Dove sei stata negli ultimi tre anni?

di Claire Penny
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Non c'è mai fine al peggio ***
Capitolo 2: *** Nel magico mondo dell'elettroshock ***
Capitolo 3: *** V.I.P. (Very Idiot Person) ***



Capitolo 1
*** Non c'è mai fine al peggio ***


*N.d.A. Piccolo appunto: questa fanfiction non tiene conto di quanto avvenuto in seguito all'edizione di "A tutto reality: All star". Nella storia, tale stagione è considerata infatti quella conclusiva*



Erano le quattro e tredici minuti del pomeriggio.
Solamente le quattro e tredici minuti.
Mancavano ancora più di tre ore alla chiusura. Solo a pensarci, quel tempo mi pareva interminabile.
Evidentemente quel giorno era destinato a non finire mai.
Mi lasciai andare ad un lungo sospiro, proprio mentre la porta del camerino si apriva e la ragazzina sì e no quattordicenne che stavo aiutando ne usciva, con aria incerta.
Quella che avevo identificato come la sua amichetta del cuore, s’illuminò non appena la vide e cominciò a battere le mani come una demente.
-Oh, Shelby, sei assolutamente fantastica!- esclamò.
La ragazzina accennò ad un sorriso e, incoraggiata dal complimento dell’amica, si voltò verso lo specchio per osservare il suo nuovo look.
-Davvero?- chiese, alla ricerca dell’approvazione definitiva dell’altra ragazza.
-Certo! Sei assolutamente spettacolare! È esattamente il cambiamento che ti ci voleva! Vedrai, domani a scuola non ti riconoscerà nessuno, ci scommetto quello che vuoi-
Non so quanto possa essere considerato un complimento, in questo caso  pensai, cercando di non far trasparire la mia opinione dal mio sguardo, difetto che stavo disperatamente cercando di correggere con l’aiuto di Marilyn.
-Lei cosa ne pensa?- domandò Shelby, rivolta a me.
Io, che durante gli ultimi tre cambi d’abito avevo avuto la sola utilità di portare avanti e indietro vestiti da far provare alla cliente – per la maggior parte su richiesta della sua amica – venni colta alla sprovvista. Dal suo sguardo però, capii subito che la sua richiesta non era davvero quella di avere la mia sincera opinione. Desiderava più che altro la conferma definitiva a tutti i complimenti che le aveva elargito la sua socia.
In quel momento, dentro di me, si riaprì il solito scontro su due fronti: da una parte c’era il mio lato onesto, quello a cui per quasi ventidue anni avevo sempre dato voce, nonché quello che, in quel preciso istante, stava gridando quanto quella gonna tartan a pieghe facesse sembrare ancora più bassa la figura già di per sé minuta della ragazzina e che desiderava disperatamente farle notare quanto quel top nero scollato fosse inadatto per una piccoletta appena uscita dalle medie che probabilmente in camera teneva ancora i poster dei My Little Pony e giocava con le Barbie quando non la vedeva nessuno.
In contrapposizione però, c’era la parte di me che, su consiglio (leggi: ordine) di Marilyn, stavo cercando di far emergere – se non altro, per evitare problemi sul lavoro – quella che, per il bene degli affari, mi spingeva ad assecondare l’opinione di quell’amichetta prepotente che, a giudicare dall’atteggiamento con cui imponeva i suoi “consigli”, avrebbe presto spinto la ragazzina a fare qualcosa di più che imporle i suoi consigli sull’abbigliamento, qualcosa di cui in futuro si sarebbe certamente pentita.
-Quei vestiti ti…ti stanno benissimo- dissi infine, accompagnando il commento con un sorriso che mi costò un notevole sforzo, gesto che mirava a rendere le mie parole più convincenti e che invece, a giudicare dall’espressione delle due ragazzine, ottenne l’effetto opposto.
Fortunatamente però, non diedero troppo peso alla mia opinione e ricominciarono a discutere tra loro.
-Sono trentanove dollari e novanta- annunciò la voce di Marilyn dalla cassa, pochi minuti dopo, mentre ripiegavo i vestiti scartati dalle marmocchie.
Tirai un sospiro di sollievo. A quanto pareva, le ragazzine avevano deciso di acquistare quei capi nonostante la mia pessima performance da bugiarda.
Poco dopo sentii una mano poggiarsi sulla mia spalla.
-Devi lavorarci un po’ su, ma stai migliorando- mi rassicurò la mia responsabile, nonché amica.
Mi sforzai di sorridere per farle capire che apprezzavo le sue parole, ma probabilmente anche il sorriso che rivolgevo al dentista quando andavo a farmi la pulizia dei denti sarebbe risultato più convincente. Se non altro, Marilyn finse di non farci caso e tornò al suo lavoro.
Quando finalmente arrivarono le sette e trenta avevo la sensazione di aver trascorso in quel negozio gli ultimi quarant’anni, anziché le ultime quattro ore. Sembrava che ogni giorno che trascorrevo lì fosse più lungo ed estenuante del precedente.
Dopo la chiusura salutai Marilyn e mi avviai verso la fermata della metro. Durante il viaggio, mentre l’anziana signora che mi sedeva di fronte dormiva sbavandosi beatamente sul cappotto, mi ritrovai a fare i conti con gli avvenimenti degli ultimi sei mesi della mia vita, ossia dal giorno in cui avevo comunicato alla mia famiglia che avevo lasciato la facoltà di Storia dell’Arte perché non ero più certa che fosse davvero la strada più adatta a me.
Mi tornarono in mente le reazioni a quella notizia-bomba che avevo sganciato durante una normale sera, a cena: mia nonna si era mostrata sorpresa ma comprensiva, mio fratello indifferente – come per qualunque altra cosa mi riguardasse, del resto - , mentre invece, com’era prevedibile, mia madre non l’aveva presa affatto bene. In realtà non prendeva bene quasi niente di ciò che mi riguardava da quando, un pomeriggio di quando avevo tredici anni, ero uscita di casa vestita e pettinata come una normale preadolescente ed ero tornata poche ore dopo, vestita completamente di nero, con diverse ciocche di capelli tinte di blu petrolio e le labbra impiastricciate da un rossetto dall’improbabile colore scuro.
Quella sera, che sempre ricorderò come l’inizio dei miei drammi, mia madre aveva visto in me il fallimento della famiglia, convinzione che avevo rafforzato dopo averle comunicato che mi avevano scelta per partecipare ad un reality show.
E dire che inizialmente io non avevo alcuna ambizione a partecipare ad un programma del genere o a diventare famosa in qualunque altro modo.
Tutto sommato stavo bene nell’angolino buio del mio anonimato.
Era stata la mia amica Mietitrice a convincermi a partecipare ai casting insieme a lei, esasperandomi fino a quando non avevo accettato.
Nemmeno la mia inaspettata e improvvisa popolarità però avevano contribuito in qualche modo a farmi espiare le mie presunte colpe. Agli occhi di mia madre, avevo iniziato a redimermi solo quando, pochi giorni dopo essere stata eliminata da A Tutto Reality: All Star avevo annunciato la mia decisione di lasciare il mondo dello spettacolo per iscrivermi all’università.
In quella decisione, lei ci aveva visto la mia agognata iniziazione all’età adulta e alle responsabilità e, inizialmente, anch’io lo avevo creduto, o meglio, avevo cercato di convincermene. Purtroppo però, dopo solo una manciata di mesi, ero stata costretta ad ammettere che, tra tutte le cose avventate ed impulsive che avevo fatto fino a quel momento, ricominciare a studiare era stata la meno ponderata tra tutte e, ad appena un anno dalla mia iscrizione all’università di Toronto, mi ero ritirata.
Avevo tentato di spiegare a mia madre che mi ero resa conto di aver compiuto quella scelta, più che per ambizione personale, per cercare di dimenticare tutte le sfighe che mi avevano perseguitato negli ultimi anni, lei però ovviamente non aveva voluto sentire ragioni e io avevo preferito andarmene.
Alla fine, la cosa che più mi aveva sorpreso di tutta quella vicenda erano state le lacrime di quel pestifero di mio fratello Matt, quando lo avevo salutato prima di richiudermi definitivamente la porta di casa alle spalle. Non le lacrime di coccodrillo che sin da quando eravamo piccoli usava per farmi incolpare di qualunque cosa, ma lacrime sincere, di autentica tristezza.
Tutto ciò aveva reso ancora più difficile  raccattare tutta la mia robaccia, dire addio al piccolo appartamento in cui ero cresciuta per trasferirmi, assieme alle mie lucertole Angus e Vampira, in un appartamento ancora più piccolo. Ancora meno semplice però, era stato doversi abituare a dividere i propri spazi vitali con un’idiota come il mio coinquilino Johnny.
Quando quella sera rientrai a casa, quest’ultimo era beatamente spalmato sul divano che guardava la tv, con il telecomando in una mano e una barretta di cioccolato mezza mangiata nell’altra. Indossava una vecchia maglietta logora degli Iron Maiden (gruppo di cui probabilmente conosceva sì e no due canzoni) e un paio di pantaloni di una tuta che probabilmente non avevano mai conosciuto le gioie della lavatrice.
Lui non mi degnò del minimo saluto e io feci altrettanto. Un paio di settimane e una decina di tentati omicidi dopo il mio trasloco, era infatti stato chiaro che la presenza dell’altro era una reciproca seccatura, ragion per cui avevamo stabilito il tacito accordo di interagire solo se strettamente necessario. Avevo però accettato tali condizioni troppo presto, ossia prima di scoprire che una mandria di maiali avevano un senso dell’igiene e della pulizia più sviluppati del caro vecchio Johnny.
Come a confermare quel pensiero, quando entrai in cucina ci trovai la tavola ancora apparecchiata per la cena del mio stupido coinquilino, adornata dei suoi avanzi di cibo thai da asporto.
Emisi un lungo sospiro. La degna conclusione per una giornata schifosa come quella appena trascorsa.
Andare da Johnny a protestare affinché sparecchiasse e lavasse le sue stoviglie, avrebbe significato sentirsi ripetere per l’ennesima volta che non ero tenuta a preoccuparmi della sua roba e che più tardi avrebbe sistemato.
Peccato solo che per lui “più tardi” poteva significare “tra dieci minuti” come anche “nel 2057, forse” e, considerato che da diversi giorni in lavanderia campeggiava una montagna composta da tutti i suoi indumenti da lavare “più tardi”,  era abbastanza chiaro per quale delle due opzioni propendesse.
Mio malgrado, queste situazioni contemplavano solo due possibili soluzioni, nessuna delle quali andava esattamente a mio favore: lasciare Johnny a sguazzare nel proprio lerciume e sguazzarci anch’io di conseguenza, o sotterrare il mio orgoglio e la mia dignità e pulire al posto suo, almeno nelle stanze che usavamo entrambi, come la lavanderia, il salotto e la cucina, senza nemmeno ricevere una parola o un cenno di ringraziamento.
Mentre buttavo nella spazzatura i noodles avanzati però, mi accorsi che, parzialmente occultata tra i rifiuti, c’era la mia ultima scatola di barrette Snikers. Quelle che curiosamente avevano la stessa forma dello snack che avevo visto di sfuggita nelle mani di Johnny. Quelle che avevo accuratamente nascosto nella mia camera proprio per tenerle lontane dalle grinfie del mio perennemente affamato coinquilino. Per la precisione, nel cassetto della biancheria.
A quel punto, tutta la rabbia accumulata e repressa negli ultimi tempi prese il sopravvento. Mi precipitai in salotto, strappai il telecomando dalle mani del mio stupido coinquilino, spensi la tv, dopodiché lanciai l’apparecchio alle mie spalle, che sentii cadere in un punto imprecisato della stanza. Infine, afferrai Johnny per la maglia e lo tirai su, costringendolo a mettersi seduto.
Accadde tutto talmente in fretta che, forse per la prima volta, riuscii addirittura a vedere la sua faccia solitamente inespressiva, contorcersi in una smorfia stupita e confusa.
-Sono sempre passata sopra al fatto che tu sia una sudicia ameba che non mi porta minimamente rispetto- iniziai, parlando a pochi centimetri dalla sua faccia. –Ma questa volta hai davvero superato ogni limite!
L’espressione sulla patetica faccia di quel porco meglio conosciuto con il nome di Jonathan Martin, non mutò minimamente, anzi, riuscì addirittura a cacciarmi una delle sue risposte misogine e tremendamente irritanti senza fare una piega.
-Ma che problemi hai? Ti è venuto il ciclo?-
Parole che gettarono una ricca quantità di benzina sul fuoco della mia ira.
-Sei entrato in camera mia e hai frugato tra la mia roba!- gridai.
Per un momento, un fugace momento, i suoi occhi vennero attraversati da un pensiero che colsi subito, anche se lui cercò subito di occultare quell’attimo di incertezza con la sua solita espressione strafottente. Un pensiero che probabilmente era uguale o simile a “oh, merda!”.
Tanto mi bastava per essere certa dei miei sospetti.
-Gwen, datti una calmata! Non trovavo più la mia t-shirt di Star Wars e credevo che per sbaglio l’avessi messa tra la tua roba…-
-E io dovrei credere a questa stronzata?!- continuai a gridagli in faccia, scuotendolo per un lembo di quella lurida maglietta che indossava da almeno tre giorni. –E poi non solo sei entrato in camera mia senza permesso, hai frugato nella mia roba, ma ti sei anche premesso di rubare!-
-Era l’ultima barretta, te la ricompro! Tante storie solo per un pezzo di cioccolata…e piantala di scuotermi!- esclamò, liberandosi dalla mia presa.
-Sei proprio un idiota- sibilai.
Dopo avergli lanciato un’ultima occhiataccia uscii dalla stanza e mi diressi in bagno per lavarmi le mani. Certo, dopo aver toccato quel verme, nemmeno disinfettarmele con la soda caustica mi avrebbe fatto sentire abbastanza pulita, ma dovetti accontentarmi.
Mentre mi asciugavo, mi guardai allo specchio, ricordando amaramente il periodo in cui le mie ciocche colorate, il rossetto scuro e il corsetto nero mi caratterizzavano più dei miei stessi connotati. Erano trascorsi tre anni da quando ero tornata a casa con la ferma decisione di liberarmi il prima possibile dei meriti grazie al quale la maggior parte della popolazione mondiale mi conosceva come “la gotica”, “l’asociale”, “l’introversa” o, il mio preferito, “la nuova Heather”. Non che avessi completamente fallito, in realtà. Non avevo infatti più molto in comune con la Gwen di A tutto reality, almeno dal punto di vista estetico. A parte questo dettaglio però, a ventuno anni compiuti ero costretta ad ammettere di essere rimasta pressoché la stessa sfigata che ero a sedici.
Quel flusso di pensieri ottimisti venne interrotto all’improvviso dal mio cellulare, che iniziò a vibrare da sopra il mobiletto dove l’avevo appoggiato, per avvisarmi dell’arrivo di un messaggio.
Ironia della sorte, la mittente del messaggio era una delle poche persone con cui mi ero tenuta in contatto anche dopo la fine dell’ultima edizione del programma, nonché una delle poche persone sane di mente che avevo avuto modo di conoscere nel manicomio quale era il mondo che ruotava intorno a quello stupido reality: Zoey.
 
“Hai ricevuto la mail???” chiedeva.
 
“Non ho ancora letto la posta, che succede?” risposi.
 
“Controlla. Poi fammi sapere” fu il suo ultimo messaggio.
 
Dimenticando temporaneamente la mia deprimente esistenza, corsi in camera e accesi il computer, curiosa di sapere a cosa si riferisse Zoey.
A prima vista, nella mia posta elettronica sembrava tutto normale. Qualche mail di spam, una di conferma per alcune cose che avevo comprato on-line e…una mail dalla produzione di A tutto reality.
Quando me ne accorsi, potrei giurare di aver sentito il mio cuore saltare qualche battito.
Non era possibile.
Avevo definitivamente chiuso con quel capitolo della mia vita, in ogni senso.
il contratto era scaduto, non c’erano altre clausole che mi vincolassero a quel dannato programma, ne ero certa, altrimenti Courtney me l’avrebbe…
Oh, già, tendo a dimenticare che non devo più dare credito a qualunque cosa abbia detto Courtney, dal momento che  è brava solo a fingere di esserti amica per poi pugnalarti alle spalle quando non le sei più utile. Pensai.
Decisi di confinare per il momento ricordi e pensieri sulla sua ex-amica nello stesso angolo in cui conservavo i miei monologhi su quanto facesse schifo la vita, per riconcentrarmi sulla mail.
Cautamente, ci cliccai sopra.
E fu una pessima decisione.
 
Da: ChrisSuperSuperFicoMcLean@gmail.com
A: Gwen_in_Black@hotmail.com
 
Oggetto: Reunion ;)
 
“Carissima Gwen,
Sono trascorsi ormai tre anni da “A tutto reality: All Stars!”, l’ultima edizione del programma a cui hai partecipato. Per commemorare i bei momenti trascorsi insieme agli altri concorrenti e al sottoscritto (soprattutto al sottoscritto), sono onorato di invitarti a prendere parte a allo speciale del programma che stiamo organizzando: “A tutto reality! The reunion”.
Questa iniziativa non ha nulla a che vedere con la competizione, il milione di dollari in palio, eccetera. Si tratta infatti solo di un’innocente vacanza di due settimane tutto incluso in un resort di lusso in Polinesia, durante il quale alcuni ex-concorrenti avranno l’opportunità di ritrovarsi, divertirsi e magari chiarire eventuali questioni lasciate in sospeso.
A chiedere a gran voce tale reunion sono stati migliaia di fan da tutto il mondo. Non vorrai certo deluderli, vero, Gwen?
Attendo con ansia la tua conferma di partecipazione.
 
Sinceramente tuo,
 
Chris McLean”.
 
Non riuscii nemmeno a finire di leggere la lettera, né a concedermi qualche istante per elaborare quanto avevo appena appreso. Cliccai sull’icona “rispondi” e cominciai a digitare freneticamente sulla tastiera del portatile.
 
Da: Gwen_in_Black@hotmail.com
 
A: ChrisSuperSuperFicoMcLean@gmail.com
 
Oggetto: R: Reunion ;)
 
Caro Chris,
No.
Non.
Nien.
Net.
没有.
Assolutamente NO.
“No” al quadrato, “no” al cubo, “no” all’ennesima potenza.
ENNE-O.
 
Sinceramente,
 
Gwen”
 
Un attimo prima di inviare quella furiosa risposta scritta di getto però, fui colpita da uno dei miei rari impeti di buonsenso che mi convinse a rileggere la mail di Chris per intero, prima di assecondare qualunque decisione avventata. Col senno di poi, non oso pensare a cosa sarebbe successo se non avessi dato ascolto al mio lato più saggio. La lettera infatti, comprendeva un post scriptum.
 
“P.S. Ovviamente la domanda era retorica, non hai altra scelta se non quella di partecipare. È tutto scritto nel tuo contratto, nero su bianco…beh, non proprio “nero su bianco”, è scritto con il succo di limone a fondo pagina 23 ma, in ogni caso, c’è scritto.
Spero di avere presto tue notizie, in caso contrario, lasceremo che siano i nostri avvocati a convincerti. Buona giornata :)”.
 
***
 
-Dovrei partire di punto in bianco, andarmene in un altro continente, per di più in un’isola, con il caldo e il sole, con persone con cui non ho, né voglio avere alcun genere di contatto! E, nel caso non te lo ricordassi, ci tengo a farti sapere quanto io detesti essere obbligata a fare qualcosa, quanto non sopporti il caldo, come la mia pelle si scotti alla minima esposizione al sole e, soprattutto, quanto io odi quelle persone!- mi sfogai.
Dall’altro capo del telefono, sentii Zoey sospirare. Non le avevo quasi dato il tempo di parlare, da quando aveva commesso l’errore di rispondere alla mia telefonata, dieci minuti prima.
-Lo ricordo benissimo, invece- rispose, in tono rassegnato. –Ma non sei l’unica a sentirti così. Credi forse che io faccia i salti di gioia al pensiero di lasciare il mio lavoro per rivedere Mal…Mike…insomma, lui?-
-Ci sarà anche Mal?- chiesi. –La mia mail non diceva nulla riguardo gli altri partecipanti-.
-Nemmeno la mia, ma è ovvio che lui ci sarà. I produttori cercheranno senz’altro di rendere interessante lo show sfruttando i vecchi rancori e le questioni in sospeso tra noi, anche la mail lo lasciava intendere. So che non ti farà piacere saperlo, ma sono abbastanza certa che ci saranno anche Duncan e Courtney- mi avvertì, ben sapendo quale effetto avessero su di me quei due nomi, specie se pronunciati insieme.
Questa volta, fu il mio turno per sospirare. –Ne ero certa. Stando a quanto dicono i tabloid di mezzo mondo, sembra che la loro storia vada a gonfie vele e che non riescano a stare per più di tredici secondi senza scambiarsi abbracci, bacini, coccoline e altre robe diabetiche. Che romanticoni- dissi, acida.
-Cerchiamo di vedere il lato positivo: potremo passare un po’ di tempo insieme e ci potremo dare man forte a vicenda- cercò di rincuorarmi lei.
Grazie a quel goffo ma dolce tentativo di rassicurarmi, cercai di mettere da parte un po’ della rabbia che in quel momento mi pervadeva e provare ad assecondare il precario ottimismo di Zoey.
-Non sarà una competizione, non dovremmo preoccuparci di eventuali tradimenti o alleanze, almeno per questa volta-
-Non so, ho come la sensazione che invece ce ne dovremmo preoccupare- disse lei. -Del resto dietro a tutto questo c’è ancora Chris, no? Da quando ci si può fidare di quello che promette?-

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Capitolo 2
*** Nel magico mondo dell'elettroshock ***


[Un mese più tardi]
 
Bagaglio a mano, passaporto e biglietto aereo. Avevo fatto il check-in ed ero pronta per l’imbarco. Dal momento che sarei partita dal freddo inverno canadese per atterrare nella perenne estate polinesiana, mi ero vestita a cipolla, con un imprecisato numero di strati di indumenti sotto al mio cappotto invernale.
Seduta accanto a me, una famigliola felice composta da padre, madre e pargolo frignone, rendeva l’attesa dell’aereo un po’ più insopportabile di quanto già non fosse.
Avevo detto a mia madre, mia nonna e a mio fratello della mia partenza una settimana prima, ma solo questi ultimi due erano venuti a salutarmi, un paio di giorni prima e all’insaputa di mia madre. Era stata una visita breve, ma l’avevo apprezzata molto.
Chi invece non aveva apprezzato questa partenza dell’ultimo minuto oltre alla mia genitrice, era Marilyn, la quale mi aveva concesso con riluttanza le due settimane di ferie che le avevo chiesto, nonostante avessi cercato di spiegarle nel dettaglio come stavano le cose e il motivo per cui non mi rimaneva altra scelta se non quella di partire.
-Gwen, non è per il lavoro. Me la posso cavare senza problemi per un paio di settimane anche da sola- aveva precisato. -Solo non capisco perché tu abbia accettato così, senza protestare, senza cercare un modo di aggirare questo dannato contratto che, onestamente, comincia a sembrarmi peggio di un patto col diavolo. Hai già dimenticato lo stato in cui ti trovavi quando sei tornata da Wawanakwa l’ultima volta? Eri arrabbiata, triste, profondamente delusa dalle persone che avevi creduto amiche e da quello che nel frattempo era diventato il tuo ex. Eravamo tutti seriamente preoccupati per te. Poi però un giorno sei venuta da me, sorridente come non ti avevo mai vita, per annunciarmi che avevi deciso di iscriverti all’università. Certo, poi le cose non sono andate come avevi programmato ma per lo meno sembravi avere superato quella fase. E adesso vieni qui, a dirmi che tornerai a fare la star dei reality di punto in bianco-.
Non ero riuscita a trovare le parole adatte per risponderle, così ero rimasta in silenzio, e Marilyn aveva continuato.
-Gwen, ti conosco abbastanza bene da sapere che sei testarda, molto testarda. Se vuoi qualcosa, te ne freghi degli ostacoli, vai e la ottieni. La stessa cosa vale per quando cercano di importi qualcosa: se non lo vuoi, non lo fai. Quindi non venirmi a dire che devi farlo. La verità è che tu vuoi farlo, è inutile che menti a me, o a te stessa. Vuoi riscattarti dal modo in cui ne sei uscita l’ultima volta, ma lascia che ti dica una cosa: tu non devi dimostrare niente a nessuno, tanto meno a quegli idioti. Vogliono solo fare audience sfruttando qualunque cosa possa mettere te e gli altri in difficoltà. E io non voglio vederti tornare a casa depressa ee delusa ancora una volta-.
Sospirai, cercando di scacciare il ricordo di quella conversazione dalla mia mente e di riconcentrarmi sul mio momento di noia con sottofondo di lagne infantili. Nutrivo il fondato sospetto che nei giorni successivi la noia sarebbe diventata un lusso che non mi sarei più potuta concedere ed infatti ne ebbi conferma quando, pochi minuti più tardi, scorsi tra la gente che proveniva dal check-in una persona da me tanto conosciuta quanto detestata.
Se c’era un fondo di verità nel detto “il buongiorno si vede dal mattino”, quella giornata, così come le successive quattordici, si preannunciavano un vero schifo.
Heather camminava tranquilla, tirandosi dietro un piccolo trolley rosso. Notai che i capelli le erano ricresciuti e che ormai avevano raggiunto la lunghezza che avevano prima che le venissero rasati per errore nella prima stagione.
Mi concessi un istante per gustarmi il ricordo di quel momento, lo stesso in cui avevo cominciato a credere nel karma senza sapere che, un paio di stagioni più tardi, avrei dovuto rendergliene conto a mia volta.
Quell’attimo di distrazione però durò un secondo di troppo e, quando tornai coi piedi per terra e ripresi a cercare Heather tra la folla con lo sguardo, mi accorsi che quest’ultima si trovava poco distante da me e stava ricambiando la mia occhiata.
Per qualche istante rimanemmo lì, immobili, a fissarci come due perfette cretine, indecise se ignorarci, insultarci o fare le persone mature salutandoci come se avessimo ormai seppellito l’ascia di guerra. Mentre ancora valutavo le alternative cercando di scegliere la più adatta, Heather decise per entrambe e compì il gesto più assurdo che mi sarei mai potuta aspettare da lei: sorrise.
In genere, i sorrisi di Heather erano rassicuranti come quelli del pediatra che da piccolo ti offriva il lecca-lecca per distrarti dal grosso ago che stava per infilarti nel braccio: falsi ed inquietanti. La vaga parvenza di sincerità che mi sembrò di intravedere in quello che mi stava rivolgendo lo attribuii al lungo periodo che avevo trascorso lontano da lei.
L’unica reazione che riuscii a produrre in risposta a quel gesto inaspettato, fu una smorfia che tentai invano di trasformare in un’espressione di distaccata cortesia.
Ero convinta che, dopo aver ricambiato quel sorriso da serial killer, la mia storica nemesi sarebbe andata ad aspettare la chiamata per il nostro volo ad almeno un chilometro da dove mi trovavo, invece successe il peggio: Heather venne verso di me e si accomodò proprio nel posto accanto al mio.
-Gwen! Come sono felice di rivederti!- esclamò.
E, proprio mentre cercavo di rendermi conto delle parole che mi aveva appena rivolto, questa si sporse verso di me e mi strinse in un abbraccio soffocante che durò non meno di quindici secondi. Quindici secondi di troppo durante i quali il mio cervello subì vari collassi e blackout nel tentativo di trovare il modo più corretto di elaborare quanto stava succedendo.
Una volta che mi ebbe lasciato andare, finalmente Heather parve accorgersi della mia espressione sconvolta e, a giudicare dalla sua reazione, sembrò rimanerci male.
-Oh, ehm...giusto, noi non ci vediamo da un po’, o meglio, da quando ero ancora una manipolatrice cinica ed egoista che usava le persone solo per il proprio tornaconto. Mi ricordi ancora così, vero? Lo sapevo, sapevo che avrei dovuto telefonarti, mandarti un messaggio, scrivere una lettera per scusarmi per tutto quello che vi ho fatto passare negli anni scorsi. Invece sono stata una codarda e ho preferito convincermi scioccamente che il tempo avrebbe sistemato tutto- disse, dopodiché sospirò, alzando gli occhi al cielo.
Okay, fermi tutti pensai. Sta forse cercando di convincermi che, nei tre anni in cui non ci siamo viste è improvvisamente diventata…buona?
Cercare di metabolizzare le parole che mi erano appena state rivolte si dimostrò alquanto difficile, in quanto stavo cercando contemporaneamente di capire in quale assurdo universo parallelo fossi finita mentre, ignara dei miei pensieri, Heather continuava a fissarmi con uno sguardo da cerbiatto innocente, in attesa di una mia replica.
Probabilmente, chiunque fosse in possesso di un briciolo di fiducia nell’umanità più della sottoscritta – qualcuno come Lindsay o Beth, ad esempio – avrebbe preso in seria considerazione l’idea di abbassare la guardia davanti a quell’atteggiamento all’apparenza così sincero e dispiaciuto. Del resto eravamo tutti cresciuti dall’ultima volta, no? Ci eravamo diplomati, avevamo trovato un lavoro o ci eravamo iscritti all’università, avevamo tutti lasciato le nostre case natali – tutti tranne DJ, che viveva ancora con sua madre – si supponeva quindi che, in tutto questo, avessimo trovato almeno un ritaglio di tempo per maturare e renderci conto di quanto ci fossimo comportati in modo infantile mentre, appena sedicenni, cercavamo di decidere se valesse di più la pena mantenere le amicizie costruite durante un assurdo campo estivo o di sfruttarle egoisticamente a nostro vantaggio per tentare di vincere una somma di denaro che era decisamente troppo cospicua per non solleticare la parte peggiore di noi e per non mettere a repentaglio qualunque nobile sentimento e proposito.
Forse, se al posto di Heather ci fosse stato qualcun altro, avrei anche potuto concedergli/le il beneficio del dubbio, ma la ragazza che avevo davanti, in apparenza diversissima dall’ultima volta che l’avevo vista sia nell’aspetto che nel comportamento, era in ogni caso la stessa che per quattro anni aveva manipolato qualunque persona avesse commesso l’errore di mostrarsi insicura o vulnerabile ai suoi occhi, aveva tentato di mettere gli altri partecipanti l’uno contro l’altro e non si era tirata indietro nemmeno di fronte alle peggiori bassezze pur di riuscire a conquistare ciò a cui ambiva. Aveva persino spezzato il cuore di Alejandro, probabilmente l’unica altra persona sulla faccia della Terra a possedere, ben nascosto sotto uno strato di caliente sensualità latina, un cuore di pietra abbastanza dura da riuscire ad accendere una scintilla di affetto dopo essere entrato in contatto con quello di Heather.
Anche se in quell’occasione i soldi non c’entravano nulla, per quale motivo avrei dovuto fidarmi di lei, dopo tutto quello che aveva fatto?
-Senti Heather…non ci vediamo da tre anni. Non ho idea di cosa tu abbia fatto in tutto questo tempo ma spero tu non mi consideri così ingenua da credere in un tuo improvviso abbandono del lato oscuro, dopo tutto quello che io e gli altri abbiamo passato a causa tua-.
La reazione che seguì alle mie parole, non mi sorprese più di tanto: si limitò a guardarsi la punta delle scarpe con aria rassegnata. Non che mi illudessi che avrebbe gettato la maschera dopo una provocazione così debole: quella ragazza amava le sceneggiate di quel genere, per questo avevano sempre fatto parte dei suoi piani subdoli. A volte mi chiedevo come mai non avesse deciso di darsi alla recitazione come aveva fatto Lindsay. Avrebbe potuto avere molto più successo di lei.
-Mi dispiace che la pensi così, Gwen, ma in effetti non potevo certo aspettami una risposta diversa da parte tua. Del resto hai tutte le ragioni del mondo per non fidarti. Spero che ora che non ci sono più soldi, alleanze e strategie di mezzo, capirai che questa volta sono sincera- si limitò a dire.
Non provai nemmeno a replicare e tentai di lasciare semplicemente cadere la conversazione. Peccato solo che le intenzioni della mia imprevista ed indesiderata compagna di attesa non coincidessero esattamente con le mie. Dopo solo qualche minuto di silenzio infatti, riprese a parlare come se niente fosse.
-Allora, che fai ultimamente? Lavori? Studi?- incalzò.
In quel momento mi fu tutto chiaro: Heather aveva abbandonato il lato oscuro per dedicarsi a quello molesto.
-Lavoro con un’amica in un negozio di abbigliamento alternativo- risposi, leggermente a disagio. Era sempre stata brava a mettere il dito nella piaga e in qualche modo era riuscita a farlo anche in un argomento di cui – in teoria – non sapeva nulla, scegliendo proprio quello che al momento mi metteva più a disagio.
-Oh, magnifico! Ti ci vedo proprio in un ambiente del genere. Quindi tu e la tua amica gestite questo negozio insieme? Siete socie?- chiese, conservando quel tono fastidiosamente innocente che non le si addiceva per niente.
-Ehm, non proprio- farfugliai, sempre più in imbarazzo. -Il negozio è suo e io sono una semplice…commessa-.
Considerato ciò a cui stavo assistendo, sarei dovuta essere preparata a qualunque reazione di quella versione riprogrammata di Heather, invece quando lei finalmente capì di avere fatto la scelta più sbagliata per cercare di portare avanti la conversazione, l’espressione affranta e colpevole che mi rivolse fu così spiazzante che per un attimo mi sembrò di udire un triste assolo di violino in sottofondo alla scena a cui stavo assistendo. Tanto ormai la situazione stava diventando talmente demenziale che niente avrebbe più potuto fare la differenza.
-Scusami, non volevo insinuare che…voglio dire, la commessa è un lavoro onesto, ha molti aspetti positivi e…sai, con questa crisi avere un lavoro vuol dire molto, dovremo essere grate per…-
-Sì, è un lavoro come un altro, ci pago cibo e bollette, quindi non ho niente di cui lamentarmi- tagliai corto, stanca dei giri di parole con cui stava cercando di porre rimedio alla sua figuraccia.
Durante i pochi secondi di silenzio che seguirono, considerai l’idea di farmi dare il numero del medico che aveva scavato nei meandri di quel suo cervellino malefico fino a trasformarla in una parodia di sé stessa. Ormai avevo perso il conto delle volte in cui avevo preso in seria considerazione la possibilità di sottopormi a mia volta a qualche seduta di elettroshock che mi facesse dimenticare tutta la mia vita fino a quel momento per poter finalmente ricominciare da capo.
-Scusami, non sapevo di aver toccato un nervo scoperto- ricominciò Heather.
-Non fa niente- risposi secca, mettendo un punto a quell’assurda parentesi.
Per qualche minuto calò il silenzio. Il bambino aveva smesso di frignare e Heather stava digitando un messaggio sul suo smartphone muovendo le dita ad una velocità impressionante. Per ammazzare il tempo presi dal bagaglio a mano che avevo con me il libro di Edgar Allan Poe che avevo portato con me ed iniziai a leggere, sperando che le interruzioni indesiderate fossero finite.
Speranza a cui mi affidai senza tenere conto che quel giorno la fortuna aveva per qualche ragione deciso di non prendermi in simpatia. Dì lì a pochi minuti infatti, il telefono di Heather iniziò a squillare.
-Pronto?- rispose. –Sì, sì, sono in aeroporto. Va tutto bene?-
Cercai di rimanere concentrata sul mio libro, invano. Con la coda dell’occhio mi accorsi che, mentre dall’altro capo del telefono il suo interlocutore parlava, sul volto di Heather stava comparendo a certa espressione, ma non una qualsiasi. Era di un genere molto raro, specialmente nel suo caso. Non avrei mai potuto immaginare di vivere abbastanza a lungo da vederla impressa su colei che avevo sempre considerato come la personificazione stessa della perfidia, eppure era palese.
L’espressione da triglia lessa.
-Oh, lo so, anche tu mi mancherai, ma saranno solo due settimane. Non dirmi così, altrimenti sopportare la lontananza sarà ancora più difficile…sì, ti penserò tutti i giorni e tutte le notti. Tu farai lo stesso vero, amore mio?- stava dicendo.
Ascoltando la risposta Heather si morse il labbro inferiore, mentre fissava un punto vago davanti a lei con aria sognante.
-Okay tesoro, adesso devo lasciarti, non voglio che tu faccia tardi al lavoro per colpa mia- disse, in tono melenso.
Seguì la risposta da parte del tizio che però non riuscii a comprendere.
-Sei il mio orsacchiotto, non dimenticarlo. Ti amo anch’io. Ciao ciao- concluse, dopodiché finalmente riagganciò e sospirò, sempre continuando a sorridere come un’ebete.
Fortunatamente Heather era così impegnata a crogiolarsi nell’aura di cuoricini rosa che le fluttuavano intorno da non accorgersi della mandibola che si era staccata dal resto della mia faccia e in quel momento stava rotolando in giro per l’aeroporto a causa dello choc dovuto alla conversazione che avevo mio malgrado origliato.
Heather era in grado di provare dei sentimenti?
O meglio, Heather era in grado di provare dei sentimenti positivi verso un altro essere vivente?
Il livello di assurdità di quel momento stava raggiungendo picchi decisamente troppo elevati da sopportare.
Per quanto una parte di me desiderasse disperatamente sapere quale esemplare di ibrido tra uomo e demone fosse riuscito a conquistare e sciogliere l’iceberg in cui Heather aveva tenuto ibernato il suo cuore negli ultimi vent’anni e, soprattutto, in che modo, decisi di tenere per me quella curiosità per due ragioni: primo, non ero sicura al 100% di possedere la preparazione psicologica sufficiente per conoscere la risposta; secondo, non volevo certo essere io dare alla mia (ex?) nemesi un pretesto per ricominciare a parlare.
Peccato che l’universo non ne volesse sapere di farmi stare tranquilla per più di un minuto e ventitré secondi. Doveva averci preso nuovamente gusto a giocare a “rendiamo la vita impossibile a Gwen”.
Trascorso il suddetto lasso di tempo infatti, Heather riprese la parola, ma questa volta la sua voce fu il minore dei mali. Quello che disse infatti, mi spiazzò molto di più.
-Ehi, non sono Duncan e Courtney, quelli che stanno venendo verso di noi?-

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Capitolo 3
*** V.I.P. (Very Idiot Person) ***


Quando Heather se ne uscì con quella frase, il mio primo istinto fu quello di guardarmi intorno nel modo più discreto possibile, alla ricerca di qualunque pretesto potesse rappresentare per me una via di fuga ma purtroppo, durante la mia scansione, il mio sguardo incrociò proprio quello di colui che avrei voluto evitare ad ogni costo: Duncan.
Era proprio lì, ad una manciata di metri da noi, ed era completamente diverso dall’ultima volta in cui ci eravamo visti.
Fu praticamente impossibile per me evitare di paragonarlo al ragazzo che avevo conosciuto cinque anni prima e di cui, mio malgrado, ero stata innamorata. Del suo look punk fatto di teschi, borchie, piercing e corredato dall’immancabile cresta verde non era rimasto quasi niente. In quel momento indossava un comune paio di jeans ed un elegante giaccone blu. Portava i capelli corti, ordinati, del loro nero naturale. Solo il piercing al sopracciglio si era salvato dal restyling a cui la sua amara metà lo aveva sottoposto (perché non nutrivo il minimo dubbio sul fatto che fosse Courtney la responsabile di un cambiamento tanto drastico).
Ovviamente avrei detto una balla grande quanto il Canada se avessi negato di essere rimasta informata sulla sua vita. Non che fossi il genere di ragazza che tra i suoi hobby annovera lo stalking compulsivo nei confronti dei propri ex tramite social network, ma per riuscire ad evitare i gossip su Duncan, la sua carriera e sulla sua storia con Courtney avrei dovuto come minimo trasferirmi su Urano.
Le facce di quell’essere a due teste che i fan più accaniti avevano rinominato Duncney infatti, me le trovavo davanti praticamente ovunque, tra giornali e internet: Duncan e Courtney insieme sul red carpet di qualche evento mondano, Duncan e Courtney ospiti ad un talk-show, Duncan e Courtney nel backstage di uno dei concerti dei Der Schnitzel Kickers, Duncan e Courtney mentre uscivano dal ristorante in cui avevano cenato in occasione del loro anniversario,  Duncan e Courtney al supermercato mentre compravano carciofi biologici, Duncan e Courtney durante una romantica passeggiata con Brittany, il loro procione, la quale se ne stava adagiata in un’imbarazzante carrozzina corredata di pizzi e fiocchetti rosa, in tinta con il completino che la mia ex-amica aveva rifilato alla povera creatura e che probabilmente anche i chiwawa di Paris Hilton si sarebbero rifiutati di indossare invocando un minimo di dignità personale.
Purtroppo però, tra vederli per un attimo alla tv durante lo zapping o sulle pagine di un giornaletto di gossip mentre aspettavo il mio turno dalla parrucchiera e trovarmeli di fronte mentre mi notavano, camminavano verso di me e si preparavo ad interagire, c’era un attacco d’ansia e un mezzo infarto di differenza.
Courtney fu la prima a raggiungerci mentre Duncan se ne stava un passo dietro a lei, trascinandosi dietro sia il suo borsone che il trolley di Louis Vouitton della sua ragazza.
“È  quasi confortante vedere come certe cose non cambino mai” pensai, mentre Courtney si fermava davanti a me e dalla versione lobotomizzata di Heather e faceva cenno a Duncan di imitarla. Lui, ovviamente, obbedì.
-Salve ragazze!- ci salutò, tendendoci la mano e rivolgendoci un formale sorriso di cortesia. Più che un saluto tra vecchie conoscenze che si incontravano nuovamente dopo essersi fregate alla grande della reciproca esistenza per anni, sembrava una presentazione tra avvocato e cliente. Rimasi quasi sorpresa quando non vidi comparire nessun biglietto da visita tra le dita della mia vecchia rivale. Strinsi scettica la mano che quest’ultima mi stava porgendo, ricambiando il suo sorriso con un altro, della durata di circa mezzo nanosecondo.
-Courtney- dissi, mantenendo un tono distaccato ed evitando accuratamente ogni genere di contatto visivo con il suo ragazzo.
Quando fu il turno di Heather, questa si alzò in piedi, ignorò il tentativo di Courtney di salutarla in modo così formale e le rifilò lo stesso genere di abbraccio con cui poco prima aveva stritolato me.
Devo ammettere che fu parecchio divertente assistere al momento in cui i modi sicuri e misurati della mia ex amica e le sue capacità cerebrali andarono in corto circuito di fronte a quel gesto che definire “inaspettato” sarebbe stato giusto un tantino eufemistico. Non riuscii a reprimere una risatina di fronte alla sua espressione a metà tra lo sconcerto e il disgusto ma, un attimo dopo, il miei occhi incrociarono nuovamente quelli di Duncan e il mio sorriso svanì più in fretta di un biscotto di fronte a Owen.
Il suo sguardo era comprensibilmente confuso. “Che-diavolo-sta-succedendo?” stava chiedendo.
Risposi con lo sguardo della serie “Ne-so-quanto-te” più distaccato che mi riuscisse, dopodiché cercai di riconcentrarmi sul mio libro.
-Ok, Heather, ehm, va…va bene così- disse Courtney, allontanandola con una pessima imitazione di sorriso diplomatico.
Heather si voltò allora verso Duncan, il quale però alzò preventivamente la mano con cui poco prima stava trascinando il trolley della sua ragazza per fare segno all’altra di non avvicinarsi ulteriormente.
-No, grazie, sto cercando di smettere- disse, col suo vecchio tono sarcastico.
A quelle parole avvertii una sensazione di nostalgia che tentai subito di reprimere. Volevo tenere lontano il più possibile ogni mio pensiero, paranoia o film mentale lontano dai ricordi del Duncan che in passato avevo creduto di conoscere. Sentivo che la mia vera sfida, nelle successive due settimane, sarebbe stata proprio quella di dimostrare di aver ormai superato qualunque ostilità rimasta in sospeso dopo All Star e di essere cresciuta e maturata, così come avrebbero dovuto fare anche tutti gli altri. Dopotutto ormai eravamo degli adulti sotto quasi tutti gli aspetti. Avevamo ufficialmente lasciato a Wawanakwa le tempeste emotive ed ormonali della nostra adolescenza. Un’adolescenza tutto sommato normale, se si tralasciava il fatto che l’avevamo vissuta in mondovisione tra una sfida potenzialmente mortale e l’altra.
Sospirai silenziosamente.
Iniziai a pensare che forse mi stavo preoccupando troppo del confronto con i miei vecchi compagni di disgrazie e troppo poco di quello che, con tutta probabilità, Chris stava progettando a nostro discapito proprio in quel momento.
Nel frattempo, Heather, con un’aria leggermente delusa dipinta in volto, era tornata a sedersi, imitata dai due trottolini amorosi.
Courtney prese posto due sedie alla mia destra, concedendomi quel minimo di spazio vitale che la mia vecchia nemesi aveva invece ampiamente invaso senza farsi troppi problemi. Apprezzai il gesto almeno fino a quando Duncan non decise di accaparrarsi proprio il posto libero tra la sua ragazza e me.
A volte non potevo davvero fare a meno di chiedermi come quei due riuscissero a stare insieme. Lo so, si dice che gli opposti si attraggano ma, al di là del fatto che ero sempre stata parecchio scettica in merito alla suddetta teoria, quei due erano anche troppo opposti: lei maniacalmente ordinata, lui caotico sotto quasi ogni aspetto; lei responsabile, lui incosciente; lei lungimirante e determinata in ogni sua scelta, lui fervente attivista della filosofia del “vivere alla giornata” (a meno che quella giornata non fosse stata organizzata dalla stessa Courtney, cosa che sospettavo avvenisse abbastanza spesso); lei sveglia e perspicace, lui, alle volte, un po’ tonto. E la sua decisione di prendere il posto che Courtney aveva lasciato libero – sospettavo di proposito, perché lei non faceva mai niente di casuale – era il perfetto esempio che dimostrava quell’ultima peculiarità.
Ero tentata di dare una sbirciata alla reazione di Courtney di fronte alla scelta di Duncan, ma rinunciai per evitare di incrociare il suo sguardo. Ero fermamente intenzionata a tenermi il più possibile ai margini di tutto ciò che mi aspettava, lontano dai casini e dai guai, e il modo migliore per farlo era mostrarmi il più possibile distaccata ed indifferente da tutto e da tutti, a meno che non mi riguardasse direttamente.
Rimasi concentrata sul mio libro e nessuno parlò più per un po’. Furono i trenta secondi più tranquilli di tutta la mattinata. Sfortunatamente però, Heather non era stata l’unica contagiata dal virus della logorrea inopportuna, perché, con la coda dell’occhio, vidi Duncan voltarsi verso di me e aprire la bocca con il chiaro intento di rivolgermi la parola. Il panico s’impossessò rapidamente di me al pensiero di ciò che avrebbe potuto chiedermi e, soprattutto, di come la sua gelosissima ragazza avrebbe potuto reagire di fronte a quel tentativo di rompere il ghiaccio - quell’opportuna ed importantissima barriera di ghiaccio spessa come minimo un paio di chilometri che ci divideva da tre anni e dietro cui mi sentivo tranquilla e protetta. Per una volta però la divina provvidenza provò un minimo di compassione nei confronti della penosa sfigata che ero e decise quindi di far apparire dal nulla un ragazzo poco più giovane di noi che riconobbe Duncan e decise di avvicinarsi per chiedergli una foto.
Nel giro di poco, una piccola folla si radunò intorno a Duncan e Courtney che, da brave celebrità quali erano, iniziarono ad elargire autografi e selfie alla plebe in adorazione.
Capii che quella era la mia unica occasione per riuscire ad allontanarmi da quel disagiato gruppetto senza passare per un’emerita stronza asociale e cercai di approfittarne prima che qualcuno avesse il tempo di riconoscermi.
Per una volta, le cose andarono come avevo sperato e mi allontanai assieme al mio bagaglio a mano, cercando di tenere lo sguardo ben puntato per terra. Col senno di poi, imparai una lezione abbastanza fondamentale nella vita di tutti i giorni: guarda sempre dove vai. Qualche secondo dopo infatti, mi scontrai con un tizio che se ne stava fermo nel bel mezzo del corridoio e solo per miracolo riuscii a non perdere l’equilibrio.
-Ehi, stai più attenta!- disse l’uomo, o meglio, il ragazzo.
-Se magari evitassi di fermarti in mezzo al passaggio come un…Trent?-
Il ragazzo alzò lo sguardo. Nonostante avesse avuto il buonsenso di vestirsi in modo abbastanza anonimo e tenesse il cappuccio della sua anonima felpa nera calato quasi fino agli occhi  - al contrario di Duncan, che per come si era presentato sembrava sperasse di essere braccato dalla folla come stava effettivamente succedendo - , era chiaro che fosse lui, lo avrei riconosciuto ovunque.
Quando anche lui mi riconobbe, la sua espressione passò da allarmata a sorpresa.
-Gwen?!- esclamò. –Cavolo, quasi non ti riconoscevo!-
Trent mi strinse in un abbraccio amichevole della durata di un paio di secondi, ossia il massimo tollerabile per i miei standard sul contatto fisico, cosa che apprezzai parecchio.
-Come stai?- chiese.
-Sono dannatamente agitata al pensiero di cosa ci aspetta nelle prossime due settimane, sono scappata appena in tempo da una banda di fanatici di Duncan e ho avuto un’assurda chiacchierata con la gemella buona di Heather, la quale se ne va in giro spacciandosi per lei. A parte questo, sto una meraviglia, grazie, e tu?-
Trent mi fissò perplesso per qualche secondo.
-Ehm…che ne dici se andiamo a prenderci un caffè e ne parliamo con calma?-
 
***
 
-Quindi Duncan e Courtney sono qui?-
-Già- risposi, mentre ci accomodavamo al tavolino della caffetteria.
-E cosa intendevi con “la gemella buona di Heather”?- chiese Trent.
-Beh, fisicamente parlando sembra proprio Heather in tutto e per tutto ma si comporta in modo strano. Quando sono arrivata mi ha abbracciata come se fossimo vecchie amiche, dopodiché ha cominciato a farmi un sacco di domande sulla mia vita e quando si è accorta che non le rispondevo con il suo stesso entusiasmo, si è addirittura scusata per il modo in cui si è comportata con noi in passato, dicendo che adesso è cambiata e che non è più una stronza. Valle a credere-
-Stai scherzando?- fece lui, incredulo.
Io scossi la testa e presi un sorso del mio caffè. –E sai qual è stata la parte più assurda? Ad un certo punto ha ricevuto una telefonata da quello che credo fosse il suo ragazzo e…-
-Ehi, aspetta, frena…- m’interruppe lui. –Heather sa provare sentimenti? Sentimenti buoni?-
A quelle parole sorrisi. -Ho pensato la stessa identica cosa-.
-Assurdo- commentò.
-E non è tutto…le cose che si dicevano erano talmente smielate che credo di aver sfiorato il diabete. Soprattutto quando, subito prima di riagganciare, lei lo ha chiamato “orsacchiotto” o qualcosa del genere-
Trent mi fissò a bocca aperta, sconvolto.
-Lo so- continuai. –Non ci avrei mai creduto se non l’avessi sentito con le mie orecchie-.
-Fino a quando non lo vedrò con i miei occhi, nessuno mi toglierà dalla testa la convinzione che l’orsacchiotto in questione abbia le sembianze di un cerbero o di un minotauro-
Per la prima volta da quando avevo messo piede in quell’aeroporto, risi di gusto. Era bello essere finalmente in compagnia di qualcuno sano di mente.
Al contrario di me, Trent aveva sempre avuto le idee chiare su cosa fare dopo “A tutto reality” e le aveva messe in pratica con successo in quegli ultimi tre anni. Dopo la breve esperienza nella band I Fratelli Reality, aveva inciso due album da solista che gli avevano spianato la strada verso un successo internazionale ampiamente meritato. Grazie ai social sapevo che viveva tra Toronto, New York e Los Angeles e che poteva vantare una nutrita schiera di fan adoranti, nonché una cospicua quantità di trascorsi con modelle, cantanti e attrici varie, che andavano dal breve flirt alla relazione impegnata. Al momento però sui social si dichiarava single, per la gioia delle sue groupie.
-Potrà essere anche un cerbero o Satana in persona, a prescindere da tutto, semmai lo incontrerò, come prima cosa gli farò le condoglianze- dissi.
Questa volta fu Trent a ridere, poi seguì un breve momento di silenzio.
-Cambiando argomento- continuò. -Secondo te, qual è la vera ragione che ha spinto Chris ad organizzare questa reunion? Sinceramente non mi sembra molto credibile questa storia dell’improvviso ed esponenziale aumento di richieste da parte dei fan-
-Già, nemmeno io sono molto convinta di questo. Scommetto quello che vuoi c’entra la carriera del nostro amico McLean. Con “A tutto reality” ha raggiunto l’apice, da quando è finito lo show non è più stato molto considerato-
-In effetti i suoi ultimi programmi non sono stati esattamente dei successi. Il survival-quiz “Chi vuol essere mutilato?” è durato appena un paio di stagioni e “Karaoke col grizzly” non ha sfornato i grandi talenti canori che prometteva di lanciare. Subito dopo la fine della prima edizione tutti i concorrenti sono finiti nel dimenticatoio…o prima in ospedale e poi nel dimenticatoio. In ogni caso è stato un flop colossale-
-Già, per tutti tranne che per il grizzly. Lui ha inciso un album- puntualizzai.
-Vero, l’unico che ha avuto successo. Al momento è in tour negli Stati Uniti. Apre i concerti di Justin Bieber-
-Anche Chef ha provato a lanciare il suo reality di cucina, se non sbaglio si chiamava “Indovina cosa c’è per cena?” l’hai guardato?-
-No, ma so che l’hanno cancellato dopo solo tre puntate. Vantava già il più altro numero di intossicati di tutta la storia della tv ed insultare Gordon Ramsay fino a farlo piangere è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso-.
Bevvi l’ultimo sorso del mio caffè e Trent fece altrettanto.
-Sai, inizio a pensare che quei due siano persi senza di noi- dissi. –Il che è preoccupante, perché significa che siamo la loro ultima spiaggia, ergo: si faranno ancora meno scrupoli del solito-
-Secondo te cosa ci aspetta?- domandò Trent in tono rassegnato.
-A voler essere ottimisti, gli Hunger Games-.




*N.d.A. Perdonate la mia assenza, ultimamente sono stata un po' presa dal lavoro. Giuro solennemente che questa ff non rimarrà incompleta, anche perchè ormai sto pensando alla trama da talmente tanto tempo che non me lo perdonerei mai. Al prossimo capitolo :)*

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