T. V. di nainai (/viewuser.php?uid=11830)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo.The ghost of you ***
Capitolo 2: *** 1.Thank you for the venom ***
Capitolo 3: *** 2.Thank you for the venom ***
Capitolo 4: *** 3.Thank you for the venom ***
Capitolo 5: *** 4.Thank you for the venom ***
Capitolo 6: *** 5.Thank you for the venom ***
Capitolo 7: *** 6.Thank you for the venom ***
Capitolo 8: *** Cemetery Drive ***
Capitolo 1 *** Prologo.The ghost of you ***
Attenzione: il presente scritto
ha come protagonisti persone realmente esistenti e personaggi di
fantasia. Si tratta di opera di pura immaginazione, senza alcuna
pretesa di veridicità o verisimiglianza. Nessuno scopo di
lucro. Nessun diritto legalmente tutelato s'intende leso.
The Ghost of you
xx Novembre xx08
Sembra che verrà a piovere.
Se questo vento gelido dovesse
decidersi a scemare, verrà a piovere di sicuro.
Le stesse nuvole scure che si
ammassano appena al di sopra della striscia rossa
dell’orizzonte ricadranno a
terra in gocce grasse, di quelle che battono sempre il suolo freddo dei
cimiteri d’inizio inverno.
Ma il vento non scema. Tira su
foglie bruciate dall’autunno, le ultime foglie sopravvissute
alla stagione. Le
solleva e le fa correre lungo i viottoli disassati di questo stesso
cimitero, a
pochi centimetri da terra.
Allo stesso modo solleva la tua
gonna.
Mi stai seduta davanti. Sul bordo
liscio di una lapide bianca. Hai un vestito chiaro…forse
appena più ingiallito
di quella stessa lapide. Quando il vento solleva l’orlo della
tua gonna, da
sotto sbucano le caviglie appaiate, i piedi scalzi; stanno proprio
sopra al
nome, inciso a fondo nella pietra, ed alla data. Sei nata nel
’79 e morta
quest’anno.
Sei morta e mi sorridi. Hai gli
stessi capelli biondi con quei ricci da diva che non si usano
più da mezzo
secolo; lo stesso naso piccolo, all’insù su una
bocca morbida e piena ma
piccina come fosse disegnata, che a quella diva ti ci fanno
assomigliare
davvero, così come la fronte alta, le guance pronunciate ed
il viso rotondo.
Hai anche gli stessi occhi, chiari e brillanti, vivi esattamente come
li
ricordavo. Mi sorridono anche loro e come sempre sono incapaci di
mentire.
Non dici niente. Del resto, non
lo faccio nemmeno io. Sono arrivato con il sole, ho messo le mani nelle
tasche
del giaccone e sono rimasto qui a guardarti senza dire niente. Intanto
il sole
è sceso dietro le tue spalle, l’orizzonte
è diventato rosso, la terra ed il
cielo, sopra e sotto quella linea, sono nere.
E tu bianca.
Sai a cosa sto pensando, Helena?
Sto pensando che non è quello il
vestito con cui sei stata sepolta.
G.
Nota di fine capitolo
della Nai:
Ho scritto questa storia per lo Spring Party del "fu" Fidelity, sito
del quale rimpiango la prematura scomparsa. Avventura breve e,
purtroppo, non intensa come avrei voluto.
La storia ha - immeritatamente - vinto il contest. Io ringrazio tutte
le ragazze che hanno partecipato con storie decisamente più
degne di questa. E ringrazio Stregatta, perchè tra tutte ha
scelto questa come vincitrice.
"Thank you for the venom" parla esattamente di quello di cui parla la
canzone. Per una volta nella vita, il plot non è affatto
opera mia - ed infatti questa storia a differenza delle solite ha una
trama XD - ma del più degno autore della canzone. Ringrazio,
quindi, Gerard Way per l'impegno messo nel scrivermi il mio "fumetto di
Frank Miller". Spero di aver fatto una cosa che sia anche solo
vagamente accostabile al suo bellissimo testo ed alle meravigliose
opere di uno dei miei fumettisti preferiti.
Ci rivediamo in fondo ^_^
MEM
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** 1.Thank you for the venom ***
THANK
YOU FOR THE VENOM
Era nato il 9 Aprile del ’77.
Segno zodiacale ariete, ascendente cancro.
Già dalle sue stelle si sarebbe
potuta leggere la sua vita futura: di come i sogni ad occhi aperti lo
avrebbero
segnato irrimediabilmente. D’altronde neppure ci aveva
provato davvero a
rimanere sveglio in mezzo a quel frastuono borioso che era il suo mondo.
Il mondo di G. aveva solo due
tinte: il nero della china violenta con cui Dio aveva tagliato i
contorni della
realtà di quella Città, per poi dimenticarsene
subito dopo; ed il rosso della
trivialità bestiale che insozzava ogni cosa sopra quella
violenza, il rosso che
macchiava ugualmente la sensualità a basso costo di un
bordello, la miseria
senza nome di un barbone in strada o la tavola senza amore di una casa
celebrata nel sacro vincolo del matrimonio.
In quel rosso che sporcava di sé
anche le parole false degli amanti di turno, G. sognava di un sonno a
mille
colori dal quale nemmeno provava a staccare gli occhi, spalancati su
una realtà
che non vedevano ed in cui non riuscivano a confondersi.
Perché gli occhi di G. erano
verdi. E se non fossero bastati i suoi occhi, sarebbero state le sue
mani che,
tenendo ferma la punta del carboncino su un foglio, avrebbero finito
per
disegnare i suoi colori. I colori erano la condanna di G. segnata nelle
stelle,
in quell’ascendente troppo debole e sognatore che lo faceva
deragliare dalle
linee dritte e nette e nere di Dio e che trasmutava il rosso in viola,
il viola
in blu. Il blu in verde. Il verde in giallo, il giallo in arancio,
l’arancio in
rosa…
Il rosa mai in oro. Mai niente in
oro. Un’alchimia inutile, di una magia che in
Città valeva poco. Anzi nulla.
Era nato il 9 Aprile del’77. Suo
padre lavorava in fabbrica, sua madre neppure quello; aveva anche un
fratello.
A dover scegliere, nella vita di G. ci sarebbe stato un impiego alla
buona in
qualche ufficio, grazie a quel poco che i suoi gli avevano fatto
studiare; o al
più un lavoro giù al porto, di quelli pesanti ma
che rendono bene, grazie alle
braccia ed alle spalle di cui Madre Natura lo aveva fornito. Ma di
alchimie
senza mercato, la vita di G. non aveva bisogno. Né i suoi
colori cambiavano
davvero il segno nero sulla tela di Dio.
Quando suo padre se n’era andato,
quando sua madre si era consumata nel silenzio del cancro per morire
nel rosso
dell’indifferenza, quando suo fratello aveva visto la Città
e la
Città lo aveva fagocitato
reclamando un tributo in sangue, ossa e nervi, tutti i colori di G. non
erano
bastati a cambiare la sola alchimia che valesse qualcosa. Quella che
dal nero e
dal rosso tirava fuori l’oro.
E l’oro in Città nasceva dalle
pistole – il nero ce lo metteva la
polvere da sparo, il rosso i fori tondi lasciati dai proiettili
– dai
doppiopetti e dai gessati su scarpe lucide in vernice. Era
l’oro degli
assassini, delle puttane, dei ladri e degli usurai. L’oro che
li teneva tutti a
paga sullo stesso libro.
All’inizio il nome di G. su quel
libro non c’era.
All’inizio la magia senza valore
dei suoi sogni era servita quantomeno a preservarne il nome.
All’inizio.
Helena era nata il 27 Gennaio
del’79.
Nelle sue stelle c’era scritto
che lei era diversa. Lo era il suo colore: il bianco della pelle, il
biondo dei
capelli, l’azzurro degli occhi, il rosa della bocca. Tutto il
colore della
Città, Dio lo aveva rubato al quadro di nero e rosso per
darlo a lei, che non
era tagliata sulla tela ma dipinta: tonda e morbida, curva come i seni
alti, i
fianchi larghi, il ventre piatto. Curva della curva magra delle braccia
flessuose, della vita piccola, delle dita nervose, delle gambe lunghe.
Helena era diversa. Come può
esserlo un oggetto alieno precipitato nel mondo da uno spazio
incalcolabile.
Helena era precipitata nel mondo che era la Città
disegnata da Dio e si era conficcata come
un asteroide impazzito: nessuno sapeva chi fosse, nessuno sapeva da
dove
venisse. Nessuno capiva i suoi occhi chiari e tondi, enormi, che di lei
non
nascondevano nulla, perché Helena si rifletteva tutta intera
in quei due occhi.
Ma proprio per questo la Città
non li capiva.
Helena era nata il 27 Gennaio
del’79. A paga sul libro nero della Città ci era
finita subito, appena i suoi
occhi di ragazzina si erano sollevati in faccia al mondo ed il mondo si
era
accorto di lei.
Perché era bella come lo sono
sempre le cose sbagliate in una realtà che va nella
direzione opposta. Ed era
diversa di una diversità troppo evidente per poter essere
risparmiata.
Così non lo era stata. E dai
bordelli a basso costo del centro era salita lungo la scala del libro
nero, su
su fino alla cima fatta di diamanti e pellicce e circondata dal gessato
in
scarpe di vernice delle pistole.
Helena apparteneva all’oro della
Città quando G. la vide la prima volta.
Philip
***
La Città. Quando
ci entri ne resti
impressionato: sbalordito, affascinato o schiacciato, mai indifferente.
Eppure la
Città non è niente; per me
che arrivavo dalle periferie fumose addossate alla zona industriale si
era
trattato di sostituire i cieli grigi e malati della mia infanzia con le
sagome
nette e spigolose dei palazzi del Centro, sollevati contro quegli
stessi cieli
per chiudere ogni spazio e respiro. Ero arrivato carico di aspettative,
questo
sì. E quelle aspettative portavano con sé un
po’ troppo del male sordo che mi
aveva lasciato la morte di nostra madre.
A quell’epoca mio fratello non
faceva già più parte della mia realtà
quotidiana. Quando nostro padre se n’era
andato di casa, non era passato molto tempo prima che G., in qualche
modo, lo
seguisse. Credo che avesse bisogno di allontanarsi per rimanere vivo,
restare
se stesso. Ha sempre continuato ad aiutare me e nostra madre per come
poteva, a
volte facendo anche più di ciò che sarebbe stato
giusto aspettarsi.
Io lo sapevo. Mi ero abituato
alla sua assenza tanto quanto lo ero alla sua presenza a distanza. Mi
ero
abituato ad avere le spalle coperte comunque, giustificato dalla mia
età e
dalla solitudine per qualunque cosa facessi. Il mio egoismo cresceva di
pari
passo con la paura e fu con entrambi quei sentimenti addosso che bussai
alla
porta di mio fratello un mese dopo la morte di nostra madre.
E fu sempre allo stesso modo che
uscii da quell’appartamento sei settimane più
tardi.
La notte in cui tutto è
cominciato pioveva.
Mio fratello dice che in Città la
pioggia è fatta da gocce di china, nere e sottili come fili
di rasoi. Dice che
si piantano al suolo, sui mattoni, sull’asfalto o sulle
persone con la stessa
rabbia violenta, e che rimangono conficcate lì.
Io quella notte me le sentivo
tutte addosso. Conficcate ovunque tra i muscoli doloranti. Mio fratello
rispose
al quinto squillo; erano quasi le quattro del mattino, non mi
stupì sentire la
sua voce impastata dal sonno.
-…pronto?- mormorò distratto.
Fu quando aprii la bocca per
rispondergli che cominciai a piangere.
-Mikey?! – realizzò lui. Ed il
suo tono tornò chiaro e deciso, mentre in sottofondo
distinguevo i rumori che
faceva nel tirarsi dritto nel letto.- Michael, dove sei?- mi chiese con
urgenza, ma non mi diede il tempo di rispondere- Stai bene?-
insistette.- Cosa
succede? Mikey, parla!
Trattenni il fiato finché le
lacrime ed i singhiozzi non rimasero incastrati in gola. Per tutto quel
tempo
anche mio fratello trattenne il fiato allo stesso modo.
-Posso…posso venire lì da te?- lo
implorai.
È stato così che ho fatto
iniziare tutto.
Mikey
***
Mio fratello ha tre anni meno di
me. Da quando entrambi siamo al mondo, ho sempre pensato che Michael mi
fosse
stato affidato, che fosse mio dovere proteggerlo in tutte quelle
situazioni in
cui non potevano essere i nostri genitori a farlo.
Non ce n’erano state molte fino a
quando nostra madre non aveva cominciato a stare male, giusto qualche
scazzottata giù a scuola: Mikey era troppo magro, troppo
mingherlino e
silenzioso per non richiamare l’attenzione dei bulli del
quartiere. Per la
verità la mia adolescenza era stata segnata dalle botte
tanto quanto quella di
mio fratello, almeno finché non ero diventato troppo grosso
per rappresentare
un divertimento a basso rischio. Ma Mikey grosso non ci è
mai diventato, è
sempre stato sottile e nervoso come nostro padre, dal sangue di nostra
madre
non ha preso quasi nulla se non forse la tendenza malsana
all’abbandono.
La verità, però, è che sono
sempre stato un vigliacco, perfino più di Mikey, e quando
mio padre se n’è
andato ho fatto la scelta più facile imboccando la stessa
porta. Sapevo di non
poter chiedere a mio fratello di prendere il posto di nostro padre, che
spettava a me di diritto, e non l’ho fatto. Mikey, del resto,
non ha avuto così
tanto coraggio in più e non se l’è
preso, preferendo restare ancora un bambino
all’ombra di nostra madre. Un equilibrio che ha vacillato
nell’attimo stesso in
cui la diagnosi è piovuta sulla testa di mio fratello come
una condanna. La
condanna che gli imponeva di prendere atto della vita vera.
Per quanto io possa essere stato
presente nell’esistenza di mio fratello dalla distanza di
comodo che avevo
adottato all’indomani della mia fuga, di fatto ho mancato a
quegli stessi
doveri di cui mi ero fatto carico nel vederlo nascere. Non
l’ho protetto. Non
l’ho protetto affatto. E qualsiasi colpa, di cui mi sono
macchiato dopo, è stata
solo la conseguenza di quel primo peccato. Qualsiasi dolore, la mia
espiazione.
Quella notte pioveva. Aprii la
porta anche se non ero neppure certo di aver davvero sentito bussare;
sui vetri
dell’appartamento la pioggia batteva talmente furiosa da
coprire qualsiasi
altro suono e non c’erano
altri suoni
se non il rumore del mio respiro: Mikey era stato attento a non
disturbare la
pioggia. Sapevo che, in realtà, stava solo cercando di
rimandare il momento in
cui ci saremmo ritrovati faccia a faccia di nuovo. Per più
di quattro mesi mio
fratello era sparito senza lasciare traccia. All’inizio, dopo
aver lasciato
casa mia, per un po’ si era limitato a gironzolare come un
cane randagio: non
lo vedevo per due…tre giorni, a volte anche una settimana.
Poi tornava, sporco,
sfatto e depresso. Non mi ci voleva molto a leggere la sua inquietudine
nervosa, quella con cui misurava il mio pavimento mentre io gli davo le
spalle
e, seduto al tavolo da disegno, lavoravo in un silenzio che entrambi
sapevamo
carico di domande e di risposte non formulate. Immagino sia stato il
peso di
tutte quelle parole a far nascere in Mikey il desiderio di non
guardarsi più
indietro. Non so, invece, dove abbia trovato la forza di realizzarlo,
ma so che
erano quattro mesi che non lo vedevo quando aprii la porta quella notte.
Mikey non piangeva più. Stava
perfettamente immobile, esattamente al centro del rettangolo
dell’ingresso.
Aveva lo sguardo basso nascosto dietro un groviglio impiastrato di
capelli
bagnati, le mani affondate nelle tasche di una giacca troppo grande, le
spalle
cadenti e le labbra arricciate sui denti. Mi accorsi che li digrignava,
come se
si stesse sforzando per rimanere zitto e fermo. Era talmente bagnato
che
l’acqua, cadendo dai vestiti, aveva formato una pozza scura
ai suoi piedi. Mi
domandai da quanto stesse lì fuori.
-Mikey…- lo chiamai in tono basso
e stupito.
Avevo paura. Non di lui, è
chiaro: avevo paura dei suoi occhi lucidi di febbre, che intravedevo
sotto il
biondo sporco dei capelli, e del suono raschiante, anche se bassissimo,
dei
suoi denti che sfregavano con violenza.
Non mi rispose. Credo non ne
fosse in grado, era raggelato in una realtà diversa dalla
mia e non sembrava
capace di fare quell’unico passo che ci separava.
Allungai io la mano per lui,
sporsi il braccio fuori la porta e, quando lo toccai, mi sentii meglio
nel
rendermi conto che era vero. Presi
forza da quella sensazione, strinsi di più le dita e lo
tirai dentro.
-Vieni al caldo.- aggiunsi in
modo più fermo.
Incespicò ma attraversò la
soglia, rigido come una bambola, ed io gli richiusi alle spalle il
battente.
-Per prima cosa
troviamo qualcosa di asciutto.- annunciai mentre lo lasciavo
lì da solo a
riprendere confidenza con il buio che occupava l’appartamento.
Nel rendermi
conto che gli abiti di Mikey rimasti in casa erano totalmente inutili
contro il
freddo di quella notte, mi ritrovai ad avvertire un fastidioso senso di
oppressione all’altezza della bocca dello stomaco; e
più mi ci concentravo per
decifrarlo, più quello si trasformava in una nausea latente
e sorda. Tentai di
scacciarla sfogandomi sull’anta dell’armadio, si
chiuse con uno schianto
sofferente quando le tirai una manata sbrigativa e volutamente
violenta. Presi
una delle magliette di mio fratello, una mia felpa ed un paio di
pantaloni della
tuta e ritornai veloce sui miei passi. Mikey si era accoccolato sul
divano.
Stava seduto ad una delle due estremità, schiacciato contro
il bracciolo
consunto, le braccia strette attorno al corpo ed ancora tutti gli abiti
fradici
addosso. perfino il giaccone.
-Mikey,
cambiati.- lo pregai allungandogli i vestiti asciutti.
Lo lasciai fare
e raggiunsi il cucinino per mettere su del caffè. Quando gli
portai la tazza
fumante, mi guardò con riconoscenza.
-Cos’è
successo?- mi decisi a chiedergli dopo essermi sistemato a terra,
davanti a
lui, ed aver aspettato che mandasse giù uno o due sorsi e
smettesse di tremare.
Fece un ghigno
sghembo che mi impressionò molto poco: qualunque potesse
essere il problema lui
era lì, davanti a me, e questo mi dava la
possibilità di vedere che era vivo e
stava bene.
-Perché pensi
che sia successo qualcosa?- mi ritorse a voce bassissima.
-Non saresti
tornato.- ammisi senza accusa.
Mikey
ricominciò a tremare immediatamente, non appena io ebbi
finito di formulare
quella frase; sembrava sul punto di scoppiare nuovamente a piangere ed
io mi
preparai a quell’eventualità. Non successe, lui
posò la tazza a terra tra noi
due, con tutta l’accortezza che gli permettevano le sue mani
impacciate, poi
affondò il viso tra le dita, piegato in avanti sulle
ginocchia, ed io potevo
scorgere solo i suoi capelli arruffati e sporchi. Aspettai, e quando
fui sicuro
che non avrebbe parlato di sua volontà, allungai una mano e
la intrecciai
delicatamente alle ciocche disordinate.
-Mikey.- lo
chiamai dolcemente, avvertendo che si rilassava sotto quella carezza.-
Devi
dirmi cosa è successo.- chiesi. Rabbrividì e
soffocò un singhiozzo.- Non posso
aiutarti se non mi parli.- insistetti piano, continuando ad
accarezzargli la
nuca e le spalle nella speranza che si calmasse. – Qualunque
cosa sia,- gli
promisi- non ti lascerò solo ad affrontarla.
Avrei voluto
aggiungere che ci avrei pensato io per lui, che avrei affrontato
qualunque cosa
potesse averlo ridotto in quello stato. Nel mio essere ingenuamente
ottimista
non avevo certo previsto che i fantasmi di mio fratello potessero
essere reali.
Mikey rialzò il
viso, mi guardò con quegli occhi accesi e spaventati ed io
mi obbligai a
ricambiare il suo sguardo in silenzio, mentre lui stabiliva se fossi
davvero la
persona in grado di aiutarlo. Poi mi disse tutto.
G.
***
Mio fratello
non lo sapeva, lui non aveva idea di quanto in fretta si può
crescere quando
all’improvviso ti ritrovi per strada e non
c’è nessuno accanto a te per dirti
di stare attento. Per certi versi lui è riuscito a scendere
su quella strada
senza esserne toccato affatto: a distanza di anni nel guardarlo negli
occhi
ritrovavo lo stesso ragazzo che aveva chiuso la porta di casa davanti a
me e
mia madre. Io, invece, non ero lo stesso che quattro mesi prima aveva
chiuso la
porta di casa sua.
Ed ancor meno
ero lo stesso che lui aveva lasciato indietro anni prima.
Non ero lo
stesso da così tanto tempo da avere di me solo un ricordo
sbiadito. Non sapevo
cosa cercavano gli occhi di mio fratello nel guardarmi, sapevo solo
quello che
avrebbero trovato. Presi coraggio dalla consapevolezza di quella
verità: per
quanto lui si fosse ostinato a voler vedere in me il ragazzino
allampanato e
timido che aveva abbandonato a casa, quel ragazzino non c’era
più.
Ed era anche un
po’ sua, la responsabilità.
-Droga.- dissi
come se stessi confessando il mio peccato davanti a Dio.
In realtà era
proprio così che mi sentivo – giudicato
– e questo faceva di me un peccatore, ma anche un ribelle.
Quella parola la
stavo sputando sull’altare di mio fratello, del giudizio dei
suoi occhi davanti
a me. Lui la incassò come un boccone amaro e, siccome non
disse nulla, io mi
sentii in dovere di infierire.
-È il motivo
per cui vogliono ammazzarmi. Perché vogliono ammazzarmi, sai.
Il suo silenzio
non era così difficile da sopportare come avevo creduto. Lui
sembrava solo
incapace di capire, mi guardava ancora e la sua mano, che prima mi
aveva
sfiorato i capelli rassicurante, restava immobile sulla mia spalla.
Fredda.
Ferma. Distante. La distanza era la percezione più esatta
che avevo di mio
fratello, eppure il prenderne coscienza mi ridava lucidità e
forza per
spiegarmi.
-Per un po’ ho
lavorato per loro: se la vendevo in giro, potevo tenermene una parte
per me.
Poi, però, si sono accorti che avevo iniziato a rubarne un
po’ di più. Loro
hanno detto “un po’ troppa in
più”. Io non ci facevo caso, in fondo non
è che
ti rendi conto benissimo di quanta roba mandi giù quando
stai lì e ne senti il
bisogno. Fatto sta che a loro non andava tanto bene così.
Una volta me le hanno
suonate e mi hanno avvisato di stare attento, mi hanno detto che se gli
ridavo
i soldi di quella che avevo rubato andava bene ed era tutto a posto. Io
ho
promesso che glieli avrei ridati, ma ovviamente non l’ho
fatto. In compenso ne
ho rubata altra.
Ed ora vogliono ammazzarmi.
Non avevo
bisogno di ripeterlo, negli occhi di mio fratello era scolpito come in
una
roccia.
Gerard si è
sempre preso cura di me.
Io sono stato
ingiusto nel fargli quello che ho fatto.
Gerard non si è
mai lavato le mani con me.
Ne aveva il
diritto. Non era mio padre. Non era mia madre.
È solo mio
fratello.
Ed io quella
notte l’ho distrutto per sempre. Mi sono detto che andava
bene, che era colpa
sua l’inferno violento in cui ero caduto: lui mi aveva
lasciato, lui aveva lasciato
che io me ne andassi, lui non mi aveva cercato dopo. Quando era troppo
tardi. È
stato troppo tardi dal giorno stesso in cui, scendendo da casa sua, ho
alzato
gli occhi in faccia alla Città e lei aveva lo sguardo rapido
e cattivo di uno
spacciatore sedicenne, il sorriso malato di un’età
bruciata in fretta. Io ho
guardato tutto questo e non ne ho avuto paura. Io che avevo paura di
tutto, io
che avevo cercato per tutta la vita di cancellare quella paura. Della
Città non
ne avevo.
Ma Gerard di
tutto questo non ha mai avuto colpa.
Mikey
***
Non conoscevo
Mikey se non di vista quando quella mattina lui e suo fratello
bussarono alla
porta della canonica. Gerard lo conoscevo bene, invece. Sia
perché non si
tirava mai indietro quando c’era da dare una mano, sia
perché amava stare in
Chiesa quando poteva. Non so se ha mai creduto in Dio o se
semplicemente
preferisse la compagnia silenziosa degli angeli di pietra della
cappella, gli
stessi angeli che poi ritraeva nei suoi schizzi. A me non interessava
fargli domande
sulla sua Fede, apprezzavo la sua compagnia per quello che era e non
avevo
bisogno di alcun giuramento per confidare nella sincerità
del suo sguardo.
Quella mattina, però, quando aprii loro la porta non mi
sfuggirono né la
presenza goffa ed intimidita alle spalle di Gerard – quel
ragazzino alto che
pareva cresciuto troppo in fretta e troppo male –
né il terrore irrazionale
nello sguardo del mio amico. Mi spostai per farli entrare ed ottenni in
cambio
un “grazie” soffocato e partecipe da parte del
più grande dei due ragazzi.
Mikey rimase zitto.
Il suo silenzio
pesò sulla canonica per tutto il tempo che Gerard ci mise a
dirmi quello che
voleva da me. Mikey fingeva di non essere l’oggetto di quel
dialogo, voltava la
testa in giro come un ospite in visita ed io lo studiavo. Alla fine
Gerard
tacque. Mi voltai ad incrociare i suoi occhi mentre mi pregavano
silenziosamente.
-…vuoi che lo
tenga qui nel frattempo.- riassunsi lento.
Annuì. Mikey
aveva deciso di averne abbastanza di noi, si alzò dalla
sedia che gli avevo
offerto al suo arrivo ed io lo guardai uscire nel cortile interno
dietro la
canonica. Da qualche parte c’era il sole, più alto
nel cielo, uno o due raggi
strappavano riflessi di un biondo lavato dalla testa arruffata del
più piccolo
dei due fratelli. Mi sembrò un ragazzino smarrito e provai
un moto di
tenerezza.
-Riuscirai a
proteggerlo, Phil?- mi sentii chiedere dalla voce angosciata di Gerard.
Dal Diavolo,
pensai. Di sicuro.
Dagli uomini,
per il rispetto che portano a questo posto ed al mio abito, se ne
portano.
Ma dai suoi
demoni deve proteggersi da solo.
Non glielo
dissi, a Gerard. Forse fu perché intuivo il vero significato
di quel suo
“metterò tutto a posto io”, sapevamo
entrambi che non aveva mezzi per mettere a
posto nulla, si stava solo offrendo in pasto al mostro, per non avere
sulla
coscienza la vita di suo fratello senza aver prima lasciato divorare la
propria. Era un suicidio. Nel rispondergli che avrei protetto Mikey, lo
benedissi.
Dal giorno in
cui Gerard lasciò la canonica, abbracciando suo fratello
davanti la porta e
tenendolo stretto come se non dovesse rivederlo mai più, a
quello in cui per
l’ultima volta vi ha messo piede, il mio unico pensiero
è stato per Mikey.
Anche quando Gerard venne da me a chiedermi aiuto ed io capii quanto
fosse vero
quello che mi diceva piangendo – di aver perso se stesso, per
sempre e senza
speranza – io guardai Mikey, tornai con la mente al suo viso
smarrito mentre il
sole lo sbeffeggiava con quel biondo lavato.
Sapevamo
entrambi, io e Gerard, che Mikey era l’unica cosa che potesse
essere salvata in
quella storia; ed avevamo un accordo, che non era scritto e non era
perfetto ma
era un accordo per noi vincolante.
Una vita per
una vita, ci eravamo detti. Gerard aveva pagato quel prezzo, io tenevo
i conti.
Helena…lei non
era prevista.
Philip
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** 2.Thank you for the venom ***
Parlano tutti di me.
Parlano tutti di me.
…parlano tutti, ed io rimbombo. Come
fossi
la cassa di risonanza delle loro parole, come uno strumento di pelle e
corda.
Parlano di me perché non possono stringermi. E non possono
avermi. E piangono
sulla mia tomba ed io rimbombo, perché sono vuota e sono
l’eco delle lacrime di
Gerard, della sua rabbia e del suo rancore.
Vorrei farlo smettere di piangere, allungare
la mano e toccargli il viso, asciugare con le mie dita e la mia pelle
le guance
rigate.
Ma tutto attorno a me è rumore. Ed io
sono
sospesa e cado, il vento mi trascina e soffia il mio spirito.
Ho freddo, e mi fa paura restare sospesa in
mezzo al vento. Vorrei toccare le guance di Gerard, ed asciugare le
lacrime che
segnano il suo petto. Il cuore del mio amore è rosso, il
sangue è esploso come
un fiore e macchia il suo petto.
Ed io cado.
Cado e rimbombo.
Tutti parlano di me ma le sue sono le sole
parole che conosco.
Ero nata il 27 Gennaio del ’79. Della mia
infanzia non ricordavo quasi nulla: c’erano un uomo ed una
donna, una stanza
scura…o forse più di una, una macchia di sangue
sulla mia faccia e poi dottori.
Ricordavo un pezzo di cielo sopra un giardino, di aver chiuso gli occhi
perché
avevo sonno e di averli riaperti in un bordello, giù al
Centro, tra i night ed
i ristoranti alla moda.
Sapevo di avere un segreto, perché a
volte
mi succedeva – solo per sbaglio – che mentre ero in
un posto all’improvviso non
c’ero più ed il mio corpo restava lì,
solo ed inerme, mentre io ero altrove e
potevo sentire cose diverse, e vederle, ed ero me stessa ma distinguevo
la vita
degli altri, lontano da me eppure come se io fossi
lì…
Non ho mai potuto controllare questa cosa.
Andava e veniva come voleva, io sapevo solo di averla – da
sempre, credevo, non
riuscivo a ricordare un tempo in cui ne ero priva – e che non
mi dava niente.
Né gioia, né dispiacere, né alcuna
utilità. A volte me ne dimenticavo, perché
per moltissimo tempo non accadeva nulla, ma poi mentre mi trovavo con
un
cliente succedeva, ed io non ero più lì
– in una stanza di hotel, nel bagno di
una discoteca – ma stavo guardando il mare da una torre
altissima e giù le
persone erano piccole come spilli o formiche.
Se fosse accaduto anche quel giorno non
sarei morta.
Lo pensavo anche mentre mi muovevo, vedevo
il proiettile e più su la canna della pistola, il braccio
che la tendeva,
l’occhio che prendeva la mira. E dentro di me pensavo che se
fossi volata via,
un’altra volta, quella volta,
sarebbe
andato tutto bene, non sarebbe successo nulla. Ma non è
accaduto e non è che io
non lo sapessi che non sarebbe accaduto, lo avevo messo da conto, ma di
alternative proprio non me n’erano venute in mente.
Ad andare a ritroso in quella che è
stata la
mia vita, avevo altri due ricordi.
Il risvolto rigato dell’abito di Ricky,
il
giorno in cui per la prima volta entrò nel locale dove
lavoravo e chiese me. Il risvolto
del vestito di Ricky era
lucido, grigio e non nero, come se una parte del colore fosse stata
lavata via,
e stonava moltissimo con le scarpe in vernice. Lui si accorse che io
stavo
guardando il suo abito e pensò che fossi stupita che potesse
permettersi
qualcosa di così costoso. Mi sorrise, e Ricky aveva un bel
sorriso, di quelli
grandi e bianchi in cui ti ci puoi perdere, ed aveva dei denti dritti e
lunghi
come quelli di un cane. Mi disse che era un abito italiano,
“roba di lusso”
disse. E mi promise di comprarmi una pelliccia. Quando mantenne la
promessa, io
seppi che ci saremmo rivisti sempre più spesso e che non
avrei avuto altri
clienti a parte lui.
L’altro ricordo era come lo specchio di
Ricky: non potevo fare a meno di confrontarli. Ricordavo la piega del
cappuccio
della felpa di Gerard. La prima volta che ci eravamo visti lui ne
indossava una
che era rimasta per sempre la mia preferita; in realtà non
aveva nulla di
speciale, era scolorita ed il disegno bianco sulla parte frontale era
tanto
rovinato da non riuscire neppure a capire cosa fosse. Avrei voluto
chiederglielo quando lo vidi, ma ci eravamo incrociati su una scala ed
io ero
con altra gente – altre “ragazze”di Ricky
– e, quando lo guardai, vidi che
aveva gli occhi verdi ed erano enormi e spalancati su di me e questo
divenne
molto più importante. Io sorrisi e lui rimase fermo.
-Se non ti sposti, non possiamo passare.-
dissi.
Le ragazze ridevano. Lui arrossì.
-Gerard Way.- si presentò impacciato.
Risi anche io.
-Helena.- gli risposi. Lui si schiacciò
al
muro per farci passare.
-Helena come?- mi domandò mentre
scendevamo.
Lo guardai e strinsi le spalle.
-Helena e basta.
Uscendo chiusi i lembi della pelliccia intorno
al collo. “Helena” era sempre stato sufficiente per
tutti. Alle nostre spalle,
Oscar disse a Gerard che Ricky lo aspettava.
***
Forse
è stato
peccare di arroganza e vanagloria. Forse è stata
ingenuità di ragazzino. Ho
creduto davvero, per un periodo di tempo, che bastasse conoscere se
stessi, i
propri limiti ed i propri sogni, per non deviare mai dalla
“retta via”. Del
resto, i miei sogni ed i miei limiti li avevo forgiati nel modo giusto
per
mantenere quei propositi, non volevo nulla che non fosse alla mia
portata, mi
accontentavo di respirare l’aria rarefatta del mio mondo di
disegni per
sopportare senza sforzo la più concreta pochezza della
realtà. Mi ero detto che
andava bene, mi ero convinto di essere felice e di non avere bisogno di
altro…la verità era che sopravvivevo. Staccato
dal mondo, relegato ai suoi
margini, ero l’esiliato volontario dalla vita, rifiutavo di
aprire gli occhi
per scoprire di cosa fosse fatto il mondo e quello – come
scoprii comunque – mi
risparmiava in attesa di inghiottirmi tutto intero. Mio fratello era
tornato
per questo: mentre Mikey parlava e mi raccontava di sé, io
misuravo la distanza
enorme che ci separava e la distinguevo, come una lunga scia rossa
contornata
dai palazzi neri della Città, dalle loro sagome piantate tra
suolo e cielo come
sbarre.
Non
sono mai
stato ingenuo fino al punto di non sapere in che mondo vivessimo, Mikey
non mi
stava dicendo nulla che per me potesse essere
“nuovo” nel senso pieno del
termine. Solo che avevo pensato che una cosa bastasse ignorarla
perché non
succedesse. Invece era successa e Mikey era tornato per dirmi che no,
non ero
intoccabile.
Helena
ne fu,
poi, la conferma. Nel vederla sui gradini più alti della
scala, circondata da
altre ragazze di cui distinsi appena solo il vociare confuso sullo
sfondo,
avvolta nel rosso acceso della pelliccia di volpe e risplendente di
quei
boccoli corti e fuori moda e dei due occhi di topazio azzurro, io ebbi
la
conferma che al mondo bastava allungare le dita e stringere per avermi.
E poi
distruggermi. Sapevo di lei abbastanza senza bisogno neppure di
chiedere: i
gioielli – orecchini e bracciali di pietre preziose
– gli abiti, i tacchi alti
di scarpe costose, dicevano chiaramente che lei non era per me; era
troppo
bella, troppo sorridente, troppo vera
per me. Ed io la volevo: il mondo aveva trovato qualcosa con cui
allettarmi e
farmi capire che non mi sarebbe più bastata la carta ed il
colore.
Fu
la voce del
bestione alla porta a riportarmi indietro. Helena era una macchia fatta
di
tinte pastello che camminava incontro ad una limousine nera, dietro di
me una
voce pesante e cattiva mi disse che il
capo mi stava aspettando. La limousine divorò
tutto il gruppo, sparì nello
svolazzare confuso della pelliccia rossa, io mi voltai e salii gli
ultimi
gradini sotto lo sguardo impietoso di quel nuovo carceriere. Mi
guidò
attraverso le stanze della villa. Non ne ricordo nulla, nonostante
quella non
sia stata l’unica volta che vi entrai. Ricordo
però che c’era il sole, la villa
era costruita in alto, su una collina sopra la Città,
e questo le permetteva di prendere luce
come non era possibile per le strade ingombre di palazzi più
in basso. Il senso
di inquietudine, che non mi aveva abbandonato dal racconto di mio
fratello, si
fece più forte man mano che le porte si aprivano per
condurmi dentro casa e si
chiudevano alle mie spalle per impedirmi di uscirne. Davanti
all’ultimo
battente, mentre l’uomo che mi stava di fronte lo apriva, mi
accorsi che la
presenza di Helena aleggiava ancora intorno a me, mi sembrò
quasi di poterla
vedere – voltarsi e sorridermi e sussurrarmi il suo nome
– poi sparì ed io
attraversai da solo la soglia.
La
persona che
mi aspettava non era sola, invece, e non era neppure molto
più vecchia di me.
Mi alzò in faccia uno sguardo divertito, scrutandomi a lungo
nel silenzio rotto
solo dal sogghignare ironico degli altri presenti nella stanza. Lui
sorrideva.
Come si sorride ad una bestia mandata al macello.
-Gerard!-
esclamò con una confidenzialità sarcastica che mi
fece stringere i pugni.
Li
affondai nelle
tasche della felpa perché non se ne accorgesse e non lo
interpretasse come un
gesto di ribellione.
-Sig.
Rivera.-
borbottai chinando la testa in un cenno di rispettoso saluto.
Lo
apprezzò. Le
labbra sottili si tesero con maggiore sincerità sui denti
chiari – così bianchi
nel viso dalla pelle olivastra – girò attorno alla
scrivania e mi venne
incontro. Mentre il suo braccio mi stringeva alle spalle fui investito
dall’odore gradevole del dopobarba di marca, aveva una presa
salda e sentii il
profilo della pistola, nella fondina sotto l’ascella,
affondarmi dolorosamente
nel fianco, ma mi guardai dal protestare.
-Chiamami
pure
Ricky.- mi concesse senza nessuna magnanimità. Lui era
“Ricky” per tutti e
tutti ugualmente morivano ammazzati come mosche sotto il tacco della
sua
scarpa. Mi spinse avanti, verso la portafinestra in fondo alla stanza,
che dava
direttamente sul giardino.- Allora, - esordì amichevole
– i miei ragazzi mi
hanno accennato che c’è qualche problema con il
tuo fratellino…- mi incitò.
Dovetti
farmi
violenza per non gridare. Strinsi di più pugni e sentii le
unghie scavare la
carne dei palmi. Lui si sedette sulla terrazza che apriva il giardino,
ad un
tavolo di bambù dipinto di bianco; io rimasi in piedi di
fronte al tavolo.
-Sono
cose che
possono succedere, Gerard,- riprese mentre mi scrutava continuando a
sorridere,
famelico.- Mikey è un bravo ragazzo, io lo so, ma
è pur sempre un ragazzino. I
ragazzini possono sbagliare.- mi disse.
“L’errore
di
mio fratello si chiama droga. Sei tu ad avergliela venduta,
no?”
-Ho
saputo che
lo hai affidato a padre Philip.- affermò pacato. Ad un cenno
della mano, il
bestione si materializzò al suo fianco, gli porse una busta
bianca. Io pensai
solo che mi stava avvisando che poteva raggiungere Mikey quando
voleva.- È stata
una buona scelta, padre Philip è un uomo saggio ed avveduto,
conosce il mondo e
sa come gestire un ragazzino come lui.
Abbassai
il
capo in un assenso perché lui si aspettava che lo facessi.
-Bene.-
commentò soddisfatto. Il bestione era sparito di nuovo, lui
mi porse la busta
attraverso il tavolo ed io avanzai di un passo per prenderla.- Vedo che
noi due
ci intendiamo, Gerard.- insistette affabile – Questo
è positivo, sono convinto
che sarà possibile sistemare tutto.
Ubbidii
di
nuovo al suo comando implicito ed aprii la busta: dentro, su un
foglietto,
c’era segnata una cifra. Contai i numeri e sorrisi biecamente.
-Mi
rendo conto
che è una somma considerevole, – stava dicendo lui
intanto – ma immagino che la
vita di Mikey valga tutti quei soldi ed anche di più.
Sapevamo
entrambi che questo non avrebbe cambiato il fatto che io non avessi il
denaro.
Buttai la busta sul tavolo e lo guardai.
-Voglio
venirvi
incontro!- affermò Rivera congiungendo le mani di fronte al
viso ed
accavallando le gambe in un gesto morbido, da felino.- Tu mi stai
simpatico,
Gerard, e, come detto, credo che tutti possano fare dei piccoli errori,
proprio
come Mikey.
Non
avrebbe
regalato nulla. Né a me né a mio fratello. Non mi
illusi del contrario e tornai
ad infilare i pugni in tasca. Rivera continuava a guardarmi con
l’aria sicura
del cacciatore.
-Avevo
un
fratello più giovane anche io, sai Gerard?- mi
raccontò.- Una gran testa di
cazzo! Nostro padre, morendo, mi raccomandò di badare a lui
ed onestamente
penso di aver fatto tutto il possibile. Alla fine me lo hanno ammazzato
comunque.- fece una pausa, scrutandomi da sopra le dita incrociate, per
lasciare che il concetto ed i suoi sottintesi mi arrivassero bene.-
Nonostante
sapessi di aver cercato in ogni modo di impedirlo, mi sono sentito
responsabile
della sua morte per un sacco di tempo.
Respirai
a
fondo. Abbassai gli occhi a fissare il suolo davanti la punta delle
scarpe, in
testa avevo una tale confusione di paura e pensieri che, appena mi ci
concentrai, dovetti fare uno sforzo serio per riuscire a restare
lucido.
-Sig.
Rivera…Ricky, - mi corressi da solo, parlando lentamente per
avere il tempo di
scegliere con cura cosa dire- io sono sinceramente grato della
benevolenza che
ci dimostri…ma quei soldi non saprei proprio dove andarli a
prendere.- ammisi.
-Sì,
lo
immaginavo.- ribatté lui senza scomporsi.
Ad
un nuovo
cenno della mano, il bestione tornò. Sentii lo scatto del
cane della pistola,
la sicura che veniva abbassata, ed aspettai il colpo. In quel momento
pensai
che morire non faceva così paura.
Il
bestione
posò la pistola sul tavolo davanti a Rivera e
tornò a sparire.
-Gerard,-mi
chiamò lui per essere sicuro di avere la mia attenzione.
Scostai gli occhi
dalla canna lucida dell’arma e glieli alzai in faccia.- i
bravi ragazzi come te
sanno che la famiglia è l’unica cosa che valga la
pena di preservare.- Avrei
potuto essere d’accordo non mi fossero venute in mente mille
altre cose che
credevo fosse giusto tentare almeno di proteggere.- E proprio
perché confido
che tu sia un bravo ragazzo voglio offrirti la possibilità
di tirare Mikey
fuori da questa storia. Sono certo che farai in modo che non ci caschi
più.
-Cosa
dovrei
fare?- sussurrai.
E
nonostante
tutto, mi accorsi di essermi aggrappato ad una speranza illusoria.
A
quel punto
finse di pensarci.
Come
se quella
storia non fosse già decisa, come se non avesse saputo chi
fossi e cosa volessi
ancor prima che mettessi piede sulla sua soglia. Prese tempo, mi
osservò
portando la mia esasperazione fino al limite e giocando con me.
-Io
risolvo un
problema a te,- mi disse – e tu ne risolvi uno a me.
Non
capii.
Rivera
si piegò
in avanti, spinse la pistola attraverso il tavolo, nella mia direzione,
e si
riappoggiò lentamente allo schienale della poltroncina.
-Sarebbe
una
sciocchezza, Gerard. Un colpo rapido, un “bum” di
cui non vedresti neppure gli
effetti. Un tizio che cade a terra e tu e tuo fratello siete liberi.-
elencò. E
poi sorrise.- Nessuno che tu conosci, nessuno di cui debba interessarti
nulla:
la vita di un estraneo in cambio di quella di Mikey.
Ci
misi del
tempo a capire comunque. Avrei voluto tornare ad abbassare lo sguardo
sull’arma
cercando lì la risposta, ma ero risucchiato dagli occhi di
Rivera, inchiodato
dalla sua indifferenza serena.
-…non
ho mai
ammazzato nessuno.- sentii rispondere alla mia voce. Mi chiesi di cosa
stessi
parlando, e mi rifiutai di rispondermi.
Rivera
si
strinse nelle spalle, come non fosse importante.
-C’è
sempre una
prima volta.- mi rispose. Il bestione era di nuovo con noi, me ne
accorsi
perché si mise dietro il proprio capo. Ghignò
quando alzai gli occhi su di
lui.- Oscar ti insegnerà.- mi rassicurò Rivera.-
Credimi,- aggiunse poi
scherzando.- mi ringrazierai dopo!
Si
aspettavano
che dicessi qualcosa. Lo realizzai come uno schiaffo. Provai ad
articolare un suono,
ma era dannatamente difficile, soprattutto perché non sapevo
quale volessi
articolare.
-Non…non
è una
questione di non saper sparare…- mormorai a fatica.
Rivera
si
spazientì.
-Infatti,
Gerard.- disse brusco, mettendo da parte ogni tentativo di mostrarsi
gentile o
simpatico.- È una questione molto più semplice:
tuo fratello mi deve del denaro
che non ha lui e non hai tu, io ti sto offrendo il modo per ripagare il
suo
debito.
-Ammazzando
una
persona!- sputai fuori mentre sentivo il senso di nausea salire ad
oscurarmi la
vista.
Rivera
diventò
una macchia
indistinta di rabbia, denti
affilati e bianchi come zanne. Feci lo sforzo di non portarmi la mano
alla
bocca, ma sentii chiaramente le gambe molli e la testa che mi pulsava
così
forte da stordirmi. Non sapevo nemmeno io come riuscissi a stare in
piedi, così
che fui grato quando qualcuno mi afferrò per le braccia, mi
fece male ma almeno
potei lasciarmi andare.
-Se
non te la
senti,- scandì Rivera secco ed inespressivo.-
vorrà dire che sarà tuo fratello
il bersaglio di questa pistola. Oscar, portalo fuori da qui.-
ordinò senza
darmi il tempo nemmeno di capire di cosa stesse parlando. Le sue parole
furono
l’ultima cosa che mi accompagnò - Hai due giorni
di tempo, Gerard.- mi disse.-
Dopo, o il debito di Mikey sarà stato pagato o padre Philip
avrà un paio di
funzioni funebri in più da celebrare.
G.
***
Gerard ha gli occhi verdi. Dentro ci sono
incastonate delle stelle, così piccole da sembrare pagliuzze
d’oro su uno
sfondo scuro di velluto. Io li avevo visti una volta sola, i suoi
occhi,
nell’incrociarli ancora quella sera pensai che nemmeno
l’alcool riusciva a
renderli meno splendenti.
Attraverso il rumore del locale, la
confusione dei corpi premuti tra loro, la volgarità delle
risa sconce degli
uomini e delle scollature ammiccanti delle donne, io e Gerard ci
riconoscemmo.
Ed io gli sorrisi.
-Ciao.- lo salutai arrampicandomi sullo
sgabello che gli stava di fianco.
Mi guardò come si guarda
un’apparizione, il
suo sguardo era acceso di paura. Finsi di non vederla.
-Non sembri il tipo di persona che frequenta
casa di Ricky.- commentai.
Lui fece un sorriso storto e tornò al
bicchiere di whiskey.
-Credevo di non esserlo.
-Allora non capisco cosa ci facessi lì.-
dissi io. Ma quando lui sospirò senza alzare gli occhi,
tornai a sorridere.
Feci un cenno a Dan oltre il bancone perché mi servisse.-
Parlami di te.-
chiesi intanto a Gerard.
Lui mi fissò senza capire.
Dan posò il cocktail sul ripiano lucido.
-Sono curiosa. E tu hai bisogno di parlare.-
gli spiegai.
-Come fai a dirlo?- sfiatò lui.
Risi appena. Avrei voluto rispondergli che
ero brava a capire le persone, invece gli dissi la verità.
-È il mio lavoro: sapere cosa gli uomini
vogliono.
Lui si lasciò sfuggire un altro sorriso
sghembo, appena più sincero del primo. Annuì e
sollevò il bicchiere.
-E tu cosa ci facevi da Rivera?- mi ritorse
prima di bere.
-Sono la sua donna.- ammisi senza problemi e
poi mi corressi.- Quella non ufficiale, s’intende. Hai visto
la moglie di
Ricky?- Lui scosse la testa.- È una donna talmente bella che
mi chiedo perché
lui venga a letto con me.
-Mi riesce difficile credere che possa
essere più bella di te.- mormorò lui di getto.
Io lo guardai. Un sorriso triste ad
incresparmi le labbra. Lui si rese conto di quello che aveva detto:
distolse
gli occhi, arrossendo.
-Scusami.- mi pregò.- È
decisamente una cosa
stupida.
-E fuori luogo.- fu la mia volta di
pregarlo.
Mi guardò ferito, ma annuì.
-E fuori luogo.- ripeté.
Sembrò sul punto di aggiungere qualcosa,
ma
non lo fece. Finì, invece, il whiskey, allungando poi una
mano perché Dan
gliene versasse un altro. Non avevo idea di quanti
“giri” si fosse già
concesso, mandò giù anche quello e quando si
voltò sembrava stupidamente
sereno.
“Anche se regge bene”, pensai,
“è ubriaco”
-Helena è un bel nome!-
esclamò
innocentemente. Sorrisi al suo complimento e lui proseguì
soddisfatto.- Nostra
nonna si chiamava Elena.- mi raccontò- Per metà
era italiana, anche se non
aveva mai lasciato la Città. Diceva
che ce l’avremmo accompagnata noi dai suoi
nipoti in Italia.
-È morta prima?- gli domandai mentre lui
osservava Dan riempirgli il bicchiere.
-Sì.- mi rispose con
semplicità, continuando
a guardare dritto davanti a sé come in fondo ad un ricordo.-
Gli unici a
piangere al suo funerale siamo stati noi…
-Parli al plurale.- notai prima di imitarlo
e sollevare il cocktail come lui sollevava il suo whiskey.
-Io e mio fratello.- mi spiegò lui.-
Michael. È mio fratello minore.
Quella cosa gli faceva male in un modo che
non capii, tornò a rabbuiarsi e riprese a bere in un
silenzio carico che sapeva
di alcool a buon mercato. Lo guardai, lui non mi ricambiò
neppure una volta.
Aveva il viso di un bambino, era molto bello ma quelle guance piene,
arrossate
dal caldo e dal whiskey, ed i capelli spettinati che gli cadevano
disfatti sul
viso e sugli occhi brillanti lo facevano sembrare piccolo.
-Quanti anni hai?- domandai di impulso.
-Trenta.- mi rispose allo stesso modo.
Quando provò a chiamare di nuovo Dan,
afferrai la sua mano e lo obbligai a posarla sul piano del bancone. La
sua pelle
scottava, mi fissò smarrito ma io lo ignorai.
-E tuo fratello?- continuai con calma,
ancora sorridendogli.
-Tre meno di me.- rispose meccanicamente,
non smise di guardarmi.- Ventisette.
-Io ventotto.- gli dissi.- Dev’essere
bello
avere un fratello…
Strinse gli occhi come se lo avessi colpito.
Deglutì a vuoto.
-È tutto ciò che è
rimasto della mia
famiglia.- mi disse a fatica.
-Sarete molto legati.- insistetti.- Io non
ricordo se avevo fratelli o sorelle.
-Non lo ricordi?- ripeté.
-No. Non ricordo nulla di me.- mi guardai
attorno. Era tardi ed il locale si stava svuotando, a parte me e lui,
erano
rimaste altre due coppie ed un gruppo di perdigiorno intorno al tavolo
da
biliardo. Li conoscevo, erano bassa manovalanza al soldo di Ricky.- Da
quando
ho memoria, il mio primo ricordo è questo posto.- ammisi.-
Come se non avessi
mai fatto altro che battere qui dentro.
-Lo dici come se non
t’importasse…
Mi voltai a scrutarlo e strinsi le spalle-
-Non conosco qualcosa di diverso, quindi non
posso volerlo.- spiegai semplicemente.
-È comunque una cosa triste.-
obiettò lui,
studiandomi con un’intensità che mi faceva credere
che semplicemente non fosse
in grado di distogliere gli occhi.
Mi domandai se, dopo essersi ubriacato di
whiskey, ora stesse cercando di ubriacarsi di me. Sospirai e fui io ad
interrompere quel contatto visivo.
-Sono pur sempre la donna di Ricky.- dissi
come se bastasse a spiegare i privilegi di cui godevo.
-E lui ti lascia lavorare?
-Oh, non vado più con i clienti!-
specificai- Qui lo sanno tutti e nessuno è così
stupido da chiedermi una cosa
simile.
-…io lo sarei.
Lo guardai ancora.
Era serio.
Sopra ogni cosa, era disperato.
-Gerard,- mormorai piano- questa cosa tu non
me l’hai mai detta.
Gli bastava sentirmi pronunciare il suo
nome. Me lo disse anche, una volta, che gli era bastato sapere che lo
ricordavo
ancora. Io pensai che era tenero. E pensai anche che era pazzo.
Mi sbagliavo. Lo sarebbe diventato con il
tempo, ma allora era ancora abbastanza lucido da guardarmi negli occhi
e capire
di amarmi.
Un amore come il suo non poteva esistere.
Gerard non è mai stato capace, nella propria vita, di capire
quanto a fondo le
persone gli entrassero dentro e quanto assurdo fosse quel suo lasciare
completamente aperto il cuore, esposto e nudo sotto i colpi altrui.
Quando mi guardava, quando mi parlava,
quando cercava le mie mani senza avere il coraggio di sfiorarle, io
rabbrividivo. Avrei voluto tenerlo a distanza: era così
fragile da farmi
sentire il bisogno di proteggerlo da se stesso.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** 3.Thank you for the venom ***
Avevo la testa
che rimbombava. La pioggia mi cadeva contro ed era violenta, mi faceva
male ma,
più di ogni altra cosa, faceva rumore. La mia testa era
piena di quel rumore, e
di ogni altro rumore nel raggio di miglia, come se anche uno spillo,
cadendo, potesse
produrre un’onda violenta e scagliarmela addosso.
In tutto
questo, galleggiavo. Sbattuto da quelle stesse onde ma mai
completamente
sommerso. Sconnesso dalla realtà, che era fatta di buio, di
freddo, di pioggia
e di paura.
Ad aprirmi
venne una donna. Era bella, come Helena aveva detto ed in modo diverso
da
Helena. Era scura, magra e fragile, con il viso serio di una donna sola
e poco
amata che dell’amore ha imparato a fare a meno. Mi chiese chi
fossi, le diedi
il mio nome e le dissi che Ricky mi aspettava. A lei bastò.
Mi precedette lungo
i saloni come aveva fatto il bestione due giorni prima, da sopra una
scala un
bambino dalla faccia rotonda e pulita ci spiò attraverso la
balaustra. Gli
sorrisi senza entusiasmo, sua madre gli disse in spagnolo di togliersi
da lì e
lui scappò via.
Io pensai a
Mikey.
Ricardo Rivera
mi stava aspettando davvero. Come mi aveva aspettato la prima volta:
con il
sorriso sicuro del predatore ed un abbraccio amichevole pronto per
stritolarmi.
La pistola nella fondina tornò a premere sulle mie costole,
la paura stavolta
fece il resto e mi mozzò il respiro. Sulla scrivania davanti
a cui ci fermammo
c’era l’arma che mi aveva già offerto;
la donna era uscita e noi eravamo in
compagnia soltanto del bestione, Oscar. Rivera prese la pistola dal
ripiano e
me la mostrò.
-Sapevo che
avresti fatto la cosa giusta, Gerard.- mi disse tranquillo e sorridente.
Annuii soltanto
e sollevai la mano. L’arma era pesante e fredda, mi dava i
brividi solo a
tenerla. Mi venne da chiedermi se fosse carica e, se sì,
cosa sarebbe potuto
succedere: non sapevo neppure maneggiarla. Rivera mi lesse tutto questo
sulla
faccia. Mi batté una pacca di rassicurazione sul braccio e
mi abbassò le mani
perché la pistola puntasse il suolo ed i miei occhi i suoi.
-Oscar ti
insegnerà quello che c’è da sapere.- mi
disse bonario, come a volermi far
credere ad una ordinarietà da apprendere in fretta.- A suo
tempo, ti darà anche
l’obiettivo e tutte le informazioni che ti serviranno.
Guardai il
bestione e lui ghignò ed assentì nella mia
direzione.
La cosa che
impari più in fretta è che alle armi da fuoco ti
abitui subito. Smetti di
averne paura ed anche il freddo del metallo diventa qualcosa di
familiare che
non ti dà più alcuna sensazione spiacevole: alla
fine scopri che il metallo si
scalda facilmente tra le tue mani, è come se ti rubasse il
calore ma questo non
te lo fa odiare; il calore che ti prende è il modo in cui vi
legate, sancite il
vostro vincolo e diventate una cosa sola. Alla
fine, prendi tanta confidenza da avere difficoltà
a farne a meno.
Sospetto che
Oscar fosse bravo nel proprio lavoro – il macellaio di uomini
– perché quei
concetti furono la prima cosa che mi obbligò ad apprendere.
Non era in grado di
renderli a parole, a nessuno era mai interessato sentirlo esternare i
propri
pensieri, ma la prima cosa che mi impose fu di tenere con me la
pistola.
Sempre. Nascosta sotto i vestiti o sotto il cuscino quando dormivo,
finché la
paura fottuta che avevo smise di essere un problema e la sensazione del
metallo
contro il corpo entrò in una routine percettiva che mi
lasciava indifferente.
Nel frattempo
avevo imparato anche a sparare. Prima ai barattoli sul resto dei negozi
in
Città – come in un
western di dubbio
gusto – poi ai conigli nei campi di periferia. In
un’alba grigia ed umida
ci muovevamo come bestie, facendo scappare quei disgraziati davanti a
noi. Loro
correvano, noi li ammazzavamo ed Oscar rideva e mi batteva sulla
schiena
dicendomi che quella sera avremmo mangiato selvaggina.
Vomitai una
sola volta, la notte che uscimmo a caccia di cani. Non eravamo soli
perché
Oscar mi aveva trascinato con sé in un pub e lì
c’erano altri uomini di Rivera
ed erano tutti ubriachi. Capii che anche quella cosa faceva parte del
mio addestramento perché
Oscar non bevve
nemmeno una goccia. E poi perché i cani loro li fecero fuori
a bastonate, il
permettermi di sparargli in testa fu un gesto di misericordia nei miei
confronti. L’ultimo. Sapevo che, se avessi esitato, Oscar
avrebbe ammazzato
anche me quella notte.
Per cui
vomitai, sì, ma lo feci comodamente a casa mia e da solo.
La sera dopo,
quando Oscar entrò nel mio appartamento, io gli chiesi
perché Rivera avesse
scelto me.
-È stato un
caso, Gee.- mi disse lui fumando una delle mie sigarette e guardandomi
bonario
tra uno sbuffo e l’altro- Tu eri disperato; hai qualcosa che
proteggeresti a
qualunque costo; sei pulito tanto che nessuno sospetterebbe di te e
Ricky ha da
ammazzare un uomo a cui nessuno di noi può avvicinarsi.
-Chi?- chiesi.
Lui rise,
schiacciò il mozzicone nel posacenere e mi guardò.
-Stasera
parliamo di questo, tranquillo.
Fine
dell’addestramento.
L’altra cosa
che impari in fretta delle armi da fuoco è che non ti
lasciano davvero il tempo
di pensare. Sono fottutamente veloci.
G.
***
La scala che portava fino al suo
appartamento
era buia e sapeva di polvere. Erano sensazioni così concrete
che mi sembrava di
poter stringere tanto la tenebra quanto l’odore. La luce era
fulminata su tutte
le rampe, l’unica lampadina che funzionava ancora pulsava ad
intervalli
irregolari all’ultimo piano e lanciava sulla tromba delle
scale un riflesso
debole. Mi sostenevo al corrimano, instabile sotto le mie dita; in
alcuni punti
il rivestimento di legno era saltato scoprendo una fascia arrugginita
di
metallo. Lessi i numeri sulle porte fino a trovarmi davanti a quella
che mi
interessava, tenendo a mente le targhette che mancavano per non
lasciarmi
ingannare. Allungai la mano e battei due colpi.
Nel silenzio che seguì
sentii la musica.
Feci fatica sia a distinguerla che a capire da dove provenisse: era una
specie
di marcetta stupida, una cosa che sarebbe stata bene come sigla di un
cartone
animato degli anni ’20, suonava altrettanto stonata, il suono
rovinato come se
uscisse da un grammofono. Metteva istintivamente allegria, ma le parole
che il
cantante scandiva come ad una recita non avevano nulla di piacevole e
descrivevano con crudezza disillusa un mondo di
“vampiri” intenti a prosciugare
la vita di un protagonista irretito dai loro inganni.
Poi la porta si aprì e
Gerard era di nuovo
davanti a me.
La prima cosa che aveva fatto era
stata
spegnere lo stereo. Nel tempo che a lui era servito per tirare via il
cd e
metterlo a posto su uno scaffale, io mi ero guardata attorno. Il
disordine
violento che mi circondava era in perfetto accordo con la faccia di
Gerard: lui
sfoggiava il proprio pallore sofferto, le occhiaie pronunciate e le
labbra
spaccate con la stessa ostentazione con cui il suo appartamento mi
mostrava le
bottiglie vuote, i vestiti sporchi accatastati in giro, i mozziconi di
sigaretta, la puzza di chiuso, di fumo e di immondizia…
…i quadri…
…le macchie di
colore sulla tappezzeria e sulla braccia di Gerard, sul suo
viso…
…i pennelli
infilati di forza nei bicchieri in cui l’acquaragia era scura
e quasi solida…
…l’odore del
solvente.
-Così è
questo che fai per vivere.-
commentai.
Si lasciò cadere sul
divano. Una delle tele
che erano appoggiate lì sopra cadde a terra, lui non la
guardò neppure.
-Più o meno.-
borbottò. Dalla fatica con cui
tirò fuori quelle parole intuii che era un po’ che
non parlava con qualcuno.-
Disegno.- aggiunse poi.
Si guardò attorno con
l’aria di chi abbia
difficoltà a riconoscere il posto dove si trova.
Accennò ad una specie di
tavolo inclinato in un angolo ed io capii che voleva che guardassi. Mi
avvicinai in quella direzione. Sopra il ripiano, bloccate dal nastro
adesivo,
erano sistemate tre tavole, tutte ugualmente incomplete. Una ritraeva
una
bambina bionda impegnata in una conversazione con un coniglio azzurro;
la
seconda sembrava un’immagine pubblicitaria per qualcosa, ma
non m’interessò più
di tanto. La terza aveva un modello, una vecchia foto che ritraeva due
ragazzini sorridenti; uno dei due lo riconobbi, staccai la foto e mi
voltai.
-Questo è Michael?-
domandai indicando il
secondo ragazzo.
Gerard mi guardò.
Spalancò gli occhi e mi
fissò come se non potesse credere a ciò che avevo
detto.
Mi spaventai, misi giù
la foto di scatto e
feci un passo verso di lui. Si alzò immediatamente,
distogliendo gli occhi e
voltandosi rapidamente verso una delle porte.
-…scusami.-
soffocò fuggendo da quella parte
e sbattendosi il battente alle spalle.
Sospirai, girando ancora una volta
gli occhi
attorno: c’era qualcosa di violento nelle tele nere che
spuntavano con
noncuranza in quel caos, non erano dipinti veri e propri, erano
macchie, sagome
sbozzate, chiaroscuri su cui si infrangevano improvvise chiazze di luce
rossa.
E quel colore buttato senza scopo sulla scena indicava il momento in
cui il
pittore era stato sopraffatto dal proprio sentire: gli erano mancati i
mezzi
per esprimersi, ma tutto quel premere delle emozioni aveva dovuto
trovare sfogo
in qualche modo, ed era esploso nel sangue che sporcava di
sé ogni immagine.
I quadri apparivano come il
contraltare
rabbioso dello squallore della casa, la trascuratezza autolesionista ed
incattivita
– ma silenziosa – di quell’appartamento
acquistava senso mentre guardavo le
tele. I dipinti erano il grido a voce alta di uno spirito che si stava
lentamente spegnendo.
Mi fece male avvertirlo con tanta
chiarezza.
Non conoscevo nulla di Gerard, ci eravamo incontrati due volte nella
nostra
vita e niente ci aveva indicato la possibilità che
succedesse ancora. Eppure
ero venuta a cercarlo, spinta dalla voglia inconfessata di rivedere i
suoi
occhi di bambino, e ciò che avevo trovato era stato un
adulto incastrato in un
incubo.
Posai la foto dove
l’avevo presa. Scavalcai
la tela che Gerard aveva fatto cadere dal divano ed entrai nel cucinino
che
intravedevo sulla mia destra. Lì dentro lo sfacelo era meno
evidente; anzi,
sembrava che nessuno entrasse in quella cucina da giorni. Sul tavolo
erano
ammucchiati dei giornali, tutti con la stessa data e tutti con la
stessa
notizia in prima pagina: la settimana prima qualcuno aveva sparato al
procuratore distrettuale mentre tornava da un processo; era successo
nel
parcheggio sotterraneo di un albergo, in un momento in cui
l’intera scorta
sembrava essersi volatilizzata. Tutti sapevano che il mandante
dell’omicidio
era Ricky – il procuratore lavorava per una famiglia rivale,
che si stava
facendo strada in fretta in Città – ma ormai a
nessuno sarebbe interessato, il
sostituto era un uomo di Ricky e, quindi, la cosa si chiudeva
lì.
Raccolsi tutti i giornali e li
buttai via.
Aprii la finestra per far passare aria e poi, giusto per scrupolo,
guardai nel
frigo desolatamente vuoto. Risi, quella era una cosa con cui sapevo
fare i
conti.
Non dissi a Gerard dove andavo,
uscendo
lasciai il battente accostato e, quando tornai, lo trovai ancora
così. Lui non
era in giro, posai la spesa che avevo fatto sul tavolo in cucina,
chiusi la
finestra, mi tolsi il cappotto e tornai in salotto, avvicinandomi alla
porta
dietro cui era sparito ormai da quasi venti minuti. Bussai piano ed
appoggiai
l’orecchio, ma da dentro non arrivò nessun rumore.
Così aprii ed entrai.
Come mi aspettavo, Gerard era
ancora lì,
seduto a terra contro il muro, di fianco al water. Non fece nulla
quando mi
avvicinai, non si voltò neppure per guardarmi e
continuò, invece, a fissare
dritto davanti a sé. Sedetti sul bordo della vasca, posando
le mani sulle
ginocchia e ricambiando il suo sguardo vuoto solo stando sulla sua
traiettoria.
-È Michael?- chiesi
riferendomi alla foto.
Intuivo che il problema fosse quello, stavolta non ottenni nessuna
reazione e
lo reputai un segno comunque incoraggiante. – Era un bel
bambino!- sorrisi.- E
sembravate molto legati.
-Lo eravamo…-
mormorò lui.
-Dov’è ora?
Mi guardò. Appariva
calmo anche se distante,
ci mise un po’ a mettermi a fuoco e decidere se rispondermi.
-Non qui.- disse alla fine.- Come
hai fatto
a sapere dove vivo?- mi chiese senza soluzione di continuità.
-L’ho chiesto a Dan. Ti
ha visto spesso al
locale con quelli di Ricky. Credevo che avessi detto che non frequenti
quella
gente.
-No, ho detto che pensavo di non
doverlo
fare.- mi ritorse lui incolore.
Annuii. Sbattei le mani sulle
ginocchia a
palmi aperti, ne venne fuori un suono attutito, mi guardai attorno
sfregandomi
le cosce sotto i jeans attillati.
-Hai bisogno di mangiare e, quindi,
ora
preparerò la cena!- annunciai.
Gli strappai un sorriso e mi
ritenni molto
soddisfatta.
-Vuoi cucinare?- mi chiese scettico
e
divertito.
-So farlo, cosa credi?!- ribattei
io.- Saper
cucinare, lavare via una macchia di sangue da una camicia o ricucire
una ferita
fa parte del mio lavoro.- Gerard mi guardò senza capire se
fossi seria, alla fine
decise di venirmi dietro quando risi leggera e questo mi rese ancora
più
felice. Addolcii la voce nel riprendere a parlargli.- E ti dico che con
tutto
l’alcool che hai buttato giù e vomitato qui
dentro, mettere qualcosa nello
stomaco ti farà solo bene.
Lui non mi fece domande.
Evidentemente era
consapevole non ci volesse molto ad intuire a cosa si fosse ridotta la
sua vita
negli ultimi giorni. Gli tesi una mano.
-Vieni. Renditi utile.- lo incitai
brevemente.
Lui strinse le mie dita. Entrambi
sapevamo che
non sarei mai riuscita a tirarlo su davvero, ma lui strinse lo stesso.
Poi posò
l’altra mano di fianco a sé, sul pavimento, e si
rimise in piedi.
***
La droga ti
toglie la voglia di vivere.
Non lo dico
perché è un luogo comune, lo dico
perché l’ho provato sulla mia pelle. E con
“voglia di vivere” non intendo semplicemente il
desiderio di trascinare il
proprio respiro attraverso lo spazio che separa un passo
dall’altro – nel nostro
caso un “buco” dall’altro.
Con vita io qui indico la
percezione
stessa del mondo, il riuscire ad aprire gli occhi per vedere, vedere
davvero,
cosa ci sia intorno a noi.
La realtà
alternativa che la droga offre per lo più è
accomodante: un posto dove restare
costa poca fatica e rende tutto più semplice. Una volta che
ci si abitua la
difficoltà che si trova a venirne fuori non è un
effetto solo della dipendenza
fisica; nel mio caso, la falsa sensazione di sicurezza che la droga mi
dava mi
aveva stregato. Non ero più il bambino spaventato che doveva
correre all’ombra
del fratello maggiore, ero Michael Way ed ero capace di guardare in
faccia gli
altri quando loro guardavano in faccia me.
Ma la verità
era diversa ed era fatta di cecità ottusa – quella
che pian piano ti avvelena,
partendo dal tuo sangue per arrivare al cervello – tanto che
non riesci a
vedere, a pensare, a parlare e tutto attorno a te assume i contorni
sfocati di
un brutto sogno, fatto di fame e di sete che non trovano mai sollievo.
Uscirne non è
stato facile. Ancora adesso ci sono volte in cui il peso della nostra
solitudine
a due - mia e di mio fratello – è tanto da far
tornare la voglia di perdersi. Un altro
po’…solo un altro po’. Quando
ho detto “basta” l’ho fatto con la
consapevolezza di dover pagare a Gerard un
debito molto alto: tutta la mia intera esistenza non sarebbe valsa a
ripagarlo,
quindi offrirgliela per ciò che era ed impegnarmi
perché l’offerta valesse
qualcosa era il minimo che gli dovessi. Nonostante questo non
è stato facile e
so che la mia forza di volontà ha vacillato così
tanto e così spesso da aver comunque
bisogno del suo sostegno. Credo che anche questo abbia fatto parte del
prezzo
che andavo a restituire; l’impegno di mio fratello nella mia
lotta personale
era il modo in cui lui sfuggiva i propri ricordi. Ogni volta che lo
obbligavo a
restarmi di fianco la notte mentre piangevo e gridavo, impedivo ad
Helena di
fermarsi con lui una volta ancora: invisibile, irraggiungibile, eppure
così
presente da devastare la mente di mio fratello più di quanto
non facessero la
paura e la pena che provava per me e per se stesso.
Adesso sono
passati quasi sei mesi dal giorno in cui Helena è morta,
Gerard non ha più
fantasmi altrui contro cui combattere e visita con
regolarità i propri. Che non
hanno armi e non hanno artigli, ma lo feriscono lo stesso con il
proprio sorriso.
Il mio sangue è pulito, vedo di nuovo e mi sembra di non
averlo mai fatto con
tanta lucidità e chiarezza. Davanti a me
c’è il mondo intero a ricambiarmi lo
sguardo, provo l’impulso di scappare ancora ma so di non
poterlo fare.
Perché ora sono
io a dover difendere Gerard da se stesso.
Allora no.
Allora erano passate meno di tre settimane da quando Gerard aveva
chiesto a
padre Philip di prendersi cura di me. Era presto perché
sentissi nuovamente
l’esigenza di farmi, ma era trascorso abbastanza tempo
perché smaltissi gli
effetti di ritorno delle ultime dosi. La parrocchia era un posto in cui
si
recuperava facilmente, non c’era nulla per distrarsi se non
il lavoro ed il
lavoro implicava il contatto con gli altri,
un’umanità pulita e disinteressata con la quale
legare in fretta.
Il giorno in
cui Gerard tornò a trovarmi io ero felice.
Era una
sensazione che non provavo da tempo e che – anche se
destinata a scomparire, ma
allora non potevo saperlo – in quel momento si traduceva
nella voglia di
rivedere mio fratello, di ringraziarlo per avermi portato lì
e dirgli che aveva
fatto bene perché adesso era tutto a posto. La
serenità della canonica mi
faceva sembrare ogni cosa lontanissima: le minacce di morte degli
uomini di
Rivera, la strada, la droga…era come svegliarsi da un incubo
e non accorgersi
di essersi solo infilati in un sogno. Il giorno in cui Gerard venne da
me, quel
sogno era forte più che mai.
Vidi subito la
ragazza bionda al suo fianco e mi dissi che era bellissima,
così come, nel
vederli parlare con padre Philip sotto il pergolato del chiostro,
intuii nello
sguardo di mio fratello il sentimento che lo legava a lei. Per un
momento
pensai che avrei dovuto esserne geloso, ma poi lei si voltò
nella mia direzione
e sorrise ed io non riuscii proprio ad odiarla.
-Gerard!-chiamai
per far girare anche lui. Lo fece subito, accorgendosi di me appena in
tempo
per ricambiare goffamente l’abbraccio con cui lo investii,
saltandogli
letteralmente addosso.
-Mikey!- mi
strinse con affetto.
-Dove diavolo
sei stato?!- mi lamentai io, scrollandomelo di dosso con la stessa foga
e
tirandogli un pugno scherzoso, che lui incassò divertito. -
Dio, sei un
coglione, Gerard, ero in pensiero da morire!
Rise,
scompigliandomi i capelli nonostante le mie proteste.
-Ti lascio con
un prete per tre settimane e tu continui ugualmente a bestemmiare!-
notò
soltanto.
Non feci caso
al fatto che non mi avesse risposto.
Sbuffai,
infilando le dita nelle tasche dei jeans e dondolandomi svogliatamente
sulle
punte dei piedi mentre padre Philip confessava a mio fratello che ero
un caso
senza speranza. Gerard rise ancora, ed anche se stavolta notai comunque
che in
lui c’era qualcosa di diverso dal solito, non cercai di
spiegarmi il suo viso
stanco o la piega amara del suo sorriso. Preferii lasciarmi distrarre
da lei –
Helena – che pallida e bionda sembrava un’attrice
di un film muto: era talmente
vivida e brillante da risplendere nel sole del cortile, diventando come
fatta
di cristallo o di porcellana.
Si accorse del
mio sguardo e si voltò a ricambiarlo con il suo sorriso. Mi
allungò una mano
piccolissima e dalle dita lunghe, mentre mio fratello e padre Philip lo
notavano e studiavano la scena in silenzio. Strinsi la sua mano.
-Io sono
Helena.- si presentò- Tu devi essere Michael.
-Credo che mi
abbia chiamato così solo il prete che mi ha battezzato.-
ridacchiai.- Sei la
ragazza di Gerard?- chiesi innocentemente.
Lei scoppiò a
ridere di gusto, mentre mio fratello arrossiva e padre Philip insisteva
per una
risposta che Gerard si affrettò a darci.
-No no.-
rispose pacato, scuotendo la testa.- Helena ed io siamo solo…
Non seppe
terminare. Lei continuava a sorridermi.
-Amici.- disse
con leggerezza.
Sorrisi anche
io.
-Peccato.
Gerard se la merita proprio una donna bella come te.
-Grazie.-
soffiò lei compita.
Mio fratello
non sembrò felice. Solo che io lo pensavo davvero, lo penso
ancora adesso:
Gerard si meritava Helena, a vederli assieme, uno di fianco
all’altro, l’unica
cosa che si poteva pensare era che fossero stati creati apposta per
stare così.
…non è strano
credere che sia stato il Disegno Divino a volere la morte di Helena?
Mikey
***
La terza volta che mi presentai
da Rivera, Oscar venne a prendermi a casa. Non era da solo; aprii la
porta per
trovarmelo davanti, enorme, armato e sorridente come ci eravamo
lasciati un
mese prima, ma dietro di lui vidi almeno altri due tizi, altrettanto
grandi ed
altrettanto pronti. Oscar allargò braccia e sorriso davanti
al mio stupore muto
e poi mi salutò prima di entrare senza essere stato invitato.
Rivera mi aspettava di nuovo. I
due segugi che ci avevano accompagnato rimasero fuori dallo studio,
quando
entrammo, Oscar, invece, mi precedette, disarmò la pistola
che loro mi avevano dato per poi
non
riprendersi più indietro e la posò sulla
scrivania di fronte a Rivera. Lui non
la degnò di uno sguardo, io sperai che fosse la fine
dell’incubo e sostenni i
suoi occhi.
-Gerard!- esordì in un saluto che
stava diventando odiosamente familiare.
Così come familiare stava
diventando il mio accennare rispettosamente con la testa e ricambiare
con un
“Ricky” che avrei più volentieri sputato
che pronunciato. E già nell’ascoltarmi
mentre lo dicevo mi accorsi della rabbia gelida che mi strisciava sotto
pelle.
-Sei stato in gamba!- si
complimentò Rivera, ignorando, o fingendo di ignorare, il
mio tono.- Un lavoro
rapido e pulito! Chi lo avrebbe mai detto che avremmo scoperto un
talento!-
rise poi scambiandosi un cenno d’intesa con Oscar.
Il bestione gli andò dietro
concordando e ridendo con eguale gusto. Serrai i pugni nelle tasche
avvertendo
il dolore sordo ai palmi delle mani come qualcosa di confortante.
-Cosa ci faccio qui, Ricky?- mi
ritrovai a domandare freddamente. Non me ne accorsi nemmeno
finché non lo
dissi, non riuscivo a tollerare che parlassero di me e
dell’uomo che avevo
ammazzato senza dare nessun valore ad entrambi. Rivera mi
guardò, io mi sforzai
di essere più condiscendente- Hai ottenuto quello che
volevi, il mio debito è
stato pagato…
-Sono io che decido quando i
debiti che hai con me sono stati pagati.- scandì lento
Rivera, interrompendomi.
Fu allora che iniziai ad avere
paura.
-Avevi detto che se avessi ucciso
quell’uomo, avresti lasciato in pace Mikey!- affermai
sentendo il mio tono
alzarsi bruscamente.
Lui rimase impassibile, forte
della presenza, ora silenziosa ed attenta, di Oscar alle sue spalle.
-Ed infatti tuo fratello è ancora
vivo. O sbaglio?- ritorse.
Mi spiazzava. Intuivo la trappola
che era pronta a scattare, sapevo di starmi muovendo in un campo che
era stato
minato apposta per me. Ma Mikey era un motivo più che valido
per andare avanti.
Mi obbligai a rilassare i
muscoli, distendendo braccia e schiena in una posizione che non le
forzasse
dolorosamente. Mi tirai dritto inspirando a fondo ed imponendomi di
svuotare la
mente insieme con i polmoni.
-Sì.- assentii quietamente.- È
vero.
Lui si ammorbidì allo stesso
modo, accomodandosi meglio nella poltrona di pelle. Non smise di
studiarmi, i
suoi occhi erano continuamente incollati ai miei ed io sapevo che
avrebbero
intuito qualunque pensiero, qualunque esitazione.
-Quindi sai che io mantengo le
mie promesse.- affermò lentamente. Non dissi nulla ma non
era richiesto che lo
facessi.- Bene. Visto che ci siamo dimostrati entrambi uomini di
parola, direi
che il nostro rapporto può continuare proficuamente sulle
stesse basi.
Continuare.
Tutto ciò che volevo era fuggire
da lì, infilarmi in un bar e bere fino a dimenticarmi di me
stesso per potermi
illudere che fosse stato solo un brutto sogno. E lui parlava di
continuarlo,
prolungare il tempo in cui il mio corpo e la mia mente percepivano la
realtà
intorno solo attraverso una claustrofobica apnea.
Mentre lo pensavo, stordito,
Oscar si mosse.
Immaginai avesse obbedito ad un
qualche ordine, perché Oscar non faceva mai nulla che non
gli fosse ordinato
quando Rivera era presente. Sparì alla mia visuale,
passandomi di fianco e
riapparendo poco dopo. Sul piano della scrivania, di fianco alla
pistola, posò
un fascicolo di carta, così ordinato da sembrare la
cartellina di un contabile.
-Aprilo.- mi invitò Rivera.
Feci un passo avanti in
automatico, allungando una mano verso il fascicolo ed aprendone la
copertina
senza realizzare davvero cosa stessi facendo. Dentro c’erano
foto, confuse, di
più persone, la gran parte delle quali orientale,
“cinese” pensai. Di queste un
uomo in particolare era presente in ogni foto. Erano prese da lontano,
sulla
scena c’era sempre un sacco di gente, sullo sfondo lessi
più volte l’insegna di
un ristorante nella China Town – un posto troppo lussuoso
perché lo conoscessi,
se non di fama. C’erano anche degli appunti scritti al
computer e stampati, ma
mi accorsi che facevo fatica a concentrarmi abbastanza da poterli
leggere. Mi
venne da ridere. Quella roba sembrava in tutto e per tutto un dossier
di quelli
che si vedono in mano ai poliziotti nei film o nelle serie televisive.
Lasciai
cadere la copertina per richiudere il fascicolo ed alzai lo sguardo in
quello
di Rivera.
-È il tizio che dovrai fare
fuori.- mi informò brevemente, come se la cosa fosse priva
d’importanza.
Del resto la mia vita, quella di
Mikey o quella del cinese della foto dovevano avere lo stesso valore:
nessuna
importanza.
-…non si era mai parlato del
fatto che dovessi uccidere qualcun altro.- obiettai senza forza.
Rivera si strinse nelle spalle
magre.
-Lo stiamo facendo adesso.
Sì, è vero. Tecnicamente
la seconda volta è più facile. Sai già
come muoverti,
sai già cosa ti troverai davanti dopo. Alle altre
difficoltà – quelle
organizzative – non fai troppo caso, specie se ti trovi il
piano già
confezionato da qualcun altro: quando avvicinare l’obiettivo,
come farlo, come
entrare e come uscire. Al cadavere non pensi tu…in
realtà non ci pensa nessuno:
che la polizia o i suoi lo trovino pure, tanto tu per loro non esisti,
sei uno
di quegli otto milioni e duecentosettantamila individui che abitano
questa
Città. Come tutti i tuoi “coinquilini”
non sei nessuno, non hai motivo per
interessarti alla guerra clandestina tra clan rivali e, quindi, i clan
rivali
non hanno motivo per interessarsi a te.
Sei un numero anche per la
polizia quando, arrivando dopo una soffiata anonima, ti trova a
mangiare seduto
al tavolo di un ristorante che non puoi permetterti. Hai notato
qualcosa, ti
chiede il poliziotto inespressivo. Niente. Sentito qualcosa, insiste.
No,
agente, mi spiace. Ti domandi se sia il caso di fingersi colpito,
magari
spaventato, ma ti rendi conto che ormai hai già mancato di
farlo e, comunque,
la tua indifferenza apatica passa inosservata
all’indifferenza annoiata di chi
ti sta ponendo le domande.
Dopo esci. Con calma perché non
hai più nulla da perdere, ché tutto quello che
avevi adesso sta dentro un sacco
diretto all’obitorio: erano la tua voglia di vivere, i tuoi
principi nel farlo,
l’amore che portavi a te stesso. Ora non ci sono
più e, se il dolore sordo che
avverti diventa intollerabile, sai come zittirlo. Ed un po’
speri, fermandoti
al solito bar, che lei sia lì ad aspettarti.
Un po’ no, invece. Perché se ci
fosse dovresti trovare la forza di parlarle e quella l’alcool
non riesce a
restituirtela.
G.
***
Gerard non mi ha mai raccontato
del primo omicidio, sono stato io dopo – quando ho saputo
degli altri – a
ricostruire l’intero percorso
della sua dannazione. Nella mente di Gerard nessuna di quelle morti
– né
singolarmente né valutata nel complesso degli eventi
– poteva essere espiata,
ma la prima era stata un prezzo valido, per quanto alto, e Gerard lo
aveva
pagato con la consapevolezza di stare riscattando la vita di Mikey con
quella
di due innocenti: sé e la propria vittima. Non penso che per
lui facesse
differenza sapere che la persona che aveva assassinato fosse tutto meno
che
innocente. Non fece differenza nemmeno le volte successive.
L’unico che Gerard
non assolveva dai propri peccati era se stesso.
Io fui il confessore del suo
secondo sbaglio. In una notte priva di luci lo trovai rannicchiato come
un feto
sulle scale della canonica, la pioggia gli batteva addosso ed io lo
guardavo
sgomento oltre la soglia che lui non aveva avuto la forza di varcare.
-Gerard…
Lessi nelle sue lacrime,
mischiate all’acqua ed alla terra, la verità delle
parole che mormorava a fior
di labbra e che io non riuscivo a sentire. Erano una preghiera che il
suo
dolore riportava a galla dall’infanzia attraverso la follia;
quando mi piegai
per aiutarlo ad alzarsi le sentii, pronunciate rocamente al mio
orecchio e
rotte da singhiozzi violenti.
-Perdonatemi, padre,
perché ho molto peccato
E per quante volte quella formula
insulsa fosse già stata recitata sotto il cielo, per la
prima ebbi davvero la
percezione di quanto fosse sterile.
Gerard era ubriaco quella notte.
Il suo racconto non aveva senso, per metà si perse nelle
pieghe del divano su
cui stava raggomitolato come un bambino; l’altra
metà la sputò fuori insieme
con la bile che l’alcool gli aveva messo in corpo.
Rifiutò qualsiasi cosa: di
farsi aiutare, di farsi toccare – dopo esserci trascinati
lì dentro non mi
aveva più permesso di sfiorarlo – perfino di
guardarmi, se non quando
all’improvviso il fiato gli si spezzava, le parole gli
morivano in gola e lui
mi guardava ad occhi sgranati, terrorizzato. Per quanto intuissi dalle
sue
parole, altrettanto mi sfuggiva; non riusciva a mettere i pensieri in
fila
l’uno all’altro perché inevitabilmente
ricordi, sensazioni e paura si
mescolavano nel suo cervello annebbiato ed io facevo fatica anche a
capire
quanto in lui fosse frutto del whiskey e quanto
dell’esperienza vissuta. Lo
lasciai stare. Non provai a fargli domande perché sapevo che
non avrei avuto
risposte. Le estrapolai da solo, cercando tra le sue parole i concetti
che non
aveva il coraggio di pronunciare.
Fu così che seppi del secondo
omicidio, così capii quale fosse stato il prezzo che Gerard
si era impegnato a
pagare per Mikey: un prezzo in sangue ed anima che – lo vedevo - lo avrebbe distrutto.
In quel momento, mentre lui
parlava e piangeva ed io lo ascoltavo in un silenzio fatto del sonno e
del buio
attorno a noi, ebbi l’ultima occasione per salvarlo. La vidi
nitidamente
nell’invocazione di aiuto che Gerard formulava in quel
momento, mostrandomi il
suo cuore ferito a morte perché io fermassi quel sanguinare
senza senso. Potevo
salvarlo, tendergli la mano che lui implorava disperatamente.
Ma non lo feci.
Aspettai che i singhiozzi di
Gerard si calmassero da soli, che fossero l’alcool e la
stanchezza a stordirlo
e sfiancarlo fino a soffocare ogni suono in un respiro pesante e
mozzato. Lo
guardai appoggiare la testa sul bracciolo, lentamente come fosse solo
troppo
pesante per continuare a tenerla su. Chiuse gli occhi ed io mi alzai
per andare
a prendere una coperta in camera da letto, gliela stesi addosso senza
che lui
reagisse se non per aprire gli occhi e seguirmi con uno sguardo
appannato e
confuso.
-Vuoi che chiami tuo fratello,
Gerard?- gli chiesi tornando a sedermi.
Scosse la testa.
-Sto bene. Sono solo ubriaco.-
mentì ad entrambi chiudendo di nuovo gli occhi.
Philip
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** 4.Thank you for the venom ***
Gerard
scomparve di nuovo. Anche se non avevo motivo per stare seduta
di fronte al bancone di Dan continuando a fissare la porta nella
speranza di
vederlo entrare, non riuscivo ad impedirmi di farlo. Sorridevo ai
clienti come
sempre, lasciavo che mi pagassero da bere e chiacchieravo con loro e
con Dan
come al solito. A volte Ricky mi chiedeva di cambiare locale, mi
mandava in
qualche night o in qualche discoteca dove aveva clienti importanti;
altre
volte, semplicemente, passavamo insieme la serata ed io lo seguivo in
giro tra
ristoranti e club privati. A parte quelle occasioni, però,
tutte le sere,
immancabilmente, tornavo a sedermi davanti a Dan, guardando la porta ed
aspettando.
Quando capii che non sarebbe
bastato a rivederlo, mi presentai a casa
sua.
Stavolta rimasi sul pianerottolo
per un buon quarto d’ora, assordata
dalla musica altissima che veniva da dietro la porta. Dovetti suonare
ancora e
ancora prima che Gerard mi aprisse: lo stereo si zittì
violentemente, dei passi
scoordinati raggiunsero l’ingresso e poi sentii la serratura
scattare. La
faccia di Gerard era così pallida e sfatta che allungai
istintivamente le mani,
come se mi aspettassi che mi cadesse in braccio. Lui mi
fissò stupito,
evidentemente in difficoltà non tanto nel riconoscermi,
quanto nel mettere a
fuoco il motivo della mia presenza. Non sembrava intenzionato a farmi
entrare.
Mi rilassai progressivamente e decisi per entrambi.
-Puzzi di alcool.- dissi ridendo.
-…immagino di
sì.- borbottò lui arrossendo un po’.
-Non è un modo carino di
farsi trovare da una signora.- finsi di
protestare.
Lui aprì la bocca.
Voleva dirmi “non ti aspettavo”, ma alla fine
preferì chiuderla lì. Io non mi scoraggiai, gli
posai una mano sul petto e lo
spinsi dentro, mentre lui mi assecondava docilmente.
La casa era ridotta peggio di come
l’avevo lasciata; in realtà,
sembrava che da allora non fosse cambiato proprio nulla e si fosse solo
accumulato altro sporco ed altra aria viziata.
Ed altre tele. Una per la
precisione, il cui soggetto era così
raccapricciante che rimasi di sasso appena la distinsi, entrando.
Gerard seguì il mio
sguardo ed interpretò l’espressione scioccata con
cui guardavo il quadro. Si allontanò con decisione,
afferrando un lenzuolo
macchiato di colore da sopra il divano e spiegandolo in un unico gesto
mentre
raggiungeva il dipinto, che coprì completamente.
-Scusami.- si affrettò a
dirmi, abbassando lo sguardo vergognandosi.
Lo fissai. Non mi ci era voluto
molto per capire che quello di Gerard
con l’alcool era un problema,
però
non ero davvero in grado di capire quello che lui cercava di dire con
quei suoi
segni rossi sul nero, io non lo comprendevo affatto e di quei disegni
avevo
paura. Spostai anch’io lo sguardo, girandolo attorno per
riconoscere i segni
ben più concreti di un malessere che sapevo affrontare. Per
quanto strano
potesse essere, lo sporco, le cicche di sigaretta, le bottiglie vuote
ed il
letto disfatto erano qualcosa di rassicurante in quella situazione.
Annuii a me
stessa, risoluta sfilai la borsa e la giacca lasciandole lì
all’ingresso ed
andai incontro a Gerard. Lui se ne accorse e mi alzò in viso
due occhi smarriti
a cui non risposi affatto, lo afferrai per un polso e me lo tirai
dietro verso
il bagno.
-Quanti giorni sono che non esci da
qua dentro?- lo interrogai mentre
lui mi seguiva, incespicando goffamente.
-Helena…-
iniziò a lamentarsi.
-Beh, non importa davvero.- mi
risposi da sola, interrompendolo. Tappai
la vasca, aprii l’acqua e mi voltai, afferrando
l’orlo della sua maglietta e
facendo per sfilargliela. Gerard si ritrasse bruscamente, arrossendo e
tentando
di difendersi, ed io lo fissai stupita – Guarda che non
c’è nulla da
imbarazzarsi, non sei di sicuro il primo maschio che vedo nudo!-
ridacchiai.
-Sì! Ma tu sei la prima
donna che mi spoglia!- sbottò lui.
-…oh.- fu il mio
commento incredulo, al quale Gerard arrossì ancora
più
violentemente, rendendosi conto di quanto aveva appena detto.
-Non intendevo in quel senso!-
biascicò.- Sei la prima donna che mi
spoglia senza avere un interesse di quel
tipo.- corresse.- A parte mia madre.- continuò e, mentre io
ridevo, lui sospirò
e realizzò.- E l’aver pensato a mia madre con
questa consequenzialità logica ha
appena ucciso ciò che restava del mio amor proprio.
Mi asciugai una lacrima solitaria
all’angolo dell’occhio e ripresi fiato.
Quando lo guardai, Gerard mi sembrò più rilassato
e la considerai comunque una
vittoria.
-Ora sai perché bere fa
male.- lo rimproverai quietamente. Mi voltai,
la vasca era piena ed io chiusi l’acqua.- Visto che sei
così pudico,- lo presi
in giro.- spogliati e lavati da solo, io sono di là.
Come mi ero aspettata frigo e
dispensa erano vuoti, niente di diverso
rispetto a quello che avevo già visto. Scossi la testa,
afferrai un sacco per
l’immondizia, la scopa, uno strofinaccio, annodai il
grembiule in vita e mi
armai di coraggio. Quando Gerard riemerse dal bagno, il grosso era
fatto. Avevo
accuratamente evitato anche solo di sfiorare il dipinto coperto, ma gli
altri
erano stati ordinati di fianco ad un muro, le lattine e le bottiglie
erano
sparite, così come le macchie di colore sul pavimento ed i
mobili, e pennelli e
tubetti erano ammonticchiati su un tavolino; avevo aperto le finestre,
così che
da fuori entrava un’aria umida e frizzante.
-Sono stata brava, eh?!- ironizzai
davanti all’occhiata sorpresa che
Gerard mi rivolse dalla soglia del bagno.
-Grazie.- mormorò
imbarazzato, ma si rilassò quando gli risposi
ridendo.- Vado a vestirmi.- annunciò attraversando il
salotto.
-Così scendiamo a fare
la spesa.- aggiunsi io mettendo via scope e
ramazze.
Ci reincontrammo davanti alla porta
d’ingresso, io stavo tirando fuori
dalla borsa un vecchio libro polveroso che attirò la sua
attenzione quando
glielo porsi.
-Cos’è?- mi
chiese curioso.
-Me lo ha dato padre Phil.- spiegai
io, stringendomi nelle spalle.-
Credo sia un Vangelo…
Gerard assentì,
sfogliò le pagine con sguardo cupo e poi gettò il
libro
tra i colori, dove atterrò con un tonfo sgraziato e
disinteressato.
-Chissà cosa pensa che
dovrei farci…- lo sentii sussurrare caustico
mentre si sfregava le mani come se volesse pulirle
dall’invisibile polvere che
era sul libro.- Andiamo?-
mi incitò
infilando il cappotto.
Io lo imitai, misi la giacca e
presi la borsa, rendendomi conto che la
fretta di Gerard sembrava tutta tesa a liquidare
quell’episodio; sul pianerottolo
mi chiese quando avessi visto padre Philip ed io gli risposi che ero
stata alla
canonica il giorno prima.
-Mikey mi aveva chiesto di passare
a trovarlo, qualche volta.-
aggiunsi.
Non dissi che stavo cercando lui e
che era stato il non trovarlo
nemmeno lì a portarmi fino a casa sua.
Gerard, comunque, non mi stava
ascoltando. Per quanto si sforzasse di
mantenere una conversazione normale, la sua mente era altrove e lui mi
aveva
chiesto di padre Philip solo per ridimensionare il significato di quel
libro.
-Mikey sta bene?- chiese ora allo
stesso modo.
Pensai che la sua domanda fosse
stata una reazione automatica al nome
del fratello e, mentre ricambiavo lo sguardo vuoto nei suoi occhi, mi
chiesi se
Michael sarebbe stato una ragione sufficiente perché Gerard
decidesse di
tornare indietro. Qualunque fosse
il
luogo in cui era fuggito.
-Voleva sapere di te.- provai-
Dovresti andare a trovarlo più spesso.
Forse lo era. Quantomeno faceva
ancora male, ed il dolore era vero e
concreto e questo faceva anche di Gerard qualcosa di reale e di vivo.
-Se vuoi ti accompagno.- mi
ritrovai a promettergli.
***
Avrei voluto Helena accanto a me
in ogni istante. Avrei voluto che fosse presente quando mi svegliavo da
un
incubo nel mezzo della notte, sudato e spaventato, con il cuore che
premeva
in gola per uscire.
Avrei voluto Helena
alla sera, quando, solo in casa, sentivo il bisogno di affogare le voci
nella
mia testa e di cancellare le immagini sui muri e così bevevo
e bevevo, finché
le immagini non si trasferivano sulla tela o sui fogli ed i suoni
venivano
coperti dalle chitarre e dalla batteria nello stereo. Avrei voluto
Helena in
quei momenti in cui rimanevo in piedi dall’altro lato della
strada, fissando la
canonica di fronte ed immaginandomi mentre bussavo alla porta ed era
Mikey ad
aprirmi e salutarmi. Avrei voluto Helena, perché Helena
cancellava tutti i
bisogni e metteva a tacere tutte le domande.
Quando lei era con me, io
respiravo, dormivo, mangiavo. Quando era con me, io vivevo e farlo non
era così
difficile perché ogni mancanza ed ogni dolore potevano
essere messi da parte
per un po’.
Avrei voluto Helena con me per
vivere una vita che non sembrasse solo il fantasma di sé
stessa…
La cosa migliore di tutte, però,
era che Helena ci fosse davvero quando la volevo.
Il nostro rapporto è nato sui
silenzi: sulle cose non dette dietro mille parole inutili. Io non ho
mai
chiesto ad Helena di tornare per assicurarsi che la casa fosse in
ordine, che
io mangiassi regolarmente, che il livello di alcool nel mio corpo non
superasse
il limite di guardia. Helena non mi ha mai chiesto il permesso di
tornare per
prendersi cura di me; o quello di stringere con mio fratello
un’amicizia
sincera fatta di affetto comune per la stessa persona. Eppure ognuno di
noi due
ha fatto ciò che sentiva e si è preso
ciò che voleva; ed alla fine abituarsi
agli altri è facile, farsi addomesticare da una presenza
è fin troppo semplice.
Noi due ci siamo addomesticati l’un l’altro pian
piano, finché, senza
accorgercene, non abbiamo imparato a riconoscere la presenza
dell’altro e ad
aspettarla quando mancava.
Io, in particolare, so che Helena
ha rappresentato ogni volta il mio ritorno alla normalità
dopo l’incubo che
l’assassinio generava. Uccidere per me significava fare un
passo o due oltre i
confini del mondo, immergermi in una realtà alternativa di
pensieri ossessivi:
mi calavo dentro me stesso, mi arrotolavo e fagocitavo in una spirale
in cui
divoravo il mio corpo e diventavo pura mente, un mondo tentacolare di
emozioni
cupe e violente. Mentre quel mostro prendeva possesso dei miei spazi,
vomitando
all’esterno – con oli, su tela – le
proprie manifestazioni nel mondo reale,
Helena veniva immancabilmente a cercarmi. Erano passate una, due
settimane
dall’ultima volta in cui ci eravamo visti e lei bussava alla
mia porta ed
aspettava pazientemente che il mostro si ritirasse e ciò che
restava di me la
facesse entrare nella propria vita. In realtà era lei a
permettermi di
stazionare più o meno stabilmente nella sua. Io avevo smesso
da tempo di averne
una, dalla prima volta in cui avevo premuto il grilletto di una pistola
per
ammazzare un altro uomo. Lei mi permetteva di accomodarmi nella sua
esistenza,
ricavando un posto che fosse mio soltanto, ed io la ricambiavo
nell’unico modo
che riuscissi ad immaginare, con una devozione cieca ed un progressivo
bisogno
di lei. Arrivai al punto di sognare ad occhi aperti la sua presenza,
quando mi
chiudevo la porta alle spalle ed iniziavo il mio personale calvario di
rimorso,
alcool ed incubi, pensavo già al momento in cui sarebbe
tornata a bussare a
quella stessa porta per trascinarmi fuori da me stesso e salvarmi, una
volta di
più. In quelle occasioni avevamo un copione prestabilito su
cui aggiungevamo
solo particolari: lei entrava, si assicurava che mi lavassi, che mi
vestissi,
mi rimettessi in condizioni da stare in piedi da solo; poi puliva la
casa,
cucinava o mi portava a mangiare fuori, faceva sparire i quadri neri di
cui
aveva paura ed il giorno dopo era di nuovo lì, con me.
Ripeteva questa sequenza
fino a che non ero in grado da solo di prendermi cura di me stesso; a
quel
punto si rilassava, ci incontravamo direttamente fuori e passavamo
assieme la
giornata o andavamo da Mikey e padre Philip.
…però l’ho detto, i
particolari
cambiavano di volta in volta. Erano lo sguardo sempre più
cupo e preoccupato
che Helena mi piantava addosso quando entrava
nell’appartamento; oppure il
numero sempre crescente di giorni in cui si ripresentava a casa; o lo
stato
sempre più disastroso in cui mi trovava. Lo ammetto, facevo
fatica anche a ricordarmi
come si aprisse quella porta.
-Chiavi di casa.- annunciai
posando il mazzo sul tavolo del fast food, ancora prima di sedermi
dall’altro
lato.
Helena sollevò un sopracciglio in
un’espressione scettica che le dava un’aria tutta
sofisticata. Mi strappò un
sorriso. Sfilai il cappotto e lo arrotolai di fianco a me, osservandola
con la
coda dell’occhio mentre giocava con le chiavi, scostandole in
punta di dita
come se si aspettasse che reagissero in qualche modo.
-Che vuol dire “chiavi di casa”?-
si decise a chiedermi quando mi voltai. Le lasciò
lì, ritirando le mani sotto
il tavolo e guardandomi.
Mi strinsi nelle spalle.
-A parte Mikey non ho nessuno, -
spiegai – potrebbe esserci un’emergenza e
preferisco che tu le abbia.
Era abbastanza logica come richiesta,
io non avevo davvero nessuno a parte mio fratello e padre Philip e, se
sul
primo non si poteva proprio fare affidamento, il secondo aveva
già abbastanza
cose a cui pensare per aggiungermi alla propria lista di
babysitteraggio. Solo
che, teoricamente, Helena non era tenuta a farlo al posto di padre
Philip e
tutti e due eravamo consapevoli di come accettare quelle chiavi avrebbe
significato molto di più di quello che dicevo.
-Gee…- iniziò lei ed io mi
distrassi praticamente da subito. Era da un po’ ormai che
quel nomignolo era
diventato confidenziale tra noi. A casa mi chiamavano tutti
così e lei e padre
Phil avevano imparato da Mikey, era un po’ come essere di
nuovo in famiglia.
Il silenzio di Helena mi riportò
indietro, mi guardava ed io mi ritrovai senza volere a ricambiare il
suo
sguardo. Ci stava pensando, ci stava pensando sul serio e voleva dire
che tutte
quelle implicazioni che avevo cercato goffamente di nascondere erano
invece lì,
chiare come il sole. Per un momento provai l’impulso di
mettere via le chiavi
ed essere sincero con lei fino in fondo, chiederle per quale motivo
tornasse
ogni volta.
Ma poi Helena allungò timidamente
la mano e prese il portachiavi per farlo cadere in borsa. Nessuno di
noi due
disse un’altra parola su quella cosa.
Non fu l’unica libertà che ci
prendemmo l’uno con l’altra. In cambio delle chiavi
Helena pretese che io le
raccontassi di Mikey ed io scoprii che tra lei e mio fratello il
rapporto era
più stretto di quanto pensassi. Michael le aveva accennato
il motivo della sua
presenza da padre Philip e lei mi chiese di raccontarle tutto: della
nostra
vita di ragazzini di periferia, della mia fuga in Città,
della fuga di Mikey
dal mondo. Le diedi la mia versione, chiedendomi di tanto in tanto
quanto mio
fratello le avesse già raccontato ed in cosa le nostre
storie si discostassero.
Ovviamente Helena non me lo disse, lei ascoltò parola per
parola come se fosse
comunque la prima volta che qualcuno le parlava di quella storia. Io,
però, di
lei avevo capito una cosa: Helena era mutevole, lei si adattava agli
altri come
una coperta, avvolgeva il suo interlocutore nella propria presenza
morbida ed
ovattata e per farlo diventava ogni volta diversa. Non dubitavo che il
silenzio
attento che dedicava a me, con Mikey fosse stato invece una
partecipazione
entusiasta. Mio fratello, del resto, aveva bisogno di riscoprirsi vivo
e
l’entusiasmo sorridente di Helena si trasmetteva con
facilità.
Da parte mia feci in modo che
quelle chiavi fosse usate. Con una scusa o con l’altra
abituai Helena ad
entrare ed uscire dall’appartamento indipendentemente dalla
mia presenza ed
alla fine divenne per entrambi un luogo comune a cui avere libero
accesso.
A quel punto fu la volta di
Helena di mostrarmi casa propria, ma lo fece svogliatamente e quasi di
soppiatto,
un’unica volta che mascherò dietro una scusa
blanda. Eravamo tutti e due
consapevoli che quel posto era tabù per
un’amicizia come la nostra, in fondo
non è che non capissimo di essere due clandestini.
Eppure continuavamo a mentirci:
io mantenevo le distanze che lei mi aveva imposto all’inizio
e lei mi sorrideva
ed accudiva con una gentilezza di cui fingevamo di non capire la
natura.
Io avrei voluto averla con me per
sempre.
G.
***
Faccio il mio lavoro da quasi
trent’anni ormai. E lo so che sembra una frase fatta da
poliziotto di film
hollywoodiano, ma è così.
E posso dire con sicurezza anche
che dopo trent’anni si comincia a capire la testa della
gente. Credetemi quando
vi dico che in quella storia due note stonate erano così
evidenti che mi
stupivo che non se ne accorgesse anche un cieco.
La prima era il fatto che ci
trovassimo in una guerra di mafia. La famiglia Rivera controllava la Città
da quasi dieci anni ed
aveva eliminato con sistematicità tutti coloro che potevano
opporlesi; era
chiaro che l’improvviso moltiplicarsi di omicidi tra le
“personalità” di una
nuova famiglia rivale non poteva che essere ricondotto ai Rivera. Loro
erano
stati furbi, glielo riconosco, perché avevano fatto in modo
da nascondere la
cosa dietro un’ondata generalizzata di violenza diffusa: gli
omicidi di cui
dovevamo occuparci al Dipartimento erano talmente tanti da aver
cominciato a
chiamarli solo con numeri progressivi e ad affidare, ad ognuno di noi,
gruppi
di dieci “casi” accomunati da particolari
insignificanti.
Fu per questo che mi accorsi
della seconda nota stonata. Ad interpretarla ci pensarono i miei
trent’anni di
carriera, ma a notarla furono il fiuto e l’istinto. Quante
probabilità ci sono
che in una Città come questa la stessa persona sia testimone
di ben due omicidi
ricollegabili allo stesso mandante?
-Stoner.- Il ragazzetto seduto
dietro la scrivania mi alzò in viso due occhi interrogativi.
Gli risposi
lasciando cadere sul suo tavolo un mucchio disordinato di carte e
fascicoli.-
Leggi un po’ qui e dimmi cosa ci trovi di strano.- lo incitai.
Ovviamente gliel’avevo fatta
facile, le cose che volevo che notasse erano in bella mostra ed a lui
bastò
sfogliare le carte davanti a me per sollevare di nuovo la testa. Stessa
espressione interrogativa ma domanda diversa. Annuii con un cenno
d’intesa,
quel ragazzo mi piaceva e me lo stavo allevando proprio per questo.
-Cercami tutto quello che trovi
su questo Gerard Way.- ordinai.- E poi ne parliamo, carte alla mano.
Quello che i miei trent’anni di
esperienza mi dicevano era che nemmeno un dilettante, per quanto
inesperto, fa
errori così grossolani. E se li fa c’è
un solo motivo, lui vuole essere
trovato.
Usher Stoner aveva ventitre anni
quando insieme cominciammo ad indagare sugli omicidi del procuratore
Thomson,
di Cho Yun Lee e di Frank Testa. Apparentemente i tre casi non avevano
nessun
legame, ma nella realtà dei fatti tutti sapevamo che le
vittime erano
ugualmente legate alla famiglia dei Ventimiglia. E tutti sapevamo che
quello
era il movente.
Solo che Rivera ed i suoi erano
puliti. Talmente puliti che perfino
gli Italiani avevano evitato ritorsioni senza nessun elemento per le
mani.
Io ed Usher fummo gli unici ad
accorgerci di quell’elemento. Ed io non pensai che fossimo
stati più bravi o
più furbi degli altri, perché, come ho detto, le
due note stonate di quella
storia erano troppo evidenti perché a qualcuno sfuggissero
davvero. Quindi,
tutto ciò che distingueva me ed Usher dal resto dei nostri
colleghi era che noi
volessimo vederle quelle note
stonate.
Gerard Way aveva trent’anni
quando cominciammo ad indagare su di lui. Ne avrebbe fatti trentuno la
settimana dopo il nostro primo incontro. Stoner mi
accompagnò, ovviamente, e ci
trovammo assieme davanti a questo ragazzo bruno, dal volto di ragazzino
mai
cresciuto, ed io so che il primo pensiero di Stoner fu “non
può essere lui”. Il
mio primo pensiero fu esattamente l’opposto.
-Il Sig. Way?- domandai per pura
formalità.
-Cosa volete?- ritorse lui in un
assenso implicito.
Mostrai il distintivo: “Percival
Bishop, ispettore capo”.
-Solo farle alcune domande, se
non le spiace.- frase di rito, tono preimpostato.
Lui si scostò dalla soglia per
farci entrare. Sapevamo già che per guadagnarsi da vivere
disegnava,
nell’occhiata circolare con cui abbracciammo il salone sia io
che Usher
prendemmo nota distratta dei dipinti incomprensibili addossati al muro,
della
tela più grande coperta da un lenzuolo e del tavolo da
lavoro vicino alla
finestra. Lasciai che fosse Usher ad approfondire il sopralluogo, Way
non tentò
neppure di impedirglielo.
-È per gli omicidi di Cho Yun Lee
e Frank Testa. – spiegai mentre ci studiavamo, in piedi al
centro della stanza.
– Lei è stato testimone di entrambi…
-Ho già detto tutto quello che
sapevo ai suoi colleghi.
Stavolta frase e tono da manuale
toccarono a lui, ma entrambi sapevamo esattamente quale fosse lo scopo
di
quell’incontro.
-E non trova strano il fatto di
essersi trovato per ben due volte nel posto sbagliato al momento
sbagliato?-
ironizzai.
Mi rispose con un sorrisetto
storto e cattivo, i suoi occhi brillavano di una luce malata.
-Non crederà che io porti
sfortuna, Ispettore?!- mi tenne il gioco a mezza voce.
E quei trent’anni di carriera
arrivarono tutti assieme a farsi sentire con prepotenza: se Gerard Way
si fosse
attaccato al collo un cartello con su scritto “sono io, mi
arresti” lo avrebbe
detto meno esplicitamente.
I suoi occhi brillavano, la luce
malata che li illuminava era veleno e disperazione. Scossi la testa,
sbuffando
il mio di sorriso. Amaro.
-No.- risposi.- Alla sfortuna
decisamente non credo, Sig. Way.
Perry Bishop
***
Bang. Bang.
Bang.
Diventi piuttosto bravo con un
po’ di esercizio. Mi cerchi, Ispettore? Ma non è
difficile trovarmi! Lascio più
sassolini di Pollicino sulla mia strada di sangue. Il rosso si segue
bene, sia
sul nero che sul bianco, sono un film a colori in una Città
bidimensionale.
Cosa ti ci vuole per prendermi? Forse non t’impegni
abbastanza, forse non lo
faccio io!
…sai che comincia a piacermi. Il
sangue ha un odore inebriante e se poi lo mescoli al
whiskey…! Va via e si
confonde. Si confonde tutto…Magari l’ho solo
sognato e Mikey no, non si è mai
fatto. Rivera non esiste, Helena non esiste, il morto non
esiste…
Lui davvero. Nemmeno ricordo che
faccia abbia. Credo sia perché ho bevuto troppo,
però. Dovresti muoverti,
Ispettore, non ho davvero idea di quanti ne voglia morti il nostro Rircky. Magari ci sta prendendo gusto
anche lui. E la parola di Dio di padre Philip? A che mi serve pregare
per i
miei peccati se domani ne commetterò un altro? E se Dio non
può fermarmi,
Ispettore, allora che sia bravo! ci pensi lei. Io aspetto.
…e magari è davvero un sogno. In
fondo ho bevuto troppo. Lo diceva anche mamma che ho la tendenza ad
esagerare;
avrei dovuto darle ascolto.
È un sogno, Ispettore? Rivera è
un sogno? Ed Helena?
…dov’è Helena?
-…Helena…
Mani fresche sul viso bollente.
Le ricordo ancora. La sensazione di gelo contro la pelle, inebriante e
stordente come l’alcool che mi circolava in vena. E poi il
suo respiro, caldo e
soffuso contro il volto e la bocca. Mi sentivo la lingua impastata;
avevo
vomitato fino a perdere i sensi, il dolore alla faccia mi diceva che
ero caduto
a terra ed avevo sbattuto contro qualcosa…
-Sei tutto sporco, Gerard.- mi
rimproverava lei quietamente.
Mi misi dritto quando mi fece
capire che era quello che voleva facessi. Seduto contro il muro la
guardai
alzarsi e raggiungere il lavandino; bagnò
l’asciugamano per pulirmi la bocca,
gli occhi ed il naso ed io la lasciai fare. Lasciarmi maneggiare da lei
era
rassicurante, ma non era solo questo: non riuscivo a pensare
lucidamente se
c’era lei, mi era più facile…quasi
naturale, ubbidirle ciecamente, seguirla e
fare tutto ciò che mi chiedeva. Purché restasse.
Purché mi stesse vicino.
Purché non mi lasciasse.
-Gee!- la sentii esclamare
sommessamente. Mi teneva il viso con entrambe le mani, guardandomi con
un’espressione rassegnata e preoccupata. Passò
nuovamente l’asciugamano sotto i
miei occhi, cancellando dalle guance il segno di lacrime che non mi ero
accorto
di stare versando.- È tutto a posto.- mi disse piano,
accarezzandomi il viso
con le dita e poi con i palmi.- Va tutto bene, Gerard. Ora sei qui, sei
al
sicuro, io sono con te.- ripeteva come un mantra.
Chiusi gli occhi cullandomi in
quelle parole. Helena continuò a ripeterle finché
non smisi di piangere;
continuò ad accarezzarmi finché non mi calmai e
poi mi aiutò a cambiarmi e mi
fece stendere a letto. E rimase con me finché mi addormentai.
G.
***
Quando capitava che il mio corpo ed
io ci staccassimo ed io volassi
via, di solito non riconoscevo né il luogo né le
persone o gli eventi a cui
assistevo. Ero la spettatrice muta ed invisibile di un mondo altrui,
distante,
che si svolgeva davanti a me senza toccarmi mai. Io non esistevo:
smettevo di
farlo nel momento in cui venivo strappata all’involucro di
carne che la gente
chiamava Helena; diventavo niente e
come niente camminavo verso la mia
meta sconosciuta. Tornavo ad essere
solo con il mio respiro: quando ricominciavo ad avvertire il peso
dell’aria nei
polmoni sapevo di esserci di nuovo e ne prendevo atto.
Era sempre stato così.
Sempre fino all’arrivo di Gerard. Nei mesi che
passammo assieme lo vidi cambiare, quel ragazzino fragile che mi aveva
guardata
la prima volta, sulla scala, stava lentamente andando in pezzi davanti
ai miei
occhi. La luce folle nello sguardo di Gerard era diventata
un’ossessione tra
noi, mi impediva di ricambiare il suo sguardo, mi
spaventava…no…mi atterriva. E
non perché avessi paura di lui, erano il male metodico e
l’odio fanatico che
Gerard rivolgeva a sé stesso a terrorizzarmi. In pezzi. Come
un vaso di vetro o
uno dei suoi quadri: pezzi di colore, pezzi di vita, pezzi di pensieri
contorti, di emozioni violente. Avrei voluto prendere le mani di Gerard
tra le
mie, stringerle forte ed impedirgli di usarle, di dipingere ancora, di
farsi
ancora del male.
Non sapevo se fossero stati questi
miei pensieri a cambiare la mia
capacità. All’improvviso il luogo in cui arrivavo
era sempre lo stesso
appartamento buio; la persona di cui spiavo la vita era sempre lo
stesso
ragazzo e la scena che vivevo sempre la stessa.
Una bottiglia, un divano, una tela;
l’odore di alcool e la puzza di
vomito e sudore. Un nome sussurrato a labbra socchiuse.
Un nome come una preghiera.
Un nome a cui rispondevo sempre.
-…Helena…
Ricky mi guardava distrattamente;
stava sdraiato sul letto, seguendo
svogliato il baseball alla TV mentre io mi vestivo dall’altro
lato della
stanza, sorridendogli quando i nostri sguardi si incrociavano.
-Esci?- mi chiese alla fine,
vedendomi preparare la borsa.
Annuii, infilai le chiavi di casa
di Gerard nella tasca del cappotto e
mi voltai.
-Oggi è il compleanno di
un mio amico.- spiegai.
-Way?- chiese ancora Ricky.
Sbuffai stupita.
-Come lo sai?
-È anche mio amico.- sorrise
lui riprendendo a guardare la partita.- Oscar mi ha detto che passi con
lui un
sacco di tempo…- disse incolore.
-…mi fai controllare da
Oscar?
-Non te.- rispose soltanto.
Sollevò il telecomando
cambiando canale: una giornalista chiedeva ad un
ispettore della polizia se ci fossero progressi nell’ambito
dell’inchiesta sulla
morte di Alex Ventimiglia.
Io posai nuovamente la borsa a
terra.
-Ricky…- iniziai a mezza
voce. Non mi guardò ma mi fece segno di
continuare; io presi fiato.- Cosa…cosa fa esattamente per te
Gerard?
La giornalista si spense
bruscamente proprio mentre incalzava
l’ispettore Percival Bishop a dire di più. Ricky
mi guardò.
-Helena.- mi richiamò
lento e pacato. Lo avevo visto arrabbiato molto
di rado e, solitamente, non perdeva quel suo modo controllato di
scandire i
concetti.- Tu sei una ragazza molto intelligente, caratteristica di te
che
apprezzo…
-Grazie, Ricky.- mormorai a
disagio, conscia che il suo era un
rimprovero e nient’altro.
Ed infatti continuò come
se non avessi detto nulla.
-…proprio per questo mi
aspetto che ti comporti con intelligenza. E sai-
disse fissandomi negli occhi.- che interessarsi al mio lavoro
è molto, molto
stupido.
-…hai ragione Ricky.-
sussurrai ancora, forzando un sorriso.
Lui sospirò,
sollevandosi dal letto con gesti pesanti. Sfilò la giacca
che aveva appeso alla poltroncina davanti la toilette e la
indossò,
sistemandosi la camicia nel riflesso allo specchio. Io rimasi ferma,
aspettando
che lui mi desse il permesso di ricominciare a parlare. Mi venne
vicino,
alzandomi il viso con due dita e baciandomi delicatamente gli angoli
della
bocca.
-Saluta Way e fagli gli auguri da
parte mia.- mi disse.
-Certo, Ricky.- annuii io.- Ci
vediamo domani?
Lui rispose con un cenno mentre
usciva ed accennò anche un saluto con
la mano. Io recepii il messaggio e me lo impressi bene a fondo nella
mente: ti
do il permesso di vederlo, ma sgarra solo mezza volta e tu e lui siete
morti. Non avevo alcun problema a credergli.
Sospirai anch’io,
più che altro avevo bisogno di ricominciare a
respirare normalmente e rimasi qualche minuto ferma dov’ero,
guardandomi
attorno e cercando di svuotare la mente fino a riconoscere
ciò che mi
circondava. Alla fine afferrai la borsa di scatto, presi le chiavi da
casa mia
dall’ingresso ed uscii in strada quasi di corsa.
Avevo appuntamento con Mikey vicino
la
Chiesa, passai prima dal
pasticciere a ritirare la torta che avevo ordinato, poi lo raggiunsi e
lo
salutai con il braccio riconoscendolo da lontano. Mikey mi venne
incontro a
metà strada.
-Ciao!- esclamò girando
curioso attorno alla scatola rosa che reggevo
tra le mani. Risposi ridendo al suo saluto.- Vuoi che la porti io?
-Solo se mi giuri che
arriverà fino a casa!- lo presi in giro.
-Dipende. È al
caffè?
-Se te lo dico, a casa non arriva
sicuro!- ghignai ben consapevole
dell’insana passione per il caffè che accomunava i
fratelli Way. La scatola
gliela lasciai comunque, avviandomi di fianco a lui verso il palazzo
dove
viveva Gerard.
L’idea della
“festa” di compleanno risaliva alla settimana
prima. Il
mio dono si era manifestato di
nuovo,
portandomi da lui quando mi aveva chiamata. Ed io ero andata, correndo
a casa
sua nell’attimo stesso in cui ero tornata padrona dei miei
muscoli e del mio
corpo; avevo corso fin lì per trovarlo sdraiato sul
pavimento del bagno, quasi
incosciente, incapace anche di riconoscermi. Mentre lo guardavo dalla
soglia mi
sono detta che non “sarebbe stato per sempre”. La
sensazione di perdita era
così forte e concreta da spaventarmi. Era stato per questo
che, più tardi, sola
in cucina mentre Gerard dormiva, avevo guardato il calendario ed avevo
notato
il giorno cerchiato di nero e quella scritta – Happy
Birthday – tracciata come uno
scherzo di cattivo
gusto, con un sarcasmo così vero da bucare la carta. Io
avevo pensato che no,
non ero disposta a far fuggire via la vita così.
Gerard ci aprì la porta,
io gli gettai le braccia al collo e gli gridai
“happy birthday” con quella stessa voglia di vivere
che lui sembrava rifiutare.
Dovevo ammettere che il suo viso
stupito ed il suo sorriso impacciato
furono per me un premio più che sufficiente.
Almeno fino all’arrivo di
Oscar.
Gerard stava finendo di aprire il
regalo che Mikey gli aveva comprato
quando la porta suonò. Fu proprio suo fratello ad alzarsi
velocemente,
ammonendo Gerard di non fare nulla finché non fosse tornato.
-Sarà padre Philip!-
suggerì lasciandoci in cucina.
Gerard sorrise entusiasta ed io
ricambiai il suo sorriso, perché non
gli vedevo quell’espressione felice sul viso da troppo tempo.
Ma poi Mikey
tornò, e dietro di lui entrò Oscar con
l’aria soddisfatta ed un ghigno sulla
faccia larga e cattiva. Vidi Gerard sbiancare; Mikey era già
ammutolito, scuro
e silenzioso si sedette al proprio posto in modo meccanico, rigido.
-…cosa…?-
biascicò Gerard sollevandosi in piedi.
Mi accorsi della paura nei suoi
occhi mentre girava rapidamente lo
sguardo da Oscar al fratello e poi di nuovo su Oscar.
-Gerard!- esclamò
quest’ultimo amichevole. Si voltò a salutare me
con
un cenno educato.- Helena, che piacere vederti.- mentì
sghignazzando.
-Ciao, Oscar.- ricambiai
altrettanto falsa.
-Beh?!- riprese lui rivolto a
Gerard.- Fai una festa e non inviti gli
amici?- lo rimproverò con una risata sguaiata. Gerard non
fiatò, era pallido,
spaventato e teso, continuava a guardare Oscar come se si aspettasse di
trovarselo addosso da un momento all’altro.- Ah, pazienza!-
sbottò lui invece,
battendogli una pacca affettuosa sulla spalla. Dal taschino della
giacca tirò
fuori una busta bianca che lanciò sul tavolo con noncuranza,
direttamente
davanti a Gerard, lui non la toccò.- Ricky ti manda i suoi
auguri.- spiegò
Oscar accennando alla busta.- E dice che vuole vederti. Domani sera.-
aggiunse.
Gerard continuava a non parlare e a
non muoversi; Mikey non alzava gli
occhi dal tavolo. Oscar guardò prima un fratello e poi
l’altro, ghignando
ancora; salutò Mikey con la stessa pacca sulla spalla che
aveva rivolto
all’altro, poi mi fece di nuovo cenno ed io risposi chinando
la testa. Con
Gerard non si dissero altro. Appena sentì la porta
d’ingresso chiudersi, Gee
afferrò la busta,diede un’occhiata al contenuto e
poi strappò tutto e lo buttò
via.
-Cosa c’era lì
dentro?- mi azzardai a chiedere mentre, più tardi,
sparecchiavamo la tavola in un clima pesante e nervoso.
Mikey era in salotto, la
televisione era accesa ma, quando ero passata
di là poco prima, mi ero accorta che lui non la stava
davvero guardando. Con
suo fratello non si erano detti una parola.
-Soldi.- mi rispose lui adesso.
Lo guardai. Lui non si
voltò neppure.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** 5.Thank you for the venom ***
Oscar
mi aveva avvisato: stai attento, si sono
fatti furbi; pur di
mettercela a quel posto fanno comunella con quegli stronzi degli sbirri.
“Quindi ci saranno gli sbirri”
avevo recepito quietamente. La sicura della pistola era scattata, il
colpo in
canna, Oscar aveva risposto qualcosa che equivaleva ad un
“sì” ma io non lo
stavo già più ascoltando.
Sì, ero stato avvisato. Per cui
non ero particolarmente sorpreso di ritrovarmi un bel buco in pancia ed
un po’
di piombo da smaltire. Di tutti i posti in cui potevo andare a crepare,
comunque, il mio cervello scelse inevitabilmente il peggiore, ed invece
di
strisciare fino alla porta di padre Philip per l’estrema
unzione, mi ritrovai a
macchiare di sangue il muro di Helena, appendendomi al campanello di
casa sua con
la disperazione e l’incoscienza di un moribondo. Mentre
cadevo lentamente a
terra, osservavo la striscia rossa che le mie dita avevano disegnato
attorno al
nome: Helena era solo Helena anche
sul campanello di ottone. Mi aprì in camicia da notte. Era
bellissima, bianca
ed irreale proprio come devono essere i sogni.
Fu il dolore al fianco a farmi rinvenire.
Soffocai un urlo che mi strozzò la gola e tossii, mentre il
sudore e la febbre
tornavano prepotentemente stordendomi i sensi. Helena mi
posò delicatamente una
mano sulla fronte, spingendo per obbligarmi a stendermi di nuovo ed io
affondai
nel suo profumo e nella morbidezza delle lenzuola di seta del suo
letto.
-…Helena?- la chiamai vedendola
impegnata sul mio corpo.
Il dolore tornò a bruciarmi la
carne, mi morsi le labbra per non gridare e lei sollevò gli
occhi, rivolgendomi
un sorriso stanco che non cancellava la preoccupazione dal suo viso.
-Sei stato fortunato,- la sentii
dire- la pallottola è entrata ed è uscita senza
toccare niente…
-Davvero?- domandai sarcastico.-
Sai che non mi ero accorto che fosse anche uscita!- scherzai
strappandole una
risata smorzata.- Allora…dicevi sul serio quanto al saper
ricucire la gente.
Non mi rispose. La vidi posare la
pezza con cui aveva pulito la ferita dentro una bacinella
già rossa di sangue;
accanto a sé, sul comodino, teneva aperta una cassetta del
pronto soccorso da
cui tirò fuori ago e filo.
-Gerard, - mi avvisò- questo farà
un po’ male.
Annuii, deciso a non farle pesare
quella cosa più di quanto già non avessi fatto.
Serrai le labbra e voltai la
testa dall’altro lato, finché alla fine il dolore
e la febbre presero il
sopravvento ed io svenni di nuovo. Ripresi conoscenza quasi subito,
credo,
perché Helena stava finendo di bendare la ferita ed io
avvertivo il tocco
delicato delle sue dita sul fianco e sul costato. Mi voltai lentamente,
lo
stordimento si faceva più forte man mano che il dolore
diventava sordo,
affievolendosi, ma costante, come un sottofondo pieno premuto addosso.
Respiravo male e faticavo a mettere a fuoco i contorni della stanza;
l’unica
cosa intorno a me che risaltava su uno sfondo nero ed uniforme era
Helena, il
suo viso tirato e la piega affaticata della sue labbra. Non avevo mai
visto il
viso di Helena senza il suo sorriso radioso ad illuminarlo. Allungai
una mano,
sfiorandole la bocca nel tentativo infantile di piegarne gli angoli
all’insù;
lei mi guardò.
-Mi spiace…- mormorai a quello
sguardo che mi studiava apprensivo.
Helena respirò a fondo, tornando
a concentrarsi sul proprio lavoro.
-Non pensarci.- mi ammonì, ma
senza forza.- Dormi.
-Ti ho messo nei guai, vero?-
insistetti io. Non riuscivo a togliere la mano dalla sua guancia, era
fresca e
morbida…- Non sarei dovuto venire…
-Gerard!- rimproverò con un suono
aspro e gutturale. Fu la sua volta di poggiarmi le dita contro la
bocca, lo
fece per intimarmi il silenzio che non volevo rispettare.- Ci penseremo
domattina.- si sforzò di essere più dolce.- Ora
devi riposare.
Sospirò, mettendosi dritta e
tirando in grembo le braccia come pesassero. La ferita mandava fitte
intermittenti, quasi pulsasse di vita propria e respirasse. Helena si
guardò
attorno ed, imitandola, lo feci anche io, cercando di riconoscere le
forme dei
mobili. Quando lei tornò a muoversi, io la seguii con lo
sguardo pregando silenziosamente
che non mi lasciasse.
Helena mi sentì…
girò attorno al letto ed il suo peso piegò
l’altro
lato del materasso, al mio fianco. Voltai la testa sul cuscino
finché i nostri
visi furono uno di fronte all’altro: aveva già
chiuso gli occhi ed il suo respiro
regolare mi accarezzava la fronte ed il naso.
Mentre la guardavo dormire,
pensavo che no…non volevo davvero morire.
G.
***
Non ero una sciocca. Avevo imparato
da tempo l’unica regola
fondamentale in Città: non ficcare il naso negli affari
degli altri se non sei
costretta a farlo. Una regola che, nei fatti, avevo infranto la stessa
sera in
cui ero andata a casa sua per la prima volta. Gerard era uno degli
uomini di
Ricky. Io ero la donna di Ricky.
L’unica relazione possibile tra noi era quella che ci aveva
fatti conoscere: un
incontro casuale sulle scale di casa di chi tirava i fili delle nostre
vite.
Ed invece no. io non mi ero accontentata; non
mi ero accontentata
nemmeno dell’unica sera al bar di Dan, quando mi ero offerta,
più o meno
consapevolmente, per ascoltare le parole di Gerard. Non sapevo niente
di lui
allora, ed, in realtà, nemmeno a distanza di quei mesi in
cui eravamo diventati
amici - … ma stavo mentendo a me stessa
chiamandoci “amici” –
ero riuscita a capire chi fosse e cosa
nascondesse.
Trovarlo quasi morto davanti la porta di casa,
per assurdo, era il più
grosso indizio che Gerard mi avesse mai dato fino a quel momento. Ne
sapevo
abbastanza, a quel punto, per capire quanto grande potesse essere il
guaio in
cui mi ero cacciata. Il fatto che questo non fosse stato sufficiente a
lasciare
chiusa la porta ed a chiamare un’ambulanza perché
se lo portasse via e fosse
qualcun altro ad occuparsi di lui, mi dava il senso di quanto stavo mentendo a me stessa nel chiamarci
“amici”.
Non avevo voluto dare un nome ai miei sospetti
neanche allora: avevo
raccolto Gerard fuori la porta e lo avevo curato senza farmi domande
che
andassero oltre l’evidenza dei fatti. Questo me lo aveva
insegnato Ricky. Tolsi
la pistola dalle dita intorpidite di Gerard, la chiusi in un cassetto
in camera
da letto, medicai le sue ferite e mi assicurai che dormisse e
riprendesse le
forze. Non dovevo fare
né pensare altro.
Almeno fino al mattino dopo.
Il campanello suonò di seguito un
paio di volte nell’arco di tempo,
breve, che ci misi a lasciare la cucina e raggiungere la porta. Chiusi
la
vestaglia stringendo in vita la cinta e feci scattare la serratura,
lasciando
il chiavistello e socchiudendo il battente per vedere i due uomini
fuori la
porta. Il più anziano mi rivolse un
“buongiorno” educato e mostrò il
distintivo, quello più giovane portò le dita al
cappello quando aprii la porta
per farli entrare.
-Sono l’ispettore Percival Bishop,
signorina.- si presentò il primo.-
Lui è il mio collega Usher Stoner.- indicò poi il
ragazzo.
Mi misi tra loro ed il corridoio che portava
alla camera da letto.
L’ispettore Bishop interpretò quel gesto ma non
parlò, vide la porta della
cucina e puntò da quella parte.
-Ha qualche minuto di tempo per noi,
signorina?- mi domandò mentre si
muoveva, seguito dall’altro.
Se pure non lo avessi avuto avrei dovuto
trovarlo, quindi andai loro
dietro chiudendo la fila.
-Certo, ispettore.- mentii cordialmente.-
Caffè?- offrii, avvicinandomi
al bricco sul ripiano della cucina.
Non riuscivo davvero ad essere gentile come
avrei voluto. Ero fredda,
distaccata e per certi versi scostante, lo ero perché il mio
unico pensiero era
per Gerard, steso sul mio letto e pallido come un fantasma per tutto il
sangue
che aveva perso la notte prima. Servendo il caffè sul
tavolo, mi complimentai
con me stessa per la prontezza con cui mi ero alzata all’alba
per pulire il
pianerottolo ed il muro fuori la porta.
-Grazie.- mi sorrise l’ispettore
Bishop.
Ricambiai incolore e mi sedetti nella sedia
libera all’altro capo del
tavolo.
-Signorina Helena,- esordì
l’ispettore in tono professionale. La nota
amichevole, complice che gli dava era il suo tocco personale, quello
con cui
recitava la parte del poliziotto buono. Ma io ero una puttana, i
poliziotti,
buoni o cattivi, li conoscevo.- si tratta di questo. Abbiamo motivo di
credere
che stanotte un individuo sospettato di omicidio si sia introdotto in
casa
sua…o abbia cercato di farlo – corresse.- per
sfuggire alla cattura dopo uno
scontro a fuoco con i miei uomini.
Aspettai che finisse bevendo il mio
caffè, poi alzai un sopracciglio
con aria scettica.
-Davvero?- domandai posando la tazza sul
piano.- E di chi stiamo
parlando?
Sospirò, sfilando da dentro
l’impermeabile beige da sbirro fuori moda
un plico di fogli piegati frettolosamente. Li aprì davanti a
me e tra un
mucchio di foto di “scene del delitto” ne riconobbi
una sola: il portone del
palazzo dove Gerard viveva e lui, Gerard,
che usciva quasi di corsa, occhiali scuri ed aria cattiva.
Bishop dispose una ad una le foto, in una rosa
di sangue e cadaveri al
cui centro mise Gerard, battendoci su con un dito.
-Lei conosce quest’uomo, signorina?
Loro sapevano che lo conoscevo.
-Sì.- risposi senza esitare.
-Il Sig. Way- mi spiegò
l’ispettore studiando con attenzione le mie
reazioni- è sospettato dell’omicidio di cinque
persone, l’ultima delle quali è
stata ammazzata stanotte, sotto gli occhi dei miei agenti.
-Che hanno problemi di vista, a quanto pare.-
commentai incolore.
Bishop trasalì leggermente, io
continuai a guardarlo dritto negli occhi
senza fare una piega.
-…prego?- borbottò lui
rudemente.
-Devono averli se dicono di aver visto Gerard
sparare a qualcuno
stanotte.- Prima che mi interrompesse lo precedetti, dandogli
ciò che cercava.-
Ispettore, Gerard non può avere ammazzato nessuno stanotte:
ieri sera abbiamo
cenato assieme qui da me e lui…ha passato la notte con me.-
dissi in modo che
il concetto fosse ben chiaro- Quindi, di sicuro non può aver
commesso
l’omicidio di cui lo accusa,- proseguii con la stessa calma e
sicurezza.
Raccolsi dal piano la foto di Gerard soppesandola tra le dita, quanto
poteva
essere pesante la sua anima?- ed io, a questo punto, mi porrei dei
dubbi anche
sugli altri quattro.- conclusi aspra, rigettandogli di malagrazia la
foto
davanti. Quando sollevai di nuovo il viso su di lui, sorridevo.-
C’è altro?- mi
informai tranquillamente.
-No, chiaramente.- rispose
l’ispettore.
-In questo caso, vi accompagnerei alla porta.
E prima che lei me lo
chieda, no, non la farò parlare con Gerard. Sta dormendo ed
io non intendo
svegliarlo.
Bishop annuì ed io gli ricambiai il
gesto: ognuno di noi rimaneva sulle
proprie posizioni.
-Mi procurerò un mandato,
signorina, e lei rischia di essere accusata
di complicità in omicidio.- mi avvisò
cortesemente mentre si alzava.
-Bene. Allora la aspetto.- risposi io allo
stesso modo, accompagnandoli
alla porta.
Tornai in camera da letto quasi di corsa.
Gerard era in piedi, sentì i
miei passi nel corridoio e si voltò nel momento in cui mi
fermai sulla soglia,
spostando lo sguardo da lui – era pallido e si
reggeva in piedi a stento,
appoggiato con il fianco contro la cassettiera –
alla pistola che teneva in mano, tra l’indice ed il pollice,
quasi in
bilico, come fosse qualcosa che lo disgustasse dover toccare. Respirai
e presi
atto del fatto che si fosse rivestito ed infilato le scarpe. Lui
sospirò,
togliendo uno sguardo colpevole dalla
mia faccia.
-Devo andare, Helena.- mormorò
cupamente fissando con insistenza il
pavimento.- Anzi, non dovrei proprio essere qui…
-Dov’è che vorresti
andare?- sbottai, muovendomi all’interno della
camera.- Ti reggi in piedi per miracolo, Gerard.- gli rinfacciai
asciutta.
Lui si spostò. Forse pensava di
smentirmi ostentando una certa
sicurezza, finì solo per metterci troppa foga, inciampando
su se stesso e quasi
cadendo nel tempo che mi servì per raggiungerlo e
sostituirmi al mobile,
offrendogli il mio sostegno. Gerard represse un lamento, soffocandolo
in un
suono strozzato, chiuse forte gli occhi e quasi si appese alla mia
spalla,
senza pensare che non sarei riuscita a reggerlo nemmeno volendo. Ma non
mi
lasciai atterrare.
-Visto?- sbuffai con un sorriso che
cercò di essere tenero.
Lui si voltò a guardarmi,
riaprendomi in faccia due occhi sofferenti e
spaventati.
-Ti sto mettendo in pericolo, Helena!-
esclamò disperatamente, e per un
momento provai l’impulso di abbracciarlo e cullarlo come
avevo fatto per mesi.-
Non volevo che tu fossi coinvolta in questa storia!-
continuò lui sciogliendosi
dalla mia stretta ed allontanandomi di forza. Incespicò,
cadde all’indietro a
sedere sul letto prima che potessi afferrarlo di nuovo. A quel punto
rimasi
ferma, guardandolo mentre girava attorno lo sguardo come se non capisse
dove si
trovasse.- La polizia mi cerca e sa che sono qui,- iniziò in
tono basso ed
affrettato.- anche Ricky saprà che sono qui. Tu sei in
pericolo e la colpa è
solo mia, non sarei dovuto venire! Non sarei mai dovuto venire da te! Non volevo coinvolgerti in
questa storia!
Fu più forte di me. Lui le ultime
parole le aveva ripetute quasi
gridando, fissando non me ma un punto alle mie spalle. Io avevo pensato
che era
molto ingiusto da parte sua parlarmi a quel modo e che, vista tutta la
situazione, non ne aveva proprio il diritto. Un attimo dopo gli avevo
dato uno
schiaffo. Gerard mi guardò spalancando gli occhi e
schiudendo la bocca. Come i
bambini non era arrabbiato per essere stato punito senza motivo, solo
sorpreso
che fosse successo così, senza neppure un rimprovero.
Io, invece, ero furiosa.
-Sei un ipocrita ed un bugiardo.- sibilai
cattiva.- Come pensi di poter
dire che non volevi coinvolgermi in questa storia?!- gridai- Se non
avessi
voluto coinvolgermi non mi avresti presentato tuo fratello!- iniziai ad
elencare spietata.- Se non avessi voluto coinvolgermi non mi avresti
dato le
chiavi del tuo dannato appartamento! Se non avessi voluto coinvolgermi
non
avresti accettato il mio aiuto, non mi avresti aperto la porta ogni
volta che
tornavo da te, non saresti venuto a…crepare! sul mio pianerottolo! Quindi no, non ti credo
quando dici che non
volevi coinvolgermi, perché invece hai fatto di tutto
perché ci cascassi dentro
fino a non poterne più uscire!
Mi fermai. Perché mi mancava il
fiato, perché Gerard non mi rispondeva
e mi guardava ferito, perché la rabbia che provavo non era
contro di lui. Era
stato un gioco in due, avevo esagerato nel dibattermi attaccata al suo
amo,
alla fine ero presa. Respirai ancora, serrando forte gli occhi fino a
sentirli
pulsare.
-Li hai ammazzati davvero quei cinque?- chiesi
freddamente.
-Sì.
-Con quella pistola? – non avevo
bisogno di indicarla.
-Sì.
-Te l’ha data Ricky?
-Sì.
Mi lasciai scappare una risatina nervosa.
Aprii gli occhi.
-Lo ha fatto per incastrarti. Ci si sbarazza
sempre dell’arma del
delitto.- dissi voltandomi a cercare la mia borsa.- Su una cosa hai
ragione,-
continuai mentre, trovata la borsa, scavavo alla ricerca del
cellulare.- qui
non puoi restare. Non è sicuro, quell’ispettore
tornerà con un mandato.
-Allora fammi…!- iniziò
lui precipitosamente, tirandosi in piedi. La
ferita fece il resto e lo punì immediatamente,
costringendolo a sedersi di
nuovo.
-Ora mi credi se ti dico che non sei in
condizioni da andartene da
solo?- domandai soltanto.
Gerard non rispose. Io cercai un numero in
rubrica e chiamai.
-Oscar.- salutai spiccia. Dall’altro
capo mi arrivò un divertito “ehi,
dolcezza!” che ignorai.- Ho bisogno che tu mi tolga di torno
gli sbirri che
sono rimasti sotto il palazzo.
Oscar ridacchiò ma non fece domande.
-Way è con te?- chiese, ma nemmeno
quella era una vera domanda ed
infatti proseguì.- Si è fatto pizzicare il
bamboccio, eh?!
-Se lui finisce in mano alla polizia,
dirà tutto quello che sa.-
lasciai cadere fingendo indifferenza.
-Bah!- commentò Oscar, lo sentii
tirare da una sigaretta.- Ricky lo
avrà sicuramente previsto. E non credo che gli
farà piacere sapere che Way è
rimasto lì con te, stanotte.
-Mi assicuro solo che la
“roba” di Ricky non vada in malora per niente.
-Dolcezza,- mi avvisò lui- Way non
è roba di Ricky. Tu lo sei. Attenta
a non mandarti in malora da sola.
Mi morsi le labbra. Oscar aveva ragione. Oscar
aveva ragione. Oscar…
-Me li togli da lì, sì o
no?- lo pressai con un’urgenza completamente
nuova.
Espirò. Il tacco della scarpa
sbatté a terra spegnendo la cicca.
-Aspetta quindici minuti e poi uscite.
Feci alla lettera ciò che aveva
detto Oscar: dopo quindici minuti
esatti lasciammo la casa; in un borsone nero avevo caricato cibo,
vestiti
puliti – Ricky ogni tanto lasciava dei vestiti da me, li
avrei riportati
indietro appena possibile – lenzuola e medicine; trovammo un
auto ad aspettarci
di sotto, chiavi nel quadro e portiere aperte. Mi assicurai che Gerard
fosse a
posto quando si abbandonò pesantemente sul sedile e
poggiò il capo contro la
testiera, chiudendo gli occhi; dopo essermi seduta anch’io
rimasi qualche
momento a studiare il suo viso stanco e l’abbassarsi ritmico
del petto ai
respiri affaticati. Sospirai,
girando la chiave nel quadro ed uscendo dal parcheggio. Mentre guidavo
piano
nel traffico della Città, Gerard si prese il tempo per
tirare il fiato e
rilassare i muscoli; io ne approfittai per concentrarmi sulla strada,
fino a
ricordarmela con esattezza e ad allontanare quasi completamente
l’ansia
impotente che avevo cominciato ad avvertire la notte prima.
-Gerard…- chiamai quando fui certa
di potergli parlare in modo
“normale”. Lo dissi a bassa voce perché
non volevo che si svegliasse nel caso
si fosse addormentato; ma non stava dormendo e mugolò un
assenso sofferente
senza aprire gli occhi- Tu…- iniziai sentendo la voce
incrinarsi e spezzarsi
subito. Me la schiarii- tu non sei un…assassino.- affermai.
Io per prima mi rendevo conto che, in
realtà, era solo una domanda che
non avevo il coraggio di fare. La nascondevo dietro una certezza che
non era
affatto tale e la mia sicurezza fasulla si infranse
nell’attimo stesso in cui
gli occhi febbricitanti di Gerard si aprirono nei miei, rassegnati e
sfiniti
come non li avevo mai visti.
-Mio fratello…Mikey spacciava per
conto di Rivera- mi raccontò in un
sussurro spento che faceva da amplificatore a ciò che
leggevo nel suo sguardo.-
Ha provato a fregarlo e Rivera se n’è accorto. Ha
minacciato di ammazzarlo se
non gli davamo i soldi che Mikey gli aveva rubato. Solo che non li
avevamo.
Così Rivera mi ha offerto di cancellare il debito di Mikey
se avessi fatto
fuori il procuratore distrettuale.
Non dissi nulla. Mi ero voltata per
controllare la strada ed ora rimasi
concentrata sulla guida. Lo sentii sbuffare ed immaginai il sorriso
cattivo che
gli tirava le labbra; si mosse sul sedile, in modo goffo ed impacciato,
lasciandosi sfuggire gemiti soffocati quando il dolore era troppo. Mi
domandai
se fosse tutto lì, ed il silenzio tornò tra noi,
rotto nuovamente dal suo
respiro profondo.
-È chiaro che dopo il primo
omicidio- ricominciò Gerard con voce
arrochita dal dolore e dallo sfinimento.- mi aveva in pugno. Ha
minacciato di
ammazzare comunque Mikey e me ed io
sono
stato costretto ad assecondarlo.- …bene. Ora
sapevo tutto, no?- Quindi, come vedi Helena,
ti sbagli io sono un
assassino.
No.
Non ci dicemmo altro fino a che non arrivammo.
Parcheggiai sotto un
vecchio palazzo in periferia, Gerard sollevò in su lungo i
muri crepati
un’occhiata interrogativa a cui non risposi. Uscii
dall’auto scaricando il
borsone e voltandomi verso la facciata dell’edificio; la gran
parte delle
finestre erano sbarrate, le serrande abbassate, intorno a noi il
quartiere era
silenzioso e spoglio ed erano solo le dodici del mattino. Ricordai il
motivo
per cui ero stata felice di lasciare quel posto.
Gerard fu forte un’altra volta,
arrancando silenzioso per la scala buia
e lasciandosi andare solo quando fummo nell’appartamento e lo
aiutai a sedersi
su uno dei due divani all’ingresso. Gli lasciai riprendere
fiato, alzando le
serrande ed aprendo le finestre.
-Dove siamo?- mi domandò fiocamente
quando mi vide passare per
recuperare il borsone al fianco della porta.
Ne approfittai per far scattare la serratura e
tirare il paletto.
-Era il mio vecchio appartamento.- spiegai
breve- Vado a rifare il
letto.- annunciai poi con le lenzuola in una mano ed il borsone
nell’altra.
Quando tornai da lui, Gerard sonnecchiava,
sdraiato di traverso sul
divano si teneva la pancia con un braccio, proteggendo debolmente il
fianco
ferito con la mano. Attraverso la fasciatura mi accorsi del sangue
fresco, la
ferita doveva essersi riaperta. Allungai le dita, sollevando il braccio
di
Gerard e scostando la maglietta per vedere meglio, lui si
svegliò e mormorò
qualcosa, calmandosi non appena mi vide. Dovevo cambiare la fasciatura.
-Gee, vieni di là in camera. Ci
diamo una pulita e ti cambi.- lo
incitai, aiutandolo a sollevarsi.
Mi seguì, sempre senza fiatare,
sedendosi sul letto fresco di bucato ed
ubbidendo quando gli chiesi di togliersi la maglietta. Disfeci la
medicazione e
ripulii la ferita, aiutandolo poi a sciacquarsi viso e spalle prima di
infilare
la camicia che gli porsi. Gli feci cenno di non abbottonarla,
accatastando
bende e disinfettante sul materasso di fianco a noi. Gerard ubbidiva. C’era
una tale rassegnazione nei
suoi movimenti e nel modo in cui lasciava
che io lo gestissi da farmi percepire con chiarezza quello che non
diceva.
Mentre lavoravo nello stesso silenzio che lui aveva imposto ad
entrambi, mi
resi conto che per la prima volta ogni suo sguardo, ogni suo gesto,
ogni parola
non detta tra noi due mi erano chiari ed io ne coglievo il senso
completamente.
Avrei dovuto esserne spaventata, Gerard non era solo un assassino
– le mani
di Ricky grondavano del sangue di tante di quelle persone…- in lui avevo visto dall’inizio la
follia disperata di chi ha perso
tutto e può tutto proprio per questo. La sua pazzia avrebbe
dovuto spaventarmi,
la disperazione…
Posai le mani contro le sue costole, sotto il
palmo sentivo il calore
della carne, le mie dita erano fredde e gli provocavano brividi sottili
che non
strappavano alcuna protesta; il cuore batteva costante, anche lui
rassegnato,
da qualche parte tra le mie mani ed i suoi muscoli.
-Gerard,- lo chiamai con lo stesso tono
incerto che avevo usato in
macchina e quella che dissi fu esattamente la stessa frase, ma senza
pause- tu
non sei un assassino.
Provò a contraddirmi di nuovo,
immaginavo che per lui quelle cinque
vite fossero una verità incontestabile. Lo fermai prima che
potesse farlo lui,
spingendogli piano contro l’addome per richiamare la sua
attenzione, sollevai
la testa e gli occhi fino a ritrovare i suoi e ribadii piano.
-Nessun assassino prova quello che provi tu in
questo momento, Gerard.
Nessuno soffre come stai soffrendo tu o grida di dolore come fanno i
tuoi…quadri…- mormorai piano, evitando il suo
sguardo mentre esprimevo
quell’ultimo concetto: avevo la sensazione di aver appena
superato una linea
invisibile che segnava un confine ben preciso. Nelle ultime ore ne
avevo
cancellati così tanti, di confini tra noi, da sapere
perfettamente quanto fosse
pericoloso quello che stavamo facendo. Gerard, lui non lo sapeva, nei
suoi
occhi spaventati io vedevo chiaramente
l’impossibilità di capire per quale
motivo fossi così lontana che allungare la mano non era
sufficiente a
prendermi. Proprio come dipingere non era sufficiente a cancellare.- Non sei un assassino, gli assassini io li
conosco e dormono bene la notte. Non hanno sogni e non hanno
incubi…A volte mi
chiedo se abbiano un’anima. Quindi non posso crederti quando
mi dici di essere
un assassino.
Sentii il tocco delle sue mani sul viso.
Delicato, ma non per
gentilezza, la sua era paura. Paura che io mi allontanassi come avevo
fatto
ogni volta che lui tentava di cancellare la distanza tra noi due.
Peccato per
tutti quei confini che erano spariti, gli stessi che avrebbero dovuto
rendere
il suo gesto nuovamente inutile, facendomi scivolare via ancora.
Distante di
una distanza di sicurezza…di comodo, che sapevo non esserci
proprio più.
Sollevai gli occhi a cercare il suo sguardo carico di identica
aspettativa.
-…ti stai sbagliando.-
mormorò disperato mentre avvicinava il volto al
mio.
Le nostre labbra erano così vicine
che non dovevo fare nulla, sentivo
il suo respiro caldo e lui il mio. Il segno tangibile del nostro essere
vivi.
-No.- risposi prima di baciarlo.
***
Non avevo mentito. Si stava
sbagliando e neppure lei sapeva quanto.
Non lo sapeva la sua bocca quando
si chiuse sulla mia, non lo sapeva il suo corpo quando si
aprì tra le mie mani.
Ed amare Helena era esattamente
come avevo sempre creduto: era aria e acqua insieme, perché
lei era fredda,
liquida, trasparente, e scivolava sulla pelle e nelle vene. Sarei
voluto morire
con la sensazione di lei contro i muscoli, con la sua presenza su di me
ed
intorno a me, custodito dal suo corpo come le sue braccia cullavano la
mia
anima. Perché per un momento – mentre la baciavo,
la toccavo, venivo dentro di
lei – il resto perdeva davvero importanza.
…e poi tornava ad averne.
Si riavvolgeva a spirale nel
tempo. Nell’immagine di Helena che si sollevava dal mio
fianco – il letto che
diventava freddo in fretta – e sulle labbra mi sussurrava un
“ti amo”
accompagnato da una promessa a cui non credeva. “Torno
presto” sa già di abbandono.
Allora ero troppo stanco.
Stordito, dolorante, incapace di accettare la sua lontananza e
così ferito da
non riuscire a fermarla. Da qualche parte dentro casa la porta
d’ingresso si
chiuse a chiave, imprigionandomi in un sonno che aveva come unica droga
il
profumo di lei.
Finì in fretta: il suo odore ed
il mio sonno. Mi svegliai di nuovo vivo, percependo il mio corpo come
se mi
fosse stato restituito dopo anni: la ferita pulsava e tirava; i muscoli
delle
braccia e delle gambe erano pesanti, intorpiditi; la testa era come
schiacciata
da una morsa ed io avevo freddo. E nausea. Ripensai a quello che era
successo
negli ultimi giorni; le dita della mano destra prudevano ed erano
appiccicose,
come se qualcosa di vischioso si fosse attaccato ai polpastrelli ed al
palmo; sollevai la
mano davanti al viso
e sentii odore di sangue, netto e deciso. La pelle era bianca, pulita,
girai la
mano da un lato e dall’altro e l’odore di sangue
restava.
…avevo bisogno di bere.
Mi alzai, la stanza cominciò a
ruotare su se stessa ma io avevo freddo e non ci badai. Mi vestii
perché ero
nudo e non ne ricordavo il motivo. Non conoscevo quel posto, urtai
contro i
mobili e le pareti nell’uscire per raggiungere la cucina. La
casa era vuota,
fuori era buio e non c’era alcool da nessuna parte. Quando
andai alla porta
scoprii che era chiusa a chiave dall’esterno. In cucina, sul
tavolo, c’era un
biglietto: “Torno presto. Non muoverti, per
favore”. La porta era chiusa e
fuori dalla finestra c’erano cinque piani di
oscurità a separarmi dalla strada:
dove sarei potuto andare? Cercai il bagno; quando aprii la porta uno
scarafaggio si rifugiò velocemente dentro la doccia, io lo
imitai, accucciandomi
tra il lavandino ed il gabinetto e chiudendo gli occhi contro le
ginocchia,
strette al petto. Helena non tornò presto. Quella sera una
ragazza bionda,
piccola e spaventata, aprì la porta di casa e poi quella del
bagno al posto
suo. Io ricambiai il suo sguardo di ragazzina prudente e sorpresa e lei
aspettò
che dicessi qualcosa. Poi, siccome non parlavo e non mi muovevo, mi
parlò per
prima, mi disse il proprio nome e che Helena le aveva chiesto di
passare a
vedere come stessi. Mi aveva portato qualcosa da mangiare.
La scena si ripeté uguale il
giorno dopo. E quello dopo ancora. Io restavo nel mio angolo, allo
scarafaggio
del bagno non facevo nemmeno più paura e neanche alla
ragazzina bionda, che
aveva sostituito uno sguardo preoccupato a quello prudente. Era strano,
anche
se la vedevo tutti i giorni, ogni volta non ricordavo chi fosse
né quello che
avrebbe detto: “Gerard”, il mio nome,
“non puoi continuare a non mangiare!
Dovresti sforzarti!”. Ma se ne andava quando capiva che non
l’avrei ascoltata.
Alla fine fu la sete – di acqua stavolta – a
muovermi da lì. Il freddo non mi
aveva mai abbandonato in quei giorni ed io ci avevo fatto
l’abitudine.
Barcollai per i brividi appena mi tirai in piedi, e poi
perché la casa
continuava a girare. Stavolta, muovendomi nel buio, mi accorsi che era
anche
popolata: di spettri e di folletti. I primi si muovevano sempre ai
confini del
mio campo visivo, scappando via appena mi voltavo a cercarli. Gli altri
si
mettevano in mezzo ai piedi, facendomi inciampare. In cucina aprii
l’acqua e la
feci scorrere finché divenne chiara, le tubature erano
vecchie e sapeva di
ruggine lo stesso. La mandai giù.
In salotto trovai il borsone di
Helena – glielo avevo visto in mano quando eravamo arrivati
– e dentro c’erano
i miei vestiti sporchi di sangue, ci aveva avvolto la pistola. Era
tutto
nascosto sotto il divano e lo trovai perché inseguivo uno di
quei folletti. Non
era l’unica cosa nascosta sotto il divano, comunque. Quando
mi abbassai lo
gnometto storto e cattivo che stavo inseguendo non c’era
più, ma c’era un uomo
morto, disteso per lungo nonostante fosse molto più alto di
quanto il divano
avrebbe potuto nascondere, provai a tirarlo fuori ma anche se mi
allungavo non
riuscivo mai a toccarlo…
Quando si voltò a guardarmi e mi
disse di smetterla, urlai.
Di come sia arrivato in bagno non
mi ricordo affatto. So che mi sono svegliato e che c’era
odore di vomito. Lo
scarafaggio stava ancora nel box doccia ed io avevo la faccia premuta
contro il
muro ed un braccio aggrappato al lavandino. Lo usai per fare forza e
tirarmi su
dal pavimento, l’odore era disgustoso ed io volevo uscire.
Arrancai verso la
porta di ingresso, girai la serratura interna ed uscii.
Avevo preso la pistola. Oscar diceva che
dovevo tenerla sempre con
me.
Fuori era notte fonda e l’aria
era gelida. Camminai senza sapere dove stavo andando finché
non trovai un punto
di riferimento di qualche tipo, da lì mi mossi
inconsapevole, spostandomi lungo
le strade con lo sguardo in alto. Incontrai due barboni che pensavano
fossi
pazzo e mi evitarono, li guardai cambiare strada e camminare veloci in
senso
opposto al mio fino a sparire dietro l’angolo di un palazzo.
Poi riconobbi il
palazzo.
Helena aprì la porta. Mi guardò
ad occhi sgranati come se non ci credesse nemmeno lei che ero
lì. Io le caddi
addosso pensando solo che aveva un profumo proprio buono.
La terza volta mi svegliai in un
letto che non conoscevo affatto ed era scomodo. Gli occhi erano pesanti
ed
impastati ed avevo addosso una coperta di lana così calda da
soffocarmi. Eppure
i brividi non passavano. Non riuscivo a muovermi; sulla spalliera del
letto lo
stesso gnomo cattivo di sotto il divano mi fissava ghignando, mi
ricordai di
certe leggende del nord Europa – forse
me
l’aveva raccontate mio padre – in cui uno
spirito maligno siede sul letto
dell’ammalato e pian piano gli ruba la salute. Davanti la
porta un uomo ed una
donna parlavano a voce bassissima, lei sembrava spaventata e lui
cercava di
calmarla.
-In ogni caso ora non possiamo
muoverlo, Helena.- stava dicendo. “Helena”
era un nome che mi ricordava qualcosa. La nonna. La nonna si
chiamava
“Elena”.- Se anche la polizia vi ha visto, dobbiamo
aspettare. Hai sentito il
dottore, Helena, sta male, dovrebbe addirittura andare in ospedale.
“Era per metà italiana,
ma non è mai stata fuori dalla Città”.
-È stata colpa mia,- mormorava
lei strozzata.- non avrei mai dovuto lasciarlo lì da solo!
“Gli unici a piangere al suo
funerale eravamo noi”.
-Non essere sciocca! Se non lo
avessi fatto, sarebbe stato Ricky a venire a prendervi.
“È un po’ che
non vado ad un funerale. Il mio potrebbe essere
un’idea”.
-Sì, ma resta il fatto che l’ho
quasi ammazzato!
-Smettila!- Lo disse una voce
nuova. Più giovane, maschile. Questa la
conoscevo…
-…M…Mikey.- Sentii qualcuno fare
rumore, nella porta comparve una terza figura, si fece strada tra le
altre due
e sedette sul letto. Così aveva lo gnomo alle proprie
spalle.- Devi stare
attento…- gli spiegai indicandoglielo.
Rise, prendendomi la mano tra le
sue.
-Ora come ora sei tu quello che
deve stare attento, fratellone!- mi riprese piano, fissandomi in un
modo
intenso e partecipe di cui non capivo la ragione.
-Ho sognato la nonna.- gli
raccontai. Avevo le labbra secche, se parlavo si spaccavano facevano male.- Era
dispiaciuta perché papà e
mamma non erano al funerale…C’erano, Mikey?
-Sì.
Mi guardai attorno. Lui
continuava a stringermi la mano e sulla porta le altre due figure
stavano zitte
e mi guardavano.
-Helena?- chiamai sorpreso quando
misi a fuoco la sua immagine.
La vidi scattare in avanti. Mikey
mi lasciò per farle spazio e fu lei a sedermisi accanto
prendendo le mie dita
tra le proprie. Piangeva senza fare rumore; con l’altra mano
le asciugai la
guancia.
-Scusami, Gerard.- mormorò
piano.- Non volevo lasciarti da solo.
-…quindi ora resti?- le chiesi
io.
Lei sbuffò un sorriso tra le
lacrime e Mikey, in piedi al suo fianco, ci scherzò su.
-Hai visto che alla fine sei
diventata la sua ragazza?!
Helena non gli rispose, mi baciò
a stampo le labbra, facevano già meno male. Si
avvicinò anche padre Philip,
provai a salutarlo ma parlare era un po’ faticoso e
finì che rimasi zitto.
Nemmeno lui disse nulla, comunque, sembrava commosso.
-Devi riposare, Gerard.- mi
consigliò.- Hai una brutta infezione; devi dormire, mangiare
e recuperare le
forze.
-Ed Helena resta con me?- tornai
a chiedere stringendo attorno alle sue dita.
Lei ricambiò la mia stretta, che
era in realtà debole e fiacca.
-Tutto il tempo che potrò,
Gerard.- mi promise pazientemente.- Ma ti cercano e, se io sparisco,
finiranno
per cercare anche me e trovarci entrambi.
Sembrava una cosa molto
importante da capire. Invece non ci riuscivo; continuavo a pensare che
lei
avrebbe dovuto stare con me sempre.
Volevo addormentarmi solo con la consapevolezza di trovarla al mio
risveglio.
Però ero stanco.
Chiusi gli occhi, la mano di
Helena era ancora nella mia.
G.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** 6.Thank you for the venom ***
Gerard rimase in uno stato di torpore confuso per
giorni. Io gettai la
prudenza alle ortiche quando mi resi conto che non riuscivo a stargli
lontana;
ero certa che se fossi rimasta con lui la prima volta – o
fossi almeno tornata,
come gli avevo promesso – Gerard non si sarebbe mai ridotto
in fin di vita.
Quando mi costringevo a lasciare il suo letto per tornare a casa,
vivevo
aspettandomi che lui suonasse alla mia porta ancora una volta e che mi
crollasse tra le braccia, stavolta per sempre. Non successe; tutto
ciò che
dovetti affrontare in quei giorni furono i tranelli che dovevo
architettare per
uscire di casa senza essere seguita dalla polizia. Di Ricky non mi
preoccupavo:
ero consapevole che lui sapeva esattamente dove fossi e con chi,
inutile
tentare di nascondermi. Il fatto, poi, che non mi avesse più
cercata dal giorno
in cui Oscar aveva aiutato me e Gerard a fuggire, era solo la conferma
di
quello che pensavo. Questi pensieri erano il tarlo con cui convivevo la
notte,
stesa al fianco di Gerard ascoltando il suo respiro ogni giorno
più leggero e
sicuro. Non riuscivo a dormire, vivevo in uno stato di veglia sempre
più stanca
e drogata, in cui studiavo quel respiro per accertarmi che fosse tutto
a posto
e, poi, quando ero sicura, ricominciavo a sentirmi addosso il peso
delle fughe
dalla polizia e del controllo di Ricky.
Non mi ci voleva molto per dare un
nome a ciò che provavo. Poteva
essere la prima volta per me – ma mi ricordavo di
un ragazzino, in
Ospedale, per cui una volta era successo che volassi via dal mio corpo,
solo
per poterlo guardare dormire proprio come stavo facendo ora con Gerard – ma, davvero, non era difficile dirmi
che
lo amavo. Ed era rincuorante, qualcosa a cui aggrapparsi quando la
paura era
troppa e di notte ero sola a combattere i fantasmi di entrambi.
Qualcosa a cui
aggrapparsi, come la mano di Gerard che cercavo nel buio e stringevo
forte tra
le mie.
Però
lo sapevo che non sarebbe
bastato.
A quasi una settimana di distanza
dal giorno in cui avevo portato
Gerard da padre Philip, lui si riprese abbastanza da lasciare il letto
e vagare
per la
Chiesa
e la canonica come un’anima in pena. Io lo osservavo da
lontano, quando era suo
fratello a prendere il mio posto al suo fianco e a passare ore
parlandogli,
sorridendogli o semplicemente rimanendo con lui. In quei momenti Gerard
era
diventato completamente assente a sé stesso ed al mondo che
lo circondava,
spostava gli occhi spenti da Mikey alle mura spoglie del cortiletto
dietro la
canonica e viveva come imprigionato tra la vita e la morte a cui lo
avevamo
strappato per sbaglio. C’era un solo modo per ridare colore
al suo viso ed era
che fossi io a sedermi accanto a lui; battevo una pacca leggera sulla
spalla di
Mikey, a cui lui rispondeva rivolgendo a me lo stesso sorriso che aveva
solo per
suo fratello, forse appena più stanco e triste, poi si
alzava in silenzio ed io
lo sostituivo. Era un incantesimo, un rito magico a cui Gerard reagiva
voltandosi e guardandomi, guardandomi davvero,
per poi illuminarsi tutto di una luce calda che riempiva il suo viso
sorridente.
Ero l’unica cosa che lo teneva in
vita. Lo ancoravo al terreno con la mia
presenza. Lui non me lo diceva, mi parlava poco in generale e preferiva
ascoltarmi in silenzio, come se di cose importanti da dire non ne
avesse
proprio e basta. Io però gli leggevo in faccia con una
facilità che mi
terrorizzava sempre di più. Nell’apatia colpevole
di Gerard c’era il segno
evidente della sua sconfitta, si era arreso ed ora aspettava: che
qualcuno lo
salvasse – io –
o meglio ancora che
qualcuno lo finisse. Per quel che lo riguardava, lui non era disposto
neppure a
concedersi il lusso di scegliere da sé.
Ancora una volta avevo la vita di
tutti e due tra le mani e, nel
pesarla, mi resi conto di non potercela fare.
Successe quando tornando a casa
trovai un cesto enorme di rose rosse ad
aspettarmi ed il biglietto che le accompagnava era appoggiato su una
scatola di
gioielleria. Il regalo non lo aprii; come era già successo a
Gerard, anche io
sapevo che Ricky voleva dirmi soltanto che ero sua, mi aveva comprata
perché mi
ero messa in vendita, lui aveva il diritto di fare di me ciò
che voleva. Il
biglietto diceva “stasera passo a prenderti, fai in modo da
farti trovare”, ed
era un avvertimento molto preciso.
Mi feci una doccia, mi misi il mio
vestito più bello, mi truccai e mi
sedetti ad aspettare. Quella notte non tornai da Gerard; Ricky mi
portò a cena
fuori con sé, doveva aggiustare alcuni affari ed io
assistetti al suo incontro
con i Ventimiglia. Anche se non lo fece in quella occasione –
gli accordi andavano
perfezionati – sapevo che il passo successivo sarebbe stato
consegnargli
Gerard. Passai la notte con Ricky, feci sesso con lui, gli sorrisi,
parlai con
lui di qualsiasi argomento volesse, anche dei Ventimiglia. Non mi
lasciai
scappare una sillaba su Gerard e su quello che era successo ed ancora
stava
succedendo in quei giorni. Lui finse di non accorgersi che non
indossavo il suo
regalo.
Il mattino dopo gli preparai la
colazione, e lo salutai con un bacio
sulla porta. Poi corsi a vestirmi e scappai da Gerard ignorando i due
poliziotti di guardia sotto il portone.
Mikey non c’era. Fu
l’ultima cosa che pensai quando lo vidi, perché
l’istante successivo ero tra le sue braccia e ci stavamo
baciando, e quel bacio
lo aspettavamo da tanto di quel tempo – dall’unica
volta in cui avevamo
fatto l’amore – ed era
così importante
che non c’era altro a cui pensare. E non ci fu neppure dopo,
quando le nostre
bocche si separarono ma solo per permetterci di restare appiccicati,
fronte
contro fronte, le mie mani sulle sue guance arrossate, le sue braccia
attorno
ai miei fianchi. Non pensammo proprio, quindi, lo dicemmo e basta ma
sapevamo
che era tutto ciò che ci restava.
-Sposami.
-Sì.
Perché il
tempo…quello non ce lo avevano proprio lasciato.
***
Non sono più tornato indietro.
Non c’era nulla indietro
per cui
valesse la pena di tornare. Sulla sponda del letto lo gnomo che ruba la
vita
agli ammalati si mangiò la mia in bocconi lenti; il mio
corpo diventò un peso
sempre più leggero, non avvertivo il fastidio della febbre,
il dolore della
ferita, la spossatezza per la perdita di sangue. Gli incubi diventarono
cronici, familiari nel buio, così come cronico
diventò respirare. Ero morto e
sepolto; lo era la mai coscienza e lo era la mia ragione, lo era tutto
ciò che
ero stato fino al primo sparo, fino alla prima pallottola che, invece
di
conficcarsi nel cervello della mia vittima, si era piantata nel mio e
lo aveva
spappolato. Andava bene così. Il corpo di quel morto che
portava il mio nome
poteva muoversi, avevo scoperto, conservava tutte le funzioni
biologiche idonee
a farne uno zombie privo di volontà, si alzava dal letto
ogni mattina e
svolgeva qualsiasi attività che gli fosse indicata come
“necessaria” o anche
solo “utile”. Una parte di quelle cose gli veniva
naturale, come se gli fosse
rimasto attaccato alla carne un ricordo di coscienza che faceva
affiorare abitudini.
L’altra parte gli veniva
amorevolmente indicata da mio fratello. Il mio Michael, che sembrava
incapace
di staccarsi da quel corpo senza vita che mi somigliava e lo accudiva
con
l’attenzione che da sempre si da alle cose rotte e
reincollate, quelle che sono
cadute per terra e si sono spaccate per colpa nostra.
Avrei voluto ringraziarlo, in
qualche modo ero ferito da suo senso di colpa; ed allo stesso tempo
avrei
voluto dirgli che quel corpo con cui condividevo il nome gli era
riconoscente
per la sua gentilezza. Il problema era che non riuscivo proprio a
trovare in me
un motivo concreto per tornare indietro.
Era allora che Helena compariva.
Un attimo prima il mio corpo sedeva accanto a Mikey, avvertiva sulla
mano il
calore confortante delle sue dita. L’attimo dopo la
freschezza liquida di
Helena prendeva il suo posto ed era come se il vento mi schiaffeggiasse
il
viso, io mi voltavo e trovavo i suoi occhi ed il suo sorriso pronti ad
accogliere il mio ritorno a casa. Così tornavo. Helena non
mi chiedeva nulla in
cambio. Mi regalava se stessa, parlandomi fino a che entrambi eravamo
ubriachi
del suono della sua voce, e poi parlandomi ancora perché
ovunque io fossi non
rischiassi di perdermi nel niente ed avessi qualcosa a guidarmi. Tutti
e due
rimanevamo storditi allo stesso modo da quelle parole, confusi ci
guardavamo
senza fare nulla, dialogando in silenzio al di sopra ed al di
là di quei suoi
monologhi. Io non avevo nulla da opporre loro.
Avrei voluto dirle che mi sarebbe
piaciuto ricominciare a dipingere, ma ricordavo la sua paura quando a
casa
aveva visto i miei quadri. E poi davvero, ogni volta che chiudevo gli
occhi e
cercavo l’immagine da fissare sulla tela, trovavo solo un
vuoto nero e rosso
che faceva orrore a me per primo. Pensai anche di dirle di Mikey,
così che mi
aiutasse lei a dirgli “grazie” visto che io non
ricordavo come si facesse. Ma
c’erano troppe cose tra me e mio fratello ed io mi rendevo conto
che ad Helena le
avevo solo accennate e spiegarle mi sembrava impossibile. Tutto era
talmente
lontano da essere irrecuperabile, e l’unica cosa davvero
vicina era Helena.
Respira…per Helena.
E poi lei sparì di nuovo. Non so
quanto sia stata via stavolta, da morti il tempo scorre in modo
diverso: sei sospeso per i piedi, guardi
giù e vedi
il mondo. Il mio corpo non percepiva la sua assenza ma solo
la sua
presenza, per cui non era in grado di capire quanto tempo fosse
passato.
Dovetti notarlo per forza io e poi farglielo capire, farglielo sentire
come
un’urgenza nuova, un bisogno fisiologico non soddisfatto. Si
trasformò in un
dolore sordo e costante localizzato da qualche parte nello sterno,
forse tra i
polmoni perché mi mancò il fiato. Soffocai
proprio, con un suono aspro e
raschiante nella gola, quando provai a tirare su l’aria,
strabuzzai gli occhi e
tossii. Mikey mi battè sulla schiena, allarmato, credendo
che mi sentissi male.
-Gerard?!- mi chiamò.
Mi voltai, vedendolo davvero per
la prima volta da giorni.
-Dov’è Helena?- soffiai fuori.
E mi resi conto di essere
nuovamente vivo.
…resuscitato…
Helena non era lì. Mikey prima e
poi padre Philip mi raccontarono in tono via via più
concitato quello che era
successo dalla sera della sparatoria a quel giorno. Sembravano stupiti
di
dovermi riassumere la mia vita. Io non lo ero, non
m’importava come non
m’importavano le cose che dicevano. Helena era il solo fulcro
di tutto il
discorso.
Helena che mi amava – “Ti
amo”, “torno presto”
– Helena che io
avevo messo in pericolo e continuavo a farlo; Helena che era mia e non
avrebbe
dovuto esserlo – “facciamo
che questa
cosa tu non l’hai mai detta”.
Helena.
-Sto bene.- risposi secco e
conciso al termine del racconto, quando Mikey e padre Philip passarono
alle
domande di rito, quelle a cui lo zombie non aveva potuto rispondere nei
giorni
precedenti.
Li lasciai lì ed uscii da solo
nel cortile interno alla canonica, sedetti sulla solita panca di legno
rovinato
e guardai lo stesso muro di tutti quei giorni.
Helena se la sarebbero portata
via. Nella migliore delle ipotesi con la mia vita –
ciò che ne restava – forse
anche con la sua. Non c’era futuro e non c’era
tempo davanti a noi. Non c’era
nulla che non fosse il vuoto nero e rosso dei miei incubi. Tutto
l’inchiostro
di Dio si sarebbe ingoiato la mia Helena e di noi non sarebbe rimasto
niente.
Per questo quando la vidi pensai
che no, non glielo avrei permesso. E quando le andai incontro e la
baciai, mi
dissi che no, non sarebbe successo. E mentre respiravo il suo profumo,
occhi
chiusi e pelle contro pelle i nostri visi vicini, giurai che no, non
gliela
avrei lasciata.
-Sposami.
-Sì.
Se era mia lo sarebbe rimasta. A
qualunque prezzo.
G.
***
Era follia ed inconsciamente
pensavo che fosse anche l’ultima follia
che avrei fatto. Padre Philip trovò per me un abito da
sposa, era di una delle
ragazze che lo aiutavano in Chiesa con le sue attività di
beneficienza e
volontariato. In cambio lui le salvava una vita che lei aveva speso,
tutta
assieme e troppo in fretta, in un matrimonio fallito con un uomo
violento e
nella droga. Era carina lei, si chiamava Alicia e da come guardava
Mikey mentre
con lui mi aiutava a vestirmi, la voglia di ricominciare le era tornata
davvero. A vederli scherzare tra loro, sfiorandosi appena e fingendo
che fosse
per sbaglio, pensai che erano bellissimi e che avrei voluto esserci
quando
quelle carezze distratte sarebbero diventate un camminare mano nella
mano alla
luce del giorno. Alicia strinse in vita i nastri del corpetto ed io
deglutii il
respiro che mi si mozzò in gola. La sposa si sentiva come il
condannato alla
propria ultima ora.
Pensarlo dopo è facile
ma anche allora c’era qualcosa di così
definitivo nei gesti che facevamo da farmi credere che stessimo
accelerando lo
scorrere del tempo – limitato – che
era concesso a me e Gerard.
I fiori erano stati una scelta di
Mikey, un mazzo di rose rosse che
nella penombra della Chiesa risaltavano come in un quadro. Uno dei
quadri in
cui Gerard aveva ritratto la Morte.
La navata scandiva i miei passi
perché non c’era musica a nasconderli
ed io fissavo il viso di Gerard, in fondo contro l’altare, ed
i suoi occhi mi
risucchiavano a lui. Lo avevano fatto dal primo istante…
Mi sorrideva, io posai il palmo
nella sua mano rispondendo a quel
sorriso di benvenuto. Non c’era stato il tempo per fare prove
– “Vuoi tu,
Helena…” – non
conoscevamo la formula se
non dai film o dai ricordi dei matrimoni di qualcun altro – “nella
buona e
nella cattiva sorte” –
ogni parola che
padre Philip pronunciava aveva un senso ben preciso.
“Finché morte non vi separi”
-Lo voglio.
-Congratulazioni, Helena, lasciami
dire che sei una sposa splendida!
Gerard si voltò di
scatto. Uno degli uomini che erano con Oscar puntò
la pistola contro la testa di Mikey, un altro contro Alicia, il terzo
teneva la
mira su di noi.
-Questa è la Casa
di Dio!- gridò padre Philip facendosi avanti.
-Proprio per questo, padre,
speriamo che tutti si comporteranno bene
così da evitarci di aprire la testa a qualcuno.- ritorse
Oscar, molto
ragionevolmente. Bastò a calmare gli animi .- Ottimo.-
riprese lui con un
sorriso beato stampato in faccia – Ora che siamo
più disponibili al dialogo,
posso spiegare il motivo della mia visita.
Gerard fremeva, come una corda tesa
al massimo; pregai che stesse
zitto, e fermo. “Ascoltando” quella preghiera,
l’uomo che teneva sotto tiro
Mikey alzò il cane della pistola; Gerard rilasciò
il respiro, rilassando i
muscoli delle spalle e delle braccia. “Fa che si
salvino”, pregai un Dio in cui
non ricordavo neppure di credere.
-Ricky ci teneva a fare i suoi
auguri ai novelli sposi.- stava dicendo
intanto Oscar, canzonatorio.- Ed anche a ricordare alla sposa che lei
lavora
ancora per lui.
Fece una pausa. Ci si aspettava che
dicessi qualcosa, che firmassi la
condanna a morte di qualcuno: Mikey sarebbe stato il primo.
Deglutii, un sorriso incerto,
voltandomi verso Osar.
-Certo che lavoro per lui.- risposi.
Gerard sussultò. Sentii
i suoi occhi puntarsi su di me in un’accusa
muta. Oscar, invece, sorrise come me.
-Bene.- continuò.-
Perché Ricky ha bisogno di vederti, Helena.
Il secondo sarebbe stato
inevitabilmente Gerard, perché a vedere suo
fratello a terra non avrebbe aspettato un istante per gettarsi contro
di loro a
testa bassa.
-…se ha bisogno di
me…- Soffocai, il bustino del vestito stringeva
forte; andai avanti senza fiato.- andrò da lui.
Alicia e padre Philip avrebbero
seguito nell’ordine dettato dalle loro
reazioni. Chi dei due avrebbe gridato troppo forte o fatto la mossa
più
avventata, sarebbe morto per primo.
-Sarò felice di
accompagnarti.- ghignò Oscar.
Io sarei stata comunque
l’ultima. Il viso ed il vestito macchiati di
sangue, una Madonna del peccato vestita da sposa impura nella casa di
Dio.
Sciolsi le mani da sotto il
bouquet, una afferrò la gonna, l’altra
stringeva i fiori. Io continuai a guardare Oscar, senza sorridere
stavolta.
-Allora andiamo.- acconsentii con
voce ferma.
Gerard allungò la mano a
stringermi il braccio. Ricambiai i suoi occhi
disperati e scossi piano la testa.
-Lasciami andare, amore mio.-
sussurrai per lui, implorante.- Fidati di
me, ti giuro che tornerò da te.- mentii ancora.
Gerard non mi credette ma mi
lasciò. Camminai incontro ad Oscar e fuori
la
Chiesa
senza voltarmi mai indietro; se lo avessi fatto una sola volta, non
sarei stata
in grado di proseguire.
***
Helena era come un fantasma fatto
di ricordi e di sangue. Aveva un
abito bianco la cui coda era gialla per il tempo e sporca della polvere
raccolta lungo la navata; Alicia le aveva pettinato i capelli come
meglio
poteva e loro cadevano comunque sfatti, ricci e pesanti, da sotto il
velo;
teneva il bouquet di rose reggendolo con entrambe le mani, un
po’ lungo sul
corpo magro, così che quella macchia rossa – che
sembrava una rosa anch’essa –
si spalancava poco sotto il suo addome, lì dove il bustino a
punta scivolava
sulla gonna lunga e stretta. Era un fantasma, fuggito al dipinto di una
fiaba
dell’orrore, con i suoi occhi troppo vivi e la sua bocca come
un fiore rosa,
aveva la pelle di porcellana trasparente come una bambola vampira, ed
il
sorriso che mi rivolse nel posare la mano sulla mia era una perla
fredda, come
la carne attorno a quelle dita sottili…
Mi svegliai.
Helena dormiva al mio fianco, il
suo respiro regolare, il peso delle sue braccia sul mio petto
cancellarono
lentamente i resti del sogno. Senza che me ne accorgessi il battito del
mio
cuore si sincronizzò al suo ed i nostri polmoni si
sollevarono all’unisono. Era
viva. Calda e morbida e colorata
come
la ricordavo dalla sera prima.
Le poggiai le labbra sulla
fronte, rimproverandomi distrattamente tra me e me perché
sapevo che l’avrei
svegliata. I suoi occhi si aprirono riconoscendomi e lei mi sorrise e
si rigirò
tra le mie braccia.
-Buongiorno.- mi sussurrò sulla
bocca.
-Buongiorno.- risposi prima di
baciarla. Helena sbuffò divertita contro le mie labbra ed io
la guardai
perplesso mentre si sollevava sulle braccia per potermi ricambiare lo
sguardo-
Cosa c’è? - Scosse la testa, i ricci le si
arruffavano scomposti intorno al
viso.- Sei nervosa? – insinuai ridacchiando anch’io.
-Figurati! Ho solo deciso ed
organizzato il mio matrimonio in mezza giornata!- ironizzò.
-Sei nervosa.- conclusi io
venendo ripagato con uno schiaffo delicato sul braccio.
Non le diedi retta e la baciai di
nuovo per sentirla calmarsi piano piano nel mio abraccio e restare
lì, il seno
contro il mio petto, i gomiti rannicchiati premuti sulle costole
– “No, non mi fai male,
tranquilla”- e la
guancia sulle mie labbra. Così non
posso
vedere quello che pensi, Helena.
-…non credevo che sarebbe
successo.- mormorò ad un certo punto.- Quelle come me non si
sposano.- mi
spiegò.- Al massimo un bambino, ed è un incidente
che ti cambia la vita in
peggio. Ma il matrimonio proprio no.
Mi chiesi se noi avremmo mai
avuto il tempo per un bambino. Non credevo di poter essere un padre,
meno
ancora un buon padre. Provai una
nostalgia fortissima quando mi risposi di no. Nessun bambino.
-Ho sognato che eri morta.- le
raccontai.
Porta sfortuna dirlo ad una
sposa?
Helena mi supplicava con gli
occhi, la sua pelle sotto la mano era bollente come lava ed allo stesso
modo i
suoi occhi bruciavano nell’implorarmi di lasciarla andare.
Potevo avvertire la
sua paura perché era identica alla mia ed entrambi sapevamo
che Oscar, ai piedi
dell’altare, non avrebbe aspettato per sempre. Nella mia
testa, per l’ultima
volta, balenò un pensiero stonato: Mikey sarà il
primo.
-Lasciami andare, amore mio. Fidati
di me, ti giuro che tornerò da te.
La sua menzogna raggiunse il mio
braccio, intorpidendolo e lanciando segnali precisi al cervello. La
lasciai ma
in realtà lei era solo acqua ed aria e non potevo tenerla
con me.
Poi successe che la porta si
chiuse. Helena non c’era più ma nella mia mente
una sposa fantasma, vestita
come lei, camminava a ritroso lungo la navata. Ed il suo sorriso freddo
sul
volto di bambola vampira era troppo lontano per me. Non potevo
raggiungerlo,
così come non potevo fermare il cadere incessante del petali
dei fiori del
bouquet, un profluvio rosso, di sangue, che segnava i passi che la
sposa
fantasma faceva all’indietro, come un gambero,
dall’altare.
“Ho sognato che eri morta, amore
mio, ma io non posso permetterti di morire.”
Trovai la pistola dove l’avevo
lasciata il giorno prima. Non controllai che fosse carica,
perché lo era: Oscar
mi aveva insegnato a non lasciarla mai scarica. I movimenti con cui la
misi
sotto gli abiti, nascondendola nelle pieghe della felpa nera, erano
automatici.
Chiusi il giaccone, tirai su ul cappuccio. Alla Bibbia logora che aveva
fatto
da cuscino all’arma per un giorno ed una notte non badai.
Fuori pioveva, come
la notte in cui ero andato a consegnarmi a Ricky; stavolta tra me e la
sua
porta non c’erano ostacoli se non la distanza. Pensare che
per la prima volta
non ero nemmeno atteso.
…non come le altre volte almeno,
mi dissi ironicamente quando il primo corpo cadde con uno schizzo di
acqua e
sangue ai miei piedi.
-Io l’ho detto, Ispettore, che
alla fine inizi ad abituarti e diventa divertente!- ghignai
soddisfatto,
sollevando l’arma.
E quando il secondo uomo mi venne
incontro - quasi di corsa, direttamente
in braccio! Attraverso la porta spalancata
dell’Inferno…fuori o dentro? –
sparai soltanto, chiedendomi distrattamente quando fossi diventato
così bravo.
Il terzo ed il quarto li trovai fuori lo Studio, per cui compiacermi di
me
stesso non era più rilevante e li ammazzai senza troppe
domande. Abbassai la
maniglia, spinsi il battente appoggiandomici contro con la schiena e
sparai ad
Oscar nello stesso momento in cui lui si voltò ad incrociare
il mio sguardo.
-…non eri veloce come credevo.-
commentai fissando lui ma alzando il cane contro Ricky.
G.
***
-Eppure lo sapevi che vi avrei
ammazzati.
“Oh, sì. Lo
sapevo. Dunque, Ricky? Che facciamo?”
-Ti ho sempre detto di non mettere
il naso nel mio lavoro, Helena.
-E’ una puttana. Non
è nemmeno capace di capire quello che le dici.-
sibilò velenosa sua moglie.
La guardai. Per la prima volta da
quando ero entrata e Ricky mi aveva
tirato un ceffone così forte da spaccarmi il labbro
– “Prima di me non parla
nessuno, Helena. Se vorrò ascolterò le tue
cazzate dopo”- rialzai il viso dal
pavimento solo per guardare quella donna…Non
sapevo neppure come si
chiamasse.
-Sta zitta, Maria.- le
intimò lui, secco ed aspro.
Provava una rabbia che non capivo,
così come non capivo perché fossi
ancora viva. Mi ero aspettata che Oscar mi ammazzasse subito dopo
avermi
portata fuori dalla Chiesa: Gerard serviva vivo perché
faceva parte
dell’accordo con i Ventimiglia, ma io ero roba da buttare.
Mikey e padre Philip
non valevano nemmeno il costo della pallottola e la fatica di
sbarazzarsi dei
cadaveri, probabilmente.
Lo sperai per loro.
Ero rimasta stupita quando mi ero
accorta che la strada che stavamo
facendo era proprio quella per la villa di Ricky ed ancora
più stupita quando,
entrando, avevo trovato anche sua moglie con lui.
-Avresti potuto avere da me
qualunque cosa, Helena!- scoccò rapido
contro di me.
Ma fu sempre lei – Maria
–
che guardai. Contrasse il viso, una smorfia di dolore così
viva e sentita che
provai pena. All’anulare sinistro aveva un diamante, io
pensai stupidamente che
non c’era stato proprio modo – in un solo giorno
– di trovare degli anelli per
il matrimonio.
“…però sono sua moglie lo
stesso.”
Sorrisi. Avrei voluto poter
spiegare a Maria perché lo facevo e
cancellare dal suo viso l’ira muta con cui
ricambiò quel sorriso, dirle che no,
non la stavo affatto prendendo in giro solo che io avevo già
tutto quello che
potevo volere.
Ricky sospirò. Mi voltai
a guardarlo per vederlo spostarsi lento e
stanco dietro la scrivania, massaggiandosi gli occhi. Sulla poltrona si
lasciò
cadere come se non fosse più in grado di tenersi in piedi.
-Andrai ad Atlanta.- disse piano.
Io non capii.- Starai lì, ho già
detto ad uno dei nostri di prenderti a lavorare nel suo locale.
Oscar rise.
Maria mi fissò con uno
sguardo cattivo e trionfante.
Io mi morsi le labbra.
-…come?- biascicai.
Ricky mi guardò, ma
stavolta fu sua moglie a tirarmi un ceffone e le
unghie laccate di rosso mi graffiarono la guancia.
-Tornerai a fare quello per cui sei
nata, puttana!- mi insultò.
Spostai terrorizzata lo sguardo su
Ricky, senza nemmeno badare a quello
che lei mi diceva.
-Ricardo…- mormorai
strozzata muovendo un passo solo in avanti.
-Non azzardarti a chiamarlo per
nome!- ringhiò la donna alle mie
spalle.
Potevo sopportare di morire. Lo
avevo già messo in conto: la mia vita
per la tua, Gerard, anche se la tua, magari, se la sarebbero presi lo
stesso.
Ma sopravviverti, sopravvivere a noi due solo per continuare
un’esistenza che
non aveva colore o sapore prima che t’incontrassi…
-Helena, non te lo sto chiedendo.-
mi spiegò calmo Ricky.- Tu lavori
per me. I due Way lavorano per me. Perfino padre Philip è
sotto la mia
autorità, ognugno di voi sa di dover fare esattamente
ciò che io gli ordino.
-Sì, ma…-
singhiozzai.
-Helena.- scandì lui con
precisione. Il mio nome mi si piantò in
qualche modo dentro il costato, troppo vicino al cuore
perché continuasse a
battere. Chiusi gli occhi ed ascoltai il resto trattenendo un respiro
che non
serviva più a darmi ossigeno.- Tu sai che non ci sono altre
possibilità. Per
nessuno di voi due.
No, non c’erano davvero.
In fondo lo avevo sempre saputo.
Così annuii.
-Partirai stanotte stessa.- mi
comunicò Ricky.
Fu allora che Oscar morì.
Gli altri spari li aveva coperti la
pioggia. I tuoni che infuriavano
fuori – ed io nemmeno mi ero accorta che stesse piovendo. Dio
sembrava d’accordo
con Gerard nel bruciare tutto assieme ciò che restava di
lui. Fu proprio perché
arrivò in silenzio che il colpo che uccise Oscar fece,
invece, un gran baccano.
Mi voltai. Gerard guardava il
cadavere come se ci fosse qualcosa che
gli sfuggisse, ma fu a Ricky che sparò e senza nemmeno
guardarlo in faccia.
Magari è per questo che mancò di ammazzarlo
subito. Oppure mi sbaglio. Il
secondo colpo, comunque, fu fatale.
Maria urlava.
Io no. Io ero congelata. Guardavo
Gerard e non capivo, perché quello
non era lui. Non poteva essere lui.
Al quarto sparo le grida di Maria
cessarono di colpo. La porta
secondaria dello studio, invece, si aprì.
Dava all’interno della
casa – può non sembrare rilevante, ma lo
è –
alle camere ed alla biblioteca, alla sala da pranzo interna, quella che
usava
la famiglia. Io me lo ricordavo perché qualche volta
c’ero stata: anche la
donna del capo, quella non ufficiale, aveva il diritto di dividere gli
spazi
che erano della moglie, quella
ufficiale.
Un po’ Maria la capivo,
per lei non doveva essere facile.
Comunque, la porta si
aprì. E c’era un bambino, che io sapevo che si
chiamava Cosè perché glielo avevo chiesto una
volta che avevamo parlato un po’.
Lui mi aveva detto che ero “una
signora
molto bella”, ma io non pensai né al suo nome e
nemmeno a quella volta che mi
aveva detto che ero bella. In realtà pensai solo a Gerard, e
ai pezzi della sua
anima che mi stavano davanti prendendo la mira. Pensai che, in effetti,
non
avrei mai potuto sopravvivergli: lui aveva appena scelto coscientemente
di
uccidere se stesso. Tutto quello che ne restava almeno.
Fu per questo che lo feci. Mi mossi
e mi misi in mezzo, tra il suo
sguardo, la canna della pistola ed il grido disperato di
Cosè. E finì che
quella parola, “mamita”, sembrò
quasi…ironia! rivolta a me invece che al
cadavere della donna scura e bellissima che stava per terra proprio
lì vicino.
“Non volevo rubarti anche
lui, Maria.”
Poi fu il mio turno di morire.
…pensavo che se fossi
scappata via un’altra volta…una
sola…fossi
fuggita a quel corpo che mi teneva troppo stretta ed inchiodata a
terra…sarei
rimasta viva. Una volta sola…una volta…
…l’ultima…
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Cemetery Drive ***
E con questo siamo all’epilogo della
storia.
Ringrazio tutti coloro che
l’hanno letta, Losegirl per la sua
recensione – temo di doverti dare un grosso dispiacere, ma
sì, è stato Gerard a
sparare. Se può consolarti stava sparando al bambino e lei
si è messa in mezzo
per salvarlo…Non ti consola, eh? XP – e per averla
messa nei preferiti.
Ad Erisachan non dico nulla
perché leggerà in fondo tutto quello che ho
da dirle :****
Grazie anche a Lily_Luna e
NekomatA_17.
Buona lettura ^_^
Cemetery
Drive
xx Maggio xx08
Mi seppelliranno con un vestito
nero. Avrei voluto che mi lasciassero il mio abito da sposa, ma forse
Alicia lo
ha rivoluto indietro; ed anche se ho letto negli occhi di Mikey, quando
ha
guardato Gerard, che non c’è spazio per Alicia
nella sua vita adesso, lei
avrà altri Mikey con cui
essere felice e dimenticare noi tutti.
Noi tre.
Io di me mi sto già dimenticando.
Ho smesso di essere e questo basta a fare di me un “non
più”. Non c’è nulla in
questo momento, solo una processione lenta e scura sotto un cielo
carico di
pioggia.
Piove. E piove, e piove.
Nello sguardo di Gerard neppure
una lacrima, è duro e tagliente e vuoto. La sua rabbia
ribolle zitta sotto la
sua disperazione.
Padre Philip consola il mondo
dalla mia “perdita”, parla a Dio ed agli Uomini ed
io penso che non c’è Inferno
o Paradiso ma solo la Città,
i suoi grattacieli contro le nuvole, sullo sfondo del cimitero.
Ci sono tutti a questa cerimonia.
I “buoni” ed i “cattivi”
accomunati dal silenzio delle parole di padre Philip.
C’è Alicia, c’è Dan, ci sono
le “ragazze” del night giù in Centro. Ci
sono i
due fratelli, i due Way soli contro il mondo intero, in lontananza
c’è
l’Ispettore Percival Bishop con il suo compagno giovane.
C’è la pioggia, ci
sono i Ventimiglia e ci sono le loro pistole.
C’è anche quella di Gerard.
Ci sono proprio tutti, a parte
me.
Padre Philip smette di parlare,
Alicia butta qualcosa sulla bara – una
rosa rossa – ed è un segnale. La terra
ricopre tutto ciò che di me resta
davvero e Gerard neppure mi guarda. Si volta e va via. E tutti lo
seguono.
Perry Bishop, l’Ispettore, lo
ferma per primo.
-Way.- lo saluta con un sorriso.
-Ispettore.- ricambia lui, senza
nessun sorriso- E’ qui per
arrestarmi?
-Oh no!- esclama lui divertito.-
Potrei, ma non m’interessa farlo.- gli confessa come fosse
una gran confidenza.
Gerard ghigna.
-Davvero?- ritorce.
-No. Se io ti arresto,- spiega
apatico l’Ispettore Perry Bishop – tu finisci in
galera, certo. Ma se ti lascio
fuori, Way, i Ventimiglia ti prendono. Prima o poi ti prendono. E
credimi, un
assassino di meno è sempre un bene per questa
Città.
Adesso Gerard ci sta pensando, la
crede anche lui una prospettiva “divertente”
perché sorride senza malizia.
-Non sa quanto ha ragione,
Ispettore!- commenta allegro, per la prima volta dopo giorni.
Ricomincia a camminare.
Io no. Io non esisto. Non ho
gambe per seguire i suoi passi, o braccia per stringerlo a me. Non ho
bocca per
dire il suo nome o un cuore che possa salvarlo…
Nel flusso indefinito degli eventi
e degli stati d’animo, gran parte
della storia è incisa nei sensi.
Io non ho odore, non ho sapore.
Non ho un colore. E non posso più essere toccata,
se ti dico che ti amo non mi senti.
Io non sono, amore mio.
Sono stata…
Helena
“Thank you for the
venom”
MEM 2009
Nota di fine storia della Nai:
Ci sono un sacco di persone che
devo ringraziare per questa storia, ma prima mi sento in dovere di dire
che mi
dissocio dalla stessa XD
Dopo averla scritta ho dovuto
anche correggerla…beh…non mi è mica
piaciuta tanto a rileggerla.
Ma questi sono i miei soliti
problemi con le storie che scrivo: le rinnego sempre
ù_ù *figlie diseredate*
Partiamo con i ringraziamenti!
è_é/
Anzitutto, chiaramente, a Gerard
Way, perché la canzone l’ha scritta lui ed
è fighissimo – giuro! Provate! *-* -
seguire una storia interamente plottata da qualcun altro che si
è fatto il
ma**o al posto vostro!!! *saltella felice*
Poi a LizLiz, perché ogni volta
che leggo una mia storia ho sempre la tragica sensazione di aver preso
un po’
troppa ispirazione da lei e dalle sue storie e quindi mi sento in
dovere di
ringraziarla per l’influenza benefica che ha su questa
scrittrice mediocre ç_ç
Ma un grazie tutto specialissimo
va ad Ery.
Perché Ery a questa storia ha
voluto bene più della mammina disgraziata *indica
sé stessa* e quindi merita
tutti i “grazie” dell’Universo.
Quindi a lei va un grazie proprio
specialissimo *annuisce* :*****
Infine ringrazio in anticipo
tutti coloro che sono passati e passeranno di qua.
See you,
space cowboys! ^_-
MEM
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=343440
|