(VERSIONE VECCHIA) Le Bizzarre Avventure di JoJo Parte 7.1: Dangerous Heritage

di AlsoSprachVelociraptor
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La famiglia Higashikata (parte 1) ***
Capitolo 2: *** La famiglia Higashikata (parte 2) ***
Capitolo 3: *** La famiglia Higashikata (parte 3) ***
Capitolo 4: *** Il giorno della rivelazione (parte 1) ***
Capitolo 5: *** Il giorno della rivelazione (parte 2) ***
Capitolo 6: *** Il giorno della rivelazione (parte 3) ***
Capitolo 7: *** Guai alla Città della Moda (parte 1) ***
Capitolo 8: *** Guai alla Città della Moda (parte 2) ***
Capitolo 9: *** Guai alla Città della Moda (parte 3) ***
Capitolo 10: *** Guai alla Città della Moda (parte 4) ***
Capitolo 11: *** All'inseguimento della Banda! (parte 1) ***
Capitolo 12: *** All'inseguimento della Banda! (parte 2) ***
Capitolo 13: *** All'inseguimento della Banda! (parte 3) ***
Capitolo 14: *** All'inseguimento della Banda! (parte 4) ***
Capitolo 15: *** All'inseguimento della Banda! (parte 5) ***
Capitolo 16: *** All'inseguimento della Banda! (parte 6) ***
Capitolo 17: *** Il volo di Shizuka ***
Capitolo 18: *** Nuova recluta, nuove scoperte! (parte 1) ***
Capitolo 19: *** Nuova recluta, nuove scoperte! (parte 2) ***



Capitolo 1
*** La famiglia Higashikata (parte 1) ***


Shizuka rimase a guardare fuori dal finestrino, silenziosa e assente. Lo sguardo della ragazza divagava da edificio in edificio, casa in casa, le abitazioni sempre più rade man mano che l’auto si allontanava dal centro della città e dalla scuola da cui suo padre era venuta a prenderla in fretta e furia.
Rimaneva immobile e in silenzio, ad osservare il paesaggio buio e quasi tetro di Morioh quel giorno. Era un febbraio buio e piovigginoso, e il 2016 era iniziato proprio con un temporale. Non si preannunciava nulla di buono per quell’anno.
Persa nei suoi pensieri, Shizuka non si accorse di nulla di ciò che le accadeva attorno, attenta a osservare le goccioline di pioggia scivolare lungo l’ampio finestrino del suv di suo padre.
-Shizuka, mi stai ascoltando? È importante!-
La voce roca e graffiante di suo padre la fece sobbalzare, dovendo tornare alla realtà della situazione. Si voltò e lo guardò di sottecchi, osservando quanto teso fosse. I lunghi capelli neri e argentati erano legati in una coda bassa e spettinata, e qualche ribelle capello nero gli ricadeva sulle spesse lenti sporche e appannate dei suoi occhiali. Indossava una leggera polo azzurro sbiadito, sgualcita e evidentemente vecchia, e Shizuka arrivò alla conclusione che aveva dovuto prepararsi al momento, quando ricevette la telefonata dalla professoressa di letteratura quella mattina. Maledetta spiona, la pagherà, pensò la ragazza mora, scostandosi la frangia dagli occhi. Se solo quella maledetta professoressa fosse rimasta al suo posto, se non l’avesse cercata dopo aver trovato il bullo della scuola svenuto ai piedi della scalinata d’ingresso, sicuramente non sarebbe in quella situazione. Di certo non era nei guai, non con suo padre Okuyasu. Era un bonaccione, lo sapeva benissimo, non era particolarmente pericoloso.
-Sì pa’…- sussurrò lei, cercando di sembrare il più dispiaciuta possibile. Era facile giocare con Okuyasu, fargli credere che fosse davvero dispiaciuta per quel compagno di classe con la lingua un po’ troppo tagliente per i suoi gusti. Se l’era meritato di cadere dalle scale, o meglio, di essere spinto giù da esso da una forza invisibile. Nessuna prova a suo favore, credeva Shizuka. Ma quella professoressa aveva, in qualche modo, capito che era stata lei a far cadere quel ragazzo giù dalle scale. Probabilmente dopo aver visto in che modo lui l’aveva aggredita, con che modi si era espresso verso la famiglia della ragazza, o forse per lo sguardo pieno di rancore, odio e voglia di vendetta Shizuka ricambiò le sue prese in giro. Ma Shizuka non poteva farci nulla, è nel suo DNA. Colpa dei caratteracci dei suoi genitori.
Gli occhi grigi della ragazza tornarono a posarsi sul padre, e il suo sguardo pieno di determinazione fisso sul parabrezza. I tergicristalli si muovevano lentamente, in un moto quasi ipnotico, aprendosi sul cielo cupo e umido di Morioh, coperta da pesanti nubi.
-Quante volte te l’abbiamo detto? Usare il tuo stand in questo modo stupido e irresponsabile è pericoloso!-
Parla quello che usa The Hand per prendere le scatole sulle mensole più alte, pensò Shizuka, annoiata dal suo discorso, mentre si appoggiava con la fronte al freddo vetro del finestrino. Già non ne poteva più del suo inutile discorsone. Quante volte aveva tentato di farla ragionare, e quante volte aveva fallito? A Okuyasu non importava davvero, infondo. Non lo faceva per ripicca o per sgridarla, non voleva far star male sua figlia. Al contrario, voleva solo il bene per lei. E se il bene era urlarle un po’ contro, che ben venga.
Ma ovviamente lei non lo ascoltava. Non lo ascoltava mai, le sue parole le entravano in un orecchio e le uscivano dall’altro, senza recepire nulla. Era una testona, chissà da chi l’aveva preso?
Okuyasu sospirò pesantemente, un po’ deluso, e abbassò le spalle contratte fino a pochi istanti prima, cercando di calmarsi. Era davvero inutile innervosirsi.
-Shizu… lo sai che se io... se noi ti diciamo queste cose, è perché ti vogliamo bene. Saranno stronzate pallose, lo ammetto, ma ti prego, ti supplico, ascoltaci…-
-Non dirlo a papà.- fu l’unica risposta che ricevette. Più che scontata. Okuyasu si lasciò scappare un mezzo sorriso e allungò una mano verso di lei, posandogliela sulla testa e accarezzandole lentamente i capelli, più sollevato di prima.
-Questa volta non dirò nulla a JoJo, promesso. Però devi promettermi che non lo farai più!-
Sua figlia annuì lentamente e tenne la testa bassa, stringendosi tra le mani la gonnellina blu dell’uniforme scolastica. Okuyasu continuò il suo discorso, sperando che, almeno ora, sua figlia lo ascoltasse.
-Non importa cosa dicano riguardo me e Jojo, va bene? Non rischiare per noi due. Siamo uomini adulti e sappiamo come difenderci, guarda che muscoli! Dai! Tocca!-
Okuyasu tolse la mano dai capelli della figlioletta e flesse il braccio, facendo gonfiare ancora di più il grosso bicipite, la pelle scura che copriva a malapena i muscoli che fremevano e le vene che pulsavano. Shizuka negò ma suo padre insistette, e lei, come ogni volta, fu costretta a tastare con le sue dita sottili e pallide il muscoli del braccio di Okuyasu, che ridacchiò soddisfatto.
La ragazza tornò a sedersi per bene sul proprio sedile e accavallò le gambe, chiudendosi un po’ su sé stessa e incrociando anche le braccia al petto, ancora un po’ scossa. Aveva ragione, non doveva affatto difenderli. Tra lui e il suo altro padre, Josuke, non sapeva davvero quale fosse il più pericoloso. Josuke era pur sempre due metri e un quintale di dottore burbero e permaloso, ma Okuyasu era molto prono alla violenza e alle strane tecniche “di strada”, come le chiamava lui. Con quelle braccia da far invidia a un culturista, poi, ricevere un pugno da lui doveva essere un’esperienza traumatica. Anche se Okuyasu era tutt’altro che spaventoso o pericoloso.
Benchè entrambi fossero grandi, grossi e spaventosi, le critiche e le prese in giro arrivavano comunque. Sibili tra la folla, sguardi indiscreti, versi disgustati. I suoi genitori non meritavano nulla di ciò, la loro vita era già difficile di suo, senza aggiungerci bigotti e omofobi. Trentatreenni sposati ormai da nove anni, con una figlia adolescente e altri mille problemi. Ragazzini problematici cresciuti alla svelta, diventati adulti forse troppo presto, e in un senso mai davvero cresciuti. E sentirsi ripetere a scuola, in autobus, per strada tutte quelle offese, quelle discriminazioni inutili, quegli sguardi carichi di compassione, Shizuka non lo sopportava. La sua invisibilità l’aiutava parecchio a sfogare quella sua vena di vendetta, che nessuno avrebbe mai detto possedesse. Una ragazzina così all’apparenza mite e tranquilla, un metro e cinquanta di bambina dalle paffute guance pallide e grandi occhi neri e tuttavia freddi e cupi, irraggiungibili e tremendamente lontani.
La station wagon di Okuyasu si arrestò nel vialetto laterale all’enorme residenza della famiglia Higashikata. Le candide pareti della gigantesca villa bianca e blu cozzavano contro il cielo nero su cui si stagliava, e Shizuka rimase ad osservare la sua abitazione oltre al parabrezza ricoperto di acqua piovana. La sua portiera si aprì e Okuyasu le porse una mano, mentre con l’altra reggeva le varie buste della spesa e un ampio ombrello. La ragazza prese la sua mano e scese dall’auto, chiudendosi la portella alle spalle e seguendo il padre, evitando le pozzanghere sul vialetto che conduceva all’entrata posteriore della casa. L’ampio giardino sul retro era quasi del tutto allagato, e i salici e i peschi che contornavano il giardino sembravano quasi piangere, gocciolando continuamente, i rami e le foglie scosse a ripetizione dalle fitte gocce d’acqua che cadevano su essi.
-Che tempo del cazzo- borbottò Okuyasu, stringendo la mano della figlia. –È quasi marzo e fa ancora freddo. Il pesco dovrebbe essere già fiorito, e invece ancora niente!-
Shizuka annuì lentamente mentre rimaneva ad osservare il giardinetto verde smeraldo ricoperto da un manto d’acqua gelida, a renderlo ancora più brillante tra la coltre buia sulla città intera.
Seguì suo padre e si tolse subito le scarpette fradice all’entrata, aggrappandosi poi all’ampia spalla di Okuyasu, spingendosi sulle punte dei piedi per osservare il salotto con discrezione oltre la spalla del padre. Sul divano non c’era nessuno. La televisione era spenta, la Playstation scollegata.
Benchè avesse quasi 18 anni, Shizuka non superava nemmeno il metro e cinquanta, a confronto dei cento e ottantuno centimetri d’altezza di Okuyasu e i quasi due metri di Josuke. Si sentiva parecchio a disagio tra quei due giganti, ma non poteva davvero farci niente: nemmeno i tacchi contavano a diminuire il vertiginoso distacco d’altezze tra lei e i suoi due giganteschi padri.
Shizuka tirò un forte sospiro e scese dalle punte, rimanendo con la fronte appoggiata contro la spalla di Okuyasu, nascosta dietro alla sua schiena, ancora parecchio guardinga e all’erta, nel caso dovesse saltare fuori Josuke. Magari era in cucina, a bersi uno dei suoi soliti caffè extraforti, magari era in garage a lucidare la sua Lamborghini, Shizuka non poteva saperlo. Ma se l’avesse vista a casa prima della fine delle lezioni scolastiche, sarebbe stato davvero un guaio.
-Shizu, oggi è venerdì.- la schernì Okuyasu, voltandosi e afferrandole una guancia tra le dita, scoppiando a ridere. –Jojo ha il turno fino alle sette di sera, il venerdì. Te lo sei scordata?-
Shizuka si tirò indietro con un gridolino e abbandonò la cartella fradicia ai piedi della scala, salendo i gradini con fastidio. L’aveva fatta franca, forse.
Passò il resto della giornata in camera sua, a chattare con le poche amiche riguardo al fatto di quella mattinata. Non sospettavano nulla, Rin e Sachiyo. Degli stand, di Achtung Baby, dell’invisibilità e soprattutto dell’orribile caratteraccio di Shizuka. Il fratello di Sachiyo Kawajiri, Hayato, era spesso in contatto con i genitori di Shizuka, e, a quanto aveva origliato grazie al potere dell’invisibilità del suo Stand, faceva parte dell’organizzazione Speedwagon. Molto strano, dato che né lui, né Sachiyo né la loro madre avevano poteri Stand. Shizuka cercava di non pensare a quei segreti che si aggiravano nella sua Morioh.
Verso le cinque del pomeriggio, stanca di scorrere la sua bacheca di Facebook piena di post dei suoi compagni di classe e dei selfie di suo padre Josuke, scese le scale e si tuffò sul divano. Afferrò il proprio joystick, modificato apposta per lei, e accese la console. Era figlia di un dottore famoso, poteva permettersi di tutto. E un joystick con fantasia militare lilla da oltre ottomila yen erano bazzecole, per la famiglia Higashikata. Il tempo le sfuggì di mano, come ogni volta che si perdeva a giocare ai suoi videogiochi di guerra sparatutto, e la porta principale si aprì sull’ampio salotto, lasciando alla fredda corrente di entrare in casa e gelarle la schiena. Shizuka si voltò irritata verso la porta d’ingresso, la pioggia talmente scrosciante da coprire i suoni dei carri armati che sparavano. Le si gelò il sangue nelle vene quando realizzò che erano ormai le sette di sera, e l’enorme figura di Josuke Higashikata passò l’uscio, quasi buttandosi dentro casa. Era stretto nel suo chiodo di pelle, i corti capelli castani tutti scompigliati e arruffati sulla fronte umida, corrugata in un’espressione infastidita. Con un forte sospiro scalciò la porta dietro di sé e si sfilò di violenza la giacca, rimanendo con una delle sue solite magliette a fantasie sgargianti, a maniche corte e aderenti. Corse su per le scale tutto infreddolito e scappò in bagno a farsi una bella doccia calda, senza salutare nessuno. Okuyasu si sporse dalla porta della cucina, e riuscì a malapena a vedere l’ombra del marito correre su per le scale, bofonchiando un mezzo saluto.
Shizuka cercò di mantenere la calma e tornò a giocare al suo videogioco preferito, montando su un Apache e iniziando a sganciare bombe a caso sull’esercito nemico, cercando così di sfogare l’ansia. L’aveva combinata grossa, quella mattinata, e se l’avesse scoperto Josuke sarebbe stato un enorme guaio. Tra i due, Josuke era sicuramente il genitore col pugno di ferro. Oltre al suo caratteraccio perennemente nervoso e ansioso, l’essere tanto introverso e ipocrita da passare la soglia dell’insopportabilità, era anche parecchio protettivo. Più che protettivo, Shizuka oserebbe definirlo possessivo. La mania del controllo era sempre stata un suo pallino, le raccontò Okuyasu.
Quasi mezz’ora dopo Josuke scese le scale, questa volta con più calma, e si appoggiò allo stipite della porta della cucina, respirando a pieni polmoni l’aria calda proveniente dal forno.
-Hey Oku- lo salutò. L’altro uomo si voltò appena verso di lui e gli accennò un sorriso felice, scuotendo appena la mano che reggeva la grossa pentola in cui stava mescolando la cena. –Ciao! Tutto bene all’ospedale?-
Josuke annuì per nulla convinto e socchiuse gli occhi, ben poco interessato, tirandosi all’indietro i selvaggi riccioli bruni che continuavano a cascargli sulla fronte. –Come al solito. Che fai stasera?-
-Pollo al curry e riso. Ti piace, no?-
-Lo adoro, lo sai- ridacchiò Josuke, allontanandosi dalla cucina. Arrivò alle spalle di Shizuka, sperando che lei non si accorgesse del suo arrivo, e spuntò urlando dal retro del divano, sbattendole le mani sulle spalle e urlando. Shizuka lanciò in aria il joystick e diventò completamente invisibile, saltando sul divano per lo spavento e cadendo a terra, sbattendo col sedere proprio sul controller. Josuke non poteva vedere la scena, ma ciò non lo trattenne dallo scoppiare a ridere e crollare sul divano, sghignazzando talmente forte da non riuscire nemmeno a respirare.
-Sei un cretino!- gridò Shizuka tornando visibile, paonazza in viso per lo spavento e l’imbarazzo, lanciandogli il joystick. Okuyasu, sentito il gran trambusto, si sporse dalla porta della cucina, rimanendo ad osservare il divano in salotto. –Tutto bene?- gridò per farsi sentire, tra le urla di sua figlia e le risate di suo marito. Nessuno lo sentì e non risposero. Voleva dire che era tutto a posto. Alzò le spalle e tornò a mescolare il riso, impaziente di vedere la sua cenetta pronta, sentendosi già lo stomaco brontolare.
Josuke fece il giro del divano e si abbandonò sopra esso, allungando una mano verso la figlia. Shizuka prese il controller rosa glitter del padre e glielo sbatté in mano, sedendosi al suo fianco con un’espressione offesa.
-Ancora coi giochi di guerra, Shizu?- sbuffò Josuke, cercando di muovere il proprio soldato sul campo di battaglia già martoriato dalla figlia. –Lo sai che mi piacciono- lo fulminò lei.
-Tutti uguali, voi Nijimura…- sussurrò Josuke, annoiato, evitando gli sguardi interrogativi di Shizuka.
Lei non rispose e si limitò a continuare a giocare, tentando in tutti i modi di ostacolare il padre, piazzandogli addirittura una mina sotto ai piedi. Josuke rimase a guardare il proprio soldato esplodere con uno sguardo strano, voltandosi subito ad osservarla. –Shizu, com’è andata oggi a scuola?-
Lei non rispose. Alzò le spalle e provò a dissimulare tranquillità, che però non convinse Josuke. Si alzò di scatto e mise in pausa la PS4, causando un gridolino da parte di Shizuka. Lui le si parò davanti e gonfiò il petto, quasi a sembrare ancora più grosso e imponente di quanto già non fosse, incrociando le braccia al petto e picchiettando le dita sul braccio sinistro, completamente tatuato. Shizuka tentò di inventarsi una bugia ma fu fulminata dai taglienti occhi azzurri di suo padre, che sembravano volerla fare a pezzettini. Shizuka si schiacciò istintivamente contro lo schienale del divano e divenne quasi trasparente, mentre Josuke si piegava su di lei, iniziando l’interrogatorio. Prima che potesse aprire bocca, però, fu interrotto dal tempestivo e probabilmente nemmeno conscio intervento di Okuyasu, che annunciò a pieni polmoni dalla cucina che la cena era finalmente pronta. Shizuka colse l’occasione al volo e sgusciò via dal divano, correndo più velocemente che poteva in cucina, arrampicandosi sulla propria sedia di fronte al posto di suo padre Okuyasu, in piedi a distribuire le porzioni di riso e pollo nei loro piatti. Shizuka afferrò le bacchette e le strinse nel pugno, decisamente irritata da tali oggetti, sbattendole un paio di volte nel riso e gracchiando poi al padre, quasi gettandole via. Era cresciuta negli Stati Uniti da inglesi, e non era molto aperta alle tradizioni giapponesi, per qualche motivo, anche se ormai abitava a Morioh da quasi dieci anni. –Non mi piacciono! Dammi la forchetta!!-
Okuyasu, in evidente difficoltà, corse verso la credenza e afferrò una forchetta, tornando più velocemente che poteva dalla figlia mentre reggeva ancora la grossa pentola con l’altro braccio, che quasi gli si rovesciò addosso. Josuke arrivò poco dopo, ciabattando stancamente fino alla tavola imbandita, lasciandosi cadere sulla sua grossa sedia a capotavola, i gomiti piantati nella tovaglia e gli occhi gelidi puntati su un punto imprecisato della cucina, in uno strano silenzio. Gli venne versata la sua razione abbondante di riso e pollo al curry e a malapena fece un cenno del capo di consenso. Okuyasu si allontanò tristemente e si sedette sulla propria sedia, fiondandosi sul suo piatto, con la sua solita foga nel mangiare.
-Oku.- lo risvegliò Josuke dal suo quasi stato di ipnosi da cibo, con una mano sul braccio che lo scuoteva piano. Okuyasu si voltò verso il marito con uno sguardo un po’ accigliato e il viso ricoperto di chicchi di riso e salsa al curry, persino sulle lenti dei suoi spessi occhiali. –Shizuka. Cos’ha combinato questa volta?-
La ragazzina mora si lasciò cadere la propria forchetta nel piatto, col panico negli occhi. Pregò in tutte le lingue che conosceva che il padre non rivelasse tutto il misfatto di quella mattinata, iniziando a sudare freddo e a temere davvero per la sua pelle. Okuyasu fece per rispondere ma venne bloccato da un pronto calcio sullo stinco da sotto il tavolo, da parte dell’infuriata Shizuka. Okuyasu le sorrise debolmente e si voltò di nuovo verso al marito, rivolgendogli un sorrisone a tutti denti, coi chicchi di riso che cadevano sulla tovaglia e le guance tutte gonfie. –Ho la bocca piena!- disse, sputacchiandogli addosso qualche chicco. –Non posso rispondere…-
Josuke non cascò di certo in quella baggianata e rimase ad osservarlo con gli occhi rivolti a due fessure turchesi cariche d’odio, mentre Okuyasu, tutto soddisfatto e fiero del proprio operato, fece un plateale occhiolino alla figlia. Shizuka, che aveva esultato forse troppo presto, vide il proprio castello di carte crollarle davanti quando Okuyasu le fece occhiolino e gesto di vittoria e, ovviamente, Josuke lo vide. Roteò gli occhi e affondò le bacchette di bambù nel riso, borbottando sottovoce, più nervoso del solito.
Per qualche minuto nessuno osò proferire parola. Tutti e tre erano zitti, intenti a mangiare la deliziosa cenetta preparata da Okuyasu. In pochi minuti spazzolò via il proprio piatto, colmo fino all’orlo, e prese il bis e anche il tris. Shizuka, con la sua forchetta tanto adorata, riuscì a mangiare metà dei pezzetti di pollo affogati nel sugo al curry.
-Non lo mangi?- disse Okuyasu, affondando le proprie bacchette nel riso accantonato da parte della figlia. Shizuka negò con convinzione e Okuyasu raccattò anche quello, mangiandolo con foga. Josuke però non mangiò nemmeno un boccone. Si limitava a fissare il riso con sguardo spento, girando una bacchetta nel riso, sovrappensiero. La pesante mano del marito sulla sua spalla lo fecero rinvenire, facendolo girare di scatto nella sua direzione. –Ehi, sei più strano del solito… qualcosa non va?- sussurrò Okuyasu, decisamente preoccupato. Josuke evitò il suo sguardo e alzò le spalle con veemenza, borbottando sottovoce. –È che oggi… a lavoro, Koichi mi ha riferito una cosa…-
Shizuka alzò lo sguardo a sua volta sul padre, stranita. –Una cosa importante?- cercò di spronarlo Okuyasu, massaggiandogli con estrema lentezza la spalla, nel vano tentativo di calmare i suoi nervi perennemente tesi. Josuke annuì. –Jotaro gli ha telefonato- bofonchiò, estremamente preoccupato. -…sarà a Morioh il venti, accompagnato anche… da tutti gli altri Joestar, sai.-
La presa di Okuyasu sulla spalla di Josuke divenne ferrea, mentre si voltava ad osservare il calendario.
-Ma è domani!- gridò quasi disperato, fissando Josuke con uno sguardo terrorizzato. Josuke annuì e abbassò la testa, tentando di scrollarsi la mano del marito dalla spalla. Okuyasu afferrò entrambe le spalle del compagno e lo scosse con insistenza, guardandolo fisso negli occhi. –Jojo, cazzo, Jotaro è tuo parente. Non di Koichi. Perché ti fai trattare così da lui!?- gli gridò Okuyasu, fuori di sé dalla rabbia. –È la tua famiglia, Josuke!-
Josuke passò i suoi occhi azzurro ghiaccio sui suoi castani, folgorandolo con un’espressione di puro odio e fastidio. –Lo sai che mi odiano. Sono solo uno sbaglio.- gli sibilò contro, con fare infastidito.
A vedere i propri genitori fare così, Shizuka si strinse nelle spalle e divenne traslucida, come ogni volta che litigavano e si gridavano contro. Purtroppo i suoi due padri erano teste calde, ed era parecchio facile che le loro testacce dure cozzassero l’una contro l’altra. Di solito, però, il più duro era Josuke. Okuyasu abbassò lo sguardo e gli diede la schiena, facendo il giro della tavola e inginocchiandosi di fianco alla sedia di Shizuka, cercando di rincuorarla a bacetti sulla fronte e carezze sulle guance. La ragazzina tornò visibile e lo abbracciò con forza, sentendosi decisamente meglio stretta tra le forti braccia del padre, mentre Josuke continuava a fissare un punto imprecisato della stanza, con sguardo vacuo e vuoto e un grande, pesante senso di impotenza nel petto.
Jotaro li stava cercando, non era un buon segno.
 
 
 
We can't fall any further if
we can't feel ordinary love
and we cannot reach any higher
if we can't deal with ordinary love.
Ordinary Love, U2 (2013)

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Capitolo 2
*** La famiglia Higashikata (parte 2) ***


-Koichi mi ha detto che assieme a Jotaro verrà anche tutta la sua famiglia… sai, Rosanna e Jolyne e Emporio, quel ragazzino che hanno adottato quattro annetti fa… Vedrai che sarà una bella visita, non hanno mai visitato il Giappone! E anche la zia Holly, la sorella di Jojo! Te li ricordi?-
Okuyasu parlava a manetta, con un sorrisone teso e tutto tranne che sincero sul viso abbronzato, tenendo con forza la grossa scopa tra le mani mentre spazzava con foga il pavimento. Shizuka non rispose, come al solito. Non ne aveva alcuna voglia. Sbuffò e annuì, tenendo lo spolverino con una mano e sbattendolo svogliatamente sui soprammobili kitsch sul mobiletto specchio all’ingresso. Non voleva fare i mestieri domestici assieme a suo padre, ma l’aveva obbligata ad aiutarlo e ad imparare quello che lui faceva, come pulire e cucinare. Shizuka non era affatto tipa da casalinga, ma suo padre aveva insistito così tanto con il fatto di essere la “donnina di casa” che era stata costretta a cedere. Josuke l’aveva rimproverato ricordandogli che era lui in realtà la donna di casa, e avevano tutti riso. Forse tutti tranne lo stesso Okuyasu.
-Non mi ascolti mai!- fu il grido che trapanò i timpani di Shizuka e la riportavano alla realtà. –Sei davvero, davvero uguale a Ke..- e si interruppe.
Si voltò verso di lui, e notò che aveva gli occhi lucidi. –C’è qualche problema?- sussurrò la ragazza, spaventata dal comportamento del padre. Okuyasu negò, si asciugò gli occhi da sotto gli occhiali e riprese furiosamente a spazzolare il pavimento con la vecchia scopa, le sopracciglia accigliate e gli occhi scuri puntati sulle setole rovinate della scopa. –Polvere negli occhi- bofonchiò lui. Era una scusa bella e buona, ma Shizuka preferì non indagare troppo. Se Okuyasu non voleva dire qualcosa, è perché non andava detta.
-Sono felice che lo zio e la sua famiglia ci vengano a trovare.-
Shizuka riuscì a malapena a pronunciare quelle parole, ma aveva imparato a mentire, almeno per il suo bene. Suo padre alzò lo sguardo, le rivolse un sorriso, questa volta vero, e tornò a pulire i pavimenti, con più leggerezza, come se un peso gli fosse scivolato via dal petto.
Okuyasu voleva solo che sua figlia fosse felice. Non desiderava davvero altro da lei, né gloria né ricchezza. Voleva che studiasse, che trovasse un buon lavoro, una persona che la amasse e la rispettasse, e vivesse una vita felice. Non insisteva sul fatto che dovesse intraprendere una qualche sorta di carriera scolastica come invece premeva Josuke, e nemmeno voleva trovasse subito un lavoro e una casa propria come Tomoko. Semplicemente voleva fosse tranquilla, come Okuyasu non fu mai, e avrebbe tanto desiderato essere.
Si voltò ad osservarla e sorrise solo al pensiero che ormai sua figlia, quel fagottino che vide per la prima volta diciassette, quasi diciotto anni prima tra le braccia dell’allora suo fidanzato, fosse ormai una donna. E Shizuka lo trovò così, appoggiato con i gomiti alla scopa, immobile a fissarla con quegli occhi che lei non ha mai capito di che colore fossero. Alla luce artificiale sembravano quasi neri, al sole potevano variare da un comune castano a un ipnotico viola scuro. Era inquietante, qualsiasi colore fossero, ed era inquietante che rimanesse a fissarla. Aveva dei strani momenti in cui rimaneva immobile a fissare e pensare, e quei momenti Shizuka li odiava.
-Non vedo zio Jotaro da un po’- si affrettò a dire lei, voltandosi e passando inutilmente lo spolverino sotto la ringhiera delle scale.
-Quattro anni?- chiese Okuyasu.
-Quattro anni, quasi, sì.- rispose Shizuka. –A Miami, quando io e zia Yukako vi abbiamo raggiunti dopo che il tipo cattivo…-
-Pucci.-
-Sì, quello- ringhiò Shizuka. –Dopo che quello voleva ammazzarci tutti.-
Okuyasu si voltò a osservarla, quasi sentendosi in colpa. Lui, Josuke e Koichi erano stati urgentemente chiamati da Jotaro a Miami, e non poterono fare altro che lasciare la piccola Shizuka a casa della nonna, Tomoko. Al loro ritorno seppero dalla donna che Shizuka pianse tutti i giorni durante la loro assenza, sussurrando che non voleva rimanere ancora da sola. Il solo ricordo diede una forte fitta alle tempie a Okuyasu. No, questa volta era diverso. Questa volta nessuno si sarebbe separato, nessuno avrebbe sofferto. Magari erano solo venuti per festeggiare il diploma di fine scuola di Shizuka. Okuyasu ci sperava, ma sapeva che la realtà era ben lontana da ciò.
-Non succederà niente questa volta, te lo prometto.-
Shizuka alzò lo sguardo su di lui, non sorrise. Annuì e tornò a girovagare per la grossa sala degli ospiti, senza sapere bene cosa fare.
I ricordi di quell’anno, il 2012, le tornarono in mente. I suoi genitori e Koichi che partivano per Miami ad aiutare questo fantomatico “zio Jotaro”, di cui aveva tanto sentito parlare, e mai davvero visto. Almeno, non che ricordasse.
Partirono a metà marzo del 2012, e per giorni interi non ebbero più loro notizie. Shizuka era rimasta a casa di sua nonna Tomoko, che, benchè fosse raramente a casa, sopportava a malapena. Troppo giovane per essere una nonna e, a suo tempo, quasi trent’anni prima, troppo immatura per essere madre. Spesso Yukako veniva a trovarla, e cercava di rimanere discreta e sorridente benchè, dietro i suoi sorrisi freddi, si celasse la paura di perdere Koichi. Shizuka la vedeva, ma faceva finta di nulla, per il bene di tutti.
Tutto rimase bloccato in una coltre di ansia e terrore, fino al ventidue marzo. Shizuka aveva appena finito i compiti, dopo una veloce cena al McDonald offerta da sua nonna, quando una tremenda sensazione la fece rabbrividire. Tutto ad un tratto, la terra tremò sotto ai suoi piedi, e in un tempo non identificabile, tutto mutò. In quel lasso di tempo, si sentì tremare anche dentro. Il mondo sembrò capovolgersi un paio di volte, e Shizuka svenne. Quando si risvegliò, le sembrò di essere diversa. I colori del mondo le parevano diversi, i suoni, la stessa casa di nonna Tomoko le sembrò estranea. Scese a fatica le scale, appoggiandosi a fatica alla scalinata, e si diresse in cucina, trovando Tomoko nelle stesse condizioni. Confusa, spaesata, ma sana e salva.
Un terremoto di inaudita violenza, titolarono i giornali. Zolle che si muovono assieme, terremoti simultanei in diversi posti del mondo, dall’Italia al Giappone, da Miami all’Australia alla Russia. Un fenomeno straordinario, dissero i telegiornali. Semplicemente un movimento improvviso dei continenti, rassicurarono i geologi e i giornalisti. Ma Shizuka sapeva che non era quello, non era così semplice da spiegare. Era cambiato qualcosa, da allora. Cosa, di preciso, non le era ancora chiaro.
E, dallo sguardo abbattuto di Okuyasu, Shizuka non ebbe mai il coraggio di chiedere se lui sapesse di preciso cos’era successo. Suo padre Josuke parlò di accelerazione del tempo e universi paralleli mentre era ancora sotto morfina, nell’ospedale in Florida in cui era stato ricoverato dopo il combattimento contro padre Pucci. Shizuka, accompagnata da Yukako e i suoi due figli, aveva raggiunto Orlando qualche giorno dopo la fine del combattimento, e aveva trovato tutti in ospedale, intontiti e feriti.
Il fatto strano era che nemmeno Crazy Diamond era riuscito interamente a guarire le ferite inflitte da Pucci. “Perché il tempo andava veloce, e anche Crazy D è veloce, ma non così veloce, e poi tutto andava più veloce, ma solo le cose andavano veloce” le aveva spiegato Josuke, gesticolando con l’unico braccio sano, le sue parole strascicate e a malapena comprensibili per colpa di enormi dosi di morfina e antibiotici. Shizuka aveva deciso di non ascoltarlo. Un po’ come sempre, del resto.
Shizuka, annoiata dal pulire casa, rimase a fissare la televisione spenta e a pensare a quell’evento. Era stato sicuramente strano. Non ricordava nemmeno che giorno fosse successo, se il ventuno o il ventitré marzo del 2012. Era come se quei giorni fossero stati cancellati, strappati dal tempo, e…
-Shizu, hai sonno?- le gridò nell’orecchio Okuyasu, col suo solito tono troppo alto. Shizuka gridò spaventata e divenne invisibile, terrorizzata dall’improvvisa interruzione dei pensieri in cui era troppo presa. Okuyasu scoppiò a ridere mentre Shizuka tornava visibile, col viso rosso dall’imbarazzo. –Cosa vuoi?- sbottò lei, incrociando le braccia al petto, indispettita, mentre Okuyasu si alzava gli occhiali per pulirsi gli occhi dalle lacrime a forza di ridere.
-Scusa… volevo dirti di andare a letto. Domani hai scuola, ed è tardi.-
Lei alzò lo sguardo su suo padre, contrariata. –E tu?-
-Continuo io- le rispose, sorridendole. Shizuka odiava aiutare suo padre a pulire casa, ma odiava ancora di più che lui facesse da solo, in quella enorme villa. Okuyasu si piegò su di lei e le scostò la frangia dalla fronte, schioccandole un rumoroso bacio a stampo tra le sopracciglia. –Vai, testona. E non pensare troppo, che poi ti si consuma il cervello.-
Shizuka si staccò malamente da lui e sbuffò a voce alta, dandogli un veloce abbraccio e correndo su per le scale che conducevano al piano superiore, dove si trovavano le camere da letto.
Nel salire le scale, rimase a fissare la propria ombra, per qualche motivo. Era grande, scura e accogliente. Non sembrava nemmeno la sua, di ombra. Squadrata e larga, non si riconosceva per niente. Era strano. Rimase a fissarla finchè non arrivò alla fine della rampa delle scale, dandosi dell’idiota: possibile che dopo quasi diciotto anni di vita ancora non riconoscesse la propria ombra?
Fino ai cinque anni di vita non hai avuto un ombra, disse l’ombra. O almeno, a Shizuka sarebbe piaciuto se gliel’avesse detto. E aveva ragione. Era completamente invisibile, a casa del nonno, prima di essere adottata da Josuke. Era anche giusto che non la riconoscesse, probabilmente. Contenta di quella spiegazione arrivata da chissà dove, passò in punta di piedi davanti alla camera dei suoi genitori in cui dormiva Josuke. Aveva bevuto qualche birra prima di dormire, per cui era decisamente meglio non svegliarlo. Quasi corse nella propria camera, sempre accompagnata da quell’ombra non sua, ma così vicina a lei, si infilò svelta sotto le coperte e spense la luce, rimanendo a guardare il buio soffitto. –Hai qualcos’altro da dirmi, ombra?- sussurrò. –Sai perché zio Jotaro e la sua famiglia vogliono vederci?- continuò, ma stavolta non arrivò nessuna risposta. Andava bene così. Senza che nemmeno se ne accorgesse, persa nel suo flusso di pensieri continuo, chiuse gli occhi e si addormentò.
 
Okuyasu finì di pulire casa a notte inoltrata. Era stanco morto, ma non poteva demordere, non ora. Non voleva che Jotaro e la sua famiglia vedesse la casa in soqquadro, e pensasse male di lui o di Josuke, non peggio di quanto lo vedessero ora. Aveva deciso di rimanere a casa e non lavorare, e queste erano le conseguenze della sua decisione. Non è facile fare il casalingo, era faticoso e noioso, quasi stressante, ma qualcuno doveva pur farlo. E sicuramente non quei viziati di suo marito e sua figlia.
Soddisfatto del suo lavoro, decise che era il momento del meritato riposo. Con passo lento e stanco salì le scale scricchiolanti della casa in cui incontrò per la prima volta l’uomo che amava, diciassette anni fa. Sorrise, pensando che il loro primo incontro è stato uno scontro. È stato amore a quasi prima vista, per lui. Dopo che gli salvò la vita e ne diede un valore, Okuyasu cadde come un sacco di patate ai suoi piedi. Disse che la sua vita era importante. Che voleva che vivesse. Nessuno gli aveva mai detto una cosa così scontata ma così importante. Non poteva definire quel giorno un bel giorno, comunque: in quella stessa giornata conobbe il suo futuro marito e suo fratello, l’unico componente (almeno, l’unico senziente) di ciò che era rimasta della sua famiglia, morì. Scosse forte con la testa, cercando di allontanare quei pensieri. Gli mancava suo fratello, ma la sua vita era cambiata. Era un uomo adulto, un genitore responsabile, ed un marito fedele.  Non era più il ragazzino debole e dipendente del 1999.
Si sedette pesantemente sul letto matrimoniale, svegliando Josuke.
-Sono le tre.- borbottò lui, aprendo un occhio e guardando la sveglia sul comodino, col suo solito tono tutt’altro che gentile o comprensivo.
-Ho appena finito di pulire casa. Sai, è un po’ grandina. E l’ho fatto solo per i tuoi parenti!- mormorò l’altro, dandogli un pizzicotto sul braccio. Josuke scostò il braccio con uno scatto quasi violento e si rigirò nel letto, verso suo marito. Aprì a fatica gli occhi stanchi, solo per guardarlo coricarsi e poi fissarsi per qualche secondo.
-Ti amo- sussurrò Okuyasu, accarezzandogli una guancia e appoggiando le labbra alle sue. Adorava sentire la leggera barba di suo marito pizzicare sotto i suoi polpastrelli, e i suoi corti capelli castani tra le dita quando lo baciava.
Josuke si era tagliato i capelli nove anni prima, per il loro matrimonio. Era già iniziata la cerimonia e lui non si era ancora nemmeno lavato i capelli, acconciare il suo caratteristico pompadour sarebbe stato impossibile, ci avrebbe impiegato almeno qualche ora e il matrimonio sarebbe saltato. E non poteva permettersi di rinviare le nozze con l’uomo che amava. Chiese a Koichi, suo amico fidato, di tagliargli i capelli corti, più corti che poteva. E si presentò così all’altare: con i capelli rasati cortissimi e le lacrime agli occhi.
–I miei capelli sono molto importanti per me, lo sai- gli disse, prendendo le mani di Okuyasu tra le sue. -...rappresentavano il ragazzo che mi salvò la vita, vent’anni fa. Era il mio eroe. Ma ora non ne ho più bisogno. Tu sei il mio eroe, Okuyasu. Io ti amo, e voglio vivere tutta la mia vita con te.- gli disse. Erano passati ben nove anni da allora, tanti ma allo stesso tempo pochissimi.
Okuyasu sospirò sognante, ricordando quei bei momenti. Passò lo sguardo sulla schiena di Josuke, che nel frattempo si era già addormentato ed era tornato alla posizione originaria, ovvero coricato su un fianco, voltandogli la schiena.
Okuyasu gli cinse la vita in un abbraccio, appoggiandogli la fronte alla nuca e addormentandosi, con una strana sensazione nel petto.
 
 
 
 
My father said: "Don't you worry, don't you worry, child.
See, Heaven's got a plain for you.
Don't you worry, don't you worry now."
 
Don't You Worry Child, Swedish House Mafia (2012)

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Capitolo 3
*** La famiglia Higashikata (parte 3) ***


La sveglia a casa Higashikata suonava alle 5:00.
Il primo a svegliarsi era, controvoglia, Josuke. Aveva sempre amato dormire ed aveva sempre avuto una grande difficoltà a svegliarsi presto, ma se voleva portare a casa il pane, doveva sacrificarsi e alzarsi quando ancora prima che sorga il sole.
Come tutte le mattine la prima cosa che fece fu bere un caffè, amaro quasi quanto il suo umore appena sveglio. Prese quest’abitudine nel suo soggiorno in America. Da quando tornò a Morioh, e la caffetteria italiana all’angolo fu lontana milioni di chilometri, faceva portare il caffè macinato direttamente dall’Italia grazie agli agganci di Tonio. Gli piaceva berlo con l’atteggiamento di quel personaggio strano della televisione di quasi dieci anni prima, rude e volgare. Nell’appartamento di suo padre negli Stati Uniti riusciva solo a vedere la televisione del Regno Unito, per colpa del vecchio bastardo e la sua nostalgia di casa. Anche definirlo “vecchio bastardo” lo faceva sentire più vicino a quel personaggio, di cui nemmeno ricordava il nome, ma era stato così d’ispirazione per lui.
Dopodiché passava più di un’ora in bagno, a prepararsi per la lunga giornata: creme idratanti, maschere per il viso; infine si tagliava la barba. Gli piaceva comunque lasciarne un lieve strato sul viso, andava di moda e tutto ciò che era alla moda, lui l’aveva. Infine, dopo essersi ingellato i capelli avere creato un bell’effetto finto spettinato con manate e manate di gel, prese i piercing che lasciava ogni notte sul lavabo, due all’orecchio destro e uno sulla lingua. Sorrise ripensando a quando se li fece per la prima volta, una dozzina d’anni prima. Sua madre rimase impietrita e un po’ inquietata, soprattutto da quello sulla lingua. Diceva che gli dava un’aria da poco di buono, assieme al braccio sinistro completamente ricoperto da tatuaggi.
Una volta finita la solita routine di bellezza mattutina, toccava ai vestiti.
Josuke aveva sempre adorato vestirsi bene e alla moda, ma sempre in maniera stravagante, così che non potesse rimanere inosservato. Jeans attillati con un bel risvoltino, converse basse azzurre e rosa, e una t-shirt aderente dai colori sgargianti. Anche quel giorno, all’ospedale, avrebbe fatto un figurone. 
Nel frattempo, durante la routine mattutina di Josuke, anche Okuyasu si destava dal suo non-così-lungo torpore. Verso le 6:00 la sua sveglia suonò come tutte le mattine e si alzò con velocità. Prese al volo gli spessi occhiali da vista e un elastico per legarsi i capelli dal comodino. Si era fatto crescere i capelli, l’aveva fatto principalmente per poter replicare la treccia che portava suo fratello, ma dopo qualche anno la trovò una tradizione inutile nonché dolorosa da ricordare, e dunque ora una semplice coda di cavallo o uno chignon bastavano. E Josuke diceva che gli dava un tocco in più, e Okuyasu si fidava di Josuke ciecamente, con tutto il suo cuore.
Scese in cucina e iniziò a preparare la colazione per sua figlia, che si sarebbe svegliata tra poco, ed un veloce spuntino per suo marito, che presto sarebbe andato a lavoro.
La sveglia di Shizuka era l’ultima a suonare, alle 6:30. Scese pigramente le scale, abbandonandosi sulla sedia in cucina dove suo padre Okuyasu le aveva sistemato la colazione, una bella scodella di latte e cereali. Aveva 17 anni, ma era comunque una bambina per i suoi genitori. E lei adorava quella colazione, dunque non vedeva un motivo per cambiarla. Mangiò con calma, mentre suo padre Josuke camminava avanti e indietro per la cucina, agitato.
-Allora Oku- iniziò Josuke, torturandosi le mani e rigirandosi qualche anello alle sue dita. –io finisco il turno alle due. Vado al supermercato e- e magari prendo qualcosa da bere? Tipo… tipo roba americana? Dici che bevono roba americana? O forse preferiscono il sakè? Potrei prendere quello tipico di Morioh.-
-JoJo, calmati, per favore siediti e non farti venire un esaurimento.-
-Cosa prendo?-
-Appena Shizu va a scuola vado al supermercato e vedrò di prendere qualcosa io-
-E cosa prendi? E se non piace loro? E se vogliono altro?-
-JoJo! Basta!- sbottò alla fine Okuyasu, irritato dal comportamento del marito.
-Berranno quello che prendo e stop! Va’ a lavorare, che sennò arrivi in ritardo- gli disse, dandogli una leggera spinta sulla spalla. Josuke sospirò e annuì, piegandosi un po’ per dare un leggero e veloce bacio di saluto a Okuyasu. Prese una giacca dall’appendiabiti e si chinò sulla sedia di Shizuka, tirandole con forza una guancia. Lei borbottò infastidita e scacciò la sua mano, provocando una grassa risata da parte del padre. Lo odiava quando faceva così. Dunque lo odiava spesso.
Shizuka è un po’ turbata dal fatto che suo padre, che avrebbe presto fatto trentatrè anni il venti giugno, si vestisse come un adolescente. Certo, sempre meglio che la perenne tuta da ginnastica e canottiera vecchia di anni del suo altro padre.
Sospirò, mettendosi la divisa scolastica della scuola superiore Budo-Ga Oka, appositamente modificata dai suoi genitori.
Aveva scritto sulla manica destra il suo nome in kanji (che ancora non riusciva a scrivere a memoria, francamente. Erano nove anni che abitava in Giappone, e ancora non aveva imparato tutta quell’alfabeto troppo complicato per lei), e qualche spilla qua e là che era appartenuta ai suoi genitori quando ancora andavano a quella scuola.
Salutò suo padre ed uscì di casa, andando alla fermata dell’autobus che l’avrebbe portata a scuola per un’altra noiosa lezione.
Quella giornata sarebbe stata lunga e dura, e Shizuka se lo sentiva. Tutti, nella famiglia Higashikata, sapevano che quel giorno qualcosa sarebbe radicalmente cambiato nelle loro vite.
 
Josuke camminava velocemente per i corridoi dell’ospedale, schivando i pazienti, le infermiere e i colleghi che vagavano con frenesia da una sala all’altra. La cosa più divertente era poter osservare tutti dall’alto in basso, in tutti i sensi del termine.
Era il più giovane dottore ad essere diventato primario di un reparto importante come quello di traumatologia, l’unico ad aver frequentato la Harvard Medical School ed esserne uscito con 30 e lode e, soprattutto, l’unico in tutto l’ospedale a superare il metro e settantacinque. Non era raro che lo scambiassero per uno straniero, con quei tratti fortemente occidentali, la pelle bianca, l’altezza inconcepibile per gli standard asiatici, capelli castani e occhi azzurri tipicamente europei. Non lo sopportava, in effetti, essere trattato così, essere chiamato hafu, essere schernito e anche temuto. Non gli piaceva affatto essere accostato a quel padre che veniva da lontano e che non conobbe fino all’adolescenza. Vecchio bastardo.
E, ora, tutta quella famiglia di sconosciuti era venuta a portare notizie. E lui non era pronto.
Si fermò davanti allo studio di psicoanalisi e bussò qualche volta, per poi aprire la porta. –Ehi Koichi- lo chiamò Josuke, sporgendo e abbassandosi lievemente per non rovinare la curatissima capigliatura e per non sbattere la fronte contro lo stipite, come purtroppo spesso succedeva.
L’uomo dentro la sala, seduto alla sua scrivania sobbalzò.
-Josuke! Non ti avevo sentito. Entra pure! C’è qualcosa che devi dirmi?-
Koichi era cresciuto a sua volta, se così si poteva dire. Ormai superava il metro e settanta, anche se non arrivava al metro e settantacinque di sua moglie Yukako.
Era comunque un uomo, elegante e dai tratti ancora leggermente infantili, grandi occhi azzurro scuro e i suoi soliti, stravaganti capelli biondo cenere tagliati il più corto possibile, tutti sparati all’insù. Non che contasse molto, data la velocità con cui i suoi capelli ormai crescevano da quell’estate del 1999.
Entrò nello studio, chiudendosi piano la porta alle spalle e sedendosi sulla piccola sedia di fronte all’amico. A malapena entrava nella sedia, i suoi fianchi erano troppo larghi per i braccioli della sedia e le sue gambe troppo lunghe per stare in una posizione comoda. Ma la faccenda era seria e anche se già iniziava a sentire le anche dolorare, avrebbe resistito. –…è per Jotaro.- mormorò Josuke.
-Oh, c’è qualche problema?-
-Io e Oku ne abbiamo discusso, ieri sera. L’ultima volta che ci ha chiamato era per la faccenda di Pucci. Io… Koichi, ho paura.-
Lui non disse niente. Appoggiò il mento alla mano e ascoltò l’amico, annuendo.
-Jotaro, nove anni fa, mi chiese se volevo unirmi alla Fondazione Speedwagon.
Mi ero appena sposato, ed avevo ottenuto l’affidamento di Shizuka. Mi stavo trasferendo a Morioh, mi avevano appena accettato all’ospedale, avevamo appena ristrutturato la casa di Oku… stavo creando la mia vita perfetta. Non volevo guai… io voglio solo una vita tranquilla. Vivere una vita felice con la mia famiglia.-
Koichi sospirò. –Ti capisco. Nemmeno io voglio che Yukako e i miei piccoli Manami e Tamotsu corrano dei rischi. Ma questo è il nostro destino, Josuke.-
Josuke poteva sentire il groppo in gola che iniziava a salire e gli occhi pizzicare. Non voleva quella vita. Non voleva che suo marito e sua figlia l’avessero. Ma Koichi aveva ragione, Koichi ha sempre ragione, non potevano evitarla. Cercò di cambiare argomento, di evitare quelle lacrime che gli stavano annebbiando la vista.
-Sai di cosa vuole parlarmi oggi Jotaro?-
-Mi dispiace, ma non mi ha detto niente.-
Annuì e si alzò di scatto dalla sedia troppo piccola, staccando a forza i braccioli che si erano infossati nei suoi fianchi.
–Lo sai che anche Tamane, la neurologa e primaria, ti vuole sentire? Ieri ha chiamato me in riunione e tu non ti sei presentato. Si è arrabbiata parecchio.- cercò di continuare Koichi. 
Josuke sbuffò, appoggiandosi alla parete con le sue larghe spalle. –Ancora per la storia del tipo che ho preso a pugni? L’ho guarito con Crazy D.-
-Ma non puoi picchiare la gente e guarirla col tuo stand così, magicamente!-
Josuke roteò gli occhi, scalciando l’aria. Si mise le mani in tasca e cercò di guardare in cagnesco Koichi, con quell’espressione sprezzante di quel personaggio di quella serie idiota inglese che credeva di aver dimenticato. Perché ci stava pensando così tanto, quel giorno? –Che si fotta, il tizio e pure Tamane.- borbottò. Oh sì, Josuke voleva essere proprio così.
-Che saremo nei casini sia io, sia tu, se Tamane si accorge di qualcosa di strano!-
Koichi tentava di far ragionare in tutti i modi Josuke, ma non c’era possibilità. L’uomo sbuffò, girò i tacchi e con un calcio aprì la porta, rifiondandosi nel traffico dei corridoi, non senza aver salutato il suo miglior amico con un sonoro dito medio.
Josuke tornò a camminare per i tristi e candidi corridoi dell’ospedale, aggiustandosi il camice e mordendosi forte il labbro inferiore, pensieroso e preoccupato.
-Ah! Josuke! Aspetta!-
Koichi lo richiamò dal suo studio, sporgendo dalla porta. Josuke si girò, sorpreso.
-…intendi davvero andare in giro vestito così? In un ospedale??-
Allora il castano lo guardò e ammiccò giocoso.
–Almeno è una buona vista! Ammettilo che, in questo posto così triste e noioso, sono come un raggio di sole!- e se ne tornò a camminare per la sua strada ancheggiando un po’, più sollevato di prima.
 
Sull’autobus, Shizuka sedeva sempre da sola, nella parte anteriore del pullman. Non aveva amici particolarmente vicini a lei, più che altro erano tutti conoscenti con cui raramente scambiava qualche parola. Non era una ragazzina chiacchierona, e odiava essere osservata e ricevere troppe attenzioni.
A scuola era lo stesso. Non alzava mai la mano per intervenire, e a malapena rispondeva alle domande dei professori, e quando rispondeva era un macello: era tremendamente timida e nervosa, e riusciva solo a far uscire parole mozzate e balbettii incomprensibili. I professori ridevano.
–Come fai ad essere la figlia di Higashikata e Nijimura? Erano sempre così chiacchieroni e sicuri di sé, quei due!-
Shizuka non sapeva che rispondere. Annuiva abbassando la testa, e pensando che non sarebbe mai stata così intraprendente e coraggiosa come i suoi papà.
Frequentava la classe terza, che presto avrebbe finito. Shizuka non vedeva l’ora che le vacanze arrivassero, e che non dovesse più svegliarsi tutte le mattine alle sei e mezza di mattina e studiare tutti i giorni e, soprattutto, dover frequentare quelle persone. Gli idioti, come li chiamava con le sue due amiche, che frequentavano classi diverse dalla sua. Quegli studenti che la sfottevano per il fatto che avesse due padri, il suo modo di parlare con quel forte accento inglese, per quei codini tanto infantili, per la sua silenziosità. Però Shizuka non aveva voglia di spiegare cosa volessero dire per lei, queste piccole prese in giro che la colpivano veramente molto nel profondo. Josuke e Okuyasu erano state le prime persone a prenderla veramente sul serio, quando lei ancora abitava negli Stati Uniti con i suoi anziani nonni Joseph e Suzie, nel loro grande e silenzioso appartamento.
Era molto piccola quando Josuke e Okuyasu si trasferirono nell’appartamento sopra quello dei suoi nonni. Joseph e Suzie erano troppo vecchi per occuparsi di una bambina così piccola, e troppo stanchi per dedicarle attenzioni.
Con quei due però le cose cambiarono. Erano una coppia giovane, ragazzini spensierati e innamorati alla follia. La piccola Shizuka fu, per loro, una benedizione, e per la bimba loro due furono la salvezza. Giocavano con lei, le facevano il solletico e gli scherzetti, la portavano allo zoo e a mangiare il gelato e al parco a dondolarla sull’altalena. Ricordava particolarmente quando Josuke la faceva sedere sulle proprie cosce, tra un momento di studio e l’altro, e assieme guardavano la televisione. Più di tutti, quell’orribile serie con quel tipo brutto e cattivo, che suo padre sembrava adorare alla follia. Era una bambina felice, tranquilla e, eccezionalmente, da quando fu adottata dai Joestar, completamente visibile. Per la prima volta nella sua breve vita, era apprezzata e amata, anzi, adorata.
Per questo motivo, lei non poteva accettare che qualche stupido ragazzino prendesse in giro gli uomini che l’hanno salvata da una triste e inutile esistenza. Non era giusto, non era giusto che li chiamassero con quelle espressioni così dispregiative, che li vedessero con tale disgusto degli uomini così meravigliosi.
Ogni tanto si vendicava, usando Achtung Baby e facendogli del male. Non era particolarmente violenta o testa calda come i suoi, ma non era di sicuro tanto sottomessa da farsi mettere i piedi in testa da chiunque. Poteva sopportare, ma il limite arrivava sempre. E chi faceva traboccare il vaso la pagava cara, chiunque esso fosse. Shizuka, in questo ultimo periodo, era molto stressata e stanca, sentiva di essere sul limite e che una qualsiasi cosa l’avrebbe fatta scoppiare. Ma tentava di non pensarci.
Le ore trascorsero veloci a scuola, e lei non rimase quasi mai attenta. Era preoccupata per quel giorno. Sarebbero arrivati i parenti, e lei ne aveva il timore. Ne era spaventata soprattutto per il fatto che, dopo anni e anni, avrebbe rivisto suo nonno.
 
Quando tutti i componenti della sua famiglia se ne andarono di casa, Okuyasu tirò un forte sospiro. La giornata doveva ancora iniziare ma lui era già stanco morto.
Prese un ombrello al volo e si diresse verso il supermercato.
Le giornate di febbraio a Morioh erano piovose e grigie, e non aveva affatto voglia di rimanere sotto uno dei tanti acquazzoni che colpivano la città di tanto in tanto.
Fece tutta la strada a piedi, perché Josuke l’altro giorno fece un’osservazione sui chili presi da Okuyasu negli anni di matrimonio. Gli afferrò un rotolo di ciccia e ridacchiò.
Okuyasu era un tipo abbastanza permaloso e, a dirla tutta, non aveva ancora del tutto perdonato il marito per quell’affronto. Non poteva permettersi di andare in palestra tutte le settimane come Josuke, dato che doveva fare tutto lui in casa. Non ne aveva il tempo materiale, e non ne avrebbe nemmeno avute le forze. Già doveva occuparsi della casa, della bambina, e ora anche dei parenti. Non ce la poteva proprio fare.
Okuyasu, quando lui e Josuke abitavano negli Stati Uniti e suo marito (allora solo fidanzato) andava all’università, si dava un bel da fare a lavoro: faceva lavoretti come il commesso o il fattorino, e prendeva quel tanto che bastava a Josuke per pagarsi gli studi, spese già abbastanza abbassate dalla sostanziosa borsa di studio che era riuscito a prendere grazie alle sue doti e agli aiuti del cognato Joseph.
Una volta tornati a Morioh, preferì non lavorare: c’era già Josuke che prendeva un bello stipendio in quanto dottore, e Okuyasu preferì rimanere a casa a fare il casalingo. Non pensava fosse degradante o inutile, anzi.
Chi farebbe da mangiare? Chi laverebbe i vestiti sporchi? Josuke non era capace di fare una qualsiasi faccenda domestica che non fosse farsi un panino o un caffè, e Shizuka era ancora piccola per occuparsi di certe cose. O , più probabilmente, era solo pigra e viziata come suo padre Josuke.
Passò tra i corridoi del supermercato prestando poca attenzione alla mercanzia, buttando nel carrello gli ingredienti per la cena che avrebbe preparato quella sera, per poi fermarsi al banco dei dolci e prendere una torta. Era una giornata speciale e doveva prendere qualcosa di speciale. Okuyasu non era meno spaventato di suo marito per l’improvvisa visita dei parenti, che usualmente portano rogne con loro, ma lo dimostrava decisamente meno, forse per la sua natura ottimista, forse per il fatto che era sempre un po’ più iperattivo del calmo e colletto Josuke.
Tornando a casa con le pesanti borse della spesa in mano, notò delle auto parcheggiate davanti a casa sua e delle persone in attesa. Okuyasu deglutì forte e iniziò a innervosirsi: erano già arrivati.
Jotaro lo aspettava davanti a casa con un’espressione spazientita, mentre continuava a guardare l’orologio con fretta, il cappello blu calato sul viso. Alzò lo sguardo e lo vide.
-Okuyasu.- lo incitò Jotaro. La sua voce gli dette i brividi, era decisamente turbato e infastidito. –J-Jotaro! Ciao! Quanto tempo..eh?- cercò di sdrammatizzare.
Dall’automobile di Jotaro scesero Jolyne e Emporio, che lo guardarono di sghembo.
Fece il sorriso più tirato e finto che avesse mai fatto, mentre si avvicinava alla famiglia di suo marito, coi muscoli rigidi e i gomiti che gli facevano male per colpa dei tanti ingredienti che aveva preso al supermercato.
Notò che in auto era rimasta un’altra persona, curva su sé stessa. Deglutì forte.
Era il padre di Josuke.
Sapeva sarebbe venuto anche lui, ma ritrovarselo davanti dopo così tanti anni era tutt’altra cosa.
L’ultima volta che si erano visti è stato dopo il loro matrimonio, quando lui e Josuke presero in braccio Shizuka e se ne andarono da New York, per sempre.
Joseph ci teneva a Shizuka, e loro due gliel’avevano portata via. Certo, era per una causa buona, la bambina stava decisamente meglio con loro che con un anziano vedovo chiuso in una casa di riposo, ma Okuyasu ancora lo vedeva come un affronto di Josuke verso il suo vecchio e indifeso padre, una vendetta che sperava di prendersi da quando era nato. Lasciato allo sbaraglio in un mondo che non lo voleva, con una madre troppo giovane e il peso di averle rovinato la vita sulle spalle. Di essere di troppo, un errore a cui ormai non si poteva più rimediare.
Okuyasu si sentiva il complice di questa vendetta di Josuke, e non poteva fare a meno di sentirsi davvero molto in colpa.
Si offrì di aiutare l’anziano Joseph a scendere dalla macchina, ma lui gli rivolse uno sguardo strano. Okuyasu non capì che espressione era, ma aveva un grande timore che fosse di r
abbia. Rimase imbambolato davanti all’auto, la portella tra le mani e le borse della spesa per terra, mentre il suocero scendeva a fatica e i Kujo lo guardavano con disinteresse.
Quella giornata sarebbe stata molto lunga e difficile.


Come home, practically all is nearly forgiven
Right thoughts, right words, right action!
Almost everything could be forgotten
Right thoughts, right words, right action!
Right Action, Franz Ferdinand (Right Thoughts, Right Words, Right Action, 2013)
 
 
Note dell’autrice
Ed eccoci col terzo capitolo, l’ultimo di introduzione! Jotaro e gli altri sono arrivati alla casa degli Higashikata, e il mistero della loro visita a Morioh verrà spiegata!
(Sì, lo ammetto. Mi sono divertita molto a scrivere di Josuke che si incastra nella sedia di Koichi.)
Ci vediamo al prossimo capitolo!
Ho aggiunto un particolare molto importante nell'ultima revisione, di cui mi ero completamente dimenticata nella prima scrittura: la serie TV preferita di Josuke! Riuscite a indovinare di che serie si tratta? Se la risposta è "no", lo scoprirete più avanti!
...molto più avanti. Almeno tra venti capitoli. Ops.. ciao a tutti!

 

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Capitolo 4
*** Il giorno della rivelazione (parte 1) ***


-Tesoro! Sono a casa!- urlò Josuke entrando in casa e togliendosi le scarpe davanti all’uscio. Sfilandosi le Converse, si accorse che c’erano delle scarpe in più.
Non era insolito vedere un grande numero di calzature all’uscio a causa della grande collezione di Josuke, ma quelle non erano sue, né tantomeno di sua figlia o di suo marito.
Dopo un secondo di confusione, arrivò alla conclusione che i parenti dovevano essere già arrivati. Avevano detto che l’aereo sarebbe atterrato più tardi, ma poco importa.
-Ah! JoJo! Sei arrivato! - gli rispose Okuyasu, sporgendosi dalla porta della cucina.
Conosceva il viso di Oku, sapeva leggere ogni sua espressione. Ogni suo sguardo era significativo, Josuke ne era cosciente, e quello che gli stava rivolgendo ora era qualcosa che non vedeva da anni. La paura scorreva nei suoi occhi scuri, e sfoderava un sorriso tirato, un’espressione nervosa gli contorceva il viso.
-Ehi… tutto bene? -
Josuke si avvicinò con preoccupazione accarezzandogli gli zigomi e dandogli un leggero bacio sulle labbra.
Sarebbe anche continuato, e magari sarebbe sfociato in qualcosa di più, se Josuke non avesse intravisto qualcuno in cucina da dietro la testa di Okuyasu. Sobbalzò e si staccò violentemente dal marito, assumendo di nuovo la sua classica espressione fredda e distaccata. Okuyasu sembrava ancora più giù d’umore ora, ma a Josuke non importava più.
-Hey! Jotaro… Tutti voi… Siete arrivati in anticipo, eh? Non me l’aspettavo… come va?- gracchiò nervoso, avvicinandosi al tavolo con i Kujo seduti ad esso. Jotaro in tutta risposta sbuffò rumorosamente, un’espressione disgustata sul viso stanco. Se Josuke era abitato a non mostrare nessun sentimento, Jotaro era anche peggio di lui, tanto che anche solo vedere gesti d’affetto lo infastidiva.
Dopo essersi lisciato i vestiti e aver riacquisito un colorito decente dall’imbarazzo di poco prima, passò lo sguardo su Jolyne ed Emporio, che ancora ridacchiavano.
-Jotaro, dove sono Holly e tua moglie? Non dovevano venire anche loro?-
-Sì, Josuke- disse Jotaro, tornando serio. –ma Rosanna non sa ancora nulla degli stand. Volevo lasciarla fuori da tutto ciò, così mia madre l’ha accompagnata a fare spese per Morioh.-
Josuke abbassò lo sguardo, annuendo pensieroso. C’era un’altra persona, un altro parente, ma non voleva chiedere dove fosse. Probabilmente, non avrebbe nemmeno voluto che venisse.
-JoJo…- Okuyasu lo prese per un braccio. –JoJo, tuo padre è sulla poltrona in sala. Va’ a salutarlo. Prima ha chiesto di vederti.-
Josuke guardò suo marito di sottecchi, stringendogli la mano con forza. Stava disperatamente chiedendo aiuto, ma si ritrovò come risposta solo uno sguardo severo e deciso che lo convinsero ad andare.
Borbottò e si avviò in sala, appoggiandosi allo schienale della poltrona. Il televisore era spento ma suo padre lo stava guardando lo stesso. Josuke sospirò forte, strappò il telecomando dalle sue mani tremanti e lo accese. Era ancora sintonizzata sui canali spazzatura che guardava Shizuka.
L’anziano si girò piano e lo guardò. –Josuke...- mormorò, la voce rotta.
-...Joseph.- rispose freddo lui. Non disse altro. Vecchio bastardo, vecchio bastardo.
Non ebbe nemmeno il coraggio di guardare suo padre in faccia. Semplicemente era lì, in piedi di fianco a quella poltrona con quell’uomo alto e scarno adagiato sopra. I pugni stretti e le nocche bianche, si mordeva forte il labbro inferiore, con un’espressione che si addiceva poco ad un uomo adulto e sposato, ma più a un bambino viziato che faceva i capricci.
-Come sta… la… la bimba?-
-Shizuka. Si chiama Shizuka.-
-Come sta?-
Josuke non voleva parlargli, e men che meno parlare di sua figlia. Non a lui, almeno.
-Sta bene.- rispose frettolosamente. Joseph fece un mezzo sorriso.
-Sono passati così tanti anni da quando l’avete portata via…-
A quelle parole che forse più di ogni altra non voleva sentire, Josuke si allontanò, stanco. Era stancante parlargli, e stancante pensare che quell’uomo, in quelle condizioni, possa essere suo padre. Quel vecchio bastardo che, trentatré anni prima, aveva deciso di divertirsi un po’ con una giovane giapponese qualunque per poi andarsene, senza nemmeno pensare che quel “divertimento di una notte” potesse essere stato la disdetta di qualcuno.
Tomoko era rimasta incinta, e nove mesi dopo nacque un bambino che assomigliava fin troppo all’uomo che l’abbandonò. Perse il posto all’università, e tutti i suoi sogni si frantumarono, tutto per colpa di quel bambino che non sarebbe mai dovuto nascere.
Sua madre gli fece sempre pesare questa grande somiglianza con il padre che lui non conobbe mai, e quelle continue similitudini lo facevano soffrire. Si sentì sempre in colpa per l’essere nato. Ora che si era fatto una famiglia tutta sua il senso di colpa era un po’ svanito, grazie ai suoi famigliari che continuavano a ripetergli che se lui non ci fosse stato, la loro vita sarebbe orribile. A Josuke piaceva sentire queste cose, essere lodato e idolatrato. Forse era un po’ narcisistico, ma così si sentiva come se non fosse stato solo un errore.
Ma parlare con quell’uomo era diverso. Tutti i sensi di colpa tornavano a galla, e la rabbia si faceva solo più forte. Josuke pensava che fossero pari, ora.
Quando Josuke e Okuyasu si trasferirono a New York, nel 2002, erano senza soldi, casa e lavoro. Josuke era stato chiamato dalla Harvard per studiare lì, date le grandi doti che aveva dimostrato al primo semestre dell’università di medicina della città di S. Ma erano comunque solo due ragazzini giapponesi sperduti nella Grande Mela.
Joseph e Suzie abitavano a New York. Josuke allora chiese se suo padre avesse un piccolo locale per loro due, dato che era stato uno dei più grandi agenti immobiliari dell’intera città negli anni passati. Il caso voleva che, al piano superiore all’abitazione del suo anziano padre e di sua moglie, ci fosse un appartamento vuoto. Era quello che di solito spettava agli ospiti, ai famigliari lontani che venivano a fare visita ai due anziani, ma decise di affittarlo a loro.
Insieme ai due vecchi coniugi, però, c’era anche la piccola Shizuka. Erano troppo avanti con l’età per occuparsi di lei, così decisero di tenerla loro nel piccolo appartamento. La televisione trasmetteva solo canali inglesi, il riscaldamento era spesso freddo e si gelava d’inverno. Rimasero in America per sette anni, tempo che Josuke prendesse laura e specializzazione, uscendo dall’università medica più prestigiosa degli Stati Uniti con un trenta e lode. In quei sei anni la bambina era stata cresciuta da loro, e, in poco tempo, la piccola considerava i due giovani come i suoi veri genitori.
Suzie morì, e Joseph fu mandato in una casa di riposo poiché non era più autosufficiente. Shizuka venne affidata a suo figlio, Josuke, e al suo neo marito Okuyasu. Se non era capace di occuparsi di sé, pensava Josuke con un pizzico di veleno, era impossibile che potesse prendersi cura di una bambina.
Tornarono a Morioh e, dopo aver ristrutturato la vecchia e fatiscente casa dei Nijimura, ci abitarono per sette anni, fino a quel momento.
Ma Joseph ci teneva alla piccola Shizuka. Portargliela via era stato, più che una necessità per la buona vita della bambina, una vendetta verso il padre.
Josuke si era allontanato dalla poltrona su cui giaceva l’anziano padre, che ora si era addormentato.
-Josuke, ora che sei arrivato anche tu, posso spiegarvi tutto.- tagliò corto Jotaro, dandogli uno scossone che lo fece rinsavire e tornare alla realtà.
Si accomodarono nella sala da mangiare, riuniti intorno ad un tavolo circolare. L’espressione di Jotaro era terribilmente seria, anche più del solito. La vistosa cicatrice che gli solcava l’occhio destro, cieco e annebbiato, non facevano altro che donargli un aspetto ancor più minaccioso e sinistro.
-Penso vi ricordiate tutti di Pucci.-
Jolyne, dopo aver udito quel nome, digrignò i denti. Okuyasu e Josuke annuirono, spaventati. –Bene. Pensavamo che con lui, il segreto di Dio fosse finito.
Ma non è così. Qualche anno fa, abbiamo riscontrato che in Europa si sono verificati dei casi di vampirismo.-
-Eeeh? Vampiri?- urlò Okuyasu, alzandosi dalla sedia e sbattendo le mani sul tavolo, incredulo. –Impossibile! Lo sanno tutti che non esistono i vampiri! Vero JoJo?-
-Oku, per favore, siediti.- gli mugugnò Josuke, strattonandolo verso il basso per la canottiera e facendolo risedere. Jotaro rimase un po’ irritato dall’intervento dello zio acquisito, ma lasciò correre. Quello che stava per dire era decisamente più importante.
-A quanto pare, in Italia e in tutta Europa, ci sono le tracce di questi “uomini del pilastro”, superuomini aztechi, che hanno lasciato dietro di sé le Maschere di Pietra, che però erano rimaste nascoste sotto terra. Nel 2012, tuttavia, l’accelerazione del tempo di Made in Heaven causò dei terremoti nella zona del centro Europa, e anche in Italia Settentrionale. Lo scrollamento del terreno causò l’affioramento delle Maschere di Pietra, che, a quanto pare, vennero usate da qualcuno per creare degli altri vampiri. Non sappiamo chi.
La Fondazione Speedwagon è andata a controllare, ma le maschere di pietra non sono più presenti. Le hanno prese tutte.
Grazie agli studi sulla maschera del mio trisavolo, Jonathan Joestar, siamo riusciti a capire come funzionano, ma fatto sta che c’è qualcuno che si aggira per l’Europa trasformando persone in vampiri e mettendo in serio rischio l’umanità.-
Jotaro si voltò verso Josuke, serio. –L’unico modo per uccidere i vampiri è usare le “onde concentriche”, una tecnica che usa il sangue e il respiro come amplificazione delle onde solari. Le onde concentriche, perché vengano usate nel modo adeguato vanno allenate, ma si possono trasmettere per via genetica. Impararle da zero è quasi impossibile, se non tramite un allenamento duro che non tutti sopportano, non sempre portano buoni risultati e impiegano anni e anni di studio e allenamento. Tempo che non abbiamo.
Nonno si era allenato, e le sa usare bene. Era rimasto l’ultimo a saperle usare, ma ormai non ne è più in grado. Purtroppo mia mamma non le ha ereditate, e di conseguenza nemmeno io, e neppure Jolyne, ma c’è una buona probabilità che tu possa svilupparle. Potresti essere la speranza del genere umano.-
-Io non voglio esserlo- sussurrò Josuke, lo sguardo mesto.
-Josuke, non era una domanda. Sono serio.-
-Anche io sono serio- rispose lui, lo sguardo gelido e gli occhi quasi lucidi. –Non voglio rischiare la vita ancora. Non voglio rischiare la vita della mia famiglia.-
Okuyasu gli passò una mano sulla schiena in modo dolce, ma Josuke se la scrollò di dosso, fulminandolo con uno sguardo carico d’odio. Okuyasu capì di dover far retrofront, stringendo le mani sul bordo del tavolo.
La porta di casa sbatté e una sottile voce si intromise tra quelle gravi di Jotaro e Josuke.
-Pa’ sono tornata… pa’? dove siete?-
Shizuka si sporse dalla porta della cucina, un’espressione annoiata sul viso. Tuttavia, appena vide i parenti, fece una faccia terrorizzata e divenne traslucida.
Okuyasu si alzò e la prese per una mano, facendola sedere sulle sue ginocchia, benchè lei non ne fosse molto convinta.
Jolyne si avvicinò a lei, sorridente. –Cuginetta! Sei cresciuta tanto eh?-
Shizuka abbassò lo sguardo, stringendo il braccio di suo padre attorno alla sua vita che la obbligavano a rimanere lì. –Shizu, salutala- la ammonì, dandole una leggera scossa.  Lei annuì piano, alzando appena lo sguardo e fissandola storto con i suoi grandi occhi grigi, ancora un po’ infantili.
-Quanti anni hai?-
-Diciassette.- rispose, talmente piano che risultava appena udibile.
Jolyne ridacchiò. –Sembri molto più piccola, in effetti!-
Con uno sbuffo di fastidio, Shizuka annuì, e Jolyne decise di lasciarla in pace. Che caratteraccio, pensò la ragazza, tornando a sedersi vicino al padre e al fratellino adottivo.
-Partiamo per l’Italia questa settimana.- finì Jotaro, con uno sguardo duro. –che a te piaccia o no, Josuke. Non voglio discussioni.-
-Italia?- mormorò Shizuka, strattonando la canottiera di Okuyasu. –Andiamo in Italia? Davvero?-
Lo sguardo di entrambi i suoi genitori non era però emozionato all’idea di visitare il Bel Paese come lei. Il loro sguardo era disperato e rassegnato, come quando partirono per la Florida, nel 2012.
-…papà?-
-Shizuka, non intrometterti. È una faccenda grave.- sbottò Josuke, guardandola con durezza. La ragazza deglutì forte, mentre Okuyasu la faceva scivolare giù dal suo grembo. –Va’ fuori con Emporio, noi dobbiamo parlare.- le disse, serio. E quando suo padre Okuyasu era serio, allora era grave. Lei abbassò lo sguardo e si diresse al cortile sul retro della casa, con il ragazzino biondo che la seguiva.
 
Emporio e Shizuka giocarono un po’ a palla nel giardino, nella zona d’erbetta tenera che suo padre Okuyasu aveva coltivato con tanta cura.
-E così ci sono i vampiri?-
-Sì. Papà Jotaro ha detto questo almeno. Ma io mi fido di Jotaro.- rispose Emporio, un po’ imbarazzato. La ragazza annuì piano, coricandosi sull’erba verde smeraldo.
-Nonno mi ha raccontato di queste cose, quando ancora capiva qualcosa almeno.-
Strappò dell’erba con rabbia, spaventando il biondo. –Voglio andare anch’io. Non sono debole, mi sono allenata, e non sono più una neonata. Voglio anche io accompagnarli in questa missione!-
-Hai ragione, Shizuka- mormorò Emporio.
Il sole stava calando, e il cielo si era fatto arancione, mentre piano piano si nascondeva dietro gli edifici del centro di Morioh-cho, lanciando lunghe ombre rosso scuro sui due ragazzi.
Shizuka rientrò a grandi passi nella sua grande casa, diretta verso la camera in cui i suoi genitori, suo zio e sua cugina si trovavano, più determinata che mai. Okuyasu stava cucinando, e gli altri erano seduti al tavolo.
-Papà voglio venire anch’io in Italia a sconfiggere i vampiri.-
Okuyasu si voltò con un’espressione attonita sul viso stanco. –Shizu no, non capisci…-
Shizuka venne afferrata forte per un braccio e trascinata lontana dalla cucina da Josuke, la sua presa che le stringeva sull’avanbraccio magro, mentre lei cercava di divincolarsi. Una volta che lui si fermò, la prese anche per l’altro braccio e si piegò un po’, guardandola fissa negli occhi, gelidi e contratti in uno sguardo carico di rammarico e dolore.
-Ti abbiamo detto di no.-
Shizuka non ci vide più dalla rabbia. Ne aveva fin sopra ai capelli di quell’atteggiamento di superiorità che avevano nei suoi confronti, di essere sempre trattata da mocciosa e da debole. Lei non lo era, e loro non lo capivano.
-Mi trattate sempre come una bambina! Io quest’anno compio diciotto anni, sono quasi adulta! Non potete impedirmi di venire!-
-Shizuka, sei ancora piccola per queste cose. Il caso è chiuso.-
-Non è vero!- sbottò lei, stizzita. –Voi avete combattuto il serial killer a sedici anni! Zio Jotaro aveva la mia età quando è andato in Egitto! Nonno ha sconfitto quegli Dei strani a diciotto..-
I parenti si avvicinarono, incuriositi. Okuyasu mise una mano sulla spalla alla figlia nel tentativo di calmare un po’ le acque, che lei strattonò via con violenza. Suo padre Josuke era su tutte le furie, mentre la stringeva forte per le braccia, il viso stravolto dalla rabbia.
-Shizuka! Perché non ci ascolti mai? Noi siamo i tuoi genitori! Decidiamo noi per te e basta! Non si discute! Tu starai qui e noi andremo, il caso è chiuso!-
-Voi non siete i miei veri genitori! VI ODIO! MI FATE SCHIFO!-
Detto ciò, si divincolò dalla stretta del padre e scappò fuori per la porta principale, piangendo a dirotto.
Josuke rimase interdetto, le mani che stringevano il nulla. Chiuse le mani a pugno, digrignò i denti e con un grido tirò un forte pugno allo stipite della porta, che assunse una piega strana grazie ai poteri di Crazy D. Di fronte a lui, Okuyasu si alzò gli occhiali da vista e si massaggiò gli occhi stanchi, sospirando pesantemente.
-Josuke- si intromise Jotaro, prendendo il dottore per una spalla e stringendogliela forte. –non lasciarla andare.-
-Tranquillo, è già capitato uno o due volte che scappasse di casa… di solito va da Koichi o da mia madre, poi torna…-
-No, non capisci. La mia storia è stata interrotta, prima. Non vi ho ancora detto che, fino a poco tempo fa, il vampirismo era ristretto solo alle zone europee e del bacino del Mediterraneo, ma da poco tempo si sono verificati diversi casi anche in tutta l’Asia, Giappone compreso.
Shizuka potrebbe incontrare i vampiri, è in pericolo.-
 
In lacrime, Shizuka correva per le buie strade di Morioh senza una meta vera e propria. I fanali delle automobili disegnavano figure inquietanti sui muri dei palazzi, ma cercò di non prestarci troppa attenzione. Dentro la sua mente c’era solo il pensiero che fosse sottovalutata da tutti, anche dai suoi genitori. Non era debole, lei era forte, indipendente e grande. Poteva fare qualsiasi cosa, anche se non aveva gli stand e l’esperienza dei suoi parenti, della pesante famiglia che doveva portarsi sulle spalle. Quei due idioti che non la capivano davvero.
Corse in un vicolo buio, accorgendosi che era cieco cercò di tornare alla strada principale, che era trafficata a tutte le ore della giornata e un po’ più illuminata.
Ma non fece in tempo, perché si ritrovò una figura davanti a sé che le bloccava il cammino.
Strizzò gli occhi per riconoscere quella persona che aveva davanti. Magari era uno degli amici dei suoi genitori che la erano venuta a prendere.
Vide solo la pelle innaturalmente pallida e due cupi e vitrei occhi rossi. L’uomo la osservò e ghignò, esponendo due vistosi canini. Le si avvicinò minacciosamente, e Shizuka iniziò a indietreggiare, impaurita. Usando il suo stand divenne completamente invisibile e tentò di passargli di fianco senza essere vista. Ma fu vano, perché l’uomo si voltò verso di lei, individuandola senza sforzo, riuscendo a sferrarle una gomitata sul naso. Lei cadde a terra dolorante, mentre l’uomo iniziò a tirarle dei calci nell’addome, ma ormai Shizuka era quasi svenuta dal dolore, inerme e senza sensi, riversa sul marciapiede.
Il vampiro le si inginocchiò al suo fianco, le afferrò i capelli e le piegò la testa dalla parte, esponendo il suo collo vulnerabile, rimanendo a fissarla coi suoi occhi rossi e brillanti, il suo ghigno inumano, e i suoi canini appuntiti e innaturalmente lunghi pronti a dissanguarla completamente.
Fu uno spuntino fin troppo facile.
 


When you're sure you've had enough
of this life, well hang on
Don't let yourself go
Cause everybody cries
And everybody hurts sometimes.
Everybody Hurts, R.E.M. (Automatic for the People, 1992)


Note dell’autrice
Ve l’avevo detto che sarebbe successo qualcosa in questo capitolo! Finalmente la storia è iniziata. Mi spiace se ci ho impiegato così tanto tempo ad aggiornare ma ho avuto problemi col vecchio portatile. Ora che ho il computer nuovo non dovrebbero più esserci problemi! (Speriamo!)
Ci vediamo al prossimo capitolo, un bacione a tutti i miei lettori! Ciao! (Non odiatemi, pls)

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Capitolo 5
*** Il giorno della rivelazione (parte 2) ***


Lo smartphone variopinto di Josuke squillò, quella musichetta famosa che si sentiva sempre in radio come suoneria. Canticchiando un po’ quel ritornello, tirò il cellulare fuori dalla stretta tasca dei jeans e portandoselo all’orecchio. I piercing stridevano contro al telefono, facendo un tintinnio un po’ fastidioso.
-Hayato? Da quanto tempo eh? Senti, sono un po’ impegnato ora, sto cercando Shizu…-
-Josuke! Presto!- gli urlò l’amico nella cornetta. Il moro rimase allibito e decisamente spaventato, ma rimase ad ascoltare in silenzio.
-Josuke! Vieni sulla strada per la città di S, presto! Shizuka! Ha avuto un incidente! È gravissima, devi venire! Presto!-
Il cuore di Josuke perse un battito. Non rispose al telefono, mentre l’amico continuava a parlargli. Non lo sentiva nemmeno più, non seppe nemmeno dove andò a finire il cellulare. Premette forte il piede sul pedale dell’acceleratore e si diresse più velocemente che poteva sulla statale. La legge poteva aspettare.
I poliziotti bloccavano la strada e c’era un ingorgo. Josuke scese dall’automobile, abbandonandola in mezzo alla strada e correndo in contro al luogo dell’incidente, gli occhi che gli bruciavano e le lacrime che iniziavano a scendere dalle guance.
Si fece strada tra la marea di persone che si affollavano intorno al pezzo di strada incriminato, prendendo a gomitate e a calci chiunque intralciasse la sua via. Le strisce di sangue sulla strada erano sempre più visibili, anche nella nebbia che avvolgeva la mente di Josuke.
Josuke urlava e spingeva, non si accorgeva e non gli importava di fare del male ad altri. Gli interessava solo arrivare da sua figlia, stringerla tra le braccia, dirle che non era successo niente e che non avrebbero più dovuto litigare. Dirle che le voleva bene con tutto sé stesso e che qualsiasi cosa lei dicesse o facesse, lui l’avrebbe sempre amata più della sua stessa vita. Uccidere, torturare e smembrare chiunque le abbia fatto del male.
Si accasciò a terra, sbattendo violentemente le ginocchia contro il cemento bagnato del sangue di sua figlia. Estrasse Crazy Diamond appena si avvicinò, esaminando la situazione con quel poco di lucidità che gli era rimasta.
-Shizu… hey, piccolina… Shizu…- mormorò Josuke, accarezzandole una guancia violacea con la sua mano che sembrava fin troppo grande rispetto al suo minuto viso.
Sua figlia lo fissò, gli occhi scuri che guardavano nel vuoto.
-Shizu… sono io… sono papà… papà JoJo, mi riconosci?- le disse con la voce tremante.
Lei non gli rispose. Tentò di guarire le ferite più gravi con il suo stand, ricostruendole il cranio frantumato e le costole incrinate. Ma non bastava, c’era qualcosa di peggio.
Prese fuori dalla tasca un pacchetto di fazzoletti di carta e, con le mani tremanti, ne tirò fuori qualcuno, per poi premerli forte sul collo sanguinante di Shizuka. Aveva un grosso foro sul collo, da cui spillava molto sangue che non intendeva fermarsi. Doveva aver bucato la carotide, e di sicuro avrebbe continuato a sanguinare fino a farla morire se non fosse intervenuto qualcuno. La teoria che i vampiri l’avessero attaccata era quasi palese ormai, ma nella sua mente non c’era nessuno spazio per qualsiasi analisi ora.
 Anche se l’avesse guarita, il sangue perso era troppo. E Crazy Diamond non poteva farci niente per i dissanguamenti. Tentò di curare alla bell’e meglio il foro sulla giugulare, la vista ormai del tutto annebbiata dalle lacrime e le mani deboli e tremanti. La disperazione regnava sovrana, insieme ad un pesante senso di impotenza che gli gravava sulle spalle. Sua figlia gli stava morendo tra le braccia, la bambina che lui aveva cresciuto ora se ne stava andando. Era così gracile e così piccola, così giovane e senza esperienza. Non doveva morire, non la sua bambina, non lei. Appoggiò delicatamente la figlia sulle sue ginocchia imbrattate di sangue, cullandola piano tra un singhiozzo e l’altro, incapace di fare altro.
Avrebbe gridato, pianto, si sarebbe strappato i capelli, avrebbe corso per tutta la città alla ricerca di chiunque l’avesse conciata in quel modo per staccargli uno a uno gli arti, avrebbe ucciso tutti quelli attorno a lui, e allo stesso tempo si sarebbe aggrappato disperato a ognuno di quelli sconosciuti per un minimo di aiuto.
-L’ambulanza! Chiamate un’ambulanza! Chiamatela subito!!- urlava, la voce stravolta e irriconoscibile, rotta dai singhiozzi.
 
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-Non puoi donarle più sangue di così! Rischi grosso e così sareste in pericolo di morte entrambi!- gli urlò il dottor Matsumoto, collega di Josuke all’ospedale di Morioh. Ma lui era deciso, e non si sarebbe arreso. Rimase coricato sul lettino, l’ago conficcato nella pelle e il viso determinato e pallido e lo sguardo vitreo perso nel vuoto, le folte sopracciglia accigliate e lo sguardo carico d’odio e di nulla. Era sul punto di svenire, un’espressione indecifrabile tra il pazzo e il disperato, gli occhi gonfi e rossi e i capelli spettinati. –Prendine ancora.-
Si teneva il braccio destro con una mano fin troppo stretta attorno all’interno del gomito, dove era conficcato un grosso ago ipodermico che continuava ad estrargli fiotti di sangue per iniettarli a sua figlia, morente, nel lettino vicino dell’ospedale.
Okuyasu teneva la mano di Shizuka con delicatezza, accarezzandogliela piano. Le aveva sistemato i capelli, messo un vestitino comodo a sostituire i vestiti casual che aveva prima di uscire da casa, imbrattati di sangue. Sul suo volto non c’era nessun sentimento, nessuna emozione. Le palpebre erano socchiuse, la mandibola contratta, e lo sguardo vuoto. Non aveva ancora detto niente, da quando era successo l’incidente. Non credeva che avrebbe mai fatto l’abitudine a perdere persone a cui voleva bene, ma forse non era così. Era una situazione fin troppo familiare.
-Okuyasu…- gli mormorò Koichi, avvicinandosi a lui e piazzandogli una mano sulla spalla, il volto affranto. Lui si girò e lo guardò senza una vera espressione.
–Porta Josuke via di qui. Si sta facendo solo del male… ti prego.-
Lui annuì e si avvicinò al lettino di suo marito, sedendosi sul bordo. Stava ancora litigando con il suo collega, che cercava di estrargli l’ago dal braccio mentre lui insisteva nel tenerlo conficcato nella sua carne, mentre un sottile rigo di sangue scorreva giù dall’avanbraccio.
Okuyasu prese a giocare con i tatuaggi sul braccio sinistro del marito, passando il dito sui contorti tracciati neri sul suo tricipite contratto. Josuke si girò solo per fulminarlo con lo sguardo, cercando di tirargli una gomitata, o forse un pugno. Il colpo fu così poco effettivo e debole, stremato, che nessuno dei due seppe bene cosa sarebbe dovuto essere.
Okuyasu raggiunse la sua mano, intrecciando le loro dita. –Andiamo.- bisbigliò, con un tono grave. Matsumoto riuscì ad estrarre l’ago mentre Josuke era distratto, e il giovane medico riprese a innervosirsi e ad inveirgli contro, mentre Okuyasu continuava a tenergli la mano. La sua stretta era fin troppo forte sulla sua mano tremante, e Josuke si preoccupò. Riprese un po’ di lucidità e lo fissò negli occhi. Quello sguardo lo spaventava, e non poco. Non lo stava davvero guardando, stava semplicemente fissando nella sua direzione con uno sguardo privo quasi di umanità, con quei suoi occhi tra il castano e il viola scuro, tremendo e profondo e pericoloso che Josuke preferiva spesso non fissare troppo a lungo.
–Andiamo- ripeté Okuyasu. Josuke si alzò, premendosi un pezzo di cotone sul foro che gli aveva lasciato il grosso ago. Okuyasu lo accompagnò fuori, strattonandolo per la mano, mentre lui continuava a guardare la figlia stesa sul lettino incosciente. Si sentiva sull’orlo del pianto, mentre suo marito lo faceva accomodare sulle sedie fuori dalla sala.
Si sedettero l’uno a fianco all’altro, vicini come sempre. Josuke appoggiò la testa alla spalla di Okuyasu, che gli accarezzava con delicatezza i capelli.
-Sono… sono un padre orribile, Oku. Sono una persona squallida.-
Okuyasu non risponde. Lo lasciò fare, lo lasciò parlare.
-Io… sono un errore. Non sarei nemmeno dovuto nascere, io…-
In pochi istanti gli crollò addosso, piangendo disperato e aggrappandosi alla sua canottiera con tutta la poca forza che gli era rimasta. Sbatté i piedi a terra, lanciò un grido di rabbia e tirò un pugno al bracciolo di plastica della sedia, agitandosi come un bambino capriccioso. Era disperazione? Era rabbia? Sembrava solo patetico, si ritrovò a pensare Okuyasu che, al contrario, si stava contenendo fin troppo bene. Quando sua madre morì non pianse. Quando suo fratello Keicho morì, l’unico appiglio che gli fosse rimasto al mondo, non pianse. Quando portarono via suo padre, non pianse.
E ora sua figlia. Di sua madre nemmeno si ricordava il volto, a dirla tutta. L’unico ricordo che aveva di lei era il suo sangue che gli macchiavano le ciabatte sottili estive e suo padre che urlava dal piano superiore delle scale. Erano passati ventinove anni da allora, e Okuyasu non ricordava quasi nulla. Fortunatamente.
La morte di suo fratello, al contrario, se la ricorda benissimo. I suoi occhi morti e verdi, troppo verdi che fissavano il vuoto e il fumo che usciva dalle sue membra ustionate.
Suo fratello Keicho non era affettuoso o gentile. Lo usava come esca quando uscivano a fare danni, più volte rischiò di morire sotto i calci e i pugni delle persone che il suo fratellone aveva osato infastidire. Bazzicava gli angoli più oscuri e i sobborghi più fetidi di Tokyo, per portare a casa il pane. Non che ne portasse a casa molto, Okuyasu aveva spesso rischiato di morire di malnutrizione, ma era felice. Se Keicho lo faceva, era probabilmente per lui, pensava il bambino. Era perché voleva bene al suo fratellino minore. Dev’essere così, no? Non volle mai pensare il contrario, nemmeno da adulto. Suo fratello, benché l’avesse trattato sempre male, offeso, picchiato, usato come esca, era suo fratello, e gli voleva bene. Era logico così. Doveva essere così. Ancora sentiva il suo fiato sul collo, la sua voce come un eco di sottofondo nella sua vita.
Quando morì, Okuyasu perse tutto. Si ritrovò solo, in una città che non conosceva, con un padre bestia da accudire e tanti problemi causati da quel padre che a malapena riesce a considerare tale. Forse è morto ora che è alla Fondazione Speedwagon, magari è morto, spero sia morto riusciva solo a pensare dell’uomo che lo crebbe tra la violenza e la paura.
Okuyasu, quel giorno tanto triste in cui suo fratello spirò, si voltò alla sua sinistra, incrociando lo sguardo celeste di Josuke. Quel ragazzo che, qualche oretta prima, aveva cercato di uccidere. Lo stava guardando con pietà, come si guarderebbe un cane malato che dev’essere soppresso. Infondo, Okuyasu lo era. Senza speranze, solo, e misero. Tanto valeva sopprimerlo.
Però Okuyasu decise di affidarsi in tutto e per tutto a quel bel ragazzo dai grandi occhi chiari dalla capigliatura buffa. E Josuke accettò la sfida. Lui era forte, bello, aveva una vita tranquilla e una famiglia salda. Lui era diventato un punto fermo nella vita di Okuyasu, la stella polare della sua esistenza, attorno al cui tutto girava. E lo amava, lo amava tantissimo. Okuyasu si era semplicemente appoggiato a lui per tutti questi anni, nella certezza che lui fosse forte, saldo, e potente.
Ma non lo era.
Quell’uomo gli si stava letteralmente sgretolando tra le braccia, quella che credeva una roccia era ormai solo sabbia tra le sue dita. Josuke gridava disperato e arrabbiato, strattonandogli la maglia e blaterando qualcosa che non riusciva più a capire, stringendo i denti tanto forte da fare un rumore malsano come le unghie sulla lavagna. Tutto era confuso, i colori si mischiavano, e Okuyasu non sapeva più che fare.
Sua figlia stava morendo, e suo marito era crollato. Le redini ora doveva tenerle lui.
Era l’unico che potesse sopportare un dolore simile, l’unico che avrebbe potuto portare avanti quella famiglia. Accarezzò la nuca dell’uomo che amava, premendo delicatamente la sua testa contro il suo petto. –JoJo… sono qui.- mormorò dolce, accarezzandogli i corti capelli alla base della nuca.
Nello sguardo di Okuyasu ora c’era una luce nuova. Era determinato, e sicuro di sé. La mano destra gli lanciava strane fitte, la mano del suo stand, la mano in cui Keicho piantò la freccia, troppi anni prima.
Capì che non era più un adolescente, non aveva più tutta la vita davanti e mille progetti e sogni da realizzare, non poteva più pensare con la leggerezza tipica dei giovani. Era un uomo. Un marito. Un padre. E doveva caricarsi le responsabilità sulle sue forti spalle, che finora avevano dovuto sopportare anche troppo.
Non poteva più contare su Josuke, doveva fare affidamento solo su sé stesso, e questa volta l’avrebbe dovuto fare anche per Shizuka. Per tutta la famiglia.
Prese il volto di Josuke tra le sue mani e lo alzò, guardandolo negli occhi.
–Non è tutto perduto, JoJo. Ce la farà. Ce la faremo.-
Lui, dalle guance arrossate e gli occhi irritati dalle troppe lacrime, rimase quasi sbalordito in quello stato di semi-incoscienza che la disperazione lo aveva portato.
Annuì, senza aver realmente capito quello che avesse detto suo marito. Poco importava, però, gli occhi pieni di determinazione di Okuyasu si spiegavano da soli.
Si piegò su di lui e gli appoggiò la fonte alla sua, chiudendo gli occhi e accarezzandogli le guance con i pollici. –Abbi fiducia.-
Josuke ormai non aveva più voce. Semplicemente annuì, stanco.
 
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Jotaro spinse con forza la sedia a rotelle di suo nonno, seguito da Emporio e Jolyne.
-Papà? Perché non ci dici niente? Per quale motivo siamo in ospedale?-
Ma lui non la ascoltava. Era preoccupato per quello che il vecchio Joseph gli aveva detto poco prima, quando Koichi telefonò a casa Higashikata, dove i parenti di Josuke erano rimasti, avvertendo che Shizuka era morente e Josuke e Okuyasu disperati. Sarebbe morta da lì a poco se non avesse avuto una trasfusione di sangue, ne serviva tanto dato che era stata quasi dissanguata e all’ospedale non ne era rimasto quasi più, a causa degli svariati incidenti di questo tipo che si verificavano da un po’ nella cittadina giapponese. Gli organi rischiavano di andare in insufficienza, senza sangue in circolo.
Era spacciata.
Fu Jotaro a rispondere al telefono, e non disse nulla. Un grande senso di impotenza gli riempì il petto, e la malinconia lo assalì, pensando a come dovessero sentirsi Okuyasu e Josuke in questo momento. Al capezzale della figlia, guardandola piano piano morire. Questa era la più grande paura di Jotaro, che quattro anni prima stava per realizzarsi: fortunatamente, sua figlia era un osso duro. Una delle poche caratteristiche buone che ereditò dal padre.
Tornò al tavolo e intimò ai figli di andare in auto, mentre prendeva la carrozzina e si avvicinò al nonno.
-Shizuka sta morendo?- bisbigliò Joseph. Jotaro rimase interdetto per un secondo, ma capì quasi subito dopo aver visto Hermit Purple ritirarsi dalle mani dell’anziano.
L’uomo annuì, aiutando l’anziano a salire sulla carrozzella.
-Jotaro, devo dirti una cosa.- gli disse, serio. Un’espressione così seria che non aveva mai visto sul suo viso, e che avrebbe sperato di non vedere mai.
Da allora Jotaro era rimasto molto turbato. Teneva la testa bassa e non rispondeva, con uno sguardo quasi colpevole. Jolyne era preoccupata per suo padre, cercava di parlargli ma si ritrovava davanti un muro. Odiava quando faceva così, odiava non essere informata di nulla, di essere tenuta in disparte come se ancora fosse quella bambina innocente che lui stesso aveva rovinato.
-Papà, ti prego…-
-Stai zitta. Per favore.- la interruppe violentemente Jotaro, fissandola col suo occhio biancastro e cieco. Le occhiaie sotto ai suoi occhi sembravano più scure, gli occhi incavati, le labbra sottili contorte in uno sguardo che cercava di essere neutro, indistruttibile come al solito. Non lo era affatto. Jolyne rimase atterrita nel vedere il padre così, distrutta dentro, anche senza sapere i dettagli della questione. Per una buona volta, rimase zitta. Non aveva il coraggio di insistere, non dopo quello che vide nello sguardo del padre.
Raggiunsero la sala in cui Shizuka era ricoverata, trovandosi davanti ai suoi genitori.
Josuke stava dormendo, con la testa appoggiata al petto di Okuyasu, che gli accarezzava con dolcezza la schiena. Aveva gli occhi lucidi e gli occhiali bagnati da goccioline, rimasugli di lacrime che ha cercato di contenere.
Vedendo che i famigliari di suo marito si avvicinavano, non mostrò alcuna sorpresa: li guardò con la stessa vuota, funerea espressione che aveva prima che arrivassero.
-Okuyasu.- lo chiamò Jotaro. Fu più una spinta a sé stesso che un richiamo all’altro uomo, che lo stava già guardando da un po’ di tempo.
-Sveglia Josuke. Nonn…Joseph deve dirvi una cosa. Seria.-
Okuyasu annuì poco convinto, scuotendo con delicatezza Josuke e chiamandolo piano. Lui si strofinò gli occhi arrossati e si alzò dal grembo del marito, guardando di sbieco i parenti. Passandosi una mano sul viso si ricompose e si abbandonò sulla propria poltroncina, in attesa, le braccia incrociate e tese, cercando di sembrare un duro che non poteva essere ferito da niente, anche se le profonde vene che contornavano le sue iridi azzurre e il naso rosso dal pianto dicevano tutt’altro.
Joseph iniziò a parlare, la voce tremolante e lo sguardo mesto.
-Sono così vecchio. Ho passato un sacco di avventure, e ho vissuto la mia vita al massimo. Mi pento solo di una cosa.-
Guardò Josuke negli occhi, che non seppe ricambiare lo sguardo.
-Non sono stato un buon padre per te, e mi voglio scusare. Non sono stato un bravo nonno nemmeno per Shizuka, non ho fatto nulla né per lei né tantomeno per te… avrei voluto fare di più, ma non ho più tempo per farlo. Lo sento, sto per finire la grande, emozionante, bizzarra avventura che è stata la mia vita.
Donerò il sangue a Shizuka. Tutto quello che le serve.-
Il silenzio cadde sulla sala d’aspetto, una cappa di sorpresa e sconforto che gravò sulle spalle di tutti. Jotaro si abbassò la visiera del cappello, contraendo le spalle e chiudendosi a guscio. Era davvero finita, questa volta. E il sangue di un vampiro centenario non potrà riportarlo in vita. Jolyne abbracciò Emporio, increduli entrambi.
-Mi dispiace, Josuke… non sono mai riuscito a farmi amare da te. Non sono mai riuscito a capirti, e quando l’ho fatto, ormai era troppo tardi…-
Prese le mani del figlio tra le sue, deboli e tremanti.
-Sii un padre migliore di quello che sono stato io per te, Josuke.-
Josuke, dal canto suo, rimase interdetto. La sua mente era vuota, non c’era una risposta. Solo un grosso senso di colpa che continuava a crescergli in mezzo al petto, la consapevolezza che avrebbe potuto dargli almeno una possibilità negli anni precedenti, invece che seguire il suo orgoglio e voltargli le spalle. La rabbia della verità che aveva gravato sul suo stomaco per trent’anni, di essere stato abbandonato ed essere stato amato e compreso quando era davvero troppo tardi. Lo odiava, ma si sentiva così in colpa…
Josuke pensò di non essere all’altezza, di non essere pronto per tutto ciò. Il tempo continuava a scorrere implacabile, da bambino solitario ad adolescente problematico, giovane studioso e adulto inquietato dal futuro in un battibaleno.
E ora? Cosa sarebbe spettato loro, ancora? Cosa riservava loro il futuro?
Il sipario si stava per chiudere, una nuova scena si stava per compiere. Loro erano gli attori senza copione del destino, in una tragica messa in scena di marionette rotte, i loro fili destinati ad annodarsi e spezzarsi.
 
Una forte luce costrinse Shizuka ad aprire gli occhi. Non era stanca, non provava dolore, non sapeva nemmeno dove finisse la sua pelle e iniziasse l’aria.
Il buio l’avvolgeva e una forte luce l’abbagliava davanti a lei. Non voleva andarci verso. Aveva paura, voleva solo tornare a casa, ma non voleva scusarsi con i suoi padri. Non voleva ancora dargli ragione. Non voleva ammettere di essere dipendente da loro, di essere debole o indifesa, anche se i fatti lo provavano.
Un vampiro l’aveva attaccata, aveva sperimentato la loro forza sovrumana e la loro ferocia. Ne aveva paura. Ne era terrorizzata, ed ora, grazie a loro, si ritrovava sul baratro tra la vita e la morte.
Si sentiva chiamare dalla luce. Era attraente, e sapeva di pace e tranquillità.
Dalla luce vide stagliarsi una figura umana che le si avvicinava. Non riusciva a riconoscerlo, ma sembrava un ragazzo. Le parlò con voce calma.
-Shizuka, non puoi arrenderti. Hai una missione da svolgere.-
 
 
 
And no one sings me lullabies
and no one makes me close my eyes
So I throw the windows wide
and call to you across the sky.
Echoes, Pink Floyd (Meddle, 1971)
 
Note dell’autrice
*Risate malefiche in sottofondo*
So di essere una persona orribile. Lo so. Ma adoro l’angst e adoro i feels, non ci posso fare niente. L’unica cosa che posso fare è trascinare anche voi, miei cari lettori, nel vortice di angst di questo capitolo.
Vi lascio così, con mille dubbi e con un cliffhanger e vi tengo sulle spine fino al prossimo capitolo.
Perché?
Perché sono una persona orribile!
Ci vediamo al prossimo capitolo, ragas, mi raccomando! Se volete seguire tutti gli aggiornamenti e in più i disegni che ogni tanto faccio di Dangerous Heritage o semplicemente chiacchierare un po’ con me, potete venirmi a trovare su Twitter (@AlRaptor42)! Ciao!

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Capitolo 6
*** Il giorno della rivelazione (parte 3) ***


L’euforia che Okuyasu provava doveva rimanere nascosta. Si sentiva lo sterno esplodere e il cuore battere veloce, ora che la sua bambina non rischiava più di morire grazie al signor Joestar che decise di donarle il sangue. E il suo cognato era anche il motivo per cui non poteva dimostrare la gioia che la sua unica figlia potesse continuare a vivere.
Joseph Joestar, il padre di suo marito, si era sacrificato per salvare la nipotina.
Era morto.
Lo annunciò il dottore, che l’eutanasia era andata a buon fine, il sangue era stato preso e iniettato a Shizuka, e che il signor Joestar non aveva sofferto. Gli sarebbe comunque rimasto molto poco da vivere, aggiunse il medico. Aveva qualcosa al cervello, Okuyasu non conosceva il nome di quel male, non se lo ricordava perchè è troppo stupido per ricordarselo. Il sole era già sorto e la notte era ormai trascorsa, ed erano ancora tutti seduti in una saletta adiacente al reparto in cui Shizuka era sistemata. Jotaro se ne stava raggomitolato su di sé, i gomiti appoggiati alle ginocchia e le mani sul viso. Sua moglie, Rosanna, tentava di consolarlo, inutilmente tuttavia. Holly piangeva disperata, abbracciata a Jolyne, incredula.
E poi Josuke. Era appoggiato al marito, la sua testa sulla sua spalla, mentre guardava il vuoto davanti a lui. Lui si sentiva tremendamente in colpa, per non poter far nulla per JoJo, perché Okuyasu conosceva bene il lutto e sapeva quanto difficile e intima fosse la cosa, e in colpa perché non si sentiva triste. Era solo felice, felice per Shizuka. Anche Josuke doveva avere questo senso di colpa dentro sé, ne era sicuro. Gli avvolse un braccio intorno alla schiena e lo strinse più forte a sé, tentando di fare quello che poteva per rendersi utile, o almeno meno inutile di quanto fosse in quel momento.
-JoJo- mormorò Okuyasu. Metà delle persone presenti in sala fece per girarsi, anche se, una volta capito che non si stava riferendo a loro, tornarono ai loro pensieri.
Scosse un po’ la spalla di Josuke, che non si mosse ancora. –Parlami, JoJo.-
Lui sbatté un paio di volte le palpebre e abbassò lo sguardo, sospirando piano. Era abbattuto e stanco, raramente l’aveva visto in quelle condizioni, se non mai, e faceva un po’ strano. Pensava che fosse un uomo più forte, in realtà.
Andava bene anche così, lo amava comunque e l’avrebbe sempre amato, ma che si facesse trascinare così facilmente dal disconforto non era un bel segno.
Gli aveva parlato di come quel ragazzo che nell’ormai lontano 1987 lo salvò, più e più volte. Forse anche troppe volte. E che non era predisposto ad avere uno stand, se Jotaro non avesse sconfitto Dio sarebbe probabilmente morto. Per cui il suo spirito non era abbastanza forte per sopportare un peso così gravoso come uno stand, similmente alla sua sorellastra Holly.
Okuyasu non ci aveva mai pensato e non gli era nemmeno mai interessato, ma ora quella debolezza veniva a galla e poteva ammirarla tutta, sotto quella spessa corazza che Josuke si era costruito negli anni. I vestiti firmati, i capelli sparati e ingellati, i piercing, gli orecchini e i tatuaggi, cos’erano se non una prova di forza? Come il pavone che mostra la ruota, era solo un dimostrare che lui era forte quanto tutti gli altri. Forse anche essendo più debole.
E allora, Okuyasu si chiese, chi ho sposato? L’armatura o il molle ventre? In tanti anni di fidanzamento e successivamente di matrimonio, aveva dimostrato tante volte quel lato delicato e fragile del suo carattere, ma Okuyasu li aveva sempre considerati come casi isolati di dubbi comuni che tutti si fanno. Con gli anni imparò che Josuke non era una qualsivoglia sorta di divinità scesa in terra e che per concessione divina gli si era affiancato, quel giorno di tanti e forse troppi anni fa. Era un essere umano, e come tale aveva le sue debolezze e le sue forze, i suoi pregi e i suoi difetti, le cose che gli davano fastidio e quelle che gli facevano piacere, domande a cui non sapeva e non voleva rispondere, dubbi, momenti d’ira furibonda e di dolcezza pura. Era lunatico e spesso ipocrita. E, come scoperto in questo piccolo momento di riflessione, fragile.
Ma era l’uomo della sua vita e lo amava. Lo avrebbe sempre sostenuto, qualsiasi cosa fosse successa.
Gli passò una mano sul fianco, stringendolo forte, mentre appoggiava la testa alla sua, sentendo il buon odore del balsamo mischiato a quello forte del gel che aveva sui capelli. I suoi corti capelli gli pizzicavano il viso.
Con l’altra mano prese quella di Josuke e la strinse delicatamente. –Io sono qui.- gli sussurrò, con un tono tranquillo. –Sono qui per te. Per te, e per la nostra Shizu.
Ti prego, Josuke, resisti.-
 
La voce della figura eterea e luminosa che aveva davanti era calda e armoniosa, mentre le parlava in un forte accento straniero.
-Dovrai allenarti nell’arte delle Onde Concentriche, se vorrai sconfiggere i vampiri.-
I suoi occhi verdi la guardavano intensamente, sembravano brillare in mezzo a tutta quella luce. Il suo viso non le era familiare, era sicura di non averlo mai visto in vita sua.
-Onde Concentriche? Io non so di cosa stai parlando!-
-È un’arte di combattimento basata sull’energia del sole tramite il respiro ed il sangue. Tu imparerai questa tecnica, e la sfrutterai per sconfiggere i vampiri. So che ce la farai, lo spirito dei Joestar è in te.-
Shizuka scosse la testa, demoralizzata.
-Non… non sono una Joestar davvero. Sono stata adottata… io… Non faccio davvero parte della famiglia.-
La figura le scompigliò i capelli con delicatezza, benchè la sua massiccia mole la intimidisse un po’ non sembrava per nulla pericoloso. La guardò dall’alto, con grande vigore che ardeva nei suoi occhi chiari.
-Non importa se non sei davvero loro figlia o altro. La famiglia non è sangue. È spirito. E tu lo spirito dei Joestar l’hai tramandato, è dentro di te. Devi solo crederci.-
Il ragazzo biondo si allontanò, tornando nella luce da cui era arrivato.
-Aspetta! Come faccio ad allenare queste “onde concentriche”?- urlò Shizuka, seguendolo. Lui la fermò con una mano guantata, girandola verso il buio da cui veniva e spingendola.
-Va’ in Italia, e trova ciò che rimane della mia stirpe. Va’, e trova l’erede degli Zeppeli.-
Detto questo, il ragazzo biondo sparì, la luce si spense, e tutto tornò tremendamente nero.
 
L’incessante ticchettio dell’elettrocardiogramma le dava fastidio, la luce nella saletta bianca dell’ospedale si rifletteva sulle mura candide e le bruciava gli occhi gonfi appena aperti.
Shizuka era cosciente da pochi secondi ma già non lo sopportava. Le faceva male la schiena, gli arti le formicolavano, e pensare era una fatica per colpa del forte mal di testa che l’assillava. Girò la testa dolorante verso la porta, notando le infermiere che camminavano per i corridoi quasi deserti dell’ospedale.
Una di loro la notò, e corse via. In un battibaleno una folla di infermiere e dottori si ammassarono dentro la sala, sorridendole. Tra di loro, due persone che conosceva molto bene e riconobbe subito. Le si avvicinarono di corsa, facendosi spazio tra i camici bianchi, si sedettero sul bordo del letto e iniziarono a coccolarla e darle baci e dirle parole dolci.
I grandi e luminosi occhi celesti di suo padre Josuke erano gonfi ed arrossati, e il suo viso stravolto e poco curato. I capelli erano spettinati e i vestiti stropicciati. Doveva ammettere che le faceva un po’ impressione vedere quell’uomo sempre in tiro ridotto in quello stato. Nel suo sguardo c’era tanto sollievo, e le accarezzava le guance con delicatezza parlandole con la sua voce bassa, più rauca di come suona di solito. Non capiva molto quello che stava dicendo, era ancora molto stanca e sotto farmaci e non riusciva a collegare le parole per formare un senso logico. Forse nemmeno l’avevano, pensò. Si trattava pur sempre di quegli idioti dei suoi genitori.
Dall’altra parte del letto, Okuyasu era scoppiato a piangere. Sorrideva e le urlava nelle orecchie, con tanta felicità che sembrava scoppiare; era rosso in faccia e delle scure occhiaie gli contornavano gli occhi. Evidentemente non avevano dormito, né se n’erano mai andati dall’ospedale.
Riprendendo lucidità, ricordò tutto. La litigata, il vampiro, l’incidente, e il ricovero in ospedale. Istintivamente, si portò una mano al collo sentì il tessuto della tela bagnato da un po’ di sangue, ormai quasi asciutto.
La grande mano di Josuke prese la sua e la allontanò dal suo collo, guardandola triste.
-Ti fa male?- mormorò, accarezzandole le nocche con il pollice.
Shizuka negò, guardandolo negli occhi. Era strano, non era come al solito. Il suo sguardo era mesto e i suoi occhi pieni di tristezza. Shizuka lo conosceva bene, e sapeva che non le avrebbe mai detto cosa lo turbava, così si voltò verso Okuyasu in cerca di risposte. Lui le accarezzò i capelli con delicatezza, facendole un sorriso non troppo convinto.
-Avevi perso troppo sangue, saresti morta dissanguata… papà ha il tuo stesso gruppo sanguigno e te ne ha donato un po’, ma era troppo poco… così…-
-Joseph ti ha donato tutto il suo sangue. È morto.- lo interruppe Josuke, con lo sguardo rivolto verso il basso e gli occhi vitrei. Shizuka lo guardò incredula: nonno Joseph era morto per salvarla. Nonno le voleva bene.
Per anni pensò di essere stata solo un peso per lui e la sua anziana moglie, quando abitava a New York. Loro erano molto avanti con l’età, e lei era molto piccola e aveva bisogno di attenzioni continue e di affetto, cosa che i due anziani coniugi non potevano darle. Chiamavano molte babysitter per badare a lei, ma non facevano altro che farla sentire peggio, più triste e con un senso di non appartenenza che la consumavano dentro. Era solo una bambina, ma già sentiva di non essere accettata a quel mondo. Non aveva genitori, i suoi nonni erano molto anziani non uscivano mai di casa, i bambini la prendevano in giro e i loro genitori sparlavano di lei. La guardavano con pietà e lei non lo sopportava.
Provò sempre un po’ di risentimento verso il nonno che non le dimostrò mai amore. Ci dovette pensare suo figlio e il suo compagno, e forse gliene diedero un po’ troppo, ma si sentiva accettata e amata. Pensò sempre che Joseph non le avesse mai voluto bene, che non l’avesse mai voluta adottare, di essere sempre stata un peso per lui.
Non si fece vedere al matrimonio dei suoi genitori, a nessuno dei suoi compleanni, mai. Perché non le voleva bene, pensò lei.
Forse non era così.
E, ora che era morto per lei, aveva paura che quell’idea che aveva avuto per tutti questi anni fosse stata errata. Le voleva bene davvero, ma ormai era troppo tardi per accorgersene.
Capiva perché suo padre Josuke era così distrutto. Si copriva il viso arrossato con una mano, ingobbito su sé stesso, mentre Okuyasu gli accarezzava una spalla.
-Papà JoJo..?-
Non stava bene, e Shizuka si sentiva un po’ in colpa anche verso di lui. Doveva star soffrendo tanto, anche se non gli piaceva dimostrarlo. Lo abbracciò forte, e lui le ricambiò l’abbraccio. Era enorme, sudava e il suo viso pizzicava. Cercò di ricambiare l’abbraccio, anche se era ancora molto debole e lui era decisamente troppo grosso per essere stretto tra le sue esili braccia, anche se ne avrebbe avuto tanto bisogno.
Okuyasu li stritolò entrambi, stringendoseli forte a sé. Erano di nuovo uniti, di nuovo sicuri, di nuovo la famiglia Higashikata al completo.
Jotaro fece capolino dalla porta della saletta, con lo sguardo cupo e gli occhi infossati, guardando Shizuka. Non c’era alcuna emozione sul suo viso, poteva vedere solo l’oscurità dell’animo di quell’uomo stanco e fin troppo sofferente. Si avvicinò a Josuke, che stava ancora stringendo la figlia, e gli mise una mano sulla spalla.
-Dobbiamo andare in Italia. Velocemente.- gli disse. Il suo tono di voce era grave e senza alcuna empatia. Non gli interessava di Shizuka e della sua condizione fisica, ora meno che mai.
In quel momento, Josuke si tolse la mano dal viso e Shizuka lo rivide. Lo sguardo fiero e indomabile di suo padre JoJo, quegli occhi celesti orgogliosi che aveva di solito, e quell’espressione dura e superba che lo contraddistinguevano. Si scrollò la mano di Jotaro dalla spalla e lo guardò di striscio.
-Non finchè la mia Shizu sta male. Non mi muoverò da qui, finché non è a posto. Mia figlia è più importante di qualsiasi cosa.-
Shizuka ripensò all’Italia. Dopo aver messo in ordine i ricordi di quello che aveva visto in sogno, tentò di parlare ma la voce di suo padre e suo zio erano troppo alte, e la sua lieve voce veniva sovrastata. Sospirò, pensando che era tutto inutile.
-Piccola, hai detto qualcosa?-
Okuyasu la guardò dritta negli occhi, curioso. –Sì papà, è una cosa importante!-
Con uno scossone riportò Josuke a loro, facendo cadere la sua attenzione e quella di Jotaro su Shizuka, che iniziò a parlare timidamente.
-Ho… ho sognato un uomo… un ragazzo biondo che mi diceva di cercare delle persone in Italia! I suoi eredi! Anche se non ricordo il cognome…-
-Zeppeli.-
Jotaro li interruppe, il cappello calato sul viso. –Dobbiamo cercare l’erede degli Zeppeli, l’unica persona rimasta al mondo che sappia ancora l’antica tecnica delle Onde Concentriche. Vedete, non vi ho detto tutto prima.-
Tutti si fecero attenti, guardandolo. Lui si schiarì la voce e iniziò a parlare.
-Nella stessa zona in cui sono state ritrovate le Maschere di Pietra, si sono verificati anche casi di vampirismo particolarmente strani. Infatti, gli attacchi di vampiri nella zona della cittadina di “La Bassa”, in Italia sono insolitamente inferiori alla media nazionale benchè la presenza di vampiri sia più alta del solito. Grazie a rilievi della Fondazione Speedwagon, siamo giunti alla conclusione che un gruppo di guerrieri delle Onde Concentriche stia combattendo i vampiri. E noi andremo là per aiutarli e farci aiutare a sterminare tutti i vampiri, e a riportare la tranquillità.-
Gli Higashikata rimasero un attimo storditi da tutte queste informazioni. Josuke si sentì strattonare il bordo della maglia, e si girò verso la figlia. I suoi occhi scuri erano ancora velati dalle medicine e dalla stanchezza, ma erano estremamente determinati. –Papà, il ragazzo nel sogno mi ha detto che devo venire in Italia. Che sono importante, e io… io voglio venire!-
Lui si morse il labbro inferiore. Come poteva dirle così facilmente che le era concesso di accompagnarli, ma allo stesso tempo come poteva negarle tutto ciò?
Sarebbe stato uno squallido genitore in entrambi i casi.
Jotaro nel frattempo stava frugando nella tasca del pesante cappotto che non si era mai tolto, tirando fuori una foto che passò direttamente a Shizuka. Lei la prese, titubante e un po’ spaventata, ma la guardò lo stesso. C’erano sei persone in quella vecchia foto ingiallita datata 1939. Due grossi uomini se ne stavano sullo sfondo, vicino ad una bellissima donna dai lunghi capelli neri e gli occhi severi. Doveva essere la bisnonna Elizabeth. Davanti a loro, tre ragazzi, due maschi e una femmina. Un ragazzo era Joseph, lo poteva notare dai grandi occhi chiari e i capelli castani e spettinati, e l’altra era sua moglie Suzie, una ragazza piccolina dai capelli chiari e il viso gioioso. Rimase decisamente stupefatta da come il nonno da giovane fosse così inquietantemente somigliante a suo padre Josuke. Gli stessi capelli castani spettinati e un viso molto somigliante, per non parlare della stazza. Ma ciò che la colpì davvero fu l’altro ragazzo.
Lo indicò e alzò la voce, stringendo forte (o almeno, forte per le sue sottili mani) la canottiera di suo padre Okuyasu, l’unico che sembrava davvero starla ad ascoltare.
-Lui!! Ho visto lui!- esclamò la ragazzina.
Jotaro si avvicinò e le strappò la foto di mano, leggendo sul retro di essa. –Caesar Anthonio Zeppeli. Dici che ti è apparso lui in sogno?-
Shizuka annuì convinta.
-Mi ha detto che sono importante… che posso imparare queste onde qualcosa!! Devo venire! Papà, vi prego, fatemi venire con voi!-
Josuke e Okuyasu si guardarono intensamente negli occhi, per decidere se farla venire fosse la cosa più giusta da fare, mentre Jotaro se ne usciva dalla sala.
-Allora spero mi saprete dire quando partire per l’Italia.- e se ne andò.
Josuke, Okuyasu e Shizuka rimasero per qualche istante in religioso silenzio, stringendosi le mani e quasi non sapendo cosa dire o fare.
Come se fossero sconosciuti che si incontrano per una seconda volta dopo anni, senza sapere nulla dell’altro, guardarsi negli occhi e non riconoscere più chi ti sta davanti.
-Vieni anche tu in Italia- sbottò Okuyasu, tutto ad un tratto, tra lo stupore degli altri due. Ma il suo sguardo era sicuro, e rassicurò Josuke, anche se di poco.
Shizuka lo abbracciò forte, felicissima di poter dimostrare finalmente il suo potenziale.
 
Josuke e la sua famiglia non si recarono in America per il funerale di Joseph, sarebbe stato troppo strano se ci fossero andati. Infondo, era colpa loro se era morto.
Dopo il funerale il telefono squillò, e a rispondere fu, come al solito, Okuyasu. Passò velocemente il telefono a Josuke, che era già pronto a rispondere di fianco al marito, con le spalle tese e le dita che tremavano.
-Fine marzo? Voglio aspettare che la bambina finisca la scuola! Non posso farle saltare l’ultimo mese di scuola, dannazione!- sbottò lui tutto ad un tratto, urlando contro la cornetta. Shizuka borbottò infastidita dal fatto che i suoi genitori la chiamassero ancora “bambina”. A novembre avrebbe compiuto diciotto anni, ma per loro sarebbe sempre rimasta una poppante. Non poteva lamentarsi di tutte le attenzioni e i vizi che le concedevano, ma il suo orgoglio ne perdeva.
Chiuse la chiamata, abbassò la cornetta e le si avvicinò, scompigliandole i capelli ridente. Era passata una settimana dall’incidente, e sembrava tutto tornato a posto, se non per la grossa cicatrice sul collo di Shizuka. Incidentalmente, era in una posizione molto simile a quella in cui suo padre Josuke aveva quella strana voglia a forma di stella, che realizzò che avevano tutti i discendenti di sangue di Joseph.
-Hai sentito, Shizu? Finisci l’anno scolastico con dei bei voti e in Italia ti prendo quello che vuoi.-
Prese la tazza di thè tra le mani e la strinse, indispettita. Questo era un ricatto bello e buono. Guardò il thè e notò delle leggere increspature sulla superficie del liquido, anche se non ci fece troppo caso sul momento, magari l’aveva mossa per sbaglio, chi lo sa. Però, più lo teneva in mano e più le onde si facevano precise e circolari, mentre dalle mani le scaturivano leggere scariche elettriche. Spaventata lasciò andare la tazza, mentre i suoi genitori le si avvicinarono preoccupati.
-Non è niente, papà, davvero! Mi sono solo scottata!- tentò di dissimulare lei. Fortunatamente i suoi padri non erano il massimo dell’acutezza mentale, e se ne tornarono a fare le loro cose.
Lei guardò il thè, che era tornato fermo. Ricordò le parole del ragazzo nel sogno: potere del sangue. Doveva essere grazie al sangue di Joseph che ora riusciva a fare quelle cose strambe.
 
L’aeroporto di Villafranca era minuscolo, rispetto a quello della città di S. Josuke, Okuyasu, Shizuka, Koichi e Yukako scesero dall’aereo dopo 17 ore di volo e diversi scali. Erano partiti molto presto dal Giappone, ed erano arrivati la sera tardi nel bel mezzo del Nord Italia. Il sole era tramontato da ormai diverse ore, e il cielo era completamente nero. Si potevano vagamente scorgere le stelle tra i fari dell’aeroporto, mentre una luminosissima luna illuminava quel poco di cielo che si poteva scorgere dal terminal. Shizuka osservava il cielo estasiata e sonnolenta, mentre si appoggiava pigramente alla spalla del padre, che l’aveva presa in braccio mentre aspettavano di poter uscire dall’aeroporto e dirigersi all’albergo che avevano prenotato. I Kujo avrebbero ritardato di un giorno, così decisero di prenotare una camera in un albergo vicino all’aeroporto per poi, il giorno dopo, recarsi a visitare un po’ i luoghi intorno a La Bassa. Si erano documentati sulla zona, e avevano scoperto che c’erano tante belle attrazioni da visitare, tra parchi divertimento e centri commerciali.
Una su tutte li attirò (o meglio, attirò Josuke). Si chiamava “La città della Moda” ed era letteralmente un piccolo quartiere con, al posto delle case, negozi di moda.
Josuke aveva già preso un depliant del posto, mentre lo mostrava con un’espressione estasiata al marito e alla figlia.
Shizuka non amava particolarmente farsi trattare da bimba, ma quando era stanca morta e troppo affaticata (o semplicemente pigra) per camminare e Okuyasu le chiedeva se voleva essere portata in braccio, rispondere “no” era difficile.
In poco tempo furono fuori, e si incamminarono verso il bus che li avrebbe portati all’albergo nelle vicinanze. Il gruppo camminava veloce, erano stanchi ed impazienti di riposarsi dopo aver attraversato tutta l’Asia e metà Europa in volo. Ma nessuno di loro era davvero pronto al paesaggio che si ritrovarono davanti, una volta arrivati alla fermata del bus.
C’era una stradina stretta che si dirigeva verso il nulla. Intorno a loro, solo chilometri di coltivazioni di grano, orzo, mais, che si stagliavano fino all’orizzonte inquietantemente piatto.
Josuke fece qualche passo in avanti, aspettando che l’autobus passasse. Metteva ansia quel paesaggio quasi spettrale, in mezzo a quella distesa di nulla illuminata solo dalla tenue luce della pallida luna che si affacciava su di loro beffarda, quasi prendendoli in giro.
Si girò verso gli altri, con faccia tesa e disgustata, i pugni serrati e un’espressione indecifrabile fra il furente e il rassegnato.
-Che posto di...-





 
So wake me up when it's all over
when I'm wiser and I'm older
all this time I was finding myself
and I didn't know I was lost.
Wake Me Up, Avicii (2013)
 
Note dell’autrice
No ragas, non sono morta. Sono tornata, e peggio che mai!
Finalmente i migliori cittadini di Morioh sono arrivati nel bel mezzo della Pianura Padana, e da bravi cittadini ci sono rimasti un po’ male nel vedere il nulla padano. Che bello.
Ringrazio le mie due amate collaboratrici, se non ci fossero loro non esisterebbe la serie! Grazie care. Avete tutta la mia stima, sis.
Ringrazio anche tutti i miei lettori, senza di voi non sarei mai andata avanti!
Al prossimo capitolo, ovvero “gente scema che crea casini alla Città della Moda”!
Ciao a tutti! Al prossimo capitolo, mi raccomando!

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Capitolo 7
*** Guai alla Città della Moda (parte 1) ***


Quella notte, Shizuka dormì poco e niente.
Il motivo principale era l’ansia che si portava dietro da Morioh. Stava succedendo davvero, era davvero in Italia per sconfiggere i vampiri, e aveva paura del peso così grande che le gravava sulle sue esili spalle.
L’altro motivo, probabilmente il più fastidioso, era la camera d’albergo. Era minuscola e umidissima, piena zeppa di fastidiose zanzare che le ronzavano intorno rumorosamente e la pungevano in ogni dove.
Shizuka era inoltre stata costretta a dormire nel lettone in mezzo ai suoi insopportabili genitori, e purtroppo non erano meno fastidiosi addormentati. Josuke non ci stava nemmeno nel letto, i piedi rimanevano fuori dalle coperte e dal materasso, e continuava a rigirarsi nel sonno facendo muovere tutto il letto con l’enorme stazza che si ritrovava. Okuyasu invece rimaneva fermo come un sasso, ma russava così forte che anche pensare diventava difficile. E Shizuka si ritrovava in mezzo a questi due idioti, imponenti e fin troppo caldi e sudati mentre continuava a grattarsi ossessivamente per colpa di tutte le punture di zanzara che aveva, a pensare come diavolo era finita lì e che probabilmente avrebbe fatto meglio a rimanere a Morioh con Manami e Tamotsu.
La sveglia le rimbombò nelle orecchie mentre Okuyasu tastava sul comodino dalla sua parte di letto per spegnerla, inutilmente dato che si trovava su quello di Josuke, che non si sarebbe svegliato nemmeno a cannonate. Sarà stato per l’umidità padana, sarà per il letto scomodo o la tensione, ma si svegliò.
La prese e senza troppe cerimonie la scaraventò contro il muro frantumandola in mille pezzi, crollando poi di nuovo sul materasso a pancia in giù.
Sapeva del carattere non proprio rosa e fiori del padre di mattina, ma questo era un po’ esagerato.
Okuyasu lo tirò giù a forza dal letto, trascinando il marito ancora mezzo addormentato, mentre Shizuka tirava fuori i vestiti dalla sua valigia.
Si era categoricamente rifiutata di portare l’uniforme scolastica in Italia. I suoi genitori l’avrebbero anche fatto se fossero stati loro a decidere, ma non era più il 1999 e portare un’uniforme scolastica giapponese per combattere i vampiri nel mezzo della Pianura Padana non era la scelta migliore.
Optò per qualcosa di più sportivo. Pantaloncini corti, maglietta corta e una canottiera sotto che copra tutto. I suoi non le permetterebbero mai di andare in giro mezza nuda con l’ombelico di fuori.
Tirò fuori dalla valigia la vecchia e logora sciarpa verde e gialla che era appartenuta a suo nonno Joseph. Jotaro la inviò loro qualche settimana prima della loro partenza, dicendo che era importante per la riuscita della missione. Suo nonno gliel’aveva riferito quando era giovane, che quella sciarpa era speciale e trasmetteva bene le Onde, anche se non aveva capito bene in che modo. Poco le importava ora, l’avrebbe capito con il tempo.
Josuke era ancora in bagno, era passata almeno un’oretta ma tutti sapevano che ci avrebbe impiegato anche di più per prepararsi, mentre Okuyasu prendeva le sue medicine usuali. Shizuka non aveva mai osato chiedergli a cosa servissero o perché le prendesse, era sano come un pesce e non ne vedeva il motivo, o almeno nessun motivo fisico. Lo osservò un attimo, vagamente schifata dalla sua scelta stilistica, se quello si poteva chiamare “stile” ovviamente. Un paio di jeans larghi e usurati, delle scarpe da ginnastica da poco e una canottiera lercia.
-Papà, andiamo alla “Città della Moda” e tu intendi indossare quello?-
Lui si girò e la guardò, decisamente stizzito. –Sei uguale a tuo padre, lo sai?- sibilò a denti stretti.
Nello stesso momento, JoJo uscì dal bagno, perfettamente pettinato ma ancora in pigiama. Ora toccava alla scelta del vestiario, altro punto dolente della sua routine mattutina.
Ormai l’orario della colazione era bello che andato, non rimaneva che andare a pranzo in qualche ristorantino italiano DOC. La zona in cui si trovavano non era particolarmente famosa e visitata, ma era pur sempre l’Italia, no? Dalle informazioni che avevano preso da Wikipedia, la zona era rinomata per la cucina tipica particolarmente deliziosa. Tanta, tanta pasticceria attirarono Okuyasu, e i diversi centri commerciali nella zona allettarono particolarmente Josuke. Per Shizuka, invece, c’erano dei parchi giochi e parchi tematici vicino alla provincia, alcuni famosi in tutta Europa. Era una bella zona, sperduta e tranquilla, ma carina.
Tutto sembrava andare tranquillo, finché Josuke non tirò fuori dalla sua enorme valigia strapiena di vestiti una giacca in pelle smanicata con tanto di spille applicate e dei pantaloni leopardati, per finire quell’orrido spettacolo di bassa moda con delle Dr Martens fluo. La sua famiglia lo stava guardando malissimo, ma il suo carattere fin troppo orgoglioso e sicuro di sé lo fecero interessare ben poco a quegli sguardi accusatori.
-Che avete da guardare? Dai, andiamo che si fa tardi!-
Shizuka stava per sgattaiolare fuori dalla camera d’albergo, esausta al pensiero che avrebbe passato una giornata intera a stretto contatto coi suoi estenuanti genitori, quando venne afferrata con forza per il braccio e trascinata verso suo padre Josuke, che in mano aveva già garze e cicatrizzanti.
Ormai era una routine che andava avanti da settimane, precisamente da quando uscì dall’ospedale dopo l’incidente. La ferita non era curabile con un semplice tocco di Crazy Diamond, era qualcosa che Josuke non aveva mai visto e che non sapeva proprio come curare se non con i classici punti. Suo padre glieli disinfettava ogni mattina ormai, e poi ci metteva le garze ed un cerottino. Una volta finita la trafila quotidiana le schioccò un bacino sulla guancia, come tutte le sacrosante volte, suscitando sempre la stessa reazione di sdegno e fastidio da parte della figlia.
Finalmente uscirono dall’hotel e gli Hirose li aspettavano, non affatto stupiti dal fatto che quella famiglia di pazzi avesse ritardato così tanto. Circa due ore, per essere precisi.
Avevano noleggiato una automobile italiana, di una marca abbastanza costosa. Sarebbe servita loro, dato che dovevano spostarsi di diversi chilometri dalla loro posizione attuale.
La Bassa, la cittadina in cui si dovevano dirigere per trovare questo fantomatico “erede degli Zeppeli” si trovava una ventina di chilometri più a sud della città di Mantova, il capoluogo della piccola provincia contadina in cui avevano prenotato l’albergo.
Yukako era alla guida e Koichi le stava di fianco, mentre gli Higashikata sedevano sui sedili posteriori dell’automobile guardando lo sconfortante paesaggio intorno a loro. Benché si trovassero su una strada statale, oltre i guard-rail c’era solo campagna. Un mare piatto di verde erba e giallo grano, che si stagliava per miglia tra case di campagna e alberelli solitari, l’orizzonte che si scontrava contro l’azzurro grigiastro del cielo, troppo luminoso e monotono anch’esso.
In una mezz’oretta arrivarono al parcheggio della famosa Città della Moda, un complesso di negozi grande tanto una piccola città, rinomato in tutta la regione, se non a livello nazionale. Josuke smontò di macchina quasi di corsa, contento come una pasqua della visita ad un luogo tanto sognato da lui, risvegliandosi da quello stato di sonnolenza in cui era caduto durante il viaggio, causato da quel paesaggio che funzionava meglio di un sonnifero.
C’era tanta gente nel parcheggio, dalle famiglie alle coppiette ai gruppetti di ragazzini della zona.
Tutti e cinque scesero dalla macchina e si incamminarono verso i cancelli d’entrata, tranne Okuyasu. Rimase fermo immobile, con lo sguardo fisso sulla folla dall’altra parte del parcheggio e con un’espressione corrucciata sul viso stanco.
-Amore, tutto bene?- gli mormorò Josuke, prendendolo preoccupato per un braccio. Okuyasu lo guardò negli occhi per un attimo, per poi tornare a voltarsi verso la folla con aria tesa. –Mi era sembrato di aver visto un bagliore rosso.- disse lui.
-Me lo sarò sicuramente immaginato. Dai, che aspettiamo?-
Prese marito e figlia sottobraccio e, ridendo, si diresse all’entrata.
Shizuka aveva gli auricolari e la musica a tutto volume, e non era davvero interessata a quello che avrebbero visto in quel posto. Non per il fatto che non le interessi prendersi qualche vestitino o bella maglietta alla moda, ma più per il fatto che con il carattere prepotente e da vero leader di suo padre Josuke vedere qualcosa che potesse piacerle sarebbe stato difficile, se non impossibile.
Fu data loro una mappa del posto e le famiglie si divisero, per somma gioia di Koichi e Yukako di non doversi portare dietro quei due, rumorosi e fin troppo appariscenti.
Okuyasu aprì la cartina che aveva trovato lì ed esaminò il posto. Oltre ai negozi di vestiti c’erano ristoranti, bar, tabaccherie, gelaterie e edicole. Decise che sarebbero prima passati per il ristorante a mangiare qualche specialità padana, prima di buttarsi a capofitto nello shopping. Nel frattempo avrebbero girato un po’ per le vie affollate, guardandosi intorno e decidendo cosa fare per il resto della giornata.
Camminavano sotto i portici al lato della strada, facendo slalom tra la gente ammassata davanti alle vetrine alla ricerca di regali per la Pasqua cristiana, che si stava appropinquando. Era stagione di vacanze pasquali in Italia, e c’era gente ovunque, nemmeno si passava. Shizuka camminava tra i suoi genitori, poco interessata ai loro discorsi mentre tentava di messaggiare con le amiche ancora in Giappone che le chiedevano foto della tanto sognata Italia, anche se era uno sforzo inutile: il cellulare non prendeva in quel posto. Okuyasu la teneva per mano e Josuke aveva una mano appoggiata alla sua spalla, intimoriti dal fatto che potessero perderla in quella folla mostruosa, così minuscola e mingherlina non l’avrebbero mai più ritrovata.
Tutto ad un tratto Josuke cacciò un urletto, ritraendo il braccio. Suo marito e sua figlia si girarono spaventati verso di lui, che si teneva il braccio con una mano.
-Qualcosa mi ha punto!- mugolò lui, facendo vedere il piccolo buchetto a malapena sanguinante nell’incavo del gomito.
Anche Shizuka aveva sentito quel pizzicare sul polso, e, guardandoselo, notò che c’era un puntino rosso, da cui sgorgava un minuscolo rigagnolo di sangue.
-Devono essere le famose zanzare di queste parti. Sapete, qua vicino scorre il più grande fiume italiano, per questo è così umido e pieno di insetti!-
Lei annuì poco convinta, mentre Crazy Diamond le guariva quel pizzicotto. Si voltò indietro, scorgendo in mezzo alla folla un bagliore rosso, come aveva detto suo padre poco prima. Si strofinò gli occhi, ma non c’era niente. Forse era solo molto paranoica, spaventata da quel posto sconosciuto in cui non era mai stata e psicologicamente logorata da tutto ciò che sta accadendo ultimamente. Strattonata dai suoi impazienti padri, continuò a camminare tra di loro, con quell’ombra di sicurezza che le loro spalle larghe e sorrisi tranquilli le trasmettevano.
Più si allontanavano dal centro più la folla si diradava, mentre facevano viuzze nascoste e percorrendo strade sconosciute fino ad arrivare ad una piazzetta quasi desolata, alla fine del percorso. Si erano evidentemente persi, dato che pensavano di arrivare al ristorante.
Josuke strappò di mano la cartina ad Okuyasu, gridandogli contro nervoso.
-JoJo, non è colpa mia! La cartina è sbagliata!- gli rispose Okuyasu quasi disperatamente, mentre Josuke lo inceneriva con lo sguardo, passando gli occhi dalla mappa al marito.
Cercò i nomi delle vie sulla cartina ma, come aveva constatato prima lui, non ce n’erano. La cartina era sbagliata, anzi, era stata manomessa.
Un brivido freddo scosse la spina dorsale di Josuke, mentre accartocciava la mappa e la buttava nella fontana al centro della piazza, in preda alla rabbia.
Il cielo grigio, quasi bianco sopra di loro stagliava delle ombre inquietanti sul pavimento di pietrisco e il venticello fresco che ancora ricordava l’inverno appena passato faceva rotolare le cartacce per terra, facendo sobbalzare ogni volta Shizuka.
Josuke la strinse forte a sé, accostandosi a Okuyasu, all’erta almeno quanto lui. Erano evidentemente in trappola, e non sapevano come tornare indietro o contattare gli Hirose. Se avessero incontrato qualcuno avrebbero potuto chiedere la strada per tornare al centro dato che avevano convinto (e con “convinto” si intende ovviamente “minacciato”) Rohan a fargli imparare istantaneamente l’italiano grazie ad Heaven’s Door. Ma non c’era nessuno in giro, né passanti né tantomeno i loro assalitori.
L’acqua frusciò, e Okuyasu si ritrovò uno squarcio grondante di sangue su un polpaccio. Josuke si girò di scatto verso la fontana, stringendo la figlia a sé e reggendo il marito.
Era l’acqua. Dall’acqua stavano sgorgando delle lame a pompa idraulica, dirette verso di loro. Crazy Diamond venne evocato nel giro di pochi istanti, e parò due o tre lame d’acqua grazie alla specie di scudo che gli si era creato sull’avambraccio nel corso degli anni di allenamento.
Curò Okuyasu e tutti e tre si allontanarono velocemente dalla fontana, spaventati a morte. Non vedevano nessuno stand che creasse quelle lame, cosa poteva mai essere? La fontana sprizzava violentemente acqua nell’aria, mentre il vento alzava la polvere tra i sassi del fondo stradale.
Si levò quasi una tempesta di sabbia intorno a loro, mentre l’acqua degli spruzzi della fontana tornava a ribollire.
Crazy Diamond e The Hand si misero in posizione difensiva, mentre Shizuka se ne stava dietro di loro, con i pugni serrati e tremanti. Cosa poteva fare? Erano davvero sotto attacco, e tutto quello che poteva fare lei era nascondersi dietro ai suoi genitori. Il suo stand non aveva una forma umanoide, non aveva poteri spettacolari, era solo debole. Debole e inutile, un’irrilevante bambina da proteggere e prendersi cura. Si era ripromessa che non sarebbe mai più successo, che ormai era grande, e non era meno dei suoi eroici genitori. Ma doveva accettare la realtà. Lo era, e non poteva farci niente. Si morse forte il labbro inferiore e lasciò qualche lacrima scorrerle giù dal viso, mentre suo padre Okuyasu si girò verso di lei e le accarezzò i capelli dolcemente, guardandola con uno sguardo pieno di preoccupazione.
-Non ti preoccupare Shizu, non ti succederà nulla. Sta’ dietro di noi.-
Shizuka annuì poco convinta, mentre i suoi genitori si preparavano a parare i colpi della fontana.
La sabbia si univa all’acqua, e dai getti venivano sparati altre lame d’acqua.
Quelli eliminati da The Hand semplicemente scomparirono, mentre quelli che colpirono Crazy Diamond scavarono questa volta in profondità nell’armatura azzurra dell’enorme stand, provocando dei tagli sugli avambracci di Josuke. Francamente non ci fece nemmeno caso, mentre il sangue gli zampillava giù per i muscoli irrigiditi delle braccia e per i pugni serrati, mentre i suoi occhi azzurri ribollivano d’odio puro e di rabbia contro quella fontana fin troppo pericolosa.
-Waterjet abrasivo. Acqua più sabbia rocciosa creano una pressione maggiore e sono capaci di tagliare qualsiasi cosa, persino il diamante.- sentenziò Josuke, tornando in posizione difensiva. –Non possiamo parare e non possiamo avvicinarci. Dobbiamo colpirlo a distanza.-
Si voltò verso Okuyasu, che a sua volta si girò verso di lui.
Erano un duetto micidiale quei due, ormai. Dopo diciassette anni insieme sapevano quasi leggersi nel pensiero, anticipare i movimenti dell’altro, e capirsi al volo.
-Occupatevi di loro, lasciate vivo solo il più alto.- disse una voce misteriosa che proveniva da un vicoletto dietro di loro. Josuke fece per girarsi, fuori di sé dalla rabbia, quando altri getti d’acqua e sabbia vennero lanciati nella loro direzione. The Hand cercò di cancellarli, ma inutilmente. Le lame d’acqua l’aggirarono, e li accerchiarono in tutte le direzioni, mentre si avvicinavano velocemente a loro.
Shizuka si mise a gridare, mentre Josuke si buttò su di lei nel vano tentativo di farle da scudo col suo corpo.
-Sottraetegli tutte le informazioni possibili e poi eliminate anche lui.
Non voglio superstiti.-


The dogs of war don't negotiate,
the dogs of war won't capitulate.
They will take and you will give,
and you must die, so that they may live.
The Dogs of War, Pink Floyd (A Momentary Lapse of Reason, 1987)
 
Note dell’autrice
Ciao a tutti! Sono tornata con un capitolo d’azione!
Finalmente le botte, eh? So che le aspettavate! Il nemico è una fontana, e la voce la comanda…
Riusciranno gli Higashikata a salvarsi e a trovare un modo per sconfiggere le sue lame a pompa idraulica? E quali informazioni sta cercando la voce misteriosa?
Tutte le risposte (forse) al prossimo capitolo!
Sto traducendo la serie in inglese, presto Dangerous Heritage sbarca anche sui siti di fanfiction internazionali! Tra mille anni. Ancora niente in vista. Auguratemi buona fortuna! (Tradurre in inglese è un inferno. Chissà se ce la farò, o se sopravvivrò soprattutto.)
Ciao a tutti!

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Capitolo 8
*** Guai alla Città della Moda (parte 2) ***


-Stanotte, la Banda delle Onde Concentriche smetterà di esistere! Grazie a me, e al mio nuovo stand!-
La vampira bionda digrignò i denti, mostrando gli appuntiti canini mentre estraeva il suo stand. Era pronta al combattimento, pronta a fare fuori quei maledetti guerrieri delle letali onde concentriche grazie allo stand che i capi le avevano donato trapassandola con la Freccia e mutandola con la Maschera.
I suoi avversari se ne stavano impalati davanti a lei, con delle espressioni annoiate sul viso. Il loro capo fece un passo in avanti, aggiustandosi gli occhialoni gialli che le coprivano gli occhi.
-Taglia corto Elisa, e dicci cosa vuoi.- sbraitò Zarathustra, il boss della Banda delle Onde Concentriche. Una ragazza bassa e dall’apparenza per nulla né femminile né matura, coi suoi corti capelli neri e il vestiario largo e maschile. Le si parò davanti, stringendo i pugni guantati, che iniziarono a esalare delle scosse elettriche.
La vampira rise, portandosi la mano dietro la testa e saltellando di qua e di là, con un’espressione che né Zarathustra né la sua banda sopportavano.
-I capi hanno detto che stanno arrivando degli altri nemici per voi!- disse lei, con la sua orribile vocina acuta. Una della Banda, la ragazza più alta coi capelli castani lunghi e un diadema sulla testa, estrasse delle bacchette dagli alti stivali neri e fece per avventarsi contro Elisa, ma fu prontamente fermata dal boss. Rimaneva ferma immobile, mentre con una mano teneva per il braccio l’amica furibonda. Dal suo viso, coperto a metà dagli occhialoni da lavoro, non traspariva nessuna espressione, come solito del resto.
-E chi sarebbero? Sono vostri alleati, forse?- chiese, con un tono neutro da cui non trapassava alcuna emozione.
Elisa ridacchiò, avvicinandosi a loro. La ragazza castana aveva le lacrime agli occhi, mentre guardava con puro odio l’avversaria. La presa di Zarathustra non diminuiva sul suo braccio, tenendola salda e assicurandosi che non scappasse e uccidesse la vampira. Era estremamente preziosa, ora.
Aveva appena scoperto di avere altri nemici, oltre a quei maledetti vampiri. Era tesa, ma come usuale non dimostrava alcuna espressione. È il boss, non può lasciarsi spaventare.
Gli occhi rossastri della vampira si piantarono negli occhialoni della guerriera delle onde concentriche. –Sono i Joestar… sono tornati per farti fuori! Hihihi!-
La presa sul braccio dell’amica aumentò, mentre sul viso di Zarathustra si formò un’espressione preoccupata. La ragazza castana si girò verso l’amica.
-Boss… qualche problema? Chi sono questi “Joestar”?-
-Non preoccuparti, Regina- sospirò il boss, tornando apatica. –ve lo spiegherò più tardi. Prima, raccogliamo qualche informazione in più da questa schifosa, poi la faremo fuori e vi spiegherò tutto.-
Regina annuì poco convinta, mentre Zarathustra le lasciava il braccio e si avvicinò alla vampira iperattiva, che stava saltellando per tutto il vicoletto dei sobborghi di La Bassa. –E quando dovrebbero arrivare, questi “Joestar”.-
-Domani arriveranno al Forcello… si sono finalmente accorti di aver lasciato degli Zeppeli in vita, e sono tornati per rimediare e ammazzarvi, come hanno fatto con tutti i vostri antenati~ Non è divertente?-
-Domani al Forcello.- sussurrò il boss, avvicinandosi pericolosamente alla vampira, che smise di saltellare e iniziò a retrocedere, un po’ spaventata.
Un bagliore rosso si accese sotto gli occhialoni, in prossimità dell’occhio destro del boss della Banda. Ed Elisa capì che era troppo tardi.
Cadde a terra di schiena a peso morto, con un enorme ago elettrizzato piantato in mezzo agli occhi, mentre il suo corpo iniziava a bruciare e lei ad urlare in modo straziante. Zarathustra le appoggiò un piede, con la scarpa ricoperta di onde concentriche sulla sua gola e premette forte, finchè non avvertì un forte “crack”.
Elisa scomparve, svanendo nella polvere, mentre il boss tornava indietro verso i compagni di squadra, con le mani nelle tasche della felpa.
-Ludovico, torniamo al rifugio.-
Un ragazzo dai capelli neri tirati all’indietro, tutto impettito in giacca e cravatta si fece avanti, annuendo. Estrasse il suo stand, una grossa ombra circolare, e tutti i ragazzi ci saltarono dentro, sparendo.
L’ombra vagò nell’oscurità della città quasi desolata, intrufolandosi tra le crepe nei muri e raggiungendo un casolare abbandonato, nella periferia remota della città. Sorgeva vicino alla campagna, piatta per chilometri e chilometri oltre l’orizzonte, desolata. La Banda uscì dallo stand-ombra e si disperse per le grandi camere della villa rurale, tornando a fare le solite cose che otto ragazzini come loro erano soliti fare: chi giocava ai videogiochi, chi trafficava col cellulare, chi ascoltava la musica.
Zarathustra però rimase ferma. Chiamò tutti gli amici, che si disposero seduti in cerchio intorno a lei, come ogni volta che il loro capo doveva riferire loro qualcosa di importante. Lei si schiarì la gola e iniziò a parlare.
-Abbiamo scoperto che questi “Joestar” arriveranno domani al Forcello. Ora, voi vi chiederete chi siano questi fantomatici Joestar, e perché stiano cercando proprio me. Ebbene, la storia parte da tanto, tanto tempo fa. Correva il diciannovesimo secolo.-
Un ragazzino basso e mingherlino, dai capelli violacei ribelli, alzò la mano.
-Parla pure, Piero.- lo chiamò Zarathustra con voce neutra. Il ragazzo indicò il libro che il boss aveva in mano, un diario di viaggio dall’apparenza molto antica. –Cos’è quella roba? Non ce lo dovremo mica sorbire tutto??-
Gli altri sei ragazzi seduti a terra si girarono verso di lui e lo guardarono male. Possibile che fosse sempre così superficiale e stupido?
Zara sospirò, mantenendo la calma. Era incredibile come riuscisse sempre a rispondere a tono, anche alle domande più stupide.
-Sì, dovrete. Questo è il diario di bordo degli Zeppeli, risalente alla prima metà dell’800.  Erano una famiglia di studiosi, e stavano analizzando questa “maschera di pietra”, un antico manufatto azteco. A quanto pare, le creature che avevano creato quegli strumenti fossero passate anche di qua, arrivando fino a Roma, dove si persero le loro tracce.
Tuttavia, lasciarono, in qualche parte sconosciuta del loro tragitto, i loro artefatti, le Maschere di Pietra, ben nascoste sotto terra, in una zona praticamente inabitata dell’Impero Romano. Ebbene, decisero di celare il loro pericoloso tesoro nelle paludi della centuria più selvaggia di tutt’Italia, dove le acque del grande fiume Padus le inghiottì per secoli e millenni, fino al grande terremoto del 2012, dove riemersero…-
-Ehm... Sorellona, non ancora con la storia romana...- balbettò un ragazzo alto dalla carnagione abbronzata e i biondi capelli corti tagliati alla mohawk, dal viso però fin troppo simile a quello del boss e un'espressione sottomessa nei suoi grandi occhi verde acqua. Zarathustra si voltò a guardarlo e prese in mano il librone, neutra come al solito.
-Preferirei tu usassi un tono più sicuro e mi chiamassi per nome o per grado quando ti rivolgi a me, Alex, ma hai ragione. Mi stavo perdendo. Dicevo, la famiglia degli Zeppeli.
Uno di loro, William Anthonio Zeppeli, fu l’unico sopravvissuto di un attacco di vampiri, a metà del diciannovesimo secolo. Si recò così in Tibet per imparare l’antica e quasi estinta tecnica delle Onde Concentriche, utilizzata da un’antica tribù di esseri umani per sconfiggere le creature azteche semidivine chiamate “uomini di pietra” o “uomini del pilastro”, come riportano questi antichi manoscritti.
Questo William apprese l’Hamon, le Onde così chiamate in lingua originale tibetana, per sconfiggere un vampiro che a fine 800’ utilizzò una delle maschere, presso Londra. Il motivo non è scritto. Però, c’è scritto che il rampollo dei Joestar, l’unico erede di quella famiglia nobiliare inglese, apprese dallo Zeppeli le Onde concentriche, prima che questi morì in circostanze misteriose. Lasciò la sua famiglia senza alcuna motivazione. Il diario di bordo si conclude qui.
Altre fonti, che ho ricavato dal lavoretto pomeridiano in biblioteca, mi hanno svelato che i Nazisti risvegliarono gli ultimi uomini del pilastro che si erano nascosti nel Colosseo per due millenni, appunto trasformati in pilastri –da qui il loro nome-, che furono comunque sterminati. Un generale delle SS, Stroheim, citò un certo Joseph Joestar, che sconfisse nella Svizzera neutrale della Seconda Guerra Mondiale queste misteriose creature azteche e tutti i vampiri rimasti.-
I ragazzi nella banda iniziarono a mormorare tra loro, tranne Alex, che fissava la sorella maggiore con un sorrisone emozionato. Amava sempre risentire le storie delle sue origini. Una ragazza, molto alta dai capelli ricci e rossi, sbuffò sonoramente, sporgendosi verso Regina e il suo fidanzato. –Ma quando è che finisce di parlare?-
-Faresti meglio ad ascoltare, stupida- sibilò innervosita Regina, guardandola di traverso mentre Davide, il suo ragazzo, cercava di tranquillizzarla.
-Ma, con il suo avvento, tutti gli altri guerrieri delle Onde misteriosamente scomparirono, compreso il nipote di William, Caesar. Ho il sospetto che i Joestar si vogliano disfare dei guerrieri delle Onde Concentriche. Compresi noi.-
Sulla sala, quasi silenziosa fino a pochi istanti prima, si alzò un brusio di voci preoccupate che parlottavano tra loro. Zarathustra rimase a guardarli in silenzio, lasciandoli reagire. Poi, stanca di aspettare, lasciò cadere a terra il tomo, causando un grande rumore. Tutti i componenti della banda si girarono verso di lei, spaventati a morte dalla nuova notizia, mentre lei si lisciava la maglietta bianca di The Wall, tentando di sembrare il più calma possibile.
-Stanno cercando gli Zeppeli. Hanno ucciso tre generazioni, e gli unici rimasti siamo io e Alex.
Ho scoperto dall’anagrafe di La Bassa che nostro nonno fu adottato, poiché in tempo di guerra una donna da sola non poteva allevare un figlio. La donna, la mia bisnonna, fu messa incinta da un ragazzo, un guerriero delle Onde Concentriche in viaggio verso la Svizzera per sconfiggere gli Uomini del Pilastro, ma venne ucciso, probabilmente dai Joestar.
Il suo nome era Caesar Anthonio Zeppeli.-
Zarathustra riprese tutti i libri e li rimise a posto negli scaffali polverosi della grande libreria, mentre tutti i componenti della sua banda la guardavano allibita. –Domani mattina presto partiamo per il Forcello. Ludovico, a te il controllo della Banda in mia assenza. Regina, Eriol, voi verrete con me alla Città della Moda.-
Regina e un’altra ragazza, più bassa dai capelli mogano spettinati e una lunga coda sulla nuca, vestita da avventuriera con dei grossi occhialoni sulla testa, si alzarono in piedi e annuirono.
-Siete le più forti tra noi- sibilò il Boss, avvicinandosi alle ragazze, un po’ spaventate dalle ultime notizie e dalla missione pericolosa che era stata affidata loro. –domani sconfiggeremo i Joestar, e la nostra via sarà finalmente libera. Potremo realizzare il nostro piano, in pace.-
 
Tra La Bassa e il Forcello c’era una mezz’oretta di strada. Zarathustra, Regina ed Eriol arrivarono verso le nove, l’orario di apertura, nel parcheggio della Città della Moda, in un angolo d’osservazione tale da poter vedere circa tutto il parcheggio.
Da sotto gli spessi occhialoni di Zarathustra s’illuminò la luce rossa in corrispondenza del suo occhio destro, e iniziò ad ispezionare tutto l’ampio parcheggio. Le macchine continuavano ad andare e venire, e c’era un po’ di folla. Il pienone sarebbe arrivato più tardi, e a quanto pare anche i Joestar. Le tre ragazze si sedettero sul muretto d’entrata, in una posizione sopraelevata rispetto alle automobili e al gruppo di persone che si apprestavano ad entrare nel grande centro commerciale. Eriol e Regina parlottavano tra loro, mentre il capo della Banda continuava ad ispezionare tutti i turisti e i clienti. Le ore passavano, e ancora nessuno che potesse assomigliare come fisionomia a quella foto di nozze di Joseph Joestar e Suzie Quatro che aveva trovato all’anagrafe di Venezia.
-Sta usando 42?- mormorò Eriol a Regina, guardando il loro capo con attenzione. La più alta annuì, entrambe attente a non disturbarla mentre scannerizza tutta la folla.
Passano le ore, e nessuno che risultasse.
Le ragazze iniziano ad annoiarsi, ciondolando pigramente le gambe sul muretto mentre guardano annoiate la foto del matrimonio. Un ragazzo di circa la loro età, alto e massiccio, dagli spettinati capelli scuri e gli occhi vispi, e una ragazzetta bassa e bionda dal viso solare. Tutto ad un tratto, Zarathustra salta giù dal muro e inizia ad incamminarsi. Regina ed Eriol la seguirono, iniziando a sudare freddo e raggiungendola, preoccupate.
-Trovato- mormora, tenendo lo sguardo fisso su un punto imprecisato della folla. Era l’una, l’orario di punta, e si faceva fatica persino a camminare in quella marea di gente. Le due non vedevano nulla, ma si fidavano dello Stand del loro capo.
-Sono quattro adulti e un’adolescente. I quattro sono sulla trentina, mentre la ragazzina deve avere quindici anni o poco più. Sono tutti di etnia asiatica, tranne uno.-
-Joestar…- ringhiò sottovoce Regina, estraendo dagli stivali le bacchette di ferro che usa per combattere. Eriol si mise sulla difensiva anche lei, tirando fuori dal marsupio che porta alla vita un paio di boccette di sabbia.
Zara alzò un braccio, fermandole. Le ragazze la guardarono stupite, mentre rimaneva immobile. Tra la folla sparsa e movimentata, riusciva a scorgere e analizzare le cinque figure.
-Ragazze, andate alla fontana e preparate la trappola. Io li seguo. Come stabilito dal piano.-
Le due annuirono e corsero dentro il centro commerciale, mentre il boss rimaneva a seguirli a distanza, per non farsi notare. Zarathustra era ormai abituata a missioni in solo, e poteva dire di preferirle quasi a quelle in gruppo. Da sola poteva fare quello che voleva, prendere decisioni drastiche e delle volte rischiose. Ma lei calcolava tutto, aveva un piano per ogni evenienza, e si fida ciecamente delle sue abilità. Si considerava infallibile, e seguire una famiglia ignara non era di certo una missione difficile. Li pedinava a qualche decina di metri di distanza, grazie al suo stand, quell’occhio rosso e inquietante che brillava sotto gli occhialoni spessi. Fece diversi giri intorno a loro per poterli vedere, studiare e analizzare meglio, rimanendo in vicoletti laterali a cui i tre –due uomini sulla trentina parecchio alti e massicci e la ragazzina- non prestavano minimamente attenzione.
Allungò un braccio davanti a sé, serrando la mano a mo’ di pistola e prendendo bene la mira con l’occhio destro che brillò di una sinistra luce rossa. Dal dito, ricoperto dal guanto giallo intarsiato da fili metallici, scaturirono degli aghi elettrificati, sottili e minuscoli, quasi invisibili, e puntò alle loro tasche. Ne sparò tre, che si andarono a conficcare nei cellulari, che, a causa del campo magnetico causato dagli aghi, che bloccarono la ricezione e causò ai cellulari di non avere più campo. Sicura che non avrebbero più potuto chiamare rinforzi, si calmò e iniziò a analizzarli meglio.
I tre, presumibilmente una famiglia, erano strani e decisamente appariscenti.
Il più alto, sui due metri, era un occidentale dai corti capelli castano scuro spettinati e gli occhi chiari, un po’ di barba e qualche cicatrice qua e là sulla pelle bianca, era quello che la stupivano di più: le sembrava una copia di quel “Joseph Joestar” che aveva visto nella foto, aveva perfino quella strana voglia a forma di stella tra la spalla sinistra e il collo. L’altro uomo non era meno bizzarro. Un giapponese di almeno un metro e ottanta dalle spalle larghe e i tratti del viso marcati. Portava gli occhiali e aveva una strana, enorme cicatrice a forma di X proprio in mezzo al viso, e i capelli bianchi e neri raccolti in una corta coda di cavallo. Tra di loro, una ragazzina adolescente di circa un metro e cinquanta, anche lei di etnia asiatica, magrolina e pallida, coi capelli corvini chiusi in due codini sulla base del collo e la frangia che quasi le copriva gli occhi. Zarathustra non fece fatica a seguirli e a rintracciarli tra la folla, mentre invece perse le tracce degli altri due, una donna alta dai capelli lunghi e mossi e un uomo, basso e mingherlino, dai capelli chiari e sparati verso l’alto. Portavano due fedi identiche e stavano sempre insieme, e constatò che dovessero essere marito e moglie. Una fede identica l’avevano anche il Joestar e l’altro uomo, giungendo alla conclusione che dovessero essere sposati anch’essi e che la bambina fosse loro figlia adottiva. Erano parecchio giovani per essere genitori, ma la questione non la preoccupò troppo. Camminava dietro di loro, e si avvicinò parecchio; era a circa un metro di distanza, quando evocò parzialmente il suo stand. Solo un braccio, nero e spinoso, con tre dita ad artiglio, sottili e appuntiti come stiletti.
Punse i tre, ognuno con un dito diverso, e poi corse via rapidamente, non facendosi notare. Nascosta dietro un muretto, tirò fuori tre ampolline dalle tasche della felpa e versò dentro le gocce di sangue che aveva sottratto loro. Ora aveva anche dei loro campioni di DNA. Sarà di sicuro servito in futuro, dopo essersi sbarazzati di loro.
Nel frattempo, Eriol e Regina raggiunsero il luogo più desolato di tutto il centro commerciale, una piazzetta chiusa per lavori e posta vicino ad un cantiere. Non c’erano negozi aperti e non c’era nessuno in giro. Perfetto.
-Il boss ha scelto bene la zona, vero?- disse Eriol, ridacchiando e chinandosi a terra, studiando il pavimento polveroso.
-Sabbia e polvere portata dal cantiere in grande quantità, e qua vicino un sito archeologico etrusco. La zona perfetta per usare il mio stand, Memory for Evermore!- disse tutta felice, girandosi verso la più alta, che studiava attentamente la fontana. –E io posso unire il mio Kings & Queens all’acqua della fontana per poterla riutilizzare. Il Boss ha avuto proprio una grande idea! Batteremo dei maledetti!-
Le due ragazze si diedero il cinque e si nascosero dietro alla fontana, attivando i loro stand e aspettando le vittime.
 
-Io e la mamma vi vogliamo bene. Ciao, mangiate, fate i compiti e non fate impazzire la nonna!-
Koichi chiuse la chiamata con un sospiro, pensando ai suoi demonietti da soli in Giappone.
Manami e Tamotsu avevano 8 e 6 anni, ed erano dei bambini adorabili e un po’ pestiferi. Assomigliavano molto al papà da questo punto di vista: con le persone a cui i bambini tenevano, ad esempio la nonna, i genitori, gli zii Josuke e Okuyasu e la cuginetta Shizuka, erano degli angioletti, sempre felici e gentili. Con gli estranei sembravano cambiare personalità, molto più simile alla madre. Freddi e spesso scatenati, impossibili da domare.
Manami, la sorellina più grande, nacque l’anno dopo il matrimonio di Koichi e Yukako. Dopo che i loro due migliori amici si sposarono, in primavera, anche loro presero la grande decisione, e decisero di mettere finalmente su famiglia.
Gli mancavano davvero tanto, ma non avrebbe potuto portarli in Italia assieme a loro due, era troppo pericoloso per dei bambini troppo piccoli. La situazione fino a quel momento era stata tranquilla, nessuno aveva cercato di fare loro male e non si era avvicinato nessun vampiro, anche se quella notte videro qualche figura camminare al di fuori dell’hotel. Era inquietante vedere quei mostri ciondolare fuori dall’albergo, illuminati solo dalla luna oscurata dalle nuvole.
Yukako guardava il marito, con un’espressione pensierosa. Lui dovette accorgersene, perché le si avvicinò preoccupato.
-Il tuo cellulare funzionava.- borbottò lei, tirando fuori dalla borsetta il suo smartphone e controllandolo, con molta preoccupazione sul suo viso di solito sempre calmo e un po’ inquietante.
Koichi la squadrò, mettendosi un po’ in ansia per il suo comportamento e le si avvicinò, accarezzandole una spalla e appoggiandosi a lei, guardando il cellulare della donna. Lei andò sulla rubrica e tentò di chiamare al cellulare sia Okuyasu che Josuke, inutilmente. Erano irraggiungibili, disse la segreteria telefonica.
-Shizuka prima si stava lamentando del fatto che il suo cellulare non aveva campo. Ma il tuo sì, e anche il mio- sbottò Yukako, ricacciandosi il cellulare in borsa e iniziando a camminare velocemente, camminando grandi falcate. Koichi la seguì correndo, non riuscendo a stare al fianco di sua moglie, che aveva accelerato ancora il passo, crucciata per i suoi amici.
-Dici che hanno sabotato loro i cellulari?- le disse Koichi, tra un respiro affannato e l’altro mentre cercava di stare al passo con lei, che non accennava a diminuire di velocità. Si guardava nervosamente a destra e a sinistra, nel tentativo di trovarli. Spiava in qualsiasi vicoletto, li cercava tra la folla, ma nulla. Erano come scomparsi.
-Caro, usa Echoes. Sono in pericolo.-
 
Shizuka si aggrappò alla giacca di suo padre con tutta la forza che le era rimasta in corpo, singhiozzando dal panico. Non si era mai ritrovata nel mezzo di un combattimento, e aveva ancora l’orribile ricordo del vampiro che l’attaccò poche settimane prima. Ora era diverso, c’erano i suoi genitori, ma non poteva fare a meno di essere terrorizzata da quelle lame d’acqua che cercavano di affettarli. Josuke la strinse a sé con un braccio, coprendole le orecchie e premendola contro al suo petto, per poi girarsi verso l’acqua. Crazy Diamond gli comparve alle spalle, con il viso che sembrava più infuriato del solito. Si preparò in posizione d’attacco, aspettando che le lame si avvicinassero di più a lui, dato il raggio molto ridotto dello stand. Shizuka alzò lo sguardo sul padre, attento ad aspettare l’istante giusto per colpire. Il tempismo era tutto, ed era l’unica possibilità che aveva per evitare di essere tagliato ancora, o peggio, che quelle lame d’acqua potessero colpire sua figlia. Quando entrarono nel raggio di un metro, lo stand iniziò ad urlare il suo classico “DORARARA”, tirando pugni talmente veloci da essere a malapena visibili. Shizuka serrò gli occhi con forza e premette le mani su quella di suo padre, che le otturavano le orecchie. Ogni pugno dello stand era talmente rapido da rompere la barriera del suono, e causare boati insopportabili nell’aria, ma funzionavano contro le lame d’acqua e sabbia: al contatto coi pugni esplodevano in milioni di innocue goccioline, che li bagnava un po’.
Okuyasu li guardò, tirando un sospiro di sollievo. Meno male che non si erano fatti niente. Fece per raggiungerli, quando sentì una fitta alla caviglia e crollò a terra, rotolando sul cemento. Guardò le sue gambe e notò con orrore lo squarcio che gli passava sul retro della caviglia, e gli aveva reciso di netto il tendine d’Achille. L’osservò un attimo, sconvolto, per poi lanciare un forte urlo di dolore, mentre il suo sangue sgorgava a fiumi dalla carne aperta, e si andava a mischiare all’acqua rimasta dall’ultima lama lanciata dalla fontana.
Premette le mani sul terreno per rialzarsi, ma i piedi non rispondevano ad alcun comando. Rimanevano a penzoloni, inutili alla fine della gamba, ormai senza sensibilità. Cercò di strisciare verso Josuke e Shizuka, che lo guardavano sconvolti. Josuke decise di fare la prima mossa. Prese per il polso la figlia e si avventò correndo verso il marito, nella speranza di potere proteggere lei e curare lui. Ma la ragazza non si muoveva. L’acqua che era esplosa dalle lame per i pugni di Crazy Diamond le era finita addosso, e si era ghiacciata. Shizuka era ricoperta da una patina cristallizzata di ghiaccio, che aveva fatto presa sulla pelle. Ogni movimento le strappava la pelle e le graffiava la carne, e Josuke notò con terrore che anche i suoi piedi erano bloccati a terra dal ghiaccio. Era immobile. Anche lui era ricoperto di ghiaccio, ma con un forte strattone si strappò via il ghiaccio dalle braccia, assieme anche alla pelle per giunta. Rimase in mezzo, tra la figlia e il marito, indeciso sul da farsi. Se non avesse soccorso Okuyasu sarebbe o morto dissanguato oppure colpito ancora, e se fosse corso da lui sua figlia sarebbe rimasta scoperta e vulnerabile. Non seppe che fare, il panico lo prese e rimase immobile, con gli occhi lucidi e sgranati e la mente confusa.
Mentre lui si guardava a destra e a manca, cercando di scegliere, Zarathustra rimase nel vicoletto alle sue spalle, mentre li osservava con un’espressione neutrale. Il loro piano di attaccarli tutte assieme uno alla volta stava funzionando alla perfezione. Certo, non poteva di certo immaginare che il tipo con degli evidenti problemi psichici potesse avere uno stand tanto portentoso, addirittura con l’abilità di cancellare lo spazio né tantomeno che il Joestar, invece, avesse uno stand talmente forte dal rompere il muro del suono a pugni. Così forti, sarebbero potuti davvero essere una minaccia. Fortunatamente Zarathustra aveva progettato l’attacco a tre, e grazie a Eriol e Regina, sue collaboratrici fidate, e alla tecnica di sconfiggerli uno a uno, quei due non erano più un problema.
Si mise sul bordo del muretto e puntò, una mano con indice e pollice alzato a simulare una pistola e l’occhio rosso che brillava. Puntò sulla nuca dell’uomo steso a terra e il guanto sprizzò scariche bianche. Dal dito venne sparato uno spesso ago nero, che si andò a conficcare tra la prima e la seconda vertebra cervicale di Okuyasu, che gridò dal dolore, per poi accasciarsi faccia terra senza reagire, le dita che si muovevano a scatti a causa della scossa ricevuta.
Josuke lo osservò impietrito, lanciando un urlo disperato. Corse verso di lui, ma inspiegabilmente cadde a terra. Si portò una mano al ginocchio, e quello che toccò fu solo sabbia bagnata. Dalle ginocchia in giù non v’era altro che sabbia. Le sue gambe si frantumavano al tocco, come quei deboli castelli di sabbia sulla spiaggia. Si mise a carponi come meglio poteva, con le labbra che tremavano e gli occhi lucidi. Tentò di alzarsi ancora, causando altra sabbia di cadere e riversarsi a terra dalle sue gambe. Tutto ad un tratto, anche Shizuka si mise a gridare, e cadde a terra a corpo morto.
Josuke si sentiva morire.
Non era riuscito a proteggere la sua famiglia, e ancora una volta si ritrovava inutile e incapace di salvare chi più ama al mondo. Gridò con tutta la forza che gli rimaneva in corpo, mentre sbatteva con violenza la fronte a terra, disperato. Cosa avrebbe fatto ora, solo al mondo, senza di loro?
Regina e Eriol si alzarono in piedi e si scostarono dalla fontana, guardandolo in malo modo. Si avvicinarono a lui, con i loro stand evocati dietro di loro, una donna trasparente fatta d’acqua e una massa indistinta di sabbia e polvere, spiandolo in posizione difensiva. Finalmente, anche Zara si fece vedere, camminando lentamente e tranquillamente verso l’uomo a terra che continuava ad urlare e a dimenarsi. Gli si avvicinò e gli tirò un forte calcio sull’addome, ribaltandolo di schiena e fissandolo negli occhi dall’alto al basso attraverso i suoi spessi occhialoni e il suo viso perennemente senza espressione. Alzò una gamba e la premette sul suo collo senza troppe cerimonie, puntandogli la mano a mo’ di pistola.
-Joestar, dicci i vostri piani.-
Lui la osservava con gli occhi sgranati e vitrei, senza davvero ascoltarla. Afferrò con forza la sua caviglia, nel tentativo di liberarsi. Tentativo vano.
Anche i suoi avambracci diventarono sabbia e si dissolsero, facendolo gridare dalla paura un’altra volta. Eriol ridacchiò, creando un piccolo vortice di sabbia sull’indice. –Nah, non provarci nemmeno!- disse, sorridendogli.
–Che credi di fare a Zara? ‘Sta fermo e rispondile, bestia.- sbraitò Regina, stringendo tra le mani le bacchette di metallo ricoperte di Onde Concentriche, sulle quali gravitava un po’ d’acqua, e il suo stand Kings & Queens accigliato e pronto ad attaccare. Josuke guardò le ragazzine con il panico negli occhi, per poi passarlo di nuovo sul “boss”.
Non dovevano essere molto più grande di sua figlia Shizuka, approssimativamente dovevano avere la stessa età, eppure erano così… pericolose.
Non aveva le forze né fisiche né mentali per rispondere, e semplicemente appoggiò la testa a terra, guardando il cielo biancastro sopra di lui. La brezza era ancora quella invernale che la primavera non si era ancora portata via, mentre il cielo scintillava dietro la spessa coltre di nubi spente.
-Non risponde- sentenziò Zarathustra, girandosi verso le compagne. Loro rimasero impassibili, mentre il boss tornò a guardare la vittima. Caricò un altro ago dall’indice, mentre le scariche elettriche che esalò da esso non erano più bianche, bensì di un giallo brillante. Onde Concentriche.
Aveva usato semplice elettricità con la ragazzina e l’altro uomo, ma non poteva fare lo stesso con lui. Con una piccola analisi del sangue, aveva scoperto che il sangue del Joestar aveva una grande predisposizione genetica e dunque, come tutti coloro che sanno usare l’Hamon, sapeva resistere alle scosse normali. Era una predisposizione minima, quasi ridicola, però Zara preferì non correre rischi e usò le onde standard, per neutralizzarlo del tutto.
Sparò l’aculeo dritto sotto al suo mento, e Josuke chiuse gli occhi, mentre per qualche istante il suo corpo fu mosso da alcune convulsioni causate dalla scossa.
Poi, smise di muoversi.
Zara sbuffò soddisfatta, scrocchiandosi le dita, mentre Regina ed Eriol applaudirono di gioia.
-Razziate pure, poi finiamoli. Non li ho uccisi, li ho solo storditi, per ora.- sentenziò il boss, mentre si sedette comodamente sull’addome dell’uomo più alto, frugandogli nelle tasche per cercare qualsiasi cosa potessero riutilizzare o rivendere.
La sabbia ritornò ai suoi arti, che riapparvero sani e integri come prima.
Le ragazze si avventarono sull’altro uomo, tirandogli fuori il portafoglio. Eriol prese i pochi euro che aveva e se li cacciò in tasca, mentre Regina prese la carta d’identità e la lesse, seria.
-“Nijimura Okuyasu” Nato a Tokyo, risiede a Morioh. Nato il 2 ottobre del 1983, bla bla bla… Avevi ragione, sono giapponesi!- esclamò la ragazza dai capelli lunghi, osservando il capo, che a sua volta aveva preso la carta d’identità dell’uomo su cui si era seduta, mentre lo studiava con preoccupazione, o almeno ciò si deduceva da quel poco che si poteva vedere del suo viso.
-Venite qua. Regina, traduci.-
Le ragazze si avvicinarono al capo, e lei passò loro la carta d’identità del Joestar. Era anch’essa in giapponese.
-“Higashikata Josuke” di Morioh… ma è un nome giapponese… eppure la foto è la sua! Non può essere giapponese!- disse Regina, confusa. Zara non capiva molto più delle amiche. Strinse tra le mani le due carte d’identità, innervosita dalla situazione. Il suo cognome non era “Joestar”, ma gli esami del sangue, la fisionomia, e la voglia sulla spalla lo dimostravano. Era il figlio di Joseph. Non c’era alcun dubbio.
Mentre Zarathustra si arrovellava su quel mistero, Eriol la prese per una spalla, preoccupata, mentre si guardava intorno.
-Boss… ma la ragazzina dov’è?-
Zarathustra saltò in piedi, guardandosi intorno. Sul cemento della piazzetta c’erano solo Okuyasu e Josuke, di loro figlia nessuna traccia.
Zara tirò fuori le mani dalle tasche, che iniziarono a emettere scariche elettriche, mentre le altre due si misero in posizione difensiva.
Non era finita.





 And the battle's just begun
there is many lost but tell me, who has won?
The trench is dug whithin our hearts
and mothers, children, brothers, sisters torn apart.
Sunday Bloody Sunday, U2 (War, 1983)
 
Note dell’autrice
Ciao a tutti! Ebbene sì, incredibilmente sono ancora viva. Ho avuto un sacco di problemi e test, ne ho passate di ogni in questo mesetto di pausa… Ma sono riuscita a sfornare il capitolo più lungo dell’intera fanfiction!
Ebbene sì, la Banda delle Onde Concentriche si è rivelata, e non sembrano essere molto amichevoli. I loro piani sembra divergere da quelli dei Joestar, e sono un osso duro da sconfiggere… Quali sono i loro piani? È davvero la fine degli Higashikata?
Vi lascio sempre in cliffhanger, mi dispiace di essere così orribile.
O forse no?
Vi ringrazio tutti per il sostegno e per leggere la serie, mi raccomando commentate e mandatemi pure messaggi per dubbi, domande, chiarimenti, insulti (?) o semplicemente per parlare! Vi prometto che sarò simpatica e farò i memes.
Allora al prossimo capitolo, a chissà quando- speriamo presto!
Ciao a tutti!

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Capitolo 9
*** Guai alla Città della Moda (parte 3) ***


Le tre se ne stavano all’erta, nel bel mezzo della piazzetta ormai tinta di sangue. Erano confuse, non capivano perché la ragazzina mancasse all’appello. Era stata colpita dall’ago elettrificato proprio sulla nuca, e la scossa era tale da tramortire una della sua minuta stazza, Zarathustra ne era certa. Il Boss non sbaglia, mai.
-È scappata?- mormorò Eriol, stringendosi alle amiche. Regina era già sull’attenti, con le bacchette di metallo stette tra le mani, che cercava di capire dove potesse essere andata quella ragazzina. Controllava di tanto in tanto i due uomini, svenuti a terra ed immobili, per accertarsi che non dessero sorprese anche loro.
Zarathustra camminò fuori dal gruppetto, avvicinandosi ai due per terra, con la sua solita calma. Le altre ragazze la seguivano con lo sguardo, attente ai suoi movimenti.
Zarathustra si affiancò a uno dei due e si guardò intorno, con l’occhio rosso che brillava, studiando il luogo. Non c’era nessuno, nemmeno usando la vista notturna o quella termica. Non era scappata, tuttavia. Ne era sicura, le macchie di sangue vicino al ghiaccio ancora solido lo dimostravano. La ragazzina si era letteralmente strappata via il ghiaccio che la bloccavano a terra, lasciando pezzi di tessuto e di pelle attaccati ad esso. C’erano delle macchie di sangue lì intorno, ma nessuna che si dirigesse verso le viuzze di uscita dalla piazza.
-Se i suoi genitori hanno uno stand, è possibile che anche lei ne sia portatrice.- sentenziò il boss, girandosi verso le due, che se ne stavano schiena contro schiena vicine alla fontana, pronte ad attaccare.
Ma non ne poteva più di aspettare. Non potevano di certo andarsene così, lasciando una testimone a piede libero. Dovevano scoprire dove si era cacciata, costi quel che costi.
Il capo comunicò alle due di cercare la ragazzina, e Regina ed Eriol iniziarono a correre freneticamente per la piazzetta, frugando dietro ogni statua, controllando dentro ogni siepe. Ma nulla. Zarathustra, al loro contrario, rimase ferma immobile, tra i due uomini riversi a terra, impassibile. Si chinò sul più basso dei due e gli girò la testa dalla parte, che prima era schiacciata contro il pavimento di sassi, guardandolo per bene in viso.
-Tu… tu sei Nijimura Okuyasu, mh? E il tuo stand ha la capacità di cancellare lo spazio, a quanto ho notato. Molto interessante. Troppo pericoloso.-
Lasciò la sua testa ricadere sui sassi con un rumore sordo e si girò verso l’altro, con un’espressione diversa. Gli afferrò la mandibola e lo guardò per bene in viso, asciugandogli una guancia ispida dalla saliva che gli colava dalla bocca.
-E tu sei Higashikata Josuke. Il Joestar. Non ho ancora scoperto il potere del tuo stand, so che fa qualcosa di più che tirare pugni, ne sono certa…-
Mentre lo disse fece spuntare la zampa artigliata del suo stand, che sfoderò le dita appuntite contro l’uomo, pronto a colpirlo.
-…ma preferisco non correre rischi.-
42, lo stand di Zarathustra, le permetteva di avere una super vista: poteva usare la vista termica, notturna, a raggi X, gamma, ultravioletto e infrarossi, svolgeva funzioni dal telescopio al microscopio. Ma solo la vista era amplificata, gli altri sensi erano quasi ovattati. La ragazza era talmente abituata a usare la sola eccezionale vista che non aveva dato importanza agli altri sensi, come ad esempio l’udito. E questo fu il motivo per cui non si accorse dei lievi passi dietro di lei, e troppo tardi si accorse della scarica di pugni che la colpirono in pieno viso, accompagnati da un acuto “DORARARA”.
Zaratustra cadde qualche metro in avanti, tenendosi il viso colpito. I pugni non erano forti, non come il “DORARARA” precedente del Joestar che sferrò pugni tanto veloci da sfondare il muro del suono e rompere le lame d’acqua lanciate da Regina. A malapena le avevano rotto il naso, ma ciò fu abbastanza per cadere nella trappola di Zara.
Non voleva davvero uccidere i due, erano solo un esca per sapere la posizione della ragazzina. Se non era scappata voleva dire che era ancora lì tra loro, e se era rimasta lì era probabilmente per i suoi genitori. Si mise in posizione difensiva verso il punto in cui ricevette i pugni, con il sangue che le colava dal naso e una smorfia simile ad un sorriso sul viso.
- Ho capito quale sarebbe la tua abilità. Sei invisibile.- disse col suo tono autoritario. –Mostrati. Ormai so dove sei.-
Davanti a lei apparve Shizuka, ansimante e stanca, con un’espressione scossa ma contenuta e i pugni davanti al viso, in una brutta imitazione di una posa difensiva. Era nel panico, ma non poteva dimostrarlo.
Doveva combattere, per una volta nella vita era tutto in mano sua.
Quando, mentre stavano ancora combattendo contro quella strana fontana, sentì il pizzicore sulla nuca, non si spaventò più di tanto. Sembrava una delle punture che Josuke le faceva da settimane, per quella ferita sul collo. Quando poi sentì una lieve scossa elettrica e poi tutto il corpo irrigidirsi, entrò davvero nel panico. Era come aveva visto in quei film polizieschi, dove gli sbirri tiravano fuori quello strano arnese elettrico, il taser, e lo puntavano ai nemici, paralizzandoli. Shizuka era sicura che fosse quella la sensazione, una forte scossa che ti percorre tutta per poi non farti più muovere. Cadde a terra come un sacco di patate, confusa ma sveglia, mentre sentiva le urla di suo padre e le risatine di quelle ragazze misteriose che erano spuntate dal nulla.
Non seppe dire quanto durarono le urla e i singhiozzi strazianti del padre, per poi udire solo il silenzio. Sapeva solo che la situazione era critica, era tutto finito, erano sconfitti. Rimase immobile, con il viso premuto contro i sassi del pavimento, mentre le ragazze parlottavano sui corpi dei suoi genitori e le davano la schiena. Quando si accorse di essere finalmente capace di muoversi, divenne completamente invisibile e fece per alzarsi, sentendo però il ghiaccio bloccarle le articolazioni. Se lo strappò via di dosso, trattenendosi dal gridare dal dolore o dal scoppiare a piangere, anche se avrebbe tanto voluto in quel disperato momento. Si allontanò in punta di piedi, cercando di fare il minor rumore possibile, avvicinandosi a uno dei vicoletti, ma si fermò di colpo. Si girò e guardò i suoi padri, riversi a terra, inermi, immobili, e qualcosa le scattò nel cervello. Non poteva lasciarli lì. Non poteva scappare, loro non le avevano insegnato a scappare come una codarda. Si avvicinò alle ragazze con cautela, cercando di non essere sentita. Non sapeva quello che stava facendo, non aveva un piano vero e proprio, loro erano estremamente più forti di lei. Loro avevano sconfitto i suoi genitori, uomini adulti grandi e grossi con anni di esperienza, cosa mai avrebbe potuto fare una ragazzina il quale unico potere è diventare invisibile?
Le due ragazze castane, quelle che prima erano alla fontana, se ne andarono, lasciando la mora da sola, chinata sui suoi genitori. Shizuka le era vicina, vicinissima, ma era del tutto inerme.
Non aveva mai visto i suoi genitori così. Fermi, freddi, spenti.
Aveva davvero paura che non avrebbero più riaperto i loro occhi, non avrebbe più sentito i loro schiamazzi e le loro vocione fastidiose, non si sarebbero più alzati da quella piazzola maledetta. La ragazza sentì i pugni fremerle, scaldarsi e formicolare. Vedere il capo di quelle ragazze estrarre il braccio di quello che dovrebbe essere il suo stand e puntarlo verso suo padre Josuke, pronto a colpirlo, fu la goccia che fece traboccare il vaso. Agì d’istinto, e le si buttò addosso, gridando a pieni polmoni quella frase priva di senso che urlava sempre suo padre quando sferrava pugni col suo Crazy Diamond. Anche lei avrebbe tanto voluto sferrare una serie infinita di pugni su quel brutto muso, sconfiggere quelle nemiche, ed essere forte. Qualcosa dietro di lei, effettivamente, scagliò dei pugni in sua direzione, e la colpirono in pieno. Non ci fece troppo caso comunque, intenta ora come ora a vendicarsi per i suoi padri.
Si piazzò davanti a lei, con lo sguardo più duro che aveva e i pugni serrati, vagamente illuminati da una strana luce e da qualche lieve scossa che le percorrevano il braccio. Lei non ci fece caso, ma Zarathustra sì.
Rimase imbambolata davanti a lei, con un’espressione più tesa.
-Tu sai usare le Onde Concentriche.- borbottò, con un tono aspro e preoccupato. Shizuka la guardò con confusione, ripetendosi quel nome nella mente. Onde Concentriche. La stessa cosa che le aveva detto il ragazzo nel suo sogno, quando era stata attaccata dal vampiro. Rimase davanti alla ragazza, di circa una decina di centimetri più alta di lei, e Shizuka si accorse di quanto giovani e piccole fossero quegli spietati nemici.
-Come fai a saper usare le Onde Concentriche? Tu non sei una Joestar.-
-No, non lo sono.- sbottò Shizuka, parlandole con tutto il coraggio che aveva in corpo. –Io sono una Higashikata.-
Era sicura di avere appena detto una delle frasi più significative della sua intera vita, ma l’avversaria non ne sembrava affatto colpita. Con uno scatto le fu addosso, piantandole un gomito proprio al centro del viso. Shizuka tornò invisibile e rotolò per terra per qualche metro, per poi allontanarsi da lei più velocemente che poteva, lasciandosi però una scia di gocce di sangue che le cadevano dal naso rotto. Zarathustra le corse dietro, mantenendo un’andatura tranquilla, mentre studiava con calma la velocità l’angolo di caduta delle gocce di sangue, giungendo così tramite un veloce calcolo a dove dovesse essere la ragazzina. Scivolò per terra e, tenendosi con un braccio sul pavimento, sferrò un calcio a mezz’aria che, come previsto da 42, colpì in pieno lo stinco di Shizuka, che cadde a terra urlando dal dolore.
Era terrorizzata da quell’avversaria fin troppo potente, le sembrava davvero invincibile. Sapeva sempre tutto, riusciva a prevedere le sue mosse, capiva dov’era anche se aveva attivato Achtung Baby. Si rimise in piedi a stento e ricominciò a correre, zoppicando un po’ per il forte calcio caricato ad onde Concentriche che le aveva colpito lo stinco dolorante. Shizuka ripensò al fatto che, quando le era arrivata da dietro, non era riuscita a parare. Il naso le aveva smesso di gocciolare sangue, e i suoi passi erano silenziosi. Zarathustra rimaneva immobile, con quella strana luce rossa sotto gli occhialoni che brillava con nervosismo, probabilmente nel tentativo di capire dov’era la sua preda, anche se inutilmente. Shizuka continuava a correrle intorno, avvicinandosi sempre di più in un movimento a spirale, finchè non le fu tanto vicina da poterla colpire, alle spalle. Ma l’attacco non era indirizzato alle spalle.
Quando iniziò ad urlare “DORARARA”, per Zarathustra fu inutile sapere la posizione della ragazzina. Un pugno le arrivò in faccia, un altro sulla schiena, altri sulle braccia, venivano da tutte le direzioni. Il boss cadde a terra, senza nemmeno capire cosa stesse succedendo e cosa l’avesse colpita. In realtà non lo sapeva nemmeno Shizuka, perché lei era rimasta immobile, ma aveva comunque sferrato dei pugni, lo sentiva sulle sue nocche, sentiva la pressione del pugno contro la pelle, il sangue schizzare, e le ossa spostarsi. Forse era quel tipo di stand che avevano i suoi genitori, come Crazy Diamond di suo padre Josuke. Anche lui tirava pugni, anche lui urlava “Dorarara”, ma era visibile. Shizuka non vedeva niente e, evidentemente, non vedeva nulla nemmeno la nemica, che intanto stava cercando di rialzarsi.
-Regina! Eriol!- urlò Zara, rimettendosi in piedi a fatica, con la visiera rotta e il viso sanguinante. Ma le sue compagne non c’erano. Si voltò verso i vicoletti scuri da cui si poteva uscire dalla piazza. Vi provenivano dei rumori, e lo notarono entrambe. In pochi istanti, il rumore in sottofondo si trasformò in un forte baccano, e Regina venne scagliata nella piazzetta da una grande massa di capelli neri, seguita da Eriol. Le due si precipitarono verso il loro capo, pallide e conciate male, mentre dal vicoletto uscivano una donna alta dai capelli con vita propria e un uomo basso coi capelli sparati e un piccolo stand bianco e verde che galleggiava intorno a lui.
Shizuka si lasciò cadere a terra, mettendosi a ridere: non era più sola.
-Zia Yukako! Zio Koichi!! Siete arrivati!- gridò con tutta la voce che aveva, osservandoli mentre le correvano contro, estremamente spaventati. Koichi le si affiancò, prendendola per le spalle e guardandola negli occhi con gran preoccupazione, mentre Yukako si era parata davanti a loro, mettendosi in mezzo tra loro e le tre ragazze.
-Tutto bene? Chi sono loro? Cos’è successo a Josuke e a Okuyasu?- disse Koichi, talmente nervoso e spaventato da incespicarsi mentre parlava, stringendola per le spalle. Shizuka non seppe rispondere, rimase a guardarlo col fiatone e con gli occhi lucidi, felice che l’incubo sia finito.
Yukako si avvicinò alle tre, che indietreggiarono. Zarathustra di sicuro non si immaginava che la ragazzina sapesse usare le onde concentriche, né che anche l’altra coppia che li accompagnava possedessero degli stand. Con un cenno della mano comunicò alle altre due una ritirata strategica. Erano tutte e tre stanche e sconfitte, tentare di combattere ancora era una follia. Scattarono indietro e si arrampicarono con agilità sul muretto che dava sul parcheggio, sparendo in pochi istanti e lasciandoli da soli nella piazza, ormai fredda e silenziosa. Koichi e Yukako si avvicinarono ai due uomini a terra, ma Shizuka rimase immobile. Non voleva avvicinarsi, non voleva sapere che non c’era più nulla da fare per i suoi genitori. Non voleva rimanere sola, ancora.
Incredibilmente, le dita di Okuyasu si mossero. Emise qualche verso roco e appoggiò i palmi a terra, tentando di alzarsi. Shizuka gli corse incontro e gli saltò letteralmente addosso, facendolo ricadere a terra. Lui si girò di schiena e la strinse con forza al suo petto, scoppiando a piangere e accarezzandole i capelli con dolcezza, mentre lei appoggiava la testa al suo petto, ascoltando il battito del suo cuore che credeva non avrebbe più sentito.
-Non piangere, Shizu. Io sono qui.- sussurrò suo padre, accarezzandole le guance violacee e martoriate con le sue grandi mani. Lei gli rivolse un mezzo sorriso e si strinse a lui, cercando solo di rilassarsi e non ripensare più a quello che è successo. Ormai sembrava tutto un brutto incubo ormai passato, quasi un’orribile visione che Shizuka sperava con tutta sé stessa che non dovesse più affrontare.
Nel frattempo, anche Josuke si era risvegliato. Aprì gli occhi e, ancora confuso, vide che sua figlia preferiva suo marito a lui. Lo sapeva da tempo, lo sapeva da sempre, che Shizuka preferiva passare il tempo con Okuyasu che con lui. Okuyasu era dolce, gentile e premuroso. Josuke no. Era introverso e falso, non era un bravo padre, ed era più che ovvio per lui che la sua bambina scegliesse il marito e non lui. Chi lo sceglierebbe mai, d’altronde? Di sicuro non sua madre o sua figlia. Si alzò sugli avambracci e tossicchiò, più per attrarre l’attenzione che altro, trovandosi in pochi secondi la figlia addosso, in lacrime.
La strinse a sé e la fece sedere sulle sue gambe, mentre estrasse Crazy Diamond e curò in fretta le caviglie del marito. Okuyasu ricambiò con un sorriso, e Josuke non seppe come rispondere. Semplicemente lo ignorò, come quasi sempre del resto, e tornò a concentrarsi sulla figia. Lei tirò su col naso e fece finta di non piangere, cercando di sembrare forte con lui, non una bimba debole. Ma era esattamente quello che lui stava vedendo in questo momento.
La teneva per le sue braccia pallide e esili, guardandola negli occhi e passandole lo sguardo sul naso rotto, le labbra spaccate e le guance livide, con uno sguardo incredulo.  Un’espressione indicibile di preoccupazione e rabbia gli passava sul viso, mentre la figlia rideva e lo abbracciava.
Le prese le guance tra le mani e la studiò per bene, guarendola man mano, studiandola col suo sguardo gelido.
-Cosa ti hanno fatto…-
-Ho combattuto, papà!- urlò lei, dimenandosi sulle sue gambe. –Quando voi siete svenuti, io sono diventata invisibile, mi sono avvicinata al loro capo, e..-
La presa sulle sue braccia aumentò e diventò quasi insopportabile, e il suo sguardo si accese di rabbia. La strattonò con violenza, avvicinando il suo viso contorto in una smorfia d’ira pura a quello della figlia, che rimase interdetta, confusa e inerme. Non si aspettava quella reazione, e non sapeva minimamente che gli stava prendendo.
-Tu… tu hai COMBATTUTO!?- le gridò, talmente forte da farle male. Lei cercò di tirarsi indietro ma le sue forti mani la trattennero sul posto, stringendola contro quell’uomo che non riconosceva più. Staccò una mano dal suo braccio e le tirò un sonoro schiaffo sulla guancia, talmente forte da farla ribaltare indietro, finendo con la schiena sull’asfalto. Cacciò un urlo e si rannicchiò su sé stessa, strisciando indietro e cercando di scappare. Era la prima volta che provava questo tipo di paura, e non era nemmeno paragonabile alla paura dello scontro. Era qualcosa di anche peggiore, trovare nell’uomo che l’ha cresciuta la minaccia. Si portò la mano alla guancia dolorante e rimase a fissarlo, incredula. Rimaneva immobile davanti a lei, con un’espressione indecifrabile sul viso, mentre la fissava con la mano ancora alzata e il palmo rosso per il colpo, e gli occhi gonfi e lucidi.
Okuyasu si tirò in piedi con grande fatica e gli si avventò addosso, bloccandolo contro il pavimento di sassi e premendolo con forza le mani sulle spalle, per tenerlo a terra. Non voleva fargli del male, non voleva ferire l’uomo che amava, anche se quello non sembrava più nemmeno lui. Fremeva e si contorceva sotto le sue mani, come un cobra che si attorciglia alle braccia dell’incantatore di serpenti, sibilando e sfoderando i denti, cercando di alzarsi, forse per finire di curarli, o forse per picchiare la loro bambina ancora.
Non lo poteva sapere, e Okuyasu si sentiva troppo stupido per capire cosa passasse per la testa a Josuke: fin da quando si erano conosciuti, ovvero quel freddo giorno di metà aprile di ben diciassette anni prima, Okuyasu non riuscì mai a penetrare quella spessa cortina che sembrava celare i veri pensieri di suo marito, o a solo intuire cosa si nascondesse dietro quei gelidi occhi azzurri, freddi come il ghiaccio ma non altrettanto trasparenti.
Al posto del solito sorriso artificioso e fasullo, sul suo viso poteva vedere il terrore puro, le labbra contorte e gli occhi lucidi. Josuke era spaventato, era terrorizzato, tremava sotto le sue mani e cercava di scappare. Cercava comunque di farlo nella sua solita maniera, fredda e disinteressata, cercando di falsare quelle emozioni tanto intime e personali che Okuyasu poteva scorgere benissimo.
Okuyasu stesso era conscio di non essere intelligente o abile, sapeva che il suo quoziente intellettivo non arrivava nemmeno lontanamente alle tre cifre, che non era in grado leggere o scrivere fluentemente come gli altri, non era un abile oratore o un gran pensatore, ma riusciva a saper leggere le emozioni sul volto delle persone, sapeva quando volevano un biscotto o un abbraccio, oppure quando volevano solo essere lasciate in pace. Aver vissuto per strada per tutta la sua giovinezza l’ha aiutato molto da questo punto di vista.
Ora lo vedeva. Vedeva bene quanto Josuke stesse male, e che non poteva continuare a tenerlo bloccato al suolo. Non aveva bisogno di maniere così brusche, non in quel momento. Gli lasciò andare le spalle con lentezza, accarezzandogli piano il tessuto della giacca e guardandolo con un’espressione ben diversa dalla rabbia di poco prima. Era preoccupato e stressato, vederlo così disperato e debole.
-JoJo…- sussurrò piano Okuyasu, guardandolo negli occhi con gli occhi lucidi, sentendosi male per lui. Sentiva le lacrime montargli e un nodo in gola, ma lo sguardo di Josuke tornò sempre quello, freddo e distaccato, che aveva ogni volta che stava male. Se lo scrollò di dosso e Okuyasu rotolò di lato sul pavimento, mentre il più alto si alzava in piedi, mostrandosi in tutta la sua imponente figura. Con passo svelto prese una delle viuzze e se ne andò.
Shizuka si avventò su Okuyasu, che lo fissava andarsene, con la mano premuta sul braccio sanguinane e il solito passo sicuro e ondeggiante, quasi a trascinarsi dietro quella gamba ferita anni e anni fa.
Anche Okuyasu si alzò in piedi, e sollevò la figlia con un braccio, tenendola stretta al suo corpo e cullandola con dolcezza.
-Sei stata bravissima…- le sussurrò lui, mentre lei si stringeva forte al suo collo, ancora incredula e confusa. Guardò Koichi e Yukako, e loro due guardarono lui. Anche loro conoscevano bene Josuke, e sapevano quanto testardo e introverso potesse essere. Koichi gli si avvicinò e gli sbatté una mano sulla spalla, tentando di sorridere per far passare quel brutto momento.
-Andiamo, torniamo all’auto… Josuke dev’essere già là!- disse il biondo, avviandosi verso le vie strette che conducevano ai parcheggi. Shizuka continuava a guardare il muretto da cui le ragazze se n’erano andate. Sentiva i muscoli cederle e la mente offuscarsi, mentre con le ultime forze si stringeva al padre, per scivolare piano piano in un sonno pesante, molto più simile ad uno svenimento che ad altro.
 
Jotaro continuò a guardare quella lapide, con inciso il nome di suo nonno. il funerale era finito ormai da ore, ma lui non si era smosso di lì. Non poteva davvero credere che Joseph Joestar, il più grande immobiliare di tutta la East Coast, ma soprattutto suo nonno, se ne fosse andato per sempre.
Non è sempre stato così legato a suo nonno. Da bambino lo vide raramente, quel grande e grosso uomo inglese dai corti capelli castani e i vividi occhi verdi, che sorrideva e gli scompigliava i capelli con una risata.
Assomigliava molto a Josuke, ora che ci pensa bene. Ma non voleva pensarci bene, non voleva pensare a quell’errore che è suo zio. Era colpa sua se suo nonno era morto. Era colpa sua se ha passato gli ultimi anni della sua vita in una casa di riposo, da solo, a morire della sua malattia che gli corrodeva piano piano la mente ed il corpo.
Jotaro era da solo davanti a quella tomba, magari ad aspettare che qualcosa succedesse. L’avevano sepolto vicino a sua moglie Suzie, quella moglie a cui non fu fedele. Morì nel 2003, e quando lei se ne andò Joseph fu trasferito in un ospizio, sotto il freddo sguardo di suo figlio, che non fece nulla per evitarlo.
Jotaro lo sapeva, ne era cosciente che non poteva dare tutta la colpa a Josuke, né tantomeno a sua figlia Shizuka. Era inutile, infantile, e davvero ingiusto. Ma come poteva non prendersela? Suo nonno era una persona splendida, un uomo gentile e scherzoso. E fu abbandonato, e lasciato morire come un cane randagio, da quel figlio, quell’errore, quella notte andata male. Non voleva più vederlo, non voleva avere più contatti con lui. Non era nemmeno contento del fatto che la piccola Shizuka si fosse salvata. Una vocina gli continuava a ripetere che era meglio se fosse morta, fosse morta lei e i suoi genitori. Tre scherzi della natura, tre creature che non dovrebbero esistere. Se fosse così, Joseph sarebbe ancora vivo, felice, e…
-Jojo…-
Questo orribile torrente di pensieri venne arrestato da sua moglie, che gli strinse una mano con forza. Abbassò lo sguardo e guardò di striscio, cercando di non fare nulla di sconveniente che potesse anche solo farle scoprire che lui, in realtà, si sentiva vuoto dentro. Le strinse a sua volta la mano e cercò di dimenticare quei tremendi pensieri che gli erano passati per la mente. Shizuka non ha colpe. È solo una bambina, e Josuke e Okuyasu sono due persone a modo, che hanno lavorato e sofferto per avere ciò che lui ha ottenuto senza sforzo, e non hanno mai fatto nulla di male e non ne meritano alcuno. Jotaro strattonò con forza la mano della moglie e la tirò verso di sé, stringendola in un abbraccio goffo e brusco. Rosanna sorrise, e lo abbracciò a sua volta, appoggiandogli la testa al suo petto. Il suo cuore andava a mille, il suo battito era veloce e le sue braccia tremanti. Non aveva mai visto suo marito in quello stato.
Sapeva poco del suo passato, Jotaro non era mai stato un uomo socievole ed espansivo, ma quando si veniva a parlare del suo viaggio verso l’Egitto, avvenuto alla fine degli anni ottanta, diventava ancora più scorbutico e introverso. Aveva tante cicatrici che ricordavano quel tremendo momento nella vita di suo marito. Non ne volle mai parlare, accennò solo, di tanto in tanto, di quella strana combriccola che lo accompagnarono da Tokyo al Cairo. Un francese, un certo Polnareff, con cui ogni tanto ancora si sente, suo nonno Joseph e altri tre sconosciuti personaggi, di cui ha solo sentito ogni tanto nominare i loro nomi. Non ne volle mai parlare. Rosanna giunse alla conclusione che fossero morti in quel viaggio, e lui, ancora solo un ragazzino, ne rimase profondamente shockato. Erano suoi amici, persone con cui aveva passato bei e brutti momenti, esperienze che non ha mai dimenticato, visto cose che nessun diciassettenne dovrebbe nemmeno immaginare.
Jotaro si slacciò con fretta da quell’abbraccio che valeva davvero tanto e se ne andò, senza aspettarla.
Rosanna ne era comunque felice, di quella lieve dimostrazione di affetto. Sul viso spigoloso e serio del marito era difficile scorgere emozioni, era difficile anche solo interagire con lui, ma erano questi piccoli momenti, questi gesti tanto banali, che le facevano davvero capire quanto lui soffrisse, quanto fosse davvero vivo sotto quella spessa scorza di durezza e seriosità. E quanto lui l’avesse amata in tutti questi anni difficili.
Non le aveva spiegato molto di quegli anni in cui lasciò lei e la loro figlioletta da sole, ma a sentire Jolyne e i vari parenti di Jotaro, erano avvenute gravi faccende da cui lui proprio non poteva sottrarsi. Era questione di vita o di morte, a quanto pare. Vedendolo col viso sfregiato e l’occhio cieco, quella sera di marzo del 2012 all’ospedale di Orlando, capì. E imparò che anche lui ci aveva sofferto, che anche lui era una vittima di quello strano destino che sembrava accompagnare tutta quella bizzarra famiglia.
Jotaro e Rosanna salirono sull’auto e Holly, seduta sul sedile posteriore, si staccò dall’abbraccio con Jolyne ed Emporio. Le bastò uno sguardo al viso del figlio per tornare a farsi forza, e a smettere di piange disperatamente come aveva fatto dall’inizio del funerale fino a quel momento. Jotaro stava soffrendo così tanto, e lei doveva essere forte per lui. Se non lo era la sua mamma, chi lo sarebbe stato? Suo figlio era forte, era un omone grande e grosso, adulto e responsabile, ma era pur sempre il suo bambino, e lo avrebbe protetto e sostenuto per tutta la sua vita. Strinse la mano a Jolyne e la guardò con un sorriso dolce e gli occhi tutti gonfi, sicura di sé e più serena di prima.
-Papà se n’è andato felice, lo so. Voleva un bene dell’anima a Shizuka, e di sicuro non avrebbe voluto morire in solitudine e senza fare scalpore. Voleva andarsene in grande stile, eh beh, l’ha fatto.-
Jotaro non disse nulla, in risposta alla madre. Continuò a guardare dritto avanti a sé, a ripercorrere quella strada che ormai aveva percorso troppe volte, dal cimitero all’aeroporto. Due luoghi che ha sempre odiato, ma che sono sempre stati collegati. Non voleva rispondere, non avrebbe nemmeno saputo che dire. Era vero. Suo nonno si sapeva sempre far notare, e ce l’aveva fatta.
Joseph, con quel gesto, aveva fatto capire che non se n’era andato. C’era ancora, ed era in tutti loro: i suoi insegnamenti, la sua allegria, la sua intelligenza, o semplicemente il suo sangue.
Erano una famiglia, erano tutti collegati da quell’unico destino che derivava dalla famiglia Joestar. Che si chiamassero Kujo e vivessero a Miami, o Higashikata e fossero di Morioh, erano tutti un’unica stirpe, avevano tutti una storia in comune e un grandioso futuro ad attenderli.
L’anziano Joseph, con le ultime forze che gli erano rimaste, fece in modo che lo capissero. Erano tutti insieme, tutti sulla stessa barca, che fosse la sua discendenza lineare o la famigliola del figlio bastardo d’oltreoceano. E Jotaro questo messaggio lo recepì, come recepì quello di ventotto anni prima sullo stand di Dio.
Jotaro ringraziò suo nonno e spinse il piede sull’acceleratore, più sicuro di sé e della causa per cui stava combattendo, e assieme a sua madre, sua moglie e i suoi figli, si diresse verso l’aeroporto che li avrebbe condotti in Italia, a raggiungere i parenti.





There must be some mistake, 
I didn't mean to let them take away my soul
am I too old, is it too late? 
The Show Must Go On, Pink Floyd (The Wall, 1979)
 
Note dell’autrice
Ed eccomi di nuovo qui! Dopo più di un mese di pausa… Mi scuso tantissimo per il ritardo, mi rifaccio con un bel capitolone di feels! Vi avverto, non aggiornerò più molto spesso, forse una volta al mese… i capitoli si faranno decisamente più lunghi e pregni di azione e sofferenza, e… sì. Sono una persona orribile.
Odiatemi pure, ne avete tutte le ragioni.
Ci vediamo al prossimo capitolo, ocn i Kujo che arrivano in Italia ad aiutare gli Higashikata e gli Hirose, per cercare di far collaborare questa tremenda e testarda Zeppeli…
Un bacione a tutti, grazie per avermi seguito fino ad ora!

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Capitolo 10
*** Guai alla Città della Moda (parte 4) ***


Dal Forcello al loro albergo a Villafranca, il tragitto in auto era di circa mezz’ora d’autostrada. Okuyasu era seduto sul sedile posteriore centrale, con la figlia addormentata su di lui e la testa del marito appoggiata alla sua spalla. Quel giorno avevano rischiato di morire, quella maledetta fontana impazzita li aveva attaccati, senza una ragione apparente. Okuyasu ha avuto davvero paura, paura per non essere riuscito a proteggere la sua unica famiglia, paura di morire prima di aver detto loro “vi voglio bene” un’ultima volta.
Non poteva permettersi di lasciare Josuke e Shizuka da soli, erano peggio di due bambini, sporcavano e facevano confusione, non sarebbero nemmeno capaci di cucirsi un bottone da soli. Era già capitato che, per il fatto che fosse sempre Okuyasu a fare i mestieri in casa, pulire, spazzare, cucinare, fare la spesa e occuparsi della bambina, sua figlia lo avesse chiamato per sbaglio “mamma”. Non si preoccupò più di tanto, ad una bambina possono capitare lapsus del genere, soprattutto per il fatto che era lui a fare il casalingo e il tradizionale ruolo di “mamma”, e non se ne preoccupò minimamente, anzi scoppiò a ridere. Ma non fu la stessa reazione che ebbe quando capitò anche a suo marito di chiamarlo “mamma”. Era un po’ preoccupante, in effetti, o più che preoccupante era semplicemente bizzarro, come era lui del resto. Amava Josuke, ma doveva ammettere che era molto complessato, un po’ altezzoso e davvero fin troppo introverso. Ma era pur sempre il suo compagno di vita, l’unico vero amore che abbia mai conosciuto, la persona con cui ormai aveva passato più di metà della sua triste vita, sempre l’uno di fianco all’altro, a sostenersi a vicenda. Almeno, Okuyasu a sostenerlo.
Non sapeva davvero cosa avesse fatto Josuke per lui.
Era ormai pomeriggio inoltrato, e il sole rosso fuoco affondava nell’oceano verde e oro dell’orizzonte padano. Erano rimasti loro quattro (Yukako, Koichi, Okuyasu e sua figlia) a mangiare in un fast food americano alla Città della Moda, per poi montare in auto e ripartire verso Villafranca. Josuke non era mai sceso da quando se ne andò dopo il combattimento, con il braccio sanguinante stretto al petto e la coda fra le gambe.
Se ne rimaneva immobile, seduto sul sedile posteriore ad osservare il nulla, aspettando chissà cosa. Okuyasu gli si sedette vicino, nel sedile centrale, spalla contro spalla con lui e con sua figlia in braccio, tremendamente assonnata. Shizuka si addormentò poco dopo, cullata dagli pneumatici che inciampavano sul fondo statale sconnesso e dalle braccia calde del padre a tenerla salda e al sicuro, certa che almeno lui non l’avrebbe sgridata o non le avrebbe tirato uno schiaffo.
-Jotaro mi ha avvertito che arriverà la settimana prossima, per dei disguidi. Non mi ha voluto dire nient’altro. Sembrava così scosso…-
Koichi disse quelle parole con poca emozione. Erano tutti scossi, ora come ora, e appena Koichi telefonò a Jotaro e alla sua famiglia per avvertirli di ciò che era successo, dall’altra parte della cornetta Koichi non recepì nessun tipo di sorpresa o emozione. Solo tanto sconforto.
Yukako e Okuyasu rimasero zitti, senza rispondere a Koichi. Non c’era nessun bisogno di replicare a ciò che era successo. Avevano una settimana per riprendersi, mentalmente e fisicamente.
Poco dopo, anche Josuke si piegò su Okuyasu, appoggiando la testa sulla sua spalla e tenendo gli occhi socchiusi, accoccolandosi contro di lui e tenendogli il braccio con le sue mani gelide, quasi quando la sua espressione in quel momento.
-Voglio essere come lui- sussurrò, l’unica frase che disse per un fin troppo lungo periodo di tempo, con una voce che non sembrava nemmeno la sua. Okuyasu non capì a cosa si riferisse.
Yukako guidava veloce, e l’autostrada era praticamente sgombra, se non per due o tre automobili che la percorrevano assieme a loro, riflettendo sulle loro lucidissime carrozzerie la luce aranciata del sole calante.
Shizuka dormiva sul sedile di fianco a quello del padre, la testa appoggiata alle sue cosce e il respiro lieve. Okuyasu si coprì gli occhi con una mano, parandosi gli occhiali dai riflessi rossi come il sangue che gli si scagliavano contro, come quelle lame d’acqua, come il sangue sgorgato in quel giorno che doveva solo essere di relax.
-Koichi, Yukako, posso chiedervi un favore? È importante.- disse tutto ad un tratto Okuyasu, con il tono più tranquillo che riusciva a fare. Koichi si girò verso di lui, guardandolo con uno sguardo un po’ preoccupato e una cartina stradale del nord Italia tra le mani.
-Chiedi pure.-
-La bambina può passare la notte nella vostra camera? Voglio parlare con Jojo.-
-Certo, Oku. Fa’ pure, sai che Shizu per noi è come una nipotina.- rispose Yukako, lo sguardo incentrato sulla strada ed un tono di voce più caldo del solito. Non può che rispondere in quel modo a Okuyasu, quell’uomo che lei poteva considerare come il suo migliore amico.
Si era iniziata ad affezionare a lui qualche tempo dopo essersi conosciuti, ritrovandosi in classe assieme. Yukako non era mai davvero stata una persona socievole o affettuosa, ma con quel ragazzino che scoppiava a piangere ad ogni verifica, non poté fare altro che affezionarsi. All’inizio erano solo sguardi, ogni volta che lui aveva una crisi di pianto in classe, ogni volta che rimaneva terrorizzato a fissare il vuoto quando non capiva qualcosa, ogni volta che si arrendeva prima di iniziare davvero a mettersi in gioco. Poi iniziò ad avvicinarsi, a consolarlo, a cercare di farlo smettere di disperarsi. Le dispiaceva per lui, e Okuyasu era gentile e amorevole, a dispetto del suo aspetto un po’ da bulletto. Yukako sapeva che aveva bisogno di protezione. In realtà no, se l’era sempre cavata da solo in tutta la sua vita, ma Yukako doveva proteggerlo, era intrinseco nella sua natura trattarlo come un fratellino minore e difenderlo da quel mondo che lo trattava tanto male. Dai bulli, dalle ragazze che lo deridevano alle spalle, dagli scherzacci e dalle battutine. Lei non le sopportava, non sopportava come Okuyasu non reagisse.
La loro amicizia durò nel tempo, e quando entrambi si sposarono e i loro mariti trascorrevano le giornate a lavorare in ospedale, loro si ritrovavano al bar Deux Magot, all’inizio per parlare della loro nuova, emozionante vita da sposati, successivamente per lamentarsi del matrimonio e dei figli.
Yukako gestiva il Fairy Grandmother Aya, il più grande salone di bellezza di tutta Morioh, in ricordo di una donna, una madrina che se n’era andata troppo presto, diciassette anni prima, ma non aveva mai davvero abbandonato il cuore di quella città. Lei era diventata una parrucchiera professionista, la migliore nella zona di molti chilometri, e non solo per il suo stand. Il buongusto era sempre stato parte di lei, e sì, forse il suo stand giocava anche un ruolo chiave per il suo lavoro. Assieme a lei lavorava Yuuya Fungami, l’ex motociclista ora tatuatore, le tre donne che da ragazzine erano state sue fan e ora erano rimaste sue ottime amiche come estetiste, e molte altre persone che avevano conosciuto la povera Aya, e volevano ricordarla in quel modo. Aveva insistito con Okuyasu perché venisse a lavorare con lei, ma lui aveva sempre rifiutato. Spesso e volentieri, però, veniva al Fairy Grandmother a fare compagnia, portare biscotti appena sfornati, e aiutarli in qualsiasi modo potesse.
Ora che il suo migliore amico si ritrovava in difficoltà, come poteva rifiutarsi di aiutarlo?
Koichi guardò la moglie, poi rivolse un sorriso a Okuyasu.
-Cerca di farlo sfogare, ne ha davvero molto bisogno.- sussurrò il biondino, cercando di non farsi sentire da Josuke. Okuyasu annuì poco convinto.
Arrivarono all’hotel al crepuscolo. Smontarono lentamente dall’auto, Yukako con Shizuka in braccio, ancora mezza addormentata, e Okuyasu che trascinava per mano Josuke, cercando di tirarlo per la mano per fargli accelerare un po’ il passo, mentre il portinaio sbraitava e si sbracciava verso di loro, spronandoli ad entrare velocemente in albergo prima che si facesse buio. Gli abitanti di quelle zone avevano paura ad uscire di notte, spiegò loro il custode dell’albergo.
-Di notte spariscono molte persone, ormai da 4 anni è così- disse mentre consegnava loro le chiavi delle stanze.
-Vedrà che la situazione cambierà- si lasciò scappare Koichi, in un impeto. Non sopportava che la situazione fosse così impossibile da risolvere, non l’ha mai sopportato.
Il portiere negò con la testa e gli sbatté le chiavi della camera sul palmo della mano, affranto.
I cinque giapponesi se ne andarono un po’ delusi, raggiungendo le camere. Quella degli Higashikata si trovava al primo piano, vicino alle scale, e quella degli Hirose al secondo, all’altro capo delle scale.
Josuke se ne stava con la fronte contro allo stipite della porta ancora serrata a chiave. Okuyasu lo scostò con poca gentilezza e aprì la porta, trascinandolo dentro praticamente a forza. Lui si buttò sul letto senza nemmeno svestirsi, a faccia in giù, rimanendo immobile sul materasso. Prese dalla valigia nella stanza dei vestiti puliti e il pigiama della piccola per consegnarli poi a Koichi, con fare fin troppo premuroso e quasi materno.
-Buonanotte- sussurrò Okuyasu alla figlia, scostandole la frangia e dandole un dolce bacio a stampo sulla fronte. –sogni d’oro, piccola mia.-
Lei gli sorrise, stropicciandosi gli occhi, e si avviò assieme agli zii su per le scale, mentre Okuyasu tornò in camera e si chiuse la porta alle spalle, tirando un profondo sospiro di sollievo. Finalmente poteva sentirsi al sicuro.
Fece per andare in bagno ma si fermò ad osservare Josuke. Rimase qualche secondo a guardarlo, allibito. Sembrava un vegetale, non parlava e non faceva nulla. Roteò gli occhi e se ne andò in bagno.
Aveva bisogno di staccare, di riposarsi e di non pensare a tutto il male che era successo quel giorno. Si spogliò in fretta e si fece una doccia calda, rimanendo a riflettere sotto l’acqua bollente che gli colpiva i muscoli tesi delle spalle, coperti dai lunghi capelli grigi che arrivavano almeno a sotto le scapole. Se li portò su un lato e iniziò ad insaponarli, perdendosi nei suoi pensieri.
La giornata era stata stressante, e i sentiva i muscoli rigidi e i nervi tesi, oltre alla sensazione di freddo che le lame di acqua gelate che scaturivano dalla fontana nemica gli avevano portato.
Quella fontana.
Okuyasu rimase sotto al getto, con i lunghi ciuffi neri e fradici davanti al viso, appoggiandosi al muro della doccia, a pensare. Provava già una forte emicrania, non era facile per lui riflettere così intensamente, ma doveva sforzarsi. La situazione era grave, avevano tentato di uccidere suo marito e sua figlia, questo non era il momento per fare la vittima e arrendersi al mal di testa.
Rimase almeno un quarto d’ora con la fronte premuta contro il muro a pensare, cercare di ricordare qualche dettaglio che gli potesse far dedurre chi fossero quei nemici misteriosi che si nascondevano dietro ad una fontana che sparava lame.  Non poteva essere una fontana normale, si doveva trattare di uno stand nemico. L’acqua bollente gli colpiva la possente schiena e scendeva giù, gli ustionava la pelle e la testa gli sembrava scoppiare, ma doveva scoprire chi erano. Da solo, però, cosa credeva di fare? Era un povero scemo, poco più che un malato di mente, non avrebbe potuto aiutare molto. Ne soffriva di questa sua condizione tanto denigrante, non poteva arrendersi alla realtà di essere inutile.
Tirò un forte sospiro e si rimise ritto in piedi, passandosi le dita tra i capelli e cercando di lavarli, togliendo a forza i granelli di sabbia o polvere o qualsiasi essa sia rimasti impigliati tra le lunghe ciocche.
Dopo un attimo di smarrimento su come si fosse potuto imbrattare i capelli in quel modo, ricordò le parole del marito. “Waterjet abrasivo”, aveva chiamato quelle lame d’acqua. Contenevano anche della sabbia, ma nell’acqua delle fontane non c’è tanta sabbia, e il ghiaccio che aveva imprigionato Shizuka e Josuke, come quello che ricopriva il terreno era puro, senza tracce di sabbia.
Okuyasu giunse alla conclusione che erano due portatori di stand, e quello della fontana era un attacco combinato.
Uno controllava l’acqua e le lame, e l’altro la sabbia. Doveva essere così.
Poi il suo svenimento fu molto sospetto. Si sentì folgorare, come se una scossa elettrica gli avesse passato tutto il corpo. Forse non erano solo in due ad averli attaccati.
Se era così, si trattava di una squadra estremamente coordinata e con molta esperienza nei combattimenti. Ma perché li avevano attaccati? Ancora qualcosa non quadrava.
Mentre finiva di insaponarsi il corpo, sentì un rumore nella camera da letto, come qualcosa di molto pesante che cadeva. O qualcuno.
-Jojo? Tutto ok?-
-Sì.-
La risposta di Josuke fu veloce e pronta, basso grugnito infastidito più che una risposta vera e propria.
–Sei caduto?-
Josuke non rispose. Voleva dire che sì, era caduto, ma che non l’avrebbe mai ammesso, non a lui di sicuro.
Finì di sciacquarsi e uscì dalla doccia, dandosi una veloce asciugata con un asciugamano, per poi aprire di scatto la porta, più per sorprendere l’altro uomo che per accertarsi che stesse bene. Era sempre coricato a faccia in giù sul loro letto, ma era in pigiama ora. Okuyasu rimase imbambolato sull’uscio del bagno ad osservarlo confuso, completamente nudo e coi capelli gocciolanti davanti al viso, a capire come diavolo avesse fatto a cambiarsi e a rimanere nella stessa, identica posizione.
-...come cazzo…? Come hai fatto?- balbettò, appoggiandosi allo stipite della porta. Josuke non si mosse. Strinse le spalle e rimase a faccia in giù sul lenzuolo, sotto lo sguardo del marito.
Okuyasu si era stancato di stare al suo complesso gioco di silenzi e dispetti, non riusciva a capirlo, ma in diciassette anni assieme era arrivato alla conclusione che non poteva capirlo. Poteva solo spronarlo.
-…caro mio, lo sai che il lenzuolo è sporco e tu ci stai strofinando la faccia sopra? Ho visto un programma in tivù, dove dicevano che ci sono macchie di piscia e di… fluidi corporei. Sai cosa sono, vero? Sei dottore…-
Josuke ebbe un sussulto e si alzò sugli avambracci, osservandolo con gli occhi sgranati e arrossati. Cercò di controllarsi, rotolando su sé stesso e facendo per cadere dall’altra parte del letto, tenendosi su per miracolo. Si tirò indietro dalla fronte i capelli, ora che il gel che metteva sempre aveva finito il suo effetto, e cercò di rimanere freddo come al solito. –S..sono traumatologo.- sbuffò. Sul suo viso c’era ancora il ribrezzo per le parole dell’altro, però.
Okuyasu scoppiò a ridere mentre Josuke si contorceva sul letto, tirando le lenzuola con un’espressione di puro disgusto e scalciandole per terra.
Ancora in lacrime per le risate, Okuyasu si vestì alla svelta con il suo vecchio pigiama.
Si stese dalla sua parte del letto e si coricò di schiena, con le mani dietro la testa a tenerla sollevata, ancora pensieroso.
-Devo farti delle domande.- disse sovrappensiero, mentre l’altro si sistemava meglio al suo fianco, che lo fissava con uno sguardo confuso e preoccupato.
-Quelli che ci hanno attaccato oggi… tu li hai visti, vero?-
Okuyasu si girò verso di lui, e si guardarono negli occhi per un bel po’. I suoi occhi scuri si scontrarono contro quel freddo muro azzurro delle iridi di Josuke, che non sembrava voler rispondere. Si alzò quasi di scatto e, infilandosi le pantofole, ovviamente di marca, si diresse di corsa in bagno, sbattendosi la porta alle spalle. Okuyasu sbuffò sonoramente e si lasciò ricadere sul letto, sapendo che non sarebbe tornato per un bel po’. E ricominciò a pensare, ora più fresco e rilassato di prima.
Quel bagliore rosso che aveva visto nel parcheggio poteva voler dire qualcosa. Magari era uno di loro… non poteva saperlo, dato che era svenuto prima di tutti gli altri. Poteva chiedere a Shizuka, che aveva combattuto contro qualcuno, ma Okuyasu lasciò perdere e non le chiese niente; infondo sua figlia era piccola e stanca, non voleva farla stare peggio di quanto già stesse. Con Josuke non era la stessa cosa: suo marito era un uomo adulto, responsabile e forte. O almeno, avrebbe dovuto esserlo. Da come se n’era scappato in bagno non sembrava altro che un bambino spaventato.
Okuyasu rimase perso nei suoi pensieri finchè non cadde in un leggero sonno, e iniziò a russare rumorosamente, come suo solito. Josuke, spettinato e con gli occhi tutti arrossati e gonfi, si affacciò dalla porta del bagno e rimase a fissarlo, coi suoi lunghi capelli arruffati e il viso spigoloso e il petto che si alzava e si sollevava con lentezza, accompagnando il suo russare. Non poteva scappargli, Josuke lo sapeva benissimo. Con un forte sospiro si chiuse la porta alle spalle e si avvicinò al letto il più silenziosamente che poteva, sedendosi poi sul bordo del letto e sfilandosi le pantofole, facendo per coricarsi ma fermandosi di botto, alla vista degli occhi scuri del marito puntati verso di lui.
-Pensavo dormissi…- si scusò Josuke, infilandosi velocemente sotto le coperte.
-Sai che ho un sonno leggero.- rispose Okuyasu, sbadigliando e stiracchiandosi sul letto, mentre lo guardava con insistenza.
Rimasero per un po’ a guardarsi sdraiati fianco a fianco sul letto matrimoniale, così intensamente da sembrare una battaglia di sguardi che aveva ben poco di romantico o di pacifico.
Di solito quello a cedere era Okuyasu, lui si arrendeva sempre, ma non quella volta. Era per il bene della sua famiglia, della piccola Shizuka e anche di quel testone di suo marito, che non voleva proprio arrendersi.
-Josuke, ti prego.- gli sussurrò, cercando di allungare una mano verso di lui. In tutta risposta lui si ritrasse un po’ indietro, sbuffando sonoramente e abbassando finalmente lo sguardo.
Non ci è voluto molto, pensò Okuyasu. Forse sono sempre stato io ad arrendermi prima ancora di provarci.
-Erano tre ragazzine- bisbigliò Josuke, quasi affranto. –Avranno avuto si e no l’età della nostra Shizu. E cercavano me.-
Corrucciò le sopracciglia e borbottò una frase che non gli sentiva dire dal tempo dell’università. Tirò un pugno al materasso e si voltò di schiena, chiudendosi in sé stesso.
-Non è colpa tua, Jojo.- cercò di consolarlo Okuyasu, tentando di avvicinarsi a lui. Appena sfiorò la sua spalla, però, Josuke si voltò e gli soffiò addosso come un serpente a sonagli, reagendo fin troppo violentemente anche per i suoi standard.
Okuyasu lo lasciò stare. Si tirò indietro e rimase a fissarlo con espressione indecifrabile, mentre qualcosa negli occhi di Josuke cambiava. Sembrava quasi in colpa. Scuse silenziose, forse.
Non disse nulla, affondò solo il viso nel cuscino e si addormentò velocemente, ora non così lontano dal corpo di Okuyasu. Era già qualcosa.
Okuyasu era stanco, non solo in senso fisico. Si sentiva i nervi ancora tesi e i muscoli irrigiditi, la punta delle dita insolitamente fredde, il naso umido e infreddolito, quel clima tanto rigido a fine marzo era insolito per lui. Aveva controllato su Google Maps, il Nord Italia si trovava a latitudini vertiginosamente alte rispetto a Morioh, o Tokyo o New York o qualsiasi città in cui avesse mai abitato.
Okuyasu se lo ricordava, l’inverno a Tokyo. A girovagare per le strade deserte della periferia sudicia della città, a scaldarsi con gli altri vagabondi coi bidoni dati a fuoco. La neve cadeva pesante, e si sentiva le mani perdere sensibilità e le unghie staccarsi, con suo fratello maggiore Keicho che lo tirava per il polso nei sobborghi malfamati della metropoli, tra gli sguardi disgustati dei passanti. Venticinque anni dopo, Okuyasu si ritrovava in una camera d’hotel nel mezzo della Pianura Padana, a dare la caccia o forse scappare a una banda di ragazzine.
Okuyasu pensò che la vita è davvero strana, come puoi passare dall’essere un misero vagabondo orfano e girare per i sobborghi della metropoli facendo di tutto per mangiare qualcosa, fino ad essere sposato con un dottore e abitare in una villa nel centro di una bella e pulita cittadina, nel lusso e nella serenità. Perso in questi pensieri, Okuyasu abbassò le pesanti palpebre e strisciò verso Josuke, ormai addormentato da parecchio tempo. Con uno sbadiglio si lasciò anche lui abbandonare nel sonno, ripromettendosi di migliorarsi. Era arrivato fin lì, è arrivato a non dover più preoccuparsi di cercare gli scarti dei fast food nei bidoni della spazzatura per non morire di fame sul marciapiedi, certo, ma poteva arrivare ancora più in alto, può aspirare a non solo badare a sé stesso, ma proteggere la sua adorata figlioletta e il suo amato marito.
Sorrise lievemente e crollò nel sonno e, come al solito, sprofondare nel buio del suo sonno senza sogni.
 
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Svegliarsi con la suoneria del proprio cellulare non è il massimo, e peggio ancora è svegliarsi con la suoneria di tuo marito.
Okuyasu sobbalzò nel sentire quell’orribile ritornello pulsargli nelle orecchie e spaccargli i timpani, e tentò di alzarsi per spegnere la sveglia, al fianco del suo comodino, come al solito. Ma il suo cellulare non stava suonando, e solo con un fatale ritardo si accorse che si trattava del cellulare di Josuke.
Era passata una settimana dall’attacco della Banda, e in quella settimana non fecero praticamente nulla.
Okuyasu era corso per gelaterie e ristoranti tipici, si era ingozzato come un maiale tanto da non riuscire più a muoversi la sera. Shizuka era rimasta in albergo a giocare col cellulare, chattare, guardare la televisione italiana nella grossa hall dell’albergo e videochiamarsi con Rin e Sachiyo, le sue migliori amiche, ancora confinate a Morioh. Delle volte Okuyasu riusciva a origliare qualche conversazione, dove ammetteva che Morioh le mancava.
Ma se c’era una cosa che Shizuka non aveva fatto, era stato parlare con suo padre Josuke. Non aveva evidentemente preso bene quello schiaffo alla Città della Moda.
Josuke rimase per lo più confinato a letto, col braccio tirato al petto e immobile perché potesse riprendersi dai profondi tagli che, su una persona normale, sarebbero stati fatali. Ma Josuke era un Joestar, con la pelle coriacea come quella di un coccodrillo e la testa altrettanto dura. Tanto dura da non volersi svegliare a nessun costo, anche con la sua suoneria.
Shizuka si svegliò a sua volta, tirando il suo cuscino a terra e strillando a Okuyasu perché rispondesse lui.
Josuke rimaneva lì, con la testa affondata nel cuscino, con un sorrisino soddisfatto e le palpebre ben serrate, senza alcuna intenzione di svegliarsi. Era adorabile, però. Certo, il suo viso non era più rotondo come diciassette anni prima, i tratti erano più sfinati e duri, ma poteva benissimo considerarlo davvero adorabile, a dormire a pancia in giù come un bambino.
Si scostò un po’ sul letto e prese il cellulare, rispondendo alla bell’e meglio alla chiamata.
-Pronto..?- borbottò Okuyasu, mentre Josuke si rigirava infastidito sul letto.
-Oku? Ma dove siete!- sbottò l’altro uomo dall’altra parte della cornetta. Era Koichi, e sembrava adirato.
–Dormivamo- rispose Okuyasu, ancora assonnato, con tutta la calma del mondo.
-“Dormivamo”? Ma lo sai che ore sono?!-
-No.-
-Sono le sette e mezza, Okuyasu! Dovevamo trovarci alle sei! Le SEI!-
-…oh. Oggi?-
Si era dimenticato che giorno era in quella settimana di relax, e che quella sarebbe stata LA giornata. Si morse il labbro inferiore e si guardò un po’ intorno, cercando di alzarsi dal letto senza svegliare Josuke, sotto lo sguardo carico d’odio di Shizuka.
Cercò di rispondere sottovoce a Koichi al telefono, ma alzandosi in piedi fece ovviamente rumore. E Josuke si svegliò, trasformando quel sorrisino del sonno in un broncio offeso.
Prese il lembo del lenzuolo e lo scaraventò con ben poca grazia via da lui, i alzò sugli avambracci e si mise in piedi con lentezza, incamminandosi in bagno. Okuyasu rimase immobile sul letto, guardandolo sbalordito dal suo comportamento. Lunatico, o forse semplicemente pazzo. Con un profondo sospiro si rigirò nel letto e riprese ad ascoltare l’amico che gli parlava al cellulare, un po’ sovrappensiero e ancora molto addormentato.
-..Okuyasu! Ci sei?-
-Sì, sì… arriviamo…-
-Ah! Meno male! Sempre in ritardo, voi! Per le otto fatevi trovare nella hall. Alle dieci arriva l’aereo di Jotaro, dobbiamo essere all’aeroporto puntuali!-
Okuyasu annuì, mentre tentava di alzarsi dal letto, con molta lentezza. Sarebbe stata una giornata brutta e dura, se lo sentiva. Ma non ne era pronto.
 
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Dopo una buona mezzoretta, i tre furono pronti. In realtà erano pronti già da un quarto d’ora, ma tra i vari “non hai più diciassette anni, basta con il fuchsia e l’attillato” e “smettila di vestirti da barbone”, seguito dalle risatine della figlia, ci impiegarono almeno il doppio del tempo. 
Shizuka, come al solito, aveva stretta al collo la vecchia sciarpa di Joseph. Non l’aveva mai lasciata andare in quella settimana. Sapeva che le era utile, che le serviva se avesse voluto combinare qualcosa in quella città spietata.
Presero tutte le valige e si chiusero la porta alle spalle, pronti a scendere le scale e trovarsi con gli amici.
Shizuka non stava portando nemmeno una valigia, se non la sua solita borsetta. Se poteva farsi portare tutto dagli altri, perché fare fatica?
Era stanca di aspettare quei due vecchi. Corse davanti a loro e scese le scale di corsa, impaziente di arrivare alla fantomatica La Bassa e tutti i suoi misteri.
Okuyasu si stava per incamminare quando Josuke gli sbarrò la strada, piazzandosi proprio davanti a lui, e osservandolo da quei quindici centimetri in più d’altezza che aveva rispetto al marito. Si abbassò un po’ e gli schioccò un veloce bacetto sulla guancia, mormorandogli un frettoloso “scusami per tutto”. Okuyasu gli sorrise, ma non fece in tempo a reagire in alcun modo, perché l’altro prese con velocità una valigia sola e corse verso le scale, facendogli la linguaccia.
Okuyasu prese i restanti borsoni e valigioni, ovviamente quelli pesantissimi, e si incamminò lentamente giù per le scale, verso la hall dell’hotel, dove Koichi stava già sgridando Josuke, impegnato in ben altro al momento.
Shizuka era diventata stranamente cattiva verso Josuke. Non l’aveva ancora perdonato per quello che era successo una settimana prima, e lui non sapeva farsi perdonare in nessun modo.
-Sei ancora arrabbiata, vero?- le borbottò Josuke, arrivandole alle spalle. Lei si voltò verso di lui, lo fulminò con lo sguardo e abbassò gli occhi, gonfiando le guance. –Non so di cosa tu stia parlando.-
L’uomo non aveva voglia di giocare a quel lungo gioco che gli stava preparando lei, così decise di tirarla su per le ascelle e prenderla in braccio. Non si ribellò molto. Lo guardò un po’ in cagnesco e sussurrò un “non farmi cadere” stretto tra i denti.
Okuyasu finalmente finì la rampa di scale e li raggiunse, stremato e non molto abituato a fare tanti gradini, o semplicemente a faticare così tanto, con la lingua di fuori e il fiatone.
-Ci siamo tutti, possiamo andare!- esordì Koichi, picchiando le mani le une contro le altre. Yukako annuì e consegnò le chiavi dell’albergo al gestore, per poi incamminarsi, seguita da tutti quanti, verso il parcheggio.
Josuke continuava a tenere Shizuka in braccio, e lei ci stava prendendo decisamente gusto a essere così in alto.
-Shizu, vuoi che ti metta giù?- sussurrò suo padre, tutto ad un tratto, girandosi verso di lei. Lei lo guardò negli occhi a sua volta, confusa. –Eh? Perchè?-
-Non so, magari non vuoi stare in braccio a me. Se preferisci papà, dimmelo.-
Shizuka negò e si accoccolò contro di lui, sprofondando la testa nell’incavo del suo collo, intenta a non scollarsi da lui. Era una postazione di lusso, quella.
Era molto più in alto che con Okuyasu, profumava di dopobarba e profumi francesi costosissimi, e non la stritolava e riempiva di bacetti e coccole imbarazzanti e fin troppo appiccicose.
-Nah, va bene qui.-
Lo guardò in viso e lo osservò sorridere, con tanta emozione come non l’aveva mai vista, non a lui, gli occhi azzurri che brillavano e un sorrisone sul viso. Era felice di averla in braccio, felice di non essere, per una volta, meno di Okuyasu per sua figlia. Dopo essersi accorto di aver espresso un po’ troppa gioia, si schiarì la gola e cercò di trattenersi, con le guance tutte rosse e lo sguardo imbarazzato. Shizuka ci fece poco caso e tornò ad appoggiare la testa alla sua spalla, dondolando le gambe e godendosi il tragitto dall’hotel all’auto, cercando di trattenere una risatina divertita.
Stiparono tutte le valige nell’ampio bagagliaio e montarono sull’auto. Come al solito Yukako guidava e Koichi le sedeva accanto, sul sedile del passeggero, con le cartine stradali in mano, una della provincia di Verona, in cui si trovava l’aeroporto, e l’altra della provincia di Mantova, in cui invece si trovavano Forcello e la Città della Moda, e soprattutto la famigerata La Bassa.
Fortunatamente, l’aeroporto non era lontano. Appena parcheggiarono l’automobile, Koichi spalancò la portella e si fiondò giù, correndo in un punto imprecisato del parcheggio.
-Quattrocchi, tu che ci vedi bene, dove corre Koichi?- bofonchiò Josuke, dando una leggera gomitata al marito. In tutta risposta Okuyasu si sistemò gli occhiali e socchiuse gli occhi, osservando per bene il punto in cui Koichi stava correndo.
-Penso siano Jotaro e famiglia.-
Josuke si lasciò scappare un mezzo grido e con fretta aprì la portella e si slacciò la cintura, afferrando Shizuka per un braccio e tirandola con sé giù dall’auto. Sbatté la fronte contro all’abitacolo, come di consuetudine ormai, e una volta giù dall’auto e con la figlia confusa dal suo comportamento in braccio, ben stretta a sé, corse dietro a Koichi, non con poca difficoltà.
Okuyasu e Yukako rimasero fermi immobili, guardandosi negli occhi e non osando proferire parola per il strano comportamento dei mariti.
Josuke raggiunse i Kujo col viso tutto rosso e il fiatone, mentre lo guardavano male come al solito.
Rimase piegato su sé stesso per un po’, cercando di riprendere fiato, mentre Jotaro discuteva con Koichi.
-Riguardo alla conversazione di ieri- bisbigliò Jotaro, fermo davanti a loro, rigido e con le mani nelle tasche, col solito sguardo duro, forse anche più del solito. –ho fatto una ricerca con la Fondazione Speedwagon di Berna. I nemici sono guerrieri delle Onde Concentriche, dunque devono c’entrare con il calo di vittime per vampirismo a La Bassa. Suppongo che operino lì, dunque vivano anche nella zona. Data la giovane età, direi di iniziare a cercarli dalle scuole, e a La Bassa ce ne sono due di scuole superiori: l’istituto San Giorgio e l’istituto San Basilio. Inizieremo dal liceo San Giorgio, oggi. Spero tu sia d’accordo, Josuke.-
Lui alzò la testa di colpo e lo fissò negli occhi, spaesato, passando lo sguardo dall’amico al nipote. –Eh? Istituto Sang…che?-
Jotaro lo fissò con sufficienza e sbuffò rumorosamente, distogliendo lo sguardo dallo zio e tornando a guardare Koichi, dando la schiena a Josuke, tanto innervosito da non volerlo nemmeno guardare in viso.
Josuke abbassò lo sguardo e indietreggiò un po’, costernato dal comportamento dell’uomo che tanto stimava, rattristito dal fatto che, qualsiasi cosa avesse fatto, non sarebbe stato mai accettato da lui.
Mentre era sovrappensiero a rimuginare, Holly gli si avvicinò e gli si scaraventò praticamente addosso, scoppiando a ridere e abbracciandolo con forza, sfregandogli la testa sulla spalla.
-Ah, il mio fratellino!- gridò, saltellando lievemente. Josuke lasciò la presa sulla mano della figlia, che nel frattempo si era nascosta dietro di lui per evitare lo sguardo dei parenti su di lei, e avvolse la sorellastra con le sue braccia, fin troppo grosse per la sua schiena magra e ingobbita dagli anni.
-Sono contenta di vedervi qui, sani e salvi.- sussurrò, staccandosi dal corpo del fratello e girandoci attorno, raggiungendo la nipotina, che se ne stava premuta contro la schiena di suo padre.
Le passò una mano sui capelli, guardandola dritta in viso, con un lampo di tristezza che le varcò gli occhi sempre sereni e felici.
-Questa sciarpa era del mio papà. Te l’ho mandata io, so che ti servirà. Fanne buon uso, tienimela bene, mi raccomando!-
Shizuka annuì piano e Holly rise con la sua solita voce cristallina, capace di mettere tutti di buon’umore.
Holly avrebbe continuato ad appendersi al forte braccio del fratello e a stringere la delicata mano della nipote, se Jotaro non l’avesse richiamata con un grido sommesso e irritato. La donna si voltò verso il figlio, poi di nuovo verso Josuke, sorridendogli.
-Non badare a come si comporta Jotaro. Non è colpa tua.-
Detto questo girò i tacchi e se ne andò, ciondolando placidamente verso il figlio, che se ne stava già tornando alla sua automobile.
Dai finestrini dell’auto noleggiata dai Kujo, Rosanna, Jolyne ed Emporio salutarono scuotendo la mano e sorridendogli.
Josuke sospirò e prese Shizuka per mano, pensando che almeno qualcuno sembrava felice che ci fosse anche lui.
-Dobbiamo seguirli- sbottò Koichi, con una lieve nota di preoccupazione nella voce, voltandosi e tornando con passo svelto alla propria automobile. Josuke lo seguì, stando con facilità al suo passo dati i 30 e passa centimetri che lo separavano dal biondo. Shizuka si aggrappò a lui e finì per essere sollevata con un solo braccio dal padre, dato che sarebbe rimasta indietro. Era più bassa anche di Koichi, e non voleva di certo ritardare.
-saremo a La Bassa per le nove e mezza. In poche parole, gireremo per le scuole della città finchè non troveremo quelle tre.-
-Come fate a sapere che erano..?- sussurrò Josuke, stringendo la figlia al suo petto e cercando di mantenere un’espressione seria e tranquilla, anche se i muscoli tesi del collo e le mani che tremavano dicevano tutt’altro.
Shizuka lo notò, e, allacciandogli le braccia attorno al collo, talmente teso da sembrarle duro come il marmo, parlò piano, quasi sussurrandogli. –Gliel’ho detto io.-
Josuke la guardò e Shizuka non riuscì a capire cosa passasse in quella testa, non riuscì a scorgere una vera espressione sul suo viso.
Annuì e tornò a guardare l’amico, abbassando lo sguardo su di lui e affiancandoglisi, decisamente preoccupato, incamminandosi a grandi falcate verso l’automobile.
Aprì la portella e quasi buttò la figlia sul sedile posteriore centrale, sedendosi su quello laterale. Koichi tornò poco dopo, sedendosi davanti e indicando alla moglie l’auto dei Kujo e di seguirli.
L’automobile si mise in moto, e Josuke appoggiò il gomito allo sportello, guardando il noioso paesaggio che gli scorreva davanti agli occhi.
Furono quarantacinque minuti di verde e giallo, che si susseguivano ripetutamente oltre il vetro del finestrino, con uno sfondo bianco-grigio.
Campo di grano, canale d’irrigazione, campo incolto, canale d’irrigazione, campo di mais, canale d’irrigazione. Fiumiciattolo, cartello con fantasiosi nomi di paesini sperduti, argini, altri campi, altri canali e altri fiumiciattoli. E il perenne cielo luminoso e pallido sopra di loro, il candido sole che spuntava da dietro quella coltre malata e che a malapena illuminava quegli scenari tediosi e monocromatici. Il tutto servito su un panorama piatto, una tela quasi geometrica per quanto era incredibile. Sembrava che un bambino avesse tracciato una linea dritta con un righello su un foglio sporco di tempera. Sopra il cielo grigio-bianco, tanto luminoso da far male, sotto la campagna. In mezzo, solo la noia delle casupole di campagna e delle stradine sconnesse.
Grigio, verde, giallo.
Soporifero, era l’unico termine con cui riusciva a descrivere quel posto.
Le palpebre si facevano pesanti, gli occhi stanchi, e stava per addormentarsi, se una gomitata non gli avesse centrato le costole. Saltò sul sedile urlando, girandosi verso chi l’aveva colpito con gli occhi sgranati. Era stato Okuyasu, che lo guardava con un sorrisone, saltellando per l’emozione. Anche Shizuka sembrava emozionata, e Koichi sorrideva.
-Cosa..?- bofonchiò, confuso e dolorante.
-Siamo sul ponte di Borgoforte!- gridò Okuyasu, perforandogli i timpani.
-Ah.-
-No Jojo, guarda! Guarda!- e indicò qualcosa oltre l’auto di Jotaro, che li precedeva. Josuke rimase immobile e un po’ deluso dal fatto che tutti fossero tanto emozionati per un ponte. Ne avevano passati tanti in quei tre quarti d’ora, e non capiva cosa ci potesse mai essere di tanto importante in quello.
Appena però l’auto si inoltrò sull’enorme ponte, Josuke capì, e anche i suoi occhi si riempirono di meraviglia. No, questo non era un fiumiciattolo qualunque.
Era il Po.
Di fiumi ne aveva visti tanti nella sua vita, ma mai tanto maestosi. L’acqua impetuosa scorreva veloce e creava mulinelli luminosi, il becero sole si rispecchiava nell’acqua agitata e creava riflessi tanto brillanti da accecare, mentre scorreva verso l’infinito dell’orizzonte lineare e quasi irritante.
Era largo diverse centinaia di metri, e la sua lunghezza non era misurabile. Non si intravedeva né l’inizio né tantomeno la fine, e sul suo tragitto si scorgevano altri ponti lontani, altri boschi affacciati su quel fiume.
-Tirando dritto si arriva a La Bassa- sentenziò Yukako, interrompendo il torrente di pensieri nella testa del castano. –girando a sinistra si può raggiungere Pigugnaria, passando per… Muntichiana e Ronco. Ah, che nomi questi paesini.-
Koichi fece una risatina, per poi girarsi verso il sedili posteriori.
Josuke era in una strana posa col cellulare puntato a sé, Shizuka stava usando la fotocamera sull’altro finestrino e Okuyasu aveva la fronte premuta contro il vetro, osservando con un’espressione preoccupantemente ferma su quell’enorme specchio d’acqua.
-..ma che fate?-
-Selfie col Po- rispose prontamente Josuke, sviando per un istante lo sguardo dalla fotocamera anteriore del suo smartphone al viso dell’amico, con ancora l’espressione ebete con le labbra sporgenti e un occhio chiuso, mentre Shizuka non lo degnò nemmeno di uno sguardo.
Koichi si rassegnò di avere a che fare con una famiglia di idioti e si rilassò sul proprio sedile, chiudendo la mappa. Finalmente erano arrivati a La Bassa.
 
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-Fa ancora più schifo delle foto di Wikipedia- borbottò Jolyne, prendendo a calci la ghiaia sotto ai suoi piedi, mentre Emporio cercava di schivare tutti i sassolini che la sorella gli lanciava. Holly era rimasta seduta sul sedile posteriore, le gambe troppo deboli per reggerla e l’umidità dell’oltrepò che le distruggevano le articolazioni. Rosanna era al suo fianco, cercando di consolarla e aiutarla, mentre gridava alla figlia di non lanciare i sassi e la polvere al povero Emporio.
Jotaro controllò e ricontrollò l’orologio che aveva al polso, stanco di aspettare.
Avevano parcheggiato sul retro di un grande edificio rosso e di vetro, mentre i ragazzi al suo interno li scrutavano con attenzione.
Dopo qualche minuto anche il suv argentato arrivò, parcheggiò vicino all’auto nera dei Kujo, e i suoi passeggeri scesero.
-Perché avete fatto tanto tardi?- sbottò Jotaro, fulminando Josuke con lo sguardo.
-Ci siamo fermati a prendere il gelato caldo al K2. È una gelateria rinomata da queste parti, sai?- rispose lui, alzando le braccia al cielo, la coppetta di gelato stretta in una mano. Dietro di lui, anche Shizuka, Okuyasu, Koichi e Yukako reggevano le stesse coppette, quasi finite ormai.
Jotaro sospirò profondamente e cercò di tranquillizzarsi e di trattenersi dal pestarlo a sangue, mentre si passava una mano sul viso stanco.
Voltò loro le spalle e, con un gesto plateale per attrarre la loro attenzione, indicò l’edificio rosso.
-Quello è l’Istituto San Giorgio. Entriamo e chiediamo di quelle maledette ragazzine.-
Tutti annuirono all’unisono, e, seguendo Jotaro. Shizuka si accostò ai padri e fece per seguirli, finchè la grande mano di Jotaro non la fermò, afferrandola per una spalla.
-Tu ed Emporio è meglio se rimanete qui, assieme a mia madre e Rosanna.- sentenziò lui, guardandola a malapena e spingendola a forza verso l’auto, su cui sedevano gli altri tre.
-Fate i bravi, eh!- ridacchiò Jolyne, facendo loro la linguaccia e seguendo tutta emozionata il padre e gli zii verso la scuola, sotto lo sguardo carico d’odio di Shizuka.
 
 
 
 
It doesn't have to be like this.
All we need to do, is make sure we keep talking.
                              Keep Talking, Pink Floyd (The Division Bell, 1994)
 
 
Note dell’autrice
Hey hey heeyy, ciao a tutti! Sono tornata, evviva!
Purtroppo i capitoli sono molto lunghi e la mia vita è impegnativa, aggiornerò una volta al mese purtroppo. Scusate per il capitolo ENORME, il più lungo che abbia scritto finora, ma è un capitolo di riflessione e di poca azione, dunque… beh, spero vi sia piaciuto.
In questo capitolo i Joestar arrivano a La Bassa! La pianura padana è brutta, mi dispiace, e dispiace parecchio anche a loro, si vede!
Troveranno davvero in quell’istituto la Banda? Questo è un mistero (?)
Ci vediamo al prossimo capitolo, mi raccomando, stay tuned!

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Capitolo 11
*** All'inseguimento della Banda! (parte 1) ***


-Ehi, ti vedo pensierosa. Ancora quei Joestar?-
Ludovico appoggiò la penna sul libro di storia e si piegò verso l’amica, con un sorrisone sulle labbra. Zarathustra non rispose.
-Sta’ zitto e concentrati sulla lezione.- sbraitò l’amica, col solito atteggiamento freddo. Con un profondo sospiro il ragazzo moro tornò dritto sulla sua sedia, con il mento appoggiato alla mano ad ascoltare la noiosa lezione di storia contemporanea.
Provò a rimanere concentrato e attento, ma qualcosa continuava a distrarlo. Forse era l’incessante ticchettio della penna di Zarathustra, che se ne stava impacciata e immobile contro al muro, guardando con un’espressione tirata davanti a sé. Qualcosa non andava, se il boss era così nervosa.
-Zara, davvero. Succede qualcosa?-
-Ho un brutto presentimento.-
Con un cenno del capo indicò le ragazze sedute ai tavoli dietro di loro, che bisbigliavano e ridacchiavano, tutte sedute attorno ad una di loro, col cellulare in mano e un sorrisone sul viso. Guardavano lo schermo luminoso dello smartphone e parlottavano tra loro, tra risatine e sussulti.
Zarathustra si girò appena verso di loro, attivando 42 nel suo occhio destro ed osservandole con attenzione, cercando di catturare i loro labiali.
-La foto me l’ha mandata la mia amica dell’Ala Sud! Sono entrati a scuola questi tipi!-
-Saranno professori nuovi?-
-Nah, la ragazza coi capelli verdi e neri è troppo giovane!-
-Che siano dei genitori venuti per i colloqui coi prof?-
-Non penso…-
-Oddio, che figo il tipo castano coi tatuaggi!-
-Quello moro alto col cappello e il cappotto è spettacolaaree!!-
-Sono altissimi quei due, mamma mia! Saranno due metri!-
-Ma che bicipiti ha il tipo coi capelli bianchi e neri?! Wow!-
A quelle parole, la ragazza tornò a voltarsi in avanti, ancora più tesa di prima. Strinse la manica dell’amico e lo strattonò a sé, parlandogli nelle orecchie con una voce più tesa e preoccupante del solito.
-Manda il tuo Black or White all’entrata sud.-
-Cosa?- esordì Ludovico, stranito. –Ma perché dovrei..-
-Tu fallo e basta. Ho paura siano qui.-
-Dopo una settimana?!-
Il loro parlottare fu notato dalla professoressa. Si avvicinò ai loro tavoli e picchiò le mani sui loro banchi, guardandoli con astio.
-Allevi. De Luna. Se la lezione non vi interessa e avete cose più importanti di cui parlare, potete benissimo andarvene!-
Zarathustra annuì e si alzò in piedi di scatto, afferrando l’amico per il polso e trascinandolo fuori dall’aula, senza battere ciglio, sotto gli sguardi atterriti dei compagni di classe e della professoressa, incredula.
-De Luna! Che cosa..?!-
-Ho affari più importanti al momento. Arrivederci.-
Detto questo, Zarathustra la guardò dai suoi spessi occhialoni gialli a specchio e, senza mostrare alcuna emozione, si chiuse la porta alle spalle, trascinando l’amico riluttante.
Ludovico e Zarathustra camminavano l’uno di fianco all’altra per i corridoi semideserti della grande scuola, mentre il ragazzo evocò il suo stand, Black or White. Al posto della solita ombra circolare, la sua stessa ombra si allungò sul muro al loro lato, in una figura umanoide pressoché identica a quella del portatore ma completamente nera, fatta eccezione per i due luminosi occhi sferici, che li scrutava.
-Controlla l’entrata Sud, tanto il tuo stand ha raggio 100 metri o anche più.-
Ludovico annuì e l’ombra se ne andò, passando per i muri e le fessure, staccandosi dai piedi del ragazzo in giacca e cravatta, che continuava a seguire il suo capo.
I due si fermarono davanti a un’aula e Zara senza esitazioni spalancò la porta, piombando all’interno con la sua classica freddezza.
-Regina Stradivari e Davide Rossini sono attesi in presidenza.- disse con tono freddo e calmo, osservando i due ragazzi seduti in prima fila. Nella classe ci fu un boato di stupore, mentre osservavano sbalorditi i due migliori studenti della classe, sempre attenti, sempre presenti e con sempre i voti più alti.
-Per un encomio, ovviamente!- disse Ludovico con un sorrisetto un po’ tirato, intrufolandosi dentro e appoggiandosi allo stipite della porta, piazzandosi davanti alla ragazza e coprendola, mentre osservava il professore, che non sembrava essere cascato nel tranello di Zarathustra. Ludovico era energico e carismatico, e sempre pronto a creare buone scuse alle azioni calcolate e disinteressate della migliore amica. Era spesso lui a salvare la situazione, e per questo era il vice della Banda.
A quelle parole i compagni di classe si lasciarono scappare dei sospiri di sollievo e degli sbuffi rassegnati, constatando che poteva benissimo essere vero. Erano talmente diligenti che la preside li premiava spesso, e lasciava loro svolgere diversi compiti importanti, soprattutto ora che si ritrovavano in quinta.
-Andate pure.- sospirò infine, facendo segno ai due ragazzi di andare. Regina e Davide si alzarono di scatto e, facendo qualche inchino e scusandosi a bassa voce con il professore, uscirono dalla classe.
Una volta chiusa la porta, Zarathustra riprese a camminare, senza dare nessuna spiegazione. La ragazza castana le corse dietro, incuriosita, mentre i quattro salivano le scale e si dirigevano ai piani superiori dell’istituto, alla ricerca di tutti gli altri componenti della Banda, sparsi in diverse classi.
-Che succede, Boss?- chiese Regina, con tono preoccupato, osservandola con un’espressione impaurita sul volto.
-Le spiegazioni a dopo.-
Regina abbandonò l’idea di poter far uscire qualche informazione al capo e rallentò il passo, affiancandosi al braccio destro di Zarathustra, Ludovico.
-Crede che i Joestar siano qui- sussurrò lui a Davide e Regina, che si guardarono negli occhi spaventati. –Ha sentito delle ragazze che ne parlavano. Dovrebbero essere all’entrata Sud.-
La ragazza dai lunghi capelli castani e il diadema sulla testa gli rivolse uno sguardo gelido e serrò i pugni, aggrottando le sopracciglia e stringendo i pugni, infuriata dalla notizia, mentre Davide le si parò davanti accarezzandole una spalla, nel vano tentativo di calmare la fidanzata, fuori di sé.
Zarathustra entrò in un’altra aula e ripeté la stessa solfa, uscendo assieme a tre ragazzi. Il più basso, Piero, che nemmeno arrivava al metro e cinquanta, dai folti e spettinati capelli violacei e un abbigliamento sportivo e quasi militare, saltellò da una parte all’altra, scoppiando a ridere e scrocchiandosi le nocche, divertitissimo al solo pensiero di combattere. Il ragazzo alto e biondo si tolse le cuffie dalle orecchie e si avvicinò alla bassa ragazza mora, che teneva la testa bassa e rimaneva immobile, con gli occhialoni gialli che le coprivano gli occhi.
-Sorellona, è successo qualcosa di grave?- disse lui, abbassandosi un po’ su di lei.
-…tranquillo, Ale.- furono le sue uniche parole di conforto verso il ragazzino. Lo fissò con aria fredda e alzò le spalle, ficcandosi le mani nelle tasche della giacca e incamminandosi, lasciando gli altri indietro. Noemi, anche lei uscita dalla classe assieme ad Alex e Piero, si avvicinò a Regina e la guardò negli occhi, notando la sua rabbia. -…sono i Joestar?- sussurrò, guardandola preoccupata mentre si rigirava tra le dita le lunghe ciocche rosse e la mèche violetta. Regina alzò lo sguardo su di lei e annuì con determinazione, i suoi occhi verde acqua infiammati di collera. Seguirono tutti e sei il loro capo, attraverso i corridoi del primo piano dell’istituto, ora quasi vuoti, dirigendosi nell’ala est. La scuola era grande e il silenzio era assoluto, in quell’aura quasi spettrale che li circondava.
Camminavano lentamente per non creare troppi sospetti, un gruppetto compatto che si dirigeva a passo spedito verso il baretto alla fine del corridoio, nella ampia sala centrale. Zarathustra si avvicinò col suo solito passo marziale, appoggiandosi al bancone coi gomiti e scrutando dentro.
-Eriol, presto.-
Una ragazza dagli spettinati capelli castani e una lunga e bassa coda di cavallo si presentò davanti a loro, sfoderando un grande sorriso mentre si puliva le mani con un canovaccio, osservandoli, felice ma confusa. –Ah, boss! E anche tutti voi! Avete sentito le novità?-
-Sì- sospirò Zarathustra, fingendo calma e rigirandosi un sottile ago nero tra le dita, nessuna espressione sul viso mezzo coperto dai grandi occhiali gialli a specchio. –ma dicci tutto quello che sai.-
-Le ragazzine di seconda parlavano di “tipi altissimi e fighi” e “asiatici”, e mi sono subito venuti in mente…sai. Loro.-
La ragazza guardò il suo capo in viso, con un sorriso un po’ teso, cercando certezze e sperando che quella notizia fosse falsa. Ma non trovò alcuna certezza, né nel capo né tantomeno nei visi degli altri componenti. Zarathustra spezzò l’ago, che si dissolse nel nulla, mentre sul suo viso si formava un’espressione più dura. Dietro di lei, tutti i componenti della Banda, Regina in primis, si innervosirono.
Eriol lasciò cadere lo straccio e li fissò sbalordita, negando lievemente con la testa, incredula.
-Ce ne andiamo.- proferì Zarathustra, irremovibile. Davide sobbalzò lievemente, molto contrariato dal dover abbandonare le sue amate materie scolastiche. Si voltò verso la sua fidanzata, sicuro di essere appoggiato da lei, ma sul suo viso lesse solo paura e rabbia.
Tutti i componenti della banda non poterono fare altro che annuire mestamente e incamminarsi lentamente da dove erano tornati, per mettere via libri e appunti e incamminarsi al loro covo segreto. Stavano già iniziando a sparpagliarsi quando, tutto ad un tratto, Ludovico sussultò. Tutti si fermarono e si girarono a guardarlo, spaventati. Lui aveva gli occhi sgranati e un’espressione di puro panico negli occhi, mentre balbettava qualche parola sconnessa.
-Non sono più nell’ala Sud…- sussurrò, indietreggiando un po’.
Zarathustra con un fischio richiamò gli altri cinque ragazzi, che scattarono indietro e si radunarono di nuovo in mezzo al salone, raggiunti pochi secondi dopo anche da Eriol.
-Cos’è successo, Ludovico.- disse il boss con tono fermo, piazzandosi di fronte a lui. Ludovico deglutì e la guardò negli occhialoni, con le mani che tremavano e il fiato corto. –Hanno visto Black or White. Stanno venendo qui…-
 
Un vociare sommesso proveniente da oltre le porte chiuse delle tanti classi dell’istituto e i loro passi erano gli unici rumori che si potevano udire al momento nei corridoi del grande istituto superiore di La Bassa.
Jotaro era capofila, seguito subito dopo da Koichi e Yukako, mentre infondo alla fila Josuke e Jolyne sparlottavano di moda, ed infine Okuyasu a chiudere la fila, che si guardava intorno, con uno strano nodo in gola. Tentò più volte di afferrare la mano del marito, che lo scacciò più di una volta, nemmeno girandosi verso di lui e degnandolo di uno sguardo, mentre discuteva animatamente con la pronipote riguardo alle ultime tendenze.
-Potete prestare un po’ di attenzione, voi due?- sbottò Jotaro tutto ad un tratto, fermandosi di colpo e voltandosi verso lo zio e la figlia, fulminandoli con lo sguardo. –Io e Koichi stiamo progettando il piano, e involve anche voi.-
Jolyne annuì e si avvicinò, rimanendo dietro di loro e guardandoli con serietà mentre Josuke si ficcò le mani nelle tasche e sbuffò sonoramente, indispettito dal comportamento superiore di Jotaro. Quando era giovane lo seguiva come un cagnolino, gli piaceva farsi dare degli ordini da lui, lo vedeva come una figura autoritaria e superiore a lui. Ma sono passati diciassette anni, è cresciuto e ormai erano entrambi uomini adulti e responsabili, e Josuke non vedeva nulla in Jotaro se non un parente. Rispettabile e saggio, certo, ma non di certo superiore a lui.
Rimase comunque ad ascoltarlo, tutto accigliato e contrariato, ma non poté fare altro di rimanere agli ordini di Jotaro.
Okuyasu camminava in ultima posizione, dietro tutti gli altri. Non gli piacevano le scuole, non gli sono mai piaciute, anche se quell’istituto era parecchio diverso da quelli che ha sempre frequentato lui.
Gli studenti indossavano vestiti sgargianti, anche se un po’ tutti uguali tra di loro. Avrebbe potuto giurare di aver visto lo stesso ragazzo, con cappellino e scarpe rosse e pantaloni a vita bassa e capelli rasati, almeno cinque o sei volte. Si guardava intorno guardingo, un po’ spaventato. Sapeva che il nemico era lì intorno, se lo sentiva dentro.
Osservando i ragazzi appoggiati ai muri dei corridoi, fuori dalla loro classe, notò che uno di loro aveva un’ombra più scura del solito. Quell’ombra l’aveva già vista prima, nei ragazzi precedenti, ma non ci fece caso: se i ragazzi erano tutti uguali, lo saranno anche le loro ombre.
Continuando a camminare, però, notò che quell’ombra si muoveva, quella figura umanoide non assomigliava per niente al sedicente possessore di tale, e i suoi occhi risplendevano nel buio della sua figura.
Non era un’ombra normale.
Facendo finta di nulla si avvicinò a Josuke, afferrandogli la maglietta e tirandogliela con vigore, nel tentativo di farsi ascoltare. Si alzò anche sulle punte, cercando di sussurrargli nell’orecchio che uno stand li stava seguendo. Josuke se lo scrollò di dosso e lo guardò con uno sguardo freddo e innervosito, spingendolo indietro senza molta delicatezza.
Jotaro si fermò di parlare e tutti si girarono nella sua direzione, osservandolo con sufficienza.
-Che c’è, quattrocchi?- sbuffò Jolyne, guardandolo nervosa e seria. Quella era una vera e propria missione, e non poteva permettersi rallentamenti, non dal marito con dei problemi del suo prozio.
Sentendosi così osservato e giudicato Okuyasu indietreggiò un po’, indicando nella direzione dell’ombra sospetta e parlando con voce spezzata e appena udibile, impaurito da quegli sguardi.
Jotaro roteò gli occhi e riprese a camminare, seguito da tutti, che ripresero ad ignorare Okuyasu. Lui non seppe se fosse meglio così o se sarebbe stato meglio che l’avessero continuato a guardare, con quegli sguardi accusatori, quegli occhi pieni di palese superiorità nei suoi confronti. La sua autostima era sotto ai piedi, come sempre del resto, forse ora più che al solito.
-Avanti, Okuyasu!- gridò Josuke, metri più avanti, nel tentativo di spronarlo a seguirli, dato che era rimasto fermo mentre loro se n’erano già andati.
Voleva essere utile, che la sua esistenza avesse un senso, era la cosa che desiderava più al mondo.
Si fece coraggio e rimase immobile, ignorando i richiami di suo marito e la sua voce tanto fredda e quasi cattiva alle sue orecchie.
Si girò verso quell’ombra sospetta, che solo lui sembrava avere visto, ma non la vide più. Continuò a guardarsi intorno finché non la vide di nuovo, dietro ad una ragazza questa volta. Si avvicinò a grandi passi allo stormo di ragazzi in un angolo, che lo guardarono terrorizzati.
L’ombra finalmente diede segni di vita propria, e schizzò via sul muro.
-Dove vai, ombra di merd..-
Okuyasu si mise ad urlare verso al muro, sul quale l’ombra schizzava di qua e di là, non badando ai ragazzi terrorizzati davanti a lui.
Prima che potesse sbattere un pugno contro il muro si sentì strattonare indietro, preso per le ascelle da Josuke. Lo tirò indietro con tutta la forza che aveva, mentre Okuyasu continuava a dimenarsi e gridare, cercando di scappare dalle sue grinfie. L’ombra seguì uno dei ragazzi schiacciati contro al muro, che lo guardava col panico negli occhi. Mentre piano piano tornava a rendersi conto di quello che stava succedendo, degli sguardi di paura e sufficienza che gli arrivavano, si fermò. Josuke lo spinse indietro e, col suo solito sorriso zelante e falso sorriso di cui ci si può fidare, e il suo tono caldo e rassicurante, si mise davanti ai ragazzi.
-Scusatelo, non è… normale.- disse, guardandoli con più tranquillità che poteva mentre stringeva con forza il polso del marito. -…sapete com’è, con chi ha dei problemi mentali…-
Okuyasu rimase a guardarlo, impietrito, mentre si sentiva gli sguardi gelidi e disgustati su di lui, e i mormorii di ragazzi e professori che lo vedevano solo come un animale da compagnia. “Non potevano lasciarlo a casa?” “Dovrebbe stare in uno di quei centri specializzati.
Rimase paralizzato in mezzo a quel circolo di persone che cercavano di evitare di fissarlo, di scoppiare a ridere o semplicemente spaventati da lui, mentre Josuke lo tirava in un angolo, furibondo. Lo prese per le spalle e lo sbattè con forza contro il muro, guardandolo dritto negli occhi con un’espressione così fredda e irritata che raramente aveva visto.
-Che cazzo fai.-
-Io non..!-
-Stai zitto!- gridò, mentre Okuyasu si stringeva nelle spalle, terrorizzato. –C’era uno stand nemico…- tentò di dire.
-Non c’è nessuno stand nemico! Sei solo pazzo!- gridò di nuovo suo marito, scuotendolo quasi con violenza, mentre Okuyasu si sentiva morire dentro dalla vergogna e dalla paura. –Stai rovinando tutti i nostri piani, solo perché sei un..-
Josuke non riusciva a trovare le parole adatte, non voleva trovarle, e continuava a tenergli con forza le spalle, mentre l’altro rimaneva inerme tra le sue mani.
-…le hai prese le medicine, stamattina?- chiese, cercando di mantenere la calma.
-Sì, quando eravamo in auto…-
-Non ne hai prese di meno o di più, vero?-
-No! Jojo, sono diciassette anni che le prendo, ormai so come…-
-E allora perché dici queste cazzate!?- gli sbraitò contro Josuke, scuotendolo un altro po’. Okuyasu non sapeva più cosa dire, non poteva ribattere, si sentiva inutile e indifeso, un peso per l’uomo che amava e la famiglia a cui lui non apparteneva, e probabilmente non sarebbe mai appartenuto.
Tenne la testa bassa e non osò replicare, lasciandosi sbattere contro al muro senza reagire, non ascoltando nemmeno le parole del marito, fuori di sé. Non avrebbe avuto senso ascoltarlo, tutto quello che diceva già lo sapeva, già glielo avevano detto suo padre, suo fratello, e tutti quegli sguardi che incontrava sulla via, a scuola, al supermercato, tutt’intorno a lui.
Okuyasu stava per scoppiare a piangere, quando la voce di Jotaro si levò dal corridoio adiacente, seguita dalle frasi scurrili di Jolyne.
Koichi corse verso di loro e Josuke mollò la presa sulle spalle del marito, che si appoggiò al muro per tenersi in piedi, confuso.
-L’ombra si è mossa!- urlò il biondo, guardando Josuke. –Okuyasu aveva ragione! È stato l’unico ad accorgersene!-
Calò il silenzio e i ruoli si ribaltarono, tutto ad un tratto. Okuyasu guardò Josuke con uno sguardo accusatorio e carico d’astio, mentre Josuke non osò voltarsi nella sua direzione. Questa volta l’ha combinata grossa.
Koichi notò la situazione un po’ tesa e girò i tacchi, tornando nel corridoio centrale, dove Jotaro, Jolyne e Yukako controllavano l’ombra. Se ne stava ferma immobile, una macchia nera circolare, immobile sul muro, che poteva benissimo sembrare un buco o della vernice nera.
Quando la campanella suonò e i ragazzi se ne tornarono in aula, l’ombra si ritrovò senza persone dietro cui rifugiarsi. Abbandonò la sua forma umana e si trasformò in un piccolo globo bidimensionale, poco più che una macchiolina grossa nemmeno come il palmo di una mano.
Jolyne era rimasta stranita dal comportamento dello zio Okuyasu. Sapeva dei suoi problemi, ma considerava la reazione di Josuke esagerata. E se una reazione era esagerata per lei, che nell’esagerazione si crogiolava, voleva dire che era davvero qualcosa di troppo. Non si sentiva sicura, lì tra quelle mura spesse e rosse in cui erano rinchiusi. Rimase ad osservare i ragazzi andarsene dentro le aule, con gli sguardi torvi e i visi imbronciati, a riprendere le lezioni, speranzosi che le vacanze di Pasqua inizino presto.
L’ombra di uno di loro scomparve e tornò più pallida ed eterea, come quella di tutti gli altri, illuminati dai neon. Non aveva notato che prima fosse più scura, era qualcosa che le era sfuggito. Quella era una missione, non poteva assolutamente permettersi di fallire. Benché non ci fosse solo lei questa volta, benché non gravasse sulle sue spalle tutto il peso di quella missione, era comunque coinvolta. Da cinque anni ha imparato il vero significato di famiglia, responsabilità, e impegno. E non intende più essere la bambina viziata e combinaguai che era fino al 2011.
Jolyne ha ormai 24 anni, anche se si sente un po’ indietro per la sua età.
“Io ti ho avuta a 22 anni” le ripeteva suo padre. “tuo zio Josuke si è sposato alla tua età, e anche mia madre.” e i soliti discorsi su come lei debba sprecare meglio il suo tempo. Jolyne allora faceva finta che non le importasse, che quelle fossero solo fandonie di un vecchio non al passo coi tempi, e che pretendesse troppo da lei.
In realtà lei ci soffriva parecchio. Non era stata capace di gestire la sua vita, non ne era in grado e probabilmente mai lo sarebbe stata. Sia lei che il suo fidanzato Narciso, che era rimasto a Miami, non erano pronti al matrimonio, anche se i parenti insistevano tanto.
Forse era vero, forse aveva vissuto tutta la sua vita con troppa leggerezza, pensando di rimanere una bambina per sempre. Ma non era così, e lo doveva accettare, anche se era difficile.
Voleva farsi vedere come degna di fiducia e, soprattutto, adulta. Purtroppo non riuscì a fare molto in quella battaglia contro Pucci di quattro anni prima, in cui poteva dimostrare di essere forte e responsabile. Se suo zio non avesse ricomposto i pezzi di corpo in cui il prete l’aveva tagliuzzata, probabilmente ora dormirebbe sul fondo del mare assieme al padre Jotaro, al fratellino adottivo Emporio, al fidanzato Narciso e all’amica del cuore Hermes.
Il destino però le diede un’altra occasione per splendere, e l’occasione era quella. Si mise davanti alla porta della classe e osservò i ragazzi entrare nell’aula. Uno di loro si fermò e, tirandosi i capelli all’indietro e sfoderando un sorrisone sicuro, le si avvicinò. Jolyne non lo degnò di uno sguardo, e con una manata in faccia lo buttò dentro la classe, sotto gli sguardi dei compagni di classe. Lei, con molta nonchalance, si alzò le maniche a ragnatela e mostrò i forti muscoli, mettendo bene in mostra i bicipiti e le cicatrici su esso, nonché il tatuaggio della banda di teppisti a cui apparteneva.
Fu un segnale più che sufficiente per i ragazzini, che, intimoriti, scapparono in classe e smisero di provarci.
Con una smorfia soddisfatta riprese a guardare il muro, quella macchiolina nera che era comparsa sulla parete. Si avvicinò e la osservò meglio, scostandosi le ciocche verdi che le cadevano sugli occhi. Appena riaprì gli occhi notò che la macchia si era spostata. Non era più nella posizione di prima, ne era certa.
-Papà… vieni qui.- mugugnò, facendo cenno a Jotaro di avvicinarsi. Lui camminò incontro a lei lentamente, piegandosi e osservando assieme a lei la chiazza scura sul muro rosso, con la solita espressione fredda e distaccata.
-Si è mossa. Quando ho chiuso gli occhi, si è mossa!- sussurrò lei, cercando di non farsi sentire, nel caso fosse davvero uno stand nemico come aveva detto prima lo zio Okuyasu, indicando la macchia.
Jotaro passò lo sguardo da lei al muro, e poi di nuovo a lei, incredulo.
-E l’hai vista muoversi?- disse a voce alta, mentre la figlia tentava di zittirlo e fargli abbassare la voce, gesticolando ampiamente.
-Smettila, allora.- disse, alzandosi e dandole le spalle. Jolyne ci rimase parecchio male per quel comportamento tanto strano da parte del padre. Si alzò di scatto e gli si accostò, guardandolo quasi sconvolta, prima di notare Star Platinum. Era davanti a lui, evocato a malapena, praticamente trasparente e invisibile. Guardava dietro di lui, il muro, e Jolyne capì il suo piano.
Evocò anche lei Stone Free e fece la stessa azione, rendendolo etereo e intangibile, a malapena visibile, e guardò il muro.
-Ma papà!- urlò lei, fingendosi offesa e reggendo la farsa del padre, facendogli l’occhiolino di nascosto. Sei fenomenale, gli disse con il pensiero. Lui la guardò con l’occhio buono e accennò un mezzo sorriso, senza risponderle.
Rimasero poco a far finta di bisticciare e nel frattempo a spiare il muro dietro di loro. Come nel piano di Jotaro, la macchia si mosse, e si spostò di una decina di centimetri sul muro, con uno scatto veloce. Prima che potesse scappare Jotaro e Jolyne si girarono, rimanendo a guardarla. L’ombra si fermò di nuovo, quasi tremando, mentre i due si avvicinavano.
Koichi, seguito da Josuke e Okuyasu tornarono nel corridoio principale, rispuntando da quell’antro in cui si erano chiusi a litigare. Non fecero in tempo a raggiungerli che l’ombra, con uno scatto velocissimo, si allontanò con rapidità, sfrecciando sui muri.
Jolyne lanciò un grido di sorpresa e prese a correre dietro alla piccola ombra, seguita da tutti gli altri. Tutti e sei inseguivano lo stand-ombra, schivando bidelli e professori per i corridoi. Ormai non si trovavano più nell’ala sud dell’istituto, ma avevano raggiunto quella est. Li aveva portati fino ad un grande salone che collegava diversi corridoi. L’ombra raggiunse un nugolo di ragazzini nel centro della piazzetta, tutti stretti gli uni agli altri, che sembravano discutere. Quella strana ombra riprese una forma umana e si attaccò alla suola delle scarpe di uno di loro, un ragazzino abbastanza basso dai capelli neri con un ciuffo sulla fronte tirato indietro e vestito in giacca e cravatta, con un bel completo blu a righe azzurre.
Quel ragazzino si voltò verso di loro, e i suoi occhi blu si riempirono di terrore nel vederli. Cacciò un gridolino e tutto il gruppetto di studenti si voltò verso i Joestar. Non ci volle molto perché Josuke riconoscesse la alta ragazza dai lunghi capelli castano chiaro e uno strano diadema in testa, la ragazza bruna con la coda bassa e, soprattutto, il boss.
Zarathustra fu l’unica a mantenere la calma, della Banda. Si voltò nella loro direzione e puntò il suo gelido sguardo coperto dagli occhialoni da lavoro a specchio su di loro, e particolarmente su Josuke.
-Ci avete scoperto, vedo.- disse, monotono, mettendosi le mani nella tasca della felpa rossa scura.
-Sono loro…- sussurrò Koichi a Jotaro, che era rimasto perplesso. Erano poco più che bambini, come sarebbe possibile che quei mocciosi avessero potuto sconfiggere con tanta facilità due dei più forti portatori di Stand non solo di Morioh, ma probabilmente di sempre?
La situazione era in stallo: i ragazzi della Banda erano fermi immobili, chiusi a riccio e pronti a difendersi, mentre i Joestar, a metri da loro, erano increduli e frastornati. Li avevano trovati, finalmente.
Il primo a smuovere la situazione fu Josuke, fuori di sé dalla rabbia, che si scaraventò addosso a loro, evocando Crazy Diamond. Jotaro fece per trattenerlo per un braccio, inutilmente però: quando Josuke si mette in testa qualcosa, particolarmente quando arrabbiato, non c’è modo per fargli cambiare idea. Arrivato a due metri da Zarathustra, ovvero nel raggio d’azione del suo stand, Crazy Diamond tirò indietro un braccio e chiuse il pugno, pronto a colpirla. La ragazza non fece niente, rimase a guardarlo senza un’espressione. Ciò fece imbestialire ancora di più l’uomo, che con un gridò caricò il pugno e fu pronto a sferrarlo.
Con uno scatto però il Boss della Banda si abbassò ed evocò il suo stand. Una coda lunga, nera e spinosa apparve, e con una frustata andò a colpire la caviglia di Josuke, che perse l’equilibrio in avanti. Guardò davanti a sé, dietro all’avversaria, e si ritrovò un ragazzino biondo e alto, coi capelli rasati ai lati e un’espressione preoccupata, il volto fin troppo simile a quello del boss.
-Alex, ora!- gridò Zarathustra, rotolando via con rapidità e mettendosi al sicuro, mentre il ragazzino biondo evocò il suo stand, davanti a lui. Sembrava un’enorme scatolone di metallo, dalla bocca aperta e sorridente e gli occhi rossi come quello del boss. La bocca spalancata aveva all’interno quello che sembrava un’enorme stereo.
Lo stand lanciò un forte grido, che crearono una spaventosa onda d’urto. Josuke rotolò indietro di qualche metro, capitolando rovinosamente a terra.
-Presto, formazione a tre! Io piano superiore, Regina piano inferiore, Eriol cortile! Via via veloci!-
Con movimenti rapidi la Banda si divise in tre gruppetti. Zarathustra, Ludovico e Piero si misero a correre verso l’ala nord, saltellando a grandi balzi su per le scale. Regina e Davide corsero nella direzione opposta, buttandosi a capofitto negli stretti corridoi che collegavano l’ala est a quella sud, mentre Eriol, seguita da Alex e Noemi, corsero dietro di loro, aprendo le porte di emergenza dell’ala est e scappando nel giardinetto retrostante.
Okuyasu nel frattempo era accorso in soccorso del marito, che era rimasto a terra frastornato. Si inginocchiò al suo fianco e prese la sua testa tra le mani, osservandolo con attenzione e grande preoccupazione. –Stai bene?- gli sussurrò, un po’ impaurito che potesse ancora arrabbiarsi con lui. Josuke lo guardò negli occhi, ancora scombussolato dall’attacco di prima, e scacciò le sue mani. Stava per dire qualcosa, ma fu interrotto bruscamente da Jolyne, che lo prese per la collottola. Josuke si rialzò in piedi dolorante e la osservò con uno sguardo offeso, mentre lei lo tirava per il polso.
-Zio, mio papà ha detto che dobbiamo inseguire il damerino, il piccolo selvaggio e il capo! Sbrigati!-
Il castano annuì e a suo malgrado seguì la nipote su per le scalinate che li avrebbe portati al primo piano. Josuke fece tutte le scale a tre o quattro gradini alla volta, grazie alla sua esagerata altezza, mentre Jolyne, anche se ben più rapida e agile di lui, riusciva a malapena a farne due alla volta, anche per il fatto che portava alti stivali col tacco a spillo.
Jotaro si affiancò ad Okuyasu e lo guardò negli occhi, indirizzandolo verso Yukako, che era già sulla strada per rincorrere i tre ragazzi.
-Coraggio Okuyasu, dimostra quanto vali.- gli sussurrò, prima di affrettarsi a grandi passi verso Koichi ed inseguire Regina e Davide, che sfrecciavano sui corridoi deserti dell’ala sud.
Okuyasu raggiunse con grande fatica Yukako, già fiondatasi nel cortile, affiancandosi a lei con già il fiatone e gli occhiali che gli scivolavano giù dal naso sudato, con uno sguardo spaventato e preoccupato.
Yukako allungò una mano verso di lui e afferrò la sua, guardandolo di striscio e tirandolo un po’, aiutandolo ad andare più veloce, e Okuyasu capì che non era da solo in quella sfida, e che ce l’avrebbe fatta.
 
 
 
 
 You better run!
        Run Like Hell, Pink Floyd (The Wall, 1979)
 
 
Note dell’autrice
Ciao a tutti! Sì, ho aggiornato a una settimana (o meno) dall’ultimo capitolo, perché da domani finiscono le feste di Natale! Che tristezza. Non so se avrò tempo per scrivere, per cui aggiorno adesso, con un capitolino non molto lungo ma sicuramente denso di avvenimenti.
I Joestar e la Banda si incontrano, lo scontro è imminente. Josuke e Jolyne saranno alle prese con Zarathustra, Ludovico e Piero, Jotaro e Koichi contro Regina e Davide e, infine, Okuyasu e Yukako all’inseguimento di Eriol, Alex e Noemi. La battaglia è vicina, Joestar VS Banda. Chi vincerà? Come si svolgerà? Sapremo tutto nel prossimo capitolo! Ciao a tutti!

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Capitolo 12
*** All'inseguimento della Banda! (parte 2) ***


-Ci stanno ancora seguendo?-
-Sì.-
-Chi?-
Alex, sotto l’ordine di Eriol, si voltò di nuovo ad osservare le due persone che li seguivano. Strinse gli occhi e borbottò qualche lamentela sottovoce.
-Quello scuro con i capelli bianchi e neri e la tipa cinese coi capelli lunghi.-
Eriol li maledisse ad alta voce e affrettò il passo, affondando almeno metà tacco dei suoi anfibi nel fango del cortile posteriore dell’istituto. I primi tre mesi del 2016 si erano rivelati freddi e umidi, anche più del solito. L’aria era pesante e le piogge frequenti, per non parlare della fitta nebbia che accompagnava sempre La Bassa, donandole il suo classico aspetto tetro e minaccioso.
Il cortile era vuoto, l’erba scivolosa e bagnata e la terra fin troppo morbida e fangosa, tanto che i tre ragazzi dovettero ricorrere alle onde concentriche per poter correre senza scivolare ad ogni scatto, come invece facevano i due adulti al loro inseguimento. Eriol era particolarmente tesa, continuava ad osservare a destra e a manca nel caso che la ragazzina mora invisibile spuntasse da qualche parte, per attaccarli a tradimento. Quella piccola bastarda l’ha già fatto, pensò la ragazza, perché non dovrebbe rifarlo? In questa situazione, poi.
Noemi lanciò un grido e accelerò ancora di più la corsa, precedendoli e gridando verso di loro qualche parola sconnessa, presa dal panico, mentre cercava di scostare le ciocche rosse dagli occhi sgranati e pieni di terrore. Eriol non volle voltarsi, preferì rimanere nel dubbio piuttosto che accrescere la sua già fin troppo accentuata ansia. Si sentiva già il fiato sul collo dei due giapponesi, dagli occhi assetati di sangue e vendetta.
-Cancellagli le gambe!- gridò Alex, dandole una gomitata. Eriol per poco non capitombolò per terra, ricevuto quell’impatto. Il biondino era giovane, di molto rispetto a lei, ma era già più di un metro e ottanta, rispetto al metro e sessantacinque scarsi con tacchi di Eriol. –Non posso!- gli gridò lei di risposta, mentre seguivano la lunga chioma fulva della spaventata Noemi. –Devo essere ferma, concentrata, e soprattutto non bagnata fradicia di fango!-
Alex sembrò non sentirla e continuò a correre, girandosi di tanto in tanto verso i due. Erano sempre più vicini, ogni volta che si girava. Non correvano così veloce, né erano tanto agili per acciuffarli. Ma stavano per farlo. Erano partiti diverso tempo dopo la loro fuga, e come facessero già ad essere a nemmeno dieci metri da loro era un mistero. Fortunatamente il campo era molto, molto ampio.
Una delle particolarità dell’Istituto San Giorgio era l’importanza che dava allo sport. Erano presenti, oltre ad un accogliente giardino in cui passare la ricreazione e un passaggio alberato, in cui si stavano addentrando, diversi campi sportivi; esistevano anche una zona per praticare atletica e corsa e una palestra al chiuso in cui erano presenti piscine e attrezzi ginnici. Il complesso poteva espandersi in tutta la sua maestosità, senza confini, in quanto situato nella periferia della città di La Bassa. Da una parte, l’entrata e la parte anteriore della scuola, vi erano le strade, i parcheggi e il centro cittadino. Dall’altra, in cui vi erano giardini, piscine e campi sportivi, solo aperta campagna. L’unico limite era una recinzione, che divideva la campagna Labassese dall’esteso campo misto. Eriol, Alex e Noemi conoscevano bene quei campi. Dovevano passare prima tutta la fascia alberata e addentrarsi in mezzo ai campi sportivi, prima di…
-…dove stiamo andando?!- gridò Eriol, tutto ad un tratto. I due più giovani si girarono verso di lei, frastornati. –Credevo TU lo sapessi!- disse Noemi, ancora più nel panico che prima. –Noi seguivamo te!-
-E io seguivo voi!- urlò Eriol, nel panico. Si voltò verso i due inseguitori e notò che erano ancora più vicini. Presa dal panico, afferrò i polsi dei due amici e virò di scatto, dirigendosi verso l’edificio. I due compagni cercarono di tirarsi indietro ma, benché fossero almeno venti centimetri più alti di lei, non riuscirono ad opporre alcuna resistenza all’esplosiva energia di Eriol. Era una mossa azzardata, che poteva costare loro molto caro, ma era vitale. Alex si girò un paio di volte ad osservare gli inseguitori e ridacchiò sottovoce, quasi pattinando sul fango grazie alle Onde Concentriche. –Quello grosso è scivolato e caduto. Che scemo!-
Si fermarono davanti ad una piantina della scuola, posta appena sotto la grande balconata del primo piano dell’istituto. Su di essa, una spina nera di pochi centimetri era conficcata proprio sopra al disegno della palestra esterna. Eriol la riconobbe, era impossibile che potere passarle inosservata. Era un messaggio di Zarathustra, che li stava radunando alla palestra.
Eriol non fece in tempo a voltarsi che vide una lunga ciocca di capelli avventarsi contro di lei, ad una velocità impressionante. Rimase immobile ad osservarla, sconcertata e convinta che la missione fosse già finita.
Noemi però agì prima di tutti loro.
-Imagine Dragon! Rallenta in due metri!- gridò, mentre dietro di lei una figura umanoide scura prendeva forma. Un umanoide alto e slanciato, con delle grandi vele sulla schiena e un casco simile ad un teschio di drago si parò davanti a tutti loro e tese le mani guantate con lunghi guanti d’arme metallici simili ad artigli, che allungò davanti alle ciocche di capelli di Love Deluxe che le si stavano scagliando contro, che sembrarono fermarsi tutto d’un colpo. L’aria intorno ai capelli era rarefatta e immobile, e la ciocca continuava a scagliarsi contro di loro ad una velocità minima. Era tutto rallentato.
All’altro capo della ciocca di capelli, Yukako rimase immobile, non per il potere dello stand, ma per il panico. Tutti loro avevano uno stand, e i loro poteri non erano affatto bazzecole. –Avanti!- le gridò Okuyasu, ancora più spaventato di lei e mezzo coperto di fango. –Che aspetti?! Attaccali!-
-Oku- lo interruppe lei, con un tono gelido. –non posso. Mi hanno bloccata.-
Mordendosi un labbro, la donna alzò un’altra ciocca, che si avventò contro di loro, ma inevitabilmente fu fermata, anzi rallentata, in quella zona davanti ai tre ragazzini, che sembrava quasi un muro. Le ciocche che aveva scagliato contro di loro però si muovevano. Lentamente, tremendamente piano, ma si muovevano.
-Io vado.- borbottò Okuyasu. Il suo sguardo era sicuro, anche se nei suoi occhi poteva vedere la paura e il desiderio che quella missione, quel viaggio, quell’inseguimento finiscano il prima possibile.
Non fece nemmeno in tempo ad avvertire che probabilmente era una trappola quella tesa loro dai ragazzi immobili a metri da loro che il braccio di The Hand fu evocato dietro al suo arto. Non c’era tempo per pensare al fatto che possa essere tutto un tranello bisognava solo agire, ed agire subito. Quel braccio era enorme e grosso almeno il doppio di quello di Okuyasu, e i dettagli sulla mano erano illuminati di giallo. Era troppo tardi per fermarlo.
-Oku, è una trappola!- tentò di urlargli Yukako, ma The Hand aveva già cancellato tutto lo spazio tra i ragazzini e loro. in un istante Okuyasu fu sopra di loro, ed evocò completamente il suo stand, che si erse sopra ai tre ragazzini, gigantesco e maestoso. Era almeno tre metri di pericolo, e la sua mano era pronta a colpire ancora. Okuyasu, forse per fortuna o forse per un piano ben dettagliato, si era teletrasportato sopra il muro rallentante di Imagine Dragons. Un unico dettaglio non aveva tenuto in considerazione: il muro poteva espandersi, e per Noemi non fu così difficile alzare l’altezza del rallentamento fino a sopra Okuyasu, che rimase immobile.
Yukako rimase a guardarlo allibita. Erano caduti nel loro tranello, e lei non poteva fare altro che seguire l’amico e caderci a sua volta. La situazione era in stallo, e se anche lei non si fosse fatta prendere da quel potere di rallentamento che aveva ingabbiato il suo migliore amico, probabilmente Okuyasu sarebbe rimasto vittima di quel potere di rallentamento per un bel po’ e i tre sarebbero rimasti protetti dietro di esso, fermi e al sicuro, mentre il tempo a loro disposizione scorreva inesorabile. Erano già le dieci, in meno di un’ora dovevano acciuffare quei ragazzini, o non li avrebbero più trovati nel chaos della ricreazione scolastica.
Grazie ai capelli riuscì a farsi trasportare verso di loro ad alta velocità, e si fermò poco prima del blocco rallentato. Non poteva strapparsi i capelli, ed era bloccata. Cercò di farli tornare verso di lei, ma le due ciocche si muovevano ad una tale lentezza che non sembravano nemmeno muoversi. Imagine Dragons inglobò anche la donna nel suo potere, e i due giapponesi rimasero immobili, spaventati e senza via d’uscita.
Eriol si mise dietro di loro e si inginocchiò a terra, affondando le mani nel fango. Il terriccio cominciò a ribollire, mentre la ragazza rimaneva piegata a terra, e Alex si avvicinò, molto titubante. Evocò il suo stand davanti a sé, la grande bocca-stereo voltata in direzione di Okuyasu e Yukako, con gli altoparlanti tremanti pronti a sferrare un’altra onda sonora. Imagine Dragons mosse i suoi guanti metallici artigliati e i due furono liberi. Okuyasu si trovava a mezz’aria, incredulo ed estremamente confuso, mentre la forza di gravità iniziava a fare di nuovo azione sui suoi novanta chili di corpo. Si vedeva già nel pantano, ancora più ricoperto di fango, se Nothing But The Beat, lo stand davanti a lui, non avesse sparato a tutta velocità una vibrazione sonora.
Yukako fece in tempo a ricoprire entrambi di capelli prima di venir fatti volare via ad una incredibile velocità a parecchi metri di distanza. Con lentezza la donna dischiuse il bozzolo di capelli che li aveva avvolti e aveva smorzato il colpo. Okuyasu rimase a terra, con gli occhi chiusi e un’espressione dolorante, mentre si massaggiava un orecchio sanguinante, e Yukako gli era seduta vicino, mentre si teneva le tempie. Il colpo era stato assordante, quasi letale se lei non fosse riuscita a pararlo quasi in tempo.
Il terreno tornò a ribollire attorno a loro e il terriccio ricoprì i loro arti, bloccandoli a terra. Il terriccio si indurì intorno ai capelli di Yukako, e, malgrado tutti gli sforzi, non fu in grado di usare Love Deluxe. Allo stesso modo, Okuyasu era bloccato a terra, coricato supino, con la schiena premuta contro il terreno melmoso che gli bagnava la maglietta e gli inzuppava i capelli. Vedeva a malapena, a causa delle lenti degli occhiali quasi completamente infangate, e si sentiva inerme di fronte a tutto ciò. Preso da una paura recondita, un senso di smarrimento e di panico nell’essere bloccato in quella posizione, iniziò a gridare e a scalciare, quasi fuori di sé, cercando in qualsivoglia modo di liberarsi.
-Oku! Calmati!- gli gridò contro Yukako, cercando di sporgersi verso di lui. Ed ecco, un altro attacco di panico. Erano anni, ben dalle scuole superiori che non ne vedeva uno tanto forte, e vederlo in quella situazione non fu mai piacevole. Fin troppo presa dalla situazione dell’amico, non si accorse che i tre ragazzi se la stavano dando a gambe, e, quando furono ormai lontani più di cinquanta metri, l’effetto dello stand di Eriol, Memory for Evermore, cessò di funzionare. I due furono liberati dal duro fango che li avvolgeva, ma Okuyasu non sembrava volersi calmare. Si girò sul lato e scoppiò a piangere, tirandole con forza il bordo della gonna. Yukako si piegò su di lui e lo osservò per bene in viso, tirandogli qualche schiaffo sulla guancia. L’uomo, ancora in lacrime e singhiozzante, alzò lo sguardo su di lei, calmandosi un po’. Si mise a sedere e tenne lo sguardo basso, tirando su col naso, gli occhi coperti dalle lenti infangate. Lei gli sfilò gli occhiali del naso e pulì alla bell’e meglio le lenti con la sua camicetta, inforcandoglieli di nuovo in viso, con un sorrisetto compiaciuto sul viso sempre freddo. Voleva trasmettergli fiducia e speranza, e con quel sorriso tanto raro e infrequente, fargli capire che non erano finiti. Era appena iniziata, e lei sapeva, ne era certa, che Okuyasu sarebbe riuscito ad affrontare tutte le sfide che quella nuova avventura stava proponendo loro. Lui la fissò negli occhi, e abbozzò un sorrisetto parecchio imbarazzato. Anche lei fece per sorridergli, allungando frettolosamente una mano e pulendogli un po’ i capelli argentati dal fango scuro e argilloso di cui erano ricoperti. Anche lui si alzò, sorse in tutto il suo metro ed ottanta e la sua figura controluce si contrastò all’opaco e bieco orizzonte inquietantemente cinereo. Con uno sguardo diverso la prese per la vita e la tirò a sé, stritolandola contro il suo corpo, mentre caricava un altro colpo con il braccio di The Hand.
-Tieniti- parlottò, senza guardarla. Yukako strinse i suoi capelli per bene attorno a lui, prevedendo un teletrasporto affatto piacevole e agevole. Invece che evocare solo il braccio, però, Okuyasu evocò tutto il suo gigantesco stand. The Hand apparve dietro di lui, colossale e maestoso nei suoi tre metri d’altezza, il grande braccio destro alzato e la sua gigantesca mano scintillante. Con uno scatto la abbassò e cancellò lo spazio per molti, molti metri, creando un vuoto esattamente tra loro e i ragazzi in fuga.
Yukako rimase spiazzata. –Puoi cancellare per così tanti metri?- gli sussurrò, sbalordita. In tutta risposta, Okuyasu le rivolse un sorrisetto soddisfatto e sbuffò un po’, passandosi le dita nella coda di cavallo impastata di fango e gonfiando il petto, orgoglioso delle sue abilità.
In pochi attimi lo spazio fu cancellato e i due si ritrovarono alle calcagna dei tre componenti della banda, che a malapena si accorsero della loro presenza sopra di loro. Alex, il più alto dei tre, fu il primo ad accorgersene. Alzò la testa e i suoi occhi verdi spauriti incontrarono quelli blu scuro e spietati di Yukako. Con un grido si buttò a terra, inciampando nel gradino che segnava l’inizio del campo da tennis, e capitolò sul pavimento ruvido del terreno da gioco. Noemi cercò di evocare lo stand, ma fu tutto pressoché inutile, fermata da un poderoso gancio sinistro di The Hand. Eriol rimase l’unica in piedi, inerme davanti a quello spettacolo. Noemi dolorante a terra, col naso rotto, e Alex rannicchiato sul terreno rosso, immobile. E in mezzo c’erano Okuyasu e Yukako, che erano riusciti ad atterrare a terra senza troppi danni. Il palmo dell’enorme stand bianco e blu ricominciò a brillare, e Love Deluxe si avviluppò attorno al corpo della ragazza, costringendola tra le sue resistenti tele nere. Eppure sul suo viso non c’era paura o scoramento. Al contrario, lo sguardo verde di Eriol era puntato sui due giapponesi, e un sorrisetto affiorò sul suo viso. Annuì e, alle loro spalle, un rumore metallico li colse alla sprovvista. Era il ragazzino biondo, e il suo stand davanti a sé. Troppo tardi si accorsero che avevano un altro piano ancora, e furono spazzati via da un’altra, potente onda d’urto. Anche Eriol volò via assieme a loro, e atterrò esattamente fuori dal campo da tennis, sulla sabbia del salto in lungo, nel campo di atletica leggera. Rotolò sulla soffice sabbia e si rizzò in piedi, affondando per bene i piedi tra i granelli di sabbia che iniziavano a vorticare attorno a lei. Con un sorrisetto beffardo alzò un braccio, e un vorticoso tornado di polvere e sabbia si levò attorno a lei. Okuyasu, in mezzo a quella tormenta, riuscì a scorgere due luminosi occhi e un viso roccioso e spigoloso di uno stand, probabilmente.
-Tu sta’ qui, controlla quelli là dietro.-
Yukako rimase spiazzata, e rimase a guardare l’amico con la situazione in pugno. Forse si era davvero accorto che la situazione gravava sulle sue spalle, e che le sue braccia erano abbastanza forti e la sua schiena robusta per poter sopportare quel carico. Ce la poteva fare, Okuyasu lo sapeva, se lo sentiva, per una volta nella vita ne era certo. Fece uno scatto in avanti e The Hand chiuse le mani a pugno, pronto a colpire o lo stand misterioso o la ragazzina nella polvere. Si fiondò nella tormenta ed ebbe un attimo di squilibrio, nel sentire la sottile polvere penetrargli nei polmoni e graffiargli la pelle, ma continuò imperterrito. Le si parò davanti e, con un grido strozzato, tentò di colpirla. A malapena vedeva, e non notò l’enorme massa di polvere dietro la schiena di Eriol. Con un movimento ampio di braccia gli scagliò addosso un nugolo di sabbia e polvere, e Okuyasu lanciò un breve urlo e capitombolò all’indietro, rovinando a terra e colpendo il suolo con la schiena.
Eriol, nel suo ben congegnato piano di difesa ed attacco, però, non aveva calcolato un piccolo particolare. Alex e Noemi erano rimasti indietro.
La ragazza si schiaffò il palmo della mano in fronte, esasperata. Era inutile, per quanto Zarathustra avesse provato a mettere in gruppo assieme loro tre, per quanti piani abbiano sempre fatto in quegli anni, e per quanto compatibili i loro stand fossero tra loro, non erano capaci di coordinarsi. L’incertezza di Alex e la disattenzione di Noemi erano sempre una barriera al raggiungimento di ogni fine, e forse, pensò Eriol, anche la sua grande energia, prorompente e inarrestabile, era un ostacolo in più al riuscire a lavorare assieme.
Yukako se ne stava in mezzo, in attesa, Love Deluxe pronto a scagliarsi su chiunque osasse muoversi. Noemi, inconsciamente, scattò in avanti, estraendo il suo Imagine Dragons e cercando di colpire Yukako di sorpresa. Ovviamente, non fu il risultato che ottenne. In pochi secondi diverse ciocche si arrotolarono attorno alle braccia della donna, formando uno spesso strato di dura cheratina corvina sopra ai suoi pugni, quasi a formare dei martelli d’osso sulle sue mani, capaci di colpire gli stand dato che formati dal proprio Love Deluxe. Con un fermo gancio sinistro prese in pieno la maschera di Imagine Dragons, che si frantumò un po’ mentre Noemi sputò sangue dai denti rotti e ricadde a terra, ai piedi del terrorizzato Alex. Rimase a guardare Yukako con gli occhi sgranati, e il panico prese il controllo della sua mente. Non seppe come, perché o con quale forza, ma estrasse Nothing But The Beat, che ancorò i suoi artigli nel terreno mentre, dalla sua lunga bocca rettangolare uscì un suono acuto ed insopportabile, che colpì in pieno Yukako. La donna cercò di schermarsi dalle potenti onde sonore grazie ad uno scudo di capelli, che però, come una vela con l’aria, ebbe solo l’effetto di spingerla indietro, contro il povero Okuyasu che ancora cercava di rimettersi in piedi. Quando l’amica gli inciampò addosso cadde ancora a terra, mentre Yukako gli cadeva sulla schiena, facendolo gridare dal dolore di una ginocchiata nel fianco. Entrambi capitolarono a terra. Alex ne approfittò per prendere Noemi sottobraccio e correre verso Eriol, tuffandosi nella tempesta di polvere che lo accolse non scalfendo nessuno di due con i granelli tremendi e corrosivi. La castana dalla lunga coda di cavallo sospirò e, spingendo il ragazzino per la schiena, avvolse tutti e tre nel mulinello di polvere e li accompagnò, protetti, verso l’enorme palestra che si stagliava contro il cielo bianchiccio, proprio di fronte a loro. Avevano ormai superato tutti i campi sportivi, erano a meno di dieci metri dalla fatidica porta antincendio della palestra esterna dell’istituto, quando una stretta familiare le bloccò un braccio. Con orrore abbassò lo sguardo e notò che si trattava di Love Deluxe. Con una ciocca che le si strinse attorno alla gola, la ragazza venne violentemente strattonata indietro, cadendo indietro di qualche metro. Eriol si sentì bollire di rabbia e di panico, nel vedere la porta allontanarsi e il doversi arrendere così a nemici stranieri che per chissà quale ragione volevano ucciderli, rovinare la sua vita, le sue amicizie e tutto quello che era riuscita ad ottenere faticosamente in tre sudati anni di permanenza nella Banda. Eriol non ci stava, Eriol non voleva che finisse così. Piantò i tacchi degli anfibi nel terriccio e, con un grido pieno di disperazione, aprì una boccetta di polvere appesa alla sua cintura ed evocò il suo Memory for Evermore, che la avvolse completamente in un fitto tornado di polverina corrosiva, che disgregò e frantumò completamente i capelli di Yukako. Libera dalle ciocche che la costringevano e con la pelle un po’ escoriata dall’attacco distruttivo che aveva appena eseguito, corse di nuovo incontro agli amici, che l’avevano pazientemente aspettata. Rimise la polvere nella boccetta che richiuse e sorrise loro, mentre Noemi piazzò una zona di rallentamento dietro di loro. Okuyasu e Yukako, all’inseguimento dei ragazzi, un po’ ammaccati e stanchi, li guardarono con sgomento, rallentando il passo. Quei ragazzini erano riusciti ad arrivare alla palestra, e loro due non li avevano nemmeno ostacolati.
Yukako ritirò la ciocca mozzata e la guardò incredula, mentre Okuyasu continuava a correrle affianco, col viso rosso dalla fatica e dallo sforzo fisico che aveva fatto in quel maledetto giorno. Con un ultimo, disperato tentativo, evocò di nuovo The Hand e cancellò lo spazio tra lui e i ragazzi, ancora una volta. Non voleva lasciarli scappare, non voleva essere ancora inutile. Grazie al teletrasporto avanzò fino a metà della zona di rallentamento di Imagine Dragons, ma raggiunto quel punto, non si mosse più. Più si era vicini alla ragazza dai lunghi e rossi capelli ricci, più il rallentamento era efficace e potente.
Eriol non volle far caso ai due che, imperterriti, continuavano a cercare di fermarli e di catturarli e spalancò la porta con un calcio, tenendola aperta per far passare tutti e tre, richiudendosi il portone antincendio alle spalle. Quando fu abbastanza lontana, il rallentamento di Noemi cessò, e Okuyasu tornò coi piedi sul terriccio fradicio, girandosi spaventato verso Yukako, che lo raggiunse in pochi attimi.
-Entriamo..?- chiese lui, con una nota di paura nella voce.
-Entriamo.- sbottò lei, precedendolo e appoggiando entrambe le mani sul maniglione antincendio, spingendolo e aprendo di colpo la porta.
 
 
Note dell’autrice

Reaching, searching for something untouched
hearing voices of the never-fading calling.


Ciao a tutti! Sono tornata, anche se non stabilmente. Purtroppo ho diversi problemi e impegni in questo periodo, e non riuscirò ad aggiornare spesso. Per il mese di marzo è possibile che vada un bel po’ avanti, infatti ho parecchi giorni liberi (fortunatamente!), mentre per il periodo da aprile a maggio sarà tanto se pubblicherò un capitolo al mese. Giugno e inizio luglio credo saranno sterili, ma da luglio dovrei riprendere a scrivere almeno due capitoli al mese (o forse anche di più!)
L’avviso importante è che la storia non si interromperà. Anche se vedete che non aggiorno da molto, non temete! Non lascerò questo progetto incompiuto.
I prossimi due capitoli saranno speculari a questo, ovvero ognuno con un combattimento. In questo capitolo abbiamo visto Eriol, Alex e Noemi combattere Okuyasu e Yukako e, seppur con molte sviste e botte, arrivare alla palestra. Nel prossimo capitolo, vedremo Jotaro e Koichi all’inseguimento di Regina e Davide all’interno dell’istituto San Giorgio.
Ci vediamo presto (speriamo), ciao a tutti! 

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Capitolo 13
*** All'inseguimento della Banda! (parte 3) ***


I corridoi spogli e vuoti dell’Istituto superiore erano quasi inquietanti, illuminati dalla fioca luce del cielo opaco e i tetri neon bianchi, dalla luce artificiale e tremolante, che li accompagnava nella loro corsa sfrenata. Il pavimento era fin troppo liscio e scivoloso, e nessun altro oltre a loro girava per quei corridoi.
Regina e Davide correvano freneticamente davanti a loro, correndo sicuri per quei corridoi a loro tanto familiari.
Jotaro e Koichi, al contrario, li inseguivano tutti trafelati e affannati, sperando di avvicinarsi a loro il più possibile, anche se, probabilmente, era tutto inutile. Jotaro sapeva benissimo che quei due, come tutti quegli otto ragazzini, erano addestrati per inseguire, combattere, e fuggire. Erano predatori, spietati e inarrestabili, e questa loro fuga non era nient’altro che un piano ben studiato per prenderli alla sprovvista, o per perdere tempo. Ma anche Jotaro e Koichi stavano facendo piani, anzi, stavano tentando di farne uno, parlottandosi tra di loro con il fiatone e la voce spezzata dalla corsa quasi frenetica.
-Se li tocco posso usare l’abilità di Echoes su di loro- sussurrò Koichi, cercando di parlare con un tono basso ma comprensibile, tra un respiro e l’altro.
Jotaro, però, non ebbe la reazione che il biondo si aspettava da lui. Negò con forza, tenendo lo sguardo piantato sulle schiene dei due adolescenti davanti a loro. Koichi rimase spiazzato dalla sua reazione, e lo fissò sbigottito.
-No, Koichi, non possiamo fermarli così.- replicò il più alto con la sua voce cupa e tetra in uno strano tono di voce, particolarmente duro.
-Stanno aspettando il nostro attacco. Dobbiamo attendere. Faranno tutto loro, vedrai.-
Koichi, alle sue parole, abbandonò le braccia lungo i fianchi e tornò ad osservare i due ragazzini davanti a loro con aria incredula e stanca, tremendamente stanca e sconfortata. Doveva fidarsi di Jotaro, anche se il suo piano gli sembrava decisamente carente. Ma Jotaro era quello con più esperienza tra tutti loro, il più affidabile e saggio, così Koichi decise di lasciar perdere le lamentele e affidarsi completamente a Jotaro.
 
Dall’altro canto, Regina era impaziente. Avrebbe voluto urlare e fare a fettine quei maledetti Joestar, ma il boss aveva imposto loro solo di scappare. Se non aveva dato l’ordine di attaccare e uccidere, non poteva farlo. Non avrebbe mai disobbedito ai suoi ordini, data la sua più completa devozione a Zarathustra. Si voltò verso il fidanzato e gli tirò una manica, cercando di parlargli il più piano possibile per non farsi sentire dagli inseguitori.
-Ehi Davi, che dovremmo fare ora? Che cosa facciamo adesso? Continuiamo a scappare?!-
Lui la fissò con i suoi spaventati occhi dorati e deglutì, praticamente terrorizzato. Alzò la voce e bloccò il suo torrente di domande, cercando di rimanere fermo e sicuro per entrambi, anche se sicuramente il più spaventato dei due era lui. Davide non aveva uno stand mortale come quello della fidanzata, né una voglia di attaccare e di fare fuori gli avversari tale.
-Facciamo così. Andiamo al primo piano, magari il boss ci ha lasciato degli indizi!-
Lei lo guardò con un sorrisone e annuì con forza, afferrandogli una mano e correndo molto più forte di prima, e lui non poté fare altro che seguirla. Una lacrima le scese dalla guancia e, con uno strano tintinnio, colpì le piastrelle grigiastre del corridoio.
-Regi…come hai intenzione di usare Kings&Queens…?- chiese lui ben poco sicuro. Lei si girò a guardarlo e gli sorrise sorniona, tenendogli saldamente il polso e avvicinandosi velocemente alla rampa di scale che portava al primo piano. Qualcosa sgusciò sotto di loro, e si rivelò essere lo stand della ragazza. Comparve dal terreno un busto di donna completamente trasparente, liquido e formato completamente di acqua, un vestito rococò e una grande corona sui capelli di acqua corrente. Alzò le mani sulla propria testa e rimase immobile davanti al primo gradino delle scale, in una grossa pozza d’acqua.
-Salta!- gridò a Davide, che si trovò nel panico. Entrambi saltarono a piedi uniti sulle mani dello stand, che in pochi secondi li alzò dal terreno e, allungandosi, li trasportò in pochi istanti alla fine della rampa di scale, al piano superiore, lasciandosi dietro una scia d’acqua.
Con uno schiocco di dita di Regina, l’acqua sulle scale si gelò di colpo, diventando brillante ghiaccio. Davide annuì e rimase a guardare dietro di sé mentre ricominciarono a correre, pensando all’astuto piano della ragazza. I Joestar non sarebbero riusciti a salire le scale, dato che erano completamente gelate. Le sorrise e le diede un paio di affettuose pacche sulle spalle, complimentandosi con lei. Regina gli sorrise e ricambiò le pacche, tirando una forte manata sulla schiena gracile del ragazzo, che per poco non inciampò sotto lo sguardo in colpa della fidanzata.
Dietro di loro, Jotaro e Koichi rimasero ad osservare le scale ricoperte da un sottile strato di ghiaccio, estremamente scivoloso e solido.
-Non preoccuparti, Jotaro- disse Koichi, piazzandosi davanti a lui. –il mio Echoes Act 4 può aiutarci.-
L’uomo biondo estrasse il suo stand, urlando il suo nome, e una figura bianca della stessa stazza del portatore si parò davanti a loro, galleggiando nell’aria. Aveva diversi ghirigori concentrici verdi sul suo corpo candido, e più o meno le stesse caratteristiche del suo “act” precedente.
-Echoes Act 4, annulla la gravità sulle scale!- gridò Koichi e lo stand, sbuffando annoiato, toccò le scale gelate. Su di esse apparve una scritta, simile a un’onomatopea, che citava la scritta “0g”. Koichi prese un po’ di rincorsa e saltò sulla scala rimanendo a galleggiare nell’aria e scoppiando a ridere. Rimanere in assenza di peso era sempre un’esperienza divertente, e lo emoziona ogni volta. Girandosi verso Jotaro e vedendo il suo sguardo quasi carico di astio verso di lui, però, decise di tornare serio, arrossendo tutto e tossicchiando un po’, decisamente in imbarazzo per il suo comportamento infantile.
-Avanti Jotaro, vieni anche tu.- disse col tono più serio che poteva fare. Lui fece un passo avanti e saltò di qualche centimetro, trovandosi a galleggiare nell’aria. Si abbassò la visiera del cappello sul viso e cercò di nascondersi, accostandosi all’altro uomo. –Non è male, in effetti.- borbottò, e Koichi riuscì ad intravedere un sorrisetto divertito sulle sue labbra.
Echoes diede loro una spinta sulla schiena ed entrambi iniziarono a muoversi verso l’ultimo gradino, riuscendo ad evitarli tutti. Mentre stavano galleggiando verso la fine della rampa, però, tutto il ghiaccio si ritirò dalle scale e andò a formare uno spesso muro di ghiaccio davanti a loro, che li bloccava nella loro salita. Koichi fece per ritirarsi spaventato, ma Jotaro non reagì. Abbassò la testa e, alle sue spalle, apparve l’imponente Star Platinum, che, gridando il suo caratteristico “ORAORAORA”, prese a pugni la lastra di ghiaccio. Come previsto da Jotaro la lastra si spezzò in mille pezzi, e si ritirò ancora, trasformandosi in acqua e fuggendo via, nella direzione in cui erano scappati i ragazzi.
I due uomini, una volta finita l’abilità di Echoes Act 4, atterrarono sul pavimento della scuola e si guardarono intorno con attenzione, notando che il pavimento era rotto e sconnesso e le mattonelle deformate e piegate. I muri erano anch’essi storti e dalla superficie stranamente irregolare, e Jotaro avrebbe potuto giurare che di lì doveva essere passato Crazy Diamond.
Con un cenno della testa, Jotaro invitò Koichi a seguirlo, il quale era perso a guardare le chiazze di sangue sul pavimento.
-Josuke e Jolyne non se la stanno passando bene…- mormorò lui, riprendendo a correre assieme a Jotaro, che non rispose. Aveva una tremenda paura per sua figlia, che aveva spedito a combattere contro niente di meno che il capo di quella banda. Ma era sicuro nelle abilità di Jolyne, sicuro che, assieme a Josuke, non avrebbe corso alcun pericolo.
 
-La mappa!- gridò Davide, svoltando l’angolo. Regina lo guardò confusa mentre lui prese a correre più forte, rompendo il ciclo di respirazione delle onde concentriche. Lei gli corse dietro, svoltò un altro paio di volte altri angoli e superò le scale per tornare al piano inferiore, seguendo il fidanzato, e svoltato l’ultimo angolo frenò di colpo, andando a sbattere contro il ragazzo, che per poco non cadde a terra per l’impatto.
-Perché sei fermo qui? Dobbiamo scappare!-
-Ma se non sappiamo nemmeno dove?-
Regina gonfiò le guance e sviò lo sguardo, pestando un po’ per terra. Odiava essere contraddetta, ma doveva solo ammettere che in effetti il suo piano non aveva alcuna logica. Cercò di ragionare e, massaggiandosi la radice del naso, guardò la piantina della scuola. Si avvicinò e fissò l’ago piantato sulla palestra esterna e cacciò un mezzo urletto di sorpresa, strattonando la manica del fidanzato, che continuava a guardarsi intorno, spaventato che i due potessero spuntare da un momento all’altro.
-In palestra!- disse la castana con un tono squillante, gli occhi azzurri illuminati da una nuova luce di speranza. Prese il fidanzato per mano e lo trascinò indietro, da dove erano arrivati, per scendere le scale e tornare al piano inferiore, dove avrebbero agevolmente potuto raggiungere la palestra indicata dal Boss.
Mentre correvano, però, Regina si piegò su sé stessa dal dolore, sentendo una leggera fitta. Il suo stand tornò in pochi secondi ai suoi piedi e il panico prese entrambi, quando videro sbucare da dietro l’angolo Koichi e Jotaro. Erano senza vie di fuga. I due adulti si trovavano tra loro e la rampa di scale, e non potevano fare altro che indietreggiare.
Davide prese coraggio e si parò davanti a Regina, aggiustandosi per bene la giacca in pelle tutta sgualcita. –Userò 1000 Forms of Fear.- sentenziò lui, con un tono stranamente sicuro. La ragazza annuì e, in pochi attimi, Kings&Queens, ancora sotto forma d’acqua, sgusciò sotto le suole degli uomini e ricoprì loro i piedi fino alle caviglie, gelandosi. Ora quelli in trappola erano loro.
Davanti al ragazzino moro spuntò una alta e magra figura umanoide, dalla pelle scura e un elmo bianco sulla testa, senza viso né occhi né alcuna caratteristica. Questa peculiarità lasciò allibiti Jotaro e Koichi. Che razza di stand era? Non sembrava poter scagliare pugni né avere abilità particolari.
Due luci sul suo viso si accesero, e gli occhi di Jotaro non riuscirono a staccarsi da quei due luminosi bagliori. Koichi voltò d’istinto lo sguardo, cercando di proteggersi da quella ammaliante e ipnotica luce, ma Jotaro non fece in tempo. Non poteva voltarsi, non poteva staccare lo sguardo, doveva solo guardare, e subire. In pochi istanti 1000 Forms of Fear fu avvolto dalla luce, e mutò di forma. Al suo posto, una volta che la luce si fu diradata, apparve uno stand del tutto diverso. L’armatura dorata nascondeva l’imponente corpo grigiastro, e due occhi rossi come il sangue spuntavano da sotto l’elmo spigoloso. Jotaro, quando lo vide, sentì il proprio cuore mancare un colpo. Sul suo volto si dipinse il terrore più puro, mentre cercava di indietreggiare quasi disperatamente, sotto lo sguardo sbigottito di Koichi, che non sapeva se fosse più spaventosa la nuova forma dello stand avversario o il modo in cui Jotaro lo fissava.
-Non è possibile- sussurrò Jotaro, ormai pallido in viso, mentre sudava freddo.
Davide scattò in avanti e aprì le braccia, e l’enorme stand dorato seguì i suoi movimenti, in un modo fin troppo familiare al povero Jotaro.
–The World!- gridò, avventandosi contro ai due. –Che il tempo si fermi!-
Un’aura monocromatica si ampliò dallo stand, e Jotaro capì che non avrebbe dovuto sottovalutare i ragazzi contro cui stavano combattendo.
Koichi rimase immobile, così come Regina. Davide avanzò verso di lui, e Jotaro, essendo a sua volta portatore di uno stand che poteva fermare il tempo, rimase vigile e a suo malincuore immobile, mentre The World, a suon di “MUDA MUDA” lo colpiva ripetutamente. Il ghiaccio sotto ai suoi piedi si ruppe e Jotaro venne scagliato indietro, andando a sbattere contro il muro, metri indietro. Tirò un forte calcio nello stomaco all’immobile Koichi, che volò indietro a sua volta, similmente a Jotaro.
-Che il tempo riprenda a scorrere.- sussurrò infine il ragazzo moro, in un tono inquietantemente simile a quello del vampiro che tanto infestava gli incubi di Jotaro.
Koichi, appena il tempo riprese, scoppiò ad urlare, tenendosi con forza l’addome e sputando sangue, dovendosi tenere su con un braccio per non crollare a terra dal grande dolore. Non sapeva cosa fosse successo, ma stava soffrendo, era indietro di qualche metro rispetto a prima e sia lui che Jotaro erano doloranti e sanguinanti, benchè non fosse passato un istante.
Davide prese a camminare incontro a loro, mettendosi tra i due uomini e le scale. The World, dietro di lui, divenne completamente luminescente e riprese la sagoma di 1000 Forms of Fear, mentre la luminescenza dello stand catturava l’attenzione degli occhi di Koichi. Era ipnotico, e Koichi, anche se sapeva che avrebbe causato un altro suo attacco, anche se era cosciente che era una trappola, rimase a guardarlo. Non poteva fare altro.
Quando lo stand ebbe raccolto abbastanza informazioni, Davide si passò una mano sul viso. Si passò la mano tra i capelli neri e delle ciocche biondissime gli ricaddero sulla fronte, mentre li osservava con dei gelidi occhi azzurrissimi, che sembravano traforarli nei loro ricordi più oscuri.
-Killer Queen- mormorò quello che sembrava a tutti gli effetti Yoshikage Kira, chiamando a sé il grosso stand rosa pallido alle sue spalle.
Koichi lanciò un urlo terrorizzato mentre rimaneva schiacciato contro la parete, senza poter pensare di rivedere quel viso, non dopo diciassette anni. Era un incubo che si realizzava, un incubo che purtroppo aveva avuto fin troppe volte. Quell’uomo biondo che sbucava in casa sua, e faceva esplodere lui e la sua famiglia. Koichi era immobilizzato dalla paura, mentre Jotaro rimase a guardare l’uomo biondo davanti a lui, cercando di trovare un punto debole. I suoi occhi continuavano a scrutare qualcosa sopra di loro, mentre Killer Queen dietro di lui muoveva i pugni, osservandoli attentamente coi suoi occhi felini.
Jotaro sbirciò sopra di lui e vide l’oggetto che tanto interessava a Davide e a Regina: un orologio. Segnava un quarto alle undici.
Cinque minuti e la ricreazione sarebbe iniziata, e non avrebbero più potuto trovarli in mezzo alla confusione di un intero istituto riversato nei corridoi.
Notando l’attenzione dell’avversario sull’orologio, Davide decise di agire. Urlando il nome dello stand, Killer Queen allungò un pugno, e da esso saltò fuori una specie di piccola automobilina, rotonda e con un teschio minaccioso di gatto sul davanti.
-Sheer Heart Attack!- gridò lui, mentre quel pezzo di stand avanzava verso di loro. Koichi decise di agire, e si avventò su Sheer Heart Attack col suo Echoes Act 4. Lo stand bianco toccò col palmo della mano l’oggetto che stava velocemente viaggiando nella loro direzione, causando una lieve esplosione al contatto. Koichi lanciò un gridolino e si osservò il palmo della mano ustionato, realizzando che si ricordava quelle esplosioni molto, molto diversamente. Più violente e distruttive, sicuramente.
Sheer Heart Attack si alzò e iniziò a galleggiare in aria, roteando un po’ su sé stesso e smettendo di avanzare verso di loro. Col coraggio di diciassette anni prima, Koichi saltò in piedi e corse verso quel Kira, il suo stand pronto a prenderlo a pugni. Kira rimase immobile ad oddervarli, con quasi un sorriso sul suo viso. Come allora, i pugni di Echoes furono parati tutti, i palmi di Killer Queen che si muovevano fin troppo velocemente. Come allora, esattamente come a Morioh nel 1999, Echoes act 4 venne respinto indietro con una gomitata, e Koichi sentì il panico montargli addosso. Era tutto uguale ad allora, tutti i gesti, tutti gli attacchi. Incredulo, continuava a fissare quel nuovo nemico e quella vecchia nemesi, senza sapere più come agire. Era tutto inutile, il tempo si ripeteva.
Questa volta, però, Josuke e Okuyasu non sarebbero arrivati per il rotto della cuffia a salvarli, erano entrambi impegnati a inseguire quei ragazzini.
Per la prima volta, Koichi si lasciò prendere dalla paura, e si abbandonò a terra, osservando Kira avvicinarsi a lui, col suo sguardo omicida che mai avrebbe potuto dimenticare. Aveva quindici anni quando lo aveva incontrato per la prima volta. Avere un serial killer contro sono traumi che non si dimenticano, ferite che rimangono aperte per sempre. Era uno psicoterapeuta, di traumi psicologici se ne occupava tutti i giorni, e tutti i giorni vedeva quello sguardo senza speranze, perso e disperato, che in quel momento aveva lui.
Finchè non sentì un fin troppo conosciuto suono alle sue spalle.
Star Platinum si scagliò contro Killer Queen, gridando anche più forte del solito mentre sferrava una serie di velocissimi pugni nella sua direzione, centrando il viso felino dello stand. Kira cadde all’indietro, tra le braccia della ragazza dai lunghi capelli castano chiaro mentre riprendeva le sembianze di Davide, col naso rotto e gli occhi dorati sgranati e increduli.
-Koichi, è solo un’illusione.- disse Jotaro, guardandolo con l’occhio cieco, la pupilla lattea contornata dall’iride glauca tagliata in due, separata da quella tremenda cicatrice che gli solcava il viso, partendo dal mento, passandogli le labbra e l’occhio e finendo oltre il bordo del cappello blu e dorato.
Koichi vide la determinazione dei Joestar in quegli occhi chiari, il fuoco nelle loro iridi colorate dei colori più profondi, che accompagnavano anche gli occhi azzurro pallido di Josuke nella loro corsa contro il tempo per trovare Kira nel lontano 1999, quelli verdissimi di Jolyne nella sua sfida contro quel prete nel 2012, e perfino gli occhi scuri e profondi come buchi neri di Shizuka, che aveva sfoderato alla Città della Moda.
Quel fuoco riscosse Koichi, lo mosse nel profondo, e come per magia lo fecero alzare in piedi e piazzarsi di fianco all’uomo dal lungo cappotto blu e oro, il suo Star Platinum pronto a colpire ancora quei due. Urlando il suo caratteristico grido di battaglia fece per colpirli, se i suoi pugni non fossero finiti nell’acqua.
Kings&Queens si piazzò di fronte a due, il vestito d’acqua che scorreva quasi come un fiume in piena, mentre si ghiacciava intorno ai suoi pugni. Divenne completamente di ghiaccio limpido e scagliò un forte pugno in pieno viso allo stand viola, che ribaltò la testa all’indietro dall’impatto. Dal naso di Jotaro sgorgò un rigolo di sangue, ma lui rimase immobile, con le mani in tasca, ad osservare la ragazzina col diadema in testa, che lo osservava con uno sguardo carico di odio, tanto rabbioso che avrebbe potuto bruciarlo vivo solo guardandolo.
I muscoli del collo di Star Platinum si irrigidirono, e prima che lo stand nemico potesse accorgersene, l’enorme stand le scagliò una potente testata sul naso, che frantumò completamente il suo viso di ghiaccio. Regina cacciò un forte urlo e si portò le mani sul viso colante di sangue. Kings&Queens tornò in forma acquatica e scomparve, ritirato dalla propria portatrice, che barcollò indietro, osservandoli con il viso livido di dolore e rabbia. Mugolò qualcosa in dialetto labassese e fece per correre loro incontro, prontamente fermata dal fidanzato. –No, aspetta!- gridò Davide, indicandole l’orologio. Regina, persa nei suoi pensieri di morte e distruzione, alzò lo sguardo e seguì l’indice del fidanzato, fissando incredula l’orologio. Mancava meno di un minuto all’ora fatidica. Guardando i due giapponesi con attenzione iniziarono a indietreggiare, pronti ad estrarre di nuovo i loro stand in caso di attacco. Si muovevano lenti, più per perdere tempo che altro, sperando solo che i due non decidessero di attaccarli proprio in quel momento. Cosa che non fu, dato che Star Platinum tornò a sovrastarli, con i pugni pronti a colpirli.
E la campanella suonò.
Le porte delle classi si aprirono di colpo, i ragazzini corsero fuori delle classi urlando e vociando inutilmente, mentre si riversavano nei corridoi, spintonando Koichi, che si aggrappò istintivamente all’ampio cappotto di Jotaro. Lui ritirò Star Platinum, e cercò disperatamente di trovare Regina e Davide, che erano spariti nella folla, che si rovesciava giù per le scale come una cascata di menti vuote giù per la scalinata che portava al piano terra.
Jotaro, stringendo il polso di Koichi, corse giù per le scale, saltandole e spintonando i ragazzini biascicanti e dondolanti davanti a lui, sentendosi mancare l’aria nei polmoni all’idea di averli persi di vista. Dopo tutta quella fatica, quella paura, quel senso di nausea alla base della gola nel rivedere The World davanti a lui dopo 28 anni, non poteva lasciarseli scappare. Saltò giù dalla scalinata e corse istintivamente fuori dall’istituto, osservandosi intorno, perso. Koichi lanciò un urlo e indicò in una direzione. Erano quei due, stavano scappando attraverso un piccolo giardinetto interno verso un enorme edificio quadrangolare.
Jotaro raccolse le ultime energie e fece un veloce scatto in avanti, scartando di molto Koichi, che rimase indietro a inseguirlo con le sue corte e affaticate gambe. Aveva trenta centimetri in meno di Jotaro, stare al suo passo era estremamente difficile per lui.
I due entrarono in quella che si rivelò essere la palestra della scuola. Jotaro e Koichi si fermarono davanti alla grossa porta, premendo entrambi una mano sul maniglione antipanico.
Si scambiarono una breve occhiata e annuirono decisi, aprendo la porta e piombando dentro alla palestra con passo fermo e deciso, pronti ad affrontare la prossima sfida.






Fate is coming, that I know.
Time is running, got to go.
Fate is coming, that I know.
Let it go.
Do or Die, 30 Seconds to Mars (Love, Lust, Faith and Dreams, 2013)
 
Note dell’autrice
Bentornati (anzi, bentornata io) col nuovo capitolo! Avevo promesso che a metà marzo sarei riuscita a pubblicare un altro capitolo, no? Beh, è fine marzo, ma poco importa, meglio tardi che mai dice il detto, no?
Ripeto l’avvertimento: non aggiornerò spesso o con una frequenza precisa, ma la serie non è finita né interrotta. Non so semplicemente quando aggiornerò, e credo che fino a metà luglio sarà così. Sapete, la scuola…
Tornando al capitolo: ormai sembra logico che Zarathustra voglia far incontrare tutti all’interno della palestra scolastica, come mai? Cosa li aspetta all’interno dell’edificio?
Nel prossimo capitolo vedremo Josuke e Jolyne all’inseguimento del boss, Zarathustra, e di Ludovico e Piero.
Al prossimo capitolo, ciao a tutti!

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Capitolo 14
*** All'inseguimento della Banda! (parte 4) ***


-Shizu, dove credi di andare?-
Le parole della zia Holly gelarono il sangue nelle vene a Shizuka, che era diventata invisibile per svignare Dalle grinfie di quei noiosi parenti e andare all’azione, come avevano fatto i suoi genitori. Ma sua zia l’aveva scoperta, maledizione. Tornò visibile e si parò davanti a lei, freddandola con uno sguardo gelido e cinico, degno di suo padre Josuke. Holly poteva giurare che fossero identici quei due, benchè i loro tratti fossero completamente diversi. C’era qualcosa che li accomunava, quel senso di gelo che trasmetteva la loro vicinanza, quella lontananza e quel distacco impossibili da superare.
-Vieni dalla zia- mugolò lei, picchiettando la mano nodosa sul sedile, cercando di superare quella sensazione di distacco. La ragazzina mora sbuffò e le si avvicinò, appoggiandosi alla carrozzeria del suv bianco su cui era seduta la donna, incrociando le braccia al petto e rimanendo a guardarla, con sguardo disinteressato e mente assente.
-Perché non giochi un po’ con Emporio?- la incitò Rosanna, tentando di sorriderle. Si sentiva sempre in soggezione quando si rapportava con i Joestar. I loro sguardi erano diversi, erano particolari e semplicemente unici. Shizuka abbassò la testa e si strinse tra le spalle, mugolando qualcosa in inglese.
-I’m eighteen, not a fucking kid.- sussurrò con un perfetto accento americano, tenendo gli occhi neri puntati sulle proprie All Star bianchissime e un tono pericolosamente freddo e serio. Rosanna si ritrasse istintivamente, ed Emporio fece lo stesso. Holly invece scoppiò a ridere, la sua voce cristallina sovrastata però da delle urla provenienti dalla scuola.
Tutti si voltarono verso l’istituto, da cui una voce fin troppo familiare giunse alle orecchie di tutti. –Shizu, questo non è tuo padre Josuke?- sussurrò sua zia, indicando la direzione da cui proveniva il suo caratteristico “DORARARA”.
Shizuka alzò le spalle e fece dietrofront, dirigendosi verso l’auto con cui era arrivata assieme ai genitori e agli zii, senza nessuna apparente reazione. -Non m’interessa.-
-Ma Shizu..- tentò Holly.
-Ho detto che non mi interessa.- ringhiò la ragazza mora, chiudendo la portella dell’auto nera dietro di sé.
Holly rimase a guardare la nipote con uno sguardo estremamente preoccupato. Non si comportava così di solito, che le prendeva? Si sentiva un tremendo peso sulle spalle, e poteva giurare che non fosse l’umidità. Era un senso di oppressione che veniva da dentro, se lo sentiva nelle ossa, nel cuore e in quella strana voglia che si tramandava nella famiglia Joestar. Con uno scatto per nulla adatto ad una donna della sua età balzò giù dall’auto e rincorse la nipote, aprendo la sua portella e rimanendo ad osservarla, preoccupata ma cercando di mantenere il sorriso.
Lei stava guardando davanti a sé, con sguardo torvo e straziato, mentre fissava il cruscotto davanti a lei e si teneva una mano sulla spalla, sotto la sciarpona del nonno.
-Mi fa male- disse lei, con un vocino triste e quasi trattenuto, indicando la cicatrice dietro al collo. Non era davvero disinteressata, realizzò Holly, era solo spaventata. E non voleva avere altre informazioni, non voleva stare peggio di così.
-Anche a me.- rispose Holly, passando le dita tremanti dietro al collo e toccandosi appena la voglia a stellina dolorante. Passò di nuovo lo sguardo sulla nipotina e cercò di sorriderle, più per tranquillizzarla che per altro, mentre Shizuka alzava lo sguardo nero come la pece ma spaventatissimo verso di lei. Dischiuse le labbra e fece per parlare, ma venne fermata prima che potesse anche solo articolare una parola.
-Sei preoccupata per i tuoi papà, vero?- la anticipò Holly. Shizuka rimase decisamente turbata da quella sua sveltezza e dal suo quasi predire le sue parole. –Come..?-
-Come ho fatto a prevedere la tua risposta? Diciamo che l’ho imparato da qualcuno- ridacchiò Holly, sistemandosi per bene sul sedile e spintonando da una parte la nipote, che dovette farle spazio. –Lo sento anche io.- sussurrò Holly, indicando la propria voglia sulla spalla.
Shizuka rimase a guardarla, sospirando pesantemente e scalciando un po’ a terra, contrariata. Quella voglia a forma di stella l’aveva sempre fatta sentire meno, un’estranea in quella famiglia, quella diversa e meno speciale di tutti.
–Io non ce l’ho…- sussurrò, con una nota di disprezzo e tristezza nella voce.
La mano gelida della zia sotto la sciarpa la fece quasi urlare, mentre Holly tastava la cicatrice dietro la spalla della nipote, con un sorrisone felice in viso. Shizuka rimase a guardarla, sconcertata, mentre cercava di tirarsi indietro dalle sue grinfie. –Oh no signorinella- disse lei, con un tono calmo e pacato, mentre continuava a tastare i punti sulla ferita purtroppo ancora fresca. –credo che questo sia un segno del destino. È nello stesso punto in cui tutti i Joestar hanno la voglia!-
Shizuka rimase a guardarla, decisamente a disagio da quel contatto fisico non voluto, rimanendo però ferma ad osservarla scettica e con i denti un po’ digrignati, in attesa di una qualsiasi reazione della zia. Era confusa e infastidita dalla situazione, non capiva cosa stesse succedendo, cosa c’entrasse la voglia con il combattere i vampiri, e perché proprio lei, proprio Shizuka, l’estranea della famiglia.
-Io credo nel destino, sai Shizu?-
-Destino?- chiese la più piccola, quasi interessandosi alle sue parole. –La pericolosa discendenza di coloro che hanno la voglia a forma di stella… Non ti ha mai raccontato nessuno della storia della famiglia Joestar?- Shizuka negò con forza e si sedette per bene sul sedile, gli occhi sgranati e uno sguardo serio ed interessato, fisso sugli occhi verdi e vivaci di Holly, che quasi brillavano per l’emozione. –Perfetto, allora te la racconto io! La storia inizia a Londra, nell’ottocento…-
                                                                                                                                                                            
Jolyne non sopportava sentire Josuke respirare così pesantemente. Sembrava davvero qualcosa di spiacevole. Ansimava a ogni sua lunga falcata, similmente ad un toro imbizzarrito che insegue tre banderuole rosse durante a una corrida. Galoppava tremendamente veloce, sbattendo le All Star leopardate sul pavimento dell’istituto come zoccoli sulla sabbia, scivolando e imprecando ad ogni curva, gli occhi di ghiaccio puntati sul numero scritto sulla schiena del boss. Quarantadue. Jolyne si chiese cosa fosse quel numero, che la ragazzina con gli occhialoni gialli portava scritto ovunque. L’aveva già sentito da suo zio e suo padre, ma non capì mai cosa fosse. Quarantadue, Forty-Two, Shi-Ni. 42 Era un numero che spaventava anche solo a vederlo, fermo sulla felpa rossa della ragazza che correva tranquillamente davanti a loro.
-Zio…- sussurrò Jolyne. Lui nemmeno la sentì, nella sua corsa folle dietro i tre. Purtroppo Jotaro aveva già alla figlia del carattere burbero del prozio, e di quel piccolo difetto caratteriale, di perdere le staffe. Jolyne, quando le fu raccontato cosa fece in quel tremendo 1999 non ci diede troppo peso: erano storielle, per lei, racconti lontani di parenti squilibrati con cui non avrebbe mai avuto a che fare. E invece eccola lì, fianco a fianco con un omone di due metri fuori controllo.
Dalla parte opposta, Zarathustra era davvero calma e tranquilla. Correva con la più estrema tranquillità, sicura di ciò che faceva. Come suo solito.
Ludovico e Piero correvano ai suoi lati, all’apparenza sicuri quanto lei. Sapevano che, assieme a lei, non dovevano temere niente. Eppure Ludovico aveva dei tremendi dubbi, a sentire le grida del tutto casuali dell’uomo dai capelli irti sulla testa, come se fossero davvero corna di una qualche sorta di animale pericoloso pronto a caricarli. –Boss- sussurrò Ludovico, con la sua solita nonchalance che non faceva altro che nascondere un grande senso di colpa per avere spinto quei Joestar a loro. Lei nemmeno si girò, acconsentì alla sua parola con un leggero cenno del capo, mentre Piero lo fissava con gli occhi sgranati e il viso madido di sudore freddo, terrorizzato. -dove–stiamo andando?-
-Sono lieta che tu abbia finalmente posto questa domanda, Ludovico.- rispose Zarathustra, non cambiando espressione e muovendo appena le labbra nel rispondere al moro. –Nella palestra sul retro della scuola.-
Alzò un braccio e da esso spuntò l’arto nero e meccanico di 42, con gli artigli già serrati a formare una sorta di pistola. Sparò un ago fuori dalla finestra e un altro contro al muro, sulla mappa della scuola, e continuò a correre in tutta tranquillità, senza proferir parola, sotto lo sguardo sconvolto dei compagni. Ludovico annuì mentre guardava il capo, avendo colto al volo il suo piano. Stava avvisando gli altri due gruppi di dirigersi verso la palestra della scuola. Geniale, non poteva definire Zarathustra in un altro modo. L’occhio destro della ragazza iniziò a brillare sotto gli occhialoni gialli a specchio, e l’ombra di Ludovico si allungò dietro ai suoi piedi, seguendo una figura nera pressochè uguale a lui.
Piero era l’ultimo, a chiudere la fila. Vedendo i compagni evocare lo stand non ci pensò due volte a tirare fuori il suo Seven Nation Army, ma una manata di Ludovico lo convinse ad aspettare. –Non ora, lo sai che il tuo stand deve essere estratto per ultimo.- lo ammonì il ragazzo moro, fulminandolo coi suoi occhi blu e freddi. Piero sbuffò sonoramente e prese a saltellare dietro di loro, perdendosi nei suoi pensieri. Perché stavano scappando? Non sarebbe stato molto più semplice farli fuori subito, mentre non c’era nessuno per i corridoi? La targhetta militare saltellava sul petto di Piero, che afferrò e strinse tra le dita per darsi forza, ogni volta che una missione sembrava troppo difficile per lui. Si voltò ad osservare i due e rimase a fissarli, quasi a studiarli. Avevano tratti simili, occhi luminosi e sguardi inquietantemente fieri e feroci. Erano belve, quelli che li stavano inseguendo. Ora che notava tatuaggi, piercing e cicatrici sui corpi degli inseguitori, però, dovette ricredersi sull’idea originaria di mammalucchi che si era fatto all’inizio: quei due erano pericolosi. Fin troppo.
-Boss…- tentò di dire Piero, senza essere ascoltato da nessuno. –Ludo! Boss!- riprovò, quasi urlandogli contro, preso dal panico.
-Che c’è?- sbottò Ludovico, l’unico a voltarsi nella sua direzione.
Piero biascicò qualcosa, con una voce fin troppo acuta mentre gesticolava vistosamente. –Non li avremo mica sottovalutati, vero?-
Ludovico alzò le spalle e gli rivolse una smorfia disinteressata, voltandosi di nuovo verso il loro aprifila. I timori di Piero si rivelarono fondati, nemmeno il boss aveva capito che non potevano permettersi di sottovalutare i Joestar. Forse Zarathustra aveva un altro piano, forse voleva semplicemente scappare e applicare la tattica di dirigersi alla palestra, era un mistero persino per i componenti della sua banda.
Piero fece per girarsi nella direzione dei due quanto sentì una folata di vento spostargli le lunghe ciocche viola. Un pugno azzurro di uno stand, legato ad un filo, era passato vicino a lui, diretto verso la schiena di Zarathustra.
-Boss!- gridò Piero, cercando di afferrare il pugno, senza successo. Lei si girò e, senza mutare in alcun modo la sua espressione, evocò di nuovo il braccio del suo stand, che tagliò il filo a cui era legato il braccio. Prese il pugno tra gli artigli neri di 42 e rimase ad osservarlo, notando che il pugno si stava stringendo, pronto a colpirla di nuovo.
-Ludovico- disse lei, indirizzando il mezzo braccio verso l’amico, che scattò in avanti tutto ad un tratto. Lui rise sottovoce e Black or White comparve davanti a lui, inghiottendo il pugno.
-Dove diavolo è andato!?- gridò Josuke, vedendo la scena. Jolyne negò con forza e si tenne il braccio sfilacciato e monco, sconvolta. –Lo sento, sta ancora colpendo… ma non so dove sia!-
Prima che entrambi potessero capire di cosa si trattasse, un forte pugno azzurrò colpì Josuke in pieno viso, che scivolò addosso alla nipote per il grande urto. Caddero entrambi a terra, e Jolyne poteva giurare di non aver mai sentito un peso tale sul suo corpo, almeno un quintale di prozio le era caduto addosso e a malapena riusciva a respirare. Con un calcio lo fece rotolare di lato, e lui si coricò di schiena sul freddo pavimento di marmo dell’istituto.
-Li abbiamo persi, cazzo!- gridò la ragazza, sbattendo il pugno appena tornato su una mattonella. L’uomo si alzò in piedi e, con tutta la calma del mondo, prese a sfregare le mani sui stretti jeans chiari. Ciò fece ancora più infuriare Jolyne, che scattò in piedi e quasi si avventò contro di lui, tirandogli il collo della maglietta. Lui la fulminò coi suoi occhi freddi e gli porse il palmo della mano destra, in attesa. –I capelli. Ce li hai?- le chiese. La ragazza rimase ad osservarlo, confusa. Annuì e sbatté i due o tre capelli viola che aveva preso al povero Piero, mentre il pugno si scagliava contro Zarathustra.
-Perché mi hai chiesto di strappargli dei capelli?-
-Vedrai- rispose lui, senza nemmeno degnarla di uno sguardo.
Josuke li strinse tra le dita e Crazy Diamond apparve alle sue spalle, tenendo tra le dita i capelli. Senza troppa delicatezza prese Jolyne per la vita e la strinse a sé, mentre lo stand rosa e azzurro colpiva i tre capelli.
-Tieniti stretta, andremo veloci.- furono le uniche parole dell’uomo. Jolyne non ebbe il coraggio di dire niente, se non di stringere la sua maglietta fucsia tra le dita e aggrapparsi con tutta la forza che aveva al prozio, sicura che sapesse quello che faceva. O almeno lo sperava.
Si staccarono con lentezza quasi straziante dal terreno e Jolyne rimase a guardare il pavimento che lentamente si muoveva sotto di lei, mentre Josuke, dal canto suo, si sentiva più vivo che mai. Quanti anni erano passati dall’ultima volta che l’aveva fatto? I due iniziarono a quasi volare dietro di loro, tra le urla terrorizzate di Jolyne e quelle felici e forse un po’ troppo emozionate di Josuke.
Quando i tre sentirono il chiasso che proveniva alle loro spalle, fu troppo tardi. Ormai erano sopra di loro, e il sorriso tirato e quasi malato di Josuke fulminò Zarathustra, la lasciarono sbalordita. Doveva agire, e subito.
L’unica pecca di 42 e di conseguenza della sua portatrice erano le azioni. Se lo stand si poteva accorgere di tutto, poteva scrutare ogni movimento, poteva vedere attraverso le cose, i suoi scatti non erano altrettanto veloci. Ormai il pugno dell’enorme Crazy Diamond era a meno di un metro dalla sua testa.
-Ora, Piero.- disse semplicemente.
La velocità del ragazzo dai capelli viola, però era la sua arma vincente. Ecco la motivazione con cui Zarathustra divideva i gruppi: le debolezze e i punti di forza di ognuno. Con un grido anche Piero si avventò contro Zarathustra, mettendosi in mezzo tra il pugno e il capo, mentre il suo stand si formava attorno al suo corpo. Un’armatura a pattern militare ricoprì il suo corpo e gli aggiunse un altro paio di braccia. Con le quattro mani che Seven Nation Army gli consentiva di avere afferrò il braccio dello stand e indirizzò il colpo al pavimento, che fece un forte boato. Le mattonelle si distrussero in mille pezzi, e si ricomposero in un ammasso solido informe. Il pugno di Crazy Diamond era ancora conficcato nel terreno quando Seven Nation Army sferrò un cazzotto dritto sul naso di Josuke, facendolo capitombolare a terra, colpendo il pavimento di schiena, mentre si teneva il naso gocciolante di sangue. Jolyne rimase a guardare la scena, quasi inerme, mentre Piero, con le sue quattro braccia e l’inumana forza che il suo stand gli permetteva di avere, prese la massa di cemento che un tempo erano mattonelle e gliela scagliò addosso. La ragazza dai capelli verdi e neri non poté fare altro che evocare Stone Free e cercare di difendersi, prendendo però il masso in pieno. Cadde a terra similmente al prozio e si strinse il polso rotto cercando di parare il colpo, incredula che dei ragazzini potessero tanto, mentre i tre rimasero ad osservarli. I due Joestar poterono, anche solo per un istante, scorgere qualcosa di strano negli occhi dei due ragazzi. Piero, da sotto l’elmo che gli copriva mezzo viso, li guardava sconcertato e disperato, e Ludovico era rimasto a bocca aperta. Zarathustra preferì non girarsi e continuare a correre, anche se si sentiva quasi in trappola.
Non poteva fare altro che correre.
-Saliamo le scale, andiamo sul terrazzo.- sussurrò ai suoi due sottoposti, che impiegarono qualche istante a metabolizzare i suoi ordini. Annuirono entrambi e la seguirono, senza fiatare.
Piero, ora ricoperto dal suo stand, prese a saltare per il corridoio, rimanendo appeso alle pareti, ora saltellando sulla finestra, ora correndo a testa in giù sul soffitto. Usare il suo stand era il più grande divertimento, l’unico che avesse al momento, tanto per distrarsi da quello che sembrava un grande incubo.
Salirono una rampa di scale, ognuno a modo suo. Piero corse sul muro, Zarathustra usò la coda del proprio stand per darsi una spinta e saltare tutti i gradini in una sola volta, e Ludovico semplicemente usò il teletrasporto di Black or White. In nemmeno un istante i tre avevano già scavalcato la rampa di scale, e si stavano dirigendo verso la terrazza del terzo piano.
I due Joestar si guardarono negli occhi. Josuke non ebbe il coraggio di dire niente, si tastò il naso e cercò di raddrizzarlo come meglio poteva al momento mentre teneva la mano della pronipote, guarendole il polso spezzato. Si rialzò in piedi a fatica e, senza nemmeno aspettare Jolyne, corse dietro ai tre ragazzi.
Jolyne rimase ad osservarlo, estremamente combattuta. Jotaro aveva ragione, quel Josuke era… bizzarro, anche per quella famiglia fin troppo fuori dalla norma. Cercò di ricacciare indietro quella orribile sensazione che aveva avuto nei suoi confronti e prese a seguirlo di corsa, affiancandoglisi e correndo assieme a lui, cercando di fare buon viso a cattivo gioco. Anche se sapeva che il suo istinto non l’avrebbe mai tradita.
I Joestar al loro inseguimento non poterono fare altro che salire due a due i gradini, perdendo dei secondi preziosi e rimanendo metri indietro rispetto alla posizione dei tre ragazzini, facendo almeno altre due rampe di scale prima di fermarsi di colpo, fermi davanti ad una vetrata. Erano al terzo piano dell’edificio, e davanti loro, oltre alla finestra-vetrata, c’era l’enorme terrazzo, quello che Zarathustra cercava. Rimase ferma, quasi in attesa dei loro inseguitori, mentre Ludovico e Piero si agitavano al suo fianco. Perché non si muoveva? Perché non scappava?
Piero fece per aggredire il suo capo ma Ludovico lo fermò con una manata sull’elmo. Il ragazzo si lamentò e si tirò indietro, rimanendo ad osservare l’amico che l’aveva appena colpito, incredulo. Non voleva scappare, non voleva anche lui seminare quei Joestar maledetti? Perché lo stava fermando?
-Abbi fiducia, Piero.- lo ammonì Zarathustra, in attesa dello scalpitio di tacchi e suole di scarpe che arrivava nella loro direzione. Sia Ludovico che Piero erano tesi, pronti a scattare e a scappare ancora, come legati da una catena al piede che li imprigionava lì, in attesa della lama della ghigliottina che erano i Joestar sul loro collo. Zarathustra, tuttavia, era calma. Sapeva cosa stava facendo, sapeva che sarebbe tutto andato al meglio, e che il suo piano sarebbe più che funzionato. Aveva avuto abbastanza tempo per studiarli, e capire come ragionavano. Era pronta ad una piccola rivincita, ad un contrattacco per indebolirli un po’. Dall’angolo del corridoio apparvero quelle altissime figure che nessuno di loro avrebbe voluto vedere. Zarathustra e Ludovico erano entrambi sul metro e sessanta, e Piero arrivava a malapena al metro e quarantotto. Erano dei nani, in confronto ai due che gli si pararono davanti.
Josuke si passò una mano sul labbro superiore e si pulì dal sangue che sgorgava dal grosso naso rotto e sanguinante, gli occhi puntati sui tre con uno sguardo di ghiaccio, freddo e duro come mai. Jolyne rimase un po’ più indietro rispetto al prozio, quasi nascosta dietro al massiccio e completamente tatuato braccio sinistro di Josuke, pieno di escoriazioni violacee e tagli rossi.
Nessuno dei due osava muoversi. Jolyne si rimboccò le larghe maniche del vestito a ragnatele che si era messa per l’occasione, nuovo di negozio, e ora tutto strappato e sporco per le diverse cadute. Di certo non si sarebbe aspettata così tanta resistenza da quei ragazzini.
Alzò quasi per rassicurarsi un po’ lo sguardo sul viso dello zio, non trovando nulla di rassicurante, tuttavia. I capelli perfettamente gellati erano ormai andati, e ora diverse ciocche schizzavano in su, ritte sulla testa, in maniera decisamente inquietante. Si sentiva scoppiare.
Sapeva che, presto o tardi, avrebbe perso la pazienza con quei tre. Non era mai stato un tipo paziente, e, dopo tre cadute, il naso rotto, e i capelli spettinati, era ancora meno calmo e ragionevole.
Fece un passo in avanti e Zarathustra ne fece uno indietro, quasi a sfida. Un’altra ciocca di capelli rizzò verso l’alto a Josuke, e Jolyne iniziò a temere davvero non solo per la riuscita della missione, ma della sua stessa vita.
-Ludovico, passiamo la vetrata al mio tre.- sussurrò Zarathustra all’amico vestito in giacca e cravatta, che annuì. Black or White comparve ai suoi piedi, e si aggrappò al vetro dietro di loro. Piero prese a giocare con le ventose sui suoi palmi per sfogare l’ansia del momento.
-Uno...- sussurrò, allungando una mano verso ai Joestar, i loro occhi chiari fissi sulla sua mano guantata.
-…due…- e alzò un dito, muovendolo un po’ per invitarli nella loro direzione. I due non si fecero di sicuro scappare l’invito, e scattarono entrambi verso di loro, correndo come forsennati, sicuri di averli finalmente in pugno.
-…e tre.- concluse Zarathustra, con un tono fermo e freddo. Si cacciò le mani in tasca e rimase a guardarli, facendo un passo indietro. Black or White ricoprì completamente la porta vetrata alle loro spalle, e tutti e tre passarono il vetro come se fossero fantasmi, passandoci in mezzo grazie ai poteri di teletrasporto dello stand di Ludovico, che si ritrasse subito dopo il loro passaggio. Il gruppetto della Banda era finalmente sul terrazzo, ampio e deserto, che dava sul tetto della palestra.
Jolyne e Josuke, invece, non si aspettavano di trovarsi davanti una vetrata, e ci andarono a sbattere come allocchi. Caddero di nuovo all’indietro e sul vetro si formò una grossa crepa, che fece tremare dalla paura sia Ludovico che Piero. Solo il correrci incontro aveva rotto il vetro spesso diversi centimetri, figurarsi i loro attacchi fisici che potenza potrebbero avere pensò Ludovico, ormai perso nel pessimismo. Si fidava sempre di Zarathustra, ma questo piano gli sembrava fin troppo pericoloso e suicida anche per lei.
Josuke ruppe il vetro in mille pezzi con i pugni del suo Crazy Diamond ed entrambi passarono la vetrata, che si ricompose pochi istanti dopo. Jolyne estrasse il suo Stone Free alle sue spalle e lo stesso fece Josuke con Crazy D.
Erano faccia a faccia, ora.
-Ludovico, Piero, occupatevi della ragazza. Io penso a lui.-
Ludovico non ci vide più e afferrò l’amica per un polso, strattonandola verso di lui, gli occhi blu pieni di preoccupazione. –Zara, non puoi..-
-Non intendo combattere contro di lui, Ludovico.- lo fermò lei, strattonando il braccio per divincolarsi dalla sua presa. Sul suo viso non c’era alcun segno di preoccupazione o paura, tuttavia. Anzi, Ludovico poteva scorgere quasi divertimento.
-Intendi fargli quello..?-
-Certamente.-
-Ma perché?! Perché ora? E perché lui!-
In tutta risposta il boss alzò le spalle e si separò un po’ dai due amici, creando così due gruppi ben distinti. –Perché è l’unico modo.-
Il ragazzo moro annuì e torno ad osservare i due adulti davanti a loro, ancora più teso di prima.
-Il boss vuole davvero fare quello?- gridò Piero con la sua solita voce fin troppo alta, picchiettandosi il dito sull’elmo, con un sorrisone sul viso mezzo coperto dallo stand che lo avvolgeva.- Sarà fighissimo!!-
Dall’altra parte, Jolyne era così tesa da non riuscire nemmeno a muoversi. Dovevano davvero scontrarsi contro di loro. In prigione, nel 2012, ne aveva visti parecchi di stand, mortali e non. Ne aveva visti anche alcuni molto peggiori di quelli dei tre ragazzini, poteri molto più poderosi dei loro, ma mai, mai aveva visto portatori tanto esperti nell’usare i propri stand. Erano specializzati, efficienti e preparati. Al contrario di loro due.
Entrambi si fiondarono verso di loro, senza pensare davvero a quello che stavano facendo, come al solito. Entrambi erano testardi e, anche se per nulla stupidi, spesso non pensavano. Il secondo passo di Jolyne finì nel vuoto, e, presa dal panico, cadde in quella che sembrava una buca nel pavimento di cemento della terrazza, un buco nero e senza fine. Josuke non fece in tempo ad afferrarle un braccio che una spina, lunga almeno una decina di centimetri, gli si conficcò nella coscia. Non in un punto qualsiasi della coscia destra, ma esattamente in corrispondenza della brutta cicatrice causata dallo scontro contro Kira, diciassette anni prima. Quando Kira riuscì a far scoppiare la rampa di scale di legno su cui un allora sedicenne Josuke si trovava, un asse si conficcò nella sua gamba, penetrandola da parte a parte. Da allora ogni volta che corre troppo e sforza quella gamba malridotta sente dolere i tendini ancora lacerati in quel punto tirare e dolorare, e la gamba perdere man mano sensibilità. Con quella spina conficcata e i delicati tendini scoperti in quel punto stimolati da un’intensa scarica elettrica, la gamba smise completamente di rispondere ai comandi, e cadde a terra a peso morto. Si rialzò il più velocemente possibile e si girò di schiena, rimanendo seduto sul cemento della terrazza, la gamba destra ancora scossa da forti tremiti mentre cercava in tutti i modi di estrarre la spina dalla propria carne, che però si smaterializzò prima che potesse anche solo toccarla.
Zarathustra si parò davanti a lui, con una enorme figura nera alle sue spalle.
Aveva una forma tra l’umanoide robotico e il rettile, la pelle nera e lucida. Era ritto su due lunghe zampe da uccello, e le lunghe braccia erano allungate nella direzione di Josuke, i tre artigli sulla mano che si illuminavano a momenti di una forte luce gialla e di scariche elettriche attorno ad essi, mentre la lunga coda nera e piene di spine sbatteva a terra. Quattro lunghe spine alla fine della coda prendevano la forma di “XLII”, mentre sul torso una scritta gialla fluorescente recitava il numero 42. La testa era contornata da sei lunghe corna, anch’esse illuminate a scatti da scariche elettriche, con un unico, enorme occhio rosso al centro del viso e diversi segni sotto ad essi, quasi a formare un inquietante sorriso fosforescente.
Quello doveva essere 42 nella sua forma completa, pensò Josuke mentre cercava di riprendere sensibilità nella gamba ferita.
42 prese a girargli attorno, appoggiando gli artigli delle zampe posteriori sul cemento, mentre faceva ciondolare la lunga coda fin troppo vicino al corpo del povero Josuke. Lui odiava i rettili, e trovarsene uno come avversario non migliorava la situazione. Nella paura generale notò però che lo stand non volava, bensì camminava. Doveva essere uno di quegli stand incapaci di fluttuare, e inutili nel combattimento fisico e ravvicinato.
Questo era un punto a favore per Josuke, dato che il suo Crazy Diamond non poteva allontanarsi da lui per più di un metro. Il problema era avvicinarsi a lei.
La gamba riprese un po’ di sensibilità e, mentre cercava di alzarsi in piedi, tentò un attacco a sorpresa sullo stand avversario che ancora gli gironzolava attorno. Crazy Diamond sferrò un pugno in direzione di 42, che però non sembrò per nulla sorpreso. Alzò un braccio e con i lunghi artigli si conficcarono nel palmo dello stand rosa e azzurro, causando alla mano di Josuke di prendere a sanguinare copiosamente. La coda di 42 scattò e colpì i suoi polpacci, e l’uomo cadde di nuovo a terra.
Lo stand nero scappò dietro a Zarathustra, che era rimasta ad osservare la scena senza fiatare né muoversi. Era ad almeno tre metri da lui, e si teneva bene alla larga dal raggio d’azione del temibile Crazy Diamond, che aveva avuto modo di studiare sia alla Città della Moda che in quel breve inseguimento.
-Josuke Higashikata. Nato a Morioh il venti giugno dell’83. È corretto?- chiese lei, con tono tremendamente piatto e neutro. Josuke si irrigidì ma tentò di mantenere la calma, sedendosi a gambe incrociate sul pavimento ruvido della terrazza. Non poteva evidentemente fare altro.
Annuì e un sorrisetto per nulla felice si formò sulle sue labbra livide e sanguinanti. –La pronuncia corretta è “Jos’ke”. La “u” è muta.- le disse. Se dovevano giocare, beh, avrebbero giocato in due.
Il Boss non sembrò avere alcuna reazione, e continuò il suo monologo.
-Ti credi furbo… ma sei solo un bastardo. Figlio illegittimo di Joseph Joestar, per questo non hai il cognome di tuo padre, anche se, in effetti, il genoma è quello. Non credo ti sopportino molto a casa Joestar, non è così? Essere figlio illegittimo, essere così diverso da tutti gli altri… devi sentirti così a disagio… credo sia per questo che vai conciato in questa maniera assurda, Higashikata, anche essendo un prestigioso dottore e un rispettabile marito e padre di famiglia. Per non parlare poi del tuo… particolare matrimonio. Devono vederti male in città, mh? Di coppie del genere non se ne vedono molte in una cittadina tradizionalista come Morioh-cho…-
Josuke sgranò gli occhi, incredulo. Quella maledetta bambina stava proferendo parole che Josuke avrebbe preferito mantenere sempre nascoste, pensieri che ovviamente ha avuto, e che non vorrebbe più sentire, né dalla voce dei suoi pensieri, né dalla voce piatta e calma della bassese davanti a lui.
Si irrigidì e abbassò la testa, incredulo delle sue parole, iniziando a respirare a fatica dalla rabbia e dal nervosismo. Ansimava e sbuffava aria dal naso, quasi come una bestia imbizzarrita, i muscoli tesi e gonfi sotto il tessuto leggero della maglietta sporca di sangue e strappata dalle varie cadute.
-Ripetilo, stronza.-
-Ripetere cosa?- disse lei, passando da una gamba all’altra, in attesa.
-Ripeti le puttanate che hai detto, e ti spacco la faccia!- gridò Josuke, fuori di sé, alzandosi con tutta la forza che aveva e avventandosi su di lei, il suo enorme stand alle spalle, già pronto a colpirla. Zarathustra tentò di proteggersi, richiamando il proprio stand attorno a lei, il corpo nero pieno di spine irte. Crazy Diamond non si fece di certo scoraggiare dai lunghi aghi sul corpo dello stand nero, e gli piazzò a malapena due o tre deboli ganci, per poi ritirarsi dolorante, mentre Josuke si guardava le mani grondanti di sangue. Le spine di almeno cinque centimetri dello stand gli si erano piantate nelle nocche e nel palmo della mano, e ora sanguinava copiosamente. 42 e Zarathustra erano caduti a terra per i forti colpi ricevuti, ma il Boss tentò di rialzarsi come se nulla fosse, anche gli occhialoni avevano una vistosa crepa sulla visiera e il viso era presente qualche livido ancora rosso. Si portò una mano sulla schiena dolorante per i pugni dello stand rosa e azzurro e maledisse sottovoce in dialetto bassese quell’uomo, che era addirittura riuscito a colpirla e a farle pressoché male. Già lo odiava.
Retrocedette un po’ mentre continuava ad osservare ogni suo movimento, guardandosi intorno con un po’ di timore mentre ritirava il proprio stand, e sotto gli occhialoni rotti una luce rossa tornava a formarsi.
Se solo Josuke fosse stato lucido, avrebbe potuto intuire che Zarathustra non poteva usare il suo occhio se 42 era evocato in forma fisica, ma tutto ciò che l’uomo riusciva a pensare al momento era la scelta dell’oggetto a cui fondere quella ragazzina che aveva osato mancargli di rispetto e offenderlo in tal modo, benché fossero solo sentenze oggettive. Josuke non aveva mai sopportato l’oggettività, come stavano davvero le cose. Fingere che andasse tutto bene era più che sufficiente per vivere una vita tranquilla.
Senza pensarci gli corse incontro, col suo stand alle spalle, gridando con una voce più da animale inferocito che da caporeparto di un ospedale, e questa volta Zarathustra ebbe una reazione alle sue azioni. Prese a correre, seriamente questa volta, più veloce che poteva, avanzando a grandi falcate attraverso tutta la terrazza balcone che circondava interamente il terzo piano dell’edificio scolastico, fermandosi tutto ad un tratto. Portò due dita alle labbra e lanciò un forte fischio, e pochi istanti dopo Ludovico e Piero sbucarono fuori dall’angolo opposto da cui era arrivata lei, inseguiti prontamente da una escoriata e dolorante Jolyne.
Dopo essere caduta nell’ombra, venne sputata fuori al lato opposto della terrazza, davanti a quei due ragazzini. Dopo averli osservati un po’, Jolyne arrivò alla conclusione che non doveva temere di loro. Erano dei semplici bambini, con degli stand nemmeno così micidiali: un’ombra che trasporta e un completo che provvede a dare due braccia in più al nanerottolo di nemmeno un metro e cinquanta, che per quanto ha capito dalle urla dei compagni si chiama Piero. Estrasse con tutta calma il suo Stone Free e si incamminò lentamente verso di loro, ridacchiando mentre si sgranchiva le nocche.
-Se vi spostate, prometto di non farvi del male!-
Non fece in tempo a fare nemmeno tre passi che il ragazzo avvolto dallo stand dalle quattro braccia si buttò nell’ombra, che prese a vorticare attorno ai suoi piedi con furia. Jolyne rimase immobile, spaventata, mentre i quattro pugni di Seven Nation Army si scagliavano verso le sue gambe, colpendole ripetutamente e con violenza. Jolyne cadde a terra come un sacco di patate, senza riuscire nemmeno a gridare. Era sconvolta dalla loro velocità e coordinazione, e non poté fare altro che tirarsi indietro, rannicchiandosi contro al muro e sperando vivamente che quei due se ne fossero andati. Ma lo sapeva fin troppo bene che la stavano osservando, aspettando un suo minimo movimento. Fece per alzarsi e con la coda dell’occhio osservò dietro di sé, la propria ombra. Era fin troppo scura e dalle linee quasi sagomate per essere la sua vera ombra. Stone Free colpì con violenza Black or White, ma le nocche dello stand colpirono il ruvido cemento della parete. Non poteva colpirlo fisicamente, e Jolyne era nel panico. Come avrebbe fatto a sconfiggerli?
Dall’ombra saltò ancora fuori Piero, pronto a colpirla di nuovo. Stone Free fece appena in tempo a pararsi con gli avambracci, prima di srotolarsi sotto le nocche di Seven Nation Army. Piero urlò dalla gioia, pensando di avere distrutto lo stand avversario, ma pochi secondi dopo il sorrisone sul suo viso si trasformò in una smorfia di terrore. I fili si attorcigliarono attorno ai suoi quattro polsi, legandoli saldamente e tirandolo fuori dall’ombra con forza, strattonandolo all’esterno. Un braccio di Stone Free era attorcigliato attorno ai suoi polsi, ma l’altro pugno era ancora integro e solido. Con un forte “ORA” gli colpì la testa con un veloce pugno, dritto sul viso, facendo crepare l’elmo e sputare sangue a Piero, che tentò di divincolarsi inutilmente dalla sua presa. Jolyne, sicura di avere vinto, caricò un altro colpo, senza però badare all’ombra che si era spostata. Con un grido disperato Ludovico saltò fuori dall’ombra, scivolando di proposito a terra e prendendo un profondo respiro. La gamba destra, sollevata, venne ricoperta da scariche elettriche.
-Sidekick overdrive!- gridò lui, colpendo Jolyne sullo stinco. La ragazza cacciò un forte urlo e si accasciò a terra, dolorante, sicura di non essere mai stata colpita con così tanta forza nella sua intera vita. Piero venne liberato dalle spire di Stone Free e Ludovico riprese a respirare normalmente, facendo scomparire le Onde Concentriche di cui si era ricoperto la gamba. Un forte fischio attirò la loro attenzione, e Ludovico capì al volo che quella doveva essere Zarathustra che li stava chiamando. Afferrò l’amico per un braccio e iniziò a correre verso l’angolo che separava loro dalla palestra in cui Zarathustra aveva detto loro di ritrovarsi, girando l’angolo di corsa e trovandosela davanti più trafelata del solito, inseguita dal grande e grosso Josuke, contro la quale si era appena battuta. I tre erano in trappola tra i due Joestar, tra Josuke che avanzava a passi pesanti verso di loro, sbuffando imbestialito, e Jolyne, dietro di loro, coi pugni serrati e voglia di vendetta.
Zarathustra si mise le mani nella tasca della felpa e abbassò lo sguardo sulla palestra scolastica, l’edificio a due piani che si stagliava oltre quella balconata. La scuola era a tre piani, e la palestra si trovava sotto di loro. Con un salto sarebbero probabilmente riusciti a saltare sul tetto vetrato, e quella era l’esatta idea del Boss. Con un cenno del capo indicò agli altri di saltare e, tutti e tre assieme in un inquietante sincronismo scattarono indietro, saltando sulla ringhiera e cadendo giù dall’alto edificio. I Joestar, vedendoli compiere un atto suicida del genere gridarono disperati e spaventati all’idea di aver fallito la loro missione e si sporsero entrambi dalla ringhiera, osservando sconcertati quello che stavano davvero facendo i tre. Erano saltati sulla palestra.
Ludovico estrasse il suo Black or White e una grossa ombra circolare si formò sopra alla vetrata del tetto della palestra, facendo così che potessero passare il vetro senza romperlo. L’ombra si materializzò sulla superficie dell’acqua e i tre non toccarono nemmeno la piscina, perché furono in un battibaleno trasportati a bordo piscina, all’altro lato in cui erano i Joestar, tra gli altri componenti della Banda. Zarathustra si accostò a Regina, concentrata sulla superficie liscia dell’acqua della piscina. –È tutto pronto?- le disse. La ragazza castana annuì, sfregando il guanto blu di lana speciale sulla propria guancia umida di lacrime, con un’espressione seria e concentrata.
Nel frattempo, ancora sulla terrazza, Josuke e Jolyne non se lo fecero ripetere due volte, e saltarono a loro volta. I pugni dei due stand ruppero la vetrata, e notarono che sotto di loro era presente una grossa piscina. Qualche persona era sul bordo, ai due angoli opposti, e Josuke li guardò di sfuggita, notando un viso fin troppo familiare.
-Jojo?!- gridò Okuyasu, sul bordo piscina, mentre osservava il marito cadere dall’alto, arrivato da chissà dove. Non fece in tempo a rispondere alla chiamata che cadde di schiena nella piscina assieme alla pronipote, schizzando Okuyasu, Jotaro e tutti i loro compagni d’acqua gelida, quasi ghiacciata.






They got one eye got watching you, 
one eye on what you do,
so be careful what is you're triyng to do.
Major Minus, Coldplay (Mylo Xyloto, 2011)
 
Note dell’autrice
CIAO A TUTTI!!! È da un po’ che non aggiorno eh?
Purtroppo la scuola e i vari problemi mi stanno uccidendo in questi ultimi mesi. Aggiornerò pochissimo… siate pazienti fino a luglio, ve ne prego! Prometto che da luglio (beh, se gli esami vanno bene!) aggiornerò con molta MOLTA più frequenza. Per questi mesi dovete aspettare e sperare che io riesca ad aggiornare! Non sapete nemmeno quanta voglia io abbia di continuare…
Tornando a noi, finalmente sono stati mostrati gli ultimi componenti della banda, ovvero Piero e il suo Seven Nation Army, Ludovico e il suo stand già noto Black or White e Zarathustra, con finalmente 42 in forma intera! Cosa avrà in mente il Boss? Come mai li ha fatti riunire tutti nella palestra?
(e Holly è una bellissima zia. W Holly.)
…dovrete aspettare il capitolo 15 per saperlo! Sperando riesca a scriverlo velocemente…
Ora scusatemi, devo andarmi a vedere la puntata 5 di DiU. E piangere un po’ su Keicho.
Ciao a tutti! Al prossimo capitolo!

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Capitolo 15
*** All'inseguimento della Banda! (parte 5) ***


Il piano inferiore della palestra della scuola superiore San Giorgio consisteva in un’ampia sala vetrata, una grossa e profonda piscina che ne ricopriva quasi tutto il pavimento, e due porte ad essa collegata, che portavano ad alte stanze. Dalle vetrate, Yukako poteva intravedere degli attrezzi sportivi. Era una vera e propria palestra, ben attrezzata e degna di una grossa e ricca scuola come quella. Yukako doveva stare ben attenta, quei ragazzini sicuramente tramavano qualcosa se li avevano spinti fin lì: li osservava attentamente, immobile e con una mano avvolta attorno allo spesso polso di Okuyasu, rigido al suo fianco. Tremava e lei non sapeva bene se per rabbia, paura, o voglia di agire. Non era nemmeno sicura se lui sapesse cosa volesse in quel momento, ma poco importava. Doveva tenerlo fermo e al sicuro, ora. Solo quello. Con la sua indole così impulsiva avrebbe potuto fare qualsiasi cosa, e contro dei ragazzini così spietati e inventivi c’era ben poco da scherzare. C’era da ragionare, da pensare a delle mosse da attuare contro di loro, e cercare di capire quale sarebbe stata la loro mossa.
A differenza loro, i ragazzi della Banda non stavano cercando un compromesso. Dovevano solo farli fuori.
Saltellarono sull’acqua, ci camminarono sopra senza affondarvici, e approdarono sulla sponda opposta della piscina, mentre anche loro rimanevano ad osservare i due giapponesi. Entrambi i due gruppi erano in attesa, di una mossa avversaria e di una mossa che venisse dal loro stesso gruppo.
Mentre i loro sguardi continuavano a scambiarsi con ansia e nervosismo, alle spalle di Eriol, Alex e Noemi si aprì una porta sulla vetrata, e da essa comparvero Regina e Davide, di gran fretta.
Davide si appoggiò allo stipite della porta, tenendosi la milza dolorante mentre Regina si avvicinava a Eriol, appoggiandole una mano sulla spalla e iniziando a parlarle con la voce più bassa possibile, sicura di non farsi sentire dai nemici mentre continuava a fissarli, poco sicura sul loro conto.
-Il boss ha dato istruzioni, a voi?-
-Nessuna- rispose Eriol, alzando lo sguardo sull’amica e scrollando le spalle, demotivata. Il boss aveva sicuramente in mente qualcosa, qualcosa di pericoloso, che sfuggiva però alla loro ragione. I metodi di ragionamento di Zarathustra erano contorti e impossibili da valutare o prevedere, e questo, oltre a conferire loro una grande forza, li rendeva anche marionette nel grande gioco del boss.
All’inseguimento di Regina e Davide, Koichi e Jotaro si ritrovarono nel panico quando entrarono dall’ala nord della palestra. I ragazzi erano corsi davanti a loro, nell’intricato labirinto di viuzze nella palestra. Era un lungo corridoio e tante porticine ai lati, quello che si stagliava davanti ai due uomini sperduti e spaesati. Jotaro fece un passo incerto avanti, scostando la testa da una parte all’altra, cercando di fare una scelta ponderata sul dove agire. Koichi stava all’erta dietro di lui, terrorizzato all’idea di trovarseli di nuovo davanti. Afferrò il bordo del cappotto di Jotaro e lo tirò con forza, cercando di farsi notare inutilmente dall’uomo più alto.
-Non sento niente. Né Jolyne né Josuke sono qui dentro.- sibilò Jotaro a denti stretti, passandosi una mano sotto la maglietta bianca, sfregando il palmo sulla stellina sul suo collo. Se qualche Joestar fosse stato in quella palestra, lui l’avrebbe sentito. Ma non c’era nessuno. Si voltò verso Koichi, e si stupì quando si accorse della luce nei suoi occhi, e del sorrisone che gli stava rivolgendo. Lo prese per una manica e iniziò a correre, strattonando Jotaro dietro di sé, che non poté fare altro che corrergli dietro, confuso, ma sicuro di non potere fare altro.
-Sento Yukako!- urlò l’uomo biondo, rivolgendogli un sorrisone emozionato. –La sento, è qui dentro! È lei, riconoscerei la sua aura ovunque!-
Koichi lo fissò coi suoi grandi e azzurri occhi pieni di emozione, quasi commosso nel poter rivedere la moglie, anche se non era passato così tanto tempo da quando si erano divisi in gruppi, e Jotaro si lasciò scappare un sorrisino nascosto mentre si abbassava la visiera del cappello sul viso, seguendolo a suo malgrado.
L’aura di Koichi sfregolava di un verde sempre più acceso man mano che correva per gli stretti e angusti corridoi della palestra, tanto umidi da farli sudare e far venire loro leggeri tremori sulla pelle ormai umidiccia. Jotaro, mentre seguiva Koichi nella sua sfrenata corsa di gioia, rimase a riflettere su quella sensazione, che solitamente provava solo nei suoi lunghi viaggi per mare.
-Koichi- sbottò lui, allungando il passo e affiancandosi all’uomo biondo cenere, che ricambiò il suo sguardo con una nota di curiosità. –È successo qualcosa?- chiese, con un tono nettamente meno sicuro e molto più spaventato di prima. Jotaro negò e sospirò pesantemente, alzandosi le maniche del lungo cappotto blu oltremare.
-Non c’è caldo? Anzi, umido.-
Gli occhi di Koichi si ridussero a due fessure, e per un momento pensò di non ascoltare le sue blatere che al momento gli sembravano inutili ciarle. Non gli rispose, e mentre pensava ciò, il piede che poggiò per terra nella sua corsa scivolò sul bagnato, e Koichi cadde di faccia sul pavimento fradicio. Si rialzò a fatica mentre jotaro gli si accostava, guardandolo dall’alto in basso, con le braccia incrociate al petto e un mezzo sorrisetto sul viso perennemente asettico. –Se mi avessi risposto, o anche solo ascoltato, avrei potuto avvertirti di stare attento. Siamo in una piscina.-
Koichi borbottò sottovoce senza farsi sentire e si pulì i jeans grigi, ormai quasi nerastri e arrossiti per il sangue che gli colava dalle ginocchia per le troppe cadute e l’acqua che l’aveva quasi completamente bagnato. Si risistemò indietro i corti capelli biondo cenere e fissò Jotaro con sorpresa e un lieve fastidio, mentre si alzava in piedi e ricominciava ad avvicinarsi al luogo in cui si trovava sua moglie, ormai parecchio vicino data la grande intensità dell’aura verde intorno all’uomo.
Si fiondò contro un grosso portone con maniglie antincendio e la aprì con una forza impensabile per un ometto di a malapena un metro e sessanta, buttandosi all’indietro e scivolando ancora, riuscendo a rimanere miracolosamente in piedi e osservando l’interno della stanza in cui era entrato tanto incautamente. Era una piscina, una grossa sala unica, divisa a metà da una lunga piscina olimpionica. Sulle due sponde, due gruppi si fissavano incessantemente. I due ragazzi che avevano inseguito, Regina e Davide, e altri tre, tutti stretti tra di loro e sull’attenti per ogni minimo movimento sospetto, e sulla sponda in cui Jotaro e Koichi erano, Yukako e Okuyasu. La donna si voltò verso il marito e il suo sguardo cambiò radicalmente, dal viso stravolto dalla rabbia a un’espressione di pura felicità e sollievo nel sapere che il suo amato Koichi stava bene. Si staccò da Okuyasu e corse verso Koichi, abbracciandolo con forza e stringendolo tra le proprie braccia. Koichi si lasciò abbracciare, ridendo, più per sfogare la preoccupazione e il timore, stringendola a sé con tutte le sue forze, mentre le loro auree dello stand, verde e porpora, si mischiavano e formavano nuovi colori.
Jotaro si abbassò la visiera e si incamminò lentamente verso Okuyasu, accostandoglisi. Okuyasu alzò lo sguardo su di lui e lo fissò, cercando di trovare risposte, sfilandosi gli occhiali sporchi di fango ormai secco e alzandosi il bordo della maglietta blu, cercando di pulirsi invano le lenti infangate.
-Non si muovono.- borbottò Okuyasu, alitando un po’ sulle spesse lenti degli occhiali blu metallizzato. Jotaro lo guardò di striscio e annuì poco convinto, fissando i cinque ragazzi davanti a sé. Erano tesi, incerti, e insicuri sul futuro tanto quanto lo erano loro. Non avevano nessun piano, non loro almeno.
Senza la ragazza con gli occhialoni gialli e il giubbino rosso, sembravano tutti persi, senza una meta o un piano preciso. Rimanevano compatti a osservarli, con gli occhi sgranati e pieni di terrore, come un branco di animali predati, e non come i predatori che dovrebbero essere.
Jotaro vide con la coda dell’unico occhio che gli era rimasto un’ombra formarsi sulle increspature lucenti della piscina scolastica, e alzò lo sguardo, notando una grossa macchia nera sul soffitto vetrato della palestra. In men che non si dica, senza sfondare il vetro, apparvero gli ultimi tre rimanenti della Banda, tra cui il loro capo, Zarathustra. Entrarono ancora in Black or White e si trasportarono sul bordo piscina, davanti agli altri cinque. Zarathustra alzò lo sguardo e si lasciò scappare un sorrisino divertito, notando la grossa ombra che iniziava a coprire l’acqua nella piscina. Senza alcun preavviso il soffitto venne sfondato, e le grida di Josuke e Jolyne coprirono i bisbigli delle persone presenti nella palestra.
Con un forte tonfo l’imponente corpo di Josuke colpì l’acqua, e un grosso schizzo d’acqua investì Jotaro, Okuyasu e i capelli di Yukako, ancora intenta a stringere e coccolare suo marito. L’acqua era gelida, gelida più del normale, avvertì Jotaro, togliendosi il cappello fradicio e cercando di asciugarlo come meglio poteva. Piccoli cristalli di ghiaccio si stavano formando tra le trame blu del tessuto, e Jotaro capì.
Si voltò verso la piscina e corse verso il bordo, spingendosi contro la scaletta di metallo e allungando un braccio verso la figlia, che tremava infreddolita nell’acqua. –Jolyne!- gridò Jotaro con tutta la voce che gli era rimasta, allungando un braccio verso di lei. –Prendi la mia mano ed esci di lì!-
Jolyne, aggrappata alle spalle del prozio, rimase ad osservare stranita il padre, che gesticolava e gridava. Sospirò e roteò gli occhi, non troppo preoccupata, iniziando a galleggiare lentamente verso la sua mano, fermandosi tutto ad un tratto nel sentire la presa ferrea di Josuke intorno al suo polso, che la tirava verso di sé. –È troppo tardi, non toccarlo.- disse, semplicemente. Il suo sguardo era torvo, quasi disperato e comunque freddo, fisso sull’acqua che piano piano prendeva a incresparsi sempre meno, e diventare sempre più fredda. Aveva già sperimentato quella sensazione.
Si tirò indietro la cortissima frangia bruna dalla fronte madida e se li lisciò sulla testa, guardandosi intorno, terrorizzato. Si girò e rimase a guardare Regina, in piedi sul bordo della piscina, piangere strane, grosse lacrime azzurre, che caddero nell’acqua con uno strano rumore, fin troppo cristallino. Era così, Regina stava di nuovo usando il suo stand. Agli angoli della piscina sull’acqua iniziò a formarsi un sottilissimo strato di ghiaccio, che in pochi istanti si era propagato a gran parte dell’acqua. Josuke prese Jolyne per la vita e la tirò indietro, nuotando a fatica verso il centro della piscina, cercando di scappare a quello strato ghiacciato sull’acqua. Jotaro rimase impassibile, incredulo e disperato, continuando a tenere lo sguardo su loro due. Erano in trappola.
-Che cazzo fai, zio!- gridò Jolyne, afferrandogli il braccio che la stringeva e dimenandosi contro di lui, guardandolo innervosita. Lui evocò Crazy Diamond e non proferì parola, mentre si preparava ad attaccare ancora Kings&Queens, come il giorno prima alla Città della Moda.
Grazie al potere particolare di Crazy D, il poter modificare a piacimento le molecole, scaldare l’acqua non doveva essere un problema, e fermare il ghiaccio che avanzava non doveva essere una missione impossibile. Almeno teoricamente.
-Sai nuotare?- chiese Josuke a Jolyne, senza aspettarsi davvero una risposta. Lei gonfiò il petto e sbuffò sonoramente, aprendo la bocca per rispondere con orgoglio, ma non facendo in tempo. Venne strattonata indietro da Josuke, che si mise a gridare tutto ad un tratto. L’enorme stand rosa e azzurro alle sue spalle si scagliò sul ghiaccio a pochi metri da loro, spezzandolo e facendo muovere tutta l’acqua, continuando a colpire il ghiaccio con ripetuti pugni dati a una velocità tanto alta da non essere visibile ad occhio nudo. L’acqua ribollì sotto le nocche di Crazy Diamond, e il ghiaccio sembrò sciogliersi.
Regina, sul bordo della piscina, si lasciò scappare una risatina. Josuke si voltò nella sua direzione, furibondo e ormai rosso in viso dalla rabbia e dalla fatica, prendendo a gridarle contro.
-Che cazzo ridi, mocciosa!?-
-Scaldare l’acqua non servirà a niente. Non è acqua, idiota. È Kings&Queens, siete spacciati.-
Dall’acqua della piscina vide brillare due occhi turchesi, e il ghiaccio riprese a formarsi, sotto lo sguardo sbalordito di Josuke. Era il suo stand, che stava formando uno strato di ghiaccio su tutta la superficie della piscina. Non era l’acqua della piscina. A mente fredda e corpo congelato, Josuke cercò di usare il cervello e analizzare la situazione. Era abituato a dover capire al volo cosa stesse succedendo, grazie al suo lavoro all’ospedale di Morioh, con la piccola variante che ora si trattava di stand mortali che stavano attaccando lui stesso e la sua famiglia, e non fratture di pazienti sconosciuti.
Kings&Queens era lo stand della ragazza castana, Regina. Era sul bordo della piscina, con le suole delle scarpe nell’acqua, che formava strane onde intorno ai suoi piedi. Lo guardava con uno sguardo tra il rabbioso e lo scherzoso, mentre il suo stand tornava a formare ghiaccio sopra l’acqua, con più velocità, quasi con una voglia sempre maggiore di finire quel combattimento il prima possibile. Una mano gelida sulla spalla lo fece rinvenire, e Josuke si voltò nella direzione di Jolyne. Il suo sguardo era diverso, era serio e concentrato. Aveva capito anche lei la gravità della situazione, e la pericolosità di quello stand.
-Zio, l’hai notato anche tu? Il livello dell’acqua…-
Lui sgranò gli occhi e abbassò lo sguardo sulla patina di ghiaccio, scostata di qualche centimetri dalla superficie dell’acqua. Erano staccati, e infondo il motivo era logico: lo stand stava solo ricoprendo di ghiaccio la piscina, e se Josuke avesse continuato a far evaporare l’acqua, e farla sparire, il livello si sarebbe abbassato. Josuke annuì alla nipote e Crazy Diamond diede un’altra, velocissima raffica di pugni, che scaldò ancora l’acqua e ne fece evaporare diversi litri. Lo strato d’aria era ancora insufficiente sotto il ghiaccio, se fossero stati ricoperti non sarebbero riusciti a respirare.
Il ghiaccio aveva formato una conca attorno a loro, cercando di conformarsi all’abbassamento dell’acqua, e ormai li circondava. Josuke non poteva sopportare di usare per così tanto tempo il proprio stand, ormai abituato da anni ad uscire per pochi momenti solo per curare fratture ed emorragie durante gli interventi, non di sicuro continue raffiche ad una lastra di ghiaccio ormai spessa quasi dieci centimetri. Crazy Diamond scomparve nell’aura rosa di Josuke, che abbassò il capo, sconfortato, affondando il mento nell’acqua gelida. –Jolyne, non ci riesco- sussurrò lui, mordendosi un labbro. Lei lo prese per il colletto della maglietta e lo strattonò, gridandogli contro. –Che cazzo stai dicendo!? Devi continuare! Devi sciogliere tutto il ghiaccio!-
Josuke negò, sbattendo un paio di volte le ciglia che ormai si stavano ghiacciando. Si strinse tra le braccia e si rannicchiò in sé stesso, cercando di trovare un minimo di calore. Ormai non sentiva più le dita delle mani, sul bluastro, e il suo cuore batteva talmente lentamente da non sentirlo. Era in piena ipotermia, e non poteva farci nulla. Alzò lo sguardo sulla nipote, negando con veemenza, col suo sguardo chiaro e gelido tanto quanto il ghiaccio che ormai li avvolgeva, e anche Jolyne capì che ormai non c’era più nulla da fare. Si morse le labbra e lanciò un grido, sbattendo le mani sulla poca acqua che rimaneva intorno a loro, estraendo il proprio Stone Free, che iniziò a colpire il ghiaccio. Non si ruppe, ma i lati taglienti del ghiaccio che si appropinquava loro tagliò le nocche di Stone Free. Quando ormai fu a pochi centimetri dai loro corpi, Josuke si immerse completamente, lasciando solo il viso fuori dall’acqua. Prese Jolyne per il polso e cercò di tirarla giù, inutilmente. Aveva freddo, era stanca, era dolorante, e voleva solo finire questa missione che sembrava impossibile. Con un grido cercò di lanciare un pugno di Stone Free, ma non arrivò nemmeno a metà della distanza tra loro e la Banda. Ormai il ghiaccio era tutto attorno a lei, nemmeno se ne accorse, mentre i bordi taglienti come rasoi sfioravano le sue braccia e la sua schiena. Josuke, in un ultimo, disperato tentativo, prese Jolyne per una ciocca di capelli e la tirò giù, quasi annegandola nel mentre, cercando di tenerla sotto il ghiaccio e sopra l’acqua, com’era lui al momento. La ragazza continuò a dimenarsi ma la presa del prozio era salda sul suo braccio. Alzò l’altro, cercando di liberarsi, ma l’avambraccio rimase intrappolato tra il ghiaccio. Il ghiaccio era tagliente, e nel cercare di ricoprirli completamente non si fece scrupoli a tagliare la carne quasi all’osso. Jolyne lanciò un forte grido e ritirò il braccio, guardandosi il braccio squarciato. Con un tocco di Crazy Diamond guarì completamente.
Erano al sicuro dall’annegamento e dalle lame di ghiaccio, ma una spessa lamina fredda si stagliava sopra di loro, non potevano più uscire. Inoltre ormai erano in preda all’ipotermia, e non erano nemmeno più in grado di pensare o muoversi. La poca aria a disposizione era gelida, e bruciava nei polmoni, era sempre più difficile nuotare e anche solo rimanere a galla, mentre piano piano scivolavano nell’incoscienza.
 
Jotaro, nel frattempo, era rimasto immobile, con una mano allungata verso quei due che ormai si erano spostati. Sarebbe indietreggiato, si sarebbe staccato, se la sua mano non si fosse ricoperta di uno spesso strato di ghiaccio, che lo immobilizzava alla scaletta di metallo, ghiacciata anch’essa. Tutta l’acqua che prima lo aveva bagnato si era solidificata, e l’uomo era fermo, impossibilitato a muoversi.
Gli unici asciutti erano Koichi e Yukako, che però si ritrovava i capelli gelati, e Love Deluxe completamente bloccato da quello strato di ghiaccio che sembrava fare presa anche sugli stand, che normalmente non ne sarebbero nemmeno minimamente affetti.
Koichi si guardò attorno, una volta staccato dall’abbraccio di sua moglie, che lo aveva coperto. La donna aveva capito il pericolo, ed era riuscita a fargli scudo con i capelli, che ora però non poteva più utilizzare. Koichi, con uno scatto, tentò di correre verso la piscina gelata.
-Koichi, sta’ fermo!- gridò Jotaro, con un tono stranamente disperato. Koichi si bloccò di colpo e si girò verso Jotaro, inerme sul bordo piscina, con le mani bloccate sulla scaletta e i piedi completamente ricoperti di ghiaccio. Koichi si fermò di fianco a Okuyasu, che non aveva ancora detto una parola. Le lenti degli occhiali blu erano ricoperte da spesso ghiaccio, e sotto di esse i suoi occhi sgranati fissavano il centro della piscina e allo stesso tempo il nulla.
I muscoli erano tesi e ricoperti di ghiaccio e fango gelato, e nulla ostacolava i suoi movimenti se non dal panico nel rivedere quel ghiaccio, bollente e gelido sulla pelle già debole e screziata da altri segni rossi, di precedenti tagli e ustioni provocate da quello stesso, identico ghiaccio.
Perso nei suoi pensieri, Okuyasu iniziò a ragionare.
Il tempo si era fermato attorno a lui, non esisteva più nessuna Banda, nessuna palestra, nessun Koichi che gli si appendeva al braccio e lo tirava, cercando di rinsavirlo. Come capitava non troppo spesso, la mente di Okuyasu iniziava a ragionare, a calcolare, a funzionare davvero, anche se in una maniera del tutto diversa dagli altri.
Sentiva il ghiaccio sulla pelle, nello stesso punto in cui l’aveva sentito il giorno prima, alla Città della Moda. Quello della giornata precedente era tremendamente gelido, tanto freddo da lasciargli delle ustioni sulla pelle, insopportabile anche solo da ricordare. Questo sembrava essere semplice ghiaccio, anche in via di scioglimento. Non era freddo come quello della giornata prima. Voleva dire che era più debole.
Una fontana non può avere troppi litri al suo interno, al massimo una ventina, rispetto all’oltre centomila litri di quella enorme piscina. Più quello stand, che a quanto pare si chiamava Kings&Queens era diluito, meno potere aveva.  Come gli hanno raccontato, quello stand ha anche una forma fisica, che non riusciva ad acquisire se aveva a disposizione troppa acqua. Allora perché usare proprio quello stand, in quella situazione, se non era la più vantaggiosa?
Okuyasu finalmente alzò lo sguardo, ora totalmente stravolto da quello di prima, deciso e finalmente sicuro, su Zarathustra, dall’altro lato della piscina. Okuyasu era sicuro che avesse in mente un piano, e che indebolire uno stand tanto potente in una situazione così delicata servisse a qualcosa. Lei lo stava guardando, e aveva compreso la situazione.
Si voltò verso Ludovico e con un cenno della testa indicò Okuyasu.
-State attenti a quello.- ammonì, mettendosi le mani nelle tasche dell’ampio bomber rosso. –È lui il vero problema. Credo abbia già capito il mio piano.-
-Quel cerebroleso?!- rispose Piero, gesticolando contro al suo capo. –Andiamo Boss, è solo un leso! Non è sicuramente al tuo livello!-
Con un sorrisetto Zarathustra tornò a fissare l’occhio rosso e luminoso sul massiccio uomo dalla lunga coda argento e nera, che la fissava. La fronte corrugata, le due grosse cicatrice sul suo viso segnate dalle rughe di preoccupazione sulla fronte, e i suoi occhi scuri che sembravano volessero perforarla e distruggerla. Quell’uomo era sicuramente interessante da studiare, almeno quanto il suo poderoso stand.
-Koichi- borbottò Okuyasu, quasi riscuotendosi da quel torpore che aveva inquietato non poco l’uomo biondo. Alzò la testa e lo guardò, guardò quell’espressione stranamente seria e concitata su quello sparuto gruppo di ragazzini. La sua voce era più bassa, più seria, e stranamente attiva. Koichi non poté fare altro che seguire quel tono quasi marziale nella sua voce solitamente così scherzosa. –Io vado, tu non seguirmi. Aiuta Jotaro e Yukako a liberarsi dal ghiaccio, ma non toccarlo, nemmeno con Echoes. Al mio segnale, tieniti pronto.-
Koichi annuì convinto e Okuyasu prese la rincorsa, buttandosi dal bordo della piscina ed atterrando sul ghiaccio, ormai spesso più di dieci centimetri, sotto lo sguardo attonito di tutti i presenti.
Josuke, con l’acqua alla gola e un fin troppo spesso strato d’acqua sopra la testa, rimase a guardare la scena inerme e terrorizzato.
-Zio, c’è qualche problema?- chiese Jolyne con le poche forze che le rimanevano, avvicinandosi a lui. L’uomo si girò, la guardò con gli occhi fuori dalle orbite e deglutì, spaventato a morte.
-Oku non sa nuotare…- mugugnò lui.
Josuke continuò a seguirlo da sotto il ghiaccio, fissandolo tanto intensamente da bucare quella cortina gelata, sperando al contrario che essa non si spezzasse mai sotto ai suoi passi pesanti, che echeggiavano sulla piscina coperta. Il suo passo pesante, sicuro e svelto sopra quel ghiaccio solido ma ormai quasi sciolto. Dal suo sguardo non si poteva evincere nessun pensiero, nessuna previsione sulle sue mosse future. Ma sembrava più che chiaro che si stesse dirigendo proprio verso il gruppetto della Banda che era rimasto a bordo piscina, ovvero Zarathustra, Regina, Piero e Noemi.
Noemi scattò in avanti, facendo per buttarsi anch’essa dentro la piscina.
-Lo fermo io quel ciccione!- gridò lei, stranamente furibonda, pestando infantilmente le ballerine blu elettrico sul lastricato umidiccio della piscina. Zarathustra alzò un braccio, e lei si fermò, come richiamata indietro dal carisma della giovane boss.
Zarathustra aveva solo intuito che avesse un piano. Si era tremendamente sbagliata su quell’uomo, che credeva essere un sempliciotto, ma si rivelava probabilmente essere la mente più contorta e forse più pericolosa dell’intero gruppo dei Joestar. Voleva studiare le sue azioni, capire cosa volesse fare, dove fosse diretto, e quale fosse la sua prossima mossa: lo aspettava, immobile, all’erta e curiosa, mentre una tremenda battaglia di sguardi si svolgeva tra di loro. Okuyasu voleva scoprire il piano di Zarathustra, Zarathustra il piano di Okuyasu: erano sulla stessa barca, una sfida all’ultimo sangue tra loro due, solo tra loro due.
Ormai la sua corsa, segnata da qualche scivolata e capitombolo sulla lastra di ghiaccio sempre più scivolosa e sciolta, era quasi giunta al limite. Si trovava a pochi metri dal gruppetto ormai sparuto, quando, tutto ad un tratto, alzò il braccio destro e iniziò ad urlare, l’aura bluastra attorno a lui sempre più luminosa e forte.
-Vi cancellerò tutti!- gridò lui. –The Hand!-
Stava puntando su Zarathustra, ma non riscontrò nessuna modifica al suo comportamento, era un orribile attore quell’Okuyasu. Era un misero bluff, constatò Zarathustra, evocando un braccio di 42, pronto a sparare dritto tra i suoi occhi, sopra la montatura degli occhiali. L’avrebbe stordito, sarebbe stato ricoperto dal ghiaccio di Kings&Queens e non sarebbe stato più una rogna per il suo piano.
Ma Okuyasu, prima ancora di fare un altro passo, sprofondò nelle acque gelide della piscina, tramite un grosso buco nel ghiaccio.
Regina gridava terrorizzata e infuriata, e non poteva permettersi che quell’uomo si avvicinasse a loro, ai suoi compagni, ai suoi amici.
L’istinto portò Regina a far sprofondare Okuyasu, sotto lo sguardo sconvolto di Zarathustra, sconvolto come mai l’aveva vista. –Regina…- mugugnò, mentre tutti si zittirono. La ragazza castana si voltò verso il suo capo, con sguardo disperato e terrorizzato. –Stava per attaccarci… Boss io non potevo..!-
Piero le corse incontro e la strattonò per un braccio, infuriato, urlandole contro con il viso completamente rosso dalla rabbia e dalla paura. –Quello aveva un piano, cretina! Siamo fottuti!-
Con una gomitata staccò il basso ragazzo dai capelli viola dal suo corpo e si aggiustò il colletto della maglia, cercando di mantenere la calma della sua azione. –Regina.- tuonò Zarathustra, e la ragazza si mise in attesa di ordini, sudando freddo. –Ricoprili di ghiaccio- disse, con un lieve cenno della mano e la solita espressione fredda. –il piano rimane quello, che ce ne siano dentro due o tre. Non ha importanza.-
Ravvivata dalle sue parole, ciniche quanto rassicuranti, Regina chiuse il ghiaccio sopra i tre, bloccandoli di nuovo in quell’inferno gelato.
 
Okuyasu stavolta l’aveva combinata grossa. L’acqua sembrava cemento sotto la sua schiena, e cadde come un macigno verso il profondo. Lanciò un forte grido al contatto con il muro di fredda acqua sotto di lui, e sentì l’acqua entrargli nelle narici, in bocca e in gola. Era gelida ma bruciava come l’inferno nella sua trachea, mentre le sue mani cercavano quasi disperatamente un appiglio. Chiuse gli occhi doloranti e tentò di soffiare via dal proprio corpo tutta l’acqua, ma ormai sentiva che era troppo tardi, che troppa poca aria stava affluendo alla sua testa, che la temperatura si stava lentamente e fin troppo velocemente abbassando, e Okuyasu sentì per la prima volta un leggero sentore di sfiducia nelle proprie azioni.
Fremeva nell’acqua gelida, allungava le mani per raggiungere quella luce che man mano sfocava sopra di lui, mentre veniva portato giù, sempre più giù. Qualcosa di grande, ben più grande di lui lo afferrò e lo riportò a galla, facendogli sbattere la fronte contro il duro ghiaccio sotto di lui, e Okuyasu tentò di gridare o semplicemente di riprendere fiato, inutilmente. Si aggrappò a ciò che lo teneva a galla, del freddo tessuto bagnato, e grazie a delle forti manate sulla schiena riuscì a sputare tutta l’acqua che aveva ingoiato, finalmente riprendendo a respirare la fredda aria sotto il ghiaccio della piscina.
-Grazie per avermi vomitato addosso.- sbuffò una voce bassa e infastidita, scossa da vari e impercettibili tremiti. Una voce che conosceva fin troppo bene. Okuyasu alzò la testa e si sfregò le mani sugli occhi ancora annacquati, osservando chi effettivamente lo stava tenendo a galla. –Jojo?-
Era tremendamente diverso dal solito, il viso pallido e stranamente bianco, le sue solite guance rosate erano quasi tinte di un bluastro per nulla sano. Okuyasu gli sorrise e gli tirò completamente indietro i corti capelli che gli erano ricaduti sulla fronte, abbracciandolo con forza. Il suo corpo era gelido, tremava e a malapena aveva la forza di tenerlo a galla, ma era felice di essere lì con lui, soprattutto per il fatto che la temperatura corporea di Okuyasu era sempre, perennemente bollente.
-Hai un piano, furbo?- lo rimproverò Josuke, tentando ti tenerlo in braccio mentre cercava di stare a stento a galla. Okuyasu gli passò le braccia attorno al collo per tenersi meglio a lui e voltò la testa, osservando silenziosamente la Banda da sotto lo spesso ghiaccio che li ricopriva. –Forse..- mugugnò lui, poco attento alle parole del marito.
-Che diavolo vuol dire “forse”?!- gridò Jolyne, avvicinandosi a lui e tenendosi a sua volta al massiccio corpo di Josuke, guardando Okuyasu con rabbia e tanta paura. Josuke la fulminò con lo sguardo e strinse più forte a sé il corpo del marito, più per scaldarsi con la sua temperatura corporea incredibilmente alta anche se si trovava in una piscina di acqua sotto lo zero.
Si voltò e notò che Zarathustra li stava osservando. Anche dalla spessa lastra di ghiaccio che li ricopriva, riusciva a vedere il suo occhio scintillare e spiarli. Non era sicuro parlare del suo piano, l’aveva capito. Era in attesa.
Si piegò su Okuyasu e premette le labbra al suo orecchio, sussurrando il più piano possibile, con un filo di voce inudibile. Anche parlare con gli stand era pericoloso, c’era anche una recondita possibilità che le strabilianti abilità degli avversari potessero intercettare i loro pensieri. Parlare così, invece, era la scelta più saggia. L’aveva imparato, in anni e anni di convivenza chiassosa e logorroica.
-Hai un piano?-
Okuyasu annuì, senza guardarlo. –Quella mocciosa sta per attaccarci, e tu sai come fermarla, vero?-
Okuyasu voltò lo sguardo nella sua direzione e gli rivolse un sorriso sicuro di sé, come raramente gli capitava di vedere sul suo viso. Josuke si lasciò scappare un sorrisino speranzoso e soddisfatto. Il livello dell’acqua si stava ancora abbassando, e il ghiaccio inspessendo sopra di loro, ma a Okuyasu non sembrava importare. Era sicuro di sé, e questo bastava a Josuke per fidarsi. Non era mai sicuro di nulla, suo marito, raramente in 17 anni di relazione l’aveva visto così serio e dedito alla missione. L’ultima volta fu per la proposta di matrimonio, quasi dieci anni prima. Era certo di volerlo fare, sicuro che quella sarebbe stata la vita che voleva, la vita perfetta che però Josuke non si sentiva di dargli. Cercò di scacciare i brutti pensieri che gli attanagliavano la mente e alzò un po’ di più sul suo corpo Okuyasu, così da rendergli la visuale più chiara, con la testa appoggiata al ghiaccio e i lunghi capelli neri appiccicati al viso fradicio.
 
-Sa che lo sto guardando- indicò Zarathustra con un cenno della testa. Noemi le si affiancò e si chinò sul ghiaccio e osservò i tre nell’acqua, masticando una gomma da masticare. –Ma chi, lo scemo con la cicatrice in faccia?-
Zaratustra annuì appena mentre si guardava intorno, fissando i trampolini a bordo vasca. –Piero, Sali sul trampolino più alto e raggiungi Eriol. Regina, arretra e dirigiti a destra. Noemi, rimani con me.-
Tutti annuirono e corsero verso le postazioni designate dal loro capo. Piero grazie a Seven Nation Army salì sulla scaletta agile come una scimmia, saltellando sul bordo del trampolino mentre Eriol, salita prima sempre sotto ordine del capo, si teneva pericolante alla scaletta.
-Attento, cretino!- gridò lei, stringendo tra le mani una grossa boccetta piena di una polverina bianca. –Se cade prima del tempo, siamo nella merda tutti!-
Il Boss era pronta ad agire, non voleva più aspettare.
-Noemi, controlla il biondino di fronte a noi. Qualsiasi movimento faccia, avvertimi.-
Noemi fece per ribattere, ma Zarathustra allungò il braccio, il tipico movimento con il braccio teso davanti a sé e la mano a mo’ di pistola.
Quando si mise in posizione, Okuyasu fece lo stesso. Zarathustra voleva ormai finirla in fretta. Caricò il braccio di elettricità e il braccio di 42, apparso sul suo, preparò un ago nero di grosse dimensioni, completamente elettrificato.
Voleva folgorarli in acqua, e ucciderli definitivamente. Sparò l’ago, che però non arrivò nemmeno a toccare il ghiaccio. Era scomparso, svanito, e un grosso buco si era creato nel ghiaccio.
Sotto la lastra gelata, Okuyasu era intenzionato a non morire folgorato.
The Hand si allungò di qualche metro dal portatore e cancellò il ghiaccio, e con sé l’ago. –Koichi, ora!- gridò Okuyasu attraverso il buco, mentre lentamente il ghiaccio riprendeva a ricrearsi.
Koichi, rimasto a bordo piscina, nell’unica zona del pavimento ancora asciutto e non gelato, era come pietrificato dalla paura. Sua moglie Yukako ormai era completamente congelata dal collo in giù, e la parte sinistra del corpo di Jotaro era bloccato dalla spessa patina di ghiaccio che lo legava alla scaletta. Era rimasto solo lui asciutto e intatto, col terrore di dover perdere tutti. Doveva rimanere libero dal ghiaccio però, se voleva riuscire a fare qualcosa. Evocò il proprio Echoes, che galleggiò sopra la sua testa, a gambe incrociate e testa bassa. –Mi sa che ci rimettiamo, questa volta- borbottò lui, alzando le spalle. Koichi fulminò con lo sguardo il proprio stand e lui si lasciò scappare un risolino amaro, indicando il portatore. –Ehi, questi sono i tuoi pensieri, non darmi la colpa!-
Il biondo negò con la testa e tornò a concentrarsi sulla lastra di ghiaccio, ora con un grosso buco nel mezzo. –Koichi!- gridava una voce rantolante e roca sotto di esso. Era Okuyasu, e stava gridando il suo nome. –Ora!-
Alzò lo sguardo e notò che il loro capo stava puntando qualcosa verso il bordo destro della piscina.
Non ci pensò due volte, e allungò le mani verso il bordo sinistro della piscina.
-Echoes act 4! Turn!- gridò, girando le mani e mimando di voltare un volante. Lo stand bianco sopra di lui annuì e dalle sue mani scaturì una luce verde. Punto le mani sulla piscina, esattamente sull’angolo nel fondo, e tutto ad un tratto l’acqua iniziò a inclinarsi. Aveva cambiato la gravità, che ora non era più indirizzata in basso, ma verso quell’angolo della piscina. L’acqua si spostò completamente a sinistra, facendo conficcare la spina sparata da 42 nel fondo asciutto.
Con la gravità cambiata, tutti iniziarono a scivolare verso sinistra. Yukako, non legata al pavimento dal ghiaccio, andò a sbattere contro il muro, facendo rompere tutto il ghiaccio che le si era attaccato alla pelle. Con più libertà di movimento e aiutata da Echoes, raggiunse Koichi. Lui la prese per la vita e la tenne stretta a sé, galleggiando nell’aria grazie all’effetto di Echoes, che aveva annullato la gravità del portatore.
L’acqua dentro la piscina si capovolse e Josuke, Jolyne e Okuyasu vennero travolti dall’onda, che li fece sbattere contro il fondale della piscina. Josuke allungò una mano verso il volto di Okuyasu e premette il palmo sulle sue labbra, chiudendogli il naso per far sì che non respirasse, mentre tentava inutilmente di nuotare verso la luce, contro la forte gravità dietro di sé. Ormai era stanco, senza forze e senza fiato, nel dover sollevare i quasi duecento chili tra lui e Okuyasu. Non sapeva quanto tempo sarebbe riuscito a rimanere lucido e in grado di capire che non doveva arrendersi; purtroppo Josuke è sempre stato un tipo arrendevole di natura. Ma non poteva arrendersi, doveva salvare Okuyasu e tornare a galla. Con un ultimo sforzo premette le suole delle scarpe contro il fondale e, con Okuyasu in braccio e Jolyne per il polso, cercò di darsi la spinta per tornare a galla. Ma Jolyne non si mosse. Scambiò le posizioni e prese il prozio per il polso, tirandolo verso il basso.
Josuke, incapace di reagire, si lasciò ricadere con la schiena sul fondale. L’unica cosa che sentiva era Okuyasu tremare tra le sue braccia, la sua fronte premuta contro la spalla, mentre tentava di non respirare.
Jolyne alzò un braccio, indicando ai due uomini l’imponente ombra del trampolino sopra di loro.
 
Zarathustra si voltò quasi rabbiosa verso la ragazza dai lunghi ricci arancioni, che però non stava guardando Koichi, bensì l’alto trampolino. Zarathustra la afferrò per la spallina della canotta viola, ma lei le prese il polso, indietreggiando. –B..boss…-
Il capo, stanca delle sue lamentele, alzò la testa e osservò nella stessa direzione di Noemi. Il trampolino si stava lentamente piegando su sé stesso, verso il punto in cui lo stand di Koichi aveva concentrato la gravità. Sopra il trampolino, da cui provenivano rumori sinistri e ben poco rassicuranti, Eriol riusciva a malapena a mantenere l’equilibrio. La boccetta piena di polvere biancastra tremava tra le sue mani, terrorizzata dal poterne versare anche solo qualche granello.
Tutto ad un tratto, un forte rumore fece riportare alla realtà tutti i presenti nella palestra. Il trampolino si spezzò a metà, e l’alto palo metallico che lo teneva sollevato cedette sotto la spinta della gravità. Eriol tentò di aggrapparsi, ma scivolò e con lei la boccetta di polvere.
Piero, visto tutto, le saltò addosso e la prese per un braccio, facendo un lungo balzo contro la gravità e aggrappandosi al soffitto di vetrata grazie al suo Seven Nation Army.
Eriol rimase appesa per il suo braccio, allungando una mano verso la boccetta, che tutto ad un tratto smise di cadere. Galleggiò per un po’ nell’aria, e si liberò della boccetta, che cadde sul ghiaccio sottostante.
Zarathustra rimase ad osservare la nube bianca di polvere galleggiare sopra le loro teste e, rapida come non mai, prese dalla tasca del giubbino rosso una specie di versione in miniatura di Nothing but The Beat, lo stand del fratello minore Alex.
-Ludovico- disse in tono accusatorio nello stand, che funzionava da ricetrasmettitore per rimanere in contatto col gruppo della Banda che era già uscito dalla palestra.
-Il piano è… andato più veloce di quanto dovesse andare. Ci serve Black or White, dobbiamo uscire, subito.-
Il tono preoccupato del Boss fece spaventare non poco Ludovico, che raramente l’aveva sentita così spaventata. Alex e Davide si guardarono spaventati mentre Ludovico richiamava la sua ombra sotto di sé, in cui saltò e si affrettò verso la palestra. Gli altri due compagni rimasero nel campetto sul retro della palestra, davanti alla scuola ormai vuota. Dovevano fare da palo, se mai fosse arrivato qualcuno, anche se ormai era passata da tempo l’una del pomeriggio, e tutti gli allievi erano già andati a casa.
Ludovico sbucò ai piedi di Zarathustra, salutandola con quello che doveva essere un sorriso, ma sembrava solo una smorfia di preoccupazione.
Con un acuto fischio richiamò tutti i componenti della Banda e mise un piede nell’ombra, aspettando tuttavia gli altri per entrare. Era il capo, doveva essere l’ultima, doveva accertarsi che tutti i compagni stessero bene.
Piero prese Eriol per la vita e si lanciò dentro, centrando in pieno la grossa ombra circolare. Noemi quasi ci inciampò dentro e Regina, nel frattempo occupata a guardare misteriosamente verso l’alto, si incamminò con lentezza verso l’ombra. Vi immerse un piede ricoperto dall’alto stivale nero impermeabile e si voltò verso Zarathustra, annuendo soddisfatta.
-Ho sigillato tutto, Boss, ho fatto del mio meglio…- le disse, con un tono lievemente preoccupato. Zara dovette capire che la ragazza castana si sentiva in colpa per aver fatto l’errore di aver fatto cadere Okuyasu in acqua, quando il suo capo le aveva esplicitamente dato l’ordine di non farlo. Zarathustra le appoggiò una mano sulla spalla e quasi accennò un sorriso, spingendola dentro l’ombra. –Hai fatto un ottimo lavoro, oggi. Ora va’, o faremo una brutta fine.- disse, indicando il pulviscolo bianco sopra di loro.
Regina si lasciò scivolare dentro l’ombra e Zarathustra si voltò un’ultima volta verso gli avversari. Guardò Koichi con attenzione poi, senza alcuna espressione, si tuffò dentro l’ombra e sparì.
Koichi ricambiò il suo sguardo con puro terrore mentre constatava felice che era tutto finito. Annullò la gravità artificiale causata dal suo Echoes e riappoggiò i piedi a terra, sciogliendosi dall’abbraccio con la moglie, che corse verso la piscina. Era terribilmente preoccupata per i tre sotto l’acqua, che non erano ancora riemersi dopo tutto ciò che era successo. Allungò alcune ciocche di capelli e Love Deluxe alzò il trampolino, scagliandolo lontano. Si inginocchiò sul bordo e scrutò sul fondo, notando solo una specie di trama sotto la superficie dell’acqua gelida. Allungò una mano e la toccò, notando che aveva la consistenza di una maglia di tessuto.
-Che te ne pare?- disse una voce femminile. Alzò lo sguardo e guardò le tre figure che riemergevano dall’acqua ora più calda e più bassa, avvolti da quella che sembrava una rete da pesca. Jolyne aveva protetto loro dalla caduta del grosso trampolino metallico grazie a Stone Free, che si era srotolato e aveva formato una rete di protezione. Vicino a lei, Josuke e Okuyasu galleggiavano a malapena, pallidi e fradici. Josuke riusciva a malapena a tenere sollevato il marito, appoggiato a peso morto sulla sua spalla mentre cercava di riprendere fiato.
-Quel piano, Oku…- sussurrò Josuke, scuotendolo scherzosamente. Okuyasu con un mugolio imbronciato si voltò nella sua direzione, sistemandosi gli occhiali sul naso per vederlo in viso. –…è davvero tutto merito tuo?-
Nella voce di Josuke c’era così tanta sorpresa che Okuyasu non seppe come prenderla. Gli sorrise, decisamente deluso, appoggiando la guancia alla sua spalla e rimanendo ad osservarlo, con un sorriso amaro sulle labbra, passandogli indietro i capelli appiccicati alla fronte fradicia, che già cominciavano a prendere i loro ricci originari, di solito tenuti a bada dai chili di gel che ogni mattina si mette con cura. –È tutto merito mio, JoJo…-
Con un sorriso stranamente sincero nuotò lentamente verso il bordo piscina, l’acqua stranamente più calda, molto più calda, a cui non fece tuttavia caso.
Jolyne balzò sul bordo piscina e corse incontro al padre, che era rimasto immobile contro la scaletta, senza potersi muovere. Ormai il ghiaccio era quasi del tutto sciolto sulla sua mano, e con qualche calcio al ghiaccio riuscì a spezzarlo e a correre incontro alla figlia, che abbracciò con forse troppa forza, tra le sue braccia ancora gelate. Jolyne tentò di lamentarsi ma lasciò perdere, felice anche solo di quell’abbraccio.
Yukako prese per le mani Okuyasu e lo tirò su dall’acqua, aiutata anche dal proprio stand e dalle spinte di Josuke, ancora dentro la piscina. Okuyasu cadde sul pavimento di viso, gridando dolorante e alzandosi quasi subito in piedi, con un sorriso raggiante, felice di essere sopravvissuto mentre si piegava su Yukako, cercando di condividere la sua felicità con la donna ancora ansiosa e preoccupata, che con l’abbraccio del suo migliore amico forse si sarebbe un po’ sciolta, almeno così pensava Okuyasu mentre la stritolava.
-Hanno bloccato le porte e le finestre con il ghiaccio…- constatò Koichi, indicando le fenditure barricate di ghiaccio blu, sicuramente opera di Kings&Queens. Era strano. Perché volevano chiuderli lì dentro? Forse per scappare più facilmente? Eppure il loro Boss aveva detto di volerli eliminare.
Josuke fu l’ultimo a uscire dall’acqua. Mentre appoggiava i palmi sul bordo piscina per uscire, sentì qualcosa contro la propria coscia. Era la boccetta di vetro che Eriol aveva fatto cadere, quella con all’interno la polverina bianca, che ormai non vedeva più. Prese la boccetta tra le mani e si sedette sul bordo piscina, con le gambe a sguazzare dentro l’acqua calda.
-NaOH… Idrossido di sodio…-
Sei anni di chimica farmaceutica all’università di Harvard erano serviti a qualcosa, e si ripresentavano con forza, dopo tanti anni. Sgranò gli occhi e si alzò in piedi, gridando terrorizzato mentre si guardava attorno, fissando terrorizzato il pulviscolo che ormai li circondava. Tutti si voltarono nella sua direzione e lui riprese in mano in mano l’ampolla che si era lasciato cadere, mostrando la dicitura sull’etichetta.
-Idrossido di sodio… NaOH… è soda caustica! Siamo circondati da soda caustica, e siamo chiusi qui dentro!-
 
 
 
 
 
It's the moment of truth, and the moment to lie,
the moment to live and the moment to die,
the moment to fight, the moment to fight
to fight, to fight, to fight!
This is War, Thirty Seconds to Mars (This is War, 2009)
 
Note dell’autrice
SONO VIVA!!! DH RICOMINCIA A ESSERE AGGIORNATO! Sì, sono emozionata anche io!
Dopo vari scombussolamenti e esami e diploma, finalmente sono tornata con DH! Questo capitolo è inquietantemente lungo. Ci ho impiegato un mese e mezzo a scriverlo, ogni giorno, pezzo per pezzo… e non è nemmeno finito!
L’idea originaria era di scrivere il capitolo di venti e passa pagine per intero, in questo capitolo 15. Ci ho ripensato, credo che questo sia abbastanza lungo di suo… (è il capitolo più lungo fino ad ora, e se siete già riusciti a finire di leggerlo, COMPLIMENTI) per cui il finale del combattimento al prossimo capitolo!
Ciao a tutti e grazie per la pazienza!

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Capitolo 16
*** All'inseguimento della Banda! (parte 6) ***


Shizuka era costretta a inventarsi una scusa, anche questa volta. La giustificazione “un dolore al petto mi fa venire questo pensiero” non funziona, anche se effettivamente è quello che sta provando. Quella voglia bianca sul suo petto ogni tanto le provocava delle strane fitte, non violente, non dolorose, ma non c’era nessun altro modo per chiamarle. Erano impulsi, le davano una strana scarica di adrenalina, una spinta verso qualcosa.
Che, questa volta, era verso il grosso istituto rosso alle sue spalle.
Guardò distrattamente sua zia attraverso i sottili occhiali da sole azzurro pallido e sviò quasi subito lo sguardo, voltandosi e osservando l’edificio. Era un istinto primordiale quello che la spingeva verso il pericolo, a cui però non poteva rinunciare, né tantomeno seguire al momento.
-Vuoi anche tu buttarti nella mischia, vero?-
Holly le passò una mano tra i capelli e Shizuka sbuffò sonoramente, cercando di scostarsi la donna di dosso. Con un balzo saltò giù dall’auto e si stiracchiò un po’ le braccia, aggiustandosi per bene la sciarpa verde e gialla al collo. Sfregandoci due dita su, Shizuka notò che si generava qualche scintilla. Perfetto.
Voleva agire, e voleva agire ora. Aveva dei brutti, brutti presentimenti sui suoi genitori, quello che stavano facendo, e le loro condizioni sulla battaglia: sentiva dentro di sé una sensazione orribile, un senso opprimente di grande disagio al petto. Era orribile, le ricordava ricordi passati che non voleva far riemergere. Come quando i suoi padri dovettero viaggiare fino alla Florida per sconfiggere quel prete, quattro anni prima. Come quando nonna Suzie non si svegliò più dalla sua vecchia poltrona. Tutti se ne andarono, gli infermieri, la donna delle pulizie e il nonno ancora sotto shock, e lei rimase immobile, seduta sul lercio e polveroso tappeto nella grossa sala dei nonni adottivi, al buio, abbandonata e inutile, i giocattoli nuovi e freddi stretti tra le sue mani ancora troppo piccole, i suoi pensieri ancora troppo acerbi scanditi solo dal pulsare del suo cuore nel petto.
Shizuka si risvegliò dai quei pensieri e scosse la testa, facendo un passo in avanti. Il suo polso venne stritolato con un’incredibile stretta e venne trascinata all’indietro. Si voltò di scatto e notò, arrotolato attorno al suo braccio, un grosso rovo ricoperto di fiori sbocciati e sgargianti. All’altro capo del ramo, Holly le sorrideva. Il ramo partiva dal suo polso, ed era stretto tra le sue dita tremanti ma salde.
-Che c’è, Shizu-chan, non credevi io potessi avere uno stand?- disse scherzosamente l’anziana donna, notando lo stupore dipinto sul viso pallido della nipote. –Il mio stand, Every Rose Has His Thorns, ha la capacità di far evocare queste liane su qualsiasi superficie, a mio comando! Non male per una vecchietta come me, mh?-
Shizuka rimase ad osservarla, parecchio sorpresa, afferrando il rovo con la mano libera e strattonandolo, cercando di liberarsi. Doveva evocare quello stand, come aveva fatto alla Fontana, la sua forma fisica avrebbe sicuramente rotto quel ramoscello. Strinse gli occhi e si sforzò, non ricevendo nulla in cambio. Non lo sentiva, non lo vedeva, e in effetti non c’era. Non l’aveva evocato, non ci era riuscita, era semplicemente diventata leggermente trasparente. Abbassò il braccio e si arrese, avvicinandosi di nuovo all’auto su cui era ancora seduta sua zia, appoggiandosi alla portella e osservandola con sguardo torvo da sopra gli occhiali da sole.
Holly la continuò a fissare negli occhi, incuriosita e quasi spaventata. C’era qualcosa nei suoi occhi che la faceva così tanto somigliare a loro, alla stirpe dei Joestar, e qualcosa che l’allontanava drasticamente. Una luce di forza, di vigore, di speranza che ha sempre accompagnato suo padre Joseph, suo figlio Jotaro, sua nipote Jolyne, suo fratello Josuke. E quelle flebili, scure linee concentriche nelle sue iridi gelide e grigie, qualcosa che non aveva mai avuto l’occasione di vedere. Era ambizione pura, era qualche strana, ancestrale spinta che sembrava tremendamente lontana a Holly.
-Allora?- esordì Shizuka, scalciando un po’ a terra. –Cosa vuoi da me?-
-Voglio farti una proposta.-
Gli occhi verdi e taglienti della zia si puntarono saldi su quelli scuri e gelidi della giovane, che annuì, senza pensarci due volte. Allungò la mano pallida verso di lei e Holly la strinse senza pensarci due volte.
-Non ti interessa saperla?-
-Mi interessa eccome, zia- sussurrò Shizuka, guardandola di sottecchi. –ma mi interessa a prescindere. Mi piacciono le sfide.-
Holly le sorrise, un sorriso sveglio e furbesco mentre si alzava in piedi, parandosi davanti a lei mentre si reggeva al leggero bastone di mogano.
 
-Se Rosanna mi scopre, giuro che t’ammazzo.-
Emporio sentì la voce tagliente della cugina nell’orecchio, e si irrigidì di colpo. Un brivido gli passò la colonna vertebrale, nel sentire il suo tono di disprezzo soffiargli gelido sul lobo dell’orecchio. Non si voltò, non fece nulla. Strinse i pugni e annuì titubante e terrorizzato da lei. Era più bassa di lui di una buona ventina di centimetri, ma i suoi modi sempre così superiori e il suo sguardo gelido e distaccato hanno sempre provocato in Emporio una sorta di paura. Reverenza oserebbe dire. Sfiducia in quella ragazza bassa ed esile, su cui aleggiava una specie di presenza anomala, innaturale. Non sapeva dire cosa fosse di preciso, se una semplice aura di autorità o qualcosa di più. Burning Down the House non si era ancora rivelato attorno a lei, dunque non era probabilmente qualcosa che c’entrasse con il suo stand, ma sembrava quasi qualcosa di sovrannaturale.
Emporio negò, non poté fare altro. Shizuka, a viso basso e passo svelto, si diresse verso un bar vicino all’istituto, seguita da Holly, che sventolò un po’ la tremolante mano guantata di bianco velluto. –Emporio, Rosanna! Accompagno Shizu al bar!- trillò, sorridendo ad entrambi. Rosanna, seduta sulla scalinata dell’entrata posteriore della scuola, si risvegliò dai suoi pensieri e fissò la suocera. Sorrise, confusa per il non aver ascoltato le sue parole, e salutò a sua volta. Le due scomparvero dietro l’angolo e la donna tornò nei suoi oscuri pensieri, i gomiti appoggiati alle ginocchia e lo sguardo davanti a sé.
-Mamma, c’è qualche problema?- sussurrò Emporio, sedendosi al suo fianco. Lei, senza distogliere lo sguardo, negò. Sospirò e abbassò la testa, guardando di sfuggita il ragazzo biondo. –Ho.. paura, Emporio.-
-Paura di cosa?-
Rosanna scosse la testa e si lisciò i lunghi capelli ramati su una spalla, incerta, parlandogli con un tono anche più basso del solito. –Non lo so, ho una brutta sensazione per la mia JoJo… cosa potrebbe mai capitarle, là dentro? Spero che Jotaro la protegga…-
Rosanna non era a conoscenza degli stand, e del motivo per cui erano lì. Emporio lo conosceva benissimo, ma non poteva rivelarle nulla. Sospirò rassegnato a sua volta e le appoggiò una mano sulle spalle. –Non succederà nulla…- tentò. Rosanna alzò gli occhi su di lui e annuì, non completamente convinta ma sicuramente più tranquilla, abbracciandolo a sua volta. –Grazie, piccolo…-
 
La mano di Shizuka si strinse forte intorno al guanto di Holly, che tentò di ricambiare con lo stesso furore giovanile la sua esile mano.
-Seguimi e basta, ok? Muoversi mentre si è invisibili è difficile.-
Holly annuì e le strinse la mano con entrambe le sue, cercando di mantenere la presa la più salda possibile per una donna di oltre settant’anni. Shizuka non la degnò di uno sguardo e attivò Achtung Baby, che fece sparire entrambe. Holly rimase ad osservare i contorni quasi indistinguibili della nipote, di fronte a lei. –Di qua.- le disse, usando la telepatia degli stand. Holly rispose con un trillante –Sì!- e con entusiasmo seguì i movimenti di Shizuka attraverso il campetto ormai vuoto della scuola. Era un giardino alberato immenso, che conduceva a diversi campi sportivi e a un’enorme edificio quadrangolare, la cui effige recitava “palestra”. Shizuka tenne lo sguardo puntato sulla palestra, una strana sensazione che la spingeva verso di essa.
-La senti anche tu?- le chiese Holly, accostandosi a lei. Shizuka annuì, tenendo lo sguardo fisso sulla palestra. –Sento i miei genitori, sono lì dentro. Sento la loro aura… stanno usando lo stand..?-
-Sento Jotaro e Jolyne. Stanno probabilmente combattendo…- finì Holly, con un tono strano. Si fermò tutto ad un tratto, puntando i piedi nell’erba verde, talmente brillante e colorata da cozzare col cielo grigio solcato da venature di luce bianca sopra di loro.
La presa sulla sua mano aumentò, e Shizuka la strattonò in avanti senza alcuna delicatezza. –Che cazzo fai!?- sibilò.
La sua voce suonava esattamente come quella di suo padre Josuke, notò Holly. Quella nota di paura sotto quegli strati di aggressività, egoismo e fretta. Gli assomigliava molto, benchè la ragazza non volesse ammetterlo. –Shizuka, non possiamo…- tentò Holly, ma Shizuka non cedette. Erano a pochi metri dalla porta della palestra ormai, e se Holly non avesse voluto seguirla l’avrebbe fatto da sola. Si scrollò la sua mano di dosso e, con uno scatto, corse verso la palestra.
Tutto ad un tratto, Shizuka si sentì la terra mancarle sotto ai piedi. L’erba non era scivolosa né bagnata, la terra era levigata, ma Shizuka rovinò a terra, sbattendo le ginocchia sull’erbetta del cortile. Holly vide solo i fili d’erba spostarsi sotto al suo peso, e pesanti parole in inglese scappare dalle sue labbra.
Shizuka era convinta che qualcosa l’avesse tirata indietro. –Hai usato il tuo stand, vero?!- gridò Shizuka, rialzandosi a fatica.
-Non ho evocato nessuno stand!- si difese sua zia. –Non sono così veloce, ormai ho una certa età…-
Shizuka si era sentita toccare la caviglia, ne era certa. Una morsa letale, impossibile da divincolarvisi. Non poteva essere stata la sua anziana benchè arzilla zia, ne era sicura, anche se avesse mentito non avrebbe potuto comunque essere lei. Shizuka si guardò intorno, in cerca di qualcun altro, qualche stand nemico, qualche maleficio che le si era scagliato contro. Ma c’era solo il nulla, se non erba, cielo grigio e palestra scura davanti a loro. Dovevano solo entrare per la porta anteriore, nulla di difficile. Si avviarono entrambe, mano nella mano per volere di Holly, con estrema lentezza, finchè uno strano bagliore dorato non colpì gli occhi di Shizuka. La ragazza si voltò verso quel lampo e notò qualcosa nell’erba leggermente più alta, sul lato della palestra.
-Zia… andiamo là.- disse lei, con un soffio di voce. Holly la guardò stranita, ma non le si mise contro, e, assieme a lei, camminò velocemente verso quell’oggetto luminoso, incuriosita e stranamente impaziente. Poteva aspettare, in una situazione normale, ma non in quel caso. Era un bagliore famigliare, qualcosa che le bruciava nel petto, sopra quella strana voglia bianca sotto le clavicole. Si piegò e tastò il freddo metallo. Era una spilla a forma di triangolo, dorata e cava all’interno. Shizuka rimase ad osservarla, piegata sull’erba alta e umidiccia, quasi ipnotizzata. Era sua. Non le apparteneva davvero, non aveva mai avuto una spilla del genere, ma per qualche strana ragione sapeva che le apparteneva. Holly le appoggiò una mano sulla spalla, curiosa, e Shizuka nascose la spilla, come se fosse qualcosa di sconvolgente. Non lo era, era semplicemente una spilla. Eppure il solo toccarla la elettrizzava, per qualche strano, recondito motivo che ora non le importava sapere.
Tutto ad un tratto, dietro di loro, comparvero delle voci.
Entrambe, ancora invisibili, si voltarono e osservarono.
Otto ragazzi, quattro femmine e quattro maschi, sporchi di fango e sangue, lividi e malconci. Una ragazza era in mezzo allo sparuto branco, mentre si aggiustava gli occhialoni gialli mezzi rotti.
Era Zarathustra, quella che aveva attaccato Shizuka alla Città della Moda, ed era nello stesso, esatto punto in cui si trovavano prima zia e nipote. Se fossero rimaste lì, sarebbero state scoperte, e uccise.
Shizuka tastò la spilla ormai invisibile a sua volta tra le dita, stranita. L’aveva salvata. Non poteva essere un caso, non doveva.
Persa nei suoi pensieri, trasalì alla gomitata della zia. –Ascolta- la esortò lei. Ed entrambe, accucciate nell’erba alta, ascoltarono.
 
-Come faremo a liberarci dei cadaveri, boss?- disse Davide, parandosi di fronte a lei. Il suo atteggiamento sempre composto e marziale allietava Zarathustra. Lei alzò lo sguardo sul ragazzo dai capelli neri e platino e indicò Eriol e Regina, ancora pronte all’azione, benchè piene di lividi e graffi. –Col buon vecchio metodo dell’acido. Facile, no?-
Davide annuì poco convinto, voltandosi verso la palestra alle loro spalle. –Se diventeranno cadaveri.-
-Metti in dubbio i piani di mia sorella!?- gridò Alex, alle spalle di Zarathustra. Lei alzò un braccio e lui abbassò la testa e si strinse alle sue spalle, zittendosi. –Alex, Davide ha ragione.- si voltò anche lei verso la palestra, il suo occhio rosso luminoso sotto gli occhialoni rotti. –Dopo aver visto di cosa è capace quell’uomo, potrebbero perfino salvarsi. E crearci altre grane.-
Tutti gli altri sette ragazzi si zittirono. Noemi, fino a pochi istanti prima gioiosa di aver finalmente eliminato gli intrusi, abbassò le braccia e le lasciò ricadere sui fianchi, incredula. –Boss, dobbiamo ancora combattere..?- chiese lei, tristemente. Zarathustra non rispose. Non c’era bisogno di rispondere. Si infilò le mani nelle tasche del giubbino e voltò le spalle a tutti, anche alla palestra. Non voleva più vedere cosa succedeva all’interno.
-Tenetevi pronti. Se entro quindici minuti non sono ancora usciti da lì, possiamo procede con lo smistamento dei cadaveri.-
 
Tutto ad un tratto, fu il panico.
Yukako corse da Koichi, prendendolo per un braccio. La sua mano era bollente, la sua pelle bruciava. –Stai bene?- gridò lei, disperata, premendogli una mano sulla bocca. Koichi non riuscì a dire nulla, venne solo sollevato di peso dalla moglie mentre si fiondava verso una finestra, allungando Love Deluxe. Formò un grosso martello di capelli solidificati e andò a sbattere sul tremendo ghiaccio di Kings&Queens, che non venne nemmeno incrinato dall’impatto. Vennero entrambi sbalzati indietro e ricaddero sul pavimento della piscina, alzando polvere bianca. Jotaro afferrò Jolyne, che urlava dal dolore. La sua pelle, fradicia e gelata a causa del tempo prolungato che rimase nella piscina, si stava surriscaldando in una maniera incredibile, dolorosa e fin troppo veloce. Sembrava di essere bruciati vivi dalla propria pelle e dai propri vestiti, e Jolyne lo sentiva anche più di Jotaro. Disperato, suo padre non sapeva cosa fare. Provò ad asciugarla con il proprio cappotto, prima di accorgersi che era fradicio a sua volta. Era tutto inutile. Jotaro si guardò intorno, ad osservare la situazione. C’era una sola persona che poteva aiutarli, in questo momento.
-Josuke!- gridò Jotaro, cercando di attirare la sua attenzione. Josuke a malapena si voltò verso di lui, mentre tentava di consolare Okuyasu. Tremava tra le sue braccia, si aggrappava alla sua maglietta e gridava, fuori di sé. Sentiva la propria pelle andare a fuoco, sentiva ancora quell’odore acre di pelle bruciata, lo sentiva ancora, lo provava ancora.
-Non voglio morire bruciato vivo, non voglio! Non voglio anche io, non voglio!- ripeteva contro il suo petto, con tutta la lucidità di poco prima completamente svanita. Era il terrore puro quello che provava, quello di dover fare la stessa fine del suo unico fratello. Josuke, disperato, tentava di tenerlo fermo e sollevato, mentre continuava ad agitarsi tra le sue braccia.
Josuke alzò lo sguardo e fissò i componenti della sua squadra, uno a uno. Si sentiva dolorare tutto il corpo, ma non poteva farsi prendere dal panico. Era un dottore, lui. Un medico rinomato, con sei anni di studio alla Harvard Medical School e nove anni di lavoro presso l’ospedale della pazza Morioh. Ha visto altri casi di bruciature chimiche, ben peggiori di queste.
-Fermatevi tutti!- gridò, con tutta la poca aria che gli rimaneva nei polmoni. Tutti alzarono lo sguardo su di lui. Li osservò uno a uno, con gli occhi arrossati e il fiatone, deciso ad attirare la loro attenzione. Si guardò intorno con aria mesta e gelida, celando ogni espressione. Erano in una situazione fatale, ma anche quando si è senza speranze, un medico non deve dimostrarlo al paziente. Deve rimanere freddo e deciso, deve avere la situazione in pugno. O, almeno, far finta di averla. Gonfiò il petto e riprese a parlare, con un tono tanto calmo e lento da far scendere brividi alla spina dorsale di Jotaro, che si chiedesse come poteva mantenere una calma del genere in una situazione in cui anche lui stesso stava scoppiando.
-Tutte le uscite sono bloccate, dunque?- chiese, con tono neutro. Tutti annuirono. Okuyasu sbirciò in alto, notando che anche il vetro rotto sopra di loro era chiuso da una morsa di ghiaccio. Era un buon piano.
La stretta sulle spalle di Okuyasu aumentò, schiacciandolo all’ampio petto del marito. Aveva smesso di piangere e di singhiozzare, ma Josuke continuava a stritolarlo tra le proprie braccia, ora più di prima. Non lo faceva per Okuyasu, lo faceva per sé stesso. Okuyasu rimase a guardarlo in viso, a osservarlo per bene. Gli angoli delle labbra erano tirati verso il basso, gli occhi sgranati e le vene blu sulla sua pelle pallida ancora più evidenziate. Era nel panico, e non lo dimostrava. Josuke era bravo a trattenere la paura, e probabilmente era bravo a trattenere solo quella. Okuyasu si lasciò stritolare come una pallina antistress mentre Josuke parlava a tutti, con quel tono alto e impercettibilmente scosso da fremiti.
-Quelle porte non sono chiuse.-
-Porteranno agli spogliatoi, credo…- mugolò Koichi, rialzato a fatica da Yukako e stretto a sua volta tra le sue braccia e i suoi capelli.  –Ma avranno sicuramente chiuso anche le finestre degli spogliatoi, per cui…-
Josuke gli mise un dito davanti al viso per zittirlo e gli voltò le spalle, camminando lentamente verso le porte scorrevoli. Erano delle docce, quelle dentro. –Non c’è bisogno di finestre.- sentenziò, facendo cenno di seguirlo.
Il gruppo fece per mettersi in movimento, ma Okuyasu non si mosse, perso in chissà quali pensieri. Yukako, da brava chioccia, afferrò un braccio di Okuyasu e lo strattonò verso la porta. –Tutto bene?- gli chiese, con un filo di voce. Lui scosse la testa e abbassò lo sguardo sui suoi occhi indaco, pieni di preoccupazione. Le sorrise e la seguì, cercando di non farsi strattonare dalla donna, più per non farla preoccupare che altro. Ma ormai Yukako aveva visto qualcosa in lui che non andava, non l’avrebbe lasciato in pace così facilmente.
A fatica, tutti si incamminarono verso quella porta scorrevole. Non era bloccata.
Josuke con velocità la aprì e aspettò che tutti gli altri entrassero, a passo svelto e zoppo, gli occhi annebbiati dalla polvere nei loro occhi, che sembrava accecarli. Quando anche Josuke si chiuse la porta alle spalle e furono tutti dentro, tirò un forte sospiro di sollievo. Nel respirare, l’aria sembrava più leggera, ma bruciava sulla pelle.
Prendendo bruscamente Okuyasu per un braccio, lo sbatté contro il muro della prima doccia che trovò. Ancora confuso, non riuscì a fare in tempo a rifiutarsi o a chiedere spiegazioni che un getto d’acqua colpì la sua testa. Era gelida, e Okuyasu urlò.
-Sta’ fermo!- gridò Josuke, allargandogli la scollatura della maglietta. Okuyasu entrò nel panico e gli afferrò il polso, voltandosi verso il gruppetto che li osservava inquieti. –Lo sai che mi piace sotto la doccia ma… ma non davanti a loro, Jojo!- mugolò, tutto rosso in viso e non solo per le scottature della soda.
Josuke rimase impassibile e lo guardò con sdegno. –Okuyasu. È una procedura medica per rimuovere le ustioni chimiche.-
Okuyasu alzò lo sguardo sul marito e poi di nuovo sugli altri, avvampando ancora di più. –Oh.- disse, e riuscì a dire solo quello, sprofondando la testa nelle spalle e lasciando fare a Josuke, rosso in viso a sua volta. In sottofondo, lo sghignazzare di Jolyne rompeva il silenzio dei presenti, allibiti. Josuke aggrottò le sopracciglia e continuò a fare il suo lavoro, con uno sguardo strano in viso. Okuyasu ridacchiò mentre si scioglieva i capelli, passandosi le dita tra le lunghe ciocche argentate, accompagnando le risatine dei presenti. Perfino Yukako si lasciò scappare un sorrisino, nascondendosi le labbra con una mano. Josuke non rise. Non rise per tutto il tempo. Passò la doccetta dell’acqua sul suo petto e sulla schiena, sulle gambe e la allontanò, facendo cenno ad un altro di avvicinarsi. Koichi e Jotaro non si mossero.
-Che aspettate?- gridò, iniziando a grattarsi con forza un braccio completamente rosso dalle ustioni. –Sbrigatevi, è grave!-
Yukako gli si avvicinò, gli appoggiò una mano sul braccio coperto da bendaggi ormai fradici, quasi trasparenti, non riuscendo a nascondere i grossi tagli del giorno prima alla Città della Moda. Josuke aveva sempre, perennemente la stessa espressione pensierosa, seria e quasi dolorante. Yukako, nel guardarlo negli occhi, era sicura non si trattasse solo del dolore dell’acido sulla sua pelle delicata. Sperò che quei sospetti che aleggiavano sul gruppo fossero solo una sua paranoia, e accennò un sorriso all’amico. Che non ricambiò. Se ne andò un po’ sconsolata e si avvicinò a Okuyasu, che si passava rozzamente le dita tra i capelli, strattonandoseli.
-Faccio io, Oku.- gli sussurrò. Allontanò a forza le sue mani e si mise dietro di lui, iniziando ad accarezzargli i capelli mentre lui rimaneva fermo, con un sorrisone speranzoso in viso. –Grazie Yu…- mugolò lui. Yukako sorrise.
Nel frattempo, Jolyne si mise sotto al getto e iniziò a spazzolarsi i capelli pregni di acqua contaminata e polvere bianca, mentre Josuke ricominciava la prassi, aiutandola a pulirsi dalla soda attaccata ai suoi vestiti.
-Ti fidi?- sussurrò Jotaro, piegandosi su Koichi. Il biondo alzò lo sguardo su Jotaro e si mordicchiò un labbro, indeciso, fissando la schiena di Josuke.
–Credo…-
-E se… facesse qualcosa? Insomma, avrebbe anche la scusa per toccarci così.-
-Io mi fido di Jojo… non mi ha mai fatto nulla, no?-
-Magari non ne ha mai avuto la possibilità. Che ne sai cosa pensa uno così.-
Koichi era tremendamente indeciso, e impaurito. Aveva sempre quella recondita paura che Josuke potesse fargli qualcosa, magari di nascosto, magari stordendolo o sopraffacendolo con la sua enorme stazza. Era il suo migliore amico, lo conosceva da quasi vent’anni, ma il dubbio non è mai scomparso.
-Il prossimo?- disse Josuke, fissandoli male. Forse li aveva sentiti? Impossibile, erano lontani e parlavano a voce bassa. Si staccarono e rimasero immobili, indecisi, cercando di sembrare il più normali possibili.
-È il turno di Koichi.- sentenziò Yukako, prendendolo per il braccio. Koichi sgranò gli occhi e alzò lo sguardo sulla moglie, strattonandola un po’. Lei lo fissò con uno sguardo strano e lo spinse verso Josuke. E l’uomo biondo si accorse che, durante quel discorso “da uomini” con Jotaro, Yukako era rimasta al suo fianco tutto il tempo. Non poté fare altro che acconsentire, e mettersi sotto il getto d’acqua. Josuke ci andò molto, molto più piano. A malapena gli toccò i vestiti, scuotendoli appena e risciacquandoli, tenendo perennemente lo sguardo basso. Oh no. –Josuke, io…- tentò Koichi, con un sorrisetto tirato. Josuke non rispose, non alzò lo sguardo. –Il prossimo?- disse ancora, voltando la testa.
Yukako rimase ad osservare il suo Koichi, così riluttante nel farsi toccare così innocuamente dall’amico.
-Lo conosci da quasi vent’anni- lo spronò lei, usando la telepatia tra stand.
-Ma è.. lo sai cos’è Jojo, Yu!-
-Gay?-
-Beh…-
-Non vuoi farti toccare solo per questo? Per questo motivo idiota? E tu ti consideri un suo amico, Koi?-
Koichi abbassò la testa, cominciando a sentirsi in colpa per quel comportamento infantile retaggio degli anni dell’adolescenza, quando ancora non conosceva il suo migliore amico Josuke. Josuke incombeva enorme sopra di lui, con almeno 30 centimetri in più d’altezza e quasi il doppio del peso. Era piegato su di lui, sfregando con più forza la sua grossa mano ormai arrossata ed escoriata sui suoi vestiti bollenti, che ormai stavano diventando sempre più freschi e vivibili.
Koichi tentò di superare quel senso di disagio, che però continuava a incombere sui suoi vestiti, attraverso quelle mani fin troppo grosse, che ora gli stavano facendo bene, ma sapeva che avrebbero potuto benissimo fare anche tanto male.
Appena Josuke levò le mani Koichi scattò a molla verso Yukako, lontano da Josuke. Lei rimase immobile dietro l’ampia schiena di Okuyasu, le dita tra i suoi lunghi capelli argentati, cercando di tirare via ogni granello bianco. Non accolse il marito tra le braccia, e Koichi sentiva di meritarselo. Sentiva l’acido corrodergli la bocca dello stomaco, ma era più che sicuro che non fosse la soda caustica a ferirlo tanto.
A bocca asciutta, si voltò verso la doccia, ad osservare Jotaro alle prese con quello che lui aveva appena passato.  Non amava essere toccato, soprattutto se si trattava di Josuke. Rimase rigido, immobile, e appena ebbe l’occasione schizzò via, col viso congestionato dall’imbarazzo, dalla rabbia e dal nervosismo. Si avvicinò alla figlia e si piazzò al suo fianco, dando un forte colpo di tosse per attirare l’attenzione di tutti i presenti.
Koichi era rimasto vicino a Josuke, che aveva preso a pulire sé stesso. Si mise sotto al getto e iniziò a sfregare con vigore le mani sulla propria maglietta, aprendo la cerniera che partica dalla scollatura fino al suo fianco, passandosi le mani sul petto irsuto e sulla pelle rossa ed evidentemente ustionata per il troppo contatto col tessuto della maglietta viola imbrattata di soda.
-Jojo… grazie.- sussurrò Koichi, parecchio imbarazzato. Josuke rimase ad osservarlo, con uno sguardo meno teso e gli occhi stranamente lucidi e arrossati. Alzò le spalle e finse disinteresse, tornando a sciacquarsi mentre gli borbottava un timido “niente di ché”.
Koichi riusciva a sentirsi decisamente meno in colpa dopo averlo ringraziato, ma il nodo allo stomaco rimaneva. Forse non aveva fatto abbastanza? Tentò di non pensarci, e si voltò verso Jotaro, in attesa che parlasse.
 
 
-Dobbiamo uscire da qui- sentenziò Jotaro. Josuke, dopo aver chiuso la doccia, si avvicinò al gruppetto, ascoltando attento le parole del parente.
Echoes Act 1 andò a posarsi sulla spalla di Koichi, sconfortato. –Tutte le uscite sono chiuse. Il ghiaccio ricopre ogni porta, ogni finestra, ogni condotto dell’aria…-
-Vuol dire che presto finiremo l’aria!?- gridò Jolyne. Con tutta la velocità che aveva srotolò un dito e cercò di infilare il sottile filo di cui era composto il suo corpo nella feritoia del condotto dell’aria, inutilmente. Il ghiaccio era sottile, ma impenetrabile.
-Potremmo provare a sciogliere il ghiaccio con con Crazy D…- mugugnò Okuyasu, accostandosi a Josuke. Lui annuì poco convinto ed evocò a malapena il pugno del proprio stand sopra al suo, un’ombra rosa e azzurra, fin troppo eterea.
-Mi è rimasta poca energia ormai, ma dovrebbe essere sufficiente per creare una piccola breccia…-
-E io potrei infilarmici dentro, uscire dalla palestra e sconfiggere la ragazza col potere del ghiaccio! Così saremmo tutti liberi!-
Sul gruppo iniziò ad aleggiare una speranza bocciata come un fiore tra i ghiacci. Jotaro però non era della stessa idea. Si mise le mani in tasca e si allontanò da loro, scuro in viso, tastando il ghiaccio che circondava la finestra. Era gelido, duro come la roccia, asciutto e tanto solido da non sembrare nemmeno ghiaccio. Non era come quello che l’aveva ricoperto, poco prima, alla piscina.
-Il ghiaccio è diverso. È molto più solido, ora. Quel Kings&Queens deve avere un raggio di una cinquantina di metri. E più è vicino al ghiaccio, più questo è letale.-
Picchiettò le nocche escoriate sul ghiaccio, continuando a parlare con voce tetra, senza voltarsi mai, il cappello calato sugli occhi.
-La palestra a malapena rientrerà nel suo raggio d’azione, eppure è tutto ricoperto di ghiaccio. Probabilmente il ghiaccio che blocca le uscite dall’altra parte della palestra sono di semplice ghiaccio, senza l’aggiunta dello stand dentro di esso.-
-Allora basta semplicemente correre dall’altra parte della palestra, no?- esultò Koichi, prendendo per mano Yukako, che già era pronta a fuggire assieme a lui attraverso i corridoi della palestra. Ma Jotaro negò.
-Se il ghiaccio qui è così duro, vuol dire che loro sono vicini. Loro sanno dove siamo, loro sanno che siamo ancora vivi. Se dovessimo correre dall’altra parte, bloccherebbero l’ingresso verso cui ci staremmo dirigendo. Se dovessimo separarci, ci attaccherebbero divisi, e ci ucciderebbero con facilità.-
Jotaro, questa volta, si voltò verso il suo gruppo, le loro espressioni più pietrificate del ghiaccio che stava tastando. –Se vogliamo sopravvivere, dobbiamo rimanere uniti.-
Il gelo regnò sul gruppetto. La temperatura si stava abbassando, probabilmente a causa dello stand nemico. Jotaro si avvicinò a loro e si mise contro al muro opposto a quello della finestra, invitando tutti con un cenno di capo a seguirlo.
I sei si riunirono in cerchio, scossi ma determinati a uscire da lì. Jotaro, con uno sguardo carico di una specie di emozione primordiale, sembrava avere la vittoria in pugno.
-Ci serve un piano- sussurrò, col tono più basso che aveva. Si voltò verso Okuyasu, alla sua destra, passandogli un braccio dietro la schiena e sbattendo la mano sulla sua spalla, con una specie di sorrisetto in viso. –e avremo un grande bisogno del tuo aiuto, Okuyasu. Ce la farai?-
Okuyasu rimase ad osservarlo con un sorrisone emozionato e annuì, felice come non mai. –Certo.-
 
I quindici minuti erano passati da un pezzo, ma nessuno della banda si era ancora mosso. Nothing But the Beat, un grosso scatolotto d’acciaio con zampe robotiche, era appoggiato alla parete della palestra, davanti agli spogliatoi. Alex, a pochi metri dal proprio stand, ascoltava con attenzione le cuffie metalliche al suo collo, l’altra parte del proprio stand. Zarathustra era al suo fianco, 42 attivato sotto agli occhialoni rotti.
-Sono vivi- sentenziò Alex al resto della banda, in attesa dietro di loro.
-E si sono accorti di noi.- aggiunse la sorella maggiore, le mani in tasca e un atteggiamento fin troppo calmo.
-Volevano attaccare frontalmente, sfondando il ghiaccio, ma stanno cambiando piano. Ne stanno pensando uno per attaccarci e prenderci, al momento.-
Tutti gli altri si misero sulla difensiva, tranne Alex e Zarathustra. Quasi tutti.
Lei si voltò e osservò Ludovico mentre si sistemava la cravatta, calmo come al solito. –Che cazzo fai, Ludo?- gli gridò contro Piero, alzandosi la visiera dell’elmo di Seven Nation Army. Lui lo guardò di striscio mentre il Boss riprendeva a parlare. –Perché non spieghi a tutti cosa fai, Ludovico?- disse, con tono neutro ma evidentemente scherzoso. Lui alzò le spalle e alzò lo sguardo sul gruppo di amici. –Loro sanno dove siamo noi, ma noi sappiamo benissimo dove sono loro.- suggerì il ragazzo moro. Tutti si zittirono e rimasero ad ascoltarlo. –Non attaccheranno direttamente, cercheranno probabilmente un’altra soluzione per scappare. Dunque dov’è il problema? Anche se si spostassero, ci sposteremmo anche noi, e non riuscirebbero a uscire. L’aria finirà, prima o poi, mentre cercheranno di uscire probabilmente.-
Regina rimase concentrata sul controllare il ghiaccio, mentre il resto della Banda rimase a osservarlo. Aveva ragione, ormai non corrono più pericoli.
-E la- gli altri?- sussurrò Eriol, guardandosi intorno un po’ spaventata. Si sentiva il fiato sul collo, e non sapeva di chi.
Zarathustra non la guardò, e Regina la fulminò con lo sguardo.
-“Altri”? Ce ne sono degli altri?- gridò Davide, allarmato. –Non c’è nessun altro. Ora state zitti, Alex non sente.-
Alex sentiva benissimo anche col brusio di sottofondo dei suoi compagni, ma conosceva bene la sorella. Se non voleva parlarne, era perché non bisognava parlarne.
Dei rumori, tutto ad un tratto, provennero dall’interno dell’edificio. Rumori bassi, pesanti, di pugni.
Il ghiaccio incrostato nell’imposta della finestra iniziò a sgretolarsi, e assieme ad esso il muro e il vetro della finestra. All’altra finestra, ad almeno dieci metri di distanza, successe la stessa cosa. E ancora a un’altra finestra, e altri colpi alla finestra ricoperta di ghiaccio. Stavano tentando un attacco combinato.
Regina lanciò un grido e, senza troppi problemi, rafforzò il ghiaccio crepato. Tutto cessò.
Zarathustra prese Alex per il braccio e lo tirò indietro, dietro di sé, mettendosi davanti a lui e controllando con fin troppo nervosismo la parete ora immobile e muta. –Ritira lo stand.- disse lei. Lui tentò di schierarsi contro di lei, ma fece come gli fu detto. Lo stand scomparve in una nube argentata mentre lui si aggrappava alle sue spalle, benché lei fosse parecchio più bassa rispetto al giovane Alex.
Veloci come mai, tutti si compattarono, schiena contro schiena fissando la parete. –Che succede?- trillò Noemi, saltellando spaventata.
Troppo tardi Zarathustra notò i sottilissimi fili uscire dal ghiaccio. Non fece in tempo ad avvertire tutti gli altri che i fili si inspessirono, il ghiaccio si crepò attorno ad essi e una cascata di capelli neri sfondò la finestra, il muro, e le loro difese. Erano troppi, troppi capelli attorno a loro, che iniziarono a roteare attorno al gruppetto. Zarathustra lanciò un fischio acuto e tutti sfoderarono i propri stand, rimanendo stretti tra di loro, in mezzo a Love Deluxe, che ormai li aveva circondati. La massa di capelli si fiondò su di loro ma Imagine Dragon, lo stand di Noemi, spalancò le braccia e creò un campo di rallentamento tutt’attorno a loro. I capelli sembravano quasi immobili ora.
Love Deluxe aveva sfondato il muro, e i Joestar camminarono lentamente fuori dalla palestra. Yukako fu la prima ad uscire, con gli occhi infiammati e concentrati per mantenere la posizione del suo stand.
-Ottimo lavoro, Okuyasu.- sussurrò Jotaro, dando una gomitata amichevole a Okuyasu, sotto lo sguardo avvilito di Josuke.
-Siamo in una situazione di stallo- sentenziò Zarathustra. Finchè rimanevano nel campo protettivo di Imagine Dragon, erano al sicuro, e gli avversari non potevano attaccarli. Ma loro non se ne sarebbero andati finchè non avessero preso i componenti della banda. Appena qualche ciocca, con una lentezza inaudita, osava superare la barriera e avventarsi su di loro, le veloci lame alle dita di 42 le tranciava come se fossero di burro, e venivano intrappolate nel fango di Memory of Evermore. –Eriol.- esordì il Boss. La ragazza annuì, lisciandosi la lunga coda di cavallo.
Sotto ai piedi del gruppo dei Joestar, il terreno iniziò a cedere. Il fango imprigionò i loro piedi, e furono bloccati, ancora.
Jolyne lanciò un forte grido e il suo piede iniziò a scomporsi in fili sottili, che rimasero a loro volta impastati nella mota, che li risucchiava pian piano.
-Sono sabbie mobili!- gridò Koichi. –Non muovetevi!-
Il peso di Love Deluxe stava solo aumentando la velocità con cui Yukako stava profondando nelle sabbie mobili, ormai quasi al ginocchio, ma i suoi capelli continuavano a rimanere attorcigliati attorno alla sfera difensiva della Banda. Fu costretta a ritirarli, stremata e sudata per lo sforzo, tentando di reggersi alla spalla di Koichi.
-Koichi, usa Echoes e inverti la gravità!- gridò Jotaro. Koichi negò, prendendo Yukako per un braccio, nel tentativo di sollevarla, inutilmente. –Funziona solo se ho un qualcosa su cui posizionare la gravità, ma sopra di noi non c’è nulla…-
-Jojo, fa’ qualcosa, non puoi cambiare..?- tentò Okuyasu, bloccato dietro al marito, dandogli qualche lieve colpo sulla schiena. Con una forte manata Josuke lo fermò, voltandosi a fatica a gridargli contro, stanco e paonazzo dalle ustioni. –Se riuscissi a evocare ancora Crazy D, non credi che l’avrei già fatto, genio?!-
Okuyasu non seppe cosa rispondergli, a quel tono così cattivo nei suoi confronti. La sua stima tornò sotto ai piedi, tentò di balbettare qualcosa ma si bloccò tutto ad un tratto. Fissò davanti a sé, oltre alle guance quasi violacee dell’iracondo Josuke, esattamente di fronte a sé.
Imagine Dragon era stato ritirato, e Memory of Evermore aveva costruito un grosso muro tra il capo della Banda e i sei Joestar.
42 era dietro di lei, minaccioso e con grosse spine irte sulla sua schiena.
Sul viso di Zarathustra c’era una strana espressione. Non disse nulla.
42 si piegò su di lei, arrotolandosi a riccio, le spine lunghe, molteplici e ormai cariche di scosse elettriche.
Okuyasu andò nel panico e smise di pensare. Evocò a malapena un braccio di The Hand e colpì l’interno del ginocchio di Josuke, che cadde a terra con un tonfo, la faccia premuta contro il fango.
Gridò contro il fango dal dolore, sentendosi estremamente ferito da quel comportamento così violento verso di lui. Era immobilizzato, a malapena riusciva a respirare con le sabbie mobili che gli imprigionavano metà viso, le mani ormai completamente dentro la poltiglia appiccicosa, che sembrava più colla che sabbia.
Quando sentì il fango asciugarsi, alzò immediatamente la testa. Era diventato semplice terriccio, quasi asciutto sotto le sue mani.
Si voltò per dire qualcosa a Okuyasu, ma non vide nessuno in piedi. Erano tutti crollati a terra, riversi sul suolo fangoso.
42 si era chiuso a riccio e aveva sparato i propri aghi, miriadi di grossi aghi acuminati ed elettrificati tutto attorno a sé, colpendo chiunque fosse in traiettoria. E il suo obiettivo era colpire i Joestar.
Josuke rimase immobile, terrorizzato. Si girò ad osservare la banda, ma loro ormai erano lontani. Girati di schiena, mentre camminavano oziosamente verso la campagna, senza prestare loro attenzione.
Josuke rimase immobile, inginocchiato a terra, incredulo. C’era un solo motivo se loro se ne stavano andando con tanta calma, e lui non voleva crederci.
Tastò sul terreno e afferrò la mano di Okuyasu, fredda ed escoriata. Non poteva essere. Strisciò sul terriccio e si piegò su di lui, guardandolo in viso. Aveva gli occhi chiusi, era riverso a terra e non sentiva nemmeno il suo respiro. Appoggiò la testa al suo petto e strinse gli occhi per non scoppiare a piangere, sentendosi tremare come una foglia. Sentiva solo il proprio battito nelle orecchie, il sangue che fluiva veloce, l’adrenalina che pian piano svaniva, le braccia pesanti e un groppo alla gola. Gli aveva appena urlato contro, lui l’aveva salvato. Si sentiva impotente, incredulo che quei ragazzini avessero fatto del male a lui, proprio a lui.
Da una marea di pensieri, ammassati tutti assieme nella sua mente come i corpi dei suoi compagni riversi a terra, non ce ne fu più nessuno.
Josuke smise di pensare.
Si alzò in piedi, i vestiti sporchi di fango e i capelli arruffati, si piegò sul terreno e afferrò un grosso sasso.
Il suo sguardo era del tutto stravolto dalla rabbia, e con un grido iniziò a correre dietro gli otto ragazzi, che si voltarono sconcertati.
La Banda non fece in tempo ad accorgersi di cosa stesse accadendo che Josuke evocò il proprio Crazy Diamond, rosso quasi quanto il suo viso, e scagliò la pietra che aveva in mano con tutta la forza che gli rimaneva in corpo.
Zarathustra si voltò ad osservare quello che aveva resistito al suo micidiale colpo finale, ma tutto ciò che vide fu un grosso sasso venirle incontro. Per la prima volta, si trovò senza un piano, e venne semplicemente colpita.
Cadde a terra come un sacco di patate, gli occhialoni frantumati e l’occhio che aveva definitivamente smesso di brillare sotto di essi.
E cadde il panico sulla Banda.
Eriol e Ludovico si piegarono sul loro capo, gridando disperati, mentre Piero evocava di nuovo il proprio Seven Nation Army, buttandosi sopra l’aggressore. Crazy Diamond lo afferrò per l’elmo e lo strinse tanto da spezzarlo, mentre Piero tentava in ogni modo di buttarlo a terra, cercando di tirare forti calci sulla testa dell’enorme stand azzurro e rosa. Piero constatò che, benchè ormai il viso dell’uomo fosse escoriato e sanguinolento per i continui calci, la sua espressione non era minimamente cambiata. Buttò a terra Seven Nation Army e iniziò a pestarlo, cercando di rompere l’armatura che lo ricopriva, ormai incrinata e piena di crepe. Non si sarebbe fermato, nemmeno una volta che l’avesse ucciso.
-Noemi! Regina! Veloci, attaccatelo! Salvate Piero, cazzo, lo ucciderà!- gridò Ludovico, il vicecapo della Banda delle Onde Concentriche, quasi in lacrime. Noemi con un grido evocò il proprio Imagine Dragon, che iniziò a frustarlo con la sua grossa coda ossuta mentre cercava di tirare via da sotto la suola delle sue scarpe ormai rotte e sfilacciate il povero Piero, quasi incosciente. Ci volle poco perché Crazy Diamond non fermasse le artigliate di Imagine Dragon, prendendolo per la coda e facendolo volare via di qualche metro assieme alla portatrice. Si incamminò lentamente verso di lei, mentre tentava di rialzarsi, terrorizzata. Si sgranchì le nocche e alzò un braccio, pronto a colpirla.
Alex corse contro Josuke e tentò di assestargli un pugno, terrorizzato, nel tentativo di vendicare la sorella e fermarlo da quel massacro, ma fu inutile. Josuke si voltò e rimase ad osservarlo, senza davvero vederlo. La sua espressione era qualcosa di innaturale, che non aveva mai visto nemmeno nei vampiri. Sentì le ginocchia cedere e tremare, e gridò disperato mentre tentava di arretrare, cadendo a terra e strisciando sul selciato irregolare.
Strinse gli occhi e si portò le mani davanti al viso mentre credeva che la sua vita fosse davvero finita, questa volta definitivamente.
Una vampata d’acqua calda, tutto ad un tratto, scorse sopra i suoi capelli. Alzò la testa e vide un torrente di acqua rossa e fumante colpire l’uomo davanti a sé e farlo stramazzare a terra, le mani sul viso.
Regina era dietro Alex. Passò una mano tra i suoi capelli e lo aiutò a rialzarsi, stringendogli affettuosamente una mano. –Ale, vai da tua sorella. Qua ci penso io.-
Alex annuì infantilmente e le sorrise, stringendole con forza la mano e correndo verso il punto in cui Eriol, Ludovico e Davide cercavano di curare i feriti.
Regina rimase di fronte a Josuke, che si rialzò in piedi con fin troppa velocità.
Nessuno dei due, al momento, stava ragionando.
Kings&Queen aleggiava dietro di lei, stravolta e di un rosso acceso. Il suo ampio abito liquido sembrava più decorato, la corona sulla sua testa più appuntita, e il suo sguardo stravolto dall’odio.
Con un grido si avventò su Crazy Diamond, che fece lo stesso. Pugno contro pugno, le nocche di Josuke si spellarono e si disossarono per il calore dell’acqua, e la mano dello stand d’acqua ribollente rimase poco più che un moncherino sotto al potere dello stand più grosso.
Josuke abbassò una mano su regina e le afferrò la mandibola, stringendo con tanta forza da farla urlare dal dolore mentre premeva le dita sulla sua trachea, lasciando rossissimi segni sulla sua pelle. Regina gridò dal dolore e affondò la bacchetta acuminata nel suo braccio, più in profondità che poteva, cercando di farlo desistere. La presa sulla bacchetta diventava sempre meno forte a causa dell’ingente quantità di sangue che colava dal taglio, e la sua presa sempre meno forte sul suo collo.  
Kings&Queens si gettò sul viso di Josuke e lo ustionarono un’ultima volta, lasciando la presa sulla ragazza, che stramazzò a terra. Josuke premette il ginocchio sul suo addome e iniziò a colpirla in viso a suon di pugni mentre lei tentava di difendersi, colpendolo con le bacchette e perforandogli le spalle e il braccio, senza riuscire a disarcionarlo da sé. Non riusciva a respirare e a usare le onde concentriche, i polmoni le bruciavano e il viso le doleva e i suoi colpi le rimbombavano nel cervello, finchè, dietro di lui, non apparve un’enorme figura dal lungo cappotto indaco.
-Josuke, ora basta.-
La mano del grosso stand lilla davanti all’uomo dall’occhio solcato da una grossa cicatrice e il cappello calato sul viso si calò sulla nuca di Josuke, che crollò a terra. Prima che si potesse rialzare ancora Jotaro si piegò su di lui e lo schiaffeggiò con forza, cercando di fargli riprendere il senno.
-Jojo!!- gridò Okuyasu, indolenzito e un po’ zoppicante, inginocchiandosi al suo fianco. Josuke lo guardò ancora non lucido e Okuyasu sospirò, accarezzandogli lentamente una guancia ustionata. –Sto bene.-
Il suo sguardo era vitreo e preoccupato, i suoi occhi rossi sgranati mentre afferrava i polsi del marito. –Oku? Tu non..? Voi…!-
-Ci avevano solo stordito- trillò Koichi comparendo da dietro l’imponente schiena di Jotaro. –Non siamo morti!-
Josuke piano piano riprese coscienza, e si mise a gridare per il dolore al viso, piegandosi su sé stesso e strappando l’erba da sotto i propri piedi a forza di calci.
-Crazy Diamond sta già facendo effetto- disse Jotaro monotono, alzandogli una mano e osservando la zona di pelle rossa intorno ai suoi occhi diventare lentamente sempre più ristretta. –Meno male che, anche se non ti cura, ti dona la capacità di guarire a una grande velocità… sennò saresti probabilmente cieco, ora.-
Josuke stava per rispondere con un “come te”, ma riuscì a trattenersi, tentando di rialzarsi in piedi. Ma Jotaro negò con forza.
-Curala.- disse, indicando la ragazza a terra con un cenno della testa.
Ben poco convinto, Josuke evocò Crazy D e allungò un braccio verso Regina, che tentò di tirarsi indietro. Koichi si mise al suo fianco e si inginocchiò vicino a lei, osservandola.
-Hey, non vogliamo farvi del male!-
-Lui mi ha quasi ucciso!- gridò Regina.
-Lui è un dottore. Un po’ pazzo, ma… te lo giuro, non siamo qui per uccidervi.-
Regina rimase ad osservarlo, non del tutto convinta, rimanendo comunque ferma. Non aveva nient’altro da perdere, tuttavia.
Josuke appoggiò la mano del proprio stand alla sua testa, e in pochi secondi il dolore sparì. Si passò i guanti blu sul naso e non gocciolava più sangue.
-Mi hai guarita davvero?!- gridò lei, scattando in piedi. Josuke si sfilò la maglietta e se la avvolse attorno al braccio grondante di sangue, più volte colpito dal suo stand e dalle sue bacchette, annuendo con veemenza senza guardarla in viso.
-Ora ti fidi?- disse Koichi, spuntando alle sue spalle. La ragazza castana sospirò e annuì, lasciandosi scappare un sorriso stanco. –Mi fido.-
 
Zarathustra riaprì gli occhi, e si accorse che il cielo non era più il giallo dei suoi occhialoni. Istintivamente chiuse l’occhio destro e si mise a sedere, scrutando i componenti della banda al suo fianco col suo occhio nero come la pece. Alex piangeva al suo fianco, Regina tremava, e Ludovico si asciugava il sudore dalla fronte. –Allora erano davvero sinceri.- sussurrò lui, alzando lo sguardo. Zara fece lo stesso, incontrando lo sguardo duro di Jotaro.
Non disse nulla, rimase a guardare gli estranei attorno a sé, con il suo sguardo freddo tanto quando i suoi soliti occhiali. Aspettava una spiegazione, e subito.
-Noi siamo qui solo per parlarvi- sentenziò Jotaro, rimanendo ad osservarla. Zarathustra prese i suoi occhiali e osservò il grosso buco nella visiera con insistenza, finchè non le vennero strappati di mano dalla mano ustionata di Josuke. Li prese tra le dita e li aggiustò, sbattendoglieli di nuovo tra le mani. Lei se li infilò e si alzò in piedi, spolverandosi la giacca rossa.
-Volete parlarmi, vero?-
Jotaro annuì, a braccia incrociate al petto di fronte a lei.
-Siamo qui per i vampiri.- disse Jotaro, mentre tutti i componenti della Banda, ora sani e guariti, tornavano a disporsi in un gruppetto compatto contro di loro. Questa volta erano in attesa, in ascolto, osservandoli attentamente uno a uno.
-Noi abbiamo informazioni sui vampiri. E sappiamo che ne avete anche voi.- continuò Jotaro. Zarathustra continuò a guardarlo intensamente col suo occhio rosso indagatore. –Perché ci sono tutti questi vampiri, ci state chiedendo?-
-Voi lo sapete?-
-Sappiamo certamente più di voi.- borbottò Zarathustra in risposta. –Ci stai proponendo di collaborare con le vostre investigazioni sul territorio?-
Jotaro annuì, mettendosi le mani in tasca. Alle sue spalle, tutti lo guardavano incuriositi. In realtà, nessuno di loro sapeva quali fossero i suoi piani.
-Aiutarci a vicenda. Indagare assieme.- concluse Jotaro. Zarathustra annuì.
-Mi piace come idea, Joestar.-
Alzò una mano e tutti rizzarono la schiena. –Andatevene- disse in tono marziale. –Solo Regina rimanga qui.-
Ludovico annuì poco convinto e guidò i sei restanti verso la parte nord dell’Istituto. –Torniamo alle macchine, noi- disse al boss, che annuì con un cenno del capo, Regina ritta dietro di lei, come una specie di guardia del corpo.
-Ma io voglio una cosa in cambio. Ovviamente è solo per il bene dell’umanità. Siamo sempre alla ricerca di buoni guerrieri delle onde concentriche e… la ragazzina mora sembra portata. Vorrei si unisse alla mia Banda, venisse ad abitare temporaneamente al nostro casale, per allenarsi e…-
-Non se ne parla!- sbottò Josuke, scansando Jotaro con una manata e puntando un dito verso a Zarathustra. –Non dirlo nemmeno, nana! Io ti ammazzo!-
Regina fece un passo in avanti e puntò una bacchetta al braccio offeso nel combattimento precedente, e Josuke si tirò istintivamente indietro. Quella Regina iniziava a spaventarlo. Era spietata, efficiente e ai completi ordini di Zarathustra. –Io non… non voglio che la mia Shizuka stia assieme a voi.-
-Josuke, se provassi a lasciarla andare, potrebbe essere utile! Imparerebbe meglio le Onde Concentriche, e potrebbe aiutare a…-
Koichi tentò di parlargli ma Josuke lo prese per il bavero della camicia, strattonandolo e gridandogli contro. –Lei è la mia unica figlia, è solo una bambina! Finchè io sarò suo padre, lei non farà nulla di pericoloso! È chiaro!?-
Yukako e Okuyasu intervennero per separare Josuke, su tutte le furie.
Nella furia di Josuke, però, questa volta non c’era la rabbia.
Lo sapeva Koichi, lo sapeva Yukako, e lo sapeva soprattutto Okuyasu. Prese le mani di Josuke tra le sue e le strinse un po’, nel tentativo di calmarlo.
Josuke abbassò la testa e annuì alla muta rassicurazione di Okuyasu, zittendosi.
-Ci penseremo.- disse semplicemente Jotaro.
Zarathustra rimase ad osservarli e voltò loro le spalle, lo sguardo celeste di Regina puntato su tutti loro.
-Potete trovarci a Ronco, una piccola frazione nella periferia di La Bassa. Via Zucca 91.-
Zarathustra fece per incamminarsi verso il luogo dove i suoi compagni erano spariti, minuti fa.
Jotaro le si avvicinò e le appoggiò una mano sulla spalla. –Aspetta, Zeppeli. Ho un’ultima cosa da chiederti.-
Il Boss lentamente si voltò verso di lui, rivolgendogli un mezzo sorriso.
 
Shizuka aveva sentito fin troppo. Ancora mano nella mano nella zia, la strattonò con forza e la trascinò fino al parcheggio, le lacrime agli occhi. Non poteva fare nulla, era in trappola. Le era stata data una possibilità di splendere come una stella, come tutte le stelle nella sua famiglia, ma le fu strappata via, ancora.
Tornò visibile a pochi metri dal parcheggio e si sentì le lacrime agli occhi, correndo sul suv noleggiato dai genitori il più velocemente possibile, chiudendosi dentro di esso e rannicchiandosi sui sedili posteriori, singhiozzando silenziosamente.
Credeva di esserci arrivata, di poter finalmente vivere la propria esperienza, come avevano fatto i suoi genitori, suo zio, sua cugina, suo nonno e altri parenti che mai ha conosciuto, ma le loro avventure si sono ripercosse su tutta la famiglia come un terremoto.
Shizuka voleva la gloria, e l’avrebbe ottenuta a ogni costo.
Holly rincuorò Rosanna e Emporio, mentre con lentezza il consistente gruppo tornava al parcheggio. Zoppicavano, erano lenti, ma grazie a Crazy Diamond non era rimasto che qualche livido su gomiti e nocche.
-Cosa ti è successo?- trillò Rosanna. Il basso borbottio del padre fu l’unica risposta che Shizuka riuscì a sentire da dentro il suv.
La portella si aprì e il viso tumefatto di Josuke si presentò davanti agli occhi arrossati di Shizuka.
-Hai pianto.- mugolò lui, sedendosi al suo fianco. Lei si fece piccola piccola e si voltò dall’altra parte. –Ti hanno massacrato di botte.- rispose lei, avvelenata. Lui la avvolse con un braccio e la stritolò al proprio petto, stringendola peggio di come avrebbe fatto la cintura di sicurezza dell’auto. Ma lei non voleva essere stretta a lui, non voleva nemmeno vederlo in faccia. Le aveva tarpato le ali, l’aveva chiusa in gabbia.
Okuyasu si sedette sul sedile anteriore del passeggero, al fianco di Yukako. Koichi si sedette vicino a Shizuka, a osservarla mentre rimaneva rigida contro la spalla ustionata del padre, le braccia incrociate al petto e la mascella contratta dalla rabbia.
Josuke non alzò lo sguardo su Koichi, mentre lui tentava invano di parlargli.
Dopo un breve pranzo in un bar-ristorante non lontano dall’Istituto, ripartirono a riposarsi.
Il viaggio durò poco, almeno così credette Shizuka. Quasi venti minuti d’auto, da La Bassa a Roccarolo, il paese che ospitava l’albergo prenotato da tutti loro. Il Po sfavillava di grigio e bianco, le onde e i mulinelli che pigramente scorrevano verso destra, rispecchiando un cielo altrettanto neutro.
L’albergo distava pochi chilometri da La Bassa, appena sopra il Po. Un grosso palazzone arancione, con tante finestre, tante piccole balconate e un grosso giardino anteriore, contornato da un complesso cancello di bronzo.
“Colori del Tramonto”, si chiamava l’hotel. Entrarono lentamente dal parcheggio posteriore, e rimasero tutto poco giorno che ormai era rimasto a mettersi a posto nella loro camera. Shizuka, Okuyasu e Josuke ne prenotarono una sola. Shizuka dormì nel letto singolo, di fianco al letto matrimoniale dei genitori. Dopo una veloce doccia affondò subito tra le coperte, non volendo più saperne niente di nulla e nessuno. Aveva il sangue che le ribolliva nelle vene e le lacrime agli occhi al solo ripensare l’occasione che aveva perso.
Josuke era messo talmente male che a malapena riuscì a pulirsi dal dolore. Sul suo corpo, ormai, erano rimaste ben poche delle escoriazioni originali della mattinata. Il suo stand non poteva direttamente guarirlo, ma gli dava un potere di guarigione spaventoso. In due o tre giorni sarebbe sparito tutto, e sarebbe tornato a splendere come un sole.
Si addormentò prima di tutti, il viso contro il muro e la coperta fin sopra al naso. Non aveva ancora detto una parola, da quando era tornato. Il periodo a La Bassa era fin troppo difficile per lui.
Okuyasu, dopo aver sistemato il contenuto di qualche valigia nell’armadio, abbandonò il lavoro e si mise a letto a sua volta. Baciò la fronte della figlia e le sorrise dolcemente, i suoi lunghi capelli che ricadevano sul viso di Shizuka. Lei se li scostò dalla guancia e gli rivolse un sorrisetto. –Buonanotte pa’.- sussurrò lei. –Dormi bene, piccola mia.- Le diede un leggero bacio sul naso e le sorrise, tornando al proprio letto e lasciandola finalmente sola, tra i suoi sogni infranti e la sua rabbia.
Si coricò di fianco al marito, che gli dava crudelmente la schiena, e si addormentò velocemente, respirando lievemente nel buio della stanza.
Gli occhi scuri di Shizuka erano puntati in alto, verso il soffitto nero.
Non si sarebbe lasciata abbattere così. Si sarebbe liberata dalla gabbia, avrebbe spalancato le ali tarpate, e avrebbe compiuto la sua avventura.
Shizuka chiuse piano gli occhi, e sognò di imparare a volare.
 
 
 
 
One of these days, I’m gonna cut you into little pieces.
One Of These Days, Pink Floyd (Meddle, 1971)
 
Note dell’autrice
Buonasera a tutti! Finalmente DH è ricominciato. A causa dell’università che mi sta affaticando un po’ tantino gli aggiornamenti saranno molto lenti.
Tuttavia, pubblicherò più o meno tutti i giorni sulla pagina ufficiale di DH!
https://www.facebook.com/DangerousHeritage/
Se volete seguire gli aggiornamenti, le teorie e le illustrazioni di Dangerous Heritage, seguite la pagina!
Dopo questo capitolone in cui (finalmente) finisce il combattimento tra Banda e Joestar, posso promettervi che cambierà tutto. Anche se probabilmente il sentore di cambiamento si poteva intuire anche dal capitolo.
Ci vediamo al prossimo aggiornamento o sulla pagina, ciao a tutti! 

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Capitolo 17
*** Il volo di Shizuka ***


Una grande pianura e l’orizzonte piatto diedero un freddo benvenuto a Shizuka.
Il cielo era grigio e uniforme sopra di lei, una cupola monocromatica infrangibile, irraggiungibile. Il granoturco le solleticava le caviglie mentre avanzava a fatica nel mare giallo davanti a sé. Si trovava in un enorme campo di grano maturo, le spighe che danzavano nel placido vento di fine primavera. In cielo, gli uccelli la deridevano.
Un falco dalle piume oscure come la pece e lo sguardo rosso la fulminò, tornando a volteggiare nelle onde ventose sopra le nuvole.
Shizuka si sentiva atterrita dal loro vorticare nell’aria. Quanto avrebbe dato per essere lì con loro… si voltò intorno non c’era nulla: la luce del sole era calda, l’astro risplendeva di un arancio e rosso di fuoco puro alto nel cielo, minacciosa unica fonte di calore. Seguì il sole e le ombre che le lanciava attorno, sul campo di grano, giallo e ocra che placidamente si abbassava e si alzava con la brezza.
La guidò verso un’alta scogliera a strapiombo sul campo di grano. Era alto e di una roccia scura e acuminata, pericoloso anche solo alla vista.
Shizuka rimase a guardarla stordita dal basso della pianura dove si trovava, e ne ebbe una strana paura, recondita, a cui non riusciva a trovare nessun senso. Fece per tirarsi indietro, ma il suo piede nudo affondò nella polvere. Sentì qualcosa scricchiolava e si sgretolava sotto al suo tallone.
Abbassò lo sguardo e osservò bene l’ammasso a terra: i resti di ciò che doveva essere una splendida creatura alata, ora ridotto a poco più che poltiglia di polvere e cenere sulla roccia arrossata e incrostata di sangue. Lo fissò stregata e si chinò su esso. Prese delicatamente una grossa piuma tra le sue dita, più grande del suo palmo, le setole morbide e macchie nere di fuliggine a coprirne lo splendido colore aureo.
Shizuka ne rimase turbata. Passò le dita sulla piuma e tornò del suo colore originario, di un oro tanto puro e lucido da brillare nelle sue mani nere di cenere.
Ne prese un’altra, la pulì allo stesso modo e le infilò nei polsini. Una piuma ad ogni polso. Si passò le dita nere sulle guance e le fece scorrere fino alla mandibola, due linee di guerra sul suo viso. Con un ginocchio a terra, ora guerriera, ora valorosa, si mise ad osservare tutto attorno ai piedi ripidi della scogliera.
C’erano altri resti. I più vicini erano uno dalle enormi penne castane e una pozza di sangue ancora caldo sulla roccia sottostante. Risplendeva alla luce, le piume marroni che brillavano di un rosso vivido. Di fianco, resti di piume scure, anonime, che non attirarono troppo l’attenzione di Shizuka. Piume blu, rosse, nere, argentate, ocra, un arcobaleno di morte e di passato attorno a lei.
Si sentiva pronta ad imparare a volare, ora. Non era sola.
Erano tutti caduti dal dirupo, dopo aver spiccato il volo o forse ancora prima di farlo. Lacrime erano state versate sopra i resti di quelle creature che avevano dovuto volare alto, più alto del cielo.
Shizuka fece per alzarsi, ma qualcosa attrasse la sua attenzione. Tra la cenere nera baluginava una scintilla di speranza. Lo prese tra le dita: era un ciondolo a forma di freccia, e puntava verso l’alto.
Puntava verso l’alto, verso il cielo. Verso il precipizio.
Shizuka voleva volare.
Gli speroni di roccia erano appuntiti, le ferivano e tagliavano le dita mentre tentava di aggrapparsi e salire, ma quelle piume ai suoi polsi la facevano sentire leggera, capace di tutto. E la freccia puntava verso l’alto.
Dopo una scalata che le sembrò troppo lunga e allo stesso tempo troppo rapida, arrivò alla vetta. Era come una montagna con la punta tagliata di netto, una piattaforma di lancio sopra l’abisso. Un lungo corridoio che la spingeva dentro l’abisso o dentro al cielo.
Tutti volavano.
Ombre colorate nelle nuvole, ed era sicura che fossero facce familiari. Ma era tutto così confuso…
Non aveva il coraggio di avvicinarsi al bordo del precipizio. Era alto, tremendamente alto, a strapiombo sulla roccia, sulla morte, e su tutti quei resti di ali. Avrebbe fatto la loro stessa fine, ne era certa.
Tentò di strisciare un piede a terra per avvicinarsi allo strapiombo, ma fece solo una grande fatica, e lo strisciare di ferro sulla roccia. Una palla di ferro era appesa alla sua caviglia, la pelle arrossata e sanguinante sotto il metallo che le stringeva il piede. C’era sempre stata?
Mentre tentava di strapparsi la manetta dalla gamba, udì delle voci familiari dietro di sé. Era un grande serpente piumato a due teste, una ferita sanguinante tra i due lunghi colli che si propendevano verso di lei.
La testa ricoperta di corte e spettinate piume scure e di una grossa corona rossa sulla testa le si avvicinò minacciosa, sfoderando i grossi denti colanti di veleno, gli occhi di ghiaccio che si stavano lentamente sciogliendo sotto il cocente sole sopra di loro. La testa di cobra aprì il grosso cappuccio, ornato di viola e di rosa e di colori velenosi che fecero rabbrividire Shizuka. –Torna indietro!- le gridava, la sua voce tremendamente cattiva solcata da continui singhiozzi. –Torna nella gabbia, torna nel grano!-
Shizuka abbassò ulteriormente la testa a quel serpente coronato, come sempre. Non poteva sfuggirgli, non poteva volare.
-Vola!- sussurrò l’altra testa. I grandi occhi scuri come il cielo stellato la fissarono, dentro di essi le stelle e i pianeti si muovevano in ordine. Avvicinò la sua testa più piccola e arrotondata a Shizuka, le lunghe piume argentate che danzavano nella brezza. –Puoi farlo…- diceva, un sussurro nel vento che man mano stava diventando sempre più freddo.
La sua voce si stagliava bassa e timida sotto quella del grosso cobra, che sputava veleno e gridava disperato, ma fu sufficiente a farla sentire leggera e viva. La catena si era corrosa al suo piede, e poté finalmente allontanarsi dai serpenti, il sangue che colava tra i due colli sempre più distanti.
Ora poteva andare.
Shizuka prese la rincorsa e iniziò a correre, ma a pochi metri dalla fine del precipizio si fermò. Rimase in piedi sull’orlo, in bilico, a osservare il vuoto sotto di lei. Non doveva farlo, non doveva volare. Fece un passo indietro e andò a sbattere contro qualcuno dietro di sé. Le appoggiò le mani sulle spalle e si piegò su di lei.
Non poteva vederlo, ma riusciva a scorgere una grande luce dorata alle proprie spalle.
-Cosa stai facendo?- le sussurrò, con un tono così calmo da farla rabbrividire. Shizuka non riuscì a parlare. Negò timidamente, abbassando lo sguardo.
-Tu vuoi volare, no?-
Shizuka annuì.
-Non avere paura. Io sarò con te. Per sempre.-
Le sue dita pallide sfiorarono le piume al polsino di Shizuka, dello stesso oro della luce emanata dalla figura eterea alle sue spalle. –Vedi? Sono con te. Sono sempre con te.-
Shizuka si sentì rincuorata e spaventata, e annuì ancora una volta, incerta.
Le mani fecero pressione sulle sue spalle e tutto ad un tratto la spinsero giù, nel burrone.
-Apri le braccia e vola, e io sarò lì con te.-
Shizuka chiuse gli occhi e non poté fare altro che lasciarsi sferzare dai venti mentre inciampava e cadeva nell’abisso.
Aprì le braccia e gridò, senza che nessuna voce uscisse dalle sue labbra.
E, tutto ad un tratto, si sentì leggera.
Aprì gli occhi e fissò la propria ombra sopra le nuvole, che sfrecciava sopra la pianura, sopra i due serpenti, sopra i resti di piume colorate.
Intravide il cobra azzannare il collo argentato dell’altro serpente, che rimaneva ad osservarla con gli occhi lucidi mentre la sua gola veniva aperta, l’universo che orbitava attorno alla sua pupilla, il mondo che si chiudeva sopra di lui.
Sentiva freddo, ma la sensazione di caldo e di luce alle sue spalle rimaneva. Poteva fare qualsiasi cosa, poteva vedere gli altri volare assieme a lei, e finalmente era parte di un qualcosa, finalmente Shizuka aveva un senso, un posto al mondo.
 
Quando aprì gli occhi, però, tutto ciò che vide fu il buio. Si ritrovò distesa nel proprio letto, sudata fradicia sotto le coperte sgualcite dal muoversi nel sonno, a fissare il soffitto spoglio della camera d’albergo in cui alloggiava coi suoi genitori.
Si mise lentamente a sedere e si ravvivò i capelli spettinati, guardandosi intorno. I suoi genitori dormivano ancora, schiena contro schiena, illuminati appena dalla fioca luce dell’abatjour sul comodino dalla parte di suo padre Josuke, rannicchiato in un angolo, chiuso nelle sue grosse spalle, faccia rivolta al muro.
Non sa perché ma Shizuka si ritrovò ad osservarlo curiosamente, quel poco che riusciva a vederlo. Sviò lo sguardo e si alzò in piedi, barcollante e incerta, un pensiero sul fondo della mente che continuava a batterle forte dentro e a spingerla verso il proprio comodino, a svegliarsi e a camminare per la stanza alle tre di notte. Inforcò i propri occhiali da vista e si mise a cercare, nel buio della stanza, una certa valigia. Non usava spesso gli occhiali da vista, preferiva di gran lunga indossare le miriadi di occhiali da sole graduati piuttosto che quei vecchi occhiali con fine montatura di metallo, comprati anni prima per far felice un oculista pignolo. Shizuka non sentiva di averne bisogno, anche se quasi tutto sembrava sfocato. La imbarazzavano, e non voleva metterli. Ma al momento erano necessari.
Si inginocchiò davanti alla grossa valigia magenta di Josuke e iniziò a frugare tra i capi colorati, trovando una grossa scatola di velluto nero. Il portagioie in cui erano custoditi tutti gli orecchini, bracciali e bigiotterie varie dell’intera famiglia.
La verità era che appartenevano quasi tutti a Josuke.
Ci frugò dentro, senza sapere bene cosa stesse cercando, alla ricerca di qualche appiglio per quell’assurdo sogno che, tuttavia, le pareva così reale, così vicino…
Con orrore, le sue dita toccarono uno strano, grosso ciondolo metallico. Alzò la mano e fece penzolare il grosso ciondolo a forma di freccia tra le sue dita.
Non apparteneva a Josuke, né tantomeno a Okuyasu. E Shizuka non l’aveva mai, mai visto, se non in quel sogno.
La freccia, però, puntava verso il basso.
Deglutì con forza e si rialzò in piedi, rimanendo ad osservare la freccia. Era un segno, non poteva essere un caso…
Si guardò intorno, tutti ancora dormivano. Se voleva davvero raggiungere i ragazzi della Banda, doveva scappare, e quella sera.
Aprì la propria valigia e prese i vestiti sportivi che si era portata, nel caso che avesse avuto un’occasione per splendere e agire, avere la propria avventura anche lei.
Maglietta e pantaloncini del suo colore preferito, lilla, le sue solite converse al ginocchio e la sciarpa di suo nonno, che trasmetteva le poche Onde Concentriche che riusciva a emanare.
Rimise tutto ciò che lei aveva nella piccola valigia e strinse la maniglia nel pugno, con ansia. Stava davvero scappando? Stava davvero per affrontare il proprio destino?
Si mise i propri grossi occhiali da sole neri e si incamminò alla porta della camera d’albergo, sicura di potercela fare.
Controllò un’ultima volta l’indirizzo che si era segnata quel giorno, via della Zucca 91, Ronco, periferia di La Bassa continuava a ripetere a bassa voce.
-Shizu?-
La voce che sentì le fece accapponare la pelle. Rimase immobile, in attesa.
-Shizu? Cosa.. cosa fai?-
Okuyasu si mise a sedere sul bordo del letto, osservandola con gli occhi sgranati. Si passò una mano sul viso e si scostò indietro tutte le lunghe ciocche nere e argento che ricadevano sui suoi occhi stanchi, lisciandoseli dietro alle spalle.
-Avevano detto che volevano me…- sussurrò Shizuka, in un impeto di disperazione. Era tutto rovinato. Alzò i grossi occhialoni e se li appoggiò sulla testa, prendendo a singhiozzare.
Okuyasu si alzò in piedi e la abbracciò con forza, cullandola tra le sue grosse e ancora intorpidite braccia.
-Volevi andartene?-
-Solo per un po’… volevo raggiungere il boss e.. e gli altri…- mugolò lei, affondando contro il suo petto, minuscola in confronto a lui.
Okuyasu rimase ad osservarla, senza alcuna risposta, lisciandole lentamente i capelli sotto le dita. Avrebbe dovuto lasciarla vivere, sapeva che era la cosa giusta. Ma Josuke…
Okuyasu prese un grosso respiro e gonfiò il petto, voltandosi timidamente ad osservare la schiena del marito. Non doveva temerlo, non era così che funzionava. O almeno, così sperò Okuyasu.
Aveva sempre sognato una vita senza grida, botte e punizioni, ma non ci aveva mai davvero creduto. Aveva sempre il timore che uno schiaffo fosse dietro l’angolo, che l’avrebbero ancora preso per i capelli e legato fuori di casa. Che gli spaccassero una bottiglia di alcolici in faccia, che lo rinchiudessero in un cassonetto nel centro di Tokyo, che lo picchiassero per così tanto tempo da perdere conoscenza. Di risvegliarsi in ospedale con una benda a coprirgli il viso per sempre sfigurato.
Scosse con forza la testa, quasi mettendosi a piangere. Non poteva permettere che tutto ciò si ripetesse, né a lui, né a sua figlia.
Doveva lasciarle vivere la sua avventura, come avevano fatto lui e Josuke, Jotaro, Joseph, e tutti in quella famiglia a cui, volente o nolente, anche Shizuka apparteneva.
-Shizu- disse infine, prendendole il viso con una mano e alzandole la testa, incontrando i suoi occhi lucidi e gonfi. –Sei la mia unica bambina, io ti voglio così tanto bene…-
Gli occhi di lei si riempirono di nuovo di lacrime, aspettandosi già il peggio. Okuyasu in quel momento notò che sua figlia pensava ben poco prima di agire, così si sbrigò a finire la frase. -…e ho paura per te, lo sai… ma… vai dalla Banda. So che sono bravi ragazzi.-
Shizuka lanciò un urletto e gli saltò al collo, aggrappandosi alle sue grosse spalle mentre rideva felice, felice come non mai.
Okuyasu, con un sorriso tirato sulle labbra sottili, l’abbracciò a sua volta, posandola delicatamente a terra. Prese le sue pallide mani tra le proprie e le strinse, guardandola intensamente negli occhi, importandosi ben poco dei capelli che gli ricadevano davanti agli occhi appannati senza occhiali.
-Promettimi che tornerai da me. Da me e papà JoJo.-
Lei annuì continuando a sorridere, tenendogli le braccia con le mani tremanti dall’emozione.
Trattenendo le lacrime, le schioccò un veloce bacio sulla fronte e si rialzò ritto in piedi, rimanendo ad osservarla.
-Stai attenta, ti prego, se incontri un vampiro…-
-Pa’, non c’è più problema.- lei le sorrise, fin troppo sicura. Quel sorriso che gli ricordava qualcosa, qualcuno, un sorriso nuovo sul volto della figlia. Non seppe darsi risposta, ma qualcosa dentro di lui lo fece rassicurare.
Shizuka riprese in mano la valigia e gli diede le spalle, aprendo la porta e fermandosi sull’uscio. Si voltò e gli sorrise, la pura gioia negli occhi.
-Ti voglio bene, pa’!-
Okuyasu le sorrise con il cuore in gola e cercò di non scoppiare a piangere mentre lei si chiudeva la porta alle spalle, andandosene.
Sarebbe tornata, l’aveva promesso, no?
Si sedette sulla propria parte di letto e si passò le mani sulla fronte, tirandosi tutti indietro i capelli.
L’aveva fatta grossa, stavolta. Josuke non l’avrebbe mai, mai perdonato, e chissà cosa gli avrebbe fatto… Okuyasu non voleva pensare alle conseguenze della sua scelta, che ai propri occhi appariva giusta. Ma, come gli ripeteva sempre Josuke, se porti gli occhiali c’è un motivo.
Si coricò di nuovo, ma non riuscì ad addormentarsi. Si voltò verso Josuke, la sua schiena tanto grossa da coprire quasi interamente la luce dell’abatjour, lasciando Okuyasu nel buio dietro di lui.
Appoggiò la fronte alle sue scapole e rimase a occhi sgranati, piangendo silenziosamente, quasi a chiedere perdono, perdono per averla lasciata andare, per non essere stato un bravo padre, e per invece sentirsi nel cuore di aver fatto la scelta giusta.
 
Divenne invisibile per non attrarre troppe attenzioni. Quando l’ascensore si aprì e nessuno uscì dalle porte d’acciaio, il portinaio rimase stupefatto. Si avvicinò all’ascensore e rimase ad osservarlo, incredulo, non accorgendosi di Shizuka che gli passava vicino, apriva la porta antincendio dell’hotel, e se ne andava.
Guardò davanti a sé e tutto ciò che vide, prima di tutto, fu buio. I lampioni erano accecanti in confronto al buio del cielo. Nero pesto, ricoperto da piccole, quasi invisibile stelle. C’era un passaggio pedonale e ciclabile, che percorreva la lunga strada che portava verso La Bassa. Se ricordava bene, Ronco era in periferia della città di campagna. Non sarebbe stato difficile trovarlo, La Bassa non sembrava così grossa. Da quanto aveva visto, era poco più che un grosso paese.
Si fece coraggio e si incamminò per la strada, completamente invisibile. Nessuno l’avrebbe vista, anche se non c’era nessuno in giro. Le strade erano vuote, salvo qualche raro camion che faceva tremare il terreno che percorreva pigramente il grosso stradone alla sua sinistra.
Camminò fino a quando non vide oltre la balaustra di spesso acciaio incrostato il baluginare dell’acqua corrente. Era sul ponte che conduceva al Po, enorme e maestoso, così scuro da risucchiare qualsiasi luce sopra di esso.
Per qualche motivo, si sentì un brivido percorrerle la schiena. Quel fiume la spaventava. Aveva visto l’oceano Atlantico e quello Pacifico, ci aveva fatto il bagno addirittura nella spiaggia di Morioh, aveva sentito la sua forza contro, ma quel fiume era qualcosa di diverso. L’oceano era così vasto, ma la sua forza era nulla in confronto a quelle correnti che sembravano quasi calme. Non veniva nessun rumore da quel fiume. Era come una voragine sotto i suoi piedi, sotto alle ruote dei tir e delle poche automobili che osavano valicare quel ponte.
Cercò di non pensarci e accelerò il passo, non guardando mai oltre la balaustra verde. Appoggiò una mano sopra e sentì il metallo bagnato.
Quelle zone paludosi, aveva letto su wikipedia, erano perennemente umide. Non c’era da stupirsi se le incrostazioni erano tanto spesse.
Dovette fermarsi quando la zona ciclabile si fermò, lasciandola sull’orlo della grossa strada sul ponte.
Guardando avanti, vide la sponda opposta sotto ai propri piedi, e si lasciò scappare un sorriso. Stava arrivando, se lo sentiva.
Davanti a sé, un bivio. Alzò lo sguardo e notò il cartello che aveva visto la mattina prima: dritto per La Bassa, a sinistra per Pigugnara, Montichiara e… Ronco. Quel nome che la mattina non le aveva dato né caldo né freddo, ora la faceva sentire tanto emozionata da sentirsi il sangue battere nei timpani.
Prese l’incrocio, controllando che non arrivasse nessuna auto, e seguì la stretta curva quasi a gomito, accelerando il passo. Aveva percorso ben più di un chilometro su quel ponte, senza rendersene conto. I piedi le bruciavano, le ginocchia le cedevano, e sentiva il freddo roderle la pelle.
Alzò lo sguardo, un altro cartello le prese il cuore. Segnavano tutti a est, verso la distrutta Moia, la fiorente Anzaga, La Bassa e ancora Ronco. Stava prendendo la strada giusta, lo sapeva. Se lo sentiva.
Corse più veloce che poteva nel bivio, quasi inciampando quando sentì la strada diventare più ruvida e meno lisciata sotto ai suoi piedi.
Fece per guardare, ma vide stranamente appannato. Che gli occhiali si fossero sporcati? Se li sfilò e vide ancora grigio. Alzò lo sguardo e vide tutto attorno a sé di un grigio nero, scuro, terrificante.
La famosa nebbia padana, non poteva trattarsi che di altro.
Shizuka era così emozionata di visitare l’Italia che studiò per bene i posti in cui doveva recarsi: la geografia, la storia, i luoghi così ameni e verdi e allo stesso tempo infidi. L’umidità che entra nelle ossa, il vento gelido che sembra volerti strappare la pelle.
Si incamminò nella strada più a sinistra, su quello che sembrava un dirupo verde. C’erano luce e alberi là sotto, ma non aveva alcuna voglia di scendere a indagare. Non c’era più nulla, su quella via. Nessuna luce, nessuna zona pedonale. Camminava lentamente sul ciglio della strada, nel buio e nella nebbia, in quella strada sconnessa che sembrava infinita.
Finchè non si sentì toccare la schiena. Urlò e si voltò, sicura di essere ancora invisibile. Ma ricordò con fin troppa fretta che ai vampiri non importava che lei fosse invisibile o no. Lampeggianti occhi rossi su una carnagione morente la trapassarono da parte a parte, i canini che spuntavano dalle labbra bluastre mentre annusava l’aria. Oltre a quello, però, non sembrava affatto un vampiro come quello che l’aveva aggredita. I vestiti erano puliti, i capelli castani erano tirati dalla parte, in una acconciatura moderna e curata. Sembrava un adolescente come tutti, se non avesse le caratteristiche di un vampiro.
-Come fai a nasconderti?- disse, con accento labassese e voce più metallica di quella umana. Digrignò i denti e fece per acchiapparla, ma Shizuka, con un altro grido, tornò visibile e si ritrasse, sfuggendo alla sua presa. Corse verso il bordo del precipizio erboso. Il vampiro sembrava incerto sulla posizione della ragazza, quasi spaventato. Si spinse comunque in avanti, e Shizuka entrò nel panico.
“Apri le braccia e vola”, le tornò in mente. Quella voce bassa e calda, quella luce dorata, quelle mani sulle sue spalle, così reali da non sembrare un sogno.
Come nel sogno, si sporse verso il baratro, un piede nel vuoto. Come nel sogno, non si mosse. Come nel sogno, le mani calde e grandi si posarono sulle sue spalle, e la luce dorata la spinse giù. Anche se, questa volta, non era un sogno.
 
Si ritrovò al di sotto dell’argine su cui era. Non era un precipizio profondo, era solo un mucchio di terra ricoperto di erbetta bagnata e morbida, alto nemmeno cinque metri. Si mise a sedere e si tolse i ramoscelli incastrati nei capelli, ringhiando qualche parolaccia in un inglese stretto.
-Tutto bene?- le chiese una voce. Alzò lo sguardo con velocità, spaventata che potesse trattarsi di un altro vampiro. Invece era una ragazza, magrolina e sorridente, con lunghi capelli color pesca racchiusi in uno chignon sul retro della testa, qualche ciocca riccia che scendeva dall’acconciatura quasi trasandata. Le rivolse un sorrisone e i suoi occhi arancioni brillarono, con tanta bontà da stordire Shizuka. Le offrì la sua mano pallida, e Shizuka la prese e si rialzò a fatica. Valutò che doveva essere di soli pochi centimetri più alta di lei.
-Sei inciampata dall’argine?- le chiese, con la sua vocetta che sembrava un campanello. Shizuka alzò la testa, afferrando il polso della ragazza.
-C’era un vampiro, dobbiamo..!-
-I vampiri non possono venire qua, sei al sicuro.-
La ragazza si aggiustò gli spessi occhialoni sul naso e le sorrise ancora, dandole una pacca gentile sulla mano. –Siamo in golena, e non so perché qua non possono venire in alcun modo.-
Mentre continuava il suo monologo felice, Shizuka si guardò intorno. Davanti a sé, grossi gazebo si susseguivano uno davanti all’altro, e sotto di essi c’erano una miriade di letti, molti dei quali pieni. Non vedeva una fine alla scia di letti in quella striscia di terra tra l’argine maestro e quello secondario, un centinaio di metri avanti, che li distaccava dall’enorme fiume Po. Anche i vampiri temevano quella massa d’acqua, quel dio crudele che dava vita e poteva prendersela.
-..mi chiamo Cri, sono un’infermiera al Campo di Pronto soccorso in golena! Beh, in realtà vorrei diventare un’infermiera… per ora sto solo studiando infermieristica!- disse la ragazza, scuotendo Shizuka per un braccio. Lei tornò a guardarla, confusa, stringendo ancora nella mano dolorante la valigia, ormai verde e sporca.
Tenendola per mano, Cri la condusse verso uno dei lettini vicino a un grosso armadio di compensato. Tirò fuori un paio di garze, dei cerotti e del disinfettante. –Devo curarti! Meno male che non sei stata attaccata…-
Shizuka solo in quel momento si accorse delle escoriazioni sui gomiti, palmo delle mani e, purtroppo, sulle ginocchia attraverso le sue nuove calze, rotte.
Mentre rimaneva sul bordo del letto a farsi curare come una bambina caduta, sentì qualcuno avvicinarsi.
Cri alzò lo sguardo e un altro sorrisone le si stagliò sul viso. –Ale! Regi! Ma che sorpresa, cosa ci fate qui?-
-Il boss ci ha mandato in perlustrazione al Campo, come al solito.- disse una voce, che, purtroppo, Shizuka conosceva fin troppo bene. Si voltò, e incontrò lo sguardo della ragazza alta dietro di lei. I suoi occhi azzurri, i lunghi capelli castani, il rossetto blu e la coroncina sulla testa non le diede alcun dubbio sulla sua identità.
Regina sembrò sorpresa e spaventata tanto quanto Shizuka. Arretrò e andò a sbattere contro l’imponente Alex, confuso. –La conosci?- le chiese.
Regina prese il ragazzo per un braccio e lo strattonò giù, sussurrandogli nervosamente nell’orecchio. I suoi occhi verde acqua si sgranarono e rimasero a fissare Shizuka, ancora immobile mentre Cri le incerottava la mano escoriata.
-Siete amici?- chiese l’infermiera, tutta sorridente.
-Sì- si sbrigò a dire Shizuka. –E- e sono qui per accompagnarmi da loro. E dire al boss che ho accettato l’incarico…-
Si voltò verso i due, che si lasciarono scappare un sorrisino soddisfatto.
 
 
 
A soul in tension that's learning to fly
condition grounded, but determined to try
Can't keep my eyes from the circling skies
tongue-tied and twisted just an earth-bound misfit, I…
Learning to Fly, Pink Floyd (A Momentary Lapse of Reason, 1987)
 
 
Note dell’autrice
Buongiorno a tutti! So che aspettavate questo capitolo con ansia, e, beh, anche io! Sono quasi due anni che avevo in mente di scriverlo, e finalmente averlo fatto è qualcosa che mi fa davvero felice!
Come si nota, la storia prenderà un drastico distacco dai capitoli precedenti. Ma posso promettervi che ancora non è niente, non crederete che io sia così poco crudele, vero? Hehehehe…
E se vi chiedete “Al, ma che trip ti sei fatta per inventarti quel sogno per Shizuka?”, beh, eccovi la vostra risposta [https://www.youtube.com/watch?v=nVhNCTH8pDs]
Consiglio di guardarlo, forse ci potreste capire di più di quel sogno tanto strano!
Ci vediamo o sulla pagina facebook ufficiale di DH, https://www.facebook.com/DangerousHeritage/, oppure al prossimo capitolo! Ciao a tutti!

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Capitolo 18
*** Nuova recluta, nuove scoperte! (parte 1) ***


-Come sta Eri?-
-Eh?-
Shizuka alzò lo sguardo sugli occhi brillanti di emozione di Cri. –Eriol! Era mia compagna di classe, sai? Alla fine è uscita con Vlad?-
Shizuka rimase a guardarla perplessa mentre le fasciava il polso indolenzito dalla caduta giù dall’argine principale.
Era seduta sul lettino del Campo in Golena, dondolando giù le gambe dall’alto lettino mentre la giovane infermiera Cri la soccorreva.
Sotto al gazebo, la luce era bianca accecante, grazie ai neon appesi al soffitto che tremolavano e dondolavano nell’umida brezza che sferzava dal Po, così vicino da quasi sentirne le correnti infrangersi contro l’argine secondario, a poche decine di metri da loro.
-Si vedono. Ogni tanto, sai com’è Eriol…- rispose Regina, accostandosi a Shizuka per aiutarla. In quella ragazza, ora Shizuka non vedeva più un nemico. Era una ragazza alta e dall’espressione tranquilla e cordiale, quasi materna mentre aiutava Cri a fasciare Shizuka. La sua presa era decisa ma delicata, non affatto aggressiva come invece credeva fosse, come invece l’aveva vista agire.
-Forse non sei abituata alla zona, non sai cosa sia il fango del Po nelle ferite.- le sussurrò lei mentre Cri continuava con la sua vocetta felice a parlottare del più e del meno. –Brutta roba, brutta roba.- concluse, con forte accento labassese, strisciando quasi le parole.
-Ti fa male anche da altre parti?- disse Cri alzandosi in piedi, accostata a Regina, a cui arrivava poco sopra la spalla. Cri era bassa e minuta, ma piena d’energie. Shizuka annuì lievemente alla sua domanda, abbassandosi appena il colletto della pesante canotta nera che portava sotto la maglietta, indicando quello strano segno bianco sotto le clavicole che spesso le pulsava.
-Dev’essere l’umidità- stabilì Cri, tastando la macchia bianca, lunga e orizzontale. –Sai, con l’umidità che porta il Po, le vecchie ferite spesso fanno male. Si vede che non sei della zona!-
Shizuka rimase immobile, occhi sgranati. –Ferita? Questa non è una voglia?-
-No, no…-
La voce di Cri non era mai troppo alta, poco più che un sussurro. –È solo una vecchia cicatrice.-
Nessuno le aveva mai parlato di essere stata ferita in quel punto particolare, anzi. Suo padre Josuke le aveva semplicemente sempre detto che era una voglia, e una di quelle comuni, che quasi tutti avevano. Anche lo zio Koichi ce l’aveva, esattamente tra il pomo d’adamo e le clavicole, e zia Yukako sotto la clavicola sinistra, e suo padre Okuyasu esattamente sul palmo della mano. Con la stessa forma, una linea chiara, stretta ai lati e più grossa sul centro, larga non più di una decina di centimetri.
-Da cosa potrebbe essere causata questa cicatrice?- disse Shizuka, tutto ad un tratto.
-Un oggetto tagliente, senza bordi zigrinati e lama liscia, forse un…-
-Una freccia?- chiese Regina, stranamente pensierosa, avvicinandosi alle due. Cri si lasciò scappare una risatina e annuì, scostandosi i lunghi capelli pesca dagli occhi. –…o una freccia, sì! Anche se non so dove possa aver trovato una freccia! La ferita sembra molto vecchia… Più di dieci anni!-
Regina si voltò sconvolta verso Shizuka, e lei ricambiò il suo sguardo, senza capire. Alex rimase dietro di loro, in disparte, ascoltando tutto quello che dicevano. Shizuka non si accorse della sua vicinanza se non per l’enorme ombra che lanciava sopra di loro la sua figura imponente.
-Grazie, Cri. Ora dobbiamo andare.-
Regina si piegò sull’infermiera e strinse la sua esile mano nella propria, coperta da un lungo guanto blu che le arrivava fino a fin sotto la spalla. Quasi tutti i ragazzi della Banda sembravano avere i guanti, notò Shizuka. Anche Alex li aveva: corti guanti da motocicletta rossi, in tinta con le sue scarpe dello stesso colore.
Regina fece cenno a Shizuka di seguirla, e lei goffamente scese dal lettino, afferrando saldamente la propria valigia, sporca d’erba e fango. Shizuka si tenne dietro di loro, ad osservarli guardinga mentre camminavano sul bordo del campo, lanciando di tanto in tanto qualche saluto verso certi pazienti ricoverati sotto i gazebo illuminati.
Lasciarono il campo in golena, addentrandosi nella nebbia. Appena vi ci entrarono, Shizuka si fece prendere dal panico e si fermò. Vedeva solo grigio. Davanti a sé, ai suoi fianchi, una enorme e infinita distesa di grigio scuro, indefinito, che le faceva perdere l’orientamento. Non capiva nemmeno più qual era il sopra e il sotto, dello stesso colore fumo. Allungando un braccio davanti a sé, la sua mano quasi scompariva nel grigio della nebbia.
Vide una mano sbucare dal grigio e afferrarle il polso, e Shizuka si lasciò scappare un urletto, tirandosi un po’ indietro.
-Cosa fai? Perché urli? Sono io!- disse Regina, sbucando assieme ad Alex dalla bruma. Le piccole gemme celesti appese al diadema che portava sulla testa tintinnarono, cercando di strattonarla delicatamente e portarla assieme a loro. –Tienimi per mano, non ti perderai. Ci sono io, va bene?-
Il suo tono era calmo e caldo, il suo sorriso fin troppo convincente. Shizuka se ne lasciò scappare uno a sua volta e abbassò la testa, annuendo infantilmente. Regina era alta, forte e il suo tono gentile e materno non la faceva sembrare la guerriera spietata che era. Si sentiva al sicuro assieme a lei.
Alex camminava al loro fianco, silenzioso e a testa bassa. Dalla sua stazza si poteva presumere potesse essere pericoloso e forte, ma da quanto Shizuka aveva visto nel combattimento dietro all’istituto, era tutt’altro che coraggioso. Non aveva nemmeno il coraggio di guardarla. Appena tentava di alzare lo sguardo, incontrando il suo, si voltava di scatto.
I guerrieri non dovrebbero essere timidi, constatò Shizuka con ira nell’osservare il ragazzo biondo. Sarò una guerriera delle Onde Concentriche molto migliore di questo vigliacco.
Nella nebbia non si vedeva a un palmo dal naso, la strada si limitava al vecchio e consumato asfalto sotto ai loro piedi, scavato e solcato di tanto in tanto da brevi stralci di erbetta di prato.
-Non ci sono vampiri, qui?- chiese Shizuka tutto ad un tratto. Sentiva la tensione che le aleggiava intorno, i due ragazzi che rimanevano a circondarla, a proteggerla e scortarla fino a Ronco, probabilmente, al covo della Banda.
-Sul ponte e in golena no. I vampiri hanno paura del Po- si limitò a dire Alex, che parlò per la prima volta. La sua voce era bassa e tremendamente incerta. Regina fu pronta a continuare il suo discorso.
-A quanto pare, ai vampiri non piace nessuna corrente. Corrente elettrica, corrente del fiume… l’acqua indebolisce naturalmente i vampiri, ma l’acqua del Po può addirittura ucciderli. Si tengono lontani dal ponte e dalla golena perché sarebbero troppo vicini a una morte certa. I vampiri sono furbi, al contrario dei vampiri-zombie.-
Shizuka la guardò confusa. –Vampiri zombie?-
-Sono… sono dei servi dei vampiri, sì.-  Regina continuò a tenere il proprio passo, aggrottando le sopracciglia e tentando di trovare le parole adatte. –I vampiri veri e propri, quelle persone comuni con la pelle bianca e bluastra e gli occhi rossi luminosi. Quelli sono creati dalle Maschere di Pietra, sono i vampiri originali, dotati di poteri e spesso di Stand. I vampiri-zombie sono solo gli esseri umani in cui i vampiri originali hanno iniettato il loro siero. Sono degli stronzetti debolucci, i più facili da ammazzare. Hanno gli occhi rossi opachi, la pelle grigiastra e deforme, non hanno stand e non hanno nemmeno un pensiero. Sono più bestie che umani veri… e sono così brutti! Il siero dei vampiri è acido, e scioglie… Shizuka, mi stai ascoltando?-
Shizuka si era fermata. Si ritrovò a guardarsi i piedi, tremare come una foglia e stringere la sciarpa al suo collo. Il vampiro che l’aveva attaccata, un mesetto prima, era solo un vampiro-zombie. Shizuka si ricordava la sua forza inumana, i suoi sensi così acuti da non lasciarle scampo. E se quella razza era la più debole, cosa mai potevano fare i vampiri originali?
Regina le passò un braccio dietro alle spalle, scuotendola un po’, con un sorriso sulle labbra azzurre. –Ehi! Non aver paura, ci siamo noi a proteggerti! Non ti accadrà nulla, te lo prometto.-
E Shizuka davvero credette alle sue parole.
-E se dovesse avvicinarsi un vampiro?- chiese. Le parole le uscirono da sole dalle labbra, guidate dal terrore di trovarsi un altro vampiro davanti, lì al buio, e con la nebbia a coprire qualsiasi cosa.
Regina indicò Alex, che quasi sobbalzò dalla paura nel sentirsi tirato in causa.
-Ale ha una certa abilità nel sentire i rumori. E poi gli occhi dei vampiri brillano, nella nebbia si vedrebbero.-
Regina aumentò il passo, superando una lunga strada che scendeva nella campagna, illuminata da diversi lampioni, sulla quale si proiettavano casupole e villette. L’ultima zona abitata.
-Anche se…-
A Shizuka gelò il sangue nelle vene.
-…di recente, i vampiri si avvicinano chiudendo gli occhi.- Regina prese un gran respiro nella fredda aria umida, continuando ad avanzare nel buio, mentre i lampioni che illuminavano l’incrocio scomparivano alle loro spalle. –Loro ci sentono comunque, non so come facciano. Credo gli esseri umani abbiano qualcosa nel sangue che li attira… e, anche senza vedere, riescono a sapere dove sono.-
Shizuka ricordava a Morioh, come lei era diventata invisibile e il vampiro-zombie l’avesse trovata lo stesso. Strinse la mano di Regina con più forza, spaventata. Era inerme. Il suo inutile stand non contava niente contro quei vampiri.
Il grigio era tornato a inghiottirli, quando Alex si fermò tutto ad un tratto, stringendo con forza le cuffie che portava al collo.
-Quanti?- chiese Regina. Alex fece un cenno della testa. E si misero in posizione attorno a Shizuka. –Non parlare, non muoverti… ci pensiamo noi, d’accordo?- la ammonì  Regina. Shizuka obbedì, serrò la bocca e rimase in attesa.
Rimase a guardarsi i piedi, insicura, notando uno strano, grosso verme muoversi nel cemento spaccato.
Fece per prendere il bordo della maglietta di Regina, ma fu troppo tardi. Come se nemmeno esistesse, il vermiciattolo rosso si scansò dalla traiettoria della gamba di Shizuka e si attorcigliò alla caviglia di Regina, tirandola indietro. Con un forte tonfo, Regina fu a terra, bloccata dal tentacolo alla gamba.
La zona dello stivale attorno al nodo rosso era diventata bianca, dura, come ricoperta da uno strato di roccia.
-Attacco vampiro!- gridò Regina, evocando il proprio stand. Una massa acquosa alle sue spalle si scagliò contro il tentacolo, sciogliendolo come se niente fosse. Si rialzò a fatica in piedi ed estrasse due grosse bacchette metalliche dagli stivali, che iniziarono a brillare di elettricità. No, onde concentriche, si corresse Shizuka, arretrando e diventando invisibile. Alex evocò il proprio stand a sua volta, quel grosso scatolone di metallo che a Shizuka sembrava così tanto inutile. Le casse al lato di Nothing But the Beat lanciarono uno strano schiocco, e Alex portò le proprie cuffie all’orecchio, con sguardo attento.
-A lato della strada. Sul bordo dell’argine.- annunciò.
Ecolocalizzazione, era questo un altro dei poteri di quello stand. Forse non era così inutile.
In pochi istanti, tutto il bordo stradale fu ricoperto di acqua. Shizuka rimase in disparte, allontanandosi da loro quanto gli fu possibile, terrorizzata, osservando la situazione a malapena visibile con la nebbia che non accennava a diradarsi.
-Siete solo in due.-
Una voce completamente estranea annunciò quelle parole, alle sue spalle. Shizuka si voltò e lo vide. Era lo stesso ragazzo, lo stesso vampiro, che stava per catturarla prima del Campo della Golena. Ed era davanti a lei.
Il panico la prevalse e si ritrasse, cercando di correre da Regina, ma non lo fece. Rimase ad osservarlo, e notò che aveva gli occhi chiusi. Erano entrambi nella nebbia profonda, e i guerrieri della Banda non potevano vederli. E lui non poteva vedere lei, a quanto pare.
Il ragazzo aveva una lunga sciarpa rossa, quasi luminosa. La toccò e le frange alla fine di essa si trasformarono in altri tentacoli, che si avventarono nella nebbia, probabilmente contro Alex e Regina. Non poteva vederli.
Agisci, fa’ qualcosa, non startene lì impalata. Se non agisci, nulla cambierà.
Fece un passo verso di lui, ma i suoi occhi chiusi non la videro. I suoi sensi da vampiro non la sentirono. Gli camminò intorno, cercando di essere la più silenziosa possibile. Pestò un ramoscello, e credette fosse finita.
Si parò le mani sulla testa e si accucciò, cercando di non farsi scoprire.
Il vampiro, sempre con gli occhi chiusi, tese l’orecchio e si voltò nella sua direzione. Alzò le spalle e tornò a concentrarsi verso i guerrieri delle Onde Concentriche. Dalla nebbia provennero delle grida di dolore.
Il vampiro se ne stava sul ciglio della strada, a pochi centimetri dal bordo dell’acqua di Kings&Queens. Quell’acqua era probabilmente lì per intercettare i movimenti e la posizione del nemico, ma lui se ne stava ben attento dal non avvicinarsi nemmeno.
Shizuka sentì una carica provenirle da dentro. Si mise dietro di lui, aspettando il momento giusto.
-Armir e BabyK saranno estremamente felici della vostra disfatta!- gridò lui. Shizuka cercò di imprimersi quei nomi nel cervello, Armir e BabyK. Sapeva che sarebbero stati importanti.
-E finalmente Zaccaria il coraggioso e il suo Red Tide saranno amati e temuti da tutti! Non sarò più considerato uno scarto!-
Red Tide, la sua sciarpa, fluttuava inquietantemente sopra la sua testa mentre i suoi tentacoli si muovevano e frustavano nella nebbia e una strana sostanza che si diramava dalle suole sporche delle sue converse. Sembrava bloccare l’acqua, una specie di pietra bianca che, man mano, si scioglieva nell’acqua.
Sale?
Shizuka non poteva più indugiare. Strinse i pugni invisibili, da cui scaturì qualche onda concentrica pallida. Si spinse in avanti e colpì con le mani aperte la sua schiena coperta dal parka pallido, spingendolo in avanti e facendolo cadere nell’acqua a faccia avanti. Zaccaria gridò e si voltò verso di lei, le iridi luminose e rosse, rabbiose. –Dove sei? Perché non posso vederti!?- gridò.
Il fumo scaturiva dai punti in cui le sue mani avevano toccato i suoi vestiti, mentre piano piano veniva ricoperto di ghiaccio. Kings&Queens si palesò sopra di lui, i suoi occhi liquidi e di un azzurro luminoso e minaccioso piantati su di lui. Il suo braccio divenne di ghiaccio, che a ogni movimento tintinnava e scricchiolava. Alzò il braccio e con una grande violenza lo abbassò sulla testa del vampiro, che fece un sonoro crack. Shizuka tornò visibile e si schiaffò le mani sugli occhi, tremando come una foglia. C’era sangue ovunque, e l’acqua si tinse di rosso scuro. Sentì una mano sulla propria spalla e si voltò di colpo, trovandosi Alex vicino. Il suo sguardo era ancora più abbattuto del solito, pallido e sconvolto. Aveva sulle braccia nude qualche ustione e qualche strano segno rosso, probabilmente causato dai tentacoli di Red Tide.
-Ci pensa Regina, ora…- sussurrò lui, voltandosi dall’altra parte. Shizuka tentò di fare lo stesso, ma invece si voltò ad osservare la scena. Voleva vedere come fare, voleva vedere quel vampiro morire. Era una scena macabra, ma qualcosa dentro di lei la spingeva a osservare, imparare, e in futuro imitare.
Regina spuntò dalla nebbia, infuriata, i lunghi capelli castani incrostati di sale. Pestò a terra e una scarica concentrica si propagò per tutta la superficie dell’acqua, raggiungendo il vampiro, che tremò, colpito dalle scosse elettriche. Iniziò a generare vapore, graffiando il cemento sotto l’acqua mentre gridava, un grido animalesco e per nulla umano. Non è più un umano, si ricordò Shizuka. Può sembrarlo, ma non lo è più. Non devi provare alcuna pietà.
Quando Regina gli fu ormai vicino, alzò una gamba. Sotto al tacco nero dello stivale intravedeva qualcosa luccicare, quelle che sembravano essere delle placche e delle spine metalliche tra il carro armato di gomma della suola.
Abbassò con velocità la gamba e schiacciò la testa rotta del vampiro sotto la propria suola, luce bianca delle Onde Concentriche che si avviluppava attorno alla testa maciullata del vampiro castano e alla caviglia ancora coperta di sale degli stivali di Regina.
In pochi istanti, fu tutto finito. Del vampiro non rimaneva che un cumulo di cenere tra le placide increspature dell’acqua, che si ritirava pian piano. Kings&Queen svanì, e Regina diede un calcio alla cenere, che volò nella nebbia e scomparve definitivamente.
-Andiamo, boss sarà preoccupata.- disse la ragazza, voltando loro la schiena e invitandoli a seguirli. Alex prese per mano Shizuka e, come un bambino spaventato di perdersi, inseguì la ragazza vestita d’azzurro, trascinando Shizuka con sé, e perdendosi nella nebbia.
 
-Zaccaria è morto- sospirò la ragazza dal caschetto verde acqua pallido, aggiustandosi i fiocchetti tra i suoi capelli. Suo fratello gemello annuì al suo fianco, senza dire una parola.
I due gemelli erano seduti sulla cima del campanile, entrambi fissando insistentemente l’incrocio a un centinaio di metri da loro.
Gli occhi rossi e vispi di BabyK scrutarono quelli identici di suo fratello Armir, dondolando le gambe nel vuoto. –Regina è tremendamente forte, come sempre. Non c’è da stupirsi.-
-Ma Zaccaria è stato spinto- insistette Armir, stringendosi la sciarpa pelosa al collo. Il suo sguardo era più concentrato e serioso di quello della sorella. Qualcosa non gli tornava.
-C’erano solo il fratello di Zarathustra e Regina, ed entrambi erano stati intrappolati da Red Tide, ma Zaccaria è caduto nella trappola di Kings&Queens, è stato spinto. Da chi?-
Abbassò lo sguardo, fissando la strada a decine di metri sotto di loro. –Quando ha colpito Zaccaria da dietro, ha sprigionato Onde Concentriche. Ma non ho avvertito nessun altro guerriero dell’Hamon, né nessun umano. E non ho visto nessuno. Cos’era, allora?-
-Una nuova tecnica stand, forse? L’acqua è trasparente. Il suono è trasparente. E Nothing but the Beat del fratellino di Zarathustra è uno stand di nuova acquisizione, ha ancora tante abilità di svilupparsi.- tentò BabyK, iniziando a preoccuparsi quasi quanto il fratello. Il ragazzo negò, con uno strano sorriso sulle labbra, i canini che sporgevano dalle sottili labbra bluastre.
-Non c’è bisogno di crucciarsi così tanto ora, sorellina. Lo scopriremo presto.-
Si sfilò il nastro blu dai capelli e lo lanciò giù dal campanile. –Terminal Frost!- gridò. Sua sorella gli fece eco, lanciando il proprio nastro rosso. –Disco Inferno!-
Si lanciarono assieme giù dal campanile, dolcemente cullati dall’aria che li fece atterrare con calma e in sicurezza sulla strada deserta.
 
Un grosso faro bianco fece luce alla strada davanti a sé, e Shizuka, dopo tanto tempo, non seppe dire quanto, rivide qualcosa oltre all’assoluto grigio della nebbia padana. Un grosso cancello di rame le si parò davanti, sembrando immenso, possente, e antico.
-Siamo a casa!- trillò Regina, stanca e felice di aver finalmente finito la perlustrazione notturna. Shizuka si guardò intorno, ora che le era possibile. La strada continuava, si perdeva nella campagna e nella nebbia, delimitata da entrambi i lati da grossi fossi di campagna, strapieni di acque correnti nere come la pece, larghi almeno un paio di metri. Su uno di questi canali, un largo ponte di cemento spezzava l’andamento del fosso, creando una lunga stradina che si perdeva nella campagna. In fondo, a un centinaio di metri, si ergeva una grande costruzione di mattoni gialli e rossi, opachi e quasi invisibili nella nebbia.
Regina avanzò verso il cancello e, al contatto con la sua mano, creò delle strane scosse bianche.
-Onde concentriche?- si lasciò sfuggire Shizuka, estremamente sorpresa. Alex annuì timidamente, mentre le porte del cancello si aprivano, quasi automaticamente. Lasciarono passare i tre e, come per una qualche sorta di magnetismo, si richiuse alle loro spalle, con un forte rumore metallico. Continuarono a camminare nel freddo, ma non più nel buio, almeno. Il sentiero era delimitato da una parte e dall’altra da piccole luci al led, che segnavano il camminamento di ghiaia e sabbia. Tutt’intorno era campagna, erbe di ogni genere e prato. Raggiunsero l’aia, la corte di cemento, su cui si affacciavano tre grandi strutture: una massiccia casa padronale di mattoni rossi davanti a sé, collegata a un lungo e snello edificio al suo fianco, le finestre chiuse e buie, di vecchio intonaco bianco sbiadito, diventato quasi marrone e grigio. Non aveva porte, l’unico modo per entrarvi era passare per la massiccia e quadrata casa padronale. A sinistra, invece, si trovava un’altra struttura, più bassa, quella che in tempi passati doveva essere stata una stalla.
Una fioca luce proveniva da una finestra della casa padronale. Regina la spinse avanti, sorridendole. –Andiamo, il Boss ci aspetta.-
Shizuka, al ricordo della temibile Zarathustra, ebbe un brivido. Alex fece strada a tutti, aprendo la complicata serratura con due chiavi, spingendo la pesante porta di legno e aspettando che le altre entrassero nella villa.
Shizuka, con non poco spaventata, fece un passo avanti, rimanendo ferma sulla soglia. Nessun genkan, il posticino per le scarpe nelle case giapponesi, ad attenderla all’ingresso. Ormai non era più abituata ad entrare in una casa occidentale.
-Permesso…- disse timidamente, pulendosi per bene le suole delle converse al ginocchio e togliendosele, appoggiando il piede coperto solo dalla calza sul marmo gelido. Ebbe un brivido, ma nessuno sembrò darle importanza. Anche Regina e Alex si tolsero stivali e scarpe, riponendoli educatamente in una scarpiera nell’andito all’entrata, tirando fuori da essa delle ciabatte e incamminandosi verso una porta alla loro destra. Shizuka li seguì timidamente, sempre rimanendo sulla soglia.
-Avanti- rispose una voce familiare. Si sporse dalla porta di mogano e osservò una figura seduta al grosso tavolo di legno scuro, intenta a leggere un enorme tomo polveroso dalle pagine gialle sorseggiando una grossa tazza di caffè nero.
Alex si sedette al fianco della sorella, osservandola con gli occhi spalancati e luminosi e un sorrisone sulle labbra. –Abbiamo trovato un vampiro con stand!- disse, con una brillantezza che non aveva mai dimostrato quando erano da soli, fuori.
Zarathustra si alzò in piedi e si incamminò solenne verso di lei. Shizuka rimase ferma, immobile e terrorizzata anche solo dalla sua presenza. –Sono Zarathustra De Luna, ma penso tu già mi conosca, vero?-
Shizuka annuì. Notò che portava ancora un cerotto sul naso, ricordo di quando gliel’aveva rotto alla Città della Moda.
-Mi…- fece per scusarsi Shizuka, ma il Boss alzò una mano e la zittì. –Noi non ci conosciamo. Non ci siamo mai conosciute. Ti ho notato mentre eri in una visita turistica alle chiese di La Bassa, e ho notato che eri una potenziale portatrice di stand e onde concentriche. Ho mandato Alex e Regina a prenderti, e ora sei una matricola nella Banda. E io sono il tuo Boss.-
Shizuka abbassò lo sguardo, annuendo sommessamente. –Sì, Boss.-
Zarathustra le dimostrò un mezzo sorriso e le appoggiò una gelida mano sulla testa, cercando di darle una pacca di rassicurazione.
-Alex, vai a chiamare gli altri. Radunali nella Sala Centrale.-
Alex saltò in piedi e corse fuori dalla cucina, salendo rumorosamente su per delle scale.
-Come facevi a sapere che io sarei scappata?- chiese Shizuka mentre Regina e Zarathustra la scortavano attraverso l’andito d’ingresso, prendendo un’altra porta e ritrovandosi un una grossa sala, con il pavimento ricoperto da un enorme tappeto colorato, bordato da diversi grossi divani di tela e qualche televisore sui vecchi mobili.
Si mise al centro del divano e Regina si sedette al lato, con la schiena contro il divano. Shizuka fece per sedersi a sua volta, ma Zarathustra negò alla sua azione. Sembrava incredibile a Shizuka come quella ragazza, alta di una decina di centimetri più di lei e non molto più massiccia, a incutere così reverenza.
-Inventati un cognome.- la ammonì Zarathustra. –Conoscono il cognome “Higashikata”.-
Shizuka non fece in tempo nemmeno a metabolizzare la sua affermazione che dei rumori attrassero la sua attenzione.
Ciabattando, gli altri componenti della Banda scaturirono nella sala, parlottando e borbottando tra loro.
Si sedettero in cerchio attorno a Zarathustra e Shizuka, fissando la ragazza giapponese con fin troppa insistenza. Shizuka iniziò a sentirsi a disagio, e tra loro vide sguardi guardinghi, curiosi e divertiti.
-Chi è la nostra ospite?- chiese un ragazzo dai capelli neri e un pigiama elegante, fissandola con i suoi occhi blu fin troppo profondi.
-Ludovico, lei è Shizuka. Non è un “ospite”. Sarà una nuova componente della Banda.-
-Permanente?- chiese un ragazzo al fianco di Regina, dai capelli metà platino e metà corvini e lo sguardo dorato pieno di paura. –Forse- rispose Zarathustra, senza davvero rispondergli.
-Come ti chiami?- le gridò il gracile e basso ragazzo dai pazzi capelli viola scuro lunghi fino alle spalle. Shizuka si guardò intorno, e le parole le uscirono dalle labbra come se fossero sempre state lì, pronte a fuggire.
-Shizuka Nijimura.-
Le domande furono molte. Da dove vieni? Come fai a sapere l’italiano così bene? Quanti anni hai?
Shizuka iniziava a innervosirsi per quelle domande. Non sapeva cosa rispondere, se la verità o altre menzogne.
-Lasciatele un po’ di respiro, la notte ormai è fonda e credo che la nostra Shizuka abbia sonno.-
Zarathustra si pose tra lei e i ragazzi, sorridenti ed emozionati per la nuova amicizia.
-Lo siamo tutti. Andiamo a dormire, ora.-
I ragazzi annuirono e salutarono Shizuka. Una ragazza altissima e dai lunghi capelli rossi e viola, Noemi, abbracciò Shizuka e le sorrise divertita, saltellando via. Shizuka sorrise a sua volta, emozionata di avere finalmente dei nuovi amici.
-Regina?- disse Zarathustra. La ragazza castana si fermò vicino alle due, mentre Zarathustra tornava alla cucina, dal suo caffè e dal suo librone.
-Accompagna Shizuka nella camera libera, grazie. E buonanotte ad entrambe.-
Gelida come sempre, si congedò da loro e tornò in cucina. Regina prese Shizuka delicatamente per un braccio e la accompagnò su per le scale nell’andito d’ingresso, e su per altre rampe di scale e corridoi che le sembrarono infiniti. Si ritrovarono in un lungo corridoio, solcato a destra da cinque porte. Shizuka seguì Regina fino alla fine del corridoio, indicando l’ultima porta e sorridendole. –Questa è la tua stanza. È un po’ fresca perché non abbiamo acceso i termosifoni da molto, ma il pavimento è sempre caldo d’inverno, perché passano sotto i tubi dell’acqua. Se hai bisogno di me, sono esattamente nella camera vicino alla tua. Buonanotte!-
Con un sorrisone materno le consegnò le chiavi della stanza e le voltò le spalle, fiondandosi nella porta al fianco. Shizuka aveva le mani che tremavano dall’emozione, e trascinandosi dietro il proprio trolley entrò nella stanza, richiudendola a chiave alle sue spalle e accendendo la luce del vecchio e polveroso lampadario appeso al soffitto. Era una grossa camera che sembrava uno studio. Un grosso letto era schiacciato al muro, vicino a un antico armadio a due ante e a un grosso comodino. Alle altre pareti erano appoggiati delle cassettiere e una pesante scrivania di mogano, di fianco a una grossa finestra che dava sulla campagna, ora buia e grigia. Sospirò e appoggiò il trolley al fianco della testata del letto, troppo stanca per svuotare la valigia. Si infilò in fretta e furia il pigiama e crollò sul suo nuovo letto, sprofondando sotto le coperte. Erano fredde e profumate, nuove di zecca, e sapevano di sapone alla lavanda. Shizuka amava il profumo di lavanda.
Spense la luce e rimase al buio sotto le coperte, annusando quel buon profumo che, almeno per un po’, non le facevano pensare a quello che aveva fatto quella notte.
 
-Shizuka. Apri gli occhi.-
Era una voce calda e fin troppo conosciuta, come se le avesse rimbombato nel cranio da sempre. Era un ordine quello, ma quell’ordine le sembrava quasi detto con un tono dolce e marziale.
Aprì gli occhi, e vide la luce.
Alzò la testa dalle cosce della persona che le aveva parlato e si mise a sedere al suo fianco, strofinandosi le mani sugli occhi.
Un giardinetto ameno e puro, l’erba verde brillante che pizzicava placidamente sotto i suoi palmi. Erano seduti sul bordo di un laghetto dalle acque cristalline. Shizuka si scostò la gonnella candida e mise i piedi nell’acqua del laghetto, osservando le carpe e i pesciolini rossi scappare via mentre lei dondolava le gambe nell’acqua fresca.
-Dove siamo?- chiese Shizuka, stranamente calma.
-Questa è la tua mente.- rispose la figura luminosa al suo fianco, mentre le lisciava i capelli arruffati dal sonno. –L’ho ripulito. Era un luogo molto più scuro e sporco, prima.-
-Prima di cosa?-
-Prima che io prendessi il controllo.-
La luce dorata del ragazzo al suo fianco la riscaldava. Lunghi boccoli dorati scendevano dalla sua spalla, avvolti in perline di tutti i colori, e i suoi occhi chiari la osservavano con curiosità.
-Io sono sempre stato qui. Io ti ho sempre osservata.-
La sua pelle diafana era bianca e luminosa, i suoi occhi verdi la spiavano in ogni suo movimento. Ma Shizuka si sentiva protetta, al sicuro con lui.
-Mi hai fatta volare?- chiese Shizuka. L’uomo annuì. –Hai spiccato bene il volo. Ma devi continuare a battere le ali, o cadrai.-
-Non voglio cadere- rispose la ragazza, presa da un lampo di paura. –ma io non ho le ali.-
-Io sono le tue ali.
Si scostò i capelli dalla spalla e prese una piuma dorata dello stesso colore dei suoi capelli, allungandola verso le mani di Shizuka. Appoggiò la piuma sul palmo della mano di Shizuka.
-Io ti farò volare, Shizuka, ti farò volare in alto, come nessuno ha mai fatto. Ma devi permettermelo. Permettimi di farti volare, volare davvero.-
Le sue dita sfiorarono il palmo della mano di Shizuka, e sentì una forte scossa provenire dai suoi polpastrelli, una scossa dolorosa, che le passò tutto il corpo, tagliente come una spada.
-Me lo devi permettere.-
 
 
 
You can see the change you want to
Be what you want to be!
A Head Flull of Dreams, Coldplay (A Head Full of Dreams, 2016)
 
Note dell’autrice
Sono tornata di già col capitolo 18 perchè come potevo aspettare per una bomba del genere?
Sono stati introdotti molti personaggi, nuovi e non, e vi lascio così con tutte queste domande. Perché sono cattiva.
In questi prossimi giorni di festa natalizia (prima degli esami di inizio anno, per intenderci) spero di pubblicare almeno il prossimo capitolo. Per ora credo che questo possa bastarvi però. Mi sa che c’è molto da riflettere su questa bomba che vi ho appena droppato.
Ciao a tutti, non odiatemi vi prego!

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Capitolo 19
*** Nuova recluta, nuove scoperte! (parte 2) ***


Eriol rincasò tardi, sbadigliando e chiudendosi la porta alle spalle, il più silenziosamente possibile. Si infilò le pantofole beige che adorava tanto e sciabattò verso le scale, stanca, cercando solo di addormentarsi e dormire fino a tardi. Se lo meritava, dopo tutto il lavoro che le era toccato.
-Sai che ore sono, Eriol?-
Una voce inconfondibile la sorprese, ed Eriol sperava che se ne fosse già andata a dormire, a quell’ora. Ma il Boss non sembrava mai dormire, e dopo tre anni di servizio nella Banda doveva ormai aspettarsi della testardaggine di Zarathustra. Non sarebbe andata a dormire finché Eriol non fosse rientrata, era immaginabile.
-Ehm… le quattro, tipo?- boccheggiò lei, in difficoltà. Seguì la voce del capo e la trovò seduta al gross tavolo di mogano in cucina, mentre sorseggiava una grossa tazza di caffè ormai mezza vuota.
-Hai fatto tutto?-
Eriol sorrise, gonfiò il petto e si batté una mano sul petto, orgogliosa. Alzò la mano sinistra in cui teneva una sacca di raso ed estrasse da essi un paio di stivaletti lilla e dei lunghi guanti grigi scuro.
-Ho lavorato tutt’oggi sui guanti per modificarli,  e ho anche finito gli stivali che mi hai mandato dopo! Guarda qua!-
Alzò uno stivale e le mostrò con fierezza la suola forata. Nella spessa suola di gomma bianca c’erano una serie di buchi, in cui erano stati saldati delle specie di chiodini metallici. Zarathustra annuì, soddisfatta. –Ottimo lavoro, Eriol. Domani ti concedo la giornata libera.-
Eriol sospirò pesantemente, sollevata, e fece per esultare con voce più alta, quando notò un’ombra alle sue spalle. Si voltò e due occhi gelidi e blu la perforarono da parte a parte. Si sentì quasi mancare quando Ludovico parlò.
-Quelli non sono gli stivali della nuova arrivata? Come si chiama? Nijimura?-
Era appoggiato allo stipite della porta della cucina, cercando quasi di analizzarla, fissandola con tanta intensità e serietà da farle male.
Eriol non seppe più cosa rispondere. Boccheggiò, cercò di trovare le parole, ma il suo cervello parve svuotarsi.
-Esatto, sono i suoi.- Zarathustra la batté sul tempo, fortunatamente. –Non potrebbe iniziare l’addestramento senza delle scarpe apposite.-
La ragazza castana sospirò pesantemente e annuì, sperando con tutta sé stessa che i dubbi di Ludovico finissero. Ovviamente non fu così.
-E i guanti?-
-Per lo stesso motivo.-
Lui annuì, poco convinto. Si mise le mani in tasca e fece un mezzo giro della stanza, guardandosi intorno. Si voltò di nuovo verso Zarathustra. –E da quanto tempo la stai controllando?-
-È forse un interrogatorio questo, Ludovico?- rispose il Boss, alzandosi in piedi e scalciando indietro la propria sedia. –Non ti devo risposte. Sono il capo.-
-E se io volessi saperlo?-
-Lo saprai a tempo debito, come tutti.-
Ludovico fece un passo in avanti, puntandosi il pollice contro. –Sono il vicecapo, dovrei sapere più degli altri!-
-Tu mi sostituisci quando non posso svolgere le mie mansioni, ma visti i risultati all’istituto, sto seriamente dubitando della mansione che ti ho affidato.-
Il viso di Ludovico, solitamente pallido e contenuto, sembrò esplodere. Avvampò e gonfiò le guance, mettendosi ad urlare tutto ad un tratto, perdendo la sua caratteristica tranquillità e charme.
-Zara, io so che cosa stai facendo. Non credermi un idiota qualsiasi! Piero potrà non averlo capito, ma io non sono Piero. Tu ci stai nascondendo qualcosa su quella Nijimura, e te lo giuro, io scoprirò cosa stai pianificando!-
La porta si aprì di colpo, troncando il discorso del furioso Ludovico. Regina, in camicia da notte e piedi nudi, aprì la porta con un calcio, puntando una bacchetta di metallo dritta a Ludovico.
La situazione non le piaceva per niente. Zarathustra alzò un braccio e tutti si voltarono, ad osservarla. –Siamo stanchi. Andiamo a dormire, tutti.-
Ludovico girò i tacchi e se ne andò, tirando una spallata a Regina, ancora un po’ confusa dal sonno. –Che cosa stava succedendo?- chiese, sfregandosi una mano sugli occhi assonnati.
-Nulla. Dormiamo.-
Uscì dalla cucina, spense la luce e accompagnò le due amiche su per le scale, in silenzio, senza che nessuna avesse ancora il coraggio di parlare.
 
Shizuka Nijimura. Shizuka Nijimura. Continuava a rimbombarle nella testa, come un’esplosione, un tuono, una sirena dell’ambulanza.
La sua testa sembrava così affollata… nuove e vecchie informazioni, una nuova identità, una vita differente che Shizuka non sapeva nemmeno di aver vissuto.
Venne riscossa dai suoi pensieri da un forte bussare alla porta della stanza. Quando aprì gli occhi, non era il giardino sul laghetto del sogno, la sua cameretta lilla a Morioh o l’hotel Colori del Tramonto. Era la fredda e grigia stanza nella villa della Banda. Si sedette sul bordo del letto e inforcò i propri occhiali da vista, aprendo lentamente la porta.
Noemi si piegò su di lei, appoggiandosi le mani alle ginocchia e quasi gridandogli contro, già piena di energia e felicità. –Oggi andiamo al mercato!-
-Eh?- chiese Shizuka con un tono basso e confuso.
-Mercato!-
La mora annuì, e l’altissima ragazza dai capelli rossi applaudì e corse via, lasciando Shizuka sull’uscio della propria camera, confusa e spaesata. Regina si sporse dalla porta della propria camera, già truccata col suo solito rossetto blu e pettinata, vestita della sua maglietta smanicata in stile orientale color cielo e i pantaloncini rossi. Le sorrise e si incamminò nella stessa direzione in cui la rossa era scappata.
-Aspetta!- la fermò Shizuka.
-Non sei ancora pronta?- la rimproverò la castana. –No, ma…-
-Fai in fretta, o il Boss si arrabbierà! Oggi ha deciso di portarti a fare un giro al mercato.-
Shizuka schioccò le dita, un po’ imbarazzata. –Il mercato! Volevo… chiedere cosa fosse.-
-Ti ci portiamo apposta per fartelo scoprire. Verrò anche io, va bene?-
Shizuka annuì consolata. Regina era per lei come un faro, lì in quel covo di pazzi.
La parte più difficile per Shizuka era ambientarsi e fare amicizia. Quando era appena una bambina di 9 anni e si trasferì in Giappone coi suoi genitori, adattarsi fu un incubo. La scuola era diversa, le persone erano diverse, e la timida Shizuka rimaneva sempre confinata in un angolo, spaventata anche solo di parlare con quei bambini.
Anche un’altra bambina, però, era nella sua stessa situazione. Vestita di nero, pugni stretti e occhi come granati sotto un’improbabile e spettinata frangia castana. Le due fecero amicizia subito: il suo nome era Rin, e da allora divenne la sua migliore amica. Con gli anni, alle scuole medie, incontrarono anche l’esplosiva Sachiyo Kawajiri, sorella minore di un grande amico d’infanzia dei genitori di Shizuka, un certo Hayato, tanto vivace quanto ingenua e presa di mira.
Col tempo, le tre divennero inseparabili. Shizuka sorrise al pensiero delle sue due migliori amiche, ancora a Morioh, ad aspettarla.
E se voleva tornare da loro, tornare da nonna Tomoko, a cenare da Tonio e Virginia, a giocare coi piccoli Manami e Tamotsu Hirose, doveva imparare a usare le onde concentriche e combattere assieme alla Banda di Zarathustra.
Si fece forza e con uno scatto uscì dalla propria camera e si chiuse in bagno, chiudendola a chiave e diventando invisibile, per paura di essere vista. Si fidava da loro, ma la sua natura e il suo istinto le gridavano di rimanere sul chi vive, per qualche motivo.
Istinto, o qualcuno me lo sta sussurrando nell’orecchio mentre dormo?
Si fece una veloce doccia e si spazzolò i denti, preparandosi in fretta e furia nella propria camera.
Una volta finito uscì e scese le scale, lentamente, ancora insicura in quel luogo. Si guardava intorno, guardinga, finchè non si vide apparire un viso a un palmo dal naso. Gridò spaventata e cadde a terra, sbattendo col sedere sul pavimento, terrorizzata. Che era successo? Si sfregò le mani sugli occhi e qualcuno la prese per il polso.
-Ehi, non volevo spaventarti!-
La voce arzilla e raschiante di Piero la riportarono alla realtà. Era sceso dal soffitto e le si era parato davanti, per uno scherzo probabilmente. –Mi chiamano buffone, in questa catapecchia- le disse lui, grattandosi la zazzera viola mentre la accompagnava verso la sala da pranzo. –perché mi piacciono gli scherzi. Però loro sono stronzi. Sono bravo!-
-Mi hai spaventata- sussurrò Shizuka, ancora un po’ timida. Si guardava i piedi mentre scendeva le scale e attraversava i corridoi che sembravano infiniti assieme a quel ragazzo alto quanto lei, se non meno. E Shizuka a malapena arrivava al metro e cinquanta. Sorrise un po’, pensando che Piero voleva davvero parlarle, essere suo amico.
-Io mangio i cereali- disse lui, parlandole col classico accento strascicato labassese. –Mi prendono per il culo perché li mangio, ma non me ne frega. Devi capire che sono tutti scemi, ok? E se ti prendono in giro, tu ridi. Dai loro quello che vogliono, quello che si aspettano da te, e mai di più. Così, quando davvero ti impegnerai, ti vedranno brillare come una stella, e nessuno se l’aspetterà!-
Shizuka alzò lo sguardo su di lui. Era un ragionamento estremamente intelligente da quello che veniva considerato lo scemo della Banda. Decise che quelle parole le sarebbero state utili, gli sorrise e lo ringraziò timidamente. Al ragazzo quel timido sorriso bastò, le diede una forte pacca sulla spalla e, reggendosi alla balaustra delle scale, saltò cinque gradini di marmo, atterrando sul pavimento con una capriola.
Si voltò verso la ragazza e aprì le braccia, ridendo e facendo qualche sgraziato inchino. Shizuka applaudì divertita e scese lentamente le scale, senza imitarlo. Si sarebbe fatta male, e non ci sarebbe stato nessuno stand guaritore a rimediare.
Voltarono l’angolo assieme e Piero, continuando a parlare, aprì la porta di mogano della cucina con un calcio. Al suo interno, c’erano già tutti i ragazzi della Banda. Noemi stava divorando qualche merendina, inzuppandola in una tazza di cioccolata bollente, sotto lo sguardo raccapricciato della precisa Regina, il suo the chai in una tazzina elegantemente ricamata. Vicino a lei, Davide beveva una grossa tazza di camomilla, inzuppando qualche biscottino della fidanzata con mani tremanti e sguardo spaventato come suo solito. Alzò lo sguardo e fissò Shizuka coi soliti occhi sbarrati, rivolgendole un mezzo sorriso nervoso e un cenno della mano come saluto. Ludovico beveva pregiato thè inglese, Eriol un bicchiere di latte, e il Boss, a capotavola, sorseggiava un'altra grossa tazza di caffè. La tazza era sempre la stessa della notte precedente, notò Shizuka. Bianca, di ceramica, con su una frase ormai sbiadita, “il miglior Boss- dalla tua Banda”. Che gesto carino, pensò Shizuka, mentre si avvicinava alla tavolata. Vicino a Zarathustra era seduto suo fratello minore, Alex. Chino sul suo bicchiere di succo di frutta, non parve nemmeno accorgersi dell’arrivo dei due ultimi compagni. Alzò lo sguardo su di lei, avvampò e lo riabbassò di nuovo, sprofondando nelle larghe spalle. Shizuka rimase immobile, un po’ incerta. Vicino ad Alex c’era una sedia vuota, e Piero fece per fiondarvici sopra, prima di essere preso al volo da Regina e sbattuto indietro. La ragazza castana passò lo sguardo su Shizuka, le rivolse un sorrisone e indicò il ragazzo biondo, accartocciato su sé stesso. –Ale vuole dirti qualcosa. Avanti! Non essere timido!-
Alex boccheggiò, tentando di trovare le parole. Si voltò a guardare la sorella, che non alzò minimamente gli occhialoni dal giornale che teneva in mano. Nel panico, si voltò verso Shizuka. Rimase una decina di secondi immobile e deglutì pesantemente, pallido in viso. –Se… vuoi qui posto…-
Shizuka si irrigidì. Davvero qualcuno voleva averla vicina? Annuì e tentò di sorridergli, con un brutto sorriso tirato, e gli si avvicinò, montando sulla vecchia sedia di legno forse troppo alta per lei e sedendosi al suo fianco, alzando a malapena lo sguardo su di lui. Alex era almeno un metro e ottantacinque di imbarazzo e disagio, e a malapena gli arrivava alla spalla. Non alzò più lo sguardo dal bicchiere che teneva tra le mani.
Dall’altra parte aveva Eriol. Le appoggiò affettuosamente una mano sulla spalla e le rivolse un sorrisone, cercando di farla sentire a suo agio. –Cosa vorresti come colazione?-
Shizuka abbassò lo sguardo e si fissò le mani, attorcigliando le dita e cercando di prendere coraggio per parlarle. Non era mai, mai semplice parlare. –Latte e cereali, grazie.- sussurrò, con tono forse fin troppo freddo. Si morse un labbro e serrò gli occhi, esasperata dal proprio comportamento.
Eriol però ridacchiò, le diede una pacca sulla spalla e scese dalla propria sedia, avvicinandosi al fornello. –Preparo io! Anche per te, Piè?-
-Sì cazzo!- gridò Piero, sbattendo i pugni sul tavolo. Ludovico, al suo fianco, sbuffò sonoramente. Erano tutti in pigiama, tranne lui. Indossava già una camicia nera e lunghi pantaloni, sempre neri. –L’educazione, Piero.- sbraitò, portandosi la tazzina alle labbra e sorseggiando il suo the nero.
–Scusalo, è un bruto. Non sa minimamente cosa sia l’educazione o la civiltà.- disse, voltandosi verso Shizuka. Lei arrossì e annuì, non facendo davvero caso al comportamento del ragazzo dai capelli viola. In casa sua, a Morioh, volavano parole ben peggiori in ben due lingue da suo padre Josuke.
Le venne riposta davanti una grossa ciotola di latte e cereali, e, una volta che tutti ebbero la propria colazione, Zarathustra ripiegò la Gazzetta di Mantova, appoggiandola in un portagiornale di vimini dietro la propria sedia. Tutti alzarono lo sguardo su di lei, la riunione iniziava.
-Oggi sarà un giorno particolare, data la nuova acquisizione da parte della Banda. Questa mattina Regina e Noemi porteranno Shizuka a visitare il mercato di La Bassa, gli altri rimarranno qui con me a preparare l’attrezzamento per l’allenamento delle Onde Concentriche sul retro della casa.-
Si voltò verso Regina e Davide, incrociando le mani sul tavolo. –Vi voglio di ritorno per le dodici e trenta. Pranzo veloce, pausa, e alle tre si inizia l’allenamento. E stasera, un gruppo uscirà a fare ispezione, assieme a Shizuka, così per mostrarle come pattugliamo La Bassa. A chi toccherà stasera?-
-Io, Piero e Noemi. Il capogruppo sono io.- Davide si rizzò sulla sedia, voltandosi dal boss verso Shizuka, con un sorriso meno teso sul viso. –Ti mostrerò tutto quello che bisogna fare in pattuglia, prometto non ti succederà nulla se rimarrai vicino a me.-
Davide, nonostante l’essere perennemente sotto stress e a disagio, le sembrava davvero un bravo ragazzo. I capelli metà neri e metà platino separati e pettinati, gli occhi dorati sempre attenti e sul chi vive, e un sorriso mite e umile. Era ovviamente stato scelto come caposquadra per Noemi e Piero, scalmanati come sono. Shizuka iniziava a capire le dinamiche in quella banda.
Ancora pensierosa, non sentì la pesante mano di Regina abbattersi sulla sua spalla. Saltò sulla sedia e rimase col cucchiaio pieno di cereali tra i denti, voltandosi verso la ragazza, che sorrideva. –Sbrigati, prendiamo le biciclette e andiamo a La Bassa al mercato!-
-Le bici..?- ripeté incredula Shizuka.
 
La stradina di campagna era sconnessa, pendente verso destra, e piena di buche. Era stretta tanto da far passare a malapena un’auto, tremolante sul cemento non pareggiato e ormai sbiancato dal rado sole labassese.
Shizuka era l’ultima nella fila indiana composta da lei, Noemi e Regina. Shizuka continuava a guardare alla sua destra, verso il bordo della strada. L’erba era alta, e oltre il bordo c’era il nulla: una specie di scarpata di qualche metro, un altro argine molto simile a quello da cui era caduta la notte prima, e oltre ad esso un grosso canale pieno di animali, aironi, papere. Erano animali splendidi, sembrava quasi uno zoo senza sbarre. Gli aironi camminavano placidamente dentro al canale, le lunghe piume bianche che sembravano brillare alla tiepida luce mattutina, riflesse sulla scura e grigia superficie dell’acqua quasi stagnante. Ogni tanto Shizuka sbandava, facendo per cadere un paio di volte a causa del terreno sconnesso o della fine repentina del cemento sul bordo sgretolato della strada. Una macchina sfrecciò al suo fianco, alzando l’aria e facendola tremare sulla bicicletta.
Regina si voltò appena a vederla, e le sorrise prima di tornare a guardare la strada. –Non sembri abituata in bici.-
-No, non lo sono, in… in città non si usa, di solito. Solitamente prendo il bus…- rispose, con tono basso. Non era ancora a suo agio a parlare con loro.
-Qui si usa quasi solo la bicicletta. A La Bassa c’è solo il pullman scolastico.- borbottò Noemi. –E fa schifo. È sporco. E ci sono i marmocchi delle elementari che gridano.-
-E puzza- mugolò Regina.
La strada era stretta, e sembrava non finire mai. Erano continue curve, e non c’erano mai più di due case vicine, tutte circondate da chilometri e chilometri di campagna, che si perdeva all’orizzonte. L’erba primaverile era verde, troppo verde in confronto al pallido cielo azzurro-grigio sopra di lei. Sembrava vedere solo quel colore così calmo e neutro, così inosservato da sembrare poco importante. Il sole c’era, sotto quella coltre di nubi. Bianco, pallido, un’ombra pallida in un oceano grigio.
Case ormai inutilizzate scorrevano sotto ai suoi occhi, vecchie case di mattoni rossi appena schiariti dal sole a malapena visibile. Chissà quanti secoli hanno queste case, pensò Shizuka, osservando gli intricati viticci di piante rampicanti crescere sulle pareti. Quanta storia c’è in questo mondo… e io nemmeno sapevo che esistesse.
La strada ora era dritta, immensa, solcata da diverse automobili e camion, il fondo perfettamente liscio ma, guardandosi attorno, il paesaggio rimaneva lo stesso: campagna immensa, qualche casa sparuta. Ma, ora, all’orizzonte appariva qualcosa. Grigio, nero e beige, che si protendeva in alto, in un orizzonte che sembrava troppo lontano.
-Cos’è?- chiese Shizuka, staccando appena le mani dal grosso manubrio mezzo arrugginito della sua bicicletta e indicando l’orizzonte alla sua destra. Regina voltò appena la testa, poco interessata, annuendo e tornando a guardare la strada. –La Bassa, no?-
La città però non sembrava avvicinarsi. Rimaneva sullo sfondo, immobile, quasi tetra.
L’aria attorno a loro sembrava pesante, toccabile, e la lieve nebbia li avvolgeva come una coperta fredda che le avvolgeva nel loro viaggio. Voltarono a destra tutto ad un tratto, in una curva a gomito in cui Shizuka per poco non cadde, e dopo qualche pedalata, il paesaggio cambiò completamente. Un grosso negozio per primo, poi una serie di case a schiera l’una dopo l’altra, e la città di La Bassa si aprì a ventaglio davanti ai suoi occhi, senza che lei se ne accorgesse.
Pedalarono per almeno dieci minuti, prima che le case moderne lasciassero spazio a costruzioni ben più antiche. Noemi si fermò davanti a un enorme edificio giallo pallido, smontò dalla bicicletta e la posizionò nel portabicilette davanti alla scalinata che conduceva nell’edificio. -Non vi dispiace se entro un attimo, vero? Il boss mi ha chiesto di portare una cosa dentro- disse, stringendo un plico di fogli di stampante in mano. Shizuka negò, e alzò lo sguardo sull'antico edificio. Sopra le porte, la scritta “Biblioteca comunale di La Bassa” era incisa in un grosso pezzo di marmo. Regina dopo un po', fece lo stesso con la sua bici, Shizuka le imitò. Legarono tutte le bici con chiavistelli e catene, e Regina, inginocchiandosi davanti ad essa, strinse la catena che legava tutte e tre le biciclette tra le mani. La sua espressione si indurì nello sforzo, e dai suoi lunghi quanti blu scaturirono delle scintille argentee, che fecero illuminare le catene di metallo.
-Metal Silver Overdrive- sussurrò lei durante il processo.
Soddisfatta, Regina si alzò in piedi, e si affiancò alla stupita Shizuka, che la fissava con occhi sgranati.
-Ho solo impresso le mie Onde Concentriche nella catena. Così, se qualcuno cerca di toccarlo, si becca la scossa.-
Shizuka annuì, poco convinta. –Hai detto una frase nel mentre…-
-Esatto!- la interruppe Noemi, saltandole vicino, appena tornata dalla biblioteca, facendo svolazzare le gonne di tulle. –Esistono diversi tipi di Onde! Quella di Regi era il Silver, che si applica ai metalli!-
-Ne esistono di diversi tipi, diversi colori… ogni colore ha un utilizzo.-
-Ma non tutti sanno ancora usarne tutti i colori. Io faccio ancora fatica con l’Emerald…- borbottò la ragazza rossa, iniziando a camminare. Le altre la seguirono. Passarono sotto a un porticato, girarono svariati angoli, corsero per un grosso parcheggio in cui le auto sembravano danzare tra di loro per trovare un posto in cui sostare, e infine raggiunsero la grossa piazza centrale della città.
Benchè La Bassa fosse ben più ampia di Morioh, a Shizuka sembrava poco più che un paesino. Non c’erano grosse strade, ed era tutto tappezzato da piante, giardini, appezzamenti di verde brillante che si staccavano drasticamente dal rosso dei mattoni, il grigio dei muri, il giallo, azzurro, bianco, lilla delle case.
Era un’esplosione contenuta di colori, sotto una cappa bianca-azzurra, mai completamente color cielo, sempre brillante, da cui il sole faceva appena capolino dietro quel manto pallido. I colori c’erano, ed erano quasi sbiaditi, tranne per il verde.
Camminando per le vie, Shizuka notò che tutte le case, almeno quelle più in periferia, avevano un grosso giardino bordato da spessi recinti in metallo.
-Per tenere le case al sicuro, si può usare il Silver Metal Overdrive?- chiese Shizuka, indicando una casa gialla dal cancelletto verde metallico. Regina sorrise a quella domanda, appoggiandole una mano sulla spalla. –Non il Silver Metal, ma un miscuglio di Silver e Sunlight Yellow, uno con carica positiva e uno con carica negativa. Creano una specie di campo protettivo tutto attorno all’area circoscritta.-
Shizuka rimase a guardarla con confusione. Noemi si intromise tra le due, spintonandole entrambe per mettersi tra di loro. –Shizu, devi sapere che le Onde Concentriche possono avere carica positiva o negativa! Attraggono o respingono, perché sono elettricità!-
La ragazza mora aggrottò le sopracciglia, cercando di tenere il passo di entrambe. –Spiegatemi cosa sono per bene le Onde Concentriche.-
La rossa sbuffò sonoramente, dando uno spintone amichevole alla più bassa. –È una palla, amica! Te lo spiegherà oggi il Boss, ora dobbiamo solo divertirci!-
-No!- alzò la voce Regina, scuotendo la testa e facendo tintinnare le perline azzurre nel diadema che portava sulla testa. –Non siamo qui per divertirci. Siamo qui per mostrarle la città!-
Noemi si fermò tutto ad un tratto, appoggiandosi a un muro. Controllò l’orario all’orologio e ridacchiò.
-Sei crudele- la ammonì Regina, fulminandola con lo sguardo. Shizuka passò lo sguardo da una ragazza all’altra, confusa anche più di prima. Fece per aprire la bocca e chiedere cosa succedesse, ma non fece in tempo.
Un rumore sordo coprì qualsiasi altro suono della città. Tutto divenne muto, tranne per un continuo, martellante suono, che divenne pian piano un ronzio. Poi tornò, più forte di prima. Shizuka entrò nel panico e si premette le mani sulle orecchie, allarmata e terrorizzata. Ma davanti a lei, Noemi era scoppiata a ridere, e Regina la osservava stranita, a braccia conserte, appoggiata al muro.
-Cosa succede-? È uno stand nemico!- gridò Shizuka. Regina alzò una mano, indicando con un dito verso l’alto, e Shizuka seguì con lo sguardo verso l’alto.
La parete apparteneva a una enorme torre in mattoni, antichi e schiariti dal sole e dal caldo, macchiato dall’umidità e dalle frequenti piogge. Un grosso orologio svettava su ogni lato della torre quadrangolare, sottile e alta, e finiva con un singolare tetto a piramide di metallo baluginante nella fioca luce mattutina. Da dei buchi a porta sotto alla cupola, poteva scorgere una grossa massa nera muoversi.
-Una campana?- chiese, una volta che suonò dieci tremendi rintocchi. Regina e Noemi annuirono all’unisono, incuriosite dalla sua reazione.
-Non ci sono campane dove abiti te?- chiese Noemi, trotterellando al suo fianco. Shizuka piegò la testa dalla parte e ripensò al traffico di New York e ai calmi templi in periferia di Morioh.
-Campanili no. Nei templi ci sono campane ma… non così.-
Fissò ancora con orrore l’enorme campana nera che produceva quel sono infernale e seguì le altre sul marciapiede che costeggiava il giardinetto davanti all’entrata della grossa chiesa giallo pallido e continuarono a camminare.
Dopo qualche altro minuto si ritrovarono davanti a due grosse fontane. Tra esse, il busto in marmo di un uomo severo e barbuto fissava la piazza stracolma di bancarelle, un foulard tricolore verde, bianco e rosso attorno al collo.
-Piazza Garibaldi, la piazza del mercato. Attenta a non perderti!-
 
Quando tornarono, la tavola era già imbandita nella casa della Banda. Shizuka, stanca morta dalla mattinata passata a farsi strada tra persone ammassate attorno alle strette bancarelle nella grossa piazza della città, si tolse gli stivali all’uscio come d’abitudine e seguì Noemi e Regina, che si fiondarono in cucina, affamate dalla lunga mattinata. Eriol era in piedi al bordo della tavola, una pentola fumante tra le mani, mentre con un grosso mestolo riempiva tutti i piatti dei ragazzi seduti alla tavolata.
-Oggi ho fatto i gnocchi!- gridò lei, sventolando il mestolo sporco di sugo in aria. –È il primo pranzo tradizionale labassese di Shizu, ho voluto strafare! Però sbrigatevi che Piero ha già preso il bis!-
Shizuka si sedette timidamente sulla sedia a lei assegnata, vicino a Alex. Prese una forchetta in mano e se la rigirò tra le dita, pensierosa. Le venne appoggiato un piatto fondo pieno di strani grumi di pasta, affondati nel sugo di pomodoro. Eriol le si avvicinò e sbattè un paio di volte il mestolo sul bordo del piatto. –Vé, prova, prova! Vedi che son buoni!-
Soffocando a fatica una risata per la strana parlata della ragazza castana, prese uno gnocco con la forchetta e se lo portò alle labbra. Erano davvero buoni, saporiti e consistenti. Non aveva mai mangiato niente del genere.
-Complimenti allo chef!- disse a bassa voce, un po’ più a suo agio. Eriol alzò il bordo del grembiule e imitò un inchino, ridacchiando felice.
Il pranzo passò velocemente, con battute di spirito e mezze litigate sulle ultime partite di calcio.
Una volta che i piatti furono ripuliti completamente, come una mandria di bufali si diressero verso il soggiorno, trascinando la povera, confusa Shizuka con sé.
Piero si sedette a terra, sul caldo e morbido tappeto, seguito a ruota da Eriol, e gli altri ragazzi si spaparanzarono sul grosso divano. Shizuka si sedette al fianco di Noemi, telecomando in mano. –Ci sono i Simpson a quest’ora, non ce li perdiamo mai!-
-Poi c’è Dragon Ball- ridacchiò Eriol, sistemandosi con la schiena contro il divano.
Zarathustra era seduta su una poltrona di pelle al fianco del divano, sfogliando un pesante libro dalle fattezze vecchie, se non antiche, e Ludovico sfogliava il giornale su una poltrona simmetrica dall’altra parte del divano.
-Dopo Dragon Ball però si va ad allenarsi- decise il Boss. I ragazzi si lasciarono scappare un verso di disappunto, e Shizuka sorrise, unendosi a loro. il clima era leggero e divertente, e tutti i ragazzi erano simpatici. Sarebbe stata bene lì con loro, lo sapeva. Si appoggiò allo schienale e rimase a fissare il televisore, parlottando di tanto in tanto con Noemi e ridendo alle battute continue di Piero.
 
 
Zarathustra, imponente sul bordo della grossa piscina nel giardino posteriore della casa della Banda, scrutava tutti i ragazzi in fila davanti a lei, ordinati secondo una qualche logica che Shizuka non aveva ben compreso. Piero, Regina, Eriol, Noemi, Davide, Alex, Ludovico, e infine la stessa Shizuka.
Il Boss alzò un braccio, e fece un lieve cenno con la testa. –Venti giri dell’aia. Di corsa.-
Shizuka sgranò gli occhi nel sentirla. Non ce l’avrebbe mai, mai fatta, probabilmente sarebbe collassata senza respiro al secondo o al terzo giro. La cosidetta “aia”, un piazzale in cemento dietro la casa usato in epoca rurale per essiccare il grano, era ampio e anche solo il pensare di farci attorno venti giri la faceva sentire stanca.
Davide le si accostò, sotto ordine del capo. Le sorrise e le appoggiò paternamente una mano sulla spalla, e si piegò un po’ per poterla guardare alla sua stessa altezza. Shizuka gli rivolse un sorrisetto nervoso. Non ho bisogno di altri padri, due sono abbastanza, si ritrovò a pensare.
-Perdonami.- le disse, e caricò un pugno. Shizuka rimase a fissarlo interdetto e terrorizzata, pensando che l’avevano scoperta, che ora l’avrebbero uccisa. Forse era tutta una trappola, forse la volevano solo usare come esca per i Joestar… Davide, dal pugno, tirò fuori un dito: il mignolo. Si caricò di luce verde e gialla e bianca e prese a respirare più pesantemente, il petto che si gonfiava sotto la tuta da ginnastica. La colpì col mignolo sotto le costole, e Shizuka davvero pensò che fosse la sua fine. Sentì il calore abbandonarle il corpo, le gambe tremare e cedere e il respiro fermarsi. Non poteva respirare, non poteva fare altro che guardare negli occhi il suo aggressore di cui si era forse fidata troppo. Cadde in ginocchio e si mise carponi sul cemento, cercando di riprendere respiro, nel panico. Tutto ad un tratto, sentì come qualcosa stapparsi nella sua gola, i polmoni riempirsi come mai nella sua vita, e un flusso di calore e forza passarle tutto il corpo. Saltò in piedi e prese altri respiri e si guardò intorno, confusa.
-Tutto bene?- le sussurrò Davide, tenendola per le spalle. –Mi spiace di averti fatto male, ma è la procedura.-
Shizuka si voltò verso il Boss,  trovandola sorridente e soddisfatta. –Si chiama “respirazione forzata”, è una tecnica delle Onde Concentriche. È un mix di più tipi di Onde, e serve a risvegliare il potere della respirazione in ogni essere umano. Ho scelto Davide perché, oltre a saper usare alla perfezione tutti i tipi di Hamon, è il più esperto a controllarle. Sarà il tuo tutore.-
Shizuka annuì, e si voltò verso Davide, che pochi istanti prima aveva maledetto internamente. –Grazie- sussurrò timidamente. Il ragazzo le sorrise a sua volta e le si accostò.
-Per correre e resistere alla corsa devi usare la respirazione delle Onde Concentriche. C’è un metodo per imporla…- e il Boss, dalla tasca del suo bomber rosso, estrasse una pesante maschera di ferro. -…ma questi metodi non mi sono mai piaciuti. Questa maschera permetteva il respiro specifico, ma, se si provava a respirare senza un ritmo o senza usare le Onde, non permetteva la respirazione. Dei maestri in passato li usavano, ma gli anni quaranta sono passati da tanti anni per fortuna, e questi metodi così cruenti non li ho mai sopportati.-
Rimise in tasca la tremenda mascheraccia e tornò a guardare Shizuka, l’occhio rosso sotto gli occhialoni acceso e brillante. –Davide ti insegnerà come fare, e tu lo farai. Se non lo farai rimarrai indietro, e saranno affari tuoi.-
E questi li chiama “metodi non cruenti”?! pensò Shizuka, indignata e spaventata. Sarebbe stata meglio la maschera, forse.
Piero iniziò a correre, seguito da tutti gli altri. All’inizio per fortuna tenne un ritmo abbastanza lento, e Shizuka non trovò difficile seguire tutta la fila.
-Tieni la schiena dritta- la avvertì Davide, e così lei fece. –Non respirare col naso, respira con la bocca.-
Shizuka aprì appena le labbra, prendendo piccoli respiri a ogni passo sempre più veloce. –No, no, trova un ritmo- disse ancora Davide.
Battè le mani e di voltò verso Shizuka. –Inspira- e diede un altro battito di mani. –e espira- e picchiò le mani. Continuò a battere le mani e Shizuka fece tutto quello che gli diceva. Era bravo a insegnare, paziente e cordiale, sempre pronto a dare suggerimenti, anche quelli non molto richiesti o che sul momento le davano un leggero fastidio.
Il ritmo di corsa aumentava, e nessuno nella fila sembrava stanco, nemmeno Shizuka. Stranamente sentiva tutto il corpo pieno di energie, una forza che la percorreva interamente.
Zarathustra, in piedi sulla scaletta della piscina, si portò due dita alle labbra e fischiò con forza. –Basta così, bravi.-
La fila si fermò e Shizuka si voltò verso Davide, incredula. –Abbiamo davvero fatto venti giri?-
Davide annuì, sorridendole e riaggiustandosi la fascia sulla testa che tratteneva la lunga frangia dal cadergli sulla fronte sudata. –Sei stata davvero brava.- le disse, teneramente. Anche regina si affiancò loro, i lunghi capelli castani trattenuti in un alto chignon. –Hai già imparato a respirare, sei fantastica!-
Shizuka sorrise, un po’ a disagio tra loro due. Mi hanno adottata? pensò, spolverandosi i collant sporchi di polvere.
Regina si piegò su Davide e gli schioccò un bacetto sulla guancia. –Sei un papà perfetto!- scherzò lei, con un tono che sembrava tutto tranne scherzoso. Questi due vogliono già metter su famiglia?
Zarathustra scese dalla scaletta della piscina e appoggiò un piede sull’acqua. Shizuka sgranò gli occhi, quasi spaventata. Voleva forse farsi una nuotata così? Con i vestiti addosso?
La suola della scarpa di Zarathustra si appoggiò sulla superficie dell’acqua, senza romperla, e si appoggiò con delicatezza su essa. Come una pellicola, il bordo dell’acqua si increspò, ma rimase fermo e rigido. Zarathustra camminò sull’acqua, avvicinandosi a tutto il gruppetto della Banda, fermo a riposare su uno spiazzo d’erba.
Sotto le suole delle sue scarpe, le increspature concentriche si dilagavano e si perdevano, lanciando sfumature azzurrognole e gialle.
Sta usando le Onde Concentriche.
Arrivò sul bordo della piscina, le scarpe gialle ancora intatte asciutte, e si avvicinò proprio a Shizuka. Benchè Zarathustra non superasse il metro e sessanta, aveva una strana imponenza e incuteva un terrore speciale.
Davide rizzò la schiena, e Shizuka fece lo stesso.
-Hai imparato la respirazione molto velocemente, vedo.- le disse, gelidamente. Shizuka annuì e abbassò istintivamente la testa, stringendo tra le dita i corti shorts che indossava. Era in soggezione, e non le capitava così spesso, e non così intensamente.
-Ora devi imparare a usarle. Davide, se non ti dispiace, ti distrarrò dai tuoi allenamenti giornalieri per badare a lei.-
Davide sorrise. –Nessun disturbo! Ormai credo di aver appreso tutto ciò che potevo apprendere, Boss. Se me lo concedi.-
Zarathustra si portò le mani dietro alla schiena e si concesse un mezzo sorriso, annuendo. –Ormai il tuo allenamento è finito, Davide.-
Si voltò verso gli altri, col solito tono senza nessun entusiasmo o emozione. –Tutti gli altri tornino agli allenamenti giornalieri. Cosa vi manca?-
-La corda!- gridò Piero, correndo verso il grosso di fianco al casolare centrale. –Io ho bisogno della scaletta- parlottò Ludovico tra sé e sé, seguendo Piero all’edificio. Era evidentemente un grosso sgabuzzino, una ex stalla ora adibita a magazzino.
-Noemi, Alex, prendete i palloni d’acqua.- ordinò ai due, e anche loro corsero verso la stalla.
Shizuka aggrottò le sopracciglia istintivamente a sentirli, e Davide si lasciò scappare una mezza risata. –“Corde, palloni, che allenamenti di combattimento sono?” stai pensando, vero?-
La ragazza mora si voltò spaventata verso Davide, e lui scoppiò definitivamente a ridere, portandosi elegantemente una mano sulle labbra.  –Infondo hai ragione, sai? Imparare a usare le Onde non è solo combattimento, anzi. È tecnica, abilità, e saper utilizzare tutto a proprio vantaggio.-
Zarathustra annuì, soddisfatta dalla spiegazione. Si avvicinò al bordo della piscina e indicò l’acqua con un cenno della testa. –Sai cos’è la tensione superficiale?-
Shizuka ci pensò su. L’aveva studiato nell’ora di fisica, qualche mese prima, a scuola. –La pellicola che si crea sull’acqua?-
-Circa. Devi usare la tensione superficiale, aumentare quella forza tra le molecole d’acqua che le fa tenere unite tra loro. La versione basica di questa tecnica richiede solo le Onde bianche, ovvero generiche e non gli Overdrive, le onde colorate. Regina ti ha già accennato qualcosa ai  colori dei Overdrive, no?-
Shizuka annuì.
-Perfetto. Qui non ti serve nessun colore. I colori derivano dalla tecnica e dall’esperienza, ma senza di esse, le onde risultano di colore bianco, con una carica positiva o negativa. Per oggi ti eserciterai solo a far uscire quelle onde. Sai il perché dei guanti e delle scarpe specifiche?-
-Il metallo. Il metallo… è conduttore, giusto?-
Shizuka strinse i pugni, osservando le piccole placche sui palmi dei guanti neri senza dita che Alex le aveva regalato. –Se le Onde Concentriche vengono dalla respirazione…-
-La respirazione le alimenta. Il sangue si carica di ossigeno, e tramite esso si sviluppano le Onde, attraverso il sangue, attraverso tutti i capillari sottopelle, e dunque tramite pelle.-
Zarathustra alzò la testa, guardando il cielo azzurro pallido. Non c’era una nuvola in cielo, ma risultava comunque di un pallore strano. Il sole bianco splendeva tanto da far male agli occhi, e Shizuka non poteva alzare lo sguardo per molto che subito si sentiva gli occhi bruciare. C’era qualcosa di strano, nel cielo labassese. Il sole era bollente sulla pelle, e il vento gelido del nord litigava col caldo della luce del sole. “Clima tipico primaverile labassese”, disse Ludovico prima, ridacchiando assieme a tutti gli altri nella corsa.
-Il sole, le Onde Concentriche sono la forza del sole.- finì Zarathustra. Abbassò di nuovo lo sguardo sulla allieva, seduta sul bordo della piscina. –Devi seguire la luce del sole, ma ricorda che esistono altre luci. Non tutte sono il sole, anche se brillano e splendono nella stessa maniera. Il sole ti è amico, ma non è l’oscurità ad esserti nemica, Shizuka. Stai attenta alla luce.-
Il Boss girò i tacchi e se ne andò, mani nelle tasche e mento alzato, tornando dentro la casa.
Shizuka rimase a fissarla, con gli occhi sgranati. La luce? Con “oscurità” probabilmente si riferiva ai vampiri, ma con “luce” cosa intendeva? Shizuka rimase a pensare forse troppo attentamente a quella risposta, perché sentì un forte spintone che per poco non la fece cadere in acqua.
–Ve, dasmisiat!- quasi le gridò Davide, sedendosi al suo fianco. Shizuka rimase a fissare anche lui pensierosa, non avendo davvero compreso le sue parole.
-Uh, è dialetto labassese. Scusami, mi è scappato.-
Si portò le mani sulle labbra e si lasciò scappare un sorriso imbrazzato. –Vuol dire “svegliati”, “sbrigati”… dobbiamo allenarci, ricordi?-
-Oh! Sì, scusami.-
Shizuka abbassò lo sguardo e allungò una mano verso l’acqua, quasi sbattendocela su e affondandola nell’acqua.
-No, no, respira. Pulisciti la mano e rifai da capo.-
Le allungò un asciugamano e si pulì, rimanendo a fissare l’acqua con espressione accigliata. Socchiuse gli occhi, fece un profondo respiro e allungò una mano sopra l’acqua, senza però toccare la superficie.
-Brava- sussurrò Davide, per non farle perdere la concentrazione. –ora cerca di convogliare le onde verso il tuo braccio.-
-E come?-
-Hm… pensa a qualcosa che ti fa forza. Può essere qualcosa che ti fa arrabbiare, o che ti fa venir voglia di usare tutta la tua energia…-
Shizuka annuì, chiuse gli occhi e rimase immobile. Davanti ai suoi occhi chiusi, vide le sue due amiche a Morioh, la sua famiglia, New York. Vide due serpenti contorcersi in una lotta spietata, il cobra magenta e scarlatto aprire le fauci sanguinolente e fissarla coi suoi occhi di ghiaccio.
Aprì tutto ad un tratto gli occhi e la sua mano era ricoperta da scariche elettriche bianche.
-Ce l’hai fatta!- si lasciò scappare Davide, appoggiandosi alla sua spalla. Shizuka appoggiò la mano di nuovo sull’acqua, che rimase a contatto con la superficie. Premette la mano e l’acqua si spostò, più come un materassino ad acqua che una vera e propria piscina.
 
Dopo ogni allenamento, imparò Shizuka, c’era una sessione di riposo. Piero si accostò a Davide e Shizuka, appena rientrati in casa, mentre si faceva vento al viso col bordo della canotta fradicia, un vecchio e rotto asciugamano attorno al collo. –Davi, sai l’orario di stasera?-
-Usciamo alle nove.- fece lui, dando una pacca sulle spalle a Shizuka. –Dalle nove alle tre, sei ore di vedetta.-
-Così tanto? Davvero?- Piero si lasciò scappare un verso di sconfitta e strisciò via, strascicando i pesanti stivaloni per terra.
Anche Shizuka rimase contrariata da quegli orari. Alzò lo sguardo verso Davide, che già la stava guardando, come se avesse previsto tutte le sue mosse. –Vuoi dormire, prima di andare fuori? Ti servirà, perché nessuno stanotte ha voglia di trascinarti mezza addormentata!-
Annuendo stancamente salì i gradini e si diresse verso il lato est della casa, verso i dormitori. I ragazzi, stravaccati sui divanetti e sulle sedie, nemmeno notarono la sua assenza. A malapena notavano sé stessi, stravolti com’erano.
Strisciò fino alla propria camera e si chiuse dentro, togliendosi a malapena le scarpe nuove, prese in una bancarella speciale al mercato di quella mattina. Il rivenditore e sua moglie, due signori gentili, costruivano scarpe speciali appositamente munite di tacchetti di metallo, proprio per i ragazzi della banda. Si era presa un paio di scarpe da ginnastica bianche e grige, rialzate e dalla soletta morbida. Amava quelle scarpe, perché le permettevano anche di galleggiare sull’acqua.
Si abbandonò sul letto e socchiuse gli occhi, riuscendo a malapena a togliersi gli occhiali da sole dalle lenti azzurrine, prima di addormentarsi pesantemente e trovarsi di nuovo nella radura luminosa dei suoi sogni.
Le colonne dell’antico porticato, bianche e lucenti, erano spezzate e rotte, come se qualcosa le avesse intenzionalmente distrutte.
Si guardò intorno, non vedendo nessun movimento sospetto, e nemmeno il fantomatico ragazzo di luce.
Un sibilo e un sonaglio alle sue spalle le fecero rizzare i capelli sulla nuca. Si voltò e lo vide. Il cobra.
Aveva sfoderato i denti, da cui colava sangue rosso e non veleno. Era terribile, nero e rosso e magenta, dagli intricati disegni sulla pelle squamosa, gli occhi come due specchi, vetri azzurri taglienti e pericolosi. Scuoteva la coda, i sonagli di diamanti e pietre preziose che tintinnavano come coltelli che cadono sul pavimento. Era un suono straziante, insopportabile.
Il cobra aprì il collare, di intricati disegni scarlatti e violetti e azzurrini e magenta, e si abbassò tutto ad un tratto su di lei, come a volerla mordere. Shizuka gridò e si tirò indietro, di poco. Il serpente non la colpì.
Presa dal panico, corse via, tra l’erba e le rovine. Il porticato in stile greco e classico era distrutto dal pesante corpo dell’enorme cobra, il laghetto sporcato di sangue, era tutto distrutto.
Il serpente aveva distrutto tutto ciò che Shizuka aveva costruito. Ma l’ho costruito davvero io, tutto questo? si chiese. L’ho voluto io?
Non importava, in quel momento. Il cobra strisciava dietro di lei, sibilando e muovendo la sua coda, facendo più rumore possibile, buttandosi contro muri e colonne, solo per distruggerle.
Stanca di scappare, si fermò e si voltò verso il serpente, che la stava lentamente inseguendo. Si erse di nuovo, aprendo il collare, metri e metri sopra di lei. La sua testa era tanto grande da poterla ingoiare in un solo boccone. I suoi denti di cristallo brillarono pericolosamente nella luce sempre più forte.
-Sono qui- le disse una voce fin troppo familiare. Si voltò e dietro di sé c’era lui, avvolto nella sua solita, calorosa luce. Nemmeno sapeva il suo nome, ora che ci pensava. Si lisciò i lunghi capelli dorati su una spalla e le sorrise, gli occhi verdi sorridenti. Prese la sua mano e vi depositò qualcosa di freddo e pesante. Shizuka abbassò lo sguardo, e tra le sue mani c’era un grosso coltello da caccia, con una incisione in kanji sul manico di cuoio e acciaio che Shizuka non riuscì a leggere. –Devi uccidere il serpente, Shizuka. Devi ricostruire questo posto. Il tuo posto. Uccidi il serpente, fai rinascere la nuova te. Con lui, tu non puoi andare avanti. Ti blocca la via, non vedi? Vuole solo avvelenarti. Uccidilo, o il veleno ucciderà te.-
Il cobra gridò, sbattendo la coda di cristallo sull’erba distrutta. Chissà cosa voleva dirle…
Lui le strinse il polso, con forza, senza che lei potesse in alcun modo ritirarsi, e Shizuka alzò il coltellaccio e lo puntò verso la pancia scoperta e molle del rettile. Gli corse incontro, tenendo il pugnale con entrambe le mani, e lo affondò nella carne fredda del serpente, che lanciò uno strillo così tremendo da far male alle orecchie di Shizuka. Ma il serpente doveva morire, no?
Alzò il coltello e aprì la sua pancia, tirandosi indietro. Dal taglio uscirono schegge di vetro, che la sommersero, tagliandola e conficcandosi nella sua pelle. Tentò di gridare, ma le schegge le si conficcarono nella lingua.
Ho fatto quello che mi hai detto tu, perché mi sta succedendo questo? avrebbe voluto gridare. Ma non poteva. Su di sé, sopra la valanga di schegge, vide un’ombra luminosa, un viso bruciato tanto da apparire nero, carbonizzato, un sorriso contorto in una poltiglia di sangue.
-Shizuka, mia amata nipotina, per rinascere bisogna prima morire.-
 
Shizuka si risvegliò, tremante e sudata, sul proprio letto. Era un incubo, solo un incubo. Si portò una mano al viso per asciugarsi la fronte madida e nella sua mano era stretto un pugnale da caccia. Lo stesso che il ragazzo di luce, il ragazzo di cenere, le aveva dato nel sogno. Il fodero era vicino a sé, con una maniglia per appenderlo alla cintura. Sospirò pesantemente e rimase ad osservare le sfumature rosse e arancioni della lama, a seconda di come veniva colpita dai raggi del sole calante del tramonto. Aveva dormito per qualche ora, ma sembrava di essere stata addormentata per anni.
Quei sogni dovevano voler dire qualcosa, ma cosa? Che serpente doveva uccidere? E questo serpente l’avrebbe uccisa, o era lo stesso uccidere il serpente che l’avrebbe ferita?
Non era il momento di pensarci. Andò in bagno, lo chiuse a chiave come suo solito e si fece una veloce doccia gelida, cercando di calmarsi. La nottata che l’aspettava era lunga, e doveva essere pronta a tutto.
Tornata nella propria camera si vestì con quello che decise essere il suo completo da “caccia ai vampiri”, converse a stivale alte fino al ginocchio prontamente modificate, pesanti calze bianche, pantaloncini, maglietta senza spalle e una spessa canottiera nera sotto tutto. Le temperature labassesi erano pazze, non sapeva come vestirsi in un clima così capriccioso.
Si fece i suoi soliti bassi codini e si riallacciò i guanti, che le arrivavano quasi fino ai gomiti. Allacciarli era difficile, date tutte le cinghie per assicurarli alle braccia.
Si allacciò le due cinture, come soleva portare suo padre Okuyasu, e appese al lato il pesante coltellaccio. Quando si assicurò che non potesse cadere, fece per uscire dalla stanza e aprì la porta, ma qualcosa la spinse indietro. Si voltò verso la propria valigia, e rimase a fissare un luccichio dentro ad essa. Si inginocchiò al fianco della valigia ed estrasse il ciondolo a forma di freccia. Ora che ci penso, anche l’uomo misterioso luminoso dei sogni ha degli orecchini del genere. Però sono bianchi, fatti di luce. Non d’oro.
Alzò le spalle e assicurò il ciondolo dalla parte opposta del coltellaccio, alla propria cintura, sul fianco. Dondolava e tintinnava, ma non come la coda del serpente, ma piuttosto come la risata dell’uomo di luce.
Prima di rialzarsi, il suo sguardo cadde sulla vecchia sciarpa sciupata che era appartenuta a suo nonno Joseph. Anche lui usava le onde concentriche, e zia Holly aveva detto che quella sciarpa era importante per l’Hamon… se la mise al collo, distrattamente. Meglio abbondare.
Si avvicinò allo specchio sulla scrivania, vicino al letto, frugò nel suo beautycase e tirò fuori il suo vecchio eyeliner. Non voleva uscire per La Bassa senza nemmeno un po’ di trucco. Non riuscì nemmeno a tracciare la prima linea che qualcuno gridò alla sua porta, che aveva dimenticato aperta.
-Ah! Anche tu ti trucchi! Quel trucco è cuelty free?-
-Che?!- sbottò Shizuka, non riuscendo a trattenersi dall’essere nervosa. Si voltò appena verso Noemi, aggrappata alla sua porta, tutta sorridente. –Io non mi trucco perché i trucchi sono contro la natura e contro gli animali. Hai visto che truccano i maiali? Povere bestie!-
Da dietro di lei la porta si spalancò ancora, rivelando Regina, dietro di lei. La prese per il colletto della maglia e la tirò indietro, gridandole contro qualche parola incomprensibile in dialetto labassese. Si sporse lei questa volta, tutta sorridente, tenendo in mano qualcosa e allungandoglielo. –Ciao! Tieni, ho pensato potesse esserti utile. Non ascoltare Noemi.-
-Ma truccano i maiali!- gridò la ragazza rossa, saltellando dietro alla porta.
-Che cazzo dici? Quella era una puntata dei Simson!- sbottò Regina, perdendo tutto il suo charme nel gridarle contro. Si riprese ed entrò appena nella camera di Shizuka, passandole in mano una matita per gli occhi viola scuro. Shizuka sgranò gli occhi. –Dove l’hai trovata? A Morioh non si trova! Nemmeno alla città di S, è introvabile di questo colore!-
-Al Leone, qualche settimana fa. È un centro commerciale di quelli grossi sul Garda… prima o poi ti ci porto, va bene?-
Shizuka sorrise emozionata e annuì, ringraziandola e lasciandosi scappare un mezzo inchino.
-Con gli occhi grigi che hai, il viola farà un grande effetto! Poi è il tuo colore preferito, no?-
Regina rise e uscì dalla porta, lasciando Shizuka da sola di nuovo. Finì di sistemarsi e rimase ad osservarsi nello specchio, sollevata. Regina aveva ragione.
Uscì dalla propria camera e scese felice le scale, trovando Davide e Piero davanti all’uscio, a parlottare tra di loro. Piero stringeva quasi compulsivamente tra le dita le targhette militari che portava sempre al collo, Davide si lisciava le catene che portava attaccate alle lunghe braghe di tartan giallo.
Shizuka si avvicinò ad entrambi. Piero la salutò con un cenno della testa, facendo muovere i capelli viola, scompigliati e lunghi fino alle spalle. –Oi! Dormito bene?-
Shizuka mentì e annuì, sotto lo sguardo contrariato di Davide, che sparì però appena Shizuka si voltò a guardarlo. Davide aveva qualcosa che nascondeva, ma cosa?
Noemi sbucò fuori dalla porta della cucina, un biscotto tra le labbra. –Io ho fame, andiamo a mangiare?-
-Sì, andiamo alla piadineria di fianco all’Ipercoop.- sentenziò Davide. Piero sbuffò sonoramente. –Solo se dopo andiamo al K2!-
-Non andiamo in gita, andiamo a pattugliare. Dobbiamo far vedere a Shizu come si fa.-
Noemi e Piero sbuffarono all’unisono, e Davide si massaggiò la radice del naso, già stanco ancora prima di iniziare.
-Boss! Noi andiamo!-
-Buona fortuna.- disse freddamente il Boss, seduta su una vecchia poltrona nella sala attigua all’ingresso, un grosso, antico librone rilegato di cuoio sulle ginocchia e degli occhiali da aviatore dalle lenti gialle a specchio come quelle dei suoi soliti occhialoni.
Regina si avvicinò a Davide, lo abbracciò e gli diede un bacio, tenendolo stretto a sé. –Torna vivo o t’ammazzo.- gli sussurrò. Davide le sorrise e l’abbracciò a sua volta.
Una volta sciolti dall’abbraccio, il gruppetto si decise a uscire dalla porta.
Si recarono al garage-stalla-magazzino, dato che al suo interno Shizuka notò che c’erano anche due piccole automobili, qualche motorino e un numero imprecisato di biciclette.
Piero saltò sulla propria bicicletta argentata e verde, una mountain-bike dalle grosse ruote da motocross, quasi più grande di lui. Noemi montò sulla propria vecchia bicicletta da città e Davide la seguì, su una bicicletta nera che quasi passava inosservata lì in mezzo. Shizuka cercò la bicicletta che aveva usato quella mattina, inutilmente.
-Non la trovo… sussurrò. Davide smontò dalla bicicletta e si avvicinò a una piccola mountain-bike, elegante e leggera, bianca e lilla. –Te l’abbiamo rifatta! Ludovico, Eriol e Piero ci hanno speso un po’ di tempo su… spero ti piaccia.-
-Oh… mi piace molto, grazie…-
Shizuka si voltò verso Piero, che le fece il segno di vittoria e la linguaccia. –Prego!-
Anche Shizuka montò sulla sua nuova bicicletta, e, in un’ordinata fila guidata da Davide, uscirono dal cancello automatico, che si richiuse subito dopo la loro uscita, e rifacendo la vecchia e sconnessa strada buia e tortuosa strada che fece Shizuka la stessa mattina, si incamminarono lentamente verso la città di La Bassa.
-Accendete i fanali!- gridò Davide, e azionarono una levetta sul manubrio. Shizuka cercò la levetta, che assomigliava più a un interruttore, e dopo averla premuta si accese un fanalino sul fronte della bicicletta, una lucina sul retro, e qualche led sui pedali.
-Shizuka, ricordati di respirare- la bacchettò Davide, non voltandosi verso di lei. Shizuka, seconda in fila, seguita da Piero e Noemi, annuì e, concentrandosi, riprese la respirazione dell’Hamon. Era più un esercizio che qualcosa di utile al momento, ma Shizuka lo fece lo stesso.
Arrivarono a La Bassa dopo una pedalata di una decina di minuti, e depositarono le biciclette sul portabici da terra, interrato sul bordo della grossa chiesa di La Bassa, di fronte alla piazza.
Misero le biciclette in fila, e Piero, quasi maniacalmente, passò la catena di acciaio spessa e pesante tra le ruote delle bici, legata attorno al corpo centrale, e infine assicurato il tutto al portabici. Chiuse con un grosso lucchetto e si infilò la chiave in tasca, inginocchiandosi al fianco del portabici. Chiuse gli occhi, e dai vecchi e stracciati guanti da soldato scaturirono luci e lampi argentati e rossi. Colpì con forza la catena e questa brillò di argento e di rosso, acceso e minaccioso.
-Piero, hai usato lo Scarlet?- lo ammonì Davide. Il ragazzo dai capelli viola si alzò in piedi e si passò una mano sulla fronte, tirandosi indietro i capelli. –Forse. Lo sai che girano dei cancheri che fottono le biciclette! Così almeno imparano a non farlo più-
-Ustionandosi?-
-Sì.-
Noemi scoppiò a ridere e Davide roteò gli occhi, camminando a passo veloce per Piazza Garibaldi. Shizuka si accostò a Piero, guardandolo con gli occhi sgranati. –Sai usare più overdrive assieme?-
Piero annuì, grattandosi i capelli. –Uno dei pochi nella Banda! Fa figo, eh?-
La ragazza giapponese annuì, guardandosi attorno. La Bassa era del tutto diversa, di notte. I lampioni luminosi sulla città quasi completamente blu notte, i mattoni grigi ora neri su cui camminava la faceva quasi sentire nello spazio. era strano e divertente. Notò anche che nessuno camminava per le strade, le automobili erano rade, e andavano tutte di fretta. -Una città che ha paura non vive.- sussurrò Davide, avvicinandosi a una zona particolarmente buia, i lampioni rotti e i muri tanto neri da sembrare volerli inghiottire.
Due occhi rossi si aprirono nell’oscurità in cui erano entrati, e un grido acuto la portò alla realtà. Un vampiro si mostrò davanti a loro. Il lampione rotto su di lui andava a intermittenza, mostrando ora sì, ora no quella figura mostruosa davanti a loro. Metà del suo volto sembrava sciolto, l’altro ricoperto di bubboni gonfi o scoppiati. I suoi occhi erano rossi, umani, ma oltre a quello non aveva nulla di umano. Era una figura grottesca dagli abiti spezzati, camminava a quattro gambe e faceva strani versi inumani.
-Uno zombie.-
Davide fece un passo indietro, e lo zombie lo prese come un segno di ritirata. Ma non era così. Appena fece un passo indietro, Noemi evocò il suo stand, Imagine Dragons, che allungò una mano avanti. Lo zombie corse a quattro zampe verso di loro, ma cadde come un sacco di patate nella zona di rallentamento dello stand umanoide dalla maschera a forma di teschio di drago.
Noemi ritirò un pugno, stringendoselo al petto, e il suo stand fece lo stesso. Il pugno di Noemi si caricò di scosse gialle, che passarono allo stand. Il pugno guantato di osso di Imagine Dragons brillava di giallo, ora.
-Sunlight Yellow Overdrive!- gridò Noemi, e con un ruggito Imagine Dragons colpì il vampiro, ancora immobilizzato, graffiandolo e tagliandolo a fette per la forza dell’impatto. Con un acuto strillo animalesco, lo zombie divenne polvere  e si perse nel vento.
-Questo è stato facile!- ridacchiò Piero. Davide però rimase in posizione difensiva. –Piè, taci. Non hai visto i vestiti del vampiro?-
Shizuka si voltò verso Davide, confusa. –Erano neri. Strappati, però sembravano quelli gotici…-
Noemi afferrò Shizuka per un braccio e se la strinse al corpo, protettiva, mentre il gruppo si chiudeva a cerchio intorno a lei.
Dal lampione rotto, una figura scese a terra, con un movimento quasi felino. Atterrò nell’oscurità davanti a loro, reggendo un ombrellino tra le dita guantate di nero. Si spolverò l’ampia gonna ottocentesca, rigorosamente nera e di pizzo grigio, e si avvicinò a loro, i tacchi che ticchettavano sul pavimento stradale.
I suoi occhi, rossi e felini, li scrutavano nell’oscurità.
-Edvige.-
-Davide. Saluti anche a Piero e Noemi, e… una nuova recluta?-
La figura si rivelò sotto al lampione funzionante, vicino al gruppetto. Aveva la pelle pallida dei vampiri, gli occhi rossi e luminosi, e un vistoso rossetto nero. Una lunga frangia nero corvino quasi le copriva le iridi scarlatte, e lunghi boccoli cotonati le ricadevano sulle spalline di velluto e pizzo del vestito gotico che indossava.
-Farò fuori anche lei, anche se mi dispiace non poterla conoscere meglio. Ah, Davide, ricordo ancora quando la recluta spaventata eri tu.-
La ragazza rise, coprendosi le labbra nere con la mano guantata di velluto.
-Non siamo qui per parlare, e suppongo nemmeno tu.- rispose Davide a tono. Alle sue spalle, un’ombra nera si materializzò, e piano piano divenne una forma tangibile. 1000 Forms of Fear era un enorme Stand, magro e longilineo, fatto di un fumo nero e quasi tangibile per quanto era fitto. Era umanoide, aveva anche un casco argenteo sulla testa, a coprirgli un viso senza occhi e senza espressioni.
-Sweet Dreams questa volta vi ucciderà, una volta per tutte. Questo gioco è durato troppi anni.- disse Edvige. In un’esplosione liquida, un mostro umanoide si materializzò alle sue spalle, un essere dalle spalle larghe e la bocca aperta, spalancata, fatto di qualcosa che sembrava gelatina colante. Allungò le sue mani appiccicose verso il gruppetto, ma, tutto ad un tratto, Edvige si blocco, un’espressione terrorizzata sul viso.
Sorrise e ritirò lo Stand, lasciando interdetti i ragazzi della Banda.
-Forse riuscirò a farvi fuori senza fare niente! Purtroppo sono così pigra… buona fortuna, amici miei.-
Con un risolino aprì di nuovo l’ombrellino che usava come elegante bastone da passeggio e saltò in aria, a diversi metri d’altezza, sparendo di nuovo nella bruma nera che li avvolgeva.
-Che cazzo succede?- gridò Piero, staccandosi appena dal gruppo.
Davide fece per rispondere, ma un boato lo precedette. Mattoni volarono ovunque, e grazie all’intervento tempestivo degli artigli di Imagine Dragon vennero spazzati via, e il gruppo non venne colpito. Alle loro spalle era arrivato qualcuno.
Passi pesanti, respiro affannoso, arrivò calciando i mattoni del muro che aveva distrutto.
Shizuka si voltò, tremando come una foglia, incontrando il suo sguardo pallido, ghiaccio tagliente che la ferirono. Si tastò il coltello appeso al fianco, tutto ad un tratto più pesante.
Il serpente è arrivato distruggendo tutto. È venuto per avvelenarti, Shizuka.
 
 
 
 
Who’s making your decisions?
You, or your religion?
Where’s the Revolution, Depeche Mode (Spirit, 2017)
 
Note dell’autrice
Ciao a tutti! Dopo ben cinque mesi di pausa, eccovi il nuovo capitolone di DH. È una bomba, posso dirlo? Da questo capitolo, come si può intuire, molte cose cambieranno. Chi lo sa se in meglio o in peggio?
Almeno finchè non riprenderà la sessione di esami spero di aggiornare più regolarmente, anche perché i prossimi capitoli non saranno così lunghi e pesanti, lo prometto! (Non credetemi.)
Ciao a tutti, vi ringrazio per la pazienza, ci vediamo al prossimo capitolo!
Ricordate che le recensioni sono sempre ben accette, eh! Ciao a tutti! Prometto di non fare la fine di George R.R. Martin. Giurin giurello.

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