Cieli senza confini

di Nirvana_04
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un insolito accordo ***
Capitolo 2: *** Uomini a confronto ***
Capitolo 3: *** Il Sesto Cielo ***



Capitolo 1
*** Un insolito accordo ***


Capitolo 1
Un insolito accordo
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il villaero di Crowsand galleggiava pigramente sui venti di bonaccia, sopra i pascoli delle Montagne Cappello. Proprio sotto di esso scorreva il Taleth, il fiume più lungo che collegava i territori verdeggianti con quelli cinerei e pieni di vapori della costa sud-ovest. Stormi di corvi svolazzavano in cerca di cibo, sopra sotto e intorno alle case diroccate. Il villaero contava un agglomerato di ventuno abitazioni ospitanti altrettante famiglie, collegate tra loro da ponti di corda sospesi sopra prati e spuntoni di roccia.
Era gente semplice, quella di Crowsand: viveva della pesca del fiume, grazie alle lenze lanciate in basso per più di settanta metri di altezza; e si spostava di rado, grazie alle grosse ruote degli ingranaggi che non smettevano di mulinare sotto i tralicci di sostegno alla base delle costruzioni fluttuanti.
Jude lo ricordava bene il suo villaggio: povero e malridotto quanto la sua nave adesso.
La Marsadde era un galeone triremi, possente nelle sue forme quanto diroccato nelle sue fattezze: aveva vele quadrate posizionate sia a poppa che a prua della nave, levate lungo sia la falchetta che la carena, rendendola simile a un lungo pesce squamato. In tutti i cieli, dalle Montagne Cappello alla falesia di Capo Sventura, non c’era pirata o capitano di ventura che non conoscesse la sua nave o il suo nome: Jude Hauk. Persino il generale Moris Lautner sapeva chi era, e Hauk sapeva di lui: egli dominava i mari quanto lui i cieli. I due si erano incontrati in più di una circostanza nei loro anni di navigata lungo i confini dei loro elementi. Il generale tentava ancora, dopo un decennio a dargli la caccia, d’incatenarlo e impiccarlo per lesa maestà e tradimento alla corona. Moris Lautner, infatti, era anche il più alto in grado tra le guardie sotto il controllo dei reali della costa sud-ovest. In verità, erano anche sovrani di Crowsand, nonché i suoi siri, ma questo a Hauk non era mai importato: se qualcuno non si interessava di lui, egli non occupava i pensieri con le loro immagini.
Almeno, così era andata fino a quando un dispaccio della casa reale non era giunto fino a Borgfas, il villaggio in cui avevano abbordato quella notte per riparare la faglia alla stiva di prua.
Seduto alla sua scrivania, con le gambe sopra le carte eoliche e la schiena abbandonata contro l’alto schienale, Jude faceva dondolare la sedia sulla molla che fungeva da piede, in precario equilibrio. Fissava la pergamena con il sigillo reale e corrucciava sempre più la fronte mentre i suoi occhi si soffermavano sui punti salienti della missiva.
Qualcuno bussò e irruppe nella stanza. Hauk fece in tempo a nascondere quell’espressione impensierita prima di trovarsi il viso del suo secondo in comando che fumava e sbavava per la collera.
Siamo alle solite, pensò esasperato.
“Quell’ingrato di Wolk si rifiuta di venderci i pezzi di ricambio. Venderci! Sarebbe più contento se prendessimo la sua merce con la forza” sbuffò.
“Siediti.”
“Non voglio sedermi. Voglio potergli rasare quelli stupidi baffetti o, visto che non lo troveresti garbato, defilarci da qui nel più breve tempo possibile.”
“Sarebbe sgarbato partire dopo una visita così breve. Monna Catilde non si è offerta di prepararci un pasto caldo?”
“Motivo in più per alzare le vele e approfittare del vento in poppa” si lagnò scorbutico.
“Siediti, Arci” lo invitò con voce ferma. “A Wolk penseremo dopo.” Gli lanciò la pergamena contro il petto e incrociò le mani sulla pancia, tenendo d’occhio la sua espressione.
La faccia di Arci sbiancò per poi essere investita da una divertente dose d’incredulità. Jude rimase impassibile, ma l’espressione del suo secondo rispecchiava perfettamente i suoi sentimenti.
“Cosa intendi fare?” sbottò allarmato.
“Beh, è un invito reale. E poi, un giorno o l’altro sarei comunque passato dal castello. Anche se” ammise, “non pensavo di farlo dal portone principale.”
“Salpiamo per Midra?” scioccò Arci.
“Sarebbe sgarbato non andare a vedere cosa vogliono” ghignò il capitano.
 
 
 
 
Midra era un incanto, l’avanguardia tra le città del continente nord e di gran lunga superiore a quelle dei continenti sud.
Moris Lautner l’ammirava dalla ringhiera lucidata della sua nave, la Joyfall. Colei che lo aveva adottato e aveva segnato le tappe più importanti della sua vita si ergeva su una collina sormontata da palazzi vittoriani e grandi edifici pubblici – erano sede della marina e dei suoi reparti armati – con le loro grandi cupole e bianche facciate, che si gettavano direttamente sul mare. Sui fianchi del grande colle si snodavano le strade della città, strette vie imbiancate da marmi e affreschi di travertino, impreziosite da alte torri e guglie che sembravano staccarsi dal terreno e slanciarsi verso il cielo, dove i nivei vapori erano puntellati da sommergibili e mongolfiere. Dallo sfondo si staccavano le vette dei grandi camini delle fabbriche, che sostentavano la città e l’intero paese: avevano la migliore manodopera e le più sopraffine macchine per un lavoro di qualità e raffinatezza. E poi c’era la Torre di Guardia, intrecci di metallo che custodivano il palazzo sulla cima del colle.
La Regina Elzeth e la sua corte lo attendevano lì per quella mattina. Il dispaccio gli era giunto durante la sua missione diplomatica sulle Isole Minori, portato dalle brillanti libellule d’oro massiccio, le più veloci della loro serie.
La sua sovrana amava il verde e negli anni aveva lasciato che i colori della natura si facessero spazio tra i giardini reali, dove le opere dei più grandi architetti erano esposte. Uno strano miscuglio, a suo dire: il suo mondo era il blu del mare e il candore della sua città spezzettato solo dai tetti rossi e le facciate gialle dei palazzi della marina.
La Joyfall si fece largo tra le piccole imbarcazioni di pescherecci locali e attraccò nel grande porto. Moris Lautner batté la sua mano metallina sulla ringhiera – fatta di pelle rossastra e cavi blu che gli permettevano di muoverla come un arto vero – e poi percorse la passerella di legno per mettere finalmente piede a terra.
Midra si manifestò ai suoi occhi con i soliti rumori delle bancarelle, i commerci davanti all’ambasciata nel grande palazzo circondato dal portico e i tendoni delle trattative sul lungomare e intorno alla Piazza della Fontana, dove la statua del Re Geord il Vincente capeggiava in granito lucente, riflettendo i soffusi raggi di luce che si facevano strada tra le nuvole e i vapori.
Il generale si diresse di gran carriera verso la Porta del Commercio, da cui si accedeva alla città vera e propria. Egli lanciò uno sguardo al primo Ministro della Guerra, scolpito al centro del travertino, in alto al grande arco bianco, circondato da silfidi veneranti, e infine proseguì con passo marziale verso la carrozza che lo attendeva poco più in là. Trainata da cilindri ferrati, la sua vettura risalì il grande viale e si addentrò tra i giardini sempreverdi del palazzo reale: circondato da un’alta cinta muraria, il palazzo era l’emblema dell’innovazione di Midra, con una pianta quadrata sorvegliata da quattro torri della medesima forma a ogni angolo della struttura; su di essa dominava la Cuspide Bianca, l’immensa torre in cui risiedeva la famiglia reale.
Moris Lautner s’inoltrò lungo i grandi portici interni del cortile, e lì venne raggiunto dalla sua sovrana. Prontamente s’inchinò e abbassò la testa.
La bellezza della donna era leggenda tra i continenti. Si diceva che ella avesse sangue di silfide nelle vene: i suoi capelli erano capricciosi ricci infuocati, tenuti a bada in acconciature semplici che adornavano il suo lungo collo di porcellana; i suoi occhi erano neri e troppo profondi per scorgerne l’anima, ma le mani lunghe e sottili si agitarono con leggiadra fretta dinanzi al generale, come candide farfalle svolazzanti.
“Non è questo il momento, generale” tagliò corto la Regina Elzeth. “Ho nuovi ordini per voi e so già che non vi piaceranno. Inutile dover sopportare anche questo fastidioso cerimoniale.”
Il generale si tirò su rigidamente e, mantenendo la dovuta distanza, seguì la sua signora per i giardini.
Ella era una delle poche a saper apprezzare la necessaria bellezza del progresso e a venerare l’intramontabile ferinità della natura. Moris Lautner l’ammirava per questo, e la rispettava come nessun altro: la regina aveva scelto di votarsi al regno, rinunciando all’amore e ai vincoli famigliari; la sua famiglia era composta da cugini e zii, ma nessun figlio allietava le sue giornate o un marito riscaldava le sue notti. Ella era selvaggia e sapeva essere crudele tanto quanto le radici di quelli alberi che minavano alla sicurezza delle mura, facendo presa sui mattoni e conficcandosi nella pietra; era libera così come i cieli e i mari di cui ella aveva abbattuto i confini.
Così, il generale Moris Lautner rimase ad ascoltare le sue parole, e ciò che sentì fu tempesta e sobillazione.
“Generale, si sta preparando una nuova guerra, e stavolta la corona di Midra perderà” annunciò perentoria. L’uomo sollevò il capo e si accigliò davanti a tanta convinzione, ma rimase in silenzio. “Il popolo non ha più fame adesso, ma presto rimarrà senza vita.”
Camminò ed egli la seguì, confuso. Si avvicinarono alle fontane di palazzo e la sovrana immerse una mano nella conca a forma di conchiglia; quando la tirò fuori, dalle sue dita lattee iniziò a colare acqua nerastra. Sotto invito della donna, il generale si sporse e vide il fondo della vasca pieno di cenere e residui di carbone.
“Ciò che ci dà vita, sta anche per togliercela. E non solo” sospirò, “Einath sta cercando di stringere rapporti con il Sesto Cielo.”
Il generale parve non capire. “Il Sesto Cielo non esiste più. Le silfidi vivono solo nelle leggende.”
“Dovreste prestare più orecchie alle storie dei bordelli, generale” lo redarguì causticamente la sovrana, con tono pratico. “Qualcosa si muove in quel cielo, forze sono ancora in atto. L’aria del sud è diversa, è… pura. Possiede ancora vita, nonostante le sue terre aride e i suoi mari inospitali.” La Regina Elzeth si fermò e guatò il comandante della sua flotta. “Il regno di Einath ha deciso di dare credito a quelle voci e si è mossa prima di noi.”
“ Le silfidi sono state sterminate” obiettò perentorio Moris.
“Qualcosa hanno trovato, sennò come spieghereste le ultime incursioni nei mari di Midra da parte delle loro navi. Stanno rischiando molto, e per un motivo importante.”
Moris guardò il viso imperturbabile della sua signora e vi trovò la forza di chi ha già preso una dura decisione.
“Cosa possiamo fare, mia regina?” la interrogò, speranzoso nella sua rinomata saggezza.
“Noi, in quanto stato di grazia, davvero poco generale. Questo” sospirò altezzosa, “è un lavoro per pirati e corsari.”
 
 
 
 
Ed ecco infine Midra, il simbolo del successo utopico di qualche vecchio barbuto, che aveva pensato che ferro e macchine a vapore potessero portare ricchezza e innovazione. Il cielo era sempre inscurito da grossi nuvoloni carichi di pioggia, le case si scorgevano tra tentacoli di nebbia che invadeva la terra a tutte le ore del giorno e della notte.
Jude non riusciva ad apprezzare i rumori delle fabbriche, l’odore di carbone e marcio che si respirava nelle periferie; per non parlare di ciò che si poteva scorgere nelle vie della malavita, dove gente con arti menomati elemosinavano e si mettevano in fila, per poter riuscire ad accaparrarsi una di quelle protesi meccaniche, così da potersi nuovamente vendere come manodopera per quelle fabbriche che già una volta si erano portate via una parte di loro.
La Marsadde cominciò a planare, avvolgendo in una spirale aerea l’intera collina di Midra, da cui solo pochi alberi superstiti erano scampati alla deforestazione e allo sradicamento di massa; e tutti erano proprietà privata della corona, iniziò a sbuffare lui. Sotto suo ordine diretto, Arci fece virare la nave tra gli zeppelin dell’ambasciata di Zurog e le mongolfiere giunte dal sud; scorse uno strano bagliore sulla fiancata di un dirigibile e capì che anche i corsari dell’ovest erano stati chiamati sotto il simbolo di quella strana tregua voluta da Midra.
Il capitano Hauk fece gonfiare la vela sull’albero maestro e aizzò il suo stendardo al vento, in modo che tutti potessero vederlo. Poi guardò giù e ammirò il porto, quel lordume di oli di balena e liquidi di scarto delle navi della marina; inquadrò subito la nave del generale e, spinto da un colpo di antica rivalsa, s’impossessò del timone e ormeggiò la Marsadde affianco della Joyfall.
Infine Jude Hauk e il suo secondo in comando scesero con eleganza dalla nave e lasciarono che la gente di Midra si scansasse a loro passaggio, mentre pirati e corsari approdavano in città e loro risalivano per primi il viale verso il grande palazzo reale.
 
 
 
 
Moris Lautner se ne stava rigido ai piedi del trono, il corpo indirizzato verso la sua regina e il capo voltato verso l’uomo abbandonato contro una delle alte colonne di quarzo e granito della lunga Sala delle Cerimonie: i lunghi stivali neri, che gli arrivavano fin sopra le ginocchia, erano prigionieri in un’armatura di metallo e possedevano delle fibbie appuntite all’altezza delle caviglie; i calzoni e il panciotto color fango erano sormontati da un lungo soprabito scuro sfilacciato e consunto, con il colletto alto e un fermaglio d’oro sporco che glielo fermava a metà sterno; un fazzoletto bianco, che era la camicia, fuoriusciva da quella tenuta oscura. Il viso era come sempre coperto fino al naso da quell’odiosa bandana nera, e l’ombra creata dal tricorno sbiadito dal fuoco offuscava i lineamenti del suo volto; i guanti armati e l’orologio da taschino luccicavano nella luce, grazie all’immenso lucernario in vetro che sormontava le loro teste, e da cui era possibile vedere i dirigibili volare pigramente sopra il cielo della capitale. Ciò di cui Moris era sicuro, però, – che riuscisse a vedere o meno – erano quei piccolissimi occhietti neri che ricambiavano il suo sguardo.
“Einath cospira sotto la veste di svampita gentilezza che ci offre” proruppe la Regina Elzeth. “Voci sono giunte alle mie orecchie: il regno del sud ha stretto un’alleanza con il popolo del Sesto Cielo. Se i loro accordi non vengono fermati, Midra si ritroverà chiusa tra due fuochi.”
“La flotta è pronta, mia Regina” s’inchinò prontamente un comandante della marina. “I cacciatori del regno sono stati richiamati al servizio. Se una guerra si sta preparando, noi saremo pronti a vincerla.”
“Ma io non voglio una guerra, comandante” lo interruppe la donna seduta sul trono. I capelli rossi erano legati in una lunga treccia che scendeva lungo il sottile collo albino e si attorcigliava intorno al ventre, ribelle e felino come la sua persona. “Voglio solo la vittoria, e la desidero senza spargimento di sangue tra i miei sudditi.”
Moris si accigliò.
“Che tipo di vittoria auspicate, mia signora?” prese parola un cacciatore, la faccia deformata da cicatrici da ustione, e i pochi capelli che gli restavano erano chiodi esili su una testa altrimenti calva.
“Non intendo iniziare io a invadere il regno di Einath, sebbene i suoi sovrani sperino in una mia mossa.”
“Che ci facciamo, allora, noi qui?” sbottò un uomo con una gamba di ferro e parte del volto nascosto in una maschera d’ottone.
Moris lo riconobbe, allarmato: era il Corsaro Kabart, nemico giurato della corona; solo il mese prima aveva affondato un veliero della marina reale.
Il generale era stato talmente preso dalla presenza del Capitano Hauk da non rendersi conto che metà della sala ospitava la peggior feccia dei mari.
“Voi siete la mia mossa, Kabart” rispose Elzeth, in tono informale.
“Mia Regina?” sobbalzò un suo sottoufficiale.
“La famiglia di Midra ci sta chiedendo di combattere la guerra al posto del suo esercito. Se verremo scoperti e annientati, la corona non subirà conseguenze.” La voce di Hauk troneggiò per l’intera sala, ironica e schietta.
“Tutt’altro, Capitano” obiettò la sovrana, ergendosi dal suo scranno. “Se voi fallite, Midra perderà ogni cosa. E il popolo avrà perso la sua ultima difesa contro i suoi oppressori.”
Moris Lautner lanciò uno sguardo corrucciato verso il Capitano, ma tutto ciò che riuscì a scorgere del suo viso fu la luce che brillò nei suoi piccolissimi occhi neri.
La sfida era stata accettata.

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Capitolo 2
*** Uomini a confronto ***


Capitolo 2
Uomini a confronto
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La tramontana gonfiava le vele della Marsadde, spingendola in avanti tra i cieli di confine a sud del regno di Midra. Sotto di loro, c’erano solo i Picchi Ascendenti: era un posto pericoloso per navigare tra le correnti eoliche; anzi, pessimo per qualunque avventuriero che osasse coscientemente addentrarsi in quel meandro di rocce fluttuanti e interi scossoni che rotolavano nell’aria come meteore, pronte a graffiare la chiglia o a danneggiare la vela di bompresso. E, senza quella, sarebbe stato impossibile destreggiarsi tra le nebbie del Sesto Cielo.
Dal ponte del castello di poppa, Jude poteva tenere d’occhio la nave del generale solcare il mare burrascoso. Appoggiato sulla ringhiera di babordo, con le braccia incrociate sul legno, sghignazzava per le avversità affrontate dall’altro. Il mare era una forza che ti remava contro e che, nei casi più fortunati, se ne stava zitto e immobile a guardarti sgobbare. Il cielo, invece, era una potenza capricciosa, ma se sapevi prenderla ti faceva volare.
“Capitano” lo chiamò il mozzo.
“Mhh?”
“Abbiamo un problema.”
Hauk si voltò a guardare il giovane ragazzo, l’ultimo imbarcato della sua ciurma, e fece sparire le sopracciglia oltre l’ombra del cappello. Per tutta risposta, l’altro tese un braccio e indicò un punto indefinito a prua.
Jude ringhiò indispettito e, afferrato nuovamente il timone, urlò: “Polli che non siete altro, virate a dritta se non volete essere schiacciati da quella balena!” A volte, i suoi modi garbati colavano a picco.
Il cetaceo che fluttuava tra le nuvole era una Berala, la balena cinerina. A parte la forma e l’indifferenza verso il mondo, quella creatura non aveva niente in comune con la sua gemella degli abissi: lunga quanto la distanza tra i Faraglioni di Chebe – che la Marsadde ci metteva quasi mezza giornata a percorrere – l’essere era un ammasso di carne putrefatta e ingranaggi meccanici male oliati, che stridevano e raschiavano l’aria. La Berala non era stato l’unico essere a risentire del progresso; la sua bellezza, come quella di molte altre cose, era stata erosa dalle nebbie e dai vapori.
La nave virò in tutta fretta, le voci dei membri dell’equipaggio sputavano ingiurie e minacce contro i venti avversi. Alla fine, la vela di mezzana ruotò e la Marsadde volò lontano dal pericolo.
Jude abbandonò il timone nelle mani di un altro uomo e ammirò la maestosità di quella deforme creatura sfilare dinanzi a lui.
Questo, pensò con un sospiro trattenuto, è il prezzo da pagare quando non si ha voce.
“Polli” sbraitò ancora in collera con il mondo e con la sua sbadataggine, “occhi aperti, e smettetela di sognare. Tanto non ci sarà terra finché non giungeremo nel Sesto Cielo. E anche allora” ghignò derisorio, “fareste bene a legarvi all’albero maestro.”
La Marsadde continuò la sua corsa, e il capitano tornò a occuparsi del suo passatempo preferito, nuovamente abbandonato contro la ringhiera a babordo.
 
 
 
 
L’ombra della Berala fu illuminata da un lampo, e per un attimo la sua sagoma apparve tra le grigie nuvole. Un mostro di abnormi dimensioni che se ne vagava per i cieli, ecco cos’era per i marinai della Joyfall.
Il generale Moris Lautner era impegnato nel condurre la nave verso una andatura di bolina, cercando di vincere le correnti e il mare ostile. Gli squarci di luce e i rombi di tuono non lo spaventavano, né lo impensierivano gli sciabordii delle onde contro il vascello. Era la pressante presenza della Marsadde sopra la sua testa che lo irritava: anni passati a dar la caccia a quel pirata, e adesso si ritrovava a dover collaborare con chi aveva giurato di sconfiggere.
La Regina Elzeth era stata chiara, prima della sua partenza: Einath non doveva sospettare o poter ricollegare quella mossa a Midra.
Moris ingoiò il rospo e continuò a tener lo sguardo dritto dinanzi a sé.
Presto si lasciarono alle spalle il mare blu e dovettero affrontare le basse maree del Borgo di Ventiguglie: era l’occhio a guardia del Sesto Cielo e dei territori meridionali; a sud-ovest di lì, la terra di Einath si estendeva a perdita d’occhio su praterie e spiagge sabbiose. L’occhio, però, era un tratto di mare con il basso fondale capzioso da cui spiccavano, slanciati verso l’alto cielo in tempesta, spuntoni di roccia su cui le onde si infrangevano con paurosa potenza. Aggirare l’occhio voleva dire invadere le Terre di Falknear, ed era sconsigliato da quando i padroni del sud-est avevano irrigidito i commerci con la loro patria.
Moris Lautner puntò deciso la prua verso il Borgo di Ventiguglie e ordinò di ammainare le vele: con il vento in poppa la nave avrebbe navigato troppo velocemente e il rischio d’incagliare aumentava. Da quel punto in poi, la Joyfall avrebbe continuato a remi.
Con il nostromo sul castello di prora e uno dei marinai arrampicato sulla coffa, la nave navigò lentamente, preda delle correnti e delle avverse maree. In pochi minuti l’equipaggio si ritrovò al centro dell’occhio, dove le guglie si innalzavano strettamente intorno a loro, come denti di un mostro pronto a fagocitarli.
Moris giostrò alla meglio il timone, cercando di portare la Joyfall lontano dalle secche. Il vascello del generale rollava a causa dei flussi marini e la prua s’innalzava nell’infrangersi contro le onde. Contro ogni aspettativa riuscì a uscire dal centro e puntare l’albero di bompresso verso i confini dell’occhio, tra gli spuntoni di roccia più sottili e distanziati tra loro, in modo che l’imbarcazione potesse respirare un po’.
All’improvviso il nostromo urlò un avvertimento. Prima che Moris comprendesse le sue parole, catturate e storpiate dalla furia del vento, uno strano essere si catapultò da una roccia direttamente sul viso del marinaio, scaraventandolo sul ponte di prua. Il suo corpo si dimenò, le mani che cercavano di staccarsi l’essere oblungo dal viso; poi smise di contorcersi e restò immobile, mentre tutt’intorno a lui la bufera esplodeva nel suo pieno.
“Aractidi!” urlò a squarciagola il marinaio di vedetta, troppo tardi però.
Altre creature balzarono sulla Joyfall, lanciandosi con schiocchi metallici e rumori di ingranaggi ferrigni contro i poveri uomini. Moris abbandonò il timone e liberò le due avancariche dalle fondine, puntandole contro gli insetti meccanici. Un colpo dall’alto fece saltare parte della ringhiera di dritta, distruggendo il fianco della nave e facendo imbarcare acqua. Cime vennero calate dalla Marsadde e la voce dei pirati li incitarono ad arrampicarsi. Intanto fucili e lanciaossidi iniziarono a bersagliare la Joyfall che, lentamente e irreparabilmente incagliata tra le rocce, colava a picco.
Moris guardò ancora una volta il viso del suo nostromo, il quale si stava velocemente deformando e riempiendo di pustole; poi, incitato dai suoi uomini, iniziò salire per l’ultima fune ancora pendente. A livello del fasciame galleggiante, si ritrovò con la doppia colt del capitano Hauk puntava in fronte. Fu un secondo: la pallottola di ferro fischiò vicino al suo orecchio e andò a perforare un corpo metallico. Un’aractide cadde giù e mani forti lo issarono a bordo.
I due comandanti si ritrovarono a fronteggiarsi.
“Avete appena affondato una nave della flotta di Midra.”
Hauk rise e rifoderò la sua arma. “Riposate, generale. Avreste dovuto comunque abbandonarla al primo porto. Ricordate? Nessun collegamento con la famiglia reale. Arci” chiamò, “fa vedere al generale la cabina del capitano. Può sistemarsi lì.” E se ne andò ridendo di gusto.
 
 
 
 
Il piano prevedeva che la Joyfall scortasse i pirati e i corsari verso i continenti del sud; poi avrebbe finto un controllo all’arcipelago di Sexstapor, mentre le compagnie di ventura avrebbero proseguito per la loro missione.
I piani, però, erano cambiati.
Jude incrociò le braccia a petto e trattenne un sospiro di rassegnazione: il corsaro Kabart era stato il primo a pronunciarsi per un viaggio in solitaria, staccandosi dal gruppo. Lentamente anche gli altri vascelli li avevano salutati e avevano virato verso le loro personali rotte, quelle che seguivano per non essere rintracciati dalla marina. Quello era anche il piano della Marsadde, fin quando non aveva dovuto ospitare a bordo il generale della flotta reale.
Il capitano Hauk rimase sul ponte di coperta per tutto il giorno, ammirando l’aranciato del cielo tramutarsi in una scura trapunta di stelle, colori che non era più possibile scorgere dai mari. All’ora del pasto serale si decise a dirigersi verso la sua cabina.
Il ciangottare metallico di Arapacis lo mise in allarme. Aprì la porta e trovò il suo amato pappagallo svolazzare in piccoli saltelli per tutta la stanza, nella sua divertente imitazione di un’operetta starnazzante. Il generale stava cercando disperatamente di prendere la mira quando fu distratto dalla sua apparizione.
“Bene, bene, generale.” Fischiò per richiamare Arci e socchiuse la porta. “Vi offro vitto e alloggio, e mi ripagate con un omicidio. Mi aspetterei più galanteria da parte di un uomo della marina.”
“Quel difetto di fabbrica farebbe vandalizzare anche un principe” s’indignò, incerto se posare o meno la sua arma. Con l’arrivo del secondo in comando, la questione andò da sé.
“Arapacis è molto educato. Infatti sta cercando di dirvi che non è onorevole scartabellare nella cabina altrui” disse, la voce ovattata dalla bandana, e indicò le carte gettate alla rinfusa sulla sua scrivania.
Il generale aprì e richiuse più volte la bocca, senza riuscire a replicare. Alla fine fu Arci a toglierlo dall’imbarazzo, scoppiando a ridere e portando dentro la cena.
Jude andò a sedersi alla sua sedia a molla, la quale saltellò un po’ prima di alzarsi di un paio di centimetri. Il pappagallo meccanico andò a posarsi sul suo trespolo ondeggiante e fece ruotare un paio di volte gli occhi prima di richiuderli.
“Allora, capitano” strascicò l’ultima parola tra i denti, “credo che vada da sé il fatto che saremo costretti a cooperare da questo punto in poi.” Il suo viso si accigliò, scettico per primo alla sua affermazione.
“Non è necessario, generale” rispose divertito. “Sarà un piacere per me farvi scendere al primo porto lungo il tragitto.”
“Questo non è possibile. Un uomo della marina reale visto in compagnia di pirati… sarebbe un affro…beh, minerebbe alla riuscita della vostra copertura.”
Il capitano Hauk lanciò un’occhiata al suo secondo, rigido contro l’angolo della scrivania. In altre circostanze lo avrebbe invitato a sedersi e calmarsi, ma rischiava di perdere per primo la pazienza.
“Cosa suggerite?” si obbligò a chiedere alla fine.
Il generale si avvicinò con passo deciso alle carte eoliche e le gettò per terra senza tanti complimenti; dopo spiegò la sua carta nautica e, impadronendosi di un compasso, iniziò a tracciare linee e ipotetiche rotte: “La rotta della marina di Midra segue il meridiano passante tra le ali del Falco…”
“Sì, lo sappiamo” sbuffò spazientito Arci.
Jude si limitò a serrare le mani intorno ai braccioli della sedia.
Il generale Moris non mostrò di aver dato peso all’affermazione e continuò con il suo monologo: “Da lì, la via più diretta per il Sesto Cielo è quella che passa dall’arcipelago di Sexstapor. Io sconsiglierei oramai quella rotta. Puntiamo verso sud-est, al porto di Bellapor, circumnavighiamo il Gorgo e puntiamo alle spalle delle Terre Sabbiose.”
“Dimenticate che noi navighiamo per i cieli, non per mare.” Il capitano Hauk sgranocchiò una pannocchia e mandò giù un pezzo di carne al sangue. “Le nuvole sopra Bellapor sono assuefatte dai fumi delle loro industrie, veleno per chiunque tenti di passare da lì” obiettò, non riuscendo a nascondere del tutto la nota di stizza. “E aggirare il Sesto Cielo non è possibile: la terra è arida perché è il cielo che ruba la sua vita. E le silfidi hanno sentinelle anche oltre i loro domini.”
Moris sobbalzò a sentire quel nome. “Allora è vero? Esistono ancora quelle creature?”
“Se esistono, chiede lui” scioccò il secondo.
“Avete già avuto a che fare con loro?” lo ignorò il generale.
“Se abbiamo avuto… chiede se abbiamo…capitano!” s’indignò Arci.
“Non essere scortese, Arci” lo rimbrottò con tono sommesso. “Il generale parla di ciò che non sa, e di certo non con cattiveria.” Si servì un bicchiere di vino e ne offrì uno a ognuno dei due. “Parliamoci chiaro, generale: la Regina ha tracciato una rotta e un obiettivo, ma nessuno di noi la sta seguendo per suo volere. Chiedete a qualsiasi pirata o corsaro dei cieli, avranno ognuno i loro scheletri personali da tirare fuori e portare sul ponte di comando. Il mio è questo qua.” Si protese verso di lui e fece schioccare la lingua, prima di dire: “Le silfidi sono state private di parte dei loro domini da quando la supremazia del mare ha surclassato quella della terra; la loro patria non è morta, è stata solo spostata altrove.” E alzò un dito, puntandolo verso l’alto. “In loro è ancora viva la perdita, quindi, volubili e capricciose come sono, rubano qualcosa a chi disgraziatamente finisce nella loro rete.” Tornò a poggiare le spalle contro lo schienale, facendo ondeggiare la molla della sedia. “Sapete che hanno uno scrigno, una specie di cassa fatta di qualche strana sostanza? Sembra ferro, ma è liscio come neanche l’oro più raffinato potrebbe mai essere, tanto da sembrare liquido a prima vista. È da lì che generano la vita: è una specie di purificatore di anime o roba simile. Io non me ne intendo, né me ne sarei mai interessato. Se non fosse che la vita di mia sorella è finita in quella scatola.”
“Cosa intendete con “finita in quella scatola”?” borbottò confuso.
“Puff! Un risucchio… l’anima vola via, scivolando fuori dalle labbra, e il corpo cade a terra e non si risveglia. Comprendi?” gesticolò Arci, un po’ alticcio.
“Amico mio, è per questo motivo che non ti mando mai a contrattare alla Cava” ridacchiò il capitano Hauk. Tornò a rivolgersi al suo ospite. “Le silfidi rappresentano quello che la flotta di Midra non è capace di essere: una minaccia per i pirati e un limite per noi avventurieri.” Jude sorrise, francamente. “Rivoglio mia sorella, generale. E voglio l’abbattimento dell’ultimo confine ancora esistente tra me e l’infinito.”
Il capitano rimase a fissare l’espressione sul viso di Moris Lautner passare dallo stupore alla rassegnazione. “Qual è il vostro piano?”
Jude se la rise di gusto di sottecchi, mentre affermava: “Passare sopra l’arcipelago di Sexstapor.”
“Cosa?!” esclamò il generale, proprio mentre il secondo in comando sobbalzava, dicendo: “Capitano!”
“Il Sesto Cielo ha sentinelle ovunque a sud, qualunque direzione prenderemo saremo avvistati” li calmò con un gesto. Poi ghignò: “Tanto vale entrare dalla porta principale.”
 
 
 
 
I cieli di Sexstapor erano composti da muri di nebbia, dove era impossibile per una vedetta scorgere persino il ponte di prua. Il mondo intorno a loro divenne una cortina di vapore grigiastro, tentacoli di fumo serpeggiarono su tutti i ponti della nave e intorno alle sue vele, nascondendo la bandiera della Marsadde.
Moris Lautner soffriva quella condizione. Non sopportava l’idea di essere ospite sulla nave di un pirata, né tantomeno lo tranquillizzava quello strano veicolo. Dirigibili e navi volanti erano una sfida contro le leggi del creato, un sacrilegio del limite imposto dal Dio Creatore; e l’uomo, diceva lui, non poteva sfidare Dio nei suoi domini. Il mare, invece, era l’orizzonte di un uomo, ed era tutto ciò che al generale serviva per godere di una vita serena.
Un giovane mozzo gli si avvicinò con un sorriso stampato sulla faccia imberbe e gli offrì il capo di una fune. “Legatela alla vita. Ordini del capitano.”
Il generale, che di ciò che gli stava attorno vedeva solo il ragazzo, sollevò le sopracciglia e si passò una mano sulla barba rossiccia, irritato. “Per cosa mi ha scambiato? Un cane da riporto?”
La voce di Hauk gli rispose, proveniente da un punto impreciso dal ponte superiore. “Non lo farei mai, generale. Converrete con me, se dico che non c’è piacere a mettervi un guinzaglio, visto che nessuno può godersi lo spettacolo. Marph” disse al mozzo, “trova una fune e legatici, presto.”
Un po’ interdetto, Moris cercò a tentoni il bordo della ringhiera e salì con lentezza i gradini scricchiolanti, tenendo ben salda la fune in mano. Seguendo il corrimano, raggiunse il capitano sul ponte superiore e si sorprese nel trovarlo legato alla balaustra, sempre con quel suo atteggiamento indolente.
Sospettoso, chiese: “Cosa sta succedendo?”
Il capitano spostò i suoi piccoli occhietti su di lui e disse: “Le Sibilanti. Sono silfidi rinnegate, deformate dalle polveri e corrose dai fumi. Le loro voci insinuano la pazzia nelle menti di chi le ascolta.”
Le nebbie vorticavano in mulinelli di vento e spirali gonfie di minacce e promesse avverse. Moris Lautner, ancora dubbioso, guardò il capo della fune che aveva in mano e lo soppesò.
Sai fare il gassa d’amante?
Moris sollevò lo sguardo per trovare solo un tentacolo di nebbia che serpeggiava davanti a lui. Egli osservò il capitano, ma quello era impegnato a urlare ordini ai suoi uomini, lui solo sapeva per quale motivo.
Dicono che sia il nodo per eccellenza. Più la pressione è forte, più esso si stringe e non si scioglie. Come due amanti, legati per sempre.
Il braccio fumoso si strinse intorno al suo collo e soffi nebulosi strisciarono sotto la sua giacca, dentro la camicia, a contatto con la sua pelle.
Ne faresti uno per me?
“Ehi, generale. La fune non serve a niente se non la legate alla vita” lo raggiunse la voce del capitano Hauk.
Scosso dalla voce burbera e profonda dell’uomo, Moris afferrò saldamente il capo della corda e ne fece un nodo semplice, saldo e ben stretto; poi indietreggiò, cercando di sfuggire da quelle dita gelanti.
“Che facciamo?” interrogò l’altro. “Come si fermano?”
“Lei conosce un modo per fermare un pazzo, generale?” chiese il capitano Hauk, con tono placido.
Moris si alterò, iracondo e autoritario. “Un pazzo non si ferma, si elimina.”
“E come pensa di eliminare la nebbia? Come si uccide ciò che è già morto?” domandò ancora, lo sguardo concentrato altrove.
“Io…”
In quel momento lo videro: il giovane mozzo non aveva fatto in tempo a legarsi e vagava per il ponte inferiore, alla deriva, in balia delle nebbie.
“Marph!” lo chiamò il capitano.
Lo sguardo di Moris Lautner si agghiacciò sul ragazzo allampanato, la sua snella figura nerastra in movimento che spiccava sullo sfondo perlaceo di quella infida coltre.
Con uno scatto, il capitano Hauk si liberò della fune legata alla sua vita e si catapultò sul ponte inferiore, balzando con un salto oltre la balaustra. Il generale gridò a gran voce per mettere in allarme la ciurma, e qualcun altro, nelle nebbie rispose; ma era troppo lontano. La sagoma del capitano Hauk sfilò tra i tentacoli, incurante delle loro voci malevole, e tentò di afferrare il mozzo. Ma le nebbie lo avevano fagocitato e non era possibile più distinguerlo in quella cortina bianca.
Un guizzo di nero, e Moris esclamò: “La falchetta di dritta!”
Vide la figura del capitano correre alla cieca verso il punto indicato, ma le sue nere mani guantate afferrarono solo nebbia, mentre il giovane si tuffava incosciente oltre il parapetto della nave. Sotto di loro, il suo ultimo grido, cosciente della sua imminente morte.
 
 
 
 
Jude strinse le tempie tra le mani, poi inspirò l’aria benevola del Sesto Cielo. Avevano superato le nebbie, lasciando indietro tredici uomini, tra cui otto dell’equipaggio della Joyfall. La morte del giovane Marph, poi, aveva sconvolto un po’ tutti gli animi degli abitanti della Marsadde.
Coscio del potere carismatico che un capitano doveva sempre avere, Jude indossò nuovamente la bandana e uscì dalla sua cabina. Fuori c’era il cielo: non nebbia o fumi, non carbone e polveri, ma il cielo, l’aria pulita e limpida di una notte stellata.
Il capitano Hauk si avvicinò al suo secondo e insieme si avviarono sul ponte di prua, dove i marinai da stavano finendo di ringraziare l’albero di bompresso: grazie alla sua vela che spaccava le nebbie, Arci aveva potuto guidare le manovre del pirata al timone verso la giusta direzione. Quando la prora della nave aveva fenduto la barriera fumosa e la Marsadde si era fiondata tra i cieli aperti, era stato uno spettacolo; e i marinai sapevano come ringraziare la vecchia vela.
Appena il ponte fu liberato dall’ultimo superstizioso, sotto l’occhio nerboruto di Arci, il capitano gli disse, sghignazzando: “Amico mio, più tolleranza.”
“Sono un mucchio di donnette con la coda da scrofa” farfugliò, borbottante.
Jude rise di gusto dinanzi ai borbottii senza senso del suo amico. Gli mise una mano sulle spalle e lo rabbonì: “Niente donnette a bordo. Porta sfortuna.”
Arci sbuffò. “Buttiamoli tutti di sotto, allora.”
“Piuttosto” tornò serio lui, “Arapacis è tornato?”
“Tornato e pronto a ripartire. Crowsand è già sopra i cieli di Falknear, tra gli Alberi Cavi. La loro flotta non riuscirà ad avvistarla. Hauk” lo chiamò, con i suoi modi di vecchio amico d’infanzia, “questa è la più grande pazzia che poteva venirti in mente. E adesso la vorresti portare in atto sotto gli occhi del più grande comandante di marina di Midra.”
La sua era una semplice constatazione e Jude attese di sentire dove volesse andare a parare; ma visto che l’altro se ne stava in silenzio, sbottò: “E allora?”
“E allora, niente. Volevo solo fare il punto della situazione.”
Jude annuì, e la sua espressione si distese, lasciando trasparire il suo affetto per il suo secondo. Arci era uno scapestrato abitante di Crowsand, vissuto nella casa più abbietta della città volante: era impulsivo e permaloso, iracondo e sempre pronto alla rissa; ma era anche colui che lo aveva spalleggiato nelle missioni più assurde, e di questo lui gliene sarebbe stato eternamente riconoscente.
“Bene, allora” tornò a ricomporsi. “Libera Arapacis, e tieni tutti pronti.”
Il capitano Hauk scartabellò la nave con i suoi occhietti e trovò la sua nemesi, appoggiata serenamente sul parapetto del ponte superiore. Non potendo permettere che il generale trovasse troppo confortevole la sua nave, si mosse verso di lui e lo raggiunse, annunciato dallo sferragliare del suo orologio che sbatteva contro i guanti di ferro.
“Vista incantevole, non è vero?” lo accusò. “Niente a che vedere con i nuvoloni che persistono laggiù.” E con un cenno del capo, indicò oltre la ringhiera.
Jude lo vide incassare il colpo in silenzio, meditabondo. “Avete uno strano modo di fare il pirata” gli sentì dire alla fine.
“Perché, come dev’essere un pirata?” domandò curioso.
“Crudele, rozzo, spietato. Un pirata dovrebbe razziare e accrescere il suo bottino.” Moris corrucciò l’alta fronte pallida. “Perché avete scelto questa vita?”
Jude si ritrovò spiazzato dal suo tono sconvolto. Rise senza controllo, attirando lo sguardo di molti dei suoi uomini. “E cosa avrei dovuto fare, generale? L’altra possibilità sarebbe stata farmi intossicare dal lavoro nelle vostre fabbriche.” Tentò di darsi un controllo. “Sono nato in un piccolo villaero, il mio paese vola sopra le vostre terre, senza fissa dimora. Eppure vi paghiamo tasse e indennizzi. Siamo uomini, generale. Ma a vivere nel cielo abbiamo imparato a volare, credendo in molte cose: la libertà, per esempio, e l’uguaglianza. Sono parole vuote sulla terra e per mare, ma qui sopra sono la legge. Ammirate” gli indicò il vasto cielo. “Casa mia è la vostra casa, ma resta comunque casa mia, generale. Qui sopra valgono le mie regole.” E se ne andò, lasciando il comandante della flotta di Midra a osservare il cielo.
In un angolino di quello sfondo blu, il pappagallo metallico si staccò dalla balaustra e volò verso la direzione opposta.

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Capitolo 3
*** Il Sesto Cielo ***


Capitolo 3
Il Sesto Cielo
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Moris Lautner si sorprese, a bocca aperta, ad ammirare il rosso dell’alba che tinteggiava le nuvole all’orizzonte. Quest’ultime non erano condensazioni di vapori, dalla forma lunga e dal colore grigiastro, ma batuffoli di finissimo cotone che sorridevano al nuovo sole.
Tanta bellezza, si ritrovò a pensare, perduta per sempre.
Il capitano Hauk se ne stava dritto al timone. Ogni tanto guardava il suo orologio e studiava i venti, che lassù nel cielo soffiavano sempre forti. La Joyfall non avrebbe mai potuto mantenere a lungo quell’andatura; forse anche per quello la Marsadde cominciava a mostrare segni di cedimento, e molti suoi pezzi andavano cambiati.
Il generale studiò il suo più grande nemico e, in silenzio nella sua coscienza, ammise a se stesso che quell’uomo era degno del suo rispetto. Infine indurì nuovamente la sua espressione, nascondendola dietro l’austerità e la lunga barba che incorniciava il suo viso quadrato, e si avvicinò all’altro.
“Dunque, questo è il Sesto Cielo?”
“L’ultimo, prima della fine conosciuta” affermò il capitano.
“Quanto tempo avremo prima che le silfidi ci avvistino?” domandò.
“Oh, ma loro c’hanno già avvistati” replicò il secondo della nave, Arci.
Moris lasciò trasparire la sua perplessità.
“Perché non attaccano allora?”
“Prima devono decidere chi di noi è il più pericoloso” se la rise, sotto tensione. “Aprite gli occhi, generale. A quanto pare, state ancora rollando con i letti nella stiva.”
Moris Lautner si voltò, ma non vide nulla. Arci, alle sue spalle, latrò una risata.
“Pazientate, generale” intervenne il capitano, un po’ sulle sue. “Capirete presto.”
La nave scivolò placidamente tra le onde nebulose e si lasciò trasportare, quasi senza peso, tra le alte correnti del cielo. Per ogni metro che percorreva all’interno del Sesto Cielo, l’aria diveniva sempre più fresca; si liberava di quello strano odore di olio e putrefazione che i loro nasi, ormai assuefatti, non avevano notato finché non ne avevano notato l’assenza.
L’orizzonte era limpido e nessuna creatura antica e leggendaria si fece avanti per minacciarli. Questo non fece che aumentare l’angoscia negli animi dei marinai.
“Non capisco” sussurrò uno della Joyfall.
“Il loro potere è più vicino alla fonte. Non ci sono costruzioni qui sopra, tranne la loro città: Allana. Vedrete” aggiunse ancora il pirata, alla fine.
L’albero di bompresso puntava verso la loro direzione e per tutta la mezza giornata gli occhi del generale non si staccarono da esso. I suoi uomini se ne stavano addossati sui barili o contro la ringhiera, evitando di ostacolare le mansioni dei pirati. La vedetta, abbarbicata sulle sartie d’arrampicamento dell’albero di mezzana, fischiettava per alleggerire la tensione, ma presto anche il suono delle sue labbra dischiuse si perse nell’immobilità del cielo.
La bellezza di quel luogo sembrava cristallizzata in un unico attimo dilatato all’infinito, preda di uno sbalzo spazio-temporale che lo isolava dal resto del mondo. Il vento si era placato e la Marsadde volava adesso solo perché il capitano Hauk aveva dato l’ordine di ammainare le vele quadre e gonfiare i due palloni aerostatici.
Un punto scuro si stagliò all’improvviso dinanzi loro. Moris Lautner strinse convulsamente il corrimano di legno e aguzzò la vista: pareva un grosso masso galleggiante, sospeso nell’immensità dell’azzurro nitido del Sesto Cielo. Quando la distanza venne ancor di più diminuita, il generale riuscì a distinguere i corpi di alte donne che circondavano l’isola; erano solo puntini, ma luccichii dorati annunciavano che erano armate e pronte alla lotta.
Più si avvicinavano e più i dettagli dell’isolotto, sempre più grande e vasto, si definivano. Alla fine, egli sgranò gli occhi, incredulo: lunghe e grosse radici pendevano dalla terra, come se quel cumulo sospeso fosse stato sradicato con la forza dal suolo e innalzato nell’isolamento di quei luoghi immoti; le abitazioni erano fatte d’acqua, semplici e lineari. Intorno a esso, la pioggia, invece che cadere, rimaneva sospesa e molleggiava giocando tra le spire di un alito leggero che aizzava le chiome delle donne nell’aria.
A difesa di Allana, c’erano loro, le leggendarie silfidi, scampate al massacro dei secoli scorsi, austere nella loro selvaggia minaccia. I loro corpi avevano l’armonica sinuosità dei pesci, ma tutte erano diverse e uniche: tutte avevano due gambe palmate, ma solo alcune avevano così anche le mani; altre, invece, possedevano dita sottili, ma gli avambracci muniti di pinne seghettate, taglienti come lame. Erano adornate da corone di piume, incastrate tra i capelli, variopinti e lunghi come i loro corpi slanciati. Non avevano squame, ma pelle liscia, su cui forme e disegni colorati si rincorrevano su ogni centimetro di corpo. I loro vestiti erano le loro pelli stesse: alcune erano ricoperte da veli semitrasparenti, altre invece presentavano alla vita spesse membrane come i diavoli di mare; o ancora, avevano tessuti diafani, esili e fragili come le ali di farfalla, chiazzate da riflessi vermigli o verdognoli.
“Se le loro anime dannate, che vagano oltre i loro confini, sono riusciti a farci perdere il senno…” iniziò uno dei suoi uomini.
“Ricordate che sono fatte di carne. Possono essere uccise” vociò il capitano Hauk all’equipaggio.
Moris gli lanciò uno sguardo, ma in lui riuscì solamente a scorgere quel lampo di luce che aveva già intravisto nella Sala delle Cerimonie, a Midra, quando aveva accettato di partire per quella missione suicida.
Il pirata gli si avvicinò, passandogli un arpione. “Bucate le membrane: precipiteranno come moscerini senza ali.”
Moris annuì. “Non possiamo farcela. Sono troppe.”
“Guarda, generale!” ghignò di malvagità.
Egli puntò nuovamente lo sguardo sul cielo e vide ciò che finalmente Arci gli aveva annunciato quella mattina: pirati. Le navi e gli zeppelin delle compagnie di ventura, partite da Midra, erano finalmente giunte, convogliando verso Allana da ogni direzione; erano puntini neri che si ingigantivano e vociavano la loro ira contro quel punto sospeso nel vuoto. Sotto di loro c’era solo la tavola blu del mare, un mostro che si stava agitando in attesa di inghiottire nelle sue profondità le vittime di quello scontro clandestino.
“Peccato che la storia non ci ricorderà” disse infine il capitano Hauk. “Non saprà mai quale epica battaglia si è combattuta quassù. Se sopravvivrete, però, non dimenticate chi vi ha protetto le spalle, generale.”
L’attimo dopo, il capitano della Marsadde urlò un ultimo ordine, poi la nave volò dritta tra le fauci del mostro e fu guerra.
 
 
 
 
Parte della chiglia era saltata. Accanto a loro, il veliero di Johanne era colato a picco, tutte le vele forate dalle pinne aguzze delle silfidi. Kabart, invece, stava dando battaglia sul fronte nord settentrionale: i cannoni e i lanciaossidi avevano iniziato a bersagliare le radici della terra, cercando di appiccare il fuoco o di ossidare gli ingranaggi che la facevano galleggiare.
Ma non è il metallo a farla volare, pensò determinato Jude, è lo scrigno.
I suoi piccoli occhietti erano puntati verso il centro dell’isola, dove si poteva avvistare la colonna di luce che irradiava il cielo e perforava le nuvole sopra di loro: quelle maledette donne avevano aperto il cofanetto, pregustando le anime che avrebbero sottratto ai loro corpi.
Guardò Arci, che al suo fianco stava sbrogliando un’altra cima. Egli e il suo amico avevano preparato tutto da tempo, ormai: avvalendosi di sartie e cordame i pirati della Marsadde avrebbero messo in atto un vero spettacolo intorno alla loro nave, volteggiando tra funi e vele come acrobati, per spostarsi da un punto all’altro nel minor tempo possibile. In questo modo, l’unico vantaggio delle silfidi sarebbe stato annullato.
Un gabbiere, sopra di loro stava dando battaglia contro una di quelle creature proprio in quel momento: la donna, osteggiata dai suoi agili movimenti tra le cime, era in seria difficoltà; poco prima, una delle sue sorelle era stata abbattuta dai loro uomini, aizzando l’ira delle altre. La silfide soffiò irritata e il pirata, sicurò della sua posizione di vantaggio, si diede una spinta per affondare la sua lama; ma un’altra di quelle creature, sopra di lui, recise la cima e l’uomo precipitò nel vuoto, seguito dall’urlo di guerra della donna.
Jude ringhiò tra i denti, tremante di collera: le donne volavano grazie ai loro corpi, i suoi uomini avevano bisogno delle funi per non cadere; e, una volta messo a nudo il punto debole, il loro vantaggio era sprofondato negli abissi. Sul ponte, osservò, gli uomini del generale Morsi Lautner facevano melina intorno al loro comandante, tenendo a bada le donne e difendendo gli ingranaggi della loro nave. Non potevano andare avanti così per molto, però: un buco nelle vele, e anche loro sarebbero colati a picco come lo zeppelin di poco prima.
Il capitano Hauk lanciò uno sguardo verso l’imbarcazione volante del corsaro Kabart: l’uomo, indemoniato, se ne stava spavaldamente sul bordo, e dava la sua vita per abbattere una di quelle creature.
“Arci” chiamò con un grido impaziente. “Dobbiamo mettere fine al gioco, adesso.”
Il suo secondo annuì, carpendo le sue intenzioni. “Ci penso io.”
“Vedi di farti trovare al timone, Arci. Sai che non sopporto trovare Fedrik al comando, mi fa venire il mal d’aria.”
“Tranquillo, Hauk” rise follemente, “Se ci prova, gli mozzo le dita.”
Jude rise, evitando di obiettare sull’ultimo punto: non era il momento di pensare all’estetica della nave e all’eventuale puzza di sangue.
Il capitano Hauk corse giù per gli scalini scricchiolanti e raggiunse il suo più amato nemico. “Ehi, generale” lo stuzzicò con l’insolita indifferenza. “Che dici se ci andiamo a fare un giro per la città tu e io, eh?”
Moris Lautner lo guardò stralunato, ma qualcosa nella sua espressione doveva averlo convinto a non sottovalutare le sue parole. Seguito in silenzio, Jude s’incamminò sotto coperta, sul ponte di batteria. Lì, recuperò una cima, ne saggiò la resistenza e controllò che fosse ben ancorata al gancio.
Uno scossone e una manovra improvvisa minò al loro precario equilibrio.
“Dannazione!” mormorò lui. “Menomale che gli avevo raccomandato di non mandare Fedrik al timone…”
“Cosa stiamo facendo?” urlò il generale, gli occhi che saettavano verso la cambusa e poi verso il ponte superiore.
“Ve l’ho detto generale” rispose con lo stesso tono arcigno e un po’ divertito. “Andiamo a farci un giro turistico, e magari arraffiamo qualche souvenir. Non aveva creduto di viaggiare su un vascello pirata senza provare l’ebbrezza dei suoi abitanti, vero?”
E con queste parole, diede due colpi contro il fasciame interno della nave. Una sezione della chiglia cadde, facendo apparire un barcarizzo nascosto.
“All’arrembaggio!” urlò. E si lanciò fuori.
Jude lasciò la fune e ammortizzò la caduta rotolando. Si sorprese non poco nel vedere il generale buttarsi subito dopo di lui, un po’ cinereo in viso.
“Andiamo!” annuì soddisfatto.
Corsero tra l’erba alta e i licheni di Allana, verso la colonna di luce che sfidava il cielo. Jude aveva occhi solo per il suo obiettivo. La regina Elzeth aveva i suoi piani, e sperava di portarli a termine usando loro; ma i pirati non si fanno usare senza avere un tornaconto, e lui aveva giusto una questione in sospeso con quelle creature.
“Attento!” lo richiamò guardinga la voce del generale.
Le silfidi li avevano avvistati e li stavano puntando, i loro visi tramutati in maschere di orrore e furia nera.
“Dobbiamo prendere lo scrigno” gli urlò il capitano.
Moris sembrò combattere contro il suo impulso più profondo. Alla fine strinse i denti e, senza guardarlo in faccia, esclamò: “Andate, allora! Vi proteggo le spalle.”
Jude ammiccò, coperto dalla bandana, e poi rise sguaiatamente, preda dell’assurdità del momento. Infine volò come una freccia sui prati, verso il cofanetto brillante. Era a un passo dalla meta, poteva percepire l’anima di sua sorella incastrata in quella rete dorata, ma il corpo di una silfide dinanzi a lui gli sbarrò il cammino, afferrandolo per il bavero della camicia e protendendo la sua bocca verso la sua.
La bandana scivolò per terra e la silfide si ritrasse, dolorante: non c’erano labbra da cui aspirare la sua anima, solo il freddo metallo della sua mascella meccanica, denti di ferro e acciaio. Con un sorriso metallico, Jude smembrò il corpo della silfide e puntò le sue mani verso lo scrigno; lo sigillò e lo strinse finalmente a sé.
Alle sue spalle, l’urlo disumano delle altre creature si liberò nel Sesto Cielo mentre i vapori delle città limitrofe invadevano i loro territori, intossicando l’aria e cavalcando vero l’orizzonte; ogni barriera crollò e la terra sotto i loro piedi minacciò di sprofondare nuovamente verso il mare sottostante.
Il capitano Hauk guardò il generale liberarsi a fatica della sua rivale, il riverbero della sua anima trattenuta a stento tra i denti. Lo raggiunse e lo aiutò a rialzarsi.
“Siete apposto” tagliò corto. “Adesso, correte!”
I due uomini ripercorsero a folle velocità la distanza che li separava dalla Marsadde, mentre le radici della terra si incenerivano, e la vita e la magia abbandonavano quei luoghi. Un risucchio e Allana precipitò.
Con un salto, Moris Lautner afferrò un cima penzolante della nave, mentre la forza di Jude veniva meno e i suoi piedi, in fallo, lo fecero inciampare. Fu un attimo: l’arpione si agganciò al suo soprabito e lo tenne ancorato nel vuoto. Con strattoni potenti, gli uomini lo issarono a bordo.
La mano di Arci gli batté sulla spalla, esprimendo la sua soddisfazione nel ritrovarsi ancora vivo entrambi.
“Capitano” gli sorrise in modo malandrino. “Quali sono gli ordini?”
Jude incrociò il suo sguardo trionfante e strinse con vigore la sua mano tesa. “Torniamo a casa.”
 
 
 
 
La nave aveva gettato una cima d’ancoraggio verso Crowsand e aveva teso una passerella per permettere ai marinai di toccare una parvenza di terra.
Moris Lautner si sorprese a tirare un sospiro di sollievo: sicuramente, la vita per i cieli non faceva per lui.
Era rimasto sorpreso quando la Marsadde aveva incrociato il viallero sopra i cieli di Sexastapor. Le nebbie si erano diradate e ciò che le teneva coese in quel punto era sparito insieme ad Allana, trascinando le anime delle Sibilanti alla deriva per i cieli senza confini.
Il generale aveva così scoperto che per tutto il tempo il capitano Hauk aveva dato istruzioni alla sua gente di seguirlo dalle retrovie, accodandosi alla missione come se fossero andati a fare una passeggiata. Quando aveva chiesto spiegazioni, l’altro si era limitato a sorridere furbamente e a fargli strada tra le catapecchie sospese nel vuoto.
Moris Lautner seguì l’uomo in una casa, all’estremità sud-est del villaero, allacciata alle altre costruzioni solo da un piccolo ponte malridotto di corde e tavole di legno bucherellate. L’interno della casa rispecchiava l’aspetto della facciata: l’unica stanza dell’abitacolo era piena di roba rotta o arrugginita, accatastata nel lavello della cucina o addossata sopra al tavolo senza una gamba. In un angolo era addossato un letto a castello, mentre affianco dell’unica finestra della casa, ci stava una sedia a dondolo, mossa meccanicamente da un ingranaggio di molle a fisarmonica e soffioni di aria compressa.
Seduta tra cuscini con l’imbottitura che sbucava da buchi e toppe mal cucite, c’era una giovane donna dai capelli di un biondo spento, un po’ smunti e privi di vita; il volto cereo sembrava essere attraversato dalla luce e la vita pareva averla abbandonata da tempo, se non fosse stato per il petto che continuava ad alzarsi e abbassarsi.
Il capitano Hauk le si avvicinò e aprì lo scrigno sgraffignato. Una luce sfavillò come una lucciola, e con un risucchiò tornò nel corpo della giovane. La coperta sulle sue gambe scivolò per terra e la giovane guardò il fratello.
“Ci hai messo un po’ troppo, Jude. Stasera cucini tu.”
Moris Lautner rimase a bocca aperta mentre il capitano Hauk si scioglieva nell’abbraccio della sorella.
Uscì dal piccolo ambiente e si guardò attorno, un po’ spaesato. Molte delle sue convinzioni erano crollate come castelli di sabbia e il suo amore lontano – il mare e Midra– pareva perdere forza ogni istante di più.
I suoi occhi si posarono sullo scrigno abbandonato sul pavimento marcio e poi volarono sulla nave malconcia ancorata poco più in là.
Beh, pensò sconsolato con un’alzata di spalle, questo è quello che accade a frequentare i pirati.
 
 
 
 
“Capitano!” esplose la voce di Arci, facendo irruzione nella stanza. “Quel maledetto figlio della feccia di Midra. Ladro e traditore!”
“Riprendi fiato, Arci” rise Jude, svuotando il bicchiere e sorridendo a sua sorella. Disse: “Non è cambiato molto il nostro amico, vero?”
“Affatto. Sempre il solito” lo rimbrottò con voce divertita lei.
“Hauk?!” si esasperò. “Quella cozza di scoglio…”
“Modera i toni, amico. Ci sono fanciulle tra noi…”
“… si è fregato la tua nave!”
“Cosa?!”
Jude Hauk sfrecciò fuori dalla porta e corse verso il ponte, ma era inutile: la sua amata Marsadde era sparita. Colpito da un pensiero improvviso, tornò sui suoi passi e scartabellò con gli occhi l’intera stanza.
Anche lo scrigno non c’era più!
“Ora posso inveire, capitano?” lo apostrofò il suo secondo.
Il capitano Hauk spalancò la bocca, poi la richiuse; infine sollevò il capo e rise senza controllo.
Sotto lo sguardo allibito dell’amico e della sorella, esclamo: “Facciamo muovere questo coso, Arci.” Sbatté il piede sul pavimento per indicare Crowsand. “Abbiamo parecchi cieli da esplorare e una nuova nave da costruire. Ma ricordate bene: torneremo. Non ho potuto salutare il generale come si deve, e” aggiunse con un luccichio minaccioso negli occhi “l’ultima parola spetta sempre ai pirati!”
 
 
 
 
Lo scrigno irradiava il cielo di Midra, una stella bluastra sopra la Torre di Guardia. I fumi dai camini delle fabbriche annerivano il cielo tra i bassifondi, ma squarci di un tumido blu slavato si aprivano sopra il porto e il castello; le nubi si allontanavano in un cerchio intorno alla città, scacciati dalla forza del cofanetto.
Moris Lautner guardava la sua amata patria dal parapetto della Marsadde, il viso indurito in un’espressione di amarezza: la salvezza del suo popolo era costata la distruzione di un altro. E in tutto questo, il generale aveva combattuto affianco di pirati, rubato la loro nave e saccheggiato il loro bottino. Eppure a sconvolgerlo era il senso di vuoto che si era creato nel suo petto.
Per più di un decennio, il capitano Hauk era stato il nemico giurato della corona, un bandito che aveva leso la regia maestà di Midra e minato ai valori del regno. Ma il generale aveva imparato a conoscere l’uomo, l’amico e il fratello, nonché il servitore di quella parte del popolo che non aveva voce e che pagava il prezzo del progresso.
Moris Lautner sbatté il pugno sulla ringhiera, l’oscurità dei cavi metallici che producevano un suono acuto e sinistro contro il legno. La sua regina lo attendeva nella Sala delle Cerimonie per investirlo del più alto dei riconoscimenti, ma lui era già in tremendo ritardo.
Vizi da pirata! Pensò con un mesto sorriso.
“Generale” si annunciò un suo sottoposto. “Quali sono gli ordini?”
Moris si grattò la barba e poi si voltò verso l’uomo. Sospirò, e poi disse semplicemente: “Innalzate le vele e catturate il vento. Abbiamo un pirata a cui dare la caccia, e la marina di Midra non si accontenta di avere in consegna la sua nave!”
La Marsadde salpò dal porto con il sole alle spalle e l’oceano dinanzi a sé, e il generale strinse forte una cima della sartia d’arrampicamento, con lo sguardo già puntato all’orizzonte e la mente pronta a nuove sfide.



N.B.

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