi cosa ti ho detto ? -
-Che sei Capitan America, ok, ma non vedo come potrebbe essere utile. -lui le diede un colpetto sulla spalla magra.
-Questa mostra parla di me. Avrò il diritto di entrarci spero ! -la ragazza fece per ribattere, ma lui uscì dall’auto, e lei lo seguì, nell’aria fredda della notte. Camminarono per qualche metro e si fermarono davanti ad una parete. Steve aprì con disinvoltura la finestra e le fece segno di seguirlo. Daphne esitò un secondo e il Capitano si voltò a guardarla, un espressione interrogativa stampata sul viso.
-Non vieni ? -la ragazza sollevò un sopracciglio, stringendosi nelle spalle per il freddo.
-Non pensi che sia qualcosa del tipo… -calcò bene sull’ultima parola. -Illegale ? -lui ghignò, dicendo :
-L’ho già fatto una volta. Nessuno mi ha visto. -
-Non è che magari è perché sei uscito subito ? -Steve non rispose ma saltò oltre la finestra. Daphne scosse la testa e si arrampicò sul davanzale con una certa difficoltà, non essendo agile come il supersoldato. Quando entrò lo trovò ad aspettarla, sorridente. Lei scosse la testa ma riprese a camminare dietro di lui. Lo Smithsonian era un grande edifico, ma a loro bastò seguire le freccie che indicavano la direzione per la mostra su Capitan America. Entrarono tranquillamente, come due turisti. Solamente che era notte. Steve avrebbe voluto andare subito al punto, ma Daphne non ne aveva alcuna intenzione. L’insicurezza che aveva provato poco prima era stata sostituita da una certa adrenalina, che la faceva comportare come una bambina. Si fermò accanto a un immagine a grandezza naturale di Steve quando ancora su di lui non era stato usato del siero ed esclamò, a basa voce :
-Sono alta quanto lo eri tu ! -il Capitano non era per niente divertito, anzi, imbarazzato.
-N-no… Sei più bassa ! -ribattè, mentre gli si imporporava il viso.
-Certo, se lo dici tu, Capitan America. -lo raggiunse e gli tirò un pugno sulla spalla, tanto lui nemmeno lo sentì. Camminarono ancora qualche metro nel corridoio poco illuminato e arrivarono nella parte della mostra dedicata agli Howling Commandos. Steve si fermò davanti al pannello che parlava di Bucky, sospirando e infilandosi le mani in tasca, triste, aspettando che Daphne lo raggiungesse. Si ricordava la prima volta che era stato lì. A quel tempo ancora credeva che il suo migliore amico fosse morto ed era però vicinissimo a scoprire cosa era diventato. Ogni tanto, quelle notti nelle quali non riusciva a dormire, mentre stava sdraiato a fissare il soffitto illuminato dalla poca luce che oltrepassava le imposte chiuse, si odiava per pensare che forse sarebbe stato meglio se Bucky davvero fosse morto. Certo, forse era ingiusto, ma non riusciva a sopportare tutto quello che i sovietici, che l’Hydra, gli avevano fatto.
-Steve ? -lo richiamò Daphne, guardandolo con occhi preoccupati, una cosa strana, ma non con lui. Il Capitano e la ragazza sarebbero sempre stati legati da un filo invisibile, ormai. Avevano troppe cose in comune. Una delle quali era Bucky. Avendo constatato che Capitan America si era ripreso dai suoi pensieri, Daphne si concentrò sul pannello. Le sue labbra si muovevano impercettibilmente mentre leggeva. -Qui… Qui dicono che è morto… -la ragazza si voltò di nuovo verso Steve. -ma noi sappiamo che non è vero. -rivolse ancora lo sguardo al testo, in particolare alla data di nascita di suo padre. -1916… -mormorò, anche se senza stupore.
-Il 30 marzo ad essere precisi. -la corresse il Capitano. -So che fa strano pensare che tuo padre abbia all’incirca 99 anni, ma dopotutto io sto raggiungendo i 97, perciò… -Daphne lo sapeva, ma a volte tendeva a dimenticarsene, considerando che Steve ne dimostrava ovviamente molti meno. Lui si allontanò e si sedette sullo spazio sopraelevato che ospitava le ricostruzioni degli abiti degli Howling Commandos. Daphne lo raggiunse in fretta e si sedette accanto a lui, aspettando che parlasse. Ma la mente di Steve sembrava ancora persa nel vuoto, quindi decise di parlare per prima.
-Mi dispiace dovertelo chiedere, ma sai che non posso fare altro. -quella singola frase fece riprendere il Capitano. -Cosa successe durante la seconda guerra mondiale ? -lui sospirò e si passò una mano tra i capelli color del grano.
-So di non poter più rimandare, perciò… -Daphne si fece subito attenta, desiderosa di sapere il più possibile. -Bucky era uno degli Howling Commandos, un squadra scelta da me per affiancare Capitan America durante la battaglia contro l’Hydra. Suppongo che Fury ti abbia raccontato della divisone scientifica tedesca. -la ragazza annuì. -Superammo molte missioni, ma nel ’44, ci mandarono, io, Bucky e un’altro degli Howling, a « prelevare » il dottor Zola capendo che ci sarebbe stato utile per ditruggere l’Hydra, considerando che i suoi macchinari erano riusciti a immagazzinare l’energia del Tesseract, un oggetto con potere divino. Andammo tra le Alpi, nella zona che tocca la Germania. Dovevamo impedire che entrasse in Svizzera, dove non avremmo più potuto fare nulla, poiché quella nazione era neutrale. Salimmo sul treno, e quando riuscimmo ad entrare, trovammo non poca difficoltà ad avanzare, dato che l’Hydra aveva costruito armi usando il Tesseract. Prima che riuscissi a mettere fuori gioco un soldato tedesco con una delle armi, lui distrusse una delle pareti del treno, scaraventando fuori Bucky. Andai in suo soccorso, ma… -Chiuse gli occhi e fece un respiro profondo. -Ma troppo tardi. Cercai di prendere la sua mano, fallendo. Non potei fare altro che gurdarlo cadere, senza poter fare niente. -Daphne rimase in silenzio, guardando nel vuoto, mentre si storceva le mani. Il Capitano invece sembrava arrabbiato. Più con sè stesso che con chiunque altro. -Ho pianto solo due volte in tutta la mia vita. La prima quando avevo sette anni e dei bulli mi pestarono, la seconda quando Bucky morì. - guardò la ragazza, sentendosi le lacrime premergli negli occhi, ma sapendo che non avrebbe pianto. -Ti giuro che non ho mai voluto tutto questo, ma capirò se vorrai darmi la colpa per quello che è successo. Sono riuscito a salvare il mondo, ma non il mio migliore amico. -Daphne rimase ancora qualche secondo in silenzio, i capelli che le erano sfuggiti alla coda che le scivolavano sul viso, poi disse, la voce spenta :
-Dimmi quello che è successo dopo. -Steve la osservò sospirando.
-Zola aveva fatto degli esperimenti alla sua divisione, quando fu catturata in Italia nel ’43, che l’hanno aiutato a sopravvivere alla caduta. Poi, i soldati dell’Hydra lo devono aver trovato. Io non so esattamente cosa gli abbiano fatto. Ma… Gli hanno fatto dimenticare tutto quello che era, facendogli dei lavaggi del cervello, trasformandolo in un assassino. Pochi negli anni hanno creduto alla sua esistenza, e i pochi che ci credevano pensavano fosse un fantasma. L’Hydra lo teneva congelato, come lo sono stato io per settant’anni, scongelandolo solo quando a loro sembrava più giusto. -Daphne non voleva rischiare di trattare male Steve, così decise di stare zitta. Non voleva che lui credesse che fosse arrabbiata con lui. Non era lui a dover pagare per quello che era successo, era l’Hydra. E non si era mai sentita tanto certa come in quel momento che qualcuno dovesse pagarla. Ma quell’organizzazzione era ormai crollata. Non c’era più nessuno da distruggere. Quindi rimaneva una sola cosa da fare. -Di qualcosa, ti prego… -mormorò il Capitano, sicuro che lei non lo avrebbe mai perdonato. Perchè la colpa era soltanto sua, e lo riconosceva.
-Non devi darti colpe che non hai. -cominciò Daphne dopo qualche secondo. -So che tieni a Bucky. Lo so, lo so. -lo guardò dritto negli occhi chiari come il diamante. -Hai distrutto l’Hydra, e questo è stato un inizio. Lo hai liberato, Steve. -
-Lo credevo anch’io. Ma hai visto cosa ha fatto a tua madre… -abbassò lo sguardo, non riuscendo più a sostenere quello della ragazza, così simile a quello del suo migliore amico.
-Vuol dire che lo controllano ancora. -
-No ! -esclamò lei e Steve tornò a guardarla, stupito da tutta quella certezza. Lei scosse la testa. -È… È solo una sensazione. Ma… Credo che lui non l’abbia uccisa. -lo guardò seria, e lui sgranò gli occhi, comprendendo quello che stava insinuando.
-Non è stato lui a ucciderla. Qualcuno ha preso il suo posto. -schioccò le dita. -Qualcuno che si faceva passare per lui ! -
-Non ne sono certa. -mormorò Daphne abbassando gli occhi e mordendosi il labbro inferiore. -Ma penso che dovremmo andare a Los Angeles per cercare delle prove. -concluse la ragazza alzandosi. - Ovviamente senza dirlo allo S.H.I.E.L.D. -aggiunse in fretta. Il Capitano annuì e i due ripercorsero il corridoio. -Ehi. -disse all’improvviso Daphne, fermandosi. Steve si fermò a sua volta, guardandola interrogativo. -Davvero, so che tieni a lui. -lo disse con sincerità, all’unica persona della quale sapeva di potersi fidare. -E una cosa te la prometto. Sarò anche una stupida ragazza diciannovenne ai tuoi occhi, ma non importa. Troveremo Bucky, il tuo migliore amico, mio padre, e lo salveremo. Davvero. È l’unica cosa che so che devo fare, ora che ho scoperto la sua identità. Gli obiettivi cambiano. -Capitan America le sorrise, le sorrise davvero, come mai prima aveva fatto.
 
Angolo autrice :
Ok, lo ammetto, questo capitolo fa schifo e non si capisce niente, scusatemi :/. Ci ho messo tanto ad aggiornare perchè non riesco assolutamente più a trovare ispirazione per questa storia e sono ad un punto morto. Per un po’ quindi è probabile che non aggionerò più, ma di sicuro tornerò, una volta superato il blocco dello scrittore.
Ok, grazie a chi è riuscito a sopravvivere fino in fondo al capitolo :)

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Capitolo 6
*** Cap.6 - Doubts ***


Salve gente! :) Ebbene sì, sono tornata! Sono riuscita a superare il blocco dello scrittore e ho scritto altri quattro capitoli. Ho aspettato un po’ per pubblicare questo per tirarmi un po’ in avanti con il lavoro (così non dovrete aspettare un’eternità per il prossimo capitolo).
E adesso eccomi qui. A tormentarvi con i problemi esistenziali del nostro amato Bucky Barnes (life-ruiner)! Spero che questo capitolo vi piaccia :)
 
Capitolo 6. - Doubts
15 marzo 1996
Si sentiva la testa pesante. Fece molta fatica a ricordarsi cosa fosse successo, ma lentamente, delle immagini si formarono nella sua mente. Il fumo… Le esplosioni… L’acqua del fiume che l’avvolgeva… Due occhi di lapislazzuli… Aprì lentamente gli occhi, cercando di non scontrarsi troppo velocemente con la luce del sole. Sempre che ve ne fosse, di luce del sole. Non aveva idea di dove si trovasse. Il Soldato poteva benissimo aver pensato di sotterrarla viva e liberarsi di lei. Con sollievo, almeno credette, capì che non era così. C’era della luce pallida che entrava dalla finestra sporca poco lontano da lei. Ora che tutti i sensi le erano tornati, si accorse di avere i polsi legati stretti con una corda, che la teneva anche bloccata al riscaldamento scrostato e spento della stanza. Non era certo quella la cosa più incredibile. Quello che la stupì di più fu constatare che qualcuno le aveva curato la ferita al fianco. Infatti, sentiva il contatto delle bende con la sua pelle calda. Katharine si guardò intorno, ispezionando ogni centimetro della stanza. Il suo cuore mancò un battito quando lo vide. Il Soldato d’Inverno. Comprese che lui forse era l’unica persona al mondo che riuscisse a farle paura, a farla tremare. L’aveva sempre e solo odiato, ma ora ne era terrorizzata. Non capiva. Non riusciva a capire. Prima l’aveva risparmiata, poi l’aveva salvata. C’era un motivo in tutto questo? Lo osservò, quasi con il fiato sospeso, quasi con paura di respirare: era lì, dall’altra parte della stanza, un fucile da cacciatore appoggiato alla gamba, una pistola in mano. La poca luce gli illuminava il viso. Non indossava la maschera. Era la prima volta che lo vedeva in viso, l’unica cosa che aveva visto e che non si era mai dimenticata erano i suoi occhi. Si sorprese a pensare che fosse bello. Era giovane, non poteva avere più di trent’anni. Anche se era impossibile. In teoria avrebbe dovuto averne molti di più di trenta. Ma dopotutto era un fantasma. Lui la osservava di rimando. Katharine deglutì, non sapendo cosa fare e sentendosi la gola secca. Il Soldato si alzò e si diresse verso di lei, che lo guardò sospettosa. Non capiva proprio che intenzioni avesse. E allora, per la prima volta lo sentì parlare.
-Finalmente ti sei svegliata. -disse, lanciando un’occhiata svelta oltre la finestra, come preoccupato. Poi, si abbassò e sciolse il nodo che teneva la sua « prigioniera » legata al riscaldamento. Lei non disse una parola, mentre lui la faceva alzare e la incitava a camminare. La sua mente macchinava, chiedendosi il perchè di tutto quello che stava capitando. Cosa diavolo aveva in mente il Soldato ? Perchè la teneva prigioniera ? Troppe domande le frullavano in mente e lei fece la più stupida di tutte.
-Di chi è questa casa ? -sentì il suo sguardo sulla nuca, le loro mani che si sfioravano tra di loro, anche se quelle di lui erano coperte da guanti.
-Non lo so. Ma non c’era nessuno. Probabilemente è uscito. E non è più tornato. -Katharine rabbrividì. Significava che lo aveva ucciso lui ? Uscirono dalla casa, e la giovane vide intorno a sè un vasto bosco. L’aria era satura del profumo di primavera. Sarebbe stato un luogo molto romantico se non fosse stata lì con un assassino. Camminarono ancora per diversi metri, in perfetto silenzio. Il Soldato non doveva parlare molto già di suo, mentre Katharine era terrorizzata. E si odiava per questo. Come faceva il suo cuore afferrare paura mentre era in compagnia dell’uomo che aveva ucciso tutta la sua famiglia ? Arrivarono in prossimità di un’auto e finalmente lei si decise a fare domande.
-Cosa stai facendo ? -lui per un attimo non produsse un suono. Nè un respiro, nè un sospiro. Poi parlò.
-Tutti i miei compagni sono stati uccisi dal tuo. Non so dove andare. E probabilmente tutto lo S.H.I.E.L.D. è in giro a cercarmi. Così ho deciso di prendere un ostaggio e di fuggire il più lontano possibile. - Katharine rise, per una crisi isterica, forse. O magari era solo impazzita. Non avrebba saputo dirlo con certezza.
-Sei un bugiardo. -il Soldato strinse di più la presa sulla corda. -Avresti benissimo potuto contattare gli altri cani sovietici per farti ritrovare. Ma non l’hai fatto. Perchè stai scappando. Non so esattamente perchè, ma è quello che stai facendo. -lui aprì la portiera dell’automobile e la spinse dentro, senza preoccuparsi minimamente di farle male. La giovane si sentì quasi felice. Almeno in quello c’era verità. Strinse le labbra mentre cercava almeno di mettersi seduta, la spalla che le doleva. I finestrini posteriori erano oscurati, notò. Il Soldato accese il motore dell’auto e seguì il sentiero sterrato fino alla strada. Katharine si ritrovò di nuovo ad osservarlo. L’aveva fatto anche troppo spesso, negli ultimi venti minuti, quando le si presentava l’occasione. Non si azzardò a chiedere dove stessero andando, anche se aveva completamente perso il senso dell’orientamento. Pensò alla reazione di lui poco prima. Lo aveva sì fatto arrabbiare, ma quello che aveva detto era vero. Avrebbe benissimo potuto farsi ritrovare. E se non lo faceva, significava che stava cercando di scappare. Ma in fondo non aveva senso. Quella di essere un assassino doveva essere stata una scelta sua. Per qualcosa di rotto nel cervello, per vendetta, per qualunque cosa, ma uccideva da trent’anni e oltre. E quindi doveva aver deciso così. Non poteva essere diversamente. Le tornò in mente un pensiero avuto da bambina, il giorno della morte della sua famiglia : Si chiese chi  fosse. Se davvero avesse voluto uccidere la sua famiglia. O tutti gli altri che probabilmente aveva ucciso. Si chiese se davvero fosse cattivo. Se davvero fosse senza cuore come lo credeva. Questo si era chiesta sul Soldato d’Inverno, e lavorando nello S.H.I.E.L.D.pensava di aver trovato risposte. Credeva di averlo capito. Di aver capito che no, un cuore non ce l’aveva. Che era davvero cattivo, crudele, senza pietà e che non essere stata uccisa era stata soltanto fortuna. Però… A volte tornava a formulare quei pensieri mentre stava sdraiata nel suo letto, a fissare il soffitto, pianificando la sua vendetta. Non poteva essere soltanto stata fortuna la sua. Non l’aveva mancata, non aveva voluto colpirla, era ovvio. E poi, chi fosse davvero non l’aveva mai capito. Non si poteva davvero chiamare il Soldato d’Inverno. All’improvviso, non sapeva nemmeno quanto tempo fosse passato da quando si era immersa nei suoi pensieri, domandò, a bassa voce :
-Chi sei ? -vide gli occhi di lui osservarla dallo specchietto retrovisore. Vi si poteva leggere una nota di stupore, e questo era strano, considerando che Katharine lo aveva sempre trovato poco espressivo, quasi come se fosse congelato… Ci volle un po’, ma alla fine il Soldato rispose.
-Non… Non lo so. -la sua voce era debole e sembrava quasi… Persa.
-Come puoi non saperlo ? -Katharine era stupita. Di nuovo. Quell’assassino la continuava a stupire, sempre di più, ogni momento che passava. Era davvero strano…
-Non lo so. Non lo so e basta. Non chiedermelo. -smise di guardarla e si concentrò di nuovo sulla strada praticamente deserta. -Forse ricorderò… -lei riflettè su quelle parole. Non ricordava il suo nome ? Ma com’era possibile ? Stava per esprimere quel pensiero ad alta voce, ma ricordò che lui le aveva chiesto di non chiedere più, quindi rimase in silenzio.
Nessuno dei due parlò per molto tempo, almeno un’ora, mentre il cielo si scuriva sempre di più. Per Katharine tutto quel silenzio stava cominciando a farsi asfissiante. Odiava rimanere in silenzio mentre era con altre persone, lo odiava davvero. La sua mente smetteva di ragionare in quelle situazioni, e faceva sempre, sempre, domande scomode. Anche quando avrebbe fatto meglio ad evitare. Come in quel momento.
-Perchè non mi hai uccisa ? -mormorò. Vide il Soldato stringere di più la presa sul volante. -Perchè ? -ripetè, ma ancora non ottene risposta. Allora cominciò a spazientirsi. -Dimmelo, lo voglio sapere. Perchè diavolo non mi hai ucciso quando potevi ? PERCHÈ? -il Soldato, non visto, strinse le labbra, cercando di non perdere il controllo, altrimenti avrebbe potuto fare davvero male a quella ragazza. -Ed ora ? -Katharine era ormai davvero arrabbiata. Voleva delle risposte. Quelle risposte. La sua vita si basava soltanto su risposte. Solo per quelle rimaneva in vita. -Perchè mi hai salvata ? Perchè continui a divertirti con la mia vita ? -le parole sgorgavano fuori dalla sua bocca e non poteva fare nulla per fermarle. -Perchè non mi uccidi, ora ? -
-Ti prego, non… -cercò di dire il Soldato, mentre qualcosa di simile alla paura si impossessava di lui. Stava per perdere il controllo. Un’altra parola e avrebbe potuto colpirla. Ma lei non ne voleva sapere.
-Uccidimi ! Non ho voglia di aspettare ancora chissà quanto tempo ! Uccidimi ! ADESSO ! UCCIDIMI ! -senza neanche un sospiro, il Soldato sterzò e infilò con l’auto un sentiero sterrato a lato della strada. Fece alcuni metri, poi scese e, aperta la portiera posteriore, scaraventò Katharine sul prato, senza curarsi di farle male. La giovane riuscì a impedirsi di cadere di faccia, ma il colpo fece comunque male. E ora si sentiva un animale in trappola, senza via d’uscita. Se l’era andata a cercare, doveva ammetterlo. Ma forse finalmente sarebbe stata liberata dal peso di quella vita troppo grande per lei. Il Soldato le puntò una pistola alla testa, essattamente come diciasette anni prima, il dito pronto a premere il grilletto. Guardò Katharine, combattendo una battaglia interiore. Qualcosa in lui voleva spararle e mettere fine a tutta la sua arroganza, ma… Un’altra parte di lui, non voleva ucciderla. Un’altra parte di lui non voleva uccidere più nessuno. E in fondo, non aveva alcun senso. Lui era nato per uccidere. Doveva essere per forza così, visto che non faceva altro da… Da molto tempo. Valeva soltanto gli omicidi che commetteva. Nient’altro. Una voce, dal fondo della sua mente, gli urlava che non era vero. Che lui l’aveva avuta una vita, prima di diventare il Soldato d’Inverno. Non sapeva cosa fare. Non sapeva nemmeno chi era, dopotutto. Forse non l’avrebbe mai saputo. Se era stato qualcosa prima di un assassino, probabilmente quel « qualcosa » era perso e irrecuperabile. La sua mente tornò alla situazione di quel momento. Katharine gli sembrò un animale ingabbiato, come tutte le altre volte. Lei gli aveva chiesto perché non l’avesse uccisa, e la risposta era che non lo sapeva. Non sapeva nulla. La sua mente era troppo confusa. Abbassò la pistola, sospirando impercettibilmente. Katharine si accorse che era la prima volta che si arrendeva, che non sparava. Certo, non l’aveva incontrato molte volte, ma ne era certa. Era riuscita a vedere confusione, nei suoi occhi oltremare. E non aveva capito. Perché avrebbe dovuto essere confuso ? Fare l’assassino era il suo lavoro. Perché avrebbe dovuto indugiare tanto prima di spararle ? E poi non spararle affatto ? Il Soldato la aiutò ad alzarsi e la riportò, quasi con gentilezza, nell’auto. Chiuse la portiera dietro di lei e vi si appoggiò un attimo. Quella ragazza era strana. Chi avrebbe mai supplicato di farsi uccidere ? Nessuno, ma lei sì. Lui aveva ucciso la sua famiglia, avrebbe dovuto cercare di vendicarsi, non cercare di farsi uccidere. Scosse, la testa, confuso come mai in vita sua. Entrò nell’auto e fece partire il motore, cercando di dimenticare tutti i suoi dubbi.
 
Angolo autrice pt.2:
Mehw, spero che questo capitolo vi sia piaciuto. È stato un parto scriverlo (ed è pure corto, sorry) :(
Ringrazio davvero chiunque sia arrivato alla fine di questo e chi mi ha recensito
Thank you, seriously :))))
Tra parentesi mi stavo domandando: Sono l’unica che non trova mai tempo di scrivere a causa della scuola ? :((domanda molto stupida naturalmente, suppongo sia così per tutti) Odio non trovare tempo per scrivere. :(
Be’, alla prossima ! ^^
Baci, Mary <3

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