Storie di Saab

di esmoi_pride
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Assoluzione ***
Capitolo 2: *** La rana o lo scorpione ***
Capitolo 3: *** Negazione ***
Capitolo 4: *** Volpi e grappoli d'uva ***
Capitolo 5: *** Rabbia ***
Capitolo 6: *** Pelle d'asino ***
Capitolo 7: *** Contrattazione ***
Capitolo 8: *** Cat in the Hat ***
Capitolo 9: *** Depressione ***
Capitolo 10: *** Peldicenere ***
Capitolo 11: *** Accettazione ***
Capitolo 12: *** Casualità ***
Capitolo 13: *** Casa ***
Capitolo 14: *** Indiscrezioni ***



Capitolo 1
*** Assoluzione ***



Avviso chi già sta leggendo questa storia che questo capitolo è stato aggiunto dopo la pubblicazione dell'ora quarto capitolo per chiarire alcune cose riguardo il contesto della storia, dato che sollevava alcune domande. E' stato creato per rispondere a queste domande ed aiutare nella lettura, e spero che assolva il suo compito (fatemelo sapere!). E' ambientato nel passato rispetto alla storia effettiva. Inoltre, dal momento che non riuscivo a sostituire il primo capitolo al secondo, ho dovuto copincollare il primo capitolo nel link del secondo e quindi le recensioni di questo capitolo precedenti il 2017 appartengono in realtà al secondo capitolo (e quelle del secondo al primo). Scusate il disagio ^^' e buona lettura.


 
Assoluzione.




 
Il drow di bassa statura posò lo sguardo sull’orizzonte davanti a sé. Poco lontano dalle rovine che lo circondavano, appena oltre la città perduta, prendeva piede una foresta alta e fitta che si prolungava per diversi chilometri. I suoi enormi occhiacci gialli cercarono di scovare il movimento delle creature che vi abitavano, tra un tronco e l’altro dei primi alberi, invano. Evidentemente era un orario troppo soleggiato perché si avvicinassero al limitare del loro luogo sicuro.

Il cozzare dei sassi ne fece fremere le orecchie appuntite e lo distrasse da ciò che stava guardando. Voltò la faccia spigolosa per incontrare la sagoma dell’umano alto e robusto che lo stava accompagnando. L’uomo portava capelli ramati e mossi, e una barba incolta. Aveva il capo chino, guardava un rimasuglio della rovina grande quanto un pugno, se lo rigirava sotto lo stivale studiandolo. Dal suo sguardo impenetrabile, che si era soffermato sul pezzo di pietra, trapelò l’angoscia nel comprendere di trovarsi in un luogo ormai rinnegato.

“Tra quanto dovrebbero arrivare?” la voce del drow arrivò nitida alle orecchie dell’altro. “Tra non molto.” Gli rispose.

Lasciò perdere la pietra e avanzò di poco, osservandosi attorno. I suoi occhi alla fine si posarono sul drow basso che lo fissava con i suoi occhi da serpente. Aveva uno sguardo diffidente – non era insolito che lo guardasse così. Tastava continuamente il terreno. Era inevitabile, avevano passato troppo tempo insieme perché non si insospettisse del suo comportamento apatico. L’uomo fu rassicurato di non scorgere, insieme a quella diffidenza, alcuna traccia di allarme nei suoi occhi. Questo era l’importante. Non doveva fidarsi di lui. Era della missione, che doveva fidarsi.

“Quella è la Foresta Incantata?” gli chiese, con un cenno del capo. L’umano annuì dando una rapida occhiata alla foresta. “La avremo vicina. Sarà una buona fonte di legname… e anche di piccoli scambi, se facciamo amicizia con gli elfi.” Il drow piantò le mani sui propri fianchi “Anche questo me lo permetterà il tuo Dio?” I due si fissarono. “Non penso.” Replicò l’umano. “Quello lo lascerà a te.”

“Oh, grazie.” Il drow incrociò le braccia al petto scarno e tornò a guardare la foresta, per ostinarsi a ignorare l’altro in un gesto esplicito, pur continuando a parlargli. “Allora c’è qualcosa che un farabutto ignorante come me può fare per questo mondo.” L’umano restò a scrutare la sua figura e il silenziò riempì l’aria, interrotto dal cinguettio lontano degli uccelli, prima che avanzasse di un passo verso l’altro. “Ne dubiti?”

Le orecchie appuntite del drow si drizzarono, le sue sopracciglia si inarcarono, distrattamente. “Se io, Azul Goldsmith, dubito di poter governare una intera città destinata alla gloria e alla leggenda, servendomi solo delle mie capacità di miserabile criminale qualunque, non essendo mai stato parte della nobiltà in alcun modo se non per camuffamento, e avendo vissuto tutta la mia vita nel contesto più lontano possibile da ciò che mi aspetta?”

Allora si voltò verso l’uomo.

“Mmmmh. No. Perché ho te.”

Gli concesse un’occhiata furba. Era quasi – quasi – un complimento. L’altro ne fu appena colpito.

“E tu Imesah?” Continuò Azul, nella tonalità e postura altezzosa, che curiosamente gli donava sempre, nonostante fosse un uomo minuto. “Ti stancherai mai di fare la pedina di qualcosa più grande di te?” Per quello che Imesah aveva capito di lui, immaginava che il drow lo stesse semplicemente stuzzicando. “È grave?” Gli replicò, con la stessa ironia, raggiungendolo. Come cambiarono le distanze tra loro, così Azul si smosse, voltandosi di istinto verso di lui. Il movimento del suo corpo si fece più incerto. Lui perse la sicurezza che ostentava. Ancora una volta, Imesah non vide allarme nei suoi occhi. Vide qualcosa di più caldo e titubante. “Non lo so.” Disse il drow. “Anche io sono un’altra pedina dopotutto, non è così?” Aveva abbassato lo sguardo sul petto dell’umano, ma ora cercò di nuovo i suoi occhi “Lo siamo tutti. Stiamo solo seguendo il suo copione. Quello che lui vuole fare di noi.”

Assottigliò le palpebre. Imesah sostenne quello sguardo crudo. Sentì il desiderio di avvicinarsi, ed insieme ad esso, l’insicurezza di poterselo permettere. Osò, gli bastò fare un altro passo per raggiungerlo e prendere un suo polso sottile nella mano. Azul non lo allontanò e non si sottrasse alla sua presa morbida. Puntò gli occhi sul gesto. A Imesah sembrò di vedere lo sguardo ipnotizzato di un serpente, quando nota qualcosa muoversi tra le foglie. Non sapeva dire se Azul era compiaciuto o spaventato da quel tocco. Però sapeva che ne era attratto.

“C’è sempre spazio per scrivere quello che vuoi in questo libro.” Gli rispose Imesah. Azul lasciò che il silenzio seguisse, e lentamente sollevò di nuovo gli enormi occhi su di lui. Rifletteva, molto. Alla fine si decise a parlare. “Su questo libro c’è scritto che persi i miei genitori da bambino e insieme a loro la memoria e la mia identità. Venni catturato e reso un assassino. Fuggii da vigliacco e mi arruolai tra i tagliagole. Ho scritto di aver fatto tante cose orrende e da questo non si può tornare indietro.”

Zittì. Imesah sosteneva, ancora una volta, il suo sguardo, esortandolo a continuare. I polmoni di Azul si riempirono di aria, il piccolo petto si sollevò. “Sì, scriverò qualcosa di mio. Lui lo sa.” “… È quello che vuole, Azul.” Imesah si avvicinò ancora. Costrinse l’altro a sollevare il mento per continuare a guardarlo. “Vuole che sia tu a scrivere.”

Azul scrutò a fondo negli occhi verdi dell’uomo. Inspirando, poté sentire il suo profumo. Era un profumo di alberi e di rugiada. Quello gli fece realizzare quanto fossero vicini, e per un momento il cuore aumentò il battito in un inizio di attacco di panico. Senza scomporsi emise uno sbuffo sarcastico dalle narici, distendendo le labbra carnose in un ghigno, e gli diede le spalle allontanandosi. Prese le distanze con il discorso alleggerendo i toni, e così poté liberarsi di Imesah anche fisicamente, compresa la stretta al polso, che l’umano si era fatto sfuggire dalle dita senza insistere.

“Del resto, cosa posso aspettarmi da un Dio che ha preso te come suo cavaliere?” Salì su un piccolo ammasso di pietra che nel cadere, tanto tempo prima, aveva formato una specie di scala. Si godette la sensazione di essere la creatura più alta nell’area in quel momento. “Aveva bisogno di un imperatore e sapeva che io volevo diventarlo. Non gli è importato perché.” “Forse sì.” Lo interruppe l’umano, affiancando l’ammasso di pietre. Azul, interdetto, gli lanciò un’occhiata. “Mi stai dicendo che ha a cuore la mia missione? Unire la feccia della società in un solo buco dove può vivere in pace la sua vita, un luogo dove le parole ‘nobile’ e ‘schiavo’ non hanno significato…” Parlando, il tono si abbassò. Il suo sguardo si perse solenne nel paesaggio della Foresta Incantata. “Dove si può ricominciare.” Mormorò.

“Tu non lo conosci abbastanza.” Dichiarò Imesah, prima di unirsi ad Azul nel guardare la foresta “Ma non preoccuparti. Ci sarà tempo per questo.”

Azul non sapeva quanto tempo avessero passato ad ammirare le fronde degli alberi scosse dal vento, ma il rumore sordo di rami smossi contro il suolo di pietra, dietro di sé, gli disse finalmente che non erano soli. Si voltò e… un gruppo di persone li stava fissando, smuovendosi appena. Evidentemente aspettavano che si rendessero conto di loro. Azul si sarebbe fatto afferrare dalla paura se non si fosse aspettato il loro arrivo. Anche Imesah si era voltato per guardarle.

La creatura più avanti sembrava esserne a capo: era una donna di media statura. Aveva lunghi capelli mori e una bandana nera le fasciava la testa. Un corpetto scuro era stretto attorno al suo petto, e da esso sbucavano le pieghe di una camicia grigia. Pantaloni neri erano infilati in stivali leggeri. Da dietro le spalle sbucavano le else di due sai incrociati. Un’altra bandana le copriva il muso, da metà naso fin sotto il mento. I suoi occhi non erano due grandi biglie come quelli di Azul: avevano una normale forma umanoide, tuttavia erano anch’essi gialli e dalla pupilla verticale come quelli di un rettile. Trasmettevano serietà e concentrazione. La loro forma umana permetteva alla donna di non avere l’aspetto inquietante di Azul, e di non celare il calore dello sguardo.

“Signori.” Parlò lei.

“Qual è il tuo nome?” Chiese Azul, scendendo senza fretta dall’altura su cui si trovava.

“Sonia.” Gli rispose lei. Tenne gli occhi fissi su di lui. “Solo Sonia.”

Poi si voltò per osservare le persone che la precedevano. Da come li studiava si poteva indovinare che non li avesse mai visti prima.
Imesah serrò le labbra e si preparò a spiegare. “Siete stati guidati fin qui da ogni continente della nostra terra, ascoltando la voce di Dio. Aspettavate da tempo il momento in cui Saab in persona vi avrebbe chiamato. Siete i suoi fedeli più devoti, pronti a sacrificare qualsiasi cosa per lui, e siete stati scelti per costruire insieme a noi il suo nuovo Regno.”

Si interruppe per scrutare i loro sguardi. Scorse la sagoma di un piccolo halfling in prima fila. Non sapeva di preciso a cosa stava andando incontro, non aveva idea di chi fossero gli altri, e aveva probabilmente abbandonato tutto ciò che conosceva per arrivare fin lì, ma aveva gli occhi infuocati dalla determinazione, senza ombra di incertezze. Condivideva quell’espressione con tutti gli altri.

Imesah sapeva cosa lo muoveva. In quel momento l’halfling si sentiva bruciare di energia. Sentiva il suo potere potenziale evaporare dai pori della pelle. E tutte le particelle del suo corpo erano tese verso un solo obiettivo: seguire il richiamo innato che percepivano da quando Saab lo aveva chiamato in quel luogo. Sentiva che fosse giusto, sentiva che fosse l’unica cosa da fare, e ogni titubanza era stata lasciata oltre i suoi passi. Imesah lo sapeva, perché anche lui, come loro, percepiva lo stesso fuoco dentro di sé.

Saab era un dio minore, uno dei tanti numerosi dei che decidevano delle sorti di quel mondo, e non poteva di certo vantare dell’incredibile numero di accoliti di cui vantavano le otto divinità maggiori. Ma i pochi cavalieri, chierici e fedeli che possedeva avevano tutti la stessa fede incrollabile.

“Le rovine che ci circondano sono ciò che rimane della città di Fajjar Saeb. Cinquemila anni fa, Saab creò un luogo di pace dove creature di discendenza divina e mortale vivevano insieme armoniosamente. Questo luogo fu spazzato dalla faccia della terra e dalle mappe dei continenti, ma ora il Dio ci chiama a sé per eseguire nuovamente il suo volere e creare la sua dinastia in terra.”

Avanzò di un passo. “Il mio nome è Imesah Hos. Sono un Cavaliere del Dio, e sono stato chiamato da Lui per eseguire la sua volontà. Saab mi ha ordinato di trovare l’uomo che Lui ha scelto, e di comandarvi una volta giunti qui.”

Si voltò verso Azul.

“L’uomo che è insieme a me è Azul Goldsmith, scelto dal Dio. Lui sarà il vostro imperatore.”

Le persone che si trovavano davanti a loro non mossero un dito. Si limitarono a fissarli.

Azul poi si rivolse a tutti.

“Vi vedo, uomini e donne. Giovani, adulti, di una razza o di un’altra. Siete tutti diversi fra voi. Alcuni di voi hanno la pancia più vuota di altri. Ma nei vostri occhi vedo la stessa scintilla infuocata, la stessa voglia di mettersi in gioco.”

Avanzò verso gli uomini, attenuando le distanze. “In ogni regione di ogni continente ci sono creature sull’orlo della disperazione, spezzate dalla fame, dalla povertà o dalla discriminazione. Donne a cui viene tolta la libertà di decidere il loro destino. Uomini resi schiavi dai prepotenti. Figli rinnegati per la loro natura diversa. Famiglie umili, schiacciate da nobili che non sanno cosa fare del loro danaro. Signori della guerra che mandano a morire gli eserciti per i loro capricci. Ognuna di queste persone è alla continua ricerca di un luogo dove tutto questo non esiste.”

Con un gesto delle braccia indicò la terra sotto i loro piedi. “Fedeli di Saab, vi sembrerà di essere solo noi in questo momento. Ma il Popolo di Saab calpesta già la terra, ed è ovunque, in ogni luogo. Chiameremo ognuno di loro, gli daremo la giustizia che cercano, e quando verranno e riempiranno ogni angolo della città saprete che il Popolo di Saab è il più vasto di tutto questo mondo.”

Scrutò i loro sguardi, uno per uno. “Quello che ci aspetta è grande. Se non siete in grado di prenderlo nelle vostre mani, andatevene adesso. Perché se ora fate un passo avanti, non potrete tornare indietro.”

Nessuno dei fedeli mosse un dito, nessuno mostrò una nota di incertezza. Alcuni smossero il peso del corpo da un piede all’altro, con gli occhi attenti sull’Imperatore.

Azul li osservò bene, poi scrollò il capo e annui. “Bene.” Si voltò, e si allontanò. Imesah iniziò a parlare loro, mentre lui tornò a osservare la Foresta, incrociando le braccia. Sentì un profumo femminile sfiorargli le narici, e capì che Sonia lo aveva affiancato senza fare il minimo rumore. Anche lei osservava la Foresta, ma le sue orecchie erano tese verso le parole di Imesah: “Il vostro primo compito è raccogliere accoliti da ogni regno. Vogliamo incantatori, falegnami, fabbri, costruttori e ingegneri. Quando la città sarà in buone condizioni ci occuperemo degli abitanti…”

Quando il Cavaliere ebbe finito, Azul si voltò verso tutti. “Venite con me.” Con un cenno della mano, esortò Imesah ad affiancarlo e si incamminò. Avanzavano di qualche metro più avanti nel guidare la manciata di persone con Sonia a capo. Le macerie li circondavano. Massi ormai adagiatisi da cinquemila anni nelle loro posizioni attuali, da tempo non più pericolanti, costantemente fermi nelle loro posizioni.

Azul si interruppe quando scorse il baluginio di qualcosa che luccicava tra le foglie delle piante selvatiche, quelle che avevano preso il dominio del luogo in alcune zone. Lo cercò, con il piede scostò le piante, e alla fine trovò la fonte. Si chinò per raccogliere un sasso d’oro. Un sasso completamente fatto d’oro, altrettanto pesante, che riempiva i palmi di entrambe le sue mani.

“Dev’essere un resto del Palazzo dell’Imperatore.” Disse Imesah vedendo quell’enorme pepita tra le mani del drow. “Il Palazzo era interamente scolpito nell’oro. Quando la città cadde in rovina, fu saccheggiato in ogni modo possibile. Quello è ciò che ne resta.” Azul inarcò le sopracciglia, sorpreso. “Un palazzo… interamente scolpito nell’oro.” I suoi occhiacci avidi luccicarono. Gli altri li avevano già raggiunti e si erano fermati a fissarli, in attesa che avanzassero. Azul dovette riportare la pepita al suo posto, e riprendere il cammino.

Quando si fermarono, fu chiaro a tutti il perché.

Davanti a loro, tra gli arbusti sparuti del terreno, si stagliava qualcosa che nessuno di loro aveva mai visto prima, né immaginato, né sentito parlare. Era, se possibile, descrivibile come una sorta di gigantesca capsula verticale modellata e piegata nel metallo, alta quanto un albero, ellittica, lunga e sottile, e dalle estremità appuntite. Essa distava dal terreno quanto una persona, ed era tenuta in piedi da otto arti rannicchiati, anch’essi lunghi e sottili, che salivano fin oltre la capsula e ricadevano per terra poco distanti. Sulle pareti della capsula c’erano delle fenditure nel metallo, riempite con un materiale molto spesso che sembrava vetro, e verso il basso dei piccoli oblò che però non erano sicuramente finestre.

Gli uomini dietro Imesah e Azul restarono a bocca spalancata e occhi sbarrati, sentendosi mancare il respiro. Non poterono fare più di questo. Azul invece non se ne preoccupò. Lui si avvicinò all’oggetto non identificato e allargò le braccia.

“Allora,” urlò ad alta voce alla capsula “prendi nota: voglio un cazzo di palazzo interamente scolpito nell’oro!”

Con orrore di tutti, dopo pochi istanti una calda luce filtrò dal vetro della capsula, illuminando l’erba, le rovine e le facce dei presenti prima di spegnersi gradualmente. Azul abbassò le braccia, rilassando la postura.

“Credo che Saab abbia detto sì.” Commentò Imesah.

 
Ciao a tutti! Grazie per aver letto questo capitolo. Spero che vi sia piaciuto e che vi abbia incuriosito a leggere il resto della storia. Non esitate a lasciarmi delle recensioni per farvi sapere se vi è piaciuto o meno, soprattutto se avete dei consigli o delle critiche, che verranno accettate di buon grado! Vi aspetto nel prossimo capitolo :)
 


 
Azul Goldsmith.

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Capitolo 2
*** La rana o lo scorpione ***




 
La rana o lo scorpione.

 
 


Il secondo capitolo si apre venti anni dopo con la narrazione in prima persona di So'o Goldsmith, principe del regno dell'Alba di Saab e figlio dell'Imperatore Azul Goldsmith, avuto in dono dal dio Saab stesso per suggellare l'accordo tra l'Imperatore e il suo Cavaliere (e compagno), Imesah Hos, e affidato a loro perché lo istruissero un giorno a succedergli al trono. So'o Goldsmith cresce a palazzo e diventa esempio di rettitudine, disciplina e talento. Ma un ragazzo di diciassette anni, per quanto miracoloso e divino, prima o poi dovrà fare i conti con il richiamo dei suoi geni mortali.
 
 


Mi siedo sulla panca di marmo e tiro fuori dai polmoni un sospiro esasperato ad occhi chiusi. Stanco, sì, ma perfetto, con le mani poggiate sulle cosce.

Questa storia mi sta facendo impazzire.


Era un giorno qualsiasi, e avevo appena smesso i miei impegni reali. Come al solito mi ero seduto nel chiostro, proprio qui, su questa panca di fronte all’obelisco dei caduti, e mi stavo prendendo una boccata di aria fresca dopo le lezioni. Era normale che fossi stanco, non come adesso ma comunque provato dalle dure lezioni, e sarà per quello che lui trovò il coraggio di venire da me.

“… Ti va di andare a farci un giro?” Mi chiese.
“Ci divertiamo, facciamo un po’ di casino. E dai, qui è una noia mortale e lo sai anche tu.”

A dire la verità le lezioni che faccio sono molto interessanti! Che ignorante…

Ma… aveva catturato la mia attenzione, sì. Certo, quando uno sconosciuto ti chiede di andarvi a sperdere, se sei un ragazzo giovane e inesperto, pieno di oro indosso, e soprattutto una persona importante che se rapita potrebbe valere diverse tonnellate di gioielli, e dici sì, allora sei proprio scemo. Lo so, lo so. Ma non me n’è importato niente in quel momento. Voglio dire… ho… diciassette anni. E da qui non sono mai uscito- non per divertirmi, mescolarmi tra la gente, conoscere delle persone. Ad un certo punto, quando mi fece quella domanda, sentii il mio cervello urlare “Facciamo una cosa folle”. E l’ho fatta. Ho preso la mano che mi tendeva.

Ho visto in un giorno più cose di quante ne avessi viste in tutta la mia vita. Una vita fatta di pagine di libri, di illustrazioni, quadri, favole e leggende, di proiezioni vanesie che non ho mai potuto afferrare. Lui mi ha preso per mano e mi ha fatto vedere le case colorate della città bassa, e il mercato, una zona della città così vasta da sembrare comprenderla tutta, e le facce della gente erano così diverse le une dalle altre… Mi ha portato dove vanno i ragazzi del Popolo, dove si divertono con la palla, o giocano con la spada.

Siamo andati in una locanda. È una fortuna che avessi deciso di umiliarmi con i vestiti più poveri che avessi, perché persino quelli erano troppo eleganti per il posto dove ci trovavamo. Ma era un luogo abbastanza tranquillo perché potessimo fare due chiacchiere in pace. Lui aveva preso del vino. Ho dovuto provarlo. Dovevo disobbedire in qualche modo, ed ero curioso… avevo un piccolo sorriso sulle labbra, timido ma contento.
Sempre composto nella mia postura, scomoda per cercare di farmi il più piccolo possibile, come per non dare fastidio, la mia mano si allungava al bicchiere di vino e mi faceva sorseggiare. Lui mi raccontava storie, e mi diceva i fatti della gente che stava lì, e poi si prendeva gioco di loro e mi faceva notare cose che non notavo: gli intrallazzi della cameriera, l’oste omosessuale, la signora risentita all’angolo.
Un sorso dopo l’altro la mia postura si distese ed io occupai uno spazio più grande, le braccia si sciolsero e si poggiarono sul tavolo, le gote si arrossarono e i miei occhi divennero lucidi, e il mio timido sorriso mostrò i denti in una smorfia divertita e birichina.


“Davvero non sei mai stato fuori da palazzo?”

Annuii zitto, con l’imbarazzo che sul mio viso si mischiava all’ebrezza, lo sguardo addolcito dal vino e puntato verso il basso. Lui si sporse, con quella sua faccia da scemo sconvolta e curiosa. Zero tatto, zero. Uno scemo.
“Ma che palle!”
Io sospirai, e distolsi lo sguardo. Lontano da noi c’era una donna a cui si alzava la gonna mentre stava ballando.
“E che diavolo fai tutto ‘sto tempo lì a palazzo?”
“Studio.”
Tornai a guardarlo, più deciso. Io sono orgoglioso di quello che faccio.
“Devo prepararmi per il mio ruolo. È importante. È molto importante.”
Lui mi scrutò per un momento, come per cercare di capire. Poi, da che era sporto verso di me, si ritirò e si accasciò col mento sulla mano del gomito poggiato sul tavolo.
“Ho capito. Ma potresti anche vivere ogni tanto.”
“Credo… che l’Imperatore e il Cavaliere abbiano paura che io finisca nei guai…” Ammisi, con una smorfia.
“Aaaah!” Esclamò lui, seccato “Sono stupide paure. Dovresti conoscere un po’ la tua gente, no?”
Mi guardava. Io ricambiai lo sguardo.
“Beh, per quello che ne so tu potresti essere il mio rapitore.”
Il vino diede a quella frase un tono… malizioso. E infatti lui sorrise, e mi scrutò con uno sguardo strano.

Prima mi guardava negli occhi, poi abbassò lo sguardo. Alle… labbra, forse, e più giù a guardare i miei vestiti o quello che si trovava sotto. In un’altra situazione mi sarei sentito in profondo disagio. Ma non so perché, quel suo sguardo mi piacque, mi fece sentire vivo in un certo senso. E poi non era solo quello. Quando tornò a guardarmi negli occhi c’era dolcezza nei suoi.
“Hai ragione. Probabilmente ti rapirò.”
Mi uscì una risata prima che io potessi anche solo accorgermene, e non riuscii a fermarla. Non riuscii a volerla fermare. Mi distesi sullo schienale della sedia.
“Tu mi stai facendo ubriacare.”
Lui sorrise guardandomi, era di sicuro molto contento. Poi si sporse verso la fiasca di vino.

“Allora basta così.”


Eravamo su di un tetto. Il tetto di una casa colorata. Eravamo stesi, a guardare il cielo. Ho sempre avuto la possibilità di guardare le stelle da palazzo. Guardarle con un’altra persona accanto, però, è diverso.
“Vuoi che io non so dove sia la stella polare? Cinque anni di pirateria!”
“Beh, sai, ho i miei dubbi visto che non riesci neanche a coniugare i cazzo di verbi!”
“La stella polare è più importante dei cazzo di verbi.”
Le mani sui nostri stomaci, i capelli sparpagliati sulle mattonelle. Il silenzio, per un bel po’ di tempo.

“So’o.” Mi fece lui. Io aspettai che continuasse.
“Tu da dove vieni?”
Corrugai la fronte, che domanda strana.
“Come Saab?” Continuò lui.
Alzò il braccio, indicò dritto di fronte a sé, sul cielo.
“Dalle stelle?”
Seguii il suo indice fino alla notte stellata, e riflettei.
“Io vengo dal tempio, in cui i miei papà fecero il rito.”
“Quindi sei unico. Non c’è nessuno come te.”
Ciò che lui mi disse mi intristì enormemente. Smisi di guardare le stelle e mi rabbuiai. Lo vidi con la coda dell’occhio voltarsi a guardarmi.

“So’o.” Mi chiamò. Allungò un braccio, per cercare la mia mano. La sua era calda… non dovevo lasciarglielo fare. Non dovevo restare fermo, ma lui la avvolse dolcemente in una stretta accogliente, e io non riuscivo a scansarmici. Mi ci sentivo annegare dentro, sentivo che fosse tutto ciò di cui avevo bisogno: un po’ di calore. Qualcun altro che mi tenesse la mano.
“Non è così, capito?”
Strinse la stretta.
“Tu sei nato unico, ma questo non vuol dire che debba esserlo per tutta la tua vita. Ti hanno creato perché tu fossi qualcosa, ma se lo sarai è solo perché l’hai voluto tu. Puoi dire no. Puoi non essere perfetto come dicono loro.”

Voltai il viso per guardarlo. Che strani discorsi. E mi ricordai che non sapevo da dove veniva questo ragazzo, vestito solo di pantaloni miserabili e con nessuna proprietà se non qualche moneta, e mi chiesi che ruolo avesse lui in tutto questo. Da chi era stato mandato. Cosa voleva da me. Cosa stava cercando di fare. Lui mi lasciò la mano, come se avesse capito, e tornò a guardare le stelle.


Dopo poco eravamo seduti a guardare il panorama della città, stanchi di vedere le stelle. Lontano vedevamo le meravigliose luci della Foresta Incantata alla fine della città, oltre le mura. Le finestre illuminavano le strade.
“Io… non ho mai fatto niente di tutto questo.”
Ammisi con imbarazzo, e credo di essermi lasciato sfuggire nel tono una nota compiaciuta. La verità è che ero brillo, e non mi rendevo affatto conto di quello che stava succedendo! Non sapevo ancora chi era veramente, e dopo una serata del genere nessuno mi avrebbe dato torto a provare affetto nei confronti della persona che mi aveva accompagnato, e nonostante fosse uno sconosciuto sentivo di essere collegato a lui, in qualche modo. Non sapevo quanto avessi ragione.
“Ti sei perso un bel po’ di roba allora.” Mi rispose con un ghigno, mentre i suoi occhi spiavano oltre le tende di una delle finestre.

“Ti ho visto.”
Il suo sorriso si spense. Divenne riflessivo. Il suo sguardo ancora altrove, ma non più in un luogo preciso.
“Passi le giornate a fare sempre le stesse cose. Non credo che sia sbagliato… ma…”
Si prendeva il suo tempo per parlare. Esalando un sospiro continuò.
“sentivo il bisogno di starti vicino.”
È stato come se avesse ammesso qualcosa che non voleva. Zittì, quasi in ansia, e guardò in basso. Io lo scrutai a lungo, riflettei su quello che mi aveva detto.
“Forse io ne ho bisogno.”
Borbottai, stringendomi un po’ nelle spalle strette, e voltandomi piano di fronte a me, di nuovo. Lui rialzò lo sguardo per osservare il mio viso, lo vidi con la coda dell’occhio. Presi un respiro.
“Nessuno si avvicina a me. Sono il Principe, figlio di Saab. Sono… sacro.” Serrai le labbra, con amarezza.
“Io… vorrei esserlo.” Il mio tono di voce era abbassato, per come i miei pensieri mi scoraggiassero
“Ma sento anche… sento come se per esserlo dovessi rinnegare qualcosa che fa parte di me. Se fossi nato per questo non sarebbe difficile, no? E invece…”
Mi morì la voce in gola. Lui mi stava ancora guardando.
“Se tu fossi nato per questo non saresti mortale, non credi?” Ipotizzò.
“Tu bevi, mangi… e..” esitò, si porto una mano a portare indietro i capelli della fronte come scusa per nascondermi la sua faccia per un momento.
“… quando hai preso la mia mano, lo volevi. Tu volevi… sporcarti.”

Rimasi interdetto a quella parola. Corrugai la fronte, cercando di capire meglio cosa significasse nella mia testa… poi tornai a guardarlo. Lui incrociò il mio sguardo, per… non so per quanto tempo. Forse poco, molto, non ricordo, ma era intenso. Eppure non mi dava fastidio. Non volevo scostarmene. Più lo guardavo, più notavo qualcosa che mi piaceva. Era una strana sensazione, come se avessi attraversato un portale e fossi finito in un altro posto, e.... bastava poco per tornare indietro, ma non volevo farlo.

“Io ti devo ringraziare per avermi portato qui.”
“Sono contento di quello che abbiamo fatto.”
“Sì… anche io.”
Sorrisi, malizioso. Divertito dalla nostra marachella, e anche… complice. Rialzai lo sguardo su di lui dopo averlo abbassato e ritrovare il suo sguardo ancora più intenso mi rese una statua di sale.

“So’o…”
“… Sì?”
“… Hai mai baciato qualcuno?”

Sono sicuro che la mia faccia divenne tutta rossa, e il vino mi fece ridere con disagio.

“N-no… io… hah… quando mai…” Dissi, scostando il viso dalla parte opposta, evasivo: certo, iniziai a preoccuparmi.
Fu in quel momento che sentii la sua mano sulla mascella, che mi portava il viso di nuovo verso il suo, e in quel momento chiusi gli occhi come se sapessi già cosa stesse per fare, e sentii subito dopo le sue labbra sulle mie, premute dolcemente.

Era così vicino a me che il suo odore si mescolò alla fresca brezza notturna e sentii girarmi la testa. Sentii il lieve vento piacevole scostarmi i vestiti, e per un momento pensai che fosse la sua mano. Inspirai un sospiro eccitato dalle narici, e schiusi la bocca per espirare. Lo guardai con i miei occhi verdi e ingenui, e lui con i suoi. Era anche lui assuefatto. Credo che nessuno di noi due sapesse cosa stesse facendo. E io mi spinsi di nuovo contro il suo viso, piano, timidamente, per un altro bacio.

Avrò fatto una figura da ragazzina incapace. Ricordo che mi spinse piano indietro per farmi stendere sul tetto e iniziò a baciarmi a lungo, all’inizio con una delicatezza che non era affatto da lui e poi mettendo più sicurezza nei suoi gesti. Ricordo anche la calda stretta delle sue braccia nude sul mio petto e attorno al mio corpo, e il caldo opprimente che provavo e che mi fece sbottonare qualche asola del vestito.
È davvero imbarazzante ripensarci adesso, con quello che ho scoperto.


Per tornare a casa salimmo direttamente dai tetti attraverso un passaggio segreto che lui aveva trovato. Mi allarmerei di questo passaggio se non sapessi che, nonostante la furtività del ragazzo possa ingannare le guardie, il palazzo è controllato anche per via magica. Questo il ragazzo non lo sapeva. Perciò, anche se non avevamo incontrato nessuna guardia, avevamo i minuti contati.
Scendemmo attraverso una scala che dava sul belvedere, proprio nel porticato dove si trovava la mia stanza. Un chiostro occupava il centro del porticato. Mentre scendevamo, io stavo ancora ridendo come una sciocca ragazzina. Quanto mi odio a ricordarlo adesso…

“Allora? Uhm… sei un cuoco.”
Cercavo di indovinare il motivo per cui lui era a corte, e le mie ipotesi erano instupidite dai rimasugli dell’alcool e dalle farfalle nello stomaco.
“No!” Esclamò lui ridendo, e voltandosi a guardarmi stranito.
“Oh, va bene… allora sei un maestro di spada?”
“Er, così mi lusinghi troppo.” Questa era la scena mentre mi accompagnava alla porta.
“Beh, lo scoprirò comunque.” Conclusi, fermandomi davanti alla mia stanza e voltandomi verso di lui. Lo trovai davanti a me, separati da poca distanza. Sapevo che ci rimaneva un po’ di tempo.

“Sì…” Sbuffò una risata guardandomi, e poi guardò altrove evasivo. “Uhm…”

Immagino che stesse per dire qualcosa di importante, ma lo interruppi con un mormorio flebile, perfettamente udibile nel silenzio di quella notte “Lo fai con tutti i ragazzi che ti piacciono?”
“-Cosa?”
“Portarli sui tetti a guardare le stelle.” Una risata fece vibrare la mia voce mentre lo dicevo.
Lui di nuovo, mi osservò bene in viso. Poi sbatté le palpebre, alzò il mento e rispose.
“Solo quando sono belli come te.”

Un ghigno si espanse sulle sue labbra, io risi e gli diedi un lieve spintone premendo la mano sul suo petto. Lui non ne subì affatto, sembrava fatto di roccia; indietreggiò quasi per farmi un favore, mentre rideva insieme a me. Quando le nostre risate si spensero, io incrociai le braccia al petto per ricompormi; avevo i muscoli di spalle e braccia tese dal freddo, ma temo che fosse ancora di più per l’eccitazione.

“Vuoi rivedermi?”
“Sì.”

Gli feci un sorriso dolce, catturato. Da come mi guardava, lui sembrò prendere sicurezza da quel sorriso e lo ricambiò. Si avvicinò a me, ancora più di quanto già lo era. Sollevò un braccio per portarlo accanto al mio viso, e con la scusa di portarmi una ciocca di capelli dietro l’orecchio mi accarezzò la guancia. Anche io mi avvicinai di più a lui. A quella vicinanza riuscivo a inspirare di nuovo il suo odore. Lo volevo baciare. Lui stava intrecciando le dita tra i miei capelli scendendo lungo la schiena, e si avvicinò alle mie labbra per baciarmi. Io mi stavo sporgendo, chiusi gli occhi.
E fu allora che sentii una porta sbattere, e la voce di mio padre.


“VILYA!” Esclamò Imesah – era infuriato. Non lo vedevo mai arrabbiato, ma quella notte per la prima volta scoprii quanto potesse diventare violento.
“So’o!” La voce di Azul era apprensiva; entrambe risuonarono nel porticato e ci fecero staccare immediatamente l’uno dall’altro per vederli sbucare dal nulla e accorrere. La mia faccia era avvampata, rossa e calda come se avessi avuto la febbre. Mi irrigidii voltandomi totalmente verso di loro, sconvolto, con le labbra ancora dischiuse senza che riuscissi a spiccicare parola. Subito iniziai a chiedermi: cosa dovrò dirgli adesso? Che sono uscito con uno sconosciuto? Con un domestico qualsiasi e voglio uscirci ancora e baciarmelo con la lingua per giorni interi perché sono un adolescente? Dovrei fare una scenata da adolescente?

E non avevo colto la parte più importante: che non appena Imesah aveva iniziato a chiamare Vilya, lui come un cane che a suon di bastonate aveva imparato la lezione si era subito fatto indietro e nei suoi occhi prima lucidi ora si vedeva il panico, e a braccetto con esso, la rabbia. Azul accorse subito da me, avvicinandomi.

“Stai bene?” Mi chiese, poggiando le dita lunghe e sottili sulle mie spalle per accarezzarle. Mi domandai subito che razza di domanda fosse… Gli risposi di sì confuso, cercando anche gli altri due, e vidi Imesah con uno sguardo così infuriato che non sembrava più mio padre, ma la cosa più preoccupante era che non smetteva di rallentare mentre raggiungeva Vilya a passo spedito. Gli disse delle cose molto brutte. Per quanto se lo meritasse, non sono orgoglioso di quello che fece mio padre.

“Brutto cane bastardo, io ti ammazzo!”

Lo caricò, e Vilya era lì ad aspettarlo con una minacciosa smorfia a denti digrignati, proprio come un cane che ringhiava. Attutì la sua carica andandogli addosso con il proprio peso e subendone il montante allo stomaco per afferrargli una spalla e tenerlo fermo, approfittando della vicinanza per mollargli un gancio. Iniziarono a lottare ed io spaventato chiamai mio padre perché si fermasse e cercai di raggiungerlo, ma Azul mi trattenne. Vilya riuscì a respingere Imesah buttandolo a un paio di metri da sé.
“Sei contento? Mi fai schifo, bestiaccia. Sei soddisfatto?” Ruggiva la voce ansante di mio padre. Negli occhi di Vilya iniziava a leggersi della vergogna. Non rispondeva, dopotutto, si limitava ad ansimare e a guardarlo come se dovesse tenergli testa, ma perdeva motivazione ad ogni sua parola.
“Basta, Imesah.”
La voce così vicina di Azul, decisa, mi sorprese. Mi voltai a guardarlo. Non era preoccupato per Imesah. Era evidentemente preoccupato per quello sconosciuto che il suo compagno stava aggredendo, invece. Ed io ne rimasi molto confuso.
“No, Azul” obiettò Imesah ansimando ancora. Un braccio si tese dritto ad indicare quella bestia che era l’altro, giudizioso “Ha messo le mani addosso a nostro figlio.”
“Non è successo nulla, Imesah.”
“Lo sai?!” Alzò la voce. Io diedi le spalle alla scena, perché non mi piaceva affatto. Ma sentii i suoi passi avvicinarsi. “E se lo avesse portato in un maledetto bordello? E se lo avesse portato a fare qualche rissa? Ah, ma lo sappiamo benissimo cosa ha cercato di fare…”
“Vilya NON ha portato So’o in nessun luogo pericoloso. Sono sicuro che non avrebbe mai rischiato la vita…”
“La vita di una persona così cara?! Non lo so, Azul, e il culo, pure quello?” Ribatté Imesah, ancora più aggressivo. Azul serrò le labbra e rimase a guardarlo con quell’aria fortemente contrariata, e anche ferita. Lo so perché tornai a guardarli in tempo per notarlo, confuso da quello che stavano dicendo.

“… Cosa sta succedendo?” Mi azzardai a chiedere. In realtà ero piuttosto arrabbiato anche io. Volevo delle spiegazioni, e tutti e tre non facevano altro che ignorarmi e rendermi agitato con i loro toni forti e aggressivi.
A quella domanda, Azul mi fissò. Aveva la faccia di quando doveva dirmi qualcosa che non voleva dire, principalmente perché lo avrebbe ferito. Imesah mi guardò per la prima volta come se si fosse accorto in quel momento che ero lì. E Vilya… beh, la sua espressione era di angoscia. Aveva le labbra dischiuse e inspirò come per cercare di parlarmi. Di farlo prima che lo facesse qualcun altro. Il tono di Imesah scese notevolmente, e riconobbi con sollievo la voce seria ma apprensiva di mio padre.

“So’o, questo ragazzo con cui sei uscito stasera…”
Azul mi lasciò dalla sua stretta. Vilya distolse lo sguardo, e Imesah scosse il capo.

“… è tuo fratello.”
 
 
 
Qui finisce il secondo capitolo della mia storia, tengo molto a sapere la vostra opinione! Fatemi sapere cosa ne pensate con una recensione! Grazie :)

 
Primo schizzo di Vilya Goldsmith.

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Capitolo 3
*** Negazione ***




 
Negazione.



 
“Sono ormai diciassette anni che il Gran Regno dell’Alba di Saab viene riconosciuto come una realtà autonoma e indipendente. Saab venne fondata in data Hystsiana nel trecentocinquantasettesimo anno. La scelta della locazione fu basata sulla presenza dei resti delle antichissime rovine di Fajjar Saeb nella regione siieethiana, città che cinquemila anni fa ospitava la progenie del nostro sacro Dio Saab.
Il Dio Saab è considerato una divinità minore a cui vengono attribuiti i domini della gloria, della morte, della libertà e del destino, di cui è anche il reale manipolatore. Il Regno di Saab è stato creato grazie al suo potere e per il suo volere, allo scopo di adorarlo e glorificarlo. In suo onore lo stemma della città lo rappresenta nelle sembianze in cui si manifesta ai fedeli, sotto forma di un gigantesco, flessuoso ragno di legno bianco, corroso internamente da un fuoco.
La leggenda della fondazione narra che il dio Saab avesse portato il suo Cavaliere e l'Imperatore Azul in questo luogo e che con i suoi poteri divini avesse conferito loro il potere necessario per costruire una grande città in suo nome. I fedeli di Saab vennero loro in aiuto e raccolsero seguaci dalle altre città. Alcune caratteristiche delle rovine che precedevano l'Alba di Saab sono state mantenute: l'Alba di Saab prende il suo stile e alcune usanze dalla città che era stata abbandonata.
Gli abitanti precedenti, stando alle testimonianze visive e scritte che ci sono rimaste, come mosaici, quadri o documenti, avevano sembianze particolari tra cui pelle blu, colli allungati, occhi tondi, grandi e riflettenti simili a pietre preziose. Delle loro usanze conosciamo poco, ma sappiamo che non erano inusuali matrimoni tra consanguinei e monili che raffigurassero i serpenti, mentre dall’analisi delle antiche rovine si è scoperto che l’oro era il metallo più utilizzato, e che veniva utilizzato anche nella costruzione di edifici.
La gerarchia del Regno prevede in cima la figura dell’Imperatore accompagnato dal Cavaliere, e viene aiutato nelle sue scelte politiche da Consigliere, Comandante e da un organo gestionale della città chiamato Consiglio e formato dalle otto donne più autorevoli del regno.”

So’o prese finalmente respiro e chiuse la bocca inespressiva, osservando l’istruttrice dall’altra parte della scrivania con i suoi occhi vitrei. L’istruttrice ricambiò il cipiglio di sfida, e mantenne vivo quel fermo incrocio di sguardi per diversi secondi prima di rilassare i muscoli delle braccia e farle rilassare sullo scranno, con un sospiro.

“Sì. Non è male per aver raccolto le informazioni nella tua testa in cinque secondi. L’argomento di oggi inoltre erano le popolazioni oltreoceano, speravo che fosse abbastanza diverso dalla richiesta per metterti i bastoni tra le ruote.”

L’istruttrice schioccò la lingua sul palato, mantenendo quell’atteggiamento di sfida, ma ammettendo, con un calare delle palpebre verso i tomi di studio, la sconfitta.

“Ma non è successo.”

Serrò le labbra in una smorfia che ammettesse l’amara sconfitta e piegando il capo con complicità incrociò nuovamente lo sguardo di So’o, dichiarandolo vincitore. Per un momento il Principe notò un baluginio negli occhi di lei e inarcò leggermente le sopracciglia dalla sorpresa. E quella era la prima espressione diversa dalla noia che So’o esprimesse da ore. Questo l’istruttrice non lo sapeva, perché lei era stata con lui solo nell’ultima.

Lei si alzò provocando chiasso per il rumore della sedia che veniva spinta indietro, e iniziò a raccogliere tutti i suoi tomi con dovizia, in silenzio. So’o si sedette sulla sedia per prendersi una pausa, respirando profondamente e concentrandosi sul profumo dell’aria pura che inspirava, l’aria che proveniva dalla finestra dello studio, l’unica feritoia che proiettasse una qualche forma di luce pomeridiana, e di gioia, nella stanza.

So’o studiò i lineamenti dell’istruttrice, approfittando del fatto che lei fosse sovrappensiero. La sua istruttrice era niente meno che Asia, cognome ignoto poiché facente parte del vero e proprio Consiglio. Le signore del Consiglio perdevano i loro cognomi, come simbolo della loro conversione al Dio Saab e alla nuova vita che la città aveva donato loro. Inoltre, il loro ruolo era abbastanza importante da permettere loro di venire riconosciute subito con il loro solo primo nome. Non era strano che perdessero proprio il loro cognome: molte creature che si rifugiavano a Saab non volevano altro che questo, dimenticare le loro origini. E So’o era convinto che Asia facesse parte di queste creature. Ogni signora del Consiglio faceva capo a una diversa mansione amministrativa, e in quel caso Asia era la Gran Maestra, a capo dell’istruzione del Regno, il cui ruolo stava sopra quello di qualsiasi altro istruttore. E lei era l’istruttrice speciale di So’o.

Asia non era un’umana, e non dava l’impressione di esserlo. A partire dai vestiti neri, severi e di pizzo che indossava, fino ai luoghi oscuri e lugubri che abitava e all’atmosfera di morte che si trascinava dietro, dava l’impressione di essere tutto fuorché umana. L’unica sua caratteristica, singola ma pungente, che deviava dall’aura di decadenza e decomposizione che lei si portava dietro era il suo aspetto giovane. Asia aveva le sembianze di una ragazza di ventitré anni, ed era molto bella. Aveva grandi, ipnotici occhi, resi rossi forse da ciò che lei era diventata, e di cui si vedevano ancora i resti di un caldo, normalissimo, umanissimo nocciola. Labbra da bambola, color corallo, e lunghi capelli mori che So’o non aveva mai visto sciolti neanche un giorno della sua vita, ma sempre raccolti in un ordinato chignon, a volte decorato da qualche pizzo funereo. Molte cose di lei erano sempre le stesse, e sicuramente quella che più rifletteva questa caratteristica era la sua espressione. Una perenne espressione di pura apatia, che balenava dagli occhi penetranti, un’assenza, una mancanza di vita. E quando lei parlava, So’o poteva notare l’acume dei suoi canini.

“Te ne puoi andare.”

La voce di Asia lo frustò nel mezzo delle sue elucubrazioni con il suo tono severo e pungente. Lei non lo attese. Era fatta così. Prese le sue cose e se ne andò, con i libri stretti al petto, senza salutare. So’o restò un altro momento a scrutare la scrivania semibuia e a sentire il tempo scorrere senza contare gli istanti, prima di alzarsi piano, senza fretta, e uscire dalla stanza con i suoi quaderni sotto il braccio.

Il palazzo era vasto e presentava una quantità non banale di chiostri da cui davano molte stanze, tra cui quella di So’o, ma la maggior parte di essi poteva venire distinta dalla statua che ospitavano. So’o riusciva ad orientarsi a palazzo grazie alle statue, di cui sapeva la precisa collocazione, avendo avuto tutta la sua vita per impararle a memoria. Ormai non aveva più neanche bisogno di orientarsi: il suo schema di istruzione lo portava ogni giorno nello stesso luogo alla stessa ora, e così non dovette neanche fare capolino dal porticato per sapere che nel chiostro dove si trovava si stagliava la statua di una temeraria bestia per metà umana e per metà demoniaca, che, in indumenti da mozzo pirata, sembrava sul punto di sparare colpi alla cieca dai due ingegnosi attrezzi, dal muso a cannula, che aveva nelle mani. Era la Statua del Pirata Demoniaco, ma So’o era troppo sovrappensiero per posarci lo sguardo.

Subito uscito dalla stanza si indirizzò verso una direzione del porticato e prese a camminare velocemente in quella direzione, guardando a malapena il pavimento. Quello che lo fermò fu l’automatismo del cervello che aveva registrato qualcosa pararglisi davanti come ostacolo e gli aveva ordinato di fermarsi, ma So’o non capì neanche di cosa si trattasse finché non focalizzò lo sguardo su quella cosa.

“Hey, io ci abito qui, va bene?!”

Era una voce inconfondibile, ma la sagoma mezza nuda del drow dai capelli bruni era ancora più inconfondibile. Cosa fosse definitivamente, ultimamente inconfondibile? Il fatto che fosse appena stato cacciato dalla porta di quelle che erano le cucine.

Vilya Goldsmith era alto e agile, e aveva senza ombra di dubbio il corpo di un uomo, ma il suo atteggiamento lo riduceva a poco più di un ragazzo. Era facile considerare l’allenata massa muscolare e le curve piacenti della sua carne, perché girava quasi sempre con nient’altro che un paio di pantaloni scuri, senza indossare neanche le scarpe, il che rendeva i suoi piedi sporchi e callosi come quelli di uno schiavo. Insoliti erano i suoi colori, perché portava lunghi capelli mossi e neri che stonavano con la sua natura di drow, e occhi blu che, insieme alla pelle scura dalle sfumature cobalto, rendeva denti e orbite degli occhi le uniche parti del suo corpo che non assorbivano del tutto la luce del sole. Aveva un naso all’insù che dava ulteriore carattere alla sua faccia.

Vilya tornò subito ad alzarsi mentre dalla porta delle cucine faceva capolino il cuoco, agghindato di uno sporco camice e di una smorfia indignata.

“Non ho tempo per stare dietro ai tuoi giochetti da ladruncolo, torna quando avrai imparato le buone maniere!”

“Non ho chiesto troppo!” Esclamò Vilya spalancando le braccia “Non posso neanche prendere un mango dalle cucine? Un mango?”

“Voglio un permesso firmato!” fu la frase che si sentì ovattata da dietro la porta, appena stata chiusa e sbattuta, prima di un altro commento seccato: “Brutti ladri del cazzo.”

“Non l’ho rubato! L’ho preso in presttt…”

Vilya era davvero impegnato ad argomentare davanti a una porta chiusa ma la coda dell’occhio percepì la presenza di qualcun altro vicino a lui. Inizialmente non ci fece caso, poi si rese conto che si trattava di qualcuno di familiare. Voltò il capo di lato per notare lo sguardo freddo e biasimatore di suo fratello fissare i suoi occhi, intensamente.

Suo fratello So’o aveva poche cose in comune con lui. A parte avere più o meno la stessa altezza, per metà la stessa razza e per metà lo stesso padre, i due erano persone molto diverse a partire dall’aspetto. So’o era un ragazzo giovane, e aveva una corporatura più esile. I suoi muscoli erano longilinei e morbidi, non allenati o messi sotto sforzo come quelli di Vilya. Era frutto della mescolanza tra due razze, che aveva generato un piacevole tono abbronzato, lunghi capelli di un biondo ramato, lisci, con una frangia quasi perfetta a sfiorargli le sopracciglia fini, e occhi verdi dal taglio vagamente a mandorla. Un naso a patata ne smorzava appena la bellezza, sempre messa in risalto dagli abiti regali che indossava. Indietreggiò e si voltò, incamminandosi verso la parte opposta.

Inizialmente, Vilya poté solo spalancare per metà la bocca e restare con le braccia a mezz’aria, guardando il ragazzo che si allontanava a passo spedito. Si sforzò, però, di trovare qualcosa, qualsiasi cosa, da dirgli, per interromperlo.

“A-Aspetta!”

Ed eccolo partire per riguadagnare terreno, scattando in sua direzione. So’o lo ignorò. La sua faccia esprimeva seccatura e irritazione, ed era abbastanza ovvio che si stesse allontanando da lui per evitare che scoppiasse una non meglio definita apocalisse nel centro del palazzo, capace di risucchiare qualsiasi innocente con sé nel raggio di chilometri. Vilya era troppo sciocco per rendersene conto.

“So’o…”

Così sciocco che per cercare di fermarlo allungò un braccio verso il suo e lo afferrò, premendo il palmo scuro sulla nuda pelle dorata del fratellino per tirarlo a sé. Il dislivello tra la forza dei muscoli di Vilya e quelli longilinei e flessuosi di So’o si avvertì subito da come fosse facile per il drow provocare una pressione sul corpo del ragazzo. Appena So’o percepì quella pressione si voltò e scostò bruscamente il braccio, buttandosi via da dosso la mano di Vilya in una reazione a bruciapelo che vide l’avambraccio fermarsi verso l’alto all’altezza della sua testa, respingendo violentemente quel contatto.

“Tu non mi tocchi.”

Il grave sibilo del principe scandì lentamente ogni parola, ed ognuna di esse era una promettente minaccia intrisa di rabbia malcelata.
Vilya ritirò la mano. Dall’espressione colpevole sembrava che provasse le stesse emozioni di vergogna e urgenza dell’altra sera. Serrò le labbra in una smorfia e si raddrizzò, per assumere un’aria appena più dignitosa.

“Mi dispiace per quello che ho fatto. Ho sbagliato.”

So’o reagì con un sarcastico sbuffare dalle narici “Sì, sembra proprio così.”

“Non intendevo fare del male a nessuno!” Incalzò Vilya scuotendo il capo “Volevo solo… starti vicino…” cercò di spiegarsi, più incerto.

Una spiegazione che fece storcere il naso a So’o “Potevi starmi vicino senza mentirmi."

Fece per incamminarsi di nuovo ma la replica di Vilya lo interruppe una seconda volta “Non ti ho mentito!” Esclamò, sporgendosi verso di lui. So’o sollevò un sopracciglio, per niente persuaso.

“Non ho mentito! Non ti ho detto bugie! Certo… ho… ho omesso ma – non è la stessa cosa!”

“No, non è la stessa cosa!” Ribatté So’o alzando la voce, perché non riusciva più a trattenersi dall’adirarsi “È grave, Vilya! È più grave! È grave omettere a tuo fratello che sei suo fratello, solo per limonartelo su di un tetto!” L’urlo che tirò fuori dalla sua bocca risuonò nel chiostro, e tutti i camerieri delle cucine seppero cosa era successo. Ma a So’o non importava, sconvolto com’era.

“Non era quella l’intenzione.” Si difese Vilya. Scrutò a fondo nei suoi occhi, alla disperata ricerca di un contatto, di un po’ di comprensione per il suo brutto gesto.

“Volevo solo che tu… quello che hai fatto. Non l’avresti mai fatto se avessi saputo chi ero.”

“È per questo che avresti dovuto dirmelo. È disgustoso.”

“Non è cambiato niente, So’o.”

Il tono di Vilya era irremovibile ed estremamente serio, come il suo sguardo. Per un momento le certezze di So’o vacillarono, e le sue stesse idee gli sembrarono confuse. Scosse il capo in negazione, lanciò un’occhiata alle finestre della cucina con una smorfia di indignata disapprovazione, notando distrattamente qualche cameriera fare capolino per spiare la scena.

“Era tutto reale…”

“Fai una cosa.”

Lo interruppe So’o, fissandolo dritto negli occhi.

“Stammi lontano.”

Chiuse il discorso con il tono definitivo della voce e si voltò per incamminarsi. Vilya lo vide per la seconda volta sfuggirgli di mano, e cercò nuovamente di recuperarlo dopo qualche istante. Gli bastò fare due passi lunghi e veloci e riuscì ad arrivargli dietro. La sua mano si posò sulla spalla del principe. Fece pressione verso di sé per convincerlo a voltarsi di nuovo, tirandolo. Non era un gesto violento, la stretta non era salda, anzi era calda e poteva facilmente essere sciolta, ma evidentemente bastò un niente perché So’o perdesse il controllo di sé.

Fu difficile per Vilya capire cosa stesse succedendo: percepì una pressione che lo respingeva all’indietro, come un pugno d’aria che spingeva partendo dal petto, e per quanta forza avesse non poté respingere il colpo né resistergli. Venne scagliato nel porticato per un paio di metri prima di cadere a terra di schiena in un duro colpo e strisciare sulla pietra per un altro metro.

“Uh…”

Cercò di rialzarsi anche se il colpo lo aveva stordito, e appena poté sollevarsi sugli avambracci notò la strana posizione che So’o aveva assunto: una posizione marziale di evidente difesa con gambe che distribuivano accortamente il peso, il braccio sinistro in parata, e il palmo della mano destra aperto verso di lui all’altezza di dove si trovava il suo petto poco fa. Eppure Vilya era certo che So’o non l’avesse neanche sfiorato.

Il principe rilassò compostamente la postura, tornando dritto. I suoi occhi erano infuocati di rabbia.

“Non farti mai più vedere.”

Queste lapidarie parole risuonarono nelle orecchie del drow. Vilya sentì un angoscioso brivido percorrergli il corpo. Gli si chiuse la gola.

So’o rimase a guardarlo dall’alto per un momento, prima di voltarsi di nuovo e andarsene, stavolta definitivamente.
 






So'o Goldsmith.

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Capitolo 4
*** Volpi e grappoli d'uva ***





 
Volpi e grappoli d'uva.





La Sala del Consiglio, progettata come gemella della Sala del Trono, era una camera enorme, delle dimensioni comparabili alla navata di una cattedrale. Aveva soffitti alti e numerose vetrate, lunghe dal pavimento alle travi del soffitto, colorate e dagli archi a sesto acuto, con imponenti pilastri e contrafforti a bilanciare il peso del tetto che i muri ricolmi di vetrate non sarebbero altrimenti riusciti a sostenere. In fondo alla navata, con una piccola scalinata si giungeva ad un piano rialzato e lungo sei metri, alle spalle del quale la vetrata più grande, in resina dorata e con la gigantesca raffigurazione dello stemma di Saab, lasciava entrare la luce del sole e diffondeva un’atmosfera eterea nella sala. Sopra questo piano era sistemato un modesto trono di legno, e davanti ad esso una altrettanto modesta scrivania.

L’Imperatore Azul si trovava a un’estremità di essa, dandole il fianco, con la mano poggiata sulla sua superficie a formare un’armoniosa curva del braccio. Azul era un uomo basso e piccolo, sinuoso, dalle movenze eleganti.

La discendenza drow gli aveva donato occhi gialli, zigomi alti, corporatura spigolosa, una pelle scura dalle sfumature indaco e a tratti verdastre, e dei lunghi capelli grigi lasciati sciolti sul lato sinistro, dove cadevano sul petto raccogliendosi in morbide onde. Era rasato su gran parte del lato destro del cranio, dove si stagliavano tre vecchie cicatrici orizzontali, lunghe e sottili come profonde artigliate. Quello che rimaneva dei capelli del lato destro, sulla sommità, era raccolto in sottili trecce e dread e fissato dietro la nuca, per scivolare poi dietro la schiena.

La chioma nascondeva per metà un simbolo marchiato a fuoco dietro il collo, un teschio posto su due femori incrociati e incorniciato da un cerchio. La ripida linea della spina dorsale si concludeva su un altro marchio, stavolta simile a un tatuaggio se non fosse per la fioca luminosità bluastra che emanava, e quasi uguale al primo: un teschio su due spade incrociate. Sul davanti, al centro del petto e appena sotto le clavicole, era stato intagliato nella carne il disegno di una pietra esagonale. Il torso nudo mostrava due anelli di oro puro ai capezzoli e uno che bucava l’ombelico.

Un antico retaggio di famiglia invece ne aveva mutato parzialmente il sangue, per il quale assomigliava, per alcuni aspetti, a un naga – un mostro umanoide simile a un grande serpente. Su alcune zone del corpo la pelle si cristallizzava in piccole scaglie. Le narici del naso erano vagamente appiattite e smussate. Aveva muscoli longilinei e forti come quelli di un serpente, che con l’esercizio gli avevano conferito movenze ipnotiche. Le labbra piene nascondevano due file affilate di denti lunghi e sottili quasi come degli stuzzicadenti. Ma la mutazione più evidente erano gli enormi occhi tondi, che per la loro forma riflettevano la luce e rilucevano come due monete d’oro incastonate nel viso scuro. Al centro, la pupilla ellittica spaccava in due l’iride.

“Come diavolo ti è saltato in mente di nasconderglielo!?” L’uomo che allargava le braccia in sua direzione, dall’altra parte del tavolo, aveva sembianze più comuni. La corporatura alta e robusta suggeriva che si trattasse di un uomo di spada. Dagli indumenti umili – una maglia color sabbia a maniche lunghe e dallo scollo tondo, una fascia rossa che gli stringeva i fianchi e dei pantaloni scuri infilati in un paio di stivali – si poteva supporre anche che non fosse in servizio. Aveva capelli mossi, di un biondo ramato, che ricadevano quasi sulle spalle e degli occhi verdi dal taglio suadente, che in quel momento esprimevano preoccupazione. Sul viso c’era qualche lentiggine tipica di una carnagione rossa, insieme a una barba incolta e alle prime rughe.

“Non gliel’ho nascosto. Gliel’ho ‘non-detto’. Avevo altro per la testa.” Spiegò brevemente Azul, facendo cadere lo sguardo dei grandi occhi sulle carte poste sulla scrivania come evidente scusa per chiudere la conversazione. Che ovviamente Imesah gli impedì di chiudere.

“Il fratellastro di So’o torna a casa dopo quindici anni e tu ti dimentichi di presentarglielo? Immagini quanto questa argomentazione possa sembrare ridicola, vero?”

Il tonfo secco del palmo di Azul sul tavolo di legno interruppe l’umano “Cosa stai insinuando?” Il tono del drow si alzò, e perse la nota paziente che lo contraddistingueva precedentemente, manifestando una certa tensione. “La tua testolina da cavaliere dedito al dovere sta immaginando che io fossi d’accordo con mio figlio per nascondere all’altro mio figlio che lui è mio figlio?” Cercò di rendere ulteriormente ovvia la sciocchezza di una simile ipotesi all’altro con l’inarcare sarcastico delle sopracciglia. “Non ho interesse a fare del male al nostro bambino.”

“E allora avresti dovuto fare attenzione.” Imesah avanzò di un passo, e l’irritazione nella sua voce non accennò a scemare.

Costrinse Azul ad alzare per la seconda volta lo sguardo dalle scartoffie. “Vilya non è un pericolo ambulante, Imesah. Sa contenersi.”

“Certo. Quello che è successo ieri sera ne è la prova, non è così?”

Questa allusione punse Azul sul vivo. Stavolta non riabbassò lo sguardo. I suoi occhi brillarono più intensamente, e il suo corpo si protese verso l’altro. “Non so che tipologia di bestia tu credi sia Vilya, ma per il tuo bene, è meglio che tu la smetta di parlare di lui in questo modo.” Dal tono era evidentemente una minaccia.

“Lo farei,” replicò subito Imesah, che non attenuò affatto i toni “se mi desse un buon motivo per smettere. Ma il tuo ragazzo non è niente più che una troietta accaldata.”

“TU sei una troietta accaldata!” Sbottò adirato Azul, avvicinandoglisi con una grande falcata. “Sei forse geloso perché non hai le attenzioni di tuo figlio!?”

Questo riuscì a rendere Imesah confuso per un momento “Ma- ma cosa c’entra-”

“Solo perché tu non hai un rapporto decente con lui non significa che nessun altro gli si può avvicinare!” La lite scese ripidamente sul personale, prendendo Imesah sul vivo, in un modo che lui non avrebbe immaginato.

“Ma cosa- adesso non capovolgere la situazione!”

L’umano fece un ulteriore passo verso di lui. Entrambi si trovavano sullo stesso lato del tavolo, poco distanti. Non fecero caso al rumore della porta della sala che si apriva, né al giovane mezz’elfo ben vestito che, dotato di una serie di altre scartoffie tra le mani, avanzava verso di loro senza guardare avanti, ripassandosi mentalmente le informazioni che erano poste sulla carta. E lui a sua volta non si rese conto di come le loro parole si fecero affilate – o semplicemente ci era ormai abituato.

“Sei un frigido bastardo, Imesah.”

“E tu sei una figa di legno, Azul.”

“Solo perché tu sei disgustoso.” Azul si avvicinò per sottolineargli quel piccolo dettaglio in un sibilo dal basso verso l’alto.

“E tu sei ripugnante.” Il corrugare delle sopracciglia di Imesah diede gravità a quel giudizio. Avanzò anche lui.

“Ti sei visto allo specchio ultimamente?” Fu la pronta replica del drow.

“Credo che il tuo riflesso l’abbia rotto.”

“Forse è stato il tuo, hai delle rughe in più stamattina.”

“Tu sei FATTO di rughe, Azul.” La questione rughe colse nuovamente sul vivo Imesah, che alzò ulteriormente il tono, scendendo nell’isterico.

“E tu non ti lavi i piedi da GIORNI.” Esclamò Azul, esasperato nel rivelare finalmente la cosa al compagno.

“Sono un CAVALIERE.” Si difese lui, ancora più isterico, provocando la reazione ancora più isterica dell’altro: “I CAVALIERI NON SI LAVANO I PIEDI!?”

“PERCHE’ TUTTO QUESTO TEMPO NON MI HAI DETTO CHE DOVEVO LAVARMI I PIEDI?!” Imesah non riuscì a farsi una ragione della cosa. La sua voce echeggiò nell’enorme sala, ignorata dal mezz’elfo che si stava avvicinando e si trovava a più della metà del tragitto.

“PERCHE’ CERCO DI STARTI LONTANO IL PIU’ POSSIBILE, IMESAH” Azul esalò questa ennesima rivelazione, sentendosi alleggerito subito dopo “BRAVO, SCAPPA DAI PROBLEMI DI COPPIA” Imesah gli si pose davanti, troneggiando sull’uomo minuto “SONO IL DEGNO TUO COMPAGNO” sbottò quello, e gliel’avrebbe detto urlandogli praticamente in faccia se non fosse stato troppo basso per lui.

Imesah assottigliò le palpebre reticente ed espresse vocalmente il suo disgusto “… BRUTTA BISCIA DI PALUDE” “SCIALBO AMANTE” gli rinfacciò Azul “INSIPIDA PROSTITUTA!” “NON PROVO PIU’ ATTRAZIONE PER TE DA MESI” l’ennesima rivelazione di Azul fece vacillare Imesah, ma stavolta fu lui ad avere una rivelazione in serbo per l’altro “MI FAI PENA, HAI PAURA PERSINO DI AFFRONTARE QUESTO.” Azul venne ferito dalle sue parole, ma non lo diede a vedere e piuttosto cercò subito di tenergli testa “NON TI SEMBRA CHE LO STIA AFFRONTANDO?”

“MI SEMBRA CHE TU STIA URLANDO.”

“ANCHE TU STAI URLANDO.” Non sapeva come altro replicare.

“IDIOTA.” Aggiunse, tentando disperatamente di vincere la lite con la prima cosa che gli veniva in mente.

“STUPIDO.” Rispose l’altro. Anche Imesah non aveva idea di cos’altro dire. Era più concentrato su quello che l’altro gli aveva detto. Sulle rivelazioni che gli aveva fatto mentre litigavano ferocemente. E Azul scrutava dentro gli occhi verdi dell’umano, cercando di strapparne via le sue emozioni, di spiare qualche suo pensiero attraverso essi. Forse Azul si stava chiedendo se era vero quello che Imesah gli aveva detto. E Imesah stava finalmente realizzando alcune cose. Tra cui l’effettiva distanza tra lui e suo figlio, e, probabilmente, anche la puzza dei suoi piedi.

Così, mentre loro riflettevano, si creò una strana situazione dove i due si erano fermati a guardarsi molto intensamente in faccia per diversi secondi, zittendo improvvisamente dopo tutte quelle urla.

Il giovane mezz’elfo salì gli scalini del piano rialzato, provocando l’unico rumore che rompeva il silenzio. Si fermò a finire di rileggere i documenti.

Imesah scrutò a fondo negli enormi occhi da serpente di Azul, che in quel momento trovava altamente rivoltanti. Trattenne il respiro, con l’espressione contratta ad esprimere la sua indignazione. Azul fece cadere lo sguardo sulle labbra dell’uomo per un istante per poi tornare ad iniettare veleno nei suoi occhi con i propri. La rabbia della lite gli montava in corpo, feroce, infuocata. Non sentiva una simile passione da molto tempo. Era infuriato con lui.

Scoprì le minacciose zanne da carnivoro e gli ringhiò addosso, lo afferrò brutalmente per la maglia, strinse le mani in due pugni contratti e lo tirò contro di sé con una foga tale da sformargli la stoffa e minacciare di farlo cadere.

Le mani grandi di Imesah reagirono istintivamente e gli bloccarono le piccole spalle in due morse d’acciaio a cui non avrebbe potuto sottrarsi. Digrignò mostrandogli i denti a pochi centimetri dalla sua faccia prima di serrare gli occhi, istintivamente, quando sentì l’improvvisa pressione delle labbra carnose di Azul sulle sue.

Azul premette la faccia contro la sua con foga e cercò di schiudergli i denti e di infilargli senza cerimonie la lingua in gola, come se fosse spinto da un’impellente urgenza fisica. Ci riuscì quasi subito.

Imesah accolse la lingua con la sua, al di là di tutto il disgusto che sembrava dimostrare, e iniziò a spingersi contro il suo viso rincarando la foga come se fosse la cosa più naturale del mondo, e stringendogli le spalle in una stretta ancora più straziante. Si lasciò andare in un debole mugugno.

Il drow ansimava rumorosamente dalle narici, nel baciarlo strofinava il naso storto contro quello dell’altro, e continuò a tirarselo addosso per pretendere altri baci, altra passione.

Imesah soddisfò ognuna delle richieste che Azul pretendeva, aderendo al suo corpo, prendendo a stringerlo contro il proprio per i fianchi deliziosamente stretti, e spingendogli il capo all’indietro nell’intrecciare la lingua alla sua.

Azul fu costretto a subire la forza dell’uomo più grosso e a piegare la testa all’indietro, ma si strofinò lascivamente contro il suo corpo, accendendogli i sensi.
Imesah sentì il corpo accaldarsi e ammorbidirsi, ed esalò un sospiro eccitato dalle narici.

Quando il mezz’elfo finì di ripassare le carte e alzò lo sguardo, gli sembrava di assistere alla scena di un boa che ingoiava per intero un elefante. Non sapeva ben dire chi dei due fosse il boa. A pensarci meglio, forse erano due boa che cercavano di ingoiarsi vivi a vicenda.

Azul emise un chiaro gemito dalla bocca occupata, intrecciò le braccia attorno al collo del cavaliere che gli stava divorando la faccia, si sollevò sulle punte per strofinare il cavallo dei pantaloni sul suo in un gesto a dir poco eloquente, e il mezz’elfo vide le mani di Imesah scendere dai fianchi alle cosce di Azul e aprirle per sollevarlo da terra e farlo aderire alle proprie anche.

Con un passetto più avanti poggiò Azul sul tavolo. Quello era il segno che qualsiasi cosa fosse quella che stavano facendo, si sarebbe prolungata. E si sarebbe prolungata sulle mappe e sui documenti di politica estera.

Il mezz’elfo rimase zitto a scrutarli con espressione sconvolta per qualche secondo, valutando le proprie opzioni mentre i due uomini si staccavano finalmente dal bacio, ansimando soddisfatti, e poi ricominciavano, facendo appello con le mani alle patte dei pantaloni che si stavano impazientemente – molto impazientemente – sbottonando, e prima di rischiare di vedere cose che non voleva vedere poggiò educatamente la documentazione sull’angolo della scrivania e si voltò per dileguarsi con discrezione, tra i gemiti ora esclamativi degli altri due che echeggiavano nell’enorme sala.



Richiuse accortamente la porta della Sala del Consiglio dietro di sé. Rivolse il palmo della mano destra verso la porta, appena sopra la serratura, e disegnò con eleganza un semicerchio nell’aria che si concluse sotto di essa. Dalla mano esalò quella che sembrava una scia di fumo azzurro mentre eseguiva il gesto. La scia si dissolse e l’interno della serratura si illuminò per un istante. Sembrava che tutto fosse uguale a prima, ma il mezz’elfo emise uno sbuffo soddisfatto dalle narici e si avviò per le scale dorate del palazzo. Sgattaiolò due piani più giù e si fece strada nel labirinto di chiostri e porticati.

Il mezz’elfo era giovane, anche se dai tratti duri. Aveva un bel viso, privo di imperfezioni, incorniciato da una zazzera di capelli biondi e da occhi azzurri. Era facile dire che fosse carino. Il caratterino testardo suggerito dall’espressione risoluta, tuttavia, poteva far ricredere in molti, soprattutto unita all’aura di autorità che si portava dietro. Gli abiti che indossava contribuivano a riconoscerne l’importanza: una lunga tunica dei toni dell’azzurro spezzati da piccoli dettagli dorati, tra cui lo stemma di Saab dietro le scapole, nascosto dalla nodosa staffa magica fissata alla schiena, e, sul torace, lo stemma del Consigliere.

Il Consigliere avanzava spedito tra gli archi del secondo piano. Non era necessario che ponesse attenzione a dove stava andando – conosceva a memoria il tragitto che l’avrebbe portato al suo studio, era una strada che imboccava diverse volte nell’arco della giornata. L’unica cosa che poteva fermarlo e che effettivamente riuscì a fermarlo, fu la roca voce di un altro uomo, che lo chiamava.

“Valentino.”

Valentino rallentò l’andatura, sbarrando gli occhi davanti a sé dalla sorpresa nel sentire quella voce lungo il corridoio, ed esitò, si interruppe, e si voltò alla ricerca del suo proprietario.

Dietro di lui un drow alto e robusto fece un passo in avanti. Dal primo sguardo era evidente che fosse più adulto di Valentino, forse quanto Imesah. Osservandolo meglio, si poteva immaginare da chi Valentino avesse preso i tratti del viso. I suoi erano così aspri e severi che rispetto ad essi, quelli di Valentino sembravano svanire.

Zigomi pronunciati tipici della sua razza e altre caratteristiche inconfondibilmente drow, come i piccoli occhi rosso sangue che bucavano le pareti per quanto fossero penetranti, e i capelli bianchi, che in quel momento portava raccolti dietro la schiena per una morbida treccia, lasciando libere due ciocche alle tempie, prima delle orecchie appuntite. Muscoli definiti serpeggiavano sotto la pelle scura, grigiastra.

Si distingueva dagli altri drow per l’imponenza del suo aspetto, dovuto alla conformazione allenata del suo fisico, e in generale si distingueva da chiunque altro per l’espressione che indossava quasi perennemente. Era un uomo di poche parole, ma i suoi occhi erano molto eloquenti. La maggior parte delle volte, sembrava minacciare di morte – non perché assetato di sangue, ma perché sembrava malvagio e più di tutto sembrava non provare niente. Severi, freddi, senza la minima traccia di pietà. Eppure qualcosa in essi, forse la stanchezza della sua lunga vita, forse la saggezza che aveva accumulato negli anni, ne addolciva i tratti se lo si osservava meglio, e suggeriva che fosse più di quello che sembrava.

Due fasce di cuoio trattato ne percorrevano il torace altrimenti nudo, incrociandosi davanti e dietro a creare una curiosa divisa, e fungevano da supporto per l’arco, la faretra e l’ascia bipenne che teneva dietro la schiena. Una cintura gli sorreggeva ai fianchi due spade lunghe e una serie di pugnali che la costellavano come piccoli gioielli. I pantaloni di cuoio sparivano in degli stivali neri.

Restò fermo dov’era, in attesa che Valentino lo riconoscesse. Dalla cautela che esercitava nei propri gesti sembrava che avvicinarsi di qualche passo più avanti potesse scatenare uno scontro. Era senz’altro attento a come interagiva con il mezz’elfo. Valentino lo vide lì, a qualche metro da lui, che non accennava ad avanzare.

“Oh. Sei tu.”

Non si preoccupò di celare la sorpresa nel tono della voce. Non si avvicinò subito, rimase a osservarlo, come lui lo osservava a sua volta con i suoi occhi rosso sangue. Con una vaga titubanza si decise a raggiungerlo, senza fretta.

“È strano trovarti qui a palazzo.”

“Sì.” Ammise il drow. Anche se nascondeva le proprie sensazioni, la vicinanza con Valentino che si ritrovò ad affrontare sembrò metterlo alle strette, quasi a disagio. Si capiva da come scostava lo sguardo via da loro due, o da come spostava il peso del corpo, lontano dal mezz’elfo, e stringeva debolmente i pugni, prendendo un respiro. “Sto cercando Imesah.”

Valentino reagì sbuffando, beffardo. “Aspetta e spera! È piuttosto impegnato al momento.” Gli spiegò con una nota maliziosa nella voce.

Il drow incrociò il suo sguardo per diversi secondi con la più totale apatia. Sbatté le palpebre. Spostò lo sguardo di lato, cercando di capire cosa volesse dire quello che Valentino aveva appena alluso, e poi tornò a fissarlo imbarazzato senza avere ancora la più pallida idea di cosa l’altro stesse parlando.

Questo mise vagamente a disagio Valentino, che dovette spiegargli a parole. “Sono andato a trovarlo poco fa, nella Sala del Consiglio. Sta avendo a che fare con Azul.”

“Ah.” Il drow annuì.

Valentino restò a fissarlo, con le mani intrecciate davanti, adagiate sul bassoventre in una posizione rilassata, così come la sua espressione.

“Dove vai?”

Valentino staccò l’intreccio delle mani per volgere il busto e indicare nella direzione opposta alla propria. “Stavo andando nel mio studio, ho un paio di compiti da svolgere.”

“Ti sto disturbando?” Si preoccupò subito di chiedere l’altro.

“No!” Esclamò prontamente Valentino per fugare subito quello sciocco dubbio, tornando a incrociare il suo sguardo e scuotendo eloquente il capo. “No, non ho fretta.”

Il drow annuì, guardando altrove pensieroso. Poi tornò a fissarlo. “Ti va di farci un giro?”

Valentino gli sorrise dolcemente “Sì, certo.”

Solo allora, il drow si smosse dalla sua postazione e si avvicinò a Valentino. Lo guardava in viso mentre gli si avvicinava, e Valentino ricambiava lo sguardo, mantenendo il sorriso gentile di prima, e insieme iniziarono a camminare lungo il corridoio, piano. “Come stai?”

“Mh, bene…” Valentino si strinse nelle spalle, sospirando. “Pieno di impegni, come sempre. C’è un sacco di roba da fare, cose da gestire. Anche stupide. C’è un pastore che chiede udienza all’Imperatore da settimane per motivi che sono a me ignoti, e devo capire questo cosa vuole. Dovresti capitare più spesso nei dintorni, forse questa gente farebbe a meno di ripresentarsi.”

Le parole del ragazzo provocarono una smorfia divertita nel drow. Mentre parlavano lo portò oltre il porticato, e i due si ritrovarono a percorrere il chiostro. La luce del sole era abbastanza tenue da non accecarlo, e malgrado non fosse di suo gradimento, lo erano, invece, il profumo degli alberi e la sensazione della brezza sulla faccia.

“E tu? Gli allenamenti?”

“I ragazzi sono bravi.” Rifletté il più grande. “Indisciplinati. Ma hanno una buona forza di volontà. È importante.”

“Sì, immagino di sì.” Concordò Valentino. “Dopotutto, è Saab. La forza di volontà è presumibilmente la prima forza motrice di tutto questo posto. È un buon segno che tu la veda nei tuoi ragazzi.”

“Mh.” Annuì il drow. Osservò Valentino per un momento, mentre attraversavano una volta ed entravano nel chiostro successivo. “Ti piace stare qui?”

La domanda fece voltare Valentino verso di lui, stranito. “È casa. Certo che mi piace.” Cercò di cogliere, dallo sguardo del drow taciturno, il motivo della domanda. “Senti come se mi stessi costringendo a vivere qui, Ra’shak?”

Ra’shak sollevò una mano per passarsela dietro al collo, prendendo un respiro teso senza replicare altro. Valentino rimase ad osservarlo ancora, prima di tornare giocoforza a guardare a dove andava. Un silenzio riflessivo si fece strada tra i due.

“Ti senti in colpa.” Concluse Valentino. Ra’shak guardava il sentiero del piccolo giardino che stavano percorrendo. Tentò di biasimarlo scuotendo debolmente il capo, ma non poté fare lo stesso a parole. Valentino rifletté ancora un po’ su quello che l’incertezza del drow gli aveva confermato, poi prese un respiro anche lui.

“Diciamo che se tu non fossi entrato nella mia vita, a quest’ora sarei ancora lo stupido guaritore di una carovana di elfi bastardi.” Ra’shak gli lanciò un’occhiata di biasimo, ma il sorriso sul suo volto diceva che Valentino era riuscito a sollevargli il morale. Il mezz’elfo si sedette su una panca, tenendosi ai bordi con le mani. Ra’shak lo raggiunse sedendoglisi accanto, sporto in avanti, con i gomiti sulle ginocchia. Era una discussione così delicata che il silenzio tra una parola e l’altra diceva tante cose.

“Penso che mi sentirò così per tutta la vita.” Ammise il drow, guardandosi le mani. “Hai già ripagato quello che hai fatto.” Gli disse Valentino, fissandolo. “E poi…” guardò dalla parte opposta. I suoi occhi trovarono un giovane albero di fichi poco distante dalla panca. Era evidente che stesse venendo cresciuto con cura, perché era rigoglioso e la sua forma era quasi perfetta. “… adesso siamo qui. È un nuovo inizio. Smettila di pensare al passato. Pensa… a quello che siamo adesso.” Tornò a guardare Ra’shak. Sembrò che le sue parole suonassero bene nella testa del drow, perché alzò gli occhi davanti a sé con lieve sorpresa, e poi si raddrizzò. Fissò Valentino. “Tu vuoi smettere di pensare a quello che eravamo? Vuoi pensare solo a quello che siamo adesso?” “Sì, signor Comandante.” Replicò il mezz’elfo, rivolgendogli un sorrisetto complice. “E soprattutto smettila di guardarmi come se fossi una cosa fragile.”

Ra’shak sbatté le palpebre. Probabilmente non aveva idea di come lo stava guardando. “Tu non sei fragile.” La voce dura del drow riprese sicurezza. “So cosa sei in grado di fare.” Valentino allargò il suo sorriso, compaciuto. “È per questo che mi piaci così tanto.” Ammise l’altro. Stavolta, il mezz’elfo si sentì in lieve imbarazzo, vezzeggiato dalle sue parole. “Perché sei grande.” La mano scura del drow scivolò sulla coscia del mezz’elfo, dove si trovava la sua mano. Intrecciò le dita alle sue, strinse piano la morsa.

Valentino lo guardò addolcito. Strinse a sua volta le dita di Ra’shak tra le sue. “Lo… lo sai perché te lo chiedo.” Era titubante a continuare la conversazione, ma sembrava anche desideroso di andare avanti. Si smosse in una posizione più tesa, meno comoda. Valentino era orgoglioso. Ci mise diversi secondi per formulare un pensiero che ammettesse quanto lui fosse stato debole, al tempo. “Prima lo ero. Fragile, voglio dire.” Zittì, serrando le labbra.

Ma Ra’shak scosse il capo, continuando a fissarlo negli occhi. “No, Valentino.” Gli disse, sorprendendo il mezz’elfo che incrociò il suo sguardo. “Non sei mai stato debole. Sei sempre stato così. Hai combattuto con unghie e denti per la tua vita, fin dall’inizio. Non ti sei mai arreso. Non hai guardato in faccia a nessuno. Hai preso ciò che era tuo.”

Valentino socchiuse le labbra, e arrossì vistosamente. Sapeva di aver arrossito perché sentì la faccia bruciargli. Ra’shak osservò il rossore sulla sua faccia, prima di sporgersi verso di essa, tenendogli ancora la mano nella sua.

Valentino non accennò a scansarsi. Il drow socchiuse gli occhi e posò un bacio morbido sulle sue labbra, pressandovici piano. Valentino accolse l’altro inclinando il capo e chiudendo gli occhi.

Il drow sollevò la mano libera per scostargli i capelli biondi dietro l’orecchio e accarezzargli la guancia, in un gesto delicato che il suo aspetto aspro non sembrava capace di dare fino ad ora. Valentino inspirò il suo odore prendendo fiato, poi interruppe il bacio.

Restò a poca distanza dal viso del drow, e cercò ancora una volta i suoi occhi. Trovò quasi subito le iridi rosse che lo ammiravano da così vicino, prima che Ra’shak si scostasse, per ritirarsi al suo posto. “Fatti accompagnare.” Si alzò dalla panca e attese Valentino perché seguisse il suo esempio e lo guidasse fino al proprio studio.

“Allora? Di cosa discutono i reggenti?” Il tono di voce del drow risultò più vispo. Attraversata la volta successiva rimasero sotto il porticato, a percorrere il corridoio quadrato che circondava il chiostro.

“Il solito.” Valentino si strinse nelle spalle. “Litigano. Però stavolta hanno deciso di scopare sul tavolo del Consiglio dopo aver litigato.”

Ra’shak ne fu appena sorpreso. Valentino aprì la porta dello studio con la propria chiave ed entrò lasciandola nella toppa, avviandosi già verso la scrivania. Il drow entrò con lui e si soffermò a guardare la stanza.

Ci era già stato, ma poche volte. Manteneva comunque l’aspetto polveroso dell’ultima volta. Era ricolma di libri, pergamene e mappe, sparse sulla scrivania, dentro gli armadi, sopra di essi, e sui comodini che si trovavano alle spalle della scrivania, in fondo alla stanza, aderenti alla parete, giusto sotto le due finestre da cui sbucava la luce del sole.

Il gesto di Ra’shak sulla porta fu talmente naturale e serafico che Valentino non si accorse di quello che faceva finché non sentì il rumore della serratura che si serrava. Da dentro. Alzò gli occhi da alcuni fogli della scrivania che aveva preso in mano e vide Ra’shak avvicinarglisi. La porta era chiusa.

“Sono parecchio maleducati a interrompere il tuo lavoro per i loro piaceri personali, non trovi?”

Valentino abbassò piano i fogli, cauto. Ra’shak manteneva un atteggiamento naturale, leggermente complice. Il mezz’elfo sapeva che lui faceva così quando sentiva di avere la situazione in pugno.

“Sì, devo dire che sono proprio maleducati...”

Gli diede ragione, incerto. Ra’shak continuava a diminuire le distanze tra loro, senza fretta. Sfiorò la scrivania con le dita della mano destra. I suoi occhi rossi però erano piantati in quelli azzurri del ragazzo.

“Perché non gli diamo una piccola lezione?”

Valentino lasciò i fogli sul tavolo e lo percorse per azzerare le distanze tra loro due. Poggiò la mano sul bordo del tavolo, vi trasferì parte del suo peso e inclinò incuriosito il capo di lato “Cosa vuoi dire?”

“Voglio dire…”

Ra’shak si smosse e gli andò incontro, sentendo la stoffa della tunica da incantatore di Valentino sfregarsi sulla propria pelle scura. Lo guardava dall’alto. Avevano una bella differenza di altezza. Il tono del drow si arrochì pericolosamente.

“… che nessuno ci può ordinare di eseguire i nostri doveri in questo momento.”

Prima che Valentino se ne accorgesse, Ra’shak aveva fatto propri i suoi fianchi, prendendoli nelle mani. La morsa era semplicemente troppo salda anche solo per ribellarvisi.

Valentino inarcò le sopracciglia, realizzando tardivamente le intenzioni di Ra’shak, che non si prese la briga di attendere che lui comprendesse del tutto per premere nuovamente le labbra sulle sue.

Fu abbastanza convincente. Non c’era dubbio che Ra’shak imponesse i propri gesti all’altro. La spontaneità con cui lo faceva suggeriva che non fosse semplicemente un suo atteggiamento, ma che fosse, se possibile, fatto così, che fosse quasi l’unico modo che conosceva per avere a che fare con qualcuno. Ma il caratterino orgoglioso di Valentino lo assecondava curiosamente, lasciandosi catturare in un malizioso bacio, i cui schiocchi risuonavano nella stanza silenziosa.

Ra’shak si staccò dalle sue labbra e le sue mani scivolarono davanti, dove prese a sbottonare la tunica del ragazzo dalle asole senza fretta. Valentino si vide subire quel gesto, lo guardò mentre lo faceva, con lieve sorpresa. Cercò di darsi da fare anche lui tendendo le braccia verso le fasce di cuoio che circondavano il torace del drow e slacciandole con cura.

Ra’shak dovette sostituire le mani del mezz’elfo quando lui le ebbe sganciate, per lasciar cadere le armi per terra senza creare troppo clangore, e poi infilò le dita sotto la fascia che Valentino portava alla vita, sciogliendola in pochi istanti. Anch’essa scivolò per terra, mentre Valentino cercava di slacciare la cintura dell’uomo. Ra’shak invece tornò sul petto del ragazzo e allargò i lembi della fenditura che aveva aperto nella tunica perché mostrasse la sua pelle rosea. Ci affondò il viso.

Le labbra iniziarono a riempire il suo corpo di baci bagnati, mentre le mani tenevano ben aperto lo squarcio che si era guadagnato sul suo petto.

“Nh…”

Riuscì a strappare un sospiro dalla bocca di Valentino, che aveva ricominciato a sentirsi accaldato, arrossendo sulle guance e sentendo il calore scendere lungo il resto del suo corpo. Ra’shak prese tra le labbra un suo capezzolo e cominciò a torturarlo piano, in un ritmo intenso. Valentino iniziò a sentirsi i pantaloni stretti, e gemette per la costrizione. Si portò le mani alla tunica, sbottonò le ultime asole e se la fece scivolare via, restando in pantaloni.

Lì sentì le mani di Ra’shak approfittarne subito e manipolare il suo corpo. Una accolse l’erezione del mezz’elfo con il suo palmo caldo da sopra la stoffa, saggiandone la durezza. Lo fece gemere di nuovo. L’altra era già intenta a sbottonare i pantaloni, liberandola man mano.

“Ra’shak…”

Valentino lo chiamò ansante, aggrappandosi ai suoi bicipiti. La bocca del drow si separò finalmente dal suo capezzolo, Ra’shak nascose il viso contro il suo collo e iniziò ad aggredire quello con piccoli succhiotti affamati mentre saliva. Con le mani che tenevano i lembi della sua patta lo tirò brutalmente a sé. Non sembrava tanto volerselo premere addosso quanto sottolineare i loro ruoli e affermarsi su di lui.

Valentino era già pervaso da scosse di piacere, e lo strattone possessivo del drow gli causò un violento fremito. Esalò un filo di respiro nel sentire l’erezione aderire a quella dell’altro. Quando Ra’shak ebbe finito di torturare il suo collo, gli scostò il muso con il proprio, ponendoglisi di fronte, e lo catturò in un altro bacio. Valentino soffocò un mugugno tra le loro labbra e accolse nuovamente l’altro, ora con trasporto. La sua lingua ricambiava affiatata le attenzioni del drow.

Staccarono appena i loro corpi per lavorare febbrilmente sulle patte dei loro pantaloni. Appena Valentino liberò Ra’shak, i pantaloni scivolarono via per la pesantezza della cintura. Ra’shak gli prese i lembi del bordo e li strattonò giù in un colpo, liberandogli l’intero bacino di quella costrizione. Afferrò il sedere del ragazzo senza aspettare un altro istante, e lo strinse tra le mani che si riempirono dei suoi glutei.

“Ah!”

Valentino alzò le braccia e cinse il drow attorno al collo, aggrappandosi a lui. Staccandosi dal bacio, strofinò la faccia a lato della sua testa, gli occhi chiusi e le labbra dischiuse, totalmente assorto nelle sensazioni piacevoli che stava provando. Ra’shak piegò il capo per prendere tra i denti un orecchio sensibile del ragazzo e farlo gemere di nuovo. Strofinò le mani tra le sue cosce, le sue dita scorsero attorno all’ano, e con i fianchi prese a sfregarsi contro i suoi per fargli sentire la propria erezione sulla sua. Valentino si esibì in una cascata di versi di piacere nelle orecchie del drow, e lui, mentre gli faceva sentire la sua presenza davanti, si insinuava dentro di lui dietro, pressando con un dito.

Dovette interrompersi. Lo afferrò per i fianchi e lo staccò da sé. Valentino sciolse la stretta attorno al suo collo e lo guardò, tutto rosso in viso, ansante e con gli occhi lucidi. Gli occhi rossi, rilucenti e penetranti di Ra’shak sarebbero stati minacciosi in modo preoccupante per qualcun altro, ma Valentino conosceva quello sguardo, e sapeva che Ra’shak aveva solo una gran voglia di farselo di brutto. Sì, fare l’amore con Ra’shak significava venire costantemente minacciati di tortura e morte. Solo un ragazzo temerario come Valentino gli avrebbe saputo tenere testa.

Con la presa sui suoi fianchi Ra’shak lo spinse giù, ordinandogli praticamente di mettersi in ginocchio. Valentino seguì il suo gesto e si accomodò sulle ginocchia, posando le mani sulle anche del drow. Immerse il viso nell’inguine dell’uomo e lo cosparse di baci, facendogli piegare la testa all’indietro per la soddisfazione che questo gli dava.

Con la bocca si diresse senza farsi attendere sul suo pene eretto, e iniziò subito ad accarezzarlo con la lingua. Sentendosi bagnare, l’erezione divenne ancora più turgida. Sospiri di piacere uscivano dalle labbra dell’uomo. Valentino lo cospargeva di attenzioni mentre risaliva verso il glande, e quando lo raggiunse vi avvolse le labbra attorno, prendendo inizialmente solo questo, e poi spingendosi ad accogliere sempre di più. Ra’shak dovette aggrapparsi ai suoi capelli per la foga, e tenendolo così lo spinse contro di sé.

Valentino assecondò il gesto, prendendolo in bocca più a fondo, e iniziò a farlo scorrere dentro di sé in un ritmo affiatato, mugugnando compiaciuto con la bocca occupata. Il piacere attecchì nel corpo di Ra’shak, si gonfiò, stordendolo. Staccò la mano dai suoi capelli biondi e cercò la sua mano adagiata sulla propria coscia. La prese e la tirò su, per chiedergli di alzarsi.

Valentino se lo fece scivolare via dalla bocca e si alzò. Si asciugò un rivolo di saliva dalle labbra con il dorso dell’altra mano mentre incrociava di nuovo i suoi occhi. Stavolta Ra’shak era stordito dal piacere, mentre il desiderio di Valentino era lucido. Ma fu ancora Ra’shak a fare la mossa successiva.

Lo spinse di lato e poi in avanti, facendolo cozzare con la scrivania. Valentino ci inciampò, poi, facendo forza sulle braccia, salì sullo scranno. Ra’shak gli aprì le cosce e si insinuò tra di esse. Con una mano gli prese un’anca. Con l’altra pressò il palmo sul suo plesso solare e lo spinse all’indietro – pose l’energia necessaria, niente di più. Lo fece stendere sul tavolo, sopra i fogli da lavoro, e poi la sua mano percorse la pelle soffice del mezz’elfo, godendo di quel tatto piacevole, di quel corpo chiaro e giovane.

Scese ad una coscia e la tirò indietro. L’altra la seguì, rivelandogli il sedere del ragazzo. Ra’shak aderì ad esso con l’erezione e poi si adagiò morbidamente sul corpo del ragazzo, così da coprirlo con il proprio calore. Valentino strofinò il naso contro il suo, e Ra’shak catturò le sue labbra in un ennesimo bacio. I gesti più tenui di Ra’shak tranquillizzarono il mezz’elfo, che si rilassò sotto i suoi tocchi.

La mano del drow scese tra i loro corpi. Andò a sistemare l’erezione di Ra’shak tra le natiche di Valentino, pronto a penetrarlo, e poi risalì sul pene di Valentino. Iniziò a masturbarlo intensamente, e intanto giù gli premeva verso l’interno, senza entrare ancora.

“Mmh…!”

Valentino piegò il capo all’indietro e tornò, man mano, a gemere. Con le mani percorse la schiena del drow assaporandone i muscoli modellati dall’allenamento fisico. Mentre Ra’shak insisteva contro il suo sfintere Valentino scese lungo le fossette alla base della schiena e avvolse le natiche sode dell’uomo tra le proprie mani. Le strinse e le spinse verso di sé.

L’erezione di Ra’shak iniziò ad allargarlo ed entrò dentro di lui in un gesto lento e costante che strappò a Valentino un grido strozzato. I movimenti del drow erano lenti, ma intensi. Si fermò. Continuava a masturbarlo, per distrarlo dalla pressione che esercitava sullo sfintere. Uscì di poco, poi si spinse di nuovo dentro.

“Nnh…”

Valentino digrignò i denti in una smorfia, gemendo poi per le carezze che subiva davanti.

“Ra’shak…” lo chiamò flebilmente.

Ra’shak mantenne il ritmo lento e continuo. Lo fece abituare lentamente. Dopo poco poté intensificare le spinte. Iniziò a premergli dentro con più foga, e a spingersi più fuori per poterlo penetrare di nuovo poco dopo. La voce spezzata di Valentino riempì la stanza finché Ra’shak non catturò di nuovo le sue labbra per farlo stare zitto e impegnarlo in un bacio affiatato. Le loro narici soffiavano via pesanti respiri, il drow lo teneva inchiodato al tavolo per i fianchi mentre Valentino si reggeva a lui per le natiche.

Quando il ritmo si fece affiatato, le urla di Valentino gli riempirono la bocca e fu costretto a scostarsi per gemere appieno.

Ra’shak non ebbe pietà di lui.

Si lasciò andare ai suoi istinti prendendolo ogni volta fino in fondo con una foga tale da spingerlo via dal tavolo – ma lo teneva saldamente e gli impediva di sfuggirgli, perciò Valentino doveva subire in pieno le sue penetrazioni brutali, e sembrava goderne molto perché inarcò la schiena in un arco di piacere e continuò a gridare per la goduria, estasiato. Gli spasmi iniziarono a prendere il controllo del suo corpo quando il piacere fu quasi insopportabile.

“Ah! AH! Ra’shak!”

Gli lasciò le natiche, si aggrappò alle sue spalle graffiandole con le unghie, ed una delle sue mani salì a tirargli i capelli bianchi della nuca.

“NH!”

Gettò il capo all’indietro e si spinse contro l’erezione di Ra’shak, mentre sentiva la propria esplodere. Si riversò il proprio stesso umore sul ventre negli ultimi spasmi, asimando profondamente. L’aria fredda che percepì sulla pancia gli disse che Ra’shak non gli era più addosso.

Il drow si raddrizzò e gli sistemò le cosce su di sé, per poi ricominciare a penetrarlo. Impattava con i reni sulle sue natiche in un ritmo ugualmente impietoso, che accelerò nelle ultime spinte, prima di tenerlo ben fermo per le anche e venirgli dentro. Tutti i muscoli del suo corpo si tesero per lo sforzo, mentre sentiva il piacere possederlo, e poi scivolare piano dal suo corpo.

Ansimando, si staccò da lui. Valentino si alzò a sedere, con il fiato corto. Incrociarono gli sguardi.

Il mezz’elfo gli rivolse un mezzo sorrisetto, un ghigno contento e complice. Ra’shak lo ricambiò con incertezza, e la dolcezza nell’espressione ne ammorbidì il viso.

Le braccia forti cinsero Valentino in un abbraccio accogliente, lo strinsero a sé come se il drow sentisse l’impellente bisogno di sentirlo addosso, e il viso del mezz’elfo si avvicinò al suo per un altro dolce, silenzioso bacio.








Salve! Spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento. Non esitate a farmi sapere cosa ne pensate, se è stato troppo lungo, troppo breve, se vi è piaciuto o meno! Aggiungo alcune piccole curiosità che potrebbero aiutare a comprendere meglio la storia:


- Ci sono diverse tipologie di drow, e le due tipologie più celebri sono i drow sotterranei (la maggior parte dei drow) e i drow di superficie. Azul è un drow di superficie, ovvero un drow che non è sensibile alla luce del sole. Può girare in pieno giorno senza venire accecato da esso. Si chiamano così perché solitamente vivono nelle città di superficie, insieme alle altre razze umanoidi più comuni. Le generazioni precedenti si abituarono alla luce del sole e trasmisero questa capacità ai loro discendenti. Vilya, discendendo da Azul, ha ereditato la sua in-sensibilità alla luce. Ra'shak, invece, è un drow sotterraneo. I drow sotterranei sono drow che vivono nell'habitat naturale della loro razza, ovvero in tunnel e in città-stato sotterranee, insieme alle creature del sottosuolo. Usano principalmente il fiuto e l'udito per muoversi, e sono capaci di vedere nel buio e nella luce rossa, ma vengono accecati dalla luce del sole.

- Nella cultura drow ci sono diversi modi per indicare una persona, che derivano dalla lingua drow. Un drow femmina si chiama 'jalil', un drow maschio 'jaluk', un elfo 'darthirii'. La Sacerdotessa della città drow, ovvero colei che la governa, viene chiamata 'Ilharess'.

- Per chi non conoscesse bene il mondo drow, la sua è una cultura di stampo matriarcale ad altissima competitività e di indole malvagia. I drow vengono cresciuti coltivando emozioni negative e rifiutando quelle positive. I più sono malvagi, crudeli, sadici, e viene loro insegnato il rifiuto dell'affettività e dell'amore, mentre imparano invece a mostrarsi forti e meschini.


Apprezzo molto le recensioni! Lascio qui un piccolo disegno e vi aspetto per il prossimo capitolo X3


 


 
 

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Capitolo 5
*** Rabbia ***





 
Rabbia.




Era un primo pomeriggio soleggiato al mercato.

Il mercato a Saab non era considerato un luogo preciso. Si poteva considerare parte del mercato qualsiasi prolungamento delle strade principali che fosse provvisto di una bancarella. Ma se bisognava essere specifici, ‘mercato’ era la zona che partiva dalla Strada Sacra, prolungamento della Porta Sacra che era una delle entrate della città, e dopo aver incrociato il Santuario passava per la Piazza del Mercato incontrando in trasversale la Strada del Pirata, quella che se percorsa scendeva fino al porto, e il Palazzo Imperiale dalla parte opposta e continuava dritta, lungo la Strada Sporca e superando la Caserma, fino ad uscire dalla città dalla Porta Sporca.

I mercanti che accedevano a Saab percorrevano questo itinerario attraversando la città da una parte all’altra. Si trattava di strade ampie come piazze, le strade più grandi della città, e la piazza circolare era il doppio di una piazza normale. Tra carri, carretti, bancarelle, casse di merci e bauli, questa ampia superficie veniva sfruttata appieno, calpestata ogni giorno da una quantità impressionante di persone, la maggior parte delle quali non aveva cittadinanza saabiana. Il mercato era una delle attrazioni della città, e come l’“Imperatrice”, la Tesoriera Mellie, sapeva bene, il turismo era una delle maggiori fonti di profitto dell’Alba di Saab, alimentato dagli scambi commerciali, dalle merci preziose che vi circolavano e dal gran numero di riti che venivano celebrati in onore delle feste e degli dei più comuni del continente.

A costeggiare il limitare della piazza, tra lo sbocco della Strada Sacra e quello della Strada del Pirata, era stato conquistato uno spazio libero di quelli che potevano essere quattro metri quadrati, delimitato da casse buttate, che fossero vuote o riempite con gli scarti della merce. Due ragazzi si fronteggiavano al centro della piazza, distanti un metro e mezzo l’uno dall’altro, i loro corpi si davano il profilo e mentre il braccio sinistro era nascosto dietro la schiena, il destro tendeva all’altro ragazzo una spada di legno. Il resto del gruppo di ragazzi li guardava allenarsi annoiato, seduto sulle casse o per terra e appoggiato a esse con la schiena. Vilya, disteso mollemente su due casse alla pari di una lucertola che prende il sole, con la schiena poggiata su un’altra rialzata, ed il braccio che pendeva da un’ulteriore cassa, come se si trovasse su di un triclinio, scostò lo sguardo da quella visione e venne assalito da un potente sbadiglio.

“L’altro giorno abbiamo provato a rubare degli Occhi da Miss Duval.” Un’elfa adolescente e annoiata dai lunghi capelli biondi intavolò il discorso. Era seduta su di una cassa, rivolta verso i combattenti, e le sue cosce erano aperte per fare spazio al sedere del fratello sulla cassa, un elfo dai capelli azzurrini che osservava il combattimento mentre la sorella ne manipolava le ciocche e le aggrovigliava tra loro in lunghe trecce. Ad ascoltarla c’erano Vilya poco distante alla loro destra, un ragazzo gnomo alla sinistra, e sotto di loro i tre cugini mezz’orchi della banda, di cui una ragazza. “Quelli colorati ovviamente, non quelli di oro vero. Dovevate essere lì per vedere come correva…” uno sbuffo beffardo ne fece vibrare le parole. Il fratello chinò il capo e le trecce si tesero tra le mani della sorella. “‘Maledetti mocciosi manigoldi, tornate qui per Dio!’” La voce di Vilya si camuffò in un falsetto e il braccio iniziò ad agitarsi a mezz’aria con la mano stretta in un pugno, mentre scimmiottava Miss Duval, provocando una leggera risata da parte degli altri.

La risata venne interrotta dall’elfo “Le guardie ci hanno acciuffato dopo neanche due isolati.” Storse le labbra in una smorfia. Lo gnomo faceva penzolare le gambe dalla cassa su cui era seduto, un paio di casse più su degli altri. Si guardava le mani e rifletteva. “Forse dovremmo smettere di rubare cose.” “Naaaaah!” Esclamò il mezz’orco femmina a terra, con le braccia che le abbracciavano comodamente le gambe raccolte al petto. “È divertente.” “Beh, ma non ne abbiamo bisogno.” “Se qualcuno avesse davvero bisogno di rubare in questa città sarebbe strano, Dom.” Osservò l’elfa, concentrata a fermare una treccia azzurrina all’estremità con un filo di cotone. Dominic lanciò un’occhiata all’elfa, e dopo un momento di silenzio le rispose. “Tanto per cominciare, se smettessimo di giocare a rubare, i vostri genitori smetterebbero di mettervi in punizione-” “- e voi potreste finalmente smettere di fingere di essere in punizione,” continuò Vilya con sarcasmo “facendo un incantesimo di illusione sonora per convincerli di stare in camera per poi svignarvela dalla finestra. Come ora.” I due fratelli fissarono Vilya. Poi l’elfa si strinse nelle spalle. “Noi ci troviamo bene, così.” Concluse con semplicità, tornando a intrecciare i capelli dell’elfo.

Vilya perse interesse. Si mise a osservare i due ragazzi che combattevano al centro dell’arena improvvisata, sperando in qualche colpo di scena. “E poi non siamo mica gli unici che vengono messi in punizione, no?” “IO non mi faccio mai prendere.” Replicò lo gnomo “Anzi, io rubo, ve lo faccio vedere, e poi lo restituisco, nessuno si è mai accorto di niente.” Gli altri esclamarono fintamente colpiti, per prenderlo in giro. “I genitori di Sephir non gli dicono niente se ruba qualcosa.” Storse il naso il mezz’orco femmina, fissando l’umano che stava combattendo, e che portava un cespuglio di capelli castani sopra la faccia dal naso all’insù. “Sono brutta gente.” “Dalia,” la interruppe allibito il cugino più grande, che fino ad allora non aveva aperto bocca per il suo temperamento timido “noi rubiamo. Letteralmente. E loro sono brutta gente?” “Ma noi lo facciamo per scherzo!” Ribatté lei, protendendosi verso di lui “E poi le rimettiamo a posto. A volte. E sono cose piccole!”

“Magari i genitori di Sephir sono dei ladri.” Commentò Vilya, giocando distrattamente con una monetina di rame tra le dita mentre teneva gli occhi puntati sull’arena. “Se lo sono, non possono lavorare qui.” Rincarò Dalia. “Chi ti dice che lavorano qui? So che aiutano in taverna quando sono in città.” Dominic si voltò verso il drow, in un commento sarcastico “Vai a fidarti di un ladro che ti fruga la dispensa.” Vilya scostò lo sguardo per ricambiare il suo. “Non è per questo che siamo qui?” Dominic non capì. Cercò gli occhi degli altri. L’elfa sollevò un sopracciglio, concentrata a intrecciare i capelli del fratello. Il fratello ricambiò a Dominic lo stesso sguardo interrogativo, che poi puntò su Vilya. I mezz’orchi guardavano Vilya, taciturni come loro solito.

Il drow incontrò i loro sguardi, e prese un respiro per prepararsi a spiegare. “La maggior parte degli adulti della città è stato un criminale una volta. Se non ci si fidasse di loro non potremmo chiamarci Popolo. Saab esiste per dimostrare che si può voltare pagina ed essere onesti anche se si è stati ladri una volta.” I ragazzi zittirono guardandolo. Dominic azzardò una replica “Ma i genitori di Sephir stanno ancora rubando.” “Rubano qui?” Lo gnomo non seppe rispondere. Scrollò le spalle. “Se non rubano qui non è competenza di Saab.” La risata cristallina che uscì dalle labbra dell’elfa bionda chiuse la discussione. Ai ragazzi non rimase altro che stare a guardare il combattimento.

“Avanti, Sephir! Sbudellalo!” “Vai, vai!” “E muoviti!” “Le gambe, le gambe!” “Ma insomma, volete colpire qualcosa?!” Erano le urla di quelli che avevano scommesso sul combattimento. I due ragazzi scattavano in finte e paravano ognuno i colpi dell’altro senza problemi, ma avevano un tale timore di fallire il loro prossimo colpo che non osavano sporgersi davvero, mantenendosi sulla difensiva. Tutto ciò rendeva il combattimento prevedibile e poco spettacolare.

Dopo diversi minuti di noia mortale, Vilya non riuscì a trattenersi.

“Uuuoohhh…” emise un rantolo sofferente, gettando il capo all’indietro. Quel rantolo arrivò alle orecchie di Sephir, e lui si interruppe – badando che Rulka, il sedicente maschio halfling contro cui stava combattendo, non ne approfittasse per colpirlo – per allargare le braccia verso Vilya, in un gesto da gradasso.

“Scusa tanto, Mio Signore, perché non vieni qui se credi di essere migliore?” Il tono era parecchio irritato. Vilya abbassò il capo per guardarlo, aggrottando le sopracciglia folte in un cipiglio contrariato.

“Perché mi annoia, mi annoia anche sostituirti Sephir. Sei noiooooso.”

“Ooooohhhhhh” Un coro sarcastico dal tono grave provenne da un gruppo di quattro ragazzi seduti gambe penzoloni sulle casse vicino a loro due, che restarono occhi fissi su di loro in attesa della rissa.

“Ah, sì?! Vuoi farti un giro su Rulka al posto mio, e vediamo quanto sei noioso Tu? Vogliamo vedere come ti riempie di lividi?!”

Quello fu un affronto. Era evidente che Vilya lo considerasse tale, perché attirò la sua attenzione al punto che dovette persino smuoversi dalla comoda posizione che aveva preso per tirarsi un poco più su e mettere su un’espressione minacciosa.

“Rulka non riempie di lividi nessuno che non sia tu. Soprattutto con le vostre stupide spade di legno.”

L’umano avanzò verso Vilya additandolo con la propria spada. “Tu non ci resisti neanche cinque minuti se ti picchio anche solo con la spada di legno.”

“Io” La voce di Vilya si alzò sovrastando quella dell’umano, e la schiena si sporse verso di lui staccandosi dalle casse “non ho bisogno di una spada di legno per ridurti a un ammasso di lividi. Mi bastano le mani.”

Rulka aveva abbassato la spada. Era una halfling femmina, lo avevano capito tutti i ragazzi della banda, ma continuava a negare e a camuffarsi da maschio, oltre a nascondere più viso che poteva con un velo di stoffa. Questo velo la copriva da metà naso, e impediva che si indovinasse la sua espressione tranne che per l’espressività degli occhi azzurri, ora interrogativi. La replica di Vilya fece così arrabbiare Sephir che corse verso Rulka – totalmente impreparata – la disarmò tirandole via la spada di mano, e si rivolse nuovamente a Vilya, che una volta notato il gesto si smosse allarmato dalle casse, come se quell’arma fosse stata tolta a lui, e non a lei.

“Se non ne hai bisogno tu non ne ha bisogno neanche lei.”

“Lui.” Lo corresse Rulka.

“Sephir, non fare lo stronzo!” Lo minacciò Vilya, con le mani già puntate sul bordo delle casse per saltare giù da lui.

“Ma chi ti credi di essere?!” Sephir avanzò verso di lui con una spada in ogni mano. “Il protettore delle ragazze confuse? Il nostro signore? Cala, Vilya!”

I ragazzi sulle casse si smossero, lanciando occhiate all’umano alterato “Sephir, dici così solo perché ha ragione…” mormorò una voce sfrontata, “Bastaaaa, vogliamo il combattimento!” si lamentò l’elfa dai capelli lunghi.

“Sephir restituisci la spada a Rulka.” Gli ordinò Vilya, senza retrocedere. Strinse la presa sulle casse. “Scendo lì e ti prendo a pugni.”

“Provaci.” Ribatté l’umano con un cenno di sfida del capo. Poi si voltò e iniziò a correre dalla parte opposta, verso il palazzo. “Vilya, lascia stare!” Prima ancora che la voce dell’elfa raggiungesse le sue orecchie Vilya era scattato giù dalle casse, atterrato sulla pietra del pavimento e partito verso l’altro. L’umano emerse dalla folla del mercato e si fiondò sotto l’arco dell’entrata del palazzo così velocemente che gli strattoni delle guardie impreparate non erano riusciti a fermarlo. Si dimenò via e salì le larghe scale dorate che salivano ripide verso il cielo, rincorso da Vilya. Capì che lo avrebbe raggiunto presto se fosse rimasto lì, e al primo piano deviò di lato per costeggiare la ringhiera d’oro. Ma il jaluk era troppo veloce e lo avrebbe raggiunto in poco tempo. Assalito dal panico si interruppe e lanciò uno sguardo in alto in cerca di una via di fuga. Le mura brillanti del secondo piano si stagliavano davanti a lui. Con la coda dell’occhio intravide Vilya sbucare da un angolo e correre verso di lui. Lo fissò ansante, poi fissò di nuovo in alto e in un gesto istintivo piegò il braccio che teneva la spada di Rulka in uno slancio diretto verso le mura d’oro, e una volta seguito lo slancio mollò la spada di legno che, leggera, roteò su se stessa mentre saliva in alto in direzione del muro, saliva di quota sopra di esso, e ci spariva oltre in discesa.

Sephir fu fortunato. La rivoluzione degli eventi fermò Vilya, che rimase a fissare il punto in cui la spada era sparita a bocca aperta, chiedendosi, immaginava l’umano, come diavolo recuperarla, per poi riprendere di nuovo la corsa ma dalla parte opposta, verso le scale, per il secondo piano. Era davvero intenzionato a recuperare la spada.

“Che fai, rincorri il bastone come uno stupido cane?” Abbaiò Sephir verso di lui, ovviamente quando ormai era andato via. Poi finalmente zittì, troppo occupato ad ansimare e a chiedersi quanto ci sarebbe voluto prima che le guardie lo buttassero fuori a calci.


La serratura della porta scattò quando si chiuse, con la chiave infilata nella toppa dall’interno. So’o non la portava con sé e non chiudeva la stanza a chiave quando era vuota, e non avrebbe iniziato a farlo adesso. Se avesse trovato degli oggetti fuori posto, questo avrebbe dato più informazioni a lui di quante cose gli avrebbe tolto. A dire la verità, a volte sperava di trovare un cambiamento nella stanza al ritorno. Sarebbe stato qualcosa di nuovo, tanto per cambiare. Avrebbe messo un puntino, un perno nello scorrere incessante del tempo, che So’o immaginava essere una lunga linea dritta che va avanti lenta e inesorabile e di cui non si vede la fine, con lui stesso a capo, trascinato in avanti. Ma in fondo aveva già avuto abbastanza cose a cui pensare negli ultimi giorni, ed era per questo che la sua espressione era mutata da un po’ di tempo dalla desolante noia in un cipiglio contrito sovrappensiero.

Si voltò verso il corridoio del porticato, ancora fermo. Si guardò e si sistemò l’abito. Il principe indossava una tunica a maniche lunghe color foresta, che gli calzava alla perfezione – gli era stato evidentemente ricamato addosso. Le spalle dell’abito erano appena rigide e davano autorevolezza alla sua figura. Sulla spalla sinistra era ricamato un albero con un filo color sabbia, mentre su quella destra il ragno dello stemma di Saab. La vita era stretta da una fascia dello stesso colore dei ricami che ricadeva in un nodo sul lato sinistro, ricamata all’orlo con il medesimo stemma della spalla destra su entrambe le estremità, stavolta con un filo verde. Dalla fascia cadeva sul davanti un ampio tessuto rettangolare del colore della pergamena, che ospitava altri ricami: di nuovo lo stemma di Saab, che però riempiva in larghezza tutto lo spazio ed era perciò molto grande, il disegno orizzontale di due serpenti aggrovigliati a se stessi più giù, e infine un lungo albero senza foglie, questo verde. La tunica era molto lunga e arrivava a sfiorare il terreno. I ciuffi di capelli biondi che non erano stati raccolti dietro le orecchie appuntite del mezzodrow gli ricadevano sul petto.

So’o controllò che fosse tutto a posto, e quando fu pronto si mosse. Seguì la strada sotto i porticati dei chiostri che si susseguivano, diretto alle scale dorate che lo avrebbero portato al quarto piano. Ma mentre percorreva un corridoio le sue orecchie sensibili fremettero nel percepire il rumore chiaro e sordo di qualcosa che cadeva al suolo, dietro di sé. Allarmato dall’improvvisa vibrazione si voltò, subito in cerca, con gli occhi verdi, della fonte. Era confuso: non riusciva a trovare niente di insolito. Osservò sul limitare del porticato, e assottigliando le palpebre intravide qualcosa. Avanzò, e gli sembrò di scorgere un’elsa di legno. Quella visione ne corrugò la fronte mentre si avvicinava ulteriormente per vedere tutta la spada. Cosa ci faceva una spada di legno là? Da dove veniva quella spada di legno? A chi apparteneva e soprattutto, da quando le spade di legno sono solite cadere dall’alto, come sembrava che fosse appena successo a meno che non fosse apparsa dal vuoto cosmico?

So’o si accovacciò per afferrare la spada per l’elsa. La girò nella mano, studiandola bene. Aveva mai impugnato una spada prima di allora? Quella non era neanche una vera spada… gli avevano mai permesso di tenerne una in mano? Che sensazione strana era per lui, averla nel proprio pugno. Non aveva idea se la stesse impugnando bene, non sapeva come si faceva. Ma la sentiva come se fosse diventata parte di lui, un prolungamento del suo braccio. Percepiva del potere nel tenerla in mano. Era questo che provavano i guerrieri quando combattevano? So’o sapeva che alcuni di essi davano persino dei nomi alle loro spade. Si chiese che nome avesse questa, e la domanda lo riportò alla realtà. Sbatté le palpebre, si alzò e oltrepassò il porticato. Sollevò il viso in alto in cerca di qualsiasi cosa che abbia potuto portare lì una spada di legno. Gli bastò osservare giusto sopra di sé, sul tetto che prima stava sotto la sua testa.

La faccia odiosa del fratello sbucava dal tetto. Il jaluk si sporgeva sulle mattonelle che si lamentavano sotto il suo peso. Quando vide che So’o si era accorto di lui, Vilya cercò di rivolgergli il sorriso più cordiale che poteva in un verso sorpreso e impacciato. Piuttosto che un vero sorriso gli uscì una smorfia di disagio, la stessa di chi era stato appena colto con le mani nel sacco. Da quando si era scontrato con lui, ogni volta che incrociava il fratello si riduceva in un profondo imbarazzo, il senso di colpa gli riempiva i polmoni impedendogli sia di parlare che di respirare, e pregava Saab che quel momento finisse più in fretta possibile. Sperava che gli sorridesse, che gli rivolgesse un cenno amichevole. Ovviamente i suoi desideri non si realizzavano. Immaginava almeno di poter sperare che smettesse di guardarlo così male come se lo odiasse.

Ed era così che, anche stavolta, So’o lo fissava. Lasciò che i polmoni scaricassero il respiro dalle narici in uno sbuffo. La curiosità e la sorpresa nei suoi occhi furono velocemente sostituite da biasimo. Lasciò cadere la punta della spada verso il basso in un metaforico cadere di braccia, e restò piantato lì a odiarlo. Vilya non poté fare molto. Serrò le labbra ancora più a disagio, e zitto cercò con lo sguardo la spada. Poi tornò a fissare So’o, chiedendogli silenziosamente di allungargliela. So’o, dopo essersi domandato cosa lui stesse guardando e averne seguito lo sguardo fino alla spada, capì cosa stava chiedendo. Tornò a fissarlo e sbuffò assumendo una smorfia di delusione ancora più arrabbiata. Vilya poté vedere nei suoi occhi l’indecisione nel momento in cui esitò, incerto su cosa fare. Ma no. So’o scrollò il capo e si lasciò cadere la spada di mano, tornando sotto il porticato. Vilya si vide perdere la spada di vista e sparire il fratello. Si protese, tendendo un braccio verso di lui “-Aspetta!” esclamò, ma era come se non avesse fatto nulla. So’o aveva proseguito per la sua strada, abbandonandolo e costringendolo a recuperare la spada da solo, senza farsi mettere in mezzo. Vilya ritirò la mano per tenersi sulle mattonelle del tetto, mentre realizzava definitivamente che So’o non voleva più avere niente a che fare con lui. Il cuore gli si strinse in una morsa.


So’o si lasciò cadere sulla sedia, dimentico in quel momento della grazia che si addiceva alla famiglia imperiale. Fino a quel momento Azul stava guardando dall’alto del suo trono il cittadino che gli aveva chiesto udienza e che, oltre il piano rialzato della Sala del Trono, gli stava illustrando le sue lamentele. Quando sentì il tonfo improvviso di So’o sulla sedia si voltò istintivamente a guardare in sua direzione, e So’o si ritrovò gli enormi occhiacci gialli di suo padre guardarlo interrogativi, e cercare nel suo aspetto una risposta alle proprie domande. Il principe si pentì subito di essersi lasciato andare in uno sfogo sulla sedia, e scrollò il capo impacciato “Uh… scusate…” Azul non lo stava rimproverando: era apprensivo piuttosto, ma dopo le scuse di So’o immaginò che fosse meglio tornare a concentrarsi sulla mansione del momento e si rivolse di nuovo al cittadino.

La sedia su cui So’o era seduto era più imponente e regale di una sedia qualsiasi. Non poteva chiamarsi trono per le sue dimensioni banalmente comuni e per la semplicità che la contraddistingueva, ma era elegante e chiaramente atta ad ospitare il sedere del principe. Era di legno, con alcuni decori ricoperti da una patina d’oro sui bordi dello schienale a livello della testa. Aveva due braccioli e il fondo imbottito come lo schienale. Quest’ultimo veniva tagliato in due da un’illustrazione ricamata, che vedeva una sfera a destra e una a sinistra, separate da una linea, dai colori invertiti: quella a destra era argentea su sfondo verde, quella a sinistra era verde su sfondo argenteo. Dalla linea partivano poi delle curve simmetriche che sembravano rami, dando l'idea che rappresentasse un albero.

Alla destra della sedia, al centro del piano rialzato che si trovava in fondo alla Sala, c’era il trono dell’Imperatore. Era molto più grande e molto più maestoso. Fatto interamente di pietra e dalle spigolature affilate, sembrava essere stato scavato con perfezione artistica in tutte le sue forme rettangolari che gli donavano severità e pesantezza. Perché non fosse scomodo era stato arricchito di morbidi cuscini sui quali era adagiato l’Imperatore. Aveva uno schienale lungo almeno quattro metri, anch’esso spaccato in due da un’illustrazione, proprio come la sedia del Principe, ma era stato spaccato nella dura pietra da un bassorilievo ricalcato poi con oro fuso, e al centro di questa linea c’era la raffigurazione del Dio, il grande ragno, ugualmente scavata e ricalcata d’oro. Alle spalle del trono torreggiava la vetrata più imponente del palazzo, la vetrata di resina dorata gemella di quella della Sala del Consiglio.

Alla destra del trono si trovava il Consigliere. In piedi, Valentino ascoltava assorbito tutto ciò che veniva detto dai cittadini nel loro turno di udienza, e lo trascriveva su di un documento che aveva poggiato sul braccio sinistro. Quando il cittadino aveva finito, spesso Valentino si avvicinava all’Imperatore e gli sussurrava qualcosa all’orecchio prima che l’Imperatore decidesse come rispondere. Invece in disparte accanto alla parete, appena dopo il piano rialzato e alla sinistra del principe, il Cavaliere, Imesah, era sull’attenti, con l’armatura grigia propria della sua carica indosso e l’elsa di una spada tra le mani, davanti a sé, la cui punta poggiava a terra, mentre osservava vigile.

So’o si rilassò sulla sedia, cercando di assumere una posizione che fosse anche composta, e zitto ascoltò quello che veniva detto tra l’uomo in udienza e suo padre. Anche se doveva concentrarsi e imparare non riusciva a togliersi dalla testa le cose che erano successe poco prima. I suoi pensieri lo distraevano, lo facevano osservare il vuoto. Azul doveva essersene accorto, perché So’o sentì la sua voce premurosa chiamarlo, abbastanza bassa perché fossero i soli ad ascoltarsi. Rialzò di nuovo gli occhi incrociandoli in quelli del padre, mentre con la coda dell’occhio vide l’uomo congedarsi. Dovevano aver concluso l’udienza.

“So’o. Cosa c’è?” Delle catenine dorate ciondolavano dalla corona dell’Imperatore, accanto al suo viso. La sua corona era fatta d’oro, e costellata di semisfere di giada. Da essa partiva una massa di capelli che scivolava sul corpo dell’Imperatore, si infilava tra le pieghe dei suoi abiti preziosi, si nascondeva tra i cuscini del trono e cadeva ai piedi di esso. Chiunque avesse visto l’Imperatore nei suoi abiti informali era cosciente del fatto che quei capelli argentei non erano suoi, ma parte della corona.

So’o era smarrito. E sapeva di non potersi permettere questo smarrimento. Era a dir poco deludente che lui fosse così distratto nei suoi impegni di principe. Questo instillò rabbia e frustrazione nella sua anima. La vergogna di venire richiamato dal padre accese quelle emozioni, e il mezzodrow gliele gettò addosso, scuotendo il capo con energia e rivolgendogli una smorfia adirata.

“Niente, papà. Mio fratello si diverte a giocare con me e io sono stanco di questi giochetti. Ecco cosa c’è.”

Azul si ritirò lentamente alla sua replica. La sua espressione perse interrogatività. Sbatté le palpebre, scrutando il figlio. “Ti sta creando altri problemi?” Gli chiese con voce paziente.

So’o si sentiva in colpa a lamentarsi. Del resto, Vilya in effetti sembrava fare il possibile per non dargli più fastidio. Ma come era possibile, allora, che continuasse a irritarlo così tanto!? So’o emise uno sbuffare sarcastico. “Sì, papà. Esiste. Va bene?” Si voltò verso il padre. Azul sembrò un po’ deluso da lui, perché abbassò il capo, mantenendo gli occhi su di lui, come gli stesse chiedendo ‘credi davvero in quello che hai appena detto? ’. Ma So’o, che non poteva sostenere quello sguardo, poté almeno guardare dalla parte opposta, seccato, per sfuggire al giudizio del padre. “Non mi importa se è mio fratello, mi ha mentito. Mi ha preso in giro. Mi ha fatto sentire così ridicolo, il mio comportamento è del tutto comprensibile e non ho intenzione di limitarmi solo per fare un piacere a lui” tornò al padre “o a te, papà.”

Azul schiuse le labbra carnose per prendere un respiro, distogliendo lo sguardo. “Non devi limitarti. È comprensibile. Fai bene ad essere arrabbiato.” Zittì, e alzando gli occhi notò che si era fatto avanti un altro cittadino. La conversazione cadde, e l’attenzione di quasi la totalità dei presenti si concentrò sul loro dialogo. Anche So’o cercò di concentrarsi, ma quando Azul ebbe finito di parlare con l’uomo il principe tornò a guardarlo con la stessa espressione con cui lo aveva lasciato, rintavolando la discussione.

“Cosa è che ti fa arrabbiare più di tutto?” Gli chiese il padre. So’o, per la soddisfazione che gli diede quella domanda, fece roteare gli occhi in un arco da una parte all’altra della stanza, salvo ricomporsi poi nel dubbio che gli altri comprendessero la banalità della loro conversazione. “Papà, lui… era un’altra persona prima che io scoprissi chi fosse. Era così…” Non riuscì ad esprimersi. Si accorse che stava per dire cose imbarazzanti nei confronti di suo fratello. Sbuffò esasperato, trattenendosi per non farsi sentire “E invece è un bugiardo, bastardo, approfittatore, che mi aveva avvicinato solo per i suoi sporchi fini, che aveva fatto tutto questo solo per divertimento, che…” “È così?” Lo interruppe il padre, fissandolo negli occhi. “C-Così!?” Ripeté allibito So’o, sostenendo il suo sguardo. “Lo sai cosa è successo, lo puoi dedurre da solo.” “Non saprei dire se l’abbia fatto solo per divertimento, o se ti avesse avvicinato solo per ‘i suoi sporchi fini’.” Gli spiegò Azul, scuotendo piano la testa. So’o, nel comprendere ciò a cui il padre stava alludendo, afferrò i bordi dei braccioli in una stretta spasmodica, a tal punto che le nocche sbiancarono. Sembrava che stesse per saltare dalla sedia da un momento all’altro “Quindi dovrei ringraziare! Dovrei riflettere su quanto quello che ha fatto fosse altruista, lasciando perdere la totale mancanza di rispetto che ha avuto nei miei confronti!” Sibilò, sporgendosi verso il viso del padre, il proprio contrito dalla furia, prima che Azul si ritirasse. L’Imperatore tornò a guardare davanti a sé per accogliere un altro cittadino. So’o serrò le labbra e finse di stare ascoltando quando era ormai perso nei suoi pensieri più feroci.

“E tu non lo punisci neanche.” Aggiunse appena si aprì un nuovo intervallo. “Sì, io lo punisco.” Gli rispose Azul senza scomporsi, osservando la Sala. “Con la disapprovazione e il litigio, tra le altre cose.” Si voltò per osservare il figlio. “E anche tu lo punisci ogni giorno con lo sguardo che gli rivolgi.” So’o incrociò i suoi occhi, le sopracciglia corrugate nell’espressione contrariata di chi si assumeva ogni diritto a punirlo. “È il minimo. Capito? Il minimo.” Stavolta Azul replicò subito, rivelando l’irrequietezza che aveva nascosta nel cuore “Sarebbe troppo ricordarti che il tempo passa? Che le cose cambiano, le persone imparano dai loro errori e che ci sono poche cose che noi mortali non possiamo cambiare delle nostre vite e sono tutte sacre?” Si voltò verso di lui. “La morte. Il tempo. La volontà. Il ciclo del mondo. E il sangue.” So’o sentì la mano destra avvolta dal calore, alle ultime tre parole. Azul aveva allungato la mano sinistra per accogliere la sua nella propria, mantenendo gli occhi fissi su di lui. “È tuo fratello. Questo non conta niente per te?”

Un respiro trattenuto nei polmoni sollevò il petto del mezzodrow, che rimase zitto a fissare il padre. L’altro coglieva il dubbio e la rabbia dai suoi occhi. Alla fine So’o abbassò lo sguardo, arreso e frustrato. Azul ritirò la mano. “Immagino che ci vorrà del tempo per questo.” Considerò il principe, a voce bassa. “Ma sì… sì, certo che conta.” Ammise in un sussurro ancora più fioco. “Non è bello essere in due? Provare insieme le cose… andare insieme da qualche parte.” Mormorò il padre, che cercava di scorgere l’espressione dell’altro dal viso chino. “Sì.” “Non lo volevi un fratellino, da bambino?” “Sì.” Azul distese le labbra in un sorriso incredibilmente dolce. Un sorriso che solo una madre persa nei ricordi dei suoi amati figli poteva mai generare. Inclinò il capo di lato. So’o rimase a guardarsi gli intarsi della tunica oltre la vita, riflettendo silenziosamente. “Però poteva fare questo scherzo a qualcun altro. Perché a me?” Rialzò il viso verso Azul, un po’ disperato, certamente più calmo di prima. Provocò una risata roca del padre. “Che bella domanda.”

“Ehm, scusate?”

Azul si voltò interdetto verso Valentino, che aveva richiamato la loro attenzione. Il mezz’elfo era leggermente imbarazzato, e alternava lo sguardo dall’Imperatore alla signora che attendeva perplessa davanti a loro. “Dovremmo ascoltare quello che il popolo ha da dire, Imperatore.” “Mh.” Azul si ricompose sul trono, cono un sospiro. “Perdonateci. Parlate pure.” Ordinò alla signora con un cenno della mano. So’o serrò le labbra dall’imbarazzo e imitò il padre, sistemandosi sulla propria sedia. La discussione era ormai conclusa.
 


 
Ciao ragazzi! Metto in fondo alla storia alcune immagini che possono darvi un'idea più precisa delle descrizioni. C'è un disegno impreciso che però dà un'idea della Sala del Trono, e poi un ritratto del principe So'o. L'ultima immagine è una bozza della mappa della città di Saab (la forma effettiva delle mura va ancora decisa....).




Ricordate che apprezzo molto il vostro parere e sarò contenta di ricevere sia critiche che commenti! A presto :)

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Capitolo 6
*** Pelle d'asino ***


Ciao a tutti! Dopo un mese e mezzo di fermo ho ripreso a scrivere questa storia, sotto una prospettiva un po' diversa e dettata dalla maggiore esperienza. Ho effettuato alcuni cambiamenti di impaginazione, modificando lo stile fin dal primo capitolo. Ho spostato il genere della storia da Fantasy a Romantico (sembra essere più attinente anche se i due generi fanno a gara in questa storia) e il rating da rosso a arancione dal momento che non ci sono molte scene lemon (solo una, finora). In occasione di questo, credo che riformulerò la descrizione della storia e forse anche il titolo in qualcosa incentrato maggiormente sui fratelli Goldsmith che dovrebbero essere parte centrale del racconto (pur mantenendo la presenza e le trame dei personaggi secondari). Spero che questo nuovo capitolo vi piaccia. La storia potrebbe non venire aggiornata settimanalmente, ma continuerò a scriverla!




 
Pelle d'asino.





Dall’angolazione dei raggi del tramonto il Santuario sembrava bruciare tra le fiamme. Il Santuario era un fratello minore del Palazzo Imperiale. Situato a Ovest della città, al fianco destro del Palazzo, si affacciava in direzione del mare e dava sulla Strada Sacra. Le stanze erano cinque, una per piano, dalla pianta quadrata e sempre più piccole man mano che si saliva verso il cielo, e le loro mura d’oro brillavano da mezzogiorno al calare del sole. Quello era il momento ideale per visitarlo. Tutte le superfici d’oro riflettevano la luce e la rimandavano sul resto, finendo per dipingere i gli stessi fedeli di un rilucente arancione.

Vilya si trovava in ginocchio davanti a un altare. Su di esso si trovavano cinque steli: lastre votive, con iscrizioni di canti divini e sottili decorazioni. Torreggiavano su di lui. Erano ricoperte di ciondoli, amuleti e candele, la cui cera si era sciolta su di esse e le aveva macchiate, così da dare loro un tono sacrale ancora più convincente. Come molte delle cose in quel luogo anch’esse e l’altare erano scolpiti nell’oro. Vilya scorse il movimento fugace di uno degli amuleti che, penzolante da una lastra, era stato mosso dal vento, ospite perenne delle sale più alte del Santuario. L’amuleto era una sfoglia d’oro di qualche millimetro, incisa di modo da avere la forma di un grande occhio sgranato, con una pupilla verticale che lo spaccava in due. Ciondolava da una catenina sottile dello stesso materiale.

“Stai pregando con concentrazione?”

Si voltò alla sua destra. Accanto a lui Inva, la Sacerdotessa, lo guardava. I suoi occhi acquosi esprimevano infinita pazienza posati su di lui, e sulle labbra carnose della donna dalla pelle slavata e grigia poteva scorgere l’ombra di un complice sorriso. Lunghi capelli neri come piume di corvo le coprivano la fronte con una frangia tagliata di netto e un poco spettinata, e gli zigomi magri, fino a sfiorarne le ginocchia su cui era seduta. Era impacchettata in un dignitoso abito religioso, con delle fasce che le appiattivano le forme a partire da sotto le ascelle fino ai fianchi. Forme che, ad ogni modo, erano smorzate dall’altezza di lei.

Vilya tirò uno sbuffo dalle narici e tornò a guardare di fronte a sé.

“Io non prego. Soprattutto: non con concentrazione.”

Inva inclinò appena il capo da un lato in un gesto di misurata meraviglia.

“Sapevo che fossi un fedele.”

“Lo sono.” Replicò lui e annuì per rafforzare le proprie parole. Gli si era formato un cipiglio irritato sulle sopracciglia, senza che se ne rendesse conto. “Ma non prego.” Si voltò nuovamente verso Inva. Si prese del tempo per scrutare l’espressione imperturbata di lei che sbatteva le palpebre e ricambiava lo sguardo, senza il minimo accigliamento. Vedendola impassibile al proprio comportamento ribelle esalò un sospiro frustrato, che buttò l’aria fuori dai polmoni e gli abbassò petto e spalle. Le sue mani stuzzicarono il piccolo gioiello che aveva tra le dita. Un amuleto identico a quello che si trovava penzolante sulla lastra, alla mercé del vento. Abbassò il viso fino al proprio grembo per dargli un’occhiata, e i propri capelli spettinati scivolarono in avanti ostacolandogli la visuale. Si portò una ciocca dietro l’orecchio appuntito per scostarli quanto poteva dal viso.

“Però porti gli omaggi agli dei.” Osservò Inva. La voce musicale della Sacerdotessa si sentì quasi vibrare sull’oro. Vilya non replicò subito. Si prese del tempo per ammirare l’oggettino che si rigirava tra le dita e perdersi nei propri pensieri.

“È il mio modo di ringraziare.” Mugugnò “Tu hai i tuoi.” Rialzò il viso su di lei, che annuì rafforzando quel sottile sorriso che aveva poco prima, come ad incoraggiarlo. Il moro sbuffò di nuovo, scosse appena il capo e distolse lo sguardo da lei. Si sollevò sulle ginocchia e si sporse in avanti, allungandosi verso le steli. Distese le braccia e adagiò la catenina sulla punta smussata di una stele, così che l’amuleto cadesse al centro, come se essa lo indossasse. Il drow si ritirò e tornò a sedersi sui propri talloni. Inva alzò il braccio destro, indicando l’oggettino con il palmo aperto della stessa mano. “L’Occhio dell’Imperatore ti guarda,” recitò solenne a Vilya “giorno e notte, senza mai chiudere la palpebra: vigila. Ora che lo hai donato al Dio, lui ti vede attraverso il suo occhio e riceve le tue preghiere. Ti proteggerà dalle disgrazie impreviste e le trasformerà in nuove occasioni. L’Imperatore pregherà per te nell’istante prima della tua morte, e verserà una lacrima perché Saab ti abbia nei suoi piani un altro giorno.” Abbassò piano la mano e Vilya, vedendo l’occhio ricambiare il suo sguardo sulla stele, chinò il capo e si chiuse in un rispettoso silenzio. Il vento piacevole gli sfiorò la faccia. A parte il lontano rumore delle fronde degli alberi della Foresta Incantata, nient’altro disturbava la stanza del Santuario. Solo i suoi pensieri.


Bussò alla porta un paio di volte con le nocche, poi si appoggiò le mani ai fianchi e, in una posa scocciata e discinta, attese.

Quando la porta si aprì dall’interno ne sbucò la figura del proprietario. Il drow aveva un’espressione calma e appena interrogativa all’inizio, ma quando riconobbe l’altro inarcò le sopracciglia grigie dalla piacevole sorpresa.

“Vilya?” Un sorriso affiorò dalle labbra carnose del negromante per dischiuderle piano mentre la voce bassa vibrò dalla gola e uscì nell’ampio spazio del porticato come un sussurro del vento. Indietreggiò poco dopo per lasciar passare il ragazzo. Vilya avanzò con un sorriso beffardo sulle labbra e si introdusse nella stanza del padre con la disinvoltura di chi entra in casa propria. Sentì la porta chiudersi dietro di lui, ma era concentrato ad osservare la stanza di Azul e a muovere un altro paio di passi all’interno per addentrarvisi.

“Avrei dovuto farti visita molto prima.” Considerò. Si ficcò le mani nelle tasche dei pantaloni, unico suo indumento.

“Sì, sono d’accordo.”

La voce di Azul si fece sempre più vicina finché lui non sbucò dal fianco del ragazzo per fermarglisi davanti. Chiudendo gli occhi si portò le mani alla corona, e la sollevò dalla fronte. Scrollò il capo nel liberarsene con un sospiro. Vilya non attese: si sporse per prendere la corona, sfiorando le dita del più anziano. Azul allentò la presa e gli permise di prendere la corona, che Vilya si premurò di poggiare su un comodino con lo specchio, a ridosso del muro. Voltandosi vide il padre pettinarsi i capelli grigi e rilassarsi sotto i propri stessi tocchi. A bocca chiusa il drow più antico emise un mormorio basso e compiaciuto. “Mmmh..”

Vilya distolse lo sguardo, alla ricerca di una bottiglia. Una bottiglia, qualsiasi. La trovò sul comodino accanto al letto e si smosse dalla sua posizione per raggiungerla. Una volta presa camminò fino alla scrivania della stanza e si sedette su una delle sedie. Si allungò per portare a sé i due bicchieri poggiati su di essa. Dopo un rumore attutito di passi, la coda dell’occhio scorse il padre cadere sulla sedia accanto alla propria con un verso di piacere. Mentre quest’ultimo si sbottonava la tunica, Vilya riempì entrambi i bicchieri del liquido rosso che la bottiglia conteneva. Grazie all’olfatto fine della sua razza gli bastò annusare appena per intuire che si trattava di buon vino. L’ipotesi più accreditata, ma non scontata, trattandosi di suo padre. Indietreggiò finalmente sullo schienale della sedia, rilassandosi, portando con sé uno dei bicchieri nella mano destra. Azul si allungò alla scrivania e prese l’altro. Aveva abbandonato la tunica su un bracciolo della sedia, e ora indossava una morbida maglia del colore del vino che stavano bevendo e dei pantaloni che seguivano la sagomatura delle gambe longilinee. Si era liberato degli stivali, che erano caduti sotto la scrivania.

Azul si accorse dello sguardo con cui Vilya lo stava fissando. Si interruppe un istante per ricambiarlo con la sua lieve interdizione, frastornata dalla rilassatezza. Vilya lo aveva squadrato dai piedi nudi ai capelli disordinati, e poi aveva fatto cadere gli occhi sul proprio bicchiere di vino. Lo avvicinò alle labbra e lo sorseggiò in silenzio. Azul si rilassò di nuovo sullo schienale della sedia e si intrattenne per qualche secondo a far mescere il vino nel bicchiere e ad ammirarlo muoversi lì dentro.

Vilya scostò le labbra dal bicchiere e vi passò la lingua sopra per raccogliere le gocce di vino che gli erano sfuggite.

“Com’è andata oggi?” La voce chiara del ragazzo riecheggiò nella stanza.

Azul inspirò dalle narici e inclinò il capo di lato mentre ci pensava sopra.

“Bene…” nel rispondere buttò fuori l’aria che aveva incamerato nei polmoni. “È stata impegnativa. Sono un po’ stanco.”

“Si vede.”

Azul portò il bicchiere alle labbra e prese un sorso. Vilya guardava oltre lui, nella stanza, con un piede che faceva perno sul tallone per muoversi a destra e sinistra e che ne dichiarava l’insofferenza nello stare fermo o, più probabilmente, la nullafacenza generale che caratterizzava le sue giornate, e per la quale aveva ancora abbastanza energie durante la sera.

“Hai fatto amicizia?”

“Sì.” Rispose il figlio “I ragazzi della città. Sono piccolini ma sono forti.”

Azul annuì, aveva gli occhi puntati ancora sul bicchiere “Mh.”

Quando spostò lo sguardo dal vino a Vilya, il ragazzo si sentì improvvisamente puntato. Incrociò i suoi occhi. Non c’era niente di giudizioso negli occhi del padre – lui era l’ultima persona da cui si sarebbe aspettato qualcosa del genere – ma sentì di doversi fidare della sensazione di allarme che essi gli provocavano. Alzò il viso verso di lui e cercò di sembrare più interrogativo e innocente possibile.

“Che cazzo hai nella testa, Vilya?” Chiese Azul. Non era un tono grave, non un ammonimento: era il guaito acuto di una persona basita, rafforzato dal suo perplesso ma semplice aggrottare di sopracciglia. “Ti rendi conto?”

“Di cosa?!” Chiese Vilya subito: inarcò le sopracciglia e alzò la voce. La stanza, prima silenziosa, all’improvviso sembrò animarsi.

“Ehm, hai, tipo, sedotto tuo fratello? Portato via da palazzo, rischiato di metterlo in pericolo, cose così? L’hai baciato? Ricordi queste… queste piccole cosette, questi dettagliucci?”

“Ah” rispose il più piccolo spostando lo sguardo sulla stanza. Non aveva perso l’espressione ingenua e innocente ma l’aria interrogativa se n’era andata. Tornò su di lui poco dopo “beh, mi piaceva molto.”

“Vilya!” Lo rimbeccò il padre, inasprendo la sua espressione contrariata – e tuttavia il tono di voce non scese nel grave e si mantenne leggero, anche adesso. “Non… baci tuo fratello solo perché ti piace molto! Va bene?”

“Va bene!” replicò l’altro, annoiato, solo per far smettere il padre. Si riaccasciò sulla sedia. Aveva il bicchiere nella mano destra, sospeso a mezz’aria, il braccio poggiato sul bracciolo. Sembrava essersi preso una pausa dal bere.

Azul lo scrutò per assicurarsi che avesse recepito. Osservando il figlio gli sfuggì un sorriso intenerito e abbassò le palpebre sul bicchiere di vino. L’indice della sinistra prese a giocare sul bordo del bicchiere, ne percorreva piano la circonferenza. “Mi sei mancato. Avevo bisogno di te.”

“Anche io avevo bisogno di te, papà.” L’ammissione di Vilya giunse leggera, non doveva essergli costata nulla, ma era convinta. Scostò il braccio dal bracciolo per poggiare il bicchiere sul tavolo. “Sono contento di essere tornato da te.”

“Anche io sono contento che tu sia tornato da me.” Azul prese il bicchiere con la mano sinistra e poggiò una tempia sulla destra che andò a sorreggergli la testa con il gomito poggiato sul bracciolo della propria sedia. Guardava ancora il bicchiere, rifletteva. “Vorrei che non andassi più via.”

“Anche io vorrei non andare più via.” Vilya tornò a osservare la stanza. “Mi piacerebbe… mettere radici qui. È un bel posto, hai fatto un bel lavoro.”

“Abbiamo.” Lo corresse Azul.

“Sì…” Vilya alzò una mano e smosse l’aria con maleducazione “Tu e quello.”

“Si chiama Imesah.”

“Quel coso. Quel mastino bavoso.”

“È il mio compagno ed è un uomo rispettabile.”

“È un mastino bavoso che vuole solo vedermi morire.”

“È un uomo rispettabile che vuole vederti morire. O andare via per sempre. O essere rassicurato del fatto che tu non sia una minaccia.” Azul tornò a inchiodare gli occhi su quelli blu del figlio, che subito si sentì i suoi occhi addosso e ricambiò lo sguardo, e proseguì “E tu non gli stai dando queste rassicurazioni: proprio per niente.”

Vilya trattenne gli occhi sul padre. Poi scrollò il capo e guardò in basso, sul proprio grembo.

“Io non sono qui per dargli rassicurazioni. Sono qui per te. E per me. E per… questo posto, che è l’unica cosa che ho…”

Azul lo interruppe. “Imesah è della famiglia adesso. Vilya.” Lo chiamò e si sporse verso di lui. Vilya non poté ignorarlo, dovette tornare a fissarlo. La voce calma del padre e i suoi movimenti tranquilli, che in sé non avevano niente di speciale, bastavano per ordinare la calma e l’attenzione al ragazzaccio irrispettoso. “Tu lo sai cosa significa famiglia, vero?”

Passarono degli istanti, dove entrambi si scrutarono bene negli occhi, quelli blu del moro negli occhi grandi, gialli e da rettile del più anziano.

“Te lo ricordi?”

Azul sbatté le palpebre, e anche Vilya, per riflesso, fece lo stesso.

“Essere soli al mondo, persi nel mezzo di un oceano di sconosciuti, una goccia d’acqua nell’oceano, e poi trovarsi. E il tuo mondo parte da lì. Da me. E il mio da te. Un punto… in mezzo al cielo vastissimo. A cui guardare per tracciare la rotta.”

Vilya sbatté di nuovo le palpebre, stavolta come se qualcosa gli fosse andato all’improvviso nell’occhio, ma rimase a guardare il padre commosso, in una rispettosa sopportazione. Azul, dopo essersi assicurato di essere stato chiaro, si ritirò di nuovo verso lo schienale, senza appoggiarvisi.

“Non ti chiedo di accettare Imesah, ma almeno di non rinnegarlo.”

“Papà, lui mi chiama ‘brutto bastardo’…” cercò di obiettare il figlio.

“Vilya, sai cosa vuol dire non trovare il proprio figlio – erede al trono, figlio di Dio, cose del genere – e scoprire poi che è tra le mani del figlio degenerato del proprio compagno?”

“Perché degenerato?”

“E che lo sta baciando?” Aggiunse Azul senza rispondere alla domanda di Vilya, che però insistette.

“Perché degenerato?” Si sporse appena, in una postura di sfida. “Forse perché non gli va a genio quello che faccio? Quello che abbiamo fatto?”

“Beh, sarà per quello, cosa conta se non fai nulla per provare a fargli cambiare idea?”

“È per questo che non ha voluto farmelo conoscere.” Mentre Vilya si alzava dalla sedia un ghigno beffardo si dipinse sulle sue labbra scure, ma il tono di voce lasciava trapelare disprezzo.

“Ha paura di perdere anche lui. Quanto rispetto puoi avere, Azul, per un uomo che pensa questo di me?”

Azul subito dopo lo seguì, si alzò dalla sedia e posò il bicchiere di vino sul tavolo. “Non è giusto quello che pensa di te, ma non hai dato a nessuno motivi per dubitare della tua malizia. Anzi, hai solo alimentato le convinzioni degli altri. E non parlo solo di tuo fratello.”

Il padre alzò gli occhi su Vilya, nello sguardo accogliente che riservava sempre per il primogenito, ma con fermezza. “Anche la gente più rozza del Popolo può accorgersi che il primogenito dell’Imperatore non è neanche stato nominato per il trono e farsi due domande.”

A quell’affermazione, Vilya indietreggiò. Le sue gambe cozzarono con la sedia che aveva dietro, mentre lui scrollava le spalle e poi si smuoveva di lì, spostandosi verso il resto della stanza evasivo.

“Non serve farsi due domande, dal terzo anno di reggenza si sa che il futuro erede è stato scelto dal Dio…”

“Dal terzo anno di reggenza.” Ripeté Azul, voltandosi per trattenere gli occhi su di lui, che si voltò a sua volta verso il padre “In quei tre anni dove eri, Vilya? Si sono chiesti anche questo. E non basta mettere avanti So’o, si chiederanno tutti chi sei tu, e che ruolo hai in tutto questo,” avanzò verso di lui di un paio di passi brevi “e perché non ti sei mai fatto vedere e continui a vagare per il Regno con indosso solo stracci,” indicò i pantaloni che Vilya aveva indosso “e cosa ti trattiene dal reclamare il Regno come tuo o quantomeno parte di esso e schierarti a difesa del Popolo.”

Vilya non seppe cosa dire, all’inizio. Allargò le braccia, le mani non superarono l’altezza dell’ombelico.

“Cosa vuoi che gli dica, Azul?” Sospirò. “La verità? Che io questo non lo voglio?”

Ma il doppio rumore di nocche sulla porta li interruppe. Zittirono, ed entrambi fissarono la porta. Rimasero in ascolto.

Il rumore di nocche si ripeté altre due volte, ritmato.

“Scusate…”

Una voce molto giovane, chiara e morbida provenne dalla porta, attutita dal legno. Vilya sgranò leggermente gli occhi, così come Azul che accorse alla porta. Mentre Vilya abbassava le braccia Azul aprì la porta e lasciò che la figura di So’o ne sbucasse.

“Ciao, papà.”

“So’o, ciao.” Azul sorrise dolcemente al figlio. Vilya non poté vederlo, perché gli dava le spalle. Si scostò per poterli osservare meglio. Così So’o si accorse di lui e alzò appena il viso quando puntò gli occhi sul fratellastro. Vilya, a sua volta, alzò di poco il mento, preso in una sensazione di aspettativa. Azul si voltò per dare un’occhiata a ciò che stava attirando l’attenzione di So’o per poi tornare verso il più piccolo.

“Stavamo parlando. Cosa c’è?” Chiese con la stessa dolcezza del sorriso nel tono di voce.

“Vi ho disturbati?” Gli occhi guardinghi del mezzodrow saettarono tra Vilya e Azul un paio di volte, ma non attesero risposta. “Valentino mi ha mandato a chiamarti. È una cosa importante, ha detto che volevi essere chiamato.”

“Ah, sì.” Il drow annuì serrando le labbra e guardando più in basso. Considerò la situazione. Annuì di nuovo rialzando gli occhi su So’o, e la sua mano prese la chiave dalla toppa della porta e la porse a lui, che la prese confuso “Vilya deve riordinare la stanza, richiudetela quando ha finito.” Tornò nella stanza per indossare le scarpe, e a Vilya disse “Metti in ordine, fai il bravo, ti voglio bene.”

Il drow osservò il padre e poi annuì senza dire niente. Azul lanciò un’occhiatina a So’o prima di sfilargli accanto, allontanandosi.

So’o entrò, cauto, nella stanza.

L’imbarazzo impregnò subito le pareti. Vilya si infilò i pollici nelle tasche dei pantaloni in un moto di impacciatezza, poi si rese conto, con sollievo, di avere qualcosa da fare e decise di sbrigarsi.

“Ciao.” Il mezzodrow abbozzò un saluto riservato.

“Ciao.” Il tono disponibile di Vilya gli arrivò in replica. Poi il silenzio, mentre il drow arrivava alla scrivania e svuotava il proprio bicchiere. Lanciò un’occhiata a quello di suo padre.

“Sono due dita, le vuoi tu?” Si voltò verso So’o.

So’o sgranò gli occhi interrogativo, poi inarco le sopracciglia e scrollò il capo “Oh, no, non reggo l’acool.”

Vilya prese il bicchiere “Non è tanto. Fa bene, così poco.”

So’o riconsiderò il bicchiere di vino. Si lesse chiaramente la diffidenza sul suo volto, ma poi, rialzando gli occhi e puntandoli in quelli blu del ragazzo, diede al drow l’impressione di starci pensando sul serio.

“… va bene.”

Avanzò di un paio di passi e protese un braccio; Vilya fece lo stesso e gli diede il bicchiere. Poi si voltò per risistemare la scrivania, dandogli le spalle. Non sentì rumori da dietro di sé, finché So’o non riprese a parlare, dopo una pausa che lo aveva visto con molta probabilità bere una delle due dita di vino.

“Senti…”

Vilya si interruppe e si voltò verso il fratello. So’o rialzò gli occhi su di lui, dal bicchiere su cui li teneva prima.

“… posso farti delle domande personali?”

Vilya sollevò le sopracciglia, molto perplesso “…sì? Voglio dire, certo?” Era un’affermazione, ma la sua perplessità era tale da rendere il tono interrogativo. Tornò al tavolo e afferrò la bottiglia.

“Da dove vieni?”

Il drow rimase interdetto per un attimo. Si voltò di nuovo verso il più piccolo, che stava raccogliendo alcune ciocche di capelli dietro le orecchie semiappuntite, i limpidi occhi verdi lo fissavano.

“Charvellraughaust. La città drow più vasta del sottosuolo.” Gli spiegò. Avanzò verso il comodino accanto al letto, senza fretta. “Mia madre era una mendicante. Aveva incontrato papà durante una sua missione, non sapeva di essere rimasta incinta.”

Si voltò in tempo per vedere So’o sbattere le palpebre con aria impreparata, e subito dopo cercare di salvarsi dall’impacciatezza con una domanda intelligente.

“Missione?”

Vilya annuì. “Di assassino.” Restò a guardare la reazione di So’o. Lui alzò il viso, meravigliato. Ma non sorpreso.

“Oh.”

“Hm.” Il drow annuì di nuovo.

“Era ancora molto giovane allora.”

“Sì. Era appena un ragazzino.” Il più grande tornò verso il comodino e ci posò la bottiglia. Si voltò e tornò verso il centro della stanza.

“Non abbiamo una grande differenza di età in fondo, io e Azul.”

“Mh.” So’o annuì.

Vilya fissò il più giovane.

Lui ricambiò lo sguardo.

I due rimasero a fissarsi in silenzio.


Vilya tirò su col naso.

“Devo chiudere la stanza.” Disse.

“Ah. Sì.”

So’o si voltò e uscì dalla stanza, il drow lo raggiunse poco dopo. Chiuse la porta a chiave.

“Lasciami la chiave.” Gli disse il mezzodrow. “Vado a restituirla a papà.”

“Va bene.” Replicò il maggiore. Verso So’o, lo guardò negli occhi mentre gli porgeva la chiave. So’o, nel prenderla, gli sfiorò le dita. Incontrò il suo sguardo per qualche secondo, con i propri occhi limpidi.

“Buonanotte.”

“Buonanotte.” Ricambiò Vilya.

So’o indietreggiò, posò un ultimo sguardo sul fratello e poi si incamminò lungo il porticato.

Vilya rimase a guardarlo andare per un attimo prima di corrugare la fronte e scrollare il capo, confuso.







 
Vilya Goldsmith, quando è vestito.

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Capitolo 7
*** Contrattazione ***


Ciao a tutti! Contrariamente a quanto detto nel capitolo precedente, non ho cambiato titolo e descrizione della storia XD ad ogni modo ci sono dei cambiamenti. In particolare ho aggiunto i 'contenuti forti' agli avvertimenti della storia, soprattutto in vista di questo nuovo capitolo che presenta delle scene che potrebbero non piacere a tutti - per detti contenuti. Inoltre questo capitolo è molto più lungo degli altri, ma anche molto intenso. Spero che questo vi faccia solo piacere. Se ho..... esagerato, leggetelo pure a puntate come se fossero due capitoli in uno e fatemelo sapere XD Vi lascio alla lettura del settimo capitolo :)


 


 
Contrattazione.






 
Le sottili dita di Azul si infransero tra i capelli ramati dell’umano e glieli pettinarono all’indietro finché non toccarono il cuscino su cui era poggiata la nuca del rosso. Le labbra carnose del drow si dischiusero nuovamente per chiudersi attorno a quelle di Imesah, e la lingua avanzò a incontrare la sua. Ad occhi chiusi inspirò l’odore di lui. Nel letto dove si erano appena svegliati era un odore intenso che ne impregnava le lenzuola, riscaldate dai loro corpi. Azul era sopra di lui, accolto tra le sue gambe. Si inarcò morbidamente in un movimento di fianchi e la linea della schiena si flesse, mentre le spalle si tirarono con sé le scapole nello stringersi. Le sue dita strinsero le ciocche rosse dei capelli di Imesah. Gli trattenne la nuca sul cuscino e restò sulla sua bocca a soffocarlo piano in un bacio lento e intenso, che non finiva mai, con il naso storto affondato sulla sua guancia rosea.

Sentì le mani callose di lui affiorare dalle lenzuola e scorrergli lungo i lombi in una pigra risalita verso la spina dorsale. Lo lambirono appena sotto le fossette, là dove la pelle era stata tatuata con un pigmento sgargiante. Ad aprire la strada verso la piacevole curva della schiena era un teschio azzurro, luminoso, su due sciabole incrociate. Il sottile lucore che emanava suggeriva che si trattasse di un marchio magico. Ma le dita non percepirono differenze quando passarono di lì, dove la pelle era liscia come sul resto del corpo. Imesah piegò il capo di lato e rimbeccò Azul con un movimento della mascella dalla barba incolta, dischiudendo di nuovo le labbra sulle sue. Azul fece lo stesso. Piegò il capo dall’altro lato e si spinse piano contro la lingua dell’umano in un ennesimo bacio. Si lasciò andare a un piacevole fremito quando sentì le mani di Imesah arrivargli a metà schiena. Il loro calore gli trasmetteva un senso di sicurezza e di protezione. Lo faceva sentire a proprio agio.

“Mh.” Si fece sfuggire un roco gemito soddisfatto, soffocato nel bacio. Si sentì tirare tra le cosce e si accorse di essersi eccitato sotto il caldo tocco delle mani del compagno. Con quel sesso schiacciato tra i loro corpi, Imesah doveva essersene accorto senza dubbio. Ma il drow finse di non essersene reso conto e continuò a baciarlo. Si gustò il sapore della sua lingua, senza staccare mai la bocca da lui. Infieriva senza sosta, non riusciva a saziarsene, ma era paziente e cercava di gustarselo lentamente, senza fretta. Comunque l’umano non si sarebbe consumato. Non era abitudine degli umani, per quello che aveva scoperto nei suoi centosettant’anni di vita. Invece rischiava di privarlo di aria e farlo morire soffocato, ma ogni tanto si assicurava di sentire il rumore affannato del respiro che il rosso soffiava via dalle narici come faceva anche lui. E poi, finché l’altro rispondeva con la lingua e continuava ad accarezzarlo, significava che era vivo. Una pulsazione dell’erezione turgida di lui sulla propria coscia gli rese molto chiaro l’ultimo punto.

Si sentì soverchiare dalle mani di Imesah quando quelle superarono le tre cicatrici da perforazione all’altezza del polmone sinistro e scorsero lungo le piccole scapole del drow così da coprirle del tutto. Senza fermarsi risalirono ancora più su e i polpastrelli si premettero piano nelle spalle strette in cui era incassato il collo.

“Mph…” l’umano gemette e corrugò la fronte, concentrato.

Azul premette le palpebre chiuse e si lasciò sfuggire un lamento bisognoso. “Mmmh…” Stavolta dalle labbra di Azul sigillate a quelle di Imesah affiorò un verso acuto. Imesah, dopo tanti anni con quell’uomo, sapeva cosa volesse dire quella tonalità di voce più disorientata. Gli stava piacendo. Molto. E gli chiedeva di continuare. Si può dire che lo stesse pregando. Spinse la faccia contro quella del compagno, lo costrinse a far indietreggiare la propria. Le dita affusolate del drow lo tenevano fermo per i capelli. Si sentì tirare quando si sporse. Piegò il capo dall’altro lato, così Azul fece lo stesso e si accanì, subito dopo, di nuovo nella sua bocca, assaporando ancora la sua lingua con la propria.

Uno scatto morbido dei fianchi stretti di Azul ne spinse l’erezione sull’ombelico dell’umano in una chiara pulsazione, ma ancora una volta Azul finse di non essersene accorto, e anche Imesah fece lo stesso. La sua mano destra allentò la presa sulla piccola spalla del drow e ne scorse la pelle liscia verso il collo. Le dita premettero sulle prime vertebre. Lì poterono sentire la replica ruvida di un marchio impresso a fuoco. All’imbocco del collo c’erano i resti di un ferro arroventato, modellato come un cerchio al cui centro si trovavano due tibie, sovrastate da un altro teschio. Vi pressò i polpastrelli di indice e medio senza indugio nel passarvi sopra, con una pressione tale da massaggiare i nervi del collo mentre risaliva lungo la nuca dai capelli sciolti. Le unghie di Imesah affondarono tra di essi e con il pollice gli spinse la nuca ancora più di lato per rincarare il bacio. Salendo ancora un poco chiuse il pugno all’attaccatura dei capelli e si soffermò così, per concentrarsi solo sulla bocca del drow.

Azul lasciò i capelli rossi dell’umano e scese lungo il collo muscoloso. Quando arrivò ai suoi pettorali ampi poté pressare l’intero palmo su di essi senza coprirli per intero. Non aderivano del tutto alla pelle chiara dell’uomo per via dei peli, dello stesso colore dei capelli. Gradualmente trasferì il peso del proprio corpo sulle mani e premette sui pettorali. Imesah percepì il suo tentativo di distaccarsi ma lo trattenne ancora per qualche secondo nel bacio, rafforzando la presa sui capelli, prima di allentarla e lasciarlo andare. Le mani dell'umano si abbandonarono sul compagno che drizzava il busto. Sulle spalle, scesero lungo le clavicole man mano che lui risaliva, ricadendo poi sul petto nervoso al cui centro, appena sotto le clavicole, era stato, tempo fa, inciso in modo permanente un occhio nella carne, con quella che sembrava una ferita da lama.

Azul si sistemò a cavalcioni sull’ombelico dell’umano. I suoi enormi occhi gialli dalla pupilla verticale erano socchiusi con le palpebre calate su di lui, e ricambiavano lo sguardo di Imesah, diretti. Aveva le labbra umide di saliva. Il petto si abbassava piano in un movimento sinuoso come quello di un serpente mentre espirava via dalla bocca dischiusa. Le dita di Imesah sfiorarono i due anellini d’oro puro che l’uomo indossava ai capezzoli. Contrastavano sulla pelle scura, e sui capezzoli ancora più scuri. Azul si poggiava agli addominali dell’umano, vicino al proprio bacino e all’erezione che affiorava dalle cosce ben aperte, dritta e turgida. Quella si protendeva, ma la concentrazione di Azul era su Imesah. Le narici ne catturavano l'odore, gli occhi divoravano le espressioni del suo viso e le mani, spalmate sulle curve del cavaliere, assaggiavano la morbidezza della sua carne.

Imesah, braccato dal piccolo drow, lo guardava dal basso, disteso sotto di lui, inchiodato spalle al letto. Le mani scesero più giù e percorsero gli addominali dell'uomo sopra di sé. Azul si drizzò di nuovo e si inarcò sul suo tocco, protendendosi in avanti insieme al proprio sesso. Non distolse lo sguardo da lui, ma dischiuse di più le labbra. Un accenno dei denti appuntiti affiorò da quella cavità. L’indice di Imesah cadde sul terzo anello d’oro di Azul, sull’ombelico, prima che il palmo della sua mano sfiorasse il glande del drow. Lo sguardo della creatura scivolò in basso e divenne lucido, e lui si strinse nelle spalle. Il bacino si strofinò in avanti verso la mano che accolse, calda, l’erezione dell’altro tra le dita per iniziare a massaggiarla su e giù.

“Ah…” Azul gemette. Rialzò gli occhi su quelli di Imesah. L’umano poté vederli umidi e coinvolti. Il drow iniziò a sollevare il bacino, ritmicamente, nella mano.

“Nh…”

Azul sentì i capelli rizzarglisi sulla nuca dal piacere. Piegò piano il capo all’indietro e si lasciò andare alle carezze dell’altro, muovendo il bacino su e giù in un ritmo lento e intenso.

“Ah…” gemette di nuovo “Imesah…”

La mano sinistra del rosso gli superò la coscia e cercò di chiudersi attorno alla natica destra. La stringeva man mano, facendosi sentire.

“Oh…” dalla bocca aperta di Azul uscì un altro verso di piacere, più sorpreso. Aveva chiuso gli occhi e piegato la testa in avanti. I lunghi capelli grigi, sciolti, finirono per nascondergli il viso.

“Ti piace?” Chiese Imesah, a mezza voce. La stanza era silenziosa, a parte il rumore dei loro corpi sulle lenzuola e dei loro versi, e quella domanda risuonò sulle pareti senza che l’umano dovesse alzare la voce per farsi sentire.

“-Sì…” Ammise Azul subito dopo aver deglutito dalla foga – anche se si spingeva ancora piano nella sua mano. Scese e risalì un’ennesima volta. Le sue unghie premevano nella pelle chiara dell’umano, che invece ritirò la mano fino all’anca di Azul. Abbandonò anche il suo pene, inumiditosi sulla punta, per prendere l’altra anca. Lo spinse giù così da farlo sedere su di sé e poi, tenendoselo addosso, si rotolò sul fianco per stenderlo supino sul letto e sovrastarlo. Istintivamente l’altro, disteso sotto di lui, cinse le braccia toniche attorno alle spalle ampie dell’uomo; lui gli prese i polsi e si levò quelle braccia di dosso per inchiodargli le mani sul cuscino, oltre la nuca, con la mano sinistra. Così il drow era a gomiti sollevati sopra la testa, in una posa vulnerabile che mostrava le ascelle e protendeva il petto in avanti. Ma la muscolatura non era tesa e le braccia, né il resto del corpo, si opponevano, in una lasciva arrendevolezza.

Imesah rimase a guardare l’uomo, che era sollevato su di lui con il braccio sinistro teso, sul quale aveva trasferito parte del peso. Azul ricambiava il suo sguardo. Sembrava sfidarlo in silenzio. Imesah adagiò la mano destra su un suo pettorale e gli sfiorò il capezzolo con due dita. Il corpo del compagno reagì velocemente inarcando la schiena per offrirsi alle sue carezze. Continuò ad accarezzarlo per inturgidirlo. Azul socchiuse gli occhi finché non si ridussero a due fessure umide, e sollevò il mento.

“Mh…” Di nuovo, il gemito di Azul era acuto e bisognoso. La mano sinistra di Imesah lo sentì stringere i pugni. La destra smise di torturarlo e scese sulla pelle liscia. Superò l’ombelico inanellato che si era offerto a lui con un protendersi dei fianchi, e chinando la spalla scivolò oltre per infrangere le dita tra i peli pubici. Azul gemette di nuovo e l’onda che animava il suo corpo scese insieme con la mano dell’umano per protendersi con il bacino. Il compagno avvolse l’erezione scura nella mano e tornò a masturbarlo. Sentì tirare i muscoli delle braccia di Azul che si tendevano per sottrarsi alla sua pesa.

“Ah!” Esclamò l’uomo che stava sotto, il gemito gli venne strappato dalle labbra. Il suo bacino non poté fare altro che assecondare il ritmo del palmo di Imesah, cercando con disperazione di convincerlo ad andare più veloce con degli scatti affiatati.

“Mmmh!” I versi più alti resero chiaro a Imesah che lui stava iniziando a scaldarsi sul serio. Abbandonò la sua erezione, con un “Ah!” insoddisfatto del drow. Avvolse i suoi testicoli e li massaggiò intensamente, mentre i suoi occhi verdi erano puntati alla sua faccia e coglievano tutte le sfumature di piacere che Azul gli concedeva. La faccia di Azul era contratta; appena più rilassata nel sentirsi vezzeggiare in quel punto piacevole. Ma quando l’umano scese ulteriormente e pressò con indice e medio uniti sul perineo, Azul si morse il labbro inferiore con i denti appuntiti e le rughe delle sopracciglia crearono un profondo solco straziato e compiaciuto sulla fronte mentre tentava, invano, di trattenere un sentito e forte “NH!” prima di piegare di nuovo la nuca all’indietro e rivelare il punto vulnerabile del collo. Imesah ne approfittò: chinò il la testa e glielo morse piano, per poi succhiarne la pelle. Si risollevò dopo poco per scrutare le espressioni sul viso del compagno.

Lo sguardo attento e inespressivo considerava le emozioni che gli dichiarava con i suoi fremiti di piacere ininterrotti. Un osservatore poco avvezzo avrebbe detto che Imesah non stava provando assolutamente niente, che i suoi gesti erano sapientemente calcolati e privi di qualsiasi trasporto, con il solo scopo di manipolare l’uomo sotto di sé e ridurlo in condizioni miserabili con le sue piacevoli torture. Azul, invece, facendo capolino con lo sguardo tra le piccole lacrime che gli si erano imperlate sulle palpebre, riuscì a scorgere in fondo al suo sguardo la fame e la subordinazione. Le dita di Imesah scivolarono attorno al suo sfintere e iniziarono a massaggiarlo intensamente, pressando già sui muscoli per provarne la tensione. Azul strizzò le palpebre e sentì le lacrime bagnargli le ciglia, e un lungo gemito lamentoso affiorò dalla sua bocca aperta. Si inarcò contro le sue dita. Sentì un calore bruciante montargli nel corpo. Voltò il capo a sinistra e lo affondò contro il proprio braccio. Il naso si strofinò sul tricipite.

“Imesah…” singhiozzò. Le dita gli entrarono dentro e lo penetrarono senza fermarsi fino alle nocche. Gli strapparono un altro gemito alto. Imesah non smetteva di fissarlo. Abbassò lo sguardo sui movimenti serpeggianti del corpo di Azul che scombinavano le lenzuola del letto, e al suo bacino che, fremendo e tendendo i muscoli di glutei e cosce, cercava di reagire e muoversi attorno a quelle dita ferme.

“Nh!” Azul trattenne un altro gemito di sforzo tra i denti. Cercò di farsi forza tirandosi verso il cuscino dove l’umano lo teneva ancora prigioniero, in un piegare delle braccia, e Imesah ritirò le dita per metà per tornare a penetrarlo e iniziò a muoversi dentro di lui. Lo fece abituare alla larghezza delle dita, ne allentò i muscoli dello sfintere finché quelli non si rilassarono e Azul venne pervaso da scosse di piacere. Quando Imesah poté sentirlo rabbrividire uscì con le dita e gli allargò le cosce per sistemarsi meglio tra esse. Il drow sentì il suo glande pressare presente contro la propria apertura e la mano spingere la base della coscia sinistra all’indietro per tenerla ferma, così che lo sfintere fosse alla sua mercé. Si offrì a lui, si protese per accoglierlo, ma l’umano non entrò. Aprì gli occhi per fissarlo.

“Imesah…” gemette.

Imesah inclinò il capo. I capelli mossi ondeggiarono.

Azul rimase a guardarlo, dal basso. Si protese ancora, ma fu inutile. Non riusciva a farsi penetrare.

Continuò irreprensibile. L’altra opzione sarebbe stata pregarlo. E non l’avrebbe fatto. Imesah lo vide premere le palpebre e corrugare la fronte nell’espressione di disperazione e di desiderio che si formava sulla sua faccia, tra i singulti. Si intenerì, anche se da fuori non era cambiato nulla. Calò su di lui, gli sfiorò il naso con il proprio. Ad occhi chiusi sfiorò le labbra del drow con le proprie.

Con titubanza l’altro si protese il giusto per far aderire le labbra alle sue, e mentre Imesah lo catturava in un bacio quasi non si accorse dell’erezione che gli scivolava dentro, rendendosene conto solo quando ormai la punta era entrata e il resto stava venendo stretto tra le sue carni. Si piegò e urlò nella bocca di Imesah che lo ammutolì e mosse il bacino avanti e indietro, arrivando fino in fondo, nei punti più erogeni che fecero gridare di nuovo il drow. Con la mano destra Imesah teneva saldamente la sua coscia contro il torace, e ad ogni affondo lo spingeva verso la testiera. Con la sinistra lo teneva ancora inchiodato con i polsi al cuscino.

“MH! Mh!”

Imesah si staccò dalla bocca di Azul per esalare un sospiro spezzato, un brivido. Così Azul fu libero di gridare di piacere.

“AH!”

Le sue grida arrivarono alle orecchie dell’uomo e ne fecero vacillare la lucidità. Sentì la pelle accapponarsi, l’erezione pulsare pericolosamente dentro l’altro, e affondò dentro di lui senza pensarci.

“Mh! Uh…”

Si lasciò sfuggire un gemito di piacere, ma non cedette. Continuò a muoversi dentro di lui con sicurezza anche se, dai fremiti che gli afferravano la schiena, era evidente che stesse trattenendo l’orgasmo. Azul a sua volta si protendeva verso di lui per sentirlo fino all’ultimo centimetro, ogni volta, con piccole lacrime di piacere che spuntavano dalle ciglia e le umide labbra dischiuse occupate da versi pieni.

Le spinte si assestarono in un ritmo più frenetico. Entrambi non capirono più niente. Imesah si serrò dentro di lui e i suoi ultimi affondi uscivano appena fuori dall’altro prima di raggiungere nuovamente il punto più erogeno. Azul venne sul proprio ventre in una contrazione piacevole e dolorosa dei muscoli mentre le lacrime gli rigavano gli zigomi, e Imesah si liberò due spinte dopo, dentro di lui, dandosi finalmente appagamento. Sentì una scarica di piacere straziargli i lombi mentre lo faceva suo.

I muscoli, una volta tesi, si indebolirono. Si accasciò sul corpo più piccolo del drow che si era ormai già rilassato e aveva chiuso gli occhi. Lui strattonò la presa di Imesah ai polsi. Cercava sempre di liberarsi subito dopo, quando lo facevano così. Una volta finito di fare l’amore non gli piaceva la sensazione di essere legato. Imesah se ne sarebbe infischiato se non avesse avuto una vaga idea del motivo di quel suo capriccio, ma ce l’aveva, e perciò poteva solo sbrogliarlo dalla presa.

Una volta libero, Azul si rasserenò del tutto e lasciò che il corpo dell’umano lo coprisse come un pesante piumino. Vi posò le mani sopra in un tocco debole. Una volta chiusi gli occhi, gli si riconciliò il sonno. Lo stesso per Imesah, e stava proprio per riaddormentarsi quando sentì bussare alla porta della sua stanza.


*



Asia si teneva al riparo dalla luce del sole sotto il tetto della caserma. Era abbagliata dai raggi solari che picchiavano sul campo di addestramento di fronte a lei. Gli abiti scuri li assorbivano e le davano la raccapricciante sensazione di stare bruciando. Aveva l’espressione contratta, dalle sottili sopracciglia aggrottate e lo sguardo penetrante abbassato nell’unico punto non toccato dal sole: il tomo che la ragazza tratteneva contro il piccolo petto.

“Si tratta di un caso speciale.” La voce della Gran Maestra si diffuse alle orecchie di chi aveva vicino e lo raggelò per un momento, facendogli dimenticare del calore del sole sulla sua pelle.

“Sì!” Si affrettò a convenire un grosso uomo dai corti capelli castani chiuso in una divisa di cuoio. Era accanto a lei, poco oltre la protezione del tetto. Un paio di spallacci di metallo rendevano ancora più imponenti le spalle larghe. “Abbiamo mandato a chiamare il Cavaliere, vedrete che faremo presto. Non ci fa piacere trattenervi.”

“Avete chiamato il Cavaliere?” Un sopracciglio moro della ragazza si inarcò, dando l’unico accento all’espressione rigida. Se traspariva altro dal suo viso, si sarebbe trattato sicuramente dell’irritazione nel sentirsi andare a fuoco. “Non ne sarà contento. I reggenti hanno la mattina libera di azumeridio.”

“Già…” L’uomo si grattò la nuca e lanciò un’occhiata dietro di sé, al campo di addestramento lontano circa quattro metri. Vide il Comandante Ra’shak passeggiare senza fretta, con le mani dietro la schiena nuda. Si trovava appena prima della recinzione dove era stata installata una lunga passerella di legno, con un tetto, che percorreva quasi tutto il perimetro del campo. Qualcosa si piantò davanti alla vista dell’uomo e gli impedì di continuare a spiare Ra’shak.

“Perdonatemi se non indosso l’armatura.” Disse la cosa con voce piatta e familiare. Il castano indietreggiò e trovò gli occhi verdi del Cavaliere. Avevano l’aria annoiata di una persona a cui non importava molto di ciò che aveva attorno.

“Questi vice.” Commentò Asia, facendo trapelare appena il rimprovero dal tono di voce incolore. “Chiamano la corte in piena mattina di azumeridio e la costringono a sciogliersi sotto il sole. Non nascondete il vostro fastidio, Cavaliere.”

Imesah spostò le iridi dagli occhi scuri del vice fino a quelli rossi della Gran Maestra senza che la sua espressione cambiasse. Tornò sul vice e sbatté le palpebre. Soldato, a disagio, spostò il peso del corpo da un piede all’altro.

“Sapete che eseguo solo gli ordini del Comandante. Avanti, andiamo.”

Quando il vice e il Cavaliere si incamminarono verso Ra’shak Asia dovette seguirli. Fu costretta ad abbandonare il suo riparo e venne inondata dalla luce del sole. Tenne gli occhi rossi socchiusi e fissi sul proprio tomo. Quando finalmente raggiunsero la passerella adombrata, Asia rilassò i muscoli irrigiditisi dal disagio e posò gli occhi sullo spazio scuro nel mezzo della distesa di sole. Ra’shak aveva lo sguardo severo puntato sui cadetti prossimi. Uomini e donne adulti che si destreggiavano con le spade; quelli che aveva davanti in particolare, un’umana e un elfo, avevano incrociato le spade.

Si soffermò freddamente sull’ultimo e interruppe il passo. L’elfo scattò in avanti e grazie al suo peso infierì sulla donna a tal punto da farla inginocchiare e farle sfuggire l’elsa dalle dita. Lei gemette nel venire disarmata e si resse con le braccia tese sul terreno polveroso. L’elfo lasciò che la spada fendesse l’aria in un ridoppio verso sinistra e poi alzò la spada con l’intenzione di minacciarla in un colpo dallo stesso lato e dall’alto verso il basso. Ma prima di poterlo fare il piede dell’umana scivolò in avanti e alzò la polvere negli occhi dell’elfo, strisciando lo stivale in un semicerchio. L’elfo gridò colto alla sprovvista, incapace di vedere. La femmina chiuse il pugno sinistro che venne avvolto nell’altra mano, piegò il braccio e puntando il gomito verso la pancia dell’avversario si spinse in avanti con quasi tutto il suo peso. Lo fece cadere all’indietro, per terra, con un gemito soffocato. Lei si raddrizzò ansante, diede un’occhiata al maschio sconfitto e tornò indietro per recuperare la spada.

I muscoli di Ra’shak, evidenti e tesi sotto la pelle, si rilassarono appena. Riprese a camminare così da superare i due e con lui si incamminarono anche Asia, Imesah e Soldato.

“Come se la cavano gli allievi?” Chiese Imesah con gli occhi fissi sul jaluk. Ra’shak serrò le labbra in una smorfia che il vice conosceva bene. Era il suo più genuino e tipico disprezzo.

“Sono una banda di miserabili mammolette, Cavaliere.” Rispose il jaluk senza peli sulla lingua. Il tono di voce faceva trapelare la delusione da ogni parola colorita dell’accento drow.

“Il Comandante sta esagerando.” Lo interruppe Soldato, diretto a Imesah “I ragazzi si allenano duramente.”

Ra’shak fermò il passo e si voltò verso gli altri, riportando le braccia accanto ai fianchi.

“Non accetto che tu metta in ridicolo le mie doti di giudizio, Soldato.”

La voce giunse perentoria e gli occhi rossi fulminarono quelli scuri del vice – che distolse lo sguardo per accontentarlo. Accanto a loro, nel campo, un grosso umano aveva appena rivoltato l’avversario mezz’orco come un calzino servendosi delle sole mani nude e di un’agilità che rendeva del tutto vano il suo utilizzo dell’ascia bipenne.

Ra’shak avanzò verso i tre e puntò gli occhi su Imesah.

“Non ho una conoscenza diretta delle strategie politiche del Regno. Ma so che anche se voi e Valentino cercate di mantenere rapporti pacifici con gli altri regni, la tensione è palpabile. Nessun regnante si compiace della scia di cittadini che passano dalle loro mura alle nostre – cittadini per di più proficui, del ceto basso, il cui denaro viene trasferito nelle sacche dei nobili spesso e volentieri. Gli stiamo risucchiando la linfa vitale. E poi, la merce rubata dai nostri ladri…”

“La questione con i ladri è molto chiara.” Lo interruppe Imesah, alzando le braccia e portando i palmi verso l’alto. Dietro di lui passò il mezz’orco che aveva appena abbandonato il recinto, lasciando l’umano solo ad asciugarsi il sudore, appoggiato alle travi. “Siamo stati riconosciuti non responsabili, non possiamo essere a conoscenza della provenienza delle merci che vengono scambiate, possiamo solo gestire ciò che circola all’interno del nostro Regno.”

“Cosa se ne fanno, i Signori, della contrattazione?” Ra’shak alzò la voce. Un tonfo secco dello stivale lo portò ad un metro scarso dal Cavaliere. La minaccia paventata da quei suoni fecero voltare l’umano verso di loro e resero chiaro il motivo per cui Ra’shak non aveva una carica diplomatica. Soldato e Asia fecero un passo indietro per via del loro istinto di sopravvivenza, che ad Imesah, evidentemente, mancava. “Non rappresentiamo una minaccia ai loro occhi, non ci temono: se vogliono schiacciarci prendono la nostra esenzione dalle responsabilità, ce la ficcano nel culo e ci rendono la loro lurida puttanella.” L’espressione di Ra’shak era ormai contratta in una smorfia di rabbia. Ma Imesah non retrocesse.

“Peccato che serva una giustificazione per tutto questo, Comandante. Viviamo in un mondo civile.”

“La troveranno, Imesah.” Ra’shak volle essere chiaro su quel punto. Fissò bene l’umano negli occhi. “E quando l’avranno trovata noi saremo ancora qui,” il braccio nudo del jaluk si alzò per indicare gli allievi nel campo “a insegnare ai ragazzi a impugnare un’arma. Datevi da fare con le difese e permettetemi di intensificare l’addestramento.”

“Ra’shak, l’addestramento è già intenso.” Soldato si permise di riaffiancare Imesah, sulla difensiva. Aveva una smorfia grave che ne incupiva le sopracciglia. Si conquistò l’occhiata fulminante del drow. “Sei stato abituato a ritmi non umani, non puoi incolpare le reclute di tenere alla propria salute.”

“Sai chi altro non è umano?” Ra’shak mosse un passo verso Soldato e si ritrovò ad affrontarlo frontalmente, a qualche decina di centimetri dalla sua faccia. “I drow di Charvellraughaust, cercano due o tre-CENTO jaluk nascostisi qui in fuga dalle loro matrone, compreso io. Oppure i nobili di Picco del diamante che vorrebbero i loro schiavetti mezzosangue indietro. Quelli della Collina Intessuta invece sono umani, ma stregoni. Si stanno chiedendo quanti dei loro ex arcieri possono arrostire con un solo incantesimo di Tempesta di fulmini.”

“Ehm.”

L’umano che li stava osservando dalla recinzione si schiarì la gola, attirando l’attenzione di tutti e quattro su di sé. Si scostò dalle travi di legno e drizzò la schiena, infilando le mani nude nei pantaloni impolverati.

“Oh, Ekhe.” Sbottò Soldato, sorpreso.

“Comandante Ra’shak.”

Il jaluk, chiamato, si voltò verso di lui. I suoi occhi rossi squadrarono severi l’uomo dai capelli fino agli stivali.

“Chi cazzo siete, levatevi dalle palle.” La sua replica giunse tempestiva. Ma la recluta non ne fu turbata.

“È una delle reclute più promettenti, Ra’shak.” Si intromise il vice guardando il jaluk.

“Ho notato che ve la state facendo sotto.”

Le sopracciglia di Soldato e Asia si inarcarono verso il cielo. Imesah spostò il viso su Ekhe che si era guadagnato la sua attenzione. Ra’shak sbatté le palpebre due volte perché non era sicuro di aver capito bene, poi, rendendosi conto che invece aveva proprio capito bene, inarcò lentamente le sopracciglia verso l’alto e gli occhi si sgranarono piano fino a farsi allucinati. L’uomo che aveva davanti venne scosso da una risata alla reazione di tutti e quattro.

“Giusto.” Proseguì. “Perché mai non vi vedo mai affrontare gli allievi e allenarli personalmente? Perché non ve lo fate voi, un giro, qua sulla polvere?”

“Perché c’è il sole?” Ipotizzò Asia, con sarcasmo. Osservò gli uomini, e ad un certo punto gli balenò un’obiezione. “… non mi è ancora affatto chiaro perché sono qui.” si disse, incerta nell’espressione seriosa. Imesah si voltò verso Soldato.

“Senti, ma capitano spesso questi caratterini?”

“In effetti sì,” ammise il grosso umano, portandosi una mano al mento increspato dalla barba “ho il sospetto che la popolazione media sia costituita da gente un po’ sfrontata, Cavaliere.”

“Non sarebbe poi così strano.” Osservò il Cavaliere, mentre Ra’shak era ancora lì, allucinato, a fissare l’umano oltre la recinzione con gli occhi sgranati. “L’ho notato più volte. Dev’essere per la conformazione sociale.”

“Già,” convenne il vice, agitando l’indice verso Imesah e annuendo, con gli occhi che si socchiudevano in un pensiero più furbo “sono un po’ tutti figli di puttana qua dentro.”

“È proprio quello che intendevo.” Asserì il Cavaliere, annuendo a sua volta.

Ra’shak finalmente sbatté le palpebre e riaffiorò dal suo stato di folle incoscienza. Abbassò pazientemente lo sguardo verso il basso, considerando la situazione. Prese un respiro che ne gonfiò il petto robusto e portò le mani sui fianchi.

“Fatemi passare, recluta.” Ordinò.

“Ekhe.” Si presentò la recluta indietreggiando. Teneva gli occhi nocciola fissi sul Comandante, che avanzò verso la recinzione e la scavalcò in un salto. Gli bastò slacciare alcune fibbie. Le fasce di cuoio che gli circondavano il busto e che reggevano le sue armi caddero al suolo con un tramestio. Portava solo la cintura adornata di pugnali, aderenti pantaloni neri, e gli stivali. Infilò la mano in una tasca e tirò fuori un nastro rosso. Sollevò le braccia per pettinarsi all’indietro i capelli che gli sfioravano le tempie e li raccolse dietro la nuca con il nastro. La luce del sole gli infastidiva gli occhi sensibili e lui li teneva socchiusi. Avanzò di tre passi ed Ekhe indietreggiò allo stesso modo. Un ghigno gli solcò il viso e rivelò delle fossette sulle guance.

“Gioco sporco.” Lo avvertì. Ra’shak sbatté le palpebre. Ekhe intuì dalla mascella contratta che si stava trattenendo dal rispondergli. Invece dischiuse le labbra ed esordì:

“Possiamo iniziare.”

Le loro armi erano le mani nude. Ekhe si portò a un metro e mezzo da Ra’shak e si mise sulla guardia destra – il pugno e il piede in avanti erano i sinistri, per permettere al pugno più forte, quello destro, di colpire con maggiore forza. Il jaluk avanzò senza mettersi in guardia ed entrò nello spazio dove Ekhe poteva colpirlo. L’umano non si fece sfuggire l’occasione: gli bastò spingere con la gamba destra che si piegò e si sollevò dal terreno, e facendo perno con il tallone sinistro si diresse sul fianco di Ra’shak per un calcio circolare, forte della spinta.

La mano destra del jaluk scattò: parò il colpo con l’avambraccio e scivolò sotto il polpaccio dell’umano. Lo afferrò e lo tirò all’indietro. La stretta era salda come acciaio, e nonostante la differenza razziale che voleva l’umano più forte fu semplice per Ra’shak trascinarselo dove voleva lui. La mano sinistra si posò sul ginocchio e lo accompagnò nel movimento. Zoppicando in avanti con la gamba libera Ekhe cercò di piantare un montante destro nella pancia di Ra’shak, ma la mano sinistra del jaluk colluttò contro la sua clavicola e lo gettò con violenza all’indietro prima ancora che potesse colpirlo. Si ritrovò a lanciare un montante in aria mentre cadeva sulla sabbia. Ra’shak posò di nuovo la mano sul suo ginocchio e facendo un passo avanti con la gamba sinistra si portò di fianco: nello stesso movimento fece ruotare la gamba dell’umano verso l’esterno e l’avversario iniziò a urlare, perché il jaluk gliela stava slogando.

Ma non si arrese. Prima che Ra’shak riuscisse a rovinargli la gamba si alzò a sedere e afferrò la cintura dei pantaloni del jaluk per trascinarselo a terra, mentre con la mano destra gli dava un pugno sul tendine del ginocchio per farlo cadere. Ra’shak si piegò e gli cadde addosso con il sedere sul suo bacino.

La recluta avvolse il braccio attorno al suo collo e strinse, forte, con l’intenzione di strangolarlo. La luce del sole accecava Ra’shak che strizzò gli occhi, i denti digrignati. Una secca e decisa gomitata contro il plesso solare dell’umano lo convinse a mollare la presa e a buttare fuori l’aria dai polmoni con un gemito di dolore. Ra’shak si voltò per salire a cavalcioni sull’uomo. Gli afferrò l’attaccatura dei capelli neri con le dita scure e strinse forte per fargli male, mentre il moro allungava le braccia e stringeva la presa attorno al collo muscoloso del drow. Dovette applicarsi per riuscire a premere abbastanza forte da bloccargli il respiro. Ra’shak sentì il fiato serrarglisi in gola e il respiro cessare. Tirò su la nuca di Ekhe per i capelli e prese a sbatterla rovinosamente al suolo servendosi del peso di tutto il proprio corpo, come se la minaccia di stare per morire soffocato non significasse nulla.

L’umano venne frastornato dal primo colpo, poi dal secondo. Al terzo mollò la presa sul collo del jaluk, conscio che non sarebbe riuscito a ucciderlo in tempo, e gli fece arrivare un montante assestato bene sul mento che lo fece cadere all’indietro. Così riuscì a fargli mollare la presa dai capelli e si alzò a sedere, ansante, per saltargli di nuovo addosso. Accanto al drow giaceva la lama impolverata di un pugnale. Lo afferrò e pressando con il palmo della mano sinistra sul petto scuro del Comandante si mise sopra di lui e gli puntò il pugnale alla gola, che venne afferrato dalla mano destra del jaluk. Il suo pugno sinistro si scagliò sul tendine del gomito di Ekhe e spezzò la tensione del braccio così da farlo cadere su di sé, e la mano chiusa in quella dell’umano spinse il pugnale su verso la sua gola. I muscoli tremavano nervosi dallo sforzo. Gli occhi di Ra’shak erano sgranati in quelli di Ekhe. Vi lessero la titubanza mentre la lama, ferma tra le loro due forze, si avvicinava pericolosamente al suo collo. Ekhe si costrinse a distogliere gli occhi dalla sua faccia, e lo fece premendo la mano sinistra su di essa per disorientarlo.

Si fece forza spingendosi via da lui con quella mano e prese le distanze dal Comandante. Ansimava, e accovacciato a terra guardava il jaluk che si alzava a sedere e ricambiava il suo sguardo. Si alzò di nuovo in piedi, tenendo il pugnale nella mano destra. Ra’shak lo seguì. Ekhe lanciò un’occhiata incerta alla cintura di pugnali che il jaluk indossava, per poi tornare sulla sua faccia. Lui se ne accorse, e sollevò un sopracciglio. Sbuffò beffardo dalle labbra dischiuse che esalavano il respiro affannato, poi scrollò il capo deluso.

Ekhe si decise a scagliarglisi addosso per primo stavolta e cercò di colpirgli il petto nudo con il pugnale in un taglio discendente da destra verso sinistra. Ra’shak non era in grado di difendersi prima della distanza corta per via del sole che gli infastidiva lo sguardo, ma i suoi riflessi di drow riuscirono a intercettare la lama del pugnale quando gli arrivò sopra la testa. Le mani salirono e gli afferrarono fermamente il polso. Una di esse scivolò in avanti sul gomito. Piegandogli il polso in una leva lo costrinse a piegare anche il gomito. Avanzò con i piedi fino ad andargli addosso e costringerlo a indietreggiare e mentre lo faceva, trattenuto il suo braccio in una leva dolorosa, gli puntò il suo stesso pugnale addosso e spinse una pugnalata in montante, verso lo sterno. Ekhe urlò e riuscì per miracolo a deviare il colpo slogandosi il braccio nello sfuggire alla sua stretta. La lama del pugnale gli solcò diagonalmente il pettorale destro aprendogli la carne fin sotto la spalla prima che Ra’shak perdesse del tutto il controllo del suo braccio.

La recluta cercò di indietreggiare per porre una distanza tra i due, ma Ra’shak gli aveva afferrato l’avambraccio sinistro con la mano destra. Lo tirò brutalmente a sé. Ekhe gli cadde addosso come una fanciulletta indifesa. Il Comandante afferrò l’altro avambraccio, quello dalla mano armata. Strinse dolorosamente il polso così forte da far gridare l’umano di dolore. Inarcandosi, Ekhe aprì la mano e mollò la presa sul pugnale insanguinato che cadde a terra. Una volta disarmato l'avversario, Ra’shak gli sollevò le braccia e lo costrinse a voltarsi. Racchiuse entrambi i polsi dell’uomo in una sola mano e gli afferrò la nuca per i capelli, dopodiché prese a camminare lungo il campo. Ekhe urlava per il dolore, non riuscendo a tenersi in piedi e venendo retto per l’attaccatura dei capelli. Ra’shak si chinò e gli affondò la faccia nella polvere. Ekhe iniziò a tossire e venne soffocato dalla terra che finiva per entrargli in bocca e nelle narici mentre Ra’shak continuava a trascinarlo lungo il campo e a tenergli la testa giù per fargli raccogliere la polvere. Poi lo alzò.

Ekhe emise un gemito strozzato, probabilmente grato che fosse finita, ma quando aprì gli occhi appannati dalla polvere si accorse di essere molto vicino alle travi della recinzione. Divenne una certezza quando Ra’shak iniziò a cercare di spaccargli la faccia su una di esse, prendendo la rincorsa con la mano che lo reggeva alla nuca per poi sbattergliela con violenza, dalla parte della faccia ovviamente. Ekhe gemette dal dolore e sentì il sangue bagnargli la faccia. Cadde a terra sotto la recinzione. Gli faceva tutto così male che non riusciva a muoversi – si pentì subito dopo di non averci neanche provato, perché sentì la mano di Ra’shak tirarlo di nuovo su per i capelli in una stretta lancinante. La recluta digrignò i denti e strizzò gli occhi mentre con le mani cercò di afferrare quella del drow, che però era inamovibile dalla nuca dell’uomo. La sollevò di nuovo, insieme al resto del suo peso, ad altezza trave, prese la rincorsa, e gliela diresse con violenza verso la dura superficie di legno spaccandogli un sopracciglio, il naso e un dente.

Imesah, a braccia incrociate, osservava la scena con aria concentrata. Sbatté le palpebre.

Asia era colpita. Spostò lo sguardo verso Imesah e si accigliò.

“Cavaliere?” mormorò incerta la ragazza “Voi siete portatore di ordine. Sovrintendete le guardie… fermate il Comandante.”

Soldato sospirò, e si passò una mano fra i capelli con una smorfia. Imesah inarcò appena le sopracciglia all’imperativo della Gran Maestra. “Dite che dovrei?” Si voltò a guardare la ragazza. “A me piace questo scontro.” E tornò sui combattenti.

“È solo che così finirà per ammazzarlo…” obiettò Soldato mentre il pesante tonfo della testa di Ekhe sulla trave risuonava per la terza volta insieme a uno strano schiocco di ossa rotte.

“Non è un gran problema.” Replicò Imesah. “La gente muore ogni giorno.”

“… Imesah, credo che il Consigliere vi consiglierebbe di fermare il Comandante.” Obiettò Asia. Imesah si strinse nelle spalle e tornò a guardare Ra’shak. “Non ho voglia di salvare quel ragazzo. Probabilmente Saab non vuole che io lo salvi.”

Asia non poté rispondere a una tale argomentazione. Poté solo distogliere lo sguardo e ripetersi quella risposta nella sua testa mentre il Cavaliere, sovrintendente dell’ordine e delle guardie a Saab, non faceva una piega, lì fermo con le braccia incrociate a godersi l’omicidio di una semplice recluta.

Ra’shak guardò l’uomo ansante e scosso dai brividi che giaceva ai suoi piedi. Aveva la faccia completamente bagnata di sangue. Era ancora cosciente, perché si muoveva un poco e cercava con disperazione di rialzarsi per scappare, ma non poteva riuscirci perché la testa gli scoppiava dal dolore che lo aveva stordito del tutto. Il jaluk indietreggiò e si scostò da Ekhe per camminare dalla parte opposta.

Si chinò, tenendo comunque gli occhi sull’umano, e la sua mano si avvolse attorno all’elsa dell’ascia bipenne che il mezz’orco di poco fa aveva lasciato incastrata nel terreno del campo prima di andarsene. Con uno strattone potente del braccio tese i muscoli e la estrasse. Tenendola bassa si riavvicinò alla recluta e lì si rese conto che all’improvviso il campo era diventato silenzioso. Ignorò quel silenzio e sollevò l’ascia impugnandola con entrambe le mani. Ekhe ebbe la forza di voltarsi supino, così poté vedere il jaluk che lo fissava con la sua condanna a morte tra le mani. Sbarrò gli occhi.

“No… no…!”

Il drow, in risposta, inclinò appena il capo. Sbuffò dalle narici e distese le labbra in un ghigno all’inizio sottile, poi man mano affossato nel viso scuro.

“Sì. Sì.” Sussurrò.

Fece roteare l’ascia all’indietro. Gli passò per il fianco sinistro e venne infusa della forza della carica mista al peso del jaluk. Era destinata a sfracellarsi senza pietà in mezzo alla cassa toracica dell’umano e ad aprirlo in due come una zucca. Ekhe strizzò gli occhi per non vedere la propria morte. Sentì un rumore secco vicinissimo all’orecchio sinistro e un dolore lancinante afferrargli la spalla ed emise un urlo agghiacciante che diede sfogo a tutta l’aria che aveva nei polmoni integri. Iniziò a lacrimare e non riuscì più a fermarsi, ma volle aprire gli occhi per capire cosa diavolo gli stava succedendo. Attraverso la vista annacquata dalle lacrime vide la lama dell’ascia bipenne inchiodata a terra a poca distanza dalla sua faccia con la parte inferiore che aveva strappato cinque centimetri di carne della spalla e sfregiato l’osso.

“Da dove vengo io,” la voce roca del Comandante gli arrivò alle orecchie “tu saresti dovuto morire.”

Il jaluk scavalcò la sua vittima e camminò lungo la recinzione per fermarsi davanti agli altri tre. Aveva il corpo scuro teso dallo sforzo e imperlato di sudore che scivolava lungo le linee sinuose dei muscoli tonici. Il respiro affannato gli sollevava il petto su e giù e ne contraeva gli addominali inumiditi. Asia si voltò verso Ra’shak e sollevò il mento in attesa che parlasse. Soldato buttò fuori un sospiro sollevato e portò le mani sui fianchi. Imesah si focalizzò su di lui anche se il suo udito era, in quel momento, dedito ad accogliere i guaiti di Ekhe.

“Una delle reclute più promettenti.” Ripeté Ra’shak fissando Soldato, che evitò il suo sguardo e aggrottò la fronte. Il jaluk puntò gli occhi su Imesah.

“Io sono un avversario buono. Non incontrerà questa dolcezza in battaglia. Non dai miei simili, ma neanche dagli altri. Pensate a ciò che vi ho detto.”

Alla fine scostò il viso per inquadrare Asia.

“Avete visto le condizioni in cui ci troviamo. Voglio delle lezioni teoriche sul combattimento organizzate per mano vostra.”

La Gran Maestra inarcò le sopracciglia in una reazione moderata. Infine Ra’shak si voltò verso l’uomo che aveva quasi ucciso, a qualche passo da loro. Nel farlo si rese conto che tutti gli altri allievi si erano fermati per guardare la scena. Alzò appositamente la voce abbastanza perché sentissero.

“E questo… è il motivo per cui non combatto con le reclute.”

Recuperò le fasce di cuoio che reggevano le sue armi e scavalcò la recinzione per andarsene.



*



Era stata senz’altro una giornata stancante, iniziata con una mattina passata sotto il sole e il resto trascorso assicurandosi che tutti i tomi necessari fossero stati ricevuti dalle scuole e dai luoghi di istruzione della città. Dopo questo aveva dovuto stilare una bozza delle lezioni che avrebbe preparato per il Comandante. Ripensandoci Asia si lasciò sfuggire un sospiro esasperato. Fu grata che la giornata fosse finita. La luna splendeva nel cielo, molto meno accecante del sole. Ma doveva stare ancora subendo il suo frastornamento, perché nello svoltare lungo la parete non si accorse della persona che stava andando proprio nella sua direzione con la faccia girata dalla parte opposta.

Si scontrarono rovinosamente l’una contro l’altra. Asia indietreggiò subito dopo ma le carte che aveva tra le mani le scivolarono via. Caddero per terra insieme ad altri fogli di differente dimensione, che erano scivolati via dalle mani dell’altra. Asia si irrigidì nel vedere le scarpe azzurro confetto e la gonna gialla davanti alla quale erano scivolati i suoi documenti. Alzò lentamente gli occhi rossi per osservare come il semplice vestito si stringeva dolcemente in una vita aggraziata e faceva risaltare, più in alto, le morbide curve dei seni della ragazza che aveva davanti, e che non poté non riconoscere.

“Ah! Che sbadata, sono la solita…” ridacchiò Bibi, nervosa.

La Tesoriera William, o Bibi, era un’umana alta con occhi nocciola e lunghi capelli castano chiaro che spesso, come adesso, teneva raccolti in una coda dietro la nuca. Aveva un aspetto di qualche anno più adulto di Asia. Lanciò un’occhiata allo sguardo perplesso della Gran Maestra così da incrociare i suoi occhi e poi chinò di nuovo il capo a guardare il casino che aveva combinato. La frangia orizzontale e sfilzata le coprì gli occhi in quel movimento. Si chinò subito dopo per raccogliere i fogli e Asia indietreggiò di mezzo passo in un misurato gesto che espresse senza veli il desiderio di stare lontana dalla pasticciona.

“Dunque, le mie carte sono queste…” Bibi borbottava mentre si allungava sui documenti uno per uno “… mentre le tue sono quelle gialle, dico bene? Giusto…”

Asia rimase a fissarla dall’alto, con le braccia a mezz’aria rimaste lì dov’erano quando si era fatta cadere i fogli di mano. La sua espressione era difficile da decifrare, ma le palpebre erano di poco più sgranate e vi si poteva leggere una nota disorientata. La distanza che manteneva con l’umana poteva suggerire un sentimento di indignazione, tuttavia c’erano troppi pochi indizi per poter intuire cosa balenasse nella testa della ragazza non umana.

Bibi si rialzò in piedi con i documenti riordinati nelle mani ad altezza petto: quelli di Asia verso di lei, i propri verso di sé. “Ecco…” si avvicinò e protese di poco le braccia per raggiungere le mani della Gran Maestra a una decina di centimetri dal suo busto. Asia dovette raccapezzarsi e con un piccolo sussulto si smosse per cercare di prendere i documenti dalle mani dell’umana. Fu difficile, perché Bibi era così goffa che non riusciva bene a separare i suoi fogli dai propri e quindi passarono un paio di secondi imbarazzanti a strattonarsi i fogli sbagliati, prima di riuscire nell’ardua missione di recuperare ognuna ciò che le spettava. Appena la cosa si risolse Asia si premette i fogli sul petto e indietreggiò di nuovo, di mezzo passo. I suoi occhi, più in basso di quelli di Bibi di una quindicina di centimetri come minimo, alzarono le palpebre su di lei e la puntarono. La bocca color corallo rimase chiusa, com’era fin dall’inizio. Nonostante questo Bibi non smetteva di sorridere – in una smorfia quasi isterica – e di emettere un vago risolino ogni tanto.

“Eheh… queste tesoriere impacciate…” commentò e si strinse nelle spalle, coperte da una soffice camicia di seta dello stesso colore delle scarpe. Lo scollo del vestito era abbastanza generoso e veniva assecondato dalla camicia che lo seguiva fedelmente abbellendolo con un colletto bianco che si poggiava sulla stoffa gialla. Gli occhi di Asia caddero proprio su questo interessantissimo colletto. Il sorriso di Bibi si smorzò un poco nel vedere la ragazza non replicarle, sbatté le palpebre, e le si corrugò la fronte. Tentò subito dopo un approccio diverso facendo squillare di nuovo la voce.

“Come è andata oggi? Fatto buon lavoro?” Asia schizzò con gli occhi sgranati su quelli nocciola della ragazza e li inchiodò lì su di lei. Bibi sussultò e inquieta abbassò le carte verso l’ombelico. “Oh. Capisco… non tutte le giornate sono perfette, non è vero?” La voce si abbassò e venne incrinata dall’incertezza. La ragazza più bassa non si arrese e continuò a fissarla dritto negli occhi, ma i propri iniziarono a fremere quasi impercettibilmente finché non fu costretta a sbattere le palpebre. Da lì assunse uno sguardo strano e impacciato. Bibi prese un respiro che le alzò le spalle e annuì piano.

“Già… Beh, Asia, sarà meglio che io vada, mh?” Chiuse gli occhi nel sorriso radioso che le dedicò. “Ci rivedremo domani in giro per il Palazzo, ne sono sicura. A domani allora!” Annuì di nuovo con più certezza e le rivolse uno sguardo contento, per poi incamminarsi. Non deviò bene da lei. Finì per andarle di nuovo addosso, ma molto più piano di prima. Asia sussultò di nuovo e indietreggiò titubante, abbassando occhi e capo.

“Oh, scusa, scusa…” ripeté la Tesoriera, indietreggiando e andandole addosso un’altra volta prima di fare un passo di lato per assicurarsi, definitivamente, di riuscire a superare l’ostacolo e camminare come si deve. Si avviò senza guardarla di nuovo in faccia e Asia poté sentire il rumore dei tacchi della ragazza farsi più fioco un passo dopo l’altro. Rialzò lentamente il viso. Gli occhi fissavano un punto impreciso davanti a sé. Prese un respiro dalle narici e strinse le pagine che teneva tra le mani, fino a sbiancarsi le dita. Serrò le labbra e avvampò violentemente.
*


So’o spinse la porta della mensa comune. Era ora di cena e quasi tutti i servitori erano riuniti ai due lunghi tavoli che riempivano la stanza rettangolare. Avanzò di un paio di passi così da liberare la via e i suoi occhi verdi andarono in cerca del fratello. I lunghi capelli biondi del ragazzo erano stati pettinati pochi minuti fa, quando si era richiuso in camera dopo le lezioni, ed ora erano lisci e morbidi come nella mattina. Si era cambiato e indossava vestiti più informali e comodi. Una maglia gialla a mezze maniche con uno scollo a barca colorato di verde acqua infilata in dei pantaloni rosso scuro e delle scarpe comode ai piedi. Avrebbe dovuto portare una fascia a stringergli la vita, ma sarebbe stata ingombrante e gli avrebbe dato la sensazione di soffocare. Così invece almeno si sentiva come se fosse quasi in pausa dai suoi doveri.

“Principino?”

La chiara voce piena proveniva dalla sua destra. Si voltò e vide il fratello con i suoi unici pantaloni accartocciato contro l’angolo della stanza, seduto sopra una grossa cassa, accanto alle finestre che davano sul porticato. Aveva le gambe piegate e aperte in una posa volgare e i gomiti poggiati sulle ginocchia. In mezzo alle gambe, sulla cassa, c’era il suo piatto di carne, pane e verdure, e ad una mano un pezzo di pane in cui aveva ficcato il resto rendendolo companatico.

Il fratello maggiore gli rivolse un ghigno a bocca chiusa, poi riprese a masticare trattenendo gli occhi blu sulla figura del principe. So’o si voltò del tutto verso di lui per guardarlo bene. Una volta finito di masticare, Vilya gli rivolse la parola.

“Che ci fai qui tra la gente comune, mio signore?”

“Perché non mangi insieme agli altri?” Lo rimbeccò So’o, rispondendo alla domanda con un’altra domanda. Per quanto fosse un ragazzino, per di più inesperto nelle chiacchiere informali, dimostrava una parlantina furba.

Vilya smorzò il ghigno e lanciò un’occhiata ai due tavoli. Si prese tempo per masticare un paio di volte.

“Sto bene qua.” Abbassò lo sguardo sul piatto. Posò su esso il boccone che teneva in mano e portò il braccio all’esterno della gamba destra per raccogliere un bicchiere d’acqua poggiato anch’esso sulla cassa. Lo avvicinò alle labbra e prese un sorso. So’o si prese del tempo per scrutare il fratello ancora un poco. Poi si avvicinò di due passi.

“Posso?”

Vilya inarcò le sopracciglia perplesso mentre poggiava il bicchiere sulla cassa e si pulì le labbra con il dorso della mano.

“A qualsiasi cosa tu stia alludendo, certo, mio signore.”

So’o raggiunse la cassa e vi salì sopra. Era più alta del suo bacino, così il mezzodrow finì per far dondolare le gambe al di là di essa. Vilya lo aveva praticamente di fronte e poteva osservare il suo profilo. Riportò il gomito sul ginocchio e inclinò il capo, così che cozzasse contro la parete, con evidente curiosità.

So’o si dette del tempo per osservare i cortigiani che cenavano. Il drow cercò di interpretare la sua espressione, ma era difficile capire cosa stesse pensando.

“Non è male qui.” Commentò.

Il drow si strinse nelle spalle. L’altro si voltò verso di lui. Tornò a parlare.

“Sei stato lontano per molto tempo.”

“Lontano da cosa?” Sbuffò Vilya incrociando i suoi occhi con scherno. “Da questo luogo? Non posso chiamarlo veramente casa, se è questo che intendi. L’ho visto a malapena ai suoi inizi.”

“Da…” So’o strinse le dita attorno al bordo della cassa. Fece un cenno con la testa. Esitò per cercare le parole giuste “… da quello che ti appartiene. Dalla famiglia.”

Vilya esitò. Poi annuì, gli diede ragione.

“Sì, molto tempo.”

La sua replica fu breve. Ma sentendosi osservato da So’o e vedendo che non smetteva di fissarlo, come in attesa di una risposta più completa, il drow serrò le labbra e proseguì. Posò gli occhi sul resto della stanza.

“È quello che succede quando diventi grande. Parti, fai esperienze. Cerchi il tuo posto.”

“Ma non l’hai trovato?”

Il moro scrollò le spalle e spostò gli occhi giù, sul proprio piatto, con una nota schiva nello sguardo. Stavolta concesse solo quel gesto alla domanda del fratello. Gli occhi sfrontati di So’o erano ancora su di lui. Il ragazzo rifletteva in quei piccoli silenzi tra una replica e l’altra, senza che si potesse capire cosa stava pensando.

“Papà mi aveva detto di avere un altro figlio.”

La frase giunse a bruciapelo. Vilya alzò le palpebre sul giovane mezzodrow. Aveva un viso tondo, dai lineamenti dolci e fanciulleschi che lo sguardo determinato smorzava appena. Bastava guardarlo negli occhi per capire quanto fosse giovane. Un uomo adulto non avrebbe avuto l’ardente curiosità che si leggeva nei suoi occhi. Avrebbe visto troppe cose per esprimere quello stesso entusiasmo.
So’o proseguì.

“Ma non parlava molto di te. Era come se cercasse di dire il meno possibile.”

Vilya alzò il mento con una nota di sfida. So’o poteva vedere come il fratello ci prendesse gusto nel non dargli soddisfazione. Sembrava reputarlo una specie di gioco.

“Le persone si raccontano da sole. E poi non sta bene parlare degli altri in loro assenza.”

“Beh, ma sei mio fratello.” Obiettò So’o, e insieme distolse lo sguardo e chinò il capo come per nascondersi agli occhi blu del drow. Evasivo. Finse di stare porgendo molta attenzione alla cassa, dove le sue mani tormentavano il legno. Cercava di giocare al suo gioco.

“Disse che avete viaggiato insieme.”

“Mh.”

Tornò a fissarlo. Cauto. Di nuovo si prese del tempo prima di abbozzare un’altra parola.

“Quando mi hai detto che sei stato un pirata…”

“Hm.” Vilya annuì, incontrò il suo sguardo. “Con Azul.”

So’o annuì e zittì per guardare in basso di fronte a sé, a terra. Azul. Lo aveva chiamato con il suo nome. Con la coda dell’occhio vide Vilya poggiare la nuca nera sull’angolo del muro e restare a guardarlo per qualche secondo.

“Che c’è?” Chiese, secco.

So’o scrollò il capo, reticente. Rimase a fissare il vuoto. Era confuso. Vilya, accanto a lui, prese di nuovo il bicchiere d’acqua e finì di bere, per poi asciugarsi di nuovo la bocca con il dorso della mano.

“Ti senti piccolo?” Dal tono si capì che gli era affiorato un sorriso sulle labbra. So’o sbatté le palpebre e rinsavì dai propri pensieri. Un lieve moto di rabbia gli corrugò la fronte e lui guardò ancora più in basso, sulle proprie ginocchia.

“Nessuno di voi mi ha spiegato niente. Ci sono anni di esperienze tra di voi alle mie spalle e io sono arrivato solo adesso. E ora che tu sei qui, continuo a non sapere niente. Sapevo che Imesah ti disprezzava ma ancora adesso non so perché – a parte, certo, l’incidente. E non so da dove sei spuntato. E dove sei stato tutto questo tempo. E perché sei tornato, e cosa vuoi da me, e cosa pensi di me.”

Si voltò verso il fratello. Molto probabilmente, aveva appena perso a quel furbo gioco di sguardi e di allusioni. La sua diplomatica pazienza aveva lasciato posto a uno sguardo contrariato. Vilya, interdetto, sbatté le palpebre.

“Beh… è normale, sei nato solo diciassette anni fa, datti tempo, ti pare?”

“Sì, ma” l’asprezza sul viso di So’o si accentuò e lui si sporse verso il drow e alzò la voce, che vibrò “perché continuate a trattarmi come se non potessi capire?!”

Vide il fratello incassare la testa nelle spalle e premere la nuca sulla parete, poi inasprire l’espressione e serrare le labbra, con la smorfia di chi ha assaggiato un sapore amaro sulla lingua. Il drow abbassò lo sguardo sul proprio piatto. Cercò invano di prendere respiro dalla sottile rabbia del fratello più piccolo. Ormai la sua insistenza aveva fatto breccia in lui, e ne aveva turbato i pensieri. Prese dal piatto il pezzo di pane che aveva mollato poco fa e lo avvicinò al viso.

“Io… non sono la persona migliore per spiegarti.” Ammise, rivelando i suoi pensieri. “L’ultima volta che ho provato ad avvicinarmi, è finita abbastanza male.”

Mise in bocca il pezzo di pane ripieno, e una volta riempitosi la bocca prese a masticare senza fretta. So’o sollevò l’attaccatura delle sopracciglia in un moto scoraggiato mentre scrutava il fratello. La rabbia venne sostituita da un colore più caldo. Indietreggiò con il viso, raddrizzò la schiena e tornò più composto.

“Ecco…”

Abbassò lo sguardo alla mano destra che stringeva il bordo della cassa. Ci si teneva in modo un po’ convulsivo e ci strofinava piano i polpastrelli mulatti. I lunghi capelli biondi erano scivolati morbidamente sulle sue guance, e la frangia gli coprì un po’ le palpebre. Così gli impedì di spiare l’uomo che aveva accanto.

“È… partita male. Diciamo che non siamo i migliori a iniziare un rapporto tra fratelli… va bene?”

Il drow a bocca ancora piena non poté trattenersi e si lasciò sfuggire un rumoroso sbuffo beffardo mentre si voltava dall’altra parte, molto divertito. Ma So’o insistette, anche stavolta.

“Tu vuoi essere mio fratello?”

Vilya tornò verso il fratello per incrociare i suoi occhi a quella domanda, come se avesse sentito il dovere di farlo. La determinazione negli occhi del più giovane spense il ghigno che il moro aveva sulle labbra. So’o doveva aver impresso l’inflessione che voleva, abbastanza da richiamare la sua attenzione. O forse gli aveva fatto la domanda giusta, perché vide gli occhi del drow perdersi oltre lui in una sfumatura più intima.

“Insomma…” chiarì So’o “solo, mio fratello?”

In due lenti movimenti di mascella Vilya finì di masticare il boccone, inghiottì e replicò a voce sommessa.

“… sì.”

Ammise. I gomiti gli scivolarono dalle ginocchia e si raccolsero sul proprio grembo in una posa più umile, lasciando scivolare gli avambracci tra le cosce senza malizia. L’impacciatezza che si insinuò nel mezzodrow dalla fronte corrugata gli fece sbattere le palpebre. La sfacciatezza che Vilya esprimeva dalla postura, alla voce, alle sue risposte, fino allo sguardo, si era assopita e aveva lasciato posto a quello che sembrava senso di colpa.

“Mi dispiace per quello che ho fatto. Non volevo farti del male. Ho fatto una cazzata.”

So’o sondò il suo sguardo, poi si smosse. Si tirò indietro verso la parete e piegò le gambe che poggiarono le scarpe sul legno. Si raccolse le cosce al petto e le cinse con le ginocchia in una stretta. Abbassò i limpidi occhi verdi. Si concesse di riflettere sulle parole di Vilya. Poi li riportò sul drow. Vilya rimase a guardare quegli occhi. So’o non sapeva dire bene cosa esprimessero, ma, anche se lontana, sentì una connessione.

“Ci riproviamo?”

“Mi piacerebbe molto.” Una volta raggiunto quel tono basso la voce di Vilya era calda, carezzevole. Rassicurante, per assurdo, per quanto fosse quieta. Il fratello si sentì più leggero. I suoi muscoli si rilassarono un po’ di più.

“Però… devi promettermi una cosa.”

Riflettendo chinò il capo per poggiare la tempia su un ginocchio, in un lento strofinarsi distratto, rannicchiandosi ancora di più contro le cosce, in un movimento che mostrava il viso al moro. I capelli biondi gli scivolavano lungo la guancia più scura su cui facevano contrasto. Sbatté le palpebre piano, sovrappensiero, e tornò a guardare lui.

“Che mi posso fidare di te. Che non cercherai qualcos’altro da me.”

Rialzò il viso. Trattenne gli occhi sul drow. Esitò, ma proseguì poco dopo. Doveva essere chiaro, anche se non avrebbe voluto tornare su quell’argomento.

“Siamo solo fratelli.”

Vilya sosteneva lo sguardo di So’o mentre inspirava dalle narici; il petto gli si sollevò piano. Poi abbassò lo sguardo, sollevò il mento e annuì. Bastò quel gesto, molle comunque spiegarsi meglio. Si tirò su con il braccio sinistro e si fece più dritto. Scrollò il capo.

“Lascia perdere quello che è successo… è stato stupido.” Lo fissò dritto negli occhi. So’o non l’aveva ancora visto così serio.

“Questo è importante per me. Se me lo permetti ancora, voglio essere tuo fratello.”

Il mezzodrow sondò attentamente il suo sguardo.

“Te lo prometto.”

Era sincero.


 
*



Imesah avanzò di qualche passo e sentì la porta richiudersi alle sue spalle. Si prese del tempo per controllare la stanza e studiare gli indizi sotto la luce di una grossa candela che era stata lasciata accesa sul comodino. Letto sfatto: Azul non aveva avuto voglia di sistemarlo. Scrivania in disordine: doveva aver giocato con le sue cose. Le tende erano tirate. Da quell’indizio, Imesah si aspettò che qualsiasi cosa avesse fatto mentre lui non era lì, doveva essere sulla soglia dell’illegale. Allora il Cavaliere si rilassò e fece un altro paio di passi, portando le mani a slacciarsi la cintura che ne allentò i pantaloni. Abbassò la guardia. Aveva la sensazione che qualcosa di sinistro fosse rimasto dal passaggio del compagno, ma non era insolito. Si disse che si stava sbagliando e che era solo per via di come aveva lasciato la stanza. Si sfilò la cintura dalle fibbie dei pantaloni e la lanciò svogliato sul letto, quando sentì all’improvviso uno schiocco nello stesso momento in cui la cintura cadeva sul materasso.

Non era stato fatto dalla cintura. Assomigliava al rumore di una lingua che schizza sul palato. Solo che aveva prodotto un’evidente eco… e non proveniva da quella stanza, ma da una adiacente. Dalla limpidezza del suono era una stanza collegata alla sua da qualcosa, come una porta.

Lo schioccò si ripeté, pigro. La seconda volta che arrivò alle orecchie di Imesah, gli fu chiaro che proveniva dal suo bagno. La parete del bagno era di fronte a lui, in fondo alla stanza, a cui si accedeva da sinistra con una porta trasversale a quella dell’ingresso. Posò gli occhi sulla porta. Vide che l’anta era aperta.

Sollevò piano il mento mentre sentiva una stilla di adrenalina iniziare a circolargli nel corpo. Sapeva che quello era un richiamo. La cosa che si trovava nel suo bagno sapeva che lui era lì. Inutile nascondersi: gli stivali si smossero dal pavimento e dopo un’iniziale esitazione fecero il primo cauto passo verso la porta. Camminò piano, con le orecchie drizzate per carpire qualche altro rumore. Gli sembrò di sentire un suono… umido, se si poteva dire così. Ma non si ripeté, e lui non capì di cosa si trattava. All’imbocco della porta si voltò verso di essa e guardò davanti a sé. Il fondo del bagno era vuoto – non c’era nessuno. I lati gli erano nascosti, era troppo distante dalla porta per spiarvi. A sinistra c’erano i servizi, mentre a destra, per sua esperienza, sapeva che il suo bagno ospitava una vasca ovale abbastanza grande. A meno che qualcosa non fosse cambiato nelle ultime dodici ore, per intendersi. Abbassò lo sguardo: una grossa bacinella giaceva a metà strada tra lui e la parete opposta.

Era sporca di sangue.

Attirò del tutto la sua attenzione. L’umano mosse il piede destro in avanti e fece un passo, poi un altro. Guardò a sinistra. Tutto normale… no, in realtà no: dal lavabo gocciolavano altre gocce di sangue. Ma non era denso: quelle tracce che solcavano la porcellana erano state mescolate con l’acqua. Pianò girò la testa verso destra. La vasca era nascosta da un drappo leggero. Agli angoli del bagno, i candelieri illuminavano la stanza con la luce tremolante delle candele. Non potevano far trapelare nessuna sagoma dall’interno del drappo, ma Imesah sapeva che c’era qualcosa lì dentro.

Inspirò dalle narici e sentì l’odore di sangue afferrarlo. Serrò le labbra. Si voltò completamente verso la vasca. Lo schiocco di prima non si era ripresentato, ma sentì ancora una volta quel suono umido. La vasca doveva essere piena. Avanzò, di un passo. Poi di un altro. Alzò la mano sul drappo: al centro si apriva in due, sebbene avesse il lembo di destra poggiato sull’altro. Prese quel lembo e lo scostò lentamente. Guardava di fronte a sé, ad altezza uomo. Non vide niente. Lentamente, lo sguardo scese verso la vasca. La prima cosa che vide fu il sangue. La vasca era piena di sangue fino a quindici centimetri dal bordo. Era stato mescolato all’acqua. Per questo non era denso, ma più liquido e trasparente. Si poteva guardare attraverso di esso. E attraverso esso lui vide una coscia che emergeva dall’acqua in un ginocchio molto scuro, che si piegava per poi distendersi. L’acqua di sangue, prima limpida e calma, si increspò per tutta la superficie. Tutto il resto del corpo di quella cosa si stava alzando. Non fece quasi rumore mentre si alzava ed emergeva dal liquido rosso scuro, che ne vomitava il bacino, poi le lunghe cosce e gli avambracci. Imesah risalì lungo esso, seguendone il fianco gocciolante con lo sguardo finché non incrociò gli occhi di serpente della familiare creatura fissi su di lui.

La bestia sapeva dall’inizio che lui era lì. Lo aveva tenuto d’occhio da quando era entrato nella camera. E lo aveva attirato nella sua tana. E adesso lo fissava. Il suo petto magro si abbassava piano, doveva stare espirando. Imesah riuscì a sentire il sospiro che la creatura stava trattenendo nella bocca e sfogando dalle narici. I lunghi capelli grigi erano stati tinti dal sangue, ed erano rossi. Sulla sommità però il sangue era stato lavato via dall’acqua stessa e avevano quasi ripreso il loro colore naturale. Gocciolando dalle mani e dai capelli provocò di nuovo quel suono umido, molto più chiaro di prima. Era in piedi, di fronte all’uomo. Imesah non riusciva a distogliere lo sguardo dai suoi enormi occhi da rettile. Alcune ciocche di capelli erano appiccicati al viso e lo rigavano accanto agli occhi, una in mezzo ad essi. Quelli sbatterono le palpebre piano, e quando si riaprirono puntavano il ventre del Cavaliere. Sbatterono di nuovo le palpebre e tornarono a fissare lui. Era un ordine.

Imesah si portò le mani ai lembi della casacca e se la levò di dosso, insieme alla maglia che portava sotto. I muscoli serpeggiarono oltre la pelle chiara mentre lui sollevava le braccia a mostrare il petto e le riabbassava. Si sbottonò la patta dei pantaloni e li fece scivolare via insieme alle mutande. Caduti a terra, i piedi li scavalcarono. Azul era immobile. Abbassò lo sguardo di nuovo al suo ventre. Poi saettò sulla sua faccia. Da un minimo movimento, quasi solo suggerito, il suo corpo portò indietro un piede. Pressò metà del suo peso sull’intera pianta e poi iniziò a indietreggiare con l’altro. Quando ebbe poggiato di nuovo entrambi i piedi, Imesah avanzò. Fece due lenti passi verso di lui, poi scavalcò la vasca. Immerse la prima gamba, poi la seconda, e si ritrovò a condividere la vasca di sangue con la creatura a pochissimi centimetri da lui. Lo guardava dall’alto. La faccia animalesca del drow che lo fissava era ancora più sinistra da quell’angolazione.

D’un tratto sentì qualcosa di bagnato avvolgergli il polso. Voltò il capo per guardare e scoprì che era la sua mano. Il suo polso si macchiò del liquido rossastro. Azul lo tirò. Verso il basso. Continuando a fissarlo. Imesah si fece trascinare giù, e quando iniziò a calare il drow fece lo stesso. Lo mollò una volta che i due erano entrambi seduti nella vasca. Lasciò che Imesah vi si accomodasse dentro, senza perdere il contatto con i suoi occhi verdi. Il Cavaliere si sedette con le gambe piegate e dischiuse e le ginocchia che fuoriuscivano dal liquido, le mani all’esterno delle cosce. Azul, davanti a lui, si era rannicchiato con le gambe al petto e le braccia sulle gambe.

La bestia aspettò che lui si fosse sistemato. Aspettò che lui incrociasse il suo sguardo. Era così ipnotico che vi si perse dentro un’altra volta. Finché non ebbe la sensazione che il resto attorno a lui si muovesse. Allora si accorse che gli occhi di serpente si erano fatti più grandi, o meglio, più vicini, e uno sciabordio dell’acqua gli disse che Azul si stava protendendo verso di lui. E in effetti sentiva il calore del corpo di Azul accarezzarlo sotto l’acqua mentre appoggiava le mani sul fondo della vasca oltre il bacino dell’umano e strofinava il bassoventre sul suo bacino. Finì per far combaciare i loro bacini in una lenta, intensa carezza mentre passava sopra e lo scavalcava. Si fermò su di lui, a cavalcioni. Imesah trovò le sue cosce nell’acqua. Le strinse nella mano, saggiandone i muscoli. Risalì lentamente, massaggiandoglieli con i polpastrelli premuti, che si ammorbidirono quando arrivarono alle anche del drow.

Lui mollò la vasca con le mani. Sporto in avanti, trasferì il resto del corpo su di lui, che era poggiato all'indietro, premendosi sulla sua pancia con il proprio corpo. L’erezione della creatura si tese rigida tra loro due. Le mani trovarono i fianchi di Imesah e risalirono piano da lì verso la porzione di pelle che fuoriusciva dall’acqua, lungo il costato e poi sul petto. Lo saggiò con sottili dita avide che ne studiavano le forme come se fosse la prima volta. Inclinò il capo di lato con la stessa lentezza. Il suo respiro caldo venne soffiato sulle labbra di Imesah da quelle che ora si erano dischiuse. L’umano poté sentire il suono del suo respiro che lo lasciava, intenso, e poi la gola che inspirava altra aria come se cercasse di risucchiare anche lui dentro di sé. Le palpebre calarono in giù fino a rendere gli occhi due umide fessure dorate. Imesah riuscì a staccare gli occhi da quelle, per guardare il naso storto della cosa e più in giù le sue labbra carnose da cui spuntavano i denti appuntiti. Si accorse che Azul stava fissando la sua bocca. Lo vide chinarsi su di essa, e socchiuse gli occhi nel sentire le sue labbra sulle proprie. Si lasciò andare al bacio, piegando piano il capo all’indietro. Azul cercò subito di approfondire il bacio, dischiudendo di più la bocca e infilando la lingua nella sua.

“Mh…” Mormorò Imesah mentre lo accoglieva e rispondeva a sua volta con la lingua. Piegò il capo di lato e lasciò che Azul lo rimbeccasse e torturasse con i suoi movimenti del capo e della lingua, lenti ed eccitanti. Il bacio sapeva di sangue. Imesah lo assaporò tutto. Sentiva l’erezione di Azul pulsare sul proprio ombelico, protestando rumorosamente. Strinse man mano più forte le mani sulle sue anche. Azul, in risposta, si inarcò così da strofinarsi l’erezione su di lui.

“Ah…” La creatura sembrò emettere un verso quasi umano di soddisfazione. Non era precisamente una parola. Era un espirare più forte tra i vari respiri che gli muovevano il petto e che riempivano, con il loro rumore, il bagno, echeggiando tra le pareti. Imesah, tenendolo con le mani, lo incoraggiò a risalire verso l’alto. Le anche strette della piccola bestia si lasciarono guidare in quel movimento e le strapparono un altro verso di piacere. La fece ridiscendere. Staccò la bocca da lui, presa nei sospiri eccitati, sospiri non umani, raschiati. Imesah aprì di poco gli occhi e lo guardò scendere su di lui e godere del contatto.

Le mani scure della bestiola risalirono sul collo dell’umano. Vi si avvolsero, minacciose. Lo strinsero. All’inizio piano. Poi più forte mentre, da sola, tornava a strofinarsi su di lui, risalendo, come se avesse scoperto quel gioco piacevole. Imesah si sentì il respiro più corto. Piegò il capo all’indietro, offrendo il suo collo alla totale mercé delle sue mani e dei suoi denti, chiuse gli occhi ed emise un roco gemito di piacere. Sentiva chiaramente il proprio pene eretto irrigidirsi tra le gambe.

“Mmmh..” Quando Azul chiuse la bocca, il suo respiro continuò a fare rumore in modo più nasale. Strinse appena di più il collo di Imesah. Gli fece sentire mozzato il respiro. Si chinò sul so collo e succhiò la pelle sotto la mascella. “Ah…” sospirò accanto al suo orecchio. Poi lo lasciò andare.

Imesah riprese a respirare, con un respiro tremolante che gli gonfiò il petto. Azul fece scivolare le dita tra i capelli rossi del Cavaliere e strinse la presa, per poi tirare piano giù. Imesah si lasciò andare totalmente alle manipolazioni della creatura. La sua testa scese giù finché non fu immersa nel sangue e nell’acqua.

“Mh…” Un altro verso di soddisfazione uscì, a bocca chiusa, da Azul. Lui chiuse gli occhi e si drizzò sul corpo di Imesah, a cavalcioni. Dischiuse bene le cosce e si strofinò con le natiche sul suo corpo. Provò a scendere quanto più poteva. Le gambe di Imesah si distesero piano, e lui poté incontrare la sua erezione. Intanto, iniziò a pressare con le mani sul suo petto. Il naso del Cavaliere si immerse nell’acqua e vi sparì. Ma Azul non ci fece caso. Si morse il labbro inferiore con i denti appuntiti e assaggiò la durezza del sesso che aveva sotto le natiche, strofinandovisi discinto. Il sesso era terribilmente duro, per il piacere della bestia. Sentì distrattamente il rumore di bolle d’aria uscire dall’acqua. Piegò il capo all’indietro e continuò a strusciarsi, ma poi smise di fare pressione con le mani sul suo petto e si sporse di nuovo in avanti. Le mani scivolarono sulle spalle e lo tirarono a sé con dolcezza. Imesah riemerse dal sangue con la faccia arrossata da quel liquido e i capelli impregnati.

“-Ah!” Tirò una boccata d’aria, di nuovo il suo petto prese ad alzarsi ed abbassarsi. Azul non gli diede tregua. Gli ordinò di alzarsi a sedere, tirandolo piano, e Imesah lo assecondò senza che l’altro insistesse o imponesse forza. Si faceva manipolare sotto i tocchi delle sue dita sottili. Azul si protese addosso a lui. Fece aderire bacino, ventre, petto, e poi gli catturò le labbra in un nuovo bacio impedendogli di respirare. Imesah fece scorrere un braccio muscoloso, grande il doppio del suo, attorno ai fianchi del drow e lo strinse a sé con sfacciatezza per sentirlo ancora meglio. Azul si inarcò nelle sue braccia e gemette nella sua bocca. La mano sinistra invece scivolò oltre l’anca e gli afferrò una natica. Azul si strinse maggiormente al suo collo e premette l’erezione contro la sua pancia. Imesah premette le palpebre con forza nel sentire il proprio sesso venire invaso da una scarica di calore.

Premette con un dito sullo sfintere della bestiola e lo torturò, massaggiandolo, per un po’ di tempo. Lei reagì afferrandogli i capelli rossi e gemendo nella sua bocca più volte. Lui la penetrò mentre era immersa nel misto di acqua e sangue. Il dito le scivolò dentro, mentre la creatura si premeva contro il corpo dell’umano e staccava le labbra dalle sue per emettere un grido poco umano. Lui continuò ad affondare dentro di lui con il dito, e Azul prese a muoversi su e giù, facendo scorrere le unghie delle dita sulle scapole e la schiena chiara dell’uomo, rigate dal sangue che gli colava dalle spalle e dai capelli pregni.

“Ah…” Il dito di Imesah lo abbandonò. Azul sembrò calmarsi. Imesah si staccò appena da lui e cercò di guardare la sua faccia che, sotto la luce di quelle candele, quella sera, sembrava più quella di un naga. Era una faccia posseduta dagli istinti e segnata dal piacere. Si scostò da lui. Si chinò fino a immergere la testa nel sangue. Ne fuoriuscì e cercò la bocca di Imesah. Quando lui lo accolse, riversò il sangue nella sua bocca. Imesah ingoiò il sangue e poi si lasciò baciare, così che Azul potesse sentire il sapore del sangue sulla sua lingua. Quando si staccò, la bestia emise un altro verso soddisfatto.

Si sedette di nuovo su di lui. Unì le mani per raccogliere un po’ del liquido, e le sollevò sulla testa di Imesah. Il Cavaliere fissava lui, in viso. Azul invece guardava il liquido scivolare oltre le mani che aveva separato e scorrere sulla faccia di Imesah, creando rivoli rossi tra i capelli e sui lineamenti del viso. Imesah chiuse gli occhi e si soffermò a goderne insieme a lui.

Piano, le braccia di Azul sparirono di nuovo nel liquido della vasca, rilassandosi. Azul fissò le sue palpebre. Imesah le aprì, e incrociò i suoi occhi. Il drow si sporse di nuovo verso di lui e si aggrappò come prima al suo collo. Poggiò i denti appuntiti al suo orecchio e prese a tirarlo e masticarlo piano. Imesah venne preso da un brivido di piacere. Appoggiò la schiena all'indietro sulla parete della vasca. Lo afferrò per le anche e se lo sistemò di nuovo addosso, per bene. Azul era così leggero e debole rispetto a lui che era davvero semplice per lui manipolare il suo corpo. Si guidò l’erezione sull’apertura di Azul e iniziò a penetrarlo affondando lentamente dentro di lui.

“Nh!” Il drow esclamò un verso di sorpresa e si irrigidì contro l’altro, protendendo il bacino. Si fece penetrare completamente, poi lasciò che uscisse per metà per poi spingersi di nuovo in fondo. Sentì il bassoventre dell’umano aderire alle sue natiche senza lasciare più spazio al sangue.

“Mh!” Soddisfatto, Azul prese ad assecondarlo. Salì con i fianchi mentre lui usciva, scese mentre lui lo prendeva di nuovo. Imesah poggiò la testa e le spalle al bordo della vasca e ad occhi chiusi e labbra dischiuse gemeva di piacere e lo muoveva su di sé. Azul continuò a tenersi addosso al suo torace con il proprio corpo e peso, ma scendeva e saliva per sentire l’altro muoversi dentro di sé. Il ritmo si fece più intenso, e la creatura si alzò a sedere su di lui. Iniziò a muoversi su e giù da solo con le braccia che si tenevano sugli addominali dell’umano. I movimenti affiatati smuovevano e agitavano il liquido della vasca, che strabordava quasi ad ogni affondo di Azul che si impalava sopra l’altro. La bestia non se ne curava. Continuava a muoversi su e giù con una fluidità disarmante, sentendo l’erezione dell’altro riempirlo e scorrergli dentro ed emettendo versi di soddisfazione.

Sentì la mano di Imesah avvolgersi attorno al suo pene e masturbarlo. Iniziò a muoversi con più foga. Quando le spinte di reni dell’umano si fecero sentire ancora di più lo fecero gemere forte, e gli fecero strizzare gli occhi.

“Nh!” Esclamò, e tutto il suo corpo fu posseduto da un violento fremito.

“Mh! Mh! Hn…” Continuò ad assecondare i colpi di Imesah e a farsi penetrare nel ritmo serrato e nella foga che avevano intrapreso, e quando sentì di stare arrivando al culmine si strinse tutto e pianse con un singulto e due lacrime a impreziosirgli le ciglia.

Un guaito sopraffatto lo colse e lui si irrigidì sopra l’altro. Le natiche dischiuse rimasero ferme a farsi possedere dalle ultime spinte mentre veniva nella mano del compagno. Con poche altre spinte sentì il pene dell’umano pulsargli dentro e venire dentro di lui.

“Nh!” Esclamò di nuovo, lasciando che i muscoli si rilassassero improvvisamente per godere dell’orgasmo. Si accasciò sul corpo dell’altro e chiuse gli occhi. Imesah rimase dentro di lui e, con la nuca poggiata sulla vasca, si assopì sotto la bestia.


Azul non seppe quanto tempo era passato, ma sapeva che era ancora buio. Aprì gli occhi, coperti da una patina di disorientamento. Rimase a fissare la vasca sporca di sangue per diversi minuti.

“Imesah.”

Il Cavaliere aprì gli occhi. Dopo qualche secondo si svegliò, e sbatté le palpebre. Abbassò appena lo sguardo. Azul era più giù, con la guancia sul suo petto, non poteva vederlo.

“Avevo paura.”

Gli sussurrò il compagno. Imesah sbatté di nuovo le palpebre, senza che il resto della sua espressione cambiasse. Se era perplesso, nessuno l’avrebbe potuto intuire.
Il silenzio riprese possesso del luogo per un altro minuto prima che Azul proseguisse. La sua voce era umana, stanca, e calda.

“Non sapevo cosa fare. Non volevo affrontarti. E non volevo farti arrabbiare. Così non ho fatto nulla. Proprio nulla.”

Imesah lo sentì scostarsi dai peli rossi del suo petto per strofinarci un poco la faccia.

“Ed è andata male.”

Il Cavaliere fissò intensamente l’attaccatura tra la parete di fronte e il soffitto. Dopo trenta secondi la sua voce echeggiò sulle pareti del bagno.

“Nell’occhio del ciclone, stare fermi non è mai una buona idea. Qualsiasi cosa, falla.”

Lo sentì strofinare la testa sulla propria pelle mentre annuiva.

“E poi, lo sai.”

Proseguì Imesah.

“Saab adora le scelte.”




 
Azul e un suo ex amante mezzodrow, Aiden.

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Capitolo 8
*** Cat in the Hat ***



Ciao a tutti! Vi avverto che in questo capitolo si trovano scene censurate per via del regolamenti di EFP per quanto riguarda l'incesto. Troverete la scena non censurata su questo link. Capirete il punto dove è stata fatta la censura perché presenta tre asterischi rossi, come questi: ***
Per il resto vi avviso che, essendo Vilya un personaggio davvero pessimo, nella prima parte troverete linguaggio spinto, pessimo gusto e sesso etero. Vi auguro una buona lettura <3





 
Cat in the Hat.








Contrariamente a quanto potesse sembrare, Vilya credeva in quello che aveva detto. Era vero che provasse attrazione per So’o, ma se si fosse fatta una lista di tutte le persone da cui Vilya era attratto si sarebbe passato un intero giorno solo a farne la bozza. C’erano tante persone che Vilya poteva portarsi a letto, ma solo un fratello per lui a questo mondo. E quel fratello era So’o.

C’erano altri fratelli al mondo, che però non erano fratelli di Vilya.
Quelli, poteva scoparseli.

Insomma: è questo che aveva capito dalle parole di papà, settimane fa. Non aveva detto ‘non farti i fratelli di nessuno’. Aveva detto ‘non farti tuo fratello’. No? Ecco. Non si stava facendo suo fratello. Si stava facendo il fratello di qualcun altro.
Con quel qualcun altro.


“Siete sicuri che resteranno via?”

Vilya entrò non appena la porta venne aperta, subito dopo la ragazza. Mani poggiate sui fianchi, naso all’insù per aria, osservava la stanza che non aveva mai visto prima. Era una cameretta adorabile: si trovava al piano superiore del loro appartamento, costruito in solido legno come il resto del palazzo. Non era affatto strano: Vilya aveva notato che gli elfi tendevano a scegliere i palazzi di legno e quelli più vicini ai giardini della città.

“Sì-” rispose la ragazza, con tono affannato mentre smuoveva un pigro ammasso di indumenti dal letto fino alla sedia poco lontana. Tipico di lei. Tirò uno sbuffo seccato. “Sono andati a commerciare alla Foresta Incantata. Ne avranno per un bel po’ con quei bruti degli elfi dei boschi.”

“Anche solo per capirsi a vicenda.” Esordì il fratello, entrando nella stanza con un movimento elegante.
Seosel era un ragazzo alto e snello. Aveva i tratti della sorella, e la sua corporatura minuta gli permetteva di assomigliarle ancora di più. Portava lunghi capelli azzurrini, e sotto i vestiti umili ma dal bel taglio elfico affiorava una pelle perlacea che rifletteva la luce più intensamente di quella umana. Distese le labbra in un sorriso ambiguo, che si rifletté nel taglio suadente dello sguardo.

La gemella, Siselen, era più bassa di lui ma ugualmente piccola. Di costituzione magra, leggera, con un po’ di carne in più sulle cosce e sul bacino, insieme ai muscoli, che le davano un’aria meno mascolina. La maglia rivelava un seno accennato, forse per via della sua età. I gemelli erano dei ragazzi, e Vilya considerò che avrebbero potuto svilupparsi ancora di più nei successivi dieci anni. Aveva capelli lisci e lunghi come quelli di Seosel ma erano invece biondi, e la sua pelle era di un rosa scuro molto simile a quello di un umano. Sul suo viso ferino albergava quasi sempre un’espressione annoiata oppure seccata, come quella di adesso.

Vilya diede un’occhiata all’angolo di stanza opposto. Una finestra aperta lasciava entrare la fresca brezza mattutina. Alcuni raggi di sole erano filtrati dall’albero che si affacciava proprio sopra, ma ciò che di essi riusciva a sfuggirvi si proiettava caldo e luminoso nella stanza. Da fuori si riuscivano a sentire i cinguettii degli uccelli mescolarsi al brusio del mercato e delle chiacchiere, non distanti dal palazzo.

Per un momento la finestra venne nascosta dalla figura di Seos che si avviava sul letto della sorella. Vilya si ritrovò a piegare le labbra in un sorrisetto compiaciuto.
Come si diceva: il mattino ha l’oro in bocca.

Si avvicinò anche lui al letto e Siss si sedette accanto al gemello, ad un lato del letto. Vilya si sentiva un ragazzo fortunato: non capitava spesso di trovare due ragazzi così carini disposti ad assaggiarlo insieme. No, spesso c’era della gelosia – per non parlare di quando si trattava di fratelli. Passò un momento a osservarli: rispetto al corpo muscoloso e scuro di Vilya, il corpo di un agile guerriero, o meglio, rissaiolo da locanda, i due erano ben diversi. Stessa cosa per i lunghi capelli scombinati del drow, che erano neri come il vero buio. Vilya lasciò andare i fianchi. Seos aveva ancora sulle labbra quel sorriso ambiguo. Vilya avrebbe voluto strapparglielo dalla faccia in un modo che gli sarebbe piaciuto molto.

“Allora.” La voce calda di Seos raggiunse le orecchie appuntite del drow. “Spogliati.”

Alle parole di Seos, Siss piegò le labbra in un sorrisetto furbo “Sì. Facci vedere quanto è grosso.”

Seos rivelò i denti e lanciò un’occhiatina languida alla sorella, che la ricambiò. Anche Vilya sorrise e all’esortazione dei fratelli si piantò con le gambe un po’ larghe. Fece scivolare le mani fino alla patta dei pantaloni e senza fretta sfilò tutti i bottoni della patta dalle asole per rivelare ai due ragazzi il pene quasi del tutto a riposo. Era un po’ più grosso: le parole dei gemelli avevano iniziato a stuzzicarlo. Si tirò giù i lembi del pantalone abbastanza per snudare fieramente le anche, mentre Siss e Seos gli guardavano il pene e inclinavano le loro testoline.

“Non è molto grande.” Obiettò Siss.

“Mh.” Mormorò Seos, le labbra premute e la fronte corrugata. Chiuse gli occhi e scosse piano il capo. “Mi deludi, Vilya. Avevo saputo che i drow erano molto dotati.”

Vilya si beffava dei commentini dei due fanciulli e non aveva sepolto il sorriso che troneggiava sulle sue labbra. Anzi, soddisfatto e contento si tenne un poco sporto per offrirsi ai due ragazzi.

“Perché non ci giochi?” Il drow sfidò Seos, con tono deliziato. “Potrebbe sorprenderti.”

Seos aprì gli occhi per inchiodarli nei suoi. Era sempre così, con gli elfi maschi! Rivalità. Piacevole rivalità… prima che iniziassero a succhiargli il cazzo.
Invece con le ragazze era più semplice: eccola, la sentì subito dopo. La mano calda di Siss che aveva iniziato ad accarezzarlo e a stringerlo tra le dita. Vilya premette le labbra e trattenne in gola le fusa di piacere. Abbassò gli occhi blu sulla mano della ragazza, che giocava con il suo pene e lo accarezzava. Lei aveva l’aria curiosa di un gatto che trovava un nuovo gioco: non aveva la malizia del fratello.

“Vediamo… come funziona questo coso?”

Man mano che lo maneggiava, il pene di Vilya si ingrossò fino a raggiungere una durezza che lo sollevò dritto verso la faccia della ragazza – una faccia troppo lontana per poterla minacciare. Siss indietreggiò e si voltò verso Seos, che ricambiò il suo sguardo.

“Ecco, vedi? Ora è duro.”

Tornò all’erezione, che teneva in una stretta leggera tra le dita. Le sue carezze si fecero presto più intense.

“Bello grosso, lo volevi così vero?”

“Hm.” Fu la risposta contrariata di Seos, con gioia di Vilya. A occhi chiusi e piegando il capo all’indietro il drow esalò un sospiro appagato, che gli uscì roco e sensuale dalla gola. Siss continuò a giocare con il suo pene, masturbandolo molto piano. Era una ragazza in piena esplorazione. Per fortuna, Vilya era certo che quello non fosse il suo primo pene e neanche il secondo. Ad un certo punto sentì una seconda mano accarezzargli i testicoli, più in basso. Li racchiuse nel palmo della mano e iniziò a massaggiarli.

“Gli piace anche così.” Sentì dire la voce di Seos, sommessa, alla sorella. Vilya emise un mormorio compiaciuto. Il suo respiro si appesantì dall’eccitazione. La mano di Seos intensificò le carezze e così anche Siss, dopo che il fratello le ebbe detto di andare più veloce. “Così?” Aveva chiesto Siss, e Seos doveva aver annuito. Vilya riportò il viso in basso per controllare. Siss stava fissando la sua erezione, e vedeva il glande inturgidirsi sempre di più e farsi umido sulla piccola apertura. Anche Seos lo studiava, ma molto più riflessivo. “Posso leccare?” Sussurrò lei al gemello, ma non attese la risposta. Si sporse verso il glande e tirò fuori la lingua, piatta, e portandosi il pene davanti passò la lingua sulla punta, lì dove era bagnato. Vilya si fece sfuggire un roco gemito languido, e Seos guardò Siss. “Di che sa?” Chiese a lei. Vilya si rese conto, con ilarità, che i ragazzi stavano esplorando nuove frontiere del sesso interrazziale alla scoperta dello sperma di drow. Ah, che divertenti i ragazzi. Lei si passò la lingua sul palato, e poi si strinse nelle spalle. “Il solito.” Rispose. Diede al glande un bacio che emise un piccolo schiocco. “Mh.” Gemette Vilya a quel contatto, con un sorriso compiaciuto sulle labbra. Lei continuò a masturbarlo. Fu Seos a fermarsi per primo. “Facciamolo stendere.”

“Oh, sì.” Rispose Vilya gasato, smuovendosi subito. Si strattonò i pantaloni e in poco quelli gli scivolarono di dosso. Inutile dire che quello fosse il suo unico indumento. Si distese supino sul letto e ragazzi non tardarono a ricoprirlo con i loro corpi. Erano caldi e morbidi attraverso la stoffa. Con ogni braccio il drow cinse i fianchi di un gemello e adagiò la nuca sul cuscino per poi chiudere gli occhi in un’espressione beata. Sentì i primi umidi baci bagnargli il collo. Piegò il capo all’indietro per porgerlo ai due ragazzi e iniziò a strofinare le dita sui loro fianchi, da sopra la stoffa, languido. “Mh…” Siss soffocò un verso languido ed eccitato sulla pelle scura del drow.

Come due cuccioli i ragazzi succhiavano dal suo collo e scendevano man mano lungo il suo corpo. Vilya sollevò il petto in un respiro profondo, che esalò con un verso estasiato e insieme frustrato. Sentì la bocca di Siss bagnargli il petto, mentre Seos aveva racchiuso le labbra attorno al suo capezzolo per poi leccarlo lascivamente. “Uh…” Gemette Vilya, piegando il capo da un lato. “Ragazzi… così mi sciogliete come un cubetto di ghiaccio…” Siss emise uno squittìo, un risolino divertito e compiaciuto. “Ti sciogli già?” Mormorò la voce sensuale di Seos, prima che la sua bocca calasse lungo il costato. Questo rizzò i capelli di Vilya e lo fece gemere di nuovo nel fargli capire che la bocca di Seos si sarebbe trovata presto attorno al suo cazzo.

Ma Siss lo fermò.
“No.” Premette la mano sulla spalla del fratello. “Lo voglio io quello.”
Seos la guardò indispettito. “Tu l’hai avuto tutto questo tempo.”
“Scusami?” La voce della sorella si fece più isterico “Non ne ho uno mio, tu sì. Fatti da parte.”
“Se lo vuoi allora guadagnatelo, non faccio favoritismi alle ragazze.” Controbatté Seos.
Vilya aprì gli occhi e si ritrovò a fissare il soffitto con un sorriso beato sulle labbra. Ah… che bella, bellissima giornata.
“Non dovete litigare, ragazzi. Fate decidere me. Vi fidate di me?”
Siss e Seos guardarono Vilya. Incerti ma curiosi, annuirono.
“Bene.” Disse il drow. Lanciò un’occhiatina deliziata ad ognuno di loro. “Tua sorella ha ragione, Seos. Prima le signore.”

Mentre l’elfo sbuffava insoddisfatto, Siss spinse via il fratello e si sistemò a cavalcioni sopra la pancia del drow. “Ti faccio vedere io.” Si resse sullo sterno con le mani. Quelle del drow si posarono sulle cosce di lei, coperte dalla stoffa. La mano sinistra però gli venne scostata e Seos si infilò di fianco, risalendo finché la mano non ebbe raggiunto nuovamente la sua anca. Il braccio affusolato dell’elfo andò a cingergli le spalle, poggiato sulla sua clavicola, e steso sul fianco Seos iniziò a strofinare il muso perlaceo contro lo zigomo di Vilya, come un grosso gatto fuseggiante. Il sorriso si distese ancora più sereno sulle labbra del drow, che strinse Seos a sé per poi dedicarsi alla ragazza.

Siss guardava i due ragazzi. Si inarcò piano in avanti in un movimento sensuale. Prese la mano di Vilya e la portò alla sua maglia, per fargliela infilare sotto i vestiti. Vilya risalì e fece protendere l’elfa sulla propria mano finché le dita non sentirono le costole, molto vicino ai seni. La vide guardarlo da sopra, con la bozza di un sorriso malizioso e l’attesa negli occhi. Sentì che Seos aveva racchiuso le labbra attorno al lobo del suo orecchio appuntito. Socchiuse gli occhi in una smorfia di piacere e ridiscese apposta per strappare da Siss un’espressione delusa e farla sospirare. Si soffermò con la mano sulla patta dei pantaloni di lei.
Iniziò a slacciare un bottone, ma non poté proseguire: le carezze di Seos lo stavano distraendo troppo. Da che l’elfo aveva iniziato a leccargli il bordo dell’orecchio sensibile ora gli stava bagnando il collo con dei lenti succhiotti, e la sua mano, dopo avergli percorso con minuzia ogni centimetro del petto, aveva scavalcato la coscia della sorella e aveva cercato la sua erezione per tornare a stimolarla. Non si smentiva, il ragazzo.
“Mmh…” Vilya piegò il capo all’indietro, mostrando il collo e il pomo d’Adamo, piacevolmente affranto. Ma capì che Siss si stava muovendo su di lui e quando riaprì gli occhi si era liberata dei pantaloni. La maglia la nascondeva agli occhi dei due ragazzi, ma Vilya poté sentire il caldo bacino di lei aderire alla propria pelle. La guardò affamato e risalì di nuovo dalla sua coscia per infilarsi sotto la stoffa. Siss rabbrividì e le orecchie di Vilya la sentirono inspirare e trattenere il respiro, mentre lui, furbo, la faceva aspettare ancora, accarezzandole l’inguine con il pollice. Lei era troppo impaziente: iniziò a strofinarsi piano con le labbra sul suo ombelico, in un gemito languido.
Come se Seos fosse stato offeso da questo, il ritmo della sua mano attorno al pene di Vilya si intensificò per strappargli un verso di piacere tra i sospiri che già gli provocava. In risposta Vilya fece scendere la mano sinistra oltre l’anca del ragazzo e per punirlo gli strinse saldamente una natica, provocandogli un gemito.
Capitava, quando decideva di divertirsi con più persone. Era impegnativo: Vilya doveva concentrarsi, mentre i due ragazzini si divertivano a giocare con lui e a metterlo alle strette. Ma lui gli avrebbe fatto vedere che se li sarebbe potuti gestire. Affondò di più la mano oltre la maglia di Siss, tra le sue cosce. Sentì al tatto i suoi peli pubici. Lei fece uno scatto del bacino, non si aspettava il tocco. Vilya la abituò alle proprie carezze, iniziando a scorrere con le dita sulla vulva e a mettere un po’ di pressione per farle sentire il proprio tocco. Spiandola dalle fessure dei propri occhi la vide mordersi il labbro inferiore mentre assecondava le sue carezze con il bacino.
Seos intanto prese a strusciarsi contro la mano di Vilya. “Togliti i pantaloni.” Sussurrò il drow. Lo sentì scostarlo, per fargli poggiare poi la mano sulla sua pelle nuda. Il palmo aperto si godette il tatto della sua liscia pelle e tornò a massaggiargli la natica, che si protese alle sue carezze.
Tornando a Siss, la mano destra si concentrò sul clitoride. Lo strofinò piano, su e giù. “Mh…” Poteva vederla compiacersi delle dita che la stimolavano e lasciarsi andare ai tocchi che le facevano salire lentamente il desiderio. La lasciò per portarsi i polpastrelli di indice e medio in bocca e bagnarli. Lei si sollevò i lembi della maglia e se la levò di dosso. Il suo corpo era lungo ed elegante come si poteva intravedere già prima, con dei seni tondi e proporzionati a quel corpicino, forse un po’ più piccoli. Lo sguardo di Vilya cadde su di loro, mentre le dita, bagnate, scivolarono sul clitoride della ragazza e la fecero inarcare di nuovo. Lei abbassò il capo e premette le palpebre in un’espressione concentrata, le labbra dischiuse che sospiravano, e in silenzio lo lasciò masturbarla piano.
“Nnh…” Si lamentò Seos, sporgendosi contro la mano di Vilya. Si sentiva trascurato, e il drow non poteva permetterlo. Insinuò anche il medio e indice della mano sinistra tra le cosce del fratello, e strofinò languidamente sulla sua apertura. Seos lo aiutò, sfregandosi su e giù su di esse mentre gli baciava il petto. Ad un certo punto Vilya fece pressione sullo sfintere, costringendolo a rallentare, e cercò di entrargli piano dentro. Seos si irrigidì e gemette di un verso strutto, fermando la propria mano che masturbava Vilya. “Rilassati.” Sussurrò la voce sicura del drow, mentre le dita rinunciavano a penetrarlo. Non aveva intenzione di prepararlo con la saliva: non se lo meritava, la canaglia. Doveva farselo bastare.
Invece Siss era stata brava. L’aveva sentita scaldarsi ulteriormente sopra di sé, mentre continuava a stuzzicarla. Fece scivolare le dita giù, tra le labbra della vulva che si dischiusero al suo passaggio, e la sentì subito bagnata. Lei trattenne il respiro. Lui, con le dita bagnate, risalì un paio di volte sul clitoride, torturandola, poi in un movimento sorprendentemente fluido e languido le scivolò dentro e assaggiò la sua carne.
“Ah!” Esclamò lei, irrigidendo il bacino. Strinse i muscoli della vagina attorno alle sue dita, ma era troppo bagnata perché fossero un impedimento. Vilya iniziò a penetrarla muovendosi piano avanti e indietro. “Mh, mh…” Lei si resse sui suoi addominali e sollevò il bacino per accompagnarlo alle spinte di lui.
Intanto il drow era tornato a strofinare le dita sullo sfintere di Seos. Lui aveva imparato a rilassarsi, e così Vilya iniziò a penetrarlo con un dito. Sentì i suoi singulti reticenti e le sue braccia attorno al proprio collo, ma non gliene importò nulla e affondò dentro di lui per iniziare a stimolarlo da dentro. Piano piano, Seos iniziò a sciogliersi e ad assecondare l’intrusione con il bacino. Allora Vilya inserì l’altro dito e continuò a spingere. “Ah!” Lo sentì gemere accanto al proprio orecchio e irrigidirsi di nuovo, prima di tornare ad assecondarlo nuovamente. Aveva iniziato a fremere e ad emettere piccoli singhiozzi contro il suo collo, ma Vilya sapeva che gli stava piacendo e continuò così, concentrandosi di più sulla sorella.
Lei rispondeva con spinte secche alle penetrazioni delle sue dita e ormai stava godendo, con brevi, rochi gemiti appagati che facevano rabbrividire Vilya di piacere. Ad un certo punto lei si scostò e le dita di Vilya le scivolarono fuori. Scese più giù. Le sue natiche impattarono contro l’erezione di Vilya. La prese in una mano e tenendosi su Vilya con l’altra posizionò la punta della sua erezione all’inizio della vagina. In una smorfia concentrata scese piano su di essa, e Vilya sentì il calore e la sensazione bagnata della sua carne iniziare a scaldargli il glande.
Con un gemito di piacere Vilya spinse più forte le dita dentro Seos in un ritmo che lo fece sussultare ad ogni affondo. L’elfo obiettò con un urletto e continuò a farsi seviziare, mentre la sua erezione turgida si strofinava sulle lenzuola del letto e le bagnava di umore preliminare.
“Ahh…” Vilya si lasciò andare ad un verso ancora più esplicito quando finalmente il caldo corpo di Siss lo avvolse completamente. La sua erezione le pulsava dentro, durissima, stretta in quell’abbraccio piacevole. Vide Siss ansimare su di sé e ricambiare il suo sguardo, i capelli biondi scombinati le incorniciavano il viso, e prese a muoversi su di lui, facendolo scorrere su e giù. Lui accompagnò i movimenti dei suoi fianchi con i propri affondi. In poco tempo intrapresero un ritmo affiatato, e la stanza si riempì di gemiti. Seos stava subendo la sua punizione e si aggrappava al collo di Vilya, mugugnando di piacere e facendosi masturbare lo sfintere.

Le cosce e le natiche di Siss schioccavano sul corpo di Vilya, provocando rumori intimi e sensuali.
“B-Basta…” si permise di obiettare Seos, sfinito dalla tortura delle dita del drow. “O-ora tocca a me…”
“No!” Esclamò la sorella, tra gli ansiti, che stava cavalcando Vilya in un modo abbastanza discinto, considerò lui, per essere così giovane. Sicuramente sapeva quello che voleva, quella ragazza. “Devo venire…”
Vilya premette le labbra. Aveva la smorfia contratta dalla foga e si stava impegnando molto, in quel momento, a fare sentire alla ragazza tutta la sua lunghezza, riempiendola completamente quando lei affondava giù in quel ritmo affiatato e secco. “Va bene così, Siss…” si sforzò di apparire lucido. “Posso accontentare tutti e due. Spostati. Seos, vieni su.”

Siss obbedì con silenziosa reticenza e si scostò dall’erezione di Vilya, poggiandosi di nuovo sulla sua pancia. Si chinò per posare baci sul lato del collo di Vilya che non era stato tormentato dal fratello. Seos invece si mise dietro Siss, si sistemò sul sesso del drow e iniziò a impalarvisi sopra. Con una smorfia irrigidì i fianchi ma rilassò l’apertura già stimolata e lentamente il drow si introdusse del tutto dentro di lui. Quando l’apertura si fermò alla base del suo pene Vilya fece uno scatto del bacino per farglielo sentire, per vedere quanto gli piaceva. Seos lo soddisfò: si inarcò e gemette, fremendo.
Intanto sentiva Siss muoversi languida su di sé, strofinando i seni sul suo petto e leccandolo dietro l’orecchio. Socchiuse gli occhi, preso ma rilassato, e con le mani sulle anche di Seos lo guidò su di sé mentre affondava piano dentro di lui. “Ah…” Gemette l’elfo. Assecondava la guida del drow ma presto, preso dalla foga, intraprese da solo un ritmo affannato. A quel punto l’altro lo mollò, e bastò rispondergli con un affondo di reni dentro di lui ogni volta che l’elfo se lo faceva scorrere fino in fondo per prenderlo nel suo punto più sensibile e farlo tremare di piacere. Poté dedicare il resto delle sue attenzioni a Siss. Le accarezzava il corpo e infilò il muso sotto la sua testolina per baciarle il collo. Lei continuava a muoversi avanti e indietro, come se lo avesse ancora dentro, ed emetteva sospiri caldi sulla sua pelle. “Nh…”
 
 
***
 
***






“Una… visita, dici?”

Mastro Maud era una halfling. Aveva capelli lunghi, raccolti in ricci che potevano quasi essere boccoli se non fosse stato per il loro disordine. Erano mori e lucenti. Più giù, la sua sagomina proporzionata era racchiusa in dei vestiti comodi e leggeri da avventuriera. Un triangolo in cuoio le proteggeva il seno sinistro, insieme a due bracciali che le percorrevano gli avambracci e a delle ginocchiere. Dal basso del suo metro e venti i suoi oc
chietti castani, facendo capolino dal viso olivastro, sbattevano le palpebre, fissi sul ragazzo ben più alto che aveva davanti.

Tenendo le mani compostamente poggiate sul grembo nella sua postura educata, So’o annuì.

“Credo che sarebbe il momento per me di visitare la Foresta vicina. So cavalcare e gli elfi dei boschi sono creature amichevoli con la nostra gente. Sarebbe un modo di farmi esplorare i dintorni del Regno.”

Maud sollevò un sopracciglio scuro. Aveva le mani poggiate sui fianchi e le gambe larghe in una postura dritta e fiera. Era sempre così quando So’o la vedeva, ovvero durante le lezioni di allenamento marziale. Sapeva che oltre a occuparsi di lui Maud allenava gli uomini al campo di addestramento, ma non ci era mai stato. Ogni tanto, guardandola, si chiedeva che spettacolo fosse vederla rimbeccare gente grossa il doppio di lei, magari anche sconfiggerli nella lotta.

“Tuo padre ne sa qualcosa?”
So’o inarcò le sopracciglia, interdetto.
“Quale mio padre?”
“Quello che crea problemi.” Replicò lei, schietta. “Imesah.”
“Ah,” So’o si raddrizzò con la schiena “no, ma pensavo che potresti convincerlo.”
So’o corrugò la fronte, apprensivo, e si impegnò con tutto se stesso per commuovere la giovane donna con i suoi occhi da cucciolo. Lei era commossa, ma sembrava resistere. Lui rincarò.
“Sono un bravo allievo. Non puoi lamentarti di me. E ho bisogno di vedere i confini!”
Maud premette le labbra in una smorfia inasprita dal conflitto interiore.
“Che sei un bravo allievo… è vero.” Gli concesse, chiudendo gli occhi e sospirando. Riaprì gli occhi e li inchiodò su di lui.
“Ragazzo, perché non affronti tuo padre e glielo chiedi personalmente?”
So’o scostò lo sguardo, con un cipiglio irritato. Incrociò le braccia al petto in un moto di rabbia – che però smorzò con il suo comportamento regale, posato.
“Mi… mi tratta come un bambino. Non mi ascolta. Se la richiesta viene da me, non vi darà peso.”
Maud piegò il capo di lato, scrutando il principe.
“Ho capito.”
So’o tornò a guardarla.
“Mi aiuterai?”
Maud annuì con decisione marziale. So’o sciolse le braccia, e sulle sue labbra affiorò un sorriso.
“Basterà una piccola scorta… e porto Vilya con me.”
“Ehi, ehi… vacci piano.” Maud sollevò un indice, in avvertimento. “Non faccio le magie, capito?”
Il mezzodrow mantenne il sorriso e scrollò il capo. “È tutto a posto. Se Imesah rifiutasse Vilya verrebbe comunque. Chiediamo solo per correttezza.” Le spiegò con sorprendente naturalezza.
La vide sbuffare e inarcare le sopracciglia, ironica. “Oh, quindi adesso sei un ragazzo disobbediente? Allora è vero che Vilya ti porta sulla cattiva strada.”
So’o dischiuse le labbra ed emise una risata divertita dalla gola. “Non è niente di pericoloso.” Lei piegò un lato del labbro in una furba smorfia e abbassò lo sguardo. So’o esitò, ma poi, stringendosi nelle spalle, decise di aprirsi un po’ al Mastro.
“In realtà mi sento più al sicuro se lo porto con me. Vilya è sempre attento che io non mi faccia male.”
Lei rialzò gli occhi su di lui e sollevò il mento, come se le sue parole gli fossero giunte piacevolmente inaspettate. La postura si smosse un poco, rilassata. “Sta facendo il fratello maggiore?”
Il principe annuì timidamente, guardando per terra, dove l’erba del chiostro affiorava dai ciottoli. Lei sospirò e abbandonò le mani dai fianchi. “Bene dunque. Se continua così, il posto di Cavaliere non glielo toglie nessuno.” Sfilò oltre So’o mentre diceva quelle parole. “Ma credo proprio che per ora sarà Imesah il tuo Cavaliere. Aspettati di vedertelo alle calcagna, alla Foresta.”




So’o si incamminò tra i chiostri. Imesah non si sarebbe fatto sfuggire l’occasione di stargli addosso e fargli sentire la propria ansia da genitore impazzito, vero, ma sperava ancora che ci fosse un modo di seminarlo. E comunque c’era la possibilità che in compagnia di Vilya si limitasse solo a ringhiare: non era così inopportuno. Magari li avrebbe lasciati godersi la foresta. Vilya diceva che sarebbe stato affascinante andare a cavallo lungo le radure della Foresta e sui sentieri che la circondavano. So’o strinse i pugni, eccitato. Non vedeva l’ora di uscire.

Aprì la porta della biblioteca e gli bastò seguire il proprio istinto: raggiunse la solita libreria, contò i dorsi dei libri con le dita fino al quarto dello scaffale e sfilò il quinto libro per accoglierlo tra le mani. La familiare copertina in pelle di serpente blu gli saltò all’occhio, con il titolo in rilievo in caratteri dorati: “L’halfling.” Si sedette su una panca di legno, ad uno dei lunghi tavoli rettangolari che riempivano la biblioteca e aprì il libro sul segnalibro che aveva lasciato l’altro giorno. In silenzio riprese la lettura.

Aveva già divorato una decina di pagine prima di venire disturbato dal suono della porta che si apriva. Alzò il viso mulatto dalle pagine per lanciare un’occhiata nella stanza e i suoi occhi verdi si posarono sulle linee sinuose degli addominali di un bel drow che a quanto pare girava mezzo nudo per il Palazzo. Abbassò il libro e gli rivolse uno sorrisetto furbo.

Vilya si guardò attorno tra gli scaffali ricolmi di libri come se fossero pregni di una massa di ciarpame a lui del tutto aliena. Gli occhi scorrevano perplessi su di essi prima di incrociare lo sguardo limpido del fratellino. Ricambiò il sorriso, sicuro, e camminò verso di lui.

“Beh?”
“Ha detto di sì.” Replicò So’o, eccitato. Il sorriso di Vilya si rafforzò.
“Visto? Non dubitare più delle mie idee.” Una volta raggiunto il fratellino si sedette sulla panca, accanto a lui.
“Non dubiterò più di alcune tue idee.” Gli concesse il mezzodrow, inclinando il capo. “Altre tue idee volevano aprire una voragine nello studio di Asia dopo che mi ero lamentato che non ci fosse abbastanza luce.”
“È una forma di protesta molto moderna,” si difese Vilya, incrociando le braccia muscolose al petto morbido con un’espressione sfacciata “che vuole vedere prevalere i poteri deboli e i loro diritti sulla luce del sole.”
“Sì,” gli concesse So’o, con tono altrettanto leggero “ma stai trascurando il diritto di Asia a vivere nelle tenebre.” Riabbassò gli occhi sul libro che stava leggendo, sollevandolo dal proprio grembo. Vilya spostò lo sguardo vagamente seccato alle pagine aperte del libro.
“Qualcuno deve soccombere, e non sarò io.” Ribatté, sfidandolo.
“Molto interessante. Raccontalo a tuo padre.”
“Credo che papà sarebbe d’accordo con me.”
“Credo che papà ti direbbe che non sei un bravo erede-al-trono.” Disse So’o, poggiando di nuovo il libro, stavolta al tavolo, e fissando Vilya, che alzò gli occhi e incrociò i suoi. Giocava a fare il duro con Vilya. Sapeva che non se la sarebbe presa.
“Credo che tu abbia un’idea molto distorta di cosa mio padre vorrebbe per il suo trono.”
“Ah, sì?” So’o sollevò un sopracciglio. L’altro gli replicò subito.
“Sì. Lo hai visto? Non vede l’ora di sterminare tutti i nobili dei regni limitrofi. Sta solo aspettando la guerra.”
“È un peccato che i regni limitrofi siano tutti grossi il doppio di noi e con forze militari più avanzate delle nostre.” So’o mescolava il crudele sarcasmo con la dolcezza della sua voce.
“Sarà per questo che ti ha fatto pensare di volere la pace.” Vilya inclinò il viso furbamente. “Non può permettersi la guerra. Se fossero tutti appena più piccoli…”
Sciolse la stretta delle braccia e premette un indice sulle pagine del libro.
“Li schiaccerebbe tutte come formichine.” Ripeté il gesto. Stavolta aggiunse un onomatopeico: “Splat.”

So’o guardò il dito scuro del fratello. Prese il respiro e strattonò via il libro da Vilya per fargli levare il dito da lì e tornare a fingere di ignorarlo – per vendicarsi.
“Il Popolo vuole la pace.” Il suo tono era definitivo. Vilya lasciò vagare la sua attenzione altrove. Diede un’altra occhiata a quel luogo estraneo che era la biblioteca.
“Allora spera di succedere presto ad Azul.”

Un accogliente silenzio scese nella stanza. Vilya sbatteva gli occhietti come un ragazzo stupido in una stanza piena di libri, e So’o si era improvvisamente immerso nella lettura e non riusciva più a staccare gli occhi dalle pagine. Ad un certo punto Vilya se ne rese conto.
“Ma la vuoi smettere di studiare? È pomeriggio inoltrato, dovresti aver finito da un pezzo!”
“Non sto studiando.” So’o alzò di nuovo il viso per trovare gli occhi blu del fratello maggiore a poca distanza. “È un libro di narrativa. Vedi?” Lo inclinò verso di lui. Vilya lanciò un’occhiata alle pagine, confuso, poi tornò a fissarlo e scosse il capo. So’o sospirò e tornò a posare gli occhi sul libro. “È molto bello, dovresti provare anche tu.”
“A fare cosa?” Chiese Vilya con tono un poco inasprito.
“A leggere.” Replicò So’o, riprendendo la sua lettura. Un silenzio ben più angosciante si creò tra i due. Anche se So’o se ne accorse solo dopo, rendendosi conto di non aver ricevuto replica. Smise di leggere e guardò Vilya. Vilya lo stava guardando con il suo sguardo imbarazzato. Lo fissava impacciato e sbatteva le palpebre, senza dire niente. So’o corrugò la fronte. Vilya guardò dall’altro lato, poi in basso, spiò il libro e poi tornò a lui.
“Vilya.” Una perplessità affiorò nella mente di So’o. “Tu… sai leggere, vero?”
Il drow premette le labbra in una smorfia e di nuovo guardò altrove evasivo. So’o, sconvolto, drizzò la schiena contro la panca di legno. Gli caddero le braccia. Il libro rimase con il dorso sull’angolo del tavolo. Quando Vilya trovò il suo sguardo basito reagì contrariato, scostandosi un poco dal fratellino.
“Non guardarmi così!” Protestò.
So’o chiuse la bocca e si portò alcune ciocche di ordinatissimi capelli biondi dietro l’orecchio appuntito. Lo indagò ancora con i suoi limpidi occhi verdi, restando in silenzio. Posò gli occhi su L’halfling, poi tornò su Vilya.

“Vuoi imparare?”
“… Eh?”
“Ti va di imparare?”
***





Valentino posò il bicchiere sulla scrivania. Era seduto ad una delle sedie di fronte ad essa, mentre dietro si trovava il padrone dello studio: Imesah. Di fronte al Cavaliere, accanto a Valentino, invece era seduto Ra’shak che sorseggiava il suo bicchiere con gli occhi rossi riflessivi, puntati in basso. Azul, in fondo alla stanza, era seduto sopra un lungo comodino che faceva da davanzale e gli permetteva di spiare dalla finestra, oltre le tende tirate per metà. Al centro della stanza c’era Miss Duval, il fabbro. Per l’occasione aveva indossato una gonna, umile come il resto dei suoi abiti ma un poco più elegante.

“Allora è deciso.” Disse il mezz’elfo, con tono fermo ma cordiale. “Altre cinquanta armature per le nostre reclute. Vi dispiace attenderci? Vorremmo finire questa bottiglia di vino, prima di guidarvi dall’Imperatrice.”
“Dovrete stabilire insieme il prezzo ideale,” aggiunse l’Imperatore, spostando lo sguardo paziente sull’umana “e dire a Mellie di organizzare i finanziamenti per ampliare la vostra officina.”
Miss Duval chinò rispettosamente il capo. “Permettetemi di aspettarvi fuori. Apprezzerò il vostro chiostro insieme alla mia amica di corte.”
Ad un cenno positivo del Cavaliere Miss Duval chinò nuovamente il capo in saluto e sparì oltre la porta, richiudendola dietro di sé.

Ra’shak abbassò il bicchiere. “Non male per una rivvil.”
“Non male per una femmina rivvil.” Aggiunse Azul, leggendo nella mente di Ra’shak. I suoi enormi occhi gialli dalla pupilla verticale si puntarono su di lui, con un sorrisetto sottile. L’altro si strinse nelle spalle.
“Però stiamo facendo progressi.” Rifletté Imesah con il suo tono neutro. Si sporse dalla sedia e si versò altre due dita di vino nel bicchiere. “Qualche anno fa non avresti mai rivolto la parola a una femmina.”
“Cosa ti facevano a Charrvelraughaust, Ra’shak?” Lo sfotté l’Imperatore. In assenza del fabbro ora si era rilassato e aveva iniziato a far ciondolare i piedi dal comodino.
“Quanto di peggio possa fare una donna, Azul.” Replicò lui con un sorriso sulle labbra “Cercavano di sposarmi.”
“E ci sono riuscite.” Valentino scostò le labbra dal bicchiere.
“Solo perché mi serviva.” Lo rimbeccò il drow con un cenno del mento. I due incrociarono gli sguardi. Ci fu un istante di intimo silenzio dove due complici sorrisi si formarono sulle loro facce. Valentino era evidentemente compiaciuto, e Ra’shak, oltre una dura corazza di timidezza, rivelò quella smorfia orgogliosa.

Il drow si sottrasse all’intimità dello sguardo del fidanzato per fissare Azul dritto negli occhi e chiarire:
“E comunque è morta.”
Valentino si smosse dalla sedia, facendosi più composto.
“Non dirlo in questo modo, Ra’shak. Così gli fai pensare che l’hai uccisa tu. Non che sia morta da sola.”
Ra’shak tornò a lui.
“Zitto, Val. È così che mi rovini la reputazione. Lasciali viaggiare con la mente e immaginarmi più grosso di quanto non sia.”
Imesah e Azul si scambiarono uno sguardo eloquente prima di tornare al jaluk.
“È questo che volevi fare al campo, quando hai spaccato la faccia della recluta?” Chiese Imesah.
“E ci sono riuscito.” Ra’shak prese il bicchiere tra le mani. Se lo posò sul grembo e inclinò il capo, osservando il liquido rosso oscillare nel recipiente di vetro. “Da allora si è fatta una bella cernita. I più deboli di carattere se ne sono andati e i più ambiziosi mi sfidano con lo sguardo.” Alzò le palpebre per incrociare gli occhi verdi del Cavaliere. “È così che si costruisce un’armata.”
“Il punto è che speriamo di non avere bisogno di un’armata.” Gli replicò Imesah, piatto.

Valentino prese un respiro e appoggiò la schiena alla sedia versandosi le ultime gocce di vino nel bicchiere.
“Noi ci prepareremo per l’evenienza. Stiamo osservando movimenti sospetti. Se qualcosa cambierà, saremo pronti.” Si zittì da solo bevendo dal proprio bicchiere. Ra’shak rifletté un istante e poi sollevò il proprio e seguì l’esempio del mezz’elfo. Azul guardava fuori dalla finestra. Ignorava gli altri. Quando il Consigliere e il Comandante finirono i loro bicchieri li poggiarono sul tavolo e l’ultimo si alzò dalla sua sedia.

“Valentino, lascia che ti accompagni con Miss Duval. Quando finirai con lei voglio portarti con me.”
Valentino inarcò le sopracciglia dalla sorpresa. Imesah guardò i due, senza trasmettere alcuna emozione. Azul continuava a guardare fuori dalla finestra. Probabilmente li stava ignorando.
“Ah, sì? Dove?”
Ra’shak si smosse dalla sua postura marziale.
“… in un posto.” Mugugnò, schivo. Il biondino sbatté le palpebre, interdetto, ma poi gli rivolse un sorriso accennato. Imesah poté intravedere dell’eccitazione nei suoi occhi.
“Sì, certo.” Poi la sua espressione tornò seria e formale. Si alzò e si voltò verso Imesah.
“Ci congediamo. Passate una buona serata.”
Ra’shak e Valentino chinarono il capo verso il Cavaliere, che fece lo stesso, e Azul tornò alla realtà per imitarli quando si voltarono verso di lui.
“Diteci il giorno.”
Ra’shak corrugò la fronte.
“Di cosa?” Chiese Valentino.

Azul guardò prima uno poi l’altro.
“Del matrimonio.”
Il jaluk venne colpito in pieno dalla battuta dell’Imperatore e si irrigidì con imbarazzo. Valentino rise e prese Ra’shak sottobraccio per trascinarselo dietro.

Il drow li seguì andare via prima di tornare a spiare dalla finestra. Imesah si alzò dalla sua sedia.
“Abbiamo due uomini validi.” Camminò lentamente verso di lui mentre parlava. “Non è scontato.”
“Valentino ha iniziato da guaritore, e Ra’shak è un jaluk forgiato dalla cultura tradizionale drowish. Razzista e poi anche misogino.” Replicò Azul, sporgendosi un poco oltre la tenda. Ma quando Imesah si avvicinò abbastanza da poter intravedere qualcosa il drow si scostò e tirò le tende in un colpo secco, impedendogli di spiare oltre. Puntò i grandi occhi di rettile su di lui. Imesah lanciò un’occhiata alla tenda, ma non cambiò espressione. Eppure sapeva che Azul poteva intuire quello che stava pensando. Vide solo, da uno spiraglio, la sagoma di So’o che camminava con dei libri stretti al petto. Non se ne curò e tornò a lui.
“Ancora di più. Nessuno meglio di loro può capire la missione.”
Azul non mosse un muscolo. Trattenne gli occhi gialli su di lui per lunghi secondi.
“Sì.” Concordò infine. “È proprio quello che intendevo.” Prese un respiro e scivolò giù dal comodino. Inarcò le sopracciglia e rilassò l’espressione, che si ammorbidì. “Ah…” sospirò. “È stata una giornata lunga e noiosa. Non vedo l’ora di andare a dormire.”
“Vieni da me.” Imesah si avvicinò di qualche altro passo. Azul dovette alzare il viso per guardarlo negli occhi verdi, data la differenza di altezza. Annuì, abbassando lo sguardo sulla sua armatura grigia. “Mh.”
Imesah allungò una mano per cercare la sua. Il drow la scostò dal comodino, su cui era appoggiato, e gliela concesse. Giocò con la mano nella sua, in un gesto intimo, affettuoso, nel silenzio dello studio del Cavaliere. Imesah lo vide rilassarsi piano, e da come Azul guardava le loro mani poteva intuire che avesse tante piccole cose per la testa. Si sporse per posargli un bacio sulla fronte. Il drow chiuse gli occhi tondi e si godette quel dolce bacio. Poi sollevò il viso verso di lui e tornò a scrutarlo.

“Sul serio, però.”
“Mh?” Imesah inarcò le sopracciglia interrogativo e scrollò il capo.
“Che aspettano a sposarsi?”
Imesah rimase confuso, con le sopracciglia sollevate. Sbatté le palpebre, mantenendo gli occhi nei suoi.
“… non lo sai?”
Il drow inclinò il capo, stupito.
Imesah dischiuse le labbra ma esitò. Lo scrutava. Era diventato titubante anche nei gesti. Smise di accarezzargli la mano e portò il busto di qualche centimetro indietro.
“Aspettano che sia tu a farlo per primo.”
Azul sbatté le palpebre. Era colpito, ma non del tutto. Si trattava di un argomento che conosceva. Imesah lo sapeva. Imesah era il centro di quell’argomento. Lo vide abbassare lo sguardo: lo evitò da subito. Come previsto.
“Allora dovrai dirgli che non si sposeranno mai…” sbuffò beffardo, in una smorfia crudele che voleva apparire divertita, e cercò di scostarlo. Imesah obbedì. Nonostante fosse un uomo ben più forte e pesante del drow, un suo gesto bastava a smuoverlo come il vento smuoveva una foglia. Anche perché quando Azul lo toccò, dentro di sé Imesah ebbe la sensazione di venire infilzato da un gambo irto di spine.

“Azul.”

Lo costrinse a guardarlo di nuovo.

“Non cercare di evitarmi.”

Il drow si strinse nelle spalle e gli diede le spalle per andare a prendere la bottiglia ormai vuota.

“E tu fai in modo che io non debba evitarti.”

“Come?” Il Cavaliere avanzò di un passo. Ebbe uno scatto di rabbia. “Fingendo che questo sia normale?” Si sorprese della sua voce tanto colorita. Se ne sorprendeva ogni volta. Non provava mai quelle sensazioni. Mai... sensazioni. Se non era per lui. E ogni volta si sconvolgeva di se stesso. Non era un tono alto, era solo una stilla di emozione: ma nella sua voce era ben più di quanto lui si concedesse di solito.
Vide Azul voltarsi verso di lui e raggiungerlo in poco tempo. Era minaccioso quando lo puntava.

“Tu assicurati di fare il bravo Cavaliere, Imesah.” Sibilò, guardandolo bene in faccia, a poca distanza dalla sua. “È di questo che ho bisogno. Saab mi ha dato un Cavaliere, non un amante. Quello lo fai solo se sei abbastanza buono.”

Imesah spostò il peso delle gambe così da fronteggiarlo, l’espressione contratta. “È questo che abbiamo costruito? Una cosa di così poco valore?”

Azul sollevò il mento, più di prima. I suoi occhi sgranati sembravano bruciare. “Cosa credi di avere tra le mani, Cavaliere? Solo polvere.” Pronunciò l’ultima parola marcandola con il movimento delle labbra carnose, che in ultimo rivelarono le gengive superiori e i denti appuntiti. Quando Imesah guardò di nuovo nei suoi occhi poté vedere l’ombra della fredda morte mentre lui si staccava piano.

“Niente di tutto questo ha senso.” Continuò il negromante, improvvisamente arido, velenoso. Aggiunse un sussurro. Il suo fiato ricordò ad Imesah l’ultimo sospiro dei mortali, che portava con sé un orribile segreto.

“Presto o tardi, morirai.

E io non voglio essere lì per te.”


Le sue labbra fremettero. Gli occhi di Azul si fecero lucidi mentre scrutavano negli occhi dell’umano. Anche le palpebre non erano pienamente in suo controllo.

Prima di potergli mostrare altro della sua debolezza il drow si voltò nascondendosi alla sua vista. Poggiò la bottiglia sul primo ripiano che trovò e se ne andò dalla stanza.




 

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Capitolo 9
*** Depressione ***


Ciao ragazzi! Ormai la storia è abbastanza lunga perché possiate rendervi conto di un piccolo pattern dei titoli della storia: come potete vedere - ma ve lo dico io perché voglio sottolinearlo v_v - i capitoli ispirati a storie per bambini si alternano a quelle che sono le fasi di elaborazione del lutto - e non per caso. Chi se n'era accorto? Fatemelo sapere u_u Oggi tocca alla penultima fase del lutto: depressione. Ma vi prometto che ci sarà qualche gioia <3






 
Depressione.







 
La spiaggia di Charrvelraughaust.

Lo ricordava come se fosse ieri. Una distesa d'acqua nera e luccicante come il metallo. Risplendeva dei fuochi fatui che fluttuavano a mezz'aria nella grande grotta. Non vi si vedeva attraverso: qualsiasi cosa vi fosse sotto era ben nascosto. Tra le piccole dita poteva sentire i sassolini della spiaggia nera, pietruzze appuntite che pungevano i piedi nudi. Era un luogo desolante, dove la luce naturale non era mai arrivata.
Ma quella era casa.

Avevano deciso di fare un bel pic-nic, così avevano organizzato un cestino per il pranzo, che aveva portato papà per non affaticare la mamma, e preso un telo che grazie alle correnti fioche sarebbe rimasto al suo posto dove doveva stare, sotto i loro sederi, ad alleviare la durezza dei sassolini. Lui guardava avanti a sé, sull'orizzonte della grotta. La sua vastità non permetteva al bambino di penetrare il buio fino alla parete opposta anche se era nato nel sottosuolo e ormai abituato all'assenza di luce, e così vedeva solo l'acqua nera perdersi oltre il vuoto, farsi intravedere solo dal suo luccichio. Le sue orecchie invece coglievano lontani schiamazzi: erano mamma e papà, seduti accanto a lui. Papà aveva appena finito di chiamare la mamma 'piccola balenottera anoressica' perché il suo abito da spiaggia blu ne sottolineava la figura lunga e sottile come un giunco, per niente elegante, e lei stava ridendo. Capì che si era sporta, dietro di sé, per spingere quella montagna che era suo padre in un vano tentativo di vendetta. Loro ridevano, accanto a lui.

Si sentì felice, per un momento.

"Azul."

Poi la voce della mamma lo chiamò. Era stranamente più nitida di prima, come se si fosse improvvisamente avvicinata. Il bambino non la vedeva perché guardava avanti a sé, nell'acqua torbida e nera. In un certo senso era come se la stesse guardando, anche se stava guardando l’acqua. Ebbe l’improvvisa sensazione di non volersi voltare. Aveva capito che c’era qualcosa che non andava. Continuava a fissare l’acqua, non riusciva… non riusciva a spostare la faccia.

“Azul!”

Non capì neanche se era stato lui a decidere di voltarsi, o se era la sua faccia ad averlo fatto da sola. Ma sapeva di non voler guardare. Il suo sguardo invece si inchiodò proprio sulle orbite senza occhi della mamma che però lo stava fissando. Dove avrebbero dovuto esserci due dolci occhi blu c’era un vuoto impenetrabile che ne riempiva le orbite, agghiacciante, che penetrava il piccolo jaluk fin dentro le ossa. Riusciva a vedere solo quel vuoto e gli zigomi scuri e morbidi della madre, accarezzati dai lunghi capelli neri, che lentamente si affilavano. Sentiva il suo sguardo addosso: pesante, intenso. Accusatorio. Ma la voce era paradossalmente premurosa.

“Azul, perché non vai a fare la spesa al mercato?”

La mamma inclinò piano il capo, con una morbidezza che ne rendeva ancora più lugubre lo sguardo. Protese una mano verso il bambino. Gli occhi del piccolo caddero sulla mano. La pelle si stava tirando e sporcando di macchie, come se si stesse rovinando molto velocemente. Su di essa erano presenti tre monete d’oro limpido, luccicante. Ebbe la sensazione che quelle fossero proprio loro tre, in qualche modo che non sapeva spiegarsi. La voce vacua e dolce della mamma riecheggiò nella grotta.

“Tieni. Prendi qualcosa che io possa cucinare oggi a pranzo.”

“-Sì, ragazzo.”

Il bambino si sentì male. Se non avrebbe voluto vedere il viso della madre, iniziò a sentire un dolore lancinante iniettarglisi nel corpo nel momento in cui la voce del padre cercò di attirare la sua attenzione. Non aveva alcuna intenzione di voltarsi per guardarlo, ma il suo corpo lo fece per lui e gli impedì di sottrarsi. Così poté vedere i sassolini luccicare più vividi e arancioni nei pressi del padre e quando lo ebbe nella sua visuale venne inondato dalle vampate di calore delle fiamme che inghiottivano la sua intera, alta e imponente figura seduta sul telo da pic-nic. Bruciava, bruciava, e continuava a bruciare e a venire consumato dalle fiamme in eterno senza mai estinguersi né lui né il fuoco. La sua figura era un moncherino nero e carbonizzato con le fattezze di suo padre. Ma Azul sentiva chiaramente il suo sguardo addosso: dal fuoco filtravano due luccicanti, enormi occhi gialli da serpente senza palpebre, spalancati su di lui. La sua voce affabile e roca risuonò di nuovo e coprì lo sfrigolio delle fiamme.

“Vai al mercato. Lascia chiacchierare un poco questi due genitori noiosi.”

“Non andiamo da nessuna parte, bambino mio.”

“Non andiamo da nessuna parte.”

Azul restò a fissare gli occhi di suo padre per lunghi secondi. Per il senso di colpa non voleva affrontarli, ma non riusciva a staccargli il proprio sguardo da dosso. Immobili ma vivi, su di lui, erano terrificanti. Ad un certo punto sentì di doversi voltare verso la mamma. Non la sentiva più e questo lo inquietava. Non sapeva cosa stesse facendo dall’altro lato. Si voltò per cercarla e la trovò capovolta, a fissarlo con occhi sbarrati, testa sotto, la bocca dischiusa, lo sguardo vacuo, morta ma ancora viva, che lo fissava, con i suoi occhi blu, spenti, non come quando era viva, e piena di fuliggine sulla faccia, con le braccia sporche accanto alla testa, e distesa in cima ad una piccola montagna di gambe e piedi alta un metro, una collina di corpi, una massa di cadaveri.

Da nessuna parte.”

Si voltò improvvisamente davanti a sé e vide la sua faccia, sulla superficie del lago che si era alzata perpendicolarmente e scorreva verso l’alto a pochi centimetri da lui per fargli da specchio, e vide i propri enormi occhi gialli spaventati spalancati su se stesso, un bambino grande, lungo e magro, con il morbido viso che hanno i bambini, le labbra carnose fiorenti come petali di viola e così le guance, il naso dritto, la zazzera di capelli grigi. Tra i rivoli di acqua nera che scorrevano sulla sua immagine poté intravedere due dense lacrime di sangue colargli dalle ghiandole lacrimali e all’improvviso sentì tre ferri infuocati trapassargli la pelle della tempia destra e dilaniargli il cervello, passando da parte a parte sul lato destro del cranio. Emise un urlo e venne sbalzato all’indietro dal dolore, agonizzante, sbattendo con la faccia, sul lato destro, sul telo da pic-nic. Tremando si rialzò a sedere per guardarsi allo specchio nero del lago e sollevò i capelli lunghi – lunghi fino a metà collo, come quando era appena più grandicello – per rivelare le tre scabrose cicatrici che si era procurato. Non ebbe il tempo di provare orrore perché un umiliante schiaffo mosso dal vuoto lo fece urlare di nuovo e lo gettò disteso sul lato sinistro. Si rialzò di nuovo per sentire un pugno storcergli il naso per sempre. La pelle iniziò a venire dilaniata dai tagli delle spade e le costole rotte dai pugni, gli arti tirati dalla ruota delle torture: lo fecero agonizzare accartocciato su se stesso. Poi finì e Azul sentì il palmo sinistro venire percorso da un’altra ferita, sottile, delicata. Alzò il palmo per vederla aprirsi sotto la trasparente lama del pugnale cerimoniale del suo matrimonio e subito dopo alzò gli occhi davanti a sé per vedere la faccia dell’elfa dai lunghi capelli rossi e ricci, la sua vittima sacrificale, vestita in bianco, con un vivo rivolo di sangue che colava dalla bocca fino al mento e le donava tanto, alla faccia del Padrone… I suoi occhi verdi lo fissarono sconvolti e spalancati prima che il lago riflettesse di nuovo la sua figura. Mentre i lunghi capelli di Azul sventolavano attorno al suo collo elegante, proprio dietro di esso sentì il rovente tatto di un ferro incandescente che lo marchiò e lo fece svenire come la prima volta. Cadde in avanti, ma venne risvegliato da un pugnale che incideva la sua carne al centro del petto, appena sotto le clavicole, la figura di un occhio. Si alzò singhiozzante ma una pressione intensa ai lombi gli fece drizzare la schiena, e quando fu inarcato le tre lame di un artiglio si conficcarono dietro la sua schiena e gli perforarono irrimediabilmente il polmone destro, tirandogli fuori un grido e

portandolo alla morte.

Subito dopo sentì il centro della terra tremare, i sassolini fremere attorno a lui, gli occhi, il naso e le orecchie presero a sanguinargli, la bocca vomitò fuori il proprio stesso stomaco e mentre il suo corpo veniva completamente soggiogato e gli occhi scivolavano dietro le orbite ascoltava il rumore del sangue di tutti i morti che esplodeva fuori dalla terra e si sollevava verso l’alto come stava facendo il lago, in una gravità opposta. Tutta la terra prese a sprizzare sangue attorno a lui e si ritrovò circondato da pareti di cascate di sangue. Sentì il proprio corpo collassare e scoppiare riversando ciò che aveva dentro verso l’esterno ma ancora non stava morendo, ancora sentiva perfettamente, tutto, tutte le urla infuriate delle anime che ora abitavano dentro la sua testa e che si facevano sempre più assordanti al punto da cancellare i suoi pensieri e diventarne l’unico soggetto. Gli afferrarono il senno, lo possedettero e l’unica cosa che lui poté essere era ormai solo quel coro di urla di dolore che tutte insieme gli squarciavano il corpo e gli facevano sentire l’arido, tremendo rancore.






Un urlo agghiacciante squarciò la notte. Azul aveva perso il senso dell’orientamento e quando capì di poter vedere aveva gli occhi piantati sulle lenzuola del letto di Imesah. Era madido di sudore e ansimava come se fosse in iperventilazione; il suo cuore gli batteva all’impazzata. Sentì un fruscio accanto a sé e con la coda dell’occhio poté vedere Imesah sedersi, presumibilmente preoccupato, e rivolgergli lo sguardo. Non appena l’uomo provò ad avvicinarglisi Azul si allontanò con violenza, come se fosse stato bruciato, e si scostò dal letto per rivolgergli le spalle. Sporgendosi posò i piedi nudi sul pavimento e si alzò. Mentre ancora annaspava, non certo di riuscire a continuare a respirare, si alzò e camminò velocemente fuori dalla stanza.







“La principessa era l’unica capace di porre fine alla terribile guerra. Ma per farlo, avrebbe avuto bisogno dell’aiuto di alcuni amici.”

La voce di So’o si espanse distintamente sulle pareti della tenda di fortuna. Tenda di fortuna: una tenda costruita sopra il proprio letto servendosi di un grande lenzuolo azzurro, un filo e un paio di canne di bambù, e illuminata da una lanterna ad olio. Protetti dal resto del mondo, nella tenda di fortuna, So’o e Vilya erano rannicchiati su di un libro di favole. So’o teneva il libro sul proprio ginocchio, tra loro due, e quando finiva di leggere l’ultima pagina la girava per continuare a leggere. Gli occhi vispi di Vilya scrutavano le parole che So’o pronunciava, e girava insieme alle pagine, così come il visino del fratello minore. Ogni tanto il jaluk si portava una ciocca di capelli neri dietro l’orecchio scuro per poi tornare a posare gli occhi blu sulle pagine. Paziente, So’o continuava a leggere. La sua aria da istruttore lo avrebbe fatto sembrare più grande del fratello maggiore, se solo Vilya non fosse stato più grosso di lui.

“Dunque andò dai suoi amici, e una volta spiegato loro il piano essi furono ben contenti di aiutarla. ‘Principessa’, dirono, ‘se noi possiamo aiutarti a porre fine alla guerra in un modo o nell’altro, lo faremo’! La principessa, commossa da questa dimostrazione di lealtà, pianse.”

L’immagine del muscoloso drow mezzo nudo accartocciato sul libro di favole era comica come si poteva immaginare. La luce della lampada a olio illuminava il lenzuolo azzurro e scaldava i colori attorno a loro, dando alle pareti della tenda un’aria accogliente. La voce di So’o era morbida e tranquilla mentre leggeva, e Vilya la ascoltava attento e cercava di seguire, insieme, le parole, da bravo. So’o voltò la pagina e piegò il capo verso la pagina di sinistra, e tornò a leggere. In sottofondo alla sua voce, la pioggia, fuori la finestra posta al lato del letto, proprio accanto a loro, scrosciava in un rumore piacevole e rilassante. Mentre fuori era umido e freddo, dentro loro erano al calduccio, rannicchiati sul letto e rintanati nella loro tenda di fortuna. Potevano vedere la finestra dall’apertura della tenda, ma ora erano concentrati a guardare le pagine del libro.

“… Mentre la principessa e i suoi amici si preparavano ad affrontare il nemico, la principessa si rivolse ai suoi compagni. ‘Sappiate’, disse, ‘che in questo scontro potreste perire’. ‘Lo sappiamo’, dissero loro, ‘ma se non siamo pronti a sacrificare le nostre vite, il nostro bel mondo potrebbe scomparire. Faremo questo ed altro per il mondo che conosciamo’. La principessa…”

Si voltò verso Vilya. Vilya si voltò verso So’o, inarcando le sopracciglia, e dischiuse le labbra.

“… Pianse.”
“… Pianse.”

Ripeterono in coro.
“Questa principessa piange un po’ tanto.” Commentò So’o, riportando gli occhi sulle pagine.
Vilya annuì. “Asia non ne sarebbe contenta.”
“Nessuna ragazza di Saab ne sarebbe contenta.”
“Ora non esagerare.”
So’o tornò a fissarlo. “Guarda che le ragazze di Saab…”
Vilya storse il naso incrociando il suo sguardo “Ma che ne sai tu delle ragazze di Saab, uh?”
So’o scrutò per un momento i suoi occhi. Poi sollevò le sopracciglia. Dovette dargli ragione, con uno sbuffo beffardo.
“Giusto. Tu le conosci molto meglio di me, non è vero?”
Vilya gli rispose tirando un lato delle labbra in un sorrisetto furbo e compiaciuto, ad occhi socchiusi.


Improvvisamente, un urlo agghiacciante li fece trasalire. Si voltarono entrambi verso la finestra, allarmati, e scrutarono oltre. Rimasero zitti a guardare la pioggia invadere il chiostro. Avevano la sensazione che fosse una voce familiare, ma nessuno dei due osò insinuarlo. Dopo lunghi secondi una sagoma esile e bassa percorse il chiostro. Era scura, con lunghi capelli grigi, e camminava velocemente. So’o si drizzò come per guardare meglio, e poco dopo capirono entrambi che si trattava di loro padre. So’o si rilassò lentamente, anche se continuò a guardare fuori la finestra finché Azul non ebbe attraversato il chiostro sparendo alla loro vista. Scosso e spaesato si voltò verso Vilya e cercò sicurezza nei suoi occhi. Vilya gli ricambiò lo sguardo. Aveva un’aria apprensiva, ma non preoccupata. Sbatté le palpebre, poi guardò di nuovo fuori.

In un movimento lento So’o chiuse il libro.

“Forse dovresti…”
Vilya scrollò il capo. Tornò a fissare So’o e scrollò di nuovo il capo.
“Non credo che voglia compagnia.”
“Ah.” Il mezzodrow annuì piano, restando a guardare il fratello.
Vilya cercò di dargli un po’ di sicurezza mantenendo lo sguardo nel suo.
“Vuoi che resto da te?”
So’o scosse la testa. “No, no, va bene.”
Vilya annuì. “Resto ancora un poco.”
“Sì, ma solo un poco.” Rispose il fratellino. Dalla stanchezza della voce era evidente che lo spavento dovuto all’urlo lo aveva provato. “Domani dobbiamo svegliarci presto.”
Vilya gli sorrise. “Non mi perderei domani per nulla al mondo.”
So’o ricambiò il sorriso, complice, cercando i suoi occhi. I propri brillavano, o forse era la luce della lampada.






 
***






“Stanno preparando i cavalli.” So’o mise l’alfiere bianco sulla casella dove prima si trovava la torre nera di Vilya, con l’ombra di un sorrisetto compiaciuto, che non si esprimeva appieno per pura eleganza.
Vilya, davanti a lui, assisteva alla scena con una smorfia contrariata sul viso basso, i lunghi capelli che gli incorniciavano il viso scuro, gli avambracci poggiati sul tavolo della scacchiera, le braccia incrociate e la schiena in avanti. Lo guardava in cagnesco, e So’o sentiva il suo sguardo addosso, e se ne beava tenendo gli occhi verdi bassi sulla scacchiera che ormai vedeva rimasti più scacchi bianchi che scacchi neri.

Davanti ai due Mastro Maude dava un’occhiata e ogni tanto si allontanava per fare una piccola perlustrazione in attesa che li chiamassero.
“Ti credi furbo? Guarda che ne ho un’altra, di torre.”
Replicò indispettito il drow. Suscitò l’ilarità del fratellino.
“Hahah… lentamente ti toglierò tutto ciò che hai.” Cantò, deliziato.
Vilya inasprì l’espressione già contratta e fissò la scacchiera, tentando disperatamente di inventarsi qualcosa. Dopo un lungo minuto afferrò la propria torre e la mosse per mangiare un pedone bianco a guardia dell’alfiere di So’o. Così alla mossa successiva la regina di So’o poté inghiottire in un sol boccone l’altra torre, spostandosi di poco.
“Aaaaaaaaarrghhh!!!” Esclamò arrabbiato Vilya, sbattendo i pugni sulle proprie cosce.
“Non andiamo affatto bene, Cavaliere.” Borbottò Mastro Maud un paio di metri più in là. Vilya le scoccò un’occhiata infuriata, che però lei non poté vedere perché dava loro le spalle. La risata divertita di So’o, dolce, risuonò nel porticato che precedeva il largo spiazzo del Palazzo.
“Non so se sono più divertito dalla tua rabbia perché stai venendo sconfitto, o dalla tua rabbia perché Maud ti ha appena chiamato Cavaliere.”
“Non sono un Cavaliere.” Replicò Vilya guardando So’o con decisione. “Non ho preso voti, non mi sono inginocchiato davanti a signori – va bene, per fargli i pompini, ma non per fare il cavaliere – non ho fatto un addestramento. Chiaro?” Esclamò l’ultima parola a Maud, che sussultò appena nel rendersene conto. Si voltò verso il drow con un’espressione rilassata, appena annoiata, le braccia incrociate al petto e il peso del corpo distribuito su un piede.
“Certo, Cavaliere.”
Il fuoco vivo divampava negli occhi blu del drow. So’o emise di nuovo una risata cristallina, al punto da socchiudere gli occhi in due lunette verso l’alto e stringersi nelle spalle, coprendosi le labbra nel tentativo di apparire composto come ci si aspettava dal suo ruolo di Principe.
“Non ridere, So’o. Tu sei mio fratello. Dovresti appoggiarmi, non ridere di me, quindi smettila.” Fece Vilya, risoluto, sollevando fieramente il mento.
So’o annuì. “Sì, sì… aspetta, adesso… mi rilasso.” Prese un sospiro e sbatté le palpebre per cercare di essere serio, per poi scoppiare nuovamente a ridere. Si sporse in avanti, ridacchiando in modo sguaiato. Vilya riabbassò il viso e sgranò gli occhi allibito dall’affronto. O almeno così sembrava.
“I cavalli!” Esclamò forte Maud e si avviò. Il drow si alzò e cercò la mano di So’o poggiata sul tavolo. La avvolse nella propria e lo tirò piano su in un gesto affettuoso. So’o lo assecondò e si alzò dalla sedia per fermarglisi accanto. I loro corpi si sfioravano. Con l’altra mano si asciugava le lacrime dalle ciglia. Sentendosi osservato da Vilya e accorgendosi di starsi asciugando le lacrime, gli venne un altro attacco di ridarella e sporgendosi in avanti cadde con la faccia sul collo del fratello. Vilya fece un’espressione un pochetto esasperata ma attese che il fratellino ebbe finito di ridere per portarselo dietro e raggiungere Maud.


“Siete sicura che possiamo affidare il Regno nelle mani del Consiglio per oggi?”
La voce di Imesah affiorò dal gruppetto di cavalli e cavalieri. In sella ad un affascinante frisone c’era Ra’shak, che per l’occasione non indossava la sua solita ‘divisa’ da Comandante ma dei vestiti veri e propri, grigi e neri, che portava molto bene. Valentino, accanto a lui, montava su un bel cavallo bianco che stava brucando l’erba che spuntava tra una mattonella e l’altra del pavimento di marmo, e indossava dei vestiti più informali ma comunque eleganti che viravano tra il bianco sporco e il verde, con una staffa magica fissa dietro la schiena. A piedi, Imesah discuteva con Mastro Maude e aveva la mano destra impegnata sulle redini del suo cavallo: grigio, con macchioline nere che comparivano dalla groppa alla coscia. A parte il mulo di Maud erano tutti cavalli di razza, addestrati apposta per la corte e ben tenuti come suggerivano la lucentezza del pelo e la capigliatura dei crini.
“Ne sono sicura, Cavaliere Grigio. Si progettano guerre per oggi?” Fece sarcastica.
“No, Mastro.” Replicò Imesah, come se non avesse intuito il suo sarcasmo.
“Allora le Signore sapranno sicuramente cavarsela da sole con l’Imperatore.”
Mastro Maud si voltò verso i due Goldsmith che li avevano appena raggiunti.
“Vi lascio alle cure dei vostri pupilli, Cavaliere.” Si dileguò in breve per appropriarsi del suo mulo.

Imesah aveva un’armatura di cuoio e stoffa imbottita, grigia, con il bianco stemma di Saab al centro del torace. Capelli ramati e mossi, lunghi fino a prima delle spalle, gli accarezzavano il collo e il viso era coperto da una barbetta incolta, rossa. Aveva una carnagione chiara, probabilmente delicata, con qualche lentiggine qua e là, e gli occhi verdi adornati da vaghe zampe di gallina contrastavano sul resto del viso e scrutavano lo spiazzo.
Puntò gli occhi sul figlio: i lunghi capelli biondi di So’o erano ben ordinati, con la frangetta orizzontale che gli sfiorava le sopracciglia corte e sottili, quasi inesistenti. I vestiti pertinenti: sotto un mantello portava una tunica smanicata da cui sbucavano le maniche di una maglia grigia, che finivano chiudendosi negli ultimi dieci centimetri attorno all’avambraccio e al polso con dei bottoni. Mantello, tunica e polsi erano di un ocra intenso, quasi dorato. Sopra la tunica si trovava lo stemma bianco dell’Albero: il simbolo del Principe di Saab, che lo identificava. Una cintura nera gli fasciava i fianchi, e oltre il bacino la tunica terminava e rivelava dei pantaloni verde foresta che si infilavano in degli stivali neri.
Nell’avvicinarsi a lui i due ragazzi si erano un po’ staccati nel vano tentativo di sembrare due fanciullini innocenti che non avevano niente a che fare l’uno con l’altro. Quando Vilya incrociò gli occhi verdi di Imesah distolse subito lo sguardo con aria distratta e si mosse nella sua posizione senza riuscire a celare il disagio. Si irrigidì e cercò semplicemente di sopportare il suo sguardo addosso per il tempo necessario. Imesah osservò il suo corpo, mezzo nudo come al solito, con le morbide, sensuali linee dei muscoli che sparivano oltre i lembi dei pantaloni. Corrugò la fronte in un’espressione giudiziosa e si voltò per frugare nella borsa di cuoio che aveva fissato alla sella del proprio cavallo. Si voltò verso di lui e Vilya si ritrovò a dover afferrare quello che gli veniva lanciato. Quando abbassò gli occhi all’oggetto morbido che aveva tra le mani lo sbrogliò e riconobbe la fattura di una maglia color sabbia. Emise uno sbuffo infastidito ma accettò il consiglio e si infilò la maglia.

So’o gli lanciò un’occhiata e inarcò le sopracciglia, colpito.
“Wow. Ora va moolto meglio.”
Gli mormorò, a voce un po’ bassa per non farsi sentire dal genitore-pazzo.
“Sei sicuro di non volere anche degli stivali? Foresta, fango… cavalli…?” Aggiunse.
Vilya scrollò le spalle. “Teneteveli voi shinduago lodias.*” Il crudo accento drowish diede alle parole una parvenza di disprezzo, come se avesse appena insultato qualcuno. Presumibilmente, un gruppo piuttosto vasto. Ma So’o non reagì e andò al cavallo grigio che Imesah gli stava dando. Vilya accettò dal Cavaliere un cavallo marrone, appena più alto e snello. Fece del suo meglio per ignorare che la persona con cui stava avendo a che fare fosse Imesah: e Imesah sembrò fare lo stesso, trattandolo con fredda indifferenza. Il Cavaliere tornò al suo cavallo e montò in sella.
“Siamo pronti?”
Ra’shak stava parlando a bassa voce con Valentino, accanto a lui, entrambi in sella. Sembravano starsi scambiando parole intime. Quando sentì il richiamo di Imesah si interruppe e si voltò verso tutti. Li osservò uno per uno e una volta certo che tutto fosse a posto replicò con un marziale annuire della testa.
Allora Imesah smosse il proprio cavallo con un cenno delle redini.
“Andiamo.”





 
***







Il sentiero percorreva il limitare della Foresta, si trovava appena oltre i primi alberi. Il cielo era terso e la luce del sole li avvolgeva in un piacevole tepore. Ra’shak si teneva vicino alla foresta per godere dell’ombra delle fronde. Lui e Valentino si trovavano davanti a tutti. I loro cavalli camminavano l’uno vicino all’altro, e ogni tanto il drow e il mezz’elfo si voltavano per rivolgersi qualche sussurro. So’o se ne accorgeva benissimo, trovandosi dietro di loro. Aveva due guardie ai lati, ma erano lontane: una al limitare del bosco e l’altra oltre il sentiero, sulla radura. Dietro di sé c’erano Mastro Maud e Imesah che registravano ogni suo minuscolo movimento. So’o subiva in silenzio quella maledetta tortura architettata dal padre, nella speranza che questo lo avrebbe fatto stare meglio almeno. Ogni tanto dava uno sguardo verso la foresta. Sentì improvvisamente un fruscio dalla parte opposta e nel voltarsi trovò lo sguardo beffardo e malizioso di Vilya incrociare i suoi occhi.

“Stai cercando gli elfi?”

Doveva essersi accostato qualche secondo prima. Vilya, al contrario degli altri, era libero di andare dove diavolo gli pareva e scorrazzare tra la radura e la Foresta senza limiti. Imesah doveva aver capito che qualsiasi ordine non sarebbe andato bene al ragazzo, e così lo aveva lasciato pascolare attorno al ‘gregge’ come un cane da pastore. So’o era invidioso. E Vilya lo sapeva benissimo.

“Non dovrebbero esserci a quest’ora del giorno.” Rispose So’o.
Vilya mosse il capo da un lato e dall’altro in diniego.
“Già. Non ci sono adesso. Potresti vederli al tramonto, oppure adesso, ma dovresti entrare dentro la Foresta.”
Dopo aver detto questo, Vilya si voltò con il viso e le spalle per posare gli occhi, So’o poteva indovinarlo anche senza seguire il suo sguardo, su Imesah, come per intendere: e non puoi farlo, perché lui ti sta guardando.
Il mezzodrow sospirò e tornò a guardare davanti a sé, dove scoprì curiosamente che Valentino si era sporto verso Ra’shak molto più di quanto lo vedesse fare di solito e stava sussurrandogli all’orecchio, con un sorriso sulle labbra, tenendogli una mano sull’avambraccio.
Bene, si lamentò So’o nella propria mente, persino i vice dell’Imperatore si stanno divertendo alla faccia mia.

“Dai.”
La voce di Vilya lo riportò alla realtà. Il drow era tornato a fissarlo, con occhi vispi.
“Ti faccio divertire io.”
Si sporse verso di lui e quando raddrizzò la schiena So’o sentì le proprie redini tirare. Abbassò gli occhi per vedere che Vilya le aveva prese in una mano e stava guidando il suo cavallo sul lato della foresta. Il cavallo obbedì docile.
“Sut'rinos. Xun udos ssinssrin sultha lil taur?**”
Vilya alzò la voce e guardò avanti a sé verso il jaluk che dava loro le spalle. Ancora una volta l’asprezza dell’accento drowish e la profondità della voce di Vilya colorarono le parole, ora dando loro quasi l’aspetto di un ordine. Ra’shak voltò appena il capo di lato nel sentire la domanda e poco dopo, senza fare una piega, prese l’imbocco di un sentiero che svoltava per la foresta, con sorpresa del Principe. Valentino lo seguì, e così Vilya e So’o. Il mezzodrow si mosse cautamente, aguzzando le orecchie appuntite per un eventuale contrordine dalle retrovie, che però non arrivò. Dopo l’iniziale diffidenza si rilassò in un sorriso sorpreso e dedicò la sua attenzione alla foresta che in poco tempo li aveva circondati. Alcuni alberi erano lunghi e sottili quanto una gamba, con una corteccia chiara e grigia e foglie rade. Altri erano più doppi e in lontananza se ne potevano vedere anche di imponenti come querce. La vegetazione alle radici degli alberi era insolita, proprio come aveva letto nelle lezioni con Asia.

Sentì il cavallo accelerare e si accorse che era stato Vilya a muovere il proprio cavallo e portarsi dietro quello di So’o.
“Ori'gato udossa alu qeeh.***” Ordinò di nuovo a Ra’shak e poco dopo anche il cavallo del Comandante accelerò, facendolo ondeggiare sulla groppa. Valentino lo seguì a sua volta senza alcun segno di allarme. Man mano Valentino e Ra’shak si fecero più lontani, così da dare ampio respiro al mezzodrow. Quando la nuova situazione si assestò Vilya abbandonò le redini del cavallo del fratello e si scostò per guardarlo di nuovo, con il sorriso malizioso sulle labbra.
So’o ricambiò il sorriso e corrugò insieme la fronte come per rimproverarlo.
“Guarda.” Gli mormorò il più grande tenendosi dritto sulla sella, fiero come un vero jaluk. “Non c’è bisogno che tu sia in carica per comandare. Basta comportarsi come se lo fossi.”

Allargò ancora il sorriso e diede un colpetto alla coscia del cavallo marrone così da accelerare e superare in poco tempo il fratello. So’o lo vide sfilare più lontano e voltarsi per guardarlo. Lo stava sfidando. Il mezzodrow socchiuse gli occhi verdi in una smorfia che lo guardava male, anche se il sorriso rimasto sulle sue labbra dimostrava che fosse divertito dalla sfida. Dopo un istante il suo piede si mosse quasi da solo e fece accelerare il cavallo grigio che ruppe le file e raggiunse Vilya più avanti: subito dopo lo superò in un atto di pura ribellione giovanile. Il jaluk si ritrovò a ridacchiare nel mezzo della tranquilla foresta, e la sua risata si perse tra il fruscio delle foglie e il profumo degli alberi in piena fotosintesi, intima e calda come i raggi del sole che filtravano dalle fronde. So’o fece girare il cavallo per raggiungerlo di nuovo e poi si allontanò dalla parte opposta. Vilya cercò di seguirlo ma il mezzodrow accelerò per non farsi prendere. Lanciò un paio di occhiatine al fratello maggiore per assicurarsi che non lo stesse raggiungendo, ma purtroppo Vilya stava per arrivargli dietro e aveva anche una mano sporta con l’intenzione di rubargli le redini. Allora spinse il proprio cavallo ancora di più per sottrarglisi e finì per superare Valentino e Ra’shak, che assistettero all’evasione dei ragazzi con la tranquillità di due bradipi.
“Ah!” Esclamò Vilya messo in difficoltà dallo scatto del fratello. Lui si voltò indietro per guardarlo e rise, contento per aver vinto la sfida.

Si concesse di correre un altro poco prima di rallentare e attendere gli altri. Quando Ra’shak e Valentino lo ebbero superato di nuovo si affiancò a Vilya e tornò composto sulla sua cavalcatura, guardando la foresta con arietta quieta. Il jaluk fece finta di nulla e posò gli occhi sul lato opposto della foresta. Poi girò piano il viso finché non incrociò lo sguardo di So’o, che scoprì spiarlo di sottecchi. Il mezzodrow, beccato da Vilya, non poté trattenersi dal sorridere e farsi sfuggire un’altra piccola risata che ne mosse le spalle. Il jaluk emise un riso gutturale, riservato solo alle loro orecchie, e tornò a guardare avanti e fingere che non fosse successo nulla.





Imesah non aveva staccato gli occhi da loro. Anche se non aveva cambiato espressione – ovvero, non aveva espressione – dalla prima volta che Mastro Maud l’aveva visto quella mattina, a parte quando aveva dovuto rivolgere uno sguardo di disprezzo nei confronti del figliastro dell’Imperatore, il modo in cui scrutava maniacalmente i movimenti del figlio denotava chiara apprensione sul limite della paranoia.
“Cavaliere, se permettete.”
Imesah non diede alcun segno di aver ricevuto il tentativo di Maud di comunicare con lui.
Prassi.
“Direi che potete rilassarvi. Queste terre sono pacifiche, e casa dei nostri alleati.”
Imesah replicò spostando lo sguardo su alcune fronde di alberi, dove Maud presumeva che l’umano avesse intravisto una tortora svolazzare senza il suo permesso. Dal basso del mulo che stava cavalcando restò a scrutare il Cavaliere ancora un poco, approfittando del fatto che l’uomo non sembrasse esserne infastidito.
“Posso chiedervi il perché di tali precauzioni?”
Con grande sorpresa di lei, il Cavaliere spostò gli occhi verdi su quelli di Maud. La sua voce incolore le rispose.
“Il figlio di Saab è prezioso.”
“Imesah, non c’è nessuno qui che possa danneggiarlo.”
L’uomo premette le labbra tra loro in una misteriosa smorfia.
“Qualsiasi cosa potrebbe.” Le disse con voce più bassa. Maud inspirò, e indietreggiò con la schiena.
“Forse siete preoccupato per qualcosa che si trova dentro la formazione, non fuori. Ma mi dispiace informarvi che, in questo caso, precauzioni di questo tipo sono del tutto inutili.”
Il Cavaliere Grigio fece la stessa smorfia di prima e lasciò cadere la discussione.



A un certo punto So’o trasalì e fece inchiodare il cavallo. Aveva il viso diretto verso un albero grosso il doppio di una persona. Seguendo quella direzione Imesah trovò la fonte del suo spavento: era aggrappato alla corteccia dell’albero con le unghie e i piedi, e la sua faccia tonda era puntata proprio sul Principe. Aveva un piccolo naso appuntito ed enormi occhi tondi, così sferici da attrarre tutte le luci su di sé e luccicare, di un verde acqua così scuro da sembrare a tratti nero, cangiante. Disorientante. Il resto della faccia era di un verde o un marrone che si mimetizzava con la foresta così come il corpo, più piccolo di quello di un uomo: lunghe braccia sottili così come le gambe e il busto, capelli castani disordinati, con foglie e terriccio impigliati, laccetti di foglia o di cuoio su polsi, collo, fianchi e caviglie, e i vestiti che lo coprivano sembravano al primo sguardo di comune stoffa, ma dopo pochi secondi se ne notava la fattura rudimentale: fatti di foglie, fiori, rametti, radici, trattati e intrecciati così bene da sembrare vestiti di cotone.

I suoi enormi occhietti rimasero fissi su So’o per molti secondi prima di scattare di qualche millimetro verso Vilya accanto a lui e poi verso il Cavaliere. Si erano fermati tutti.

“È un elfo dei boschi.” Disse Imesah, rivolto al figlio.
So’o si voltò per guardare lui, poi tornò alla creatura aggrappata all’albero e quasi del tutto immobile.
“… perché è qui? Da solo?”
“Non è da solo.” Imesah prese il respiro e con un cenno sulla coscia del cavallo lo fece avanzare per affiancare il ragazzo, dalla parte opposta a dove si trovava il jaluk. “È solo l’unico che riesci a vedere.”
Sorpreso, il mezzodrow tornò a scrutare nei pressi dell’elfo dei boschi e cercò di scovarne altri. Invano.
“Non vogliono farsi scoprire.” Gli disse il padre. “È inutile provarci. Ci riesci solo se vogliono loro. È una specie di magia.”
Vilya sollevò il mento verso la creatura e avanzò appena con il cavallo per emergere dal gruppo.
“Vel'bol lil vith xun dos ssinssrin?****” Sbottò verso di lei con tono sfrontato. L’elfo dei boschi piantò gli occhietti su di lui, che divenne il suo nuovo interesse, e man mano li sgranò ancora di più come se Vilya lo avesse allarmato.

So’o inclinò il capo, confuso.
“È un maschio o una femmina?”
“Non lo so.” Rispose Imesah dopo aver esaminato il corpo dell’elfo. “È difficile dirlo.”
“Non sono gli unici elfi della Foresta Incantata.” Si intromise Valentino, che aveva manovrato il cavallo per poter dare il fianco a quelli che si trovavano dietro e ora fissava So’o e il padre. “Ci sono anche…”
“Gli altri elfi dei boschi.” Annuì So’o, precedendolo. Incrociò lo sguardo del mezz’elfo biondo. “Quelli che assomigliano di più agli elfi comuni.”
Valentino annuì. “Questi elfi sono un’anomalia.” Posò gli occhi sulla creatura per studiarla. “Non possono essere considerate del tutto creature perché dimostrano un’intelligenza umana. Molti elfi della Foresta costruiscono vere e proprie relazioni con loro.”
“Che tipo di relazioni?” Vilya si intromise e sollevò un sopracciglio, incuriosito. Valentino scrollò le spalle ed esitò. Il suo silenzio iniziale bastò a Vilya per intuire e ghignare.
“Non fa piacere a tutti.” Si limitò a considerare il mezz’elfo.
Il cavallo di Vilya si mosse in avanti, in un assecondare del suo cavaliere. In un istante l’elfo dei boschi svanì dalla loro vista, come se la sua pelle fosse diventata invisibile in pochissimo tempo. Gli altri sollevarono il viso, colpiti.

Poi Imesah si smosse, e superò i due ragazzi.
“Vieni, So’o.” La voce era autoritaria ma calma. “Andiamo a conoscere gli altri elfi.”









 
***






Il sole stava iniziando a tramontare e il gruppo era uscito dalla Foresta Incantata. Avevano passato la giornata a parlare con gli altri elfi dei boschi, quelli vestiti di vero cotone, che non si arrampicavano sugli alberi ma anzi avevano un agglomerato di case bianche in vero stile elfico costruite attorno a un gigantesco albero millenario, con tanti scalini che salivano lungo il tronco. So’o li aveva conosciuti per la prima volta e avevano discusso della loro cultura e della politica che interessava i loro Regni. Come gli era stato detto erano pacifici e interessati a ciò che il Regno aveva da offrire loro tramite gli scambi commerciali. Nei pressi dell’albero, sulle case ai piedi di esso, aveva anche trovato alcuni elfi dei boschi che chiacchieravano con gli elfi dei boschi o che scambiavano oggetti curiosi con loro.

Adesso si incamminavano oltre. Avevano scavalcato il sentiero sul limitare della Foresta e stavano facendo pascolare i cavalli sulla radura. Imesah li guidò ad un gruppetto di alberi e decisero lì di accamparci per una piccola merenda. Sistemarono un telo e si sedettero alle radici degli alberi per mangiare.

“Facciamo una piccola pausa e torniamo a casa. Se si facesse buio prima dell’arrivo ci serviremo dei fuochi fatui di Ra’shak e Vilya.”
Ra’shak annuì. Era seduto accanto a Valentino con la schiena poggiata su di un albero e mangiava il suo pane. Valentino, alla sua destra, si strinse nelle spalle e commentò ironico.
“Avete un incantatore qui, ma prego, servitevi dei drow.”
Ra’shak ghignò divertito. Imesah, alla desta di Valentino, lanciò un’occhiata al mezz’elfo e ribatté.
“Scusa, hai ragione. Mi ero ripromesso di smettere di abusare dei pellescura.”
Vilya non poteva fare il ragazzo normale, e quindi stava scorrazzando per la radura insieme ai cavalli e aveva mollato So’o da solo accanto a Imesah. So’o fece un sospiro e si impegnò la bocca con il suo panino.
“Cibo da veri re.” Disse Valentino sollevando il proprio. Imesah masticò il suo boccone, poi fece la sua considerazione.
“Ogni tanto è carino fare come ai vecchi tempi. Mh?” La sua voce era bassa, e aveva perso tutta la durezza solita, al punto che So’o quasi non la riconosceva. A tal proposito So’o faceva di tutto per farsi ignorare, immaginando che Imesah si comportasse così perché si era dimenticato che lui fosse lì, e volendo continuare a spiare quello strano comportamento di lui, quasi umano – e non da genitore-pazzo.

Zittirono tutti, impegnati a mangiare. Davanti a loro si stagliava un’altra collina poco lontana, con un solo alberello appioppato sulla cima che da lontano poteva essere considerato un melo. So’o restò a fissare la sua sagoma annerita dallo sfondo luminoso del cielo che stava cambiando colore, dall’azzurro al rosa, per lunghi minuti mentre mangiava.
“Ti è piaciuto?”
Sentì la voce di suo padre alla propria sinistra. Era sempre bassa e tranquilla, come prima. Sentì una specie di ansia salirgli in petto. Non era abituato. Non sapeva cosa aspettarsi. Era… emozionato?
“Sì, molto.”
Che sciocchezza. Cercò di mandare avanti la conversazione, mantenendo un tono perfetto.
“È stato interessante osservare la Foresta e i suoi abitanti.”
Ovviamente continuava a guardare avanti, gli occhi erano piantati sull’albero.
“Anche la gita non era niente male.”
Ah, dunque voleva parlare di quello? Bene.
So’o inspirò e gettò fuori l’aria rispondendogli.
“Sì, non credo di essere mai andato così lontano da casa.” Esitò. “Mi è piaciuto davvero tanto.” Ammise.
Con la coda dell’occhio vide il padre annuire.
“Vuoi tornarci?”
“Volentieri.”
“Allora potremo riorganizzare.”
“Sì.” So’o premette le labbra in una smorfia insoddisfatta, abbassando gli occhi sull’erba verde. Ecco, forse poteva… poteva accennargli…

“Non ho bisogno di tutta questa precauzione. La prossima volta potremmo portarci meno gente.”
“Va bene.”
Il mezzodrow sollevò le sopracciglia, molto sorpreso. Va bene? Wow.
Proseguì. Voleva vedere se riusciva ad arrivare fino in fondo.
“Lo sai che… so difendermi da solo, vero?”
Imesah annuì, ma non disse nulla per molti secondi. Si portò la borraccia alle labbra e bevve, poi si asciugò la bocca con la manica dell’armatura imbottita. Alla fine rispose.
“Mi devi scusare.”
So’o sentì un nodo allo stomaco. Il padre proseguì.
“Azul è molto bravo a fare il papà. Ha sempre voluto un bambino tutto suo.”
“Sì… me lo ricordo.” Mugugnò So’o a voce bassa, nel timore che interrompendolo lui smettesse di parlare.
“Hm. Ma io non sono bravo come lui.” Ammise Imesah, abbassando lo sguardo e concedendosi un mezzo sorriso. Ovviamente non lo guardava. E So’o non guardava lui. Il mezzodrow lasciò che il silenzio li afferrasse entrambi, prima di biascicare fuori qualcosa.
“… va bene così.”
Imesah annuì, e i due restarono a condividere un piacevole silenzio.



Poi So’o notò la sagoma di Vilya avviarsi verso il melo che si stagliava davanti a loro. Attese un momento, per non dare cattive idee al padre e fargli venire l’impressione che non volesse stargli vicino. Quando sentì di aver passato abbastanza tempo con Imesah si smosse per alzarsi. Trovò il coraggio di voltarsi verso il padre, che sollevò il viso sbarbettato e gli occhi verdi verso di lui. Il Principe lanciò un’occhiatina al melo e a Vilya e poi tornò su Imesah, che fece lo stesso e poi, con un cenno del mento, lo invitò ad andare. So’o fece una piccola smorfia, rincuorato. Indietreggiò di un paio di passi per poi voltarsi e incamminarsi. Imesah rimase a guardarlo da lontano, prendendo piccoli sorsi dalla borraccia.



“Se è lui che ti preoccupa, perché non lo affronti?”
Mastro Maud era sbucata da dietro l’albero a cui era appoggiato il Cavaliere. Imesah sentì la sua voce da sopra la propria testa.
“Perché non gli parli?”
Il Cavaliere scosse il capo.
Il filo passa, si intreccia e fa un nodo, fa un punto e fa tutto l’arazzo.”
Maud sbuffò.
“Fai tu il filo. Decidi tu, per una volta. Mh?”
“È più complicato di questo. … Ci sono cose che non dipendono da me. Non posso controllarle.”
“No, ma Vilya è una persona, ci puoi parlare.”
“Non è Vilya.”

Maud, interdetta, cercò il suo viso. Si era incupito, pur essendo illuminato dal sole calante.
“È la debolezza, è la paura, sono le cose fragili. Vilya è solo il nodo. Il filo passerà, comunque, anche senza di lui.”











Il vento soffiava con più forza sopra quella collina. So’o restò per un momento ad osservare il nuovo orizzonte. Non c’era un vero limite, là fuori: arrivato ad uno se ne creava un altro. Non c’era un muro da non oltrepassare, c’era solo una collina da scavalcare. Oltre essa si intravedeva il resto della radura e due altre foreste che si estendevano a lungo fino ad arrivare ai primi centri abitati. Due grandi città con le loro mura e alte torri si intravedevano in lontananza, piccole piccole, sotto il cielo giallo. Si sedette ai piedi del melo, accanto al fratello maggiore. Le narici inspiravano una manciata di profumi insoliti: l’umida erba selvatica, le varietà di alberi, gli aromi che portava il vento fresco. Il profumo di aperto, di libertà.

“Quindi? In punizione per una settimana?”
“Mi vuole portare di nuovo. Con meno gente. Forse a un certo punto riuscirò persino a liberarmi di lui.”
“Yayyyyy.” Esultò il drow con voce acuta ma bassa, mentre sollevava il pugno destro in segno di vittoria. “E quando quel momento arriverà… fuggiremo in groppa al frisone di Ra’shak, abbandonando tutto e tutti al loro destino,” la mano si dischiuse e il palmo aperto indicò l’orizzonte da sinistra verso destra “per ridurci sbronzi in un’osteria ignota e farci saccheggiare dai barboni.”
So’o annuì deciso. “Sì. Esatto. È il piano della mia vita.”
“Perfetto.” Confermò Vilya, stringendo di nuovo il pugno. Lo abbandonò per terra poco dopo. Lanciò un’occhiata a So’o. “Che noia gli elfi dei boschi. ‘Noi qua’, ‘noi là’, ‘il commercio di legname’, ‘le vostre gemme preziose’, bla, bla, bla. Dovevi dirglielo:” si sporse verso il fratellino “‘l’unica cosa che mi interessa signor Elfo è arrampicarmi sugli alberi insieme agli elfi dei boschi.”
So’o si voltò verso di lui.
“Quali elfi dei boschi?”
“Gli elfi dei boschi.”
“Si chiamano entrambi ‘elfi dei boschi’.”
“Sì, ma quelli sono gli altri elfi dei boschi. Gli elfi dei boschi sono gli elfi dei boschi.”
So’o sospirò, esasperato. Vilya insistette.
“E comunque vorrei dire solo che questa è una foresta, non un bosco.”
“Sì, Vilya-” So’o si premette indice e pollice sull’attaccatura del naso e scosse il capo. “- non esistono gli elfi delle foreste, solo gli elfi dei boschi, che vivono anche nelle foreste.”
“Lo so.” Disse Vilya. “Era una battuta stupida.” Corrugò la fronte: era sinceramente preoccupato di non essere riuscito a fare ridere. So’o gli lanciò un’occhiatina intenerita, anche se disperata, e Vilya incrociò il suo sguardo. So’o si ritrovò a sorridergli di nuovo. Alla fine sbuffò dalle narici ed emise una risata gutturale, sporgendosi di lato per cadere sul fratello. Vilya sorrise contento e allungando il braccio destro lo accolse a sé. Lo abbracciò. Il suo corpo era caldo e accogliente. So’o se ne compiacque per un momento, poggiando, insieme alla guancia, la mano affusolata sul petto del ragazzo, coperto dalla maglia color sabbia. Riuscì a sentire il battito del suo cuore. Era un ritmo rilassante, che distese l’espressione sul viso del fratellino.

“A Charrvelraughaust non c’è il vento, lo sai?”
So’o si accorse solo allora di aver chiuso gli occhi. Li lasciò chiusi e scosse la testa sul petto del fratello. Vilya continuò.
“Ci sono solo correnti d’aria. Perché è una città del sottosuolo. Non c’è il ‘vento’, là, è un grosso agglomerato di grotte con una grotta molto più grande che è la città.”
“Tu vieni da lì, vero?”
“Sì.” Annuì Vilya. “Ma ero un paria, non avevamo neanche una casa. In più avevo questo aspetto. Mamma cercava di fare il possibile.”
So’o si accigliò.
“È per il colore?”
“Sì. Lo sai, allora. Questo non è il colore di un jaluk. I capelli neri…”
“Mh.” Annuì So’o. “Quindi ti odiavano?”
Da come i capelli di Vilya gli sfiorarono la nuca capì che Vilya aveva annuito.
“Non era un problema, ce la cavavamo. Solo che eravamo scoperti. È così che è morta.” La sua voce si abbassò verso la fine. Non nascose di essere ancora sensibile all’argomento. Così So’o lo lasciò perdere. Restò ancora un po’ adagiato sul fratello a godere della brezza del vento. Era stanco.

“Ho preso i colori della nonna.”
So’o aprì gli occhi, sorpreso. Si scostò per guardarlo in faccia.
“La mamma di papà?”
“Sì, proprio lei. Aveva i capelli neri e gli occhi blu, così.”
“Oh.” Rimase a scrutare il suo viso, e Vilya fece vagare gli occhi nei suoi. “So che la nonna è morta quando papà era molto piccolo.”
Vilya annuì, ma distolse lo sguardo. “Quella è una lunga storia.”
“Tu la sai allora?” Di nuovo, il fratello maggiore annuì e poi guardò So’o. I due si guardarono a lungo, prima che So’o si ritirasse con un sospiro insoddisfatto e uno sguardo un poco deluso.
“Vuoi che te la racconto?”
So’o scrollò il capo “No, non ora. Però… ci sono tante cose che…”
“Lo so.” Lo interruppe Vilya. So’o sentì la sua mano sul proprio avambraccio. Si era sporto verso di lui. Il mezzodrow tornò a guardarlo in viso. Il fratello gli rimandò uno sguardo determinato.
“Sono qui per dirti quello che vuoi sapere. Ricordi?” Risalì sulla mano mulatta del Principe. La intrecciò alla propria e la spostò sulla propria coscia, avvicinandolo di più a sé. “Quello che papà non ti dice.”
So’o sostenne a lungo il suo sguardo, prima di liberarsi dalla presa del jaluk e ritirare la mano sul proprio grembo.
“Allora voglio che mi dici una cosa.”

Vilya indietreggiò, drizzando la schiena.
“Cosa?”
“Perché Imesah ti odia?”
Vilya sollevò le sopracciglia, preso alla sprovvista. “… oh. Beh, perché ho cercato di rimorchiarti.”
So’o corrugò la fronte, indispettito. Non accettava di farsi liquidare così.
“Vilya. Lo so che c’è dell’altro. Non può odiarti così tanto solo per quello. Ti odiava da prima. Perché.”
Il moro indietreggiò ancora un poco con la testa, come per allontanarsi da lui. Deglutì, guardandolo negli occhi con incertezza.
“… va bene.” Mormorò. So’o si smosse per voltarsi un poco di più verso di lui, in pieno ascolto. Vilya invece si scostò così da staccarsi del tutto da So’o, in una manovra che lo stranì.

“Dunque.”
Vilya guardava in basso, sui fili d’erba sempre più scuri per via dei raggi del sole che stavano ormai sparendo dal cielo. L’aria si faceva lentamente più fredda ora che il sole era tramontato.
“Ricordi quando ti dissi che sono stato un pirata?”
So’o annuì: “Con papà.”
“Sì.” Confermò Vilya, annuendo. Si bloccò di nuovo. Fissò So’o, come per verificare le sue reazioni. So’o era, ovviamente, perplesso e interdetto. “Allora?” Gli fece. Vilya annuì di nuovo e si costrinse a proseguire.
“È successo dopo che persi mia madre. Non sapevo cosa fare, così decisi di abbandonare il sottosuolo e di andare in cerca di mio padre. Dopo qualche tempo riuscii ad avere informazioni su di lui e lo trovai su quella nave pirata. Mi arruolai nella ciurma. Lui mi insegnò tutto.”
Vilya si tirò una ciocca di capelli neri dietro l’orecchio appuntito, sul lato dove si trovava So’o. Continuava a guardare l’erba, si concentrava sulle parole da scegliere.
“Azul mi voleva molto bene. Aveva sempre desiderato un figlio.” Scrollò le spalle. “E… io ho sempre voluto conoscere mio padre. Eravamo molto legati.” Fece una smorfia, poi si decise a voltare il viso verso So’o. Incrociò i suoi occhi verdi e li scrutò per qualche secondo.

“Ci siamo innamorati.”
“Oh.” So’o sollevò le sopracciglia. “Di chi?”
Vilya rimase a fissarlo con la stessa espressione di prima.
“Tra noi.”
“Con due della ciurma?”
“No- cioè, sì.”
“E chi?”
“Noi. So’o.”
“Ho capito ‘noi’.” So’o corrugò la fronte. “Ma chi?”
Vilya prese il respiro e si coprì la faccia con entrambe le mani; se le passò sulla faccia per poi tornare a lui.
“Stavamo insieme.”
“Sì. Si è capito. Eravate nella stessa ciurma. Duh.” L’espressione di Vilya si fece tragica.
“No… non hai capito!” Esclamò disperato. “Noi… uh!” Emise un verso di frustrazione. Strizzò gli occhi e si strofinò il naso con due dita. Tornò a lui. Lo fissò dritto negli occhi. La fronte corrugata dallo sforzo. Deglutì di nuovo.

“So’o. Io e Azul eravamo innamorati. L’uno dell’altro.”

So’o rimase a fissarlo con l’espressione confusa di prima, che non cambiò di una virgola. Dopo cinque secondi sbatté le palpebre. Dopo aver sbattuto le palpebre rimase a fissarlo come una statua. Passarono interminabili secondi prima che lui si muovesse di nuovo, spostando il viso davanti a sé a guardare l’orizzonte con aria assorta. Vilya fece lo stesso e le sue mani presero a giocare tra loro nel tentativo di sfogare la tensione. Quieto. Senza cercare di parlargli. Probabilmente sarebbe morto se avesse provato a parlargli in quel momento. Senza alcuna fretta o gesto sconvolto So’o si alzò educatamente dal prato, e con una innata naturalezza si voltò e si incamminò verso l’altra collina, allontanandosi da Vilya e abbandonandolo accanto al melo.

Vilya dischiuse le labbra e buttò fuori un sospiro, tornando a guardare il basso. Poi lanciò un’occhiatina al cielo terso e premette le labbra in una piccola smorfia di sufficienza.

















* = gente di superficie
** = Comandante. Non vogliamo entrare nella foresta?
*** = Andiamo più veloce.
**** = ‘Cazzo vuoi?

(si ringrazia Vilya, fine come sempre.)
Un disegno di Vilya e So'o che giocano a scacchi.


 

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Capitolo 10
*** Peldicenere ***


Ciao ragazzi! Avviso che insieme alla pubblicazione di questo capitolo aggiornerò i precedenti con almeno un disegno per ognuno di essi. Se vi incuriosisce dategli pure un'occhiata! Buona lettura :)




 
Peldicenere.







So’o si fece attendere. Arrivò alla porta della biblioteca con dieci minuti di ritardo. Tutte le mattine a quell’ora aveva preso l’abitudine di approfittare della pausa dallo studio per vedersi con Vilya nella biblioteca e leggere un libro insieme. La mattina dopo la rivelazione di Vilya non era certo che si sarebbero visti, dal momento che So’o non gli rivolgeva la parola da allora, e So’o aveva deciso di ritardare per far soffrire il fratello maggiore.

Entrò nella biblioteca e cercò il drow. Si trovava, come sempre, al secondo tavolo di sinistra. I tavoli della biblioteca erano rettangolari, posti ai due lati della porta in una sola fila per lato, e davano le spalle alle pareti laterali della stanza, coperte dalle librerie. Vilya sembrò non accorgersi del mezzodrow. Era seduto al tavolo con il dorso del libro che poggiava su esso e sul proprio grembo. Aveva dei pantaloni neri, puliti, e la maglia color sabbia del giorno prima, che contrastava piacevolmente sulla pelle molto scura, dalle sfumature bluastre. Lo sguardo era basso sulle pagine e l’espressione tranquilla, forse un po’ desolata. Sembrava assorto nella lettura. So’o avanzò al tavolo e si sedette sulla panca di Vilya, accanto a lui, alla sua destra. Vilya però non batté ciglio.

Parimenti, So’o si mise composto e si aggiustò i vestiti con nonchalance. Oggi era più informale: portava uno smanicato di un grigio verdastro intessuto in una stoffa che rifletteva la luce in un modo simile al metallo, anche se non ugualmente appariscente. Le spalle e le braccia erano coperte da una specie di mantello con le maniche, leggero, lungo fino a metà coscia, grigio e di fattura umile, che gli stava largo al punto da scoprirgli una spalla abbronzata. I pantaloni verde slavato gli erano ricamati addosso e si fermavano prima delle caviglie, dove iniziavano dei sandali che ne mostravano i piedi mulatti.

Poggiò le mani sul bordo della panca di legno. Teneva gli occhi verdi bassi sul tavolo. Tono asciutto:

“Stavate insieme.”

Vilya annuì nel mezzo della propria lettura.

“Tu e papà.”

Vilya esitò un istante, poi annuì di nuovo, più piano. Sollevò le palpebre e guardò verso destra, dove aveva il fratellino. So’o fu meno pudico: si voltò per fissare dritto Vilya negli occhi, così da convincere il drow a incrociarlo.
Il Principe ne saggiò lo sguardo. Non vi lesse vergogna né imbarazzo.

“Perché.”

La domanda fu inaspettata. Vilya sollevò il mento e le sopracciglia.

“… beh, perché le persone si mettono insieme?” Rispose con un’altra domanda. La sua voce fu scossa da una risata ironica che gli veniva dalla gola mentre scuoteva il capo e gli rivolgeva un sorriso ilare. So’o corrugò la fronte, un poco indispettito, ma lo assecondò.

“Perché si piacciono e si vogliono bene.” Ipotizzò. Vilya chiuse le labbra e rincarò il sorriso in risposta. Tornò al suo libro. So’o continuava a interrogarlo con lo sguardo. Vilya scrutò le pagine, senza leggerle veramente. Si prese del tempo per rifletterci, poi prese un piccolo respiro dalla bocca e riprese.

“Ti sembrerà tutto molto chiaro, qui. Ci sono regole che ti dicono come dovresti comportarti, come dovresti sentirti, cosa dovresti fare.”

Si bloccò qualche secondo. So’o lo vide cercare le parole tra le pagine del libro, invano.

“Io sono cresciuto senza stelle che mi guidassero. Non ho mai saputo quale fosse la strada giusta. Prendevo la mia e la percorrevo tutta.” Fece una smorfia. Strofinò i pollici sulla carta delle pagine.

“Provavo qualcosa per mio padre. Mi interessava quello che pensavano gli altri? No.” Scosse il capo. “Sono stato io a cercarlo. L’ho convinto a farlo. Non credeva che fosse la cosa giusta. Per me, o per lui, per nessuno. Ma l’abbiamo fatta.”

So’o lesse una stilla di orgoglio nella sua voce. Scrutò ancora il suo profilo, in parte oscurato dalla chioma di folti capelli neri. Inclinò il capo.
“L’avete fatta perché vi amavate?”
“Provavamo un’attrazione speciale l’uno per l’altro.” Spiegò Vilya, sbattendo le palpebre, immerso nei ricordi. “Era intensa, unica. Un richiamo. Noi ci appartenevamo.” Vilya cercò gli occhi di So’o, come per cercare di farsi comprendere meglio. So’o esitò.

“… ora non è più così?”

Vilya scrollò presto il capo. Le mani riavvicinarono le pagine del libro tra loro e lo chiusero con dolcezza.

“Non sono più solo il suo bambino, e anche lui è cambiato. Non siamo più ciò che eravamo prima, non ci riconosciamo più. E va bene così.”

So’o si strinse nelle spalle mulatte, che si rivelavano tra la stoffa dello smanicato e quella del mantello. Teneva le mani poggiate sulla panca, tra le cosce, e aveva finito per sedersi scomposto, con la gamba sinistra poggiata sopra, voltato del tutto verso il profilo di Vilya, che riprese.

“È per questo che ci siamo separati.”

Voltò del tutto il viso scuro verso quello del fratellino.

“Voleva finirla.”

So’o sbatté le palpebre, interdetto.

“Non ti amava più?”

Di nuovo, Vilya si fece sfuggire uno sbuffo divertito e un ghigno beffardo, abbassando lo sguardo. So’o ebbe l’impressione di aver appena detto la cazzata più colossale che si potesse dire nell’intera galassia. Vilya negò con un cenno della testa.

“Voleva di meglio per me. Voleva che trovassi qualcuno con cui potevo creare qualcosa. Sapevamo entrambi che quello che avevamo non sarebbe andato da nessuna parte.”

So’o annuì piano. Abbassò lo sguardo. Aveva gli occhi ben aperti, e ogni tanto li sbatteva mentre cercava di capacitarsi di tutte quelle insolite informazioni. Scorse Vilya voltare di nuovo il viso verso di lui.

“Senti, non volevo incasinarti la testa. Mi dispiace.”

So’o scosse il capo. “No, sono stato io a chiedertelo. Volevo saperlo io.” Vilya attese qualche secondo prima di parlargli ancora.
“Ti sei pentito di aver chiesto?”
Il fratello minore ripeté il gesto di prima e poi alzò gli occhi limpidi nei suoi. Erano sfacciati in un modo disarmante.
“Adesso capisco molte cose.”
Vilya rifletté su quello che aveva detto e annuì piano.
“Quindi grazie.” Aggiunse So’o. Fece una smorfia. “Non eri obbligato.”
“No…” Si affrettò a dire il drow, scrollando impacciato il capo e sporgendosi in avanti – verso il tavolo “io… io voglio… dirtelo.”

So’o sollevò le sopracciglia, sorpreso. Uno strano sorriso si fece strada sul suo viso, non sapeva neanche perché. Infatti uscì fuori imbarazzato. Vilya condivise quel sentimento: abbassò il viso e lo sguardo per un momento, sorridendo a sua volta, e poi tornò a guardarlo. Quando So’o incrociò di nuovo i suoi occhi, erano commossi. Si accorse che c’era altro che Vilya sembrava volergli dire, ma lo teneva chiuso, timidamente, nella bocca. Allora si rese conto che probabilmente Vilya non parlava mai di quell’argomento, e che condividerlo con lui doveva averlo fatto stare bene. Si chiese quante persone, sapendolo, avrebbero o avevano guardato Vilya come se fosse una vittima o una bestia. Allora capì cos’era il modo in cui Vilya lo stava guardando. Gratitudine, felicità. Per essere stato compreso.

Appena So’o ebbe il tempo di accorgersene, Vilya si protese verso di lui sollevando le braccia come una enorme pantera che gli saliva addosso e gli cinse le braccia attorno al collo per stringerlo in un abbraccio. So’o si drizzò d’istinto.
“-Ugh.” Posò le mani sulla sua schiena mentre Vilya gli strofinava il muso tra i capelli dorati, nell’incavo del collo, e si stringeva contro di lui. Il mezzodrow avvolse le braccia attorno al suo busto e lo strinse piano. Sentiva il suo corpo caldo. Abbassò il viso e chiuse gli occhi, e si consolò per qualche momento nel tepore dell’abbraccio, mentre le altre sei persone nella biblioteca facevano di tutto per fingere che non stesse succedendo niente.




 
***






Il Principe si stava guardando allo specchio che aveva davanti. Lo specchio era parte del comodino di fronte al quale era seduto e rifletteva la sua figura da sopra i capelli fino alle costole. La pelle bronzea era rivelata dalla maglia grigia, che mostrava uno scollo largo ma per niente profondo, ad accarezzargli le clavicole, e si apriva subito dopo in due parentesi sulle spalle per mettere in mostra l’interezza dei suoi deltoidi aggraziati. Ogni tanto, nel tirare delle ciocche bionde, piegava indietro il capo per poi riportarlo dritto. Sbatteva le palpebre e aspettava in silenzio, lasciando che il padre gli sistemasse a dovere i capelli.

Poco lontano, accanto a loro, si trovava Vilya, seduto sul letto di So’o. Era a petto nudo – trattava la maglia regalatagli da Imesah come se fosse una giacca, indossandola per uscire – con la schiena poggiata alla parete e il resto del corpo morbidamente rilassato sul materasso, con i muscoli che serpeggiavano sulla pelle scura in pieghe sinuose. Un ginocchio era piegato e l’avambraccio dello stesso lato poggiava proprio su di esso. Nella mano portava una bottiglia di birra. Gli occhi erano puntati sul fratellino e sugli intrecci delle mani affusolate di suo padre.

Azul poggiava il piccolo petto sullo schienale della sedia su cui era seduto. Comodo e dritto con la schiena, pettinava e sistemava i capelli di So’o in trecce, che stava intrecciando a loro volta tra loro per formare alla fine due sole grandi trecce. La stanza era immersa in un piacevole silenzio, ogni tanto interrotto da un cinguettio esterno. La luce del primo pomeriggio filtrava dalla finestra. Il braccio longilineo di Azul si sporse oltre la spalla di So’o, che intuì la richiesta e prese delle forcine per porgerle al padre. Lui tornò a trafficare tra i suoi capelli. So’o abbassò lo sguardo.

Non aveva ancora detto a suo padre ciò che aveva scoperto la settimana prima. Avrebbe voluto parlargliene, ma il drow si era chiuso in un comportamento schivo dopo l’incubo della sera precedente e solo in quei giorni era tornato a frequentare i ragazzi e a rivolgergli la parola. Le rughe sulla sua faccia si erano rilassate e lo sguardo non li evitava più. Ogni tanto So’o lo vedeva fare così e aspettava che tornasse tutto normale. Come lo era, ad esempio, in quel momento. Diede un’occhiata a Vilya, che aveva attaccato le labbra scure alla bottiglia per prendere un sorso e lo ricambiò all’istante con uno sguardo eloquente. Sguardo che Azul non colse neanche per sbaglio, intento a terminare la complessa capigliatura. Infatti il padre gli tirò i capelli per costringerlo a tornare dritto con il viso.

“Non ti muovere, altrimenti non riuscirò a farlo bene.” Lo ammonì con la voce premurosa che gli riservava tipicamente – diversa dal tono freddo della settimana precedente. Parlava in drowish: quando la discussione riguardava solo loro tre, potevano permettersi di parlare nella loro lingua di origine. So’o tornò a guardarsi in faccia a lungo e quando vide Azul finire di arrotolare anche la seconda treccia attorno a se stessa, ad un lato della nuca di So’o, e fermarla con le forcine e una piccola rete, tirò un sospiro di sollievo. Che noia.

Azul si ritirò con la schiena ma teneva gli occhi ancora fissi sulla sua creazione e le mani a mezz’aria.
“Ecco, dovrebbe essere a posto.”
Vilya si smosse dal letto per alzarsi e poggiò la bottiglia su un comodino vicino al letto. So’o sollevò le mani per premersi un poco quei fagotti di capelli che aveva sulla sommità della nuca, ai lati. La sua frangetta, che tagliava il viso in modo perfetto e lambiva le sopracciglia piccole e bionde, era rimasta intoccata, ma tutto il resto era stato raccolto.
“Se lo tocchi non è un problema. Ho fermato le reti con le forcine.” Il padre si alzò dalla sedia e la spostò via, continuando a scrutare i capelli del figlio da più in alto. Poi si concesse un sorrisetto.
“Sei soddisfatto?”
So’o abbassò le mani e annuì. Anche lui parlò in drowish.
“Sì, grazie papà.”
Si negò il riflesso dello specchio per voltarsi verso di lui, che aveva una smorfia soddisfatta sul viso e si poggiava con una mano allo schienale della sua sedia. Lo vide portarsi una mano sul vitino stretto esaltato dai vestiti ricamati addosso.
“Hai ragione, ogni tanto si deve cambiare.”
“È un’ottima scusa per passare del tempo insieme.” Si intromise Vilya, nell’accento spigoloso della lingua di origine, camminando verso i due. Spostò i profondi occhi scuri dal Principe all’Imperatore, a cui rivelò un ghigno. “E per te un’ottima scusa per pettinare i capelli di tuo figlio.”
Il padre ricambiò il ghigno e assottigliò i grandi occhietti gialli in due fessure deliziate, sollevando il mento affilato. “Dovrò pure sfogarmi con qualcuno. I tuoi capelli sono crespi e non te li lasci intrecciare. Ho ripiegato sul fratello minore.”
Il primogenito scosse il capo esasperato, così da confermare le sue parole.
So’o osservava in silenzio le loro interazioni. Vilya gli scoccò un’altra occhiata eloquente e So’o capì di stare dando l’impressione di sapere-quello-che-sapeva-e-che-il-padre-non-sapeva-che-lui-sapesse, così abbassò lo sguardo. Con la mano sullo schienale Azul si spinse via da esso e vi si staccò.
“Allora vi aspetto stasera a cena. Non fate troppe sciocchezze mentre non vi guardo.”
“No, papà.”
“No, papà.”
Si ritrovarono a ripetere in coro i due fratelli. Si fissarono interdetti, e Azul inarcò le sopracciglia colpito.
“Wow. Ehm… siete davvero poco sospetti.” Borbottò sarcastico, ma rivolse loro uno dei suoi sorrisi deliziati, socchiudendo di nuovo gli occhietti. “A dopo, bambini.” Fece un occhiolino a Vilya, abbassò lo sguardo su So’o e si voltò.
“A dopo.”
“A stasera.”
Il padre richiuse la porta dietro di sé dopo averla superata, lasciandoli soli.

I due fratelli si guardarono di nuovo.
Quando So’o si alzò dalla sedia si trovò praticamente addosso a Vilya, con la maglia sottile che gli sfiorava il busto glabro. Incrociò intensamente il suo sguardo, a pochissima distanza dal suo. Poteva sentire il calore del suo respiro sul collo.
Piegò i lati delle labbra in un sorriso furbo.
Il fratello maggiore distese le labbra in un nuovo ghigno.
So’o sentì la mano calda di Vilya accarezzare la sua e stringerla dolcemente. Rispose alla stretta. Pressò i polpastrelli sulla sua pelle dall’emozione, strofinandoli sul dorso della mano scura. Questo fece sorridere maggiormente Vilya, che scrutava sognante i suoi occhi verdi.
“Sei pronto?”
Il fratellino annuì con veemenza, più volte, mantenendo lo sguardo eccitato nel suo.

“Bene.”

Vilya si staccò e prese il cappello dal comodino. Era un cappello di lana, morbido, nero. Lo sistemò sulla nuca di So’o in modo da nascondere le trecce e tutti i capelli a parte la frangetta. Lo tirò un poco verso il basso così che si afflosciasse dietro e controllò che fosse a posto. So’o si guardò allo specchio: sembrava completamente diverso. Il cappello gli dava un’aria più plebea, e sembrava che avesse i capelli cortissimi visto che non se ne vedevano, nascosti. Gli venne spostato il viso da Vilya che lo costrinse a guardarlo in faccia mentre gli truccava gli occhi con un accenno di kajal.
“Questo cambia lo sguardo. Non lo riconoscerà nessuno.” Gli spiegò. Si guardò di nuovo allo specchio dopo che Vilya lo lasciò andare e poté solo confermare le sue parole. Si voltò completamente verso lo specchio, le labbra dischiuse dalla meraviglia.
“Sono un’altra persona.”
“Lo sei.” Replicò Vilya tornando a lui e facendogli indossare un povero gilet di lana sottile, grigio scuro, con un cappuccio dietro. Anche lui si era rivestito, con la maglia color sabbia addosso. Lo fissò negli occhi verdi.
“Ti chiami Ssussun.”
“Ssussun.” Ripeté So’o, annuendo.
Vilya lo scrutò un’altra volta. Una mano gli sistemò ancora il cappello e scivolò sulla mascella dolce del ragazzo in una carezza fino al mento, e quel gesto sembrò provocargli il sorriso che si presentò sulle sue labbra. So’o ebbe l’impressione che Vilya stesse ammirando la sua bellezza. Si compiacque della cosa, vezzeggiato.
“Questo è il nostro piccolo segreto.”




 
***






Era ormai sera inoltrata. So’o seguiva la strada di porticati che lo avrebbe riportato alla sua stanza.
Era stata una giornata piena. Dopo essersi camuffato aveva eluso le guardie servendosi dei propri poteri e insieme a Vilya si era immerso nella folla del Mercato. Nella Piazza c’erano gli amici di Vilya. Ne ricordava qualcuno: i tre cugini mezzorchi, Dalia, Thursz e Rhaed, poi la curiosa halfling che si travestiva da uomo, Rulka, l’umano Sephir, con cui Vilya aveva litigato un paio di volte e che avevano dovuto separare perché non si prendessero a botte, e due strani elfi, Siss e Seos.
Aveva scoperto che erano gemelli. Lo avevano affiancato e avevano iniziato a fargli molte domande, come se lo avessero puntato. Per fortuna So’o non aveva niente da temere: Vilya era sempre nei paraggi ad assicurarsi che i due elfi non arrivassero a importunarlo. Quei ragazzi erano strani.
So’o sospirò contento ma stanco, arrivando al chiostro davanti la propria stanza. Avevano rischiato di arrivare tardi a cena, tanto si stavano divertendo. Imesah si sarebbe infuriato anche senza sapere quello che era veramente successo. Avevano giocato con il tiro alla fune, poi si erano arrampicati sul tetto di una taverna e avevano guardato il mercato dall’alto mentre il sole tramontava, con la musica dei suonatori che li raggiungeva dalle finestre del piano di sotto. A un certo punto un paio di umane avevano iniziato a ballare sul tetto e Vilya aveva trascinato So’o a fare la stessa cosa. Ovviamente, tra le risate del più piccolo, scivolarono e rischiarono di cadere e spezzarsi l’osso del collo. Anche ora che So’o ci rifletteva non gli sembrava niente di troppo brutto, come se la felicità che provava in quel momento non potesse venire offuscata neanche da quella minaccia.
Si strinse nelle spalle e si fermò alla sua porta. Per fortuna nessuno dei genitori aveva sospettato niente. Beh, certo… So’o lanciò un’occhiatina su, verso le stelle. Uno di loro sapeva tutto. Ma dagli sguardi ignari degli altri due, sembrava stare dalla sua parte. Il Principe si lasciò sfuggire un sorrisetto contento ed entrò nella stanza.

“Ah…”

Sospirò, stanco. Iniziò a spogliarsi, impaziente di levarsi di dosso i vestiti più ingombranti per indossarne di comodi. Abbandonò la parte superiore della tunica sul letto e prese i lembi inferiori della tunica per sollevarla e togliersela da sopra. La sistemò e la piegò su una sedia. Poi si levò i pantaloni e i sandali e, con il suo affusolato corpo nudo, andò in bagno a rinfrescarsi. Si sciolse la capigliatura intricata che aveva tenuto fino ad allora e si pettinò con cura i capelli, guardandosi allo specchio. Erano mossi per via delle trecce appena sbrogliate, ma immaginava che in qualche giorno sarebbero tornati del tutto lisci.

Tornò nella camera da letto e prese la maglia piegata sul cuscino. Era uno smanicato ocra scuro di fattura semplice. Aveva uno scollo a barca, due spacchi all’inizio delle anche, ai lati, e finiva oltre il bacino così da coprire quest’ultimo. So’o era sicuro che in alcune zone del continente quel vestito fosse usato per gli schiavi – non che questo gli creasse problemi. Sotto di esso mise delle mutande che però non si vedevano dallo spacco, visto che lo superavano.
Qualcuno poteva considerarlo un pigiama languido, ma So’o non si era mai posto il problema: la sua discendenza drow gli permetteva di scoprire la più alta percentuale di corpo possibile nella totale assenza di malizia. Era semplicemente la sua cultura. Un corpo scoperto indicava forza. E poi, gli piacevano i bei vestiti.

Si allisciò la maglia e si sedette finalmente quieto sul letto. Il vestito era maledettamente comodo, soprattutto rispetto a quello che indossava prima. Chiuse gli occhi e inspirò piano, con il sorriso sulle labbra, ripensando alle cose belle che aveva fatto quel giorno.

All’improvviso i nervi gli si tesero completamente senza avere neanche il tempo di capirne il motivo, tutti i capelli gli si rizzarono dalla nuca e sentì di trovarsi in grave pericolo.

Sgranò gli occhi e fissò davanti a sé: era paralizzato dalla propria stessa paura, che si insinuava sempre più a fondo dentro di lui. Dentro di sé qualcosa gli disse che doveva andarsene da quella stanza. Non sapeva perché, né cosa fosse a dirglielo, ma sapeva che qualcosa gli stava dicendo cosa avrebbe dovuto fare ed ebbe l’impulso innato di ascoltare quella voce. Si voltò dietro di sé in un gesto istintivo e scrutò tutti gli angoli della stanza senza trovare niente e nessuno. Indietreggiò sul letto finché non ne raggiunse la fine e si alzò sui piedi nudi per continuare a indietreggiare verso la porta.

Si allungò a una sedia per afferrare una veste scura, si voltò e corse alla porta per chiuderla subito dopo dietro di sé, poggiandovisi praticamente addosso. In uno scatto indietreggiò fino a sbattere con la schiena sulla colonna del porticato. La veste gli cadde di mano. Non sentiva suoni provenire dalla stanza, ma voleva allontanarsene il più possibile. Si accovacciò per recuperare la veste e poi si voltò e si incamminò con passo veloce oltre il chiostro. Senza fermarsi la indossò: la veste verde scuro gli copriva le braccia e le cosce, allungandosi fino ai polpacci, e gli permetteva di proteggersi dal fresco della notte. Non si fermò finché non raggiunse una porta, e lì bussò freneticamente con le nocche per poi guardarsi attorno spaventato.

Quando la porta si aprì, i suoi occhi ben aperti si piantarono sulla sagoma del fratello. Vilya era sorpreso di vederlo e probabilmente un po’ confuso. Vedere So’o così sconvolto lo allarmò.
“Devo entrare.” Ansimò So’o. Vilya indietreggiò subito e il fratello minore entrò nella stanza. Gli prese la porta dalle mani e la chiuse con un tonfo. Girò la chiave nella toppa. Sospirò di sollievo tra gli ansiti e anche allora cercò distanza con l’esterno, indietreggiando.
“So’o, cosa è successo?” So’o non aveva mai visto un’espressione così seria e apprensiva sul volto di Vilya. Il drow sembrò all’improvviso riguadagnare tutti gli anni che aveva.
“Non lo so. Non uscire. Non aprire la porta.” I polpacci inciamparono sul letto e il ragazzo si ritrovò a cadere all’indietro e sedersi sul materasso del fratello maggiore, che si avvicinò a lui.
“C’è qualcuno fuori la porta?”
Di nuovo So’o scosse il capo e insieme le spalle, facendo intuire a Vilya di non saperlo.
“Non aprire la porta.” Il tono era imperativo. Stranì Vilya, che drizzò il capo. So’o incrociò i suoi occhi: i propri erano determinati, categorici. Non avrebbe permesso a Vilya di obiettare. Vilya corrugò la fronte. Il mezzodrow abbassò lo sguardo sulle proprie mani che tremavano ancora, quasi impercettibilmente. Le strinse più volte cercando di calmarle.

“Va tutto bene. Siamo al sicuro.” Cercò di rassicurare il fratello maggiore. “Solo… stammi a sentire.”
“Ehm... va bene.” Il drow si avvicinò ancora e si sedette accanto al fratello. “Forse però dovremmo andare da Valentino, o da papà, e dirgli quello che sta succedendo.” So’o sbuffò sarcastico.
“E dirgli cosa? ‘Il Principe ha avuto paura di stare nella sua stessa stanza’?” Guardò il fratello, che gli diede ragione con la sua smorfia e si strinse nelle spalle guardando per terra. Tornò su di lui e gli sorrise.
“Puoi restare qui quanto vuoi.”

So’o si rilassò e ricambiò il sorriso. Si sporse verso di lui. Cercò il suo calore. Lo rilassava. Ora che era più calmo notò la maglia color vino rosso che Vilya aveva addosso. Era più leggera, doveva avergliela data Azul. Chiuse gli occhi mentre si crogiolava nel calore del fratello maggiore. Vilya lo accolse a sé, cingendogli il fianco con il braccio e facendogli poggiare la nuca sul proprio petto.
“Ora va meglio.” Mormorò Vilya a voce più bassa. Doveva aver constatato come So’o si fosse tranquillizzato. L’altra mano iniziò ad accarezzare i capelli biondi del ragazzo. Li pettinò piano, scorrendo sulla loro lunghezza e poi risistemandoglieli. Il minore fu colto da un grosso sbadiglio che gli provocò delle lacrimucce sulle palpebre.
“Vuoi andare a dormire?” Chiese la voce del drow. Il mezzodrow annuì e premette le mani sul petto ampio del fratello per staccarsi piano da lui.
Si accorse che i loro corpi erano molto vicini, ma questo non gli dava fastidio. Aveva imparato ad accogliere il fratello nel proprio spazio, e ormai quei gesti premurosi non gli erano insoliti. Gli piaceva essere così intimo con lui. Le sue braccia lo facevano sentire al sicuro, lui lo faceva sentire a proprio agio. Sapeva di non stare facendo niente di sbagliato, e gli era ormai evidente che l’affetto che Vilya provava per lui avrebbe impedito al fratello maggiore di alzare nuovamente le mani su di lui in un’accezione maliziosa. Il modo in cui Vilya era solito guardarlo sembrava dire lo stesso.

Andarono a lavarsi per poi tornare sul letto. So’o gattonò sul letto per primo e si accucciò ad un lato. Il letto era a una piazza e mezzo, con qualche compromesso si sarebbero trovati bene in due. Lasciò scivolare via la veste scura dalla pelle mulatta per rivelare la pelle nuda. Vilya si sedette accanto a lui e tirò su le coperte morbide e leggere, poi si sistemò più giù con il bacino e si stese. Appena il moro poggiò la nuca sul cuscino, So’o si rannicchiò di fianco e incastrò la faccia e le gambe contro il fianco del più grande, restandogli accanto. Strusciò il muso contro le sue costole, come un cagnolino. Vilya alzò la nuca per guardarlo. Lo coprì con la coperta e gli pettinò i capelli biondi in un gesto affettuoso prima di tornare a poggiare la testa sul cuscino e chiudere gli occhi.

Probabilmente Vilya stava cadendo nel dormiveglia quando So’o lo disturbò smuovendosi dalla sua posizione. Non soddisfatto si smosse per accogliere maggiormente Vilya, che prese un respiro rumoroso dalle narici, proprio come fanno le persone quando vengono svegliate. So’o si sporse per poggiare la guancia contro il suo petto. Era un ottimo cuscino. Poteva anche sentire il rilassante battito del suo cuore. Allungò un braccio e cinse le costole del più grande. Vilya era grosso rispetto al suo braccio. Poi alzò una gamba e posò la coscia nuda sulla sua pancia. In breve si era aggrappato al drow senza neanche chiedere permesso, usandolo come cuscino personale. Aprì gli occhi per vedere la faccia di Vilya. Stava sorridendo compiaciuto. La sua mano scura andò ad accarezzare il fianco del fratello minore con dolcezza. L’altro braccio era ormai sepolto sotto So’o e si piegò per cingergli le piccole spalle. Il calore di Vilya lo circondava. So’o si rilassò ancora di più e in poco tempo, conciliato dalle morbide carezze della mano di Vilya sulla spalla, cadde in un sonno profondo.






 
***






“Mi hai sbavato addosso.”
La maglia color sabbia di Vilya era piena di trucioli. Con il pugnale stava intagliando la lama di una spada di legno. Era seduto ad una delle casse della piccola arena che i ragazzi del Popolo si erano creati al limitare della Piazza del Mercato. So’o, accanto a lui, guardava davanti a sé Siss e Seos che facevano levitare Rulka con i loro primi incantesimi.
“Non ero padrone di me stesso in quel momento.”
“Avevo una macchia di bava enorme sulla mia seconda maglia.”
“Potevi comprarti altre maglie.”
“Non ho i soldi.”
“Potevi rubarti altre maglie, come fai con la frutta.” So’o si voltò verso di lui e guardò quello che stava facendo. “Poi ti ricordo che tuo padre è l’Imperatore. Basta che gli chiedi dei soldi.”
“Non sarebbero soldi miei.” Si giustificò Vilya. Era solo una scusa per non dargliela vinta.

So’o tornò a guardare i ragazzi.
Fortunatamente, qualsiasi cosa lo avesse spaventato quella sera, non era più tornata.
“Seos mi ha chiesto di andare a letto con lui.”
La frase del più piccolo fece sbuffare all’istante il fratello maggiore, divertito.
“Che gli hai detto?”
“Che non mi va.”
Vilya inarcò colpito le sopracciglia. Come se ce ne volesse, a rifiutare l’elfo. So’o fece ciondolare le gambe sulla cassa.
“Con chi andresti a letto?” Chiese il drow con leggerezza, concentrato ad intagliare il legno. So’o scosse il capo, altrettanto quieto.
“Con nessuno.”
Vilya sospirò e girò la spada per intagliarla sull’altro lato. “Tutti troppo brutti, lo so.”
So’o sbuffò divertito e sorrise.
“Tu con chi andresti a letto?”
“Vorrai dire con chi sono andato a letto.” Lo corresse Vilya. Si prese del tempo per creare un rilievo complesso sulla spada prima di rispondere. “I due elfi sono divertenti, ma non vanno presi sempre insieme perché diventano impegnativi.”
So’o inarcò le sopracciglia, un po’ sconvolto. Sbatté le palpebre. “Uhm… va bene.” Vilya rise al suo tono interdetto. So’o corrugò la fronte e proseguì.
“Hanno questa strana fissazione con i peni grossi…”
Fece ridere Vilya più forte.

“Comunque… sì, non mi piace nessuno.” Fece di nuovo il fratello minore, con tono più serio. “Pensavo che avrei cambiato opinione conoscendo altri ragazzi.”
“Forse dovresti conoscerli meglio.”
“Non mi va, non in quel senso.”
Vilya si strinse nelle spalle.
“Allora non farlo. Non deve piacerti qualcuno per forza.”
“Mh.” So’o annuì. “Preferisco dedicare il mio tempo agli studi e a capire come posso diventare una buona guida per il Popolo. Un giorno potrebbero sposarmi a una principessa per un accordo politico. Non sarebbe un problema, non me ne frega niente. Basta che non mi chieda di farci sesso.”
“Non credo che lei ne sarebbe felice.” Obiettò Vilya. “E poi non mi sembravi così riluttante quando ti ho portato io a vedere le stelle.”
“Ma tu sei troppo affascinante perché io possa resisterti.” Lo sfotté So’o. Vilya sorrise e zittì, intento a maneggiare il pugnale. So’o si smosse, si alzò in piedi sulle casse.

Davanti a sé poteva vedere tutta la Strada del Pirata serpeggiare dritta fino ad arrivare al Porto. Oltre la spiaggia e il molo si apriva un vasto oceano che lambiva l’orizzonte, nascosto dai palazzi. Davanti a lui niente frontiere né mura. Una brezza pomeridiana gli accarezzò il viso. Con la coda dell’occhio vide che Vilya lo aveva raggiunto e guardava nella sua stessa direzione.

Vilya aprì le braccia e restò in quella posizione a prendere il soffio del vento che gli scompigliava i vestiti, come un gabbiano che si fa trasportare dalla corrente. So’o fece lo stesso poco dopo. Rimasero come due scemi a godersi quella libertà, come se nessuno potesse toccarli. Sapevano che era una cosa stupida, ma non dissero niente.

Quando raggiunsero il giusto grado di imbarazzo abbassarono le braccia.
“È bello essere in due.” Ammise Vilya. Quelle parole riscaldarono il cuore del fratello minore.
“Vero.” Disse So’o.

Si voltò verso di lui e incontrò i suoi occhi blu che lo osservavano. Attraverso essi si potevano intuire i pensieri del drow. Era contento di essere lì con lui. So’o si sorprese del sorriso impacciato che si formò sul proprio viso, e che venne ricambiato da un fratello maggiore contento. Anche Vilya si voltò verso di lui e lo scrutò meglio. Spostava lo sguardo nei suoi occhi verdi. So’o si avvicinò a lui per guardarlo meglio. Non sapeva di preciso cosa tutto quello potesse sembrare da fuori. A lui non era estraneo. Una vicinanza del genere, quello scambio di sguardi. Era successo altre volte. Ma quella volta sembrava diverso. Vilya lo guardava in un modo diverso. E lui si sentiva caldo. Era una sensazione piacevole. Si sentiva felice, però… era strano. Si accorse in quel momento di essersi avvicinato molto al fratello. Stava studiando il suo viso come se fosse particolarmente bello, e Vilya stava facendo lo stesso. So’o aveva un sorriso lieve sulle labbra.

“Traaa rose e fioooor, naaaascee l’amoooor-”
La voce stonata di Seos li interruppe bruscamente. So’o si smosse dalla sua posizione e lanciò un’occhiata all’elfo, che si era avvicinato con le mani sui fianchi. Vilya incrociò le braccia e sollevò il mento, guardando dall’altra parte.
“Sei solo invidioso, Seos.” Sbottò il drow, voltandosi per guardare l’elfo.
Il visetto di So’o ghignò divertito. Seos rimase a guardare male Vilya per un poco prima di rivolgergli una linguaccia. So’o si sporse e afferrò il braccio di Vilya, e scendendo dalla cassa se lo tirò dietro. Con il ghigno ancora sulle labbra si strinse al bicipite del fratello maggiore che aveva finito per tenerlo a braccetto, poggiando la testa sulla sua spalla, e continuò a camminare per portarlo via.
Vilya spiò oltre l’altra spalla per vedere il fumo che usciva dalla testa di un Seos infuriato, che faceva di tutto per fingere di non importarsene nulla. Sbuffando, l’elfo si voltò e si incamminò dalla parte opposta.
So’o emise una risata cristallina. Infantile e divertita. Vilya tornò a lui per guardarlo giudizioso, per scherzo.
“Lo sai che sei una brutta persona, sì?”
So’o lo guardò con gli occhi socchiusi dal sorriso sulla sua faccia di ragazzaccio felice e annuì.










 
Schizzi di So'o.


 

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Capitolo 11
*** Accettazione ***


Ciao a tutti! Sono cosciente che questo capitolo sia giunto dopo soli tre giorni dall'ultimo invece della solita settimana rituale, e questo perché mi è partita la mano sulla tastiera ed è andata così spedita da poter pubblicare già adesso. Spero che vi faccia solo piacere! Vi avviso che a un certo punto la storia verrà censurata per via del regolamento di EFP, dunque, se desiderate leggere la scena non censurata, vi basterà cliccare su questo link OPPURE sui tre asterischi rossi ( *** ) che vedrete nel punto in cui la scena è stata censurata. Buona lettura!



 
Accettazione.






“C’è qualcosa che non va.”
Il tono incupito della voce di Valentino si espanse nella stanza intoccata dal sole. Le luci di alcuni candelabri colpivano le pareti e il pavimento di pietra senza riuscire a raggiungere il soffitto né a illuminare pienamente il resto. Due candele erano poste ai lati dell’incantatore, sul tavolo davanti al quale era alzato, con le mani imposte verso di esso. Al centro del tavolo un glifo grosso quanto lo stesso lampeggiava di un azzurro innaturale in una lenta intermittenza. All’altro lato del tavolo era seduto Azul. I suoi occhi di rettile scrutavano la sagoma del mezz’elfo. Non si leggeva emozione umana in essi. Imesah era in piedi accanto all’Imperatore e fissava nella stessa direzione con l’espressione attenta ma inanimata di una statua.

Dall’umidità era ovvio che si trattasse di un luogo molto vicino alla terra, se non sotto di essa.
Valentino si sforzò di intensificare la ricerca. Contrasse la smorfia che aveva sul viso giovane e chiuse gli occhi. Strinse gradualmente le palpebre, emise un ansito affaticato. I suoi muscoli si tesero l’uno dopo l’altro e il glifo iniziò a illuminargli la faccia. Riuscì persino a riflettere sulla corona dorata dell’Imperatore prima che Valentino cadesse in avanti, stremato, sul tavolo. Le spalle e la fronte si accasciarono sulla superficie di legno, le braccia troppo indebolite per poterlo sostenere.

Gli occhi di rettile di Azul reagirono con un solo sbattere di palpebre. La testa appesantita dalla corona d’oro si smosse verso Imesah con la lentezza di un serpente che assaggiava il terreno. Imesah posò gli occhi sul compagno e ruppe il silenzio.

“Non possiamo allarmare l’intero Palazzo per una brutta sensazione, e non sappiamo da dove proviene il pericolo. Ci limiteremo a tenere gli occhi aperti e avvertire le guardie di fare particolare attenzione in questi giorni.”

Un rantolo provenne dal tavolo che i due stavano ignorando.

“Questo non basterà…” mugugnò Valentino, che cercò di riacquistare forza nelle braccia per rialzarsi dal tavolo. Riuscì a guardare i due. I suoi occhi azzurri rilucevano alla luce delle candele che davano persino a un mezz’elfo comune come lui uno sguardo ambiguo e innaturale. “Qualcosa si è introdotto furtivamente nel Palazzo. Se colpirà non verrà notato finché non sarà troppo tardi.”

“E allora cosa proponi di fare.” Il mento affilato dell’Imperatore, un uomo piccolo, magro e spigoloso, si sollevò in un gesto che ne denotò ciò che il tono non faceva trapelare: la stizza. Valentino ricambiò il suo sguardo. Non poté sostenerlo con la stessa intensità.
“Tenetevi pronti. Non dormite da soli. Non abbassate la guardia. Voi e i ruoli più importanti a Palazzo.”
Azul abbassò le palpebre con fredda sufficienza.
“Avviseremo il Consiglio, ma non possiamo allarmare il Principe.” Disse Imesah.
Valentino corrugò la fronte nel cercare il suo sguardo.
“È per la sua salvaguardia, Cavaliere.”
“Mi occuperò io della sua salvaguardia.” Ribatté il Cavaliere Grigio.
Azul finalmente rialzò i grandi occhi su Valentino; si alzò dalla sedia in un gesto autoritario ed elegante.
“Il vostro potere non può nulla contro le minacce dei nostri nemici. Ne terrò conto.”
Azul poté vedere la faccia imperlata dal sudore di Valentino mutare tragicamente in un’espressione negativamente sorpresa, prima di indurirsi di nuovo.
“Sto facendo del mio meglio, Imperatore. L’energia e la magia di questa minaccia sono irrintracciabili da alcuno.”
“Lo vedremo.” Mormorò freddo il drow, sostenendo i suoi occhi azzurri. Dopodiché non lo degnò di un altro sguardo: si voltò e si incamminò nel buio della stanza. Venne inghiottito dal vuoto, là dove la luce delle candele non lo avrebbe raggiunto. Imesah sostenne lo sguardo del Consigliere ancora per poco prima di seguire Azul.




 
***




Ra’shak entrò nella Caserma, accompagnato da Soldato.

“È qui.”

Dopo i campi di addestramento si trovava un grosso e alto edificio adibito ad armeria, ufficio della milizia e sala di addestramento. Quell’edificio era la Caserma, e la maggior parte di essa era costituita da un’unica grande sala dove la luce del sole affiorava da delle finestre sottili quasi quanto feritoie orizzontali, abbastanza da illuminare tutto senza creare problemi alle creature più sensibili alla luce, come Ra’shak.
Prima ancora di entrarvi, il drow aveva notato come le prime file del campo di addestramento erano state disertate, con armi lasciate per terra e alcuni punti della ringhiera, addirittura, distrutti.

C’era una folta fila di uomini, presumibilmente quelli spariti dai campi di addestramento più alcuni curiosi. Soldato li superò in breve e Ra’shak lo seguì per arrivare a uno degli spiazzi che riempivano la sala. Erano spiazzi da allenamento, delimitati da alcuni pali di legno collegati tra loro da spesse corde che impedivano agli avversari di cadere fuori e invadere gli spiazzi adiacenti. Davanti a lui si aprì una scena di combattimento: un drow slanciato e muscoloso stava gestendo da solo lo scontro con una halfling e un umano. In una manovra sbatté l’halfling a terra con una forza tale da costringerla a rimanervi e con un calcio fece in modo che l’umano baciasse vigorosamente uno dei pali prima di svenire. Subito un altro paio di reclute scavalcarono le corde per impegnare il drow in un altro scontro.

“Sta stendendo tutte le reclute.” Borbottò Soldato, a disagio. “Non… ho idea del perché. È semplicemente arrivato e ha iniziato a creare casino.”
Ra’shak sbatté le palpebre interdetto: ecco dove l’aveva visto. Sbuffò una risata goliardica.
“Ma quello è il figlio dell’Imperatore!”
Soldato gli rivolse un’occhiata sconvolta.
“Intendi il Principe…?”
Ra’shak rise di nuovo e scosse il capo.
“No, no. L’altro figlio dell’Imperatore.”
Vide Soldato sussultare spaventato quando entrambe le reclute inciamparono sulla corda davanti a lui e caddero all’indietro ai suoi piedi, senza che se lo aspettasse. Proseguì.
“Vilya, il primogenito.”
“Oh.” Soldato alzò lo sguardo preoccupato verso il drow che ora stava prendendo a pugni un nano armato. “Beh, se potessi fermarlo faresti una cortesia a te stesso e alla tua reputazione.”

Prima che qualcun altro scavalcasse le corde fu Ra’shak a farlo. Come lui si aspettava nessuno osò seguirlo. Un sorriso soddisfatto rivelò alcune rughe del suo viso mentre camminava verso l’altro jaluk, portandosi davanti a lui e fermandosi a tre metri di distanza.

Il corpo di Vilya era ansante e lucido per via del sudore. I muscoli allenati dai combattimenti serpeggiavano sottopelle ad ogni movimento, visibili fin oltre le anche dove dei pantaloni lo coprivano, ripiegati fin sotto le ginocchia. Aveva le labbra dischiuse per respirare velocemente e insieme per rivolgere un ghigno compiaciuto verso il Comandante. I capelli mori erano appiccicati al collo umido e alla fronte, e ci stava appena passando una mano scura per tirare indietro quella massa spettinata. Nei suoi occhi blu si leggeva una scintilla di folle eccitazione. Era bello ed energico, nel pieno delle sue forze. Ra’shak considerò che sarebbe stato un ottimo esemplare se solo non fosse stato per i colori distorti che si portava addosso e che lo rendevano, agli occhi del Comandante, uno sfortunato aborto.

In un gesto il più anziano si liberò delle fibbie che ne circondavano il busto e le lasciò cadere insieme alle armi che esse trasportavano. Avanzò verso il moro ma egli non accennò ad attaccare né indietreggiare. Si ritrovarono a fronteggiarsi con le loro facce a pochi centimetri di distanza. Il sorriso di Vilya si rafforzò in una smorfia ancora più distorta. Ra’shak scrutò nei suoi occhi. Perché stava creando caos? Cosa lo stava spingendo? Perché lo stava sfidando? Si liberò presto di questi interrogativi: non era nient’altro che un attaccabrighe, si disse.

Non fu troppo tardi quando si accorse che Vilya aveva approfittato del suo istante di perplessità per colpirlo: intercettò per un pelo il montante diretto allo stomaco e lo parò con l’avambraccio. Si preparò a restituirglielo con l’altro e lo prese in pieno. Lo fece piegare in avanti in un singulto e approfittò per assestargli una ginocchiata in faccia. Vilya indietreggiò e si raddrizzò.
A Ra’shak bastò avanzare di un passo per raggiungerlo di nuovo. Gli diresse un gancio di lato, verso il viso: un colpo all’orecchio lo avrebbe destabilizzato in breve e sbattuto al tappeto. Ma Vilya lo parò. Nel contatto tra il suo pugno e il proprio braccio, il moro intraprese una languida carezza. La sua mano scivolò sul braccio di Ra’shak e finì per afferrarlo. Lo tirò a sé come se volesse farselo cadere addosso e quando Ra’shak strattonò per ritirarsi Vilya approfittò di quella resistenza per reggersi sul suo braccio e girarsi di lato. In un gesto veloce sollevò la gamba, la piegò sul proprio petto, e tendendola scaricò tutta la forza su di lui in un calcio frontale con il tallone. Lo liberò dalla presa per vederlo cadere all’indietro, a un paio di metri da lui.

Riportò la gamba a terra senza scomporsi e restò a guardare il Comandante dall’alto. Quando Ra’shak rialzò il viso verso di lui poté vedere i suoi occhi languidi che lo cercavano, affamati. Non era il calcio in pieno petto a destabilizzarlo, non la caduta: il ragazzo gli incuteva disagio. Stava cercando di ignorarlo, ma era difficile non notare quanto fosse diverso dagli altri guerrieri. I suoi colpi erano carezze, poteva sentire il calore del suo corpo da ogni tocco. O forse era solo una sua impressione? Non capiva come il suo solo sfiorarlo potesse urtarlo così tanto. Si sentiva paradossalmente vulnerabile e insicuro. Ra’shak si rialzò e ricacciò quei pensieri nel fondo della sua mente. Non poteva permettersi certo di perdere davanti a tutti: doveva concentrarsi.

Affrontò di nuovo Vilya e stavolta rispose ai suoi colpi con prontezza. Per quanto fosse difficile gestirlo, Ra’shak si rese conto di avere una conoscenza militare molto più profonda di lui. Se i colpi di Vilya erano imprevedibili, forti e disorientanti, quelli di Ra’shak erano invece precisi, ben dosati e pianificati. Ra’shak aveva una strategia che mancava a Vilya, il quale era caotico nel combattimento come nel suo comportamento. Questo fece capire a Ra’shak come mai era stato capace di stendere tutte le reclute sino ad allora: mancavano della stessa conoscenza che lui non aveva, temprato invece dalle risse – Ra’shak non poteva non notarlo.

Rassicurato nel comprendere il suo avversario, Ra’shak assestò molti colpi su Vilya che però si rivelò più resistente di quanto il Comandante immaginasse. Non si decideva ad arrendersi né ad affaticarsi, e continuava a rivolgergli un ghigno compiaciuto indipendentemente dalla quantità di sangue che gli colava dalle labbra e dal naso. Vilya approfittò di un istante di indecisione del più anziano per dargli un pugno che gli fece perdere l’equilibrio. Cadendo all’indietro Ra’shak si aggrappò a Vilya che cadde su di lui. Si ritrovò la faccia del ragazzo sulla sua e le sue labbra che lo sfioravano. Il respiro affannoso del più giovane lo soffocava. Gli occhi blu erano ben aperti a scrutare nei suoi. Il corpo aderiva al suo, scivoloso nel sudore di entrambi in un modo che fece inarcare Ra’shak e gli fece sentire un vergognoso calore nei pressi del bassoventre.

Fu disorientato: non capiva cosa diavolo stesse succedendo. Quello che Vilya stava facendo non era niente che si facesse in uno scontro. Il suo sguardo non era ardente di morte, ma di desiderio. Ra’shak non riceveva sguardi del genere dagli uomini. Lo avrebbe reputato privo di senso… disdicevole. Perché qualcuno avrebbe dovuto guardarlo in quel modo? E come avrebbe dovuto sentirsi lui a riguardo? Quando Vilya rafforzò di nuovo il suo sorriso, probabilmente accortosi della reazione fisica del più grande, Ra’shak si rese conto dell’espressione spaventata che aveva sul volto. Riuscì a sganciare un pugno sulla faccia ghignante del moro e lo fece cadere dall’altro lato.

Alzandosi si rese conto che il suo gesto non aveva nascosto la bruciante vergogna nel venire scoperto dall’altro e sperò che nessun altro lo avesse notato a parte Vilya. Il giovane si alzò presto, come Ra’shak aveva previsto, e il Comandante era pronto davanti a lui per provare a stenderlo nuovamente a terra. Non ci riuscì: Vilya era troppo sfuggente. I suoi calci lo prendevano alla sprovvista. Ma era ormai stato stancato dal combattimento e quando gli scagliò contro l’ultimo calcio circolare con la lunga gamba ad altezza viso non considerò che Ra’shak si sarebbe accovacciato per schivarlo e poi rialzarsi e, non appena avesse riabbassato la gamba, assestargli un pugno dritto in faccia. Lo prese in pieno. Vilya perse l’orientamento, cadde sulle ginocchia e poi crollò disteso, prono, al suolo. Non si rialzò.
Era svenuto.

Ansante e provato Ra’shak guardò il giovane uomo dall’alto in basso. Attorno a sé sentì il boato delle reclute che idolatravano la sua figura. L’ombra di un sorriso gli solcò il viso, ma era troppo fioca per vincere la confusione che lo scontro con il suo avversario gli aveva lasciato. Lasciò perdere quel corpo svenuto per tornare dal vice.
“Io lo so com’è iniziata.” Sentì una voce nella folla. Si interruppe per spiare le chiacchiere di due combattenti femmina. “Quell’uomo ci stava provando con me. Johan era geloso e lo ha sfidato.” “Non dirmi fesserie. E perché avrebbe proseguito?” “Beh, gli ho sentito dire anche questo:” Ra’shak lanciò un’occhiata alle due donne. L’ultima terminò:
“Aveva detto che ormai si stava divertendo troppo.”




 
***





Il Serpente sbatté l’uomo spalle al muro e lo tenne inchiodato per il colletto insanguinato della maglia con una mano. L’uomo aveva capelli cortissimi di un biondo grano, pelle chiara, era robusto. Indossava un’armatura imbottita che era stata danneggiata nello scontro. Il Serpente era più sottile e snello. Indossava una tuta attillata di nero e verde anonimo, che scorreva sui muscoli e le ossa della spia in sinuose spirali verso l’alto. Il muso era nascosto, ma due occhi gialli dalle pupille verticali erano ben visibili e puntati sulla sua vittima.

“Chi è quest’uomo.” Chiese il Serpente.

Azul era seduto su un piccolo trono al centro della stanza circolare. La stanza era stretta e piena di oggetti. Alle spalle del trono una lunga scrivania ospitava numerosi ingredienti insoliti sulla sua superficie di legno e nei cassetti. La figura del drow era poggiata esanime sullo schienale e il capo era reclinato all’indietro. Dagli occhi sgranati si vedeva solo il bianco del bulbo oculare: i suoi occhi erano gettati all’indietro. Sul grembo aveva una testa mummificata senza orbite, circondata da una collana di occhi di serpente, e le mani erano adagiate su essa come in una carezza.

Sonia, la Vipera, avanzò di un passo. Era entrata con l’altro Serpente; quest’ultimo ebbe un lieve sussulto. Le sue iridi assunsero un colore castano, la pupilla si arrotondò, e nello stesso momento Azul portò improvvisamente in avanti la testa e prese un respiro, come appena uscito da un’apnea. I suoi occhi tornarono a guardare davanti a sé in un punto impreciso. L’uomo biondo cercò di approfittarne per liberarsi della presa del Serpente ma lui lo sbatté di nuovo alla parete con prontezza.

La donna aveva lunghi capelli mori, folti e mossi, che ne incorniciavano i tratti allungati. Gli occhi di rettile avevano dimensioni umane, non come le iridi grandi e sporgenti dell’Imperatore. Con quegli occhi fermi scrutava il piccolo drow davanti a sé.

“È la minaccia.” Rispose.
“L’abbiamo sventata.” Azul piegò le labbra chiuse in un sottile ghigno. I suoi occhi si socchiusero in due fessure affilate. “Dovremo dare la cattiva novella a Valentino.”
Sonia annuì senza particolari espressioni. Poco dopo la porta si aprì di nuovo per far entrare Imesah e poi richiudersi immediatamente.
“Imesah, prendilo.” Con un cenno sbrigativo del capo Azul gli indicò l’intruso. Imesah lo trovò e lo raggiunse per sostituire la mano del Serpente, che lo lasciò a lui e indietreggiò obbediente.
Solo allora l’Imperatore scrutò l’uomo con i suoi occhi.

“Chi ti manda qui?”
Il biondo non replicò. Si limitò a guardare il drow, combattuto, cercando ogni tanto di resistere alla presa del Cavaliere. Azul abbassò lo sguardo e inspirò piano dalle narici.
“Vorrei… farti dire quello che desidero con le cattive, ma non è nel nostro stile.” Rivelò all’uomo. Tornò a indagare nei suoi occhi. “Verrai risparmiato. Tutti qui vengono trattati… nello stesso modo, ricevendo una seconda opportunità.” Le sue labbra sorrisero di nuovo, più di prima. “Siamo famosi per questo, non è così?”
L’uomo corrugò la fronte, a disagio. Diede un’occhiata a Imesah. Il Cavaliere ricambiava il suo sguardo ma non esprimeva assolutamente niente. Dischiuse le labbra.
“I nobili di Picco del Diamante, signore. Provengo da lì.”
“Ma certo.” Ribatté Azul con voce leziosa.
“Come aveva detto Ra’shak.” Commentò Imesah, in una smorfia.
Sonia e l’altro Serpente si ritirarono e rimasero in disparte ad osservare i tre.
“Continua a parlare, carino.” Mormorò l’Imperatore. Inclinò il capo di lato e i fili d’oro della sua corona lo seguirono nel movimento. L’uomo esitò di nuovo.
“Signore… dubito dei vantaggi che questo comporterebbe.”
Azul non poté trattenere uno sbuffò derisorio dalle labbra che si evolse in una risata gutturale. Non ci si sarebbe aspettato che un verso roco come quello potesse essere scaturito da una creatura esile e piccola come quella, che poco prima vezzeggiava l’intruso con voce deliziata.
“Ho capito… vuoi del denaro.” Alzò gli occhietti su di lui. Trovò luccicare i suoi e assottigliò di nuovo le palpebre con avidità. “Posso darti tutto quello che chiedi.” Chiuse le labbra in un nuovo ghigno compiaciuto. Una mano affusolata sfiorò la corona d’oro, con gemme di giada grandi come occhi incastonatevisi. “Vuoi la mia corona? Tutto, per la salvezza del mio Regno.”
“Sì, signore.” Si affrettò l’uomo. “Voglio la vostra corona. E che mi lasciate andare stanotte stessa.”
Scaturì una risata più esplicita del drow che piegò il capo all’indietro prima di ricomporsi e impartirgli l’ordine:
“Parla.”

L’uomo si scucì subito la bocca.
“Si tratta di un’alleanza. Tutti quelli che avete fatto arrabbiare... sono dentro. Picco del Diamante, stregoni, Nobili del Passo… È inutile che cerchiate di sovrastarli: sono maggiori in numero e potenza. Non potete nulla contro di loro.”
“Numeri. Dati precisi, ragazzo.” Lo istigò Azul.
“Gola di Futhar, Collina Intessuta, Risvith, il Regno della Signora Bianca, Città Alta, persino la colonia dei drow di superficie da Charrvelraughaust. Centinaia di migliaia di guerrieri, signor drow. E di certo non vorrete sottovalutare le potenze militari di chi se lo può permettere. Rispetto a una città di miserabili…” borbottò l’uomo. Negli occhi di Azul si lesse un lampo, gli occhi si sgranarono dall’offesa. L’uomo, contrariato, mantenne un’espressione aspra.
“… Certo, perché dovreste temerci? Perché dovresti? Tu avrai salva la vita, qualsiasi cosa tu dica, e noi siamo poveri plebei in confronto ai vostri re e grandi signori.”
L’uomo esitò prima di annuire.
“Mh. Dov’è il centro dell’alleanza?” Chiese Azul con tono nuovamente secco.
“Città Alta.”
Azul annuì piano. I suoi occhi scattarono su Imesah, che lo stava già fissando.
“Abbiamo bisogno di altro?”
Imesah scosse il capo. “Niente che lui possa dirci.”

Allora Azul si alzò piano dal trono. Lo percorse per poggiare sul tavolo la testa mummificata che aveva tra le mani.
“Mi bastano due persone. Tu resta, Imesah. Voglio il Serpente. Puoi andare, Sonia, non ti trattengo oltre.”
Tornò davanti al trono. Rivolse a Sonia uno sguardo serafico, mentre l’intruso iniziava ad agitarsi.
“Dovrai dire a Valentino che, visti i nuovi accadimenti, dovrà convincermi a non sostituirlo con una fatina.”
Sonia annuì. Azul si avvicinò all’uomo biondo.
“Lasciatemi andare. Non potete alzare le mani su di me.”
“Oh, andiamo, bel soldatino. Non crederai veramente che dei brutti ceffi come noi potessero mantenere la parola data, vero?” La mano del drow si sporse verso l’uomo e gli sfiorò la guancia con l’indice, saggiando la sua pelle.
“Aprigli la casacca.” Imesah istruì il Serpente, che obbedì silenziosamente. Il biondo invece iniziò a dimenarsi. Emise un urlo.
“No! Non osate toccarmi!”
Azul fu scosso da un’altra risatina ilare, deliziato.
“Avevo proprio bisogno di te. È da giorni che non mangio come si deve.”
“Cosa… cosa insinuate…” ansimò la vittima.
Il Serpente sbrogliò l’armatura imbottita dell’uomo e rivelò la maglia leggera sotto, unica protezione del ventre. Gli sganciò la cintura come poteva, tenendogli il braccio bloccato. Le contorsioni dell’uomo erano sedate da Imesah, che lo sbatteva alla parete e lo teneva fermo bloccandogli l’altro braccio. Questo non lo rese meno agitato.
“Fermatevi!” Esclamò lui nella disperazione. “Non sapete… io posso essere utile…”
Quando Imesah tirò fuori la lama di un pugnale, i suoi ansiti divennero uggiolii.
“Non c’è niente che possa salvarti, qui, carino.” Mormorò Azul con voce roca.
L’uomo mugugnò delle preghiere. Azul restò ad ammirare la sua paura. Lo ascoltava rapito. Imesah attese. Quando la vittima comprese di essere ormai spacciata, in uno sguardo allucinato fissò l’Imperatore dritto negli occhi.
“Non è ancora finita. Vi vedrò presto farmi compagnia nel Mondo dei Morti.”
Azul inclinò il capo di lato, mesto.
“Lo vorrei tanto, piccolo soldato.” Gli rivelò con dolce malinconia. Fece un cenno a Imesah.

Il Cavaliere non aveva espressione sul volto quando penetrò il petto dell’uomo nel centro. Facendo forza affondò con il pugnale e poi lo fece calare. La pelle si aprì sotto il passaggio della lama e così la carne resistente sotto di essa. Il suo corpo si aprì gradualmente lungo gli addominali e il sangue colò rapido verso il basso per bagnargli i pantaloni. Azul corse a recuperarlo: si inginocchiò scomposto e si sporse in avanti per succhiare la pelle intrisa di sangue sugli addominali dell’uomo che urlava di dolore. La sua voce era soffocata dalla mano del Serpente che aiutava Imesah a tenerlo. Il Cavaliere ritirò il pugnale in un colpo e Azul si affrettò per risalire allo sbocco dello scabroso labbro di ferita che apriva il ventre dell’uomo per bere il sangue appena sgorgante. Presto ci si immerse per strappare i primi lembi di carne. Il suo corpo si agitava affamato, le unghie bucavano i fianchi della vittima su cui si stava reggendo. Quando ormai l’uomo era svenuto di dolore Sonia si voltò e aprì la porta per allontanarsi.




Appena uscita sbucò nel mezzo del chiostro che circondava la Stanza del Negromante. Rivelò un’espressione sorpresa nel trovare un mezzodrow dai lunghi capelli biondi andarle incontro.

“Sonia, buonasera.”
So’o si fermò davanti a lei. La Vipera lo scrutò meglio, interdetta, prima di avvicinarglisi ulteriormente.

“Principe, dovreste stare già dormendo. Fatevi accompagnare alle vostre stanze.”
Gli avvolse le spalle con premura e lo portò con sé dalla parte opposta del chiostro. Il ragazzo rivolse uno sguardo sospettoso alla Stanza prima di dargli le spalle e farsi guidare dalla donna.





 
***





So’o sospirò accanto a Vilya mentre si incamminava verso la sua stanza. La sera era ormai calata. Quel pomeriggio non aveva avuto proprio voglia di uscire. Gli allenamenti lo avevano stancato parecchio e voleva solo rilassarsi. Vilya per fortuna era stato comprensivo e gli aveva trovato una zona deserta del Palazzo dove potessero leggere insieme e chiacchierare un poco.

Rifletté sugli ultimi insegnamenti. I poteri di So’o si stavano intensificando. Questo perché aveva imparato a controllarli e incanalarli correttamente. Non c’era un Maestro adatto ad insegnare a So’o come gestirli, dal momento che si trattava di poteri divini derivanti dalla sua discendenza diretta con Saab, un caso senza alcun precedente, ma veniva seguito dalla Somma Incantatrice Gretel e qualche volta dalla Sacerdotessa Inva. Non potevano essere trattati come incantesimi da Gretel perché non erano magici, ma neanche Inva li conosceva: il potere di So’o non gli veniva concesso da suo padre, ma apparteneva a lui stesso. In più, si trattava di un potere dalle potenzialità ignote. Si era appreso il suo campo di influenza solo con la pratica e, vista l’acerbità del giovane Principe e la sua inesperienza bellica, non se ne conoscevano ancora i limiti. Vilya si era rivelato curioso a riguardo.

“Quindi sei in grado di manipolare la materia.”
So’o fece una smorfia prima di rispondergli.
“Sarebbe come dire che Saab è in grado di manipolare il sangue, quando in realtà il potere di Saab consiste nel-”
“Muovere le stelle. ‘Un cambiamento innocuo ai nostri piccoli occhi, con conseguenze grandi come l’universo’, già. Allora muovi le stelle?”
Di nuovo il fratello minore inasprì il viso, stavolta con una stilla di sufficienza.
“Temo proprio di no. Non credo di avere un potere così vasto. Ma posso muovere questo mondo.”
Si voltò per guardare Vilya che, come lui immaginava, lo stava fissando e ghignava catturato, con i suoi occhi blu che luccicavano alla luce delle fiaccole del porticato.
Si fermò davanti alla porta della stanza del Principe e si voltò verso di lui.
“Voglio vedere.”
So’o prese un respiro.
“Sono stanco…”
“Una cosa piccola! Dai. Ti prego.”

So’o fissò dritto negli occhi speranzosi del moro. A volte gli ricordava proprio un cane. Un grosso cane scemo. Di quelli alti più di un metro, con la lingua di fuori e che scodinzolano in modo ridicolo. E con gli stessi occhioni entusiasti a cui non si può dire di no.

Esalò un sospiro e frugò in un sacchetto agganciato alla cintura finché non tirò fuori una sfera di metallo. La sua grandezza non riusciva a riempirgli il pugno. Puntò gli occhi su di essa e rimase a fissarla intensamente per lunghi secondi.
Ad un certo punto la sfera grigia iniziò a fondersi nella sua mano. A So’o bastò puntare gli occhi in un punto preciso della pozza di metallo perché un lembo si sollevasse in una stalagmite e si solidificasse una volta definito. Riportò la stalagmite a uno stadio appena più malleabile per poterla rimodellare in una spirale. Attorno alla base di essa fece scorrere il resto di quella pozza fino a creare una confusa corona di petali che si solidificò definitivamente nella sua mano.

Porse la rosa di metallo al fratello maggiore che la prese meravigliato.

“Ora fammi andare a riposare.”
“Mh.” Annuì il fratello maggiore. Rialzò gli occhi sul minore, si sporse verso di lui e gli premette il muso contro il lato della nuca per schioccargli un bacio sulla chioma bionda.
“A dopo fratellino.” Mormorò al suo orecchio prima di allontanarsi.
“A dopo.” So’o ricambiò l’ultimo sguardo in un’espressione schiva, ma compiaciuta.





Entrò nella stanza senza richiuderla. Non ce n’era motivo: se si fosse intrufolato qualcuno sarebbe stato quantomeno emozionante. Accese un candelabro accanto alla parete e iniziò a spogliarsi poggiando man mano i vestiti sul letto. Stava per levarsi di dosso la tunica quando intravide un piccolo movimento nell’angolo della stanza. Uh? Che strano, pensò. Forse era un gatto? Avrebbe potuto adottarlo, dargli un nome? Alzò lo sguardo nella direzione del movimento e si rese conto che quello che si trovava a ridosso della parete non era sicuramente un gatto.

La creatura accovacciata aveva la pelle così scura che a tratti non si distinguevano i bordi della sua figura. I capelli scomposti e nerissimi ne lambivano le spalle piccole. Era piccola, lunga ed esile, ed aveva due enormi occhi tondi che riflettevano appieno tutta la luce che riuscivano a trovare nella stanza. Dalla loro profondità scura si intravedeva un rosso fioco quanto allarmante.

So’o si accorse che si trattava di un elfo dei boschi. Era immobile e puntava proprio lui, in uno sguardo sinistro. Il mezzodrow si sentì braccato. Si irrigidì e fu scosso da un brivido. La sua mano mollò il mantello, che cadde a terra.

“… hey?”

Chiamò l’elfo. Sapeva che lui poteva capirlo. Era una creatura molto intelligente. La creatura era vicino alla parete e rivolta del tutto verso il Principe. So’o si accorse che quella zona della stanza, in particolare, era molto più buia del resto, anche se la luce del candelabro avrebbe dovuto illuminarla per bene. Al suo richiamo essa non si smosse dalla sua posizione ma sollevò piano il mento, mantenendo gli occhi fissi sulla sua faccia.

All’improvviso l’elfo si alzò e si avvicinò verso So’o. Insieme a lui anche il resto della stanza venne avvolto dalle tenebre, come se fossero una propagazione di quella creatura. Diramazioni di fitte venature di oscurità serpeggiarono sulle pareti e inghiottirono il lucore che proveniva dal candelabro. So’o, spaventato, inciampò e cadde all’indietro, per terra. Si trascinò indietro per porre una distanza con la creatura. Era stranamente alta per essere piccola. Il rosso nei suoi occhi iniziò a lampeggiare lentamente, e ad ogni lampeggio si intensificava finché gli occhi sbarrati non divennero due sfere rossastre. So’o sentì i battiti del suo cuore aumentare freneticamente. Aveva la bocca dischiusa: voleva urlare ma non riusciva a pronunciare nessun suono. Iniziò ad ansimare. L’elfo fece un altro passo. Solo quando il buio raggiunse il candelabro e riuscì a spegnere tutte le fiammelle delle candele in un solo momento, So’o ebbe la forza di gridare.

L’oscurità lo afferrò. L’unica fonte di luce nel vuoto erano gli occhi spalancati della creatura che si stava avvicinando inesorabilmente a lui. Questo lo aiutò a gridare di nuovo, più forte e con più disperazione mentre si accorgeva di aver ormai raggiunto l’altra parete con la schiena e non potersi più allontanare. Gli occhi si fecero ancora più grandi e, anche se sapeva che l’elfo non poteva ancora toccarlo, So’o iniziò ad annaspare nel panico.

La porta si aprì e sbatté sulla parete e una luce fioca bruciò l’oscurità. Due fuochi fatui, bianchi, vennero scagliati nella stanza buia. Vide Vilya interrompersi tra l’elfo e la porta per vedere la creatura illuminata dai fuochi. Nel buio era stata avvolta da spire di tenebre che le davano un aspetto grottesco. Bastò lo sfiorare di un tentacolo nero a spegnere il primo fuoco fatuo. Prima che il secondo potesse estinguersi Vilya si scagliò sul fratello e si inginocchiò rivolgendosi verso la creatura per fare da scudo. So’o, afferrato dal terrore, si sporse in avanti e si aggrappò al drow cingendo le braccia attorno al suo petto in una presa soffocante. Anche l’ultimo fuoco fatuo si estinse e i due vennero inghiottiti dal buio più nero. Non sapevano cosa stava succedendo attorno a loro: potevano solo vedere gli occhi rossi della creatura raggiungerli.

Poi sentirono un boato. La luce improvvisa invase tutta la stanza e li accecò. Urlarono. So’o sentì Vilya rigirarsi tra le sue braccia contro di lui e lo strinse ancora più forte. Emise un guaito. Sentì un urlo. Era maschile, giovane. Cercò di riaprire gli occhi ma di nuovo venne accecato dalla luce. Colse il suono di un tonfo, poi un verso animalesco che gli fece accapponare la pelle. Strinse Vilya più forte e nascose la faccia contro il suo collo. Sentì altri due tonfi, e alla fine l’unico suono rimasto era l’ansito di lui, del fratello maggiore e di una terza persona.




Quando tirò fuori la testolina dal collo del più grande si accorse che la luce si era affievolita. Tutte le luci dei candelabri erano state illuminate di una luce naturale. Spostò gli occhi verso la porta e vide Valentino che si avvicinava al centro della stanza con il petto che si alzava e si abbassava. Nella mano destra portava una staffa magica con una pietra alla sommità che luccicava ancora dell’incantesimo precedente. Lo vide chinarsi: la sua mano scostò la spalla dell’elfo, che era caduto per terra su se stesso, in modo da vedere la sua faccia. In pieno petto c’era una ferita profonda da cui colava una abbondante quantità di sangue, eccessiva perché la creatura fosse ancora viva. I suoi occhi infatti erano semiaperti e fissavano il soffitto vacui.
Valentino esalò un sospiro teso.




 
***





Valentino ebbe tempo di spiegare loro cosa fosse successo prima che i suoi genitori irrompessero nella stanza. Imesah era sconvolto, ma Azul aveva degnato la creatura solo di uno sguardo prima di gettarsi sui suoi bambini. Li aveva stretti nella morsa nervosa delle sue esili braccia, dimostrando una forza insospettabile, e nascosti al piccolo corpo, aggrappato come un mollusco al proprio scoglio per non venire trascinato via dalla spuma del mare. Una volta usciti avevano trovato il cadavere di un Serpente nascosto tra gli arbusti del chiostro: si trattava della donna che Imesah aveva posto a guardia di So’o quando non poteva stargli vicino, come aveva spiegato suo padre poco dopo. Ricordava ancora lo sguardo di biasimo che gli occhi severi di Valentino rivolsero a Imesah.

So’o invece aveva chiesto di essere lasciato in pace dopo quella brutta esperienza. Aveva preteso di dormire con il fratello maggiore ed era riuscito ad ottenere l’approvazione di Azul. Imesah non avrebbe mai approvato, ma si trovava costretto: sapeva che Azul avrebbe detto di sì a qualsiasi cosa So’o gli avrebbe chiesto, in quel momento. Si limitò a mettere delle guardie davanti la porta – non che questo potesse, come solito, rassicurarlo davvero, visto che non si fidava di Vilya.

So’o era avvolto nelle lenzuola del letto, steso sul fianco. Aveva le braccia incrociate e la testa incassata nelle spalle in una postura tesa. Vilya gli era di fronte e lo guardava, dall’altro lato del letto, steso anche lui sul fianco. Sbatteva piano le palpebre mentre lo scrutava, ben più calmo di lui.

“Come stai?” Chiese Vilya con un soffio di voce.
So’o abbassò lo sguardo e si strinse nelle spalle. Una di esse sbucava dallo scollo della maglia. Sentiva ancora lo sguardo di Vilya su di lui. Una sua mano si sporse per accarezzargli la guancia e scostargli alcune ciocche bionde. So’o chiuse gli occhi e cercò di rilassarsi facendosi cullare da quelle premure.
“Volevi proteggermi?”
Riaprì gli occhi per cercare l’altro e lo vide sorridere.
“Ovvio. Altrimenti avrei dovuto aspettare altri diciassette anni per un nuovo fratellino. Sarebbe stata una seccatura.”
So’o sbuffò e rise, e una sua mano si scostò dalla postura rigida per dare uno schiaffo al fratello maggiore. Lo vide strizzare gli occhi in una faccia buffa e cercare invano di schivarlo. La mano del moro si scostò dal suo viso per premergli sul petto e spingerlo via.
“No!” Esclamò So’o ridendo di nuovo e tentò di levarsi la sua mano di dosso, in un gesto meno sfacciato, per non venire buttato giù dal letto. Vilya fu comprensivo e smise di spingerlo. Lasciò la mano sul suo petto. Mosse le dita in una carezza accennata. So’o tenne gli occhi nei suoi. Sbatté piano le palpebre.

Strinse le dita attorno al polso del drow e lo scostò via dal petto. La sua mano scura si sollevò di nuovo a mezz’aria. Si muoveva piano. Quella di So’o la seguì e cercò di intrecciarsi alle sue dita per spingerla sul materasso, nello spazio che separava i loro visi. Vilya si oppose e la staccò dalla sua per aggirare le difese e tornare sul suo viso. Tornò ad accarezzarlo. So’o socchiuse gli occhi. Il suo respiro rallentò e iniziò a sentire un vago sonno conciliante. Però non riusciva ad addormentarsi. Sentiva… troppe cose.


Rialzò di nuovo gli occhi su Vilya, che ricambiò il suo sguardo diretto. Lo sentì infrangere le dita tra i propri capelli biondi. Si smosse dal letto così da reggersi con un gomito sul cuscino. Voltandosi un poco indietro verso di lui Vilya gli rivolse un’espressione interrogativa e pettinò i suoi capelli fino a una certa lunghezza per poi interrompersi, probabilmente senza accorgersene neanche, impegnato a capire cosa l’altro stesse per fare. So’o prese piano il respiro dalle narici, poi si avvicinò al fratello maggiore e si sporse in avanti.

Tenne gli occhi in quelli del fratello finché non sentì il suo respiro sulle proprie labbra. Poi li abbassò e piegò un poco il capo di lato. Si chinò piano. Le sue labbra aderirono a quelle di Vilya. Serrò gli occhi e le premette sulle sue. Ricevette una risposta, un gesto identico al suo. Si separò appena. Ad occhi chiusi sentì la punta del naso sfiorare quella del più grande e vi si strofinò lentamente, prima di piegare ancora il capo e assaggiarlo di nuovo. Vilya lo aspettava e gli rispose, schiudendo di più le labbra. So’o lo assecondò e approfondì il bacio, senza alcuna fretta. Sentì la sua bocca umida sulla propria e strofinò piano le labbra sulle sue in un gesto sensuale. Vilya staccò appena la nuca dal cuscino per far scontrare i loro nasi e sfiorare le fronti, poi inclinò il capo all’indietro per catturare di nuovo le sue labbra. So’o si lasciò sfuggire un sospiro dalle narici mentre infilava la lingua nella sua bocca. Il bacio si chiuse in un sigillare delle loro labbra e quando le ridischiusero in un nuovo bacio il biondo trovò la lingua di Vilya ad accoglierlo nella bocca e a rispondere alle sue carezze.

“Mph…”

Una mano del più piccolo salì per reggersi sulla spalla nuda del fratello maggiore e trasferirvi parte del suo peso. Inarcò la schiena e il bacino, sporgendosi, creò una curva distinta sotto le lenzuola. Continuarono a baciarsi in silenzio, con il sottofondo del loro respiro e di piccoli schiocchi e suoni umidi. Poi So’o si staccò e aprì gli occhi su quelli di Vilya, che fece lo stesso.

Vilya sospirò, come di sollievo. Diede a So’o la sensazione che avesse aspettato molto tempo per quel bacio. Si soffermò a guardare le sue labbra, che dovevano essersi gonfiate leggermente per via dei baci. So’o le sentiva calde e bagnate. Il drow tornò a scrutare i suoi occhi.

“… e questo è perché ho cercato di salvarti?” Inarcò le sopracciglia con sarcastica sorpresa, provocandolo.
“Deficiente.” Gli rispose So’o con voce bassa, senza scomporsi.
Vilya tirò un lato del labbro in un ghigno accennato, che si smorzò poco dopo. Proseguì con voce graffiata.
“Lo sai che mi stai baciando perché sei sconvolto, vero?”
So’o premette le labbra in una smorfia vaga. Lanciò un’occhiata dalla parte opposta, poi tornò a lui.
“Non credo di essere talmente fatto di adrenalina da limonarti solo per quello, no.”
Vilya tornò a guardare la sua bocca e scrollò appena il capo.
“… non ho detto questo.” Sussurrò. Lo fissò di nuovo negli occhi.
So’o lo sostenne con il proprio sguardo determinato per molti secondi, prima di avvicinarsi e tornare a baciarlo.


Portò una mano ad accarezzare il viso del fratello mentre esplorava la sua bocca. La mano scese verso il collo ancora con un ritmo lento, saggiando la sua pelle. Sentì un braccio di Vilya insinuarsi sotto di sé per cingergli il fianco e tirarlo verso di lui. Si fece trascinare contro il suo corpo e per reggersi meglio poggiò la mano sul suo petto glabro, che riempì il palmo aperto. Mugugnò appena nella sua bocca e rincarò i baci, affamato.


 



So’o rimase accasciato su di lui e si prese del tempo per regolarizzare il respiro.

“… c’erano delle guardie fuori?”
Borbottò stranito Vilya, con voce impastata.
So’o scosse il capo. Non voleva dire ‘no’. Voleva dire ‘vuoi che me ne freghi qualcosa, in questo momento? ’
Era sicuro che Vilya avrebbe compreso l’antifona.






 
So'o e Vilya.

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Capitolo 12
*** Casualità ***


Ciao a tutti! Chiedo perdono per il ritardo della pubblicazione *-*' Vi avviso che a un certo punto la storia verrà censurata per via del regolamento di EFP, dunque, se desiderate leggere la scena non censurata, vi basterà cliccare su questo link OPPURE sui tre asterischi rossi ( *** ) che vedrete nel punto in cui la scena è stata censurata. Buona lettura!




 
Casualità.







Valentino venne svegliato dall’uccellino magico che ogni mattina cinguettava alla finestra della camera da letto. Sapeva di potersi alzare con calma, così restò con la guancia premuta sul cuscino e lo sguardo perso verso la parete che aveva di fronte, mentre indagava con la mente sugli accadimenti della sera precedente.

Il Consigliere sapeva che la spia trovata a Palazzo il giorno precedente non era la minaccia che Valentino aveva avvertito. Lui, al contrario degli altri, si aspettava qualcosa. Non sarebbe mai riuscito a scovarlo: un elfo dei boschi non era rintracciabile dalla magia degli umanoidi. Gli elfi dei boschi erano creature insolite, la cui magia apparteneva alla natura, intessuta in un linguaggio antico e ormai lontano.
Nelle tasche degli abiti di foglie dell’elfo aveva rinvenuto missive scambiate con Città Altà che lo collegavano all’alleanza nemica. Niente affatto astuto da parte sua. A quanto pare Città Alta non si era assicurata dell’affidabilità del suo alleato, troppo interessata alla sua potenza. I nobili erano consapevoli delle capacità della sua razza, e a gran ragione. Il suo non poter essere rintracciabile, né agli occhi né alla magia, se non di sua spontanea volontà, e i sortilegi misteriosi e potenti che imbracciava erano riusciti a fare breccia nella sicurezza del Palazzo e a minacciare la vita del Principe stesso. Era anche possibile che Città Alta avesse sottovalutato il nemico, e non si fosse disturbata a celare il proprio coinvolgimento negli attacchi.

Valentino corrugò la fronte quasi senza accorgersene nel riflettere su ciò che più lo preoccupava della situazione. L’elfo dei boschi non era stato persuaso o controllato, non era una pedina di Città Alta: era un volontario. Poteva intuirlo da due cose: i toni delle missive e in secondo luogo la conoscenza della razza che la vicinanza con la Foresta Incantata gli aveva permesso. Era raro che gli elfi dei boschi fossero soggetti a qualsivoglia magia o signore. Proprio per questo l’Imperatore li aveva da sempre considerati ottimi alleati, fedeli nella misura in cui erano neutrali e interessati a mantenere pacifico il loro territorio. Tuttavia, gli elfi dei boschi, per quanto empatici nella loro comunità, erano degli individui autonomi, cosa che fin troppo spesso sfuggiva agli stranieri, che dall’esterno li vedevano come semplici creature, quasi animali. In quanto individui potevano fare scelte che andavano contro gli ideali comuni e agire non a nome della loro razza, ma della loro persona. Questo elfo dei boschi aveva qualcosa contro il Gran Regno di Saab, o contro il mondo umanoide, oppure aveva solo intenzione di creare caos. Non sapere, alla fine di tutto ciò, il motivo della sua violenza, lo turbava profondamente.

A destarlo dalle sue preoccupazioni fu l’inspirare delle narici di Ra’shak, accanto a lui, sull’altra piazza del letto, che si rigirava fino a distendersi o meglio, spalmarsi, su di lui, entrambi proni. La sua mano callosa si posò sul fianco del biondo e lo strinse morbidamente, e il muso del jaluk si infranse tra i capelli chiari per inspirare a fondo il suo odore. Doveva essere un odore intenso a quell’ora della mattina, in un letto caldo e condiviso per almeno otto ore dai loro corpi. Per Valentino il piacere con cui Ra’shak si perdeva nel suo profumo era lusingatore, ma come ogni cosa che riguardava il jaluk, anche sinistro. Ebbe la sensazione che Ra’shak volesse mangiarlo. Ma sapeva che lui non era quel tipo di creatura. Per grazia di Saab.

Il rumore umido delle sue labbra dischiuse risuonò accanto al suo orecchio mezzo appuntito prima che il jaluk iniziasse a mordicchiarlo. Il biondino mugugnò con tono impastato.
“Mhnh…”
Ma Ra’shak non si fece intenerire dalle proteste del ragazzo. Il suo viso si chinò, e iniziò a posare piacevoli baci sul collo roseo. Valentino socchiuse gli occhi fino a serrarli e, controvoglia, gli porse il proprio collo. Ra’shak continuò ad assaggiarlo – e la sua mano iniziò ad accarezzarlo più a fondo, mentre una certa durezza iniziava a palesarsi contro una natica del mezz’elfo. Il biondino sollevò una mano per infrangerla nella chioma della nuca bianca del jaluk e in un altro mugugno cercò di rendere chiara la propria posizione.
“Mh… no… Rash…”
Ma Ra’shak risalì con le labbra fin sotto l’orecchio del ragazzo e iniziò a torturare quel lembo di pelle; insieme il suo corpo si scostò dal materasso, reggendosi con un gomito, e pressò con chiarezza il bacino e l’erezione tra le natiche del più giovane; e una volta lì si strofinò lentamente in avanti e finì per premere l’altro contro il materasso, mentre la sua mano scendeva fino a stringergli il sesso non del tutto sveglio, dalla morbida stoffa di un pantalone senza patta.
Provocò un gemito nel mezz’elfo, che vedendolo infierire e soffocarlo strizzò gli occhi e si arrese, zittendo, per subire passivamente le attenzioni del più forte. Ra’shak iniziò a sfregare la propria erezione contro il solco fra i glutei del ragazzo in un ritmo lento ed eccitato. Si gustava piano quegli strofinamenti tra i loro corpi, attenuati dalle stoffe dei loro pantaloni, e cercava di rendere Valentino ugualmente partecipe massaggiandogli l’erezione per inturgidirlo.
“Mmmh…” Gemette Valentino tra le labbra chiuse in una smorfia. Le sue dita si scostarono dalla nuca di Ra’shak, trascinando qualche ciocca bianca con sé. Il suo corpo reagì alle attenzioni e man mano riempì la mano del jaluk, che aveva preso a masturbarlo sul serio. A un certo punto la mano scura si scostò per sciogliere il nodo dei pantaloni del biondino e abbassarglieli. Si incastrarono sulla rotondità dei glutei sodi e Ra’shak dovette pazientare per riuscire a calarglieli fin sotto il bacino. Premette ancora l’erezione sul suo corpo caldo ed esalò un sospiro nel sentirlo meglio. Valentino subì anche quel sospiro accanto al proprio orecchio, in un mugolio incerto.

“Ra’shak…” Cercò di far intuire al jaluk la propria reticenza dal tono di voce. “… stavo… riflettendo…”
Venne nuovamente zittito dal calore quasi ardente del sesso ora nudo del compagno che premeva lungo il solco tra i suoi glutei. Lì avvampò, ritirò le labbra nella bocca in una smorfia, e sentì il chiaro pulsare della propria erezione. Maledizione… quel dannato jaluk non voleva proprio saperne. Lui si svegliava colto da mille preoccupazioni e Rash cosa faceva? Cercava di scoparsi il suo culo, maledizione! Valentino afferrò con più convinzione la sua nuca e voltò il viso per rivolgersi a lui, tentando un tono deciso.
“Ra’shak, qui c’è un Consigliere che sta cercando un modo intelligente di non farci ammazzare-”

Era così preso ad imporsi che non si accorse subito della perdita di calore sulla propria schiena – e sulla mano, che aveva perso Ra’shak - finché non sentì un altro brutale strattone ai pantaloni e Ra’shak non glieli levò del tutto di dosso.

“Ahn!” Esclamò. Premette le mani sul materasso per reggersi mentre veniva trascinato più giù dallo strattone. Le sue cosce ora nude si smossero per tornare su, e fu quel temporeggiamento che gli impedì di ribellarsi oltre, perché quando ne ebbe di nuovo l’occasione sentì a un tratto i glutei venirgli allargati e subito dopo la lingua scivolosa di Ra’shak che vi si infilava per tormentargli i pressi dello sfintere.

“… tutti…” terminò con molta meno decisione la frase, la faccia premuta contro il cuscino e le cosce che si allargavano. Ra’shak affondò meglio la faccia tra le sue natiche e iniziò a prepararlo con la lingua. I gemiti, ora compiaciuti, di Valentino, riempirono la stanza man mano che Ra’shak infilava le dita dentro di lui e le faceva guizzare fuori e dentro, stimolandolo nelle zone erogene più profonde. Non lo sorprese sentire, all’uscita delle dita, l’erezione rovente dell’uomo pressare sui muscoli della sua apertura inumidita e rilassata, senza dargli un attimo di tregua, e insistere molto lentamente nella pressione finché, chinandosi in avanti verso il mezz’elfo, Ra’shak non riuscì a scivolargli dentro e allargarlo ancora più di quanto aveva fatto prima, strappandogli un grido.

“Rash!” Esclamò Valentino, stringendo convulsamente il cuscino.

Ra’shak non lo ascoltò. Affondò dentro di lui quanto riuscì e si ritirò di poco per riprovare a entrare completamente in lui. Valentino, tra i fremiti del suo corpo sconvolto, vittima del desiderio dell’uomo, si fece penetrare fino a sentire il calore del suo bassoventre contro i glutei, in un gemito spezzato, e le penetrazioni proseguirono fino ad assestarsi in un ritmo affiatato. A quel punto l’erezione di Valentino era già dura e pulsante e lui stava urlando contro il cuscino e lacrimando dal piacere. Venire scosso dagli scatti sicuri e affiatati di Ra’shak che lo possedeva gli fece rizzare i capelli e mescolare goduria ad altra goduria. Urlò il suo nome e venne nel letto, e continuò a offrirsi all’erezione del compagno finché lui non gli venne dentro in un intenso colpo di reni e un gemito appagato, che la bocca esaurì sulla nuca bionda del ragazzo.

 
***


I bassifondi di Risvith erano nient’altro che un labirinto di vicoli stretti, le cui pareti erano i muri dei lunghi palazzi residenziali addossati tra loro. La loro altezza impediva ai più umili di vedere il cielo se non nelle fessure tra un tetto e l’altro e la strettezza delle vie dava ai viaggiatori la sensazione di stare soffocando. L’acqua di sporco e sapone, gettata dalle finestre dalle signore intente a pulire, sciacquava per quanto possibile le strade abbandonate a se stesse.

Un uomo anziano e grasso, avvolto in un anonimo mantello marrone, avanzava lungo la via del bordello. Si soffermò a osservare le persone che circondavano l’entrata, seduti su barili e casse. Una ragazza giovane ma con il volto invecchiato dalle asperità della vita stava ricucendo quieta un vestito, assorta nel suo intento. Accanto a lei una vecchia signora la imitava e ogni tanto la correggeva. Appena più in disparte, un giovane ragazzo stava macchinando con un piccolo giocattolo di astuzia fatto di legno. All’altro lato della porta c’erano due donne che parlavano tra loro sottovoce, così da non disturbare la quiete della via, e poi due ragazzi seminudi che facevano lo stesso; le parole erano rade, in una vaga tensione che però l’anziano uomo non afferrò. Un uomo era in disparte, poggiato al muro del bordello, accanto ai due ragazzi, e fumava una sigaretta.

L’anziano si portò davanti alla porta e tirò la corda del campanello, che si sentì risuonare all’interno dell’edificio. Dopo poco la porta si aprì e una donna molto truccata lo invitò con voce civettuola, posando una mano sul suo accenno di gobba.
“Alto Consigliere, da quanto non vi vedevamo! Prego, entrate, entrate…”
La signora molto truccata lo accompagnò all’interno e non si accorse che la porta era stata trattenuta da una delle donne che prima stavano parlottando. Questa si alzò dal barile su cui era seduta per tenere meglio la porta.

Si sentì un fruscio, dopo il quale la ragazza dal volto segnato smise di cucire e lasciò il vestito sulla cassa per alzarsi in piedi. Andò a fissare con sguardo solenne il fondo della via, certa di quello che avrebbe trovato. Il Serpente non l’aveva delusa: si trovò proprio davanti ai suoi occhi, mentre la tuta incantata scioglieva l’inganno dei suoi abiti e faceva scomparire il mantello illusorio che lo copriva, per mostrarsi nelle sue spirali verdi e nere.
Abbassò la maschera – che lo copriva da metà naso in giù – e puntò gli occhi castani in quelli di lei prima di farli spaziare sugli altri, che l’avevano seguita subito dopo e lo stavano fissando, in piedi, con la stessa sicurezza. L’uomo in fondo sollevò il mento con impazienza. I due ragazzi seminudi incrociarono i loro sguardi eccitati e insieme intimoriti prima di tornare a guardare la spia.
La ragazza dal volto segnato lo accolse con un lento piegare in avanti del capo, poi indietreggiò e una sua mano si sollevò per indicare la porta aperta e invitarlo.
Il Serpente ricambiò quel cenno del capo e avanzò senza che i suoi stivali producessero rumore. Superò la ragazza ed entrò nell’edificio. La donna che teneva la porta la chiuse dopo il suo passaggio e incrociò lo sguardo della ragazza.

Non si sentirono urla. Seppero che l’Alto Consigliere era finito quando il Serpente uscì di nuovo dalla porta.
“Sapeva che sarebbe stato rischioso tornare, ma non ce la faceva proprio a trattenersi…” borbottò l’altra donna in un tono dolce e ironico, stringendosi nelle spalle poco dopo. La prima la seguì: “E giocare con le corde come piace a lui a volte può essere fatale.”
Il Serpente scrutò in silenzio le due donne, poi cercò gli occhi della ragazza dal volto segnato che sostenne il suo sguardo. Dopo un muto discorso, entrambi si salutarono con un lento e rispettoso chinare del capo. Poi il Serpente si smosse dalla propria posizione e si incamminò di nuovo lungo la via per sparire a un angolo.

 
***



Quando il Comandante entrò nella stanza delle terme la piscina era bella fumante e due serve accovacciate sul bordo avevano appena finito di posizionare le candele e i fiori profumati.
Esse si alzarono e si ritirarono per lasciarlo solo.
Il Comandante avanzò tronfio nella sala e lasciò che la vestaglia di seta, con lo stemma della Signora Bianca ricamato sul petto, gli scivolasse di dosso, così da rivelare il corpo muscoloso e alto che rendeva onore alla sua carica. Aveva un viso quadrato ma dai lineamenti eleganti con una mascella importante e capelli biondi e folti che si fermavano all’attaccatura della nuca.

Si fermò davanti all’entrata della piscina e si portò le mani ai fianchi nell’osservare con delizia le acque limpide e calde nelle quali stava per fare le sue abluzioni. Il piacere sul suo volto venne rovinato da una smorfia quando notò, poco prima degli scalini che si immergevano nella piscina, una chiazza di acqua che bagnava le piastrelle del pavimento e stonava con la perfezione del resto della stanza.

Scrollò il capo e avanzò senza più ritardare il suo piacere. Un piede calpestò incurante la disordinata chiazza d’acqua, e l’altro sfiorò il bordo degli scalini discendenti. La natura della chiazza venne messa in discussione quando il sorprendente intervento di un terzo piede fece capolino da dietro il Comandante per tirargli indietro il più avanzato in uno sgambetto e lui, nel tentativo di mantenere l’equilibrio, trasferì istintivamente tutto il peso sul piede immerso nella pozza che però risolse di farlo scivolare in avanti. La sua testa incontrò con precisione matematica, e allo stesso tempo sorprendente semplicità, uno spigolo del bordo della vasca in un rumore sordo prima che il suo corpo cadesse nell’acqua.

L’acqua fumante iniziò a tingersi di rosso e il Serpente non si smosse dalla parete della stanza. I suoi occhi azzurri rimasero a lungo fissi sull’uomo per accertarsi che non fosse solo svenuto, ma definitivamente morto. Quando fu soddisfatta il serpente si scostò dalla parete e i capelli mossi ondeggiarono insieme a lei; andò a una finestra e la aprì per poi sparirvi oltre.
Di lei non rimase alcuna traccia.

 
***



“Ah! Sì!”
Le cosce allargate della Dama Faunice Dan Domehrsein accoglievano la testa mora di un mezz’elfo dalla pelle color cioccolato e i muscoli torniti. Il moretto affondava le labbra tra di esse e si dava un gran da fare per soddisfare la signora. Dall’espressione presa doveva farlo anche con piacere. Dama Faunice era una donna giovane e bella dai lunghi boccoli castani, e in quel momento il suo corpicino sinuoso era percorso da un sentiero di fini catenine dorate e si stava inarcando tra le pieghe delle lussuose coperte del baldacchino.

“Ahn…” la donna gemette ad occhi chiusi mentre la lingua del suo schiavo stuzzicava l’apice del suo clitoride ormai inturgidito. I pesanti preliminari stavano durando da un po’, ma la Dama non sembrava avere intenzione di saziarsi. Il mezz’elfo si scostò e le lanciò uno sguardo furbo.
“Mia signora…”

Afferrò un cuscino e lo poggiò sulla sua testa, poi si scostò per darle le spalle e indietreggiando si sedette su di esso. Il peso del suo corpo fu abbastanza da rendere difficoltoso il respiro alla Dama. Lui si distese di nuovo e tornò a tormentare la vulva della donna; man mano lasciò sapientemente che il suo peso la soffocasse, facendola mugolare dal piacere.
Si staccò da lei in una pausa prestabilita in cui lei poté scostare il cuscino e ansimare per riprendere fiato. Dopo poco fu lei a nascondersi di nuovo sotto il cuscino, ad afferrare l’anca del moretto e a spingerselo addosso.

Quando venne indebolita dalla mancanza d’aria lo spinse di nuovo via e lui si scostò portando il bacino in aria. Ne approfittò per sporgersi più in avanti e leccarla approfonditamente e lei gemette rumorosamente nel sentire il proprio corpo avvicinarsi al culmine del piacere. Furono entrambi troppo presi dalla foga per accorgersi che la porta, i cui cardini erano stati curiosamente oliati con cura dai servi il giorno prima, si era aperta.

Il cuscino pressò di nuovo sul viso della signora. Lei lo accolse con un gemito più compiaciuto degli altri. Quel cuscino si scostò e le diede aria, ma lei emise un verso di protesta e così subito dopo la pressione tornò sulla sua faccia fino a impedirle di respirare. Versi esclamativi venivano ovattati dalla stoffa e dalle piume d’oca del cuscino e riempivano le orecchie del mezz’elfo che continuava a stimolarla con la bocca per farle raggiungere l’orgasmo. Intanto, dietro di lui, accovacciato oltre la testa della donna e contro la testiera del letto, il piccolo Serpente aveva le braccia tese e le mani pressate contro quel guanciale e il capo inclinato e abbassato verso di esso, e aspettava pazientemente che la donna iniziasse a farsi mancare il respiro.

Il mezz’elfo non si accorse neanche che Dama Faunice aveva smesso di gemere di piacere e iniziato a urlare di terrore, né che i suoi fremiti convulsi non erano più dati dall’orgasmo in arrivo ma dalla morte che sopraggiungeva, e non poté notare la morsa d’acciaio con cui le mani di lei avevano afferrato i polsi del Serpente, che però non si mosse di un centimetro e rimase lì dov’era finché lei non morì asfissiata.

L’asfissia fu accompagnata però da un orgasmo e lo schiavo poté accogliere le contrazioni compiaciute della vulva con altre doviziose leccate, mentre il Serpente si scostava, scendeva dal letto senza far rumore e usciva dalla porta. Quando però si rese conto che Dama Faunice aveva smesso di muoversi si interruppe interdetto e si scostò dal suo corpo.

“Dama Faunice? Mia signora?”

Voltò il viso, ma con la coda dell’occhio non notò movimenti. Si voltò del tutto e le levò il cuscino dalla faccia per scoprire l’espressione contratta di terrore con la quale Dama Faunice aveva lasciato quel mondo. Un urlo di sgomento lo afferrò mentre si stringeva il cuscino al petto. Si guardò attorno allarmato e solo allora vide la porta aperta. Ansimando per il panico gridò il nome della sua padrona e iniziò a piangere. La strinse forte in un abbraccio; gli altri servi lo trovarono in quello stato quando vennero a sostituire i carboni dello scaldaletto.

 
***



Finalmente, all’ora di pranzo, Azul era riuscito a emergere dalla piramide di documenti della Sala del Consiglio e intrufolarsi tra i porticati del Palazzo. Voleva approfittare della bella giornata per godersi il sole che illuminava il cielo terso e gli scaldava la pelle, e il profumo dei fiori che trapelava dai giardini al centro dei chiostri.

Passeggiava tra l’ombra dei porticati e la luce dei giardini con uno dei suoi abiti belli. Questo in particolare aveva uno strascico che gli piaceva molto. Sopra la testa portava una corona più modesta delle solite, di legno, ma graziosa. Era trattenuta alla capigliatura da dei dentini, come un pettine. Dietro la nuca spuntavano dei prolungamenti come rami, o corna, lunghi pochi centimetri, che erano stati colorati di bianco, e da lì scendeva flessuosa verso il basso e superava le orecchie per accarezzargli l’inizio degli zigomi scuri. Attaccati alla corona, dei leggeri drappi di stoffa rossa gli decoravano i capelli e nascondevano le tre scabrose cicatrici a lato del suo cranio.

I giardini erano poco percorsi per l’orario e solo il cinguettio degli uccellini disturbava la loro quiete. Azul si prese del tempo per apprezzare quel momento, camminando piano lungo i sentieri e inspirando il profumo delle piante che lo circondavano. Si nascose di nuovo dal sole quando fu inghiottito da un altro porticato, e affacciandosi al prossimo chiostro sostò sotto l’arco che lo introduceva e posò una mano affusolata sulla sua pietra pallida, permettendosi di spaziare con i grandi occhi.

Gli giunse l’eco di due voci così familiari da scaldargli il cuore. Spostò lo sguardo tra le panche del giardino poco lontano e intravide i suoi due figli seduti sulla stessa panca.
So’o aveva le gambe incrociate in una postura ben poco regale e tra esse aveva una ciotola di cereali, carne e verdure che portava alla bocca con un cucchiaio. I suoi occhi curiosi erano puntati sul libro che il fratello maggiore aveva tra le mani.
Vilya indossava la maglia color sabbia che Imesah gli aveva regalato, nonostante la luce del sole colpisse entrambi i fratelli con il suo calore. Parlottava con il biondo e gli porgeva il libro per indicargli una riga precisa. So’o annuì masticando a bocca chiusa in un’espressione buffa e Vilya continuò a parlare portandosi il libro davanti alla faccia, come se non riuscisse a leggere.

Azul incrociò le braccia al piccolo petto e poggiò una spalla allo stipite dell’arco in una posa rilassata. Rimase in disparte a osservare i ragazzi.

So’o rimase a guardarlo per un po’ finché non sembrò decidere di dovergli dare fastidio e si sporse con la mano per posarla sul libro e spingerlo giù. Il libro scivolò dalle mani di Vilya e finì sulle sue gambe; Vilya lo recuperò prima che cadesse a terra e lanciò un’occhiata indispettita a So’o, che gli rivolgeva un sorrisetto soddisfatto.
Il jaluk schiaffò la copertina del libro sulla faccia del più piccolo e il mezzodrow venne spinto all’indietro in un verso sorpreso. Si agitò senza vedere quello che stava facendo e tra le risate del fratello maggiore si versò un po’ del contenuto della ciotola sui pantaloni.
Una volta trovata la faccia del drow la sua mano iniziò a schiaffeggiarla e Vilya dovette distrarsi per difendersi. Così So’o riprese la vista e si protese verso il fratello maggiore andandogli addosso; la ciotola di cibo che gli stava sul grembo si rovesciò sulla panca e poi cadde a terra senza che nessuno dei due se ne curasse. Il moro protestò in un lamento che venne sepolto tra altre risate quando il biondo prese a pizzicargli i fianchi e fargli il solletico, costringendolo ad accartocciarsi su se stesso.

In un sospiro Azul si scostò dallo stipite e si voltò. No: non aveva alcuna voglia di continuare a spiare i suoi bambini. Non era carino stare a guardare.

Anche perché sapeva cosa stavano facendo.

Avanzò di qualche passo verso il giardino, e appena oltrepassò l’arco il sole lo investì illuminandolo con la sua luce. Azul sollevò gli enormi occhi gialli al cielo terso, verso Saab.

Gli sibilò con voce roca, certo che lui potesse sentire.
Non sarò io a fermarti.”


 
***



Non fu chiaro chi dei due avesse iniziato per primo. Non appena la porta della stanza fu chiusa i due ragazzi si strinsero in una morsa d’amante e le loro bocche si unirono in un bacio affiatato.

Vilya fece risalire le grandi mani lungo i fianchi del più giovane fin dietro la schiena e poi risalì sul davanti per accarezzargli le tempie e infrangere le dita tra i suoi capelli biondi. So’o non voleva saperne di staccarsi dal fratello: ad occhi serrati si riempì i palmi dei suoi pettorali e poi scese fino all’ombelico per aggrapparsi ai lati del lembo dei pantaloni. Con un paio di passi goffi in avanti Vilya spinse il fratello verso il letto. So’o incespicò un paio di volte ma lo assecondò finché i tendini delle ginocchia non incontrarono il letto e lo fecero cadere all’indietro.

Il drow venne trascinato nella caduta e riuscì a non spiaccicarsi del tutto addosso a So’o tendendo le braccia in avanti per intercettare il materasso; si adagiò poi su di lui, in uno sfregare sensuale, mentre So’o faceva scivolare le furbe manine dietro di lui per stringergli piano entrambe le natiche. Continuarono così, strofinandosi ed esibendosi in umidi baci finché non furono talmente eccitati che la strettezza dei pantaloni gli procurava dolore.

“Ahn…” Gemette So’o, cercando di scostarsi dalla bocca avida del più grande per riprendere fiato. “Vilya…”
Il drow chinò il viso per aggredire il suo collo. Gli strappò un gemito più alto e lo stordì per qualche secondo; ne approfittò per passare la mano tra i loro corpi e iniziare a massaggiarlo da sopra la stoffa dei pantaloni.
“Ah!” Lo sentì esclamare. Infierì sulla sua eccitazione e così sul collo del ragazzo, che nel piegare all’indietro la testa glielo stava porgendo. Il corpo del moro, attillato a quello dell’altro, riusciva a percepire i potenti fremiti che ne scuotevano già il corpo.

In un moto di frenesia Vilya scese a succhiare la porzione di petto abbronzato che si intravedeva dallo scollo della maglia. Il corpicino del mezzodrow si inarcò nel sentire la bocca voluttuosa del fratello su di sé e in un grido So’o strinse le dita tra i suoi capelli mossi. La mano di Vilya andò a violarlo più a fondo: si infilò sotto i lembi della maglia e, saggiando la morbida pelle della sua pancia, la scostò via nel risalire fino al petto. Questo provocò un altro squittio del fratellino, che era ormai caldo come se fosse febbricitante e con le guance arrossate, e si era proteso ancora di più verso le sue cure.

Vilya staccò le labbra dalla pelle di So’o per dargli un momento di tregua, anche con la mano. Alzò il viso per cercare il suo. So’o riuscì lentamente a riprendersi per incrociare il suo sguardo con due occhi lucidi. I loro respiri affannati riempirono la stanza in un nuovo silenzio. So’o lo fissava con impaziente attesa. Vilya riuscì a leggere anche una stilla di paura in lui, inconfondibilmente colpa dell’inesperienza. Preso da un moto di tenerezza Vilya premette di nuovo le labbra sulle sue in un dolce bacio, nel tentativo di rassicurarlo.

La sua mano accarezzò le linee sinuose della pancia del fratellino e sentì al tatto il brivido che era riuscito a provocargli. Abbandonò le sue labbra per scendere con tutto il corpo. Il muso affondò sul petto del ragazzo, che era stato scoperto, e iniziò a posarvi i primi baci. Sentì So’o gemere e poi interrompere il respiro per deglutire. Vilya si prese il suo tempo: succhiò la pelle e scese piano mentre la schiena del mezzodrow si staccava dal materasso per offrirsi a lui. Intanto la mano scura lo esplorava; giocò con la patta dei pantaloni, sbottonò i primi bottoni rivelando la punta della sua eccitazione per poi lasciarla insoddisfatta, e calò sull’inguine per massaggiarlo in una tortura quasi insopportabile. So’o prendeva grandi boccate d’aria.

Arrivato sulle sue costole Vilya cercò di attenuare la tensione facendo il cretino. Le sue carezze rallentarono e intanto prese a mordicchiargli minacciosamente un lembo di pelle come se volesse mangiarselo tutto. So’o emise un mugugno e sollevò il viso arrossato dal cuscino per rivolgergli uno sguardo imbarazzatissimo. Vilya sollevò le palpebre per godere del suo faccino irresistibile e socchiuse gli occhi nella smorfia divertita che gli si era dipinta sul volto.

Lo lasciò stare e tornò a fare sul serio. Discese finalmente lungo gli addominali morbidi del ragazzo che formavano le linee sinuose del suo ventre. Iniziò a posarvi umidi baci. Sentì la mano del fratello affondare nella sua chioma e stringere pianissimo l’attaccatura dei capelli. Non ci diede peso e continuò a baciargli la pancia, avvicinandosi all’ombelico. Tornò ad accarezzargli l’inguine con la mano e So’o emise un lungo gemito a bocca chiusa e gli strinse i capelli. Vilya si spinse oltre: sorprese l’altro spingendosi ancora più giù in un solitario, ma eccitante bacio che era stato posato appena più in basso. So’o sospirò e la sua morbida pancia si contrasse al ritmo dei polmoni, in uno spettacolo che rese Vilya ancora più eccitato.
Riprese a baciarlo verso il fianco ma ridiscese presto dove aveva interrotto e stavolta non lo lasciò insoddisfatto, ma scese fino ad incontrare la patta dei suoi pantaloni. So’o gemette; la sua mano premette la faccia di Vilya contro il proprio bassoventre. Le mani del drow finirono di sbottonare i pantaloni e glieli tolsero di dosso. Quando So’o ebbe disteso le gambe Vilya lo sentì vittima di un fremito più agitato.

“Mh…”

Alzò lo sguardo aspettandosi che So’o lo avrebbe ricambiato. Infatti il più piccolo lo stava guardando e gli occhi insicuri cercavano i suoi. Il biondo deglutì di nuovo e abbassò appena di più gli occhi prima di riportarli a lui.

So’o era a dir poco sconvolto. Ansimava affannosamente, il suo corpo era ricoperto da una lucida patina di sudore e, esausto, aveva lasciato che gli arti si accasciassero scompostamente sul materasso. Il drow si distese sul fianco accanto a lui e lo cinse con un braccio. Affondò il muso nell’incavo tra il collo e la spalla del biondo e prese ad accarezzarlo piano nell’attesa che si riprendesse.

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Capitolo 13
*** Casa ***



 
Casa.







Vilya si stiracchiò sotto il sole del mattino. La maglia color sabbia che gli accarezzava la pelle rendeva tenui i raggi solari e diffondeva il calore su tutto il busto. Si sporse sulla ringhiera del terrazzo e chiuse gli occhi per compiacersi in silenzio, come una rugosa lucertola a sangue freddo.

“Prendine quanto ne vuoi, è gratuito.”

L’improvviso verso che provenne dalla sua destra lo fece sussultare dallo spavento. Si scostò dalla ringhiera per voltarsi e trovare suo padre. Azul lo squadrava con i suoi ambigui occhi gialli, che riflettevano la luce del sole come due grosse monete d’oro. Il viso affilato e il collo esile erano incorniciati dall’ennesima corona. Vilya non fece tanto caso a cosa si fosse messo in testa, ma notò una fila di piume indaco e azzurre che gli coprivano la nuca e scendevano come capelli fin sulle piccole spalle, coprendo anch’esse.
Tirò un sospiro, ma la tensione non lasciò il suo corpo.

“Grazie, papà. Accetterò il tuo prezioso dono e tornerò a crogiolarmi sotto al sole, se me lo permetti.”

Si voltò verso la ringhiera. Allungò le mani su essa, ad afferrarla, e si spinse un po’ contro essa tenendo le braccia tese. Con la coda dell’occhio vide l’uomo avvicinarsi. Il suo passo era sinuoso come quello di un serpente, inconfondibile.

“Come vanno le cose, piccola peste?”
Vilya scrollò le spalle e sbuffò.
“Mph. Il solito.”
“Il solito?”
Azul inclinò la testolina di lato con aria interrogativa, senza smettere di fissarlo. Vilya evitava accuratamente il suo sguardo.
“Non ti stai divertendo? Devo chiamare un guaritore?”
“Smettila.” Borbottò Vilya, impacciato. Suo padre lo stava prendendo in giro.
Azul distese le labbra piene in un dolce sorriso e socchiuse gli occhietti. Avanzò ancora e si portò accanto al figlio, rivolto ora verso il panorama della ringhiera del Palazzo.
Vilya sapeva, che Azul sapeva, che Vilya non avrebbe resistito e avrebbe tirato fuori qualcosa di bocca in poco tempo.

“Sì, no, è a posto. Voglio dire, va tutto bene.”
“Mi fa piacere saperlo.”
Azul prese un sospiro che ne sollevò le spalle e il piccolo petto, in parte scoperto dall’abito lussuoso che lo vestiva.
“E So’o?”
“So’o?” Chiese Vilya stranito.
“Mh.” Annuì il padre. “Come sta.”
“Puoi chiederlo a lui!” Sbottò l’altro, nervoso.
“Non lo sai? Sapere le cose dai fratelli è molto più facile.”
Vilya scrollò il capo e sbuffò.
“Non c’è niente di grosso di cui parlare. Altrimenti te ne avrei parlato.”
“Hm, oh, molto bene allora.” Cinguettò la voce serafica del padre.

Il silenzio scese di nuovo tra i due, ma nonostante ciò l’espressione di Vilya rimase seccata.
Era sotto pressione. Azul lo stava mettendo alla prova. Era il suo modo di torturarlo. Metterlo sotto pressione finché Vilya non avrebbe più resistito e gli avrebbe urlato in faccia quello che lui voleva sapere. Si sforzò comunque di resistere: era una questione di principio.

“Stiamo leggendo un libro interessante che parla di serpenti d’acqua dolce.”
“Pratiche sessuali del continente.”
Cosa!?” Vilya si voltò verso Azul, sconvolto come un ladro sorpreso a rubare un cetriolo a forma di pene.
“Pratiche sessuali del continente. ‘Le posizioni di Hysts dalla A alla Z’. Libreria in fondo a sinistra, settimo scaffale dal basso.” Azul scrollò le spalle. “Beh, in qualche modo bisogna pure iniziare dopotutto.”
Basito, Vilya non si accorse di aver aperto la bocca in una buffa smorfia. Si schiarì la voce per costringersi a tornare a guardare il panorama per sembrare noncurante – per quanto potesse essere credibile. Aveva le guance calde. Era arrossito.
“Sì, è… è curioso, oh. Lo sto solo aiutando.”
Ebbe l’impressione che Azul avesse sollevato un sopracciglio in un’aria ben poco convinta, ma non ne fu sicuro. Sollevò un braccio e piegò il gomito per grattarsi distrattamente la schiena, così da nascondersi con sollievo ai suoi occhi per qualche secondo.

“Quindi com’è andata?”
“Cosa.”
“L’uscita!”
“Quale uscita?!... Non è un po’ tardi chiedere della gita alla Foresta? Sono passati parecchi giorni, lo sai?”
“Ma non parlavo di quell’uscita!” Esclamò Azul stirando le parole e sollevando il viso per aria, verso il cielo terso. “Parlavo di ieri pomeriggio!”
“Non siamo andati da nessuna parte ieri pomeriggio.”
“Certo, non ricordi? Siete sgattaiolati di nascosto dalla finestra della stanza di So’o, come fate quasi tutti i pomeriggi. Ieri un po’ più presto, a dire la verità.”
Vilya deglutì, preso in una smorfia di mal sopportazione.

Merda. Accidenti. Brutto bastardo.

“Uh… sì, certo, ora ricordo…” Vilya si passò la mano sul collo in un gesto disperatamente distratto. “… beh, sta facendo amicizia.” Borbottò. Ma sì… non c’era motivo di nascondergli i particolari.
“Mh.” Azul annuì. “Sono bravi con lui?”
“Lo sono. Altrimenti li picchio.” Commentò Vilya corrugando la fronte. Incrociò le braccia sulla ringhiera.
“Oh, quindi sei un fratellone protettivo tu?” Azul se ne uscì con un tono fintamente sorpreso.
Vilya sbuffò scontroso al pensiero. So’o non si deve toccare, fu il pensiero che gli baluginò nella testa.
“Sono protettivo con la roba mia.” Si fece sfuggire dalle labbra. Fu tardi quando si accorse di quanto quella frase fosse ambigua.
Azul sbuffò dalle narici in una smorfia beffarda, un ghigno a labbra chiuse che diceva tutto ciò che c’era da dire. Vilya abbassò lo sguardo, con la vergogna sulla faccia.
Era così che voleva fare, allora. Metterlo in imbarazzo con le sue stesse parole. Era… così… cattivo!
Maledizione!

Vilya si scostò dalla ringhiera in uno scatto nervoso.
“Devo andare.”
Si voltò per andarsene. Vide Azul piegare il capo di lato, dalla parte opposta. Decise di ignorarlo e di continuare a camminare, si promise di non farsi trascinare dalla costante pressione che sentiva addosso. Ma ad ogni passo che muoveva la sentiva inchiodarlo a terra. Non capiva bene se fosse più a causa dell’influenza che suo padre aveva su di lui, o se fosse colpa di qualcuno dei suoi strani poteri maledetti.
A un passo dalla porta si arrese in un sospiro seccato. Si voltò di nuovo verso il padre e lo puntò. La creatura si voltò piano, in un tempo tutto suo. I suoi occhi fecero capolino oltre la corona di piume, già inchiodati nei suoi. Ambigui, luccicanti.

“Non fatevi troppo male.” Soffiò l’uomo, nella sua voce mielosa.
Socchiuse gli occhi e si voltò di nuovo verso il panorama, con la stessa lentezza.

Vilya prese un grosso respiro, mentre scrutava le spalle del padre. Sentiva la faccia contratta dalle strane sensazioni che lo afferravano. Una sorta di sollievo, ma anche di ansia. Però si sentiva più sollevato.
Si smosse finalmente dalla porta. Si accorse di sentirsi molto più leggero. Si voltò e imboccò la porta.

 
***


“N-nnnngghhh!!!”

Le mani che tenevano la testa del Dan Domehrsein in una stretta convulsa si strinsero in due pugni nel lasso di pochissimo tempo per abbattersi sul tavolo di legno pregiato a cui sedeva e provocare un minaccioso tuono nella stanza.
La venuzza sulla tempia dell’uomo sembrava stare per esplodere. La faccia dalla carnagione delicata era paonazza, e le sopracciglia rosse contratte in una smorfia di panico.

“Sappiamo che sono stati loro, Signor Dan Domehrsein. Non c’è bisogno di andare alla ricerca di prove.”

“NO CHE NON CE N’È BISOGNO!” Esclamò lui: afferrò il primo oggetto che gli capitò tra le mani e lo lanciò con violenza verso la serie di consiglieri che lo fissava, poco lontano. Uno venne beccato sulla pancia e si ritirò in un verso goffo.

“Calmatevi Signore. Gli Alleati stanno per arrivare…” Lo intimò incerto uno della risma. Il rosso mugugnò un verso bestiale ed afferrò una bottiglia di vetro, dal quale si versò dell’acqua nel calice. Cozzò con il collo sul cratere, il calice oscillò e cadde riversando l’acqua sui fogli posti al tavolo. L’uomo urlò e in un impeto di follia isterica spazzò via con gli avambracci tutto ciò che gli si trovava davanti. Gran parte di ciò che si trovava sopra il tavolo era ora per terra.

Quando fu soddisfatto puntò i palmi aperti sull’umida superficie di legno, ansante.

“Un valoroso comandante vincitore di tante battaglie scivola su una pozza d’acqua e muore per un colpo alla testa. Un Alto Consigliere ha il prurito per l’ennesima volta e stavolta ci resta secco. MIA SORELLA E’ MORTA SOFFOCATA DAL CULO DI UNO SPORCO MEZZ’ELFO!”

All’urlo i pugni dell’uomo sbatterono sul tavolo altre sei volte, facendo sussultare la mandria di consiglieri apprensivi che si stringeva come per nascondersi uno dietro l’altro.

“E NON CI SONO PROVE! Cosa diavolo vuol dire?! Saab è arrivato e ha stretto la corda attorno al collo del vecchio bastardo? Saab ha messo la maledetta pozza in quel preciso punto di quella precisa vasca? COSA DIAVOLO STA SUCCEDENDO!”

“Mantenete la calma, Umirr.” Si permise un consigliere facendo un passetto avanti. “E non fatevi afferrare dal vostro lutto. Non è contemplabile che il Dio dei plebei abbia una forza così devastante: devono essere stati gli sporchi schiavi. Il mezz’elfo di vostra sorella è già stato condannato a morte per quello che ha fatto.”

“QUEL BASTARDO ADORAVA MIA SORELLA!” Esclamò Umirr, che non aveva, e quindi non mantenne, la calma.

“Non abbastanza a quanto pare. Le serve del Comandante devono avergli fatto uno scherzo, e le prostitute di Risvith si saranno divertite con l’Alto Consigliere. Vedete? Ci sono ottime spiegazioni. È una rivolta dal basso.”

Il rosso si interruppe all’improvviso. I suoi occhietti sgranati si inchiodarono al Consigliere che si era sporto per parlare, e lo penetravano impietose dalle pupille.

“E vi sembra qualcosa di cui gioire? VI SEMBRA QUALCOSA DI CUI GIOIRE FORSE CONSIGLIERE JARETH?! Cosa preferite!? Una divinità che ci spazza via con il solo schioccare dei suoi arti o forse una concreta entità diffusa ovunque attorno a noi come un morbo incurabile!? UH!?!?”

Il Consigliere Jareth sembrò turbato e si smosse sul posto mentre il Dan Domehrsein si afferrava la zazzera di capelli rossi e mugugnava infuriato.

Lo spalancare di una porta laterale lo riportò all’ordine: il rosso si drizzò in piedi, ancora scosso – lo dimostrava un brivido incontrollato del suo corpo. I suoi occhietti sgranati si puntarono sulla donna che emerse dallo stipite.

“Ricomponetevi, Dan Domehrsein.”

Era una donna alta, la cui veste bianca e brillante si confondeva con i lunghi capelli argentei. Sulla fronte era incoronata da un diadema d’oro, con una gemma rossa che catturava la luce dei raggi del sole. I suoi occhi erano grandi e avevano un ipnotico taglio verso l’alto. Scrutavano intensamente l’uomo, con una determinazione che gli fece raggelare il sangue. Non era la prima volta che gli faceva questo effetto. Lei avanzò verso di lui.

“Signora Bianca…”

“Stermineremo chiunque dimostri di simpatizzare per l’avversario. Abbiamo i nostri modi di tenere sotto controllo servi e schiavi. La plebe di Città Alta sarà sottomessa come è sempre stata, perché altrimenti non darete loro da mangiare.”

La donna si fermò a un paio di metri dal tavolo e sollevò il mento in un movimento fluido.

“Abbiamo tutto sotto controllo. Siamo noi i signori di tutto questo, non dimenticatelo.”

Sbatté le palpebre e rincarò lo sguardo freddo sull’uomo dalla zazzera arruffata. Umirr sentì un brivido afferrargli i lombi e si inarcò meglio con la schiena.
Quando sul volto della Signora Bianca si intravide una smorfia soddisfatta lei si voltò per dargli le spalle e tornò alla porta che aveva spalancato poco prima.

“Venite, vi stiamo aspettando.”

 
***



“Sì!”

So’o fece cadere il bastone e saltò esultando. Tra gli schiamazzi e gli esulti dei ragazzi vide Vilya alzarsi dalla cassa e correre verso di lui con un ghigno sulle labbra. Il mezzodrow fece uno scatto verso di lui per lanciarglisi tra le braccia in un piccolo salto. Il drow lo prese al volo e lo strinse forte nella stretta dei bicipiti muscolosi. So'o gli rise accanto all’orecchio mentre Vilya lo teneva sollevato per aria. Sciogliendo la presa, il drow gli permise di poggiare di nuovo i piedi a terra e l'altro si staccò quel che bastava per guardarlo negli occhi con un sorriso raggiante. Si accorse allora che le proprie braccia erano allacciate attorno al suo collo, e quelle di Vilya scivolate sui fianchi del più piccolo. Questo non smorzò il sorriso che stava ricambiando al moro.

“Thursz, tutto bene?” Poco più in là sentiva il chiacchiericcio di alcuni ragazzi andati a tirare su il mezz’orco appena battuto e controllare che non si fosse fatto male. Colse le voci dei cugini: il tono infastidito di Dalia e le battute goliardiche di Rhaed. Era un brusio impreciso per So'o, che scrutava il viso del fratello maggiore. Socchiuse gli occhi limpidi e li abbassò di poco, in un’espressione timida. Che sensazione strana era, per lui, trovarsi in mezzo a tante persone e poter stringere l'altro, poterlo guardare in quel modo senza avere paura. Era una cosa speciale.

Che fu turbata da uno spiacevole evento.

Un gruppo di sfarzosi cavalli con i loro cavalieri si stava facendo strada tra la folla. Tre avanti, tre indietro, e, al centro, uno solo, meno agghindato e dall’aria più seria. Quelli davanti tagliavano la folla impartendo ordini e avanzavano verso il centro della piazza. Quando raggiunsero lo spiazzo si interruppero. I sei cavalieri più sfarzosi intimarono il silenzio con le loro urla. Man mano che la gente si allontanava dai signori seriosi, So’o poté intravedere gli stemmi poggiati sui fianchi dei cavalli. Uno per città li riconosceva tutti, e ognuno di essi gli diede un piccolo brivido. Tutto quello non prometteva nulla di buono.

Gli bastò sollevare lo sguardo per vedere Azul discendere le scale dorate del Palazzo Imperiale nei suoi abiti regali. So’o sollevò il viso, allarmato. La sua mano destra pescò in giro per trovare poi la spalla di Vilya a cui appoggiarsi.

Accanto a lui scendeva Imesah in divisa da Cavaliere Grigio. Le sue guardie avevano iniziato a spostare la folla e allontanarla dal Palazzo e dai sette signori pretenziosi.

L’uomo al centro sfilò una pergamena dalla borsa e la distese davanti ai suoi occhi.

“L’Alleanza di Città Alta, che raccoglie a sé le forze di Città Alta stessa, delle colonie di Charrvelraughaust, della Collina Intessuta, della Gola di Futhar, del Regno della Signora Bianca, di Risvith e di Picco del Diamante,”

Con voce forte e pronuncia distinta l’ambasciatore elencava le forze in campo. So’o, che le aveva già intuite dagli stemmi, drizzò la schiena in un brivido unico stavolta. Sentì il sangue gelarglisi nelle vene. Si guardò attorno per vedere che le persone attorno a lui avevano avuto una reazione peggiore. Un gruppetto di drow sgranò gli occhi al sentire nominare le colonie; iniziarono a guardarsi l’un l’altro, spaventati, senza poter trovare rassicurazione negli occhi dei loro pari. La maggior parte dei mezz’elfi sparuti tra la folla furono gli ultimi ad allarmarsi, ma ognuno di quei nomi aveva messo in agitazione ben più della metà della folla.

“Giunge dai suoi domini fino al Gran Regno di Saab per dichiarare…”
L’uomo alzò lo sguardo verso la città.
“… guerra.”
Sentenziò solennemente, con voce alta perché tutti potessero sentire.

Versi angosciati animarono il mare di persone allo sbocco della Piazza del Mercato.

“Città Alta!”

La voce autoritaria di suo padre bruciò l’aria e riempì ogni spazio vuoto della piazza e delle strade. So’o alzò gli occhi verso la sua sagoma. Era troppo distante perché la sua voce arrivasse così potente senza ausilio della magia.

Azul aveva il viso sollevato mentre scrutava l’ambasciatore con i suoi occhi severi. Lentamente, in un movimento sinuoso, abbassò il mento. La sua voce tornò, più morbida.

“Venite. Discutiamo di questa dichiarazione di guerra.”

Il suo braccio destro si spostò dal fianco per aprirsi e invitarlo nel Palazzo.
L’ambasciatore si guardò attorno, poi diede un ordine ai sei cavalieri e smosse il cavallo con un colpo alla coscia. All’entrata del palazzo scese giù da cavallo e salì i pochi gradini che lo separavano dall’Imperatore, accompagnato dai cavalieri. So’o vide Azul muovere le labbra verso di lui e indicargli Valentino, che era comparso poco dopo. Il mezz’elfo si inchinò brevemente e si avviò all’interno del palazzo, e gli altri lo seguirono.

Il panico era iniziato a crescere attorno a lui, ma se ne stava accorgendo solo ora. Quando il vociare delle persone attorno a lui divenne troppo forte e alcune persone iniziarono a spingerlo via, So’o si guardò attorno spaventato alla ricerca di… lo trovò quasi subito. Vilya gli afferrò la mano e incrociò il suo sguardo con aria apprensiva.

“Sarà meglio allontanarsi. Andiamo in un posto più tranquillo.”

Gli tirò piano la mano e fece per trascinarselo via quando la voce di loro padre risuonò ancora una volta nella piazza.

“Cosa sono questi bisbigli, Popolo di Saab?”

Azul era sceso di un gradino. Si appellava a tutti, con espressione grave sul viso.

“Vi siete rammolliti? Non sapete più parlare ad alta voce?”

So’o corrugò la fronte, stranito. Subito dopo si alzarono numerose voci, urla, in uno schiamazzo indecifrabile.
Azul sollevò le mani con i palmi rivolti verso il basso, per sedare le proteste. Il popolo obbedì quasi subito.

“… sapevamo che questo giorno sarebbe arrivato.” Mormorò. Il suo mormorio si sentì, di nuovo, in ogni anfratto della città.
“E ci siamo preparati per questo.” Sgranò gli occhi, chinò il capo. Lo si poteva vedere spostarli con minuzia per scrutare bene i cittadini delle prime file. Una donna corpulenta riuscì a districarsi dalle grinfie di una guardia per uscire dalla folla e urlare verso l’Imperatore.
“Non ci faremo mettere di nuovo le catene ai piedi! Non ci arrenderemo senza combattere!!!”
Le urla esaltate della gente invasero la piazza. So’o, terrorizzato, indietreggiò e la sua schiena impattò contro il petto del fratello che lo strinse a sé, forte. Il mezzodrow si guardò attorno. Anche se molti di loro gridavano, altri erano nelle sue stesse condizioni e guardavano i loro vicini, spauriti.
La folla zittì nuovamente. Azul riprese.

“È così che vi voglio, Popolo di Saab. Quello che vedete, ce lo siamo conquistato. Nessuno ce lo porterà via.”
“Dovranno uccidermi per portarmelo via!!!” Urlò di nuovo la donna. Un altro grido provenne dalla folla… molto meno numeroso.
Quando le voci si spensero di nuovo ne affiorò una, un urlo disperato, distorto dal pianto.
“Ma cosa possiamo? Cosa possiamo contro i padroni?!”
So’o vide Azul spostare i suoi enormi occhi gialli proprio su quella persona, sulla creaturina spaurita che aveva parlato dalla folla.

“Cosa possiamo? Possiamo tutto, miei uomini e donne. Come siamo arrivati fin qui?”
In una sfida, Azul sollevò di nuovo il mento e scandagliò tutta la folla.
“Grattando il fondo, risalendo pozzi interminabili con le sole unghie, sfuggendo a morte certa. Credete che questa sia una sfida più ardua? Chi, conosce la sofferenza meglio di noi.” Sibilò. Abbassò lo sguardo, crudamente. Poi tornò al popolo.
“Questa gente che ci ordina di morire non sa cosa sia il dolore. Ci minaccia ma non ha più potere su di noi. Questo è il momento per noi di far scoprire loro finalmente qual è il sapore delle loro armi: la sottomissione, l’umiliazione, la sconfitta.”
La voce divenne cavernosa, e So’o poté leggere in essa, con un altro brivido, un tono di profondo rancore.
Gli uomini avevano smesso di esultare, ma la loro attenzione era catturata sull’Imperatore.

Azul indietreggiò di uno scalino e drizzò le spalle, in quella che stava per essere probabilmente l’ultima sentenza.
“Ricordate, popolo mio. Per la giusta bestia basta un po’ di veleno per annientare un uomo.”

Dopo un lungo sguardo sulla folla, l’Imperatore si voltò e si ritirò nel Palazzo.


 
***



Di giorno, la Foresta Incantata aveva le sembianze di una foresta qualsiasi. Ciò che dava alla Foresta la sua reputazione era lo spettacolo a cui era possibile assistere quando il cielo si colorava di indaco e la luce del sole era ormai un ricordo.

C’era un sentiero stretto e lungo che attraversava la Foresta, tenendosi lontano dalle abitazioni degli elfi dei boschi, i quali non gradivano le visite inaspettato. Era stato inciso su ordine dell’Imperatore nei primi anni di fondazione del Gran Regno di Saab, quando venne stabilita l’alleanza con quelle zone. Alla luce del sole sarebbe parso un sentiero come un altro.

Ra’shak smontò da cavallo non appena si trovò all’imboccatura del sentiero. Tenne le redini del frisone nero in una mano e afferrò i fianchi di Valentino per aiutarlo a scendere. Il mezz’elfo si sporse per poggiare le mani sulle sue spalle e trattenne il respiro finché non toccò terra, per poi rilassarsi. Ra’shak andò a legare il cavallo ad un ramo vicino per tornare poco dopo accanto all’altro. Vide che il biondino stava guardando il sentiero; si voltò per guardare nella sua stessa direzione.

Nel buio accecante della notte, tra le sagome estranee delle fitte fronde, un sottile filo dorato tagliava il vuoto in un arco, un ingresso subito all’inizio del sentiero. Il suo bagliore era fioco, ma riusciva a dare colore anche alle foglie che si trovavano attorno ad esso. Ra’shak camminò verso quel filo brillante, che sembrava pregno, dentro, di una linfa che vi scorreva su e giù. Allungò una mano a carezzarne un prolungamento e lo prese tra due dita: una foglia. Aveva sempre l’impressione di potersi sporcare d’oro se lo toccava, che sciocco. Sapeva bene che si trattava solo di una pianta. Certo, una pianta speciale. Come il resto di quelle piante.

Percepì accanto a sé la presenza del suo compagno alla sua destra. Si smosse, e la mano si sporse il giusto per trovare la sinistra di Valentino e stringerla piano in una presa dolce. Mentre si smuoveva per avanzare sentì Valentino rispondergli stringendo a sua volta le dita attorno al dorso della sua mano scura.

Non si poteva parlare di silenzio. Quella che popolava la Foresta Incantata invece era un’armonia di suoni sussurrati, tra il frinire delle cicale, il timido canto di alcuni uccelli notturni, e il fruscio di quelle creature che si muovevano celate nella penombra, oppure sotto la luce delle piante. Visibili, anche se appena, perché una volta superato l’arco dorato quello che attendeva i due saabiani era un sentiero immerso in una vegetazione luminosa. La linfa emetteva luce, che pulsava tra le venature delle piante e brillava del loro colore. Intere corone di fiori baluginavano di bianco, celeste o magenta. Le foglie larghe emettevano un tenue verde, le sfumature di alcuni alberi tracciavano macchie bluastre che bucavano l’oscurità.

Ra’shak proseguì, insieme al suo uomo. Ai due lati del sentiero alcune lanterne erano agganciate sugli alberi, e dentro vi tremava la luce di fuochi fatui dalla calda colorazione arancione, la cui energia spiccava sulla vegetazione, in una luce costante e rassicurante. Non percorsero molta strada prima di intravedere i primi grandi occhi tondi che li fissavano, sentire il fruscio di un elfo dei boschi che risaliva un albero, scorgere un braccio lungo e magro nascondersi alla vista, e venire circondati, a un certo punto, da un piccolo stormo di lucciole che invase il loro spazio in una curiosa circospezione prima di tornare al loro pattugliamento notturno.

Non si parlavano. Mentre camminavano Ra’shak sciolse la presa dalla mano di Valentino. Si sporse di più e posò la mano sul suo fianco per attirarlo a sé. Il ragazzo si fece stringere e il jaluk lo sentì fare lo stesso e circondargli i fianchi. Gli diede un’occhiata. Valentino piegò la nuca e si poggiò a lui in un gesto tenero. Ra’shak chinò il viso per posare un bacio su quella nuca.

Il sentiero portava a una radura. Al centro di essa troneggiava una tozza quercia dalle dimensioni millenarie. Fili di rampicanti luminosi si aggrappavano alle sue radici, e le luci tonde di piccole fate giravano attorno ai nidi sulle fronde, pigramente, assopite. Sul limitare erano stati sistemati dei tronchi, intagliati a guisa di panche. Valentino accelerò il passo e guidò Ra’shak ad uno di essi, facendogli tendere il braccio nell’allontanarsi dal suo fianco, per la stretta delle loro mani.

Si sedette a un lato e lasciò che l’altro si sedesse accanto a lui. Il jaluk inspirò piano dalle narici il profumo di selva che impregnava l’aria. Posò gli occhi rossi sulle piccole luci che non disturbavano il suo sguardo. Si ritrovò ancora una volta a pensare a quanto gli piacesse quel posto. I suoi pensieri vennero interrotti quando la nuca di Valentino si strofinò al suo petto, sul mantello, ruffiana come un gatto in cerca di coccole.

Ra’shak si scostò appena per accogliere il biondino e circondargli le spalle. Lo senti stringerle sotto il suo braccio e avvicinarsi di più. Sulle labbra di Ra’shak si formò un sorriso intenerito. Con la mano libera portò dietro l’orecchio appuntito la ciocca bianca che gli era sfuggita quando aveva raccolto dietro la nuca i capelli delle tempie con un fermaglio.

Dopo un po’ Valentino alzò il viso e lo guardò negli occhi. Il jaluk scrutò nei suoi occhi verdi, meravigliosi. Incorniciato dai morbidi capelli biondi, Valentino aveva il volto più bello che Ra’shak avesse mai visto. La pelle chiara, pulita… Lo sguardo deciso, ma dolce allo stesso tempo. Ripensò alla prima volta che l’aveva visto. Valentino lo guardava come se fosse poco più di niente, come tutto quanto, del resto. Ora c’era energia nei suoi occhi, e l’intelligenza che avevano sempre trasmesso era accompagnata dalla passione per quello che faceva.

Lesse consapevolezza mentre le sue iridi verdi scrutavano i propri occhi rossi. Sbatterono le palpebre quasi insieme, in una piccola, silenziosa rassegnazione. Ra’shak sapeva cosa stava pensando, e lui pensava lo stesso. Pensavano al motivo per cui erano lì. Poteva essere l’ultima occasione di tornare lì, nel loro posto speciale.
Il Sentiero della Foresta Incantata era di per sé un’attrazione: una di quelle che rendevano il Regno di Saab una sorta di luogo turistico. Ma per quanto fosse un luogo niente affatto sconosciuto, loro due lo sentivano comunque appartenergli.
Dopo gli ultimi accadimenti sarebbe stato difficile permettersi delle pause, concedersi dei momenti solo per loro. Ancora più complicato sarebbe stato muoversi liberamente e andare dove gli pareva. Infine, le guerre stravolgono la terra, e non erano sicuri che alla fine dello scontro la Foresta Incantata sarebbe rimasta la stessa.

Ra’shak sollevò la mano dalla spalla del mezz’elfo per portargli una ciocca bionda dietro l’orecchio smussato, come scusa per accarezzargli il viso con il dorso dell’indice. Lo sguardo di Valentino si abbassò, distraendosi dai pensieri più pesanti. Il jaluk si sporse per cercare un bacio, e trovò le labbra del più giovane ad accoglierlo. Lo sentì piegare il capo per baciarlo meglio e dischiuse le labbra così da incalzare un altro bacio. Il sussurro della foresta li invase; alle loro orecchie arrivava nitido solo lo schiocco dei loro baci. Valentino si sporse verso il drow, inarcando la schiena, e gli intrecciò le braccia al collo. Ra’shak, ad occhi chiusi, lo prese per i fianchi e lo tirò un poco verso di sé. I baci si fecero umidi, lenti e profondi, e il respiro accelerò leggermente dalle narici.

Quando staccarono le labbra strofinarono i nasi l’uno sull’altro in una coccola. Valentino nascose il viso nell’incavo del collo di Ra’shak, che si sporse per stringerlo in un abbraccio vero e proprio. Il jaluk sollevò una mano per infrangere le dita tra i capelli biondi del ragazzo, lentamente, mentre si perdeva tra i propri pensieri.

“Quando siamo scappati in superficie credevo che non mi sarei più sentito a casa mia.”

La sua voce infranse il silenzio nel suo timbro roco, troppo alta per mischiarsi nella quiete. Si prese un momento per immergersi ancora nei suoi pensieri. Non aveva fretta di parlare.

“Per muovermi sulla terra, per qualsiasi cosa aspettavo la notte, quando tutti dormivano. Fuori luogo, fin dall’inizio. I boschi mi erano totalmente estranei, e in città c’era solo odio per un jaluk come me. Ricordi come mi guardavano?”

Ra’shak sbuffò un sospiro dalle narici mentre Valentino annuiva, ancora nascosto sul suo collo.

“E tu non vedevi niente quando ci muovevamo fuori città. Non potevi penetrare il buio senza i miei occhi e anche se avessi potuto, sarebbe stata una condanna. Ti muovevi e vivevi alla luce del sole.”

Valentino sospirò sulla pelle del jaluk. Ra’shak gli pettinò ancora i capelli con le dita, poi scese alla sua spalla e la strinse piano con la sua stretta calda.
Ovunque andassero, uno dei due non era il benvenuto. Ogni luogo sembrava esistere solo per ricordargli quanto fosse sbagliata la loro decisione, quanto fosse impossibile per loro trovare un luogo dove potevano essere insieme, senza che uno dei due ne soffrisse.
Valentino strusciò il muso contro di lui. Ra’shak parlò ancora.

“Qui puoi camminare insieme a me. Qui… mi sento a casa.”

Valentino strinse più forte la presa attorno al collo del suo compagno.
Avvicinò il viso al suo orecchio per rispondergli.

“Anche io mi sento a casa.”

 
***



So’o era seduto sul letto, e tra le gambe incrociate aveva un tomo aperto su cui era caduto il suo sguardo. Rinsavì dai propri pensieri quando Vilya gli diede un piccolo spintone di lato, probabilmente annoiatosi dal venire ignorato. Lo sentì strofinare il muso scuro sulle ciocche bionde accanto alla propria guancia, e poi sollevare il viso per baciargli l’orecchio smussato. Quell’orecchio si scrollò in un piccolo brivido e So’o si scostò, sensibile in quel punto. Vilya insistette nel farsi notare: la sua spalla muscolosa premette contro il petto del mezzodrow con una certa invadenza e un mugugno capriccioso.

“Ho capito… ho capito.”

Sospirò So’o. Sollevò un mano bronzea sulla nuca mora del più grande e procedette a trafficarvi con le dita in profondi grattini. Vilya strizzò gli occhi in un’espressione compiaciuta e piegò il capo all’indietro per darsi alle sue cure.

“Mmmh…”

So’o gli lanciò un’occhiata. Ma come faceva a essere così calmo? Nel rifletterci, si rese conto di quanto invece la sua faccia fosse tesa. Cercò di seguire l’esempio del fratellone e di calmarsi. Lo sguardo ora rilassato cadde di nuovo sulle pagine del tomo.

“Cosa stai leggendo?”
Alla domanda del drow, So’o premette le labbra tra loro in una smorfia dura.
“È un libro sulle politiche di questa zona, Vilya.”
Il mezzodrow poté intuire la faccia spaesata che Vilya gli stava rivolgendo.
“… cosa vuoi fare?”
Dopo un momento di esitazione sentì di nuovo la sua voce, e vi lesse preoccupazione.
“Io? Cosa posso fare?”
So’o scrollò le spalle con sufficienza. Non gli avevano detto delle forze che si stavano muovendo. Nessuno gli aveva detto niente. L’aveva saputo come un cittadino qualsiasi, dall’ambasciatore dell’alleanza nemica. Lui non faceva parte di quel piano, lo avevano tirato fuori sin dall’inizio. Forse per proteggerlo, o perché dubitavano delle sue capacità. Tutta quella situazione riusciva solo a innervosirlo.
Allungò la mano alla pagina di destra per voltarla. Aveva abbandonato la nuca del fratello.
“Sto solo ripassando qualche lezione.” Borbottò.
Sentiva ancora lo sguardo di Vilya addosso.
“… cosa sai dalle lezioni?” Chiese il drow, a un tratto incuriosito.

So’o prese un respiro.
“… so che sono forze da non sottovalutare. È importante avere una buona strategia.”
Si voltò verso Vilya. Il drow lo guardò un po’ come se fosse un alieno. Di nuovo, So’o si rese conto di avere indosso la sua espressione severa. Proseguì incurante.
“Il Regno di Saab ha delle risorse speciali che nessuno ha. Dovremo usare quelle, perché sono il nostro punto forte: sia per quanto riguarda i piani politici che quelli bellici. Abbiamo alleati infiltrati in ognuna delle città nemiche, forti per numero e per la loro capacità di rendersi invisibili agli occhi del nemico. Bisogna anche considerare la volontà di Saab, quanto questa possa influire sugli scontri, e il potere di Azul che potrebbe unirsi in battaglia, soprattutto in occasione dell’attacco da parte dei drow…”

“Hey… hey.” Vilya lo interruppe con una risata sarcastica: le sue mani si posero davanti a lui a palmo aperto, come per dirgli di rallentare. Scosse il capo.
“Non stiamo per combattere veramente, non è vero?”
So’o sollevò un sopracciglio dallo sconcerto.
“Vilya, cosa ti sembra, questa, di preciso? Una gita, non lo so…?” Chiese, irritato.
La faccia di Vilya si fece improvvisamente seria. Fece cadere le mani sul letto.
“Azul non andrà in battaglia. Tu non andrai in battaglia. Nessuno andrà in battaglia.”
Gli indicò la faccia per un momento prima di voltarsi dall’altra parte in un moto di rifiuto.

So’o corrugò la fronte in un’espressione più amareggiata.
“Vilya…”
Si sporse e cercò di prendergli le mani. Così finì per costringere Vilya a dargli di nuovo la sua attenzione.
“… lo so che è pericoloso e… sì, anche spaventoso.”
So’o cercò gli occhi del maggiore. I suoi occhi blu erano profondi, e insicuri.
“Ma se non combattiamo… per questo…”
Con una mano indicò la finestra, per poi tornare a lui.
“… non lo farà nessun altro. Tocca a noi difendere ciò che è nostro. Quello che gli umili si sono guadagnati, quello in cui io sono cresciuto.”
Vilya aveva il viso diretto verso la finestra. Lo riportò a So’o con una stilla di panico.
“Ma non siamo pronti per…”
“Non saremo mai pronti.” Lo interruppe So’o, scrollando il capo. Era estremamente serio.
Vilya sbatté le palpebre e indietreggiò col capo, come se le sue parole gli fossero state sbattute in faccia.
So’o strinse piano le sue mani nelle proprie prima di lasciarlo. Abbassò lo sguardo con rassegnazione. Non doveva aspettarsi che Vilya capisse: lui non conosceva il mondo in cui So’o era nato. Tornò al suo libro.

“Cercano di tenermi fuori da tutto questo. Pensano che sia troppo stupido per aiutare o peggio, che non sia abbastanza forte per contribuire.”
Parlava tra sé e sé, mugugnando, con la faccia piantata sulle pagine e la frangetta che lo nascondeva agli occhi dell’altro.
“Ed è vero che sono solo un ragazzo, ma è casa mia di cui stiamo parlando. E io non me ne starò fermo a guardarli. Mi sono stancato di stare fermo a guardare.”
Un brivido di rabbia gli percorse i fianchi e lo possedette al punto che le sue mani chiusero il libro in un impeto improvviso, provocando un rumore secco che echeggiò nella stanza.
So’o rimase a fissare a capo chino le pagine ingiallite pressate tra loro dalle sue mani. Le braccia tese gli impedivano di rilassare la presa, e d’altra parte non aveva intenzione di farlo.

Lo sorprese sentire una delicata carezza sul dorso della mano destra. Quando alzò il viso dal libro trovò Vilya a guardarlo di nuovo. Non aveva un’aria molto sicura, ma sosteneva il suo sguardo.
“So’o, non so bene cosa possiamo fare per questa situazione...”
Il drow abbassò lo sguardo per un momento. A So’o sembrò che il fratello maggiore volesse scegliere le parole giuste per quello che voleva dirgli. Quando rialzò gli occhi nei suoi, il mezzodrow vi lesse una luce temeraria.
“… ma se tu vuoi provarci, io sono con te.”

So’o scostò la mano per prendere quella di Vilya nella propria. Quando sentì la stretta del drow stringere le sue dita non poté trattenere un sorriso rincuorato, che Vilya ricambiò.

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Capitolo 14
*** Indiscrezioni ***



Ciao a tutti! Come potete vedere, il mio tentativo di aggiornare il giovedì sta miseramente fallendo! Cercherò comunque di rimediare. Intanto beccatevi questo capitolo un po' più sereno <3 buona lettura!








Indiscrezioni.








Vilya si accucciò davanti al muro della biblioteca. La biblioteca era composta da molte stanze, alcune delle quali non venivano quasi mai utilizzate per la poca ricercatezza dei temi che ospitavano le loro librerie. Per fortuna sua e di So’o, la stanza in cui si trovavano era una di quelle. Il mezzodrow lo raggiunse poco dopo, inginocchiandosi accanto a lui e porgendogli l’attrezzo che aveva in mano.

Si trattava di un piccolo cannocchiale cilindrico, di ottone, con attaccato a lato un curioso tubo che si piegava in un semicerchio e terminava in un cuscinetto più soffice, della grandezza di un polpastrello. Al centro, un marchio circolare dall'evidente provenienza magica lampeggiava di una fioca luce celeste.

Vilya afferrò il cannocchiale magico e piantò la lente sulla parete. Si avvicinò ad esso con un occhio e fece per spiarvi dentro.
“Anche l’orecchio.” La mano di So’o gli spinse la nuca e Vilya spinse via lui in un moto di fastidio. Ma obbedì poco dopo, appoggiando l’orecchio al cuscinetto del tubo. Appena sistemò l’occhio davanti alla lente notò che il muro era sparito, e al suo posto vedeva la stanza di fronte.

“È quella.” Confermò al fratellino. Gli arrivò un “Mh” in risposta, ovattato, mentre il drow si concentrava su quello che stava vedendo. Delle gambe passarono davanti al suo cannocchiale e poi, allontanandosi, fecero inquadrare alla spia il resto della figura. Dall’orecchio destro in cui era infilato il cuscinetto sentì risuonare la voce di Imesah.

“Sappiamo che i drow attaccheranno da soli. Non si fanno guidare da nessun altro se non dalle loro Ilharess. Invece gli altri potrebbero muoversi insieme.”
“Che numeri ci aspettiamo dal primo scontro?” Valentino poggiò le mani sul tavolo al quale erano riuniti tutti e quattro, alzati.
“I primi sono proprio i drow.” Gli rispose Ra’shak dall’altra parte, fissandolo negli occhi con espressione dura. “Trattandosi di colonie, ci aspettiamo un numero minore rispetto a quello che il resto dell’Alleanza è capace di sguinzagliarci contro.”

A quel punto Vilya si scostò e si voltò verso il fratellino per fare un cenno al cannocchiale.
“Vieni.”
Il biondino si smosse per gattonare verso di lui e dopo che ebbe preso il cannocchiale si scambiarono i posti. Il corpo pieno del drow si rannicchiò contro il muro, costretto nello spazio angusto, raccogliendo le ginocchia al petto in una stretta delle braccia muscolose. Poggiò un lato della nuca mora al muro e restò a guardare l’altro che spiava.

Passarono diversi minuti. Vilya spostò l’attenzione sulla stanza della biblioteca. Un tavolo massiccio li nascondeva alla vista nel caso in cui qualcuno avesse l’impellente bisogno di leggere tomi specifici sul giardinaggio. Dopo aver scrutato con minuzia la penombra che li avvolgeva, tornò al fratello. Dall’espressione sembrava che non stesse assistendo a niente di esaltante. Ogni tanto lo vedeva abbassare lo sguardo per concentrarsi sulle parole, o forse sui propri pensieri. Vilya comunque stava zitto e faceva il bravo, aspettando. Studiandolo notò il disordine insolito dei lunghi capelli del mezzodrow. Si sporse con una mano per sistemarglieli e li accarezzò, lisciandoli sulla sua schiena senza che So’o mostrasse una reazione.

Dopo poco, però, la voce del più piccolo ruppe il silenzio.
“Hai mai avuto un ragazzo?”
La domanda arrivò inaspettata al drow. Vilya inarcò le sopracciglia dalla sorpresa.
“Uh…” Abbassò lo sguardo, riflettendoci. Ragazzo? In che senso?
“Una relazione.” Spiegò So’o prontamente.
“Ah. Uhm…” Vilya premette le labbra tra loro e si passò una mano sul collo spoglio, assaggiando il calore del proprio stesso corpo e i muscoli sotto i polpastrelli. “… sì!” Tornò a guardare l’altro.
So’o rimase fermo, l’occhio puntato nel cannocchiale. Quando scrollò le spalle, Vilya capì in ritardo che stava aspettando che lui proseguisse.
“Con chi?” Lo esortò.
Il drow spostò, evasivo ma con aria ingenua, lo sguardo sull’angolo tra il muro e il pavimento. La mano destra passò le dita tra i capelli mori e continuò a giocarci in un tentativo di sfogare la piccola tensione che quella domanda gli aveva provocato.
“Con papà.” Rispose, tono innocente.
So’o attese qualche altro secondo prima di continuare.
“E poi?”
“Poi basta. Solo con papà.”
So’o si scostò dal cannocchiale per fissarlo, sinceramente perplesso. Sbatté le palpebre. Vilya si strinse nelle spalle e corrugò la fronte, un po’ a disagio.
“Che vuoi?” Borbottò.
Dopo qualche istante di insistenza So’o tornò a guardare il cannocchiale. Smise di fare domande. Vilya iniziò a sentirsi più a suo agio, e spostò le mani al bordo inferiore della maglia color sabbia. La torturò un po’, sovrappensiero. Le parole gli uscirono di bocca come acqua.
“Stavamo insieme. Però io potevo fare quello che volevo. Andavo con chi mi pareva.”
“Ah.” La voce stranita di So’o risuonò sul muro.
“Sì…” replicò Vilya; piegò il capo all’indietro, la nuca strofinò sulla parete, gli occhi blu puntarono il soffitto. “… anche lui poteva, ma succedeva meno spesso. Poi… a volte,” il sottofondo di una risata nella gola fece vibrare la sua voce compiaciuta “invitavamo un’altra persona nel nostro letto. Va bene: non a volte. Spesso. Molto spesso.”
“T-I! T-I!” Esclamò So’o. Quando Vilya tornò a guardarlo, vide il palmo della sua mano aperto verso di lui, avvicinato dal braccio teso. “Troppe informazioni.” Spiegò il mezzodrow, deciso. Poi riabbassò la mano.
“Era molto divertente.” Incalzò Vilya.
“Smettila.” Sbottò seccato So’o.
Vilya schiuse le labbra in un ghigno divertito, ma obbedì.

Non fu sorpreso di sentire di nuovo la voce dell’altro poco dopo.
“Quindi non hai mai avuto una cosa seria?”
“Mh? Quella era una cosa seria.” Rispose Vilya, preso in contropiede. “Ci amavamo. Cosa è più serio?”
So’o, di nuovo, sembrò prendersi del tempo per riflettere sulle sue parole.
“Ma andavate con altre persone.”
“Per te ‘serio’ vuol dire ‘esclusivo’?” Vilya rafforzò la stretta delle braccia attorno alle ginocchia.
Dopo lunghi secondi So’o si strinse nelle spalle.
“Io non so niente.” Ammise con voce più bassa.
Vilya abbassò lo sguardo. Si prese anche lui del tempo per replicare, stavolta.
“Alcune persone vogliono essere uniche per la persona che amano. Altre no. Per mia esperienza, posso dire che alcune delle prime sono così perché non conoscono bene le relazioni e hanno paura di perdere gli altri, ma possono essere convinte.” Sollevò un sopracciglio e sorrise, furbo. Sbuffò, ma proseguì poco dopo, ora serio, mentre la sua mano andò alla fronte per pettinargli indietro i capelli.
“È comunque una cosa molto personale.”
So’o impiegò il solito momento di silenzio per metabolizzare quelle informazioni.

Poi, in una piega appena timida della voce, chiese:
“Tu non vorresti stare con una persona e basta?”
“Tu vorresti?” La domanda di Vilya gli arrivò subito dopo, come impaziente. Vilya se ne accorse solo dopo averla formulata e si ritrovò in imbarazzo nel non capire, di preciso, perché l’aveva fatta.
“… io…” Mugugnò l’altro, incerto. Esitò.
“… a me non interessa.” Il tono di voce era appesantito, come se gli fosse difficile parlare.
“Cioè,” si corresse frettoloso “non mi importa avere un ragazzo.”
Zittì.
Vilya corrugò la fronte, perplesso.
“Mi…”
Il drow si accorse che era in evidente imbarazzo. Con un filo di voce terminò.
“… mi importa avere te.”
So’o abbassò lo sguardo dal cannocchiale. Era arrossito, e non sembrava avere alcuna intenzione di incrociare lo sguardo di Vilya. Lui, del suo canto, venne invaso da una strana sensazione che gli scaldò il respiro e lo costrinse a smuoversi per terra, nel disagio.
“Uhm…” Il drow piantò gli occhi sul pavimento, smettendo anche lui di guardare l’altro. Non seppe proseguire. L’imbarazzo lo afferrò, brutale.
Con la coda dell’occhio vide So’o fiondarsi di nuovo al cannocchiale. Allora poté rialzare gli occhi e spiarlo da lì.

“… solo per te?” Vilya mugugnò quella domanda.
So’o non si scostò dal cannocchiale, ma l’altro lo vide abbassare comunque lo sguardo.

“Sarebbe egoista?” Sussurrò.

Vilya inarcò le sopracciglia. Prese un sospiro che gli gonfiò i polmoni e abbassò lo sguardo sulle gambe del fratello. Non ebbe il tempo di replicare, So’o lo interruppe all’improvviso con tono fermo.
“Vilya, si è appannato il vetro.”
“-Ah, sì, allora-” Vilya alzò una mano per indicare l’uscita della stanza “sì, il panno è di là, io”
“Vai a prenderlo.” Lo interruppe di nuovo e annuì.
“-sì, vado a prenderlo. Mh.” Il maggiore annuì vigorosamente in risposta e si alzò quasi frettoloso da terra per camminare fuori dalla stanza. Una volta attraversato l’arco della porta, si sentì parecchio sollevato.

***


Asia non voleva sapere per quale dannato motivo Vilya era sbucato dal tavolo della sezione di giardinaggio della biblioteca. Non voleva sapere neanche perché aveva avvolto qualcuno nel suo mantello e se l’era portato via come un sacco cercando di farle credere che stesse trasportando un enorme pout-pourri nei meandri del Palazzo a scopo olfattivo.

Non voleva niente in quel momento che non fosse levarsi di dosso la soverchiante sensazione di disagio che la afferrava mentre sedeva a una panca della biblioteca con al fianco la Tesoriera Bibi.

“Vediamo… dovrebbe essere tutto scritto qui dentro.” La giovane umana dalla pelle rosea aveva un grosso libro tra le mani e sfogliava lentamente le pagine, soffermandosi per molto tempo su ognuna di esse nel cercare l’obiettivo della loro ricerca. Al tavolo dove erano sedute, due tazze di tè fumavano e spandevano nell’aria un profumo rilassante. Una cosa che rendeva Asia semmai più a disagio. Essere rilassata in quel momento era del tutto fuori luogo: Bibi, la ragazza che le piaceva più di ogni altra, era seduta accanto a lei e stava leggendo un libro come se fosse normale!

Gli occhi rossi della donna calarono sul tomo che aveva davanti. Il suo era poggiato sul tavolo, accanto alle tazze di tè, aperto al centro. Si sporse per leggere alcune righe. ‘Quando ci si trova in sella è importante avere una buona postura per essere sicuri di diventare un tutt’uno con la propria cavalcatura. Solo così si può destreggiare bene l’arte della lancia. ’ Asia esalò un sospiro desolato.

“Su, su.” La mano di Bibi impattò in due pacche sulla spalla di Asia. La mora sgranò gli occhi come se il suo stomaco fosse appena stato trapassato dalla lancia di poco prima. La sensazione che provò fu la medesima. Per fortuna Bibi non sembrò notarlo, perché continuò a parlare.
“È dovere, Asia. Bisogna fornire i testi ed essere sicuri che siano attendibili. Troviamo le nostre fonti e possiamo chiudere questo capitolo.”
Quando la mano morbida della ragazza mollò la spalla della mora, Asia esalò un sospiro di sollievo. Fece cadere di nuovo gli occhi sulle pagine.

“Devo ringraziarti per esserti offerta di aiutarmi in questo compito.”
La voce le uscì piatta e cavernosa come al solito. Lugubre. Si maledisse da sola. Ma perché non poteva parlare come una persona normale?!?! Ugh…
“Non c’è di che.” Con la coda dell’occhio, Asia intravide la mano di Bibi agitarsi leggiadra nell’aria. “Mi fa piacere passare un po’ di tempo con te.”
Asia voltò il capo dalla parte opposta della stanza per nasconderle il violento rossore che lei le aveva provocato.

Ricordò come si era ficcata in quella situazione: per una volta non aveva seguito il percorso, studiato accuratamente da lei da quando aveva conosciuto Bibi, che le permetteva di entrare nel suo studio senza incontrarla ed era finita a parlare con lei, perché l’umana l’aveva coinvolta in uno dei suoi discorsi qualsiasi e da lì, con la sua fervida parlantina furba, aveva spostato la discussione sul suo desiderio di passare del tempo insieme. Asia immaginava che fosse un’usanza umana quella di allacciare relazioni tra colleghi, ma come tutte le altre noiose usanze umane non aveva intenzione di assecondarle. Solo che non era riuscita a dirle di no, e così Bibi l’aveva incastrata con sé nella biblioteca con la scusa di aiutarla nei suoi compiti di istruzione.
Ripensandoci, Asia ebbe la certezza che una parte di Bibi derivasse direttamente dal dio del male.

“Allora? Questa ricerca?” La bacchettò Bibi.
Asia sobbalzò e tornò con la faccia sulle pagine del suo libro.
“Sì, sì…” Borbottò con voce più coinvolta. Girò una pagina.
“Maud mi ha raccontato che i ragazzi dell’Imperatore stanno crescendo un sacco.” Eccola. Bibi aveva intrapreso una delle sue conversazioni qualsiasi.
“Ah, sì?” La assecondò Asia, senza smettere di fissare le pagine.
“Mh-mh. So’o dimostra un’aria più sicura da quando sta con il fratello.”
Asia annuì distrattamente. Sì, in effetti era vero. L’aveva notato anche durante le lezioni.
“E Vilya sarebbe un ottimo Cavaliere per lui. Gli sta sempre appiccicato e ha due bicipiti…”
Asia alzò, sconvolta, le pagine dal libro. Sentì un impeto di angoscia e orrore prenderla. Voltò subito il visetto su Bibi per spiare con invadenza la sua espressione, mentre la Tesoriera valutava i bicipiti del drow.
“Cosa vuoi insinuare?!” Sbottò con un’ottava più in alto.
Accorgersi del suo tono di voce la fece sentire ancora di più a disagio. Arrossì.
Bibi spostò interrogativa lo sguardo su di lei.
“In che senso? Ha dei bicipiti, insomma: è bello grosso. Può proteggerlo.”
“I bicipiti non sono l’unica cosa! Sai!?” Esclamò Asia. Si urlò mentalmente di ricomporsi e riprendere possesso di quello che diceva. Riformulò: “Voglio dire- non vuol dire che sia forte solo perché è muscoloso. Ecco.”
La Tesoriera si era preoccupata, e ora la guardava con allarme negli occhi.
“Uhm… no, è vero.”
“Mh.” Annuì Asia e tornò a darle il profilo e fissare il libro, nella disperata speranza che l’altra smettesse di fissarla. Ecco: l’aveva spaventata. Asia era incapace. Non poteva gestirla. Non ci sarebbe mai riuscita. Sarebbe stato meglio se non avesse assecondato Bibi. Se le avesse impedito da subito di starle vicino. Così non l’avrebbe trattata in quel modo, e Bibi non avrebbe dovuto assistere a certe scene raccapriccianti.

Dopo un lungo silenzio, però, la Tesoriera riprese a parlare.
“Ma l’hai vista la Vipera? Non si sta curando affatto in questi giorni.”
“No?” Chiese Asia. Non le importava proprio niente della Vipera.
“Cavolo, indossa sempre gli stessi vestiti! E sono pure spiegazzati! Qualcuno le mandi un maledetto uomo a stirarle le camicie!” Con tono esasperato, la Tesoriera poggiò il libro sul tavolo.
“Perché un uomo?” Sbottò Asia, nervosa, in un tono di nuovo secco. “Una donna non saprebbe farlo ugualmente bene?”
Sentì Bibi fissarla.
“A lei piacciono gli uomini.” Si giustificò.
“Ah.” Disse Asia, zittendo.
Prima di insinuare un mugugno.
“E a te?”
“Eh?”
“Niente.” Disse a voce più udibile.

Zittirono entrambe per molti secondi.
“E comunque dovremmo procurarle un fidanzato.” Riprese la più alta.
“Bibi, lascia stare le persone, lasciale vivere in pace.” Sospirò Asia.
La sentì sospirare.
“Non puoi darle un uomo e basta. Non è una giumenta, non si accontenta così.” Le spiegò la mora.
“Ho capito…” Borbottò la Tesoriera.
“Tu… hai un uomo?” Chiese Asia, incerta. Quello era il suo tentativo migliore di far finta di niente.
“Mh.” Asia dovette lanciarle un’occhiata per vederla scuotere il capo e comprendere la risposta.
“Perché?” Le chiese. “Non ti interessa?”
“Oh, interessarmi?” Bibi si poggiò una mano sul petto. Dallo scollo affioravano i suoi seni, che più giù riempivano la camicia. Asia deglutì quando i suoi occhi caddero su quella visione. “Mi piacerebbe avere qualcuno nella mia vita, ma non- Asia, va tutto bene?”
La mora alzò appena gli occhi per vedere come la testa della Tesoriera si era inclinata e la sua espressione mutata dalla preoccupazione, e incrociò lo sguardo nocciola di lei, che la travolse senza alcuna pietà.
“Oh… sì, perché, che succede.”
“Ti sta sanguinando il naso.”
“OH!”
Asia si coprì subito il naso e arrossì come un papavero. Si voltò per nascondersi alla vista dell’altra ragazza e tirò fuori un fazzoletto di stoffa per pulirsi dal proprio sangue.
“Maledizione… s-scusami!” Esclamò.

“Ad ogni modo, ho trovato quello che cercavamo.”
Con il fazzoletto ancora contro la narice sinistra Asia si voltò di nuovo verso Bibi, perplessa.
“Ah… quando?”
“Diciamo subito.” Replicò la Tesoriera. Si strinse nelle spalle. “Ma volevo chiacchierare.”
Tirò le labbra in una smorfia e poi le sorrise.
Asia corrugò la fronte desolata, in un moto di esasperazione.
“Non… non è carino chiacchierare con me.” Borbottò.
Bibi rise. Una risata allegra, gioiosa. Asia sentì il cuore batterle più forte.
Maledizione, pensò. Abbi almeno un po’ pietà di me.
“Beh, sei… un tipetto speciale.” Le concesse, con un altro sorriso.
Asia la fissò in tralice nel tentativo di essere minacciosa o inquietante. A detta dell’espressione imperturbabile di Bibi, non funzionò. Sospirò e tornò al libro che aveva davanti, per chiuderlo in un tonfo.

***


Azul incrociò le gambe tese sul tavolo di legno quadrato. Un suo braccio longilineo si poggiò su di esso, mentre l’altra mano era ficcata nelle tasche dei pantaloni.
“Cosa si dice da queste parti, Nan Zur?”
L’oste, un mezz’orco corpulento, al momento ripuliva i bicchieri da dietro il bancone.
“Sono tutti un po’ agitati per la guerra, signor Undome. Chi dice schiocchezze più o meno folli.”
“Voglio ascoltarle, queste sciocchezze.”
La mano di Azul, poggiata al tavolo, si smosse per afferrare la bottiglia di grog.
La portò alla bocca e tracannò un sorso. Un rivolo di grog gli scappò dalle labbra e cadde sulla maglia leggera che indossava. Si ripulì il mento con il dorso della mano sinistra mentre riportava la bottiglia sul tavolo.
“Sahwa vaneggia sulla leggenda delle mura. Dice che quando arriveranno i nemici, l’Imperatore farà sciogliere la pietra. Quella storia là, la conoscete: le mura diventeranno una cascata di non morti, che si riverseranno verso i nemici per difendere la città.”
“In realtà era diversa.” Lo corresse Azul, stavolta allungando la mano destra a una ciotola che conteneva delle fragole. Ne prese una e la avvicinò alla bocca. “Le mura furono costruite con i cadaveri dei nemici dell’Imperatore, che li ammassò tutti attorno alla città e li trasformò in pietra, per richiamarli a combattere per lui quando fosse stato necessario.” Dischiuse le labbra per accogliervi la fragola.
“Sì, quello che volete voi.” L’oste fece svolazzare il panno per aria in un gesto infastidito. “Le ho detto che è una credulona.”
“Magari non ci sarà bisogno di arrivare a certi espedienti.” Considerò Azul una volta inghiottito il suo piccolo bottone. Lanciò un’occhiata poco lontano. Sul piccolo palco della taverna, due fanciulle stavano ballando sotto la musica tenue di un liuto e di un tamburo.
Sentì l’oste sbuffare.
“Sapete cosa? È il momento perfetto per una rivolta interna. Il primogenito rivendica il suo trono e tutto finisce a puttane.”
“Il primogenito?” Azul sollevò un sopracciglio. Corteggiava una fragola con le labbra piene, che vi si strofinavano con lussuria prima di avvolgerla tra esse senza infilarla in bocca.
“Il primogenito di Azul Goldsmith. Il trono è suo di diritto, ma Saab ha dato all’Imperatore il suo erede. Eppure dalle voci sembra che questo primo figlio del re sia un uomo non raccomandabile, e mi aspetto che stravolga la situazione. Dopotutto, che interesse avrebbe a mantenere la pace di questo posto? Non gli interessa degli abitanti, solo del potere a cui ha diritto.”
Azul sbuffò e una smorfia divertita gli contrasse i muscoli del viso. Aprì la bocca per infilarci la fragola e prese a masticarla a bocca chiusa.
“Ma avete proprio ragione, signor oste.” Mormorò la sua voce piena e roca.

Stava giocando con le fragoline nella ciotola, quando ebbe la chiara sensazione che qualcuno si trovasse alle sue spalle. Si schiarì la gola e piegò il capo all’indietro, ma continuò a guardare la propria mano destra che giocava con l’intenzione di ignorare chi stava cercando di farsi notare.
“Nan Zur, dimmi, le signorine sono danzatrici esperte?”
“Sì, signor Undome. Domani verranno le prostitute a ballare, per mettersi in mostra, ma stasera ci sono le danzatrici. Se volete unirvi a loro c’è solo da salire sul palco.”
Il mezz’orco gli rivolse un ghigno, e Azul replicò con un sorriso e un socchiudere dei grandi occhi.

“Vuoi ballare con me?” Mormorò la voce dietro di sé.
Azul abbassò lo sguardo languido.
“Vuoi chiedermi di ballare?”
“Lo sto facendo, piccolo serpente.”
Azul inspirò un sospiro dalle narici e si decise a sollevare il viso magro e affilato, dagli zigomi pronunciati, per guardare appena dietro di sé.

“Il grigio non ti dona affatto, sai.” Confessò a Imesah. “Con questi bei capelli rossi.”
“È il colore del mio Dio.” Si giustificò l’uomo, scrollando le spalle.
“Già, pazienza.” Disse Azul. “Posso metterti dei pantaloni stretti color foresta quando siamo soli in camera.”
“Molto stretti?”
Molto stretti.”
Azul sfidò l’uomo con lo sguardo. Imesah lo ricambiò con la sua espressione imperscrutabile. Abbassando gli occhi il drow notò che aveva le mani nelle tasche.

Imesah si smosse dalla propria posizione per portarsi davanti al lui.
“Allora? Vuoi ballare con me?”
Azul prese un altro sospiro e con uno sforzo piegò le gambe per riportarle a terra. Si sistemò la maglia una volta alzato in piedi, lisciandosela sugli addominali. Imesah gli si fece vicino in pochi passi, e il drow sentì il suo profumo circondarlo. Alzò i grandi occhi sul viso dalla barbetta incolta del più alto.
“Ma che ci fa il Cavaliere così vicino a uno sconosciuto?” Mormorò a voce bassa all’altro, facendo un altro passetto per renderli ancora più vicini. Sollevò il viso sorpreso verso il suo.
“Il Cavaliere forse si vuole divertire…” replicò a voce calda e ugualmente bassa il rosso, che poggiò le mani sui fianchi stretti del piccolo jaluk.
Azul sollevò una mano tra i loro corpi.
“Il Cavaliere conosce i suoi trucchetti per divertirsi…” Gli replicò deliziato, socchiudendo gli occhi in due lunette e andando a guardare la propria mano poggiare l’indice sul petto dell’umano per scendere piano verso il basso.
“Ha anche trovato un jaluk affascinante, che vuole dargli soddisfazione.”
Imesah lo attirò a sé e piegò il capo dall’altro lato, l’espressione tranquilla, una stilla di compiacimento che probabilmente solo Azul poteva leggere nel suo volto.
Azul si sentì pervadere dalle sue attenzioni. Era una sensazione piacevole, che lo scaldava dentro e lo faceva rabbrividire sulla pelle. Sorrise e si strinse nelle spalle strette, crogiolandosi in un brodo di giuggiole. Imesah sbuffò divertito dalle narici e sorrise a sua volta. Il drow sentì le sue mani calde salire alle spalle e accarezzarle dolcemente. Esse scesero senza fretta mentre l’umano indietreggiava, fino a prendere quelle dell’altro e trascinare Azul verso il palco.

Si fermarono nello spazio vuoto tra esso e i tavoli e Imesah poggiò di nuovo le mani sui fianchi del drow. Azul sollevò le sue fino alle spalle ampie del Cavaliere. I musicanti dovevano aver intuito le intenzioni del Cavaliere perché adattarono il ritmo in una musica lenta, e in quel ritmo Imesah iniziò a guidare i fianchi di Azul in un armonico ciondolare. Il drow lo assecondò tenendo lo sguardo basso sul petto accogliente dell’uomo e poi sollevandolo per incrociare i suoi occhi verdi.

“Ti diverti a fingere di essere una persona qualsiasi con gli incantesimi di Valentino?” Gli chiese Imesah.
Azul inclinò il capo di lato in un gesto ruffiano.
“Sto misurando il polso della situazione, lasciami in pace…” Sussurrò in un tono fintamente esasperato.
Imesah sorrise. Lo strinse di più al proprio corpo, e Azul intrecciò le braccia attorno al suo collo. Si sporse con il viso il giusto per posare le labbra sulle sue. Imesah chinò il capo e lo ricambiò premendosi piano. Le sue dita accarezzarono il corpo del jaluk da sotto la stoffa, e Azul lo attirò a sé per rafforzare il bacio. Quando si staccò chinò il capo e adagiò la guancia sul suo petto. Nel loro dolce ciondolare giravano piano su se stessi.

Azul chiuse gli occhi e con un sospiro si lasciò andare, rilassandosi tra le braccia del suo compagno.

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