Illusion- Il Paese dei Balocchi

di Dexys
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


"Forza, ce l'hai quasi fatta!" disse il barone delle stelle. L'aria fresca mi faceva venire il mal di testa, ma comunque cercai di non pensarci. Mi porgeva la mano per aiutarmi nella scalata che stavamo compiendo, potevo sentire la sua felicità nel vedermi quasi in cima. Quanto avrei voluto vederlo sempre quel sorriso, immaginarmici più vicino, sempre più vicino. Se avessimo raggiunto la vetta del monte saremmo potuti arrivare fino al cielo, oltre la montagna, per prendere una navetta nuvolosa e riuscire a toccare la via Lattea, la nostra meta. Mancava solo l'ultima falcata, un unico piccolo pezzo di strada che mi separava dal sogno di una vita. Come ci ero finita in quell'assurda situazione neanche io lo sapevo, ma bastava solo guardare gli occhi color smeraldo del Barone per dimenticare le mie preoccupazioni. 

"Ci sono, aiutami!" esclamai felice di aver quasi raggiunto il mio obbiettivo. I piedi erano doloranti per lo sforzo, ma niente poteva sostituire l'entusiasmo che provavo in quel momento. Gli occhi mi lacrimavano a causa della fatica e della povere intanto afferrai la mano inguantata del barone, mentre il sul sorriso emanava felicità e spensieratezza. Non potevo essere da meno, toccare le stelle non era una cosa da tutti i giorni, sognavo da quando ero bambina tutto ciò. Infondo, anche se ero cresciuta il mio animo non lo era, avevo ancora quella spensieratezza che mi caratterizzava. Le stelle per me erano una delle tante mete che volevo raggiungere, una tra le più importanti. 

"Ci sono riuscita, Barone, ce l'ho fatta!" lo abbracciai di slancio, un abbraccio sincero. Uno di quegli abbracci che si danno senza pensarci, perché i pensieri, le preoccupazioni, non sono importanti. In quel momento temetti di poter perdere tutto, senza che io potessi fare niente. A rassicurarmi era l'odore di muschio bianco del Barone.

Però c'era qualcosa di strano: lui non ricambiava l'abbraccio. In compenso se ne stava fermo e immobile mentre io lo scuotevo. Mi stavo preoccupando.

Uno scossone. Ancora niente, i suoi occhi non mi guardavano.

"Barone?"

Due scossoni ed un tuono. Nacque in me la paura, non doveva succedere di nuovo. Non poteva andarsene.

"Barone!"

Silenzio. C'era solo silenzio, neanche il minimo rumore. Era inquietante quel momento, lui che fissava impassibile l'erba su cui eravamo, io che lo guardavo esasperata. 

"Gia..." disse con una voce che sua non era. Forse era femminile, oppure maschile. Anzi, nessuna delle due. Cosa stava succedendo? 

Gli presi il viso tra le mani, gli imposi il mio sguardo. Doveva...non so cosa doveva fare, ma tutto poteva andare bene, purché ritornasse come prima. 

"Cosa andate dicendo? Vi sentite bene?" questa volta lo strattonai più forte, ma niente, lui continua ad avere quello sguardo vuoto che stonava sul suo volto, sempre vivace e felice. Non riuscivo proprio a spiegarmi il perché di quello strano comportamento. Mi stavo spaventando.

Provai a dargli uno schiaffo in viso, ma niente, lui non reagiva. Ormai stavo già piangevo, sapevo che presto sarebbe successo, di nuovo. Lo abbracciai piangendo lacrime amare che mi bagnavano il viso fino al mento. Non era giusto, non poteva accadere di nuovo. Io avevo bisogno di rimanere, non volevo andarmene un'altra volta.

Prima che potessi dire qualcosa, venni afferrata da dietro e mi ritrovai a cadere nel vuoto, mentre il rimanevo piangente e spaventata. Poi ad un certo ci fu più luce.

«Giacinto Denise!» urlò una voce acida ed io non potei fare a meno di scattare in piedi. Un dolore lancinante alla testa mi fece mugugnare, sembrava che qualcuno mi avesse urlato nelle orecchie per molto tempo, troppo. C'era una donna davanti a me che non faceva altro che squadrarmi da capo a piede, come a cercare un qualche motivo a giustificare la mia posizione insolita. La mia bocca formò una O incredula. Di solito nessuno si accorgeva di ciò che facevo quando non intervenivo in classe, e questo mi permetteva di isolarmi nei miei pensieri. La mia era una vita normale, se si può dire. Non ero molto diversa dai miei coetanei, uscivo, avevo degli amici, parlavo con gli altri a volte. Però non mi sentivo a mio agio, forse era normale. Tutti noi adolescenti affrontiamo quella fase in cui ci sentiamo fuori dal mondo, diversi, anche se in realtà non lo siamo. Saremmo sempre una delle sette miliardi di persone che popolano questo mondo. A volte mi sento sola nonostante tutta questa folla. 

Silenzio e pace, ecco cosa mi serviva per vivere, ma questo sembrava che la professoressa non l'avesse capito poiché picchiettava il tacchettino della scarpa sul pavimento, impaziente di una spiegazione. Sembrava che i suoi occhi, per quanto stanchi, fossero irradiati di un fuoco antico, quasi immortale.

«Ecco, io...»cominciai a spiegare, ma subito lei mi interruppe furibonda. Vidi le vene del collo diventare più visibili, i tendini delle mani contrarsi e la sua schiena farsi dritta. Tutto in un secondo, un breve ma spaventoso secondo. Temetti di aver fatto esplodere una bomba, peggio di quelle nucleari, oh no, loro sono molto meno potenti.

«"Ecco, io" un corno signorina! Vedi di ritrovare la retta via che quest'anno ci saranno gli esami di terza media. Pretendo il meglio da te, Denise» disse calcando sulla parola esami. Io rimasi sbigottita da ciò che aveva detto. Dopo tre anni che ci aveva massacrati di compiti, di note e di insulti, lei si permetteva di pretendere da noi il massimo nella sua materia? Quella donna era tutta pazza. Nel cuor mio speravo di star sbagliando, che quella non fosse la sua reale natura, forse anche se poteva essere una donna maligna e racchia, se si guardava bene, sotto quella corazza fatta di freddezza e acidità si poteva scorgere un animo materno difficile da perdere. Non so perché, ma pensai alla sua infanzia, a cosa la portò scegliere il lavoro che fa tuttora, insegnare disegno non è facile. Non è solo far imparare a disegnare due linee, secondo me si imparava anche ad esprimere le proprie emozioni, un po' come la musica, solo che si faceva in un modo diverso...non so come spiegarlo. Poi in musica, non è che io potessi avere voce in capitolo.

«Sì, professoressa Serafini» dissi a capo chino. Mi pentii di tutto ciò che le avevo fatto passare, mi ero resa soltanto una persona orribile in quel modo, con quel comportamento.

La vidi girarsi e tornare alla cattedra mentre i miei compagni mi guardavano trattenendo le risate, perfino Eleonora stava cercando di controllarsi, anche se non bene. Desiderai che una crepa nel pavimento mi inghiottisse, però non potei fare a meno di ghignare anch'io per la mia figuraccia, non era la prima volta che mi addormentavo in classe. Forse neanche l'ultima, questo era certo.

«Ahh, Denisuccia! Che cosa dobbiamo fare con te? Dormi a casa, dormi a scuola, tra poco dormi mentre mangi!» sospirò divertita Ele, si vedeva che non era stupita del mio comportamento "indisciplinato". 

«Tranquilla mia piccola amica, quello lo faccio già!» e insieme scoppiammo in una piccola risata, sempre stando attente a non farci sentire dal resto della classe. Non volevamo un altro richiamo, ce ne bastava già uno! Ma non potei fare a meno di lanciare un'occhiata alla prof, la quale vedendomi fece un piccolo sorriso.

Suonò la campanella dell'intervallo, io e Eleonora uscimmo in fretta e furia cercando una persona precisa. Superammo molti gruppetti composti da ragazzi e da ragazze, quasi tutti vestiti nello stesso modo. Loro lo definivano moda, bah! 

Appena lo trovammo bastò uno sguardo d'intesa per agire. Io e la mia amica camminammo lentamente verso due professori, uno dei quali, il più giovane, stava parlando gesticolando, come a rendere più animato ciò che stava raccontando. Eravamo vicinissime, talmente vicine che mancavano meno di una manciata di passi a separarci. Gli alunni delle altre classi ci passavano vicini indifferenti mentre i pochi minuti della ricreazione passavano, ignari della nostra presenza non giustificata. O almeno non giustificata secondo le loro piccole menti chiuse e ottuse, totalmente prive di una qualsiasi elasticità mentale.

«Mi scusi, non è che l'aula di musica sia libera?» domandai divertita a Jacopo, il nostro professore di musica. Dovevo fare una cosa molto importante, molto importante. Talmente importante da rendermi impaziente.

«Oh, l'aula di musica! È per quelle ripetizioni, vero? Mi scusi Paolo, ma mi sono ricordato solo adesso di questo impegno. Che ne dice se rimandiamo il caffè a dopo?» esclamò in fretta il ragazzo. L'altro non poté fare a meno che annuire incuriosito. Ele lanciò un piccolo grido di trionfo, ed io, imbarazzata, le tirai una gomitata. Lei non gradì la cosa e mi guardò male, fortuna volle che Jacopo, percependo l'astio che c'era nell'aria, si congedò in fretta. Per nostra felicità. 

«Bene, a più tardi allora!» disse mentre io e la mia carissima amica lo incitavamo verso le scale.

Salimmo al piano superiore e ci dirigemmo nell'aula di musica, verso la mia sfida quotidiana. Per poco non scivolai sul bagnato, colpa del pavimento recentemente lavato. Vidi alcuni professori che passavano e ghignavano della mia quasi caduta, mentre io mi trattenevo dal lanciare una parola poco consona all'ambiente. Appena raggiunta la stanza feci un profondo respiro. Mi stavo preparando. 

La stanza era di un colore celeste spento, segno dell'età dell'istituto, le finestre si affacciavano sulle altre classi e si potevano intravedere gli altri alunni fare lezione. Si poteva osservare il giardino grazie alle finestre rivolte a sud, con gli aghi caduti dal secolare abete che, imponente, era il centro di tutto quel miscuglio di grigio e marrone. Le temperature si erano abbassate e la notizia di una promettente gelata aveva lasciato desiderosi gli alunni di vedere il bianco cadere sulle loro teste. Erano passati diversi anni da un evento del genere.

Sfiorai le dita sui tasti mentre Jacopo si toglieva la giacca e Eleonora si sedeva impaziente sulla sedia, una delle tante rotte e scarabocchiate, piene di disegni e scritte. Il suo aveva come caratteristica la frase "Nn t scrdr mai d t. Ali.", classico esempio della conoscenza della grammatica tra i miei compagni. Per il resto era tutto una macchia nera, forse qualcuno aveva deciso di colorarlo con un pennarello indelebile, oppure serviva a coprire un qualcosa, purtroppo era difficile da sapere.

Mi sedetti alla sedia vicino, accavallando le gambe con fare consapevole. 

«Allora, Denise, a che punto siamo? Hai ottenuto qualche progresso?» chiese Jacopo strofinandosi le mani. Avevano le dita lunghe, tipiche di chi suona il pianoforte. 

Feci cenno di no, e allora lui sospirò. Fu sospiro rassegnato.

«Non ci riesco, c'è qualcosa che mi blocca. Tu che dici?» chiesi alla mia amica che si era rattristata.

Mosse la testa in segno di rassegnazione e poi si stiracchiò sulla sedia. Così facendo fece scricchiolare la sedia e per un momento temetti che cadesse. Non successe per fortuna.

«Non credo che sia dovuto allo stress, in questi giorni sei molto rilassata. Forse anche troppo» ghignò riferendosi alla figuraccia di prima. Sbuffai indispettita, lei e la sua maledetta lingua biforcuta. Però aveva ragione, lo stress non centrava niente. Allora perché non riuscivo a suonare il pianoforte? Ero io forse? Erano passati anni da quando lo suonai l'ultima volta, certo, ma non credevo che fosse quello la causa di questo problema.

Picchiai le mani sulle gambe, frustrata dalla situazione, era normale, no? Piangere non sarebbe servito a niente, i bambini piangono. Ed io non ero una bambina.

«Senti, finché non ti lasci andare non concluderai mai nulla. Non conosci qualche brano che ti piace?» alzò un po' la voce. Quel suo cambio repentino di tono mi fece temere di essere io la causa. Ero una fallita, questo ormai era ovvio a tutti, ma il fatto di non riuscire neppure a suonare le più semplici delle melodie mandò la mia autostima a farsi benedire. Mi sentivo uno schifo, ero uno schifo.

«Jacopo, ormai non so più a cosa pensare. Le ho provate tutte! Non riuscirò mai a riprendere a suonare!» dissi sull'orlo delle lacrime. Non dovevo piangere, lo avevo promesso. Mantenere le promesse è più importante di uno stupido strumento. E se anche ci fosse stato un modo, io non sarei stata in grado di trovarlo. Ormai ero al capolinea.

«Dai, sarà pure qualcosa, qualche motivetto facile che conosci!» disse annoiato come si fa con una bambina capricciosa. Una stupida bambina capricciosa.
Mossi la testa facendole capire che con c'era niente che potevo fare.
Poi però mi passò un'idea nella mente e una lampadina immaginaria si accese sopra la mia testa.

«E se» sussurrai avvicinandomi allo sgabello del piano. I ricordi si fecero più vividi e nella mia mente rivissi quel momento magico. Le mani si muovevano da sole, producevano una melodia semplice e dolce, una ninna nanna

«Denise! Stai suonando!» urlò Eleonora alzandosi di scatto. La sedia cadde definitivamente a terra e per poco non mi distrassi a causa del rumore che fece. Si vedeva tutta la felicità che provava Sofia in quel momento. Jacopo invece sorrise soddisfatto, orgoglioso. 

Le dita erano come fumo, si muovevano in fretta e attraversavano i ricordi. La sua voce, il suo profumo, tutto mi ricordava lui. Nella mia mente vi erano ricordi sfocati, parole dimenticate ormai da chissà quanto tempo. Sentivo il bisogno di riaverle nel mio cuore, di sapere a chi appartenevano. Desiderai con tutta me stessa di risentirle come la prima volta che furono dette. Un groppo blocco la mia gola. Il mio papà.

La canzone non si protrasse per molto tempo, però sembrava che mancasse qualcosa, come se fosse incompleta. Mi guardai le mani, non erano delicate, non erano forti. Bianche come la neve candida avevano dimostrato di avere una nascosta energia.

«Che ti avevo detto?» rise gioioso il mio professore. Ele mi corse incontro e mi abbracciò goffamente, poiché era più bassa di me. Non riuscivo a capire da dove venisse tutto ciò, sembrava che quella canzone fosse parte di me, che fossi io ad essere parte di lei. Una cosa era certa, quello fu il giorno più felice della mia vita.

 

Camminavamo per le vie di Milano, verso casa. La maledetta non faceva altro che raccontare ciò che era successo ad Andrea, il nostro povero amico. Povero perché doveva sorbirsi le nostre storie, amico perché, beh, ha avuto la sfortuna di incontrare noi due ed essere stato così incosciente da fare amicizia.

«...e poi lei comincia a suonare e viene fuori questa meraviglia, ma che dico?! Questo capolavoro!» e alzò le mani al cielo, mentre i passanti ci guardavano sorridendo per la nostra esuberanza. 

«Zitta! Non voglio che tutti sappiano che invece di fare Storia sono andata a suonare quello stupido strumento!» le dissi tappandole la bocca con la mano. Era mai possibile che da timida che era, fosse diventata così loquace? E così selvaggia, visto che mi stava mordendo il palmo per liberarsi dalla mia presa. 

Lanciai un sonoro "Ahi" e guardi storto la mia "piccola amica", anche se tanto piccola non mi sembrava.

L'aria era gelata, ad ogni respiro si formava una nuvoletta di fumo che mi incantava. Le vetrine dei negozi erano addobbate in stile natalizio, luci e ghirlande erano protagonisti. Famiglie riunite passeggiavano allegramente in mezzo a quell'atmosfera di pace che regnava tra le stradine meno affollate. Vidi una bambina dai capelli dorati ridere allegramente quando il padre la prese sulle spalle facendo agitare la sua chioma boccolosa. Sorrisi nascosta dalla mia sciarpa.

«Sentite un po', che ne dite di fare un giro dopo mangiato? Ho sentito dire che hanno aperto un nuovo negozio che vende roba usata» cercò di cambiare argomento Andrea, riuscendoci in pieno. Amavo i negozi dell'usato, vedere cose con una loro storia, già vissute, veterane se si può dire.

Annuii eccitata e corsi verso casa lasciando i miei due amici ridere per la mia reazione. Svoltai a destra della piazza dove si trovava Marco, un vecchietto ormai solo che si sedeva sempre su quella panchina, aspettando la sua Luisa, che non sarebbe mai arrivata.

«Hey! Ancora niente?» gli chiesi salutandolo. Lui in risposta mi lanciò un sorriso assai triste e consapevole. Anche lui sapeva che non sarebbe mai arrivata, ormai erano anni che lei ci aveva abbandonata. Quella panchina era il luogo in cui si erano conosciuti e il luogo in cui si erano visti l'ultima volta. Da allora Marco non fu più lo stesso. Strano come le persone possano lasciare un segno così indelebile nella vita di altre per poi portarsi via un pezzo di noi con la loro scomparsa. Un pezzo della nostra anima finito dove finiscono tutte le nostre speranze, i nostri sogni e le nostre paure. 
«Ci vediamo, tu non perdere la speranza» annuì e torno a guardare fisso davanti a sé. Feci un sorriso malinconico e proseguii per la mia strada.

Arrivata a casa entrai di corsa gettando la cartella sul divano e urlai per avvisare la mia presenza alla mamma. Fuori faceva molto freddo, infondo era Dicembre, e per riscaldarmi dovetti strofinarmi le mani, poi mi ricordai che ormai ero a casa e allora mi diedi della stupida.
Appena vidi sbucare una testolina tutta sporca di tempere non potei fare a meno di ghignare. Ciuffi ribelli color carbone le ricadevano sul viso incorniciato da sottili rughe. A quanto pare mia madre stava cercando un hobby con cui rilassarsi, e questa volta si era data alla pittura. Forse meglio quella, mi ricordo ancora quando aveva provato a diventare una perfetta cuoca. Quattro parole: cucina andata a fuoco. Il solo che riusciva a cucinare erano degli spaghetti alla carbonara e un po' di purè, per il resto ci pensava il fattorino delle pizze e il ristorante cinese a sfamarci. Quando c'era papà era lui a cucinare. 
Mi avvicinai a lei così da poter vedere il suo lavoro, anche se sembrava ci fosse più pittura sulla sua faccia che sulla tela. Del viola tra i capelli, un po' di giallo sulle guance, insomma, era un quadro vivente. Ad ogni modo del dipinto riuscii a riconoscere una figura alta e longilinea, una massa castana e con alcune pennellate turchesi in cima e due puntini marroni poco vicino. Non sapevo proprio cosa fosse?

«Allora?» chiese lei.

«Ehm...» esitai io.

«Sei tu!» disse felice del suo capolavoro. Feci una finta risata, ma infondo come dovevo reagire? Quella ero io? Feci per guardarmi allo specchio. Ora capivo, la massa informe erano i miei capelli e i due puntini marroni erano i miei occhi. Non era granché, ma la feci passare per buona, disegnava certo meglio di alcuni miei compagni egocentrici. Adesso sembrava tutto più chiaro, o quasi. Vicino a quella me dipinta c'era una macchia marroncino chiaro, piccola e poco definita. 

«Cos'è quello?» e indicai la macchiolina. Infondo a destra del quadro vi era una specie di macchia con una forma indefinita, di un colore assai strano, come se fosse stato mischiato consapevolmente con altri colori, quindi non era un errore non voluto fatto col pennello. Proprio non riuscivo a capire il suo significato, anche se una strana sensazione mi accarezzò la schiena facendomi venire i brividi.

«Eh? Ah boh, prima non c'era.» si alzò facendo spallucce. Cercai di non pensarci, anche perché avevo un certo languorino. Ora che ci pensavo bisognava mangiare, ma cercando con lo sguardo una qualche fonte di cibo non la trovai. Lanciai uno sguardo interrogativo a mia madre. Ricambiò lo sguardo, ed io allora picchiettai sullo stomaco, come a farle segno del mio essere affamato, molto affamato. Pregai avesse recepito il messaggio.
«Ahhhh! Potevi dirlo prima, invece di giocare al mimo?» fece sbattere la mano sulla fronte e si alzò dalla sedia. Scomparve dietro la porta della cucina e io sospirai, non sarebbe mai cambiata.
Passò poco tempo quando sentii odore di bruciato. Ebbi paura di ciò che aveva combinato.

«Ehm, tesoro, potresti aiutarmi un attimo? C'è un piccolo problemino» fece una risatina isterica. Sconfortata mi diressi verso la cucina mentre l'odore di fumo mi stuzzicava le narici.
Non potei fare a meno di lanciare un ultimo sguardo al dipinto, cercando quella macchiolina chiara.

Ma sembrava sparita.

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Author's corner

Salve a tutti e ben riletti! So che non sono stata molto attiva su EFP, avevo bisogno di un periodo di pausa. In questi mesi sono cambiate molte cose, ho iniziato il liceo artistico, sto man a mano forgiando il mio carattere, la mia personalità, il mio stile. Mi sto sempre rendendo più conto di chi sono, chi ero e chi sarò. Sto riprendendo in mano le redini della mia appena iniziata adolescenza, un pò turbolenta ma anche così improvvisa e nuova. Mia.

Ho deciso di ricominciare a scrivere questa storia, ce la farò.

Ora non posso dilungarmi troppo ma ho il dovere di dirvi che la sto man a mano continuando, modificando e revisionando.

Ne parleremo nel prossimo capitolo cari amici.

Commentate se volete! Voglio un vostro parere su questo capitolo che ho attentamente revisionato e modificato!

See yah!

Dexys

 

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Aspettavo mia madre che cercava le chiavi dell'auto, ormai non sapevamo più che fine avessero fatto. Ogni volta che dovevo uscire era sempre la stessa storia, mi ricordo quando il primo giorno di scuola avevo intenzione di andarci in anticipo. Fin qui niente di strano, avevo un sacco di tempo per prepararmi e tutto, mia madre si svegliò un po' più tardi di me , nonostante tutto riuscì ad essere pronta in tempo. C'era solo un problema: dove erano finite le chiavi? Ed ora mi ritrovavo nello stesso guaio, se non avessi trovato le chiavi dell'auto sarei rimasta a piedi, non che fosse un problema, ma mia madre era un po' restia a farmi andare da sola in giro.

Mi sedetti davanti alla finestra della sala, la neve scendeva ormai. Quello era uno dei pochi anni in cui nevicava a Milano. Ero abituata a vederla sempre gremita di gente che correva, chi per andare a lavoro, chi per altro. Invece no, con la neve tutto si fermava. Le auto, le persone, il tempo, tutto. Potevamo solo alzare la testa e guardare con il naso rivolto al cielo quei piccoli batuffoli gelati scendere lentamente verso il basso, senza fermarsi mai. Immaginarci una gara tra i fiocchi di neve e vedere chi arrivava prima a terra, o chi sopravviveva nella propria mano prima di sciogliersi. Feci per toccare il vetro con fare triste, quando una mano mi toccò.

«Ho trovato le chiavi! Forza andiamo che è tardi» disse sistemandosi la giacca e impugnando la chiave giusta per l'auto. Notai che indossava una giacca abbastanza elegante, forse troppo per una che doveva solo accompagnare la figlia dagli amici. Alzai un sopracciglio interrogativa, ma lei non capì e dovetti lasciar perdere. Nel contempo mi alzai dalla sedia e diedi un ultimo sguardo fuori. Aveva smesso di nevicare.

 

In macchina era calato il silenzio, o quasi. L'unico rumore che si sentiva era quello della radio che emetteva un suono stridulo, dovuto all'età dell'auto. Mia madre guardava la strada davanti a sé, concentrata per far in modo di non andare fuori strada a causa della neve che sommergeva il percorso. Le sue dita erano aggrappate saldamente al volante, l'anulare privo di fede nuziale, cosa che per me fu quasi naturale notare, ormai non la portava da tempo. Però c'era sempre il segno evidente di essa. Passai il mio sguardo dalle mani alle spalle, sempre tese e immobili, proprio come il giorno in cui era morto papà. Quella volta non pianse, rimase immobile e composta, senza spiccare parola. Una cosa che mia madre mi aveva insegnato era quello di non piangere, i bambini piangono. Sospirai quando girai la testa e diedi un'occhiata alla strada di fianco a me che scorreva veloce, con quella velocità saremmo potuti arrivare in tempo e in quel modo non avremmo fatto tardi. Guardai l'orologio al polso che aveva mamma.

«Secondo te ricomincerà a nevicare?» chiesi a bassa voce continuando a guardare il finestrino con lo sguardo vuoto. Portai una mano sul mio riflesso.

«Non credo, anzi, ho paura che presto la neve si scioglierà» rispose mia madre sorridendo tristemente e accarezzandomi la mano mentre cambiava marcia. Intanto notai che eravamo arrivati e che Michael e Sofia mi aspettavano proprio davanti al bar in cui eravamo soliti andare a prendere una cioccolata calda per rilassarci. 

Mia madre mise il freno a mano e spense la macchina, io nel mentre aprii la portiera e mi diressi verso di loro che mi salutarono felici di vedermi. Mi accordai con mia madre in modo che potesse venirmi a prendere dopo aver finito di fare il mio "giretto". Lei subito dopo se ne andò e mise in moto la macchina, salutandomi. Notai con tristezza che avevo visto giusto, la fede non era sul suo dito.

 

«Allooooors, ora ci beviamo un bel tè o quello che vuoi, e dopo andiamo alla bottega, ci stai?»  disse battendo le mani, intanto Michael sospirava divertito, poverino. Sorrisi e non feci in tempo a rispondere che venni trascinata all'interno del bar, fui invasa da un profumo di brioche appena sformate e un odore di arance fresche. Ci sedemmo come al solito vicino alla finestra, con Sofia di fianco a me e Michael davanti. Ordinai un latte caldo con una brioche alla marmellata di arance, mentre gli altri semplicemente della cioccolata calda con panna montata.

«Dimmi, dove si trova questa famosa  bottega? Come mai non l'ho mai sentita nominare?» chiesi a Michael aggiungendo dello zucchero al latte. Lui bevve un sorso di cioccolata calda, forse troppo calda poiché smise subito ed emise un esclamazione di dolore.

«Famosa non direi, credo di essere forse l'unico a conoscerla, non c'è mai nessuno lì. E comunque te l'ho detto prima, è nuova, ha aperto adesso, perciò non la conosci» disse bevendo un sorso d'acqua per rinfrescarsi la lingua. Però era strano, di solito venivo a sapere in fretta dell'apertura di un nuovo negozio, poiché avendo molti amici negozianti della zona ero molto informata al riguardo. Ad ogni modo cercai di non farci caso, l'importante era che presto l'avrei vista e avrei potuto ammirarla dal vivo. Sofia ovviamente non ci ascoltava, tanto era concentrata nel bere e gustare la MIA brioche con il MIO latte.

«Ehm, Sofia? Il mio cibo è buono allora?» risi e le scompigliai capelli. Risi più forte quando riemerse dall'enorme tazza di latte con due baffetti bianchi sopra la bocca. Michael quasi si strozzava con la cioccolata e Sofia stava per fulminarci sul posto. Decisi di andare a pagare il tutto prima che la situazione degenerasse.

Uscimmo dal bar con le pance piene e i visi ancora sporchi di cibo, Sofi in particolare. Decidemmo di prendere la via più corta che Michael conosceva per arrivare alla bottega, anche se ero un po' preoccupata all'idea. Fuori era buio, mia madre sicuramente era in pensiero già per il fatto che fossi "sola". Però non avevo scelta, ormai avevamo imboccato il sentiero e d eravamo a metà strada. La via in cui camminavamo era buia, la poca luce che c'era rendeva il paesaggio più pauroso di quanto lo fosse, le ombre proiettate sui muri facevano lanciare degli urletti a tutti, spesso inciampavamo in qualche oggetto strano come appendiabiti o boccette di profumo. Insomma, forse era meglio prendere la strada più lunga.

Arrivammo in fondo alla via, davanti a noi si ergeva una palazzo antico, forse dell'ottocento. Guardai Michael e Sofia e loro mi incoraggiarono a bussare. Così feci. Bastarono solo due tocchi e la porta si aprì, magicamente, da sola. Non c'era nessuno che l'aveva aperta, come era possibile?! Feci lentamente un passo avanti e sussurrai un "C'è nessuno?" poco convinto, a quanto pare non c'era davvero nessuno. Il silenzio aleggiava nell'aria, per un solo istante pensai che Michael si fosse sbagliato, ma subito un rumore mi fece cambiare idea. Era un suono dolce e delicato, familiare. Sembrava una dolce melodia, ma non riuscivo a capirne molto poiché non era molto vicina. Incuriosita seguii il suono e sperai con tutto il cuore di non essermelo immaginata. I miei amici mi vennero dietro sorpresi.

«Vedo che abbiamo ospiti, eh Jack!» esclamò una voce. Spaventata mi guardai attorno ma l'unico essere vivente presente nella stanza oltre a me era un gatto color sabbia acciambellato sullo sgabello di un pianoforte. Sicuramente non era stato lui a parlare, ma allora chi?

Indietreggiai un poco e nel mentre colpii un vaso di ceramica che andò in frantumi. Il gatto si svegliò e lentamente si stiracchiò tornando poi a dormire, come se non fosse successo niente.

«Oh tranquilla! Quel vaso era vecchio e non lo voleva nessuno. Che cosa posso fare per voi miei piccoli amici?» disse un "vecchietto" sopra le scale vestito elegantemente. Aveva un paio di baffi bianchi e dei vecchi occhiali rotondi sul naso. Portava in mano un orologio da taschino dall'aria antica.

Lentamente (o velocemente, non saprei, quel momento sembrava eterno) le scale fino ad arrivare di fronte a me. Non mi ero accorta che nel contempo il gatto ci aveva raggiunto e ora guardava il signore con un espressione...infastidita?

Feci mente locale e mi ritrovai il senso della parola, intanto i miei amici si erano avvicinati incuriositi e stavano dietro di me. Mi feci coraggio e finalmente parlai.

«Ehm, mi scusi per questo danno...non avevo proprio intenzione di, ehm, combinare guai, ecco, io...»    balbettai torturandomi le mani e guardandomi i piedi. Il gatto miagolò divertito, ci scommetto i miei libri.

«Hey hey hey, calmina eh! Non è successo null-»

«Invece ho combinato un guaio! Devo rimediare!»

«Ma non serve...» 

 «Guardi, ora metto subito tutto a posto, devo solo trovare della col-» 

BOOM

Venni interrotta dal rumore dei tasti di pianoforte premuti violentemente. Indovinate chi era la causa?

Il gatto ovviamente.

Scese dal piano altezzosamente e si diresse verso un'altra stanza. Lo seguii con lo sguardo fino a quando non lo persi di vista. Decisi allora di seguirlo, anche senza il permesso dell'uomo che stranamente mi guardava sorridendo. Arrivai in questa "stanza" se così possiamo chiamarla, anche se il termine giusto era qualcos'altro. Con le pareti dipinte di azzurro chiaro, la camera era piena di giocattoli e di sculture di legno. Ero meravigliata.

«Benvenuta nel Paese dei Balocchi, spero tu sia la prescelta che cercavamo»

 

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


Un aereoplanino mi sfiorò la testa e cadde a terra vicino a delle bambole di pezza. Chi fosse stato a tirarlo non lo seppi ma in quel momento non mi importava, qualcos'altro attirava la mia attenzione. Davanti a me si ergeva un enorme casa delle bambole, riprodotta nei minimi dettagli. All'interno vi erano delle statuine che raffiguravano delle persone. Una bambina, un un uomo che doveva essere il padre, e forse la madre. Però c'era qualcosa di strano, nella casa vi era una stanza dall'aria vecchia, spoglia. Il mobilio era quasi inesistente, tranne per una culla, una piccola e semplice culla bianca decorata con del pizzo un po' sporco.

Mi avvicinai a quello che sembrava essere un bimbo nella culla, a differenza delle altre statuine il bimbo aveva un 'espressione triste, quasi piangente. Serrava i pugnetti verso l'alto, quella bambolina era stata intagliata con una tale precisione. Provai a sfiorarla con un dito, leggermente per paura di romperla. Toccandola avvertii un senso di malinconia invadermi da dentro. Ritrassi subito la mano, come scottata. Mi ridrizzai e mi girai verso il vecchio proprietario della bottega.

«Questo cosa significa?» dissi con tono fermo, assumendo una posizione autoritaria. L'uomo fece un sorriso malinconico e guardò l'orologio da taschino che aveva appena tirato fuori dalla giacca color panna. Aveva qualche graffio qua e là ma per il resto sembrava ben tenuto, che fosse un cimelio di famiglia?

«Non credo che tu sia pronta per saperlo, ti consiglio di andare a casa, vi consiglio si tornarvene a casa per ora» parlò lui mentre raccoglieva l'aereoplano giocattolo caduto poco prima. Lo studiò come se nascondesse un qualche mistero e poi lo ripose al suo posto. Con quella frase credo volesse rispondere a tutte due le mie domande, anche se non demordevo.

«E la musichetta di prima? Insomma, almeno questo lo devo sapere» esclamai arrabbiata.

«Quale musichetta?» disse lui con aria innocente, anche se si vedeva da un miglio che non era vero. Voleva nasconderlo ma anche lui sapeva di cosa stavo parlando. Ero al limite della pazienza, strinsi i pugni e diventai rossa.

«Dex, forse è meglio andare» mi mise una mano sulla spalla Michael. Lo guardai e feci cadere la sua mano. Lui non fece niente per controbattere, ormai aveva capito che per me era importante. Io quella melodia l'avevo già sentita, non potevo fermarmi ora.

«No invece! Io voglio sapere, io devo sapere.» 

Calde lacrime mi rigavano le guance, sentivo il loro sapore salato sulle labbra. Alzi una mano forse il viso e le asciugai ma  ben presto divenne inutile, ormai stavo già piangendo. Non sapevo il perché di questo mio interesse verso qualcosa che forse avevo immaginato. Forse stavo diventando pazza.

Il mio cellulare prese a vibrare nella tasca dei pantaloni. Lo tirai fuori e con la testa china diedi un'occhiata sullo schermo acceso. Sulla schermata vidi quello che mi immaginavo: mia madre. Risposi.

"Denise Mastari! Dove ti sei cacciata?!" urlò lei dall'altro capo del telefono. Ovviamente era preoccupata, la sua unica figlia era dispersa in una grande città insieme a due suoi amici, tutti minorenni per giunta. Dovetti fare forza sulla mia calma per non far trasparire dalla mia voce il pianto che ormai era ben visibile agli occhi degli altri. 

«Scusa mamma, ora arriviamo» e con questo riattaccai, non aspettai neanche una sua risposta. Feci un respiro profondo e decisi di farla finita, ormai bisognava piantarla con tutto ciò.
Presi il giubbotto che per comodità mi ero tolta prima e guardai i presenti. 

«Credo che ormai il tempo a nostra disposizione sia terminato. Sofia, Michael, ora andiamo» dissi fredda. Loro annuirono comprensivi. Poche volte mi avevano visto così seria, di solito ero sempre stata solare. Era dalla morte di papà che non mi comportavo così. 

Sentii qualcosa sfiorarmi una gamba e chinando lo sguardo vidi il gatto color sabbia guardarmi. Non sapevo identificare la sua espressione, in quel momento forse non sarei stata in grado, ma credo fosse un misto di tristezza e malinconia. Spostai la gamba indifferente, sperai di non averlo offeso più di tanto. Infondo era solo un gatto.

Presi a camminare verso l'uscita, convinta che ormai fosse chiaro ciò che stavo provando il quel momento. I miei due amici mi seguirono ma prima che potessi anche mettere piede fuori dal portone il vecchio parlò. 

«Sai bene che questa non sarà l'ultima volta che ci vedremo» 

«Sì, lo so» e con questo uscì in strada e la porta dietro di noi si chiuse senza far rumore. Lanciai un'occhiata sopra il portone. Un insegna che prima non avevo visto era ora ben visibile a carattere cubitale. In grassetto vi era scritto Mastro giocattolaio.

 

La neve che qualche ora prima era caduta si era sciolta, in quel momento la strada era popolata da un'immensità di pozzanghere. Camminavo a passo svelto verso il Duomo, il luogo prestabilito da mia madre. I miei amici mi seguivano sussurrando tra loro. Non era ben chiaro cosa si dicessero, forse parlavano di quello che era appena accaduto, sperai di sbagliarmi. 

Una luce accecante ci illuminò tutti e tre, i fari dell'auto di mamma ci rassicurarono. Per un momento dimenticai l'accaduto per rilassarmi.

«Mamma!» corsi verso di lei e l'abbracciai. Lei rimase per un attimo interdetta ma poi ricambiò in fretta l'abbraccio. La strinsi più forte che potei, avevo bisogno di qualcosa a cui aggrapparmi in momenti del genere. La mia mamma era la mia ancora di salvezza. Lei che mi aveva consolato mentre piangevo, lei che mi aveva sgridato quando sbagliavo. Lei che mi teneva la bicicletta per non farmi cadere. Avermi cresciuta da sola davvero un atto di vero coraggio. La guardai per poi ritornare a stringerla a me. Non potevo immaginare una vita senza la mia mamma.

I miei amici erano imbarazzati, allora decisi di prenderli entrambi per la maglietta e stritolammo insieme la mia mammina. 

«Ehi ehi ehi, mi manca l'aria! Volete uccidermi con affetto?»    rise lei boccheggiando. Esclamammo in coro un "Ops" e la liberammo, a malincuore. Pensai che fosse meglio non raccontarle dell'accaduto, stessa cosa fecero Michael e Sofia. Con questo tornammo tutti a casa propria per farsi una beata dormita. O almeno loro.

 

La pioggia aveva prevalso sulla neve, le gocce scendevano piano sul vetro della finestra, in vento muoveva i rami degli alberi riproducendo ombre spaventose da far spaventare qualsiasi persona con una fervida immaginazione. I  mostri della notte volevano me, una semplice bambina impaurita da quello che sembrava essere solo un brutto sogno. 

Mi agitavo nelle coperte ormai in disordine, i cuscini a terra facevano sembrare me in preda a qualche avventura nel sonno. Lanciai un urlo. Non ero ancora completamente sveglia, sentivo costantemente delle mani afferrarmi per le braccia e per le gambe. Decisi di andare a prendermi un bicchiere d'acqua. Scesi piano le scale attenta a non svegliare mia madre. Per sicurezza non misi le pantofole. 

Il camino era acceso e dentro il fuoco scoppiettava allegramente irradiando un piacevole tepore. Mi avvicinai ad esso e alzai entrambe le mani per riscaldarmi. 

"Papà, raccontami un'altra storia!"

"Non ora, devi andare a dormire. Come farai ad essere riposata domani?"

"Dai, solo una! Raccontami quella della ballerina di porcellana!"

"Va bene. Allora...

Tanto tempo fa un uomo decise di creare un carillon per la sua piccola bambina.

La bambina amava la musica, ma era troppo piccola per suonare un qualche strumento, allora il padre suonava per lei. C'era un brano che la piccola amava più di tutti, era semplice, era una ninna nanna.

Purtroppo il padre sapeva che presto sarebbe venuto a mancare, quindi decise di mettere la melodia preferita della figlia all'interno del carillon, in modo che la bambina potesse sempre ascoltarla anche quando il suo babbo non ci sarebbe stato più. Impiegò sessanta giorni e sessanta notti per costruirlo. Ed eccola alla fine, una bellissima ballerina di porcellana in tutto il suo splendore. 

Ormai di quel cimelio non si hanno più notizie, si dice anche che in realtà la melodia non sia neanche stata completa-"

Un rumore interruppe lo scorrere dei miei ricordi. Cercai la causa di esso, camminai verso la cucina. Strano ma vero il responsabile era ancora lì ad aspettarmi. Fece un sonoro miagolio.

«Ancora tu? Come sei entrato?» sussurrai chinandomi ad  accarezzandolo. Facendo le fusa indicò la finestra aperta sopra il lavello. Da lì entrava il vento freddo della notte, infatti rabbrividii. Forse era opportuno chiuderla. Mi rialzai e la chiusi, cercando di fare il meno rumore possibile. Come era arrivato fino a me quel gatto color sabbia?

«Senti, ora sono stanca, ti riporterò domani dal tuo padrone. Questa notte, ma solo per questa volta, dormirai con me. Chiaro?»  

Lui fece un felice miagolio in risposta.

Rubai da un dei cassetti della mia camera una vecchia coperta che ormai non usavo più e la sistemai a mo' di cuccia. Presi un piatto e vi ci versai del latte fresco. Pensavo che fosse a posto per una notte. Lanciai un ultima occhiata al micio e decisi di ritirarmi per il resto della nottata nel mio letto. Salii piano le scale. Sperai con tutto il cuore che mia madre non si svegliasse e lo scoprisse. 

«Buonanotte» sussurrai certa che non mi avesse sentito. Le palpebre si fecero  si fecero più pesanti e in fretta mi addormentai, rassicurata dalla presenza del miciotto a farmi compagnia.

 

Mi svegliai. Mi ritornò subito alla mente l'accaduto di ieri, il vecchio, il gattino, l'escursione notturna. Mi venne subito un forte mal di testa. Mi portai subito una mano alla tempi, cercando inutilmente di alleviare il doloroso martellare. Provai anche a contare fino a cento ma niente. Decisi che forse era meglio mangiare qualcosa e con questo mi misi le ciabatte e scesi in cucina. Di mia madre neanche l'ombra, sicuramente era già a lavoro. Quella donna aveva una forza, alzarsi presto la mattina, lavorare... Che figlia ingrata che ero.

Presi una fetta di crostata del supermercato e la addentai appoggiandomi al bancone. Era domenica, niente scuola. Non avevo compiti poiché li avevo già finiti qualche giorno prima. Insomma: che si faceva in quella giornata?

Guardai il cellulare e notai subito numerose chiamate perse dai miei amici. Sarebbe stato meglio se li avessi richiamati rassicurandoli, ma ne avevo la forza. Spensi l'apparecchio con un groppo alla gola e mi diressi in sala. Il camino era spento, ma comunque non faceva molto freddo. Per essere Dicembre il clima era abbastanza mite, a parte per la neve e la pioggia di ieri. 

Inciampai nella stoffa di una coperta e caddi a terra. Aspetta...

Cavolo!

«Micio! Bel gattino, dove sei?!» mi rialzai lo cercai per tutta la casa. Mi sistemai i capelli che nel frattempo avevo ordinato in una semplice coda, anche se qualche ciuffo era sfuggito. 

Del gatto neanche l'ombra, che se ne fosse andato?

Con questo pensiero sospirai e raccolsi gli oggetti per terra. Mi rattristava non averlo neanche visto la mattina, ovviamente mia madre non l'aveva neanche notato tanta la fretta con cui ci metteva per uscire e andare alla panetteria in cui lavorava, si, lavorava anche di domenica purtroppo.

Mi dirigetti  in cucina lentamente. Mi sentivo così sola, senza nessuno con cui parlare per tutto il giorno. Ma infondo non era quello che volevo? Non avevo risposto apposta a Michael e Sofia proprio per non parlare con loro. Lanciai un altro sospiro.

«Almeno c'era quel gatto sbruffone a farmi compagnia prima» sussurrai convinta che nessuno mi avesse sentito. Tanto ero sola casa.

«Sbruffone a chi, eh?!» esclamò adirata una voce maschile. 

Mi girai di scatto per ritrovarmi davanti a me un ragazzo arrivato dal nulla. Rimasi paralizzata quando capii che lui era reale.

Urlai. 

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