VIRUS

di WhiteLight Girl
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Sparizioni per le strade di Yokohama - prima parte ***
Capitolo 3: *** 2. Sparizioni per le strade di Yokohama (p.2) ***
Capitolo 4: *** Il corridore del labirinto (p.1) ***
Capitolo 5: *** Il corridore del labirinto (p.2) ***
Capitolo 6: *** La principessa sul ghiaccio (p.1) ***
Capitolo 7: *** La principessa sul ghiaccio (p.2) ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


VIRUS




Per Toshiaki, svegliarsi da un incubo non era mai stato così difficile. Rimase a fissare la strada davanti a lui con malcelato stupore, mentre la gente lo fissava con altrettanto sbalordimento. Gli pareva di stare ancora sognando, mentre lo stomaco spingeva a risalire in gola ciò che restava della cena della sera prima. In piedi, immobile sul marciapiede, lasciò che la gente prendesse le distanze da lui senza preoccuparsi dei sussurri e delle conversazioni sommesse tra loro.
Non sentì il rombo delle auto che sfrecciavano lì accanto se non come un fracasso indistinto, poiché troppo impegnato a concentrarsi sul battito del proprio cuore. Dopo il silenzio in cui aveva vissuto per tutta la notte, quel rumore era quasi insopportabile, anomalo.
Aveva ancora la sensazione di stare sognando, ed allo stesso tempo la certezza di essere sempre stato sveglio. Se non fosse stato per l’adrenalina che sentiva scorrere in corpo, ne era certo, sarebbe crollato a terra prima di poter anche solo pensare di chiedere aiuto.
Il suo cuore continuava a battere forte contro il suo petto, pareva che volesse esplodere, e le voci della gente cominciavano ad essere più distinte, le parole più chiare e spaventose.
«È uno di loro, ne sono sicura.»
«Allora non sono morti.»
«Hai visto come è comparso dal nulla?»
Toshiaki sapeva che il panico non serviva, che stringere il Digivice così forte non l’avrebbe aiutato. Non era stato un incubo, per lui il mondo aveva perso tutto il suo colore nel tempo di un battito di ciglia.
Le sirene delle auto della polizia, che prima erano solo un eco in lontananza, divennero sempre più vicine ed insistenti. Quando Toshiaki iniziò a pensare che gli avrebbero fatto esplodere il cervello, le due auto si fermarono poco distanti da lui ed i quattro poliziotti saltarono giù, iniziando ad evacuare l’area e ad allontanare i curiosi.
Solo uno di loro gli si avvicinò, e Toshiaki colse il suo sguardo teso sotto la visiera del cappello e le dita bianche strette attorno ad un foglio su cui non aveva voglia di sbirciare.
«Ehi, stai bene?» gli domandò, con un tremito nella voce che tradiva il suo tentativo di professionalità.
Non gli rispose, poiché non trovava la voce per farlo.
«Ragazzo, sono l’agente Hara.» riprovò il poliziotto. «Posso aiutarti, ma ho bisogno che tu mi dica qual è il tuo nome.»
Toshiaki deglutì e si fece forza, strinse i pugni per impedirsi di tremare. «Toshiaki Kitagawa.» disse, ma non era certo di avere avuto abbastanza voce per farsi sentire.
Il poliziotto controllò sul suo foglio e sospirò, poi lo sguardo gli cadde sul Digivice. I suoi occhi erano spenti, quando gli domandò, come se sapesse già la risposta: «Dov’è il tuo Digimon?»
Toshiaki ci provò, ma la risposta si rifiutò di lasciare le sue labbra nonostante premesse dietro i suoi denti serrati e contro l’interno degli occhi stanchi, Rifiutarsi di dirlo ad alta voce non avrebbe cambiato la situazione.
Kat è morto.



****


Io non so a quanti possa interessare questa fanfiction, ma voglio dedicarla a tutti i Digifan che la leggeranno, in particolare ai fan della pagina Facebook Digimon Adventure 01 – 02 Tamers Episodi, ai miei Digifan di fiducia ed a Luana che oggi compie gli anni. So che non è una Ryuki, ma spero che troverai anche qui le tue ship.
Per quanto riguarda quelli che non sono ancora fan della pagina, vi invito a cercarci ed a mettere il like <3

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Capitolo 2
*** 1. Sparizioni per le strade di Yokohama - prima parte ***


VIRUS
1
SPARIZIONI PER LE STRADE DI YOKOHAMA





Due giorni prima del blackout:

Una volta entrati nel negozio di videogiochi, Akira rimane in disparte e si preme contro lo scaffale a destra della cassa per permettere a Ryuichi di avvicinarsi al bancone. Il ragazzo di turno, alto e con i capelli scuri, inizialmente non alza neanche lo sguardo verso di lui, ma Ryuichi non sembra farci caso, perché si sporge verso di lui e pianta i palmi sul legno lucido.

«Prima che tu lo chieda, no. Non è ancora arrivato.» gli dice il ragazzo dietro il bancone.

Ryuichi richiude la bocca e serra le labbra, Akira ha quasi l’impressione che una vena sulla sua fronte si stia gonfiando e per un momento immagina esplodere la testa dell’amico, ma si trattiene e, invece, raddrizza la pila di bigliettini da visita che sta tra loro per tenersi impegnato.

Il ragazzo dietro il bancone gli fa un cenno con la testa, Akira ricambia il saluto allo stesso modo, poi solleva una mano in un gesto rapido e, prima di sentirsi troppo stupido, la porta di nuovo giù.

Nel brusio concitato del centro commerciale il silenzio tra Ryuichi ed il ragazzo appare per lui ben più che chiassoso; l’amico lo fissa dritto negli occhi.

«È previsto lo sconto, per il ritardo?» domanda Ryuichi con uno schiocco di lingua tanto irriverente che Akira già immagina il commesso che li sbatte entrambi fuori dal negozio bandendoli a vita.

«Se lo fosse saremmo in bancarotta da un pezzo.» risponde invece il l’altro piegandosi sul computer. Scrive qualcosa sulla tastiera e scruta lo schermo, quando si rimette dritto sorride, è allora che afferra una bustina di carte di Digimon dall’espositore lì accanto e la porge ad Akira.

«Questo te lo regalo io come premio per il fatto che riesci a sopportarlo.» spiega, facendo un cenno verso Ryuichi.

Akira sorride e ringrazia, lo sguardo gli cade sul cartellino del commesso, dove a caratteri dorati sono scritti il suo nome ed il cognome. Si chiama Tadao e, solo dopo un paio di secondi, Akira si rende conto che il suo cognome è lo stesso di Ryuichi. L’illuminazione arriva con tanto impeto che deve trattenersi dallo sbattersi il palmo sulla fronte per rimettere in moto il cervello, anche perché adesso la somiglianza del ragazzo con il suo compagno di classe gli appare più che palese.

«Oh, grazie!» dice, sperando che nessuno abbia notato lo scatto che la sua mano ha fatto prima che se ne accorgesse.

Ryuichi sbuffa e fa una smorfia.

«Un giorno troverò un negozio di videogiochi più efficiente.» minaccia.

Tadao gli sorride e scuote la testa. «Quel giorno mi sarò finalmente sbarazzato di te almeno al lavoro.» ribatte, poi lancia un’occhiata ad Akira e si china verso di lui per sussurrargli:

«È dal giorno in cui sono nato che lo sopporto.»

Ryuichi non ribatte e afferra il fratello per la manica, lo tira verso di sé con uno scatto. È un movimento così brusco che la testa di Tadao ondeggia leggermente sul collo.

«Posso avere uno sconto, però? Tu hai diritto allo sconto dipendenti, posso sfruttare quello.» dice Ryuichi. Sembra un incrocio tra un ordine, una lamentela e una supplica.

Tadao non si scompone, scivola via dalla presa di Ryuichi e si sistema la maglia con i palmi, Akira osserva Ryuichi incrociare le braccia.

«Potresti, ma non ho voglia di farti un favore.» gli risponde.

«Gentile come sempre.» borbotta l’amico.

Tadao stringe il pugno e gli mostra le nocche sorridendo. «Avrei potuto darti un pugno sul naso, ma non l’ho fatto.»

«Solo perché sai che avrei ricambiato e il mio destro è migliore del tuo.» ribatte Ryuichi.

Passano alcuni secondi in cui Akira inizia a temere che abbiano intenzione di picchiarsi per davvero, si chiede se debba dire qualcosa o distrarli in qualche modo, ma finisce per restare nel dubbio fino al momento in cui Tadao sospira e sbuffa sollevando gli occhi al cielo.

«Va bene, hai vinto. Ma te lo porto a casa io quando arriva.»

E quando Ryuichi gli sorride Akira riesce a scorgere la somiglianza tra i due. Solleva un sopracciglio perplesso e si domanda se davvero è tanto sbadato da non aver notato subito il fatto che, a parte il taglio di capelli ed il pochi centimetri in più di Tadao, i due siano quasi identici.

Subito dopo, visto che c’è, si trova a chiedersi perché fino a quel giorno non avesse saputo il nome del commesso con cui aveva chiacchierato di più negli ultimi mesi.

«Allora, Taninozawa, cosa posso fare per te?» gli domanda Tadao.

Akira sussulta, stupito dal fatto che conosca il suo cognome, ma gli fa un sorriso tremolante e gli risponde: «The last of us.» Lo vede tornare a digitare al pc ed aspetta in silenzio, si trattiene dal proporre di raggiungerlo dietro il bancone per aiutarlo a cercare, come ha fatto altre volte per giochi meno conosciuti, ed aspetta il responso.

Quando Tadao scivola giù dallo sgabello Akira sa già cosa significa, strofina le mani una contro l’altra e si prepara a seguirlo, attende che lui li raggiunga dall’alta parte del bancone e poi lo segue lungo i corridoi, con Ryuichi che li segue in silenzio.

«Un giorno mi farai il conto di tutti i giochi di zombie che hai a casa.» gli raccomanda Tadao.

«Sicuro.»

Ryuichi fa una smorfia; «Io non credo che tu ne abbia di meno.» lo stuzzica.

«Io ho un po’ più di varietà.» ribatte Tadao. Si ferma appena dietro la vetrina, Akira intravede la folla di persone che passeggiano nel centro commerciale attraverso i giochi in esposizione, perdendosi alla ricerca di volti conosciuti, poi Tadao gli spinge la confezione tra le braccia, lui la stringe forte a sé e sorride.





Blackout:

Inoltrarsi nel boschetto a tarda sera per restare lontani da occhi indiscreti era ormai diventata un’abitudine, lì nessuno si sarebbe preoccupato della presenza di due Digimon finché non li avessero notati e Ryuichi poteva approfittare per fumare un po’. Ogni tanto qualcuno si inoltrava fin lì, ma ci restava solo quel tanto che bastava per rendersi conto della loro presenza. Quello era il momento più divertente; quando per poco non soffocavano nella loro stessa saliva interrompendo una frase a metà e, mentre l’espressione seria veniva sostituita da occhi sgranati e labbra dischiuse, chiedevano scusa per averli disturbati. Subito dopo, di solito, correvano via prima che potessero dire loro qualunque cosa.

Allora tornavano ad essere solo lui, Ryuichi, Gottsu e Ryu, in compagnia di grilli e lucciole

Quella, per Akira e gli altri tre, era una serata tipica. Anche la sera in cui cominciò tutto avrebbe potuto esserlo.

Akira tratteneva il fiato ogni volta che una folata di vento portava il fumo nella sua direzione, la sigaretta di Ryuichi era quasi a metà mentre lui prendeva la boccata successiva. Poco dopo il fumo si disperse verso il cielo.

Con la coda dell'occhio controllava i due Digimon che erano con loro, un po’ perso mentre attendeva che l’altro dicesse qualcosa.

Pochi minuti dopo Ryuichi lasciò cadere il mozzicone per terra e premette la suola della scarpa su esso. Osservava le lucciole silenzioso, in un momento in cui chiunque altro sarebbe probabilmente rimasto ad osservare Gottsu. Due Digimon intenti a giocare, in chi non li temeva, generavano di solito un moto di tenerezza incredibile. Gottsu sarebbe stato uno di quelli, probabilmente, se non avesse avuto quegli occhi sgranati mentre era chino con la mano tesa e il palmo in su, pronto ad acchiappare e stritolare la prima lucciola temeraria che avesse provato ad avvicinarlo. Ne aveva prese già molte, Akira non ne era mai stato particolarmente entusiasta ma non ne aveva mai detto nulla e, visto che Ryuichi non aveva mai detto nulla al riguardo, continuava a tacere e distogliere lo sguardo quando lo sterminio iniziava.

Gottsu non era un Gottsumon cattivo, lo sapevano sia Akira che Ryu, che avevano capito da tempo che quello per lui era un gioco e che probabilmente non sapeva che fossero vive, probabilmente si chiedeva solo perché brillassero al buio e voleva capire come funzionassero, non spettava a loro fermarlo. A volte Gottsu faticava a capire le cose, ma non era colpa sua.

Akira guardò Ryuichi, ora era intento ad osservare il Digimon con sguardo mesto e capo chino, gli occhi affilati in quell’espressione indecifrabile che riservava solo ad alcuni atteggiamenti strambi di lui.

Un botto in lontananza li fece sussultare, Akira si domandò cosa avesse causato quell’unico rumore proveniente dalla città, così distante dall’ultimo suono di clacson che aveva sentito che si chiese se non si fossero fermati tutti all’improvviso.

Ryuichi, al suo fianco, era silenzioso. Non si era mosso di un centimetro, ma ora il suo sguardo era perso mentre spingeva le mani nel fondo delle tasche della giacca.

Solo allora Akira si accorse che il rumore delle foglie scricchiolanti sotto il peso della scarpa erano l'unico suono rimasto nel sottobosco. Perfino Grilli e cicale sembravano essersi zittiti all'improvviso. Probabilmente, pensò, era colpa del Gottsumon di Ryuichi e dei suoi grugniti; quegli spezzoni di parole incomprensibili e gli scatti improvvisi dovevano aver spaventato ben più di qualche insetto. Eppure da un Digimon di roccia come lui non si sarebbe aspettato nulla di diverso.

Si stava chiedendo cosa avrebbe potuto dire, quando Ryuichi si riscosse e si voltò a guardarlo. «Davvero non vuoi tornare in quel locale?» gli domandò senza preamboli.

Akira sbuffò, strofinò un piede per terra e smosse un mucchietto di foglie secche ed umide che si era accumulato sotto l’albero a cui era appoggiato. Non era la prima volta che Ryuichi glielo chiedeva, il discorso usciva sempre fuori all'improvviso.

«Sento già abbastanza il chiasso della mia testa, non me ne serve altro.» rispose. Ripensò all’aria viziata ed al tepore di quella specie di discoteca in cui l’amico l’aveva portato il mese precedente e storse il naso al pensiero della musica ad alto volume.

«Alcune cose non fanno per me, il chiasso e la gente sono una di quelle.» rispose.

Ryuichi mugugnò e batté la mano su una radice, Gottsumon si voltò verso di lui ma, dopo essere rimasto a fissarlo per un po’ con la testa inclinata, distolse lo sguardo e calpestò qualcosa nella sterpaglia.

«Al comics però ci sei andato.» si lamentò Ryuichi. Sollevò un sopracciglio e tese il collo, che schioccò con un sonoro “tac”.

Akira scrollò le spalle, improvvisamente travolto dalla voglia di sgranchirsi le dita, così spinse le nocche della mano contro il fianco finché non schioccarono tutte.

«Quello è un tipo di chiasso diverso. È un chiasso più piacevole.» rispose, pur sapendo di non poter esprimere a parole quello che pensava al riguardo se prima non avesse avuto davanti carta, penna ed almeno un paio d’ore per poter pensare a come esporre il tutto al meglio.

Ripensò a quelle enormi sale ricolme di persone in costume, agli incontri con gli autori ed alle anteprime dei videogiochi; c’era qualcosa in quel mondo che gli impediva di essere davvero disturbato da quel chiasso, poiché tutto diventava un brusio di sottofondo mentre lui chi era con lui vivevano un’avventura.

Ryuichi interruppe il flusso dei suoi pensieri tirandogli un leggero pugno sul braccio. «Hai già pensato al prossimo cosplay?» gli domandò.

Akira era grato del fatto che non insistesse mai troppo sul portarlo in posti che non gli piacevano, così come lo era del fatto che lui si fosse detto disponibile, seppure controvoglia, ad accompagnarlo ai suoi comics.

«Ovvio.» Rispose.

Davanti a loro i due Digimon sguazzavano nella semioscurità e perfino nella penombra i due non potevano risultare più diversi; il loro modo di approcciarsi e muoversi nell’ambiente dava l’impressione che fossero un ragazzino alle prime armi ed un adulto responsabile costretto a tenerlo d’occhio.

Gottsu seguì una lucciola con sguardo perso, mentre Ryu lo guardava corrucciato, forse in attesa di vedere cosa avesse in mente.

«Facciamo gruppo?» chiese ancora Ryuichi.

Akira non riuscì a trattenere un sorriso e lo guardò distrattamente. «Non mi dispiacerebbe.» gli rispose, poi vide Gottsu accovacciarsi e strizzare gli occhi per lo sforzo. Si domandò cosa gli fosse preso, ma Ryuichi precedette ogni sua azione alzando la voce.

«Ehi! Gottsu!» gridò.

Lui si allungò, incespicò e ruzzolò in avanti nel maldestro tentativo di spiccare un salto, per poi finire con il muso per terra. Sollevò la testa subito dopo e lo guardò con una smorfia. «Ehi! Ryuichi!»

Il ragazzo sospirò. «Attento a non farti male.» si raccomandò.

Gottsu guardò in alto e fece un giro su sé stesso, seguì senza sbattere le palpebre qualcosa che forse si stava muovendo sopra di lui.

«Credi che ti darà retta?» domandò Akira a Ryuichi. Non riusciva a staccare gli occhi da quel bizzarro Digimon dall’aria svampita. Gottsu tese la mano e chiuse il pugno come per afferrare qualcosa, poi la portò davanti al volto e la riaprì lentamente. Da dov’era, Akira non riusciva a vedere se fosse riuscito a prendere qualche insetto.

Ryuichi scrollò le spalle. «Lo spero»

Akira lo guardò, ma lui scrutava ancora i due Digimon che scivolavano sull’erba umida. La luce della luna si era spenta da un po’ e si rese conto solo in quel momento di quanto buio fosse diventato. Sollevò gli occhi per controllare che le nuvole non portassero pioggia, ma attraverso le fronde dell’albero il cielo appariva come una superficie uniforme ed incolore tendente al nero. Riportò lo sguardo su Ryuichi, che inspirò forte e poi si rilassò, stiracchiandosi.

«Credo che se avesse tutte le rotelle a posto non riuscirei a sopportarlo ventiquattr'ore su ventiquattro, comunque. Vedo com’è Ryu con te, non reggerei un Digimon così saccente.»

Akira gonfiò il petto e si imbronciò. Incrociò le braccia e, con un’occhiata che sperava essere abbastanza ammonente, gli disse:

«È comodo, quando devo fare i compiti a casa.»

La curiosità e la saggezza erano sempre stati il tratto caratterizzante di Ryu ed era risultato chiaro fin dal momento in cui l’aveva conosciuto, ormai non si stupiva più di quanto fosse riuscito ad imparare sul Mondo Reale da quando ci era arrivato. Talvolta qualcuno scherzava sul fatto che sembrava la versione Digimon del Detective Conan, per via dei suoi costanti “L’ho visto in un documentario in tv.” o “L’ho letto su una rivista scientifica.” ed Akira non poteva negare che a volte aveva la sensazione di essere sotto osservazione e che Ryu fosse pronto a sgridarlo per ogni bambinata. Purtroppo per lui, di bambinate finiva per commetterne parecchie e le lavate di capo arrivavano puntuali prima che potesse rifugiarsi in un angolo a leccarsi le ferite.

Ryuichi rise così forte che si piegò all’indietro e finì quasi per sbattere la testa contro la corteccia. «Facciamo che vengo a studiare da te, per il compito della prossima settimana.» propose. Si sfiorò la punta del naso con il pollice e tese l’altro braccio. Il gomito schioccò ed Akira rabbrividì. Sembrava che l’amico avesse sempre qualche parte del corpo da schioccare.

Gottsu gemette, attirando la loro attenzione, agitò le braccia per restare in equilibrio e poi cadde all’indietro muovendo le gambette rocciose.

Ryuichi ebbe un sussulto ed emise un gemito strozzato, le spalle cadenti ed il capo chino, Akira pensò che se avesse dovuto tracciare la rassegnazione di un personaggio in una delle sue storie l’avrebbe descritto esattamente in quella maniera.

«Bella botta.»

«Spero che sia ancora intero.» commentò Akira.

L’amico si avvicinò al Gottsumon e lo afferrò di peso per rimetterlo dritto, quasi come un padre avrebbe fatto con il figlioletto che è appena scivolato giocando, poi aspettò di assicurarsi che riuscisse a reggersi sui suoi piedi prima di lasciarlo andare.

Ryu, dall’altra parte, lo sorresse con le grosse zampe pelose, i suoi occhioni severi tradivano una certa preoccupazione sotto l’elmo lucido. «Magari gli sono tornate le rotelle a posto, ammesso che ci siano mai state.» disse.

Akira dovette coprirsi una mano per trattenere una risata, Ryuichi si voltò riprenderlo. «Non ridere.» poi tornò a prestare attenzione a Gottsu. «Qual è il problema?» gli chiese. Anche se Gottsumon cadeva spesso Ryuichi non aveva perso l’abitudine di chiederglielo, anche se il più delle volte non otteneva alcuna risposta.

Il Digimon fece girare la testa in cerchio, quasi come se facesse fatica a mantenerla ferma sopra al piccolo collo. «Puzza.» disse.

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Capitolo 3
*** 2. Sparizioni per le strade di Yokohama (p.2) ***


Akira dovette coprirsi una mano per trattenere una risata, Ryuichi si voltò riprenderlo. «Non ridere.» poi tornò a prestare attenzione a Gottsu. «Qual è il problema?» gli chiese. Anche se Gottsumon cadeva spesso Ryuichi non aveva perso l’abitudine di chiederglielo, anche se il più delle volte non otteneva alcuna risposta.

Il Digimon fece girare la testa in cerchio, quasi come se facesse fatica a mantenerla ferma sopra al piccolo collo. «Puzza.» disse.




VIRUS
2
SPARIZIONI PER LE STRADE DI YOKOHAMA (p.2)





Tutte le volte che Akira aveva visto Gottsumon fare così c’era stato un Digimon di mezzo. Era come se qualcosa nella sua testa scattasse ed avesse bisogno di comunicare a chi era con lui che non erano più soli e, forse, anche che non era certo se fosse amico o nemico. Quando accadeva si agitava finché il Digimon avvertito non si palesava e dimostrava le sue intenzioni.

Akira portò una mano alla cintura e premette le dita sul Digivice, un’abitudine che con il tempo ognuno di loro aveva preso e che non riuscivano a togliersi, data dalla sicurezza che in caso di attacco sarebbero stati pronti a difendersi. Ryuichi, al suo fianco, fece la stessa cosa.

Si strinsero l’uno all’altro, anche restare uniti era un riflesso comune, sapevano bene che non essere soli era un vantaggio, e Ryu inclinò il capo e tese la zampa verso Gottsu.

«Cosa puzza?» gli domandò.

Gottsu non rispose.

«Cosa puzza?» chiese ancora Ryu.

Akira percepì Ryuichi irrigidirsi al suo fianco, poi tendersi verso il proprio Digimon, che afferrò Ryu per le zampe e lo scosse. «Quello che puzza!» esclamò Gottsu.

Akira non aveva idea di come fargli comprendere il fatto che questo non spiegava assolutamente nulla. Guardò Ryu, che aveva il muso sollevato ed annusava forte l’aria. Lo imitò, scoprendo di non sentire né la puzza di cui Gottsu parlava, né tantomeno il profumo frizzante caratteristico del parco di notte.

Lui e Ryu si scambiarono uno sguardo, il Digimon scosse la testa e Akira scrollò le spalle in risposta, fu allora che vide entrambi i Digimon scattare di colpo sull’attenti e mettersi all’erta. La mano era ancora stretta attorno al Digivice.

«Non sento nessuna puzza. Sento dei rumori, però.» disse Ryu. Akira gonfiò le guance e tese le orecchie, certo che c’erano dei rumori, visto che si trovavano in un parco nel centro della città; grilli e cicale innanzitutto, poi non si poteva sfuggire ai suoni della città, alla musica dei locali, ai rombi del motore delle auto, alle sirene della polizia. Solo che quei rumori erano assenti, non c’era neppure il fischio del vento.

C’erano dei mugugni, dei sospiri, dei singulti strozzati e dei ticchettii tanto lievi quanto vicini a dove si trovavano loro, ma erano gli unici suoni che Akira riuscisse a sentire nella notte. Si diede dello stupido per non avere notato nulla di tutto ciò fino a quel momento, persino i loro respiri erano rumorosi come lo scoppio di un cannone.

Ryu si rizzò sul posto, gli occhi fissi verso il limitare del boschetto, dove i cespugli nascondevano loro da chi passeggiava per il parco ed il viottolo ai loro occhi.

«Vado a controllare» disse. Akira si affrettò a seguirlo, tese il braccio per fermarlo, ma il Digimon lo precedeva già di qualche metro.

«Ryu, stai attento.» si raccomandò.

Lui ribatté senza voltarsi: «Lo sono sempre.»

Si fecero largo a bracciate tra la sterpaglia, Akira rischiò un paio di volte di inciampare sulle radici e scivolare sul muschio fresco, Ryuichi li accompagnò senza esitazione, stringendo il braccio di Gottsu per tenerlo in equilibrio e non perderlo.

Le foglie e l’erba secca scricchiolarono sotto i loro piedi; si erano allontanati dal viale quel tanto che bastava per non essere visti, ma la strada per uscire dal boschetto gli parve ancor più breve. Seguirono i grugniti fino al piazzale e, prima di poggiare i piedi sul sentiero, scorsero il gruppo di Digimon ammucchiati alcuni metri più in là.

Nonostante la luce del lampione li colpisse in pieno Akira fece fatica a distinguerli gli uni dagli altri, perché loro si spingevano a vicenda, si aggrappavano e graffiavano facendo scattare le mascelle come molle per azzannare qualcosa che era intrappolato nel mezzo. Akira non riusciva a capire di cosa si trattasse, i Digimon erano un unico grumo confuso, i loro corpi si contraevano ed i loro muscoli guizzavano mentre loro si tendevano in avanti.

Fu solo quando dal centro del gruppo si liberò un grido di dolore che riuscì a intravedere la figura intrappolata nel mezzo, troppo oscurata dagli altri per essere riconosciuta.

Akira storse il naso e strizzò gli occhi, una sensazione di inquietudine gli montò dentro e gli fece tremare le ginocchia. «Ehi!» gridò, ma i Digimon parvero non sentirlo, allora Ryu corse loro incontro e ne spinse via due, Akira allontanò gli altri con due calci ben assestati.

Una volta libero, il Gabumon che fino ad allora era rimasto rannicchiato tra gli aggressori non sembrò poi così piccolo; aveva tracce di morsi sulle braccia e sul muso, segni dei denti marcati dove la pelle si dissolveva a tratti per poi ricomporsi.

Finalmente Akira riuscì a vedere che Digimon fossero gli altri, i cinque Agumon ringhiavano con lo sguardo spento; due di loro si accucciarono e si tesero verso Ryu, Gottsumon prese una rincorsa e spinse via uno di loro con una testata, lo sbatté contro uno degli altri e li gettò entrambi a terra. Gli altri tre continuavano a guardare il Gabumon, allora Akira strinse i pugni pronto a difenderlo, ma Ryuichi lo precedette colpendone uno alla testa con un ramo.

«Si può sapere che cazzo vi prende?» domandò, ma loro lo ignorarono.

Akira li guardò ad occhi sgranati mentre loro cercavano di aggirare Ryuchi per raggiungere Gabumon, allora lo afferrò e lo trascinò via da loro, verso il punto da cui erano sbucati appena pochi secondi prima, e lo adagiò sull’erba. Il Digimon gemette tra le sue braccia e dischiuse il muso rantolando.

Ryuichi agitò il bastone per tenere lontani altri due Agumon, poco distante Gottsu e Ryu cercavano di non farsi mordere dagli altri, che schiudevano le mascelle e tendevano i musi verso di loro di continuo.

Akira corse da loro, afferrò uno degli Agumon alle spalle, lo immobilizzò per le braccia e si voltò verso Ryu, lo strinse forte per non farlo scivolare dalla sua presa ed impedirgli di azzannare Ryu, ma quello continuava imperterrito a provare, come se a muoverlo fosse solo il puro istinto di azzannarlo.

Parte della mente di Akira, quella più ragionevole, si diceva che doveva esserci una spiegazione perfettamente razionale per ciò che stava vivendo, l’altra continuava a ripetergli “Zombie” all’infinito proprio nell’orecchio, cancellando ogni altra ipotesi.

«Colpiscilo.» disse a Ryu, ma lui esitò.

«Non voglio fare male ad un Digimon innocente.» rispose lui. Akira strinse la presa, scrollò l’Agumon e insisté: «Ti pare innocente?»

Ryu fece per rispondere, ma Gottsu si frappose fra lui e il Digimon e caricò un pugno.

«Hardest Punch!» gridò. Colpì il Digimon in pieno petto, la forza del contraccolpo scagliò lui e Akira per terra facendoli scivolare sul lastricato. Il Digimon si dissolse tra le braccia del ragazzo, lasciandolo steso sul selciato, dolorante e a mani vuote.

«Ow.» gemette Akira. Rotolò sulla pancia e premette una mano sui ciottoli per spingersi in piedi, vide Ryu ringhiare contro Gottsu.

«Ehi! Quello è il mio domatore!» disse Ryu. Aveva i denti scoperti, il pelo ritto sulle zampe mentre era chino in avanti in posizione d’attacco.

Gottsu, invece, parve non avvertire la sua rabbia.

«Mio domatore!» ripeté.

Guardò Ryuichi senza degnare Akira neanche di uno sguardo, poi passò oltre e si scagliò contro il più vicino degli altri Agumon, questo diede ad Akira il tempo di scambiare un’occhiata con Ryu, che sbuffò. L’altro Agumon gli si stava avvicinando piano, le zampe tese, pronto ad artigliargli le spalle, Ryu si voltò e lo colpì forte, bastò quello a distruggerlo, poi Gottsu eliminò gli altri tre con altrettanta facilità.

Rimasero fermi nel piazzale per qualche secondo, a riprendere fiato ed a godere del silenzio e della pace ritrovati, i cuori che battevano forte pompando il sangue nelle orecchie. Erano stanchi, carichi di adrenalina ed incapaci di riordinare il flusso dei pensieri che scorrevano in pieno caos nelle loro teste. Si lanciarono attorno diverse occhiate, il timore che qualcos’altro potesse spuntare dall’ombra era latente e poi c’era quello strano silenzio, quella oscurità che, oltre la piccola oasi in cui si trovavano, pareva avere ingoiato la città.

Il Gabumon gemette sofferente, riportandoli inevitabilmente alla realtà, Akira si inginocchiò al suo fianco e gli strinse la zampa, tutti aspettarono che riuscisse a dire qualcosa. Lo videro stringere denti e palpebre e cercare di rannicchiarsi su sé stesso, incapace di gestire il dolore. Non sembrava avere la forza per continuare ad esistere e Akira lo percepì perdere consistenza sotto la sua stretta. Spinse i palmi contro la sua pelliccia ruvida per fargli sentire la sua presenza, come se questo potesse aiutarlo a non crollare, Gottsu gli posò una mano sul capo, Ryu scivolò più vicino e Ryuichi strinse i pugni. Akira avrebbe voluto scusarsi per non essere arrivati prima a salvarlo, per non essere riusciti a percepire prima il pericolo, ma sapeva che non avrebbe avuto senso. Vide i dati di lui oscillargli attorno al corpo, la sua forma dissolversi a tratti per poi ricomporsi, lo vide strizzare gli occhi per lo sforzo di non cedere e stringere la mascella in preda al dolore.

Forse, pensò per un momento, non si dissolverà.

Il Gabumon ebbe un fremito, riaprì gli occhi e li guardò, ma in quel momento il suo fu lo stesso sguardo degli Agumon che avevano affrontato poco prima. Si sporse in avanti per mordere Gottsu, Ryuichi scattò in piedi ed arretrò trascinandosi dietro il suo Digimon, Ryu lo colpì prima che Akira potesse rendersi conto di quello che era accaduto. I dati del Gabumon si dispersero davanti agli occhi sgranati del ragazzo mentre il cuore tornava a battergli in gola ancora più forte di prima.

Ryuichi rimase fermo al suo fianco, tremante, stringeva il suo Gottsumon tenendolo sollevato da terra, lui non protestava.

«Che cazzo è successo?» domandò

Akira deglutì, ciò che aveva visto era come impresso nella sua mente, rivide quelle immagini sovrapposte a ciò che aveva davanti in quel momento, risentiva quei gemiti e quei grugniti mentre il suo cervello ne riportava altri alla memoria.

«Io non vorrei dire qualcosa di stupido, ma…» iniziò. Non concluse quel pensiero, non ce n’era bisogno, aveva visto decine, se non centinaia di film dell’orrore in cui troppo tardi si riusciva a capire cosa esattamente stesse succedendo. Non erano in uno di quei film, pensarci sembrava folle, essere arrivati subito a quella conclusione avrebbe potuto essere la ragione più grande per accantonarla.

«Non dirlo. Non dirlo neanche per scherzo.» disse Ryuichi, ma la testa di Akira continuava a ripetere “Zombie” ancora più forte di prima.

Fu Ryu a riportarlo alla realtà con una pacca sulla spalla.

«Togliamoci da qui.» disse.

Ryuichi annuì, pallido in volto, e mise giù Gottsu. «Andiamo a casa mia.» propose.

Akira seguì lui e Gottsu fuori dal parco, in strada non trovarono nessuno. La mancanza di sangue e cadaveri lo costrinse a trattenere la fantasia; senza alcuna traccia di zombie e morte di certo la risposta a ciò che stava accadendo doveva essere un’altra. Eppure, solitamente, quella era una strada trafficata, c’erano sempre decine di auto parcheggiate accanto al marciapiede, più i motorini dei ragazzi che si appartavano nel parco o nei dintorni. Era tutto svanito, o almeno così sembrava mentre i quattro camminavano fianco a fianco ben attenti a non lasciarsi sfuggire il minimo rumore. E presto fu sicuro che non c’era alcun respiro a parte i loro, nessun passo di un piede o una zampa fuori dal loro gruppo, nessuna luce che provenisse dalle case e dai locali più vicini a loro o da quelli più lontani.

Nonostante passassero la maggior parte delle loro serate lì nei dintorni, non si erano mai addentrati nei locali che circondavano il parco, quasi non ne conoscevano neppure la posizione.

Camminando, Ryu si sporse per scrutare dietro ogni angolo, la città sembrava spaventosa e opprimente.

Si tennero distanti dall’ombra delle fronde, per timore che qualcosa potesse saltar fuori ed aggredirli, le stelle nel cielo sembravano essersi spente, non c’era più traccia della luna o delle nuvole e la solitudine di quel paesaggio familiare così diverso dal solito sembrava quasi irreale, ma per fortuna il cielo si era schiarito rendendo visibile la strada davanti a loro in quella che altrimenti sarebbe stata un’oscurità totale. Era come se il sole stesse sorgendo, o forse come se fosse appena tramontato, tingendo tutto di quel blu chiaro che in una giornata normale avrebbe lasciato presto il posto alla notte.

«Credi che dovremmo vedere se le persone in giro stanno bene?» chiese Akira. Ripensò a suo fratello, ai propri genitori, a tutte le persone che conosceva e che forse in quel momento si trovavano nella sua stessa situazione, sole e sperdute, senza la minima idea di cosa stesse accadendo a Yokohama.

Gottsu gli lanciò un’occhiata confusa. «Quali persone?»

Fermandosi sul marciapiede, Akira deglutì e guardò, solo per abitudine, a destra e sinistra prima di attraversare, poi corse dall’altra parte della strada. E picchiò forte sulla porta del primo locale che si trovò davanti. Nessuno gli rispose e quando cercò di aprirne la porta quella rimase bloccata come se fosse incollata alla parete.

Ryuichi provò nel tabacchino accanto, l’unico posto in cui, una volta, era riuscito a trascinare Akira per acquistare un pacco di sigarette. Restarono tutti e quattro in silenzio mentre dischiudevano la porta e sbirciavano all’interno.

Rimasero sorpresi nello scoprire che le luci erano accese e gli scaffali carichi di merce anche se nessuno era dietro il bancone per venderla.

«Vuoi vedere il retro?» domandò Akira a Ryu.

Lui scosse il capo e annusò l’aria. «Qui non c’è nessuno, è come se non ci fosse mai stato. Non sento nessun odore.»

Akira vide Ryuichi grattarsi il mento, confuso quanto lui. Per un momento ebbe la tentazione di alzare la voce per chiamare qualcuno, chiunque potesse rispondere, solo per vedere se avrebbe avuto risposta. Un’idea simile, in un film, non avrebbe funzionato nel modo sperato.

«Togliamoci dalla strada.» disse Ryuichi.

Ad Akira parve subito una buona idea, annuì e prese fiato mentre realizzava che l’unica volta che era entrato in quel posto era rimasto colpito dal miscuglio di profumi di caramelle e tabacco che ora sembrava totalmente scomparso.

Seguì Ryuichi di nuovo in strada e sia lui che i due Digimon dovettero alzare il passo per stargli dietro.

«Dovremmo aspettare domani, per muoverci.» disse Ryu.

Ryuichi lo ignorò, non era mai stato bravo ad accettare ed ascoltare i consigli. Si spostarono nella corsia centrale, visto che nessuno sembrava essere lì per investirli, e camminare vicino a porte e finestre dietro cui avrebbe potuto nascondersi qualunque cosa non sembrava la migliore delle idee.

«Hai mai visto quel film in cui tutti spariscono e restano solo quei pochi che erano illuminati durante il blackout?» chiese Akira. Passò una mano tra i capelli e tossicchiò. «Cioè, mi sono spiegato da schifo, comunque hai capito di quale parlo, vero?» Ryuichi annuì a capo chino.

«Le luci sono accese.» gli rispose.

«Sì, ma la gente è sparita comunque.» gli fece notare Akira.

Ryuichi fece schioccare la lingua, così Akira si sforzò di restare in silenzio e sfilò il telefono dalla tasca posteriore dei pantaloni. Tentò di sbloccarlo, ma lo schermo rimase nero e non diede segni di vita.

«Morto.» concluse.

Ryuichi afferrò il suo e lo controllò. «Anche il mio.»

Akira non era mai stato a casa di Ryuichi, quindi dovette seguirlo senza fare domande fino a quando abbandonarono le strade principali per infilarsi in uno dei quartieri di villette indipendenti. La strada si strinse e la luce dei lampioni iniziò a proiettare a tratti le loro ombre sull’asfalto. Tutte le luci delle case che avevano davanti erano spente, a parte quelle di una. Distava diverse decine di metri, era quasi prima dello svincolo, Ryuichi puntò dritto verso quella, alzando il passo e quasi rischiando di seminarli.

Akira lo seguì, con Ryu e Gottsu alle calcagna, e Ryuichi dischiuse il cancelletto ed attraversò il vialetto con la chiave in mano. Una volta che ebbe aperto la porta principale, Akira e gli altri l’avevano raggiunto.

Come accadeva spesso, nella testa di Akira si avvicendarono gli scenari più assurdi, nella maggior parte di quelli venivano aggrediti appena varcata la soglia da un mostro nascosto nell’armadio accanto all’ingresso.

«Troppo comodo che sia l’unica casa accesa, giusto?» domandò a Ryuichi. Appena varcata la soglia guardò immediatamente nella direzione in cui aveva immaginato essere l’armadio, trovandovi solo uno specchio ed un portaombrelli in cui avrebbe potuto nascondersi solo un gattino.

Mi faccio davvero troppi filmini mentali. Si disse. Ma il pensiero di un ipotetico gattino mannaro rimase impiantato nella sua testa come un seme in attesa di germogliare. Magari ci scrivo una storia, ma ora non è il momento di pensarci. Mise da parte l’idea, trovandola immediatamente e totalmente fuori luogo.

Il corridoio che avevano davanti portava alla scala per il piano superiore e voltava a sinistra subito dopo una porta chiusa.

«Qui c’è qualcuno» gli disse Ryu.

Ryuichi, che stringeva ancora il ramo con una mano, lo sollevò e lo strinse avanzando e tendendo le dita per afferrare il pomello ed aprirlo, ma appena prima che riuscisse a sfiorarlo la porta si spalancò e lui urlò, calando il ramo per colpire qualunque cosa ci fosse dall’altra parte.

Akira percepì il movimento rapido, indietreggiò e registrò l’immagine che aveva davanti con qualche frammento di secondo di ritardo, quando riconobbe Tadao ebbe il dubbio che Ryuichi l’avesse colpito, ma poi realizzò che lui aveva strappato dalla mano del fratello il ramo con un gesto stizzito. Ora li guardava perplesso.

«Che cavolo t’è preso?» gli chiese. Aveva gli occhi arricciati e tratteneva malamente una risata. «Pensavi che ci fossero entrati i ladri in casa?»

Ryuichi gli diede uno spintone, lo afferrò per il colletto e lo strattonò.

«Stavo per ammazzarti.» gli disse.

Poi Tadao colpì Ryuichi alla testa con una manata. «T’ammazzo io se non mi dici che t’è preso.» ribatté.

Akira inspirò forte, non era ancora successo nulla di irreparabile, a parte la morte del povero Gabumon e ciò che era successo agli Agumon, e trovare qualcun altro, anche se si trattava di una sola persona, lo faceva sentire meglio ed anche un po’ stupido, per via dei pensieri che aveva avuto.

Davanti a lui, Ryuichi batté il piede per terra e spalancò le braccia come a dire “Ecco! Succede tutto! Non vedi?”.

«Non hai visto fuori che cavolo sta succedendo?» domandò. Tadao lo fissò. «Visto cosa? Giocavo ai videogiochi in camera mia, prima che mi si sfasciasse tutto.»

Guardò Akira ed inclinò il capo, poi spiegò pazientemente: «Pensavo se ne fosse andata la corrente e sono andato a controllare, ma le luci si sono accese.»

Ryu guardò Akira di sottecchi. «Solo in questa casa.»

Tadao incrociò le braccia, scettico.

«Davvero?» chiese.

Akira annuì, ma lasciò che fosse Ryuichi a finire di spiegare.

«Ecco la novità, genio, la luce non se n’è andata, ma le persone sì!»

«Se ne sono andate?» domandò Tadao.

Akira non poteva negare che potesse sembrare tutto uno scherzo, ma l’aveva visto con i suoi occhi.

«Sai il negozio vicino al parco? È deserto, tutto acceso ma senza nessuno all’interno.» spiegò.

«Come nel film Vanished.» concluse Tadao, ma sorrideva quasi come se la cosa lo eccitasse.

«È quello che ho detto io!» ribatté Akira. Non riusciva ad esserne entusiasta, perché sapeva che trovarcisi all’interno non sarebbe stato per nulla piacevole. Eppure sorrise, felice di non essere l’ultimo essere umano a parte Ryuichi, perché per quanto fossero diventati amici negli ultimi mesi non era certo di poterlo sopportare solo lui per il resto della sua vita. Deglutì, al pensiero che potessero esserci altre persone rimaste da sole nell’oscurità.

Fu Tadao ad esprimere per primo quella preoccupazione che su Akira non aveva ancora fatto presa, a dire: «Aspetta. Mamma e papà erano a casa e ora non ci sono più.»

«Sei la prima persona che incontriamo da quando abbiamo lasciato il parco.» gli confessò Ryuichi.

Akira si morse il labbro, strinse tra le mani il cellulare e cercò di accenderlo, ma non vi riuscì. Lo scosse violentemente e lo sollevò in aria senza staccare gli occhi dallo schermo nero.

«Credevo che aveste già appurato che non funziona.» disse Ryu, si arrampicò sul bracciolo e si sedette sulla spalliera del divano per arrivare alla sua altezza, sporgendosi per scrutare lo schermo.

Akira mise via il telefono e prese il Digivice. «Speravo che il problema si fosse risolto.»

Attivò il localizzatore del Digivice, aspettando che quello inquadrasse la zona e visualizzasse le strade attorno alla casa.

«Non visualizza la mappa della zona.» disse con un rantolo. Scosse il Digivice come se questo potesse risolvere tutto.

Tadao lo guardò e sospirò. «Calmati, se qualcuno ci si avvicinerà lo sapremo.»

Akira agitò il capo, non poteva rintracciare i suoi genitori, suo fratello ed i suoi nonni perché la linea telefonica sembrava non esistere più, ma avrebbe potuto provare a raggiungere le altre persone che conosceva e sapeva avessero un Digivice, se solo il suo glielo avesse permesso.

«Non sono preoccupato per quello.» ribatté Akira.

Ryu saltò giù dal divano, Akira capì che anche lui aveva avuto lo stesso pensiero, che probabilmente ci era arrivato prima di lui e di sicuro aveva già avuto tutto il tempo per rassicurarsi del fatto che sarebbe andato tutto bene. Akira, invece, era ancora in pieno panico dubitava che gli sarebbe passato tanto presto. «Dobbiamo trovare Ayano e Fiamma, possiamo individuarle grazie al localizzatore.» disse. Si diresse verso la porta, non controllò neanche se Ryu lo stesse seguendo, ma Ryuichi lo afferrò per il braccio e lo bloccò. Intanto, Tadao sembrava ripiombato nella confusione più totale.

«La sua amica ed il suo Digimon.», spiegò Ryuichi, poi tornò a rivolgersi ad Akira. «Non sai neanche se è ancora qui, potrebbe essere sparita come gli altri.»

Akira strinse i pugni. «Il pensiero che possa essere stata presa dagli alieni non mi tranquillizza affatto.»

Ryuichi sbuffò, un lieve sorriso gli increspò le labbra. «Nessuno ha parlato di alieni.» disse. «Sul serio, su che pianeta vivi?»

«Su quello dove sono apparsi Digimon Zombie ed è sparita la maggior parte della popolazione.» gli ricordò.

Non sapeva se ad innervosirlo fosse più il fatto di non sapere cosa fosse successo oppure l’atteggiamento di Ryuichi, ma per un momento ebbe voglia di prenderlo a pugni solo per sfogarsi.

Tadao poggiò un braccio sulle spalle di entrambi e sorrise, quel tocco fu tanto leggero da far morire la discussione ed attirare l’attenzione di entrambi, mentre Gottsu rimaneva ancora in disparte e si nascondeva dietro Ryu.

«Ascoltatemi, io ho una teoria, ma per confermarla dobbiamo cercare altri esseri umani e Digimon, quindi possiamo cominciare da lei.» propose. Scambiò un’occhiata eloquente con Akira, che per un attimo sentì il peso sul petto allentarsi solo per essere sostituito da un tipo d’ansia diversa.

Che faccio se non le trovo? Se lei e Fiamma non ci sono?

«Prendo la giacca.» disse Tadao. Gli batté una mano sulla schiena per confortarlo, ma non funzionò. «McQueen dovrebbe essere di sopra.» disse a Ryuichi.

Akira lasciò che Tadao sparisse di nuovo in salotto, poi Ryu lo scrollò e gli indicò le scale. Seduto sul gradino più alto, a fissarli assorto con un sorriso sghembo, stava un Elecmon dall’aria divertita.

«È svampitello per essere un domatore, sei sicuro che non vuoi rispedirlo indietro come difettoso?» domandò a Ryu.

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Capitolo 4
*** Il corridore del labirinto (p.1) ***


3
IL CORRIDORE DEL LABIRINTO (p.1)


Sei mesi prima del Blackout:

Mentre si infila quatto tra le sterpaglie, Yukiteru non ha idea del perché Pitt abbia deciso di allontanarsi dal parco giochi, visto quanto sembrava che si stesse divertendo fino a pochi minuti prima.

Quando lo ritrova, silenzioso, immobile e accucciato come un gatto sul ramo un albero, Yukiteru quasi inciampa su una roccia. Le ali del Digimon si agitano contro le foglie, creando una leggera brezza che smuove le fronde attorno a lui; non ha davvero bisogno di sbatterle per mantenersi in equilibrio, ma attraverso esse Yukiteru riesce a leggere tutto lo sconforto dell’amico.

La macchina fotografica oscilla appesa al suo collo, è ancora accesa dopo l’ultima foto scattata, la spegne osservando Pitt che fissa il cielo senza sapere cosa dirgli.

Prende fiato, tende una mano per raggiungerlo e si aggrappa ad un pezzo di corteccia, ma Pitt lo precede, chinandosi e sporgendosi verso di lui prima che possa issarsi su.

«Era diventato tutto troppo chiassoso.» dice Pitt. Si lascia cadere giù dal ramo evitando il suo sguardo ed atterra sull’erba con grazia. Yukiteru riesce a leggere facilmente il velo di tristezza trasparire dai suoi occhi, è abituato a quel comportamento. Non è la prima volta che lo vede chiudersi a riccio, preferire abbandonare il suo angolo sicuro invece che permettere a qualcuno di invaderlo e sedersi accanto a lui per confortarlo.

«Hai finito? Andiamo a casa?» gli domanda Pitt.

Yukiteru gli sorride.

«Certo.» risponde.

Vorrebbe parlargli, domandargli cosa stia pensando e costringerlo a farsi dire tutto, ma non lo fa. Ripensa a quando, fino a pochi minuti prima, stava giocando con quei bambini nel cortile della scuola, a come gli era sembrato felice. Finché quell’insegnante aveva rivelato le sue preoccupazioni alla sua collega su quanto pericolosi ed inquietanti fossero alcuni Digimon. Yukiteru è sicuro che Pitt l’abbia sentita.

Pitt sospira.

«Bah.» borbotta. È una cosa che fa spesso, esclamare “Bah”, a volte anche senza una ragione apparente. Lo dice per sfogarsi, quando vuole dire qualcosa ma non è sicuro di cosa o come, o ancora quando è incerto o vorrebbe solo che qualcuno lo capisse ma non è capace di spiegarsi. Yukiteru ha imparato a rispettare i suoi tempi ed a leggere tra le righe, quindi lo accompagna in silenzio fuori dalla boscaglia ed entrambi si fermano ancora davanti al cancello dell’asilo in cui erano stati poco prima.

I bambini li notano subito, quelli tra loro che hanno già dimostrato simpatia nei confronti di Pitt, poiché abituati alla presenza dei Digimon grazie a cugini, amici o fratelli maggiori, corrono loro incontro, mentre gli altri, più diffidenti e succubi delle paure degli adulti, rimangono in disparte ad osservare.



«Tornerete a trovarci?» chiede una bambina ondeggiando su un piede, mentre regala a Pitt un sorriso candido.

Un altro ragazzino si aggrappa alla ringhiera e si sporge in avanti: «Come faccio ad avere un Digimon tutto mio?» domanda.

Yukiteru scambia un’occhiata con Pitt e nota con sollievo che la malinconia è stata accantonata, almeno per un po’. Guarda i bambini e sorride.

«Chissà.» dice soltanto, rispondendo con una la stessa parola ad entrambe le domande, perché in fondo sa che il futuro è tutto da scrivere e non si sa mai cosa possa succedere.

Vede la maestra accorrere ed il sorriso gli si spegne, guarda Pitt con la coda dell’occhio e si accorge che anche lui è tornato serio.

«Sono sicura che il signor Ando ed il suo Digimon abbiano da fare, adesso. Non importunateli.» dice la donna ai bambini.

Lo sguardo afflitto che Yukiteru vede sul volto di Pitt all’occhiata diffidente della donna rimane nella sua mente per giorni.




Nove ore dopo il Blackout:

Yukiteru corse in strada, lasciando dietro di sé una casa inusualmente vuota ed una porta che sbatté forte rimbombando nel silenzio. Era solo, davanti a lui c’erano il suo Petermon ed il Devimon che, sbucato dal nulla alcuni minuti prima, tentava di trascinarlo via.

«Pitt!» gridò Yukiteru. Il cuore gli martellava nel petto e il sangue gli pulsava nelle orecchie, vedeva il suo Digimon gridare, ma non capiva ciò che lui stava dicendo.

«Attaccalo, Pitt!» supplicò.

Li rincorse, si aggrappò al palo di uno stop per voltare l’angolo e scivolò con foga nella traversa.

Pitt si dibatteva, tentava di liberarsi dalla presa del Devimon, ma lui lo stringeva forte e prendeva quota ad ogni momento.

Yukiteru iniziò a temere che presto sarebbero finiti entrambi fuori dalla sua portata, che sarebbero volati via ed avrebbe perso il suo amico senza avere la possibilità di salvarlo. Strinse i pugni e accelerò. Li seguì fino ad una delle strade principali, tenne lo sguardo incollato sui due, vide Pitt cercare di aggrapparsi ad un semaforo e tentare di spingere Devimon contro un palo della luce.

Yukiteru tagliò per un parcheggio, abbassò lo sguardo quel tanto che bastava per essere certo di non inciampare da qualche parte e poi lo riportò sui due, ma una volta arrivato dall’altro lato della strada loro erano già scomparsi dietro uno degli edifici più alti.

Superò negozietti e marciapiedi, corse alla cieca nonostante i polpacci doloranti ed i polmoni che parevano quasi esplodere nel petto, girò attorno al grattacielo che gli sbarrava la strada e, solo quando gli fu chiaro che non aveva assolutamente idea della direzione in cui erano andati, si permise di fermarsi a prendere fiato con un gemito di frustrazione.

«Pitt!» urlò ancora, ma non udì alcuna risposta.

Si guardò attorno, cercò un segno, chiamò di nuovo e di ancora nessuno rispose. Riusciva a sentire il battito del proprio cuore, il respiro che entrava ed usciva dalle sue narici, ogni singolo fruscio dei vestiti che aveva addosso, ma per la prima volta da quando era uscito di casa si rese conto che dal mondo attorno a lui non proveniva un solo scricchiolio. Solo allora realizzò che in quel parcheggio non c’erano auto e che per strada non aveva incrociato nessuno. Fece un giro su sé stesso per guardarsi attorno, affondò una mano tra i capelli e tirò indietro le ciocche più ribelli per scoprirsi il viso, inspirò forte e si morse il labbro mentre il panico saliva diventando una morsa tanto violenta da bloccargli il fiato.

Sollevando lo sguardo verso destra poteva vedere, come un enorme e squadrato alveare, il complesso di appartamenti che si affacciava sulla strada con suoi piccoli balconcini sporgenti e nudi e, sotto la cappa grigio smorto del cielo, si ritrovò, incredulo, ad urlare:

«Ehi! C’è nessuno?»

L’eco delle sue parole riempì l’aria, Yukiteru attese una risposta che non arrivò ed abbandonò le mani contro la vita.

«Che diavolo» sbottò.

Chiuse gli occhi e storse il naso, le foglie degli alberi nelle aiuole erano talmente immobili da sembrare dipinte.

Riprese a camminare, abbandonò il parcheggio ed attraversò la strada; questa volta si guardò attorno più attentamente, sbirciò attraverso le serrande spalancate dei negozi familiari, negli ingressi dei locali pubblici di cui conosceva proprietari e frequentatori, verso gli scivoli che conducevano ai parcheggi sotterranei ora vuoti. Era come se parte del mondo, ciò che rendeva viva la città, fosse stato cancellato; il quartiere che gli era sempre stato familiare gli sembrò per la prima volta totalmente estraneo.

Sfilò dalla tasca il Digivice e proseguì a testa bassa, attivando il localizzatore. La mappa si materializzò a pochi centimetri dal suo naso con i suoi edifici in 3D sfarfallanti e le strade che sfumavano incerte contro gli edifici in miniatura, tutto ciò che rimaneva della sua sicurezza e della possibilità di ritrovare Pitt in quel modo svanì insieme alle strade non segnate.

Yukiteru osservò con un gemito la via di casa sulla mappa, percorse con gli occhi il viale che attraversava tutti i giorni per andare a scuola, quello che conduceva al parco ed il piccolo quartiere in cui si trovavano l’asilo e la scuola elementare. Il suo mondo era lì, segnato in modo approssimativo e distorto ma, realizzò con rammarico, tutta la parte a lui sconosciuta era stata in qualche modo cancellata. Non si era mai preoccupato di studiare i quartieri che erano fuori dalla sua zona di confort ed ora se ne pentiva amaramente.

Anche il puntino verde che, sulla mappa, avrebbe dovuto rappresentare Pitt, era sparito. Il suo cuore si fermò, perdendosi nel pensiero di ciò che avrebbe potuto significare.

«Pitt, no.» gemette.

Rimase fermo in mezzo alla strada, mentre veniva avvolto da un freddo che non aveva nulla a che vedere con la temperatura esterna. Era solo ed aveva perso il suo Digimon, una situazione che non aveva mai immaginato neanche nei suoi incubi peggiori. Si lasciò cadere in ginocchio e si mise a gambe incrociate, domandandosi se qualche Digimon sarebbe tornato a prendere anche lui o se sarebbe rimasto lì come ultimo della sua specie fino al suo ultimo respiro.

Stette ad aspettare in silenzio anche se non sapeva bene cosa, senza riuscire a vedere davvero ciò che lo circondava e con la mente persa tra mille pensieri che si accavallavano. Cosa avrebbe fatto, ora? Stava succedendo davvero? Pitt sarebbe stato bene?

In fondo l’asfalto su cui era seduto non era poi così freddo come si sarebbe aspettato dovesse essere a quell’ora del mattino, l’aria non era frizzante e pungente come l’aveva sempre trovata mentre andava a scuola. E le sue mani erano forse sensibili come sempre? Il suo corpo meno reale? C’era qualcosa che potesse assicurargli di non essere semplicemente immerso in uno strano sogno troppo vivido?

Premette i polpastrelli sui sassolini che emergevano dall’asfalto per sentire la loro consistenza sulla pelle, ma l’ultima volta che li aveva toccati era stato troppi anni prima, forse dopo una caduta dalla bicicletta, e non ricordava affatto se la sensazione fosse la stessa. Sospirò, disegnò dei cerchi sulla propria gamba in attesa che il senso di smarrimento svanisse e gli lasciasse spazio per pensare e decidere cosa fare, ma non era abituato a fare piani, a trovarsi in difficoltà e a dover cercare un modo per uscirne.

Lui e Pitt erano sempre stati poco inclini a cercare gli scontri, ma per quanto questo avesse giovato alla loro tranquillità non era certo stato utile a renderli rapidi a reagire alle situazioni. Per la prima volta nella sua vita, mentre piegava le ginocchia al petto e vi premeva sopra la fronte, Yukiteru desiderò l’esperienza di chi aveva affrontato una situazione di pericolo e sapeva come affrontarla. Desiderò che Pitt fosse con lui, di avere la forza di ritrovarlo, di non essere più solo. Fu come se qualcuno avesse sentito i suoi pensieri, il rumore dei passi fu chiaro, l’unica cosa più rumorosa del suono della sua lingua che schioccava contro il palato

Yukiteru si alzò in piedi e si voltò ad occhi sgranati, vide il ragazzo ed il Digimon, gli parve di riconoscere il primo, ma non seppe dire dove lo aveva già visto.

«Chi siete?» domandò loro.

Era diviso tra il sollievo di non essere più solo ed il timore di non potersi fidare, ma gli avevano già portato via Pitt, cosa gli era rimasto che potessero rubargli? Se anche avessero trascinato via anche lui forse avrebbe ritrovato l’amico.

Il Tailmon lo squadrò, poi guardò il suo compagno e gli fece cenno di camminare, solo allora gli si avvicinarono entrambi. Attraversarono la strada, ma non superarono l’ultimo paio di metri che li separava. Sorrisero lievemente, poi il ragazzo gli tese la mano, quasi aspettandosi che fosse lui a fare il passo successivo, e si presentò: «Toshiaki Kitagawa e lui è il mio Digimon, Kat.»

Yukiteru sbatté gli occhi, l’ultimo respiro bloccato nei polmoni, gli ci volle un’occhiata perplessa di Toshiaki per convincersi a stringergli la mano e, poco dopo averlo fatto, la ritirò immediatamente e la nascose in tasca, incassando la testa tra le spalle.

Kat, il Digimon, accennò un inchino. «Ho cercato di convincerlo a venire a parlarti da quando hai voltato l’angolo, ma Toshi-kun non si fidava.» gli spiegò agitando la coda.

Toshiaki si fece pallido in volto.

«Kat.» disse. «Ma ti pare il modo?»

Yukiteru sospirò e si guardò attorno alla ricerca di qualcosa, qualcuno o di tracce di Pitt.

«Non ti preoccupare,» disse «probabilmente avrei fatto lo stesso. Sono Ando, Yukiteru Ando.»

Se non avesse visto Pitt che veniva trascinato via ed avuto così tanta paura di perderlo, di certo non sarebbe corso in mezzo alla strada con così tanta fretta, non si sarebbe esposto in quel modo, non avrebbe fatto qualcosa che in un giorno normale avrebbe attirato l’attenzione. Realizzò che tutto ciò che aveva fatto dopo essere uscito di corsa di casa lo aveva messa in pericolo, anche se non se ne era reso subito conto.

Si morse il labbro, scrutò i due e si fermò a riflettere. Osservando i capelli scuri del ragazzo e la linea del suo, non poteva fare a meno di pensare che gli sembrasse un volto familiare. I posti in cui era probabile che lo avesse incontrato non erano molti, anzi si contavano sul palmo delle dita e Yukiteru provò ad immaginare la sua figura passargli davanti in ognuno degli ambienti in cui era stato, dal club di fotografia a scuola fino al supermercato dietro casa.

Lo visualizzò in treno, seduto sulla poltrona poco lontano da lui mentre leggeva un libro di cui non aveva mai letto il titolo, o più probabilmente molti libri diversi. Yukiteru fu all’improvviso dolorosamente consapevole che quello sconosciuto era stato suo compagno di viaggio ogni mattina da quando aveva iniziato le superiori e non si erano mai scambiati una sola parola nonostante fossero entrambi Tamers.

Comunque, quella consapevolezza, bastò a calmarlo e a permettergli di fidarsi di lui.

«Vorrei tanto capire cosa sta succedendo, piuttosto.» aggiunse allora. Toshiaki scrollò le spalle, non diede segno di essersi offeso per la distanza che aveva mantenuto, Yukiteru si domandò se anche lui si ricordasse del fatto che si erano già incrociati, ma non disse nulla al riguardo.

«Ti unisci a noi?» gli domandò Toshiaki. Il suo sguardo correva tutto attorno a loro, all’erta, probabilmente alla ricerca di eventuali pericoli, doveva aver visto anche lui il Digimon che aveva portato via Pitt, forse anche lui si stava domandando se sarebbe tornato per loro.

Yukiteru deglutì e scosse la testa, consapevole di stare perdendo tempo prezioso. Non restare da solo gli sarebbe piaciuto, ma non aveva idea di quali fossero i piani di Toshiaki e Kat e Pitt restava la sua priorità.

«Scusatemi, un Devimon ha rapito il mio Digimon, ho bisogno di ritrovarlo.» disse, arretrando per aggirarli.

Toshiaki annuì, Kat inclinò il capo.

«Ti diamo una mano, allora.» dichiarò, agitando la coda. Poi guardò il suo Tamer e batté le palpebre. «Possiamo?», domandò.

«Possiamo.» gli rispose Toshiaki.

Yukiteru sorrise. «Una mano mi servirebbe davvero.»

Non era abituato ad avere compagnia, non aveva permesso a molti altri di avvicinarsi, sempre troppo timoroso che non accettassero Pitt ed il legame che aveva con lui. Essere cresciuto con un Digimon era stato come essere cresciuto con un tatuaggio che diceva “Alla larga” proprio sulla fronte. Ma Toshiaki era come lui, aveva la stessa identica scritta sulla sua fronte, non avrebbe giudicato né l’avrebbe guardato con diffidenza, probabilmente sapeva ciò che aveva provato e passato.

«Grazie, davvero. Non potrò mai esprimervi quanto vi sono grato.» disse a lui ed al suo Digimon, poi fece strada, camminando nella direzione in cui pensava che il Devimon e Pitt fossero andati.

Se riuscirò a trovare Pitt, giuro che farò amicizia con ogni singolo Tamer della città, decise. Sapeva che ce n’erano altri, ne aveva visti alcuni al parco, nei vicoli che combattevano con i loro compagni contro Digimon appena bioemersi, un paio erano addirittura iscritti alla sua stessa scuola. Loro si conoscevano, si frequentavano, condividevano esperienze e merende mentre lui rimaneva in disparte, troppo poco socievole per riuscire a farsi avanti e fare amicizia.

Farò amicizia con loro e li costringerò a fare amicizia l’uno con l’altro, se non si conoscono già, così ci potremo aiutare a vicenda se dovesse accadere qualcosa. Attraversò con Toshiaki e Kat l’intero isolato, camminando a faccia in su nella città fantasma e senza parlare, almeno fino a quando la curiosità non ebbe la meglio su di lui e non riuscì più a trattenere la domanda che più gli rodeva in quel momento. «Avete visto qualcuno a parte me?»

Toshiaki non soppesò la risposta, ma sospirò prima di parlare. «No, sembra che siano svaniti. Appena sveglio mi sono sentito come in un numero di Dylan Dog. Genitori scomparsi, telefoni inservibili, televisori senza segnale. Ho provato a cercare degli amici ma non sono riuscito a rintracciare nessuno. Stavo tornando a casa quando ho deciso di approfittare per fare compere.» Sfilò la mano dalla tasca, mostrandogli con orgoglio il lettore mp3 nuovo, ancora confezionato.

Yukiteru cercò di nascondere la perplessità, più che altro per timore di offenderlo e di dare l’impressione di giudicarlo, nonostante avesse voglia di sgridarlo per aver pensato al taccheggio.

«Hai provato ad usare il lettore mp3 con tutto quello che è successo?» gli domandò

«Lo stavo usando quando è successo il qualunque cosa sia successo, più che altro. È stato in quel momento che mi sono accorto che qualcosa non andava.» spiegò Toshiaki. «Solo dopo mi sono chiesto se non si è fuso anche questo.»

Ora che finalmente avrebbe potuto avere delle risposte, per quanto fossero spiacevoli, Yukiteru non si lasciò scappare l’occasione. «Quindi quando è successo, esattamente?»

«Ieri sera, verso le dieci.» gli rispose Kat, con un saltello. «Non te n’eri accorto?»

Yukiteru ripensò al giorno precedente, a quando aveva quasi dovuto forzarsi per alzarsi dalla scrivania e mettersi il pigiama per potersi stendere a letto dopo aver passato tutto il pomeriggio in palestra. «Ho avuto una giornata pesante ed ho dormito presto, non ho notato nulla fino a questa mattina, quando Pitt è stato trascinato via.»

La voce gli si ruppe sull’ultima parte della frase, abbandonò le braccia contro i fianchi, nonostante i suoi due nuovi amici si sentiva solo, senza Pitt ad accompagnarlo. Si fermò proprio nel mezzo delle strisce pedonali, Toshiaki gli si affiancò e gli poggiò una mano sulla spalla come per confortarlo.

«Faremo di tutto per trovarlo, te lo prometto.» gli disse.

Yukiteru gli fu immensamente grato per essere con lui, per la zampa di Kat che gli sfiorava la gamba e, nonostante le distanze ed il fatto che fossero estranei sparpagliati, che i ragazzi con un Digimon non si negassero mai aiuto a vicenda. Almeno da quel poco che aveva visto.

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Capitolo 5
*** Il corridore del labirinto (p.2) ***


4
IL CORRIDORE DEL LABIRINTO (p.2)


Nove ore dopo il Blackout:

Ora che non era più solo, Yukiteru si sentì in parte libero da quella morsa che lo aveva tenuto intrappolato fino a poco prima. Se fosse stato un sogno e si fosse svegliato di soprassalto, Pitt si sarebbe preoccupato, ma lui non era lì ed ora era suo compito fare di tutto per ritrovarlo.

Rallentando, si sporse appena e sbirciò dietro uno svincolo per controllare che non vi fosse nessuno, ma non vide nulla e proseguì.

Non aveva mai percorso quella traversa in particolare, ma riconobbe uno degli edifici che si trovavano nella strada affianco e capì che si stavano avvicinando alla sua scuola.

Kat si fermò e annusò l’aria, tese le orecchie e poi le appiattì dietro la testa. Il pelo gli si rizzò e perfino Toshiaki trattenne il fiato. Non era difficile vedere in Kat l’atteggiamento di un gatto all’erta, Yukiteru non si sarebbe affatto stupito se a breve l’avesse visto soffiare contro qualcosa. Il problema sarebbe stato scoprire a cosa.

Con un movimento lento, Toshiaki si piegò a sfiorare la collottola al suo Digimon e gli grattò la pelliccia affettuosamente.

«Cosa c’è?» gli domandò sottovoce.

Yukiteru rimase pochi passi indietro, lasciò che fossero loro ad avvicinarsi per primi al vicolo da cui Kat non riusciva a distogliere lo sguardo, ma li raggiunse subito in modo da non distanziarli più che di pochi passi. Anche lui voleva sapere di cosa si trattava, ma soprattutto aveva la speranza che potesse essere Pitt. Sarebbe stato un ritrovamento troppo fortuito, lo sapeva bene, e la fortuna non era mai stata dalla sua parte, quindi si sporse oltre l’angolo e strizzò gli occhi per controllare di persona.

Il cielo pallido non forniva una grande illuminazione, là dove i grattacieli gettavano la loro ombra cupa, ma il cerchio di luce nel mezzo del vicolo era grande quanto la ruota di un’automobile e si rifletteva con violenza sui pochi Digimon silenziosi che vi stavano fermi davanti.

Per alcuni momenti, un fruscio fu l’unico suono che pervase l’aria e Yukiteru, Toshiaki e Kat osservarono in silenzio, studiando i tratti di quei Digimon dagli occhi vuoti, i loro movimenti lenti ed i loro musi serrati. Le teste oscillavano di spalla in spalla, quasi come se non avessero la forza di tenerle ferme e sollevate, e le zampe erano abbandonate contro i fianchi. Erano tutti di tipo animale e di piccole dimensioni: alcuni Mikemon, le cui code erano abbandonate sul terreno sporco, un paio di Hawkmon, piegati in avanti con le ali che ciondolavano ad un pelo da terra e le piume arruffate ed infine un piccolo Burgermon in un angolo, nascosto nell’ombra di un vecchio cassonetto ammaccato.

Nessuno di loro pareva essersi ancora accorto della loro presenza, nessuno di loro esprimeva anche solo un decimo della vitalità che Yukiteru era abituato a vedere nei Digimon e, dall’occhiata che gli mandò Toshiaki, capì che la pensava allo stesso modo. Fu tentato di avvicinarsi, di chiedere loro cosa non andasse, se poteva aiutarli in qualche modo, ma Kat lo trattenne, spingendo indietro lui ed il suo Domatore. Li costrinse ad indietreggiare, con gli artigli premuti contro le loro cosce quasi a voler fermare ogni protesta e camminò all’indietro con loro senza voltarsi.

Yukiteru non riusciva a staccare gli occhi dai Digimon, trattenne il fiato e, concentrato com’era sul non fare rumore, non notò il movimento di Kat, che balzò indietro ed ebbe un sussulto.

Toshiaki trattenne un grido spaventato riducendolo solo ad un gemito smorzato, ma non bastò e Yukiteru seppe che quei Digimon l’avevano sentito nel momento stesso in cui smisero di oscillare sul posto e sollevarono i musi arricciati inspirando. Li vide voltarsi verso di loro e andargli incontro arrancando sull’asfalto.

Continuò ad indietreggiare, spaventato dalla possibilità che un qualunque movimento brusco potesse farli scattare. Non aveva mai visto dei Digimon comportarsi in un modo simile, come uno sciame che si muoveva al rallentatore e avanzava dritto verso di loro.

Toshiaki e Kat rimasero davanti a lui, che era pronto a correre via al primo cenno di pericolo, con un ginocchio già piegato per voltarsi e fuggire a gambe levate senza guardarsi indietro, ma il momento d’attesa parve durare un’eternità ed i Digimon lo fissavano con occhi tanto vacui che si chiese se lo stessero vedendo davvero. Fu solo un secondo, prima che si muovessero e scattassero lanciandosi dritto addosso a Kat. In un primo momento, lui balzò via e li aggirò, ne abbatté un paio con due calci dietro la nuca e saltò di nuovo in strada. «Seguitemi!» gridò.

Yukiteru esitò, ma Toshiaki lo afferrò per un polso e lo trascinò via, allora corsero per la strada finendo per ritornare sui loro passi. Urtarono contro un cassonetto e ruzzolarono a terra nel tentativo di voltare l’angolo e, mentre arrancava per rialzarsi, Yukiteru intravide con la coda dell’occhio gli Hawkmon che battevano le ali ed ondeggiavano in aria perdendo e riprendendo quota come se non riuscissero a trovare un equilibrio ed una direzione. Si rifiutò di restare a guardarli, spalleggiò Toshiaki, lo raggiunse ed inchiodò rischiando di scivolare quando lo vide fermarsi di colpo. «Che fai?» gli domandò.

Il cuore gli martellava forte nel petto e quei battiti rimbombavano nella testa e nelle orecchie, trattenne il fiato voltandosi a guardare indietro e ondeggiò sul posto per trattenersi dal riprendere a correre.

«Scappare non servirà a nulla.» gli disse Toshiaki. Impugnò il Digivice e, come ad un segnale, Kat tornò indietro e si piegò digrignando i denti e soffiando contro gli strani Digimon.

«Sono tanti.» gli fece notare Yukiteru.

Avrebbe voluto avere Pitt con sé, anche se non erano abituati a combattere, né in alcun modo preparati per una situazione simile, e si trattenne dallo sfilare dalla tasca il Digivice, sapendo che sarebbe stato inutile senza avere un Digimon da potenziare.

Toshiaki strinse il pugno. «Fortuna che Kat è un livello avanti a loro, allora.»

Yukiteru fece una smorfia; in una situazione normale questo probabilmente sarebbe stato vero, ma era certo che questa non fosse una situazione normale e che gli altri fossero in vantaggio numerico. Un Hawkmon si avventò su Kat, che scartò di lato, si arrampicò su una parete e scalò un palo della luce usandolo come trampolino per lanciarsi addosso al secondo Hawkmon.

«Pugno Felino!» gridò e bastò quello perché il Digimon si dissolvesse tra le sue zampe. Scagliò con un calcio l’altro Hawkmon contro il Burgermon, poi il Mikemon gli fu addosso ed insieme rotolarono avvinghiati sull’asfalto.

Kat gemette di dolore, Toshiaki gridò, corse verso di loro e gli strappò via il Mikemon di dosso con tanto impeto che cadde all’indietro con quello addosso. Il Burgermon tornò alla carica ma Yukiteru, incapace di restare a guardare, lo afferrò e lo atterrò bloccandolo sull’asfalto con il proprio peso. Lo sentì agitarsi sotto di sé, mugugnare nel tentativo di liberarsi e poi, d’improvviso, fermarsi come un robot spento, con gli arti abbandonati e gli occhi persi a guardare il cielo. Era come se quel qualunque cosa lo avesse fatto muovere prima fosse all’improvviso svanito, lasciandolo totalmente svuotato.

Yukiteru sollevò lo sguardo e vide Toshiaki che tratteneva il Mikemon, Kat arrancava verso di lui con passo malfermo, quasi cadde in avanti e si rialzò a fatica.

«Kat, colpiscilo!» lo incitò Toshiaki e il Digimon sollevò la zampa, ma perse l’equilibrio e crollò in avanti.

«Kat!» esclamò Toshiaki. Mikemon si agitò e quasi riuscì a divincolarsi, il ragazzo strinse la presa e crollò in ginocchio, senza staccare gli occhi dal proprio Digimon. «Stai bene? Sei ferito?» gli domandò.

Kat non rispose, gli altri Mikemon lo accerchiarono. Yukiteru si domandò come avesse fatto a non notarli, perché non avessero partecipato prima allo scontro dandogli il tempo di dimenticarsi di loro. Morsero Kat, lo graffiarono e sia Yukiteru che Toshiaki lasciarono i loro ostaggi e accorsero per aiutarlo e liberarlo. Le scarpe che scricchiolavano sull’asfalto, i fiati corti e le braccia tese in avanti. Le dita di Yukiteru raggiunsero quasi il primo degli aggressori, ma Kat si dissolse prima che potesse afferrarlo. I suoi dati scivolarono addosso ai Mikemon.

Yukiteru rimase pietrificato, l’immagine di Kat che si svaniva mentre quei Digimon ancora tentavano di farlo a pezzi rimase fissa davanti ai suoi occhi e la sua mente la rivide numerose volte nell’arco di pochi istanti, fino a sostituire la figura di Kat con quella del suo Pitt.

Yukiteru sapeva che se fosse successo qualcosa a Pitt non avrebbe potuto sopportarlo, che nessun Tamer avrebbe affrontato bene la morte del proprio Digimon. Era qualcosa che aveva sempre sperato di non dover vedere e vivere ed ora era certo che dopo Kat, Pitt avrebbe potuto essere il prossimo.

La sua mente continuava a gridare: Pitt! Pitt! Pitt! Pitt! e si voltò a guardare Toshiaki senza sapere cosa dirgli, come confortarlo, ma l’espressione stravolta del ragazzo, con gli occhi sgranati e le pupille piccole nell’iride bianca, fu come un lampo fugace, perché il rumore del Digivice di lui - quello che il ragazzo stringeva tra le mani con tanta forza da dare l’impressione che volesse assimilarlo nel proprio corpo - che si rompeva fu assordante e la luce dello schermo che andava in pezzi si spense. Toshiaki sfarfallò un paio di secondi come un canale analogico preda di un interferenza, prima di svanire con un fastidioso “Tic.”.

I Digimon Zombie, perché ormai Yukiteru non riusciva a chiamarli in altro modo, erano ancora nel punto in cui avevano aggredito Kat, fermi in un cerchio nel mezzo di quella che avrebbe dovuto essere una delle strade più trafficate di Yokohama. Uno di loro lo guardò, ma lo ignorò, tornando ad oscillare sul posto come quando li avevano trovati nel vicolo. Yukiteru soffocò il conato di vomito e cercò di trattenerlo. Sapeva di essere fermo, in piedi sulle sue gambe, ma sentiva la terra mancare e le mani tremare.

Arretrò, si costrinse a respirare, si fece forza e fece l’unica cosa che in quel momento riusciva a pensare di poter fare.

Si voltò e corse via.

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Capitolo 6
*** La principessa sul ghiaccio (p.1) ***


5
LA PRINCIPESSA SUL GHIACCIO (p.1)


Blackout:

Ayano sorrise all’ennesimo complimento, ormai non vi prestava più attenzione, impegnata com’era a cercare di trattenersi dallo sbuffare e dal saltellare impaziente sul posto. Teneva le dita incrociate davanti a sé, le mani strette una contro l’altra per evitare di picchiettare le dita sulle pieghe della gonna in quel modo che a suo nonno avrebbe tanto dato fastidio.

Si guardò attorno, la sala era gremita, i tavoli ricolmi di cibi tradizionali ed esotici e tutti erano lì per lei, ma ognuno di loro dopo essersi complimentato con lei per l’esito della gara tornava a dimenticarla, distraendosi in discussioni per cui Ayano non provava alcun interesse.

Lei non se ne lamentava, anzi avrebbe preferito di gran lunga potersi permettere di passare per un saluto, magari a festa iniziata, e poi poter sparire per conto suo e rannicchiarsi nel letto di una delle stanze dell’albergo, dove sarebbe potuta crollare addormentata fino alla sera successiva.

Alcuni degli uomini e delle donne presenti, quelli più vicini alla famiglia e che la conoscevano da più tempo, erano anche andati per davvero a vederla pattinare al palaghiaccio, ma perfino i loro complimenti finivano per essere quasi alla pari di quelli degli altri, che di pattinaggio di figura capivano meno che di cucina occidentale. Elogiavano i suoi salti e le sue piroette come se sapessero davvero di cosa stavano parlando, Ayano avrebbe voluto poterlo apprezzare, ma l’unica cosa che riusciva a provare al riguardo era un enorme moto di delusione e fastidio misti a stanchezza, che se non avesse sentito addosso lo sguardo prepotente del nonno non sarebbe riuscita a celare così bene.

Ayano concludeva sempre i giorni delle gare in posti come quello, inchinandosi davanti agli educati complimenti dei colleghi del nonno e degli amici di famiglia di vecchia data, piluccando gli stuzzichini del tavolo del buffet e sollevando i piedi doloranti a turno per cercare di trarvi un minimo sollievo.

Era riuscita a trovare il modo di bloccarsi il telefono contro la coscia, dove ben coperto dalla gonna avrebbe potuto sentirlo vibrare ogni dieci minuti per via della sveglia, in modo da tener conto del passare del tempo senza dover guardare ogni volta l’orologio.

Era suonata da poco la sveglia delle ventuno, quando provò a fare per la prima volta un paio di passi verso la porta che dava sul corridoio, evitando di rivolgere gli occhi in quella direzione per non destare sospetti. Una volta che tutti gli ospiti erano in sala e nessuno la cercava più per salutarla e complimentarsi era più facile divincolarsi e stare via per un po’. Quando l’avessero trovata, poi, avrebbe potuto usare la solita scusa del doversi sistemare il trucco e fingere di essersi allontanata da poco.

Sfiorò la tovaglia che copriva il tavolo accanto alla porta di ingresso della sala, si sporse per osservare un cameriere che offriva dello champagne a sua nonna, intenta a ridere di qualcosa con alcune donne di cui aveva già dimenticato il nome, e trattenne il fiato in attesa di poter fare lo scatto finale in direzione della libertà.

Fece schioccare la lingua contro il palato, si voltò un’ultima volta per controllare che nessuno la stesse osservando, ma scoprì che suo padre stava guardando proprio verso di lei.

Le stava andando incontro, avvicinandosi con due uomini che Ayano ricordava di aver già visto un paio di volte alle riunioni di lavoro dei suoi, allora sospirò ed accennò un sorriso, rassegnandosi a dover aspettare ancora.

«Ecco qui la principessa di casa.» disse suo padre, facendole un cenno e posandole le mani sulle spalle un istante.

Quando la lasciò andare, Ayano accennò un inchino.

«Buonasera.» disse, strinse le mani in grembo ed intrecciò le dita, giocherellando con una piega dell’abito. «Grazie per essere venuti.»

Il più basso dei due ospiti passò una mano sul proprio pizzetto, gli occhi persi di chi sta cercando qualcosa da dire pur di fare conversazione. Ayano vide sfumare le sue possibilità di defilarsi.

«Non potevamo mancare assolutamente.» disse l’uomo.

L’altro annuì entusiasta. «Ci hanno riferito che oggi è stata un’esibizione superba.»

Solo per chi non ne capisce nulla, pensò Ayano, invece disse: «Vi ringrazio infinitamente.»

Li lasciò parlare, ma non ascoltò davvero cosa le stavano dicendo, sentiva il palmo di suo padre strofinarsi contro il suo braccio attraverso la camicetta leggera, ricordandole quanto le sarebbe piaciuto avere una giacca. Quando tornò a prestare attenzione ai due uomini li trovò distratti, intenti a discutere sulla possibilità di inserire il pattinaggio artistico all’interno di uno spot pubblicitario per la ditta di succhi di frutta. Sperò che non stessero pensando a lei come testimonial, perché l’avrebbe trovato davvero imbarazzante.

«Tutto bene?» le domandò suo padre. Le sfiorò il mento, sorridendole rassicurante.

Ayano accennò un sorriso, spostò il peso del corpo sul piede destro e si appoggiò al bordo del tavolo per restare in equilibrio.

«Ho solo sonno.» disse.

Annuendo, suo padre le fece un cenno verso la porta. «I ragazzi sono fuori, se vuoi andare a divertirti.»

La proposta, che lui probabilmente pensava essere allettante, per Ayano non lo era per niente. Non c’era nessuno che trovasse più irritante dei figli e dei nipoti dei colleghi di suo nonno. Scosse il capo. «Non sono miei amici.» disse, a malincuore, trattenendo uno sbadiglio quel tanto che bastava per avere il tempo di coprirlo con una mano.

«Vai a sciacquarti il viso per darti una svegliata.» suggerì il padre. Si puntò il dito contro l’occhio, là dove l’estetista di sua madre aveva trascorso dieci minuti buoni a metterle eyeliner e mascara, e trattenne il broncio mentre lui tratteneva le risate.

«Giusto. Dimenticavo.» disse. Poi affondò le mani nella tasca della giacca e ne estrasse un orologio, glielo mise in mano e le fece l’occhiolino. «Puoi dormire mezz’ora nel salottino, ma poi ti rivoglio qui, prima che tua madre e tuo nonno se ne accorgano.»

Ayano sorrise, dovette trattenersi dall’abbracciarlo ed annuì. Nel momento in cui suo padre si voltò, si infilò nella porta e percorse il corridoio a grandi falcate. Camminò in punta di piedi per evitare che i tacchi facessero rumore sbattendo contro il pavimento lucido, raggiunse l’ingresso e guardò verso l’ascensore. Fu allora che trovò gli invitati più giovani della festa, quelli che in teoria avrebbero dovuto intrattenerla e che più avrebbero dovuto esserle vicini. Quelli che, in fondo, ultimamente la ignoravano più di quanto lei ignorasse loro. Sollevò gli occhi al cielo, nel vederli spaparanzati sui divani del salottino, nel sentirli ridere sguaiatamente in seguito a qualche barzelletta che lei non aveva sentito e che probabilmente comunque non avrebbe apprezzato. Uno di loro aveva rovesciato la Pepsi sul tavolino ed ora si sbracciava per impedire che si bagnasse anche il tappeto, nessuno sembrava volerlo aiutare, tranne la ragazza verso cui quello stava scivolando.

L’ascensore era dietro di loro e, Ayano lo sapeva bene, se fosse passata lì accanto avrebbero comunque provato a trattenerla. Si voltò per tornare indietro, ripercorse il corridoio a ritroso e svoltò verso le cucine, dritta verso le scale di servizio. Fu allora che quasi inciampò addosso ad uno degli altri ragazzi e sulla bottiglia di vino che lui aveva poggiato sul pavimento accanto a sé.

«Scusa.» gli disse, chinandosi su di lui per controllare che stesse bene. Lui le mostrò il pollice, ma non alzò lo sguardo dalle innumerevoli lattine di pepsi che aveva incastrato tra le gambe incrociate. «Io non ti ho vista, tu non mi hai visto.» promise.

Sollevò la bottiglia di vino e si piegò sulle lattine, iniziando a versare il vino dentro esse.

Ayano sorrise, realizzando che presto sarebbe probabilmente tornato dagli altri portandole con sé. «Grazie.» disse.

Poi percorse gli ultimi passi che la separavano dal bagno, spalancò la porta e vi si infilò dentro.

Bloccò la porta con il chiavistello e vi si abbandonò contro con un gemito, scivolando a sedere sul pavimento. Non era mai stata grata che i suoi genitori scegliessero locali abbastanza di classe da avere bagni così puliti ed eleganti da potersi sedere sul loro pavimento quanto in quei momenti.

Ora che finalmente era sola la tensione si smorzò e lei chiuse gli occhi. Stese le gambe ed agitò i piedi doloranti, si beò del venticello fresco che scivolava attraverso la finestrella socchiusa appena sopra al lavandino in marmo e poggiò la nuca sulla porta.

Di solito Ayano era una persona accomodante, ma non c’era cosa che odiasse più delle serate di gala e delle cene formali, poiché comportavano il fatto di dover passare delle ore assieme alla sua famiglia piena di aspettative e richieste.

Fantasticò di un cuscino ed una coperta che le permettessero di fare un pisolino e recuperare anche solo pochi minuti di tutte le ore di sonno perse a causa dell’ansia per la gara. Se suo nonno si fosse deciso ad aspettare almeno un paio di giorni, prima di costringerla ad una festa simile, l’avrebbe trovata più riposata, più disponibile, più sorridente e più aperta, invece che esasperata e stremata, con l’unico desiderio di sparire sotto le coperte senza il mondo a disturbarla. Ma lui insisteva sul fatto che festeggiare l’esito di una gara anche solo il giorno dopo non sarebbe stato carino, che bisognava battere il ferro finché era caldo, ed insisteva sul fatto che dovesse essere pronta a interagire al meglio con le altre persone in ogni momento e situazione, quindi isolarsi a causa della stanchezza non era accettabile.

Ayano avrebbe ribattuto, se non avesse saputo che fingere che le andasse bene le avrebbe facilitato la fuga all’occorrenza.

Il tocco morbido di una pelliccia calda sulla gamba le provocò un sussulto, si costrinse a sollevare le palpebre e trovò subito lo sguardo pensieroso di Fiamma.

Il Digimon spinse il muso contro il suo mento e si infilò tra le sue braccia quasi con prepotenza, lasciandosi stringere.

Ayano rise, poi strofinò la guancia sulla sua testolina e ripiegò le ginocchia per raggomitolarsi su sé stessa. «Ehi!»

La gonna le scivolò su per la coscia, rivelando il grosso livido giallastro che si dipanava lungo il fianco, Fiamma si sporse a guardarlo e con uno sbuffo borbottò a mezza voce:

«Si sta allargando?»

Ayano scrollò le spalle e le grattò il mento. «Almeno questa volta è rimasto sotto la gonna.»

Fiamma le diede un’altra testata contro la guancia, si strofinò contro di lei come avrebbe fatto un gatto e Ayano affondò le dita nella sua pelliccia e la strinse come se fosse un piccolo peluche. Ascoltarono la musica ed il vento che soffiava all’esterno, ignorarono il chiacchiericcio degli ospiti e il mondo che poteva fare a meno di loro, finsero di essere sole, che non ci fosse la possibilità che fuori qualcuno stesse già cercando Ayano.

«Vuoi andare a casa?» chiese Fiamma con un soffio di voce.

Ayano sbuffò. «Non posso andare a casa.»

«Posso dare fuoco a qualcosa, così la festa dovrà essere interrotta.» propose Fiamma. Il suo ghigno mise in evidenza uno dei suoi canini affilati.

Ayano rise, coprendo la bocca per trattenersi. «Chi ti ha dato l’idea? È stato Trouble?»

Fiamma sollevò il muso con fierezza. «È quello che avrebbe fatto Akira, no?»

Ayano scosse il capo. «Sì, ma Akira non dice sul serio, tu lo faresti davvero.»

Il piccolo Digimon gonfiò il petto e sbatté gli occhi. «Uh, tanto non mi scoprirebbero mai.» osservò.

Ayano la strinse a sé e si beò del tempore e del profumo familiare della sua pelliccia.

«Meglio non rischiare.» le disse, immaginando il putiferio che avrebbe scatenato. Non aveva voglia di correre fuori e perdere tempo ad aspettare che verificassero che era tutto ok, voleva solo che tutto finisse ed il suo letto.

«Allora restiamo qui? O ci facciamo venire a prendere?» chiese Fiamma.

Non sapeva perché lei continuasse a pensare a proposte e promesse che Akira e Ryu avevano fatto loro più di un anno prima, visto che dall’ultima volta che il ragazzo aveva detto che sarebbe corso da loro in un battibaleno qualora lei lo avesse chiesto erano passati mesi. Ripensò a quante volte si era nascosta negli angoli più impensabili ed aveva stretto tra le mani il telefono, fissando l’ultimo messaggio della chat e l’avviso che diceva che lui era online, tentata di chiedergli di andare lì e di mollare tutto per scappare con lui. Non l’aveva mai fatto, ma non era mai riuscita a decidere se fosse più per il senso del dovere che provava verso la famiglia oppure perché le seccava l’idea di dimostrare, anche se solo a Ryou ed Akira, quanto avesse davvero bisogno di fuggire da dov’era.

Scrollò le spalle. «Restiamo qui fin quando non ci trovano, forse.»

Fiamma si premette contro di lei.

«Mi leggi qualcosa?» domandò.

Le sorrise. «Non ho un libro.»

«Mi racconti una storia?» supplicò allora lei.

Ayano le stropicciò la pelliccia e gliela arruffò. «Non me ne viene in mente nessuna. Potrei farti un disegno con il sapone, però.» propose, immaginando la faccia che avrebbe fatto il nonno se avesse scoperto che qualcuno aveva imbrattato di sapone lo specchio del bagno.

Quando le luci della stanza sfarfallarono Fiamma infilò il muso sotto il suo mento e si rannicchiò ancora di più contro di lei. Poi rimasero al buio, mentre il vento fuori si acquietava di colpo ed i rami smettevano di urtare contro il vetro della finestra.

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Capitolo 7
*** La principessa sul ghiaccio (p.2) ***


6
LA PRINCIPESSA SUL GHIACCIO (p.2)


Blackout:

Fiamma si premette contro di lei.

«Mi leggi qualcosa?» domandò.

Le sorrise. «Non ho un libro.»

«Mi racconti una storia?» supplicò allora lei.

Ayano le stropicciò la pelliccia e gliela arruffò. «Non me ne viene in mente nessuna. Potrei farti un disegno con il sapone, però.» propose, immaginando la faccia che avrebbe fatto il nonno se avesse scoperto che qualcuno aveva imbrattato di sapone lo specchio del bagno.

Le luci della stanza sfarfallarono, Fiamma infilò il muso sotto il suo mento e si rannicchiò ancora di più contro di lei. Rimasero al buio, mentre il vento fuori si acquetava di botto ed i rami smettevano di urtare contro il vetro della finestra.

«Se n’è solo andata la luce, a volte capita.» disse Ayano, pizzicando la punta dell’orecchio del piccolo Digimon.

Ma Fiamma non reagì, presa com’era dallo stringersi a lei come faceva ogni volta che era spaventata.

Ayano prese il telefono per farsi luce, passò il dito sul display ed attese che si illuminasse, ma lo schermo rimase nero. Poggiò una mano per terra e la usò per farsi leva, mentre con l’altra ancora stringeva Fiamma ed il telefono.

Il suo primo, divertito pensiero, fu per un telefilm di fantascienza - che aveva seguito non troppo assiduamente - in cui un blackout improvviso lasciava permanentemente al buio l’intero pianeta rendendo inutile ogni singolo apparecchio elettrico.

«Fiamma.» chiamò.

Dove sono le voci degli ospiti? Si domandò, accorgendosi del silenzio innaturale. Se avesse saputo che sarebbero andati tutti via così in fretta, pensò, avrebbe evitato di scappare dalla sala.

Fiamma la fissava. «Dimmi.»

«Il telefono non funziona, troviamo i miei genitori.» le rispose Ayano.

La lasciò scivolare verso il pavimento e la vide scintillare nell’oscurità, ricoprirsi di uno strato caldo di fuoco scoppiettante che crepitò e si rifletté sulle pareti e sul marmo della stanza. Le sorrise, felice che si prestasse a diventare la sua torcia personale. «Grazie.»

Una volta dischiusa la porta, Ayano rimase un momento in attesa, pronta a cogliere ogni minimo fruscio che potesse indicarle che non erano davvero andati via dalla sua festa dimenticandosi di lei, ma per terra c’erano ancora la bottiglia di vino e le lattine di pepsi corretta, anche se erano abbandonate.

Percorsero il corridoio a passo felpato e raggiunsero la sala della festa, trovandola vuota. Fiamma saltellò per la stanza per illuminarne ogni angolo, balzò su uno dei tavoli del Buffett ed inchiodò di colpo prima di finire in uno dei piatti.

Ayano si avvicinò, preoccupata, ma scoprì che l’amica stava solo contemplando un bizzarro dolce nel centro in un piatto.

«Lo puoi mangiare, se vuoi.» le disse. Un istante dopo, lei lo morse con gusto. Le fiamme che la ricoprivano si dissiparono un istante, poi si gonfiarono ed oscillarono verso il bouquet di fiori lì accanto. La foglia più bassa fu la prima a prendere fuoco, Ayano afferrò l’intero mucchio e lo capovolse immergendolo nell’acqua del vaso a testa in giù.

«Piano, piccola piromane.» raccomandò a Fiamma.

Lei si spense con un rantolo rammaricato. «Mi dispiace.» disse nella rinnovata oscurità.

Ayano sorrise, anche se lei non poteva vederla, ma non riusciva a togliersi dalla testa l’idea che stesse accadendo qualcosa di grosso e che lo stesse sottovalutando.

«Pensi che abbiano sentito qualcosa e siano usciti a vedere?» domandò. Le sarebbe davvero piaciuto che fosse così, magari si era solo addormentata sul pavimento del bagno ed era tutto un sogno, ma quando mai sarebbe così semplice?

Il fuoco avvolse ancora una volta Fiamma e la luce permise ad Ayano di vederla mentre si leccava i baffi con entusiasta soddisfazione. «Vuoi che andiamo a controllare?» chiese.

Ayano annuì senza esitare. «Sì, grazie.»

La porta per uscire era oltre un secondo corridoio, subito dopo la scrivania, ora vuota, dietro cui aveva visto sedere la donna che li aveva accolti al loro arrivo. Era socchiusa.

Ayano afferrò la maniglia e la tirò, Fiamma fu la prima a zampettare nel giardino deserto ed a guardarsi attorno.

«Non sento nessuno. Ayano, non sento nulla, né Digimon, né umano. Che è successo? Ho paura.»

Ayano si inginocchiò davanti a lei, tese le mani per accarezzarla ma si fermò prima di sfiorarla e bruciarsi.

«Ehi, andrà tutto bene, ok?» le disse.

Fiamma piegò le orecchie e si tese verso di lei, ridusse le fiamme e le concentrò nella parte inferiore del corpo, così che Ayano potesse sfiorarle il collo, quando lei lo fece si sciolse in quel tocco e si strofinò contro il suo polso.

«Credi?» domandò.

Ma Ayano non era più sicura di niente, poiché i suoi genitori non avrebbero mai potuto architettare uno scherzo simile e avrebbero di certo impedito a chiunque di farlo.

«Certo.» disse. Si alzò e, stringendo tra le dita l’orologio datole dal padre, aggiunse: «A questo punto prendiamo una camera.»

Non aggiunse altro, per quanto le sarebbe piaciuto andare a casa e dormire nel suo letto, Ayano sapeva che era impensabile attraversare la città al buio e sui tacchi. Il solo guardarsi attorno le faceva tremare le gambe.

Fiamma ridiede vita al suo fuoco, ampliando il loro spazio visivo; sembrava essere l’unica fonte di luce rimasta. «Torna dentro,» le disse. «Qui fa freddo.»

Non le raccontò che aveva paura che chi non doveva le notasse per via della luce che lei generava, né le ricordò che in ogni corridoio e dietro ogni tenda avrebbe potuto esserci qualunque cosa. Accantonò i pensieri di film dell’orrore che avrebbe voluto non aver mai visto e l’idea che, per quanto non fosse ancora accaduto nulla di brutto, ciò che stava accadendo non era certo un buon segno.

Dietro la reception c’era il quadro con le chiavi delle stanze, si arrampicò sul bancone e ne afferrò una a caso, poi guardò il numero che vi era scritto sopra.

Lasciò che Fiamma la precedesse verso le cucine, la coda in fiamme che le illumminava il cammino.

Due anni prima del Blackout:

Il temporale infuria all’esterno, il vento scuote gli alberi oltre la finestra e la pioggia batte forte sui vetri.

Ayano si richiude la porta alle spalle e si sporge per cercare Fiamma, la trova accucciata sotto la scrivania, accanto al cestino tanto ricolmo di carte arricciate e bozzetti incompiuti da sembrare di stare per esplodere. L’ennesimo tuono all’esterno la fa sussultare.

La pelliccia del piccolo Digimon crepita e favilla un istante, dal suo tremare scivolano giù piccole fiammelle che luccicano e si spengono a contatto con il pavimento. Per Ayano non è una situazione nuova, sta imparando a riconoscere le reazioni della sua nuova amica e il modo in cui può aiutarla prima che lei provochi un incendio, quindi si inginocchia davanti a lei e si infila sotto la scrivania, sedendosi al suo fianco.

Fiamma trema ancora, Ayano la sfiora con un dito e le gratta un orecchio quasi come se fosse un gatto.

«Il temporale non durerà per tutta la notte. Almeno lo spero.» sorride. «Ma a noi cosa importa? Siamo all’asciutto, giusto?»

Fiamma mugugna qualcosa, ma la ragazza non riesce a capire di cosa si tratti. Vorrebbe avere una tapparella da abbassare, per impedire che una volta arrivata la sera i flash dei lampi illuminino la stanza spaventando il Digimon ancora di più, ma sa che dovrà accontentarsi della tenda oppure proporle di dormire nella cabina armadio.

C’è un altro tuono, il suo eco fa tremare anche i pavimenti e Fiamma si stringe a lei.

«Ti piacciono le storie?» domanda Ayano. Si sporge appena da sotto la scrivania e tasta il tavolo con una mano cercando alla cieca l’ultimo libro che ha comprato, quando riesce ad afferrarlo e torna al riparo nota con sollievo che Fiamma la sta guardando, il muso sollevato e le orecchie inclinate per la curiosità. «Potrei raccontartene una, se vuoi.» propone.

Fiamma sbatte le palpebre, rimane in silenzio alcuni secondi, forse ci sta riflettendo su.

«Una storia?» Chiede.

Ayano le sorride ed annuisce, poi le mostra la copertina del libro e, dopo un istante di esitazione, la guarda a sua volta. «Si, beh, magari non questa.» borbotta. «È il terzo volume di una saga.» Spiega in fretta. Fiamma non pare seguirla più, ma Ayano inizia a divagare: «Una saga è quando una storia è composta da più libri e di solito vanno letti uno dopo l’altro oppure uno non ci si capisce nulla.»

Ayano si corruccia, arriccia le sopracciglia e pensa a quale possa essere un libro carino da leggerle; qualcosa di leggero e che non rischi di spaventarla più di quanto sia già. Apre la bocca, ma Fiamma la precede, guardandola con interesse.

«Anche io voglio leggere una saga!»

Ayano le sorride, un altro tuono rimbomba nella stanza, ma Fiamma non ci fa caso, ha gli occhi puntati contro di lei e quasi pende dalle sue labbra. «Oh! Bene! Da cosa vuoi cominciare?»

Fiamma guarda in alto, Ayano si accorge solo in quel momento che sopra di loro c’è attaccato un vecchio post-it con un elenco di marche di pastelli. Fa schioccare la lingua, staccandolo ed infilandolo in tasca nonostante sappia che lo perderà di nuovo.

«Basta aprire il libro e poi è come con la tv, vero?» Chiede Fiamma.

Ed è grazie a quel paragone che Ayano ha improvvisamente il dubbio che il Digimon non sappia esattamente cosa significhi.

«Meglio cominciare dalle basi.» Conclude, coprendo la bocca per trattenere una risata.

15 minuti dopo il Blackout:

Una volta che furono entrate dentro la stanza, Fiamma annusò l’aria e fece un cenno ad Ayano. Solo dopo quel segnale la ragazza girò due volte la chiave nella toppa e chiuse entrambe dentro. Nessuna delle due fiatò mentre si muovevano nel silenzio, unica certezza che era rimasta loro. Finché ci fosse stato silenzio sarebbero state sole, chiunque fosse arrivato poi avrebbe potuto essere poco amichevole.

Per prima cosa si sfilò il vestito, gettandolo sulla sedia accanto allo specchio. I volant della gonna si stropicciarono sul pavimento, ma lei non se ne preoccupò. La tapparella della finestra era già chiusa, quindi dovette solo infilarsi sotto la coperta, troppo stanca e preoccupata per pensare anche di struccarsi.

La sagoma di Fiamma spiccava contro la finestra, mentre lei la guardava con le orecchie sollevate ed il pelo ritto sulla schiena. Pareva quasi un gatto da guardia ed Ayano sentì dissolversi parte del peso che aveva nel petto. Non era totalmente sola, Fiamma avrebbe vegliato su di lei. Il musetto di lei era sollevato e le narici si dilatavano a tratti, chiaro segnale di quanto insistentemente stesse fiutando l’aria.

Si sporse verso di lei e la chiamò. «Fiamma?»

Fiamma deglutì e chinò il capo, sollevando gli occhietti per guardarla di sottecchi solo dopo alcuni secondi.

«Ho paura.» ammise. Si sedette ed agitò la coda. «Però non dirlo a Ryu.»

Ayano le sorrise e sollevò un lembo della coperta, un gesto familiare che decine di volte aveva già eseguito per invitarla a raggiungerla quando una delle due aveva bisogno di conforto e che apparteneva ad una vita talmente recente da riportarle per un attimo alla normalità. «Certo che no.» disse tranquilla.

Fiamma le saltò accanto e si raggomitolò sul lenzuolo, Ayano la coprì e la strinse a sé, lasciando che fosse la prima a scivolare nell’incoscienza ed assicurandosi di tenerla ben stretta.

Rimase ad ascoltare il respiro pesante del suo Digimon, il suo leggero ronfare rassicurante la cullò, mentre restava con gli occhi aperti a fissare il nulla.

Forse sto sbagliando tutto, forse dovremmo lasciare Yokohama. Si disse. Un centro abitato sarebbe stato in ogni caso un bersaglio, qualunque fosse la minaccia, ma non riusciva ancora a spiegarsi la sparizione di tutti. Domani deciderò meglio. Si ripromise. Passò le dita sotto il muso di Fiamma, la pelle di lei che vibrava sotto i polpastrelli come avrebbe fatto quella di un comune gatto di casa.

Stringeva ancora il telefono, provò a riaccenderlo, chiedendosi se non sarebbe stato meglio se avesse contattato Akira prima che le luci si spegnessero, per chiedergli di raggiungerla. Se avesse saputo che lui stava arrivando probabilmente si sarebbe sentita meglio e per questo parte di lei era felice soprattutto di non avergli scritto. Non si erano visti per settimane, come poteva anche solo pensare di farlo?

Il sonno la colse un paio di ore dopo, trascinandola in un dormiveglia ovattato colmo di sogni misti a spezzoni di film di fantascienza visti controvoglia. In uno degli incubi si ritrovò a scappare da alieni tripedi alti quanto grattacieli, che poi digievolsero in navi spaziali che lanciavano Digiuova esplosive appese a piccoli paracadute, in un altro un’onda anomala travolgeva lei e Fiamma spingendole verso il palaghiaccio, dove un tornado sradicava il soffitto lasciando cadere numerosi squali pronti a divorarle.

Ad un certo punto il rumore di un fischio assordante che le ricordava quello di una teiera scemò nella voce di qualcuno che la chiamava. Riusciva quasi a vederla, tra le palpebre dischiuse a fatica, con lo sguardo allarmato ed il muso a pochi centimetri dal suo viso. Fiamma irradiava uno stato di panico tanto forte che sonno ed intorpidimento le scivolarono via in un colpo solo e lei si alzò di scatto. Il cuore prese a batterle forte mentre spingeva via le lenzuola.

«È giorno.» disse Fiamma ad un passo dal suo viso.

Ma Ayano aveva freddo, sonno, fame. Si strinse a sé e si chiede se non sarebbe stato meglio dormire ancora, finché fosse stata realmente sveglia e lucida. Si risollevò la bretella del reggiseno e sbadigliò, infastidita da quel poco di luce che penetrava dalle fessure lasciate dalla tapparella chiusa.

«Cosa vuoi fare?» domandò a Fiamma.

Era felice che non si mostrasse più spaventata quanto il giorno prima, che in qualche modo paresse essersi calmata.

Ayano raggiunse il bagno e aprì il rubinetto, Fiamma le saltò accanto.

«Andiamo a casa?» chiese.

Ayano agitò le dita dei piedi contro il pavimento freddo, si sciacquò il viso con un mugugno, ma gran parte del trucco rimase lì dov’era, sbavato sotto l’occhio a sottolineare le sue occhiaie.

«Ok.» rispose, osservando il proprio riflesso nello specchio. Nel cestino sul mobile del suo bagno c’era il suo struccante che la aspettava, ricordò, fino ad allora avrebbe dovuto accontentarsi delle salviette che sua madre teneva in macchina.

Si rimise il vestito e si riabbottonò la camicetta, infilò con uno sbuffo le scarpe ai piedi ed esitò, prima di aprire la porta.

Il corridoio era ancora vuoto, ma trattandosi di un albergo di lusso non se ne stupiva. Scese con Fiamma al piano inferiore e, con un rantolo di delusione, realizzò che era tutto esattamente come lo avevano lasciato, dalle lattine di pepsi al mazzo di fiori infilato nel vaso a testa in giù. Nessuno era stato lì per pulire, nessun sembrava essere entrato ed uscito da quando si erano spente le luci. Raggiunse il guardaroba, non c’era più nessuno che si occupasse di mettere via i cappotti e riconsegnarli, e si mise alla ricerca della borsa di sua madre. Se ricordava bene, lì dentro c’erano le chiavi della macchina, all’interno di cui avrebbe potuto trovare un cambio di vestiti ed i suoi pattini. Trovò la borsa su uno scaffale, proprio accanto al suo cappotto, che infilò prontamente. Pochi minuti dopo lei e Fiamma erano dirette verso il parcheggio. Quella mattina c’era particolarmente freddo, pensò Ayano, ma forse era solo colpa delle gambe scoperte e della situazione, se lei si trovava a tremare così tanto.

L’auto era l’unica rimasta nel parcheggio, provare ad aprirla da lontano con la chiave elettronica non servì, allora Ayano andò dritta verso il bagagliaio e la infilò nella toppa, poi lo aprì e trascinò il borsone verso di sé. I suoi jeans erano lì, assieme ai suoi pattini da ghiaccio ed accanto a quelli con le rotelle. Sganciò i pattini da ghiaccio, immaginando che non le sarebbero serviti almeno per un po’, e lanciò la tuta ed il costume che aveva usato per la gara sui sedili anteriori, in modo che nel borsone restassero solo la bottiglia d’acqua, i vestiti di ricambio e gli stivali. Si arrampicò nel bagagliaio e, sul sedile posteriore, trovò lo zaino in cui sua madre aveva infilato le salviette struccanti. Lanciò anche quello nel borsone e riportò i piedi sul lastricato.

Lanciò un’occhiata dietro di sé, poi verso Fiamma, che la vegliava osservando lo spazio aperto alle loro spalle.

Ayano si sedette sul bordo del bagagliaio, le gambe a penzoloni, vide Fiamma annusare l’aria mentre allungava il braccio per prendere il primo stivale e si fermò con il braccio a mezz’aria.

«Che hai sentito?» le chiese.

Fiamma le lanciò un’occhiata breve e preoccupata, Ayano lasciò andare lo stivale e, invece, prese i pattini con le rotelle, infilando il primo alla svelta.

«Da che parte?» domandò.

Fiamma si sporse e sbirciò a sinistra, poi tornò a ritrarsi verso di lei, allora anche Ayano si affacciò e li vide a sua volta.

Erano accanto al cespuglio di rose, vicino alla scala che dava sull’ingresso dell’albergo, i Digimon ondeggiavano in direzione del parcheggio con passo malfermo. Ayano non voleva restare ad assicurarsi che la sua teoria fosse corretta, ma il pensiero degli zombie, nel vederli procedere con quell’andamento incerto e la bocca crepata dagli effetti della qualunque mutazione abbiano potuto subire e la pelle ingrigita, si fece largo in lei e non la lasciò.

Quei Digimon apparivano scoloriti e malati, Ayano era certa di non averne mai visti di simili. Afferrò il secondo pattino a rotelle, lo infilò al piede, lo allacciò malamente e scivolò giù dall’auto.

Vide con la coda dell’occhio Fiamma che saltava giù dall’auto a sua volta, i Digimon le videro in quel momento, anche se aveva l’impressione che sapessero già dove cercarle.

Mise in spalla il borsone, felice di aver deciso di lasciare il superfluo, e disse a Fiamma: «Corri!»

Pattinò in direzione del cancello, tovandolo aperto, si aggrappò ad un’anta di esso per virare e ne approfittò per lanciare un’altra occhiata ai Digimon. Non avrebbe mai immaginato che la prima volta che avesse incontrato degli Shamamon e dei Gladimon sarebbe stata tanto spaventata da loro. Tornò in strada, decisa a mettere quanto più spazio possibile tra lei, Fiamma e loro.

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