St. Jimmy Rebel

di Midnight the mad
(/viewuser.php?uid=489735)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Running away from pain when you’ve been victimized, tales from another broken home. ***
Capitolo 2: *** City of the dead at the end of another lost highway, sings misleading to nowhere ***
Capitolo 3: *** And Mary Jane to keep me insane and doing someone else's cocaine ***
Capitolo 4: *** From Chicago to Toronto she's the one that they call Old Whatsername ***
Capitolo 5: *** I'm the son of rage and love, the Jesus of Suburbia, from the Bible of none of the above ***
Capitolo 6: *** Cigarettes and Raman and a little bag of dope, I am son of a bitch and Edgar Allan Poe ***
Capitolo 7: *** There’s nothing else to analyze. Where will all the martyrs go when the virus cures itself? ***
Capitolo 8: *** Are we, we are, are we, we are the waiting unknown ***
Capitolo 9: *** Welcome to a new kind of tension, all across the alienation ***
Capitolo 10: *** King of the forty thieves and I’m here to represent the needle in the vein of the establishment ***
Capitolo 11: *** St. Jimmy’s coming down across the alleyway, up on the boulevard like a zip gun on parade ***
Capitolo 12: *** She’s a rebel, she’s a saint, she’s salt of the Earth and she’s dangerous. ***
Capitolo 13: *** 13. Waste another year flies by, waste a night or two; you taught me how to live in the streets of shame ***



Capitolo 1
*** Running away from pain when you’ve been victimized, tales from another broken home. ***


Running away from pain when you’ve been victimized, tales from another broken home. 

Vaffanculo.
Sì, esatto, vaffanculo. Fottetevi tutti, stronzi, perché io ne ho le scatole piene.
Cambio rabbiosamente canale alla TV, ma tutto quello che riesco a vedere sono le solite facce di merda che dicono le solite cose di merda. Nella mia testa continuano a risuonare le parole di mia madre. Quelle parole cariche di disprezzo. è stanca, stanca di me, ovviamente, visto che non ho mai combinato niente nella vita. è esattamente quello che mi ha detto, infatti. Hai vent’anni, non puoi continuare così, non hai un cazzo di lavoro e io sono stanca di te.
Sì, insomma, penso che quando tua madre ti dice che è stanca di te allora vuol dire che sei messo davvero male. Probabilmente sì, probabilmente sono messo davvero male, anche peggio. So che mi ha sopportato per venti fottuti anni di vita, quella donna, ma adesso l’unica cosa che mi viene in mente è che sia una schifosa troia menefreghista. Forse mi piacerebbe davvero che lo fosse, così potrei odiarla e avrei ragione a farlo. E invece no. Non posso odiarla, perché il problema sono io. Io dovrei esserle grato, ecco cosa, dovrei essere una brava persona. Solo che essere grati è una grande rottura di coglioni, eccome. Nessuno è grato sul serio, diciamocelo, ci importa solo del presente, visto che dopotutto non ha senso che ci importi del passato. Il passato è passato, e sicuramente non tornerà. E per quanto mi riguarda può anche andare a farsi fottere anche lui, perché sinceramente non mi sento affatto a posto con il mio passato. Cioè, io dovrei essere un bravo ragazzo, vista la vita che ho fatto. Non ho mai vissuto male, niente di niente. Eppure non ho mai combinato nulla. Ho mollato la scuola a diciassette anni e non so neanche perché. L’ho fatto e basta. Mi ero stancato, probabilmente. Sì, è così, direi. Mi stanco sempre delle cose. Verrà un giorno in cui mi stancherò anche della vita, e allora mi pianterò una pallottola in testa e tutto il mondo sarà contento. Non sarei poi questa grande perdita, non criticherebbero nemmeno il mio gesto, non ci sarebbe nessuno a farlo. Che poi, a me fanno ridere quelli che criticano le persone che si sono ammazzate. Cioè, pensano sul serio che per quelli che si sono uccisi le loro parole contino qualcosa? Il suicidio è una fuga dal mondo. E se scappi vuol dire che non pensavi che ci fosse qualcosa per cui valesse la pena restare.
Neanche io credo che ci sia qualcosa per cui vale la pena restare, però direi che sono ancora qui. Perché sono coraggioso o perché sono un codardo? C’è chi dice che a spararsi ci vuole coraggio, perché la morte fa paura. Altri invece sono convinti che ammazzarsi sia un atto di codardia. Io credo semplicemente che sono ancora
qui perché non ho nessun vero motivo per andarmene. Neanche per restare, comunque, a dire il vero.
Spengo la TV gettando il telecomando per terra e mi alzo dal divano, guardandomi intorno alla ricerca di qualcosa da fare. Potrei tirare fuori un po’ di vittimismo del cazzo ed andarmene di casa con la scusa che mia madre mi tratta male, ma la verità è che sono un fottuto nullafacente trattato fin troppo bene che è fortunato a non essere ancora stato mandato fuori a calci in culo.
Guardo la chitarra appoggiata alla parete. Ho voglia di suonare, cazzo. Ho imparato da solo e faccio abbastanza schifo, a dire il vero. La chitarra non è neanche mia, è stata un regalo di mio padre a mia madre per un suo compleanno di chissà quanti anni fa. A me da sui nervi come la suona lei. è brava, è quello il problema. Brava, precisa e sempre con lo stesso ritmo calmo e schifoso delle canzoni che ascolta lei.
Prendo la chitarra e mi schiaffo davanti un quaderno dove lei segna gli accordi e i testi. Li sfoglio per un po’, ma non trovo niente che io abbia voglia di suonare. Già di solito è difficile, ma adesso spaccherei le corde della chitarra, e queste canzoni non vanno bene, affatto. Alla fine decido che non me ne frega niente e attacco una canzone distorcendo gli accordi, troppo veloce e sempre più stonato. Eppure, porca miseria, quella canzone è così che andrebbe suonata, non con la stupida inespressività con cui la suona lei.
                       
I am just a poor boy
through my story’s seldom told,
I have squandered my resistance
for a pocket full of mumbles such are promises
all lies and jests
still a man hear what he wants to hear
and disregards the rest.
 
Ma porca miseria, come si face a cantare con quel tono indifferente una canzone così? Va cantata con disperazione o rabbia o lacrime, e per questo mi stanno sul cazzo quegli idioti di Simon e Garfunkel che sono stati capaci di sprecare un testo del genere con una musica di merda.
O forse è solo che una canzone ognuno la deve cantare per come la vuole sentire, altrimenti non ha nessun senso. Però io sono solo un fottuto vittimista, e fa sempre comodo pensare che tutto il fottuto mondo ce l’abbia con te, no?
Sì, troppo comodo.
Butto la chitarra per terra come capita, mi alzo di nuovo ed esco dalla porta.
 
- No, aspetta, cos’è che dovrei scriverci? –
Ripeto, quasi con rabbia. Ma che cosa c’è di difficile da capire?
L’uomo mi fissa. – Beh, d’accordo. – dice, girando verso di me lo schermo di un computer con quelle parole scritte in un carattere standard. – Che carattere vuoi? –
- Non voglio un carattere. Voglio che me le scriva a mano. –
- Non faccio tatuaggi a mano libera! Mi serve almeno un modello! –
- Beh, non me ne frega un cazzo. Me lo fai a mano libera. –
- Rischia di venire uno schifo. –
- è uguale. Tanto meglio se viene una merda. –
Mi guarda male. – Allora dammi i soldi subito. Sennò poi chissà quale scuse idiote di risarcimento tiri fuori per rifiutarti di pagare. –
Gli mollo le banconote in mano e dopo poco lo sento armeggiare con il mio avambraccio. Ho voluto che fosse scritto lì, perché almeno potrò vederlo sempre e mi ricorderà continuamente che merda sono.
L’ago sulla pelle fa male, ma quasi non ci faccio caso. Finisce prima che io me ne renda conto e mi fascia l’avambraccio. – Beh, io ho finito. – dice.
Mi alzo e me ne vado senza neanche salutare. Anch’io ho finito, qui. Sul serio.
Non sono mai stato il tipo da biglietti di addio. Scomparire è già un saluto abbastanza chiaro, direi, non c’è bisogno di parole. Salgo in auto e accendo il motore. Non so come cazzo me la caverò. Non ho soldi, non ho conoscenze fuori da questa città di merda, non ho un futuro programmato. Ho soltanto un tatuaggio che mi ricorderà sempre che se mi sono ficcato in questa merda è soltanto per colpa del mio vomitevole vittimismo.
Mi strappo la fascia dall’avambraccio, e le lettere sprecise e storte sono come pugni in faccia. Eppure, eccomi qui, a filarmela. Perché magari sono così idiota che credo davvero di avere una fottuta speranza. Anche se è impossibile e lo so benissimo. Ma, dopotutto, Simon e Garfunkel forse ragione su qualcosa ce l’avevano.
Still a man hear what he wants to hear and disregards the rest.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** City of the dead at the end of another lost highway, sings misleading to nowhere ***


City of the dead at the end of another lost highway, signs misleading to nowhere. 

La pioggia scende dal cielo silenziosa, fredda. Mi guardo intorno. Sono in un vicolo stretto e puzzolente con i vestiti sporchi e inzuppati, con sopra un cielo in cui sono stipate nuvole nere e gelide.
Chiudo gli occhi per un secondo mentre ripenso a come sono arrivato qui.
 
Ho guidato per ore e ore, giorni, fino a quando ho avuto soldi per riempire il serbatoio. E non so nemmeno perché. Sentivo solo il bisogno di allontanarmi il più possibile da dove ero partito, da quel posto che ormai non è più casa mia.
Con l’ultimo pieno sono andato più avanti che ho potuto, fino a quando la mia macchina non si è fermata in mezzo al nulla più totale. Sono sceso e l’ho lasciata lì. Non volevo chiedere aiuto, volevo solo continuare ad andare avanti. Chissà se qualcuno ce l’ha levata, da quella stradina sperduta, o se invece è ancora lì. Beh, poco importa, a dire il vero. Tanto non era neanche mia, quella macchina.
Ho camminato per un sacco di tempo. Non so neanche quanto. Sono semplicemente andato avanti fino a quando sono riuscito a reggermi in piedi. Fino a quando non ho trovato questa città, cioè. Non so neanche esattamente come si chiami, comunque è grossa, grossa ma vuota, incredibilmente vuota. Non che non ci sia gente, ovviamente, certo che c’è, la gente, però passeggiando per le vie del centro è impossibile vederla piena. Piena di vita. è una città morta, questa, ecco che cos’è. Si vede negli occhi della gente, che cammina per le strade guardandosi continuamente intorno. Quei pochi bambini che ci sono sembrano non avere molta voglia di stare fuori a giocare, e quelli che lo fanno non sembrano mai davvero felici o tranquilli. Non capisco perché, ma la gente qui ha paura, riesco a leggerlo nei loro occhi.
Il primo giorno non ho mangiato nulla, e mi sono messo a dormire su una panchina. Il secondo giorno perciò avevo fame. Ho rubato qualcosa in un negozio, e credo anche che se ne siano accorti, ma nessuno ha detto niente. L’uomo alla cassa mi guardava come se lo stessi spaventando. Non so perché. Porca miseria, non credo di avere l’aria di uno che sparerebbe a qualcuno, anche se non sembro il classico tipo raccomandabile, visto che sono pieno di tatuaggi e ho sempre addosso gli stessi vestiti neri e sbrindellati. Beh, adesso non potrei cambiarmeli neanche se volessi, comunque non è che prima lo facessi molto spesso, a dire il vero.
Sono andato avanti così per quasi una settimana, fino a oggi, cioè. Non ho mai chiamato mia madre, ho buttato il cellulare in un cassonetto il primo giorno di viaggio perché non volevo parlarle, e soprattutto non volevo rischiare di essere trovato. Probabilmente sarà preoccupata, credo, anche se è difficile ammetterlo. Preferirei di gran lunga che se ne fregasse, e sarebbe bello fingere che lo faccia, ma in fondo so benissimo che non è così. Sarà preoccupata, come sempre. Anche se mi ha detto quelle cose penso che alla fin fine mi voglia bene. Le madri vogliono quasi sempre bene ai figli. Che idiote che sono. Non ce lo meritiamo, il loro amore, neanche un po’. Eppure ce lo prendiamo, perché siamo figli proprio di quell’amore e ne siamo dipendenti, ne abbiamo bisogno perché è quello che ci ha fatti crescere.
Ma io adesso sono qui, che quell’amore lo rifiuto. Forse ho deciso che ho voglia di disintossicarmi, non so. O forse è solo che da qualche parte in me c’è anche qualcosa di enorme, una rabbia che non so da dove viene, so solo che c’è e che non sono capace di sfogarla. Rabbia, rabbia verso me stesso e verso il mondo e anche verso mia madre e mio padre, che non mi hanno mai fatto niente di male. Eppure gli schiaffi fanno male, e anche gli sguardi e le parole. E non puoi evitarti di odiare, quando arrivano. Puoi volere tutto il bene del mondo a chi te li da, ma nessun bambino ama essere punito. Per quel momento, solo per quel momento, odierà i suoi genitori, sarà arrabbiato con loro. Ci sono sempre momenti in cui ci arrabbiamo anche con le persone a cui vogliamo bene, in cui le odiamo. Non so perché, visto che sembra una cosa davvero ingiusta, eppure quei momenti ci sono, e sono sempre capaci di rovinare tutto. Sì, in fondo penso che sia andata così. Si sono accumulati così tanti piccoli momenti di rabbia e odio che alla fine tutti i miei ricordi sono diventati quei momenti. Quando penso a dei momenti belli della mia vita mi sembrano tutti estremamente falsi. Le uniche cose vere sono quell’odio e quella rabbia, che vengono sia dall’infanzia che dall’adolescenza che da quello che sono adesso. Non so se posso definirmi “adulto” anche se anagraficamente lo sono, visto che non sono affatto indipendente né maturo. Già, perché una persona matura non se ne sarebbe andata di casa per delle parole di sua madre, non avrebbe reagito come un bambino a uno schiaffo o al sequestro del suo giocattolo preferito o un adolescente a una punizione per essere stato scoperto a ubriacarsi. E invece io l’ho fatto, ho fatto quello che né un bambino né un adolescente potrebbero fare: in quel momento di odio me ne sono andato di casa, ho mollato tutto. Mi sono detto di non avere bisogno lei, l’ho odiata. Adesso non è più così; adesso, sotto questo cielo che sta cadendo, so di avere bisogno di lei, perché ho paura. Ho paura di questa città, ho paura del futuro. Ma, come a differenza di un bambino ho avuto la possibilità di andarmene davvero, adesso non ho la possibilità di tornare indietro. Un bambino può sempre tornare sui suoi passi, perché effettivamente non può fare mai qualcosa di davvero definitivo. Io invece l’ho fatto, ho superato il limite. E quel limite si può superare solo all’andata, al ritorno è una muraglia invalicabile.
Prendo un respiro, costringendomi a togliermi da sotto questo acquazzone, se non altro perché se non lo faccio rischio di prendermi chissà cosa. Cammino alla ricerca di qualcosa sotto cui ripararmi, almeno un tetto sporgente. Devo arrivare fino una delle vie principali per trovarlo. Mi lascio cadere sul marciapiede bagnato, fissando le gocce che cadono, e mi chiedo cosa fare. Non adesso, sempre. Per tutto il resto della mia vita. Sono arrivato in questa città morta alla fine di una strada lungo la quale ho lasciato tutte le mie possibilità. Sono uscito di caso seguendo l’istinto, seguendo il mio stupido vittimismo, seguendo l’illusione che qualcosa sarebbe cambiato, pensando che mi sarei liberato dei problemi, e invece mi sono liberato solo dei sogni. Già, li ho spediti chissà dove, e adesso non sarei più capace di ritrovarli. Sempre che siano ancora vivi. I sogni fanno presto a morire.
La notte è silenziosa, qui. Potrei persino dormire, se non fosse per il freddo che mi penetra fino nelle ossa. Alla fine decido che non posso restare qui fermo, qualcosa mi dice che morirò se mi fermo anche solo per un secondo. Finché corro i miei demoni sono impegnati a inseguirmi e non possono tormentarmi più di tanto.
Così mi alzo e mi incammino sotto la pioggia. Sento le gocce che mi precipitano addosso, che si schiantano fino alla pelle come migliaia di minuscoli proiettili, proiettili che ci metteranno poco a finirmi del tutto. Sono completamente vuoto, completamente senza futuro. Non posso tornare indietro, non ho il coraggio di andare avanti. Si potrebbe dire che io sia già morto, in effetti.
Sospiro e ficco le mani ancora più a fondo nelle tasche. Non che faccia poi tanta differenza, visto che ormai sono fradicio dalla testa ai piedi.
Cammino e cammino e cammino. Non so dove sto andando, mi rendo solo conto che lentamente gli edifici attorno a me stanno cambiando. C’è ovunque questo senso di squallore nella città, un senso di decadenza e di tristezza, ma adesso è molto più evidente. Gli edifici sono più piccoli, più vecchi, molti hanno le finestre e le porte sbarrate da assi di legno. Non sono mai stato in questa parte della città, non ho mai trovato un motivo valido per andare in giro, è tutto troppo opprimente, e vedere la situazione di questo posto mi fa sentire ancora peggio. è pieno di persone senza futuro e spaventate proprio come me, sono capace di vederlo nelle loro espressioni, nei loro occhi vuoti. Solo che non so quale possa essere il motivo per cui sono così. Cioè, non che le persone non sorridano o che scappino urlando quando ti avvicini a loro, ma c’è qualcosa di profondamente marcio, in questa città, e il marcio arriva anche nelle anime delle persone, le uccide lentamente dall’interno come un cancro.
Solo che non ho idea di quale possa essere la ragione di tutto questo, né ho modo di scoprirlo.
All’improvviso vedo una luce accesa che esce da una porta aperta, insieme a dei rumori. Sopra c’è un insegna, è un pub. Potrei entrare, dopotutto ho qualche spicciolo sgraffignato a una tipa per strada, e almeno passerei qualche ora all’asciutto. Non mi piace stare nei posti pieni di gente, però penso che per una volta potrei anche adattarmi. E poi magari la confusione riuscirà a tenere i miei demoni lontani da me.
Entro. Nessuno mi guarda, eppure il posto è davvero pieno. Ci sono delle persone di quasi tutte le età, ragazzi, però, per lo più. E questo posto mi fa rimanere di sasso, perché è come una scena a colori in un film in bianco e nero. Da quando sono arrivato in questa città, me ne rendo conto solo ora, tutto è sempre sembrato finto. Finta l’allegria negli occhi della gente, finta la spensieratezza dei bambini.
Invece, in questo posto, tutto sembra così vero. Vere le occhiate ironiche e le risate, vere le parole, vera la sensazione di leggerezza data dall’alcol. La gente qui non è come nel resto della città. è come se avessi aperto una porta su un altro mondo.
Mi avvicino al bancone, gocciolando sul pavimento. Mi siedo su l’unico sgabello libero che riesco a trovare, e l’uomo che sta lì dietro mi guarda con un sorriso. Sembra che non sia per niente infastidito dal fatto che gli sto inzuppando mezzo locale. – Cosa ti do? –
Mi infilo una mano in tasca e conto i soldi che ho, confrontandoli con il listino dei prezzi. – Una vodka, grazie. –
- Devo aggiungere qualcosa? –
- No. –
Lui prende i soldi e mi riempie un bicchiere, mettendomelo davanti senza una parola, poi va subito a servire qualcun altro. Cavolo, se questo locale è sempre in queste condizioni deve fare affari d’oro. Eppure non è che sia poi questo gran posto. Sì, cioè, è carino, ma non è particolarmente grande, e si vede che non è proprio nuovo. Ci sono locali di gran lunga più belli in città, eppure nessuno è così pieno di gente, di vita. Forse l’unica differenza è proprio che, per qualche motivo, questo posto è vivo e gli altri no.
Anche la musica, qui, racconta tutta un’altra storia, bisogna ammetterlo. Non è affatto roba commerciale da due soldi, è quel genere di canzoni che ti spareresti nelle orecchie mentre vai in macchina a duecentotrenta all’ora o ti butti di sotto da un grattacielo. Ti fa sentire vivo, vivo, vivo, e sembra così vera. Ma forse è solo il clima di questo posto che la rende così. 
It’s closing time, the boys are all together at the bar
staring in their glasses...
Looks like another layoff at the yard. 
Bevo un sorso di vodka e la sento bruciare in gola. Adesso, incredibilmente, mi sento davvero meglio. Sembra quasi che i miei demoni siano rimasti chiusi fuori. Questo non è un posto per i morti o per i fantasmi, questo è un posto per sentirsi vivi, con una canzone che sembra raccontare la storia di questa città.
Yesterday I heard Union hall come down,
they hit it with a wrecking ball
and they try, but nothing changes in this town...
Già, l’impressione è proprio questa: può anche venire giù il mondo, ma questa città non cambierà, rimarrà sempre morta. I morti non tornano in vita, dopotutto. Quando sei morto hai perso tutte le tue possibilità. L’unica chance è restare vivo finché lo sei, non arrenderti, perché una volta che ti sei arreso indietro non ci torni.
è così che sembra la mia situazione, in effetti. La domanda che dovrei farmi è: sono ancora vivo, oppure per me è già finita?
Non faccio in tempo a rispondermi, perché all’improvviso sento una voce alla mia destra. – Ehi. –

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** And Mary Jane to keep me insane and doing someone else's cocaine ***


And Mary Jane to keep me insane and doing someone else’s cocaine. 


E' stata una ragazza a parlare. La fisso. è bassina, una matassa di riccioli scuri in testa e il viso quasi rotondo con due enormi occhi verde marcio truccati di nero. Non ho idea di chi sia, non l’ho mai vista prima.
Lei mi squadra dalla testa ai piedi. – Sei nuovo qui? Non ti ho mai visto. –
Appunto. Annuisco.
- Ah, ok. Io sono Mary Jane. – Mi porge la mano con le unghie dipinte con uno smalto blu piuttosto rovinato.
- Jimmy. – dico, stringendogliela. Non so perché sia qui a parlare con me. Magari è semplicemente sola e non sa che fare. Un po’ come me, quindi non vedo niente di male nel chiacchierare un po’ con lei.
- Sei nuovo di qui o nuovo della città? –
La guardo senza capire, e lei ride alla mia espressione. – Sì, insomma, vivevi già in città e sei venuto in questa zona o sei proprio appena arrivato? –
- Proprio appena arrivato. – rispondo.
- Ah, ok. E sei qui perché...? –
Scrollo le spalle. – Non sapevo che fare. – Esito un secondo prima di raccontarle tutto, ma poi decido che non c’è niente di male. – Sono andato via di casa e la macchina mi si è fermata su una stradina del cazzo, fino a qui me la sono fatta a piedi. Sono rimasto un po’ in giro per qualche giorno e stasera sono venuto qui. – Ometto la parte dei furti, forse è meglio. Che ne so io di chi è questa tipa? Magari chiama pure la polizia per denunciarmi.
- Ah, capisco. Beh, sei capitato nella città dei morti per eccellenza, direi. – sbuffa.
Io resto di sasso, e lei ride vedendo la mia espressione. – Che c’è? Non dirmi che non ti sei accorto delle facce che fanno le persone qui. è impossibile non notare quanto sono... –
- ...morti dentro. – concludo io, quasi senza pensarci.
Mary Jane si morde il labbro, annuendo.
- Ma perché? – chiedo, senza riuscire a trattenermi.
- Perché hanno paura. – risponde, semplicemente. – E la paura li ha uccisi. Tutti, dal primo all’ultimo. Nascono morti. –
- E tu? E loro? – Faccio un cenno verso il resto del locale. – E poi, di cos’è che hanno paura? –
- Io ho paura, abbiamo tutti paura, ma abbiamo imparato che non bisogna farsi ammazzare dalla paura. Che non è impossibile essere felici anche avendone. Anche perché è impossibile non avere paura, no? Nasci sapendo che prima o poi morirai, ovvio che hai paura per tutta la vita. –
- Sì, ho capito, ma mica la gente è così, di solito. – ribatto. Non mi sta dicendo tutto, lo so che non mi sta dicendo tutto. – Che cosa c’è qui? Di cosa hanno paura le persone di questa città? –
Mi guarda. Un’occhiata quasi dubbiosa. Sembra quasi che ci sia qualcosa che non può dirmi.
Sbuffo. – E dai. Che sarà mai? –
Scrolla le spalle. – Questa città ha paura dei vivi. – risponde, alla fine, poi vuota il suo bicchiere in un sorso.
Io la guardo senza capire. “Questa città ha paura dei vivi”? Che senso ha?
- E chi sono i vivi? – mi esce.
Mary Jane ride, e non risponde.
 
                                  
Got no reason for coming to me and the rain running down...
There’s no reason
and the same voice coming to me like it’s all slowin’ down
and believe me...
 
Ormai non lo so da quant’è che sono qui. Non ho più bevuto, sono semplicemente rimasto seduto a guardare Mary Jane, che però non ha più parlato con me, ha semplicemente scherzato con il barista facendosi portare qualcosa ogni tanto. Chiudo gli occhi, lasciandomi avvolgere da questa canzone. Inizio ad avere sonno, ma questa è troppo malinconica per permettermi di dormire. Il ritmo mi si infila in testa, mescolandosi alla mia di malinconia.
 
I was the one who let you know, 
I was your sorry-ever-after '74-'75... 
Giving me more and I'll defy 
'cause you're really only after '74-'75...

 
Un po’ come me, quindi. Sono solo, e l’unica persona che conosco ormai è una ragazza che ho appena incontrato e che se ne strafrega di me senza rispondere alle mie domande.
All’improvviso, però, mi sento strattonare per un braccio. Mi giro, e adesso Mary Jane mi sta fissando. – Vieni. –
Mi alzo e le vado dietro. Usciamo per strada, ha smesso di piovere e la luce dei lampioni si riflette sull’asfalto bagnato, facendolo sembrare un cielo all’incontrario.
Mary Jane tira fuori una bustina, poi una banconota da un dollaro. Si appoggia su un muretto e svuota un po’ del contenuto della bustina sulla banconota, sistemandola in una striscia, poi tira fuori un altro dollaro dalla tasca e lo arrotola a formare una specie di cannuccia. – Una tirata? – fa, fissandomi. Alla luce dei lampioni, il trucco un po’ sciolto fa sembrare i suoi occhi quasi duri. Poi me ne rendo conto: non è solo un’impressione. Mi sta fissando con uno sguardo di ghiaccio.
Esito.
- E dai. è roba buona. –
- E che ne so io che non vuoi stendermi e fregarmi tutto quello che ho? E che non è chissà che e non vuoi ammazzarmi? –
Ghigna. – Tanto per sapere, hai qualcosa in tasca? –
- No. – ammetto.
- E ti piace la tua vita in questo momento? –
No, porca miseria. La odio, la mia vita, in questo momento. Scuoto la testa.
- E allora che cos’hai da perdere? –
Ci guardiamo. E capisco. è una prova, una prova per vedere se davvero non ho niente da perdere. Ma perché?
Mi guardo intorno. Cazzo, sono in una fottuta città morta. Con niente da perdere se non una tirata di coca.
Afferro la banconota arrotolata, mi metto sopra la striscia e inspiro.
 
Mary Jane porta la sigaretta alle labbra. Siamo sdraiati sul tetto del pub, e io sono ancora stordito dalla coca. Dopo quella tirata me ne sono fatte altre due o tre. O quattro.
- Quindi... da quello che ho capito sei senza lavoro e vivi per strada? –
- Se si può vivere tra le strade di una città morta. – borbotto.
Ridacchia. – Già. è il dubbio di tanti. Però, se ci pensi, io ci vivo tra le vie di una città morta. E anche tutti quelli che erano al pub e altri. –
- Io però non vi ho mai visti in giro. –
- In effetti di solito non stiamo lì. Abbiamo... il nostro posto, diciamo. –
- In culo? – sbuffo, ridacchiando quasi istericamente. Sono troppo fatto per tenere a freno la lingua.
Alza gli occhi al cielo. – Qualcuno direbbe di sì. Comunque no. Stiamo semplicemente nella periferia. –
- Nella periferia? –
- Già. Il nostro paradiso personale, la cara vecchia Suburbia. – Scrolla le spalle, poi mi squadra dalla testa ai piedi. – Se vuoi posso trovarti un lavoro. Penso. –
- Un lavoro? – ripeto, senza capire.
Annuisce. – E una casa. Però non c’è niente di sicuro. Probabilmente ti sto solo mettendo nei casini. –
La guardo. Non so se non sto capendo un cazzo per colpa della coca o perché effettivamente non si capisce proprio nulla di quello che sta dicendo.
- Sai, non credo che sia la cosa che ti dovrei chiedere mentre sei fatto. – sbuffa, e una nuvoletta di fumo si perde verso l’alto.
- E perché no? Qualsiasi cosa io risponda, non ho niente da perdere comunque. –
Mary Jane sospira. – Sì, ma... – Esita.
- Parla e basta. –
Dopo qualche secondo, lei comincia, forse. Non saprei dirlo, perché sto già dormendo.
 
Quando mi sveglio, ho il sole che mi picchia dritto in faccia. Batto le palpebre, infastidito, e mi metto a sedere. Sono ancora sul tetto dove mi sono addormentato, ed è un mezzo miracolo che io non sia finito di sotto. Rabbrividisco – ho ancora i vestiti umidi – e noto Mary Jane che se ne sta sul bordo del tetto facendo penzolare le gambe infilate in un paio di calze a rete strappate. Lei si gira verso di me. – Buongiorno. – fa.
- Buongiorno. – rispondo, senza sapere che altro dire. Beh, per lo meno non è sparita mollandomi qui. Se l’avesse fatto mi sarei convinto che tutto quello che è successo ieri sera fosse stato un sogno.
- Allora, come va? –
- Bene. – Meglio di quanto mi aspettassi, in realtà. Non sono un drogato, non mi faccio chissà quanto spesso, perciò mi aspettavo di stare male per un paio di giorni dopo le tiratine di ieri. Invece sto davvero bene, tutto sommato.
- Ok. Allora mi sa che posso ripetere il discorso, oppure te ne frega così poco che ti addormenti di nuovo le lo faccio? – chiede lei, ironica.
Sbuffo. – Ero fatto. –
- Lo so. è quello che avevo detto io, ma avevi detto che non importava. –
- Mi sa che mi sono sopravvalutato. –
- Non ti fai spesso, vero? –
- No. –
Scrolla le spalle. – Meglio. Allora hai anche più probabilità di trovare lavoro. E sopravvivere. –
La fisso. Ma perché parla sempre così? Non capisco mai un emerito cazzo di quello che dice. – E perché? –
- Sai, non le piacciono quelli che rubano la roba. –
Non chiedo neanche, tanto sa già che non ho capito.
- Sì, insomma, lei. Non le piace che chi vende possa rubare la roba. Probabilmente ti farebbe ammazzare. –
- “Roba”? Intendi che... vorresti che io spacciassi? –
Scrolla le spalle, come se non fosse poi questa gran cosa. – Beh, se vuoi lavorare per lei penso che sia questo che ti tocca fare. Non frega a nessuno se ti infili da qualche parte dove non abita nessuno, però per tirare avanti devi fare da solo se non lavori per lei. –
- Ma lei chi cazzo è? –
Mary Jane ghigna. – E chi lo sa? – ribatte. – Non la conosce bene nessuno. Cioè, potrei dire di essere la sua fottuta migliore amica, sempre che quella abbia amici, e io non la conosco affatto. Non so nemmeno il suo nome. –
è assurdo. No, ok, di più. – Sì, ma insomma, chi è questa? Una specie di boss della droga? –
- Di lavoro fa quello, sì. – risponde. – Però è tutt’altro, credimi. Allora, ci stai? A lavorare per lei? –
Ci penso. Non mi sono mai fatto chissà quali scrupoli nella vita, perciò spacciare non dovrebbe crearmi troppi problemi, però... però l’idea di questa tizia non mi convince. Affatto. – Prima la voglio conoscere. – dico.
Mary Jane sbuffa. – Jimmy, non la conoscerai mai, quella. Credimi. –
- Almeno voglio parlarci. Ci si può parlare o è troppo complicato pure questo? – Mi esce, quasi con rabbia.
Alza gli occhi al cielo. – Keep calm. Comunque pensò di sì. – Guarda l’orologio che ha al polso e si dirige verso la scala da cui siamo saliti. – Se vuoi venire vieni. Io torno a casa. –
Esito.
Ghigna di nuovo, quello strano ghigno inquietante. – Credimi, ti sto portando alla rovina, bellezza. – dice. – Io ti ho avvertito. –
- Perché mi dici queste cose? –
- Per vedere se sei davvero così disperato. E perché è la verità. – scrolla le spalle.
- E quando mai un po’ di Mary Jane ha fatto troppo male? – mi esce, non so neanche perché.
Ridacchia. – Oh, non sarà la marijuana a ucciderti, però diciamo che credimi, ti sta portando sulla cattiva strada. –

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** From Chicago to Toronto she's the one that they call Old Whatsername ***


From Chicago to Toronto she’s the one that they call “Old Whatsername”.  
 
- Ci sono delle regole, con lei. – inizia a spiegare Mary Jane, mentre camminiamo lungo la strada. Nonostante non sia presto, non c’è nessuno. Io la guardo. Regole. Questa tizia misteriosa mi sta quasi iniziando a fare paura.
- Prima di tutto, beh... non romperle le scatole. Se lo fai stai sicuro che potresti pentirtene. –
Ficco le mani in tasca. – Beh... d’accordo. E poi? –
- Poi non chiederle come si chiama. Tanto non risponderà. –
- E come devo chiamarla? Boss? – sbuffo, alzando gli occhi al cielo.
Mary Jane mi lancia un’occhiataccia. – Mi sa che tu non hai davvero idea. – dice.
- Non ho idea di cosa? –
- Di con chi hai a che fare. –
Camminiamo ancora per un po’ in silenzio. Non so cosa dire, e lei non aggiunge altro. All’improvviso, però, alza la testa e mi trapassa con lo sguardo. – Un’altra cosa. è importante, cerca di ricordartela. –
- Ok. Cosa? –
- Non ti interessare troppo a lei. Stalle lontano. Perché se non lo fai sei fottuto. –
- Perché non dovrei stare lontano a una troietta con le mani invischiate in chissà quanti rigiri? –
Mary Jane ghigna. – Tu non hai proprio capito niente. –
 
Continuiamo a camminare per chissà quanto, le case attorno a noi che ormai sono principalmente palazzine di cemento senza finestre né porte, anche se alcuni sono messi molto meglio di altri. L’asfalto è crepato dalle radici di grossi pini che crescono ai lati. Mary Jane cammina tranquillamente in mezzo alla strada, e in effetti io non vedo auto nei dintorni. La seguo, le mani affondate sempre di più nelle tasche, il cuore che mio malgrado accelera i battiti. Non ho idea di che tipo sarà questa tizia, non ho idea di che cosa dovrò fare per lavorare per lei. Cioè, ok, sì, lo so, ma da come ne ha parlato Mary Jane sembra che sia una strana, strana forte.
All’improvviso lei si ferma davanti a un palazzo relativamente integro. Ha i vetri alle finestre e la porta. Se non fosse che è completamente coperto di graffiti, sembrerebbe quasi nuovo.
Non che i graffiti ci stiano male, anzi. Sono da togliere il fiato da quanto sono belli. A dire il vero si nota che è un solo graffito, che si srotola dalla cima del palazzo a dove ci troviamo noi per tutta la facciata. Resto per un secondo a naso all’insù, seguendo le figure che sembrano quasi sul punto di prendere vita sulla parete. Ci sono delle parole, anche. Non riesco a leggerle, perché sono in una lingua che non capisco. A prima vista direi che è spagnolo, ma visto che non so leggerlo non ne sono così sicuro. Alla mia altezza c’è un disegno di un uomo, un uomo impiccato con una corda dorata attaccata al collo.
- Wow. – mormoro.
- è brava, vero? – chiede Mary Jane, dietro di me.
Mi giro a guardarla, a bocca aperta. – L’ha fatto lei? –
Annuisce. – E ne ha fatti anche di migliori, credimi. Però avrai tempo dopo per guardarli, cavolo. Muoviti, voglio andare a letto. – Mi spinge fino alla porta e infila una chiave nella serratura, aprendola.
- Abiti anche tu qui? –
- No. Il palazzo è tutto suo.  Però mi ha dato le chiavi nel caso abbia bisogno di parlare con lei e lei abbia altro da fare che aprirmi. E sì, sono l’unica a cui le ha date, per ora, perciò non portai venire a romperle i coglioni quando ti pare. Anche perché se lo farai mi sa che te ne pentirai amaramente. –
Annuisco mordendomi il labbro, sempre più nervoso, ed entriamo.
E wow.
Le scale, le pareti i soffitti, tutto è completamente ricoperto di graffiti. Resto di sasso, sconvolto, mentre fisso una bambina che salta allegramente una corda di filo spinato in mezzo a un prato con l’erba sporca di sangue, il sangue che cola dalle sue mani e anche dai rami degli alberi. Alberi che, se si guardano bene, si possono anche vedere come cadaveri crocefissi. Faccio qualche passo su per gli scalini, e quando arrivo al primo pianerottolo mi ritrovo a guardare la facciata dietro di me. C’è una farfalla blu, bellissima, che vola in mezzo alla parete dipinta di grigio. Ha le ali macchiate, però. Mi rendo conto solo qualche secondo dopo che quello sulle ali è sangue. Guardo giù, e vedo un mucchio di cadaveri dipinto all’altezza del suolo.
Mary Jane sbuffa, dandomi uno spintone. – E muoviti! –
Io continuo a salire le scale con lei che mi trascina. – Fino a che piano? – domando, dopo un po’.
- L’ultimo. –
Questa volta sono io che sbuffo. – Ma perché? Cavolo, ha un palazzo intero e sceglie l’ultimo piano? –
Mary Jane scrolla le spalle e continua a salire. Sull’ultimo pianerottolo ci ritroviamo davanti a una porta più piccola delle altre. Lei bussa, ma non ottiene risposta. Alla fine estrae un cellulare dalla tasca del chiodo che ha addosso e se lo porta all’orecchio dopo aver selezionato un numero. Quello squilla per un paio di secondi, poi evidentemente qualcuno risponde, perché lei chiede: - Dove sei? –
Qualche altro attimo, poi Mary Jane alza gli occhi al cielo. – Ma perché non sei mai dove dovresti essere? –
Altra risposta. – Sì, beh, ok. Comunque c’è un tipo interessato a lavorare. – Mary Jane chiude la chiamata e si gira verso di me. – Beh, a quanto pare abbiamo fatto questo giro inutilmente. Non è qui. –
- E non potevi chiederglielo prima? –
- Dipende da dov’è, ma di solito non le piace granché essere chiamata, e l’unica maniera per farsi ascoltare è venirle a rompere le scatole in faccia. – ribatte. – E comunque dovresti ringraziarmi per l’ingresso in questa sottospecie di galleria d’arte, visto che probabilmente questa è la prima e l’ultima volta che entri in questo posto. –
Io mi mordo il labbro, osservando le pareti attorno a me. Ci passerei anni a guardare quello che c’è qui dentro.
- E dai. – mi fa lei, quasi per incoraggiarmi. – Questi li fa un po’ ovunque. Ne troverai parecchi qui nella periferia. Adesso andiamo, muoviti. Non sia mai che le giri di andarsene anche da lì. –
- Lì dove? –
- Nella sala comune. –
 
La “sala comune” della periferia non è esattamente una sala, è piuttosto uno spiazzo piuttosto grande sotto un soffitto tenuto su da parallelepipedi di cemento. Il pavimento è ricoperto da uno strato di polvere e sporcizia, e le pareti di graffiti. Sono molto meno di impatto di quelli nella casa della misteriosa tizia senza nome, ma anche questi sono bellissimi.
Mary Jane si fa strada tra la gente. Sono un bel po’ di persone, soprattutto ragazzi, sparse qua e là su panche e sedie che da come sono ridotte si direbbero recuperate in una discarica, che formano un gruppo eterogeneo impegnato nelle attività più disparate. Ci sono gruppetti di punk, tizi rasta che sembra che abbiano nidi di serpenti in testa, dark con i capelli che sembrano colate di petrolio e con il viso bianco di fondotinta, metal con giacche da motociclisti, e poi ci sono anche persone che sembrano gente normale, dopotutto, o anche un’accozzaglia di vari stili messi insieme un po’ a caso. Qualcuno legge, qualcuno ascolta musica, poi ci sono quelli riuniti a gruppetti a strimpellare strumenti o a chiacchierare. Su una vecchia TV appoggiata a terra qualcuno sta cambiando canale più o meno ogni secondo, solo che non vedo chi, visto che è nascosto da una colonna.
La mia accompagnatrice saluta un po’ tutti e tutti la salutano, guardandomi strano. Io incasso la testa nelle spalle e continuo a camminare, fino a quando non sento la sua voce. – Eccola. –
Io faccio un altro passo, e solo in quel momento la noto. Era praticamente invisibile, prima, confusa in quella matassa di gente, ma a dire il vero sembra piuttosto isolata dagli altri. Per un secondo la osservo. Ha i capelli mossi e biondi, anche se non sembra che sia il suo colore naturale, vista la ricrescita castana. Le punte sono tinte in modo da sfumare dal rosso al viola in una specie di arcobaleno un po’ sbiadito che parte dal lato destro della testa e finisce sul sinistro. Non è molto truccata, solo un po’ di matita nera data a casaccio attorno agli occhi. E' stravaccata su una poltrona, una sigaretta in bocca e l'aria annoiata, annoiata esattamente come me in quella stupida giornata in cui me ne sono andato di casa. Solleva la testa e mi guarda. - E tu chi cazzo sei? - chiede, sbuffando, come se non le interessasse ma fosse costretta a domandarmelo.
Forse dovrei mandarla a quel paese, ma non ci riesco. Non è una che puoi mandare a quel paese così a caso, è pericolosa, basta guardarla negli occhi per capirlo. Già, gli occhi. Sono di un colore che non riesco a definire. Oserei dire grigio azzurro sporco, ma ci sono anche tracce di verde e una sfumatura castana attorno alle iridi.
Io ingoio aria. Non so cosa mi ero aspettato fino a questo momento, ma sicuramente non era questo. Una ventenne che mi fissa con un’aria tra la sfida e la noia seduta su una poltrona con l’imbottitura che esce da strappi nella fodera macchiata, vestita con un’enorme t-shirt di Anarchy in the UK e dei leggins strappati infilati in un paio di stivaletti senza tacco. – Jimmy. – dico, semplicemente.
Restiamo in silenzio per qualche secondo. Poi lei scrolla le spalle e si mette a sedere un po’ più composta. – Beh, ciao. Che cazzo vuoi da me? –
- Lui... – si intromette Mary Jane, ma lei lo fulmina con lo sguardo.
- Non sei la sua balia. – sbuffa. – E non lo sarai, se vuole lavorare per me. Quanto te lo scopi sono affari tuoi, ma chi è e cosa vuole me lo dice lui. –
Mary Jane annuisce mordendosi il labbro. – Io non me lo scopo. – mette in chiaro, poi si gira e se ne va.
Io la guardo. A dire il vero sono un po’ incazzato per come l’ha trattata. – Voleva solo dare una mano. – dico.
- Beh, allora valle dietro e dalle una spalla su cui piangere. – dice lei, con aria quasi disgustata. – Anche se dubito che sia particolarmente triste o offesa. Ci ha fatto l’abitudine, e direi che ormai è molto più adulta e vaccinata di te. Però se vuoi farti strappare i coglioni a morsi vai pure. –
- Come siamo simpatici, eh? – borbotto tra me, ma lei mi sente.
Mi ride in faccia. – Beh, io sono stronza, e sono ancora qui. Quindi forse non è così male. –
- O forse hai solo avuto fortuna. – mi esce.
Lei mi guarda. Uno sguardo strano, che mi trapassa da parte a parte. Adesso sembra che sia cambiato qualcosa. Non so perché, ma è interessata. – Forse. – dice, attorcigliandosi una ciocca di capelli attorno al dito. – Dicevo, cosa vuoi da me? –
- Mi hanno detto che potresti procurarmi un lavoro. –
- Mh. Sì, immagino di sì. Ma non vedo perché dovrei farlo. –
- Io non vedo perché no. – ribatto.
Lei si alza, avvicinandosi a me fino a quando i nostri occhi non sono a qualche centimetro. E’ più bassa di me, ma mi sento comunque sovrastato. – Perché sei uno stronzo. – sussurra, con voce quasi suadente. – E, a differenza di me, tu non sei un cazzo di nessuno, quindi essere stronzo è qualcosa che non puoi permetterti. –
Io faccio un passo indietro. Non ci riesco a guardarla negli occhi, cazzo. – Quindi posso lavorare per te o no? – chiedo, quasi arrabbiato.
Lei mi squadra da capo a piedi. – Sai, c’è una cosa che potresti dire. –
- Non ti chiederò “per favore”, troietta. – So che non dovrei comportarmi così. Sto sbagliando tutto, sto rischiando di finire nei guai sul serio. Me l’ha detto Mary Jane, e poi riesco a leggerglielo addosso, che questa tipa potrebbe strapparmi la pelle di dosso solo perché è incazzata con me.
Mi ride in faccia. – Oh, invece sì che lo farai. Perché hai bisogno di me. – poi si allontana di un passo, scrollando le spalle. – E comunque chiamami pure come vuoi. Ti assicuro che, qualsiasi insulto tu riesca a inventarti, potrei dire di essere stata qualcosa di peggio. – Mi da le spalle e fa per andarsene.
- E non lo sei ancora? – mi esce.
Mi lancia un’occhiata da dietro la spalla. Sorride. Un sorriso strano, quasi spaventoso, ma vivo. Non saprei dire se sia bello, non saprei dire nemmeno se lei sia bella, però viva è viva. La cosa più viva che io abbia mai incontrato in questa città morta.
La ragazza si gira di nuovo e si incammina tra le colonne di cemento, afferrando un borsone appoggiato per terra. – Chiamami se ti interessa. – dice, senza neanche voltarsi.
- E come faccio a chiamarti se non so il tuo nome? –
Si ferma. Non so perché, ma qualcosa mi dice che sta sorridendo. – Io non ce l’ho un nome, ragazzino, non per voi. Mi conoscono chissà quante persone, sai? Ho le mani in pasta da Chicago a Toronto, e per tutti sono solo la vecchia “senza nome”. –
- “Senza nome”? – ripeto.
Lei neanche risponde, semplicemente se ne va.
 
Quando Mary Jane mi trova sono ancora lì, a fissare il punto in cui la tipa senza nome è sparita. Non so cosa fare, non so cosa pensare.
- Allora, come è andata? – mi chiede lei.
Mi mordo il labbro. – Non lo so. Non bene. E’ che... sembrava che stesse giocando con me. – Dico, nel momento esatto in cui me ne rendo conto. Mi sento attraversare da un fremito di rabbia, ma dura poco. E’ come se avessi ancora addosso quegli occhi gelidi e vivi.
Scrolla le spalle. – Lo fa un po’ con tutti. Comunque... quindi? Lavori per lei o no? –
- Ha detto che devo richiamarla se mi interessa. –
Mary Jane sembra stupita. – Stai scherzando? –
- No. – rispondo, senza capire. – Perché? –
- Whatsername non “si fa richiamare”. Sbatte porte in faccia a chi torna, più che altro. –
Io per un secondo mi chiedo perché cavolo con me si sia comportata diversamente. Forse mi trova divertente. Un altro moto di rabbia, soffocato da un pensiero. – Com’è che l’hai chiamata? –
Lei sorride. – Beh, non dice a nessuno il suo nome, tutti se lo chiedono. Dopo un po’, è diventato un soprannome. La cara, stronza, vecchia Whatsername. –

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** I'm the son of rage and love, the Jesus of Suburbia, from the Bible of none of the above ***


I’m the son of rage and love, the Jesus of Suburbia, from the Bible of “none of the above”. 

Fisso il muro davanti a me, seduto sulla poltrona dove prima stava... Whatsername. E penso. Ormai sono passate ore, ma ancora non so cosa fare. Non andrò a implorare quella troia. No, non posso. Mi troverò un lavoro da un’altra parte, farò qualcosa.
Sì, ma cosa? Sono in una fottuta città morta senza soldi, auto, cellulare e documenti. Se non lavoro per lei, l’unica cosa che potrei fare sarebbe lavorare per qualcuno in città, ma non penso di voler mettere piede in centro mai più.
Lancio un’occhiata nella direzione in cui si è allontanata. Prendo un respiro, tirandomi su. Il mio stomaco brontola, non mangio niente da un giorno intero. Magari potrei chiedere a Mary Jane se ha qualcosa da mangiare, anche se dubito che me lo darebbe. Qui le persone non sono gentili, basta poco a rendersene conto. Possono essere vive quanto voglio, le più vive del mondo, magari, ma gentili no.
Forse è proprio per questo che sono così vive. Perché qui devi letteralmente sopravvivere, e dopo immagino che la vita la senta più tua, se te la sei guadagnata tu. In effetti, forse è per questo che tutti nella vita fanno cose come lasciare la casa dei genitori, cercare di diventare indipendenti. Perché ognuno vuole una vita propria, che sia solo sua, e vuole sapere di essere stato abbastanza bravo da guadagnarsela.
Io guardo di nuovo nella direzione in cui si è allontanata Whatsername.
La domanda adesso è una sola. Io la voglio una vita, oppure no? La risposta potrebbe non essere così ovvia.
Però prendo un respiro e mi metto a camminare lo stesso.
 
Con le mani in tasca attraverso quello che sembra qualcosa a metà tra un giardinetto incolto e un vero e proprio campo lasciato lì a seccare. Cavolo, a vederla così, diresti che questa periferia sia stata abbandonata anni e anni fa. Come se fosse una specie di città fantasma. E pensare che è proprio nella città fantasma che la gente vive.
All’improvviso davanti a me vedo un muretto alto meno di due metri, abbastanza scalcagnato, e dietro un edificio dalla forma che mi ricorda qualcosa, ma sinceramente non saprei dire cosa. E’ senza finestre, ha enormi buchi nella facciata che sembrano fissarmi.
All’improvviso inciampo in qualcosa e per poco non finisco lungo disteso per terra. Guardo giù, e mi rendo conto che quelli sono binari. Binari arrugginiti.
Sono in una stazione.
Continuo a camminare stando più attento ed è in quel momento che la vedo.
E’ di spalle, in piedi nell’erba alta. Accanto a lei, per terra, c’è il borsone che ha preso quando se n’è andata dalla sala comune.
Lei ha una bomboletta in mano e scrive sul muro. Io per un secondo la guardo lavorare. E’ incredibilmente precisa, cosa che sembra strana visto che lo sfondo della scritta è una serie di macchie di vernice che fanno credere che qualcuno abbia preso sei secchi e li abbia scaraventati contro il muro.
Un’altra esplosione, nera, occupa il posto che dovrebbe avere la testa di un uomo che si tappa le orecchie con le mani. Ho già visto quell’immagine da qualche parte, anche se non saprei dire dove.
Io guardo la scritta.
And if your head... inizia, ma non riesco a vedere come finisce perché c’è lei davanti.
Rimarrei a fissarla per chissà quanto se a un certo punto lei non si girasse. – Beh? – domanda. – Che vuoi? –
Si è un po’ scostata, e adesso vedo la scritta fino a dove è arrivata.
And if you head explodes with dark forebodings too...
Sì, adesso che la vedo così anche la frase mi ricorda qualcosa.
- Cos’è? – chiedo, indicando il graffito con un cenno del mento.
- Un graffito? – risponde lei, fissandomi come se fossi un idiota.
- Intendo... la frase. L’hai presa da qualche parte? –
- Perché? –
- Per curiosità. –
Scrolla le spalle.
- Sei brava. – dico, rendendomi conto che non avrò mai una risposta. Sembra che si diverta a tenermi sulle spine, la stronza.
- Lo so. – risponde, semplicemente, poi prende la bomboletta che ha in mano, la tappa e la mette nel borsone. – Ripeto: che vuoi? –
- Lo sai cosa voglio. –
- Io so solo che non hai ancora detto “per favore”. – ghigna.
- Perché è così importante per te che io lo dica? –
- Perché sei uno stronzo. Se non lo fossi non me ne fregherebbe granché. –
Restiamo in silenzio a guardarci per un secondo. No. Col cazzo che le dico “per favore”. Magari all’inizio avrei potuto, ma ora assolutamente no. E’ diventata una specie di stupidissima questione di principio.
Ride. – Sì, beh, allora facciamo una cosa. Se riesci a dirmi come finisce questa frase... – indica il graffito dietro di sé. – Non devi dirmi “per favore”. Hai... diciamo fino a domattina. Alle otto vengo qui. Se sei qui e me lo dici, allora sei dentro. Se non me lo dici puoi implorare quanto ti pare ma per me puoi anche tornartene a casa. –
Io rimango a fissarla. Ma che cazzo di problemi ha? Whatsername prende il borsone e si allontana, e io resto lì in piedi a fissare quel muro.
E poi mi rendo conto che, seriamente, non ho idea di che cosa possa essere quella fottuta frase.
 
Sdraiato su una panchina con le mani dietro la testa, sospiro fissando il cielo. Vorrei pensare a qualcosa, cercare di capire come finisca quella dannata frase, ma l’unica cosa a cui riesco a pensare è la fame. Dio santo, mangerei qualsiasi cosa, in questo momento.
All’improvviso sento dei passi. – Ehi. – dice una voce.
Mi metto seduto e mi ritrovo a fissare Mary Jane. Ha una sigaretta in bocca e un pacchetto di carta in mano. Si siede accanto a me. – Allora, alla fine che hai fatto? – chiede.
Mi mordo il labbro. – Non ho ancora chiesto “per favore”. –
- E lei? –
- Non mi ha ancora detto che posso lavorare per lei. –
Mary Jane ridacchia. – Ovviamente. Anche se è meno cocciuta di quello che sembra, dopotutto. Non gliene frega un cazzo del “rispetto”. Lei sostiene parecchio l’idea che rispettare qualcuno significhi solo mentirgli su quello che si prova nei suoi confronti. –
- Quindi dovrei andarle sul muso e dirle che è una troia e che mi sta sulle palle? –
- Credo che l’abbia già capito. Ma non è il rispetto il punto. Il punto sei tu. –
- Sì, lo so, me l’ha detto. Sta facendo tutto questo solo perché sono uno stronzo. –
- E la cosa come si è conclusa? –
- Non si è conclusa. Aveva fatto uno stupido graffito sul muro e mi ha detto che se fossi riuscito a capire come finiva la frase che ci aveva scritto sopra sarei stato dentro, sennò me ne sarei tranquillamente potuto andare. Ho tempo fino alle otto di domattina. Ma il fatto è che non ho idea di come finisca quella frase. So solo che l’ho già vista da qualche parte. Per caso sai come si conclude: And if your head explodes with dark forebodings too...? –
Mary Jane ridacchia. – Sì, lo so, ma non te lo dirò. –
- E perché no? – La fissò. – Non pensavo di starti così sul cazzo. –
- No, però te la devi cavare da solo, caro. Non è così che si fa, qui? Ce la caviamo. –
- E’ una specie di “prova di iniziazione”? – sbuffo, alzando gli occhi al cielo.
- No, ma le interessi. A Whatsername, intendo. Non ti ha mandato fuori a calci subito, no? Magari vuole solo... conoscerti meglio. –
- E cosa c’entra questo? –
Ride. – Mi sa che lo capirai quando avrai capito da dove ha preso la frase. –
Alzo gli occhi al cielo. – Devo ancora capire chi è la più strana tra voi due. Quindi... nessun aiuto? –
- No. –
Io mi alzo, ma non sono arrabbiato con lei. E, in questo preciso momento, neanche con Whatsername. Vorrei solo... capirla un po’ di più, porca miseria.
Faccio per andare via, lo stomaco che brontola, quando Mary Jane mi ferma. – Dimenticavo... – dice. Mi porge il sacchetto. Io lo apro. Dentro c’è un hamburger enorme.
La guardo.
Mi strizza l’occhio.
Mi scappa un sorriso.
Mi giro di nuovo, ma per la seconda volta non ho neanche fatto un passo che sento la voce di Mary Jane. – Guardati intorno. La Suburbia è lei, Jimmy. Pensa anche a questo. –
Io la guardo senza capire, ma lei non da altre spiegazioni, e io so che non ci sarà modo di strappargliene. Magari se trovassi un computer potrei cercare la frase su Internet, ma per qualche motivo so che sarebbe sbagliato. E’ una scommessa, e o la vinci bene o la perdi.
Sospiro e me ne vado.
 
Cammino tra i palazzi, lentamente. E’ buio, la maggior parte dei lampioni è rotta e a fare luce c’è quasi solo la luna. La luna che mi guarda e che sembra chiedermi che cosa farò.
Sì, me lo sto domandando anch’io.
Per ora vado avanti e basta in mezzo a loro. E’ quasi impossibile notarli, ma ci sono. Disegni, scritte. Sono un po’ ovunque, disseminati qua e là. Non può averli fatti tutti lei, e mi ritrovo a chiedermi, davanti a ognuno, se sia suo o no. Non riesco a capirlo. Ognuno e nessuno lo è. O meglio, potrebbe esserlo. Potrebbe averlo fatto lei, oppure no.
Non è importante chi l’ha fatto. Importa solo che la rispecchia, ecco.
Mi blocco.
Lei è la Suburbia, Jimmy.
Sì, è vero. Lei è questo posto, lei è ovunque, qui. Nell’aria, sui muri, nelle persone. Lei è il dio di questo posto e contemporaneamente ha salvato tutti quelli che vivono qui. Lei è come Gesù, solo il Gesù della periferia di una città morta.
E adesso so perché Mary Jane mi ha detto quello che mi ha detto. Era un indizio.
Sì, perché se capisco chi è lei allora forse capirò anche che significa quella frase.
Inizio a guardarmi intorno sul serio. La prima cosa che vedo è l’immagine di un cuore trafitto da spilloni, che sanguina. Sotto che scritto: E questo sarebbe amore? No, stronzi, questa è la morte.
Cavolo.
Continuo a camminare, e ancora e ancora. E guardo. E penso che, se questo labirinto di strade piene di storie è la testa di Whatsername, allora io non la conosco affatto.
Poi, però, mi fermo.
E’ lì, davanti a me. Un muro di mattoni bianchi dipinti su una parete di cemento armato. E, in mezzo al muro, c’è un buco che sembra fatto da una palla di cannone. Ci sono mattoni mezzi saltati, rotti. Dietro al muro si vedono delle fiamme.
E, sui mattoni bianchi, c’è una scritta nello stile della copertina di The wall dei Pink Floyd.
And if it’s not a brick, but a break in the wall?
 
Quando il sole sorge io sono seduto per terra nell’erba secca, la schiena appoggiata al muretto della stazione. Sto quasi per addormentarmi quando sento sei passi. Alzo la testa e incrocio lo sguardo di Whatsername. Lei mi fissa per un secondo. Poi guarda il graffito, poi di nuovo me.
Fa un’espressione strana, che potrebbe quasi sembrare un mezzo sorriso. Non dice niente, mi porge solo la mano.
Io gliela stringo.
E poi lei se ne va, lasciandomi solo con un graffito finito con lettere irregolari e pasticciate.
And if your head explodes with dark forebodings too, I’ll see you on the dark side of the moon.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Cigarettes and Raman and a little bag of dope, I am son of a bitch and Edgar Allan Poe ***


Cigarettes and Raman and a little bag of dope, I am son of a bitch and Edgar Allan Poe. 

 
- E quindi adesso ho un altro collaboratore? – chiede Mary Jane, con aria divertita.
Annuisco scrollando le spalle. Dopo quella stretta di mano non ho più parlato con Whatsername, ma direi che è andata bene.
- Pink Floyd. – borbotto, tra me. – Davvero, non ci avevo pensato. Ma cavolo, faceva pure rima! –
Lei ride. – Lei è un po’ genere “Pink Floyd”. –
- E che cos’è il genere “Pink Floyd”? –
Mary Jane scrolla le spalle e non risponde. Alzo gli occhi al cielo. Ma perché nessuno riesce a finire un discorso, qui?
- Comunque, adesso che devo fare? – chiedo, dopo un po’.
- Beh, non so. Però se vuoi a casa mia c’è una stanza libera. –
- Stai cercando di rimorchiarmi? –
Mi guarda. Solleva un sopracciglio. – Bellezza, sono la migliore amica di un boss della droga conosciuto da Chicago a Toronto. Pensi sul serio che abbia bisogno di rimorchiare te? – Mi manda un bacio ironico con la mano e se ne va.
 
La sera stessa sono seduto al tavolo di una cucina arredata in modo piuttosto strano. Sì, sinceramente non avevo mai pensato di conficcare dei coltelli in un muro di cartongesso dipingendoci intorno del sangue che cola, ma probabilmente il problema sono io.
Io guardo il muro, poi Mary Jane. – Devo ammetterlo, mi stai facendo paura. –
Lei ridacchia. – Ti fa paura questo e non casa di Whatsername? Cazzo. –
- Almeno lì i coltelli non sono veri. –
Scrolla le spalle. Dovrò iniziare a contare quante volte lo fa al giorno, accidenti.
- E comunque non ho detto che quella non mi fa paura. – aggiungo.
- Ah, ecco. –
Mentre mi infilo in bocca qualcosa giocherello con il nuovo telefono che mi hanno dato. Con questo potrei chiamare mia madre, penso. Potrei dirle che sto bene.
Sì, ma se glielo dicessi dovrei tornare indietro. E io non voglio, non so perché ma ho bisogno di restare qui.
Sospiro e mi metto il cellulare in tasca, un attimo prima che quello si metta a squillare. Io lo porto all’orecchio. – Pronto? –
- Mi dispiace scomodare il tuo regale didietro, ma ho un lavoro per te. –
Mi sbatte il telefono in faccia.
Mary Jane mi guarda mentre mi alzo e rispondo alla sua domanda muta. – Sì, era lei. –
 
Cammino rapidamente fino al palazzo dove abita Whatesername. Non perché io abbia così tanta fretta, ma perché ho voglia di guardare un po’ meglio quei graffiti prima di entrare. Perciò non appena raggiungo l’edificio ci giro intorno.
Oltre la facciata dove c’è il portone, anche le altre sono dipinte, e ognuna sembra raccontare una storia a sé. Quella di destra la riconosco: è We are the world. Quella di sinistra non la conosco, ma visto come si ripete quella frase per tutta la canzone direi che si potrebbe chiamare Nothing else matters. Quella sul retro è Wish
you were here dei Pink Floyd. Sì, a quanto pare ci è davvero fissata.
Il portone è socchiuso, perciò entro e me lo chiudo alle spalle. Dentro non ci sono luci, ma quella dei lampioni all’esterno è sufficiente a riuscire a salire senza ammazzarsi. Anche se, con questa penombra, le macchie di sangue dipinte sul muro sono piuttosto inquietanti.
Inizio a sentire la musica quando sono a metà tra il terzo e il quarto piano. C’è una chitarra, e una voce che canta. Salgo di più per sentire meglio. Chiunque stia suonando, con la chitarra è bravissimo. La voce non è bellissima ma anche su quella non sputerei.
 
Welcome to the Hotel California!
Such a lovely place, such a lovely place,
such a lovely face...
They’re livin’ it up at the Hotel California.
What a nice surprise, what a nice surprise,
bring your alibis...
 
Arrivo alla porta dell’appartamento di Whatsername e mi rendo conto che la musica proviene da lì. Anche questa porta è socchiusa, perciò entro. E mi blocco.
Lei è seduta su un divano di pelle nera, una chitarra acustica tra le mani, le dita che volano sulle corde. Quando mi sente alza la testa e mi fa cenno di avvicinarmi, ma non smette di suonare.
 
Mirrors on the ceiling,
pink champagne on ice,
and she said: “We are just all prisoners here
of our own device.”...
And in the master chambers
they gathered for the feast;
they stab it with their steely knives
but they just can’t kill the beast...
 
Io la guardo. Lei mi guarda, quasi con aria di sfida. A sorpresa, io mi ritrovo a cantare con lei l’ultima strofa.
 
Last thing I remember,
I was running for the door:
I had to find a passage back to the place I was before...
“Relax.” said the night man.
“We are programmed to receive:
you can check out anytime you like,
but you can never leave...”
 
La musica si spegne lentamente, ma noi continuiamo a guardarci. Whatsername posa la chitarra sul divano accanto a sé. – Beh. – dice. – Secondo te è così? –
Batto le palpebre senza capire. – Secondo me è così cosa? –
- Secondo te c’è una via di fuga da quello che hai deciso di fare oppure per quanto tu scappi... non riuscirai mai ad andartene? – Non ha un’aria minacciosa. Semplicemente, mi guarda come se la mai risposta la incuriosisse.
Io ci penso per un secondo. Non è semplice tirarsi fuori dai giri di spaccio e lo so, ma... – Tu mi impediresti di andartene, se volessi? –
- Dipende. – Sorride. – Ma tu pensi che vorrai andartene? Che vorrai tornare a casa? –
La fisso negli occhi. – Io non ce l’ho una casa. –
- Beh, allora ok. Ti spiego cosa devi fare. –
 
- Quindi... è tutto qui? – chiedo, quasi senza crederci.
Lei scrolla le spalle. – Sì. Tutto qui. Non mi sembra troppo problematico, no? –
Io non ho il coraggio di dire che mi sembra fin troppo poco problematico.
Whatsername, come se potesse leggermi nel pensiero, alza gli occhi al cielo. – Senti, è molto più semplice di quello che sembra, e oltretutto non ti affiderei incarichi troppo difficile adesso neanche se ce ne fossero, prima di tutto perché non sono sicura di potermi fidare di te e poi anche perché potresti farti scoprire o anche ammazzare e non voglio perdere mercanzia, chiaro? –
Già. Ovviamente il problema, nel caso della mia morte, non è la mia morte.
Ma che cazzo mi aspettavo? Questa è una svitata spacciatrice di droga. Ok, forse non così tanto svitata, visto  quello che è riuscita a fare. Però un po’ pazza lo è di sicuro.
Lei vede la mia espressione e ghigna. – Senti, Jimmy, non ho la minima intenzione di preoccuparmi per te. Prima di tutto perché sei un idiota del cazzo e secondo perché con il lavoro che faccio preoccuparmi per la gente è qualcosa che non posso permettermi, soprattutto se la “gente” in questione è composta da idioti, cosa effettivamente vera. Chiaro? –
- Chiaro. – rispondo. Vorrei mandarla a quel paese, ma in un modo diverso da cui ho mandato a quel paese la mia vita soltanto qualche giorno fa. Vorrei mandarla a quel paese e poi restare qui, non mandarla a quel paese e andarmene sbattendole la porta in faccia. Non so bene che cosa significhi questa differenza, ma non mi sembra affatto una cosa da nulla.
- Stai pensando che sono una schifosa figlia di puttana, vero? – chiede.
- Sto pensando che sei una fottuta telepate o qualcosa del genere, in realtà. – rispondo, sbuffando. – Come fai a capire tutto quello che penso? –
- Sono abituata. – ribatte, tranquillamente. – Sai che il settanta per cento della conversazione umana è a livello non verbale? –
- Io di solito mi concentro sull’altro trenta per cento. – ribatto.
- Oh, allora sei davvero un idiota. Cosa pensi, di poter conoscere una persona soltanto dal suo trenta per cento, e per dal trenta per cento inutile? Tu guardi solo la facciata. A me invece interessano le storie. –
- Sì, allora perché invece che fare la spacciatrice non ti sei messa a fare la scrittrice? – sbotto, senza riuscire a trattenermi.
- Ho troppo gusto per il dark per scrivere storie che piacciano. In effetti, cazzo, potrei essere la figlia di Edgar Allan Poe. E a quasi nessuno piace Edgar Allan Poe, no? Non è uno di quei... poeti maledetti, o qualcosa del genere? – Quando lo dice, per un secondo, penso che lei potrebbe esserlo, una “poetessa maledetta”, un’artista troppo profonda che fa cose che sono troppo oscure per essere capite. Perché in effetti quei graffiti devono voler dire qualcosa, e io ci ho sentito l’infinito nella sua voce che cantava Hotel California in quel modo che faceva quasi paura perché ti faceva sentire tutto l’inferno nascosto in quelle parole. E non è per questo che la gente chiama quegli artisti “poeti maledetti”? Perché sono capaci di farti vedere l’inferno?
Ripenso anche a quello che mi ha detto Mary Jane. Che lei è... quali erano le parole? “Genere Pink Floyd”, mi sembra. In effetti, che cos’era Syd Barrett se non un poeta maledetto?
- E poi... – aggiunge Whatsername, interrompendo i miei pensieri. – Chi ti ha detto che non scrivo? –

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** There’s nothing else to analyze. Where will all the martyrs go when the virus cures itself? ***


There’s nothing else to analyze. Where will all the martyrs go when the virus cures itself? 

 
- Allora, com’è andata? – chiede Mary Jane, guardandomi, sorseggiando un bicchiere di succo di frutta.
Io scrollo le spalle. Pensavo meglio, oppure peggio. Diciamo che, in generale, non me l’ero aspettato così.
Ridacchia. – Non è così male, no? –
- No, non lo è. – rispondo, rigirandomi in bocca la domanda che voglio farle. – Mary... –
- Jane. – mi interrompe lei.
La guardo.
- Sì, insomma, “Mary” fa troppo santa. Quindi se devi abbreviare chiamami Jane. –
- E’ il tuo vero nome? –
- Beh, credo che i miei avessero una particolare fissa per la Marvel. Anche se ho di meglio da fare piuttosto che la troietta di Spiderman. –
Mi viene quasi da ridere. – Comunque... volevo chiederti... qui la gente si fa? –
Mi fissa come se stessi scherzando. Quando capisce che sono serio alza gli occhi al cielo. – Ma secondo te qui c’è qualcuno che non si fa? –
Esito. – Insomma, la gente qui non mi sembra così fuori di testa. –
- Sì, lo so. Il punto è... “quando voglio smetto”, capisci? Puoi farti di quello che vuoi quando ti pare, basta che non diventi un drogato del cazzo. O almeno se lavori per lei. Perché se Whatsername si accorge che non riesci più a staccarti ti manda fuori a pedate. Non vuole furti. E poi... – aggiunge. – A nessuno interessa di essere un drogato. Perché effettivamente, e lasciatelo dire da una che lo sa, la droga non è così divertente. Disintossicarsi è una merda, e quello che fai in realtà è stare normale quando ti fai e stare di merda quando non ti fai, così continui a farti perché ti sembra di stare meglio. –
- Ti è successo? – chiedo. So che è una domanda personale, ma voglio saperlo.
- Sì. Diciamo che non ho mai vissuto tra persone raccomandabili in generale. Mi sono fatta la prima striscia di coca a quattordici anni. A sedici mi hanno rinchiusa per un anno e mezzo in un centro per tossicodipendenti, e solo perché mio padre si è ammazzato e mi hanno presa in adozione. E adesso eccomi qui. Sono... relativamente pulita, e sinceramente sto meglio. –
La guardo. Non sembra che il racconto l’abbia particolarmente turbata. Finisce il bicchiere di succo e lo mette nel lavandino. – E tu, Jimmy? –
- Più che altro canne. La prima volta che ho sniffato è stato con te. –
Non reagisce, come se non fosse niente di che. – Andiamo a fare un giro? –
- Non in città. Quel posto mi deprime. –
Ridacchia. – Capisco. Dai, vieni, ti presento un paio di persone. –
- Ok. – All’improvviso, mi viene in mente una cosa. – Ma lei li ha amici? – chiedo.
- Intendi Whatsername? –
- Sì. –
Mary Jane mi guarda come se cercasse di trovare un significato nascosto in quello che ho detto e alza gli occhi al cielo. – Devi essere parecchio convinto di te stesso se pensi sul serio di poter diventare suo amico. –
- Non voglio diventare suo amico. – sbottai. – Volevo sapere se... frequenta gente a parte te. Insomma, non sembra una persona molto... –
- ...socievole? – conclude lei. – No, non lo è. Però ha carisma, quando vuole, e sa come farsi ascoltare. –
Ci rifletto. Penso a quello che c’era nella sua voce mentre cantava Hotel California. Una persona capace di questo non è una persona fredda. Quindi non è che non ha amici perché è una persona fredda. Non ha amici perché... già, perché?
Potrei chiederlo a lei. Potrei provarci. C’è qualcosa di strano, in lei, qualcosa che mi incuriosisce.
Non ti interessare troppo a lei. Stalle lontano. Perché se non lo fai sei fottuto.” ha detto Mary Jane.
Già.
Peccato che io non sia mai stata troppo bravo a seguire i consigli.
- M... Jane? –
- Mh? – fa lei.
- E’ un problema se vengo domani a conoscere i tuoi amici? Oggi avrei... una cosa da fare. –
Mary Jane sospira. – Non lo fare, Jimmy. –
- Sono sempre stato uno schifo a seguire i consigli. – rispondo. – E faccio un sacco di cose stupide. –
- Non farti tirare di sotto da un balcone. –
- Ci proverò. –
 
Quando arrivo davanti casa di Whatsername il portone è aperto, ma la porta di casa sua no. Mi chiedo cosa dovrei fare. Busso? E se non è in casa? E se...
Decido di provare a bussare e basta prima di farmi ventimila domande a proposito di cosa fare se non c’è.
Così colpisco la porta così piano che quasi non lo sento neanche io. E, stranamente, sento un: - Chi cazzo è? –
- Jimmy. – rispondo.
- E che vuoi? –
- Vorrei non dirlo da dietro una porta. –
Sento uno sbuffo, dei passi, e poi il battente si apre. Io mi infilo dentro. Il salotto è rimasto praticamente uguale all’ultima volta che sono entrato, a parte un quadro attaccato alla parete. Anzi, no, non è un quadro, è uno specchio, solo che riflette i colori di un graffito sul muro di fronte.
Lei si lascia cadere sul divano. Ha addosso un vestito senza maniche verde petrolio e ha i capelli raccolti sulla nuca in una specie di chignon sfatto. Appoggiato accanto a lei c’è un libro minuscolo. Mi avvicino per leggere il titolo.
L’ultimo giorno di un condannato a morte.
- Macabro. – commento.
- L’hai mai letto? –
- No. –
Scrolla le spalle. – Io direi che è realistico. Comunque, che ci fai qui? –
Non so cosa dire, così sparo la prima cosa che mi viene in mente. – Volevo chiederti se posso usare la chitarra. –
Mi fissa. – Eh? –
- Sì, insomma, io non me la sono portata dietro quando sono venuto qui. –
- Anche Mary Jane ha una chitarra. –
- Non lo sapevo. – rispondo, anche se so benissimo che non mi sta credendo.
- Alla tua destra. – dice lei, alla fine, poi prende il libro e si mette a leggere.
Io all’inizio non capisco, poi mi giro e vedo la chitarra appoggiata alla parete. La prendo. Non so che fare. Posso portarla via o no? E voglio portarla via, soprattutto?
No, affatto. Non sono venuto qui per una chitarra.
Però adesso una chitarra è tutto quello che ho. Così mi siedo sul divano, lontano da lei, e iniziò a strimpellare le diciotto note che ci sono prima dell’inizio di Wish you were here. E’ una canzone semplicissima, quindi non ci sono troppe probabilità di fare figure di merda.
- So, so you think you can tell Heaven from Hell? – mormora lei. Non sta cantando, lo sta dicendo e basta. Lo sta chiedendo a qualcuno. E non a me.
Mi fermo.
- No, no, continua. Scusa. – dice, e si rimette a leggere.
Io però non ricomincio. – Ti piace? – chiedo.
- Cosa? –
- La canzone. –
- Ne ho sentite di migliori. –
- Però l’hai scritta sul muro del palazzo. –
Mi fissa, e i suoi occhi tagliano. – Senti, Jimmy, io non lo so cosa vuoi da me. Ma c’è una cosa che voglio che tu faccia, ok? Ed è “non chiedere”. –
- Perché no? –
- Questa è una domanda. – osserva lei.
- Lo so. –
Silenzio.
- E allora te ne faccio una io. – dice, dopo un po’. – Che ci fai davvero qui? –
Io deglutisco. – Ti faccio domande. –
 
Non so quanto tempo sia passato dalla mia risposta. Abbastanza da farmi dimenticare dove cavolo io abbia trovato il coraggio per dire una cosa del genere.
Whatsername non parla. Mi guarda.
- E se anche rispondessi alle tue domande... – dice all’improvviso, lentamente. – ...perché dovrebbe importarti delle risposte? –
- Perché voglio capire. – mormoro.
- Capire cosa? –
- Capire te. –
Lei chiude gli occhi per un secondo e sospira. Mi aspetto quasi che si metta a urlarmi contro o a trattarmi come un idiota come al solito, ma non lo fa. – Vuoi capire me. – mormora, con aria quasi ironica. Ironia triste, però.
- Perché no? –
- Perché non c’è niente da capire. – Mi fissa negli occhi. – Tu mi guardi e vedi un mistero. Vero? Vedi qualcuno senza storia, senza vita, senza nome. E pensi: “Oh, cavolo, c’è una ragazza capace di nascondere così tanto di se stessa. Stupefacente. Mi piacerebbe tanto capire quali sono la sua vera storia, la sua vera vita, il suo vero nome.” Lo pensi, vero? –
Deglutisco. – Lo penso. – ammetto.
- E invece sbagli. Perché c’è una cosa che non ti è mai passata per la testa, ed è che forse non c’è nessuna storia, Jimmy. Non c’è nessuna vita, e non c’è nessun nome. Per questo non riesci a vederli. Perché non esistono. –
Mi sembra un discorso assurdo. – Non è possibile che tu non abbia una storia, una vita e un nome. Tutti ce li hanno. Cioè... almeno la storia e il nome. – aggiungo poi, rendendomi conto che neanche io ho una vita. Cioè, non sul serio.
- Tu dici che non è possibile perché non ti è mai successo. Ma quello che dico della vita lo capisci, perché dopotutto se sei finito qui vuol dire che te ne stai cercando una nuova, e quindi che non ne hai una, al momento. – Scrolla le spalle. – Non c’è niente da capire, Jimmy, davvero. Non cercare qualcosa dietro la facciata, perché non c’è niente. Guarda questo palazzo, per esempio. Ha una bella facciata, forse anche misteriosa, perché nessuno capisce cosa ci facciano lì quelle canzoni. Ma poi? Poi dentro c’è una storia? C’è qualcosa di incredibile, di assurdo, di fantastico? No, non c’è. –
- Sì che c’è. – ribatto.
Ci guardiamo. Lei sa cosa sto per dire, e sembra che mi implori con lo sguardo di non dirlo.
Ma io lo faccio: - Ci sei tu, dietro. E io non ci credo che non hai una storia. Tu sei una persona, cazzo. Tutte le persone hanno una storia. –
- Ti ho detto... – mormora, lentamente, fissando il pavimento. – ...che non c’è niente da capire. E adesso non metterti a pensare che io sia troppo disperata per parlarne. Perché non è così. Semplicemente non c’è niente. E se non te ne fregherai da subito quando capirai che ho ragione ti sentirai solo un idiota, perché avrai perso chissà quanto tempo a cercare di capire una persona che non esiste, che è solo una facciata. –
- Tu sei una persona. –
- No. Sono solo un... un virus. –
Io la fisso. Un virus? Che accidenti significa?
Lei sembra rendersi conto del mio stupore, perché aggiunge: - E’ questo che sono. Guardami. Distruggo vite ogni singolo giorno. E tu lo sai benissimo. –
Ma non sta dicendo la verità. Questo discorso l’ha inventato sul momento. Non gliene importa niente di ammazzare la gente con la droga, non è questo il punto.
Ma ormai è andata. Whatsername mi da la schiena. – Vattene. – mormora.
- “Sapete quel che sapete, d’ora in poi non dirò più nulla.” – mi esce, per qualche motivo, con voce quasi arrabbiata.
Si volta di scatto e mi lancia un’occhiata strana, di fuoco ma ghiacciata. – Per l’ultima volta, Jimmy, non c’è niente da sapere. – sibila, ed esce dalla stanza.
Io non la seguo, sarebbe inutile. Mi limito ad appoggiare la chitarra dove l’ho presa e ad andarmene. Mentre scendo lentamente le scale continuo a pensare che non è possibile che lei non abbia una storia. Ma forse dice la verità quando afferma che non ce l’ha. Magari è solo che crede di non averne una.
Ma come si fa a credere di non avere una storia?
 
Quando la mattina dopo mi sveglio, noto qualcosa accanto al mio letto che la sera prima non c’era. Batto le palpebre. Sembra un libro. Accendo la lampada sul comodino. Sì, è proprio un libro, dalla copertina bianca su cui spicca come una macchia di sangue il rosso di un fiore. C’è scritto Undici minuti.
E’ abbastanza famoso, ora che ci penso. L’ho sentito nominare qualche volta. Ma che ci fa qui?
Noto un segnalibro che sporge da una pagina più o meno a metà libro. Lo apro, e mi salta subito agli occhi una parte sottolineata.
Una malattia sconosciuta  si era diffusa in tutta l’Europa, e nessuno sapeva perché mietesse tante vittime. Una malattia che cominciarono a chiamare “Peste Nera”, una punizione che Dio aveva mandato sulla terra a causa dei peccati degli uomini.
Fu allora che un gruppo di persone decise di sacrificarsi per l’umanità e di offrire ciò che maggiormente temeva: il dolore fisico. Quegli individui presero a vagare giorno e notte attraverso questi ponti, lungo queste vie, flagellandosi il corpo con fruste e catene. Soffrivano in nome di Dio e, con il loro dolore, lo celebravano. Ben presto scoprirono di essere più felici così che non facendo il pane, lavorando i campi o governando gli animali. Il dolore non era più sofferenza, ma piacere di riscattare l’umanità dai suoi peccati.
Non capisco. Accanto alla parte sottolineata però c’è un piccolo asterisco, con le parole: Ultima pagina.
Sfoglio il libro fino ad arrivare all’ultima pagina, che è bianca. O meglio, che dovrebbe essere bianca. Invece qualcuno ci ha scritto qualcosa con una grafia quasi illeggibile.
Ma ovviamente i martiri non curarono la malattia. Facevano quello che facevano perché la vita comune non gli bastava, volevano fare di più. E non si rendevano conto che, se avessero lasciato perdere Dio e si fossero resi MATERIALMENTE utili, sarebbero davvero serviti a qualcosa. Ma non volevano vedere questa realtà.
Alla fine la Peste Nera venne debellata. E cosa ne fu dei martiri? Niente. Probabilmente morirono per le ferite inutili che si erano inflitti, oppure fu la stessa malattia a ucciderli, visto che avevano indebolito fino a quel punto il loro corpo.
Agisci per quello che conta materialmente, se proprio devi. Non fare il martire, perché quando questo virus si sarà curato da solo, che cosa potrebbe mai esserne di te?

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Are we, we are, are we, we are the waiting unknown ***


Are we, we are, are we, we are the waiting unknown. 

 
Me ne sto immobile, seduto sullo schienale di una panchina, e guardo il libro che tengo sulle ginocchia. Non sono ancora sicuro di aver capito davvero cosa significa quello che ha scritto Whatsername.
Quando il virus si sarà curato da solo.” Che significa? Lei si è definita un virus. In che senso si “curerà da sola”?
E poi, Agisci per quello che conta materialmente. In che senso? Che dovrei fare?
Sospiro. E’ stato chiaro da subito che lei non intende davvero come “virus” il suo spacciare droga. Intende qualcosa di se stessa. Non credo sia malata o cose del genere, però. Se fosse così, non l’avrebbe mai messa in questi termini.
Decido che devo parlare con lei in qualche modo. Non so per dire cosa, ma ho bisogno di una spiegazione di questo.
Mi alzo. Sì, però lei col cavolo che vorrà parlare con me.
Mi incammino alla ricerca di un’idea. E anche di un bagno, già che ci sono. So che ce n’è uno costruito per essere pubblico, che è uno dei pochi in cui l’acqua corrente funziona, ed è più vicino della casa di Mary Jane.
Entro dentro e faccio quello che devo fare, poi lancio un’occhiata allo specchio. E mi blocco.
Quello che ho davanti non è il mio riflesso. Cioè, ok, non mi faccio la barba da un po’, ma sicuramente io non sono così. Il tizio che ho davanti non mi assomiglia affatto. O meglio, non saprei dire. Nonostante il disegno sia bello, ben fatto, i tratti sono indefiniti, quasi sbiaditi, come se vedessi un viso in mezzo alla nebbia. L’unica cosa che percepisco è il suo sguardo, così intenso che mi brucia sulla pelle. Deglutisco.
All’improvviso la porta del bagno si apre ed entra un ragazzo con cui non ho mai parlato. – Hai fatto? – chiede.
Io deglutisco. – Mh-mh. – mormoro, senza riuscire a staccare gli occhi dal viso nello specchio.
Il ragazzo mi guarda e scoppia a ridere. – E’ la prima volta che lo vedi, vero? – chiede. – Capita a tutti di prendersi un colpo ogni tanto. –
- Che cavolo è? – chiedo.
- Beh, è dipinto tra il vetro e la vernice argentata, probabilmente. Non saprei. E non si sa neanche chi l’abbia fatto, però direi che è venuto parecchio bene. –
- Già. – concordo, ed esco dal bagno.
Mentre cammino verso casa di Whatsername cerco di non pensare al viso nello specchio. Penso solo a cosa dirle, a cosa chiederle. Ma ho la testa completamente vuota.
Quando arrivo suono il campanello e provo a bussare, ma lei non c’è oppure sta facendo finta di non esserci. Alla fine lascio il libro davanti alla porta del suo appartamento insieme a un biglietto: E qual è il virus?
Ma non risponderà. So già che non lo farà.
Scendo le scale lentamente. Ho voglia di musica, ma non ho uno stereo né un MP3, e qui non c’è Internet, ovviamente, quindi non posso neanche scaricare musica sul telefono.
Però forse qualcosa posso fare. Ci sarà un negozio di dischi in centro, per quanto io odi l’idea di andarci. E il televisore nella sala comune ha un lettore DVD, che forse dovrebbe andare bene. Non ho più di tanti soldi, ma un CD ce lo compro.
Mi avvio a piedi, un passo alla volta, e mentre continuo ad andare avanti in mezzo alla strada penso a quanto sia cambiato in così poco tempo. Già, tempo. Da quando me ne sono andato di casa non è passato neanche un mese. Mi sforzo di non pensare a mia madre, agli altri. Per lei – per loro – sarà come se fossi morto, probabilmente. Prima mancherò a tutti, poi si abitueranno alla mia assenza e staranno meglio senza di me. Anzi, forse si sono già abituati.
Quando arrivo in centro inizia a piovere. Una pioggia sottile, gocciolante. Io la ignoro e trovo il negozio di dischi. E’ completamente vuoto a parte l’uomo alla cassa che mi guarda entrare senza parlare. A differenza di tutti gli altri in questa città non sembra spaventato. Solo... stanco. Quando entro non sembra stupirsi, non saluta. Mi osserva e basta per un secondo, poi torna con gli occhi al libro che sta leggendo.
Io mi dirigo verso gli espositori. C’è musica nuova e cose che scarto subito perché non vanno bene per come sto oggi. Poi vedo un disco che mi attira. La copertina non è particolarmente bella – tre uomini seduti su un vecchio divano marrone e una donna seduta a terra – ma per qualche motivo io non voglio qualcosa con una copertina bella. Voglio qualcosa che vada bene per questo momento.
Guardo meglio. E’ dei Cranberries. Non li conosco se non per una canzone, Zombie, che per altro in questo CD c’è. Quindi dovrebbe essere carino, almeno.
Non ho voglia di restare qui più di tanto, perciò lo prendo e mi giro. Solo che mi ritrovo faccia a faccia con il venditore.
- Cranberries. – dice.
- Già. –
- Pensavo che non li ascoltasse più nessuno. –
Silenzio.
- Sì, d’accordo, non hai voglia di parlare con me. – sospira. – Dopotutto se qualcuno viene qui in cerca di musica è esattamente perché non ha voglia di parole, no? – Mi prende il CD di mano e si dirige verso la cassa.
Io resto di sasso. – Io le vorrei delle parole. – mi esce. – Solo che nessuno vuole darmene. E quindi ho bisogno di qualcosa per occupare il silenzio. Tutto qui. –
Lui sembra stupito quasi quanto me. – Capisco. – dice alla fine. – E che parole vorresti ascoltare? –
- Vorrei... una storia. – mormoro mentre lui batte lo scontrino.
- Una storia in particolare? –
- Sì. La storia di una persona. –
- E perché vuoi quella storia? –
Silenzio. Non so se devo rispondergli. Non so cosa rispondergli.
- Faccio domande strane, vero? – chiede, con un sorriso stanco.
- Che ci fa lei qui? –
Mi guarda, e io so che ha capito. Cosa ci fa in questa città una persona così?
Sorride di nuovo. – Beh, io sono qui nel caso qualcuno abbia voglia di riempire del silenzio o di coprire del rumore. Altrimenti come farebbero le persone? – aggiunge, quasi ironico.
- Ma che gliene frega delle persone? – mi esce. – Qui sono tutti così... –
- ...morti. – conclude, al posto mio. – Ma... tu sei sicuro che davvero... – Si interrompe. Scuote piano la testa. – Niente. Lascia perdere. –
- Perché? L’ultima cosa di cui ho bisogno è un’altra storia a metà. – Sono quasi arrabbiato. Perché tutti questi misteri? Che senso ha?
Lui abbassa lo sguardo. – Sì che ne hai bisogno. – risponde. – O meglio, sicuramente non hai bisogno di una storia intera. Vivi la tua vita, ragazzino. Vivila finché c’è. Le storie vengono dopo. –
- Ma io le voglio adesso! – sbotto.
- No, tu vuoi tutto adesso! – ribatte lui, a tono. – Voi... voi giovani siete tutti così. Volete tutto e lo volete subito. Beh, sapete una cosa? State sprecando la vostra cazzo di vita ad aspettare, e quando ottenete qualcosa iniziate semplicemente ad aspettare la cosa successiva. E sai, neanche poi si cambia. L’unica differenza è che alla fine non sai più cosa aspettarti, aspetti solo che cambi un cazzo di qualcosa! – Stringe i pugni. Mi guarda. – Io aspetto solo che cambi un cazzo di qualcosa. Ma non dovrebbe essere così, porca miseria. Dovreste aprire gli occhi e basta e godervi il mondo finché c’è, perché credimi, se ne va più in fretta di quanto tu possa immaginare. –
- E perché tu non lo fai? –
- Perché io non ce l’ho, un mondo. Ma tu sì. –
- Porca troia, ma siete tutti senza qualcosa? – ringhio. – Lei non ha niente. Niente. Ma non è possibile che non abbia un cazzo di nome, almeno! E adesso tu – sono passato dal “lei” al “tu” quasi senza pensarci. - ...tu vuoi dirmi che non hai niente neanche tu? Ma mi prendete in giro? –
Alle mie parole l’uomo si irrigidisce. – Whatsername. – sussurra.
Io lo guardo. – Tu... tu la conosci? –
Batte le palpebre. Per un secondo mi sembra che abbia gli occhi lucidi. – La conoscevo. – sussurra. – Ma adesso non lo so più neanch’io chi è. –
Dopo non parla più, e nemmeno io. Prendo il disco ed esco sotto la pioggia, pieno di domande e con un vuoto nello stomaco. Ma forse una risposta ce l’ho.
“Magari non lo sa neanche lei, chi è. Per questo non ha un nome.”

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Welcome to a new kind of tension, all across the alienation ***


Welcome to a new kind of tension, all across the alienation. 

 
La voce della cantante dei Cranberries risuona nella sala comune semivuota. C’è uno strano silenzio, un silenzio quasi più strano di quello che ho dentro nonostante io cerchi di riempirlo con la musica. Cerco di concentrarmi sulla canzone non sul silenzio.
 
I don’t think it’s going
to happen anymore.
You took my thoughts from me,
now I want nothing more;
and did you think you
could just take it all away?
I don’t think.
 
E’ strano ascoltare questa canzone adesso, perché dice tutto l’opposto di come mi sento io. E’ vero, lei si è portata via i miei pensieri, ma io li rivoglio. Voglio potermi concentrare su qualcos’altro, anche.
Ma cosa mi aspettavo? Non è vero che la musica ti capisce, non è vero che è il tuo... “unico amore”, come dicono certe ragazzine. Ascoltare musica è come andare a puttane, e a seconda delle tue voglie te ne scegli una con prestazioni particolari. Tutto qui.
La musica è una puttana.
Spengo il televisore e la musica si interrompe di colpo. A quanto pare questa volta sono andato dalla puttana sbagliata.
Sono indeciso se tenermi il CD o no, e alla fine decido di sì. Dopotutto ho pagato per la mia puttana, e magari prima o poi potrebbe venirmi voglia di qualcosa che lei sappia fare.
Mi tiro su e mi incammino verso... non lo so verso cosa. Voglio solo camminare, camminare con la pioggia che mi cola addosso.
Il fatto è che voglio convincere me stesso di non voler tornare lì. Ma tanto è inutile. Dopo poco sono di nuovo davanti a quel portone. E’ aperto come stamattina.
E così io entro e inizio a salire.
Quando arrivo davanti alla porta del suo appartamento il libro non c’è più e sul battente c’è un foglio attaccato con lo scotch.
Don’t look for me, I’m at the Hotel California.
Io non capisco. Hotel California? Cioè, esiste davvero? E poi se lei è... lì, perché dall’interno proviene della musica a tutto volume?
Provo a bussare e la porta si apre da sola al primo tocco, così entro. Il volume della musica viene alzato ancora di più, adesso è quasi assordante.
 
Tell me, would you kill
to save our lives?
Tell me, would you kill
to prove you’re right?
Crash, crash, burn,
let it all burn,
this hurricane’s chasing us all underground...
 
Io non capisco. Mi guardo intorno. Sembra che non ci sia nessuno e non c’è neanche niente di strano in giro, tranne...
Mi avvicino al divano e guardo meglio. Ancora sporca di sangue, come se qualcuno se la fosse strappata a forza dal braccio, c’è una siringa vuota.
E all’improvviso capisco.
Hotel California. Un posto dove nascondersi. Un posto dove scappare. Dopotutto... Plenty of room at the Hotel California. Già, c’è sempre posto. Finché puoi pagare.
Ma lei dov’è? Mi guardo intorno. La canzone di prima è finita e adesso nell’appartamento ne rimbomba un’altra. Non capisco neanche una parola di quello che dice, ma non sembra troppo male.
Io lascio la siringa sul divano ed esco dal salotto, cercando di capire da dove proviene la musica, ma non è semplice visto quanto è alto il volume. Alla fine, però, riesco a trovare quella che mi sembra la porta giusta ed entro.
La camera è immersa nella penombra, ma quello che vedo mi lascia di sasso. Il muro è completamente ricoperto di scritte. Non graffiti, solo scritte, scritte scarabocchiate a pennarello. Non capisco cosa dicano perché si sovrappongono e sono fatte con una grafia praticamente illeggibile, perciò abbasso lo sguardo.
Lei è sdraiata sul letto, lo sguardo fisso sul soffitto, così immobile che per qualche secondo mi viene da pensare che sia morta. Ma poi vedo il petto che si solleva lentamente a ogni respiro, e sento il sibilo dell’aria che le filtra tra i denti serrati. Non credo mi abbia sentito. Dovrei andarmene? Sì, probabilmente sì. Ma se le viene un infarto o qualcosa del genere?
Non faccio in tempo a pensarci perché lei, all’improvviso, si mette a parlare.
- Guarda che lo so che sei qui. – dice.
Non riesco a rispondere.
- Non dovresti. – aggiunge. Come se non lo sapessi.
- Scusa. Volevo solo... –
- Lo so cosa volevi. – mi interrompe. – Non è un gran momento. – Deglutisce, si mette seduta. Deve reggersi al letto. – Ho paura di aver esagerato un po’. Cazzo, è ovunque. –
- Cosa? –
Scrolla le spalle, scende dal letto e barcolla verso il muro. Inizia a tracciare il contorno di alcune scritte con le mani. – Guarda. – dice. – Sai, non me n’ero resa conto davvero, che fosse così tanto qui. Non ci avevo mai pensato. Forse se ci avessi pensato non avrei scritto questa roba, oppure sì. Chissà. Mi suoni qualcosa? –
- Ehm... cosa? –
- Quello che vuoi. Avrei voglia di Poets of the Fall ma credo che non sarebbe una grande idea. Cioè, se fossi pulita non me ne accorgerei, ma credo proprio di volerla sentire perché è anche in quella canzone. L’hai mai sentita? Revolution roulette, si chiama. Gran bella canzone, già. Peccato che me l’abbia rovinata così. Però magari domani riuscirò ad ascoltarla senza problemi, che dici? –
“Che non ho capito nulla.” – Sì, penso anch’io. – improvviso. – Che ne dici di... Simon e Garfunkel? –
Lei scoppia a ridere. – Quelli del tatuaggio, vero? Boh, li odio. Scrivono un sacco di minchiate. Mai quanto Cat Stevens, voglio dire, la stessa persona non può scrivere Wild World e Father and son a meno che di quello che canta non gli importi affatto. Ed è un peccato perché è anche bravo, Stevens. E vogliamo parlare dei Rem? Cioè, sì, sono bravi eccetera, ma se ti leggi il testo di una loro canzone ti senti male dallo schifo, cazzo. Stand e tutte quelle altre cazzate sul fatto che devi restare dove sei eccetera. L’unica canzone che gli è uscita giusta è It’s the end of the world, che non so, ha un testo da Nirvana, cazzo, parole messe a caso ovunque. Anche se insomma, quella cover che ha fatto quel tizio... non mi ricordo come si chiama, però mi sembra che sia tipo A che ora è la fine del mondo?, quella è più bella, non so, cioè, a volte sfocia nella critica politica da due soldi, però nella maggior parte dei casi è stranamente onesta. Mi piace. Tu che ne pensi? –
- Ehm... mai sentito. –
- Sì, lo so, la musica italiana non la ascolta nessuno perché nella maggior parte dei casi è una merda. Ma hai presente, che so, Geordie. E’ di un tizio che si chiama De Andrè. Parla di uno che ruba per sopravvivere e lo beccano, perciò lo devono impiccare anche se non vogliono, ma nessuno può impedirlo perché è la legge, e questo fa quasi piangere quando la ascolti. – La guardo meglio. Al buio non me n’ero accorto, ma ora sta piangendo sul serio. – Già, dice proprio così. Né il cuore degli inglesi né lo scettro del re Geordie potran salvare: anche se piangeranno con te, la legge non può cambiare. Che merdata, eh? E quindi alla fine lo impiccano con una corda d’oro per dimostrare che ha fatto un atto onorevole anche se era fuorilegge. Ma voglio dire, chi cazzo se ne importa?! E’ morto, è morto, è morto! – Whatsername crolla sul letto e continua a piangere, in modo isterico. Mi lancia un cuscino ma non ho neanche bisogno di scansarmi, visto che cade a terra a meno di un metro da lei. – E’ morto. – ripete, dopo un po’, più calma. – E non era neanche colpa sua. Cioè, si potrebbe dire che se l’è cercata, ma sono sicura che non capiva. Geordie pensava che valesse la pena rischiare, lui invece proprio non capiva. O almeno credo. Forse capiva e ha deciso di morire comunque perché era piuttosto disperato. Sì, disperato lo era abbastanza, già. Tutti quegli sguardi vuoti. Credo che un po’ fosse... – Si blocca. – Non mi sento in colpa, in realtà. Però mi manca. No, aspetta. Magari è solo che voglio non sentirmi in colpa. Chissà. Alla fine non so bene se sia stata colpa mia oppure no. Io ci ho provato. Forse ci ho provato solo nel modo sbagliato. Forse era solo che non lo conoscevo abbastanza bene. Era fragile. Cioè, una persona disperata come lui, nelle sue condizioni, non poteva che essere fragile, ok, ma pensavo... – Sospira. – Pensavo che sarei servita. A dare una mano. E invece no. –
Non riesco a staccarle gli occhi di dosso, e non solo perché anche lei mi sta fissando. Sta facendo discorsi senza né capo né coda, ok, ma vogliono dire qualcosa. Chi è morto? Quando? Cos’è successo?
Potrei chiederglielo. E’ così fatta che probabilmente mi risponderebbe. Ma non ne ho il coraggio. Sarebbe... sì, sembra stupido, ok, ma sarebbe scorretto costringerla a parlare adesso, perciò rimango in silenzio mentre lei sospira. – Sai... – dice, mettendosi a sedere sul letto a gambe incrociate, con voce tranquilla. – Credo che tu gli assomigli un po’. –
Esito. – Davvero? –
Annuisce. – Sì, credo di sì. Insomma, tu perché sei qui? –
- In che senso? –
- Qui. In questa città. Perché sei qui? –
­- Perché... mi si è fermata la macchina. – ammetto. – Su una strada. Ho guidato finché ho avuto i soldi per fare benzina e l’ho fatto perché volevo allontanarmi da casa. Odiavo quel posto. Non... non che ce ne fossero troppi motivi, ma... lo odiavo. Va bene? –
Annuisce di nuovo e fa un sorriso triste. – Già. Gli assomigli un po’. – Si alza in piedi e si dirige verso l’armadio. Ci fruga dentro e dopo poco tira fuori una bottiglia mezza vuota. La guarda. – Costa un sacco, questa robaccia. – sbuffa. La stappa e beve un sorso. – Però cazzo se è buona. Vuoi? –
- No, grazie. – Non credo sia una grande idea farla bere adesso, ma come faccio a impedirglielo? Lei beve un altro sorso, guarda distrattamente il muro... e lancia la bottiglia mandandola in frantumi sul pavimento, scoppiando di nuovo a piangere istericamente. Crolla a terra e vomita il liquore che ha appena bevuto, poi si sdraia senza curarsi del liquido che le macchia capelli e vestiti, le lacrime che le scorrono sulle guance. Inizia a cantare una canzone che non capisco e poi, a un certo punto, chiude gli occhi e basta.
Mi avvicino. Sembra che stia dormendo. Provo a darle una spintarella e lei grugnisce, ma non apre gli occhi, così la tiro su, la metto sul letto e mi siedo accanto a lei. La guardo. Ha i capelli bagnati di vomito e puzza di liquore da fare schifo, ma non riesco ad andarmene. Mi dico che è per controllare che non si senta male, ma in realtà credo di essere qui solo perché vorrei scuoterla, svegliarla e capire cos’è successo.
E invece alla fine mi addormento accanto a lei e basta.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** King of the forty thieves and I’m here to represent the needle in the vein of the establishment ***


King of the forty thieves and I’m here to represent the needle in the vein of the establishment.  

 
E’ Another brick in the wall a svegliarmi, chissà quanto tempo dopo. Batto le palpebre e capisco che proviene dallo stereo appoggiato per terra. Whatsername non c’è e i cocci della bottiglia sono spariti, ma non le macchie di liquore sul muro. Sono quasi felice per questo; almeno ho una conferma che è tutto successo veramente. Sembra tutto così irreale che quasi non riesco a crederci.
Mi metto seduto e prendo un respiro. L’aria odora di liquore, vomito e sudore. Non è la prima volta che mi sveglio in una situazione del genere, ma decisamente è la prima volta che mi sveglio con un ricordo del genere. Whatsername. E tutto quello che diceva. Cosa avrà voluto dire?
E poi la vedo. Enorme e inquietante. Fisso la scritta sul muro, in inchiostro nero, che risalta come un pugno in un occhio sopra tutte le altre.
No matter what we breed,
we still are made of greed;
this is my kingdom come
THIS IS MY KINGDOM COME.
Faccio un passo indietro. E’ impazzita? E’ mai stata meno pazza di così? Non mi do il tempo di provare a rispondermi. Corro fuori dalla camera e mi avvicino alla porta d’ingresso. Voglio andarmene da qui. Devo andarmene da qui.
Ma poi, eccolo. Un biglietto, attaccato alla porta con lo scotch.
Sul tetto. dice. Vorrei avere il coraggio di chiederti di non venire.
Mi blocco, deglutisco. Perché è estremamente stupido salire sul tetto. E’ stato stupido anche solo venire qui.
Però l’ho fatto.
E sono un idiota.
Non ci metto troppo a trovare la scala. E’ in cucina e arriva a un buco nel soffitto. Fuori c’è vento e il sole manda una luce così forte da far sembrare tutto irreale.
Whatsername e seduta sul bordo del tetto. Non può avermi visto, perciò per un secondo resto immobile. Posso ancora tornare indietro. Andare via, sparire. Tornare a casa mia, in qualche modo. Dimenticare questo posto. Dimenticare lei.
Ma lo so già che non riuscirò a farlo. Perciò la chiamo.
Lei si gira a guardarmi da dietro la spalla. – Ehi. – dice. E’ pallida, ha gli occhi arrossati e i capelli sono un disastro. Non li ha neanche lavati dopo ieri notte (o almeno, credo che fosse ieri notte e che ora sia mattina. Ma mi sento come se la pera me la fossi fatta io, non lei. Mi sembra di non capire più assolutamente niente).
- Hai intenzione di spiegarmi? – chiedo. La voce mi esce strana, quasi seccata. Come se mi avesse costretto a venire qui, cosa che in effetti ha fatto. Lo sa che mi ha costretto, con quel biglietto. Con quella specie di promessa sottintesa.
- Esatto. – risponde. Batte una mano sul cemento accanto a sé, come per invitarmi a sedermi, e io lo faccio. Che altro dovrei fare?
Lei resta in silenzio così tanto che sono tentato varie volte di andarmene. Quando finalmente parla quasi sobbalzo.
- A volte vengo qui. – dice. – Guardo giù, e penso che potrei buttarmi. Mi dico, non sarebbe poi una gran caduta. Probabilmente morirei sul colpo. Oppure no. Resterei agonizzante e paralizzata a terra, e morirei dopo un po’. Sinceramente non so quale delle due opzioni mi piaccia di più. Insomma, credo che in un certo senso uno dovrebbe godersela la propria morte, e il dolore non mi spaventa, ma... Tu hai mai letto I fratelli Cuor di Leone? –
Mi limito a fissarla. Che senso ha questo cambio di discorso?
- Finisce in un modo stupendo, secondo me. Quando lo lessi per la prima volta avevo nove anni e mi misi a piangere. In pratica, questi due fratelli devono morire per finire in un posto migliore, ma il maggiore è paralizzato, e così il più piccolo lo prende sulle spalle e si buttano insieme in un crepaccio, ed è una caduta nel buio, nel vuoto, e poi il fratello minore dice: La luce, Jonathan! Vedo la luce! Un salto nel vuoto verso chissà cosa, verso chissà dove, un battito di ciglia, il buio e ci sei. Anche se in realtà non penso di credere nell’aldilà, ma comunque... – Sospira. – Sai perché non lo faccio mai? –
- No. – rispondo. – Sbrigati, cazzo. –
Lei scoppia a ridere. – Ehi, è la prima volta che lo racconto a qualcuno. Dammi tempo. –
- Non stai raccontando niente. Stai facendo discorsi assurdi e giri di parole come sempre, e alla fine non significano nulla! Tu non significhi nulla! – Sto quasi urlando, ma mi blocco quando la vedo ridere di nuovo.
- L’hai capito. – dice. – Erano secoli che volevo che lo capissi. Che non sono nulla, che non significo nulla. Ma comunque... beh, una storia. Non posso dire di averla ancora. L’ho buttata via un bel po’ di tempo fa, ma se frugo bene magari qualcosa trovo. Comunque non ho ancora finito la mia introduzione. –
Beh, direi che con questo mi ha chiuso la bocca, perciò sto zitto.
- Allora, dicevo. Non lo faccio mai. Potrei. Non ci sarebbe nessuno a fermarmi. Neanche tu mi fermeresti, se lo facessi adesso. – Dondola pigramente i piedi nel vuoto. – Il virus si curerebbe da solo, i martiri andrebbero a puttane e sarebbe tutto ok. Però non lo faccio. Prova a indovinare perché. –
Esito e lei non mi lascia il tempo di rispondere.
- La città. La città che muore. Pensi che se non ci fossi io loro sarebbero ancora tutti vivi, starebbero ancora tutti bene? No, ovviamente no. Quella che gli do io è una possibilità di vita diversa. Ed è folle, è sbagliata, è pericolosa, ma è diversa, e la diversità è quello di cui hanno bisogno per sopravvivere. Se muoio io, tutto questo si sgretola. E per qualche motivo non ho il coraggio di lasciarglielo fare. In realtà... non so perché mi importi. Ma sono... sono la regina dei quaranta ladroni, in un certo senso. Senza di me loro non hanno niente e non sono nessuno, solo io conosco la parola magica per la grotta del tesoro, sono io la parola magica per la grotta del tesoro. Loro sono la mia forza e io sono la loro. Eppure... eppure non è tutto qui, e questo è quello che mi da più problemi, Jimmy. Perché questo non è soltanto un gioco né un modo di vivere. Il virus c’è, e uccide quando trova qualcuno senza abbastanza difese. Lui non le aveva, e inizio a pensare che neanche tu le abbia. –
- Lui chi? – chiedo, ma lei mi ignora.
- Io, caro Jimmy, sono l’ago nella vena dello spacciatore. –

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** St. Jimmy’s coming down across the alleyway, up on the boulevard like a zip gun on parade ***


St. Jimmy’s coming down across the alleyway, up on the boulevard like a zip gun on parade. 

 
- Che cazzo vorrebbe dire? –
Sorride. Quel sorriso che è più un ghigno con un’insensata sfumatura di mistero. – Beh, esattamente quello che ho detto. Sono l’ago-nella vena-dello spacciatore. – scandisce, come se servisse a qualcosa. Come se avesse un senso, quello che sta dicendo.
- Smettila. – sibilo. – Te l’ho detto, sono stanco. Stanco di te. Di tutte queste stronzate. –
Lei continua a sorridere. – No che non lo sei. Altrimenti te ne saresti già andato. – Si incupisce. Sospira. – Dio, sto esagerando sul serio. E’ che... non so. Non l’ho mai fatto. Di... raccontare questa roba. Sul serio. Non mi piace doverci pensare. Girarci intorno senza dirlo è sempre più facile. Di solito quando la gente lo fa qualcuno capisce. Tu però no, non capisci veramente un cazzo. E non so se è perché tu sei un idiota o perché io sono parecchio problematica, o perché ho sbagliato qualcosa, non mi riesce essere una poetessa maledetta senza essere anche troppo ermetica per essere capita. Ma comunque... – Inspira e poi butta fuori l’aria come se fosse fumo di sigaretta. – Beh, il punto è che... guardami. Tu sei lo spacciatore. E io sono l’ago che ti si infila in vena e ti inietta la droga, che ti sta facendo andare fuori di testa. Prova a negarlo, Jimmy. Guardami negli occhi e dimmi che non è vero. –
Resto in silenzio. Non c’è bisogno che confermi, sa già che ha ragione.
- Con lui... era lo stesso. E me ne rendevo conto, in qualche modo, ma pensavo che fosse una buona cosa. Pensavo di essere capace di dargli quello schiaffo che gli serviva per sputare un po’ di sangue marcio, tirarsi su e ricominciare a correre. E invece non ha funzionato. Lui è crollato. E si è ucciso. Non sono sicura che l’abbia fatto apposta, sai. L’abbiamo trovato morto dopo un’overdose. Probabilmente neanche ci pensava, che sarebbe morto, non ne era conscio, però probabilmente lo voleva lo stesso. E sai perché penso che sia andata così? Perché non ce l’aveva, il coraggio di uccidersi. Non era fatto così. Preferiva lasciarsi vivere, un po’ come te che invece che ammazzarti sei scappato, ma sei comunque rimasto in vita. Un sacco di volte le persone non hanno il coraggio di fare il grande passo. Idioti. Sarebbe tutto più facile. –
- Come fai ad accusare me se ancora non ti sei buttata, tu? – mi esce. – Certo, dici che è per loro, ma davvero dovrei crederci? Hai solo paura. –
- E di che? – chiede. – Jimmy, di cosa dovrei avere paura? Di cosa dovremmo avere paura, tutti quanti? C’è qualcosa? Perché io non lo vedo, non l’ho mai visto. –
- Non c’è... qualcosa. E’ solo umano. Avere paura di morire. –
- Un sacco di cose sono “umane” ma la gente non le fa. –
- Un esempio? –
Resta in silenzio. Sorride. – Hai ragione. – ammette. – E’ solo umano. Ma il punto è che io sono qui e che ci sarò anche domani e per un bel po’, probabilmente, e tu sarai morto piuttosto presto. Perché tu hai bisogno di aiuto e nessuno qui può darti una mano, perché ti servirebbe un’armatura, qui dentro o ovunque in questo mondo, ma non ce l’hai. –
- Stai continuando a fare giri di parole. – dico, sapendo di apparire freddo. Ma non lo sono. Mi sembra di stare andando a fuoco. Non è solo rabbia, è anche stanchezza. Sono stanco, stanco di sentire parole vuote. E’ davvero pazza, forse. Oppure no. Forse il problema sono io.
- Ok. – sbotta, all’improvviso. Sembra furiosa, adesso. Ma perché? – Ecco. Vuoi sapere la storia? La avrai. Non è niente di speciale. Ma se è questo che vuoi, se pensi che possa cambiarti la vita, allora va bene. C’era una volta un ragazzo. Era un gran figlio di puttana e non aveva un fottuto scopo nella vita, ed era depresso. Però aveva qualcosa, una specie di fascino. Era bravo a suonare il pianoforte. Aveva questa cosa, questo talento per la musica, che era assurdo e bellissimo. E poi c’era una ragazzina di diciassette anni, che in realtà non li ha mai avuti, diciassette anni. Ne ha sempre avuti una quarantina almeno e contemporaneamente quattro o cinque, quell’età che sei incosciente ma capisci qualcosa di quello che ti succede intorno. Ecco, quella ragazzina un giorno trovò il pianista svenuto in un bagno pubblico che rischiava di soffocare nel suo vomito. Lo tirò fuori e quando si riprese gli offrì un caffè. Andarono a letto insieme e lui suonò per lei e lei gli disse che era un coglione, gli chiese perché non suonasse di più e non pensasse un po’ meno. E lui sorrise e poi iniziò a farsi un sacco di droga perché così avrebbe smesso di pensare. Lei spacciava, lo fa ancora. In quel momento non era messa bene come adesso, però aveva un suo ruolo. Sai, quando ti invischiano in queste cose da giovane poi è tutto facile, o difficile, a seconda dei punti di vista. Basta avere un po’ di grinta e prendere in mano le cose. – Deglutisce. – I due fecero una vita folle. Viaggi in macchina e aria nei polmoni e bottiglie di roba scadente e un paio di siringhe. Si svegliavano la mattina e non sapevano che giorno era. Lui iniziò a dare i numeri. Suonava bene come non mai. – Prende un respiro. – La differenza tra lui e la ragazza era una sola, in realtà. Sai, ci sono persone che sanno essere un po’ distaccate dalla vita. Non troppo, eh. Solo che, se tutto quello che le ha sorrette fino a quel momento crolla, scrollano le spalle e vanno avanti.  La ragazzina era così. Era tutto un grande gioco, per lei. Il lavoro, la droga, i momenti folli. Prima o poi sarebbe morta e sarebbe finito tutto, e allora non se ne sarebbe potuta dispiacere, no? Tutto quello che voleva la ragazza era non stare male, perché soffrire fa un po’ schifo. Del resto in realtà non le importava. La vita era... un suo capriccio. Ma il pianista era diverso. Il pianista invece la vita se la sentiva addosso fin troppo, che lo soffocava, perché non riusciva a capire che non ha alcun senso prendersela, che l’esistenza è fine a se stessa e che, alla fine, chi se ne importa. Non riusciva a prendere le cose con la giusta leggerezza. Lo urtavano, lo facevano a pezzi. Gli unici momenti in cui si sentiva bene era quando faceva follie con la ragazzina. Ma quelle follie non potevano durare per sempre, e iniziarono a non bastargli più, e allora si uccise. – Non ha cambiato espressione dall’inizio del racconto a ora. Non riesco a staccarle gli occhi di dosso, porca miseria. – La ragazzina sopravvisse perché, come ho detto, era distaccata dalla vita abbastanza da riuscirci. Ma ti rivelo un segreto. C’era qualcosa, ora, che aveva iniziato a diventare essenziale per lei. Ed era il pianista. Quello stupido pianista. Perciò sopravvisse, sì, ma non fu così semplice. Adesso un sacco di gente chiama la ragazzina Whatsername, e solo tre persone in questo posto sanno del pianista. – Sorride. – Ecco. E’ finita. Ecco come ho avvelenato quella testa di cazzo fino a farlo impazzire, morire. Ero il suo viso allo specchio, solo diversa, più menefreghista, quasi divina, perché non li percepivo, i peccati, non mi pesavano, perché niente di terreno mi toccava, in una stupida visione onirica di tutto questo. Ero santa perché i peccati, per me, non esistevano affatto. – Sorride. – La sua santa allo specchio. Ecco qui, Jimmy. Ecco la storia. Non è niente di che, vero? Chissà cosa ti aspettavi. –
Resto in silenzio. “Niente di che”. Eppure io mi sento come se mi avesse preso a pugni, come se la verità me l’avesse sputata in faccia e adesso fosse lì a soffocarmi. Dovrei dire qualcosa, qualcosa per risponderle, ma l’unica cosa che mi esce è: – Tu sei... sei pazza. –
Scrolla le spalle. – Forse. E’ solo che... insomma, immagino che anche questo sia una specie di contorto istinto di conservazione. Evitare che le cose ti tocchino sul serio per evitare di soffrire. Prendere solo il lato... bello, il lato sopportabile. Ignorare i cartelli di stop perché sono dei limiti, finché non finisci giù dal dirupo e allora è troppo tardi per preoccuparsene. Non è troppo male, Jimmy. Solo che la gente non ci riesce. La gente vive tutto troppo intensamente e poi il tutto la distrugge. –
- Ti rendi conto che non c’è niente di vero in quello che fai, in quello che vivi, se la vivi così? – mormoro.
Whatsername sorride di nuovo. Ha gli occhi lucidi. – Ci riuscissi ancora, a viverla così. Ti giuro, sarebbe molto, molto meglio. Ma poi ci sono quelle persone che ti si infilano dentro e ti ancorano alla vita e soprattutto alla loro, di vita, e quando si ammazzano è finita, punto, stop, un mucchio di dolore, ma tu non muori. Tu resti e non ce la fai a buttarti perché improvvisamente hai paura. Hai mai pensato a quanto è assurdo? Se ami la vita hai paura di morire, ma ce l’hai anche se... anche se la odi. Perché non vuoi che finisca tutto prima che tu sia riuscito ad essere felice. Provare qualcosa nei confronti della vita ti frega, e in realtà dovresti solo ignorarla, cazzo, ma a volte semplicemente non ce la fai quanto vorresti. Io non ce la faccio quanto vorrei. Ma penso proprio che se succedesse tutto da capo, se la storia del pianista si ripetesse con te al posto del pianista, alla fine quello che muore saresti comunque tu. E non voglio, Jimmy. Non perché mi importi sul serio di te, ma perché probabilmente mi innamorerei, qualsiasi cosa voglia dire. E farebbe male, e più farà male meno riuscirò a sopportare l’idea di morire. Non so se sia così per tutti. Ma io sono così. Ti basta, adesso? – Sta piangendo, ma sorride. – Se ti chiedessi di buttarmi di sotto, lo faresti? –
- Non ha senso. –
Mi guarda. – Cosa? –
- Tutto. Tu dici... che non puoi ucciderti perché altrimenti tutti quelli della Suburbia sarebbero abbandonati a se stessi e sarebbero solo parte di questa stupida città morta. Eppure tu pensi che vivere non abbia senso. Quindi il tuo discorso non ha né capo né coda, porca miseria. –
Scuote lentamente la testa. – Non ho detto che vivere non ha senso. Accidenti, è sempre difficile da spiegare. Senti... la vita ti può ferire in tanti modi. Ti può uccidere sul serio, oppure ti può uccidere dentro. Tu puoi... lasciarti vivere. Soffocare lentamente. Proprio come faceva inizialmente il pianista. Poi ha assaggiato l’amore o qualsiasi cosa fosse, e ha deciso che non valeva la pena farsi schiacciare, e visto che non era abbastanza forte per resistere, si è ammazzato sul serio. Se invece ti stacchi dalla vita abbastanza da riuscire a respirare, allora non può ucciderti dentro. Non può ucciderti l’anima. –
- Che cazzo è l’anima se non soffre? –
Sorride di nuovo. – Un’anima piuttosto a posto con se stessa, che dici? –
- Il fatto che sia tutto un gioco. E’ crudele, Whatsername. E’ sbagliato. –
- Perché? Perché è immorale? – sbotta. – Quante cose immorali fai, ogni giorno? Elencale! –
- Non è l’immoralità il problema! – Sto quasi urlando. – E’ che... non c’è niente di vero. Se non ti resta nulla di tutto quello che fai, allora a che serve restare vivi? –
Whatsername sospira. – E allora cosa è meglio? Restare vivi soffrendo? –
- Potresti semplicemente essere felice. Felice sul serio. –
Ride. – Sai, c’è una cosa che ho imparato piuttosto bene, col tempo. Ed è che tutto passa, Jimmy. La felicità passa. E se ti resta il ricordo, mentre stai male, è anche peggio che non ricordare affatto. –
- E se tutto passa perché non dovrebbe passare anche il dolore? E’ un ciclo. –
- Un ciclo stupido. Io vorrei che non ci fosse e basta, il dolore, e che cazzo. E non c’era. E adesso c’è, ed è perché per un po’ senza neanche rendermene conto ho vissuto la mia vita invece che guardarla da lontano e ridere di quello che succedeva. Puoi davvero biasimarmi, Jimmy? Perché io non credo. –
- E cosa ci guadagni, ora come ora? Mi sembra che tu stia male comunque. –
- Ti ho già detto perché non riesco a uccidermi. E ti ho anche detto perché non voglio farlo. Che altro c’è da dire? –
- Forse che, visto che non riesci a morire perché odi la vita, allora, non riuscire per non riuscire, potresti amarla. Almeno un po’. –
- Ma io non voglio! Non ha alcun senso! E non c’è niente, niente che io riuscirei ad amare, cazzo, ora che lui è morto. –
- Non è vero. – mi esce. – Secondo me tu li ami. Loro. Tutti quelli della Suburbia. Però li invidi. Perché insomma, loro sono molto più forti di te. Loro sanno sopportare il dolore, invece che scappare e basta. –
Non reagisce.
- E poi hai detto una cosa, prima. – aggiungo. Non so perché lo sto facendo. Forse perché tutto questo non ha senso. Perché voglio dimostrarle che ha torto. O forse perché io non so essere distaccato e non sono abbastanza forte da evitare di essere schiacciato, e quindi mi resta una sola opzione.
- Cosa? – chiede. Ha lo sguardo puntato verso l’orizzonte, ed è come se fosse lontana, lontana duemila anni luce, come dice quella canzone dei Green Day.
Cerco di non esitare. Ingoio aria, e dico: - Tu hai detto che se succedesse tutto da capo ti innamoreresti di me. –

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** She’s a rebel, she’s a saint, she’s salt of the Earth and she’s dangerous. ***


She’s a rebel, she’s a saint, she’s salt of the Earth and she’s dangerous. 

 
Whatsername solleva un sopracciglio. E poi scoppia a ridere. Una risata piena di ilarità, una risata vera, come se avessi detto la cosa più divertente di questo mondo. Io mi limito a fissarla mentre lei si asciuga le lacrime, neanche fosse la scena di un film. E, come se stessi guardando un film, non mi interessa del fatto che sia ridendo. Non capisco, ma mi sento così... distaccato. Ed è assurdo, perché fino a qualche secondo fa mi importava fin troppo.
Quando finalmente smette di ridere, mi guarda. – Ma sei serio? – chiede, però non mi lascia il tempo di risponderle. E’ una fortuna, forse, perché chissà cosa risponderei. – Cazzo, Jimmy. Tu neanche mi conosci. Ci hai mai pensato? Te ne sei mai accorto? Quanto tempo abbiamo mai passato insieme a guardare film o a parlare o a fare cose che fa la gente che sta insieme? Quanto puoi dire di sapere di me? Non sai quanti anni ho. Non sai qual è il mio gusto preferito di gelato. Non sai quanta gente ho ammazzato. Sai solo una storia, una storia che conta quello che conta, ok, ma alla fine è solo una storia ed è finita, è andata a puttane, e io non sono più quella di prima. –
- Tu di me sai anche meno. E hai detto che potresti innamorarti. –
Lei sospira. – Io sono una pazza, porca miseria. Ho i pensieri nella testa e vanno dove cazzo vogliono senza una logica. E poi non voglio, Jimmy. Non voglio innamorarmi di te e non voglio vivere felice e contenta perché non ci riuscirei. Non so se ti sei accorto di cosa faccio per vivere e di come penso. Ti piacerebbe sul serio avermi così tanto intorno? Ti soffocherei. E soffocherei anche me stessa nel tentativo di non soffocarti. Potresti andare dietro a chiunque altro qui e sarebbe infinitamente più salutare. Anche con Mary Jane, accidenti. Con chiunque. –
- E’ lei la terza persona a sapere la storia? – chiedo, ignorando il suo discorso, perché è sensato, anche se niente di quello che sta succedendo ha senso.
- Già. In realtà è l’unica persona a cui l’avessi mai raccontata prima. E speravo che fosse l’ultima, in realtà. Comunque, sul serio, perché non fai un pensierino su di lei o su chiunque altro? –
- Perché non ci riuscirei, ad avere una storia normale. A chi piacerei? E chi mi piacerebbe? Lo sai perché sono qui? Perché non c’era niente che mi interessasse e nessuno a cui potessi interessare. E la situazione è sempre la stessa, Whatsername. –
Lei sorride. – St. Jimmy. – dice. – E’ meglio che tu ti rassegni al fatto che ti rovinerò. Chiamami St. Jimmy. –
-
- Quante? – chiedo, quando lei esce dalla doccia, avvolta in un asciugamano. Ha un tatuaggio che non avevo mai visto, una scritta sulla clavicola in grafia minuta che non riesco a leggere.
- Quante cosa? – chiede, gettando a terra l’asciugamano. Resto a guardarla. Non è bella da togliere il fiato. Niente di tutto questo. Non c’è sensualità, in questa scena, neanche un po’, anche se in qualche modo so che potrebbe esserci, se solo lei lo volesse. E’ nuda, ma è quasi come se potessi vederla davvero solo col suo consenso. E adesso non ce l’ho.
- Quante persone hai ucciso. Immagino che dovrei saperlo. –
- Non le ho mai contate. – dice, mentre si asciuga un po’ i capelli. – A colpi di pistola una decina, direi. E poi ci sono tutti i morti di overdose o roba del genere. Non si sa mai con certezza, quando fai il mio lavoro. –
- E non ti interessa? –
- Non esattamente. – risponde. Solleva lo sguardo e lo fissa nel mio. – Più ci penso, più mi rendo conto che è una pazzia. Ma lasciamo perdere. Se ci facessimo una sana scopata? –
- Non sembri particolarmente vogliosa. –
- Ci vuole poco a diventarlo. – risponde. Getta l’asciugamano in un angolo e si viene a sedere accanto a me. Chiude gli occhi e si massaggia le tempie. Sorride, un sorriso un po’ triste. – Vorrei poter parlare di qualcosa di normale. –
La guardo. – Inventalo. – dico.
Lei esita. Di nuovo, è assurdo vederla fare una cosa del genere. E’ come se fosse debole e giovane e un sacco di altre cose che non è affatto.
Allunga una mano e mi sfiora la guancia e con quel contatto mi trascina fino a farmi sdraiare sul divano, sopra di lei.
- E’ tutto così malato. – dice, gli occhi di nuovo chiusi e il respiro regolare. – Il mondo. Io. Il mio cervello. Credo che il pianista sia uno dei motivi per cui lo è. L’amore è massacrante. Ti fa a pezzi ed è acido e amaro e così dannatamente pesante. Non ti peso addosso, Jimmy? Non ti sto schiacciando? –
- Non più di qualsiasi altra cosa. – ammetto. Mi piace come sta parlando. E’ sincera. E’ realista. Ed è bella da morire così, all’improvviso, senza alcun motivo.
- Ok. – dice. – E se... se mi parlassi di te? –
- Non c’è niente da dire su di me. –
Ride. – Io lo dicevo sempre. –
- Tu mentivi. Io sono serio. E’ che... – Mi mordo il labbro. – Non ho alcun motivo per essere così, ok? Non vengo da una famiglia disastrata. Non c’è nessun trauma infantile. E’ solo... apatia. Non riesco a concentrarmi. A innamorarmi delle cose. Non c’è niente che mi interessi. –
- Perché io ti interesso? –
- Perché sei una cosa così malata che nel mio cervello malato sei stupenda. –
Ride di nuovo. – E’ la cosa più romantica che mi abbiano mai detto. –
- Allora mi dispiace davvero per te. – scherzo. – Posso baciarti? –
- Ti ho chiesto se scopiamo. Certo che puoi baciarmi. –
- Non è la stessa cosa. –
- Dimmi che non sei una di quelle persone che pensano che i baci siano una cosa romantica. –
- Forse. – ammetto.
- Non ha alcun senso. –
- Lo so, ma non ci avevo mai pensato. – La bacio. E’ un bacio qualsiasi, saliva e labbra e lingua e respiro affannoso, eppure mi piace.
- E’ fastidioso. Pensare. –
- Non inizierò a farmi un sacco di droga per dimenticare. E non ho intenzione di farti diventare la mia St. Jimmy. –
- Andrà tutto a puttane, lo sai? – chiede, guardandomi. Sembra che la mia risposta le interessi sul serio.
- E cosa posso farci? –
Lei scuote la testa. – No. Non hai capito. Il fatto è che tu non ci credi davvero. Fai finta di sapere e accettare che andrà tutto a puttane ma in realtà nella tua testa speri che non succeda. E invece succederà e sarà un gran schifo. –
Sospiro.
- Smetti di pensare che io sia stupida e patetica. – dice. – Lo sai che ho ragione. –
- Perché dovrebbe essere così ovvio che tu ce l’abbia? –
- Perché non abbiamo niente da offrirci a vicenda senza farci a pezzi. E non è normale, Jimmy. –
- La normalità non ha mai fatto per me. E neanche per te, immagino. –
- Che frase fatta del cazzo. –
Ridiamo entrambi e la bacio di nuovo, e in questo momento ho davvero voglia di fare sesso con lei, sesso da coppia appena sposata, non da una botta e via. E lo facciamo, con una lentezza che non ha niente di esasperante, con i baci a fior di labbra e i morsi gentili e le parole. Le racconto del negozio di dischi, e lei fa un altro sorriso triste.
- Avrei dovuto immaginarlo. –
- Cosa? –
- Che fosse ancora lì. Lui. –
- Perché? –
Scrolla le spalle. – E’ mio padre. –
- Cosa? –
- Sì, lo so. Sembra assurdo. Ma è rimasto qui a piangere sui suoi fallimenti come genitore e a sentirsi in colpa. Ho provato a spiegargli che non ha senso, ma non mi ascolta mai. –
- E’ un padre. – osservo. – Però... non so, fa male vederlo in quelle condizioni. Si vede che... –
- ...che è triste. Che casino, la tristezza. – esita. – E se ti rivelassi un segreto? – chiede.
- Dimmi. –
Lei si alza e si infila nel bagno. Torna con un accappatoio troppo grande addosso e si siede di nuovo accanto a me. Mi guarda negli occhi. – Io... non ho mai pensato che potesse davvero funzionare. – dice. E poi ho un ago di siringa piantato nell’incavo del gomito e c’è uno stantuffo che viene spinto e per un secondo non succede nulla, e poi arriva come un’ondata e la stanza inizia a vacillare.
Guardo Whatsername. E’ ferma dov’era, anche se la vedo oscillare lentamente. Vorrei parlare, ma non ci riesco. – Scusa. Ma, ecco, avevo bisogno di stare bene per trovare il coraggio di fare il grande salto. Te l’ho detto come funziona il mio cervello, o sbaglio? –
Buio.
- Grazie. – dice.
E poi più nulla.

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** 13. Waste another year flies by, waste a night or two; you taught me how to live in the streets of shame ***


L'ho scritto di getto, neanche riletto. Una conclusione frenetica per un racconto troppo lento, una conclusione nuova per un racconto troppo vecchio. La cosa buffa è che, più di un anno fa, sapevo già che sarebbe dovuto finire così.
Arrivederci, o forse addio
Whatsherface (Mezzanotte)



Waste another year flies by, waste a night or two; you taught me how to live in the streets of shame. 

Mi sveglio urlando.
Non so dove sono, non so cosa sia successo. Mi sembra per aver dormito per un anno intero, sono stordito, mi gira la testa. Batto le palpebre più volte. Il soffitto bianco sporco sembra muoversi sopra di me. Sto morendo di fame ma comunque mi viene da vomitare. Cerco di ricordarmi qualcosa, qualsiasi cosa. Una macchina. Qualcuno che mi appoggia sui sedili posteriori. La strada mezza distrutta, l’imbottitura che attutisce appena le botte dovute alle buche nell’asfalto.
Poi un ago nel braccio, e di nuovo buio.
Non so dove sono, ma so dove non sono. Questo è un letto, non il divano di casa di Whatsername.
Whatsername.
Mi tiro su di scatto, ho un giramento di testa, crollo sul materasso e vomito bile. Quelle ultime parole. Lei... lei è...
- Jimmy? –
La voce è familiare, ma non capisco di chi si tratti. Tento di rispondere, ma non ce la faccio. Sento qualcosa, delle mani che mi tirano su. – Jimmy... –
La voce è preoccupata. Anzi, terrorizzata. Le mani mi tirano su, mi appoggiano alla testiera del letto. Ed è allora che, guardandola da sotto le palpebre socchiuse, riconosco la stanza. La mia stanza, quella della mia vecchia casa.
E la donna che mi sta aiutando è mia madre.
“Ma che...”
- Jimmy? – chiede lei. Io batto di nuovo le palpebre. Mi rendo conto che sto piangendo. Attraverso il velo delle lacrime osservo la sua espressione preoccupata, la sua paura, i suoi occhi azzurro chiaro che si muovono rapidi dalle mie labbra sporche di vomito ai miei vestiti sudici.
- Whatsername. – mormoro.
Mia madre corruga la fronte. – Cosa? –
- Whatsername. – ripeto. Ho la voce roca, che brucia in gola insieme alla bile. – Dov’è? –
- Cosa stai dicendo? –
Tento di rispondere, ma non ci riesco. Mi si chiudono gli occhi e crollo di nuovo.
 
Quando mi riprendo, mia madre è ancora qui. Non so quanto sia passato, se qualche ora o pochi minuti. Ho freddo. Mi tiro addosso la coperta e lei mi guarda. – Stai meglio? –
Annuisco. Lo stomaco sembra stabile, se non altro. Il mio cervello no. Il mio cervello sta impazzendo.
- Dov’è? – chiedo.
- Chi? –
- La ragazza. –
Mia madre scuote la testa. – Non lo so, Jimmy. Ti ho trovato svenuto per terra fuori dalla porta. Dove cazzo sei stato per tutto questo tempo? –
Io scuoto la testa. Non ci riesco, a raccontare. Non posso farcela. L’unica cosa di cui mi importa è lei. Lei... che è morta.
- C’era qualcosa? – chiedo. – Un messaggio, qualsiasi cosa? –
Lei scuote la testa di nuovo. Poi mi prende la mano. – Non te ne andare più. – mormora. – Non così. –
Io non rispondo.
 
I giorni passano. Ho cercato, sia tra i miei vestiti che fuori dalla porta, ma non c’era niente. Nessun messaggio, neanche una parola. Non mi resta niente, neanche la certezza che sia stato tutto vero. Forse sono pazzo. Probabilmente sono pazzo.
Le notti le trascorro a piangere. Non riesco a non farlo, non appena la mia testa tocca il cuscino scoppio in lacrime, lacrime amare per lei, per noi, per la sua morte, per essere stato così stupido. Mi chiedo perché, mi chiedo come accidenti ho fatto a farmi ingannare così.
Eppure, in qualche modo, la vita funziona. Lo dicono tutti, che è così, e io non ci avevo mai creduto prima di ora. Mangio, dormo. Di giorno, ma dormo. Mia madre mi racconta ciò che è successo in mia assenza.
Passa un mese, ne passano due.
Do una mano in casa, vado a fare la spesa. Incontro un vecchio amico, mi invita a bere qualcosa insieme. Ci vado, ma non tocco alcol. Non lo faccio più, da quando sono tornato. La sera piango più del solito, ma la mattina mi sveglio lo stesso. E’ così che funziona, a quanto pare. Ci si sveglia lo stesso.
Ma Whatsername no. Whatsername non si sveglierà, non più.
Potrei cercare di dimenticarla, fingere che sia stato un sogno. Dopotutto non ho prove che non sia così. Eppure lo so, che è vero. E adesso lo so, cosa era l’inferno. L’ho visto, quella sera in quella casa. La pazzia, l’alcol, le scritte sul muro. A volte non riesco a levarmelo dalla testa. E allora resto fermo, paralizzato dove sono, ad aspettare che passi.
Ma succede sempre meno stesso. Passano altri mesi, a manciate, i giorni che scivolano uno dopo l’altro come granelli di sabbia in una clessidra. La notte diventa giorno e il giorno notte. Io vivo, almeno credo, chiedendomi se lei davvero pensasse quello che ha detto. Che non aveva mai creduto nella possibilità di salvarsi.
Non ha salvato sé stessa ma forse, adesso, ha salvato me. Lo penso mentre assaporo l’alba, mentre sento l’acqua della doccia scorrermi addosso, mentre cammino in giro per questa strana città. Ho visto l’inferno, ma sono vivo. Non sono finito nell’abisso. Posso andare avanti, posso farlo. Me lo ripeto col sole che brucia sulla pelle, con le stelle sopra di me, col sorriso di un conoscente, nei primi giorni di lavoro. Sento una canzone, alla radio. Si chiama Still Breathing, ed è dannatamente vera. Respiro ancora. Respiro ancora, forse grazie a lei.
 
Succede di notte, all’improvviso. Il rumore di un motore, dei pneumatici sulla ghiaia. Io non dormo, come sempre. Vado alla finestra, e vedo lo sportello di un’auto nera aprirsi. Ne esce fuori una testa dai capelli neri, tagliati a caschetto, poi il corpo di una ragazza in jeans e maglietta nonostante in freddo della notte. Ci metto un po’ a riconoscerla. Vedo gli occhi. I suoi occhi. Il suo sorriso storto. Il mio cuore accelera.
Lei mi vede, si avvicina. Mi fa cenno di alzare il vetro. Lo faccio, e l’aria fredda mi investe. Potrebbe essere un sogno. Probabilmente è un sogno.
- Stai bene, Jimmy? – mi chiede.
Annuisco. Non riesco neanche a parlare. E’ assurdo, totalmente assurdo. Lei è morta. Non è possibile.
- Avevo pensato che fosse l’unica maniera. – dice.
- Sei viva. –
Ride. – Già. Strano, no? –
- Strano. – ripeto. Davvero? Tutto qui? Strano? – Ero distrutto, cazzo. – La mia voce si alza, è quasi un urlo. – Pensavo che ti fossi uccisa! –
- L’idea era quella. – risponde Whatsername. – E poi non sei distrutto. Stai bene. Hai visto? –
Quelle parole mi zittiscono. E’ vero, questo. Sono vivo, sto bene, come non stavo da anni. Mi ha salvato, lasciandomi andare, riportandomi qui.
- Avevi bisogno di starmi lontano. – dice. – Almeno finché non sarei stata capace di tenere la cosa sotto controllo. –
- E adesso puoi? –
Scrolla le spalle. – Non saprei. Ho semplicemente chiuso. Con tutto. Ho cercato di ricominciare. –
- E ci sei riuscita? –
- Così mi dico. Ma forse non è così vero, se sono venuta a cercare te. –
- E adesso che succede? – chiedo.
- Cioè? –
- Che... che farai? –
Esita. – Non saprei. Penso che ci proverò. Se vuoi. –
- A fare cosa? –
- Beh, a... a vivere. –
Non so perché mi viene da sorridere. – Sono felice per te. – mormoro.
- E io per te. – ribatte. – Forse siamo salvi. –
- Forse. – ripeto.
- Non si sa mai. – concorda. – Ma magari per un po’. –
- Non sembra male. –
- No, infatti. – Si morde il labbro. – Beh, volevo solo passare a salutarti, insomma. Parto. –
- Per dove? –
- Non saprei. California, probabilmente. Non so bene per quale motivo, ma ne ho voglia. –
- E se ti chiedessi di restare? –
Mi è uscito quasi senza che me ne rendessi conto, ma non mi pento di averlo detto.
- Vorresti davvero che lo facessi? –
- Ho come l’impressione che saresti pronta ad autodistruggerti in qualsiasi momento. Magari ti salvo. –
- L’ultima volta non ci sei riuscito. –
- Dall’ultima volta è cambiato qualcosa. –
Annuisce. – Sì, questo è vero. Ma sai benissimo che non è così. Che devo andare. –
La guardo, e capisco che ha ragione. Che lei è una bomba a orologeria. Che, in ogni caso, non sono io che posso impedirle di esplodere. Fa male, ma è strano, perché è così ovvio che non provo a controbattere. Devo lasciarla andare.
Sospira. – Beh, insomma, tutto qui. Cerca di vivere, Jimmy, andrà tutto bene. –
- C’è sempre il rischio che crolli tutto. –
- Ma mai la certezza. –
Le porgo la mano. Sembra una strana scena di un film ma lei, invece che aggrapparcisi, me la stringe, in uno strano segno di rispetto. Amicizia, forse.
- Tornerai mai? – le chiedo.
- Non penso. Buonanotte, Jimmy. –
Non riesco a rispondere. Ho come un groppo alla gola, anche se non mi sembrava di dover piangere.
Lei si volta, si avvicina all’auto. Un attimo prima che ci salga, riesco ad urlarle: - Addio, Whatsername. –
Si gira. Mi guarda. Esita, poi dice: - Gloria. – Sorride. – Mi chiamo Gloria. –
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2819443