Ti ricordi?

di The_Rake
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un nuovo inizio ***
Capitolo 2: *** Di chi vive e di chi muore ***
Capitolo 3: *** Dita ***
Capitolo 4: *** Tutta questione di velocità ***
Capitolo 5: *** Una mela al giorno... ***
Capitolo 6: *** Fuori dal blu e dentro al nero ***
Capitolo 7: *** Una svolta, forse? ***
Capitolo 8: *** Furto ***
Capitolo 9: *** Sangue ***
Capitolo 10: *** Sviluppi retrogradi ***
Capitolo 11: *** Conflitto ***
Capitolo 12: *** Facce ***
Capitolo 13: *** L'uovo della capra nera ***
Capitolo 14: *** I topi nel muro ***



Capitolo 1
*** Un nuovo inizio ***


“Vediamo. Ieyasu Kamui, trent’anni. Laureato all’estero in filosofia occidentale, ha fatto l’aiuto cuoco in un ristorante prima di venire qui al RE a chiedere di fare il cameriere. Cosa ne pensi, Touka?”
“Non odorava di umano. Era molto esotico.” La ragazza guardò l’uomo all’altra parte della stanza. “Con questo affare dei quinx non mi fido. Le colombe stanno diventando sempre più dei falchi. E non voglio un novellino fra i piedi.” aggiunse.
“Siamo a corto di personale, e il RE non può andare avanti solo con me, te e pochi altri. E mi sembra sappia qualcosa. Se fosse stato una colomba non pensi che ci avrebbero già attaccati? Voglio assumerlo e scoprire se veramente sa - o ha il sospetto - che siamo ghoul. Mi sono accorto anch’io che non è umano, non del tutto almeno, quando è venuto a consegnare il curriculum. Non dovrebbe essere difficile farlo sparire se dovesse diventare un problema… e, Touka. Voglio che tu stia lontana da quell’investigatore quinx.”
“Yomo.” Touka rivolse all’altro ghoul uno sguardo di fuoco. “Non dirmi cosa posso o non posso fare. So che è lui. Deve essere lui.”
“E sia. Non mi ritengo responsabile di ciò che potrebbe succederti. D’altronde non ci sono mai stati problemi da quando abbiamo aperto, nonostante siamo molto vicini alla CCG. Solo, stai attenta.” Lo sguardo severo dell’uomo si addolcì un poco. “Non voglio perdere persone che mi stanno a cuore.”
“Certo che starò attenta. Non vado certo in giro a urlare chi io sia. Non c’è bisogno che tu ti comporti come se fossi mio padre.” Replicò la ragazza, pentendosi subito di ciò che aveva detto. Yomo l’aveva aiutata più volte, e le era stata vicino nei momenti di crisi quando aveva saputo che Kaneki poteva essere morto e quando quell’investigatore così simile al mezzo ghoul era entrato per la prima volta nel bar. Era quanto più simile ad un padre lei avesse avuto da molto, molto tempo. “Scusa. È solo che… assomiglia in un modo pazzesco a lui. La voce è la stessa, e quella faccia è dannatamente simile alla sua.” Si alzò. “Va bene, comunque. Assumiamolo. Se è una colomba lo ammazzo. Non mi interessa se avrò un plotone d’esecuzione alle costole.” Ciò detto, andò nella sua stanza al piano di sopra, lasciando Yomo da solo.
Il ghoul guardò fuori dalla finestra; il sole tramontava lentamente, tingendo di rosso l’orizzonte. “Ieyasu Kamui… cosa sei? Sono veramente curioso di scoprirlo. Magari te lo chiederò. E forse sarò costretto ad ucciderti. Anche se il tuo curriculum è molto promettente.” Sorrise impercettibilmente. “Come anche il fatto che quel quinx venga qui spesso. Haise Sasaki, mi interessi anche tu. O forse dovrei chiamarti Kaneki?”
 
Touka si girò per l’ennesima volta sotto le coperte. Cosa non avrebbe dato per non essere sola, per avere lui al suo fianco, perché non l’avesse lasciata, perché si ricordasse di lei, dell’Anteiku, di tutto… dei suoi primi vent’anni di vita, che corrispondevano a fino a due anni prima di quella notte. Cosa non avrebbe dato per avergli confessato tutto prima che se andasse… si sorprese a pensare a quanto dovevano essere soffrici e profumati quei capelli bianchi e neri. Scacciò il pensiero, o meglio, cercò di scacciarlo, perché ogni volta la sua mente ritornava lì, ai dettagli della mascella, alle spalle larghe. E insieme a quei pensieri, vennero anche i ricordi. Ricordi di tempi felici. Quando c’era ancora lui all’Anteiku. Quando tutto andava bene. Le lacrime bagnarono il cuscino.
La porta del RE si aprì, il giorno dopo, per lasciar entrare il primo cliente della giornata; solo che non era affatto un cliente.
Ancora lui? Pensò Touka, ma lo salutò cordialmente.
“Oh, buongiorno, signorina Yomo. C’è il proprietario?”
Touka sorrise forzatamente. Lo odiava già e il suo odore in parte umano le faceva venire voglia di ucciderlo e mangiarlo. Ma forse era solo un’impressione dettata dal fatto che le stava pesantemente antipatico. “È di sopra. Prego, vada pure, signor Kamui.”
“Non mi chiami ‘Signor Kamui’. Mi chiami semplicemente Ieyasu.” Rispose lui, rigirandosi fra le dita una piastrina militare vuota che portava al collo e abbozzando un sorriso.
Touka soffocò l’impulso di strozzarlo. Come si permetteva di ostentare tanta confidenza con lei? Come osava? Ma si forzò ugualmente a sorridere. “Va bene, Ieyasu.” Per poco non dette l’espressione di averlo sputato quel nome, come se fosse del cibo umano, e non detto. Ma era brava a dissimulare le proprie emozioni. “Vada, ora.”
Mentre Kamui le passava accanto, Touka ebbe la netta sensazione di averlo sentito sussurrare – e con un certo compiacimento, anche - “Certo, signorina Kirishima.”
Quando Kamui entrò nello studio del proprietario del bar, ebbe modo di constatare quanto ne fosse scarno l’arredamento: era fondamentalmente vuoto, eccezion fatta per uno scaffale in legno chiaro (ciliegio, molto probabilmente, pensò) pieno di libri – ed ebbe il piacere di notare che molti erano di autori occidentali: Nietzsche, Kafka, vide persino un volume della Metafisica aristotelica – addossato ad un muro e la scrivania squadrata al centro, dietro il quale c’era una porta finestra comunicante con una piccola terrazza. In mezzo alla scrivania e alla porta finestra, su una sedia, mentre armeggiava con i registri delle ricevute, il proprietario. Kamui pensò ancora una volta che quell’uomo nascondesse qualcosa; le spalle erano contratte, e la freddezza ostentata era un po’ troppo esagerata. Solo dopo qualche secondo il proprietario alzò lo sguardo verso il ragazzo e fece cenno di avvicinarsi e di sedersi su una delle due sedie di fronte alla scrivania.
“Buongiorno, signor Yomo.” salutò il ragazzo, sempre giochicchiando con la piastrina.
“Salve, Kamui. Ti ho chiamato perché il tuo curriculum mi ha colpito in modo particolare. Perché mai qualcuno che si sia laureato in filosofia, e all’estero, dovrebbe voler fare il cameriere in un bar? E soprattutto, perché proprio qui? Saprà che non è sicuro stare in questa circoscrizione da quando quel ghoul si è scontrato con gli ispettori della CCG.” Voleva metterlo alla prova. Voleva capire subito se era un ghoul, un meticcio, una colomba, qualsiasi cosa fosse, l’avrebbe scoperto; se non subito, presto. Ma nulla l’aveva preparato alla risposta di Kamui.
“Perché è in luoghi come questi che le persone si riuniscono e si mostrano per come realmente sono. L’anima degli uomini risplende di preoccupazioni, di desideri, di rimpianti, e soprattutto di colpa. Come pensa si possano definire gli ispettori, che uccidono ogni giorno? Pensa che siano degli eroi, come vengono presentati a tutti noi, o solo dei volgari assassini che si nascondono dietro la scusa del proteggere la gente? Vorrei scoprire se hanno dei rimorsi per tutte le vite che hanno stroncato.” Disse tutto ciò con un sorriso talmente genuino e innocente che Yomo faticava a crederci. Nonostante ciò, non lo diede a vedere.
“Interessante. Penso di poterti capire.”
“Certo che mi capisce. In fondo, come potrebbero piacerle le colombe?”
“Mi scusi?” Non andava bene. Per nulla. Come sapeva tutte queste cose? E se fosse stato…
“No, si sbaglia.” Kamui guardò il proprietario negli occhi. Ora non sorrideva più. Lo sguardo era penetrante. “Non sono uno di loro. Vorrei solo lavorare qui. Mi scusi se l’ho turbata.”
L’aveva messo alle strette. Ora come ora, pensò Yomo, posso solo assumerlo e vedere come vanno le cose.
Per un attimo il silenzio calò sullo studio. Poi, nemmeno lui seppe come, mise in fila delle parole. “Benissimo. Domani inizierai a lavorare qui. Presentati qui alle sei e mezza, apriamo alle sette. Touka ti insegnerà a fare un caffè come si deve per i clienti. Puoi andare.”
Kamui ritorno al suo solito sorriso sereno. “Grazie mille. A domani.” Mentre usciva dal bar, salutò Touka e le indirizzò un sorriso che la inviperì non poco. Ma la ragazza non gli urlò contro. Ci sarebbe stato tempo per quello. Sorrise di rimando, guardandolo uscire dalla porta del RE.
Yomo si ritrovò a tirare fuori da un cassetto della scrivania la sua maschera e a fissarla. Scrutò la sua immagine riflessa nelle lenti del suo secondo volto. Quanto brilli, anima mia?
Nel frattempo, nella mente dell’ispettore di primo grado della CCG Haise Sasaki, balenò un nome. Fu solo un attimo. Si fermò, disorientato. Un attimo dopo, era andato. Sasaki tentò di tenergli dietro, ma era corso via troppo in fretta per lui. Decise che non aveva importanza. Entrò nel suo ufficio alla CCG e diede un’occhiata alla colonna di pratiche da sbrigare. Scartò all’istante qualsiasi proposito di continuare a inseguirlo. Il lavoro lo chiamava. Era così, era la sua vita che era fatta in quel modo. Casa, lavoro, RE. Casa, lavoro, RE. Gli piaceva quella routine. Ma perché? Perché non ricordava ancora nulla della sua vecchia vita? E poi, voleva veramente sapere chi era? Convivere con se stesso? Non aveva una risposta. Prese la prima pratica. Sarebbe stata una lunga giornata.

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Capitolo 2
*** Di chi vive e di chi muore ***


Il giorno seguente Kamui si presentò puntuale al RE. Ricevette il suo completo da cameriere e iniziò il tirocinio, naturalmente con Touka. La quale non si lasciò sfuggire occasione per rinfacciarle di essere la sua “superiore” e bistrattarlo. Nonostante ciò il ragazzo non avrebbe perso facilmente quel sorriso irritante. Per prima cosa, la cameriera lo portò in cucina e gli mise davanti del caffè, una teiera e un filtro.
“Sai preparare un caffè?” chiese bruscamente.
“Sì, certo. C’è una moka, ad ogni modo?”
La ragazza sbuffò. Voleva una moka. Al suo primo giorno di lavoro. Ma si poteva sapere chi pensava di essere quello scemo? Ma gliela porse; voleva svillaneggiarlo una volta vista la sua incapacità. Vediamo cosa fai, intellettualoide dei miei stivali.
Kamui prese la moka, la riempì d’acqua, mise il filtro e lo riempì di pochissimo oltre al bordo, chiuse la moka e la mise sul fuoco, il tutto con la massima naturalezza. Touka prestò per la prima volta davvero attenzione al fatto che non aveva tratti orientali. Era di etnia occidentale. Però non poteva essere straniero: il suo giapponese era perfetto e privo di qualsiasi accento. Kamui fece la cosa che lei si sarebbe meno aspettata e che più la irritava: si mise a canticchiare. Era una canzone straniera, senz’ombra di dubbio.
“Cosa stai cantando?” chiese con freddezza.
“Oh scusami.” Il ragazzo sorrise imbarazzato. “È che quando non ho nulla da fare canto a bassa voce, ma abitualmente solo quando non c’è nessuno per non dare fastidio.”
“Non mi hai risposto.”
“Era una canzone italiana, Bocca di rosa. Di Fabrizio de André. Una delle mie preferite, se posso dirlo.” La sua mano andò istintivamente al collo, ma si era dovuto togliere la piastrina perché non poteva tenerla con l’uniforme.
“Non sei di qui.” Era un’affermazione.
“No, vivo qui da poco. Due anni, precisamente. Sono nato in un altro paese, ma sono stato adottato da un vecchio di qui.”
Il ghoul restò stupefatto. Nessuno poteva parlare così bene il giapponese senza essere nato in Giappone. Decise di volerne sapere di più, ma fu interrotta proprio dal ragazzo.
“Ti manca qualcuno, vero?”
Come hai detto?
“Sì, da molto tempo. Si vede da come guardi le persone, come se avessero tutto e non meritassero nulla.” Ora era serio. “Era per caso…” la moka fischiò, interrompendo il discorso di Kamui. Touka la prese e si versò una tazzina di caffè per scoprire che era veramente buono. Questo non se l’era aspettato. Posò la tazzina.
“Era buono.” Detto questo, se ne andò quasi di corsa al piano superiore, per poi scendere, toltasi l’uniforme e indossati abiti normali, ed uscire come una furia.
Kamui si versò a sua volta una tazzina di caffè e, mentre sorseggiava il liquido scuro, pensando che i chicchi da cui era stato ricavati non dovevano essere stati granché, considerò l’idea di seguirla per andare a scusarsi, ma aveva un turno da rispettare, per cui, finito il suo caffè, aspettò che Touka tornasse, senza alcun risultato. Riuscì in qualche modo a mandare avanti il locale anche senza di lei - Yomo gli aveva detto, anzi ordinato, di coprire il turno della ragazza, e lui non aveva avuto nulla in contrario né in favore. Uscito l’ultimo cliente della giornata, girò il cartello appeso alla porta da “aperto” a “chiuso”, e procedette a cambiarsi e a chiudere il bar. Senonché sentì una voce attutita provenire da un vicolo nei pressi; sembrava un urlo. E di rimando una voce che strepitava. Avrebbe potuto riconoscerla ovunque: era Touka, e sembrava molto adirata, ma c’era una nota di dolore nella sua voce. Corse nella direzione del rumore.
Tutto Touka era pronta ad affrontare meno che lui. Era un ghoul, smilzo. Nella fattispecie, era lo psicopatico che collezionava toraci per divertimento. Lo chiamavano Torso, le colombe.
“Ma che bella sorpresa, una ragazzina che passeggia tutta sola di sera nei vicoli. Hai un torace davvero bello. Mi piacerebbe molto aggiungerlo a quelli che già possiedo. Ma ci pensi? Un nuovo amante!”
In men che non si fosse detto, le aveva spezzato un braccio con la kagune come se fosse stato un grissino, sorridendo come un pazzo, e l’aveva lasciata cadere a terra guardandola con occhi colmi di follia. Beh, in fin dei conti era pazzo.
Il ghoul gongolava. “Fa male, vero? Il dolore è bellissimo, vero? È qualcosa di divino, vero? È…” si interruppe. Uno schiocco sonoro seguì qualche secondo di innaturale silenzio. Una mano emerse dal suo stomaco con un rumore liquido, per poi ritirarsi con un risucchio che fece rabbrividire Touka. Da dietro Torso si vide Kamui. Aveva gli occhi rossi, le sclere bianche. Uno sguardo da far paura anche alla più esperta delle colombe.
“Cattivo ragazzo… aggredire una ragazza indifesa, di notte, in un vicolo…” sbatté contro un muro il ghoul, che si afflosciò come una bambola di pezza, poi perse interesse, prese un fazzoletto di stoffa e si pulì il braccio insanguinato. Poi prese da terra una sbarra di ferro delle dimensioni di dieci pollici, strappò un pezzo della sua camicia. Il suo sguardo tornò quello di sempre, sereno. “Dammi il braccio, una ferita come quella non guarisce subito.”
Touka lo guardò come istupidita. Poco prima aveva sbatacchiato un ghoul di classe S come un burattino, come se non avesse avuto emozioni, e ora si preoccupava del suo braccio rotto. Ma allora la prendeva proprio in giro. “Senti, non so chi tu sia, ma quello che hai appena fatto non è normale. Comunque, ora sai. Se sei una colomba, devo ammazzarti. Non posso lasciarti andare ora che hai le prove che sono un ghoul.” Si alzò e barcollò per il dolore. “Quindi stai buono mentre ti ammazzo, lurido mezzosangue.”
Kamui la guardò interrogativo; i suoi occhi erano tornati al solito color nocciola. “Non sono un investigatore. Se lo fossi stato, non pensi che ti avrei uccisa invece di preoccuparmi di metterti una stecca? Anche con le tue capacità rigenerative, un osso rotto richiede almeno un giorno o due per risaldarsi.  È rischioso non rimetterlo in posizione, quella è una frattura scomposta. E a giudicare dalle angolazioni che ha assunto il braccio, direi che è anche multipla. Guardati, non riesci nemmeno a tenerti in piedi…”
Touka non poté ribattere a questo. Era vero, aveva le ossa del braccio spezzate in più punti. Come anche era la pura verità, che non riuscisse a reggersi sulle gambe senza che le tremassero le ginocchia. Ma era troppo orgogliosa per ammettere di aver bisogno d’aiuto. Il filo dei suoi pensieri si spezzò quando sentì lontano il suono di una sirena. Merda. Le colombe.
Anche Kamui aveva sentito; perciò decise che la stecca non era più una priorità. Torso era fuori gioco e lo sarebbe stato per un po’: pur avendo una rigenerazione cellulare parecchio elevata essendo un ghoul di tipo rinkaku, un buco in pancia era troppo anche per lui. Ciò implicava che la CCG avrebbe avuto un caso in meno. Senza troppi complimenti, il ragazzo prese Touka in spalla e cominciò a correre verso il RE. Ogni passo gli sembrava troppo corto, ogni metro un millimetro, ma finalmente, dopo dieci minuti di corsa disperata, arrivò al bar. Ringraziò che la ragazza ghoul fosse svenuta, perché di certo non si sarebbe lasciata trasportare in quel modo. Quanto era testarda. Posò a terra Touka, aprì in fretta e furia la porta, la portò a un divanetto, e richiuse l’uscio dietro di sé a chiave. Non era stato scoperto; lei non era al massimo della forma, ma le sue condizioni non erano gravi: con le cure di primo soccorso adeguate sarebbe stata di nuovo in carreggiata entro un giorno e mezzo al massimo. Approfittò del fatto che non avesse ancora ripreso conoscenza per applicarle la stecca, e, appena fatto, si rivolse a Yomo; il ghoul era da un po’ dietro di lui ad osservarlo.
“Poteva andarle meglio.” si limitò a dire il ragazzo, rimboccandosi la manica insanguinata della camicia che indossava.
“Cos’è successo?”
“La CCG avrà un caso in meno a quest’ora. Niente più toraci per la collezione di Torso. E il suo - indicò con un cenno del capo la ragazza - resta dov’era. A pensarci bene, poteva andare molto peggio.” Lo guardò negli occhi. “Ho l’impressione che ci sia molto che dobbiate dirmi.”
“Così suppongo. Anche tu dovresti raccontarci molte cose.”
“Prima c’è una cosa più importante. Anzi, due.”
“Cioè?”
“Una coperta per la ragazza… e una moka di caffè.”
Il ghoul sorrise. Sorrideva molto poco spesso. “Giusto. Fai il caffè.”
Sasaki arrivò di corsa solo per vedere gli agenti addetti alla rimozione dei cadaveri portare via quello di Torso. Gli si avvicinò Akira Mado, la sua diretta superiore.
“Chiunque sia stato, non è umano e nemmeno ha usato una kagune o quinque. La perizia ha evidenziato che il trauma che ha concorso alla morte di Torso è troppo piccolo e irregolare per appartenere a qualsiasi tipo di ghoul che conosciamo attualmente. Ciò significa che è stato ucciso a mani nude. Inoltre aveva la schiena spezzata. È morto lentamente. Non so se può esistere un essere in grado di fare tutto questo. In ogni caso, non abbiamo nulla da fare qui. Va’ a casa.”
“Sissignora.”
Il nome tornò nella mente di Sasaki mentre era nel suo letto, ma stavolta non se ne andò. Kaneki Ken. Chi era? Un suo vecchio amico? Non sapeva rispondere a questo. Non ancora. Ma era contento di essere riuscito a ricordare una cosa qualsiasi della sua vita precedente, anche solo quel nome che per qualche ragione non riusciva a collegare a nessun volto. Non ne avrebbe parlato con Arima. Voleva prima rimettere insieme i pezzi del puzzle.
“Touka…” si sorprese a mormorare quel nome. Chi era Touka? Perché gli era così caro? Lo pronunciava sempre più spesso, e ogni volta era sempre più carico di ricordi che non tornavano e di dolcezza. Come il caffè di quella cameriera, pensò. La sua attenzione non si mosse dal nome, sicuramente di una donna. Era forse sua madre? No, non poteva essere. Non lo sapeva ma lo sapeva. Se lo sentiva, non era sua madre. Lei era… non riusciva a ricordare, per quanto si sforzasse di farlo.
Touka… chi sei?

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Capitolo 3
*** Dita ***


Erano le due, e Sasaki e la sua squadra si erano presi una pausa per andare a prendere un caffè: precisamente al RE.
Arrivato al bancone, Haise chiese un caffè, nero, mentre gli altri si beccavano per i posti.
“Arriva. Lo vuole zuccherato?” rispose prontamente Kamui.
“No, grazie, non mi piace.”
“Come vuole, ispettore…?” ribatté cortesemente Kamui notando il cappotto grigio.
“Sasaki. Haise Sasaki.”
“Molto bene, ispettor Sasaki.” Kamui sorrise cordialmente e preparò il caffè come da ordine, mentre Yomo, essendo Touka ancora infortunata, provvedeva a servire le ordinazioni agli altri membri della squadra quinx.
“Lei è nuovo, vero? Non l’ho mai vista qui.”
“Oh, sì.” interloquì Kamui senza perdere il sorriso. “È da soli due giorni che lavoro al RE. Il clima di familiarità mi piace molto, sono contento di essere stato assunto.” Porse a Sasaki la tazzina.
“Ma… la cameriera che c’è di solito non è venuta?”
“No, purtroppo. È malata, quindi c’è il signor Yomo che la sostituisce finché non finisce il suo turno. Mi spiace.”
“Non si preoccupi” disse Sasaki; prese il caffè, ne bevve un sorso e sgranò gli occhi. “È fantastico! Dev’essere il caffè più buono che abbia bevuto da molto tempo a questa parte. Veramente buono… quanto le devo?” fece, posando la tazzina e tirando fuori il portafogli.
“No, non ci provi. Questo lo offre la casa. Dopotutto, dobbiamo incentivare i clienti a venire, e non ce ne sono stati molti dopo l’incidente con quel ghoul. Io l’ho seguito in televisione, sa? È veramente bravo a fare il suo lavoro, e so che pochi la pensano come lei sul risparmiare i ghoul. È molto problematico alla CCG il fatto di non ucciderli?” Vediamo se sei un’altra persona, Sasaki. Sono davvero molto curioso di verificare se Yomo e Touka hanno ragione.
“In teoria non sarei autorizzato a parlarne, ma…”
Si udì un rumore di ceramica rotta. Seguirono delle urla.
“Ehi! Ma si può sapere che fai, Mutsuki? Idiota!”
“Ma… Urie…”
“Cosa ‘ma Urie’? Sei davvero così scemo da farti scivolare la tazzina di mano? O lo fai apposta?”
Sasaki appoggiò un biglietto da cento yen sul bancone e sospirò. “Mi scusi per il comportamento della mia squadra… dovrei inculcargli della disciplina, ma non ci riesco, per quanto mi sforzi.” si girò e si rivolse all’investigatore - non doveva essere molto più giovane di lui, pensò Kamui – coi capelli neri che stava sgridando quello che aveva fatto cadere la tazzina per terra. “Urie. Non urlare. Mutsuki, va’ a scusarti e ripaga la tazzina.”
Il ragazzo che poco prima stava gridando protestò, ma il superiore fu irremovibile e alla fine si zittì.
Sasaki si fece schioccare un dito sovrappensiero. Kamui non se lo fece sfuggire. Quello era un gran bell’indizio. Non molti si scrocchiavano le dita in quel modo così particolare. Annotò mentalmente di ricordarselo e di riferirlo a Yomo.
Nello stesso istante in cui l’eterogenea squadra della CCG uscì dal RE, entrò Nishio, accompagnato dalla sua ragazza. “Uh? Un novellino?” E c’è anche lui… ma perché ancora non ricorda nulla?
Si diressero al bancone.
“Salve. Tu sei…?” chiese Nishio.
“Kamui. Ieyasu Kamui.”
“Lo sai fare un caffè?”
La ragazza - umana, giudicò dall’odore Kamui – lo riprese. “Nishiki! Perché devi essere sempre così scortese?”
“Mpf. Va bene, mi scuso.”
Kamui ridacchiò sotto i baffi; non capitava raramente di vedere delle donne sgridare il proprio ragazzo, ma non aveva mai pensato che un ghoul potesse riconoscere di aver sbagliato davanti ad un’umana - anche se era la sua fidanzata.
“Ma vedi, Kimi? Ride anche! È veramente un mer…”
“Cosa ti ho detto di queste parole?”
“Ma…”
“Niente ma. Non voglio tu dica parolacce. Ti metti in cattiva luce.”
“Okay…”
L’umana rivolse un sorriso radioso al ghoul e ordinò due caffè, che Kamui iniziò a preparare trattenendosi dal ridere. Era davvero felice di essere stato assunto in quel locale, già. Anche se doveva stare attento, anche se doveva non dare nell’occhio.
Anche se le colombe lo avrebbero ucciso se avessero scoperto il suo vero nome.
Suppongo che dovrò fuggire di nuovo, inventarmi una nuova identità e ripartire da zero… dovrei esserci abituato, e invece no. Non voglio andarmene adesso che la mia vita è cominciata da pochissimo. Una nuova vita. No, non mi scopriranno facilmente.
Pensò questo mentre serviva la coppia.
La giornata passò subito, sia per Kamui, sia per Touka - che aveva dormito per la maggior parte del tempo, anche se i suoi sogni non erano stati piacevoli. Aveva sognato Yamori, e le torture che aveva inflitto a Kaneki, solo che al posto suo, incatenata alla sedia, c’era lei, lei subiva torture inumane, ma poi arrivava lui. Lui, con quel suo unico occhio rosso e i capelli bianchi. E si era svegliata, il sogno ancora vivido, così come vivida e prepotente era la mancanza di quel dannato mezzo ghoul, così vicino e così distante. Non si ricordava nulla, lui.
La porta della sua stanza si aprì e comparve Kamui con della carne e una tazzona di caffè su un vassoio.
“Ce la fai da sola?”
“Certo.”
“Sicura?”
“Ho solo un braccio rotto. Non trattarmi come se non riuscissi nemmeno a mangiare.”
Ci fu uno scomodo silenzio per qualche secondo, poi Kamui lo ruppe.
“Penso sia veramente lui.”
Cosa?
“Per come l’avete descritto, si comporta come Kaneki. E si fa schioccare inconsciamente le dita.”
A questa informazione gli occhi del ghoul si fissarono in quelli del ‘mezzosangue’. “Sei sicuro?”
“Sicuro no, ma credo sia un buon punto di partenza. Ah, un’altra cosa.”
“Mh?”
“Quando sarai guarita dovrai allenarti. Non è normale farsi spezzare così un braccio per un ghoul.”
Touka ci pensò su per un momento, poi disse:
“Farai bene ad essere bravo nel combattimento, mezzosangue. Non voglio ucciderti prima del momento.”
“Prima mangia, o non ci sarà nessun allenamento.” rispose ridendo Kamui, e lasciò la stanza.
Touka si ritrovò a rimuginare ancora una volta su Sasaki. Stavolta non scacciò il pensiero. C’era una possibilità concreta che fosse davvero lui, allora.
Kaneki…

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Capitolo 4
*** Tutta questione di velocità ***


Touka era guarita, ed era decisa più che mai a dimostrarsi superiore a Kamui. Yomo aveva dato loro il pomeriggio libero, così si erano incontrati in un vecchio stabilimento abbandonato. La struttura in questione era un ex fabbrica di stoffa, e tutti i macchinari erano stati rimossi, lasciando un guscio vuoto se non fosse stato per i pilastri di cemento armato.
Touka si fermò al centro dello stabile, sfilandosi e tirando via il giubbotto - smile your grief away, c’era scritto. Kamui ammise fra sé e sé che era veramente bella, di una bellezza ‘militare’.
Lui preferì rimanere con la felpa chiusa.
Il ghoul si slanciò contro l’uomo senza preavviso sferrandogli un calcio che l’avrebbe sicuramente decapitato se non lo avesse schivato con la massima naturalezza e con le mani in tasca. Ciò irritò la ragazza, che iniziò a scaricare una gragnuola di pugni, calci e gomitate ad una velocità pazzesca, mentre Kamui schivava tutto senza nemmeno prendersi il disturbo di tirare fuori dalle tasche le mani. Si limitava a indietreggiare e a uscire di lato. La stava prendendo forse in giro? Perché non si impegnava? Serrò di più i colpi, con l’unico risultato di apparire prevedibile agli occhi dell’altro. Quando lei cominciò a dare i primi segni di fatica il ragazzo iniziò a parare gli attacchi senza scomporsi, uno dopo l’altro. Calcio, calcio, pugno, gomitata. Andò avanti così per qualche minuto, finché Touka iniziò a irrigidirsi, azione dettata dalla furia e dalla velocità con cui cercava di colpire. Kamui le afferrò un polso e portò fluidamente un gomito al collo del ghoul; poi commentò:
“Ti contrai troppo. Sei ansiosa?”
E la lasciò andare. Il ghoul riprese a colpire con più forza solo per ritrovarsi in un batter d’occhio un pugno di Kamui a un centimetro dal viso.
“Più sciolta. Puoi fare molto meglio di così.”
E così andò avanti per una mezz’oretta. Touka si sentiva sempre più frustrata vedendo che non riusciva a mettere a segno nemmeno un colpo. Intanto Kamui continuava a consigliarle di colpire in modo più sciolto e in maniera meno prevedibile, fino a che entrambi si fermarono, lei sudata e col fiato corto, lui che respirava profondamente per evitare di affannare il proprio respiro.
L’umano si sedette con la schiena appoggiata ad un pilastro e tirò fuori due bottigliette d’acqua dallo zainetto che si era portato appresso; dunque chiamò il ghoul e la invitò a bere un po’.
Dopo che ebbero bevuto, un pesante silenzio calò nel salone. Non c’era più l’eco del loro combattimento, non una singola mosca si udiva ronzare. Nessuno dei due parlò. Alla fine fu proprio Touka a spezzare il silenzio, arrossendo.
“Grazie.”
“Di cosa?”
“Di aver combattuto con me. Era da molto che non menavo le mani, sono riuscita a scaricarmi.”
“Di nulla. È piaciuto anche a me. Sei molto brava.”
La risposta di Touka non fu aspra come avrebbe voluto. “Parla quello che schiva e para senza nemmeno guardare.”
Kamui soppesò accuratamente le parole, non voleva che quel momento di confidenza - perché con lei questa era confidenza, sebbene non sembrasse – finisse subito. “Sei molto veloce e la tua tecnica è buona, anche se non eccellente. Però ti irrigidisci, non sei distaccata e usi sempre gli stessi attacchi, non so se mi spiego.”
Stavolta la risposta fu anche troppo aspra. “No, non ti spieghi.”
“Quando hai cominciato a serrare di più i colpi ti sei irrigidita e invece di essere più veloce sei stata impacciata dalla tua rabbia. Di conseguenza non sei più riuscita a coordinare più di tanti attacchi diversi. In un combattimento vero contro un investigatore, tanto più contro un quinx, la prevedibilità è la tua più grande nemica. E non vorrei che morissi. Poi come farebbe quell’idiota se si ricordasse di te solo dopo averti uccisa, posto che sia lui?” cercò di fare spirito, ma si accorse all’istante di aver toccato un tasto dolente. “Scusa. Non volevo, davvero. È solo che… nulla, dimentica tutto quello che ho detto. Se te la senti possiamo continuare, o se preferisci possiamo smettere qui per oggi.”
La ragazza guardò quell’umano così ambiguo, così misterioso, e si chiese cosa volesse dire con quel ‘è solo che’. Si rese conto di non disprezzarlo più, anzi, gli sembrava simile a sé. C’era un che di malinconico in quelle parole, e le era parso di sentire una nota di dolore, stinto dal tempo magari, ma ancora aggrappato alla sua anima. Quel tipo di dolore che si prova quando muore una persona a cui si tiene molto. Cercò di ottenere spiegazioni, ricevendo solo risposte laconiche e evasive. Ma non si era sbagliata. Anche negli occhi di Kamui era presente quel sentimento che aveva avvertito nella sua voce; il ghoul si rassegnò.
Dopo essersi ristorati con l’acqua, decisero di interrompere l’allenamento. Kamui le disse che sarebbe tornato al RE a chiudere, e che quindi lei avrebbe potuto tenersi anche la serata libera. Mentre camminavano verso il bar, il ragazzo lo fece di nuovo. Cominciò a cantare malinconicamente a bassa voce, un umano non l’avrebbe sentito, ma l’udito di Touka era molto più fine di quello di una persona qualsiasi.
“Cos’è?”
“Oh… nulla… non la conosceresti, ad ogni modo. Non penso tu ascolti musica italiana. Ma lascia perdere, siamo arrivati. Tu vai, penso io a chiudere.” E restò in silenzio mentre lei saliva le scale e lui chiudeva.
Mentre Kamui tornava a casa sua - se quattro mura e un soffitto senza ricordi così possono essere chiamati – si ritrovò a pensare a quel pomeriggio. Cos’era successo? Era diventato amico di Touka? Non si vedeva a tenere particolarmente a qualcuno, l’aveva fatto solo perché le aveva fatto tristezza che si fosse fatta male così facilmente. E perché quello sguardo che aveva sapeva riconoscerlo; era lo sguardo che aveva avuto anche lui per molto tempo, non gli piaceva vederlo, né su se stesso né sugli altri. Ma quel silenzio che c’era per i vicoli che portavano allo squallido condominio in cui si trovava l’unico monolocale di cui poteva permettersi l’affitto, per lui era molto suggestivo. E nel suo animo forse c’era posto per una persona, solo una. Entrato nel suo appartamento, si stese sul letto e pensò al suo passato. Già, il suo passato… andava tutto così bene allora. Ricordò.
 
Si trovava in un bar a sorseggiare un caffè, nel paese in cui era nato, era una sera d’inverno come tutte le altre. Gli piaceva il caffè. Si era laureato da poco e stava cercando lavoro. Finì la calda bevanda e si alzò; uscì dal locale. Era stato allora che un energumeno gli era venuto addosso con un gruppetto di amici e l’aveva buttato per terra. Poi erano cominciate le offese.
“Come cazzo ti sei permesso di parlarle? Eh? Chi ti ha dato il permesso di parlare con la mia ragazza? Rispondi! Figlio di troia!”
Aveva cercato di rialzarsi, di provare a parlare con quel bestione che nemmeno conosceva, ma lui l’aveva ricacciato per terra con un calcio sul fianco e gli aveva gridato di restare dov’era. Ed erano arrivate le botte. Il suo ultimo pensiero era stato che non sapeva di cosa lo scimmione stesse parlando.
Poi il nero nulla. Stacco.
Si era svegliato su un letto d’ospedale; al braccio destro aveva una flebo di soluzione salina, attaccato all’altro c’era un sacchetto pieno di sangue per le trasfusioni. Il fluido vitale scorreva nelle sue vene dal tubicino lentamente, attraverso l’ago nella piega del gomito. Aveva un sapore amaro in bocca. La testa gli pulsava insopportabilmente. Dopo un po’era entrata un’infermiera, e aveva pensato che era veramente carina. In vita sua aveva ricevuto cure solo da infermieri di pronto soccorso che erano stati sì bravi, ma certo non di bell’aspetto. Aveva sentito la testa pesante. Era scivolato rapidamente nel sonno. Almeno in quel modo non gli faceva poi così male la testa, aveva pensato prima di perdere cognizione di se stesso.
 
Si distolse da quei ricordi. Ora come ora, non aveva senso aggrapparsi ad una vita che non sarebbe tornata. Anche se era da quella trasfusione che era cominciato tutto. Si alzò. Aveva da fare quella notte.

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Capitolo 5
*** Una mela al giorno... ***


Kamui si guardò intorno ed entrò in un seminterrato ai piedi di un vecchio palazzo che sarebbe stato imponente se non fosse stato scrostato dal tempo e dalle intemperie e con gli infissi cadenti. Scese almeno un centinaio di scalini, non li aveva mai contati ma per essere un scala che andava solo in avanti raggiungeva una profondità non da poco. Bussò ad una porta d’ acciaio che separava il buio delle scale da quello che sapeva ormai essere un vero e proprio laboratorio biologico. Una listella metallica scorse a rivelare un paio di occhi grigi e penetranti e tornò al suo posto in pochissimo tempo. La porta si aprì a dare su uno spazio asettico, vuoto, di spoglio cemento fatta eccezione per uno scialbo tappeto color marrone. Vicino la porta c’era un uomo sulla novantina, curvo sotto il peso di tanti anni, con una pelle incartapecorita ed i capelli bianchi ma uno sguardo attento. Fu lui a cominciare la conversazione.
“Resii? Non mi aspettavo di vederti a quest’ora. Ma vieni di là, siediti. Vuoi del tè? Avevo giusto messo a bollire l’acqua.”
“Non chiamarmi così. Sai che non sono più quell’uomo. Ma una tazza la prendo volentieri, non vorrei essere scortese. Per quanto riguarda la CCG che informazioni hai? E soprattutto, le analisi del mio sangue come sono?”
Gli occhi del vecchio ebbero un guizzo. “Il livello di RC è decisamente alto, anche per te. Hai per caso mangiato carne umana?”
“No.”
“Sei molto interessante, sai? Avere tutte queste cellule rosse nel sangue senza un kakuhou non è normale. Potresti essere il primo di una nuova specie.”
“Preferirei di no.”
Si sedettero ad un tavolaccio di metallo in un’altra stanza e mentre aspettavano che il tè fosse pronto continuarono a parlare.
“Di quanto stiamo parlando?” chiese Kamui.
“Duemilacentronovantatré. Per nulla male per un umano, non trovi? Pare che le cellule RC nel tuo sangue siano mutate e riescano a subire processi mitotici.”
“Cancro?” si era allarmato leggermente. Non era che gli piacesse molto l’idea di essere tumorato o leucemico.
“No, per niente. Non sono cancerose, non c’è assolutamente nulla di maligno. Anzi, pare che nutrano molto i tessuti. Con amebe in coltura insieme a quelle cellule, i protisti hanno cominciato a sviluppare segni di maggiore organizzazione in colonie. Le ho uccise. Ho dovuto. Anche se non mi sarebbe dispiaciuto vincere un bel nobel.” Rise rocamente.
“Per quanto riguarda la CCG?”
“Non si azzardano a creare nuovi ibridi, dopo che l’ultima cavia è quasi morta. Come te quando ti pestarono. Ho letto la tua cartella clinica che mi hai dato, quella vera, e quella volta eri conciato veramente male. Una fleboclisi e una trasfusione contemporaneamente!”
“Vorrei non parlare di quello, dottor Tokugawa. Non mi sento a mio agio. Comunque le ho portato quello che mi aveva chiesto.” Kamui tirò fuori una busta chiusa da una tasca del giubbotto e la porse al vecchio nel momento in cui la teiera iniziò a fischiare furiosamente, segno che l’acqua era pronta. Dopo aver messo in infusione del tè rosso, Tokugawa prese la busta e l’aprì, tirandone fuori un corindone aranciato.
“Molte grazie, Ieyasu. Questa mi mancava. Mi piace.”
“Non si preoccupi, dottore. In fondo, le informazioni che mi passa sono molto pericolose da ottenere. Per cui penso che d’ora in poi me le procurerò da solo. Continuerò a venire per le analisi ematiche.”
“Capisco.”
“Avrà di tanto in tanto nuovi esemplari. E forse le racconterò qualcosa di quei giorni che vissi col nome di Resii. Ma non è ora di parlarne, non ancora.” Kamui bevve un sorso del suo tè. “Sa come si costruiscono e come funzionano le quinque?”
Il vecchio parve scontento della domanda. “Sì, certo. Si prende un kakuhou e lo si inserisce in un contenitore capace di impedirgli di deteriorarsi. Poi c’è bisogno di un meccanismo che inneschi una reazione da parte dell’organo racchiuso nella ‘scatola’ affinché formi una kagune artificiale. E infine bisogna rifornire il kakuhou di RC. Nella fattispecie, con le cellule contenute nel sangue dei ghoul che ammazzano. Ma perché me lo chiedi, Ieyasu?”
“Non posso continuare a combattere a mani nude. Mi serve un’arma, o prima o poi ci resto secco.”
“E vorresti costruirne una?”
“Non è quello che ho detto. Ho detto che mi serve, non che voglio costruirla. La ruberò ad un investigatore, troverò qualche contrabbandiere. Qualcosa m’inventerò.”
“Stai solo attento all’ex agente della CCG di cui non si è saputo più nulla. Si stanno verificando numerose morti di ghoul, e il nome dell’uomo staccatosi dalle colombe e quello del ‘giustiziere’ coincidono.”
“Nessun giornale ne ha parlato.”
“Ai piani alti non si vuole che la gente sappia.”
“Mh…”
Il vecchio ridacchiò all’espressione pensierosa di Kamui. “Lo prendo come un ‘mi fido’.”
“Chi è?”
“Pare si chiami Koutarou Amon.”
“Avevano detto che era morto combattendo contro Aogiri. Sei sicuro di non aver sentito scemenze?”
Tokugawa bevve una lunga sorsata, poi guardò il vapore che saliva dalla tazza piena di liquido fumante. A Kamui sembrò che stesse pensando a qualcosa; rimase in silenzio.
Alla fine il vecchio medico alzò gli occhi verso Kamui. “Non sapevo che l’avessero dichiarato morto… quando è stato?”
Kamui lo fissò dritto negli occhi. “Due anni fa. Nel raid alla ventesima circoscrizione. Pare abbia cercato di affrontare il ghoul bendato e uno dei capi di Aogiri, quello albino con la maschera rossa.”
“Ah…”
“Direi che per ora è tutto, dottore. Grazie dell’ottimo tè.”
Kamui finì il tè e si alzò, lasciando la tazza vuota sul tavolaccio; il vecchio lo accompagnò alla porta d’acciaio e gliela chiuse dietro, lasciandolo solo con il buio pesto che inondava le scale verso l’alto e con i suoi pensieri. Si era tolto la responsabilità della vita di Tokugawa perché il vecchio lo aiutava da tempo e gli forniva dei controlli medici gratuiti e di alto livello. Il motivo per cui lo facesse non era ben chiaro al giovane, ma lui aveva smesso di farsi domande inutili da molto tempo. Ora doveva stare attento alla propria, di vita.
Era notte inoltrata quando arrivò sul suo letto e si stese. Duemilacentonovantatré. Se il suo RC avesse continuato a salire, sarebbe stato ancora capace di mangiare cibo normale? Non voleva diventare cannibale, non era un ghoul, era umano. O no? Si addormentò col dubbio.
Le sue palpebre si strizzarono. Aprì un occhio, poi l’altro, guardandosi infine intorno. Si trovava di nuovo nel suo letto d’ospedale, il sapore amaro e la testa pulsante lo salutarono allegramente. Oh, se gli era mancato, il loro giocattolo preferito da tormentare… solo che stavolta erano meno intensi. A loro, notò, si andava sostituendo un’acutezza dei sensi che l’aveva lasciato confuso e spaesato. I sacchetti di flebo e di sangue non c’erano più. Il dolore alla testa sfumò fino a diventare un ronzio discreto, destinato a sparire entro poche ore.
La porta della stanza si aprì a rivelare la stessa infermiera di quando era svenuto, con un vassoio in mano. Cibo. Lo stomaco di Kamui brontolò prepotente, l’odore del salmone che gli aveva portato gli sembrava inebriante; si tirò su a sedere e l’infermiera gli posò senza una parola il vassoio con le vivande sulle gambe e se ne andò. La guardò uscire, poi abbassò gli occhi sul cibo. Carne. Carne cruda. Nel piatto c’era un pezzo di carne cruda. Sangue rappreso incrostava la superficie di ceramica, e fluido più fresco spillava dalla massa muscolare. Urlò.
Kamui si svegliò di soprassalto. Un sogno, era un sogno. Un incubo, più che altro. Si girò nel letto e chiuse di nuovo gli occhi, pensando. Non era da lui avere incubi - non che facesse sogni particolarmente gratificanti. Doveva essere la sua preoccupazione per l’RC. Scacciò il pensiero. Doveva dormire o non si sarebbe alzato il giorno seguente. E il sonno si fece pregare, sì, ma alla fine lo prese a poco a poco fra le sue braccia.
Quando si svegliò di nuovo erano le sei e venti del mattino, il che significava che aveva circa dieci minuti per rendersi quantomeno presentabile e correre al RE. Si alzò di malavoglia e fece una smorfia quando la schiena gli mandò una scarica di dolore; doveva aver dormito in una posizione scomoda. A dir poco.
Mi sento come se mi avesse investito un treno…
Ridacchiò al pensiero. Sarebbe stata una fine ignobile per un errore come lui. Si immaginò la scena al rallentatore e non ebbe più tanto da ridere. Raccattò un paio di jeans scoloriti, una camicia bianca e un maglione grigio, li infilò, calzò svogliatamente un paio di scarpe e uscì di casa, destinazione RE.
Aprì - aveva lui le chiavi - e trovò Touka intenta a prepararsi un caffè, i capelli scarmigliati e uno sguardo assonnato in viso. La salutò, ricevendo un’occhiata omicida - anche se il ragazzo riconobbe che non era veramente irritata - in risposta.
Pensò che non sarebbe stata una brutta giornata come aveva auspicato.
Il lavoro ci fu, e fu anche troppo, in un certo senso. Per ogni cliente che usciva ne entravano due, tanto che Touka e Kamui dubitarono di arrivare a sera senza un esaurimento.
Intanto alla CCG l’ispettore di classe speciale Arima sospirò, si tolse gli occhiali e si prese il naso fra due dita, chiudendo gli occhi. Si stava rendendo conto di quanto insufficiente fosse la CCG nel perseguire il suo scopo. Quel pensiero si era presentato per l’ennesima volta nella sua vita mentra stava progettando un raid contro quello che ormai era certo essere una base di Aogiri. Molti ghoul si erano uniti all’organizzazione, che era diventata sempre più potente. Si chiese se i quinx, indisciplinati com’erano, avrebbero potuto avere una qualche utilità pratica in un’azione delicata quanto convulsa come quella. Erano tatticamente in svantaggio: gli umani avvisavano i civili quando c’era un blitz, i ghoul attaccavano di sorpresa. Per cui perdevano terreno in partenza. Ma il favore delle persone comuni era importante perché la CCG potesse andare avanti col suo proposito di eradicare i ghoul. Prese la cornetta e digitò uno dei tanti numeri interni, entrando in comunicazione con una segretaria. Disse solo una frase.
“Mandate nel mio ufficio Haise Sasaki.”
L’ispettore di prima classe si presentò dopo qualche minuto.
“Mi cercava, signore?” interloquì, grattandosi la nuca, segno che era preoccupato.
“Sì, Sasaki. Siediti.” Fece cenno all’uomo più giovane di accomodarsi su una sedia davanti alla sua scrivania; il quinx obbedì. “Sto pianificando un raid nella tredicesima. Il tuo nome è nella lista dei partecipanti. Ma vorrei avvalermi degli altri quinx, dunque ti ho chiamato per un tuo parere, dato che sei il loro caposquadra. Pensi reggerebbero la situzione? In altre parole: te la senti di mettere in gioco la loro vita? Ti fidi di loro?”
Questo il giovane non se l’era aspettato. Era la prima volta che la sua squadra veniva presa in considerazione per un attacco contro Aogiri. Rifletté qualche secondo, poi soppesò accuratamente le parole:
“Fra tutti, penso che solo Urie e in misura minore Shirazu potrebbero portarci un vantaggio concreto. Mutsuki e Yonebayashi non sono pronti per uno scontro reale.”
“Per cuoi vorresti proporre solo loro due?”
“Sì.”
Arima prese nota. “Bene. Portami le loro schede e consegnagli il modulo per il testamento. Poi puoi prenderti la serata libera.”
Sasaki si alzò e rivolse al suo superiore un saluto militare. “Sì, signore.”
Ciò detto, se ne andò, lasciando l’altro investigatore a rimuginare ulteriormente.

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Capitolo 6
*** Fuori dal blu e dentro al nero ***


Un lampo, poi un tuono. Una goccia d’acqua cadde a terra, seguita da un’altra, poi da due, poi altre e altre ancora fino ad arrivare ad un vero e proprio acquazzone. Sasaki si svegliò di soprassalto con un pensiero di cui non conosceva il significato. Mille meno sette. Un brivido gli risalì lungo la spina dorsale, ma non era freddo: aveva paura. Di cosa, non sapeva. Intuiva che era una cosa inerente a ‘prima’, ma cosa? C’era molto che gli sfuggiva. Iniziò a dolergli la testa; c’era alta marea. La chiamava così, l’incapacità di ricordare il passato. Un oceano di dolore e solitudine sotto un’atmosfera di serenità offuscata da deboli e fiochi sensi di colpa per le vite che stroncava nel suo lavoro. Al di sotto della superficie immensi abissi, imperscrutabili ai suoi occhi. Lì sotto doveva esserci tutto ciò che non aveva di sé. A volte, nei suoi sogni, gli sembrava che la marea calasse a rivelare la sommità una roccia frastagliata, ricoperta di alghe, ma non durava mai. Non ricordava precisamente i suoi sogni, ma alcuni erano così intensi che avrebbe potuto urlare nel sonno. Una volta era successo, i suoi compagni avevano dovuto tenerlo fermo e cercare di svegliarlo a forza, tanto si era agitato. Procedette al bagno e si sciacquò la faccia, poi si guardò allo specchio e storse il naso al vedere il suo occhio sinistro rosso. Non gli piaceva, lo metteva a disagio. Perché ti ostini a considerarti umano? lo interrogò in tono comprensivo una voce nella sua testa. Perché prendi quei farmaci? Pensi di averne bisogno?
“Sì…” rispose incerto.
Dimmi, in che cosa sono diversi da una droga?
“Mi fanno stare meglio…”
I drogati pensano la stessa cosa quando si fanno. Gli alcolisti lo pensano quando si ubriacano.
“Lasciami stare…”
Tanto lo sai… non sei umano… loro ti odiano… perché non fai come ti pare? È facile… uccidi Arima e…
“Basta!” urlò, e sferrò un pugno al suo riflesso, ottenendo l’unico risultare di rompere lo specchio. La voce si ritirò con una risatina beffarda. Il suo viso con gli occhi asimmetrici ammiccava frantumato in miriadi di pezzi, un taglio sulla sua mano sanguinò per qualche secondo, poi il fluido rosso si fermò, ma la ferita non rimarginava da sola: rimaneva aperta, anche se asciutta, grazie agli inibitori di RC che assumeva regolarmente.
Sibilò quando vide dietro di sé Mutsuki dallo specchio rotto mentre si stava mettendo un cerotto. “Va’ via.”
L’altro spostò il peso del corpo da un piede all’altro, chiaro segno che si stava agitando. “Haise…”
Sasaki si voltò di scatto, fissandolo rabbioso con l’unico kakugan che aveva e l’altro occhio grigio e quasi ruggì:
“Ti ho detto di andartene, cazzo!”
Arrivarono anche Urie e Shirazu, svegliati dalle urla, solo per vederlo fuori di sé. Gli ci vollero ore per riportarlo alla calma, anche se a Urie non avrebbe potuto importare di meno. Pensava ormai di odiarlo. Sasaki di qua, Sasaki di là, tutti apprezzavano solo il mezzo ghoul e non si rendevano conto che avrebbe dovuto essere lui il capo della squadra, non Haise, né tantomeno quello scemo di Shirazu. Ma avrebbe dimostrato presto il suo valore. L’operazione a cui si era sottoposto avrebbe dato i suoi frutti e allora lui, Kuki Urie, non HaiseSasaki, sarebbe stato il capo, lui avrebbe dato gli ordini, lui avrebbe costituito l’esempio da seguire.
Qualche ora più tardi, Sasaki si alzò nuovamente dal letto; aveva finito di piovere e aveva bisogno di farsi una lunga camminata per calmarsi del tutto.Si vestì e scese in strada a prendere una boccata d’aria.
Senonché, una volta uscito, notò un uomo che camminava con un cappuccio abbassato e le spalle curve. L’investigatore fiutò il suo odore anche con l’aria satura di umidità. C’era una nota dell’odore di un ghoul, fievole ma distinta. Imprecò fra sé: aveva dimenticato gli inibitori. Ora però voleva seguire quel tipo, avrebbe pensato dopo ai farmaci. Iniziò a pedinarlo mentre un pulsare lieve si affacciò sul retro della sua testa. Poteva essere che la marea si stesse abbassando durante la veglia? Non ci credeva. Era diviso in due: metà della sua mente era concentrata sul tizio che stava pedinando, l’altra parte si dedicava ad osservare la roccia con le alghe che emergeva dalla marea, attratto irresistibilmente e allo stesso tempo spaventato a morte da cosa potesse essere.
L’uomo si fermò e si voltò, guardandolo.Sasaki lo fissò negli occhi, poi distolse lo sguardo, cercando alacremente, senza trovarlo, un motivo per cui un cameriere del RE, che notoriamente apriva molto presto tutti i giorni, fosse in giro alle cinque della domenica mattina.
“Oh, ispettore. Buongiorno.” salutò Kamui.
“Salve, signor… Kamui, dico bene?” interloquì l’investigatore.
Kamui sorrise leggermente. “Sì, esattamente.”
Ora che era vicino, poteva sentire chiaramente il suo odore ed era umano. Come aveva fatto a confonderlo? Attribuì la causa alla stanchezza e all’agitazione passata. Intanto la roccia era lì, invitante simulacro di pezzi di sé ancora da svelare, la marea non calava più ma non accennava a risalire. Il quinx decise che se la situazione fosse durata ci avrebbe pensato in seguito.
Kamui continuò il suo discorso:
“Certo che è strano vedere uno della CCG in piedi a quest’ora. Ha qualche caso da seguire?”
“No, no, assolutamente. Lei perché passeggia proprio a quest’ora?”
“Mi piace il fatto che qui non passi molta gente. Ma quando non c’è nessuno è ancora meglio. È suggestivo. Mi concilia il pensiero.”
“Interessante…”
“Vuole venire? Stavo giusto pensando che mi avrebbe fatto comodo un po’ di compagnia. Mi è giunta voce che legge molti libri, magari può aiutarmi a chiarire dei dubbi su Takatsuki. Sa, ho da poco iniziato un suo libro, ‘L’uovo della capra nera’, e non ho capito dei passi.”
Sasaki drizzò le antenne a quelle parole. Pochi leggevano Takatsuki, men che meno quel romanzo in particolare. La critica aveva avuto pareri discordanti quando era uscito, da quel che sapeva. Accettò.
Disquisirono del libro per un centinaio di metri, a Sasakila rabbia di quella notte sembrava lontana anni luce. Dovette ammettere che quell’uomo era dannatamente preparato in fatto di retorica, etica e psicologia. Arrivarono ad un parchetto e Kamui gli fece una domanda ben precisa:
“Abbiamo discusso finora di una persona che uccide per divertimento e di un’altra che pur trovandolo riprovevole, si accorge di star iniziando ad emularla. Ad ogni modo, mi permetta di farle una domanda che non c’entra nulla, ma che faccio molto spesso in questo tipo di discorsi. Secondo lei, è meglio soffrire noi stessi pur di non ferire gli altri o semplicemente salvaguardare la propria esistenza?”
“Ovviamente la prima. Moralmente ed etica…” La testa di Sasaki pulsò violentemente. Gli era venuta all’improvviso un’emicrania da record, come non ne aveva mai avute. Barcollò e si appoggiò ad un muro; respirò profondamente prima di andare in iperventilazione. “Mille… mille… novecentonovantatré… novecentottantasei…”
Paura. Ansia. Un cocktail di emozioni si riversò nel suo cuore, la sua parte inumana si stava lentamente svegliando proponendogli idee folli,presentandogliele come ricordi e lui non poteva farci nulla, si sentiva impotente, voleva che la marea risalisse, che quella dannata roccia di ricordi tornasse nei dannati abissi a cui apperteneva, non gli interessava, voleva quei dannati soppressori, voleva che quel bastardo tornasse nel buio in cui doveva restare rinchiuso a marcire. Dalla sua bocca uscirono parole sconnesse.
“Ispettore… si sente bene?”Kamui inclinò di lato la testa, confuso dalla reazione del quinx… o mezzo ghoul, che dir si volesse.
Ma Sasaki… no, ora non era lui, era l’Altro, l’Altro non sentiva nulla. Lottava per tornare in superficie, alla vita, la desiderava così tanto, la libertà, il controllo, dopo tanto tempo… ma incontrava la fiera resistenza dell’investigatore. L’Altro non era ancora abbastanza forte. A poco a poco fu costretto a cedere terreno, fino a che restò solo HaiseSasaki, niente Altro in vista. Il tutto durò pochi secondi.
Sasaki si riebbe. Non ricordava nulla di ciò che era successo. Voleva solo andarsene, e subito. Improvvisò una scusa e tornò indietro da solo.
Kamui restò a guardarlo camminare nella direzione da cui era venuto, poi, dopo qualche istante, si voltò e riprese a muovere un passo dopo l’altro, dapprima lentamente, dopo svoltato un angolo sempre più veloce, con le rotelle del suo cervello che giravano senza sosta cercando di mettere insieme i pezzi del puzzle. La storia era ancora lunga. Ma avrebbe smantellato Sasaki. Voleva sapere. E se fosse stato veramente Kaneki, tanto meglio per Touka. Si chiese come stesse, e decise che le avrebbe chiesto se avesse voluto allenarsi ancora. Rallentò rendendosi conto della sua velocità e poco dopo si fermò, mormorando:
“Sasaki, tu vuoi essere e sapere? Sai di essere e di volere? E sai di essere perché vuoi e sai? Ah, se mi sentisse sant’Agostino mi farebbe scomunicare…” ridacchiò. Avrebbe fatto meglio ad andare al RE, pensò, erano le sei. Riflettendo, arrivò a pensare che forse quella trasfusione non era stata poi un gran male, visto e considerato che ora aveva una vera vita grazie a quel sangue di ghoul. Già, ma è destinata a durare? pensò mentre entrava nel locale.
Una porta in un vecchio stabile una volta adibito a mattatoio, nella tredicesima circoscrizione, si aprì lasciando vedere una ghoul bendata da capo a piedi che indossava una cappa rossa. Il ghoul si avvicinò ad un altro molto più alto di lei, albino, e gli porse delle carte, attirando lo sguardo di tutti, poi gli parlò come se fossero stati solo loro due:
“Voltabandiera si è fatto di nuovo vivo. Ha ucciso parecchi affiliati. Anche senza un braccio, è abbastanza forte.”
Tatara prese i fogli con i profili dei ghoul uccisi e i risultati delle autopsie operate dalla CCG, li scorse un attimo, poi rispose:
“Uno in più non farà la differenza, i piani non cambiano.” Alzò la voce. “Te ne occuperai tu, Kirishima.”
Il ghoul chiamato Kirishima rise, poi ribatté:
“Chiamami per nome, sai che non sopporto il mio cognome. Comunque sì” sulle sue labbra affiorò un ghigno ferino “lascia fare a me. Comunque, Fueguchi mi ha informato che vogliono farci la festa. Ci sarà anche Arima.”
“Bene.” Si rivolse alla ragazza bendata. “In tal caso, guiderai tu la difesa, Eto.”
Eto annuì e se ne andò in un angolo, quasi sparendo nell’ombra dell’edificio.
Si preannunciava un massacro. Sorrise da dietro le bende.

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Capitolo 7
*** Una svolta, forse? ***


“Più veloce! Più sciolta! Puoi fare molto meglio di così, Touka!”
Era la seconda sessione di allenamento, stavolta di notte. Kamui continuava a schivare con facilità i colpi ripetitivi della ragazza, anche se doveva ammettere che il ghoul si stava impegnando e non poco. Decise allora di stimolarla a fare ancora di più. Prese l’iniziativa e iniziò ad attaccare di rimessa evitando di affondare i colpi, d’altronde era solo un’allenamento.
Touka era di diverso avviso. Stava prendendo molto seriamente la sessione, ma iniziava a mancare di fiato, complice anche il suo tipo di RC. Tentò il tutto per tutto con una finta e una spazzata a tradimento che non aveva mai provato prima, cogliendo di sorpresa il mezzosangue che cadde sgraziatamente a terra. Un ghigno comparì sulle labbra della ragazza per poi morire quando uno schiocco sonoro risuonò nell’ex fabbrica. Dolore esplose nella tibia sinistra di Kamui, mentre i tendini del suo collo si irrigidivano e affioravano quasi impecettibilmente.
Lei era confusa. Non aveva una kagune, lui? Non era forse un ibrido? Allora perché la sua gamba si era rotta così facilmente?
Cinque minuti dopo, Kamui era seduto con la schiena appoggiata contro un pilastro, la gamba destra piegata e la sinistra - rotta, come testimoniava il dolore pulsante - distesa.
Touka lo guardava senza proferire parola, con molte e molte domande in mente. Alla fine ne fece una sola:
“Come mai si è rotta così facilmente?”
Kamui rise di gusto per qualche secondo per motivi che lui solo conosceva, poi si schiarì la voce. Infine rispose:
“Diciamo che non ho una kagune completa. Quando ho molta adrenalina in circolo le cellule RC che ho nel sangue - e non sono poche, sai? - si attivano e formano una struttura interna simile alla kagune di un ghoul, rinforzando pelle e tessuti ossei. Per il resto, quando sono a riposo ho solo più resistenza alla fatica e più forza di un umano.”
Touka non stava capendo nulla. Notandolo, Kamui si spiegò in parole povere.
“In soldoni, quando non ho gli occhi rossi sono come un cannone di vetro, sono fragile quanto un essere umano. È perché non ho un kakuhou. Possiedo comunque una moderata capacità di rigenerazione cellulare. Temo però che anche così mi ci vorrà una settimana per tornare ad allenarci. Eh, già.”
“Dovrai camminare lo stesso, non ho intenzione di portarti in spalla.”, rispose lei seccamente.
Per la sua sorpresa, Kamui si alzò con un grugnito e si tenne sulla gamba destra aggrappandosi al pilastro. Poi ridacchiò e portò la mano alla piastrina che aveva al collo. Appoggiò cautamente il piede sinistro a terra e sibilò al dolore acuto che lampeggiò nei suoi nervi.
“Non è che potresti aiutarmi?” chiese alla fine. A Touka sembrò imbarazzato oltre ogni dire, in contrasto con il comportamento tranquillo che aveva di solito.
Lei prese seriamente in considerazione l’idea per quasi un minuto, ma mentre era sul punto di prendergli un braccio e passarselo sulle spalle per aiutarlo a camminare, Kamui fece un saltello indietro sulla gamba buona e, iniziando a zoppicare cercando di caricare meno peso possibile per il minor tempo che riusciva sulla tibia rotta e tentando di non dare a vedere il dolore che non riusciva comunque a dissimulare, si scusò:
“Non preoccuparti, scherzavo. Preferirei… che non mi toccassi. Diciamo che non mi sento molto a mio agio dopo una cosa che è successa tanto tempo fa… e poi”, aggiunse con un sorriso che sembrava più una smorfia, “hai detto tu che devo camminare, no?”
Dopo essere rimasta in silenzio per un momento, il ghoul riprese il suo solito contegno e disse:
“Come ti pare. Andiamo.”
Dunque si diressero al RE, lui zoppicante e che grugniva occasionalmente ma senza chiedere mai aiuto, lei che era sia infastidita che incuriosita dall’atteggiamento dell’altro. Ad un certo punto Kamui spezzò il silenzio che si era instaurato fra loro.
“Sai, ho visto quell’investigatore, Sasaki, domenica mattina.” Il suo collo si irrigidì quando caricò troppo la gamba rotta.
La risposta della ragazza non si fece attendere, anche se fu, come sempre, abbastanza acida:
“Cos’è successo?”
“Nulla di che…” sibilò per il dolore ma senza farsi sentire. “Abbiamo solo parlato dei libri di Takatsuki. Poi è diventato strano… per caso sai se significa qualcosa il fatto che abbia iniziato a contare da mille indietro di sette in sette?”
Lei si fermò di scatto. Kamui continuò a zoppicare senza degnarla di uno sguardo, voleva solo arrivare a casa sua - e le scale sarebbero state un vero inferno, forse le avrebbe salite saltellando sulla destra - il più presto possibile e cercare di dormire per non sentire il dolore pulsante, magari con l’aiuto di due o tre aspirine, anche se sapeva che il sonno non sarebbe arrivato.
“Ehi, Touka. Che succede?”, chiamò, senza ottenere risposta. Si fermò senza girarsi. “Touka?” ripeté.
“È lui… è veramente lui…” sussurrò fra sé il ghoul; una lacrima si formò nel suo occhio sinistro, si ingrossò e scivolò via lungo la guancia, un minuscolo senso di gratitudine per quell’intellettuale irritante che le aveva provato che Kaneki era ancora vivo si accese nel suo animo. Si asciugò velocemente la lacrima e continuò ad alta voce, senza mostrare le sue emozioni:
“Stasera dormi al RE, Kamui. Non penso che ce la faresti a raggiungere casa tua in quelle condizioni. Niente ma. C’è una stanza inutilizzata al secondo piano, starai lì. Ma guai a te se sento un solo rumore provenire da lì. Salgo e ti spezzo anche l’altra gamba. Intesi?” Ecco. Ora che si era sdebitata andava meglio.
Kamui da parte sua non ebbe scelta se non accettare, sollevato di non dover affrontare tutte le scale che portavano al suo appartamento. Rise e si girò facendo perno sulla gamba buona, guardandola e ghignando. “Va bene. Però ti avevo chiesto di chiamarmi per nome.”
Touka lo raggiunse e gli diede una schicchera in fronte, dicendogli:
“Vedi di non allargarti troppo, mezzosangue.”
E riprese a camminare spedita verso il RE, con Kamui che la seguiva come meglio poteva.
Qualche ora più tardi, Kamui, contro ogni sua aspettativa, si era già addormentato da un pezzo, mentre Touka, al piano di sotto, non riusciva affatto a prendere sonno. Era lui. Era veramente, senz’ombra di dubbio lui. Ora, il problema principale era che Sasaki non ricordava quasi nulla della sua vita passata e se si fosse presentata per quello che era avrebbe fatto di lei una quinque. Però, mentre finalmente Morfeo la accoglieva fra le sue braccia, per la prima volta dopo molto, molto tempo, era serena. Touka si addormentò con un mezzo sorriso sulle labbra. Ci sarebbe stata più di un’occasione per pensare al da farsi, senza che i fantasmi del passato la assalissero come avevano fatto ogni notte fino ad allora.




Angolo dell'autore:
Scusate per il capitolo millimetrico, ma la scuola mi tiene in ostaggio e ho pochissimo tempo per scrivere. Però voglio aggiornare almeno una volta alla settimana.
Vediamo se stati attenti, ora. Nel capitolo 6 ci sono una citazione e un tributo a Stephen King. Il primo che le trova entrambe ha diritto a chiedermi di scrivere una one shot o una flashfic (sempre su Tokyo Ghoul) e, non meno importante, vince un biscotto. Chi trova solo una delle due cose vince solo il biscotto. Chi non le trova si legga It e Misery. <3
-T.R.

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Capitolo 8
*** Furto ***


Kamui si svegliò. Aprì un occhio, poi l’altro e sbatté le palpebre assonnato. Si alzò attento a muovere con cautela la gamba sinistra e si sorprese che gli dolesse ben poco. Pensò che comunque non avrebbe dovuto strafare, o l’osso già infortunato ne avrebbe risentito e non trascurabilmente. Fu allora che vide un paio di stampelle appoggiato ad un angolo della stanza - che sembrava più un magazzino, con tutti gli scatoloni impilati nella parte a sinistra del letto e le pareti spoglie - e un biglietto piegato appoggiato al manico bianco in plasticaccia di una delle due. Lo prese e lo lesse a mente, era da parte di Yomo:
Kamui, queste me le ha appioppate stanotte un vecchio a dir poco eccentrico che sosteneva di conoscerti e che ti sarebbero servite per pochi giorni. Ha aggiunto anche che le vorrebbe indietro quando non ne avrai più bisogno. Diceva di chiamarsi Tokugawa e di essere il tuo ‘medico di famiglia’ o qualcosa del genere. Ad ogni modo, gamba rotta o no il tuo turno lo fai lo stesso. Niente perdigiorno al RE.
-Y.
Dunque il vecchio teneva davvero a lui. Ridacchiò fra sé e sé e il suo stomaco brontolò in risposta. Aveva fame, molta fame. Si sfilò dalla tasca il telefono, lo accese e controllò l’orario, il tutto tenendosi in equilibrio precario sulla destra. Erano le sei e tre quarti, aveva tempo per prepararsi qualcosa e indossare la divisa. Due sandwich e un caffè dello studente più tardi - si ripromise di comprare della miscela da moka, perché il caffè all’americana era veramente un dolore da bere - un Kamui zoppicante e in stampelle ma ilare come sempre era al bancone.
Sasaki e la sua squadra entrarono al RE verso le due di quel giorno e il mezzo ghoul ordinò il solito - caffè semplice, senza zucchero.
Mentre preparava il caffè, Kamui gli chiese se stesse bene dopo quella volta che si era ‘sentito male’.
“Oh, sì”, rispose l’investigatore grattandosi lo zigomo destro con l’indice, “non era nulla. Piuttosto… come mai porta le stampelle?”
“Sono caduto dalle scale mentre venivo qui”, mentì l’altro. Cioè, la tua ragazza o quel che era due anni fa mi ha rotto la gamba mentre la allenavo perché i tuoi compari non la uccidessero, si disse fra sé.
“Oh, mi spiace. Cosa le hanno detto in ospedale? Quanto dovrà stare in stampelle?”
“Una settimana, se va bene. Dicono che sono stato fortunato a solo incrinarmi e non fratturarmi la tibia.” Mentì spudoratamente, il suo sorriso si era fatto di pura circostanza.Cara Touka, la prossima volta tagliami anche la lingua, non sono bravo in queste cose, pensò nervoso.
Fortunatamente Sasaki non gli domandò più nulla, bevve il suo caffè e si sedette al tavolo occupato dagli altri quinx. Touka si avvicinò a Kamui e gli riferì l’ordinazione della squadra: due caffè semplici, uno macchiato e un espresso. L’uomo si chiese chi l’avesse ordinato: costava ben seicento yen e pochi erano disposti a sborsare una cifra del genere quando poteva spendere un sesto e bere comunque.
“Quello, se proprio lo vuoi sapere.” Indicò con un cenno del capo un tizio che aveva uno sguardo torvo e un paio di auricolari infilati nelle orecchie. Sembrava ce l’avesse col mondo intero. E Dio sapeva quanto quell’impressione fosse giusta. “Comunque”, continuò lei, “spero tu sappia usare la macchina da espresso, Kamui. Quello è capace di tirare giù il cielo quando ci si mette con le critiche e vede ghoul dappertutto. Quindi, per la serenità di tutti, vedi di fargli un buon caffè.”
E se ne andò a prendere altre ordinazioni, rivolgendo mentre un amabile sorriso a Sasaki mentre gli passava davanti - il che sorprese Kamui. Touka era capace di fare dei sorrisi veri? Sarebbe stato pronto a giurare il contrario davanti al Padreterno fino a pochi secondi prima, ma evidentemente Haise (o Ken o Kaneki o Vattelappesca, non sapeva come chiamarlo ormai) era speciale per lei. Oh, be’, se anche fosse stato, l’avrebbe scoperto col tempo. Iniziò col fare i due caffè normali. Mentre stava facendo filtrare l’acqua attraverso il macinato, il tizio con gli auricolari - Urie, pareva a Kamui di averlo sentito chiamare - raggiunse il bancone.
“Lo vogliamo fare questo caffè?”
“Certo”, rispose il barista che nel frattempo aveva posato le stampelle e si manteneva appoggiato con l’anca al banco che lo divideva dai tavoli.
Urie inspirò profondamente - era forse l’odore di un ghoul quello che sentiva? Non ne era sicuro. Era quasi assente, come se uno di quei mostri fosse passato lì da molto tempo. Ciononostante c’era, non si poteva negare. Prima di tornare al tavolo, si congedò con un ‘aspetto, barista’ quasi sibilato.
Con la coda dell’occhio Kamui lo vide fissarlo. Presagiva guai e in quei casi raramente sbagliava.
La luna, come sempre, era una macchia confusa, resa quasi invisibile dall'inquinamento luminoso delle strade di Tokyo. Le strade erano ormai quasi deserte; tutto ciò che si vedeva passare era qualche macchina, più raramente furgoni e camion. Non c'era quasi alcun pedone: molti avevano paura per via dei ghoul, altri semplicemente dormivano o avevano di meglio da fare che girovagare per le strade della capitale.
Kamui procedeva verso casa sua zoppicando leggermente, dopo aver restituito le stampelle a Tokugawa - l'aveva ringraziato, ovviamente, ma gli aveva detto che non gli sarebbero servite. Aveva il cappuccio del piumino nero calato in testa, le mani in tasca. Imboccato uno dei tanti vicoli che avrebbe dovuto percorrere per arrivare al suo monolocale, un brivido freddo gli risalì la spina dorsale quando sentì un leggero fruscio dietro di sé. Aveva fatto proprio bene a portarsela quella sera. Il suo senso del pericolo era fine come sempre. Sospirò e si fermò. Poi aprì la lampo del giubbotto e pescò una vecchia maschera di legno da una tasca interna. La indossò e parlò senza girarsi, la voce arrochita dal pezzo di legno che schermava la sua faccia.
"Non ti hanno insegnato che quando si pedina una persona si mantiene una certa distanza e soprattutto si sta attenti a non fare il minimo rumore, signor investigatore?", chiese.
Un giovane uomo entrò nel vicolo, come partorito dalle ombre che invadevano la notte.
"Lo ammetto, potevo gestire meglio la situazione… ma è vero anche che non avrò problemi con te, 'signor ghoul'", rispose l'altro estraendo la sua quinque dalla valigetta che teneva in mano. L'oggetto in questione era una spada, evidentemente ricavata da una kagune di tipo bikaku.
L'investigatore si gettò contro Kamui, che si girò e schivò la stoccata dell'umano. Notò che si trattava della stessa persona che aveva ordinato l'espresso quel giorno. Adrenalina iniziò a scorrere nelle vene di Kamui, che sentì la pelle formicolare e un lieve senso di irritazione che lo stuzzicava. Era sempre così; a dire il vero, le prime volte era stato anche peggio. I suoi occhi si tinsero di un rosso acceso, quasi visibile nella penombra e attraverso i fori - di diametro di circa un pollice e mezzo - della maschera.
Urie osservò che la maschera era bianca, con un paio di ali nere di pipistrello sugli occhi. Gli ricordava qualcosa, aveva già visto un disegno del genere da qualche parte.
"Ti piace? Ne sono lusingato… è il trucco che aveva Gene Simmons. Il bassista dei Kiss, non so se li conosci."
Ah, certo, pensò Urie. Aveva visto un concerto dei Kiss su internet, tempo prima. Ecco perché gli sembrava di conoscere la decorazione della maschera. Il ghoul comunque non sembrava intenzionato ad attaccare battaglia o a scappare - come avrebbe potuto, con una gamba sicuramente non in salute, scappare da un quinx?
Kamui, d'altro canto, sentiva la gamba prudere insopportabilmente. Le cellule RC stavano rigenerando i tessuti velocemente, troppo per lui. Decisamente troppo. Si sentiva già affaticato. Non è normale. Non è normale. Pensò. Presto non sarebbe stato capace nemmeno di scappare. Dunque poteva solo provare a tenergli testa. La morte non lo spaventava, del resto c'era andato vicino quando l'avevano pestato tempo addietro.
Schivò di poco un fendente dell'investigatore e rispose con un calcio laterale al suo fianco destro. La gamba sinistra protestò, ma debolmente. In questo modo riuscì a sorprendere Urie, che cadde a terra per rialzarsi immediatamente.
L'aveva sottovalutato. Aveva fatto finta di zoppicare? Cosa stava succedendo? Come era potuto accadere che lui, Urie Kuki, avesse sbagliato a valutare la situazione? Ripartì all'attacco con fendenti a due mani, che vennero schivati con perizia dal ghoul.
Kamui, da parte sua, doveva mettere fine in fretta al combattimento, prima di esaurire le energie, il che sarebbe successo presto. Però c'era quel senso di rabbia che saliva. Conosceva quella sensazione. Le prime volte che le cellule RC nel suo sangue si erano attivate l'aveva accettata senza pensarci e aveva ucciso delle persone… persone a cui teneva. Non sapeva cosa fare, ma doveva prendere una decisione. Prima di lasciare le poche persone che conosceva lì. Ma a loro importava, lui?
Una parte di lui gli diceva di no. Nessuno l'avrebbe mai potuto volere, non c'era posto per lui. Era uno sbaglio, una bizzarra quanto scomoda macchia in un mondo che le persone normali volevano mantenere pulito.
Un'altra parte gli propose solo due immagini: il 'grazie' che aveva pronunciato Touka alla fine del loro primo allenamento e le stampelle che gli aveva mandato il vecchio.
Continuò a schivare - anche se con meno abilità, ora - i colpi di un Urie sempre più frustrato.
Una stoccata raggiunse Kamui alla spalla sinistra. Il mezzosangue sibilò di dolore, strappato al suo conflitto interiore. Sangue fuoriuscì in grande quantità. Aveva preso la succlavia.
Urie affondò il colpo. Sgorgò altro copioso altro sangue. Sarebbe stato promosso, dopo aver ucciso un ghoul senza aiuto da parte di altri investigatori. Tutti avrebbero riconosciuto la sua superiorità rispetto a Sasaki. Gli sembrava però strano che il ghoul non avesse usato la kagune. Ci avrebbe pensato in seguito.
Fu allora che Kamui sferrò una ginocchiata nello stomaco dell'investigatore; non sarebbe morto. Non quel giorno. Urie sputò saliva e cadde carponi, sfilando la quinque dalla spalla di Kamui. Lo stomaco del quinx si contrasse in preda ai conati. Un vero e proprio fiume di sangue sgorgò dall'arteria lesionata dell'uomo più vecchio, mentre la ferita cercava di richiudersi con scarsi risultati.
Kamui ansimò; anzi, a dire la verità annaspava. Dentro di lui stava montando una rabbia che cresceva di secondo in secondo. Non sapeva perché. Prese l'investigatore per il collo con il braccio destro e lo tirò contro uno dei due muri che costeggiavano il vicolo. L'umano cadde prono, come istupidito. Fece per rialzarsi facendo leva sulla quinque - non l'aveva lasciata nonostante avesse subito un impatto considerevole - quando sentì un piede dell’altro posarsi sul suo gomito.
"Apparteneva a una persona, lo sai, vero?", lo interrogò Kamui.
"Non siete persone… siete bestie che si cibano di persone."
"Io non sono un ghoul.", ringhiò Kamui.
L'uomo mascherato raccolse la quinque.
"Non m’importa cosa sei o dici di essere. Sei un mostro come tutti gli altri.", sibilò Urie, e cercò di estrarre la kagune installata nella sua schiena attivando il kakugan incompleto che aveva nell’occhio sinistro. I suoi sensi si acuirono. Quasi riuscì a sentire l'altro fremere di rabbia. Sentì poi chiaramente lo schiocco e il dolore che vennero subito dopo. Gli ci vollero due secondi buoni per capire che gli aveva spezzato il gomito. Ululò il suo dolore mentre la kagune artificiale si ritraeva lentamente.
L’uomo si piegò sull’altro fino a portare la maschera a pochi centimetri dal volto del quinx - il sangue imbrattò il cappotto dell’investigatore per seccarsi dopo pochi secondi - poi gli sibilò:
“Non dovresti provocare chi è in una posizione di vantaggio.”
Quindi si girò e zoppicò via, lasciando l'investigatore in iperventilazione dietro di sé.
Kamui si lasciò cadere a terra sul tetto di un palazzo non molto distante da dove aveva lasciato il quinx. Si tolse la maschera e alzò la quinque che aveva rubato. L’aria fresca dell’autunno inoltrato gli carezzò il volto madido di sudore. Era ancora infuriato per motivi che nemmeno lui conosceva. Non che gli importasse molto in quel momento. Respirò profondamente e trovò che ormai non gli faceva più male la gamba. Riusciva anche a muovere il braccio sinistro. Poggiò la quinque a terra, si toccò la ferita e constatò che non si era già richiusa, ma era sulla buona strada. O almeno così gli pareva. Si calmò, finalmente, e ridacchiò sommessamente. Si sentiva anche stanco. Aveva perso molto sangue. Forse troppo. Una voce roca gli giunse da dietro.
"Alla fine l'hai trovata veramente la tua quinque."
"Oh. Ciao, Tokugawa.", salutò l’ibrido.
Il vecchio si sedette vicino a Kamui.
"Vecchio…", continuò il giovane. "Io sono un mostro?"
Il medico disse ciò che pensava.
"Non lo so, Resii. Ma non mi importa più di tanto. Non sei cattivo, ed è già tanto. Se non ti dispiace, ti faccio compagnia. E… raccontami come sei finito in questa situazione, idiota.”
Kamui rise. Era bello avere qualcuno che si preoccupasse per lui. Valeva davvero la pena vivere, dopotutto.


Angolo dell'autore:
Allora, eccomi con un nuovo capitolo, stavolta di lunghezza decente. Mi ha divertito abbastanza scrivere lo scontro fra Kamui e Urie.
Veniamo poi al dunque. Le citazioni del capitolo 6 erano il titolo (frase presa da "It") e l'immagine della roccia e della marea ispèirate ai piloni e alla marea di cui silegge in "Misery".
Al prossimo update,
-T.R.
P.s.: accetto richieste di one shot o flashfic (nel caso in cui ci siano dei pairing, NON faccio yaoi, yuri, shonen e shojo ai).

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Capitolo 9
*** Sangue ***


Vacillò e cadde in ginocchio. Ansimò. Ne aveva perso troppo e la ferita non voleva saperne di non riaprirsi, nonostante il sangue coagulasse spesso. Non riusciva a camminare. Non andava per nulla bene.
Tokugawa si portò il braccio destro di Kamui intorno alle spalle e lo aiutò ad alzarsi. A dispetto del suo aspetto gracile e incartapecorito, possedeva una forza non indifferente, tanto che l’uomo aveva pensato, molto tempo prima, che potesse essere un ghoul, ipotesi confutata dalle innumerevoli tazze di tè che aveva consumato in sua presenza. Più verosimilmente, avrebbe potuto trattarsi di uno dei pochi umani con la forza di un ghoul, ma anche quello gli era sembrato più volte troppo forzato.
Kamui cercò di protestare, ma il vecchio lo interruppe prima ancora che potesse proferire parola.
“Zitto, che non hai il sangue per parlare, figuriamoci per camminare. La prossima volta fatti infilzare anche le budella, già che ci sei.”
L’uomo più giovane sibilò. “Non potevo correre via. Non avevo abbastanza forze già prima, te l’ho detto. E poi, sai che non voglio essere toccato. Anche se sei un medico.”
“E come tuo medico ti ordino di fare una trasfusione, stanotte stessa. Niente ma.”
Il giovane sbuffò - o meglio, esalò una specie di rantolo - ma acconsentì e si lasciò aiutare in silenzio. Poi chiese, per la prima volta da quando aveva conosciuto il vecchio:
“Perché lo fai? Potresti costruirti un laboratorio nuovo di zecca con i soldi del nobel e con quelli che ti darebbe la CCG se mi consegnassi. Sarebbe tutto a tuo vantaggio.”
La risposta del dottore fu secca: “Ho anch’io i miei segreti, Resii.”
Kamui pensò che sarebbe stato meglio non indagare troppo. Non sapeva quasi nulla di Tokugawa, ma il vecchio si era dimostrato veramente leale verso di lui più volte. Ridacchiò col poco fiato che aveva, attirando la curiosità dell’altro.
“Sembri proprio il pescatore di De Andrè. ‘Gli occhi dischiuse il vecchio al giorno, non si guardò neppure intorno, ma versò il vino e spezzò il pane per chi diceva ho sete e ho fame’… in giapponese non ha neanche un decimo della poesia che in italiano.”
“In tanti anni ho conosciuto ben poche persone come te. Guardi la morte in faccia e nemmeno un giorno dopo ti lamenti della traduzione di una canzone.”
“Non è una canzone, dottore. È poesia. Prendo molto seriamente queste cose”, rispose Kamui ghignando. Il vecchio sospirò.
“Come vuoi. Ce la fai a non cadere trascinandomi giù per le scale?”
“Oh, anche se cadessi non sarebbe poi così male. Pensi, potrei finalmente vedere la scazzottata fra sant’Ambrogio e san Gennaro. Posto che vada a finire in paradiso.”
“Non ti seguo.” Tokugawa iniziò a scendere le rampa di scale che conduceva al laboratorio e alle specie di stanze attigue.
“Lasci perdere, dottore”, rispose Kamui. “È una cosa strana. E io mi sento così stanco…”  I suoi occhi stinsero lentamente, fino a che il rosso fu presente solo in venature; si chiusero. Poi non sentì più nulla.
Un gran mal di testa. Il braccio destro contratto, il sinistro fasciato, con almeno una ventina di punti sia interni che esterni di sutura, li sentiva benissimo. Dolore in tutto il corpo. Parole confuse. Era Tokugawa a parlare. Ma con chi? Kamui neanche pensò di aprire gli occhi e cercò di carpire qualcosa del discorso del vecchio.
“… fortunato… quando l’ho trovato… tanto di quel sangue… coriaceo… si possa pensare…”
La sua coscienza lo tradì nuovamente e sprofondò in un sonno senza sogni.
Quando si svegliò nuovamente non avrebbe saputo dire non solo se fosse giorno o notte, ma perfino che giorno fosse. Gli sembrava di aver dormito per mesi, tanto era disorientato. Però ora si sentiva decisamente meglio, eccetto che per il fatto di essere esausto nonostante si fosse appena svegliato. Non aprì gli occhi. Non si sentiva pronto, aveva paura ma non sapeva
(“Sei un mostro”)
di cosa.
Oh, Ieyasu, non fare il bambino, si rimproverò mentalmente.
Bene. Ora ti chiami anche da solo con quel nome.
Lascia stare. Ora…
Ora cosa?
Già, cosa? Cosa voleva fare? Cosa pianificava? La risposta era nulla. Assolutamente nulla.
La porta si aprì, sentì dei passi, alcuni lenti e trascinati, altri sicuri e leggermente più veloci. Percepì l’odore familiare del vecchio, evidentemente si era preso cura di lui da quando era svenuto. Insieme ce n’era un altro che non sapeva ben identificare, ma che aveva imparato a riconoscere come
(“tutti gli altri”)
un ghoul. L’aveva già sentito da qualche parte, ma aveva incontrato troppi ghoul da quando si trovava a Tokyo e non aveva perso tempo a memorizzare gli odori di ognuno. Sentì i suoi muscoli tendersi leggermente; la spalla suturata mandò un flebile lamento. Cosa aveva intenzione di fare? Perché il vecchio aveva lasciato entrare qualcuno lì dentro? I suoi pazienti o erano morti o andavano dal vecchio medico all’ospedale Kitahara, dove prestava servizio di mattina. In ogni caso doveva essere
(“mostri”)
qualcuno di cui si fidava. Decise di ascoltare e poi valutare la situazione.
“Dorme ancora. Non c’è da sorprendersi. Come ti ho già detto, ha subito uno shock emorragico considerevole e aveva la succlavia sinistra praticamente squarciata. Non cercare di svegliarlo. È molto debilitato. Ma quell’uomo non ti ha detto nulla dopo essere tornato in quel bar?”, sentì raccomandare Tokugawa.
Yomo? Allora poteva essere…
“No. Mi ha solo detto che, se avessi voluto, sarei potuta venire a quest’ora.”
Era la sua voce, era inconfondibile. Non si sarebbe mai aspettato che Touka si preoccupasse per
(“un mostro come tutti gli altri”)
lui.
“Va bene”, rispose il vecchio, “ricordati di chiamarmi quando vai via.”
Con ciò Tokugawa uscì dalla stanza.
La ragazza prese una sedia e si sedette vicino al letto in silenzio.
Kamui sorrise senza aprire gli occhi. “Te n’eri accorta, o sbaglio?”
“Muovevi così tanto le palpebre che l’avrebbero visto anche i ciechi”, rispose lei.
L’uomo si tirò a sedere e si strizzò gli occhi. “Per quanto?”, chiese.
“Tre giorni.”
“Suppongo mi abbiate licenziato.”
Touka incrociò le braccia. “Tutt’altro, mezzosangue. Hai ancora il tuo posto dietro… ma mi stai ascoltando?”
Kamui guardò il ghoul. “Sì… cioè, no.” Vide lo sguardo truce dell’altra. “Stavo cercando la mia maschera. Non la vedo, ci sono molto affezionato”, si affrettò ad aggiungere. Si portò la mano destra al collo trovando la presenza familiare della piastrina.
“Non è qui. L’ha trovata un investigatore della CCG la notte scorsa. Devi averla lasciata in giro quando ti sei fatto prendere a calci in culo”, rispose seccamente la ragazza. L’altro la guardò. Indossava un maglione nero e jeans grigi, la frangia che la contraddistingueva era al suo posto come sempre. Solo, i suoi occhi erano più leggeri nonostante lei lo stesse guardando biecamente e non c’era la minima traccia della tristezza che ricordava di aver visto più volte affiorare.
“Lo stai frequentando?” chiese per stuzzicarla.
Touka arrossì e i suoi occhi diventarono grandi come dobloni. “Co-cosa te lo fa pensare?”, balbettò imbarazzata. Era una reazione impagabile.
“Nulla in particolare”, rispose Kamui.
Nulla, certo, pensò il ghoul. Notò che il suo interlocutore stava cercando di alzarsi in piedi; gli consigliò di restare sul letto e aggiunse che non lo vedeva per nulla in forma. In effetti era così. Kamui era pallido nonostante la carnagione di per sé abbronzata, gli occhi incorniciati da occhiaie scure. Aveva i capelli neri ancora più scarmigliati di quanto lo fossero di solito. Era a torso nudo - aveva addosso solo un paio di jeans - e nulla lasciava anche solo sospettare che avesse la forza di mettere al tappeto un ispettore, tantomeno un quinx. I muscoli del torso erano appena accennati e una vecchia cicatrice frastagliata solcava la schiena dal dorsale destro al fianco. Per finire, la fasciatura celava la ferita suturata.
L’uomo barcollò leggermente, ma riuscì a tenersi in piedi. “Non posso semplicemente stare qui a non far niente, ti pare?”, le rispose, raccogliendo sulle gambe malferme la canotta insanguinata ma accuratamente piegata, probabilmente da Tokugawa.
“Idiota”, fu l’unico commento che ricevette. “Piuttosto, quella cicatrice? Non penso te la sia fatta cadendo da un albero o roba del genere.”
Il volto di Kamui si rabbuiò. “È una lunga storia.” Nella sua voce si insinuò una nota di malinconia. Valutò se fosse il caso di raccontare tutto, dal suo nome di battesimo al motivo per cui si era creato un’identità fittizia ed era fuggito in Giappone. Poi inspirò profondamente e si girò. “Ma se proprio ci tieni a conoscerla, te la racconterò. Non penso ti piacerà, ad ogni modo. Chiama Tokugawa, di là. Digli che vuole parlargli Domenico Resii.”



Allora... scusate per l'aggiornamento così tardivo, ma la scuola non mi lascia più tempo libero. Prometto che da giugno in poi tornerò ad aggiornare una volta a settimana.
Sempre vostro,
T.R.

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Capitolo 10
*** Sviluppi retrogradi ***


“Comprendi la gravità del tuo gesto? Hai sottovalutato un avversario di cui non conoscevi nulla. Saresti potuto morire”, ripeté per l’ennesima volta Sasaki. Il braccio di Urie era guarito in una notte, ma il suo orgoglio era ancora ferito nel profondo, era ancora più taciturno del solito e, fatto più unico che raro, si era assentato per un giorno dal lavoro per motivi che solo lui stesso conosceva.
Urie non rispose, nemmeno guardò il suo superiore.
Haise decise di tentare un’ultima volta di avere un dialogo, di stabilire un contatto col suo inferiore. “Kuki…”
L’altro si alzò di scatto e, prima di andarsene dall’appartamento in cui era rimasto anche troppo a lungo per i suoi gusti, lasciando il mezzo ghoul a rimuginare sulla situazione, sussurrò: “La prego di non chiamarmi per nome, signore. Con permesso.”
Arrivato alla succursale della CCG nella ventesima circoscrizione - ovvero quella a cui era stato assegnato - si recò alla sezione di ricerca sulle quinque e sui ghoul per farsene dare una nuova, magari che si adattasse meglio al suo stile di combattimento di quanto avesse fatto Tsunagi. Un tipo rinkaku sarebbe stato adatto allo scopo, o almeno così gli pareva. Ma quel ghoul… aveva avuto l’ardire di risparmiargli la vita. L’aveva oltraggiato e umiliato, e lui, Kuki Urie, era stato costretto a tornare al suo alloggio insanguinato, tremante e, peggio di tutto, derubato. Era stato derubato della sua arma preferita, ma il suo nuovo bersaglio non l’avrebbe fatta franca. In fondo, aveva la maschera di quel dannatissimo mostro. Avrebbe frugato negli archivi, più tardi. La quinque al momento era la priorità. Poi avrebbe identificato, stanato e ucciso il bastardo. Di sicuro era almeno di classe A, data la facilità con cui l’aveva sottomesso. Ma non aveva nemmeno usato la kagune. Era quello che lo faceva imbestialire. Lo aveva sconfitto a mani nude e con una gamba probabilmente rotta. Il che portava il suo livello almeno a quasi S-.
Si accorse di essere arrivato solo quando lo salutò Chigyou, il capo ricercatore nella CCG.
“Urie, proprio te cercavo. Ho sentito che non hai più una quinque.”
“È per questo che sono qui. Me ne mostri qualcuna.”
Sul volto del ricercatore si dipinse un mezzo sorriso e gli fece cenno di seguirlo. Il nuovo prototipo aveva finalmente trovato un utilizzatore per la messa a punto.
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La testa di Sasaki pulsò lievemente mentre compilava delle pratiche. Si sfilò gli occhiali e prese la radice del naso fra indice e pollice. Era stanco - era confinato da mezzogiorno in ufficio - ma doveva finirle presto, entro un paio di giorni ci sarebbe stato il raid nella tredicesima circoscrizione; inoltre, il giorno dopo non sarebbe stato al lavoro e una volta tornato fra quelle quattro mura ad attenderlo ci sarebbe stato il doppio dei documenti da controllare, eventualmente modificare e alla fine inviare alle varie sedi della CCG. E magari, verso le otto avrebbe telefonato a Sae - così si chiamava la cameriera del RE - per invitare a mangiare qualcosa insieme. La frequentava da un paio di giorni e trovava che ci fosse parecchia affinità fra loro due, gli sembrava perfino di conoscerla da una vita e chissà, forse era vero. Non era sicuro di voler ricordare dopo la crisi che aveva avuto mentre parlava col barista, però. Era spaventato da quello che aveva sepolto da qualche parte nella testa. Eppure, ne era attratto… oh, be’, continuare a scervellarsi non l’avrebbe fatto uscire prima. Inforcò nuovamente gli occhiali e riprese a battere alla tastiera del pc.
Un paio d’ore e tre pratiche più tardi, era fuori. Inspirò l’aria fredda ma inquinata di Tokyo. Non era il massimo, ma dopo una vita passata a respirarla ci si abituava; almeno, la pensava così. Sfilò dalla tasca il telefono e mentre stava per digitare il numero di Sae - gli altri quinx sapevano ormai che la sera Haise non era disponibile fino alle dieci e venti, orario che aveva strappato faticosamente a Saiko (la quale non era stata affatto intenzionata a rinunciare ai pasti che cucinava il suo “Maman”) - ricevette una chiamata. Era proprio Sae. Sorrise leggermente e pensò che se quella non era telepatia, allora nulla lo era. Rispose senza aspettare un secondo. Dopo circa un minuto di dialogo riattaccò e sospirò leggermente deluso. Quella sera Sae non poteva uscire, doveva preparare un esame da dare entro due settimane ed era molto indietro con gli studi. Però… non sapeva se veramente poteva crederci; la scusa gli sembrava forzata e la voce della ragazza poco convinta. Infine decise che non avrebbe potuto farci nulla anche se Sae avesse mentito. In fondo, si conoscevano da poco, non aveva la presunzione di voler sapere tutto di lei. Dunque si diresse verso casa, sperando anche che Urie non avesse fatto sciocchezze, anche se si aspettava che si fosse rimesso sulle tracce del ghoul di cui avevano recuperato la maschera. Si passò una mano fra i capelli, e frugò in una tasca del cappotto grigio che lo isolava scarsamente dal freddo in cerca delle chiavi per infine giocherellare con il portachiavi. Ebbe modo di notare, durante il tragitto, un vecchio manifesto per le persone scomparse affisso ad un cartello. Si fermò incuriosito e si avvicinò. Il manifesto in questione era rovinato e un lembo pendeva a nascondere parzialmente la foto. La locandina in sé non gli diceva nulla, ma in qualche modo aveva un brutto presentimento. Alzò e premette leggermente l’angolo che frusciò come contrariato che qualcuno disturbasse il suo flaccido riposo.
Il manifesto in sé non aveva nulla di speciale. In alto c’era la scritta ‘L’avete visto?’ e il numero telefonico da contattare in caso. Al centro era presente la foto di un ragazzo sorridente sulla ventina, dai capelli pel di carota e con un paio di cuffie appese al collo. In fondo, il nome.
Hideyoshi Nagachika.



Angolo dell'autore:
Okay, okay. Ci sono. Capitolo millimetrico ma volevo assolutamente aggiornare prima del compito di letteratura greca. Per quanto riguarda Sae, non penso ci sia bisogno di chiedersi chi sia o perché non abbia detto il suo vero nome. Comunque... spero che la scusa che utilizza per evitare di uscire con Haise sia fondata. Voglio dire, siamo stati ammorbati da lei che studiava per entrare all'università, sarà passata... vero? E il nostro caro Nagachika ci torna utile anche da disperso (manga). È che vuole tornare a casa... pardon. Urie mi sta antipatico, si vede tanto? Infine, TROLOLOLOL. Pensavate che avrei scritto la storia di Kamui, eh? Invece no, sono cattivo e restate senza saperlo. Gnè gnè. (?)
Sempre vostro,
T.R.
 

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Capitolo 11
*** Conflitto ***


Tutto poteva essere. Lo sapeva bene, Haise Sasaki. In fondo, quando si era dei poliziotti che uccidevano mostri antropofagi, si sapeva che tutto poteva essere. Però stavolta era diverso. Come aveva potuto dimenticare? Come era potuto succedere? Tutto gli era tornato in mente in lampo di ricordi. Tutto il dolore, tutta la tristezza, tutta la solitudine… ma anche ciò che di positivo c’era stato. I suoi occhi bruciarono non appena furono riempiti dalle lacrime e un luccicone scivolò lungo la sua guancia sinistra in un silenzioso e straziante pianto. Tutta la sua vita gli era stata nascosta e gli avevano raccontato solo menzogne. Lui stesso era un falso. Tutto era stato occultato con un cielo di vetro che ora si era rotto; le schegge trafiggevano la sua anima. Non aveva più nessuno da cui tornare. L’Anteiku era andato da un pezzo, divorato dalle fiamme. Un pensiero e un nome gli fulminarono la mente; doveva assolutamente vederla. Trasse un profondo respiro e si coprì il viso con una mano; la parte staccata del manifesto tornò a penzolare con un fruscio davanti alla foto, ormai marchiata a fuoco nella mente di Sasaki. Gli sembrò un’impresa titanica, ma riuscì a frenare le lacrime e ad asciugarsi con un fazzoletto. Ricacciò nella tasca le chiavi che aveva tenuto nella sinistra per tutto quel tempo e ne sfilò il cellulare. Selezionò l’opzione di richiamata verso l’ultimo numero che aveva contattato. Aveva riposato.[MV1] 
Touka…
 
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“… non ricordo molto del periodo di convalescenza. Sono certo che non mi ero mai sentito così bene come allora. I medici mi ammorbavano con esami periodici, sangue una volta al mese e controlli vari ogni du-”
Il racconto di Kamui fu interrotto dall’acuto squillo del telefono di Touka. L’espressione seria, quasi sofferente, dell’uomo divenne dapprima sorpresa, e immediatamente dopo un evidente disappunto si dipinse sul suo volto; Touka contrasse le sopracciglia nel constatare che era proprio Haise, che poco prima lei aveva liquidato - non senza sentirsi in colpa - a chiamarla.
Dopo un momento di esitazione, la ragazza si decise a rispondere.
“Haise, ti avevo detto che…”
Touka si zittì e strabuzzò gli occhi al punto che si sarebbe potuto pensare che sarebbero saltati via dalle orbite da un momento all’altro. Il silenzio regnò per qualche eterno secondo, infine il ghoul riprese balbettando:
“Vai alla traversa davanti al Kitahara, da lì prendi l’unico vicolo a destra dell’ospedale. Sempre dritto, ultimo seminterrato. Richiamami quando arrivi. Idiota.”[MV2] [MV3] 
Riattaccò la comunicazione e si rivolse al vecchio che non aveva battuto ciglio e che la guardava con un sorriso sornione.
“Ci sono problemi se viene qui?”
La fragorosa risata di Kamui riempì la stanza.
“Non penso, da come hai reagito non deve avere cattive intenzioni”, commentò Tokugawa. “Piuttosto, Resii… non sei in gran forma. Non sforzarti.”
Il mezzosangue scrollò le spalle in segno di disinteresse mentre ancora ridacchiava, guadagnandosi un’occhiata di astio da parte di Touka.
“Sto bene, sto bene”, rispose poi rigirandosi fra le dita la piastrina. “Comunque”, continuò, “se è partito dalla CCG della ventesima dovrebbe essere qui fra poco. Non mi va di stare al chiuso con qualcuno che non conosco. E poi, ho voglia di prendere una boccata d’aria, dopo essere stato qui dentro per tre giorni di fila.”
Kamui si alzò, imitato dagli altri. Mentre prendeva la valigetta che conteneva la quinque rubata si chiese se ci si potesse fidare di ciò che aveva sentito Touka al telefono, qualunque cosa - a questo punto chiunque - fosse.
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      Era lontano, pensò Kaneki. Perché mai Touka gli aveva detto di venire in quel posto, alle dieci di sera? Glielo avrebbe chiesto. Finalmente, dopo quella che gli sembrò un’eternità, vide l’ospedale stagliarsi sulla strada deserta. Imboccò il vicolo che gli era stato indicato per poi intravedere tre figure nell’ombra, in fondo. Una era Touka, sicuramente. Delle altre, una era bassa e curva e l’altra, alta, si poggiava ad un muro con la schiena e teneva le braccia conserte.
Dovevano averlo notato, perché la sagoma alta si era staccata dal muro.
“Ce ne hai messo di tempo, Sasaki!”, esclamò poi.
Il mezzo ghoul strizzò leggermente gli occhi; non gli piaceva per nulla essere chiamato in quel modo. Dalla voce riconobbe immediatamente il barista. Anche lui cominciava a non andargli più a genio. Specialmente se ronzava intorno a lei. Notò poi che aveva una valigetta ai suoi piedi, sicuramente la Tsunagi che era stata rubata ad Urie. Non si sarebbe mai aspettato che fosse un ghoul, né tantomeno che potesse essere abbastanza forte o abile da uscire vivo da uno scontro con un quinx. Si fece schioccare inavvertitamente l’indice destro mentre li raggiungeva in silenzio. Ora che era vicino a loro, riusciva a vederli bene. La sagoma curva che aveva intravisto poco prima apparteneva ad un vecchio con indosso un camice immacolato, che odorava decisamente di umano. Spostò lo sguardo su Touka, che lo ricambiò fissandolo negli occhi con un’espressione fra l’incredulo e l’incredibilmente felice.
“Be’, penso che sia ora di andare, per me”, affermò Kamui, “ci saranno altre occasioni per raccontare. Dottore, penso che tornerò presto per i normali controlli. A domani, Touka.”
Il modo in cui il mezzosangue pronunciò il nome della ragazza non piacque per nulla a Kaneki. Fu un momento. Senza nemmeno pensarci, prima ancora che lei potesse rispondere, sferrò d’istinto un pugno al viso di Kamui che, schivatolo fluidamente, si portò di lato a lui e poggiò la punta della lama sguainata sopra il kakuhou con precisione quasi chirurgica, per poi mormorargli qualcosa a voce troppo bassa perché qualcuno oltre il mezzo ghoul potesse capirlo. Infine ritirò la quinque nella valigetta e si allontanò nel buio della notte lasciando Kaneki e Touka soli nel vicolo - Tokugawa era tornato dentro, serafico come al solito.
E Kaneki non poté fare a meno di constatare che il mezzosangue aveva ragione.




Angolo dell'autore:
Innanzitutto mi scuso con tutti per l'aggiornamento così tardivo, ma il capitolo non voleva saperne di prendere una forma accettabile, non sono ancora sicuro delle informazioni stradali (ho provato a capire qualcosa degli indirizzi giapponesi ma mi è andato in pappa il cervello. Se c'è qualche anima pia che può spiegarmelo è bene accetto, grazie).
E, no. Non saprete mai presto la storia di Kamui. Sono cattivo <3
Sempre vostro,
T.R

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Capitolo 12
*** Facce ***


Il lento scalpiccio dei passi di Kamui sull’asfalto si fece più lieve poco alla volta mentre si allontanava, fino a morire, lasciando Kaneki e Touka da soli nel vicolo, immersi in un silenzio irreale.
“Touka… io…”, iniziò il mezzo ghoul senza avere il coraggio di guardarla negli occhi - in fondo, era appena “riapparso” dopo due anni - ma ammutolì quando Touka lo abbracciò intimandogli di stare zitto. Gli ci vollero dieci secondi per capire cosa stava succedendo; quando finalmente ci riuscì, ricambiò l’abbraccio e i due rimasero fermi così per molto tempo nel buio silenzio, che stavolta era intimo, un loro complice nella loro reciproca compagnia - e, finalmente, amore, senza più portare maschere, solo accettandosi mutuamente. Era il loro momento. Niente baci, niente parole: solo un contatto che valeva mille delle altre cose.
“Ha ragione…”, sussurrò Kaneki dopo quella che sembrò un’eternità.
Touka sciolse l’abbraccio e lo guardò interrogativa. “Cosa ti ha detto?”
Kaneki tirò un profondo respiro, poi rispose.
Nel suo monolocale, Kamui si buttò sul letto. I piani andavano cambiati, gli serviva un’altra maschera, non aveva soldi e per finire si sentiva come se fosse stato investito da un autocarro. Una cosa era certa: non era più al sicuro. Si ritrovò a chiedersi perché non avesse ucciso il ragazzo quando ne aveva avuto l’occasione. Quando se ne accorse rabbrividì inavvertitamente. Da un punto di vista logico sarebbe stata la scelta migliore; eticamente, la sua coscienza si sarebbe fatta decisamente più pesante: non si sentiva nella posizione di poter elargire morte se non in diretto pericolo per sé o per i suoi obiettivi. Era un difetto che gli sarebbe potuto costare la vita in qualsiasi momento, in un mondo violento come quello in cui i capricci del caso lo avevano buttato. Si alzò a fatica per raggiungere il bagno, che se possibile era la stanza più disordinata e insalubre dell’intero appartamento. Flaconi iniziati di alcol denaturato, bottigliette e scatole di medicine e qualche pacco di carta igienica erano disseminati su tutte le superfici disponibili, e nonostante i sanitari e lo specchio sopra il lavandino fossero relativamente puliti, un’infiltrazione occhieggiava torva da un angolo del soffitto. Ma Kamui ormai ci era abituato, aveva smesso di cercare di dare alla sua vita una parvenza di normalità da tempo. Aveva un obiettivo in mente, e solo quello lo guidava, lo definiva, tratteneva la sua sanità mentale dal dissolversi in un caos di rabbia animalesca. Ora, però, anche se gli ingranaggi avevano ripreso a girare anche troppo velocemente per i suoi gusti, qualcosa era cambiato. Voleva… vivere? Sì, probabilmente sì. Forse sarebbe stato capace di rifarsi una vita. L’idea non lo atterriva come prima.
Prese da un armadietto una busta nera per la spazzatura, la appese alla maniglia e, prima di iniziare a mettere ordine per la prima volta da quando abitava lì, lanciò un’occhiata al suo riflesso nello specchio. Ciò che ricambiò lo sguardo gli sembrò, alla luce fioca e calda della lampadina ad incandescenza, un morto. Non essendosi guardato, se ne era accorto solo ora, ma sembrava uscito da un campo di battaglia: i capelli erano scarmigliati e le occhiaie si aggrappavano sotto occhi spenti. I vestiti erano strappati in più punti a causa dello scontro con l’investigatore, in particolare, la parte della felpa che copriva la spalla sinistra era slabbrata e lasciava intravedere la fasciatura leggermente sporca di sangue.
Kamui decise che si sarebbe prima cambiato il bendaggio. Dunque si sarebbe reso quantomeno presentabile, poi avrebbe pensato all’ambiente intorno a sé. Dopo essersi tolto felpa e canotta, li buttò nel sacco e iniziò a svolgere le bende. Una volta finito, ciò che vide gli fece storcere la bocca in un’espressione di disgusto. La sutura teneva insieme i lembi arrossati e gonfi della ferita; rabbrividì quando tastò leggermente la spalla. Era bollente, dolorante e probabilmente la frizione con le bende aveva peggiorato l’infiammazione: avrebbe fatto meglio a disinfettare la ferita, anche se solo alla bene e meglio. Diede un’occhiata rapida al cellulare controllando l’orario. Aveva poco tempo. Allungò la mano destra verso un flacone d’alcol, si posizionò in modo tale che il liquido cadesse nel lavandino, aprì la bottiglia e si diede un ultimo sguardo stralunato allo specchio. Sarebbero state delle lunghe ore.
Il sole si era alzato da un quarto d’ora quando Kamui ebbe finito di cambiare la medicazione alla spalla. Il risultato era abbastanza grossolano e l’alcol bruciava ancora parecchio, ma per lo meno non pulsava come la sera precedente e non sanguinava. I flaconi ormai vuoti e le medicine che erano state giudicate inutili o scadute, insieme ai vestiti strappati e insanguinati, riempivano due gonfi sacchi neri che di lì a poco sarebbero stati scaricati malamente nel primo cassonetto incontrato per strada. L’uomo aprì l’anta di un armadietto per cavarne un tubetto di aspirine, ne tirò fuori tre e riempì un bicchiere con l’acqua del lavandino. Osservò con gli occhi appannati dal sonno perso le pastiglie sciogliersi in un turbinio di bollicine e in un flebile crepitio. Bevve in due lunghe sorsate e il liquido frizzante gli lasciò un piacevole pizzicorio in gola. Per le occhiaie non poteva fare nulla, ma avrebbe trovato una scusa quando se ne fosse presentata la necessità.
Accantonata la questione del bendaggio e del caos nel bagno, si diresse verso l’altro ambiente che componeva l’appartamento e prese un maglione e un paio di jeans puliti. Indossatili uscì e si avviò nell’aria pungente verso il RE.
Quando la porta del RE si aprì gli volò incontro un coltello che riuscì ad afferrare al volo non tanto grazie ai riflessi quanto per fortuna. Qualcuno era decisamente irritato della sua presenza. Le labbra del mezzosangue si arricciarono in un mezzo ghigno al volto tuonante di Touka e la salutò come se nulla fosse, al che il ghoul iniziò la sua infinita predica condita di insulti e offese assortiti, per poi coronare il tutto con un “idiota” che avrebbe fatto impallidire Mike Tyson.
Per tutta risposta, l’uomo fece spallucce - o per meglio dire, spalluccia, dato che l’altra l’avrebbe fatto urlare se l’avesse mossa troppo.
“Non ho forse detto la verità?”, aggiunse.
“Non hai diritto di…”
“Non si tratta di diritti”, la interruppe secco Kamui, perdendo per un attimo la sua solita allegria per fare spazio ad un’espressione granitica, “ma di un semplice consiglio. Diciamo… da amico ad amico?” Riprese il suo solito atteggiamento scherzoso. “Anche se in effetti non lo conosco poi così a fondo. Piuttosto, non dovresti giocare con questi. Potresti farmi male, sai?” Concluse con un occhiolino che gli guadagnò un’occhiata fulminante da parte della ragazza, che lasciò cadere l’argomento e iniziò a prepararsi un caffè mentre Kamui andava a cambiarsi.
I clienti sarebbero arrivati presto e qualcosa le suggeriva che sarebbero stati piuttosto problematici.



Note dell'autore.

Innanzitutto, credo sia inutile dire che non ho aggiornato né scritto per tanto, tanto tempo. Quattordici mesi sono tanti, ma quando devi mettere a posto la tua vita non c'è molto altro che sia importante. Se mi è permesso parafrasare Shinji, sono stato parecchio fucked up. Recuperando Tokyo Ghoul: re, però, mi è tornata in mente questa storia e la nostalgia si è fatta parecchio pressante, quindi ecco, 1100 parole di raccordo per ricominciare e magari intrattenervi meglio di quanto facessi prima. Per qualsiasi domanda, c'è il pm.
Quindi boh, ci si becca alla prossima.
T.R.

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Capitolo 13
*** L'uovo della capra nera ***


Si dice che il sesto senso delle donne sia infallibile. Che sia davvero così o che fosse tutto merito della fortuna - o della sfortuna, in quel particolare caso, Touka ci aveva visto maledettamente giusto. Quel giorno, in cui tra l’altro Yomo era fuori per delle oscure faccende note solo a lui, il locale pareva diventato un punto d’interesse per gli investigatori che componevano una buona parte degli avventori, già nel primo pomeriggio gli incassi erano esorbitanti rispetto al solito ma la tensione dissimulata dallo staff si stava facendo pesante; in particolare, nella schiena della ragazza si era formato un pesante nodo all’altezza delle vertebre lombari e ricordi dell’Anteiku, il vecchio caffè nella ventesima, riaffioravano di tanto in tanto. Era stato così che si era preannunciato il raid, l’altra volta. Non si erano visti, ad ogni modo, la squadra dei Quinx né il loro “mentore”, Sasaki. Kamui, dal canto suo, era contento che non ci fossero. Non aveva molta voglia di confrontarsi con il loro supervisore, men che meno con l’investigatore che l’aveva quasi dissanguato, che aveva appreso origliando qualche conversazione essere il capitano della squadra. Urie, se ben ricordava. Avrebbe dovuto essere parecchio cauto, se si fosse presentato: nonostante non potesse averlo visto in faccia quella sera e il suo timbro di voce fosse abbastanza anonimo, avrebbe potuto riconoscere il suo odore, per quanto le probabilità che l’olfatto del ragazzo fosse sensibile a tal punto fossero labili. Ringraziò internamente di non avere disinfettanti in casa e di essere stato costretto ad usare l’alcol, che aveva un odore molto più forte. Mentre si occupava di ricevere ordinazioni e di portare vassoi ai tavoli e Touka preparava le pietanze, ripensò all’avvertimento lanciatogli dalla ragazza ghoul dopo che si era cambiato. Ne parleremo di nuovo più tardi. Conoscendola, si aspettava un’altra sfuriata. Un leggero dolore localizzato della parte destra della nuca fece capolino ad unirsi a quello alla spalla. Diede la colpa al sonno perso e allo shock emorragico subito. Il mal di testa improvviso gli ricordò che la somiglianza degli eventi accadutigli di recente rispetto all’incidente che l’aveva cambiato per sempre era spaventosamente grande. Probabilmente Tokugawa gli aveva trasfuso sangue umano e il suo livello di RC era calato, dato che la ferita non era guarita in tre giorni. Il dolore crebbe leggermente d’intensità. E pensare che aveva assunto degli analgesici quella stessa mattina. Notò, mentre continuava nel suo viavai dai tavoli al bancone, che fuori tutto era molto calmo. Per quanto potesse essere strano a Tokyo che una strada potesse essere semivuota, giudicò che fosse la sempre esistente eccezione alla regola. Gli investigatori erano per la maggior parte in abiti borghesi, e sembravano conversare amabilmente. Ciononostante, aveva uno strano peso sullo stomaco, simile a quello che sentiva quando, tanto tempo prima, varcava la porta dell’università nei giorni in cui sosteneva gli esami. Una leggera ansia. La imputò al fatto di non essere abituato ad avere così tante persone potenzialmente ostili intorno; nondimeno, non diede nulla a vedere. La vita, però, quel giorno aveva in programma di giocargli un tiro mancino, come si divertiva a fare molto spesso.
Era l’orario di chiusura. Touka stava pulendo il bancone, mentre Kamui riordinava sedie e tavoli, quando l’uomo sentì gli occhi girarsi verso l’altro, prima di cadere carponi sul parquet. Nel RE calò il silenzio per pochi infiniti istanti, prima che Touka si accorgesse del mezzosangue che annaspava per terra come se avesse corso una maratona.
Tiratolo su a forza, la ragazza lo fece sedere su una sedia, nella speranza che si calmasse, agitata ed indecisa sul da farsi. Fortunatamente, così fu. Dopo pochi altri rantoli, il respiro di Kamui si regolarizzò. Affermò di stare bene, ma quando fece per rialzarsi scoprì di non riuscire a tenersi sulle proprie gambe e cadde di nuovo sulla sedia. Nonostante le proteste dell’altro, Touka riuscì a convincerlo a passare lì la notte e, dopo averlo aiutato - non senza insulti e spinte varie - a salire le scale, lo costrinse a togliersi la camicia e a mettersi sotto le coperte, prima di tornare di sotto ad occuparsi del locale vuoto e silenzioso. Decise che la chiacchierata con Kamui avrebbe potuto aspettare; dopotutto, non aveva piani per la serata: Sasaki - o, ora che aveva recuperato la propria memoria, Kaneki - non si era fatto sentire né vedere quella giornata, così lei aveva concluso che avesse parecchio lavoro da svolgere. Rabbrividì inavvertitamente al pensiero di quale “lavoro” si trattasse. Sterminare quelli come lei. Non credeva che avrebbe mai potuto abituarsi a quello. Per tenersi ulteriormente occupata e scacciare pensieri spiacevoli, decise di preparare qualcosa di leggero per il suo “ospite” al piano di sopra. La sensazione spiacevole che aveva alla schiena si intensificò un po’. Annotò mentalmente di andare da un chiropratico, quando se ne fosse presentata l’occasione.
Ora, cacciato nel letto al piano superiore del locale, lo stesso in cui aveva dormito non molto tempo prima, Kamui rifletteva su quanta sfortuna un essere umano potesse catalizzare su di sé nella propria vita. Il mal di testa era andato e la spalla pulsava poco, ma era stanco morto. La porta si aprì ed entrò Touka. Indossava una larga felpa nera e un paio di semplici blue jeans e in mano aveva un vassoio con dell’acqua che si rivelò essere zuccherata, quando Kamui si puntellò su un gomito e bevve a piccoli sorsi.
La ragazza posò il vassoio con il bicchiere vuoto sopra e si sedette su una sedia accanto al letto. Fu Kamui a parlare:
“Pare che abbia un talento per fare delle figure da idiota.”
“Sicuramente più grande di molte cose che hai”, rispose seccamente il ghoul.
“Piano con i complimenti, o potrei arrossire”, scherzò lui.
L’unico commento che ricevette in risposta fu un aspro “cretino”. Ci fu silenzio per un po’; infine gli chiese come mai si fosse sentito male.
Kamui chiuse gli occhi e piegò la bocca in un sorriso sghembo. “Una specie di effetto collaterale della mia emorragia. Le cellule RC nutrono i tessuti e ne dettano il metabolismo, quindi se il livello diminuisce drasticamente il corpo non riesce a tirare avanti a lungo senza conseguenze. In modo semplicistico, è come se annacquassi della benzina. Il motore funzionerà per un po’, ma alla fine cederà. Non mi aspettavo, però, che sarebbe successo in questo modo. Piuttosto…” Si interruppe un momento, poi continuò: “Di cosa volevi ‘continuare a parlare’, stamattina? Vuoi farmi un’altra lavata di capo per quello che ho detto al tuo innamorato?”
“Non c’era ragione di ferirlo in quel modo”, rispose Touka, stranamente calma. Il tono di voce della ragazza lo sorprese. Non trattarlo malamente non era da lei.
“Non credevo che una persona torturata, martoriata e usata come uno strumento per due anni potesse essere ferita dalla verità. A dirla tutta, credevo che non potesse proprio essere più ferita.”
“Non lo conosci. Non sai nulla di lui, e non sai nulla di quello che ha…”
“So più cose di quanto tu pensi, Touka.” La interruppe lui, serio. Tirò un respiro profondo e decise di dirle come la pensava riguardo il mezzo ghoul, anche a prezzo di creare di dissidi con lei. Ci sarebbe stato tempo di riappacificarsi, ma in quel momento sentiva che le cose andavano messe in chiaro. “Ci sono cose di cui non vado fiero. Ci sono cose e persone che ho perso. Cose che rimpiango. Ma una cosa di cui non mi pento è che riconosco una persona come lui, quando la vedo. Mi basta guardarla negli occhi. Non vuole vivere, odia se stesso. Chi odia se stesso non può fidarsi degli altri né amarli. Se proprio vuole fare qualcosa per gli altri, dovrebbe solo sparire.”
Il silenzio calò pesante sulla stanza. Touka era confusa, frustrata e triste. Kaneki era appena tornato nella sua vita, e già nuovi problemi si sostituivano a quelli vecchi. Aveva creduto che il mezzosangue potesse capire come si sentiva, ma evidentemente si era sbagliata. Si sentiva tradita da qualcuno che aveva appena iniziato a considerare un amico. Eppure, nel profondo capiva che nelle parole dell’uomo c’era del vero. Si alzò e prima di uscire e dirigersi nella propria stanza, affermò:
“Ieyasu Kamui, io ti odio.”
 
Era notte inoltrata e la luna era coperta dalle nubi inquinate di Tokyo quando una ragazza attraversò un incrocio in direzione della ventunesima circoscrizione. Aveva lunghi capelli spettinati, di un’insolita tonalità di verde, raccolti in una crocchia. Con un’espressione assonnata in volto, indossava un paio d’occhiali dalle lenti arrotondate e dei vestiti a dir poco eccentrici. In mano teneva uno spesso volume. Sulla costa della rilegatura campeggiava il titolo, scritto in un font elegante: Re Bileygr.
Venne fermata da un uomo sbucato da un vicolo laterale, seguito a ruota da un gruppo di teppistelli.
“Cosa ci fa una bella ragazza qui da sola, e per giunta di notte?”, la apostrofò arrogantemente. La donna, sulla venticinquina ma dall’apparenza molto più giovane, alzò lo sguardo verso colui che aveva parlato. Nel giro di pochi secondi tutta la banda era ridotta ad un ammasso disordinato di sangue, arti e viscere. Alla luce calda e sanguigna dei lampioni, il tutto aveva un aspetto ancora più malsano e macabro.
La donna sorrise e il suo occhio destro brillò di rosso, in contrasto con l’altro, verde.
“Stava portando un bel libro al suo vecchio amore”, rispose tutta contenta alla notte, “e ha trovato anche del cibo.”
 
Kamui venne svegliato da un gelido spiffero. L’aria gelata gli lambiva crudelmente la nuca. Strano, ricordava che fosse chiusa. Si girò assonnato sul fianco destro senza aprire gli occhi. Un odore familiare, uno dei pochi che era in grado di associare ad una persona senza avere il minimo dubbio, arrivò al suo naso. Era dolce, una nota di floreale che si univa ad un odore leggermente metallico.
Dio, no. Fa’ che non sia lei.
Aprì gli occhi. Nella penombra, seduta sulla sedia accanto al letto, c’era una ragazza dai lunghi capelli verdi e con un occhio rosso. Kamui si girò nuovamente, stavolta sulla schiena, e si tirò il braccio sugli occhi. Non poté, ad ogni modo, evitare di pensare che fosse bella; più di parecchie donne che aveva conosciuto. Scacciò stizzito il pensiero.
“Non dovresti fissare le persone mentre dormono, è inquietante”, le disse freddamente, “specialmente se fai parte di un passato da dimenticare.”
“Saluti così la tua vecchia ragazza?”, ribatté in tono condiscendente lei.
“Sto cercando di svegliarmi da quest’incubo, Eto. Non rendermi le cose più difficili.”
“Tutto questo mondo è un incubo, Ieyasu. Tu ed io lo sappiamo bene. Non era questo ad unirci?”, ghignò lei. “Ho sentito che ti sono successe parecchie cose… come dire… spiacevoli, e così ho pensato, perché non fargli visita dopo così tanto tempo? E quindi eccomi qui. ”
“Avresti potuto bussare.”
“Ma così il divertimento quale sarebbe stato? Guarda, ti ho portato una copia del mio ultimo libro, puoi leggerlo mentre ti riprendi dalle ferite. Non sei contento? Non è ancora stato dato alle stampe, sai?”
“Credevo fosse il lavoro di un editor, leggere dei lavori inediti”, replicò lui.
“Non eri dello stesso parere, un paio d’anni fa.”
“Ho cambiato idea su molte cose.”
“Eri una bestia superba”, affermò lei, con gli occhi che brillavano alla penombra scura della luna di una luce in parte orgogliosa e in parte divertita. “Distorto nella mente, ululante nella carneficina. Non posso negare di essere un po’ delusa da come sei ora. Come ci si sente ad avere una spalla rammendata?”
“Non è divertente. Ho chiuso con te, con il cambiare il mondo e le tue idiozie. Sparisci, ti prego.”
“Quanto sei cattivo”, continuò a stuzzicarlo lei, cominciando a dondolare avanti e indietro la sedia, “sarebbe davvero un peccato se, infastidita, uccidessi l’uomo con cui ho passato gli anni più scatenati della mia vita. Non credi?”
Kamui sapeva che una possibilità che la minaccia della donna, neanche troppo velata, si tramutasse in realtà esisteva. L’aveva conosciuta piuttosto bene, tempo prima. Aveva avuto con lei una relazione piuttosto turbolenta negli anni che corrispondevano alla sua vendetta contro il mondo, prima di rendersi conto che non era quello che voleva, di dedicarsi ad una vita più tranquilla e di prefissarsi un altro obiettivo, e sapeva meglio di molti altri che era violenta. Dopotutto, l’aveva riempito di botte più di una volta. Sospirò e decise di cedere, magari l’avrebbe lasciato dormire. “Darò un’occhiata al libro. Contenta, ora?”
Eto smise di dondolarsi e appoggiò il mento sulle mani. “Abbastanza”, rispose prima di fare una pausa per togliere il braccio dal volto di lui che rabbrividì ma non si oppose. “Ma c’è una cosa che mi soddisferebbe anche di più”, concluse.
Kamui la guardò di traverso, stanco. Strabuzzò poi gli occhi quando la donna gli prese il viso fra le mani e premette per qualche istante le labbra alle sue. L’odore di lei gli riempì le narici e gli riportò alla mente ricordi di un passato che si era lasciato alle spalle da tempo. L’uomo non protestò; non cercò di sottrarsi a quel contatto improvviso ed intimo, forse per la morbidezza delle labbra di lei sulle sue, o per quell’odore che trovava suo malgrado inebriante, o forse per la debolezza persistente. Non avrebbe saputo dire se quel bacio inaspettato gli fosse piaciuto o meno. Non avrebbe saputo neanche dire se stesse succedendo davvero o se fosse tutto frutto della sua mente sovraccarica di stanchezza. Si dimenticò per un attimo perfino della sua avversione per il contatto fisico.
Dopo pochi secondi che al mezzosangue sembrarono ore, Eto si alzò con un sorriso soddisfatto. “Tornerò più spesso. Ho sentito che qui il caffè è squisito. Dammi giusto il tempo di… uh, sistemare alcune questioni. Ah, riguardo alla tua amichetta… non credevo che mentire fosse uno dei tuoi hobby.” Dopo avergli rivolto un’occhiata ammiccante, saltò dalla finestra da cui era entrata e fu inghiottita dalla notte.
L’uomo, ormai solo nella stanza, ripresosi dalla sorpresa, restò a rimuginare su tutto quello che gli stava succedendo. Prima una gamba rotta, poi uno shock emorragico e un malore, e ora lei era tornata nella sua vita a tormentarlo per motivi a lui sconosciuti. Di sicuro il Gufo con il sekigan non si sarebbe scomodato tanto solo per fargli leggere un suo lavoro. Ebbe un brutto presentimento. Si passò la lingua sulle labbra e trovò che sapevano di sangue; evidentemente le era venuta fame durante il tragitto. Un uomo, decise Kamui, poteva attirarsi davvero tante, tante disgrazie.
Aria fredda gli carezzò nuovamente la testa e portò un temporaneo sollievo al suo volto bollente. Sospirò, indeciso sul da farsi e ormai insonne.
Cristo, però, pensò. Avrebbe anche potuto chiuderla, la finestra.


Author's corner:
Che dire? Ci ho ripreso la mano e puf, plot twist e lore bomb insieme. Francamente, quando iniziai questa storia, nell'ormai lontano-ma-non-così-lontano marzo 2015, non avrei mai immaginato che avrei avuto intenzione di finirla o di tirarla molto per le lunghe. Ora, però, mi erano venute parecchie idee, forse per la vista del Vesuvio o per il caldo di Napoli durante un weekend allo sbaraglio. Tante le ho scartate e rinnegate, altre però mi intrigavano. Volevo rendere il personaggio di Eto più centrale visti gli ultimi sviluppi del manga, e ho vagliato tante possibilità. Alla fine, dopo aver fatto letteralmente nottata davanti allo schermo, sono approdato a questo... risultato, se così vogliamo chiamarlo. Quindi altre idee si sono succedute e boh, spero vi piaccia. I prossimi aggiornamenti saranno abbastanza saltuari e non so cos'altro aggiungere a queste note che mi sembrano già abbastanza lunghe e noiose, quindi alla prossima.
T.R.

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Capitolo 14
*** I topi nel muro ***


Nel suo ufficio, Haise Sasaki si aggiustò gli occhiali da vista sul naso e guardò l’orario: le 15:45 del 27 ottobre 2015. Erano stati dei giorni pesanti, per lui. Non sapeva ancora cosa fare. Non sapeva ancora cosa volesse. E soprattutto, non sapeva cosa ci facesse, ancora vivo.
Le parole di quel barista, Kamui, gli tornarono alla mente, come un larva di tarlo che rode insistentemente il legno nel buio della sua cecità. Se non hai un motivo per vivere, dovresti semplicemente sparire. Era esattamente quello che aveva cercato di fare due anni prima. Quel giorno, nelle fogne…
Quel giorno volevo morire in grande pompa, pensò.
Aveva voluto mettere fine a tutto. Proprio come sua madre, che era morta di fatica. Che l’aveva picchiato ripetutamente. Che l’aveva lasciato solo, quando ancora era solo un bambino.
Quella volta, in V14, aveva voluto fare lo stesso. Proprio come il verme che lei era stato, lui sarebbe morto. Gli sarebbe stato bene. Sarebbe diventato un ricordo felice per le persone che amava. Però, aveva fallito. E dopo il fallimento, aveva fatto qualcosa che non si sarebbe mai aspettato. Aveva iniziato a desiderare. Lui, che avrebbe dovuto dare tutto per gli altri, aveva desiderato qualcosa per sé.
Prima, un nome.
Aveva scelto lui il proprio nome, Haise. Scritto con i caratteri di “caffè” e “mondo”.
Poi, aveva desiderato una famiglia.
Mado, Arima. Loro erano state le sue figure di riferimento, in quegli anni. Come dei genitori. In seguito, dopo essere uscito dalla squadra 0, gli erano stati affidati i Quinx. Li aveva considerati un po’ come dei figli. Una famiglia fasulla, lo sapeva bene, ma in qualche modo aveva funzionato. Come in un sogno, lui era stato felice.
Ora, però, ricordava. E con i ricordi, gravava su di lui una pesante confusione.
Si alzò dalla sedia per andare a prendere un bicchiere d’acqua dal boccione posizionato in un angolo. Non sapeva davvero cosa fare. Decise di richiedere un permesso per malattia per il pomeriggio. Effettivamente non si sentiva granché bene. Non che si fosse più sentito davvero bene da quando l’avevano quasi sventrato e gli avevano infilato nell'addome gli organi di una sconosciuta che lo voleva per cena.
 
Kamui si massaggiò gli occhi. Nonostante avesse un aspetto migliore di quello del giorno prima, era ancora stanco dalla crisi appena passata e Yomo, informato di quanto accaduto, gli aveva concesso una giornata libera. Ancora non si sapeva cosa fosse andato a fare durante la sua assenza, ma, aveva deciso Kamui, non era affar suo. Al suo posto, avevano chiamato un altro dipendente che, a quanto gli era sembrato di aver sentito, aveva fatto il diavolo a quattro perché ‘aveva un impegno importante’, prima di rassegnarsi a rimandarlo. Prese mentalmente nota di andare a scusarsi, quando avesse finito di raccogliere informazioni.
Era già passato da poco all’Helter Skelter, nella speranza di riuscire a ricavare qualcosa su delle dicerie di cui aveva sentito tempo prima tendendo le orecchie durante le sue ‘passeggiate’ notturne. Era incredibile quante informazioni girassero per vicoli e strade secondarie quando la maggior parte della gente dormiva. Se si sapeva dove cercare, c’era sempre traffico. Droghe, lotte clandestine fra cani, prostituzione: Kamui non si era mai soffermato a pensare quanto denaro sporco potessero fruttar quelle attività, e a dire il vero non aveva neanche intenzione di farlo. Aveva impiegato non poca fatica a trovare qualcuno che sapesse qualcosa su ciò che gli interessava, ma una volta beccati un paio di yakuza sbronzi non ci era voluto molto a farli cantare. Ci avevano rimesso qualche dente a forza di pugni e uno dei due aveva rimediato una frattura al setto nasale - probabilmente in seguito se lo sarebbe definitivamente deviato con una striscia di coca, aveva pensato - ma la storia che alla fine aveva ascoltato Kamui gli aveva permesso di dedicare più tempo alla ricerca di un lavoro. Tutto ciò si era svolto un paio di mesi prima. Buona parte delle informazioni l’aveva scartata ed etichettata come baggianate e fantasie di un ubriaco, ma la minoranza che rimaneva costituiva una sequenza di avvenimenti che si incastravano in maniera fin troppo perfetta per essere una bufala. In fondo, una volta accantonato l’impossibile, ciò che restava, per quanto improbabile, doveva essere la realtà. Aveva cercato di far leva sul periodo in cui aveva lavorato lì, ma il gestore, Itori, si era rivelata un osso duro. Non avendo molto tempo da sprecare né informazioni da scambiare, aveva deciso di utilizzare vie traverse e cercare un informatore umano. In fondo, anche se quella donna gli avesse raccontato qualcosa, avrebbe dovuto prendere qualsiasi parola uscita dalle sue labbra con le pinze. Era pur sempre un clown, voleva solo divertirsi. E nella sua vita aveva imparato che alcune persone avevano modi molto particolari di intrattenersi.
Ora, scartata Itori, si trovava di fronte ad un’altra donna, l’aveva contattata quella mattina e si erano dati appuntamento in un bar. In qualche modo, nella sua vita la compagnia femminile era una costante. La donna in questione sembrava una bambina. Seduta al tavolo, era intenta a gustarsi una coppa di gelato. Kamui aveva lasciato la sua quasi intatta, trovava quel gelato disgustoso, specialmente a confrontarlo con quello che era stato solito mangiare da piccolo. Per quanto ricordasse a se stesso che aveva pagato per avere quel cibo, non riusciva assolutamente a farselo andare a genio. Quindi, non gli restava che aspettare. Chie Hori. Si ripeté il nome del suo interlocutore per evitare di dimenticarlo. Aveva letto di lei su un tabloid, pareva che fosse una fotografa di prim’ordine e per essere una semplice freelancer aveva messo le mani su parecchi scoop. Anche su di lei giravano delle voci; nella fattispecie, una la voleva in rapporti amichevoli con il gourmet scomparso da un po’. Avrebbe testato la loro veridicità alla fine della loro conversazione.
Fu lei a strappare l’uomo alle sue elucubrazioni. “Allora, che ti serve?”, chiese puntandogli addosso il suo cucchiaino. “Che informazioni, intendo”, aggiunse.
Kamui spostò il proprio sguardo dalla finestra verso di lei. Non poté evitare di pensare che fosse davvero particolare. I suoi occhi lo scrutavano come se avesse appena notato una nuova specie di insetto.
“Sai qualcosa di V?”, chiese con naturalezza.
La donna alzò lo sguardo per pensare. Il rumore di sottofondo, il tintinnio dei cucchiaini sul vetro e le chiacchiere degli altri clienti diventò un frastuono alle orecchie di Kamui, che temette per un momento di averle rivolto una domanda inutile. Era pronto a maledirsi per aver dato ascolto a due ubriaconi, quando arrivò la risposta della freelancer:
“Ah, sì. Parecchi dicono che siano una lobby massone, ma nessuno sa veramente di chi o cosa si tratti. Pare che si definiscano ‘arbitri del caos’ e vogliano mantenere lo status quo nelle relazioni fra ghoul e umani, per potersi dedicare tranquillamente ai propri affari.”
Il mezzosangue trattenne un sospiro di sollievo e cercò di mantenere un’espressione quanto più neutra gli riusciva.
“Sai per caso se girano voci secondo cui si siano dedicati ad esperimenti… particolari?”
Sì, particolari andava bene. Per non dire disgustosi.
Chie si appoggiò il cucchiaino al labbro inferiore mentre pensava. “Ho sentito qualcosa mentre scattavo delle foto per un pulp. C’erano questi due tizi con completi neri e cappelli in tinta che parlottavano di qualche ‘fuggitivo’. Sembravano non essere esattamente innocui e ho pensato che sarebbe stato meglio sparire.” Si fermò un attimo, come se si fosse ricordata qualcosa di estrema importanza. “Hai il pagamento pattuito? Le informazioni non sono gratis.”
“Sì. Ma ho anche altro da scambiare, se ti interessa. Credo che mi avvarrò dei tuoi servizi per un po’.” Posò una mazzetta da duemila yen sul tavolo. Era arrivato il momento di giocare il suo asso nella manica. “So che un tuo amico”, continuò, “diciamo, particolare, è angustiato dalla perdita di una persona.” Di nuovo un eufemismo, pensò sarcasticamente.
Hori lo guardò con il suo solito sguardo a metà fra il vacuo e il curioso. Prese i soldi, poi aspettò per far capire all’altro di continuare.
“Mi serve che tu scopra di più su V. Tutte le voci, anche quelle che ritieni infondate. Tutte le possibili infiltrazioni. Tutti i possibili complotti. Una volta che avrò le mie informazioni, se sarò soddisfatto, ti dirò qualcosa su Ken Kaneki.” Tacque, in attesa di una risposta.
Lei annuì. “Ho voglia di un altro gelato”, affermò.
L’uomo acconsentì, pur controvoglia. Però, se quello che Chie Hori aveva detto era vero, lo cercavano ancora. Era fra due bombe pronte ad esplodere al suo minimo passo falso. Cercando di guardare il lato positivo della faccenda, considerò che aveva fatto un gran passo avanti. Aveva un obiettivo reale, anche se estremamente sfuggente. Le informazioni che aveva richiesto erano parecchio rischiose da ottenere; si chiese se quella donna così minuta sarebbe riuscita a finire il lavoro senza morire. Al pensiero di averla coinvolta si sentì leggermente in colpa, ma ormai l’accordo era fatto e non avrebbe ritrattato. Soprattutto se prolungare la conversazione con quella donna significava praticare ulteriori salassi al suo portafogli già leggero.
Separatosi da Chie, Kamui aveva un’ultima faccenda da sbrigare, e sperava che stavolta sarebbe riuscito a sfruttare una sua vecchia conoscenza nell’eventualità che i soldi non gli fossero bastati.
L’insegna del luogo in cui si era recato il mezzosangue recitava HySy ArtMask Studio. Era situato in una via abbastanza degradata, e vicino la porta c’era una vecchia Harley Davidson. Si prese un momento per ammirarne le ottime condizioni, evidentemente il proprietario le dedicava parecchia cura. Entrò.
Subito lo assalì l’odore acre della pelle conciata e delle vernici da aerografo. Cercando di ignorarlo e ringraziando che i suoi sensi non si fossero ancora riacutizzati del tutto, gettò un’occhiata all’ambiente soffusamente illuminato e disseminato di maschere in cerca dell’artista di cui aveva bisogno. Trasalì quando una mano si posò sulla sua spalla sinistra ancora ferita, mandandogli per la spina dorsale un leggero brivido di dolore.
“Come posso aiutarti, Ieyasu?”
Kamui si girò quasi di scatto per vedere una figura che i più avrebbero definito stravagante, se non di cattivo gusto. La persona di fronte a lui indossava delle scarpe strappate, un paio di pantaloni a cavallo basso e una camicia nera, sbottonata. Aveva addosso parecchi piercing e la sua testa era rasata su una tempia. Gli occhi erano neri e rossi e il suo corpo era letteralmente coperto di tatuaggi; uno in particolare, suo collo, citava in lettere greche un epigramma di Marziale: Nec possum tecum vivere, nec sine te.
Kamui storse istintivamente il naso alla scritta: per quanto fosse un dettaglio insignificante nella vita quotidiana, la sua formazione da classicista non gli permetteva di far finta di nulla quando vedeva un’omega utilizzato in luogo di una ‘v’ o di un digamma. Fu solo un momento, poi sorrise cordialmente.
“Uta”, rispose il mezzosangue porgendogli la mano destra, “ne è passato di tempo.”
Dopo essersi scambiati una stretta amichevole di mano, si sedettero in mezzo allo studio e parlarono per un po’ del più e del meno mentre il ghoul spiluccava degli occhi, uno spuntino macabro a cui Kamui non dava troppa importanza. L’aveva conosciuto tempo prima, quando non era in condizioni di permettersi un alloggio, e lui e Itori si erano offerti di aiutarlo a patto che lavorasse all’Helter Skelter. Poi la situazione era precipitata, si erano persi di vista e non avevano più avuto contatti.
Arrivati al punto, Kamui affermò di aver bisogno di una maschera nuova, al che Uta si mostrò parecchio interessato. Senza scendere nel dettaglio, il mezzosangue gli spiegò come si fosse procurato la maschera che ora aveva perduto. Quando Uta gli chiese se avesse preferenze sul design, Kamui si lasciò sfuggire che da ragazzino aveva apprezzato parecchio le maschere di Leatherface, l’assassino di Non aprite quella porta. Dopo aver preso le misure, il ghoul gli comunicò che il prezzo sarebbe stato stabilito a maschera conclusa e che poteva anche andare a sbrigare altre faccende. L’altro ringraziò il ghoul del tempo che gli aveva dedicato e tornò all’aria aperta che non gli era mai sembrata così pulita.
Avendo finito i suoi giri per quel giorno, decise di andare a scusarsi con il cameriere che aveva dovuto coprire il suo turno. Starnutì; di solito, quando succedeva, stava per accadere qualcosa di fastidioso.
Al RE Kamui fu salutato da una voce maschile.
“Salve, come posso…” Si interruppe, per poi riprendere divertita: “Ma sei quello che si è sentito male! Non vedevo Touka così incazzata da anni! Cos’hai fatto?”
Dietro il bancone non c’era niente meno che Nishiki Nishio, lo stesso che era venuto non troppo tempo prima a prendere un caffè con la sua ragazza. L’uomo più vecchio immaginò che l’impegno importante di cui aveva sentito fosse con lei. Alzò un sopracciglio, sorpreso dall’improvviso cambiamento nell’atteggiamento del ghoul verso di lui rispetto a quando si erano incontrati per la prima volta. Si mise una mano sulla nuca e sorrise.
“Ecco, in realtà è una lunga storia. Piuttosto”, si sedette al bancone, “sono venuto a scusarmi per il disturbo. Ho sentito che avevi degli impegni e che hai dovuto rimandarli.”
Nishio si dedicò a pulire dei bicchieri e gli rivolse un ghigno genuinamente divertito. “Non preoccuparti. Quando lei è così è sempre divertente ronzarle intorno.” Indicò Touka, che mentre portava le ordinazioni al bancone li fulminò entrambi con un’occhiata. Nishio sghignazzò. Kamui, leggermente a disagio, pensò che avrebbe dovuto mettere le cose a posto con la ragazza, ma sarebbe stato abbastanza difficile dopo la loro discussione della sera prima. Sospirò e si alzò.
“Mi sono ricordato di aver lasciato una cosa di sopra”, si giustificò in fretta, e salì le scale. Nella stanza ormai familiare in cui aveva dormito, trovò subito l’oggetto che cercava: il libro che Eto gli aveva consegnato nel loro ultimo - e abbastanza traumatico - incontro.
Salito nel suo monolocale, fissò la copertina. Non poteva credere di star prendendo davvero in considerazione di leggerlo. In fondo, nulla lo legava più a quella donna. Quando era stato più giovane, aveva adorato leggere, oltre ad essere un appassionato di cinematografia. Il suo autore preferito era stato Lovecraft, che con le sue storie dell’orrore l’aveva stregato, da ragazzino. Ironia voleva che il suo racconto preferito fosse stato Il modello di Pickman, in cui la componente orrorifica erano dei dipinti raffiguranti degli esseri demoniaci che si infiltravano nella vita quotidiana per uccidere e mangiare. Dei ghoul.
Ma avrebbe dovuto saperlo, lui, che come Lovecraft stesso aveva scritto ne La casa sfuggita, è raro che l’ironia manchi anche negli orrori più grandi.
Fece il passo decisivo. Aprì il volume.


Author's corner:
Stavo pensando che sono già passati tre mesi e mezzo dall'ultimo capitolo. Di questo passo finirò nel 2019, credo. O comunque, più o meno fra qualche anno. I blocchi sono sempre più frequenti e di questo capitolo non sono neanche del tutto soddisfatto, ma è stato quanto di migliore sia venuto fuori dalla mia tastiera in una notte passata a battere, cancellare, integrare, cambiare e a mordermi le mani. Detto ciò, magari le festività mi porteranno consiglio e - si spera - una ventata di ispirazione. Nel frattempo, posso sempre buttare il naso fra le pagine di un buono scritto filosofico e tirarlo fuori quando sarò troppo stanco per connettere fra loro le parole.
No?

T.R.

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