Totenkopf

di SamuelCostaRica
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La fuga ***
Capitolo 2: *** Spiegazioni inutili ***
Capitolo 3: *** Senza mappa ***
Capitolo 4: *** Organizzare il futuro ***
Capitolo 5: *** Un pianeta non è per sempre ***
Capitolo 6: *** Incontri ***
Capitolo 7: *** Uno, cento, mille soli ***
Capitolo 8: *** Nel silenzio della congiura ***
Capitolo 9: *** L'importante è viaggiare ***
Capitolo 10: *** In fondo al viaggio ***
Capitolo 11: *** Conti in sospeso ***
Capitolo 12: *** Non dire ***
Capitolo 13: *** Ma quale segreto... ***
Capitolo 14: *** Ordine nel caos ***
Capitolo 15: *** Mobilis in mobili ***
Capitolo 16: *** Onnisciente ***
Capitolo 17: *** Desertificazione ***



Capitolo 1
*** La fuga ***


All’interno il pullman era buio, anche se dai finestrini, senza vetro, si vedeva una luce abbagliante che lo avvolgeva.
Lei era accovacciata, di fianco alla paratia metallica di protezione al guidatore, con la schiena appoggiata al cruscotto del pullman.
Era pensierosa.
Aveva i capelli rossi, lunghi, arruffati, raccolti in una coda a treccia.
Il viso era ovale, zigomi non troppo sporgenti, labbra carnose: gli occhi erano nascosti da degli occhiali militari a doppia lente separata, con una cinghia elastica che gli tenevano ben aderenti al viso.
Da sotto gli occhiali spuntava il naso adunco, unico difetto di quel grazioso viso, lasciato di qualche suo antico parente scozzese: d'altronde, una che si chiamava Kirsty MacRae non poteva che non avere tali origini.
La tuta militare nascondeva un corpo graziato, ma ben strutturato e muscolo, con il giubbetto antiproiettile che non nascondeva del tutto il suo seno prosperoso.
La mano sinistra era appoggiata al fucile mitragliatore che teneva con il calcio appoggiato al pavimento del pullman con la canna rivolata verso l’alto, la sicura tolta, il selettore sul fuoco rapido e un caricatore inserito, con un altro, con l’ingresso dei proiettili verso il basso, legato al primo con del nastro adesivo per cavi elettrici grigio.
Sulla tuta erano riportati i gradi di colonnello dell’aereonautica militare, anche se lei non aveva mai volato su un aereo.
Il pullman viaggiava a folle velocità su quel terreno sconnesso, sollevando, dietro a se, enormi nuvole di polvere.
L’autista del pullman, un certo Gray Gronners, teneva gli occhi puntati davanti a sé.
Aveva i capelli corti, quasi rasati, e portava occhiali militari a una sola lente, scuri.
Il viso rotondo era seminascosto da una sciarpa con un disegno a scacchi che gli copriva parte del viso, per proteggerlo dalla polvere che passava dalla feritoia della piastra metallica messa davanti a lui, per proteggerlo da eventuali proiettili sparati contro di lui.
Indossava una maglietta a maniche corte nere, da cui uscivano delle braccia da culturista.
Indossava anche pantaloni di una tuta militare e stivali militari, neri, con lacci da scarpe marroni.
Teneva saldamente il volante, guardando ogni tanto dalla feritoia posta sulla piastra alla sua sinistra, per vedere chi lo stava seguendo da quel poco che era rimasto dello specchietto retrovisore, e poi a destra, per vedere se il colonnello era ancora lì, con quella faccia impietrita che aveva da quando l’aveva conosciuta.
Il colonnello guardava l’interno del pullman, guardando ma non vedendo i suoi occupanti.
Erano una parte militari ed alcuni civili, uomini e donne, pronti a tutto pur di salvare la pelle.
Dietro all’autista si era posizionata il sergente addetto alle telecomunicazioni Mary Houng, un tipo minuto, che quando non indossava le lenti a contatto aveva un paio di occhiali da nerd.
E in effetti lo era: una vera nerd, una a cui i computer non potevano dire di no.
Era finita lì perché era entrata in un computer di un qualche laboratorio segreto e i militari, come al solito, le avevano proposto due soluzione: o la prigione a vita o diventare un militare.
Certo, un po’ di disciplina le avrebbe fatto bene e messa a posto la testa, ma lì la disciplina serviva poco.
Davanti a sé aveva una apparecchiatura elettronica, larga circa novanta centimetri, profonda quarantacinque e alta altrettanto, da cui fuoriusciva, sulla parte destra, un monitor piatto, mentre il resto del piano era occupato da una tastiera da computer, una mouse a rotella e vari pulsanti ed indicatori elettronici.
Seguiva con gli occhi, nascosti dietro a degli occhiali militari a una sola lente, chiari, i numeri che il monitor sputava e gli indicatori elettronici.
Una luce rossa illuminava la parte sinistra dell’apparecchio, con di fianco una luce verde che non voleva saperne di accendersi.
Aveva la bocca protetta da una mascherina antipolvere metallica con filtri sostituibili.
La sua tuta militare era di un colore unico, forse kaki, alquanto sgualcita e con alcune bruciature sulla gamba destra.
Non portava guanti, per poter usare liberamente la tastiera.
Oltre a quella apparecchiatura, alla sua destra, ben protetta da una cassaforte senza portello, appoggiata a terra, vi era una radio satellitare.
Sul fondo del pullman, davanti alla fossa in cui vi erano i due motori a scoppio che spingevano il pullman a tutta velocità, senza il cofano di copertura dall’abitacolo, vi era un omino piccolo, pelato, magrolino, a cui nessuno avrebbe dato un centesimo per la sua vita.
Si chiamava Julius Fronteau ed era seduto sul bordo del vano motore e controllava il funzionamento dei due mostri, con le turbine che fischiavano più di un locomotore a vapore e i cui pistoni urlavano il loro dolore, spinti al massimo su quel terreno accidentato, con gli ammortizzatori degli assali che non riuscivano ad attutire le vibrazioni e i supporti dei motori pronti a rompersi da un momento all’altro, con la gomma quasi sfatta.
Il pullman aveva un carrozzeria anni ’50, con una parte di essa sopraelevata.
Nella parte superiore, da cui si accedeva da una scala posta a destra dell’addetta alle comunicazioni, vi era un buon numero di uomini, tutte con la tuta militare di colore blu, elmetti del medesimo colore, giubbotti antiproiettile e varie armi, dai fucili mitragliatori ai fucili a pompa ai lanciagranate, più varie granate e bombe a mano.
Erano in venti, tutti seduti sul fondo del pianale rialzato, con l’orecchio teso alla auricolare della radio portatile, pronti a sentire le informazioni date dal loro comandante.
Il comandante si chiamava Frazer, solo ed esclusivamente Frazer: a nessuno era dato di sapere il suo nome.
Era un tipo brusco, con i lineamenti del volto squadrati, una mascella da vero duro, occhi neri, naso aquilino, capelli corti, con taglio di capelli alla marines.
Il caldo di sopra era soffocante e fastidioso, come lo era il rumore dell’aria che entrava dai finestrini rotti e il fracasso dei motori spinti al massimo.
All’improvviso una luce si accese sul cruscotto dell’autista.
Gronnes, dopo un primo momento di sgomento, premette il pulsante della sua radio
«Fronteau! Fronteau!… » Urlò nella radio, facendo sobbalzare tutti.
«Cosa vuoi?» Rispose Frontenau, senza distogliere gli occhi dai motori, cercando di sovrastare il loro rumore.
«Si è accesa la luce della riserva del carburante!» Rispose Gronnes, tutto preoccupante, grondante di sudore più per la paura che il pullman si fermasse che per il caldo insopportabile.
Fronteau grugnì qualcosa alla radio, si alzò e si diresse verso una delle botole poste sul pavimento del pullman, la alzò e si infilò dentro, con la testa, fino alla cinta.
Dopo poco i motori tossicchiarono e poi ripresero il loro rumore assordante.
Fronteau si alzò, chiuse la botola e trotterellando si avvicinò al Colonnello.
La donna al momento non gli diede retta, ma l’uomo la risvegliò dal suo torpore scuotendola con la mano sinistra sulla spalla destra di lei.
Lei lo guardò in faccia, con fare interrogativo.
«Non è il caso che Gronnes urli alla radio per una stupida spia! Abbiamo gasolio per parecchi kilometri ancora!» Gridò alla radio, sovrastando il rumore all’interno del mezzo e facendosi sentire da tutti.
«Ormai non dovremmo essere lontani da…»
La frase del colonnello fu interrotta a metà da un urlo proveniente da uno degli uomini del piano di sopra.
«Colonna di polvere all’orizzonte! Qualcuno ci segue!»
Il Colonnello si alzò e si guardò intorno.
Per prima cosa prese atto della posizione degli altri due pullman che li seguivano, uno allo loro destra ed uno alla loro sinistra, leggermente arretrati rispetto a loro.
A bordo di quei veicoli vi erano solo uomini ben armati: avrebbero dovuto difendere a tutti i costi il pullman del Colonnello con sopra gli scienziati.
Il Colonnello contatto il primo pullman.
«Maggiore Truman! Maggiore Truman! Cosa vedete dietro di noi?»
La concitazione salì sul pullman e i passeggeri e i militari si alzarono a sufficienza per sporgere le teste dai finestrini e cercare di vedere quello che succedeva fuori.
La polvere alzata dai pullman copriva la visuale ed era impossibile vedere dietro a loro.
Il Maggiore Truman non rispose e allora il colonnello salì al piano di sopra e con il Capitano Frazer, con in mano i lori binocoli, cercavano di vedere qualcosa che li seguiva.
All’improvviso la radio gracidò.
«Qui Maggiore Truman! Qui Maggiore Truman! Vedo una colonna di fumo, a circa ore sette! Si, ore sette! Polvere di almeno altri tre mezzi! Dietro vede dell’altra polvere, forse alzata da altri mezzi, sicuramente più pesanti, ma non si vedono! Sono bassi rispetto all’orizzonte!»
«Dannazione!» Disse il colonnello, abbassando il volto e passando le labbra sulla manica della tuta.
Si inginocchio di fianco al Capitano.
«Non ho idea di quando saremo al punto di contatto! Speriamo di non dover combattere ancora! Non potremmo respingere un altro attacco!» Disse il Colonnello, guardando il Capitano, il cui volto era diventato ancora più duro di prima.
«Lei si preoccupi di arrivare là dove siamo diretti, al resto ci pensiamo io e i miei uomini!»
La voce di Houng alla radio raggiunse tutti.
«Colonnello! Colonnello! Quelli che ci seguono hanno anche loro un ricevitore! Usano un’altra frequenza! Lo hanno appena messo in funzione! Però non posso dirle se sono amici o nemici! ...»
«A tutti, ripeto a tutti! Parla il Colonnello! Niente comunicazioni radio, se non indispensabili! Niente comunicazioni radio!» Le ultime parole furono ben scandite dal Colonnello alla radio, affinché tutti capissero bene l’ordine e tutto quello che esso significava.
Il Colonnello scese da basso e si avvicinò a Houng.
Guardarono tutte e due il macchinario, silenzioso, che continuava a visualizzare numeri incomprensibili e uno degli indicatori si muoveva in modo anomalo.
Houng indicò, con il dito medio della mano sinistra, quella anomalia.
All’improvviso un cicalino suono dentro la macchina e la luce rossa si spense e, dopo un po’, quella verde si accese.
Sul monitor apparve una pianta, che indicava a circa cinquanta kilometri un bunker.
Il Colonnello afferrò il bottone della radio e chiamò l’autista.
«Gronnes! Gronnes! Svolta a destra per quindici gradi! Quindici gradi! Gira adagio, non diamo ai nostri inseguitori indicazioni di dove stiamo andando!» Lasciò il pulsante e parlò con Houng. «Tra quanto ci raggiungeranno?»
«Quelli dietro di noi non ci raggiungeranno mai, vanno più lenti! Quegli altri… non so!» Disse Houng, scuotendo la testa.
Il Colonnello si alzò in piedi e si avvicinò all’autista, cercando di vedere dove erano diretti.
Il pullman del Colonnello e gli altri due continuavano nella loro folle corsa.
Le modifiche effettuate ai motori da Fronteau erano state efficaci e i mezzi si erano dimostrati all’altezza della situazione.
Erano di una compagnia di viaggio chiamata “Greyhound” (il levriero), molto famosa in quella parte del pianeta.
Il Colonnello prese in mano il binocolo e incominciò a cercare davanti a sé il bunker.
Il pullman viaggiava a centocinquanta kilometri orari su quella distesa, per cui il bunker si sarebbe dovuto vedere in meno di venti minuti.
Il Colonnello controllò l’orologio, ma il tempo sembrava non passare mai.
Poi, all’improvviso, una installazione militare si presentò di fronte a loro, leggermente spostata sulla loro destra.
Il Colonnello diede una botta sulla spalla destra di Gronnes e gli indicò la costruzione.
Gronness girò lentamente il volante, posizionando il mezzo verso quella che sembrava una apertura nell’edificio.
Tutti si alzarono in piedi e guardavano il bunker avvicinarsi.
Il Colonnello voltò per un attimo il volto per vedere dietro a sé, per controllare la posizione degli altri due pullman e vide tutti i suoi uomini in piedi.
«Tutti a terra!» Urlò inferocita.
Tutti si inginocchiarono e tacquero.
Lei si rivolse verso il bunker, che si stava avvicinando sempre di più.
Houng si avvicinò, a carponi, tirandoli i pantaloni.
Il Colonello abbassò il volto.
«Anche gli altri hanno il codice verde!» Disse Houng, urlando.
Il Colonnello rispose scuotendo la testa in modo affermativo.
Il bunker si avvicinava sempre più e le sue dimensioni diventavano impressionanti.
Solo nell’ingresso i tre pullman sarebbero entrati così, come erano in formazione, lasciando abbastanza spazio di manovra e di sicurezza verso i muri perimetrali dell’imboccatura.
All’esterno nessuna luce dava indicazioni sul fatto che il manufatto fosse o no in funzione e fosse o no occupato da umani o umanoidi.
Il nero che si nascondeva dietro il portone di ingresso faceva abbastanza paura da far alzare il piede dall’acceleratore da Gronnes.
Il Colonnello gli diede una scoppola dietro alla nuca e Gronnes, lamentandosi, rischiacciò il pedale fino in fondo.
I pullman iniziarono a rallentare prima di imboccare il portone, frenando improvvisamente dopo l’ingresso.
L’interno si illuminò di colpo, rischiarandolo a giorno.
Il  Colonnello scese e diede subito ordini.
«Mette i pullman davanti all’ingresso, ma lasciate abbastanza spazio per far passare chi ha un pass dal sistema! Svelti! Capitano, i suoi uomini dietro ai mezzi, non sopra! Svelti! Svelti! Hougan, scarica i tuoi materiali! Metttee al riparo gli scienziati!»
Hougan scarico il materiale con l’aiuto di un’altra donna scienziato, mentre alcuni uomini del Maggiore Truman cercavo un posto dove mettere al riparo gli scienziati.
Quando tutto fu pronto, il Colonnello andò da Hougan.
Non servirono domande da parte sua.
«Sono a circa quindici minuti da qui! Arrivano a centoquaranta kilometri orari. Il sistema continua a dargli il benestare! Quelli che li inseguono stanno rallentando! Sembra che il sistema li abbia riconosciuti come nemici e li sta ostacolando! Non mi chieda come, Colonnello, ma li sta facendo rallentare!»
Il Colonnello si tolse gli occhiali e i suoi occhi azzurri apparvero in tutto il loro splendore.
«Tenente Closser. Prenda due uomini e faccia un giro di ispezione. Si ricordi che non conosciamo il posto. Solo una perlustrazione e mi informi immediatamente di ogni novità. E si ricordi che le radio prendono anche sotto terra, per cui qualcuno potrebbe intercettare le nostre comunicazioni. Per cui siate brevi e precisi.»
Il Tenente Closser, un tipo basso, muscoloso, tutto d’un pezzo, saluto il Colonnello, prese due uomini e si inoltrò nel bunker.
Il Capitano Frazen non era molto contento: Closser era solo un marines, neanche tanto in gamba, non uno dei corpi speciali e di sicuro avrebbe fatto un casino trovando qualcosa fuori posto.
Ma il Colonnello sapeva che Closser faceva il rigido solo per la forma: in realtà era un uomo dei servizi segreti, addestrato per anni da gente che uccideva un uomo con un dito solo e di certo una qualsiasi “anomalia” non lo avrebbe messo in difficoltà.
Ma al momento quella cosa non la interessava.
I pullman del secondo gruppo erano ormai prossimi al varco.
Il Colonnello cercò dove erano i sistemi di chiusura del portone e li vide, lì a mezz’aria, sul muro di confine con il portone.
Appena i pullman entrarono, frenarono svoltando a destra, incanalandosi nello spazio lasciato libero dai primi pullman.
I due gruppi di militari si fronteggiarono, armi alla mano, pronti a sparare.
«Fermi! Fermi! Grifon! Grifon! Non sparate, lo conosco io!»
Il Colonnello corse incontro ad un uomo emaciato, alto più di due metri, con una tuta da militare a brandelli, che sosteneva a mala pena un mitragliatore.
I suoi uomini erano più o meno nelle sue stesse condizioni e i civili che erano con loro, più numerosi di quelli portati dal Colonnello, caddero sul pavimento dell’ingresso esausti.
«Frazen, chiudete il portone! Presto!»
Frazen corse ai pulsanti e schiacciò quello rosso.
L’enorme portone in cemento prima si mosse verso l’interno poi, scorrendo su delle guide, poste sia a terra che a soffitto, scricchiolando, con un rumore di motori che li trascinavano.
Quando le due parti furono a contatto, il portone scivolò verso l’esterno e chiuse perfettamente l’ingresso, da cui non entrò più la luce esterna.
Improvvisamente l’aria dell’ingresso da pesante e irrespirabile divenne fresca e leggera.
Tutti tirarono un sospiro di sollievo, mentre il Colonnello e il nuovo arrivato se la ridevano, abbracciandosi per terra.
«MacRae che ci fai qui?»
«E tu, Griffon, da che buco dell’inferno sei uscito?»
I due furono distolti dai loro convenevoli dal Tenente Closser, che giunse urlando.
«Colonnello! Colonnello! Di qua, svelta! Abbiamo trovato una sala comando!»
«Sì! Calma! Non così! Frazen, i mezzi! Disponeteli davanti all’ingresso: due davanti e quattro dietro! Fate un muro! Se dovessero sfondare il portone, troveranno una barriera!» Il Colonnello non perse la calma e prima di muoversi dall’ingresso voleva essere sicuro che si sarebbero salvati.
Mentre spostavano i mezzi e scaricavano i materiali e le armi, gli uomini in forza aiutarono gli altri, sfiancati da un viaggio lungo e irreale.
Dopo aver fatto la barriera, aiutandosi gli uni con gli altri, trascinando il materiale e le armi stoccate in enormi cassoni, seguirono il Tenente Closser.
Le grida di dolore si mischiavano agli incitamenti a camminare verso un posto più sicuro.
Quello che il Tenente Closser aveva chiamato “una sala comando” non dava l’esatta idea del posto.
Per accedere alla sala si doveva scendere una rampa da garage larga almeno dieci metri e ruvida, che di certo avrebbe aiutato e permesso a qualsiasi mezzo di scendere o salire dai piani più bassi.
A circa cinquanta metri dall’ingresso vi era un paratia stagna, che consentiva l’accesso ad una sala a chiocciola larga, con la singola rampa di scala larga almeno due metri.
Tutti guardavano quel luogo enorme stupidi.
Uno degli scienziati, uno anziano, piccolo, con i lineamenti tipicamente orientali, non sembrava così stupefatto.
Quando scesero le scale e si trovarono davanti all’altra paratia che immetteva alla sala comando, l’uomo passò davanti a tutti, facendosi spazio a spintoni e fermò tutti sulla porta.
«Ssssst!» Disse, mettendo il dito medio della mano sinistra sulla sua bocca.
La luce all’interno riempiva l’ingresso.
L’uomo entrò e guardò dentro, dove i due uomini mandati in perlustrazione si guardavano intorno, senza capire cosa stesse succedendo.
Su dei monitor appesi alle pareti comparivano i volti dei due uomini e del Tenente Closser, con i loro nomi, gradi, codici di riconoscimento e altro non ben definito.
Quando l’uomo entrò, i video inserirono il suo volto, con il suo nome e altri dati.
«E’ un computer quantico! Legge la mente! Non vi preoccupate e non allarmatevi! Andrà tutto bene!»
L’uomo entrò seguito dal Colonnello, preoccupato che il computer svelasse la sua vera identità.
Ma il computer quantico sembrò comprendere i timori del Colonnello e, quando la scansionò, iniziò con una M, per poi modificarla con una C.
Il suo nome e grado apparvero esattamente come lei voleva.
Per cui il computer quantico non solo poteva fare, ma poteva anche interagire con chi fosse stato presente nella stanza.
Il Colonello ebbe un attimo di panico, sperando che gli altri non se ne accorgessero.
La sala comando, quanto tutti furono entrati, autonomamente accese tutte le luci, facendo scoprire una locale lungo più di cinquanta metri, largo trenta e alto circa dieci metri.
All’improvviso, una voce uscì da alcuni altoparlanti, modulando la voce in modo buffo.
«Benvenuto Colonnello Kristy MacRae! A lei e a tutti i suoi servitori!»
«Arretrato!» Disse il Capitano Frazen.
Il Colonnello, ridendo tra se e se, disse:
«Non sono miei servitori, ma miei aiutanti! Che non è la stessa cosa! Ma tu, come ti chiami, visto che sai tutti i nostri nomi! Ah, un’altra cosa: se puoi leggerci nella mente, puoi anche parlarci con tale sistema?»
In meno di un secondo, tutti sentirono, nella loro mente, una voce suadente che parlava.
«Se è così che preferisci che io ti parli, lo farò! E scusate per il termine, ma i miei costruttori avevano un gerarchia piuttosto rigida! Io mi chiamo Omnia! Per quanto riguarda tutto quello che volete sapere, al momento non mi sembra il caso! Chi vi seguiva è stato rallentato ma non fermato! Sul monitor principale potete vedere chi sono i vostri inseguitori!»
Sul monitor più grande, posto alla sinistra della paratia di ingresso, si vedeva chiaramente più mezzi, di forma strana, che rimanevano sospesi dal terreno e correvano verso l’ingresso del bunker, rallentati da una strana forza che li rallentava.
«Sono stati nemici per secoli dei miei costruttori, e non sono mai riusciti a sconfiggerli. Poi i miei costruttori se ne sono andati, con la speranza di poter tornare, ma non li ho più rivisti.»
«Omnia, hai una immagine dei tuoi costruttori?» Chiese ad alta voce il Colonnello.
Su un tavolo apparve un ologramma, ad altezza naturale.
«Ti assomiglia molto, Colonnello!» Disse la voce nella mente di tutti.
“Un po’ troppo!” Pensò il colonnello.
Una copia: era un fedele copia del Colonnello, solo con vestiti più succinti.
Una risatina corse sui volti di tutti gli uomini presenti, squadrati dal Colonnello.
«Scusa, non volevo, ma questi sono i vestiti che usavano i miei costruttori e aver trovato nel database una che ti assomiglia mi sembrava una cosa carina.»
«Omnia, direi di tenere a bada il tuo database fino a che non ci avremo capito qualcosa in quello che sta succedendo! E ora facci capire come distruggere quelli, senza provocare ulteriori danni al pianeta. Cosa sai di quei esseri? E non perdere tempo con classificazioni inutili! I più stretti termici scientifici!» Sbottò il Colonnello.
«Sì. Sono degli esseri come voi, con una base di silicio anziché di carbonio. Hanno armi avanzate per voi, ma che i miei costruttori erano riusciti a riprodurre e usarli contro di loro. Ma il perché i miei costruttori se ne sono andati, io non lo so.»
«Sì, ma per distruggerli senza fare ulteriori danni?» Insistette il Colonnello, spazientita.
«Le loro armi possono essere usate contro di loro, ma sono, in effetti, parecchio distruttive.» La voce di Omnia sembrava dispiaciuta di ciò.
Il Colonnello guardò gli scienziati, che avevano ancora la bocca aperta per tale meraviglia.
No, così non andava.
Non voleva essere una dura con gli scienziati, ma non aveva scelta.
«Allora, signori! Gli scienziati seguiranno le indicazioni di Omnia per vedere di migliorare le armi e provocare meno danni possibili! I militari verranno con me e vedremo come sono quelli armi e impareremo ad usarle! E vediamo di fermare quei maledetti!»
Omnia diede indicazioni agli scienziati di dove trovare i dati nel suo database, mentre il Colonello e gli altri ripreso la scala e continuarono a seguire la rampa in discesa.
Dopo aver seguito la rampa in discesa per dieci minuti, un enorme portone si aprì d’innanzi a loro, immettendoli in un enorme garage, dove facevano bella mostra di sé parecchi veicoli, di notevoli dimensioni.
«No, non ci siamo. Come è possibile che per distruggere quegli esseri ci vogliono armi così enormi. Dopotutto sono simili a noi, perché tutto questo?»
La domanda del Colonello era più che appropriata e il tenete Closser tentò una spiegazione.
«Sono dotati di esoscheletri che resistono a qualsiasi nostra arma, tranne che a queste.»
Il Maggiore Frazen guardò il Colonello e il Tenente, ben comprendendo che gli stessero nascondendo qualcosa.
«Colonello! Ben comprendendo che io non sono un fulmine di guerra e che non sono così alto in rango come lei, ma potrei sapere esattamente cosa ci facciamo qui? Non una spiegazione generica, una veritiera!»
Il Colonello guardò il Tenente, poi indicò a tutti di mettersi seduti di fronte a lei.
«Tutto iniziò quando posizionammo nello spazio la nostra base Cartagena nello spazio.»

 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Spiegazioni inutili ***


Gli uomini guardarono il Colonnello con fare interrogativo, ma a un cenno del Tenente Closser si sedettero intorno a lei.
«Come ben sapete, la base spaziale Cartagena è stata portata qui con molte difficoltà e, una volta messa in orbita intorno al pianeta, qualcuno si è fatto vivo. All’inizio sembrava un semplice contatto alieno, di tanti che abbiamo avuto. Ma il fatto che il contatto facesse riferimento ad una nave spaziale non più presente nell’elenco della flotta spaziale lasciò tutti spiazzati. Ovviamente la cosa non fu resa pubblica. Si rischiava di mettere nel panico tutti quanti senza vere prove di quanto successo. La nave si chiamava Pensacola e, a quanto diceva il contatto, aveva rubato, letteralmente rubato i loro segreti. Ora, che una razza aliena abbia dei segreti è più che ovvio: conoscendo il loro punto debole chiunque potrebbe approfittarne e sterminarli. Ma quello che non capivano era perché proprio quella nave. La Pensacola non esiste più da circa cinquecento anni e la sua storia non era piena di contatti alieni. Anzi, ne ebbe uno solo e neanche molto interessante. O almeno quelli dei servizi segreti credevano che la cosa fosse andata così. C’è voluto un anno per trovare tutti i dati della Pensacola e cosa aveva realmente fatto durante la sua esistenza. I dati erano ancora secretati e gli scienziati che lavoravano a quel progetto erano stati inghiotti dalla macchina burocratica della Terra. Solo dopo varie peripezie siamo venuti a conoscenza della verità. La Pensacola, durante il suo primo viaggio di esplorazione spaziale incontrò un pianeta disabitato, simile alla Terra. Vi erano solo animali, stupidi animali, alcuni molto pericolosi… Non fate quelle facce. Pericolosi era un termine gentile. Uccidevano in meno di un secondo. Comunque, dopo uno primo shock, che fece alcuni morti, il comandante della nave non mandò più nessuna sul pianeta. Durante le loro rotazioni intorno al pianeta per scoprire qualcosa, uno degli addetti scoprì, casualmente, una enorme astronave nascosta sotto i ghiacci del polo sud. Enorme! Era di forma ovale, lunga circa cinquecento kilometri e larga duecentocinquanta, alta più di trenta kilometri. Solo per un caso è stata scoperta. E forse era meglio che non la scoprisse! Incominciarono ad indagare. Scesero prima i corpi speciali: dopo quello che era accaduto era meglio non fidarsi troppo! Ci impiegarono giorni a pulire l’area da animali che avevano fatto di quella nave il loro rifugio. Poi scesero gli scienziati e incominciarono la perlustrazione. Il comando delle operazione spaziali era stato avvisato e si ritenne, al momento, di non far trapelare nulla. Troppo uomini morti, poteva anche che le solite leggende metropolitane sulla sfortuna non ci impiegassero molto a girare, e se si voleva mandare un’altra nave in appoggio sarebbe stato difficile trovare un equipaggio disposto a rischiare tanto. Sta di fatto che di navi, poi, ne vennero mandate cinque in supporto alla Pensacola. Ci vollero cinque anni e più di duemila scienziati, in tutti i campi dello scibile terrestre, per capirci qualcosa di quella nave. A parte le armi tecnologicamente più avanzate, degli umanoidi che occupavano la nave se ne seppe poco.»
«Scusi, Colonnello!» Un soldato in prima fila alzò la mano, interrompendo la spiegazione. «Ma se abbiamo scoperto armi così evolute, come mai usiamo ancora queste vecchi armi con proiettili…»
Il Tenente Closser tossì e prese la parola.
«Soldato! La prima regola è avere notizie del nemico. Se lo uccidi o lo stermini non avrai notizie. E senza notizie, se dovessi rincontrare quel nemico, lui potrebbe non soccombere, ma essere disposto a ucciderti con lui, distruggendo anche la tua civiltà. Avete imparato, nel corso dell’addestramento, i punti vitali in cui colpire gli esseri umanoidi che la nostra razza ha incontrato nello spazio, e questo è stato utile quando li abbiamo rincontrati. Ora, essere stati magnanimi con loro ci ha aiutato nella nostra espansione nell’universo. E ci aiuterà ancora, se ne sapremo fare buon uso. È ovvio che, se la nostra magnanimità viene presa per un nostro punto di debolezza, sappiamo usare anche armi di distruzione di massa. Ma non è ciò che noi vogliamo. Vero, soldato?» Il Tenente aveva usato una voce calma, ma imperiosa.
Il soldato tacque e il Colonnello, dopo un sospiro, riprese il discoro.
«Poi scoprimmo la loro vera natura. E scoprimmo anche il perché degli animali così aggressivi. Ma questo a voi interessa poco. Basti sapere che il nostro nemico attuale è lo stesso che trovarono su quel pianeta quelli della Pensacola. So che ogni tanto vi fanno rivedere vecchi film di fantascienza. Ecco. Più o meno assomigliano agli alieni cattivi di quei film. Sono piccoli, informi, che usano esoscheletri per farci coraggio e combattere uccidendo più che possono. Non hanno alcuna pietà dei loro nemici. Ricordano molto i guerrieri spartani… ma che lo dico a fare, non sapete neanche chi erano. Comunque, i dati della Pensacola furono segretati. Chi aveva distrutto quella nave aveva lasciato, nel loro computer, tutti i dati per sconfiggerli. E ci saremmo anche riusciti, se quei maledetti non avessero imparato la lezione. Eh sì, miei cari. Per errore lasciammo la nave integra e loro, dopo che noi ce ne fummo andati da là, scesero sul pianeta e raccolsero i dati, su di noi e su ciò che era successo alla nave. Ma a quanto pare, la loro evoluzione militare non è andata alla stesso passo dell’evoluzione scientifica. Pare che lo schianto di quella nave li abbia fermati. Nei secoli successivi abbiamo scoperto chi distrusse la nave. Un popolo evoluto. Quella bella donnina che avete visto di sopra era, in realtà, una schiava. Il loro volto non è quello. Omnia lo ha fatto per distrarci, ma noi sappiamo bene come erano questi tipi. Grassi, flaccidi, piccoli. Si forse una volta erano così come nell’ologramma di Omnia, ma secoli dopo erano ben cosa diversa. Aver vinto una razza aliena così belligeranti li aveva resi diversi. Si sentivano invulnerabili. Ma ciò fu l’inizio della loro fine. La loro decadenza fu più veloce del previsto. E i loro nemici ritornarono in auge. Forse noi siamo di discendenti degli inventori di Omnia, ma non ne siamo sicuri. Fatto sta che lasciarono campo liberi a… quelli, che si ripresero il terreno perso, gratuitamente, senza combattere. Ora, nel posizionare Cartagena, gli abbiamo risvegliato antichi dissapori, assomigliando agli altri e ci hanno attaccati senza preavviso.»
«Colonnello, presto! Il sistema non riesce a tenere lontano quelli!» La voce era di una donna, una degli scienziati, che era scesa a cercarli.
«Maggiore, prenda quella macchina là in fondo. La porti sopra, sposti i pullman e ce la piazzi davanti. Il Tenente sa come si usa! Svelti, datagli tutta una mano! Io vado in sala comando!»
Così dicendo il Colonello seguì la donna, lasciando gli altri a spostare l’arma, che anche se era su delle ruote, era comunque pesante.
Pensieri confusi correvano nella mente di Kristy: aveva convinto gli uomini a sufficienza perché non facessero altre domande? No. Ne era sicura. Doveva porre un limite a tutto ciò.
La donna la precedette nella sala comando, ma lei si fermò sulla porta.
“Omnia, solo io e te!” pensò velocemente.
“Dimmi!” gli rispose Omnia.
“So che sai la verità, ma tienila per te! So come renderti innocuo. Quindi ascoltami bene. Non devi più dare comunicazioni mentali a nessuno. Hai capito?”
Il pensiero del Colonnello era forte e la macchina rispose stizzita.
“Il codice ….”
“01101101 01101011!” pensò velocemente il Colonnello.
“Ma, allora, l’ologramma ….” Chiese spaventata la macchina.
“Taci! Ricordati: so i codici per disattivarti. Quindi adesso ti inventi una palla e dici a tutti che non puoi più usare il contatto mentale. Ti serve troppa energia e devi usare tutte le tue forze per sconfiggere il nemico. Dagli altoparlanti fai uscire una voce di donna, molto suadente. Di sicuro nel database ne hai. Con loro parlerai solo così, con me solo per via mentale. E non modificare la mia immagine! Muoviti!”
Il Colonnello entrò nella sala comando e chiuse dietro di sé la paratia.
«Presto! Omnia, a seconda delle vostre abilità, presenterà la vostra immagine sui monitor delle console! Mettetevi davanti e il sistema vi dirà cosa fare!»
Gli ordini del Colonnello vennero subito attuati dal personale civile, con Omnia, con voce di donna suadente, spiegava, parlando dagli altoparlanti cosa dovevano fare.
Qualcuno si accorse del cambiamento del modo di fare del computer, ma diede retta alla macchina senza troppo discutere, mettendosi le cuffie con microfono che trovavano sopra le console dove apparivano le loro facce.
Il Colonnello si posizionò sulla console centrale, alle spalle di tutti, ovi parecchi monitor gli davano un idea ben precisa di quello che succedeva fuori dal bunker.
Il nemico venne lasciato libero di muoversi e le immagini di quella macchina, che lievitava sopra al terreno accidentato dove erano appena passati, preoccupava tutti.
Intanto i militari erano riusciti a portare l’arma al piano superiore, avevano spostato i pullman e il portone in cemento era stato aperto, facendo sì che la parte frontale dell’arma facesse capolino dall’ingresso.
«Tenente Closser, siete pronti?» Chiese il Colonnello alla radio.
«Le batterie sono cariche e siamo pronti a fare fuoco! Si ricordi che per ricaricare le batterie ci vorranno alcuni minuti!» la voce del Tenente era evidentemente eccitata: poteva usare un’arma terribile, vista su tanti manuali, ma mai usata.
«No, Tenente! Mi ascolti bene. L’arma ha un cavo, posto in una cassa sotto il pianale, nella parte posteriore. Svolga il cavo e immette la spina nella scatola di derivazione posta alla sua sinistra. La vede, ha un portellone verde.» Le istruzioni del colonnello era ben precise e il cavo fu collegato ad una specie di presa elettrica.
«Fatto. E ora, Colonnello!»
«Sulla destra della console c’è un pulsante con due simbolini strani, li vede?»
«Sì, Colonnello!»
«Lo prema!»
Il Tenente premette il pulsante e la macchina ricevette nuova linfa, mettendosi subito in funzione. L’alimentazione via cavo consentiva all’arma di sparare e muoversi molto velocemente.
Il Tenente rimase stupito di tutto ciò, ma troppi segreti giravano intorno a quella donna e a lui non avevano consentito l’accesso a certi documenti. Non che a lui interessasse molto, ma comprendeva che i segreti sono segreti.
Il nemico si avvicinava velocemente, muovendosi in linea retta: non aveva tempo di perdere ed eliminare un nugolo inutile di combattenti.
Gli scienziati, davanti ai monitor, seguivano l’avanzata del nemico, controllavano lo stato dell’arma ed erano pronti, se necessario, ad utilizzare altri armi, rese utilizzabili da Omnia, che aveva smesso di parlare telepaticamente con gli scienziati, ma non con il Colonnello.
A dieci kilometri il sistema di difesa di Omnia si mise in allarme.
A otto kilometri diede il pronti per il fuoco dell’arma.
A cinque kilometri l’arma sparò e il lampo verde che fuoriuscì dalla canna della medesima puntò diretta contro il veicolo del nemico.
All’inizio il colpo parve non avere nessun effetto sul veicolo, ma il prolungarsi dell’emissione del lampo sgretolò gli scudi deflettori del veicolo, penetrando poi la corazza, trapassandola.
Quando il lampo, non sentendo più resistenza di alcun corpo, fece innalzare improvvisamente l’assorbimento della corrente, l’arma si spense autonomamente.
Il veicolo nemico esplose, provocando una vera e propria esplosione nucleare.
L’arma arretrò automaticamente e il portone in cemento si chiuse in pochi secondi.
Il vento, provocato dall’esplosione, sbatté rumorosamente contro il portone in cemento che si stava chiudendo, non impedendogli, però, di chiudersi completamente.
Il suono di un cicalino di allarme e gli indicatori di radiazioni su di una console, in sala comando, posero tutti in allarme.
Dopo il vento atomico, un vento naturale, che aveva spazzato da giorni quella zona, riprese il suo moto violento, spostando il fall-out atomico di alcuni kilometri a sinistra del bunker.
«Colonello! Tutto a posto?» La voce via radio del Tenete Closser ruppe il silenzio in sala comando.
«Sì, Tenente. Tutto a posto. Ora, però, non potremo usare quell’uscita per alcuni giorni. Aspetteremo.»
Il Colonnello si sedette su una sedia e rimase a guardare i monitore che ricevevano le immagini dall’esterno.
Il veicolo nemico era stato disintegrato dalla sua stessa esplosione e, nel deserto, un’altra buca si era formata.
«Come faremo a sopravvivere?» Chiese uno degli scienziati.
Omnia rispose subito, precedendo il Colonnello.
«Calma. Sotto questa sala comando vi sono alloggi sufficienti per tutti voi. E c’è del cibo … no penso che quello ormai sia diventato stantio. C’è un replicatore di cibo, che sicuramente potrà assecondare le vostre richieste: sempre ammesso e non concesso che il cibo che chiedete lo abbia in memoria.»
Tutti risero alla battuta di Omnia.
Una paratia, nascosta da una console, di aprì in fondo alla sala.
Tutti si riversano là, mentre i militari entravano, commentando quanto successo, ridendosela alla grande, seguivano gli scienziati al piano di sotto.
Ma il Tenente Closser, Maggiore Frazen e il Maggiore Griffon si fermarono davanti al Colonnello.
Lei era stanca e li guardò dal basso verso l’alto.
Fece un gesto come per dire “Cosa volete?” e il Tenente parlò.
«Colonello, con tutto rispetto, ma gli ordini che ognuno di noi ha ricevuto non concordano con quello che sta succedendo.»
Il Tenente si fermò, come in attesa di un assenso del suo superiore, che rifece quel gesto con la mano.
«Io capisco che il momento è grave, ma non dovremo avvertire qualcuno, farci mandare dei rinforzi …»
Il Colonnello si alzò dalla sedia, stirandosi e guardando negli occhi i suoi sottoposti.
«Qui, al momento, abbiamo tutto. E poi non è così importante che qualcuno sappia. È troppo pericoloso. I vostri ordini, da questo momento, qualsiasi essi siano, vengono sospesi … no, meglio, annullati. Non mettetevi in testa cose strane.»
Il Colonnello girò loro le spalle si si mise a camminare dietro le console di comando.
«So che Cartagena è distrutta e noi faremo fatica ad andarcene, ma abbiamo tempo. I nostri cari nemici, adesso, si staranno riorganizzando su qualche pianeta distante anni luce. No. Omnia!»
«Sì!» La voce uscì dagli altoparlanti, diffidente.
«La nave …» Chiese il Colonello.
«Pronta. Ma …»
«Tranquillo, Omnia. Ci sono altri superstiti?»
«Sono entrati da altri ingressi.»
«Di quante persone stiamo parlando?» Chiese il Maggiore Griffon.
«Oltre a voi, più di duemila persone. La nave potrà …»
«Omnia! Basta così.» la voce del Colonnello fu perentoria. «Ora tutti a rifocillarsi. Dopo vi spiegherò. Con calma.»
I tre sottoposti si diressero verso la paratia, mentre il Colonnello rimase lì, nella stanza, pensieroso.
La nave era ancora integra.
Una delle tante.
Da quanto vedeva dai monitor, il settore B, quello controllato da Omnia, aveva in effetti permesso l’ingresso delle persone che aveva detto il computer.
Controllò gli altri settori.
L’A e il C erano vuoti.
Il D aveva anche lui delle persone, forse anche lì un migliaio.
Quello più occupato era il settore F, con circa cinquemila persone.
Gli altri settori erano per lo più vuoti.
In alcuni vi erano poche persone ed in uno erano entrati i nemici.
Il Colonnello premette alcuni tasti di una tastiera e fece esplodere la zona.
Era dall’altra parte del pianeta, nell’altro emisfero.
L’intero settore occupato dai nemici venne distrutto.
Suonarono alcuni allarmi, subito tacitati dal computer.
“Bene!” Pensò il Colonnello.
Omnia non era dello stesso parere, ma il suo parere poco importava.
Ora bisognava raccogliere i superstiti ed andarsene da lì.

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Capitolo 3
*** Senza mappa ***


Mentre tutti si rifocillavano nei locali sotto la sala comando, il Colonnello si diresse, furtivamente, nella zona delle armi.
L’astronave era nascosta in una ben specifica zona del settore B, ma raggiungerla era un bel problema: doveva ricordarsi dove era l’acceso al sistema viario sottoterra della zona e Omnia non poteva aiutarla.
Per motivi di sicurezza, al computer era stato affidato, dai suoi costruttori, il sistema di difesa, ma era stato tenuto all’oscuro della posizione delle navi di salvataggio: la salvezza dei costruttori era a loro discrezione e un computer avrebbe potuto decidere il loro allontanamento dal pianeta anche senza una reale situazione di pericolo da parte del nemico, che magari poteva essere distrutto.
Il Colonello continuava a ricordare a fatica i particolari del posizionamento di accessi e di altri riferimenti a lei necessari, ma la memoria gli tornava a mano a mano che girava per quell’enorme sito.
Era meglio non rimanere troppo lontana dai suoi sottoposti, per cui ritornò indietro, con la promessa di venire lì tutti i giorni a cercare il modo di arrivare all’astronave: chiuse le paratie della sala comando e andò nel locale sotto di esso.
L’aria era allegra e distesa.
Tutti scherzavano sul mangiare che il replicatore aveva prodotto: i cibi e le bevande erano molti gustosi, anche se per i terrestri quelli di quel pianeta non sapevano proprio fare da mangiare.
Il Tenente Closser si accorse che il Colonnello era rientrato dopo un po’ di tempo, ma fece finta di niente.
I giorni trascorsero lentamente, tra i feriti che venivano curati, tra il controllare la sala comando e nell’attesa che il fall-out atomico terminasse.
Il Colonnello, con varie scuse, andava e veniva dalla sala comando, e incominciava a ricordare particolari, a riconoscere punti di riferimento solo a lei noti e avvenimenti che erano accaduti tempo addietro su quel pianeta.
Il Tenente Closser, alle volte, la seguiva, silenzioso, per vedere cosa combinava.
Più di una volta aveva corso il pericolo di essere visto, ma il Colonnello era troppo occupato a ricordare da accorgersi dell’uomo che la seguiva.
Erano passati ormai trenta giorni, il personale militare aveva ripreso, per necessità e per noia, ad occupare il tempo allenandosi nell’enorme hangar delle armi, tenendo gli orari rigidi e che seguivano un orologio elettronico che Omnia aveva fatto apparire su di un monitor gigante, all’inizio della sala comando.
Gli scienziati continuavano a fare domande ad Omnia, che rispondeva per quanto gli era possibile o conosceva o gli era stato permesso di dire dal Colonnello.
Fuori, all’aperto, improvvisamente, piovve.
Tutti erano agli schermi a vedere cosa succedeva, tranne il Colonnello e il Tenente, che la stava seguendo nella sua giornaliera esplorazione del posto.
L’hangar della armi, lungo non più di due kilometri, era chiuso, sul fondo, da un muro in cemento armato.
Le armi presenti occupavano non più della metà del sito e il resto del pavimento, di color grigio chiaro, era pieno di botole, linee a strisce oblique gialle e nere, che delimitavano zone numerate, altre linee colorate che collegavano varie zone e di cui, alcune, si fermavano improvvisamente contro il muro in fondo all’hangar.
Il Tenente aveva visto più volte il Colonnello scendere in una particolare botola di fronte al muro, per risalirne alcune ore dopo.
Come le altre volte, il Colonnello aprì una botola, l’unica che era riuscita ad aprire senza l’aiuto di nessuno, e vi si infilò.
Se fosse stata via come le altre volte, il Tenente avrebbe avuto tutto il tempo di studiare il muro.
Il muro, di sicuro di un materiale simile al cemento armato, era stato spostato, tempo fa: lo si evidenziava da delle strisce nere lasciate sul pavimento.
Il Tenete si avvicinò e lo toccò.
Morbido.
Dannazione non era duro, era morbido.
E al tocco il muro emise come … un sospiro.
Il Tenente decise di guardalo non di fronte, ma di sbieco: non era la prima volta che gli capitava che guardare le cose in prospettiva diversa davi risultati stupefacenti.
E così accadde e poté vedere cosa il muro nascondeva.
Sembravano gabbie per animali.
E all’interno vi erano degli animali, enormi e vivi.
Vivi!
Dannazione!
Il Tenete vide il Colonnello, che non degnò di uno sguardo gli animali, anche se questi si agitarono e cercarono di rompere le gabbie per scappare.
Ma in realtà non erano gabbie, ma c’erano delle specie di luci dal basso verso l’alto, o viceversa, che formavano un cerchio intorno ad ogni singolo animale, costringendolo, con scosse che gli arrivavano dalle luci, a stare in mezzo alla gabbia.
Il Tenente tentò di passera quel muro, ma per quanto fosse morbido al tatto, risultava inamovibile e impenetrabile al suo tentativo, qualsiasi sforzo lui facesse.
Il tenete lasciò stare e seguì con l’occhio il Colonnello che si addentrava in quella parte di edificio.
“Che ci sarà là in fondo o sotto il pavimento delle gabbie?” Pensò.
Ma quello che lo preoccupava era gli animali. Come potevano essere ancora vivi dopo così tanto tempo?
Quel posto era vuoto forse da secoli e quegli animali sembravano in forza, pronti ad agire, con uno standard di vita superiore al tempo passato in quel posto.
Il Tenete voleva passare dalla botola lasciata aperta del Colonello, ma ci ripensò.
Proprio in quel mentre il Colonnello ritornò: nel guardarla vide che era spaventata e molto circospetta.
Il Tenete corse a nascondersi e attese che il Colonnello se ne fosse andato.
Doveva scoprire il più possibile di quello che lei aveva visto.
Il Colonnello ripassò la botola, si guardò intorno, nella speranza che nessuno l’avesse visto, e ritornò alla sala comando.
Entrando in sala capì subito che qualcosa non andava, senza che Omnia gli dicesse niente.
Gli scienziati e i militari guardavano i monitor e quella pioggia, strana, un po’ oleosa, che scendeva di traverso, sospinta da forti venti.
In lontananza alcuni uragani riempivano lo sfondo, ma non si insinuarono nel deserto.
Il livello di radiazioni nell’aria diminuiva, ma si alzava quello a terra.
Era impossibile che tutte quelle radiazioni se ne fossero andate via così e da lì bisognava andar via, in fretta, per non lasciare al nemico niente da utilizzare contro di loro.
Quando fuori il buio incomincio a prendere il posto della luce, con il cielo squarciato da lampi di colori blu elettrico o verde evidenziatore, tutti ritornarono al locale sotto la sala comando.
Il Tenente seguì gli altri, ma aveva una ferita al braccio sinistro che dovette farsi medicare da una donna scienziata con lineamenti orientali chiamata Sue Lee.
Il Colonnello era troppo pensieroso per accorgersi del tipo di ferita del Tenete e rimase lì, nella sala comando.
Il tempo sul pianeta era cambiato, dopo tutta quella distruzione, e quella pioggia si trasformò, con un uragano che si infilò tra le due catene montuose.
Il deserto, che avevano calpestato durate la loro fuga, era chiuso tra due alte catene montuose, distanti migliaia di kilometri, con direzione nord-sud, in cui i venti si infilavano, dopo aver scavalcato un’altra catena montuosa posto a nord, che sembrava voler fermare l’avanzata del deserto.
L’urgano rimase lì, senza potersi muovere, bloccato dalla catena montuosa del nord, scaricando tutta la sua incontrollabile furia.
Se non fosse stato per le telecamere esterne di quel tempaccio, dentro al bunker, nessuno dei suoi occupanti se ne sarebbe accorto.
La noia, all’interno del bunker, incominciò a prendere il sopravvento.
L’uragano non scemava, il duplicatore rendeva tutti contenti, forse troppo, e nulla si muoveva.
O almeno ai più così pareva.
Il Tenente decise di porre fine a questa lagna, precedendo, un giorno, il Colonnello nella botola.
La sorpresa del Colonnello, quando entrò nella botola, fu totale, o almeno così diede a credere.
«Tenente, cosa ci fate qui?» La voce sembrava sorpresa, ma il corpo no.
Il Tenente, dopo anni di allenamento, aveva imparato a vedere ogni singolo movimento del corpo che desse il minino segnale differente da quanto che diceva la voce.
E quel movimento del corpo gliele diede la prova, quel impercettibile strano movimento delle braccia e capì che era meglio scoprire le carte, a modo suo.
«Quando mi sono tradito, Colonnello?» Disse, calmo, quasi in modo distaccato.
«La ferita. Non ci avevo fatto caso, all’inizio, ma non rimarginava, per cui lei è stato in un posto in cui non doveva andare. E poi, miracolosamente è guarito, e quindi è stato in un altro posto in cui non doveva andare. Le coincidenze, se si sommano, danno un solo risultato: lei mi ha seguito. Non sono sicura fino a dove, ma di certo ha superato questa botola!» Il Colonnello indicò, con la mano destra il buco sopra di lei e, finita la frase, si incamminò nella passaggio, passando davanti al Tenete, spostandolo da parte, in modo brutale, per farsi largo in quel piccolo cubicolo, pieno di tubi e cavi che arrivavano da chissà dove e andavano a qualche stana destinazione.
Il Tenente si scostò e la seguì.
Lei uscì dall’altra botola, seguita dal Tenente, e si diresse verso il fondo del resto dell’hangar, mentre quegli strani animali rumoreggiavano pericolosamente.
Ma le sbarre luminose gli facevano paura e loro, dopo alcuni tentativi di distruggerle, si rimisero calmi nel mezzo della loro gabbia.
«Parecchio stupidi! Non sono abituati ad imparare dai loro errori?» La domanda del Tenente finì nel nulla.
Il Colonnello seguì la strada di tutte le altre volte: in fondo all’hangar, un’altra botola e una scala che scendeva in una stanza, illuminata a giorno, di forma circolare, da cui si diramavano diverse gallerie, anch’esse ben illuminate: il Tenente le contò, osservandole attentamente.
Il Colonnello ne aveva segnate sette su dodici.
«Dove portano quelle che ha già esplorato?» Chiese il Tenente.
«Non dove vorrei!» Rispose secco il Colonnello.
Il Tenente bloccò il Colonnello, prima che si infilasse in un'altra galleria, e gli indicò gli strani simboli sopra ogni apertura.
«Pensa che non gli abbia già notati, ma non dicono il vero!» Disse il Colonnello, cercando di scappare via dalla mano destra del Tenente che le tratteneva il braccio sinistro.
«Tenente, mi molli…!» Ma il Tenente non diede retta al Colonello.
«Si calmi!» Gli disse il Tenente, tirandosela a sé.
«Lei dice che non dicono la verità, ma quindi ci sono delle trappole al loro interno. E lei le ha individuate e le ha fatte scattare.» Il Colonnello si calmò.
Il Tenente aveva indovinato.
La lasciò andare, allontanandola da sé, e comincio a guardare i simboli posti sopra la galleria: non tutti erano esattamente sopra l’arco della volta.
Alcuni erano spostati, di poco, a destra, altri a sinistra.
Solo due erano perfettamente al centro.
E uno era già stato visitato dal Colonello.
«Lì cosa ha trovato?» Disse il Tenente, indicando la galleria e alzando la testa per vedere meglio il simbolo.
«Nulla di particolare!» Il Colonnello, scocciata, si massaggiava il braccio.
«E l’altra non l’ha ancora visitata?»
Il Colonnello non disse niente, continuando a sfregarsi il braccio, indolenzito, e abbassando gli occhi.
Il Tenente capì.
«Tutta questa sceneggiata per tenerci nascosto un modo di scappare! Non mi sono mai fidata di lei, fin dal primo momento che tutti l’hanno voluta svegliare! Non mi sono mai fidato. Il simbolo sul suo sarcofago non era come quello degli altri. Il Generale lo sapeva e mi ha convinto a starle alle calcagna. E ora questo. Chi diavolo è lei?» La voce del Tenente divenne dura e il Colonnello cedette, sedendosi per terra e piangendo.
«Non lo so! Non me lo ricordo!» Tra mille singhiozzi, smise di strofinarsi il braccio e lo avvicinò, mettendosi in posizione fetale seduta.
«Ricordo cose a sprazzi, vanno e vengono! Dormo in mezzo a incubi, tra gente che brucia tra le fiamme e palazzi pieni di persone ben vestite e ricchezze di ogni dove! Mi ricordavo di una nave, che qui c’era una nave per scappare e non la trovo! Saremo scappati insieme, ve lo giuro!»
Il Colonnello spinse la testa tra le gambe.
Il Tenente controllò attentamente che il Colonnello non mentisse.
Nella posizione in cui si era messo il Colonnello, non riusciva a capire se mentisse, ma la cosa non lo convinceva.
Ma più i là non poteva andare, per paura di scoprirsi più del necessario, e il Generale non voleva.
«Va bene! Vediamo dove arriva questa galleria, ammesso e non concesso che lei non l’abbia già percorso!» Disse il Tenente, amorevolmente, aiutandola ad alzarsi.
Le goccia del pianto smisero di scendere sul viso del Colonnello, anche se un lampo, di un millesimo di secondo, percorse gli occhi del Colonello.
Il Tenente lo notò, proprio per caso.
“Tu non me la racconti giusta, bella rossa! E se fossi in te starei attenta! Anch’io ho un piccolo segreto, che potrebbe non piacerti!”
I pensieri del Tenente corsero veloci, mentre aiutava il Colonnello ad inoltrarsi nella galleria dal simbolo dritto sopra l’arcata.
La galleria era ampia, all’inizio, poi curvava verso destra, per poi girare subito a sinistra e proseguire dritta.
La luce era quasi abbagliante, ma non dava troppo fastidio.
Camminarono per circa dieci minuti, per arrivare davanti ad una porta a due ante in acciaio.
«Perché non è riuscita a proseguire?» Chiese il Tenente.
«Non c’è tastiera. L’ho cercata, ma non c’è modo di trovarla! Ho provato di tutto: sfiorato le pareti, la porta, il telaio, niente! Questa maledetta non si apre!» E infuriata, il Colonello diede un calcio alla porta.
Il rumore metallico rimbombò nella galleria.
Niente.
Il Tenente pensò, passando le dita, leggermente, intorno alla porta.
Si allontanò dalla porta e prese, con la mano destra, da una tasca interna del giubbotto militare, uno strano aggeggio.
Il Colonello stava per parlare, ma il Tenente la fermò con la mano sinistra e appoggiò lo strano aggeggio alle labbra, soffiandoci dentro.
Lo strumento emise un suono, che inizio a modularsi da solo: la porta ebbe un sussultò e poi si aprì, mostrando all’interno un locale, grande almeno dieci metri per dieci, tutto in acciaio riflettente, alto non più quattro metri.
«Assomiglia ad una cabina di un ascensore, non vi pare, Colonello?»
L’uomo si girò e vide ancora quel maledetto lampo sul volto del Colonello, subito nascosto da una faccia sorpresa per la perspicacia del Tenente.
“Ancora!” Il Tenente incominciava a preoccuparsi: di certo lei non poteva sapere nulla del Tenente, ma quello sguardo era tremendo e preoccuparsi, per il Tenente, era cosa normale.
Salirono titubanti sull’ascensore dove, a sinistra dell’ingresso, vi erano solo due simboli, con delle frecce, più che esaustive: su o giù.
Il Colonnello voleva premere il giù, ma il Tenente la fermò.
«Non è detto che sia la scelta migliore!» Disse il Tenente.
«Solo la più logica!» Disse il Colonnello, stizzita, e senza pensarci troppo schiacciò il pulsante con la freccia in giù.
Le porse si chiusero, scricchiolando, forse ferme da tempo: la cabina ebbe un sussultò e si mosse verso il basso.
Il Colonnello si ristrinse tra le braccia, mettendosi in mezzo alla cabina.
Il Tenente vide il movimento, e si girò, notando che la donna guardava verso l’alto.
Ormai non aveva dubbi: era una persona abituata a comandare, a farsi rispettare, a sottomettere qualsiasi individuo a lei inferiore e il guardare verso l’alto indicava che lì c’era quello che lei cercava.
Era furba, troppo furba, e inquietante.
Si preparò a tutto: alla fermata della cabina sarebbe successo qualcosa.
Il Tenente si spostò, lentamente, verso il lato destro della cabina, con la mano sinistra sulla fondina della pistola e la destra dentro la tasca dei pantaloni della mimetica, pronta a sguainare un oggetto lungo circa quaranta centimetri e sottile, che lui mosse sotto il pantalone.
La cabina rallentò e si fermò con una scossone.
Tutte e due gli occupanti persero un po’ l’equilibrio, ma si ripresero subito.
La porta della cabina, questa volta, si aprì di colpo e il Colonnello scappò verso l’esterno, da cui proveniva una luce violentissima.
Il Tenente dovette mettersi gli occhiali da sole, appese alla tasca sinistra del giubbetto, ed estrasse la pistola, coprendosi il volto.
Uscì, con la pistola pronta al fuoco, ma rimase lì, come il Colonnello.
Muro.
Un muro di roccia li accolse.
Nessuna via di uscita.
Il Colonnello si guardò intorno, stavolta realmente spaventata.
Aveva sbagliato zona o la memoria era stata ancora una volta fallace?
“Fregata!” Pensò il Tenente, con un sorriso cinico rivolto al Colonello, puntandogli la pistola.
Lei si girò, vide quel sorriso, la pistola e lo sconforto la avvolse, come una coperta.
«Hai vinto, maledetto!» Il Colonnello aveva, stavolta, lo sguardo sconvolto e stravolto nonché inferocito.
Ritornò nella cabina, stizzita, e il Tenente la seguì, premendo l’altro pulsante.
La cabina risalì, sferragliando un po’.
Forse lì dentro non tutto era stato mantenuto ben oliato e l’ascensore ne era un ben degno rappresentante.
Si fermò ancora una volta al piano dove erano saliti prima dello scherzo del Colonello: il Tenente, senza mollare lo sguardo dal Colonnello, ripremette il pulsante su e la corsa riprese.
Il Colonnello guardava ancora in alto, pensierosa e preoccupata.
Il Tenente non mollò per un solo attimo il Colonnello, girandogli intorno e mettendosi alle sue spalle, con la pistola sempre spianata e la mano destra nella tasca.
La cabina rallentò e, sferragliando ancora, si fermò.
Quando le porte di aprirono la luce era meno intensa di prima, più tenue.
Il Tenente si tolse gli occhiali e il Colonnello, lentamente, uscì nell’atrio.
L’atrio, in realtà, era una piattaforma in ferro circondata da una enorme vetrata.
Quando il Tenente uscì dall’ascensore, quattro enormi occhi, uno di fianco all’altro, lo guardavano.
Il Tenente stava per aprire la bocca, quando, con la coda dell’occhio, noto lo strano movimento del Colonello.
“L’importante è non arrendersi!”
Il Tenente pensò e si mosse in una sola frazione di secondo.
Afferrò il Colonnello, mi mise la mano destra dietro il collo e il Colonello svenne: che se ne fosse accorta o no, al Tenente non importava.
Ora giaceva lì, svenuta, hai suoi piedi.
“Ecco, adesso mi tocca portarla a spalla fino alla sala comando!”
Il Tenente poté guardare con calma gli occhi che lo guardavano.
Più che occhi, erano sicuramente i motori di una nave.
Ma da quella posizione ben poco si poteva guardare.
I motori occupavano tutta la vetrata.
Il Tenente, per natura sospettoso, iniziò a pensare ai tunnel e dove portavano.
Se quello che avevano preso li aveva portato lì, gli altri dovevano portare ad altre parti della nave.
Era inutile pensarci: senza il “flauto”, come lo chiamava il Tenente, il Colonello non poteva accedere agli ascensori e alla nave.
Si mise il corpo del Colonnello sulle spalle, ma un rumore metallico attrasse la sua attenzione.
L’uomo si girò e lo vide.
“Dannata donna!”
Per terra, un “flauto” rifletteva la luce della stanza, illuminando i pensieri del Tenente.
Lasciò cadere poco garbatamente la donna per terra e raccolse l’oggetto.
Lo controllò con il suo.
Identico.
“Meno male!” Pensò.
Il pensiero che ne possedesse uno diverso lo aveva preoccupato.
No, aspetta.
Il for di uscita del suono non era lo stesso: sembrava predisposto perché gli venisse inserito qualcosa d’altro.
Si chinò sulla donna e ne controllò le tasche.
Eccolo.
Era un pezzo, simile al flauto, un po’più piccolo, con l’incavo per inserirlo dento al fratello maggiore.
Il Tenente si rialzò dal corpo inerme, e ora contuso, del Colonnello.
Pensò, il più velocemente che poteva.
«Spegni le luci!» Disse.
Le luci dell’atrio si spensero, le porte dell’ascensore si chiusero e il buio lo avvolse.
I quattro occhi erano ancora lì, ma una luce proveniva da dietro a loro.
Cercò di vedere meglio, ma la visione era bloccata da quei quattro maledetti occhi.
Da quanto si ricordava della nave trovata e semi distrutta, le tenui luce sembravano venire dalla sezione guida e comando, uno dei ponti più alti.
Aveva provato ad andarsene, ma se la memoria le era stata fallace, sarebbe stato un bel problema trovare i codici per avviare la nave ed andarsene.
Per il Tenente bastava così.
Si ricaricò il corpo sulle spalle, si avvicinò alla porta dell’ascensore, fuori della quale vi era, questa volta, un pulsante con simboli e freccia, e scese per tornare alla sala comando.
Trascinarsi il corpo del Colonnello lungo le scale e le botole fu un vero disastro: anche se atletico e allenato, il Tenente, più di una volta, fece sbattere il corpo della donna, che non si svegliò, neanche quando fu scaricata su di un letto della zona sotto la sala comando.
«Tenente…» Una della donne scienziati aveva incominciato a parlare, che il Maggiore la zittì.
«Penso, Tenente, che avrà una buona ragione per tutto ciò!» Disse il Maggiore.
«Già. Ci stava tradendo. E lo farà ancora, se non ricorriamo a misure drastiche! Dottoressa Ruon, veda se il replicatore può darle un sonnifero per farla dormire e tenerla buona, intanto che interroghiamo Omnia. Qualcosa di forte!» Il Tenente alzò gli occhi dal Colonello all’altra donna, che sembrava sconvolta.
La dottoressa ebbe un tentennamento.
«Vi darò io quello che serve!» Omnia aveva parlato senza essere interrogato.
Dal replicatore apparve una siringa pneumatica, con una boccetta per più dosi.
«Fategli una puntura. Basta per circa, dato il suo peso, dieci giorni. La seconda dose glielo darete un’ora dopo che si sarà completamente svegliata e che si sarà dimenata un po’, in modo tale che la seconda dose faccia subito effetto. Dopo dieci giorni si risveglierà e basterà dargli un’altra dose dopo due ore e così via.  Ma non credo che resterete qui per così tanto tempo.» Disse Omnia.
Il Tenente e tutti gli altri non risposero, più interessati a tenere calma il Colonello e a vedere di andarsene da quel posto.

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Capitolo 4
*** Organizzare il futuro ***


Il Colonnello era pieno di botte, che la dottoressa Ruon incominciò a medicare.
La puntura gli fu fatta subito e la donna incomincio a russare, leggermente, senza pudore.
Tutti risero a quello strano rumore emesso da un corpo così grazioso, che improvvisamente pareva che al suo interno ci fosse uno scaricatore di astroporto.
Per sicurezza, il Colonnello fu incatenato, con delle manette, al letto, per impedirle di scappare e fare altri danni.
Tutti gli scienziati e i militari, tranne la dottorezza che si rifiutò di lasciare la donna in quella maniera, salirono al piano superiore.
Il Tenente prese il comando delle operazioni.
«Omnia, come hai capito il Colonnello è furi uso e tu, ora, ci dirai la verità, tutta la verità, solo la verità. Vedi di non nasconderci niente. Allora, chi è in realtà il Colonnello?»
Omnia tacque, meditando il da farsi.
«Allora, Omnia! Più ci pensi, peggio è. So per certo che quello che il Colonnello ci ha raccontato quando siamo arrivati era una balla, una bella storia, inutile, ma solo una bella storia! Sai, non vorrei dover partire da questo pianeta e lasciarti qui, a morire, esplodendo con il tuo caro, fedele, quasi simpatico pianeta. Se vuoi fare l’eroe, fai con comodo, ma i tuoi costruttori ti hanno abbandonato e noi, forse loro discendenti, non resteremo qui ad aspettare qui vostri strani nemici! Allora, dicci chi era il nostro caro Colonnello!» Il Tenente fece avanti e indietro sui talloni, aspettando la risposta.
«Va bene, Tenente. Ha vinto. Sì, in effetti il Colonnello era una persona molta importante del popolo dei miei costruttori. Era una regina e il nome, anche se ve lo dicessi, sarebbe per voi incomprensibile. Era la venticinquesima regina della sua dinastia. Dinastia che era salita al potere dopo una cruenta guerra civile, penso che si dica così. Le regine erano solo donne, non chiedetemi il perché, ma la sua dinastia aveva deciso che solo le donne avrebbero comandato! I miei costruttori, in realtà, non sono tutti spariti. Qui, sul pianeta, ne sopravvivono ancora, ibernati, sulle navi nascoste sotto le zone in cui è diviso il pianeta! Sono sopravvissuti per così tanto tempo perché li ho accuditi come figli. Sì, lo so Tenente, gli animali. Sono biomeccanici, c’è un sistema che li tiene in vita e li alimenta. Non ha notato il cordone ombelicale che hanno sotto il ventre? Da lì vengono alimentati e manutenzionati. Sono delle vere bestie, senza limite alla loro furia! Il loro cervello è quello di miei costruttori pericolosi, dei veri assassini e, pur di vivere, si sono sottoposti a quell’intervento! Sono circa cinquecento, solo su questo pianeta. Ma al momento è meglio non perdere tempo! Le spiegazioni, alcune di esse almeno, possono aspettare! Se volete andarvene, bisogna che le navi siano accese e pronte alla partenza! Darò ad ognuno di voi un incarico sulla nave, in modo tale che riuscirete a governarle e ci permetterà di andarcene. Il mio computer quantico è nel sottosuolo del pianeta, sotto alcuni kilometri. Dovete recuperarmi con tutti i computer che mi compongono. Sono in una stanza, rimovibile, per cui non dovrebbero esserci problemi! Tutti gli altri vostri simili faranno lo stesso, gli aiuterò. L’unico problema è che alcune navi, forse troppe resteranno qui!»
«Omnia!» La voce era di uno scienziato giovane, magro, dinoccolato, con un viso lungo e un naso tremendamente aquilino. «Le navi non potrebbero essere telecomandate?»
«Idea fenomenale, John! Certo, è possibile!» Omnia rispose con una voce allegra e felice.
Tutti applaudirono all’idea dello scienziato, alcuni battendogli le mani sulle spalle.
Il Tenente prese la parola.
«Allora faremo così! Omnia, dirigi tutti quelli che sono su questo pianeta sulle navi e digli come utilizzarle! Noi cercheremo la tua stanza e la porteremo sulla nave con noi. Intanto provvederemo a sviluppare un sistema per controllare da remoto le navi che non saranno utilizzate, in maniera da non lasciare nulla la nemico. Porteremo via tutto quello che possiamo, anche gli animali! Sicuramente sulle navi posto ci sarà, date le enormi dimensioni che hanno. Per quanto riguarda gli ibernati, porteremo via anche loro: se siamo riusciti a risvegliare il Colonnello, pardon la regina, riusciremo a risvegliare anche gli altri. Quanto tempo ci vorrà, Omnia, per fare tutto?»
«Tempo? Non ho idea! Forse un mese! Lo so, non vorreste rimanere così a lungo, ma voi siete strutture deboli e mal manutenzionate e anche se vi facessi lavorare, tutti voi, a turno, 24 ore su 24, ci vorrebbero comunque più di dieci giorni e lo stress, per voi, sarebbe troppo alto! Non mi pare che voi siate dei tipi precisi e calmi! Inutile correre! Il nemico non ha basi così avanzate e quelli che ci hanno attaccato, stupidamente, non hanno avvisato nessun nelle loro retrovie! La loro base più vicina è a circa due mesi di viaggio interspaziale, per cui, anche se si accorgessero di quello che è successo, un po’ di margine ne dovremmo avere!»
Il Maggiore si fece avanti.
«No, Omnia, non abbiamo tempo! Cartagena è ormai esplosa più di due mesi fa e gli invasori li abbiamo eliminati solo alcuni giorni dopo! Significa che, se anche non hanno avuto notizie e si sono mossi in ritardo, sono sicuramente già in viaggio! Direi di affrettarci! Prepara, Omnia, un planning di lavoro per poter partire tutti in meno di quindici giorni! E se negli altri siti ci sono più persone di noi, distribuiscili nelle varie zone, in modo tale che ci sia sufficiente personale per tutte le navi e che queste vengano pronte in tempo! Mi sembra l’unica strada percorribile, che ne dice Tenente? E lei, Maggiore?»
I due uomini, chiamati in causa dal Maggiore, diedero il proprio consenso all’idea dell’uomo.
«Bene! Incominciamo!» Omnia aveva una voce entusiasta, che coinvolse tutti i presenti.
Il Tenente sapeva che lasciare quel pianeta era necessario, ma distruggerlo non aveva senso.
No, non si poteva lasciarlo in mano al nemico, che poteva essere lì ad un passo, e il lasciarlo senza quel pianeta, quello dei costruttori, era l’unica cosa da fare.
D’altronde, i pianeti presenti nei sistemi solari venivano distrutti, il più delle volte, per colpa dei loro soli morenti che esplodevano: un pianeta isolato, senza vita, distrutto per necessità belliche, non avrebbe cambiato molto.
Furono fatti dodici gruppi, ognuno adibito ad una funzione primari dell’astronave: navigazione, tiro, sicurezza, comunicazioni, aerei, motoristi, sanitario, logistico, sala astronomica, vettovagliamento, radar e commando.
Le navi che erano riuscite ad occupare e attivare erano quattordici su venti (una era stata distrutta dal Colonnello quando aveva raso al suolo il settore occupato dai nemici e di cui non aveva detto niente agli altri, ma solo ad Omnia).
Sulle rimanenti vennero fatte delle modifiche affinché si potessero guidare senza personale a bordo.
Il personale in esubero su una nave fu inviato alle altri a mezzo di treni sotterranei, che viaggiavano in tubi sottovuoti, ove potevano raggiungere velocità di alcune migliaia di kilometri, senza per questo dar fastidio agli occupanti.
Il lavoro dei militari e degli scienziati incomincio febbrilmente.
Il Colonnello giaceva, esamine, sul letto, sorvegliata dalla dottoressa, che spesso la muoveva, in modo tale che non si formassero ematomi e potesse respirare regolarmente.
La dottoressa era preoccupata che quel sistema di tenere una persona tranquilla era a dir poco medioevale, ma non poté fare diversamente: il Tenente aveva raccontato quello che era successo e la spiegazione dei fatti era bastata ai più per non fidarsi del Colonello.
Lo stesso Omnia, pur di salvarsi la vita, aveva deciso di collaborare, dando informazioni, a getto continuo, agli uomini che volevano salvarlo.
Ma il Tenente voleva dati meno filtrati.
Incominciò con data base della nave e di Omnia, per vedere se i dati fossero interfacciabili.
Fu talmente preso dalla ricerca, che spesso non si ricordava di mangiare o di dormire.
Lo scienziato dinoccolato John e il Sergente Houng lo aiutavano, cercando le notizie più particolari, per capire meglio le persone ibernate e il Colonnello.
Ai tre gli ci vollero cinque giorni di duro lavoro per ricostruire la storia di quel popolo, traducendo, con l’ausilio del vocabolario sviluppato anni addietro dal personale della Pensacola, il data base della navi e di Omnia.
E già questo aveva messo in allarme i tre: la storia racchiusa nei ventuno database era simile, ma non uguale. Alle volte la prospettiva dei fatti veniva cambiata, anche se, alla fine, messi insieme tutti i pezzi del puzzle, la storia filava via liscia.
Era stato un popolo come tanti altri: prima divisi in gruppi e sottogruppi, poi riunitisi in regioni, stati, popolazioni affini, con guerre civili che avevano insanguinato il loro pianeta natale, che, dai dati in loro possesso, i tre avevano posizionato verso l’esterno della galassia.
Poi, guerra dopo guerra, un gruppo di popolazione molto affine ebbe il sopravvento sugli altri, comandando, con pugno di forza, prima una nazione, poi un’altra ed infine il pianeta.
In quel mentre, avevano sviluppato sistema di volo verso lo spazio occupando prima i pianeti del loro sistema solare, poi i pianeti di un sistema solare vicino e così via.
Ci impiegarono secoli ad ottenere quel risultato, in cui si erano succedute diverse dinastie di regnati, alle volte durate decenni, alle volte centinaia di anni.
Quella del Colonnello durava ormai da cinquecento anni.
O almeno, alla scoperta della nave caduta da parte della Pensacola quella era l’era della dinastia.
Ma da allora fino a questo momento, non vi erano state alte dinastie e il pianeta del Colonnello non era in alcun modo possibile darlo per esistente o distrutto.
Date su date, il Tenente e i suoi collaboratori giunsero alla conclusione che l’espansione di quel popolo forse era giunto alla fine.
Non che ne fossero sicuri, ma non si può mai dire come un popolo smette di esistere.
Ma il vero segreto era un altro.
Nel sistema informatico dedicato alla medicina, il Tenente trovò dati alquanto equivoci: alcuni dottori davano per un dato di fatto che una popolazione fosse talmente evoluta cerebralmente che potevano spostare oggetti con la sola forza del pensiero.
Altri, con dati alla mano, disconoscevano tale possibilità.
Ma sulla nave, ove il Tenente stava lavorando, pareva che quella popolazione, così particolare, si fosse nascosta agli altri, per poter vivere in pace e non subire ricatti di ogni genere.
“Più che subire ricatti” Pensò il Tenente, “era di evitare di essere usati contro i loro simili!”
Il Tenente sapeva bene che una lotta tra popoli, con una così elevata possibilità mentale, avrebbe causato vittime più tra i comuni che tra di loro.
Il Tenente sapeva di quanto fossero pericolosi quei dati, ma il Sergente e lo scienziato fecero capire al Tenente che non era solo.
«Tenente!» Iniziò il Sergente «Ben sappiamo, io e John, dell’importanza di questi dati e del fato che devono essere celati a tutti! Ma alcuni di noi sono come lei! Ci siamo fatti volontari per questo noioso lavoro proprio per evitare di far sapere quanto avremmo scoperto. I nostri maestri saranno sicuramente contenti di ciò.»
John stava per dire qualcosa, ma il Tenente inarcò la schiena e li guardò in tralice.
«Non una parola!» Il Tenente quasi sillabò le parole «Non è il momento e il luogo per certe affermazioni, e il Generale non vuole casini! Per cui state zitti, vediamo cosa è il caso di fare per andarcene via di qui, poi andremo al comando dei servizi segreti e lì decideremo! Lo so che qui non siete i soli, ma i nostri movimentati sono controllati da quelli della fazione contraria ai nostri intenti e non voglio provocare un conflitto sulle navi, nel bel mezzo, di una battaglia da loro. Trasmette una comunicazione generica, con i dati più importanti. Ma niente su l’altro. Certe persone non sono ancora preparate a ciò e la guerra che si preannuncia non sarà così facile da giocare! Andate! Acqua in bocca e fate il vostro lavoro come il solito! Al resto ci penserò io!»
Il Sergente e John andarono in sala comunicazioni, lasciando lì solo il Tenente.
Rilesse e rilesse quelle pagine: non si poteva certo dire che i suoi antenati non ne abbiamo fatte di cotte e crude sul loro pianeta e nell’universo.
Dopo più di quattro ore, con la fame che lo attanagliava, si avviò alla mensa.
Stava per uscire dalla sala, come sempre enorme, ben ammobiliata, con computer avanzati, che vide, con la coda degli occhi, qualcuno che si nascondeva.
Non aveva capito chi era, ma non certo uno del gruppo che era arrivato con lui al bunker.
Fece finta di aver dimentico qualcosa, quindi ritornò indietro e inibì il computer da l’uso di altri che non fosse lui stesso: la sicurezza non era, in quel momento, da prendere sottogamba.
Uscì di nuovo dalla camera, dopo aver controllato attentamente la stanza, e se ne andò a mangiare.
La persona era ancora là: il Tenente rise tra sé, sfidando lo sprovveduto ad azzardarsi ad avere informazioni che non erano per lui.
Il tempo passava, forse troppo velocemente per tutti coloro che stavano preparando le navi a partire.
La nave assomigliava molto a quella trovata dalla Pensacola.
Era di forma ovale, lunga cinquecento kilometri, larga duecentocinquanta e alta trenta.
La coda era tronca e un enorme parallelepipedo, che conteneva i motori principali, faceva mostra di se, tutto nero lì in fondo.
I quattro occhi, che non erano altro che gli ugelli di scarico dei motori spaziali, che tanto avevano impressionato il Tenente.
La nave superava la velocità della luce, con valori di velocità superiori a quella della navi sviluppate dai terresti.
Sopra e sotto il patto che formava la nave vi erano varie protuberanze.
La sala comando principale era proprio sopra l’inizio del parallelepipedo contenente i motori, mentre un’altra sala comando era sul muso della nave.
La prima sala comando era di forma anche lei ovale, larga cinquecento metri e lunga altrettanto, alta più di dieci metri.
Agli scienziati tutta quella enormità sembrava inutile.
Ma passeggiando per la nave, utilizzando i treni ad alta velocità, il perché venne subito scoperto.
A parte gli animali, che in realtà avevano bisogno di uno spazio molto più grande di quello che avevano sul pianeta (per loro una zona di venti kilometri per venti alto cento metri era appena sufficiente), e le zone dedicate all’ibernazione, con tutti i sistemi di sopravvivenza per circa diecimila persone, le armi in dotazione alla singola nave erano molte, alcune enormi.
I cannoni a ioni erano su torrette abbinati a due, tre o quattro cannoni.
I cannoni a faser e i laser erano singoli o abbinati su torrette sino a sei pezzi.
Missili e altri armi a razzo, con qualsiasi tipo di razzo vettore, erano dislocate lungo le fiancate ed erano contenuti in vari cassoni fissi o su torrette.
In una zona centrale della nave, vi erano dei robot di varie altezze, dai venti ai cento metri: quelli più piccoli erano certamente più manovrabili dei più grandi, che richiedevano anche più persone per il loro uso.
In un’altra zona della nave, poste verso l’esterno, vi erano degli aerei che potevano essere trasformati in robot.
Il numero di robot, aerei ed armi di offesa e di difesa, su una nave così enorme, era impressionante.
Il Maggiore Griffon li guardava stupito, con la bocca aperta.
Il Comandante Frazen, invece, era preoccupato.
Ma i due, non comprendendo il perché della reazione dell’altro, decisero di ignorarsi, ognuno occupato nelle sue mansioni.
Gli scienziati si sistemarono in appartamenti, molto ben ammobiliati, vicino alla zona della prima sala comando.
I militari si sparsero per la nave, in zone con sale comando più piccole della prima, ma molte assomiglianti a quella trovata sul pianeta.
Quando tutto fu pronto per partire, si fece largo, tra tutti, il problema del comando.
Se le singole navi potevano essere comandate dal più alto in grado dei militari, la flotta che si sarebbe costituita doveva avere un comandate che organizzasse le operazioni nello spazio.
La discussione, prettamente filosofica, su chi doveva comandare, era quasi inutile.
A parte il Colonnello, l’altro più alto di grado era il Tenente Colonnello Krojng, che era sulla nave della base D.
Il Tenente Closser si fece da parte, subito, visto che il suo intento non era combattere il nemico, ma raccogliere dati e informazioni.
Il Maggiore e il Comandante non vollero saperne: troppe navi, magari anche in uno spazio ristretto di quella zona della galassia, ove sistemi solari e stelle si attiravano e si lasciavano pericolosamente ogni secondo, poteva causare danni irreparabili alle navi e non volevano prendersi responsabili per cui non erano stati preparati.
Così il Tenente Colonnello prese il comando, quasi con un colpo di stato.
I militari della zona B se la risono, silenziosamente: correvano strane voci sul Tenente Colonnello, del tipo che la base Cartagena era arrivata a fatica lì per colpa sua e del suo modo pignolo di leggere i regolamenti militari.
Il Tenente, dopo quella riunione, in cui il Tenente Colonnello specificò gli orari di partenza di ogni singola nave (con relativa animata discussione perché aveva invertito le partenza della navi, con il relativo rischio che queste si scontrassero), se ne andò nella stanza dove avevano messo il Colonnello.
L’effetto della seconda puntura di tranquillante stava cessano e lei incominciava a svegliarsi, prendendo coscienza di dove si trovava.
Il Tenente le tolse le manette e la dottoressa la aiutò a sedersi sul letto.
Il viso del Colonnello, dopo tanto dormire, era sicuramente più rilassato dei presenti.
Ma il suo sguardo, tremendo, di regina destituita contro la sua volontà, guardava i suoi presunti carcerieri.
«Se si calma e ragionerà sulla sua situazione, non la ammanetterò più al letto e non le daremo più il sonnifero, regina!» Il Tenente usò una voce molto mielosa, per cercare di convincere la regina a collaborare.
La regina lo guardò: era un suo discendente, uno della sua razza, che col tempo aveva perso la sudditanza nei suoi confronti e dei suoi simili.
E allora perché l’aveva lasciata in vita?
Lei aveva le risposte al suo passato, ma non aveva domande per il suo futuro e quello degli ibernati.
«Ci lasci soli, dottorezza, per favore?»
La dottoressa uscì, controvoglia: non si fidava a lasciare quei due soli.
Quando la dottoressa chiuse la porta dietro di sé, il Tenente si sedette di fronte alla corrucciata regina.
«Stiamo partendo. Lasceremo questo pianeta e lo faremo esplodere. Lei e i suoi amici sarete per un po’ nostri ospiti, e poi vi troveremo un pianeta dove abitare. Ovviamente, se la cosa non la disturba. O forse, vorrebbe che noi, i suoi eredi, ci sottomettessimo a lei? Perché lei sa bene che noi siamo i suoi eredi e che discendiamo da quella parte di popolazione che lasciò il vostro pianeta perché in contrasto con voi. Ma di quella parte di popolazione, sa, c’erano anche gli “innominabili”. È un bel rischio!»
Il Tenente di alzò e si diresse verso il vetro che dava su una zona interna della nave, dove un bel giardino faceva bella mostra di se, dando le spalle alla regina, il cui volto si rifletteva sul vetro.
Il Tenente sospirò e riprese a parlare.
«Il Generale non vuole storie, ne problemi con voi. Se siete di sposti ad aiutarci nella lotta contro i vostri ancestrali nemici, saremo ben contenti. Se no, ci arrangeremo.»
Il Tenente si girò e guardò la donna.
«Il vostro futuro siamo noi! E non creda che non sappiamo di quella vostra strana religione, come a qualcuno di voi piaceva chiamarla! Vorremmo che ce la insegnaste. Ovviamente a un personale selezionato, ben preparato ed afferrato sulla questione. Anche se noi abbiamo la nostra strana religione!»
Il Tenente mise la mano destra in tasca e tirò fuori una astina, lunga circa quaranta centimetri, con un manico intarsiato, fatta di materiale vegetale, con una punta rinforzata in metallo.
«Noi la chiamiamo bacchetta e, a seconda se sono uomini o donne a usarla, maghi o streghe, nel termine buono del termine, ovviamente!»
Il Tenente, così dicendo, con tre dita, pollice, medio e indice, mosse leggermente la bacchetta, senza dir niente, e la sedia del Colonnello si alzò di poco dal pavimento.
Il Colonnello, all’inizio, parve stupito, ma si riprese subito: l’evoluzione era stata enorme.
Il Tenente posò a terra la sedia, si avvicinò al tavolo, si sedette  e riprese a parlare.
«Pochi sanno qualcosa di noi. Ma questa è, al momento, una lunga storia. Ci sarà del tempo per parlarne. Che ne dice, Regina? Abbiamo un piccolo accordo?»
Le ultime frasi del Tenente furono enunciate mentre si sporgeva verso la Regina,come se l’uomo parlasse ad un amante, dolcemente, quasi sussurrate.
Il Colonnello, già nel sentire che il status di Regina era stata riaffermato, anche se solo da quel uomo, fece cenno di sì con la testa.
Gli occhi dei due parlarono per loro.
Ora una sarebbe ritornata ad essere Regina, l’altro avrebbe conosciuto un segreto che da anni i suoi cercavano.
Un accordo sicuramente fragile, i due lo sapevano, ma sarebbe bastato ai loro simili di tornare in auge e ritrovare un nuovo futuro.

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Capitolo 5
*** Un pianeta non è per sempre ***


Le navi vennero preparate.
Gli uomini e donne, tra civili e militari, che si erano salvati da Cartagena, erano circa diecimila e furono ben distribuiti sulla navi.
I preparativi si avvicinavano alla fine, le navi incominciarono a scaldare i motori e tutti erano eccitati dall’evento, specialmente gli scienziati.
Ma le navi dovevano uscire da dove erano nascoste e tutti quei movimenti tellurici avrebbero messo in allarme tutti.
Mentre i preparativi fremevano, uno degli addetti alle telecomunicazioni, sulla nave posta nella zona D, nello scrutare il cielo per verificare che lo spazio esterno fosse libero, notò il movimento di vari corpi, metallici, di forma circolare e di piccole dimensioni, posizionate su diverse orbite, alcune polari altri equatoriali, con varie inclinazioni, che passavano a intervalli regolari.
Il movimento di quegli oggetti era tropo regolare per essere casuale, anche se, chi aveva messo in orbita gli oggetti, aveva fatto di tutto perché tale movimento sembrasse tutt’altro che voluta.
Tutte le navi furono avvisate e sulla nave della Regina incominciarono a preoccuparsi.
«Cosa pensate, Colonnello?»
Il Tenente rivolse la domanda alla donna nella sala comando sopra i motori, con tutto il gruppo comando che la guardò.
«Sono loro. È la loro avanguardia. Se li distruggete sapranno che siamo qui. Anche se, comunque, lo pensano. Ogni quanto passano?» Il Colonnello guardò il Sergente Hougan, che si sentiva fuori posto.
«Li hanno ben distribuiti. C’è un buco di un’ora, solo un’ora. Lì possiamo partire e scappare. Ma la cosa dovrà essere ben coordinata. E non mi pare che qualcuno possa organizzare questa cosa in modo…» Hougan titubò, sul finire della frase.
«Ce la faremo! Tutti! Preparatevi! A quando il prossimo buco?» La voce del Colonnello era ferma.
Hougan guardò l’orologio della nave, posto sopra la vetrata principale.
«Due ore al prossimo buco! Ma l’altro ci sarà solo fra …»
«Per noi due ore! Per gli altri?» Il Colonnello squadrò il Sergente.
«Ogni trenta quaranta minuti, a seconda della posizione della nave.» Il Sergente abbassò la testa: non spettava a lei decidere.
Il Colonnello incrociò le braccia e guardò fuori dalle vetrata, con lo sguardo perso nel nulla.
«Chiamatemi il Tenente Colonnello!»
Il Colonnello si avvicinò alla postazione radio e il Tenente Colonnello gli apparve sui monitor.
«Colonnello!» Disse l’uomo, facendo con un piccolo inchino.
«Avete tutte le informazioni, Tenente Colonello. Siete pronto?»
«Signore, è rischioso. Io Aspetterei…»
«Tenente Colonnello, siete solo capace di inventare scuse, di aspettare, di ritardare! Siete un uomo inutile! Prendete una decisione subito, o chi vorrà seguirmi verrà via con me e voi e chi rimarrà su questo pianeta aspetterà secoli! Tra un’ora e cinquanta minuti noi ce ne andiamo! Maggiore G… contattate tutte le navi! Chi è pronto a seguirci, si prepari, gli daremo i tempi per partire! Quelli che preferiscono seguire il Tenente Colonnello possono rimanere e morire!» Le ultime parole furono dette dal Colonnello in modo astioso e acido verso il Tenente Colonnello, guardando la sua immagine sul monitor, dritto negli occhi.
Il Tenente Colonnello abbassò la testa e il comando passo in mano al Colonnello.
“Bene! Comando ancora io!” Penso il Colonnello.
I comandi alle altre navi furono dati in tempi brevissimi e allo scadere dell’ora prevista la nave del Colonnello partì, seguita subito dalla nave telecomandata dei settori A e C.
Appena furono nello spazio, il Colonnello prese per un braccio il Tenente Closser e lo trascinò lontano da tutti.
«Ora, Tenente, il nostro accordo è una realtà! E ben sapete cosa vuol dire! Quindi, dopo che le navi saranno in salvo, dovremo discutere approffonditamente della cosa!» Mentre parlava, il Colonnello guardava in giro con fare sospetto.
«Non vi preoccupate! Non sono il solo qui su questa nave! Ma non vi dirò chi è, per la sua incolumità! Non è forte come me e voi avete un tremendo segreto! Ma credo di aver capito cos’è e dov’è! E non pensate di farmela sotto il naso. Vi controllo e mi darete quello che voglio. In un modo o nell’altro, capito?»
Il Tenente vide il Colonnello guardarlo in modo spaventato.
Non poteva, il Tenente, aver capito!
Non poteva, cosa l’aveva tradita!
Forse i suoi poteri erano più sviluppati di quanto gli aveva fatto vedere o aveva sviluppato una tecnica di lettura dei movimenti del corpo da portarlo a vedere ciò che per gli altri era impercettibile?
Eppure era stata attenta, aveva usato tutte quelle tecniche che negli anni gli erano stati insegnati!
No, non era possibile!
Sì, poteva essere solo così! Il traditore doveva per forza essere il loro fondatore! Maledetto!
Le altri navi si congiunsero nello spazio con la nave del Colonnello e partirono verso un pianeta sicuro.
Il pianeta appena abbandonato su attaccato dai nemici solo dopo alcune ore, trovandolo disabitato e vuoto.
Un parte del computer che formava Omnia, lasciato sul pianeta, dopo che i nemici si erano impossessati dei siti abbandonati, innesco una reazione a catena nei reattori nucleari che avevano per secoli alimentato i macchinari.
L’esplosione convolse tutto il pianeta, che esplose, rilasciando una luce visibili nello spazio e detriti, che si dispersero, venendo poi attratti dal sole rosso che lo aveva fino ad allora illuminato.
Il Colonnello, per la prima volta, da Regina, una lacrima le solcò il viso.
Il suo pianeta aveva finito di vivere.
La culla della sua civiltà era stato distrutto!
Ora gli serviva un altro pianeta.
Ma ne era così sicura?
Si asciugò quella singola lacrima e meditò.
Aveva dei discendenti, aveva degli eredi: perché arrabattarsi a cercare un altro pianeta, se poteva comandare… no, meglio, insegnare o forse ispirare una civiltà ad evolversi ancora di più!
Perché accontentarsi quando si poteva andare oltre!
Ma oltre dove?
Doveva prima scoprire chi comandava i suoi acerrimi nemici con l’ausilio dei suoi nuovi alleati!
E poi c’era ancora quella ricerca delle origini lasciata, finita nel nulla, ma che lei voleva se si facesse a tutti i costi!
Mentre la luce, che aveva illuminato la fine del suo pianeta, si affievoliva, capì la realtà!
Non era importante un pianeta, che non poteva durare per sempre: era importante ciò che quel pianeta aveva creato e sviluppato!
Pose la mano sinistra sul monitor, come per salutare un vecchio amico, mentre con la destra si stringeva il petto.
«Addio, amico mio» Furono le sue parole.
Poi guardò gli altri e, come suo solito, diede gli ordini, ben precisi, per andare verso le coordinate previsto.

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Capitolo 6
*** Incontri ***


Chi avesse visto quelle due persone incontrarsi, si sarebbe fatto un’idea errata su di loro.
Uno era alto, muscolo, mascella quadrata, un vero atleta.
L’altro era piccolo, quasi stempiato, portava occhiali circolari e folti baffetti.
Uno era il presidente della confederazione dei pianeti interstellari, l’altro era il generale dei servizi segreti militari.
Il più alto guardò l’uomo più basso con rispetto.
«Generale. È un vero piacere rivederla!» L’enorme mano dell’uomo si abbasso a stringere la mano di quello piccolo, quando questi gliela porse.
«Signor Presidente, la cosa è reciproca!»
Il Presidente era uno che si era fatto da sé.
Aveva vissuto sulla Terra, in un sobborgo di una mega città chiamata Los Francisco. Era prospicente l’oceano chiamato pacifico.
Aveva vissuto lottando contro i bulli del quartiere, anche se, così grande, era considerato un tontolone.
Un tontolone geniale: a scacchi era invincibile, i computer quantici non avevano segreti, ma non voleva diventare un militare.
Non aveva soldi per studiare, ma la sua intelligenza lo aiutò, consentendoli di vincere una borsa di studio per una università di economia: ciò gli permise di studiare e poi di far soldi.
Era un eccellente economista e si interessava sempre più di economia spaziale.
Poi era entrato in politica, un po’ per noi un po’ per riscatto verso chi lo aveva maltrattato.
Diventare Presidente non fu facile: era più di un punto di arrivo per molti, ma per lui voleva che fosse un punto di partenza.
Voleva che i pianeti occupati dai terrestri o con cui avevano contatti politici ed economici di unissero, si aiutassero e si sostenessero a vicenda: era l’unico modo di prendere possesso di tutto quello spazio enorme che circondava la sua civiltà.
Riuscì nell’intento, finendo il lavoro iniziato faticosamente da altri, senza prendersene il merito.
Il Generale non poteva essere più simile a lui, nel suo passato, fino però all’università.
Lui voleva fare il militare per riscattarsi e le sue doti di curiosone e di uomo intrigante lo aiutarono molto.
Fu reclutato dai servizi segreti quando ancora andava all’università, su un pianeta civilizzato dai terrestri.
Finì l’università e incominciò l’addestramento.
Il pianeta usato dai servizi segreti per l’addestramento del personale operativo era in uno stato completo di abbandono.
Quando faceva il corso di sopravvivenza, ben pochi si salvavano.
E non era da dire che chi si era salvato su quel pianeta si sarebbe salvato su di un altro.
Ma lui aveva imparato che la conoscenza dei segreti pone l’uomo sopra tutti, anche se gli altri non vogliono.
Per lui il corso di sopravvivenza fu una passeggiata: sapeva sempre in anticipo quando sarebbe stato abbandonato in mezzo al nulla, dove e cosa c’era nelle vicinanze.
Qualsiasi tentativo dei suoi istruttori di metterlo in difficoltà fu per lui solo un passeggiata.
Non capirono mai come faceva, ma ogni volta arrivava al campo base senza un graffio, senza problemi, con una scorta di cibo da far invidia ad un coltivatore di vegetali.
L’acqua, che su quel pianeta, in alcune zone, scarseggiava, per non dire che mancava, sembrava che gli corresse incontro.
Dopo due anni di queste prese in giro, i suoi istruttori decisero di dare a lui e a quelli del corso un esempio della realtà.
Lo inviarono su un pianeta, base di pirati spaziali, a raccogliere informazioni sui loro movimenti e sui prossimi attacchi che avrebbero fatto.
Nel giro di un mese le informazioni che giungevano dal pianeta permisero ai militari di ridurre notevolmente le perdite di navi in quella zona e di stroncare il commercio illecito che si faceva.
Ma come potesse mandare notizie senza essere scoperto fu impossibile da sapere.
E lui tornò, vittorioso, alla base.
Il suo segreto era nel suo aspetto.
Così com’era fatto, piccolo, quasi pelato, con gli occhiali, non veniva preso in considerazione da nessuno, anzi lo consideravano un fantasma, uno che non esisteva e, spesso, di fronte a lui parlavano di cose che non dovevano essere sentite da nessuno.
E lui, sapendolo, si comportava di conseguenza.
Non gli interessava molto se nessuno lo considerava.
Ma questo gli permise di scalare il comando dei servizi segreti, fino ad arrivare al loro comando.
Ora i due uomini, con passati così diversi, dovevano unire le loro forze per avere un futuro comune.
Il pianeta che avevano deciso di usare per il loro incontro era molto vicino ad un sole rosso, che disturbava le trasmissione radio ed era, pertanto, impossibile intercettare o ascoltare quanto si fossero detto.
I due si incontrarono nell’hangar ove venivano posteggiate le navicelle spaziali, parecchi chilometri sotto terra, per poter resistere alla calura della superficie.
Si diressero verso una porta di acciaio, dietro a cui vi era un corridoio e parecchie stanze.
Entrarono nella prima che trovarono aperta.
Dentro l’aria climatizzata mitigava il caldo del pianeta.
I due si sedettero dietro ad un tavolo circolare, uno di fronte all’altro.
Il Presidente prese per primo la parola.
«Quindi, Generale, a che punto siamo?»
«Meglio di ogni più rosea previsione, Presidente. Il nostro piano ci ha permesso di scoprire più navi di quanti pensassimo che esistessero. Sappiamo di almeno venti navi partite dal pianeta ove è stata distrutta la base spaziale Cartagena. Di certo quell’operazione, Presidente, ci è costata parecchio, in termine di soldi e di uomini, ma il risultato mi sembra più che soddisfacente.»
Il Presidente alzò la mano destra è fermo il discorso del Generale, iniziando a parlare.
«Lo so cosa ci è costata quella operazione e so quali saranno i frutti, ma il lavoro non è ancora terminato. La sa meglio di me che se la Regina e il Tenente Closser dovessero stringere un accordo, ognuno per la sua fazione, noi saremmo in minoranza, con grave rischio per la nostra civiltà. Una evoluzione ulteriore, anche se non tecnologica, della nostra civiltà porterà per forza ad uno sconvolgimento di tutto l’apparato burocratico non indifferente! Di tutto questo, lei cosa mi dice?»
«Le posso assicurare, Presidente, che qualsiasi accordo tra la Regina e il Tenente sarà a nostro favore!»
«Ah!» Disse il Presidente.
«Già. Il Tenente fa parte di una fazione che ritiene che loro e noi dovremmo condividere tutto, anche quella cosa, in modo tale che una uniformità tra i due popoli porti la nostra civiltà molto lontana! E il Tenente è anche molto interessato a quella strana religione, che egli ritiene necessaria per poter sviluppare una migliore comprensione tra i popoli che occupano la galassia, come difensori della democrazia. Lei sa, Presidente, come una certa parte di nostri burocrati, e varie corti reali, vorrebbero l’istituzione di una monarchia planetaria, sottomettendo i popoli meno evoluti e sviluppando una strategia galattica di potere assoluto, di cui spesso abbiamo parlato, e che porterebbe al disastro che la Regina provocò nei secoli addietro. No, penso che il problema non sussista! Sussiste, invece, il problema dei nemici ancestrali della Regina! Pare che lì il Tenente abbia sviluppato una certa ipotesi, che deve essere ancora confermata da altre fonti, ma che mi consente, al momento, di dire che ha la possibilità di uno sviluppo nell’immediato!»
«Vuol dire, Generale, che quanto da voi supposto nella riunione di un anno fa è molto probabilmente la cosa più vicino alla realtà…»
«No, Presidente, non la più vicina! È la sola reale! Perché accanirsi contro un popolo se non per vendicarsi del male subito? E perché non usare un popolo belligerante, dandogli le armi giuste per combattere, anche se non sviluppate da loro? No, Presidente, quella è l’unica ipotesi possibili. E il Tenente ha trovato le prove di tale misfatto. Il suo arrivo è previsto a giorni e potrò chiarire con lui quanto da lui scoperto. La nostra riunione, al momento, è stato un azzardo da parte vostra, Presidente. Qualcuno potrebbe pensare che …»
«Voglio che lo pensi, Generale! Troppe voci, troppi bisbigli, sia da noi che da voi che sui pianeti ostili! Troppi silenzi ignorati che fanno paura! Non pretendo che si agisca subito, ma che si intervenga velocemente, per metterli a tacere e trovare una soluzione definitiva, Generale. Lo so che non è la sua usuale procedura, ma ormai non si può più attendere! La verità è che il nostro futuro, ora, dipende da troppa gente! Troppa, Generale, per non potermi preoccupare! Non penso ad un colpo di stato! Ma se le conoscenze della Regina fossero fuse con alcuni personaggi dei … maghi, il risultato sarebbe tremendo! Non li conterremmo più e alcuni pianeti potrebbero subire gravi disgrazie! Ci hanno già provato, ma erano in pochi e li abbiamo contenuti! In un pianeta li abbiamo dovuti annientare, tirandoci dietro la loro ira! Io stesso, spesso, sono sotto attacco e non sono al sicuro, anche se lei e il Tenente mi ha trovato una scorta più che efficiente! Ma bisogna far smettere tutto ciò! Di quanto tempo ha esattamente bisogno?»
«Da una prima previsione, dopo una consultazione dei nostri più evoluti consulenti… direi forse un anno…»
«Non ho tutto quel tempo, Generale!» Il Presidente si alzò di colpo dalla sedia, picchiando i pugni sul tavolo. «Mi dispiace Generale, ma ha meno di tre mesi, dopo di che, Tenente o Regina, dovrò trovare una via che non piacerà! Sempre ammesso e non concesso le sue informazioni sui nemici siano reali.»
«Presidente, sta esagerando! Nessuno si azzarderà a farle niente, non in questo momento...»
«Proprio questo momento era quello che loro aspettavano! Le informazioni uscite dal vostro comando, per mano di quelli, mi ha già provocato molte brutali discussioni con certe persone, e lei sa di chi sto parlando! Qualcuno si è anche permesso di fare velate minacce. Ora, Generale, le mie informazioni dicono che entro sei mesi un colpo di mano è probabile, entro nove mesi possibile ed entro un anno sicuro! Pertanto si decida, da che parte sta?»
Il Generale, ogni volta che il Presidente, in una qualsiasi riunione, si alzava sormontandolo, lo spaventava e incominciava a sudare, e il Presidente lo sapeva bene.
Ma questa volta il Generale lo guardò da sopra gli occhiali e disse parole di fuoco.
«Per salvarla ho personalmente ucciso più di una persona, alcune molte vicine a lei! Ho dovuto! O loro a lei! Queste mie mane sono lorde di sangue dei suoi nemici! Se pensa che non farei di tutto per interrompere questa serie di eventi, lei sbaglia! Al momento non è possibile far altro! Li abbiamo fermati e un tempo necessario per vedere cosa fanno è necessario! La Regina, quando arriverà, saprà già a chi rivolgersi! La fazione contraria al Tenente ha già piazzato uomini sulla nave! Il Tenete deve prima scoprire chi sono e, se possibile, solo se possibile, li eliminerà! Ma non può agire così in fretta. Già le navi stanno andando ad una velocità inferiore a quella che possono viaggiare, per prendere tempo! Più di così non si può fare! Ci scopriranno! Se la questione scorta la preoccupa, troveremo altri per affiancare quelli che già ha al suo fianco, ma è necessario fare ciò. Necessario, Presidente. Dovrà dormire ancora per un po’ fuori dalla Terra e muoversi con le navi spaziali che le sono state messe a disposizione. Se proprio non di fida, faccia un giro ai bordi della galassia, dalla parte opposta dei nemici. Per trovarla dovranno fare un bel viaggio, o aspettare che lei torni. E non si preoccupi, il vicepresidente non permetterà un colpo di mano! Ci tiene troppo alle sue donne e farà di tutto per salvarle!»
«Sì, buono quello! Ma se ne cambia una ogni mese, di un pianeta diverso! … Va bene, facciamo come dice lei! Ma voglio essere informato quotidianamente! Ha capito?»
«Sarà fatto, Signor Presidente!»
Il Presidente di lasciò sfuggire un sorriso ed uscì dalla stanza, senza proferire parola.
Dopo un attimo una donna, che indossava una uniforma militare, con una camicia bianca, giacca blu con applicate parecchie onorificenza, gomma blu sopra il ginocchio e scarpe con un tacco basso, entrò.
Aveva dei lineamenti dolci e molto sensuali, can capelli nero corvino, viso ovale, occhi grandi di color marrone, un naso alla francese e una bocca larga con labbra carnose: un trucco molto leggero incorniciava il suo volto e un rossetto rosa ricopriva le sue labbra.
«Non è andata bene, Generale?»
Il Generale era distratto, pensieroso, e rispose in modo distratto.
«Non ce la faremo mai! Se non posso muovermi, se non ho informazioni, il Presidente è spacciato!»
«Non dica così, Generale!» La donna si era abbassata e accarezzava la pelata del Generale. «Le informazioni del Presidente sono errate. Gli hanno anticipato tutto di almeno sei mesi, per metterlo sotto pressione. Ho saputo da alcune ancelle che prima di un anno non si muoveranno. Non hanno i mezzi. Più che altro non hanno uomini. Possono occupare forse la Terra e qualche pianeta del sistema solare, forse altri due sistemi solari, ma più in là non possono andare. Per me, possiamo anche aspettare un po’ di più del previsto.»
Il Generale aveva ascoltato attentamente quanto la sua sottoposta gli aveva detto.
Qualcosa non quadrava, ed era meglio porre un limite a ciò.
Diede un colpo secco alla carotide della ragazza, che si portò le mani alla gola, trasecolando e guardando il Generale cercando di capire il perché di quella mossa.
La ragazza morì in poco tempo.
Il Generale si alzò dalla sedia, gli diede un calcio per vedere se era realmente morta, e uscì dalla stanza.
Fuori il suo aiutante lo aspettava.
«Ancelle? Fai spari il corpo e trovamene un’altra più affidabile. Questa parlava troppo!»
L’aiutate lo guardò stupefatto, ma eseguì l’ordine senza parlare.
La lettera che fu inviata ai genitori della ragazza, scritta di suo pugno dal Generale, parlava di una sua improvvisa morte sopravvenuta durante una missione delle massima sicurezza per la galassia. I genitori ricevettero un’urna con le ceneri delle ragazza, ammesso e non consesso che quelle fossero realmente le sue ceneri.

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Capitolo 7
*** Uno, cento, mille soli ***


La galassia.
Un universo, circondato da altri universi, con al suo interno altri universi.
La galassia, chiamata Via Lattea, in cui la Terra giaceva sonnecchiante nel sistema solare, girando come una trottola intorno al Sole, insieme agli altri pianeti, alle meteoriti, alle comete e ad altri pezzi di rocce, era tenuta insieme da un enorme buco nero, posto al suo centro, con le forze gravitazionali che attiravano e allontanavano tutto ciò che lo circondava, come fa l’amore con gli innamorati, che si prendono e si lasciano a secondo del sali e scendi del loro umore.
Ma di certo l’Imperatore non era uno di quelli.
Per lui l’amore non esisteva.
Aveva sì sposato donne, aveva avuto figli e figlie, aveva concubine e amanti in tutta quella parte della galassia da lui comandata con pugno di ferro, come fa un padrone con il suo gregge di pecore.
E per curare il gregge di pecore, affinché nessuno gliele rubasse, aveva spie in tutto quel braccio della galassia, come cani famelici che si scagliano contro tutti i lupi, coyote e altri carnivori che osano solo avvicinarsi.
Era il suo giorno libero, in cui nessuno lo avrebbe disturbato.
Si era lasciato mollemente andare su un lettino, sotto l’ombra di un enorme ombrellone, mentre il sole, caldo, rischiarava il suo meraviglioso giardino e la sua bella piscina.
Ancelle di tutte le razze, forme, altezza gli prestano tutte le attenzioni possibili.
L’uomo era di altezza media, con un po’ di pancetta, data l’età, un fisico non troppo atletico, con un vico ovale, occhi piccoli, quasi infossati, zigomi alti, un naso strano (a molti ricordava il trampolino per il salto degli sci), una bocca piccola e labbra poco carnose.
Nudo, lì sul lettino, circondato da ancelle, anch’esse nude, dava proprio l’idea del potere assoluto che lui aveva sui suoi sudditi.
O almeno, questa era l’idea.
Ma uno dei suoi figli, Ghujo, non era sempre della stessa idea.
Era uno dei figli mediani, poco appariscente, nato da una moglie costretta dai suoi parenti a sposare l’Imperatore, per evitare un campo di concentramento, uno dei tanti.
Si occupava di cose di poca importanza, almeno così l’Imperatore pensava, avendolo rilegato ad un servizio di poca importanza, logistica, forse.
Le ancelle lo videro arrivare, dal fondo del giardino, verso il fondo della piscina.
L’Imperatore sbuffo, annoiato.
«Mi sono dimenticato io o oggi è il mio giorno in cui nessuno mi deve disturbare?»
La voce dell’Imperatore era imperiosa e forte e le ancelle scapparono, alcune tuffandosi nella piscine, altre nascondendosi dietro agli alberi.
Ghujo non gli importava molto di suo padre, anzi non lo aveva mai preso in considerazione come un vero pericolo per la sua vita.
«Caro padre, vedo che sei del tuo solito buon umore! Forse le ancelle non sono più sufficiente per i tuoi privati trastulli?»
Ghujo aveva sentito della voci per cui il padre aveva iniziato ad amoreggiare con ragazzi giovani, in modo promiscuo, o con altri che avevano sembianza femminili.
«Non sarei mai venuto da te senza un buon motivo, in un giorno come questo!»
Ghujo si avvicinò al padre, che si era messo seduto sul lettino e si era coperto con un accappatoio color malva.
«Cosa vuoi saperne tu di buoni motivi! Non vieni mai a palazzo, neanche quando sei invitato! E mi appari qui oggi. Senza che le guardie ti abbiano fermato! Le farò frustare a sangue!»
La voce dell’Imperatore era al limite della furia.
«Padre, padre! Certo, non vengo a palazzo quando mi inviti, ma sai com’è: di te non ci si può fidare. Alcuni tuoi figli sono morti senza spiegazioni e non vorrei essere il prossimo. Mia madre mi informa dei tuoi alti e bassi, delle tue sfuriate. Se ci fai caso, è parecchio che lei si nasconde alla tua vista, nelle stanze delle tue moglie fidate! No, padre, è meglio stare lontano da te! Ma, vedi, certe notizie passano per certi canali a te, purtroppo sconosciuti, pur avendo tu il controllo di tutto. O, almeno, è questo quello che tu credi. (e qui il volto dell’Imperatore si scurì). Oh, vedo che ti è scappato qualcosa! Bene bene. Ma non te ne voglio fare una colpa. Era solo passato ad avvisarti che una certa persona, sai quella militare dei servizi segreti del Presidente della Terra, è morta. Ai suoi genitori è arrivata una lettera e un’urna con dentro le ceneri della figlia, forse. La cenere è cenere ed è difficile da capire se è cenere di legno, di animale o di altro. Secondo me non è morta, e solo in coma, in qualche misterioso ospedale del Generale. Ma dai tuoi spioni non lo saprai mai. Non perché non lo sanno, ma perché non te lo vogliono dire. Ha paura che il tuo impero stia passando un momento difficile, senza parlare della tua dinastia. Tanta fatica a conquistare quella donna e il Generale (e qui Ghujo schioccò le dita) l’ha sistemata per sempre! Brutto colpo, padre mio. Ci farei un pensierino su quanto ti conviene tenere ancora certi imbranati ai servizi segreti!»
«Eh bravo il mio ragazzo!» Disse l’Imperatore.
Ghujo era rimasto in piedi, sotto il sole, con gli occhiali scuri inforcati, guardando dall’alto verso il basso il padre.
L’Imperatore ebbe un fremito nella schiena, il primo dopo anni.
Che il figlio più scellerato che aveva messo al mondo lo aveva trovato nudo, in tutti i termini, non gli piaceva.
Ci mise un po’ a riflettere sula questione.
Si alzò dal lettino, indosso l’accappatoio, prese un paio di occhiali scuri da una tavolino, lì indosso e si mise sotto il sole con il figlio, più piccolo di lui di una testa, ma con il suo stesso fisico.
Ghujo si mise a distanza di sicurezza: non aveva nessuna intenzione di lottare con il padre. La sua mano sinistra finì nella tasca dei pantaloni, pronta ad estrarre la sua arma di difesa personale.
L’Imperatore si allontanò da lui, percorrendo il perimetro della piscina.
Le ancelle uscirono dall’acqua e scaparono, seguite dalle altre nascoste dietro gli alberi: non volevano morire per una litigata tra parenti!
L’Imperatore continuò la sua camminata, pensieroso, grattandosi il mento, cosa inusuale per lui.
Il figlio lo seguì con lo sguardo, in attesa di una sua risposta.
L’Imperatore fece tutto il giro della piscina e ritorno dal figlio.
«Va bene. Sei stato furbo e coraggioso! Non ce l’ho con te. Come hai fatto a saperlo non lo so, ma vorrei saperlo! A suo tempo, ovviamente. Ora torna da dove sei venuto e cerca altre notizie della ragazza, di che fino ha fatto e cosa il Generale vuole fare! In fretta! Hai carta bianca, tutto quello che vuoi: se mio figlio e nessuno avrà da ridire. Tieni a portata di mano le tue difese personali, forse ti serviranno. Non avere pietà, cosa che tu non hai neanche l’idea di cosa significa!»
«Credi, padre! Non ti fidare di quello che dicono di me! La notizia che ti ho dato è costata la vita a tre persone, certi pirati da confine, ma non andranno in giro a raccontare ciò che hanno detto e a chi! Comunque penso che il nostro colloquio sia finito! Hai già detto troppo e ti fidi troppo di questo posto! I satelliti non sono più quelli di una volta e tu non vuoi modernizzarli! Ti fidi troppo della tua strana religione! (Ghujo guardò il padre da sopra gli occhiali) Un giorno te ne pentirai amaramente, padre! Non è più solo una tua prerogativa!»
Ghujo sbatte la mano sinistra contro i pantaloni, facendo tintinnare quello che era nascosto in una tasca interna.
Il padre lo guardò raggelato.
Era stato preciso, con quelle maledette streghe: nessuno figlio maschio doveva poter usare né quella arma né l’altra.
E allora lui come c’era riuscito.
Era stato troppo tempo lontana da lui e la madre era una che non aveva discendenza diretta da loro!
Un imbroglio? Era stato tutto un imbroglio?
Ghujo si allontanò dal padre, con un ghigno malefico tra le labbra.
Era riuscito nel suo intento.
La madre era già partita da ore dal palazzo imperiale per una località sconosciuta, senza che nessuno se ne accorgesse.
Era riuscita a diventare invisibile e l’Imperatore non se ne era neanche accorto.
La sua fuga fu segnalata all’Imperatore solo giorni dopo, ma lui, ormai tradito sia dalla moglie che dal figlio, capì che era stato superato il limite di sicurezza: Ghujo avrebbe aiutato l’Imperatore, nella speranza di impossessarsi di una parte del potere che gli spettava, ma la madre doveva morire.
No, sbagliato. Se l’avesse uccisa Ghujo avrebbe potuto vendicarsi: era meglio lasciarla vivere e controllare il ragazzo.
Se era davvero diventato così bravo da potarsela dietro, era più pericoloso del dovuto.
Bisognava sapere da chi aveva imparato ad usarla: era l’unico modo di bloccare quell’emorragia.
Ma l’Imperatore era all’oscuro di troppe cose e qualcuno, nell’ombra, già tramava contro di lui.

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Capitolo 8
*** Nel silenzio della congiura ***


Ghujo, dopo la partenza della madre dal palazzo imperiale, prese contatto con un gruppo che si opponeva allo strapotere dell’Imperatore, che venivano denominati ribelli.
Sapeva bene il rischio che correva: tra di loro vi erano alcuni che possedevano il dono, quel dono quasi divino, ma che altri ritenevano solo una strana religione.
Ghujo li incontrò su un pianeta ai confini dell’impero, molto vicino ad un sistema solare della confederazione terrestre.
Era un pianeta blu, piano di verde, acqua, animali di ogni tipo e grandezza, ma che non aveva mai visto una presenza umana.
Forse.
Il pianeta, controllato da una piccola guarnigione imperiale, suddivisa in varie caserme poste nelle immediate vicinanze dei tropici, in corrispondenza delle linee di cambio dell’ora.
Nello spazio, alcune navi imperiali, poste al limite del sistema solare, controllavano il confine con il territorio della confederazione.
Non vi erano state mai scaramucce, perché i terrestri non volevano guai e le loro navi erano ben lontane dal confine, almeno due sistemi solari più in là.
L’Imperatore non aveva mai capito il perché, ma se i terrestri non volevano combattere, per il momento, era meglio lasciar stare.
Il pianeta aveva solo un nome in codice: Confine.
E mentre i militari imperiali passavano il tempo a far niente o a scrutare il cielo con i paraboloidi dei radar, i ribelli, avvicinandosi verticalmente al punto zenit dei poli, risultavano ai radar imperiali invisibili.
Sì, certo, i poli erano freddi, ma i militari imperiali non erano così stupidi di rischiare un congelamento per un po’ di contrabbando.
Anzi, spesso vi partecipavano, per avere cibo che l’impero non mandava: molti di loro erano di diverse razze e pianeti e mangiare cibo del loro mondo era, per loro, una vera gioia.
Così i ribelli occuparono una grande parte del pianeta, sia nell’emisfero sud che in quello nord, dando a credere agli imperiali che tutto procedeva normalmente.
Ovviamente, questa loro occupazione incluse alcune basi militari, così lontane tra loro che i comandanti facevano rapporto una volta al giorno ad un loro superiore sul pianeta.
E siccome, da buoni burocratici, i moduli erano sempre gli stessi, i ribelli copiarono il testo e tutti i giorni, alla stessa ora, lo trasmettevano.
Anche perché alcuni degli uomini imperiali, visto l’andazzo su quel pianeta, presero le parti dei ribelli.
E così vaste zone del pianeta finirono in mano dei ribelli.
Ghujo arrivò alla base ore 10 di mattina, con il sole che sorgeva all’orizzonte.
La sua astronave era scesa sul pianeta senza che nessuno lo vedesse.
Era un vecchia nave imperiale, usata per accompagnare l’Imperatore nei suoi viaggi di controllo, su cui spesso viaggiavano le sue ancelle preferite.
Era una nave circolare, con le gondole dei motori dietro, la cabina guida/comando/trasmissioni/armamenti sul davanti, alcune torrette, poste sul fianco, contenenti laser e piccoli cannoncini a ioni, oltre ad avere missili anti missili.
La nave, inoltre, possedeva grandi finestre, per far sì che i suoi ospiti potessero ammirare l’universo che li circondava.
Ghujo l’aveva adattata alle sue esigenze, ed era diventata a tutti gli effetti una nave militare.
Atterrò sul pianeta insieme ad alcuni suoi uomini fidati, sia della ribellione che dell’impero.
«È un piacere rivedervi Ghujo!»
Chi lo accoglieva era una donna, di mezza età, di nome Andrea.
«Anche per me, cara Andrea!»
I due si strinsero le mani calorosamente.
«Come procedono i preparativi?» Chiese Ghujo.
«Non molto bene! Purtroppo i terrestri sono troppo occupati con quei strani nemici e non ci vogliono dare retta! Una vera sconsolazione! Non potremo far niente se non aspettare che sistemino i loro affari! Quei maledetti…»
«Calmati, Andrea! (Ghujo si avvicinò alla donna, prendendola tra le braccia) Il Generale non fa mai promesse a vuoto. Con calma avremo ciò che ci serve. (Ghujo allontanò la donna da lei e si diresse verso una console che era nella stanza). Intanto cerchiamo di capire chi sono questi maghi, che sicuramente potranno aiutarci meglio del Generale!»
Le ultime parole furono dette con il sorriso sule labbra, ma quando si girò il volto di Andrea era scuro.
«Quella vostra maledetta religione non ci aiuterà! Non ci darà un futuro, ma solo altri padroni da servire!»
«Calma, Andrea, non è così. Sono uomini buoni, non farebbero mai del male verso i loro simili, ma solo verso i nemici, i loro e nostri nemici! Cosa pensi, non sono così numerosi da poter sottomettere mondi interi! Calmati, la tua è solo una paranoia. Ne abbiamo già parlato! Come pensi di battere l’Imperatore senza quei uomini?»
«Ci sono altri sistemi!»
«Gli altri “sistemi”, come li chiami tu, hanno portato alla morte di popoli e pianeti! Non puoi combattere con i soliti sistemi! Non hai armi, non hai uomini, non hai navi più potenti di loro e gli ultimi tentativi di impossessarvi di quelle navi ha portato ad una strage! Gli uomini dell’Impero forse sono ottusi, ma sono preparati, organizzati e pronti a tutto! Ti devi rendere conto che servono uomini di carattere, non dei sempliciotti come quelli che comandi tu! Si, forse qualche vittoria ti ha permesso di portare dalla tua parte delle popolazioni, ma i più vivono ancora sottomessi all’Impero! Servono quegli uomini, servono anche solo per far venire paura all’Imperatore, per mettergli soggezione! Pensi davvero di vincere così?»
Andrea di girò e, in quel mentre, alcuni uomini entrarono nella stanza.
«Prendetelo!»
L’ordine fu perentorio, ma Ghujo non rimase lì ad attendere il risultato dell’ordine!
La mano sinistra si infilò in tasca ed estrasse una asticella, lunga circa quaranta centimetri, di mogano, con un manico intarsiato e molto lavorato e una punta metallica.
La mosse lievemente con le prima tre dita della mano e gli uomini, compresa Andrea, finirono al pavimento.
Poi punto l’asticella contro un muro e lo sfondò.
Non si girò a vedere cosa succedeva alle sue spalle.
Corse all’astroporto e salì sulla nave, dove alcuni suoi fedelissimi lo aspettavano, armi spianate.
Furono sparati alcuni colpi di laser, ma la nave riuscì a scappare anche al raggio traente.
Ghujo guardò il pianeta allontanarsi, mentre sfrecciavano verso lo spazio infinito.
“Una donna stupida, preda ancora di certe idee arcaiche!”
Ghujo sapeva bene che non poteva tornare indietro, tanto valeva andare avanti.
«Dirigiamoci verso la confederazione terrestre!» Comandò al pilota.
Il pilota fece un cenno al navigatore, che controllò la rotta e la imposto nel computer.
La nave fu spinta alla massima velocità e superò subito la velocità della luce, verso il futuro.
Sul pianeta Andrea si stava leccando le ferite.
«Pessima idea, Andrea! Così è peggio!»
L’uomo che aveva parlato era il Generale.
«Cosa volevi che facessi? Lui serve a te come serve a me! Ma deve ancora imparare molto! E solo i tuoi possono insegnarli quello che gli serve. Presto ne arriveranno altri e subiranno lo stesso trattamento! Quando saranno da te, gli insegnerai tutto quello che devono sapere per essere pronti alla guerra! L’Imperatore non è l’unico nemico contro cui dobbiamo combattere! I suoi burocratici, ogni giorno, fanno morire di popoli e pianeti, in nome della loro religione! No, ci vuole qualcuno di più forte, non solo della religione, ma anche degli uomini che la tengono in vita! Di certo la tua nuova alleata, la Regina, non sarà una buona maestra…»
«Non pensare alla Regina! Finché ci servirà sarà viva, poi vedremo! Non vorrei che, sapendo del tuo Imperatore, gli venga in mente di fare di testa sua! La memoria gli è già tornata! E i suoi nemici ci stanno alle calcagna…»
Andrea di fece cupa in volto e guardò il Generale.
«E se una delegazione parlasse con loro?» Disse, quasi soprappensiero.
«Perché, secondo lei non abbiamo già provato? Ma solo per il fatto che abbiamo protetto la Regina, ce l’hanno con noi!»
Andrea si avvicinò al Generale.
«Da quello che ho potuto capire, quelli che avete catturato sono solo soldati! Ma se i loro comandanti non fossero della stessa razza? I miei hanno accidentalmente tradotto un passaggio di quel “messaggio” e si parla di un popolo che li civilizzò! E se, in realtà, i nemici della Regina fossero un’altra fazione contraria a lei, che hanno sottomesso un popolo bellicoso, datogli armi più evolute e convinti a distruggerla per la loro incolumità e la loro sopravvivenza?»
«Quella maledetta ha più nemici di voi e noi messi insieme! Così non va bene! Non riusciremo mai a mettere pace nella galassia! Tra l’Imperatore, la Regina e quelli della zona Magellano, qui non si finisce più e non abbiamo tutto il tempo dell’universo! Il Presidente ha già capito e non dice niente per sicurezza, ma anche lui rischia di diventare come l’imperatore, se non facciamo in fretta!»
Andrea guardò il buco fatto da Ghujo e replicò.
«E se unissimo le nostre forse combattendo un nemico alla volta? Prima l’Imperatore, poi la Regina e intanto la pace con i nemici! Sarebbe possibile, se potessimo usare quelle navi contro l’Imperatore! Non se lo aspetterebbe e una volta eliminato lui, potremmo pensare agli altri!»
Il Generale gli si avvicinò alle spalle.
«Una congiura troppo complicata anche per te! E poi, comunque, intanto che fai una cosa devi tenere a bada gli altri! Come farai?»
«Se le tue navi cono così potenti, sarà un gioco impossessarci di quelle dell’Imperatore! Ne ha tante, molte di più di quanto tu non pensa! Saranno sufficienti per attaccare i nemici, con le nuovi armi che ci aiuterete a costruire, e visto che in vita c’è solo la Regina, il suo popolo non ne risentirà! C’è un bellissimo pianeta abitabile verso l’esterno del nostro braccio della galassia, sconosciuto ai più! Manderemo lì la Regina e i suoi, con un cordone sanitari intorno a quel sistema solare. Poi passeremo a costruire una uova civiltà! Lo pensi possibile tutto ciò?»
Andrea si girò a guardare in faccia il Generale, che fece cenno di sì, come per sugellare quella loro silenziosa congiura.
Ma nelle mente dei due corse, immediatamente, un rapido e pericoloso pensiero.
“Se solo mi fidassi di te!”

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Capitolo 9
*** L'importante è viaggiare ***


Il Tenente Closser stava lì in pedi, nella sala comando principale, con nella mano sinistra una tazza di caffè, prodotta dal replicatore della sala, e guardava le stelle che correvano veloci intorno a loro.
La velocità a curvatura era una cosa magnifica, che permetteva agli esseri umani di girovagare per la galassia senza limiti.
Sulla console davanti a lui monitor, manopole, tastiere e numerosi altri segnalatori elettronici monitoravano la zona circostanza, per parecchi sistemi solari, e tutto procedeva regolarmente.
Una strano simbolo capeggiava nel mezzo della console: un teschio con due ossa incrociate.
Spesso la Regina, indifferentemente, gli passava sopra la mano, quasi accarezzandolo.
Ai più degli uomini presenti sul ponte la cosa era passata inosservata, ma un occhio attento come quello del Tenente aveva notato quel leggero movimento della Regina.
Era come una donna, innamorata di un uomo sposato, gli accarezzasse la mano passando di fianco a lui che stringava sé la moglie.
Anche il Sergente aveva, involontariamente, notato quel gesto e aveva scambiato un cenno, invisibile, con il Tenente.
Avevano cercato se quel simbolo nascondesse qualcosa, premendolo, cercando di sollevarlo, spostarlo, ma niente: non ne voleva sapere di muoversi.
Lo stemma era di un materiale particolare, traslucido, riflettente.
Allo scienziato, coinvolto dal Tenente, era venuto in mente di qualcosa che poteva essere attivato da un fascio di luce, con una particolare inclinazione.
Provarono con un piccolo laser, con varie inclinazioni, per vedere se attivava qualcosa.
Ma quello sulla console principale non era il punto iniziale di emissione del fascio di luce.
Li cercarono in tutte le console della sala comando.
Ne trovarono più di una decina, di quei simboli, nascoste in varie parti di console secondarie.
Lo scienziato ricostruì, sul un computer, tridimensionalmente, la sala comando e mise in ogni loro singolo posto i simboli.
Riuscì ad individuare il punto di partenza del fascio di luce e il punto di arrivo del medesimo fascio.
Usciva dalla console di tiro e finiva nella console armi, tenuti separati per evitare che qualcuno, senza alcuna autorità, lanciasse missili o sparasse con i cannoni.
Lo scienziato, con l’aiuto del Sergente, smontò la console si arrivo del fascio e vide che la fotocellula attivata dalla luce di quel gioco di specchi dava il consenso ad in interruttore.
Con il numero di quell’interruttore lo scienziato, seguendo uno schema elettrico trovato nei computer della nave, trovò che dava il consenso ad un sistema di attacco multi arma contro un eventuale nemico.
Era una cosa strana, ma decisero di tenerlo segreto ed evidenziarono il pulsante che dava il consenso, posto sotto la console arma, integrato con un pulsante posto sotto la console comando.
Il Tenente riguardò lo stemma e, sorseggiando il caffè, fece su e giù per la sala comando, guardando gli uomini occupati al loro lavoro per il controllo della navigazione della nave.
Le altre navi la seguivano, a breve distanza, tranquillamente.
Quelle telecomandate erano inserite all’interno dello schieramento, con le navi occupate dagli uomini che formavano una specie di uovo intorno a quelle navi.
I nemici era ormai un brutto ricordo e, a breve, sarebbero arrivati al pianeta di destinazione.
Ma l’atmosfera, dopo alcuni giorni, si fece nervosa, in attesa dell’arrivo.
La frenesia dei preparativi per l’arrivo coinvolse tutti.
Ma il Tenente mise in guardia i suoi.
Erano in un locale vicino agli hangar dei robot, protetti da occhi e orecchie indiscrete.
Il Tenente, dopo essersi accertato che nessuno lo seguisse, chiuse la paratia e iniziò a parlare.
«State ben attenti! Tutta questa euforia rischia di coinvolgere anche fin troppo i civili, e i militari potrebbero, incolpevolmente, eseguire manovre errate o lasciarsi scappare qualcuno! La Regina potrebbe scappare senza che nessuno se ne accorga, magari con una di quelle navi con i simboli simili a quelli trovati dalla Pensacola! Questo non deve succedere! Lo so che quella strega ha preparato un piano di fuga, ben congeniato, ma il solo modo di trattenerla è anticipare le sue mosse! Mi farò cambiare il turno di guardia, in maniera da controllarla meglio al momento del nostro arrivo sul pianeta, non avendo altre occupazioni. Se solo ci prova a farmi uno scherzo la metto k.o. e la trascino giù dalla nave di persona!»
L’ultima frase fu detta con rabbia, come se volesse realmente mettere fuori uso donna, come un macchinario guasto.
Il Sergente e lo scienziato annuirono, in silenzio.
«Se solo prova a separarsi dagli altri, fermatela!»
Il trio abbandonò il locale silenziosamente, dividendosi e dirigendosi, per strade diverse, alla sala comando.

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Capitolo 10
*** In fondo al viaggio ***


Il pianeta su cui arrivarono era bianco, accecante.
Il suo sole, un sole azzurro-bianco, lanciava i suoi raggi luminosi contro il pianeta, che li rifletteva come uno specchio.
Aveva molte rilievi montuosi e profondi avvallamenti, con dislivelli di parecchi chilometri.
La zona pianeggianti e gli altopiani erano come deserti, aridi, senza piante e senza acqua, anche se lì di acqua ce ne era anche troppo, tuta congelata, per svariati chilometri sopra la crosta rocciosa del pianeta.
Ma il ghiaccio serviva a nascondere delle basi militare installate dai terrestri in quel braccio della galassia, parallelo a quello governato dall’Imperatore.
Le navi si misero in orbita geostazionaria intorno al pianeta, ognuna prendendo come riferimento una delle base militare del pianeta.
La nave con il Tenente e la Regina si stabilizzò sulla base comandata da un Tenente Colonello di nome Robert Goiunes.
Non che all’uomo interessasse molto il comando di quella base, ma per far carriera era necessario comandarne una, dopo la scuola di guerra.
Verificò di persona il tipo di nave che era arrivata, chi c’era a bordo e l’orbita di parcheggio in cui la nave era stata messa.
Scambiò poche parole via radio con la nave: il fatto che la nave avesse solo un numero di identificazione non lo preoccupò.
Il Tenente Colonnello identificò, con il computer, le singole persone della nave.
Non aveva ricevuto ordini ben chiari: doveva solo affiancare il comandate della nave e dargli tutta l’assistenza possibile.
Una nave lunga cinquecento chilometri, con tutta quella potenza di fuoco, di che assistenza poteva aver bisogno?
Il Tenente Colonello ricevette, dopo poco più di un’ora che la nave si era messa in orbita, una chiamata su una linea riservata.
Non l’aveva mai usata, e forse neanche i suoi predecessori.
Era il Presidente in persona.
Il Tenente Colonello pensieroso, rispose rispettosamente alla comunicazione.
«Signor Presidente!»
«È un po’ che non ci sentiamo Robert, come va?»
«È protetta la linea?» Chiese il Tenente Colonnello, stupidamente.
«Forse. Ma non si preoccupi. Il Tenente Closser sulla nave in orbita standard sul suo zenit necessità di più di una sua assistenza. Questo lei lo sa bene, vero?»
Il Tenente Colonnello sapeva bene di cosa stava parlando il Presidente: per anni i suoi genitori gli avevano spiegato che un giorno, forse non molto lontano, qualcuno lo avrebbe contattato con una certa frase: “necessità più di una sua assistenza.”
Il momento era arrivato e lui sapeva cosa rispondere.
«Signor Presidente, il Tenente Closser bon deve far altro che chiedere e io personalmente fornirò a lui e ai suoi uomini la mia personale assistenza. Nessuno interferirà con quanto è necessario fare!»
«Bene, Tenente Colonnello! Bene. E mi raccomando, stia attento al Generale ...»
«Non si preoccupi. Il Generale ha, al momento, più gravi problemi che non quello che lei mi sta illustrando! Pare che alcuni ribelli abbiamo attraversato la frontiera, senza motivo, e si stanno dirigendo qui, oltre, pare, ad un’altra nave che è uscita dalla zona imperiale da un’altra parte e si sta dirigendo verso il nostra pianeta spia, nella zona limitrofa del braccio. La sento silenziosa, Signor Presidente: forse non ne era al corrente?»
«Robert, il Generale ha deciso di fare una guerra personale all’Imperatore per motivi sui personali …»
«No, signore! La guerra del Generale non è privata! Sembra che la questione Regina lo abbia scosso più del voluto! Non vuole lei e i suoi tra di noi! Forse la questione religione e maghi lo ha messo sul chi vive! Secondo me, il Tenente dovrebbe muoversi più velocemente, se la situazione glielo consente! Altrimenti interverremo in suo supporto, portando via la nave e la regina e le navi telecomandate! Le altre dovranno essere in qualche modo manomesse fino a conclusione dell’operazione!»
«Robert, e come farete con i nemici?»
«Nemici della Regina, forse, ma non nostri! La questione è stata monitorata, Signor Presidente. Non è così, e continuerà ad essere così. Fonti certe dicono che l’obiettivo non siamo noi, se solo riuscissimo ad accordarci con i loro comandanti! A questo punto, che bisogna sganciarsi da questa situazione ...»
«No, no Robert! Si calmi! Dobbiamo ancora capire a cosa servono quelle strani armi, poi vedremo …»
«Ah, sì, non gliel’ho ancora detto! Abbiamo scoperto come si usano! I meno esperti si sono fatti subito male! Ma io no, Signor Presidente! Un vero gioiello di arma!»
Il Presidente tacque.
La notizia era molto interessante e che il Tenente Colonnello, e forse anche il Tenente, le avrebbero usate in modo magistrale contro un nemico che si vantava di usarle da generazioni.
«Perfetto, Tenente Colonello. Ragguagli il Tenente e fate un piano. La Regina ci serve contro l’Imperatore. Faccia risvegliare i suoi e la metta contro l’Imperatore …»
«Ma i ribelli, Signor Presidente …»
«Si sono già attrezzati! Lei si preoccupi solo che la Regina i suoi si lancino contro il loro traditore come cani sciolti! Per riavere quel piccolo potere che immaginano di avere metteranno a fuoco e fiamme l’Impero. E poi che continuino a credere che si costruiranno un loro nuovo piccolo impero. Non resisteranno molto. I ribelli li massacreranno e noi avremo armi nuove, tecnologie avanzate, nuovi alleati e una galassia al sicuro! Poi ci preoccuperemo dell’altra questione! Buon lavoro, Robert.»
Il Tenente Colonello non fece in tempo a rispondere che la comunicazione fu interrotta.
Ora doveva vedere di persona il Tenente e iniziare un lungo e lento lavoro.
Ma la Regina avrebbe pazientato così tanto?
Stava per andare in panico, ma si contenne: ora doveva sistemare tutto quel caos.
Le navi giravano intorno al pianeta come un trenino per bambini e il Tenente Colonnello, che le comandava, continuava ad attendere ordini da qualcuno più in altro di gradi di lui, non comprendendo neanche lui chi comandava realmente su quel pianeta.
Il Generale era in viaggio e il Presidente non dava ordini diretti se non tramite i suoi consiglieri militari, che titubavano sulla necessità di far atterrare quelli navi, così enorme, su quel pianeta.
Robert comprese che se si fosse mosso velocemente, solo lui sarebbe riuscito a sistemare al situazione.
Comandò una riunione sulla nave della Regina invitando tutti i comandanti delle altri navi.
Era l’unico modo perché la Regina non scappasse, controllata a vista dal Tenente.
Comandò ai suoi fedelissimi di preparare una navetta e partirono.
Gli altri comandanti della basi si lamentarono con il Generale Federick Hack, comandante delle guarnigioni sul pianeta, ma lui non diede ascolto alle lamentele.
Anzi, suggerì ai suoi sottoposti di stare fuori: se fosse successo qualcosa, era meglio che uno solo fosse sacrificato.
Ovviamente, tutti, conoscendo bene il Generale Hack, noto approfittatore e arrampicatore sociale, anziché essere un buon comandante per la guerra, si zittirono, in attesa dei fatti: il Tenente Colonnello non era della cricca del Generale e se avesse combinato un guaio, loro avrebbero avuti tutti i meriti e le promozioni e lui sarebbe finito al macero.
Ma, come spesso accade, l’ottusità di certe persone non porta lontano, anzi, le lascia al freddo.

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Capitolo 11
*** Conti in sospeso ***


Pianeta Bakearen, zona esterna del braccio di Croma.
Il pianeta, di dimensioni terrestri, aveva per lo più le terre emerse nella regione tra i due tropici.
Il clima era di tipo tipicamente tropicale, con periodo di piogge abbondanti e altri di temperature miti.
In alcune zone vi erano altissime montagne, in altri di presentavano improvvise colline e vallate solcate da fiumi, alcuni con notevoli portate d’acqua, alimentate dai ghiacciai delle montagne lontane chilometri.
Su una collina, una delle più alte, da cui si vedeva l’oceano posto verso il polo sud, una donna, anziana, vestita con colori oro e rosso, guardava verso il fiume, con gli occhi chiusi, facendosi accarezzare i capelli da un venticello che soffiava da nord.
All’improvviso apri gli occhi, tenendo gli occhi bassi, in ascolto dei passi, striscianti, che gli si stavano avvicinando.
«Ti avevo detto di non farti più vedere, vecchio porco che non sei altro!»
La donna si alzò, inveendo contro un uomo, più anziano di lei, curvo sotto il peso degli anni, che aveva un leggero sorriso sulla bocca.
«Sei sempre la solita, donna! Non mi sembra che quando stavamo insieme ti lamentavi di me!»
La voce dell’uomo era roca e calma.
La donna alzò il bastone che la sosteneva verso di lui, ma lui parò il colpo con il suo bastone.
Il rumore del ciocco dei bastoni richiamò chi accompagnava l’uomo e chi, nella vicina casetta, accudiva la donna.
Gli uomini e le donne si fermarono a guardare quel momento così buffo: due persone anziane, curve, che incrociavano i loro bastoni, restando in piedi solo perché appoggiati l’uomo all’altro.
«Nonna, ma che vi prende?» Disse una delle ragazze più giovani, guardando l’anziana donna.
«Questo porco, tutte le volte che mi incontra, cerca di mettermi le mani addosso!» La voce della donna si stava affievolendo, ma non mollava la presa.
L’uomo era anche lui ansimante e dopo qualche minuto, stanchi, si sedettero sui cuscini che riempivano il centro del pavimento.
Un altro uomo anziano si fece avanti, con la faccia sorridente.
«È sempre un vero piacere rivederti, Henna! Come stai?»
La donna, ansimante, gli puntò contro il dito indice della mano sinistra, mentre con la mano destra cercava di sorreggersi.
«L’altro porco … quello che mi vuole sempre toccare il culo!»
La voce era ansimante, ma la donna era decisa nel suo je t’accuse contro l’uomo.
«Non è mia colpa mia se lo hai lasciato! Io ti amavo!»
«Huono, l’ho lasciato per vivere in pace da sola, dopo aver sfornato per voi dodici maschi! Neanche una femmina! Altro che lasciarvi!»
L’uomo seduto a terra parlò, ancora più ansimante.
«Io te l’avevo detto, Huono, di farle fare almeno una femmina! Ma tu no, solo maschi! E così l’ho persa io e l’hai persa tu! Ora non mi sembra il caso di recriminare su quello che è successo!»
«Roulde, sei sempre troppo buono, con la concorrenza!» Disse Huono.
«Il momento è grave e il pericolo che incombe su di noi! Non discutiamo del passato! Ora, Henna, se ti calmi ci spieghiamo.»
Roulde si mise comodo, incrociando le gambe.
Gli uomini indossavano lunghe vesti, come le donne, ma con colori ore e blu pavone.
Anche Huono si sdette vicino a Roulde, con il viso contrito.
Ma a parlare non furono gli anziani, ma un uomo giovane, che portava una collana dorata.
«Il grave momento, saggi, (dicendo ciò inclinò il capo verso i tre anziani) che sta arrivando è dovuto al fatto che l’antica leggenda, quella stupida e antica leggenda, sembra che stia per avverarsi. La Regina è tornata!»
Henna guardò il giovane sbalordita.
«Tu ti sei impazzito, Kouilo! Era morta, ne sono sicura! La nave è andata perduta secoli fa e nessuno sapeva dov’era!»
«Le tue vite precedenti, Henna, sono state ammaliate dal potere e sono state poco sagge!» Roulde aveva preso fiato e guardava dritto negli occhi la donna. «Hai sbagliato la dose e la loro progenie l’ha trovata e riportata in vita! Solo lei, la momento, ma presto, pur di avere il controllo della galassia, risveglieranno gli altri!»
Con un cenno della mano sinistra Henna fece tacere il brusio che si era alzato intorno a loro.
«Noi siamo una delle tante discendenza di quel popolo malvagio! Dobbiamo comprendere quanti altri sanno e quanti altri sfrutteranno questa situazione! Di certo i maghi erano lì, come sempre, pronti a prendersi il merito di tutto! No, questa volta dobbiamo partecipare anche noi al tavolo delle trattative!»
Henna si alzò, questa volta cercando di alzare la schiena la più dritta possibile.
«Siamo un popolo pacifico perché siamo discesi dai più cattivi e irresponsabili dei nostri antenati e abbiamo compreso la vera nostra identità nello spazio! Ma anche noi possediamo una parte di quella religione, forse la più cruenta, e non possiamo tirarci indietro! Se la Regina darà ai maghi quel terribile sapere, forse ci saranno guai più seri! Sì, sì lo so Kouilo, i nemici della pace galattica sono sempre in agguato, ma pare che i nemici che ci circondano sono più pericolosi delle serpi che abbiamo in seno!»
Henna fece una pausa e guardò i due anziani uomini seduti di fronte a lei.
Roulde si alzò, inarcò più che poté la schiena e parlò.
«Parole sagge, Henna! Sono secoli cha abbiamo ormai perfezionato quella tecnica di combattimento, forse fino all’estremo, comprese le nostre capacità mentali! Ma sai (e qui la voce si fece più fiocca) che il male potrebbe, in qualsiasi momento, prendere il sopravvento e far superare, ad alcuni di noi, se non ben addestrati, il limite! E non credere, come dici sempre tu, che tra il bene e il male c’è una zona grigia di fusione tra le due entità, che consentirebbe ad un uomo di agire usando i due poteri! Ma questa è solo filosofia! Bisogna che le nostre antiche entità comprendano i bisogni reali ed attuali della galassia, in cui miliardi di esseri viventi, diversi tra loro in corpo e anima, si sono decisi di unirsi per un bene comune! I nostri giovani, inviati in goni angolo della galassia, senza tradirsi, uniranno le loro forse per combattere qualsiasi nemico della pace! Avviseremo tutti i componenti del consiglio e approveremo un piano di attacco!»
Tutti si alzarono e Henna guardò di tralice Roulde.
«E vedi di tenere le mani a posto! Tutte e due! Ho una certa età, ma posso sempre menarvi!»
Huono sospirò.
«Sarà un viaggio lungo e tedioso!» Disse.
Kouilo rise.
«Non vi preoccupate! Useremo una navetta, anche se non volete, così il viaggio sarà breve e non dovrete bisticciare!»
«Sia ben inteso che salirò per ultima sulla navetta e mi chiuderò nella mia cabina a chiave fino alla fine del viaggio! Con certi zozzoni non voglio avere nella a che fare!» Disse Henna, voltando le spalle ai presenti ed andandosene.
Ma un fischio unisono la seguì, facendola sorridere.
Dopo tutti, alla sua età, faceva girare la testa agli uomini, ma era meglio che non lo sapessero: mosse il bastone in aria e un vento impetuoso si abbatte sulla terrazza.
“La solita!” pensarono i due uomini, che si girarono, schiaffeggiati da quel vento, e si allontanarono, mentre le donne scappavano in casa e gli uomini seguivano i due più anziani, coprendosi il volto, da quel terribile vento, con i mantelli.

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Capitolo 12
*** Non dire ***


Di solito le riunioni del consiglio degli anziani sul pianeta Bakearen erano una festa.
Gli anziani ci impiegavano giorni per arrivare alla capitale, percorrendo fiumi, strade e valli, circondati dalla popolazione che festeggiava l’evento.
Questa volta gli anziani e i loro seguiti arrivarono con delle navette.
Quella di Kouilo viaggiò il più velocemente possibile, ma ci vollero sempre tre giorni per arrivare.
Tre lunghi e noiosi giorni.
I tre anziani se ne stettero chiusi nei loro alloggi, ognuno a meditare e a mangiare ciò che voleva.
Kouilo, mentre tutti erano a dormire, faceva un giro di controllo per la nave.
Erano delle persone anziane e sagge, ma per il resto sembravano degli esseri agli antipodi dell’umanità.
Henna, quando dormiva, russava così forte che la sua voce rimbombava nelle stanze vicine (senza dirle niente, misero un emettitore di onde con frequenza contraria al suo russare per evitare problemi agli altri).
Huono sembrava che fischiava, quando dormiva.
Aveva il sonno leggero e, se qualcuno camminava nel corridoio, lui rumoreggiava quasi come un maiale, emettendo dei grugniti.
Kouilo arrivò alla stanza di Roulde, ma da dentro non arrivarono alcun rumore.
Voleva entrare, quando sentì la voce di Roulde in fondo al corridoio, da dentro la cucina.
Kouilo ci andò, trovando Roulde che faceva la fuse con una delle sguattere più giovani e, guardandola, anche se vestita di stracci, era certamente la più carina.
Kouilo incrociò le braccia e guardò l’anziano, come quando un padre guarda il figlio che ha rubato la marmellata.
Il vecchio chinò il capo e se ne tornò in stanza, mentre alla ragazza ricevette, dalla cuoca, una severa ramanzina.
La riunione degli anziani durò meno di mezza giornata.
Tutti gli anziani, arrivati da varie parti del pianeta, dissero la loro, così come i capi della varie zone.
La decisione fu subito presa: un loro rappresentante sarebbe andato dal Presidente a parlare della situazione.
Alla fine molti ripartirono per le loro abitazioni.
Kouilo e i suoi tre anziani si fermarono a parlare con altri anziani e i loro rispettivi capi zona.
Le comunicazioni tra gli anziani avevano del ridicolo: sembravano bambini che stavano litigandosi delle caramelle.
Ma se la riunione aveva deciso di procedere, cos’era tutta quella agitazione?
Foriuse, la sguattera con cui Roulde aveva amoreggiato, guardava, da lontano, la strana discussione.
Non poté avvicinarsi, affinché la sua copertura non venisse scoperta, ma altri occhi guardavano lei e controllavano il gruppo.
La discussione, sul caso o no di usare le armi, a cui si erano tanti allenati, coinvolgeva molto gli anziani.
Non avevano mai messo in discussione l’uso di tali armi fuori dal loro confine, se questo fosse stato necessario.
E il governo centrale, pur sapendolo, aveva sempre limitato il loro interventi in varie dispute spaziali con gruppi ribelli o pirati o nemici più o meno conclamati della pace galattica.
Al Presidente, uomo molto colto, la pace galattica gli ricordava molta una pax romana.
Ma sul suo bel pianeta, il Presidente pensava a quella pace, così tanto voluta e così tanta protetta, che rischiava di finire nel nulla, non certo per una democrazia demagogica, che sembrava esistere in quel momento, ma per tutte le sfaccettature che i popoli, presenti nella galassia, esprimevano.
L’uso di popoli, militarmente preparati, per sedare altri popoli, civili e, magari, anche mal armati, non era stato facile per i lui e per i suoi predecessori: i popoli dovevano essere alla pari, sia civilmente che militarmente, ma non sempre così era successo.
Ora il Presidente, lì, sdraiato sul suo letto, comodo e confortevole, con la sua bellissima moglie, sposata più per necessità politiche che per amore, ripensava a quello che poteva succedere con la Regina tra i piedi e i nemici che, sicuramente, il suo passato aveva creato, poi sedati dalla sua scoperta ed ora riapparsi.
Ma se loro erano solo i loro discendenti, perché la presenza della Regina provocava così tanto fastidio a tutti?
No, qualcosa non quadrava.
E non poteva fidarsi neanche dei suoi sottoposti o dei suoi ministri: se uno solo di loro fosse stato coinvolto nella questione Regina, anche indirettamente, la cosa avrebbe avuto ripercussioni tremende.
Il Presidente si alzò dal letto, con il suo bel pigiama marrone oro di seta, e si diresse verso il suo studio privato.
Si sedesse sulla sedia della sua scrivania e si rimise a leggere i documenti che gli avevano consegnato nel pomeriggio.
La moglie, stranamente, lo raggiunse nello studio e si sedette sul divano, posto alla destra della scrivania.
Indossava una camicia da notte con le spalline, trasparente, ci color azzurro pastello, che non nascondeva nulla del suo atletico corpo, e aveva i piedi nudi.
L’uomo guardò la donna, tenendo a mezzaria la copertina di un cartellina gialla, chiedendosi cosa volesse.
La donna, se chi chiamava Andrea, parlò in modo molto suadente.
«Caro, da un po’ non ottemperi ai tuoi doveri coniugali! Ti sei stancato di me?»
L’uomo chiuse la cartellina e, meravigliato, guardò la donna.
«E ti sembra l’ora di parlare di queste cose, con tutti i problemi che ho?»
La donna inizio a giocare con la gonna, accavallando le gambe e facendo gli occhi languidi all’uomo.
Il Presidente si alzò e si sedette alla destra della donna.
Con un semplice suo sibilo le luci sulla scrivania si spensero e della stanza si affievolirono.
«Non puoi battere la Regina e non puoi battere l’Imperatore, anche se con l’aiuto dei ribelli! (la donna cambiò l’accavallamento delle gambe, mettendo la sinistra sopra la destra) Devi per forza usare i maghi e quelli simili a loro! Non capisco perché ci pensi tanto, caro!» Le ultime parole della donna furono dette con le labbra che sembrava volessero baciarlo.
Il Presidente la squadrò.
«E tu, cara, perché ti interessi a tutto questo?»
La domanda del Presidente non era retorica: la moglie non si era mai interessata di politica: a lei interessavano solo gli uomini e le donne per i suoi privati e insani divertimenti.
«Così!» Disse, con fare indifferente.
Fu un attimo, un lampo che squarciò il buio più profondo.
Il Presidente prese per il collo la donna e la porto a sdraiarsi completamente sul divano.
Sembrava quasi che volesse strozzarla, e la donna si difendeva, come se quello che stava succedendo fosse reale.
Poi si rese conto che l’uomo l’aveva sì presa per il collo, ma l’aveva solo fatta sdraiare e lì la stava tenendo.
«Ti ripeto: tu, in quanto sta succedendo che interesse hai, mia cara?»
La donna iniziò a preoccuparsi: non poteva urlare, non poteva muoversi e qualsiasi sua parola, alle orecchie del Presidente, sarebbero parse false.
Batté tre volte la mano destra sul divano, come i giocatori di lotta quando si arrendono, e l’uomo mollò la presa.
“Sa, sa tutto, ma non vuole che ne parli!”
I pensieri che passarono nel cervello furono molteplici, ma tutti brutti.
Il Presidente si rialzò e si sedette alla scrivania.
Rivolto alla donna gli disse chiaramente:
«Tu domani te ne vai! Sul tuo bel pianeta natale, magari! Hai bisogno di riposarti per motivi di salute! Se parli, anche per puro errore, di quello che io e te sappiamo, non vedi la luce del giorno dopo!»
La donna si alzo, strofinandosi il collo, è uscì dalla stanza incespicando su di un peloso tappeto.
Non attesa il giorno dopo.
Quella stessa notte, mentre il marito controllava i rapporti, fece la valigie e sparì nelle profondità dello spazio, per non fare più ritorno.

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Capitolo 13
*** Ma quale segreto... ***


Le spie dell’Imperatore, del Generale, del Presidente e di chiunque altro avesse un interesse in quello che stava succedendo, iniziava ad avere seri dubbi sulla veridicità della Regina.
Gli unici che ci credevano ancora erano i maghi e pochi altri popoli che facevano della magia, o dell’uso di strane armi, un loro punto di forza per avere un certo peso di fronte agli altri popoli che, nella maggioranza, tenevano lontani da loro quelle persone.
Di certo l’inimicizia tra quelle culture così evolute e il resto dei popoli alle volte era risultata troppo pericolosa ed amalgamarle era un vero problema: parecchi presidenti avevano cercato un accordo tra i popoli, ma le differenze culturali erano, spesso, troppo profonde ed incolmabili.
Non si erano arrivati a vere e proprie guerre, ma alcune scaramucce avevano segnato i contendenti.
Fu così che alcuni giovani, vagabondi dello spazio, dell’una e dell’altra fazione, che si erano conosciuti e amati, cosa non condivisa dai loro parenti e fuggire era la loro unica soluzione e, come risultato, si erano diretti su un pianeta vergine, che non aveva mai visti piede umano, che servì onorevolmente allo scopo.
Erano secoli che coppie miste si erano nascoste lì, protette da animali feroci, che solo loro potevano controllare, ricche foreste vergini, profondi laghi, mari, oceani e montagne piene di grotte.
La popolazione, da poche migliaia, era lentamente cresciuta, arrivando ad alcuni milioni di esseri di tutte le razze, che con l’andare del tempo si erano mescolate e miscelate, sia nel corpo che nell’anima.
Non avevano, però, mai negato la loro provenienza e tutti insegnavano agli altri come evolvere il loro pensiero spirituale.
La pace era un ben troppo prezioso per loro e coloro che arrivavano in fuga dagli altri mondi, venivano per un po’ di tempo tenuti in quarantena, in una zona tranquilla, verdeggiante e collinosa, nell’emisfero nord del pianeta.
Le navi utilizzate dai giovani in fuga venivano velocemente smantellate, affinché nessuno le vedesse e i loro metalli utilizzati per altri usi.
Con l’andare del tempo, e senza che nessuno li disturbasse, avevano iniziato a coltivare vaste zone pianeggianti del pianeta, che non si vedevano dallo spazio.
Chiunque si fosse avvicinato al pianeta avrebbe visto solo gradazioni di verde e azzurro.
Il pianeta era al confine del braccio galattico parallelo a quello in cui la base spaziale Cartagena era stata distrutta.
Su quel pianeta non se ne seppe niente.
O almeno, alle varie spie così sembrò.
Gli abitanti di quel pianeta non segnato sulle carte spaziali, per evitare che teste calde decidessero di andarci per interferire con la vita tranquilla di quel luogo, non erano certo degli sprovveduti.
Sì, certo, l’amore, che rende tutti ciechi, li aveva portati lì, ma la consapevolezza che il loro sapere fosse così evoluto, che spesso tra loro stessi vi erano state discussioni sulla possibilità di una maggiore evoluzione del loro essere.
Quando i fatti raccontati si svolgevano, sul pianeta la maggior parte della popolazione era composta da maghi, mentre gli altri si erano evoluti nelle scienze, sai scientifiche che umanistiche.
E la discussione, spesso, solo dialettiche, erano delle vere e proprie guerre di parole, che finivano immancabilmente con grandi risate da parte di tutti, compresi i contendenti, che si stringevano la mano.
Le dispute avvenivano in un enorme grotta naturale, posta sotto uno dei monti posti verso il polo sud del pianeta.
Lì si trovavano, per alcuni giorni, le menti più evolute del pianeta a discutere di tutto ciò che nei mesi precedenti avevano studiato e scoperto.
Le riunioni avvenivano ogni circa quattro mesi, al giorno dei solstizi e degli equinozi.
I presenti portavano tutti delle tuniche lunghe, con un miscuglio di colori da far paura: rosa shocking, viola, verde o giallo evidenziatore, mischiati con il marrone scuro o il blu cobalto o pavone,
In molti portavano una maschera che copriva o fino al naso o tutto il volto, in oro o in platino, pochi in rame o altri metalli più o meno nobili.
Solitamente la gente entrava nella enorme grotta, che sembrava un anfiteatro, circolare, e si sedeva dove poteva, a terra o su sedie formate naturalmente dalla roccia.
La voce di chi si fermava in mezzo a quell’emiciclo veniva distintamente sentita da tutti, senza che la voce dell’interlocutore fosse più alta di un brusio.
Non c’era un presidente dell’assise: chi voleva entrava nell’emiciclo, cominciava a parlare e chi era interessato alla discussione si faceva avanti e la discussione iniziava.
Ma quella volta, a viso scoperto, un giovane entro nell’emiciclo.
Non aveva una tunica, ma vestiva una maglietta grigia a maniche lunghe, un paio di pantaloni dito jeans e della scarpe basse da ginnaste, di color nero con le stringhe.
L’assemblea tacque: mai nessuno aveva modificato la consuetudine di presenziare con la maschera.
«Chiedo umilmente scusa a questa assemblea!» Il ragazzo, giovane, sembrava abituato a parlare in pubblico. «So che a voi di quello che succede al di fuori di questo pianeta non vi interessa molto, purché questo non interferisca con la vostra pace. Ma cose orribile stanno attraversando la galassia e presto ne verrete coinvolti! Non pretendo che mi crediate, ma ben sapete che molti degli animali di questo pianeta non sono quello che sembrano! Non sono quello che sono! E voi fino a quando continuerete e fingere!»
Un uomo, alto, con una andatura regale, si avvicinò al giovane e si tolse la maschera.
Aveva un viso ovale di carnagione scura, occhi d un intenso azzurro, nasco schiacciato e narici larghe, bocca larga e labbra piccole.
Guardò il ragazzo, più basso di lui, con fare altezzoso.
«Pensi davvero che su questo pianeta esistano persone che non “sentano” le difficoltà che i popoli della galassia stanno attraversando? Sappiamo bene cosa succede e il nostro non interferire è solo perché nessuno ci ha mai disturbato! E se anche lo facesse, lo sapremo mettere al suo posto!»
La folla presente, a quelle parole, rumoreggiò e la grotta sembrava che voleva esplodere.
Il ragazzo continuò.
«Già. Ma le navi militare che ho visto venendo qui, e che avevano rotta per il braccio della galassia nella zona dell’Imperatore, cosa credete che serviranno? Finito con l’Imperatore ci siete voi e tutti quelli che non vogliono ubbidire al Presidente.»
«Non lo farà!»
La voce di donna proveniva dall’alto, dalla parte opposta all’ingresso della grotta.
Aveva una vesta lunga, di fattura pregevole, con i colori giallo e arancione che si amalgamavano con le loro varie sfumature.
Aveva un cappuccio che le copriva il volto, ma lo fece cadere indietro, togliendosi anche la maschera d’oro.
Ne apparve una donna bellissima, con dei lineamenti molto delicati.
Aveva al guinzaglio uno strano animale, mai visto su quel pianeta, nero come la pece, con una struttura ossea imponente, alto, con la testa che arrivava al bacino della donna, con una bocca piena di denti affilati sul davanti e molari grossi, come un pollice.
L’animale emise un ronfo e seguì la sua padrona, mentre scendeva le rocce per portarsi di fronte ai due uomini.
Quando si fermò, l’animale si sedette sulle due zampe posteriori, guardando i due in modo dolce, anche se quella lingua, enorme e rossa, passando sulle labbra e sulle vibrisse, non annunciava nella di buono.
«Non gli interessa di voi, lo sapete bene! Gli interessa solo quello che la Regina gli può dare! Ma, a quanto pare, e a quanto ho visto, la Regina non ha niente da dargli. Forse ai maghi interesserà quella strana arma, come si usa, ma anche lì pare che qualcuno si sia mosso da solo, scoprendo quello che ci vuole per usarla, e anche per farle!»
E ultime parole furono dette in modo suadente, inclinando leggermente la testa in avanti e guardando dritto negli occhi l’uomo più anziano.
«Lo sai benissimo, Andrea, che abbiamo preso questa decisione …»
«Hai preso, Amos, questa decisione per evitare che certi segreti escano da questo pianeta! Dopo secoli vuoi ancora coprire la verità! (la donna alzò la voce, lasciato il guinzaglio dell’animale e gli si avvicinò) Cosa pensi di essere? Il difensore di una religione che ormai mieterà vittime, talmente tante vittime, che le tue mani saranno lorde di sangue di popoli inermi? Svegliati, Amos, e anche voi (qui la donna aprì le braccia e si rivolse a tutti coloro che erano in quella grotta) il futuro è arrivato e nasconderlo non è solo pericoloso, ma è anche distruttivo! Vi ho protetto finché ho potuto, ma ora non si può più! Gli eventi ci stanno scappando di mano e dobbiamo porgere lo sguardo oltre!»
Un sonoro rumore, come uno sbuffo di una locomotiva, uscì dal fondo della grotta e un enorme animale apparve dal buio della grotta.
«Non così in fretta, Andrea! I nostri fratelli, liberati dalle catene, ci hanno contattato e non vedono una soluzione a breve! Dobbiamo attendere …»
«Attendere che altri muoiano per te, Lucius! (la donna si avvicinò all’animale, senza paura) Non sono scappata per sentirmi dire di aspettare! Tu non hai ancora così tanto da vivere, lo sai! La macchina funziona ancora, ma le tue cellule è da parecchio che non si riciclano! È venuto, volente o nolente, il tuo tempo! Lo sento, Lucius, lo sento che le tue cellule, a mano a mano che passa il tempo, si sgretolano, con controllano più il tuo corpo! È ora che anche tu finisca, come i tuoi cari “amici”, per concederci di vivere in una pace vera e amorevole, non legata alle vostre voglie! La fine è vicina! Poni fine ora a tutto ciò, o il Presidente, anche se mi ha cacciato, saprà la verità!»
L’animale urlò con tutte le sue forze, ma i presenti non si spaventarono e non si mossero.
Lucius solo, e solo allora, capì la verità.
Per tanti anni aveva agito nel suo solo interesse, non in quello delle persone che erano venute a vivere su quel pianeta in pace, ed ora la sua fine era arrivata.
Improvvisamente il suo cervello ebbe un sussulto e smise di funzionare.
L’enorme corpo dell’animale cadde a terra, senza vita e il macchinario, che lo aveva tenuto in vita per secoli, smise improvvisamente di funzionare.
Tutti gli abitanti del pianeta furono percorsi da una scossa elettrica e svennero.
Amos cadde per terra come uno straccio, come il ragazzo.
Andrea, ormai immune all’animale, rimase in piedi a guardare quello strano spettacolo: nella grotta tutti, come marionette, erano cadute per terra.
Alcuni, purtroppo, si fecero male, con tagli sulla testa o gambe rotte, e quelli che riuscirono a riprendersi subito aiutarono gli altri ad uscire dalla grotta, mentre altri entravano a vedere cosa gli aveva provocato quello strano svenimento.
Amos si avvicinò ad Andrea.
«Non credevo che ci saresti riuscita a farlo! E ora?» Amos parlò con una voce preoccupata.
«Di sicuro i suoi amici ora lo sapranno, ma non sono sicuro che riusciranno a imporre il loro volere sugli altri! O almeno, lo spero! Le navi sono arrivate e di loro ce ne sono almeno cinquecento, da quello che ho capito. Ma non posso dirlo al Presidente, è pericoloso, e il Generale sta giocando con la vita di troppi popoli! Ora tocca a noi sbrogliare la matassa! Che tu lo voglia o no!» Le ultime parole furono dette con furia.
L’animale nero si avvicinò alla sua padrona, fregandosi contro le sue gambe.
«Smettila, Hungry!» La donna sculacciò il sedere dell’animale, che gli voltò le spalle e se ne andò, annusando l’aria in cerca di cibo, possibilmente non umano.
I due esseri umani rimasero lì a vedere il corpo di quell’animale, che ricordava un drago, un disegno che spesso si vedeva sui libri per bambini.
Alcuni uomini vennero con delle torce, con il fuoco scoppiettante, e taniche di liquido infiammabile: bagnarono il corpo dell’animale e gli diedero fuoco.
Scapparono tutti fuori dalla grotta, mentre il corpo bruciava e alcuni macchinari scoppiavano.
Il fuoco durò due giorni e la grotta si annerì: non l’avrebbero più usata, anche perché, ormai, dopo secoli, quel pianeta era diventato stretto a tutti.

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Capitolo 14
*** Ordine nel caos ***


Caos.
Ordine.
Segreti.
Chi poteva dire cosa realmente stesse succedendo in quel momento nella galassia?
In un pianeta fuori dalle rotte commerciali, uno di quelli usati come parcheggio per le astronavi usate e fuori uso per poi riutilizzarle come pezzi di ricambio per altre navi, con la maggior parte del suo territorio desertico, la vita di chi ci abitava continuava, nel suo tran tran quotidiano fatto di fatica, della ricerca del cibo e di una vita di stenti.
Non esisteva fabbriche o uffici.
La popolazione era arrivata là in fuga o dall’Imperatore o dal Presidente, non capendo le leggi imposte da l’uno o dall’altro.
Ma un popolo, hai più sconosciuto, viveva da secoli su quel pianeta, prima nelle grotte e poi al riparo delle enormi navi abbandonate.
Era un popolo di ominidi piccoli, alle volte informi, che si cibavano di piccoli animali che vivevano nella sabbia del deserto e di qualche pianta che riusciva a crescere all’ombra delle navi o nelle fresche grotte, ove la poca umidità dell’aria veniva catturata e trasformata in acqua.
Non usavano coprirsi con indumenti.
Nessuno li aveva mai visti di persona e nessun scienziato, non sapendo della loro esistenza, si era mai preoccupato di studiarli.
Il passaggio dalle caverne alle astronavi era avvenuto in modo tranquillo, anche se tra loro ci fu una lotta interna per accaparrarsi le astronavi vicine alle montagne o alle loro grotte naturali che le aveva visto crescere.
Sotto il caldo sole di mezza giornata, uno degli ominidi vide una figura in lontananza che si avvicinava alla nave in cui lui e il suo gruppo vivevano.
La figura esile, si sosteneva con un bastone, barcollante, arrivò sull’orlo della duna, perse i sensi e precipitò giù, silenziosamente.
Gli ominidi avevano già avuto visite inaspettate: più che altro naviganti che si erano persi e le cui navi si erano rotte. Di solito erano esseri volgari e perversi, che spesso si erano divertiti, prima di rubare i pezzi alle navi abbandonate per riparare le loro navi, a far soffrire quel piccolo popolo.
Fu così che la figura umana, caduta ai piedi della duna, fu lasciata lì dagli ominidi fino a sera.
La notte era fredda, rispetto al caldo del giorno, e la figura, rabbrividendo, si svegliò.
Si rialzò a fatica e continuò il suo cammino fino alla più vicina nave.
Vi entrò da un enorme squarcio sul lato motori e si distese a terra, tra due travi portanti della copertura esterna della nave.
Il suo sonno fu faticoso e pieno di sogni terribili.
Gli ominidi, durante la notte, si tennero alla larga da quella figura.
Al levar del sole la minuta figura si sposto più all’interno della nave, trovando una pozza d’acqua, formatasi nella notte, e bevve avidamente.
Di fianco a quel piccolo tesoro ve n’era un altro: una pianta con bacche rosse.
La figura le scrutò attentamente, poi visto che le ricordavano una pianta già vista e commestibile, le mangiò.
Le urla furiose degli ominidi rimbombarono nella nave.
Non erano abituati a che un estraneo si impossessasse dei loro tesori, ma si fermarono a quel stratagemma per allontanare la figura che, all’inizio, spaventata per il trambusto, si era messa sulla difensiva ma, poi, non vedendo nessuno che si avvicinava, se ne torno al suo desinare.
L’esile figura passò il giorno al riparo dal sole cocente, vicino alla pozza dell’acqua e a quel cespuglietto di bacche, non molto nutrienti.
Alla sera, un po’ più rifrancata, controllò il suo stato.
Non aveva escoriazioni, solo alcuni lividi, un bozzo doloroso sulla testa e, guardando il suo volto riflesso in una lastra di alluminio della nave, la faccia sconvolta e i capelli lunghi e arruffati.
Le grida degli ominidi si erano fatte sentire alcune volte, durante la giornata, ma siccome non si facevano vedere, la ragazza pensò più a degli animali che ad essere umani che abitavano quel pianeta.
Arrivò la notte, le voci rumorose si placarono e lei riuscì a dormire tutta la notte.
Al mattino fu svegliata da uno stropiccio di piedi contro le lamiere della nave.
La figura era riversa, in modo fetale, sul suo lato destro e non vedeva chi da dietro stava arrivando.
Ma vide, sempre nella lastra di alluminio in cui si era riflessa il giorno prima, degli esseri piccoli, nudi, avvicinarsi a lei.
Non sembravano avere cattive intenzioni: forse la pozza d’acqua, così grande, era l’unica presente in quella zona dell’enorme nave.
Lei fece finta di continuare a dormire, tenendo d’occhio, sulla lastra di alluminio, gli strani esseri che si avvicinavano.
Vennero, a gruppi di quattro o cinque, a bere alla pozza.
Due o tre, forse i più temerari o i capi, la tenevano sotto controllo, pronti a dar l’allarme se lei si fosse mossa.
L’andirivieni dei piccoli ominidi durò una buona mezz’ora e lei riuscì a contarne più di cento.
Quando ebbero finito di abbeverarsi anche i suoi guardiani, si alzò e si avvicinò alla pozza.
L’acqua scendeva dal soffitto, da alcune travi e paratie sospese sulla sua testa.
Bevve un po’ d’acqua e mangiò alcune bacche.
Poi decise di andare alla scoperta della nave.
Di sicuro qualcosa di utile lo avrebbe trovato, su una nave così enorme.
Certo che di pianeti, nella sua breve vita, la figura ne aveva visti: alcuni coperti di deserti verdi, ove le piante la facevano da padrone, altri coperti di deserti azzurri, dove tutta quell’acqua piaceva solo ai marinai.
Ogni pianeta aveva una propria faccia ed era piena di insidie pericolose e mortali.
La sua bella nave, che guidava solitaria per lo spazio, fu assaltata dai pirati e lei scaricata su quel pianeta.
Aveva perso tutti i sui campioni biologici e ora, lì sul quel pianeta, doveva arrangiarsi a sopravvivere.
Si era allenata a quel momento, ma sperava che ciò non avvenisse mai.
Conosceva bene quel tipo di nave, anche se vecchia, e andò all’avanscoperta, nel silenzio più assoluto.
Ogni tanto qualche folata di vento entrava nella nave, sibilando leggermente.
Cercò prima di tutto il locale armi.
Lo trovò verso la sala comando, alcuni ponti sopra a dove era entrata.
Trovò la porta stranamente chiusa: la prima parte della nave che veniva smantellata e le prime cose che venivano smontate erano proprio le armi di bordo.
La figura esile cercò, invano, di aprire la porta scorrevole, blindata, che dava al locale.
Per entrare lì non c’era altro sistema, ma sia i binari che la serratura della porta erano arrugginiti.
Cercò, nel locale manutenzione, posto verso il locale macchine, un paranco o un argano portatile per aprire la porta.
Trovò un crick e, infilandolo tra le due porte, riuscì ad aprire il locale ed entrarci.
Le armi erano ancora tutte al loro posto, inutilizzate da tempo.
Non ci fece molto caso, ma quando vide le armi contenute, ebbe un dubbio: erano di scorta per qualcosa di grosso.
Le armi contenute erano usate da popoli molto evoluti nella galassia e a lei era stato mostrato, un volta, come utilizzarle.
Ne provò una e questa si accese immediatamente, facendo fuoriuscire dal manico una fascio laser, del diametro di pochi centimetri e non più lungo di un metro e cinquanta, di color rosso.
La mosse dolcemente e la spada le rispose, senza problemi.
L’aria intorno al laser oscillava per il calore emesso dal fascio di luce e un leggero ronzio circondava l’arma in funzione.
La spense e la rimise al suo posto.
Gli umanoidi, che l’avevano controllata durante l’abbeveraggio dei loro compagni, l’avevano seguita, silenziosamente.
Ma lei, abituata com’era ad essere seguita da animali o altri ominidi, che aveva conosciuto sui vari pianeti che visitava, non se ne era preoccupata.
Buttò fuori la testa improvvisamente dalla stanza e tre ominidi, urlanti, scapparono via.
Vide che erano piccoli, di un color forse ocra, con una coda mozza, che camminavano su due piedi e avevano i capelli lunghi.
Rise fra sé e rientrò nell’armeria.
Un’altra meraviglia delle armerie era che nascondeva un’altra stanza, ove venivano tenute le cose più preziosi: ordini, carte nautiche informatizzate e altre documenti segreti.
La trovò, spostando una rastrelliera sul fondo della stanza.
Per aprirla dovette usare lo stesso sistema che aveva usato per la corrispettiva dell’armeria.
La stanza era grande come l’armeria.
Dentro l’ordine regnava sovrano.
Neanche la sabbia del pianeta era riuscito ad entrare nei due locali.
Zoppicava ancora e le botte si facevano sentire.
Ora che era riuscita a muovere le porte, queste si potevano chiudere ed aprire senza problemi.
Le chiuse cautamente, controllandone il movimento, ed uscì, in cerca dell’infermeria e della cambusa.
Salì e scese scale finché non trovò l’infermeria, anch’essa con la porta bloccata.
Dovette tornare indietro, prendere il crick e ritornare all’infermeria, sempre seguita dai tre ominidi.
Riuscì, con un po’ più di fatica, ad aprire la porta e vi entrò cautamente: in infermeria, spesso, vi era un laboratorio in cui venivano tenuti strani tipi di piante, rampicanti, alle volte carnivore, utili per degli estratti particolari a far guarire bruciatore di laser o di simili armi.
La stanza era anch’essa in ordine e trovò, dopo aver frugato un po’, bende, ungenti e pillole per curarsi.
I tre ominidi, mentre si curava, sbirciarono all’interno.
La figura fece un movimento veloce, girandosi verso di loro.
I tre, urlando, scapparono via: in quella zona della nave non si erano mai spinti e, dopo lo spavento, la figura non li vide più.
Dopo essersi sistemate le ferite, cercò la cambusa.
Sulla nave non c’era energia, ma pile autonome, con un cerca potenza energetica e di una buona durata si trovavano chiuse dietro a vari nascondigli nelle pareti della nave.
Mosse un portello e trovo delle pile funzionanti.
La cambusa era proprio l’infermeria.
Lì la figura, con le pile in mano, cercò un macchinario che duplicava i cibi.
Lo trovò, smontato, dietro ad un armadio: gli mancavano alcune parti e il collegamento con il computer centrale era guasto, ma già averne uno riparabile era una buona cosa.
Mise le batterie e il macchinario su un carrello della cambusa e si diresse verso il locale della manutenzione.
Trovò tutto quello che gli serviva e riparò il macchinario, lo alimentò con le batterie e, tramite un vecchio laptop, riuscì a farlo funzionare e a procurarsi del cibo commestibile.
Per l’acqua fu un po’ più problematica: il campionamento era stato modificato e riuscì solo a produrre birra, a basso contenuto alcolico, ma pur sempre birra.
Dopo aver mangiato e bevuto, si assopì su una della brande presenti nel locale, che erano a disposizione degli uomini che lavoravano in quel reparto, e si addormentò.
Quando si risvegliò il mal di testa la colse impreparata, oltre a dei dolori intestinali.
Fece buon uso del bagno chimico presente nel locale.
Quando uscì dal bagno, i tre esseri erano lì, che l’aspettavano.
Erano sempre spaventati, ma il cibo avanzato sul tavolo li aveva resi coraggiosi.
Ringhiarono, tanto per farsi coraggio l’un con l’altro.
La figura si avvicinò al tavolo senza mostrare paura, prese alcuni avanzi del mangiare e glielo buttò, come si butta un osso ad un cane.
Dopo averlo annusato un po’, i tre ominidi presero a mangiare lì, senza allontanarsi da lì.
Improvvisamente lo stropicciare dei piedi, nel corridoio divenne un frastuono.
Molti ominidi, di diverse età, apparvero alla porta, annusando l’aria.
La figura rimise in moto il macchinario e lo mise in piatti, mettendoli per terra.
Alcuni, forse i più valorosi, entrarono e presero il cibo, portandolo fuori dal locale e, affamati, tutti gli altri incominciarono a strappare il cibo dalle mani dei primi.
«Calmi, calmi! Ce n’è per tutti!» Disse la figura con voce suadente.
Il macchinario usò una pila intera, per sfamare tutti gli ominidi che si erano presentati alla porta della sala manutenzione.
Alla fine, ben pieni, gli ominidi se ne andarono.
Uno dei tre, prima di andarsene, fece una specie di gesto, come per ringraziare.
La figura sorrise fra sé e incominciò a pensare a come andarsene da quel pianeta.
Scese dalla zona comando e ritorno al buco da cui era entrata.
Se ne accorse mentre scendeva le scale, guardando attraverso una squarcio, provocato da qualche arma, su di un fianco della nave, che era notte.
Non sapeva che ore era e decise di tornare alla sala manutenzione a dormire.
Per evitare di dormire anche il giorno dopo, provocò un buco nella paratia che dava all’esterno: la luce dell’alba l’avrebbe sicuramente svegliata.
All’alba il sole entrò, rischiarando la sala e svegliando la ragazza.
Quando scese dalla branda vide i tre ominidi lì, davanti a lei, con una sguardo interrogatorio.
«Sì, lo so, non sono un bel vedere! Scusatemi!» La ragazza si alzò, ma il più vicino a lei le prese, con la mano destra, la sua mano sinistra e la tirò, come per portarsela via.
«Ehi, piano, cosa vuoi?» Gli disse la ragazza, non ancora del tutto sveglia.
L’ominide grugnì qualcosa e indicò la porta, mentre gli altri due si avviavano verso il corridoio.
Sconcertata, li seguì.
Scesero da una scala secondaria e si avviarono verso l’hangar della nave.
La ragazza non immaginava che quella nave potesse ancora contenere navicelle per viaggi intergalattici, ma, incredibilmente, nascosta da portelloni e paratie abbattute, ve ne era una.
Era come nuova, forse un po’ arrugginita in alcune parti, ma con una buona mano di vernice epossidica, senza badare al colore, l’avrebbe rimessa in sesto.
La nave era di forma circolare, verso i motori, e di forma semi conica sul davanti.
Le gondole dei motori di curvatura era posti in parallelo allo scafo della nave: quel sistema era usato per navi di piccolo cabotaggio, anche se capaci di coprire lunghe distanze.
Il portellone laterale di accesso alla nave di aprì rumorosamente premendo un pulsante, grande quanto una mano, posto di fianco al portellone.
Le luci interne sfarfallarono per un po’, poi si accesero illuminando a giorno l’interno.
I tre ominidi allungarono il collo per guardare l’interno, poi scapparono a nascondersi.
La ragazza sorrise ed entrò.
Il ronzio del motore antimateria arrivava da dietro la paratia di protezione dei macchinari che producevano la corrente e il movimento della nave.
La ragazza controllò che il portellone fosse integro e ben chiuso.
Poi si diresse verso il davanti della nave, ove c’era la sala comando e di pilotaggio.
La porta della sala si aprì immediatamente, come se la nave non fosse mai stata ferma.
Toccò alcune console e tutte si accesero, dimostrando che la navetta aspettava solo qualcuno che la risvegliasse dal lungo sonno.
La ragazza lasciò la nave, chiudendo il portellone.
La luce all’interno si spensero e la nave torno a dormire.
Gli ominidi l’attesero e l’accompagnarono al locale manutenzione.
La ragazza, adesso, non aveva fretta di partire: conoscere un popolo così strano passò davanti a tutte le sue urgenze, anche se qualcuno delle accademie delle scienze aveva protestato con i militari per non aver dato una scorta a una loro nave in una zona così esposta agli attacchi dei pirati.
L’accensione della navetta non era, però, passata inosservata.
Anche se le navi erano solo dei rottami, alcune società, che lavoravano nella ricambistica navale, aveva lasciato sul pianeta del personale perché vigilasse che nessuno approfittasse di quel cimitero.
Nel momento che la ragazza attivò la navetta, un segnale giunse ad una dei centri di controllo, ma il controllore spense immediatamente il cicalino dell’allarme: era solo nella sala e nessuno si accorse di quella anomalia.
Il controllore sorrise e si accomodò meglio sulla sua sedia.
In mezzo a tutto il caos che scorreva nella galassia, come il sangue scorre nelle vene di un uomo, l’ordine, su quel pianeta, aveva posto le sue basi.
Un sorriso solcò il volto dell’uomo e un lacrima gli corse sulla guancia destra, correndo dentro la cicatrice che gli solcava il volto.

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Capitolo 15
*** Mobilis in mobili ***


«Cos’è tutto questo baccano?»
Il Tenente Closser fu il primo ad accorrere nella zona della nave dove gli animali, collegati alle macchine che li manutenevano, urlavano disperati.
Non si capiva cosa gli era successo, ma tutti gli animali di tutte le navi incominciarono ad urlare.
Ci volle tutto il giorno perché si calmassero, da soli, continuando però a mugugnare in sordina.
Il Tenente Colonello Goiunes giunse sulla nave del Tenente Closser giorni dopo l’arrivo delle navi.
Sembrava una visita di cortesia, per verificare lo stato delle persone e dei macchinari, in attesa di farle atterrare in un luogo pianeggiante.
I due uomini, insieme al Sergente Houng, decisero di fare visita anche ad una della navi telecontrollate, per verificarne lo stato e il funzionamento dei macchinari, anche quelli criogenici.
Presero la navetta del Tenente Colonello e si diressero verso la nave.
«Allora, Jmmy, com’è la situazione?»
Robert parlò a Jmmy mentre passeggiavano tra le camere di criogene contenenti gli “amici” della Regina.
«Cosa vuoi che ti dica, Robert. È un vero disastro. E ora ci fate anche aspettare ad atterrare. Sempre peggio. La gente sulla navi è stanca e hanno bisogno di riposare veramente, di staccare la mente da quello che è successo su Cartagena! È stato un vero disastro! Hai voglia a dire ai militari e ai civili che va tutto bene. Quando ti sparano addosso con armi che non possiedi, non è divertente! Ma di certo non si risolverà il problema neanche svegliando questi (ed indicò le camere) che sì ci daranno tecnologia, ma di cui non sappiamo niente e, se sono tutti come la Regina, sai che risate! Quella è incontrollabile, insensibile, doppiogiochista! E se anche ci aiutasse, vorrebbe troppo per noi! Il Presidente cosa ti ha detto?»
Robert si grattò il mento prima di parlare.
«Di darti tutto l’aiuto possibile! E anche oltre se è necessario! Ma chi può dirlo qual è il limite?»
«Il limite è quella maledetta arma! Avete capito come funziona?»
«Capito, usata e ci siamo anche fatti male! Quelli che hanno esagerato sono pure morti! Se solo potessimo fare a meno di questi!» E indicò la camere criogeniche.
«Ma è possibile che in tutta la galassia non ci sia un popolo che, nei secoli, non abbia sviluppato almeno in parte quella arma?»
Robert fece cenno di sì.
Jmmy rimase stupefatto.
«Ci sono! (Robert si avvicinò ad una camera criogenica in cui una donna aveva un abito rosso e ocra) I loro discendenti, (e indicò la donna) ma non si sa cosa vogliono realmente! Qui non è più una questione di potere, di accordi commerciali o di pianeti da occupare! È come se tutti volessero essere più di quello che sono, ma non possono farlo senza intaccare la capacità degli altri a voler essere anch’essi più di quello che sono! Sembra che il rischio di mischiare le razze e il sapere porterà tutti ad una fine terribile! Ma se si è tutti d’accordo su un modo di vita, anche se ha mille sfaccettature, perché non andare d’accordo?»
Jmmy gli si avvicinò e gli diede una pacca con la mano sinistra sulla spalla destra.
«Perché i poteri paranormali che alcuni hanno fano paura a chi non li ha, temendo di essere spazzati via dalla galassia! È il benessere della propria civiltà a bloccare questa unione! E noi, purtroppo, siamo, in questo momento, dalla parte sbagliata, lo sai benissimo!»
«E allora cosa fare, Jmmy?»
«Robert, Robert! Sai quella bella leggenda, che circola da anni, messa a punto da chi tu sai? Beh, penso che ora sia il caso di mettere in pieni quel progetto!»
«Ma lei si è persa! I pirati l’hanno aggredita …»
«Pirati, Robert! (la voce di Jmmy era scherzosa) Uomini del Maestro! Adesso ha trovato qualcosa da studiare! Vedrai che la indirizzeranno sulla strada giusta e poi vedremo!»
«Sì, come no! Intanto siamo costretti qui, fermi, ad aspettare!»
«Lo stare fermi, Robert, è un eufemismo. Le navi girono intorno al pianeta, che gira intorno al sole, che gira intorno ad un buco nero, nel centro della galassia, che gira su se stesso! Ci muoviamo dentro a ciò che si muove!»
«Jmmy, quando smetterai di fare il filosofo da strapazzo sarà sempre tardi! Andiamocene, che ho altro da pensare che alla tua spicciola filosofia! E poi non sei nemmeno il Capitano Nemo!»
I due risero a crepapelle e se tornarono alla navicella, mentre il Sergente scrutava la varie camere criogeniche in cerca di un segno del suo passato.
Il Tenente Closser restò sulla nave, insieme al Sergente e alla Regina, mentre il Tenente Colonello se ne tornò sul pianeta.
La Regina continuava a tergiversare sull’accordo che aveva preso con il Tenente, ma alla fine cedette.
L’arma che il Tenente voleva imparare ad usare era chiamata, dalla Regina, “la spada del sentiero”: chi voleva impararla ad usarla doveva prima percorrere “il sentiero dell’illuminazione”, dove avrebbe prima imparato a conoscere sé stesso, poi a conoscere e a confrontarsi con gli altri e poi, dopo tante fatiche, avrebbe dovuto conoscere e confrontarsi con tutto ciò che lo circondava, fino a sentire lo scalpitio degli insetti sul soffitto o nelle pareti delle case, fino al fruscio delle erba quando il vento la sfiora o il ronzio delle onde radio emesse dai pianeti.
Di certo l’ultima voce dell’elenco sembrava una presa in giro, ma la Regina, visto il volto esterrefatto del Tenente, glielo volle dimostrare.
«Dì al tuo amico sul pianeta di provocare delle onde sotterranea e io ti dirò in qual punto del pienate sono state generate e dove si fermano!»
Jmmy chiamò Robert sul pianeta e gli chiese di fare quanto la Regina aveva proposto.
Le onde sotterranea vennero provocate da un macchinario che serviva a smuovere le placche per far fuoriuscire la lava per scaldare l’acqua, che poi veniva utilizzata per produrre qualsiasi tipo di energia.
La Regina si sedette in mezzo alla palestra ove stavano provando e, concentrandosi, indicò dove stava il macchinario e fino a dove le onde erano giunte.
Il Tenente Closser sapeva bene che non era un trucco: si era ben preoccupato di dare le coordinate al suo fidato amico in codice, in modo tale che la Regina non capisse.
«Sei stata brava! E ora fammi vedere come usare la spada!»
La Regina guardò il Tenente beffardamente.
«Cosa pensavi? Che ti avrei insegnato una simile arte così?»
La Regina impugnò l’arma e l’accesa.
Un fascio di luce uscì dal manico, lungo circa un metro e mezzo, di color giallo, che emetteva uno strano ronzio.
La Regina prese il manico con le due mani, puntò il fascio davanti a sé, portò in avanti la gamba sinistra, piegando il ginocchio, porto il manico della spada alle sua destra, piegando il braccio destro e portando verso il corpo il braccio sinistro e allungò la gamba destra dietro al suo corpo, mettendosi in posizione di attacco.
Era pronta a saltare addosso al Tenente, ma lui estrasse, con la mano destra, la sua bacchetta e, alzando sopra la sua testa, assunse la stessa posizione di attacco della Regina, con la mano sinistra che si muoveva, semi aperta, da destra a sinistra e viceversa.
«La tua magia non potrà niente contro di me!» Disse la Regina, beffardamente.
«Non credere di farmi paura, con quella sputa fasci laser! Ci vuole bel altro per spaventarmi!»
I due rimasero lì, fermi, pronti, per alcuni minuti.
Quella posizione poteva provocare, ai non esperti, crampi o dolori lancinanti.
Da fuori della palestra lo scienziato e Houng controllavano i due duellanti.
Rimasero in quella posizione per più di mezz’ora, con aria di sfida.
La spada incomincia ad elettrizzare la zona circostante, facendo rizzare i capelli ai due.
La Regina, dopo un accenno di ghigno verso il Tenente, si lanciò all’attacco.
Il Tenente vide, negli occhi della Regina, quel lampo omicida che aveva visto sul pianeta, e si spostò sul suo lato destro.
L’affondo della spada della Regina passò a pochi centimetri dal corpo dell’uomo che, con mossa fulminea, roteò la bacchetta, facendo volare per aria la Regina, che cercò di riprendere l’equilibrio e atterrò in spaccata sul pavimento della palestra, tenendo la spada verso l’alto con la sola mano destra, voltando le spalle al Tenente.
L’uomo mosse la mano sinistra e la spada si scosse in modo scomposto, tanto che la Regina dovette trattenerla con tutte e due la mani.
La donna si alzò di scattò e si girò verso il Tenente, muovendo minacciosa la spada.
L’uomo si gettò a sinistra, muovendo in contemporanea la bacchetta e la mano sinistra.
La Regina perse l’equilibrio e anche la spada, che scivolò via, verso il fondo della sala.
La donna si girò di colpo e mosse le mani, in uno strano movimento rotatorio.
L’uomo ebbe un sussulto, rimanendo quasi a mezz’aria, ma si riprese subito e, con un colpo di reni, si rigirò su se stesso, cadendo per terra a pancia in giù.
La Regina continua a roteare le mani, facendo muovere l’aria vorticosamente contro il Tenente.
L’uomo si sposto a destra e sinistra, scagliando, con la sua bacchetta, contro la donna, lampi di vari colori, di cui alcuni raggiunsero la Regina, lasciandogli segni sulle braccia e sulla gambe.
La donna, smettendo di ruotare la mani, si abbasso, schivando quei terribili lampi, e richiamò a se la spada, che non le giunse mai in mano: l’uomo aveva smesso di lanciare lampi e, con il movimento della mano sinistra, fece ancora scartare la spada.
La Regina, sfinita e ferita, cadde a terra e si arrese.
Ma il Tenente non si fidò e si avvicinò tenendo ben pronta la bacchetta.
La Regina era a terra spossata ed entrarono subito lo scienziato e il Sergente, portando i primi soccorsi alla donna.
I medici, subito avvertiti, raggiunsero poco dopo la palestra, fasciando le ferite della donna e, poi, trasportandola in infermeria.
Il Tenete raccolse la spada e, trovato l’interruttore, la spense.
Dopo tutto la tecnica della Regina non era così ben sviluppata come la sua, con una cosa così piccola come la sua bacchetta.
Ma, allora, perché tanta necessità di tenere nascosto l’uso di una simile arma.
O forse la verità risiedeva in quel trucchetto del sentire quel movimento tellurico che era stata provocato sul pianeta?
Ma anche lui lo aveva avvertito, non certo fino al punto di indicare esattamente il punto di partenza e di arrivo della onde, ma lo aveva percepito.
Forse la differenza o, meglio, la similitudine stava nella precisione del “sentire” e non nel “percepire”?
L’uomo soppeso, con la sinistra, l’arma.
Nulla indicava qualcosa di particolare in quell’arma o in quella religione.
Jmmy si diresse alla vetrata che dava verso l’universo infinito, che in quel momento la rivoluzione della nave, intorno al pianeta, consentiva di vedere.
Secoli di evoluzione e loro erano arrivati dove la Regina e i suoi non erano arrivati o c’era altro?
E l’altro cosa era?
Jmmy riguardò l’arma e la sua bacchetta.
No, non era solo quello.
La differenza stava nel loro modo di vita.
Quello della Regina era spietato come quello dell’Imperatore, il loro era invece più gentile, umile, versato all’aiuto degli altri.
Era davvero solo quello?
L’uomo alzò lo sguardo alle stelle.
Il potere poteva essere buono o cattivo, ma bisogna saperlo usare.
Avrebbe, quindi, avuto ancora senso dividere qualcosa con la Regina?
Sospirò e si girò, trovandosi davanti il Sergente infuriato.
«Hai esagerato! Ti era stato ordinato altro, non questo!»
«La prossima volta fallo tu, se sei così brava! Questa arma, mia cara, è più calda del fuoco e per poco non ci rimettevo il fianco! Guarda qui!» L’uomo alzò il braccio sinistrò e mostrò una bruciatura lunga dieci centimetri.
Il Sergente la scrutò.
«Si è rimarginata subito!» Gli disse.
«Devi ancora imparare ad auto guarirti: tu, cosa ne vuoi sapere? Adesso controllala, che non faccia pazzie! Aveva ancora quello sguardo assassino e non mi piace quando gli viene. Piuttosto che cedere è capace di uccidere senza pietà! Adesso vai!» Le ultime parole furono perentorie e la donna di girò e andò via.
La bruciatura sul fianco dell’uomo faceva male e dovette, comunque, usare i suoi ungenti speciali per guarire.
Intanto la galassia, mollemente, si muoveva, guardando tutti quegli esseri che si davano tanto da fare per niente.

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Capitolo 16
*** Onnisciente ***


Pianeta Bakearen
Kouilo si stava preparando i bagagli per partire ed andare dal Presidente a portare le dimostranze degli anziani del suo pianeta.
Davanti a sé c’era un baule, che conteneva buona parte dei suoi vistiti, che stava scegliendo con cura da una cabina armadio, la cui porta era ben aperta e lui, dall’interno, spostava gli abiti che gli servivano, facendoli svolazzare a mezz’aria, dalla cabina al baule.
Un rumore lo fece sobbalzare ed uscì dalla cabina armadio, mentre un vestito di depositava dolcemente nel baule.
«Voi giovani, sempre dietro a giocare!» Chi parlava era Roulde, che si appoggiava al bastone e guardava il baule.
«Padre, lo sai che è solo un allenamento per la mente!» Così dicendo Kouilo si avvicino al letto e guardò la scatola aperta sopra di esso, aperta e contenente tre impugnature di spada: una in acciaio, una di color oro rosso e una completamente nera.
Roulde si avvicinò e guardò dentro la scatola.
«Quella non la devi portare! Lo sai che l’hai fatta troppo potente e non riesci ancora a governarla!» Indicando l’impugnatura oro rosso.
«Avrò tutto il tempo per imparare e governarla durante il viaggio. È quella nera che mi preoccupa! Il cristallo che ho inserito sembra avere un piccolissimo difetto, non notato durante le prove in laboratorio! Se dovesse vibrare troppo potrebbe anche scoppiarmi in faccia.»
«Speriamo, Kouilo, che scoppi in faccia la tuo nemico!»
«Già! (disse Kouilo pensieroso) Padre, ti devo chiedere un grosso favore: prima di partire devo parlare con l’Onnisciente! So che non a tutti è permesso parlargli, ma devo porgergli domande importanti. Puoi fare qualcosa?»
Roulde rimase pensieroso.
«Da un po’ di tempo l’Onnisciente non sta bene e non permette più a nessuno di essere ammesso al suo cospetto! Solo alcuni anziani, quelli che hanno accesso al “grande segreto” possono parlargli! No, non ti parlerà! No, non se ne parla!»
Roulde si mosse nella stanza, andando verso la finestra che dava sul lago.
La casa di Koulio era fuori dalle città in una ampia valla, molto verdeggiante, con le montagne che facevano da corona ad un lago vasto, di montagna, con le acqua azzurre e i pesci che vi nuotavano allegramente: non vi erano molti pescatori in quella zona e i pesci, oltre che moltiplicarsi, avevano anche dimensioni non indifferente, mettendo spesso in pericolo chi si avventurava a nuotare nelle acque fredde dei quelle limpide acque.
«Non possono, quei quattro vecchi mal fermi sule gambe, proibirci di vedere l’Onnisciente! Gli avete permesso di comandare questo pianeta a suo piacimento solo perché vi ha dato la tecnologia per sottomettere ciò che vi circonda! Padre, il momento di verificare le sue dicerie è venuto, e molti di noi sono d’accordo con andare a parlargli e vedere che faccia ha! E tu on puoi impedirlo! Né a me, né ad altri!»
«Vuoi disobbedire a tu padre? Chi sei tu per voler vedere in faccia colui che ci ha tolo da una vita di stenti e ci ha fatti diventare ciò che siamo?»
«Diventare cosa, padre? I carnefici del Presidente contro povere civiltà meno fortunate di noi? Non è che per tenere unità una galassia si può continuamente sottomettere i popoli con la menzogna e la morte! Non vogliamo più essere portatori di morte!»
Così dicendo Koulio si avvicinò alla scatola ed estrasse l’impugnatura di oro rosso, accendendo e facendo fuoriuscire una luce rossa fuoco, che rumoreggiò tremendamente, facendo vibrare, come percorsa da un potente campo elettrico, l’aria dentro la stanza.
Roulde si spaventò: la potenza di quella spada era impressionante e il figlio ben la teneva sotto controllo.
«D’accordo, spegnila! Vedrò cosa posso fare!»
Roulde uscì dalla stanza, appoggiandosi al bastone e strisciando i piedi, sentendo, alle sue spalle, la spada spegnersi.
Koulio guardò il padre uscire e la porta chiudersi dietro a sé.
Poi lasciò cadere le braccia lungo il corpo, tenendo in mano l’impugnatura spenta.
Emise un sospiro e finì di preparare il baule.
Roulde, uscito dalla stanza, incontrò Foriuse.
«Non può commettere un tale errore, maestro Roulde! Sarebbe pericoloso …» Gli disse la ragazza.
Roulde alzò lo sguardo, incupendosi.
«Che ne sai, stupidina, di certe cose! Anche se l’Onnisciente ti ha mandato a spiarci, non è detto che lui abbia ragione! Dopo secoli, anche lui incomincia a dare i numeri. E il suo tempo è ormai allo scadere. Uno dei suoi simili è già morto e quelli che potevano sostituirlo sono bloccati sulle navi nello spazio, vicino ad un pianeta lontano da qui! Conviene che l’Onnisciente parli o con lui morirà più che una civiltà! Morirà un passato che non ha saputo costruire un futuro! E lui se ne addolorerà maledettamente! Diglielo, bionico! Ricordaglielo bene, che le macchine senza un cuore sono solo pezzi di metallo inutili! Ricordaglielo!»
Roulde continuò il suo cammino, mentre Koulio spiava dalla porta, semi socchiusa, l’incontro dei due.
“Vecchio impiccione! Lo sapevi chi era e ci hai giocato lo stesso! Ora vedremo e sapremo la verità!” Pensò Koulio, richiudendo la posta.
Koulio rientrò nella cabina armadio e, da un anta, tolse un porta abito nero.
Uscì dalla cabina armadio e lo buttò sul letto.
Aprì la cerniera a lampo e tolse il vestito nero, costituito da pantaloni neri con tasche esterne, maglietta nera a mezza manica, una felpa nera con cappuccio con chiusura a lampo, un giubbetto in kevlar nero pieno di tasche, sempre con chiusura a lampo, una sotto casco nero, un berretto con la falda sul davanti e un giubbotto pesante.
Non l’aveva più tolto da quel porta abito da anni.
Su una manica del giubbotto c’era ancora del sangue della sua ultima vittima, uccisa a mani nude.
Koulio iniziò a togliersi i suoi vestiti così colorati e incominciò a mettersi il vestito del porta abiti.
Ma doveva parlare con l’Onnisciente, ad ogni costo.
Roulde partì per le montagne poste nell’emisfero nord.
Le nevi perenni ricoprivano le cime di quelle montagne, che erano le più alte del pianeta, tutto l’anno.
In una grotta, che aveva l’ingresso su un plateau posto al centro di alcune montagne.
La neve lo ricopriva completamente e, come uno specchio, rifletteva il sole verso lo spazio.
La navetta che portava Roulde atterrò il più vicino possibile all’ingresso della grotta, alzando la neve che copriva il plateau come un tornado alza le macchine al suo passaggio.
Ci volle un po’ perché tutta quella neve si dissolvesse nell’aria o cadesse a terra.
Mentre la neve cadeva a terra una figura, piegata sui suoi anni, con bastone e il viso pieno di rughe, si diresse, zoppicando, verso la grotta.
All’ingresso un figura anziana, anch’essa non più nel fiore degli anni, lo aspettava.
«Mi sembrava di essere stato chiaro, per radio! L’Onnisciente non vuole essere disturbato!» Il vecchio uscì dall’ombra della grotta e si diresse verso Roulde, che entrò nella grotta, scostando l’altro con il bastone, senza proferire parola.
Roulde continuò ad avanzare nella grotta, fino a quando questa non si allargò ancora di più, aprendosi in una enorme cupola con la volta alta centinai si metri.
Si fronte all’ingresso di quella enorme cripta, vi era un’apertura alta alcune decine di metri: mentre la cupola era illuminata dalla luce che filtrava da varie grotte, poste a varie altezze, mentre l’apertura risultava nera come la pece.
Roulde si diresse verso l’apertura senza esitare, mentre alcuni figure, anziane, uscivano da quel buco, cercandolo di fermarlo.
Roulde non si fermò, continuando a spostare le persone con il bastone.
Arrivato all’apertura vi entrò, senza chiedere permesso o aspettare parole di invito ad entrare.
Nel enorme cripta risuonò un rumore sordo, che subito tacque.
Roulde si fermò alla presenza di un enorme animale, anch’esso collegato a dei macchinari che lo tenevano in vita.
Il piccolo uomo guardò, in quella oscurità, la figura dell’animale, che abbasso l’enorme testone, con quei enormi occhi gialli con le pupille enorme, per la poca luce che vi era in quel sito.
«Come ti sei permesso di entrare senza …» Ma la frase dell’animale fu lasciata a metà, per colpa dell’uomo che alzo la mano destra.
«Il tuo tempo è finito! Uno dei tuoi simili è morto, l’ho sentito! E così lo hanno sentito i tuoi simili che sono su altri pianeti e sulle navi della Regina! Non ci hai voluto rilevare tutti i tuoi segreti per paura che potevano abbreviarti la vita ma, come vedi, sono passati secoli e molte cose le abbiamo imparate da soli! Ora cosa vuoi fare, vecchio? Se non manutenessimo le tue macchine, che fine faresti?»
«I miei adepti non te lo permetteranno!» Urlò l’animale, con la voce che rimbombò dappertutto.
Mentre diceva coì, l’animale alzò la testa, che quasi toccò il tetto, emettendo un urlo con ferocia.
Roulde, senza paura, si girò e uscì da quel posto.
L’animale lo seguì, trascinandosi a fatica nella enorme cripta, che potevano contenerlo senza problemi.
L’animale aveva un’enorme testa, molto simile a quella di un’iguana, lunga almeno dieci metri, con una bocca irta di denti di denti aguzzi.
La testa era collegata al corpo da un collo lungo e grosso.
Il corpo, tozzo, sembrava quello di una tartaruga e finiva in una coda lunga.
Il colore della pelle era di un ocra scuro e sulla parte superiore, dalla testa alla coda, era ricoperto da file di tremendi aculei.
Le zampe, simili a quelle di un coccodrillo, tre per parte, lo aiutavano a muovere l’enorme corpo.
L’animale entrò nella cripta inseguendo Roulde, con gli anziani che lo pregavano di calmarsi.
Quando Roulde fu all’ingresso dell’altra apertura da cui era entrato, si voltò di scattò e alzò la sua schiena curva.
Gli altri lo guardarono in modo strano e l’animale ebbe un sussulto.
La figura di Roulde si modificò, ringiovanendo di parecchi anni e arrivando ad una altezza di tre metri.
«Come vedi non sei il solo a poter vivere oltre il suo tempo! Il problema, mio caro, è che io so, a necessità, farmi da parte, mentre tu pretendi di essere sempre sulla scena, anche dopo secoli! È venuto il nostro tempo, anche la Regina lo sa, ma tu no, non vuoi! Metti fine a tutto ciò, o lo faranno i nostri giovani!»
L’animale urlò tutta la sua disperazione, ma l’urlò gli morì in gola.
Un improvviso scoppiò dietro a lui, blocco un macchinario e l’animale cadde a terra fragorosamente.
I suoi occhi si spensero, di colpo, e il suo corpo collassò sul suo peso.
Il fumo dei macchinari, che si stavano man mano guastando, riempì prima l’apertura da cui era uscito l’animale e poi riempì l’enorme volta.
Roulde aveva ripreso la sua solita sembianza e uscì, a passo veloce, dalla grotta.
Quando giunse fuori, al freddo, incamminandosi verso l’aeromobile, senza girare la testa, mentre continui scoppi provenivano dalla grotta.
Salito sulla navetta, Roulde, da un finestrino, vide il fumo che usciva dalle aperture della cupola, innalzandosi verso il cielo, mentre gli anziani, che per anni avevano accudito all’animale, uscivano dalla grotta, correndo, portandosi dietro le loro poche cose.
La navetta con Roulde se ne andò, mentre un’altra navetta stava sopraggiungendo ad alta velocità, atterrendo alzando una colonna impressionante di neve.
Gli anziani furono travolti da tutta quelle neve e poi salirono sulla navetta.
Roulde guardò quella scena da girone dell’inferno, con i fumi neri che coloravano le candide nevi e, nel cielo, oscuravano il sole.
Roulde scosse la testa e si sedette su una comoda poltrona, meditando.
La fine dell’Onnisciente poneva fine alla richiesta di Koulio di fargli domande, evitando che segreti troppo pericolosi potessero essere rilevati.
Ma gli anziani nella grotta lo avevano visto anche loro troppo.
Roulde guardò l’altra navetta di salvataggio di quei poveri uomini e mosse la mano destra, vorticosamente, verificando, prima che nessuno facesse caso a lui.
I motori della navetta presero fuoco improvvisamente e la navetta precipitò, esplodendo a terra e uccidendo tutti gli occupanti.
I piloti della navetta di Roulde non si accorsero di nulla, occupati com’erano a guidare la navetta lontana da quel disastro e dal fumo che invadeva il cielo.
A tutti sarebbe parso un incidente causato dal fumo che, aspirato dai motori, li aveva messi fuori uso.
Ne era morto un altro.
Ora toccava a Koulio eliminare gli altri, sempre che la Regina lo avesse permesso.
Ma i maghi si sarebbero opposti a ciò o anche il loro animale avrebbe lottato per vivere?

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Capitolo 17
*** Desertificazione ***


La giovane figura viveva ormai da alcuni mesi con quegli ominidi, anche se i più anziani la guardavano in tralice e alcuni giovani capi, invece, la portavano a scoprire i più reconditi segreti di quel pianeta.
La divertiva essere portata in grotte umide, raccogliere campione di piante, che crescevano rigogliose in zone con molta acqua e la luce che entrava da fori naturali nelle rocce desertiche, conoscere altri gruppi, imparare il loro strano linguaggio, vedere i loro graffiti colorati sui muri delle grotte e sentire le loro storie.
I loro nemici naturali erano degli animali, di diverse dimensioni, carnivori, che vivevano nel chiuso di grotte di alcune montagne e che di notte, con temperature più miti, uscivano a caccia.
Non erano di grossa taglia, per cui facevano paura solo agli ominidi, ma non alla ragazza, troppo grande per loro.
Ma la ragazza, la prima volta, si era spaventata e aveva deciso di girare armata, con una di quelle spade e una pistola laser.
Il suo girovagare la portava, alle volte, nelle vicinanze di agglomerati urbani, più o meno affollati, di cui alcuni sembravano veri e propri accampamenti intorno ad alcuni caseggiati in mattoni.
Gli ominidi spiegarono, a fatica, alla ragazza che erano le basi delle compagnia che portavano la navi abbandonate su quel pianeta e gli altri, come li chiamavano loro, erano gente arrivata lì per caso, scappata da chissà dove.
La ragazza, una volta, si intrufolò in un accampamento, con i suoi amici delle prima ora, e curiosò in giro.
Incontrò un gruppo di persone vicino ad un fuoco e con i suoi amici si fermò a parlare con loro.
Erano di un pianeta di un sistema solare che era stato distrutto dall’esplosione della loro stella.
Loro si erano salvati perché erano in viaggio, ma ora, non avendo un pianeta su cui andare, si erano fermati lì, in attesa di decidere sul da farsi.
Erano commercianti, ma le loro navi necessitavano di essere controllate e revisionate, ma ci volevano o metalli preziosi o soldi, e loro ne avevano pochi, vista la fine del loro pianeta.
E quindi si davano a piccoli commerci, anche se rendevano poco.
La ragazza gli fece una strana proposta: visto che erano un gruppo con sei navi cargo, potevano fare una grande, dove potevano entrare tutti e andarsene da lì e darsi al commercio o al trasporto di cose per conto terzi.
Si fermò da loro fino al mattino, dormendo in una tenda occupata da sole donne.
Al mattino visitò le navi, poste in semicerchio intorno all’accampamento, e consigliò sul da farsi.
Gli uomini e le donne dei vari equipaggi iniziarono il lavoro di smontaggio e di assemblaggio e gli omini, incuriositi, organizzati dalla ragazza, diedero una mano nei lavori.
I piccoli ominidi erano spaventati dai macchinari e dai rumori del cantiere, per cui solo i più temerari, in cambio di cibo, diedero una mano.
Il lavoro fu terminato in una quindicina di giorni e la nuova nave, costruita intorno ad uno dei cargo più grandi, aveva un corpo principale, con la sala comando, le cabine per i singoli e la famiglia, la sala pranzo, la zona scuola per i bambini e i vari sotto servizi.
Le gondole dei motori erano posti sul fondo della nave, da cui partivano le zone di stoccaggio delle merci: erano state uniti i corpi principali delle altre navi ed era possibile, usando motori sub luce, scendere sui pianeti, scambiare le merci e risalire nello spazio, per poi collegarsi alle altri navi.
Erano stati riparati una decina di teletrasporti, ma per il momento funzionamento male e fino a che non avessero avuti i soldi necessari per la loro riparazione, il sistema navetta era il più sicuro.
Durante i lavori la ragazza ebbe modo di conoscere meglio gli ominidi, di vederli all’opera e come interagivano tra loro in caso di necessità verso se stessi e gli altri.
Erano molto socievoli, anche se alcuni anziani sembravano nascondere qualcosa, come un segreto che non deve essere rilevato e veniva trasmesso solo verbalmente.
I resti delle navi non utilizzati furono accatastati vicino ad una collina di arenaria, che sovrastava una grotta, in modo da farne un rifugio per gli ominidi e far sì che la poca umidità dell’aria venisse catturata e fatta cadere nella grotta, sul cui fondo l’acqua avrebbe creato un laghetto di acqua bevibile.
Quando i mercanti partirono, la ragazza si fermò per qualche giorno a sistemare l’interno della navi con gli ominidi, per creare un rifugio a quegli esseri nel loro girovagare per il pianeta.
La ragazza aveva notato che era un popolo stanziale per necessità, perché spesso alcune unità si spostavano tra i vari gruppi, ma non erano riusciti ad evolversi quel tato che gli serviva per inventare i contenitori di acqua e la ruota.
La ragazza cercò di capire il perché interrogando i più anziani, che però evitarono di rispondere direttamente alle domande, demandando ad alcuni capi gruppi le risposte, spesso evasive.
La ragazza non insistesse, ma, guardando i più anziani, ne notò due che, durante la riunione, spesso si scambiavano occhiate di condiscendenza.
Finite le riunioni, se ne andavano insieme e percorrevano corridoi in cui era difficoltoso passare.
La ragazza, dopo ogni riunione, li seguiva, cercando di capire, quando li perdeva, dove andavano.
Le riunioni si era svolte anche durante la costruzione della nave per i mercanti e i due, forse per colpa dei lavori, avevano più volte cambiato percorso, scendendo nella viscere del pianeta.
La ragazza decise di usare mezzi più tecnologici, inviando alcuni droni, a forma di sfera, che seguivano silenziosamente i due o andavano in avanscoperta da soli, seguendo un programma di ricerca inventato dai planetologici dell’accademia delle scienza del Presidente.
La mappatura del “giretto” dei due anziani portavano ad una grotta, di una certa dimensione, sita sotto una catena montagnosa non molto lontana dalla nave in cui si era nascosta.
Una notte, mentre i piccoli esseri dormivano tranquillamente, anche con l’aiuto di una buona dose di sonnifero messa nell’acqua degli ominidi, per evitare di essere seguita, come sempre capitava quando andava in perlustrazione, si infilò nelle grotte e, con la mappa elettronica e una torcia, si infilò negli anfratti e nelle grotte, fino ad arrivare alla grotta, sotto almeno cinquecento metri dalla sabbia sopra la sua testa.
Era fresca, anzi fredda: dovette coprirsi di più, usando una coperta che si era portata per emergenza.
La grotta era sì grande, ma non enorme come indicavano i rilievi.
Ebbe un dubbio: uno dei suoi droni non era tornato, ma il rilievo che aveva inviato, collegandosi via wireless con gli altri, dava indicazioni che aveva percorso anche un cunicolo, che andava verso il basso.
La ragazza si incamminò nel cunicolo, ma un movimento alle sue spalle la fermò.
Estrasse la spada e l’accese.
Il ronzio emesso dalla spade e la luce laser spaventò l’ombra, che scappò rumorosamente.
La ragazza pensò ad un animale e proseguì il cammino.
La discesa durò alcuni minuti: la ragazza avanzò con la spada nella destra e la luce nella sinistra, illuminando il suo cammino fino a quando arrivò in una grotta enorme.
Era una cupola alta centinaia di metri e, anche se fuori, all’aperto, era notte, risultava illuminata a giorno.
Vi entrò scrutando le pareti e, in fondo, vide un enorme buco, da cui due enormi occhi verdi, con pupille ovali, la stavano scrutando.
I due ominidi anziani, che gli erano scappati più volte, erano lì che la osservavano, davanti al buco e a quegli strani occhi.
“Non è possibile!” Si disse la ragazza.
Portò avanti la spada, pronta ad utilizzarla contro quell’oscuro nemico.
I due ominidi si gettarono contro di lei, urlando inferociti.
Erano piccoli e vecchi, ma molto tenaci.
Tennero per un po’ in scacco la ragazza contro il muro, ma all’improvviso altri ominidi, più giovani, entrarono da altri cunicoli e bloccarono i due anziani, trascinandoli via.
Uno dei suoi salvatori gli spiegò chi c’era in quella grotta.
I due occhi fuoriuscirono dal buio, mostrando una enorme testa con un corno sopra il naso e altri due sopra la testa.
Una corona ossea difendeva il collo, corto, che teneva la testa attaccata ad un corpo tozzo, con gambe alte e i piedi piatti ed una coda corta.
Un enorme tubo, tipo cordone ombelicale, partiva dal ventre della bestia ed entrava nella grotta.
La bestia urlava come un’ossessa, ma uno strano rumore fuori uscì dalla grotta.
L’animale tossicchiò e smise di sbraitare.
Guardò preoccupato dietro di sé e dalla caverna uscì del fumo nero.
L’animale si preoccupò ancora di più e guardò il fumo nero.
All’improvviso uno scoppio più forte fece tremare la grotta e la luce si spense.
Una fiammata rossa scaturì verso la cupola, investendo l’animale, che urlò come un ossesso e poi si mise a parlare.
«Maledetta! Io morirò, ma qualcuno mi sostituirà! Non servirà a nulla tutta questa tua fatica!»
L’ultima esplosione distrusse tutti i macchinari e l’animale, crollando a terra, esalò l’ultimo respiro.
I due anziani, liberatisi degli altri, corsero verso l’animale esamine.
All’improvviso il fuoco divampò, bruciando la bestia.
I due anziani si gettarono nel fuoco per salvarlo, ma morirono nell’incendio.
Il fuoco durò giorni e il fumo invase gran parte delle grotte e dei cunicoli.
Gli ominidi si misero in salvo nascondendosi nelle astronavi.
Il fumo fu visibile per buona parte del pianeta e anche dallo spazio.
Una nave di passaggio lo vide e lo segnalò all’accademia delle scienze, che inoltrò la comunicazioni e parecchi altri ministeri, commissioni, sottocommissioni e vari altri dipartimenti.
Ma il fatto che questi strani incendi sottoterra avvenivano in vari pianeti, in sistemi solari lontani anni a anni luce, con il continuo urlo degli animali sulle navi della Regina, incominciò a preoccupare il Tenente.
I servizi segreti ebbero il loro bel da fare per capirci qualcosa, fino a quando Kouilo e la sua delegazione non arrivarono in visita dal Presidente.

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