Ricordi 2

di simocarre83
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il giorno di dolore che uno ha ***
Capitolo 2: *** Mettere a posto le cose ***
Capitolo 3: *** Un patto violato ***
Capitolo 4: *** UN’OPERAZIONE QUASI RIUSCITA ***
Capitolo 5: *** L'eredità ***
Capitolo 6: *** Sentimenti rimossi ***
Capitolo 7: *** Ritorno all'isola che non c'è ***
Capitolo 8: *** Sono sempre i sogni a dare forma al mondo ***
Capitolo 9: *** Persone diverse ***
Capitolo 10: *** Ritorno al passato ***
Capitolo 11: *** La dura realtà ***
Capitolo 12: *** Giuseppe: Dalla parte del più forte ***
Capitolo 13: *** Michele: Lotta impari ***
Capitolo 14: *** Roberto: Pensieri inquietanti ***
Capitolo 15: *** Giuseppe J.: La vera amicizia ***
Capitolo 16: *** Simone&Maria : Tutto l'amore del mondo ***
Capitolo 17: *** La prova più difficile ***



Capitolo 1
*** Il giorno di dolore che uno ha ***


IL GIORNO DI DOLORE CHE UNO HA

Quella mattina, più di ogni altra cosa, non avrebbe voluto alzarsi. C’erano 12° sottozero, era il primo giorno di scuola dopo quattro giorni di vacanza (dal 7 al 10 Dicembre 2023), e il professore di matematica l’avrebbe di certo interrogato. E non gli piaceva per niente. Non riusciva proprio a capirlo, e se non fosse stato per le ripetizioni che gli dava Giuseppe, non sarebbe neanche andato così bene. Menomale che c’era lui, il suo ex professore che lo sosteneva e gli permetteva di capire tutte quelle cose che il suo, di professore, non riusciva neanche a spiegargli. Ed era praticamente l’unico a sopravvivere.
Fu solo per quello, perché comunque aveva studiato trigonometria come mai prima d’ora in quelle vacanze e voleva dimostrarlo al mondo intero, che si alzò. Appena in tempo per lavarsi, correre giù a fare colazione, salutare sua mamma e correre via a prendere il pullman. Gli toccava farlo, ogni volta che suo padre, come era accaduto quel giorno, era in viaggio per lavoro. Sarebbe tornato da Roma la sera stessa, ma alle sette, ora della sua sveglia, suo padre era già in volo. Alle 7.45, una volta sul pullman, si svegliò definitivamente, quando dalla porta scorrevole della vettura vide salire, un paio di fermate dopo la sua, Andrea.  Si salutarono ed incominciarono a parlare.
“Pronto per mate? Di sicuro, Giorgi oggi ti interroga” disse Andrea, quasi per prenderlo in giro.
Giuseppe lo guardò. Poi con l’indice si toccò la fronte. “E’ tutto qui dentro” disse, sorridendo. Andrea gli credeva ciecamente. Sapeva chi gli dava ripetizioni e lui era veramente bravo a spiegare matematica.
Dieci minuti dopo erano in classe. Dove si incontrarono anche con Antonio. Era incredibile come, dopo quella concitata prima settimana di scuola superiore, due anni prima, Antonio avesse completamente cambiato atteggiamento nei loro confronti e nei confronti di tutti i suoi compagni di classe. Tanto che, oramai, potevano quasi considerarsi amici.
Durante il primo intervallo, Andrea e Antonio andarono al bar, come tutti i suoi compagni, mentre Giuseppe rimase in aula a ripassare matematica. L’interrogazione sarebbe stata nell’ora successiva.
Grazie anche a quel piccolissimo ripasso, Giuseppe se ne uscì con un sette. Più che sufficiente per i suoi gusti.
Dopo un’altra ora di inglese, ben più rilassato, suonò il secondo intervallo. E uscì un attimo, accompagnando Antonio a fumarsi una sigaretta. Lui non fumava: non gli piaceva e, comunque, la prima sigaretta scoperta da suo padre, gli sarebbe costata la vita.
Fu mentre erano fuori a congelarsi, che Giuseppe vide una cosa che non gli piacque per niente. Il loro ex professore di matematica stava discutendo animatamente con un’altra persona. I due si separarono e Giuseppe si avvicinò a loro, entrando a scuola.
-Strano- pensò Giuseppe -è il suo giorno libero. Chissà come mai è qui- mentre lo seguiva con lo sguardo. Sguardo e occhiata che non vennero neanche ricambiati.
Il professore si voltò, quando era quasi sull’uscio della porta e li osservò. “Che cosa fate voi due lì?! Non sentite che è già suonata la campana?!” disse, serio e estremamente scontroso. Antonio e Giuseppe rientrarono ubbidientemente in classe.
L’impressione che ebbe Giuseppe fu di una persona estremamente preoccupata. Non se ne preoccupò più di tanto, certo del fatto che l’avrebbe scoperto quello stesso pomeriggio. Lui e suo padre, il lunedì sera, andavano in piscina. E, sebbene suo padre, quella sera, non ci sarebbe stato, dall’inizio di quell’anno scolastico, si erano decisi ad iscriversi in piscina anche Giuseppe e suo figlio. Simone, però, era a casa con la febbre, e, come era accaduto anche qualche altra volta, i due omonimi sarebbero andati da soli in piscina.
La giornata di scuola terminò e in men che non si dica passò anche il pomeriggio. Giuseppe e Andrea passarono il pomeriggio a studiare un’oretta e poi a giocare con i videogiochi, loro grande passione.
Alle 18:30 Giuseppe stava preparando la borsa per la piscina, quando sentì un rumore dalla porta d’ingresso. Sua mamma non poteva essere. Era già in casa, e in sottofondo poteva sentire il ferro da stiro che sbuffava a tutto spiano. Quindi non poteva essere Maria. In più sentì proprio lei esclamare un “Ma come! già qui?!”, a cui seguirono delle risate che lasciarono intendere a Giuseppe una sola cosa. Cosa che venne completamente confermata quando, dopo pochi secondi, sentì qualcuno che bussava alla porta della sua camera e questa che lentamente si apriva.
“Papà! Ciao! Ma sei già tornato!?” chiese Giuseppe.
“Ciao! Sì la riunione era stamattina e alle due avevo finito di pranzare con loro, quindi mi sono fatto anticipare l’aereo dalla zia e sono tornato prima” rispose suo padre. “Tra cinque minuti andiamo, ok!?”
Giuseppe non poteva sentire niente di più piacevole, quella sera. Nonostante le esperienze e le idee diverse su qualche cosa, comunque considerava suo padre una persona eccezionale, della quale avere il massimo rispetto e la massima stima. Ma gli voleva anche un mondo di bene. Se solo avesse avuto una certezza nella sua vita da sedicenne era che i suoi genitori erano i migliori che poteva avere. Con loro ci stava bene. Man mano che cresceva, si rendeva conto di come si sentiva libero di parlare con loro di qualsiasi cosa, se avesse voluto. E questa era una sicurezza che aveva ormai da due anni, da quando, la sera stessa in cui aveva conosciuto meglio il passato dei suoi genitori, senza dirgli cosa fare, si erano fidati della sua maturità e gli avevano fatto fare la scelta giusta. E, con l’andare del tempo, si era accorto che si stavano continuando a comportare in quel modo con lui. Gli davano fiducia ed erano pronti ad aiutarlo, correggerlo, e anche dargli la giusta disciplina quando ciò si fosse reso necessario. Fu quindi più che felice di sapere suo padre tornato a casa e pronto a passare quel paio di orette in piscina con lui e Giuseppe.
Solo a quel punto gli venne in mente che il suo ex professore aveva sicuramente qualcosa che non andava, ma era troppo tardi per continuare a pensarci. Era ora di scendere. Suo padre era già in cucina che l’aspettava.
“Siamo di ritorno per le nove e mezza!” disse Simone a Maria, che li salutò, mentre, finito di stirare, si stava rilassando un po’ sul divano, prima di mettersi a cucinare, cosciente del fatto che aveva ancora più di due ore prima della cena.
Il lunedì era una giornata speciale per Giuseppe. Il pomeriggio lo passava con Andrea a studiare e poi a divertirsi, in casa o fuori. Alle 18:30 tornava a casa, e preparava la borsa, poi andava in piscina, e tornato a casa, c’era sempre qualcosa di buono e particolare da mangiare. Poi, di solito, lui e suo padre si fermavano a sparecchiare, pulire e lavare i piatti, ma era quasi uno spasso, farlo con lui e parlare di come era andata a scuola e di qualunque altra cosa si fosse resa necessaria. Verso le dieci e mezza se ne tornava in camera sua dove a malapena riusciva ad appoggiarsi completamente sul letto, perché, soprattutto a causa della piscina, crollava dal sonno e dalla stanchezza.
Uscirono di casa. Mentre erano in macchina, Simone informò suo figlio del fatto che Giuseppe e suo figlio non sarebbero venuti in piscina perché non stavano bene.
“Strano!” sussurrò tra sé e sé Giuseppe.
“Perché?” chiese Simone.
“Perché oggi Giuseppe era a scuola. Io e Antonio l’abbiamo visto fuori”
La conversazione finì lì. Simone e suo figlio arrivarono in piscina e le successive due ore erano troppo impegnati a nuotare. Anche se, erano impegnati soprattutto fisicamente. I pensieri, loro, erano da tutt’altra parte.
Infatti, quella conversazione continuò, inevitabilmente, quando uscirono dagli spogliatoi pronti a ritornare a casa.
“Oggi Giuseppe stava discutendo con una persona!” esclamò di punto in bianco Giuseppe. Comprese immediatamente che anche suo padre ci stava pensando.
“Chi era?!”… Simone aveva riallacciato immediatamente il discorso lasciato in macchina.
“Non lo so! Non l’ho mai visto!” rispose Giuseppe. “Sembrava che stessero litigando di brutto. Poi Giuseppe ha preso e se ne è andato, quasi mandandolo a quel paese. È entrato a scuola senza neanche salutarmi!”.
“Beh! Evidentemente era soprappensiero!” continuò Simone, cercando di rassicurare suo figlio.
“Però non l’ha mai fatto!” rispose quest’ultimo.
“Cosa?!” chiese Simone.
Ci fu un attimo di silenzio. Giuseppe guardò preoccupato suo padre. Stranamente non sapeva se dirgli o meno quello che era successo poi. Quasi come se non se la sentisse di raccontargli quella cosa. Poi, la stima reciproca fece il suo ingresso in campo e Giuseppe si aprì completamente.
“Quando era quasi entrato, Giuseppe si è rivolto verso di noi e ci ha sgridato, quasi ordinandoci di rientrare in aula. Perché la campanella era suonata da un pezzo!”
“Beh! Ma è normale che vi sgridi se eravate ancora fuori dopo, quando è suonata la campana!”
“Sarebbe stato normale e giusto, se la campanella non fosse suonata due minuti dopo che ci ha fatto rientrare, non prima!” rispose Giuseppe, questa volta un po’ più nervoso.
“E allora avrà avuto i fatti suoi!” rispose Simone. Troncò quel discorso che, evidentemente, stava prendendo una brutta piega.
Quando Giuseppe aveva “i fatti suoi” era veramente pericoloso stargli vicino. Ma sicuramente avrà avuto un’ottima ragione di preoccupazione per fare così. Non ci sarebbe stato bisogno di aggiungere a quella di Giuseppe, anche la sua, di preoccupazione.
Arrivarono a casa. Appena entrati, si fermarono entrambi nell’ingresso. Perché sentirono Maria che stava parlando con qualcuno al telefono.
“Dai non preoccuparti! Appena arrivano gli parlo così vediamo quello che si può fare! Dai! Buonanotte! Ciao!”.
Simone tirò fuori solo la testa, dall’ingresso, protendendosi verso la sala da pranzo.
“Ciao Cara! Siamo tornati! Tutto ok!?!” chiese. Maria gli rispose con gli occhi. Simone capì. Rientrò completamente nell’ingresso.
“Portami su la borsa per favore. Lasciala in camera da letto, che poi vengo a disfarla. Poi disfa la tua borsa. Tra” disse Simone.
“Dieci!” aggiunse una voce che sembrava provenire dalla cucina.
“Minuti è pronto!” concluse Simone.
Un occhiolino, lanciato a suo figlio, gli fece capire che doveva rimanere su quei dieci minuti, anche se a disfare la borsa ci metteva di meno. E scendere solo dopo. Il giovane acconsentì, anche se avrebbe voluto sapere qualcosa di più su quello che era successo, e, senza fare ulteriori storie, salì al piano di sopra.
Simone entrò in cucina. Maria l’aspettava, mentre un profumo fantastico di pizza fatta in casa l’accolse.
“Buona la pizza!” disse Simone, guardando con dolcezza sua moglie.
“Che cosa è successo?!” chiese poi, quasi come per cambiare discorso.
“Mi ha telefonato Anna. Giuseppe è uscito di casa stamattina e non è ancora tornato. Ha telefonato per chiedere se per caso era in piscina con voi o era qui. Solo che non l’ho proprio visto. Sapendo che tu eri a Roma ha provato a telefonare a Alessandra, che però le ha risposto come me. E neanche Vito l’ha visto. Mi ha chiesto di dirtelo” rispose Maria.
Simone ci pensò un attimo su.
“Io non l’ho visto. D’altra parte dall’aeroporto sono arrivato subito qui e poi siamo stati, finora, in piscina. Non l’ho neanche sentito. A parte un messaggio di oggi pomeriggio, che ho letto appena sceso dall’aereo in cui mi diceva che non sarebbero venuti in piscina. Ma Giuseppe mi ha detto che l’ha visto stamattina a scuola. Prima stava litigando con un’altra persona. Poi era incredibilmente nervoso. Tanto che li ha sgridati perché non erano entrati in classe, anche se la campana non era ancora suonata. Come se volesse evitare di far scendere il discorso su quell’argomento”.
Giuseppe scese in quel momento in cucina.
“Non sono ancora passati i dieci minuti. Per favore!” chiese suo padre.
“So che non devo immischiarmi in queste cose, ma riguardo a ciò di cui abbiamo parlato prima, oggi pomeriggio, raccontando quello che era successo ad Andrea, mi ha convinto a cercare di disegnare la persona che ho visto. E ci ho provato. Eccola! Mi sembra che ci assomigli abbastanza”
Simone prese in mano il foglio. Dapprima, mostrandolo a sua moglie si guardarono esterrefatti per la precisione e l’armonia di quel disegno. Avevano scoperto una cosa nuova di loro figlio: che sapeva disegnare benissimo. E poi Simone si concentrò un secondo di troppo su quel disegno.
E realizzò.
Si voltò verso suo figlio.
“Sei proprio sicuro che questa persona stava parlando animatamente con Giuseppe?” chiese.
“Si! Si stavano quasi per mettere ad urlare. Ad un certo punto lui gli ha dato uno spintone e si è allontanato. L’altro è rimasto un po’ sulle sue a guardarlo dirigersi verso di noi e si è allontanato pure lui!” rispose suo figlio.
“Se è chi credo che sia, è tutto molto strano!” rispose. Poi fece una cosa che non aveva mai fatto prima.
“Voi mangiate! Io devo andare a cercare Giuseppe. C’è solo un posto in cui credo di poterlo trovare! Mi prendo le chiavi di casa! Prima di andare a letto togli la chiave così posso aprire senza disturbare!”
Maria sapeva già che le cose, da quando Anna l’aveva chiamata agitata, sarebbero andate a finire così. Salutò Simone e disse a Giuseppe di darle una mano ad apparecchiare che avrebbero mangiato subito dopo.
“Lasciatemi un pezzo di pizza!” rispose Simone cercando di sorridere, anche se non ne aveva tanta voglia.
Uscì. Era certo di sapere esattamente dove fosse Giuseppe. Più di una volta gli aveva raccontato che quando aveva bisogno di pensare, andava alla Stazione Centrale di Milano. Vedere i treni che arrivavano e partivano, lo faceva stare particolarmente in pace con sé stesso. Solo che di solito per le sette di sera era a casa: ora erano quasi le nove e mezza di sera e ancora non era tornato. I casi erano due. O era successo qualcosa di brutto, o aveva molto bisogno di pensare. E non sapeva quale delle due fosse peggio. Anche perché visto la persona con la quale aveva parlato quella mattina, nel cortile della scuola, e visto il modo agitato con cui ci aveva parlato, sicuramente doveva essere successo qualcosa.
Infatti la leggera calvizie e la barba incolta erano assolutamente anonimi, ma il taglio degli occhi e della bocca erano inconfondibili. Li avrebbe riconosciuti tra tutti. Quella mattina, Giuseppe, per un motivo che ancora Simone non sapeva, stava litigando con Michele.
Provò, quasi per una sorta di sfiduciata curiosità, a telefonare al suo amico, che infatti risultava irraggiungibile.
Dopo circa venti minuti arrivò in Stazione Centrale. Lasciò la macchina e corse su, verso il parco treni. Arrivato, cercò qualche secondo, guardandosi attentamente intorno. Poi lo vide, finalmente. Era seduto con il volto rivolto nella sua direzione e lo stava guardando, con un’espressione a metà tra la felicità di vederlo lì, ed il sollievo di vedere proprio lui.
Si avvicinò a grandi passi e, senza neanche parlare e salutarlo, si sedette al suo fianco.
“Anna non sa niente di questo!” disse.
“Lo so! È lei che ci ha avvisato dicendo che non eri ancora tornato a casa. E quando siamo arrivati dalla piscina e Maria ci ha informato, Giuseppe ci ha detto anche quello che era successo a scuola! Ma sai…” ma Simone non fece neanche in tempo a continuare la frase che Giuseppe gli fece cenno di sì con la testa.
“Si! È veramente bravo a disegnare. Sapevo che avrebbe trovato il modo di farti venire a conoscenza di chi era la persona con la quale ho litigato questa mattina. Era l’unico modo per convincerti a venire qui. Altrimenti non l’avresti mai fatto, ma ti sarebbe bastato dire a Anna di questo posto!” rispose Giuseppe sorridendo.
“Allora mio figlio sapeva e non mi ha detto?!” chiese Simone preoccupato.
“No! Sono io che l’ho usato, anzi mi sa che dovrò chiedergli scusa. Ma sapevo che era l’unico modo per farti venire a conoscenza della situazione senza che i tuoi famigliari ci capissero molto” disse Giuseppe.
“Ho capito, ma allora che cosa è successo di così grave per litigare con Michele in quel modo?” chiese Simone, ancora più interessato.
“Stamattina ero ancora a casa. Avevo delle cose da sbrigare e poi dovevo passare dalla scuola per riportare dei compiti in classe. Verso le nove e mezza ricevo la chiamata da un numero sconosciuto. Era Michele. Sono stato felicissimo di sentirlo. Il problema è che lui mi aveva chiamato per un motivo ben preciso. Mi prometti che non ti arrabbi se te ne parlo?”
“Se è qualcosa che riguarda la storia che conosciamo non incominciare neanche” rispose Simone, seriamente.
“Ecco! Lo sapevo! Parti subito negativo!” rispose Giuseppe.
“Giuseppe! Ascoltami! Tu puoi pensare quello che vuoi ma per me è una storia chiusa. Non voglio più sentire parlare di quelle persone. Mai più!”
“Per la cronaca: Dopo che mi ha raccontato quello che tu non vuoi sapere, Michele mi ha chiesto di non parlarne con te. Intanto eravamo andati a fare tutti i giri che dovevamo. Ed eravamo arrivati a scuola. È perché non ero d’accordo con Michele su questo che ci ho litigato. E anche di brutto. Evidentemente aveva ragione. Non dovevo farti entrare in questa storia!” disse Giuseppe, offeso.
“Perché? Tu ci sei già dentro?” chiese Simone preoccupato.
“Non ancora, ma gli devo dare una risposta per domani. E sento che è necessario aiutarli!”
“Aiutare chi?”
“Michele!”
“E poi?!”
“Scusa ma non me la sento di parlartene, se non vuoi sentire tutta la storia!” disse.
Simone si alzò e fece per andarsene.
“Tra venti minuti telefono a Anna. Se per quell’ora non sei arrivato a casa, le dico dove ti trovi! Buonanotte!” disse, facendo qualche passo indietro. Poi si voltò per andarsene.
“Michele e Francesco” rispose Giuseppe.
Simone si fermò. Era un paio di metri avanti a Giuseppe ma quello che aveva appena sentito lo fece fermare. Cosa era successo a quei due? Fondamentalmente erano due delle persone alle quali era più grato in assoluto. Però nel preciso momento in cui Giuseppe gli aveva chiesto di promettergli che non si sarebbe arrabbiato, sapeva che stava per riaprire ferite che dovevano ormai essere abbondantemente chiuse. Anche se la cicatrice era rimasta. Tornò indietro e si sedette al fianco di Giuseppe. E lì parlò chiaro.
“Ascoltami bene! Se tu mi hai fatto venire fin qui è perché c’è qualcosa che ti ha spinto a parlarmene anche contro la volontà di Michele. E questo può solamente significare che la situazione è veramente grave. Quindi se vuoi raccontarmi tutto dall’inizio io ti ascolto, ma non voglio avere voce in capitolo. Non mi arrabbio. Ma se lo riterrò opportuno la nostra conversazione e questa storia finiranno qui. Ok?” disse, guardando fisso negli occhi Giuseppe.
“Ok!” rispose quest’ultimo.
“Avanti! Sentiamo!”
“Michele mi ha raccontato che una settimana fa ha saputo dell’omicidio di una persona. Inspiegabilmente, dopo tre giorni, la Polizia è arrivata a casa di Francesco e l’ha arrestato. In questo momento Francesco è in carcere per un omicidio che non ha commesso. Avrebbe anche un alibi, se non fosse che la polizia non lo accetta, perché ha affermato di essere stato a Policoro per l’intera giornata ma nessuno ha confermato di averlo visto. Questo è quanto!” concluse Giuseppe. O almeno, ci provò.
“E chi sarebbe la vittima?” chiese Simone. Aveva anche lui paura di conoscere la risposta, ma era necessaria. Giuseppe guardò negli occhi Simone per qualche interminabile secondo.
“Il problema è che, venuti a conoscenza di quanto fosse necessario da Francesco, e saputo il resto da qualcun altro, che non sappiamo chi sia, la polizia ha pensato di aver scoperto anche il movente e per Francesco non c’è stata più speranza” disse Giuseppe, come per cercare di ritardare il momento della verità.
“Giuseppe! Ti ho chiesto chi è la vittima!” chiese ancora Simone, che non si era mai lasciato ingannare da questi sotterfugi.
“Emanuele” rispose lapidario Giuseppe.
Sembrò farsi silenzio in tutta la Stazione Centrale.
Il vuoto riempì, in quel momento, la testa di Simone. Una sola cosa disse a Giuseppe, pochi secondi prima di lasciarlo lì, e tornarsene a casa a dormire. Perché non ebbe la forza e la voglia di dire e fare nient’altro.
“Ma è mai possibile che tu riesci sempre a rovinare le giornate delle persone così facilmente?” gli chiese.
E se ne andò. Tornò a casa e, senza neanche mangiare andò a letto. Non volle neanche parlare con Maria, che, peraltro, stava già dormendo. La salutò solo dolcemente con un bacio, prima di spegnere la luce e provare ad addormentarsi. Senza riuscirci.

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NdA: Buongiorno ed eccomi qui ritornato con una nuova storia! come sempre sono ampiamente gradite le recensioni positive/negative, le critiche le idee e le opinioni. Anche in questo caso dovrei riuscire a postare un nuovo capitolo ogni settimana. Buona lettura!

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Capitolo 2
*** Mettere a posto le cose ***


METTERE A POSTO LE COSE
Il giorno seguente, sebbene stanco e assonnato come poche altre volte, Simone si alzò certo di sapere quello che doveva fare. Prima di tutto, visto che la nottata in bianco gli aveva, nonostante tutto, ridato il buonumore, doveva mangiare. Era dal giorno prima all’una che non mangiava e quindi ingurgitò volentieri i due pezzi di pizza lasciati dalla sera prima. Poi doveva parlare con suo figlio.
“Ho bisogno di un favore! Puoi dare questa busta a Giuseppe, quando lo vedi, oggi?” chiese.
“Certo! Posso vedere cosa c’è dentro?” chiese suo figlio.
“Certamente! Sai che con te non ho segreti!” rispose suo padre sorridendo.
Giuseppe aprì la busta. C’erano due carte e un post-it. Le due carte erano l’Asso di Cuori e il Tre di Quadri. Sul post-it solo un numero: 18.30.
“Ahhh! Adesso ho capito!” aggiunse Giuseppe. In realtà non ci aveva capito niente. Non conosceva il significato di quelle due carte, in quello che sicuramente era il linguaggio in codice usato anche in passato da Simone e Giuseppe.
Richiuse la busta e la mise nello zaino. Intanto finirono di fare colazione e se ne andarono.
“Ci vediamo per pranzo, Maria?!” chiese Simone prima di uscire.
“Va bene!” rispose sua moglie.
Per l’una sarebbe stata libera e sarebbe andata tranquillamente da suo marito per mangiare insieme qualcosa e, ne era certa, per fare il punto della situazione su quello che stava accadendo. Evidentemente, pensava Maria, Simone non aveva ancora intenzione di portare tutta la famiglia a conoscenza di quello che era successo il giorno prima. L’umore di suo marito sembrava buono, però, quindi non si preoccupò più di tanto. Ma sapeva comunque che da lì a cinque ore sarebbe stata informata dei minimi particolari. E ne avrebbe approfittato per vedere anche suo fratello Vito, che non vedeva da una decina di giorni, e sua cognata Alessandra, che comunque aveva sentito il giorno prima.
Non c’erano problemi con Giuseppe, che era ospite a pranzo di Andrea e con cui avrebbe, come sempre, passato il pomeriggio.
Simone e Giuseppe uscirono.
Una volta in macchina, Giuseppe chiese a suo padre che cosa volesse dire al suo omonimo con quelle due carte.
“Non te lo posso dire!” rispose, semplicemente, Simone.
“Ma è qualcosa che centra con ieri?”
“Evidentemente si. Ma per il momento non voglio parlarne. Ok?”
“Va bene! Dimmi almeno che cosa significano!”
“L’Asso di Cuori lo usavamo per chiederci scusa. Il Tre di Quadri significa ‘lavoro’. Questo è quanto, ad ora, posso dirti!” rispose Simone.
Giuseppe si accontentò.
Venne lasciato da suo padre all’ingresso della scuola.
“Ciao Simo!” fu la prima cosa che disse Vito quando lo vide entrare in ufficio. “Come è andata ieri?” chiese.
“In che senso?”
“Come in che senso!! A Roma? Come è andata?!”
“Ah! A Roma! A Roma bene! Sono molto intenzionati a comprare. Anzi, mi hanno confermato che il nostro prezzo è il migliore e che dovrebbero spedirci l’ordine questo pomeriggio! Qui come è andata?”
“Bene! Ho fatto altri due colloqui per il responsabile della produzione! Sono tutti bravi ragazzi! Poi vedremo! Ieri ci è arrivato l’ordine da Torino! Abbiamo bisogno a tutti i costi di qualcuno per curare la parte tecnica, visto che noi due siamo super impegnati con la commerciale!”
“Cina?”
“Niente! Ho sentito Lee mezz’ora fa ma ancora non si è mosso nulla!”
“Ma scusa, che ci facevi già mezz’ora fa al lavoro?” chiese Simone.
Erano le otto e mezza. E Vito non arrivava in ufficio prima delle nove, di solito.
“Oggi è l’anniversario di matrimonio dei miei suoceri. Se vogliamo rimanere vivi, per le quattro dobbiamo partire per essere a Pisa per le otto di stasera” rispose Vito.
Simone capì. In quel momento entrò Alessandra in ufficio. Lei, la segretaria di direzione, era anche la moglie di Vito. Simpatica, gentile, una bella signora. Erano molto amiche con Maria, e questo permetteva di mantenere i rapporti, anche lavorativi, sul corretto piano.
“Ciao!” fu l’unica cosa che disse prima di consegnargli l’ordine da 20.000 € che era appena giunto via e-mail da Roma.
“Bene!” concluse Simone “direi che mi sono guadagnato la giornata!”
Erano i soliti discorsi che facevano ridere tutti e due.
In realtà sia Simone che Vito, con i computer usati ci sapevano fare. E questo gli aveva permesso di fare un po’ di soldi. Ma rimanevano pur sempre con i piedi per terra e la testa sul collo. Lavoravano per portare a casa lo stipendio e non cercavano grandi cose. Amavano anche divertirsi con le loro famiglie. Vito e Alessandra avevano una figlia di sette anni di nome Claudia. Che era una bellissima bambina e che li impegnava moltissimo.
Fu in quel momento che a Simone venne in mente buona parte di quello che era successo il giorno prima. E che si ricordò di dover fare una cosa. Importante. Urgente.
“Scusate! Finché il mio telefono rimane occupato, non ci sono per nessuno!” disse, rivolto verso Alessandra. Che comprese immediatamente il senso.
“Giuseppe!?” chiese.
“Si. Anche. Vito, dopo, puoi venire un attimo da me in ufficio? Ti devo parlare!”
“Giuseppe!?” chiese.
“Si! anche!” rispose e volò nel suo ufficio.
Una volta chiusa la porta dietro di sé si sedette alla scrivania, accese il computer e prese il telefono.
Compose il numero.
“Pronto!” una voce distrutta dal dolore rispose dall’altra parte.
“Pronto Maria?!” chiese Simone.
“Si! chi è?”
“Buongiorno! Sono Simone! Si ricorda?!”
Un attimo di silenzio cadde sulla comunicazione.
“Simone! Ciao! Certo che mi ricordo!”
“Buongiorno! Prima di tutto volevo farle le condoglianze per Emanuele! Ho saputo da Giuseppe la notizia ieri sera. Mi dispiace moltissimo!”
“Grazie! Purtroppo non sono solo questi i guai. Mi tocca anche subire quello che stanno facendo a Francesco!”
“Ho saputo! Mi dispiace moltissimo. Sono certo che Francesco non merita una cosa del genere, e so che la verità uscirà prima o poi. Vedrà che tutto si sistemerà! Francesco come sta?”
“Sto per andare da lui. È distrutto! Sia per la perdita del fratello che per le accuse infamanti su di lui! Menomale che c’è Michele. Sta facendo tutto il possibile per scagionarlo, ma anche lui ha dovuto arrendersi, finora, alle prove”
“Ho capito! Senta… per qualunque cosa, anche se siamo lontani, non esiti a chiamarmi. Farò tutto il possibile per starle vicino e per aiutare Francesco ad uscire da questa cosa!”
“Grazie! So qualcosa di quello che è successo anni fa. E sono certa che quando Francesco saprà quello che mi hai appena detto, si sentirà meglio anche lui!”
“Grazie, signora Maria. Allora a presto! e mi saluti Francesco!”
“Grazie a te! Grazie! Te lo saluterò volentieri! Ciao!”
“Buongiorno!” rispose Simone. E attaccò.
Tutto gli parve molto strano. Non era ragionevole una cosa del genere. Francesco voleva un bene enorme a Emanuele. Non era giusto quello che stava accadendo e ormai sapeva che si sarebbe buttato in questa avventura, aiutando Francesco come avrebbe potuto.
Squillò il telefono. Era Vito.
“Simone! Alessandra sta preparando la conferma d’ordine. Che faccio aspetto che sia pronta o vengo subito?” chiese.
“No! Vieni subito! E dì ad Alessandra di portare la conferma d’ordine appena pronta. Nel mio ufficio. Dobbiamo aprire la commessa il prima possibile!”
“Va bene! Allora arrivo!”
Trenta secondi dopo Vito era nell’ufficio di Simone.
“Devo dirti una cosa!”
“Dimmi!”
“Se ti lascio questa commessa, vorrei gestire quella di Matera! Che ne dici?!”
Vito squadrò il suo socio. Sapeva che quella richiesta era quantomeno strana. Quando Vito aveva preso la commessa dei mille computer per Matera, essendo spalmata in un anno, sapeva che gli avrebbe portato via tanto tempo in viaggi. Inoltre era ben cosciente del fatto che Simone non aveva voluto sentirne parlare, di Matera, proprio perché non provava molto piacere ad andare da quelle parti. Ormai dal 2000. Simone quasi lo implorò di curarla lui quella commessa. Ed ora voleva assumersene lui la responsabilità?
“Perché!?” chiese.
E Simone gli raccontò tutto quello che era successo. Dal giorno prima fino a quel momento.
Durante il racconto, l’espressione di Vito divenne sempre più cupa. E seria. Dispiaciuta ed in parte anche spaventata.
“Si ma cosa centra tutto questo con la commessa?!”
“Sarebbe un modo per andare ogni tanto a Matera senza mettere troppo di mezzo la famiglia!” rispose, semplicemente, Simone.
“Ma Maria quanto sa, di questo?!”
“Ancora niente, perché sono tornato a casa, ieri, molto tardi. Ma oggi ci vediamo a pranzo apposta per parlarne. E, come sempre, sono intenzionato a dirle tutto. Anche perché decido di occuparmi della commessa di Matera”.
“Per me va bene!” disse Vito, appena in tempo per far entrare Alessandra con la conferma d’ordine calda di stampa.
Una scorsa veloce, e poi la firma di entrambi.
“Assegna la commessa a Vito!” disse Simone.
“E modifica la commessa di Matera, assegnandola a Simone!” fu la continuazione di Vito.
Alessandra guardo Vito, poi Simone. Esterrefatta.
Poi guardò suo marito e suo cognato. Ancora più stupita. Ma i due avevano deciso. Ed era certa del fatto che la sera stessa, se solo ci fosse stato un motivo urgente per cui tutto ciò era accaduto, Vito gliene avrebbe parlato.
Il resto della mattinata trascorse tranquillamente. Era l’una e un quarto quando Maria entrò dalla porta di ingresso dell’azienda. Salutò Alessandra, che gli disse che Simone era in officina per gestire un piccolo problema tecnico, ma sarebbe arrivato subito. Allora Maria ne approfittò per andare a salutare suo fratello. Fecero quattro chiacchiere parlando del più e del meno. Quando arrivò Simone, Maria salutò suo fratello, sua cognata e uscì con lui. Quando decidevano di mangiare insieme in pausa pranzo, quelle volte in cui erano più liberi perché Giuseppe era a casa di Andrea o si fermava a scuola per studiare, i due avevano scoperto un ristorantino molto buono con un sacco di prodotti tradizionali milanesi, a cinque minuti a piedi dall’ufficio. E si dirigevano sempre lì. In realtà il ristorante era convenzionato con la loro azienda, e ci andavano con i clienti ogni volta che era necessario organizzare un pranzo di lavoro. Quando però ci andava con Maria, prendeva anche il vino buono e si concedevano qualcosa in più di sfizioso.
Una volta a tavola, Simone spiegò a Maria tutto quanto. E anche l’idea di gestire la commessa di Matera.
“Io ho un’altra idea!” disse Maria. Idea che Simone fu felice di sentire.
“Perché non ce ne scendiamo a Policoro per le vacanze di Natale? Sono ventitré anni che non ci andiamo!” propose. Anche se in qualche modo sapeva come stavano le cose e come sarebbero andate a finire.
Infatti Simone aggrottò la fronte. “Non lo so! Non ho voglia di coinvolgere Giuseppe in questa storia e se scendiamo insieme inevitabilmente ne saremo travolti. E sai quanto non abbia voglia di andare a Policoro!” disse, mettendosi sulla difensiva.
Maria capì che ancora c’erano delle cose che impedivano a suo marito di superare quell’avventura passata. Effettivamente dall’estate del 2000 Simone non era più sceso a Policoro. Non ne aveva più voluto sentir parlare. Per lui sembrava un argomento chiuso. E catapultarsi in questa storia nuovamente era veramente difficile per lui. Coinvolgere tutta la famiglia, probabilmente, sarebbe stato ancora peggio.
Poi però Simone vide Maria. E capì che forse neanche a lui dispiaceva così tanto, ritornare da quelle parti.
“Facciamo così” disse “Pensiamoci su e stasera ti faccio sapere. Intanto stasera mi devo rincontrare con Giuseppe e dobbiamo riparlarne! Ok?”
“Ok!” rispose Maria, che vide comunque un barlume di speranza di rivedere Policoro e fargliela rivedere anche a suo marito.
I due ripercorsero a piedi la strada verso l’ufficio. Poi si salutarono e Maria andò verso casa. Simone rimase in ufficio a lavorare.
Verso le sedici, Vito entrò nel suo ufficio con Alessandra.
“Simo! Noi andiamo! Ci vediamo giovedì, ok? Partiamo da Pisa domani mattina, ma ci fermiamo a Firenze da mio cognato, quindi saremo a Milano domani sera. Sono comunque raggiungibile al telefono. Risolto poi il problema con quel computer?”
“Si! Risolto tutto. Era una sciocchezza! Per caso tra oggi e domani abbiamo altri colloqui con degli aspiranti capi-officina?”
“Si! domani pomeriggio alle quattordici! Comunque ti dirà tutto Martina!”
Martina era l’altra segretaria, la “segretaria di Simone”, per così dire, anche perché pur essendo brava, era molto giovane quindi stava imparando ora a muoversi praticamente tra la burocrazia e le scartoffie. Ma con un’insegnante come Alessandra aveva buone speranze di diventare molto esperta.
“Ok! Allora ci vediamo giovedì! Fate buon viaggio e salutatemi Mario e Adele!” disse Simone, salutandoli ed inviando i propri saluti ai festeggiati, i genitori di Alessandra.
Passarono velocemente quel paio d’ore e mezza. Verso le cinque Simone si fece un altro giretto in magazzino, a controllare le spedizioni per il fine settimana. Era quasi tutto pronto, quindi erano in vantaggio sui tempi.
Ricevette un paio di telefonate e si impegnò come un pazzo per cercare di acquistare quei mille computer di cui avevano tanto bisogno. Quasi riuscendoci, nelle trattative. In circa quindici anni di lavoro era diventato abbastanza esperto, sia per gli acquisti che come commerciale. D’altra parte la loro era comunque una piccola azienda, con una quindicina di lavoratori assunti tutti a tempo indeterminato. E da quando si era formata aveva sempre avuto tutti i conti in ordine, e gli unici lavoratori che se ne erano andati erano quelli che andavano in pensione. Riuscivano a trovarsi bene con tutti. E venivano equamente rispettati da tutti. A fine anno, assieme alla tredicesima, dividevano con i loro collaboratori anche una percentuale degli utili, cosa che permetteva di tenerseli stretti.
Avevano un’altra grossa commessa in corso, di circa 1500 computer per gli Stati Uniti, e la curava lui. Quindi fece l’ultima telefonata verso le 18.15. A quel punto accadde quello che si aspettava. Alle undici e mezza di quella stessa mattina, suo figlio gli aveva comunicato della consegna della busta a Giuseppe.
Erano rimasti in ufficio in tre: Simone, Martina ed il magazziniere. Questi ultimi due stavano per andarsene, quando qualcuno entrò dalla porta.
Martina, in qualità di receptionist, lo accolse, chiedendogli di cosa aveva bisogno.
“Devo parlare con Simone!” rispose quest’ultimo.
“Mi dispiace ma gli uffici sono chiusi! Non posso far entrare nessuno!”
“Ma io ho un appuntamento!”
“Non sono stata avvisata quindi non posso farla entrare!” rispose solerte Martina.
“Senta… non può telefonare a Simone e sentire quello che le dice?”
“Chi lo cercherebbe?!” chiese.
“Mi chiamo Giuseppe!” rispose lui, imbarazzato per quella situazione.
“Martina!” chiamò Simone che stava arrivando di corsa “Non preoccuparti e tutto apposto. Lo stavo aspettando ma non sapevo se sarebbe arrivato. E mi son dimenticato di avvisarti. Lui è il mio migliore amico, Giuseppe. Ogni volta che ti dico che non voglio essere disturbato da niente e nessuno, lui è l’unica persona che può passare. Sempre e comunque! Oltre a Maria e mio figlio, naturalmente!”.
“Ah! Mi scusi!”
“E per favore, dammi del tu. Se lo fa anche l’ultimo operaio perché non dovresti farlo tu? Non è da questo che si misura il rispetto che nutri per una persona!” continuò Simone.
“Ok! Scusami!”
“Così va meglio! Puoi andare, penso io a chiudere. Dì per favore a Dario di chiudere lui, l’ingresso mezzi, e chiudi la porta degli uffici, così nessuno può entrare. Io resterò qui per un’altra oretta!”
“Ok! A domani!”
“Ciao! Vieni Giuseppe!” disse, rivolgendosi poi a quest’ultimo e facendosi seguire verso il suo ufficio.
Una volta rimasti soli, ritornarono i due ragazzini di sempre.
“Scusami per ieri sera. Quella notizia mi ha stravolto e non sapevo veramente cosa fare. Avevo bisogno di tornare a casa e schiarirmi le idee!”
“Beh! Anche perché quello che mi hai detto ieri mi ha un po’ ferito!”
“Si! hai ragione! E ti chiedo scusa anche per quello! Sono stato stupido e avventato. Ma è ovvio che non penso veramente quello che ho detto!”
Un sorriso e una stretta di mano sottolinearono la pace tra i due.
“Però adesso spiegami per filo e per segno quello che è successo in questa settimana e come hanno incastrato Francesco”.
“Allora significa che ci aiuti?!”
“Più di quello che pensi! Però prima mi devi raccontare veramente tutto!” disse Simone.
Giuseppe si sentì molto meglio. Fu così, nel silenzio degli uffici deserti, e con l’aiuto della fiducia che aveva sempre riposto nel suo amico, che lo fece. Gli raccontò tutto.
“Martedì scorso, Maria, la madre di Emanuele, andando a casa di suo figlio, lo ha trovato riverso a terra. Qualcuno l’aveva ferito mortalmente con un coltello. Chiamò immediatamente la polizia. Sia Francesco che Emanuele, vivono a Matera. Francesco affermò che quel giorno era a Policoro e che era tornato solo una volta saputo cosa era successo, il martedì tardi. Purtroppo Emanuele viveva con Francesco, e tutte le prove, comprese le impronte digitali sul coltello, sono contro Francesco. Non sono state trovate altre tracce biologiche, a parte del sangue, appartenente allo stesso Francesco. La polizia non ha potuto fare altro che metterlo in stato di fermo. Ieri mattina è stato confermato l’arresto. Francesco ha sempre affermato di essere stato a Policoro per tutto il giorno e di aver lasciato suo fratello in vita e tranquillo quella stessa mattina”
“Scusa, ma come fai a sapere tutte queste cose sulle prove?”
“Me le ha dette Michele!”
“E Michele come fa a saperle?”
“Perché è lui il funzionario della polizia scientifica che ha firmato il rapporto!”
“Michele funzionario della polizia scientifica?!” chiese uno stupito Simone.
“Si! È il direttore della Polizia scientifica presso la questura di Matera”
“Ah però!!”
“Eh Già!!”
“Ma perché Michele firma un rapporto che crede errato e manda in galera una persona che secondo lui è innocente?!” chiese Simone.
“Perché ha ricevuto pressioni dal questore. Sembra che avessero avuto una fretta incredibile di risolvere le indagini!”
“E perché?” chiese ancora.
“Questo lo ignoro! Ieri mattina gli stavo chiedendo proprio quello quando mi ha chiesto se ero disponibile ad aiutarlo e gli ho risposto che era meglio se ne parlavo con te. Da lì è scaturita la litigata che ci ha portato fino a scuola. Quando ci siamo lasciati lui non me l’aveva detto. E poi non l’ho più sentito!”
“Ah! Ma cosa sai in generale di Francesco e Emanuele?”
“Niente! Non ci sono notizie su di loro. Anche la madre mi ha detto pochissimo. Mi ha detto che avevano una piccola azienda di materiale informatico e che tiravano fine mese con quella. Ma che essendo soli, conducevano una vita abbastanza agiata!”
“È la stessa cosa che sapevo io!” rispose Simone.
“Come! Sapevi già questo?”
“Certo! Mio padre, prima di morire, quando era ancora in forze per andare a Policoro, passava diverso tempo in loro compagnia! E mi ha aggiornato sulla loro attività, fino ad un paio di anni fa! Mi ha anche incoraggiato ad andare a trovarli, se non altro per rivedersi e magari fare qualche affare insieme. Ma non ho mai più avuto il coraggio di scendere a Policoro, da quella famosa estate e fino ad ora!” concluse. Anzi no! Aveva ancora una cosa da chiedere a Giuseppe.
“Ma secondo te perché Michele non mi ha voluto dire nulla di questa storia?”
“Perché, per come la vedeva lui, ha voluto proteggerti. Almeno. Questo è ciò che mi ha detto. Ma poi non ho scoperto molto altro”
“E proteggermi da cosa?”
“Non lo so… ti ho detto che non mi ha detto altro!” concluse Giuseppe.
Intanto si erano recati al distributore automatico e stavano bevendo un caffè. Erano passate le sette da qualche minuto. E allora Simone decise di fare quella proposta pazza a Giuseppe. Gli sarebbe costata cara. Carissima. Ma era necessaria.
“Che fate per le vacanze di Natale?” chiese, lasciando pensare a Giuseppe di aver cambiato discorso.
“Sai che noi scendiamo!” rispose Giuseppe. Ed era vero. A Natale scendevano sempre a Policoro. A trovare sua mamma e sua sorella.
“Vogliamo scendere insieme?!” chiese Simone. Attendendosi l’effetto che sapeva.
Giuseppe quasi si strozzò.
“Ma come! Tu!? A Policoro?!” chiese.
“Si! Io a Policoro! È una idea che mi ha dato Maria e credo proprio che ventitré anni siano più che sufficienti, di attesa, per riprendermi!” concluse Simone sorridendo.
Giuseppe lo abbracciò. E quell’abbraccio diceva tutto. Era non solo felice che Simone avesse deciso di ritornare a Policoro dopo tutto quel tempo, ma era anche e soprattutto felice che Simone avesse deciso di aiutarli. Anche se ancora non sapeva come avrebbe reagito Michele a quella notizia.
Spensero le luce e se ne andarono. Simone chiuse la porta degli uffici e entrò in macchina. Seguito da Giuseppe che prese la sua, di macchina. Al primo semaforo Simone girò a destra, e Giuseppe a sinistra. Tornarono entrambi a casa.
Entrò che era quasi pronto. Suo figlio era in camera sua che ascoltava la musica. Maria era in cucina che stava preparando la cena.
“Tra cinque minuti è pronto!” disse “Ci pensi tu a chiamare Giuseppe?”.
“Certo!” disse. Poi decise di affrontare subito l’argomento. “Forse è giunto il momento di ritornare dalle mie parti! Direi che è passato abbastanza tempo per non soffrire più in quei posti! Sono pienamente d’accordo con la tua idea. Anzi, grazie di avermela data!”.
I due si abbracciarono, e un bacio concluse quella loro piccola conversazione.
Maria sapeva veramente cosa fare e come dimostrare i suoi sentimenti per il marito. Sentimenti che erano pienamente e completamente corrisposti da Simone. Stavano benissimo insieme e, anche se ormai il loro matrimonio aveva raggiunto la maggior’età, dal momento che avevano compiuto diciotto anni di matrimonio a giugno di quell’anno, per loro quei sentimenti non avevano fatto altro che aumentare. Nonostante problemi e incomprensioni che ancora, ogni tanto, potevano esserci.
Il campanello del timer concluse quel momento romantico.
“Vado su a informare Giuseppe. Voglio essere il primo a farglielo sapere! Sono sicuro che sarà contentissimo!” disse Simone. Ne era certo perché da quando aveva conosciuto la storia di Policoro, Giuseppe aveva sempre provato a convincere i genitori ad andare lì in vacanza, senza mai riuscirci.
“Illuso!” rispose ridendo Maria.
“Perché!?” chiese Simone.
“Niente! Vai su e lo scoprirai!”
Simone corse al piano di sopra a parlare con Giuseppe.
Non fece neanche in tempo ad entrare che venne accolto da un euforico, a dir poco, Giuseppe.
“Grazie Papà! È il regalo più bello che potessi farmi! Grazie! Grazie veramente!” disse Giuseppe senza neanche lasciare parlare suo padre.
“Grazie per che cosa?!”
“Come per che cosa! Andiamo a Policoro a Natale!!! Grazie!!”
“Ma come hai fatto a saperlo?” chiese Simone incuriosito.
“Come ‘come faccio a saperlo?’! me l’ha detto Simone che l’ha saputo cinque minuti fa da suo padre! Sono felicissimo!”
“Scendi che è pronta la cena!” disse, dispiaciuto di non aver potuto dare la notizia a suo figlio. Ma ampiamente soddisfatto della felicità che, in ultima analisi, lui gli aveva arrecato.
Era il 12 Dicembre, e Sabato 23 sarebbero partiti per Policoro. dopo 23 anni. Tornando da Policoro domenica 7 Gennaio. Sperando che quei quindici giorni fossero sufficienti per scoprire qualcosa di più su tutta quella situazione.

NdA: - 
Fatemi sapere! :)
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Capitolo 3
*** Un patto violato ***


3 - UN PATTO VIOLATO
Il giorno dopo trascorse tranquillamente. Simone lavorò come un pazzo per riuscire, finalmente, a acquistare, con un buon margine di guadagno i computer di cui avevano bisogno. Quei mille computer gli servivano per completare le commesse, e praticamente erano già venduti. Per la prima volta Martina preparò l’ordine per quei computer, e Simone lo firmò. Era veramente una cara ragazza, e lei considerava Simone quasi come uno zio. D’altra parte lo conosceva da sempre. Simone era amico di suo padre, Alessandro, uno dei suoi ex compagni di classe. Quindi l’aveva vista crescere. E per lei era un piacere lavorare in quell’azienda così dinamica ed interessante. Quel giorno Simone tornò a casa in fretta. Maria non c’era, impegnata a teatro con una sua classe. Preparò velocemente da mangiare per suo figlio, poi accolse Giuseppe a casa. Non aspettò neanche che suo figlio finisse di mangiare, perché scappò al lavoro. Giuseppe si lavò il suo piatto, poi filò in camera sua a studiare, dal momento che il giovedì era la giornata più faticosa e quella che richiedeva più impegno per i compiti. E così con Andrea non si vedevano. Come anche il venerdì dal momento che quest’ultimo era impegnato, sin dal pomeriggio, con gli allenamenti di calcio. Giuseppe, invece, il venerdì aveva gli allenamenti di nuoto, a cui andava da solo, dal momento che vi partecipava solo lui. E tornava a casa per le sei. Comunque il venerdì in una mezz’oretta risolveva i compiti che, solitamente, per il sabato erano veramente pochi.
Ritornato in ufficio, Simone accolse l’ultima possibilità di scegliere un responsabile della produzione che potesse permettere a lui e Vito di dedicarsi più alla parte commerciale. Era un bravo ragazzo e ci sapeva fare. Come sempre lasciò detto che gli avrebbe fatto sapere per finesettimana, in quanto sapeva di non poter prendere una decisione così importante da solo e di doverne parlare con Vito, prima.
Erano quasi le quattro e mezzo, quando, dopo essere impazzito per un problema di pagamenti con gli Stati Uniti, riuscì a sistemare la faccenda. E si concesse un caffè. Quel giorno non aveva neanche mangiato, e capì che era quasi ora di tornarsene a casa. Ritornò con il suo bicchierino nel suo ufficio. Non gli piaceva perdere tempo anche per il caffè. E ne aveva comunque ancora per un’oretta.
Gli uffici erano pieni, cioè, mancavano solo Vito e Alessandra. Mentre in laboratorio il lavoro era ancora nel pieno dello svolgimento per quella giornata. I nove operai avrebbero finito per le 17.00, mentre l’orario di lavoro degli impiegati, solitamente, durava fino alle 18. Che poi, a parte Simone, Vito, Alessandra e Martina, in ufficio c’era solamente un altro impiegato, che si occupava dei trasporti e della documentazione per l’importazione e l’esportazione. Ma Simone e Vito, facendoli lavorare su commessa, se avevano finito di lavorare e non c’era altro di urgente, e avevano qualche impegno, li lasciavano andare via. Anche se era raro che accadesse. E comunque, tutti lavoravano veramente al massimo delle loro capacità.
Per intenderci, addirittura Simone e Vito, che erano i proprietari, se c’era veramente tanto lavoro, o tanta urgenza, erano i primi a farsi vedere, salvo impegni commerciali improrogabili, arrivare in laboratorio in jeans e maglietta e mettersi a formattare computer, installare programmi, smontare computer o testare stampanti. E in quell’anno che stava per finire era successo un paio di volte. Era anche per questo che erano riusciti a guadagnarsi la fiducia e la benevolenza di tutte le maestranze.
Erano quasi le diciassette e trenta e Simone aveva finito il lavoro per quella giornata. Aveva concluso tante cose e ne aveva incominciate molte altre. Aveva in comune la cartella di posta commerciale con Vito, e non gli aveva lasciato molto lavoro. Anche se qualcosa Vito avrebbe dovuto fare il giorno seguente. C’erano i Cinesi che si erano mossi e probabilmente si sarebbe impegnato a passare tutta la giornata con loro. Stava per cliccare su “Chiudi sessione” quando arrivò una telefonata.
“Sono Martina! C’è una persona per te!” disse.
Per un attimo Simone si stupì, poi si ricordò dell’accordo del giorno prima e capì per quale motivo Martina non gli stesse dando del Lei.
“Chi è?!”
“Dice di chiamarsi Michele e che…”
“OK! Fallo passare! Anzi no! Digli di aspettare. Tra due minuti sono da lui, che sto andando a casa!” rispose Simone. Che non vedeva l’ora di incontrare quella persona.
Spense finalmente il computer e uscì dal suo ufficio. In fondo al corridoio vide la reception, con Michele appoggiato al bancone ad aspettare.
Un’occhiata forte passò tra i due. Martina quasi si nascose dietro il bancone. Simone capì che Michele era stravolto, ancora più di come l’aveva disegnato suo figlio due giorni prima.
“Hai dove dormire?”
La non risposta di Michele diceva tutto. Era evidentemente da domenica che non aveva un posto dove stare. Strano per un ufficiale di polizia come lui. Fatto sta che comunque aveva bisogno di dormire, di mangiare e di lavarsi.
“Ho capito! Vieni con me!!” continuò Simone. I due uscirono. E si diressero verso casa.
Mentre erano in macchina riuscirono a parlare e spiegarsi un po’ meglio.
“Sabato pomeriggio, quando Francesco è stato arrestato, ho litigato con il questore, e per tutta risposta, sono stato sospeso. Mentre uscivo dal lavoro sono stato aggredito da dei malintenzionati che hanno cercato di farmi seriamente del male. Non li ho riconosciuti, avevano il volto coperto. Io sono riuscito a scappare e seminarli. Senza neanche passare da casa ho chiamato mio figlio e gli ho detto di prendere sua sorella e correre a Policoro, da mia mamma. Li sarebbero stati al sicuro. Io sono riuscito a rintracciare Giuseppe e arrivare fin qui. Ho provato a pagare un albergo con la carta di credito ma risultava bloccata. Ho capito che dietro la storia di Francesco e Emanuele c’è qualcosa di molto grosso. Qualcosa che rischia di mettermi in pericolo. Qualcosa che rischia di mettere in pericolo tutti coloro che cercano di avvicinarsi a loro due. Giuseppe non l’ha capito ed è per questo che ci ho litigato, quando mi ha detto che ne avrebbe parlato con te!”
Tutto nella testa di Simone era confuso, molto confuso. Ma capì che in quel momento era difficile riuscire a tirare fuori qualcosa di logico dal suo amico. Troppo stanco, troppo stressato. Cercò di cambiare discorso.
“Aspetta che telefono a Maria” disse, componendo il numero.
“Pronto! ciao!”
“Ciao Maria! Ascolta, sto per tornare a casa con il personaggio del disegno di Giuseppe. Puoi, per favore preparare la camera degli ospiti?”
Attaccò immediatamente.
“Finché la situazione non si è calmata puoi rimanere a casa mia. Senza problemi. Ma adesso raccontami un po’ di te. Cosa hai fatto in questi venti anni?” disse Simone, cercando di farlo distrarre.
Ed effettivamente Michele si rilassò.
“Appena diplomato sono entrato in polizia e contemporaneamente mi sono iscritto all’università. Mi sono laureato in chimica, e sono entrato nel settore scientifico della polizia. Due anni fa mi hanno trasferito da Roma a Matera e sono diventato direttore della polizia scientifica presso la questura di Matera”.
“Ah! E mi hai detto che hai due figli! Quindi sei sposato!?” chiese Simone, tentando di continuare quel discorso.
“No! Lo ero. Ho conosciuto Antonella in università. Ci siamo innamorati praticamente subito. Appena laureati ci siamo sposati. Due anni fa un tumore se l’è portata via, lasciandomi solo con due figli da crescere. E cerco di farlo come posso. Roberto ha 16 anni e Francesca ne ha 15. Sono bravissimi ragazzi e molto responsabili. Ma non so come potranno gestire questa situazione. Non riuscendo più a vivere a Roma, i miei superiori mi hanno proposto questo spostamento e sono ritornato a Matera”.
Intanto erano arrivati a casa ed erano usciti dalla macchina. Entrarono.
“Permesso!” fu la richiesta di Michele, pienamente accolta dalla padrona di casa.
“Ciao! Da quanto tempo!” disse Maria, abbracciandolo. “Se vuoi andare su a sistemarti fai pure. Sul letto ci sono gli asciugamani puliti!” disse.
Simone la osservò soddisfatto e sorridente.
“Gli do una mano a sistemarsi, metto a fare la lavatrice con i suoi vestiti e arrivo a spiegarti!” disse Simone “Giuseppe dov’è?”
“Come! C’è anche Giuseppe qui?” chiese Michele.
I due si misero a ridere. “Non il Giuseppe che pensi tu. Nostro figlio si chiama Giuseppe!”
“Ah! Scusate!” disse, diventando tutto rosso. E un leggero sorriso comparve sul suo viso.
In realtà la camera degli ospiti era un mini appartamento che occupava la soffitta. Un open-space con un piccolo bagnetto che aveva tutto e occupava un angolo. Maria aveva dovuto solo accendere il calorifero di quel piano e far cambiare un po’ l’aria, ma poi era tutto pronto per ospitare una coppia di persone. Michele quasi si commosse quando vide tutto quello. E per la prima volta dopo quattro giorni, riuscì a concedersi una doccia decente. Chiese a Simone se gli poteva prestare la schiuma, così si poteva fare anche la barba.
Passò qualche minuto da quando erano arrivati e Simone spiegò gli ultimi avvenimenti a Maria.
“Credi che sia giusto scendere a Policoro a natale?” chiese lei, preoccupata per la situazione che avrebbe potuto crearsi.
“Non lo so! Vedremo come procedono le cose in questi ultimi dieci giorni!” disse Simone.
Alle 19 Giuseppe aveva finalmente finito di studiare. Una full immersion di cinque ore. Ma quello di Matematica aveva avvisato per un compito in classe e quella di Storia faceva domande a sorpresa, praticamente a tutti. Quindi non aveva scampo. Però era giunto alla fine di quelle ore di studio. E a parte una pausa di un quarto d’ora per farsi un panino, non si era concesso molto riposo. E ne era venuto a capo.
“Eccomi! Ciao Papà!” disse entrando in cucina.
In quel momento scese anche Michele. E si diresse in cucina. Appena Giuseppe si voltò, e vide quella persona, rasata e riordinata, ma inevitabilmente riconosciuta come quella vista il lunedì precedente mentre litigava con Giuseppe, si rivolse verso i suoi genitori.
“Chi è quello e che cosa ci fa qui!?” chiese molto agitato.
Simone guardò immediatamente Giuseppe fisso negli occhi. E questo capì quasi immediatamente di essersi comportato male.
“Scusa! Hai visto per caso tua madre urlare ed io prenderlo a botte?” chiese severamente Simone.
“N-No!” rispose suo figlio.
“Allora significa che lo abbiamo invitato noi! Hai qualcosa da dire al riguardo?” gli chiese Simone.
“N-No!” rispose Giuseppe. E sapeva di averla combinata grossa.
“Allora cosa ne dici di chiedergli scusa?!” fu ciò che Simone incoraggiò cordialmente Giuseppe a fare.
Giuseppe a testa bassa si rivolse verso l’ospite sconosciuto.
“Mi scusi, mi sono comportato da maleducato!” disse.
“Oh! Scuse accettate. Ogni volta che rivedo tuo padre dopo tanto tempo c’è sempre uno che si chiama Giuseppe che mi tratta in questo modo!” disse, sorridendogli. E porgendogli la mano. Che stretta tra i due sancì definitivamente il patto di non belligeranza.
“Comunque anche io non sono stato proprio educato con te. Mi dovevo presentare prima. Piacere, mi chiamo Michele!” disse.
Giuseppe si voltò verso suo padre, alquanto confuso.
“Ma Michele sarebbe quel Michele?” chiese ai suoi.
“Si! Quel Michele!”
“Ah! Mi scusi!” disse ancora più pentito della figuraccia che aveva fatto pochi secondi prima. “Mio padre mi ha raccontato tantissime cose di voi. Praticamente tutto!” disse sorridendo per stemperare ancora di più la tensione. Uno sguardo di intesa fra Michele e Simone gli fece capire che Simone non aveva comunque infranto il patto stipulato tra di loro.
“Mi fa piacere, allora non mi dispiace se ci diamo del tu. In fondo ho la stessa età di tuo padre!” disse sorridendo.
“Ok! Grazie! Scusami ancora!” disse Giuseppe, chiudendo il discorso quasi definitivamente.
“Direi che te la sei cavata bene, e per stavolta mi accontento di farti apparecchiare da solo” disse Simone, guardandolo ancora per qualche secondo severamente.
Giuseppe capì l’antifona e sospirò per essersela cavata con poco.
“Scusalo sul serio!” aggiunse Simone “è che mio figlio è molto affezionato a Giuseppe e vedervi litigare l’altro giorno l’ha colpito parecchio!” disse, mentre Giuseppe stava apparecchiando. Salì poi un attimo in camera sua, per ritornare subito dopo.
“Posso dartelo?!” chiese al loro ospite. Era il disegno di due giorni prima.
“Ma è bellissimo! Complimenti! Disegni molto bene!” disse Michele “Devo farglielo vedere a mia figlia che si diletta anche lei a disegnare!”.
Avrebbe voluto chiedergli dove fossero i suoi figli, e sua moglie, ma Simone li interruppe e mandò Giuseppe in cantina a prendere il vino.
“Maria, come è ovvio, sa tutto di questa storia, ma direi che è meglio non raccontare, per il momento, certe cose a Giuseppe, d’accordo?!” chiese Simone.
E Michele fu d’accordo tanto che quella sera parlarono di tutt’altro.
Il giorno dopo, Michele passò in posta e ritirò dei soldi che gli erano stati mandati da sua madre. E poté acquistare dei vestiti e sistemare un altro po’ le cose. E, insistendo parecchio, pagare anche il disturbo a Simone e Maria e acquistarsi un biglietto del pullman per Matera per la sera seguente.
Simone invece andò al lavoro, da dove comunicò a Giuseppe che la sera stessa la sua famiglia DOVEVA essere ospite a casa sua, e Giuseppe non poté fare altro che accettare.
Intanto parlò con Vito delle ultime novità e della cosa più importante, cioè che la persona a cui aveva fatto il colloquio gli sembrava veramente un bravo ragazzo e molto esperto. Allora, mediante Martina, comunicarono a quel ragazzo, che si chiamava Daniele, che volevano sentirlo tutti e due i padroni dell’azienda e fecero la stessa cosa con un altro ragazzo.
La sera, verso le sette, Simone tornò a casa dal lavoro e vi trovò Anna e Maria impegnate a cucinare e Simone e Giuseppe che stavano guardando la televisione. Non gli ci volle molto per capire dove era l’altro ospite di quella serata. Bussò alla porta della camera degli ospiti e, come era logico, ottenne accesso immediato.
“Buonasera! È la prima volta che vi vedo insieme dopo ventitré anni!” disse Simone, certo di essere entrato nella discussione in un momento cruciale.
“Ciao! Ci siamo chiariti. E su tutto ha vinto la nostra amicizia!” disse Michele. Poi si rivolse a Giuseppe.
“Volevo chiederti scusa per averti messo in piedi questa situazione non capendo fino in fondo quanto avessi bisogno di parlarne con Simone. D’altra parte, anche io, quando ne ho avuto l’opportunità gli ho detto tutto!” disse.
“Bene! mi fa piacere che sia riscoppiata la pace tra di voi! Ma adesso dobbiamo fare il punto della situazione” aggiunse Simone. “Quindi, per favore, Michele, raccontaci tutto daccapo!”
“Le cose stanno esattamente come vi ho detto. Quello che non vi ho detto è che, da un’analisi più approfondita della ferita, risulta che qualcuno ha ucciso Emanuele con un altro coltello, più affilato e meno spesso. E che solo successivamente alla sua morte, quel coltello è stato sostituito con il coltello trovato veramente sul cadavere. Visto però che non è stata trovata alcuna traccia dell’altro coltello, fanno comunque affidamento sulle impronte trovate su quello. Quelle di Francesco. Io ho provato a parlarne con il questore. Ma per tutta risposta, questo mi ha sospeso. E di conseguenza anche la carta di credito che mi sono portato dietro, che non era la mia personale ma quella dell’ufficio. Ho provveduto, appena l’ho scoperto, a spedirla nuovamente a Matera. Ad ogni modo, a seguito della mia aggressione, sabato sera, ho preferito scappare e mettere al riparo anche i miei figli. Ho avuto paura. Ma non so proprio per quale motivo sia accaduto tutto questo!” disse Michele. Adesso, effettivamente, il quadro era un po’ più chiaro.
“Hanno voluto farti fuori. Il problema è che non sappiamo per quale motivo. Comunque le cose stanno evidentemente così” Concluse Giuseppe. E anche Simone non aveva dubbi su questo.
“Francesco si è sempre dichiarato innocente! Ma non ha mai voluto dare una spiegazione credibile di quello che aveva fatto. E così sta rimanendo in prigione” aggiunse Michele.
“Un momento! Giuseppe mi aveva detto che lui ha confermato di essere stato tutto il tempo a Policoro. Perché avrebbe dovuto mentire?!”
“Lui l’ha detto ma non ha mai portato delle prove dei suoi movimenti precisi. Inoltre sembra che avesse un movente!”
“Un movente? Francesco per uccidere suo fratello? Non ci credo neanche se me lo dici”
“Eppure le cose stanno così!” aggiunse Michele “I loro vicini di casa li hanno sentiti litigare di brutto, la sera prima. Volare anche qualche bicchiere, e spesso questo vale più di una prova. A conferma di questo, nelle vicinanze di un tappeto in casa di Emanuele abbiamo ritrovato delle tracce di vetri rotti!”.
“Tutte prove indiziarie!” rispose Giuseppe.
“Già! Ma al magistrato sono bastate per confermare il fermo. Almeno avesse richiesto un avvocato!” concluse Michele.
“Ho capito! Direi che l’avvocato posso procurarglielo io!” disse Simone.
“Tu! Ne conosci qualcuno?” chiese Michele.
“Non dirmi che hai già parlato con lui!?” chiese Giuseppe, ricevendo in tutta risposta un sorriso di Simone.
“Sta scendendo da Parigi. Secondo me appena lo vede, Francesco accetta subito di essere rappresentato da lui” rispose Simone.
“Scusate ma mi sono perso un passaggio! Chi sarebbe l’avvocato?!” chiese confuso Michele.
“L’unico che sia riuscito ad atterrarti con un colpo di karate!” aggiunse Simone.
“NOOOO!!!”
“Si!”
“Non vedo l’ora di vederlo!” disse Michele.
“Sabato mattina, ti verrà a prendere alla stazione dei pullman a Matera. Stamattina gli ho scritto una lunga lettera. E fidati, se ti dico che è un mostro. E secondo me in meno di un paio di giorni sistemerà anche la tua situazione!” concluse Simone.
“Grazie! Sapere di avere dalla mia parte Nicola in questa storia mi fa stare molto meglio” disse Michele.
“Ad ogni modo, tra una decina di giorni arriviamo anche noi due con le nostre famiglie per le vacanze a Policoro!” aggiunse Giuseppe.
Michele sgranò gli occhi, rivolgendosi verso Simone.
“Si! È arrivato il momento di ritornare dalle mie parti!” Disse Simone, sorridendo.
Qualcuno bussò alla porta. Era Simone.
“È pronto!” annunciò, mentre dietro si vedeva la sagoma, nascosta nell’ombra, di Giuseppe.
“Arriviamo Simone!” rispose il suo omonimo mentre tutti e tre si alzavano per andare a mangiare.
“Scusate!” aggiunse Michele. “Prima vi devo dire una cosa importante!”
Pochi minuti dopo, scossi, scesero a mangiare.
Poco prima di andarsene, Giuseppe chiamò ancora in disparte Simone e Michele. “penso che, visto che Simone sta ritornando a Policoro, e vista la situazione, non ci sia nulla di male a infrangere il patto che abbiamo stipulato noi tre ventitré anni fa, per parlarne con i nostri figli! E, almeno nel mio caso anche con mia moglie! Siete d’accordo?!” chiese.
La risposta affermativa di entrambi, sancì definitivamente l’ingresso degli ignari adolescenti nella storia dei loro genitori.
Verso le dieci e mezza, Giuseppe e famiglia andarono via. Il giorno dopo c’era scuola e avevano già fatto uno strappo alla regola. Michele si congedò ritirandosi in camera sua. Simone sottrasse Maria dai lavori di cucina e le propose di collaborare con suo figlio per mettere tutto a posto.
“Perché?” chiese sua moglie.
“Devo infrangere un patto!” disse Simone, triste ma pronto, preparato a quella che sarebbe potuta essere la reazione di suo figlio.
Maria si rendeva conto del fatto che scendere nei particolari di quella storia avrebbe potuto colpire la sensibilità di suo figlio, ma capì anche che probabilmente era stata proprio questa cosa, in fondo, ad impedire a Simone di fare ritorno a Policoro. Ed ora che Giuseppe aveva quasi l’età di Simone, quando aveva affrontato tutte quelle cose, gli concedeva un po’ più di libertà di farlo. E sopra ogni altra cosa, si rese conto che l’ingresso nella loro vita di Michele, aveva dato il via ad una nuova fase della sua vita, nella quale, inevitabilmente, Simone si sarebbe dovuto scontrare con Policoro e i suoi ricordi.
Giuseppe, quella sera, ritornò in camera sua barcollando. Era incredibile quante cose ancora non sapeva di Policoro. Era incredibile come venire a sapere quelle cose quella sera l’aveva scosso a tal punto da fargli seriamente pensare di dire ai suoi genitori che non aveva più tanta voglia di andarci. Quella notte non riuscì a dormire. E fortunatamente la giornata successiva, non aveva molte cose da fare a scuola. Anche se, per quel motivo, gli allenamenti in piscina furono massacranti. Più del solito. Tornò a casa e prima di cena salutò Michele che venne accompagnato da Simone al terminal dei pullman.
Tornato a casa, Simone vide Giuseppe e capì che moriva dalla voglia di parlargli, per dirgli qualcosa. Ma che non aveva il coraggio di farlo. Allora, appena Giuseppe fu in camera sua, sentì bussare alla porta.
“Avanti!”
“Posso!?” esclamò la testa di Simone affacciatasi all’uscio.
La risposta affermativa mimata da Giuseppe, fece capire a Simone che aveva proprio bisogno di parlargli.
Simone si avvicinò e si sedette al letto di suo figlio, che era appoggiato alla spalliera del letto e stava leggendo un giornale di auto, sua altra grande passione.
“Prima mi è parso che volessi dirmi qualcosa!” esordì Simone.
“E che non avevo il coraggio di dirtela?!” chiese Giuseppe.
Simone guardò suo figlio e si rivide in quel ragazzino. Se solo lui avesse avuto il coraggio e la voglia di parlarne con suo padre, di quelle cose che gli erano successe. Ma in quel momento della sua vita suo padre era troppo impegnato con la nuova famiglia per seguire quelle vicissitudini della vita di suo figlio. E Simone finì per dimenticarsi di parlargliene.
“E che non avevi la voglia di chiedermela! Penso che tu saresti stato abbastanza coraggioso per farlo! Sbaglio?”
“No! Non sbagli!” un leggero sorriso comparve sulle labbra di Giuseppe.
“Beh! se ti può aiutare sappi che io ho sempre voglia di ascoltarti. Anche quando puoi dirmi delle cose che mi dispiacciono. Anche se poi le cose che mi dici mi fanno arrabbiare, perché magari hai fatto qualcosa di sbagliato, per me la cosa più importante è sempre ascoltarti! Ok!?”
“Ok! Grazie! Allora posso farti una domanda?!”
“Sai che non c’è neanche bisogno di chiederlo?!” rispose solerte suo padre.
“Perché proprio ieri mi hai raccontato una cosa che è successa tanti anni fa? Nei minimi particolari? Facendomi anche soffrire?!” chiese. Gli tremava la voce. Aveva paura della risposta di suo padre. Aveva paura della reazione di suo padre, perché immaginava che suo padre avesse capito che ce l’aveva con lui per quello che gli aveva raccontato, mentre lui si sentiva solamente solo e dispiaciuto per quello che aveva sentito.
Simone guardò suo figlio. Quanto gli assomigliava. Anche lui, a quell’età era così insicuro e sfiduciato nei confronti degli altri. l’unica cosa che poteva fargli fu mettergli una mano sulla spalla.
“Giuseppe, vedi, il problema è che ieri sera Michele ci ha detto una cosa. Il motivo per cui ha spedito i suoi figli a Policoro e ha lasciato Matera. Quando è stato aggredito da quel gruppo di persone a cui, per miracolo, è riuscito a sfuggire, non li ha completamente riconosciuti. Almeno non tutti. Ma uno si! Uno l’ha riconosciuto! Era Amaraldo!”
Quel nome rimbombò nelle orecchie di Giuseppe. Soprattutto dopo quello che aveva sentito in quegli ultimi due giorni.
“Ecco perché le prime volte che l’ho visto, Michele mi sembrava così spaventato da quello che era successo!” esclamò Giuseppe.
“Esattamente! E capisci che se scendiamo a Policoro, questa situazione potrebbe in qualche modo evolversi al peggio. È per questo che vi abbiamo raccontato queste cose. Io l’ho fatto con te. Giuseppe l’ha fatto con Simone. E domani, una volta ricongiunto con i suoi figli, Michele lo farà con loro. È perché, se scendiamo a Policoro, vogliamo che sappiate tutto quello che ci è successo per avere la saggezza necessaria per fare le scelte giuste. E per questo io ho la massima fiducia in te!” rispose Simone.
“Allora cosa avete intenzione di fare?!” chiese Giuseppe.
Fu allora che Simone guardò negli occhi suo figlio, gli si avvicinò, e gli disse qualcosa con tutto l’affetto che provava per lui.
“Non lo sappiamo ancora, io e la mamma. Ma ti prometto che qualsiasi cosa faremo io e lei, faremo tutto quello che è in nostro potere ed anche di più per proteggerti. Capito?” e un abbraccio si scatenò tra i due.
“Pensa a dormire, adesso, che è tardi. Vedrai che, come sempre, una buona notte di sonno ti schiarirà le idee!” disse alzandosi e rimboccandogli le coperte.
“Vabbè! Ma adesso non esageriamo! Non ho mica cinque anni!” gli rispose Giuseppe sorridendo. Una linguaccia del padre suggellò quella serata e gli fece chiudere la porta della sua camera.

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NdA: Buongiorno a tutti! Spero che la storia vi stia piacendo, e vi ringrazio sempre di cuore per le recensioni e le opinioni che mi trasmettete. alla prossima!

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Capitolo 4
*** UN’OPERAZIONE QUASI RIUSCITA ***


UN’OPERAZIONE QUASI RIUSCITA

Mercoledì 20 Dicembre, Simone stava tornando dal lavoro. Ad inizio settimana, aveva saputo che quel “mostro di suo cognato”, come amava definirlo, era riuscito a far scagionare Francesco e far reintegrare tranquillamente Michele. D’altra parte in famiglia lo sapevano tutti. Amava tantissimo la Francia, e per questo viveva con moglie e figlia lì. Ogni tanto accettava qualche caso e tornava in Italia. Ma gli bastava perché vinceva. Sempre. E poi se ne tornava a Parigi. Michele gli aveva addirittura raccontato che quando l’hanno visto entrare in questura si era quasi fatto silenzio e mezza giornata dopo tutto era a posto. Questo era successo lunedì. Ed ora Michele stava occupandosi di altri casi, essendo stato archiviato quello. E Francesco era ritornato a casa a Matera.
Era stato dato il permesso per i funerali di Emanuele. E si erano svolti. Simone e Giuseppe avevano mandato un telegramma a Maria e Francesco, di condoglianze, aggiungendo che sarebbero scesi entrambi a Policoro per le vacanze di Natale e che avrebbero avuto modo di passare un po’ di tempo insieme.
Fino alle 18.30 Simone aveva lavorato in ufficio, spalla a spalla con Vito, per dare la botta finale all’offerta per la Cina, ed erano arrivati al giusto compromesso. Quindi se ne erano andati a casa tranquillamente.
Alle 19, Simone aveva visto Giuseppe sbucare dalla sua camera, stravolto. Il mercoledì era sempre un giorno così pesante! Ma sapeva che Giuseppe stava cogliendo i buoni risultati del suo lavoro, e che quindi era un lavoro pesante ma necessario. Così, mentre studiava ascoltava la musica, cosa che Simone non sarebbe mai riuscito a fare, ma studiava sul serio. E qualche volta aveva anche chiesto a sua mamma di interrogarlo, quando aveva veramente bisogno di sentirsi preparato, e mai una virgola fuori posto. Un ulteriore motivo per essere contento di suo figlio. Orgoglioso.
Alle venti e trenta, avevano appena finito di mangiare. Simone stava lavando i piatti, Giuseppe stava sparecchiando e Maria era scesa nel seminterrato a stendere i vestiti appena lavati. Insomma, una scena di ordinaria vita famigliare.
Suonarono alla porta. Giuseppe, il più vicino ed il più libero, corse ad aprire.
“Ciao Zio!” sentì esclamare dall’ingresso “Mamma! C’è lo zio!”.
-Strano- pensò Simone -Vito qui da solo?! E Alessandra?-
Poi, però, sentì che Maria saliva prima lentamente, le scale, poi quando riuscì a vedere di chi si trattava, si mise ad urlare e ridere e corse su a tutta velocità. E non l’avrebbe mai fatto con Vito, che vedeva almeno una volta alla settimana. Capì quindi di aver sbagliato zio.
Immediatamente si asciugò le mani e corse anche lui fuori dalla cucina.
“Ma guardatelo, il Francesino!” esclamò Simone mentre si avvicinava a grandi passi a Nicola.
In realtà “il Francesino” era il nomignolo affettuoso con cui Giuseppe, il padre di Nicola, lo chiamava da quando si era trasferito a Parigi. Con l’andare del tempo tutti in famiglia avevano incominciato a chiamarlo così.
Si salutarono come si doveva per delle persone che non si vedevano da Pasqua di quell’anno, almeno da otto mesi.
“Però! A Milano fa freddo! Stamattina a Matera c’erano 19 gradi. Ed ora la macchina segnava -5!” esclamò stringendosi ancora nel cappotto che non aveva tolto.
“Eh! Hai beccato la settimana più fredda del secolo. Stando a quello che dicono i meteorologi!”
“Ma che cosa ti spinge da queste parti?!” chiese Maria.
“Cos’è?! Non posso venire a trovare mia sorella in ritorno da un viaggio di lavoro?” chiese Nicola.
“Certo che si!” rispose Maria “Ti fermi da noi, stanotte?!”
“No! Grazie! Sono passato prima da Vito e mi ha offerto lui ospitalità. E comunque domani mattina parto per Parigi!” disse sorridendo.
“Vieni accomodati!” disse Simone. Accompagnandolo fino al salotto e al divano.
Dalla tasca del cappotto tirò fuori due custodie, Nicola. Una la diede a Giuseppe.
Giuseppe la osservò. Era il gioco di “FIFA”. Poi, però, si accorse dell’anno.
“WOW! Fifa 2024! Ma come hai fatto!?!”
“Sapevo che in Italia ancora non è uscito, ma in Francia si, e dovendo passare da queste parti, di ritorno da Matera ho pensato di farti un regalo! Basta che non lo consumi!!” disse ridendo.
Giuseppe non stava più nella pelle. In un microsecondo sparecchiò.
“Papà! Posso andare su?! Non vedo l’ora di provarlo!” disse.
“Ok! Basta che se ti chiamiamo scendi a salutare lo zio!”
“Certo! Grazie Zio!!!” esclamò un felicissimo Giuseppe saltando al piano di sopra.
Appena Giuseppe scomparve dalla loro vista, l’espressione di Nicola cambiò.
“Mi dispiace essere piombato da voi così all’improvviso, ma si è reso necessario!”
“Perché?” chiese Simone. A questo punto anche lui non più tanto sorridente.
“Per questo!” e sollevò con la mano l’altra custodia. “L’ho ricevuta ieri mattina. In albergo. E l’ho vista. Almeno… ci ho provato. Perché è veramente impossibile arrivare fino in fondo alla sua visione!”
“Che cos’è?!” chiese Maria.
“Risale alla notte tra lunedì e martedì. Testimonia la morte di Francesco!” disse, non avendo neanche il coraggio di guardare in faccia Simone e sua sorella.
“Che cosa!?” chiese esterrefatto Simone. “Ma come è possibile!?”
“Vito mi ha lasciato qui ed è andato a prendere Giuseppe. Staranno ormai arrivando!” disse Nicola. E effettivamente proprio in quel momento due luci sbucarono dalla via e una macchina parcheggiò davanti casa di Simone e Maria. Era, oltre ogni dubbio, la macchina di Vito.
“Michele mi ha incaricato di venire qui e dirvi come, ormai a questo punto, sono andate le cose! Prima di tutto devo dirvi che Michele, dopo essere stato reintegrato, questa mattina è stato nuovamente sospeso con effetto immediato. Oggi è scappato con i figli, che sono al corrente di tutto, a Roma. Da sua cognata. Quindi, presumibilmente, si è reso introvabile da loro!” aggiunse Nicola, una volta che tutti e quattro, Simone, Maria, Giuseppe e Vito, si erano seduti sul divano.
Nicola si avvicino al lettore dvd e vi inserì il proprio disco. Le immagini che partirono sono indescrivibili. Bastarono trenta secondi per far chiedere tutti a Nicola di spegnere quello scempio.
“Il filmato dura quattro ore. E le cose peggiorano fino a che un colpo di pistola non pone fine alle sue sofferenze! Michele, per lavoro, è stato costretto a guardarlo tutto! È stato massacrante emotivamente e anche fisicamente parlando! Ed è stato l’ultimo lavoro che ha compiuto all’interno della polizia scientifica” concluse Nicola.
Tutti stavano piangendo in quella casa a quel punto. Era indescrivibile l’aria che c’era in quel momento.
“Chi è stato a fargli questo!?” chiese Vito. Erano anni che non gli si vedeva quell’espressione. Era veramente impaurito per quello che era successo. La risposta di Nicola, però, non fu quella che voleva Vito.
“Non lo sappiamo. La domanda a cui posso rispondere è ‘perché?’ dal momento che io e Michele un’idea ce la siamo fatta, visto anche quello che è successo in questi ultimi tre giorni e visto quello che mi ha spiegato Francesco sabato, appena ci siamo visti!” rispose Nicola.
Tutti si predisposero ad ascoltare quello che Nicola aveva da dire.
“Dunque, prima di tutto, contrariamente a quello che potreste pensare, Francesco e Emanuele non avevano solo una piccola azienda di prodotti informatici. Avevano inventato tanti programmi e tante piccole cose. Ma tutti quei brevetti gli avevano fornito delle rendite di diversi milioni di euro all’anno”
E già a quel punto, Simone e gli altri pendevano dalle sue labbra.
“Ciascuno si fidava ciecamente dell’altro, al punto, che non avendo figli e eredi, ciascuno era stato nominato erede universale dall’altro. Francesco riteneva che qualcuno puntasse a quei brevetti e a qualcos’altro, che però non mi ha voluto dire, di ben più prezioso. Hanno quindi inscenato questa cosa: hanno ucciso Emanuele. Con le prove a loro disposizione, hanno fatto incriminare per l’omicidio Francesco. Quando Francesco ha visto suo fratello ha subito capito di essere lui stesso in pericolo. Perché lui, legittimo erede di suo fratello, sarebbe stato il prossimo. E se fosse morto, in un attimo tutte le loro proprietà sarebbero finite ad un’asta. E sarebbe stato facilissimo prenderle. Per chiunque. L’unico modo per risolvere la questione era contattare immediatamente un notaio e preparare un nuovo testamento, che eleggesse suo erede universale qualcun altro. Ma non ha fatto in tempo, perché è stato arrestato dalla polizia. Ora, la legge sul diritto ereditario sancisce che…”
“Beh! Taglia e non soffermarti sulle leggi…” disse Vito, solo per essere fulminato dal gemello.
“Ora! La legge sul diritto ereditario, formulata nel 2021, dice che, qualora l’erede universale perda i diritti civili per la condanna all’ergastolo per l’omicidio della persona da cui eredita, tutti i suoi beni debbano essere venduti all’asta, esattamente come se morisse a sua volta. Inoltre, la stessa legge, prescrive che un imputato per reati con condanna superiore a 20 anni, praticamente un imputato per omicidio, non possa effettuare operazioni di carattere testamentario. In pratica Francesco, una volta arrestato per l’omicidio di Emanuele, non poteva più rivolgersi ad un notaio. Ecco perché è stato così felice di vedermi. Sapeva che, qualora fosse stato scagionato dalle accuse, Francesco, nuovamente libero, avrebbe potuto contattare un notaio. E lunedì, appena scarcerato, andammo direttamente lì. Lui fece redigere e firmò un nuovo testamento, nel quale nominava degli eredi. Neanche a me volle dire chi erano questi eredi. Lo vidi uscire dal notaio molto più rilassato. Aveva capito che, finché il nome degli eredi fosse rimasto segreto, nessuno avrebbe potuto fargli niente. Purtroppo si sbagliava. Michele mi ha spiegato che per tutte e quattro le ore hanno cercato di estorcergli, prima il nome degli eredi, senza riuscirci. Poi il luogo dove tenevano tutte le loro invenzioni, non riuscendo neanche a raggiungere quel risultato. Alla fine, Michele mi ha detto che ha visto tutti i sintomi di un infarto, quindi probabilmente, quando ha perso i sensi e i rapitori gli hanno sparato, Francesco era già morto. Ma pochi decimi di secondo dopo, il filmato finisce”
“Si può sapere qualcosa di più sul posto dove sono!?” chiese Vito.
Nicola guardò Simone, che sembrava voler rispondere proprio a quella domanda. E capì che lui aveva capito.
“Si!” continuò l’avvocato “Avete capito proprio bene. Anche Michele è giunto alla stessa conclusione. Gli eucalipti, la pineta, e le piante di liquirizia… sono inequivocabili. Si tratta della radura. Michele mi ha detto che è stato aggredito da gente mascherata e che tra loro ha riconosciuto quasi certamente Amaraldo. Non so che cosa possano centrare loro, ma è un’ulteriore conferma del fatto che c’entrano qualcosa”.
Simone guardò Maria. Poi Giuseppe. Ed entrambi gli fecero un cenno affermativo. Poi parlò.
“Allora forse è il caso che quest’anno le vacanze di Natale andiamo a farcele in un altro posto. Più stiamo lontani da quel paese, ormai, meglio è. Per tutti!”
“Per quanto mi riguarda, do pienamente ragione a Simone!” fu la risposta di Maria.
“E credo che per quest’anno, sia il caso di rimanercene a Milano anche noi!” concluse Giuseppe.
“Grazie di essere venuti! Ma questo è tutto! adesso se Vito vuole, preferisco andare a casa a riposarmi un po’, così domani posso farmi questi altri mille chilometri per ritornare a casa” concluse Nicola.
Tutti furono d’accordo. Quelle ultime cose che avevano saputo, avevano messo tutti di malumore. Simone si alzò per andare a chiamare suo figlio, per scendere a salutare gli zii e Giuseppe. Senza dire niente a nessuno si alzò dal divano e si avvicinò all’ingresso. Fu lì, nello specchio posto di fronte alla porta di casa, che vide una scena terribile. Giuseppe, seduto sulle scale, che aveva assistito a tutta quella conversazione e che stava silenziosamente piangendo. Appena anche suo figlio si accorse di suo padre che stava arrivando, si fiondò al piano di sopra. Simone rallentò un attimo e poi fu ai piedi delle scale.
“Giuseppe! Vieni che lo zio sta andando!” urlò verso il piano di sopra. Sentì lo sciacquone del bagno che scaricava. Il rubinetto aperto e Giuseppe che scendeva sorridente dalle scale.
“Ah! Ma c’è anche lo zio Vito e Giuseppe! Potevate chiamarmi prima!” disse, ridacchiando.
Scherzò un po’ con Giuseppe, salutò abbracciando gli zii e li accompagnò, come il resto della famiglia, alla porta. Una volta richiusa la porta di casa, diede la buonanotte ai suo genitori e ritornò al piano di sopra. I due coniugi rimasero ancora qualche minuto a parlare.
“Se questo dvd può essere l’unica prova di un omicidio, può essere il caso di tenerlo! Però al sicuro, dove Giuseppe non può trovarlo e vederlo, neanche per caso!” disse Maria.
“Va bene!” rispose Simone. Guardandola. E Maria capì al volo che c’era qualcosa che non andava.
“Non mi stai dicendo tutto. Sai qualcosa che io non so!” disse.
Simone ci pensò un attimo. Poi optò per la verità, che aveva imparato essere la strada migliore, sempre.
“Giuseppe. Prima, quando sono andato a chiamarlo. Era seduto sulle scale e aveva visto tutto. Me ne sono accorto perché l’ho visto dallo specchio della porta. E stava piangendo. Allora ho rallentato e l’ho chiamato. Lui è corso immediatamente su e ha fatto finta di essere in bagno. Ho sentito che tirava lo sciacquone, che si lavava le mani, e evidentemente si è sciacquato la faccia, perché poi è sceso sorridente e riposato. Ora non so che cosa fare: parlarci oppure lasciare che sia lui a farlo, se vuole”.
“Sono certa del fatto che, dopo una chiacchierata come quella di venerdì, sarà lui a parlarti. E che Giuseppe ha fatto quella finta per non fare brutta figura con i suoi zii e Giuseppe! Nel caso domani pomeriggio ci parlo io, tanto viene a fare la spesa con me. Ma credo che, anche e soprattutto questa volta, sia il caso di fidarci della maturità di nostro figlio” disse Maria.
Simone decise di credergli. E salirono anche loro al piano di sopra per la notte.
Una decina di minuti dopo, Maria stava leggendo in camera da letto, e Simone si alzò per andarsi a lavare i denti, come faceva ogni volta prima di andare a dormire. Passando davanti alla camera di Giuseppe vide che la luce era ancora accesa. E che quindi era ancora sveglio. Non ci pensò più di tanto e finì di lavarsi i denti.
Uscito dal bagno, vide la porta della camera di suo figlio non più chiusa, ma leggermente accostata. Anche senza avvicinarsi troppo era possibile vedere una buona parte della camera. Vide chiaramente Giuseppe, seduto nel letto, con le gambe sotto le coperte e il corpo fuori. Con i gomiti sulle ginocchia e la testa tra le mani. E, anche se i capelli leggermente lunghi erano sul viso, il piumino era scuro, quindi si vedevano chiaramente delle macchie bagnate in corrispondenza del viso. Che fecero capire a Simone che poteva stare succedendo una sola cosa. Giuseppe stava piangendo. Stava evidentemente continuando il pianto di qualche minuto prima. Pur essendo ancora abbastanza indeciso su cosa fare, capì che era giunto, ancora una volta, il momento di fare il padre, più che semplicemente l’amico, e di tirare fuori i sentimenti. Gli batteva forte il cuore. Soprattutto perché si ricordava di averla già fatta una cosa del genere, in passato. In circostanze e situazioni completamente diverse, ma ci era già passato.
Scostò leggermente la porta. Suo figlio si accorse della figura di suo padre sulla porta di camera sua. Ma non fece niente. Né per impedirgli l’ingresso, né per agevolarlo.
Simone si avvicinò al suo letto. Appena si sedette su di esso, il giovane gli si gettò addosso e si mise a piangere disperatamente.
“Sono stato un idiota a sentire e vedere quello di cui avete parlato con lo zio!” disse, ancora sconvolto per quello che gli era accaduto.
Simone lo abbracciò a sé. Forte. E lo fece calmare accarezzandogli la schiena. Come faceva quando era piccolo e aveva qualche incubo. E si svegliava piangendo. E funzionava anche allora, oltre dieci anni dopo. Solo che quello non era un sogno. Ed era il momento più che mai opportuno per chiarire le cose.
“Come ti è venuto in mente di scendere ad ascoltare quello che stavamo dicendo? Non eri in camera tua a giocare?”
“Si! E il gioco è fortissimo. Solo che quando arriva una macchina, di solito, mi affaccio per vedere chi era. E visto che praticamente non mi era mai capitato di vedere lo zio Vito con Giuseppe, mi sono preoccupato che fosse successo qualcosa di grave. Allora sono sceso di nascosto per sentire cosa era successo!”
“Beh! Direi che quello che hai visto e sentito e quello che ti sta accadendo adesso, basti e avanzi come castigo per esserti comportato da idiota. Pensi che io e la mamma ci divertiamo a tenerti nascoste le cose che facciamo?!” disse Simone.
“No! Lo so che non vi divertite! Ero solamente curioso!”
“Il fatto è che a volte la curiosità fa male! Quando avevo la tua stessa età, ed ero appena ritornato a Policoro, in quell’estate del 2000, mi sono ritrovato, per curiosità, a seguire un ragazzino per poi capire che quello era uno dei nostri peggiori nemici, il fratello di Cosimo. E così avevo fatto sapere ai miei nemici che ero lì e, praticamente, sono stato la causa dell’aggressione a Francesco. Proprio quel Francesco che prima ha pianto per suo fratello, poi è stato addirittura accusato del suo omicidio e infine ha perso la vita. Proprio lui! Capisci fin dove può arrivare la curiosità delle persone?”
“E poi sono triste per Francesco. Cioè… pur non conoscendolo, mi sono affezionato a lui, da tutto quello che mi hai raccontato, dal suo carattere, dalla sua simpatia. E quando ho saputo che era morto, beh! Mi è venuto da piangere!” disse Giuseppe abbassando ancora lo sguardo.
“Vedi Giuseppe. È purtroppo questo quello che succede quando si perde una persona alla quale si è affezionati. Si ripensano a tutte le cose che si è fatti insieme. E spesso succede che si pianga. È successa la stessa cosa a me e alla mamma stasera. Quindi, è semplicemente normale. Anche se non è bello. Per niente!”
“Quindi quello che è successo stasera, vi ha fatto scegliere di non andare a Policoro per Natale!?” disse, cercando, per quanto fosse possibile, di cambiare discorso.
“Stando così le cose no! È troppo pericoloso. Per tutti. D’altra parte hai sentito, no? Anche Giuseppe con Anna e Simone non ci andranno!” concluse Simone.
“Buonanotte Papà! E grazie per quello che hai detto!” disse Giuseppe. Mosso da una profondissima sincerità.
“Buonanotte! Riposati e vedrai che domani tutto sarà più semplice. Ma ricordati di una cosa! Io e la mamma vogliamo sempre il tuo bene e non faremmo mai nulla che possa metterti in pericolo. Fidati di noi, anche ubbidendo quando le cose non ti sembrano proprio giuste. Ok?!” chiese Simone, sorridendo.
“OK! Buonanotte papà!” rispose Giuseppe, completamente e definitivamente rilassato dalle parole di suo padre.
E anche quella giornata, molto faticosa, finì.


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Buongiorno a tutti ed eccovi giunti ad un nuovo capitolo! la trama si complica, e a malincuore, ho dovuto prendere questa decisione drastica... ma non preoccupatevi troppo perché sentirete ancora parlare di loro! Ricordatevi sempre di farmi sapere cosa ne pensate! alla prossima!!

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Capitolo 5
*** L'eredità ***


L’EREDITA’

Sabato 23 Dicembre 2023, Giuseppe rimase a letto fino alle undici e mezza. Voleva godersela fino in fondo quella vacanza, si era impegnato negli studi, aveva ottenuto ottimi voti, quindi per lui i compiti delle vacanze erano particolarmente ridotti. E per quel motivo aveva deciso di toglierseli dai piedi il prima possibile. Andrea era partito, quella stessa mattina, per la Sicilia, dove si sarebbe svolto un torneo calcistico della sua squadra. E sarebbe tornato poco prima di Capodanno. Ma non gli sarebbe mancata la compagnia. Avrebbe dato una mano a Simone per lo studio, e sarebbero sicuramente usciti qualche volta.
Quel sabato mattina, Giuseppe si alzò, perché avevano suonato alla porta. Il tempo di infilarsi i pantaloni della tuta, e un maglioncino e corse immediatamente ad aprire. Era il postino. Ed aveva una raccomandata per suo padre. Raccolse la raccomandata, firmò la ricevuta e se ne rientro, dopo aver salutato cordialmente il postino.
Per non dimenticarsi lasciò la busta con la ricevuta sul tavolo della sala da pranzo e tornò su per lavarsi e vestirsi. Quel pomeriggio sarebbe andato in centro con Antonio e aveva chiesto a suo padre e Giuseppe se poteva venire anche Simone. Che, evidentemente, sarebbe stato sveglio dalle cinque di quella mattina, emozionato per una delle prime volte in cui andava a Milano senza i suoi genitori.
Finì che era quasi mezzogiorno e i suoi genitori erano appena tornati da fare la spesa. Scese e li vide, seduti e preoccupati, in salotto, ancora con i cappotti addosso. In particolare, suo padre aveva in mano la lettera che aveva ritirato lui stesso qualche minuto prima.
“Ciao Mamma! Ciao Papà! Si! È arrivata una raccomandata per te! Oh! vedo che l’hai già aperta!” poi, osservando meglio le espressioni dei suoi genitori capì che doveva essere successa per forza qualcosa. “Cos’è stato?”
Solo in quel momento Simone si svegliò da quello stato di trance che non gli capitava di avere da tanti anni.
“Ciao Giuseppe!” poi, guardando Maria, capì che con Giuseppe, soprattutto dopo quello che era successo il mercoledì precedente, non valeva la pena mantenere segreta quella cosa.
“La raccomandata arriva direttamente da Matera. Sono stato interpellato all’apertura del testamento di Francesco, per mercoledì prossimo. A Matera! Sai cosa significa?”
“Si! Che siamo ricchi e che siamo in pericolo!” rispose Giuseppe, correndo ad abbracciare i suoi genitori.
“Se è successa una cosa del genere a me” aggiunse Simone subito dopo “deve essere successa la stessa cosa anche a Giuseppe e Michele. Ne sono sicuro!”
In men che non si dica prese il telefono e chiamò Giuseppe. Trenta secondi al telefono bastarono.
“Ha ricevuto anche lui la stessa raccomandata!” disse Simone.
Cinque minuti dopo, mentre ancora si stavano riprendendo, suonò il telefono. Era Michele.
“Pronto!”
“Ciao Simone! Hai ricevuto anche tu…”
“…la raccomandata? Si! E anche Giuseppe”
“Senti! Posso chiederti una cosa?!”
“Dimmi!”
“Se devo tornare a Matera, e sono riusciti a contattarmi qui, significa che Roberto e Francesca, qui, non sono al sicuro. Posso portarli per qualche giorno a casa tua? Almeno per il tempo che staremo a Matera! Mia cognata è in partenza e non tornerà prima del sei di Gennaio! Così rimarrebbero da soli a casa!”
“Sento mia moglie e ti faccio sapere! Ti richiamo tra cinque minuti!”
“Grazie! A dopo!”
Maria aveva ascoltato la conversazione dall’inizio ma aveva solo sentito che era stata chiamata in causa.
“Michele ha ricevuto la raccomandata a casa di sua cognata! Questo significa che sanno che è lì! Ed è seriamente preoccupato per i suoi figli! Invece di lasciarli da soli a casa di sua cognata, vorrebbe portarli qui! Per il tempo che saremo a Matera! Cosa ne dici?”
“Va bene! Non ci sono problemi! D’altra parte lui è solo e dovrebbe lasciarli da soli i ragazzi! E adesso è decisamente meglio di no!”
Un sorriso sancì l’accordo tra i due. Simone richiamò immediatamente Michele. Che il giorno stesso sarebbe partito per Milano.
Maria, con l’aiuto di Giuseppe, andò a preparare la camera degli ospiti. Roberto e Michele, si sarebbero arrangiati, dividendosi il letto, ma tanto lo facevano già da qualche giorno a casa della loro zia. Giuseppe portò anche su dalla cantina la brandina che avrebbe permesso anche a Francesca di dormire. Che poi era quella che usava anche Emanuela, sua cugina, quando suo zio Nicola e sua zia Nadia venivano a trovarli da Parigi.
Alle 13.30 Giuseppe accompagnò suo figlio a casa di Simone. I ragazzi sarebbero partiti un quarto d’ora dopo, accompagnati dallo stesso Simone, per la stazione della metropolitana, per andare a Milano. Appena entrati, Giuseppe espresse un desiderio che aveva da tanto tempo.
“Ehi! Ma da quanto tempo non prendi in mano una stecca da biliardo?” disse.
“Beh! un po’ di tempo!” rispose Simone.
“E se invece di lasciarli a San Donato li lasciamo alla metropolitana a Corvetto? E ti sfido?” chiese.
“OK! Ci sto!” fu la risposta.
Prese il cappotto ed in un attimo erano fuori. Accompagnarono i ragazzi alla fermata giusta. E li lasciarono andare.
Mentre la macchina partiva, Simone guardò negli occhi Giuseppe. E sorrise.
“Ho capito! Bella comunque la scusa del biliardo!” disse.
“Beh! Non mi è mai piaciuta la stazione di San Donato della metropolitana. Così almeno abbiamo impedito che facessero brutti incontri!” disse, ricambiando il sorriso, Giuseppe.
“Si! Se non che tutta la metropolitana è così!” rispose Simone.
“Però almeno questo pericolo ce lo siamo scampati!” incalzò Giuseppe.
“Hai ragione! però la sfida a biliardo è aperta. Quando vuoi io sono disponibile!” ribatté Simone.
“Ok!” fu l’unica risposta di Giuseppe. Intanto erano quasi arrivati a casa e Giuseppe salutò Simone, lasciandolo davanti al cancelletto del suo giardino.
Appena Simone rientrò in casa, Maria lo guardò stranita.
“Ma non è durata troppo poco la partita?” disse.
“Giuseppe aveva paura di lasciare Simone a San Donato. Era solo una scusa per arrivare fino a Corvetto e lasciarli lì!” disse Simone.
I due scoppiarono in una sonora risata.
Li attendevano quattro giorni di festa. Con i negozi chiusi. Come era accaduto nelle vacanze di Pasqua, quando era arrivato Nicola con la famiglia, avevano deciso di passare quasi tutto il tempo insieme anche con Giuseppe, Anna e Simone. Si trovavano benissimo con loro. E sapevano cosa significava collaborare in famiglia. In casa, quindi, invece di tre avevano appena saputo di essere diventati non sei, ma nove. Quindi Maria fiondò Simone a fare altra spesa. Mentre lei passò tutto il pomeriggio a preparare dei sughi che, opportunamente conservati, li avrebbero fatti sopravvivere per quei quattro giorni, permettendo anche a lei di godersi le vacanze più rilassata. Il budget era stato fornito in parti uguali da Simone e Giuseppe, così tutte e due le famiglie collaboravano alla spesa, gli ospiti costavano di meno e si divertivano di più. Per le tre e mezza, Simone, di ritorno con la nuova spesa, affiancò Maria in quell’impresa.
Prepararono anche dei dolci. In quelle tre ore fecero di tutto. Quando si mettevano alla cucina quei due erano fantastici. Dimostravano, ancora una volta, uno spirito di cooperazione eccezionale. In pratica che erano fatti veramente l’uno per l’altra.
Simone aveva sentito Michele durante tutto il viaggio. Verso le sette, quando si stava avvicinando l’ora del ritorno a casa per Giuseppe, Simone e Antonio, questi in effetti arrivarono. Antonio andò via subito. Dopo aver salutato, ovviamente, Simone e Maria. Se non fosse stato per quel dente scheggiato, Simone e Maria non si sarebbero neanche ricordati della prima settimana di conoscenza di Antonio con Giuseppe. Quel ragazzino era proprio cambiato e tante volte in seguito, avendo conosciuto la madre di Antonio, Maria era stata da quest’ultima elogiata per l’ottima influenza che suo figlio aveva ricevuto da Giuseppe. E a Simone e Maria non poteva che fare piacere.
Squillò il telefono. Era Giuseppe.
“Simone! Non mi parte la macchina! Mi si deve essere scaricata la batteria! Non è che porteresti a casa tu Simone?! Poi domani vedo di sistemarla!” chiese.
“No problem! Non preoccuparti! Puoi aspettare una mezz’oretta che dovrebbe arrivare a minuti Michele? Almeno li accolgo, gli do una mano a sistemarsi, e poi te lo riporto. Ok?”
“Ah certo! Allora ti aspetto! Grazie!” disse Giuseppe. E si lasciarono.
Effettivamente, cinque minuti dopo, un taxi parcheggiò Michele e i suoi figli davanti casa di Simone. Erano tutti e quattro emozionati per quell’arrivo, soprattutto perché non conoscevano i figli di Michele. Anche Simone J si era fatto prendere dall’emozione pur non centrando nulla, dando addirittura una mano a preparare le ultime cose.
Suonarono alla porta, quando si fece silenzio in tutta la casa. Simone andò ad aprire.
“Permesso!” disse Michele. I due capifamiglia si strinsero in un abbraccio.
“Bentornato!” disse Simone, accogliendolo in casa.
Michele entrò. Dietro di lui, una ragazza, alta circa 1,60m, armoniosa nelle forme, in fase di sviluppo, con i capelli castani e gli occhi di un verde profondo e che, come sapeva per certo Simone, non avrebbero lasciato indifferente suo figlio.
“Tu devi essere Francesca! Piacere, Simone” disse il padrone di casa, prendendole la mano e facendola entrare delicatamente in casa.
“Piacere! Sono Francesca!”
Immediatamente fu avvicinata da Maria che la salutò più calorosamente e la incoraggiò a levarsi il cappotto.
Dietro di lei un ragazzo. Alto più della sorella. Capelli scuri e occhi altrettanto verdi. Fisico abbastanza sviluppato, muscoloso. Indistinguibile, ad una prima occhiata, se facesse qualche sport. L’esatto contrario di Giuseppe, che, infatti, faceva nuoto.
“E tu devi essere Roberto!” lo salutò entusiasticamente Simone.
“Già! Piacere!” disse, in tono leggermente sgarbato. Michele non fece né disse nulla.
“Entrate e chiudete la porta sennò congeliamo!” disse Maria, per stemperare quell’attimo di tensione.
“Michele! Ho promesso a Giuseppe che avrei accompagnato Simone a casa non appena fossi arrivato! Ma quanta roba ti sei portato!?” chiese Simone.
“Non sono vestiti. Poi ti spiego!”
“Vabbè! Devo andare! Giuseppe vi darà una mano per scaricare la macchina. Tanto la strada per la camera degli ospiti già la conoscete!” rispose Simone, sorridendogli.
“Ok! Grazie ancora per tutto quello che state facendo!”
“Il piacere è nostro, di ospitarvi!” fu l’ultima cosa che sentì Simone, uscendo di casa.
Accompagnò il figlio di Giuseppe a casa sua e, tempo venti minuti, era già tornato.
Entrò immediatamente in cucina per scaldarsi. Il tavolo era completamente occupato da buste, bustine, vassoi, boccacci, cose incartate. Maria era in cucina che, con estremo piacere di Simone, stava amabilmente chiacchierando con Francesca.
“Se avessi saputo che avrebbero portato tutta questa roba, non ti avrei fatto fare il secondo giro di spesa!” disse sorridendo, e strappando anche un leggero sorriso alla ospite. Simone scoprì un po’ di quelle cose, leccandosi vistosamente le labbra.
“Sono anni che non mangio queste cose!” disse “Grazie! È il più bel regalo che avreste potuto farci!”
Francesca, gentile e cordiale, gli rispose che, stranamente, avevano preso di tutto, ma che solo una cosa suo padre non aveva preso. “Anzi” aggiunse “mi ha quasi sgridato quando li stavo prendendo!”
“Di cosa si tratta?” chiese Maria.
“Dei lambascioni!” rispose Francesca “a me piacciono un sacco. Non so proprio cosa gli sia preso. Boh!”.
Maria scoppiò a ridere, catturando ancora di più la curiosità della ragazza.
“Anche a me piacciono da morire. È a questo qui che non piacciono!” rispose ridendo.
“Beh! Mi fa piacere che Michele se ne sia ricordato!” aggiunse Simone.
Francesca per un attimo tornò seria. “Quando due settimane fa siamo venuti a conoscenza della storia che vi riguarda, non avrei mai potuto immaginare di scoprire certi lati della personalità e del passato di mio padre!” disse, mentre i suoi occhi acquistavano un ché di malinconico e profondamente triste.
“Tutte cose legate al passato! Io conosco tuo padre da una vita! Nonostante quello che è successo in passato, e nonostante quello che abbiamo passato, e nonostante il fatto che non ci siamo visti nell’ultima ventina di anni, tuo padre è una delle persone più giuste, leali, simpatiche e amichevoli che conosca!” rispose Simone.
“Ma non si merita tutte le cose che stiamo passando!” disse.
“Avrei voluto conoscere tua mamma! Se avesse avuto il tuo stesso carattere avrei capito perché Michele se ne era innamorato!” disse Maria. Sorridendo. E venendo ricambiata da Francesca.
“Incredibile che a dire una frase del genere sia una professoressa di italiano storia e geografia!” concluse Simone, scatenando l’ilarità generale.
“È quasi pronto da mangiare” annunciò Maria.
Simone salì al piano di sopra per lavarsi le mani. La porta del bagno era aperta, e c’era Giuseppe che se le stava lavando a sua volta.
“Come è andata in mia assenza?” chiese Simone.
“Perché me lo domandi?”
“Con Roberto! Come è andata?”
Giuseppe aggrottò la fronte. Ci pensò un attimo.
“Bene! Si insomma! Più o meno!” rispose il ragazzo.
“Perché? Cos’è successo!”
“Niente! Ho provato a dargli una mano, ma ogni volta che prendevo in mano una borsa o una busta, me la levava via dalle mani con forza e se la prendeva lui. Ad un certo punto c’era uno zaino ed ero quasi riuscito a portarlo fino alle scale, quando mi si è avvicinato, e dopo avermelo strappato dalle mani mi ha detto che la sua roba non la devo toccare! E, sebbene vicino a noi ci sia sempre stato Michele, non gli ha mai detto nulla!” rispose, serio, Giuseppe.
“Ho capito!” disse Simone. E nient’altro.
Giuseppe si sentì preso in giro da suo padre. Scherzosamente, è ovvio, ma pensava che suo padre gli avrebbe dato uno dei suoi consigli. Insomma…
“Scusa ma che cosa me le fai dire a fare ‘ste cose se poi non mi dici niente per aiutarmi?” chiese.
“Eh! Devo passare il tempo in qualche modo mentre mi lavo le mani, no!?” disse, Simone, con un’aria tutt’altro che seria.
Entrambi si misero a ridere.
Poi poco prima di scendere al piano di sotto, mentre erano sulle scale, Simone rivolse a Giuseppe le ultime parole prima di “apparire” tra gli altri.
“Non preoccuparti! Conosco il tipo. Non ha niente di particolare! Tu sii sempre gentile con lui e vedrai che presto cambierà atteggiamento nei tuoi confronti!” disse.
Giuseppe fece un ultimo sorriso a suo padre e i due raggiunsero gli altri quattro a mangiare.
Il giorno seguente le tre famiglie si concessero un intensissimo tour di Milano, con tanto di giro in centro, visita allo Stadio, voluta soprattutto da Michele e Roberto, tifosi interisti, spettacolo pomeridiano al planetario e serale al cinema. E si divertirono tantissimo. Tutti stettero insieme e risero e scherzarono piacevolmente. Tutti, tranne Giuseppe e Roberto, che continuavano a ignorarsi, quando non a stuzzicarsi.
Il 25 ed il 26 dicembre passarono anch’essi velocemente. E il martedì sera Simone fece gli ultimi preparativi per il viaggio che avrebbero fatto il giorno seguente. Purtroppo la situazione tra Giuseppe e Roberto continuava divergendo dall’ambiente di pace ed armonia esistente tra gli altri. Sembrava proprio che non riuscissero ad andare d’accordo. Roberto sbuffava sempre, qualsiasi cosa Giuseppe dicesse. Quest’ultimo, non appena se ne rendeva conto, lanciava occhiatacce a Roberto. E non solo a Roberto. Qualche volta si rivolse anche a Michele, come per richiedere, pretendere, un suo intervento. Ma Michele non gli diede retta. E anche Simone non fece nulla. Tutto questo fece innervosire ancora di più Giuseppe.
Il mercoledì mattino, alle cinque e mezza, nel vuoto assoluto, Maria accompagnò Simone, Giuseppe e Michele all’aeroporto di Bergamo per il volo delle sette. Non fecero in tempo a fare colazione e alle otto e un quarto erano a Bari. Simone aveva prenotato una macchina. Vi caricarono la roba e per fortuna era molto meno di quella che Michele si era preso. D’altra parte dovevano rimanere solo un paio di giorni, per sistemare le carte burocratiche e essere dal notaio. L’appuntamento era per le undici, da un notaio in centro a Matera. Alle dodici e mezza erano usciti. Erano stupefatti.
“Ma vi rendete conto?” disse Michele. “Case, automobili, terreni, ma che cosa se ne facevano? Niente! Non li ho mai visti atteggiarsi o ostentare nulla!”
“Per non parlare delle rendite sui brevetti!” aggiunse Giuseppe.
“Abbiamo fatto bene a lasciare a Michele l’incarico di vendere e trasformare in denaro tutte quelle cose. D’altra parte noi non avremmo potuto godercele. Però, pensandoci bene, chissà che cosa contiene la cassetta di sicurezza?” chiese Simone.
“La cosa strana è che si trova in una banca di Pisticci. E possiamo accedervi solo noi tre insieme. Ma che cosa ci facevano Francesco e Emanuele in una banca di Pisticci?” chiese Giuseppe.
“Non lo sappiamo, ma nulla ci vieta di scoprirlo!” disse Michele.
“Prima di tutto è necessario prendere disposizioni per la vendita delle case, dei terreni e delle auto. Che ne dite gestiamo adesso tutta questa situazione?” propose Simone.
Decisero allora di dividersi. Simone e Giuseppe andarono in un’agenzia immobiliare. Misero immediatamente in vendita tutte le case ed i terreni. Consegnarono all’agente immobiliare anche la delega per permettere a Michele di mandare avanti le trattative, anche se poi, i preliminari di acquisto ed i rogiti avrebbero dovuto firmarli tutti e tre. Quindi si prospettavano molti altri viaggi a Matera. Michele si occupò delle auto. Avrebbe avuto molto da viaggiare in quei giorni. Le auto erano in un garage di Policoro e le avrebbe dovute portare a Matera per la valutazione e l’eventuale vendita. I documenti per la compravendita delle auto non avevano bisogno di un notaio, quindi non c’era bisogno della presenza fisica di Simone e Giuseppe. Sarebbe bastato solo Michele che avrebbe fatto versare il denaro sul conto che fino a quel momento era intestato a Francesco ed Emanuele. Fino a quel momento.
Perché il pomeriggio stesso, dopo essere stati a pranzo, Giuseppe, Simone e Michele si recarono alla banca e cambiarono gli intestatari del conto, cosa legittimamente possibile, qualora ci fossero di mezzo delle questioni ereditarie.
Evidentemente, dietro tutto questo, c’era lo zampino di Nicola, che aveva scritto una bella e-mail a Simone, nella quale si era premurato di dargli tutti i consigli del caso. Ed effettivamente a Simone gli era servita quell’e-mail, perché praticamente, in poche ore, avevano sbrigato cose che di solito ci si mette un mese abbondante a sistemare.
La sera, una volta arrivati a casa di Michele, poterono finalmente rilassarsi un attimo e risentire le loro famiglie. Giuseppe telefonò ad Anna. Simone telefonò a Maria. Michele telefonò a Francesca. Ciascuno da una stanza diversa della casa. Simone era in cucina, Giuseppe nella camera di Roberto, Michele nella sua camera da letto. Avrebbero voluto raccontargli tante cose, ma ci riuscirono a malapena, perché furono le parole di Anna, Maria e Francesca a monopolizzare la discussione.
Infatti, neanche cinque minuti dopo, si ritrovarono in cucina a parlarne.

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NdA: Buongiorno a tutti ed eccoci giunti a questo nuovo capitolo. A questo ed al prossimo sono particolarmente affezionato, quindi vi sarei profondamente grato se vi prendeste il tempo di recensirlo. Grazie come sempre di tutto!! :)

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Capitolo 6
*** Sentimenti rimossi ***


SENTIMENTI RIMOSSI

Aveva mangiato troppo, in quei due giorni. Bene, ma troppo. E per quello sapeva che l’unica soluzione a quella sensazione era la solita. Così, il martedì sera, a cena, aveva parlato di quello con suo padre e sua madre, e il giorno seguente Giuseppe sarebbe andato in piscina. Chiese a Simone se voleva accompagnarlo e questi rispose immediatamente di si. Anche a lui piaceva tantissimo andare in piscina, e l’influenza, nelle settimane passate, gli aveva fatto perdere un po’ il ritmo.
Suo padre era molto eloquente con gli sguardi. Sapeva di potergli far capire tutto. Uno sguardo lanciato nei suoi riguardi gli aveva fatto capire di dover fare quel sacrificio. Sbuffò. Vistosamente anche lui. E Simone lo guardò seriamente. Lui, con aria di sfida guardò suo padre. Non voleva cedere a quella lotta. Poi, optò per l’ubbidienza. Decise però di riprendersi anche la “rivincita” su suo padre.
“Dai! Venite anche voi due in piscina!? Ci divertiremo!” disse, rivolto a Roberto e Francesca. Perché sapeva che suo padre aveva pensato solo a Roberto. Sapeva anche che lui avrebbe pensato volentieri solo a Francesca. Solo che il piano fallì. Miseramente. Almeno per Giuseppe.
“Guarda! Ti ringrazio, ma domani mi sono già messa d’accordo con Maria e Anna per ritornare in centro e comprare un po’ di cosine interessanti” disse Francesca.
-Peccato!- pensò Giuseppe. Ci teneva alla sua risposta affermativa. Parecchio. Confidava, almeno, in un ulteriore sbuffo di quell’antipatico di Roberto, così almeno per quelle tre ore si sarebbe potuto divertire in santa pace senza quel buffone tra i piedi.
Anche Michele con lo sguardo sapeva essere eloquente. Quando Roberto sbuffò, tutti compresero che anche lui non aveva poi tutta questa voglia di andare in piscina. E Michele comprese più che chiaramente il motivo: non doveva correre buon sangue tra i due ragazzi. Bastò però uno sguardo un pizzico più eloquente.
“E va bene! Ma non ho neanche un costume!” disse, sbuffando ancora.
“Non è un problema, Giuseppe sarà felice di prestarti uno dei suoi!” rispose Simone.
“Ma non ci penso neanche!” Un’occhiata pietrificata colpì Simone in quel preciso istante. Proveniva da Giuseppe, suo figlio.
Il gioco di sguardi tra lui e suo figlio, l’aveva fatto propendere per entrare nella discussione, mettendo fine a quella scena pietosa. E anche un po’ imbarazzante. Giuseppe, a questo punto pienamente infastidito da quella situazione, si alzò e se ne salì in camera sua. Lasciando tutti interdetti. In silenzio. A guardare Simone. Tutti tranne Roberto, che guardava, disinteressato a tutto, davanti a lui. La cosa che a Simone dava veramente fastidio, era l’atteggiamento di Giuseppe. Si stava veramente comportando da immaturo. L’aveva notato per tutti e tre quei giorni. Da quando si erano visti per la prima volta, sabato sera, avevano continuato a stuzzicarsi, con sguardi, battutine, piccoli dispetti. Qualche volta aveva lasciato perdere, ma a volte, tra una cosa e l’altra, coinvolgevano anche gli altri, e con non poche ripercussioni sulla calma e la tranquillità di quei momenti. Ma ora stava decisamente esagerando. E questa volta, con le buone o con le cattive, gliel’avrebbe fatto capire. Fu allora che un leggero sguardo di intesa passò tra Simone e Michele. E un leggero cenno affermativo di entrambi, li convinse ancora di più che la situazione sarebbe dovuta finire quella sera stessa. Ciascuno, per quanto di propria competenza.
Mentre Maria e Francesca si dedicavano al riassetto della cucina, Michele chiese a Roberto di salire in camera con lui. Francesca, scorgendo all’orizzonte il probabile senso di quell’invito, scoprì quanto preferiva, veramente, starsene ancora un po’ in cucina a dare una mano a Maria. Inoltre Michele avrebbe preparato la roba da portarsi via il giorno successivo. Giuseppe era già andato in camera sua a guardare la televisione. L’altra famiglia se ne andò. Anna avrebbe accompagnato Simone J il giorno dopo a casa di Maria per le nove, in modo da permettergli di andare in piscina. Giuseppe invece voleva andare a letto presto, vista la levataccia del giorno seguente per il volo.
Simone, dapprima, diede una mano a Maria e Francesca, poi optò per sistemare quella situazione anche lui, come aveva dimostrato di stare facendo anche Michele. Così salutò Francesca e salì anche lui le scale, bussando pochi secondi dopo alla porta della camera di suo figlio.
“Avanti!” disse la voce dall’altro lato della porta.
Giuseppe era sdraiato sul letto a guardare la televisione. Simone entrò e chiuse dietro di sé la porta.
“Parla a bassa voce, prima di tutto!” disse.
E quando suo padre incominciava così erano guai. Gli era capitato poche volte, ma tutte le volte l’aveva pagata cara.
“Ti sembra corretto il modo in cui ti sei comportato prima? E del modo in cui ti sei comportato in questi tre giorni con Roberto, che cosa te ne pare?” disse Simone.
Giuseppe, deciso ad arrivare in fondo alla questione, da ragazzo, pur sempre bravo, ma pur sempre adolescente, si alzò dal letto.
“Non mi sta simpatico, Roberto, non si era capito?” disse.
“E perché?!” chiese suo padre.
“Fa l’asociale. Fa il superiore. Non vuole mai parlare con me, non ha neanche una volta rivolto la parola a Simone. Come si permette? Noi lo ospitiamo! Lo trattiamo benissimo, e lui in tutta risposta, quando lo invito a venire in piscina con me, sbuffa. Sbuffa! Ma ti rendi conto? Neanche gli avessi chiesto di studiare matematica! E ogni volta che ho cercato di incominciare a parlare con lui, sempre la stessa storia! Mi risponde a monosillabi, poi prende e si allontana! Mi spieghi che cosa gli ho fatto? Pensi che non me ne sono accorto che la prima cosa che ha fatto quando è entrato in questa casa, sabato sera, è stato sbuffare? E che lo fa ogni volta che io, tu, la mamma, addirittura suo padre, gli diciamo qualcosa? Ma chi si crede di essere? Io al posto suo le avrei già prese, sia da te che dalla mamma, se avessi fatto una cosa simile. E invece, Michele vede suo figlio che si comporta così e non gli dice neanche niente?!” disse.
Per tutto il tempo Simone rimase con lo sguardo fisso su suo figlio, in piedi a un paio di metri da lui, con le braccia conserte. Poi gli chiese solo una cosa.
“Sfogato?!” disse, non mollando mai il contatto visivo con gli occhi di suo figlio.
“Abbastanza” disse, Giuseppe, a voce più bassa di prima. Ma quello che pensò era molto diverso.
-Ecco! Adesso le prendo! Me la sono andata a cercare! È un sacco di tempo che non mi succede, ma ora le prendo! Mannaggia a me’ e a quando mi è venuto in mente di tirare fuori il discorso della piscina!-. Questo fu quello che pensò Giuseppe, mentre indietreggiò, perché vide suo padre che, lentamente si stava avvicinando a lui.
“Bene!” e dicendo quello mise le mani sulle spalle di suo figlio, ormai alto come lui, e, con quel pizzico di forza in più che ancora aveva, lo spinse, non tanto dolcemente, a sedersi sul letto.
“Bene! Così adesso stai zitto per qualche minuto e ti spiego perché fa così!” disse, con un tono che non lasciava adito a dubbi, a Giuseppe, di aver oltrepassato un punto tragico.
Simone prese la sedia dalla scrivania di Giuseppe e la posizionò davanti al letto. Si sedette e cominciò.
“Ciò che ti sto per dire, è esattamente quello che, la settimana scorsa, Michele mi ha raccontato, mentre lo riaccompagnavo alla stazione dei pullman per farlo scendere a Matera. Non mi invento nulla” disse guardando suo figlio negli occhi.
“Immagina che domani mattina, quando la mamma torna a casa dall’aeroporto, dopo averci accompagnato a Bergamo, ti dica di non sentirsi tanto bene. E che va a stendersi sul letto. Sei solo in casa, e ad un tratto senti la mamma che urla, forte, come non l’hai mai sentita urlare. Corri immediatamente in camera da letto e lei, con gli occhi fissi davanti a sé, ti dice che non ci vede più. Immediatamente chiami lo zio Vito. E gli racconti quello che è successo. Lui ti dice che sta arrivando. E che sta arrivando anche un’ambulanza. Tu cerchi di rassicurare la mamma che è tutto a posto, quando, per sbaglio scivoli vicino al letto e ti siedi sulle sue gambe. Le chiedi scusa, ma lei ti risponde ‘scusa per che cosa?’. E ti accorgi che ha anche perso l’uso e la sensibilità delle gambe. Dopo neanche cinque minuti, arriva l’ambulanza. Sono stati i cinque minuti peggiori della tua vita. In quei cinque minuti la mamma ha vomitato due volte e ha perso completamente il controllo della vescica. Quando arriva l’ambulanza la portano di corsa in ospedale, mentre tu, appena arriva lo zio Vito gli dici tutto quello che è successo. Arrivati in ospedale, riesci finalmente a chiamarmi e in preda al panico puro, cerchi di spiegarmi che cosa è successo. Io ti dico che potrò arrivare, viste le avverse condizioni meteo, a Milano, solo nel pomeriggio. Mentre tu sei ancora solo con lo zio Vito, un medico vi dice che l’improvviso cambiamento delle condizioni della mamma è dovuto a un tumore al cervello, ormai diventato incurabile, e quel medico deficiente, ne parla così anche davanti a te, non solo davanti allo zio. In mezz’ora la tua vita è cambiata. La sera stessa quando arrivo io, i medici ci dicono che dobbiamo riportarla a casa, perché hanno troppi pochi posti a disposizione per gestire questi ultimi tre mesi di vita”
Giuseppe aveva da un pezzo abbassato lo sguardo e non aveva più il coraggio di guardare in faccia suo padre. Che avvicinò la mano al mento di suo figlio e lo tirò su.
“Se ritieni di essere una persona abbastanza matura da giudicare il comportamento di Roberto, abbi anche il coraggio e la maturità di guardarmi negli occhi quando ti parlo!” disse.
“Passi i successivi mesi, che intanto sono, con qualche cura palliativa, diventati sei, a fare i turni con tuo padre, giorno e notte, a far mangiare, far bere, lavare, pulire, vestire, cambiare, tua madre, che intanto è diventata quasi una larva, per le cure. Ha perso tutti i capelli e ti guarda, perché una volta superata la crisi la vista le è tornata, senza neanche riconoscerti. Intanto, in quei pochi momenti di lucidità che ha, nei pochi casi in cui non ha molto bisogno della morfina, dice a tutti che preferisce morire, piuttosto che continuare a vivere in questo modo. E poi, finalmente, se così si può dire, un giorno di giugno, quando ormai non ti ricordi neanche che solitamente vai a scuola, perché sono sei mesi che non vai a scuola, un giorno, entri in camera da letto e vedi tuo padre che piange, tenendo la mano della mamma, mentre un monitor, ancora collegato, non da alcun segnale di vita. In tutto questo perdi anche l’anno di scuola e magari i tuoi amici che ti hanno visto sempre di più allontanarti da loro. Di botto, tuo padre prende e ti porta a Matera, bella quando sei in vacanza, ma vorrei vedere con la scuola e il divertimento, se e quando avrai voglia di divertirti, rispetto a Roma. Vedi tuo padre che è sempre più impegnato al lavoro e quando è a casa è stanco e nervoso. E ti sgrida anche solo se ti cade una briciola a terra. E poi ti chiede scusa perché l’ha fatto e ti fa regali, che però ti costano troppo in termini di sentimenti. Poi un giorno, un paio di anni dopo, ti prende e ti porta fuori a mangiare un panino. E ti racconta che quando era un ragazzo della tua stessa età, ha quasi scatenato una guerra tra bande e che probabilmente questi adesso si vogliono vendicare, come se non bastasse quello che gli hanno fatto ventitré anni fa. E che adesso dovete prendere e lasciare tutto a Matera, dove forse ti eri abituato quasi a vivere, e dovete ritornare a Roma. Poi una mattina torni da un giro con i tuoi vecchi amici di due anni prima e vedi tuo padre, seduto al tavolo, con tua zia, che dispiaciuti ti dicono che la situazione si è complicata e che ora devi partire e passare qualche giorno a Milano, con delle persone che neanche conosci, a casa di un vecchio amico di tuo padre. E magari, a Matera, hai anche lasciato l’unica persona nella tua vita che ti abbia dato una certa gioia in quegli ultimi due anni, la tua ragazza, che tuo padre non conosce ma che era l’unica che veramente ti capiva. Come ti sentiresti?”
Giuseppe ormai lo guardava con uno sguardo spento, instabile.
“Ma io non sapevo…” fu l’unica cosa che riuscì a balbettare.
“Beh! Adesso lo sai! Sabato, quando sono arrivati, ti ho chiesto una cosa. Una sola cosa. Essere gentile con lui. Pensi che te l’abbia chiesto per insegnarti le buone maniere? Tu non puoi neanche lontanamente immaginare come possa sentirsi lui, in questo momento. Quanto possa sentirsi solo. Quanto possa sentirsi debole. Quanto possa odiare come si sente. Vivere, crescere senza la mamma è la cosa peggiore che possa succedere ad un bambino prima ed un ragazzo, come è lui adesso. Quando ti ho visto prima metterlo in quella situazione imbarazzante, ho pensato che se ci fossi stato io in quel momento, al posto di Roberto, all’età di Roberto, ti avrei preso a pugni! Mi sono sentito in imbarazzo per te!” rispose suo padre. Poi si alzò. Anche Giuseppe si alzò dal letto. Con particolare sforzo, ma si alzò. Suo padre si avvicinò a pochi centimetri dal suo volto.
“E la prossima volta che ti comporti così male non te la cavi con così poco! Pensaci la prossima volta che ti capita di voler esprimere un giudizio su una persona! Ti sei comportato in modo indecente! Hai dimostrato di essere ancora un bambino, tradendo in parte anche la stima che nutro nei tuoi confronti! Pensaci!” disse.
E senza neanche voler aspettare la risposta di suo figlio si voltò. Fece qualche passo avanti, prese computer, consolle dei videogiochi e cellulare del figlio. “Questi non ti serviranno, almeno fino a che Michele, Roberto e Francesca rimarranno qui” fu la sentenza. Poi si fermò, si voltò nuovamente verso Giuseppe. Lo guardò negli occhi, nuovamente.
“Scusami papà!” fu la risposta di Giuseppe. Che stava quasi mettendosi a piangere.
“Non sono io quello a cui devi chiedere scusa! E, per inciso, quello che ti ho raccontato, non vale solo per Roberto, ma anche per Francesca. E te lo dico solo una volta, sperando che il messaggio passi chiaramente: non scherzare con i suoi sentimenti. Altrimenti ti faccio veramente passare la voglia di scherzare! Buonanotte!” disse. E senza neanche aspettare le scuse di suo figlio, se ne andò. Uscito dalla cameretta di suo figlio, vide Roberto, al fianco della porta, che aveva la testa abbassata e che lo guardava con una faccia da cane bastonato che la metà bastava. Un leggero accenno di sorriso da parte di Simone riuscì a stemperare la tensione. Parlarono qualche secondo a bassa voce, per poi tornare ciascuno nella propria camera. La sera, quando sua moglie salì in camera, gli raccontò ciò di cui avevano parlato e le chiese di fargli sapere come andavano quelle due giornate in casa, senza di lui e senza Michele.
Giuseppe rimase a dir poco stravolto per tutte le cose che gli aveva raccontato suo padre. Erano circa le nove e mezza, quando era finita quella conversazione. Non ebbe neanche la forza di spogliarsi. Si sdraiò così sul letto e rimase in balia dei suoi stessi pensieri.
Ciò che gli aveva detto suo padre rimbombò nella sua testa. Erano parole pesanti come macigni. La verità era che non aveva visto quella situazione dal giusto punto di vista. Suo padre gli aveva detto di essere buono. E lui fino a quel momento era solamente stato giusto. Che poi… la giustizia, lo sapeva, richiede anche la conoscenza di tutti i fatti. Lui in realtà, dei fatti reali, di come erano andate veramente le cose, era completamente all’oscuro. Fino a quella sera. Poi, quando suo padre gli aveva raccontato quella storia si era come svegliato. Si era sentito un verme. Sapeva benissimo quanto suo padre stimasse la sua intelligenza, quanto tenesse in altissima stima la sua razionalità, ma anche i suoi buoni sentimenti. E la cosa peggiore che avesse potuto sentire nella sua vita, l’aveva sentita quella sera: suo padre aveva perso parte di quella stima che nutriva nei suoi confronti. Suo padre si era sentito in imbarazzo per lui. Era stato spaventoso sentirgli dire una cosa simile. Avrebbe tanto preferito prenderle. Eppure suo padre non l’aveva fatto. Qualche sberla gli avrebbe fatto male, ma l’avrebbe definitivamente portato a chiudere quel discorso. Invece, contrariamente alle altre volte, suo padre l’aveva lasciato li a macerarsi in quel senso di colpa. Senza volerlo ascoltare. Senza voler sentire le sue ragioni. E sapeva anche che di ragioni valide per il suo comportamento, effettivamente non ne aveva. E tutto quel peso per due giorni, praticamente un’eternità. Perché sarebbero tornati il giovedì sera. Verso le tre, poi, come era accaduto in quasi tutte le altre occasioni, anche quella notte portò consiglio. E Giuseppe, leggermente rinfrancato da quel pensiero, si convinse che c’era una sola cosa che poteva fare. Fu addirittura felice di preparare la sveglia. E infatti, la sveglia l’aveva messa alle cinque. Era una sveglia che vibrava e appoggiandola sul letto, all’ora giusta, si svegliò, senza che gli altri si accorgessero di niente. L’aveva comprata per quando, qualche volta, si svegliava prima del solito per finire di studiare qualcosa e non voleva svegliare i suoi genitori.
Quando si svegliò, fuori dalla sua camera sentì già i movimenti delle persone che salivano e scendevano animatamente le scale. Era giunto il momento di sistemare metà delle cose combinate fino al giorno prima. Lasciò la porta semiaperta. Un segnale che suo padre conosceva fin troppo bene. Perché quando Giuseppe lo faceva significava che voleva parlargli. E infatti, certo del fatto che Giuseppe avesse colto ormai pressoché completamente il senso dello scambio di idee del giorno prima, avendo cinque minuti di tempo prima che tutti fossero pronti per la partenza, aprì lentamente quella porta ed entrò. Per “non destare sospetti” le luci erano spente, ma Simone poteva scorgere chiaramente la sagoma di suo figlio in piedi vicino alla finestra che guardava il paesaggio completamente ghiacciato che a quell’ora si presentava fuori casa loro, in quel periodo dell’anno.
“Dimmi!” disse Simone.
“Ti devo chiedere scusa!...” disse Giuseppe, solo per essere fermato da suo padre.
“Ti ho già detto che non sono io quello a cui devi chiedere scusa!”
“E invece sì! Cioè: anche tu! Perché è vero che ho giudicato una persona solo dalle apparenze, senza conoscerla, ma non ho tenuto conto neanche dei tuoi sentimenti in questa cosa! Mi dispiace di averti ferito e di essermi comportato male anche con te, mettendo i miei interessi e le mie idee al di sopra di tutto il resto senza considerarne le implicazioni! Sono stato arrogante! E mi dispiace di aver tradito la stima che nutri nei miei confronti! Ti prometto che mi sforzerò di migliorare!”
Simone si bloccò. Ma solo per un attimo.
“Bene!” disse, adesso ben più rilassato, e anche un pochettino sorridente. “Vedo che come al solito la notte ti porta consiglio. E mi fa piacere che tu abbia colto fino in fondo tutti i ragionamenti dietro a ciò che ti ho raccontato ieri” poi si avvicinò a suo figlio. Gli mise una mano sulla spalla. “Michele piangeva mentre mi raccontava tutto quello che gli è successo in questi due anni. Tutto quello che ha vissuto lui e tutto quello che hanno vissuto Roberto e Francesca. Non possiamo neanche lontanamente immaginare come si senta Roberto. E per quanto riguarda Francesca…”
“Ma come hai fatto a capire… si insomma, a capire di Francesca?” chiese stupito Giuseppe.
“Mi ricordo che alla tua stessa età quando andavo a casa dei nonni e mi vedevo con la mamma, tuo zio Vito, per prendermi in giro si avvicinava con un fazzolettino e me lo passava davanti alla bocca, dicendo di volermi asciugare la bava!”
Una risatina scappò a Giuseppe.
“Hai preso da me!” disse Simone.
Anche se non poteva distinguerlo chiaramente, poteva quasi sentire le guance di suo figlio avvampare, per quel mezzo imbarazzo che quell’ultima frase gli aveva riservato. Ma era vero. Probabilmente, pensò, si poteva veramente vedere ad un kilometro di distanza che le piaceva.
“È che Francesca è così diversa da suo fratello!” disse.
“Per forza! È una ragazza. Roberto è un ragazzo. Siamo troppo diversi, anche in queste situazioni. Vedrai che con il tempo capirai. Intanto, credo che i tuoi tentativi di sistemare quello che hai combinato ieri non finiscano qui! Sbaglio?” chiese, cambiando discorso, Simone.
“No! Non sbagli! Appena sarà sveglio voglio parlargli! E chiedere scusa anche a lui!” rispose suo figlio.
“Bene! Vedrai che questo cambierà le cose. Di parecchio!” confermò suo padre.
Si abbracciarono per salutarsi e Giuseppe augurò a suo padre buon viaggio. Sull’uscio della porta, però, Simone si bloccò, si voltò e tornò nuovamente indietro.
“Oggi, quando sarete in piscina, fai in modo di farlo stare calmo e non litigare con nessuno!” gli disse, sempre sottovoce.
“Come mai mi dici ciò?” disse sorridente e ormai completamente rilassato Giuseppe.
“Non vorrei mai trovarmi al posto di colui che ha la pessima idea di insultare la madre di Roberto, come purtroppo molti hanno l’abitudine di fare. E nel caso, se ci riesci, fermalo!” rispose, seriamente, Simone.
Giuseppe capì al volo la richiesta di suo padre.
“Farò il possibile!” gli disse, tornando anche lui immediatamente serio.
“Grazie! Anche a nome di Michele, che probabilmente non si rende neanche lontanamente conto di questo particolare!” gli disse Simone. Questa volta era lui che sorrideva.
Giuseppe ricambiò il sorriso e poi vide suo padre allontanarsi e uscire dalla sua stanza. Era profondamente felice di essere riuscito a far la pace con lui in quel momento. Così lo sapeva lontano ma dalla sua parte.
E si concesse altre due ore e mezza di sonno.
Alle 8 si svegliò nuovamente e corse in cucina a fare colazione. Un sorriso di sua mamma gli fece capire che sapeva tutto, compresi gli ultimi sviluppi. E la tavola apparecchiata anche per lui, con la marmellata di arance sul tavolo, che era la sua preferita, gliene diede conferma. Di solito, quando sua mamma ce l’aveva con lui, si doveva arrangiare, almeno per qualche giorno. Mentre, adesso, era tutto pronto. Erano ancora solo in due in cucina. E sua mamma, gli si avvicinò.
“Ti è andata bene! Visto che potrebbe servirti, oggi, tuo padre mi ha confermato che la punizione è ridotta!” gli disse. Riconsegnandogli il cellulare, “E la consolle puoi utilizzarla, ma solo se in compagnia di Roberto” gli disse.
Giuseppe ringraziò sua mamma, e con la mente, anche suo papà, anche se ormai era già in viaggio.
“E, per intenderci, per riottenere il computer, sappi che forse solo un processo di beatificazione in vita sarebbe sufficiente!” gli disse, strappandogli anche un sorriso.
Per le otto e un quarto, la cucina si animò di gente, e alle otto e mezza tutto era finito.
Prima che Anna arrivasse a casa con Simone, per le nove, Giuseppe sapeva di avere ancora una cosa da fare.
“Roberto, puoi venire su così ti do il costume?” chiese.
“Va bene!” disse quest’ultimo finendo l’ultima fetta biscottata con la nutella. E alzandosi. Lo seguì dopo essersi sciacquato le mani.
Giuseppe entrò in camera.
“Permesso!” sentì esclamare dalla porta. Era Roberto. Era, stranamente di buonumore e, non riusciva a capirlo bene neanche lui, più gentile.
Giuseppe decise di rompere gli indugi. “Puoi chiudere un attimo la porta?” chiese. Si era preparato per filo e per segno quello che voleva dirgli. Roberto ubbidì facendo qualche piccolo passo avanti. Come era successo anche con suo padre, più di tre ore prima, Giuseppe si fermò un attimo a osservare fuori dalla finestra. Un debole sole aveva fatto la sua comparsa illuminando il paesaggio e facendo rifulgere la brina in tutto il suo candore.
“Volevo prima di tutto chiederti scusa!” disse, di colpo. E, effettivamente, Roberto sgranò gli occhi. Poi cercò di parlare, ma Giuseppe lo bloccò. “Aspetta! Fammi finire!” disse “Sono stato un idiota a comportarmi da maleducato con te. E sono stato insensibile. Vorrei provare a conoscerti un po’ meglio e magari provare a diventare amici, visto che in questi giorni stiamo vivendo sotto lo stesso tetto. Possiamo?!” chiese.
“Ok!” rispose l’altro.
A Giuseppe bastava. Sapeva di non potersi aspettare più di tanto da quel ragazzo in quel momento. Allora concluse indicandogli i tre costumi che c’erano sul letto.
“Scegli quello che vuoi poi indossalo direttamente, così non perdiamo troppo tempo arrivati in piscina. Io ti aspetto giù! Credo che Simone stia per arrivare!” concluse e passò davanti a lui, uscendo e chiudendo la porta dietro di sé.
Effettivamente cinque minuti dopo, mentre Simone e Anna erano appena entrati, Roberto stava scendendo con lo zaino, tra i primi oggetti del contendere dei due. Salutò rispettosamente Simone e Anna, poi chiamò un attimo Giuseppe in disparte. Andarono in cucina, momentaneamente svuotata.
“Dimmi tutto!”
“Volevo chiederti anche io scusa per come mi sono comportato con te in questi giorni. È che ancora, per la testa, ho tante cose. Prendi questo per esempio” disse, mostrandogli lo zaino “Era di mia mamma. Non permetto, di solito a nessuno, neanche a Francesca, di usarlo. Per questo motivo me la sono presa tanto con te, l’altra sera. Comunque vorrei anche io provare a conoscerti e diventare amici!” disse, cercando anche di sorridergli.
E lì, Giuseppe, per la prima volta, capì il vero significato di quello che gli aveva detto suo padre. Che la sua iniziativa a chiedergli scusa e trattarlo dignitosamente avrebbe sortito effetti eccezionali. Allora fece quello che, a quel punto, gli riusciva benissimo. Porse la mano al suo coetaneo.
“Piacere, Giuseppe!” disse sorridendogli.
Un Roberto, piegato in due dalle risate, gli ricambiò allegramente, la presentazione.
“Piacere! Roberto! Ma puoi chiamarmi Roby!” rispose.
Indubbiamente quella giornata stava, contro ogni pronostico, incominciando molto meglio di quanto avesse potuto anche solo lontanamente immaginare il giorno prima.
Mezz’ora dopo i tre erano in piscina. E le prime due ore proseguirono tranquillamente. Giuseppe si accorse del fatto che Roberto sapeva nuotare abbastanza bene, e anche il fisico lasciava trapelare un po’ di allenamento, ma quando provarono a fare una gara un po’ più seria, Roberto non ebbe scampo. Tanto che finì addirittura per complimentarsi con Giuseppe. Simone era ancora troppo piccolo per cimentarsi con loro. Passarono gli ultimi minuti a nuoticchiare amabilmente. Poi Giuseppe vide Simone avvicinarsi velocemente a lui.
“Oh! Guarda chi è arrivato! Dici che è il caso di rimanere?” chiese.
Giuseppe si protese al di sopra della sponda della piscina e, effettivamente, vide i tre che stavano arrivando.
Claudio, Alessandro e Jonathan, i tre più forti della piscina. E anche quelli che, appena potevano, li prendevano in giro. Soprattutto Simone, per la sua statura e perché era ancora un po’ esile. Giuseppe aveva sempre preferito lasciarli perdere. In questa situazione, poi, sapendo anche un po’ del carattere difficile di Roberto, decise che era sicuramente meglio andarsene.
D’accordo con gli altri due uscirono dalla piscina. Erano sul bordo quando, purtroppo, si avvicinarono i tre.
“Ciao ragazzine! Che fate, il bagnetto?” disse Claudio, scatenando l’ilarità degli altri due.
Giuseppe e Simone proseguirono nella loro camminata, senza voltarsi neanche. Roberto, invece, no. Era davanti rispetto a loro due, e lo videro rilassare completamente le spalle. Giuseppe si accorse che, in quel modo, sembrava almeno di un paio di anni più piccolo. Poi, però, vide anche che Roberto si voltò.
“Non è che per caso ce l’avete con noi?” chiese.
“E con chi sennò? Avete visto altre ragazzine in piscina?!” disse Jonathan.
Giuseppe prese il polso di Roberto. Ma questo era irremovibile. Ebbe, per un attimo, l’impressione che lo guardasse con una faccia particolarmente gentile; seria, ma buona, incapace di fare del male. Fu quasi per curiosità che rimase ad ascoltare quello che aveva da dire Roberto.
“A Matera, dalle mie parti, si usa fare un gioco in casi del genere. Si fa una scommessa. Il più forte di noi, contro il più forte di voi. Chi perde, per una settimana, si ferma dopo l’orario di chiusura della piscina a pulire gli spogliatoi, comprese le docce e i bagni. L’addetto alle pulizie fa da testimone e si impegna a far rispettare la scommessa. Ci state?” disse.
A Giuseppe parve strana quella proposta. Capì che era quasi impossibile essersela inventata al momento. Così elaborata. Così precisa. E poi non sapeva che Roberto andava in piscina anche a Matera. E gli venne un dubbio. Simone lo guardava preoccupato, ma Giuseppe gli sorrise. Per rassicurarlo e perché, in fondo in fondo, aveva iniziato a ricordarsi chi aveva a fianco, e aveva capito quello che stava succedendo.
Dall’altra parte, però, gli altri tre no.
“Bene! E chi sarebbe il più forte di voi tre?” disse immediatamente Claudio. Certo di avere la vittoria in mano.
“Io! E tu saresti il più forte di voi tre?!” disse Roberto. Simone si voltò verso Roberto, per dargli dello scemo, ma un piccolo cenno del volto di Giuseppe gli fece cambiare idea. Allora, un leggero sorriso, comparve anche sul suo viso. Sorrise, senza saperne neanche il motivo, dal momento che fino a qualche minuto prima, Roberto, contro lo stesso Giuseppe, aveva perso una gara.
“Tu saresti il più forte? Con quelle spallucce delicate?” chiese sprezzante Claudio.
“Perché? Hai paura?” rispose di nuovo Roberto.
“Paura? E di chi? Di una femminuccia?” continuò Claudio, mentre gli altri due lo spalleggiavano in continuazione.
“Facciamo così! Perché invece di una settimana non ci giochiamo un mese di pulizie gratis?” disse Claudio.
“Eh! Non sono sicuro! Io tra una settimana circa me ne vado!” disse Roberto, rendendosi ancora più debole.
“Torni in Africa, eh?” disse Alessandro.
“Facciamo così!” propose Giuseppe “Se vinci tu, io e Simone puliamo per un mese, se vince Roberto, voi tre pulite per un mese. Ci state?”.
Simone si voltò verso Giuseppe. Ma ancora una volta lo sguardo sicuro di Giuseppe gli fece capire che valeva la pena fidarsi di loro. Il fatto è che si voltò verso Giuseppe anche Roberto. Incredulo.
“Ok!” rispose Claudio “Ale, vai a chiamare Gianni! Così la facciamo sul serio, questa garuccia facile facile!”. Alessandro corse via.
“Dove è andato?” chiese Roberto a Giuseppe.
“È andato a chiamare l’allenatore. Che è anche il gestore della palestra! Così pensa di poterci umiliare fino in fondo!” rispose quest’ultimo.
“Ti fidi così tanto di me?” gli chiese Roberto, quasi stupito per quel comportamento.
“Si!” rispose Giuseppe. Sorprendendo ancora di più Roberto.
“Ma se mi hai appena conosciuto! E sei stato proprio tu a battermi un quarto d’ora fa!?” chiese ancora Roberto.
“Ti ho appena conosciuto, ma questo non significa che in assoluto non abbia mai sentito parlare di te!” rispose Giuseppe, sorridendogli. “Comunque grazie per avermi fatto vincere nella gara di prima!” disse, facendogli l’occhiolino. Mentre Roberto ricambiò il sorriso, Simone, ancora più sorpreso, rimase ad ascoltare quella conversazione.
“Ecco il nostro allenatore, che può certificare la vostra sconfitta”
Appena Gianni, il loro allenatore, vide Roberto, lo riconobbe subito. Anche se, in tutto quel tempo Roberto, aveva cercato di non far vedere la sua vera massa muscolare. Però, sorridendo a Giuseppe, Gianni gli fece capire che una punizione come quella, per l’arroganza dei tre, sarebbe stata l’ideale.
Roberto e Claudio si predisposero ai blocchi di partenza.
La gara era un semplice 200mt stile libero. Gianni fischiò il via.
E non ci fu storia. Giuseppe e Simone esultarono, quando Roberto terminò la gara circa due secondi prima di Claudio. Che, avvilito ed incredulo, uscì dalla piscina. Appena terminata la gara, appena Roberto uscì dall’acqua, Gianni si avvicinò a lui.
“È un piacere conoscerti! Perdona la loro arroganza, per piacere. Credo che nel prossimo mese avranno modo di pentirsene appropriatamente!” disse sorridendo.
“Ma come è possibile?!” disse urlando Claudio, mentre gli altri due, sconsolati, lo trattenevano dal gettarsi addosso a Roberto, per nulla spaventato.
Fu Gianni ad intervenire “Tu, anzi, voi siete degli ignoranti! Non l’avete neanche riconosciuto? Ah già! Due anni fa ti sei fatto sconfiggere da quello di Brescia ai campionati regionali. Altrimenti le avresti prese da lui. È stato il campione italiano juniores nei 200mt stile libero. Almeno informati, stupido!”
Simone, incredulo, osservò Giuseppe, che, un po’ meno incredulo, sorrideva a Roberto.
“Da quando lo sapevi?” chiese Roberto a Giuseppe.
“Oh! Mi è venuto in mente quando ti sei fermato ad accettare la sfida. Allora ho collegato il nome con il titolo!!” rispose Giuseppe, sorridendo.
Poi si voltarono verso l’orologio, e videro che era quasi mezzogiorno. Erano in ritardo. Quindi, rispettosamente, salutarono e andarono negli spogliatoi a farsi la doccia e vestirsi. E mentre erano negli spogliatoi, riuscirono anche ad approfondire la conoscenza reciproca.
Paradossalmente, per come Giuseppe lo conosceva fino alla sera prima, fu proprio Roberto a incominciare la conversazione.
“Il nuoto mi è piaciuto da sempre. E a parte l’assenza dalle gare per quei sei mesi che sai, è stata l’unica cosa che mi ha permesso di tirare avanti, anche durante quel periodo. Quando avevo qualche momento libero, piuttosto di pensare alla malattia e alla morte di mia mamma, mi rinchiudevo in piscina e facevo vasche su vasche!” disse.
“Anche io sono così! Se ho qualche problema o qualche pensiero, la piscina è l’unica cosa che mi permette di rilassarmi o pensare seriamente a quello che faccio” rispose Giuseppe. Poi però si bloccò. E quando si fermò e osservò Roberto insistentemente, anche Roberto si rese conto della gaffe che aveva fatto.
“Scusa, ma cosa ne sai tu del fatto che io so dei sei mesi?!” chiese confuso Giuseppe.
Roberto fissò silenziosamente Giuseppe. Poi però quello sguardo non riuscì a reggerlo e dovette confessare.
“Ieri sera, mentre eravamo in camera, mio padre mi ha sgridato molto severamente per quello che era successo. Per come mi stavo comportando. E ho capito che avevo sbagliato. Poi mi sono permesso di dirgli che pensavo che tu fossi solo un ragazzino viziato. Allora lui mi ha detto che avrei dovuto spiare e sentire quello che tuo padre sarebbe venuto a dirti, per averne una conferma. Dapprima non capivo, ma mi sono appostato e appena ho visto tuo padre entrare in camera tua mi sono avvicinato e ho seguito tutta la vostra conversazione. Prima quello che hai detto su di me, mi ha fatto capire che avevo sbagliato a comportarmi così con te. Poi il modo in cui ti ha sgridato, quello che ti ha detto tuo padre, mi ha fatto capire che avevo anche giudicato male la tua educazione e la disciplina dei tuoi genitori. Quando sono risalito e ho raccontato a mio padre quello che avevo sentito, mio padre mi ha raccontato la storia del tuo. E lì ho capito che avevo proprio sbagliato tutto. Allora per prima cosa sono andato a chiedere scusa ai tuoi genitori. E poi mi sono riproposto di fare tutto il possibile per chiederti scusa per primo. Ma non ci sono riuscito perché quando mi hai chiamato in camera tua per il costume, non mi hai fatto parlare” disse Roberto, rispondendo e chiarendo definitivamente i dubbi di Giuseppe.
“Ecco perché stamattina eri finalmente di buonumore!” rispose Giuseppe.
“Sento che, come ci siamo detti questa mattina, questa potrebbe essere veramente l’inizio di una bella amicizia!” confermò un Roberto ormai più che sorridente.
“Ma che bel quadretto!” si sentì esclamare da dietro la loro fila di armadietti. E Claudio, Alessandro e Jonathan uscirono allo scoperto.
“Non vi è bastato pulire bagni, docce e spogliatoi per un mese?” chiese Roberto.
Giuseppe si accorse di come, per quanto in una situazione difficile, Roberto mantenesse sempre un’espressione rilassata. Era incredibile come non lasciasse trapelare né paura né preoccupazione. Ma neanche rabbia o nervosismo.
“Che trio! Due inetti e un buffone!” aggiunse Alessandro.
“Ma si può sapere che cosa volete da noi?” chiese Roberto. Serio, ma pur sempre pacifico.
“Farvi male! Ci avete umiliati ed ora tutti rideranno di noi! In più anche Gianni ci ha sgridato!” disse Jonathan.
“Ah! Beh! Ha fatto bene! Così la prossima volta imparate a fare i bulli con persone che ritenete più deboli di voi!” rispose Roberto.
“Voi siete più deboli di noi!” puntualizzò Claudio.
“Non si direbbe! Anzi devo parlare con Gianni, perché se mi ha preso il tempo, credo di aver fatto almeno il record provinciale. E quasi quasi glielo faccio omologare!” incalzò Roberto.
Giuseppe si stava quasi divertendo ascoltando quella conversazione. Quando, in tre, quattro secondi, tutto cambiò.
Claudio: “Sai come le chiamano dalle mie parti le persone come te?”
Roberto: “No! Come?”
E lì Claudio disse proprio quello che non doveva dire.
Roberto: “Vediamo se avete il coraggio di ripetere quello che avete detto!” disse.
“Non è questione di coraggio!” disse Claudio “Se tuo padre non è sicuro di essere il tuo vero padre, non è colpa nostra!”.
Giuseppe ancora non aveva capito bene quello che stava succedendo. Ritornò alla realtà solo quando sentì Roberto parlare.
“Non potete neanche lontanamente immaginare che cosa avete fatto!”
A quel punto Giuseppe capì. E sperò che quella poca amicizia che era riuscito a coltivare con quella persona bastasse. Si voltò rivolgendosi a Roberto. E parlandogli dritto negli occhi.
“Stai calmo! Roby! Per favore non perdere la calma! Andiamocene! Sono dei poveri ignoranti che non sanno controllarsi! Dimostragli di essere diverso!” disse. Quasi implorandolo. Purtroppo, però, Roberto aveva cambiato espressione. Non era più buono. Non era più calmo. L’espressione era peggiore. Molto peggio di quella che aveva anche la sera stessa in cui era arrivato a Milano.
“Pensi di farci paura solo perché abbiamo insultato la tua mammina? E adesso cosa fai, vai a casa a piagnucolare da lei?!” aggiunse Claudio.
“Ma volete stare zitti e farla finita una buona volta?” intervenne Simone, che aveva, poco a poco, incominciato a rendersi conto della situazione. E non gli piaceva per niente.
I tre ragazzi si avvicinarono a Roberto, Giuseppe e Simone. Lentamente. Sorridendo vittoriosi per quello che erano riusciti a fare.
Giuseppe, intanto, aveva entrambe le mani sulle spalle di Roberto e cercava di attirare la sua attenzione.
“Lasciali stare! Fallo per te! Non scendere al loro stesso livello!” implorò Giuseppe. Poi si voltò verso i tre.
“Per favore! Anche voi! Lasciatelo stare! E andatevene!”
“Cos’è? Stai cercando di difenderlo da noi? Tu?” disse, sarcasticamente, Alessandro.
“No scemo! Sto cercando di difendere voi da lui! Ve ne volete andare, si o no?!” chiese sempre più nervosamente Giuseppe.
“Spostati!” gli disse Roberto.
“No! Non lo faccio!” rispose Giuseppe.
“Ti ho detto di spostarti! Ormai è troppo tardi! Almeno non farti del male!” rispose Roberto.
“No! Tu sei migliore di loro! Non abbassarti al loro livello! Non posso permettertelo!” disse Giuseppe. Fermo e deciso.
C’è da dire che fino a quel momento, Roberto, non si era mosso di un millimetro. E le braccia erano rimaste distese ai fianchi. Fino a quel momento.
Perché, proprio in quel momento, Roberto prese i polsi di Giuseppe e con una facilità straordinaria lo spostò spingendolo addosso a Simone. E si lanciò addosso a Claudio, colpendolo al volto. Questi incassò il colpo, ma subito dopo gli altri due bloccarono Roberto. Trattenendolo contro gli armadietti.
“Hai osato colpirmi? Ti sei permesso di colpirmi?” chiese Claudio.
Roberto continuava a guardarlo non distogliendo un attimo lo sguardo dai suoi occhi e cercando di divincolarsi, sotto la stretta di Alessandro e Jonathan. Che non lo mollavano.
Claudio gli sferrò un pugno nello stomaco che per qualche secondo gli fece mancare il respiro.
In quel momento Roberto ebbe paura di quello che stava accadendo. Forse perché si era accontentato di colpirlo una volta, forse perché non aveva considerato l’effettiva inferiorità delle loro forze. Per un istante, e per la prima volta rispetto a tutte le altre volte che l’aveva fatto, si chiese se ne valeva veramente la pena. E si diede dello stupido per non aver seguito l’invito di Giuseppe a rimanere calmo. In fondo, fino a quel momento, era da solo contro quei tre.
Vide Claudio che stava caricando il pugno e capì che aveva mirato al volto, questa volta. Chiuse gli occhi aspettando quello che ormai sapeva essere l’esteso dolore allo zigomo, o il pungente dolore all’occhio, o il peggiore, il dolore accompagnato al formicolio al naso dovuto all’immediata perdita di sangue. Solo che l’unica cosa che udì fu un tonfo. Riaprì immediatamente gli occhi. E davanti a sé non vide nessuno. In piedi.
Giuseppe si era gettato addosso a Claudio, placcandolo, nel senso rugbistico del termine. E l’aveva fatto cadere a terra. I due si stavano azzuffando. Qualche centesimo di secondo dopo sentì il braccio destro libero. Simone si era gettato al collo di Alessandro e gli aveva fatto perdere la presa su di lui. Appena se ne accorse, Jonathan gli sferrò un colpo sul naso. Cercando di stordire Roberto. Senza riuscirci. Il pugno del braccio libero andò immediatamente a colpire Jonathan, che stordito barcollò e si accasciò a terra. Poi un altro diretto colpì anche Alessandro, che intanto stava cercando di colpire Simone contro gli armadietti. Facendogli male alla schiena. Anche se gli tirò anche una testata che lo colpì sulla sopracciglia. Stordendo anche lui. Poi vide che, colpo contro colpo, ma anche Giuseppe stava facendo la sua parte con Claudio.
Fu solo a quel punto che arrivò Gianni, preoccupato dalle urla che stava sentendo. Separò Claudio da Giuseppe.
“Ma si può sapere come cavolo vi è saltato in testa di fare a botte?”
“Mi ha insultato!” disse Roberto.
“Non è una scusa accettabile!” urlò, mentre anche Alessandro si stava rialzando.
“Ha insultato sua madre! Poi l’hanno preso in tre contro uno e Claudio gli ha tirato un pugno nello stomaco. Allora l’abbiamo difeso!” disse Giuseppe, che, cosciente della situazione sapeva come salvare Roberto, almeno lui, da quella situazione.
Gianni si fermò un attimo a pensare. Poi si rivolse nuovamente a Roberto.
“Per stavolta non prendo nessun provvedimento nei tuoi confronti. Perché sono un vecchio amico del tuo allenatore e conosco la tua storia. Ma vedi di controllarti!” disse “Voi invece tornate a casa ma sappiate che più tardi telefonerò ai vostri genitori e lascerò che siano loro a sgridarvi a dovere. Così imparate a prendervi a botte nella mia piscina!”
Poi si rivolse a Claudio, Alessandro e Jonathan. “E voi, filate a farvi la doccia, e poi nel mio ufficio che ne riparliamo!” disse serio, rivolgendosi contemporaneamente a Roberto e facendogli l’occhiolino. I tre, ubbidientemente, si defilarono entrando nelle docce.
“Scusaci per il nostro comportamento!” disse Giuseppe, assumendosi anche la responsabilità di parlare a nome di Simone.
“Andate a casa!” redarguì Gianni, mandando via anche loro.
Presero le borse e uscirono. Dieci minuti a piedi di mutismo completo e furono a casa.
“Possiamo evitare di far sapere a mia mamma quello che è successo?” chiese Simone.
“A che serve?! A parte che hai un taglio sul sopracciglio, ma poi oggi pomeriggio Gianni la chiama e le cose peggiorano!” Rispose Giuseppe.
“Beh! Anche tu hai un occhio nero! E io ho sicuramente un livido sulla pancia! E non smette di uscirmi il sangue dal naso” aggiunse Roberto “Tanto vale dire la verità!”
Giuseppe tirò fuori le chiavi di casa e aprì. Entrarono e ancora, pur essendo quasi le dodici e mezza, non c’era nessuno.
“Cerchiamo di addolcirle preparando la tavola e sistemando un po’?” chiese Giuseppe “Con mia mamma di solito funziona!”.
I tre dapprima lasciarono la roba al loro posto. Poi incerottarono il sopracciglio di Simone, misero un po’ di crema sull’occhio nero di Giuseppe e anche un po’ di cotone nella narice destra di Roberto, nel tentativo di fermare l’emorragia. Poi corsero immediatamente ad apparecchiare e a scaldare l’acqua per la pasta. Finirono giusto in tempo per l’arrivo di Maria, Anna e Francesca.
Simone e Roberto corsero, l’uno in bagno e l’altro in camera di Giuseppe a prendere la roba, senza farsi vedere da Anna e Francesca. Maria entrò in cucina, mentre Giuseppe le dava le spalle, rivolto verso la pentola con l’acqua.
“Oh! Che bello! Avete addirittura apparecchia…” e si fermò perché suo figlio, girandosi, fece vedere come era conciato.
“…to” disse, cambiando completamente espressione. Anna e Francesca, vedendo Giuseppe, corsero immediatamente a vedere come stavano Simone e Roberto.
“Calma, mamma, posso spiegarti!” disse Giuseppe cercando di non innervosirla di più. Sapeva come lei era assolutamente contraria a queste cose.
“Non puoi! Devi! E cerca di essere convincente! Altrimenti te le do e ti faccio dare il resto da tuo padre domani quando torna!” disse, seria.
Giuseppe spiegò a Maria come erano andate le cose, omettendo la cosa più importante, il motivo per cui avevano fatto a botte, quando, dopo pochi minuti, Anna, scendendo le scale, porse il cellulare a Maria.
“È Gianni! Vuole parlare con te” gli disse.
Giuseppe era avvampato dal nervosismo e dall’imbarazzo di doversi giustificare con sua madre. Era più facile farlo con suo padre; con sua mamma era bello parlare quando aveva qualche problema, non quando lui li causava a loro. Comunque dall’espressione sul viso di Anna capì che, negli ultimi minuti, qualcosa era cambiato.
Maria salutò l’allenatore di nuoto di suo figlio e mentre gli spiegava che suo marito era sceso in Basilicata per una questione urgente e che avrebbe potuto parlarne tranquillamente con lei, salì le scale e scomparve al piano di sopra.
“Vado a chiamare Simone, in camera tua. Vai a chiamare Roberto e Francesca in soffitta. Scendete tutti qui che dobbiamo parlare!” disse Anna.
Ubbidientemente Giuseppe eseguì.
Mentre saliva le scale che portavano in soffitta, Giuseppe riuscì a scorgere Francesca e Roberto, seduti sul letto. Francesca stringeva forte in un abbraccio fraterno Roberto che piangeva disperatamente fra le sue braccia. L’imbarazzo impedì a Giuseppe di salire ulteriormente le scale.
“Francesca, Roberto, potete per favore scendere? Ci vogliono parlare!” disse, scendendo qualche scalino.
“Arriviamo!” rispose premurosamente Francesca “Arriviamo subito!”
Giuseppe scese le scale, e si allontanò non appena udì i due che si alzavano e Roberto che andava verso il bagno. Francesca comparve subito dalla cima delle scale. Facendogli segno di aspettare. Giuseppe si fermò, mentre Francesca scendeva a sua volta.
“Roberto mi ha raccontato! Anche se sicuramente i nostri genitori non condivideranno appieno quello che è successo, volevo ringraziarvi, per come avete difeso e siete accorsi in aiuto di Roberto, e per come hai cercato di fermarlo!” disse e in un impeto di gratitudine, l’abbracciò, amichevolmente.
Giuseppe rimase fermo e in silenzio per tutto il tempo, subendo quasi esanime l’abbraccio di Francesca. Svenendo, ma dalla gioia, la seguì mentre scendevano le scale e andavano in cucina. A quel punto sua madre avrebbe potuto dargliele, pure suo padre, avrebbe potuto perdere il computer, il cellulare, addirittura i videogiochi, fino alla maggior’età, ma niente poteva impedirgli di essere felice.
Anna e Simone aspettavano già in cucina. Roberto scese le scale pochi secondi dopo l’arrivo di Maria.
“Allora, l’allenatore di nuoto di Giuseppe mi ha spiegato la situazione!” disse Maria, “venendo a conoscenza di tutti i particolari, anche lui ci ha chiesto di essere abbastanza indulgenti con voi. D’altra parte l’avete fatto per una buona causa, e lo stesso Gianni, mi ha raccontato la cattiveria con cui vi hanno trattato i tre con cui avete finito per azzuffarvi. Diciamo che per il momento lasciamo perdere e ne parliamo con i vostri padri. Insieme decideremo poi se e come sistemare le cose!”.
E la situazione, per almeno qualche ora, si sistemò. Simone, Giuseppe e Michele, avevano infatti avvisato che molto probabilmente per tutta la giornata sarebbero stati a parlare con funzionari della banca e altra gente, quindi che avrebbero chiamato non appena avessero avuto qualche minuto a disposizione. Ed effettivamente, verso ora di cena, a Maria, Anna e Francesca, suonò quasi contemporaneamente il telefono.
Risposero, anche se furono loro a monopolizzare la conversazione.
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E a questo punto abbiamo lasciato i tre uomini.
“Ti chiedo scusa per il comportamento di mio figlio!” disse Michele.
“Non devi scusarti!” rispose Simone “Avevo previsto che sarebbe potuta accadere una cosa del genere. D’altra parte posso conoscere abbastanza i sentimenti di Roberto. E anche io, alla sua età, ero calmo, tranquillo e rispettoso finché qualcuno insultava mia madre. E a quel punto quasi sempre si scatenava una rissa. A scuola mi è successo un paio di volte”
“Allora menomale che preso dalla pazzia non l’ho comunque mai fatto, io, altrimenti…” disse Michele, pensando immediatamente al passato.
“Altrimenti la situazione si sarebbe risolta prima, molto prima di tutto il tempo che abbiamo aspettato… ma lasciamo perdere!”
“Eh! Lasciamo perdere!” aggiunse Giuseppe. “Anna mi ha chiesto, come penso anche Maria e Francesca abbiano detto a voi, cosa pensavamo di fare con i nostri figli. Che facciamo?”
“E che dobbiamo fare!? Le hanno prese, si sono azzuffati! Cosa vogliamo fargli di più?! Se i nostri genitori ci avessero puniti ogni volta che ci siamo presi a botte, saremmo ancora in punizione!” rispose Simone.
“Farò il possibile per parlarci, con Roberto, e evitare che non accada più una cosa del genere, anche se so che sarà difficile.”
“Anche io voglio parlarci con mio figlio, anche se sinceramente sono contento del fatto che abbia fatto il possibile per difendere Roberto!” disse Simone.
“Anche mio figlio ha fatto la stessa cosa! Significa che, probabilmente, stanno diventando veramente amici, contrariamente ai pronostici di ieri!” aggiunse Giuseppe.
“Comunque mi consola una cosa!”
Simone e Giuseppe guardarono Michele confusi. Poi Michele si mise a ridere.
“Perché ridi? Cos’è che ti consola tantissimo?” chiesero.
“Niente! È meglio se non ve lo dico!” continuò Michele, ridendo.
“E dai!!” “Dicci!” risposero gli altri.
“Menomale che quei tre si sono azzuffati con Roberto!” rispose Michele.
“Perché?” chiese Simone.
“Eh! Se si fossero picchiati con Francesca le avrebbero prese e basta! Francesca è cintura nera di Judo, e più di una volta l’ho vista mettere al tappeto anche Roberto!” disse, cercando di trattenere le lacrime dal ridere.
I due lo guardarono per qualche secondo. Poi scoppiarono entrambi in una fortissima risata.


NdA: Buongiorno! Questo, come avete letto anche nel precedente capitolo, è il punto della storia a cui tengo di più. per questo motivo non vedo l'ora, ora più che per altri capitoli, di sapere cosa ne pensate! grazie ancora per seguirla e apprezzarla!

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Capitolo 7
*** Ritorno all'isola che non c'è ***


RITORNO ALL’ISOLA CHE NON C’É

Il giorno dopo, Simone, Giuseppe e Michele si svegliarono verso le otto. Dovevano andare a Pisticci per controllare il contenuto della cassetta di sicurezza. Poi la sera, per le cinque, dovevano essere a Bari per l’aereo per Bergamo. E alle diciannove, diciannove e trenta, essere finalmente a casa a Milano a mangiare con le loro rispettive famiglie.
Uscirono poco dopo. Portando con loro tutta la roba. D’altra parte da lì sarebbero andati direttamente a Bari, visto che, già che c’erano, si sarebbero fermati a pranzo a Pisticci. La giornata era particolarmente fredda dai 400mt sul livello del mare di Matera. I tre presero la macchina e discesero fino ai 365mt sul livello del mare di Pisticci. Ci misero trentacinque minuti buoni, tra strade cittadine, via Appia e Basentana, una delle quattro strade statali che solcano il Metapontino.
A Pisticci, anche perché ci arrivarono che erano quasi le 9, faceva meno fresco. Soprattutto il cielo azzurro in cui era immersa quella collina era stupefacente. Simone si commosse pensando che non vedeva quel cielo da più di vent’anni. Parcheggiarono all’inizio della città e la percorsero fino al centro. Lì sorgeva la banca, leggermente defilata in una viuzza che costeggiava il municipio. Simone e Giuseppe, finalmente, respiravano aria di casa. Si fermarono a fare colazione in centro, prima di entrare in banca.
Una volta mostrati i documenti che testimoniavano il loro diritto ad avere accesso alla cassetta di sicurezza, vennero scortati tutti al piano di sotto. Qui vennero lasciati soli, con la chiave della cassettina, che si erano portati dietro da Matera.
“Apriamo!?” esordì preoccupato Michele.
“Eh! Siamo qui apposta!” concluse Simone.
Michele si avvicinò alla cassettina e inserì la chiave. Aprendola. Ne prelevò il contenuto, appoggiandolo sul tavolo. Era una semplice scatola di legno. Sollevandola si accorse che non doveva contenere molta roba, visto che era particolarmente leggera. Effettivamente, quando la aprì, ne tirò fuori una busta di carta parecchio corposa, una piccola busta da lettere, e una piccola scatoletta che conteneva quella che sembrava essere una chiave di un’abitazione e altre tre chiavi, che sembravano di una serratura blindata, ma molto diverse e parecchio complesse. Erano di tre colori diversi, blu, gialla e rossa, e con una lettera incisa su ciascuna chiave. Ma questo non fece altro che confondere loro ancora di più le idee.
Simone aprì la busta di carta voluminosa, tirandone fuori decine e decine di foto. Erano tutte foto scattate nell’estate del 2000 e ritraevano moltissimi momenti di quell’estate, sia prima che dopo la sera alla spiaggia. Tutti e tre si commossero riammirandole, riportando alla loro memoria anche momenti che si erano dimenticati. Alcune foto ritraevano anche Nicola, Vito e Maria, e decisero di metterle nello zaino per riguardarle tutti insieme quella sera stessa.
Poi Giuseppe aprì la seconda busta e ne tirò fuori una lettera. Che lesse ad alta voce, a beneficio degli altri due.
"
Cari amici,
Se leggete questa lettera, significa che almeno uno di noi due è morto di morte violenta e l’altro vi ha nominati eredi universali dei nostri beni.
È il primo dicembre del 2023, e oggi abbiamo saputo che Marco, Cosimo e Amaraldo, sono sulle nostre tracce ed intenzionati ad entrare in possesso di quelle tre chiavi che avete trovato in questa stessa cassettina di sicurezza. Il motivo lo saprete a tempo debito. Sappiate, però, che vogliono fare tutto questo per vendicarsi di noi.
È stato lo stesso Salvatore a dircelo. Una sera, di una settimana fa, Salvatore ha bussato alla nostra porta. Dopo aver fatto addirittura fatica a riconoscerlo, avremmo voluto buttarlo fuori di casa, quando ci ha messi al corrente di questa cosa. Che volevano entrare in possesso delle chiavi e che le avrebbero usate per vendicarsi.
Adesso vi chiediamo di usare la quarta chiave, quella particolarmente anonima, per scoprire il resto. Non possiamo dirvi di più, nel caso in cui quella chiave e questa lettera finissero nelle mani sbagliate, ma vi possiamo confermare che questa chiave l’abbiamo restituita.
Sappiamo di poterci fidare ciecamente di voi
Addio
                                                                              Francesco & Emanuele  
"
 
Simone, Giuseppe e Michele erano tutti e tre sconvolti per il contenuto di quella lettera.
“Allora significa che in mezzo a questa storia ancora ci sono di mezzo loro!” disse Simone.
“Definitivamente!” disse Giuseppe.
“Bene!” disse Michele, attirando l’attenzione degli altri due.
“Ma che cosa stai dicendo!?” esclamò disperato Giuseppe.
“Sto dicendo che questo è proprio quello che mi mancava per essere, e questa volta definitivamente, reintegrato” disse.
I due lo guardarono ancora più confusi.
“La settimana scorsa sono stato sospeso dal servizio, perché avevo proposto questa cosa al questore, dopo l’omicidio di Francesco. Il questore non mi ha creduto e ha ritenuto di sospendermi per incompatibilità con le indagini. Adesso che abbiamo in mano questa lettera, sono proprio loro due, che, ancora prima della morte di Emanuele, fanno riferimento a Marco. Dobbiamo tornare a Matera!” disse.
Finalmente uno sguardo un po’ meno dispiaciuto e spento fece la comparsa negli occhi di Michele. Sapeva di poter fare praticamente ancora qualcosa per i suoi amici. Anche da un punto di vista legale.
“Andiamo!” disse Simone. Richiusero tutto nella scatola di legno che presero e riposero nello zaino. Michele richiuse la cassettina di sicurezza e se ne andarono dalla banca. Si fermarono in una cartoleria a fare due fotocopie. Poi acquistarono anche due buste. Mentre Simone guidava, verso la strada statale, Michele imbustò le fotocopie. Arrivarono a Matera e si fermarono in questura. Michele scese dalla macchina, chiedendo ai suoi amici di aspettarlo una mezz’oretta.
Dopo quasi trenta minuti scese dalla questura che era un’altra persona.
“Beh! Cosa ti ha detto il questore?!” chiese Simone.
“Mi ha reintegrato immediatamente in servizio. E ha riaperto le indagini sulla morte di Emanuele, affermando chiaramente che sono in stretta relazione con la morte di Francesco. E mi ha riassegnato il caso. E mi ha accordato le ferie fino a lunedì, il primo Gennaio, dal momento che gli ho spiegato la situazione famigliare. Ma martedì si ritorna al lavoro!” disse riuscendo a parlare nonostante il sorriso a sessantaquattro denti che mostrava ad entrambi.
“Sono molto felice per te!” disse Simone.
“Congratulazioni!” fece eco Giuseppe.
“Avete capito a che cosa servono quelle chiavi?” chiese Michele.
“No! Ma ci prenderemo un po’ di tempo per scoprirlo! La cosa importante è che abbiamo sistemato tutto quello che dovevamo sistemare e siamo sulla strada del ritorno!” disse Simone.
“Si! Però sono le dodici meno un quarto! Che facciamo in questo lasso di tempo che ci rimane?!” chiese Giuseppe.
“Beh! permettetemi, vista la vostra ospitalità, almeno di offrirvi il pranzo! Mi sembra il minimo!” disse Michele, “E poi conosco un ristorante dove si mangia un pesce fantastico! E so che non disdegnate!”
Simone e Giuseppe si guardarono leccandosi le labbra.
E così dopo un giretto nei Sassi, verso l’una, belli carichi dalla fame, si diressero verso il ristorante, ben felici di conoscerlo. Ed apprezzarlo.
Alle sedici e trenta lasciarono la macchina affittata e alle venti, causa un incidente in autostrada, Simone, Giuseppe e Michele varcarono nuovamente la soglia di casa loro.
A Simone quasi sembrò di sognare quando vide quell’atmosfera. Anna e Francesca stavano preparando la cena, dal momento che Maria li aveva appena riaccompagnati a casa; Giuseppe, Simone e Roberto, si stavano sfidando ai videogiochi in camera di Giuseppe. E sembravano amici da tanti anni. Si fermarono quando videro Simone che bussava alla porta entrando nella camera. Tutti e tre si alzarono abbracciando i loro genitori.
Simone, Giuseppe e Michele si piazzarono di fronte ai loro figli.
“Siamo orgogliosi del carattere con cui avete dimostrato di tenere alla vostra amicizia!” disse Simone.
“Ci fa piacere vedere come vi siete difesi a vicenda. Perché ci siamo ricordati di quando avevamo la vostra età!” confessò Giuseppe.
“Speriamo che anche a 900km di distanza, riusciate a mantenere questa amicizia!” concluse Michele.
Roberto guardò suo padre negli occhi. Non aveva forse compreso bene quello che aveva detto. O forse non voleva ancora crederci.
“Vuoi-Vuoi dire che ritorniamo a casa?” chiese trepidante Roberto.
“Reintegrato in servizio. Incomincio martedì. E oggi pomeriggio, a Bari, ho prenotato l’aereo per lunedì sera!” disse suo padre.
Per la prima volta, Simone e Giuseppe videro Roberto felice. Veramente, sinceramente e completamente felice. Dopo aver abbracciato suo padre, dopo aver esultato con i suoi amici, Roberto si buttò giù dalle scale a dare la bella notizia anche a Francesca, di cui, presto, si sentirono le urla di gioia.
Quelle vacanze continuarono meravigliosamente. I ragazzi si divertirono come dei pazzi mentre gli adulti rinsaldarono delle amicizie vecchie una vita.
Il lunedì sera arrivò presto. E arrivò anche il momento dei saluti. Francesca era riuscita a far ringiovanire sia Maria che Anna, che, commosse, la salutarono con un lungo abbraccio.
Simone, Michele e Giuseppe si salutarono, finalmente come dei vecchi amici, complice la spensieratezza di quelle nuove situazioni e nonostante i particolari solo preoccupanti che avevano scoperto a Pisticci.
Giuseppe, sorridendo salutò Francesca, poi si riproposero entrambi di risentirsi, e mentre Simone gli passava davanti, per salutare Francesca a sua volta, con la mano posta dietro la schiena porse a suo figlio un fazzoletto, gesto assolutamente incompreso da tutti tranne che dall’unica altra persona che conosceva quella storia. Una risata rimbombò per la casa, scatenando l’incomprensione degli altri ospiti. Era Maria.
“Papà, manca ancora un po’ alla partenza? Posso parlare un attimo in privato con Simone e Giuseppe?” chiese Roberto.
“Certo che puoi! Ma tra cinque minuti dobbiamo andare! Mi raccomando che non possiamo fare tardi!” confermò Michele.
I tre ragazzi salirono le scale e andarono in camera di Giuseppe.
“Dicci!” disse Giuseppe.
“Mi ha fatto veramente piacere conoscervi!” disse Roberto, un po’ imbarazzato.
“Ha fatto piacere anche a noi” risposero i due.
“Si ma a me ha fatto piacere in maniera particolare! Vi devo ringraziare per quello che avete fatto per me. Non soffermandovi alle apparenze. E dandomi fiducia! Soprattutto, visto che ancora non l’ho fatto, volevo ringraziarvi per avermi difeso ed aiutato l’altro giorno in piscina. E per aver compreso i miei sentimenti!” disse, tutto d’un fiato. E questa volta Giuseppe e Simone non seppero proprio cosa rispondere.
“Volevo farvi un regalo. Mio padre mi ha regalato, quasi cinque anni fa, questi tre ciondoli fatti con delle monete spagnole. Sono particolari perché sono bucate. E ormai sono fuoricorso da vent’anni. Mi ha detto che avrei dovuto condividerle con due persone che mi stavano a cuore. Con due veri amici. Vorrei regalarveli! Perché negli ultimi due anni, voi siete i primi che vi siete dimostrati tali!”
I due si guardarono disorientati. E non poterono fare altro che accettare il regalo di Roberto. Si strinsero in un ultimo abbraccio e poi ridiscesero nuovamente le scale, dove ormai li attendeva Michele.
Guardando i tre ragazzi, Michele si accorse subito del particolare dei ciondoli. E guardò suo figlio, orgoglioso. Roberto ricambiò il sorriso, poi abbassò lo sguardo timidamente. Michele, allora, osservò i suoi due amici e, mentre notò che i due avevano colto anche loro il particolare dei ciondoli, ricevette da entrambi risposta affermativa. Sorridendo di rimando.
Si salutarono nuovamente e Simone accompagnò al taxi Michele e i suoi figli. Che partirono in orario. Appena arrivati a casa, il tempo di rilassarsi un attimo e ebbero modo di vedersi, padre e figlio, nella camera di quest’ultimo.
“Grazie papà! Non immaginavo di poter stare così bene in questa vacanza forzata” disse sorridendogli.
“Ho visto che hai regalato a Simone e Giuseppe il ciondolo!” osservò Michele.
“Si! Sono stati, negli ultimi due anni, le persone che ho, più di ogni altro, potuto considerare miei amici! Dici che ho fatto la scelta giusta?” chiese Roberto.
Michele lo guardò. Forse per la prima volta vedendo in lui, finalmente, Roberto suo figlio, e non Roberto, il figlio della sua cara moglie scomparsa due anni fa per un tumore, con tutti gli annessi e i connessi di pensieri tristi al riguardo.
Michele lo guardò e gli rispose.
“Se hai fatto bene, solo tu puoi saperlo. Se hai fatto bene, solo il tempo lo dirà! Io so di aver fatto bene ad aver condiviso i tre ciondoli, alla tua stessa età, proprio con i loro padri!” disse.
“Grazie!” fu l’unica cosa che rispose Roberto. Perché anche lui, finalmente, in quegli ultimi tre giorni, aveva visto in lui suo padre, e non più il marito della sua compianta mamma.
Rimasto solo in camera, Roberto, mandò un sms ai suoi due amici.
“non immaginate neanche che cosa mi ha raccontato mio padre stasera sui ciondoli!” scrisse.
Solo per ricevere la stessa e identica risposta dai suoi due amici.
“la stessa cosa che mio padre ha raccontato a me, che li hanno condivisi anche loro alla nostra età. :-)!”
E, per la prima volta da due anni a quella parte, Michele sentì provenire dalla camera di Roberto una risata.


Nota:
Buongiorno a tutti!
Grazie per seguirla, recensirla, apprezzarla e leggerla!! in questi giorni sono parecchio impegnato, ma farò il possibile per continuare con questa regolarità!! 
Grazie ancora!
ciao

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Capitolo 8
*** Sono sempre i sogni a dare forma al mondo ***


SONO SEMPRE I SOGNI A DARE FORMA AL MONDO

Passarono quattro mesi, mentre tutto sembrava procedere nella più completa normalità. Michele era riuscito a vendere quasi tutte le proprietà e le auto. Liquidando un sacco di soldi. Ciascuna delle tre famiglie decise di usarli come meglio poteva. Ad esempio, la casa di Simone e Maria aveva bisogno di particolari riparazioni essendo vecchia di circa vent’anni. E a settembre quelle riparazioni sarebbero avvenute. Grazie a qualche altro intervento di Nicola, anche la situazione brevetti si regolarizzò, e a fine anno avrebbero ricevuto anche le rendite di quello.
Michele aveva fatto progressi anche con il lavoro sulla morte di Francesco. Il martedì stesso era tornato alla radura e riuscì a prendere dei reperti che collegarono inequivocabilmente la morte di Francesco, con la vecchia banda dei Tre Fratelli. Ma Marco, Cosimo e Amaraldo non vennero mai ritrovati. Né si fecero più sentire. Le ricerche continuarono, poi anche l’attenzione delle forze dell’ordine incominciò a diminuire, facendo rientrare il tutto nella normalità delle cose. Intanto la loro madre aveva visto ristabilire pienamente e pubblicamente la figura dei suoi figli.
D’altro canto anche Massimo e Giovanni, i due fratelli di Cosimo, si erano resi irreperibili. E Dorian con loro. Solamente Salvatore fu trovato, e venne interrogato diverse volte, nelle quali semplicemente confermò quello che c’era scritto nella lettera di Francesco e Emanuele, dimostrando di non sapere niente di più. D’altra parte Salvatore sapeva quelle cose perché era l’impiegato dell’ufficio brevetti che si era occupato della registrazione di tutti quei brevetti e in qualche caso aveva anche parlato per qualche minuto con Francesco o suo fratello. Poi un giorno era stato contattato da Cosimo che gli aveva fatto delle domande sulle chiavi. E questo era tutto quello che sapeva.
L’unico vero mistero erano le chiavi. Le tre strane chiavi che c’erano nella cassettina di sicurezza e l’altra chiave. Sia Michele che Simone che Giuseppe cercarono di scoprire qualcosa di più, senza però riuscirci. La madre di Francesco non ne sapeva nulla. Nei documenti personali di Francesco e Emanuele non c’era nulla. Insomma, sembravano essere sbucate dal nulla e portare al nulla.
Fino al giorno dopo Pasquetta. Quel 9 Aprile 2024.
Da quando era morto suo padre, Simone non aveva più tanto frequentato i suoi famigliari acquisiti. Praticamente c’era una certa incompatibilità di carattere fra loro, che li faceva propendere per la non frequentazione reciproca. Poi, colei che era stata la moglie di suo padre era scesa nuovamente a Napoli, raggiungendo i suoi due figli con le rispettive famiglie.
L’unica persona rimasta a Milano era la sua sorella acquisita. Si era fatta una famiglia e viveva con il marito ed il figlio a Milano.
Con Simone si vedevano più o meno una volta al mese. E andavano d’accordo. Tanto che in più di un’occasione Simone ammise di considerarla veramente come una sorella. Anche con Maria si trovava benissimo ed era sempre ben accetta a casa loro. E loro lo erano a casa sua. Tanto che in qualche occasione, da un anno a quella parte, per guadagnare qualcosa, Giuseppe era stato invitato a fare da baby-sitter al cuginetto, Davide, di sei anni. Quando capitava che i suoi genitori uscissero la sera da soli. Ma era comunque raro.
Uno di quelle sere era la sera del 9 Aprile. Il giorno dopo pasquetta.
Giuseppe arrivò a casa loro per le 19.
“Allora, Giuseppe: i soldi sono in cucina. Tra un oretta mangiate. La cena è in frigo. Devi solo riscaldarla nel microonde. Davide si è già fatto il bagno. Massimo alle nove e mezza deve essere a dormire, che domani c’è scuola. Noi torniamo per le undici. Poi lo zio ti accompagna a casa. Tutto chiaro?”
“Si zia! Non preoccuparti!” rispose Giuseppe.
“Non mi preoccupo!” disse sorridendogli.
Lei e suo marito, Giovanni, se ne uscirono. Erano a cena a casa di amici e non potevano fare più tardi.
Una volta chiusa la porta, Giuseppe si rilassò, fece giocare un po’ suo cugino, poi mangiarono la pasta e le verdure che la zia gli aveva preparato; verso le nove, Giuseppe mandò Davide in bagno a lavarsi i denti e alle nove e venticinque, come da istruzioni della zia, Davide era a letto.
Giuseppe passò un’altra oretta a studiare mentre cercava di ignorare i capricci del bambino, che non voleva dormire. Anche se poi, in realtà, dopo una mezz’oretta non sentì più nulla. Allora si riposò un attimo accendendo la televisione.
L’ultima mezz’ora la passò in quella che era la missione assegnatagli da suo padre, Michele e Giuseppe.
Verso l’inizio di febbraio, tutti e tre avevano chiesto ai loro figli se se la sentivano di dargli una mano nelle indagini relative alla decifrazione del significato delle quattro chiavi che avevano trovato nella cassettina di sicurezza. I quattro giovani accettarono più che volentieri. Però, visto che i Tre Fratelli non si trovavano, Michele ritenne che Matera fosse un po’ troppo pericolosa per far fare domande del genere ai suoi figli. Allora loro si occuparono delle ricerche in Internet, mentre Giuseppe e Simone si divertirono con le domande a persone di ogni tipo. Michele inviò un calco metallico delle chiavi a Simone e quest’ultimo ne diede il pieno uso a suo figlio. In quell’ultima mezz’ora, Giuseppe si concentrò a cercare in Internet qualcuno che avesse potuto produrre le tre chiavi strane. Ormai da una decina di giorni sia lui che Giuseppe avevano tralasciato le indagini sulla chiave “normale”, ritenendo che, essendo “normale”, non costituisse alcun indizio significativo per la ben più interessante indagine sulle chiavi “speciali”.
Alle undici e dieci Mina con Giovanni rientrarono a casa.
“Ciao zia! Ciao zio! Come è andata?” chiese realmente interessato, mentre riponeva nello zaino il suo portatile.
“Una pizza! Hanno parlato solo del loro lavoro, della loro famiglia, della loro casa, delle loro vacanze! neanche una domanda su noi! ci avessero lasciato almeno il tempo di parlare! Devo farmi gli impacchi alle orecchie!” rispose. Una risata aleggiò nell’aria per qualche secondo. Poi Giuseppe prese i soldi dal ripiano della cucina e salutò i suoi zii, dirigendosi verso la porta di ingresso.
“Grazie della disponibilità!” disse Mina.
“Di niente zia!” rispose Giuseppe.
“Ah! Allora restituiscimi i 30€ che ti ho dato!” esclamò ridendo sua zia.
Giuseppe si avvicinò all’appendiabiti e prese il giubbotto. Mentre se lo infilava osservò davanti a sé l’appendino. E all’uncino posto al disotto era attaccata una chiave. Per poco non collassò. Quella non era una chiave. Era LA chiave. Ma che cosa ci faceva in possesso della zia? Decise di chiederglielo immediatamente.
“Zia? Che cosa apre la chiave che c’è nell’entrata? Quella attaccata all’uncino dell’appendiabiti?!” chiese ancora un po’ stordito.
“È quella della casa di Policoro, perché?!” rispose Mina.
Giuseppe non ebbe più il controllo della lingua. E gli scappò una parolaccia. Una esclamazione, ma pur sempre di parolaccia si trattava. Per tutta risposta sentì arrivargli un coppino. Era Giovanni.
“Chi è che ti insegna queste cose? Non penso a casa!” disse. Dissimulando rabbia e scandalo per quello che aveva detto.
Giuseppe una cosa del genere non l’avrebbe mai fatta normalmente. E in quell’occasione sapeva di essersela vista brutta, perché se quella chiave l’avesse vista a casa sua e avesse detto quella cosa davanti a suo padre e sua madre, piuttosto che davanti alla zia e allo zio, sarebbe stata la fine.
“Scusa!” rispose.
La zia l’accompagnò alla porta.
“Pensa che quando aveva la tua stessa età, tuo padre la teneva come porta chiavi, quasi come un portafortuna. Poi, verso i diciassette anni, io me ne ricordo appena, non volle più saperne di questa chiave, della casa e di Policoro. Non siamo mai riusciti a capirne il motivo! Poi, dopo un paio di anni, un giorno, me la regalò” spiegò Mina.
Ci pensò un secondo su. Poi prese la chiave e gliela diede a suo nipote.
“Tieni!” disse “Speriamo che faccia meglio a te che a tuo padre!”
“Grazie!” e la intascò senza battere ciglio. Poi ritornò su quel discorso “Ma per caso sai per quale motivo ha smesso di interessarsi di Policoro?”.
“No!” rispose Mina. “So solo che dopo il 2000, mi sembra, Simone non ci ritornò più!”
“Ho capito!” rispose Giuseppe e, assieme allo zio, uscì per tornarsene a casa.
Mentre erano in macchina, Giuseppe continuava a osservare quella chiave. Non vedeva l’ora di arrivare a casa per controllarne l’effettiva somiglianza. A lui sembrava proprio uguale a quella.
Mezz’ora dopo era a casa. I suoi stavano già dormendo. Lui era arrivato, e subito si era fiondato in camera sua. Si era spogliato preparandosi per la notte. Tenendo sempre sott’occhio la chiave che aveva lasciato sul letto e la scatoletta con i calchi delle quattro chiavi che era posizionata sulla sua scrivania. Era quasi come se volesse ritardare a tutti i costi quel momento, come se volesse lasciar crescere l’emozione. Una volta sdraiatosi sul letto rimase qualche altro secondo a osservare la chiave che gli aveva appena regalato la zia. Poi si decise. Si alzò e corse verso la scrivania. Accese la lampada posta su di essa e aprì la scatola, prese in mano il modello della chiave e la chiave di sua zia. Li confrontò.
Erano semplicemente identiche. Un silenzioso urlo di esultanza si alzò in quella stanza. Era incredibile quanto potesse essere felice per quello che era accaduto. Saltava e ballava da solo, quando gli cadde la chiave della zia. Si chinò per raccoglierla. E quando si rialzò, a saltare fu la scrivania. Una capocciata tremenda rimbombò per tutta la stanza.
Seguita da un “quasi” silenzioso ululato. Che emetteva mentre si era rialzato e gettato sul letto.
Stette per qualche minuto a contare le stelle che quel colpo gli aveva fatto vedere, quando si ricordò di non essersi lavato i denti, quindi, appena si fu ripreso, si alzò e cercando di non fare troppo rumore, uscì dalla propria camera, a piedi scalzi. Era quasi mezzanotte e non si vedeva proprio niente. Però, per non svegliare i suoi, pensò di non accendere neanche la luce del bagno. Uscì dalla porta del bagno e con passi felpati si avvicinò alla porta della sua camera.
Giuseppe si stupì di come sua mamma non aveva ancora cercato di capire chi fosse a fare tutto quel rumore. Tra la botta, il lamento, i passi, nessuno si era ancora preoccupato? Allora a preoccuparsi fu lui. Si avvicinò alla camera dei suoi. Di solito suo padre russava. Ma non sentì nulla. Non solo non sentì suo padre russare. Non sentiva proprio niente.
Aprì lentamente la porta. Sentì uno strano odore. Allora, senza preoccuparsi di dover svegliare i suoi genitori, accese la luce. E quello che vide lo spaventò a morte. I suoi genitori, su un letto ricoperto di sangue, ormai senza vita.
Più che urlare, in quel momento provò una paura terribile. Si voltò e corse immediatamente giù dalle scale. Quando vide una persona in ginocchio, in cucina. Provò ad avvicinarsi quando riconobbe in quella persona Giuseppe e si accorse che davanti a lui c’era un uomo in piedi che gli puntava una pistola in fronte. Quell’uomo era Marco. L’avrebbe riconosciuto in una folla, dopo aver visto la foto che gli era stata scattata nel 2000. E premeva il grilletto. Anche in quel caso non ebbe neanche la forza di urlare.
Sentì provenire dalla cantina una voce femminile, che urlando, lo chiamava. Era inequivocabilmente la voce di Francesca. Corse giù per ritrovarla, lei e Roberto, in una specie di gabbia. Erano emaciati e si lamentavano in continuazione. In quel momento sentì una mano che da dietro gli afferrava la spalla. Si voltò e vide la canna di una pistola che puntava dritto verso i suoi occhi. Era ancora Marco.
“Cosa vuoi da me?!” fu l’unica cosa che riuscì a dire.
“Farti un favore!” rispose.
L’ultima cosa che vide fu il grilletto che veniva premuto.
L’ultima cosa che sentì fu, ancora una volta, Francesca che lo chiamava. Quella voce celestiale atenuò, fino ad annullarlo, il rumore dello sparo.
A quel punto comparve davanti a se la figura di Francesca. In tutto il suo splendore. Che lo chiamava ancora.
“Giuseppe!”
“Giuseppe!”
Poi Giuseppe vide Francesca, che lentamente si trasformava. Si trasformava in una figura diversa. Si trasformava… si trasformava.
“Zia Mina!?”
“Ehi! Su Sveglia!!” disse sua zia.
“Se ti becco un’altra volta a dormire durante l’orario di lavoro, ti licenzio! Se ti becco un’altra volta addormentarti mentre studi, avviso tuo padre e ci pensa lui! E per favore, quando sei in casa, non guardarti film dell’orrore. O almeno non addormentarti mentre lo fai!” continuò sorridendogli.
Giuseppe, solo allora, si rese conto del fatto che si trattava di un sogno. E che sogno. Aveva acceso la televisione ed era crollato, mentre la guardava.
“Scusa zia! non succederà più!” rispose Giuseppe.
“Eh! Me lo auguro! Dai, vatti a mettere il giubbotto che tra due minuti ti riaccompagno!” disse suo zio, che lo guardava sorridendo.
Giuseppe si stropicciò gli occhi, poi si alzò e mise via il libro. Poi prese i soldi in cucina e andò all’appendiabiti a prendere il giubbotto. E sull’uncino dell’appendiabiti non c’era nessuna chiave. Tirò un sospiro di sollievo. Almeno quell’incubo non poteva neanche incominciare, pensò, dandosi, immediatamente dopo, del cretino per aver potuto pensare anche solo lontanamente una cosa del genere.
Salutò la zia e dopo un quarto d’ora circa, suo zio lo lasciò a casa. Dal giardino vide che la luce della sua camera era accesa.
Entrò, assicurandosi di chiudere stabilmente la porta di casa dietro di sé. E poi si diresse immediatamente nella camera dei genitori. Bussò, non ottenendo alcuna risposta. Allora venne preso dal panico. Ancora sconvolto per il sogno di prima, spalancò la porta e accese la luce.
“Ma che ti sei impazzito?!” rispose sua mamma, mentre era a letto e provava a leggere un libro.
“Scusa mamma! Non volevo!” rispose.
Poi Maria vide l’espressione di suo figlio.
“Ma è successo qualcosa dalla zia!?” chiese.
“No! Non preoccuparti! Sono solo un po’ nervoso per un compito di domani! Buonanotte!” rispose Giuseppe.
E richiuse la porta della camera da letto. Però effettivamente mancava suo padre in quella stanza.
Fece un respiro. –Calma Giuseppe. Cerca di calmarti e di riprendere il controllo della situazione. È stato solo un brutto sogno- fece un altro sospiro, poi si diresse verso la sua camera, dalla cui porta spuntava una luce. L’aprì e all’interno trovò l’unica persona che razionalmente era possibile trovare. Simone che seduto sul suo letto stava leggendo ancora, per l’ennesima volta, la copia della lettera di Francesco ed Emanuele, riposta in pianta stabile da quattro mesi circa sulla scrivania di suo figlio.
“Ciao Papà!” disse sorridendo.
“Ciao! Scusa! Esco subito?!” disse Simone.
“No stai che ti devo parlare!” rispose Giuseppe.
Simone lo osservò e, come Maria, comprese che c’era qualcosa che non andava.
“Niente di particolare! Quando ero dalla zia ho fatto un sogno bruttissimo e sono un po’ agitato!”
“Ah! Ma tu quando sei dalla zia Mina lavori o dormi?!”
“Lascia perdere che mi ha addirittura svegliato lei!”
“Ah! E ti sei fatto sgamare? Sicuro domani mattina mi telefona!” disse Simone alzandosi e avvicinandosi alla porta.
“No! Aspetta che non era questo che ti volevo dire!”
Simone si fermò. E ritornò indietro.
“Anche grazie al sogno che ho fatto, mentre stavamo venendo qui, prima, ho avuto un’idea!” disse Giuseppe. Il fatto che si avvicinasse alla scrivania e prendesse la scatola in cui c’era una copia di tutto quello trovato nella cassettina di sicurezza, fu determinante per destare tutti i sensi di Simone e convincerlo che valesse pienamente la pena di ascoltare Giuseppe.
“Ah! E che idea?!”
“È un ragionamento sottile, ma secondo me quadra. Ti va di ascoltarmi?!”
“A-ah!” fu l’unico verso che uscì a un Simone con l’attenzione a mille.
“Allora: non avendo vissuto quegli avvenimenti, mi baso su quello che tu e Giuseppe mi avete raccontato! Prima di tutto, la lettera che avete trovato nella cassettina di sicurezza… Parla del fatto che questa chiave, Francesco e Emanuele, l’avevano restituita. Evidentemente si riferisce alla chiave “normale”, per così dire, altrimenti avrebbero parlato di chiavi e non di una sola chiave. Allora ho pensato che se la lettera fosse finita nelle mani giuste, cioè ai veri eredi della cassettina di sicurezza, quindi ai giusti destinatari della lettera, allora la chiave sarebbe stata restituita a uno dei tre. Se le cose stanno così la chiave o è di Michele, o è di Giuseppe, o è tua. Fila fino a qui il discorso?”
“Eccome se fila!! Vai avanti, vai!!” rispose Simone mentre quello stesso indimenticato mal di testa si rimpossessava di lui.
“Allora ho pensato: in base alle cose che so io, quale chiave di uno di voi tre è passata per le loro mani?! Poi mi è venuto in mente che il 27 Giugno 2000, stando a quello che mi avete raccontato voi, Francesco e Emanuele…” ma non fece in tempo a continuare. Perché suo padre gli si gettò al collo. Ridendo e urlando per la gioia.
“Ma certo! Che scemo che sono! Il 27 giugno 2000! Come ho fatto a non pensarci prima. Questa era la prova del nove, per essere sicuri di concedere l’uso delle tre chiavi alle persone giuste!” disse, tra una risata e l’altra. E Giuseppe, pur comprendendo che il padre aveva capito quello che voleva dire, non capì quest’altro particolare.
“Massì! Come stavi per dire tu, Francesco e Emanuele sono state le prime persone che sono tornate a casa mia dopo l’attacco congiunto ai danni di Dorian, Salvatore, Massimo e Giovanni. Ed io avevo lasciato una copia delle chiavi, che il giorno prima avevo preso da casa mia, proprio a loro due, perché potessero aprirla ed entrare in casa. Mi ero completamente dimenticato di averlo fatto, e di riprenderle. Questo era un particolare che solo io, Giuseppe e Michele, delle persone in vita in questo momento, possiamo conoscere. Solo noi tre potevamo capire la chiave di cosa ci avevano restituito! Anzi, solo io e Giuseppe, perché Michele non sapeva il particolare della chiave. E Giuseppe, praticamente non se lo sarebbe mai ricordato, come me d’altra parte. Non ne abbiamo mai riparlato insieme, infatti quello è un particolare che ti ho raccontato quando ne abbiamo parlato da soli quest’inverno!” concluse Simone. Poi guardò suo figlio.
“Grazie per l’eccezionale contributo che hai dato nella comprensione dell’intera faccenda! Devo ammettere che il ragionamento è stato veramente sottile. Ma molto logico!” disse.
“Prego! Però è solamente un ragionamento teorico. Non so se le chiavi di Policoro sono effettivamente come queste!” puntualizzò Giuseppe.
“Nono! Sono proprio queste!” rispose suo padre.
“E come facciamo a controllare!?”
“Semplice!” rispose Simone. “Vieni!” e corse con Giuseppe al piano di sotto. Lì, nel portacenere che serviva da portachiavi, posto sul muretto nell’entrata della casa, Simone trovò le chiavi della macchina. Giuseppe conosceva benissimo quel mazzo: era composto da un portachiavi, che era una chiavetta usb, dalla chiave della macchina, dalla chiavetta della macchinetta del caffè del lavoro, e da un’altra chiave, che aveva sempre pensato fosse la chiave di qualcosa che suo padre aveva al lavoro.
Immediatamente confrontarono il calco della chiave misteriosa con quella.
“Visto? Corrispondono!” rispose un raggiante Simone.
Giuseppe rimase interdetto.
“Scusa! Ma quella chiave me la ricordo da ché ho una memoria. Mi vuoi dire che tu hai sempre portato con te la chiave della casa di Policoro?!” chiese esterrefatto.
Simone guardò suo figlio, sorridendogli.
“In qualche caso, in passato, o anche ultimamente, può essere stata la paura a non farmi scendere a Policoro. In certi casi è stato il ribrezzo per quello che mi è successo. Quasi sempre la voglia di non ripensare a quelle cose. Ma mai, MAI, l’odio per Policoro, quella casa o i bei pensieri ad essa legati, che comunque sono la maggioranza. Policoro per me ha sempre rappresentato il pensiero felice per eccellenza. E neanche la mamma può immaginare quanto abbia sofferto in questi anni a non poter rivedere quel paese. Adesso è Policoro che sta tornando da me!” disse sorridendo. poi però il suo volto si adombrò. “Però non so se il risultato sarà molto piacevole o molto doloroso”, concluse, mentre risalivano le scale.
E dopo essersi augurati la buonanotte, rientrarono ciascuno nella propria camera a dormire.
Il giorno dopo, appena arrivato a scuola, venne raggiunto da un coppino vero, non come quello che aveva sognato la sera prima. Era del suo ex professore di matematica, che gli si avvicinò e gli sussurrò un “complimenti per l’intuizione!” che lo rassicurò ancora di più.
Il pomeriggio ritornando a casa, ed essendo mercoledì, si mise a studiare come al solito, anche se, effettivamente, fu più il tempo passato a scrivere degli sms con Roberto e Francesca, che a studiare. Cioè, per dirla proprio tutta, i messaggi li scambiava con Francesca; che poi lei, alcuni, ma solo alcuni, li leggesse anche a Roberto quello era un altro discorso.
Fu così che, in un attimo, Simone e Giuseppe predisposero le cose per partire giovedì 25 Aprile e ritornare Mercoledì 1 Maggio 2024. Motivo: viaggio di affari a Matera coadiuvato da un amico. Ed effettivamente una mezza giornata sarebbe sicuramente stata impiegata per una riunione con quelli della commessa di Matera, che avrebbero di certo cercato qualche scusa, ingiustificata, per pagargli qualche euro in meno i computer che gli avevano acquistato.
In realtà si sarebbero ritrovati con Michele per procedere agli ultimi rogiti delle case e dei terreni e con l’assemblea dei soci dell’azienda che oramai stavano per vendere all’azienda di Simone, che avrebbe così avuto anche una base di appoggio a Matera.
Il giorno della partenza arrivò praticamente immediato. Così, giovedì 25 Aprile 2024, alle 15.30, furono tra i primi passeggeri a volare sulla rotta Bergamo-Pisticci, appena inaugurata. All’aeroporto di Pisticci, ad attenderli, c’era Michele. Che fu felice di rivederli.
Praticamente non passarono neanche da Matera a lasciare la roba, ma andarono direttamente a Policoro.
Per Simone, per la prima volta, dopo 24 anni.
E non era cambiata di una virgola. Neanche un po’.
L’albero di nespole era rigoglioso, ancora i fili per stendere fuori di casa, c’erano.
Le scale non erano cambiate e neanche lo spazio aperto davanti casa sua. A queste cose Giuseppe non ci pensò, ma Simone si. d’altra parte Giuseppe ci andava tutti gli anni, nella via dietro, per Natale, per rivedere i suoi genitori e sua sorella. Simone no.
Si avvicinarono alla porta di casa di Simone.
“Chissà che cosa troveremo!” disse Giuseppe, seriamente preoccupato, osservando i suoi due amici. Che ricambiarono lo sguardo.
“E cosa vuoi che ci troviamo!? Polvere! Tanta polvere!” rispose Simone, scatenando la risata di Michele e l’imbarazzo di Giuseppe.
La chiave, che era quella originale contenuta nella cassettina di sicurezza, entrava. E la serratura girava anche. Ad ulteriore conferma di quello che sapevano già.
Con un emozione indescrivibile Simone aprì l’anta della porta. Mentre un raggio di luce inondava l’oscurità di quella casa.
Entrarono prima Simone, poi Michele ed infine Giuseppe. A suggellamento di quei ventiquattro anni. Di astinenza da quella casa e da tutto ciò che quella casa rappresentava per Simone. Era finita. Erano arrivati alla destinazione, al traguardo. Almeno, questo era un discorso che valeva per Giuseppe e Michele. Per Simone no! Simone non era arrivato al traguardo: Simone era arrivato a casa.
Fu Simone il primo ad entrare in quella casa. Immediatamente di fronte a sé il tavolo, alla sua sinistra il frigorifero. Alla sua destra la cucina. Nel muro di fronte a loro, tra le due porte delle camere, una cassettiera per tenerci tutti gli oggetti necessari della cucina.
“Incredibile” esclamò Michele “tutto è come 24 anni fa”.
Simone si fermò proprio al centro della cucina, osservando tutto quello che era intorno a lui. Era vero; quello che aveva detto Michele era assolutamente e definitivamente vero. Anche troppo.
“Scusate, ma non vi sembra strano?!” chiese Simone agli altri due.
“La polvere!” rispose Giuseppe.
“Appunto!” continuò Simone “Questa casa è troppo pulita. Troppo vissuta. Come se fino a qualche giorno fa ci avessero vissuto. Ma è impossibile. L’ultima persona che ci è venuta è stato mio padre, e ormai sono quasi passati due anni. Ci dovrebbe essere come minimo il doppio della polvere. E una puzza di chiuso che ci voleva un mese per farla uscire fuori, quando non c’eravamo. Questa casa ha sempre avuto grossi problemi di umidità. Qui sembra che siano stati fatti dei lavori sostanziali per sistemare il problema, ma non ne ho mai sentito parlare!” concluse.
“Scusate!” esordì nuovamente Michele “ma se la lettera che abbiamo trovato nella cassettina di sicurezza è datata 1 Dicembre 2023, non può essere che Francesco e Emanuele avessero usato questa casa fino a quel momento?”
“Effettivamente le cose possono essere andate in questo modo” rispose Simone “ma rimane comunque il fatto che non sappiamo chi ha pulito questa casa e come mai!”
“Simone! Vieni un attimo!” chiamò Giuseppe dalla camera da letto.
Simone e Michele andarono immediatamente. Appena entrati videro Giuseppe con in mano una busta.
“L’ho trovata sul comodino. C’è scritto ‘per Simone’, quindi presumo che sia rivolta direttamente e solo a te!”
Simone la prese dalle mani di Giuseppe e la osservò un attimo. Il destinatario era scritto a mano. E la scrittura era inconfondibile. L’avrebbe riconosciuta tra tutte. E infatti, gli occhi gli si inumidirono immediatamente.
“Giuseppe, Michele, potete per favore uscire un attimo?!” chiese.
“Ma che cosa è successo!??!” chiesero questi ultimi preoccupatissimi.
“Questa lettera me l’ha scritta mio padre” fu l’unica cosa che poté aggiungere Simone. Prima che entrambi, rispettosamente, uscirono dalla camera da letto, chiudendo la porta dietro di loro.
La commozione fece immediatamente posto all’emozione, quasi alla paura di aprire e leggere quella lettera. Lentamente aprì la busta. Che, come il foglio al suo interno, dimostrava tutta l’età relativa alla data scritta nell’intestazione della lettera.
La lettera era datata 11 Aprile 2021. E Simone capì che non era un caso che la data fosse proprio quella. Si ricordava del fatto che quella fu’ l’ultima volta che suo padre riuscì ad andare a Policoro. anche se ci andò da solo, da giugno, ci rimase, con la moglie, fino alla fine dell’anno. Già incominciava a sentire i sintomi della malattia che l’avrebbe visto mancare l’anno successivo, e gli era stato consigliato di passare un po’ di tempo al mare. Il clima mediterraneo di quella zona permetteva ai polmoni di reagire meglio al male che li stava lentamente consumando.
Ma la cosa più significativa, quella che gli fece versare le prime lacrime, non appena incominciò a leggere quella lettera, fu che gli venne in mente che quella data era ancora più significativa per la sua vita. Anche se doveva andare indietro ormai di poco più di 38 anni.

"Caro Simone,
Oggi sono passati esattamente 35 anni dalla morte di tua mamma. Abbiamo dovuto passarne di cose insieme. E la gioia più grande che ho potuto provare è stata quella di crescerti bene. non sono io a dirlo, sei tu a dimostrarlo. In questi ultimi anni, poi, mi sono accorto del fatto che anche da giovane ti sei sempre distinto per il tuo senso di giustizia, per il tuo attaccamento agli amici e per la limpidezza dei tuoi sentimenti. Sono orgoglioso di te, e sono certo del fatto che anche tua mamma lo sarebbe stata. In questi ultimi anni ho avuto occasione di conoscere anche alcuni dei tuoi amici. Francesco e Emanuele hanno saputo guadagnarsi il mio rispetto e la mia stima, esattamente come tu sei riuscito a fare con loro.
Più di ogni altra cosa, stranamente, perché pensavo di conoscerti, Francesco e Emanuele mi hanno permesso di conoscerti molto meglio di prima. E di apprezzarti molto di più. Non immaginavo di veder crescere la stima che nutro nei tuoi confronti più di quanto abbia fatto prima, ma è stato così.
Ieri sera, sono stati ospiti in questa casa. E parlavamo di te. Anche se con moltissima riluttanza, mi hanno raccontato la tua storia legata a questa casa. E mi hanno spiegato perché tu non vuoi o non riesci più a ritornare a Policoro.
Invece di deludermi, una cosa del genere, mi ha fatto essere veramente orgoglioso di te. Sapere quello che hai fatto, ciò che avete passato, come sei stato vicino ai tuoi amici, come li hai aiutati, come sei riuscito a proteggere la persona a cui volevi bene, e che evidentemente amavi, vista la tua famiglia, e il modo in cui state vivendo ed educando tuo figlio.
Come sai, questa casa è stata testimone di eventi di ogni genere, non solo per quanto riguarda te, ma anche per quanto mi riguarda. Cose belle, bellissime. E cose brutte. Bruttissime.
Io ho preferito non lasciarla. Ho preferito viverla e affrontare questi problemi.
A volte siamo portati a pensare che la nostra vita sia semplicemente composta da vittorie o sconfitte.
Se tu, invece, vuoi viverla veramente la vita, devi imparare a conservare le vittorie come bei ricordi, e le sconfitte come delle lezioni. Perché se ti fai vincere dai cattivi ricordi, non riuscirai mai a superarli. Questa è stata l’impressione che ho avuto dal racconto di Francesco e Emanuele.
Ma se leggi questa lettera, significa che stai affrontando i tuoi brutti ricordi e che sei ritornato in questa casa. È incredibile, come possa, a distanza di anni, quasi sentire in questa casa te ridere e scherzare, noi due litigare perché, per l’ennesima volta avevamo perso contro lo zio Vito e il nonno a carte. O tornare a casa dal mare e vedere tutto pronto perché la nonna aveva fatto tutto. E sono certo che, se starai leggendo questa lettera in questa casa, anche tu potrai sentire le voci della casa, non fantasmi. Solo ricordi. Belli. O al massimo lezioni di vita. Che hai imparato e che ti hanno fatto crescere. Sotto questo aspetto, Policoro, per te, esattamente come Pisticci per me, ha rappresentato la più grande scuola di vita che possa esistere.
E sono orgoglioso che un uomo come te, come ora sei diventato, con la tua famiglia, tuo figlio, tua moglie, il tuo lavoro ed i tuoi amici, possa ancora emozionarsi quando entra in questa casa.
Con affetto
                                               Lino"
 
Dalla cucina, avvicinandosi lentamente alla porta, Giuseppe e Michele potevano sentire il loro amico, dalla parte opposta piangere. Singhiozzare, quasi silenziosamente ma era possibile sentirlo. Quando sentirono Simone alzarsi dal letto, una ventina di minuti dopo, e andare in bagno, si risedettero al tavolo per non essere scoperti. Se non che il Simone che videro uscire da quella camera, dopo qualche altro minuto, non era stravolto. Non era triste. Era decisamente un’altra persona. Proprio un’altra persona.
Entrò in cucina e porse la lettera a loro due.
“Leggetela. Quando avete finito ne parliamo!” disse, mentre si dirigeva fuori e rimaneva seduto alla panchina, a godersi l’aria calda e primaverile del tardo pomeriggio. Doveva pensare. Anche se le decisioni le aveva già prese. Tutte.
Giuseppe si affacciò alla porta.
“Occhio al tonno!” gli disse sorridendo.
Simone ricambiò il sorriso. E lo seguì ritornando in casa.
Giuseppe aveva notato che c’era qualcosa di diverso. Che sicuramente Simone stava pensando a qualcosa. L’ultima volta che gli aveva visto quell’espressione sul viso era stata quando, ventiquattro anni prima, Simone aveva escogitato il piano per porre fine alla banda dei Tre Fratelli e stava per andarsene, fingendo di scomparire dalla scena. Quanto aveva sofferto quella volta e come era stato felice di aver visto tutte le vicende seguenti.
“Simone! Prima abbiamo sentito piangere in camera da letto. Beh! Adesso capiamo anche il motivo!” disse Michele.
“Quello che è scritto in questa lettera, mi ha fatto capire che l’evento più importante della mia vita, dopo aver conosciuto Maria, quella cosa che mi ha modellato, più di qualunque altra, e che non ho potuto, o non sono riuscito, a raccontare a mio padre, quando è stata scoperta, l’ha riempito di orgoglio nei nostri confronti. Questa casa, che per me ha rappresentato la mia scuola di vita, non meritava di essere dimenticata dal sottoscritto per così tanto tempo. È ora di riaprirla alla mia famiglia! È ora di tornare a casa! Tutti!” disse, con quella strana luce negli occhi.
“E Marco e i Tre Fratelli?” chiese Giuseppe, tanto per riportarlo al presente.
“Beh! Contrariamente a quello che volevamo, sono riusciti a convincermi a stare lontano da Policoro per 24 anni! E nessuno ci più riuscire per un anno di più. Vogliamo tutti arrivare alla fine di questa storia, che sta aprendo nuovi orizzonti, ma che potrebbe vederci quasi tutti protagonisti nei prossimi mesi! Ci state?” chiese Simone.
“Io e Giuseppe la pensiamo nello stesso modo. Non vedevamo l’ora di avere, finalmente, tra noi, il vecchio Simone! Noi ci stiamo!” disse Michele, raccogliendo il sorriso di conferma anche di Giuseppe.
“E penso che Policoro potrebbe rappresentare una buona scuola di vita anche per i nostri figli! Come abbiamo fatto finora, ragionevolmente, possiamo coinvolgere anche loro. Cosa ne dite?”
“Beh! in parte l’abbiamo già fatto. Non ci sono problemi per me!” disse Giuseppe.
“Neanche per me!” disse Michele.
“Bene!” rispose Simone. Poi si fermò, sorridendo e osservandoli.
Passò qualche secondo. Poi Giuseppe, preoccupato, riprese il discorso.
“Si! ma le tre chiavi speciali?!” chiese, ritornando alla pratica della mente, tralasciando per un attimo i massimi sistemi.
“Eh! Le tre chiavi speciali!” rispose Simone. E tirò fuori un bigliettino.
“Questo era nella busta. Evidentemente mio padre si fidava ciecamente di Francesco e Emanuele, al punto di permettergli di inserire un messaggio nella busta prima di chiuderla. Guardate!”.
 
"Quello che scoprirete usando le tre chiavi vi cambierà completamente al vita. Quando deciderete di farlo, spostate il comodino su cui avete trovato la lettera e usate ciascuno la propria chiave. Quella con la propria iniziale.
Siamo felici che siate veramente tornati.
                                               Emanuele e Francesco"
 
Giuseppe e Michele guardarono Simone esterrefatti.
“Ho già spostato il comodino. Venite a vedere!” esclamò Simone, già in cammino verso la camera da letto. Gli altri due lo seguirono immediatamente.
Entrati in camera quello che videro li lasciò di stucco.
Una piastra metallica, dietro il comodino, fuoriusciva di qualche millimetro dal muro. Al centro, disposte come ai vertici di un triangolo equilatero, ad una ventina di centimetri l’una dalle altre, c’erano tre serrature. Ciascuna era caratterizzata da un cerchietto di un colore diverso: viola, arancione e verde. Nella parte superiore del dispositivo, era presente una targhetta. Riportava la scritta “Le chiavi come Uno per tutti, tutti per uno”.
“Pure la citazione dei Tre Moschettieri, ci voleva?!” disse, anche alquanto divertito, Michele.
“Ci voleva! Evidentemente ci voleva!” rispose Simone. “Avete notato che i colori delle serrature e quelle delle chiavi non corrispondono?” disse.
“Beh! Ma ci vogliono 5 combinazioni, al massimo, per arrivare alla successiva giusta!” continuò Giuseppe.
“Si ma Francesco e Emanuele erano furbi. Veramente furbi. Credo che dovremmo pensarci bene e arrivare alla soluzione giusta al primo colpo, sennò sarà tutto perduto!” rispose Simone.
Contemporaneamente capirono, sulla base delle lettere stampate sulle chiavi, che a Giuseppe spettava la chiave Gialla, a Michele quella Blu e a Simone la Rossa.
“Ma certo!” esclamò Michele ad un certo punto. “L’anno scorso, Francesca mi disse che mentre eravamo in vacanza e c’era anche Francesco, questo le fece un discorso strano sui colori, aspetta… come li ha chiamati… ah! I colori complementari! Francesca rimase colpita, da quel fatto, perché Francesco le disse che avrebbe dovuto riferirmelo e non scordarlo mai. Lei ovviamente mi disse tutto. E forse ho capito per quale motivo!”
“Evidentemente, la chiave di un colore deve entrare nella serratura del colore che è a lui complementare. Cioè di quello che nasce dalla composizione degli altri colori delle chiavi” spiegò Giuseppe.
“Quindi, io, che ho la chiave rossa, devo infilarla nella serratura verde, tu, Michele in quella arancione e Giuseppe, tu devi infilarla in quella viola. È così?” chiese Simone.
“Esattamente!” confermò Giuseppe.
“Si ma che cosa centra la frase dei Tre Moschettieri?” chiese Michele.
“A giudicare dal fatto che le serrature sono, al momento, le uniche cose che ci sono dietro il comodino, direi che potremmo iniziare da queste e accontentarci di risolvere un enigma alla volta!” rispose Giuseppe “che dite ci proviamo?”
I tre avvicinarono le chiavi alla loro rispettiva serratura.
Le infilarono. Fecero forza in senso orario e non accadde nulla. Provarono in senso anti orario e girarono. Appena completarono un giro, le serrature si illuminarono del loro colore. Viola, verde e arancione. Una luce rossa si accese al centro della piastra. Contemporaneamente una luce comparve sulle chiavi e illuminò per pochi decimi di secondo la faccia dell’impugnatura della chiave su cui c’era il loro pollice. La luce al centro divenne gialla. E sotto di essa si aprì una piccola fessurina. Di circa otto millimetri di altezza e due di larghezza.
“Chissà che cos’è!?” chiese Simone.
“Beh! direi che per il momento ci siamo comportati bene! Una luce rossa significa “non si passa”, una gialla è quasi verde!” continuò sorridendo Giuseppe.
“Già ma adesso, secondo me, manca l’ultimo enigma per far scattare il verde!” continuò Michele “Quello sui tre moschettieri!”
“Hai ragione! ma so chi ci può aiutare!” disse Giuseppe.
Prese il cellulare e, inserendo contemporaneamente il vivavoce, compose un numero.
“Ciao Papà!” si sentì dall’altra parte dell’apparecchio.
“Ciao Simone! Ascolta, siamo qui a casa di Simone e stanno succedendo delle cose strane. Però abbiamo bisogno di una mano. Ti ricordi il libro che ti ha regalato l’estate scorsa Emanuele?”
“ ‘I Tre Moschettieri’, di Alexandre Dumas. Perché?”
“Perché ci manca un particolare. Dove abbiamo usato le tre chiavi, c’è una targhetta, che dice “Le chiavi come Uno per tutti, tutti per uno”. Noi infatti abbiamo usato le tre chiavi. Ma ci siamo bloccati. Ti sembra che abbiamo fatto bene?”
“Beh! Penso di si! Era il motto dei moschettieri” rispose suo figlio.
“Sicuro!? Non ti viene in mente nient’altro?” chiese ancora Giuseppe.
“Si! Mi dispiace non esservi stato di aiuto!” concluse Simone, dall’altro lato del telefono.
“Va bene! Scuse accettate!” rispose sorridendo Giuseppe.
“Ok! Ciaociao!”
“Ciao!” Fu la risposta di tutti e tre.
Passarono neanche dieci secondi. Quando il telefono di Giuseppe squillò nuovamente.
“Pronto, Simone!” rispose.
“No!” disse il giovane dall’altra parte.
“No che?!”
“Non è vero!”
“Simò! Non scherzare e vai avanti, per favore!”
“Voi avete usato le tre chiavi. Come i tre moschettieri. Athos, Portos e Aramis! Ma nel libro, la prima volta in cui questo motto si pronuncia è quando, con loro, c’è anche D’Artagnan. Sono andato a controllare ora. Quindi i Tre moschettieri, quando hanno pronunciato quella frase, e tutte le volte che l’hanno fatto, non erano tre, ma quattro!”
“Ah! Il che significa che dovremmo usare un’altra chiave?!” rispose Michele.
“Si! Spero di esservi stato utile, a questo punto!”
“Non immagini neanche lontanamente quanto! Grazie! Ciaociao!” rispose Giuseppe.
“Ciao!”

--O--
E Simone attaccò il telefono. Poi si voltò dalla sua scrivania, e sorrise a Giuseppe, che era lì a trovarlo e che gli aveva dato una mano facendogli notare quel piccolo particolare.
“Grazie! Non ci sarei mai arrivato da solo” gli disse.
“Come si dice: uno per tutti, tutti per uno” rispose Giuseppe, sorridendogli.
--O--

Giuseppe si rivolse verso Michele e Simone.
“C’è stata una sola chiave in questa storia che è stata così importante!”
Senza neanche pensarci Simone si alzò e corse a prendere la chiave di casa. Ritornò in camera da letto e si inginocchiò vicino al comodino, dove gli altri due lo attendevano trepidanti. Infilò la chiave nella fessura che si era appena aperta.
Dopo neanche mezzo secondo, la luce gialla, diventò verde.
“Oh! finalmente!” esclamò Giuseppe.
A quel punto udirono un sibilo, crescere, proprio da dietro quella piastra. Le chiavi, tutte e quattro, furono ritirate immediatamente all’interno della piastra, che venne incassata nel muro. Tutte le fessure si chiusero e le luci si spensero. Rimase solo il sibilo, che cresceva sempre più, sia in intensità che in volume. Ancora confusi da quello che stava accadendo, i tre erano ancora inginocchiati vicino al comodino. D’un tratto, prima la porta di casa, poi la porta della camera da letto e le finestre si chiusero. Delle scuri impedirono a qualsiasi luce di passare attraverso di esse.
Simone immediatamente si alzò e cercò di aprire la porta della camera, senza riuscirci. Non riusciva neanche ad abbassare la maniglia, nonostante tutte le sue forze.
“Che cosa sta succedendo?” urlò Giuseppe.
Il sibilo era quasi diventato insopportabile, quando Simone, che aveva capito a malapena quello che Giuseppe gli aveva urlato, gli rispose che non ne aveva la più pallida idea. -Spero solo che non sia una trappola- pensò mentre il sibilo cresceva ancora di più. Poi fu insopportabile per tutti e tre e crollarono a terra, svenuti.



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NdA: Buongiorno! Eccovi un nuovo capitolo. diciamo che a questo punto ho voluto fare una "curva a gomito" sulla storia e cambiare un po' le carte in tavola (Anche se vecchie abitudini come mettere titoli di canzoni ai miei capitoli, quelle, non moriranno... mai). fatemi sapere cosa ne pensate... :)

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Capitolo 9
*** Persone diverse ***


PERSONE DIVERSE

Simone si svegliò sul letto a castello, quello che era stato il suo per i primi sedici anni della sua vita. Era stranamente riposato. Guardò il cellulare solo per scoprire che dalla sera del 25 Aprile, si era risvegliato al mattino del 1 Maggio. Almeno, questo era quello che pensava, perché di quei sei giorni proprio non ricordava nulla.
E purtroppo, al risveglio, quasi contemporaneo degli altri due, ebbe conferma proprio di quello. Anche Michele e Giuseppe, infatti, non ricordavano nulla.
“Si ma non ho neanche fame o sete! Come e possibile?!” chiese Giuseppe.
“E possibile che le nostre famiglie non ci abbiano cercato in questi giorni? Sul mio cellulare non risulta nessuna chiamata” chiese Michele.
E, effettivamente, i loro cellulari non segnalavano alcuna chiamata senza risposta o messaggio ricevuto.
Subito dopo si ricordarono che quello era il giorno della loro partenza, anzi che mancavano solo novanta minuti alla loro partenza.
Tralasciarono i dubbi per il viaggio aereo e corsero immediatamente a Pisticci a prenderlo.
Simone e Giuseppe salutarono Michele.
“Cerca di capirci qualcosa!” chiesero.
“Vedrò quello che posso fare. ma tutti e tre ci ricordiamo delle quattro chiavi e del sibilo, giusto?”
“Si! Ma poi più niente!” confermò Simone.
“Beh! è già qualcosa! Fate buon viaggio! Salutate mogli e ragazzi!”
“Grazie! Anche tu saluta Roberto e Francesca!” rispose Giuseppe.
Si salutarono e furono imbarcati.
Mentre erano sull’aereo, Simone e Giuseppe ebbero modo di fare un attimo il punto della situazione.
“Comunque è tutto troppo strano. Ti ricordi quando ho chiamato a casa? Che Anna mi ha salutato come se niente fosse. E le ho chiesto da quanto tempo non ci siamo sentiti e lei mi ha risposto che l’avevo chiamata ieri sera? Io non mi ricordo di averlo fatto”
“Neanche io ricordo niente. Eppure ho telefonato a mio cognato e mi ha detto che l’ultima parte dei pagamenti è giunta a destinazione e che non si aspettava che fossi riuscito a convincerli così presto. Ma io non mi ricordo nulla. Anche con Maria e Giuseppe, mi hanno detto che li ho sentiti ieri sera e che ci siamo dati appuntamento a oggi. Ma ho perso completamente la memoria di quello che è successo in questa settimana!” confermò Simone.
Avevano infatti saputo che la stessa cosa era accaduta a Michele. Anche lui, a detta dei suoi figli li aveva contattati diverse volte in quei sei giorni, ma non si ricordava nulla.
“Di certo c’è che stiamo bene! È come se avessimo riposato per una settimana, di relax completo! Erano anni che non mi sentivo così. Boh!” concluse Giuseppe.
“Chissà che fine hanno fatto le chiavi. E che cos’era quel sibilo? Temo che non lo sapremo mai!”
“E tutte le altre domande che ci siamo fatti giovedì? Nessuna risposta: perché la casa era pulita? A cosa servivano veramente quelle chiavi? Cosa è successo in questi sei giorni?”
“Tutte domande della quali non conosciamo la risposta. Solo di una cosa sono sicuro: Francesco e Emanuele non ci avrebbero fatto nulla di male, per quanto tutto quello che è accaduto sia strano e abbia qualcosa di inquietante. Se non ci ricordiamo queste cose allora significa che è semplicemente meglio non ricordarcele. Significa che in qualche momento della nostra vacanza è successo qualcosa che ce le ha fatte dimenticare!” concluse Simone.
Arrivarono poco dopo a Bergamo. Successivamente a casa, verso le tre del pomeriggio, dove salutarono le loro famiglie.
Tutto sembrò procedere tranquillamente fino all’ora di andare a letto.
Era quasi mezzanotte. Simone era sul divano e scoppiò, quasi istantaneamente, un fortissimo mal di testa. Forte come si ricordava di averlo avuto solo il giovedì precedente, quando stavano per svenire a seguito del fortissimo sibilo che avevano sentito.
Riuscì ad arrivare in camera da letto e avvisare Maria. Che immediatamente pensò al peggio. Chiamando un’ambulanza.
L’ambulanza arrivò cinque minuti dopo. Simone venne prelevato dal suo letto e caricato sulla vettura.
Il mal di testa passò e perse i sensi. Esattamente come era successo la settimana prima.
Si risvegliò in un letto del pronto soccorso. La prima persona che vide fu un medico con la sua cartella in mano.
“Buongiorno! Come si sente?” chiese.
“Bene, a parte sentirmi come se mi fosse passato sopra un treno!” rispose Simone.
“Beh! Con tutto quello che ha passato è quantomeno logico. Comunque, stando alle analisi del sangue, tac, risonanza magnetica e tutto quello che siamo riusciti a farci venire in mente di fare, direi che ha ragione. Lei sta veramente bene!”
“Scusi cosa avrei passato?” chiese ancora.
“Come non si ricorda nulla?!” chiese il medico.
“Cosa dovrei ricordare?” domandò ancora.
Il medico, perplesso, guardò sua moglie. Poi guardò la persona dall’altro lato della stanza. Poi tornò ancora da Simone.
“Allora guardi! Rimanga qui fino a quando non si è ripreso, poi se ne può pure andare!” concluse, completamente sorpreso da quella situazione e inconsapevole di cosa fare.
Solo a quel punto Simone si chiese chi fosse la persona dall’altro lato della stanza. E, sul letto al suo fianco vide Giuseppe che lo guardava.
“Mi sono ritrovato anche io nella stessa tua situazione, e hanno fatto anche a me le stesse osservazioni. Scusi, dottore, può lasciarci un attimo? Devo informarlo!” disse.
“Beh! Se preferite essere voi a farlo, io non ho alcun problema!” e se ne andò.
Chiusa la porta, Simone si accorse che erano in quattro in quella camera. C’era anche Anna, oltre che Maria. E man mano prendeva coscienza della situazione si rese conto di avere addosso solo la vestaglia fornita dall’ospedale.
“Riesci ad alzarti!?” chiese Giuseppe.
“Penso di si!” rispose Simone, che lentamente si stava riprendendo. Mise una gamba giù dal letto e con l’aiuto di Maria anche l’altra, alzandosi in piedi. Le gambe erano un po’ deboli, ma tutto sommato poteva andare. Dopo pochi secondi era ben dritto sui suoi piedi.
“Vai in bagno e levati la vestaglia, per favore Maria, accompagnalo, che non sarà un bello spettacolo da sopportare” disse Giuseppe.
Simone si preoccupò. E si recò verso il bagno. Entrato, con sua moglie, si levò la vestaglia, lentamente, davanti allo specchio. Aveva effettivamente paura di quello che sarebbe potuto succedere. E non poteva neanche lontanamente immaginare quello che vide: tutto il suo corpo era una serie indefinita di cicatrici di ferite dovute a dei bastoni, alle sigarette spente su di essa, o a quelle che, a giudicare dalle ferite, sembravano lamette da barba con cui gli avevano procurato dei tagli.
Tutte le ferite erano evidentemente rimarginate, ma doveva averne passate troppe in quell’ultima settimana.
Immediatamente richiuse la vestaglia, e, anche se debolmente, ritornò verso il suo letto, stendendosi sopra.
“Strano eh?!” gli chiese Giuseppe.
Simone lo guardò. confuso. Perché lui era così sereno?
Glielo chiese.
“Beh! prima di tutto, fammi dire che sono conciato anche io così. E che abbiamo ricevuto mezz’ora fa, appena mi ero svegliato e tu ancora non avevi riacquistato i sensi, una telefonata di Roberto che ha detto che anche Michele ha accusato gli stessi sintomi, fortissimo mal di testa, perdita dei sensi e risveglio in ospedale, e che anche dalle sue analisi risulta tutto perfettamente in ordine! L’unica differenza è che lui non è conciato così male come noi!” concluse Giuseppe.
“Si ma questo non migliora le cose?!” disse Simone. A quel punto Giuseppe si adombrò.
“Si che le migliora, non metto in dubbio che potrei essere stato addirittura io a chiedere a quel qualcuno di cancellarmi la memoria di quello che è successo in questi ultimi giorni, visto quello che evidentemente ci è successo” rispose un Giuseppe adesso molto serio.
Simone ci pensò un po’ su.
“Hai ragione! però non mi va di perdere i sensi tutte le sere e di risvegliarmi il giorno dopo in ospedale. Quindi deve esserci qualcosa che non va”
“Penso proprio che lo scopriremo presto” rispose Giuseppe.
“Ma che ore sono?” chiese Simone a Maria.
“Le sette del mattino. Meglio che vado a chiamare Giuseppe e lo rassicuro. È stato qui fino alle due, poi l’ho riaccompagnato a casa. Era inutile che stesse qui ancora” disse Maria, uscendo dalla porta della stanza. Seguita da Anna che sarebbe andata a chiamare Simone.
“Mi ricordo tutto quello che mi hanno confermato mia moglie, mio figlio e Roberto. Ma non ricordo nulla di quello che è successo per cui sono finito conciato così” disse Simone.
“Forse è una memoria a ritorno programmato. Adesso ci ricordiamo di essere stati dal notaio a Matera, di aver firmato tutti i documenti per la suddivisione del conto in banca e per il passaggio di proprietà della società. Ma lo stesso discorso vale per me”
“Ah! Allora credo che la stessa cosa valga per Michele. E che, quindi, queste non saranno le ultime perdite di sensi che ci capiteranno!” concluse Simone.
Appena rientrarono le mogli raccontarono loro tutto.
E comunque, per molto tempo quella fu l’ultima volta che gli capitò quella cosa.
Passarono due mesi e mezzo, e ormai tutti erano d’accordo con quello che avevano deciso pochi minuti prima di usare le chiavi, Simone, Giuseppe e Michele. Avrebbero passato le vacanze a Policoro.
A quanto pare, acquistarono lentamente anche tutta la memoria che potevano. Simone ritornò un altro paio di volte a Matera per gestire un po’ più da vicino le situazioni più calde della loro nuova azienda, che comunque non andava male, anzi, per certe cose risultava anche più all’avanguardia della loro. Questo gli permise di farsi conoscere anche dai nuovi dipendenti come una persona che merita il rispetto e la stima. Ne approfittò per vedersi qualche altra volta con Michele e per parlare di quello che gli era successo.
Ma praticamente le cose non cambiarono sostanzialmente.
Fino alle vacanze. Giovedì 1 Agosto 2024, due macchine di nostra conoscenza, partirono da San Donato, alla volta di Policoro. In una c’era Simone, con Maria e Giuseppe, nell’altra Giuseppe, con Anna e Simone. Erano le tre del mattino, ed infatti i due giovani si addormentarono partiti da pochi minuti. Il viaggio fu tranquillo, tanto che, verso mezzogiorno, Simone e Giuseppe parcheggiarono ciascuno nella propria via. Il pomeriggio sarebbe arrivato da Matera anche Michele, con Roberto e Francesca.
La prima cosa che fecero fu andare a dormire. Poi, con la dovuta calma, sarebbero anche andati al mare.
Questa, almeno fu l’impressione di Simone. Almeno ciò non era vero per suo figlio. Giuseppe era molto emozionato. Fin dal giorno prima, infatti, non riusciva a capacitarsi di quello che, finalmente, era riuscito a raggiungere: Policoro.
Giuseppe era a dir poco euforico. Sapeva che quella era la città dove tutto aveva avuto inizio. Rivedere quelle vie, quelle case, quelle strade, quegli alberi, lo riempiva di gioia. In effetti si trattava di un “rivedere” per la prima volta. Ci era andato un sacco di volte, grazie alle foto del satellite, in quei posti. Cercando informazioni in internet, aveva conosciuto moltissimo di quei posti. E, paradossalmente, allora, la sua opinione di quella città cambiò. 31°C di media giornaliera ad Agosto, saperli era una cosa, ma sentirseli addosso era tutt’altro. Tante volte sua mamma gli aveva parlato di quel profumo caldo per strada, di pino per tutto il giorno, di gelsomino la sera, verso il tramonto, di salsedine la notte. Tante volte sua mamma gli aveva raccontato del cielo celeste, ma così celeste, che non l’aveva visto da nessun’altra parte in Italia. Tante volte sua mamma gli aveva parlato di quelle finestre che davano sulla via dietro casa. E tante volte gli aveva parlato di quell’estate del 2000. Sua mamma. Suo papà mai. E sua mamma sempre quando non c’era suo papà. In effetti quello era quasi un argomento tabù, e gliene dispiaceva. Perché avrebbe voluto chiedere tante altre cose a suo padre di quello che gli era accaduto, di come si era sentito, dei sentimenti che aveva provato. Ma fino a quel momento, non era stato possibile. Qualcosa, negli ultimi due mesi, si era mosso, ma sempre molto delicatamente. Adesso, invece, quel paese aveva l’opportunità di viverlo. E quella era, definitivamente ed incontestabilmente, tutta un’altra cosa.
Ma finalmente erano arrivati. Verso le sei di sera, Michele Roberto e Francesca bussarono alla loro porta. E tutti insieme andarono a cena fuori. Era incominciata la più bella vacanza della loro vita.
Giunti al mare, il giorno dopo, verso le undici Simone guardò il suo vecchio amico e gli fece cenno di avvicinarsi.
“Che c’è?” chiese Giuseppe.
“La sabbia e il mare è come me lo ricordavo?” chiese Simone.
Giuseppe con un sorriso gli accennò di sì. I ragazzi intanto si erano spogliati, come tutti e stavano per avvicinarsi al mare.
“Giuseppe?! vediamo chi arriva primo in acqua?” chiese Simone a suo figlio.
“Pronti? Via!” disse quest’ultimo senza neanche aspettare la preparazione di suo padre, che si doveva ancora togliere la maglietta. Roberto cercò di fermarlo. Quasi urlando. Ma non ci riuscì.
In quel periodo, potevano aver trovato posto solo ad una ventina di metri dall’acqua. E quei venti metri di sabbia arroventata Giuseppe li sentì tutti.
Poi c’era la ghiaietta. Il ciottolino appuntito e tagliente che lo fece urlare ancora di più. Poi l’acqua fredda, ben più fredda della sabbia e dell’aria.
Infine lo scalone, che scendeva di una buona trentina di centimetri poco dopo l’ingresso in acqua. Facendolo sprofondare. Rovinosamente. Nell’acqua fredda.
Tutti ridevano come dei matti, non solo i suoi conoscenti, ma tutta la spiaggia, mentre Giuseppe, più morto che vivo, uscì, tutto acciaccato e imbarazzato, dall’acqua.
Simone, Michele e Giuseppe si avvicinarono lentamente al bagnasciuga. Poi si levarono le infradito e lentamente entrarono in acqua. Almeno, provarono lentamente ad entrare in acqua. Perché Giuseppe, completamente ripresosi dalla botta di prima li spruzzò quasi subito e tutti e tre si gettarono al suo inseguimento per “affogarlo”.
Simone e Roberto si gettarono all’inseguimento dei loro genitori per fermarli e le tre signore, Maria, Anna e Francesca, felici di poter stare di nuovo insieme dopo sette mesi, si misero a chiacchierare amabilmente sotto l’ombrellone.
Stettero tutta la mattinata al mare, fino a verso le due. La sera andarono a Pisticci per fare un giro e vedere i suoi paesaggi mozzafiato.
Il giorno dopo, ancora mare per tutto il giorno. Si stavano divertendo come matti.
Policoro aveva sempre avuto quella capacità: far crescere i bambini, far diventare bambini gli adulti, far divertire tutti.
Purtroppo era anche riuscito a far soffrire quelle persone. Anche se per il momento sembrava che riuscissero a mascherare bene il dolore e la sofferenza. Ma sarebbe durato poco. Pochissimo. Fino a quel rientro a casa, la sera del 3 Agosto.
Rientrarono a Policoro verso le 19. Avevano lasciato Maria, Anna e Francesca al supermercato a fare la spesa. Con una macchina. Il supermercato era a circa duecento metri da casa di Simone, quindi Giuseppe, Roberto e Simone decisero di farsela a piedi, e i loro genitori ne approfittarono per fargli comprare il pane, commissione che richiedeva una decina di minuti di viaggio in più.
I tre uomini, invece, tornarono con la seconda macchina, a casa. Uscirono dalla macchina, e stesero i teli del mare. Poi rientrarono immediatamente in casa, ad apparecchiare, e mettere su il necessario per iniziare a preparare da mangiare, in quanto tutti in balia dei morsi della fame, dovuti all’intensissima giornata di mare.
Simone stava accendendo la cucina, quando sentì un leggero mal di testa. Collegò tutto immediatamente. Fece in tempo a spegnere la cucina, a voltarsi verso i suoi due amici e a vedere che anche a loro stava, contemporaneamente, accadendo la stessa e identica cosa. Fece appena in tempo, dico, perché dieci secondi dopo erano tutti e tre in preda al peggior mal di testa della loro vita.
I tre ragazzi arrivarono solo poche decine di secondi dopo che era incominciato. I loro genitori erano a terra a contorcersi dal dolore. Si lamentavano, come se stessero soffrendo le pene dell’inferno.
Chiamarono immediatamente Maria, che arrivò pochi minuti dopo, assieme alle altre tre. Ma Simone, Giuseppe e Michele avevano già perso i sensi.
I ragazzi li avevano messi sul letto. Chiamarono immediatamente la guardia medica, che pochi minuti dopo era lì. La guardia medica stabilì che non avevano nulla di particolare, e che probabilmente si trattava di un colpo di calore, legato alla giornata intera passata al mare. Loro accettarono la diagnosi e lo accompagnarono alla porta. Gli interessava sapere che non avevano subito danni cerebrali, e la tac portatile aveva eliminato ogni dubbio. E poi, loro, una diagnosi già l’avevano. Si trattava di aspettare.
Passarono circa tre ore, poi a tutti e tre crebbe la febbre. Arrivando a toccare i 39°C. Poi lentamente si calmò.
Erano le tre del mattino. Maria, Anna e Francesca continuavano a cambiare fazzoletti bagnati con acqua fredda sulla fronte di Simone, Giuseppe e Michele. I tre ragazzi erano in cucina, cercando di parlare per non permettere al sonno di vincerli. Verso le quattro, però, ogni resistenza fu inutile.
Passarono ancora 10 ore. Era circa l’una quando la febbre era completamente scomparsa. Ancora un’oretta e smisero di sudare. Lentamente stavano risvegliandosi. Alle due e mezza, Maria, vide finalmente suo marito con gli occhi aperti. Stanchi, stravolti, ma aperti. Nel giro di un quarto d’ora, anche gli altri ripresero i sensi.
Simone e Giuseppe, allora, inspiegabilmente per tutti gli altri, ringraziarono Michele.
Nel giro di un’altra mezz’ora, Simone, Michele e Giuseppe erano in piedi, assolutamente svegli e completamente attivi. E, purtroppo, definitivamente coscienti di quello che era accaduto in quella settimana che fino a poche ore prima era rimasta nascosta alla memoria dei tre.
Erano seduti a tavola che stavano mangiando e si guardavano preoccupati. Simone osservava Giuseppe e Michele, e gli altri due facevano la stessa cosa. Gli altri sei osservavano i tre e capivano sempre di più quello che stava succedendo.
“C’è qualcosa che dovremmo sapere?!” chiese Maria, interrompendo quel silenzio e quella calma, che all’ora di pranzo, quando erano stati tutti insieme, non aveva mai caratterizzato quell’ambiente.
Simone, Giuseppe e Michele continuavano a guardarsi, come per cercare di capire quali fossero i sentimenti degli altri due e se potevano sentirsela di raccontare quelle cose che sapevano essere successe. Solo ad un cenno affermativo di tutti e tre, però, Simone incominciò. Raccontando loro tutta la storia.

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NdA: Buongiorno a tutti. Come potete notare negli ultimi due capitoli le cose hanno preso una piega differente... molto differente. preparatevi perché il meglio deve ancora venire! grazie sempre e comunuque per leggerla, seguirla e anche recensirla!

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Capitolo 10
*** Ritorno al passato ***


RITORNO AL PASSATO
Il sibilo durò per circa 3 ore. Durante le quali, a diverse riprese, avevano ripreso i sensi e riperso conoscenza. Tutti contemporaneamente. Quando era incominciato erano ormai le 19. Si risvegliarono definitivamente alle 22 passate.
“È incredibile!” disse Michele.
“Secondo me è stata colpa del sibilo!” aggiunse Giuseppe.
“Allora sapete anche voi quello che so io!” continuò Simone.
“Si! Almeno credo! Tutto ciò che riguarda il supercomputer e le tute ipertecnologiche!” concluse Michele.
Il cenno affermativo degli altri due non lasciava alcun dubbio.
Quello del sibilo, adesso lo sapevano, era un sistema costruito da Emanuele per inserire nella loro mente tutta quella mole di informazioni.
“Allora” esordì nuovamente Simone “Francesco e Emanuele hanno inventato questo sistema del sibilo, un super computer in grado di imparare dalle informazioni che riceve dall’esterno, ed un sistema autonomo di volo che utilizza l’energia solare o addirittura il calore corporeo per permettere di volare. A parte che non sappiamo solo questo. sappiamo anche i minimi particolari di progetto di queste tre cose. E sappiamo anche a che cosa sono servite tutte le invenzioni intermedie che hanno brevettato, e che gli hanno permesso di diventare ricchi”
“E forse sappiamo anche perché hanno messo a repentaglio la vita e l’hanno definitivamente persa per tenerlo nascosto. Ma sapete che queste cose, nelle mani sbagliate, sarebbero pericolosissime?” chiese Giuseppe.
“Si, Giuseppe! Lo sappiamo! Ed ecco perché Marco e gli altri hanno voluto a tutti i costi cercare le chiavi. Anche se dispiace tantissimo, menomale che Francesco e Emanuele non hanno rivelato nulla della loro esistenza!”
“Si, ma allora, come facevano Marco e gli altri a saperlo?!”
“PERCHÉ GLIEL’HO DETTO IO!”
Giuseppe, Simone e Michele si voltarono verso la porta della camera da letto, ma non c’era nessuno.
“Chi sei! Fatti riconoscere!” urlò Giuseppe, tentando di intimorire l’intruso.
“È INUTILE CHE URLI, TANTO CI SENTO BENISSIMO! NON ABBIATE TIMORE, SONO SEMPLICEMENTE QUESTA CASA”
“Questa casa?” esclamò Michele incuriosito da tutto quello che stava accadendo.
“SI! QUESTA CASA, O COME MI AVETE CHIAMATO PRIMA, IL SUPER COMPUTER CHE IMPARA ECC.ECC.”
“Si! effettivamente adesso che ci penso, sappiamo anche questo. Per permettere a tutta la memoria ed ai 50 microprocessori in parallelo di avere lo spazio necessario, Francesco e Emanuele hanno costruito il computer dentro questa casa, cioè tra le mura di questa casa. Se non sbaglio ti hanno chiamato Frem, dalle loro iniziali. O sbaglio?”
“NO! NON SBAGLIATE. EFFETTIVAMENTE SAPETE ANCHE QUELLO. IN REALTA’ IL SISTEMA DEI MIEI DUE PRECEDENTI PADRONI, PER INSERIRE NELLA MEMORIA DI QUALCUNO DELLE INFORMAZIONI, È STATA L’ULTIMA LORO INTEGRAZIONE NEL MIO SISTEMA. PURTROPPO LA PIU’ PREZIOSA E LA PIU’ PERICOLOSA. E NOTO CON PIACERE CHE QUESTA INVENZIONE FUNZIONA BENE!”
“Dove sono le tute!?” chiese Giuseppe. Simone e Michele si voltarono e gli lanciarono uno sguardo seccato e di incomprensione.
“Oh! Che volete?! Mi voglio divertire! So di poter volare, so come farlo, non voglio pensarci adesso alla morte di Emanuele e Francesco. Godiamoci questo momento!”
Effettivamente tutti e tre morivano dalla curiosità di provarle. Sentirono che una porticina si aprì, e notarono che l’anta dell’armadio si era scostata leggermente. Aprendosi.
All’interno, tre tute e tre caschi.
“ALLORA! QUESTE SONO LE TRE TUTE. CIASCUNO DI VOI DEVE INDOSSARE I CASCHI. LE TUTE, EVIDENTEMENTE SONO SCARICHE, QUINDI NON USATELE SE NON AL SOLE, ALMENO FINCHE’ IL COMPUTER DI BORDO NON SEGNALA LE BATTERIE COMPLETAMENTE CARICHE. TENETE CONTO CHE SI CARICANO ANCHE QUANDO LE INDOSSATE SEMPLICEMENTE, SENZA VOLARE. SOLO CHE SI CARICANO TANTO PIU’ VELOCEMENTE, QUANTO PIU’ LE TENETE ESPOSTE. QUINDI UN PICCOLO LEMBO AL SOLE CI METTE DI PIU’ A CARICARE LA TUTA. IL RESTO LO SAPETE. QUINDI BUON DIVERTIMENTO!” disse la “casa”.
In men che non si dica avevano indossato le tute e i caschi.
Non appena Simone aveva indossato il casco, quest’ultimo si accese. Se ne accorse perché sentì una piccolissima vibrazione dietro il collo. Per prima cosa provò a levitare in casa. Ci riuscì per un minuto buono, a circa trenta centimetri da terra. Era a dir poco eccezionale il modo in cui la tuta, che aderiva completamente al loro corpo, era in grado di sostenerlo, come se fossero su un piedistallo, ad una certa altezza. La forza di gravità sembrava annullarsi, invece, nel momento in cui si mettevano paralleli al terreno. Urlavano tutti e tre dall’emozione, ma i caschi erano completamente insonorizzanti, quindi dall’esterno non si sentiva niente.
“Ci hanno fatto un regalo bellissimo!” disse Michele agli altri due.
Pochi secondi dopo, le tute si posarono, in posizione verticale, nuovamente a terra. Cioè li fecero atterrare in piedi. Immediatamente dopo la vibrazione dietro il casco finì. Per questo compresero che le tute erano completamente scariche.
“Perché non andiamo a farci un giro all’aria aperta, così almeno si ricaricano un po’!?” chiese Simone.
Gli altri due accettarono.
Il modo principale per ricaricare le tute, rimaneva comunque tenerle all’aperto, o indossarle. Le tute infatti, si ricaricavano anche assorbendo il calore corporeo. Per questo motivo, riuscivano a mantenere al loro interno, una temperatura fissa di 25°C. in questo modo, riuscivano a subire sempre una cessione di calore dal corpo.
Si vestirono leggeri, con un paio di jeans e una camicia, almeno per non uscire così. E andarono a farsi una passeggiata. Un anonimo indicatore sulla manica destra della tuta, indicava lo stato della carica. Quando invece indossavano i caschi, sulla visiera avevano tutte le informazioni di cui necessitavano. Non solo sulla propria tuta e sui propri parametri fisici, ma anche sulle altre tute indossate in quel momento e sulle condizioni ambientali esterne di qualunque tipo. Almeno, questo loro lo sapevano teoricamente. Perché, per scambiare tra le tute e il super computer tutta quella mole di informazioni era necessaria una quantità di energia di alimentazione delle tute che loro, almeno per il momento, non avevano ancora. Si trattava di aspettare qualche ora. Una volta indossati i caschi, buona parte delle opzioni selezionabili, potevano essere scelte mediante comandi vocali.
“È incredibile quante cose è possibile fare con queste tute!” esclamò Giuseppe mentre erano in macchina “Dite che è questo che Marco e gli altri vogliono?”
“Beh! può darsi!” rispose Michele “il problema è capire come hanno fatto a venire a conoscenza di certe cose. È impossibile che abbiano saputo queste cose direttamente da Francesco e Emanuele!”
“A meno che Salvatore, dall’ufficio brevetti non li abbia informati!” suggerì Simone.
“Può essere, ma Francesco e Emanuele non hanno brevettato questi oggetti. Probabilmente rendendosi conto dei pericoli insiti nelle loro ultime tre invenzioni hanno preferito mantenerle segrete. Dite che se interrogassimo il computer saprebbe dirci qualcosa di più, forse sugli ultimi spostamenti di Francesco, prima dell’omicidio di Emanuele?”
“Credo proprio che sarà la prima cosa che faremo appena rientrati in casa!” concluse Simone.
Effettivamente era quasi mezzanotte quando tornarono a casa. Le tute si erano ricaricate veramente poco. Sapevano anche loro che l’unico modo per ricaricarle seriamente era volare all’aria aperta e alla luce del sole. Per questo avrebbero aspettato volentieri il mattino successivo.
“FACCIAMO COSI’: CHIAMATEMI FREM, ALMENO NON CONTINUATE A CHIAMARMI COMPUTER CHE È ANCHE PARECCHIO RIDUTTIVO NEI MIEI CONFRONTI!” disse il computer mentre stavano togliendosi le tute e riponendole nell’armadio.
“Va bene!” rispose Michele, divertito “ti chiameremo il modesto Frem!”
“Senti, Frem, puoi dirci qualcosa di più su ciò che è accaduto negli ultimi giorni di vita di Francesco e Emanuele?” chiese Simone.
“PENSO DI SI! DUE GIORNI PRIMA DELLA MORTE DI Emanuele, Salvatore È STATO RAPITO E TORTURATO, DA Marco E COMPAGNI. DI SOLITO Salvatore LI AVVISAVA DEI BREVETTI DEPOSITATI DAI DUE, E DEL LORO UTILIZZO, MA ORMAI DA PIU’ DI UN ANNO, Francesco E Emanuele NON PRESENTAVANO ALCUN BREVETTO. Marco AVEVA INCOMINCIATO A PENSARE CHE SOTTO CI FOSSE QUALCOSA, ALLORA AVEVA RAPITO Salvatore E L’AVEVA INTERROGATO. DOPO ESSERE STATO LIBERATO, E NON AVENDO COMUNQUE DETTO NIENTE, IN QUANTO ALL’OSCURO DI TUTTO, HA DECISO DI AVVISARE IMMEDIATAMENTE I DUE. CHE SI SONO SUBITO ALLARMATI, DOPO AVER FATTO DENUNCIARE A Salvatore LA PROPRIA AGGRESSIONE. Marco DEVE ESSERE RIUSCITO A RAGGIUNGERE Emanuele E UCCIDERLO. IL GIORNO DELLA MORTE DI Emanuele, MOSSO DAL PRESENTIMENTO CHE SAREBBE ACCADUTO PRESTO QUALCOSA, Francesco ERA VENUTO QUI A Policoro, PER NASCONDERE LE CHIAVI CHE PROVOCAVANO L’ACCENSIONE DEL DISPOSITIVO PER IL TRASFERIMENTO ACUSTICO DELLE INFORMAZIONI. LE QUATTRO CHIAVI. LASCIATE LE CHIAVI NELLA CASSETTA DI SICUREZZA DELLA BANCA DI PISTICCI, E AVVISATO DAL SOTTOSCRITTO DEL PERICOLO CHE CORREVA SUO FRATELLO, Francesco è VOLATO FINO A MATERA, DOVE HA TROVATO Marco. A SEGUITO DELLO SCONTRO, MARCO È RIUSCITO A PRENDERE LA TUTA DI Emanuele E QUELLA DI Francesco”
“Cioè vuoi dire che Marco ha due tute?!” chiese Giuseppe preoccupatissimo.
“SI! MA NON PUO’ USARLE. Francesco, POCO PRIMA DI PARTIRE PER MATERA, HA CANCELLATO QUASI COMPLETAMENTE LA MIA MEMORIA. HA ANCHE PROGRAMMATO IL SISTEMA ACUSTICO PER RESTITUIRMELA NON APPENA FOSSERO STATE USATE LE CHIAVI. IN PRATICA, SONO STATO INCAPACE DI FARVI USARE LE TUTE, FINO A QUANDO, PRIMA, NON AVETE ATTIVATO IL DISPOSITIVO. E TUTTORA, IO SONO L’UNICO CHE PUO’ PERMETTERE ALLE TUTE DI COMUNICARE TRA LORO. E SONO STATO PROGRAMMATO PER PERMETTERE DI FARLO SOLO ALLE VOSTRE TRE TUTE!”
“E poi cosa è successo?!” continuò Michele.
“POI Francesco E’ STATO ARRESTATO, MA SPIEGARE COSA AVEVA FATTO QUEL GIORNO A Policoro ERA POCO SAGGIO. PER QUESTO SI E’ INVENTATO DELLE SCUSE. L’ARRIVO DI Nicola GLI HA PERMESSO DI RISOLVERE BUONA PARTE DEI PROBLEMI ESSENDO SCAGIONATO ED AVENDO LA POSSIBILITA’ DI MODIFICARE IL TESTAMENTO. POI, PERO’, RITORNO’ A Policoro PER ORDINARE LA COSTRUZIONE DELLE TRE TUTE. QUANDO SE NE ERA APPENA USCITO PER TORNARSENE DEFINITIVAMENTE A MATERA, E’ STATO NUOVAMENTE INTERCETTATO DA Marco, CHE A QUESTO PUNTO NON HA AVUTO PIETA’. SONO RIUSCITO A PRELEVARE DALL’ARCHIVIO DELLA POLIZIA SCIENTIFICA IL FILMATO, E HO DECISO DI CANCELLARLO DALLA MIA MEMORIA, RICORDANDOMI IL MOTIVO PER CUI L’HO FATTO! DOPO LA MORTE DI Francesco MI SONO AUTO MESSO IN STAND-BY FINO AL MOMENTO IN CUI NON AVESSERO INSERITO LE TRE CHIAVI SPECIALI NELLA SERRATURA DI ATTIVAZIONE DEL SISTEMA ACUSTICO!”
“Cosa può fare Marco con le tute?”
“VOLARE E UTILIZZARE IL MANIPOLATORE MAGNETICO!”
“Il mani…cosa?” chiese Simone.
“IL MANIPOLATORE MAGNETICO. MA NON SAPETE CHE COS’E’?”
“No! Di cosa si tratta?” domandò Giuseppe. Non l’avesse mai fatto.
Cinque secondi di un fortissimo suono, pervasero la casa, e le loro orecchie. E cinque secondi dopo la sua domanda, tutti e tre lo seppero.
“Frem!?” chiese Simone.
“SI?!”
“La vuoi piantare una buona volta di usare quell’arma malefica?!” chiese, visibilmente alterato.
“VA BENE! SCUSA! NON LO FARO’ PIU’ SE NON SARETE VOI A RICHIEDERMELO!” rispose quest’ultimo tranquillamente.
“Grazie!”
“Quindi, come usano il magnetismo terrestre per orientarsi e per volare, allo stesso modo, possono sviluppare dei campi magnetici per spostare qualsiasi cosa di metallo! Siamo a posto!” concluse Michele.
Quello che udirono in quelle ore fu sufficiente per desiderare ardentemente di andarsene a dormire. Era quasi l’una e il giorno seguente avevano veramente tantissime cose da fare.
--O--

Il 26 Aprile, venerdì, Simone, Giuseppe e Michele furono impegnati tutto il giorno per completare gli ultimi e decisivi passaggi per la vendita di case e la cessione dell’azienda. Sentirono anche le loro famiglie, pur ritenendo opportuno non raccontargli nulla, di quello che avevano scoperto la sera prima. Grazie alla sapiente guida di Nicola, riuscirono a risolvere quasi tutto in giornata. Il lunedì successivo, una lunga seduta dal notaio avrebbe chiuso definitivamente quasi tutte le questioni.
Erano quasi contenti di apprezzare la compagnia di Frem. Risultava essere addirittura simpatico. Evidentemente Francesco ed Emanuele avevano inserito anche qualche programma che facilitasse le sue relazioni sociali.
Era la notte tra il venerdì e il sabato. Il silenzio in quella casa era solo interrotto dal respiro regolare di Michele e dal leggero russare di Simone. Finché un telefono che squillava non rovinò l’atmosfera idilliaca.
Il cellulare si mosse, guidato da una forza invisibile. In realtà era Michele, che al buio prendeva in mano il telefono e lo avvicinava a sé cercando di capire cosa stesse succedendo.
“Cosa è successo?!” chiese, svegliandosi e svegliando completamente anche gli altri due.
“Arrivo subito!” disse. Alzandosi immediatamente.
“Che cos’è stato?!” chiese un più che assonnato Giuseppe.
“Hanno ucciso Salvatore! Devo correre immediatamente a Matera. Fortunatamente la tuta è abbastanza carica” disse mentre la infilò.
“Vuoi che veniamo con te?” disse Simone.
“No, riposatevi pure!” concluse Michele, mentre prendeva il casco, dopo essersi completamente vestito.
Quattordici minuti e trenta secondi dopo, atterrò sotto casa sua, a Matera, dove poté indossare sulla tuta qualcosa di meno vistoso. La tuta era quasi completamente scarica. Evidentemente la velocità, facendo consumare più o meno energia, riduceva di parecchio la carica della batteria. Inoltre, avendo viaggiato di notte, non ebbe praticamente quasi alcuna fonte di energia alternativa da utilizzare.
Neanche quindici minuti dopo, si fece venire a prendere da una macchina della polizia per essere accompagnato sul luogo del ritrovamento del cadavere.
E ciò che vide lì fu incredibile. Solo il DNA aveva permesso di riconoscere immediatamente che si trattava di Salvatore. perché era irriconoscibile. Intorno al cadavere furono trovati una decina di aghi. Questo permise al medico legale di ricostruire come potevano essere andate le cose.
“È come se fosse stato attraversato decine, centinaia di volte da tutti questi aghi. Da parte a parte. È spaventoso!” disse il dottore.
“Era già morto?” chiese Michele.
“No! Non credo. Deve essere morto dissanguato. A giudicare dal più forte sanguinamento di alcune ferite rispetto ad altre, l’agonia deve essere durata almeno un paio d’ore. Comunque con gli strumenti che ho a disposizione in laboratorio, posso tranquillamente essere più preciso, ma domani mattina!” concluse il medico.
“Ok! Grazie delle informazioni! Attendo sue notizie! Io sono in ferie, quindi può tranquillamente mandarmi il referto lunedì, e comunque via e-mail. appena riesce a farci avere gli aghi gliene sarei molto grato!”
“Va bene, buonanotte!” disse il dottore, mentre si allontanava con i suoi due assistenti.
Michele rimase qualche altro minuto, incaricò uno dei suoi assistenti della gestione delle indagini e prese una macchina di servizio per ritornare a Policoro.
Alle sette del mattino dopo anche Simone e Giuseppe erano edotti della situazione.
“E così hanno eliminato l’unico testimone che poteva essere collegato a loro!”
“Già!”
“SCUSATE! GUARDATE QUI!” fece notare Frem, mentre accendeva il televisore.
“È STATO MESSO QUESTA MATTINA NELLA CASELLA DELLA POSTA DI QUESTA CASA!” disse.
Era un DVD. E conteneva un video. E anche un virus che poteva fare una copia di backup di tutto il contenuto di Frem e mandarlo via Internet in un posto imprecisato. Una volta reso inoffensivo il virus, Frem fece partire il video. Era, come per Francesco, il video della morte di Salvatore. Solo che c’era anche un appello.
“Cari vecchi amici! Sono convinto che la lezione che riceverà Salvatore servirà a farvi capire che faccio sul serio e che ho il potere di farlo. Voglio che, entro domenica sera, consegniate a Dorian i progetti della macchina per la memoria. Se non lo farete, farò lo stesso giochino con i vostri figli. Di cosa si tratta? Guardate!”.
Era Marco che parlava. Era cresciuto, era cambiato, ma era lui. E si scostò, mentre poco dietro di lui, si poteva scorgere la sagoma di una persona, con mani e piedi legati ad un palo. Su di essa, in preda ad urla inumane, iniziavano a comparire ed essere visibili, piccoli puntini rossi. Dopo pochi secondi, dai primi puntini, iniziava ad uscire il sangue.
“Stop!” gridò Simone. L’immagine scomparve.
“Abbiamo capito!” disse di nuovo, cercando di guardare verso l’alto.
“Quali sono le potenzialità del memorizzatore acustico?” chiese Michele.
“PRESSOCCHÉ ILLIMITATE. IN POCHI MINUTI PUO’ SCANSIONARE E DUPLICARE LA MEMORIA DI UNA PERSONA. PER RISCRIVERLA SU UN'ALTRA PERSONA IMPIEGA CIRCA DUE ORE. PUO’ INSERIRE INFORMAZIONI NELLA MENTE DI CHIUNQUE. PUO’ COSTRINGERE LA MENTE DI UNA PERSONA AD AVERE INCUBI, A SOGNARE, A CONVINCERSI DI FARE QUALSIASI COSA. PUO’ FORMATTARE LA MENTE DI UNA PERSONA, FACENDOGLI DIMENTICARE TUTTO. PUO’ CANCELLARE SOLO ALCUNI MOMENTI DAI RICORDI DI UNA PERSONA. PEGGIO ANCORA, PUO’ DISTRUGGERE LA MENTE DI UNA PERSONA, LASCIANDOLA IN STATO VEGETATIVO. ERA STATA DAPPRIMA INVENTATA DA Francesco E Emanuele COME UNA CURA PER L’HALZAIMER. E PERCHÉ FUNZIONASSE FINO IN FONDO HANNO DOVUTO PERMETTERE TUTTE LE ALTRE COSE!”
Un silenzio più che notturno cadde su quella casa, in quel momento.
“È semplicemente spaventoso!” esclamò Simone. “Non possiamo e non dobbiamo permettere che quella macchina infernale cada nelle mani sbagliate!”
“Ma come hanno fatto Marco e gli altri a venire a conoscenza dell’esistenza di questa macchina?” chiese Giuseppe.
“VI HO DETTO CHE SONO STATO IO. CIRCA UN ANNO FA, HO RILEVATO TROPPO TARDI UN ACCESSO NON CONSENTITO AL MIO SISTEMA. RITENEVO QUASI IMPOSSIBILE TROVARE UN INFORMATICO PIU’ ESPERTO DI FRANCESCO, MA EVIDENTEMENTE IL FRATELLO DI COSIMO, GIOVANNI, LO ERA. ANCHE PERCHE’ NON MI HANNO RUBATO I PROGETTI, MA SOLO LA DOCUMENTAZIONE PREPARATA PER LA PRESENTAZIONE DELLE INVENZIONI, CHE SPIEGA COSA POSSONO FARE. IN PRATICA SONO VENUTI A CONOSCENZA DELLA LORO ESISTENZA, MA NON DELLE LORO SPECIFICHE DI PROGETTO. E QUESTO E’ IL MOTIVO PER CUI LE VOGLIONO”
“E perché proprio quelli della macchina della memoria? Perché non le tute?” chiese Simone.
“PERCHE’ DELLE TUTE SONO GIA’ IN POSSESSO E CON LA STRUMENTAZIONE GIUSTA UN BUON INGEGNERE RIESCE A CAPIRNE IL FUNZIONAMENTO E RIPORODURLE. MA LA MACCHINA PER LA MEMORIA E’ EFFETTIVAMENTE TROPPO COMPLESSA. CONVIENE DECISAMENTE RUBARNE I PROGETTI E RIPRODURLA SULLA BASE DEI PROGETTI, CHE CERCARE DI SMONTARLA E COMPRENDERNE IL FUNZIONAMENTO”
“C’è solo una cosa che possiamo fare!”
Simone e Michele si voltarono, mentre un più che convinto Giuseppe continuò il suo ragionamento.
“Dobbiamo portare via le tute a Marco. Frem, quanto tempo ci vuole per convincere una persona a fare una cosa?!” chiese.
“MAH! DIECI, QUINDICI MINUTI! LA COSA PIU’ LUNGA E LA SCANSIONE DELLA MENTE DELL’INDIVIDUO. È NECESSARIA PER LA DECRITTAZIONE DEL CODICE! POI A PREPARARE L’INFORMAZIONE E INSTALLARLA, NEANCHE UN MINUTO!”
“Decrittazione di quale codice?!” chiese Simone, a cui quel particolare aveva colpito moltissimo.
“OGNI CERVELLO È UN MONDO A SÉ STANTE. OGNI PERSONA HA UNA MENTE DIVERSA, E LA PRIMA COSA CHE DEVE FARE IL DISPOSITIVO È LA SCANSIONE DELLA MENTE. POI DEVE RICONOSCERE LA PARTICOLARE SEQUENZA DI DECRITTAZIONE. UNA COSA È LEGGERE LA MENTE, UNA COSA È SCRIVERCI SOPRA. PER FARLO È NECESSARIO CONOSCERE IL MODO IN CUI LA MENTE ACQUISISCE E MEMORIZZA LE INFORMAZIONI. E IL MODO IN CUI VIENE FATTO È DIVERSO DA PERSONA A PERSONA. UNA VOLTA CONOSCIUTO QUELLO, SI TRASFORMANO LE INFORMAZIONI CHE SI VUOLE INSERIRE NELLA MENTE DI QUELLA PERSONA NELLA SEQUENZA DI SUONI GIUSTI. E L’EMISSIONE DI QUESTI SUONI CORRISPONDE ALLA SCRITTURA. IL FATTO E’ CHE OGNI QUANTO DI INFORMAZIONE APPORTA DELLE MODIFICHE, ANCHE SOSTANZIALI, AL CODICE. PER QUESTO CHE CI VUOLE COSI’ TANTO TEMPO: QUALUNQUE PICCOLA PARTE DELLA MENTE DI UNA PERSONA DEVE ESSERE SCANSIONATA E ANALIZZATA PER REALIZZARE IL CODICE GIUSTO”
“Quindi, se ho capito bene, la mia mente e diversa dalle altre, quindi il mio codice è diverso dagli altri, quindi il suono che, se si può dire, installa il programma, è diverso da persona a persona. Giusto?!” chiese Giuseppe.
“GIUSTO. PER ESSERE PIU’ PRECISI, CIO’ CHE SU UNA PERSONA SORTISCE PROPRIO L’EFFETTO SPERATO, SU CHIUNQUE ALTRO NON SORTISCE ALCUN EFFETTO!”
“Cioè il dispositivo, con noi, ha utilizzato tre segnali sonori diversi, per darci le stesse informazioni?!” chiese Michele.
“ESATTAMENTE! E CIASCUN SUONO HA AVUTO EFFETTO SOLO SULLA PERSONA PER CUI ERA STATO PREPARATO, E NESSUN EFFETTO SUGLI ALTRI!” concluse Frem.
“Possiamo fare così” esordì Giuseppe. “Quando Dorian viene qui, lo blocchiamo, anche usando le tute, se è necessario. E lo facciamo stare qui finché non è pronto il programma che poi lo costringerà a dirci dov’è Marco. Poi raggiungiamo Marco e lo fermiamo. Siamo tre contro due, come tute! Non dovrebbero esserci problemi!”
“TRENTADUE!”
“Semplice e coraggioso! Troppo semplice! Dobbiamo sperare che Marco non si sia premunito!” rispose Simone.
“Possiamo fare una cosa. Mentre Dorian viene qui, io aspetto da tutt’altra parte, nel caso ci fosse bisogno del mio intervento” continuò Michele.
“QUARANTASETTE!”
“Ma che stai dicendo, Frem?” chiese Giuseppe.
“SONO LE PERCENTUALI DI PROBABILITA’ DI SUCCESSO. PRIMA ERANO TRENTADUE. POI, CON L’IDEA DI Michele, SONO DIVENTATE DEL QUARANTASETTE PERCENTO!” rispose.
“Troppo poche!” disse Simone.
“Si, ma dobbiamo rischiare, altrimenti, è la fine. Per tutti!” rispose Giuseppe.
“Allora dobbiamo allenarci!” disse Simone “Frem! Ci puoi identificare una discarica nella zona?!”
“CE N’É UNA A TRE CHILOMETRI DA QUI, NELL’ENTROTERRA, DOPO IL MUSEO. PERCHÉ?”
“Siamo troppo poco esperti con l’uso del manipolatore magnetico. Almeno lì abbiamo tutto il materiale di cui abbiamo bisogno per fare le prove ed allenarci. In più una bella giornata di sole come questa, ci permette di stare all’aria aperta e ricaricare le tute. Siamo d’accordo?!”
“OK!” fu la risposta affermativa di Michele e Giuseppe. Immediatamente uscirono. Il sole era già alto nel cielo e la temperatura piacevole, per quanto fossero solo le otto del mattino. Un quarto d’ora dopo erano lì ad allenarsi.
Si accorsero di come con quella tuta era possibile fare cose veramente strabilianti. A parte il volo in campo aperto, che era stato provato, fino a quel momento, solo da Michele, Simone e Giuseppe capirono come potessero sollevare, spostare, gettare, oggetti metallici ben più pesanti di loro, molto più che a mani nude. Provarono anche a gettarseli addosso, per schivarli, deviarli, o addirittura fermarli. E dove non riuscivano a farlo da soli, in due era possibile. Passarono tutto il giorno ad allenarsi. Le tute si scaricarono pochissimo, perché c’era il sole e faceva caldo.
Tornati a casa, Simone, Giuseppe e Michele, si accorsero di una cosa. Una volta tolta la tuta avevano veramente caldo.
“PER FORZA. L’USO PROLUNGATO DELLE TUTE, FA AUMENTARE LA TEMPERATURA CORPOREA. IN PRATICA AVETE UNA FEBBRE DA AFFATICAMENTO. DOVETE BERE MOLTI LIQUIDI, RIMETTERVI IN FORZE E RIPOSARVI! IL FATTO CHE NON SUDIATE, NON SIGNIFICA CHE NON CONSUMIATE ENERGIA, SIGNIFICA SEMPLICEMENTE CHE QUESTA VIENE EFFICIENTEMENTE ASSORBITA DALLA TUTA. PRESTATE ATTENZIONE DOMANI!”
Sembrava quasi che avessero trovato un genitore.
Quella giornata terminò tranquillamente. I tre erano pronti per la sera successiva. La domenica trascorse senza grossi problemi, almeno fino alle 15. Alle tre e un quarto, avevano appena finito di riposarsi, quando udirono suonare alla porta. Michele sapeva che quello era il momento di andare via. E infatti Frem confermò che al di là della porta c’era effettivamente Dorian. Ricordando sottovoce che per attivare la scansione della memoria era essenziale che Dorian entrasse in casa, Simone e Giuseppe, con la tuta precedentemente indossata, andarono ad aprire. Michele, intanto, era uscito dalla finestra per ritrovarsi nella strada di Giuseppe.
Giuseppe andò ad aprire, mentre Simone, infilando il casco, attivò la tuta.
Dorian entrò. Sembrava tranquillo e rilassato. Erano quasi ventiquattro anni che non si vedevano, ma sapevano che cosa aspettarsi.
Almeno. Questo è quello che credevano.
“Buon pomeriggio!” disse Dorian.
Tre dei coltelli più affilati si avvicinarono a quest’ultimo, due allo stomaco ed un altro, il più affilato, alla gola.
Davanti a lui, Simone, con la tuta addosso, aveva steso le mani e stava facendo capire a Dorian che non era il caso di giocare brutti scherzi.
“Eh! Quante storie!” disse, ancora molto rilassato. “Se pensate che mi faccia paura una cosa del genere, allora vi sbagliate di grosso. Guardate qui!” disse Dorian, porgendogli un videotelefono, dal quale erano visibili delle immagini. Giuseppe si avvicinò al telefono.
“Di al tuo amico di abbassare le armi, e togliere il casco. Se non volete che gli accada qualcosa!” concluse.
Il videotelefono riprendeva Cosimo che si stava avvicinando a grandi passi dietro due ragazzini. Giuseppe ci mise un attimo a riconoscere che quelli erano Giuseppe e Simone. Sapeva che sarebbero usciti insieme quel giorno. Quella stessa mattina gli aveva dato lui stesso il permesso.
“Allora non mi sono spiegato. Cosimo è collegato telefonicamente con me, come potete vedere!” e Cosimo rivolse il videotelefono verso di sé salutando. “Se non abbassa subito tutte le armi, Cosimo, che ha una delle due tute, li spinge sotto un tram!” disse, mantenendo la calma.
Giuseppe diede il segnale a Simone, alzando la mano sinistra. I due coltelli tintinnarono cadendo.
“Ho detto tutte le armi!” disse, ancora più ad alta voce. E osservò Giuseppe negli occhi.
Anche il terzo coltello, quello che fino a pochi istanti prima, Dorian aveva puntato alla gola, cadde a terra, fermo.
“Bene!” esclamò sorridendo, e tirando fuori un telecomando. Aveva solo un grosso pulsante rosso, proprio al centro. E lì fece l’unico errore: esitare due secondi.
Frem, che nel silenzio teneva tutti i sensori puntati su Dorian, capì subito a cosa serviva quel telecomando. E riuscì a scaraventare Michele a tre chilometri di distanza, in circa cinque secondi. Proprio quelli che servivano per fargli fare quei tre chilometri. E portarlo a distanza di sicurezza.
Dorian premette il pulsante. Nel raggio di un chilometro, praticamente metà Policoro, tutti gli impianti elettrici cessarono di funzionare. Un impulso elettromagnetico aveva spento, istantaneamente, tutti gli accessori elettrici ed elettronici. Tute, Frem, dispositivi acustici, il cellulare, tutto si spense.
Simone non fece neanche in tempo ad accorgersi di aver perso tutta l’energia della tuta, che vide Dorian che gli puntava una pistola addosso. Immediatamente alzò le mani.
“Levati il casco. Anzi! Levatevi entrambi le tute e ce ne andremo subito!” disse.
Simone si levò il casco. Capì che tutto era finito. Vennero scortati da Dorian in camera a togliersi la tuta. Dopo neanche un minuto, arrivò Amaraldo, con un telefono, da cui aveva richiamato Cosimo. Così avevano sempre la visuale generale di quello che poteva accadere se loro non avessero fatto tutto ciò che gli chiedevano.
“Dov’è il dispositivo?” chiese Amaraldo.
“Non lo sappiamo!” fu la risposta di Giuseppe.
Ed era vero. Non sapevano dove fosse posizionato il dispositivo. E quell’impulso aveva impedito allo stesso di funzionare e quindi di farsi riconoscere in qualche modo.
Mentre se ne andavano, ancora con Dorian e la sua pistola puntata contro di loro, Simone e Giuseppe sapevano che solo una persona poteva salvarli in quel momento. A patto che non fosse stato impulsato anche lui. Stavano per uscire di casa e sentirono il frigorifero che ripartiva.
-Bene! significa che lentamente la corrente sta tornando. E che quindi tra un po’ Frem potrà ancora aiutare Michele. Speriamo!- pensò Giuseppe.
Entrarono nella macchina che li attendeva appena fuori casa di Simone. Alla guida c’era Amaraldo. La macchina partì. E si incamminò lentamente verso la sua destinazione. Quella strada Simone e Giuseppe la conoscevano troppo bene. Era quella per andare al lido Torremozza. Anzi, per essere più precisi, era quella che li avrebbe condotti alla radura. E quando se ne resero conto, un vecchio timore si impadronì di Giuseppe. E anche di Simone.
 
--O--
Dopo cinque minuti i sensori visivi di Frem si attivarono. Michele, in piedi in mezzo alla cucina, stava aspettando proprio quello.
“Rintraccia la macchina targata HS 309 FS” disse, ricordandosi la targa che aveva visto sulla macchina di Amaraldo.
Appena resosi conto di quello che era successo si era diretto nuovamente verso di loro, e dal tetto della casa di Simone aveva visto quello che era successo. Aveva riconosciuto Amaraldo, e aveva, purtroppo, anche capito dove stavano andando.
“Rintraccia immediatamente i miei figli, e dimmi dov’è e come funziona il dispositivo acustico!”
Frem comprese che quelli erano ordini ed era stato programmato per ubbidirgli, fintanto che gli fosse stato possibile.
“Il dispositivo è praticamente contenuto in questa casa, non è un oggetto unico. Per fortuna. Bisognerebbe staccare metà dei miei banchi di memoria per essere quasi sicuri di prenderlo completamente. Io e lui siamo una cosa sola” rispose il computer.
“Ho capito. Beh! meglio così! tra quanto funziona?!” chiese.
“Entro trenta minuti sarà nuovamente operativo! E Roberto e Francesca sono a casa di tua mamma, qui dietro. Ho rintracciato i segnali del cellulare!”
“Benissimo! Prepara un programma con tutta la conoscenza della tuta possibile e immaginabile, e abilita le tute di Simone e Giuseppe per essere indossate ed usate anche da loro due. Quando ritorniamo incomincia la scansione della loro mente, e appena pronto invia immediatamente il programma per la tuta nella loro mente!” ordinò Michele.
“Lo sto già preparando! Quali funzioni della tuta vuoi che carichi nella loro mente?!”
“Tutte! Comprese le armi!!”
“Non è un po’ troppo pericoloso?”
“Intercetta la videochiamata al telefono che ha comunicato prima qui dentro. E fammi vedere le immagini!” ordinò Michele, disinteressandosi, coscientemente, della domanda di Frem.
Le immagini erano inequivocabili. Cosimo aveva catturato anche i due giovani. E li teneva legati e nascosti in quella che sembrava essere una cantina di un anonimo palazzo di Milano.
“Voglio sapere l’indirizzo esatto di dove si trovano i figli di Simone e Giuseppe. Inserisci anche questo nell’installazione di memoria per Francesca e Roberto, come pure tutto quello che è accaduto in questi ultimi tre giorni. Genera anche il programma per la cancellazione della loro memoria da ora fino a quando ti dirò io!”
“RIPETO… NON È UN PO’ TROPPO PERICOLOSO?”
“Si! è pericolosissimo. Ma so che loro due possono farcela. E sono gli unici due che ci possono dare una mano adesso. E se lo faranno, pur non ricordandosi nulla, avranno provato per qualche ora il gusto di aver sconfitto l’ex-capo della banda dei Tre Fratelli!” disse Michele.
E se ne uscì. Dopo dieci minuti rientrò con i due ragazzi. Guardarono un po’ la televisione, visitarono la casa, gli fecero alcune domande su come si erano svolti alcuni fatti accaduti ventiquattro anni prima. Poi più niente. E la storia si ripeté.
Francesca e Roberto sentirono un sibilo fortissimo, che questa volta non fece assolutamente nulla a Michele.
Dieci minuti dopo erano nuovamente coscienti, pienamente consapevoli di quello che stava per accadere, completamente edotti di tutti i funzionamenti della tuta.
“Dobbiamo liberare Simone e Giuseppe a Milano? ma come facciamo ad arrivare fin lì?” chiese Roberto.
Sibilo.
“AH! È possibile fare addirittura questo?!”
“Si! e molto altro, come ormai ben sapete!”
“Tu cosa farai!?” chiese Francesca.
“Io vado alla radura. Simone e Giuseppe sono lì. E aspetterò il vostro segnale. Appena avrete liberato Giuseppe e Simone e sarete al sicuro fatemelo sapere che penserò agli altri due. Così risparmiamo il tempo del ritorno! Adesso andate!” disse Michele.
“OK!” risposero entrambi. Per poi essere richiamati dal loro padre.
“Io mi fido di voi! So che potete fare le scelte giuste. Sempre. Non avrei mai voluto mettervi in questa storia. E per questo che tra dodici ore tutto sarà finito e voi avrete dimenticato tutto. Su questo non transigo!” disse Michele.
“Lo sappiamo!” disse Francesca.
“E a dirla proprio tutta, potendo prevedere anche quello che ci toccherà fare e vedere in queste dodici ore, non vediamo già l’ora di dimenticare tutto!” continuò Roberto.
Un sorriso affettuoso comparve tra i tre. Roberto e Francesca infilarono i caschi ed uscirono dalla casa. Cercarono un posto leggermente nascosto e appartato. Partirono, accelerando, fino a superare il muro del suono, dopo qualche minuto, esattamente come loro padre aveva fatto in precedenza, poco prima dell’impulso lanciato dal dispositivo di Dorian.
-Andate ragazzi! La buona riuscita di questo piano dipende da voi!- pensò Michele mentre vide i due puntini ormai allontanarsi.
Rientrò e dalla “cabina di regia” rappresentata da Frem, seguì tutto quello che stava succedendo ai ragazzi.
Dopo trentacinque minuti, Roberto e Francesca, atterrarono a Milano.
Cosimo si era rinchiuso, con i due prigionieri, in un tunnel di servizio della metropolitana. Aveva usato delle vecchie lamiere per legarli ad un palo.
Usando il potere della tuta, rivolgendo la lamiera appuntita verso il loro viso li stava costringendo a guardare al videotelefono quello che gli altri, a Policoro, stavano facendo ai suoi genitori. Un giro di scotch impediva a Simone e Giuseppe di urlare, e la lamiera, ben stretta intorno ai loro corpi, gli impediva qualsiasi minimo movimento.
Per quanto cercassero di dimenarsi, Cosimo li aveva continuamente sottocontrollo. Alzò la visiera del casco.
Giuseppe e Simone lo osservavano completamente impotenti, cercando di capire chi fosse.
“È inutile che cercate di riconoscermi! Non mi conoscete! Comunque non è un problema! Mi chiamo Cosimo! Vi dice qualcosa questo nome?!” disse. Sapendo, per certo, che qualcosa gli diceva.
Ed in effetti Giuseppe e Simone cercarono di fare un ulteriore sforzo per urlare. Alla fine Cosimo si stufò e decise di lasciarli parlare. Alle sue condizioni.
“Adesso vi levo lo scotch. Non vi conviene urlare, altrimenti l’ultima cosa che vedrete sono queste punte di lamiera che vi entrano negli occhi!” disse, sorridendogli con quel sorriso ironico che aveva sempre utilizzato.
Con uno strappo deciso, Giuseppe e Simone ebbero le bocche libere.
“Quando mio padre ti trova ti concia come l’ultima volta!” disse Giuseppe, diretto verso Cosimo.
“Peccato che tuo padre è quello che per salvarti la vita, si sta prendendo tutte quelle botte. Guarda qui!” e gli mostrò la videochiamata. Giuseppe riconobbe suo padre immediatamente. Ed effettivamente lo stavano conciando per bene!
“E comunque non ti conviene rivolgerti mai più a me con quel tono!” disse, Cosimo, mentre con un quasi impercettibile cenno della mano, fece arrotolare di altri dieci centimetri buoni la lamiera attorno ai loro corpi, levandogli ancora di più il respiro.
I due cercarono di ricavare un po’ di spazio, ma per quanto provassero con tutte le loro forze, era impossibile.
E Giuseppe e Simone si sentivano ancora più impotenti. Non sapevano cosa fare, non sapevano come potersi aiutare e neanche se sarebbero usciti vivi da quella situazione. Quando ad un tratto, accadde una cosa. Che aveva dell’incredibile. Le manette, con cui Cosimo li aveva legati, e che oramai non impegnavano più la tuta, dal momento che si stava divertendo con la lamiera, quelle manette incominciarono a “parlare”. Fortunatamente se ne accorsero sia Giuseppe che Simone, contemporaneamente.
Stringendosi e rilasciandosi, mandavano un messaggio ai due ragazzi:
"… - .- - .   -.-. .- .-.. -- ..   …- ..   … .- .-.. ...- .. .- -- ---   .-. ..-."

Era codice Morse. E sia Giuseppe che Simone sapevano cosa significava: “State calmi vi salviamo RF”.
Venne ripetuto tre volte. E infatti alla terza volta i due ragazzi compresero il senso.
“Ma cosa sta succedendo?!” chiese d’un tratto Cosimo.
Michele capì immediatamente che l’uso dei campi magnetici per generare un segnale poteva essere tranquillamente percepito dalle altre tute, anche se non erano connesse con queste ultime. E che quindi Cosimo aveva capito. D’altra parte, era proprio per quello che da quando erano arrivati a Milano, Frem aveva interrotto la comunicazione fra le due tute e con lui.
“Lasciali andare!” disse una voce femminile.
Giuseppe ci mise una piccolissima frazione di secondo per capire a chi apparteneva quella voce. Quasi si vergognò di trovarsi lì in difficoltà e non poter essere lui a dover fare “l’uomo” correndo in soccorso della persona a cui voleva bene. Ma poi capì che forse quello non era il momento di sottilizzare.
Sentirono ancora la lamiera tendersi e stringerli ancora. Poi, i due lembi che si erano richiusi si accavallarono, l’uno sull’altro.
“Voi state qui buoni buoni! Che vado a divertirmi un po’ con questa ragazza!” disse Cosimo, mentre smetteva di concentrare il manipolatore magnetico sulla lamiera.
Neanche tre secondi dopo, centinaia di oggetti metallici si diressero contro Francesca. Che con un campo di forza li schivò tutti.
“Complimenti per la raffinatezza! Credo proprio che dovremo fare sul serio!” disse Cosimo, mentre metteva in tasca il videotelefono.
Nei successivi trenta secondi fu un continuo scambiarsi oggetti metallici volanti da Cosimo a Francesca e viceversa. Non risparmiarono alcun colpo.
In quel momento, quando Michele vide quello che stava accadendo, uscì velocemente di casa. Sapeva di essere arrivato al momento giusto per recarsi alla radura. Il casco gli permise di seguire come stavano andando le cose.
Ad un tratto, Cosimo ebbe la meglio, colpendo con una scatola di metallo Francesca in pancia.
Piegata dal dolore, Francesca si accasciò a terra. In quel momento, due lame acuminate si sollevarono da terra, e si avvicinarono a Francesca.
“Mi dispiace rovinare un così bel visino!” disse Cosimo.
Ma non fece in tempo ad andare oltre. Un colpo alla testa lo stordì. E cadde a terra svenuto. Dietro di lui, Roberto, con una mazza di legno in mano, ed in boxer.
“Sono un’arma a doppio taglio, queste tute. O le usi per un combattimento faccia a faccia, oppure non ci riesci mica a prenderli alle spalle, i nemici!” esclamò mentre Francesca si riprendeva.
“Grazie Roby! Menomale che sei arrivato in tempo. Qui sotto la tuta si stava scaricando molto velocemente!” disse Francesca rialzandosi.
Mentre Roberto rindossava la tuta, Francesca accartocciò lontano da Simone e Giuseppe la lamiera, e le manette.
“Grazie Ragazzi!” disse Giuseppe. Accompagnato anche da Simone.
“Ma che cosa sono queste tute?!” chiese immediatamente dopo Simone.
“Non lo sappiamo. Sembra che le abbiano inventate Francesco e Emanuele. Comunque sono fantastiche. C’abbiamo messo 35 minuti netti per arrivare fin qui da Policoro. Comunque ci sono molte altre cose che riguardano queste tute, delle quali, però, non possiamo parlarvi. Tu hai fatto tutto, vero Roberto?!” rispose Francesca.
“Si! Ho spogliato Cosimo della tuta e il videotelefono è inutilizzabile. Così papà può fare il suo dovere alla radura!”.
“Vabene! Allora noi facciamo il nostro qui. ok!?” disse Francesca.
Presero e accompagnarono i due ragazzini fuori dal tunnel di servizio, verso la stazione della metropolitana. Una volta in un luogo appartato di quest’ultima, procedettero all’ultima parte di questa missione. Francesca strinse tra le mani la testa di Giuseppe. Roberto quella di Simone.
“A che ora siete stati rapiti?” chiese Francesca.
“Poco dopo le tre. È già passata un’ora e mezza, e dovremmo quasi essere a casa!” rispose agitato Giuseppe.
“Bene! e voi lì starete andando!” concluse Roberto.
Poi parlò Francesca.
“Appena arriverete alla metropolitana, voi dimenticherete tutto quello che è accaduto nell’ultima ora e mezza, prenderete la metropolitana e tornerete a casa. Sarà stato un bel pomeriggio di divertimento, e basta. Non ricorderete mai più quello che è successo!” disse.
Entrambi, Roberto e Francesca, presero il loro casco e lo misero in testa agli altri due. Tempo trenta secondi di un suono strano e ripresero il casco indossandolo nuovamente.
Roberto li salutò e se ne andò. Francesca rimase un po’ di più.
“So che è una cattiveria e per pochi secondi anche tu te la ricorderai come tale. Ma sono completamente e fermamente convinta di essermi innamorata di te dalla prima volta che ti ho visto a casa tua!” disse a Giuseppe. Poi si avvicinò al suo volto e si baciarono.
Giuseppe capì che cosa intendeva Francesca, per “cattiveria”: essere costretto a dimenticarsi tutto dopo aver provato l’emozione più grande, bella, forte e profonda della sua vita poteva definirsi solamente una cattiveria. Però capiva che anche Francesca la vedeva così. e che anche lei stava per subire la stessa cosa. Poco prima di lasciarli andare, Giuseppe guardò Francesca negli occhi. Sorridendole.
“Anche a te succederà la stessa cosa. Anche io ti amo. Sei la cosa più bella che mi è capitata. E sono il ragazzo più felice del mondo per averti conosciuto. Ci sentiamo!”
Francesca lo guardò sbalordito. Poi suo fratello tornò a riprenderla. E corsero via mischiandosi tra la gente. Lasciando perplesso soprattutto Simone.
Arrivò la metropolitana.
Giuseppe guardò l’orologio.
“Mamma mia come è tardi! È volato il tempo questo pomeriggio! Però ci siamo divertiti! Eh, Simo!?”
“Si! Anche se sembra quasi che non abbiamo fatto niente!”
“Sai una cosa? Prima ho mangiato il gelato, al gusto di cioccolato e nocciola! Però adesso sento in bocca un sapore di fragola. Non riesco a capire come mai!” disse Giuseppe, mentre erano ormai seduti in metropolitana.
E non riusciva neanche a spiegarsi per quale motivo si sentiva felice, soddisfatto e anche parecchio euforico.
Tornarono a casa tranquilli.

--O--
Quando Michele sentì Frem che gli annunciava che la missione era compiuta e che tutti e quattro i ragazzi stavano tornando alle loro case sani e salvi, chiuse la comunicazione e si preparò a combattere.
Era arrivato alla radura già da diversi minuti e in quei minuti aveva visto Simone e Giuseppe subire torture paragonabili a quelle che avevano passato ventiquattro anni prima.
Marco aveva chiesto loro per diverse volte come era fatto il dispositivo acustico e dove si trovava.
Secondo loro Simone gli aveva detto che era a casa sua, dicendo la verità, ma mentendo gli continuava a ripetere che non sapeva dove fosse. E per questo motivo le torture continuavano.
Il problema era che quello che Simone gli aveva detto era vero. Anche se Michele aveva capito che, per qualche motivo ancora non del tutto compreso, Frem era arrivato al punto di mentirgli. Come avrebbero potuto, altrimenti, i suoi figli, cancellare la memoria di Giuseppe e Simone a mille chilometri di distanza dal dispositivo? Era possibile che le tute avessero, al loro interno, un congegno per distruggere, almeno cancellare, parte della memoria di un individuo? Se Marco fosse venuto a conoscenza di una cosa simile, avrebbe probabilmente fatto tutto quello che voleva a Simone e Giuseppe, oltre a quello che, attraverso delle bacchette di ferro, stava riuscendo a fargli, per procurargli più dolore possibile.
Michele attivò il dispositivo. Bloccò la bacchetta che stava colpendo Simone. Marco si accorse immediatamente della sua presenza.
Incominciò la stessa cosa che aveva visto con i suoi figli. Una cascata di bacchette, viti, bulloni, lame d’acciaio, qualunque oggetto metallico, prese la traiettoria di Michele. Solo per essere fermata, alla distanza giusta, dal suo campo di forza. Intanto, con i soliti bastoni, rimasti lì probabilmente da 24 anni, Amaraldo e Dorian continuarono il trattamento.
L’unica differenza tra Francesca e Cosimo, con Michele e Marco, era che loro erano all’aperto. E il sole faceva il suo dovere. Quindi i colpi erano molto più veloci, più forti e la carica delle tute molto più resistente.
Ad un certo punto, Michele si accorse del fatto che era arrivato quello che voleva.
Lanciò a debita distanza una scatola di latta. Circa tre minuti dopo la scatola, alla completa insaputa di Marco, che stava lottando con Michele, colpì Amaraldo e Dorian, ponendo fine alle torture di Simone e Giuseppe.
I vestiti erano ormai ridotti a brandelli. Ma finalmente era finita. Il filo di ferro che li teneva legato ai pioli si divelse come la lamiera dei loro figli neanche un’oretta prima. Liberandoli.
In quel momento Marco se ne accorse. E quello stesso fil di ferro, appuntito, si rivolse verso Giuseppe e Simone.
Non fece però in tempo ad arrivare, perché la disattenzione alla propria guerra costò caro a Marco. Un cuscinetto di ferro lo colpì alla testa, stendendolo a terra svenuto. Michele aveva vinto. Con l’aiuto di Francesca e Roberto, ma aveva vinto.
I due atterrarono andando a soccorrere Simone e Giuseppe.
“Grazie per il vostro intervento! Ne abbiamo prese veramente tante, questa volta!” disse Giuseppe, provando addirittura a sorridere.
“Ehi! Un momento! Non sono collegato con Frem! Che cosa è successo!” urlò Michele mentre li stava raggiungendo.
“Vai a controllare!” disse Simone.
“Questa era di Emanuele!” disse Roberto, lanciandogli la tuta che avevano preso a Cosimo.
Giuseppe e Francesca, intanto, levarono anche la tuta a Marco. Mentre Michele, più veloce che poteva, cercava di raggiungere quella casa così vicina, eppure troppo incustodita.
Roberto e Francesca, legarono e imbavagliarono Amaraldo, Dorian e Marco nella radura, mentre Simone e Giuseppe andavano a vestirsi con le tute di Emanuele e Francesco, finalmente recuperate.
Pochi secondi dopo, una comunicazione da Frem li fece tremare.
“ATTENZIONE! ALLARME ROSSO! VIOLAZIONE DELLA SICUREZZA IN CASA. A SEGUITO DELL’UTILIZZO DEL DISPOSITIVO PER RILASCIARE GLI IMPULSI ELETTROMAGNETICI, SONO STATO DISABILITATO PER CIRCA DUE MINUTI, DURANTE I QUALI SONO ENTRATI IN CASA. HANNO TRAFUGATO I PROGETTI PER LE TUTE E PER IL SISTEMA ACUSTICO!”
A folle velocità, giunsero a casa. Michele era già arrivato da un pezzo ed era stato lui ad avvisarli, mediante Frem, dell’accaduto.
“Devono essere stati Massimo e Giovanni, i due fratelli di Cosimo a usare il dispositivo ad impulsi e rubare quello che gli serviva!” dedusse Giuseppe.
“Questo è un guaio! Oramai saranno lontani, e possono aver attivato il dispositivo, spegnendo Frem ben prima che lui potesse sospettare qualcosa” concluse Simone.
“EFFETTIVAMENTE IN MEMORIA NON HO NULLA CHE POSSA FARMI SCOPRIRE QUALCOSA SU DOVE SIANO ADESSO QUEI DUE!”
“Allora che facciamo!?” chiese Michele.
“Proseguiamo come se nulla fosse!” rispose Simone “Tanto per il momento Marco e gli altri sono inattivi, non avendo più con loro nessuna tuta, e passerà un po’ di tempo prima che riescano a fabbricarne. La stessa cosa vale per la macchina. Noi, invece, ne abbiamo cinque. E possiamo difenderci benissimo in caso di bisogno!”.
Giuseppe guardò gli altri due e disse una cosa che, comunque, frullava già anche nella testa degli altri.
“Direi che Roberto e Francesca, come hai detto prima, possono tranquillamente tornare a casa e non ricordarsi definitivamente di nulla. Io, però, non ho voglia di avere certi ricordi. Quindi vorrei che, per difendermi, fossero ancora vividi fino alla fine di questa breve vacanza. E poi vorrei dimenticarmi di tutto fino al nostro ritorno a Policoro. Che ne dite, direi il 3 Agosto?! Pensate che sia una cosa ragionevole?!”
Tutti e due gli altri la ritennero una cosa più che ragionevole. Per questo motivo, programmarono Frem per ricordargli tutto quello che riguardava la vacanza, salvo le cose speciali che avevano vissuto, il giorno del loro ritorno a Milano, mentre fargli ottenere la memoria completa una volta tornati a Policoro. In modo da ritornare nel pieno possesso della loro mente e della loro conoscenza della situazione per essere in grado di proteggere nuovamente le loro famiglie, al massimo delle loro possibilità.
Tanto non tornare a Policoro non sarebbe servito a nulla, perché, una volta ricostruite le loro tute, Marco e compagnia bella avrebbero potuto raggiungerli ovunque, anche al Polo Sud.
Così il resto della vacanza passò in maniera relativamente tranquilla. Giuseppe, Simone e Michele fecero tutto quello che dovevano fare, in modo da non avere più nessuna incombenza burocratica da risolvere relativamente all’eredità. Simone sbrigò anche tutte le questioni relative a dei pagamenti in sospeso della famosa commessa di Matera, e le questioni relative alla nuova azienda appena acquisita.
Michele dal giovedì ritornò al lavoro e scoprì che sugli aghi che avevano ucciso Salvatore non c’era nessuna traccia fisiologica del probabile assassino, però erano leggermente magnetizzati. Quella che, però, era una prova inconfutabile della colpevolezza di Marco, non lo poteva essere per nessuno, soprattutto perché oltre ai progetti della tuta e del memorizzatore acustico, i due nemici avevano anche rubato il DVD. Quindi nessuna prova riconducibile a Marco, nessun caso risolto, una lavata di capo da parte del questore e la voglia, incontrollabile ed incontrollata di vacanze. Anche se velate da una leggera inquietudine, che neanche Michele riusciva bene a spiegarsi.

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NdA: Buongiorno a tutti, e benvenuti a questo nuovo capitolo. Lo so, lo so, la piega che stanno prendendo gli avvenimenti rasenta più il fantasy della fantascienza. però mi sono divertito parecchio a scriverlo, questo racconto. Quindi spero che la lettura possa divertirvi! fatemi sapere!

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Capitolo 11
*** La dura realtà ***


La dura realtà

Simone si risvegliò da quello stato di trance seguito alla fine del racconto di quella storia. Man mano che la raccontava aveva visto le espressioni delle due donne e dei quattro giovani che si rendevano sempre più serie. Arrabbiate.
“Cioè vuoi dire che ci avete cacciato in questo macello, che ci avete portato qui nonostante il pericolo che correvamo, decidendo di cancellare volontariamente parte dei vostri ricordi, altrimenti non ci avreste condotti qui?” chiese Maria, ripensando al fatto che forse anche lei non aveva capito pienamente la sua domanda.
“Si!” cercò di rispondere Simone “E di questo vogliamo chiedervi scusa!”
“Ma quale scusa e scusa!” urlò Anna, anche lei seriamente arrabbiata “Ma vi rendete conto? Ci avete messo deliberatamente in pericolo!”
“Questo non è propriamente vero!” rispose gentilmente Giuseppe.
“Non è propriamente vero? Non è propriamente vero? Marco e gli altri, in questi due giorni avrebbero potuto raggiungerci in qualsiasi momento e farci quello che volevano! Anche questo non è propriamente vero?!”
Simone e Giuseppe ascoltavano quella cosa a testa bassa.
“Però non l’hanno fatto!” rispose Michele.
“Eh! Non l’hanno fatto! E che centra, come se voi avreste saputo che non l’avrebbero fatto!” disse Maria.
“Io lo sapevo!” rispose Michele, abbassando lui, a questo punto, lo sguardo.
Simone e Giuseppe immediatamente si interessarono a quella nuova frase, assolutamente inaspettata.
“Come sarebbe a dire?!” chiese, visibilmente alterato, proprio Giuseppe.
“Sarebbe a dire che per tre mesi ho fatto finta di non essermi ricordato nulla. C’era bisogno di qualcuno che tenesse d’occhio costantemente le attività della banda. E io ero il più vicino. Quando poi ho visto che non hanno mai più usato qualcosa che assomigliasse alla riproduzione delle tute, non hanno volato, non hanno modificato la memoria di nessuno, allora mi sono convinto della possibilità di farvi scendere. E con l’aiuto di Frem ho costantemente monitorato la situazione!”
Giuseppe gli si gettò al collo. E, decisamente, non fu per ringraziarlo. Simone riuscì a separarli, mentre i ragazzi assistevano impotenti a tutta quella scena.
“Frem!?” chiamò Simone.
“EHM… SI?!”
“Ridai a tutti la memoria completa!!” ordinò Simone.
E agli ordini Frem non poteva disubbidire.
Un sibilo si levò su tutta la stanza. Simone, Giuseppe, Michele, Maria, Anna, Francesca, Roberto, e gli altri due ragazzi, soffrirono tutti quanti per qualche secondo. Poi tutti si ricordarono tutto.
“È spaventoso!” osservò Maria.
La prima cosa che accadde fu che, evidentemente, Francesca e Giuseppe si osservarono. Nessuno dei due, però, sentì altri nella stanza dire qualcosa al riguardo. E probabilmente fu perché Frem diede a ciascuno la sua fetta di memoria, e quindi, a parte loro, gli unici che potevano ricordarsi qualcosa erano Simone Junior e Roberto.
Ora che tutti erano a conoscenza della situazione, Simone e Giuseppe, volevano fare il punto.
“Michele, a che punto sono le indagini sulla morte di Francesco e Emanuele?”
“Hanno emesso un mandato di cattura per Marco, Amaraldo e Cosimo, ma per il momento sono irreperibili!” rispose Michele.
“Ma scusa, se hai appena detto che la banda non ha fatto niente, fino a questo momento, significa che sai dove sono!” incalzò Giuseppe, rivolgendosi direttamente a Frem.
“NI! NEL SENSO CHE IO POSSO, ATTRAVERSO I MIEI SENSORI, RILEVARE L’ATTIVITà DI VOLO SU TUTTA Policoro. POSSO SCOPRIRE IN UN ATTIMO SE Marco O QUALCUN ALTRO USA LA TUTA, SE EMETTE DEI CAMPI MAGNETICI ANOMALI, MA FINCHÉ NON SUCCEDE NON POSSO INDIVIDUARLI!” fu la risposta di Friem.
“Ci potrebbe essere un modo per eludere i tuoi sensori?”
“ANCORA UNA VOLTA… NI! NEL SENSO CHE PER ELUDERE I MIEI SENSORI DEVONO MUOVERSI IN UNO SPAZIO SCHERMATO DAI CAMPI MAGNETICI, PER ELIMINARE QUALSIASI LORO TRACCIA. MA QUESTO RENDEREBBE LE LORO TUTE INUTILIZZABILI. SAREBBE UN PO’ COME CERCARE DI USARE UN CELLULARE SOTTO SORVEGLIANZA SENZA FARSI SCOPRIRE CHIAMANDO IN UNA GABBIA DI FARADAY. NON TI RINTRACCIANO, MA TU NON TELEFONI!”
“Ho capito! Beh! Direi allora che a questo punto potremmo non preoccuparci della situazione. D’altra parte finché ci sono i sensori di Frem e i controlli della polizia non dovrebbero esserci problemi!” rispose Giuseppe.
Il problema era che ci credeva.
Il problema era che ci credevano tutti e nove. Mai avrebbero, però, potuto immaginare che si sarebbero pentiti di aver pensato una cosa del genere.
Tutto accadde nel giro di dieci minuti. I dieci minuti peggiori della loro vita.
Stavano tornando a casa dal mare, era circa l’una del pomeriggio. Era passata più o meno una settimana dal loro arrivo, era venerdì, il 9 Agosto. E come ogni volta che ce n’era bisogno, Anna, Francesca e Maria tornavano dal mare con una macchina. Simone J. solitamente stava con loro per aiutarle, perché andavano a fare la spesa.
Dal mare, invece, Simone, suo figlio, Giuseppe, Michele e Roberto, si recavano direttamente a casa, dove potevano già farsi la doccia. E poi incominciare a preparare quello che gli avevano ordinato le donne.
Tutto, dicevamo, accadde in quel viaggio di ritorno dal mare.
Improvvisamente, le trasmissioni radio si interruppero. Una sola voce uscì dall’altoparlante dell’autoradio dell’auto di Simone.
“ATTENZIONE! PERIC…”. Poi l’auto e la radio si spensero. I tre adulti compresero immediatamente quello che stava accadendo. Fu per quello che, una volta ferma, cercarono di uscire dalla macchina. Senza riuscirci. Delle spranghe di ferro volanti ruppero i finestrini dell’auto e dei coltelli si avvicinarono alle loro gole.
“Se state fermi non vi accadrà nulla, ora!” disse una voce. Simone, voltandosi verso il luogo di origine di quella voce, riconobbe immediatamente Amaraldo e Dorian che, con le loro tute, manovravano da un lato e dall’altro della strada quelle armi di ferro. E tenevano ben sigillate le macchine. Poi Simone si unì ai suoi altri amici a vedere quello che stava succedendo davanti a loro. i Tre Fratelli avevano fatto fermare la macchina delle donne e le avevano fatte uscire dall’auto. Degli anelli di acciaio accerchiarono i polsi di ciascuno dei quattro e a tutti loro fu intimato di entrare nelle altre due auto che si fermarono in quel momento al lato della macchina di Giuseppe, guidata fino a qualche istante prima, da Anna.
Simone e Anna salirono in una macchina, Maria e Francesca nell’altra. Appena Maria e Francesca entrarono, Massimo si mise al posto di guida e le portò via, girando al semaforo successivo, a destra.
Appena partita la prima macchina, anche quella con Anna e Simone partì guidata da Cosimo. Giovanni, invece, volò via. E con lui tutti e due i “carcerieri improvvisati” degli uomini. Poco prima di partire, Amaraldo fece cadere, all’interno dell’abitacolo della vettura, una busta.
L’altra macchina, invece, appena ripartita girò a sinistra, andando, apparentemente, nella direzione opposta.
Appena le armi erano cadute, solo pochi secondi dopo essere partiti, Simone e Giuseppe si voltarono per vedere come erano sistemati gli altri.
“Papà! Cos’è successo?!” disse Giuseppe, incominciando anche a respirare affannosamente.
“Stai calmo!” rispose Simone “vedrai che tutto si sistemerà!”
“Stai calmo?! Stai calmo?!?! Hanno rapito la mamma, Anna, Simone e Francesca e tu mi dici di stare calmo?” ribatté, a questo punto completamente in preda al panico. Michele lo abbracciò, per cercare di calmarlo. Abbracciò anche suo figlio. In realtà tutti in quella macchina avevano una paura fortissima. Enorme. Indescrivibile. Solo i più grandi riuscivano a dissimularla, e pure male.
Un attacco così. in pieno giorno. E che aveva coinvolto tutti. La cosa peggiore era che tutti si erano quasi dimenticati di quel pericolo. Lo avevano sentito troppo lontano. Ed ora, nel giro di pochi minuti era crollato addosso a loro tutto.
L’unico a provare vera e genuina rabbia era Simone. Aveva deciso di venire meno all’avviso lanciato a Marco 24 anni prima. Gliel’aveva detto, che se Marco avesse fatto del male a chiunque dei suoi amici l’avrebbe trovato e gli avrebbe fatto del male. Ora che Marco era venuto meno a quell’avviso, ora che, oltre ogni ragionevole dubbio, Marco si era opposto all’unica cosa che gli aveva chiesto, dopo aver ottenuto la vittoria, era più che mai fermamente convinto a fargli del male. In realtà, contemporaneamente, si stava dando dell’idiota per aver sottovalutato Marco, e del cretino per non aver considerato la possibilità dell’utilizzo del generatore di impulsi. Ed ora erano lì. Seduti, che piangevano impotenti, senza sapere dove Marco aveva portato i loro parenti. Le persone che, più di ogni altro, amavano. Quelle dalle quali, più di ogni altro, erano amati.
Ora, per la prima volta dall’estate del 2000, Simone era ancora e veramente solo.
Giuseppe aveva paura. paura allo stato puro. Le persone più violente e malvagie che avesse mai conosciuto avevano contemporaneamente rapito suo figlio e sua moglie, senza la possibilità di fargli capire dove si erano recati. Senza la possibilità di sapere come comportarsi, dove andare. Anche per lui erano 24 anni che non sentiva quelle sensazioni, ma anche lui credeva che ormai sarebbero appartenute per sempre al passato.
Michele era ancora incredulo. Avevano permesso a Marco di fare tutto quello che aveva fatto. Senza battere ciglio. Non che potessero farlo, battere ciglio. La superiorità numerica, le maggiori energie, l’effetto sorpresa non gli avevano lasciato scampo. Però, l’incredulità non gli permetteva di ragionare. Non stava capendo più niente. Come se da pochi minuti a quella parte, oltre a tutti gli oggetti elettrici ed elettronici, anche il suo cervello si fosse spento. E questo, non solo non gli piaceva, ma lo faceva sentire ancora più impotente.
Roberto era spaventato. Vedere quell’arma puntata alla sua gola aveva cancellato qualsiasi tipo di paura potesse considerare forte prima di quel momento. L’unica cosa che riusciva a fare era cercare di fare respiri lunghi e profondi, sperando, contemporaneamente, di riuscire a rilassarsi un po’ e diminuire in questo modo la frequenza cardiaca. Poi pensò a sua sorella. Pensò a Francesca a cui voleva bene. E scoppiò a piangere, come un bambino di tre anni, quando si sveglia da un incubo.
Quello messo peggio di tutti era il piccolo Giuseppe. Riuscì ad aprire la porta in tempo per vomitare fuori dalla macchina. Sua mamma. Aveva visto sua mamma scomparire in quella macchina. Aveva visto quella macchina scomparire dalla sua vista. Si era accorto che quando Maria era entrata in macchina aveva rivolto uno sguardo verso la loro, di macchina. Stava piangendo. E quella scena l’aveva colpito così profondamente che, in risposta, aveva incominciato a piangere anche lui. Ed erano un paio di minuti che non riusciva a smettere di farlo. A quello si era aggiunto il rapimento di Francesca. E, sapendo quello che quelle persone erano capaci di fare, sapeva che non avrebbero risparmiato sua mamma solo perché era sua mamma. E non avrebbero risparmiato Francesca solo perché era la persona a cui voleva bene. Il risultato di quei pensieri angoscianti fu che gli impedirono ancora di più di smettere di piangere.
Il primo che riuscì a riacquistare un po’ di razionalità in quel disastro di proporzioni cosmiche, fu Simone. Che, per prima cosa, afferrò la busta con il preciso intento di leggere la lettera che conteneva. Ci mise una trentina di secondi. Poi, vide l’orologio dell’automobile riaccendersi. E così accese la macchina. E accelerò come un pazzo alla volta di casa sua. Dove poté spiegare tutto agli altri quattro. Cosciente del fatto che, come gli era stato ordinato, doveva per forza includere in quella conversazione anche Giuseppe e Roberto.
I quattro scesero dall’auto e seguirono Simone in casa.
Frem ancora non si era riattivato. Il led del televisore era ancora rosso, mentre tutti ormai sapevano che quando Frem era attivo, quello stesso led era verde.
“Dunque. Hanno rapito i nostri cari!” esordì Simone. Attirando immediatamente l’attenzione di tutti gli altri.
“Questa è la lettera che ci ha fatto lasciare Marco!” disse, gettandola sul tavolo.
 
“Ciao Simone, Giuseppe, Michele, Roberto e Giuseppe,
Vi abbiamo tolto tutto, famigliari, orgoglio e dignità. Incontriamoci questa sera alla radura. Alle 18. Se verrete, dovrete essere da soli e con le tute. Stasera questa storia deve finire una volta per tutte. Noi e altri amici vi aspetteremo fino alle 18.05. poi Maria, Anna, Francesca e Simone termineranno le loro sofferenze
Marco”
 
Giuseppe e Michele guardarono immediatamente Simone, che altrettanto immediatamente dimostrò di aver compreso il loro sguardo.
“Si! è perfettamente identica nella forma a quella che noi, a suo tempo, scrivemmo a lui. E questo vuole essere un ulteriore presa in giro. E un modo come un altro per collegare ulteriormente le due cose! Evidentemente Marco è riuscito, non sappiamo come, a costruire le tute e forse anche il dispositivo per la manipolazione mentale!”
“Come ‘Non sappiamo come?!’” chiese suo figlio “Si sono rubati i progetti!”
“Si! ma comunque dalla loro parte ci deve essere anche qualcuno in grado di interpretarli quei progetti, che non sono per niente semplici. E qualcuno in grado di costruire praticamente la strumentazione, cosa ancora più complessa!”
“E poi cosa ne sappiamo della realizzazione della macchina per il controllo mentale?” chiese Michele.
“Beh! Con i materiali a disposizione è molto più difficile costruire le nanotecnologie contenute nelle tute, piuttosto che il dispositivo acustico. Quindi conviene decisamente partire dal presupposto che loro ce l’abbiano!” concluse Simone.
“ECCOMI! HO VISTO E SENTITO TUTTO QUELLO CHE AVETE DETTO. MA COME PENSATE DI VINCERE CONTRO DI LORO, CON DEGLI OSTAGGI? E POI HO AMPLIATO LE RILEVAZIONI DEI SENSORI. LA RADURA NON E’ COME PRIMA. OGNI TANTO, ED E’ SUCCESSO ANCHE NEGLI ULTIMI CINQUE MINUTI, VIENE RILEVATA LA PRESENZA DI UN DISPOSITIVO ELETTRONICO. COME SE SI TRATTASSE DI UN ASCENSORE. COMPARE E DOPO CIRCA DIECI SECONDI SCOMPARE, SPROFONDANDO NEL TERRENO. SOLO CHE I CAMPI MAGNETICI RILEVATI SONO NELL’ORDINE DI ENERGIA DI UN CELLULARE. QUINDI TROPPO DEBOLI PER ESSERE FILTRATI!” disse un Frem quasi completamente ristabilito nelle sue funzioni principali.
“Un ascensore in quel posto può solamente scendere. Frem! Quali sono le condizioni del terreno in quel punto?” chiese Michele.
“DOPO UNA DECINA DI METRI DI SABBIA E ACQUA, SI ARRIVA ALLA ROCCIA. DOPO UN CENTINAIO DI METRI, DI ROCCIA, SI GIUNGE, COME IN QUASI TUTTA LA REGIONE, A UNO STRATO DI ROCCIA IMPERMEABILE MA CAVA, DI CIRCA UN CHILOMETRO. DOPO PRATICAMENTE SOLO GAS E PETROLIO”
“Lo strato impermeabile ma cavo, secondo me, è il nascondiglio perfetto. Anche se non sappiamo come hanno fatto, secondo me l’ascensore li conduce fino a lì” concluse Giuseppe.
“Si! ma cosa c’è lì sotto lo scopriremo solo quando arriveremo lì!” concluse, anche in questo caso Simone.
“Dobbiamo andarci tutti?!” chiese Michele.
“La lettera parla chiaro! Tutti! Compresi i due ragazzi!” disse Simone.
“Si ma anche se con le tute, non possiamo sperare neanche lontanamente di competere con loro!” lamentò Roberto.
Simone, Giuseppe e Michele si guardarono. Poi Michele prese la parola.
“Non preoccupiamoci adesso di questo. Tanto, non sapendo quello che c’è li sotto, non possiamo comunque preparare un piano per combatterli. Siamo soli contro di loro. E l’unico modo per riportare i nostri cari fuori da quella radura è portarli fuori noi. Perché solo noi possiamo salvarli. Dobbiamo, però, tutti e cinque, stare attenti ad una cosa. La più importante!”
“Quale?!” chiese Roberto.
“Tutti coloro che incontreremo alla radura, a partire da Marco, fino a Dorian e chissà chi altro, tutti loro, sono capaci di usare le parole per manipolare i nostri pensieri. Qualunque cosa ci accada, qualsiasi cosa vediamo, qualsiasi cosa dovesse accadere a noi, ai nostri cari o a coloro che avremo davanti, ragazzi, per favore, non ascoltate quello che i nostri nemici vi diranno!” rispose Michele, guardando fisso negli occhi Roberto e Giuseppe.
Simone e Giuseppe, consci di quel pericolo, con la mente erano ritornati a molto tempo prima, nella stessa radura, allora solo un pezzettino della spiaggia di Policoro.
“Voi non potete neanche lontanamente immaginare quello che sono capaci di convincervi a fare quelle persone con i loro ragionamenti distorti. Ci siamo passati tutti, alla vostra età o anche più giovani!” continuò Simone “E solo uno di noi non ha ceduto, seppur sopportando indicibili sofferenze, al desiderio di fare quello che volevano farci fare loro!”. in quel momento lo sguardo di Simone si posò su Giuseppe.
“A costo di indicibili sofferenze. Ricordatevi sempre questo. Arriverà il momento in cui i nostri nemici potranno farci scegliere tra soffrire noi o far soffrire gli altri. Ricordatevi che c’è sempre una strada giusta. Da scegliere. E non sempre è quella che ci piace di più!” disse allora Giuseppe.
In quel momento un sibilo pervase la cucina. Il giovane Giuseppe, a questo punto, cadde in ginocchio a terra, cercando di tenersi la testa, preda di un fortissimo dolore.
“SCUSATE MA LUI ERA L’UNICO CHE ANCORA NON SAPEVA USARE LA TUTA!” disse Frem.
Giuseppe si rialzò. Sapeva tutto. Era spaventato, ma al tempo stesso si rendeva conto di quelle che erano le reali forze a sua disposizione.
“SUGGERISCO DI ANDARE AD ALLENARVI. IO PREPARERò QUALCOSA PER GARANTIRVI UN PO’ Più DI AUTONOMIA E DI POSSIBILITA’” disse Frem. Tutti furono d’accordo.
Dopo aver mangiato qualcosa, per rimettersi in forze, tutti e cinque uscirono. Andarono alla discarica ad allenarsi, come avevano fatto, pochi mesi prima, solo Michele, Giuseppe e Simone. Adesso c’era anche Roberto che si allenò con forza e convinzione. E c’era anche Giuseppe che, per forza di cosa, si era unito alla compagnia. In modo da apprezzare, anche lui, quel nuovo potere messo a sua completa disposizione da quelli che, comunque, rimanevano due sconosciuti.
Per le sedici, come da istruzioni di Frem, ritornarono verso casa.
“QUESTE SONO DELLE PICCOLE MA POTENTISSIME    PILE!” spiegò Frem, mostrando ai cinque i piccoli cilindretti che comparvero nel forno in quel momento “PERMETTONO DI UTILIZZARE PER UN ORA OLTRE IL POSSIBILE LA TUTA, SEPPUR IN COMPLETA OSCURITA’. PURTROPPO NON SONO RICARICABILI, MA NE HO ORDINATO UN ALTRO CENTINAIO. TENETE PRESENTE, PERO’, CHE DOPO UN’ORA DALLA FINE DELLA CARICA NORMALE, LE TUTE RISULTERANNO ESSERE COMPLETAMENTE INUTILIZZABILI FINO ALLA VOSTRA FUORIUSCITA AL SOLE! INOLTRE HO PREDISPOSTO CIASCUNA DELLE VOSTRE TUTE CON UN GADGET DIVERSO, CHE PENSO POTRA’ ESSERVI UTILE IN QUESTA BATTAGLIA”. Così dicendo un suono prese tutti e cinque e li rese edotti sulle nuove possibilità delle tute, possibilità che avrebbero di certo, avuto modo di utilizzare nel corso della battaglia che stavano per affrontare.
“Grazie Frem!” disse Simone, stupendosi ancora una volta di come gli venisse naturale parlare con un computer.
Alle sedici e trenta, erano tutti pronti per la partenza della missione. Per Simone, Giuseppe e Michele, era qualcosa che avevano già fatto. Per Roberto, in parte ci era già passato, quando aveva, con sua sorella, liberato i suoi due amici. Per Giuseppe, che non aveva mai fatto una cosa del genere, quella era un’avventura. Una spaventosa avventura, nella quale non si sarebbe mai voluto cacciare.
Tutti e cinque, come era ormai loro abitudine, sfregarono tra le dita il ciondolo con la moneta. La cosa che avevano tutti in comune.
“chissà se sta facendo la stessa cosa anche Simone!” chiese Giuseppe.
“Lo sapremo presto!” rispose suo padre sorridendogli. Facendo l’unica cosa che poteva obiettivamente fare in quel momento.
“Te lo prometto, Giuseppe! Tra due ore sarà tutto finito e ti godrai questa vacanza. Come mai prima d’ora!” concluse poi Simone.
Uscirono di casa, prima Michele, poi Giuseppe, poi Roberto e Giuseppe, i due giovani. E poi Simone. Che si fermò ad osservare un attimo quella casa.
“UNO PER TUTTI, TUTTI PER UNO! POTESSE PARLARE QUESTA CASA, QUESTO DIREBBE!” disse una voce, proveniente da un punto imprecisato della casa.
“Hai ragione!” rispose Simone “Peccato che uno si rende conto degli amici, dei veri amici che ha, solo quando è in queste situazioni critiche!”
“SE SIETE GIA’ STATI IN BAGNO, ALLORA I VERI AMICI SI SONO Già VISTI NEL MOMENTO DEL BISOGNO!” rispose Frem.
Simone guardò il lampadario e si mise a ridere. Quel computer aveva citato una delle battute preferite dal tredicenne Francesco, nelle sere interminabili a giocare a nascondino al contrario, quando Giuseppe non si riusciva a trovare e a lui scappava di andare in bagno. di solito avvisava suo fratello che saliva in casa, Emanuele ci diceva che Francesco andava a cercare Giuseppe nel suo bagno di casa, e Francesco lanciava questa battuta. Che faceva sempre sorridere tutti.
E Simone uscì da quella casa.
Dirigendosi all’auto per andare al lido Torremozza. Dove c’era la radura, la loro vita, i loro cari, tutti in pericolo. Un pericolo che loro dovevano temere, ma che dovevano scongiurare. A tutti i costi.
Simone lo sapeva. E per questo partirono.
Giunsero alla radura che erano quasi le cinque. Avevano ancora un’ora di tempo. Che passò velocemente. Cercarono in tutti i modi di scoprire qualcosa di particolare nella radura. Ma nulla faceva pensare a qualcosa di specificatamente sospetto, a tal punto da pensare a qualche passaggio segreto.
Almeno fino a quando un terremoto sembrò colpire la spiaggia. In realtà, più che tremare, la zona circostante vibrò. Quattro paletti ed una piattaforma circolare salirono a quel punto all’altezza del suolo. La piattaforma ed i paletti non erano soli.
Su di essi c’era Dorian. Con in mano il solito telecomando.
“Non ho intenzione di usarlo ma sono costretto a farlo, se non levate immediatamente i caschi, disattivando le tute. E se lo faccio, i dispositivi elettronici che garantiscono la sopravvivenza dei nostri ostaggi si spengono e vengono sepolti da tonnellate di acqua. Loro. Quindi vi conviene salire sulla piattaforma, dopo aver spento le tute e non fare scherzi. Se non rileva la piattaforma in discesa entro due minuti o se rileva che mi avete fatto arrabbiare e le mie pulsazioni sono aumentate, questo stesso dispositivo viene innescato da mio fratello! A voi la scelta!”
Tutti, ovviamente, scelsero di ubbidire alla sua richiesta. Spensero le tute, levarono i caschi e salirono sulla piattaforma.
Premendo il pulsante di un altro telecomando, la piattaforma si mosse. E incominciò a sprofondare. Delle grondaie raccoglievano la sabbia che cadeva dai lati del foro praticato nel terreno, per il tempo necessario a farli abbassare. Poi un portello si richiuse e sprofondarono nel buio. L’unica fonte di una flebile luce era il casco attivo della tuta di Dorian.
Scesero per circa novanta secondi. Poi giunsero in una stanza di circa dieci metri di lato. Al centro di ciascun lato c’era una porta. la piattaforma si fermò.
Sopra ciascuna porta c’era un nome, di uno dei quattro, tranne Simone.
“Ciascuno di voi si deve avvicinare alla porta che ha sopra scritto il suo nome. Tu Simone rimani qui sulla piattaforma!” disse Dorian.
I due Giuseppe, Michele e Roberto guardarono Simone. Ad un suo cenno affermativo i tre si incominciarono a spostare verso le porte assegnate a ciascuno di loro. E Dorian continuò la descrizione di quella cosa spaventosa.
“Aldilà di quelle porte troverete la vostra prova. Dovrete sconfiggere la o le persone che saranno oltre la porta. Se ce la farete entro un’ora da quando le porte si apriranno, dovrete prendere, da coloro che avrete sconfitto, la chiave della porta che vi condurrà verso la persona tenuta prigioniera in quella stanza. Se non ci riuscirete la cella del prigioniero verrà inondata dall’acqua del mare, uccidendolo. Come potete notare la struttura è completamente di metallo. I dispositivi di inondazione sono al di fuori delle stanze, quindi non potrete interagire con essi in alcun modo per disattivarli. Inoltre le celle dei prigionieri sono di materiale perfettamente amagnetico. Quindi non potrete usare le tute per aprirle!” disse Dorian.
Immediatamente dopo aver finito di parlare, delle paratie metalliche calarono dal soffitto della stanza, dividendola in cinque. Separando ciascuna persona dagli altri. A quel punto, per Michele, Roberto e i due Giuseppe, l’unica possibilità era uscire dalla porta posta sul lato della stanza rimasto accessibile.
Una paratia circolare aveva, infine, isolato la piattaforma che li aveva condotti giù. La piattaforma con sopra ormai solamente Simone e Dorian. Una piattaforma circolare di quattro metri di diametro. Un’ulteriore paratia divise quella piattaforma in due parti. Dividendo definitivamente anche Dorian da Simone. Quest’ultimo notò inoltre che quella paratia, sembrava rimbombarsi al centro. Per circa 50-60 cm. Sentì un rumore e comprese che quella era un’ulteriore piattaforma. Sentì che un motore la stava spingendo ulteriormente verso il basso. Evidentemente, pensò, doveva portare via Dorian. Pensò questo, perché pochi secondi dopo la sentì risalire. Tutto questo, ovviamente, nel buio più assoluto. Perché l’unica luce presente ad illuminare la piattaforma era dalla parte opposta rispetto alla paratia che, scendendo, aveva diviso in due la piattaforma stessa. Quindi da circa un minuto Simone era rimasto completamente al buio.
Pensò anche a come, nonostante i suoi occhi non riuscissero a vedere nulla, tutti gli altri sensi erano completamente al lavoro per permettergli di, sopra ogni altra cosa, avere il maggior numero di informazioni. Ma soprattutto di una cosa era certo Simone. Quello che stava per succedere riguardava tutti loro. E sebbene soli, tutti loro avrebbero dovuto rimanere uniti e lottare, con la mente e con il cuore, per lo stesso obiettivo. Uscire, vivi, da quel posto malefico. Capì che, per cominciare, poteva indossare il casco e accendere la tuta. ma era troppo tardi. Sentì tre delle quattro porte sbloccarsi, e il piccolo ascensore circolare roteare, invadendo quella metà della piattaforma di luce, che proveniva proprio dall’ascensore. Luce che, contemporaneamente, illuminava un’altra persona, la peggiore che potesse aspettarsi: Marco. Con la tuta. Accesa, che con un piccolo gesto costrinse l’armatura metallica della sua tuta, a comprimersi verso il muro della paratia, impedendogli qualsiasi movimento. Se solo avesse acceso la tuta qualche istante prima, probabilmente l’avrebbe già ucciso. Simone, riconosciutolo, poté solo digrignare i denti verso di lui. E sentì pronunciargli le parole più spaventose della sua vita.
“Che comincino i giochi!” disse, sorridendogli, Marco.

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Buongiorno!! eccoci in questo nuovo capitolo. Le cose stanno precipitando e spero che "vi faccia piacere" nel senso buono... ovviamente:)
Apprezzo moltissimo le vostre impressioni, quindi continuate a trasmettermele che non mi può che fare bene!!

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Capitolo 12
*** Giuseppe: Dalla parte del più forte ***


GIUSEPPE: DALLA PARTE DEL PIU’ FORTE

Non appena sentì la paratia fermarsi e constatò di essere rimasto solo, capì che il momento era giunto per inserire il casco e iniziare a capire come liberarsi e liberare i suoi cari da quella trappola malefica. E lo fece. E quella fu, per lo meno all’inizio, la sua salvezza.
Appena la porta si aprì, un timer posto sulla porta iniziò a segnare 59 minuti e 59 secondi. Era incominciato il conto alla rovescia, e per questo motivo Giuseppe si sbrigò ad oltrepassare quella porta. Entrò immediatamente in uno stanzone, debolmente illuminato. Sembrava un capannone. Poca illuminazione, aria pesante. Queste sono le uniche due cose di cui si accorse immediatamente. Davanti a sé un muro, lontano una trentina di metri, ma solo quando la sua vista, dopo qualche secondo, si adeguò, si accorse della stretta fessura presente sulla destra. Immediatamente si incamminò verso quella fessura. Costeggiando il muro della stanza, poté comprendere quanto fosse solido. Ferro, pieno, per tutta la sua lunghezza. I sensori posti nella tuta, gli fecero capire che probabilmente si trattava almeno di uno spessore di cinquanta centimetri di ferro. Nessuna tuta avrebbe potuto scalfirlo.
Aveva fatto solo pochi metri in avanti, una decina, quando si accorse che la porta dietro di sé si stava chiudendo. Non riuscì a fermarla in tempo. Adesso era completamente isolato dal resto del mondo. Almeno, erano isolati dal resto del mondo lui e chiunque altro ci fosse stato in quella camera.
Riuscì a fare circa metà della strada, quando si accorse che il muro di acciaio si stava richiudendo su quella fessura. Incominciò a correre. E la fessura era ancora più stretta. Spiccò il volo, ma nulla. Lo spiraglio si chiuse e lui finì addirittura a sbattere contro il muro ferreo.
Fu in quei pochi decimi di secondo che si accorse di qualcosa che, obiettivamente, temeva, ma di cui non si era accorto in precedenza. Mentre era appoggiato al muro appena richiuso, e si stava rialzando, sentì la parete leggermente magnetizzata. Questo poteva significare una sola cosa. Quella fessura aveva permesso a qualcuno di entrare, ma lui non aveva fatto in tempo a superarlo.
Certo era che a quel punto, qualcuno, lì dentro c’era. non aveva la più pallida idea di chi fosse, ma qualcuno c’era.
“Tsk! tsk! tsk! Non si abbandona un campo di battaglia senza aver neanche conosciuto il proprio nemico!” disse una voce, provenire dal lato opposto della stanza.
“Chi sei! Fatti riconoscere!” urlò Giuseppe. E contemporaneamente accese le luci di volo della tuta. aveva preferito abituarsi al buio, per non consumare eccessivamente energia, ma a quel punto, “fare luce sulla situazione” si era innegabilmente reso necessario.
Il problema, però, fu che appena accese le luci, non vide nessuno. Nessuno. Inoltre, quella voce, visto l’eco provocato da quelle pareti di ferro, sarebbe potuta arrivare da qualsiasi distanza.
Attivò un leggero campo di forza attorno a sé per evitare spiacevoli sorprese. Fu appena sufficiente. Perché ad un certo punto qualcosa lo colpì alla schiena. La botta la sentì e solo quel campo magnetico impedì al colpo di fargli perdere i sensi.
Come poteva essere possibile? Non aveva visto né sentito nessuno avvicinarsi. Eppure era stato colpito. Mentre era leggermente stordito, ancora a terra, provò a riesaminare i sensori della tuta. Indubbiamente era stato colpito da un oggetto di ferro. Oggetto che era scomparso dal campo di azione dei sensori immediatamente dopo.
Per rialzarsi toccò ancora il muro. Sentì ancora il campo magnetico, ma era praticamente impossibile determinare una direzione precisa. Quando vide, casualmente, quello che stava accadendo. Un pezzo di ferro si mosse, dal muro, e lo colpì questa volta sul fianco. E questo lo sentì. Eccome se lo sentì. Venne sbalzato una decina di metri più indietro rispetto a dove si trovava in quel momento. Sentì anche parecchio dolore, anche se il campo protettivo l’aveva salvato anche quella volta. Almeno pensava.
“Ma come diavolo è possibile?!” chiese, senza neanche sapere a chi lo stava chiedendo.
“Il professore sei tu!” rispose quello, ancora una volta.
Riuscì a individuare da dove proveniva la voce, questa volta, forse perché leggermente più lontano dal muro, che con la sua distorsione sonora, gli impediva di comprenderne la fonte.
E finalmente lo vide. Era in piedi. lontano da lui. Anzi, per essere più precisi era dalla parte opposta della stanza. Vide anche che toccò con la mano destra il muro. Pochi secondi dopo un ulteriore botta gli arrivò sulla gamba, dietro la coscia, quasi rompendogliela, non riuscendoci, ancora una volta, solo grazie a quel campo di forza. Ma venendo sbalzato di un’altra decina di metri verso il centro dello stanzone.
“Chi sei?!” chiese Giuseppe, ancora dolorante, sia per le botte, che per gli atterraggi non propriamente morbidi.
La visiera del casco, oscurata, si illuminò, rivelando in parte il volto del suo nemico. Giuseppe in quel momento si rialzò. Scuotendosi un po’ di polvere dalle spalle. E lo fissò. Bastarono pochi secondi per capire chi fosse il suo nemico. È vero che erano passati anni, ma l’ultima volta che l’aveva visto era svenuto, quindi se ne ricordava bene.
“Massimo!” disse.
“Si!” rispose quello “E questo è solo l’inizio!” disse volando verso il soffitto.
-Ecco come fa!- pensò Giuseppe –con la tuta, riesce a sprofondare nel muro di ferro, con il corpo e a generare un campo magnetico che fa uscire una corrispondente quantità di ferro dalla parte…-
Fece appena in tempo a pensarlo per capire quello che stava facendo. Se riusciva ad arrivare verso il soffitto, stavolta si sarebbe fatto male sul serio. Ecco perché, appena se ne rese conto, si spostò di un metro. Proprio per vedere il perno di ferro che spuntò dal pavimento e che, se non fosse stato per quel movimento repentino, probabilmente l’avrebbe impalato senza problemi, vista la sua velocità. Il ferro si fermò ad un paio di metri di altezza. Capì anche che c’era un unico modo per risolvere il problema di quegli attacchi. Prese immediatamente il volo e volò verso Massimo. Ma appena lui prese il volo, l’altro si abbassò. Evidentemente i sensori montati sulla tuta del suo nemico gli permettevano di calcolare istantaneamente la posizione di Giuseppe e trovare il punto corrispondente, dall’altra parte della stanza, per colpirlo. Se a questo aggiungiamo che era veloce, molto veloce, Giuseppe fece qualche prova, poi la paura di vedere scaricata la batteria della tuta troppo presto gli fece optare per fermarsi un attimo. Il fatto era che Massimo era veramente veloce.
Troppo veloce.
Entro pochi secondi ricevette altri tre colpi e venne sballottato da una parte all’altra della stanza, facendosi, anche in quel caso, più male per la botta che per i colpi in sé.
Cercò allora di continuare a volare da una parte all’altra della stanza, senza alcun ordine prestabilito. Casualmente. Questo confuse un po’ Massimo. Ma obiettivamente era veramente allenato. Tanto che salvo qualche caso sporadico, non riusciva veramente a evitare i colpi.
L’ultima cosa che vide fu l’indicatore sulla porta che segnava cinquanta minuti, quando una botta un po’ più forte del solito gli fece perdere i sensi.
Quanto voleva bene ad Anna. Era tutta la sua vita. Anna e suo figlio, Simone, erano le persone alle quali teneva di più. Il suo pensiero peggiore era credere che qualcuno potesse fargli qualcosa. Quel pensiero bastò a farlo svegliare di soprassalto.
Una punta acuminata lo toccò sulla schiena. Aprì gli occhi. E capì immediatamente dove si trovava. Era perfettamente al centro della stanza, sollevato di circa dieci metri da terra. Una serie di dieci punte acuminate si trovavano, spuntate da punti diversi della stanza, a pochi millimetri dal suo corpo. Il campo di forza che aveva creato appena entrato in quella stanza, lo teneva alla stessa distanza da ciascuno spuntone. Vide l’orologio sulla porta della stanza che segnava 32 minuti e 12 secondi di tempo rimasto prima dello scadere. Cosa sarebbe accaduto poi, lui non lo sapeva.
“Ben svegliato” gli rispose quella figura in penombra, davanti a lui. Era Massimo. Era in volo anche lui, con le braccia e le gambe divaricate. Le mani erano completamente aperte e aveva un segmento di ferro che partiva da ciascun dito e si infilava a distanza nel muro.
“Ci ho messo un po’ a farlo, ma ora sei completamente in mio potere”
In quel momento, un po’ più cosciente della situazione intorno a lui, Giuseppe capì che quattro spuntoni si erano solidificati intorno a polsi e caviglie, facendogli assumere la stessa posizione di Massimo, immobilizzandolo. Gli altri sei, come le facce di un cubo si erano disposte attorno al suo corpo. Era incredibile quello che riusciva a fare con la sua tuta, quella persona. Probabilmente la conosceva benissimo e ne aveva piena padronanza.
“Cosa vuoi da me?!” chiese, agitato, Giuseppe.
“Niente!” rispose Massimo. “Il bello è questo! A me basta tenerti imprigionato per qualche altro minuto e poi, tu e la tua vita sarete finiti! Assieme a quella di tua moglie!”
“Anna! Dove l’avete portata!? Cosa gli avete fatto? Vigliacchi! Liberatela immediatamente!” urlò Giuseppe.
“È vicinissima! Anche se probabilmente non vi vedrete più! Noi non gli abbiamo fatto niente. Semplicemente, alla fine dell’ora, quando le paratie si apriranno e questo locale verrà allagato, tu non sarai stato in grado di salvarla e quindi sarai tu che l’avrai uccisa. Bello così, no!? E il bello è che non vi troverà nessuno!” disse Massimo.
Giuseppe stordito da quelle informazioni cercò di ragionare. Da lui non volevano niente. Avevano solo deciso che sarebbero morti lì. E questo significava che dalla loro morte non perdevano nulla. Questo significava anche che non avevano nessuna speranza. E che coloro che avevano di fronte dovevano solo resistere un’ora. Poi avrebbero raggiunto il loro obiettivo. Quindi era necessario agire. Forte e bene. Disattivò il campo di forza. Cadde di qualche millimetro, finché il suo stesso peso non gli fece premere gambe e braccia sui quattro anelli avvolti su di essi. Mancavano, ora, esattamente trenta minuti. E se quello era, come era, veramente, Massimo, avrebbe dovuto, quasi sicuramente, affrontare anche Giovanni e soprattutto Cosimo, prima di poter liberare Anna. Si ricordò quello che gli disse Dorian. Si ricordò che aveva bisogno della chiave per raggiungere e avere una speranza con gli altri.
“Dov’è la chiave?!” chiese, sprezzante del pericolo.
“Giusto! Tanto non ti serve più!” rispose Massimo. Chiuse gli occhi e si concentrò. Uno sportello, proprio sotto di loro si aprì. Una chiave di plastica al suo interno venne sollevata e fuoriuscì.
Questo era il momento che aspettava. Aveva commesso l’errore fondamentale. Quello che aveva aspettato fino a quel momento.
“Liberami e avrai salva la vita, altrimenti non posso assicurartelo!” esclamò Giuseppe a quel punto.
“Sentitelo! Fa anche il gradasso! Forse non ti sei accorto della situazione nella quale ti trovi!” esclamò Massimo. E avvicinò leggermente ciascun indice al pollice corrispondente. Immediatamente le gambe di Giuseppe si divaricarono ulteriormente e il suo peso lo fece scendere ancora di qualche millimetro. E questo, senza il campo di forza che in qualche modo si opponeva, lo sentì.
“Liberami ti ho detto!” ripeté Giuseppe urlando contemporaneamente dal dolore.
“Come puoi, tu, provare anche solo lontanamente a farmi paura!? Ti ho in pugno! Non puoi fare nulla. Sei completamente immobilizzato. E quando voglio, toccando il pollice e l’indice posso aprirti in due come una nocciolina, e tu mi dici di liberarti? E con quale potere pensi di sconfiggermi?!” disse.
Poi piegò ancora ciascun indice verso il suo pollice. Una leggera flessione della falange di ciascuna delle quattro dita, fece chiudere la morsa degli anelli ancora più strettamente sui suoi arti.
“O forse prima ti spezzo polsi e caviglie, così per quest’ultima mezz’ora ti meriti un po’ più di dolore!” disse. Continuando a stringere.
“Posso farti una domanda!?” chiese, a questo punto veramente sofferente Giuseppe.
“Certo! Hai tutto il diritto di avere una risposta! Non la si può negare a uno che ha ancora ventinove minuti di vita!” rispose Massimo ridendo.
“Secondo te perché ho disattivato il campo di forza?!” chiese Giuseppe. A questo punto fissando negli occhi il suo interlocutore. Massimo, dimostrando di non sapere la risposta, si zittì.
“Avevo bisogno di toccarlo questo metallo. Fare una cosa che non avevo potuto fare finchè mi colpivi. Ma visto che adesso polsi e caviglie sono a stretto contatto con il metallo, e tu, evidentemente, sei elettricamente connesso con loro, altrimenti non potresti fare quello che fai, posso farla!”
Massimo non ebbe neanche il tempo di rispondere. Una scossa elettrica partì dalla tuta di Giuseppe e colpì Massimo. Era così intensa che fuse le quattro dita dei guanti della tuta al metallo a cui erano collegati. Facendo, altrettanto improvvisamente, perdere i sensi a Massimo.
Non era morto. Giuseppe poteva ancora sentire i suoi segni vitali. Il cuore batteva ancora. Era riuscito a stordirlo. E immobilizzarlo, tanto che gli spuntoni non si erano mossi di un millimetro.
Un nuovo campo magnetico, questa volta non contrastato da nient’altro, allargò i polsi e le caviglie, permettendogli di scivolare via.
“Nooo!!” esclamò Massimo appena rinvenuto, solo pochi secondi dopo che Giuseppe era scappato alla sua morsa, chiudendo automaticamente le altre sei dita. Gli spuntoni si chiusero su di loro, fondendosi per la punta. Lì, dove, fino a pochi decimi di secondo prima, c’era Giuseppe.
Giuseppe toccò nuovamente l’insieme dei sei spuntoni con la mano destra e fece partire un’ulteriore scarica, solo per fondere il metallo con le altre sei dita di Massimo. che rimase, appeso per le dita, a quella decina di metri di altezza. Rinvenne qualche secondo dopo. Solo per vedere che la tuta si era spenta, sentire le dita che, una dopo l’altra, si stavano per rompere sotto la tensione di tutto il suo peso. Si guardò intorno. Giuseppe era sceso e aveva preso la chiave.
Vide l’orologio. Rise, istericamente. Giuseppe si voltò.
“Vengo a liberarti. Se ci riesco!” gli disse.
“Tanto non ci riesci! Dall’altra parte del muro ci sono i miei due fratelli, e tu hai solo 27 minuti di tempo! E poi non riusciresti comunque a sconfiggerli!” disse. Poi si strappò i guanti della tuta dalle mani. E cadde da quell’altezza sul pavimento di ferro. Morendo al primo contatto.
Giuseppe ebbe un brivido.
-Possibile che sia stato disposto a morire, pur con la speranza della salvezza?- pensò, mentre capì che effettivamente dall’altra parte ci sarebbero stati veramente Giovanni e Cosimo. Giovanni il più piccolo e Cosimo il più grande. E non sapeva cos’altro aspettarsi.
Inserì la chiave nella piccola serratura, che ben presto riaprì la fessura. Permettendogli di passare oltre. Circa due metri di corridoio lo portarono in un'altra stanza.
Sulla sinistra notò immediatamente il portone metallico per accedere alla stanza successiva. Ma quella sembrava disabitata. Finché una sfera metallica non lo colpì rimandandolo indietro nella stanza precedente. E facendogli anche un sacco male. Effettivamente si era dimenticato di attivare nuovamente il campo magnetico che lo proteggeva dai danni maggiori. E fortunatamente la sfera gli fece male ma era abbastanza grossa. E si fermò all’inizio del corridoio. Se fosse stata una pallina piccola, l’avrebbe probabilmente trapassato come un proiettile. E la prontezza ad attivare la tuta per il volo non lo fece neanche atterrare.
“Chiunque tu sia, ho perso abbastanza tempo dietro a tuo fratello in questa stanza. Quindi non farmi innervosire!” urlò Giuseppe, rispedendo immediatamente indietro la sfera che si era fermata.
Giuseppe volò dentro quella stanza, respingendo con maestria tutte le altre sfere, piccole o grandi, che gli vennero lanciate. E gliene vennero lanciate parecchie. Entrò. Immediatamente si voltò, guardando nell’unico posto dove, a causa della prima sfera, non aveva potuto guardare. Lanciando contemporaneamente una delle sfere in quella direzione. Poi la fermò lui stesso.
Un uomo lo attendeva. Seduto. Immediatamente la serie di colpi si fermò.
Giuseppe capì immediatamente che non era seduto per conservare energie. Era seduto perché non si poteva alzare. Perché era paralizzato.
“Ma… che cosa ti è successo, Giovanni?!” chiese Giuseppe, a dir poco stupito di quello spettacolo.
La lieve luce che arrivava dalla stanza vicina illuminò quella figura, seduta su una sedia a rotelle. Che stupita a sua volta per il mancato colpo di Giuseppe, aveva anche lei abbassato le armi. Non poteva muoversi, essendo praticamente paralizzato dal collo in giù.
Giovanni, di due anni più giovane di Giuseppe, era lì. Immobile. Le sfere tintinnarono tutte a terra e Giovanni si mise a piangere.
Giuseppe immediatamente si avvicinò. Non abbassando, però il campo di forza.
“Ma non riesco a capire!” disse Giuseppe. “Ti ho visto in piedi e attivo, quando hai rapito i nostri parenti. Come mai ora…” disse, cercando di trovare una spiegazione logica Giuseppe. Ma Giovanni lo interruppe.
“La tuta. Volendo mi posso alzare come posso volare!” disse e la disattivò. Dimostrando di non avere intenzioni bellicose. Anche Giuseppe diminuì, senza disattivare, il campo di forza.
“Come hai fatto a conciarti così?!” chiese.
“È colpa di Marco!” rispose “Dopo che eravamo stati tutti spediti in riformatorio, Marco trovò il modo per punirmi per non aver tenuto abbastanza sotto controllo il covo. Una notte mi risvegliai nel letto completamente legato a pancia in giù. Ed una persona mi colpì ripetute volte con una mazza da baseball sulla schiena. Mio fratello Cosimo mi disse che si era alzato per andare in bagno e quando era ritornato in stanza mi aveva trovato così. Mi risvegliai quindici giorni dopo in ospedale, e non avevo più l’uso delle braccia e delle gambe. È da quando ho 13 anni che sono così!”
“Ma come fai, dopo tanti anni, ancora a servire, ubbidire, eseguire gli ordini di colui che ti ha ridotto in queste condizioni?!” chiese Giuseppe.
“Cosimo e Massimo! Sono le uniche persone che mi sono rimaste!” rispose Giovanni “Non le tradirei mai!”
Giuseppe vide nei suoi occhi la debolezza e la paura per quello che stava accadendo.
“Voglio smetterla di fare del male ad altri. Mi hanno costretto a fare delle cose spaventose in questi ventiquattro anni. Sono a pezzi!” disse.
“Non preoccuparti! Vedrai che troveremo una soluzione a questo!” rispose Giuseppe. “Adesso dimmi dove è la chiave, così passo dall’altra parte! Poi ti giuro che farò tutto quanto è possibile per salvarti. Ma capisci che devo prima arrivare dall’altra parte! Altrimenti è tutto inutile. E mancano venti minuti. Non posso perdere ancora tempo!”
“Non posso aiutarti! Purtroppo non ho la più pallida idea di dove sia la chiave!” rispose Giovanni.
Giuseppe indietreggiò. Pensò ad un tradimento ma i segnali vitali di Giovanni non erano cambiati ad ulteriore conferma della verità di quanto gli aveva detto. Cercò di pensare il più velocemente possibile ad una soluzione. Quando, dalle inferriate della porta che li separava dall’altra stanza, comparve Cosimo.
“Eh! Fratellino! Pensavi di tradirci!” disse quest’ultimo.
“No! Pensavo di fare la cosa giusta, almeno una volta nella mia vita!” rispose Giovanni.
“Allora inizia a dire la verità a colui che dovrebbe essere il nostro nemico comune!” rispose sarcasticamente Cosimo. “Inizia a dirgli che non era una mazza da baseball, ma una spranga di ferro, quella che ti ha reso un paralitico. Uno scarto della società!”
“Come fai a dirlo?” gli urlò Giovanni.
Giuseppe a quel punto intervenne. Con la mente logica che l’aveva sempre caratterizzato.
“L’unico modo che ha per saperlo è…” ma a quel punto tacque. Perché non voleva tirare conclusioni affrettate.
“L’unico modo che ha per saperlo è essere stato lui a fare tutto questo!” rispose questa volta Giovanni, completando lui il ragionamento.
“Bravo! ci hai messo ventiquattro anni ma alla fine ci sei arrivato! Bene! E ora cosa pensi di fare? ah! Per la cronaca! La chiave è stata inserita all’interno del tuo stomaco cinque giorni fa. Non te ne sei neanche accorto perché dormivi, ma attraverso l’alimentazione automatica è semplicissimo farlo. Tanto la cannuccia arriva direttamente fino allo stomaco!”
Giuseppe non poteva crederci. L’unico modo per dargli una possibilità di salvargli la vita era prelevargli dallo stomaco la chiave.
“Ha ragione! Ora posso sentirla!” disse Giovanni.
Giuseppe lo guardò. “Non permetterei mai che ti accadesse una cosa del genere!” disse.
“Non mi importa chi c’è dall’altra parte della stanza. Non sono disposto a sacrificare la vita di nessuno, nemmeno per la mia. Significa che morirò anche io!”
“Pensa a Simone! Rimarrà solo! Tuo figlio solo! Sempre se riesce ad uscire vivo dalla prova di Roberto!” disse Cosimo.
Mentre Giuseppe, immobile per quello che stava accadendo, era incapace di dire qualsiasi cosa, Giovanni si voltò verso suo fratello.
“Mi avete tradito. Avete tradito la mia persona. Mi hai costretto su una sedia a rotelle. Mi hai fatto combattere contro delle persone innocenti. Adesso me la pagherai!”
Poi si voltò verso Giuseppe. “Scusatemi per tutto quello che ho fatto!”
“Ma tu non hai fatto nulla!” rispose Giuseppe. “Sei solo stato una vittima innocente di tutto questo!”
“Sono stato io che ho preparato questo posto!” rispose Giovanni abbassando lo guardo.
“Visto?! Anche lui ha i suoi peccatucci! E mi dispiace che non potrai vedere tutti gli altri giochini preparati dal mio fratellino” disse ridendo Cosimo.
“Ma come puoi comportarti in questo modo con tuo fratello? Massimo e di là morto. Giovanni è da ventiquattro anni in queste condizioni. Ma come puoi pensare di essere dalla parte giusta!?” disse urlandogli contro Giuseppe.
“Sono dalla parte del più forte!” rispose lapidario Cosimo.
Giovanni accese nuovamente la tuta. E incominciò a tirare delle sfere a Giuseppe. Nuovamente.
“Ma che cosa stai facendo!?” chiese quest’ultimo, mentre cercava di parare quei colpi. Capiva che non era al massimo della sua abilità, Giovanni, ma non riusciva a capire cosa gli stesse prendendo.
Passò poco meno di un minuto. Poi le sfere caddero per terra.
“Ho fatto quello che ho potuto!” disse Giovanni. Giuseppe si voltò. La chiave era ai piedi di Giovanni. Che perdeva sangue dall’addome. Cosimo, impassibile, osservò tutta la scena.
Giovanni, mentre distraeva Giuseppe, si era estratto la chiave. Ora era seduto, veramente stremato sulla sedia.
“Levami il casco, per favore!” disse.
Giuseppe ubbidì a quella richiesta. La tuta si spense e il pezzo di ferro usato come bisturi fuoriuscì dal suo addome. Cadendo per terra.
“Avvicinati!” disse Giovanni.
“Perché!? Perché l’hai fatto? Avrei trovato il modo per salvarti! Perché ti sei sacrificato?” disse Giuseppe. Urlandolo. Mentre correva ad abbracciare Giovanni.
“Nel corridoio c’è un’arma. So che sei in grado di utilizzarla. Fallo! Avevo previsto tutto! E sapevo tutto quello che mi aveva fatto Cosimo. Solo che non potevo combattere contro di loro. Questo è l’unico momento in cui nessuno dei due può farmi niente!”
“Giovanni! No! Perché? Perché?!” disse Giuseppe piangendo.
“Scusatemi!” disse, chiudendo gli occhi. E perdendo i sensi. Giuseppe sapeva che era ancora vivo, ma probabilmente ancora per poco.
Si alzò, andando a prendere la chiave e tornando nel corridoio.
“Ehi! Dove stai andando! Non sei contento di aver superato anche questa prova? Adesso devi vedertela con me! E io sono un pezzo dur…” disse Cosimo. Bloccandosi, subito dopo, capendo quello che gli stava succedendo, pochi secondi prima di sentire il forte dolore allo stomaco che, sapeva, avrebbe sancito la sua fine. Un altro dolore, fortissimo, alla coscia destra, ed al braccio sinistro. E cadde a terra.
“Ma… come… è possibile…” sussurrò.
Da circa dieci metri di distanza, Giuseppe si avvicinò, dopo aver scoccato le tre frecce che si erano conficcate nel corpo di Cosimo, con l’arco che aveva trovato nel piccolo armadietto apertosi nel corridoio dal quale, dieci minuti prima, era entrato.
“Giovanni, ben più furbo e superiore di voi, aveva capito tutto. E aveva ideato l’unico modo per vendicarsi. Mettere Massimo davanti a tutti, in modo che con la mia energia avrei potuto sconfiggerlo. E soprattutto il colpo di genio!” disse Giuseppe, continuando ad avvicinarsi.
“Qu-quale!?” chiese Cosimo, ansimando, e levandosi autonomamente il casco.
“Il cancello! Non ti sei mai chiesto il motivo per cui le pareti di ferro spesse un metro in tutta la struttura, avessero lasciato il posto, in quest’unico ingresso, ad un cancelletto, ben fissato ma con tante aperture verso l’altra stanza?!” chiese Giuseppe.
Cosimo ci pensò qualche secondo. Poi capì.
“Voleva… voleva uccidermi!” disse.
“Già ma poteva arrivarci solo con un arma che non contenesse metallo. E l’arco e le frecce erano perfetti!” rispose Giuseppe.
“E adesso dimmi dove è la terza chiave!” rispose mentre un altro colpo di arco fece volare via il casco lontano da Cosimo, rendendolo allo stesso tempo inutilizzabile. Solo a quel punto Giuseppe aprì il cancello, entrando nell’ultima stanza.
L’unica fonte di luce era una porticina dalla parte opposta dell’ingresso.
“L’ingresso alla stanza dove si trova Anna si trova al di là di quella porticina. Il lungo corridoio di circa cinquanta metri, per almeno quaranta di essi è occupato da una serie di fasci laser ad altissima potenza. La chiave è al di là di quel corridoio. Sarai fatto a fettine prima di arrivare dall’altra parte!” concluse. E rise. Perdendo i sensi e, come si accorse anche Giuseppe, anche la vita.
Mancavano solamente cinque minuti, a quel punto, alla fine di tutto.
“Giuseppe!” chiamò una voce. Era Giovanni. Giuseppe corse da quest’ultimo.
“Il casco di Massimo è la chiave di tutto. E la forma di questa stanza!” disse.
“In che senso? Non capisco!” urlò Giuseppe.
“Grazie!” fu l’ultima parola che disse Giovanni, chiudendo gli occhi, questa volta definitivamente.
Mancavano quattro minuti e mezzo.
Giuseppe cercò di spremersi le meningi. Perché il casco di Massimo era la chiave di tutto? Perché proprio quello di Massimo? Cosa aveva di speciale? E cosa centrava con la stanza? Poi si rese conto della strana forma di quella stanza. Uno spigolo era allungato. Molto lontano. E capì.
Volò a prendere il casco di Massimo. Pregando, nello stesso tempo, che fosse ancora funzionante. Mancavano tre minuti e mezzo. Si tolse il suo casco, indossando l’altro.
L’indicatore del tempo segnava due minuti e mezzo quando accese la tuta. Corse di nuovo verso quello strano spigolo.
-Se la stanza dove si trova Anna è alla fine di quel corridoio, è dietro quel muro. Spesso, ma se uso l’abilità del casco di Massimo per far arrivare il ferro fino a qui, sarà abbastanza sottile per sfondarlo- pensò. E così fece, quando mancavano due minuti.
Il metallo del muro, secondo i suoi calcoli ora doveva avere circa cinque centimetri di spessore. Spense quel casco, rindossando il suo. Mancavano solo quarantacinque secondi quando l’ebbe indossato. Attivò immediatamente la pila supplementare. In meno di due secondi divelse quel metallo. Aprendo un varco.
Anna era lì. Corse immediatamente alla porta di ferro, aprendola senza difficoltà da quella parte. Prese la chiave. Mancavano solo venti secondi.
Allo scoccare del decimo secondo Anna era libera dalle manette che tenevano legati mani e piedi. Dietro di lei una porticina di servizio. Che, come constatò, tirando un sospiro di sollievo, si apriva proprio con quella chiave. La fece entrare che mancavano tre secondi. Entrò anche lui, chiudendo la porta stagna dietro di loro. Neanche un secondo dopo sentì un boato. Segno del fatto che l’acqua stava riempiendo quei locali.
Abbracciò sua moglie. Era tutto finito. Un ascensore idraulico li riportò in superficie, facendoli uscire da una fossa scavata ad una cinquantina di metri dalla radura. E sbalzandoli fuori.
Giuseppe, atterrò, con un leggero volo, abbracciando sua moglie, e le disse solo una cosa.
“Ti amo!”

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NdA: Buongiorno a tutti! come potete ben immaginare di situazioni strambe ce ne saranno ancora tre e coinvolgeranno i nostri personaggi principali. spero di avervi interessato e anche un po' divertito con questo capitolo, non dimenticate di recensire!
Se volete passare dalla sezione "generale", inoltre, ho anche iniziato a pubblicare una raccolta di brevi racconti, che hanno come personaggi principali "i nostri", anche se ambientati in tempi, luoghi e circostanze diverse. fatemi sapere cosa ne pensate anche lì... come sempre apprezzo enormemente le vostre opinioni e anche le idee che mi avete dato in questi mesi! vedervi continuare così non può che fare bene a me, oltre che, credo, piacere a voi.

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Capitolo 13
*** Michele: Lotta impari ***


MICHELE: LOTTA IMPARI

Anche Michele, appena chiusa la paratia, e vedendo quella porta aprirsi, infilò il casco e attivò la tuta.
Entrò per quella porticina. Quello che si ritrovò di fronte era un immenso stanzone. Lungo una trentina di metri. Proprio davanti a lui una porta. Di ferro. E una gabbia. Alta quanto il resto della stanza. Con i due lati che correvano paralleli a quelli dello stanzone. Aldilà di quella porta, Francesca. Legata. Solo allora si rese conto del fatto che la gabbia di ferro era immersa nel plexiglass, rendendo impossibile anche a lui l’accesso con le braccia in quella gabbia. Sulla porta, un indicatore aveva incominciato a scandire il tempo alla rovescia a partire da un’ora. Ed era già passato un minuto. Tanto più che quella stanza sembrava completamente disabitata.
Poi, nel pavimento si aprì una botola. Dalla quale fuoriuscì Dorian.
“Allora sei tu il mio avversario!” esclamò Michele. Pronto a caricare il suo pugno verso di lui.
“E tu sei il mio giocattolo!” rispose Dorian.
Michele si bloccò. Non tanto per quello che aveva sentito. Quanto per quello che aveva visto.
Perché dall’altro lato della porta, nella gabbia, immediatamente dopo l’apertura della botola da questa parte, se ne era aperta un’altra di là. E da questa era uscita la persona che, più di ogni altra, anche di Marco, Michele aveva considerato il peggior nemico. Lì, in quella stanza, lontano da tutti, ed abbastanza lontano dalla sua tuta, in compagnia di Francesca, c’era Amaraldo.
“Buongiorno, Caro!” rispose lui.
“Cosa ci fai lì?! Vieni da questa parte, dammi l’opportunità di combattere lealmente, uno contro uno. E vediamo chi è più forte”.
“Ma perché farlo, quando so che posso vincere, in questo modo?” rispose Amaraldo “E questo è anche un ottimo modo per far allenare Dorian per le tante cose che potremo fare insieme una volta che ci saremo liberati di voi. E ciò accadrà esattamente tra cinquantotto minuti e dodici secondi!”.
Michele comprese come stavano le cose. Evidentemente erano in assoluta superiorità, non solo due contro uno. Ma soprattutto con Amaraldo da quella parte e sua figlia completamente alla sua mercé, non era assolutamente possibile fare altro se non cercare di scendere a più miti consigli, non escludendo un azione decisa al momento opportuno.
“Va bene! sentite! Ditemi quello che devo fare, ma non fate nessun male a mia figlia, per favore!” esclamò, quasi piangendo, Michele.
“Beh! dipende da quanto farai il bravo con il mio fratellino!” rispose Amaraldo. “Più lo lascerai fare, meglio sarà per lei!”
“Cosa intendi!?” chiese Michele. Ancora più preoccupato.
“Adesso vedrai!” rispose Dorian. E così dicendo gli sferrò, senza neanche permettergli di accorgersene, un pugno in pancia.
Michele cadde a terra dolorante.
Un minuto dopo, si riprese. Alzandosi.
Si avvicinò, velocemente, a Dorian. Ma quando fu proprio in procinto di rendergli il favore, vide quello che stava accadendo nella stanza dove c’erano Amaraldo e Francesca.
Si fermò. Una lama di acciaio si era appena posata sulla gola di sua figlia. Il segnale era inequivocabile.
“Credo proprio che ci divertiremo!” disse Amaraldo, sorridendogli. “Se ti avvicini di un solo passo, la uccido. E sai che ne sono capace. Se invece lo lasci fare, e ti lasci picchiare, forse, verso la fine del conto alla rovescia, la lascio andare. Almeno lei potrebbe salvarsi”.
Michele lo guardò negli occhi. Profondamente. Vedeva che lo sguardo di Amaraldo era rimasto sempre lo stesso. Uno sguardo vuoto. Che non lasciava adito a dubbi. Avrebbe veramente potuto fare del male a Francesca se lui non fosse stato più che attento ad ubbidire ai suoi ordini. Significava subire. Subire quell’aggressione senza poter fare niente. Senza poter reagire. Senza potersi neanche difendere.
Pensò. Cercava di pensare più in fretta che poteva. La situazione era difficile. Ma non fece abbastanza in fretta. Un altro pugno lo fece cadere di nuovo a terra. Fece però in tempo ad elevare un campo di forza attorno al suo corpo. Così quei colpi divennero semplice pressione. Almeno non si faceva male. Si rialzò e corse lontano da Dorian.
“No! Così non ci siamo! E mi sto innervosendo! Devi stare vicino a mio fratello! Lui deve essere libero di picchiarti come e quanto vuole. Tu devi solo prenderle!”
Vide per un attimo sua figlia. Lo guardava impaurita. Vide l’orologio. Mancavano ancora cinquantatre minuti. Un’eternità.
Si alzò. Era inerme. Rimase fermo, in piedi, mentre Dorian si avvicinava a grandi passi. Gli sferrò una ginocchiata nel fianco. Cadde ancora a terra in ginocchio. Gli mancò il fiato per qualche secondo. Fu allora che riuscì ad aprire una comunicazione diretta con Dorian. Finché Amaraldo era concentrato a puntare la lama alla gola di Francesca, non poteva avvicinarsi e sentire quello che stava accadendo. Non era possibile, infatti, la comunicazione tra le due tute, quando una era all’interno di quella gabbia ed una all’esterno. E infatti fino a quel momento Amaraldo aveva parlato a loro, mediante un impianto stereo che amplificava e diffondeva la sua voce da un altoparlante posto nello stanzone. E Dorian non poteva in alcun modo comunicare con suo fratello. Se non attraverso un microfono posto proprio al centro dello stanzone.
Si accorse, inoltre, che i colpi di Dorian non erano molto forti. Quasi come se si volesse trattenere. Ne approfittò cercando di capirci qualcosa di più.
“Che cos’hai? Perché non colpisci con tutta la tua forza?” chiese.
Dorian ebbe un sussulto. Capì solo dopo un paio di secondi che colui che gli stava parlando era il suo avversario, colui che aveva davanti, che gli parlava attraverso la tuta e gli parlava dal casco completamente oscurato che ancora indossava. Però non gli rispose.  Se non con un pugno, tirato sul braccio destro.
Michele gli rifece quella domanda. Domanda che, ancora una volta, non ebbe alcuna risposta. Se non un altro calcio nello stomaco. E soprattutto Dorian si levò il casco disattivando la tuta.
Michele cadde all’indietro. Probabilmente, se non fosse stato per il campo di forza che aveva creato intorno a se, per quanto piano colpisse, Dorian gli avrebbe già fatto parecchio male.
Certo era che non poteva rimanere in quella situazione a lungo. Non avrebbe avuto senso. Sarebbe stata solo una semplice ed inutile perdita di tempo. Cercò allora di escogitare un piano.
Capì che il vero pericolo era Amaraldo, che stava mettendo in pericolo la vita di Francesca. Quindi la persona da attaccare doveva essere lui. Per prima. Liberarsi di Dorian poi, sarebbe stato un gioco da ragazzi, una volta eliminato il problema costituito da suo fratello.
Oltretutto quella stanza era completamente vuota. Non c’era alcuna traccia di ferro. A parte le spessissime pareti che non potevano essere utilizzate.
Erano passati altri dieci minuti intanto. E ne mancavano ancora quaranta. Sapeva che qualsiasi cosa avesse scelto di fare il primo da colpire doveva essere Amaraldo. Ma come raggiungerlo lì dentro? E Dorian stava anche incominciando a stancarsi.
Fu solo allora che ebbe l’illuminazione. Capì quello che poteva fare. perché gli venne in mente quello che gli aveva fatto Frem. Cioè, quello che Frem aveva fatto alla sua tuta. Il suo potere nuovo di zecca. E capì come utilizzarlo.
In quel momento gli venne sferrato un pugno, sempre sul braccio. E capì come fare anche per non farsi accorgere di niente. Il problema era che per utilizzare la cosa che aveva portato con sé nel modo giusto doveva disattivare il campo di forza. E quello significava prenderle seriamente per qualche secondo.
Ma era pronto a farlo.
Quel mattino, mentre erano ad allenarsi, con gli altri quattro, Michele aveva trovato dei cuscinetti sferici di ferro. Uno, che gli piaceva particolarmente l’aveva preso con sé. E se l’era messo in tasca.
Ora, per levarlo dalla tasca l’unico modo era disattivare quel campo magnetico. E lo fece.
Il primo calcio che sentì seriamente, gli arrivò immediatamente dopo. Il cuscinetto gli cascò dalla tasca. Mentre, fingendosi sospinto da quel calcio e da quelli che seguirono, lentamente riuscì a spostarsi lateralmente. Amaraldo era troppo occupato a guardarlo prenderle per rendersi conto di quello che stava succedendo.
Un altro paio di colpi assestati e Michele scivolò nella posizione perfetta per seguire il suo piano. Riprese il cuscinetto.
Attivò in quel momento la pila di emergenza. Avrebbe usato tutta la sua energia in quel secondo, per accelerare il cuscinetto oltre la velocità del suono. Esattamente come aveva fatto Frem qualche mese prima con lui.
Dorian non si accorse di nulla. Sentì solo uno schiocco, come quello di una frusta quando Michele fece partire quel proiettile improvvisato. Che squarciò in due il casco di Amaraldo, dopo aver rotto la parete di plexiglass. E che miracolosamente non fece nulla allo stesso Amaraldo.
Amaraldo, ancora prima di rendersi conto della rottura della tuta, vide, materialmente, la lama di acciaio che cadeva ai piedi di Francesca. Cercò di muovere le mani ma il casco, e quindi la tuta, erano stati resi inutilizzabili da Michele.
“Hai commesso l’errore della tua vita!” disse Amaraldo in preda all’ira isterica nella quale si ritrovò nel giro di pochi decimi di secondo. Si avvicinò immediatamente verso Francesca. Si chinò davanti a lei per prendere il coltello con le sue mani. Ma si rese conto di aver fatto un solo errore. Essersi lasciato ingannare dall’aspetto mite e debole di quella ragazza: così aveva legato solo le mani di Francesca.
Una ginocchiata sul volto lo fece rialzare ed un calcio, dato con tutte le sue forze, in mezzo alle gambe da parte di Francesca, lo lasciarono sofferente a terra. Piuttosto che gettare lontano da sé la lama, la schiacciò contro il pavimento con il piede.
Dopo neanche dieci secondi Amaraldo riuscì a ricominciare a respirare e rialzarsi, solo per vedersi arrivare addosso un altro calcio da parte della mite ragazza che aveva davanti.
Contemporaneamente Michele, nello stanzone, stava riservando lo stesso trattamento a Dorian. Cercando il prima possibile di estorcergli informazioni su dove fossero le chiavi che l’avrebbero facilmente condotto alla camera dove era legata sua figlia. Che comunque si stava difendendo bene, avendo, da pochi secondi, lasciato tramortito davanti a sé Amaraldo.
A differenza di Dorian, Michele puntava direttamente al viso scoperto dal casco del suo nemico. Quindi dopo qualche colpo ben assestato, Dorian decise di scendere a più miti consigli. E fu Dorian stesso a prendere dalla sua tasca e porgergli la chiave. Con la quale Michele corse ad aprire la porta della stanza.
“Sei stata fantastica, Francesca!” disse Michele, avvicinandosi a sua figlia. Non era ancora arrivato, che il metallo con cui erano state legati le mani della ragazza venne facilmente divelto dalla forza della tuta.
“E anche tu! Complimenti per la mira chirurgica!” rispose sua figlia.
“Beh! Veramente avevo puntato qualche centimetro più in basso. Ma forse è stato meglio così”
Padre e figlia si abbracciarono. In quel momento Francesca vide Dorian che stava indossando il casco.
“Papà! Attento!” urlò. Mentre Michele, voltatosi, fece ripartire il cuscinetto, che attraversò la porta e, non sospinto oltre la velocità del suono, si conficcò nel casco di Dorian, mettendo fuori uso anche quella tuta.
Il cronometro segnava che mancava ancora mezz’ora. Con calma Michele aprì la porta. Un cartello segnalava che per salire dovevano premere il pulsante posto sotto. Francesca lo fece, e si attivò l’ascensore idraulico per la risalita. Sbucarono fuori dalla radura, ad una cinquantina di metri verso sud. Tra i due lidi principali di Policoro, in un’altra piccola radura nascosta tra la macchia e la pineta.
Michele intanto, avendo ristabilito le comunicazioni con Frem, scaricò nella sua memoria tutto il filmato di quello che era successo. Frem inoltre inviò a Michele anche uno schema con cui poter orientarsi di modo che, se anche gli altri avessero vissuto le stesse esperienze, avrebbe saputo dove poterli recuperare. Cercando di orientarsi, Michele decise di correre verso il probabile punto di uscita di uno degli altri tre. Ed era proprio quello giusto, perché esattamente allo scadere dell’ora prevista, vide, a pochi metri da lui, uscire anche Giuseppe con Anna.
“Ragazzi! ce l’avete fatta!” disse Michele rivolgendosi a Giuseppe.
“Si!” rispose costui “anche se i miei avversari sono morti”
“Di chi si trattava?”
“I Tre Fratelli!”
Michele, vedendo Giuseppe, capì che anche lui doveva averne passate parecchie.
Si abbracciarono, finalmente.
Intanto, a una cinquantina di metri di distanza, qualcosa simile a un geyser spuntò dal terreno. E due figure spuntarono in mezzo all’acqua. Era una persona che ne teneva in braccio un’altra più grande di lui.


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NdA: Buongiorno e benvenuti a questo secondo capitolo dedicato alla "battaglia finale" :).
Fatemi sapere cosa ne pensate. 

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Capitolo 14
*** Roberto: Pensieri inquietanti ***


ROBERTO: PENSIERI INQUIETANTI

Il buio era una delle poche cose che gli faceva veramente paura. Il buio e le cimici. Erano le uniche due cose che non poteva proprio sopportare. Le cimici perché gli facevano schifo. Il buio per un altro motivo. Quella del buio era una paura che aveva da quando era piccolo. Aveva sempre dormito con una piccola luce accesa. Poi crescendo, aveva trovato sempre più irrazionale quella paura. Però, intanto, quando dormiva, la tapparella non era mai completamente abbassata. Tutto cambiò la prima notte che passò senza la sua mamma. Ma in quel momento non gliene fregava nulla. Erano stati sei mesi orribili e neanche il buio più profondo l’avrebbe spinto a non addormentarsi. Così, in preda alla stanchezza e al dolore più forte che avesse mai potuto provare, si addormentò comunque. Poi, nel bel mezzo della notte, si era risvegliato. Ed era semplicemente stato il panico. Aveva incominciato a sudare, gli girava la testa. Sentì il fiato corto. Corse alla finestra e alzò tutta la tapparella.
Quel senso di oppressione non se lo sarebbe mai dimenticato. Da quel momento, all’insaputa di tutti i suoi famigliari, dormì sempre con tutta la tapparella alzata, sentendo il cuore battere più forte al solo pensiero di rimanere al buio. Anche quando, per stare a casa di Simone, aveva dormito in camera con suo padre e sua sorella, aveva sempre fatto in modo di vedere un po’ di luce, nonostante la presenza dei suoi due parenti.
Così, alla chiusura della paratia, Roberto si accorse subito della cosa che mancava. Anzi, della cosa che più gli mancava in quel momento. Si accorse subito che una cortina di buio stava cadendo su di lui. Facendolo piombare nella sua unica e vera causa di paura di quei diciassette anni.
E la paura non tardò ad arrivare. Fortunatamente aveva con lui la tuta e infilandosi il casco, riuscì ad accenderla e ad avere un po’ di luce in quell’oceano di buio.
Poi sentì la porta aprirsi. E un conto alla rovescia partire. Da un’ora alla fine della vita che sarebbe dipesa da lui, non sapeva quale fosse, se quella di sua sorella o di qualcun altro degli ostaggi.
Spinse la porta, aprendola completamente. E si ritrovò davanti un corridoio. Corse lungo di esso e entrò in una stanza sferica di una ventina di metri di diametro. Lì vide una persona che mai avrebbe potuto pensare di ritrovarsi davanti.
“Buongiorno!” esclamò la persona.
“Buongiorno!” rispose Roberto. “Cosa ci fai qui!?”
“Faccio un piacere ad un amico ed un favore ad un nemico!” rispose.
“Spiegati meglio, Jonathan!” rispose Roberto. L’aveva visto una sola volta, in piscina, ma quel nome se lo ricordava benissimo.
“Il piacere lo faccio a Claudio, che potresti anche incontrare se riesci a prendere le due chiavi che ti servono, una a me e l’altra a Alessandro, per entrare nelle prossime stanze. Il favore lo faccio a te! Non permetterti di passare ti eviterà tanti brutti pensieri!”
Roberto decise di soprassedere, sfruttando la buona disposizione di Jonathan per fargli un’altra domanda.
“Chi è che devo liberare?!” chiese Roberto.
“Simone! La femminuccia che frequenta la mia piscina!” rispose Jonathan.
Bene! Significava probabilmente che Francesca era in mani migliori delle sue. Probabilmente, sperava, quelle di suo padre, che sicuramente avrebbe fatto tutto il possibile per liberarla, e ci sarebbe riuscito. Suo padre riusciva sempre a risolvere i problemi. Di questo era assolutamente sicuro.
“A proposito di piscina! State pulendo bene spogliatoi, docce e bagni? Non vorrei che i miei amici prendessero qualche malattia, frequentandola!” rispose sorridendo. Anche se quel sorriso, dietro il casco della tuta non si vedeva.
Non l’avesse mai detto. Solo in quel momento, infatti, si accorse del fatto che il pavimento di quella stanza era nascosto da una leggera nebbia.
“Ti ricordi del vecchio nemico di tuo padre, ti hanno mai parlato di Salvatore?” chiese Jonathan.
“Si! Quello che è stato ucciso quest’inverno! Perché?” rispose Roberto.
“Sai come è morto?!” chiese ancora Jonathan.
Poi un leggero cenno della mano di quest’ultimo gli fece capire il perché di quel ragionamento.
Un ago spuntò velocissimo dal pavimento e dalla nebbia e si conficcò nel braccio di Roberto, almeno per metà della sua lunghezza.
Roberto, dapprima fu spaventato. Poi si mise quasi a ridere.
“Allora! Prima di tutto Salvatore non aveva la tuta!” disse, espellendo immediatamente l’ago.
“E poi pensi di spaventarmi con una punturina?!” chiese.
“Ci sono circa centocinquanta aghi su questo pavimento!” rispose Jonathan. “E non sai dove si trovano!”
-come “centocinquanta aghi”? Io non li percepisco con la tuta- pensò Roberto. Solo per capire la spiegazione di quel problema. Il fatto era che, comprese Roberto, il pavimento era magnetizzato. Quindi non c’era modo di capire dove fossero gli aghi, almeno fino a quando non erano partiti. Ma a quel punto, come aveva visto, era troppo tardi. Fu in quel momento che incominciò ad avere paura.
“E se invece di prendere la carne prendo un tendine?” disse Jonathan.
Un dolore lancinante al piede, che gli cedette immediatamente. Un ago gli si era infilzato nel tendine di Achille del piede destro. Lì urlò. E si accasciò a terra in preda al dolore. Cercò di togliersi l’ago. Fortunatamente non l’aveva reciso. E riuscì a rialzarsi.
Capì che doveva difendersi in qualche modo.
Attivò un campo magnetico difensivo intorno al proprio corpo.
“Troppo debole! Proviamo con la cartilagine!” rispose Jonathan.
Un ago velocemente arrivò fino alla narice bucandogliela. E fuoriuscendo dall’altra parte. Solo a quel punto si rese conto che tenere la visiera del casco ancora alzata era un’ulteriore debolezza.
Sentì meno dolore di quello che ancora provava al piede. Ma capì che doveva intensificarlo, quel maledetto campo magnetico protettivo.
“Bene! Adesso ci divertiamo! Vediamo se riesco ad arrivare alla cartilagine del ginocchio!” disse.
Sentì distintamente partire un altro ago. Solo che, fortunatamente, il campo protettivo, finalmente, era abbastanza forte. La traiettoria dell’ago fu deviata e si andò a schiantare contro il muro, ricadendo a terra.
“Bene!” rispose Jonathan.
E partirono altri cinque aghi. Quasi tutti deviati. Solo uno riuscì ad arrivare a pungergli leggermente il braccio. Ma Roberto, prontamente, intensificò il campo magnetico e si sollevò da terra.
Partirono altri dieci aghi. E non lo colpirono. Ne partirono quindici. E così via. E riuscì a evitarli tutti. A quel punto si presentarono a Roberto due problemi.
Il primo era che molti aghi ricadevano sul pavimento. Quindi non solo era difficile continuare a rintracciarli, ma soprattutto erano nuovamente riutilizzabili da Jonathan. Il secondo era che le batterie della tuta, con quell’intensità di campo magnetico così forte, si stavano scaricando velocemente. E di quel passo, nei prossimi dieci minuti si sarebbero scaricate completamente. E di minuti, in quel momento, ne rimanevano ancora quarantacinque. Non poteva permetterlo. Evidentemente doveva esserci un'altra soluzione a quel problema.
Passarono altri cinque minuti. Quando gli venne un’idea.
Prima di tutto spense il campo repulsivo. Jonathan non se ne accorse neanche.
Poi si appoggiò al pavimento. E con una mossa da maestro, riattivò il campo repulsivo, annullando momentaneamente la magnetizzazione naturale di quel pavimento.
“Così pensi di riconoscerli, eh?” osservò Jonathan.
“No!” fu la sola risposta di Roberto.
Il successivo passo fu attivare un campo magnetico attrattivo.
“Ma cosa…” fu l’unica osservazione di Jonathan quando si accorse del fatto che tutti gli aghi stavano uscendo dal suo controllo e si stavano attaccando alla tuta di Roberto. Il campo magnetico di Roberto era molto più forte del suo. E gli aghi non si spostavano dalla sua tuta.
La risposta del ragazzo fu di aumentare il campo magnetico. E quello fu il suo errore. Più energia impiegata, significava più accelerazione degli aghi, e meno controllo su di essi.
A Roberto bastò disattivare il campo magnetico da alcune parti della tuta, per permettere a quegli aghi di staccarsi dal suo corpo e, molto velocemente, raggiungere quello di Jonathan. Con una velocità molto maggiore a quella a cui era abituato. Tanto che ne perse il controllo. Due gli si conficcarono nell’articolazione delle spalle.
Jonathan cadde indietro in preda ad un dolore inimmaginabile.
Roberto gli si avvicinò lentamente mentre altri due aghi si staccarono dal suo corpo e si conficcarono nelle cosce di Jonathan.
“Non ho tempo né voglia di scherzare!”
Un altro ago partì conficcandosi nel casco e spegnandolo completamente.
“Adesso mi consegni la chiave della prossima stanza, altrimenti a lanciarteli sarò io e ti assicuro che conosco abbastanza bene l’anatomia umana per trovare posti dolorosissimi in cui provare gli altri centoquarantacinque aghi!” disse.
“Per favore! Ti scongiuro! Basta!” urlò Jonathan.
“La chiave!” rispose Roberto.
“È nella mia tasca, ma non riesco a muovere il braccio! Per favore! Prendila e vattene!”
Roberto spense il campo magnetico e gli aghi caddero immediatamente a terra. Si avvicinò a Jonathan e gli infilò una mano in tasca, da cui estrasse la chiave.
“Non ti ho causato danni irreparabili. Quindi potrai continuare a nuotare. Ma non voglio più che causi problemi a Simone e Giuseppe. Hai capito?” chiese.
“Si! per favore! Dammi una mano ad alzarmi!” implorò l’altro.
Roberto gli porse la mano. E lo fece alzare. Poi si allontanò qualche passo da lui.
“Se vuoi darmi una mano a sconfiggere i prossimi sarò ben felice di accettarla!” gli disse Roberto.
“Darti una mano!? Certamente! Ma non a vincere!” urlò in un impeto di rabbia Jonathan, mentre tirò fuori dalla manica un legno appuntito che aveva nascosto nella tuta.
Roberto si voltò per vedere quello che stava succedendo. E capì che quelle persone erano accecate dalla rabbia. E che non avrebbero facilmente cambiato idea sul loro desiderio di vittoria o sulla cognizione di quello che era giusto e sbagliato.
“Mi dispiace!” fu l’unica cosa che poté dire, mentre gli bastò sollevare cinque aghi, posizionandoli con la punta verso l’alto, giusto in tempo per fare in modo che Jonathan ci muovesse sopra il piede. Cadde rovinosamente a terra.
“Se vuoi vivere, l’unico modo è uscire di qui. arrangiati!!” rispose Jonathan mentre, ancora in preda al dolore al piede, rimaneva inevitabilmente indietro a terra.
Intanto Roberto aveva attraversato la porta e l’aveva richiusa dietro di sé. Poi, trattandosi di un cancello, aveva gettato le chiavi dall’altro lato del sentiero dalla parte di Jonathan. A lui non servivano più. L’unica direzione ammissibile per lui era davanti a sé.
Il cancello era posto a metà del tragitto tra la stanza da cui era appena uscito e quella in cui stava appena per entrare. Mancavano quaranta minuti alla fine dell’ora. Aveva meno della metà della carica della batteria. E non sapeva come gestire quella situazione. Si fermò un attimo a riprendere fiato. Aveva timore di quello che avrebbe incontrato, probabilmente combattendo Alessandro nella successiva stanza.
Quando era a meno di un metro dalla tenda che lo separava dalla stanza di Alessandro, i sensori della tuta percepirono pienamente un misto di ultrasuoni e infrasuoni che provenivano da quella apertura. Non sapeva a cosa potevano servire ma sapeva che l’avrebbe scoperto presto.
Scostò la tenda e la prima persona che vide fu Alessandro. Era dall’altro lato della stanza. Su una poltrona. Seduto. Immobile. Era così fermo che non sembrava neanche vivo.
“Vattene finché sei in tempo!” disse Alessandro.
“Non posso! Rimani lì seduto, anzi, dammi direttamente la chiave e non ti succederà nulla!” fu la risposta di Roberto.
“E va bene! Allora la chiave è qui, nella poltrona. Sappi, però, che se ti avvicini, e prendi la chiave, un sensore lo rileva e succederanno cose molto spiacevoli per te! Decidi quello che vuoi fare. Io me ne vado. Seguo il mio stesso consiglio! Addio!” e scomparve.
Evidentemente era una proiezione tridimensionale. C’aveva quasi creduto, ma l’ultimo effetto era inequivocabile.
Così si avvicinò alla poltrona e vide su di essa la chiave. Senza pensarci neanche per un secondo prese quell’oggetto che significava l’ormai prossimo passaggio a quella che sapeva essere l’ultima stanza. Chissà se Alessandro l’avrebbe trovato lì.
Purtroppo, però, le parole di Alessandro si avverarono.
Appena prese le chiavi, una paratia di plexiglass si chiuse davanti a sé, precludendo ogni passaggio verso la futura stanza. Contemporaneamente dei piccoli fori si aprirono su tutta la parete della stanza in cui si trovava. Da ciascuno di essi uscirono centinaia di insetti. Insetti la cui identità non tardò a riconoscere. Si trattava di migliaia di cimici che erano entrate in quel momento nella stanza. Dopo neanche cinque secondi qualsiasi fonte di luce esterna alla sua tuta si spense. Rimase completamente al buio.
Fu così che le uniche due fonti di paura per lui, le uniche due cose per cui, senza che altri lo sapessero, tremava, entrambe quelle due cose, Roberto se le ritrovò lì. Subito venne colto dal panico. Incominciò ad urlare, cercando a tastoni di arrivare all’ingresso, ancora aperto, che riportava alla prima stanza.
Sentiva intanto gli insetti che gli si posavano addosso. Non capiva più niente. Tutte quelle cimici che sbattevano contro il muro metallico facevano un rumore pazzesco. Come un boato che le pareti della stanza, metalliche, provvedevano ad amplificare, rendendolo ancora più insopportabile.
Incominciò a sudare freddo. Poi la mente non resse più e perse i sensi.
Si risvegliò quando sentì un leggero solletico sul labbro. Portò la mano alla bocca e una cimice volò via. Si rialzò era ancora nella stanza. Era completamente nudo e sentiva le cimici ovunque. Venne colto da un urto di vomito, ma non gli salì nulla. ebbe la forza di correre un po’ più verso il corridoio di ingresso ed entrarvi. Fu solo allora, che la sua mente divenne un poco più razionale e incominciò a porsi delle domande.
-come faccio ad essermi sdraiato sul pavimento della stanza con la tuta ed essermi risvegliato nudo? Se ho la tuta ho anche il casco! Come faccio ad aver mandato via la cimice che avevo sulla bocca? Può essere una sensazione della mia mente? Un’allucinazione?-
Poi gli venne in mente l’unico particolare che aveva considerato prima di scendere in quella stanza. Gli vennero in mente gli ultrasuoni e gli infrasuoni che rilevò con la tuta. E capì.
Se ne ricordava, ma appena le cimici furono rilasciate, pensò che fosse un sistema per controllarle. In effetti poteva funzionare. Ora però, quelle domande che si porse, gli fecero capire che la situazione doveva essere diversa.
Ci provò.
“Attivazione schermatura sonora completa!” disse, provando a pensare che la tuta fosse ancora addosso a lui e completamente attivata. Ma non funzionò.
Allora comprese che effettivamente qualcuno l’aveva spogliato, e che non aveva la tuta. ma anche che la situazione doveva essere gestibile in qualche modo.
Provò a tornare indietro al cancello che separava le prime due stanze. Appena oltre vide un ago. Non sapeva se era la sua immaginazione o se era vero. Ma una cosa era certa. Doveva risvegliarsi al più presto. riuscì ad afferrare quell’ago e stringerlo forte tra due dita. La punta penetrò per qualche millimetro nel pollice. Il dolore fu sufficiente a riportarlo per un attimo alla realtà. Era effettivamente senza la tuta addosso. Ed era nel corridoio. Ma la tuta era riposta a pochi metri da lui in quello stesso corridoio.
Capì allora che poteva fare solo una cosa, l’unica che gli venne in mente in quel momento. Corse verso l’ingresso della seconda stanza e ritirò la tenda.
In quel preciso istante tornò la luce, e le cimici scomparvero tutte. Allora risolse quel mistero.
Sapeva, infatti, che poteva esserci solo una cosa che gli poteva far sembrare così realistiche quelle cose. Il memorizzatore acustico ricreato da Marco e i suoi compari. Evidentemente l’aveva indotto ad avere quelle allucinazioni e addirittura a perdere i sensi. La tenda, come un interruttore, attivava e disattivava il memorizzatore. Fu allora che comprese anche quello che doveva fare per risolvere la situazione.
Vide in quel momento che si era perso un bel po’ di tempo. e mancavano solamente dieci minuti. Indossò immediatamente la tuta. aveva solo il 2% di carica della batteria principale. Attivò la schermatura completa. Provò a scostare la tenda. Ebbe nuovamente conferma dell’accensione della macchina, dal momento che rilevò nuovamente gli ultrasuoni e gli infrasuoni. Ma a questo punto erano completamente schermati dalla tuta. Ritornò indietro al cancello. Attirò a se tutti gli aghi che riusciva a prendere sporgendo la mano fuori dal cancello. Era arrivato il momento di utilizzare il suo nuovo dispositivo installato. Attivò la pila supplementare. Concentrò un campo magnetico molto forte sugli aghi, che nel giro di pochi secondi si fusero. Successivamente forgiò delle palline e le fece solidificare.
Con la schermatura sonora completa, entrare nella stanza significava entrare, finalmente, in una stanza vuota. Dove c’era solo la poltrona. Controllò in tasca e le chiavi non c’erano. L’allucinazione, a quel punto, era già incominciata. Non si perse d’animo e lanciando un centinaio di pallini di ferro contro la porta in plexiglass, tempo dieci secondi crollò.
In quel momento ritornò la luce, definitivamente. Corse immediatamente dentro il corridoio. Non aveva la chiave ma non aveva neanche il tempo di cercarla. E non ne aveva effettivamente neanche bisogno.
Le sbarre di acciaio, di circa quattro centimetri di diametro, erano proprio della dimensione giusta per essere strette tra le mani. E due subirono quella fine. Bastarono per far concentrare un fortissimo campo magnetico in quel cancello, che dopo neanche un minuto si divelse a causa di quell’energia enorme. Roberto, subito dopo, passò. Mancavano solo 7 minuti. Così per fare l’ultima ventina di metri verso l’ultima stanza, volò.
Immediatamente la stanza illuminata si parò davanti ai suoi occhi. Davanti a lui, Claudio, dall’altro lato della stanza. In abiti civili. Senza tuta.
“Dammi immediatamente la chiave, se non vuoi perdere la vita. Non ho tempo di fermarmi a parlare!” esclamò tutto d’un fiato Roberto, atterrando al centro della stanza.
“Peccato!” disse Claudio. In mano aveva un telecomando. Con un solo bottone. Premette il pulsante.
Dapprima Roberto temette il peggio, che stesse rilasciando l’impulso che avrebbe potuto spegnere il motore che impediva all’acqua di entrare nel locale di Simone, peraltro posto proprio davanti a lui. Ma poi non accadde nulla che potesse anche solo far pensare a quello.
Sentì invece una vibrazione fortissima. Non si accorse neanche di stare cadendo. Ma istantaneamente una forza enorme lo attirò a terra.
“Belli gli elettromagneti, eh? Puoi utilizzarli come meglio credi!” esclamò sorridendo Claudio. Ecco perché non aveva la tuta. l’aveva capito adesso. Comunque troppo tardi. Provò a contrastare quel campo magnetico, ma era decisamente troppo forte. La carica della pila si ridusse velocemente alla metà. Nel frattempo la parte superiore della tuta, sottoposta a quel campo magnetico, pressava su di lui, impedendogli quasi di respirare. Capì che c’era una sola cosa che poteva fare. Spense la tuta. In quel modo la batteria si salvaguardava e soprattutto l’elettromagnete non avrebbe agito con tanta forza. Perché non c’era nessun magnete da attrarre.
Si sbrigò a levarsi la tuta. in quel momento con la coda dell’occhio vide Claudio correre verso di lui. Fece appena in tempo ad uscire dalla tuta, che venne colpito al volto da Claudio.
“Allora chi è più forte adesso, eh?!” esclamò quest’ultimo mentre continuava a colpire con pugni e calci Roberto.
Lui riuscì a schivare un paio di colpi, ma senza grossi vantaggi. Fu solo lasciato a sanguinare per terra quando Claudio si diresse verso il cancello che li separava da Simone.
“Adesso, davanti ai tuoi occhi, prima di andarmene e lasciare inondare questa e le altre stanze, picchio un po’ anche il tuo amichetto!” disse.
“Non ti conviene farlo!” furono le uniche parole di Roberto.
“Perché altrimenti che fai, mi uccidi!?” rispose Claudio, ridendo sguaiatamente.
Roberto non disse più niente. Sapeva che era inutile e che non gli conveniva. E mancavano solo due minuti.
Claudio aprì il cancello. E fu questione di un attimo. L’immenso campo magnetico che Claudio non sentiva e Simone neanche, le maniglie che costituivano i legami di Simone lo sentirono, eccome. Nessuna vite o bullone avrebbe potuto tenerli fissati. In meno di un decimo di secondo vennero strappati dalla parete. Uno dei due finì a pochi millimetri dal corpo di Roberto. L’altro colpì e trapassò l’addome di Claudio. Che cadde a terra.
“Roby!” esclamò immediatamente Simone, ormai completamente libero, correndogli incontro. Prima di tutto prese il telecomando di Claudio e spense quell’arma infernale. Poi corse verso Roberto.
Roberto si riprese immediatamente. Alzandosi. Mancava ormai poco più di un minuto.
“Vieni! Abbiamo pochissimo tempo!”. prese Simone per un braccio. Poi però la fatica per quell’ultima ora ebbe la meglio. E crollò a terra.
“Beh! allora questa volta sarò io a salvarti!” concluse Simone.
La tuta, ormai liberata dall’elettromagnete era nuovamente disponibile. La indossò prima possibile. Poi prese in braccio Roberto, che fortunatamente non pesava così tanto e lo riportò vicino alla porta che dava verso l’esterno. Aprì la porta e corse dentro. Verso l’ascensore idraulico. Pensò che bastasse ma le cose non stavano così. I boccaporti si aprirono, e in meno di dieci secondi tutti quei locali furono inondati.
Fortunatamente, uscito fuori da quella stanza, una volta accesa la tuta, Frem lo rilevò.
“Frem! Sono Simone, il figlio di Giuseppe! Aiutami! Non so come fare!” urlò Simone.
“NON PREOCCUPARTI! PENSO A TUTTO IO. TU RILASSATI!” rispose Frem.
Simone ubbidì. Un campo magnetico, riuscì addirittura ad allontanare l’acqua da loro due. Poi la scaldò vaporizzandone una parte. Come una bolla nell’acqua in ebollizione, cominciarono a risalire sempre più velocemente verso l’uscita che intanto si era aperta ed era un puntino bianco posto al di sopra delle loro teste.
Puntino che si stava ingrandendo sempre più.
Prima arrivò il vapore. Poi loro sbucarono fuori. Poi l’acqua in pressione che aveva sepolto Claudio e Jonathan in quei locali, raffreddò l’ambiente circostante.
Simone, con in braccio Roberto, atterrò in tutta sicurezza ad un paio di metri da quella buca, dalla quale stava finendo di gorgogliare acqua, proprio quando, dalla pineta sbucarono Giuseppe, Anna, Michele e Francesca.
Esattamente a quel punto, la tuta si scaricò completamente spegnendosi. E Simone crollò sotto il peso dei vestiti bagnati e di Roberto. Entrambi finirono stravolti a terra.
“Roby!” gridò Francesca, che corse immediatamente verso di lui, seguita da Michele.
Anna vide immediatamente Simone e corse ad abbracciarlo, seguito da Giuseppe.
“È tutto finito, ragazzi!” ebbe la forza, tra le lacrime, di esclamare Michele.
“Ma dove sono Simone e Giuseppe?!” esclamò Roberto.
“E Maria?” chiese Anna a suo marito.
“Non lo so!” rispose Giuseppe. Cercò di guardare verso il mare. Stando alle ipotesi elaborate da Frem, l’ultima uscita doveva essere a una trentina di metri dalla costa, a circa 5 metri di profondità. E stando al tempo che era trascorso da quando erano scesi dalla radura, i locali dell’ultimo lato della struttura, quelli con Giuseppe, dovevano già essere stati allagati. Ma il fatto che non era successo ancora niente non lasciava presagire nulla di buono.
La spiaggia si era quasi svuotata e in acqua non c’era più nessuno. Inoltre il sole stava quasi tramontando, e l’acqua diventando sempre più scura.


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NdA : Buongiorno a tutti ed eccoci di nuovo con il proseguimento di questo racconto. Sono sempre felice (e curioso) di sapere cosa ne pensate! Buona giornata.

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Capitolo 15
*** Giuseppe J.: La vera amicizia ***


GIUSEPPE J: LA VERA AMICIZIA

Aveva il cuore che gli batteva fortissimo. Da quando si erano chiuse le paratie, era passata circa un’ora ma ancora non c’era nulla da fare. Niente che potesse in qualche modo fargli capire che fosse arrivato il suo turno, di combattere, di parlare, di comportarsi.
La porta non si era neanche aperta. Lui aveva indossato il casco ma non aveva neanche acceso la tuta. non aveva senso. Avrebbe solo scaricato le batterie. L’orologio della tuta segnava quasi le 19.00 aveva peraltro sentito anche le paratie intorno a se arrivare a vibrare quando l’acqua le aveva raggiunte, con la conseguenza della perdita di ogni forma di vita presente in quelle altre sezioni. Chissà se il suo amico Giuseppe e Roberto erano riusciti a concludere la loro missione. Chissà se anche Michele ci sarebbe riuscito. Chissà se Francesca era già sana e salva. E se ci fosse stata sua mamma dall’altro lato della porta, lui sarebbe stato in grado di aiutarla?
Si sentì solo. Gli veniva da piangere. Non sapeva quello che era successo ai suoi cari, genitori e amici. Non sapeva quello che sarebbe successo a lui. Comunque non sapeva neanche quando gli sarebbe successo e per mano di chi. Gli toccava solo aspettare. Solo che quella attesa lo rendeva sempre più nervoso.
Fu proprio a quel punto che accadde quello che sperava e temeva allo stesso tempo: il timer sulla porta si attivò, segnando il tempo alla rovescia, a partire da un’ora. In quel momento, dalla parte opposta della stanza rispetto alla porta, gli parve di sentire un colpo. Capì che doveva esserci qualcuno da quella parte, anche se l’unica persona di cui poteva ricordarsi in quella posizione era proprio suo padre. Ma un secco rumore metallico, decretò l’apertura della porta quindi capì di non avere tempo da perdere in ulteriori pensieri.
Corse immediatamente dentro. Attivando al tempo stesso la tuta. tanto, male che fossero andate le cose, da lì a poco meno di sessanta minuti non gli sarebbe comunque servita. Appena ebbe oltrepassato la porta, questa si chiuse. E si ritrovò in un altro ambiente. Una stanza appena più grande, apparentemente senza uscita.
“Ehi! Voi! Che scherzo è questo?! mi state prendendo in giro?” urlò. Su ciascuna facciata delle pareti che formavano una superficie convessa contro lo spessissimo muro che aveva appena varcato, entrando per quella porta ormai chiusa, c’erano dei timer, che segnavano tutti il tempo che rimaneva. Ed erano, peraltro, l’unica fonte di luce di quell’ambiente. Quelle pareti erano metalliche. Qualcosa nella sua testa gli diceva che era meglio attivare un campo di forza, leggero, ma protettivo. E gli andò bene. Dopo meno di un minuto, sentì un boato enorme, e le pareti che si spostavano, richiudendosi su di loro. accerchiandolo sempre di più. Il campo magnetico incominciò ad agire e il suo corpo venne costretto tra due pareti mobili ed il muro spesso, in un triangolo, largo al massimo cinquanta centimetri. Per poi cambiare dopo altri venticinque secondi. Assumendo una nuova conformazione.
La sua mente, allora, incominciò a ragionare. Era come se si trovasse in un labirinto di metallo, impenetrabile, perché cambiava continuamente.
Passarono circa tre minuti. Poi ebbe una sensazione famigliare. Come se si fosse già trovato in quel punto.
-Massì! Non mi sono ritrovato nello stesso punto. Ma nella stessa conformazione-
Allora si impegnò ancora di più. Passarono circa dieci minuti, quando, dopo essere ritornato per tre volte nella stessa conformazione, capì che stando fermo in quel punto, le pareti tornavano alla prima posizione dopo quindici cambi. E quello era il primo passo.
Ma, purtroppo, quella era un’informazione che gli diceva tutto e non gli diceva nulla sulla sua situazione.
Dovette ragionare ancora di più. Allora decise di mettersi in quella posizione “neutra” cioè quella in cui se rimaneva fermo non accadeva nulla. E incominciò ad usare tutte le potenzialità della sua tuta, come Frem gliel’aveva preparata.
Attivò sia il sonar che il radar. Quando le pareti erano in movimento ed ogni volta che erano in movimento, lasciava partire i due segnali, sia quello sonoro che quello elettromagnetico. Sulla base delle rilevazioni effettuate, al primo movimento delle pareti, riuscì a rilevare tutte le posizioni dei perni intorno ai quali giravano le pareti. E poi partì lo studio. Erano dei motori elettrici che attivavano i perni. Questo significava che non era un nemico che con i suoi campi magnetici faceva muovere le pareti. E quindi nessuno avrebbe cambiato il movimento programmato.
Inoltre comprese che continuando avrebbe potuto stabilire benissimo i movimenti da fare tra uno spostamento e l’altro per arrivare dall’altro lato di quello che aveva capito essere un locale molto ampio. Almeno, per arrivarci in vita. Poi, quello che avrebbe incontrato dall’altra parte non lo sapeva. Ma intanto stava incominciando a capire come muoversi. Gli ci vollero altri venti minuti per avere la mappa completa con il percorso sicuro per uscire da quel labirinto. A quel punto, quando era già passata mezz’ora, Giuseppe poté partire. Inserì il pilota automatico così la tuta lo guidava senza possibilità di errore da parte sua. La traiettoria migliore e più veloce includeva un tragitto che durava tre cicli completi, quindi nove minuti. Incominciò.
Nove minuti dopo arrivò alla porta della stanza successiva.
Era una porta con una serratura, ma non era chiusa a chiave. Quindi gli bastò girare la maniglia per aprirla. E lo fece. D’altra parte mancavano venti minuti allo scadere del tempo e ancora non sapeva chi aveva davanti e chi doveva salvare. Gli bastò oltrepassare quella porta per comprenderlo.
Davanti a lui, oltre una parete di vetro trasparente ma spessa almeno venti centimetri, c’era Antonio, il suo amico e compagno di classe. era conciato veramente male. Pieno di tagli, e contusioni. Sembrava come se avesse subito lo stesso trattamento che avevano subito suo padre, Giuseppe e Michele 24 anni prima.
“Antonio!”
“Giuseppe! Aiutami!” gridò quest’ultimo.
Solo a quel punto Giuseppe scorse la figura in piedi di fianco a lui. Con in dosso la tuta, e con il casco che ne oscurava il volto. In piedi, in silenzio. Inutile negare che si prese un colpo nel momento esatto in cui si era accorto di quella presenza. Però se l’aspettava. Anche se ancora non sapeva…
“Chi sei?! Fatti riconoscere se ne hai il coraggio!”
La visiera del casco si illuminò. Permettendogli di vedere il suo volto.
E lì, sì che Giuseppe si spaventò. Perché dietro a quella visiera, Giuseppe vide il volto della persona che meno di tutte si aspettava in quella situazione. Della persona che, per quanto gli sia stato vicino in quei mesi, meno di tutti centrava in quella storia. Vide Andrea.
“Ma… ma Andrea, che cosa ci fai tu qui?!” chiese in un tono di voce ben più docile di quello che aveva utilizzato prima.
Il braccio di Andrea si sollevò. Giuseppe venne sospinto da un campo magnetico molto forte dall’altra parte di quella stanza, buttandolo a terra.
Giuseppe, incredulo, ebbe appena il tempo di rialzarsi, prima di essere gettato ulteriormente indietro da un altro campo magnetico, forte come il primo e proveniente dalla stessa fonte.
“Ma che cosa ti è preso? Sei impazzito?!” gli urlò il ragazzino, incredulo ed incapace di reagire a quell’attacco, fosse solo per la persona da cui quell’attacco proveniva.
Andrea cominciò a camminare, mentre Giuseppe si rialzava da quel colpo. Andrea si avvicinò nuovamente a lui, tenendo sempre alzata la mano. Un altro colpo fece nuovamente sbattere Giuseppe contro il muro di acciaio.
“Perché! Cosa ti ho fatto per meritarmi tutto questo!?” chiese nuovamente e sempre più debolmente Giuseppe.
Non capiva nulla. non capiva il motivo per cui stava accadendo quello. Non riusciva a giustificare l’attacco di Andrea, ma non voleva neanche crederci.
“Per uscire vivo da questa stanza dovrai uccidermi!” disse, per tutta risposta Andrea.
“Ma perché?!” chiese ancora Giuseppe.
La visiera si era nuovamente oscurata da che Andrea aveva incominciato a parlare, ma quella era veramente la sua voce.
“Sei ormai rimasto solo!” disse Andrea. E poi continuò nel modo peggiore che avesse mai potuto sentire Giuseppe.
“Giuseppe, Anna, Michele, Simone e Roberto sono morti!” gli disse Andrea.
“Cosa?!” chiese incredulo Giuseppe.
“Anche Francesca è morta. L’ho uccisa con le mie mani!” rispose Andrea “E tuo padre e tua madre sono stati i primi ad essere stati uccisi, direttamente da Marco!”
Intanto, Antonio, dall’altra parte della cortina di plexiglass implorava Giuseppe di liberarlo.
Da quindici secondi Giuseppe aveva smesso di vivere. Non nel senso che fosse morto. Ma quello che aveva sentito dal suo amico era un insieme di informazioni, snocciolate come se avesse assistito ad un telegiornale che raccontava delle stragi in medio oriente, che l’aveva ucciso. Tolto letteralmente la voglia di vivere.
Suo padre, sua mamma, Giuseppe, Anna, il piccolo Simone, come lo chiamava affettuosamente, tutti morti?
E Michele, Roberto, il suo amico, e Francesca, per cui provava la prima vera sensazione di amare qualcuno, anche loro tutti morti?
-E io che cosa ci faccio qui?- pensò –perché mi hanno fatto aspettare fino a questo punto, e ancora non mi hanno ucciso?-
Poi fu un altro, il sentimento che lo colpì. Qualcosa di più forte. ma al tempo stesso anche di più antico, ancestrale, animale. Provò, per la prima volta in vita sua una incontrollabile ira. Verso la persona che aveva causato tutto questo, verso Marco, e verso la persona che gliel’aveva detto, verso Andrea.
Non sapeva perché gliel’avesse detto, non sapeva neanche perché l’aveva fatto, perché avesse ucciso Francesca, era solamente arrabbiato, con tutti.
Poi vide qualcosa di strano. Stranissimo.
Andrea abbassò il braccio. Poi lo rialzò, quasi di scatto. Poi lo riabbassò, con molta forza.
Poi lo rialzò. E questa volta partì un altro colpo. E Giuseppe ripiombò a terra.
“Voglio sapere perché mi dici queste cose! Voglio sapere perché le hai fatte!” urlò Giuseppe. levandosi il casco. Non gli importava niente della tuta. Voleva semplicemente avere quelle risposte.
Non capiva più niente. Non capiva più cosa ci faceva lì. Non capiva cosa volevano adesso. Non avrebbe mai pensato che tutte quelle brutte notizie gli sarebbero arrivate da sole. Non aveva neanche realizzato l’entità di quelle notizie. Non sapeva neanche come gestirle. Quel nubifragio di sentimenti, lo stava solo sfiorando, almeno per il momento. In parte a causa della situazione vissuta fino a pochi minuti prima, al buio e nel silenzio assoluto. In parte per lo shock di aver visto Andrea in quella situazione. Per quale motivo c’era proprio lui, lì? E quale era la motivazione di quel movimento strano del braccio di prima? Erano queste le domande che circolavano nella sua testa. Più di ogni altra cosa.
“Voglio semplicemente uccidere anche te!” rispose Andrea.
“Non è possibile! non ti credo! Non può essere possibile! non ti crederò mai!” urlò a quel punto Giuseppe. Che era pienamente cosciente del fatto che, come gli aveva detto suo padre prima di quell’esperienza, probabilmente le ultime cose che gli aveva detto nella sua vita, tutto avrebbe potuto fare. tutto, meno che ascoltare quello che i suoi nemici stavano dicendo.
Andrea fece partire un altro colpo. Che fece sbattere nuovamente Giuseppe contro il muro.
Mancavano ormai quindici minuti alla fine di quella esperienza. In cinque minuti non aveva fatto altro che prenderle e rovinarsi la vita.
In quel momento, però, gli venne in mente una cosa. Gli venne  in mente il colpo che aveva sentito prima di entrare per la porta. Quello era suo padre. Suo padre? Ma allora significava che Andrea gli stava dicendo una bugia. Perché?
“Mi dispiace Andrea, ma non ci vedo chiaro in questa storia! E adesso le risposte, forse ci metterò un po’ di più, ma le troverò comunque da solo!” disse Giuseppe. inserendo il casco e riaccendendo la tuta.
Se Andrea aveva detto una bugia su suo padre, evidentemente, stava dicendo una bugia anche su tutto il resto.
Attivò delle luci che puntò contro Andrea. Era l’unica cosa che poteva ragionevolmente fare, oltre a, naturalmente, attivare un campo protettivo. Non avrebbe più subito passivamente quella situazione.
Fu a quel punto che si accorse di due particolari. Prima di tutte la luce fece breccia nella visiera del casco. E questo gli permise di vederlo un’altra volta in viso. E scorse una lacrima che stava scendendo sulla guancia.
Poi fece ancora più caso a quello che stava accadendo. Vide che c’era qualcosa di sottile come un filo di ragnatela che procedeva dal casco di Andrea, verso l’alto.
Andrea lo colpì nuovamente. Ma quel colpo raggiunse Giuseppe, ma non lo fece spostare. Giuseppe lentamente incominciò ad avvicinarsi. Fino a quando non udì distintamente qualcuno parlare.
“Fai un altro passo e gli si spezzerà un braccio!”
Giuseppe si voltò, ma si accorse che la voce proveniva, contrariamente a quella di Andrea, e a quella di Antonio, da un altoparlante.
Decise di non credergli. Purtroppo. Fece un altro passo.
L’avambraccio sinistro di Andrea si contorse fino a spezzarsi a metà. Giuseppe ebbe un colpo e fece un salto indietro. Perché oltretutto sentì anche Andrea urlare. Come non l’aveva mai sentito urlare.
“No! Andrea! Perché?!” urlò anche lui.
Poi più niente.
“Se provi ad avvicinarti ancora o a fare qualsiasi cosa, gli spezzo una gamba!” rispose quella voce, proveniente ancora dall’altoparlante.
Giuseppe era, a questo punto, veramente in crisi. Non sapeva cosa fare. Aveva provocato della sofferenza a Andrea. Sofferenza che non doveva provocargli. Si sentì in colpa.
“Scusami Andrea!” disse, mentre sentiva ancora il suo amico, che piangeva. Evidentemente però, lui stava agendo contro la sua volontà, il suo amico. Anche il tentativo di non colpirlo poco prima, era una evidente dimostrazione di ciò.
Riattivò il sonar. Solo per farsi venire nuovamente in mente il filo della ragnatela. Lo vedeva e lo attirava. Solo in quel momento, acuendo i sensori della tuta, si accorse del fatto che la “ragnatela” era attraversata da corrente elettrica. E allora capì.
Non stavano controllando la mente di Andrea. Stavano semplicemente controllando la sua tuta. Detto questo tutto si sarebbe risolto subito.
“Chiunque tu sia, non so perché l’hai fatto. Non sono un mago, ma ho capito tutto!” esclamò Giuseppe.
Vide la gamba di Andrea che cominciava a muoversi. Ed il suo amico incominciare ad urlare. Fece la prima cosa che gli venne in mente. Si strappò il ciondolo con la moneta bucata, e con una mira pressoché perfetta, la lanciò contro quel cavo. La velocità del lancio bastò a tranciarlo. Immediatamente Andrea cadde per terra. Con il braccio ancora sano si levò il casco.
Allora Giuseppe corse verso di lui.
“Andrea! Scusami per il braccio! Come stai?!”
“Non preoccuparti per me! È lui il bastardo!” rispose Andrea. Indicandogli Antonio.
“Ma lui è legato lì!” osservò Giuseppe.
“Poverini!” sentì. Era la stessa voce di prima, ma non proveniva dalla stessa parte. E solo allora si rese conto che era effettivamente la voce di Antonio.
A quel punto Antonio sollevò la testa. E Simone si accorse che sotto i capelli aveva degli elettrodi.
“Ecco il casco, eh?!” chiese Giuseppe.
“Io sono dalla parte giusta. Io mi salvo!” disse Antonio. Aprendo la porta e uscendo di scena. Poco dopo videro Antonio partire e quel locale allagarsi completamente. Fortunatamente lo spessore di plexiglass non fece allagare tutto il locale. Per fortuna o purtroppo. Perché erano completamente rinchiusi a un centinaio di metri sotto il livello del mare.
“Scusami Giuseppe per quello che ti ho detto!” disse Andrea.
“Scusami tu per quello che ti ho causato!” rispose Giuseppe.
“Ma perché l’ha fatto!?” chiese Giuseppe.
“è il figlio di Marco!” gli rispose.
“Ok! Ne parliamo dopo!” rispose Giuseppe. in realtà quella notizia l’aveva sconvolto. Ma non aveva tempo di pensarci ora.
Giuseppe passò la mano sopra il braccio sinistro di Andrea.
“La frattura è scomposta!” disse. “Quindi! Prima di tutto devi scusarmi!”.
“Ti ho già detto che non fa nien…” ma non continuò perché il movimento di Giuseppe gli fece perdere i sensi dal dolore. Ma almeno il braccio era a posto, adesso, almeno fino a che non fossero arrivati al pronto soccorso. Sempre se fossero riusciti ad uscire da quel posto infernale.
Intanto i minuti che mancavano alla fine si erano ridotti a cinque.
E Giuseppe ritornò a ragionare.
-cosa posso utilizzare per salvarci?!- e poi la soluzione gli venne.
Ritornò nell’altro locale. Divelse un paio di pareti. Sfruttò tutta l’energia o quasi della sua tuta, per curvarle ed inclinarle, tagliandole, e nel giro di trenta secondi realizzò un siluro largo settanta centimetri e lungo due metri. Poi prese uno dei motori e lo fissò ad una estremità, portando i cavi all’interno.
Mancavano meno di trenta secondi quando riuscì ad inserire Andrea nel vano. Ed infilarsi lui dentro.
Giusto in tempo per chiudere e sentire le cariche saltare ed i boccaporti aprirsi. Vennero quasi immediatamente sommersi dall’acqua. Giuseppe prese i cavi di alimentazione del motore e lo fece accendere, e girare più velocemente che poteva. Si orientò con il sonar, misurando, attraverso le onde sonore, la compressione del siluro, e quindi la pressione esercitata su di esso. Il risultato fu che poté guidarsi alla cieca verso la superficie dell’acqua. Dopo neanche dieci minuti erano emersi in superficie. A quel punto un colpo ben assestato della tuta, che contemporaneamente, gli permise di uscire e respirare aria pura, e di esaurirne completamente la carica, li fece uscire dal siluro, che si allagò immediatamente e affondò nuovamente.
Quel minimo di luce ancora presente lo fece orientare subito, e diede un minimo di carica alla tuta fino a farlo volare sull’acqua fino alla spiaggia.
“Ma come avete fatto a resistere finora sotto l’acqua?” chiese Giuseppe, abbracciando il suo amico.
“Il mio timer è partito circa un’ora dopo la chiusura della paratia!” rispose il ragazzo.
E consegnò immediatamente Andrea nelle mani di Michele, che avendo ancora a disposizione una certa quantità di carica, volò fino al pronto soccorso.
“Ma aveva la tuta! Era lui il tuo nemico?” gli chiese Roberto.
“L’ho creduto, per un po’! ma non era così!” rispose Giuseppe. “Ma dove è mio padre e mia mamma?” chiese.
“Ancora dentro! E non sappiamo cosa stia succedendo!” rispose Roberto.
“Ho capito! Devo fare una cosa!” disse Giuseppe, volando via.
Gli altri rimasero increduli a quella situazione. Come poteva andare via nonostante quello che stava probabilmente accadendo ai suoi genitori?
Ma, più di ogni altra cosa: cosa stava succedendo a Simone e Maria?

NdA: Buongiorno! benvenuti alla 4di4!! Mancano ancora 2 capitoli per finire questo racconto: uno che risponde alla domanda appena qui sopra, e l'altro con i fuochi d'artificio finali! alla prossima e grazie per seguire e commentare questo racconto!

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Capitolo 16
*** Simone&Maria : Tutto l'amore del mondo ***


SIMONE&MARIA: TUTTO L’AMORE DEL MONDO

Non appena Marco ebbe pronunciato quella frase, premette un pulsante e il montacarichi risalì. In quel momento Simone e Maria potevano vedersi, l’uno di fronte all’altra. Anche se erano entrambi fissati alle pareti metalliche.
Nel frattempo su ciascuna delle pareti di fronte ad ognuno, si accesero delle immagini. Erano quattro schermate. Una per ciascuno stanzone.
Simone e Maria poterono, così, vedere le prove che subirono anche gli altri. Esultarono quando Giuseppe inviò la scossa a Massimo. Si spaventarono quando videro la potenza con cui Michele colpiva, attraverso quella parete trasparente, il casco di Amaraldo, rendendolo inutilizzabile. Tremarono assieme a Roberto ed alla sua esperienza. Non potevano vedere le stesse cose create dalla sua mente, perché erano comunque inesistenti, ma quando lo videro uscirne illeso, compreso dal particolarissimo combattimento con quell’altro ragazzo, di cui conoscevano solamente il nome, Claudio, gioirono anche per loro.
Soprattutto furono felicissimi di accorgersi di come tutti e tre i loro amici, con Anna, Francesca e Simone, uscirono, più o meno illesi da quelle battaglie.
“Simone, ma Giuseppe dov’è?” chiese Maria.
“Quello nella stanza di vetro è Antonio?! E quello è Marco!” esclamò Simone “probabilmente Marco è andato a preparare la scena per lo scontro di Giuseppe. Anche se quello con la tuta non lo riconosco!”.
Poi videro Marco incominciare a picchiare, bastonare e torturare Antonio.
Poi lo rivestì. Era passata quasi un’ora, quando Marco lo lasciò e se ne andò, rientrando, dopo pochi minuti, nel locale dove si trovavano Simone e Maria.
“Perché gli hai fatto questo!?” urlò Maria.
“Ah! Ti riferisci ad Antonio? Perché così riesce ad ingannare tuo figlio. è un piacere che gli ho fatto con tutto il bene che gli voglio!” rispose Marco.
“Come fai a conoscerlo!?” chiese Simone. Anche se aveva veramente paura di conoscere la risposta a quella domanda.
“Beh! lo conosco da quando è nato, visto che è mio figlio!” rispose Marco.
Si fece silenzio in quel momento in quel locale. Mentre, in lontananza sentirono la porta di Giuseppe che si apriva, permettendogli di incominciare la sua prova, Simone scalciò con tutte le sue forze, verso quella direzione, colpendo il muro di ferro e sperando che Giuseppe, dall’altro lato della stanza lo udisse. Era l’unico modo che aveva per farlo sentire ancora vicino, anche in quel momento così difficile. Soprattutto in quel momento così difficile. Non sapeva, pur avendo visto come erano andate le cose fino a quel momento, cosa sarebbe accaduto a Giuseppe, ma sapeva che gli aveva detto tutto quello che gli serviva. E aveva abbastanza fiducia in suo figlio per poter confidare nelle sue qualità anche in quell’occasione.
Maria, invece, colse in pieno il senso dell’ultima risposta di Marco.
“Tuo figlio? Ma come puoi anche solo lontanamente pensare che io e Simone crediamo una cosa del genere! Non si tratta così un figlio! un figlio si ama! Gli si vuole bene! gli si da tutto il necessario e anche di più! Non lo si tratta così!” urlò Maria.
E Simone, in quel momento, ritornò a concentrarsi su quello che stava accadendo in quella stanza.
“Ah! Non preoccuparti Maria!” disse “Quella del figlio è una balla!”.
“Questo lo pensate voi! Ma non lui! Dopo che gli ho fatto il lavaggio del cervello con quella macchina simpatica che è il memorizzatore acustico! Adesso lui sa che io sono suo padre. E da quando l’ha imparato non ho smesso di trattarlo così! è in questo modo che Antonio può crescere degno di me!” rispose Marco.
“Ma allora Giuseppe deve lottare contro un suo amico senza che costui gli abbia fatto qualcosa? Non lo farebbe mai!” concluse Simone. Era troppo sicuro della correttezza di suo figlio.
“no! le cose sono molto più complicate di così!” continuò Marco “in realtà Giuseppe finirà per uccidere Andrea, che è l’altra persona in quella stanza! E Giuseppe non saprà, fino all’ultimo, che Andrea è nella tuta, ma la tuta viene controllata da Antonio. Il risultato è che Antonio costringerà Andrea ad attaccare Giuseppe. Lui si difenderà e in un gesto estremo Giuseppe lo ucciderà. Tanto non serve a nulla, perché la chiave non c’è in quella stanza per uscire, quindi Giuseppe comunque morirà, mentre Antonio sarà l’unico a salvarsi. Questo è l’unico motivo per cui vi ho tenuti in vita fino ad ora. Ed è l’unico motivo per cui adesso me ne vado. Quando si apriranno i boccaporti del locale dove c’è Giuseppe si apriranno anche qui. almeno, se vi va bene, morirete insieme. Addio!” e così dicendo, premette un pulsante ed il montacarichi si sollevò. Partendo. E lasciandoli soli.
Maria incominciò a piangere. Tutte quelle cose dette da Marco stavano incominciando ad avere effetto su di lei. Simone lo capì e comprese come aiutarla.
“Maria! Guardami! Vedi come sono tranquillo?” gridò, rivolgendosi a sua moglie, legata ad una decina di metri di distanza.
“Come puoi rimanere tranquillo in un momento come questo!?” urlò Maria.
“Perché conosco nostro figlio! e conosco Marco! E so che Marco è molto più astuto e ingannatore di nostro figlio, ma Giuseppe è più intelligente! Sono assolutamente sicuro che Giuseppe non farebbe mai del male ad Andrea. E neanche ad Antonio! Non ne ha motivo”.
“Allora moriranno tutti e due!? E che cosa ci sarebbe da non piangere!?” rispose sarcasticamente.
“Non moriranno! Ci sono almeno un paio di modi di utilizzare con intelligenza la tuta per uscire da queste stanze, anche nel caso in cui queste si allagassero! E Giuseppe, secondo me, uno dei modi se lo sta immaginando o lo immaginerà presto! non preoccuparti! Giuseppe e Andrea si salveranno!”
“E come fai ad esserne così sicuro?!” continuò Maria.
“Hai visto quello che è successo con Giuseppe? Ti ricordi come sono andate le cose con Giovanni? È Giovanni che ha progettato questo posto. E quando l’ha fatto era a conoscenza di tutto quello che gli avevano fatto! Infatti si è premunito nascondendo l’arco con cui Giuseppe ha messo fuori gioco Cosimo. questo significa che Giovanni ha realizzato delle vie di fuga, quanto meno alternative, per non rimanerci qui dentro!”
“Beh! speriamo! E noi come facciamo?”
“Non preoccuparti! Ci salviamo anche noi! anche io sono abbastanza intelligente” rispose Simone.
Poi incominciò a sbattere i polsi contro gli anelli di metallo a cui erano legati. Dopo circa dieci secondi udì che l’involucro di vetro si era rotto. Dopo un paio di minuti le saldature degli anelli al muro metallico si erano completamente sciolte. Finalmente Simone poté abbassare le braccia e riprendersi il casco gettato imprudentemente lì affianco da Marco.
“Ma come hai fatto?!” esclamò Maria.
“Frem ha installato degli aggeggi interessanti nella tuta di ciascuno di noi! la mia è rivestita di una sostanza che la rende completamente inattaccabile dagli acidi. Il risultato è che mi sono premunito con un po’ di acido. Ed è servito. Ovviamente non mi sono fatto niente!” rispose sorridendo Simone.
“E non potevi farlo prima?” chiese Maria, mentre suo marito, indossando il casco, si disfò velocemente delle sue manette metalliche e si avvicinò a lei per liberarla.
“E poi?! nella migliore delle ipotesi, prima che riuscissi ad indossare il casco e accendere la tuta, lui mi aveva ucciso. Nella peggiore delle ipotesi lui aveva ucciso anche te!” disse mentre passando le mani sugli anelli metallici, li aprì in due, grazie alla tuta, come se fossero cioccolatini.
“Allora grazie!” rispose Maria, una volta libera, finalmente in grado di sorridere.
“Ti amo! Non avrei mai permesso a niente e nessuno di farti del male!” rispose Simone.
“Si ma adesso Giuseppe come farà?!” chiese Maria, ancora evidentemente preoccupata per quella situazione.
“Stiamo a guardare!” concluse Simone.
Giuseppe era appena entrato nella stanza dove si trovava Andrea.
Coscienti di tutto quello che gli aveva raccontato Marco, soffrirono per quello che stava succedendo a loro figlio. poi Maria dovette ricredersi sul conto di Giuseppe. Perché suo figlio ebbe veramente una fantastica pensata, quando gli videro realizzare il siluro, con cui portò in salvo anche Andrea.
Poi fu ora di agire. Simone e Maria, abbracciati, seguirono il livello dell’acqua che si alzava. E, praticamente, con il minimo sforzo giunsero a destinazione. Fuoriuscendo dall’acqua alla radura, giusto qualche metro sotto la superficie della spiaggia. E con l’ultimo volo, Simone e Maria atterrarono fuori dalla buca, da cui, solo poco più di due ore prima, Simone era entrato assieme ai suoi amici.
Rilevando con i propri sensori i campi magnetici residui delle tute degli altri, Simone comprese dove si trovassero e così, due minuti dopo che Giuseppe se ne era andato, giunsero da tutti gli altri.
“Ma voi come avete fatto a uscire così tardi?” chiese Giuseppe.
“Il locale dove eravamo si è allagato assieme a quello da cui è fuoriuscito Giuseppe. A proposito, dov’è?” rispose Maria.
“Se ne è andato appena dopo aver lasciato Andrea qui. Michele ha accompagnato Andrea al pronto soccorso. Hai idea di dove sia andato?!” chiese Roberto.
Simone e Maria si guardarono. Poi Simone guardò Giuseppe. Il suo amico. Poi guardò Roberto. Cercava, in realtà, di ragionare per capire dove potesse essersi diretto suo figlio, ragionando su tutto quello che aveva visto. Poi comprese, e per la prima volta temette seriamente per la vita di suo figlio.
Preferì comunque perdere qualche secondo a spiegare ai suoi amici quello che pensava.
“È andato alla ricerca di Antonio. È convinto che sia il figlio di Marco. Perché gliel’ha detto Antonio stesso. Ma Marco ha usato il memorizzatore acustico per fargli il lavaggio del cervello. Se solo Giuseppe vuole vendicarsi per quello che Antonio ha fatto ad Andrea, rischia di fare del male ad una persona innocente. E soprattutto rischia di subire l’attacco diretto di Marco. Ecco perché se ne è andato prima del necessario. Perché aveva capito che poteva fare qualcosa direttamente contro mio figlio!”
Perso qualche secondo, in un attimo Simone prese il volo.
“Frem! Rintraccia il segnale della tuta di mio figlio, per favore!” chiese Simone.
“SE RINTRACCIO IL SEGNALE DELLA SUA TUTA, QUALCUNO NELLE SUE VICINANZE PUO’ SCOPRIRE CHE GLI E’ COSI’ VICINO. DEVO PROPRIO FARLO?”
“Si! anche perché altrimenti come faccio a trovarlo?!” rispose Simone.
Neanche mezzo secondo dopo, Simone si fu edotto della posizione di Giuseppe. E la cosa gli piacque parecchio, se non altro per la scaltrezza e la furbizia che dimostrava Giuseppe. così, come suo figlio qualche minuto prima di lui, si diresse verso il lido di Policoro.
Si era fermato verso i parcheggi dove di solito lasciavano loro la macchina, il posto che, a parte la spiaggia, conosceva meglio di quella zona.
Soprattutto il posto maggiormente frequentato a quell’ora in quel periodo dell’anno. Dopo le otto, infatti, il lido ed il relativo lungomare incominciava a riempirsi di gente, soprattutto in quella, che era la settimana di Ferragosto.
E quindi il posto più intelligente in cui, nel caso, farsi intercettare da dei nemici.
Giuseppe percepì immediatamente il segnale di una tuta in arrivo. Quando poi si avvicinò sempre di più a lui, riconobbe anche chi stava arrivando. Spense la tuta, e levò il casco. Il sorriso più vivo, felice, gioioso che avesse mai visto sul suo viso, fece capolino fin negli occhi di Giuseppe. Simone atterrò, spegnendo immediatamente dopo la tuta, e levandosi anche lui il casco. Suo figlio gli corse incontro.
“Papà! Sono felicissimo di rivederti!” esclamò.
“Anche io Giuseppe! Anche io!”
“Ma allora significa che siamo tutti usciti vivi da quella trappola infernale!” continuò Giuseppe sorridendo.
Il volto di Simone si adombrò. “No! Noi siamo tutti vivi! Purtroppo Cosimo, Giovanni, Massimo, Amaraldo, Dorian, Jonathan e Claudio, hanno perso la vita!” rispose Simone, guardando seriamente Giuseppe.
Allora anche Giuseppe comprese la crudeltà di quella sua affermazione. Ma ancora una volta la sua immaturità si fece sentire.
“Ma come fai ad essere dispiaciuto per delle persone che fino all’ultimo hanno cercato di ucciderci?!” chiese stizzito Giuseppe.
Simone lo guardò dritto negli occhi. Il suo non era uno sguardo severo. Non avrebbe mai potuto esserlo nei confronti di suo figlio, in quel momento così particolare. Certo era che Giuseppe ne aveva passate parecchie in quegli ultimi mesi. E tutto per colpa di quelle persone, che adesso, finalmente, non costituivano più un pericolo. Però era necessario farlo ragionare, non fosse altro per il pericolo che stava correndo in quel momento.
“Forse hai ragione!” gli rispose con il tono più gentile e rilassato possibile “Però non smetto mai di pensare al fatto che quando ero ancora un ragazzino, stavo per cascarci io con Marco, diventando il suo braccio destro. E che mi sono ritirato giusto in tempo. Poi, quando Marco ci ha provato con Michele, con l’appoggio e l’aiuto di Amaraldo, è riuscito a fargli fare delle cose bruttissime. O perlomeno a provare a farle a noi. e se non fosse stato per la sua umiltà probabilmente oggi noi, qui, non ci saremmo stati. O comunque non ne saremmo usciti vivi. Alla fine, Giovanni, uno dei Tre Fratelli, si è ravveduto, rendendosi conto della malvagità dei suoi stessi fratelli. È stato lui a predisporre le quattro stanze in modo da permetterci di trovare una via d’uscita. Anche se poi Giuseppe non è riuscito a salvarlo, perché Giovanni è morto quando Giuseppe ancora non aveva liberato Anna. E non so fino a che punto, anche gli altri, siano stati succubi della volontà e del carisma estremo posseduti da Marco!”
Giuseppe era visibilmente scosso per quelle cose che aveva appena sentito.
“Ma come fai a sapere tutte queste cose?” chiese.
“Ho visto e sentito tutto. Sia io che la mamma! Ti abbiamo visto anche soffrire per quello che stava succedendo ad Andrea!”
“Già! Andrea! Poverino! E tutto per colpa di quell’animale di Antonio! Ah! Ma appena lo trovo, non me lo lascio sfuggire. Me la deve pagare, sia per Andrea che per avermi ingannato! In tutto questo tempo, ha agito alle nostre spalle, comportandosi da amico mentre tramava subdolamente! Anche se mai avrei potuto immaginare che si trattava proprio del figlio di Marco!”
“Ecco! Proprio a proposito di questo, sono venuto fin qui per dirti una cosa!” cominciò Simone. Ma non fece in tempo a finire. L’unica cosa di cui si accorse prima di cadere a terra addormentato, fu vedere suo figlio che faceva la stessa e identica cosa. Poi il buio.
Anche se aveva avuto l’impressione di averla già vissuta quell’esperienza.

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Buongiorno a tutti!! Eccomi con questo penultimo capitolo. il prossimo, sarà quello conclusivo, quello dei fochi d'artificio.
Grazie a tutti coloro che stanno seguendo questo racconto, ha chi l'ha recensito e anche a chi mi ha fatto, in altri modi, sapere cosa ne pensa!
Ciao

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Capitolo 17
*** La prova più difficile ***


LA PROVA PIU’ DIFFICILE

Simone si svegliò sdraiato per terra. Sulla nuda argilla. Riconobbe subito quell’ambiente, anche se evidentemente non riusciva a capire esattamente dove si trovava. Era nella zona dei calanchi, collinette argillose che si trovavano a pochi chilometri da Policoro, nell’entroterra. Praticamente a metà strada tra i due centri abitati di Policoro e Tursi. La strada era scarsamente frequentata di giorno. Figuriamoci a quell’ora della sera. D’altra parte erano in piena campagna, e quella strada univa semplicemente Policoro con Tursi, esattamente come la ben illuminata e più sicura strada statale, per questo motivo preferita da tutti. Le uniche persone che avevano finito per passare da quella strada erano gli abitanti delle case di campagna che c’erano da quelle parti. E, comunque, a quell’ora erano già tutti a letto. Saranno state le dieci e a quell’ora, quelle poche persone che ancora, per lavoro, l’agricoltura, si svegliavano alle cinque del mattino, per vincere il caldo, erano già nel mondo dei sogni.
Era legato nello stesso modo di ventiquattro anni prima.
“Ecco! Lo sapevo che sarebbe finita così!” disse, o almeno pensò, perché non riusciva a parlare. Il solito giro di scotch. Fu solo a quel punto che ebbe, istintivamente, un sussulto, quando si accorse del fatto che l’ultima persona che aveva visto, prima di cadere vittima del sonnifero, era suo figlio. Giuseppe. che adesso non trovava più. Cercò di alzare il busto per orientarsi un po’ meglio.
In lontananza scorse il bagliore delle luci di Policoro, il che gli permise di orientarsi un pochettino meglio. Ma di Giuseppe non c’era neanche l’ombra. Un fuoco, acceso a cinque, sei metri di distanza, forniva l’unica luce che illuminava quell’ambiente.
Fu allora che si accorse di avere ancora i vestiti addosso. Almeno quello che rimaneva della tuta.
In quel momento sbucò, nel suo campo visivo, Marco. Simone immediatamente si agitò. Avrebbe voluto chiedergli dov’era suo figlio. Ma non riusciva a parlare. Invece, Marco gli puntò una pistola in fronte.
“Funziona sempre nello stesso modo. Se parli a voce troppo alta ti uccido!”
Alla risposta accondiscendente di Simone, Marco gli strappò il nastro adesivo dalla bocca.
“Che cosa vuoi da mio figlio?” chiese Simone.
“Da tuo figlio? Niente, praticamente! Voglio che faccia quello che voleva fare quando è partito dalla spiaggia. Voglio che combatta con il suo amico. Voglio che si picchino a vicenda. Voglio che raggiungano quella condizione in cui sicuramente uno dei due deve perdere la vita e voglio che solo allora Antonio si svegli, e Giuseppe conosca la verità!” rispose Marco, pietrificandolo.
“Ma come puoi essere così malvagio? Perché vuoi fare così male a Giuseppe? e ad Antonio? Vederli combattere accecati dalla rabbia, senza possibilità di smettere! Perché?”
“Voglio vedere la tua espressione quando vedrai tuo figlio capire la verità. Voglio distruggerti emotivamente. Voglio fare del male a te!” rispose sorridendogli.
Simone non sapeva a quel punto cosa rispondergli. Ed evidentemente Marco non si aspettava una risposta.
“Antonio è andato a prendere Giuseppe, che si sta quasi svegliando. Visto che nessuno deve sapere una cosa del genere, adesso tu starai zitto!” e così dicendo gli rimise lo scotch sulla bocca. Simone mugolò animatamente per qualche secondo, ma quando vide l’ombra di Antonio, un paio di bastonate ben assestate ricevute da Marco lo fecero desistere.
A Giuseppe venne restituito il casco, che prontamente, e contemporaneamente a Antonio, indossò. Entrambi accesero le tute. Antonio attaccò immediatamente. Giuseppe, appena accesa la pila extra, si difese dall’attacco dell’altro. Seguirono una serie impressionante di attacchi da parte di Antonio, a ripetizione. Giuseppe non fece altro che difendersi. Per più di un’ora, quella scena si ripeté. Attacco di Antonio, difesa di Giuseppe.
-perché non attacca?- pensò Simone –non è che magari ha capito quello che stavo per dirgli? E perché Frem non lo avvisa? Forse che questo territorio è schermato? Come per altro i sotterranei della radura? In questo caso, allora, Giuseppe, Michele e Roberto non possono venire a salvarci. Benissimo!-
Intanto la lotta continuò. Fino a che la carica della tuta di Antonio non terminò. Effettivamente non ci sarebbe potuto essere momento migliore per attaccare che quello, se avesse voluto. Solo che Giuseppe non voleva, evidentemente, perché anche a quel punto Giuseppe si limitò a fermarsi.
Poi, improvvisamente, si voltò verso Marco, provando a colpirlo. Fu allora che, con il solito telecomando, Marco, premette il pulsante ed anche la tuta di Giuseppe si spense.
Giuseppe si inginocchiò stremato. In quel momento Marco tirò fuori una pistola. “Questa è meccanica, quindi funziona ancora! Se fai un solo passo, prima sparo a tuo padre e poi ti uccido!” disse Marco senza permettere dubbi sulle sue reali intenzioni.
“Sparami allora, ma non farò mai del male a una persona innocente!” rispose, lasciando esterrefatto Marco. Ma anche Simone.
“Come?! Dai dell’innocente a quello che ha fratturato un braccio al tuo migliore amico? A quello che ti ha lasciato a morire sott’acqua, a quello che ti ha ingannato, a mio figlio?!” chiese Marco.
“Non sono io che gli do dell’innocente. Antonio è una povera vittima innocente di tutto questo!” rispose fermamente Giuseppe.
“E chi te lo dice?!” chiese, sempre più arrabbiato Marco.
“Semplice! Da quando sono arrivato alla stanza dove c’era Andrea, ho capito che c’era qualcosa che non funzionava. Prima di tutto la camera dove si trovava Antonio era completamente sigillata. Io non sarei mai potuto entrare in quel locale, il che significa che qualcuno aveva previsto di farlo fuggire, vivo. Il che significa che io non potevo salvarlo. Questo, unito al fatto di Andrea, mi ha fatto immediatamente capire che il vero nemico era lui. La conferma l’ho ricevuta, quando Antonio se n’è scappato. A quel punto Andrea mi confermò che Antonio era tuo figlio. Quella cosa mi sconvolse e mi colpì. Ma devo dire che mi fece pensare tantissimo. Effettivamente io non avevo mai conosciuto il padre di Antonio, solo la madre. Purtroppo per te, però, Antonio mi ha parlato di suo padre. Si ricorda, quando era piccolo, delle continue liti con sua madre. E sua mamma gli ha pure dimostrato che, preso da un attacco di gelosia nei suoi confronti, aveva chiesto un esame del DNA che ha dimostrato oltre ogni dubbio che lui era veramente il padre. Quindi ho capito che quello che aveva detto Antonio ad Andrea era una balla!”
Simone aveva da un pezzo incominciato a ridere sotto lo scotch. Senza farsene accorgere, ma era assolutamente felice di quella notizia, inaspettata quanto benaccolta.
Antonio invece era enormemente confuso. Sapeva di essere il figlio di Marco. Anche se evidentemente in quel momento qualcosa nei suoi ricordi era cambiato. Sapeva che quello che aveva creduto in quella giornata non era per nulla vero. Sapeva che non aveva alcuna base, aveva capito che era una bugia, ma non riusciva ancora a capire fino in fondo quale fosse la verità.
Giuseppe e Antonio si guardarono per qualche secondo fino a quando non sentirono una punta toccargli la gamba e una scossa elettrica fargli perdere i sensi. Era Marco. Immediatamente dopo liberò la bocca di Simone.
“Povero Marco! Con la mia famiglia non l’hai mai scampata! E neanche con i miei amici! È incredibile quanto poco tu possa contro la nostra intelligenza e contro il nostro spirito indomito!”
“Vediamo se riderai ancora dopo aver visto quello che vi farò tra poco!” rispose Marco.
E andò verso i due ragazzi. Prese dei sottilissimi cavetti, come quelli che Giuseppe aveva visto nella sua prova. Collegò lo spinotto ad uno dei due capi del cavetto, al casco di Giuseppe. Inserì l’altro spinotto ad un computer portatile, lasciato momentaneamente lì per terra.
Fece la stessa cosa con l’altro cavetto, però collegando al computer il casco di Antonio. Poi accese il computer.
Tempo altri trenta secondi e proprio quando Antonio e Giuseppe stavano riprendendo i sensi, Marco attivò il programma. Immediatamente le tute si mossero, contro la volontà dei loro proprietari, posizionandosi in piedi, con braccia e gambe divaricate. Antonio e Giuseppe, compresero immediatamente quello che stava accadendo.
“Papà! Perché mi fai questo?!” chiese Antonio. Non riusciva a capire il suo comportamento, come non riusciva a capire fino in fondo il comportamento di suo padre, Marco, qualche ora prima, quando mentre Andrea era già imprigionato nella tuta, suo padre l’aveva picchiato. E, anche se non aveva sentito quello che aveva detto Giuseppe prima, qualche domanda incominciava a farsela anche lui: perché non aveva così tanti ricordi di suo padre? Perché aveva solo dei flash di avvenimenti passati particolari, ma non aveva alcun ricordo della normalissima vita di tutti i giorni con suo padre? Chi era sua mamma? E Giuseppe era veramente così cattivo? A lui non sembrava, e non sembrava cattivo anche perché non aveva neanche provato a colpirlo, prima, nonostante il suo fisico gliel’avrebbe di certo permesso. Eppure nulla! Ed ora, quello che sapeva essere una cosa bruttissima, forse l’unica cosa della quale si era dispiaciuto in quelle ultime ore, quando l’aveva fatta a Andrea, quella cosa suo padre la stava facendo a lui.
Marco, senza neanche prestare attenzione alle parole di suo “figlio”, si rivolse direttamente a Simone.
“Quello che stai per vedere in funzione è lo strumento di tortura più semplice e facile da utilizzare che sia mai stato inventato. E ci ha pensato Giovanni, pensa! Mi basta selezionare il proprietario della tuta, cliccare su un punto specifico dello schema della tuta, che un segnale viene inviato alla tuta stessa e questa si muove, inesorabilmente, fino a provocare una frattura, proprio nel punto selezionato”.
Simone impallidì mentre sentiva Marco fare quella descrizione in modo così freddo.
“Anzi! Tu che sai tutta la verità!” disse Marco, rivolgendosi proprio a Simone “Ti do la possibilità di decidere chi sarà il primo a subire una frattura!”
Simone guardò Giuseppe, poi guardò Antonio. Sapeva che una sola era la risposta giusta. A rischio di incorrere in qualsiasi ira da parte di Marco.
“Non ti darò mai la soddisfazione di permettere a qualcuno di incolpare me per i danni che tu gli arrechi. Non posso fare una scelta del genere!” disse, offuscato dall’orrore di quello che stava accadendo. Anche se una risposta giusta, la risposta migliore, in quel caso, ci sarebbe stata. E Giuseppe se ne accorse.
“Perché! Devi scegliere! La risposta è ovvia! Papà! Devi scegliere! Scegli! Non puoi permettere che Antonio subisca ancora di più quello che gli è successo finora a causa di un lavaggio del cervello!” urlò Giuseppe.
“Ma come posso dirgli di fare questa cosa a te?!” chiese stizzosamente Simone.
“Va bene!” interruppe Marco “Allora significa che deciderò io che cosa fare!”.
Marco fece finta di fare la conta. E cadde su Antonio.
“Bene! Caro Antonio! È in arrivo una bella frattura dell’indice sinistro! Iniziamo da qualcosa di semplice!”.
Diede il comando. Giuseppe non poteva vederlo, avendo la testa, fissata dalla tuta, davanti a sé. E Simone decise di chiudere gli occhi, mentre aveva già incominciato a vedere Antonio che forzava in tutti modi quel movimento assolutamente innaturale del suo dito. Che inevitabilmente si concluse con un urlo che squarciò il silenzio dei calanchi. In sottofondo si sentivano solo Giuseppe che piangeva e Marco che rideva. Quando Simone riaprì gli occhi vide l’indice sinistro di Antonio piegato sopra il dorso della mano, giusto a metà della falange più grossa.
Antonio urlò finché ebbe fiato, ma non poté effettuare neanche un movimento.
“È troppo bello! E tu smettila di urlare, sennò quando ti fratturerò la tibia cosa farai, eh!?” disse, urlando, verso Antonio. Che stoicamente si riprese ritornando in silenzio.
“Ti prego, Marco!” disse a quel punto Giuseppe “non fargli più niente! Non c’entra niente! È solo un povero ragazzo, che non ha alcuna colpa! Colpisci me! Fammi tutto il male che ritieni opportuno, ma per favore, lascia stare Antonio!”
“Oh! Ma che nobiltà d’animo abbiamo qui! Ancora maggiore di quella di tuo padre! E pensare che anche tuo padre si offrì di essere picchiato al posto di Giuseppe, qualche annetto fa! È proprio vero che tale padre, tale figlio!” rispose Marco “E comunque non vale, perché deve essere tuo padre a dirmi che devo rompere un osso a suo figlio, piuttosto che non far soffrire ulteriormente un innocente!”
Giuseppe comprese che non era possibile fare altro. Almeno fino a che suo padre non fosse uscito da quello stato di disperazione mentale che lo attanagliava. Fu allora che gli venne un’idea.
“Papà! Ricordati il Jolly e l’Asso di Picche!” urlò, mentre, purtroppo, Marco stava selezionando l’indice della mano destra di Antonio. Questa volta si sentì il rumore dell’osso, e brividi scesero lungo la schiena di Giuseppe e Simone, mentre le urla di dolore di Antonio tagliavano l’aria.
“Allora lo vedi che non capisci niente? Non vedi che ci prova gusto a torturare Antonio? Lo vedi che non vede l’ora di spezzarti emotivamente e di ottenere da te il permesso di giocare un po’ con me? Possibile che sia così ignorante? Ignorante e egoista!” furono le parole che urlò Giuseppe. A suo padre.
Simone era bloccato. Non si sarebbe mai aspettato una reazione tale di suo figlio! Come si permetteva di trattarlo in quel modo!? Pensava che suo figlio lo stimasse e lo considerasse un padre fantastico! Anzi, più che pensarlo lo sapeva per certo, avendoglielo detto più volte proprio Giuseppe.
Fu l’assoluta fiducia in quella verità che lo convinse che sotto dovesse esserci qualcos’altro. E infatti, dopo pochi secondi, giunse alla conclusione corretta.
Capì, infatti, cosa c’entravano le due carte che gli aveva urlato!
-Ma allora questo significa che Giuseppe vuole veramente che Marco lo sottoponga a quella tortura! E perché? Un momento! UN MOMENTO! Ho capito!!-
Passò qualche secondo. Intanto Marco aveva smesso di ridere, e Antonio, aveva smesso di urlare, anche se era dall’inizio che non smetteva di piangere e di implorare che finisse quella tortura.
“E va bene!”. Marco si voltò mentre si accorse di ciò che aveva appena detto Simone. Anche Giuseppe sgranò gli occhi.
“Quello che hai appena detto non sono cose che un figlio dovrebbe dire al proprio padre! Marco! Puoi provocargli quanto più dolore è possibile!” disse Simone, con degli occhi pieni di odio.
“Ma che bella sorpresa! Sentito Giuseppe? Questo è il modo in cui ti considera tuo padre! È fantastico!” disse Marco guardando Simone.
In quel momento un leggero sorriso di intesa uscì da Giuseppe nei confronti di suo padre. Aveva capito il gioco delle carte. Ritornò immediatamente serio e sbalordito quando Marco voltò la testa nella sua direzione, solo per accogliere l’occhiolino che suo padre gli lanciò una volta uscito dal campo visivo di Marco.
“No! papà! Ti prego non farmi questo! Scusa! Scusa per quello che ti ho detto!” implorò Giuseppe.
-Certo che oltre a disegnare, sa anche fingere bene, quel ragazzo! Devo stare più attento la prossima volta che dice di essere dispiaciuto!- pensò Simone.
“Penso che romperti la tibia sia una bella fonte di dolore! Così impari a rispondere così a tuo padre!” continuò imperterrito Marco.
Fu il mezzo secondo più lungo della vita di Giuseppe. Non appena percepì, dai sensori del casco, che il programma di comando stava commutando il segnale sulla sua tuta, fece partire la scarica elettrica più forte che avesse mai potuto produrre. Il computer del casco segnalò una tensione raggiunta di circa 6000 Volt. In meno di un centesimo di secondo, la scarica partì dal casco, attraversò i cavi, oltrepassò la scheda madre del computer, rompendola, e si scaricò a terra attraverso il mouse e il corpo di Marco. Stordendolo. Ovviamente la potenza non poteva essere eccessiva, perché la carica nella batteria del casco di Giuseppe era quella che era. Ma bastò per mettere fuorigioco Marco per qualche minuto.
In quel preciso istante le tute persero la loro rigidità. Antonio cadde a terra contorcendosi ancora per il dolore. Giuseppe, ormai ben più rilassato, si inginocchiò, respirando affannosamente.
In quello stesso momento le comunicazioni con Frem si ripristinarono. Probabilmente era stato Marco, con la sua tuta a schermare la zona. Ci mise un millesimo di secondo, il super computer, per rintracciarli e avvisarli che pochi minuti dopo, Michele sarebbe arrivato a dargli una mano.
Per prima cosa, a Giuseppe toccò l’ingrato compito di sistemare le fratture di Antonio. Solo che prima di farlo, utilizzò lo stesso metodo utilizzato da Marco poco prima per addormentare lui e suo padre, per produrre lo stesso effetto in Antonio, che almeno non soffrì troppo, quando Giuseppe “operò”.
Poi corse immediatamente da suo padre. Passando vicino a Marco, ne approfittò per togliergli definitivamente il casco da vicino.
“Papà! Scusa se ti ho detto quelle cose!! Mi dispiace!” disse, mentre lo slegava.
“Oh! non preoccuparti. Anzi, scusami tu che non ho capito subito cosa avevi in mente!” rispose Simone, ancora un po’ confuso.
“Io pensavo che il fatto che Marco avesse detto che l’inventore di quell’aggeggio infernale era Giovanni, ti avrebbe fatto capire che c’era il modo di utilizzarlo per risolvere le cose a nostro favore!”
“Scusa, ma perché Andrea non l’ha fatto con Antonio?!”
“Eh! Perché Andrea non è capace di usarlo il casco! E poi era completamente impazzito dalla paura e da quello che la tuta stava facendo fare al suo corpo senza che lui lo volesse! A me, invece, è bastato accorgermi che tutte le funzioni del casco erano comunque attive per incominciare a pensare ad una soluzione alternativa. Allora ho provato a muovere la tuta, ovviamente senza riuscirci. Queste due cose mi hanno fatto capire che il computer bypassava il casco, ma questo era completamente attivo. Solo che non riusciva a comandare la tuta. A quel punto ho capito che, qualsiasi soluzione Giovanni avesse in mente doveva essere realizzata opponendo al computer il casco, senza preoccuparsi della tuta. quando poi, ho provato a scaricare Marco non ci sono riuscito, e ho capito che il programma doveva controllare la mia tuta, prima di poter agire nei confronti del computer!”
“Bravo! hai superato me quanto ad astuzia!” rispose Simone mentre si alzò e provvide ad indossare il casco.
“Grazie! Andiamo ora, prima che si svegli!”
“No!”
In quel momento Marco riaprì gli occhi.
“Giuseppe! Vola a casa! Portati Antonio. Accompagnatelo immediatamente in ospedale. Deve essere curato! Così puoi anche andare a vedere come sta Andrea! Io devo finire questa cosa una volta per tutte!”
E, mentre Giuseppe ubbidiva, andando a prendere in braccio Antonio, Simone si avvicinò a Marco.
“Papà! Che cosa vuoi fare?!” disse un Giuseppe più che preoccupato. Stava infatti vedendo negli occhi di suo padre uno sguardo che non gli piaceva per niente.
“Continuando come prima, ventiquattro anni fa, ho fatto una promessa. Gli ho promesso che se avesse di nuovo messo il naso nella mia vita, messo in pericolo la mia famiglia o i miei amici, gli avrei fatto del male. molto male. e io mantengo sempre le promesse!” rispose Simone. Questa volta, però, il messaggio, per Giuseppe, fu estremamente chiaro.
“E va bene! In fondo se lo merita! Buon divertimento!” gli rispose, prendendo contemporaneamente il volo.
Cinque minuti dopo era a casa, e, come aveva già immaginato, Michele già non c’era più.
“Lo so che vuoi uccidermi! Allora fallo e levati questo peso!” disse Marco, non avendo neanche la forza di guardare Simone negli occhi.
“Ti piacerebbe!?”
“Almeno non dovrei continuare a guardare la tua espressione orgogliosa!” rispose sarcasticamente.
In quel momento arrivò Michele con una macchina della polizia. Era solo. scese dalla macchina e puntandogli una pistola contro, si avvicinò a Marco. Simone, invece, continuò.
“No! non ti voglio uccidere! Come hai detto tu, sarebbe una liberazione per te. E non voglio assolutamente che tu sia libero. Devi pagare!” rispose Simone. E, prendendo lo stesso scotch con cui era stato imbavagliato fino a quel momento, gli tappò la bocca.
“Adesso mi ascolti! Voglio spiegarti un paio di cose!” cominciò Simone. Michele, intanto, tenendo sotto tiro Marco, gli impediva qualsiasi mossa.
“Hai sulla testa almeno la vita di dieci persone. compresi i tuoi complici. Senza contare le lesioni aggravate che hai provocato a noi e a loro. Sei riuscito a coinvolgere anche le nostre famiglie, i nostri figli in questa guerra. Non hai avuto pietà neanche di due persone innocenti, come Antonio e Andrea, che non avevano alcuna voce in capitolo. E, ancora una volta, come ventiquattro anni fa, non hai raggiunto nessun’obiettivo. Siamo stati più forti. Siamo sempre stati più forti di te. Non sei mai riuscito a farci più male di quanto te ne abbiamo concesso. Non sei riuscito a dividerci. Anzi, come i veri amici, quando c’è stato bisogno, sebbene non ci vedessimo da tanto tempo, ci siamo riuniti e come una grande famiglia, abbiamo combattuto e abbiamo, ancora una volta, vinto. Adesso dovrebbero chiuderti in una cella e buttare la chiave. Permettendoti di aprire la bocca solo per mangiare, in modo da non avvelenare nessun’altro, con le tue parole. Il bello è che noi, ufficialmente, non ci conosciamo. Perché agli occhi della legge siamo due persone sconosciute l’uno all’altro. Perciò, per me, questa storia è semplicemente finita qui. Tu finisci in galera, ed io, dopo questi due giorni pieni di fatica, posso godermi le mie vacanze. e ritornare alla mia vita. Addio!”
E, dicendo ciò, Simone si voltò verso Michele e gli fece cenno di chiudere quella cosa una volta per tutte. Michele lo prese e lo ammanettò. Poi, senza permettergli di parlare, anche se avrebbe voluto farlo, lo mise in macchina. Intanto Simone si cambiò, indossando una divisa della polizia, che Michele gli aveva consegnato, ed entrò in macchina. I due arrivarono fino a Matera, consegnando Marco direttamente al commissariato di polizia che c’era lì.
E poi se ne tornarono a casa. Intanto, Michele aveva chiesto a Giuseppe e Roberto di andare ai calanchi per eliminare tutte le tracce. Michele sapeva che nessuno avrebbe creduto ad una storia simile, e nessuno avrebbe dovuto saperla. Si inventò quindi una storia soddisfacente per non indurre la polizia ad avere ulteriori indizi su cui indagare. Avevano distrutto tutte le altre tute. Conservando i caschi, per la comodità di poter, velocemente, comunicare tra di loro. E con Frem.
Nessuno scoprì il montacarichi nella radura. La pressione dell’acqua aveva sepolto tutti quei cadaveri. Michele e Roberto si dovettero occupare, loro malgrado, del “fortuito” ritrovamento di tutti i corpi, che “inspiegabilmente” riaffiorarono in acqua nei giorni seguenti. A Michele dispiacque moltissimo, ma nessuno venne a sapere del segreto della radura. Trovarono, però, solo i cadaveri di Massimo, Giovanni, Cosimo, Dorian, Claudio e Jonathan. L’acqua di mare aveva cancellato tutte le tracce biologiche che potessero far capire chi altro era stato lì dentro. Il cadavere di Amaraldo non venne ritrovato. Michele decise di tenere quella cosa solamente per sé.
Andrea e Antonio, in un paio di giorni furono dimessi dall’ospedale, con un braccio e due dita ingessate. Intanto Frem aveva creato a d’hoc una storia credibile che giustificasse la loro presenza lì e il loro incidente, e dopo una mezz’oretta che erano a casa del loro amico Giuseppe, sentirono un forte sibilo, e si rialzarono come nuovi. Antonio vide cessare anche quell’incubo. Scordandosi completamente di Marco e di quello che gli aveva fatto. Verso la fine delle vacanze, Michele fu informato del fatto che Marco era riuscito a venire in possesso di un qualche oggetto in metallo, ed aveva provato a togliersi la vita, purtroppo riuscendoci.
Quanto a Simone, Maria e Giuseppe, Giuseppe, Anna e Simone, Michele, Roberto e Francesca, continuarono tranquillamente le loro vacanze, ben felici di potersele godere. E, alla fine di agosto, se ne tornarono a Milano felici, rilassati, contenti di aver risolto anche quel problema.
Simone ritornò al lavoro, e ricominciò la sua vita di sempre. O, almeno, ci provò. Perché appena aperta la posta dell’ufficio, si accorse che tra le più di 150 e-mail arrivate in quel mese, ce n’era una che arrivava da un indirizzo sconosciuto. Un certo Marco82 gli aveva scritto una brevissima e-mail. L’e-mail era del 5 Agosto.
 
"Se ho causato tutto questo è solo per quello che mi è successo in quei quindici giorni di vacanze natalizie, mentre eravamo in prima media. 31 anni fa. se leggerai questa e-mail, sarà perché avrò perso, e quindi probabilmente non sarò più in vita. Vi chiedo scusa.
Marco"

La lettera conteneva anche un allegato. Era un’immagine. Ritraeva una foto di Marco. Era in compagnia di un altro ragazzino, uguale e identico a lui. Stessa età, presumibilmente, stesso viso, stessa corporatura. Sembravano quasi gemelli. Erano appena fuori una villa, immensa. Ed era inverno. Fuori c’era la neve ed erano ben coperti.
Simone si prese un colpo. Ed in quel momento comprese solo una cosa. Inoltrò l’e-mail all’indirizzo segreto di Frem. E cancellò dal suo computer l’e-mail, sia quella ricevuta, sia quella inviata a Frem. Poi andò in bagno. In uno scaffale in alto, aveva conservato il casco della tuta. Lo indossò, accendendolo.
“Frem?!”
“BUONGIORNO! DIMMI!”
“Hai appena ricevuto una e-mail. voglio che la conservi e la utilizzi solo nel caso in cui si rendesse veramente necessario. Per quanto mi riguarda, voglio che mi cancelli la memoria degli ultimi dieci minuti!”
“SEI SICURO? HO VISTO LA MAIL, E APRE NUOVI INQUIETANTI SCENARI. NON SAREBBE MEGLIO INDAGARE?”
“Frem! È un ordine!” fu l’ultima parola di Simone. E Frem, agli ordini, non poteva disubbidire. Un sibilo confuse Simone per qualche secondo. Poi venne indotto in uno stato di semi coscienza, durante il quale si levò il casco e lo ripose al suo posto, riprendendo conoscenza solo quando fu uscito dal bagno e si fu seduto alla propria scrivania.
In quel momento, si riprese e continuò, tranquillamente, a leggere le e-mail che aveva ricevuto in quel mese di agosto. Decisamente una vacanza fuori dal comune e ricca di emozioni.
Ebbe, in quel momento, l’impressione di essere nel vuoto e di stare precipitando. In quel momento, ebbe la sensazione di qualche pericolo incombente. Ma gli passò. Subito. Diede la colpa a tutto quello che era successo in quegli ultimi mesi e, in parte, alla peperonata che aveva mangiato la sera prima.

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Buongiorno a tutti! Eccoci giunti alla fine di questo secondo racconto. Ovviamente avrò il piacere di sapere che cosa ne pensate, sia del capitolo, sia in generale di tutta la storia. per il momento, come per l'altro racconto, permettetemi di spendere mezza parola per spiegarvi perché mi è piaciuto scriverlo. devo dire che, contrariamente alla prima storia, questo racconto ha subito enormi cambiamenti dalla prima stesura, ho voluto inserire qualche elemento di "fantascienza" (quando non addirittura fantasy), l'introduzione di nuovi personaggi (nella stesura originale Roberto e Francesca non esistevano), ma soprattutto la scrittura delle ultime frasi che avete appena letto. cioè l'apertura di un possibile nuovo "filone di indagine" su tutta la storia di Marco. perché? beh! perché le storie non sono mai semplici, come pensiamo. e a volte, perché narrino di personaggi realistici, dobbiamo tener conto del fatto che nella realtà l'amicizia non è solo amicizia, e l'odio non può essere semplice odio. insomma... in questi mesi sto facendo in modo di tirare fuori una storia da quest'ultima paginetta di racconto. vediamo se ci riesco! a presto, sempre su questo canale!!! :)

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