Chronicles of a Hero - Atlas di Andrew Foulieur (/viewuser.php?uid=991097)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 0 - La Morte ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - La Scelta ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - La Notte più Lunga ***
Capitolo 1 *** Capitolo 0 - La Morte ***
Hero - Capitolo 0
Capitolo
0
La
Morte
Un’accentuata
espressione di dolore l’accompagnò nel cammino
verso chissà quale
luogo, tra gli innevati e sconfinati boschi canadesi. Il manto di
neve, uniforme nel coprire ogni ciuffo d’erba e chiunque
avesse
deciso di passare per quei luoghi: come lui. Il suo passo era
dannatamente lento, quasi trascinante e intriso d’energie
sprecate.
Il sangue ancora usciva, però molto più
lentamente, dal polso
destro. Fissava quel poco che ne rimaneva: era stata tagliata di
netto, chirurgicamente e con una maestria fuori dal comune…
nonostante fosse fatto con estrema violenza. Il suo rammarico fu
quello di non averla potuta recuperare: il suo nemico se la
portò
con sé lasciandolo agonizzare nel suo stesso sangue, ma ebbe
lo
stesso la forza di andare avanti…
per proseguire il suo cammino.
Gli
sarebbero mancati solo trecento metri, ma ormai ne aveva già
percorsi altrettanti dal luogo dello scontro e il sangue uscente dal
braccio aveva formato una traccia.
Ormai,
il suo corpo era esausto.
Decisi
di seguirlo da lontano, come sempre.
Senza
una mano… una goccia di
sangue, bianco in volto, come la neve al di sotto del suo sedere, e
ormai s’era accasciato anche a terra. L’animale che
incontrò
pocanzi, per caso, e dopo un’efferato scontro, sempre per
caso, che
ometterò per evitarmi altri problemi, decise di recidergli
la mano
per ricordargli che l’aveva quasi battuto. Ma, allo stesso
tempo,
non abbastanza forte per finirlo: perché qualcosa nella
logica
d’uccidere qualcuno per forza non gli tornava. Il risultato
fu che
venne atterato dal suo nemico, proprio per evitare che Mastiff
avrebbe potuto ripensarci: avrebbe potuto finirlo, ma per qualche
strana ragione non lo fece. Non credo che ci sia stata mancanza di
determinazione, ma credo ci sia stata qualche altra ragione
improvvisa.
«Chi
sei? Un uomo che può diventare animale? Che magia
è questa? Non ti
faccio fuori perché non non è giusto uccidere
solo per goduria
personale!» – Parlò usando uno strano
inglese, forse era una
mescolanza con quella usata dai Cherokee, imparata dai suoi genitori
adottivi. Diede le spalle al proprio nemico, forse per
ingenuità o
perché non s’aspettava che l’attaccasse.
Un
grido, da parte del suo avversario, lo fece voltare, ma era fin
troppo tardi. L’animale… il mezzo uomo…
gli si eresse di
nuovo e con uno scatto fulmineo, gli morse il braccio –
all’altezza
del polso, per essere precisi – gli tranciò la
mano via dal resto
del corpo e se la mangiò: quello che prima era un semplice
cannibale, divenne per metà orso e con un ghigno stampato
sul volto,
gli dimostrò che la sua scelta di risparmiarlo fu del tutto
sbagliata.
Preso
dal dolore per la rescissione del braccio – purtroppo non
sarebbe
dovuto accadere, ma non avrebbe potuto scoprire realmente chi fosse
–
e dal risentimento nel riconoscere che sarebbe stato megio fermarlo e
renderlo innocuo: invece di lasciarlo lì a marcire senza
assicurarsi
che sia del tutto inerme; dunque decise d’andarsene, Mastiff:
non
sarebbe stato – giustamente – saggio rimanere
vicino a qualcuno
che potrebbe aver intenzione di mangiarti solo per goduria personale.
Riuscì nel suo tentativo, trovando ancora quel briciolo
d’energia
dentro di sé per correre, mentre l’orso decise
anche lui
d’accasciarsi a terra e di riposare: i fiotti di sangue
sarebbero
stati una manna dal cielo per chiunque avesse voluto divertirsi a
cacciare uno che sembrasse un indiano: anche solo per scherzo, tanto
l’uomo sembra essere stato programmato per uccidere senza
pietà.
Anche se non esiste pietà nel togliere la vita a qualcuno
che non
soffre.
Fece
poche centinaia di metri, forse solo un centinaio…
per poi accasciarsi a terra e rendersi conto che stava per morire. Il
sangue caldo colante dalla mano stava ancora colando, mentre il suo
corpo stava sempre diventando più bianco: nonostante tutto
ero
sicura che non servisse il mio intervento.
Era
ancora, tra la vita e la morte. Ormai, gli sarebbe rimasto poco da
vivere.
Aveva
diciotto anni compiuti. Correva il cinque novembre del 1909, su
quella linea temporale e lo ricordo tutt’ora.
Passò
qualche minuto e divenne cadaverico: le forze l’avevano
già
abbandonato del tutto, ma non riuscii ad andare oltre, senza farmi
vedere. Non potrei mai donare i miei servigi a chi non servo.
A
mio figlio, non servo.
Mai.
Passarono
venti minuti, tanto che incominciai a sospettare che ci fosse
qualcosa di storto.
Invece
era tutto regolare, solo con un leggero ritardo: il sangue aveva
appena smesso di sgorgare dalla mano e la ferita s’era
già
cicatrizzata completamente. Da quel momento, si rialzò da
terra, ove
era stato per qualche decina di minuti, per riprendersi dalle sue
fatiche e prese a correre disperatamente. Con il moncherino alla mano
destra. S’avviò verso l’ignoto, e dalla
determinazione usata in
ogni passo, il luogo d’arrivo sarebbe dovuto essere molto
importante. E decisi di smettere di seguirlo, per impegni urgenti, e
nel mentre aumentò
il passo e la
sua velocità, lasciando persino le impronte sulla candida
neve.
Mi
distaccai da lui, comparendo in una grande tenda e lo vidi
sghignazzare, un altro tizio cui dovrà prestare attenzione,
mentre
contemplava il dissanguarsi delle sue ultime vittime. Due indiani
pellerossa, a cui darei quarant’anni – massimo
– d’età: i
loro occhi rivolti verso il cielo. Entrambi con il collo spezzato e
una ferita all’addome, più precisamente subito
sotto lo sterno.
La
sua bramosia era palpabile a occhio nudo, quasi godesse
nell’infliggere la morte agli altri e forse era il solo e
unico
scopo della sua vita. E l’unico dettaglio, distanziando il
triangolo dell’omicidio plurimo, era la fumata del focolare,
acceso
per chissà quale motivo. Anche se il fuoco era esterno alla
tenda,
se ricordo bene. Avrei potuto pensare che i due l’accesero
per il
freddo, o il cacciatore per lo stesso motivo: comunque accadde, il
cacciatore riuscire a lasciare la scena del crimine senza lasciare
altre tracce.
Solo
a quel punto, quando m’assicurai che fossero entrambi morti,
anche
io m’addentrai ove erano distesi i due cadaveri, per portare
le
loro anime ai loro destinatari, ma decisi di rimanere qualche secondo
in più, sia per capire perfettamente chi sia il loro
destinatario,
ma anche per ricordare come abbia permesso che qualcuno mi posssa
aver separato da lui.
Dispiegai
un po’ dei miei fumogeni per il lavoro teatrale donatami
dalla mia
mortale natura e posi le mani sul petto della donna. Feci un bel
respiro profondo. Lentamente la sua anima venne a me, come se
estratta da una carcassa ormai spenta e dunque non funzionante, ma
era in silenzio. Non si lamentava della sua condizione di morte, ma
solo un tacito silenzio aleggiava nella stanza. E così feci
anche
con l’uomo. Stesso risultato, ma nel prendermi anche
l’anima
dell’uomo, vidi entrare qualcuno dalla porta della tenda.
Sfondò
i due teli, che formavano la porta della tenda, con un calcio, nel
mentre notai che quello che
era entrato era proprio il mio Mastiff. Alto circa un metro e
settantacinque, a soli diciotto anni. Capelli scuri, come la pece.
Occhi marroni… quasi
neri. Fisico definito, asciutto e senza un filo di grasso:
aggiungerei che incominciava ad avere le prime rughe. Il suo calcio,
fu violento… il suo
volto si contrasse quasi lentamente, nel vedere i due indiani stesi a
terra. Si prodigò per cercare di capire cosa fosse successo.
Anche
se le ferite di taglio all’addome e alla gola, avevano detto
tutto
il necessario. In quel momento, anche gli occhi del ragazzo si
sgranarono e s’arretrò fino alla parete della
tenda, incominciando
a piangere lacrime di rabbia. Strinse il pugno sinistro per cercare
di trattenerla: trasudante da ogni poro del suo corpo. Avrebbe
stretto entrambe le mani, ma non poteva. L’uomo orso
gliel’aveva
portata via. E con lei, anche qualcuno a lui voleva bene.
Premusibilmente
sarebbero potuti essere i suoi genitori adottivi.
Non
ce la feci a vederlo in quel modo, soltanto perché ha
cercato di
fare la cosa giusta. Non toccava a lui ucciderlo, quel cacciatore.
Purtroppo la natura umana, è incline soltanto
all’autosopravvivenza.
E non possiamo farci niente. Anche se dovranno incontrarmi, prima o
poi.
Mi
mostrai.
In
tutto il mio effimero splendore.
Alta
sul metro e settanta. Capelli corvini lunghi, fino alle spalle, e
occhi verde acqua chiaro. Sorriso smagliante, e magra quanto basta
per non risultare pelle e ossa. Pelle chiara, roseo. E mi feci
calzare perfettamente il vestito su ogni curva sinuosa. Il mio corpo
era soltanto intangibile, ma fottutamente reale: purtroppo la mia
essenza m’avrebbe impedito di rimanere troppo in questo
mondo, ma
avrei voluto incontrarlo, per potergli riuscire a spiegare chi fosse
realmente e quale fosse il suo posto nel mondo in cui avrebbe
vissuto. Mi stringeva il cuore non potergli dire di più, ma
l’unico
momento che avrei avuto con lui mi sarebbe costata la
responsabilità
di non essere riuscita a fermare il circolo vizioso
dell’immortalità.
«Si
vede che hai preso da entrambi. Ricordo ancora quando
l’incontrai:
il tuo vero padre. Era grosso quanto un grizzly e non aveva
intenzione di concedersi a me. Pensai che ci fosse qualche strana
ragione, per cui non volesse farlo, ma… fortunatamente per
me…
chiunque ha bisogno di trovare la propria pace e
m’è bastato donargliela:
nient’altro. Funziona sopratutto per i guerrieri. Loro mi
conoscono
bene, m’incontrano in ogni loro battaglia: tra i loro nemici
o tra
i loro amici. O entrambi. E tra la loro famiglia. Purtroppo
è la mia
natura e non posso farci niente!» – Confessai,
senza troppi giri
di parole.
«E
tu chi sei? Cosa
gli è successo?»
– Mi chiese balbettando, guardando con terrore sia me e sia
il
corpo dei due indiani. Non si mosse dalla sua posizione, con la
schiena schacciata verso al muro.
«Sono
tua madre, Mastiff!» – Gli risposi. Dolcemente. Ma
mi limitai a
rispondergli.
«Ora
chi sarebbe Mastiff? Io sono Cuore Infuocato!» – Mi
disse, di
getto, ancora preso dal terrore.
«È
Mastiff il tuo vero nome. Te lo diedi alla nascita e tuo padre se ne
già era andato via, ignorante sulla tua nascita. Ti ho
dovuto
lasciare a dei genitori adottivi, dopo che presi con me loro figlio
perché era stato ucciso da uno spietato cacciatore. Quelli
non sono
i tuoi genitori. Ti hanno adottato perché volevano avere un
figlio
tutto per loro. Non ne comprendo il motivo, ma è andata
così. Ed è
stato meglio così, o almeno credo…»
– Glielo dovetti
confessare, ma ne ero consapevole. Delle conseguenze.
«Quindi
sei tu mia madre? Perché non mi hai tenuto con te, per tutto
questo
tempo?» – Mi disse, sempre di getto, e incredulo a
quello che
stavo sentendo.
«Si…
non potevo, Mastiff. Non avrei potuto mantenerti, la
mia essenza me lo impedisce: figliolo, io sono La Morte, e purtroppo
avrei potuto dirti chi tu sia realmente soltanto al giungere del tuo
primo “ultimo passo”. Però, da questo
momento, non potrai mai
più morire. Né ora e né mai. E sono
qui per avvisarti che avrai
una vita lunga e che sarà irta di pericoli, per te e per il
mondo in
cui ti trovi. E dovrai impegnarti con tutto te stesso per cercare di
trovare la tua pace. Ma io e te non potremmo mai più
rivederci. Te
lo dico, anche se tenterai d’incontrarmi di nuovo…
non servirà
che provi a suicidarti!» – Gli cercai di spiegare,
a parole mie,
anche se m’era difficile farlo. Nel farlo, feci un passo
indietro,
per far intendere che l’avrei dovuto lasciare andare molto
presto.
Infatti,
scomparii in una dissolvenza quasi teatrale. Divenni un fantasma.
Invisibile, incorporea. Lui decise di rimanere nella sua posizione.
Non si mosse per tutta la poca durata del discorso. Non feci nemmeno
attenzione ai dettagli della sua abitazione, sopratutto
perché
l’unica cosa importante era l’avvisare Mastiff del
suo
inesorabile e folle destino. Non la prese bene, rimanendo stranamente
in silenzio, nell’antro di quella tenda ormai vuota. Avrebbe
voluto
dire e dirmi tanto: lo capivo dalla tacita frustrazione che ebbe nel
constatare che non avrebbe potuto fare più niente per
riportarli da
luie e continuare a vivere, ma che avrebbe dovuto continuare a vivere
anche per loro due.
Solo.
Come
un cane.
Per
l’eternità.
Sono
consapevole che avrei dovuto iniziare a risolvere “i
guai” che
avevo – con altre entità come me –
combinato; ovvio che nessuno
dei miei… probabili… figli sa quello che
è successo e l’unica
cosa per cui sarei fortunata è che non potrebbero comunque
vedermi.
Stranamente ho sviluppato una strana empatia con qualunque cosa
appartenente al creato e pare che sia stata davvero destinata al
“veicolare” ogni essere al proprio destino: tutto
si crea e nulla
si distrugge. Mi definiscono solo una maledizione, ma l’unica
maledizione che porto con me è quella di non poter rivedere
mai più
i destinatari della vita.
È
triste, il mio lavoro.
Tutti
mi demonizzano, ma in realtà sarei e sono l’unica
cosa benevola
nell’intero flusso della vita, soprattutto degli uomini:
l’unica
razza che è destinata al “gioire al nascere e
piangere alla morte”
dei loro simili… anche se hanno un enorme falla di sistema
che
consiste nell’essere stati creati con un elevato senso della
proprietà sia fisica che morale degli altri e degli oggetti
e questo
sta portando a un’inevitabile autoestinzione.
Per
quanto nessuno possa vedermi e pensare che sia soltanto eterea, ho
una mia fisicità e sono più umana di quanto possa
– chi ha la
possibilità di ascoltarmi – immaginare. Posso
parlare e anche un
mio piccolo gesto può essere preso da infinite
interpretazioni –
tutte giuste e tutte sbagliate – perché nessuno
conosce cosa sono
costretta a fare, per rispettare la mia natura; anche io sono stata
creata da qualcuno d’infinitamente potente di cui non conosco
nemmeno l’esistenza, ma – per tornare al mio
discorso – quello
che sono sicura di sapere è che per cercare di gestire
questo
“compito” affidatoci, a me e agli altri tre come la
sottoscritta,
di gestire l’evoluzione del nostro universo
d’appartenenza,
abbiamo cercato di facilitarci il lavoro donando alcuni simulacri che
rispecchiassero la nostra natura all’uomo…
principalmente… e diciamo che non è andata del
tutto bene: ma
proprio per niente.
Per
me, potrei persino affermare che per eccesso di zelo ho lasciato che
s’arrivasse a un’evoluzione della specie non molto
“calcolata”,
– tanto nessuno potrà sapere niente di questa
storia – tanto da
arrivare a constatare – sia io che gli studiosi che nel corso
della
storia hanno avuto modo di studiare questi “esseri potenti di
qualcosa di straordinario rispetto al proprio precedessore”
–
l’esistenza dell’homo
potens come
denominazione dell’evoluzione biogenetica dell’homo
sapiens sapiens
e nel corso del tempo trascorso dalla scelta infausta di dotare la
razza, con il corredo genetico avente il più alto grado di
adattabilità alle mutazioni, di fattori che potessero essere
usate
anche per rendere i soggetti aventi queste
“mutazioni” non
influenzabili anche dalla morte.
La morte è un processo
inevitabile per la conservazione e il riciclo della stessa energia
che non si disperde, ma che tra materia e antimateria – per
ridurre
all’osso il concetto: esisterebbero anche gli altri tipi
d’energia:
tipo quello temporale, ma è un’altra storia
– è sempre atto il
processo di riciclo che permette la coesione tra le fonti
d’energia
e i suoi – dell’energia – consumatori;
chi non muore, altro non
fa che non permette un riciclo e trarre energia da una “fonte
di
consumo inesauribile” mi sembrava un buon modo per
equilibrare di
nuovo tutto il consumo d’energia.
Diciamocela tutta: non ho
progettai io le razze da inserire nell’universo e i vari
pianeti,
ma quel demente di mio “fratello” Theo –
voi lo conoscete con
il nome di Dio – si divertì a farle tutte a sua
immagine,
somiglianza ed ego – quindi potreste immaginare quante grane
mi
abbia “regalato” nel corso dei millenni. Poi
s’inserì
quell’altro permaloso del mio secondo
“fratello” Luck – che
credo possiate conoscere con il nome di Lucifero – che ha
l’abitudine nel criticare senza dare una reale soluzione.
Infine…
non ve lo dico: sarò anche io libera di fare o dire quello
che mi
pare.
Anche se un senso “più etico”,
m’impedirebbe di fare cose o prendere decisioni che non sono
eticamente corrette: nel provare a prenderle, ho fallito miseramente,
perché non avevo calcolato che non potendo interrompere
nemmeno io
il mio flusso e il consumo d’energia che ho –
proprio perché
devo continuare a esistere – non dovrei provare a fare cose
insensate: se nel voler ridurre i consumi d’energia
dell’universo,
dovessi unire la mia essenza d’interrutrice di flussi con
qualcuno
cui non può – per qualche anomalia genetica
– essere interrotto,
si creerà – con molta probabilità
– come progenie qualcuno –
per forza di cose – che avrà una, o due oppure
nessuna delle
nostre proprietà.
In
poche parole, per chi non ha ancora capito: unendo la mia genetica
con quella di un immortale, avrei potuto creare dei casini e sarei
andata a creare – io, come credo anche gli altri esseri come
me, da
come ho capito – altri esseri che hanno la
proprietà di non
potersi vedere il loro flusso energetico interrotto ed è
solo colpa
mia. E degli altri esseri come me. E come farei io, La Morte, a
permettere queste unioni… sia dal punto di vista biogenetico
e sia
dal punto di vista “energetico”? Ovvio: con il
sesso… la
pratica che ha sempre accomunato tutti gli esseri umanoidi
dell’Universo.
Vi starete chiedendo, voi
fortunati che avete avuto la possibilità di leggere questo
mio
testamento scritto che prova finalmente la mia esistenza, cosa
v’abbia spinto a cercare di capire cosa ci fosse dietro la
morte:
niente che non abbiate già visto. Avete presente come mai i
bambini
piccoli hanno delle reminescenze di signori che non hanno mai visto?
Bene: probabilmente una parte dell’energia che sta usando per
vivere era appartenuta – in passato – alla vita del
signore che
lui ha visto, che si stava guardando allo specchio…
probabilmente… e ne potrei citare altri casi, come quello
che vide
la vita oltre la morte e scoprì di ritrovarsi in un posto
confortevole. È così, quando non hai
più peso e sei libero di
volare nell’etere ove nessuno può comandarti.
Credetemi se
confesso che è davvero bellissimo essere liberi di poter
fare
realmente l’impensabile e quando ve ne renderete
conto…
sarà troppo tardi: vi consiglio, come madre e amica
irresponsabile,
di godervi ogni singolo momento che riuscirete a ottenere nel vostro
rimanere in vita… oltre al fatto che ognuno di noi
è responsabile
delle sue azioni e non è onesto nemmeno dare sempre colpa a
me dei
vostri fallimenti e delle vostre insicurezze.
Quello che cerco di dirvi, dopo
tutta questa storia è: godetevi il viaggio – senza
ritorno –
fino a che riuscite ad apprezzarne ogni respiro, ogni istante e
–
soprattutto – tutto il sudore che uno spende per arrivare
alla
propria realizzazione: anche io avrei voluto che qualcuno mi dicesse
che andava tutto bene, ma il mio trovarmi a portare il vuoto in chi
non poteva nemmeno vedermi.
Un amico disse che le uniche cose
belle al mondo sono l’amore e la morte… io gli do
ragione per il
semplice motivo che sono anche le due leggi che governano
l’universo:
se si ama, s’accetta meglio la morte e si muore, si lascia
meglio
chi si ama.
Con
questo pensiero, la musica è finita.
Dimenticavo
di avvisarvi che io non sarò più la cronista
dell’intera storia,
ma i lor signori saranno accompagnati nel loro addentrarsi in questa
strana realtà da mio figlio Mastiff. E se risulta essere
molto
“pragmatico” nel raccontarvi la vicenda,
è perché non vuole
annoiarvi.
Io
avrei da lavorare.
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Capitolo 2 *** Capitolo 1 - La Scelta ***
Capitolo 1
La Scelta
Ero seduto per terra. Il fuoco ardeva fragorosamente fuori la tenda e i corpi dei miei probabili genitori giacevano qui dentro. Non ero intenzionato a credere a una specie d’apparizione mistica utile solo per complicarmi la vita, ma utile almeno nel spiegarmi la mia incredibile fortuna con la morte. Li vedevo lì, stesi al suolo. Nessuna parola, nessun falso movimento. Solo il sangue colato per terra. E gli occhi rivolti verso la porta. Come se attendessero di dirmi qualcosa, ma non la potrò mai più sapere: loro non c’erano più, con me.
Invece mi sbagliavo. E pure di grosso, perché seppi cosa vollero dirmi, ma il messaggio si riferiva a un qualcosa di cui ero già sicuro.
Sarebbe stato meglio confermare.
Mi domandavo come avrei dovuto verificare chi li avesse uccisi. Non avevo alcun sospetto, anche se il cacciatore di prima avrebbe potuto benissimo passare per di qui, lo esclusi proprio perché non incontrai altre persone nel circondario e quindi non avevo nessuno da controllare.
Per quanto riguarda il moncherino, della mano destra, lo fissai per qualche secondo e notai che la mano si stava rigenerando da sola. Come sempre e come ogni ferita infertami per cercare di capire il perché fossi sempre così fortunato. Era già da un pò che riflettevo sul perché riuscissi a poter fare che ad altri miei simili non avrebbero potuto fare: combattere con orsi a mani nude, resistere nei laghi ghiacciati per quanto tempo avessi voluto o anche semplicemente, per così dire, lo scottarsi con una torcia e sentire solo un breve e intenso odore di carne bruciata. La mia. Come in quel minuto, in cui rimasi a contemplare il simbolo della mia possibile rinascita: una mano monca, che si stava rigenerando, ma che c’avrebbe messo del tempo. Ma in quel momento, stava per calare la notte e avrei dovuto anche provvedere per le esequie dei miei genitori e non avrei avuto molto tempo prima che i lupi venissero a reclamare la loro carne.
Mi preparai.
Mi tolsi la maglia, rimanendo a torso nudo. Rimasi, dunque, con il pantalone e a piedi scalzi. La mia rabbia non s’era minimamente affievolita. E con tutto il corpo in tensione, mi recai nella rimessa per prendere qualcosa per spalare la terra e già decisi che il posto ove li avrei seppelliti sarebbe stato dietro la tenda: in fondo, l’avevano costruita da giovani per ripararsi dalle intemperie. Così mi raccontò mio padre, ma aggiunse che erano stati cacciati dalla loro patria originaria perché l’uomo bianco bramava l’isola che non c’era. Proprio queste parole usò: l’isola che non c’era. Non avrei potuto fare altrimenti, che dargli una degna sepoltura.
Per rendergli l’onore che non avrei mai avuto io: avrei dovuto difenderli.
Loro per me c’erano sempre stati, sopratutto nelle difficoltà.
Io no.
Uscì dall’ingresso della tenda, determinato nel voler esprimere per loro le loro ultime volontà, ma la strana sensazione che la mia giornata non sarebbe dovuta ancora finire con un solo addio fece capolino nel mio cervello. Come un tarlo di pura e folle paranoia, mentre calava lentamente la notte e l’aria fredda era già pronta per avvolgermi con il suo abbraccio, ma presi la via della rimessa e vi entrai dopo circa un minuto. Dopotutto, era vicino. Non pensavo ad altro. Feci soltanto la cernita degli artrezzi. E presi la maledetta vanga e uscii, nel mentre la imbracciai, sentii dei strani rumori. In lontananza. Non me ne importai.
Presi a scavare.
Diedi il primo colpo di vanga – riuscii a crearla con un bastone, una pietra pomice e anche qualche corda – al terreno innevato. Aveva nevicato la sera prima. Ma presi la decisione di continuare a scavare, a qualsiasi costo.
Continuai a scavare.
Diedi una decina di colpi, arrivando al metro di profondità e larga poco più della larghezza della stessa vanga. Pensavo soltanto a dargli una degna sepoltura. La colpa era la mia e io ero il solo e unico a dover pagare questa colpa. Il nervoso e il rimorso s’erano presi gioco del mio cuore. Strinsi il legno della vanga con tutte le mie forze, per gli ovvi motivi, del tipo che la fossa non si sarebbe mai scavata da sola se mai l’avessi lasciata perdere.
Sudore, rabbia e anche il rimorso caratterizzarono tutto il calvario per scavare una fossa larga soli due metri e profonda soli tre metri. Avrei dovuto impedirlo, ma non ero abbastanza forte da riuscirci e in quel momento, ne volli soltanto pagare ogni responsabilità e vendicarli. Il punto era che non avevo la più pallida idea di chi li avesse uccisi. Anche se m’avesse reciso tutti e quattro gli arti, non mi sarei arreso e avrei continuato a combatterlo, quel bastardo: non aveva senso prendersela con persone che non si sarebbero potute difendere.
Mi ritrovavo tra le mani, ormai rigenerate, anche se non ci feci subito caso, perché ero troppo concentrato nel flaggellarmi addosso, il sudore mesto al mio sangue e a quello dei miei genitori adottivi e l’unica cosa che avevo in mente era quella di terminare questo mio strazio.
Il momento era giunto.
Avevo finito.
La fossa, intendo.
Infatti avevo già gettato la vanga per terra. Nonostante fossi già in un bagno di sudore e la neve non cadesse più.
Li misi lì dentro, distesi l’uno difianco all’altro, avvolti dalle coperte e mano nella mano. Uniti anche nella morte. E l’avevo causato io questo. Facendo in modo che l’unica cosa che avrei potuto fare era soltanto ricoprire la fossa. Piansi, poche altre lacrime. Tutto il mio corpo era già abbastanza contratto per tutto quello che avevo già provato e non avevo intenzione di rinunciare a vivere per colpa di un singolo bastardo. Mi recai dentro casa e presi una lanterna a olio. Volevo ricostruire una piccola veglia per le loro anime, anche se non fosse stato nulla di così speciale. M’inginocchiai, poggiando il lume sulla terra senza un minimo di neve e anche abbastanza smossa. Poggiai entrambi sulle ginocchia e chiusi gli occhi.
Il buio.
Cercai soltanto d’accompagnarli verso l’aldilà, di cercare d’essergli vicino e anche se non avevo la più pallida idea di cosa avrebbero trovato una volta arrivati lì, il solo poterli aiutare mi stava gratificando e non poco.
«Kapoooow!» – Sentii il rumore di fucile. Proveniente a circa qualche chilometro da me.
Aprii gli occhi.
Niente di strano, all’apparenza, ma nella notte quasi fonda, vidi delle torce avvicinarsi direttamente alla casa. Attesi, e nel mentre ne contai quattro, per cui calcolai che sarebbero potuti essere massimo sedici persone, ma non ne vidi altri. Ogni tanto sentivo delle urla e sopratutto trentadue, poi sempre due in meno, rumori di passi.
Altro non sentivo.
Allora mi concentrai, imprimendo energia psicofisica nei miei sensi, per cercare d’evitare ulteriori guai. Il mio cervello stava pian piano immaginando di potersi estendere sempre di più, fino ad una pur certa esplosione, ma che non avvenne, perché il suono dei trentadue passi, trasportato dal freddo vento, era accompagnato da altri due. Molto meno percettibili. Molto più veloci. Non supersonici, ma abbastanza celeri da essere impercettibili ad un orecchio non molto attento e sviluppato come il mio. Passi su passi si susseguivano. Capitava che ogni tanto qualche coppia di passi andava a scemarsi nel vuoto, ma gli spari dei fucili erano sempre più frequenti e sempre nel nulla. Il loro bersaglio era troppo veloce e sicuro di se per farsi prendere, pensai. Anche se, ogni tanto, sentivo un rumore che sembrava fendere il vento stesso.
Trentadue. Trenta. Ventotto. Ventisei. Ventiquattro. Ventidue. Venti. Venti passi, tutti preceduti da un vuoto d’aria. Causato da uno squarcio. Non ero sicuro su cosa li provocasse, ma nel riflettere pensai che dovesse essere qualche tipo d’oggetto tagliente: una delle prime ipotesi a cui pensai è che fosse una spada. Alla fine, è un’arma, è veloce e trasportabile: perfetta per evitare gli inseguimenti. Infatti gli sarebbe bastato un solo fendente per eliminare gli inseguitori di poco conto: soli cinque uomini erano già morti… con soli cinque fendenti.
In poche parole.
Il vento, nel preciso momento in cui il misterioso maestro d’arme scagliò il sesto fendente e altre due fonti di rumori di passi vennero misteriosamente rimosse, decise di divenire loquace: mi rivelò, dal tipo di fendente, che il maestro d’arme usava un tipo di lama di cui non avevo ancora mai avuto conoscenza. Una katana. Affilata come poche altre armi viste in quel momento, ma il problema era che ogni fendente di cui era partecipe era sempre più forte. Ogni suo sibilo era sempre più forte e in forte avvicinamento verso di me, dunque.
«Kapoooow!» – Sentii di nuovo lo stesso rumore dello stesso e maledetto fucile. Distante meno di due chilometri da me.
Questa volta, però il proiettile s’andò giusto a conficcarsi nella parete della casa, a qualche metro dal mio volto: ovviamente, capii che non era destinato a me e che era solo un proietile vagante. Cercai di capire da dove diavolo provenisse, e concentrandomi, compresi che a sparare era stato uno di quelli che stava dando la caccia al misterioso maestro d’arme.
Non conoscevo minimamente il motivo delle loro dispute, ma ascoltando ancora il vento, capii che il misterioso maestro d’arme stava procedendo verso di me. Incalzante e con una velocità assurda, tale da non essere percepito da occhio inesperto. E io non lo sarei stato più. Inesperto, tanto che qualcosa dentro di me mi stava dicendo che il maestro d’arme stava cercando proprio me: tipo una strana sensazione. Anche se non ci sarebbe stato motivo alcuno d’inoltrarsi in questo luogo dimenticato da tutti solo per un’effimera scampagnata. I passi dei vari inseguitori erano sempre più incessanti e sempre più diretti verso di me. E ormai erano giunti a meno di un chilometro da me, seguiti dai loro colpi di fucile. Di cui nessuno mi colpii: tutti a conficcarsi a pochi centimentri dal mio corpo.
La cosa che più mi sorprese fu che dal mio incontro con La Morte, divenni una specie di superuomo molto comune e di cui non conoscevo l’identita. Molto più forte di quanto potessi immaginare e per questo decisi d’intervenire in quella disputa di cui molto presto sarei diventato io il motivo della loro contesa. M’alzai abbastanza velocemente, facendo attenzione a rendere fluidi tutti i miei movimenti, e a scattare verso i fucili di coloro che avevano cercato di spararmi. Non ci sarebbero riusciti di nuovo, o almeno promisi a me stesso che non ci sarebbero riusciti e essendo loro a meno di un chilometro da me, decisi solamente di raggiungerli.
Scattai, con passo rapido, mentre poi decisi di correre più veloce che potessi al momento, circa a dieci chilometri all’ora, per cercare di raggiungere sia il maestro d’arme e sia il gruppo dei suoi folli inseguitori, veloci quanto lui, ma non saprei quale fosse il loro livello di potenza… soprattuttto se io e il samurai avessimo unito le forze per abbatterli.
Avrei felicemente sfogato tutta la mia rabbia su di loro, ma avrei dovuto prima raggiungerli. Sentivo tutto il vento tra i capelli e le orecchie, e il vento stesso sembrava quasi alimentare il fuoco della vendetta che scorreva nelle mie vene.
Correvo, molto.
Mi ci vollero solo una decina di minuti per individuarli, nel mentre il maestro d’arme ne aveva uccisi altri due. E nel correre, vidi nel maestro d’arme l’espressione che ormai avevo già calcolato: ero io colui che stava cercando e ormai non mi sarei potuto più tirare indietro, a questa storia.
Lo vidi. Finalmente.
Testa pelata. Senza mantello, o almeno lui lo era. Indossante quello che poi avrei scoperto essere solo un semplice e casto kimono marrone. Occhi castani, ma all’apparenza sembrava essere soltanto uno stupido vecchio, anche se mi convinsi del contrario. Cinque secondi dopo aver osservato i suoi occhi. In essi ardeva il fuoco della determinazione. Le pupille quasi gli tremarono dalle varie vibrazioni del suo corpo e divennero leggermente più piccole.
Da ciò capii anche che era incappato in me quasi per sbaglio, ma quello che di più gli ammirai fu la sua katana. Era come una naturale estensione del suo braccio: leggiadra e letale come il vento stesso che si stava incominciando ad increspare in queste montagne. E nel frattempo, d’idioti nemici, ne erano rimasti soltanto in cinque.
Lo sguardo teso nei occhi mi fece presagire che quello che era appena successo non era contemplato nei loro oscuri piani. Difatti si guardarono tra di loro come per domandarsi il che farsi, ma decisero che il cercare di portare a casa il loro compito a casa.
Decisero per la scelta sbagliata, ovviamente. Il tutto mentre io e il vecchio c’osservammo a circa tre metri di distanza, con i cinque che c’avevano circondato. Come se fossimo noi le prede, e non loro. E con la consapevolezza d’avere ancora qualche possibilità, ma nessuno di loro non avrebbe mai potuto immaginare che nel corpo di un ragazzo risiedesse una tale potenza.
Neanche lo stesso ragazzo se ne sarebbe potuto rendere conto.
Dunque, il freddo continuò ad attanagliare i loro cuori, mentre il gioco di sguardi tra me e il vecchio stava diventando sempre più strano. Chissà per quale motivo, mi chiesi. Nel mentre i nostri, o i suoi, nemici sembravano quasi pronti nel decidersi il da farsi, mentre il tempo sembrò fermarsi e il tutto sembrarmi sempre più strano. Infatti, uno dei cinque, cui non sarebbe utile nemmeno indicarne le infidesimali differenze dagli altri quattro, perché mi sembravano tutti uguali: giubba nera, capelli corvini, razza caucasica e occhi marrone scuro. Come il legno degli alberi che circondavano, a poche centinaia di metri, casa mia.
Comunque, tornando a noi, cercò di correre verso di noi, forse per tentare qualche tipo d’offensiva, ma il samurai se ne accorse e gli bastò un fendente della spada nella sua direzione per abbatterlo.
Cadde. Morto, con il sangue uscente dalla ferita infertagli alla pancia.
Nel vederlo cadere, mi resi conto quanto facile sia togliere la vita agli esseri viventi, e al contempo che preservarla sia ancora più difficile. Gli occhi vitrei e la rapidità della sua esecuzione mi sorprise e non poco, ma la sua espressione di rassegnazione nel fendere l’aria per togliere la vita a questi uomini non coscienti della loro ineluttabilità, mi fece capire che anche lui era costretto a farlo. Dunque, limitai la mia curiosità solo nell’osservarlo. Anche perché era veloce anche per me e dunque, non sarei riuscito nemmeno a stargli dietro.
Un altro fendente: un altro morto. Il fendente sempre allo stesso posto: leggermente sopra la pancia. E cadde il secondo.
Un altro ancora, di fendente: ancora un altro morto. Sempre allo stesso posto: leggermente sopra la pancia. E cadde il terzo.
Un altro ancora, di fendente: ancora un altro morto. Sempre allo stesso posto: leggermente sopra la pancia. E cadde il terzo.
Un altro ancora, di fendente: ancora un altro morto. Sempre allo stesso posto: leggermente sopra la pancia. E cadde il terzo.
Fine dello scontro. O almeno sembrava fosse così.
I cinque cadaveri nostri – o suoi – avversari giacevano lì, sulla candida neve. Il tutto non m’era così tanto strano, nel senso che avevo già visto un corpo morirmi davanti, ma la rapidità della loro morte mi fece stranamente riflettere di quanto io non potessi più fare: morire senza che nessuno mi possa piangere. Nel frattempo, una strana puzza d’animale bagnato m’assalì le narici. Non che non ne fossi abituato, tra tutti gli orsi e i lupi presenti in queste lande alquanto sconfinate, sopratutto quando mi divertivo a cacciarli o a rincorrerli e basta. Non era mia intenzione ucciderli, perché da solo non ne sarebbe valsa la pena. Era come se fossi legato a loro, in un certo senso, ma questo odore aveva un non so che di diverso.
«Ehi, vecchio. Arriva qualcosa di strano, un animale credo» – Gli dissi, pacatamente al samurai.
«Un animale, dici? E perché sarebbe strano? Siamo in Canada!» – Mi rispose, alquanto stranito. Non ne sapevo il motivo, ovviamente.
«Il suo odore, è strano. Non ne saprei il motivo, ma non sembra un comune animale. Ma è come se la mia percezione degli odori fosse migliorata molto. Da un momento all’altro» – Cercai di dargli una qualche informazione in più, ma erano insufficienti anche per me. Infatti il mio tono di voce era un po’ incerto, proprio perché ero insicuro nel dare informazioni non confutabili.
La sua espressione assunse un tono ancora più dubbioso, rispetto al mio primo allarme. Incominciai a sentire anche l’animale annaspare, nella nostra direzione, facendomi capire immediatamente che sarebbe stato l’unico che non sarebbe scappato da noi. Avrebbe lottato per la sopravvivenza, ma non sarebbe dovuto succedere.
Non era normale, per me. Anche se non sapevo nemmeno definire più il normale.
Incominciai a sentirne anche i passi felpati. Erano quattro. Per cui era un animale a quattro zampe, che correva verso di noi a grande velocità, ma macinava metri ogni secondo che passava e il freddo non sembrava nemmeno fargli effetto. Era in avvicinamento, all’incirca cinquecento metri. Era alla nostra portata visiva, ma era come se non riuscissi a vederlo. Evidentemente non stavo guardando nella giusta direzione. Nel frattempo, nemmeno il samurai ebbe idea a cosa mi riferissi, ma si voltò e mi disse che vedeva qualcosa di molto veloce che correva verso di noi. Non eravamo stati attenti a tutto, e quello che sembrava un semplice allarme di un pazzo senza cognizione di causa, ma tutto il mio allarmismo si rivelò reale.
Da quattro rumori di passi non sentii nemmeno uno. Presunsi che l’animale s’era fermato. A circa trecento metri, ma sembrava invisibile. Non lo vedevo, e nemmeno il samurai. Era muto come un pesce fuori dall’acqua.Ero in allarme, ma in quel preciso momento, ossia dopo l’ennesima occhiata al samurai, sentii e percepii che i rumori erano diventati due, come se fosse cambiato qualcosa nel nostro inseguitore: era chiaro come il sole che ce l’aveva con noi due… e se no, con chi altri.
I vivi, qui, eravamo solo noi: io e il samurai misterioso.
I due passi erano sempre più cadenzati, sempre di più, fino a che non si fermarono di botto. E io non capii più dove potesse essere. Chiusi anche gli occhi, mentre il samurai era sempre più silenzioso, ma si mise in una posizione strana: mise la lama della spada perpendicolare del terreno e il braccio con cui la mantiene, teso di fronte a se… come se fosse pronto per qualcosa.
Io m’agitai, perché non vedevo niente.mentre la notte era sempre più buia, tanto che l’unica nostra luce divenne la luna. Eravamo in campo semi aperto, ma incominciai a sospettare che forse, il piano dei cinque guerrieri "sacrificabili", fosse proprio quello proprio quello di morire per distrarci da un qualcuno di più forte di loro. Ci ragionai dalle loro espressioni di rassegnazione. Nessuno dovrebbe morire solo per fare da esca.
Incredibilmente fu così.
«Rooooooooar!» – Si pronunciò l'orso.
Quello che sentii, era senza dubbio il ruggito di un orso. Assordante come altre poche cose. Senza alcun dubbio, era molto vicino, quasi vicino a noi, ma appena alzai gli occhi, ecco che pensai che nulla sarà – mai più – una coincidenza. Un grizzly ci stava per piombare addosso. Si, un grizzly: è quello che ho detto. Mi spostai giusto in tempo, buttandomi in avanti e rivolgendomi lo sguardo a dove ero prima. Era piombato proprio in mezzo a noi due, tanto che il samurai ne rimase sorpreso. Non si scompose, ma il suo unico movimento fu quello di voltarsi e di mantenere la posizione di prima: oltre al fatto che essendo inverno, gli orsi dovrebbero essere tutti in letargo.
«Il nostro, o il tuo primo, avversario, è un orso che riesce a piombare giù da un albero posto a duecento metri da noi. Benvenuto nel tuo nuovo mondo, indiano» – Mi disse il vecchio samuraI, nel commentare un momento “delicato”. La cosa più strana è che cercò di parlare in un inglese alquanto diverso da quello che conoscevo io – ebbi la fortuna d’impararlo recandomi nelle città appena fatte per le commissioni del mio padre adottivo – e incominciai anche io a parlargli in quel modo. Solo per capirci.
«Primo, io sono Cuore Infuocato. Secondo, come fai a sapere queste cose? Parla!» – Gli risposi.
«Avrai le tue risposte se lo batterai da solo. Tanto, per quello che so di te, non ti servo nemmeno per batterlo. Sei più forte, ma ancora non lo sai!» – Mi apostrofò il samurai.
Feci una smorfia di disapprovazione, ma aveva ragione: non aveva senso discutere di stronzate, quando un grizzly ci vuole morti. Infatti, la risposta dell’orso non si fece attendere: un ruggito assordante, atto a sottolineare la sua volontà nel volerci affrontare. Però mi sorse strano un particolare: o il suo territorio era vastissimo, o quest’orso aveva qualcosa di strano. L’orso sferrò la sua zampata, verso di me. Con la destra. Fu più veloce di me: infatti mi scaraventò a circa venti metri da dove ero. Lui era in piedi, su due zampe. Era circa tre metri, ma qualcosa dentro di me incominciò a farsi avanti. Un ardente sentimento di voler lottare a tutti i costi. Questo, mi fece rialzare: nessun orso m’avrebbe messo giù. Anche se l’unico dolore che sentii, fu nel mio carattere. Anche se il colpo fu parecchio violento: e i graffi che mi ritrovai sul petto, erano la sola e unica conseguenza dello scontro tra le sue unghie e il mio corpo.
Il samurai, non disse niente. Anche mentre il grizzly s’avvicinò a me con rabbia. Ero stranamente forte, ma pensandoci era realmente la prima volta che mi sentivo così: l’incontro con La Morte m’aveva realmente fatto bene. Forse ero predestinato a questo incontro, ma ero pronto a verificarlo.
Nel farlo, mi avvicinai al mio avversario, mentre era già a pochi metri da me e cercai di sferrargli semplicemente un pugno: non mi ricordo come diavolo avessi fatto, ma ricordo d’aver mirato allo stomaco ed è semplicemente crollato a terra. Non era morto o battuto, ma quella botta l’aveva semplicemente intontito: infatti, si rialzò emettendo un verso. Non capivo a cosa si riferisse.
Tanto che rimasi sulla difensiva, pensando a qualcosa per abbattere qualcosa di apparentemente più ostico del normale: avevo già affrontato degli orsi, ma questo sembrava capirmi.
Lo sentivo strano. Fece i tre passi necessari per raggiungermi, ma non riuscii a bloccare nemmeno la seconda zampata. Mi feci un altro volo di circa una ventina di metri, ma questa volta riuscii a sostenere l’impatto: pensai solo a non cadere e a rimanere in equilibrio... solo questo. Sorrisi, tanto che cercavo di capire anche le parole del samurai. Tanto che cercai d’impegnarmi nel volerlo abbattere… l’orso: anche se ero più impaziente di scoprire chi fosse il mio misterioso interlocutore. Che era rimasto immobile dall’inizio dello scontro.
Tentai di capire cosa fare, ma l'adrenalina che il mio corpo stava sprigionando dentro di me mi stava rendendo impossibile ogni ragionamento logico: e forse l'affidarsi all'istinto, per una volta, sarebbe stata la scelta migliore. Chiusi gli occhi, mentre l'orso dava ancora segnali d'impazienza, perché non volevo crollare dinanzi ai suoi piedi.
Ruggiti, susseguiti da un’altra zampata: la terza. Scese su di me più veloce di un fiume in piena, ma riuscendo a percepirne l’intera discesa a terra, mi spostai a qualche centimetro di distanza e ricordandomi la posizione dell’animale, scagliai un sinistro sotto il fianco destro… sentii solamente un gemito di dolore, da parte del mio avversario. Solamente dopo, gli scagliai un sinistro in pieno petto: un altro gemito. Non riuscii a calcolare quanta potenza ci misi nei colpi che gli inflissi, ma quello di cui ero sicuro è che non l’avrei voluto uccidere. Non m’era mai piaciuto farlo, ma sentivo dentro di me di nuovo quella strana rabbia. Ero comunque appena passato da avere una vita perfetta, al rimanere solo: come un animale… come il mio avversario, che stava per crollare. Lo percepivo dai battiti del suo cuore, sempre più lenti.
Anche dalla bava uscente dalla bocca, sintomo di affaticamento: non era il primo orso con cui avevo a che fare in vita mia, ma lo sentivo… quel qualcosa di strano nell’orso. Durante i miei flebili contatti con l’orso, sentivo che i suoi muscoli e le sue ossa impattare con i miei pugni, nonostante le altre volte non gli facessi chissà quale male, ma adesso… ripensandoci, tutti gli altri orsi non erano così resistenti. Sarà stata qualche strana coincidenza, ma anche le coincidenze finiscono prima o poi per sfociare nella realtà dei fatti. E la sicurezza che l’avrei saputo solo al momento della sua sconfitta, era sempre più lampante e che il samurai fosse collegato con quest’orso… pure. Non mi stavo dando pace, nel mentre insistevo nel voler mantenere chiusi gli occhi senza un motivo “pragmatico”: cercavo di capire qualcosa senza avere informazioni… ero proprio un genio.
«È quasi morto, basta un ultimo colpo ben assestato per mandarlo all’altro mondo!» – Si pronunciò il samurai, con tono sarcastico e sbrigativo.
A sentire le sue parole, e sopratutto il tono, avvertii il sangue ribollirmi nelle vene e volevo sperare che l’orso non c’entrasse niente con la morte dei miei genitori adottivi… non m’ero dimenticato di loro, in questo frangente di tempo… ma uno strano sesto senso, forse nemmeno dipendente da me, mi fece ricredere della tesi appena formulata. Forse non era lui il diretto esecutore, perché trovavo improbabile che un essere alto tre metri potesse entrare in una porta ad “altezza uomo”: ma lì tutto poteva essere. Mi stavo facendo tremila domande, ma ero cosciente che l’unica azione da fare era: il mio avversario doveva conoscere… realmente… chi aveva di fronte.
Un solo pugno, sotto la pancia…stavolta, mentre stava ancora barcollando: bastò solamente questo per farlo crollare del tutto. Sfiancato, e con il morale sotto le zampe. Il cuore batteva pian piano e la furia che alberghava nel mio animo sembrava essere svanita: decisi finalmente d’aprire gli occhi.
Era totalmente buio, e le unica luce utile… e presente… era rimasta quella lunare. L’orso era stanco, abbattuto e incapace d’alcun movimento. Il samurai era intento a osservarne il corpo, mentre la sua espressione… del samurai… era stranamente cupa. Era come se riflettesse su qualcosa di cui io non avevo idea: ossia tutto il resto. Ma avevo già sentito l’odore di quest’orso, ma non ricordavo quando di preciso. Ne avevo sentito tanti d’odori e sempre diversi, ma questo era inconfondibile: quando lo scoprii, ci rimasi di merda.
«E adesso, cos’hai da dire adesso?» – Apostrofai incerto al samurai, pronto a conoscere “la verità”.
«Aspetta!» – Mi replicò il mio interlocutore, con tono serio.
In quel momento, in tutta la terra sconfinata, c’eravamo soltanto noi tre: io, il samurai e l’orso. Ma l’orso, sembrava essere davvero qualcos’altro. Il pelo dell’orso sembrava sfoltirsi, come preso da un improvviso attacco di alopecia. Rapidamente, come anche l’intero corpo dell’orso stava diventando più piccolo: più specificatamente… a taglia d’uomo. Tra una mutazione genetica e l’altra, divenne un maschio sulla quarantina, capelli e occhi castani, alto sul metro e ottantacinque e pesante circa un ottantina di chili: capii quale fosse la stranezza… l’odore non combaciava con quello degli altri grizzly – o altri orsi – e quindi potenzialmente rintracciabile… oltre al fatto che – ripeto – sarebbe dovuto starsene in letargo. E vedendolo tornare umano, e con il sangue alla bocca, mi vennero dei flashback di quella mattinata e mi ricordai dell’odore che l’orso contro cui combattei quella stessa mattina. Mi strappò la mano con un pesante morso all’altezza del polso. E se la mangiò, ma non sapevo che c’era qualcosa sotto. Solo nel momento in cui l’avevo battuto, capii che c’era qualcosa di grosso dietro, e non era nemmeno casuale lo spuntare di un samurai con al seguito tanti soldati pronti a farlo fuori. Quell’orso avrebbe dovuto uccidermi e non l’ha fatto… o non c’è riuscito. Credetti subito alla versione dei fatti che qualcuno l’avesse mandato da me e che il samurai fu soltanto una fortuita coincidenza: non c’erano altri elementi per deliberare. Non riuscivo a capire cosa stesse succedendo: stavo diventando ripetitivo anche con il cervello, ma in quel momento mi vennero alla mente le parole di mia madre – quella vera – sul dovermi impegnare per qualsiasi cosa io avessi voluto fare e su chiunque fossi voluto diventare nella vita.: tutto stava diventanndo una fottuta coincidenza, ma il voler sistemare anche questo casino sarebbe stata la scelta migliore.
«Ho visto, è diventato un uomo. Credo che tu dovresti dirmi almeno qualcosa, a questo punto della storia!» – Apostrofai, abbastanza alterato, al samurai: forte anche della scoperta appena fatta sul mio avversario.
«Ti avevo promesso delle informazioni e delle informazioni avrai: che uomo di parola sarei, se no. Io sono un samurai, ossia un soldato posto a guardia degli imperatori del mio paese!» – Il samurai prese a raccontare, ma in queste frasi c’era sempre un “ma”.
«Ma? Come mai ti trovi qui?» – Chiesi perplesso, con una “quasi” ritrovata ovvietà.
«Sono fuggito per cercare una soluzione. Mi sono imbattuto in te, quasi – togliamo il quasi – per caso, anche se ho visto che mi potresti tornare adirittura utile, in questa guerra!» – Parlò per qualche minuto, a voce bassa. Non capii tutto perché non avevo tutte le informazioni, ma anche adesso c’erano due grossi “ma”… che avrei dovuto risolvermi da solo.
«Ma? C’è sempre qualcosa che non mi dici, samurai!» – Chiesi perplesso, con una ritrovata ovvietà.
«Prima di tutto: il mio nome è Kaze… ho vagato per dieci lunghi anni per il mondo intero per cercare esseri in grado di combattere la morte. Per la tua natura di non morto che cammina, dovrai affrontare molte altre battaglie e con esseri che non penseranno che sei soltanto un ragazzo. Hai la necessità di un maestro che t’insegni a sopravvivere e a lottare per i tuoi scopi: ed ecco che entro in scena io. Ho già combattuto e ucciso molti di questi esseri, che in qualche modo non sono nemmeno umani. Ti chiedo una mano, come io la darò a te… se deciderai di seguirmi in questa impresa: ti do la mia parola di samurai!» – Cercò di contenersi dalla rabbia, per qualche strano altro motivo. Stringeva il pugno destro, mantenendo la spada, ma la ripose subito nel fodero e facendomi segno d’entrare nella tenda: inutile aggiungere che accettai
Accettai senza farmi troppe domande. Non avevo ragione di dubitare di qualcuno che percepivo essere puro di cuore. Aveva nobili intenti, o almeno sembrava d’averli ed era sempre utile avere qualcuno che sapeva cosa stesse succedendo. E gli feci strada al misterioso samurai, ossia Kaze. Sapere il suo nome m’era abbastanza di conforto, per la questione “mamma, ho un samurai senza nome in casa”… anche se io i genitori non li avrei avuti più, da quel giorno. Entrammo nella tenda e tutto mi sembrava così spoglio. Mi sarei dovuto ancora abituare all’idea d’avere un nuovo inquilino in casa, ma non avrei creduto minimamente a cosa sarei andato incontro. E con questo, ci misimo a dormire entrambi nella tenda.
La mattina successiva, mi svegliò all’alba e prese anche la sua spada. Uscì fuori dalla tenda e mi fece segno di seguirlo… e lo feci. La mattina era sempre uno spettacolo: lo spiazzo tra la conifera e la mia tenda era abbastanza ampio per godersi tutto il panorama e l’uomo che avevo steso la notte prima era sparito, – c’avrei giurato – nel mentre Kaze prese la pala che usai per seppellire i miei genitori e la pose vicino al primo albero che vide. M’indicò che l’avrei dovuta prendere, per vincere la sfida. Tutto a gesti, me l’indicò. Inizialmente non capivo molto di quello che diceva, anche se poi imparai il giapponese – e vorrei vedere come si fossero capiti se no – proprio per poterci capire e anche il comprendere la sua storia m’è risultato più facile. Mi dichiarò una sfida, ma quello che non mi disse fu che avrei dovuto sorpassarlo: me ne accorsi dopo il primo tentativo, perché finì a terra dopo aver subito un fulmineo pugno alla bocca dello stomaco.
Mi ripresi, cercando di capire cosa dovessi fare per cercare di superare l’ennesimo ostacolo. La mia rabbia era comprensibile. Ancora non ero entrato nell’idea che il samurai volesse soltanto allenarmi a cavarmela da solo. Ma intanto avrei dovuto soffrire e incassare colpi come se non ci fosse davvero un domani. Non sopportavo gli allenamenti senza uno scopo prefissato e questo era uno di quelli, ma cercai di farmi forza e riprovaci. Nemmeno a dirlo, la mia breve corsa finì nel momento in cui mi scontrai con Kaze che non ci mise nulla ad atterrarmi. Avevo i polmoni e lo stomaco urlanti dal dolore… credevo che mi si fossero rotti… anche se camminavo con molta più fatica, ma cercai di rilassarmi e di focalizzare le mie ultime e due corse: troppo rapide e confusionarie, per un esercizio con un samurai.
Chiusi gli occhi, ma proprio per cercare di rimanere calmo.
Focalizzai che Kaze era a cento passi da me e che mi sarei dovuto soffermare prima su di lui. Pure il mio obbiettivo sarebbe dovuto passare in secondo piano: se mai fossi riuscito a essere più veloce di lui e dirigermi verso l’obbiettivo, avrei avuto il sospetto che lui sarebbe potuto essere dietro di me e quindi fregarmi… invece io l’avrei fronteggiato. Se mai fosse stato un nemico, non avrei fatto lo stesso ragionamento?
Un cenno d’intesa mi bastò per dirgli che sarei partito alla volta dell’obbiettivo. Lui comprese e si posizionò non usando nemmeno la spada: lo sentivo dall’assenza delle sue vibrazioni. La posizione assunta dal samurai fu di una specie d’uccello… credo il pavone… e rimase fermo. Io, invece, mi feci avanti con una corsa esagerata. Sentivo che il suo cuore era troppo pacato, nel mentre mi misi a ragionare sul fatto che non avevo modo di combattere il suo stile di combattimento, per cui capii che avrei dovuto improvvisare.
Anche lui lo sapeva, secondo me.
Gli arrivai vicino… a pochi passi da lui, in realtà.
Il primo pugno cercai di sferrarglielo in pieno volto, un gancio per l’esattezza. Ma non credevo che sarei stato in grado di colpirlo. Sentii soltanto un accenno strozzato di dolore da parte sua, che quasi lo ritenni uno starnuto e non ci feci caso. Il secondo colpo, quello che feci per cercare di stenderlo del tutto fu un calcio al perno, ma quello che sentii fu solo che qualcosa mi stava perforando il piede e che faceva un male cane. Riaprii gli occhi e vidi che il samurai aveva usato la sua spada come uno stuzzicadente: m’aveva bucato il piede.
E l’aveva anche ritirata fuori, nel frattempo.
Il mio sangue era sia a terra e sia su quella dannata spada, ma la cosa più strana fu che non riuscii nemmeno a percepirla. Forse ero ancora troppo acerbo per accorgemene, ma quello che mi sorprese fu che il samurai era dolorante. Si reggeva il petto con la mano sinistra, ossia quella libera e con la destra stava maneggiando la spada. Il suo corpo era tutto contratto per cercare di trattenere il dolore e credo d’avergli fatto realmente male, anche se all’epoca non riuscivo a rendermi conto di chi fossi e cosa potessi fare: anche se la sua espressione intendeva che avrei fatto soffrire molte persone. E il samurai cercò di darsi delle risposte, lo vedevo arrovellarsi per cercare di capire come dovesse fare per impartirmi delle lezioni: evidentemente non aveva mai ragionato con qualcuno che non potesse morire. Si riprese e m’attaccò lui con la spada.
Gli bastò un fendente per affondare la lama dentro il mio braccio destro e anche la rimozione fu abbastanza veloce. Il dolore si fece sentire, ma il suo volto si contrasse e il nervoso gli salì ancora di più: non ci credeva e nemmeno io, mentre perdevo altro sangue tra la neve ancora non sciolta della sera prima e la sua espressione divenne ancora più alterata e mai avrei giurato di vederlo così fuori di testa. Altri fendenti scagliò, miranti tutte le mie articolazioni, recidendomi sia le braccia e sia le gambe. Mi sentivo incapace di difendermi da un abuso vero e proprio di un samurai che voleva soltanto capire: per certe cose però non serviva la più benché minima comprensione… sarebbe bastato crederci.
Tanto fui io a cadere per terra – da fermo – pieno del dolore per tagli su molte parti del corpo, tanto che lo stesso Kaze si fermò per cercare di capire come fosse andato il suo esperimento. Le mie urla di dolore si resero protagoniste per tutta la foresta, ma capii un’importantissima lezione: “Se nella vita non conosci la sofferenza, non puoi imparare la felicità”. E sarebbe stato soltanto l’inizio, tanto che io… nonostante tutti i tagli, ero soltanto agonizzante e con tutto quasi tutto il mio sangue tra la neve: che nel frattempo stava continuando a uscire.
Sarebbero potute essere le sette del mattino, ma sentivo d’aver fame… cercando di gesticolare per indicargli il mio bisogno, ma non riuscivo nemmeno a muovermi al momento. Piano piano, cercai soltanto di focalizzarmi sul volermi rimettere in piedi. Contrai tutte le parti del corpo che “riuscii a salvare” e cercai di rimettermi in piedi… senza risultato.
Ogni ferita del mio corpo, stranamente si stava già cicatrizzando, simbolo del fatto che stava iniziando il processo di rigenerazione, ma la sola sensazione di bruciore e prurito che mi stava dando, che avrei voluto fissare e urlare a un maestro che m’aveva messo volutamente in pericolo, ma che all’inizio del processo di rigenerazione, sparì senza dare altre informazioni. Decidendo così di trascinarmi dentro la tenda, solo per rilassarmi, con il corpo piegato su sé stesso e continuando a perdere sangue. Anche se era sempre di meno, quello perso.
Passarono circa dieci minuti, dovendo percorrere circa un centinaio di metri trascinandomi con le sole mani. Riuscii ad arrivare e a entrarvi, nella tenda, per cercare un po’ di conforto. Le ferite mi facevano ancora male, ma la rigenerazione era peggio. Straziante come poche altre cose già provate, ma non avevo il corpo così resistente ai tagli, nonostante tutte le ferite fossero superficiali e solo in quel momento stessi imparando come permettere al mio corpo di durare più a lungo. Ma non ce la facevo ancora. E infatti il mio corpo collassò per sfinimento o credo che solamente il cervello ebbe un blackout.
«Svegliati Cuore Infuocato!» – Mi disse il samurai, dinanzi a me e lentamente. Mi diede anche una piccola botta con il manico della spada, per velocizzare il mio risveglio.
Appunto: mi svegliai. E mi ritrovai Kaze fissarmi “in piedi” dentro la tenda. Mi fece il gesto per uscire e nell’uscire notai che il sole era già alto nel cielo… probabilmente era ora di pranzo. Infatti proprio per evidenziare il mio sospetto di ovvietà, si presentò con una decina di salmoni, strappati dalle grinfie di qualche grizzly incazzato. E alla loro vista incominciai ad accendere il fuoco fuori dalla tenda, e prendere anche i pezzi di legno per attaccarci il nostro pranzo e cucinarli. Qualcosa non mi stava tornando… nel ragionamento – perché avrebbe dovuto agire così d’impulso, se non per qualche ragione precisa – sulle motivazioni del samurai: dopotutto ero uno strano ragazzo con strane abilità. Quasi tutto il mondo m’avrebbe additato come un mostro, ma lui no. Forse gli sarei servito per qualche altro motivo.
Avevo molte domande, ma non avevo idea delle risposte.
«Ho una notizia da darti: non puoi morire, nemmeno se volessi!» – Mi disse il samurai ragionando a voce alta, mentre ormai stavamo già pranzando, ma sentivo che c’era qualcosa che non andava nelle sue parole. Il combattimento di prima m’aveva reso cosciente della mia impreparazione a quello che mi sarebbe successo successivamente. Il problema era che aveva ragione. Non sarei potuto morire nemmeno per togliermi tutte le responsabilità che io scelsi di prendermi. Gli feci segno di spiegarsi ancora, dato che non parlavo ancora la sua lingua e quindi non avrei potuto capire comunque quello che avrebbe detto. Infatti, quello che sto raccontando, è tutto un vago ricordo su quando non ero chi sono adesso: questa però è un altra storia.
Ritornando a noi, mi disse soltanto che ci saremmo dovuti allenare per perfezionarmi totalmente. E non ci sarebbe dovuta essere, da parte mia, nessuna lamentela. Mi sorprese perché parlò da frustrato e per quel poco che lo conoscevo, era fin troppo chiuso anche per i suoi limiti. Qualcosa lo turbava, e anche parecchio.
Gli chiesi… a gesti… che avrei voluto imparare a parlare come lui, ma lui… sempre a gesti… mi rispose che l’avremmo fatto sempre dopo gli allenamenti fisici: toccandosi prima la testa, poi roteando l’indice dinanzi il petto e verso l’interno del corpo, e infine mi fece una posa di combattimento. Riuscendo a capirlo, non mi restava che allenarmi. Ma quello che stavo dimenticando che l’assassino dei miei genitori era ancora in libertà e che l’avrei voluto vedere in volto prima di… della sua morte.
Nei mesi a seguire, mi iniziò al bushido: ossia la via del guerriero… contenente tutte le arti marziali che conosceva e l’arte del perfezionamento fisico. Avrei dovuto difendermi da cose molto più grandi di me, nonostante io non sapessi ancora da cosa mi sarei dovuto difendere. Kaze tentava forse di proteggermi da chissà cosa o aspettava – semplicemente – che io riuscissi a comprenderlo quando me l’avesse cercato di spiegare.
All’imbrunire, m’insegnava anche la sua lingua, per avere quella comunicabilità che tanto avrebbe aiutato a capirlo meglio: accostando i gesti alle parole e alla scrittura… ci misi mesi per impararmi una lingua così complessa. E così imparai molte altre lingue, dato che anche il samurai convenne utilizzare del tempo in più per raggiungere la perfezione. Che avrei avuto soltanto quando io mi sarei sentito davvero consapevole di chi fossi, ma che in realtà non l’avrei saputo fino a che non ci sarei diventato. Considerando che quello che fu il mio “battesimo del fuoco” non era niente a quello che era successo con la scoperta di quanto stesse succedendo in realtà.
Passarono quattro anni da quando conobbi Kaze e nessun altro venne a disturbare, allontanando il sospetto di strani incontri. O almeno per tutto questo tempo. Infatti, non m’aspettavo interferenze e solo una ne è bastata per farmi decidere sul da farsi: che coincidenza voluta. In poche parole, scoprii chi aveva massacrato e ucciso i miei genitori adottivi. Mi stavo allenando con Kaze, mentre decisi d’avventurarmi da solo nei boschi. Volevo cacciare in memoria dei vecchi tempi, mentre sentii che qualcuno mi stava seguendo. Rumori di passi, due… per essere precisi. Rimasi fermo, per capirne la posizione dal poter propagare nell’aria la mia percezione uditiva – un piccolo trucco imparato con la meditazione – e calcolai che sarebbe potuto essere ubicato a circa quattrocento metri da me. Lo percepivo, ma non riuscivo a vederlo. Volevo che fosse lui ad attaccarmi, proprio per evitarmi il tentativo di cercarlo in tutto il bosco. Si nascondeva bene, anche se ripresi il mio compito senza pensare al probabile inseguitore e mi continuassi a chiedere chi fosse.
M’avventurai verso uno dei fiumi, per prendere del pesce e incominciare a cucinare quello e poi finire su della carne. Kaze non mangiava molta carne rossa: diceva che era per preservare il suo corpo… io, d’altro canto, non c’ho mai creduto – alle diete – e quindi facevo doppia caccia; era tutto allenamento il mio, come quello di quel momento per sfuggire al mio inseguitore, ma senza destare troppi sospetti. Corsi, più veloce del vento stesso, e anche in mezzo agli alberi semplicemente per divertimento, mentre sentii già l’odore del fiume a pochi chilometri da dove mi stavo trovando io. Nel correre, notai che la neve si stava incominciando a sciogliere e che non c’era presenza degli altri animali: andava bene il letargo, ma come per l’orso che era semplicemente un mutaforma, per gli altri non sarebbe dovuto cambiare niente. Mi detti uno slancio per affrettarmi, percorrendo in una decina di minuti lo spazio che mi stava separando dal fiume e m’appostai per iniziare la pesca… soltanto con le mani. Per farla breve, presi quel che dovevo prendere e riposi la decina di pesci sotto il braccio e intrapresi la via del ritorno, per poi riprendere la caccia subito dopo. Corsi ancora più velocemente di prima, nonostante il bosco fosse per lo più sempre uguale, anche se la conformazione del terreno e delle rocce davano una strana sensazione di potervisi orientare. Saltavo da un masso all’altro e da un tronco all’altro, solo per testare sempre il mio fisico: potenziato nel tempo e ancora più prestante. Avendo scalato montagne, cascate e sfidato animali d’ogni genere, realizzai che sarei dovuto essere pronto a qualsiasi cosa anche senza – per forza – perdere i capelli. E – per non portarla per le lunghe – riuscii ad arrivare alla tenda senza aver incontrato nessuno, ma appena riuscii a intravederla, vidi un altro uomo dinanzi a Kaze – che nel frattempo stava incominciando ad accendere il fuoco.
«Se si segue la tana del bianconiglio, si trova sempre l’inaspettato!» – Disse lo strano uomo, vestito con pelli d’animali e armato di due tomahawk, in uno strano inglese. Non era del luogo, come non l’eravamo nemmeno noi due. Kaze gli stava già puntando la katana alla gola, nel mentre attendeva il mio arrivo, anche se volevo capirne le intenzioni… anche se il mio sensei lo stava già tenendo a bada.
«Parla, hai la mia attenzione!» – Disse Kaze, altamente scocciato e continuante a puntargli l’arma alla gola.
«Non sapevo fossi qui, ma già che ci stiamo aspettiamo tranquillamente il tuo allievo?» – Propose l’evidente straniero, forse a conoscenza d’informazioni che sarebbero trapelate soltanto con mezzi non convenzionali.
«Cosa vuoi da lui?» – Chiese Kaze, immutato a pochi secondi prima.
Lo straniero rimase impassibile alla minaccia di Kaze, mettendo le classiche “mani in alto” e con un falso sorriso sul volto, atto a sottolineare quanto sia soltanto un messaggero di qualcuno molto più potente di lui. Mi portai verso di loro, con passo rapido e ricolmo di rabbia, con entrambe le mani impegnate ad assolvere l’ultimo compito intrapreso prima d’affrontare quest’altro sgherro e lì, in quella strana circostanza, sentii di nuovo ardere il fuoco dentro di me. Un’insana voglia di pestare le persone e d’affrontare ogni sfida con rabbia e decisione. Accellerai incredibilmente per compiere i cinquecento metri che mi separavano dalla tenda in pochi minuti e nel passare la tenda, riuscii nel lanciare i pesci vicino al fuoco. Passai tra i due interlocutori. Poi, diedi un pugno sul volto dello straniero che lo fece crollare a terra. Nell’impatto tra la sua faccia e le mie nocche sentii che il suo osso del collo rompersi sotto la forza dei mio pugno. Mi sentii dannatamente potente e credo che sia la prima volta che ebbi il desiderio e la volontà d’uccidere qualcuno. Però, stranamente, si rialzò in piedi. Sentivo d’aver usato tutta la forza che avevo in corpo, ma si rialzò… ridendo come un pazzo.
«Cosa vuoi da me?» – Chiesi allo straniero, recandomici vicino ai suoi piedi. In piedi, lo esaminai dall’alto verso il basso: vestito principalmente da cowboy, ma indossante un gilet di pelle d’orso e due feretre – per i tomahawk – alla cinta. Occhi e capelli castani, pelle caucasica: non l’avevo mai visto, ma a giudicare dal volo che gli feci fare – almeno cento metri – anche lui era stato resistente al mio colpo. E questo non mi piaceva.
«Quello che vogliono tutti… ucciderti!» – Si rialzò, guardandomi fisso negli occhi e brandendo con fare sprezzante le sue adorate armi. E con aria di sfida, che accettai senza fare altre domande. Anche quella volta, stranamente, Kaze rimase lì a guardarmi combattere: io odio ancora le coincidenze.
Non sapevo minimamente cosa volesse da me, anche se il suo intervento non era per niente causale. La mia paura era che non c'entrasse La Morte. Non volevo crederci, alla sola probabilità che lei potesse trarmi così facilmente in inganno, ma l'avrei dovuto accettare comunque: a qualsiasi costo. Potesse realmente essere davvero tutto un inganno, ma avrei preferito affrontarlo e non rimanerne passivo.
«E come è cresciuto il piccolo indiano!» ‒ Disse il cowboy barcollando e massaggiandosi il mento, mentre mostrò un leggero ghigno.
«E tu chi saresti?» ‒ Chiesi, spinto da una rabbia non mia.
«Quelli della tua gente mi chiamano Serpente a Sonagli. Un sibilante assassino d’indiani: mi hanno mandato qui per farti fuori… non prenderla sul personale, lurido indiano… dovrei soltanto ucciderti per risolvere tutte le mie grane!» ‒ Disse lui, mostrandosi molto sicuro di quello che avrebbe potuto farmi; fiero anche delle sue molte capacità.
Kaze si posizionò alla mia destra – e alla sinistra del cacciatore, dunque – non smetteva d’osservare tutta la scena, con occhi attenti per voler cogliere qualsiasi dei nostri movimenti o soltanto starsene buono per vedere i miei progressi. Anche se li avrebbe potuti verificare in altri tremila modi, ma io ero l’allievo e non avrei dovuto discutere i metodi del mio maestro… ma non sarebbe stata di certo quella l’occasione per allenarmi.
Il sole era alto e non c’era altro che noi e il bosco sconfinato. Nessun animale non aveva intenzione d’avvicinarsi e noi non ne avremmo voluti. Il “cacciatore-cowboy” faceva roteare i suoi tomahawk per cercare d’intimorirmi e nel frattempo mi studiava… e io studiavo lui. Ero in guardia e ripassavo tutte le possibili variabili di ogni suo probabile colpo. Come pararlo e come contrattaccare. Non mi sentivo così pronto da molto tempo. E sentivo che quell’evento sarebbbe dovuto succedere per forza nella mia vita.
Un evento cardine della mia vita, mi dissero più avanti.
Incominciai a massaggiarmi le mani, perché mi prudevano: volevo pestarlo a sangue, ma aspettai che fosse lui a fare la prima e unica mossa: avrei voluto chiudere subito questa faccenda, ma avevo il sentore che sapeva molto più di quello che dimostrava… sopratutto il venirmi a cercare in questa landa dimenticata soltanto da chi non sapesse dove mi trovassi all’epoca. Serpente a Sonagli – il cowboy-cacciatore di prima – era sempre di fronte a me, a una decina di passi… per essere precisi, preparandosi ad attaccarmi. Io ero pronto a tutto, pur di capirci qualcosa di più.
Avevo una strana sensazione, come se lo spirito della vendetta fosse dentro di me, ma l’ardore del mio animo era tutto scombussolato… come se avesse riconosciuto lo strano tipo, o fosse collegato con me in qualche strano modo, ma qualcosa sembrava bloccarmi dal poter realizzare tutta la situazione.
«E tu saresti il mio prossimo obbiettivo, indiano? Ho ucciso molti come te… mi fate schifo, con le vostre regole del cazzo! Solo perché non ero puro come voi, brutti bastardi infami!» – Disse il mio avversario, forse schifato dell’evidente commissione, ma che per qualche oscura ragione era quasi obbligato a rispettare. Per sottolineare il suo disdegno nei miei confronti, sputò anche per terra e mi fissò… forse per cercare di terrorizzarmi, o soltanto per farmi innervosire, ma sarei dovuto essere pronto anche a questo. Cercai di mantenere la calma, ma attesi sempre la sua prima mossa. A gesti, lo invitai ad attaccare, semplicemente tendendo le mani davanti a me e muovendole verso di me. E attesi, quasi sbadigliando: mi venne un’idea… non dargli importanza. Mi voltai verso Kaze e chiusi gli occhi… alzando il pollice della mano destra per segnalargli che era tutt’apposto: ero sicuro che non era a conoscenza della mia immortalità, per cui un attacco di soppiatto non m’avrebbe recato chissà quali danni. Volevo che m’attaccasse a tutti i costi, ma evidentemente non era così stupido o voleva che io l’attaccassi.
«Sei troppo stupido anche per attaccarmi? Dici che ci odi, ma preferisci attaccare solo chi non può difendersi come me? Non si compiono battaglie che non si possono terminare fino alla fine, sai? Io rimarrò qui in attesa che sia tu a fare la prima mossa… avanti!» – Gli dissi, pensando di smuoverlo e partire l’ennesima scazzottata. Mi prudevano troppo le mani: l’avrei voluto pestare soltanto perché m’aveva interrotto il pranzo e i successivi allenamenti. Sentivo che il mio fuoco interiore si stava lentamente risvegliando, come se qualcosa non andasse. Ero sempre con gli occhi chiusi, ma presi anche a camminare avanti e indietro rispetto alla mia precedente posizione: tanto avevo tutto sotto controllo con gli altri sensi.
«Si, soprattutto le donne e i bambini: il futuro della specie! Non m’importa chi devo far fuori per portare avanti il mio giuramento: morirete tutti, un giorno. Secondo perché un cacciatore d’uomini dovrebbe passare il suo tempo per trovare le sue prede, se non ha la certezza che si trovino soltanto nella zona di caccia? La risposta è ovvia: perché come il serpente, sente ne percepisce l’odore e la raggiunge per porre fine alla sua effimera esistenza! Ma stranamente non ho trovato chissà quali prede, in questi quattro anni!» – Quasi legato a vecchi ricordi e continuando lentamente a roteare i suoi tomahawk, incomiciando ad avvicinarsi a me, quasi per volermi attaccare, ma la curiosità era troppa per non pormi l’unica domanda necessaria a togliermi qualsiasi dubbio sull’identità di chi avessi davanti: a chi si riferisse.
«Sporco indiano, anche la lingua t’hanno mozzato? Mi riferisco a chi abitava questa tenda giusto quattro anni fa, ma passandoci varie volte non trovai più nessuno. Oggi, stranamente trovo un altro lurido indiano e un vecchio giapponese: la strana coppia. Mi dite voi cos’è successo o ve lo strappo a suon di accettate?» – Il cacciatore iniziò a roteare più velocemente le sue armi, mentre io cercai di farmi “due conti” sulle sue parole. Qualche altro sputo per terra, per schiarirsi la gola e in pochi secondi dopo capii.
Questa tenda… una coppia d’indiani… e se si sta riferendo anche alla tenda, sarà stato lui a porre fine alle loro vite: purtroppo anche io mi feci bene i conti con il mio passato, ma quando ti alleni per anni senza conoscerne la fine, dimentichi anche chi sei.
E io me ne resi conto soltanto in quel momento.
«Volevi una scusa per farti attaccare? L’hai avuta: ci sono io perché ci sono cresciuto qui. Erano i miei genitori adottivi quelli che hai ucciso. E ti dirò di più: nonostante questo, mi pregherai di smetterla di pestarti a sangue!» – Risposi con la rabbia e l’ardore che premevano per uscire da dentro il mio corpo. Avrebbero voluto infliggergli più dolore possibile, tanto che avrebbe pregato per cercare di farli smettere, ma la vendetta sarebbe solo la mia e incominciai ad attaccare. Aprendo gli occhi, ma li sentivo strani. Irrorati di sangue, mi si erano sfondati i capillari oculari e quindi sembravano rossi come il fuoco. Vedevo rosso sangue, ma puntai soltanto verso di lui. Otto passi in due secondi, tanto ci misi. Due passi in più per una ginocchiata, in pieno stomaco, che lo fece piegare su sé stesso. Solo questo bastò per fargli sputare sangue dalla bocca e dal naso. Mi guardava. E dal sguardo cercava di capire cosa avesse sbagliato, perché non si capacitava d’avermi trovato molto pià forte… o almeno credevo.
«Blup! Coff! Già che stupido, era una delle spiegazioni più ovvie! Sei cambiato da allora, anche se già allora non mi riuscivo a capacitare sul come non fossi morto. Eppure ti avevo tagliato una mano e adesso ti ritrovo che mi hai quasi battuto… eppure ci deve essere una spiegazione!» – Il cacciatore sputava sangue, mentre cercava di rimettersi in piedi. Mi fissava con sguardo vitreo, come se il solo calcio inflitto, quasi l’avesse lasciato stremato. Pochi altri attimi e sarebbe potuto anche morire. E invece no, era sempre in piedi, come se qualcosa lo spingesse a cercare delle risposte. Non mi feci nessuna domanda. Alzai il piede destro, mirando alla sua testa. Lui era stranamente stremato, anche se ancora in piedi. Si spostò indietro di qualche passo, lasciando cadere i tomahawk per terra: forse in segno di sconfitta precoce. Non si mosse nemmeno di un secondo da lì, ma il mio corpo sentiva che qualcosa non stava andando nel verso giusto e anche io non mi stavo sentendo del tutto bene.
«Credo possa bastare, Cuore Infuocato! Il tuo avversario ha sofferto abbastanza e credo che stia per avere una brutta morte. Fratture multiple: polmoni, sterno e torace… tutt’e tre sfondati e con varie fuoriuscite di sangue: praticamente è diventato il suo ossigeno. Non lo vorrai mica uccidere? Non è per questo che ti ho istruito!» – Intervenne Kaze, sempre così attento e sicuramente m’avrà fregato con qualche strana tecnica energetica a distanza. Era fin troppo serio, ma in fondo aveva ragione. E anche se era l’esecutore finale del duplice omicidio dei miei genitori adottivi, non mi sarei dovuto macchiare le mani del sangue di un razzista vigliacco: sicuramente m’avrebbe dato più informazioni da vivo. La mia espressione di diniego nell’ucciderlo fu recepita da entrambi i miei interlocutori, o almeno speravo, perché non mi sarebbe costato nulla, ma nemmeno nulla c’avrei guadagnato. E per il premio “miglior idiota della giornata”, l’unico candidato e vincitore Serpente a Sonagli, per il suo autolesionismo nel voler cercare ancora d’attaccarmi nonostante fosse evidente la mia superiorità e il sangue che ormai aveva cacciato dal suo corpo era superiore al litro e mezzo, per cui barcollava avanti e indietro. Non riuscendo a stare nemmeno fermo: in pratica, il suo corpo stava iniziando a collassare. E anche abbastanza velocemente.
«Tu non m’ucciderai e non farai un bel niente, sporco indiano! Devo soltanto riuscire a mantenere la calma e avanzare verso…» – Sembrò avere una spinta in più, stranamente. Come se sapesse cosa dovesse fare, o la falsa illusione di poter fare ancora qualcosa per portare la situazione a suo favore; qualsiasi fu la ragione, non ci stava riuscendo. Anche se l’intromissione di Kaze fu fondamentale per farmi ragionare. E per salvargli la vita. Nel frattempo, nel mentre il mio maestro cercava d’usare l’arte oratoria per cercare un’altra via per risolvere dei nostri problemi, ma il cacciatore decise di confermare il suo tentativo di ripresa del combattimento: e questo non mi piacque. Talmente la mia frustrazione era arrivata a livelli assurdi, che vedevo la mia pelle emettere dello strano fumo grigio e assumere un colorito verso il rosso. Non sapevo cosa stesse succedendo, ma esclusi la possibilità che il sangue avesse rotto anche i capillari della pelle, anche se mi sentii molto potente… più di quanto non mi sarei mai aspettato in quel momento. Stavo forse prendendo fuoco? Non ne avevo idea.
«… Non avresti dovuto!» – Dissi, mentre sentii il mio corpo bruciare, come se qualcosa volesse uscire da dentro di me. La rabbia o non seppi che altro, premeva per uscire. Gli occhi gonfi di sangue e rabbia, nel mentre il mio avversario riprese i tomahawk da terra e li alzò entrambi verso di me… tendando un doppio fendente verso il mio petto, ma nel reagire all’atto di presunzione diedi la schiena a Kaze e con il pugno destro lo sferrai vicino alla bocca del cacciatore… troppo idiota per ricordarsi cose che sono successe poco più di cinque minuti prima. Ma non lo colpii: non credevo fosse giusto togliere la vita a chi già è precaria. Rinunciai anche a visualizzare la sua espressione, sicuramente stranita per quello che era appena successo, ma per me non avrebbe più avuto importanza. Era già morto, ma ancora non lo sapeva: soprattutto per quello che sarebbe successo nel minuto successivo.
«La tua pelle stava prendendo fuoco, davvero. Ma che diavolo? E non tocca a te farlo fuori, Cuore Infuocato. Purtroppo dovrai essere l’invisibile fuoco di Prometeo, ossia colui che sarà incaricato di proteggere chi non può farlo: come i tuoi genitori adottivi, però la prossima volta sarai divenuto più forte di quando hai iniziato!» – Si voltò Kaze, estraendo la sua spada e si diresse verso il cacciatore; pochi passi e soltanto un fendente all’altezza dello stomaco: tanto bastò per farlo cedere, e crollare a terra, nella stessa posizione ove era.
«E così alla fine sono morto davvero… m’aspettavo di meglio, onestamente. Dimenticavo: l’uomo che ha fregato La Morte vi sta cercando!» – Tutto successe così in fretta, tanto che riuscii solamente a vedere – e a percepire – i movimenti del samurai. Sembrava essere tutto finito con una folata di vento. Ma non avevamo fatto i conti con il fato infame: diede la parola all’ormai defunto cacciatore per darmi una specie di messaggio e complicarmi ancora di più la giornata. Ovviamente, non potevo conoscere il soggetto citato dal morto che cammina, ma dall’espressione di rabbia espressa da Kaze avrei potuto persino presumere che lui sapesse molto più di quanto avrei immaginato. Insomma, il da farsi c’avrebbe atteso… in fin dei conti.
«Allora c’ha trovati, il bastardo. Sarebbe stato fin troppo casuale che un cacciatore s’aggirasse solo e soltanto per una foresta, invece che controllare tutte le altre presenti in Canada. E in effetti, sto incominciando a odiare anche io le coincidenze, ma adesso che mi ci fai pensare: dovremmo partire prima possibile… per il Giappone!» – Disse Kaze osservando l’ormai cadavere del cacciatore che giaceva al suolo, senza dire altre parole, ma la mia espressione era tutt’altro che felice. Stavo ancora ripensando a quello che era appena successo: avevo finalmente capito cos’era successo quel giorno, ma non sarebbe cambiato niente se fossi stato io il suo carnefice. Non sarebbe stato leale ucciderlo, perché tutti abbiamo bisogno di una seconda possibilità: basta saperla sfruttare. E non ebbi neanche il tempo per riuscire a onorare i miei genitori adottivi, che il fuoco della responsabilià dentro di me ardeva perché sapeva cosa avrei dovuto fare nel prossimo futuro: lasciarmi guidare dal vento per crescere sempre di più; infatti, nemmeno il tempo di finire la frase che raccolsi le provviste prese, le impacchettai con dei rami abbastanza flessibili e cercai di prepararmi mentalmente a ogni futura sfida. O almeno quella fu la mia intenzione.
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Capitolo 3 *** Capitolo 2 - La Notte più Lunga ***
Capitolo 2
La notte
più lunga
Decidemmo
di partire immediatamente lasciandoci i sconfinati boschi del Canada
centrale. Furono la mia casa fino a quel momento, ma sentivo sulle
spalle il peso di qualcosa di più grande di me. E che avrei
voluto
risolvere, così da spiegare il motivo degli allenamenti
così
incessanti. Così Kaze sentenziò la nostra
doverosa partenza: un
semplice “dobbiamo andare”.
Scendemmo
dalle montagne dell’Ovest del Canada…
verso l’Oceano Pacifico. Ci mettemmo quasi una quindicina di
giorni, tanto che mangiammo giusto per non “morire di
fame”
perché i nostri corpi…
soprattutto il mio…
erano predisposti anche al non dover dormire per giorni interi,
perché sapevamo che la missione era più
importante. E non una
parola da parte sua, dopo aver scalato intere montagne, attraversato
fiumi e lande desolate o incontrato indiani inseguiti da cowboy senza
scrupoli: tutto senza mai fermare il passo. Non c’era
concessa
pausa.
Sino
al decimo giorno: qualcosa la disse.
«Siamo
diretti a Vancouver e da qui ci vorranno altri due o tre giorni
massimo. Ho un amico che ci potrebbe accompagnare in Giappone. Si
ritrova a fare questa tratta – dal Giappone al Canada
– per
motivi a me strani, ma che mi ha permesso di trovarti…
anche se gli sgherri “dell’uomo che ha fregato la
morte”
m’hanno trovato lo stesso. Ha agganci in tutto il mondo
conosciuto
e credo che l’abbiamo già conosciuto tutto.
Nemmeno nei poli
potremmo nasconderci da lui. Ho avuto modo di conoscere la sua
crudeltà, nel mio paese, quando fece massacrare cinquanta
persone a
un funerale. Con il morto. Non so come ci sia riuscito, ma è
come se
avesse semplicemente chiesto al morto di alzarsi ed evidentemente
aveva dei risentimenti verso tutti i presenti: sono riuscito a
salvare la pelle del mio protetto per il rotto della cuffia!»
– Era pieno di risentimento, tanto che con la mano sinistra
tratteneva forte il manico della spada e con l’altra
stringeva il
pugno…
per trattenere la rabbia. Era da tanto che non parlava, forse per
questo che riuscì a confessarmi una parte della
nostra…
forse era mia soltanto… missione e non riuscivo ancora a
immaginare cosa mi sarebbe
aspettato in futuro, ma lui lo sapeva cosa mi sarebbe aspettato e me
lo stava deliberatamente nascondendo: senza una chiara
spiegazione…
o voleva proteggermi.
Tante
domande per nessuna risposta.
Cercammo
delle informazioni sul nostro uomo, ma nessuno sembrava saperne
niente…
anche su eventi straordinari accaduti nella zona, soprattutto
perché
Kaze era riuscito sia a ritrovare il dono della parola e sia
perché
avremmo dovuto poter bloccare esseri tipo L’Orso. Non avrei
più
dovuto rischiare d’abbatterli perché non hanno
saputo utilizzare
al meglio l’occasione di poter vivere. La vita è
un lusso che
nessuno dovrebbe sprecare: soprattutto io che non avrei più
permettermi il lusso di poter morire. Le informazioni raccolte ci
diedero la motivazione per muoverci: da alcuni poveri viandanti che
avevamo conosciuto per la strada verso Vancouver, apprendettimo che
nella suddetta città v’erano strani fenomeni di
sparizione…
gente che spariva senza un apparente motivo. La sera, soprattutto. La
particolarità era che erano tutti maschi adulti: anche
viandanti che
s’incontravano il giorno prima, il giorno dopo erano belli
che
spariti. Nessuna prova e nessuna traccia. Chiedemmo anche
dell’uomo
orso – L’Orso, dunque – e ci venne detto,
da indiani Cherokee
incontrati e fuggenti dalla furia dell’americano bianco,
della
leggenda di un grande sciamano divenuto tutt’uno con la
natura
divenendo lui stesso un’animale. Non ci dissero come avesse
fatto,
perché era oscuro anche a loro, ma erano sicuri che il nome
dello
sciamano fosse Grande Orso delle Montagne. Facemmo due conti e
capimmo che era lui quello che avevo quasi ucciso: se non fossi stato
io abbastanza debole e lui abbastanza resistente ai miei colpi,
sarebbe già morto e arrivai alla conclusione che il nostro
orso ha
incontrato già il nostro avversario.
Ricordo
come se fosse ieri tutti i chilometri fatti per arrivarci, a
Vancouver. Temetti di non arrivarci più e che avremmo
mollato nel
farlo, ma non fu così: forse la mia volontà era
da considerarsi più
forte di quanto m’aspettassi…
soprattutto per combattere una battaglia – o guerra
– contro un
essere che avevo soltanto sentito nominare, ma che ha combinato molti
più guai di quelli di un elefante in una cristalleria. Anche
se
dovrei capire chi va a mettercelo, un elefante in una cristalleria.
Avevo già visto quei territori, in spedizioni di caccia per
conto
degli altri indiani Cherokee migrati in Canada, ma non
l’avevo mai
attraversati per scopi personali. Erano soprattutto montagne
altissime tutte da scalare, scoscese e piene d’insidie: da
sconsigliare a persone non esperte. L’unico vantaggio era che
avevo
modo di cacciare molte alci e montoni per poter mangiare…
anche se avevo capito che non mi sarebbe nemmeno servito più
il
mangiare per sopravvivere e sarebbe stato il cruccio soltanto di
Kaze. In ogni qual modo, ci ritrovammo nella città di
Vancouver dopo
circa tredici giorni di veloce cammino. E tutto mi sembrava chiaro.
C’avvicinammo dalle montagne, in modo che nessuno ci potesse
vedere
arrivare. La città sembrava tutt’altro che
deserta, infatti in
circa vent’anni i coloni avevano già eretto una
delle città
destinate a essere uno dei caposaldi della nazione. Tutte le case
erano fatte in legno, quindi “facili” da costruire.
Villette a
schiera, tutte uguali e giusto qualcuna più alta per cercare
di
personalizzare il tutto. Scegliemmo di scendere in città di
notte. E
ovviamente avremmo dovuto dirigerci verso il porto senza essere visti
da nessuno. Seguii Kaze perché era chi tra noi due aveva
più
esperienza in queste cose, nonostante fossi leggermente più
pratico
della città di lui. Gli dissi che avremmo dovuto agire
velocemente
per il bene comune, ma rimanemmo vicini e facemmo attenzione a
qualsiasi minimo particolare. Vicoli non troppo stretti, appena
più
larghi dello spazio di due carrozze, ma nonostante la luna fosse alta
nel cielo, incominciammo a correre verso il porto.
«Chiunque
potrebbe essere una sua spia: ha lo strano talento di poterti
convincere di qualsiasi cosa e la cosa che meno ci serve al momento
è
attirare l’attenzione. Il porto è
dall’altra parte della città,
per cui non dovrebbe essere per
noi un problema
attraversare l’intera
città senza farsi notare. O i tetti, o dovremmo cercare di
diventare
invisibili» – Accennò sottovoce Kaze.
Risposi
soltanto con un cenno del capo, dicendo che avevo capito: tanto
l’avrei seguito… anche
sui tetti. E infatti, incominciammo a fare la nostra attraversata sui
tetti… partendo da un semplice salto sulla prima casa. Erano
alte sulla decina di metri, per cui non sarebbe stato un problema
salirvi e correre. E saltare da una casa e l’altra. Ma non ci
pensai e feci il primo salto. Riuscii perfettamente, tanto da darmi
la fiducia necessaria per compiere l’attraversata. Decisi di
riprovarci con la dovuta determinazione, in quel momento di tensione:
se mai fossi caduto, m’avrebbero notato e qualcuno
m’avrebbe
fatto domande assurde…
e non me lo sarei potuto permettere. Corsi senza sosta verso la
libertà ed evitando i camini delle case:
d’impiccio per evitare di
sfondare il tetto…
ci sarebbe stato troppo peso e non avrebbe retto, ma avrei dovuto
fare di tutto per evitarli e scalare anche i tetti più
obliqui. Per
farla breve: riuscimmo ad arrivare al porto senza troppi problemi,
dove lo stesso Kaze apparì più meticoloso del
solito. Eravamo
entrambi sulla banchina e circolavano, vicino a noi, altre persone.
Chiesi a Kaze se fosse il caso di mescolarci con loro, ma rispose che
era meglio di no e si diresse verso il fine di una di queste. Si
prese una lanterna portabile a gas, con tanto di manico, per farci
luce nella notte stellata…
tanto che un cane, al vederci, scappò via impaurito: forse
avrà
avuto paura di quello che porto dentro; non ci pensai molto, ma
continuavo lo stesso a ripetermi che avrei dovuto fare la cosa
giusta…
non avrei voluto convivere, per la mia intera vita – se mai
ce ne
fosse stata una fine – con il senso di colpa per non poter
rimediare ai miei errori. Stavamo osservando il mare, così
scuro e
illuminato soltanto dalla luna piena, che con la sua luce sembrava
quasi assisterci nel nostro viaggio. Le onde si rifrangevano sui pali
che reggevano la banchina e il vento soffiava delicatamente sulla
nostra pelle e alcune scatole erano poggiate vicino a noi, quasi a
denotare che la prossima imbarcazione sarebbe stata quella che
c’avrebbe permesso di partire senza che nessuno ci possa
riconoscere.
Passò
circa una decina di minuti dal nostro arrivo, nel mentre delle
lucciole passarono per il nostro stesso luogo e se ne andarono
subito, al sentire il rumore della nave in arrivo. Era maestosa, la
più grossa che vidi fino in quel momento, e Kaze
imbraccò la spada
e guardò la prua per vedere chi si sarebbe affacciato da
lì.
«Oooh,
salve a tutti i presenti. Uhm, siete soltanto in due…
quindi vi do entrambi il benvenuto sulla Prometheus, la nave che vi
porterà ovunque voi vogliate. È il vostro
capitano che vi parla:
Julius Barnes e v’invito a salire…
che siamo in partenza» –
Il capitano c’invitò a salire sulla nave e due dei
suoi “addetti
ai lavori” calarono il ponte, per farci salire, con estrema
velocità e precisione, tanto che in poco più di
cinque minuti
eravamo già sulla nave e iniziato tutte le procedure per
iniziare la
partenza per il Giapppone.
Incominciai
a osservare la nave, che prima di tutto tengo a precisare che
è una
delle prime ad andare a carbone e quindi era tanto maestosa quanto
rumorosa. Tutta in metallo, tanto che era paragonabile a un
transatlantico… lunga trecento metri, più o meno,
e larga sui
quarantadue metri, – mi sembra – e mi diedi subito
alla ricerca
degli altri passeggeri… non ne vidi sul pontile della nave,
per cui
pensai che stessero tutti nei loro alloggi, data anche l’ora
tarda.
Nel frattempo, Kaze si diresse subito nelle stanze del capitano per
proferirgli qualcosa – o almeno credo – e decisi di
stargli
vicino… giusto per essere sicuro che non avrebbe cercato di
fregarmi di nuovo: non mi piacque il tentativo di cercare di
nascondermi l’entità della missione e di
viscerarmela poco alla
volta… mica sono uno scriba, che gli bisogna dettare una
lettera
alla volta. Insomma, ci recammo dentro la nave e Kaze stava sempre
trattenendo la spada, come se avesse paura che un chicchesia avesse
la mera intenzione d’attaccarlo in un luogo stretto e poco
incline
alla fuga.
Tutto
questo, mentre la nave aveva già incominciato a prendere il
largo.
Intanto
Kaze incominciò a dare dei segnali d’impazienza,
mentre cercai
anche io di trovare la stanza del capitano, che era quella per fare
tutte le carte per l’imbargo. Tutte le camerate erano in
metallo,
come sopra e su di ogni porta v’era un oblò, con
il vetro blu
scuro ed era fatto per non far vedere all’interno della
stanza,
anche se a rigor di logica, dovrebbe esserci qualche cartello per
indicare la direzione per stanza più
“importante” di tutta la
nave… cosa che trovammo quando avevamo già fatto
tutto il primo
piano della nave ed era proprio di fronte a noi. Poche decine di
passi, nel mentre i miei sensi erano in fibrillazione perché
il
tutto stava diventando ancora più misterioso…
oltre alla
preoccupazione palesata dallo stesso samurai leggermente più
avanti
di me. Per farla breve: dalla stanza del capitano della nave ci
separavano soli pochi passi ormai, quando Kaze
s’avvicinò alla
porta e bussò con le nocche per tre volte. Poi
aspettò qualche
secondo, quando s’accorse che era già aperta e mi
fece segno di
stare attento: lo seguii… sia il consiglio e sia
nell’entrare
nella stanza del capitano Barnes.
«Entrate,
entrate… vi stavo aspettando» – Disse il
capitano, con tono
cordiale e sorridente. La sua voce era sempre cavernosa, anche se
mostrando felicità, potrebbe quasi assomigliare a un anziano
signore
delle montagne, ma eravamo in alto mare e da lui avremmo potuto
imparare molto.
Appena
entrammo nella stanza, il capitano s’alzò dalla
poltrona, stante
dietro la scrivania posta a qualche metro dalla porta e al centro
della stanza, e porse la mano a Kaze, che invece
s’inchinò verso
di lui unendo anche le mani – la sinistra a palmo aperto e la
destra, invece, a pugno chiuso – e anche Kaze aveva una
strana
espressione: aveva il timore di qualcosa e non l’avevo mai
visto
così turbato da qualcosa… e mi spaventava il non
sapere.
«Capitano
Barnes, dovremmo fare i documenti per il viaggio: dovremmo recarci
entrambi nel mio paese perché forse ho trovato la soluzione
ai
nostri problemi… il ragazzo alle mie spalle è uno
dei candidati
per poter costituire un baluardo di speranza, anche se flebile e
segreto, contro chi si fa chiamare “colui che ha fregato la
morte”
e quindi vorrei solo buttarmi alle spalle tutta questa storia, come
tu ben sai» – Questa volta, a parlare era Kaze, cui
tono divenne
alquanto ottimista, soprattutto nell’introdurmi a Barnes, che
divenne stranamente sorpreso della notizia e questo non è
che mi
fece impazzire dalla gioia, ma ero curioso di vedere come sarebbero
andate le cose.
«E
dimmi, com’è successo… intendo: come
l’hai trovato? E gli hai
spiegato tutto… intendo cosa sta realmente
succedendo?» – Il
capitano era ovvio, da come parlava, che aveva lui stesso dato allo
stesso Kaze alcune delle informazioni di cui disponeva e si
alzò
dalla sedia, per poggiare i palmi delle mani sulla scrivania e
fissare Kaze negli occhi, ma non era uno sguardo severo…
solo che,
per me, stava soltanto assicurarsi che il samurai mi avesse detto
tutto o semplicemente voleva darsi un tono per spiegarmi lui
“come
andasse realmente il mondo”. Il capitano era alto sul metro e
ottanta e abbastanza grosso da essere considerato quanto un
armadio…
capelli e occhi neri, come la pece e una pancia data dalla
costituzione abbastanza grossa e dal probabile consumo eccessivo di
birra, ma che non avrebbe messo a repentaglio la sua
capacità di
giudizio.
«Come
ho detto prima, io sono il capitano di questa nave: Julius Barnes;
quello che non sai è che ho avuto l’onore di
conoscere un altro
come te, ragazzo. Come te, intendo con l’antica
abilità di poter
fregare la morte. Lo chiamano “Il viandante”, per
la sua capacità
di riuscire a viaggiare senza cibo e acqua… per mesi interi
e senza
alcuna conseguenza. Oltre a questo, ho avuto modo di verificare di
persona quelli che sono gli effetti dello stare a contatto con
“l’uomo che ha fregato la morte” e ho
paura di credere che si è
rassegnati a vivere in un mondo pieno di esseri che potrebbero
conquistare il mondo… soltanto se lo volessero: tra cui
“l’uomo
che ha fregato la morte” e molti altri, cui ho avuto la
sfortuna di
portare incautamente a bordo. Non sembrano nemmeno più loro
quando
hanno il volto della morte addoso, tanto che si farebbe meglio a
toglierli di mezzo, ma non sta a dirmelo se la fortuna starà
dalla
nostra o meno. Giusto Kaze?» – Il capitano,
aspettando la
spiegazione di Kaze, decise d’inserire altri dettagli per
cercare
di spiegarmi come stessero realemente le cose, anche se lo stesso
samurai acconsentì con un cenno alle parole del capitano e
gli
rispose raccontandogli tutto quello che era… e
come… successo nei
quattro anni di convivenza forzata da chissà quale destino e
sembrò
non fare nessuna piega, ma gli incominciai a raccontare quello che
avevo scoperto d’essere e soprattutto come…
pensò soltanto a
qualcosa, ma poi prese un libro su cui annotò qualcosa e ci
diede
subito le chiavi della stanza. Era stanza 237, se non ricordo male.
Lo
ringraziammo e ce ne andammo per almeno rilassarci un attimo e
goderci il viaggio senza dover rendere conto a nessuno. Sentivo le
one del mare, ma che non mi davano alcun problema, ma nel cercare la
stanza, percepii un’energia strana nella stessa
nave… più tipi
d’energia strani, se devo essere sincero e avvertii Kaze,
almeno
per allertarlo e mi spiegò che la nave era solita
trasportare alcune
delle persone più potenti del mondo: tutti si fidavano di
Barnes…
come se tutti si fidavano di lui e che non volevano avere problemi
con lui. Sensazione che riscontrai anche io, ma che non presi in
valutazione – e considerare – quando mi trovai al
suo cospetto;
nel cercare la stanza perdemmo circa una decina di minuti dato che i
numeri partivano erano in ordine ascendente dall’ufficio del
capitano e quindi riprendettimo la strada che conduceva alle scale e
scendere a due piani più sotto di quello ove ci stavamo
trovando in
quel momento: ogni piano aveva cento stanze… cinquanta per
lato…
e quindi noi stavamo al terzo piano inferiore, come locazione. Tutto
in metallo, come l’intera nave, tanto che ne si notava
l’eccesso
uso… del metallo… che mi chiesi come facesse a
non essere
divorato dalla ruggine e poi capii, da solite ovvietà, che
sarà
stato adoperato qualche metallo che ne è immune e tutto
questo
ragionamento quasi inutile si radicò fino
all’arrivo nella stanza.
In essa, il samurai decise d’andare a dormire e di mangiare
l’indomani, ma io non riuscivo a dormire e decisi di vagare
da solo
per la nave.
Incominciai
ad andare in giro, vedendo che era come il corridoio di un comune
albergo… di quelli che si possono trovare sulla terra
ferma… e
decisi di trovare qualche indicazione per trovare solo qualcosa da
fare per ammazzare il tempo, ma l’unico cartello…
o
persona-cartello… che trovai fu un marinaio della nave che
mi
consigliò d’andare verso il bar della nave e nel
chiedere, capii
che non sapevo dove si trovasse e fu gentile nel condurmici. Era uno
stanzone… una sala da ricevimenti abbastanza grande da poter
intrattenere anche sul migliaio di persone… cui
v’erano un
centinaio di tavoli e una lanterna a olio su ogni tavolo, ma la cosa
che più m’incuriosii fu la desolazione legata a
quel bar: v’era
una persona soltanto e anche desiderosa di tanto silenzio.
Mi
recai comunque al bar: oltre ad avere bisogno di schiarirmi le idee,
sentii l’innaturale bisogno di bere qualcosa…
tanto Kaze era nel
mondo dei sogni, o io così credevo.
Appena
arrivato a uno degli sgabelli, mi ci sedetti e il barista mi chiese
cosa volessi ordinare e gli chiesi qualcosa che mi tenesse sveglio e
che mi schiarisse le idee. Fece lui, ma già…
l’ovvietà regna in
questo mondo… che m’avrebbe servito qualcosa
d’alcolico. Nel
frattempo, non mi riuscii mai a spiegare il motivo,
nell’attesa
incominciai a fischiettare, ma il mio cervello era come entrato in
una specie di trance e uscii una melodia indiana che la mia madre
adottiva usava per indurmi il sonno dopo giorni d’insonnia
perpetuata quasi volontariamente… quasi non ci pensavo
più a loro
che mi sembrava quasi d’averli dimenticati, ma
arrivò subito
l’ordinazione da parte del barista e la bevvi tutta
d’un fiato e
riposai il bicchiere sul bancone.
«Allora
avevo ragione… emani odore di morte, ragazzo!»
– L’altro
ospite del bar proferì parola con me, o almeno mi
sembrò di capire.
«Eh
già… o sei dalla parte del tizio che ha fregato
la morte, oppure
sei l’eccezione che conferma che ho sbagliato di nuovo il mio
compito e adesso dovrò farti capire tante cose;
l’unica cosa, in
tutto questo guaio, positiva è che sembri già
addestrato per
combattere. Mi presenterò soltanto perché sento
che di te posso
fidarmi, anche se sono sicuro che non saprai chi sono: tutti mi
chiamano Guy Fawkes, anche
se il mio vero nome è John Blank e posso fare tante
cose»
– Disse sempre il figuro appena presentatosi
perché percepente in
me quello che tutti dicono essere “un’aria di
morte”, ma non
avevo la percezione della mia stessa aura… anche se sentivo
quella
del mio interlocutore essere cupa, quasi di morte… forse non
aveva
mai ucciso nessuno, ma qualcosa neanche lui andava con La Morte e per
stroncare il mio sguardo pensieroso, mise la mano dentro la tasca ed
estrasse dalla sua tasca il bicchiere che avevo appena poggiato sul
tavolo e mi prese un colpo quando non lo vidi sul tavolo e strinsi il
pugno per cercare di non apparire stupido, ma solo troppo stupito per
ammetterlo.
Prese
a parlare una lingua che non conoscevo, almeno all’epoca, ma
che
stranamente capivo come se l’avessi sempre… come
una specie di
riconoscimento: credo che attualmente sia molto simile
all’arabo.
«Calma
indiano… ragazzo indiano, non voglio litigare, ma soltanto
conoscenza. E tu potresti fare proprio al caso mio,
ma…» – Ero
nervoso, ma neanche troppo, ma volevo comunque dimostrargli che ero
anche io parte di “qualcosa di speciale” e chiesi
al barista un
accendino e me lo diede, ma nell’accendere il fiammifero,
misi la
mano intera sulla fiamma e la mia mano prese fuoco… fino a
che lo
stesso Fawkes non smise di blaterare che non cercava la lite. La sua
sorpresa fu strana, o così mi sembrava, tanto che notai il
suo
guardare strabiliato la mia mano bruciare senza che io mi facessi
nemmeno una piega: la mia mano sarebbe rimasta senza un graffio al
termine della dimostrazione.
«Sorprendente:
un processo di immunizzazione dalle fiamme in corso…
è così
strano che quasi non credevo di potervi assistere. Ma se possiedi
abilità del genere, è strano che Parnassus non
abbia già mandato
qualcuno a cercarti» – Disse sempre il mio
interlocutore, sempre
in arabo così da farsi comprendere senza sforzo soltanto da
me e nel
frattempo il barista sparì, ma lo stesso Fawkes fece per
buttarsi su
di me e appena riuscì a toccarmi, mi disse di mantenere il
respiro.
Anche
se avrei appreso molto presto l’identità del
fantomatico
“Parnassus”.
Il
buio, per qualche secondo.
Poi
tutto divenne più chiaro: ci ritrovammo entrambi sul pontile
della
barca e con noi v’erano altri dieci figuri vestiti tutti come
Fawkes: tuniche nere partenti dal capo e finenti a terra, pantaloni
di tessuto leggero e scarpe di stoffa. Gli altri dieci, i probabili
sottoposti del mio interlocutore, erano in assetto da combattimento:
spade ricurve a mezzaluna e baffi intimidatori. Si posizionarono
tutti in modo da non permettermi la fuga, oltre a separarmi dal loro
capo, ma senza ingaggiare alcun tipo di battaglia. Mi scrutavano, per
cercare di capire cosa potessi o volessi fare, ma anche io stavo
facendo lo stesso con loro; però mi sorprese la
passività di Fawkes
in tutto questa specie di cerimonia laica per qualche tipo di
iniziazione in qualche setta segreta… infatti
tutt’e dieci
incominciarono a venire verso di me sotto l’effetto di una
strana
frenesia di morte. Dovevo ringraziare che la notte celava il nostro
combattimento agli altri turisti e la prua era abbastanza grande da
poter contenere chiunque avesse voluto assistere a quello che sarebbe
successo.
«Non
è nulla di personale, indiano: voglio soltanto essere sicuro
di
potermi fidare di te; anche se, in tutta questa storia, saresti solo
il pedone che è stato recuperato dal re bianco»
– Da quel
momento, riprese a parlarmi in inglese, anche se non gli sarebbe
servito parlare per dare gli ordini agli altri. E non ero sicuro cosa
volesse da me, tanto che strinsi i pugni per dimostrargli che non
avrei temuto nemmeno La Morte.
Il
primo dei suoi guerrieri m’arrivò alle spalle
usando la mia ombra
come una specie di passaggio, e da quel trucchetto di magia, capii
come aveva fatto a prendermi il bicchiere da sopra il bancone; sentii
il vento rasentarmi la schiena e una lama d’argento sfiorarmi
il
collo, ma riuscii a evitare lo sgozzamento in diretta per evidente
fortuna dei miei movimenti e nel muovermi, piegai il braccio destro a
gomito e sferrai una gomitata a “montante” verso il
mio primo
avversario, che una volta preso in pieno volto, cadde a terra
sputando sangue dalla bocca. Un solo rumore, quasi metallico e sordo,
si sentì per l’urto tra il mio gomito e la sua
mascella. Guardai
fisso negli occhi del capo di questa specie di congrega di
assassini…
perché questo sembravano, nonostante dovrei riconoscergli
almeno una
preparazione eccellente e se fossi stato meno esperto e resistente,
sarei da considerare soltanto un morto che parla; allora un altro dei
suoi intervenne a sincerarsi delle condizioni del loro collega e un
terzo, mentre io ero intento a osservare la scena, cercò
d’accoltellarmi alla schiena e nel cercare
d’infilare la lama
nella carne, la lama si spezzò in due e appena lo vidi, mi
voltai e
con la nocca della mano sinistra, lo colpii sempre in pieno volto e
anche questo finì a terra… sputante sangue dalla
bocca.
«Mi
stai sorprendendo sempre di più, ragazzo. Due dei miei
uomini
spezzati da un solo pugno: o vi è un cacciatore
nato… oppure vi
sono due prede e altre otto che finiranno allo stesso modo, se i miei
calcoli sono esatti. Anche se non riesco a spiegarmi come fai anche
ad avere un corpo che non può essere trafitto: potresti
essermi
persino utile, anche se vorrei testare le tue
abilità… prendila
come una prevenzione da parte d’entrambi. Se soddisferai le
mie
aspettative, ti renderò finalmente partecipe di tutto quello
che sta
succedendo qui e perché il samurai ti ha portato proprio da
Barnes.
Ti piace l’idea?» – Il mago con cui stavo
interloquendo sembrava
complimentarsi sia con me e sia con il suo stesso ego… credo
perché
era stato così intelligente da trovarmi prima che il lato
oscuro
dell’avere dei poteri quasi divini possa
corrompermi… e i suoi
abili servitori si scagliarono verso di me semplicemente scomparendo
dalla mia vista. Erano spariti… o s’erano resi
soltanto
invisibili ai miei sensi… oppure volevano farmi scontrare
direttamente contro Fawkes; aspettai di capire, anche se risposi
semplicemente mostrando i denti di sotto avanzando leggermente le
ossa delle mandibole inferiori – un segnale usato dagli
animali per
la comunicazione del territorio – e fu lo stesso Fawkes a
scomparire, portandosi dietro di me sfruttando l’ombra
riflessa di
uno dei suoi servitori.
«Fermo
un secondo: già ho visto usare
un’abilità del genere… non oggi,
s’intende. Esattamente che c’entri con
“l’uomo che ha fregato
la morte”?» – Dissi, quasi a dentri
stretti e stringendo i
pugni. Mi tolsi anche la maglia, perché mi dava soltanto
impiccio
nei movimenti: soprattutto perché il mio avversario aveva
l’aria
d’essere uno ostico da buttare giù e lui si
fermò. Sorridente.
«Hai
posto la domanda che nessuno mi ha mai fatto: cosa c’entro io
con
“l’uomo che ha fregato la
morte”… che ironia. Sono una delle
poche persone che ti può dare una mano senza avere qualcosa
in
cambio ed entrambi vogliamo ritardare la morte delle persone, in
questo mondo di ritardati senza speranza! Dove hai visto già
usare i
miei stessi trucchi? Se te lo posso chiedere» – Mi
rispose il mio
itnerlocutore, quasi proclamatosi “il mio
salvatore” e con toni
da delirio d’onnipotenza, ma credo che mi volesse davvero
aiutare
nello stanare quel figlio di puttana che già
m’aveva portato già
via molte delle poche persone a cui tenevo e avevo intenzione di
fargliela pagare, ma cercavo soltanto di mettere insieme i pezzi di
questo fotttuto puzzle e lo stesso Fawkes sparì di nuovo, ma
senza
le solite ombre: direttamente.
Non
si vide per qualche minuto.
Solo
i corpi degli stronzi vestiti di nero erano giacenti al suolo. Mi
guardavo attorno e la situazione era che continuava a esserci
nessuno: anche gli altri erano scomparsi. I due erano morti, ma
nessuno li aveva ancora recuperati… mi sembrava strano e
chiusi gli
occhi per concentrarmi meglio e usare le vibrazioni come strumento
per percepire qualsiasi cosa attorno a me; oltre al rumore delle
onde, nient’altro: solo un rumore, quasi ancestrale, che
qualcuno
chiamava “il rumore dell’universo”. Non
troppo radicato nel mio
“povero” cervello e aspettai che Fawkes si facesse
rivedere.
Forse
avevo scoperto qualcosa e non voleva darmi le informazioni che mi
servivano per avere un quadro generale, però un tarlo me
l’aveva
messo: il cacciatore d’indiani e L’orso sono stati
portati via da
utilizzatori delle ombre… quindi da uno di loro…
o da lui stesso.
Era sicuramente collegato sia con i miei due precedenti avversari e
sia con lo stesso “uomo che ha fregato La Morte”:
questo l’ha
sia confessato lui e sia c’ero arrivato anche io…
oltre a dirmelo
anche Kaze, in via trasversa. E da aggiungere che ne avevo abbastanza
perché non avevo abbastanza informazioni su quello che avrei
dovuto
fare… oltre al dover fermare chiunque dovesse compiere un
crimine:
quindi, anche Kaze e chiunque stessero pensando che sia un vero
idiota e volermi facilitare la comprensione del mio compito?
La
risposta non si fece attendere: Fawkes tornò, ma da
solo… non
sapevo se era lì solo per voler recuperare i corpi stremati
dei due
assassini – me ne accorsi soltanto quando riuscii a
concentrarmi
davvero – e comparve dietro di me, con le braccia conserte e
con il
sorriso stampato sul volto. La situazione era sempre la stessa,
nessun cambiamento da pochi secondi a quella parte.
«Ho
chiesto in giro: è stato uno della nostra setta…
L’Ombra. Ma
siamo divisi in due gruppi e io sono il capo nel gruppo di uno dei
due: siamo quelli che proteggono il mondo da chi non può
essere
fermato e usa il suo “essere” per eseguire dei
crimini. Siamo dei
cultori della morte, per capirci. E in tutto questo, tu saresti un
altro di questi esseri che stiamo monitorando da quando hai
incontrato il samurai quattro anni fa e anche la parte legata
più
“all’uomo che ha fregato la morte” ti
sorveglia da allora.
Avranno già fatto dei test su di te, mandando qualcuno o
portando la
morte a qualcuno a cui eri legato… giusto?»
– Praticamente si
confessò e da questo suo parlare capii che era sincero e ci
credeva
veramente in chi era e in quello che faceva: l’istinto mi
diceva
che potevo fidarmi di lui e che avrebbe potuto spiegarmi quello che
sia il capitano e che sia il samurai non volevano… o che non
hanno
voluto dirmi; gli risposi che avevano ucciso i miei genitori adottivi
e che avevo visto una strana donna in abito nero che era comparsa
subito dopo la loro morte.
«Questo
modifica di molto le cose: hai incontrato quella che io chiamo
“la
dama nera”… e ne sei uscito vivo. Allora se
Parnassus ha voluto
influenzarti, ti crede una minaccia. Ha già fregato una
volta la
“dama nera” o La Morte, ma scoprendo che
c’è un altro come
lui, porterebbe il tutto a un altro livello per entrambi.
Com’è?»
– Fawkes… o Blank… m’aveva
semplicemente reso quello che
cercavo facendo soltanto la domanda giusta a chi di dovere. Mi chiedo
come lui sappia della morte, ma non avrei voluto avere
“tutte” le
risposte immediatamente, ma puntai a descrivergliela, ma omisi sia il
motivo per cui l’avevo incontrata e sia quello che successe
dopo.
Volevo cercare di scoprire pian piano cosa stava succedendo
lì, ma
fosse così tanto informato sul resto della questione,
avrebbe lui
parlato senza che avessi dovuto fargli chissà quante domande.
«Come
sempre… bellissima… e nessuno è
riuscito mai a vederla più di
una volta nella propria vita. Anche io l’ho vista e per
questo mi
sono deciso nel voler aiutare La Morte nell’equilibrare le
sorti
dell’universo. E mi chiedo: tu da che parte stai?»
– Mi sarebbe
bastato lasciato parlare, ma quello che volevo sempre più
sapere era
lui cosa c’entrasse con La Morte… non era un
semplice cultista
della morte, ma stava
dando
sempre più il sospetto che fosse invischiato in questa
storia quanto
me e non lo voleva ammettere. Respirai un secondo, ma sentivo
stranamente che avrei dovuto mangiare qualcosa… anche se non
era
necessario che mangiassi – le mie abilità mi
tenevano stranamente
in vita… o semplicemente sentivo leggermente fiacco
– e mi toccai
la pancia. Vedevo la sorpresa nel suo volto, come se fosse sempre
più
incuriosito verso un ragazzo che non aveva ancora una comprensione
sul suo potenziale.
«Sto
dalla parte di chi non mi crea problemi!» – Parlai
con voce
affaticata, ma non sapevo cosa mi stesse succedendo…
sarà stato il
non ingerire cibo da quando siamo partiti e il vivere usando gli
elementi a mio vantaggio non era stato abbastanza: capii di saperlo
fare quando Kaze lo notò in uno dei nostri allenamenti,
durante il
periodo passato sulle montagne canadesi… precisamente nella
regione
dell’Alberta, ma sostanzialmente volevo mangiare.
«Curioso…
hai subito un calo d’energia: cioè, anche tu ne
soffri la mancanza
e funzioni come tutti quanti noi e come anche Parnassus stesso. Tutte
queste scoperte mi stanno rendendo felice d’aver pagato
persino
questo viaggio, ma non sei ancora pronto per sapere io realmente chi
sia: c’è una parte di me che ti sto tenendo
volutamente nascosta
per evitarti dei traumi esistenziali. E dire che sei stato proprio tu
a farmi capire chi sono, ma è un’altra storia!»
– Disse, con atteggiamento folle e del tutto sconsiderato,
Blank…
a cui stavo incominciando a considerare che
l’identità di Guy
Fawkes come una semplice maschera e identità di facciata per
qualcosa d’ancora più oscuro: faceva finta di
usare le ombre.
Usava
il teletrasporto, lo stronzo.
Come
fece in quel preciso momento, che scomparve e mi lasciò da
solo…
solo inizialmente, perché ricomparve anche per prendere gli
altri
due corpi morti dei suoi servi guerrieri.
Mi
sorrise, beffardo della mia ignoranza… non
m’interessava
fermarlo, ma avrei dovuto fermare la volontà dei due miei
“conoscenti” di lasciarmi quasi da parte; non mi
consideravano
pronto per fare quello per cui m’avevano assoldato loro
stessi…
prima Kaze e poi anche il capitano Barnes. Anche se la cosa
più
strana che nessuno dell’equipaggio avesse avuto
l’ordine
d’intervenire per evitare che ci fosse il combattimento,
anche se
erano le undici di sera… più o meno… e
in tutto questo, la colpa
di tutto era soltanto la mia. Non ero in grado di battere nessuno di
realmente così forte: Kaze, Blank e anche lo stronzo che mi
ha fatto
cadere un’orso da un albero di almeno venti metri. Non
m’ero mai
scontrato con qualcuno di così forte da mettermi al tappeto
e non mi
sarebbe importato d’essere ancora
all’inizio… anche se con
L’orso stavo rischiando, mi è bastato impegnarmi
leggermente e ho
fatto quello che dovevo fare. Nella vita basta allenarsi e
applicarsi: ed è tutto qui, il segreto per essere persone
migliori.
Rimasi
qualche minuto a ragionare da solo, nel frattempo decisi di dirigermi
verso le cucine per via dei mormorii prodotti dalla mia pancia:anche
se avrei dovuto percorrere tutta la strada per ritornare al bar della
nave e mi sarei dovuto impegnare anche soltanto per mangiare. Mi
recai verso l’interno della nave, usando la porta per
accedervi
dalla prua e incominciai ad addentrarmici, notando che comunque non
c’era nessuno: come se tutti si fossero volatilizzati; mi
diressi,
prima di recarmi nelle cucine, dal capitano Barnes: avrei voluto
incontrarlo per dirgli che avevo scoperto in meno di venti minuti
quello che in quattro anni Kaze non ha voluto dirmi. Non ci misi
troppo ad arrivare fuori dalla stanza di Barnes, forse qualche minuto
perché il dolore era sempre più forte e
lancinante, ma non mi
sarebbe servita l’infermeria… forse soltanto un
medico bravo e
qualcosa da mangiare.
Aprii
la porta, quasi sfondandola.
Mi
vide… Barnes… sbigottito e cercò di
capire cosa mi fosse
successo, ma fece di tutto per pormi subito una poltrona per farmi
sedere in quella stanza piena di mobili e quadri alle
pareti… cosa
che feci subito e mi tolsi la mano. Quello che trovai era una specie
di disegno… che lo stesso Barnes mi disse essere una runa,
ma non
ne riconosceva la natura: sicuramente nel combattimento con Blank
sarà successo qualcosa che me l’avrà
procrurata. Era nera, sotto
lo sterno, non troppo vistosa e quasi scavata nella pelle…
ormai il
dolore stava anche svanendo. Barnes la fissò, mentre mi
chiese cosa
fosse successo e dove fossi stato.
«Ho
incontrato un tizio al bar che mi ha condotto senza respiro sulla
prua della nave e dopo di lui sono arrivati altri dieci
tizi… suoi
colleghi… e hanno cercato di combattermi o di
testarmi… o tutti e
due: avevo fame e sono tornato qui, appena lui è scomparso
con tutti
gli altri… anche se sono riuscito a farne svenire fuori due:
io non
uccido, anche se sono cultisti della morte!» –
Risposi, di scatto
e con pensieri sconclusionati, quasi di fretta e senza nessuna
pretesa di farmi capire fino in fondo: volevo rimanere sul vago,
soprattutto perché non mi riuscivo a fidare di Barnes dopo
il non
avermi detto molto di quello che sapeva… o era tutto quello
che
sapeva.
Nel
frattempo, incominciai a rilassarmi sulla poltrona ove ero seduto. Mi
davo anche un’occhiata in giro per cercare di notare se ci
fosse
qualcosa in giro che potesse servirmi, anche il mio istinto mi stava
dicendo che il mio interlocutore mi stava nascondendo
qualcosa…
anche se non sapevo cosa; cercavo con gli occhi, ma tra i molti libri
e le molte carte geografiche, non riuscivo a trovare nulla.
«Ascolta
ragazzo. Non ti ho dato, almeno io, le informazioni che ti servivano
perché ognuno di noi è stato segnato da questa
“guerra” a modo
suo e stiamo cercando d’evitare che altri possano farsi
rischiare
la pelle per causa nostra. Semplice e conciso: per questo ci servi
tu… proprio per riuscire a evitare che altri possano farsi
male e
sappiamo entrambi che riuscirai a darci una mano. Semplice e conciso»
– E si confessò, ma non troppo. Non erano troppe
le informazioni
che mi sarebbero dovute arrivare da qualcuno conosciuto neanche
quaranta minuti prima: anche se Blank me ne diede di più in
meno
tempo; tanto che prese a spiegarmi come lui aveva conosciuto
L’Ombra:
i membri della setta erano frequentatori della sua nave, soprattutto
da quando prese il titolo di capitano presso la Royal Navy
una decina d’anni prima, l’usavano come trasporto
del loro
personale…
oltre all’aver preso informazioni su di loro e quando gli
descrissi
l’identikit di Fawkes, sbiancò.
«C…come
hai conosciuto Fawkes…
si dice che sia uno dei più forti della setta…
oltre a essere
stato l’unico ad aver avuto una “filosofia diversa
dell’uso
della morte”… sarà successo qualcosa di
grave se è sceso lui in
campo: mi domando, però… come hai
fatto?» – Oltre ad arretrare
di qualche passo da me, e poggiando la mano sul tavolo,
inziò a
balbettare qualcosa.
Gli raccontai
come l’averlo
semplicemente incontrato nel bar della nave e averci fatto una strana
conversazione su quanto puzzassi di morte, ma aggiunsi che avevo
capito il messaggio a metà: non volevo dargli troppe
informazioni,
perché non mi riuscivo a fidare di lui fino in fondo. Non
sapevo il
motivo di tale sensazione… perché era strano che
non sapesse della
presenza di Fawkes sulla sua nave. Non avrebbe dovuto nascondermi una
notizia del genere, perché così rese ancora
più dificile il
potermi fidare di lui: tanto l’avrei abbandonato appena
lasciata la
nave. E seguendo questo flusso d’idee che avevo in testa, mi
recai
direttamente nella stanza da Kaze: ero furioso con lui,
perché anche
lui… calcolando le motivazioni del silenzio di
Barnes… era suo
complice nel rendermi il mio compito più difficie. Sbattei
la porta
dell’ufficio del capitano senza dare spiegazioni…
nonostante
fossi leggermente meno dolorante e l’unica cosa che mi faceva
andare avanti era la determinazione di terminare tutta questa storia
nel minor tempo possibile: tanto sapevo già cosa dovevo fare
e cosa
avevo già perso, nonostante Parnassus sapeva
cos’altro togliermi.
Arrivai da Kaze sbattendo la porta della stanza e lo svegliai:
s’era
addormentato… forse s’era affaticato anche
lui… e nello
svegliarsi, mi guardò come se stesse ancora dormendo e
cercò di
svegliarsi molto velocemente, chiedendomi cosa fosse successo.
«Conosco
tutta la storia: o
almeno credo d’aver capito cosa tutti volevate dirmi. Ho
incontrato
una persona che semplicemente m’ha fatto capire cosa dovessi
fare:
bisogna battere Parnassus… questo è il nome
dell’uomo che ha
fregato La Morte e chiunque volesse combatterlo. Quello che ci ha
tolto tutto quello che avevamo e il motivo per cui io e te ci siamo
trovati a sputare sangue, ma quello che conta di più e il
trovarci
pronti a fare tutto tutto il necessario» – Mentre
stavo parlando,
Kaze stava cercando di svegliarsi, mentre ero arrabbiato e frustrato
perché mi sentivo immobile e impotente nel non poter far
niente. Non
fece altro… Kaze, nell’invitarmi a sedere vicino a
lui e gli
spigai che non mi fidavo della volontà di non intervenire
più
incisivamente del capitano del capitano. Lui mi disse che
c’era
passato anche lui, avendo molti dubbi su quello che avrebbe dovuto
fare ed era sempre stato un guerriero solitario, nonostante ha visto
i suoi compagni passare dalla parte del nemico con così
tanta
facilità… fino a quando non incontrò
me e il fatto che non avessi
più nessuno in cui poter credere… lui
cercò di diventare un
modello d’ispirazione per me.
Io gli
credevo… tutt’ora lo
ringrazio per avermi ispirato a diventare chi sono in questo momento.
Ritornando a
noi, iniziai a
percepire di nuovo quel fuoco dentro di me che non sapevo spiegarmi,
ma quella volta, fece reazione con la runa che avevo sulla pancia e
come per magia… pensai che lo fosse realmenteapparve Blank
in tutto
il suo “oscuro splendore”. Sorrise e capii che era
una runa per
rivelare la mia presenza… aiutato anche dall’ovvio
avvenimento.
La sorpresa
risultò stampata sul
volto di Kaze.
Ci prese
entrambi e ci portò
sulla prua della nave. Ci guardò e ci chiese per quale
motivo
l’avessimo chiamato… e poi rivolse il suo sguardo
verso la mia
pancia, pose una mano sul capo e si massaggiò il mento.
«Capisco,
il piccolo scherzetto che ti ho fatto… l’ho fatto
perché non
volevo che ti ritrovassi senza una guida che ti dia le giuste
informazioni. Una persona… di mia conoscenza, mi
disse… nella mia
giovinezza: non importa ciò chi sei nella tua vita, ma
l’importante
è come usi il potere che hai nelle vene. E io
completerei… e
secondo me, l’avrà fatto anche chi mi ha elargito
questa “verità”…
con una piccola “considerazione personale”: bisogna
avere, nei
momenti di completo smarrimento, chi ti possa gettare una corda per
poter uscire dal pozzo della depressione… e ovviamente, chi
ti
tende la corda, di solito, è qualcuno che dovrebbe esserci
passato.
Vedi, ragazzo… non ci vuole niente per fare qualcosa di
buono…
anche una sola parola è importante a questo mondo. Dove
eravate
diretti voi due?» – Parlava sempre troppo. Nel suo
interloquire,
era sempre dannatamente prolisso… che poi voleva dire la
stessa
cosa. Fece qualche passo avanti e poi ritornò, subito dopo,
nella
posizione di prima. Guardò di nuovo Kaze e poi di
nuovo… un’altra
volta. Fece un cenno e da solo… nel suo
divagare, ci suggerì soltanto di chiudere gli occhi e di
trattenere
il respiro: aveva la soluzione.
«Com’è
possibile? Siamo arrivati a casa mia!»
– Apostrofò
Kaze, aprendo gli occhi e poi lo feci anche io. Ci
ritrovammo realmente dentro l’appartamento di Kaze: in
Giappone.
Non era troppo grande e nella stanza ove eravamo comparsi
tutt’e
tre, v’era un materasso poggiato a terra e tavolo basso usato
sia
come comodino e sia come tavolo da pranzo: lo notai perché
era
posizionato giusto una decina di centimetri dal materasso. Per il
resto era alquanto spoglia, citando anche una libreria con tutti i
saggi riguardanti le arti marziali e la filosofia.
Nessuno dei
tre si scompose,
anche se Blank tolse subito il disturbo: aveva altro da fare, disse.
Kaze si
recò nella cucina e vide
che era rimasto soltanto il riso come cibo commestibile. Il suo volto
era visibilmente spento. Toccava gli arredamenti come se non credesse
d’esseri lì, come se per lui fosse tutto
un’illusione. Si
grattava la testa con l’altra mano, per cercare di capire
come
funzionasse il tutto: evidentemente non aveva le conoscenze
necessarie per comprenderlo, ma decise che quello non sarebbe dovuto
essere il momento per indugiare e di passare all’azione.
Infatti,
dopo aver preso il tutto per cucinare, tra padelle e il resto, fece
tutto quello che avrebbe dovuto fare per mangiare qualcosa dopo i
recenti avvenimenti e procedere per i prossimi.
«Mi
chiedevo: come l’hai
conosciuto quello lì?» – Mi chiese Kaze,
mentre già stavamo
mangiando vicino al materasso e dopo essersi assicurato che il tutto
fosse apposto. Era perplesso: le ciglia gli si tesero leggermente
vicino al naso e il resto del volto quasi si spense. Era la prima
volta che lo vidi quasi depresso perché lui era sempre
quello che…
tra i due… aveva sempre tutte le risposte, ma non era quella
la
l’occasione; ci mettemmo poco per mangiare, nonostante avesse
cucinato più di due chili di riso in bianco: era abbastanza
ricco
per poterseli permettere, da quello che potei ipotizzare quella
volta. Nel mentre, gli raccontai come feci a conoscere Blank, poche
ore prima – una o due, proprio per essere pignoli –
e non fece
una grinza. Il dubbio rimase sempre sul suo volto, anche se non
credevo nel suo… come il mio… riuscire a
comprendere qualcosa di
cui non ha minimamente la condizione di causa e gli chiesi per quale
motivo fossimo venuti fino a qui: quale fosse il senso di tutto
questo viaggio.
«Per
bloccare il “Quartetto
dell’Imperatore”: i miei vecchi compagni di
commilitone. Sono
passati dalla parte del nemico quando “l’uomo che
ha fregato la
morte” si è rivelato qui, in Giappone. Non
s’aveva né di quello
che sapesse fare e né chi fosse: dopo l’assalto
che fece al
funerale, di cui già ti avevo accennato, dietro al cadavere
si
eresse un uomo. Era mostruoso, tutta la pelle era bruciata e i denti
erano aguzzi… aveva un aspetto demoniaco, anche se posso
giurare
che era un uomo. I suoi occhi erano rossi, forse dal troppo sangue
circolante nel corpo… di cui l’unica cosa
probabilmente umana
erano i capelli: erano poche le cose che ricordo di quel mostro.
Comunque, i mei compagni di squadra passarono tutti dalla sua parte,
soprattutto perché quel giorno scoprirono che portare la
morte ai
loro nemici non aveva più senso se ci fosse stato qualcuno
che
avrebbe reso invano ogni loro sforzo. Infatti, riuscii a portare
l’imperatore al sicuro in una zona che renderebbe vano
qualsiasi
tentativo di recupero da parte di chiunque. Ti conviene indagare, io
sono riconoscibile qui» – Poche parole per dirmi
che avrei dovuto
agire. Anche se chiesi se ci fosse qualcosa d’abbastanza
consono
per potermi camuffare, ma l’unica cosa che mi
passò Kaze era un
kimono che m’andava un po’ più stretto
del normale. E mi decisi
a “partire”.
Seguii il suo
consiglio e aprii
la finestra della cucina, dicendogli di chiuderla appena fossi uscito
e mi buttai giù da essa. Scoprii che erano una decina di
piani,
dalla finestra della cucina di Kaze, ma il cervello mi diceva
così e
l’assecondai; ebbi, nel frattempo, modo
d’osservarmi attorno e
vidi i molti palazzi che s’alzavano verso il cielo, mentre mi
stavo
schiantando a terra perché stavo cercando di trovare un
po’ di
libertà.
Atterrai…
non mi vide nessuno,
anche se lasciai un piccolo cratere. Dopo tutto, ero caduto da una
ventina di metri… più o meno… anche se
rimasi illeso. Decisi di
perlustrare la zona, per cercare le informazioni su dove avrei dovuto
trovare questi fantomatici alleati di Parnassus. Non sapevo dove
cercare, ma pensai di cercare qualche posto ove fossero segnalati i
posti vicino a me… meno male che Kaze m’aveva
insegnato il
giapponese, negli anni in Canada… per cui riuscii a
destreggiarmi
anche con la difficoltà linguistica e iniziai a vagare lungo
il
marciapiede. Mi diressi verso sud, in quello che dopo compresi essere
il centro di Tokyo, nel mentre incominciai a fischiettare senza un
valido motivo… forse era soltanto il mio cervello che
cercava di
ragionare senza problemi… e mi guardai attorno; la
città era in un
ottimo stato, nel mentre le poche carovane e macchine passanti a
quell’ora davano un piccolo contorno rustico a tutta la
situazione.
Avendo percorso già qualche chilometro, decisi di
focalizzare la
mia attenzione sui posti dove era più facile conversare:
quindi bar
e osterie. Cercai con gli occhi, ma non trovai molte informazioni,
anche se mi meravigliai della poca informazione per posti che
dovrebbero cercare d’attirarle… le persone e gli
unici negozi
aperti erano proprio i bar e i chioschi all’aperto per il
cibo di
strada. Avevo già mangiato e comunque non me lo sarei potuto
permettere, mentre però m’avvicinai a uno di
queste specie di
tende ove ti danno il cibo direttamente in strada per chiedere dove
potessi trovare il “Quartetto
dell’Imperatore”… in un
giapponese abbastanza fluente. Il venditore, che fortunatamente per
me, era senza clienti in quel preciso momento, sbigottì a
sentire
quel nome da qualcuno che non sembrava giapponese nemmeno a pagarlo
oro e semplicemente mi disse che non era disponibile un piatto con un
nome del genere. Il “Quartetto
dell’Imperatore”… un piatto:
che diavolo aveva capito. Gli spiegai cosa stessi cercando di preciso
e quando finii di parlare, fece qualche passo indietro…
mentre
prese il coltello che aveva lì sul banco da lavoro e
cercò di
colpirmici, ma non sapendo che non m’avrebbe fatto niente, lo
fece
lo stesso e appena il coltello sembrò toccare la mia pelle,
mi
ritrovai sul tetto del palazzo ove vicino v’era il
venditore… se
non mi ricordo male, era di gamberetti fritti.
«Che
cosa avevi intenzione di
fare… idiota?» – Un uomo vestito uguale
a Blank m’aveva tratto
in salvo da un bordello che non avrei avuto modo di riparare,
soprattutto perché non avevo tutto il necessario per
condurre una
ricerca di così alto livello. Era visibilmente preoccupato,
soprattutto perché anche io sapevo chi era il suo capo e
cosa
“teoricamente” fosse in grado di fare…
anche se m’invitò a
sporgere la testa e vidi che c’erano degli uomini vestiti di
nero
che stavano perlustrando l’ambiente proprio dove stavo io
pochi
minuti prima: evidentemente altre persone erano sulle mie tracce e io
non ne sapevo niente. O m’ero illuso del fatto che
m’avrebbero
lasciato fare il tutto senza interruzioni.
«Cercare
informazioni, ovvio:
non è colpa mia se sono stato lasciato qui senza e me le
devo andare
a cercare senza sapere nemmeno dove dovrei andare?»
– Risposi a
tono, avendo anche compreso il rischio che avrei corso nel farmi
trovare: ero formalmente un ricercato da chiunque avessi chiesto
anche una sola informazione. Non potevo fidarmi, fondamentalmente, di
nessuno. E tutti mi stavano già pedinando, come appena visto.
«Se
Fawkes vi ha mandato qui, è
perché sapeva gli avete suggerito voi sia il luogo e sia che
avreste
trovato ogni tipo di risposte… soprattutto quelle che vi
sarebbero
servite per il completamento della vostra missione, ma capisco che
essendoti fatto beccare in cinque minuti: hai il potenziale, ma non
lo sfrutti a dovere. Dammi la mano che ci penso io»
– Il tizio era
sicuramente dalla parte di Fawkes, anche se non avevo molti elementi
per definirlo, ma non era nemmeno grosso… il tizio. Non era
minaccioso, forse misterioso, ma qualcosa diceva di fidarmi di
lui…
tanto valeva ascoltarlo senza fare troppe domande.
Mi fidai di
lui e mi ci
avvicinai… così lui mi prese la mano e ci
spostammo usando l’ombra
della canna fumaria posta a quache decina di centimetri da noi.
Facemmo tappa
in uno dei
moltissimi vicoli di Tokyo, dove era difficilissimo sia entrare e sia
uscire con la dovuta sicurezza di rimanere vivi e ricordo che per me
era sempre era sempre una paura di non sapere cosa mi sarebbe
successo l’attimo dopo… mi lasciò di
fronte a una porta. Era in
fondo a questo vicolo, nella parte contraria all’ingresso
nella
strada principale e tra i tanti scatoloni, secchi dei rifiuti e
qualche barbone, v’era questa porta in legno
scuro… forse
ciliegio, non ricordo, ma ero sicuro essere imponente. Sui tre metri,
o giù di lì. Notai che un uomo uscì da
quella porta e si portò
quasi a sbarrarmi il mio probabile accesso, ma non sembrava nemmeno
darmi corda. Preso da una strana curiosità, mi ci avvicinai
e lo
fissai. Era grosso, più che altro grasso. Pelle
pulita… almeno in
apparenza e occhi a mandorla, come Kaze. Evidendentemente, era del
luogo e la canotta bianca gli era del tutto aderente. Lo guardai e
lui non fece una grinza, fino a che non gli chiesi cosa ci fosse
lì
dentro e lui mi rispose, di getto, che non mi doveva
riguardare… ci
rimasi leggermente male perché pensavo che fosse stato
più
semplice, ma forse il mio giapponese non era così chiaro da
essere
di facile comprensione a tutti.
«Forse
non mi sono spiegato…
non sono del luogo e ti sto chiedendo soltanto
un’informazione da
turista: cosa c’è lì dentro?»
– Chiesi, cercando sempre di
farmi comprendere, ma nel concentrarmi notai che all’interno
del
piano terra del palazzo v’erano una trentina di persone al
massimo
e dalla velocità del battito cardiaco, un cinque…
o sei…
l’avevano accellerato… per cui il tizio di fronte
a me era solo
un deterrente per chi volesse entrare a controllare. Ormai
l’avevo
capito e tutto il mio interesse s’era vincolato a questo
controllo:
se poi m’avrebbe dato una mano per la mia “missione
principale”…
tanto meglio.
«Io
ti ho capito benissimo, ma
qui non si può entrare!» –
Parlò alzando la voce, ma non mi
faceva paura, anche se era alto due metri e grosso di stazza, sapevo
d’essere più forte di lui e l’ascoltai
solo per capire se aveva
capito; tutto sarebbe stato fantastico, per lui, se
l’appartenente
di uno dei cuori che aveva il battito accellerato, non incominciasse
a parlare frettolosamente e con voce agitata: la voce era femminile e
pregava – evidentemente – il suo interlocutore di
non farle del
male e che gli avrebbe pagato qualunque somma, basta che
l’avesse
risparmiata. Nessuna risposta nei successivi due minuti nonostante
stessi focalizzando quasi tutta la mia attenzione nel capirci di
più:
lì dentro stava succedendo qualcosa e io sarei stato
l’unico che
avrebbe dovuto avere la giusta motivazione per risolverla. Non la
conoscevo, ma un istinto primordiale di protezione mi sopraggiunse
come un pugno nello stomaco e l’unica cosa che avrei dovuto
fare
era entrare e rimediare a uno scherzo del destino… verso di
me.
Nel frattempo,
il cultista se ne
era già andato, ma appena feci per avvicinarmi alla porta,
il mezzo
energumeno m’afferrò per la spalla con la mano
sinistra e cercò
poi di stringere la presa. Lo guardai senza fare una piega…
nemmeno
una smorfia per cercare di dargli un minimo di
soddisfazione… e gli
sferrai un pugno all’altezza della giuntura tra
l’omero e la
spalla sinistra, per volergli spezzare il braccio in due parti:
infatti, mi rimase il braccio appeso alla spalla e lui che mi
guardava con occhi sgranati. Mi tolsi il suo braccio da dosso,
lasciando il suo proprietario nella disperazione, mentre anche il
sangue incominciò a uscirgli dalla cavità e gli
dissi d’andare in
ospedale; dei forti rumori incominciarono a proliferare da appena il
“bestione” qui fuori emise l’urlo di
dolore, forse di gente che
s’era accorta che qualcosa lì fuori non stava
andando come
programmato, ma ero e sarei stato il loro problema da
risolvere… se
ne fossero stati capaci.
Entrai,
sfondando il portone di
ciliegio con un pestone alla posizione dello spioncino per la chiave
e il portone s’andò a schiantare sulla parete al
lato opposto. Mi
sbagliai soltanto per il numero, perché erano superiore alla
ventina… di persone all’interno… e
quasi tutti si voltarono,
nel vedere la loro porta schiantarsi al muro, senza troppe
difficoltà, verso di me e non avevo ancora capito cosa
stesse
succedendo lì dentro, fino a che non vidi tre ragazze con i
vestiti
strappati e un signore che aveva le mani sulla schiena di una delle
tre. Il tutto era di un piano del palazzo, come se la base di questi
“novelli” criminali fosse quasi un ripiego o fosse
ancora in
allestimento; non mi feci problemi nel mostrarmi per quello che ero,
mentre loro incominciarono a venirmi incontro con qualunque cosa
avessero per le mani: coltelli, spade, mitra e anche semplicemente a
mani nude. M’accerchiarono, mentre le tre ragazze riuscirono
a
scappare perché anche il signore che cercava la loro
compagnia venne
verso di me mormorando qualcosa, ma rimasi schifato da quello che
trovai lì dentro. Armi, droga – lo scoprii dopo
quello che era –
e qualsiasi altra cosa potessero sia rendere un crimine e sia rendermi
ancora più schifosa quella notte che non sembrava non
finire mai. Intervenne il primo dei trenta presenti lì
dentro e che
m’aveva già accerchiato nonostante si tenesse a
distanza per
ragioni che non ero riuscito a comprendere, che con un coltello
cercò
di puntarmi all’altezza dello stomaco, ma una spinta da parte
mia
lo fece volare verso altri due che erano lì per supportarlo:
meno
tre. La mia non era violenza, ma non ci tenevo nemmeno a mettermi in
mostra: la mia missione era portare un po’ di giustizia nel
mondo,
ma anche nei momenti peggiori non mi passò mai nemmeno
l’idea di
voler uccidere. Come gli altri sgherri che avevo attorno, cui chiesi
di “venirmi addosso” nello stesso momento
– per fare prima –
e stranamente pensarono che il numero fosse una statistica rilevante
per farmi fuori, ma mentre erano già su di me e non riuscivo
più
nemmeno a percepire la luce perché era nascosta dalle ombre
dei loro
corpi, mi misi a riflettere; le loro armi nemmeno mi scalfivano e solo
la pressione m’indicava dove stavano cercando
d’inserire le
lame delle loro armi e dove stavano andando a finire i proiettili:
chiusi soltanto gli occhi. La solita fiamma s’accese dentro
di me,
ma quella volta vidi e compresi quanto l’uomo poteva essere
cattivo
quando sapeva d’essere era in una posizione di comando
– o “con
la mano dalla parte del manico”… del coltello
– riscaldando la
mia pelle e nonostante tutti i presenti tentavano di tenermi fermo
per picchiarmi, incominciai a sentire attorno a me sia le loro urla
di dolore e sia l’odore della carne del loro corpo bruciarsi;
non
volevo farlo: il volerli punire per qualcosa di cui fossero colpevoli
era la mia unca intenzione, soprattutto perché il vedere
qualcuno
approfittarsi di qualcuno più debole solo per la goduria di
poterlo
fare – senza alcuna distinzione – mi
rese… per il tempo che
bastò per farli soffrire e rendersi conto delle loro
colpe…
alquanto risoluto e privio di principii morali.
Pochi secondi
e vidi una ventina
di uomini, nudi e aventi escoriazioni da bruciatura di terzo grado su
tutto il corpo, crollare a terra ai piedi e contorcersi dal
dolore…
e altri dieci che lentamente cercavano d’allontanarsi da me,
mentre
uno era in piedi e mi fissava: un vecchio, sul metro e
sessanta…
anche lui aveva indosso un t-shirt senza maniche e un pantalone
–
di quelli usati sotto i kimoni – nero; mi fissava, ma notai
che non
aveva acuna escoriazione. Non era il tizio che stava palpando una
delle tre ragazzine, ma era qualcuno che non avevo mai visto fino ad
allora e i tizi rimasti in piedi si diressero tutti verso di lui, per
mettercisi dietro: potevo saggiare la loro paura, del tutto
motivata…
ma non ero io il mostro, in quel momento e lui sembrava averlo
capito.
«E
tu chi sei? Hai steso venti
dei miei uomini senza battere ciglio… e sei del tutto
illeso? Chi
ti ha mandato?» – Mi disse il vecchio,
avvicinandosi a me e non
temendomi, come invece facevano gli altri, arrivando quasi a
toccarmi. Trasmetteva quiete, stranamente. Avrei voluto spiegargli il
vero motivo per cui ero lì, ma qualcosa mi frenò:
riflessi soltanto
su quello che stava succedendo. Ero in una base di criminali e
qualcuno mi stava facendo delle domande, in quel momento e nonostante
la sua pacatezza, non mi sarei dovuto fidare.
«Non
mi ha mandato nessuno,
anche se sto bruciando vivo. Ho sentito una delle ragazzine che uno
dei tuoi ha rapito e sono entrato per liberarle: anche se cerco il
“Quartetto dell’Imperatore” e questa
volta sono più preparato
dell’ultima volta. Provate a prendermi!»
– Non mi stavo fidando
del tizio nonostante mi stava rilassare il cervello con qualche
strano trucchetto mentale, ma lo afferrai per il collo nel mentre
stavo continuando a bruciare e il mio corpo era sempre duro quanto
l’acciaio, tanto che fece fallire ogni tentativo di infilarmi
qualcosa nel corpo. L’avevo tra le mie mani, nel mentre mi
resi
conto di poterlo uccidere e chiusi di nuovo gli occhi, per cercare di
capire chi o cosa sarebbe venuto per impedirmi di potermi informare
meglio e per evitare chissà cosa, calcolai che il palazzo
sarebbe
potuto misurare sulla trentina di metri e decisi di portarmelo dove
avrei depistato chiunque mi cercasse. Flessi le gambe e feci
pressione sulle ginocchia fino a far arrivare il corpo alla massima
compressione, per poi schizzare in alto verso il soffitto del
palazzo, sfondando tutti i soffitti con la testa: tutto il poco
dolore che sentivo, era tutto meritato perché sentivo sempre
in
errore in ogni cosa che m’accingevo a fare… quella
sarebbe stata
la prima che avrei cercato di fare bene.
Riuscii ad
arrivare velocemente
sul soffitto del palazzo, ove non m’interessai nemmeno a
quello che
c’era negli altri piani e trattenni ancora il tizio per il
collo…
senza volerglielo spezzare… perché volevo che mi
dicesse quello
che sapeva… dopo
che
atterrai a pochi metri dal buco conducente al piano terra.
«Adesso
capisco: sei uno di quei
mostri, come lo sono anche io, ma molto più forte. Sei il
primo a
cui le mie parole non hanno effetto e ciò dovrebbe farti
onore; con
questo, voglio dirti che voglio aiutarti: vai al bar vicino al
palazzo imperiale, ma dovresti uccidermi perché io non avrei
dovuto
darti quest’informazione!» – Mi trovai
stranamente interdetto
sul cosa fare, ma solo in quel preciso momento, tra la foga del
combattimento e il blando tentativo d’avere delle
informazioni
senza che qualcuno si faccia male, non m’accorsi che
s’era
attivata la runa che Blank mi fece applicare sulla pancia e comparve
lo stesso Blank. Dietro il mio interlocutore, s’eresse
l’evanescente assassino, che aveva usato la sua ombra per
arrivare
direttamente da me. Non capivo tante cose, ma sapevo che non sarebbe
potuto rimanere in carcere, perché in qualche modo sarebbe
uscito da
lì e lui era come me: nel senso che non potevamo essere
incatenati
senza che non fosse la morte a fermarci; Blank mi diede soltanto uno
sguardo, ma da quello sguardo capii che non spettava a me porre fine
alla sua “esistenza” e che non mi sarei dovuto far
carico anche
della morte del capo dei criminali che avevo appena fermato.
«Ehi,
aspetta. Ci penso io a
lui: lo porterò in un luogo dove nessuno può
uscire. È un mio
problema e non è giusto che debba rovinarti per me. Io ti
rendo la
vita più facile e tu la rendi a me: quod sum eris. Vuol dire
“sono
ciò che sarai”, ma lo capirai a tempo debito. Lo
prendo io in
custodia, così da permettere a entrambi di fare quello che
sappiamo
fare meglio: ho già provveduto a dare l’ordine ai
miei sottoposti
di ripulire la base degli Yakuza… uno dei gruppi criminali
più
grossi dell’intero Stato… di cui hai ridotto
leggermente il
numero solamente stando fermo. Comunque qui ci penso io, vai
tranquillo!» – Blank… qualche secondo
dopo aver portato lo
sguardo verso di me, ebbe uno dei suoi flussi di pensiero ad alta
voce e la poca sorpresa nel sapere che qualcosa di giusto
l’avevo
fatta mi fece soltanto fare un cenno e lasciare il collo del tizio
della Yakuza, che ormai era soltanto di contorno al nostro dialogo,
mentre decisi di spostarlo “delicatamente” verso il
mio
interlocutore e di andarmene.
Corsi veloce,
tra il soffitto e
l’altro dei palazzi, per cercare di ritornare
all’appartamento di
Kaze, ma vagai per circa un’oretta: nel mentre la luna era
ancora
alta e non avevo più idea nemmeno di che ora fosse, anche i
pochi
schiamazzi degli ubriachi s’erano affievoliti e si stava
incominciando a definire uno strano e inquietante silenzio. Mi
guardai attorno, ma non vidi nessuno e neanche nel percepire con
tutti i sensi, nessun segnale: se mai ci fosse stata una presenza,
s’era resa del tutto impercettibile… come tutti i
cultisti della
morte che pare mi stiano pedinando, ma che non riuscivo mai a
percepire. Nel frattempo, vidi che anche Blank e il tizio che gli
avevo dato in consegna se ne erano andati chissà dove,
mentre io
rimasi lì per capire chi mi stesse seguendo. Continuai a
correre,
sfidando i miei probabili inseguitori nel raggiungermi e feci qualche
chilometro prima di percepire uno spostamento d’aria
provenire
verso di me. Mi spostai in avanti, rotolando e rimettendomi in piedi
in pochi secondi. Ero sul tetto di uno dei tanti palazzi della
città,
mentre percepii una strana aura, pacata e letale allo stesso tempo,
accrescersi in lontananza, ma nella mia stessa linea d’aria:
il
battito cardiaco intonante un assolo di tamburi. Capii che qualcuno
m’aveva raggunto e aveva una spada… dal suo
successivo rumore
prodotto per rinfoderarsi nel fodero.
«Ho
sentito che mi cercavi,
strano straniero. Io non so chi tu sia, ma se vai in giro a dire che
mi stai cercando, qualcuno ti ha detto chi io sia!»
– Disse lo
sconosciuto – fino a quel momento – preso da una
voglia di
combattere, tanto che con un balzo mi si presentò davanti.
«Se
fossi più chiaro, mi
potresti schiarire anche le idee: sempre che tu sappia chi mi ha
messo sulle tue tracce!» – Gli risposi senza fare
troppi problemi
e strinsi i pugni: mi preparai a combattere.
«Non
lo so, ma non mi sembri
nemmeno del posto. Mi chiedo come tu possa fare soltanto a sapere a
chi sono collegato oppure potresti essere solo un pazzo che
s’è
messo in testa di fare qualcosa fuori da ogni ragione. Io faccio
parte dei buoni, mentre tu chi saresti?» –
Cercò di
destabilizzarmi sia per il semplice gusto di farmi desistere e sia
per evitarsi la probabile rissa. Nel mentre, si diresse verso di me
solamente con una rincorsa dal centro del palazzo alla destra di
quello ove ero io e un balzo che lo fece piombare, leggermente e
leggiadramente, a circa dieci centimentri… e
davanti… a me.
Era di fronte
a me, il secondo
samurai – il primo era Kaze – perché non
conoscevo ancora il suo
nome. Era magro, anche lui con il fisico definito: si vedeva che era
un qualcuno che ha sul proprio corpo il sudore degli allenamenti e
della ricerca della perfezione. Capivo il perché fosse un
allievo di
Kaze e che fosse determinato a sconfiggermi. Tirò un sospiro
di
sollievo e poi estraè la spada dal fodero, puntandomela in
direzione
del collo.
«A
pensarci: come fai a parlare
giapponese e non sembrarlo nemmeno a pagarti a peso
d’oro?» – E
lo spadaccino arrivò a farsi quasi la domanda dal miliardo
di yen:
ancora non c’era arrivato che io ero lì per
sconfiggerli.
«Mi
ha mandato qui La Morte, ma
non credo che tu possa saperlo… “guardiano
dell’Imperatore”.
O mi sbaglio?» – Capii il suo gioco: il tono era
abbastanza
nervoso e smnuente, ma non ci casca e feci l’unica cosa che
potessi
fare in quei casi… rispondere a muso duro e ancora
più
strafottente, proprio per dimostrargli che non lo temevo affatto. Ero
del tutto sincero nel dire che ero stato mandato dalla morte stessa
per punirlo dei suoi “non so quali” crimini, ma il
fatto che
seguissero Parnassus non mi piaceva affatto.
«Se
ti ha mandato la morte da
me, ti ci rimanderò senza mezzi termini!»
– Si mise in posizione
e si diresse verso di me con uno scatto prodigioso. I suoi lunghi
capelli scarlatti erano l’unica cosa che erano del tutto
visibili e
mantenendo la spada con la mano destra, mollò un fendente
all’aria
davanti a se e nemmeno vidi la spada che mi toccò, ma sentii
il mio
braccio sinistro bruciare leggermente e vidi che un taglio era
comparso all’attaccatura tra la spalla e il braccio e il
sangue
uscirmi da lì.
«Hai
visto? La mia abilità di
manipolatore d’energia mistica mi permette di tagliare
qualsiasi
cosa, anche se avrebbe dovuto tagliartelo il braccio… e non
procurarti un semplice taglio. Chi saresti in
realtà?» – Era
sempre lui a parlare, tanto sembrava anche lui avere la parlantina
veloce e nel buio della notte era il solo a farsi sentire. Si
voltò
ancora verso di me e fece un altro taglio, ma quella volta riuscii a
evitarlo perché riuscii a percepire la direzione della spada
e
scattai anche io verso di lui.
Vidi i suoi
occhi sgranarsi e il
resto del volto contrarsi, quindi compresi che aveva capito che avevo
evitato il suo fendente. La spalla si stava rigenenerando, tra molti
pruriti, anche se credevo d’avere un corpo abbastanza
resistente,
ma si vedeva che il tipo d’energia era vagamente
più forte di
quanto immaginassi. Scattai senza troppi problemi, recandomi verso il
suo fianco sinistro e allungai il mio braccio sinistro per
afferrargli la spada e stringergliela.
«Che
diavolo… non riesco a
muovere la spada! Lasciala, ti ho detto!» –
S’accorse che
qualcosa non andava nel verso giusto, perché con quella
presa
vagamente non direzionata verso di lui, afferrai la spada e cercai di
dimostrargli che ero molto più forte di lui e
così fosse… se non
v’avesse sferrato un pugno avvolto d’energia
mistica sotto lo
sterno e m’avesse fatto sputare un po’ di sangue.
Un sospiro
affannato, feci. Un
altro a seguire e l’ultimo a finire. M’alzai da
quel mezzo
stordimento e mi poggiai la mano sinistra sul punto dolorante,
mostrando anche a lui che mi sarei potuto curare
all’infinito…
senza che lui avrebbe potuto farci niente. A quel punto, si
fermò e
sbalordito mi chiese chi fossi… perché non aveva
mai visto
un’abilità del genere e gli risposi con queste
parole esatte: io
sono il figlio della morte. E l’intero “Quartetto
dell’Imperatore” è colpevole di reati
gravi contro l’umanità.
Arretrò
di qualche passo, il
samurai energetico. Forse l’avevo smascherato o
più semplicemente
era sorpreso della risposta fornitagli: sicuramente non ci credeva,
alle mie parole. Nemmeno io credevo d’aver avuto il fegato di
dire
certe cose con così tanta schiettezza e però sto
dimenticando di
dire che non lasciai la spada: nel sputare sangue, riuscii a non
lasciare la presa e a continuare a fissarlo per alimentare la sua
frustazione nei miei confronti.
«Perché
non muori, bastardo!»
– La disperazione era pronta per risaltare sul suo volto,
mentre
non ero incline nemmeno a voler cedere di un passo al mio avversario.
Non volevo farlo e non l’avrei fatto per nessun motivo al
mondo:
nel frattempo, stavo ancora mantenendo la sua spada per la lama e lui
incominciò a scattare, dopo avermi inveito contro senza
sortire
alcun cffetto. Me lo chiedevo anche io perché non potevo
morire, ma
avere come madre La Morte era probabilmente il motivo più
gettonato,
tra le molte possibilità e nello scagliarsi contro di me, io
feci
l’unica cosa che mi sarebbe riuscita meglio.
«Perché
non posso, ma tu
finirai tra poco di mietere vittime innocenti!» –
Dai discorsi di
Kaze, mi sembrava troppo strano che quello che era a tutti gli
effetti un sensei si fosse allontanato dalla sua squadra per ragioni
di “comportamenti etici e morali”: quindi prenunsi
che s’erano
resi colpevoli di qualche reato grave e andai avanti nel sentenziare.
Nel frattempo, lui stava cercando di calmarsi, nel mentre percorreva
i pochi passi che gli mancavano da me, ma strinsi la mano e ne
spezzai la lama in due soli pezzi, facendolo fermare
all’istante.
La disperazione era uscita finalmente sul suo volto e
farfugliò
qualcosa d’incomprensibile, ma quello che capii fu che non
avrebbe
voluto la rottura della spada e che per lui era importante.
«Perché
l’hai fatto? Era la
spada del mio maestro e tu l’hai rotta: ora la pagherai cara,
fosse
l’ultima cosa che faccio… bastardo!»
– Gli volsi le spalle,
perché non ritenevo più giusto combattere
perché l’avevo
spezzato. Non avevo fatto i calcoli con l’onore dei samurai:
ero
ormai a una ventina di passi da lui, per dirigermi verso casa di Kaze
che era dalla parte opposta a dove stavo andando… per non
essere
seguito decisi d’evitare di seguire lo stesso percorso:
fortuna
volle che il mio avversario non sapesse di tutte le mie
abilità e mi
corse dietro. Mi fermai, appena seppi che mi stava letteralmente
rincorrendo e allargai completamente le braccia… le tesi dal
loro
lato opposto… le roteai, fino a far confluire i pugni vicino
al
petto: pugno destro vicino al cuore e il sinistro vicino alla bocca
dello stomaco… aspettai che fosse troppo vicino per non
poter
evitare il mio colpo… a un solo passo da lui, mi voltai e
colpii.
Una solo sospiro, accompagnato dal sangue sputato sul mio petto. I
suoi occhi non dicevano niente che non fosse “come hai
fatto?” e
ormai la disperazione era diventata sua cliente abituale. Gli lasciai
anche un’ustione di terzo grado sul petto, proprio per
evitare che
si potesse dimenticare della mia lezione. Poteva avere la mia
età,
se non anche più piccolo di qualche anno, ma decisi comunque
di
rispondergli.
«Questo
colpo me l’ha
insegnato “La Tigre del Vento”. Lo dovresti
conoscere anche tu, o
sbaglio? O l’hai dimenticato in così pochi anni di
lontananza? Mai
attaccare il tuo avversario se non hai modo di conoscere i suoi punti
deboli e il tuo era la tua spada. Era anche il tuo sensei e ha
percorso molti, se non migliaia di chilometri per sfuggire alle
truppe di Parnassus e mi ha trovato quasi per caso e mi ha raccontato
di voi: la mia missione è stata soltanto quella di
fermarvi…
qualsiasi cosa avreste in mente!» – Era
già disperato, gli occhi
sgranati e credo che avesse sviluppato una specie di trauma nei miei
confronti. Non credeva ai suoi occhi, mentre la ferita al braccio
s’era rigenerata e l’altro taglio era sulla strada
giusta per
farlo, ma la sua espressione era stata più esplicativa e
steso per
terra, dalla caduta dopo aver subito il mio colpo, si
posizionò con
le ginocchia a terra e mi volse lo sguardo. Era pieno di rimorso e
quasi si mise a piangere, ma riuscì a contenersi e a
mantenere il
“carattere” del nome che portava, però
quello che provava era
soltanto frustrazione.
«Non
l’ho dimenticato, “La
tigre del Vento”! Kaze, il mio maestro, è sparito
senza darmi
nemmeno una spiegazione. Dopo quel maledetto funerale, il capo del
nostro plotone Kojiko, decise di deporre le armi a quello che tu
chiami Parnassus. Quello che ti ha raccontato Kaze, il mio sensei,
è
vero, ma non ti ha detto che non ha nemmeno provato a far ragionare
Kojiko: se ne andò a cercare da solo a cercare una
soluzione. Sono
cresciuto, in questi anni senza una guida leale e mi sono macchiato
di reati che non avrei voluto commettere, ma che sono stato costretto
a fare. Dovresti cercare un certo Nojishi: lo chiamano “Il
Gatto
della Nebbia” ed è il secondo del quartetto a
doverti incontrare,
se è questa la tua missione. Da questo momento, verrai
conosciuto
come il “Demone di Fuoco” del Giappone e ora ti
chiedo di
lasciarmi in vita. Prometto sul credo dei samurai che non
prenderò
in esame nessuna rappresaglia su di te, se non mi sentirò in
grado
di sfidarti in uno scontro leale. Ti ringrazio per il combattimento,
demone!» – Rimase inginocchiato, come per rispetto,
ma non alzò
lo sguardo da per terra e sempre da per terra… e con la
schiena
piegata con il sedere sui talloni… si diresse verso la spada
spezzata e poi riprese a chiedermi di dargli un’occasione per
redimersi. Non avevo motivi per non accettare: non avrei voluto
ucciderlo, ma l’ustione gliela lasciai soltanto come un
“metodo
efficace di memoria”.
«Sono
io a ringraziarti, ma il
motivo per cui sei finito in questa situazione non è per la
mancanza
di Kaze… anche se riconosco essere solitario: avresti potuto
seguire la via del Bushido e fregartene degli altri. Ti verranno a
prendere le ombre, per nasconderti da Parnassus: lui e i suoi non
morti non ti troveranno mai se le ombre non decideranno di farlo.
Addio “Samurai di Giada”!» –
Appena il samurai sentì
chiamarsi con quell’appellativo, ebbe un leggero sussulto, ma
dal
nulla arrivò Blank, nella sua uniforme delle ombre, pronto a
prelevare il mio avversario che decise di non protestare
all’isolazionismo a cui lo stavamo portando; tutti e tre in
estremo
silenzio… anche Blank… che semplicemente
toccò la schiena del
samurai e se ne andò via con lui.
Rimasi solo,
come ero arrivato su
questo palazzo. Nessuno avrebbe sospettato che ci fosse stata una
battaglia furenta e fulminea, ma credo che lo stesso samurai volesse
smetterla del tutto con questa storia e che il colpo insegnatami da
Kaze fu soltanto la ragione per cui ha deciso la sua resa. Decisi di
percepire di nuovo la strana aura della spada di Kaze, di cui
percepii la presenza solamente dalla fine dei miei strani allenamenti
con il sensei: m’era di fondamentale aiuto per sapere sempre
dove
fosse e mi diressi celeremente a casa sua.
Vi arrivai ed
entrai dalla stessa
finestra ove ero entrato, e m’accorsi che era trascorso solo
il
tempo per permettere al sensei di riposare nel suo letto e avere un
piccolo senso di tranquillità anche nell’inferno
dell’ignoranza,
che iniziò a piovere e mi rilassai anche io.
Fino a dormire.
In una notte,
avevo superato
qualunque difficoltà che mi si era posta davanti e sarebbe
stato
soltanto un probabile inizio… o tappa… del mio
viaggio senza
fine. Tanto che spuntò il sole e per me giunse il solitario
sonno:
tra i rumori delle persone e la pioggia che silenzia tutto il resto.
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