Storie dall'Altro Mondo di Blue Drake (/viewuser.php?uid=84670)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Uno ***
Capitolo 3: *** Capitolo Due ***
Capitolo 4: *** Capitolo Tre ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quattro ***
Capitolo 6: *** Capitolo Cinque ***
Capitolo 7: *** Capitolo Sei ***
Capitolo 8: *** Capitolo Sette ***
Capitolo 9: *** Capitolo Otto ***
Capitolo 10: *** Capitolo Nove ***
Capitolo 11: *** Capitolo Dieci ***
Capitolo 12: *** Capitolo Undici ***
Capitolo 13: *** Capitolo Dodici ***
Capitolo 14: *** Capitolo Tredici ***
Capitolo 15: *** Capitolo Quattordici ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
STORIE
DALL'ALTRO MONDO
PRESENTAZIONE
Isabeau,
una scrittrice di racconti fantasy, riceve visite inattese –
e non
necessariamente gradite –. Che cosa mai vorranno da lei,
questa
volta? E perché proprio in quel momento, quando
invece dovrebbe
assolutamente portare a termine il suo lavoro, in fretta, prima che
l'editore inizi a tramare vendetta contro di lei. Isabeau si augura
solamente di non finire nuovamente nei guai, come già
successe
dodici anni prima; ma per come si stanno mettendo le cose, ci crede
poco.
PROLOGO
L'unico
suono distinto che si poteva percepire all'interno della camera,
illuminata dal sole invernale che irrompeva dall'ampia finestra, era
il rapido ticchettare dei tasti del portatile. Tutto il resto era
assoluto silenzio e dedita concentrazione.
Fuori
dalla finestra il pomeriggio era freddo e ventoso, ma all'interno
della camera la temperatura era piacevolmente tiepida e l'aria
profumava alternativamente di tea verde al gelsomino oppure di
zenzero e cannella, in base alle voglie del momento di chi sedeva di
fronte allo schermo del PC.
Si
trattava di una giovane donna dall'incarnato pallido incorniciato da
lunghi capelli neri – al momento tenuti a bada da un sottile
fermaglio di metallo argentato – e dagli occhi verdi, la cui
attenzione era tutta per ciò che le sue dita riportavano
fedelmente
all'interno del documento di scrittura ora aperto sullo schermo.
L'instancabile
ticchettio proseguì spedito per diversi minuti ancora,
riempiendo
fittamente pagine e pagine di densa scrittura. Tuttavia d'un tratto,
bruscamente, venne interrotto mentre la sedia girevole scivolava
all'indietro e l'occupante si voltava rapidamente alle proprie
spalle.
«Chi
diamine sei, tu? E perché accidenti sei qui?»,
sbottò la donna,
piantando duramente lo sguardo sulla figura da poco comparsa nella
sua stanza.
Il
nuovo arrivato – ma evidentemente affatto atteso –
aveva
l'aspetto di un uomo normale, di mezza età – forse
–, abbigliato
di grigio alla moda di un impiegato di banca – compresa la
valigetta portadocumenti – e con un paio di occhiali dalla
montatura nera appesi al naso. Il problema non era il suo aspetto, ma
piuttosto il fatto che trenta secondi prima non si trovava
lì e che
non era affatto entrato dall'unica porta presente nella camera
– né
tanto meno dalla finestra al settimo piano –.
La
donna, dato che non aveva ancora ottenuto alcun genere di risposta, e
dato che insieme alla pazienza stava perdendo anche una gran
quantità
di tempo prezioso, dovette alzarsi in piedi ed insistere.
«Mi
hai sentita? Capisci la mia lingua?».
«Sì,
certo. Capisco perfettamente», si decise, finalmente, a
rispondere
lo sconosciuto.
La
donna aggrottò le sopracciglia ed irrigidì la
mascella, prima di
berciare, «E allora che cavolo aspettavi a rispondermi?
L'invito
ufficiale?!».
«Beh,
uhm... Ero solo sorpreso», provò maldestramente a
difendersi lo
sconosciuto.
«Ma
sorpreso di cosa?!», si infuriò a quel punto la
donna. «Questa,
fino a prova contraria, è casa mia. Tu sei entrato senza
invito, non
io!».
«Ma
appunto...», riprovò quello. Tuttavia non
poté in alcun modo
continuare perché lei riprese la parola, ancora
più seccata
di prima.
«Senti,
io ho da fare. Il lavoro non si conclude di certo da solo. Se non
arrivi al sodo in fretta ti assicuro che, demone o non demone, ti
sbatto fuori! Chiaro?!», strillò a quel punto.
«Come
fai a saperlo?», si sorprese di nuovo l'altro.
«Ma
sei stupido o cosa? Sei comparso dal nulla – puff!
–, e
hai un aspetto talmente mediocre e insignificante... Avete dei gusti
orrendi, lasciatemelo dire. Se io fossi un demone e potessi
modificare il mio aspetto esteriore a piacimento, andrei in giro con
abiti di alta sartoria e accessori costosi, giusto per fare una buona
impressione e togliermi qualche sfizio. Ma voi no, certo... Siete
così deprimentemente prevedibili e noiosi! E tu,
addirittura,
scialbo», rincarò.
«Ehi!»,
si offese – alla buon'ora – lui. «Come
osi, infima umana?!».
«Oh,
ma sta' un po' zitto, idiota! E per carità, sparisci, prima
che mi
saltino i nervi e ti prenda a calci».
Lo
sconosciuto – il demone – avrebbe voluto ribattere,
ma quella
pazza – come l'aveva appena soprannominata nella
propria testa
– gli aveva lanciato in testa il thermos d'acciaio, che si
era
aperto e aveva riversato su di lui il proprio bollente contenuto,
ustionandolo.
«Ahu!
Brucia! Tu sei pazza, donna!», si lamentò lui.
«E
tu sei idiota. A ognuno il suo», replicò
prontamente lei. «Ora
evapora, o ti assicuro che ti pentirai amaramente di essere ancora
vivo», era stata l'aperta minaccia, che lui –
miracolosamente –
sembrò recepire al volo, scomparendo rapidamente in un fioco
puff.
«Era
ora», sbuffò lei, rammaricandosi unicamente di
aver sprecato
dell'ottimo tea verde.
Infine
aveva ripreso posto alla scrivania e si era rimessa al lavoro di
buona lena.
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Capitolo 2 *** Capitolo Uno ***
Capitolo
Uno
«Oh,
Daumyr, che gente folle che c'è al mondo!», si
stava giusto
lamentando Kasparean con l'amico, appena raggiunto al locale in cui
erano soliti ritrovarsi e chiacchierare in buona compagnia.
«Ah,
buon giorno anche a te, Kas», rispose Daumyr, ridacchiando
fra sé
del malumore dell'amico.
«Sì,
certo, buongiorno», borbottò Kasparean.
«Tu non hai idea di cosa
mi sia appena capitato», proseguì, con espressione
drammatica.
«No,
Kas. Ma scommetto che ci penserai tu a risolvere questa mia
imperdonabile lacuna», lo prese allegramente per i fondelli
Daumyr,
tranquillamente appollaiato sul suo sgabello di fronte al bancone,
sorseggiando mollemente il proprio drink – di un insano color
verde
acido –.
Kasparean
sbuffò e si fece offrire qualcosa di forte. “Per
riprendermi dalla brutta esperienza”,
usò come scusa.
«Sono
appena stato nel mondo degli umani», biascicò poco
più tardi, già
un po' più rilassato e intontito dall'alcool.
~
~ ~ ~ ~ ~ ~ ~
A
quelle parole, un paio di orecchie a punta, di un curioso color
bianco ghiaccio, fremettero e si misero discretamente in ascolto, in
un angolo in ombra dall'altra parte del locale.
~
~ ~ ~ ~ ~ ~ ~
«Continua
pure, Kas, ti ascolto», lo rassicurò l'amico.
«L'altro
giorno ho sentito Thareos dire che nel mondo umano stanno accadendo
fatti preoccupanti e che potrebbe esserci il rischio di perdere il
controllo sul passaggio dimensionale. Così, sai... volevo
solo dare
un'occhiata, nulla di che», si difese Kasparean.
Daumyr
non poté trattenere un sorrisino ironico. «Nulla
di che, certo.
Magari, che ne so, volevi vedere se c'era modo di scoprire qualcosa
di rilevante per lui. No?».
«Beh,
beh... Io, ecco... Può darsi. Che ne sai? Un paio di occhi
in più
possono far comodo», replicò Kasparean, anche se
in tono dubbioso.
Daumyr
sollevò un sopracciglio. «Forse. Ma potrebbe
essere saggio
informarne Thareos o qualcuno del suo entourage, prima di agire in
questo senso. Non è detto che lui lo voglia, questo paio di
occhi in
più di cui parli. Soprattutto se non ne è
informato», terminò,
quasi sottovoce.
Kasparean,
nel frattempo, era visibilmente impallidito e il bicchiere –
quasi
vuoto – tremolava nelle sue mani.
«Non
avevo nessuna cattiva intenzione, io. Ero semplicemente
curioso», si
affrettò a spiegare. «Comunque il viaggio non
è servito a molto,
tranne a procurarmi un bernoccolo in testa e qualche fastidiosa
bruciatura», borbottò mesto.
«Davvero?
E come te li sei procurati», si incuriosì Daumyr,
versando altre
due dita di liquore nel bicchiere dell'amico.
Kasparean
storse la bocca al solo ricordo. «Una femmina»,
sibilò
contrariato, scuotendo la testa.
«Una
donna umana, intendi?», volle sincerarsi Daumyr.
«Sì,
esatto. Che poi sono quelle più pericolose».
Sospirò e sembrò
perdersi un lungo momento nella propria reminiscenza. «Non
sono
neppure sicuro di come ci sono finito, ma mi sono ritrovato in casa
sua, e quella
pazza
mi ha insultato e poi mi ha aggredito», si lamentò
nuovamente.
Questa volta, però, si sporse anche in avanti e, scostando
la folta
capigliatura di un intenso rosso fiammeggiante, mostrò le ferite
di guerra
al partecipe amico.
«Wow!
Non avevo idea che fossero così agguerrite
laggiù», scherzò
Daumyr.
«Sì,
ridi pure, tu. Ma ti assicuro che, se mai ti ritroverai di fronte una
di quelle selvagge, puoi scordarti che io ti protegga. No di sicuro,
me la do a gambe, piuttosto», tenne a precisare Kasparean,
tremando
leggermente alla sola idea delle minacce di quella donna malefica.
«Uhm...
Ma non penso siano tutte pericolose psicopatiche. Forse il tuo
è
stato solo un caso sfortunato», ipotizzò Daumyr,
nel tentativo di
risollevare l'animo all'amico.
«Sfortunato,
dici? Può anche darsi, ma non sono certo di voler ritentare
la sorte
troppo presto», si impuntò Kasparean, facendo suo
malgrado
sogghignare l'amico.
«E
dimmi, a parte il caratteraccio intrattabile, che tipo era?»,
volle
sapere Daumyr, nonostante tutto fortemente incuriosito dalla bizzarra
esperienza di Kasparean.
«Che
tipo? Non saprei, che intendi?».
«Non
lo so, di preciso. Sono un po' inesperto in questo campo e non
conosco granché gli umani. Volevo soltanto farmi un'idea di
come
sono. Tu ne hai incontrato già qualcuno, no? Raccontami
com'è
stato. Che impressione ne hai avuto?».
Kasparean,
che avrebbe invece voluto scordarsi tutta quella storia da pazzi,
sbuffò seccato ma, notando l'espressione genuinamente
incuriosita
dell'amico, volle comunque tentare una risposta per lui.
«Beh,
secondo la mia esperienza, gli umani più piccoli sono anche
i più
giovani e i meno difficili da trattare. Sono molto curiosi –
un po'
come lo sei tu, del resto – e di solito non si corrono troppi
rischi nell'avvicinarsi a uno di loro. Ma devi fare attenzione: se ci
sono in giro delle femmine – quelle che gli umani chiamano madri
– è meglio stare ben alla larga perché
si corre il rischio di
ritrovarsi con ben più di un bernoccolo... Quelle
lì sì che sono
dei veri demóni, altroché». Si
interruppe, crucciato, alla risata
dell'amico. «Che c'è? Che hai da ridere,
ora?».
Daumyr
provò a smettere, ma era davvero troppo divertente e
riuscì a
fermarsi solo dopo un minuto buono di pura ilarità.
«Oh,
nulla, scusami. È solo che credevo fossimo noi i demoni, non
loro».
Kasparean
gli fece una smorfia seccata. «Spiritoso. Era un modo di
dire,
ovviamente».
«Certo,
certo», accondiscese Daumyr. «E invece, questa che
hai incontrato
poco fa? Anche lei era una madre?».
«Non
saprei. Lì intorno di cuccioli non ce n'erano. Ma sono
piuttosto
sicuro che non fosse così aggressiva per proteggere
qualcuno. Era
semplicemente una pazza», ribadì Kasparean.
«Lo sai, mi ha perfino
minacciato!».
«Addirittura?»,
si stupì Daumyr.
«Sì,
sì. Nemmeno le avessi fatto qualche orribile torto, o
maledetto la
sua famiglia. Che poi, chi la conosce, non so neppure se ce l'ha, una
famiglia. Sono semplicemente capitato nel posto sbagliato, che
diamine... per un piccolo
errore! Ma pensi forse che a quella importasse che io fossi
giustamente
spaesato? Nemmeno per sogno!», strillò Kasparean
infervorato. «Ha
detto che mi vesto in modo scialbo», sussurrò poi
mesto, piegando
le orecchie a punta, visibilmente abbattuto.
Daumyr
poggiò una mano sulla sua spalla e picchiettò
gentilmente, tentando
di consolarlo. «Ma no, Kas. Sono certo che il tuo
travestimento
umano sia più che appropriato. Forse era semplicemente
nervosa di
suo e la tua presenza ha solo accentuato il problema»,
provò,
cauto.
«Tu
dici?», chiese Kasparean, ancora un po' sconfortato.
«Ma
sì, certo», sorrise Daumyr, offrendo poi all'amico
un altro giro
per tirarsi su di morale.
~
~ ~ ~ ~ ~ ~ ~
In
quello stesso momento, una folta e indisciplinata chioma blu notte
arretrò maggiormente fra le ombre più fitte del
locale; le punte
bianco ghiaccio delle orecchie vibrarono frementi, ma nessun'altra
informazione degna di nota uscì dalla bocca di quello
stupido demone
rosso già mezzo ubriaco. Le labbra violette dello
sconosciuto si
storsero in una smorfia indispettita e il loro proprietario decise di
andare più a fondo alla questione; molto più a
fondo.
Attese,
pazientemente, che il demone rosso fosse sufficientemente
narcotizzato dall'alcool ingerito, poi – rincantucciandosi il
più
possibile – estese il raggio d'azione del proprio potere ed
entrò
come un soffice
soffio di vento nella
mente debole della sua preda, cercando l'informazione che gli sarebbe
stata utile in mezzo a tanta cianfrusaglia senza nessun valore. Una
volta individuatala se ne impossessò e, più
silenziosamente
possibile, si ritirò nuovamente in sé stesso,
sospirando
soddisfatto.
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Capitolo 3 *** Capitolo Due ***
Capitolo
Due
Ancora
poche pagine e, per quel giorno, avrebbe finalmente concluso. Si
stiracchiò, poggiandosi mollemente allo schienale, e si
versò una
tazza di calda tisana: se l'era decisamente meritata.
Sospirò
appagata e riprese diligentemente a scrivere, già
pregustando una
piacevole passeggiata nel parco vicino a casa – a quell'ora
del
tardo pomeriggio, solitamente poco frequentato – e sorrise di
aspettativa, impegnandosi a terminare velocemente il proprio lavoro.
Pochi
minuti più tardi, tuttavia, qualcosa
turbò la sua concentrazione. Le sue agili dita continuarono
coscienziosamente a battere sui tasti, ma dovette rallentare un po'
il ritmo, mentre una parte della sua mente si distaccava controllando
la natura del nuovo disturbo.
“Di
nuovo”,
pensò. “Che
cos'è, oggi, il raduno dei demoni in casa mia?”.
Sbuffò, pensando all'ironia di quell'assurda situazione, e
si impose
di lasciar perdere – per il momento –
quell'ennesima intrusione
nella sua privacy e di concentrarsi completamente su ciò che
stava
scrivendo.
Trascorsero
altri lunghi minuti, che vennero totalmente riempiti dal frenetico
ticchettio dei tasti del portatile. “Se
non altro”,
rifletté, “questo
demone sembra meno invadente dell'altro”.
In effetti, il nuovo arrivato non era che una mera ombra sul
davanzale al di fuori della finestra; un'ombra che non si era mossa
di un solo millimetro e non aveva provocato il minimo rumore,
eccettuato un soffice suono – appena percettibile, al di
sopra del
soffio del vento – al momento della sua comparsa.
La
donna davanti al PC sorrise soddisfatta: il lavoro del giorno era
concluso e poteva dedicare il resto del pomeriggio ad un po' di sano
svago. Si stiracchiò nuovamente e il suo pensiero
tornò all'ombra
appostata fuori dalla finestra. Non lo aveva più sentito e a
malapena poteva scorgerlo con la coda dell'occhio. “Curioso:
un demone dalle buone maniere”,
ragionò. Infine lasciò perdere ogni altro indugio
e decise di
prendere di petto quella strana situazione – come sempre, del
resto
–. Indurì lo sguardo verde e, repentinamente,
lasciò la
postazione, dirigendosi a passo di marcia fino alla finestra e
spalancandola.
«Quindi?
Pensi forse di rimanere sul mio davanzale tutta la sera?»,
attaccò,
diritta al punto e senza tentennamenti.
Il
demone blu, appollaiato lì fuori da ormai più di
un'ora ad
osservare, sgranò gli occhi e per poco non finì
di sotto,
sbilanciato dalla sorpresa. Si aggrappò invece allo stipite
della
finestra, annaspando impreparato e, cautamente, sollevò lo
sguardo
blu sulla donna marzialmente piantata di fronte a sé.
«Ehm...
No, io... Scusa, non volevo disturbarti», tentò,
sperando di non
guadagnarsi una reazione violenta.
La
donna ghignò – in modo abbastanza spaventoso
– e le parole che
seguirono non aiutarono di certo a mitigare quella sgradevole
sensazione.
«Se
davvero mi avessi disturbata, ti posso assicurare che non saresti
più
sul mio davanzale già da parecchio tempo».
Le
orecchie della creatura tremarono per il disagio e il demone
deglutì
nervosamente.
«Ehm...»,
riprovò, senza però sapere bene cosa dire
né come dirlo. La verità
è che non aveva affatto previsto di doverle parlare; credeva
di
poter semplicemente trattenersi un po' di tempo lì e di
passare del
tutto inosservato. Evidentemente doveva aver fatto male i suoi
calcoli.
La
donna, invece, si lasciò sfuggire un sospiro rassegnato.
«Ascolta:
o te ne vai di qui – immediatamente –, oppure entri
– in
fretta, possibilmente –. In ogni caso, non mi costringerai a
lasciare la finestra aperta». Lo fissò per un
momento, con sguardo
calcolatore. «Non so se te ne sei accorto, ma qui
è pieno inverno e
mi sta entrando l'aria gelida in casa», sibilò
indispettita.
«Oh,
io... Mi dispiace...», si scusò nuovamente lui, ma
venne presto
incenerito da una terrificante occhiataccia di quella donna –
che
effettivamente, doveva proprio darne atto al demone rosso, non
sembrava molto trattabile – e, invece di tergiversare ancora
sul
davanzale, saltò dentro atterrando morbidamente sul caldo
parquet,
permettendole finalmente di richiudere la finestra e recuperare un
poco del tepore perduto.
~
~ ~ ~ ~ ~ ~ ~
Il
demone, non osando muoversi liberamente e a suo piacimento, si
limitò
a furtivi sguardi in giro per la stanza, incuriosito come un gatto da
tutto ciò che i suoi occhi blu potevano scorgere. Le sottili
punte
delle sue orecchie vibravano, ora, eccitate per ogni piccola
scoperta, e un timido sorriso aveva lentamente preso il posto
dell'espressione turbata e contrita di quando, poco prima, era stato
imprevedibilmente scoperto. Già, chissà come
aveva fatto, quella
donna, a rilevare la sua presenza. Eppure era stato molto attento a
non fare rumore e a confondersi con l'ambiente circostante.
Occupato
com'era nei suoi pensieri, sobbalzò quando la donna gli si
avvicinò
e gli mise una tazza di ceramica fra le mani: una tazza piacevolmente
calda, con dentro del liquido verde non meglio identificato.
Dischiuse le labbra e spalancò gli occhi in un'espressione
più che
sorpresa e, cautamente, sollevò lo sguardo su di lei.
«Ehm...»,
ripeté. Niente da fare; sembrava proprio che non gli
riuscisse di
trovare parole adeguate, quel giorno.
«È
solo tea verde al gelsomino», specificò lei.
«Però è caldo. Dopo
più di un'ora là fuori, penso proprio che ti ci
voglia». Detto
questo, si sedette su un angolo della scrivania e rimase ad
osservarlo, in un certo senso incuriosita. Lui era arrossito, o
meglio, la sua pelle si era tinta di un tenue violetto. Quindi? Si
poteva ancora definire arrossire?
«Ah,
io, uhm... Grazie», bisbigliò lui, stringendo la
tazza calda e
sollevandola fino alla bocca. Ciò nonostante, prima di
assaggiarla,
annusò indeciso.
Una
tintinnante risata giunse alle sue sensibili orecchie, facendole
vibrare, e lanciò un'occhiata dubbiosa alla donna, come a
voler
chiedere “Cosa?”.
«Ti
assicuro che non l'ho avvelenata, se è questo che ti
preoccupa», lo
prese in giro lei.
Forse
avrebbe potuto risponderle in qualche maniera, ma preferì
– date
le sue attualmente scarse capacità comunicative –
evitare e,
invece, sorbire volenterosamente la bevanda che, a onor del vero,
aveva un sapore piuttosto gradevole e contribuì, fra le
altre cose,
a riscaldargli le membra.
«Quindi,
dimmi», riprese la parola lei, «Tu, esattamente,
chi sei? E, se non
è chiedere troppo, naturalmente»,
ironizzò, «Come mai sei qui?».
“Due
ottime domande”,
pensò il demone. “Maledettamente
ottime”,
ragionò, sentendo tornare di prepotenza tutto il nervosismo
che,
poco prima, aveva quasi dimenticato. Avrebbe iniziato con il
rispondere alla prima domanda: delle due, certamente la più
facile –
o almeno così pensava –.
«Ecco,
io mi chiamo Arjentael. Sono...», tentennò,
«Un demone blu, sì.
Io, ehm... Sarei un...».
«Un
telepate», completò lei per lui, guadagnandosi
l'ennesima occhiata
sorpresa della giornata, anche se questa era inoltre un tantino
sconvolta.
«Tu
come... Come lo sai?», soffiò Arjentael,
decisamente stranito.
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Capitolo 4 *** Capitolo Tre ***
Capitolo
Tre
«Una
domanda simile, proprio da qualcuno che dovrebbe poter percepire i
pensieri del prossimo? Non è molto lusinghiero, ne
convieni?»,
scherzò la donna.
Arjentael
arrossì nuovamente. «Io... Non intendevo essere
scortese», cercò
di spiegare, «Non sarebbe molto educato, da parte mia,
approfittarne
in questo modo. Soprattutto in virtù del fatto che mi hai...
uhm...
ospitato.
Trovo che non sarebbe un comportamento onorevole»,
sussurrò.
La
donna, imprevedibilmente, sorrise. «Lo avevo pensato anche
poco fa,
quando eri ancora là fuori in silenzio: sei stranamente di
buone
maniere, per essere un demone».
Lui
non seppe se considerarlo come un complimento personale oppure come
un insulto alla sua stirpe tutta. Nel dubbio, si incupì e
tenne a
precisare, «Non siamo tutti come quello stupido demone
rosso».
«Oh,
ma lo so. Lo so molto bene. E non ti volevo offendere, te l'assicuro.
Solo, devi pur ammettere che non capita tutti i giorni di incontrare
demoni che si comportano come farebbe un vero gentleman inglese.
Scommetto che, anche fra i tuoi simili, sei comunque merce
rara»,
speculò lei. Ma prima che Arjentael avesse il tempo di
replicare,
lei proseguì, «Comunque sia, è stato un
inaspettato piacere
conoscerti, Arjentael. Io sono Isabeau Nandère. Sono un
essere
umano; ma questo tu già lo sai, non è
vero?».
«Sì»,
rispose lui, comunque molto imbarazzato, «E mi scuso
nuovamente, nel
caso la mia inattesa presenza ti abbia in qualche modo arrecato noia.
Non immaginavo che... beh, che mi avresti scoperto»,
balbettò
impacciato, arrossendo miseramente e per l'ennesima volta.
«Beh,
Arjentael...», cominciò lei.
«Ary»,
la interruppe lui, «I... i miei amici, di solito, mi chiamano
così»,
precisò.
«Ary,
allora. Beh, in questo caso, se ti va, puoi chiamarmi Isy. Non che
abbia poi molti amici, intendiamoci, ma quei pochi, solitamente,
usano questo nomignolo», propose lei. Poi scese dalla
scrivania e,
avvicinandoglisi appena, gli indicò una poltroncina rossa
alle sue
spalle, proprio sotto la finestra da cui era entrato.
«Accomodati
pure, Ary», offrì, «Mentre
chiacchieriamo, vorresti ancora un po'
di tea?».
Arjentael
si sedette, circospetto, incrociando le gambe sul morbido velluto
rosso; ci passò anche le dita, incuriosito dalla strana
sofficità
di quel materiale.
«Io...
uhm... Credo di sì, grazie», si decise infine a
rispondere.
«Bene.
Come stavo cercando di farti notare poco fa, credo che, per le tue
sedute di osservazione della specie umana, avresti fatto meglio a
scegliere un altro soggetto se, come deduco, era tua intenzione
passare inosservato». Isabeau gli porse nuovamente una tazza
colma
di tea fumante e poi si accomodò a sua volta
sull'accogliente divano
in pelle che, a volte, usava per rilassarsi e schiarirsi le idee.
Arjentael,
dal canto suo, chinò la testa e la scosse leggermente.
«Questo
l'avevo intuito. Quello che invece non riesco a capire è
perché. Tu
sei un'umana però, allo stesso tempo, sei diversa... in
qualche
modo», ragionò. «Tu sai cose
e riesci a... a cosa? Percepire?», tentò, incerto.
Isabeau
annuì. «Sì, a percepire è
piuttosto esatto. Ti ho sentito
arrivare, nel momento esatto in cui hai attraversato il varco,
suppongo». Sollevò lo sguardo e lo
trovò a fissarla: gli occhi
spalancati e un colorito un po' troppo grigio sulla sua pelle bianco
ghiaccio.
«Dove...
C-come...», incespicò Arjentael.
Lei
provò un sorriso comprensivo e lo incitò,
«Bevi il tuo tea. Io,
intanto, proverò a spiegare».
Il
demone abbassò gli occhi sulla superficie liquida che
rifletteva
parte del suo sconcerto. Chissà, forse avrebbe davvero
dovuto
scegliersi un altro essere umano da studiare. Eppure era subito
rimasto incuriosito dal racconto di quel demone rosso e non aveva
potuto fare a meno di desiderare di scoprire qualcosa in più
su
questa donna della quale aveva solo sentito parlare. Beh, non si
aspettava di certo che la sua curiosità sarebbe stata
soddisfatta in
quel modo così assurdo e inatteso. Ciò
nonostante, così, a pelle,
sentiva una sorta di legame con Isabeau, la sentiva, in qualche modo,
affine e tutto sommato, a modo suo, perfino simpatica.
~
~ ~ ~ ~ ~ ~ ~
«È
strano», cominciò lei, «Sono ormai quasi
tre anni che non ricevo
visite da parte di un demone. In verità, l'unico a farmi
visita –
più o meno costantemente – negli ultimi dodici
anni era un demone
atrox».
Arjentael
sollevò di scatto lo sguardo dalla sua tazza e la
fissò stranito
per qualche lungo secondo. «Sul serio? Vuoi dire che ricevevi
visite
da un demone animale?».
Isabeau
annuì nuovamente, «Sì, esatto: una
pantera. Era bella, o meglio,
era bello:
nero come l'inchiostro, con macchie argentate e intelligenti occhi
grigi. Non poteva parlare, certo, ma era ovvio che capisse alla
perfezione tutto ciò che veniva detto o che gli accadeva
intorno.
Chissà, forse gli è successo qualcosa di brutto.
Non aveva mai
lasciato trascorrere così tanto tempo, prima di tornare da
me».
Aveva un'inflessione un po' triste, la voce di Isabeau, come se
effettivamente sentisse la mancanza di quella creatura appartenente
ad un mondo diverso dal suo.
«Conosci
il suo nome?», chiese a qual punto Arjentael, desideroso, in
qualche
modo, di poterle essere d'aiuto.
«Oh,
sì. Zaynar, è questo il suo nome», e a
quello stesso nome riservò
un piccolo sorriso, malinconico e affettuoso al tempo stesso.
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Capitolo 5 *** Capitolo Quattro ***
Capitolo
Quattro
Doveva
averlo sorpreso di nuovo – per quanto non fosse sicura di
come –:
la stava fissando con un'espressione che pareva proprio sconvolta,
anche se non ne comprendeva il motivo.
«Ho
detto qualcosa di sbagliato?», pensò di informarsi
Isabeau.
«Sì...
Cioè, no», Arjentael tentennò,
massaggiandosi le tempie doloranti
con le dita sottili.
Quella
donna: chi era realmente? Che cosa sapeva del loro mondo? E,
soprattutto, come? Nessuno gli aveva mai parlato di esseri umani al
corrente del loro mondo e di ciò che vi capitava; ma lei,
Isabeau,
sapeva,
ne era sicuro. Chissà quanto a fondo arrivavano le sue
conoscenze.
Qualcun altro era al corrente dell'esistenza di Isabeau? E se
sì,
che cosa rappresentava, lei, per loro? Troppe domande per la mente
confusa e in subbuglio di Arjentael. Troppe domande e troppo
difficili. Avrebbe mai saputo dare una risposta a qualcuna di esse?
Francamente, ne dubitava. Se qualche demone sapeva e non aveva mai
ritenuto opportuno informarne la collettività, evidentemente
c'erano
dei validi motivi che lo spingevano al silenzio. Già, ma
quali?
«Ary».
La
voce, dubbiosa e forse vagamente impensierita, di Isabeau lo
distrasse dai propri pensieri.
«Sì»,
rispose, incerto.
«Va
tutto bene?», si azzardò a chiedere lei.
Arjentael
si trattenne dal riderle in faccia unicamente per una pura questione
di rispetto. Al tempo stesso si chiese, per la prima volta da che era
comparso a casa della donna, se non sarebbe stato più
semplice
entrare nella sua mente e cercare personalmente le risposte di cui
aveva bisogno. E poi, quando l'idea fu abbastanza a fuoco dentro di
lui, sgranò gli occhi inorridito perché: no,
quella sarebbe stata
solo un'orribile violazione dei pensieri di una creatura che
– lo
sapeva bene – non avrebbe potuto difendersi in alcun modo,
non da
lui.
«Lo
vorrei, non immagini quanto. Ma no, non va tutto bene»,
soffiò
infine, corrucciato e pensieroso.
«Che
cosa, di ciò che ho detto, ti ha turbato tanto?»,
volle capire
Isabeau.
La
osservò, scrutò attentamente i suoi occhi verdi,
fermandosi in
superficie: vide solo il riflesso di sé stesso e della sua
confusione che doveva aver contagiato anche lei.
«Il
nome di quel demone», si decise a spiegare. «Fino a
un momento
prima non avevo ancora la certezza che tu sapessi davvero. Ma ora...
Ora non posso più fingere», ammise, sospirando.
Isabeau
aggrottò le sopracciglia. «Tu conosci Zaynar? Sai
se sta bene?»,
non poté evitarsi di chiedere, suo malgrado preoccupata.
«Sì,
so di chi si tratta. La domanda è: tu lo sai?»,
rilanciò
Arjentael.
Lei
serrò la mascella, seccata, e lo fulminò con
un'occhiata niente
affatto conciliante. Poi sbuffò e si risolse a rispondere,
nella
speranza che, così facendo, avrebbe a sua volta trovato una
risposta
alla propria domanda.
«È
il compagno di un demone grigio di nome Lothyan. Da ciò che
rammento, solevano viaggiare sempre in coppia. Zay sembrava essersi
preso la responsabilità di guardargli le spalle, durante le
loro
avventure. Fu Lothyan stesso, dodici anni fa, a chiedere a Zaynar di
venire da me – probabilmente per controllare che non
combinassi
pasticci, ci scommetto –», aggiunse petulante e
sarcastica.
Quando
però tornò a guardare il suo ospite, aspettandosi
di ottenere a sua
volta qualche tipo di chiarificazione, trovò invece che
Arjentael si
era alzato in piedi e non la stava nemmeno guardando. Per un momento
ne fu indispettita, ma quel sentimento fu di breve durata, sostituito
dapprima da disorientamento e in seguito da timore. No, lui non la
stava guardando, aveva invece gli occhi blu fissi ai propri piedi e
le mani serrate a pugno tremavano, come del resto il suo corpo
longilineo.
Isabeau,
onestamente, non capiva; non le sembrava d'aver pronunciato parole
potenzialmente offensive. Ciò nonostante il demone, che fino
ad un
momento prima le era parso una creatura tanto gentile, ora sembrava
esercitare uno sforzo superiore alle proprie energie per trattenere
quella che appariva, a tutti gli effetti, rabbia.
Non
sapeva come comportarsi. Avrebbe voluto provare a chiarire con lui;
in fondo, demone o no, le era parsa una creatura piuttosto
ragionevole e disposta al dialogo. Si stava però chiedendo
se quella
davanti a lei fosse la stessa creatura che l'aveva pazientemente
osservata fuori della sua finestra; a guardarlo in quel momento, non
sembrava proprio.
«Ary»,
si arrischiò, in un lieve sussurro.
Il
demone sollevò finalmente lo sguardo, ma sarebbe stato di
gran lunga
preferibile se non lo avesse fatto: degli occhi curiosi e un po'
timidi che le erano apparsi fino a quel momento non era rimasto che
il colore; c'era, in fondo ad essi, un'ombra di dolore, confusione e
rabbia ad oscurarne la luce.
«Che
cos'è successo? Non capisco», riprovò
Isabeau, nella speranza di
giungere al di là di quell'ombra.
Lei
era, però, solo un essere umano, con qualche debole
percezione
psichica di un mondo che non le apparteneva, e non era abbastanza
forte per riuscire a contrastare un demone, in particolare quel
demone.
Non
lo vide neppure muoversi: un attimo prima era davanti alla poltrona
rossa, l'attimo successivo le si parava di fronte, tremando di
qualcosa che non era affatto paura, ma un'emozione ben peggiore. E
poi, dal nulla, comparve una sottile lancia che il demone
puntò
diritta al collo di Isabeau.
«Chi
sei tu? Che cosa sei?!», ringhiò Arjentael.
Seppur
spaventata, Isabeau scosse la testa, soprattutto confusa.
«Dimmelo!»,
ordinò il demone in tono aspro.
La
mano che reggeva la lancia tremò violentemente e la punta
sfiorò
appena la pelle candida del collo di Isabeau, graffiandola
impercettibilmente. Lei quasi non se ne avvide, nondimeno un istante
dopo una grossa nuvola di pero nero come la notte si scagliò
contro
il demone blu, spedendolo brutalmente contro la parete opposta in un
confuso nugolo di artigli affilati e vesti blu a brandelli.
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Capitolo 6 *** Capitolo Cinque ***
Capitolo
Cinque
L'urto
violento fece tremare i vetri e beccheggiare le lampade; il frastuono
venne però presto coperto da un grido di dolore del demone
blu –
ora bloccato con la schiena a terra dal peso del suo
assalitore –
quando dei
grossi artigli si conficcarono in profondità nella sua
spalla. Il
demone atrox tentò anche di squarciargli la gola con le
forti zanne,
ma l'offensiva venne fortunosamente arrestata dalla lancia posta in
trasversale a difesa del proprietario.
Arjentael
era riuscito, per un puro miracolo, a impedire a quell'animale di
staccargli la testa con un unico morso, ma non poteva comunque
muoversi; la pantera era forte e pesante: se avesse allentato la
presa sulle sue fauci, quello l'avrebbe certamente fatto a fettine e
lui non ci teneva minimamente a finire i suoi giorni in quel modo,
grazie tante.
L'atrox
doveva essersi stancato di quella situazione di apparente stallo;
aveva dato un terribile strattone alla lancia, quasi staccandogli un
braccio, e lo aveva nuovamente colpito con una zampa artigliata,
questa volta ferendolo al fianco e strappandogli un altro grido
agonizzante e qualche brandello di carne.
Un
ringhio sordo vibrò nell'aria e già la pantera si
predisponeva ad
un nuovo attacco –
con l'intimo
desiderio che fosse quello definitivo –, quando un nuovo
grido –
questa volta di donna – lo fece arrestare.
«Zay!»,
giunse, acuta e urgente, la voce di Isabeau.
Attonita,
era rimasta qualche secondo a osservare la scena che si svolgeva,
come un sogno, davanti ai suoi occhi increduli. Ma le macchie di
sangue violetto che avevano appena imbrattato il suo parquet
l'avevano fatta trasalire e tornare in sé.
Quello
era Zaynar; il suo amico – da quando non aveva che dodici
anni –
era appena tornato da lei. Per proteggerla, evidentemente. Ma Isabeau
non poteva permettere che Zaynar uccidesse quel demone blu, che
sì,
l'aveva minacciata e le aveva ringhiato contro – proprio come
Zay
stava facendo con Arjentael, rifletté –, ma che,
ne era certa,
doveva aver avuto le sue ottime ragioni. E anche ammesso che
così
non fosse stato, Isabeau non intendeva permettere che accadesse, non
così, non in casa sua e davanti ai propri occhi atterriti e
al
dolore evidente in quelli del demone blu.
Veloce,
raggiunse in poche falcate l'angolo in cui erano finiti i due demoni
e si aggrappò con forza alla pelliccia scura del dorso di
Zaynar, il
quale di scatto si voltò, piantandole addosso quei suoi
occhi grigi
e acuti, quasi cercasse di rassicurarla che tutto andava bene e che
non doveva preoccuparsi.
Lo
scambio di sguardi durò solo pochi attimi, poi la pantera
tornò a
dedicare tutto il suo disgustato furore alla patetica creatura che
giaceva sotto le sue grosse zampe, fronteggiandolo con un lungo
sibilo di avvertimento.
«No!
Zay, ti prego»,
insistette
Isabeau, stringendo fra le dita la morbida e tiepida pelliccia. «Per
favore, basta»,
supplicò,
tremando di angoscia alla vista delle condizioni della preda di
Zaynar.
Le
tonde e vellutate orecchie del felino fremettero e lo stesso fecero
le sensibili vibrisse. I mortali artigli si ritrassero nelle loro
morbide guaine e, lentamente, Zaynar abbandonò il corpo
inerte del
demone blu, accostandosi invece con dolcezza al corpo tremante di
Isabeau: la sua
umana. Strofinò gentilmente il muso squadrato sul collo
della donna
e accolse fuseggiante il suo atteso abbraccio e le sue mani delicate
che gli accarezzavano con cura e affetto la pelliccia.
«Mi
sei mancato tanto, Zay»,
sussurrò la voce di Isabeau nelle sue orecchie.
Un
sordo brontolio fu la replica della pantera, che stava a significare,
più o meno, “Anche
tu,
femmina scriteriata”.
Isabeau
ridacchiò, incredibilmente serena data la situazione, e
affondò il
volto nel suo collo soffice e caldo, godendosi il profumo di un amico
ritrovato.
Solo
qualche minuto più tardi, quando la pantera si era
già comodamente
acciambellata a terra per meglio deliziarsi delle meritate coccole,
l'effimera felicità di Isabeau venne spazzata via da un
debole
rantolo proveniente dalla sua destra. In quel momento soltanto, la
donna si rammentò del motivo di tutto il trambusto di poco
prima.
Rapidamente, si voltò nella direzione da cui era provenuto
il suono
e dovette, suo malgrado, trattenere il fiato, travolta dalla vista di
qualcosa che da molto tempo, ormai, si era lasciata alle spalle.
«Oddio»,
sussurrò atterrita, facendo vagare lo sguardo sul corpo
dilaniato
del demone blu che, grazie al cielo, respirava ancora, per quanto
faticosamente.
Un
poco tremante, si issò in piedi e, a lenti passi, raggiunse
Arjentael e si inginocchiò al suo fianco. Cautamente
scostò un
brandello della casacca del demone, ma subito ritrasse la mano,
lasciando la presa e sussultando.
«Oh,
Zay... Che macello», gemette,
scuotendo piano la testa.
Per
tutta risposta, Zaynar borbottò un mezzo ringhio contrariato
che
significava, probabilmente, “Se
me l'avessi lasciato ammazzare, a quest'ora non staremmo qui a
perderci in inutili preoccupazioni”,
o comunque una cosa del genere. Non pareva affatto entusiasta di
avercelo ancora fra i piedi – le zampe, in questo caso
–; si
trattava pur sempre di un potenziale pericolo per la sua Isabeau. A
ogni buon conto, almeno per il momento, non riteneva di doversene
preoccupare, dato che aveva fatto in modo di conciarlo per le feste e
di certo, in quelle condizioni, non sarebbe stato per nulla in grado
di sollevare un solo dito sulla donna. “Ben
gli sta”, pensò
acidamente e, soffiando, voltò il muso in un'altra
direzione,
disinteressandosene platealmente e senza remore.
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Capitolo 7 *** Capitolo Sei ***
Capitolo
Sei
Mentre
Zaynar si dissociava categoricamente dalla frenetica preoccupazione
per quell'inutile creatura riversa a terra, Isabeau aveva invece
preso in mano le redini del dramma
e si era precipitata diritta in bagno per cercare qualunque cosa
potesse esserle utile. Fece ritorno pochi minuti dopo, trafelata e
con uno striminzito kit del pronto soccorso, che guardò
mesta perché
non si era mai degnata di apprendere le basi per un primo intervento
di quel genere. Tornò comunque, piena di buone intenzioni, a
inginocchiarsi accanto ad Arjentael e deglutì, nervosa,
mentre
scostava nuovamente i confusi pezzi di tessuto che ancora lo
coprivano. Sospirò sconsolata e sfogliò il
succinto manuale
allegato al kit, in cerca di ispirazione. E infine la trovò.
«Pulire
la ferita»,
borbottò, «Sì,
questo posso farlo. Non può mica essere così
difficile, giusto?»,
si chiese dubbiosa.
Fu
così che, con pazienza, sbottonò la casacca
macilenta e liberò la
pelle chiara da qualunque cosa di non organico riuscì a
trovare al
proprio passaggio. Una volta completata l'operazione, Isabeau si
sentiva già stremata, e doveva ancora iniziare la parte
complicata.
«Che
bello schifo di giornata»,
berciò, «Non potevo starmene
a letto, invece di farmi prendere da questo insano prurito di
scrivere a oltranza? Bah!»,
seguitò a lamentarsi mentre, recuperate spugne e teli in
abbondanza,
si accinse a lavar via tutto quel maledetto sangue che le stava
procurando dolorosi crampi allo stomaco e un monumentale mal di testa
da stress.
Un
lamento soffocato l'avvertì che, forse, ci stava mettendo
troppa
energia. Quindi si prese un momento di pausa e respirò a
fondo, nel
tentativo di darsi una calmata. Tentativo miseramente fallito.
«TU!»,
ringhiò frustrata all'indirizzo dell'atrox, senza tuttavia
ottenere
effetti apprezzabili. «Zay!»,
ritentò, guadagnandosi una sonnacchiosa occhiata di
curiosità. «Si
può sapere che diamine stai facendo? Non vedi che abbiamo un
problema?»,
persistette.
Zaynar
sollevò, scettico, un sopracciglio e si
stiracchiò, sbadigliandole
in faccia.
Isabeau
si sollevò in piedi, incrociò strettamente le
braccia al petto e
prese a tamburellare un piede sul parquet, digrignando i denti e
schioccando la lingua sul palato alternativamente. Ma dato che il suo
linguaggio corporeo, palesemente, non sortiva gli effetti sperati,
marciò risoluta verso la pantera, piantando i piedi proprio
di
fronte al suo muso mollemente adagiato a terra e sbottò, «Zaynar!
Sto parlando con te. Dopotutto, questo casino è colpa tua».
E
finalmente ebbe l'attenzione del demone atrox che, di scatto,
risollevò la testa e la fissò con un
inequivocabile sguardo
allucinato, il quale lasciava chiaramente intendere: “Mia?!
Ti sei per caso bevuta il cervello, donna?!”.
O
per lo meno, questo fu ciò che dedusse Isabeau, la quale a
sua volta
lo squadrò in un modo talmente truce che Zaynar si vide
costretto a
scivolare più indietro e a tenersi pronto a una fuga di
emergenza.
«Dimmi,
che diavolo di bisogno avevi di farlo a pezzi in quel modo?»,
sibilò scontenta Isabeau.
Un
basso, infelice ringhio borbottato proruppe dalla gola dell'atrox, ma
la donna lo incalzò nuovamente.
«Avresti
potuto limitarti a bloccarlo a terra e disarmarlo. Qual era la
necessità di versare tutto quel sangue?»,
chiese dunque, mordendosi le labbra a disagio. Una sottile lacrima
scorse lungo la sua guancia, dividendola a metà. «Sai
bene quanto detesti queste cose, Zay. Tu lo sai»,
lo accusò debolmente. «O
forse lo hai dimenticato, dopo tutto questo tempo»,
sussurrò mesta.
Zaynar
si sollevò sulle zampe e si appoggiò
delicatamente a lei, donandole
calore e conforto.
~
~ ~ ~ ~ ~ ~ ~
«Zay».
La
pantera sollevò lo sguardo perlaceo e attese. Isabeau si
perse un
momento nei propri pensieri, una mano ad accarezzare il folto pelo
nero e gli occhi incollati al corpo pallido del demone blu.
«Tu...»,
riprese, indecisa, «Tu hai
idea, per caso, se nel vostro mondo ci sia qualcuno che
può... non
so, fare qualcosa per lui? Io non so come aiutarlo, non sono brava in
queste cose, mi conosci. Forse... forse qualcuno, laggiù, lo
sta
aspettando. Magari lo stanno già cercando, invece».
Spostò lo sguardo negli occhi dell'atrox. «Puoi
trovarlo?»,
provò, titubante.
Zaynar
si attardò a fissare quell'inutile demone blu. Non capiva,
davvero,
per quale motivo lei dovesse prendersela in quel modo. Lui,
quell'idiota, aveva cercato di farle del male, dopotutto. Che diamine
di necessità c'era, quindi, di fare i buoni samaritani per
qualcuno
di simile?
«Zay,
ti prego»,
riprovò Isabeau.
«So
che non ti importa di
lui».
Gli
occhi della pantera tornarono sulla sua umana e attesero.
«Lo
so, ti conosco abbastanza bene, ormai. Però puoi... p-puoi
farlo per
me? Lo puoi fare, Zay?».
Il
demone sbuffò, sconfitto, appoggiò un soffice
orecchio sul suo
fianco e annuì, ben sapendo che, per quanto fosse una scelta
stupida, era anche l'unica possibile, a meno che non volesse far
soffrire la sua Isabeau. E lui non voleva.
Ma
lei lo stava abbracciando, in quel momento, e nient'altro aveva
importanza; né le scelte stupide, né i demoni
idioti e neppure le
donne scellerate. Solo le sue braccia sottili e profumate attorno al
collo erano importanti, e la sua morbida voce nelle orecchie, che lo
ringraziava per qualcosa che ancora non aveva fatto.
Ma
lo avrebbe fatto. Per lei. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per lei.
Qualsiasi cosa.
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Capitolo 8 *** Capitolo Sette ***
Capitolo
Sette
Con
un soffice fruscio, Zaynar scomparve nel nulla, diretto nel suo
mondo.
E
Isabeau fu nuovamente sola. Beh, più o meno.
Abbassò lo sguardo, lo
soffermò sull'unico altro essere vivente – “per
ora”,
la pungolò a tradimento la coscienza – presente e
mugolò
infelice.
Aveva
preso la decisione più giusta, lo sapeva bene, eppure si
sentiva
comunque nervosa e spaventata. Già se lo figurava: sarebbe
arrivato
da lei qualche assurdo demone, con pretese altrettanto assurde, molto
probabilmente incavolato nero per ciò che era accaduto e,
naturalmente, se la sarebbe presa con lei, matematico: non c'era
scampo. Per fortuna sarebbe stato presente anche Zaynar. Si augurava
solamente che non finisse in carneficina; in fondo aveva solo
ventiquattro anni, per la miseria!
Nell'attesa
che l'amico facesse ritorno con i rinforzi, si
sedette accanto
ad Arjentael e gli scostò i capelli finiti sugli occhi,
sospirando e
pregando che, per una volta soltanto, le cose andassero per il
meglio.
~
~ ~ ~ ~ ~ ~ ~
“Trovalo”,
diceva lei. “Tsk, come se fosse facile”,
pensò Zaynar,
percorrendo ad andatura sostenuta la fitta foresta imbiancata dalla
recente nevicata. Faceva freddo, ma il corpo agile e robusto
dell'atrox non lo percepiva e non se ne curava, mentre i muscoli
forti delle zampe si flettevano ritmicamente nella corsa alla ricerca
del demone che gli serviva.
Pochi
mesi prima si era imbattuto in lui e lo aveva furtivamente seguito,
nella speranza di ricavarne qualche informazione. Purtroppo anche
quello, come molti altri prima, era stato un buco nell'acqua; neppure
quel demone bianco era a conoscenza di qualcosa di utile.
Così, alla
fine, lo aveva lasciato perdere ed era tornato a battere altre piste,
sempre con l'intima e segreta speranza di trovare quella giusta.
In
quel momento, invece, desiderava con tutte le sue forze di ritrovare
quel maledetto demone bianco, ma il suo naso e i suoi sensi affinati
ancora non lo avevano intercettato, costringendolo a proseguire la
sua corsa a oltranza.
Fece
un improvviso balzo, inerpicandosi fra le fronde di un albero e
rintanandosi il più possibile fra le ombre, mentre due
demoni rossi
passavano proprio lì sotto, parlottando in modo
confusionario fra
loro senza minimamente avvedersi della presenza silenziosa sopra le
loro teste.
Zaynar
allungò appena il collo, mantenendo l'equilibrio con la
lunga coda,
e drizzò le orecchie all'indirizzo del loro continuo
cicaleccio
perché, se l'udito non l'aveva ingannato, aveva appena
sentito il
nome del demone che stava cercando sulla bocca di uno dei due rossi
lì sotto. Cauto e silenzioso, si spostò fra i
rami, tenendo occhi e
orecchie fissi sui due, seguendoli come un'ombra senza peso, nella
speranza che si decidessero a dire qualcosa di utile – tanto
per
cambiare –. E dopo lunghi minuti di chiacchiere insulse,
finalmente
eccolo di nuovo, quel nome tanto sospirato.
«E
hai sentito di Erwan?»,
chiedeva uno.
«No,
che cosa ha fatto?»,
si
informava l'altro.
«Per
ora ancora nulla di che. Ma pare vada in giro a fare domande strane»,
rispose il primo.
«Domande?
Pensavo che fosse troppo occupato a cercare informazioni sulla
scomparsa di Lothyan»,
dubitava il secondo.
«Beh,
pare che ora sia scomparso un altro demone e che Erwan lo stia
cercando»,
lo aggiornò,
solerte, il primo.
«Ah,
le cose si complicano, eh? E quando scomparirà anche Erwan,
chi si
prenderà la briga di cercarlo?».
Entrambi
i demoni rossi scoppiarono a ridere sguaiatamente, mentre Zaynar,
nella propria testa, rispose, “Io lo cercherei,
visto che ci
sono costretto”, e sbuffò seccato.
Bene,
quindi quel bellimbusto di un demone bianco si era accorto che il
compagno idiota era sparito dalla circolazione. Questo poteva andare
a vantaggio di Zaynar, in qualche modo. Avrebbe potuto provare a
sintonizzarsi su Erwan. Normalmente non ne avrebbe
ricavato
granché, dato che non era mai stato un asso in quei giochetti
psichici; ma in questo caso era differente: Zaynar sapeva
esattamente su cosa concentrarsi e, questa volta, molto
probabilmente, avrebbe funzionato. Doveva fare attenzione,
però:
Erwan non era un bambolotto sprovveduto come il suo
preziosissimo demone blu; poteva diventare molto
pericoloso in
qualunque momento.
Salì
ancora, sul ramo più alto e solido che riuscì a
scovare, e lì si
appollaiò, piantando gli artigli nel legno in modo da non
rischiare
di cadere nel momento meno opportuno, poi sollevò la testa e
chiuse
gli occhi, mentre le orecchie vibravano di anticipazione nell'aria
fredda. Inspirò a fondo e lentamente, liberò la
mente da ogni
pensiero superfluo e concentrò ogni sua percezione su un
unico
obbiettivo: Erwan e la sua ricerca del demone blu.
Per
i primi minuti non accadde assolutamente nulla; tutto ciò
che vide
fu il nero sbiadito dietro le palpebre serrate, tutto ciò
che sentì
fu l'aria fredda contro la pelliccia. Poi, senza alcun preavviso, un
lampo bianco quasi lo accecò dopo tutto quel buio e dovette
conficcare più a fondo gli artigli nel ramo che lo
sosteneva, per
rimanervi aggrappato. Tornò a concentrarsi e il lampo bianco
perse
lentamente il suo alone sfumato e abbagliante, concretizzandosi nei
capelli candidi di colui che stava braccando già da qualche
ora.
Esultò dentro di sé e mentalmente
seguì i suoi passi, impaziente
di riconoscere il luogo in cui si trovava in quel momento e poterlo
così raggiungere; tuttavia dovette attendere lunghi minuti
per avere
una risposta soddisfacente.
Seppe,
infine, quale direzione prendere, nel momento in cui riconobbe i
bastioni della dimora che, prima della scomparsa di Lothyan, aveva a
lungo considerato la loro casa. Allora spalancò gli occhi,
un sordo
ringhio a vibrargli in gola, balzò a terra e
spiccò una corsa
risoluta e potente, diretto verso il suo obbiettivo.
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Capitolo 9 *** Capitolo Otto ***
Capitolo
Otto
La
prima volta in cui lo aveva visto – erano ormai trascorsi
più di
due secoli, da quel giorno – lo aveva scambiato per una
ragazzina.
Allora Arjentael portava ancora i capelli blu lunghi e sciolti a
coprire le schiena flessuosa ed era assurdamente fissato con quegli
stupidi abiti di seta – ampi e morbidi sulle spalle esili
–.
Si
trovava a un altro di quei faticosi ricevimenti, utili quando si
è
costretti a intrattenere buoni rapporti in società, e quella
–
ricordò di aver pensato – non poteva essere altro
che l’ennesima,
fragile, figlia di qualche facoltoso presente. Tuttavia, quando
nessuno, nelle ore successive, si era preso l’onere e
l’onore di
presentarli, qualche dubbio gli era sorto. Così, in un
momento di
relativa tranquillità, aveva ben pensato di porre da
sé rimedio a
quella mancanza; ma quando l’aveva cercata, per presentarlesi
egli
stesso, si era reso conto che non riusciva più a
individuarla in
nessun luogo e si era chiesto se, per caso, non avesse invece deciso
di abbandonare prematuramente il ricevimento, magari con una
qualsiasi di quelle ridicole scuse da dama.
Aveva avuto tutto il tempo di indispettirsi, rammaricarsi e infine
tentare di affogare la delusione in qualche drink, prima di
intercettare con lo sguardo una nuvola di capelli blu ai margini del
parco, riconoscendola a prima vista come colei che aveva inutilmente
cercato poco prima. Solamente che, quando finalmente era stato in
grado di raggiungerla e avvicinarlesi, mentre lei si voltava nella
sua direzione richiamata da un discreto saluto di Erwan, questi aveva
scoperto – non senza un certo sgomento – che non si
trattava
affatto di una lei,
quanto piuttosto di un lui.
Un lui con gli occhi blu più blu che avesse mai visto nel
suo
abbondante mezzo secolo di vita. E quegli stessi occhi si
inchiodarono su di lui in uno sguardo da principio sorpreso per poi
divenire spaventato, nel momento in cui aveva riconosciuto Erwan per
ciò che effettivamente era: un demone bianco, uno di quei
pochi
esseri ancora in grado di controllare qualsiasi fenomeno naturale,
evento atmosferico o financo i varchi dimensionali. Il giovane demone
che aveva erroneamente confuso con una ragazza tentò
palesemente di
fuggire.
«Aspetta!»,
lo pregò Erwan.
Senza
però alcun risultato; quello si stava già
allontanando di gran
carriera – per lo meno, per quanto glielo consentissero tutte
quelle pieghe di seta che lo ricoprivano fino ai piedi –.
Erwan
scattò avanti e chiuse strettamente le dita attorno al suo
polso,
accorgendosi in ritardo di quanto fosse sottile nella propria mano e
del fatto che la sua presa si fosse rivelata eccessiva. Lo
lasciò
velocemente libero quando lo sentì sibilare di dolore.
«Scusami.
Io… non intendevo farti del male»,
mormorò Erwan pentito, mentre lo osservava massaggiarsi il
polso e
al contempo trafiggerlo con i suoi occhi blu.
«Ah
no?»,
chiese la voce leggermente arrochita del demone blu. «Se
qualcuno tenta di sottrarsi alla presenza di altra gente, non ti
viene per caso in mente che non abbia desiderio di… compagnia?»,
domandò con lieve astio.
«Mi
dispiace», soffiò Erwan, «Ho solo agito
di impulso. Normalmente
non amo imporre la mia presenza», assicurò,
scoprendosi a
desiderare davvero che lui gli credesse e, magari, che gli concedesse
la possibilità di riscattarsi.
«Io…
Il mio nome è Erwan», provò,
stiracchiando un sorriso amichevole –
o che almeno si augurò apparisse tale –.
«Lo
so»,
lo sorprese invece l’altro. Le sue labbra si piegarono, per
un
momento, in un sorriso amaro, prima di spiegare, «E
no, non ho frugato indebitamente nella tua mente, se è
quello che
pensi».
Erwan
trasalì e scosse vigorosamente la testa, negando di averlo
pensato.
«Quale
bisogno ne avrei? Dubito che qui intorno ci sia qualcuno che non sia
al corrente della tua identità»,
puntualizzò il demone blu.
Erwan
sospirò e si chiese se per caso avesse ancora qualche remota
possibilità di intrattenere una conversazione civile con il
ragazzo
che gli stava di fronte, oppure al contrario se se le era
già
giocate tutte con la sua pessima mossa iniziale.
«Io,
però, non conosco il tuo nome»,
tentò, come ultima carta, pregando che non la prendesse nel
modo
sbagliato.
«Arjentael»,
rispose inaspettatamente il demone blu, «È
questo il mio nome», e poi le sue gote si tinsero di un
delicato
lillà e abbassò lo sguardo sull’erba
fresca e profumata.
Probabilmente
fu quello, rifletté Erwan, il momento in cui il suo cuore si
innamorò per la prima volta di Arjentael. Era accaduto molte
altre
volte, in seguito, ma quella prima volta era rimasta impressa nella
sua mente, indelebile per i secoli a venire.
~
~ ~ ~ ~ ~ ~ ~
Un
sorriso triste pesò sulle labbra di Erwan, mentre il demone
bianco
si chiedeva, con crescente disperazione, che fine potesse aver fatto
il suo Ary e perché, per
tutti i fulmini e le tempeste,
fosse sparito dalla circolazione in quel modo, senza lasciare traccia
e senza dire nulla a nessuno, senza dire nulla a Erwan.
Scosse
la testa, preoccupato, incapace di non pensare al peggio; scenari
orribili scorsero nella sua mente al pensiero del compagno da solo e
– forse – in pericolo. Arjentael non era
né mai sarebbe stato un
demone votato alle battaglie e alla violenza, era troppo delicato e
gentile anche solo per pensare a cose simili.
Ed
Erwan si era preso un impegno con sé stesso: proteggere Ary
da
qualsiasi pericolo e da qualunque dolore. Ma, dannazione, come si
supponeva potesse portare avanti i suoi buoni propositi se Arjentael
scompariva nel nulla in quel modo? Non bastava l’angoscia di
aver
perduto un condottiero valido come Lothyan. A sommarsi, ora,
c’era
anche il dolore e lo sgomento al pensiero di aver perduto una parte
di sé, la parte migliore di sé, insieme al
proprio cuore.
«Ary,
maledizione, dove diavolo ti sei cacciato?!»,
imprecò, maledicendo al contempo sé stesso per
non poter essere al
suo fianco in quel momento.
|
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Capitolo 10 *** Capitolo Nove ***
Capitolo
Nove
Zaynar
si muoveva a passi felpati, badando bene a rimanere acquattato
nell’ombra e controvento, perché voleva
assolutamente evitare di
essere individuato – per lo meno prima del tempo –.
Quel posto lo
conosceva come le sue tasche – se solo le avesse avute
–,
d’altronde ci aveva vissuto per una vita intera, fino
all’anno
precedente, e stava sfruttando ogni singola conoscenza appresa nel
tempo per avere e conservare un vantaggio sul demone bianco. Doveva
agire d’anticipo e, possibilmente, prenderlo di sorpresa, se
davvero sperava di riuscire a trascinarselo dietro. Probabilmente
sarebbe stato tutto più semplice se avesse avuto la
possibilità di
parlare con lui e spiegargli la situazione, ma dato che la
capacità
di favella non era qualcosa che poteva coscientemente scegliere di
avere o non avere, beh: si sarebbe dovuto accontentare del suo piano
di attacco, volente o nolente.
Eccolo:
Erwan era in vista, proprio in quel momento. Zaynar si premette sulle
rocce che costeggiavano lo strapiombo attorno alla cinta muraria,
aguzzò i sensi e attese, con pazienza, che il demone bianco
fosse
più vicino, abbastanza da essere a portata di balzo. Doveva
assolutamente impedire che usasse i suoi poteri, o sarebbe stato un
gran bel guaio per l’atrox.
~
~ ~ ~ ~ ~ ~ ~
La
dimora di Lothyan era deserta proprio come si aspettava, proprio
com’era da più di un anno, ormai. Erwan scosse
mestamente la testa
e si chiese, per l’ennesima volta, dove potesse mai essere
finito
ma, soprattutto, perché.
Era
ancora immobile, in contemplazione delle mura abbandonate, quando
qualcosa si mosse ai margini del suo campo visivo; un’ombra,
forse.
Non ebbe tuttavia il tempo materiale per avanzare altre supposizioni
che si ritrovò a scivolare sull’erba ghiacciata,
atterrato dal
corpo agile e robusto di un enorme felino. Tentò di
ripararsi con un
braccio e, nel mentre, estrarre la spada dal fodero, ma dovette
rapidamente cambiare tattica, a meno che non volesse finire col fare
da pasto per quella creatura piena di zanne luccicanti e artigli
affilati. Si aggrappò al terreno duro e gelato con una mano
e fece
forza con l’altra per tenerlo a distanza; qualcosa,
però, non
tornava: se quell’animale avesse seriamente voluto sbranarlo,
a
quell’ora avrebbe già avuto tutto il tempo di
ridurlo a brandelli,
invece si limitava a tenerlo bloccato sul terreno gelato e a impedire
alle sue mani di muoversi agevolmente. Erwan corse il rischio e
sollevò gli occhi grigi, trovandone un paio quasi identico
ad
attenderlo. Infine li riconobbe e il suo sconcerto aumentò
esponenzialmente.
«Zaynar?
Sei proprio tu?»,
chiese, sentendo il proprio corpo tremare per lo sforzo degli ultimi
istanti e per il terreno freddo sul quale era schiacciato dal peso
del felino.
Vide
la grossa testa dell’altro demone abbassarsi nella sua
direzione e
le palpebre nero pece socchiudersi, quasi in tono di scherno per la
sua domanda sciocca e tendenziosa.
«Perché
sei qui? Dov’è Lothyan?», chiese ancora
Erwan. Infine, la domanda
più importante in quel momento, «Che cosa vuoi da
me?».
E
fu libero, improvvisamente, dal peso non indifferente
dell’atrox,
il quale gli permise di trarre un respiro decente, prima di
piantargli una zampa vellutata sul braccio ancora allungato sul
terreno. Le sue fauci si richiusero con un secco schiocco sulla
casacca di Erwan e l'atrox tirò, strattonando senza troppi
riguardi,
fino a costringerlo seduto, e poi tirò ancora, ordinandogli
con i
propri gesti di alzarsi in piedi, in fretta possibilmente.
«Zaynar,
aspetta. Io non posso aiutarti, adesso. Ci sono altri problemi che
devo risolvere, prima», protestò Erwan.
Quando
però cercò di liberarsi dalla morsa dell'atrox,
quello ringhiò
minacciosamente, dandogli chiaramente a intendere che, in un modo o
nell’altro, Erwan avrebbe dovuto fare ciò che
l’altro
desiderava.
«No,
ti prego»,
provò a farlo ragionare il demone bianco, «So
che ci sono questioni che vanno risolte, so che tu vuoi trovare
Lothyan, ma…»,
si passò nervosamente le dita fra i lunghi capelli bianchi,
non
sapendo bene come spiegarsi in modo da far capire all’atrox
la
propria urgenza. «Ascolta,
Zaynar»,
si risolse infine, pensando che dopotutto la verità sarebbe
stata
molto più efficace di qualunque insulso giro di parole, «Anche
il mio compagno, Arjentael, è scomparso. È
successo da poco e devo assolutamente occuparmene in fretta, prima
che di lui svanisca ogni traccia»,
“Prima che svanisca
ogni speranza”,
pensò, evitando però di esprimerlo a voce alta.
Uno
strattone, l’ennesimo, ma molto più violento dei
precedenti, lo
fece quasi crollare a terra sulle ginocchia. Sollevò gli
occhi ormai
disperati, incontrando nuovamente quelli perlacei e vividi dell'atrox
che lo fissavano insistentemente e con una certa eloquenza. E allora
capì.
«Tu
sai dov’è lui?»,
rantolò, quasi soffocandosi con le proprie stesse parole.
Zaynar
mollò la presa sulla sua casacca e, cauto, annuì,
alzando la
guardia e aspettandosi qualsiasi cosa.
Ciò
che invece non si era affatto aspettato era di vederlo scosso da un
brivido violento mentre un paio di lacrime rigavano il suo volto,
candido come porcellana. Le dita sottili del demone bianco si
aggrapparono strette al pelo nero del suo collo e il suo corpo si
strinse a quello di Zaynar.
«Portami
da lui»,
soffiò Erwan, tremando ancora, questa volta per la paura di
ciò che
avrebbe trovato una volta giunto a destinazione.
Zaynar
lo fissò intensamente poi, dopo aver annuito di nuovo,
afferrò una
manica fra i denti e si concentrò con tutto il suo essere su
Isabeau. I due demoni, stretti l’uno all’altro,
svanirono
silenziosamente dai dolci pendii ghiacciati dell’antica
dimora di
Lothyan e ricomparvero, infreddoliti e sconvolti, nello studio di
Isabeau, ora invaso dalla rosseggiante luce del tramonto che ormai
declinava fuori dall’ampia finestra.
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Capitolo 11 *** Capitolo Dieci ***
Capitolo
Dieci
Zaynar
si scostò di qualche passo ed Erwan si guardò
attorno, dapprima
spaesato, senza ben riuscire a comprendere in quale luogo fosse
capitato. Quando però i suoi occhi incerti si bloccarono
sulla
figura distesa a terra il respiro gli si strozzò in gola.
«Ary»,
rantolò senza fiato.
Rapidamente
si rimise in piedi e in poche falcate gli fu accanto, scostando di
malagrazia la donna accucciata al suo fianco – la quale non
franò
scompostamente a terra per un puro miracolo –,
inginocchiandosi a
sfiorarne un braccio e facendo scorrere lo sguardo sconvolto sul suo
corpo martoriato. Piano, allungò una mano a fiorargli
delicatamente
il viso: aveva la pelle più fredda del normale e, spostando
le dita
sul suo collo affusolato, notò con angoscia che il suo
battito e il
suo respiro erano entrambi preoccupantemente lievi.
«Ary…
Che cosa è successo?»,
sussurrò, pur comprendendo che non avrebbe ottenuto alcuna
risposta,
per lo meno fino a quando il compagno non si fosse ripreso a
sufficienza.
Invece
una risposta giunse, dalla più inattesa delle fonti.
«Mi
dispiace per ciò che è successo ad Arjentael.
Nessuno di noi lo
aveva previsto e credo, in fondo, che nessuno di noi lo volesse»,
cercò di spiegare Isabeau, in tono stranamente pacato.
Erwan
la fissò insistentemente per un lungo istante, quasi a
volerle
entrare dentro per conoscere ogni cosa. Per loro fortuna non era
qualcosa che Erwan potesse realmente fare, ma ciò non lo
distolse
dai suoi propositi.
«Chi
sei tu? Che cosa sai di lui e di ciò che è
successo?»,
indagò, con voce più dura del previsto.
«Io
sono Isabeau»,
rispose di buon grado lei, senza dare a vedere il proprio turbamento
per il modo brusco con il quale le si era rivolto. «Noi…
Io e lui eravamo qui, in questa stanza, quando…»,
Isabeau scosse la testa. “La
verità”, pensò,
“È
che non ho la più pallida idea di cosa realmente sia
accaduto. Ma a
lui come lo spiego?”.
Lo guardò negli occhi e sospirò, «Non
lo so, non so che cosa sia successo per portare a… questo»,
ammise, muovendo una mano a indicare il corpo privo di sensi di
Arjentael.
Erwan
assottigliò gli occhi e fece un passo avanti, ma dovette
arrestarsi
immediatamente al basso ringhio colmo di minaccia di Zaynar.
Deglutì,
confuso, mentre la rabbia e l’angoscia lottavano strenuamente
dentro di lui per prendere il sopravvento.
«Voglio
sapere cosa è successo»,
intimò, «Voglio
sapere perché questa mattina Arjentael era sorridente e in
perfetta
salute, mentre ora si trova ferito e nel mondo umano».
«So
perché si trova nel mondo umano»,
offrì Isabeau.
Erwan
la fissò attonito, evidentemente non aspettandosi quel tipo
di
risposta. Invece, a quanto pare, la vita riserva sempre delle
sorprese.
«Allora
parla»,
ordinò asciutto, rifiutandosi ostinatamente di
indietreggiare al
lampo di ira chiaramente visibile negli occhi dell’altrox
– senza
contare le zanne sguainate e perfettamente in vista, a monito di
probabili e dolorose ritorsioni –.
Isabeau,
tuttavia, corrugò la fronte in un cipiglio dubbioso, ma non
si
limitò a questo; dopo aver lanciato un’occhiata ad
Arjentael, si
avvicinò cauta al demone bianco, tallonata strettamente dal
suo Zay
nelle esclusive vesti di guardia del corpo pronta a tutto.
«Senti,
non so chi sei e non sono certa di cosa realmente tu voglia sapere.
Quello che invece so è che il tuo amico è stato
ferito e che ha
perduto molto sangue. Io non ho potuto essergli di molto aiuto
– e
questa è la sola ragione per la quale ti trovi qui, adesso
–, ma
sono certa che nel vostro mondo esistano creature che invece possano
fare qualcosa per lui. Quindi, se fossi in te, come prima cosa
prenderei Arjentael e lo condurrei da qualcuno di quei vostri demoni
guaritori – o come diavolo li chiamate – e lo farei
medicare,
così – magari – una volta ripresosi
potrà essere lui stesso a
raccontarti delle sue disavventure – e chissà,
forse vorrà
raccontare un paio di cose anche alla sottoscritta –»,
completò, risoluta e senza farsi il minimo scrupolo a
parlare
chiaro.
Erwan
digrignò i denti e accennò un sordo ringhio
frustrato, che venne
però prontamente coperto da quello molto più
deciso e arrabbiato di
Zaynar, il quale, con passi felpati e la coda minacciosamente
ondeggiante, si mise fra Isabeau ed Erwan, pronto a dare battaglia.
Erwan,
dal canto suo, sospirò e si passò una mano
tremante sul viso.
«D’accordo.
Seguirò il tuo consiglio, per il bene di Arjentael»,
ammise, «Ma
non ho intenzione di lasciar perdere questa storia. È
solamente rimandata a un momento più adatto. Mi devi ancora
delle
risposte, umana»,
sibilò combattivo.
Ma
al posto del timore che si era forse atteso, vide sul volto di
Isabeau un cipiglio deciso e perfino un sorriso soddisfatto.
«Bene.
Sai dove trovarmi, demone. Io ti aspetto»,
lo sfidò Isabeau, facendo alzare gli occhi al cielo a Zaynar.
Erwan
scosse la testa sconcertato e decise, per il momento, di tralasciare
quella storia senza senso e di occuparsi, invece, del suo Ary e delle
sue ferite. Tornò in fretta da lui, si accosciò
e, con tutta la
delicatezza di cui era capace, passò un braccio attorno alle
sue
spalle e l’altro sotto le sue ginocchia, sollevandolo
dolcemente e
con cautela. Piano, lo strinse a sé e, prima di sparire per
fare
ritorno nel suo mondo, si voltò ancora una volta verso
quella coppia
assurda e male assortita, lanciando una dura occhiata alla donna
–
un’occhiata che prometteva che si sarebbero rivisti, presto
– e
un fuggevole sguardo preoccupato all’atrox, che ancora lo
fissava,
deciso più che mai a vendere cara la pelle e –
eventualmente – a
trascinarlo con sé all’inferno. A quel pensiero
gli sfuggì un
sorriso: Ary era di nuovo fra le sue braccia; malconcio, certo, ma
vivo. Che cos’era mai l’inferno, quando potevi
avere la persona
amata al tuo fianco? Abbassò gli occhi grigi sul corpo privo
di
sensi del compagno, poi lentamente li chiuse e un attimo dopo di lui,
nello studio, non c’era più traccia.
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Capitolo 12 *** Capitolo Undici ***
Capitolo
Undici
«Beh,
è andata bene»,
commentò Isabeau, con fin troppa allegria per i gusti di
Zaynar, il
quale la osservò piuttosto perplesso e scosse la testa
desolato;
mai, nemmeno in un milione di anni, sarebbe davvero riuscito a capire
le donne –
umane o
demoniache che fossero –.
Isabeau
però ridacchiò della sua espressione angustiata e
rassegnata e,
forse per ricompensarlo, si sedette accanto a lui e prese a
coccolarlo dolcemente e con molta convinzione, guadagnandosi una
fitta pioggerella di fusa grate e deliziate.
~
~ ~ ~ ~ ~ ~ ~
Una
volta toccato terra, nel familiare giardino del proprio palazzo,
Erwan controllò che le condizioni di Arjentael non fossero
peggiorate, poi si concentrò attentamente sulla sua prossima
meta e,
di nuovo, scomparve, per ricomparire in un luogo completamente
diverso: un paesaggio di montagna, con dei piccoli laghi più
a valle
e una foresta di conifere sopra la propria testa. Poco più
avanti,
spostata leggermente dal sentiero principale, si poteva identificare
un’abitazione di roccia con uno spiovente tetto di ardesia
adatto
ai climi del posto. Quella era la dimora di colui che Erwan cercava.
La
donna umana aveva detto giusto: nel loro mondo, i demoni capaci di
curare malattie e ferite venivano chiamati guaritori. Quel guaritore
in particolare, che abitava in quel luogo isolato e spartano
praticamente a memoria di demone, si chiamava Breinem ed era molto
antico – almeno per la media dei potenti di
quell’epoca –:
aveva ormai più di duemilacinquecento anni anche se, come
succedeva
per la maggior parte degli esponenti della loro razza, ne dimostrava
sì e no quaranta. Era un demone tao, con poteri taumaturgici
che
sembravano destinati ad accrescersi con il passare dei secoli. Al
momento non si conoscevano guaritori più potenti di Breinem,
ma era
difficile da raggiungere per un qualsiasi demone comune – la
prima
volta che Erwan aveva dovuto cercare quel posto, ci aveva impiegato
giorni, letteralmente, per raggiungerlo, a piedi e senza uno straccio
di indicazione – e, una volta trovato, non era affatto
matematico
che decidesse di aiutare lo sventurato di turno. Dipendeva
da… Beh,
a essere onesti Erwan non aveva mai avuto la più pallida
idea di
cosa effettivamente spingesse Breinem ad accettare un caso oppure
rifiutarlo. Fortuna? Congiunzioni astrali favorevoli? Simpatia a
pelle? Qualunque fosse la motivazione del guaritore, di una cosa si
poteva essere certi: se accettava di offrire le proprie
capacità a
qualcuno, quello stesso qualcuno
era destinato a sopravvivere a qualunque sciagura e, probabilmente, a
godersi una vita lunga e serena – possibilità non
da poco,
considerate le spiacevoli tendenze che infestavano quel mondo negli
ultimi tempi –.
Erwan
si fece avanti, attraversando il dolce pendio erboso che conduceva
all’entrata della dimora del guaritore, e sentì
sulla propria
pelle le guardie
che lo sfioravano, probabilmente studiando lui e la sua presenza sul
posto. Si era sempre domandato cosa sarebbe capitato se qualche
idiota con intenzioni poco nobili avesse deciso di attraversare
quello stesso prato, all’apparenza privo di pericoli e
protezioni.
Con tutta probabilità le guardie si sarebbero attivate e lo
avrebbero fatto a pezzi seduta stante. Forse era perfino già
accaduto, senza che nessuno ne venisse a conoscenza.
Cauto,
e facendo del proprio meglio per trattenere saldamente a sé
Arjentael senza fargli del male, bussò discretamente
all’uscio e
attese, paziente e rispettoso, che l’unico abitante decidesse
di
aprirgli.
Alcuni
minuti più tardi, quando già Erwan disperava di
ottenere un qualche
genere di risposta, la porta fu socchiusa e davanti ai propri occhi
comparve la figura in ombra di Breinem.
Era
un demone davvero inusuale – perfino secondo i canoni del
loro
mondo –, una sorta di contraddizione vivente che faceva del
suo
genere un vero e proprio manifesto. Luce e ombra fusi in un unico
essere. I suoi capelli, sottili e lisci, lunghi oltre le ginocchia e
mollemente legati in una coda soffice, erano di un grigio luminoso
tendente al bianco, praticamente argentati; la sua pelle invece,
liscia e incredibilmente priva di imperfezioni – forse
mantenuta
tale dai suoi stessi poteri – era scura, quasi bronzea; il
suo
occhio destro era di un luminoso e caldo color oro, mentre il suo
occhio sinistro era di un cupo e quasi minaccioso viola; vestiva
sempre di una semplice tunica grigia, di lino, e al collo portava un
laccio di cuoio con appesa una pietra di luna a forma di goccia; le
sue mani erano curate, le dita lunghe e affusolate, ma i nervi
guizzavano a dar loro una decisa impressione di forza; vicino alla
punta dell’orecchio sinistro portava un piccolo e sottile
monile in
argento di forma astratta, mentre al lobo destro era fissata una
falce di luna nera, probabilmente melanite; inoltre possedeva quattro
piccole zanne, nulla di spaventoso, a semplice ricordo di una
probabile discendenza da un qualche tipo di demone animale. Nel
complesso dava l’idea di una creatura potente e saggia
– tutto
sommato un ottimo connubio, rifletté Erwan –.
«Ci
siamo già incontrati»,
esordì Breinem, squadrando con curiosità ma senza
sorpresa il suo
ospite.
Erwan
si mosse nervosamente sul posto e deglutì agitato. «Sì,
io… Mi scuso per avervi disturbato di nuovo. Non avevo
previsto di
dover tornare, ma…»,
fece guizzare velocemente lo sguardo sul compagno svenuto e fremette
di angoscia, «Arjentael»,
continuò, indicando con i gesti il proprio fardello, «Sembra
aver avuto un brutto incontro. Non so cosa sia accaduto, l’ho
trovato già svenuto»,
spiegò in fretta, mordendosi poi le labbra mentre un filo
appena di
speranza lo sosteneva.
Breinem
fece un passo avanti, oltre la soglia della propria casa, e
allungò
una mano verso il collo del demone blu, senza tuttavia sfiorarlo
neppure. Quando ritrasse la mano sollevò gli occhi spaiati
su Erwan,
poi si voltò e sussurrò «Entrate»,
permettendo al demone bianco di riprendere a respirare.
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Capitolo 13 *** Capitolo Dodici ***
Capitolo
Dodici
«Vieni.
Appoggialo lì sopra»,
lo istruì Breinem, indicando con un gesto della mano un
grosso
tavolo ricoperto da un telo bianco.
Erwan
vi si accostò velocemente e, con delicatezza, vi
adagiò il compagno
ancora privo di sensi, osservandolo con apprensione e notando che le
sue labbra sembravano molto più viola del solito, quasi blu.
Non si
azzardò comunque a fiatare; sapeva che non era né
il luogo né il
momento adatto per fare domande sciocche e inutili, così si
rassegnò
ad attendere e restare a guardare.
Mentre
Erwan si scostava un poco da Arjentael, per lasciare tutto lo spazio
di manovra indispensabile al guaritore, Breinem si avvicinò
al
demone blu e, per la prima volta, lo sfiorò, facendo
scorrere la
punta delle dita sulla pelle che ricopriva lo sterno e poi vicino
allo squarcio sulla spalla sinistra, osservando attentamente la
ferita e studiandola con quella che somigliava molto a
curiosità.
Abbassò un momento gli occhi sul fianco destro, come a
volersi
accertare di qualche genere di particolare, poi li sollevò
su Erwan.
«Qualcuno
ha ripulito le sue ferite», commentò senza alcun
tipo di
inflessione.
Erwan
sbatté le palpebre tre o quattro volte e socchiuse le labbra
nel
tentativo di dire qualcosa, ma il tentativo naufragò in
fretta.
Scosse invece la testa, confuso. «Io
non…», cominciò, ma si
interruppe subito, mentre un’idea si faceva strada nella sua
mente.
«La donna», soffiò incerto, aggrottando
le sopracciglia.
E
mentre Erwan si faceva prendere dai suoi mille dubbi, Breinem aveva
già distolto lo sguardo e l’interesse dal demone
bianco e aveva
invece rivolto entrambi su Arjentael, facendo come prima cosa svanire
ciò che rimaneva della sua casacca con un lieve gesto della
mano. Da
un vano sotto il tavolo estrasse un piccolo cuscino e lo pose con
cura sotto la testa blu scarmigliata, poi si concentrò sulla
sua
spalla sinistra.
«Artigli»,
mormorò pacato, sfiorando appena i bordi irregolari della
ferita,
«Probabilmente di un grosso felino», aggiunse fra
sé, osservando
meglio e provando a indovinare la dinamica dell’accaduto.
Nel
momento in cui sembrò soddisfatto delle proprie deduzioni,
si voltò
a raggiungere una fornita dispensa e ne recuperò un piccolo
barattolo, dal quale estrasse un pizzico di polvere rossa che si
premurò di spargere sullo squarcio che affondava nella carne
della
spalla del demone blu; nell’istante in cui la polvere si
posò
sulla ferita brillò di luce cremisi e scomparve, lasciando
unicamente la carne viva e sanguinante ma anche perfettamente
incontaminata. Breinem sorrise compiaciuto e, cauto,
avvicinò una
mano fino quasi a sfiorare la spalla del demone blu, ma senza
toccarlo; chiuse gli occhi e piccole rughe di concentrazione
solcarono la sua fronte, altrimenti liscia. L’aria
tremolò attorno
alla spalla di Arjentael e alla mano di Breinem. Pochi istanti dopo
Erwan trattenne bruscamente il respiro e sgranò gli occhi
mentre,
lentamente, prima i muscoli e poi la pelle di Arjentael si
rigeneravano, riportando l’articolazione al suo originale
aspetto
liscio e candido.
Quando
Breinem fu soddisfatto del proprio operato, passò a dare
attenzione
alla ferita ancora aperta sul fianco destro, procedendo nello stesso
modo usato precedentemente con la spalla e facendo scomparire presto
anche quella. Fatto ciò, inspirò a fondo ed
espirò lentamente,
sbattendo piano le palpebre per ritrovare lucidità. Si
recò
nuovamente alla dispensa e questa volta ne estrasse alcune erbe che
mescolò accuratamente in una piccola ciotola, alla quale poi
aggiunse l’acqua tenuta in caldo in un bollitore sul fuoco;
mescolò
ancora e, squadrando Erwan con un’occhiata calcolatrice, gli
porse
la ciotola, ora colma di un liquido azzurro.
«Prendi.
Il tuo compagno ha perduto molto sangue e necessita di riprendere
energie. Fagli bere questa», lo istruì pacato.
Erwan
annuì e si accostò al compagno, accarezzandogli
dolcemente la
fronte e i capelli che, decisamente, avevano visto giorni migliori.
Erwan ridacchiò, dentro di sé, pensando che Ary
sembrasse proprio
uno spaventapasseri in quel momento, con quel casino
blu in testa.
«Ary»,
soffiò gentile al suo orecchio, «Puoi
sentirmi?», provò.
Le
labbra del demone blu, ora un po’ meno scure e più
simili al loro
solito violetto pallido, si arricciarono appena. Erwan, con cautela,
gli passò una mano sotto la testa e, piano, gliela
sollevò. Allora
le sue palpebre tremolarono e Arjentael socchiuse finalmente gli
occhi, trovandosi oggetto dell’ennesimo sguardo apprensivo e
impensierito di Erwan. Provò a sorridere, senza tuttavia
grandi
risultati.
«Bevi,
coraggio», lo esortò Erwan, «Ti sentirai
meglio dopo», gli
assicurò.
Arjentael
buttò uno sguardo dubbioso sul liquido azzurro,
arricciò appena il
naso, ma poi sospirò e socchiuse le labbra, mentre il
compagno vi
accostava la ciotolina.
Erwan
sorrise grato mentre l’altro beveva ubbidiente. Quando non
rimasero
che frammenti di erbe sul fondo, riaccompagnò delicatamente
il capo
del suo compagno sul piccolo cuscino, accarezzò nuovamente i
suoi
capelli morbidi e incasinati e lasciò un soffice bacio sulla
sua
fronte.
«Riposa
ora. Presto sarai come nuovo», promise, mentre Arjentael
già
chiudeva gli occhi e si lasciava sprofondare in un buon sonno
ristoratore.
«Puoi
aspettare che si risvegli –
molto probabilmente non prima di domani mattina – prima di
andare
via»,
lo informò d’un tratto Breinem, facendolo quasi
trasalire. «Nella
stanza qui a fianco c’è un letto, se desideri
riposare un po’
anche tu. Altrimenti, se preferisci restare con lui, laggiù
c’è
un divano piuttosto comodo»,
sorrise.
«Grazie.
Io…»,
esordì Erwan, ma senza ben sapere come continuare. «Vi
devo molto. Come posso ripagarvi?»,
mormorò confuso.
Di
nuovo Breinem sorrise. «Oh,
lo farai. Ma non nel modo in cui credi tu»,
commentò sibillino e vagamente inquietante, confondendo
maggiormente
Erwan.
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Capitolo 14 *** Capitolo Tredici ***
Capitolo
Tredici
Erwan
si distese sul divano ma non dormì. Rifletté,
invece; sulle parole
di Breinem, sul momento in cui aveva ritrovato Arjentael, sul
comportamento incomprensibile di Zaynar, e su quella donna –
aveva
detto di chiamarsi Isabeau, se non ricordava male –. Che
cos’era
realmente successo? Ary era stato ferito, ma qualcuno aveva cercato
di curarlo. La donna, Isabeau, aveva detto che non aveva potuto
aiutarlo, ma Breinem era di tutt’altro parere. E Zaynar era
sembrato disposto a tutto per proteggere Isabeau; Erwan sospettava
che, se avesse cercato di farle del male, l’atrox lo avrebbe
attaccato senza indugio, incurante dei probabili rischi. Ma
perché
aveva attaccato Arjentael? – Oh, sì, Erwan era
piuttosto certo su
chi avesse prodotto quegli squarci sul corpo del suo compagno
–.
Possibile che Ary avesse minacciato quella donna? Il suo
Ary, quello timido e gentile che non avrebbe mai ferito nessuno di
proposito? Erwan scosse la testa, sempre più confuso, e si
strinse
frustrato i capelli fra le dita, rendendosi conto di quanto assurde
sembrassero le sue supposizioni ma non riuscendo comunque ad
accantonarle completamente. Avrebbe seguito il consiglio di Isabeau e
avrebbe atteso con pazienza che Arjentael si riprendesse a
sufficienza da potergli spiegare egli stesso i fatti, e poi…
beh,
poi avrebbe agito di conseguenza. Fremette, suo malgrado un
po’
spaventato all’idea di doversi confrontare apertamente con
Zaynar;
non era per nulla sicuro di poter avere la meglio in uno scontro
diretto, nonostante si reputasse un demone piuttosto potente, per
questo si augurava di non dover mai arrivare a tanto. Pensò
che il
giorno in cui fossero stati davvero costretti a giungere a quel
punto, sarebbe stato un giorno assai funesto, considerando che
appartenevano alla medesima fazione in quell’assurda lotta
per il
potere che si disputava ormai da anni nel loro mondo.
~
~ ~ ~ ~ ~ ~ ~
Si
accorse di essersi assopito solo quando si risvegliò di
soprassalto,
avvertendo il collo scricchiolare in maniera piuttosto preoccupante
dopo essere stato appoggiato molto tempo sul bracciolo del divano.
Volse lo sguardo e trovò Arjentael ancora profondamente
addormentato, esattamente dove lo aveva lasciato, ma lanciando
un’occhiata alla finestra scoprì che fuori
già albeggiava, così
si stiracchiò e, cauto, si rimise in piedi, borbottando fra
sé per
le giunture doloranti. Si avvicinò silenziosamente al tavolo
su cui
riposava tranquillo il compagno e si attardò a osservarlo,
mentre un
dolce sorriso spuntò sulle sue labbra, notando
l’aspetto
decisamente più sano che mostrava Arjentael quelle mattina.
Decise
di concedersi una passeggiata all’aria aperta, mentre
aspettava che
il compagno si risvegliasse. Fuori la bruma del primo mattino si
stava già diradando, mostrando a tratti un cielo sereno che
rispecchiava pienamente lo stato attuale della propria mente e del
proprio cuore, entrambi inusualmente più leggeri di quanto
non
fossero stati in quell’ultimo anno.
Mentre
camminava lungo il sentiero, con tutta calma e osservandosi intorno,
i primi tiepidi raggi di sole illuminarono il pendio, facendo
scintillare la neve del giorno prima; Erwan socchiuse gli occhi
chiari e incurvò le labbra in un piccolo sorriso,
avanzò ancora di
qualche passo poi abbassò completamente le palpebre e
inspirò a
fondo, gli alti stivali sprofondati nella neve fin oltre il polpaccio
e le dita delle mani a muoversi nell’aria tersa quasi
stessero
suonando una dolce melodia. Piccole onde di neve si sollevarono dal
terreno, avvolgendosi a spirale attorno alla bianca figura di Erwan e
poi salirono sofficemente verso il cielo, come una nevicata al
contrario.
«Atmocinesi»,
mormorò appena una voce alle sue spalle, ben conosciuta alle
orecchie del demone bianco.
Erwan
riaprì lentamente gli occhi e si voltò piano
verso la figura di
Breinem, ferma al limitare del sentiero oltre il quale si era invece
spinto l’altro.
«Sì»,
rispose soltanto, e sorrise dolcemente in direzione del guaritore.
«Il
tuo compagno si è risvegliato pochi minuti fa»,
lo informò Breinem, «E
ha chiesto di te»,
aggiunse, con un piccolo e malizioso incurvarsi di labbra.
Gli
occhi di Erwan si illuminarono di gioia e il suo sorriso si
allargò.
«Grazie»,
soffiò, prima di precipitarsi al fianco del suo Ary.
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Capitolo 15 *** Capitolo Quattordici ***
Capitolo
Quattordici
«Erwan».
Il
rientro del demone bianco fu accolto dalla soffice voce di Arjentael
e dal suo sorriso felice.
«Ehi»,
sospirò Erwan, andandogli incontro. «Ciao, come ti
senti?», chiese
subito, apprensivo come sempre, facendo ridacchiare il demone blu.
«Molto
meglio», lo tranquillizzò, poi si
allungò appena e posò su di lui
un piccolo bacio a fior di labbra, inspirando il suo piacevole odore
e accarezzandogli il collo. «Grazie»,
mormorò al suo orecchio,
appoggiando il capo sulla sua spalla.
«Di
nulla», offrì Erwan, stringendo piano il corpo del
compagno a sé,
così piacevolmente caldo rispetto al giorno precedente.
«Mi sei
mancato», bisbigliò con voce traballante.
Arjentael
ricambiò l’abbraccio, sospirando al contempo
appagato e colpevole.
«Lo so. Scusa se non ho pensato a informarti. Non immaginavo
affatto
che finisse così», ammise.
Erwan
si scostò appena da lui, il necessario per poterlo guardare
negli
occhi. «Allora a che cosa pensavi?».
Il
demone blu arrossì e nascose un momento il volto sul collo
del
compagno. Solo allora borbottò «Non pensavo per
nulla, temo»,
provocando un risolino isterico da parte dell’altro.
«Già,
tipico», sbuffò contrariato, senza tuttavia
staccarsi
dall’abbraccio.
«Sei
molto arrabbiato?», indagò cautamente Arjentael.
Trascorse
un lungo momento di silenzio –
silenzio che Arjentael sentì scorrersi addosso e pesargli
quasi a
soffocarlo – prima che un qualunque tipo di risposta venisse
pronunciata; poi il corpo di Erwan tremò sgomento.
«No,
Ary…», gracchiò con voce instabile,
«Non sono molto
arrabbiato». Inspirò, tentando di farsi forza e
trovare le parole
giuste, ma non fu per nulla facile. «Io… Ho
creduto di averti
perso. Per un momento –
un momento maledettamente lungo – ho pensato che non sarei
mai
riuscito ad andare avanti, senza di te, e ho avuto paura…Ho
avuto
paura di rimanere da solo, ho avuto paura del resto della mia vita e
del fatto che… non avrei saputo che cosa farne»,
ammise.
«Mi
dispiace»,
soffiò Arjentael, stringendo le dita sulla casacca che
ricopriva la
schiena del compagno.
«Ho
bisogno di sapere»,
ansimò Erwan, troppo sconvolto e agitato per avere la forza
di
ragionare lucidamente. «Ho
bisogno di capire»,
quasi implorò.
«Lo
so»,
annuì Arjentael.
Ma
era confuso e il compagno, pur non possedendo capacità
medianiche di
quel tipo, lo avvertì distintamente e ammorbidì
la stretta delle
sue braccia, accarezzandogli dolcemente i capelli e la schiena.
Di
nuovo il demone blu annuì, questa volta più con
l’intento di
rassicurare sé stesso che per altro.
«Usciamo»,
propose d’un tratto, confondendo il compagno.
«Ary,
fuori fa molto freddo»,
provò a farlo ragionare Erwan, «E
tu ti sei appena ripreso. Non credo che sia una buona idea»,
argomentò.
«Mi
coprirò bene»,
promise Arjentael, «Se
vuoi, mi metterò anche la sciarpa»,
assicurò, con la speranza di convincere il compagno delle
sue buone
intenzioni.
Erwan,
benché stranito, lo scrutò attentamente negli
occhi blu –
rischiando di perdercisi e di non fare mai più ritorno
– e vi
lesse tutto il suo bisogno. Anche se non riuscì a
comprenderne il
motivo, comunque decise di accontentarlo.
«Va
bene»,
decretò, «Ma
andrò a prenderti un mantello caldo»,
impose stoico, nonostante l’occhiata esasperata di Ary, «E
anche dei guanti»,
rincarò.
Si
impuntò così tanto, senza voler sentire ragioni,
che alla fine
Arjentael, più per disperazione che altro, soffiò
un «D’accordo»
rassegnato e si preparò ad attendere pazientemente il suo
ritorno,
accoccolato comodamente sul divano.
~
~ ~ ~ ~ ~ ~ ~
Arjentael,
ben coperto da un caldo mantello di pesante lana blu notte abbellita
da sottili ricami argentati – e dai guanti, e perfino da una
sciarpa –, procedeva sul sentiero a passi lenti e pensosi.
Rifletteva su quanto accaduto il giorno precedente, ma non era ancora
riuscito a trovare una vera risposta, seppur avesse numerose ipotesi
in proposito.
«Hai
incontrato la donna umana?»,
esordì d’un tratto, prendendo il compagno al suo
fianco alla
sprovvista.
«Sì,
ho incontrato lei – Isabeau – e anche Zaynar»,
assicurò Erwan.
Il
demone blu sgranò gli occhi, sorpreso. «Dunque,
era lui davvero», pensò,
esprimendo tale pensiero a voce alta.
«Sì,
era lui». Erwan si fermò un momento, costringendo
il compagno a
fare altrettanto. «Ary, perché Zaynar ti ha
attaccato», pretese a
quel punto di sapere, anche se in qualche modo la risposta lo
intimoriva.
«Io…»,
gracchiò Arjentael, con poche idee per la mente, una
peggiore
dell’altra. Si passò una mano fra i capelli
scompigliati,
incasinandoli ancora di più. «È
difficile da spiegare», ammise,
«È difficile perfino da pensare, a dire il
vero».
Ripresero
a camminare e Arjentael provò a raccontare al compagno i
fatti del
giorno precedente, confidandogli la propria confusione durante
l’incontro con Isabeau, i pensieri contrastanti e i dubbi che
lo
avevano afferrato durante quel pomeriggio. Poi gli raccontò
di ciò
che aveva provato nel momento in cui aveva scoperto che Zaynar era il
misterioso visitatore della donna e che lei conosceva non solamente
l’atrox, ma perfino Lothyan e parte del suo passato.
«Com’è
possibile?!», sbottò a quel punto Erwan.
Arjentael
sorrise teneramente all’irruenza del compagno.
«È esattamente
quello che mi sono domandato anche io. Ho perfino ipotizzato che lei
fosse a conoscenza di dove possa trovarsi ora Lothyan. Ma onestamente
non sembrava molto più informata di noi»,
sospirò. Si sentiva un
po’ stanco, ma volle comunque portare a termine quella
chiarificazione, in qualche modo. «Io… Temo di
aver perduto la
testa, a un certo punto: troppe informazioni inaspettate, tutte
assieme, e boh… Mi sa che il mio cervello è
andato un momento in
tilt», scherzò, anche se quello che aveva appena
ammesso non aveva
certo portato a nulla di buono.
«Già,
beh, è stata una mossa piuttosto pericolosa, ma in fondo ti
capisco.
Dubito che avrei reagito in un modo migliore al tuo posto»,
dovette
concedergli Erwan.
«È
un periodo un po’ stressante», convenne Arjentael,
mordendosi le
labbra nervosamente, mentre un nuovo pensiero, non propriamente
sereno, si faceva strada nella sua mente. «Credi che dovremmo
tornare da loro, vero?».
Erwan
comprese al volo il significato di quelle parole e, cauto,
annuì.
«Temo di sì».
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