Passi caldi sulla neve

di Laila_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il dado è tratto ***
Capitolo 2: *** Nulla è per caso ***



Capitolo 1
*** Il dado è tratto ***


È normale che l'essere umano, invece di combattere per proteggere la propria specie, lotti per distruggere i suoi simili?
Me lo chiedo tutti i giorni, da quando sono qui dentro, in questa prigione. Me lo domando tutti i giorni da quando mi hanno sottoposto al primo esperimento. Me lo chiedo tutti i giorni da quando ho visto il primo ragazzo morire sotto ai colpi di un fucile...
Nei libri di scuola, da bambino, leggevo delle guerre dei tempi antichi. Dalla guerra di Troia nata, secondo il racconto di Omero, per un motivo davvero futile; alle guerre puniche e alle guerre persiane, dalle guerre del Peloponneso alle guerre gotiche, dalle sacre crociate alle guerre napoleoniche, fino ad arrivare alle due guerre mondiali. L'intera esistenza dell'uomo è segnata da terribili lotte, è la natura umana che spinge la nostra specie a combattere l'uno contro l'altra. La pace non esiste se non si annienta l'altro. 
Bisogna annientarlo... bisogna... ma perché? C'è davvero questo forte istinto di sopravvivenza negli esseri umani che vivono là fuori? Davvero sono così feroci come dicono qui nel laboratorio?
Medici e scienziati sono sempre più preoccupati. Dicono che devono essere veloci, fare le cose in fretta, che non c'è più tempo; dicono che ormai la guerra è vicina, che non c'è più modo di tornare indietro, alea iacta est. Noi cavie siamo gli esseri che avrebbero dovuto mettere fine una volta per tutte a questo genere di lotte, portare finalmente la vera pace e lasciare che il pianeta venga ripopolato da una stirpe "eletta". Una stirpe formata da coloro che avevano pagato questi scienziati per farci del male. Il loro intento è quello di trasformarci in robot, ma la loro tecnologia non è così avanzata da poter eliminare i nostri sentimenti, le nostre emozioni e, soprattutto, la nostra capacità di pensare.

  Anche per quella mattina avevo concluso la mia stupida sessione di sofferenza. Col respiro ancora affannoso, piegato in avanti dal dolore al fianco destro, zoppicando lievemente venivo scortato fino al mio 'ripostiglio'. Mi piaceva chiamarlo così. Un nome forse un po' sgradevole, ma a cui ero davvero affezionato. Mi sarei portato volentieri una mano al fianco per poter massaggiare la parte dolorante, ma le manette legate alla catena tirata da uno degli uomini che mi scortavano non mi permettevano di avvicinarmi i miei arti al mio corpo. Ci volevano pochi minuti per spostarsi da uno spazio all'altro, eppure quei cilindri metallici mi lasciavano ogni volta degli odiosi segni rossi su tutto l'avambraccio. Guardai infastidito la schiena dell'uomo davanti a me. Erano in due ad accompagnarmi, ma il secondo era dietro a me. Solitamente erano un tipo pelato, col naso schiacciato, e uno biondo con i capelli sempre spettinati - un po' strabico per di più. L'uomo robusto, il biondo, mi trascinava avanti tenendo la catena, mentre il tipo più magro portava con sé un bastone lungo quasi un paio di metri, alla sua estremità vi era un semicerchio. Questo attrezzo, simile a quello usato dagli accalappiacani, serviva a tenermi distante dalla porta mentre loro si affrettavano a chiuderla. Un metodo a dir poco ridicolo: se avessi voluto uscire lo avrei fatto anche con un bastone contro al collo. Neppure le loro ridicole pistole mi facevano paura: quegli esperimenti mi avevano reso più resistente di un uomo normale e una o due pallottole non mi avrebbero fatto nulla. Con il passare degli anni eravamo noi cavie, sempre più forti, a diventare delle vere e proprie armi e vedevamo. Per di più, a nessuno di noi era sfuggita la paura che gli scienziati iniziavano a provare nei nostri confronti. Il loro unico modo per farci stare buoni era quello di drogarci, ma dovevano comunque stare attenti: poteva essere pericoloso se fatto prima di un esperimento o subito dopo.
Mi riposero nel mio stanzino, ovviamente tenendomi distante da loro con il loro magico strumento ed una fucile puntato. Feci finta di volerli attaccare scattando in avanti con la gamba sinistra. Il pelato spinse contro di me il semicerchio in ferro attaccato al bastone, mentre al biondino cadde di mano l'arma. Sorrisi appena guardandoli quasi con tenerezza, poi mi allontanai dal bastone e mi sedetti sul letto. Loro chiusero in fretta la gabbia e si avviarono di corsa verso la cella di qualche altra cavia. 
Nella mia stanza non vi era alcun orologio e la luce era sempre uguale in quanto artificiale. Quindi, in realtà poteva essere anche sera per quello che mi riguardava. Mi ero creato però un mio personale ciclo che mi suggeriva che, in quel momento, era appena trascorsa la mattinata. I giorni all'interno della struttura passavano lentamente, o meglio, sembrava che non passassero mai. E noi restavamo in attesa dell'esperimento successivo. Ogni giorno testavano una nuova forma di dolore. Ci sottoponevano a prove a cui un umano normale non sarebbe mai riuscito a sopravvivere. Un esempio? Fare il bagno nell'acido. Ricordavo perfettamente il mio vicino di cella canterino. Pregava in lacrime di salvarsi. Era un individuo debole dal volto completamente sfigurato dalle cattiverie che aveva dovuto sopportare. Fu acquistato all'età di cinque anni, ma, nonostante i quasi 20 anni passati all'interno della struttura, il suo corpo non era stato in grado di adattarsi alle circostanze. Cantava per distrarsi dai suoi pensieri tristi, quelli di essere trattato come una delle cavie da poter sacrificare per testare qualcosa di nuovo. Non servì a nulla provare a consolarlo, anche noi sapevamo che avrebbe fatto una brutta fine. Non sentimmo più la sua voce gracchiante. 
Chissà quanti altri, prima di noi e negli altri settori della struttura avevano perso la vita. Solo il pensare che sarebbe potuto succedere anche a me mi metteva i brividi. 
Mi buttai così sul lettino guardando il basso soffitto grigio-nerastro ma mi rigirai subito su un lato, non volevo guardare una mosca morire. Mi addormentai stanco. Anche se avevo dormito diverse ore quella "notte" e mi avevano svegliato da non molto, io mi sentivo a pezzi.. Lentamente i miei muscoli sembrarono scoppiare a pezzi, sentivo un formicolio fastidioso percorrermi le mani, le braccia, le spalle, la schiena e le gambe. Uno sbadiglio, dei piccoli brividi e tornai nel mondo dei sogni. 

Mi alzai di scatto quando, combattendo contro un dragone, questi iniziò a suonare la campana d'allarme invece che sputare fuoco. Seduto, sul letto, notai la porta della mia cella spalancarsi lentamente. Rimasi leggermente sorpreso da quel che stava accadendo e, senza pensarci troppo misi i piedi a terra per correre fuori. Vi era già un gran numero di persone che fuggivano eccitate lungo lo stretto corridoio. Mi unii alla massa. La mia corsa non durò molto però. Sentimmo dei potenti spari provenire da una cinquantina di metri di distanza e, tutti ci fermammo quasi all'istante. Gli uomini della sicurezza bloccavano il corridoio con i loro potenti fucili. Non si erano tirati indietro dal colpire le cavie in testa al di gruppo di circa quaranta cavie. Qualcun altro aveva provato a rispondere all'attacco della sicurezza, ma questi aprirono nuovamente il fuoco eliminando anche chi era semplicemente lì vicino. Questo non fece altro che aumentare la rabbia che tutti già provavamo nei confronti dei medici, degli addetti, degli scienziati. Sapevamo che quella era la nostra unica possibilità e nessuno sarebbe tornato nella cella. Avremmo preferito morire. 

Non saprei cosa fosse successo poi. Era tutto completamente buio in quell'edificio, neppure i computer dei medici e degli scienziati funzionavano. Vi erano solo le luci d'emergenza poste sopra alle porte dell'edificio. Nel frattempo le cavie in testa urlavano qualcosa come "l'uscita è là!". Eravamo tutti carichi, pieni di speranza, eccitati dall'idea di essere ad un passo dalla libertà. Ma davvero era così semplice uscire dal laboratorio? Nessuno ci impediva di farlo?
Non feci a tempo a pensarlo che la nostra corsa fu nuovamente bloccata da altri uomini armati. La cavia in testa, proveniente da un settore diverso dal mio, ricevette in pieno diversi proiettili ma questo non lo fermò. Si accese, prese letteralmente fuoco e si scagliò contro i soldati. I suoi compagni intervennero nella rissa, riuscendo poi a disarmare gli uomini della sicurezza. Pensai a come fossero forti quelle cavie. Probabilmente negli altri settori avevano condotto degli esperimenti di genere diverso. Qualcun altro si aggiunse, ma io non rimasi lì. Pensai a me stesso, cercando di allontanarmi dalla massa soffocante di gente. Mi guardai attorno e vidi una lucetta verde. Un uomo che correva verso una porta. Mi feci largo fra la massa e mi portai fino a questo luce. Aprii quasi di nascosto la porta collocata sotto alla luce e l'attraversai. VI erano delle scale che portavano sia verso l'alto che verso l'esterno. A destra, invece, vi era una seconda porta e, sopra a questa, un altro cartellino verde illuminato. Spinsi la porta e mi coprii gli occhi con una mano. La luce del sole mi stava accecando. Non mi fermai troppo a lungo, anche se dovetti sforzarmi per adattare la vista a tanta luce. Scesi i primi gradini quando mi voltai indietro. Dei forti rumori di spari si sentirono provenire dalle mie spalle. Sentii un brivido lungo la schiena, ma continuai la mia discesa. Arrivai nel cortile retrostante al laboratorio. Ora che ero fuori dovevo continuare. Il muro distava solo pochi metri dalla rampa in acciaio. Corsi fino alla rete, guardando a destra e a sinistra che non ci fosse nessuno e saltai sul muro. No, non come una rana! Mi aggrappai, dopo aver fatto qualche passo verticalmente, con le mani sul bordo della parete in mattoni, feci leva sulle braccia tirandomi su. Mi graffiai la punta del naso con il filo spinato, ma in maniera piuttosto veloce riuscii a superare anche quell'ostacolo. Conclusi la mia evasione con una elegante caduta nella neve fredda. Rialzandomi mi accorsi di aver riportato anche delle ferite sulla gamba destra. La divisa bianca e rossa si era tagliata al contatto con il filo spinato. 
Alzai lo sguardo verso l'alto accorgendomi solo in quel momento di avere il respiro pesante. Era stato semplice uscire da lì. Le mura non erano protette in alcun modo. Pensai che fosse perché, guardie e scienziati, erano sicuri che nessuno sarebbe riuscito ad uscire dalla propria cella. 
Sapevo che rimanere ancora lì non era l'idea migliore così mi voltai dando le spalle al muro. Iniziai a correre, ma non feci a tempo a percorrere una cinquantina di metri che sentii una voce femminile provenire dal muro. 
"Aspettami!" strillò mentre cercava di non impigliarsi con gli abiti nel filo spinato. 
Osservai attentamente la giovane dai capelli rossi. Indossava anche lei una tuta come la mia, però di colore nero e viola. Ricordando quella rossa e verde dell'uomo che aveva preso fuoco e dei suoi compagni, immaginai che le divise fossero diverse a seconda del settore. Anche il simbolo del laboratorio, posto sul braccio destro cambiava colore. Ero certo, però, che quello tatuato sulla pelle rimaneva nero. 
Non dissi una parola nel vederla avvicinarsi a me. Mi limitai a studiarla in tutta la sua bassezza. La superavo di ben più di una ventina di centimetri. 
"Cosa fai lì?" domandò quasi stupita. 
Mi superò iniziando a correre. Mi voltai affondando nuovamente nella neve. 
"Mi hai detto tu di aspettarti." borbottai riprendendo a correre. 
Raggiunsi con difficoltà la ragazza che, minuta com'era, si muoveva in maniera agile, saltellando di metro in metro quasi fosse una lepre. 
"Si stanno avvicinando." commentò la rossa preoccupata. 
"Come fai a saperlo?"
Lei non mi rispose. Così, pensando non mi avesse sentito le riproposi la stessa domanda. Questa volta ottenni solo un indice sulle labbra a dirmi di stare zitto. Continuai nella mia corsa, senza sapere dove stessimo andando. Eravamo in un bosco non troppo fitto nel quale non si riusciva ad intravedere alcun sentiero o per lo meno tracce del passaggio di qualche altro essere umano. 
Riprendemmo a camminare solo quando fummo entrambi troppo stanchi per poter continuare a correre. Il sole aveva cambiato la sua posizione nel frattempo, donando al cielo delle sfumature color arancio. I raggi filtravano attraverso i rami spogli degli alberi. Era una cosa normale, ma ai miei occhi appariva magica. 
"Non me lo ricordavo così bello." disse quasi con un filo di voce la ragazza dai capelli rossi fermandosi per qualche istante ad osservare con me lo spettacolo che avevamo di fronte. 
"Io non me lo ricordavo affatto." commentai voltandomi verso di lei. 
La ragazza aveva gli occhi lucidi, fissi verso il cielo. La fissai per ancora qualche secondo quando una lacrima le rigò il viso. Si voltò di scatto dandomi la schiena e si passò la stoffa fredda della tuta ad asciugarsi le guance. 
"È tutto ok?" domandai preoccupato per la giovane
"Sì, sì!" esclamò lei tornando a guardarmi, ma questa volta con un ampio sorriso "Io sono Astrid." si presentò poi gonfiando il petto in modo che potessi leggere il cartellino con il nome e il suo codice.
"Robert." le risposi io con un lieve sorriso. 


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Buona sera a tutti! 
Questa è l'ennesima storia che provo a scrivere, ma sono convinta che questa volta arriverò fino alla fine.
Voglio davvero scrivere questo racconto e voglio davvero portare a termine la storia. Proprio per questo vi chiedo cosa ne pensate e quindi di farmi sapere i vostri pareri (siate pure cattivi, non verrò a vendicarmi, ve lo prometto!). 

Detto questo, spero che il primo capitolo vi sia piaciuto e vi invogli a continuare. 
Cercherò di mantenere costantemente aggiornato il racconto con pubblicazioni di un capitolo a settiamana più o meno mantenendo la lunghezza del primo capitolo. 

Vi auguro buona continuazione e ... al prossimo capitolo!

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Capitolo 2
*** Nulla è per caso ***


In quel momento, in quel preciso istante, ho capito cosa mi avevano portato via tutti quegli anni passati all'interno della struttura di ricerca. Non ho mai incolpato i miei genitori per la loro scelta ed ho sempre pensato che la loro decisione sia stata presa per salvarmi da quello che stava diventando un Paese difficile. Dal mio punto di vista il loro è stato un gesto d'amore, ben consapevoli di non potermi garantire un buon futuro. 
Ci è voluto un secondo per capire quanto mi ero perso passando rinchiuso diciassette anni e ci è voluto meno di un batter ciglia che avrei preferito poter vivere quel mondo in maniera miserabile che all'interno del laboratorio. 

Un brivido freddo mi corse lungo la schiena. Fossimo stati dei normali umani probabilmente avremmo rischiato un malanno. Il tramonto -ricordavo si chiamasse così- aveva sciolto l'animo diffidente della rossa che per prima si presentò. Nonostante non avessi fatto nulla per ottenere quella informazione, mi sentivo felice della conquista guadagnata. 
Il suo nome era Astrid. Un nome dal suono duro, ma che, accostato alla sua figura, dava l'idea di una persona fragile, seppur l'aspetto che cercava di dare di lei. 
"Robert..." ripeté il mio nome come a volerselo memorizzare meglio "Da dove vieni?" mi domandò dando un'ultima occhiata al sole si nascondeva fra le alture all'orizzonte. 
"Torino, in Italia." risposi forse in maniera troppo breve. 
Pensai in quel momento che Astrid avrebbe potuto fraintendere il mio tono. Mi faceva davvero piacere rivolgerle la parole e comunicare con lei. 
Lei spostò lo sguardo verso di me, incrociando i miei occhi. Passò qualche secondo di puro silenzio. Lei batté più volte e velocemente le palpebre, come se stesse attendendo qualcosa da me. 
"Beh... Come... Perchè...?" balbettai qualcos'altro alla ricerca di un qualsiasi dettaglio che mi aiutasse a parlare di qualcosa con la ragazza. 
Eppure più osservavo i suoi occhioni verdi e più mi sembrava di aver perso la facoltà di parlare. 
"Continuiamo?" domandò lei interrompendo il mio susseguirsi di versi più o meno sensati. 

Non sapevo esattamente come, ma sembrava che Astrid sapesse dove andare e cosa fare poi. Quindi mi limitavo a seguirla, senza aprir bocca. Eppure avevo molto di cui parlare, avevo mille cose in testa a cui dare vita. Avrei voluto domandare da dove veniva, quanto tempo era rimasta al laboratorio, come era finita lì, quali erano gli esperimenti che le avevano fatto e tanto altro ancora. Dischiudevo le labbra tentando di dirle qualcosa, ma mi rendevo conto che tutto era legato a quell'inferno che avevamo vissuto e che quindi avrei rischiato semplicemente di farla soffrire ricordandole brutti momenti. 
"Hai... un bel colore di capelli." fu il mio commento. 
Da come lei si voltò a guardarmi capii che forse non era il caso di farle quel 'complimento'. Mi sorrise ringraziandomi sorpresa da quel mio improvviso intervento. 
"Dove stiamo andando?" 
Lei fece un passo verso di me.
"Il più lontano possibile." fu questa la sua risposta. 
"Quindi non sai esattamente dove andremo a finire?"
"Non so neppure se siamo fuori dal terreno del laboratorio." voltandosi e riprendendo a camminare. 
Si era nuovamente sforzata di rispondermi, aveva rialzato il muro che inizialmente c'era fra me e lei. Sospirai seguendola. 

Il nostro viaggio continuò per diverse ore. Entrambi stavamo congelando in quanto le nostre divise non erano adatte alle basse temperature. Inoltre i nostri pantaloni erano completamente bagnati per via della neve alta. Tremando iniziavamo a far fatica a proseguire. 
"È terribile..." disse quasi in un sussurro la ragazza dai capelli rossi.
Sapevo a cosa si riferiva. Il sole rimaneva fisso alla stessa altezza da quando eravamo riusciti a fuggire dal laboratorio, della notte nessuna traccia. Inoltre, in quel boschetto era difficile orientarsi. 
"Sembra di essere al punto di partenza." sbuffò stanca. 
Feci velocemente due passi mettendomi al suo fianco. Provai a incoraggiarla dicendo che avremmo raggiunto presto un luogo dove nasconderci e ripararci, ma lei non ne era tanto sicura. Più provavo a farle cambiare idea e più lei era triste. 
Possibile fossi tanto incapace. 
"Oh no..." la voce delicata della ragazza interruppe il mio inutile parlare. 
Spostai lo sguardo guardando davanti a me. Ad un tratto gli alberi finivano, nonostante la distesa di neve sembrava continuare. 
"C'è un dirupo." tremò lei "Non possiamo continuare."
Percorremmo più velocemente il tratto che ci divideva da quell'ostacolo e ci affacciammo a guardare davanti a noi. Eravamo si in alto, ma sotto di noi, a diverse centinaia di metri dei lampioni illuminavano quella che sembrava essere una via principale. Ai suoi lati c'erano degli edifici e delle persone che camminavano a passo svelto sulla neve quasi inesistente sul marciapiede. Era una piccola città che si estendeva per diversi chilometri. Avremmo potuto trovare un riparo per un po' e riprendere il viaggio una volta riscaldati e riposati e dopo aver trovato qualcosa che ci proteggesse dal freddo con cui proseguire. 
"Muoviti!" 
Astrid aveva ripreso completamente vita ed aveva iniziato a saltare sulla neve, sprofondandoci ad ogni balzo. Cercai di starle dietro, ma lei, nella sua piccolezza, saltava in maniera troppo veloce per me. 

Non passammo inosservati una volta raggiunta quella strada tanto illuminata. Cercando di riprendere fiato in tempi rapidi ci guardammo in giro scontrandoci con gli sguardi freddi e diffidenti di chi ci passava vicino. Non ci aspettavamo di certo una festa al nostro arrivo, ma neppure donne che coi loro bambini si allontanavano da noi quasi correndo. 
Iniziammo a percorrere il viale guardandoci attorno. Nonostante il freddo diversa gente era in strada ed altra continuava ad uscirne dalle abitazioni. 
"Mi sento osservata..." bisbigliò Astrid avvicinandosi a me e afferrandomi la giacca dell'uniforme con una mano.
Non era solo una sensazione: avevamo realmente gli occhi di tutti puntati addosso. 
"Andatevene via!" urlò una signora anziana dal balcone del suo appartamento al primo piano "Non vogliamo altra gente come voi! Non porterete più via i nostri bambini!" 
"Di cosa stanno... Ah!" 
Sentii il braccio tirare in avanti e vidi la rossa scivolare. Lasciò la mia giacca portando le mani in avanti in modo da ammortizzare la caduta. Mi inginocchiai immediatamente ad aiutarla.
"Lo volete capire o no? Dovete sparire." 
L'uomo che aveva spinto a terra Astrid ci stava ringhiando contro, accompagnato da altre mille voci che si confondevano. Era chiaro il loro messaggio: dovevamo andarcene subito.
"Levatevi dai coglioni!" lo stesso uomo si era avvicinato ulteriormente stringendo i pugni in maniera minacciosa. 
Chi era lui per trattarci come animali? 
Scattai in avanti ritrovandomi faccia a faccia con l'uomo, ma nuovamente mi sentii tirare un arto. 
"Andiamocene, Robert..." sussurrò la ragazza in lacrime. 
Guardai nuovamente l'uomo per qualche istante, poi seguii la ragazza a testa bassa, umiliato da quelle infinite parole di disprezzo che ci stavano piovendo addosso.

Solo una volta tornati ai piedi del dirupo che avevamo aggirato poco prima Astrid si lasciò cadere a terra in un pianto quasi disperato. 
"Non abbiamo fatto nulla."  
Non riuscivo neppure io a capire perché ci avessero trattato in quel modo. Avevamo solo bisogno di un posto dove ripararci, non avremmo di certo fatto di male ai loro figli. Non erano quelle le nostre intenzioni. 
Astrid, sconsolata e tremante, continuava a piangere. Vederla in quello stato mi stringeva il cuore. 
"Ho pochi ricordi dei miei genitori." le dissi accucciandomi accanto a lei "Ma uno di questi riguardava una frase che mi diceva mia madre: nulla è per caso." 
Astrid sembrava non capire anche se stava ascoltando con attenzione le mie parole. 
"Nulla è per caso!" ripetei come se fosse la soluzione ad ogni problema.
"Non ti seguo." 
"Se ci succede qualcosa c'è un motivo." cercai di spiegarmi alla ragazza "Anche se ci sembra ingiusto o infelice, non vuol dire che dobbiamo abbatterci. Dobbiamo invece impegnarci e continuare." 
Lei scosse la testa, non convinta delle mie parole. 
"Siamo destinati a morire, tutto qua." 
Le sue parole mi fecero rabbrividire, ma non le volevo credere. Era triste e demoralizzata in quel momento e ciò che aveva appena detto era sicuramente influenzato dal suo stato umorale. Doveva provare a ragionarci un po' e provare a cambiare punto di vista. 
"Forza ora!" la incoraggiai prendendo con forza le sue mani e facendola alzare "Dobbiamo andare avanti: siamo solo all'inizio della storia. La nostra avventura inizia da qua, la nostra vita inizia da ora." 
Lei mi guardò con i suoi occhioni verdi e le labbra appena socchiuse. Accennò poi un sorriso. 
"Hai ragione, non posso arrendermi fin da ora." 
Lei si asciugò alla meglio le lacrime con il bordo della giacca della tuta bagnato. 
"Ora andiamo a trovare un riparo." consigliai tenendole ancora le mani. 

Il sole sembrava non voler tramontare, rimanendo fisso all'orizzonte. Il cielo si era fatto più arancione e dalla città sembrava provenire il silenzio più assoluto. 
Con le labbra violacee e tremanti la ragazza dai capelli rossi ispezionava una delle vie secondarie della città. Queste non erano minimamente illuminate ma con la poca luce del sole riuscivamo ad orientarci fra i palazzi e sulla neve più alta rispetto a quella sul viale principale. Ci stavamo addentrandosi in quello che sembrava essere un quartiere semi abbandonato. Gli edifici cadevano a pezzi. Avevano le porte e le finestre rotte, sbarrate con delle tavole in legno ormai marcio. Ai lati della via alcune vi erano delle piccole montagne di neve a coprire i cassonetti e la spazzatura sparsa qua e là. 
"Dovremmo provare ad entrare in uno di questi palazzi." suggerii ad Astrid cercando di non mordermi la lingua battendo i denti dal freddo. 
Lei alzò lo sguardo verso uno degli edifici. Al secondo piano alcune finestre erano illuminate da una fioca luce. Si intravedevano dall'esterno due plafoniere led. 
"Non credo che questa gente se la stia passando bene." commentò Astrid cercando di saldarsi le mani con il suo stesso respiro "Non vorrei occupare la casa di qualcuno in difficoltà e non vorrei neppure ritrovarmi in una situazione come quella precedente." aggiunse pronunciando le ultime parole a bassa voce.
Non potevo dar torto alla ragazza, anche se alla fine dovevamo pensare anche a noi, non solo agli altri. 
"Mi fanno male i piedi." brontolò "Sento la pelle bruciare." piagnucolò continuando però a camminare. 
Fu al suo ennesimo brontolare sommesso che afferrai il suo braccio destro e la trascinai verso una delle finestre rotte. Ignorai le domande della rossa ed iniziai a spingere le tavole di legno inchiodate alle cornici alla meglio. Strappai insieme ad esse un telo stropicciato e bucherellato. Infine mi infilai all'interno di quello che sembrava essere la hall dell'edificio. 
"Seguimi." 
Astrid si guardò attorno per un'ultima volta, indecisa sul da farsi, ma alla fine entrò anche lei all'interno dell'edificio. 
La differenza di temperatura non era molta, anzi, era decisamente impercettibile. La semplice assenza del leggero venticello che soffiava, però, era già di per sé motivo di sollievo. 
All'interno dell'edificio sembrava regnare il silenzio più assoluto, come se fosse completamente abbandonato. Trovate le scale optammo per raggiungere uno dei piani più alti sperando di trovare un appartamento vuoto. 
Non arrivammo all'ultimo piano che Astrid fu attirata da una porta aperta a qualche passo dalle scale. Lei spinse l'uscio il cui scricchiolio risuonò nel corridoio vuoto. I nostri visi si contrassero in una smorfia infastidita dal rumore. Dopo aver atteso qualche secondo entrammo nell'appartamento di piccole dimensioni. La penombra ci permetteva di vedere piuttosto bene l'interno. Non sembrava esserci nessuno e questo fece tirare ad entrambi un sospiro di sollievo. 

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