Country Road

di The Custodian ofthe Doors
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima Parte ***
Capitolo 2: *** Seconda Parte ***
Capitolo 3: *** Terza Parte ***
Capitolo 4: *** Quarta Parte ***
Capitolo 5: *** Quinta Parte ***
Capitolo 6: *** Extra ***



Capitolo 1
*** Prima Parte ***




C O U N T R Y R O A D


Prima parte.

[Marzo]


Will amava la sua città, amava il Texas come niente al mondo. La prateria calda e afosa, i colori caldi della vegetazione, le musica incalzante e gli animali liberi nel pascolo. Amava il ranch di suo nonno, la sua piccola stanzetta affianco a quella della mamma, che una volta era appartenuta a zio Eric ma che ora era tutta sua. Amava gli stivali a punta e i cappelli da cowboy, amava lanciare il lazo e cavalcare i poni, il nonno gli aveva promesso che appena sarebbe stato abbastanza grande da riuscir a carezzare la schiena di un cavallo senza salire su un rialzo avrebbe cavalcato un vero destriero. La nonna gli sorrideva sempre in quei momenti, dicendogli che sarebbe stato proprio un perfetto texano da grande.
Will amava il Texas perché era sinonimo di famiglia, di casa e di affetto e non capì subito l'entusiasmo della madre contrapposto alla tristezza della nonna quando Summer, la sua mamma, aveva annunciato di esser finalmente riuscita a comprare un Ranch tutto suo.
Per prima cosa non capiva perché avessero bisogno di un altro ranch, insomma quello della famiglia Solace era abbastanza grande per tutti i cinque figli e anche per eventuali nipoti, quindi di spazio non si trattava.
Seconda cosa, perché la nonna diceva di essere tanto orgogliosa della mamma, ma poi piangeva e diceva che gli sarebbe tanto mancata?
Glielo spiegò proprio Summer, quella sera stessa: era riuscita comprare un Ranch abbastanza grande dove avrebbe finalmente potuto realizzare il suo sogno di aprire un locale in stile Country. Questo significava che si sarebbero trasferiti in una casa tutta loro, loro soltanto.
Will accolse con gioia la notizia, aveva sei anni e la sua mamma aveva comprato una casa solo per loro due e anche se gli dispiaceva lasciare i nonni e gli zii era così contento che passò i successivi giorni a dire a tutti i suoi amichetti a scuola che avrebbe cambiato casa e a chiede a Summer quando avrebbero fatto le valige, come sarebbe stata arredata la casa, se sarebbe stata bella come quella vecchia e se poteva mettere una tavola da Surf come quella dello zio Jacke in camera sua.

Ogni cosa sembrava andare per il verso giusto finché Jenny, una sua compagna di classe non gli chiese dove si sarebbe trasferito.
Per Will era ovvio, in qualche parte del Texas, ma effettivamente se era troppo lontano c'era rischio che dovesse cambiare scuola e ai suoi dubbi Summer rispose sorridendo, il sorriso più bello che Will avesse mai visto, che sicuramente avrebbe dovuto cambiare scuola, dopotutto non si poteva vivere in uno stato e andare a scuola in un altro.
Era la fine di Marzo quando il bambino scoprì che la sua nuova casa si trovava in Arizona, per la precisione a Phoenix, che non solo avrebbe dovuto lasciare i nonni, la sua cameretta, la sua scuola, i pascoli, le mandrie e i cappelli da cowboy, avrebbe dovuto lasciare proprio il suo amato Texas.

[Aprile]


Era furioso, con sua madre che aveva cercato casa così lontano, con i suoi nonni che non si erano opposti, con zio Jakce che gli diceva che sarebbe stato bello e anche con zio Eric che gli dava manforte. Era arrabbiato con quella stupida casa, quella stupida città e quello stupido stato.
Cosa diamine era l'Arizona? Lui non la conosceva, non era casa sua!
Zia Laura diceva che era un bel posto, dove c'era il Gran Canyon e facevano il famoso tea, ma ancora una volta, nulla di tutto ciò lo sollevava di morale.
Certo all'inizio era felicissimo - “una nuova avventura!”- ma adesso che capiva effettivamente cosa stava per succedere, tutto quello che stava abbandonando, l'unica cosa che voleva fare era chiudersi in cameretta e piangere fino a quando sua madre non gli avrebbe detto che era tutto uno scherzo e che rimanevano in Texas.
Fra qualche mese avrebbe detto addio a casa sua.

[Luglio]


Quel giorno fosse stato per Will non sarebbe mai arrivato, avevano aspettato prima di partire perché il bambino si era rifiutato di festeggiare il 4 luglio lontano dai parenti, senza fare la grigliata, giocare con i cugini e vedere i fuochi d'artificio. Ma ormai erano già nella metà inoltrata del mese, della festa del 4 luglio restavano solo le decorazioni sbiadite a tempo record dal sole e i segni di bruciatura nel prato, dove gli zii avevano fatto partire i fuochi d'artificio e dopo uno era quasi scoppiato in faccia allo zio Jacke.
Non c'erano più scuse, nessuna festa, ricorrenza o compleanno, persino la mucca dei Signori Dowson, i vicini, aveva partorito prima del previsto e Will non poteva usare come pretesto il “voglio vedere un cucciolo di mucca”.
Si lasciò abbracciare forte dalla nonna mentre i fratelli di sua madre caricavano l'ultima valigia nel picup sgangherato della sorella e la salutavano con affetto, ricordando le somiglianze di quel giorno con quelli in cui ognuno di loro era partito per il college.
Per Will non c'era niente di bello, niente che gli ricordasse della partenza dell'ultimo dei fratelli Solace, zio Benny, ne un qualunque altro momento di gioia.

<< Vedrai Will, sarà come una vacanza.>> Sorrise smagliante la donna e per tutta risposta il figlioletto si voltò dalla parte del finestrino.

Un bussare al vetro gli fece alzare gli occhi dalla maniglia scolorita della portiera, suo nonno gli sorrideva bonario da fuori, facendogli segno di abbassare il finestrino.
<< Tieni Will, prendi questo, così durante il viaggio avrai qualcosa da fare, ci vorrà un bel po' per arrivare a Phoenix.>> gli allungò il suo mangiacassette portatile e poi un paio di pile di riserva.
<< Sai come funziona tanto, se avvolgi il nastro a mano risparmi la batteria.>>
Will annuì al nonno, guardandolo con un misto di stupore e gratitudine.
<< Poi te lo riporto nonno, quando torno te lo ridò, promesso!>> l'acuta voce infantile fece ridacchiare il vecchio che gli posò una carezza in testa, << Tienitelo pure, facciamo che è il mio regalo, così se senti la mancanza di casa, accendi il registratore, fai partire la cassetta e ascolti la musica. Ci sono le mie canzoni preferite li dentro! Mi raccomando!>>
Poi fece il giro della macchina e salutò la figlia, augurandole buon viaggio e raccomandandosi di far attenzione in autostrada.
<< Fermati alla 66 e fagli una foto, Sum!>> gli gridò il fratello beccandosi un buffetto dalla madre.
<< Non starlo a sentire e vola dritta a casa!>>
<< Chiamaci quando arrivi!>>
<< Ciao Willy!!>>

Si sporse dal finestrino e cominciò a salutare chiamando a gran voce ognuno dei presenti, continuando a muovere la mano finché il cancello del Ranch non scomparve e solo la polvere rimase alle loro spalle.
Con un misto di malinconia e voglia di piangere pensò che quello sarebbe stato l'ultimo tramonto che avrebbe visto in Texas.
<< Mamma ma in Arizona c'è il tramonto?>>
Summer sposò per un attimo lo sguardo dalla strada a lui. Sorrise.
<< Certo che c'è il tramonto! Ovunque c'è il sole c'è sempre il tramonto Willi e l'Arizona non fa eccezione.>>

La strade era davvero lunga e Will aveva subito acceso il mangiacassette, una voce maschile aveva intonato le prime canzoni allegre tipiche delle feste a casa Solace, ma era stata una voce più melodiosa e malinconica a tenergli compagnia: anche lui stava lasciando casa, si ricordava delle montagne e dei fiumi e Will voleva tanto parlare con lui, per sapere se poi si era abituato e non gli era mancato più il suo West Virginia.
Le cuffie erano troppo grandi per il bimbo, il ponticello di metallo non gli toccava la testa, sfiorando solo quella massa di riccioli dorati che si ritrovava, doveva continuamente metterle bene, o tenerci le manine abbronzate sopra, tirando su col naso di tanto in tanto per poi stringere la cuffia tra l'orecchio e la spalla e mandare indietro il nastro per sentire di nuovo quella voce malinconica. Anche lui voleva tornare a casa, ma la strada che stavano percorrendo non era di campagna e non lo avrebbe riportato indietro.
Cullato dalle note di un viandante, di un ramingo che ricerca la madre patria, si addormentò sul confine tra Texas e Arizona, assieme all'ultimo tramonto nella terra dei cowboy.

La terra blu di libertà si srotolava sotto le ruote dell'auto, mentre nel cielo esplodevano raggi oro e rossi, il sole incandescente delle Valley accoglieva la stella di rame che faceva bella mostra di sé al centro del suo stato, la stella solitaria era ormai lontana, il confine franco perduto.

Dopo ore di viaggio, una cassetta finita che riproduceva solo il sibilo delle rondelle che giravano a vuoto, senza esser bloccate dal proprietario ormai caduto nelle braccia di Morfeo, Will fu svegliato in un autogrill, una vecchia pompa di benzina davanti ad una vecchia tavola calda chiamata “Stella Ramata”.
Dovevano solo fermarsi un attimo per chiamare il vecchio proprietario che gli avrebbe consegnato le chiavi della tenuta e poi sarebbero ripartiti subito.
Mentre sua madre stava al telefono a gettoni, con i jeans logori, la camicia a scacchi rosa legata attorno alla vita e gli stivali da cowboy in pieno stile texano, Will beveva imbronciato il suo milkshake alla fragola, cercando di riavvolgere il nastro con il mignoletto dato che le batterie erano finite e lo sportelletto del mangiacassette non si apriva. Era sempre stato un problema farlo, zio Benny lo aveva fatto cadere quando era a cavallo e si era tutto ammaccato, avrebbe dovuto aspettare sua madre per poter cambiare le pile e nel frattempo il passatempo migliore era incenerire con lo sguardo tutti i ragazzi che si intrattenevano troppo vicino alle cabine telefoniche solo per poter guardare la sua mamma.
Era incredibile come lo sguardo di un bambino potesse mettere tanto a disagio un adulto, zia Laura diceva che li facevano sentire in colpa, agli uomini, i bimbi, che si rendevano conto di star facendo qualcosa di sbagliato o inappropriato.
Quindi aveva il compito di fissare incessantemente ogni uomo che si avvicinava a sua madre. Summer si staccò dalla cornetta rimettendosi in testa il suo bel cappello texano e tenendo stretta in mano una busta con dentro qualcosa da mangiare. Sorrise al proprietario chiedendo quanto gli doveva e l'uomo, come ripresosi da una trace, scosse la testa dicendogli che era tutto già pagato, e certo Summer non era stupida, né per insistere sul dargli i suoi soldi, con una casa appena comprata, un viaggio chilometrico alle spalle, un bambino affamato, stanco e di cattivo umore in macchina, né per chiedergli chi fosse la buon anima che le avesse offerto un pieno da 25 litri. Sorrise amabilmente con quel suo sorriso che era stato in grado di rapire anche il Sole e risalì in macchina, aprendo la mano verso Will per farsi ridare le chiavi e anche per rubargli un sorso di milkshake.
<< Per questa sera ci accontenteremo di sformato, torta di mirtilli e gelato, ma domani andremo a fare la spesa e si, va bene, compreremo altro gelato.>> Gli scompigliò i capelli facendogli cadere il ponticello delle cuffie sul naso, ridacchiando divertita e soffiando fuori un piccolo “ops”, prima di rimettere in moto la macchina e riportarla sulla strada polverosa e macchiata di rosso dello stato del Canyon.

La via che portava alla fattoria sembrava tanto simile a quella del ranch, ma mentre lì la terra era marrone chiaro, quella specie di giallo sbiadito, l'Arizona era ricoperta tutta da uno strato di polvere di mattoni. Si, Will ne era più che certo, quello era il colore dei mattoni della sua scuola, quindi in Arizona doveva esserci la fabbrica dei mattoni di tutta America, caso chiuso.
Il cancello dalla vernice bianca crepata era aperto, dentro, tra le nuvole di polvere di mattone, Will distingueva chiaramente una grande macchina, come il fuoristrada di zio Jacke. Ma non ci sarebbe stato nessuno dei suoi parenti ad accoglierlo, ormai era lontano dalla sua famiglia e non sarebbe più tornato indietro.
Scese dal vecchio picup della madre con gli occhi azzurri come il cielo ricolmi di lacrimoni che non accennavano a volersi fermare. Aveva sentito per tutto il viaggio la cassetta del nonno ed anche quando mise piede per la prima volta nella fattoria, mentre sua madre parlava con il precedente proprietario, un uomo anziano dall'aspetto così simile a suo nonno che lo fece sentire ancora più solo, Will teneva alle orecchie quelle cuffie troppo grandi e attaccato ai passanti dei pantaloni, il mangiacassette troppo pesante.
Quel posto non gli piaceva, era una fattoria, certo, ma non sarebbe mai stata come quella dove era nato.
Lo pensò con orgoglio, un pensiero da grande, lanciando un occhiata al pavimento impolverato dell'ingresso come a volerlo rimproverare.
Quella, decise con disgusto, non sarebbe mai stata casa sua. E faceva tanto Mulan e la vecchia cicciona che le diceva che non sarebbe mai stata una vera sposa, e poi invece Mulan diventava molto di più, ma non voleva pensarci, perché era sicuro che quella cosa che sembrava un ranch ma era vuota e brutta, non sarebbe mai stata di più della sua vera casa.
Si voltò annuendo soddisfatto dalla conclusione del suo ragionamento, fece la linguaccia alla casa e se ne andò con il nasino all'insù verso il picup, convintissimo delle sue decisioni.
Sua madre l'avrebbe dovuto riportare in Texas, se ne sarebbe sicuramente definitivamente convinta dopo le sue argomentazioni.

Non era durato molto, Summer era arrivata quasi un ora dopo, con il suo solito sorriso smagliante che a Will piaceva tanto, e tanta soddisfazione, quando il pacchetto delle patatine era finito e del milkshake rimaneva solo il fondo.
Gli aveva detto che quella era casa loro, << Solo mia e tua Willy!>> e lui non se l'era più sentita di dirle che no, non gli piaceva, che il viaggio non gli aveva fatto cambiare idea, che quella specie di baraccone non gli aveva fatto cambiare idea, che potrà sembrare una casa ma non lo sarà mai veramente, che aveva deciso di tornare a casa vera.
Si era arreso e aveva sorriso anche lui, allo stesso identico modo, e si era fatto trascinare da quel ciclone di donna a cui, anche a sei anni, non riusciva mai a dire di no.
Lo aveva portato a fare il giro di casa, a mostrargli con entusiasmo tutti i loghi in cui avrebbero messo questo o quello, dove avrebbero montato la stella di metallo gigante e attaccato le foto, la parete va fatta decisamente di un colore più acceso, ed il loro colore preferito è il giallo, no? La camera da letto di Summer era vicina a quella che presto sarebbe stata di Will e avrebbero dormito insieme finché tutto non sarebbe stato proto.
Così, dopo un intera nottata passata a piangere, di nuovo, perché non riusciva a dormire e voleva il suo letto, la mamma gli aveva promesso che entro due giorni sarebbe arrivato con tutti gli altri mobili, che ne avrebbero comprati degli altri ai mercatini, che Will adorava, che avrebbero tinteggiato insieme la sua camera, c'avrebbero disegnato quello che voleva e zio Jacke gli avrebbe fatto una sorpresa.
<< Devi solo aver pazienza, Willy, lo so che è tutto nuovo e ti sembra che non potrà mai essere bello, ma cerca di capire, è un nuovo inizio, una nuova vita, da oggi sarà tutto solo per noi due. Finalmente avremmo la nostra famiglia, ne sarai fiero, te lo prometto.>>
E Will non capiva perché sua madre fosse così intenzionata a crearsi una nuova vita, perché voleva a tutti i costi iniziare da zero, non lo capiva proprio: a lui la loro vecchia vita piaceva, non sentiva certo, a sei anni, la necessità di riscatto di una ragazza divenuta madre troppo presto, decisa a dimostrare a tutti che poteva crescere suo figlio al meglio anche da sola, decisa a rendere i suoi genitori fieri di quel “magnifico imprevisto” biondo che non si poteva non amare; decisa a non abbandonare i suoi sogni adolescenziali, ma a rendere suo figlio parte integrante e principale di questi.
Ma capiva perfettamente che tutto ciò, il trasloco, la città nuova, il lavoro, lo stato e la lontananza, erano importanti per sua madre e ancora di più che per qualche strano motivo, tutto questo Summer lo stava facendo soprattutto per lui.
<< Ma io sono già fiero, mamy.>> Lo disse con la semplice ingenuità di un bambino, ma per tutta la vita si sarebbe ricordato il sorriso smagliante che la madre gli regalò quel giorno, quello subito dopo il loro arrivo in Arizona, ed anni dopo si sarebbe convinto che se quel sorriso l'avesse visto anche Apollo, il dio del Sole non avrebbe mai abbandonato la sua mamma.

[Agosto]


La casa era finita. Se qualcuno la vedeva dall'esterno pensava immediatamente a quelle classiche fattorie dei film, quelle tutte rosse con le rifiniture bianche. Certo, la staccionate ed il cancello non erano ancora del tutto riverniciate e le aiuole non crescevano rigogliose come nelle praterie, ma almeno era un buon inizio.
Con i mobili era arrivato anche il regalo dello zio Jacke, una tavola da surf da appendere in camera di Will, tutta bianca con delle righe gialle ed un sole gigante. Era appesa sopra alla finestra che dava sul cortile, sullo sfondo un cielo sereno pieno di nuvolette ed uccelli stilizzati, le pareti chiare ricoperte dai mobili ed il pavimento ancora con qualche resistente incrostazione azzurra.
Avevano appeso le foto per tutto il corridoio e le scale e la stella di metallo sopra alla porta di casa, ad avvisare tutti che lì dentro abitavano i figli della Stella Solitaria, avevano anche una bandiera del Texas in soggiorno.
Ogni cosa, seppur lentamente, stava andando incastrandosi a dovere e per quanto a Will mancassero i nonni, gli zii, i cugini e gli animali, aver la mamma tutta per sé era bellissimo. Tutte le decisioni venivano prese assieme, come gli adulti; assieme alla tavola da Surf ed al biglietto del regalo, zio Jacke gli aveva scritto che ora era lui l'uomo di casa lì. E gli uomini veri prendevano decisioni importanti, come ad esempio il giorno in cui lavare la macchina, o cambiare le lampadine, anche se Summer non lo faceva avvicinare alle prese elettriche.
La donna aveva avuto ragione però, come sempre, doveva solo pazientare un po' per vedere i frutti della loro nuova vita.

Si stava comportando bene, non faceva più i capricci e quando la sera chiamavano i nonni non piangeva più. Era proprio un bravo ometto! Pensava orgoglioso al ricordo delle parole della nonna e per dimostrargli quanto fosse diventato grande, Summer decise di fargli una sorpresa che, senza il minimo sospetto, avrebbe cambiato la vita di suo figlio quasi più del trasferimento, per tutti gli anni a venire.
Oh, che cosa magnifica le sorprese! Will non era più nella pelle e persino l'idea che presto sarebbe dovuto andare a scuola, passava in secondo piano.
Arrivarono davanti ad un edificio bellissimo, che di così belli il piccolo Will non ne aveva mai visti: con le scale grandissime tutte bianche e le colonne ancor più grandi davanti, sempre immacolate, una gigantesca porta di vetro con maniglie d'oro. Se alzava lo sguardo, poteva vedere il disegno in rilievo di due donne con le ali e degli strumenti musicali in mano.
Una targa d'oro scintillante portava su scritto un nome in lettere eleganti, ma Will già era dislessico e faticava a leggere il suo nome in stampatello, figurarsi qualcosa con una grafia così elaborata.

Era l'edificio più bello che avesse mai visto anche dentro. C'era pietra lucida ovunque, un bancone che pareva di ghiaccio e d'argento, dietro cui era seduta una signorina con una camicia bianca ed un foulard grigio perla, con i capelli perfetti legati in una cipolla come faceva Summer quando doveva lavorare, ma precisa e senza un capello fuori posto; sembrava un cuscinetto.
Il soffitto era alto e dipinto con tante persone che volavano anche senza ali, i lampadari di cristallo illuminavano i grandi quadri nelle cornici barocche che ritraevano ballerine e suonatori, satiri e muse, affiancati da poster di ballerini professionisti, importanti spettacoli e foto di allievi famosi. Era tutto così bello e scintillante che Will neanche si rese conto che sua madre stava parlando con la signorina, che gentile le spiegava ogni cosa e rispondeva alle sue domande.
Premette un pulsante ed il suono di una campanellina si diffuse nell'aria, poco dopo un altra signorina dal volto gentile e la pettinatura impeccabile comparve dal corridoio, ma a differenza dell'altra indossava un body grigio perla, un specie di gonnellino di velo e delle calze bianche. I piedi fasciati da scarpette sempre grigie sembravano sfiorar a mala pena il pavimento.
Lo accompagnò in una sala grande e luminosa, con il parquet chiaro e tanti specchi sulle pareti, per fargli vedere una ventina di bambini, ma non ne era sicuro, non riusciva ancora a contare bene, della sua età all'incirca, tutti in body rosa per le bimbe e azzurri per i maschietti, perfettamente disposti a far plié, mentre una signora che doveva essere un po' più giovane di sua nonna batteva il tempo con un fine bastone nero dal pomo di cristallo lucido e sfaccettato.

Fu in quel momento che conobbe Madame, la direttrice dell'Istituto delle Arti fisiche e musicali d'Arizona, una scuola persino più prestigiosa della NYA, in cui venivano studenti da altri paesi pur di poter essere addestrati, si usò proprio quella parola la signora, all'arte della danza da lei.
Madame era stata una grandissima ballerina di danza classica, aveva ballato alla Scala di Parigi, a quella di Milano e persino a Berlino e Mosca, soprattutto a San Pietroburgo, la sua bella città natale. Anni dopo, qualche pettegola, gli avrebbe detto che gira voce che che Madame avesse ballato persino per Hitler e Stalin, che si fosse esibita al matrimonio della Regina d'Inghilterra. E solo anni dopo ancora, avrebbe scoperto se quelle voci erano vere o meno.
Quel giorno scoprì solo una donna bellissima, dal volto fermo come quello di una statua, che gli propose di fare il riscaldamento con gli allievi del primo modulo per vedere se era la danza la sua vocazione – avrebbe dovuto farsi spiegare la sera stessa da sua madre cosa fosse un a ”vocazione” ma al momento annuì e basta-.
Gli era sembrata un po' fredda ma molto gentile.
Con il tempo, poi, Will avrebbe imparato che, timidezza o meno, nessuno poteva dire di no a Madamea meno che non fosse lei stessa a volersi sentir dar tale risposta.
E neanche a sua nipote.

La bambina la conobbe lì: era diversa da tutte le altre, Will la osservò bene e si rese conto che spiccava tra tutte le bimbe, così minute e delicate nel loro tutù rosa confetto, mentre lei era alta, la più alta di tutti e anche la più grossa avrebbe detto, in quella classe non c'erano bambini più grandi dei sei anni, ma Will gliene avrebbe dati tranquillamente otto.
Vedeva anche le altre bambine guardarla di sottecchi e ridere, probabilmente pensando che così grande non sarebbe mai stata una brava ballerina, ma quando sua nonna le chiese di mostrare ai nuovi arrivati cosa avrebbero imparato, tutti ammutolirono.
Si muoveva con così tanta grazia che, poteva giurarci, neanche un fiocco di neve avrebbe avuto, sfiorava il legno color miele spingendosi sulle punte lunghe e affusolate, che le calze bianche facevano sembrare dei soffioni, il bel body rosa cipria, più chiaro di quello delle altre, le dava l'aspetto di un petalo ed il lungo treccione rosso mogano era l'unica macchia in una figurina perfetta. Nessuno lì era bravo come lei, neanche il bimbo di colore con cui ballava in coppia, ma che Will ammirò tantissimo per il modo in cui l'afferrava per la vita e la sollevava come suo zio Benny faceva con lui.
A Katrina, questo era il suo nome, fu dato il compito di seguire Will e di correggerlo durante i riscaldamenti e le prove, quando la maestra, la signorina con il body perla, seguiva tutti gli altri. E Katrina volava, con la decisione di un rapace e l'eleganza di un colibrì, insegnandogli le posizioni base e correggendo tutte le sue mosse.
Alla fine della lezione gli disse di pensare bene a quello che voleva fare, quale fosse il suo stile. Parlava come un adulta, sempre pacata ed educata, una perfetta, piccola copia di sua nonna, ma con una scintilla differente nello sguardo, che affascinò immediatamente il bimbo.

Stava seduto al bancone della cucina, con il telefono appiccicato all'orecchio a raccontare ad uno ad uno ai membri della sua famiglia, tutti gli eventi di quella giornata per filo e per segno, tessendo le lodi di quella Katrina che sembrava forte come una cavallerizza ma che era delicata come le bambole di porcellana della nonna.
E va bene che zio Benny lo prese in giro per tutto il tempo dicendogli che se ne era innamorato, ma Will poteva scommetterci che se anche loro l'avessero vista sarebbero rimasti a bocca aperta.
Chiedeva in continuazione a sua madre di dirgli com'era, di raccontargli anche lei che Katrina era la bambina più bella che avesse mai visto, che se lo diceva lei che era grande allora le avrebbero creduto, e Summer rideva e urlava che era vero, per farsi sentire dall'altra parte e anche suo fratello rideva e Will, felice come se stesse ad una cena in famiglia, rideva con loro.

Settembre stava per arrivare e con lui anche l'inizio della scuola.
Will non capiva, però, perché dovesse andare da una sarta, perché la sua scuola avesse una divisa. Summer gli aveva detto che era una scuola spet- prep- spre- prestigiosa, si ecco, una scuola così, che era stata Madame ad indirizzarla lì, perché i suoi studenti dovevano ricevere la miglior istruzione dello stato ed il Basckerville Institute era il migliore d'America, o non vi avrebbe iscritto sua nipote.
Così adesso se ne doveva stare in piedi su una pedana, che ben ragionandoci poteva farsi costruire dal nonno per arrivare ai cavalli più alti, con le braccia allargate e la testa dritta – se no la signora con il porcospino sul polso lo avrebbe infilzato con tanti aghetti- a farsi fare gli ultimi ritocchi alla sua bella divisa.
Che poi, bella… come si poteva pretendere che andasse a scuola, tutti i giorni, con giacca e cravatta? Eppure il modello era quello: una giacca blu con le rifiniture in rosso e oro, sul taschino lo stemma della scuola ed annodata al collo della camicia bianca, un cravattino rosso e blu. Per lo meno i pantaloni erano corti, se no si sarebbe rifiutato, si! Come quando non voleva andare nella nuova casa. Ah, no, forse quello non era un bell'esempio… Fatto sta che Will sperava solo di non doversi pettinare i capelli come per la laurea di zia Laura, perché tutto quel gel intesta, non ce lo voleva più.
<< La divisa è comoda Willy, la mattina non devi pensare a cosa metterti e nessun bimbo ha un vestito più bello degli altri, così nessun prepotente prende in giro i compagnetti.>> cercava di rabbonirlo Sam,
<< E per di più è tanto di classe! Guarda che bel figurino che sei, proprio un angioletto!>> Le diede manforte la signora con il porcospino.
E Will fu costretto a cedere, perché alla fine non sarebbe potuto andare a scuola con vestiti diversi e per di più, una piccola parte di lui forse sopita fino a quel tempo, gli diceva che si, la signora aveva ragione: era proprio un bel figurino!

Ma che significava figurino?

[Settembre]


Quando quella mattina sua madre lo aveva svegliato, Will era scattato subito a sedere sul suo bel lettino rosso fiammante a forma di macchina. Nell'aria c'era odore di frittelle, miele e sciroppo d'acero ed il bimbo c'avrebbe messo la mano sul fuoco che Summer avesse preparato i puncake. Fece colazione ancora in pigiama e mangiò tanto perché non voleva fare brutte figure con lo stomaco che brontolava.
Sulla soglia di casa, con la sua bella divisa lucente, i capelli pettinati e la cartellina sulle spalle, Will Solace si preparava ad affrontare il primo giorno di scuola.

Se la scuola di danza gli era sembrata bellissima, la sua nuova scuola era proprio un sogno. Chissà che invidia i suoi amici in Texas quando gli avrebbe fatto vedere le foto, quel Natale!
Era un castello, si, doveva esserlo per forza, perché somigliava ai palazzi delle favole e dei cartoni animati, anzi! Era come la scuola degli X-Men!
Summer gli aveva dato un bacio in testa, augurandogli buona giornata e sospingendolo verso una donna di circa trent'anni, vestita anche lei di tutto punto in un tailleur blu, che radunava i bambini del primo anno. C'erano bambini che andavano alla scuola di danza con lui e tra tutti quelli non gli fu difficile individuare Katrina e il suo ballerino, Turan, vicino ad altri ragazzini con cui parevano esser già amici.
La maestra li portò a fare il giro di quella bellissima scuola e poi li divise in classi.
Oh, ed era tutto così emozionante! Le presentazioni, i programmi, le materie, che facce avevano fatto quando aveva detto di venire dal Texas! E che sapeva cavalcare o prendere le cose al lazo! C'erano anche bambini che venivano da New York, da Washington!
Era tutto perfetto, una giornata perfetta, in una scuola perfetta, con la sua classe perfetta, le maestre perfette e la divisa perfetta.
Ma ben presto Will dovette rendersi conto che anche le bellissime scuole private non erano esenti da tutte le tipologie di studenti, compresi i bulli.
Era stato bello poter girare per il parco durante la ricreazione, ma dal passeggiare tra fiori mai visti e alberi altissimi, al ritrovarsi con tre bambini che lo spintonavano prendendolo in giro, il passo era stato fin troppo veloce.
In quel momento tutta la felicità accumulata in quei mesi scomparve con una facilità disarmante e la nostalgia, la tristezza e la paura ripresero posto nel suo piccolo cuore.
Perché era dovuto venir in Arizona? In quella stupida città con quello stupido nome. Con quella stupida scuola di danza e quella ancor più stupida scuola privata e la sua stupidissima divisa. Non era una nuova vita, non c'era niente di bello. In Texas per lo meno conosceva tutti e non incontrava bambini che volevano “insegnargli come vanno le cose”, nessuno lo chiamava contadino, aveva tanti amici che gli volevano bene, non come lì, non come in quel posto orribile.
Strinse le braccia al petto, con la schiena premuta contro il muro e gli occhi lucidi, voleva piangere, poteva farlo?
Suo nonno gli aveva detto di fare l'uomo, che ora era grande, aveva sei anni. Ma anche se era un ometto, Will voleva solo scappare da lì, andare dalla sua mamma e tornare a casa.
Un leggero rumore di passi deviò improvvisamente i pensieri di tutti.
Dal corridoio apparvero due bambini, uno basso, piccino, con i capelli neri e gli occhi di uno strano colore indefinito che gli sembrarono di un verde bluastro, ingranditi in modo buffo dagli occhiali; l'altra invece, era semplicemente Katrina, nella sua perfetta divisa blu, con la treccia mogano posata sulla spalla.
Il moro sgranò gli occhi, rendendoli se possibile ancora più grandi, quando incrociò quelli di Will, ma Katrina ignorò tutti e tirò dritta, senza dar la possibilità a nessuno di dire o fare niente.

L'aveva lasciato lì, non l'aveva degnato neanche di uno sguardo. Ma alla fine, cosa si era spettato?Cosa avrebbe potuto fare? Tanto per cominciare non erano amici, Will non aveva amici in Arizona, e per di più lei era così delicata e femminile, non poteva far niente contro quei tre ragazzini, sicuramente più grandi di loro, le avrebbero fatto del male, anche a lei.
Chiuse gli occhi impaurito, in attesa di qualunque cosa sarebbe successa, mentre i bambini tiravano un sospiro di sollievo.
Ma proprio quando le risatine dei tre lo avvertivano che stavano per tornare all'attacco, un leggero colpo di tosse li fece fermare di nuovo.
Spalancò gli occhi sorpreso e proprio dietro al più grosso dei ragazzini, stava tranquillamente in piedi Katrina, le braccia incrociate al petto, il fiocco perfettamente legato al collo della camicia e l'espressione distaccata che aveva sempre, ma ancora una volta un luccichio strano negli occhi, che a quanto pare nessuno tranne Will notava.
<< C'è qualche problema?>> chiese con quella voce candida e infantile, ma dalla piega severa così simile a quella della nonna.
<< Nulla che ti interessa a te, non sono cose per femmine.>>
<< Che ti interessi- >> notò infastidita, << si dice così, non te lo hanno insegnato?>> alzò un sopracciglio guardando uno per uno i tre ragazzini.
Quello che aveva risposto si mosse infastidito, << Vedi di toglierti dai piedi!>> le rispose dandole uno spinto, o almeno provandoci.
La delicata damina, il fiocco di neve che sfiorava il parquet sulle punto color cipria, disegnando arabeschi in aria, si mosse con una velocità sorprendente, afferrando la mano del malcapitato e girandola senza pietà, costringendolo a voltarsi di spalle ed urlare per il dolore. Poi gli diede un calcio dietro al ginocchio e lo lasciò cadere a terra.
Il silenzio si allargò nell'aria come una nube di polvere.
<< Prego?>> chiese di nuovo, nel tono autoritario un granello di sfida ed aspettativa, come se sperasse che il bulletto rispondesse e cercasse di ricolpirla.
Gli altri due la guardarono terrorizzati, prima di scappar via senza neanche aiutare l'amico a tirarsi in piedi.
Quando fu scappato anche lui, tra lacrime e lamenti doloranti, dall'angolo opposto uscì il bambino di prima, sistemandosi gli occhiali sul naso e correndo subito da Will, scrutandolo con occhi da insetto che parevano cambiare colore ad ogni secondo che passava, diventando cupi con le smorfie più preoccupate e luminosi quando posava lo sguardo su Katrina, quando si rendeva conto che sia lei che il biondo stavano bene.

Il bambino si chiamava Alexander e Katrina glielo presentò come suo fratello.
A dirla tutta non avevano niente di simile, ma si scambiavano gli stessi sguardi d'intesa che sua madre aveva con i fratelli, ogni loro movimento sembrava calcolato per integrarsi a quello dell'altro e se a primo impatto non aveva creduto alla loro parentela, ora poteva dire con certezza che quei due non potevano esser altro che fratelli, persino gemelli!
Lo avevano scortato fin alla sua classe, chiedendo scusa alla maestra perché si erano intrattenuti a fargli vedere il parco. Sorprendentemente la donna credette ai due, sorridendo felice per quel gesto e raccomandandogli di rispettare gli orari la prossima volta.
Quando poi, per l'ennesima volta, Will aveva ringraziato la bambina, questa alla fine lo aveva guardato infastidita.
<< Non devi ringraziarmi, quello che stavano facendo non era giusto. Questa è la mia scuola e nessuno può far niente senza chiedermi il permesso.>>
Lo aveva liquidato così, con voce supponente e ferma, convinta di ciò che aveva detto e gli aveva dovuto spiegare Alexander che effettivamente, Katrina reputava sua quella scuola perché c'era cresciuta e che non era antipatica, ma solo un po' scontrosa, che bisognava solo imparare a conoscerla.
Will annuì a tutte quelle spiegazioni, che in fondo non gli servivano a niente. Fissava ammaliato la bambina che sostava sulla porta della sua classe a parlare con la maestra, proprio come una bambina grande. Si, Katrina sembrava già grande e non solo per merito della sua altezza e Will, in quel momento, non stentò a credere che quella scuola fosse sua e desiderò con tutto se stesso essere come quella piccola donnina, forte e sicura di sé.

I tre bulletti non l'avevano più infastidito, ma Will temeva che sarebbero tornati presto. Lo aveva detto a Summer, che dei bambini l'avevano preso in giro e spintonato e che Katrina l'aveva salvato, e certo, sua madre gli aveva detto che, raccontato così, sembrava una favola, ma Will giurava che con una mano sola la bambina avesse messo in ginocchio l'avversario e che fosse fortissima.
Summer aveva promesso al figlio che avrebbe parlato con la maestra.
Così, quando la donna si era avvicinata per parargli, Will era sicuro che gli avrebbe chiesto dell'incontro con i bulletti, ma invece gli chiese tutt'altro: a quanto pareva c'era un bambino che avrebbe tanto voluto star in classe con un amichetto, ma il numero di persone era limitato, così bisognava fare uno scambio, se si volevano accontentare gli amici. Nell'altra sezione, la A, Rivallie, aveva proposto lui per lo scambio, dato che erano amici e che forse non gli sarebbe pesato.
Will aveva degli amici? E dove? Chi erano? Chi era questo Rivallie?
Dove, ovviamente, era nella sezione A. Chi lo scoprì quel pomeriggio a lezione di danza, quando Turen gli chiese se avesse accettato di far cambio e venir in classe loro.
Aveva anche aggiunto che, tanto, se Rise voleva una cosa, era quella punto e basta, ma Will a quel punto non aveva badato.
In effetti con il bambino andava d'accordo, forse era lui l'amico.
La sera a cena lo aveva detto alla mamma e lei aveva confermato: la scuola l'aveva chiamata per sapere se Will fosse disposto a cambiar sezione per far stare assieme due amici, ma solo se il piccolo Solace voleva, non lo avrebbero certo costretto a cambiare.
Ma Summer conosceva il suo pollo e dallo sguardo scintillante d'emozione di Will, capì d'aver la risposta pronta.

Il giorno dopo salutò i suoi compagni e venne portato nella classe di fronte alla sua, dove con sua enorme sorpresa trovò non solo Turen, ma anche Katrina e Alexander.
E fu proprio Katina, la signorina Rivallie, a dargli il benvenuto a nome della sezione A.
Da quel momento in poi, Will poté dire con certezza d'avere dei nuovi amici. Certo, non era mai stato un problema per lui far amicizia, ma il trasloco l'aveva un po' impaurito; che ne sapeva lui se i bambini in Arizona erano come in Texas?
Non aveva più importanza, nulla lo aveva, perché Katrina aveva chiesto che lui – Lui!- venisse in classe sua e l'aveva letteralmente preso sotto la sua ala, o meglio, nel suo gruppetto.
C'erano Turen, con la pelle scura come la terra bagnata e gli occhi di un verde così scintillante che Will credeva fossero finti, e suo fratello Alexander; c'era un bambino dai capelli rossi e gli occhi gialli come i gatti, tutto sorridente e amichevole, che fece subito arrossire Will, ritrovatosi a pensare che Jajeck fosse davvero bello. Poi c'era Ryan, biondo di capelli, più di Will, con gli occhi azzurro scuro e suo cugino Andrew, timido e piccino come Alexander, con i capelli castani tagliati in un caschetto scompigliato e gli occhi color cioccolato. E per finire Arabelle, un'altra bambolina di porcellana, ma più minuta di Katrina, con i capelli lunghi e neri legati con un fiocco della stessa foggia di quello che portava al collo e gli occhi di un azzurro freddo e limpido.
Quelli erano gli amici di Katrina, ma ora – e per molto tempo a venire, troppo avrebbe detto un giorno ridendo con i suoi compagni- erano anche amici suoi.

Forse l'Arizona non era così male.



[ F I N E P R I M A P A R T E ]



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Capitolo 2
*** Seconda Parte ***




C O U N T R Y R O A D


Seconda parte.

[Ottobre]



La vita non poteva sembrare più luminosa a Will.
L'arrivo nella sezione A aveva riportato alla luce il carattere solare e frizzante che aveva sempre conosciuto il Texas e che solo sua madre in quei mesi di “vita nuova” aveva potuto vedere.
I suoni nuovi amici ne erano rimasti felici e sorpresi, credendolo invece un timidone come Andrew ed era proprio al fianco del castano che si trovava ora.
A differenza della sezione B, la A, sembrava popolata di piccoli lord e damine in miniatura: mai una parola fuori posto, sempre educati e pieni di contegno, si, così aveva detto la sua mamma nel sentirlo parlare dei nuovi compagnetti, “contegno”, che Will aveva impiegato mezz'ora a ripeterlo agli altri e poi in suo soccorso era giunto proprio il balbuziente Andrew, inciampando un paio di volte sulla c ed una sulla gn, ma dicendo alla fine la parola giusta.
Ma ancora una volta era stato Alexander a spiegargli la faccenda : il BI era una scuola nata prima ancora dello stato Americano, l'avevano fondata i coloni Inglesi e dal giorno della sua fondazione in poi aveva sempre ospitato i figli degli ufficiali e dei nobili. E mentre nelle altre sezioni c'erano ragazzi di famiglie facoltose o con delle borse di studio, la sezione A era rimasta “ ad onore” e accoglieva quelle stesse personalità che aveva accolto in passato. Quindi, di conseguenza, figli di militari e di nobili.
Will era stato l'eccezione che conferma la regola, in pratica.
Ben pensandoci, il biondino si rese conto che i suoi amichetti, anche se piccoli e abbastanza innocui, erano trattati se non alla pari, meglio degli altri dalle classi superiori. Questo spiegava anche perché le maestre ascoltassero con tanta gentilezza e tranquillità quello che dicevano, perché avevano creduto con tanta facilità a quello che Katrina aveva detto loro quel primo giorno.
Era finito, lo definì così Arabelle, in un “gruppo d'élite”, qualcosa di cui andare fiero.
Il piccolo “Riccioli d'oro” ora viveva gomito a gomito con vere dame, duchessine e lord, un conte ed un barone.
<< Titoli importanti, ma che ci saranno dati ufficialmente quando faremo il nostro debutto in società.>>

Sua madre aveva riso tantissimo. Summer si era ritrovata con il sedere a terra e la sedia rovesciata vicino, quando un Will emozionatissimo le aveva raccontato la storia: Quella scuola era davvero un castello! C'erano le principesse e i cavalieri dentro!!
Ah, ma lui mica si faceva scoraggiare dalla reazione di sua madre, no signore! Perché aveva ragione, lui lo sapeva che Katrina era una dama! Lo era davvero!

La mattina dopo, durante la ricreazione, Katrina gli si era avvicinata silenziosa e posata come sempre, al suo fianco Alexander già sorrideva, reggendo una busta da lettere.
<< Questo fine settima spero non tu non abbia nulla da fare- aveva cominciato con il nasino all'insù- ci riuniamo come ogni 20 del mese, al Maniero, dopo la scuola. Di' pure a tua madre di non preoccuparsi, ti riporterà Albert.>> Detto ciò aveva gentilmente preso la lettera dalle mani del fratello e l'aveva porta al bambino.
Dentro, in un biglietto color pervinca scritto con una grafia elegante, vi era un invito ufficiale, la gentile richiesta di lasciar William alle cure della famiglia Rivallei e l'indirizzo della casa.
Certo, quando Summer si rese conto di quale via si trattasse rimase piuttosto sorpresa e si ritrovò a guardare suo figlio con minimo di sospetto, “Diamine, era capitato davvero in una classe di figli di papà!”.

Will ebbe la definitiva conferma di tutti i suoi sospetti prima quando fuori da scuola, ad attenderli, trovò una limousine, poi quando ad aprire la portiera fu un autista in divisa e per finire quando vide “Il Maniero”.
Probabilmente la casa più grande che avesse mai visto in vita sua, c'erano come minimo quattro ranch li dentro, un giardino gigantesco che confinava con una foresta e dietro di questo, in lontananza, le vette della Valley. Quella doveva essere la casa più bella di tutta Phoenix.
Scoprì ben presto, però, che quella non era la vera casa di Katrina, ma quella dei nonni. I due fratelli abitavano comunque lì, per lo meno quando i genitori non erano in continente, ma seppe dopo che, troppo spesso, il Maniero era casa loro per mesi e mesi.

Fu in quella strana e surreale giornata, in cui venne accolto in un maniero europeo trapiantato pietra dopo pietra nel nuovo mondo, seduto in un giardino così lussureggiante che Will non pensava potesse esistere in uno stato arido come l'Arizona, che cominciò a vedere per la prima volta, le vere e diverse sfaccettature dei suoi amici.
Dalle cose stupide come veder Katrina con la schiena poggiata alla spalliera della poltroncina e non dritta e perfetta come una statua, a Andrew che balbettava di meno e rideva, di una risata fresca e tintinnante. Scoprì che Turen amava giocare a calcio con Jajeck, che Ryan prendeva in giro Arabelle e che la ragazzina lo prendeva a pizzichi per fargli passare la voglia di aprire bocca.
Quei sei bambini diventarono improvvisamente più bambini davanti ai suoi occhi e solo Alexander, con i suoi grandi occhi multicolore come la vegetazione, ingigantiti dagli occhiali, continuava a comportarsi come sempre, con la solita naturalezza e il solito sguardo attento da insetto. Lui, aveva deciso Will, era sempre se stesso, non fingeva di essere perfetto come gli altri quando stavano a scuola.
Fece anche la conoscenza del Colonnello, lo strano, borbottone e un po' scorbutico nonno di Katrina, il marito di Madame.
Lui, gli raccontò la nipotina, non era Americano, così come non lo era nessuno di loro: suo nonno era Franco-Italiano, papà francese e mamma italiana per la precisione, e Will rimase incantato dall'orgoglio che trasudava dalle parole della bambina quando raccontava le origini della sua famiglia, mentre lui i primi giorni si era addirittura vergognato di venire da un altro Stato, di non essere dell'Arizzona.
Gli raccontò anche che sua nonna era russa.
<< Quindi tu sei francese, italiana e russa?>> Chiese ingenuamente.
Lei annuì, la testa alta e il petto gonfio, << Ovviamente anche Americana, ma anche australiana e hawaiana. Ho il sangue di molti popoli e se vogliamo essere precisi sono anche un po' tedesca, il mio cognome lo è.>>
Rimasero per almeno un ora a parlare delle discendenze della padrona di casa, e ad ogni parola, a ogni aneddoto che spiegava come si erano mischiati tutti quei popoli diversi la voce di Katrina diventava sempre un po' più alta, più accesa, perdendo la perfetta compostezza data dall'emulazione della nonna e portando a galla l'accento della Valley, uno strano suono morbido sulle r ed una strana apertura sulle vocali.
Will non lo sapeva, certo che no, ma stava sollevando una piccola squama della corazza della bimba e scrutava il suo cuore infantile e vivace. La vera Katrina parlava con la sua vera voce e il biondino la trovò mille volte più bella di quella calma ed educata di sempre. Perché quella sembrava da grande, era così autoritaria, da ammirare, ma questa, questa era davvero uno spasso.

Ma quella non fu l'unica cosa che scoprì quel giorno. Se ci avesse riflettuto bene – e in futuro l'avrebbe fatto eccome- probabilmente quel piccolo battibecco tra nonna e nipote a cui aveva assistito per puro caso, di ritorno dal bagno, non era altro che il preludio di una crisi bella e buona, di una guerra fredda, ma neanche troppo, che sarebbe scoppiata da li a pochi mesi.
Si chiese anche se fosse stata colpa sua, se tutto il mondo d'oro e cristalli di Katrina non si fosse infranto il giorno in cui l'aveva salvato, o ancora prima quando l'aveva conosciuta alla scuola di danza, quando era entrato in quella scuola o quando sua madre aveva comprato quella casa.
La bambina stava in pedi in uno dei tanti salottini sparsi per la casa, immersa nei colori freddi e asettici della sala dalle cui finestre poteva vedere il giardino; teneva le braccia lungo i fianchi, la testa ostinatamente alzata, gli occhi puntati in quelli ferrei della nonna ed i pugni stretti e tremanti. Parlavano una lingua che Will non capiva e certo non avrebbe imparato in seguito. La donna sgridava ovviamente la nipote, aveva fatto qualcosa che non andava bene e malgrado Katrina si stesse mordendo la lingua pur di non protestare, si vedeva lontano un miglio che voleva solo urlarle contro.
Sul tavolino davanti a loro un foglio, che con un po' di fatica Will riconobbe come una lettera, era il fulcro della conversazione.
Quando la donna, con un gesto secco afferrò il foglio e lo accartocciò, chiudendo il discorso, il bimbo si nascose di corsa dietro ad un mobile e sbirciò l'amica che continuava a fissare con sguardo di fuoco il punto in cui la nonna era sparita.
Passetti sicuri si avvicinarono e Alexander entrò dalla porta a vetri, facendo attenzione a pulirsi le scarpe sul tappeto e raggiungendo la sorella, sorridendogli speranzoso. Lei scosse la testa mormorando qualcosa, lasciandosi poi abbracciare dal bambino e condurre dagli altri.

Fu curioso che ancora una volta a giungere in suo soccorso fu Andrew, preoccupato dall'eventualità che si fosse perso per i mille corridoi del Maniero. Will lo aveva guardato pensieroso e un po' triste e quando il bambino gli aveva chiesto il motivo del suo muso lungo, imbarazzato il biondino gli aveva raccontato quello che aveva visto.
Di colpo Andrew si era fatto triste come lui ed aveva annuito, invitandolo a sedersi sullo stesso divano che aveva assistito alla lite tra nonna e nipote.

<< Madame non è una persona cattiva.>> cominciò senza sforzarsi di sembrare troppo sincero. << Ma vuole sempre che tutto sia fatto come dice lei. Katrina non lo vuole dare a vedere, ma gli rompe tanto, però non glielo può mica dire, sai? Che fa? Non è educato, non bisogna rispondere male ai grandi, bisogna sempre ascoltarli.>> Parlava a piccole frasi, quasi come se producesse un tot di piccoli pensieri finiti alla volta, come se avesse paura di balbettare con frasi troppo lunghe. << Però se la tratta male e la sgrida sempre qualcuno glielo deve dire! La mamma e il papà di Katrina lo sanno?>>
Qui il bimbo fece una smorfia molto più adatta a suo cugino che a lui, scosse la testa.
<< Certo che lo sanno, ma cosa potrebbero fare? Dovresti vedere quando ci sono invece, c'è un altra Katrina.>>
<< Perché non dicono a Madame che la tratta troppo male?>> era indignato! Se sua nonna lo avesse trattato così la mamma gliene avrebbe dette quattro. Ma a quanto pareva i genitori della bambina no.
<< Ma dove sono?>>
Andrew fece di nuovo quella smorfia, << Via, non lo so dove. Sono dei Marines, dei soldati della marina, che è tipo l'esercito ma per l'acqua, se lo chiedi a Alexander o a Katrina te lo spiegano bene. Lo era anche il Colonnello, sai? Però Madame non voleva che anche sua figlia fosse così, come il padre, ha educato anche lei come educa Katrina. Però poi zia quando è diventata grande le ha detto che non voleva diventare come lei. Ha anche aa- aaabbb-aabbdicaaa-to.>> Balbettò alla fine, bloccandosi su ogni lettera.
Will lo guardò perplesso. << E che vuol dire?>> chi l'aveva mai sentita quella parola? Per di più detta in quel modo, se anche l'avesse conosciuta… Will certo non aveva capito nulla.
<< Hai presente che Arabelle dice che siamo un “élite”? Si? Ecco, se sei un duca, una principessa o roba simile, puoi decidere di non esserlo più, di rinunciare a tutto, così fai quella cosa lì e sei una persona normale.>> Lo fissò per un attimo affranto, << Dimmi che non lo devo ripetere.>> Implorò quasi.
Will scosse la testa e poi la volse verso il giardino.
<< Quindi non li vede mai? La sua mamma e il suo papà? E come fanno, lei e Alexander? Non gli mancano?>>
<< Certo che gli mancano, ma ci sono loro due, si vogliono tanto bene. E poi Alexander non è come Katrina, lui è un maschio, ci dovrebbe pensare il Colonnello a insegnargli le cose, ma hai visto com'è no? E' divertente. Lui non lo obbliga a fare tutte quelle cose che deve fare Katrina.>>
Che cosa triste, pensò cercando di scorgere la bambina, lui non ce l'avrebbe mai fatta senza la sua mamma, solo con i nonni; perché Will voleva davvero bene ai nonni e agli zii, ma semplicemente non erano la sua mamma.
<< Che brutto...>> sussurrò triste, vedendo la testolina castana del bambino vicino a lui annuire. Gli vide in faccia una strana espressione, come se volesse aggiungere altro. Aveva la stessa faccia dello zio Benny quando voleva dirgli che regalo gli aveva fatto ma allo stesso tempo voleva mantenere il segreto e fargli una sorpresa. Solo che aveva come il presentimento che non sarebbe stata una sorpresa bella questa.
<< Però Madame non ha capito niente.>>
Okay, forse si era sbagliato, questa era una sorpresa.
<< Perché?>> Domandò allora, estremamente interessato; non solo era una sorpresa, ma era pure un segreto!
<< Perché pensa che Katrina l'ha “presa in tempo” come dice sempre lei. Secondo Madame sua figlia ha rinunciato a tutto perché l'ha convinta il Colonnello a fare il Marine, per questo non gli fa insegnare niente a Katrina che lei non abbia accettato. Però...>>
<< Però?>>
<< Non lo so se te lo posso dire. E' un segreto Will, li sai mantenere i segreti tu?>> Lo fissò dritto negli occhi e Will non si era mai reso conto che sotto a quella frangetta c'erano degli occhi così grandi e lucidi, gli stessi occhi che avevano i cuccioli di ogni animale che aveva visto. E bhe, in effetti i bambini sono cuccioli di adulti, no?
Annuì deciso, non voleva certo deludere un cucciolo, lui lo sapeva bene che poi si mettevano a piangere e non riuscivi a farli smettere, come i vitellino della mucca dei vicini, in Texas, gli aveva tolto un po' di fieno ed aveva cominciato a piangere...o almeno credeva che quello fosse il piangere delle mucche, o dei cuccioli di mucca. In effetti non aveva la più pallida idea di come piangessero le mucche. Magari quella sera l'avrebbe chiesto alla mamma, lei di sicuro doveva sapere come-
<< Sicuro?>>
Andrew richiamò la sua attenzione e Will smise di domandarsi come piangeva una mucca o un cavallo o qualunque altro animale. Doveva concentrarsi sul cucciolo di adulto ora.
<< Sicurissimo! Fidati di me!>> lo disse con orgoglio e il bambino annuì sollevato.
<< Madame non ha capito che Katrina è tanto simile a zia, davvero tanto, ma che è anche tanto simile allo zio, il suo papà. Tu non li conosci, ma se invece li avessi conosciuti capiresti al volo. Katrina non ce la fa più, ha troppe cose, prima o poi scoppia, come un chewingum! E ho tanta paura di quello che dirà Madame...>>

Erano tornati in giardino e avevano giocato come se non fosse successo niente. Come se Will non avesse visto nonna e nipote discutere, o avesse scoperto il “grande segreto di Katrina chewingum”. Tutti quei discorsi però, un po' lo avevano messo a disagio: Lui non ci sarebbe mai arrivato a cose come quelle,a capire tutta quella storia. Sembrava più intricata delle telenovellas che si vedeva la nonna con zia Laura e la mamma!
Andrew invece gli aveva saputo dare tante informazioni e poi sapeva dire le parole difficili e faceva gli occhi dolci come i cuccioli.
No, tutte quelle cose non erano per lui, non ci arrivava proprio. Non era portato per star buono ed immobile quando le persone lo sgridavano, senza piangere, o per fare tutte le cose che facevano gli altri. Per di più il Colonnello non lo trovava divertente, gli faceva solo paura. E, si! Pure Madame gli faceva paura! Ora lo aveva detto. Anche se era la signora più bella che avesse mai visto. E poi… e poi lui non sapeva parlare un'altra lingua e non aveva genitori importanti, soldati del mare o principi e principesse, lui neanche aveva un papà…

Sua madre lo aspettava raggiante sul limitare della staccionata, ma le bastò un occhiata per rendersi conto che qualcosa non era andato nel verso giusto.
Cercò di tirarlo su di morale con un piatto gigante di patatine fritte e poco a poco che mangiava e le raccontava cos'era successo riprendeva un po' di vita. Ma finita la descrizione del bagno ( “ che mamma io non capisco che ci fanno con un bagno così grande, sembra una camera, e poi perché il water è in uno sgabuzzino?”) si azzittì di colpo.
<< Mamma che vuol dire abbicare?>>
Summer lo guardò perplessa cercando di capire, “abbicare”…
<< “Abdicare”? >> provò.
<< Si, si, quello.>>
<< E' quando una persona di potere, come un re, rinuncia al suo trono in favore di qualcun altro, glielo lascia in pratica.>> attese in silenzio un continuo a cui però rispose solo altro silenzio.
<< Perché?>>
<< E se un re lascia tutto, a chi lo lascia?>> le chiese invece.
<< Di solito ai suoi figlio, o in casi particolari ai fratelli, o a qualcuno che ha scelto lui.>>
<< Quindi se la mamma di Katrina lo fa passa tutto a lei?>>
Ora lo stupore era palese sul volto della donna. Che diamine di compagnie si era trovato Willy? << La mamma della tua amica ha abdicato?>>
<< Per fare il soldato del mare.>> confermò mangiando un altra patatina, pensieroso, << Andrew però dice che lei non ce la fa e che prima o poi scoppia come un pallone, di quelli che fai sempre tu con la gomma. Però è un segreto e non lo devi dire a nessuno.>>
Non gente normale, ecco che tipo di compagnie aveva suo figlio. Dio santo, e c'erano bambini che dovevano preoccuparsi del peso di titoli nobiliari rifiutati ancora adesso? Nel ventunesimo secolo? << Mamma, loro sono tanto grandi. Capiscono tutto subito e poi sembrano i principini delle favole, sono proprio belli e bravi come dicono le storie. Però Katrina e Alexander non vedono mai i loro genitori… non è per niente bello. Ma nelle favole che mi leggi te non c'è scritto, se non ci sono la mamma o il papà c'è sempre la fata buona, perché loro hanno Madame che è così...così...come chiamava nonno la signora Steevens?>>
<< Rigida come un manico di scopa.>>
<< Ecco. Se sono principi e principesse, perché non sono felici?>>

Perché magari Will non capiva tutto al volo come Andrew, che poi in verità capiva solo perché c'era cresciuto con quei bambini, ma una cosa l'aveva sentita, come gli animali sentono il pericolo o che invece si possono fidare di te. E Summer Solace si rese conto, improvvisamente, che Will non solo si era andato a far amici dei possibili futuri ragazzi snob e viziati, ma anche dei bambini profondamente infelici.

Will aveva sei anni quando si rese conto che essere ricchi, avere un “titolo”, andare in una scuola che era un castello ed essere delle perfette damine, dei perfetti lord, non ti dava anche una famiglia felice ed unita, che le favole mentivano e non c'era nessuna fata buona, che a volte i “cattivi” erano nella tua famiglia. Ma era ancora piccolo e se tante cose le comprese a sei anni, altre le vedeva così ingigantite che non avrebbe mai creduto, in un futuro, di poterle capire e, se non giustificare, in parte perdonarle.
Al momento era convinto che Katrina sarebbe stata per sempre la principessa triste nella torre. Che Alexander, con quegli occhi da insetto, era l'unico che vivesse felice, che Andrew sarebbe rimasto sempre un cuccioli di adulto e che tutti gli altri volevano solo sembrare grandi quando invece non lo erano, quando non avevano capito tutto come lui.
Ma quando si è piccoli e si scopre una cosa nuova si pensa sempre di aver imparato tutto, di essere già grandi e aver compreso “la dura verità” degli adulti.
Quanto si sbagliava su tutto ciò, Will lo avrebbe scoperto più velocemente di quanto non avrebbe mai immaginato.

[Novembre]



Katrina glielo aveva detto alla fine del suo secondo mese di danza classica, con una dolcezza ed un eleganza che solo in seguito Will avrebbe imparato ad amare.

<< Cambia.>>

L'aveva guardata allucinato, caduto dalle nuvole.

<< Come?>>
<< Ho detto cambia.>> ripeté lapidaria. << La danza classica non fa per te, sei negato. Cambia corso.>>
Doveva ammetterlo: c'era rimasto male.
Lui si impegnava così tanto, ogni lezione, per imparare quel passé e la prima, con i piedi messi bene ed i talloni uniti, anche se si sentiva una papera, e poi arrivava lei e gli diceva che era negato, che doveva cambiare.
A lui piaceva ballare!

<< Ma a me piace ballare!>> Replicò, perché era giusto che lei lo sapesse.
<< Si, va bene – concesse- ma non cambia che non sai ballare la classica. Cambia corso.>>
<< Non voglio lasciare la danza!>> Era indignato! Come poteva dirgli quelle cose!
Katrina sbuffò, masticando a mezza bocca una frase che Will non capì ma che un poliglotta avrebbe interpretato benissimo come un “Signore dammi la forza”, probabilmente imparato dalla bambina direttamente dalla madre, quando doveva assistere agli accesi battibecchi tra i genitori.
<< Ascolta.>> Imperò sistemandosi con gesti automatici il gonnellino di tulle, come se lo facesse da una vita, cosa di cui nessuno dubitava.
<< Ti ho sentita! Hai detto che devo cambiare corso, ma io voglio ballare!>> Non poté continuare la sua sicuramente “convincentissima” arringa che l'altra gli piantò poco delicatamente una mano sulla bocca.
<< Ho detto ascolta, non “dimmi”. Presta attenzione William.>> Lo sgridò senza indugio e Will si segnò a mente di ricordarle quel brutto gesto.
<< Qui non si insegna solo la danza classica, questa è la base. Ogni ballerino fa due mesi di Classica e poi o resta qui o passa dove vuole, agli altri stili.>>
Mugugnò contro la sua mano una domanda del tutto lecita ed intelligente, che Katrina fulminò prontamente con un occhiata degna della nonna.
<< Tu li hai quasi finiti i mesi di classica e ti assicuro che non puoi continuarla, non ha i movimenti giusti. Quindi ti consiglio di scegliere un altro stile- >> altri mugugnii incomprensibili. << Che vuol dire un altro tipo!>> sbottò allora lei.
<< Mu mimu mh mhe?>>
<< Tipo di ballo, scemo!>>
<< Mmmh!>>
<< C'è moderna, liscio, di coppia, latinoamericano, hiphop… cose così. Tu ne scegli uno e fai un paio di lezioni di prova, se ti piace ti ci iscrivi e cambi corso.>> Concluse soddisfatta e gli tolse la mano dalla bocca. Will prese un bel respiro e fece per replicare.
<< No! Non voglio sentire altro. Mi hai sbavato la mano.>>
<< E se voglio continuare qui?>>
<< Volessi...>> lo corresse senza troppa convinzione ed alzò gli occhi al cielo. Con questo salivano a… a un bel po' i gesti e le cose che normalmente Katrina non diceva e faceva.
<< Puoi fare quello che vuoi, solo che...>> sospirò ancora, sembrava fin troppo strana quel giorno. Gli si fece vicino e lo fece sedere su una delle panchette di legno fuori dalla pista.
<< Stammi a sentire davvero, okay? La danza classica non è uno scherzo, nessuna danza lo è, ma questa non è un bell'ambiente.>>
<< Che cos'è un ambiente?>>
<< Ma è possibile che non sai niente?>>
<< Non sono io che non so niente, sei tu che sai troppo per una della nostra età!>> rispose piccato gonfiando le guance. Ma a quanto pare quella non era stata proprio la mossa migliore.
<< Già.>> Gli diede ragione senza provare a replicare, con lo sguardo improvvisamente triste.
<< Scusami...>>> provò allora, posandogli una manina abbronzata sulla sua. Si scoprì stupito nel constatare che il loro colore di pelle non era poi così diverso, anche se era sicuro che Katrina indossasse sempre i guanti all'aperto, come la nonna.
<< Lascia stare, nonna vuole che sappia tutto. Una bambina educata deve saper parlare bene, me lo dice sempre. Dice anche che la danza classica è la migliore e che mi serve per essere elegante. Però Will, è difficile, per le femmine un po' di più perché devi mettere le punte e ti sanguinano i piedi.>>
<< Come quando cadi e ti graffi?>>
<< Come quando ti arriva la palla in faccia e ti esce il sangue dal naso.>>
<< Uhgh!>>
<< Si, proprio quello. Devi essere uno tosto per stare qui, non è divertente.>>
Lo disse in modo tale che Will non ne dubitò per un instante, anche se poi si ricordò di tutte quelle ragazze grandi che erano tanto felici di fare lezione e di mettere le punte, che poi Will ancora non aveva capito che erano ste' punte, ma si ricordò anche che quelle ragazze grandi andavano da sole alle lezioni e che invece Katrina arrivava sempre con la nonna, anche quando non era lei a fargli da insegnate.
<< Non ti piace?>> le chiese ingenuo, senza capire perché allora stesse lì.
<< Non è che non mi piace, è come la fanno qui, come la fa nonna.>>
<< Ma la maestra dice che sei la più brava di tutti! Che dovresti stare con le ragazze grandi!>>
<< Si ma non l'ho mica scelto io.>>
Ecco, lo aveva detto.
Per Will fu uno shock. Se non lo aveva scelto lei di stare lì, perché lo faceva?
<< A me piace ballare, è bello e poi mi fa sentire bene, rilassa.>>
<< E che vuo- >>
<< Vuol dire che ti fa sentire bene come quando ti sdrai al letto la sera, va bene? E “ambiente” è un altro modo per dire posto. >> Sfilò la mano da sotto la sua e gli ci diede uno schiaffetto.
<< Ehi! Però se ti piace perché non la vuoi fare?>> Sunto del discorso: capacità di andare dritto al punto, una dote che spesso solo i bambini hanno e che ti fa ragionare più del dovuto.
Katrina fece un smorfia tra l'affranto e lo schifato.
<< Non è neanche che non la voglio fare. Solo...c'è qualcosa che fai, in cui sei bravo anche, ma che non ti hanno mai obbligato a fare?>>
No, okay, si era perso. Ma aveva la vaga sensazione che se se ne fosse uscito con un ennesimo “ che vuol dire”, l'amichetta l'avrebbe picchiato con le scarpette.
<< Per esempio…?>> provò e sembrò aver fatto la scelta giusta. Si! Uno a zero per Willy!
<< Mh...ti piace cantare?>>
<< Si! Certo che mi piace! Mamma dice che sono anche bravo!>>
<< E c'è una cosa che ti piace di più di cantare?>>
<< Andare a cavallo! Sicuro.>>
<< Okay, allora immagina che tu voglia andare a cavallo, ma la tua mamma ti obbliga a cantare nel coro.>>
<< Bhé, ma mi piace cantare...>>
<< Si ma ti piace di più cavalcare. E per il coro devi rinunciare ai cavalli. Ti piace ancora cantare?>>
Quella era proprio una domanda difficile: se aveva capito bene Katrina gli stava chiedendo come si sarebbe sentito se la sua mamma lo avesse costretto ad andare al coro, magari quello della chiesa, rifletté, invece di andare al recinto dei cavalli e fare un giro sui poni.
<< Non lo so… non ci capisco molto a dire la verità. Mi piace cantare e anche suonare, mi piacciono tanto le canzoni e la musica, per questo ballo sai? >>
Lo chignon mogano sobbalzò sulla testolina tirata.
<< Vuoi bene ai tuoi nonni?>> Gli chiese allora a bruciapelo.
<< Certo!>> Che razza di domande gli faceva? Lui li adorava i suoi nonni, non erano mica cattivi come Madame...oh, che cosa triste. Katrina non aveva una nonna buona come la sua, che gli faceva i biscotti e le torte e gli lasciava assaggiare l'impasto e rubare la marmellata.
<< Pensa che puoi andare a Disneyworld.>>
<< Mi piace Disneyworld! Non ci sono mai andato! Sarebbe un sogno.>>
<< Ma che tua mamma ti dice che invece non ci andrai perché devi andare a casa dei nonni. >>
<< Oh.>>
<< Adesso che per colpa loro non puoi più andare al parco giochi, li odi?>>
No, era ovvio che no. Non era mica colpa dei nonni, era la mamma che lo aveva costretto a- << Oh.>>
<< Ecco.>>
Si alzò con la sua solita compostezza e, in un gesto di rarissimo affetto, gli passo la manina tra i riccioli biondi.
<< Chiedi a tua madre di farsi dare la lista degli altri corsi, da Madomoiselle Selina, alla reception, abbiamo anche musica e canto, c'è persino un corso di teatro, coreografato, ma pur sempre teatro.>>

Di tutte le cose che gli erano capitate in vita sua, sei degnissimi anni di vita, Will era certo che “ragionare” fosse la cosa che più aveva fatto da quando era arrivato in Arizona. La confusione che aveva in testa era colossale, si sentiva come quando zio Benny ripeteva un esame ad alta voce e lui cercava di seguire il filo del discorso.
Perché più si diventa grandi e più le cose si complicano? Insomma, Will era un bambino grande adesso, le cose le capiva davvero bene, ne era certo ed orgoglioso, ma quei sette bambini lo lasciavano sempre nella confusione più totale: c'erano troppe cose, troppe troppe, e lui non riusciva a seguirle tutte. Era così triste, tantissimo. In Texas i bambini non erano tristi, a meno che non si fossero persi un gioco o qualcuno li avesse sgridati; in Arizona invece sembravano tutti piccoli adulti, serissimi e diligenti, e più di una volta Will si era domandato come potessero divertirsi, essere bambini veri, se erano già adulti. Lui era grande, mica un adulto, era una cosa diversa. Gli adulti non erano mai felici come i bambini. E i piccoli adulti? Dato che loro erano piccini, che erano delle miniature di adulto, erano ancora più tristi? Potevano contenere meno felicità?
Non sapeva proprio che pesci prendere, era tutto così complicato. Un adulto grande era più grande quindi lo potevi riempire di più cose, come una valigia, giusto? E quindi uno piccolo poteva tenere meno cose? Ma poi ce la potevi infilare la felicità dentro a qualcuno? O ce l'avevi già dentro quando nascevi? Lui non avrebbe avuto, da grande, più felicità di quanta non ne avesse ora? O cresceva come le piante? E gli adulti piccoli erano come i bonsai? Non crescevano più?
Ma soprattutto: che diamine ci faceva ancora seduto sulla panca invece di andare a prendere la borsa? La mamma sicuramente lo aspettava da un anno!
Scattò in piedi e corse verso la porta dello spogliatoio, avrebbe chiesto alla donna, una volta arrivati a casa, o magari addirittura alla nonna, quella sera.

Non che Will pensasse di essere una persona sfortunata, ma spesso sua zia Laura gli diceva che aveva lo stesso immancabile tempismo di sua madre, dello zio Benny e del nonno: un tempismo del cavolo, ecco.
Se si fosse sbrigato quel giorno, invece di rimanere impalato a domandarsi quanta roba potesse contenere una persona, se fosse una pianta normale o un bonsai, adesso sarebbe tranquillo a casa a farsi prendere in giro per quegli strani dubbi e non schiacciato contro una poltroncina per non farsi vedere, di nuovo, da Madame e Katrina che litigavano, di nuovo.
Ma cos'era? Una nuova moda? Dovevano sempre litigare quando c'era in giro lui.
Tempismo del cavolo, proprio un tempismo del cavolo, appena arrivato a casa si sarebbe attaccato al telefono e avrebbe dato ragione da vendere alla zia, si, le avrebbe giurato di pensare sempre tremila volte prima di fare qualcosa, o non farlo subito, così evitava situazioni come quelle.

<< Non credo tu sia in grado di prendere queste decisioni, Katrina, il discorso è chiuso.>> sentenziò la donna senza degnare più di uno sguardo la nipote.
<< Ma io non voglio continuare, sono quattro anni che faccio danza classica, non mi va più. Magari tra qualche mese poi mi torna la voglia, ma ora proprio no.>>
<< E dimmi un po', che senso avrebbe dedicarsi ad un altro sport se poi ti riverrà la voglia di ballare e tornerai qui? Sarebbe una perdita di tempo, solo questo. Quindi ti terrai questa “voglia” per te, finché non ti passerà.>>
<< Vorrei solo fare qualcos'altro. Sono stufa di far plié e arabesque, Jajeck segue il corso nuovo, quello sperimentale sui nuovi stile, si chiama Breakdance, voglio provare quello.>>
A quell'affermazione Madame portò di nuovo l'attenzione sulla bambina, lo sguardo freddo ed il volto inespressivo.
<< Ascoltami bene Katrina, perché te lo dirò una volta sola, questa discussione mi ha già stancata. Quella “roba” che fa il piccolo Royale non può essere definita danza, è solo uno stupido surrogato, un unione mal riuscita di acrobazia e musica, tutto qui. Nulla di adatto a te. Tu sei una signorina, diventerai una ballerina quanto meno più brava di tutte quelle che ti circondano, non arriverai ad essere la prima ballerina della Scala come lo fui io, ma non si può essere perfetti.
Quindi no, Katrina, non farai nulla di rozzo o volgare come quella cosa che neanche si può definire danza, non lascerai la classica e la smetterai di fare la bambina, con le tue stupide idee di cambiare tutto solo perché ora “non ti va”. >> detto ciò le diede le spalle e si avviò per il corridoi.
<< E quando arriveremo a casa comincerai a fare l'inventario delle cose da mettere in valigia, passeremo il Natale in Inghilterra.>>
Katrina sembrò riprendersi all'istante dopo quell'affermazione, sgranando gli occhi scioccata.
<< Come in Inghilterra? E mamma e papà? Non possiamo passare il Natale da qualche altra parte, saranno stanchi, vorranno stare a casa!>>
Il suono che si lasciò sfuggire la donna dalle labbra fu apertamente di scherno.
<< Non hai ancora imparato a leggere? La lettera parlava chiaramente.>>
<< C'era scritto che la loro nave sarebbe attraccata per due giorni durante il periodo natalizio, non era specificato quando, potrebbe essere in qualunque momento, anche quando siamo in Inghilterra. Non possiamo partire!>>
<< E invece partiremo proprio.>> si arrestò e voltò la testa, << La nave attraccherà ma non è detto che gli venga concesso di scende, anzi, sarà sicuramente così. Non possiamo rifiutare un invito a Londra solo perché c'è la possibilità che gli sia concesso di scendere.>>
<< Ma è Natale!>>
<< Non intendo discutere di questo in alcun mondo.>> La voce si alzò d'un tono, lo sguardo grigio sembrava essere quasi più scuro e Will che si era sporto rapito dalla discussione, si rannicchiò di nuovo impaurito.
Katrina fissava la nonna sbalordita, la bocca poco elegantemente aperta. Poi un fulmine, una scintilla rabbiosa le illuminò lo sguardo:
<< Io non ci vengo.>> a differenza della nonna, la sua di voce fu calma e pacata, si stava sforzando enormemente di non urlare, di non dargliela vinta, e parve proprio funzionare.
Madame tornò sui suoi passi con l'espressione furibonda.
<< Cosa hai detto?>> la minacciò a risponderle.
<< Che non verrò in Inghilterra, nonna. L'invito sarà sicuramente per te ed il nonno, non credo sia esteso ai membri della famiglia Rivallie, quindi io non mi sposterò di qui, che ti piaccia o no.>>
<< Non puoi scegliere.>>
<< Me ne frego!>> Glielo sputò letteralmente in faccia, mandando al diavolo la calma ed alzando le braccia al cielo con fare arrabbiato.
Lo schiaffo che arrivò immediatamente dopo, Will doveva ammetterlo, non se lo era aspettato e lo fece saltare sul posto.
Serrò gli occhi e sperò che tutto finisse velocemente, non voleva sentire Katrina piangere e si premette le mani sulle orecchie.
Ma non arrivò nessun singhiozzo, nessun pianto di dolore, eppure per fare quel rumore doveva aver anche fatto molto male.
<< Mi spiace nonna.>> sentì allora. Sgranò gli occhioni azzurri incredulo: non poteva aver ceduto subito, non dopo tutte quelle cose cattive che aveva detto Madame. << Ma io non l'ascerò l'America questo Natale.>> Passetti piccoli ma decisi, sporgendosi un poco poté vedere la bambina superare la donna, ancora con la mano a mezz'aria.
Si fermò sulla porta che divideva il corridoio delle classi da quello della hall, poggiò la mano sulla maniglia ed inclinò a mala pena il viso, giusto per non sembrare che non avesse il coraggio di guardarla in faccia.
<< E che a te piaccia o meno, dalla prossima lezione non mi vedrai più nell'aula di danza classica, se mi ci vedrai. Ho deciso così e non me ne frega niente di quello che dirai tu. Il discorso è chiuso.>>
Aveva usato le sue stesse parole, un po' meno educate certo, ma avevano ampiamente sortito l'effetto desiderato. Abbassò la maniglia ed uscì.
<< Katrina. Torna immediatamente qui. Katrina! Lo decido io quando il discorso è chiuso! Katrina!>>

Arricciava il filo del telefono con il ditino, sentendo il nonno raccontargli come Fuffi, il diciottesimo Fuffi forse, avesse imbrattato tutto il pavimento della cucina quella mattina, facendo andare su tutte le furie la nonna. Will annuiva, come se il vecchio uomo dall'altra parte del cavo potesse vederlo, ma non proferiva parola.
Un sospiro pesante ed il nonno l'asciò perdere la descrizione della moglie con il fango tra i capelli che minacciava di sbatterlo a dormire proprio con il cane.
<< Che succede Willy? Hai litigato con qualcuno?>>
Il nipotino tentennò, cominciando con un no per niente convinto e poi facendosi di nuovo zitto.
<< Dai, dimmi tutto, magari ti posso aiutare.>>
<< Non è per me nonno.>> soffiò fuori alla fine, guardandosi attorno con circospezione per controllare se la mamma lo stesse guardando. Già gli aveva dato una bella lavata di capo per aver tardato così tanto quel pomeriggio, figurarsi se le avesse anche detto che aveva spiato due persone che litigavano. Ma al nonno lo poteva dire, no? Di lui si poteva fidare, tanto non conosceva Madame e non poteva rinfacciargli la cosa come suo solito, non la poteva vedere e neanche farla arrabbiare, per di più Katrina non avrebbe passato nessun guaio.
Prese un bel respiro e cominciò, << Ecco...>>

Da grande, circa intorno ai suoi otto anni, lui, Ryan e Jajeck si sarebbero ritrovati a scrivere la lista delle “grandissime cavolate mai fatte in vita mia”, con l'unico sollievo che i due ragazzi, con l'aggiunta di Katrina, averebbero anche avuto una seconda lista, quella di “tutte le volte che mi sono messo nei guai perché ho picchiato qualcuno e non ho ragionato”, che Will reputava di certo peggio e sicuramente più impietosa, con l'appoggio di Andrew.
Ma il punto sta che nella sua di lista, il primo punto era: “ Dire a nonno qualcosa che riguarda la scuola, quella di danza, o qualunque altra cosa che riguardi Madame ed i suoi comportamenti bisbetici da (questo glielo aveva suggerito la nipote) despota nazista.”
Decisamente, il nonno Non era una persona con cui potersi sfogare in qui casi. No.

La lite, non quella della Asgard, ma quella tra figlia e padre, cominciò lentamente quella stessa sera, andandosi ad intensificare parola dopo parola e scoppiando alla fine in un violento scontro verbale da un capo all'altro del telefono, contemporaneamente in due Stati limitrofi del vecchio West.
E Will, oltre a ricordare quel giorno come “la giornata nazionale delle liti scoppiate così a buffo” la ricordò anche come “il giorno in cui era meglio che si facesse gli affari suoi ma non se li era più fatti ed erano scoppiati i casini.”
Nome lungo, si, ma del tutto appropriato. Soprattutto se sei un bambino di sei anni e sei convintissimo di aver appena fatto la cosa più brutta del mondo, se ti sentivi già in colpa per aver spiato qualcun altro senza, per di più, andare in soccorso della tua amica come aveva fatto lei con te ( quando ancora non vi conoscevate poi! Peggio ancora!) e se eri ormai certo di essere la causa di tutti i problemi della giornata.
Ragionando chiuso nella sua cameretta, Will si disse che se non avesse fatto schifo in danza classica, Katrina non le avrebbe consigliato di cambiare, lui non si sarebbe offeso e lei non le avrebbe spiegato tutte quelle cose con i cavalli, la musica, il coro, Disneyworld, i suoi nonni e sua madre che era la vera responsabile perché gli impediva di andare al parco giochi ma non poteva odiare i nonni per questo e neanche sua madre perché gli voleva bene e lei faceva sempre le cose tutte per lui e non era come Madame erano Katrina e Alexander ad essere sfortunati e quindi era vero che era tutta colpa sua perché se non si fossero mai trasferiti li non sarebbe successo tutto questo e voleva tornare in Texas e cancellare tutto e lui non ci stava capendo una mazza!
Si ritrovò a singhiozzare rumorosamente contro il cuscino, imbrattando la fodera di lacrime e moccio.
Non era il Texas o l'Arizona, era lui che faceva sempre danni, era tutta colpa sua.
Pianse tutta la notte e non volle neanche andare a dormire con Summer, che sebbene fosse arrabbiata con il padre faceva di tutto per consolarlo e calmarlo, ripetendogli che non era colpa sua. Will aveva rifiutato ogni abbraccio e carezza, ogni bacio e proposta di gelato. Non se lo meritava proprio.

[Dicembre]



Con l'arrivo dell'ultimo mese dell'anno le cose non erano migliorate, né per Katrina né tanto meno per lui.
Summer era in piena guerra del silenzio, non chiamava il padre ed il padre non chiamava lei, era sempre la nonna a chiamare, o una preoccupata zia Laura, un infastidito zio Benny che però, stranamente, dava ragione alla sorella e non al suo vecchio. Gli altri si astenevano per quieto vivere. Ma il punto cruciale sta nel fatto che, ancora una volta, Will sapeva che tutto ciò era colpa sua. Era lui che aveva parlato con il nonno, lui che aveva parlato con Katrina.
Prese una difficile decisione in quel momento, una decisione tragica ma che andava fatta, che doveva esser mantenuta ad ogni costo.

Quando Alexander lesse il biglietto sorrise divertito, ma annuì alla sua presa di posizione; Ryan non ne capiva il senso, Arabelle pensava fosse inutile, Turan gli ripeteva di non esagerare, Andrew lo guardava allucinato. Jajeck scoppiò semplicemente a ridere, per poi voltarsi verso la piccola lady ed informarla a gran voce:

<< Risei! Riccioli d'oro ha deciso che non parlerà mai più!>>
E Will era arrossito come un pomodoro, perché Jajeck aveva un sorriso luminoso ed una risata forte e spensierata, anche se stavano a scuola e di solito si controllava, ma in quel momento era solo genuinamente divertito, ed era anche davvero carino. Chissà se Will avrebbe mai trovato qualcuno carino come Jajeck per passare la sua vita. Che poi, una bambina poteva essere bella come un bambino? Bhé, la nonna diceva sempre che le bambine erano più belle, ma trovare qualcuno più bello di Jajeck era proprio impossibile.
Balbettò qualcosa di incomprensibile ed il ragazzino dagli occhi da gatto rise più forte.

<< Non è vero! Falso allarme! Parla ancora!>>

Katrina non l'aveva presa sul ridere e gli aveva chiesto molto più diretta il perché della sua decisione.
Will aveva provato a scriverglielo, ma dato che la sua calligrafia faceva schifo e che ci stava mettendo davvero tanto impegno e attenzione per scrivere bene e farsi capire, Katrina si era spazientita, gli aveva strappato di mano foglio e matita e lo aveva esortato a parlare con un solo sguardo penetrante.
Deglutì un poco intimorito ma scosse la testa, allungando le mani per farsi ridare le sue cose.

<< Non fare il cretino e parla.>>
Sgranò gli occhi: Katrina aveva davvero appena detto “cretino”?

<< E non fare quella faccia. Non puoi non parlare per sempre, lo possono fare solo gli eremiti e no, non ti spiego cosa sono, ma lo faccio dopo che mi avrai parlato. Per di più dovrai rispondere alle domande della maestra prima o poi.>> Il discorso filava. Come sempre. Mannaggia.

<< Ahio!>> La matita lo aveva pungolato sulla mano e poi gli era arrivata dritta in testa con una velocità tale da dargli una schicchera bella forte.
<< L'ho detto che sei un cretino.>>
<< Non è una bella parola quella...>> borbottò in rimando.
<< Ma è ciò che sei. Non litigo con mia nonna perché ci sei tu qui. Secondo nonno lo faccio perché sono cresciuta e comincio a pensare con la mia testa!>> Lo disse con orgoglio e le scintillarono gli occhi, mentre quelli di Will rimanevano imbronciati sotto le sopracciglia aggrottate.
<< Però non è comunque carino e poi mi hai fatto male.>>
<< Te lo meriti, così impari la lezione.>>
<< Non dire a Katrina quello che pensi?>> provò indeciso.
<< No, si chiama metodo carota-bastone. Lo si fa con i cavalli: fanno i bravi e gli dai una carota, fanno i cattivi e gli picchi il bastone sulla coscia.>>
<< E' bruttissimo!>> gracchiò orripilato da quella prospettiva, << Noi non lo facciamo mai con i nostri cavalli, gli fai male così!>>
Katrina alzò gli occhi al cielo, posando i pugni sui fianchi. << Hanno più muscoli loro sulla coscia di quanti non ne avrai mai tu. Non gli fai davvero male, come i cani con il giornale. Se fanno qualcosa di sbagliato gli devi battere il giornale sulla schiena, non gli fai nulla, ma fai tanto rumore e loro lo prendono come una cosa negativa e non lo fanno più.>>
<< E' bruttissimo anche questo!>>
<< Si chiama addestramento e se dici un'altra volta “bruttissimo” lo do' in testa a te il giornale!>> Will la guardò sconcertato, e dove lo aveva tenuto questo caratterino miss Perfezione fino ad ora?Abbozzò una smorfia che voleva essere un sorriso ma che gli uscì decisamente storto.
<< Allora non sei arrabbiata con me?>>
La bambina, esasperata, lasciò cadere in avanti la testolina rossiccia, facendo oscillare la lunga treccia spessa.
<< Non potresti mai fare l'eremita tu.>>
<< Lo devo prendere come un no…?>>
Lei lo guardò e poi gli diede una pacca sulla spalla, << Anche se non sai ballare non sei sempre tu quello che fa danni, Riccioli d'oro.>>
Detto da lei quel soprannome sembrava quasi una presa in giro, ma Will sorrise raggiante e si mise a saltellare sul posto.
<< Grazie! Grazie! Grazi! Avevo così tanta paura! Pensavo di aver fatto davvero un pasticcio! Scusa se ti ho dato fastidio Katrina!>>
Ma se prima la ragazzina gli sorrideva, all'ultima parola storse la bocca in un espressione di completa disapprovazione, quasi di disgusto.
<< Non chiamarmi Katrina.>>

La guardò sconvolto. Che vuol dire “non chiamarmi Katrina”?
Aprì la bocca per protestare ma non uscì una sola parola, sembrava un pesciolino fuor d'acqua.

<< Lo odio. >> Lo freddò così, prima che riuscisse a metter in piedi una frase.
<< Mia nonna mi ha iscritto con questo nome alla BI solo perché è un “nobile nome russo”, ma non è il mio. Lo odio.>>
Fece qualche passo e si diresse verso le arcate che conducevano ai corridoi, la ricreazione stava per finire e loro l'avevano usata tutta per “parlare” come facevano i grandi.

<< Ma… allora…? Che cosa- >> provò balbettando come Andrew.
<< Chiamami Rise. E' così che mi chiamano i miei amici.>>


Il mondo dei bambini è bellissimo: ciò che un momento li preoccupa, che è orribile, bruttissimo o catastrofico può essere cancellato in meno di un minuto.
O diventare trauma infantile. Ma questa non è la storia di come William Solace venne traumatizzato da una scoperta scioccante e i suoi amici continuarono a prenderlo in giro per il resto della sua vita. Questa è la storia di come Will arrivò dal Texas convinto che l'Arizona facesse schifo, si fosse ricreduto più di una volta e poi ri-ricreduto ancora per poi ri-ri-ricredersi.
Uh, quanti ri- soprattutto perché gli stavano mettendo in disordine tutti i suoi pensieri.
Fatto sta che Will, tornando a casa quel giorno, era sicurissimo che tutto fosse passato, che non importava che non capisse le cose al volo come gli altri perché loro lo reputavano comunque un amico.
“ Mi ha detto di chiamarla Rise come fanno i suoi amici!” lo aveva ripetuto per tutto il tempo come una cantilena nella sua testolina bionda, al cui interno si era andato a solidificare un altro pensiero: se ciò che lo aveva fatto star giù di morale era passato, allora anche la lite tra il nonno e la mamma era finita, perché era cominciata da lui che era triste e parlava con nonno e nonno che era arrabbiato perché lui era triste e sgridava mamma perché aveva permesso che lui stesse con dei bambini che lo rendevano triste. Era un po' complicato, Will lo sapeva, ma nella sua testa tutto filava liscio.
Come quando sputi per terra e poi ci metti il piede sopra.
Gli zii sarebbero stati fieri del suo ragionamento da vero Cowboy!
Peccato che non fosse così.
Inizialmente pensò che fosse tutto un problema di “comunicazione” come brontolava la nonna quando raccontava dei dissapori di famiglia, magari Summer e suo padre continuavano a non parlarsi perché non sapevano che lui non era più triste. Magari la mamma ora era triste e non si era accorta che lui non lo era più. Passava tanto tempo a lavorare, a chiamare al telefono per ordinare una cosa o chiedere informazioni, quindi forse non se ne era resa conto.
Così per buona maniera, glielo disse, chiaro e tondo.

<< Mamy non sono più triste per quella cosa dei miei amici. Ora sono felice e ho capito che mi vogliono bene.>>
Sua mamma gli aveva scompigliato i capelli e aveva sorriso felice anche lei. Ora che lo sapeva la cosa era risolta.

Però continuavano a non parlarsi, quei due, allora Will pensò che era ovvio! Dato che non si sentivano mai, Summer non poteva aver detto al padre che era tutto finito e quindi lui non le voleva parlare!
Giustissimo ragionamento, per altro. Chiamò il nonno, che ormai era grande e lo sapeva usare benissimo il telefono lui, sapeva addirittura il numero a memoria!
E:
<< Nonno non sono più triste ora, sai? Ho risolto tutto – come dicevano gli adulti!- gli voglio tanto bene e sono felice!>>
Anche il nonno lo era stato, che bello! Lo aveva addirittura urlato alla moglie nell'altra stanza sturando un timpano al nipotino.
Ed ora niente più scuse, lo sapevano tutti e due, era fatta!

Ovviamente no.
Eppure non capiva dove avesse sbagliato, lo aveva detto a tutti e due! Non potevano non averlo capito!
Chiamò di nuovo i nonni e questa volta parlò con la donna: le ripetette che era felice, che aveva risolto tutto e di ricordarlo anche al nonno, che magari non aveva capito. Le disse pure che Katrina gli aveva detto di chiamarla Rise, come tutti i suoi amici!
Poi aveva preso l'agenda della mamma e aveva chiamato zia Laura, per dirlo anche a lei. E lo zio Jacke e lo disse anche a lui- << Ricordalo anche a nonno e mamma quando li senti!>>-, poi allo zio Eric ed in fine allo zio Benny, che da bravo ultimo nato capì al volo quello che il bambino cercava di fare ma non ebbe il cuore di dirgli che era inutile.

I primi di Dicembre erano scivolati via in fretta e furia, mentre un vento pericolosamente freddo si era infilato nella Valley e Will, ancora e ancora, si domandava cosa non andasse.
Sua madre era sempre più nervosa, le telefonate con i parenti più animate e spesso si chiudeva in camera o andava fuori sulla veranda a parlare, vietandogli di uscire perché troppo freddo.
Così come a casa, anche a scuola la situazione era drammatica: Katrina, Rise, scattava per un nonnulla e una volta aveva rotto quattro matite una dopo l'altra. Alexander la guardava nervoso, facendo scattare quegli occhi da insetto ad ogni minimo movimento, accennando un sorriso spento ogni volta che qualche compagno parlava di vacanze di Natale, e anche gli altri non se la cavavano meglio, con Andrew che sembrava avergli rubato il voto di silenzio, Arabelle che pareva volersi mettere a piangere ogni momento tanto le brillavano gli occhi, spaesata come Turan che non sapeva cosa fare, come consolare gli amici; Rayan che faceva stupide battute e Jajeck che provocava Rise e finiva sempre per farsi prendere a pugni.
Non la capiva questa sua voglia di farsi far male e lo stupiva quasi quanto vedere la piccola dama picchiarlo.
Un giorno avrebbe capito che tra tutti Jajeck era l'unico che si era reso conto che a Rise serviva sfogarsi in quel momento e che il modo migliore per farlo, per lei, era attraverso lo sforzo fisico. Jajeck e Rise avevano già quel rapporto di reciproca intesa tipico dei migliori amici che non li avrebbe più lasciati, ben diverso da quello che legava la ragazzina al fratello o di quello che avrebbe legato loro due. Ma avrebbe anche capito che tutti, tra di loro, avevano un rapporto speciale esclusivo per gli altri.
Avrebbe avuto tempo per farlo.


Will piangeva come mai in vita sua, Turan era stato l'unico con la prontezza di riflessi per abbracciarlo e stringerlo a sé, mentre Arabelle gli carezzava lentamente la testa e Alexander cercava di convincere Ryan e Jajeck a stare fermi e non fare a gara per chi dovesse andare a chiedere una tazza di tea al bar della scuola.
Andrew e Rise erano non si sapeva dove e Will intanto continuava a piangere.
Quella era decisamente la giornata più brutta della sua vita.
Era cominciato tutto bene, entro i limiti possibili di quel mese e di quel periodo, anche quella mattina Will aveva cercato in tutti i modi di far capire a sua madre che, ora che era felice, non c'era più alcun motivo che lei ed il nonno litigassero. Le aveva così detto che magari il nonno non lo aveva capito bene ma che di certo quel Natale, quando sarebbero tornati in Texas, glielo avrebbe detto chiaro e tondo.
Summer allora si era fermata e lo aveva guardato con sguardo colpevole.

<< Willy, tesoro, ascolta okay? Questo è il primo Natale che non viviamo a casa dei nonni e io pensavo di passarlo qui.>> Gli aveva preso le mani e aveva sorriso incerta.
<< Quindi vengono tutti qui? Ma c'entreranno? E dove dormono?>> Che bello, così gli zii avrebbero finalmente visto la nuova casa.
Ma ancora una volta sua madre lo guardò in quel modo palesemente colpevole.
<< No Willy, non vengono tutti qui>>
<< E allora come facciamo?>> se non sarebbero venuti e loro non si sarebbero spostati, come accidenti lo passavano il Natale?
<< Quest'anno festeggeremo a casa nuova, noi due soli. Non torneremo in Texas e i nonni e gli zii non verranno in Arizona.>>

Lo aveva raccontato tra i singhiozzi durante l'ora di ricreazione, dopo aver passato tutta la mattinata a tirar su con il naso e asciugarsi le lacrime.
Turan era più alto di lui di almeno una decina di centimetri, non che ci volesse molto, e lo aveva addirittura preso in braccio, come fanno i genitori con i figli.
Eh si, i suoi amichetti erano proprio piccoli adulti.

<< Non vedrò nessuno.>> piagnucolò ancora, << Sarà il Natale più brutto della storia dei Natali!>> La manina candida di Arabelle gli scostò qualche riccio dalla fronte e gli porse un fazzoletto.
<< Non dire così Will, non sarà brutto. Anche noi restiamo qui per Natale.>>
<< Si, ma voi qui avete tutti, io no!>> pianse più forte per poi soffiarsi rumorosamente il naso.
<< Non è mica vero, sai?>> parlò a quel punto Turan, << I miei nonni sono in Africa, nella Costa D'Avorio francese per la precisione, quindi qui ci siamo solo io ed i miei genitori.>>
Will si staccò dal bambino per guardarlo con occhi sgranati. Non riusciva a crederci, quindi… << Tu festeggi sempre il Natale da solo?>> chiese sconcertato.
Il sorriso di Turan era sempre il più luminoso, forse perché faceva contrasto con la pelle scura del bambino o forse perché era sempre gentile e spontaneo, ma al piccolo Will sembrò dello stesso tipo di quelli di sua madre: i sorrisi del cuore li chiamava lei.
<< Non sempre. A volte i nonni possono spostarsi qui, a volte ci sono degli amici di mamma o papà, spesso festeggio la vigilia con loro e il venticinque andiamo alle feste a casa di altre persone.>>
<< Ma il Natale lo si passa in famiglia!>>
<< Ma quando a dividerti c'è un mare e un continente non ti puoi inventare chissà ché.>>
Arabelle annuì alla risposta di Jajeck, che evidentemente aveva perso a sasso-carta-forbice e non aveva potuto accompagnare Alexander a prendere quel tea.
<< Come Kat- Rise e Alexander?>> pigolò piano.
<< Bhé, pure noi non è che stiamo messi meglio! Ci siamo conosciuti tutti all'asilo militare sa, quello della Marina. Tutti i nostri genitori ci lavorano.>> sbuffò sedendosi di peso sulla panchina davanti alla loro. << Solo che non tutti sono soldati attivi, ecco, ci sono i dottori, quelli che stanno qui a curare chi torna dalla guerra e quelli che curano i soldati lì dove stanno.>>
<< Tipo la mia mamma.>> S'inserì orgogliosa Arabelle.
<< Si, e poi ci sono quelli che lavorano alla sede della Marina e quelli che guidano gli aerei, il mio papà li fa decollare dalle navi! E ci sono anche quelli che stanno in politica, ma non chiedermi che vuol dire, e chi invece è uno scienziato, un detective o un imprenditore! Ma siamo tutti figli di marinai qui!>> finì il rosso con un gesto vago della mano.
<< Quindi nessuno di voi passa le vacanze con i nonni e gli zii?>>
<< Quasi mai, ci vediamo in altri periodi magari, andiamo da loro l'estate, ma d'inverno c'è la neve e non tutti i voli sono possibili.>> Jajeck si strinse nelle spalle e prese un altro fazzoletto dal pacchetto di Arabelle, porgendoglielo con il suo bellissimo sorriso, che per quando Will potesse essere triste proprio non riusciva a non ricambiarlo.
<< Non devi pensare che il Natale sarà brutto solo perché non è come lo fai sempre, avrai la tua mamma tutta per te, devi essere contento. Sei davvero fortunato.>>
Il biondo abbassò la testa prendendo il fazzolettino e mormorando un grazie impacciato.
<< Però la mamma la vedo sempre, tutti i giorni, è già tutta per me.>> i nonni no, zio Benny che studiava ancora no, neanche zio Eric a New York o zia Laura con il suo negozio di fiori, e zio Jack che lavorava a Chicago e tornava solo per le vacanze.
<< Beato te!>> sbuffò infastidito l'altro ed improvvisamente Will si rese conto che anche Arabelle e Turan avevano uno sguardo sognante.
<< Perché?>> chiese ingenuamente.
<< Perché noi neanche durante l'anno ce li abbiamo tutti per noi i nostri genitori, figuriamoci a Natale che possono stare finalmente a casa e sono stanchi!>>
<< Quando ci stanno a casa per Natale...>> bisbigliò Turan.
<< Pensate che la lettera sia arrivata anche a noi? Quella arrivata al Maniero?>> domandò a bruciapelo la bambina.
<< Quella che dice che la Mayores torna in America ma non si sa quando possono scendere i Marines?>> Jajeck scosse la testa, << Anche se fosse almeno uno dei due voi ce lo avete a casa, i miei sono tutti e due sulla nave!>>
<< Visto Will?>> fece a quel punto Turan cercando di sorridere come aveva fatto prima, << Non sei l'unico che non passerà di sicuro un bel Natale.>>
<< Però se saremo tutti qui ci vedremo durante le vacanze.>>
Jajeck sorrise più speranzoso dell'amico, mentre un Ryan decisamente felice, forse perché era stato affidato a lui il compito di portare la tazza del tea, porgeva la bevanda fumante all'altro biondo.
<< La signora c'ha messo anche la cannella!!>>


Quando la scuola chiuse per le vacanze Natalizie, Will si ritrovò catapultato nello spirito di Natale che credeva non sarebbe riuscito a rievocare a Phoenix. La casa era decorata già da un bel po', ma gli ultimi ritocchi Summer li volle dare per forza assieme al figlio, decisa più che mai a non fargli pensare al mancato ritorno in Texas.
Quello che suo figlio non aveva capito era il nocciolo della questione: Summer sapeva che tutti quei riferimenti più o meno espliciti alla sua ritrovata felicità erano mirati a farle fare pace con il padre, ma la donna aveva deciso che questa volta non avrebbe lasciato il passo all'uomo che l'aveva cresciuta, non si sarebbe neanche dovuta far influenzare da quel folletto biondo che le girava per casa con adorabili cappellini verdi con il pon-pon rosso.
Norman Solace aveva tanti pregi quasi quanti difetti ed il più grande di tutti, secondo ognuno dei suoi cinque figli, era la sua brutale sincerità. Non che fosse completamente un male, ma semplicemente l'uomo non pensava alle conseguenze delle sue parole e non si fermava neanche a rifletterci sopra. Quando le aveva ringhiato per telefono un basso “ Che diamine di gente gli fai frequentare a mio nipote”, inizialmente non aveva afferrato il significato di quelle parole. Avevano litigato per appena venti minuti ma a lei erano sembrate ore, ore in cui, come da piccola, suo padre le parlava sopra e non le faceva dire come la pensava o perché si era comportata in quel modo dall'alto della sua sicurezza di aver ragione.
Oh, ma Summer non era più una bambina, era una donna e soprattutto, era una madre: e mai dire ad una madre come crescere suo figlio.
L'aveva accusata di essere ancora immatura, che non sapeva come crescerlo, che le serviva un aiuto e che era stato un errore partire. Che era stato un grande errore ! Glielo aveva detto lui che aveva sposato sua madre a diciotto anni e che l'aveva spronata a rincorrere il suo sogno! Lui!
No, assolutamente no, Summer non avrebbe sopportato un affronto del genere e gli aveva urlato contro di rimando, urlato di farsi gli affari suoi, che Will era suo figlio e che lei, a differenza del padre, sapeva come ascoltare e aiutare un bambino a crescere felice, senza pregiudizi e false convinzioni. Perché “no Willy, mamma non sa tutto, ma s'informa e poi ti dice, possiamo scoprirlo insieme”, ripeteva sempre lei, e non “ ti dico di si Summer, è così punto e basta, è inutile che lo cerchi, ho ragione io, sono o non sono tuo padre? E i papà hanno sempre ragione”.
Lo aveva visto come avevano ragione! Esattamente come aveva avuto ragione il suo ex nel dirle che la loro storia sarebbe stata magnifica ed eterna.
E si, era stata magnifica, ma di certo, non eterna.
Sia ben chiaro, non rimpiangeva niente. Erano giovani e spensierati, era stato bello e poi era finito, come molte storie nate d'estate, l'inverno aveva freddato i loro rapporti, poi gli impegni, il suo lavoro a Los Angeles, era andata come andavano tanti rapporti tra ragazzi ed era finita con un sorriso, un saluto sincero ed affettuoso, qualche lacrima ed un piccolo raggio di Sole biondo dagli occhi limpidi come il cielo estivo ed il nasino pieno di lentiggini.
Non aveva neanche dovuto pensarci, aveva tenuto quel bambino e lo aveva amato profondamente dal primo momento in cui si era resa conto che c'era. Aveva lottato tanto per lui, per il suo Willy, per dargli una vita fantastica come ogni bambino dovrebbe avere. Non si sarebbe fatta mettere i piedi in testa da nessuno, men che meno suo padre.

<< Mamy, ma la torta va tirata fuori quando la fragola si mette a suonare o dopo che ha finito?>> Summer si voltò verso la fonte di quella vocina acuta e infantile, sorridendo come ogni volta che scorgeva il suo bambino.
<< Ha già suonato? Non me ne ero accorta! Corri Willy, corri! Che se no ci si brucia tutto!>> corse verso il figlio, solleticandogli la pancia e incitandolo a correre verso la cucina, tra le risate ultrasoniche che solo un bimbo riesce a lanciare ed un continuo rimbalzare di pon-pon.
<< Posso toglierla io dal forno?>> le chiese avvicinandosi al vetro illuminato con dei giganteschi guanti color panpepato in mano.
<< No, no, le sai le regole birbantello, puoi avere la prima fetta di torta ma quando non brucerà più, prima la torta non si tocca- >>
<< Per nessun motivo.>> finì la frase Will sbuffando, << Uffa però, quand'è che posso farlo io?>>
<< Quando sarai più grandicello tesoro.>> Dissipò il vapore fuoriuscito dal forno facendosi aria con la mano, mente quel nasino lentigginoso che tanto adorava fiutava l'aria peggio di un segugio.
<< E quand'è?>>
<< Mh, vediamo….>> posò la torta fumante sui fornelli spenti e inspirò a pieni polmoni: dall'odore sembrava proprio buona per fortuna!
<< Dimmi l'età mamma, l'età!>> insistette lui trascinando uno sgabello fin davanti al bancone e arrampicandocisi sopra.
<< Dieci, anzi no, undici anni e ti insegno addirittura a farle da solo le torte!>>
Will rise, << Ma le so già fare! L'aiutavo io nonna, non zio Benny, come diceva sempre, era una bugia! Però zio Eric lo prendeva in giro perché non era buono e così gli ho detto che poteva dire che era lui a fare tutte le cose con nonna, così non gli avrebbero più detto niente!>> le rivelò come se fosse il segreto più importante del mondo.
<< Però non dirlo a zio Eric eh.>>
Si, quello era proprio il suo Will, che aiutava sempre tutti in tutto, che ci provava almeno.
<< Va bene tesoro, manterrò il segreto.>>
I dentini da latte fecero bella mostra di sé davanti alla promessa della mamma, pronti per chiedere anche di poter tagliere la torta, così si sarebbe raffreddata prima, quando il campanello suonò la sua melodia allegra e in tono con la festività.

Impalato davanti alla porta osservava sua madre leggere la lettera rossa che le aveva consegnato il postino.
Una consegna speciale!
La donna lo leggeva attentamente, era scritto in una bella grafia elegante che Will, neanche volendo avrebbe saputo leggere. Il cartoncino era spesso e gli angoli erano decorati con riccioli dorati.

<< Che dice?>> chiese impaziente scalciando le ciabatte con il muso del leone e alzandosi in piedi sul divano, come se così facendo si avvicinasse di più alla risposta.
Summer fece cadere le braccia lungo i fianchi, sorpresa e anche un poco perplessa da quella lettera cosi bizzarra.
Non aveva mai letto nulla di così ufficiale e palesemente dettato da un bambino. Era quasi divertente e se non fosse stato per il contenuto avrebbe riso di cuore a quel buffo abbinamento. << Dice che siamo invitati ad una festa di Natale, Willy, conosci mica una signorina Rise ed un signorino Alexander?>>
Gli occhi del bambino si sgranarono illuminandosi di gioia, contagiandolo tutto e facendo brillare un sorriso raggiante sul suo visino paffuto.
Cacciò un urletto eccitato e si mise a saltare sul divano.

<< Si. A quanto pare li conosci.>> sospirò divertita.


Quando il taxi si era fermato all'indirizzo datogli da Summer, Will aveva tirato un sospiro di sollievo.
Dopo la gioia di vedere i suoi amichetti, infatti, era stato assalito dal panico di dover rivedere anche la nonna, la terribile Madame che, meno di un mese prima, non aveva fatto una piega quando aveva comunicato che si sarebbe trasferito al corso di danza moderna, liquidando la faccenda con un semplice, << Ottima scelta, William. La classica non fa proprio per te, ma è ammirevole la tua volontà di perseverare nella danza. Sono sicura sia un livello più adatto a te.>>
Che in pratica era un “Meno male che te ne sei accorto da solo, fai schifo in questa di danza, fai altro, ma spero che almeno la moderna ti riesca ma non ne sono mica tanto sicura.”
Lo aveva capito lui, figuriamoci sua madre.
Però, no, non avrebbe rivisto quella donna di ghiaccio ed il suo borbottone marito.
Erano sempre in un quartiere residenziale, un piccolo avvallamento vicino alla grande foresta del Maniero, che Ryan gli aveva detto essere tutta di proprietà dei nonni dei gemelli – Wil non voleva pensarci ma se alzava la testa, in cime alla montagna vedeva proprio il gigantesco e spettrale edificio-, tra tante ville sfarzose ve ne era una che sembrava esser stata trapiantata li da mille luoghi diversi. Summer gli disse che la facciata sembrava tanto una villa italiana, di quelle che aveva studiato all'università ad arte e che poi aveva visto di persona durante un estate indimenticabile. Poi però il cancello e le inferriate del muro, intraviste qual ora le siepi non le coprissero, le ricordavano la Francia, così come le lanterne che pendevano dall'entrata. E c'erano dei diavoletti agli angoli della casa, si chiamavano doccioni ed erano smaccatamente gotici.
Che vuol dire “smaccatamente” e “gotico” Will non lo sapeva, ma neanche lo chiese.
E poi il lastricato aveva degli “arabeschi” tipici di Granada.
Insomma, sua madre sembrava molto più emozionata per tutti quei particolari insoliti che per la festa in sé, mentre l'unica cosa su sui Will si concentrò un po' di più fu un rettangolo di pietra attaccato al muro esterno su cui c'era scritto qualcosa.
A prima vista le lettere cominciarono a vorticargli davanti al naso, intrecciandosi e scambiandosi di posto come se gli stessero facendo uno scherzo e non volessero fargli capire cosa riportavano, ma Will era un bimbo abbastanza paziente per la sua età e sapeva di avere una cosa chiamata “dise-dids- dile- dislessia”, che era tipo una cosa come i miopi ma che invece di veder male da… lontano? Vicino? Quel che era, lui vedeva le cose storte.
Però era fortunato: chi portava gli occhiali non ci vedeva bene senza e la cosa non passava mai, a lui invece bastava aspettare un attimo e concentrarsi per leggere bene una parola, e quella che c'era scritta sul rettangolo era chiaramente un…?
<< Mamma che vuol dire “Villa Clara”? E' Spagnolo? Come quello che parla la zia?>> domandò tirando leggermente la mano della donna che era rimasta incantata a fissare una fontana, “E' la perfetta riproduzione in miniatura della fontana della Barcaccia!”, e continuava a guardarsi attorno stupefatta.
<< Come dici tesoro? Si, in spagnolo vuol dire “chiara”.>>
Quella risposta lo soddisfò a pieno, in effetti quella villa aveva tutti i muri chiari, era proprio un nome azzeccato.

Ad attenderli sulla porta stava un uomo di certo più giovane del nonno, ma non avrebbe saputo dire di quanto. Aveva i capelli grigi pettinati all'indietro, ma non lucidi di gel come erano i suoi quando glieli pettinava così sua madre. Portava un completo nero, come i quello dei maggiordomi che vedeva nei film o che aveva visto al Maniero e solo dopo aver sorriso al suo volto rilassato, Will lo riconobbe come Il Maggiordomo, quello personale del Colonnello.
Allora c'erano o non c'erano anche loro?
Albert sciolse le mani da dietro alla schiena e si produsse in un piccolo inchino, salutando rispettosamente Summer e poi, cosa che lo lasciò perplesso, posando a lui una mano guantata di bianco sulla testolina coperta dal cappello di lana.
<< Buona sera Madmoiselle e buona sera anche a te Will, spero abbiate fatto buon viaggio.>>
Will?! Lo aveva chiamato Will? Ma di solito chiamava tutti “signorino” o “signorina”!!
<< Prego, vogliate seguirmi e darmi i soprabiti?>>
La donna lo seguì piacevolmente sorpresa da quell'accoglienza, di certo ignorando i pensieri di Will che cominciò a capirci qualcosa solo quando un grido acuto arrivò loro da una sala subito dopo l'anticamera.
In quella casa addobbata con gusto ed eleganza ogni elemento sapeva di famigliarità. Dalle foto agli oggetti, più disparati e sicuramente riportati da tanti viaggi; c'erano i segni di una sbeccatura sullo stipite della porta e un lungo graffio da ruota dello skait sul parquet mogano, coperta in parte da un tappeto peloso bianco come la neve, ma con una macchia perfettamente rotonda e color caffè-latte su di un angolo.
La musica natalizia avvolgeva l'intero ambiente e il vociare allegro degli invitati era sovrastato ogni tanto da urletti acuti e divertiti.
Albert li condusse in un ampia sala dove tutta l'attenzione si spostò subito su di loro.
Al centro della sala troneggiava un divano grande e dall'aria comoda, davanti un tappeto molto più raffinato di quello dell'entrata e simile a quelli che aveva visto al Maniero, il camino più grande che avesse mai visto scoppiettava allegro, decorato con ghirlande e calze, una marea di calze. Mobili, quadri e piante si alternavano dell'ambiente, con mensole piene di cimeli e librerie trasbordanti di libri e film. L'albero di Natale era spostato in un angolo, ingombrante e tracotante palle, stelle e ninnoli di ogni genere, anche qualche dolce individuò subito Will.
Su dei tavoli coperti da tovaglie rosse erano poggiati vassoi argentati, ciotole di vetro colorato e caraffe piene di diversi liquidi, alcuni persino fumanti, mentre bicchieri di cristallo fregiato risplendevano alla luce delle mille luminarie appese a ogni cosa disponibile.
Non fece in tempo a dire una parola che un fulmine rosso-giallo, in perfetto stile natalizio, lo travolse mandandolo quasi con il sedere a terra.
Ryan e Jajeck lo abbracciarono forte, gridando felici di vederlo lì, che lo sapevano che sarebbe arrivato, che non poteva mancare.
Erano vestiti a festa, proprio come lo era lui, tutti e tre con la camicia, se non fosse per il fatto che il piccolo Royale l'aveva in tinta con i capelli e l'altro di un azzurro ghiaccio candido.
Subito dopo arrivò di gran corsa Turan, che salutò prima sua madre, porgendole addirittura la mano come fanno i grandi e presentandosi, per poi abbracciarlo come gli amici. Arabelle era vestita in un delizioso abito argentato ed era tutta impegnata a sgridare i primi due per non aver prestato attenzione alla “Signora Solace”, che si erano comportati dai maleducati che erano.
Andrew gli si avvicinò sorridendo timidamente, sembrava un bambolotto con il golfino prugna e i pantaloni marrone chiaro, gli mancava solo il cappellino e sarebbe stato la perfetta replica vivente di una delle bambolo di porcellana da collezione di sua zia Glenda.

<< Piacere di conoscerla Signorina, sono Marcus Lancer, il padre di Ryan.>> L'attenzione di Will passò immediatamente a quell'uomo alto e robusto che stava stringendo la mano della sua mamma. Aveva lo stesso volto del figlio, solo più vecchio, il naso pronunciato e la mascella squadrata perfettamente sbarbata. I capelli erano di un biondo più candido di quello di Ryan e se ne stavano gonfi e perfetti al loro posto. Solo gli occhi erano completamente diversi, di una calda sfumatura marrone, ma quelli della donna che lo raggiunse, una signora con un'elegante acconciatura che raccoglieva i capelli castani ed il volto pieno che, Will c'avrebbe scommesso, era anche tanto serio quando voleva proprio come una maestra, aveva gli occhi dello stesso bel colore di Ryan.
Dopo di loro si presentarono una signora di colore dall'aria sveglia ed attenta, la mamma di Turan ed un uomo dagli occhi un poco calanti e l'espressione serena, il papà di Andrew.
Ma tra tutte quelle persone non c'erano i padroni di casa, e non appena Will chiese di loro una voce nuova si aggiunse al chiacchiericcio:

<< Sono di sopra al telefono con il nonno, ma non preoccuparti, tra poco scendono.>>
Quella che aveva davanti era di certo la donna più bella del mondo: Alta più della sua mamma, se fosse stato un po' più grande avrebbe notato anche che aveva un fisico asciutto ma dalle curve morbide, fasciata da un vestito color smeraldo, con i capelli lunghi e neri che le scendevano sulla schiena fluenti ed incorniciavano un ovale perfetto, da quadro. Ma più della pelle candida, delle labbra rosse come quelle delle modelle e del sorriso dolce che gli regalò, quello che lo colpì furono gli occhi, grandi e felini e soprattutto verdi come ne aveva visti solo su di un'altra persona.
Quella era sicuramente la mamma dei gemelli.

L'accoglienza era stata particolarmente piacevole, Will non l'avrebbe mai creduto possibile, ma quando poi erano scesi anche gli altri, Alexander nel suo completo blu e Rise in un abitino di raso rosso, si era reso conto che qualcosa non quadrava.
Providenc era in tutto e per tutto simile al figlio, dai capelli agli occhi, nei modi delicati, negli sguardi attenti che tutto carpivano ma che risultavano sempre estremamente naturali.
Rise non le somigliava per niente invece e il bambino arrivò alla conclusione che dovesse essere identica al padre, che con tutta probabilità era l'uomo nelle foto sulla mensola del camino, un gigante dai capelli castano mogano proprio come la bambina, gli occhi dolci ed un sorrido smagliante, solo che vicino all'uomo c'era anche una donna dai capelli ricci e neri. Ora, Will sapeva che le donne si acconciavano i capelli in tanti modi diversi, anche la nonna si faceva la permacosa per farsi tutti i capelli ricci e si riempiva la testa di bidonini, quindi, magari, la signora Providence si era fatta la perma-quella e per un po' aveva avuto i capelli ricci ricci, ma poi si era accorto anche che gli occhi della donna in foto erano blu, di un meraviglioso blu, nulla da discutere, bello intenso e brillante, ma nulla a che vedere con il verde accecante degli occhi della mamma dei gemelli.
Aveva così posto il suo quesito a Rise e la bambina, stringendosi nelle spalle, gli aveva risposto con ovvietà:
<< Quelli nelle foto sono mia madre e mio padre. Zia Vivì è la mamma di Alexander.>>

Momento.

<< Ma non è possibile!>> Aveva gracchiato con voce acuta, << Non potete avere due mamme, ogni mamma ha i suoi figli e i gemelli li può avere una sola!>> Discorso pienamente sensato e giusto.
<< Si, ma io e Alexander non siamo davvero gemelli.>>

Pausa.

<< COSA?!>> questa volta si girarono tutti a guardarlo e Rise lo rimproverò con un'occhiataccia degna della nonna.
<< Che succede Willy?>> chiese sua madre accigliata, venendo però prontamente ignorata, << Ma hai detto che è tuo fratello! Lo dite sempre! Tutti chiedono dove sono “i gemelli” quando parlano di voi!>> no, no e poi no, non aveva senso, non potevano essere gemelli, mica la cicogna portava due gemelli a mamme diverse, nossignore! I gemelli vanno dati alla stessa mamma se no non sono più gemelli.
<< Posso spiegartelo io se vuoi.>>
La voce calda e calma della donna lo attirò come il canto di una sirena e Will si ritrovò a guardarla incantato, quasi ipnotizzato dallo charme di Providence.
<< Io e la mamma di Rise siamo, come posso dirti, sorelle acquisite. Siamo cresciute insieme e dato che siamo figlie uniche abbiamo trovato nell'altra una sorella vera e propria, e a volte Will, un amico è ciò di più caro e buono che possiamo trovare, non credi?>> spiegava le cose con calma, facendogli capire ogni passaggio ma senza trattarlo come un bambino piccolo, gli piaceva quella signora e le annuì attento, mente gli altri adulti guardavano divertiti la scena senza aprire bocca. << Abbiamo un rapporto così stretto, io e Tory, la mamma di Rise, che i nostri bambini sono nati, pensa un po' a dieci ore di distanza, prima Rise e poi Alex.
Così anche loro sono cresciuti insieme, hanno festeggiato sempre il compleanno assieme e la gente li scambiava per gemelli, alla fine lo sono diventati veramente, non sembra anche a te che lo siano?>>
Will guardò i due bambini che sorridevano divertiti alla sua faccetta scioccata, come se avessero mantenuto il segreto per tutto il tempo solo per fargli uno scherzo.
Ma in effetti, Rise e Alexander avevano cognomi diversi quando la maestra li chiamava, come aveva fatto a non pensarci?
Però erano anche perfettamente coordinati in tutto, in ogni parola e ogni azione, proprio come...gemelli.
<< Oh, direi proprio di si signora.>>

Dopo i “gemelli” aveva passato mezzora a farsi assicurare che tutte le altre parentele che gli erano state dette, o non dette, fossero vere. Tra le risate generali Jajeck aveva confessato di essere fratello di Turan ma di essere più chiaro perché da piccolo era rimasto chiuso nella lavatrice e solo Andrew si era preoccupato di dirgli che, no, non ci si schiarisce se cadi nella lavatrice e no, Jajeck non ci era caduto dentro come non aveva nessun legame di sangue con Turan.
La cena alla tavolata lunga e imbandita a festa, dove Rise occupava il posto a capotavola e tutti parlavano e si divertivano, abbuffandosi di quella o l'altra pietanza, quella tutta ricoperta da quella crema arancione era un piatto francese e quella tutta lucida era Inglese, ma c'erano anche delle portate italiane ed una bevanda solo per gli adulti direttamente importata dalla “Madre Russia”. Le posate luccicanti tintinnavano senza posa, riflettendo le facce buffe che i bambini facevano al cucchiaio come i piatti riflettevano i colori dei cibi, delle luminarie e delle brocche colorate. I fregi dei bicchieri incastravano la luce in ogni loro angolo levigato e lucido, suonando delicati ora, acuti dopo, al passaggio di un ditino umido sul bordo arrotondato.
Era una festa, era piena di persone, ma non erano troppe, come i crackers, che scoppiavano in una pioggia di brillantini e coriandoli ma non facevano troppo rumore. L'invasione dei frammenti di carta e delle pagliuzze di plastica metallizzata avanzava sulla tavolata, cadendo su qualche vassoio e scatenando le risa dei bambini che trovavano tutto ancora più natalizio.
Non era la sua famiglia, questo Will lo sapeva e lo distingueva chiaramente, eppure un senso di calore gli si allargò per tutto il petto, partendo dalla pancia e correndo in ogni dove: era felice, come non lo era da tanto in quel freddo mese che era stato Dicembre.
Ancora una volta Babbo Natale aveva fatto la sua magia e gli aveva regalato proprio un bianco e dolce Natale.

I grandi erano seduti tutti sul divano davanti al camino, mentre i bambini correvano per il salone, salivano di corsa le scale verso il piano superiore e si fiondavano nella cameretta di Rise, tutta sui toni dell'azzurro e del celeste, ma comunque straordinariamente calda e accogliente. Eppure la sua proprietaria non si muoveva dal suo voluminoso letto a baldacchino, un letto grandissimo come quello della sua mamma. Will non sapeva perché era così enorme, Rise ci sarebbe stata cento volte li dentro, magari ci dormiva pure Alexander, Alex, come lo chiamava la signora Providence, ma rimaneva comunque enorme.
A guardarla bene sembrava addirittura triste, con i piedini bianchi fasciati dalle calze poggiati sul bordo del letto, le ginocchia al petto e la testolina reclinata su di esse. Era pensierosa, questo lo si capiva, eppure ciò che Will non capiva era il motivo. La festa era bellissima, lei era di nuovo a casa sua dopo tanto che stava dai nonni al Maniero, Providence aveva convinto i due coniugi a lasciare li la nipotina con lei e tutto era fantastico. Cosa c'era di brutto da farle fare quella faccia?

<< Sembra che ti abbiano obbligato a mangiare un carciofo.>> esordì complimentandosi per la battuta intelligente con se stesso.
Ma Rise a mala pena la colse, neanche lo guardò.
Pensò che forse la bambina non lo aveva sentito e fece per riaprire bocca, che lei lo fermò:
<< Si dice “sembra che tu abbia appena mangiato un limone” non un carciofo.>> lo rimbeccò senza molto entusiasmo ma Will se ne rallegrò: se lo riprendeva non stava poi così male.
<< A me i carciofi fanno schifo.>> sentenziò sedendoglisi di fianco.
<< Non si dice...>
<< Ma è vero! E a te cosa fa così schifo da farti fare quella faccia?>>
La bambina abbassò per un attimo lo sguardo, fissandosi le punte dei piedi, poi lo spostò sulle scarpine rosse lucide a terra.
<< Ti manca il tuo Natale Will?>> gli chiese a bassa voce, come se si stessero scambiando dei segreti.
Il biondino ci rifletté sopra per un minuto, il suo Natale? In che senso? Parlava forse di quello che festeggiava con la sua famiglia in Texas?
<< Bhé, al ranch è tutto un po' diverso. Nonna cucina tantissimo insieme a zia Laura, la sorella di mamma, che le ripete sempre che è tutto troppo “grasso”, che invece è tutto buono, te lo assicuro, anche con il grasso. Lo sai che quello della papera si chiama paté?- >>
<< Quello è il fegato dell'oca, non il grasso.>>
<< Uhg! Non lo mangerò mai più in vita mia allora! Nonna lo mette sempre nel pollo! Che schifo! Per fortuna che anche le altre zie portano qualcosa da mangiare. Devo chiedere a mamma dove ci mettono il fegato dell'oca. Che poi, poverina, come fa senza fegato?>> continuò preoccupato per la vita della povera ochetta.
Rise alzò un sopracciglio e si limitò a sospirare uno scettico “davvero?” che Will ignorò, andando avanti con il suo mezzo monologo.
<< E non ci sono così tante luci, ci abbiamo provato una volta ma zio Eric, un altro fratello di mamma, e si, lo so, sono tantissimi, non dirlo a me, quando ha collegato tutte le spine ha fatto andare via la luce da tutto il ranch. Quel Natale lo abbiamo passato con le candele!>>
<< Romantico...> buttò lì sarcastica, già annoiata da quel discorso.
<< Si! Lo ha detto anche zio Jack! E lo ha detto proprio come te! Con la stessa voce! Certo, non avete la stessa stessa voce, lui ce l'ha da maschio, da vero uomo, e tu no. Non che hai una brutta voce, ce l'hai da bambina femmina.>>
<< Rincuorante.>>
<< Rin- che? Vabbé, te lo devo far conoscere lo zio Jack, gli piaceresti e lui piacerebbe a te! Comunque, il Natale è bello anche qui a casa tua, certo, ci sono tante persone in più in Texas, ma questo perché li c'è sempre tutta la famiglia e invece qui non ci sono i nonni di nessuno e anche tanti genitori, poi a te Jajeck e Arabelle non ci stanno nessuno dei due, quindi siete ancora meno.>> Rise sospirò e Will capì di aver fatto centro.
<< Ti mancano tua mamma e tuo papà?>> le chiese allora titubante, con la paura di farla diventare ancora più triste e farla piangere.
Ma poi si ricordò che Katrina non piangeva mai e se per un attimo gli venne il dubbio che, magari, Rise invece piangesse, si ricredette subito; il suo sguardo si fece cupo, strinse le labbrette forte ma non una sola lacrima le rese gli occhi lucidi.
<< Aveva ragione nonna, non li hanno fatti scendere. Stanno in quarantena perché un sottufficiale ha la febbre alta e non sanno se l'ha passata anche agli altri. Ci sono anche i genitori di Jajeck sopra, e pure la mamma di Arabelle. Siamo tutti soli noi tre, questo Natale.>>
Il biondino si sgonfiò come un palloncino, lasciando cadere le spalle e curvando un poco la schiena. Come si faceva a consolare una bambina che non poteva vedere la mamma e il papà per le feste? Era orribile, lui non avrebbe mai passato un bel Natale senza Summer.
<< Tanto valeva che andassi in Inghilterra con i nonni.>> fu solo un sospiro ma Will lo captò subito e scattò in piedi talmente velocemente da sorprendere la bambina.
<< E no Rise, questo no!>> disse sicuro ad alta voce, aggrottò le sopracciglia e arricciò il naso, stringendo le labbra fino a farle sparire; posizionò i pugni sui fianchi e la guardò con il cipiglio che sarebbe diventato “la-faccia-da-ramanzina-di- Willy”.
<< Non devi dire così! Se fossi andata in vacanza con tua nonna non ti saresti mai divertita, non avresti passato il Natale con noi! Sarebbe stato brutto, noioso e barboso, e poi l'Inghilterra è sempre grigia e piove ogni giorno, me lo ha detto mio zio Eric che c'è andato in Inghilterra, proprio a Londra poi, che secondo lui è la più grigia delle città grigie perché c'è pure tanto smog!>>
Rise lo guardò sorpresa da tanta veemenza, poi assottigliò lo sguardo scrutandolo con fare indagatore,
<< Non ho mai detto che sarei andata a Londra. Come hai fatto a venirne a conoscenza?>>
Tutto lo slancio di prima si sgonfiò in un rossore imbarazzato, acuito dai termini da grande che Rise usava sempre quando doveva farti una domanda che ti avrebbe fregato o doveva spiegarti una cosa per lei ovvia.
<< Uhm...>>
<< William?>> alzò un sopracciglio, uno solo, Will non lo sapeva fare, magari poteva chiedergli di insegnarglielo.
<< Come fa a far- >>
<< Come fai Tu, a sapere dove dovevo andare.>>
<< Lo hai detto tu?>>
<< Nooo.>> strascicò la o abbassando le gambe e poggiando le mani sul materasso.
<< Lo ha detto Alexander?>> tentò di nuovo.
<< Nooo...>> si alzò in piedi, svettando su di lui di buoni dieci centimetri, proprio come Turan. << Ma perché tu e Turan siete così altri? Sembrate bambini di dieci anni.>>
<< William… >>
<< Oooh, okay! Forse...>> deglutì, << Potrei, per sbaglio, senza volerlo ovviamente, non l'ho fatto apposta e non volevo, ci sono capitato, come dice sempre Alexander? Casul- cusa- casul- >>
<< Casualità di cosa?>>
<< Io ho…. sentitoteeMadamelitigareallascuoladidanzaquandotihadettochedovevateandareinvacanzainInghilterraetunonvoleviperchévoleviaspettaretuamammaetutopapà.>> Lo disse tutto d'un fiato e poi si sarebbe volentieri stampato una mano in faccia come faceva sempre la sua amichetta quando gli altri facevano una cavolata, perché sicuramente Rise non doveva averci capito nulla e lui sarebbe stato costretto a ripetere tutto, con più calma e con la possibilità di prendersi uno schiaffo in testa per ogni parola.
<< Hai sentito me e nonna litigare?>>
No! Rise aveva capito, si! Però… cos'era quella faccia?
<< Si, però non l'ho fatto apposta. >> si difese immediatamente scrutandola accigliato.
La bambina si lasciò cadere di nuovo sul letto, questa volta abbandonandocisi sopra e allargando le braccia sul piumone candido.
<< Non l'ho fatto apposta per davvero Rise, non è così grave, non lo dico a nessuno.>> le si sedette affianco e le posò una manina sulla gamba, come se volesse farle capire che era lì.
Non sapeva il perché di questo bisogno, eppure era così forte, proprio come quando qualcuno piangeva e tu lo abbracciavi o gli mettevi una mano sulla spalla, per dargli forza.
Forse Rise si vergognava di essersi fatta sgridare davanti a lui, la nonna le aveva dato uno schiaffo e ora, magari, aveva paura che Will lo andasse a dire in giro.
<< Su, Risie, non è niente. Non mi importa che Madame ti abbia sgridato...>> Era sincero, davvero non gliene fregava niente e la bambina annuì, senza guardarlo in faccia.
<< Sei stata tanto coraggiosa a dirle quelle cose, io non sarei mai riuscito a farlo, neanche con la mia di nonna o con mamma, figuriamoci con una come Madame!>> Questa volta provò a sorriderle, scalciò via le scarpe e si mise a gambe incrociate vicino a lei, carezzandole incerto il braccio.
Aveva lo sguardo perso, fisso in un punto indefinito del muro o forse del baldacchino, e quando Will alzò la testa per vedere cosa ci fosse di tanto interessante, individuò al primo colpo la foto di due signori: lui grande ed imponente, un gigante come nei film, con i capelli castano-rossicci come quelli di Rise e un sorriso rilassato che mitigava un poco il suo volto severo; stringeva in un abbraccio una donna piccolina, con una gigantesca massa di ricci e gli occhi blu. Erano indubbiamente la mamma ed il papà di Rise, quelli che aveva visto anche nelle altre foto, solo che in questa c'era anche qualcun altro: per quanto i suoi occhi avessero riconosciuto immediatamente l'amica, il suo cervello ci mise un po' a metabolizzare l'immagine di Rise con la faccia sporca di cioccolato, i capelli legati in una coda storta, la maglia a maniche corte troppo grande per lei, decisamente da football americano che la copriva fino alle ginocchia, con un calzino ancora su e l'altro ammucchiato sulla caviglia e le scarpe da ginnastica sporche e logore. Teneva in mano la palla ovale, felice come non mai tra l'abbraccio dei due.
Come un flash, Will pensò che Madame non doveva essere per niente felice quel giorno.
<< Mi mancano mamma e papà.>> confidò sussurrando di nuovo. << Quando ci sono loro qui va tutto meglio, non devo fare quello che mi dice nonna, o per lo meno solo cose come “sta dritta con la schiena” e “ mangia a bocca chiusa”, ste' cose qui.>> l'accento che il bambino aveva sentito alla sua prima visita al Maniero riuscì fuori con naturalezza e si fece anche più marcato, come quello che Will sentiva negli altri abitanti della città, quello era decisamente il dialetto della Valley.
<< Papà mi porta a vedere gli Arizona Cardinals, anche se non vincono da tipo una vita, dice che sono comunque una grande squadra e che sono quella di casa. Mamma invece dice che prima o poi mi porta a vedere i Red Sox, che è meglio il baseball, ma non lo posso dire a nonna, perché poi lei si arrabbia perché non è da signorine e litiga con mamma, poi si arrabbia pure lei e finisce che la manda a quel paese e non si sentono per giorni.>>
<< E non è un bene?>>
<< No se io sono al Maniero e non mi fanno telefonare né a lei né a papà.>>
Per un secondo il silenzio li avvolse e Will si chiese dove fossero finiti gli altri, poi si concentrò di nuovo su Rise.
<< Ma la tua mamma non può dire niente a Madame? Non le può dire di farti fare quello che vuoi?>>
Il verso di scherno che sputò fuori la bambina gli ricordò terribilmente quello della nonna.
<< Mamma ci prova, ma quando non c'è non può fare niente. Però lo sa, non è che le nascondo le cose, e poi non ce n'è bisogno, nonna si comportava così anche con mamma, solo che lì c'era nonno che un po' la frenava.>>
<< E perché non lo fa anche con te?>>
<< Perché nonna non vuole che “devii” anche me. Secondo lei mia madre è entrata nella Marina solo per colpa di nonno. Invece c'è letteralmente scappata per star lontano da lei.>> sospirò e si tirò a sedere, << Mamma non voleva diventare come la sua di madre, non fa per lei. Anche se è tanto brava con le parole ed è educata, è più da azione, non da tea delle cinque e balli di gala.>> fece una smorfia buffa e scosse la testolina, facendo ondeggiare tutti quei capelli portati per una volta sciolti. << Tu invece no?>> le chiese Will guardandola bene. << Insomma, non è che mi sembri tanto come tua nonna. Però sei brava e gentile, la maestra dice che sei posata, ma non so cosa vuol dire.>>
<< Un modo per dire delicata, tsk.>>
<< Perché fai così?>>
<< Perché mi sono rotta e non ce la faccio più.>> alzò di colpo la voce, l'accento stridente se paragonato al perfetto e fluente americano che parlava ogni giorno.
<< Lo sai che non ho mai letto un libro che ho scelto da sola? Me lo dice nonna cosa devo leggere e devo farlo per forza, e tu non lo sai quanto è brutto Anna Karenina! E' palloso e pesante e secondo zia Vivì non dovrei leggerlo alla mia età, sono mesi che cerco di finirlo! Ci sono cose brutte dentro che neanche riesco a capire e nonna se le chiedo qualcosa dice che sono infantile e che devo ragionare. Ma ti pare a te!>> batté con forza i pugni sul letto, sobbalzando leggermente, infervorata da una cascata di emozioni che si era tenuta dentro fino a quel momento.
Come ci si poteva aspettare che una bambina di sei anni facesse tutte quelle cose?
<< E devo suonare il violino, e devo suonare il pianoforte, devo prendere lezioni di canto e pure di ballo di coppia, oltre che fare la classica, perché secondo lei son “un ippopotamo”! Non è colpa mia se sembro più grande, se sono più grande ecco! Solo perché sono alta mica posso farci niente.>>
<< E no, non penso proprio che ti puoi accorciare...>>
<< Esatto!>> Esclamò contenta che qualcuno le desse retta, finendo per sgonfiarsi lentamente. << Non è bello dover sempre fare quello che ti dicono gli altri. Io vorrei solo...>>
Will le prese la mano, sorridendole incoraggiante tentando di infondergli un po' di coraggio, di felicità.
Perché se ne era accorto: Rise viveva in una gabbia dorata, nei palazzi più belli che avesse mai visto; aveva i vestiti più eleganti e le movenze di una dama, la dizione di una principessa e la fredda rigidità di chi non era felice. Tra mille lussi e agiatezze, Rise non aveva neanche la metà del calore umano che aveva lui, della famiglia. Perché sebbene la sua fosse in un altro Stato Will sapeva dove trovarli, che bastava alzare il telefono e sentirli. Rise non poteva farlo, i suoi erano in giro per il mondo a salvare le persone, ed era tanto bello, ma non stavano mai con lei. Anche se lei aveva un papà, a differenza sua, era praticamente come se non lo avesse, come se non avesse neanche una mamma.
La gente è ricca in modi diversi, Willy” gli aveva detto una volta zio Jacke, quello più serio tra tutti ma anche il più “impulsivo” diceva nonna. In quel momento Will capiva a pieno le parole dello zio.
Con uno slancio di puro affetto tirò la mano della bambina e l'avvicinò a sé, stringendola forte in un abbraccio caldo che voleva dire che lui c'era, anche se si conoscevano a mala pena da cinque mesi, che alla bambina piacesse o meno, ora anche lei faceva parte della sua famiglia.

<< Puoi avere tutto quello che vuoi, se lo vuoi veramente.>> le disse sicuro, anche se improvvisamente gli veniva da piangere, empatizzando completamente i sentimenti dell'amica. << Me lo dice sempre nonno, lo dice sempre a tutti.>> tirò su con il nasino e si disse che anche lui avrebbe seguito quel consiglio, che era troppo triste vedere sua madre e suo nonno divisi, ricordando le grida del litigio che fuoriuscivano dal ricevitore e gli facevano venir ancora di più voglia di piangere.
<< Io voglio solo fare quello che mi pare, come fanno tutti i bambini, senza che mi preoccupo di quello che dicono i grandi o che dice nonna.>> anche i suoi discorsi filavano con meno senso grammaticale del solito, che uniti al ritrovato accento gli presentarono per la prima volta la vera e propria Rise, la bambina di sei anni che era in realtà.
<< Allora fallo!>> l'allontanò un poco per guardarla in faccia e sorriderle. Aveva gli occhi lucidi ma non piangeva, no, Rise non piange mai, è una tosta.
<< E come? E poi mia nonna dice che nessuno la vuole una bambina maleducata, che non posso fare come mi pare.>> piagnucolò.
<< Ma a me piaci tanto anche se sei normale! Mi diverte tanto quando fai quella cosa che fa ridere sempre Jajeck!>>
Ora lo guardava perplessa, << Il sarcasmo Will?>> glielo chiese come se si aspettasse una risposta tipo “ ma no dai, scherzavo”. Cosa che non ebbe.
<< Certo! E' divertente! E poi con me puoi fare quello che vuoi!>> Lo disse davvero sicuro di sé, delle sue parole e lo fu, solo un tantinello di meno, quando la bambina gli diede un pugno sulla spalla.
<< Ahio!>> lo sguardo sconvolto del biondino fece ridacchiare l'altra.
<< Che vuoi farci Riccioli d'oro? Sono così io.>>
<< Picchi la gente?!>> chiese massaggiandosi la spalla: cacchio se non gli aveva dato un pugno fortissimo, faceva un male cane!
<< Nonna mi rimprovera sempre perché sono troppo manesca.>> si strinse nelle spalle ma lo guardò con un'espressione tesa, incerta sull'aver fatto la mossa giusta, terrorizzata che Will potesse mettersi a piangere e dirle che non le piaceva più, che preferiva l'altra Rise.
<< Si, però picchia più piano.>> borbottò vedendo un sorriso raggiante spuntare sul volto colorito. Si Will, era decisamente la cosa giusta da dirle.
<< Vale anche per te però.>> lo richiamò la bambina, << Con me devi essere come vuoi te, non ti giudicherò mai.>> Si batté un pugno sul cuore e lo fissò seria: era importante quella cosa, che nessuno dei due avesse paura dell'altro, che fossero amici sinceri.
<< Vuol dire che mi dai un voto come fa la maestra?>>
<< E questo mo' che c'entra!?>>
<< Hai detto che giudichi...>>
<< Non ti giudicherò, scemo!>>
<< Ehi! Mi stai dando troppi pugni oggi!>>
<< Abituatici!>>
<< Ma è Natale! A Natale siamo tutti più buoni.>>
<< Vero, quindi immaginati come sono normalmente.>>
<< Ah...>>
Scoppiarono a ridere felici come solo i bambini possono esserlo dopo aver affrontato un discorso che avrebbe portato riflessioni e tormenti per giorni e giorni, ad un adulto.
I problemi si risolvono con semplicità ed un pizzico di sincerità, con una fiducia smisurata verso chi ci sta ascoltando, verso chi ci parla, con la serenità e l'ingenua ma altrettanto spietata verità che i bambini hanno, che perderanno crescendo, quando capiranno cosa significhi rischiare di ferire i sentimenti altrui.

<< Anche io!>>
Si voltarono di scatto vero la porta, per vedere Jajeck spiccare al suo centro, ai lati le faccette mortificate di Turan e Andrew per essere stati scoperti, quelle sconsolata di Arabelle che non poteva crederci che si erano fatti beccare così, quella convinta di Ryan e quella tranquilla e consapevole di Alexander.
Erano stati lì per tutto il tempo, ad attendere che il piccolo Riccioli d'oro riuscisse in qualcosa in cui loro avevano fallito, da cui solo Alexander era uscito vincitore, ma che da quel momento in poi sarebbe fuoriuscito dall'intimità della villa o delle stanza private del Maniero.
<< Anche io ci sto!>> Saltò fuori il biondo affiancando l'amico. Poco dopo tutti erano entrati in camera e si arrampicavano sul letto, proclamandosi “d'accordissimi” con Will e Rise.
Niente più finti bambini per bene. Da quel momento in poi nessuno si sarebbe vergognato di niente, niente più bugie e i segreti erano di tutti, erano una squadra loro!
<< Sono affari di famiglia adesso.>> Aveva squittito Andrew senza balbettare e Will non poteva esserne più felice.
Quei sette bambini continuavano a far chiasso e a decidere regole su regole, cosa non andasse fatto, cosa si, che solo loro avrebbero saputo. Dovevano farci un quaderno, tipo un diario, - “ Uhg! Fa così femmina! Così club segreto!”-, va bene, una guida allora, dove avrebbero scritto tutto tutto tutto quello che era importante, ogni cosa, tutti quanti.
Ma per Will, il chiasso, era di casa, ed in quel momento era proprio così che si sentiva: a Casa.

Decisamente, l'Arizona non era per niente male.



[ F I N E S E C O N D A P A R T E ]

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Capitolo 3
*** Terza Parte ***




C O U N T R Y R O A D


Terza Parte.

[Gennaio]




Le giornate invernali erano diventate piacevoli e improvvisamente calde. Certo, non era il caldo vero e proprio, quello cocente della Valley che Will aveva imparato a conoscere quell'estate, ma era comunque estremamente piacevole, stretto in cappottini eleganti e giubbotti imbottiti, in sciarpe colorate e paraorecchie pelosi.
Avevano comprato un quadernone gigante, rilegato con una stoffa robusta e nera, così da sembrare proprio una guida seria, come quelle vere. Un proposito andato completamente a farsi benedire quando i bambini avevano cominciato ad attaccarci su toppe: il primo era stato Ryan, che aveva mostrato a tutti, felice, lo stemma della sua prima vera squadra di basket e, chiamato Albert con un ferro da stiro in mano, aveva chiesto all'uomo di attaccare la toppa sul quaderno.
Meraviglia delle meraviglie! Era bellissimo! Ora sul retro del quaderno, dritto al centro, spiccava il pallone arancione delle Phoenix basket squad e fu subito gara a chi trovasse per primo la prossima toppa da attaccarci su.
Un giorno come un altro il simbolo di Lione, la città preferita di Turan, era apparso sull'angolo alto della copertina; il bambino aveva deciso che un giorno sarebbero andati tutti in vacanza lì, che quella sarebbe stata la loro prima meta.

Will lo raccontò a sua madre, anche se non le disse dove stava quella toppa, ma semplicemente che l'amico gliene aveva parlato e voleva che ci andassero tutti insieme, non poteva certo rivelarle l'esistenza della “Guida Nera” - Oddio! Faceva così figo!- certo che no.
Sua zia Laura c'era andata in Francia e se non si sbagliava anche la mamma, ma non avevano visto Lione, solo Parigi, uno spettacolo diceva la donna, un vero spettacolo:
<< C'andammo un estate solo io, Laura, Benny, mamma e papà! I ragazzi erano già al college e non potevano allontanarsi nel bel mezzo delle lezioni, anche se ci fermammo poco, una settimana, ma fu una cosa magica Willy.>>
Il bambino sgranò gli occhi sorpreso, << E siete riuscite a far salire nonno su una aereo? Ma lui odia volare!>>
Summer rise divertita, annuendo per dargli ragione e girandosi verso di lui, asciugandosi le mani umide.
<< Vero, ma io e Laura abbiamo sempre desiderato visitare Parigi, era il nostro sogno e papà ha- >> Si bloccò un attimo con sguardo perso, rammentando quel giorno e lo stupore che, identico a quello del figlio, si era aperto su quello suo e di sua sorella alla notizia che avrebbero preso l'aereo, tutti e cinque.
Sospirò, << Papà lo ha fatto solo per noi, ha messo da parte la sua paura e si è buttato, per farci felici. >> Lo disse con amarezza, come se capisse appieno ciò che significasse, come se si stesse domandando se suo padre non lo avesse dimenticato, il desiderio di rendere felici i suoi figli, sopra tutto e tutti, contro ogni suo timore.
<< Nonno è uno tosto, mamy, come gli zii, anche se zio Benny è un po' un fifone. Nonna dice che è così perché è l'ultimo e quindi lo avete sempre difeso un po' troppo.>>
Annuì di nuovo senza però spostare lo sguardo dal vuoto, accettò un sorriso e si voltò di nuovo, continuando a cucinare.
<< Cominceresti ad apparecchiare Will? Così finisco qui, io.>>


[Febbraio]



Una stella di bronzo luccicava ad ogni minimo movimento, catturando la luce che gli si proiettava contro e che lei spingeva sui raggi che dietro di sé facevano la ruota come un pavone, orgogliosi delle loro sfumature oro e rosse, colorando di leggeri riflessi la terra blu su cui poggiavano i piedi della stella.
Quello era il simbolo dell'Arizona, quello che Will non aveva visto quando avevano varcato il confine perché perso nel sonno dei viaggiatori. Rise gli aveva spiegato il significato di ogni elemento, di ogni colore, sorridendogli poi e facendogli notare che alla fin fine non aveva cambiato gran che, nel suo trasferimento. Il biondo l'aveva guardata interrogativo e Alexander aveva riso piano,
<< Si Will, sei solo passato da una stella all'altra!>>
E allora, solo allora, Will si ricordò che il Texas era la Stella Solitaria, che suo nonno aveva una gigantesca stella di latta in salone e che zio Jackie aveva in camera sua una bandiera americana di cui un unica stella era colorata d'oro, proprio in onore del nome della loro terra.
<< Dovresti attaccarci sopra anche quella sai?>> lo aveva informato Arabelle, lisciando con la manina il suo stemma, << Così ci saranno due stelle sulla Guida e tu potrai guardare quella Solitaria ogni volta che ti mancherà casa e così non ti mancherà più.>>
<< E poi la Stella Solitaria non sarà più sola perché ci sarà quella dell' Arizona vicino, un po' come te che non ti senti solo perché stai vicino a noi!>> Jajeck era saltato in piedi per dirglielo, che non era più solo, e Will non poté far a meno di arrossire, abbassando lo sguardo imbarazzato ma certo anche estremamente felice.
Avrebbe telefonato al nonno e gli avrebbe chiesto di spedirgli una bella toppa adesiva con lo stemma del Texas, così anche lui avrebbe avuto il suo marchio lì sopra, la sua stella.

La toppa arrivò precisa precisa il tredici di Febbraio, la nonna aveva girato tantissimi negozi per trovarla e alla fine era riuscita ad inviargliela per il giorno prima di San Valentino, gli aveva anche scritto una lettera, come faceva da piccola per mandare i messaggi al fratello in guerra, e gli aveva detto che era il suo regalo per la festa, assieme ad un enorme sciarpa rossa con una stella gialla sull'estremità.
Will l'aveva sfoggiata a scuola il giorno dopo, proprio San Valentino, e con sua enorme sorpresa tutti e sette i suoi amichetti gli avevano regalato delle spillette color bronzo a forma di stella.
<< Normalmente i maschi non si fanno regali per San Valentino, a parte il papà di Andy che gli regala sempre una scatola bella di cioccolatini che ordina da tutte città diverse.>>
<< Ehi!>> protestò il castano imbarazzato ad imbronciato, suo cugino non si faceva mai gli affari suoi, doveva smetterla di prenderlo in giro.
<< Però Rise e Arabelle hanno tanto rotto le scatole che te la regalassimo tutti la spilla, così sarebbero state sette. Certo che ne sapevamo che tua nonna leggesse nel pensiero e ti facesse una sciarpa con un'altra stella, che poi è la tua?>>
<< Già! Sembra fatto a posta!>> trillò Jajeck stringendogli un braccio sulle spalle e sbatacchiandolo un po' a destra e sinistra, facendolo arrossire come sempre.
<< Guarda! Con la faccia rossa sembri davvero la stella di rame!>>


[Marzo]



Nella sala da ballo, sulle pareti su cui non erano attaccati gli specchi, c'erano dei quadri con delle locandine di eventi e spettacoli, solo che Will doveva ancora farci l'occhio: non c'erano delicate bamboline di cristallo in bilico su punte bianche, ma sfondi scuri e luci a cono che illuminavano ballerini di danza moderna, con i loro vestiti scuri bloccati nelle posizioni più affascinanti delle coreografie più sorprendenti. Certo, di sicuro non erano come quelli nella sala da Brack Dance, con ragazzi che volavano in aria con capriole da capogiro o dritti in piedi un una mano.

“Che poi si dice dritti in piedi su una mano?”
“ E che ne so, Will? Di certo non puoi dire -dritti in
mano su una mano-”

Una giustissima osservazione che Jajeck gli aveva fatto quando erano andati a vedere i suoi allenamenti. C'era andata anche Rise, che aveva chiesto all'istruttore di insegnarle a fare la verticale, e anche Will voleva provarci, ma come ad Arabelle e Andrew, gli era stato suggerito di metter su un po' di muscoli prima di provare.
Decisamente ingiusto.
Sbuffò imbronciato a quel ricordo, sistemandosi i pantaloni della tuta che indossava durante le lezioni; che cosa magnifica gli era sembrata all'inizio, dopo mesi di calzamaglia nera si era potuto mettere una tuta normale come tutti i bambini di questo mondo, senza sembrare Peter Pan o Robin Hood, ma adesso c'aveva fatto l'abitudine.
Stava per raccogliere la sua bottiglietta d'acqua, quella su cui Ryan aveva attaccato un etichetta su cui aveva scritto in giallo evidenziatore “DI RICCIOLI D'ORO”, - moooooolto imbarazzante- e che aveva avuto ordine di non togliere pena morte da solletico, che dei passi affrettati ma leggeri attirarono la sua attenzione e anche quella degli altri studenti, compreso il maestro.
Turan era all'incirca l'unico bambino al mondo, alto un metro e quaranta, un botto come suggeriva Jajeck, che riusciva a correre velocissimo e leggerissimo, anche se la leggerezza era d'obbligo a tutti i ballerini di danza classica.
Si fermò sull'uscio guardando in giro fino a trovare i suoi occhi, il celeste accecante del cielo primaverile dritto nel verde rigoglioso della foresta vergine.

<< Madame e Rise hanno litigato di nuovo.>> ansimò lasciando tutti con fiato sospeso.
<< Ma questa volta c'era anche il Colonnello ed è successo il finimondo.>> altra pausa, facce scioccate e curiose, quella di Will incredula ed apprensiva.
<< Ha chiuso la bocca a Madame e le ha detto che “deve smetterla di rompere l'anima a tutti”. La faccia di Madame… Madmoiselle ha temuto di dover chiamare un medico… Rise era a bocca aperta e fissava il nonno… e poi….>> si piegò in avanti, poggiando le manine sulle ginocchia.
<< E poi?>> lo incalzò qualcuno.
<< e poi un attimo che mi son fatto tutta la scuola di corsa e mo' svengo.>> rantolò piano mentre altri passi, questa volta decisamente rumorosi, risuonarono per il corridoio e annunciarono l'arrivo di Arabelle, Ryan e Jajeck.
Il rosso si fermò sulla porta con le braccia e le gambe divaricate, a bloccare i compagni che quasi gli si schiantarono contro.

<< Il Colonnello ha tappato la bocca a Madame! Gli ha detto di farsi gli affaracci suoi e di non rompere l'anima! Ha detto che Rise può fare quello che cavolo vuole! Proprio così ha detto! QUEL CHE CAVOLO VUOLE! E Madame era rossa in faccia e se ne è andata sbattendo la porta! Dovevate vederla! Dovevate vedere tutto!>> urlava felice tra le risate.
Will non poteva crederci, no, non davvero. Quindi finalmente il nonno si era svegliato e aveva difeso la nipote, davvero davvero?
<< Andy e Alex?>> si sentì chiedere senza neanche rendersene conto. Oh, doveva assolutamente vedere anche le loro di facce, già quelle dei ragazzi erano impagabili, ma il faccino sconvolto di Andrew non poteva perderselo!
<< Con Rise, credo che le sia quasi venuto un infarto.>>
<< Deve smetterla di “rompere l'anima”, di rompere l'anima! Quell'uomo è proprio un genio!>> continuava a ripetere Jajeck in preda all'euforia.

Le parole erano state proprio quelle:
<< Devi smetterla di rompere l'anima a tutti, Irina, fatti gli affaracci tuoi e lascia in pace quella ragazzina, hai rotto le palle, ficcatelo in testa una buona volta, donna. Stai dando di matto per un niente e se continui di questo passo avremmo una Tory due la vendetta, Rise può fare quel che cavolo vuole, chiaro?>>
Le aveva ripetute alla perfezione Alexander, senza fare una piega su quella brutta parola, malgrado Jajeck e Ryan ridessero come matti, e continuando a disegnare ampi cerchi sulla schiena della sorella, ancora sotto shock.
Rise non faceva altro che aprire bocca per dire qualcosa e poi richiuderla, socchiudendo le labbra e facendo fischiare l'aria tra i dentini da latte.
Cacchio. La sua faccia diceva proprio questo.
<< Vuol dire che adesso puoi fare quello che ti pare, non sei felice? >> Chiese raggiante Turan, spalleggiato da tutti gli altri che annuivano con vigore.
Ma la bambina rimaneva con lo sguardo perso nei suoi ragionamenti, la testolina che lavorava a velocità sorprendente per capire cosa mancava. La verità era che non mancava un bel niente, anzi, c'era proprio tutto, anche…
<< Una fregatura.>> fu la prima parola che disse da quando Albert aveva ripreso tutti all'accademia e li aveva portati alla Villa. Rise era seduta sul divano che quel Natale aveva accolto tutti gli adulti e finalmente aveva alzato la testa per lanciare uno sguardo d'intesa a quel fratello mancato che le stava vicino.
Alexander fece un unico cenno d'assenso con la testa e la bambina si rilassò, come felice che finalmente qualcuno avesse confermato i suoi dubbi.

<< E dove sarebbe la fregatura? A me non sembra proprio che “fare tutto quello che vuole” sia una fregatura.>>
<< Ma nonna non glielo lascerà fare, questo è il problema.>> il moro si voltò verso gli altri a fargli cenno di non esplodere in strane esclamazioni.
Cosa inutile, ovviamente.
<< Ma il Colonnello ha detto che puoi! >> Scatto subito Ryan.
<< Si, lo ha detto lui che deve smetterla!>> gridò Will indignato.
<< Basta un po'.>> Arabelle stroncò tutti gli altri commenti che stavano per nascere, spostandosi più in pizzo sul divano per parlare meglio con l'amichetta.
<< Dici che ti lascerà in pace per un paio di giorni e poi ricomincerà tutto da capo?>>
Rise scosse la testa, << Peggio, quell'arpia è capace di presentarmi un avvocato che mi faccia firmare un contratto, che rottura.>> incrociò le gambe sulla seduta di pelle e vi poggiò sopra i gomiti, schiacciando il viso rotondo tra le mani. << Quanto la odio quando fa così. Mi dirà di certo che posso ma solo a qualche strana condizione, ve lo dico io, quella non è una donna, è proprio un'arpia, c'ha ragione nonno.>>

E quando mai Rise aveva sbagliato un pronostico?

[ Aprile]



Inscritto in un cerchio blu come il cielo notturno stava la figura stilizzata di un uccello, la testa ed il becco fini, le ali spiegate merlettate di ghirigori, rossi, gialli e arancioni come le fiamme. La Fenice di Phoenix spiccava il volo vicino al gatto rosa e bianco che scompare, il sorriso largo ed inquietante che però solo i grandi classificavano come tale; gli occhi, nient'altro che due puntini neri in grandi ovali bianchi, sembravano fissarti da ogni angolazione, sempre puntati su di te, pronti a seguirti in ogni movimento.
La botta quel mese era arrivata con la Primavera, quando la Rise più arrabbiata che avesse mai visto entrò in classe a passo di marcia e non salutò nessuno, spostando la sedia con violenza, facendola stridere sul pavimento, e buttandovici di peso sopra. Nessuno aveva fiatato da quando era entrata e persino le maestre le avevano chiesto se stesse bene.

Oh, fisicamente Rise stava benissimo, i problemi erano ben altri:
Will teneva le mani pigiate sulle orecchie, così come Andrew e Arabelle, mentre Turan, più dignitosamente volgeva la testolina di lato per cercare di concentrarsi su qualcos'altro, Ryan e Jajeck a morir dalle risate, Alexander di nuovo a disegnar cerchi sulla schiena della gemella.

<< La odio! ODIO!>> Finì i suoi improperi con quell'affermazione urlata per il parco e mitigata solo dagli schiamazzi degli altri bambini, dal rumore delle fontane e da quello delle fronde degli alberi.
<< Potevi anche dirlo meglio.>> sbuffò Arabelle, togliendo finalmente le mani e dando di gomito ad Andrew perché facesse lo stesso.
Will annuì, pensando che Rise da arrabbiata era educata come zio Eric quando guardava le partite, e non aveva la più pallida idea di quanta ragione avesse, o, per meglio dire, se ne sarebbe reso conto tra qualche anno, quando avrebbe imparato che fintanto Rise fosse stata solo volgare le cose potevano sistemarsi, quando cominciava a riusare i termini da adulta la cosa era catastrofica.

<< Quindi cosa spera tu faccia? Hanno mica inventato la macchina che fa i coloni, no perché se è la voglio anche io. >>
<< Non fare lo scemo Jajek!>> Lo riprese Arabelle << E' una cosa seria.>>
<< Sono serio! Secondo te come farà a fare uno sport che vuole lei se dovrà continuare a far danza classica e pure diventare la più brava della classe?>>
<< Che poi a meno che non ammazzi Andrew e Alexander col cavolo che ci riesci.>> trovò opportuno specificare il biondo.
<< Però è l'unica condizione.>>
Rimasero tutti pensierosi per un po', come potevano riuscire a risolvere un problema così grande?

La soluzione la trovò Andrew, riferendola con fare cospiratorio a Will che si trovò subito “d'accordissimissimissimo” con lui.
Quella fu la prima volta che uno dei suoi amici andò a casa sua e Will, per un attimo, temette che non gli piacesse, che la reputasse troppo brutta, piccola o povera in confronto con quelle ddgli altri.
Ma il bambino rimase a bocca aperta, dicendogli che era proprio come i Ranch che aveva visto in Texas e da lì giù a raccontar tutte le cose che aveva visto, che aveva provato, insomma, chi se lo immaginava che Andy fosse stato in tutti gli Stati americani? Persino nel suo Texas! E non gli aveva detto niente per tutto questo tempo!
La cosa era oltraggiosa, ma Will se ne dimenticò presto, e si ritrovò a tavolino con il castano a stilare una bella lista sulla Guida, tutta incentrata sulle cose che Rise avrebbe dovuto provare. Sembrava non finire mai, erano tantissimi nomi e tutti scritti nella grafia ordinata e piccola di Andrew. Will si era proposto di scrivere lui, era una cosa importante, voleva poterla rileggere da grande e pensare “l'ho scritta tutta io” ma l'altro non era d'accordo, anzi, era stato irremovibile per la prima volta da che lo conosceva.
<< Scusa Willy, non ti offendere, ma hai una grafia orribile, come quella dei dottori. Non si capisce mai niente quando scrivi, i tuoi quaderni sembrano le ricette che scrivono i colleghi di mia madre, e non è una bella cosa.>>
Will non aveva la più pallida idea di come fosse la grafia di un dottore, ne tanto meno da quando i medici si mettessero a scrivere ricette, credeva lo facessero i cuochi, ma se quello che diceva Andrew era vero, e lui non diceva mai bugie, allora il biondino si disse che, se non fosse riuscito a diventare un Cowboy come desiderava da quando era piccolo, poteva sempre fare il medico, tanto la grafia orribile e incomprensibile già l'aveva.

Il giorno dopo arrivarono in classe con un sorriso gigantesco ad illuminargli il volto, la Guida stretta la petto e la soluzione ad ogni problema.
Fu di nuovo il parco ad ospitare le loro macchinazione, ma Will questa volta non volle sentir ragione: << Tu hai scritto, io spiego!>>
E la spiegazione, c'è da dargliene merito, fu precisa e chiara.
<< Questa è una lista di tutti gli sport che facciamo o che ci piacciono, in cima ci sono i nostri, vedi? Sono i primi che proverai, così ci sarà qualcuno che ti darà qualche dritta e ti spiegherà tutto, poi ci sono tutti quelli che ci sono venuti in mente, e non ci sono mica solo sport! Chi l'ha detto che non puoi fare giardinaggio? A mia mamma piace tanto e anche a me!>> aveva detto felice. Era semplice così!
Rise era rimasta per un attimo in silenzio a pensare, poi aveva puntato lo sguardo nel suo e semplicemente aveva detto,
<< Qual'è il primo?>>

Il primo, con grande felicità di Jajeck, fu il calcio. Non ci volle, a dir il vero, poi tutto questo lavoro di persuasione per convincere Will a cedere al rosso il primo posto della sua danza moderna, il ragazzino gli aveva solo detto che avrebbe voluto tanto che arrivasse subito il turno del pallone e l'altro aveva guardato la lista, depennato il calcio e sorriso.
Ryan l'aveva guardato indignato, Turan aveva scosso la testa e Alexander, magnanimo come sempre, gli aveva battuto una pacca sulla spalla e poi gli aveva sussurrato un “sei proprio andato” che Will non aveva capito prima e non riusciva ancora a capire.
I suoi amici correvano da una parte all'altra del parco della Baskerville, Jajeck riusciva a tenere il pallone davanti ai piedi anche correndo e non lo perdeva mai, faceva lo slalom tra i loro cestini della merenda e poi frenava di botto, cambiando direzione e tornando indietro.
Era davvero bravo, scattava come un cavallo al galoppo, solo che i suoi movimenti erano più fluidi, naturali. Faceva saltare la palla da terra con un colpo di punta, lanciandola in aria e colpendola con il ginocchio, facendola rimbalzare a ritmo. Era così bravo, l'aveva già detto?
Gli altri lo guardavano con attenzione, annuendo quando il bambino spiegava qualcosa o dava consigli, provando ad imitarlo e sbuffando imbronciati quando non riuscivano a fare subito la stessa cosa, malgrado Turan fosse abbastanza bravo e superasse gli altri, ricevendo altri sbuffi imbronciati dagli amici..
<< Se potessi prenderlo a pugni, questo brutto pallone, sarei più bravo di te!>> Protestò Ryan guardando male l'amichetto.
Jajeck in tutta risposta si strinse nelle spalle, << Mamma dice sempre che con le mani è più facile, perché siamo gli unici animali che le usano bene, ma giocare con i piedi è tutta un'altra cosa.>> era fiero e anche divertito, gongolava nel vedere il biondino gonfiare le guance diventare rosso per la rabbia.
<< Non è vero!>>
<< Si che lo è!>>
Arabelle alzò gli occhi al cielo e sospirò pesantemente, lasciando il suo posto tra Will e Andrew e puntando dritta verso la sua borsetta. Afferrò quella e l'altra più vicina, lo zainetto blu con il simbolo dei Phoenix di Jajeck, trascinandoli davanti ai due litiganti e piazzandoli ad una certa distanza l'uno dall'altro.
<< Smettetela di litigare e decidete chi deve fare il portiere.>> ordinò con l'autorità che solo una bambina di sette anni poteva avere.
Da quando aveva compiuto gli anni, in effetti, Arabelle amava ricordare a tutti che era la più grande e che aveva il diritto di metter freno ai battibecchi e di dare ordini a destra e manca.
Inutile farle notare che Turan era più grande di lei di ben un mese e che Rise e Alexander erano vicini a compiere gli anni, la bambina era irremovibile, come lo era in quel momento.

<< Bhé, visto che è tanto bravo a prendere a pugni la palla può farlo Ryan, il portiere.>> Jajeck lanciò uno sguardo di sfida all'amico, incrociando le braccia al petto e alzando il mento come il piccolo Lord spocchioso che non era. E ovviamente il biondino non se lo fece ripetere due volte.
<< Certo che ci vado io! Tu fai schifo in porta, chiunque farebbe meglio di te, anche Will.>>
<< Ehi!>>
<< Sta zitto Willy, fai schifo per davvero.>>
<< Arabelle!>>
Turan gli assestò una pacca sulla schiena, mandando quasi il bambino lungo a terra e rivolgendogli subito dopo un'occhiata di scuse, con quel bel sorriso bianco accecante che gli brillava in faccia quando tirava le labbra carnose.
<< Non prendertela Will, anzi, fagli vedere che si sbagliano, perché non provi tu per primo a tirare?>>
Di sicuro le intenzioni dell'altro erano più che buone e Will lo sapeva, ma non riuscì ad impedirsi di storcere la bocca in una smorfia contrariata, prima che un gridolino felice attirasse la sua attenzione. Jajeck era saltato sul posto, voltandosi raggiante verso di lui e correndogli incontro. Non gli chiese niente, lo afferrò per la mano e se lo trascinò dietro, posizionandolo davanti alla porta improvvisata e spiegandogli tutto ciò che doveva fare.
<< Tu non pensarci troppo, la mira è una cosa che viene dopo, ti devi allenare, ma se il portiere è bravo – e qui alzò la voce per farsi sentire bene da Ryan- prenderà la palla anche se va fuori dalla porta. Tu non ti spostare troppo, eh, rimani dritto per dritto e se lisci la palla ci riprovi. Ora ti faccio vedere come ti devi mettere, okay? Dritto per dritto Willy, metti il piede così, cerca di non colpire di punta che ti fai male se no, l'ideale è con il collo del piede, questa parte qui vedi? Da qui carichi e tiri una cannonata come un vero calciatore! Non ti risparmiare solo perché hai paura di far male a qualcuno, vai vai!>>
Si allontanò dandogli qualche pacca e sorridendogli felice come una pasqua.
Will guardò preoccupato il pallone: non che non avesse mai giocato a calcio, ci mancherebbe, ma lui era più un tipo da baseball, si, più la baskett addirittura, ma calcio proprio no. Però Jajeck continuava a sorridergli e a mostrargli i pollici alzati, aspettando solo che lui tirasse, esattamente come stava aspettando Ryan, in porta ed in posizione perso in mille borbottii.
Prese un respiro profondo e si concentrò, dopotutto doveva solo dare un calcio ad una palla, gli avevano anche detto che era normale non essere precisi….si, ora avrebbe tirato una vera cannonata, aveva deciso.
Fece qualche passo indietro e poi ripartì a molla in avanti, colpendo la palla con tutta la forza che aveva.
Vide la sfera di cuoio alzarsi in aria e… curvare verso l'alto, neanche avesse cercato di mandarla più su possibile. Il pallone disegnò un arco sopra le testoline dei bambini per finire dritta dritta su quella di Andrew e mandarlo a terra.

<< Andy!>> Ryan scattò via dalla porta e si precipitò verso il cugino, seduto a terra con la faccia di chi non ha capito cosa sia successo ma che, a conti fatti, ha capito che gli ha fatto male.
<< Scusa! Scusa, scusa, non volevo!>> Will guardò allarmato l'amico, ora ritrascinato in piedi da Turan e Rise, che scuoteva piano la testa, come ad assicurarsi che fosse ancora al suo posto. Poi si passò una mano sulla parte colpita e mugugnò qualcosa d'incomprensibile a tutti ma che Ryan tradusse in un chiaro “ Ahio, fa male”.

<< Basta, non lo faccio più.>>
<< Will, ha solo preso una pallonata in testa, non l'hai mica ammazzato.>>
<< Non toccherò mai più un pallone in vita mia.>>
<< Eddai! Non fare così, però!>>
<< Maaaaai più, parola d'onore.>>
<< Tu non ce l'hai l'onore.>>
<< Ehi!>>
<< Sei troppo piccolo per averne uno.>>
<< Ma mica si compra.>>
<< Infatti, ti viene quando cresci, come la barba.>>
<< Perché, tu ce l'hai?>>
<< Certo che si, sono grande io.>>
<< Hai la barba?>>
<< Ma no, cretino!>>
<< Arabelle, hai solo cinque mesi più di lui...>>
<< Sta zitto, Ryan! E pensa a tuo cugino. Magari ha una commozione celebrale.>>
<< Oh mamma, lo sapevo che gli avevo fatto male!>>
<< Smettila Will, hai rotto le scatole.>>
<< Cos'è una commozione celelare? Chi è che si è commosso?>>
<< Celebrale, Ryan, sei proprio senza onore.>>
<< Certo che è senza, è troppo piccolo.>>
<< Ma che centra l'onore ora!>>

<< Ma che diamine stanno dicendo?>> Rise si sedette vicino al fratello tenendo gli occhi fissi sugli altri. Alexander si strinse nelle spalle e le sorrise.
<< Parlano di onore che arriva solo crescendo.>>
<< Phff, che cavolata.>>
<< Di commozioni celebrali.>>
<< Che secondo me ce l'ha Will, non Andrew, deve essere caduto da cavallo da piccolo, se no non si spiega perché è così tonto.>>
<< E che il fatto che Ryan non sa pronunciare la parola “celebrale” sia per colpa della sua mancanza d'onore.>>
<< Beata ignoranza.>>
I due fratelli si lanciarono uno sguardo d'intesa, ridacchiando sotto i baffi e continuando a seguire il botta e risposta dei loro amici che pareva non voler finire più.

<< E dopo tutto sto' discorso, Rise che doveva provare a giocare non lo ha più fatto!>>
Turan se ne era uscito fuori così, più per disperazione, nel tentativo di bloccare quella strana discussione che lo stava confondendo che per reale interesse verso la ricerca dello sport per Rise. Ma sembrò aver l'effetto desiderato poiché improvvisamente tutti si ricordarono che quelle ore pomeridiane erano state deputate per aiutare la loro amica.
Jajeck saltò sull'attenti come faceva ogni volta che si presentava l'occasione di giocare o insegnare ad altri e porse il pallone a Rise.
<< Portiere mettiti in posizione e vedi di pararlo tu il tiro questa volta, non deve mica farlo il medico di campo!>>
I due ricominciarono a litigare su quando fosse possibile prendere il tiro di Will ma il biondo era stato attratto da tutt'altra cosa.
<< Che vuol dire che sei il medico di campo?>> Chiese rivolto all'infortunato, ora con un fazzoletto bagnato poggiato in testa.
<< Dicono così perché quando qualcuno si fa male sono io che gli disinfetto il graffio e gli metto i cerotti, o che so qual'è la pomata per i lividi.>> Andrew si tolse il panno dalla testa, strofinando i capelli ora umidi ed appiccicati, indicò con un cenno lo zainetto beige ancora nel mezzo del parco, << Mamma sa che mi faccio sempre male, e che Ryan se ne fa più di me, così mi ha insegnato a mettere i cerotti e la crema per le cot- con- contusioni, che vuol dire i lividi e le storte, quando inciampi e ti fai male, capito? Ho sempre un kit di primo soccorso, tutto mio, così posso aiutare gli altri. Mamma dice che quando cresco mi insegna più cose e potrò aiutare anche per i problemi più seri, come un medico vero.>>
Will osservò lo zainetto come incantato.
Il dottore aveva detto? Ma si, qualche giorno prima Andrew non lo aveva fatto scrivere sulla Guida perché diceva avesse una grafia da medico, che non si capisce niente.
A ben pensarci Will non aveva mai detto di voler fare il dottore, non c'era mai stato un momento in cui, tra i mille lavori che un bambino vorrebbe fare da grande, se ne fosse uscito con una delle più importanti carriere che conoscesse. No, era anche troppo facilmente impressionabile dal sangue lui, se vedeva una persona soffrire empatizzava, qualunque cosa volesse dire, e si sentiva male assieme al povero malcapitato di turno. No, no, no. Will non era decisamente portato per fare il medico, però…

<< Ma non ti fa impressione? La ferita, dico.>>
Andrew annuì, continuando a tenere lo sguardo fisso su Rise che aspettava sempre più innervosita che Jajeck e Ryan smettessero di litigare.
<< Si, un po', però non è che vedo fiumi di sangue, tranne quando mi esce dal naso, ma a quel punto c'è Rise che a lei il sangue non da' fastidio e si trascina dietro tutti gli altri.>>
<< Che vuol dire?>>
Il bambino distolse l'attenzione dagli amichetti per dedicarla tutta al biondo, inclinò la testa, come se fosse indeciso tra lo spiegargli la situazione o chiedergli se stesse scherzando.
Poi optò per la prima.
<< Quando qualcuno si fa male è brutto, vero? Lo vedi che piange o che fa le smorfie e ti viene da star male anche a te. Se sta male un tuo amichetto poi ci rimani anche peggio. >>
<< Si, però che vuol dire che Rise si tira tutti dietro?>>
<< Che se io mi faccio male Ryan corre subito da me e anche se gli fa impressione il sangue come a te, lui mi sta vicino e mi aiuta. E Arabelle odia sporcarsi ma una volta si è tolta il suo fiocco e me lo ha dato per fermare tutto quello che usciva dal naso. E Jajeck sembra uno stupido però si preoccupa da morire per tutti e corre come il vento per chiamare aiuto anche se non gli piace parlare con gli adulti perché dice che lo trattano da piccolo. Turan se ti fai male al piede o cose così ti prende in braccio e ti porta dove vuoi, anche se lo sa che non si fa, che poi c'è rischio che se cade ti fa fare ancora più male a te. E poi c'è Alexander che sembra che debba svenire da un momento all'altro e invece prende in mano la situazione e calma tutti.>>
Il bambino gli vomitò addosso quel fiume di parole senza fermarsi un attimo, senza balbettare o incespicare sulle frasi, mai un tentennamento o una correzione; credeva fermamente in quello che aveva detto, lo aveva sperimentato sulla sua pelle, in prima persona.
Quelli, in parole povere, erano i suoi amici e anche se qualcosa gli faceva paura, gli faceva schifo, li faceva arrabbiare o rischiare una punizione l'avrebbero fatto per uno di loro, per uno qualunque di loro, anche per Will, ed il piccolo Riccioli d'Oro si sentì il cuore scoppiare di gioia quando se ne rese conto: ora anche lui faceva parte di quel gruppo e Ryan avrebbe sopportato la vista del sangue per lui, Arabelle si sarebbe sporcata, Jajeck si sarebbe fatto trattare da bambino, Turan avrebbe rischiato una punizione, Rise lo avrebbe aiutato come meglio poteva, Alexander avrebbe calmato tutti anche se avrebbe solo voluto svenire e Andrew sarebbe rimasto al suo fianco a spiegargli le cose e mettergli i cerotti. Avrebbero fatto tutto questo per lui. E forse era melodrammatico e da commedia sentimentale, di quelle che guardavano le donne della sua famiglia ( più zio Eric, ma era un segreto questo) eppure Will ebbe la certezza che quei sette bambini non lo avrebbero mai abbandonato, che sarebbero stati amici per sempre.

<< WOOOO!>>
Ryan era accasciato a terra, le mani a coprire la testa, ed affianco a lui Jajeck stava in equilibrio su un piede solo, con le braccia alzate a difesa della faccia e l'altra gamba piegata a schermare la pancia, entrambi in una posa a dir poco divertente.
Rise da parte sue se ne stava ancora con la gamba alzata a mezz'aria, il pallone bianco sporco che ancora volava lontano, cadendo a terra e rotolando via da quella bambina che lo aveva colpito con più forza di quanta non ce ne sarebbe voluta.

<< Però, dar calci ad una palla è parecchio divertente.>> gridò indietro la ragazzina, spostando il treccione ramato al suo posto sulla spalla destra.
I due litiganti si scambiarono uno sguardo terrorizzato: Rise aveva tirato, letteralmente, una cannonata dritta tra loro due, che ancora discutevano, mandandone uno a gambe all'aria e l'altro in quella strana posa da cartone animato. Se solo avesse avuto una mira peggiore uno dei due starebbe con un bel livido da qualche parte, se non con in naso rotto e sanguinante.
<< Quindi ti piace, Rise?>> chiese esitante il rosso.
Lei si strinse nelle spalle e gli sorrise, << Certo che mi piace, ma mi piace di più quando voi due state zitti e non mi date fastidio. Come dice sempre mamma?>> domandò poi rivolta al fratello.
<< Che fare sport è più bello quando ti devi sfogare per qualcosa.>> rispose pronto, mentre puliva con cura gli occhiali con il bordo della camicia.
<< Esatto!>>
<< Ma dice anche che se pensi che la palla sia qualcuno che vuoi prendere a pugni è ancora più efficace.>>
Ryan e Jajeck sgranarono gli occhi e corsero lontano da Rise, a nascondersi dietro a Will e Andrew.
<< Sei stata bravissima.>>
<< Si, si, proprio brava.>>
<< Volete che provi di nuovo?>>
<< NO!>>

Con tutta probabilità quello fu il giorno in cui i bambini capirono che giocare a qualunque cosa contro Rise quando era arrabbiata era un suicidio, ma fu anche il giorno in cui Will decise una cosa molto importante: non sapeva di preciso cosa avrebbe fatto da grande, aveva ancora sei anni, forse quando sarebbe arrivato a sette come Arabelle e Turan avrebbe avuto le idee più chiare, ma era certo che qualunque cosa fosse avrebbe aiutato gli altri. Magari sarebbe diventato un maestro, per aiutare i bambini come lui, o un poliziotto, un pompiere anche! O avrebbe potuto fare il cowboy come desiderava fin da piccolissimo e insegnare alle gente ad amare i cavalli e gli animali, gli avrebbe insegnato a cavalcare e mungere le mucche!
Si, qualcosa avrebbe trovato di certo, ma questo fatto di aiutare la gente era basilare, lui voleva essere d'aiuto, voleva essere fondamentale per qualcuno, affrontare le proprie paure e fare la differenza come i suoi amici facevano l'un per l'altro. Aveva deciso.


Una mazza da baseball rotta in testa ad uno più che stordito Will che aveva chiamato un out che per Rise non c'era. Un cerotto attaccato a mo' di adesivo sul nome dello sport.
<< Però quello era un fuori campo con i fiocchi Rise!>>Aveva detto allegro Andrew, tenendo la borsa del ghiaccio in testa al biondo che, nonostante il caschetto protettivo si sentiva più rintronato di una campana.
<< Solo perché il lanciatore mi ha servito una palla perfetta.>> gli diede una pacca sulla spalla Rise, felice di essere riuscita a giocare finalmente a Baseball e anche grata all'esperto di turno per averle spiegato le regole che ben o male già sapeva a forza di vedere le sue partite e gli allenamenti.
<< Si, però la prossima volta il ricevitore lo fa Turan, che è pure più grande di me...>>
<< Si Willy, come ti pare, però adesso hai imparato una lezione importante.>>
<< Ovvero?>>
<< Se ti dico che quello non è out, non è out, punto e basta.>>


Una nuova toppa, una libellula dorata dalle ali azzurrine e verdi, quasi iridescenti.
Arabelle era in piedi davanti al bersaglio e lo fissava pensierosa, Will si domandò perché dovessero capitare sempre tutte a lui, sperando che la mora si decidesse al più presto e che gli desse indicazioni, a lui e Alexander arrampicati su quell'albero, a Turan e Rise che reggevano per le caviglie Jajeck e a Rayan che continuava a lamentarsi appeso a testa in giù.

<< E' solo una cavolo di freccia Arabelle! La maestra non ti caccerà dal corso solo perché Will fa schifo anche con l'arco!>>
<< Ehi! Quella non è la mia di freccia! La mia è qui sull'albero con me!>> protestò con veemenza, cercando per l'ennesima volta di togliere l'oggetto dalla corteccia.
<< Se Andrew si decidesse a passarci le forbici potremmo incidere il legno e tirare fuori la punta.>> valutava intanto il piccolo occhialuto, avvicinandosi di più alla freccia per cercare qualunque cosa potesse aiutarli a tirarla fuori di li.
<< Non ci riesco, lo sai che soffro di vertigini...>> il lamento lagnoso dell'altro giunse un po' spento là su.
<< Ma non la posso lasciare qui?>>
<< Assolutamente no! La maestra ha detto che devo raccogliere tutte le frecce e noi le raccoglieremo prima che torni a controllarci. Già è tanto che vi ho permesso di lanciarne una vera e non quelle di prova, ah! E Will? Non toccherai mai più un arco con me, non con una freccia con la punta, solo tu l'hai lanciata e hai fatto pure danni!>>
<< Ma la mia freccia non è finita oltre il muro!>>
<< Certo che no!>> una vocina strozzata li richiamò all'ordine, << perché se no ci sarebbe lui al posto mio qui, a testa in giù. Mi sta andando il sangue al cervello.>> con il volto rosso ed i capelli all'insù Ryan cercò di piegare la testa verso il torace per alleviare un po' la pressione che sentiva, invano.
<< Sarebbe una novità.>> il commento di Rise si perse nel suo sussulto quando Alexander le lanciò in testa un pezzo di corteccia.
<< Che c'è?>>
<< Sarcasmo infantile Risie, infantile. Sembri la nonna.>> era un insulto bello e buono e la ragazzina lo guardò scioccata, allentando la presa alla caviglia di Jajeck e facendo scivolare Ryan un po' più giù.
<< Ehi!>>
<< Non è colpa mia! E' lui che mi distrae!>>
<< Io?>>
<< Si, tu!>>
<< La volete piantare e dirmi dov'è sta' benedetta freccia che mi sto sentendo male?>>
L'urlo di Ryan fu sicuramente sentito anche da chi era fuori dal poligono, ma almeno servì a far muovere Arabelle da davanti a quel bersaglio e muovere qualche passo verso di loro. Distese il braccio e chiuse la mano a pugno, lasciando solo il pollice dritto, strizzò un occhio e cercò probabilmente di prendere le misure come le aveva insegnato la sua maestra.
Borbottò qualcosa sul vento e su quanto era tirata la corda dell'arco, calcoli che non avrebbero avuto senso neanche se avesse saputo di cosa stava parlando.
Will guardò verso il basso, distinguendo alla perfezione la faccia ed il collo paonazzi di Ryan che non sentendo nessun indicazioni lanciò un altro grido di frustrazione.
<< Adesso basta! Mollatemi! Lasciatemi cadere, fate come vi pare! Ma mettetemi giù, voglio mettere i piedi per terra, ora, adesso! Arabelle, se non mi dici dov'è quella dannatissima freccia adesso giuro che quando la trovo te la ficco in un occhio!>> si divincolò dalla presa, ondeggiando paurosamente e facendo ondeggiare così anche Jajeck, per altro appeso a testa in giù come lui che non si lamentava solo perché gli veniva da vomitare e aveva paura che aprendo la bocca l'avrebbe fatto addosso all'amico.
<< Will! Tu che stai in alto, la vedi? Vuoi stare fermo?! Ci farai cadere tutti così!>> gridò Rise.
<< E poi pulisciti la bocca, chi ti ha insegnato queste parole?>> s'informò Arabelle continuando a far i suoi strani calcoli.
<< Li ho sentiti a basket, dai ragazzi più grandi, e ho sentito pure di peggio e ti prometto che se qualcuno non mi dice qualcosa o mi tira su lo sentirai quel peggio!>>
<< Ma non possiamo aspettare la maestra?>> piagnucolò ancora Andrew.
<< William! Quella cavolo di freccia!>>
<< Perché chiedi solo a me? C'è anche Alexander qui!>>
<< Si ma lui non ci vede niente perché è una talpa!>>
<< Che c'è? Ti vendichi del commento di prima insultandomi?>>
<< Tu mi hai insultata per primo!>>
<< Urgh! Baaastaaaaaaa!!>>
Un tonfo sordo e Ryan si ritrovò a faccia in avanti nel terreno erboso. Jajeck aveva mollato la presa e ora si teneva le mani premute sulla bocca.

<< Terra! Mia amata, amatissima terra!>> cominciò a ripetere baciando il prato, mentre l'ombra del rosso si muoveva lenta sopra di lui. Alzò lo sguardo per cercare Arabelle e dirgliene quattro ma poi, d'improvviso, impallidì.
<< Ja? Amico, tutto bene?>>
Questo scosse la testa e subito dopo sgranò gli occhi: mossa sbagliata, decisamente.
Provò a mugugnare qualcosa, ma le mani distorsero il suono producendo un mormorio misto ad uno strano gorgoglio.
<< Aspetta.>> questa volta fu Turan a bloccarsi, cercando conferma nello sguardo dell'amichetta anche lei all'erta, << Era un “sto per vomitare” quello?>>
<< Oh cacchio. No! Jajeck, non su di me, aspetta almeno che mi allontano! Mira da un'altra parte, ti prego, non su di me!>>
Il silenzio si espanse per tutto il poligono, mentre Rise e Turan si domandavano se dovessero mettere giù il bambino o tirarlo su, Arabelle finalmente aveva smesso i suoi conti inutili e guardava allarmata l'amico, esattamente come stavano facendo quasi tutti.
Alexander si sporse un poco in avanti, facendo leva sulla freccia per non cadere e stringendo le gambe attorno al ramo. Sotto di lui Andrew era corso al suo zaino e stava rovistando all'interno alla ricerca di qualcosa di indefinito, quando un suono secco, uno “stok” ben distinto distrasse tutti, seguito dall'urlo sorpreso del moro, quello terrorizzato di Will che si era allungato per riafferrare il bambino, foglie che si muovevano, rami che si spezzavano e oggetti che cadevano a terra.
<< Alex!>> Rise si voltò di scatto, tirando su di peso Jajeck da sola e correndo sotto il ramo a cui il fratello era ancora miracolosamente appeso solo per le gambe, con le braccia penzoloni nel vuoto e la freccia stretta in mano.

Ci volle tutta la buona volontà e la coordinazione di cui quegli otto erano capaci per ritirare su Ryan dal muretto, far sedere Jajeck che sembrava deciso a vomitare anche l'anima, ora di una delicata sfumatura di verde malaticcio e far scendere Alexander e Will senza che nessuno dei due si facesse male.
Il biondino si era ritrovato così per la prima volta a fissare gli occhi grandi e luminosi dell'amico, di una sfumatura di blu così intensa da sembrare finta, come i colori dei pittori; rimase con gli occhiali in mano, sbalordito e quasi imbarazzato, avrebbe giurato di veder il suo riflesso, ma anche che qualcuno gli stesse sussurrando all'orecchio un segreto. Deglutì e gli passò l'oggetto, ricevendo un sorriso piccolo e accecante, poco distanti da loro Andrew stava convincendo Jajeck a bere, mentre Ryan gli passava una mano sulla schiena per calmarlo come faceva con lui sua mamma.

In piedi con le braccia conserte Arabelle osservava la scena scuotendo la testa.
<< Nessuno di voi rimetterà mai più piede nel mio poligono, fate schifo.>>


Era rotondo e scintillante, il bordo rialzato e blu, lucido come il resto dei fili sintetici che riproducevano il pianeta terra, il verde e l'azzurro s'intrecciavano nei contorni paffuti della sfera, qualche riga bianca a mostrare le nuvole. Lo spazio per le toppe stava cominciando a finire, ma i bambini non ci facevano poi molto caso. Certo, Will si domandava come ci fosse arrivato il loro mondo lì, chi ce lo avesse attaccato, forse Turan? Ma alla fin fine non gli importava molto.
Sospirò stanco lasciandosi scivolare vicino a Arabelle; la bambina, infatti, si era rifiutata di giocare a Basket con loro, era uno sport troppo violento, fatto di contatto fisico e spallate e se per il calcio aveva fatto uno sforzo perché nessuno l'avrebbe toccata, dato che non giocavano una partita vera, per questa volta tutti i maschietti le avevano “voltato le spalle”, come aveva detto lei, decidendo all'unanimità di giocare tutti una piccola partitella.
Will era stato fin troppo felice, lui il basket lo adorava, era anche bravino e per di più era uno dei pochi sport in cui aveva una buona mira. Sempre che il tiro del lazo fosse reputato uno sport…

<< Non capisco perché non potevano far semplicemente provare Rise e basta, perché dovete giocare tutti?>> si lamentò ancora guardandolo storto, come se fosse sua la colpa.
Il biondo si strinse nelle spalle, << Perché piace a tutti e Rise così può provare una vera partita. Poi Ryan è troppo felice per dirgli di no, non dopo che lo abbiamo lasciato appeso per mezzora a testa in giù. >> le fece notare bevendo una lunga sorsata dalla borraccia azzurra. Faceva davvero caldo quel pomeriggio, c'era un sole che spaccava le pietre per essere Aprile e la camicia bianca della divisa, per quanto si fosse tirato su le maniche, non lo aiutava gran ché.
<< Peccato che sia stato Jajeck quello che ha quasi vomitato, non Ryan, non dovrete dargliele tutte vinte.>> continuò imperterrita, come se questo normalmente non succedesse con lei.
Will si strinse ancora nelle spalle, in una replica perfetta dell'espressione di prima.
<< Vero, però tu sei la più grande, no?>>
<< Certo! -rispose svelta ed orgogliosa- quindi?>>
<< Quindi dovresti lasciar correre, se fai felice uno più piccolo lascia stare, così fanno i grandi no? Se non riesci a spiegare una cosa ai piccoli gliela mandi buona.>>
Suo zio Anthony diceva sempre così quando parlava di zio Eric e zio Benny, che lui che era il più grande doveva lasciar correre perché gli altri erano troppo piccoli per capire a fondo le cose, lo ripeteva anche a zia Laura e lei di solito cedeva. Magari funzionava anche per Arabelle.
La vide annuire pensierosa ed esultò dentro di sé: si, aveva funzionato.

<< WILLY! Torna in campo, traditore! Non puoi mollarci nel bel mezzo della partita per chiacchierare con lei! Siamo già in svantaggio di un giocatore, così giochiamo due contro quattro!>> Ryan si era impossessato della palla arancione e ora gli correva incontro.
Era sudato anche lui, come tutti gli altri, senza più la cravatta al collo, ma fortunatamente non aveva seguito l'esempio di Jajeck di mettersela in testa come aveva fatto Rise, per reggersi meglio i capelli e tenerli sollevati. Solo che Rise era carina così, Jajeck sembrava un deficiente.
<< Arrivo, arrivo!>> Posò la borraccia e si lasciò afferrare per un polso dal biondo, che borbottava qualcosa di non ben comprensibile su tiri liberi dovuti a falli palesi.
Il bambino lo guardò perplesso, << Rise ha di nuovo ammazzato qualcuno ma continua a dire che non è fallo?>> chiese infine già aspettandosi la risposta positiva che arrivò subito.
<< Ha dato una spallata a Turan così forte che sarebbe stato un placcaggio pulito a rugby.>> sospirò lasciandogli il braccio e guardandolo quasi infastidito da tutta quella storia, << Ma ovviamente non è fallo, siamo noi che siamo debolucci e cadiamo come pere al primo tocco, parole sue. E pensare che faceva anche danza classica, e che è pure brava… come fa ad essere tanto carina dentro un tutù e a far così paura fuori?>> scosse la testa e gli fece cenno di seguirlo.

Sul campo Turan si massaggiava una spalla, un broncio dolorante in volto e Andrew che cercava una qualche crema nella sua borsa. Gli altri erano in piedi vicino al canestro, aspettando che tornassero i due biondi e che il gioco riprendesse.
<< Se volete provare a prendervi quei cinque punti fate pure, tanto è l'unico modo in cui potreste riuscirci.>> gli ringhiò quasi contro Rise quando si avvicinarono.
<< Lo hai preso a spallate Risie! Un colpo come quello gli poteva rompere il naso!>> Andrew aveva in mano uno stick, il cipiglio accusatorio stampato in faccia e l'aria di uno che si stava trattenendo dal fargli una bella ramanzina.
<< Cosa posso farci io? Il basket è uno sport fatto di contatto fisico, non è colpa mia se non lo reggete.>>
Jajeck sospirò scocciato, << Okay, okay, abbiamo capito che Rise non deve fare sport da contatto a meno che il contatto non sia brutale e giustificato.>> cominciò spiccio, strappando la palla dalle mani di Ryan e lanciandola con un gesto preciso nella cesta con le altre, << Direi quindi di smetterla, prendiamo le cose e andiamo a fare altro. >>
<< Che poi dovresti passarla la palla, non tenerla per te, si chiama gioco di squadra apposta.>> puntualizzò Ryan.
La bambina per tutta risposta alzò gli occhi al cielo infastidita, dando a tutti le spalle e marciando verso Arabelle che invece sembrava davvero felice che quel supplizio fosse finito.

<< Cavolo Rise, potevi stenderlo prima?>> le chiese infatti l'amichetta quando l'altra l'ebbe raggiunta.
<< Prima non mi hanno dette di marcare nessuno.>> sempre più stizzita afferrò il suo zainetto e ne tirò fuori il maglioncino, già infreddolita dalla frescura dell'aria ora che si era fermata e non correva più.
<< Bhé, potevi capirlo prima che non faceva per te.>>
A Will parve per un momento che l'avrebbe presa a pugni, la posa rigida delle sue spalle era la stessa che aveva assunto quando lo aveva salvato da quei bulletti. Ma Rise strinse i denti lasciando uscire dalle labbra tirate un ringhio minaccioso e Arabelle ammutolì di colpo, evidentemente capendo l'antifona di quel gesto.
Vide la più alta girarsi, lo sguardo infuocato di rabbia probabilmente, la sua irritazione aveva raggiunto livelli così alti che poteva esser solo che diventata rabbia. Evidentemente gli altri dovevano aver già conosciuto quello sguardo perché si esibirono in una serie di smorfie e versi affranti e preoccupati che lo spinsero a seguirli veloce come un fulmine.

<< Forse non sei portata per i giochi di squadra.>> Provò Alexander per calmarla, << Ma se vuoi comunque giocarci, invece, possiamo sempre provare pallavolo, li sei obbligata a non toccare due volte di seguito la palla, quindi non ci sarebbe il problema del passarla o non passarla, lo devi fare per forza.>> provò ad avvicinarsi a lei ma si bloccò prima di toccarla, fissandola un attimo e poi sbrigandosi a prendere le sue cose.
<< Ci pensiamo domani, eh? Che ne dici?>> si sentiva in obbligo di dire qualcosa, quel clima così teso non c'era mai stato prima e non capiva perché fosse degenerato in quel modo. Questa volta però non c'era Andrew a spiegargli tutto, non trovò i suoi occhi dolci ad assisterlo, puntati invece preoccupati sulla figura alta della sua amica. Incontrò invece un paio di occhi gialli-aranciati, simili alle gocce d'ambra che suo zio Benny aveva riportato dalla colonia. Jajeck lo fissò attentamente e poi gli si avvicinò.
<< Torniamo a casa >> fece rivolto a tutti, << Io accompagno Will, che tanto sta di strada.>>

Si erano separati dopo aver atteso per una mezz'ora quasi che i loro genitori o le tate arrivassero, sorpresi del fatto che a differenza del solito nessuno fece un capriccio per rimanere di più, ma che si fossero anche salutati con una certa freddezza.
La tata di Jajeck non era una tata: era un ragazzo, tanto per cominciare, abitava alla casa vicino a quella del bambino e gli faceva compagnia quando i suoi genitori non c'erano, quindi praticamente sempre. Gli aveva raccontato di lui, che era simpatico e alla mano, che era quasi un cugino se non un fratello maggiore; perché Jajeck era figlio unico e non aveva parenti in America.
Will era rimasto di sasso: che vuol dire che “non aveva parenti in America”? Ma tutti i suoi amici stavano messi così?
Il bambino gli aveva riso in faccia, e si, in effetti si, erano tutti di origini europee o comunque del “vecchio mondo”, erano nati in America, ovvio, così come molti dei loro genitori, ma i loro nonni proprio no. I suoi erano dell'Europa del Nord, Norvegia e Finlandia, erano i più vicini alla Russia, da cui veniva la nonna di Rise.
Per un attimo Will ebbe la sensazione che il bambino avesse spinto apposta il discorso verso quel punto e la cosa non gli sarebbe neanche sembrata così assurda: i suoi amici avevano ricevuto un'educazione del tutto diversa dalla sua, erano stata abituati a portare le discussioni dove volevano, glielo aveva visto fare spesso, anche con le maestra, sviando dalle domande difficili e facendogli crede che volessero affrontare punti più interessanti.
Proprio come fanno i grandi.
Questo avrebbe spiegato perché l'amico di Jajeck, Nathan, non aveva aperto praticamente bocca se non per salutarlo, presentarsi e chiedergli dove abitasse. Aveva notato il bambino bisbigliargli qualcosa all'orecchio ed il giovane annuire comprensivo.

<< A proposito di Rise...>>
Will alzò le sopracciglia, allora c'aveva azzeccato! Fu quasi confortevole sapere di riuscire a riconoscere le varie “tecniche evasive” dei suoi amici, questo significava che ormai li conosceva. Ma non significava che il discorso che stavano per cominciare fosse reso meno leggero da questa sua conoscenza, anzi, si sentì un po' a disagio, credeva sempre di aver finalmente imparato tutto sui suoi amichetti e poi ecco li che usciva una cosa nuova.
<< Si?>> provò a sembrare tranquillo, ma non dovette risultare così credibile dallo sguardo che il rosso gli lanciò.
Jajeck si sistemò meglio la cintura di sicurezza, il blocco per bambini lo aiutava a non farsela premere contro la gola.
<< Oggi ti sarà sembrata strana, anche antipatica, ma non devi vederla male. Lei non è cattiva.>> Quella frase lo sorprese: certo che Risie non era cattiva, la conosceva da mesi ormai, se ne sarebbe reso conto, solo che…
<< Però oggi faceva quasi paura.>>
<< Togli il quasi, oggi faceva paura. Ma anche quello è normale, a volte le capita. Si trattiene tanto, ci prova davvero, la vecchiaccia le fa fare tante cose in cui deve mantenere la calma proprio per questo. Solo che poi dopo un po' si gonfia troppo e esplode.>>
Improvvisamente gli tornò in mente Andrew e la storia di Rise chewingum, la bambina che resisteva alla sgridata della nonna ma si vedeva lontano un miglio che voleva solo urlarle contro. << In quei casi, non succede mai nulla di buono. E' un po' il suo problema, sai? Tutti ne abbiamo uno, tipo te che ti metti a piangere per tutto.>>
<< Ehi! Io non piango per tutto!>>
<< Si che piangi per tutto, Willy, è il tuo punto debole. Te la ricordi la storia di Achille che la maestra ci ha letto in classe? Che era invincibile ma se lo colpivi al tallone lo potevi sconfiggere? Tutti quanti ne abbiamo uno, tu sei sensibile, come Andy. Ryan non accetta le sconfitte, io non sopporto che la gente mi tratti da stupido, Arabelle che la gente la ignori, Turan non può sopportare le cose ingiuste e Alexander si farà ammazzare da grande perché deve sempre trovare una soluzione a tutto.>>
Per un attimo stettero in silenzio, Will scorse lo sguardo attento del ragazzo seduto al volante che cercava il volto del suo amichetto, come per sincerarsi che stesse bene.
Il bambino sembrava accigliato, non gli andava di dire quelle cose e probabilmente alcune erano anche sbagliate, tipo, lui non sopportava che venissero insultati o feriti i suoi amici, molto più di quanto non sopportasse che la gente lo trattasse da stupido, questo Will lo aveva capito proprio perché gli voleva bene. Così come sapeva che i punti deboli degli altri erano di più, che tutti loro ne avevano più di uno, anche se ora il bimbo si era concentrato su quelli più eclatanti.
<< E Risie?>> chiese piano.
Il versetto che uscì dalle sue labbra era quello classico di qualcuno che si apprestava a dire una scomoda verità.
<< La gestione della rabbia.>>
Oh, era una parola grossa quella, “gestione”, come di un locale, di un ranch o di una casa.
Voleva dire che Rise non riusciva a non arrabbiarsi?
<< Vuol dire che cerca di trattenersi perché sa che se si arrabbia perde la pazienza.>>
<< Tutti perdiamo la pazienza quando ci arrabbiamo, se no non lo faremo!>>
<< Si… ma no.>> si grattò la testa e si voltò verso di lui con tutto il busto. Cercava le parole giuste per spiegarsi, ma era palese che non riuscisse a trovarle. Con tutta probabilità, a lui, lo aveva spiegato la Signora Povidence, che era una pisicoloca e sapeva dire le cose in modo chiaro e preciso anche per loro.
Lo vide tentennare sempre di più e poi far correre lo sguardo allo specchietto retrovisore, sperando di incontrare quello di Nathan.
Il ragazzo lo colse al volo e si schiarì la voce:
<< La gestione della rabbia è una cosa un po' difficile da spiegare, Will.>> cominciò tranquillo come se avesse affrontato quel discorso altre volte. Probabile. << Normalmente siamo tutti più o meno pazienti, e quando al pazienza viene meno ci arrabbiamo anche in modi diversi. In quei casi c'è chi urla, chi litiga solo, chi lancia gli oggetti e anche chi arriva ad alzare le mani. C'è chi piange per lo stress… sai cosa significa, si? Bene, però, quando questo succede, tutti quanti sappiamo come comportarci bene o male, vero?>>
Will annuì concentrato, anche il ragazzo si stava sforzando di essere chiaro e il biondino non voleva certo far passare per vane le sue intenzioni.
<< Si! Io quando mi arrabbio- >> si bloccò e guardò male Jajeck che come leggendogli nel pensiero gli sorrise tra il colpevole ed consapevole, << a me viene da piangere, così cerco di trattenermi e di smetterla di litigare.>>
<< Ecco, perché tu sai “gestire” la tua rabbia. Ci sono persone che non ci riescono, che quando si arrabbiano non capiscono più niente e diventano anche violente.>>
<< Rise è una di queste persone?>>
Jajeck annuì, << Risie si trattiene tanto, perché non può mai sfogarsi...ma poi ci sono momenti come questi, in cui per una cavolata come un fallo comincia a bollire come l'acqua per il tea e poi gli basta una parola per arrabbiarsi davvero. Non lo fa apposta, solo che non si controlla. E' come se avesse tante esplosioni dentro, le sopporta, le sopporta e poi ne arriva una troppo forte che fa riscoppiare pure tutte le altre.>>
Era un po' complicato, ma da quando aveva conosciuto quei sette lo era tutto.
In pratica Risie era una persona facile all'arrabbiatura, ma si tratteneva tanto e alla fine, quando non ce la faceva più, diventava davvero, davvero, arrabbiata e picchiava le persone?
D'improvviso gli tornò in mente Natale, lui e la bambina che parlavano e lei che gli dava un pugno sul braccio; gli aveva fatto male, certo, nulla di eccessivo in effetti, ma poi gli aveva anche detto che “lei era fatta così” e anche che quel giorno c'era andata leggera perché a Natale si è tutti più buoni. Poi un'altra illuminazione lo fece girare di scatto verso il rosso.
<< E' per questo che quando era arrabbiata con la nonna tu la stuzzicavi e ti facevi prendere a pugni?>> Era per quello? Perché Jajeck aveva capita com'era fatta Rise e che aveva bisogno di sfogarsi? Si era volontariamente offerto come punchingball solo per farla calmare? Per non farla arrivare al punto di esplodere?
Il bambino sembrò sorpreso prima della realizzazione di Will, poi del fatto che lo avesse capito e poi di ciò che aveva fatto. Si strinse nelle spalle un po' imbarazzato ed annuì, cercando di sembrare tranquillo.
<< Bhé, gli serviva, in quel momento dico. Poi io sono forte, con Rise ci faccio a pugni da quando siamo piccoli, è così che siamo diventati amici. All'asilo io e lei volevamo giocare con la stessa cosa, ce la siamo strappata di mano tante volte e poi si è rotta, solo che invece di metterci a piangere come avreste fatto tu e Andrew- >>
<< Ehi!>>
<< - noi ci siamo guardati male e poi abbiamo iniziato a fare a botte.>> concluse ignorandolo.
<< Ma Alexander non lo fa mai?>>
<< Ma te lo immagini Alex che si fa prendere a pugni da Rise? Tipo che al primo va lungo per terra e non lo rialzi più? No, no, lui è bravo con le parole, è l'unico che la calma così. Noi abbiamo tutti modi diversi. Certo, Arabelle fa pena a tranquillizzare le persone, lo hai visto no? Non si rende conto di come stanno gli altri e dice sempre la cosa sbagliata. Andy e Alex sono gli unici con cui ci parla, Turan si limita a starti vicino e a consolarti e Ryan prova a fare come gli ha insegnato sua mamma. Come al solito siamo tutti diversi, sia a consolare che ad arrabbiarci, non funziona sempre tutto con tutti.>>
Annuì Will, rendendosi conto che la macchina era appena entrata nel viale di casa sua.
<< Cosa facciamo ora?>> si risolse a chiedere preoccupato.
<< Si sfogherà a casa, ha una palestra al Maniero, ne ha anche una piccolina alla Villa, sicuramente si chiuderà lì con il Colonnello e prenderà a pugni qualcosa, tipo il sacco da box.>>
Il bambino sgranò gli occhi ancora più preoccupato di prima. Che vuol dire che ha una palestra? Cioè; non gli pare difficile da credere, ma che vuol dire che prenderà a pugni il sacco da box? Vuol dire che Rise sapeva picchiare le persone perché glielo avevano insegnato? Ma poi, cosa più importante…
<< E se si fa male? A dare i pugni al sacco.>> l'apprensione nella sua vocetta fece voltare l'amico a guardarlo.
<< Ora ti insegno una cosa Will- cominciò quello serio- fare a botte non è una cosa stupida. Non nel senso che è giusto farlo, ma che non lo si deve prendere alla leggera. Se picchi qualcuno senza saperlo fare davvero, rischi di farti male anche tu. Ma con Rise non c'è pericolo, lei lo sa fare, il Colonnello e persino i suoi genitori glielo hanno insegnato, sa come si da un pugno, come si para e pure come si fanno tante altre cose. Risie è un po' particolare, se la vedi ballare sembra un fiocco di neve, è bella e leggera, come una bolla di sapone, bravissima, ma lo vedi che manca qualcosa, quella cosa che hanno tutte le persone che fanno qualcosa che gli piace. Ma se la vedi combattere, non hai dubbi: Rise è nata per farlo, è naturale, come respirare. Lei è una guerriera Will, è la sua natura.>>

Non aveva mai sentito un discorso così profondo fatto da un bambino di sei anni e Will ne rimase affascinato, colpito e stupito. Jajeck non era il classico ragazzino bello e forte che si vantava e faceva lo spavaldo, era molto di più, sotto quel suo aspetto da star della scuola. Per un altra, ennesima volta, il bambino si chiese quanto fossero complicati e contorti i suoi amici, quanto nascondessero sotto il loro volto da infanti, quanto e cosa avevano dovuto passare per diventare così. Perché era così vero? Come nei film, quando ti facevano vedere il protagonista che faceva il bulletto e poi gli succedeva qualcosa di strano, magico o fantastico e lui cambiava, diventava l'eroe della situazione. Ma cosa potevano aver passato, in soli sei anni, quei sette?

Si trovava sotto le coperte leggere del suo letto a macchina da corsa, la mamma aveva tolto da tempo la trapunta pesante, ma in quel momento Will avrebbe tanto voluto aver il piumino che zio Tony aveva a Chicago d'inverno per potervisi nascondere sotto.
Non sapevo cosa fosse a turbarlo di più, se il modo in cui Rise si fosse arrabbiata, il silenzio che era caduto tra di loro solo guardandola o proprio lo sguardo terribile della bambina. Ne aveva viste di persone furiose, compresa sua madre di recente, al telefono con il nonno, ma una persona adulta era un conto, lei poteva far paura, un bambino no!
Vero?
Eppure al contempo si sentiva terribilmente triste per la sua amichetta, quanto doveva essere brutto essere così arrabbiati da spaventare i propri amici, il proprio fratello? Si spaventava anche da sola? Si sentiva esplodere e aveva paura? Si era mai fatta male quando stava così?
Sua madre gli aveva detto di non darci troppo peso, erano piccoli e spesso succedeva che per un nonnulla scoppiasse il finimondo, che magari già arrivata a casa le era passato tutto e Jajeck aveva esagerato perché le voleva bene e si preoccupava molto per lei. Ma Will non ne era convinto proprio per niente, aveva una strana inquietudine addosso e per la prima volta si trovò a pensare che si: quella era Katrina, la vera Katrina, quella che sua nonna aveva cercato di nascondere e domare, quella che probabilmente proprio Madame aveva aiutato a creare.
Non lo aveva detto a nessuno, né a Jajeck né a sua madre, lo avrebbero preso per pazzo probabilmente, ma quando stavano aspettando le loro mamme, mentre tutti erano così silenziosi e tesi, Will aveva riflettuto parecchio sulla scena appena vissuta e si era accorto di una cosa assurda: lo sguardo di Rise era acceso della stessa luce che gli aveva visto in volto quando litigava con la nonna, la stessa aura determinata, combattiva, invincibile.
Spietata. Gli suggerì una voce nella sua coscienza che non era neanche sua.
E Will non aveva mai sentito quella voce in vita sua, e non aveva neanche la più pallida idea di cosa significasse “spietata” ma sentì che era la parola perfetta per descrivere lo tsunami di sensazioni che la vicinanza della bambina gli aveva dato.

Quella notte per Will fu inquieta ed agitata. Sognò di uomini in armatura che combattevano, come i soldati del libro di storia, forti ed inarrestabili guerrieri che militavano sotto ad uno stendardo rosso sangue, come i capelli di Rise che, imponente, era tornata ad essere la fredda e perfetta Katrina, con l'aggiunta ora dello sguardo spietato che aveva visto quel pomeriggio.
La bambina era in piedi su delle macerie di cemento e lo scrutava impietosa, lui e i soldati, un lungo bastone dalla punta scintillante in mano, come quello di una majorette, che usava per dirigere i soldati, urlando senza posa aggressive direttive di combattimento, gestendo il plotone con la forza di un leader esperto e sicuro di sé, della vittoria.
Non importava se qualcuno cadeva, i suoi sottoposti dovevano tenere i ranghi serrati, avanzare e lottare, il nemico non doveva avanzare, non doveva arrivare alle porte della loro base, avvicinarsi troppo a ciò che stavano proteggendo, e se i soldati non ci fossero riusciti sarebbe scesa lei in campo e allora nessuno sarebbe riuscito a placare la sua ira e a sottrarvisi, neanche il gigantesco figuro che si stagliava sullo sfondo del suo sogno, circondato da una moltitudine di insetti scuri che gli vorticavano attorno.
La voce della sua coscienza gli sussurrava frasi sibilline e inquietanti.

E poco valeva che Rise non fosse così grande ed imponente come la vedeva nel sogno, che i suoi capelli non fossero color sangue ma di un marrone rossiccio cupo, non valeva nulla il fatto che lui lo sapesse che quella non era la sua amica, che quello non era il vero tono della sua voce, che Rise non dirigeva plotoni e tanto mento sarebbe mai scesa in un campo di combattimento con centinaia di soldati in armatura, minacciando un nemico invisibile e oscuro con la promessa della sua ascesa alla battaglia. Era inutile la sua consapevolezza che la sua Rise non avrebbe mai fatto una cosa simile.
Nulla aveva importanza anche perché la mattina dopo non l'avrebbe ricordato, né il sogno né la voce. Si sarebbe svegliato un po' intontito, confuso da una notte che non gli aveva portato riposo, dicendo a sua madre che aveva proprio dormito male.
Will non si sarebbe mai ricordato del suo primo sogno da semidio, il primo incubo che lo avvertiva di qualcosa che sarebbe successo in un tempo indefinito che andava da lì all'eternità. E a nulla valeva che la sua amica fosse stata messa lì solo perché fulcro dei suoi pensieri del giorno, neanche che per la prima volta suo padre gli avesse sussurrato parole di un futuro incerto e pericoloso, mostrandogli immagini di una guerra a cui lui stesso avrebbe preso parte.
Will non avrebbe mai ricordato nulla, se non fosse stato per un certo Oracolo che un giorno, malauguratamente, aveva chiesto ad un altro semidio di recuperare un ricordo del passato del figlio d'Apollo.
Ma per il momento, Will era semplicemente convinto di aver dormito male in quella notte senza sogni.


L'Arizona, per ora, era una magnifica, complessa e colorata, bolla di sapone.

[F I N E T E R Z A P A R T E]

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Capitolo 4
*** Quarta Parte ***




C O U N T R Y R O A D


Quarta Parte.

[Maggio]



Il mese delle rose. Questo è quello che gli ripeteva sempre sua nonna. Al ranch in Texas avevano una piccola piantina di rose rosa, sua nonna le adorava ma non era riuscita coltivarne nessun altra che non fosse quella. Da quanto gli era stato detto gliela aveva regalata il nonno quando era nata zia Laura, per festeggiare la prima femmina dopo i due maschi.
Eppure, a Phoenix, non è che c'erano tutte ste' rose in fiore, tanto meno al BI.
Certo, c'era da immaginarselo che con un clima del genere quei delicati fiori avessero problemi a crescere, ma credeva che almeno in quell'angolo di paradiso verde tutto fosse possibile.
Quando aveva fatto presente la cosa ai suoi amici Alexander gli aveva sorriso illuminandosi, uscendosene con un “certo che ci sono” che lo aveva lasciato scombussolato. Perché tanta emozione?

Il perché lo aveva capito quel pomeriggio, quando il bambino lo aveva portato nella serra dell'istituto dove una donna che doveva avere giusto qualche anno in più della sua mamma era impegnata ad annaffiare, potare ed accudire una moltitudine sorprendente di piante.
La signorina Wisteria era probabilmente una delle adulte più simpatiche che avesse mai conosciuto: sapeva i nomi di tutte le piante e ad ognuna di loro, a sua volta, aveva dato un nome proprio. Sapeva di cosa necessitavano, quando e anche come accontentarle. A sentir lei ogni vegetale aveva un'anima, una coscienza propria che andava rispettata e amata, così come ogni essere vivente: impara a conoscere un essere, portagli il giusto affetto e rispetto e questo ti ripagherà con fedeltà e amore.
Gli piaceva come parlava ai fiori e alle foglie, come carezzava i rami e solleticava gli arbusti, soppesandone i frutti e conversando con il fusto su quando sarebbe stata pronta la bacca, sembrava proprio una dottoressa che parla ai suoi pazienti.
Un'altra cosa che apprezzava di lei era sicuramente la voce limpida e fresca, così vivace, e gli occhi di un azzurro particolare, tendente al lilla. Era una donna non troppo alta, dal fisico morbido avvolto in una veste da giardiniera retrò, un vestito verde salvia ed un grembiule bianco un po' impolverato dalla cui tasca spuntavano delle forbici e delle cesoie. Il volto era luminoso e gioioso, anche se la pelle era un po' pallidina e Will poteva giurare di vedere tutte le vene verdi sotto quell'epidermide delicata. Ma ciò che sicuramente aveva colpito di più il bambino, più dei modi allegri e dolci di una mamma, di un'appassionata, più dei vestiti che gli ricordavano le vecchie foto del West e degli occhi azzurro-lillini fu una cosa che, senza ombra di dubbio, era veramente lilla: i capelli.
La signoria Wisteria portava due lunghe trecce morbide e leggermente scomposte, segno evidente del capello mosso, di un perfetto, sgargiante e magnifico lilla glicine.
Will l'aveva fissata imbambolato e la dolce signorina gli aveva sorriso raggiante, come se non aspettasse altro che incontrarlo. Aveva abbracciato forte Alexander e quando il biondino gli aveva allungato una mano per presentarsi aveva abbracciato anche lui.
Era sicuramente una donna molto espansiva.

<< A cosa devo il piacere di questa tua visita piccolo? Volevi mostrare la serra al tuo nuovo amico?>>
Alexander annuì felice, << Will non aveva ancora visto il fiore del mese!>> disse con sicurezza, consapevole che la giardiniera l'avrebbe capito al volo.
<< Ah!>> proruppe allora quella comprensiva, annuendo e facendo cenno di seguirla, << La regina di Maggio è sbocciata da poco nel suo primo fiore, qui da noi, c'è un gran fermento di api, sapete? Vogliono tutte far visita alla nuova nata!>>
Eh si, sembrava proprio che stesse parlando di una bambina!
Il vaso in cui erano ospitati i rami di rosa erano bassi e larghi, i fusticelli spinosi sembravano a pois per colpa di quelle puntine rosse disseminate per la corteccia verde. Sulla sommità fili di una tonalità più chiara reggevano a malapena pesanti boccioli carnosi di diversi colori: rosa, bianchi, gialli, ancora un poco verdini, rossi e anche arancioni. Ma l'unico ad essere fiorito era un tripudio giallo di petali vellutati e lucidi come il raso, costellati di piccole gemme d'acqua che rendevano il fiore luminoso come un gioiello.
Era bellissimo e Will potette giurare di non aver mai più rivisto una rosa bella come quella; venne scosso dalla sua contemplazione da un singulto sorpreso.
Si voltò curioso verso Alexander per chiedergli cosa fosse successo ma rimase di nuovo a bocca aperta: sotto le ciocche nere che gli ricadevano sulla fronte, dietro alla montatura grande degli occhiali le iridi color topazio del bambino risplendevano come il fiore davanti a loro. Migliaia di pagliuzze dorate erano schierate a raggiera attorno alla pupilla dilatata dallo stupore, perfettamente allineate sullo sfondo prezioso di quegli occhi, una pietra levigata e poi intarsiata come i bicchieri di cristallo che ornavano il tavolo della Villa quel Natale.
Sarebbe rimasto per ore a fissarlo se non fossero entrati in quel momento anche gli altri, venuti a cercarli e a salutare la Signorina Wisteria, come se fosse una loro abitudine.

<< Buon giorno Signorina Wisteria, come state lei e le piante?>> Chiese cortese Arabelle entrando per prima. La seguì a ruota Turan che non appena mise piede nella struttura di vetro sembrò alzarsi come un fiore che saluta il nuovo giorno, gonfio di felicità.
Wisperia sorrise gentile alla bambina e lanciò uno sguardo d'intesa all'altro che le rispose con uno dei suoi sorrisi smaglianti.
<< Sono nate le regine?>> chiese infatti tutto entusiasta.
<< E' Maggio Turan, certo che son nate. >>
La voce di Rise anticipò quella della donna che rivolse anche agli altri quattro lo stesso sorriso materno che aveva regalato a loro. Ma non ebbe di nuovo il tempo di rispondere che Alexander era corso letteralmente tra le braccia della sorella.
Quando alzò il volto per poter osservare la bambina non fu solo Will a rimanere incantato: sembrava che il Sole in persona fosse sceso in terra portando con se i suoi raggi più dolci per racchiuderli al sicuro negli occhi del moro. Risplendevano di luce propria e ammaliavano chiunque vi posasse lo sguardo e furono anche i fautori di un impresa che da un po' di settimane non riusciva a nessuno. Rise osservò il volto del fratello impassibile, cercando qualcosa che gli altri non vedevano, non comprendevano, per poi evidentemente trovarlo ed in fine sciogliersi dalla patina composta che aveva riassunto dopo la partita di basket e piegare le labbra in quello che doveva essere un sorriso trattenuto ma che risultò a tutti dolce come il miele.

<< Giallo Rise, che ne dici del giallo quest'anno? Non sarebbe bello?>> strinse forte le mani della sorella e poi si voltò verso la Signorina Wisperia, << E' lei vero? E' la nostra?>> chiese sovreccitato da quella possibilità. E la donna gli sorrise felice che l'avesse effettivamente riconosciuta, annuendo con vigore e facendo ondeggiare le trecce lilla.
<< Complimenti fiorellino! E' proprio la vostra rosa quella.>>
Il sorriso di Alexander si fece così grande che Will non si stupì di sentir Jajeck borbottare che secondo lui gli sarebbe presa una paralisi.
Lo vide poi voltarsi ancora verso la sorella che sbuffando divertita, annuì:
<< E giallo sia.>>
Le grida di gioia del bambino si sentirono anche da fuori delle spesse pareti trasparenti e tutti gli altri non poterono far a meno di essere contagiati da ciò.

Ma poi, gli domandò quella sera a tavola Summer, mentre gli raccontava degli eventi della giornata, per cosa sarebbe andato il giallo?
Ah, bhé, di questo Will non ne aveva la più pallida idea.

Probabilmente se ci avesse riflettuto un attimo invece di stringersi nelle spalle e rituffarsi nel budino al cioccolato, si sarebbe ricordato che quel mese era molto speciale.
Ripensandoci in futuro, come spesso gli capitava, avrebbe potuto affermare con certezza che lo sarebbe stato anche più di quanto non si sarebbe mai aspettato, ma mai troppo come quello successivo.

<< O mamma, davvero?>> chiese sconvolto il biondino al suo compagno di banco.
Andrew annuì posando la Guida sul tavolo, l'aprì con attenzione e a colpo sicuro trovò la pagina che gli interessava.
In bella grafia, quella di Turan, con un pennarello arancione, era vergato un titolo molto importante: “Compleanni e feste speciali”. Sotto di questa, con una penna di un colore diverso per ogni persona, erano riportati in ordine cronologico tutti i compleanni dei bambini e subito dopo, divise da una linea, tutte le altre feste importanti.
Il primo era in verde ed era il compleanno di Turan, a Febbraio. Poi in rosa quello di Arabelle a fine Marzo; subito dopo, Rise e Alexander a Maggio, rispettivamente in rosso Ferrari e in blu. E si, c'era da specificare che il rosso fosse “Ferrari” perché lei e Jajeck si erano litigati quel colore fino alla morte, o almeno finché Andrew non aveva proposto al giovane Royale di prendere un arancione molto tendente al colore che desiderava, asserendo che fosse un bellissimo color “fuoco” e mettendo così fine alla discussione. Subito dopo c'era proprio il castano, agli ultimi di Giugno, con un bel celeste con cui era stato risolto il problema del “dobbiamo avere tutti colori diversi”. Era proprio Will il quinto della lista, a cui era stato appioppato il giallo senza possibilità di replica, perché era biondo e perché era nato ad Agosto, quando c'era tanto sole.

E “no, Will, il celeste ce l'ha Ryan. Sta zitto Ryan, ho detto che il celeste no, non m'importa che il tuo sia azzurro. Anzi, sai che ti dico? Andrew il celeste te lo prendi tu. No, non mi importa neanche che tu volevi il verde limone e se provate ancora a rompere le scatole vi prendete il turchese e il viola, mh? Chi vuole?”

Dopo quella sequela di compleanni c'era una pausa di due mesi e poi si ricominciava con Jajeck ad Ottobre e, con sua grandissima sorpresa e anche immenso divertimento, chiudeva la fila Ryan, il più piccolo di tutti, a fine Novembre.

Con il broncio classico di chi si è dimenticato una cosa importante e al contempo è ancora indispettito per un torto subito, Will si rese conto che, effettivamente, il compleanno dei gemelli era vicino, anzi, era praticamente lì.
Ma un momento:
<< Ma Rise e Alex non sono davvero gemelli, lei è nata prima no? Come facciamo? Festeggiamo prima una e poi l'altro? >>
<< Certo che no! La festa è una sola.>> ribatté tranquillo.
<< Ma non si può spegnere le candeline prima che sia davvero il proprio compleanno!>>
<< Infatti non lo fanno.>>
<< E quando si festeggia?>>
<< Il giorno del compleanno di Alex.>>
Will guardò sbalordito l'amico: quindi ogni anno Rise non festeggiava il suo compleanno il vero giorno del suo compleanno per festeggiarlo assieme ad Alexander il giorno del suo di compleanno? Mh, troppi compleanni in un solo pensiero e si era anche vagamente perso.
<< E come fa Rise?>>
Andrew allora lo guardò davvero stupito e con sicurezza dettata dal trovare quella risposta estremamente scontata disse solo: << Aspetta.>>

Tragedia.
Aspetta?
Lui a mala pena riusciva a dormire e non rimanere sveglio fino a mezza notte per poi poter aver la scusa che “è il giorno del mio compleanno, è appena scattato” e poter aprire i regali!
Ma come poteva fare Rise? Era un mostro quella ragazzina, altro che problemi di gestione della rabbia!

<< No, non gli faremo dei vestiti coordinati Arabelle! E' un compleanno, che schifo è ricevere dei vestiti!>> Ryan era a dir poco indignato, seduto a gambe incrociate sul tappeto della sua cameretta. Avevano deciso di riunirsi da lui subito dopo la scuola, quando il biondino si era offerto di riportare tutti lui, mentre i gemelli tornavano al Maniero. Si, c'era rimasto male per loro, a quanto pare anche la Signora Providence era dovuta partire ed entrambi si erano ritrovati dai nonni.
<< Sei solo tu quello che trova l'idea orribile!>> ribatté la bambina ancora più indignata dell'altro. << Ara, davvero, quei due non sono tipi a cui piace ricevere vestiti, lo sai che hanno entrambi dei gusti difficili.>> provò all'ora Turan sorridendole gentile, <>
Will inarcò le sopracciglia, si, entrambe, non aveva ancora convinto Rise ad insegnargli a farlo con una sola, e lanciò una muta richiesta di spiegazione agli amici.
<< Sono gemelli, ricordi?>> fece Jajeck con un gesto vago delle mani, << quindi come tutti i gemelli si vestono in coordinato. O almeno lo fanno per il loro compleanno.>>
<< E quest'anno si vestono di giallo!>>
Oh! Ecco per cosa poteva andare il colore, non per le decorazioni ma per i vestiti!
Annuì comprensivo e poi riportò l'attenzione sul foglio al centro della stanza, vicino al vassoio bianco e blu su cui erano poggiai i panini dolci della loro merenda ed i bicchieri di succo.
Cosa si poteva fare a due bambini così diversi e al contempo così simili?
<< Ma dobbiamo per forza farglieli uguali?>>
<< Eh si, se no se poi a uno piace di più il regalo dell'altro?>>
<< Se li scambiano?>>
Ryan scosse la testa, << Io non lo farei mai, il regalo è il mio e me lo tengo.>>
Fu il cugino a rifilargli una gomitata e guardarlo storto, << Disse quello che lo scorso Natale si è messo a piangere perché voleva la mia di macchina e mi ha costretto a scambiarla con la sua.>>
Il volto del biondo divenne di una curiosa sfumatura color fragola, boccheggiando senza sapere cosa dire per difendersi ed optare alla fine per un << Non era l'anno scorso! Avevo solo tre anni, ero piccolo!>>
Andrew alzò gli occhi al cielo come solo di rado gli si vedeva fare e lasciò perdere il discorso, concentrandosi su altro, << L'anno scorso gli abbiamo regalato le mazze da hockey, no? Con tutto il resto dell'attrezzatura.>>
Will lo fissò curioso << Che vuol dire con tutto il resto dell'attrezzatura? Sanno andare sui pattini da ghiaccio? E dove ci vanno con questo caldo?>>
I suoi amici ridacchiarono divertiti facendolo sentire un po' preso in giro ed automaticamente facendolo imbronciare, << Da me non ce ne sono molti di centri del genere...>>
<< Vuol dire che non sai pattinare? Diamine allora dobbiamo rimediare!>> Jajeck era saltato in piedi come solo lui sapeva fare quando qualcosa lo emozionava, sporgendosi verso il biondo e facendo il filo al vassoio che Turan si sbrigò a spostare di lato.
<< Andiamo domani a pattinare, tutti quanti, anche i gemelli. Così magari giochiamo ad hockey e vediamo se Rise vuole fare quello di sport o se torna a pattinare!>>
Ancora sorpresa sul volto del bambino, tirato in piedi dal rosso e abbastanza imbarazzato dal fatto che continuasse a tenerlo per mano.
<< Ma c'è una cosa che non sappiate fare?>> domandò allibito.
Ci fu un attimo di silenzio.

<< Stare zitti vale?>>


Andare al pala ghiaccio della città, l' Ice Phoenix, fu piuttosto semplice e Will si sorprese di non aver mai collegato la struttura imponente al centro sportivo. Fu ancora più sorpreso di vedere come i suoi amici sapessero perfettamente dove andare e a chi rivolgersi, procurandogli in poco tempo dei pattini a lama mentre loro indossavano i propri. Notò divertito che tutti quanti avevano gli stessi scarponcini bianchi, ma che ognuno di questi aveva delle lettere impresse sulla caviglia, probabilmente per evitare che i bambini, nella confusione, se li scambiassero e finissero per prendere quelli degli altri, a quanto pare qualunque sport praticassero diveniva il momento ideale per fare tutto quel chiasso che normalmente contenevano in precisa educazione e insegnamenti rigidi.
Albert se ne stava seduto sulla panca con il piede di Jajeck poggiato in grembo mentre cercava di districare il nodo che il bambino aveva fatto al laccio tentando di fare “un nodo superstrettissimo che non si sarebbe mai più sciolto”.
<< E credo tu ci sia riuscito in pieno. >> aveva commentato l'uomo mentre Nathan, l'amico del piccolo Royale, incastrato per quella giornata di ghiaccio, borbottava allacciandosi i suoi di pattini, chiedendosi per la millesima volta perché si era fatto convincere e perché doveva scendere in pista con loro.
<< Perché mi vuoi bene Nat, e perché sai che se cominciamo a correre sei l'unico che ci può riafferrare senza ammazzarsi assieme a noi!>> gli disse felice il bambino allungando una manina per stringere il braccio del giaccone e beccandosi un occhiata sbieca dall'adolescente che finì con lo scuotere le testa e dargli ragione.
Will intanto cercava il coraggio di mettersi in piedi, non aveva mai pattinato in vita sua, gli unici pattini che aveva a casa dei nonni erano quelli a quattro ruote, sua madre gli ripeteva che quelli in linea li avrebbe potuti mettere solo da più grande e quindi non sapeva se sarebbe stato capace di reggersi su due lame così fine.
<< Vuoi una mano?>> Si voltò verso Rise, rimanendo di nuovo stranito nel vederla in pantaloni e felpa sotto al piumino sportivo. Teneva i capelli legati in una coda bassa, fatta probabilmente in quel momento per comodità. Sembrava una bambina normale a vederla così, con i jeans scoloriti sulle ginocchia come se avessero visto centinaia di cadute e corse, con la felpa rosa scuro con al tasca unica in cui teneva infilate le mani coperte dai guanti senza dita e leggermente logori sui bordi. Si ritrovò improvvisamente a pensare che quelli dovessero essere i suoi vestiti preferiti e che probabilmente li aveva comprati con i suoi genitori, magari erano quelli che indossava quando d'inverno la mamma e il papà la portavano alle partite. Era un bel pensiero che gli mise allegria: quella era la vera versione di Rise, ora anche nell'aspetto e non solo nel carattere.

<< Non so se riesco a reggermi, ma siamo sicuri che ci si pattini bene? Solo così fini.>>
Lei scosse la testa, qualche ciuffo scappato dall'elastico lento le scivolò sul volto.
<< Certo che ti reggono, anzi, ti ci troverai benissimo. E poi sul ghiaccio non ci puoi mica andare con le ruote, girerebbero e allora si che perderesti l'equilibrio.>>
<< Tu sei mai caduta?>> Domandò afferrando la mano che gli stava porgendo e facendosi tirare lentamente in piedi, ancora non del tutto convinto che ce l'avrebbe fatta. Però Rise stava dritta come se poggiasse i piedi a terra no? Non doveva essere così difficile.
Il verso di scherno che lo raggiunse gli avrebbe fatto alzare gli occhi al cielo se non fosse stato così occupato a cercare l'equilibrio perfetto.
<< Certo che no. Io ci so andare sui pattini, l'unica volta che sono caduta mi ha trascinato Jajeck perché era arrabbiato che io non fossi mai finita con il sedere per terra. Così poi gli ho fatto lo sgambetto e l'ho mandato di nuovo giù.>> Glielo disse quasi come se fosse orgogliosa di aver risposto a quell'affronto e Will non dubitò che lo fosse davvero, così come non dubito che avessero discusso per tutto il tempo per poi finire per azzuffarsi e cinque minuti dopo comportarsi come nulla fosse. Era questo il rapporto assolutamente incomprensibile di Rise e Jajeck, loro ridevano e scherzavano, si facevano i dispetti e si provocavano a vicenda, si arrabbiavano e facevano a pugni, poi però tutto tornava normale, come se picchiarsi fosse il loro modo di sistemare tutto. E guai se qualcun altro provava a fare lo stesso, era una cosa solo loro.
E spesso anche di Ryan, ma lui aveva Andrew che lo guardava male e gli impediva di buttarsi a capofitto nelle baruffe altrui.
Continuando a tenere strettamente le mani della bambina Will si fissò i piedi un po' in ansia.
<< Se cado mi riprendi?>> chiese speranzoso.
<< No. >> gli rispose secca, << se cadi ti lascio finire con il sedere per terra così impari a non farti male quando ti succede.>>
Okay, forse a logica ci stava, come quando a scuola era venuto un maestro di arti marziali e gli aveva insegnato che per prima come un bravo combattente sapeva cadere. Però non gli avrebbe fatto schifo avere una piccola rassicurazione.
Rise dovette rendersene conto perché sbuffò sonoramente e si voltò trascinandoselo dietro, << Però poi vengo a tirarti su.>>

L'hockey non avrebbe mai fatto per Will e a quanto pare non faceva neanche per Andrew e Arabelle, e pure Alexander aveva i suoi bei problemini a resistere alle spallate senza pietà degli altri.
I quattro erano appoggiati al bordo della pista, dall'altro lato Albert sorrideva divertito tenendo comunque sempre un occhio sui bambini che sfrecciavano a destra e sinistra, buttandosi occasionalmente di pancia sul ghiaccio ormai segnato. Persino Turan sembrava piuttosto divertito dal doversi scontrare con gli altri, nonostante Will ricordasse perfettamente la sua faccia arrabbiata e dolorante dopo lo scontro con Rise sul campo da basket.
<< Avrei preferito che non cominciassero subito a giocare ad hockey, così magari potevamo starci anche noi.>> il borbottio di Arabelle fu superato dalla mezza imprecazione trattenuta di Nathan quando Ryan gli diede la mazza sul polpaccio e poi dalle risa degli altri tre.
<< Ma praticamente ci siamo solo noi, pensavo che in un posto caldo come questo se ci fosse stato un pala ghiaccio sarebbe stato pieno… >> gli fece notare il biondo ricevendo un ennesimo borbottio.
<< Di solito c'è più gente, ma visti i precedenti abbiamo prenotato la pista.>>
Ormai Will non si sorprendeva più di niente, sapeva che i suoi amici erano piuttosto ricchi e l'idea che avessero prenotato l'intera pista non aveva nulla di sorprendente, no , okay, un po' lo sorprese come sempre, ma fu ben altro che attirò la sua attenzione.
<< Che vuol dire?>>
<< Che l'ultima volta Jajeck ha rotto il naso a un tizio perché gli ha dato la mazza in faccia dopo che quello gli aveva detto che “ i mocciosi non possono giocare ad uno sport da duri come hockey” e che quindi doveva togliersi dalle scatole. A Ryan è partita la brocca e la mazza gliel'ha rotta in testa, ad un altro ovvio. Turan gli ha lanciato il disco in testa e Rise ha direttamente caricato uno dei ragazzi della squadra giovanile di Phoenix e lo ha mandato addosso alla rete rompendola.>> Ora Will era scioccato.
<< Aspetta: vuoi davvero farmi crede che dei bambini di…?>>
<< Cinque anni Ryan, Jajek e Rise e sei Turan, io dovevo ancora farli, è successo a gennaio dell'anno scorso.>>
<< Okay, quindi dei bambini di cinque anni hanno buttato giù una squadra di hockey di liceali?>> Era impossibile! I ragazzi del liceo erano mille volte più forti dei bambini dell'asilo! Insomma, avevano tutta quella storia delle palline impazzite che gli giravano per il corpo e gli facevano crescere la barba, che gli facevano uscire i brufoli e che li facevano puzzare di sudore, non potevano essere messi k-o da dei bambini. Di cinque anni poi!
Arabelle parve leggere lo sconcerto nel suo sguardo e si strinse nelle spalle.
<< E' più facile che siamo noi piccoli a fare male che i grandi, da loro te lo aspetti e sei pronto a reagire, da noi no, e poi cosa potresti fare a dei bambini? Mica ci puoi rispondere per le rime. Senza contare che una capocciata in pancia è sempre una capocciata in pancia, e che se con tutta la mia forza alzo una mazza e te la do' in testa o sul naso ti faccio comunque male. E Turan ha una buona mira e il fatto che il disco sia di metallo aiuta tanto.>> si fermò un attimo pensierosa, indecisa se le mancasse qualcos'altro. << E poi quando ci arrabbiamo abbiamo tutti il deplorevole vizio di diventare violentemente forti.>> Annuì soddisfatta e poi fece qualche passo avanti mettendosi le mani sui fianchi:

<< Okay! Direi che per oggi è abbastanza! Posate quella roba e fate pattinare anche me!>> Un coro di “no” generale si alzò dagli altri che la ignorarono bellamente continuando a menar mazzate contro il ghiaccio.
Arabelle scosse la testa ed assottigliò lo sguardo,
<< Perfetto, lo avete voluto voi.>>


<< … e allora Arabelle ha detto: “Perfetto, lo avete voluto voi” e ha preso un respirone e poi ha urlato fortissimo! Dovevi esserci nonno! Si sono tutti fermati per tapparsi le orecchie e quando le hanno risposto per le rime si è avvicinata a Ryan, gli ha tolto la mazza di manto e gliel'ha data in testa! Andrew per poco non sviene lì e Nathan aveva la faccia di uno che voleva fare una strage. Si è caricato Arabelle su una spalla e l'ha portata fuori dalla pista dicendogli cose tipo “avevate promesso che non l'avreste rifatto, che devo dire ai vostri genitori? Che adesso che non ci sono ragazzi più grandi da picchiare lo fate tra di voi? Ma chi me lo ha fatto fare? Jajeck ti scordi che ti ci riporto!” E tutto così, borbottava a più non posso e intanto Albert cercava di non ridere e Albert è grande eh nonno, non quanto te, ma la era così divertente che sembrava uno spettacolino del teatro! E come ridevano anche gli altri! Ryan non, lui si lamentava solo e il cugino, Andrew, invece diceva che gli serviva del ghiaccio per la testa. E allora sai cosa ha fatto Rise? Visto che Ryan protestava tanto gli ha fatto lo sgambetto, lo ha mandato con il sedere a terra e poi gli ha fatto premere la testa sul ghiaccio della pista!>>
Will continuava a parlare a macchinetta da minimo trenta minuti, il nonno, dal lato opposto della cornetta, annuiva ridacchiando di quanto in quanto come aveva fatto Albert quel pomeriggio.

<< Secondo me se li conoscessi ti piacerebbero tanto! Alle volte somigliano tanto agli zii!>>
<< Ah si? E a chi somigliano?>> chiese sempre più divertito.
<< Oh! Zio Benny è un miscuglio tra Andrew, Alexander e anche un po' Ryan! E poi zio Anthony ha qualcosa di Turan, che è sempre calmo ed è il più grande, anche se certe volte è come Jajeck! Ma Andrew e Turan assomigliano anche a zia Laura! E Risie è identica a zio Eric! Giuro! E Arabelle, mischiata con Alexander e di nuovo Turan e pure un po' Ryan è tanto simile a mamma!>>
<< In effetti anche tua madre aveva il brutto vizio di picchiare i giocattoli in testa ai tuoi zii quando non le davano retta.>> l'uomo rise di cuore portandosi dietro il nipotino che come se fosse la cosa più normale del mondo annunciò sereno,
<< Certo! Mamma non si fa mettere i piedi in testa da nessuno! Lei è forte e invincibile!>>
Immediatamente il nonno smise di ridere e sospirò pesantemente.
<< Come- come sta lei?>>
<< Benissimo!>> rispose sicuro, poi ci pensò su, << Un po' triste alle volte, tipo quando squilla il telefono, salta sempre e mi chiede se voglio rispondere io. Io le dico sempre di si, perché mi piace rispondere al telefono, però poi non siete voi a chiamare ma qualcuno che vuole parlare con mamma e un po' mi vergogno.>>
Un altro sospiro, << Lo so Willy, lo so. Vedrai che si sistemerà tutto.>>


Il giorno tanto atteso si stava avvicinando e loro non avevano ancora trovato il regalo perfetto per i gemelli. Will si sorprendeva sempre di come gli venisse naturale pensare dei due bambini come veri fratelli e quanto poco invece pensarli semplici amichetti, insomma, come potevano due semplici amici essere così in perfetta sincronia?
Così quando quella mattina Alexander arrivò a scuola da solo, salutando tutti come suo solito e sedendosi al suo banco da solo, Will non ebbe neanche per un momento il dubbio che Rise potesse esser malata o aver qualche altro problema, lo avrebbe avuto di certo anche il "gemello" se no.
<< Dove se l'è svignata Risie?>> chiese Ryan sporgendosi dal banco affianco al suo.
<< Oggi nonno l'ha portata a Baltimora, zio è lì per un paio di giorni e poi riparte per il Medio Oriente, non ci sarà al nostro compleanno così Rise è andata da lui oggi.>>
Gli altri annuirono e Will dovette frenarsi dal chiedergli prima chi fosse suo zio e poi perché non fosse andato anche lui,
<< E tuo papà ci sarà alla festa?>>
Il bambino si voltò verso di lui accecandolo, un sorriso smagliante ad illuminargli il volto e gli occhi celesti come il cielo che brillavano di felicità, senza neanche un ombra a scurirli. Il bambino avrebbe giurato di riuscir a vedere quasi le code bianche delle nuvole dove la luce si rifletteva sulle iridi cerulee, superando la barriera degli occhiali.
<< Si! Non vedo l'ora di fartelo conoscere! E' il miglior papà del mondo!>> Disse tutto eccitato.
Un versetto di scherno partì da tutti gli altri bambini che lo guardarono scettici.
<< Come no.>>
<< Credici.>>
<< Certo, certo.>>
<< Se, proprio il migliore.>>
<< Rassegnati Alex, nessuno batte il mio!>>
Cominciarono a battibeccare su quale dei loro papà fosse il migliore, ricordando a tutti gli altri episodi forse vissuti assieme o già raccontati che potessero dimostrare che il genitore migliore era il loro. In tutto ciò Will ridacchiava sotto i baffi, divertito in parte ma anche malinconico: chissà com'era il suo di papà, se era un bravo lanciatore, se sapeva guidare un aereo o se quando raccontava le favole aveva una voce così bella da farti immaginare tutto alla perfezione. Probabilmente non lo avrebbe mai scoperto visto che sua madre non era rimasta in contatto con quell'uomo, ma se c'era una cosa che Will desiderava tanto, soprattutto quando sentiva parlare gli altri, era aver l'opportunità di poter anche solo vedere in foto suo padre.
Non che la mamma gli facesse mancare qualcosa, questo no, e poi tra il nonno e gli zii poteva quasi dire di averne quattro di papà, però…

<< Smettetela con queste stupide gare.>> la vocetta di Alexander lo ridestò dai suoi pensieri: il bambino lo fissava dispiaciuto, il cielo nei suoi occhi improvvisamente plumbeo.
<< Scusa Will, non lo dico più.>>
Lo fissò sorpreso rendendosi conto troppo tardi di aver gli occhi lucidi e tanta voglia di piangere. Gli altri lo guardavano preoccupati e Andrew si sporse verso di lui per abbracciarlo forte, Jajeck si allungò e gli assestò una pacca sulla schiena:
<< Non devi essere triste! Hai una mamma fantastica che riesce a farti anche da papà! E poi se ti serve un papà per fare cose da uomini ci sono sempre i nostri che ti possono aiutare o anche noi! Io sono forte sai? Il mio di papà mi addestra quando torna qui, così posso diventare un vero Marine anche io! Quindi sono praticamente un uomo anche se non sono ancora alto e non ho il vocione.>> Lo sguardo scettico di Arabelle e anche quello di Alexander valsero più di mille parole ma ridiedero comunque il sorriso a Will che annuì arrossendo, << Grazie Jajeck.>>
Il bambino annuì gonfiando il petto orgoglioso, prima che la maestra entrasse in classe e li richiamasse all'ordine.

Ma a Will era venuto un dubbio: se Jajeck era già praticamente un uomo e i papà erano uomini, questo significava che tutti gli uomini erano papà? E quindi anche lui lo era? E se la sua mamma gli faceva anche da papà, voleva dire che anche lo donne sono papà? O loro sono sia papà che mamme?

Summer cadeva un po' troppo spesso dagli sgabelli del bancone della cucina, scossa dalle risate per i dubbi esistenziali di suo figlio che neanche lui stesso capiva. Tutto quell'intreccio di uomini che sono papà, papà-uomini, mamme-donne che diventano papà, ad esser sinceri lei non lo aveva minimamente compreso, ma in tutto ciò era felice che Will avesse degli amici che lo sostenevano anche in una cosa delicata come i rapporti famigliari, anche se, bhé, probabilmente neanche loro c'avevano capito molto.
Alla fine, quella scuola di principini, le stava dando molte più gioie di quanto avrebbe mai immaginato, così come ne stava dando a Will, se solo il suo di papà avrebbe potuto vedere la gioia negli occhi del nipote senza barricarsi dietro alle sue stupide convinzioni come il mulo testardo che era.


Fare una festa di sabato era una delle cose più intelligenti del mondo. Per prima cosa non c'era la scuola la mattina, non dovevi preoccuparti dei compiti il pomeriggio e potevi tornare a casa tardi la sera. Will annuiva soddisfatto dei suoi ragionamenti davanti allo specchio dell'ingresso de Villa Clara, la casa di Rise che il bambino aveva già visitato quel Natale, solo che questa volta non c'erano tutti i festoni di mille colori festivi a decorare il salone gigantesco ed il camino spento, ma un tripudio di bandierine gialle, oro, canarino, color senape o anche solo vagamente aranciate, ghirlande di girasoli e margherite gialle grandi quanto una palla da baseball erano appese alle pareti o sulle porte, vasi piedi di quelli che sua madre gli disse essere narcisi erano posti sui bolidi dell'anticamera ed il tappeto bianco con la macchia di caffè-latte era pieno dei brillantini dorati persi dalle decorazioni appese al lampadario che si muovevano ogni volta che la porta di casa veniva aperta. Anche questa volta ad accoglierli c'era stato Alber che aveva preso loro le giacche e gli aveva dato il benvenuto con un'adorabile camicia color pulcino, e nessuno poteva osare dire il contrario, ed un cravattino a righe bianche e gialle.
Gli altri erano già arrivati e in una perfetta replica di quell'inverno correvano a destra e sinistra scansando adulti che parlottavano e portavano cibarie varie sull'enorme tavolata anch'essa gialla.
A quanto pare il desiderio di Alexander si era avverato.
Il bambino lo raggiunse saltellando felice, con una camicetta giallo limone ed i pantaloni grigi a cui erano attaccate delle bretelle color miele, persino gli occhiali avevano la montatura del colore della festa! Will lo osservò scettico, pensando a quanto lui sarebbe dovuto star male con tutto quell'accecante miscuglio di tinte addosso, i suoi capelli certo non avrebbero aiutato.
Trascinato praticamente dal bambino c'era anche un uomo, alto e magro, con il naso adunco e la faccia spigolosa ma gentile e rilassata. Aveva un taglio scompigliato, come se non vedesse un parrucchiere da un po' di tempo e gli occhi di un marrone caldo in perfetta accoppiata con i capelli. A Will, ad esser sinceri, sembrava che dovesse cadere da un momento all'altro, aveva anche paura che appena qualcuno avesse riaperto la porta l'uomo sarebbe volato via assieme ai brillantini delle decorazioni. Ma la stretta salda di Alexander probabilmente non lo avrebbe fatto smuovere neanche con un terremoto.

<< WILLY!>> sorrise raggiante come quel bellissimo miscuglio di sfumature che erano i suoi occhi, gialli come quella volta nelle serre della scuola e luminosi come il sole del mezzogiorno. << Che bello, sei arrivato finalmente! Non volevamo iniziare a giocare senza di te, ma Jajeck e Ryan sono due guastafeste e si sono messi a tirar la coda ad Arabelle che si è arrabbiata e li sta rincorrendo ovunque.>> si fermò davanti a lui, tenendo l'uomo dietro di sé come se potesse nasconderlo; quando poi notò il suo sguardo curioso il suo sorriso divenne ancora più ampio, come se poi fosse possibile, e se lo tirò di fianco per presentarglielo ormai impaziente.
<< Lui è il mio papà, si chiama Louis. Papà, lui è Will, il nostro nuovo amichetto che si è trasferito da Texas quest'anno.>>
L'uomo gli tese la mano e gliela strinse con inaspettata delicatezza e fermezza al contempo, Summer gli ripeteva sempre quanto una stretta di mano salda fosse un buon segno in una persona e Will si sentì immediatamente più tranquillo.
<< Piacere di conoscerla Signore!>>
<< Piacere mio Will, ma per favore, potresti chiamarmi per nome?>>
Il bimbo annuì e Louis gli sorrise gentile, << Texas, eh? Mi capita spesso di andarci per lavoro, di dove sei di preciso?>>
<< San Angelo signo- Louis!>> si riprese in contropiede e gli restituì il sorriso prima di notare una nuvolette gialla avvicinarsi a loro.
<< Risie!>>
La bambina sembrava una di quelle bambole da collezione versione gigante, con i capelli legati in uno strano intreccio che le girava attorno a tutta la testa come una ghirlanda di fiori ed il vestito con la gonna a palloncino da cui usciva un bordo di bianco tulle che la facevano sembrar vestita di meringa.
Mh, meringa...ai gemelli piaceva, chissà se ce n'era in giro…
<< Hai conosciuto zio? >> l'uomo annuì posandogli una carezza in testa e poi congedandosi per andare a presentarsi a Summer.
<< Si, anche se non ti assomiglia molto, sai Alex? Tu sei tanto simile alla tua mamma.>>
<< Io glielo dico sempre e zio ripete che è solo una fortuna, che c'è già lui che sembra uno spaventapasseri e che basta e avanza.>> Rise fece un cenno vago con la mano e poi lo afferrò per un polso, << ma le presentazioni non sono ancora finite! Devi conoscere altre due persone!>>

In effetti non erano proprio altre due persone, o meglio, una era una persona, l'altra decisamente no. Nel giardino di Villa Clara, verde e rigoglioso come Will ancora si stupiva di vederne in Arizona, la signora Providence se ne stava tranquilla seduta su una panchina di vimini bianca, a parlare con la mamma di Turan, con quella di Ryan e anche con la sua. Le donna lì riunite però erano quattro.
La quarta era una donnina piccina, forse alta giusto un metro e sessanta, ma che senza ombra di dubbio guadagnava almeno dieci centimetri per l'enorme massa di capelli che le copriva il volto come una tenda. Aveva la pelle abbronzata tendente caramello e quando si voltò verso di loro, richiamate a gran voce da Rise, lo scrutò con dei magnifici, limpidi e penetranti occhi blu.
Un pensiero gli attraversò la mente come un fulmine: ma lì avevano tutti occhi così belli? Ma cos'era? Una congiura contro i suoi poveri e semplici occhi azzurri?
<< Clary.>> La donna allungò un braccio verso di loro, qualche riccio nero rimbalzò sulle sue spalle e sul volto sereno, dedicando un sorriso a tutti loro.
Lei sembrava una di quelle bambole di porcellana di sua nonna, con i capelli tutti in piega e gli occhi dipinti di cobalto, se non fosse stato per il fisico palesemente allenato e le fasciature che teneva al braccio ancora in grembo, Will l'avrebbe quasi scambiata per un ninnolo versione gigante. Si, davvero bella. Ma chi era?
E soprattutto: chi diamine era Clary?

<< Mamma lui è Will, il figlio della Signora Summer!>> Rise trotterellò verso la donna, lasciandosi stringere in un mezzo abbraccio e poi sistemare i capelli.
<< Oh, e così sei tu il famoso Willy, piacere di conoscerti caro, io sono Tory, la mamma di Clary.>>

Cosa?
Quella era la mamma di Rise? Quindi Rise era Clary? Ma non si chiamava Katrina? Ma cos'era tutto quel miscuglio di nomi?
Avvicinandosi lentamente ed un poco in imbarazzo sorrise e porse la mano alla donna,
<< Piacere mio signora Rivallie.>>
<< Chiamami pure per nome, ho già plotoni di soldati che mi chiamano “signora”, almeno a casa vorrei essere solo Tory, che dici?>>
Will annuì ancora più imbarazzato, la manina piccola e delicata stretta nella presa ferrea ed un po' ruvida di quella mano che non assomigliava minimamente a quella della sua mamma.

<< Mamma, zio è andato a prendere Ares?>> chiese di punto in bianco al bambina strappandolo dai suoi pensieri.
Summer alzò un sopracciglio e guardò confusa le altre donne che le sorrisero scuotendo la testa.
<< Certo che si, è in garage, vai pure da lui, ma assicurati che non spaventi Will.>>
Rise annuì felice e stringendo un ultima volta le braccia attorno al collo della madre, che le diede un bacio sul capo, corse verso il lato sinistro della casa, incitando gli altri a seguirla.
Da quel poco che ricordava dalle lezioni di scuola, Ares era tipo un personaggio della mitologia, un guerriero o roba simile all'incirca. Forse un principe? Un re? Non ne aveva la più pallida idea ad esserne sinceri, però qualcosa di vago gli diceva.
Il suo sesto senso gli suggeriva che doveva essere un uomo imponente, magari di quelli che correvano sulle moto con i giubbotti di pelle come avrebbe voluto fare zio Eric o come facevano i protagonisti dei film, quelli “forti”, magari aveva davvero una moto! E in effetti non c'andò troppo lontano: Il garage era uno spazio ampio che sembrava quasi più un miscuglio tra una sala giochi ed un officina, c'era una parete piena di strumenti e aggeggi strani, un tavolo da lavoro e all'angolo quella che secondo Will era palesemente una motosega , in piedi vicino ad un accetta. Poi c'erano degli armadi grandi con degli adesivi sbiaditi appiccicati qui e lì, l'attrezzatura da Hockey e anche delle mazze da golf, due tavole da surf, dei pattini a rotelle, delle bici ed uno skate. Ma la cosa più sorprendente erano le quattro macchine, più un posto vuoto. Una era una jeep, nulla in contrario, un'altra però era così bassa che Will ci sarebbe potuto salire comodamente senza doversi arrampicare, e poi era di un colore così cangiante che non sapeva proprio come non potesse disturbare gli altri guidatori in strada.
<< E' una Maserati, gliel'ha regalata nonno a papà quando è diventato Tenente, ma lui dice che quando cresco posso guidarla io.>>
Il bambino sbatté le palpebre accecato, << Arancione?>>
<< Qualcosa in contrario?>> lo sguardo minaccioso di Rise gli fece passare la voglia di controbattere e continuò a guardare le altre macchine: una sembrava nera con i brillantini, era lunga ed elegante, mentre l'ultima era palesemente una decappottabile. Dietro alla Jeep un telo grigio copriva un paio di oggetti che Will non riuscì ad identificare, o almeno non ci perse troppo tempo. << Allora? Chi dobbiamo incontrare?>>
Gli altri bambini, rimasti in silenzio fino a quel momento, ridacchiarono prima che Jajeck se ne uscisse con un ovvio:
<< Ma Ares ovviamente!>>
Al solo pronunciare quel nome un suono di maglie metalliche che sbattono le une contro le altre si diffuse per l'ampio spazio. Will deglutì avvicinandosi inconsciamente a Rise che però lo ammonì bonariamente,
<< Non credo ti convenga nasconderti proprio dietro di me, sai?>>
Non fece in tempo a chiedergli perché, un'ombra gigantesca saltò fuori da dietro le macchine, balzando con un tonfo sordo davanti a loro per poi scattare rapido verso Rise, una massa rossa come il sangue che lanciò per tutta la sala il suo basso e potente ringhio.

Will urlò senza ritegno, ma anche gli altri parvero presi di sorpresa perché poté giurare di aver sentito anche Arabelle, Andrew e Ryan gridare, non come lui, certo, ma un bell' “Ah” sonoro l'avevano cacciato.
Qualcuno lo afferrò per un braccio e lo tirò via, Turan se lo portò alle spalle facendogli da scudo con il proprio corpo, affiancato subito da Jajeck che lo aiutò a nasconderlo.
A buttare a terra la bambina però non fu un uomo: l'enorme massa rossiccia non era altro che il pelo di un cane, un cane davvero grande c'è da specificare, che teneva le zampe delle dimensioni di due delle loro mani premute sulle spalle di Rise, intento a leccarle la faccia come se non la vedesse da secoli.

<< Buono, Ares, per favore, dai, mi sono lavata questa mattina, mi riempi di bava.>>
Rise cercava di opporre una blanda resistenza, ridendo e facendo smorfie, cercando di voltare il viso per evitare di beccarsi un bel bacio felice.
Il cane abbaiò in risposta, come se l'avesse capita, e cominciò solo a strusciarle la testa contro i petto, sul collo o contro la sua stessa testa, facendole delle feste degne di un compleanno.
<< Okay, okay, però ora basta dai. Ti devo presentare una persona e poi non hai salutato gli altri.>> Ares le tolse le zampe di dosso e abbassò il muso verso le sue braccia per farsele passare attorno e aiutarla a rialzarsi. Poi come se fosse normale passò ad uno ad uno a leccargli una mano e strusciarglisi contro come un gatto, riservando giusto giusto ad Alexander più feste e abbaiandogli contro i suoi auguri.
Rise si affiancò al cane e fece cenno ai due amici di scansarsi, lasciando Will a vista.
Osservandolo meglio, con una punta di terrore, il bambino si rese conto che quello non era un semplice cane, somigliava troppo ai coyote che vedeva alle volte nelle praterie, ma aveva anche una struttura più grande e massiccia, con quel pelo rosso come la terra del canyon poi, e gli occhi gialli come quelli di Jajeck, non aiutava certo a mitigarne la figura, tanto meno la catena che gli donava lenta il collo come una collana gigante. La bocca semiaperta mostrava una corona di zanne affilate e lucide di bava, le orecchie a punta erano ritte sulla testa ed il codone gigantesco ondeggiava lento e guardingo. Quello non era decisamente un cane.
<< Lui è Will, ed è un nostro nuovo amico, tu non lo hai conosciuto perché eri nei boschi a farti gli affaracci tuoi come sempre- lo guardò con rimprovero- ma si è trasferito lo scorso settembre.>>
Poi si voltò verso di lui:
<< Lui, Will, invece è Ares, il mio lupo.>> Al suono di quella parola l'animale piantò bene le zampe a terra, alzò il muso vero l'altro e lanciò l'ululato più potente e anche il più vicino, che Will avesse mai sentito.

Ecco, lui lo aveva detto che non era un cane.


La fine di Maggio ormai era prossima, avrebbe portato con sé la promessa delle vacanze sempre più vicine e quella dei suoi amichetti di portarlo a visitare i posti più belli di tutta l'Arizona in un viaggio “coast to coast” ma senza “coast”. Cosa significasse per lui era ancora un mistero.
Era seduto al tavolo della cucina, i piedi che si muovevano a tempo con la canzoncina che sua madre canticchiava a mezza bocca, il quaderno di matematica aperto davanti a lui ma ancora mezzo vuoto. Forse avrebbe dovuto accettare l'aiuto di Rise, lei era davvero brava con i numeri, superava persino Alexander e Andrew! Stava giusto per chiedere a sua madre se il calcolo che stava facendo fosse giusto, quando il telefono squillò e lui fece per alzarsi,
<< Non ci provare Willy, devi finire i compiti, vado io a rispondere.>>
Il bimbo si strinse nelle spalle brontolando un poco che quelle addizioni proprio non gli venivano, mentre la voce allegra e gioviale di sua madre rispondeva all'apparecchio con un sonoro “Hello?” . Gli ci volle ben poco per rendersi conto che la telefonata non era gradita, che sua madre si stava già pentendo di non aver lasciato rispondere lui, quando la vide sbiancare e cercare un appiglio nel mobile a lei più vicino.
Accigliato posò la matita e scese con attenzione dalla sedia, avvicinandosi lentamente ma mantenendo sempre una certa distanza.
Summer annuiva di tanto in tanto, poi rispondeva con un flebile “si”, con un “d'accordo”, “com'è successo?”, ed in fine:
<< Saremo lì il prima possibile.>>
Attaccò la cornetta e prese un respiro profondo, chiudendo gli occhi e poggiandosi una mano sulla fronte.
<< Mummy?>> provò piano il bambino senza ricevere subito una risposta.
Summer prese l'ennesimo respiro e si chinò verso di lui, sorridendogli tirata e prendendogli le mani nelle sue.
<< Will, tesoro, ascoltami bene e non preoccuparti okay?>>
Annuì.
<< Era zia Laura, al telefono, mi ha detto che oggi il nonno era a cavalcare con degli amici e che ha avuto una svista.>> Rimase per un attimo in silenzio scegliendo le parole giuste, << Si è sentito poco bene ed è caduto da cavallo. Ora è in ospedale e sta bene -s'affrettò a dire davanti alla sua faccia spaventata- davvero Will, ci sono i dottori e hanno già risolto tutto, solo che deve stare a riposo e non si può alzare per un po'. >>
Will la guardò pensieroso e preoccupato come gli aveva detto di non essere, cosa poteva fare? Lui era così piccolo, poteva consolare la sua mamma? Come si faceva a consolare un adulto? Si ricordò d'improvviso di quello che gli aveva detto Jajekc tanto tempo prima: tutti quanti erano diversi ad arrabbiarsi ma anche a consolare, ognuno di loro aveva bisogno di qualcosa di specifico, di personale, che lo aiutasse a calmarsi e a stare in piedi.
Guardò sua madre dritta negli occhi ,quegli occhi azzurri tanto simili ai suoi e disse per la prima, ma non ultima volta, le esatte parole che un famigliare di un paziente avrebbe voluto sentirsi dire. << Prepariamo una borsa al volo e andiamo da lui, vero?>>

L'Arizona era una bolla perfetta che era appena scoppiata.

[F I N E Q U A R T A P A R T E]

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Capitolo 5
*** Quinta Parte ***




C O U N T R Y R O A D


Quinta parte.

[Giugno]



La scuola stava per finire, un poco gli dispiaceva doveva ammettere, ma dall'altro lato sarebbero presto cominciate le vacanze e questo significava divertimento a più non posso, spiaggia, mare, lago, fiume, campagna, tutto quello che si poteva immaginare e collegare alla parola “vacanza” o almeno questo era ciò che pensava prima.
Will non avrebbe mai immaginato che un giorno sarebbe tornato in Texas con lo stesso identico umore con cui se ne era andato. Aveva sempre sognato quel giorno con impazienza, rivedere i ranch, i capi di bestiame, i pascoli e i nonni, gli zii, la sua vecchia cameretta...tutto doveva essere bello, tutto doveva essere il contrario di quello.
Alle volte per un adulto è difficile accettare che un bambino possa fare ragionamenti tanto complessi e maturi, così sentiti e impegnati, come neanche gli adulti stessi sono in grado di fare, eppure Will, seduto sul sedile anteriore del vecchio pic-up di sua madre, ripensava al suo primo viaggio con una chiarezza ed una precisione sorprendenti, capendo ed accettando senza remore il senso di vuoto che gli si stava creando nel petto, andando ad aggiungersi alla paura per il nonno. Will lo sapeva ora, si era sbagliato mesi fa, pensando che l'Arizona sarebbe stato il suo peggior incubo, che non l'avrebbe mai accettata, e accettato, che l'avrebbe odiata per sempre. Non si faceva scrupoli nel ripetersi che era stato uno stupido bimbetto lagnante, che aveva sbagliato alla grande: era stato difficile si, c'erano stati giorni in cui aveva pianto fino allo sfinimento per quel trasferimento, deluso e tradito da sua madre che l'aveva strappato a casa, ma poi, piano piano, aveva cominciato a scorgere la luce in fondo al tunnel, il sole aveva infilato i suoi raggi tra le nuvole nere fino a scacciarle del tutto. E si era abituato, aveva apprezzato Phoenix e tutti quegli strani ragazzini che erano diventati la sua nuova famiglia, senza che mai dimenticasse la vecchia. No, non avrebbe mai potuto, sentiva la loro mancanza ogni giorno, con la stessa forza con cui i suoi amici lo facevano sentire amato e parte integrante di qualcosa che forse Will non aveva ancora capito, ma che prima o poi sarebbe riuscito ad identificare. Eppure non voleva rivederli così.
Improvvisamente San Angelo e Phoenix si erano scambiate di posto: la città del Texas era il campo minato in cui addentrarsi con sicura certezza di sconfitta, la capitale dell'Arizona il porto sicuro da cui stava salpando.
Sospirò nervoso, teneva il mangia cassette di suo nonno stretto tra le mani, le cuffie sistemate alla ben e meglio sulla testa riccia e scompigliata, la sua canzone preferita che si ripeteva e si rincorreva al ritmo con cui riusciva a riavvolgere il nastro con la penna ormai scarica che teneva sempre assieme al piccolo aggeggetto mezzo scorticato che gli teneva compagnia da quella prima enorme traversata.
Solo uno Stato, uno solo divideva Texas e Arizona, che era tanto ma anche poco, non era come per suo zio Eric che doveva prendere l'aereo, o per lo zio Benny che prendeva il treno, lo poteva fare anche in macchina, quel viaggio lui, certo, erano sempre quasi dieci ore di autostrade solitarie e pompe di benzina strappate da film e fumetti, ma non era tanto. Se lo ripeteva come un mantra, non era tanto distante da casa, sarebbe durato tutto poco, pochissimo, non se ne sarebbe neanche accorto.
Ma una domanda sorgeva spontanea a seguito di quel pensiero: ci sarebbe voluto poco per andare a casa o per tornarvi?


Non gli avevano permesso di vedere il nonno. Quando erano arrivati era praticamente sera, l'orario di visita era finito da un pezzo e Summer aveva insistito tanto perché Will andasse immediatamente a dormire. La notte era passata solo grazie alla spossatezza datagli dalla macchina, che lo aveva trasportato di peso nel mondo dei sogni.
Sarebbe stato di gran lunga più corretto dire che lo aveva trasportato nel mondo del sonno e basta, perché Will quella notte non aveva sognato, come se una figura magnanima lo avesse graziato dai terribili incubi in cui sarebbe caduto, dove suo nonno scivolava da cavallo e non si rialzava più.

Era fermo in giardino, seduto sulla stecca più bassa della staccionata che comunque non gli permetteva di toccare terra con i piedi, le braccia conserte sulla stecca superiore, la faccia preoccupata e pensierosa premuta sugli avambracci scoperti. Faceva caldo, il Texas era sempre una grandissima griglia fumante secondo lui, e non solo perché praticamente in quello Stato non era ammesso cucinare in altro modo se non alla brace (non si è un vero Texano se non si fa una bella grigliata almeno tre volte a settimana) ma anche perché il caldo saliva in spire roventi dal terreno già da Giugno.
Certo, mai come a Phoneix, li faceva davvero caldo, con la Valley e tutto, i Texani avrebbero dovuto smettere di lamentarsi.
Dondolò i piedi senza scarpe, abbandonate a terra in modo scomposto, domandandosi cosa stessero facendo in quel momento i suoi amichetti. Li aveva chiamati quella mattina, a dirla tutta aveva chiamato Alexander, che sapeva essere a casa con il papà, ma non lo aveva trovato, così aveva provato a Villa Clara, non avrebbe mai osato al Maniero, ma anche li non aveva risposto nessuno, forse era troppo tardi. Aveva pensato subito a Turan allora e poi ad Andrew, ma gira che ti rigira aveva finito per trovare solo Arabelle e quindi pregava intensamente che la bambina riportasse agli altri le sue parole e non se ne uscisse con le sue solite frasi leggere e disfattiste, come un “Will è tornato in Texas e ci rimarrà”, cose molto da lei che avrebbe gettato almeno due persone su sei nel panico, tre su sei nello stupore più assoluto e una su sei in preda ad una collera nera per non avergli detto nulla. L'importante era che si ricordasse di specificare che era andato via per stare vicino a suo nonno che era malato e non per altre assurde motivazioni, che non era scappato e che quindi Rise non aveva motivo di venirlo a cercare con una mazza da Baseball in mano pronta a picchiarlo.
Mancavano solo pochi giorni alla fine della scuola, precisamente otto, e lui si sarebbe perso tutta la festa e i giochi. Certo, era lì per il nonno, perché si era fatto male e tutti, lui compreso, erano preoccupati a morte, ma ciò non gli impediva di piagnucolare e lamentarsi per questo, di essere triste e pensare che non avrebbe passato il suo primo ultimo giorno di scuola con gli amici a divertirsi.
A conti fatti era un'ingiustizia bella e buona, il nonno non poteva aspettare altri otto giorni per andare a cavallo e per cadere? Non era mai caduto in tutti quegli anni lì che aveva, perché aveva deciso di rimettere in paro proprio a Giugno?
Non erano ragionamenti carini da fare, se ne rendeva conto e se ne vergognava da solo, ma non poteva far a meno di pensarci e ripensarci. Sembrava che glielo avesse fatto apposta, che lo avesse fatto per costringere mamma a tornare da lui e parlargli di nuovo e per strappare lui dalla festa di fine anno.
Tirò su col naso e ci strofinò contro il dorso della mano: tutte a lui capitavano, non gliene andava mai una giusta. Prima lo facevano trasferire con l'inganno, promettendogli un'avventura per strapparlo poi dalla sua bella vita a San Angelo; poi lo buttavano in una scuola piena di persone con tanti soldi e tante cose in più di lui, che parlavano di cose che non capiva e che facevano cose che non capiva; poi quando sembrava che tutto stesse andando bene Rise esplodeva come un petardo; poi quando tutto riandava bene il nonno cadeva, lo costringeva ad andare via di casa e tornare in Texas.
Perché tutte a lui?


L'ospedale era una struttura bianca e verdina, con lunghe strisce blu che correvano sul pavimento ed indicavano le vie di uscita più veloci. C'era un odore di pulito così forte da diventare puzza, insopportabile tanfo di medicinali e detergenti, l'odore della bottiglietta di disinfettante di Andrew elevato all'ennesima potenza. Summer gli teneva la mano ma non gli prestava molta attenzione, era rigida nei movimenti quanto nelle brevi risposte che dava a sua madre che gli spiegava come dovessero comportarsi e quando sarebbe passato il medico, Will non vedeva l'ora che il dottore entrasse in quella stanza così che lui ne sarebbe potuto uscire. A dir il vero non voleva neanche entrarvi, gli mancava il nonno, era preoccupato e lo voleva vedere e tutte quelle cose lì, ma aveva paura di come potesse stare, di come era conciato. Aveva tante fasciature? Gli si vedeva il sangue sui vestiti come nei film? Era attaccato a tante macchine che facevano rumori strani e si sarebbero messe a strillare non appena qualcosa fosse andato storto? Aveva quei tubi strani infilati in bocca? Rallentò di poco il passo, lasciando che fosse sua madre a trascinarlo verso la loro meta e si rimproverò da solo per averle detto che si, ce la faceva ad andare in ospedale con lei e la nonna, che non voleva rimanere a casa con i vicini o al negozio con zia Laura.
Perché non le aveva detto che aveva una paura matta e che non voleva entrare lì dentro?
Oh, ma si, giusto, era colpa del bellissimo discorso di Jajeck sul fatto che tutte le persone sono diverse ed aiutano a modo loro, del discorso di Andrew che gli spiegava che lui voleva aiutare la gente e che gli aveva fatto desiderare la stessa cosa.
Aiutare mamma che adesso è tanto preoccupata e si sente anche in colpa.
Questo era il punto cruciale, aiutare Summer. Ne era convinto più di ogni altra cosa, ma non gli impedì comunque di inchiodare davanti alla porta della stanza di suo nonno non appena intravide una figura stesa sul letto candido e piena di fili sulle braccia e sul petto. Non volle neanche indagare oltre, girò di scatto la testa verso sua madre che lo guardò interrogativa.

<< Will, che cosa- >>
<< Signora, forse non è il caso che il bambino entri.>>

Si voltò di nuovo ma questa volta verso un infermiere che era appena sbucato da chissà dove.
Aveva i capelli biondi più dei suoi, tenuti indietro con qualcosa che non gli impiastricciava i capelli come succedeva a Will quando la mamma gli metteva il gel, o forse il ragazzo sapeva semplicemente come metterlo. Gli occhi di una calda sfumatura nocciola, quasi tendente al dorato, il sorriso mite e gentile che gli formava delle piccole fossette sulle guance spruzzate di lentiggini. Forse aveva qualche anno più di suo zio Benny, anche se era più altro di lui, con un fisico asciutto, più da modello che da infermiere, ma la divisa verde e le cartelline che stringeva in mano non lasciavano adito a dubbi.
Summer lo guardò per un attimo stordita, come se fosse stata colta da un deja-vu, fissò il giovane senza pronunciare sillaba e poi biascicò qualcosa di incomprensibile che fece allargare il sorriso dell'infermiere.
<< Ci sono dei macchinari delicati che purtroppo producono non solo un sibilo continuo ma anche delle onde particolari.>> la sua voce era gentile, calda e anche estremamente sicura, malgrado si stesse tenendo enormemente sul vago nel motivare quella sua affermazione, << Noi adulti siamo abituati a questi suoni, ma i bambini che hanno un udito più fine li percepiscono molti più di noi.>> Era la scusa probabilmente più ridicola e banale del mondo, ma Will l'apprezzò davvero.
Certo, il giovane non poteva certo dire davanti a lui che il bambino non poteva entrare perché le condizioni dei pazienti sarebbero potute degenerare da un momento all'altro e farlo assistere ad una scena terribile come quella di suo nonno in arresto cardiaco, ma questo Will non lo sapeva e Summer parve arrivarci con un po' di ritardo dopo aver ascoltato quella sciocca spiegazione.
Annuì comunque all'uomo e si piegò perso di lui, oscurandogli l'entrata della camera e anche i suoi abitanti.

<< Il signore ha ragione Will, lo so che sei un bravo bambino e non toccheresti nulla, ma ci sono fili ovunque in camera e non voglio che ci inciampi. Ci metterò pochissimo, te lo prometto, aspettiamo il dottore, sentiamo quello che dice e poi andiamo a casa. Tu aspetta qui fuori, okay? E per qualunque cosa avvertimi, non ti allontanare senza averlo detto a me o alla nonna, intesi?>>
Senza far un solo fiato si sedette sulle sedie fuori dalla stanza di suo nonno, proprio davanti al bancone delle infermiere, dove il ragazzo biondo si infilò per posare le cartelle e poi raggiungerlo.

<< Ehi, tutto bene?>> gli chiese gentile sedendosi vicino a lui, un'infermiera di mezz'età, cicciottella e dai capelli cotonati sorrise al collega bonariamente, come se stesse assistendo ad una scena particolare.
<< Io si, è mio nonno che sta male. E' caduto dal cavallo e non so cosa si è fatto.>> glielo confessò con facilità, lui era un infermiere, magari sapeva cosa succedeva alle persone in quei casi. Infatti il ragazzo annuì comprensivo e si sistemò con i gomiti sulle ginocchia.
<< Quando si cade da cavallo possono succedere tante cose, magari non ti fai niente, o ti graffi solo. Puoi romperti una gamba o un braccio e persino farti saltare qualche dente. Ma si guarisce.>>
<< Mio nonno dorme, che si è fatto se dorme?>>
Qui il giovane strinse le labbra e fece una mezza smorfia pensierosa.
<< Come ti chiami?>> gli chiese d'improvviso.
<< William, ma tutti mi chiamano Will.>>
<< Io sono Sonny, Will, piacere di conoscerti.>> gli porse la mano come fanno gli adulti e Will gliela strinse.
<< Mi sembri un bambino grande ed intelligente Will, quindi voglio essere del tutto sincero con te.>>
Si mise subito seduto bene sulla poltroncina, drizzando la schiena e le orecchie e guardando attentamente il suo interlocutore, fece un cenno con la testa come ad esortarlo a continuare.
<< Quando le persone dormono, in ospedale, è perché se fossero sveglie sentirebbero troppo male o magari si affaticherebbero troppo. Succede quando ti fai tanto male o quando prendi un colpo alla testa. Allora, la testa, ti farebbe troppo male se fossi sveglio, ti sentiresti rintontito come dopo esser sceso dal toro meccanico, così i dottori ti danno un sonnifero e ti fanno dormire per farti riprendere più in fretta.>>
<< Quindi nonno ha sbattuto la testa? Ma se gli danno tanti sonniferi non è che poi dorme per cento anni come la principessa della favola?>> la preoccupazione crebbe negli occhi azzurri del bambino che però ricevette in risposta lo stesso caldo sorriso di prima, accecante come un raggio di sole.
<< Certo che no! Qui siamo in ospedale Will, un posto pieno di dottori e infermieri che sanno perfettamente cosa fare. Studiamo per tantissimi anni per lavorare con le persone, per curarle, sappiamo dosare tutte le medicine alla perfezione e salviamo le vite. E' questo che fa un medico Will, salva la vita della gente, lo fa per passione e con passione, è il suo obbiettivo, la missione di tutta la sua vita. La medicina è una scienza, ma come ogni scienza, è un arte sopraffina e complicata.>> Gli aveva messo una mano sulla spalla e lo aveva guardato dritto negli occhi per tutto il tempo e Will avrebbe potuto giurare che per un momento gli occhi nocciola di Sonny fossero diventati brillanti come l'oro, come i capelli del giovane.
<< Curare le persone è un arte?>> si ritrovò a chiedere sorpreso.
Sonny sorrise, << Tutto è arte!>> scosse la testa divertito, << E te? Ti piacerebbe diventare un artista della cura? Diventare un medico e salvare le persone, curarle, aiutarle?>>
Aiutarle.
Aiutare le persone, era questa la parola chiave, aiutare. Will voleva essere utile per chi amava ma anche per gli altri, nonostante avesse paura di entrare nella stanza del nonno e non sopportasse la vista del sangue, nonostante gli venisse mal di stomaco ogni volta che vedeva un graffio, una ferita o un brutto livido. Aiutare la gente.
<< Non so se ci riuscirei, io vorrei solo essere utile.>> bisbigliò in gran segreto.
Il ragazzo gli batté una mano sulla schiena e poi gli scompigliò i capelli, << Tutto è possibile se ti impegni e soprattutto se è ciò che desideri davvero. Puoi anche diventare un dottore Will, e chi lo sa: magari un giorno tuo nonno non avrà bisogno di venire qui se starà poco bene, perché avrà un medico in famiglia e sarai proprio tu.>>
Senza parole Will rimase a fissarlo sbalordito e pensieroso, sarebbe davvero potuto diventare un medico da grande? Anche se aveva tutte quelle paure?
Se lo desideri davvero.
Per il corridoio passò un dottore in camice che entrò spedito della camera di Norman Solace bussando rapidamente, dalla porta a spinta entrò una signora che doveva aver pochi anni più di sua madre, assieme a lei un bambino dai capelli ricci come i suoi ma castani, gli occhi di un azzurro freddo come il cielo autunnale e la faccia di chi proprio non ci sarebbe voluto stare lì. La sentì distrattamente parlare con un infermiere e vide con la coda dell'occhio il bambino, sicuramente più grande di lui, doveva avere come minimo otto anni decise, allontanarsi per andare a guardare fuori dalla finestra.
<< Ma io non sono bravo, ho paura della gente che sta male.>> lo disse con lo sguardo perso nel vuoto, avvertendo tutto e niente di ciò che lo circondava.
<< No Will, tu hai paura che la gente stia male ed è ben diverso. Sei in pena per loro, li vorresti aiutare, questa è la tua vocazione.>> la voce gli arrivò chiara e nitida alle orecchie annullando tutti i suoni del corridoio. Sonny lo guardava con aria seria e solenne, il portamento fiero ed eretto, l'espressione sicura.
Come faceva a dirlo?
Per un attimo gli parve che tutto si fosse fermato, che quel giovane infermiere avesse tutte le risposte a tutte le domande del mondo e che ciò che gli avesse appena detto fosse una di quelle grandissime verità che un giorno, da grande, si sarebbe accorto di come si fosse avverata senza che lui potesse far nulla per sottrarvisi, come quando gli sarebbe cresciuta la barba e non avrebbe potuto far altro che tagliarsela e conviverci.
Poi la donna chiamò a gran voce il bambino e l'incanto si spezzò:
<< Lee! Vieni qui forza, ti ho detto di non allontanarti.>> guardò l'infermiere come per scusarsi, << Siamo in vacanza, sa, mio figlio aveva una gara, ma poi il mio compagno si è sentito poco bene e siamo dovuti andar via dal poligono. Lee, insomma, non gironzolare, c'è gente che lavora qui.>>
Will osservò senza troppa attenzione il bambino e poi si riconcentrò completamente su Sonny, anche lui intento ad assistere a quel quadretto famigliare. Fissava il bambino con molta più attenzione di quanta non gliene avesse dedicata lui, studiandolo e soppesandone i movimenti per poi far lo stesso con la madre. Sorrise in fine come se avesse trovato conferma alle sue idee.
<< Ognuno di noi è destinato a qualcosa. Quel bambino, Lee, hai sentito sua madre? Doveva fare un torneo, al poligono ha detto, ma ora è qui, ha abbandonato il campo di gioco, la gloria certa per assistere chi stava male, ha ceduto il passo alla necessità del momento. Ognuno fa ciò a cui è destinato.>>
A dirla tutta Will non la pensava così, secondo lui quel Lee era stato trascinato via da sua madre, magari anche piangendo e lamentandosi, disperandosi perché non poteva lasciare così la gara.
Come poteva dire Sonny che abbandonare la gloria per la necessità del momento fosse il destino di quel bambino? Sarebbe stato terribile oltretutto e anche abbastanza crudele, gli augurava che non fosse così.
<< Ora devo andare, il mio lavoro mi chiama!>> Il giovane si alzò con un saltello e si sistemò pieghe immaginarie sulla divisa, alcuni dei presenti lo guardarono ammirati e ammaliati al contempo, mentre Sonny dispensava sorrisi affascinanti a tutti, ben diversi da quelli dolci che aveva dato a lui, pieni di una consapevolezza che Will avrebbe capito parecchi anni più tardi.
<< Pensa a quello che ti ho detto, mi raccomando, e non preoccuparti per tuo nonno, sono sicuro che si rimetterà, abbi fede Riccioli d'Oro, la medicina è un arte e i medici sono artisti espertissimi!>> Gli scompigliò ancora i capelli e si avviò verso la fine del corridoio, passando vicino al bambino di prima e posando una mano sulla testa anche a lui, mormorando qualcosa che Will non sentì ma che fece alzare di colpo il viso all'altro, guardando Sonny con stupore e sconcerto.

<< Will?>>
Summer lo chiamò a voce bassa, il tono interrogativo di chi ripete per l'ennesima volta la stessa parola. Il bimbo si voltò con lo stesso stupore che aveva segnato il viso del castano, da quanto sua madre era lì? Non l'aveva sentita arrivare.
<< Dimmi mamy. Cosa ti ha detto il dottore? Nonno sta bene?>>
La donna gli sorrise improvvisamente raggiante e ciò valse più di mille parole.


Seduto sul portico del ranch, quaderno e penna alla mano, Will fissò con attenzione il calendario che aveva rubato dalla cucina, accigliato e pensieroso.
Mancavano ben ventisette giorni a Luglio, giorni in cui suo nonno doveva necessariamente riprendersi e uscire dall'ospedale perché Will, con un po' di vergogna, ma neanche tanta, voleva a tutti i costi tornare a Phoenix per il 4. Cominciò ad annotare il conto alla rovescia, disegnando con impegno un quadratino vicino ad ogni numero, così avrebbe potuto spuntarli ogni giorno che passava.
Si congratulò con sé stesso per la splendida idea avuta, ma arrivato al 30 si fermò titubante.
Poi scosse la testa sorridendo, non c'era bisogno di scrivere anche tutto Luglio, tanto per allora sarebbe stato a casa.

[Luglio]



Certo, proprio a casa sarebbe stato, era ovvio, aveva indovinato, aveva proprio ragione da vendere, uff! Come no!
Giugno era passato con una lentezza ed una pesantezza che Will non ricordava aver mai vissuto. Se ripensava che in quel periodo, solo l'anno prima, stava facendo il conto alla rovescia per partire da San Angelo e trasferirsi a Phoenix, se solo ripensava a quanto era triste, a quanto aveva pianto e battuto i piedi perché non voleva, non voleva proprio lasciare casa. Ora invece non vedeva l'ora di tornarci a casa.
Certo, stare con i nonni era fantastico, beh, più che altro con la nonna, aveva riscoperto tante piccole abitudini che prima aveva perso, che non poteva fare in Arizona come andare a dar da mangiare ai cavalli, ma c'era comunque sempre un velo di stranezza in tutto ciò.
La verità più sconcertante era che Will, e lo stava capendo lui stesso poco a poco, ormai viveva il Texas come una casa di villeggiatura. Si, era bello, era divertente, c'erano di nuovo tutti e si stava in allegria proprio come un tempo, ma quella non era più casa sua, no, assolutamente no.
E poi gli mancava il suo letto a macchina, gli sgabelli della cucina, la scuola e persino la divisa, ma soprattutto gli mancavano i suoi amici.
Anche se forse, non gli mancavano i loro caratterini...e ne aveva avuta la piena conferma quando, il mese passato, aveva ricevuto la chiamata che tanto attendeva e temeva: quella di Rise.
Il telefono aveva squillato per un'eternità prima che la nonna andasse a rispondere, Will, ormai, non se la sentiva più di farlo a meno che non glielo dicessero i grandi, insomma, quella non era più proprio casa sua, nonostante zia Laura continuasse a dirgli che lo sarebbe sempre stata, in ogni caso, anche quando sarebbe diventato grande e ne avrebbe avuta una tutta sua.
Poi la voce della donna gli era arrivata forte e chiara dall'anticamera che collegava il salone con l'entrata e le scale per il secondo piano:
<< Willy, tesoro è per te!>>
Era schizzato giù dal divano con una velocità sorprendente, saltando Baffo, il cane, e fermandosi in scivolata davanti alla nonna che lo aveva guardato divertita e sorridente.
<< E' una signorina molto educata, dice di essere una tua amichetta- >> e qui Will aveva sorriso di rimando, << si chiama Rise- >> il sorriso gli si era allargato, << ed è stata davvero carina, dice che le dispiace disturbare in un momento del genere ma che avrebbe “la necessità” di parlare con te di una cosa importante.>> e qui il sorriso gli si era congelato.
Cacchio.
Aveva deglutito un paio di volte e poi allungato la manina verso la cornetta del telefono.
La nonna se ne era andata subito dopo ridacchiando e annunciando a zia Laura e zio Benny che “il loro piccolo Willy” aveva appena ricevuto una telefonata da una sua “amichetta” condendo la frase con quanto più divertimento potesse darle un'affermazione del genere. Se solo avesse saputo…

<< Ciao Risie, come va da Phoenix? Tutt- >>
<< RAZZA DI DEFICENTE CHE NON SEI ALTRO!>>
Allontanò la cornetta dall'orecchio e chiuse gli occhi, una smorfia contrita gli apparve sul volto. Lui lo sapeva, lo sapeva che finiva così.
<< Aspetta, non fare- >>
<< COSA NON DOVREI FARE? NON TI AZZARDARE A DIRMI COSA POSSO O NON POSSO FARE! COSA TI E' SALTATO IN MENTE? TE NE VAI E NEANCHE CI DICI NIENTE?>>
<< Non è propriamente così...>> diplomazia, ci voleva diplomazia, per lo meno non aveva ricominciato ad usare quei stupidi paroloni da grandi, era una buona cosa, no?
<< IO MI DOMANDO WILLIAM, COME SIA POSSIBILE CHE UNO DECIDA DI ANDARSENE DA UN GIORNO ALL'ALTRO SENZA DIRE NIENTE AI SUOI AMICI. AI-SUOI-AMICI!>>
<< Ma, veramente, io vi ho chiamati, tutti quanti, ma non rispondevate, così mi è rimasta solo Arabelle e- >>
<< E INFATTI ARABELLE CI HA INFORMATI DEL TUTTO!>> ahio, “informati del tutto”, paroloni da grandi, ahio.
<< Senti, posso spiegarti ogni cosa. Giuro!>>
<< NON VOGLIO LE TUE SPIEGAZIONI WILLIAM! SAPPI SOLO CHE QUANDO TI METTERO' LE MANI A DOSSO SARA' PER STRAPPARTI I CAPELLI UNO AD UNO E POI DARTI TANTI DI QUEI PUGNI CHE NEANCHE JAJECK SI E' MAI PRESO.>>
<< Ehi, che c'entro io adesso?>>
<< Ssh, sta zitto e non farti sentire, è come un animale ora, se fiuta il tuo odore si rigira e ammazza pure te.>>
<< NON PENSATE CHE NON VI STIA ASCOLTANDO!>>
<< Risie, ti prego calmati, dai, Will sicuramente avrà una giustificazione...>>
<< NON MI INTERESSA! IO LO PICCHIO!>>
<< MA NON HO FATTO NIENTE!>>
Avevano continuato così per una mezz'ora abbondante finché tra tutto quel putiferio, in sottofondo alle urla di Rise che gli promettevano le pene dell'inferno e le peggiori nefandezze del mondo, non si era sentita la voce scocciata di Arabelle uscirsene con un << Vabbhé, dai, quando il nonno uscirà dall'ospedale poi torna qui, mica se ne è andato per sempre.>>
Will la sentì a mala pena ed era più che convinto che Rise, che nel mentre continuava ad urlargli contro, non avesse sentito una parola. Esclamazioni sorprese si erano perse dietro al borbottio della bambina finché non era calato il più completo silenzio.
<< Cosa hai detto scusa?>>
La voce di Risie era stata improvvisamente calma e terribilmente glaciale.
E dal silenzio che gli rispose Will poté perfettamente immaginare Arabelle sgranare gli occhi, deglutire a fatica e incassare la testa nelle spalle, rendendosi conto di ciò che aveva detto in quel momento e di ciò che
non aveva detto prima.
Altri borbottii sommessi e poi la vocina di Andrew che semplicemente chiedeva:
<< Ditemi che non l'ha fatto...>>
Un ringhio basso era fuoriuscito dalla cornetta e Will poté giurare di sentire qualcuno piagnucolare un “Araaa, non di nuovo!”
<< ARABELLE!>>


Si, decisamente non era stata la telefonata migliore della sua vita, ma almeno si era chiarito con tutti ed aveva anche avuto la possibilità di chiedere perdono, in ginocchio, anche se non lo poteva vedere, ad Andrew perché non ci sarebbe stato al suo compleanno.
“Non ti preoccupare Willy, tuo nonno sta male, è più importante stare con lui ora, io il compleanno lo facci anche l'anno prossimo.”
Quanto poteva voler bene a quel bambino? Abbastanza da sentirsi ugualmente uno schifo, ecco quanto.
Se poi pensava a come era finita quella telefonata.

Con la cornetta ancora leggermente distanziata dall'orecchio sentiva Rise, a cui era stata tolta di mano l'altra di cornetta, fortunatamente, urlare contro Arabelle mille insulti molto fantasiosi mentre la bambina si giustificava con una serie di “ma non me lo sono ricordato!” che non facevano altro che far imbestialire ancora di più l'amichetta che, di conseguenza, gli rispondeva con una serie di “T'ho detto mille volte di scrivertele le cose!” e poi un'altra serie di improperi.
Sospirò un po' dispiaciuto per la mora, ma almeno sollevato che Rise non se la stesse più prendendo con lui quando una vocina lo richiamò all'ordine,
<< Ehi, Will?>>
Jajeck aveva parlato con tono basso, come se stesse cercando di non farsi sentire dagli altri
<< Sono qui.>> gli rispose subito un poco emozionato, non aveva mai parlato con lui al telefono.
<< Senti, ora Rise è arrabbiata e Arabelle pure, quindi loro non ti diranno niente, e di solito queste cose le dicono le femmine, e pure se da noi le dicono anche Andy e Alex credo che siano troppo impegnati a non far uccidere Ara da Risie, quindi, te lo dico io, okay?>>
Confuso Will annuì prima di ricordarsi che non poteva vederlo e quindi pigolare un “sì” frettoloso.
Jajeck prese un respiro profondo e poi, con voce un po' malinconica, che mai avrebbe pensato di poter associare a lui, gli disse piano, << Torna presto, mi raccomando, ci manchi tanto.>>

“Ci manchi tanto”.

A tutti quanti loro, gli mancava lui.
Sorrise rattristato da quel ricordo e osservò lo zio Eric, in piedi sulla scala, che legava l'ultimo striscione al soffitto della veranda.
Era il tre Luglio e casa Solace era in fervente fermento, non solo perché il giorno dopo sarebbe stato il 4 Luglio, ma perché il nonno sarebbe finalmente uscito dall'ospedale.
Certo, era ancora sulla sedia a rotelle e non riusciva ad alzarsi da solo, lo zio Anthony e lo zio Eric lo dovevano aiutare ogni volta a mettersi seduto o a sdraiarsi di nuovo sul letto, ma almeno il braccio lo muoveva di nuovo e malgrado si affaticasse subito rideva e scherzava come un tempo.
Ma la cosa più importante e sensazionale di tutte era che lui e Summer avevano finalmente fatto pace. A spiegarlo ai suoi amici ci aveva messo un po' più di quanto pensasse, forse perché i due si erano semplicemente guardati in faccia e poi si erano abbracciati, o meglio, sua mamma si era fiondata sul nonno e lui l'aveva abbracciata e le aveva chiesto scusa. Evento più unico che raro per altro, se non aveva visto male zio Eric lo aveva segnato sull'agenda, aveva proprio uno strano umorismo quell'uomo.
Tutto ciò comunque non cambiava il fatto che sarebbero rimasti in Texas ancora per molto tempo,
“Tutto quello che servirà al nonno per riprendersi e tornare a fare ciò che faceva sempre.”
Che tradotto dal dottore era stato,
“Dalle sei alle dodici settimane.”

Che ritradotto dalla nonna era stato,
“ Più di un mese Willy.”
E già non è che gli andasse a genio.

Che tradotto poi da Benny,
“Bho, Willy, penso che per fine Luglio starà in piedi.”
Troppo ottimistico.

E da Laura,
“Scommetto che per il tuo compleanno sarà sulle stampelle”
Già più realistico ma comunque palesemente falso.

Ed infine da quella pia anima di Eric,

<< Mettiti l'anima in pace Will, dodici settimane sono tre mesi, e gli serviranno solo per lasciare definitivamente la sedia a rotelle, poi comincerà a camminare solo con le stampelle e forse per Ottobre molla anche quelle. Io e Benjamnie pensavamo di regalargli un bastone da passeggio, così ci si appoggerà dopo, il dottore dice che anche se è forte è comunque vecchio, avrà sempre qualche doloretto d'ora in poi.>>

Meno male che poteva contare sempre su di lui per farsi dire la triste e realistica verità.
Incrociò le braccia e mise il broncio.
<< Senti zio, io voglio bene a nonno, non pensare di no, ma gli serviamo proprio tutti qui? Cioè, non gli bastano nonna, zio Benny e zia Laura?>>
L'uomo scese dalla scala con un balzo, proprio come sua madre da anni gli diceva di non fare, e sorrise al nipotino scompigliandogli i capelli.
<< Vuoi tornare dai tuoi amici eh? Non ti piace più stare a San Angelo?>>
<< Ma si che mi piace! Solo che non ho neanche finito la scuola! E poi mi sono perso il compleanno di Andrew e avevamo detto che per il mio saremmo andati alla casa al mare di Ryan, e poi io a Settembre comincio la seconda! Se nonno guarisce ad Ottobre io quando ci vado a scuola?>>
Eric fissò il bambino sempre più divertito, i suoi fratelli glielo dicevano sempre che era il più sadico di tutti,
<< Bhé? Non sei felice? Vuol dire che vi ritrasferirete qui, lascerai quella brutta città che ti ha fatto tanto piangere e non dovrai tornarci mai più.>>
Il volto inorridito di Will gli sarebbe rimasto impresso nella mente per sempre e per sempre glielo avrebbe rinfacciato il nipote, ma in quel momento Eric non poté far altro che scoppiare a ridere quando il biondino scappò via urlando e chiamando disperato la madre.
Oh, quante gliene avrebbero date le sue sorelle, per fortuna che era il doppio di loro.
<< Quindi non è per sempre, giusto?>>
Summer non l'aveva trovata, era in ospedale con Anthony per sistemare le ultime scartoffie e non sarebbe tornata se non dopo pranzo, ma in compenso c'era la nonna ed una gigantesca fetta di crostata di fragole e gelato alla vaniglia.
La donna sospirò per la millesima volta maledicendo il pessimo senso dell'umorismo che suo marito aveva lasciato in eredità al secondogenito ed occasionalmente anche all'ultimo.
<< No Will, non sarà per sempre, ormai vi siete trasferiti ed anche se è possibile che un giorno decidiate di tornare qui non succederà presto, per lo meno non l'anno prossimo.>>
Il bambino annuì rassicurato da quell'ennesima conferma, staccando un pezzo fragola glassata dalla farcitura della crostata.
<< Quindi...>> cominciò ancora facendo alzare gli occhi al cielo ad Olivia Solace.
<< Quindi, tesoro?>>
<< Dopo torniamo a Phoenix?>>
<< Si Willy, dopo tornate a Phoenix.>>

Ed era triste da dire al nipotino, dirgli che loro, lui e Summer, sarebbero tornati in Arizona e che loro altri sarebbero rimasti lì, confermargli che ancora una volta li avrebbe visti partire dopo essersi riabituata ad averli in casa, tutti i suoi bambini di nuovo al completo, ma il sorriso che illuminava il volto del bambino e tutta la cucina sommersa di pentole, ciotole piene e cibo per l'indomani, la ripagava ampiamente di quell'ennesimo addio.

La festa del 4 Luglio era stata bellissima per tanti motivi diversi: perché era festa, perché c'era tanto cibo, perché c'era la musica, i giochi, i fuochi, tanta gente, parenti lontani accorsi per l'annuale rimpatriata e anche amici venuti a festeggiare non solo la festa più importante d'America, ma anche Norman, finalmente tornato a casa.
Il clima era caldo e frizzante, le risate e le voci alte e felici; il nonno veniva sballottato bonariamente dai compagni di caccia che lo prendevano in giro per esser caduto da cavallo dopo tanti anni d'esperienza. Vicino al barbecue zio Anthony e zio Eric litigavano come tutti gli anni su chi era il più bravo alla griglia mentre di soppiatto lo zio Benny rubava gli hamburger dal vassoio e gli portava un panino fumante ghignando vittorioso. Sotto ai gazebo le donne della famiglia ridacchiavano e si aggiornavano a vicenda sulle ultime news del quartiere; i suoi vecchi amici lo trascinavano da destra a sinistra impegnandolo in mille giochi diversi.
Persino i fuochi d'artificio quell'anno andarono bene e non esplosero sul terreno bruciando l'erba come avevano fatto lo scorso 4.
Andava tutto così bene, era tutto così perfetto, che per un po', per qualche settimana, Will riuscì quasi a dimenticarsi che San Angelo non era più proprio la sua città, che non aveva i suoi amici e soprattutto che il suo compleanno si stava velocemente avvicinando.

[Agosto]



Luglio era scivolato via in silenzio, o per lo meno coperto dal trambusto che regnava nel ranch dei Solace. Avere un Norman a casa, sulla sedia a rotelle, che non poteva salite in camera e quindi era obbligato a vivere sul divano, non era poi una delle cose più idilliache che ci si potesse augurare di vivere. Senza contare che, a Will, pareva che il nonno non facesse altro che lamentarsi in continuazione e per ogni cosa!
Secondo zia Laura era una cosa comune nei maschi, tutto il genere maschile non era fatto per sopportare le malattie, che si parlasse solo di un raffreddore o di un braccio ingessato, se poi erano anche bloccati al letto, la cosa poteva solo che degenerare, ed in effetti era proprio quello che stava succedendo da, occhio e croce, il 5 Luglio.

Seduto su una sedia che si era portato apposta dal salone sino al tavolo dov'era il telefono, Will si rigirava il filo tra le dita, controllando di quanto in quanto il numero scritto sull'agenda e poi ripetendosi che lo aveva digitato giusto.
Altri due squilli e poi una voce maschile, certo non quella del suo amichetto, ma conosciuta, gli rispose un po' assonnata:
<< Casa Royale, chi parla?>>
<< Nathan!>> Will quasi saltò nel riconoscere la voce del “babysitter” di Jajeck, che dopo un attimo di sorpresa sembrò risvegliarsi e ritrovare la sua solita voce bassa e cupa da adolescente ma al contempo felice, come quella di chi non sente un amico da tanto tempo.
Ed era così bello sapere che un ragazzo grande come lui era felice di sentirlo!
<< Ehi, Riccioli d'Oro? Come vanno le cose da quel lato del Mississippi?>>
Will ridacchiò, il Mississippi non passava certo in Texas!
<< Tutto bene! E lì nella valley? Che si dice?>>
<< Oh, il solito ragazzino, fa un caldo del diavolo e i Phoenix sembra che non vogliano vincere neanche quest'anno, solita solfa, si. Ma scommetto che non hai telefonato qui sperando disperatamente di beccare me, vero?>>
Ridacchiò di nuovo annuendo un “ mh-mh” allegro che venne ripagato da un latrato che ormai Will aveva imparato ad associare al ragazzo. A quanto pareva, oltre al vocione, alla barba, la puzza di sudore e i brufoli, l'adolescenza rendeva anche i ragazzi incapaci di ridere normalmente, o per lo meno non bene come ridevano i bambini.
<< Allora ti chiamo subito Jakie.>> se lo immaginò allontanare la cornetta e magari mettere anche la mano davanti al microfono, prima di urlare a pieni polmoni un forte:
“ GECO!”
Si, non sapeva per quale assurdo motivo, ma Nathan chiamava Jajeck “geco”, una cosa molto fica, molto da grandi, i soprannomi degli animali, da maschi, mica come il suo “riccioli d'oro”.
Non sentì se il bambino gli avesse risposto finché un urlo ultrasonico con riuscì a superare la barriera della mano del ragazzo sulla cornetta e poco dopo, con un fastidioso rumore, tipico di qualcosa che struscia sul microfono, la voce di Jajeck gli riempì le orecchie facendogliele diventare anche rosse.
<< WILLY!>>
Era sempre una festa quando chiamava uno di loro, sempre tutti felici di sentirsi, di potersi raccontare le cose, le avventure che avevano vissuto mentre erano distanti. Jajeck poi era quello che quando doveva raccontarti le cose si muoveva per replicare le scene come se lo si potesse vedere e faceva gli effetti sonori. C'aveva provato anche lui, quando il mese scorso aveva chiamato Ryan e aveva trovato anche Andrew, aveva fatto il sonoro di tutti i fuochi d'artificio ma aveva finito solo per sputacchiare contro la cornetta e far ridere i due cugini.
Stette per un po' a sentire il magnifico racconto di come Alexander si fosse beccato la prima insolazione per fare birdwatching con il papà e la sorella e di come Rise si fosse impuntata a doverlo riportare lei a casa, in groppa ad Ares, con la costante ansia del pover'uomo di vedere il figlioletto mezzo svenuto scivolare giù da quel bestione scodinzolante e i continui rimbrotti della bambina che non la smetteva di rinfacciare ad entrambi che lo sapevano tutti che erano due schiappe al sole, perché insistevano a voler star fuori anche nelle ore più calde?
Ridacchiò divertito raccontandogli anche lui come stavano andando le cose a San Angelo, pervaso dal clima di festa tipico di quelle telefonate, finché Jajeck non centrò l'unico argomento che forse non avrebbe voluto toccare.

<< Ma ce la fai a tornare qui per il tuo compleanno? Insomma, noi volevamo fare una cosa tipo il compleanno dei gemelli, la mamma di Ryan ha detto che se la tua mamma non vuole tornare perché vole rimanere con tuo nonno e non si fida a mandarti da solo in una casa al mare possiamo anche stare qui a Phoenix, sempre da Ryan, o da Rise se per tua mamma è meglio. Ah! Ha detto anche che ti può venire a prendere lei, con la macchina, ma… >> Lasciò la frase in sospeso, il tono era andato attenuandosi lentamente, da eccitato a dubbioso.
<< Ma?>>
<< Ma dice anche che non pensa che ti lascerebbe da solo per il tuo compleanno. Che magari anche tu preferisci passarlo con tutta la tua famiglia, si insomma, magari vuoi festeggiare lì. Non gli abbiamo detto che tu volevi fare la festa al mare, che ci tenevi tanto, ma ha insistito tanto, ci ha detto che dobbiamo capire la situazione e a me pare di averla capita sai? Si, insomma, tu vuoi festeggiare con i tuoi famigliari, lo capisco, chi non lo vorrebbe? Se potessi scegliere di festeggiare tutti i miei compleanni con i miei io lo farei sempre, anche se fossimo solo noi tre, quindi, ecco… se vuoi restare lì io lo capisco. E anche Rise e Ara, e anche tutti gli altri.>>
Rimasero in silenzio, il ronzio del telefono come unico sottofondo alla loro tristezza.
Voleva festeggiare con i suoi? Si, certo che lo voleva, era una delle sue poche certezze quando era partito: avrebbe passato natale, capodanno e compleanno a San Angelo, al Ranch, con la sua famiglia.
Ma tutto era andato storto, natale lo avevano passato a Phoenix, così il capodanno, e non erano stati male, nossignore, Will si sarebbe aspettato una cosa tristissima e noiosa e invece aveva festeggiato con i suoi amici e si era divertito. La verità è che si era abituato a quei ragazzi, ai suoi nuovi amici, alla sua nuova vita, erano passati ben dodici mesi, un anno, da quando si era trasferito e ora tutto andava bene come se avesse sempre vissuto lì. Aveva dato per scontato che anche il suo compleanno lo avrebbe passato come le altre feste, che sarebbero stai i nonni e gli zii a venire da loro, non il contrario.
Quindi ora il problema era uno ed era anche bello grande:
Come si faceva a festeggiare il proprio compleanno con la famiglia se metà era lì con lui e l'altra metà ad uno Stato di distanza?


I preparativi del suo compleanno non furono secondi a quelli del 4 Luglio, il fermento era palpabile in tutto il ranch e per l'occasione sua mamma aveva invitato tutti i suoi vecchi amici, dando luogo ad una vera e propria invasione di mocciosi, tra conoscenti e parenti vari, che portarono allo stremo tutti gli adulti presenti, mai stati così felici di lasciare la festa nel tardo pomeriggio come quella volta.
Will si era impegnato, aveva passato ogni secondo a correre e giocare, fermandosi solo per mangiare, per soffiare le candeline e per aprire i regali. Non faceva altro che far roteare il alzo che il nonno gli aveva fatto trovare insieme al suo nuovissimo cappello da cowboy, ed il fatto che forse avesse preso zio Anthony in un occhio e che Steve, il suo ex compagno di classe dell'asilo, fosse finito con la faccia nell'erba perché gli aveva preso un piede e lo aveva fatto cadere erano solo mere e cattive dicerie. Aveva sette anni ora, era grande, non sbagliava i tiri con il lazo e non prendeva negli occhi la gente.
Se ne stava seduto sulla stecca più bassa della staccionata che racchiudeva la “pista” dove il nonno gli aveva insegnato ad andare a cavallo, quello stesso cavallo che ora brucava tranquillo il prato che lui sfiorava con le punte dei piedi nudi, le braccia incrociate sulla stecca superiore, la spiga in bocca come ogni buon Texano ed il cappello calato sulla testa ricciuta. Teneva gli occhi socchiusi, in parte per la stanchezza della giornata che si faceva pesante sulle sue spalle ed in parte per il sole infuocato che si tuffava verso l'orizzonte. Era stata una giornata magnifica, con dei venticelli leggeri a mitigare l'afa d' Agosto e qualche sporadica nuvola nel pomeriggio a dar riparo dai raggi più inclementi. Sorrise chiudendo definitivamente gli occhi e stringendoli di più quando anche la patina aranciata delle palpebre non gli fornì abbastanza protezioni da quelle ultime lance accecanti che trafiggevano le campagne Texane. A Phoenix adesso la Valley sarebbe stata tutta bagnata di rosso, le pietre e la polvere sarebbero sembrate brillare di luce loro, illuminando anche le ombre e rendendole del colore del bronzo. Le nuvole sarebbero state rosa, screziate di giallo e di tutte le sfumature che quei due colori comprendevano. Forse il giardino della Villa sarebbe stato pieno di riflessi dorati, come quelli che si spandevano sulle colline che lo circondavano, come quelli che avrebbe visto negli occhi di Turan, come quelli che si sarebbero riflessi in quelli di Alexander, negli occhi da gatto di Jajeck, nei capelli di Rayan, nelle sfumature di quelli di Rise e di Andrew, come quelli che invece i capelli di Ara avrebbero inghiottito e tenuto per sé.
Aprì i suoi di occhi improvvisamente malinconico, sentiva i rumori provenienti dalla cucina, la porta spalancata sul giardino dove il nonno parlava con i figli, seduto sulla sua sedia a rotelle, risate e schiamazzi che erano stati la sua vita e che ora invece gli facevano venire in mente le vacanze estive. No, non era più abituato a sentirli, possibile che fosse bastato così poco per rende quei suoni una cosa speciale e non la normalità?
Il sole non gli feriva più lo sguardo, sembrava che le sue iridi chiare fossero nate per guardarlo senza brucarsi, senza essere ammonite per aver osato guardare la forma più pura di un essere superiore. Si sentiva un privilegiato, e non aveva la più pallida idea di quanto avesse ragione.

<< Tutto bene tesoro?>>
Sua nonna gli era arrivata alle spalle senza che se ne rendesse conto, gli scostò il cappello lasciandoglielo cadere sulle spalle, il laccetto marrone si tese morbido contro il collo fragile del bambino, impigliato alla collanina di cuoio che gli avevano fatto i suoi amici. Gli passò una mano tra i ricci sistemandoglieli come aveva fatto per sei anni e sorrise dolcemente.

<< Si nonna, tutto bene.>>
<< Non mi dirai che sei stanco! Credevo che un bambino di sette anni non si stancasse così facilmente.>> provò a prenderlo in giro bonariamente, ma Will non ci cascò così come non si rese conto dello scherzo, rispondendo con calma ma serietà alla nonna.
<< Ho sette anni solo da un giorno, mi ci devo ancora abituare. Ora sono un po' stanco, sarà il cambio d'età, come quando passi dalla costa orientale a quella occidentale no? Che ti cambia il tempo?>>
La donna annuì, voltandosi per poter poggiare la schiena ed i gomiti alla staccionata.
<< Sicuro che sia tutto qui? A me puoi dire tutto tesoro, lo sai.>>
Will ci pensò su seriamente, continuando a fissare l'orizzonte dove il sole ancora si attardava, poi si strinse nelle spalle.
<< Non ti è piaciuta la festa?>> Chiese preoccupata.
<< No! Certo che no, è stata fantastica nonna, grazie.>> glielo disse con sincero affetto, distogliendo per un attimo lo sguardo dal suo obbiettivo infinito per sorridere grato alla donna che però non si fece sfregare.
<< Ma?>>
Con una smorfia Will ripoggiò il mento sulle braccia abbronzate, facendovi poi scivolare la guancia e voltando il viso verso la nonna che lo fissava in attesa.
<< Non lo so, credo solo di essere tanto stanco, credo. Non lo so davvero nonna, magari… >>
<< Magari?>>
<< Ecco è che mi manca Casa, capisci? Tutto qui, è normale no?>>

Olivia rimase ferma immobile, senza sapere cosa dire.
Lo aveva capito, aveva capito perfettamente che al nipote mancavano i suoi amichetti, che i bambini avevano dei momenti in cui si fissavano su una cosa o una persona e credeva che questo fosse il caso di William, ma forse si era sbagliata di grosso.
Non solo suo nipote si era ambientato bene a Phoenix, non solo aveva trovato degli amici che gli volevano bene, che lo proteggevano, che lo coinvolgevano nelle loro vita, a cui lui voleva bene e si era affezionato, che lui voleva e aveva coinvolto nella sua vita, ma aveva imparato talmente tanto ad amare quel posto che ora per lui era diventato ciò che un tempo era il ranch dei Solace a San Angelo, in Texas.
Spostò gli occhi verso l'entrata sul retro di casa, dove il resto della famiglia aveva ormai apparecchiato e messo a tavola, osservò soprattutto sua figlia, Summer, che rideva con il fratello minore e lo prendeva in giro punzecchiandolo. La osservò attentamente e altrettanto attentamente prese la sua decisione.
La sua famiglia era tutta lì, erano tutti al sicuro, sani e salvi, non c'erano problemi di cui lei non potesse occuparsi da sola o con l'eventuale aiuto di chi gli era sempre stato vicino.
Era ora che i suoi figli tornassero alle loro vite e la smettessero di preoccuparsi di quel testone del padre, di vorticargli attorno come api operose.
Era ora che tornassero ad occuparsi delle loro vite, che la smettessero di fare i genitori dei loro genitori.
Era ora che si tornasse alla normalità.
Ma soprattutto, era ora di tornare a casa.


L'addio al ranch questa volta non fu difficile come lo era stato la prima volta, non fu neanche triste o pieno d'ansia come fu il ritorno, no, fu solo un semplice “arrivederci”, un “alla prossima”, si, una promessa che si sarebbero rivisti presto, che la prossima volta sarebbero venuti loro a Phoenix, tutti quanti, che gli avrebbero fatto conoscere i loro amici di lì, che nonno sarebbe stato bene e sarebbe potuto addirittura andare a pala-ghiaccio con lui.
Si sporse dal finestrino e agitò forte la mano, Norman sulla sua sedia a rotelle gli faceva cenni da lontano, come se volesse suggerirgli qualcosa che lui non afferrava.
<< Mettiti seduto bene e allaccia la cinta Willy, li abbiamo già salutati non fare così.>>
Si lasciò cadere sul sedile e si affrettò ad obbedire, slanciando poi fuori la mano e sventolandola per continuare a salutare, finché non li avrebbe più visti, come la prima volta ma senza lo stesso peso sullo stomaco.
<< Nonno mi stava dicendo qualcosa ma non ho capito, che voleva? Ci siamo dimenticati di nuovo una borsa?>>
<< No, no, questa volta c'è tutto.>> lo sguardo scettico che le indirizzò il bambino a quell'affermazione fece sbuffare imbarazzata la donna.
<< Ti ho detto che ho preso tutto questa volta, sono sicurissima!>>
<< Il telefono?>>
<< Ce l'ho.>>
<< Il portafogli?>>
<< Ce l'ho.>>
<< La borsa mamy?>>
<< Anche.>>
<< E i miei regali?>>
<< Quelli li hai preparati tutti tu.>> borbottò quasi accusatoria. Will non si fece intimidire e alzò entrambe le sopracciglia, Rise ancora non gli aveva insegnato ad alzarne uno solo.
<< Meno male allora, l'importante è che non ti scordi le chiavi di casa, se no non entriamo.>>
Il silenzio che seguì fu interrotto solo dalla brusca frenata del pic-up e dall'imprecazione di Summer che si sbrigò a fare marcia indietro.
<< Prendi il telefono, è nella borsa, chiama nonna e dille che ci siamo dimenticati le chiavi.>>
<< Che ti sei dimentica le chiavi.>>
<< Si, si, che me le sono dimenticata io, va bene.>>

Olivia stava ripetendo per l'ennesima volta alla sua figlia più piccola come fosse impossibile dimenticarsi le chiavi di casa, che era seconda solo alla volta in cui suo fratello Eric si dimenticò Benny al supermercato le prime volte che ci andava da solo.
Norman invece ridacchiava divertito, barcollante ed instabile sulle stampelle che si ostinava ad usare anche se il dottore non gli aveva ancora dato il via libera.
<< Non cambierà mai, è nei geni dei Solace scordarsi anche la testa!>>
Will annuì sospirando rassegnato, poi si voltò verso l'uomo ricordandosi anche lui improvvisamente qualcosa.
<< Cosa mi stavi dicendo prima?>>
<< Oh, quando stavate andando via? Solo che se ti annoiavi in viaggio potevi metterti a sentire la musica come l'ultima volta.>>
Quel consiglio lo colse impreparato, facendolo accigliare e poi storcere le labbra in una smorfia infastidita che non sfuggì al nonno, che di nuovo cominciò a ridacchiare.
<< Fammi indovinare, te lo sei scordato a casa?>>
Will sbuffò come aveva fatto sua madre poco prima.
<< Già.>>
Eppure era convinto di averlo con sé quando era partito.


Questa volta lo vide, lo vide perfettamente e non se ne perse neanche un dettaglio. Il sorriso spontaneo che gli si aprì in volto fu superato solo dal suo acuto “mamma siamo arrivati a casa!”. Il cartello era grande e piazzato in modo che non si potesse non vederlo: La terra blu del colore della libertà, lo sfondo diviso in 13 raggi oro e rossi, in onore delle contee che compongono lo Stato. E al centro, bella e piena di tanti significati diversi, per Will da Febbraio uno più importante di tutti, brillava la stella di rame.
Era ufficialmente entro i confini di casa.

Ritornare nel suo ranch fu come tornare a casa dopo un lunga vacanza, quando ti eri abituato alla camera dell'albergo o alla casetta affittata sulla spiaggia e non ricordi più bene le vere dimensioni della tua cameretta, o del bagno. Sentire quell'odore che non puoi definire con precisione, che non è altro che odore di casa.
La prima cosa che fece il giorno seguente all'arrivo fu chiamare uno ad uno tutti i suoi amici, così, per riprendere confidenza con il posto e riavere tutto quel caos organizzato tipico dei ragazzini.
Arabelle si presentò a casa sua con la Guida dopo tre giorni, consegnandogli il quaderno su cui ora spiccava anche la toppa di un lupo, che Will azzeccò subito essere di Rise, e quella di uno squalo martello, portata da Arabelle stessa dopo essere andata a Valencia con i nonni ed aver visitato l'aquario. Ormai rimaneva solo un piccolo buco nero su cui aggiungere l'ultima toppa, la gara era ufficialmente partita dopo il giro delle sue telefonate.

<< E poi dobbiamo vederci tutti quanti e festeggiare il tuo compleanno, o meglio, il tuo non-compleanno, visto che è passato. C'abbiamo messo un secolo per scegliere il regalo giusto, sappilo, quindi non fare facce strane quando lo scarterai.>>
Will aveva annuito serio, assicurandole che nessun regalo fatto da loro lo avrebbe mai deluso, anche solo per il semplice fatto che erano stati i suoi amici a regalarglielo.
Ara era sembrata piuttosto felice della sua risposta ma si era improvvisamente imbarazzata, come se le fosse tornato in mente qualcosa di cui vergognarsi.
<< Per la storia di quando sei partito… >>
Oh, eccome se aveva qualcosa di cui vergognarsi!
<< Si, ecco, io volevo scusarmi. Cioè, lo avevo capito che non eri andato via per sempre, ma alle volte le cose che penso e quelle che dico non sono le stesse. >> le si colorarono le guance di rosa ed abbassò il tono di voce, come se fosse un segreto che nessuno doveva sapere. << La Signora Providence dice che non è nulla di cui debba preoccuparmi o vergognarmi, che è normale che alla nostra età omettiamo delle informazioni, anche se agli altri non succede spesso come succede a me. Per questo non mi dicono mai solo a me una cosa importate, e se lo fanno si assicurano che me lo sia scritta o che ci sia qualcuno che me lo possa ricordare. Però quella volta ero con la babysitter ed ero così impegnata chiamare gli altri, che ecco- >>
<< Non ti preoccupare.>> la bloccò alla fine. Si vedeva che era a disagio, lo sentiva dalle sue stesse parole, da come aveva riportato quelle della Signora Providence. Per di più, se glielo aveva detto lei, se aveva parlato con lei, significava che invece forse era una cosa che faceva preoccupare i grandi, perché la mamma di Alexander era un psicologa -si, aveva imparato a dirlo- e quindi una specie di dottore e forse Arabelle aveva un problema che solo un dottore poteva risolvere. Non lo sapeva ma sapeva che la sua amica ne era davvero mortificata.
Ora quel “non di nuovo” aveva molto più senso, così come Rise che le urlava che le cose importanti se le doveva scrivere, e aveva senso anche Alexander che lo rassicurava che Rise non aveva picchiato Arabelle dopo la storica telefonata dal Texas. Le sorrise cercando di rassicurarla e le prese la manina stringendola forte: qualunque cosa fosse, se una semplice disattenzione o solo la foga del momento, a Will non importava, Arabelle era sua amica e lui le sarebbe stato vicino e le avrebbe voluto bene anche se si scordava le cose.
Si domandò per un attimo quante altre cose non sapeva ancora eppure a differenza di prima la cosa non lo rattristava. Si, forse avevano ancora dei segreti, ma glieli dicevano, glieli raccontavano faccia a faccia, in privato come gli adulti. Non lo stavano escludendo, capì con semplicità disarmante, stavano solo prendendo coraggio per mostrargli ogni lato di sé.

E se quella rivelazione gli parve tanto semplice da accettare, tanto logica e lineare, gli sarebbe stato molto più difficile, in seguito, rendersi conto che i bambini, anche se spesso dicevano le bugie, erano molto più sinceri degli adulti, che una volta cresciuto gli altri avrebbero fatto carte false per nascondere la verità di cui si vergognavano e che ammettevano solo se messi alle strette.
Non si rese conto di quanto fosse ancora tutto dannatamente facile, ma il sorriso di Arabelle che non si era sentita giudicare né sgridare da quel ormai non più “nuovo amico”, ma solo ed unicamente “suo amico”, era la cosa più importante di tutta quella giornata.


Ormai Agosto stava finendo quando Summer inaugurò il “Country Texas Bar” con una grande festa in vero e proprio stile texano.
Il locale era sula stessa proprietà della casa, divisa da questa solo da una bella e classica staccionata bianca. A Will ricordava molto lo stile della cucina del ranch dei nonni, ma con un gusto decisamente tipico di sua madre, molto colorato e accogliente.
I tavoli ed il bancone erano gremiti di gente e la musica veniva spesso sovrastata da risa e schiamazzi. Summer nel suo bel completo da cowgirl sorrideva a tutti da sotto il cappello rosa, lanciando bicchieri stracolmi di birra e bibite varie sul lungo piano, dritti dritti nelle mani dell'avventore giusto.
Ma di tutto ciò a Will importava ben poco.
Fuori dal locale, precisamente oltre la staccionata, nel suo cortile di casa, era cominciata una lotta suon di palloncini ad acqua e pistole giocattolo. Erano il suo regalo di compleanno, i suoi amichetti gli avevano regalato due fucili ad acqua per poter giocare tutti assieme e rinfrescarsi dalla calura inclemente della valley.
Si fermarono a riempire i serbatoi dei Bluster, fradici dalla testa ai piedi e con il fiatone, Will aspettava che Turan riempisse il suo mentre Jajeck controllava che il pistone scorresse bene, come un vero esperto di armi. Arabelle stava cercando di togliersi i capelli appiccicati dalla fronte e Alexander, poggiato alla fontana si puliva gli occhiali appannati sulla maglia bagnata senza molto successo.
<< Ho più acqua nelle scarpe che nel fucile.>> si lamentò blandamente Ryan battendo il tallone al suolo, le scarpe da ginnastica un tempo grigie ora nere d'acqua.
Rise strizzò un lembo della maglia di Andrew prima di fare lo stesso con la sua camicia a scacchi bianchi e rosa, << Puoi sempre togliertele e correre scalzo.>>
Lo disse con leggerezza ma subito gli occhi di tutti le si puntarono addosso.
Il grido gioioso di Jajekc ed il conseguente volo delle sue convers blu ridiede il via alle corse, ora a piedi nudi, sul prato del giardino. Non riempirono neanche i fucili, si rincorsero come se fossero pieni e potessero continuare a sparare, lanciandosi per terra con cadute al limite del teatrale, fingendo di essere stati colpiti.
Turan alzò una mano al cielo verso Ryan che lo guardava addolorato, << Vedo la luce Ryan… sto morendo...vai senza di me, scappa.>>
Il biondino si lanciò in ginocchio vicino all'amico afferrandogli stretta la mano e scuotendo la testa, << No! Non ti abbandonerò mai! Siamo una squadra, non lasceremo nessuno indietro! Jajekc!>> urlò poi per attirare l'attenzione del rosso, << Turan è ferito! Lo hanno colpito, dobbiamo portarlo al riparo!>>
<< Ci serve un mendico!>>
<< Andrew! Corri da loro ti copriamo noi!>>
<< Rise alle spalle!>>
<< Andate! Portate Turan al campo base! Io me la caverò da sola! Posso batterli!>>

Will rise mentre continuava a sparare colpi invisibili contro altrettanti invisibili nemici, Arabelle si era legata un fazzoletto sulla fronte come l'altra amichetta e ora urlava ordini su come difendere il fianco destro e cose simili.
Era divertente, fare la guerra contro il caldo che li attanagliava e la noia che cercava di farli scivolare nella placida stasi di quelle ultime giornate d'estate. Era divertente farlo con i suoi amici che lo incoraggiavano e rimanevano al suo fianco per lottare contro quel raggio di sole più insistente degli altri che gli faceva arrossare le guance. Era divertente stare con loro, stare insieme e non pensare a nulla, per tutto il giorno, se non a divertirsi.
Summer gli strofinò l'asciugamano in testa, per fortuna era riuscito a convincerla a non usare il phon, altrimenti era sicurissimo che si sarebbe squagliato.
Se ne stava seduto sul suo sgabello preferito in cucina, una coppa di gelato davanti a lui ed una a fianco, dove di tanto in tanto Summer infilava il cucchiaino che teneva serrato tra i denti, concentrata a tamponare quella massa ricciuta e poi districare i nodi più grandi con le mani.
<< Alla fine non abbiamo perso nessuno. Adrew è un guaritore esperto, qualcosa tipo di terzo grado avanzato, ma non ho capito cosa dicevano bene, ma fatto sta che lo ha curato con una magia potentissima chiedendo aiuto alla natura, gli ha anche dato un nome strano. Rise dice che appena torna suo papà che l'aiuta con la campagna mi insegna a giocare a d&d ma non so neanche questo che vuol dire.>>
La donna annuì attenta togliendo il cucchiaino dalle labbra per tuffarlo nella crema e riportarselo alla bocca.
<< A proposito di cose perse- >>
<< No mamma, non cose, Turan! Lo avevano colpito ma Ryan e Jajeck lo hanno trascinato via mentre noi altri gli facevamo fuoco di copertura, qualunque cosa sia.>>
<< Si, si. Mi hai solo fatto venire in mente un'altra cosa. Il mangia cassette di papà, lo hai ritrovato? Hai capito dove lo avevi messo?>>
Will si bloccò, lasciando che il gelato mezzo sciolto colasse sul piano di legno levigato, girando lentamente la testa verso la madre, gli occhi sgranati nell'orrore. Cacciò un grido acuto e si fiondò giù dallo sgabello facendolo cadere sui piedi della donna che schizzò indietro spaventata da quella reazione.
<< WILL!>>
Ma il bambino era già corso in camera sua.
Si era completamente scordato del mangiacassette del nonno.

[Settembre]



Mancavano due giorni all'inizio di scuola e a Will pareva di rivivere una scena già vista, fermo lì in piedi su quella pedana a farsi fare gli ultimi ritocchi alla divisa scolastica. Era cresciuto di ben due centimetri, le maniche gli salivano troppo oltre il polso e la stoffa tirava se si stringeva le braccia al petto.
La mamma e la sarta chiacchieravano tranquille ma Will aveva la testa persa in altro, si mordicchiava il labbro nervoso, strappandosi le pellicine proprio come Summer gli aveva detto di non fare, ma era più forte di lui, non riusciva a non pensare ininterrottamente a quel mangiacassette e smangiucchiarsi il labbro screpolato dal caldo era la cosa che più conciliava i suoi ragionamenti. Lo aveva cercato ovunque, in ogni angolo della casa, rivoltando armadi e cassetti, senza successo. Alexander aveva anche proposto a tutti quanti di cercare nelle loro di case, negli zainetti, magari lo avevano preso per sbaglio, magari lo aveva lasciato da uno di loro sette, ma anche così non ebbe fortuna. Era convintissimo di esserselo portato appresso.
Non aveva neanche il coraggio di chiamare il nonno e dirglielo, insomma, lui gli affidava il suo preziosissimo mangiacassette con la sua cassetta preferita e Will se lo perdeva, con che faccia glielo avrebbe detto? Si sarebbe arrabbiato tantissimo e non poteva succedere, se lo ricordava bene il medico che diceva a tutti i suoi famigliari che Norman non andava “sottoposto a stress inutili”.
Sospirò affranto. Cosa pote fare?
Forse alla fine avrebbe dovuto confessare, dire al nonno tutto quanto. Sicuramente lo avrebbe deluso tantissimo.
Abbassò lo sguardo e smise di torturarsi il labbro quando la mamma lo richiamò. Doveva solo trovare il modo giusto per dirglielo.


Non gli interessava se la cosa non era da bambini maturi, lui la lezione di musica non la voleva fare. Andrew lo guardò perplesso battendo le palpebre senza capire.
<< Non puoi rifiutarti Willy, non è che abbiamo molta scelta, ora dobbiamo andare nell'aula di musica e fare lezione.>>
<< Beh, e io non ci vengo, ecco.>>
<< Ma si può sapere che ti prende?>> Ryan fece un gesto secco con la testa per rimandarsi indietro il ciuffo biondo, secondo Will era scomodo ma il bambino insisteva nel dire che il parrucchiere gli avesse fatto un taglio da ragazzo e che a lui piaceva, una battaglia persa in partenza.
<< Niente. Non ho voglia di fare musica.>> si ostinò a rispondere incrociando le braccia al petto.
<< Non è ancora per la storia della cassetta di tuo nonno vero?>>
Precisa ed impietosa come solo lei sapeva essere Rise lo guardava con un solo, singolo, sopracciglio inarcato -come diamine faceva, cavolo!- il mento alzato e le mani elegantemente incrociate in grembo, lo fissava dall'alto di quei maledettissimi sette centimetri che aveva guadagnato quell'estate, altro che due miseri come lui! In quel momento, con quello sguardo freddo, le ricordò terribilmente la Katrina che aveva fissato male i tre bambini che lo avevano messo all'angolo un anno prima. Aveva lo sguardo che non ti faceva scappare, quello che usava sempre per inchiodarti e costringerti a dire la verità.
Ma lui non avrebbe certo ceduto così facilmente.
<< Certo che no!>> rispose indignato.

<< Oddio, ancora per quello?>>
<< Cavolo pensavo ti fosse passata.>>
<< Vuol dire che non ha ancora parlato con suo nonno.>>
<< Andiamo Will è solo un mangiacassette mezzo scassato.>>
<< Non devi rattristarti così tanto, sono sicuro che il momento in cui metterai di cercarlo riuscirà fuori.>>
<< Non puoi mica rifiutarti di fare musica finché non lo avrai trovato!>>

Fissò a bocca aperta tutti e sette i suoi amici, che continuavano a discutere tra di loro di quando l'oggetto sarebbe tornato in circolazione, sul fatto che non poteva avercela con il mondo per quella cosa, che dovevano fargliela passare. Tutti così presi a parlare tra di loro ignorando palesemente il suo misero tentativo di negare.
Una mano gli si posò sulla spalla, Rise era arrivata al suo fianco con passi silenziosi. Le erano cresciuti i capelli, schiaritisi anche per colpa del sole, ora erano una spessa treccia ramata, con un bel fiocco bianco all'estremità. Alzò la testa per guardarla in faccia e lei gli fece un piccolo sorriso un po' impacciato, Rise non era brava a consolare la gente, lo sapevano entrambi, lei era più quella che ti prendeva a pugni e ti guardava male, non quella che ti abbracciava e ti diceva che sarebbe andato tutto bene. Che tutto si sarebbe sistemato lei lo dava per scontato, perché c'erano loro e avrebbero risolto il problema.
<< Lo sai vero che tuo nonno non ti vorrà meno bene se non ritrovi quell'aggeggio, e che non si allontanerà da te, né lui, né il resto della tua famiglia o il Texas stesso, se non senti quella cassetta?>> Lo chiese titubante, forse scegliendo le parole giuste ma dubitando comunque che potessero funzionare.
Ma Will non c'aveva mai pensato: perché voleva così disperatamente ritrovarlo? Forse perché il nonno glielo aveva affidato come ricordo di lui, come un “ci sarò sempre e questo te lo ricorderà”. Era un legame, un filo che lo teneva unito alla sua famiglia a distanza di uno Stato.
Rise aveva centrato in pieno il problema e Will si sentì ancora più triste, abbassando la testa sconfitto senza notare la nota di puro panico che si andò ad impossessare degli occhi della bambina, terrorizzata all'idea di aver peggiorato le cose, anzi, convinta di averlo appena fatto.
Cercò lo sguardo del fratello per chiedergli silenziosamente aiuto e nel frattempo si risolse nel battergli impacciata una mano sulla spalla.
I bambini non poterono comunque fare nulla, la maestra entrò in classe guardandoli accigliata e chiedendogli perché fossero ancora qui, prima di portarli alla lezione di musica.

Will si muoveva inquieto e triste sulla sedia davanti ad uno dei tanti spartiti. Avrebbero dovuto cantare ma non ne aveva voglia, proprio come non ne aveva di stare lì.
Non capiva perché si sentisse così male, lui ora adorava Phoeix, ma ripensare alla sua partenza, a ciò che era stato per lui quel piccolo nastro marroncino che girava in continuazione riproducendo le stesse dodici canzoni lo aveva irrimediabilmente depresso. Gli veniva quasi voglia di piangere.
Si rese conto che qualcosa non andava e che la maestra ci stava mettendo troppo a chiamare il silenzio solo quando la porta dell'aula si aprì e la Signorina Wisperia riportò Turan in classe.
Si voltò senza capire verso Andrew, ma il bambino aveva tutta l'attenzione sull'altro e gli fece solo cenno di aspettare mentre gli si avvicinava assieme agli altri.
Provò anche lui a farlo ma ben presto i suoi compagni di classe lo fermarono e lo ritirarono al suo posto, chiedendogli come fossero state le vacanze e cose così, già chieste e che sapevano di scusa per intrattenerlo.
Riuscì solo a scorgere Ryan scuotere la testa, così come Arabelle e Andrew. Turan si voltò verso i gemelli ma questi non lo stavano guardando, si fissavano negli occhi parlando come solo loro due riuscivano a fare. Loro due annuirono decisi e si voltarono verso la maestra che gli sorrise raggiante, battendo le mani e chiedendo a tutti di mettersi al loro posto.
I bambini si sistemarono in fretta ma due di loro invece si avvicinarono alla cattedra dove la maestra stava digitando velocemente i tasti del pc.

<< Bene bambini, ben tornati nell'aula di musica.>>
Un coro di saluti entusiasti si diffuse nella sala, ma Will non aveva occhi che per i suoi amici che ora parlottavano con i nasi ad un millimetro l'uno dall'altro. Rise doveva piegarsi in avanti per arrivare all'altezza del fratello e ogni volta che si ritraeva un poco rimettendosi dritta Alexander si alzava sulla punta dei piedi per seguirla e continuare quella conversazione apparentemente importantissima.
<< Normalmente cominciamo cantando tutti quanti una canzone che ben conosciamo, ma quest'anno faremo diversamente.>> premette soddisfatta un tasto e poi impugnò saldamente il mouse.
<< Oggi Katrina e Alexander ci canteranno una canzone che solo loro conoscono, quindi per favore mantenete l'attenzione e non li disturbate. >>
Fece cenno ai bambini di mettersi al centro della sala e poi pigiò il tasto sinistro del mouse.
Non ci sarebbe stato neanche bisogno di chiedere il silenzio, tutti gli alunni erano concentratissimi ma non solo sui gemelli, continuavano a lanciare occhiate nella sua direzione, per poi voltarsi non appena lui restituiva lo sguardo e ridacchiare con il vicino. Persino Arabelle e Turan lo guardavano di sottecchi, mentre Ryan cercava di fare lo stoico e fissare gli amichetti in piedi davanti a lui. Spostò infastidito gli occhi azzurri alla ricerca di quelli caldi di Andrew ma invece trovò quelli da gatto di Jajeck che lo fissavano senza pudore, senza vergogna. Stava palesemente aspettando una sua reazione, ma a cosa?
La risposta arrivò in fretta, le note lente e cadenzate di una canzone che conosceva a memoria, un ritmo proveniente da una terra lontana, da uno Stato lontano, la chitarra che pigra prendeva ogni nota di quell'accordo che sapeva di estate, di caldo afoso e sfocato, di pomeriggi passati a fissare le nuvole sul portico di casa sua, con un paio di cuffie troppo grandi per la sua testa ed una penna pronta per riavvolgere il nastro senza sprecare la batteria della macchinetta.
Fece scattare lo sguardo davanti a sé senza capacitarsi di come fosse possibile che tra tante proprio quella canzone fosse stata scelta e incontrò gli occhi azzurri di Alexander, liquidi come il cielo inondato di luce del pomeriggio, dove le nuvole passavano pigre, come il giorno del suo compleanno, come il giorno dell'inaugurazione. Vide i riflessi dorati del tramonto che lo aveva fatto tornare a Phoenix con la mente, che con i suoi colori lo aveva fatto tornare a casa.

<< “Almost heaven, West Virginia
Blue Ridge Mountains, Shenandoah River
Life is old there, older than the trees
Younger than the mountains growin’ like a breeze …
”>>

Riuscì a distogliere gli occhi da quelli ipnotici di Alexander solo quando Risie cominciò a cantare parole che conosceva a memoria, così come le conosceva lui.
La fissò sbalordito senza sapere cosa dire, gli sembrava di esser rimasto senza aria nei polmoni.
Che assurda coincidenza era quella?
Poi voltò la testa verso i suoi amichetti, che lo stavano osservando tutti ansiosi, pieni di speranza, e capì.

<< “...Country roads, take me home
To the place, I be-long
West virginia, mountain momma
Take me home, country roads...
” >>

Turan doveva essere andato a chiamare qualcuno, forse sua mamma, a chiedergli quale fosse la sua canzone preferita. E tutti gli altri lo avevano spalleggiato, avevano chiesto alla maestra di poter cantare quella canzone, per tirarlo su di morale.
Chiuse gli occhi emozionato, li sentiva leggermente pizzicare ma non si sentiva più triste. Sorrise senza rendersene conto, le vocine dei suoi amici che si armonizzavano perfettamente assieme per intonare il ritornello, qualche voce timida tra il pubblico che conosceva quelle parole e le cantava piano piano, alzando poi il tono quando Rise sorridendo fece cenno a quei bambini di alzare la voce.
Una luce improvvisa e bluastra illuminò la parete alle spalle della cattedra, la maestra aveva acceso il proiettore e ora le parole della canzone erano visibili a tutti, scure sul muro bianco.
Ben presto tutta la classe intonò quella canzone senza aver la minima idea di quale fosse il ritmo giusto, stonando un po' forse ma senza mai fermarsi.
E Will scoppiò a ridere tra una parola e l'altra, Andrew gli prese la mano stringendola forte, un sorriso accecante sulle labbra, gli occhi dolci scintillanti di gioia. Affianco a lui Turan batteva le mani a tempo con Arabelle se saltellava divertita, si voltarono entrambi a sorridergli ed annuire, a dirgli che tutto andava bene; così come Ryan che gli si schiantò addosso abbracciandolo e cantando le parole sbagliate del ritornello, il ciuffo biondo gli solleticava il collo e lo faceva ridere ancor di più. Poi un'altra mano strinse la sua rimasta libera lungo il fianco: Jajeck tirò le labbra mostrandogli quei dentini piccoli e appuntiti come quelli di un felino, pareva quasi che dietro ai suoi occhi qualcuno avesse acceso una lampadina, parevano fari pronti ad illuminare tutta la sala. E Rise ed Alexander davanti a lui, che si tenevano per mano come ora avevano fatto tutti loro altri, gli regalarono un sorriso storto dalle note della canzone che ora gridavano a pieni polmoni. Per dirgli che era tutto per lui, che loro erano lì per lui, che ci sarebbero stati sempre, per le cose più stupide come la scomparsa di un giocattolo e per quelle più serie come la perdita di un oggetto che lo legava alla sua famiglia.
Erano lì per lui e Will non avrebbe mai potuto immaginare nulla di più bello.
E avrebbe continuato a pensarlo per tutta la vita.

<< “ Take me home… country road!”>>


Suo nonno aveva riso tanto, forse fino alle lacrime, chissà se il dottore intendeva anche morir dalle risate tra gli “inutili stress”.
<< Non saresti stato un vero Solace altrimenti Will! Se non ce l'avessimo attaccata al collo ci perderemo anche la testa noi! Beh, mi sa che sarò costretto a comprartene uno nuovo no? Tuo zio Benny ora ha una scatoletta strana, tutta piatta, con uno schermo minuscolo ed un solo tasto rotondo, dice che si chiama mp3 o qualcosa del genere, ma gli ha dato un nome strano solo perché dietro c'è una mela morsa, bah, vallo a capire quel ragazzo!>>
Quando aveva attaccato sette paia d'occhi lo fissavano in attesa, una gamma di sfumature tanto famigliari quanto ancora sconosciute, che seppero dargli tanta di quella sicurezza ed affetto che se ne sentì quasi sopraffatto, troppo tutto assieme.
<< Ha detto che non fa nulla, ha riso.>>
Non dovette raccontare nient'altro, i suoi amici tirarono un sospiro di sollievo e come se avessero ricevuto un segnale comunque ricominciarono a schiamazzare come loro solito.
Will li guardò sorridendo come un ebete, felice di aver finalmente confessato tutto al nonno e ancora più felice che i suoi amici si fossero offerti tutti di fargli da sostegno morale.

<< Rise sarebbe entrata nel telefono a picchiare tuo nonno se ti avesse sgridato!>> rideva Jajekc battendo la mano sulla schiena della bambina che annuiva orgogliosa al pensiero che gli altri la conoscessero così bene, Will non dubitava che gli avrebbe strappato la cornetta di mano per litigare con suo nonno.
<< Dobbiamo fare quella cosa!>>
Si voltò verso Alexander che era corso a recuperare lo zaino abbandonato sul divano, estraendone il quadernone nero e facendo sorridere tutti concordi.
Will invece corse in camera sua, veloce come un fulmine, per aprire il cassetto del suo comodino e prendere un pacchettino piatto e non più grande di una noce. I passi affrettati degli altri lo raggiunsero nella cameretta, sedendosi in cerchio a terra come aveva appena fatto lui. Poi Alexander gli passò la Guida e Will aprì il pacchetto: ne estrasse una piccola toppa autoadesiva, uno cerchietto che pareva un bollino, bianco di sfondo e con i bordi rossi scintillanti, di qualche tonalità più chiaro della scritta centrale abbellita da un fiore di ibisco stilizzato. L'idea gli era venuta pochi giorni dopo la loro prima lezione di musica ma c'era voluto un po' per trovarla, alla fine sua madre l'aveva ordinata online pur di fargliela avere esattamente come diceva lui.
L'applicò con attenzione nell'ultimo buchetto nero, tra la toppa del mondo, quella dei Phoenix e quella del Lupo, pressandola bene con le mani piccole ed abbronzate. Osservò soddisfatto il suo operato e passò il quaderno a Ryan alla sua sinistra, lasciando che facesse il giro tra tutti prima di riaverlo in mano e tornare ad osservarlo rapito. Non si era minimamente reso conto che era al centro preciso della coperta, ma ciò non fece altro che farlo sorridere ancora di più.
Alzò lo sguardo scintillante incontrandone subito altri sette altrettanto felici e lucidi: in un anno si erano incontrati, si erano conosciuti, erano diventati amici ed avevano riempito assieme quelle due copertine, fino a giungere all'ultimo tassello.
Glielo aveva ispirato la canzone ma anche uno dei racconti di Rise, risalente alla sua prima visita al Maniero. Ricordava l'orgoglio con cui aveva parlato delle sue origini, di quelle sparse per il mondo di tutta la sua famiglia, finché fosse stata con le persone che le volevano bene lei sarebbe stata sempre a casa, e così Will aveva capito essere anche per lui.

Il viaggio forse era stato lungo, forse era durato un anno intero e non solo quelle ore necessarie per arrivare dal Texas all'Arizona, ma ora, qualunque fosse la verità, a Will non importava più.

Era arrivato, era a Casa.

“Ohana.”


[F I N E Q U I N T A P A R T E]

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Capitolo 6
*** Extra ***




C O U N T R Y R O A D


Extra.

[Giugno]



Quattro anni dopo.

Piegò la maglia che gli era scivolata di mano e la infilò dentro al borsone aperto sul letto, la vernice rossa dell'intelaiatura a forma di macchina ormai di qualche tonalità più chiara dell'originale, sbiadita dal tempo e dal sole impietoso della Valley. Non aveva la più pallida idea di cosa gli sarebbe potuto servire, ogni quanto si faceva la lavatrice lì o cose del genere, a dirla tutta non sapeva neanche se dovesse portarsi i compiti. Sospirò.
L'anno dopo sarebbe entrato finalmente alle medie, era diventato un ragazzo grande finalmente, certo non grande come i ragazzi del liceo o come Nathan che ora era al College, ma era sicuramente sulla buona strada per la pubertà, gli erano persino usciti un paio di peletti sul mento e no, Ryan poteva prenderlo in giro quanto voleva, ma quelli erano sicuramente i suoi primi due peli di barba, non era banale peluria. Come se poi lui potesse permettersi di parlare! L'unico che poteva dir qualcosa era Andrew, che sorprendendo tutti, si era presentato qualche giorno prima con un bellissimo sfogo d'acne su una guancia.
E sua madre poteva dire quello che le pareva, ma l'acne era il primo passo verso l'adolescenza, non c'era nulla di cui vergognarsi, anzi, lui e gli altri ragazzi stavano invidiando Andrew come se non ci fosse nulla di più bello al mondo che avere delle bruttissime bolle sul volto.
Si lanciò uno sguardo attraverso lo specchio dentro l'anta dell'armadio, dove le sue magliette a maniche corte facevano bella mostra appese con le suo autentiche camicie hawaiane, gliele aveva portate Risie direttamente da Kaneohe, dove vivevano i nonni paterni. Sorrise e si sporse per prenderle, si sarebbe portato anche quelle, si.
Fece un rapido conto e decise che forse doveva proprio portarsi dei quaderni nuovi, a quanto gli aveva detto il suo satiro avrebbe dovuto imparare il greco antico, o rii-impararlo visto che secondo lui già lo conosceva. Si guardò attorno alla ricerca dei blocchi degli appunti nuovi che aveva comprato il Settembre precedente con i suo amici e l'occhio gli cadde su una mensola alta, dove teneva le foto fatte durante quei cinque anni passati a Phoenix. Certo, ve ne erano tante altre appese per la camera ed un numero indefinito per tutta casa, ma lì c'erano le più importanti, come quelle di Natale o del Palaghiaccio, il primo saggio di danza e la prima gara di nuoto di Rise, Ara con il suo bell'arco e la medaglia d'oro, Jajeck sporco d'erba tra tutta la sua squadra, la coppa alta sulla sua testa. C'era Ryan sulla spalla di uno dei ragazzi della squadra di basket del liceo, quando avevano vinto contro Tucson. O lui e Turan alla prima dello schiaccianoci in cui avevano ballato sia lui che Rise. E ancora Andrew senza un dente dopo aver parato la battuta di un battitore professionista dritta in faccia. C'era sua madre al Country Bar e i nonni sulla veranda del ranch, c'erano tantissimi ricordi ma non poteva portarli con sé tutti, senza contare che aveva paura di perderle o rovinarle se avesse deciso di prendere qualche foto.
Nonostante tutto si arrampicò sulla sedia per raggiungere il ripiano e guardare da vicino quei frammenti di passato.
Posò lo sguardo sulla primissima foto che avevano scattato insieme, gliela aveva fatta Albert alla loro prima visita al Maniero, rigorosamente senza dir nulla a Madame e infilando a tutti una copia di soppiatto dentro allo zainetto. Ritraeva loro otto da piccoli, appena sei anni, Ryan doveva ancora farli a ben pensarci, ridacchiò. Subito affianco invece quella scattata dopo il suo rientro dal Texas tutti quegli anni prima, gli pareva così lontano quel giorno, quando avevano finito il posto per mettere le toppe sulla Guida, applicandovi l'ultima, piccola, bianca e tondeggiante. Nella foto erano tutti ammucchiati, Turan e Risie, i più alti, in piedi dietro di lui, che spiccava al centro con la guida aperta di dorso verso l'obbiettivo; alla sua destra Jajeck teneva un braccio attorno al collo di Rise, sporto in avanti per tenere l'altra mano sulla spalla di Alexander accucciato davanti a lui; dall'altro lato Ryan poggiava tutto il suo peso contro la sua spalla, una mano alzata in segno di vittoria e l'altra che teneva stretta nel pugno la maglia del rosso. Ai suoi piedi il cugino seduto vicino ad Arabelle che se ne stava tranquilla e sorridente al centro, i capelli sciolti a formarle una tenda attorno al volto.
Gli venne da ridere a ripensare a tutto il casino che avevano fatto per decidere se qualcuno oltre Albert, che era l'addetto all'attacco delle toppe, dovesse anche solo vedere la loro segretissima Guida Nera, ma alla fine Summer Solace aveva giurato di portarsi il segreto nella tomba e loro le avevano creduto.
Quanto erano piccoli ed ingenui, si disse con affetto e nostalgia.
Ora invece erano cresciuti, in molti sensi diversi, lo avevano fatto assieme fino a quel momento, ma adesso lui sarebbe dovuto andare al Campo Mezzosangue, dove stavano tutti quei “ragazzi come lui” e probabilmente non avrebbe più passato un'estate con i suoi amichetti.
Stava per scendere dalla sedia improvvisamente rattristato da quel pensiero quando uno scintillio strano lo fece bloccare sul posto, cos'era?
Spostò le due foto ed allungò la mano per tastare lo spazio impolverato che le divideva dal muro, sussultando e rischiando di cadere quando le sue dita incontrarono un rettangolo metallico con dei tasti in rialzo sul dorso. Strinse la presa e chiuse gli occhi, senza voler credere di aver in mano proprio ciò che pensava essere.
Scese con cautela dalla sedia e si sedette sul letto fissando stralunato e confuso il mangiacassette che aveva ritrovato.
Era indubbiamente quello di suo nonno, quello che si portò via dal Texas cinque anni prima e che lo fece tanto pensare un anno dopo credendo di esserselo perso per sempre. Premette il tasto play e con sempre più stupore si rese conto che ancora funzionava, che dopo tutti quegli anni le pile erano ancora cariche.
S'affrettò a cercare le cuffiette, ma quando aprì il cassetto ritrovò quelle vecchie a ponte che erano sempre state attaccate al riproduttore. Come c'erano arrivati entrambi in camera sua? Per un attimo si chiese se non fosse possibile che fosse stata sua madre a metterlo lì, ma dubitava fortemente, che fosse stato…
Scosse la testa ed infilò il jak delle cuffie nel piccolo forellino impolverato, sbrigandosi a sistemarsi le vecchi spugne arancione sbiadito sulle orecchie, spingendo a ripetizione il tasto avanti per raggiungere proprio ciò che voleva.
Ed eccolo lì, proprio come lo ricordava, John Denver che con voce lenta e melodiosa cantava di quella strada di campagna che lo avrebbe riportato a casa sua.
Si lasciò cadere sul letto e sorrise chiudendo gli occhi.
Alla fine lui a casa c'era arrivato, quella canzone non era altro che la degna conclusione di tutta la sua disperata ricerca, eppure mancava ancora qualcosa.


Louis, il papà di Alexander, era stato così bravo e veloce, oltre che gentile, da riportargli il mangiacassette proprio il giorno in cui sarebbe partito per il Campo.
A tutti i genitori dei suoi amici aveva detto che sarebbe andato in questo campo particolare che gli aveva consigliato uno dei fratelli della mamma e chissà perché tutti gli avevano creduto senza batter ciglio, o meglio, Providence e Tory avevano ridacchiato sotto i baffi come le due sorelle mancate che erano, esattamente come i gemelli mancati che erano invece i loro figli, ma in ogni caso avevano taciuto.
Mentre gli adulti parlavano tra di loro in attesa dell'arrivo del treno che lo avrebbe portato a New York, Will fece cenno ai ragazzi di avvicinarsi per dirgli le ultime raccomandazioni e fargli sentire ciò che aveva preparato.
Era triste dirgli addio in quel modo, sapere che non avrebbero passa l'estate tutti assieme a far chissà quale danno che solo loro potevano fare; persino Ares, accucciato ai piedi di Rise, piagnucolava rattristito e Will poté giurare di aver visto Ryan asciugarsi al volo una lacrima, prima che Andrew gli passasse una mano sul braccio con fare rassicurante.
Erano cresciuti tutti quanti, soprattutto d'altezza, ma anche di carattere, di fisionomia, eppure a Will sembravano ancora quei bambini che avevano deciso di essere suoi amici senza neanche chiedergli cosa ne pensasse lui, se gli andasse bene.
Chiese solo un attimo d'attenzione prima di premere play e far partire la registrazione.
C'era stato grande giubilio e profonda sorpresa quando aveva raccontato di aver ritrovato il mangiacassette, ma ce ne fu molto di più quando i bambini riconobbero la canzone.
La voce acuta ma perfettamente intonata di una Risie di sette anni cantò le prime strofe della canzone, seguita subito dal fratello nel ritornello e poi da tutti loro in coro. Era quella che avevano registrato tutti assieme per il loro secondo Natale, per farla sentire a suo nonno che era andato a trovare lo zio Anthony a Chicago e per i genitori dei suoi amici che erano sparsi per il mondo, impegnati in mille missioni diverse, ne avevano mandato una copia ai loro di nonni e persino a Nathan che aveva cominciato il College ed era lontano.
E tutti e sette gli sorrisero, Ares alzò le orecchie e cominciò a scodinzolare; era felice di averli sorpresi, voleva che sapessero che li avrebbe sempre portati con sé.
Che erano la sua famiglia.
La canzone finì lentamente ma il nastro non si interruppe come Will credeva. Fu il suo turno di guardare incuriosito lo strumento per poi spostare lo sguardo sui suoi amici, Andrew arrossi colpevole davanti ai ghigni soddisfatti degli altri ed il biondo si ritrovò a non capire, finché ancora una volta la voce di Rise -della Rise di ora- non proruppe nell'aria pregna di chiacchiere ed addii:

<< “ Per ricordarti, anche adesso che sei lontano, che noi siamo qui ad aspettarti, che ci saremo sempre, così non ti perderai, così non dimenticherai quel è la strada di campagna che ti riporterà a casa”>>

William li aveva abbracciati uno ad uno, infischiandosene che non fosse da uomini così come avevano fatto i suoi amici, e si, Ryan aveva piagnucolato proprio come Ares, anche lui gli era saltato addosso per leccargli la faccia e fargli sapere quanto gli sarebbe mancato. Chissà cosa avrebbero detto i ragazzi del Campo se avesse raccontato che una sua amica aveva chiamato il suo cane come un dio.
Il satiro che lo aveva trovato era chiuso in bagno a parlare con i suoi superiori e Will non voleva minimamente sapere come fosse possibile e perché proprio in bagno. Gli avevano detto che i telefoni e tutti gli oggetti in grado di trasmettere onde radio erano vietati e quindi non avrebbe neanche potuto telefonare e far sapere che era arrivato, che stava bene.
Ripoggiò la testa contro il finestrino e riavviò il mangiacassette lasciando che la voce di Risie gli ricordasse ancora che ci sarebbe sempre stato qualcuno ad aspettarlo a casa.
Chiuse gli occhi e sorrise, alla fine sua madre non gli aveva mentito, lo aveva portato in Arizona e lì aveva davvero vissuto un'incredibile avventura, fino a scoprire chi era, fino a scoprire chi era suo padre.
Un dio lui ed un semidio io.
E se quella non era l'avventura della sua vita, Will non sapeva proprio cos'altro potesse essere.
Qualunque cosa sarebbe successa una volta arrivati a New York però non gli faceva minimamente paura, lo elettrizzava, gli faceva venir voglia di cantare a squarciagola e dire a tutti che lui l'aveva sempre saputo, anche se non ne era consapevole forse, ma aveva sempre saputo di essere in grado di vedere più di quanto non vedessero gli altri. Così come i suoi amici.
Sospirò, se solo Mapel gli avesse creduto quando gli aveva raccontato che non era stato lui ad uccidere quel mostro, ma che era stata Risie a suo di mazzate e che se non fosse stato per i suoi amici lui non si sarebbe neanche reso conto che quel cane non era propriamente un cane… ma non c'era stato verso, loro erano semplici mortali e non potevano venire con lui, non sarebbero neanche stati in grado di superare l'arco.

<< Devi farlo da solo Will, questa è la tua di avventura, non la nostra.>> gli aveva detto con voce dolce Turan.
<< Non fraintenderci, ci piacerebbe tantissimo venire con te.>> aveva continuato subito Andrew.
<< Ma non possiamo, lo hai sentito il caprone, non siamo come te. Forse abbiamo quella cosa, la vista o quel che è, ma sei tu quello forte qui, sei tu il semidio.>> Ryan gli aveva assestato una delle sue micidiali pacche sulle spalle, mai terribili come quelle dei due giganti del gruppo, ma comunque temibili. Poi Arabelle aveva annuito e gli aveva stretto la mano,
<< Ricordati però che ci saremo sempre, anche se non ci telefonerai, noi chiederemo a tua mamma, sapremo sempre come starai. Non ti libererai di noi.>>
<< E poi non è un addio, lo sai benissimo, ci rivedremo a Settembre per la scuola.>> Aveva aggiunto Alexander.
<< E se ti servisse mai qualcosa, facci un fischio, glielo faccio vedere io come la sua dannata barriera non ci fa passare, gliela sfondiamo a suon di calci.>> Jajeck aveva trovato subito l'appoggio di tutti quanti, più che seri all'idea di distruggere una barriera protettiva solo per lui. Li aveva ringraziati e si era voltato verso Risie che non aveva ancora detto nulla, limitandosi ad ascoltarli in silenzio. Le si avvicinò piano e allungò una mano che venne prontamente presa da quella della ragazzina, qualcosa di liscio e fino intrappolato tra i due palmi.
Si guardarono per un tempo incalcolabile e poi semplicemente lei rafforzò la presa, << Buona fortuna William, torna presto.>>
Will aveva inghiottito il groppo che gli si era formato in gola e l'aveva tirata per quella stessa mano per poi stringerla in un abbraccio spacca ossa, ma che era tutto ciò di cui aveva bisogno in quel momento,
di cui avevano bisogno entrambi.
<< Non ho bisogno di altra fortuna, ho già voi.>>

<< Questo è disgustosamente diabetico, sappilo.>>


Si, qualunque cosa sarebbe successa lui aveva sempre i suoi amici, la sua famiglia, che lo aspettavano a casa. E casa, aveva imparato Will, non era un luogo.
Casa erano le persone che ami e che ti amano.
Avrebbe affrontato la sua grande avventura e poi sarebbe tornato vittorioso dalla sua famiglia. Voltò il mangiacassette e osservò l'adesivo che vi aveva messo sopra neanche due ore prima. Piccolo come una noce, tondeggiante e dallo sfondo bianco, un contorno rosso ed una semplice scritta centrale di un rosso più scuro, abbellita da un fiore d'ibisco stilizzato.
Una sola parola che valeva più di mille altre.
“Ohana”.
Non sapeva cosa lo aspettasse al suo arrivo, non sapeva nulla di quel luogo, della sua gente, di suo padre e di tutto il suo mondo, ma sarebbe stato pronto ad andare in capo al mondo ora che aveva capito che neanche la lontananza lo avrebbe mai potuto dividere dalla sua famiglia.
Non vedeva l'ora di iniziare, non vedeva l'ora di poter raccontare tutto ai ragazzi, a sua madre.

L'avventura di Will Solace, figlio di Apollo, aveva appena imboccato una nuova strada maestra.










[ F I N E ]












Questa è la fine della storia, o forse è solo la spiegazione di come è cominciata, ma una volta partiti, con della buona musica e qualche bel ricordo, siamo tutti più propensi a goderci il viaggio.
TCotD.

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