La nuova vita del professor Quasi

di The3rdLaw
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Questo non è ciò che eri. È ciò che pensavi di essere ***
Capitolo 2: *** Non ti riconosco più ***
Capitolo 3: *** Un giorno imparerai ***
Capitolo 4: *** Fammi capire ***
Capitolo 5: *** Ne è valsa la pena? ***
Capitolo 6: *** Smettila ***
Capitolo 7: *** Come sempre ***
Capitolo 8: *** Manchi solo tu ***



Capitolo 1
*** Questo non è ciò che eri. È ciò che pensavi di essere ***


“Questo non è ciò che eri. È ciò che pensavi di essere”
 
Corre in bagno: forse una sciacquata di faccia gli rinfrescherà le idee.
Però, guardandosi allo specchio, nota qualcos’altro d’insolito: quello non è il suo aspetto, o almeno non quello che ha al giorno d’oggi. Sta guardando il se stesso di quando aveva ancora ventidue anni, quando stava quasi per pubblicare la sua serie di romanzi ed era pieno di speranze.
Rimane a fissare il suo riflesso per un tempo indefinito, finché anche sullo specchio appare un QUASI scritto in rosso.
Indietreggia. In quel momento si accorge che i suoi passi non fanno rumore.
Corre fuori. I suoi piedi neanche toccano terra. Non si chiede come sia possibile.
Lì trova un'altra sorpresa. Fuori di casa sua, infatti, non c’è la solita città, ma una distesa di terra grigia e arida, interrotta ogni tanto da qualche albero rinsecchito. Anche il cielo è grigio, come se fosse coperto da un’unica, enorme nube.
Quella vista lo mette a suo agio: sempre meglio quello della solita, caotica città.
Si guarda indietro. Non si era reso conto di essere andato tanto distante dall’uscio di casa. Poco importa, tanto non ha nessun’intenzione di tornarvi.
 
Cammina senza meta per la valle. Quell’assoluto silenzio avrebbe fatto impazzire chiunque, ma non lui.
Gli alberi si fanno sempre meno radi. Senza accorgersene, si ritrova in una foresta di alberi bruciati e di cespugli di rovi. Si graffia più di una volta, ma non sente dolore.
 
Cade in una buca. Lì c’è una scalinata che va verso il basso. La prende, anche se non riesce a vederne la fine. Di nuovo, i suoi piedi non toccano terra e va velocissimo. Si chiede se ci sia davvero qualcosa oltre le scale.
Arriva a quel qualcosa. È un lungo corridoio, illuminato da una singola lampadina quasi fulminata appesa al soffitto.
Prosegue. Anche se adesso tocca terra, non fa rumore. Niente fa rumore lì, così come non lo faceva fuori.
Qualcosa gli dice di guardarsi solo avanti. Ad un certo punto, però, non riesce più a resistere alla tentazione e si guarda a sinistra.
Un centinaio di bulbi oculari lo stanno fissando. Si guarda a destra. Stessa cosa.
Corre. Ancora una volta, non tocca più terra.
Sbatte contro una porta. Nessun tonfo, nessun dolore. Già ci ha fatto l’abitudine.
I bulbi oculari si avvicinano a lui, lo circondano. Cerca di aprire la porta: si aggrappa alla maniglia, spinge con tutte le sue forze, ma non si apre. I bulbi oculari sono a pochi millimetri da lui.
Chiude gli occhi, restando aggrappato alla maniglia. Neanche sa cosa aspettarsi.
 
Non sente più la maniglia. La porta è sparita. Quasi cade, ma riesce a recuperare l’equilibrio ed entra nel varco creato dalla mancanza della porta. Per qualche motivo, i bulbi oculari non possono entrare, ma gli bloccano l’uscita.
Deve proseguire, non ha altra scelta. Davanti a lui c’è un altro corridoio, stavolta senza nessun tipo d’illuminazione.
Il buio e il silenzio sono totali, tanto che si chiede se stia proseguendo per davvero.
Si accende una luce azzurrina. Si rende conto di trovarsi davanti a uno specchio. Il suo riflesso è ancora quello di quando aveva ventidue anni ma, forse per l’illuminazione, sembra più pallido.
Resta fermo dove stava, mentre il suo riflesso si avvicina alla cornice dello specchio. Gli fa cenno di avvicinarsi a sua volta. Lui esita. Il riflesso gli sorride.
Avanza di un passo. È vicinissimo dal toccare lo specchio, ma al riflesso non basta.
Avanza di un altro passo e poggia una mano sul vetro. Ma non c’è nessun vetro.
Entra nello specchio. Il riflesso gli fa cenno di seguirlo.
Arrivano in un ripostiglio pieno di secchi di vernice bianca.
Il riflesso ne prende uno e glielo dà insieme a un pennello. Il ripostiglio svanisce, e si ritrovano di nuovo davanti all’uscio di casa. Ora anche sulle pareti esterne ci sono i QUASI scritti in rosso.
Il riflesso indica prima una di quelle scritte, poi il paesaggio davanti a lui.
«Questo non è ciò che eri. È ciò che pensavi di essere», dice, poi sparisce.
 
Cosa vuol dire “eri”? Per quanto lo riguarda, lui è ancora. Non che il resto della frase avesse molto senso.
Ma poco importa. Ora ha della vernice bianca e un pennello, quindi coprirà quelle fastidiose scritte.
Dà un’ultima occhiata al liquido. Era diventato denso e di color rosso scuro. Com’è possibile?
Appoggia il secchio per terra, sperando che, per qualche strana legge di quel mondo, la vernice torni bianca.
Così facendo, nota che il manico da dove lo stava reggendo era anche macchiato di rosso.
Confuso, si guarda le mani. Sono interamente sporche di quello che molto probabilmente è sangue. Cerca di alzarsi le maniche, ma si rende conto che erano incollate alle sue braccia. Ritenta, e a fatica ci riesce.
Capisce cosa stesse incollando le maniche. Dei lunghi tagli sanguinanti percorrono la zona tra il gomito e il polso di entrambe le braccia.

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Capitolo 2
*** Non ti riconosco più ***


“Non ti riconosco più”
 
Non ci pensa due volte. Non sa cosa ci sia dietro quella muraglia, o da dove sia apparsa, ma non gli importa. Vuole solo trovare un modo per entrarvi, in un modo o nell’altro. Tutto, pur di nascondersi da quegli abomini.
Gira intorno al muro, guardandosi continuamente indietro. Trova una porta aperta e ci si fionda dentro, senza ripensamenti.
Quello è il suo momento più felice in tanto tempo.
Resta con un orecchio attaccato al muro. Non sente nessun rumore. Si dà dello stupido: lì non esistono rumori… il più delle volte. Il solo pensiero di quell’urlo lo fa sentire male.
Ma poco importa. Ormai quell’evento è lontano.
Osserva ciò che si trova dentro quel muro, la sua temporanea salvezza. È un labirinto.
Si avventura dentro. Procede a caso. Sembra però che ogni direzione che prende sia quella giusta.
Si ritrova in un grande spiazzo quadrato. Il centro del labirinto.
Ci sono due statue giganti su due piedistalli. All’inizio gli sembrano identiche. Osservando più da lontano, riesce a vedere bene i loro volti, e si accorge della differenza.
La prima statua ha due grandi bocche spalancate al posto degli occhi; l’altra ha un unico, enorme occhio rotondo al posto della bocca. Entrambe reggono un cartello con una scritta.
 
Scegli me, non lui.
Scegli lui, non me.
 
Rimane ad osservarle per qualche secondo, poi si avvicina alla seconda statua. Sale sul suo piedistallo. Il ginocchio della statua è la maniglia di una porta grande quanto la sua gamba, che si apre da sola verso l’interno.
 
Si addentra. Ora si trova in una biblioteca. Abbastanza ben illuminata, tra l’altro. Due candele appena accese, al posto della solita lampadina quasi fulminata.
Ma lui preferirebbe restare al buio, perché la vista che ha davanti lo disturba più di quella di un bambolotto con la testa spaccata che perde sangue. I libri sono tutti in disordine, che siano mal riposti negli scaffali o semplicemente buttati per terra.
Ha sempre odiato il disordine, a meno che non sia creato da lui stesso. Ma quello non è disordine, è il suo ordine personale.
Ormai conosce quel mondo, sa che farebbe meglio a procedere e basta. Ma non resiste più. Afferra un libro da terra e lo ripone con cura in uno scaffale. Chiude gli occhi. Di sicuro accadrà qualcosa. Quel qualcosa non accade. Sistema un altro libro. Ancora niente. Il terzo. Nulla. Il quarto. Tutto tranquillo. Il quinto. La terra trema.
Sorride. Questo è il mondo che conosce.
Ma non smette. Sistema un sesto libro, poi un settimo, finché non sente qualcosa di duro e forte che lo sta bloccando dai polsi.
Lo guarda. È un’enorme massa nera, dalla forma quasi umana.
Neanche cerca di liberarsi. Lo resta a fissare, incantato.
Sente un crac. Non capisce da dove proviene, ma è molto vicino. Si risveglia dalla trance. Cerca di muoversi, ma il suo corpo non gli risponde.
La massa nera inclina la sua testa di lato.
«Non ti riconosco più», dice. Lo lascia andare e si allontana a passi lenti.
C’è un altro crac.
Finalmente libero dall’incantesimo, inizia a correre. I crac sono sempre più frequenti.
C’è una luce in fondo alla biblioteca. Va verso di essa, la raggiunge.
 
È nel bagno di casa sua, davanti allo specchio.
Non c’è più il QUASI scritto in rosso, ma ci sono delle crepe che attraversano il vetro esattamente dove si riflette il suo volto.
Si tocca la fronte. Sente una discrepanza. Si avvicina allo specchio, le crepe s’ingrandiscono. Si guarda le braccia, ancora martoriate dai tagli. Ci sono crepe anche lì.
Non è il vetro che si sta rompendo. È lui che sta andando in frantumi, come una vecchia bambola di porcellana.

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Capitolo 3
*** Un giorno imparerai ***


“Un giorno imparerai”
 
Sta di nuovo camminando senza meta nel suo nuovo mondo. Deve ammettere che non gli dispiace affatto. Nonostante l’inutile fatica per prendere la vernice e di coprire quelle maledette scritte e il fatto che i tagli ancora non si siano rimarginati, è contento di poter di nuovo apprezzare la solitudine e il silenzio di quel posto.
Il freddo è passato, ora ha il tempo di godersi la leggerezza dei suoi stessi passi. A volte i suoi piedi neanche toccano terra, proprio come se fosse un fantasma…

Il suo flusso di pensieri viene interrotto quando vede un bambolotto di ceramica per terra. Ha la testa e gli occhi enormi, rispetto ai soliti bambolotti. L’aspetto di quel giocattolo gli mette addosso una strana sensazione, a metà tra il disgusto e l’affetto.
Lo prende, non può certo lasciarlo lì abbandonato per terra. Per quanto gli dolga ritornarvi, decide di portarlo a casa e lasciarlo lì, da qualche parte.
Il viaggio di ritorno si rivela molto più breve di quanto si aspettasse. Non capisce se è perché lui è andato più veloce o se la strada si è accorciata.
Entra malvolentieri in casa. Il lavoro che aveva fatto per cercare di coprire le scritte non aveva fatto altro che peggiorare la situazione, o almeno così la pensa lui.
Cerca un posto dove poter riporre quel bambolotto, cercando di guardare il meno possibile le pareti, ma senza successo.
Non ce la fa più. Butta il bambolotto sul divano del soggiorno ed esce in fretta e furia da casa. Deve assolutamente ripercorrere la strada per riprendere la vernice, non ce la fa più a vedere le mura di casa sua in quello stato.


Esce in fretta e furia. Non ricorda in che direzione si trovasse quella foresta di alberi bruciati e di rovi, ma va avanti a senso.
Segue le zone dove stanno più alberi secchi, ricordando che così facendo era arrivato alla foresta, e così accade anche questa volta.
Ora deve solo ritrovare la buca. Più facile a dirsi che a farsi. Tappezza ogni angolo della foresta, che ora gli sembra infinita. Tutto inutile. Vorrebbe urlare, o mettersi a piangere come un bambino, ma non fa nessuna delle due cose: a che serve abbandonare la ragione? Deve mantenere i nervi saldi, solo così riuscirà a raggiungere quell’obiettivo, che si è rivelato più difficile di quanto avesse pensato. È tentato d’arrendersi – tanto ormai la sua casa non gli serve a nulla – ma continua a tener duro.


Proprio quando è sul punto di perdere la pazienza, l’assoluto silenzio è rotto da un urlo infantile.
È paralizzato, inchiodato dove è. Intanto l’urlo gli trapassa le orecchie. Prima era abituato a quel genere di rumore, dovendo stare in contatto con dei bambini convinti di essere cresciuti, ma ora quell’urlo sembra qualcosa d’innaturale, che non dovrebbe esistere.
Ha un’idea: forse sa da dove viene l’urlo. Corre verso casa sua, i suoi piedi neanche sfiorano terra. L’urlo si fa più forte.
Entra in casa. Se esistessero i rumori, si sarebbe sentita la porta sbattere.
Lo sapeva, era quel maledetto bambolotto. I suoi occhi si sono ingranditi ancora di più e la sua bocca si è spalancata.
Non ci pensa due volte. Prende il bambolotto per i piedi. Al tatto sembrano piedi umani, ma non ha tempo per essere impressionato. All’urlo si aggiunge un vociare indistinto. Un altro suono che aveva invaso la sua vita.
Va in cucina, precisamente verso il lavandino della cucina. Afferra il bambolotto per la testa – dannazione, sembra proprio che sta tenendo un bebè! – e la sbatte sul lavandino con tutta la forza che ha in corpo. L’urlo non cessa. Sente qualcosa di caldo bagnargli la mano. Non gli importa, tanto già ce l’ha sporca di sangue. Sbatte la testa del bambolotto un’altra volta. L’urlo si fa ancora più acuto. Se quel rumore continua, è sicuro che impazzirà. Lo rifà una terza volta. L’urlo finalmente si spegne.
Gli dispiace, ma non l’avrebbe fatto se quel coso si fosse stato zitto… Aspetta, cos’ha fatto?
Gira la faccia del bambolotto verso di sé. Ha la fronte distrutta e alcuni frammenti sono per terra o nel lavandino, e altre parti della faccia sono crepate. Dalle crepe e dai frammenti sgorga del sangue, che ha macchiato anche il pavimento e il lavandino. Gli occhi ora sono uno più grande e uno più piccolo, e la bocca è ancora spalancata.
Terrorizzato dalla sua stessa azione, fa cadere il bambolotto per terra, che si frantuma.
C’è qualche secondo di silenzio, ma non ha neanche il tempo di riprendere fiato. Una forte vibrazione scuote i frammenti del giocattolo. Indietreggia. I frammenti si sollevano, insieme a una coltre di polvere. Indietreggia di un altro passo, avvicinandosi alla porta che collega la cucina e il soggiorno, ma senza riuscire a distogliere lo sguardo dallo spettacolo. La polvere e i frammenti cadono. Davanti a lui c’è quello che sembrerebbe un esperimento di clonazione fallito, con tutti gli organi in disordine, inclusi quelli che dovrebbero essere interni. Neanche riesce a capire a chi dovrebbe somigliare.
«Un giorno imparerai», dice quell’abominio attraverso la sua bocca storta, poi si avvicina a passi lenti e scoordinati.
Al primo passo di quella cosa, apre la porta della cucina e corre fuori da casa sua. Anche se sa che ciò da cui sta scappando è lento, non si ferma, neanche rallenta, neanche poggia i piedi per terra. Correrà in eterno, se sarà necessario per sfuggire a quel mostro.

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Capitolo 4
*** Fammi capire ***


“Fammi capire”
 
Se lì esiste qualche dio, gli ha appena dato la sua benedizione.
Dopo aver corso per un tempo corrispondente a una vita, trova un edificio diroccato. Entra subito. Sa che, se il mostro lo dovesse trovare, per lui sarà difficile scappare, ma è comunque attratto da quel posto, per qualche motivo, e decide di fidarsi dei suoi istinti.
 
Dentro non c’è altro che una stanza vuota dalle pareti color rosso acceso. Di fronte a lui c’è solo una porta nera. Non sa cos’altro fare, quindi prende quella porta. Al di là c’è una stanza identica a quella precedente, solo che il rosso delle pareti e il nero della porta sono più sbiaditi. Lui quasi non ci fa caso e apre l’altra porta. Stessa storia di prima.
Procede così per altre trentasei stanze, finché il rosso e il nero quasi non si riescono a distinguere: sia le pareti sia la porta sono grigiastre, danno un senso di sporco.
Quando finirà? Questo pensa mentre apre la trentanovesima porta.
 
Per poco non cade. Lì non si trova l’ennesima stanza vuota, come s’aspettava, ma una scalinata in discesa. Un’altra.
Vola giù per le scale, come aveva fatto quella volta quando, uscito di casa, si era ritrovato in quel mondo per la prima volta.
Alla fine della scalinata c’è un corridoio, illuminato da delle piccole candele. Procedendo, delle lampade a olio prendono il posto delle candele. Poi sono rimpiazzate da delle lampadine elettriche. Infine arriva alle lampade a led. Sul corridoio iniziano ad affacciarsi altre porte. Cerca di aprirle, ma non ci riesce: sono solo dipinte con moltissima cura. Dopo un po’ si rende conto di essere in un corridoio d’ospedale. Che allegria… È una macchia di sangue, quella sulla parete? Sì, è proprio una macchia di sangue, e più in là c’è anche un bel rene! Si chiede dove possa essere il suo compagno. Lo trova un po’ più avanti, insieme alla sua amica vescica.
 
Più avanza, più trova organi sparsi sul pavimento, fino a quando deve stare attento a non pestarli. Non che gli faccia senso, solo che non vorrebbe scivolare.
Ciò che lo disturba, invece, è trovare un altro esperimento di clonazione fallito davanti a lui. Non era quello che lo stava inseguendo, era assemblato in modo diverso.
Sarebbe tornato indietro, ma a che pro? Probabilmente il suo inseguitore l’avrebbe raggiunto da un momento all’altro.
Si decide quando le porte disegnate si aprono e da lì escono altri puzzle di organi. Affrontarne uno è sempre meglio di affrontarne tanti. Fa un passo indietro e si gira, solo per realizzare che ora è circondato. Uno di loro ha un enorme paio di forbici nella mano che ha al posto dell’occhio sinistro, fa un sorriso sghembo con la bocca che ha sul collo.
«Fammi capire», dice. Gli si avvicina, tagliando l’aria con le forbici.
Lui indietreggia, ma sa di non avere vie di fuga.
Trema da capo a piedi, ma si ferma, pronto ad essere vivisezionato.
 
Gli manca la terra sotto i piedi. Sta cadendo in un buco. Sempre meglio di ciò che sarebbe successo se non fosse caduto.
È fuori. Si guarda indietro. I mostri stanno per raggiungerlo. È tempo di scappare di nuovo.

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Capitolo 5
*** Ne è valsa la pena? ***


“Ne è valsa la pena?”
 
Quella foresta continua a farsi sempre più scura e i rovi sempre più frequenti. Neanche cerca di evitarli: non gli portano né dolore né ferite. A proposito di ferite, i tagli sulle braccia stanno ancora sanguinando, dopo tutto questo tempo… da quanto tempo ha quei tagli, in realtà? Non sa rispondersi, neanche sa se il tempo ancora esiste. Poco male: finché non prova dolore, non gli importa molto.
Più che ai rovi, fa attenzione a non toccare terra coi suoi passi: non vuole rompere il silenzio. Non ha molto senso: non farebbe rumore neanche se avesse i piedi per terra, e lo sa, ma preferisce non rischiare, e poi gli piace sentire il nulla sotto di sé, sapendo che non sta cadendo.

Ormai è così buio che a malapena riesce a vedere ciò che ha davanti a sé. A un certo punto, scorge una fioca luce azzurrina splendere tra i rami secchi e i rovi. Decide di seguirla, tanto per vedere da dove possa provenire. Muove un passo, la luce si allontana. Accelera, ma quella si muove sempre alla sua stessa velocità, senza mai farsi raggiungere ma senza mai uscire dalla sua visuale.
È così concentrato sulla luce da non accorgersi che gli alberi e i rovi si stanno facendo sempre più radi, e che il cielo grigio sta tornando ad essere visibile.
La luce scompare, e solo adesso si guarda intorno. L’unica cosa che vede, in mezzo a tutto quel silenzioso nulla, è una bara di legno, circondato da un cespuglio di rose nere e rinsecchite, il tutto sotto una grande pozza di sangue.
Si sente stranamente attratto da quello scenario e si avvicina alla bara.
Non c’è nessun nome, solo due date, grossolanamente incise nel legno, l’una accanto all’altra: 30/06, 19/03.
Conosce benissimo la prima, e teme di aver capito cosa sia la seconda.
Vuole andarsene, continuare a camminare o a volare, e dimenticare quella bara e quelle due date. E invece si vede farsi forza e togliere il coperchio, per vedere se c’è qualcuno, lì dentro.
Lì dentro c’è un uomo con tanto di vestito per il funerale. Ovviamente è morto: il pallore innaturale della pelle e la posizione rigida non lasciano dubbi, per non parlare dell’enorme buco che ha nel petto, lì dove ci dovrebbe essere il cuore, che ora invece ospita qualche verme, alcuni ragni e vari insetti. Però c’è un particolare che non lo convince: il volto. Non ha la solita espressione serena, tipica dei defunti, né quella di qualcuno passato a miglior vita tra infinite sofferenze. Sembra più addormentato che morto, in un incubo da cui ancora non sa che si può svegliare. Forse sta ancora soffrendo nell’aldilà, o forse è semplicemente ancora vivo. Non si sorprenderebbe se fosse così.
Solo in un secondo momento si rende conto che quel cadavere ha il suo stesso, identico aspetto.


La luce azzurrina che lo ha condotto lì si accende di nuovo, stavolta proprio accanto a lui. Se ne era quasi scordato, ma ciò non lo rende meno contento di rivederla.
La felicità però dura poco. Sente un freddo indescrivibile penetrargli dentro. Immagina che venga dalla luce. Cerca di allontanarsi, ma non ci riesce. Il freddo diventa così forte da trasformarsi in qualcosa di molto vicino al dolore.
Non riesce più a stare in piedi e cade in ginocchio, ancora oppresso da quel gelo che ora sente nel sangue e nelle ossa.
«Ne è valsa la pena?». Chi ha parlato? La voce veniva dall’alto, ma sopra di lui non c’è nessuno.
La luce si spegne di nuovo, ma non porta via con sé il freddo. Quello resta dentro di lui.
Si alza a fatica e riprende a camminare convincendosi di essere tranquillo. Non è successo niente di che, si riscalderà camminando.

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Capitolo 6
*** Smettila ***


“Smettila”
 
Da quanto tempo sta correndo? Non ne ha idea, visto che le sue gambe non conoscono più la stanchezza, ma probabilmente si può fermare.
È in un posto che non ha mai visto prima, anche se gli sembra in qualche modo familiare. È un vicolo stretto, con degli altri palazzi dalle pareti di color grigio sbiadito su entrambi i lati. Nessun palazzo ha porte, ma solo finestre poste molto in alto.
Se uno nascesse in uno di quelle case non potrebbe mai uscire, pensa divertito. Si sente a suo agio, in quello stretto vicolo: si sente più a casa lì che nella sua stessa casa. E poi lì non ci sono bambolotti urlanti da cui escono esperimenti di clonazione falliti.
 
Proprio quando finisce di formulare quel pensiero, nota che il vicolo svolta a sinistra. Segue il percorso ma, voltato l’angolo, è costretto a fermarsi.
Quella bestia che credeva di aver lasciato indietro è lì, di nuovo davanti a lui.
Come ha fatto ad arrivare? Perché è così ossessionato con lui? Non può fissarsi con qualcos’altro? Un albero, un sasso, non gli importa, ma non lui!
La cosa allunga le sue braccia, una posizionata al posto dell’orecchio destro e l’altra sul fianco sinistro, e gli si avvicina.
Lui indietreggia: non si farà neanche sfiorare da quell’essere schifoso, però non vuole scappare di nuovo, tanto verrà raggiunto lo stesso. Deve farsi valere, almeno per una volta.
«Smettila», dice, con quel tono freddo e duro che neanche ricordava di poter assumere.
Cosa? Ha parlato? Non pensava fosse possibile, ma è anche vero che fino ad allora il pensiero di rompere il silenzio non lo aveva toccato.
Magari può spaventare la creatura con qualche altra parola severa. Apre di nuovo bocca, ma non emette nessun suono. Quella singola parola, però, è bastata. Gli occhi del mostro sono tristi – o almeno uno lo è, l’altro è posto nell’orbita al contrario, rendendo visibile solo la parte bianca – e la sua testa rivolta verso il basso.
Tutto tranne la voce del mostro gli sta chiedendo perdono, ma lui non è impietosito: non riesce a provare compassione per qualcosa di così brutto o fastidioso. Brutto e fastidioso come una cimice: diamine, quanto odia quegli insetti!
Nonostante ciò, non riesce a staccargli gli occhi di dosso. L’espressione costernata lo fa sentire soddisfatto della sua autorità, la sente un po’ come se fosse qualcosa plasmata direttamente da lui.
 
Si allontana piano, indietreggiando a passi lenti ma sicuri. La creatura deve non essersi accorta di nulla, perché non si muove.
Solo quando quel mostro è completamente fuori dalla sua visuale, si permette di girare i tacchi e di procedere a passo normale. Non ha fretta, tanto non crede che lo voglia ancora inseguire.
Esce dal vicolo, e una domanda lo colpisce in pieno petto: e se adesso iniziasse a cercarlo con più insistenza? Si dà dello stupido per non averci pensato prima, e continua a procedere sempre più in fretta, tenendo i piedi staccati da terra. 

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Capitolo 7
*** Come sempre ***


“Come sempre”
 
All’inizio vedere che la vernice in quel secchio è diventata sangue e scoprire quei profondi tagli che ha sulle braccia gli ha fatto impressione, ma ora si è abituato a quella vista, anzi pensa che doveva aspettarselo.
Si dà dell’idiota per essersi fatto distrarre: non gli importa con quale colore, vuole solo coprire quelle stupide scritte che hanno invaso la sua casa.
Finalmente si dà da fare: inizia a passare il pennello con estrema attenzione, irritandosi a ogni spazio bianco che lascia o ad alcuni punti che vengono più scuri degli altri. All’inizio cerca di usare la vernice solo per coprire le scritte, cercando di nasconderle con dei rettangoli rossi. Però, a lavoro finito, si rende conto che quella è un’idea alquanto stupida, e poi i rettangoli sono venuti tutti storti. A questo punto, l’unica cosa che può fare è dipingere tutta la casa di rosso. Riprende secchio e pennello e inizia a rimpiazzare tutto quel bianco immacolato con il rosso. Mentre lo fa, pensa divertito che avrebbe anche potuto usare il sangue che esce direttamente dalle sue braccia, senza usare gli altri due strumenti. Ride, perché nonostante ciò sta continuando a servirsi del pennello.
 
Ha finito. Ora tutte le pareti esterne sono rosse, senza nessuna traccia di quel bianco che era lì fino a qualche momento fa.
Ma c’è ancora qualcosa che non lo convince, oltre al fatto che la pittura non è proprio uniforme. Infatti, se si osserva molto attentamente, quei QUASI sono ancora visibili. Però non può passare la vernice di nuovo, o almeno non solo in quei punti.
Non gli va di spendere altro tempo fuori, quindi decide che quel lavoro va abbastanza bene e si accinge a entrare dentro.
Sta per aprire la porta… Ma non è affatto soddisfatto di quello che ha fatto fuori!
Si allontana di nuovo dalla porta, e vede che non solo non è soddisfatto dal suo lavoro, ma ne è davvero disgustato.
Forse con una seconda passata quel maledetto muro potrebbe diventare qualcosa di decente. Si rimbocca metaforicamente le maniche che già sono alzate e comincia di nuovo il lavoro.
Adesso va molto meglio di prima, ma quei QUASI sono ancora visibili.
Si costringe a non pensarci ed entra dentro, sperando di fare qualcosa di meglio lì. Sarebbe tornato dentro dopo.
 
Questa volta, però, ha un’idea.
Va in cucina per prendere il suo coltellaccio, ed è sorpreso nel vederlo per terra, anch’esso sporco di sangue, accanto alla cornetta del suo telefono fisso, tagliata da tutto il resto. Ma non c’è tempo per farsi domande, quindi lo prende e lo porta con sé nel soggiorno.
Si avvicina senza esitazione al muro e inizia a grattar via una delle scritte. Certo, ora non è più uniformemente liscio, ma lo considera comunque un miglioramento, finché la scritta non appare di nuovo, stavolta anche leggermente in rilievo.
Capendo che il nuovo metodo non funzionerà comunque, riprende secchio e pennello e torna a fare ciò che aveva già fatto alle pareti esterne.
Se fuori i QUASI sono diventati visibili solo se osservati attentamente, dentro sono ancora più evidenti.
Non solo quello su cui ha provato la sua idea, ma anche gli altri sono diventati in rilievo. Ancora non ha finito di dipingere tutte le pareti di rosso, che già sa che sarà un disastro. Invece di passare al resto della casa, continua a passare e a ripassare vernice su quelle scritte. Gli sembra che lo osservino con disprezzo, prendendolo in giro per la sua incapacità.
In un accesso di frustrazione, getta il secchio e il pennello per terra, e il sangue che aveva preso il posto della vernice bianca macchia il pavimento.
Non se ne cura, e si avvicina di nuovo a una parete. Passa un braccio sulla scritta: se non ha più altro, userà il suo stesso sangue. Ovviamente non serve a nulla.
Sente qualcosa di freddo bagnarli una guancia. Una lacrima. Ci mancava solo quello.
Appoggia la testa sul muro, lasciando che quel QUASI lo osservi dall’alto al basso e che lo veda come quel patetico fallimento che è. Intanto tocca una ferita del braccio destro con l’indice della sinistra, e usa quel sangue per scrivere qualcosa di suo su quella parte di muro sotto il QUASI che ancora non è stata pitturata.
Come sempre.
Resta del tempo così, non riuscendo a decidere se continuare quel disperato tentativo di coprire decentemente quelle scritte apparse senza motivo o se arrendersi e lasciare che quel fallimento lo osservi ogni volta che entrerà in casa. Ma ciò non succederebbe se uscisse e non rientrasse mai più…
 
Si allontana dal muro ed esce di casa senza guardarsi indietro. Quel disastro non esisterà se non lo vedrà nessuno. 

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Capitolo 8
*** Manchi solo tu ***


“Manchi solo tu”
 
Non perde tempo: da qualche parte sa di avere una colla, o comunque qualcosa che possa coprire le crepe che gli si sono create addosso.
Presto trova ciò che sta cercando e torna nel bagno, per vedere esattamente dove si stesse rompendo.
 
Arriva davanti allo specchio, però il riflesso si rifiuta di seguire i suoi movimenti.
«Ehi, cosa diamine vuoi fare?», gli chiede quella persona al di là dello specchio.
«Sono stanco di stare fermo a guardare. Non mi lascerò rompere così. Ti prego, non mi ostacolare».
Il riflesso fa una risata sarcastica.
«Non è servito a niente, e mi hai detto così tante volte che avresti smesso di provarci».
«Ho dovuto ricredermi. Sbagliare un’altra volta non mi farà poi così male. Ora collabora».
«Ne sei sicuro? È per colpa dei tuoi errori che sei arrivato a questo punto. Qualunque cosa fai, in qualche modo sbagli. Meglio non provarci proprio, o forse saresti capace di combinare qualche cazzata anche senza fare niente».
Sbuffa. Quello specchio l’ha proprio stancato. Guarda per terra, e lì trova una spada. Sorride e prende l’arma in mano, quindi torna a guardare il riflesso. Si gode ogni dettaglio del suo volto ora terrorizzato.
«No, non puoi farlo! Ti servo!».
A quell’ultima preghiera risponde trapassando lo specchio con la spada. Non ci sono vetri rotti, e la stoccata arriva dritta alla gola del riflesso. Fa scorrere la lama fino allo stomaco, concentrandosi sull’espressione sconvolta della sua vittima, sul suo tremito, sulla sensazione della spada nella sua mano, che non è mai stata così ferma.
Arrivato allo stomaco, gira la spada nella sua mano nove volte, poi finalmente la toglie dal corpo del suo riflesso, che cade prima in ginocchio, poi faccia a terra.
Resta lì a guardarlo per un po’, sconvolto ma allo stesso tempo soddisfatto del suo lavoro.
 
Esce. Non trova quello scenario a cui ormai si è abituato, ma uno altrettanto familiare: è nella sua città.
Riconosce più della metà delle persone che vede, ma quelle sembrano notarlo ancor meno del solito. Quelle poche volte che qualcuno incrocia lo sguardo con lui, sembra che gli guardi attraverso.
Inizia a camminare per una strada che faceva ogni giorno per arrivare in un posto pieno di persone che amava e odiava, sosteneva e invidiava.
A un certo punto, però, la strada rumorosa, le persone indaffarate e il cielo sereno spariscono, lasciando il posto a quella landa spoglia e a quella sconfinata nube grigia a cui aveva fatto l’abitudine. Non gli importa, continua sulla sua strada.
I due paesaggi sembrano essere in conflitto, sovrapponendosi l’uno con l’altro. Lui non ci fa davvero caso, riesce ad orientarsi in entrambe le realtà.
Sotto il cielo azzurro e sopra la strada asfaltata, arriva davanti a una scuola, o meglio, alla scuola.
Sorride alla vista di un posto così familiare dopo un così lungo vagabondaggio alla cieca. Chissà, magari lì qualcuno sarà costretto a notarlo, forse c’è qualcuno che non vede l’ora di rivederlo…
Muove un altro passo e tutto quello sparisce.
 
È nel mezzo della foresta di rovi, ma qualcosa è diverso: si trova davanti a un lago che riflette il colore del cielo, ora di un celeste pallido.
Vi si avvicina con leggera esitazione e si mette in ginocchio su una delle sue sponde. L’acqua è così trasparente che vi si può specchiare. Solo adesso si rende conto che le crepe ancora stanno attraversando tutto il suo corpo. Attraverso di esse si può intravedere una luce bianca.
Non la trova molto bella, ma si ritrova a fissarla prima tramite quello specchio naturale, poi guardandosi una mano. Forse gli dispiacerà doverla coprire…
Scuote la testa: no, non gli dispiace, non gli è mai dispiaciuto e non gli dispiacerà mai.
Alza lo sguardo per vedere se intorno a lui c’è qualcosa che possa aiutarlo a riaggiustarsi.
La prima cosa che vede è un cancello bianco quasi immacolato, se non fosse per qualche punto dove invece la vernice è scheggiata, e che è sormontato da una scritta.
Manchi solo tu.
A malapena ha il tempo di notare le piccole imperfezioni sulla scritta e sul cancello, quando esso si apre, sprigionando la stessa luce bianca che esce dalle sue crepe, ma molto più intensa e accompagnata da un vento fresco.
È qualcosa che non ha mai sperimentato prima. In realtà la luce non è esattamente bianca, e lo nota abbastanza presto: è grigiastra, ma non argentata. Nonostante ciò ne è incantato. Quel colore non è perfetto, non è bellissimo, ma non gli dispiace affatto.
 
Sa che non ci sarà più nient’altro dopo quella luce, dopo quella brezza.
Qualcosa dentro di lui sta crescendo: forse è la sua, di luce. Allo stesso tempo sente che i suoi pezzi stanno sfuggendo sempre di più al suo controllo.
Vuole opporsi, ma allo stesso tempo vuole finalmente lasciar andare tutto per non guardarsi più indietro. Ha capito, ora sa perché è lì e sa cosa deve fare, cosa ha sempre voluto fare.
 
Sorride, chiude gli occhi. Lascia che la luce lo prenda e il vento disperda i suoi frantumi.
 
Fine
 
 
Note dell'autrice: Non posso credere di essere giunta fino alla fine di un progetto, non capita praticamente mai.
Ringrazio tutti coloro che hanno letto fin qui, in particolare Makil_ e Feeldespair per avremi graziato con i loro gentilissimi commenti.
Questo è stato il mio primissimo tentativo nello scrivere qualcosa di questo genere, e tutto è partito semplicemente con una piccolo racconto che avevo scritto in un momento di frustrazione. L'avevo pubblicato qui su Efp con il titolo "Per essere il migliore" e consisteva in una sorta d'introduzione del protagonista nel mondo in cui si è svolta questa storia. Per chi l'avesse letto, non consideratelo particolarmente "vero" rispetto al resto della storia: col tempo l'idea originale ha subito molti cambiamenti e quel racconto non aveva molto a che fare col resto della storia, fatto sta che l'ho anche tolto da Efp.
Quanto alle varie allusioni e simboli sparsi per questi otto racconti, non dirò nulla, ma ci tengo almeno a farvi sapere il loro ordine cronologico, visto che li ho scritti secondo un altro criterio: l'ordine dei racconti è 1, 7, 5, 3, 6, 4, 2, 8. Se letti in questo ordine, forse più cose avranno senso.

Non sono affatto una persona sentimentale, ma posso affermare che metto un po' della mia anima in tutto ciò che scrivo, e forse in questo progetto è andato un pezzo più grande del solito, per questo sono contenta del fatto che qualcuno abbia letto e apprezzato - silenziosamente o con delle recensioni - questo mio lavoro. Vi ringrazio davvero.

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