Raziel 2
Raziel - Il Momento Giusto
Capitolo 2
Great is youth, and equally great is old age...
great are the day and night.
Great is wealth and great is poverty...
great is expression and great is silence.
-Walt
Whitman, Leaves of Grass
Lei non c’era.
Il Sole era sorto, la neve brillava e lui era solo.
Per la prima volta nella sua lunga vita anche lui
sperimentava l’amara sensazione dello svegliarsi in un letto vuoto dopo avervi
passato la notte con una persona, ed era spiacevole come aveva sempre creduto.
Lui non aveva mai abbandonato i suoi amanti: li attendeva, li abbracciava e li
baciava ancora e ancora.
Si alzò e si guardò intorno, sgranchendosi le gambe e
le braccia. Il fuoco era rosso vivo e nuovi ciocchi di legna stavano accatastati
a fianco al camino. Ne buttò uno dentro, pulendosi poi la mano sui pantaloni.
Allacciò gli scarponi e si affacciò alla finestra. La
neve era caduta di nuovo, coprendo lo spiazzo tra le case. Una parte di essa
era già stata spazzata, ammucchiata sui muri dalle donne che stavano lavorando
alacremente. Prese cappotto, guanti e sciarpa e li indossò scendendo le scale,
ma li tolse al piano terra, vedendo sul piccolo tavolo addossato al muro la
bottiglia di vino della sera prima, chiusa, e del Gløgg fumante. Lo bevve tutto
d’un fiato, mangiando con gusto l’uvetta e le mandorle, seduto sulla sedia
sgangherata libera che aveva trovato.
Terminato si vestì completamente per andare a
recuperare Fedor.
‹‹Tu dove credi di andare?›› disse la donna piantando
un coltello nello stipite della porta.
‹‹Dal mio amico.››
‹‹Il tuo amico dorme ancora. Ora, parliamo un po’›› rispose,
e lo spinse all’indietro verso la sedia.
Lei si sedette sul tavolo, incrociando gambe e
braccia, fissandolo torva. Gli uomini normali non passavano la notte con una
prostituta senza fare nulla, i civili non sapevano sparare con quella
precisione e, in generale, non si accompagnavano sconosciuti in giro prima di
una nevicata.
‹‹Dici di non essere un soldato, ma hai sparato a
freddo ad un uomo, ieri notte, imbracciando il fucile meglio di chiunque io
abbia mai conosciuto. Hai portato qui un tipo di dubbia fiducia e non ti sei
fatto nessuna domanda, come se fosse banale.››
‹‹Cosa avrebbe potuto farmi?››
‹‹Ucciderti. Non sono rare le morti qui.››
‹‹Soprattutto se sei tu ad occupartene, immagino.››
Mise i piedi sul tavolo, sfiorando i fianchi della
donna con il bordo delle scarpe e la fissò con aria di sfida. Non si sarebbe
lasciato intimorire da una prostituta.
‹‹Ne ho uccisi tanti negli anni, ma mai per
divertimento. Ognuno di loro ha in qualche modo ferito le ragazze.››
‹‹E tu sei la premurosa madre, vero?››
‹‹E tu il capace civile senza nome. Siamo esattamente
sullo stesso piano e adesso voglio che tu mi dica chi ho ospitato sotto il mio tetto.
Cosa sei? Un soldato in incognito? Una spia? Un veterano? Perché sei venuto
qui?›› disse scendendo dal tavolo e schiacciando la lama del coltello contro la
sua gola.
Raziel la guardò e la donna si ritrovò sbalzata contro
il muro.
Si alzò e raccolse il coltello da terra, posandolo poi
sul tavolo. La guardò dall’alto, con aria di superiorità, infilando le mani
nelle tasche: ‹‹Mi hai tagliato, e non è una bella cosa, sai, Hjørdis.››
Poi uscì.
Dopo due settimane Fedor partì alla volta della
Danimarca, deciso a visitarne la capitale, incurante dei rischi del viaggio.
Era andato via con una borsa piena di bottiglie di vino e il corpo
sufficientemente riscaldato per poter sopravvivere a lungo senza nessun altro. Aveva
salutato Raziel con una pacca sulla spalla e si era tirato il cappello sugli
occhi, camminando con la sua andatura sbilenca.
Raziel aveva trascorso quel tempo camminando per i
boschi, cenando alla locanda e fingendo di ignorare la presenza assillante dei
militari.
Circa un mese dopo Hjørdis si fece trovare nella sua
stanza, seduta a gambe incrociate sul letto. Si era messa i suoi calzettoni,
mentre le scarpe erano state lasciate vicino al camino.
‹‹Ciao Hjørdis, cosa fai qui?››
La donna si alzò in piedi sul materasso, guardandolo
dall’alto: ‹‹Come sapevi il mio nome? Nessuno conosce il mio nome. E come hai
fatto a fare quella cosa, a sbalzarmi?››
Raziel si appoggiò alla porta chiusa, incrociando le
braccia al petto e sorridendo sghembo. Era divertente vederla agitata, perché
cercava di essere minacciosa, ma in realtà gli sembrava solamente adorabile.
Ora che ci pensava, non aveva mai ritenuto nessuno adorabile: intelligente,
bello da mozzare il fiato, affascinante, eccitante, ammaliante, seducente erano
gli aggettivi che aveva sempre utilizzato. E lei, incredibilmente, li possedeva
tutti.
‹‹Sono fatti miei. Non vado in giro a spifferare i
miei segreti alle prostitute.››
‹‹Non prendermi in giro!››
‹‹Non lo faccio, solo non voglio svelare a te la mia
vita. Accontentati di quel poco che sai… Hai fame?››
Hjørdis saltò giù dal letto e fece scricchiolare il
legno del pavimento sui cui atterrò, camminando con la lentezza di una pantera
e dicendo, orgogliosa, che sì, aveva molta fame. Raziel sorrise, dandole un
buffetto sulla guancia e scese nella cucina, portando poi su due ciotole di
brodo caldo e due piatti di agnello. Mangiarono seduti sul letto, mentre gli
unici rumori erano il risucchio del brodo caldo e le forchette che scontravano
il bordo del piatto. Non si parlarono, ma i loro sguardi si scontrarono più
volte. Quando Raziel abbassava gli occhi su di lei, lei faceva lo stesso, distogliendoli
subito. Era una sensazione strana quella che entrambi provavano, un misto di
tranquillità ed agitazione, un desiderio di sfiorarsi e prendersi a pugni.
Finiti i
piatti Hjørdis si rimise gli scarponi e lo salutò con un filo di voce, sgattaiolando
fuori dalla porta e giù dalle scale. Raziel non ebbe i riflessi per impedirle
di andare via, e guardò la porta chiusa.
La fissò per
parecchi giorni, chiedendosi cosa di quella donna l’avesse stregato, perché ne
fosse così intrigato. Non era la bellezza, quella la possedevano tutte:
l’avrebbe potuta trovare facilmente se si fosse messo alla sua ricerca. Il
mondo era pieno di splendide donne che sarebbero facilmente cadute tra le sue
braccia, in fondo anche lui era di bella presenza.
Quella donna
però… Aveva un’anima determinata e orgogliosa che non si sarebbe lasciata chiudere
in gabbia. Si sarebbero sempre scontrati, due caratteri diversi, agli antipodi:
lui visionario, socievole, disponibile; lei pragmatica, protettiva ma
solitaria. La perfetta sintonia degli opposti.
Sarebbe assurdo se…
Una notte
andò a trovarla. Non fu una decisione ragionata, solo un improvviso bisogno di
rivedere quegli occhi vispi e di risentire quella voce squillante. Non fu
nemmeno una grande idea, perché stava lavorando e così aveva trascorso le ore
buie seduto su quella sedia sgangherata, sperando che buttasse fuori in malo
modo il suo amante. Se ne era andato non appena aveva sentito la casa risvegliarsi.
Era scivolato in silenzio sulla neve e non era uscito dalla sua stanza nella
locanda per tutto il giorno, sonnecchiando sul letto e saltando la cena.
Fece lo
stesso altri giorni, concludendoli sempre nel medesimo modo. Parlò a fondo con
se stesso, scavando tra la parte che si poneva domande e quella che preferiva
rimanere in silenzio, statica. Aveva razionalmente deciso che non si sarebbe
mai più lasciato coinvolgere da una donna molti anni prima, quando Caterina si
era sposata, abbandonandolo per un fornaio di dubbia fedeltà. Aveva i perso i
primi amanti a causa del frenetico scorrere del tempo, ma quella era stata la
natura, crudele e generosa, e l’aveva accettato. Caterina l’aveva tradito e si
portava ancora dietro quella ferita perché di lei si era innamorato: aveva
giurato alla sua anima che non avrebbe più inciampato.
Dall’altra
parte invece c’era Hjørdis e quello che poteva diventare.
Un altro mese
trascorse in quel limbo di indecisione, fino al momento in cui Raziel, aprendo
la porta della stanza, non vide la donna seduta sul suo letto, con i suoi
calzettoni, mentre beveva il suo brodo.
‹‹Com’è
possibile che la padrona non vi veda entrare?››
‹‹Mio padre
mi ha insegnato bene, mettiamola così. Voi invece siete poco attento alle
tracce che lasciate›› disse mostrando un paio di guanti marroni.
Raziel
chiuse la porta a chiave, guardandola con un sorriso fintamente spavaldo.
Scosse la testa e le tolse di mano i guanti, lanciandoli sul tavolino. Si
sedette al suo fianco e appoggiò il mento su una mano: ‹‹Cosa fai qui,
Hjørdis?››
‹‹Cosa sei
venuto a fare tu in casa mia?››
Raziel non
rispose, ma le tolse la ciotola di brodo vuota dal grembo, posandola a terra.
‹‹Sapevo che
non avresti avuto il coraggio di ammetterlo.››
Balzò giù
dal letto e prese gli scarponi, impegnandosi a rendere il silenzio spiacevole
per l’uomo, ignorandolo. Li indossò in un angolo della stanza, poi si mise i
guanti marroni, girò la chiave e uscì.
Raziel si
lasciò cadere sul letto, la testa fuori dal materasso e le braccia aperte, ad
occhi chiusi. Era molto bravo ad aiutare gli altri, ma con se stesso commetteva
un errore dopo l’altro. Cosa avrebbe dovuto risponderle, che l’attraeva sotto
tutte le prospettive? Che l’idea di fermarsi ancora anni in quel paese gelido
non sembrasse più così inopportuna? No, e anche sì.
Rimase
disteso fino a che il fuoco non si spense, respirando lentamente e pensando,
come tutte le volte in cui rimaneva al buio. Si alzò di scatto. Aveva bisogno
d’aria. Ignorò la proprietaria che cercava di fermarlo e uscì sotto la neve,
percependo il peso leggero dei fiocchi sulla testa. Conosceva la strada.
Quando
raggiunse la casa non si fermò nell’ingresso, non pensò che avrebbe potuto
interrompere qualcosa ma solo che i rischi erano parte della vita, e lui voleva
essere vivo. La donna voltò il viso sentendo la porta sbattere contro il muro
ma rimase immobile, fissando Raziel e aspettando. Questo sorrise e le si
avvicinò, baciandola. Le mise le mani nei capelli lunghi, stringendo le ciocche
e lasciando scivolare le dita lungo la schiena, facendola rabbrividire. Le
morse il labbro e si staccò da lei, senza fiato. Si guardarono negli occhi, i
nasi che si scontravano e i respiri fusi l’uno nell’altro. Lei gli mise le
braccia la collo e riprese da dove si era interrotto, sciogliendogli la treccia
rossiccia, permettendogli poi di lambirle il collo con la lingua.
Poi spense
il fuoco e tutta la luce nella stanza scomparve.
‹‹Era così
difficile da ammettere?›› gli chiese sapendo che era sveglio.
‹‹A me
stesso? No. A te? Enormemente.›› rispose sorridendo, con le braccia dietro la
testa.
La donna gli
tirò una sberla sulla spalla, ma ridacchiò in contemporanea, mostrando come non
si sentisse davvero offesa dalla sua ammissione, tutt’altro, e Raziel lo
comprese alla perfezione. Si alzò, spostando le coperte, e mise un ciocco di
legno nel fuoco, muovendolo un poco in modo che non morisse, poi la guardò e
indossò il maglione che avevano abbandonato per terra nella frenesia della
notte.
‹‹Dovrei
quasi pagarti, sai?››
‹‹Pensi
davvero che questa sia stata una notte di lavoro per me?››
‹‹Assolutamente
no. Non saresti stata così bene sennò.››
Hjørdis lo
fissò incredula, coprendosi con la coperta fin sotto il mento: ‹‹Sei molto
convinto delle tue capacità.››
‹‹Abbastanza
da pagarti per avermele fatte ricordare›› ammiccò.
La donna
scoppiò in una risata cristallina e uscì dal tepore delle lenzuola, indossando
in fretta un maglione, una calzamaglia e dei pantaloni. Quell’autunno si stava
rivelando particolarmente freddo, era meglio non ammalarsi.
Baciò l’uomo
prima che uscisse dalla casa, per sfruttare le ultime ore di luce concesse
dalla natura per tornare alla locanda.
Per molte
notti condivisero il letto, amandosi con lentezza o frenesia, dolcemente,
sentendo ogni volta le loro anime entrare in risonanza, riconoscendosi come
simili, come metà di uno stesso intero, complementari. Le notti diventarono
giorni e i giorni sfociarono in anni, perle fisse nel tempo e momenti che
avrebbero conservato entrambi come balsami di felicità.
Hjørdis
mostrò di possedere un’intelligenza incredibile, forgiata dalle molte letture
fattale dal padre, e un cuore generoso, che Raziel non si sarebbe aspettato di
trovare. La donna capì da sola che l’uomo era dotato di capacità inumane e
diede loro il nome di magia,
sorprendendolo quando gli fece domande per imparare e conoscere i dettagli. Lo
fissava interessata e curiosa mentre Raziel le raccontava e le mostrava ciò che
era in grado di fare, svelandosi nella sua fragilità e meraviglia. Con nessuna
era mai giunto a tanto.
Poi comprese
il motivo per cui Hjørdis gli ponesse così tante domande, esattamente nel
momento in cui sentì l’eco magica di un’anima risuonare nella donna come lo
sciabordio delle onde del mare in tempesta. Notti intere rimase sveglio ad
ascoltare quel ritmo che cullava i sogni di Hjørdis, anche se lei non riusciva
a percepirlo.
Hjørdis
sapeva, ma non gli aveva confessato nulla: probabilmente attendeva il momento
giusto. Come se si potesse sapere quale sia l’attimo preciso in cui si possa
confidare o svelare qualcosa, ed essere certi che, se non si sgarrasse di un
solo secondo, si raggiungerebbe la perfetta realizzazione della vita.
Fu Raziel,
pur con poco tatto, a chiederle da quanto tempo fosse a conoscenza della vita
che cresceva in lei e Hjørdis, con gentilezza, gli mise la mano sulla pancia,
dicendo che se lui sapeva, non aveva importanza il motivo. Si sorrisero e si
baciarono sulle labbra, abbracciandosi.
La bimba che
nacque aveva i capelli rossi del padre e gli occhi azzurri della madre e, una
volta raggiunta l’età per parlare e camminare, si dimostrò un ciclone. Nulla
sembrava fermare la testardaggine e la determinazione della piccola, che in
breve tempo mostrò anche abilità magiche che resero Raziel orgoglioso ogni
giorno di più. La vide crescere e la tenne lontana dal mondo in cui era nata,
insegnandole tutto quello che la sua memoria ricordava, chiedendosi quando
quella bolla di felicità sarebbe esplosa.
‹‹Tu chi
sei?›› chiese la giovane aprendo la porta e rabbrividendo per il vento freddo.
‹‹Un amico
di Raziel, è in casa?››
La giovane
chiamò a gran voce il padre, che si bloccò sulla scala non appena vide l’ospite
che attendeva seduto su una sedia. Il sorriso che adornava il viso dell’uomo
scomparve, lasciando il posto ad un’espressione preoccupata e allarmata. Si
sedette al suo fianco e lasciò che gli parlasse, concitato e frettoloso,
spiegandogli il suo bisogno mentre la figlia ascoltava in un angolo la
conversazione, impallidendo ad ogni parola. Corse su per le scale, sbattendo la
porta della camera.
‹‹Raziel,
scusa la domanda, ma cosa fai tu in un bordello?››
‹‹Ci vive.
La domanda è cosa se venuto a fare tu, qui.››
Raziel
presentò Hjørdis a Lucifero e viceversa muovendo le mani, incapace di pensare
esattamente a che parole dire per non far scoppiare una bufera.
‹‹Devo
portarlo via, abbiamo bisogno di lui in un altro luogo. Mi rendo conto di fare
un grande torto, visto che a quanto pare si è creato una famiglia, ma in questo
momento il suo più prezioso ed importante amico necessita della sua presenza e
io non posso agire altrimenti.››
Hjørdis lo
squadrò dalla testa ai piedi, chiedendosi cos’avesse di sbagliato quel ragazzo
dai capelli neri per parlare in quel modo assurdo, come un damerino, poi si
rivolse a Raziel, chiedendo spiegazioni.
‹‹È la
verità.››
‹‹E tu
avresti intenzione di andare?›› gli disse ignorando la presenza di Lucifero.
Raziel prese
un respiro e sussurrò che non aveva scelta, guardandola negli occhi come
volesse scusarsi senza parole.
‹‹Lo spieghi
tu a tua figlia.››
‹‹Hjørdis…››
‹‹Sapevamo
entrambi che non sarebbe durata in eterno, non per me almeno, sarà meglio
così›› lo confortò, tirandolo per una braccio e spingendolo verso la scala.
Lanciò un’occhiataccia a Lucifero, fermo immobile in un angolo, e uscì.
Raziel aprì
piano la porta della stanza della figlia, vedendola seduta sul davanzale della
finestra a guardare fuori dal vetro, indifferente.
‹‹Devo
venire via con te?››
‹‹Freya, di
cosa ti preoccupi? È tua madre, non avrei mai il coraggio di portarti via da
lei e nemmeno l’arroganza di ordinartelo.››
La giovane
guardò il padre in un connubio di gratitudine e tristezza, le guance umide per
le lacrime scese poco prima. Raziel l’abbraccio, sfregando a barba pungente
sulla pelle delicata di lei, come faceva quando era piccola per confortarla.
‹‹Quando
morirà, potrò rivederti?››
‹‹Come?››
La ragazza accennò
un sorriso sbiadito: ‹‹Io non cresco più, me ne sono accorta, e tu uguale, ma la
mamma no. Quindi promettimi che un giorno tornerai.››
Raziel le
baciò la mano, giurando: ‹‹Tornerò sempre da te, figlia mia.››
Freya si asciugò
le guance con la manica del maglione e gli diede un pugno debole sulla spalla, per
infondergli ottimismo.
Raziel si
allontanò, lasciando che il suo sguardo vagasse un’ultima volta sulla figlia,
ascoltando lo sciabordio del battito del suo cuore per conservarlo nella
memoria. Al piano di sotto trovò Lucifero con la sua giacca in mano e gli diede
una pacca sulla spalla, precedendolo fuori e lasciando che fosse lui ad
occuparsi dell’incantesimo di teletrasporto.
Condivise un
ultimo, dolcissimo sguardo con Hjørdis prima di scomparire, lo stesso che
avrebbe sempre portato alla mente nei momenti di insostenibile solitudine.
Coro dell'autrice
Come
immagino abbiate notato, ho cambiato il mio nickname da Izumi_BB a
Nemamiah. Quest'ultimo sarebbe il nome dell'angelo custode che dovrebbe
proteggermi, e scrivendo spesso di angeli ho deciso di chiarmarmi
così. Inoltre il nome è associato all'essenza del
discernimento, che trovo molto bella come parola e come significato. La
storia si conclude in questo modo triste, un po' come tutte le mie
altre one-shot, ma spero che vi sia piaciuta: Raziel è uno dei
miei personaggi preferiti e spero che stia stato simpatico anche a voi
lettori. Spero che anche che iniziate a collegare le one-shot relative
agli angeli, che sono tutte parte di un rete più grande. Ho
quasi terminato di sviluppare quella rete, non manca molto, poi
decidere se pubblicare qui o tentare la sorte con una casa editrice.
Sono ancora molto indecisa.
Rinnovo l'invito a lasciarmi una recensione, anche negativa, perchè tutti i commenti sono importanti!
Un saluto e una bacio a tutti coloro che hanno letto e apprezzato.
Nemamiah
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