E poi cosa accadde?

di Blackmore Di Blackmore
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un inizio più che sconvolgente. ***
Capitolo 2: *** Il primo arrivo dei Vacui ***



Capitolo 1
*** Un inizio più che sconvolgente. ***


Il fatto che teoricamente nessuno di loro poteva essere toccato lasciava i bambini di Miss. Giorgette tranquilli, ma Eva passava ogni sua giornata scrutando fuori dalla finestra, nel disperato tentativo di veder arrivare i suoi genitori per prelevarla e riportarla a casa, cosa che ovviamente non era mai successa. Era l'inizio dei i ruggenti anni sesanta, andavano di moda le gonne corte e le giacche di colori assurdi, le auto senza capotte e i jouboxe.
Evangeline Carter era orfana da troppo tempo ormai, i suoi genitori erano stati uccisi da un Vacuo mentre lei era fuori con un ragazzo carino, un certo Jeremy, quando la ragazza tentava di ricordare che viso avesse non ci riusciva; doveva essere una persona speciale visto che la ragazza di norma non trasgrediva mai alle regole per un giovane. Eppure quella sera, al posto che rimanere a casa a fare i compiti aveva preferito uscire dalla finestra per andare a fare un giro con lui, e quando era tornata, stanca ed infreddolita, non aveva trovato che cadaveri senza occhi nella sua casa. Sua madre era stata sbattuta in un angolo e in mano stringeva in modo convulso un biglietto su cui era scritto un indirizzo e poche altre informazioni, era indubbiamente per sua figlia. La giovane, per natura poco portata a i sentimentalismi aveva pianto poco la morte dei suoi genitori, consapevole che qualsiasi creatura gli avesse fatto ciò poteva tornare e, senza esitazione, aveva preso tutti i soldi che aveva trovato, prima di andare nella sua stanza, infilare qualche abito nella sacca che suo padre aveva usato quando era stato un giovane militare e poi uscire.
Il suo viaggio era stato lungo e travagliato, era inverno inoltrato e una ragazzina sola con una pesante sacca non era certo uno spettacolo normale, eppure era, in fine, giunta alla casa di Miss. Giorgette.
La donna che le aveva aperto aveva i capelli color mogano e la aveva scrutata attentamente prima di farsi di lato e farla entrare nella villa, con un sorriso cordiale. Era una figura magra e bassina, più somigliante a una giovane sorella maggiore che non ad una madre, eppure nulla poteva sfuggire al suo occhio indagatore. Eva le raccontò la sua storia con parole semplici e dirette, della morte della famiglia, il viaggio per giungere fino a lì e le peculiarità che i suoi genitori le avevano sempre intimato di nascondere.
La donna aveva mostrato di capire la situazione della giovane e la aveva invitata a fermarsi con loro, promettendole protezione. Quella notte, in una nuova camera da letto la ragazza si era finalmente lasciata andare e aveva pianto la morte della sua famiglia.
***
Dalla sua cabina Enoch scrutava il porto da quale Olive, tenuta sottobraccio da un certo Richard, li salutava sventolando la mano coperta dallo spesso guanto nero che le impediva di appiccare il fuoco a qualsiasi cosa toccasse. Gli altri sul ponte si stavano sbracciando per ricambiare il saluto della ragazza, ma lui aveva preferito evitarsi quella scena deplorevole. Un leggero bussare alla sua cabina gli distolse l’attenzione dalla ragazza con i capelli rossi che ormai era solo un vago puntino in lontananza.
-Avanti.-
La porta si aprì lentamente e, dall’altra parte comparvero Jake ed Emma, che lo guardavano preoccupati e un po’ a disagio.
-Ciao Enoch, come stai?- chiede timidamente la ragazza entrando all’interno della stanza, per andarsi a sedere accanto a lui.
Il ragazzo li aveva scrutati per qualche istante. -Sto bene, ragazzi davvero, non ho nulla che non va.-
La coppia si era guardata per qualche istante. -Certo, Enoch, se lo dici tu…- aveva sussurrato Jake, palesemente sarcastico, andando a sedersi sul letto della camera che condividevano per quel viaggio.
-Sul serio, Olive non è una mia proprietà, non posso chiederle di rimanere con me se…- si bloccò per un istante, guardando l’oceano fuori dal piccolo oblò. -se ama qualcun altro.-
-Lei sarebbe rimasta con noi se solo…- tentò Emma.
-Se solo gli e lo avessi chiesto? E avrei dovuto chiederle di rinunciare all’amore per quel mezzo soldato solo per star con noi? Scusami Emma ma quello che stai dicendo è veramente egoista.- ringhiò il giovane senza lasciarla finire. La ragazza, invece, sorrise.
-Sei cresciuto così tanto Enoch, quasi non ti riconosco più…- sussurrò lasciandogli una lieve carezza in testa per poi uscire dalla stanza, lasciando i due ragazzi soli a scrutarsi. Ognuno di loro era cambiato in quel tempo che avevano passato senza un anello temporale in cui vivere, dopo la caduta della casa nel 45 Miss Peregrine, contrariamente alle usanze, aveva espresso il desiderio a i suoi bambini di viaggiare per il mondo per conoscerlo un poco meglio. Erano in fine passati tre anni e la guerra si era conclusa nel migliore dei modi, con la vittoria Americana.I bambini di Miss Peregrine erano cresciuti, ed alcuni di loro avevano superato la maggiore età, Olive Jake e Enoch erano i tre più grandi.
La giovane dai capelli rossi si era innamorata ben presto di un ragazzo, un militare, che aveva ricambiato i suoi sentimenti e le aveva chiesto di sposarlo, così, una sera di primavera, Olive aveva comunicato agli altri che li avrebbe lasciati per rimanere, e così era stato.
Incredibilmente la notizia era stata presa da Miss Peregrine ottimamente, tanto che aveva aiutato la giovane con un poco di shopping e si erano accomiatate con molti abbracci, ripromettendosi una fitta corrispondenza.
-Ti passerà, vedrai.-
Enoch, spostò lo sguardo su Jake, che gli sorrideva incoraggiante.
-Si, forse un giorno starò meglio.- sibilò prima distendersi nel suo lettino e dare le spalle a Jake, che uscì piano dalla stanza, lasciandolo solo alla privacy di cui in quel momento aveva un disperato bisogno.
Nel corridoio Alma Peregrine ed Emma lo stavano aspettando con le braccia conserte ed espressioni preoccupate in volto.
-È molto sconvolto suppongo. Credo che identifichi il fatto che Olive lo abbia lasciato per un ragazzo quasi sconosciuto come un grande fallimento, un danno al suo orgoglio.-
-Infatti.-
-Cosa possiamo fare per lui?- chiese Olive, preoccupata.
-Nulla, temo.- 
 

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Capitolo 2
*** Il primo arrivo dei Vacui ***


Eva era nata nel 1946, suo padre era uno dei giovani soldati chiamati alle armi per la seconda guerra mondiale, si era beccato due pallottole in una spalla e congedato con onore, sua madre era una bella donna con i capelli rossi e gli occhi dolci che le cantava le ninnenanne prima di metterla a letto. Si erano incontrati a New York nel ottobre del ’45 ed era stato amore a prima vista tra i due. La bimba non aveva mai conosciuto i genitori della madre, e i pochi racconti dei nonni materni erano sconnessi e contradditori, la donna parlava solo di una zia lontana che la aveva cresciuta come figlia sua, amandola come una madre, i genitori di suo padre erano invece due vecchietti buoni e gentili, che le davano le caramelle di nascosto e che la portavano a prendere il gelato. -Cosa fai Eva?- una vocina infantile e dolce la riscosse dai suoi pensieri e le fece spostare lo sguardo sulla bambina che la osservava curiosamente con i due grandi occhi neri fissi su di lei. -Io… stavo pensando Jaqueline. E tu cosa ci fai in questa polverosa soffitta?- chiese la giovane facendo vagare lo sguardo sul luogo dove si era rifugiata in cerca di un poco di pace dai rumori dei suoi coinquilini. Era la vecchia soffitta della casa, malmessa e polverosa, quasi nessuno saliva lì, tranne lei per rifugiarsi e leggere qualche tempo in pace. Trovava l’esuberanza dei suoi compagni splendidamente genuina, ma anche esagerata e imbarazzante delle volte, vivere con quel branco di eterni bambini era difficile da digerire. -Mi prendevano in giro.- borbottò la piccola, aveva tredici anni e un dono difficile da sopportare, la preveggenza. -Ho detto loro che stanno per arrivare i Vacui, ma non mi hanno creduto. “Non arriveranno oggi Jas”. Ma io gli ho detto che arriveranno oggi, non domani o dopodomani.- -Jacqueline, noi viviamo solo nell’oggi.- -Non era quello che intendevo. Arriveranno presto, vedrete, ho ragione io.- sibilò lei voltandole le spalle con marciando fuori dalla stanza con il suo vestitino azzurro e le trecce che le davano l’aria da bambina mai cresciuta. Eva la guardò uscire con un sorriso indulgente in viso, ma le sue parole le avevano messo addosso una certa ansia ed era inutile nasconderlo a se stessa, o cercare di mentirsi. La piccola difficilmente sbagliava quando si trattava di premonizioni, e se lei diceva che i Vacui sarebbero arrivati a breve c’erano ottime probabilità che avvenisse. Silenziosa come un alito di vento scese dalla finestrella su cui si accucciava per spiare l’area che circondava la casa, dirigendosi con passo tranquillo verso lo scantinato. Aprì la porticina che si spalancò su una scala di pietra, che scendeva verso il buio più estremo della casa; lentamente allungò una mano davanti a se e su di essa una piccola fiammella prese a danzare, rischiarando la discesa. Sapeva quanto scivolosi potessero essere quegli scalini così, visto che era obbligata a passare di lì, poggiava i piedi con attenzione chirurgica, per non cadere e rompersi l’osso del collo. Solo quando arrivò nello scantinato e si guardò attorno tirò un sospiro di sollievo e si diresse a passo rapido e sicuro verso un baule in un angolo della stanza, sfilò una piccola chiave d’argento da un buco nel muro e con delicatezza la infilò nella serratura. Il vecchio meccanismo ci mise un istante a scattare e, con un suono secco, la chiave girò su se stessa; fatto ciò Eva afferrò con entrambe le mani il coperchio del baule, cercando di sollevarlo. I cardini arrugginiti parevano non volerne sapere di muoversi eppure dopo qualche, interminabile, secondo cedettero, lasciando che la ragazza aprisse il baule. All’interno armi da fuoco di ogni epoca rilucevano, coperte solo da un leggero velo di polvere e, soprattutto, pronte per essere utilizzate. Evangelin, cresciuta con un padre che era stato soldato non ebbe esitazione, ed afferrò una rivoltella con la canna corta, nascondendola sotto la gonna, legata con uno spago che era stato abbandonato per terra chissà quanto tempo prima. Richiuse con cura il baule, dispiaciuta di non poter prendere null’altro da tenere con se, infilò nuovamente la chiave nella fessura a lei dedicata nel muro e poi, sempre con la fiammella danzante sulla mano, si apprestò a risalire la lunga scalinata che la avrebbe portata dai suoi compagni, giusto in tempo per l’ora del the, a giudicare da quello che diceva il suo orologio. Erano già tutti seduti quando lì raggiunse, le rivolsero un’occhiata curiosa, poi gli indicarono la sua tazza, ricolma di the fino all’orlo ancora fumante. Fece un sorriso mesto ed andò a sedersi sul divano color senape su cui Jacqueline e Kaspar erano già comodamente seduti. Li raggiunse in un silenzio quasi religioso, con il freddo metallo della pistola a contatto con la gamba, e si sedette accanto a loro. -Chiedo perdono per il ritardo.- sibilò con il capo chino -Non importa bambina, vuol dire che stasera laverai tu i piatti.- La ragazza sbuffò. *** Era dieci minuti a mezzanotte quando l’intera abitazione tremò, svegliando tutti di soprassalto. La porta della camera di Eva venne spalancata dall’altra parte Jacqueline, bianca come un cencio e con gli occhi fuori dalle orbite per il terrore la guardava. -I Vacui sono arrivati, Eva, siamo tutti condannati.- sibilò prima di voltarsi e correre via. La giovane realizzò confusamente che forse lei aveva visto nella visione un nascondiglio sicuro, ma in ogni caso non ebbe il tempo di inseguirla, perché la parete della sua stanza venne sfondata da una forza invisibile, che sorreggeva il piccolo Kaspar le cui orbite vuote la guardavano senza vederla; il bambino biondo venne gettato di lato, finendo contro la finestra che venne inevitabilmente sfondata, per farlo finire nel cortile due piani più sotto. Eva, già scattata in piedi all’arrivo di Jacqueline, indietreggiò finché non si trovò schiacciata contro la parete, spaventata allungò una mano e una fiammata si alzò d’innanzi a lei, illuminando il vacuo invisibile e, soprattutto, gettando la sua ombra sul pavimento. La ragazza impugnò la pistola e, sparati un paio di colpi alla cieca, si gettò fuori dalla stanza, in una corsa disperata per non sapeva bene neanche lei dove. La carta parati del corridoio delle stanze era completamente a pezzi, e all’interno di esse si potevano vedere i suoi compagni gettati negli angoli come vecchi giocattoli, marionette a cui erano stati strappati i fili, veniva scrutata da quelle orbite vuote con invidia, sentiva chiedersi “Perché io sono viva e loro no?” quando vide il piccolo Lucas trattenuto a mezzaria, la schiena ricurva e le braccia abbandonate all’indietro prese alzò la pistola e sparò, ci fu il suono di unghie passate sulla lavagna e il bambino cadde a terra, a peso morto. Era già privo di vita. Anche questa volta non rimase lì a piangerne la scomparsa, ma corse come una pazza fino allo scantinato, chiudendocisi dentro, ed andò ad accucciarsi vicino al baule dei fucili, cercando conforto e sicurezza.

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