Vacanza di Sangue

di LaMusaCalliope
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Capitolo Primo ***
Capitolo 2: *** 2.Capitolo Secondo ***



Capitolo 1
*** 1. Capitolo Primo ***


1.Capitolo Primo

Quando il telefono iniziò a squillare, annunciando l’arrivo di una nuova chiamata, McFillen si era alzato da un po’. La sua mente si era svegliata che erano appena le sei di mattina, registrando un anomalo formicolio al braccio destro. Aveva aperto gli occhi e si era ritrovato sdraiato a pancia in giù, sul divano nel suo bilocale, il braccio sinistro abbandonato oltre la sponda, le dita lunghe della mano che sfioravano il tappeto polveroso, mentre l’altro era incastrato sotto il suo petto, ormai insensibile. Sulla faccia erano incollati fogli pieni di cifre a più zeri, forse troppi. Si era tirato su stiracchiandosi e aveva dato un’occhiata alle carte: erano le bollette arretrate che avrebbe dovuto pagare qualche mese fa.
Si era passato una mano sul volto per poi lasciarla ricadere stancamente sul divano. A malincuore, si era alzato e si era diretto verso il bagno. Si era guardato allo specchio e, sul vetro riflettente, aveva visto la figura stanca di un uomo di nemmeno trent’anni, i capelli castani sparati in tutte le direzioni, gli occhi scuri avevano un’aria spenta ed emaciata, tipica di chi si è svegliato da poco. Sul braccio destro, che stava riacquistando lentamente sensibilità, poco sotto la spalla, risaltava una cicatrice: spuntava dalla manica della maglietta bianca che aveva indossato per dormire ed era più chiara della pelle così pallida. L’aveva sfiorata con un dito ricordando il giorno in cui se l’era procurata.
Fu in quel momento che il telefono iniziò a suonare con una delle sue canzoni preferite. McFillen andò dritto verso l’angolo cottura e lo trovò sul tavolo, che vibrava leggermente. Lesse il nome sul display e rispose.
«Agente McFillen» la sua voce calda e melodiosa rimbombò tra le pareti della piccola casa vuota, formando un’eco di sillabe che pareva non finire. Attese che dall’altro capo gli dessero le informazioni sul nuovo caso di omicidio. Attaccò il telefono e cercò una penna per poter appuntare l’indirizzo dell’albergo in cui era stato trovato il cadavere. Si ricordò che la sera precedente, prima di addormentarsi, aveva scritto un menù sul divano e poi aveva chiamato la pizzeria lì dietro l’angolo. Smontò il mobile, togliendo via i cuscini e la coperta troppo leggera per essere a dicembre. Lì sul fondo, poggiata sul telaio, c’era una penna col tappo mezzo mangiucchiato ma ancora piena di inchiostro. Scrisse l’indirizzo sul taccuino che era solito tenere vicino all’unica grande finestra dell’appartamento a Brooklyn che dava sul fiume Hudson e, dopo aver preso le chiavi della macchina, uscì per dirigersi verso l’ennesima scena del crimine.

La destinazione era un piccolo albergo nella periferia di New York, a pochi passi da un locale malfamato. L’entrata dell’albergo era circondata da quel nastro giallo che i suoi occhi non si erano ancora abituati a vedere nonostante tutti quegli anni passati in servizio.
Tutt’intorno c’erano ospiti o addetti al personale, chi si passava una mano sulla fronte mentre gli agenti lo interrogavano, chi provava a capire cosa stesse accadendo, chi si stringeva nel cappotto riparandosi dal freddo pungente di quella mattina. Un gruppo di persone in disparte attirò l’attenzione di McFillen, due ragazze piangevano l’una sulle spalle dell’altra e, poco lontano da loro, c’era un ragazzo, sembrava sconvolto e quasi arrabbiato per ciò che era successo, doveva essere particolarmente legato alla vittima. Il giovane si appoggiò a un palo della luce e si lasciò scivolare giù fino a terra, si prese la testa fra le mani e scoppiò in un pianto disperato.
«Prego» un agente fece segno a McFillen di proseguire oltre il filo giallo, aveva riconosciuto il distintivo che portava al collo. «Secondo piano, stanza a destra.» McFillen annuì come ringraziamento e entrò nell’albergo.
Non appena entrò nella hall riscaldata, tirò un sospiro si sollievo; era affollata, decine di agenti della scientifica perlustravano ogni centimetro alla ricerca di impronte e indizi utili alle indagini. Salì le scale, gradino dopo gradino, ripercorrendo i passi dell’assassino, preparandosi a vedere ancora una volta un corpo rigido e freddo, privo di vita e spento. In cima alle scale si trovò in un lungo corridoio che si diramava in due direzioni; come gli era stato indicato, girò a destra e non faticò a trovare la scena del crimine. Una sola porta era aperta e circondata di agenti, perciò si diresse sicuro in quella direzione, taccuino alla mano pronto per prendere appunti sugli sviluppi dell’indagine. Non appena ebbe superato l’uscio della camera, gli si presentò davanti, per l’ennesima volta, la stessa scena di sempre: un gruppo di poliziotti che si accalcavano intorno al cadavere, carpendo il maggior numero di informazioni possibili dal medico legale.
La vittima era una ragazza, stesa su un letto come se si fosse addormentata e stesse aspettando il bacio del principe azzurro per potersi risvegliare; McFillen si avvicinò anche lui affiancandosi all’anatomopatologa che, con mano sicura, stava analizzando il cadavere, spostando la testa della vittima e mostrandogli una ferita profonda che perdeva ancora sangue. Sulla pelle bianca del volto risaltavano le macchie scure del trucco sciolto; prima di morire doveva aver pianto parecchio.
«Donna, sui vent’anni. Morta per trauma cranico circa alle tre di questa mattina, dopo gli esami saprò dirti con maggiore sicurezza. È stata colpita alla testa con un oggetto pesante e appuntito. Inoltre non è morta qui: il copro è stato spostato» disse il medico legale, Cassandra Moore. Aveva un paio di anni più di lui, si erano conosciuti il giorno del suo primo caso di omicidio, il Caso della Cicatrice come l’avevano ribattezzato nelle loro chiacchierate notturne, quando lui si svegliava in preda agli incubi e aveva bisogno della voce di lei per far calmare il battito cardiaco del suo cuore pregno di morte.
I capelli scuri a caschetto le coprirono il volto mentre chinò la testa per osservare meglio la ferita, cercando tracce che potessero ricondurre all’assassino.
«Si chiamava Melany Acton, 21 anni. Veniva dal Connecticut.» si intromise Jess Camdon «La sua borsa era in camera e nel portafogli ci sono tutti i soldi, perciò non è stata una rapina. Era in vacanza con delle amiche e ieri sera erano tutte nel locale qui vicino ma lei se ne era andata via prima. L’hanno vista uscire velocemente, seguita dal suo ex, e sembrava arrabbiata, quasi furiosa. La scena del delitto è il corridoio» e lo guidò fuori dalla stanza, fino a una minuscola macchia di sangue sul pavimento. «È stata uccisa qui, poi l’assassino ha spostato il corpo all’interno della stanza. Non penso sia un caso che l’abbiano lasciata proprio nella sua; chiunque sia stato doveva sapere qual era la sua camera.»
McFillen annuì. Erano colleghi e amici da quattro anni e insieme formavano una grande squadra, McFillen lo considerava da sempre un bravo poliziotto, capace nel  suo lavoro grazie alla passione e a quel pizzico di follia che metteva sempre nelle sue teorie che si rivelavano esatte nella maggior parte dei casi. Sarà stato per quegli occhi verdi e giovanili, di cinque anni più giovani dei suoi, e perciò meno esperti, o per quel sorriso sempre stampato sulle labbra fini, ma McFillen l’aveva da subito reputato un tipo a posto e su cui poter contare, arrivando a considerarlo quasi un fratello.
«Ottimo. Degli altri ospiti invece, qualcuno ha sentito qualcosa?» chiese McFillen mentre si appuntava le notizie che aveva ricevuto e ritornavano nella camera.
«Un signore, vicino di stanza della vittima, si è lamentato. Dice di aver sentito qualcuno piangere e singhiozzare fuori dalla sua porta circa alle tre di notte. È un tipo abbastanza irascibile.» L’ora dell’omicidio, non sarà un caso.  E sul taccuino, in grassetto e sottolineato più volte, scrisse l’orario che avrebbe incastrato il colpevole: 3:00 A.M., mentre rientrava nella stanza della ragazza.
«Va bene, torniamo al distretto e aspettiamo le risposte delle analisi di Cassie» McFillen la guardò, si stava togliendo i guanti e due suoi colleghi stavano portando via il copro per andare in obitorio.
«Li avrai entro domani come sempre» gli disse l’anatomopatologa e se ne andò.
McFillen si rivolse al suo collega e amico, chiedendogli di convocare le amiche e l’ex ragazzo della vittima.
«Aveva parenti?» ovvio che ne aveva, pensò ,i suoi genitori la staranno aspettando a casa, ignari del fatto che la loro figlia è morta in un hotel nella periferia più squallida di New York. Come previsto, Jess annuì triste, era sempre difficile dare notizie di questo genere.
«Li ho fatti chiamare e saranno al distretto nel pomeriggio.»
Fu quasi con sollievo che risalì in auto, accese la radio e mise su un cd con la sua musica preferita. Alzò il volume al massimo mentre chitarra e batteria creavano una musica del tutto inappropriata a un tipo tranquillo come lui. Mise in moto la macchina e partì, diretto verso il distretto di polizia, preparandosi per un nuovo caso a cui sperava di trovare un colpevole il prima possibile, e dare quindi un nome a chi aveva scritto la parola fine sulla breve vita di Melany Acton.

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Capitolo 2
*** 2.Capitolo Secondo ***


2.Capitolo Due

Non appena il detective McFillen uscì dall’ascensore del distretto, venne travolto dall’aria calda e dal profumo di cornetti e caffè appena fatto. Subito, si diresse verso la sua scrivania disordinata come sempre. Sfortunatamente non vi trovò alcun bicchiere ricolmo di quella bevanda scura e piena di zuccheri che tanto amava. Non riusciva a svegliarsi mai del tutto senza averne bevuto almeno una tazza e il suo preferito era certamente quello preparato con la macchina espresso del distretto, per lui aveva il sapore di casa, di famiglia e di unione. Il rito del caffè mattutino esisteva da che aveva memoria, nel distretto. Alle sette di mattina, quando qualcuno era già a lavoro chino sulle prove di un caso più complicato del solito, tutti si prendevano una pausa e, come per abitudine, si radunavano nella stanza con la macchina espresso e si prendevano dieci minuti durante i quali si confrontavano sui vari casi, scherzavano o, semplicemente, si riposavano godendo di quei pochi attimi di tranquillità lontano da morti e assassini.
McFillen deviò dalla scrivania, verso la stanza del caffè e se ne preparò uno. Non appena le sue mani ghiacciate toccarono la tazza, subito si riscaldarono e l’agente finalmente si sentì meglio. Assaporò il dolce profumo della bevanda calda, perfetta per quel clima freddo caratteristico del dicembre newyorkese. Non appena fu pronto, si portò il bicchiere alle labbra e quasi si bruciò per quanto era bollente; non se ne curò e continuò a sorseggiare, soffiando di tanto in tanto per raffreddarlo. Non ci mise lo zucchero, lo preferiva amaro, semplice, come era appena uscito dalla macchina, ma amava girare il cucchiaino mentre aspettava che si freddava, pensando al caso che doveva risolvere: era un gesto che lo calmava.
Sorseggiò tutta la bevanda finché non ne rimasero solo i fondi, la mise nel lavandino di acciaio e fece scorrere un getto d’acqua calda per pulirla. La asciugò con uno straccio che tenevano lì vicino appositamente, quindi tornò alla sua scrivania.
Era disordinata e caotica proprio come il suo appartamento e, in un certo senso, come la sua vita. Vicino al telefono, c’era una cartellina con le dichiarazioni degli amici e degli alberganti. Le lesse con attenzione, alla ricerca di dettagli fondamentali.
A quanto dicevano le due amiche della ragazza, quella sera erano andate in una discoteca e ci erano rimaste fino al mattino, tutte eccetto Melany che se ne era andata per le 2:30 infuriata. Secondo quello che c’era scritto, il suo fidanzato, con il quale aveva discusso animatamente prima della partenza per New York, l’aveva raggiunta e si era presentato nel locale. Le amiche li avevano visti uscire insieme dal locale e poi, secondo quello che avevano raccontato gli ospiti e l’uomo alla Reception, erano entrati nell’albergo e avevano concluso lì la discussione. Dopo che il ragazzo era uscito, nessun altro si era fatto vivo fino al ritorno delle amiche, quando Melany era già morta.
«Brutta faccenda, non è vero?» Camdon gli posò una tazza di fumante caffè sulla scrivania, e lui vi soffiò sopra, cercando di raffreddarla.
«Aveva solo vent’anni. Cosa può aver mai fatto per meritare una fine così?» McFillen bevve un sorso, cercando di capire il movente dell’omicidio. Se c’era una cosa che aveva imparato da tutti i film e i libri ma, soprattutto, dal suo mestiere, era che, per prima cosa, bisognava capire cosa aveva portato all’omicidio, cosa era successo prima.
«Quasi tutte le prove vanno contro al fidanzato, un certo William Cooper, 22 anni, conosceva la vittima da quando erano piccoli.»
«C’è scritto perché avevano litigato?» chiese distrattamente McFillen mentre sfogliava la cartellina con la documentazione.
«Sì. A quanto ha detto una delle amiche, Emily, William aveva tradito Melany con una loro compagna di scuola, Julie e lei lo aveva scoperto.»
«Come?» la cartellina diceva ben poche cose, nulla di apparentemente utile alle indagini.
«L’altra amica di Melany, Kate.»
«Un’amica fedele.» McFillen chiuse il fascicolo rassegnato, non c’erano altre piste se non quella delle due amiche e del fidanzato traditore.
«Non esattamente. Secondo Emily, Kate e Melany non andavano d’accordo da molto tempo. Litigavano e si insultavano per qualunque cosa, Kate era molto gelosa. Secondo Emily, tutto sarebbe iniziato quando Melany venne scelta al posto di Kate come Reginetta della Scuola.»
«Le classiche adolescenti americane» quella che era iniziato come un movente ideale aveva sfociato nella banalità.
«Esattamente.»
«Quindi, se ho capito bene, Kate non ha fatto un favore a Melany, dicendole di Julie e William; l’ha fatto solo per farla soffrire e farla stare male.»
«Potrebbe essere per lo stesso motivo che l’ha uccisa.»
«Dobbiamo scoprirlo.» McFillen aprì di nuovo la cartellina e prese il post-it su cui erano scritti i numeri di telefono delle amiche e del fidanzato di Melany; più in basso, sottolineato ed evidenziato, c’era un altro numero, quello dei genitori. Il detective provò la familiare stretta allo stomaco di quando doveva chiamare i parenti delle vittime e comunicare la triste notizia.
«Ehi, vuoi che lo faccia io?» Camdon gli aveva messo una mano sulla spalla e gli sorrideva incoraggiante.
«No, Camdon, grazie. Tu chiama Kate, convocala, deve raccontarci un paio di cose. Ci penso io ad avvertire i genitori.»
Il detective gli fece un segno di intesa e si allontanò verso la sua scrivania.
McFillen sospirò e, dopo aver guardato male il telefono per un considerevole periodo di tempo, alzò la cornetta e compose il numero che leggeva sul post-it.
Dopo quattro squilli, stava per riagganciare quando una voce dall’altro capo rispose.
«Sì, chi parla?»
«Salve, signora Acton, sono il detective McFillen, la chiamo dalla centrale di polizia di New York.»


 

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