Diana Mary Watson

di SalvamiDaiMostri
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Improvvisamente soli ***
Capitolo 2: *** Silenzio ***
Capitolo 3: *** Il 'noi' tanto atteso ***
Capitolo 4: *** Le cicatrici che portiamo ***
Capitolo 5: *** Famiglia ***



Capitolo 1
*** Improvvisamente soli ***


Se ne stava andando. Tornava di nuovo a casa da sua moglie e da sua figlia. Così come dopo ogni caso, John lo abbandonava alla solitudine del 221b.
C’erano cose… Delle cose che gli aveva detto la signora Hudson, delle cose a cui aveva accennato Molly, e altre che pensaba da solo, cose che gli facevano credere che John sarebbe rimasto molto volentieri con lui anche dopo aver risolto i casi, che non aveva nessun interesse a tornare da Mary, che non la amasse più. E quel genere di cose le sentiva in modo particolarmente forte mentre John faceva per andarsene, simulando un sorriso e dicendo frasi fatte come “Devo andare” o “Ci si vede” guardando il pavimento.
E, dato che se ne stava andando di nuovo, Sherlock ormai si aspettava di sentire quelle voci nella testa: quei “Fermalo!” quei “Chiedigli di restare” e “Chiedigli di restare per sempre”. Di norma riusciva ad ignorarle abbastanza a lungo da lasciare che il medico lasciasse il 221b, ma, per qualche ignota ragione, quel giorno arrivarono molto più forti del solito. Lo presero improvisamente per lo stomaco e cominciarono a tirare in tutte le direzioni, così forte che tremava. Non potè resistere a lungo:
“John…” Disse con un filo di voce.
L’altro, al sentirlo, sobbalzò e, voltandosi, lasciò la maniglia della porta.
“Sì, Sherlock?”
Il consultive detective si portò una mano alla fronte e si voltò di scatto: era sempre stato così bello? Non poteva smettere di esserlo anche solo per un secondo, giusto perchè potesse trovare la lucidità di potergli parlare faccia a faccia? Evidentemente no.
“N-nulla, lascia stare. Ti scrivo se Lestrade mi manda qualcosa di interesante.”
“Oh, certo. Ok.” Rispose confuso, riprendendo la maniglia della porta  “Allora, io vado.”
“Si, ciao… Salutami Mary e Diana, come sempre.”
“Lo farò.” rispose con aria stranita.
John si chiuse dunque la porta dietro di sè e Sherlock si fece precipitare sulla propia poltrona. Si prese la testa con le mani: come poteva essere così stupido? Come poteva essere così egoista dal volergli chiedere di restare, di abbandonare quella vita che non voleva per restare con lui sempre? Come poteva permettersi di presumere di aver capito che non voleva quella vita, che non amava quella donna, e che invece al 221b stava a suo agio?
 
La bambina dei Watson era nata da appena due mesi.
Sherlock non avrebbe mai scordato il giorno in cui nacque: era inevitabile che l’arrivo di quel neonato avrebbe cambiato la sua vita, oltre che quella di John e Mary. Il padre glie l’aveva indicata attraverso il vetro della finestra della nurcery con un sorriso da orecchio a orecchio. Era minuscola e avvolta in una copertina verde, rossa in faccia e con un ciuffo di Capelli biondi sulla faccia; aveva gli occhi (quelli di suo padre) spalancati che osservavano il mondo con stupore e curiosità, le braccina si muovevano dentro la coperta. Un’etichetta sulla culla diceva “Diana Mary Watson”.
Sin dal suo primo giorno in questo mondo, Diana era diventata la luce degli occhi di suo padre e di sua madre e, con stupore di tutti, anche di Sherlock. John l’amava come evidentemente non aveva mai amato nulla in tutta la sua vita. Ed anche Sherlock sentiva di amarla. La amava come parte di John. La amava perchè lui la amava. Amava il suo profumo, amava cullarla e suonare il violino per lei.
Nessuno prima dei Watson lo aveva mai fatto avvicinare a un neonato: prenderla in braccio fu per Sherlock qualcosa di completamente nuovo e straordinario. Un essere umano ancora incompleto, plasmabile, eppure così perfetto e pronto alla vita.
Quando Mary gli disse di sedersi e le porse la bambina, ebbe seriamente paura: di romperla, di farla cadere, di essere una brutta influenza…. Ma Mary non accettò un no come risposta e quando la depose nelle sue braccia, qualcosa in lui cambió. Nonappena la guardò negli occhi qualcosa scattò in lui e fu davvero difficile per lui trattenere le lacrime. Cominciò a sussurrare:
“È straordinaria… John, guarda come ci guarda… Incredibile… È brillante! Così piccola.. E semplice… Eppure straordinaria…”
E i Watson sorridevano, consapevoli del fatto che Diana a mala pena riconosceva la luce e le forme in quel momento. Ma Sherlock giurava che la bambina era straordinaria, incredibilmente più attenta e brillante rispetto a tutti quegli altri bambini noiosi della nurcery.
La sua paura si era tramutata in curiosità e affetto e, poco a poco cominciò a volerle bene, fino a precipitare in un affetto profondo quasi pari a quello che provava per John.
In quei due mesi scarsi aveva cercato ogni scusa possibile per andare a trovarla o per accompagnare Mary durante le passeggiate con la carrozzina o perchè John la portasse al 221b quando passava di lì.
C’è da puntualizzare che l’affetto per la piccola era contagioso: Sherlock osservava che chiunque le si avvicinasse cominciava a farfugliare e a crogiolarsi di tenerezza osservandola e facendole complimenti. Tutti erano rapiti da lei, la signora Hudson, Molly e persino Lestrade.
 
Pensando a lei e ricordandosi del fatto che, se avesse avuto l’arroganza di confessare i propri sentimenti a John e se per grazia dell’universo lui li ricambiasse, la piccola Diana sarebbe cresciuta con dei genitori divorziati e un padre assente, Sherlock si sentí ancora più egoísta e, con questi pensieri si addormentò esausto su quella poltrona.
 
Il vibrare insistente del suo cellulare lo svegliò.
Lestrade.
Prima di rispondergli, Sherlock vide che aveva ricevuto altre quattro chiamate perse da lui:
“Sherlock. Vieni inmediatamente, si tratta di Mary e…”
«MARY?? NO!»
 Il detective fece una lunga pausa “Io… Non so come- vieni prima che arrivi John. Ti prego. Ti mando la posizione.”
Prima che Lestrade attaccasse, Sherlock aveva già indossato il cappotto e si era precipitato giù per le scale per chiamare un taxi.
Durante la corsa cercò di non pensare a nulla.
«Come Mary? Non Mary, non la nostra Mary… No, No… Diana… John… No»
Una volta giunto, fu chiaro che la situazione era tanto tragica quanto sembrava: tre auto della polizia erano parcheggiate con le luci lampeggianti al di fuori di un edificio abbandonato imbrattato di graffiti a bomboletta. Pagando il tassista, cercò Lestrade con lo sguardo: lo trovò che parlava con un paio di agenti. Gli corse dunque incontro:
“John?” Chiese Sherlock terrorizzato.
“Starà arrivando. Ha dovuto aspettare che sua sorella arrivasse per stare con la bambina.”
“Che è successo??” domandò con tono disperato
«Dimmi che non è vero, non è vero»
“Una segnalazione anonima, un’ora fa.”
«Non lei, non Mary, dimmi che non è vero»
“Quando siamo arrivati l’abbiamo trovata al secondo piano-”
Lestrade non potette aggiungere altro perchè Sherlock aveva preso a correre a  perdifiato dentro l’edificio. Lo guidarono gli agenti che camminavano avanti e indietro dalla scena del crimine. Una volta giunto nella sala da cui entravano e uscivano gli agenti, cadde sulle ginocchia.
«No… No… Non è vero…»
Non poteva crederci. Non voleva crederci.
Mary era seduta su una segna di legno vecchia e logora. Ci era legata a quella sedia, con una corda. Era completamente nuda e ricoperta di lividi, tumefazioni e ferite.
Un foro d’uscita in mezzo alle sopracciglia.
Un’espressione vuota dipinta sul volto.
Sherlock si portò entrambe le mani alla bocca per non gridare.
Come avevano potuto? Come si erano permessi?? Mary… La loro Mary…
“Mi dispiace tanto, Sherlock” la voce di Lestrade lo riportò alla realtà e Sherlock voltò di scatto la testa verso di lui  “So quanto le volevi bene. Era una gran donna… Io davvero non capisco… Chi farebbe una cosa del genere ad un’umile infermiera?” il detective squoteva la testa con aria disgustata “Ha tutta l’aria di essere stata un’esecuzione… Roba da spie o della mafia…-Ma” ma Sherlock non ascoltava.
Mary, quella donna eccezionale, era lì, morta davanti a lui. Uccisa.
Diana non aveva più la sua dolce mamma. E John… John stava arrivando.
Non poteva vederla così, non senza di lui. 
Scese di corsa senza dire nemmeno una parola: non sapeva cosa gli avrebbe detto. Non sapeva come avrebbe reagito, ma senza ombra di dubio gli sarebbe stato accanto.
Una volta giunto  all’entrata, non dovette aspettare molto prima che John arrivasse a tutta velocità sulla sua auto. Scese lasciando in moto e i due amici corsero l’uno contro l’altro:
“Sherlock, cosa è successo??” l’espressione di John gridava pietà. Esattamente come quando lui era arrivato sulla scena del crimine, John stava suplicando Sherlock di non confermargli ciò che aveva capito. Sherlock davvero non sapeva come avrebbe potuto confermare la sua paura. Cercando le parole, tardò qualche secondo a rispondere:
“John” disse prendendogli le spalle con le mani “Al secondo piano, c’è Mary” lo trattenne, perchè lo avvertì cedere “L’hanno trovata… Morta.”
John rimase immobole, inpassibile, come se non avesse capito.
“No-Non... Non è possibile…” Sorrise disperato “Lei- lei è al lavoro… Ha chiamato, le hanno dato un turno notturno in ospedale… Mary tornerà tardi sta sera…”
A Sherlock si gelò il sangue nelle vene: come poteva dissuaderlo? Come poteva negargli quella disperata speranza?
“John, no.. Mi dispiace, mi dispiace tanto…” le lacrime inondarono i suoi occhi mentre parlava “Ma Mary non tornerà a casa… Lei- Lei è lì dentro.”
“Lì dentro?” chiese con voce rotta.
“Sì John, l’hanno uccisa, John.” Rispose lui, con le guance rigate di lacrime, annuendo con la testa sforzandosi di crederci lui stesso.
“No…” scosse la testa “No, Diana… Diana ha bisogno di lei… Non può essere… Non può essere vero!!” gridò divincolandosi dalla presa di Sherlock e correndo all’interno dell edificio.

 


Ciao a tutti! Eccomi qui di nuovo! Vi è piaciuto questo primo capitolo?? Io vi ringrazio infinitamente per aver letto fino a qui e vi chiedo cortesemente di lasciare un commento qui sotto: è molto molto importante per me ;)
Un saluto, con tanto affetto _SalvamiDaiMostri

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Capitolo 2
*** Silenzio ***


Quando John se ne andò dalla scena del crimine, Sherlock volle esaminarla per assicurarsi che la deduzione di Lestrade fosse corretta. E lo era: ogni dettaglio, ogni prova faceva credere che fosse stata una vera e propria esecuzione. Un numero elevato di persone si era radunato in quella stanza per assistere all’assassinio dell’agente segreto che si nascondeva dietro la falsa identità di Mary Mostran. Probabilmente una o più organizzazioni criminali a cui aveva dato fastidio in passato si erano fatte in quattro per trovarla e farla fuori in modo davvero poco dignitoso. Sherlock ringraziava il cielo che, quantomeno, gli assassini non avessero toccato John e Diana: evidentemente non gli interessavano, oppure Mary era riuscita a proteggerli fino alla fine, chissà, magari fingendo di non amarli, fingendo di non avere nessuno di caro a questo mondo.
Sherlock faceva davvero fatica ad esaminare la scena del crimine con fredda professionalità: soffiava furioso costantemente ira e frustrazione; ogni volta che realizzava che quella sulla sedia non era una qualunque sconosciuta, ma la loro Mary, lo coglieva una stilettata al cuore e Sherlock era costretto a distogliere lo sguardo per riprendersi e proseguire l’analisi.
Quando si sentì costretto a guardarla in  viso, nei suoi occhi vitrei, si rese conto che era la prima volta che guardava in viso una persona amica deceduta: improvvisamente gli tornò in mente la sua voce, la sua risata, il suo sorriso. Ammirava così profondamente quella donna, soprattutto la sua forza, la sua determinazione... Ed ora era lì, ridotta lo spettro di se stessa, un contenitore vuoto e sgualcito di ciò che Mary era stata.
Quanto male le avevano fatto…
L’avevano umiliata. Torturata parecchio, si vedeva anche a prima vista. L’autopsia avrebbe certamente rivelato segni di violenza sessuale e probabilmente tutte le ossa rotte. Chissà quanto avevano tardato a spararle una volta per tutte, perchè cessasse di soffrire.
Una volta che gli fu tutto chiaro, chiuse la sua lente d’ingrandimento e, facendo un cenno a Lestrade, lasciò l’edificio. Il detective diede dunque il via libera per raccogliere le prove e disporre del cadavere.
All’uscita, Sherlock trovò suo fratello con la sua classica espressione fredda ed impassibile.
“Trova chi ha fatto questo” gli disse Sherlock sorpassandolo, senza nemmeno rivolgergli lo sguardo, esattamente a metà tra un ordine e una supplica. Mycroft lo seguì con passo posato: “È lavoro per l’MI6: se non sono terroristi, deve essere stata organizzazione mafiosa o criminale di qualche genere. Va ben oltre le mie competenze.”
“Sarà fatto.” Mentre Sherlock saliva su un taxi che avevano chiamato per lui, Mycroft aggiunse “Porgi le mie condoglianze al Dr Watson.”
Il fratello non rispose, bensì chiese al tassista di portarlo all’indirizzo della casa di John.
 
John e Diana ora erano la priorità assoluta di Sherlock. Aveva fatto un voto ai Watson poco meno di un anno prima, e non aveva potuto mantenerlo per quanto riguardava Mary, ma certamente non avrebbe deluso John e sua figlia: Mary li aveva protetti fino ad allora, ora Sherlock ne aveva preso il testimone. In silenzio promise alla guerriera caduta che avrebbe protetto suo marito e la sua bambina. Non sarebbe mai accaduto loro nulla di male. Mai.
 
Harriet gli aprì la porta.
“È nella sua stanza” gli disse “Non dice una parola.” Cercò il suo sguardo: “È vero, Sherlock? È stata uccisa?” Sherlock annuì guardandola con triste dolcezza, Harry abbassò lo sguardò e, mentre lui saliva le scale, potè commentare soltanto “Cazzo…”
Prima di sparire al piano di sopra, senza voltarsi, Sherlock le chiese:
“Harry, puoi preparare una borsa con le cose della bambina? Almeno per un paio di giorni, per favore...”
“Oh, certo, Sherlock… Grazie.”
Dunque proseguí lungo il corridoio.
Bussò alla porta della camera da letto. Nessuna risposta. Entrò comunque.
John se ne stava seduto su una potrona, con la testa stretta tra le mani e gli occhi sgranati fissi sul pavimento.
“John, sono io.” Ma, ancora, nessuna risposta. Si avvicinò a lui e, appoggiandogli una mano sulla spalla, si abbassò per cercare il suo sguardo.
“Come farò senza di lei?” domandò John  in un sospiro
“Questa sera venite entrambi a casa... mia.” Avrebbe detto ‘nostra’ riferendosi al 221b, ma era da tanto che non la poteva chiamare così a voce alta, e si sforzò di non farlo. Proseguì: “Ci penserò io a voi. Sei d’accordo?”
John alzò il viso per guardare l’amico negli occhi e, con voce rotta, rispose semplicemente:
“Grazie”.
Sherlock aprì l’armadio e cercò una borsa dove mettere un paio di cambi per John: non aveva mai frugato tra le sue cose, e provocò in Sherlock uno strano miscuglio di sensazioni... Era strano e stupidamente intimo, ma in quel contesto nel cuore e nella mente di Sherlock potevano prevalere soltanto la tristezza e l’amarezza. Si caricò la borsa a spalle e la portò di sotto. Dunque tornò. Senza parlare, aiutò John ad alzarsi e lo accompagnò alla porta, spegnendo la luce dietro di sè.
Scese le scale, Harry gli porse con attenzione la bambina addormentata avvolta in una copertina verde. Mentre Sherlock la prendeva in braccio, la sorella di John disse che il taxi era arrivato e, uscendo, prese i due borsoni.
Durante la corsa in taxi, nessuno proferí parola. Diana, ignara di ciò che era appena accaduto, dormiva pacíficamente.
Arrivarono al 221b che ormai erano le tre del mattino.
Entarono in silenzio e salirono fino alla stanza di John. Lui si gettò sul letto, mentre Sherlock gli adagiava accanto Diana. Appena la bambina sfiorò le lenzuola, si svegliò e cominciò a piangere furiosa per essere stata svegliata.
“Shh, piccola… Non adesso…” la supplicò Sherlock riprendendola in braccio “Shh, da brava…” ma per quanto la cullasse, Diana non smetteva di urlare: evidentemente avvertiva la tensione dell’uomo che la cullava. Sherlock vide che dopo pochi secondi John, coricato sul letto, si era portato le mani alle orecchie; agitava la testa e tremava. Improvvisamente gridò:
“Non posso! Non posso sentirla piangere!” e, con un balzo, si alzò in piedi e scese le scale. Sherlock non riuscì a dire una parola e restò nella stanza a cercare di consolare la neonata cullandola e parlandole.
Ma più piangeva, più Sherlock capiva che Diana aveva bisogno della sua mamma. Una mamma che non sarebbe mai più tornata, che non l’avrebbe più presa in braccio, che non l’avrebbe più allatata al suo seno. Mary non sarebbe mai più tornata. E come poteva spiegarlo a una bambina che ancora non distingueva le voci di coloro che le stavano intorno? Come poteva dirle che, per quanto piangesse, non sarebbe tornata? Che sarebbe dovuta crescere senza di lei, che sarebbe dovuta essere forte, perchè papà sarebbe stato molto triste nei`prossimi tempi, e di smettere di piangere perchè anche dal piano di sotto John la stava certamente sentendo e soffriva da solo? Tutto ciò che riuscì a ripeterle fu:
“Shh… Sono qui, Diana. Sono qui con te. Shh Shh… Ci sono qui io...”
Alla fine, si addormentò esausta.
Sherlock non voleva lasciarla sola, ma doveva scendere a cercare John: temeva fosse uscito, e nel caso fosse in casa, doveva assicurarsi che stesse bene. La adagiò al centro del letto e scese al primo piano: John sedeva sulla sua poltrona con un bicchiere di scotch in mano e le luci spente.
“Si è addormentata...” commentò Sherlock sedendosi alla sua poltrona. John tardò parecchio prima di dire alcunchè. Poi parlò guardando la finestra:
“E se tornano per lei?”
“Mycroft li sta cercando. Non arriveranno lontano. Non arriveranno qui.” Rispose Sherlock con fermezza.
“Dovrei stare con lei, ma...”
“Fa male. Lo so.” Sospirò Shelrock “Lei non può capire e noi non le possiamo spiegare. E fa male.” Sherlock lo guardava struggersi nei suoi pensieri: i lineamenti contratti in un’espressione sofferente e furiosa. Trangugiò ciò che restava nel bicchiere.
“Che razza di padre abbandonerebbe la figlia in un momento del genere??” commentò allontanandosi il bicchiere dalla bocca.
“Uno umano.” John finalmente lo guardò con occhi di chi non accetta la compassione e la scambia per pietà gratuita “Posso capire che tu soffra sentendola piangere... Adesso si è addormentata, non devi preoccuparti.” E aggiunse “Posso dormire io con lei finchè non sarai pronto.” John lo guardò sorpreso e grato  “Davvero, nessun fastidio. Puoi dormire in camera mia, se vuoi...” John annuì.
“Vorrei restare solo, Sherlock.” Sherlock avrebbe voluto dirgli qualcosa, qualunque cosa che potesse confortarlo: che ce l’avrebbe fatta anche senza di lei, che Diana era al sicuro e sarebbe stata bene. Che sarebbero andati avanti. Ma non ci riuscì.
“Torno di sopra.” Disse alzandosi “Se hai bisogno di qualunque cosa, non esitare a chiamarmi.”
Non ricevette risposta.
Mentre risaliva le scale, si voltò a guardarlo che ancora fissava il vuoto. Sherlock accettò che in quel momento, non poteva fare nulla per lui. Arrivato nella stanza, chiuse la porta dietro di sè e si coricò accanto Diana cinegendola con il braccio destro.
 
I primi giorni furono i peggiori, naturalmente.
John parlava a mala pena. Sherlock avrebbe voluto che si sfogasse, che gridasse, che piangesse, che gli parlasse, ma qualunque tentativo di conversazione sembrava in tutto e per tutto una violenza nei suoi confronti. Doveva sforzarsi di rispettare il suo silenzio.
Nel primo periodo la neonata soffrì molto l’assenza della madre, ma non potè fare altrimenti che adattarsi alla nuova condizione fatta di biberón e voci principalmente maschili. Sherlock passava le notti a cullarla e a cantarle ninnananne finchè si assopiva. Chiese alla signora Hudson ed Harry di insegnargli a prendersi cura di Diana: non voleva che John si sentisse obbligato a stare con lei in momenti delicati, ma solo quando lo volesse davvero. E, nonostante lui fosse stato molto tempo con lei, non le aveva mai fatto il bagno o cambiato un pannolino. C’erano biberon da preparare, temperature da controllare, ruttini da far fare... Non era affatto facile e Sherlock volle prendere appunti per quando Harry se ne sarebbe andata.  Dopo una serie di pannolini messi al contrario e biberon troppo caldi, cominciò a farci il callo e a creare una qualche routine.
Perchè Sherlock aveva capito che John aveva tutte le intenzioni di restare, almeno per un po’.
“Sherlock, Diana ha bisogno di dormire nel suo lettino: ho paura che cada dal letto.” Gli disse improvvisamente una di quelle mattine John mentre la teneva in braccio “Mi aiuteresti ad andarlo a prendere oggi?”
“Sei sicuro? Posso andarci con Harry se vuoi.”
“No. Voglio andarci io. Ma da solo non... Non penso di potercela fare... In tutti i sensi.” Sorrise sarcastico.
“Va bene. Quando vuoi.”
Quando solcarono la soglia della casa vuota, John ruppe il silenzio che li aveva accompagnati sin dal 221b:
“So che è chiedere molto, Sherlock... Ma non penso di voler tornare a vivere li.” Confessò d’un fiato.
“Il 221b è sempre stato la tua casa. Non devi nemmeno chiederlo.”
“Sì che devo. Sherlock, ora siamo in due. Non è lo stesso.”
“Certo che no. Diana è una coinquilina molto più stimolante di quanto tu sia mai stato.” Sorrisero entrambi:
“Grazie...”


Fu così che, insieme ad Harry, John portò a poco a poco tutte le sue cose e quelle di Diana al 221b, mentre quasi tutte le cose di Mary furono chiuse in scatoloni e date in beneficienza. La casa restò vuota, John si sarebbe occupato di venderla quando se la fosse sentita.
La culla di Diana fu portata al secindo piano del 221b, in quella che era stata la stanza di John, anche se Sherlock continuava a dormire insieme a lei e John nella sua stanza.

John dovette occuparsi del funerale quando il medico legale diede il via libera: ci volle parecchio tempo, trattandosi di un'indagine così complessa, ma Mycroft intercedette affinchè le procedure potessero velocizzarsi quanto più possibile.  Fu una cerimonia estremamente sobria, con pochissima gente, bara chiusa, senza elogio funebre e interrotto di tanto in tanto dal pianto di Diana in braccio alla signora Hudson. 

 

Rieccomi qui! Ciao a tutti! ^^ Vi ringrazio infinitamente per aver seguito la mia storia sin qui: vi chiedo per favore di lasciarmi un commento qui sotto! Noi ci vediamo al prossimo capitolo!
Un saluto, con affetto _SalvamiDaiMostri

PS: Nel primo capitolo mi sono dimenticata di dire che questa fanfiction è liberamente ispirata a Sweet William di Joules Mer di cui vi lascio il link: http://archiveofourown.org/works/7198256/chapters/16335752
 

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Capitolo 3
*** Il 'noi' tanto atteso ***


Presto, giunse l’sms di Mycroft che diceva che gli assassini di Mary erano stati trovati, arrestati dai servizi segreti inglesi e che non poteva aggiungere ulteriori dettagli per ragioni di sicurezza nazionale.
Questo, il tempo e la compagnia di Sherlock aiutarono John a stare meglio a poco a poco. Spesso tornava ad essere vivace, spiritoso, attivo... Sherlock lo vedeva addirittura sorridere ogni tanto.
John si concentrò soprattutto sul suo rapporto con Diana: giocava spesso con lei, facevano lunghe passeggiate nei parchi con la carrozzina e John le parlava. Le parlava per ore e ore, di ogni cosa.
Sherlock un giorno li ascoltò dal piano di sotto:
“Ragazza mia, dovremo imparare a cavarcela da soli io e te. Pensi che ce la potremo fare? Eh? Che ne dici? Ce la farà papà? ... Beh, non è vero che siamo soli soli: c’è lo zio Sherlock! Vero? Eh sì, eh si.. Noi tre contro il resto del mondo...” e Sherlock non potè che avere un tuffo al cuore all’udire quelle parole.
 
Poco meno di un mese dopo la morte di Mary, John propose a Sherlock di accompagnare lui e Diana in una passeggiata all’Hyde Park e Sherlock fu molto felice di accettare.
Si fermarono lungo il lago delle anatre che Diana osservava molto incuriosita sporgendosi dalla sua carrozzina e facendo buffi versetti. Sherlock si sforzava di parlarlare e far parlare John, affinchè potesse distrarsi, ma ad un certo punto restarono in silenzio a guardare la piccola che si sforzava di fare lunghe chiacchierate a modo suo, in versetti e pernacchie.
“Sherlock” disse John rompendo il silenzio “Tutto quello che stai facendo per noi… Per me… Io volevo solo… Non ti ho mai- Grazie Sherlock, davvero.” Lo guardò negli occhi sorridendo “Non so cosa avrei fatto senza di te.” Sherlock si limitò a sorridergli. Poi, propose di tornare a casa.
Quella sera, come ormai tutte le sere, Sherlock fece il bagno a Diana e la portò al piano di sopra. Le mise il pigiamino  e, susurrando una ninnananna, la cullò finchè non si addormentò. Poi la adagiò nella sua culla, completamente perso nella sua dolcezza.
“Sei davvero bravo.” Sherlock sobbalzò “E anche portato, direi.” John se ne stava sorridente a braccia conserte appoggiato sullo stipite della porta.
“Quant’è che sei li?” domandò scocciato
“Abbastanza…” John gli sorrise e si avvicinò alla culla  “È bellissima…”
“Quando dorme!” rispose sarcastico.
Risero entrambi.
“Somiglia a sua madre…” commentò John e Sherlock sospirò
“Ha i tuoi occhi.” puntualizzò
“Lo so... Resto io a dormire con lei.” Sherlock lo guardò con aria sorpresa “Tu scendi in camera tua: ti ho rubato il letto per troppo tempo.”
“Sei sicuro? A me non da fastidio…”
“Sono sicuro, posso farlo. Sto meglio, davvero.”
“Ok.” Sherlock fece per andare di sotto, ma John gli afferrò il braccio. Fece quindi scivolare la mano all’indietro fino ad arrivare a prendere la sua.
“Sherlock io…” lo guardò intensamente negli occhi, ma poi, arrossendo, distolse lo sguardo e disse solo “Buonanotte.” lasciando cadere la mano. Sherlock sospirò, di nuovo.
“È sbagliato che io sia felice per tutto questo, John?” lui lo guardò confuso “Stimavo immensamente Mary, ma.. Averti di nuovo qui, a casa... Avervi entrambi qui... Mi rende così felice. È come se non avessi mai desiderato altro.” Sospirò “È sbagliato...?”
“Non lo so...” rispose John tornando a guardare il viso angelico di Diana assopita “Forse... Anche se non credo che essere felici possa mai essere sbagliato o irrispettoso.” Sherlock sospirò e fece per uscire dalla stanza di nuovo “Per quel che vale, Sherlock...” lo interruppe John “Non posso fare a meno di essere immensamente felice anch’io di essere tornato.”
Sherlock si voltò e gli sorrise:
“Buonanotte, John.”
“Buonanotte, Sherlock.”
Sherlock non lo ammise ad alta voce per molto tempo, ma quella notte, nella solitudine della sua stanza, sentì immensamente la mancanza di Diana.
 
Passarono i gorni e Sherlock tornava a sentire prepotentemente quei sentimenti nei confronti di John che, per quel drammatico periodo appena trascorso, erano rimasti vagamente assopiti in lui per cedere spazio alla compassione e al lutto. Chiudeva gli occhi e pensava lui, sentiva il suono della sua voce risalire dal profondo del suo stomaco direttamente fino al cuore che nei momenti meno oppurtuni cominciava a battere furiosamente nel suo pallido petto. L’odore di John, i gesti di John, i suoi occhi, le sue mani... Tornarono ad essere oggetto di venerazione e desiderio costante da parte di Sherlock, che cercava in ogni modo di comportarsi normalmente. Nella sua mente balenavano troppo frequentemente immagini del cuo compagno di avventure che lo facevano improvvisamente arrossire. Averlo di nuovo in casa, con quell’aggiunta di quel terribilmente attraente senso di paternità, era per il consultive detective uno struggente piacere che cresceva di giorno in giorno.
Inoltre, da quando John si era nuovamente concentrato a cercare lavoro, la loro vita stava tornando ad una certa normalità e a Sherlock pareva che John non lo avesse mai lasciato. E nulla, in tutta la sua vita, lo aveva reso altrettanto felice quanto la consapevolezza che ora lui, John e la sua bambina vivevano insieme.
L’unica ed immensa differenza tra il prima e l’adesso era, infatti, la piccola Diana che, Sherlock osservava, in quei giorni stava cominciando a riconoscere le voci di coloro che le parlavano, a reagire quando la chiamavano per nome. La sua memoria si stava rafforzando  prepotentemente di giorno in giorno, soprattutto per quanto riguardava il riconoscimento dei volti, e distingueva ogni giorno più sfumature di colori. Ora era in grado di girarsi sul fianco da sola e cominciava a trascinarsi verso le mete desiderate e di riconoscere e giocare con le proprie manine e piedini. Tutto ciò per Sherlock era semplicemente straordinario: non aveva mai avuto la possibilità di osservare così a fondo un neonato e seguirne lo sviluppo. Era il più incredibile degli studi che avesse intrapreso, l’esperimento più delicato ed interessante.
Su molte delle decine e decine delle reviste e dei blog a tema neonati che leggeva ogni giorno, Sherlock aveva letto che a quattro mesi i bambini si divertono moltto a giocare con una palestrina, sdraiati sulla schiena: e Diana ricevette dallo zio Sherlock una splendida palestrina per neonati il giorno stesso del suo quarto compi-mese, con immensa sorpresa di John. La misero sul tappeto del salone, tra le due poltrone, da dove i due potevano osservarla e dilettarsi nel vederla esplorare le funzionalità di quel piccolo arco colorato da cui pendevano pupazzetti, specchi e sonagli. Sherlock avvertì che quel gesto, così semplice, aveva rafforzato drasticamente il rapporto tra lui e John, ma anche tra lui e Diana e addirittura quello tra Diana e John stessi, anche se non riuscì del tutto a spiegarsene la ragione.
 
In quel periodo, Lestrade si trovò tra le mani un caso davvero peculiare e, anche lui, troppo nostalgico dei vecchi tempi, chiese a John e Sherlock una mano per risolverlo.
Quel pomeriggio la signora Hudson fu più che lieta di fare da babysitter a Diana e i due poterono andare ad assaporare un briciolo di azione per la prima volta da molto, troppo tempo.
Inutile negare che Sherlock si sentisse al settimo cielo ad essere di nuovo fianco a fianco al suo amato John nell’inseguimento di un pluriomicida dalla strana mania di incrociare le dita delle sue vittime sulla loro fronte. Catturarlo insieme, tenerlo fermo mentre John gli assestava un pugno sul naso ed aspettare col fiatone l’uno appoggiato all’altro l’arrivo della polizia, aveva fatto risvegliare in entrambi vecchi ricordi, sentimenti ed emozioni che erano state messe da parte da così tanto tempo, per ragioni diverse.
Tornarono a casa a piedi insieme, approfittando della bella serata e del fatto che la scena del crimine non era poi così lontana dal 221b. Risero e scherzarono a lungo, fianco a fianco sulla via del ritorno, finchè esausti, si limitarono a passeggiare in silenzio, contemplando la bellezza del centro della Londra notturna.
“Non credo di aver mai amato davvero Mary” confessò John all’improvviso, Sherlock sussultò e rivolse lo sguardo al compagno che guardava il vuoto davanti a lui, un passo dietro l’altro “Credo di averlo capito già quando tornasti dal mondo dei morti... Ma ero così incazzato con te da preferire ignorare ciò che volevo davvero. È che sei PROPRIO tornato mentre le chiedevo di sposarla! Ma che razza di tempismo è??”
“Un pessimo tempismo...” commentò Sherlock fissando il marciapiede
“E di lì in avanti fu semplice inerzia... Trasporto... E al matrimonio ci hai detto che era incinta e... Ormai non c’era via di fuga...” Sherlock rimase in silenzio. “Ho davvero usato la parola ‘fuga’ parlando del mio matrimonio e della mia defunta moglie? Cristo santo...” Sherlock finse di non averlo notato “E... Davvero penso alla sua morte, al suo brutale assassinio come quell’improvvisa scappatoia che ormai avevo perso la speranza di avere...?” sospirò, fermandosi. Sherlock si fermò a sua volta.“Mi sento terribilmente in colpa per questo.” si portò le mani sul volto. Sherlock lo prese fra le sue braccia e lo abbracciò dolcemente sussurrandogli:
“Lo so.”
John se ne stette per una manciata di secondi al sicuro tra le braccia di Sherlock, appoggiato al suo petto, sentendo il suo calore e il suo affetto, e per quell’attimo ogni problema sembrò svanire. Avrebbe voluto restare lì per sempre, ma si separarono, si sorrisero e senza aggiungere inutili parole tornarono a casa.
Quando giunsero al 221b, John bussò alla porta della Signora Hudson affinchè gli riconsegnasse Diana, addormentata ed infagottata. Salirono in silenzio e John portò la bambina nel suo lettino. Quando scese nel salone, Sherlock aveva riempito due bicchieri di Scotch e glie ne stava offrendo uno: il medico lo accettò volentieri e si sedettero sul divano.
Parlarono per almeno mezz’ora del caso che avevano appena risolto, ridendo e scherzando su come John lo avrebbe trascritto poi sul suo blog.
Improvvisamente John si fece più serio e disse:
“Tu mi hai già detto che volevi che tornassi qui...” bevve un sorso “Tocca a me ora confessarti quanto mi mancasse questo posto, questa vita...” Sherlock lo osservava estasiato, inebriato dall’alcol, seguiva i movimenti della sua bocca, i buffi accartocciamenti della sua fronte, senza volerne dedurre assolutamente nulla “Quanto tu mi sia mancato Sherlock” Sherlock tornò improvvisamente in sè al suono di quelle parole e ascoltò più attentamente: “...quando eri morto,  e quando vivevo con Mary... Niente è come vivere in questa casa...”
“Io sono risorto dai morti pur di tornarci...” risero entrambi, Sherlock posò il suo bicchiere sul tavolo davanti a lui.
“No ma, seriamente, ho sempre voluto tornare... da te...” confessò, infine, John e per lui fu come levarsi dal petto un peso che portava ormai da anni. E solo con il pronunciare quelle parole, si sentì finalmente libero.
I loro sguardi si incontrarono. E davvero in tutti quegli anni non c’era mai stato un momento tanto perfetto per loro due: Sherlock non potè fare a meno di prendergli il viso tra le mani e baciarlo.
John si ritrovò senza sapere cosa fare con il bicchiere a mezz’aria, ma in un istante se ne dimenticò e lo fece rotolare a terra macchiando di Scotch il vecchio tappeto, per poter accarezzare i ricci di Sherlock in quel bacio che entrambi stavano aspettando da così tanti anni. Con un leggero schiocco delle labbra, si separarono e sulla bocca di John, Sherlock sussurrò:
“Da quanto, John?” lui lo guardò con un’aria da babbeo felice, talmente intontito che era rimasto “Quanto tempo fa avrei potuto baciarti?” John rise e accarezzandogli il volto rispose:
“Probabilmente da quando mi hai chiesto ‘Afghanistan o Iraq’ in avanti non avrei opposto resistenza…” risero entrambie John volle baciarlo a sua volta, più intensamente facendosi strada attraverso la sua bocca.
Dopo alcuni minuti di paradiso, si separarono e John si voltò per appoggiarsi a Sherlock, così che Sherlock potesse abbracciarlo da dietro e appoggiare la testa sulla sua spalla:
“Non puoi nemmeno immaginare quanto questo significhi per me...” gli sussurrò Sherlock nell’orecchio “Non puoi nemmeno pensare a quanto lo desiderassi...”
“Una vaga idea ce l’ho...”
“E abbiamo dovuto aspettare così tanto... Quando saremmo potuti essere felici come ora così tanti anni fa...”
“Se così fosse stato, non avrei mai avuto Diana.”
“Questo è vero...”
“Io riesco a trovare un senso a tutto questo solo grazie a lei.” Sherlock annuì. Passarono minuti interi, ma a loro parvero pochi istanti, prima che a John cadesse l’occhio sul proprio orologio da polso e vedesse che era ormai passata la mezzanotte. Terribilmente affranto, fu costretto a dire: “Mi hanno dato quel posto in ambulatorio... Comincio domani...”
“Oh! Beh, grandioso...” sorrise Sherlock, stingensosi a lui.
“È meglio che vada a dormire...” disse alzandosi. Sherlock comprese, rimanendo terribilmente deluso da tale rivelazione: avrebbe trascorso i prossimi cento anni su quel divano, con John tra le braccia. Ma John si chinò nuovamente su di lui per un ultimo bacio: “Buonanotte.” Sussurrò. Ancora uno.
“Notte” sorrise l’altro. Sta volta davvero l’ultimo:
“Notte, Sherlock.”

 

Ciao a tutti!! ^^ Eccovi il terzo capitolo di questa fanfiction dai toni un po' fluff per i miei gusti, ma che volete che vi dica? Ce lo meritiamo. io vi ringrazio infinitamente di aver letto sino a qui, spero tanto che la mia storia vi stia piacendo e vi chiedo cortesemente di lasciarmi una recensione qui sotto.
Grazie infinte, ci vediamo presto! Un abbraccio, con affetto _SalvamiDaiMostri

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Capitolo 4
*** Le cicatrici che portiamo ***


Quella notte Sherlock non chiuse occhio.
I suoi pensieri in quelle solitarie ore buie si concentravano su un’unica persona. Era sempre stato John, il suo John.
Finalmente sembrava che le cose stessero andando per il verso giusto per Sherlock, sarebbe stata una prima volta. Una gran prima volta. Fuori dalle quattro mura della sua stanza, Sherlock sentiva che l’universo gli stava sorridendo, ed era una sensazione straordinaria.
A pochi metri da lui, stava dormendo l’uomo della sua vita, nel suo letto, accanto alla sua bambina. E anche se erano mesi che vivevano così, quella notte tutto cambiava, ogni cosa era straordinariamente diversa, perchè John sapeva.
Non voleva addormentarsi per paura di risvegliarsi in una realtà in cui non aveva trovato il coraggio di baciarlo, in cui non lo aveva abbracciato per strada per consolarlo e nemmeno sul divano del loro salotto. Una realtà in cui John non gli aveva mai confessato di non aver mai amato sua moglie e di essere sempre voluto tornare da lui, che gli era mancato immensamente e che avrebbe potuto baciarlo sin dal giorno in cui si erano conosciuti.
Sherlock ripeteva ogni istante di quella serata nella sua mente come per autoconvincersi che fossero realmente accaduti così come li ricordava: più se li raccontava, più sembravano inventati e macchinosi... Eppure poteva ancora sentire il sapore della bocca di John sulla sua lingua, ed era qualcosa che non poteva essersi inventato. No, non poteva.
E tra questi pensieri, giuse l’alba. Poi l’ora del primo biberón di Diana e Sherlock sentì che John scendeva le scale con Diana che piangeva affamata in braccio: si alzò e gli andò incontro.
Lo vide in vestaglia, leggermente illuminato dal primo pallido sole che entrava dalle finestre della sala, con la faccia assonnata e diana scalpitante tra le braccia: fu un colpo al cuore. Sherlock non potè fare a meno di sorridere e in silenzio gli si avvicinò per prendergli Diana e sussurrare:
“Hai ancora un paio d’ore per riposare prima di andare in laboratorio: torna a letto, io e lei ce la possiamo cavare beneissimo da soli, non è vero Diana? Digli ‘ciao papà’ sh sh sh...” disse prendendola e cullandola un pochino. John la cedette volentieri senza dire nulla e tornò in camera sua.
Sherlock le preparò il biberón e si sedette sulla poltrona di John per darglielo avvolto in una coperta, guardando il sole alzarsi su Londra.
John lo ridestó mentre si preparava il caffé. Sherlock non disse nulla, rimase a coccolarsi Diana sulla poltrona finché John non disse:
“Allora vado” avvicinandosi con la 24ore in mano “Augurami buona fortuna!” si avvicinò e bació diana sulla testolina
“Non ne hai bisogno” John baciò Sherlock sulla fronte “B-buona giornata.” balbettò inbarazzato mentre John scappava verso la porta, come se nulla fosse. Sherlock sapeva di essere arrossito. Sorrise e si strise la neonata a sé: “Tuo padre si prende gioco di me...”
Al suo ritorno, John trovò Sherlock che suonava il violino alla finestra. Esitò sulla porta: aveva corso a perdifiato per tornare a casa e adesso non riusciva a muovere un passo. Per lui non esisteva immagine più bella che Sherlock in quei pantaloni scuri e la camicia viola che sonava il suo violino illuminato dalla luce del tramonto. Adorava il suono di quel violino... Dio, cosa potevano fare quelle sue mani! Era straordinario.
Sherlock, suonando, si voltò leggermente e lo vide. Gli fece un cenno di saluto con la testa, come un inchino, mentre continuava a suonare. John chiuse la porta e prese dunque a togliersi il cappotto e posare la valigetta e, intanto, l’altro concluse la melodia.
“Straordinario, come sempre.” Commentò John. Sherlock si inchinò, scherzosamente. “Diana?” domandò dunque John, mentre Sherlock posava il violino nella sua custodia.
“Con tua sorella: le ho detto che avevamo un caso. Resta da lei fino a domani pomeriggio.”
“Oh, hai trovato qualcosa di interessante?”
“No, affatto.” Gli sorrise avvicinandosi a lui “Ma possiamo andare in centrale a fare il lavoro di Lestrade al posto suo, oppure...” gli si avvicinò sempre di più e gli accarezzò il viso con una mano avvicinando il proprio naso al suo arrivando a pochi millimetri dalla sua bocca “oppure potremmo fare qualcosa di più interessante...”
“Hai  qualche idea?” sorrise John. Parlavano a 3 o 4 millimietri l’uno dalla bocca dell’altro, i nasi si sfioravano ed entrambi potevano avvertire il respiro dell’altro sulla pelle. Anche Sherlock sorrise:
“Un paio...” dunque John lo baciò, finalmente.
Non c’era stato bacio più atteso nella storia dell’umanità. Affontavano le dita l’uno tra i capelli dell’altro, accarezzavano il viso, la schiena, i fianchi, il petto. In piedi, contro il muro della sala, si divorarono a baci goffi ed impacciati, che gridavano una fame nascosta per troppo tempo, una voglia rimasta insoddisfatta per anni che finalmente trovava sfogo.
John prese a sbottonare la camicia di Sherlock baciandogli il collo, Sherlock sorrise: se lo aspettava, lo sperava, ma cazzo se faceva paura ora che stava davvero accadendo.
“Sei- Aah... Sei sicuro, John?” ed ecco la domada più cretina di sempre.
“Mai stato così– certo di qualcosa” rispose incatenando un bacio dopo l’altro. E cos’altro avrebbe potuto rispondere? Sherlock si lasciò dunque andare ai baci di John: al tatto delle sue mani che trafficavano con i bottoni, il suono delle sue labbra sulla sua clavicola, il suo respiro, il suo odore...
John aprì e sfilò la camicia di Sherlock e la fece cadere a terra: eccola, al centro del suo petto pallido, la cicatrice del foro di proiettile sparato da Mary. Cercò di ignorarla e, tornando a baciarlo sulla bocca, prese ad accarezzare con i palimi delle mani i bianchi pettorali e addominali scolpiti. Passò dunque ad esplorare la sua schiena e improvvisamente ebbe un sussulto:

«Altre cicatrici»
 
Queste erano lunghe e sottili, dovevano essere almeno una decina, e anche profonde. Scelse di noon dire nulla: ci sarebbe stato il momento giusto per fare domande. Non ora. Nella foga, Sherlock nemmeno se ne accorse.
Vincolati per le labbra che non cessavano di cercarsi in baci che finalmente cominciavano a trovare un certo ritmo e sincronia, imboccarono il corridoio, con lentezza e talmente accecati dal desiderio da non riuscire a trovare la porta. Prima di arrivare alla camera da letto di Sherlock, ad entrambi restavano soltanto più i pantaloni addosso. Si gettarono sul letto come due adolescienti preda dei loro istinti più primitivi, ridendo come deficienti e ansimando come animali. Quella così primaria ed egoistica necessità di provare piacere nel piacere dell’altro, misto alla concessione estrema e l’inimità ultima.  
Fecero l’amore per tutta la sera, lentamente, molto molto lentamente, come se ogni giorno di tutti quegli anni in cui che avevano atteso che finalmente accadesse stessero ottenendo ognuno la parte di tempo che spettava loro di diritto.
Giunse il momento delle carezze sulla pelle ancora brillante di sudore, l’uno appoggiato al fianco dell’altro, coperti da lenzuola bianche ormai molto più che scomposte, al buio. Le luci della strada penetravano dalle tendine della finestra.
“Sono della Serbia vero?” Domandò John. “Le cicatrici...”
“Alcune...” rispose, vago.
“Sono tutte recenti, le ho viste bene... Sono un medico. Erano fresche quando ti ho  buttato a terra al ristorante... Quando sei tornato. Non è vero?”
“Si...” rispose Sherlock in un sospiro.
“Cazzo Sherlcok, deve essere stato dolorosissimo. Mi dispiace tanto...”
“Me lo meritavo.”
“Qualche testata in faccia si, di essere strozzato pure.. Ma questo no...”
“Non importa, John, davvero.” Gli accerezzò il petto “Entrambi abbiamo le nostre cicatrici...” bació la cicatrice sulla spalla sinistra di John “Se non fosse per questa meraviglia, non ti avei mai conosciuto...” John sorrise per come aveva appena chiamato quella vecchia cicatrice che lo aveva rimandato in patria: era assolutamente vero. Se non gli avessero sparato, non sarebbe tornato a Londra proprio a gennaio e non avrebbe incontrato Mike Stamphord che conosceva Sherlock che, proprio in quel periodo, stava cercando un coinquilino.
Restarono in silenzio ad assaporare la magia di quegli istanti.
“Non posso credere che sia vero… Tutto questo...” rise John.
“Era la prima volta che lo facevi?”
“Ho una figlia Sherlock.”
“Intendo dire con un uomo.”
“No, no… Mi dispiace, non posso darti questo primato.”
“Sholto?” John sorrise, nel buio arrossì “Lo sapevo.”
“E tu?”
“Sono andato così male da fartelo pensare?”
“Assolutamente no, mi sorprenderesti infatti… Ma tu sei empre stato così distaccato…”
“C’è stato un ragazzo in facoltà… Nulla di serio, ma mi piaceva. Ci divertivamo…”
“Mi sento un rimpiazzo” scherzò John
“A me lo dici?”
“Non dire così… Piuttosto era il contrario. Non sai quante volte Mary mi ha gridato in faccia la stessa cosa. E aveva assolutamente ragione.  Mary mi salvò la vita quando ad essere morto eri tu. Dopo il funerale ero disperato… Eri così importante per me… E ti avevo detto delle cose orribili prima che salissi sul tetto del St Barth quando invece era solo questo che volevo per noi, da sempre. E tu ti eri suicidato e io… non volevo più vivere in un mondo dove non c’eri.” John si strinse forte a lui “Ho ingoiato tutte le pillole dell’armadietto dell’ambulatorio che sono riuscito a mandare giù. Mi sono seduto alla scrivania e ho aspettato di addormentarmi. Ma Mary, che aveva cominciato da poco a lavorare in ambulatorio, sfondò la porta e mi trovò… E mi salvò la vita. Non sarei qui se non fosse per lei...”
Sherlock, sconvolto, accese la lampada sul comodino e cercò il suo sguardo sconvolto:
“John-” disse squotendo la testa, con voce rotta “Io.. Io non ne avevo idea... Non sapevo- nessuno me lo aveva mai detto. Mi- Mi dipspiace tanto-” Due rivoli di lacrime rigarono le sue guance e John lo abbracciò forte e lo baciò sulle labbra, sorridendogli.
“Non devi chiedere ancora scusa. Ti ho perdonato tanto tempo fa.” Lo bació di nuovo, poi tornò ad accocolarsi al suo fianco. Sherlock rimase comunque molto scosso. “In ogni caso, comprenderai che mi legai molto a lei… Mi salvò dalla disperazione. Si prese cura di me e io ne approfittai per cercare di essere felice.”
“Capisco...”
“Ma quando sei tornato, lei capì. Comprese di essere stata un rimpiazzo e che prima o poi sarei tornato da te... E ci abbiamo provato, ma non eravamo felici. Non si è mai scusata sai? Per avermi mentito sulla sua identità, sul suo passato… Non mi ha mai chiesto scusa, non mi ha mai detto che le dispiacesse.” fece una lunga pausa “Ma nonostante tutto le volevo molto bene, tanto davvero. Le devo moltissimo.” Sbadigliò. Sherlock lo guardò chiudere gli occhi e accomodarsi con la testa sul cuscino.
“Mi accorgo solo ora di quanto le debba io a mia volta...” concluse spegnendo la luce.
Anche Sherlock si draió con la testa col cuscino, prese la sua mano e la strise al suo petto. Rimasero quindi ad ascoltare l’uno il respirò dell’altro fino ad addormentarsi.

 

Eeee ci addentriamo nel fluff profondo. Mannaggia a me non avevo mai scritto una cosa del genere >< Ma quando ci vuole ci vuole. Vi è piaciuto quest'ultimo capitolo? Spero davvero di si, soprattutto perchè ho tirato parecchio la corda ^^" Io vi ringrazio infinitamente per aver letto la mia storia fino a qui e vi chiedo se cortesemente poteste lasciarmi un commento in recensione: è davvero di fondamentale importanza per me.
Grazie ancora infinitamente! Ci vediamo al prossimo capitolo, un saluto, con affetto ed estrema gratitudine, _SalvaiDaiMostri

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Capitolo 5
*** Famiglia ***


Mike mi raccontó una volta, quando andavamo a lezione insieme, che prima di portare gli occhiali, non ne aveva mai sentito il bisogno: lui pensava di vederci bene e si era abituato a vedere il mondo così come lo vedeva da anni e la cosa non gli creava nessun fastidio. Quando l’oculista gli disse che doveva cominciare a portarli Mike era alquanto riluttante, in quanto non veda in cosa potessero aiutarlo, ma quando li indossò per la prima volta e, tornando a casa a piedi dall’ottico si rese conto che quelle macchie verdi che si ergevano alte sulla sua testa all’andata erano in realtà foglie perfettamente definite nei loro contorni, nelle loro minuscole e lontanissime macchie di decine e decine di verdi diveri! Mi disse che rimase spiazzato dalla quantità di cose che si era perso fino ad allora e, soprattutto, del fatto che mai se ne fosse reso conto finchè qualcuno non lo aveva costretto a mettersi un paio di occhiali sul naso. Sinceramente mi sembrò una scemenza all’epoca: se non ti accorgi di essere cieco come una talpa è un po’ colpa tua, pensai. Un giorno di questi devo andare a trovarlo e scusarmi con lui: Sherlock è il mio paio di occhiali.
Ok, non è esattamente la stessa cosa, soprattutto perchè, anche se ho sempre stupidamente cercato di sopprimerla, l’idea di provarci con lui mi è più o meno sempre frullata nella testa e, sin da quando era tornato dal suo esilio, il mio era un vero e proprio cieco desiderio che non potevo davvero nascondere nemmeno a mia moglie. Ma continua a tornarmi in mente quel racconto di Mike, perchè mai avrei potuto pensare di essere stato sempre così cieco. Mai avrei potuto anche solo immaginare come sarebbe cambiata la mia vita al suo fianco, quanto sarei stato felice. E mi sento un idiota, ma, quantomeno, un idiota terribilmente felice.
Non sapevo di poter aspirare a così tanto, ero convinto che tutti siamo costretti ad accontentarci e, quanto meno io fossi destinato a quel limbo di tedio e poco altro. Avevo Mary che mi voleva bene e mi aveva dimostrato un calore nuovo in un momento di disperazione, e poi era arrivata Diana, la luce dei miei occhi, e davvero non pensavo di poter aspirare a qualcosa di più. Nella mia ignoranza, nemmeno lo volevo nient’altro.
Mi sento completo.
È la prima volta che qualcuno mi ama così.
È la prima volta che amo così.
Era lui a mancare nella mia esistenza, ed è come se, in qualche modo, lo avessi sempre saputo.
Ho Diana ed ho Sherlock: davvero non posso chiedere altro a questa vita se non rimanere con loro per il resto dei miei giorni.
 
Sinceramente non credo che lui lo sappia. O meglio, non credo che lui possa crederci.
 
È diverso tempo che Diana si sostiene sulle sue gambe: si appoggia al divano e osserva l’appartamento da quella nuova e sorprendente prospettiva con aria estremamente fiera. Ormai lo facostantemente: nella culla, o nel salone appoggiandosi al tavolino, a qualche sedia e non mi sorprende affatto visto che Sherlock, sin dalla primissima volta in cui l’aveva vista alzarsi da sola, aveva deciso che avrebbe camminato di lì a poco in quanto, secondo lui, è estremamente più intelligente degli altri bambini della sua età, ed ha cominciato a farle applausi trionfanti e feste sproporzionate ogni qualvolta provasse a stare inpiedi e a stimolarla e premiarla per creare rinforzo positivo e convincerla a camminare quanto prima.
“Dobbiamo darle il supporto necessario a sviluppare i suoi talenti.” dice. Solo Sherlock Holmes potrebbe applicare un metodo scientifico nel crescere un bambino.
 “Vieni qui principessa!”
“Diana, vieni su! Dai, vieni da me!”
“Chi è la più bella? Chi? Vieni bellissima”
sono ormai la colonna sonora quotidiana del 221b.
Questa mattina stavo lavando i piatti e Sherlock, come di consuetudine, se ne stava in ginocchio sul pavimento del salotto a un metro di distanza da Diana che se ne stavainpiedi reggendosi alla mia poltrona: lui agitava un coniglio di pezza verde e lo dondolava facendo tintinnare i campanelli che aveva nella larga pancia morbida attirando l’attenzione della piccola dicendo:
“Diana… Guarda Mr Feasols! Vieni a prenderlo su! Vieni!”
Visto che cominciava a preoccuparmi vagamente l’intensità dello sforzo di Sherlock per quanto riguardava quel così semplice traguardo di Diana, paragonato alle grandi prove alle quali la vita ci arebbe sottoposto in futuro, dovetti dire qualcosa:
“Sherlock, è presto… Ci vuole tempo prima che impari… Non sforzarla o si frustrerà...” cercai di convicerlo voltandomi verso di lui con le mani ancora insaponate.
“Ma io so che può!” mi rispose frustrato mentre Diana si dilettava a tastare le diverse consistenze della mia poltrona “È cento volte più inteligente di tutti gli altri bambini della sua età. Certo che può arrivare a prendere Mr Feasols!” disse in tono giocoso tornando ad attirare l’attenzione di lei agitando il pupazzo  “Vieni qui piccina! Diana, vieni da papà…”
Mi pietrificai.
Fortunatamente non avevo piatti in mano o li avrei fatti certamente cadere. Credo di non aver tresirato per un minuto intero prima di tornare sul pianeta Terra. Lo aveva detto sul serio? Lo avevo davvero sentito? Avevo il terrore di chiederlo. Lui sembrava non averci nemmeno fatto caso: e se non fosse stata la prima volta che diceva una cosa del genere? Che si chiamava “papà” di mia figlia?! Forse Diana lo conosceva con quel nome? Forse in tyutto quel tempo che trascorrevano insieme mentre lui era al lavoro... Insomma, non ne avevamo mai parlato prima e Cristo santo in quel momento non riuscivo a muovere un muscolo.
“Sherlock…” riuscii a dire ad un certo punto
“John, se non la stimoliamo, non lo farà da sola. E certo potresti impegnarti un po’ di più anche tu.” Davvero non si rendeva conto di ciò che aveva detto?? Come poteva essere così intelligente e così stupido e così fottutamente attraente allo stesso tempo???
“Sherlock. Lo sai cosa hai appena detto?” domandai balbettando asciugandomi distrattamente le mani sui pantaloni.
“Si, che dovresti impegnarti un po’ di p-”
“No, prima.”
“… Non saprei.”
Non saprebbe?? Bugiardo.
“Le hai detto ‘vieni da papà’.” Mossi un passo verso di lui, dovevo essere molto serio perchè arrossì e i suoi occhi esprimevano terrore, come se avesse improvvisamente rivelato il suo più oscuro segreto.
“No, devi aver sentito male.”
Quello era davvero un pessimo e patetico tentativo. Avanzai verso di lui che se ne stava ancora in ginocchio a terra, tritolando il collo del povero mr Feasols.
“Assolutamente no, hai detto ‘papà’ ”
“Deve essere stato un lapsus...” cercò di tagliar corto
“Devo venire a dirti io cos’è un lapsus o la smetti da solo di dire scemenze?” mi stavo arrabbiando e non mi potreste biasimare.
“John io… Ti da fastidio?” domandò affranto. Allora compresi il suo timore e lentamente mi accovacciai accanto lui e lo guardai negli occhi.
“Come potrebbe darmi fastidio?” lui si voltò verso Diana e rispose con voce affranta:
“Beh, lei è tua… Io non c’entro, lo so-”
“Sherlock, tu lo vorresti?” lo interruppi. Lui improvvisamente tornò a guardarmi e io gli sorrisi  “Vorresti che Diana fosse… nostra?” non potevo credere di averlo detto “Infondo lei è stata più con te che con chiunque altro, sei un padre dieci volte migliore di quanto io potrei mai essere.” Dissi d’un fiato, ma non riuscivo ad interpretare la sua espressione, era attonito: “Se lo vuoi intendo…”
Improvvisamente i suoi occhi si inumidirono e disse commosso tornando ad osservare Diana che ormai si era seduta sul tappeto a giocare con una coperta:
“Io… Non so come sia successo… Ma… Non ho mai amato qualcuno quanto lei. Non credo nemmeno di amare te così tanto. Ma non so se ho il diritto di... Insomma, essere lo zio Sherlock mi basterebbe...”
“Sherlock, tu lo vorresti?” dovetti domandare di nuovo. Allora non riuscì a trattenere ulteriormente le lacrime e annuendo mi rispose:
“Da morire John… Da morire… E tu?” scoppiai in lacrime anche io:
“Nulla potrebbe rendermi più felice: sai, non ho potuto dare il tuo nome alla mia bambina, ma se avesse il tuo cognome, Sherlock, sarebbe infinitamente meglio. Vorresti? Vorresti che fossimo davvero una famiglia?”
“Oh, si” rispose gettandomi le braccia al collo “Lo voglio John, lo voglio!” continuava ad annuire sulla mia spalla piangendo come un bambino. Poi si rivolse a Diana e, tra i singhiozzi le domandò: “E tu, birbantella, cosa ne dici? Un papà in più ti farà comodo?” lei ci guardava perplessa e confusa: dovevamo essere davvero ridiscoli in quello stato. Allora Sherlock mi lasciò per avvicinarsi a gattoni a lei, prenderla in braccio per stringersela forte a sè e a riempirla di baci. “Mia? Dici davvero John? Mia mia?” era così dolce che continuasse a chiederlo.
“Nostra direi.” Dovetti rispondere.
 
E quindi ecco rivelata la grande notizia: io e Sherlock ci sposiamo.  
Saremo una famiglia in tutto e per tutto, non vedo l’ora!
Non potevo desiderare un altro genitore migliore per mia figlia: l’ha amata sin dal primo istante, quando ero sposato, c’è stato per lei in ogni momento, nei più terribili come nei migliori, la venera e la rispetta più di chiunque altro. Certo, sua madre sarà sempre sua madre e nulla potrà sostituirla, le ha dato la vita e non potrei esserle più grato. Ma non c’è più. E Sherlock è colui con il quale ho intenzione di trascorrere il resto dei miei giorni e so che sarà un ottimo padre e marito.
Volevo annunciarlo sul blog in quanto è innegabile che questa piattaforma e voi, miei followers, di conseguenza siate stati testimoni della nostra folle storia e mi sembrava doveroso rendervi partecipi della nostra gioia. Mi dispiace essere stato più mieloso del solito, devo dire di non essere affatto abituato a parlare in questi termini con nessuno... Spero di non essere stato fastidioso o noioso.
Dunque, fatemi gli auguri!
                                                    
 



Ciao a tutti! Ecco la consulsione di questa ff traboccante di fluff e romanticismo: tutta colpa dell’hype per la quarta stagione alla quale (in questo momento) mancano poche ore dalla messa in onda.
Dalle ultime rivelazioni siamo venuti a sapere che il vero nome della figlia dei Watson (SPOILER ALLERT) è Rosie, non Diana (nome che parte del fandom lei aveva affibiato in passato), perciò forse, in futuro potrei cambiarlo per quello ufficiale anche nelle mie altre ff che parlano di questo personaggio ancora misterioso: Diana_Mamma e papà, Diana_Amari ricordi e Sherlock_La promessa mantenuta (quest’ultima una tra le mie preferite), sono tutte estremamente brevi, chissà, magari vi va di darci un’occhiata.
Io come sempre vi ringrazio infinitamente di aver letto fino a qui e vi chiedo cortesemente di lasciarmi una recensione che, per me, è sempre il regalo  più grande.
Con affetto un saluto, _SalvamiDaiMostri

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