Libro primo: Il dio della guerra. Issa

di charly
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La pace della spada ***
Capitolo 2: *** Anche una nave dalle vele scquarciate può condurti a un porto sicuro ***
Capitolo 3: *** I timori di un padre ***
Capitolo 4: *** Quando fuori è silenzio e la luna è alta nel cielo ***
Capitolo 5: *** Qualcosa di blu ***
Capitolo 6: *** Metter via le cose infantili ***



Capitolo 1
*** La pace della spada ***


IL DIO DELLA GUERRA
Issa
 
 
NOTE INIZIALI DELL’AUTRICE: Salve a voi, miei lettori. Spero che chi comincerà quest’avventura con me mi seguirà fino alla fine. Prima di tutto voglio dirvi quanto importante sia per me questa storia: ho cominciato a scrivere fanfiction più di dieci anni fa ma questa, questa è la mia prima storia originale!!! Sono elettrizzata ed emozionata! Non mi era mai riuscito di scriverne una, e ci avevo provato, credetemi, ma in genere non ero mai andata oltre il primo capitolo. Invece questa si è praticamente scritta da sola! Se mi lasciate un commento (spero!!!) potrei rispondervi subito o metterci alcuni giorni (lo leggo ma non ho modo di rispondere) quindi non fatevi scoraggiare!
Ora, riguardo alla storia vera e propria: So che la definizione di fantasy è una storia fantastica, ambientata in un mondo fantastico, con creature fantastiche. Io me ne discosto leggermente: ho creato un mondo fantastico, ma l’ho popolato di persone comuni, senza magia né creature fantastiche (anche se l’idea iniziale era di metterci dentro un po’ di magia). Ci ho buttato dentro anche un pizzico di invenzioni moderne, tanto per gradire. Pensate a Darkover, ma senza l’elemento paranormale o a I Dragonieri di Pernn ma senza astronavi e telepatia. Ho cercato di restare realistica, ma per gli argomenti di cui ero totalmente ignorante mi sono limitata a un’infarinatura presa da internet, quindi… non aspettatevi spiegazioni scientifiche: ho una laurea in lettere, non in ingegneria.
Probabilmente vi sembrerò inutilmente morbosa toccando alcune tematiche, e superficiale in alcune descrizioni sfiorando argomenti senza svilupparli, ma spesso c’è un perché e se avete perplessità lasciatemi pure un commento, sarò lieta di rispondevi.
Un’ultima cosa: per il protagonista maschile mi sono ispirata (abbastanza pesantemente) al cattivo di un film (ovviamente il mio Zaron NON è un cattivo) che secondo me aveva un sacco di caratteristiche potenzialmente positive (se vogliamo ignorare la sua propensione a uccidere senza alcun rimorso). Spero non sia evidente, ma se qualcuno lo riconosce, vi prego, ditemelo! Non che andrò a cambiarlo, ma mi autoflagellerò doverosamente.
Buona lettura!
Aggiornamento gennaio 2017: ho sistemando la storia, capitolo per capitolo, apportando leggere modifiche e correggendo gli "orrori" che ho scritto.

I. LA PACE DELLA SPADA

 
 
Quando il sole era sorto quella mattina sui tetti della città di Issa, quest’ultima era ancora la capitale di un regno libero, anche se in guerra e assediato. Ora, dopo una battaglia che aveva portato il conflitto fin sotto le mura, la città era solo l’ultima conquista dell’imperatore Zaron. Le mura erano intatte, il suo esercito non vi aveva fatto breccia, né la città recava un solo segno che la battaglia fosse entrata assieme ai soldati dai mantelli rossi che ne avevano percorso le vie. Questo perché il re di Issa si era arreso sul campo, prima dello scontro decisivo, dopo aver ricevuto un’ambasciata del nemico, che gli proponeva un incontro per discutere i termini di una possibile pace. 
Issa aveva aperto le porte all’invasore e l’imperatore le aveva attraversate a cavallo, seguito dal suo esercito e la sua guardia personale di soldati scelti, invitato a recarsi al palazzo reale dal re sconfitto per riceverne lì la resa formale.
Zaron tamburellava con le unghie corte contro l’elsa della spada che portava al fianco. Era ridicolo che fosse lui quello nervoso dato che era lui il vincitore. Eppure non riusciva a stare fermo mentre attendeva che le porte della sala delle conferenze si aprissero e il re di Issa entrasse per presentare la sua resa. Guardò fuori dalle vetrate che permettevano all’osservatore una veduta a 270 gradi della città sottostante.
A lungo il regno di Issa aveva mantenuto la sua indipendenza, ultimo in tutto il continente di Zabad a sfuggire alla sua conquista. Come una marea rossa i suoi soldati si erano riversati su tutti i regni vicini, annettendoli alla potenza di Rakon in una gloriosa campagna militare dopo l’altra. Zaron aveva lasciato Issa per ultima. La fiorente, ricca e tecnologicamente avanzata Issa era stata la più pericolosa. Ma una volta conquistato tutto il resto, anche quell’ultimo baluardo di resistenza doveva cadere, schiacciato dalla superiorità numerica delle armate di Zaron.
Il khan di Rakon poteva sembrare un brutale guerriero a una prima, superficiale occhiata: era d’altezza media, la carnagione scura bruciata dal sole faceva intuire che passasse più tempo all’esterno, con i suoi soldati, che nei palazzi del potere con i suoi cortigiani. D’altra parte era nato come erede di ripiego e sapeva che alcuni dei nobili della sua stessa corte non gli avrebbero mai prestato lo stesso livello di rispetto con cui avevano omaggiato il suo fratellastro, che era stato l’erede designato e che era morto annegato appena sedicenne. L’unica cosa che avevano avuto in comune, a parte il padre, erano stati gli occhi: neri e penetranti, incassati nel viso in un’espressione perennemente corrucciata. Ma mentre i lineamenti del principe morto erano stati delicati, soffici, quelli di Zaron erano squadrati, volitivi, la fronte alta accentuata dalla sua abitudine di portare i capelli neri tagliati cortissimi. Le braccia, lasciate scoperte dall’armatura, erano dotate di muscoli delineati e cicatrici scolorite, dovuti entrambi ai continui allenamenti a cui si sottoponeva, per fare del suo stesso corpo un’arma precisa e letale. Quegli occhi scuri e impenetrabili nascondevano però una mente arguta e curiosa, che sembrava fatta per la strategia militare.
Ora quegli stessi occhi ammiravano la splendida Issa, gioiello del mare, che si adagiava bianca e dorata accompagnando la curva del golfo di cui condivideva il nome. Da quando aveva cominciato a fare piani per la conquista dell’intero continente, Issa era stata il suo cruccio. Era una ricca città stato, il territorio che occupava era minimo, soprattutto se paragonato alla vastità del suo impero, però il suo potere, la sua pericolosità, non veniva dalla sua forza militare, anche se la flotta di cui disponeva non era nulla di cui ridere. No, la forza di Issa era nella sua Accademia delle Scienze e le continue, prodigiose invenzioni che essa sfornava.
L’Accademia di Issa, sovvenzionata dal governo, attirava menti brillanti da ogni dove. Scienziati, filosofi, medici e artisti, tutti accorrevano a Issa per studiare o per proporre le loro idee e confrontarsi con menti altrettanto brillanti e vivaci. Da Issa provenivano straordinarie opere d’arte e musica, i migliori guaritori, i più brillanti pensatori, e le più straordinarie e rivoluzionarie invenzioni. Come il recentissimo telegrafo, che permetteva di comunicare istantaneamente con persone lontane e che se fosse stato inventato appena dieci anni prima avrebbe messo a repentaglio i suoi piani di conquista, privandolo dell’elemento sorpresa che era stato vitale nelle sue campagne, oppure, pensò con soddisfazione Zaron, come le navi volanti che avevano condotto lì le sue truppe.
Troppo spesso Zaron aveva considerato cupamente che se l’Accademia si fosse interessata di guerra anche solo la metà di quanto si interessava di astronomia, Issa avrebbe potuto facilmente diventare la capitale di un impero invincibile. Invece Rakon aveva approfittato dello spirito liberista e pacifista della sua rivale per occupare una posizione mano a mano più predominante, fino a poter conquistare con la forza tutti i suoi vicini e lasciare Issa sola e isolata.
E adesso erano lì, arrivati a quel punto, con l’esercito di Zaron che aveva schiacciato come un insetto molesto quello più piccolo di Issa e l’aveva circondata, bloccando il porto. Avrebbe potuto facilmente ordinare ai suoi soldati di entrare in città, il saccheggio e la distruzione che ne sarebbero seguiti avrebbero fatto scempio dei suoi begli edifici candidi. Avrebbe potuto entrare nell’Accademia e passare a fil di spada tutti coloro che vi si erano rifugiati e bruciare le biblioteche, assicurandosi così che ciò che paventava di più non venisse a passare e che Issa non si rialzasse mai più da una simile disfatta.
Poteva, ma non lo avrebbe fatto.
Voleva per sé tutta quella conoscenza, tutto quel potenziale, voleva che le strade della sua capitale Halanda fossero pulite e ordinate come quelle di Issa, voleva che i suoi sudditi a Rakon fossero ricchi e benestanti come loro. Voleva esportare quella ricchezza, non solo materiale, ma di vita e di pensiero, possibilmente senza rubarla. Voleva che il suo popolo imparasse da Issa e nessuno desidera imitare un nemico in ginocchio, vinto e distrutto. Il suo sogno, la sua grande ambizione, si sarebbe realizzata con l’integrazione di Issa nell’impero, ma solo se la sua dignità fosse stata preservata intatta.
Dopo essersi informato che il suo piano fosse attuabile ne aveva parlato con i suoi più stretti collaboratori i quali, proprio come si era aspettato, erano stati contrari. I suoi consiglieri, militari e non, volevano depredare Issa, spogliandola di ogni ricchezza, e portare tutto a Rakon, riempiendosi d’oro i forzieri, e godere di quella ricchezza il più possibile, spremendo la popolazione con tasse e balzelli per mantenere il tenore di vita a cui le vittoriose campagne di Zaron li aveva abituati. Ma Zaron aveva voluto di più e aveva ignorato ogni consiglio che non fosse in linea con il suo piano e per quello adesso si trovava nel palazzo del re ad attendere la sua resa e non in un campo di battaglia, con la spada puntata alla gola del sovrano battuto.
Le porte furono aperte e la delegazione issiana si riversò nella sala. I due fronti contrapposti si fissarono senza parlare, gli uomini di Rakon da una parte, con le loro armature d’acciaio scuro e i loro mantelli rossi, tutto nel loro abbigliamento teso a intimidire il nemico, e quelli di Issa dall’altra con le loro armi lucenti e mantelli blu come il mare del golfo, guidati dal loro re, anch’egli in armatura, nonostante le informazioni ricevute su di lui lo descrivessero più come un filosofo che un guerriero. Il re di Issa indossava una sottile corona di platino sui capelli grigi, gli occhi azzurri incorniciati da una ragnatela di rughe erano incastonati in un viso sottile dalla carnagione chiara e si posarono sugli uomini che avevano invaso il suo regno e alla fine incrociarono quelli di Zaron, fermandosi su di lui, riconoscendolo come l’individuo di maggior autorità in quella stanza, seppure i suoi abiti non fossero poi così dissimili da quelli dei nobili e dei consiglieri militari che lo accompagnavano e non indossasse nessun segno facilmente riconoscibile della sua maestà.
Con una smorfia di dolore per quello che si apprestava a fare il re si avvicinò a passi lenti a Zaron e poi si inchinò, rigidamente, poggiando un ginocchio a terra davanti al vincitore.
- In cambio della tua misericordia nei confronti del mio popolo noi ci arrendiamo.
Chinò il capo e con mani tremanti si sfilò la corona porgendola al conquistatore.
Zaron attese qualche attimo, abbastanza da far preoccupare l’uomo più anziano ai suoi piedi, in modo da umiliarlo ulteriormente e da aumentare così la sua posizione di potere. Per quello che voleva gli serviva la sua collaborazione e quindi doveva fargli capire quanto senza speranza la situazione fosse, come solo acconsentire avrebbe salvato lui e la sua città. Alla fine gli strappò di mano la corona, reggendola con noncuranza tra il pollice e l’indice della mano sinistra per sottolineare quanto poca importanza riservasse alla cosa.
- Accetto la tua resa, Aborn di Issa.
Girò intorno all’ex re e andò a sedersi al bianco tavolo ovale, poggiando sulla sua superficie liscia la spada che aveva tolto dal fodero e la corona di platino. Prese per sé la sedia più riccamente decorata, evidentemente riservata all’uomo che lo guardava con rabbia impotente dalla sua posizione supplice, e con un sorriso gli indicò una sedia sull’altro lato del tavolo, come se Aborn fosse l’ospite e lui, Zaron, il padrone di casa. Cosa che in effetti era diventato, da quando l’altro gli aveva porto la corona.
Sempre lentamente, come se ogni movimento gli risultasse oltremodo difficile, Aborn si rialzò e andò a sedersi sulla sedia che gli era stata indicata. Nessun altro sedeva: gli uomini di Rakon se ne stavano in piedi impettiti e minacciosi alle spalle del loro khan mentre gli uomini di Issa spalleggiavano con aria truce e ben poco rassegnata il loro sovrano decaduto.
- Issa è una città ricca, prospera, e il mio esercito e i miei consiglieri non vedono l’ora di buttarsi su tutta questa ricchezza. Voi conoscete bene la procedura che impiego con i regni che conquisto: la capitale viene distrutta, pietra su pietra, la nobiltà spogliata di ogni proprietà, il governo sciolto, i miei nobili e i miei funzionari si sostituiscono a loro in tutto e la popolazione assoggettata deve pagare le spese di guerra, diventano sudditi dell’impero, senza diventarne cittadini. Tutti quelli che si ribellano vengono schiacciati senza pietà assieme alle loro famiglie, i loro amici e persino i loro vicini.
Aborn strinse la mascella, impotente. Sapeva tutte quelle cose; si era arreso per risparmiare le vite dei suoi soldati che avrebbero combattuto senza speranza contro il soverchiante esercito avversario e perché il khan gli aveva ventilato la possibilità di una soluzione che avrebbe risparmiato il suo regno dal subire la stessa fine di quelli conquistati in precedenza. Era furioso per come lui lo stesse umiliando ma non avrebbe provocato il suo troppo potente avversario: il suo regno, il suo popolo, contavano tutti su di lui per salvarli da un orribile destino. Sapeva che la sua vita era perduta, Zaron non poteva permettersi di lasciarlo vivere, ma sperava di poter salvare almeno sua figlia, tutto quel che rimaneva della sua famiglia. Per lei niente era troppo umiliante, si sarebbe prostrato ai suoi piedi, gli avrebbe baciato gli stivali e anche pianto implorante se fosse servito a salvarle la vita. La sua bambina era la sua unica erede per la legge issiana ma sapeva che a Rakon solo i figli maschi potevano ereditare i titoli dai genitori e che quindi non avrebbero mai considerato una femmina una possibile erede al trono. Aborn contava che quello le avrebbe risparmiato la vita. Ripensò a Deja e a come avevano litigato solo poche ore prima: lui l’aveva scongiurata di abbandonare il palazzo e di confondersi con la popolazione, come misura di sicurezza, ma lei, la sua cocciuta bambina, aveva voluto restare al suo fianco, condividere il suo destino. Che la dea le risparmiasse il suo destino! Non chiedeva altro, non pregava altro. Temeva solo che non avrebbe rivisto sua figlia prima di morire.
Oh, era tutta colpa sua. Sapeva che l’impero di Rakon si stava espandendo, lo aveva visto fagocitare un regno dopo l’altro. I suoi vicini gli avevano chiesto aiuto, ma cosa poteva fare? La forza di Issa era nella sua flotta mentre quella di Rakon nel numero e in un micidiale esercito di terra. E poi era stato il suo turno e Aborn si era maledetto mille e mille volte per la sua incertezza, per il suo immobilismo. Se avesse creato una lega per opporsi a Rakon quando aveva ancora alleati… Ma non lo aveva fatto. Aveva atteso, e per ogni nuovo stato conquistato le sue possibilità di salvezza si affievolivano sempre più. L’imperatore aveva schiacciato il suo esercito con ridicola facilità e aveva bombardato dall’alto tutte le navi della sua flotta che si azzardavano a lasciare il golfo, e lo aveva fatto con le aeronavi che lui stesso gli aveva venduto anni prima. Il regno di Rakon era stato il primo a comprarne, quando ancora erano una novità che suscitava diffidenza e stupore, e lo aveva fatto in modo massiccio, tanto che si era chiesto a cosa gli servissero dato che i committenti in genere erano persone ricche che desideravano spostarsi in comodità senza mescolarsi agli altri viaggiatori. Ora era chiaro come aveva avuto intenzione di impegnarle: le aveva usate per spostare velocemente truppe e vettovaglie, cogliendo impreparati gli eserciti avversari con i suoi movimenti repentini. Lui si era comportato da sciocco e l’uomo vittorioso che aveva difronte era stato abile e lungimirante.
- Questo sarà anche il destino di Issa?
La posa di Zoran da rilassata si fece rigida, il suo sguardo attento e ardente.
- No, per Issa ho pensato a qualcosa di molto diverso. C’è la possibilità che la città e la popolazione vengano risparmiati. Che il suo apparato governativo rimanga esattamente com’è, con la supervisione dei miei funzionari ovviamente e…
Sfiorò la corona.
- … un cambiamento al vertice.
Aborn cercò di dominare la sua agitazione.
- Questa possibilità è… preferibile ai miei occhi. Siete un re molto generoso, sire.
Il khan fece un cenno con il capo mostrando di accettare quel complimento, sogghignando e derivando piacere dall’aver strappato quel titolo onorifico al suo opponente.
- È mia intenzione non solo annettere Issa nel mio regno ma assimilarla. Voglio che i cittadini di Issa si sentano cittadini di Rakon, fedeli, produttivi membri della società. Voglio che le città di Issa e di Halanda si sentano sorelle, voglio che diventiamo un’unica, grande famiglia.
Aborn si sentì scosso da quel discorso. Era molto più di quello che aveva sperato di ottenere. Non solo Zaron non avrebbe passato la sua gente a fil di spada e distrutto il suo regno, ma voleva addirittura accoglierli come pari, farli diventare cittadini dell’impero. Poi tornò con i piedi per terra: doveva esserci un inghippo, doveva esserci qualcosa che Zaron voleva e per cui era disposto a sacrificare i suoi modi solitamente sanguinari e brutali.
- Sono senza parole, mio signore. Cosa può fare Issa per ricambiare tale magnanimità?
Il sorriso soddisfatto di Zaron divenne affilato, predatorio.
- Come ho detto, caro Aborn, desidero che diventiamo un’unica famiglia. A me manca una moglie e tu hai una figlia, la tua unica erede.
Prima ancora che il re avesse finito di parlare Aborn era saltato in piedi, rovesciando la sedia. Gli uomini di Zaron avevano messo le mani sull’else delle spade e i suoi avevano fatto lo stesso.
Sua figlia? Quell’uomo voleva sua figlia? No!
- Mai! Non sacrificherei mai mia figlia per stringere un accordo politico, lei non è un oggetto di baratto. E non la darei mai a te!
Zaron corrucciò la fronte difronte alla veemenza dell’ex sovrano. Ed era disgusto quello che leggeva sul suo viso? Quando quel piano gli era balenato in mente si era limitato ad accertarsi che l’altro uomo avesse una figlia femmina nubile, senza informarsi di altro. Forse nel frattempo la ragazza si era sposata?  Non aveva pensato molto a lei, gli bastava che il re di Issa avesse come unica erede una figlia femmina, di lei sapeva solo che per la legge issiana sarebbe succeduta al trono di suo padre. Brutta o bella che la ragazza fosse, ciò che importava a Zaron era la dote che lei gli avrebbe portato in matrimonio: la città con le sue ricchezze fisiche e intellettuali e, col tempo e con l’arrivo di un erede, anche la fedeltà dei suoi abitanti. Riusciva a figurarselo nei suoi sogni più ambiziosi: la potenza militare di Rakon e le armi micidiali che Issa gli avrebbe fornito. Il suo impero sarebbe stato ricordato per sempre e il suo nome impresso a fuoco nella storia. Aveva pensato che Aborn sarebbe stato sollevato che il prezzo della resa fosse così leggero, evidentemente si era sbagliato e aveva sottovalutato il suo attaccamento per la figlia. Un simile sentimento per Zaron era difficile da comprendere: lui non aveva mai avuto contatti con la sua famiglia. In effetti, com’era tradizione per gli eredi di ripiego, non aveva saputo che il re e il principe erano la sua famiglia finché il fratellastro non era spirato. Cercò di vedere la cosa dal punto di vista di Aborn: aveva un erede solo e su di lei aveva probabilmente riversato tutte le sue speranze e aspettative, l’aveva addestrata, preparandola al compito che l’aspettava e ora probabilmente l’idea di darla via come un bottino di guerra perché diventasse la moglie di un re straniero gli doveva essere intollerabile.
- Forse non mi sono spiegato bene, Aborn.
La mano che aveva tenuto mollemente poggiata sulla corona si spostò sull’elsa della spada.
- Siedi e ascoltami bene. E questo è un ordine.
Aborn aveva ripreso il suo posto al tavolo, ma l’espressione rigida e inflessibile lasciavano capire facilmente che su quel punto non avrebbe ceduto. Peggio per lui, pensò con determinazione Zaron, perché dovrai cedere, non hai scelta.
- Credo che tu abbia frainteso le mia parole.
La sua voce era implacabile, decisa.
- Non ti ho chiesto la mano di tua figlia. Ti ho ordinato di darmela. Da quando hai messo nelle mie mani la tua corona, da quando ti sei arreso al mio esercito, mi hai riconosciuto come tuo re e quindi ora sei sottoposto alla mia autorità. Non sei nella posizione di rifiutarmi alcunché, e mi pare che le mie richieste siano ragionevoli ed estremamente vantaggiose per te e la tua gente.
Ammorbidì leggermente il tono della voce, dopotutto voleva quell’uomo come suocero e dopo le minacce poteva permettersi di addolcire l’accordo.
- Tua figlia non diventerà solo mia moglie. Mi sposerà come regina di Issa. Le nostre due corone si uniranno per diventare una. I nostri regni diverranno uno. Lei sarà la regina del mio impero e io il re del di lei regno.
E questo era il cuore del piano di Zaron. Se gli issiani si fossero inchinati davanti alla loro legittima regina, non avrebbero mai avuto ragione di ribellarsi anzi, avrebbero lavorato e prodotto tutto quello che il suo impero abbisognava perché sarebbe stato anche l’impero della loro sovrana. E quando fosse giunto un figlio quello sarebbe stato il legittimo erede di Rakon e di Issa e allora le due corone, i due popoli, sarebbero davvero diventati una cosa sola. E tutto quello che Issa era e rappresentava sarebbe stato suo, non per diritto di conquista, ma di sangue. Gli era sembrata una visione semplice da realizzare, ma ora Aborn faceva resistenza.
- No, non ti darò mia figlia. Non puoi sposarla.
Non poteva?
- Perché non posso? È forse già sposata?
L’uomo più anziano lo guardò sorpreso, come se la risposta fosse così ovvia che l’ignoranza di Zaron lo lasciasse senza parole. Poi una luce scaltra sembrò accendersi nei suoi occhi.
- Tu non hai idea…
Sembrò rilassarsi per la prima volta da quando aveva udito la sua richiesta di matrimonio.
- Come ho detto prima mia figlia non è un oggetto da barattare. È una persona, e io non le imporrei mai un matrimonio senza avere prima il suo consenso. Se riesci a convincerla a sposarti, se dopo averla vista vorrai ancora sposarla, io non mi opporrò.
Alle spalle di Aborn un ragazzo, non poteva avere più di venticinque anni, sembrò talmente interdetto dalle parole del suo signore che si chinò sulla sedia per conferire a bassa voce con lui, ma Aborn lo zittì con un gesto della mano. Zaron lo guardò con interesse: aveva un viso dai lineamenti regolari e delicati, capelli castano chiaro che gli coprivano le orecchie e occhi blu come la maggior parte degli issiani e da come si muoveva il ragazzo sembrava avere un addestramento militare, l’armatura e la spada che portava al fianco sembrava fossero state usate e non meri elementi decorativi come quelli del suo re. Era giovane, di bell’aspetto e aveva la confidenza del suo sovrano; Zaron pensò che probabilmente Aborn lo aveva considerato come un possibile genero vista la reazione del ragazzo.
Le parole di Aborn non promettevano bene: se avesse voluto ancora sposarla dopo averla vista? Era così brutta? Non aveva importanza, anche se fosse stata guercia e gobba l’avrebbe sposata lo stesso. Se il suo aspetto fosse stato davvero così repellente si sarebbe ingegnato per trovare una soluzione: magari avrebbe tenuto completamente buia la camera da letto. Dopotutto da lei doveva avere solo un figlio, poi avrebbe potuto spostare altrove le sue attenzioni, non aveva cinque concubine per niente. Magari, una volta compiuto il dovere coniugale, avrebbero potuto parlare e diventare almeno amici. Zaron aveva accarezzato la segreta speranza di trovare, negli anni, nella principessa una compagna con cui confidarsi e parlare. Adesso cominciava a temere che la sua compagnia fosse repellente dato che persino suo padre era convinto che conoscendola avrebbe cambiato idea.
- Mi sembra accettabile, Aborn.
Con una mano fece cenno verso la porta, alzandosi.
- Conducimi quindi da lei.
L’issiano si alzò lentamente, incerto.
- Adesso sire?
Zaron rinfoderò la spada e riprese in mano il cerchio in platino che aveva rappresentato la carica dell’altro.
- Adesso. Perché attendere?
Detto questo uscì, spalancando le porte della sala. Ne era entrato come conquistatore e ora ne usciva come proprietario dell’intero palazzo.

 

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Capitolo 2
*** Anche una nave dalle vele scquarciate può condurti a un porto sicuro ***


II. ANCHE UNA NAVE DALLE VELE SCQUARCIATE PUÒ CONDURTI A UN PORTO SICURO

 
 
Con un ordine sussurrato a Bors, il suo generale secondo in comando, dispose che l’esercito occupasse con ordine e seguendo una disciplina ferrea la città, intimando che ogni pattuglia avesse almeno un soldato issiano ad accompagnarla, e che i membri del governo che lo avevano seguito nella sua campagna fossero spostati a palazzo. Poi seguì il re detronizzato per i corridoi.
Aborn aveva mandato via la maggior parte della sua scorta con l’ordine di riferire la resa e di accogliere nel miglior modo possibile i nuovi signori. Accanto a sé aveva tenuto solo il giovane Ostin e altri due consiglieri che reputava anche buoni amici. Aveva condotto Zaron per i corridoi del palazzo fino alla biblioteca, dove Deja si era rifugiata dopo la loro lite.
I corridoi erano deserti, Aborn non poteva biasimare i servitori che erano corsi a nascondersi paventando il peggio in vista dell’occupazione straniera. Giunto davanti alle porte della biblioteca si fece coraggio ed entrò. Era sicuro che khan Zaron avrebbe rinunciato al suo progetto matrimoniale quando si fosse reso conto dell’assurdità della sua proposta.
La grande sala era silenziosa e all’apparenza vuota, ma Aborn sapeva che il dedalo di corridoi formati dagli alti scaffali e le numerose nicchie e sale di lettura potevano contenere una quantità imprecisata di visitatori affamati di conoscenza. Tuttavia in quel momento era probabilmente davvero deserta come appariva, eccezion fatta per la presenza di sua figlia.
- Deja! Deja vieni fuori tesoro. Sono qui con il khan di Rakon. Dobbiamo parlarti.
Da un punto alla sua destra si udì il tonfo inconfondibile di un libro che cade per terra. Dopo pochi attimi da dietro uno scaffale comparve la sua unica figlia.
Era esattamente come l’aveva vista poche ore prima, tranne per il pallore del viso e gli occhi arrossati dal pianto.
Era sempre stato orgoglioso di Deja, quella figlia che tanto lui e la sua adorata moglie avevano desiderato e per cui la sua amata regina aveva dato la vita. Le avevano detto che una gravidanza sarebbe stata pericolosa, che rischiava di morire, ma la sua amata era stata troppo contenta di essere riuscita finalmente a concepire per badare agli ammonimenti dei dottori. La sua morte gli aveva reso ancora più preziosa la sua bambina. Agli occhi paterni Deja aveva tutto: un’intelligenza vivace e fuori dal comune che aveva stupito i suoi tutori, bellezza e grazia, cumulati con un carattere volitivo e caparbio che però non era mai divenuto arrogate o crudele. Ora cercò di vederla attraverso gli occhi di Zaron: era bassa, la sua testa non gli arrivava neanche al mento, i lunghi capelli lisci e castani erano sciolti sulle spalle, tenuti lontano dal viso da un intricato cerchietto fatto di fili d’oro e perline bianche. L’attaccatura dei capelli dava una forma a cuore al viso dal mento appuntito. Leggere lentiggini marroni le coprivano il naso e le gote, sotto gli occhi azzurri, uguali a quelli di suo padre. Le sopracciglia erano sottili e sottolineavano un’arcata delicata. Si stava mordicchiando il labbro inferiore, in segno di nervosismo, davanti a quella strana delegazione. Aborn proseguì la sua spassionata analisi, provando una certa soddisfazione voltandosi a guardare Zaron che non riusciva a nascondere la costernazione che lo aveva colto. L’abito che Deja indossava quel giorno le donava, era bianco con decorazioni a perline e fili d’oro che riprendevano il motivo della coroncina. L’abito era lungo, morbido, le lasciava le braccia magre scoperte e accentuava il petto piatto e i fianchi stretti, da ragazzina dodicenne qual era.
Zaron era senza parole, deglutiva a vuoto e non riusciva a capacitarsi di quanto madornale l’errore da lui commesso fosse stato. Non si era informato sulla figlia di Aborn, nelle rare volte in cui aveva pensato a lei se l’era immaginata alla peggio brutta o vecchia, dato che Aborn aveva ormai passato i sessanta anni d’età. Come poteva sua figlia, la sua unica figlia, essere così giovane? Eppure gli occhi che lo guardavano incerti e un po’ spaventati dai lineamenti della bambina erano gli stessi del genitore. Si sentì nauseato. Per tutti gli dei, quanti anni aveva? Perché lui doveva sposarla, tutti i suoi sogni di gloria si basavano su questo. Se voleva conquistare i cuori e le menti degli issiani doveva fare sua la loro regina, per quanto rivoltante fosse il pensiero.
Aborn si era sbagliato se aveva davvero creduto che vederla lo avrebbe dissuaso; non aveva preso in considerazione la sua determinazione. Si fece avanti risoluto e si comportò come se l’età della sua interlocutrice non fosse un problema, preparandosi a fare appello all’onore della principessa e ai suoi doveri verso il suo popolo.
Tolse la spada dal fodero, impugnandola con la sinistra assieme alla corona del padre di lei e appoggiò la punta della lama sul palmo destro, tenendo il piatto perfettamente orizzontale. Chinò il capo per guardarla negli occhi, cercando di vincere l’inquietudine che la loro differenza d’altezza e di corporatura gli procurava, lei era così minuta che era sicuro di poterle spezzare le braccia come ramoscelli secchi. Cercò di ricacciare quello spiacevole pensiero, concentrandosi solo sull’obbiettivo. Doveva pensare a Issa e ai vantaggi che quel matrimonio gli avrebbe procurato.
- Principessa, tuo padre ha rinunciato al trono del suo regno piegandosi davanti alle mie armate e arrendendosi incondizionatamente. Da oggi Issa entra a far parte dell’impero di Rakon. Ebbene, io propongo una soluzione che permetterebbe a Issa di mantenere la sua individualità e non essere fagocitata dal mio impero. Se accetterai di sposarmi, diventando la mia regina, io restituirò a te la corona di tuo padre. Tu mi sposerai da regina di Issa e tale resterai, mantenendo sul tuo regno la tua autorità. Non sarà un’annessione ma un congiungimento tra regni di pari dignità e valore. I cittadini di Issa avranno la cittadinanza rakiana e tutti i diritti che essa comporta. Ma questo solo se tu acconsenti a divenire la mia regina. Non ti forzerò, se dirai di no rispetterò la tua volontà. Ma il mio esercito, che ha per il momento pacificamente occupato il tuo regno, riceverà l’ordine di attaccare. Della città di Issa non rimarrà nulla. A te la scelta.
Non era veramente una scelta e Zaron se ne rendeva perfettamente conto, tuttavia non aveva nessuna intenzione di trascinare all’altare la sua sposa di peso, urlante e piangente. Lei sarebbe dovuta venire a lui di sua volontà, anche se costretta dalle circostanze. Come di sua volontà avrebbe dovuto seguirla tutto il regno, seppur recalcitrando un po’.
Lei era impallidita, i suoi occhi si erano fatti grandi, enormi in quel viso non ancora maturo, e si erano spostati dalla spada alla corona e poi al suo viso inflessibile e infine erano scesi, seguendo l’armatura da guerra, soffermandosi sugli avambracci muscolosi e segnati dalle cicatrici prima di chiudersi per lo sconforto e l’impotenza. Si portò una mano alla gola, come se facesse fatica a trovare la voce per dare la sua risposta.
- Ma… ho solo dodici anni… come posso sposarti?
Il khan cercò di rassicurarla meglio che poteva.
- La tua età non conta, il nostro sarà un matrimonio politico.
Dopo secondi interminabili in cui Zaron temette di dover alla fine dare l’ordine di distruggere tutto, lei acconsentì con un filo di voce.
- Sì, ti sposerò, per il mio popolo, per la mia città…
Il suo viso si animò improvvisamente e i suoi occhi si indurirono.
-… per la vita di mio padre.
Da dietro Zaron provenne la voce angosciata di Aborn.
- No Deja! Non farlo, non puoi! Te lo proibisco!
La principessa si rivolse a guardare il genitore, sollevando il mento e assumendo un’espressione cocciuta.
- Non sei più re, padre, non puoi proibirmi nulla.
Poi il suo sguardo e il suo tono si ammorbidirono.
-Ti prego padre, permettimi di salvarti, è in mio potere salvare tutti noi. Devo farlo, vogli farlo.
Zaron ammirò la determinazione della ragazzina e il modo in cui teneva testa al padre. Fu divertito dalla costatazione che entrambi avevano pensato che lui avesse avuto intenzione di uccidere Aborn. L’eliminazione del sovrano era una prassi consolidata nelle sue conquiste ma Zaron aveva ritenuto che presentare come dono di nozze alla sua sposa la testa mozzata del padre fosse un pessimo inizio per un matrimonio e aveva già messo in conto l’idea di risparmiare il precedente re, se quest’ultimo non avesse commesso troppe sciocchezze forzandogli la mano in senso contrario. Quindi per lui fu facile accondiscendere su quel punto con la sua futura sposa.
- Avete la mia parola, principessa, a meno che vostro padre non commetta qualche follia, non morirà per mia mano o per mio ordine.
La ragazzina ne sembrò sollevata mentre il padre cadeva in ginocchio e si copriva il volto in preda alla disperazione, pensando a quanto la propria vita fosse costata alla sua bambina.
- Mia signora, ora devo lasciarvi, per comunicare la lieta novella al mio stato maggiore e al vostro popolo, il nostro futuro popolo. So che l’avviso è breve ma entro sera desidero che sia preparata la cerimonia per la vostra incoronazione come regina di Issa. Vostro padre ha già abdicato, confido che non ci saranno problemi.
Con queste parole si accommiatò da lei, rinfoderando la spada e mettendole tra le mani tremanti la corona che era stata di suo padre. Poi girò su sé stesso e se ne andò con passi misurati, seguito dal suo entourage.
Una volta che le porte della biblioteca si furono richiuse alle loro spalle la principessa si lanciò tra le braccia spalancate del genitore ancora a terra. Aborn strinse a sé la figlia tremante, che una volta rifugiatasi sul suo grembo si era messa a singhiozzare.
- Oh, papà, ho tanta paura!
Aborn cullava la sua bambina e intanto cercava una via d’uscita.
- Shh, non ti preoccupare tesoro mio. Troveremo un modo, sono sicuro che ci deve essere qualcosa che ti salvi da questo matrimonio.
Ma Deja era inconsolabile.
- No, papà. Se sposandolo risparmierà il regno e te lo farò. Ma lui… oh, è così vecchio! E io non posso, ho solo dodici anni, la legge…
Il padre era anche lui spaventato, ma ancor di più arrabbiato.
- La legge, cosa vuoi che importi a quel barbaro della legge issiana. E tu non dovevi sacrificarti per noi, non dovresti prendere una simile decisione. Sei solo una bambina, io sono tuo padre, io sono il re. Io dovevo pagare per i miei errori, non tu. Ti prego Deja, considera la possibilità di una fuga. Sono sicuro che riusciremmo a farti uscire dal palazzo e dalla città. Se tu riuscissi a fuggire potresti organizzare una resistenza, qualcosa che possa dare speranza al nostro popolo!
La principessa scattò all’indietro, liberandosi dalla stretta del padre e si rialzò in piedi.
- No! Assolutamente no! È fuori discussione che io ti abbandoni. Hai sentito cosa ha minacciato khan Zaron: se rifiuto distruggerà tutto, ucciderà te e schiavizzerà il nostro popolo. Non fuggirò. Mai!
Aborn era orgoglioso di lei, della sua principessa, della sua regina dato che ormai lui aveva abdicato. Ma aveva paura per sua figlia, quella bambina che presto sarebbe andata in sposa a uno sconosciuto, a uno straniero. Non era giusto! Non era quello il futuro che aveva immaginato per lei! Aveva sperato che, in un giorno ancora lontano, Ostin avrebbe potuto corteggiarla e se lei lo avesse accettato, lui sarebbe diventato il suo principe consorte. Gli piaceva Ostin: era fedele, generoso, intelligente, aveva solo dieci anni più di Deja e sapeva che lei lo trovava simpatico. Lungi da lui forzarle la mano, ma aveva sperato. Ora quelle speranze erano infrante e i suoi sogni si stavano realizzando in un incubo. Il suo paese sottomesso a una potenza straniera e la sua unica figlia… Aborn si sentiva fisicamente male al pensiero di ciò che quell’uomo le avrebbe potuto fare. Aveva parlato di parità, di dignità ma quanto onore può avere un uomo che si appresta a prendere in moglie una bambina? Quale rispetto le può tributare se pretende che una bambina faccia le veci di una donna? Per le leggi issiane i matrimoni combinati erano proibiti, anche se nelle famiglie nobili non era raro che le ragazze subissero pressioni per sposare uomini scelti dai genitori. Tuttavia era illegale contrarre matrimonio sotto i quindici anni e a venti i cittadini issiani, maschi o femmine, nobili o plebei, per legge potevano sposare chiunque desiderassero senza il consenso delle famiglie. Quindi per Aborn era inconcepibile, barbarico e al di fuori di ogni legge che ora sua figlia fosse costretta a sposare quell’uomo. Deja era intelligente e molto matura per la sua età, ma c’erano cose per cui non era pronta, per cui la sua intelligenza non l’avrebbe aiutata. Come poteva spiegarle ciò che Zaron avrebbe voluto, preteso da lei? La sua mente rifuggiva il solo pensiero. Doveva esserci un modo per salvarla, per impedire che lui le facesse del male, che la forzasse a qualcosa che non era ancora abbastanza grande da affrontare.
- Parlerò ancora con lui. Forse può essere convinto a posticipare il matrimonio di qualche anno, forse si accontenterà di un fidanzamento…
Lei sembrò abbracciare l’idea e riacquistare un po’ di speranza.
- È una buona idea padre, ma gli parlerò io, non tu.
Anche Aborn si alzò e sorrise tra le lacrime a Deja e poi le poggiò le mani sulle spalle.
- No, lasciami fare questo per te, come padre dato che come re non posso fare più nulla. Lasciami parlare a lui, da uomo a uomo. Su questo fidati di me, ti prego, permettimi di fare almeno questo per te, se non posso fare altro per difenderti.
La principessa prese tra le proprie mani la mano del padre e la baciò con affetto.
- Io mi fido di te, padre. Solo ti prego, non adirarlo. Le nostre vite e le vite dei nostri sudditi dipendono da lui. E da me.
Lui annuì e la strinse ancora al petto.
- Ti prometto che sarò diplomatico e ti giuro che farò il possibile per dissuaderlo. Ma ora, abbiamo la tua incoronazione a cui pensare. Mia regina.
E Aborn, che quella mattina era stato il re di Issa, si inchinò difronte alla sua nuova sovrana, seguito da Ostin e dai suoi consiglieri.
- Non fare così padre, ti prego!
Aborn le sorrise, triste e rassegnato.
- Tu sei la mia regina ora, e io a te mi inchino con gioia. Sono fiero di chiamarti mia signora e ogni tuo ordine sarà da me eseguito. Sono orgoglioso di te, lo sarò sempre, qualunque cosa accada. Non riesco a immaginare di lasciare la corona in mani più degne e capaci.
Deja era incerta e nervosa.
- Ma io non sono pronta a regnare, non posso farlo!
Suo padre era invece di tutt’altro avviso.
- Nessuno è mai pronto, figlia mia, ma tu sei preparata a questo compito, sarai una regina straordinaria. E una parte di me è lieta di poter assistere alla tua ascensione.
La principessa scoppiò nuovamente in lacrime quando si rese conto cosa stava dicendo il padre: la morte del suo amato genitore avrebbe dovuto avvenire prima della sua incoronazione. E invece suo padre era ancora vivo e, se il khan rakiano avesse mantenuto la sua promessa, avrebbe continuato a vivere ancora a lungo, aiutandola e consigliandola nel suo nuovo ruolo. Se non per niente altro, almeno di questo sarebbe stata riconoscente al suo futuro marito: risparmiando la vita di suo padre le aveva fatto un regalo insperato e prezioso e per quello, più che per qualsiasi altra cosa, Deja era ansiosa di non rompere la promessa fatta.
Lo avrebbe sposato, anche se la prospettiva la riempiva di timore e sgomento, anche se quell’uomo così imponente e minaccioso le incuteva un terrore viscerale. Avrebbe preteso che lei assolvesse ai compiti di una moglie anche nei fatti oltre che nella forma? Aveva detto che il loro sarebbe stato un matrimonio politico ma non aveva detto che sarebbe stato un matrimonio solo di nome.
Con la pubertà Deja aveva cominciato a guardare con un misto di curiosità e disgusto i rappresentanti del sesso opposto. Non aveva mai avuto problemi a relazionarsi con uomini più vecchi di lei a livello intellettuale. Sedeva con suo padre durante le riunioni del consiglio, anche se restava rispettosamente in silenzio, e sapeva che suo padre prendeva seriamente i suoi consigli e le sue opinioni; era cosciente che la sua giovane età spiazzava molti ma una volta che il suo interlocutore si rendeva conto della sua intelligenza e della sua maturità, la sua età passava in secondo piano. Aveva notato le relazioni che si intrecciavano tra i membri più giovani della corte e tra le sue amicizie più mature. A livello intellettuale riconosceva l’esistenza dell’amore e dell’aspetto fisico che una relazione con un rappresentante dell’altro sesso implicava. Ma la sua reazione istintiva era di imbarazzo e rifiuto all’idea che una simile circostanza fosse applicabile a sé stessa. Ne era incuriosita, ma non attratta. Faceva fatica a stringere amicizia con le sue coetanee e, a parte un’unica eccezione, le sue amiche erano tutte più vecchie di lei, alcune erano addirittura già sposate. Quando qualche sua amica si lasciava sfuggire informazioni sulla sua vita privata e sulla sua relazione con il fidanzato o marito, arrossiva e si rendeva perfettamente conto che se sul piano mentale era loro pari, su quel particolare piano era ancora indietro. Semplicemente non era interessata. Era conscia delle speranze che suo padre nutriva per Ostin ma era un’idea vaga e nebulosa e ancora lontana nel tempo. Ostin era simpatico, divertente e arguto, ma non riusciva a immaginarsi una vita con lui, aveva cercato di immaginarsi cosa si provava a baciarlo e l’idea l’aveva lasciata … vagamente disgustata, non tanto all’idea di baciare Ostin quanto l’idea dei baci in generale.
E ora quell’uomo, più vecchio di Ostin, di cui lei non sapeva virtualmente nulla, tranne che era uno straniero, un invasore, un assassino che aveva pavimentato la strada verso la sua Issa con i cadaveri dei nemici sconfitti, che aveva spietatamente conquistato, mettendoli a ferro e fuoco, i regni vicini, ora quell’uomo si aspettava che lei diventasse sua moglie, la sua compagna per il resto della vita, la madre dei suoi figli. Non riusciva a immaginarsi di provare piacere a baciare Ostin, figuriamoci quel guerriero dall’aria truce, più vecchio di lei, più grande e forte di lei.
Mentre suo padre l’accompagnava nelle sue stanze e cominciavano i preparativi affrettati per la sua incoronazione, il timore che aveva provato in biblioteca si tramutava in terrore e tutta la determinazione e sicurezza che aveva dimostrato davanti al sovrano straniero e davanti al genitore veniva erosa dai dubbi e dalla sua immaginazione in preda al panico.
 
Mentre l’unica cameriera che non aveva voluto fuggire ma restare al fianco della sua signora, la fedele, gentile Larissa, l’aiutava a vestire l’abito che aveva avuto intenzione di indossare alla festa che celebrava l’anno nuovo, appena due mesi più tardi, Deja si sentì grata che il padre l’avesse convinta a lasciare a lui le trattative con il khan di Rakon. Era combattuta tra il desiderio infantile di piangere e nascondersi fino a che l’uomo nero non se ne fosse andato e la consapevolezza delle sue responsabilità come prossima regina di Issa e che un matrimonio con khan Zaron non l’avrebbe uccisa anzi, avrebbe portato notevoli vantaggi a tutta la sua gente e migliorato le prospettive di Issa all’interno dell’impero. Ma mentre la ragione le ripeteva che quella era la soluzione migliore e più favorevole per loro e che Issa ne avrebbe avuto solo vantaggi e Zaron invece avrebbe guadagnato unicamente una moglie bambina da cui non avrebbe potuto neanche aspettarsi un erede, il suo cuore le batteva impazzito di terrore nel petto e lamentava la morte di ogni fantasticheria romantica. Quando la scelta è tra un matrimonio combinato con un uomo che non conosci e che avresti in qualsiasi altra occasione rifiutato comunque e l’annientamento, non è una vera scelta, ma una terribile coercizione.
Non solo Deja trovava difficile immaginarsi con lui, ma la logistica stessa del loro matrimonio le sembrava assurda: la cerimonia si sarebbe svolta a Issa o a Halanda? Avrebbero vissuto insieme o no? Se no, lui le avrebbe permesso di rimanere a Issa e di regnare indisturbata, oppure avrebbe preteso che deferisse a lui ogni autorità? Se pensava di renderla una regina fantoccio e di regnare sul suo popolo attraverso di lei avrebbe dovuto ricredersi: Deja avrebbe difeso la sua posizione e la sua gente a ogni costo e su quel particolare non avrebbe ceduto, per nulla al mondo. Una volta che la corona fosse stata sul suo capo avrebbe regnato e fatto valere la sua autorità, scevra da ogni influenza esterna. Se invece i suoi timori peggiori si fossero realizzati e lui avesse preteso che il loro matrimonio fosse un matrimonio vero e reale e l’avesse portata con sé a Halanda… Deja non sapeva cosa avrebbe fatto. Isolata in un paese straniero, a regnare su una corte sconosciuta di cui ignorava le usanze e le leggi. A dividere la vita e il letto di un uomo di cui non conosceva nulla. La sola idea la ripugnava.
- Larissa ti prego, metti un po’ di musica. Qualcosa di vivace.
La sua ancella smise di pettinarle i capelli e andò al fonografo e selezionò, dopo una leggera esitazione, uno dei sette cilindri a disposizione che poi inserì nella macchina che azionò facendo girare la manovella. Una musica dalla cadenza veloce si diffuse nella stanza e Larissa si mise a canticchiare sottovoce la melodia mentre intrecciava i capelli della sua principessa. Il fonografo era un’invenzione recentissima e in tutta Issa ce n’erano forse solo una dozzina di esemplari.
La musica era piacevole e Deja si costrinse a seguirne le note per non pensare, almeno per un po’, a quello che si prospettava come la sua vita futura. Davanti allo specchio guardò la sua stanza, chiedendosi per quanto ancora avrebbe occupato quegli appartamenti che erano stati i suoi per tutta la vita.
Le sue stanze si trovavano nel cuore del palazzo e, pur essendo sprovviste di finestre, erano all’ultimo piano ed erano dotate di lucernari ampi, secondo le richieste specifiche della principessa. Lei amava avere le proprie stanze inondate di luce e solo nei mesi estivi, quando il sole picchiava e scaldava gli ambienti, permetteva che si tirassero le tende da una parte all’altra del soffitto, per fare penombra e fresco. Di notte le tende erano sempre aperte cosicché lei potesse vedere il cielo stellato dal proprio letto e addormentarsi alla pallida luce della luna. Le tende erano gialle, il suo colore preferito, come gialla era la tappezzeria del salotto e le cortine del letto. Le pareti e il pavimento erano rigorosamente bianchi e a Deja piaceva immaginare di entrare in una stanza fatta di sole e di luce quando entrava in camera sua. C’erano molti libri, perché quando veniva presa da un progetto Deja saccheggiava la biblioteca e si circondava di tutte le informazioni che riusciva a trovare e poi non restituiva i libri così da poter andare in cerca di un riferimento letto anche di sfuggita magari mesi prima. Frequentava a tempo perso l’Accademia, assistendo a tutte le lezioni che catturavano il suo interesse. Ciò che la incuriosiva di più era capire come funzionavano il mondo e le cose, così seguiva corsi di scienze della terra, ingegneria e meccanica, interessandosi delle nuove invenzioni e discutendo con gli scienziati su come applicarle per migliorare la vita di tutti i giorni della popolazione. Con meno interesse si era avvicinata anche alla filosofia, che appassionava suo padre, per sentirsi più vicina a lui e perché suo padre giurava che lo studio del pensiero l’avrebbe aiutata a regnare. Sparsi ovunque, sul comodino e sotto il letto e ammucchiati sulle sedie, c’erano libri di storia, la sua seconda passione, ingegneria, astronomia e persino botanica, c’erano copie dei suoi saggi di politica e di studi sociali preferiti, tutto quello che potesse aiutarla nel suo ruolo di principessa a prepararla a guidare il paese. Più volte si era ripromessa di organizzare la sua collezione in una biblioteca personale, in modo da mettere ordine nelle sue stanze e da rendere più facile la consultazione dei libri, ma non l’aveva mai fatto, rimandando sempre a domani. Ora forse non ne avrebbe più avuto l’opportunità. Cupamente si chiese se il suo futuro marito avrebbe cercato di impedirle di continuare gli studi e si ripromise di non lasciarglielo fare: in nessun caso avrebbe smesso di studiare.
Si lisciò lo splendido abito lilla che si era fatta preparare per una ben diversa occasione e ridendo tra sé e sé considerò che possedeva più libri che vestiti.
La moda issiana negli ultimi decenni aveva cominciato a tendere sempre di più verso il pratico a dispetto del maestoso. Per le donne la differenza era più vistosa che per la moda maschile: gli abiti erano diventati comodi, morbidi e non fascianti e rigidi come erano stati nei secoli passati; si erano accorciati fino alle caviglie e anche le scollature si erano fatte più modeste. I vestiti avevano le spalline unite da bottoni e spille colorate e vistose a lasciare le braccia nude d’estate e le maniche lunghe fino ai polsi non troppo strette durante gli inverni miti di Issa. Le spille e le cinture erano gli unici elementi decorativi e su quelli le donne issiane puntavano per differenziare i loro abbigliamenti. Le stoffe erano tinte in monocromi ma, per chi poteva permetterselo, erano impreziosite da ricami fatti a mano con fili metallici e perline.
Gli abiti tradizionali invece, che la nobiltà preferiva per le cerimonie e le occasioni di festa, rispecchiavano ancora la moda antiquata del secolo precedente, per cui l’abito che Deja avrebbe indossato alla sua incoronazione le fasciava il torso lasciandole le spalle e le braccia nude e prevedeva un fastidioso corsetto; la gonna si allargava come la corolla capovolta di un fiore in strati di seta lilla che le coprivano la punta delle scarpette e si allungavano in uno strascico di circa un metro dietro di lei. Le decorazioni dorate sul corpetto avevano un motivo floreale, accentuando l’impressione che Deja stessa fosse un fiore. Le era piaciuto il vestito quando l’aveva ricevuto, perfettamente rispondente alle sue direttive, ma ora se lo sentiva strano addosso e le pareva inadeguato per la solenne occasione. Avrebbero dovuto esserci delle decorazioni per i capelli in accordo con l’abito, che ne riprendevano i motivi ricamati e il colore, ma Larissa non aveva potuto applicarle alla capigliatura che, secondo la tradizione, avrebbe potuto essere solo acconciata con piccole trecce strette attorno al capo per sostenere la corona. L’ancella aveva fatto un bel lavoro: i suoi capelli erano tirati indietro e lasciavano libero il viso e poi, dalla nuca, tornavano a cadere sciolti e liberi fino a metà schiena. Deja aveva deciso di non indossare nessun gioiello, neanche la catena con il pendente in topazio blu che era stata di sua madre e che portava sempre sotto gli abiti.
 
Con il passare delle ore, mano a mano che la notizia dell’incoronazione di una nuova regina si diffondeva in città, accompagnata dalla costatazione che il precedente re non era morto ma aveva semplicemente abdicato, un cauto ottimismo si era diffuso tra la cittadinanza. Certo, c’erano pattuglie di soldati rakiani ovunque, ma non si avevano notizie di saccheggi, né di uccisioni. La popolazione anzi era stata invitata, caldamente, a presentarsi nella piazza dei proclami, antistante alla terrazza del palazzo da cui il re si sporgeva per annunciare importanti avvisi ai suoi cittadini, per acclamare la nuova sovrana e apprendere una felice notizia. Di che notizia si trattasse nessuno ancora lo sapeva, i consiglieri di Aborn erano stati giudiziosamente silenti riguardo alle pretese avanzate dal sovrano rakiano in cambio della pace e quelli rakiani non erano certo in tale confidenza con la popolazione vinta da lasciarsi sfuggire qualche indiscrezione. Deja aveva ricevuto caute felicitazioni dalle sue conoscenze e dalle poche amicizie strette che aveva. I suoi amici chiedevano come stava e si auguravano che il padre fosse ancora in salute e, i più coraggiosi, chiedevano se potevano passare a trovarla per offrirle appoggio e conforto. Deja era stata grata di quelle dimostrazioni di sostegno, anche se aveva dovuto intimare a tutti di restare a casa propria e di presentarsi a corte solo se richiesto espressamente, dato il clima di sospesa trepidazione che serpeggiava in città. La condanna di Issa era stata evitata per il momento, ma i conquistatori potevano essere capricciosi e sarebbe bastato poco a far precipitare la situazione, soprattutto se lei avesse avuto un ripensamento e si fosse tirata indietro.
Sapeva che la notizia dell’accordo di pace avrebbe fatto tirare a tutti un sospiro di sollievo, anche se le condizioni imposte avrebbero sicuramente fatto inorridire molti. Si stava preparando alla pietà e al ribrezzo della corte alla notizia del suo prossimo matrimonio, e anche al sollievo perché una simile sorte era toccata a lei e loro erano salvi. Deja si faceva forza ripetendosi che una simile reazione era pienamente logica data la natura umana, che se la simpatia per la sua situazione avrebbe naturalmente commosso i suoi sudditi, era anche normale e comprensibile che il sollievo l’avrebbe accompagnata. Ciononostante si sentiva come in una favola dal finale fosco, come un sacrificio fatto per placare la bestia e al pensiero dovette sedersi mentre portava entrambe le mani alla bocca, sentendo lo stomaco ribellarsi. Si sforzò nuovamente di scacciare quell’idea: quel giorno diventava regina, non moglie, e forse suo padre sarebbe riuscito a migliorare la sua situazione, in qualche modo.
La sera calò, lasciando il crepuscolo a tingere di azzurro pallido e rosa il cielo. Quando suo padre venne a prenderla per scortarla nella sala del trono, dove con una cerimonia solenne lui stesso le avrebbe posato in capo la corona, Deja era all’apparenza serena e distesa, la mano destra appoggiata con leggerezza sul braccio del genitore e l’altra portata al ventre e mollemente chiusa, con il gomito in fuori, in una posa studiata per sembrare rilassata e composta. Il padre le carezzò fugacemente la mano e poi assunse anche lui quella che amava definire la sua “espressione da stato”, severa ma aperta, serenamente neutra e l’accompagnò nel tragitto fino alla sala del trono, scortati da un gruppo di soldati rakiani che, pensò con stizza Deja, erano stati probabilmente appostati davanti alla sua porta, ufficialmente per proteggerla, in realtà per assicurarsi che non si desse alla fuga.
Padre e figlia entrarono nell’ampia sala accolti da un tripudio di trombe, suonate dalla banda che si trovava sul parapetto al di sopra della porta d’ingresso ufficiale e che accompagnava tutte le funzioni pubbliche della corte.
I cortigiani si erano disposti in due ali, lasciando libero lo spazio tra la porta e il trono dorato assiso su un piedistallo, in fondo alla sala. Molte volte Deja era stata in piedi alla destra del padre, mentre lui prendeva posto su quella che definiva la più scomoda sedia del mondo; oggi sarebbe stata lei a sedervisi sopra. Camminando eretta al fianco del genitore non guardò i nobili che chinavano rispettosamente le schiene al loro passaggio e non degnò di un’occhiata neanche le macchie rosse che poteva vedere con la coda degli occhi e che sapeva essere gli onnipresenti soldati rakiani. Strinse convulsamente il braccio del padre, tradendo la sua sorpresa e il suo disappunto nel vedere disposti attorno al piedistallo un gruppo di uomini e soldati dai tratti stranieri che componevano la corte di Zaron. Era presente anche il khan, con addosso un’armatura dall’aspetto cerimoniale, la mano poggiata su una spada che sicuramente non era solo cerimoniale, l’unico a non inchinarsi, dato che al suo avvicinarsi anche i suoi uomini avevano, con evidente riluttanza, chinato il capo in un’inaspettata dimostrazione di rispetto.
Almeno quell’arrogante assassino non aveva la faccia tosta di sorridere. Il suo viso era corrucciato e serio, come lo era stato anche in biblioteca, quando si erano conosciuti quella mattina. Si fissarono per un attimo negli occhi, poi lo sguardo di lui scese lungo la sua figura e Deja si aggrappò con forza al braccio del padre, non essendo in grado di interpretare quello sguardo. Sembrava di disapprovazione, come se quello che vedeva non gli piacesse, ma d’altra parte l’aveva guardata nello stesso modo poco prima di fare la sua proposta di matrimonio.
Arrivati davanti ai tre gradini che l’avrebbero condotta al suo trono il padre si fermò, le prese entrambe le mani e poi padre e figlia si voltarono, fronteggiandosi e mostrando il profilo alla corte. A voce alta e con fermezza Aborn annunciò la sua abdicazione. Poi, com’era tradizione nelle cerimonie d’incoronazione, prese da un cuscino dorato portogli da un bambino un sottile cerchio di platino, identico ma di dimensioni minori rispetto a quello che aveva indossato lui e che era evidentemente stato ideato per un capo femminile, e pronunciò la formula di rito. Solitamente essa veniva detta dal Gran Sacerdote della dea Lona ma in quell’occasione, particolare perché il precedente sovrano era ancora in vita, lui stesso la declamò. Con un’ultima richiesta di benedizione per la dea che gli issiani veneravano con devozione al disopra di ogni altra divinità, Aborn posò quella corona all’apparenza sottile e leggera sul capo di sua figlia e, facendo un passo indietro, chinò la testa e si inginocchiò in un atto di sottomissione e rispetto. Tutta la corte issiana lo seguì, persino i nobili rakiani chinarono il capo, abbassando lo sguardo. Poi i suoi nobili esplosero nel doveroso grido di giubilo, augurando lunga vita e salute alla loro nuova regina. Aborn fece per riprendere la mano della figlia, per accompagnarla alla terrazza che dalla sala del trono si affacciava alla piazza sottostante gremita di gente in attesa, ma il khan rakiano fu più veloce di lui, prese la mano di Deja nella propria e quasi la trascinò verso la porta a vetri che dava all’esterno. La regina per poco non inciampò nello strascico dell’abito per la sorpresa, lanciò uno sguardo costernato e spaurito al padre prima di riacquistare l’equilibrio e assumere una posa dignitosa e serena, come se fosse lei a permettere a quell’uomo di scortarla e lui non se ne fosse semplicemente arrogato il diritto.
Zaron la portò fuori, sulla balconata, e la folla vociante si zittì vedendo il conquistatore al fianco alla loro nuova sovrana. Poi lei sorrise e alzò la mano che lui le aveva lasciato libera in un gesto di trionfo, il mento sollevato e orgoglioso e il popolo esplose in un possente boato di ovazione, acclamando a gran voce la loro regina, così altera e maestosa, che non si lasciava turbare neanche da quella dimostrazione d’arroganza da parte dell’uomo più potente del continente.
Zaron lasciò che le urla crescessero di volume, fino a far tremare l’aria stessa e poi anche lui alzò le braccia, mostrando che la sua mano era stretta intorno a quella della fanciulla al suo fianco. Questo ammutolì velocemente la folla, permettendogli di parlare.
- Popolo di Issa,
La conformazione della piazza permetteva alla sua voce di rifrangersi, aumentandone la potenza e arrivando chiara anche a coloro che si trovavano ai margini.
- Io sono Zaron, khan di Rakon e imperatore di tutto il continente di Zabad. Il vostro re, Aborn, questa mattina mi ha presentato la resa incondizionata del suo regno e io l’ho accettata. Ha abdicato, consegnando a me la sua corona e io oggi stesso la restituisco alla sua stirpe, facendo della sua legittima erede, Deja, la regina di Issa. Perché ho fatto una cosa simile? Perché intendo congiungere il regno di Issa a quello di Rakon, unendo la mia casata alla sua. Questa mattina, dopo aver accolto la resa, come condizione di una pacifica unione al mio impero ho chiesto la mano della regina Deja in matrimonio e …
Deja fece un passo avanti, sporgendosi leggermente dal balcone, posizionandosi più avanti rispetto a Zaron. Non avrebbe permesso a quell’invasore di farla apparire debole e sottomessa, soprattutto non gli avrebbe permesso di parlare al posto suo.
- E io ho accettato, prendendo in considerazione il bene del mio regno e i vantaggi che tutta Issa deriverà da questo matrimonio. Quindi oggi è un giorno doppiamente fausto per tutti noi. Issa non solo ha una nuova regina ma guadagna anche un nuovo re. Acclamate quindi anche Zaron, khan di Rakon che da conquistatore straniero ora si presenta di fronte a voi come legittimo sovrano.
Detto questo si voltò verso di lui, non sapendo cosa aspettarsi, rabbia forse, ma il viso di Zaron sembrava disteso e sereno e Deja pensò che forse era un politico più abile di quanto l’apparenza lasciasse supporre. Chinò leggermente il capo, in una dimostrazione inaudita e senza precedenti, perché in quanto sovrana assoluta non avrebbe dovuto chinarsi di fronte a nessuno. Ma lui non sarebbe stato un semplice principe consorte, era un re, un imperatore e in quel delicato momento di transizione aveva ancora il potere di distruggerli tutti; gli sarebbe bastato un cenno e i suoi soldati, che per ora si limitavano a costeggiare la folla, garantendo la sicurezza, avrebbero potuto lanciarsi su quelle stesse persone con le lame sguainate, come lupi famelici su un gregge inerme.
Dopo qualche attimo di incertezza, accompagnato da un teso silenzio e mormorii di sorpresa, il popolo di Issa sembrò rendersi conto che ci si aspettava una qualche dimostrazione di gioia a quell’annuncio, che quella era la felice notizia di cui si era andato parlando e mentre le grida salivano, inizialmente incerte per poi prendere via via vigore, la popolazione sembrò rendersi conto di quello che le parole della loro giovane regina implicavano, del sacrificio personale che ella faceva per garantire la loro sicurezza e la loro prosperità e fu il suo nome a essere gridato con forza, tra le lacrime, e non quello di Zaron.
Il khan non sembrò prendersela a male, anzi si concesse un sorriso di soddisfazione prima di ricondurre la sua regina all’interno, lasciandole la mano solo quando fu fuori dalla vista del popolo festante.
Vedendoli rientrare, un pallido Aborn fece un cenno secco nella direzione dell’orchestra che cominciò a suonare e quello fu il segno che la sua corte attendeva per mettersi a parlare tra di loro, discutendo di quello che era successo, mentre i camerieri cominciavano a passare tra i nobili distribuendo calici pieni di freddo vino frizzante.
Aborn si fece innanzi all’imperatore, inchinandosi profondamente e lanciando una veloce occhiata allarmata alla figlia che, ignorando sia lui che Zaron, aveva continuato a camminare lentamente ma con decisione fino al trono e vi si era seduta senza nessuna esitazione, componendo le membra e il viso in un’espressione neutra e rilassata che sapeva mascherare bene il tumulto e l’agitazione che l’affliggevano. Rifiutò con un pigro gesto della mano il calice che le venne offerto, e che non le era mai stato offerto prima d’allora, e guardò fisso davanti a sé, a segnalare che non desiderava che le fosse rivolta la parola.



NOTE DELL’AUTRICE: Adesso, quelli di voi che sono arrivati fino a questo punto e SPERO stiano leggendo le note, saranno armati di lanciafiamme, pronti ad arrostirmi. Trattenete a freno i forconi e le torce: non succederà NULLA tra Zaron e Deja finché lei sarà minorenne. Nulla, nada, zero. Al massimo qualche baciamano. Zaron NON è un pervertito, e spero risulti chiaro dai prossimi capitoli. Ma perché così piccola, vi chiederete (o forse no). Be’ volevo scrivere di una difficile storia d’amore, nata da un matrimonio politico ma mi sono detta: se finiscono a letto nei primi capitoli, non è più interessante, devono conoscersi gradualmente e così mi è balenata l’idea di scrivere la sposa giovanissima (a dodici anni può ritenerla una bambina graziosa senza provare nessuna attrazione) in modo da costringere i protagonisti a prendersela comoda e conoscersi bene prima di innamorarsi, per questo non ho messo la spunta a “romantico” per il primo libro della mia storia: perché finché lei è così giovane non ci sarà nulla di romantico.

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Capitolo 3
*** I timori di un padre ***


III. I TIMORI DI UN PADRE

 
 
Zaron era rientrato leggermente ammirato per come lei gli avesse rubato la parola, interrompendo bruscamente il suo discorso pubblico. Da quando era divenuto khan nessuno aveva mai osato fare una cosa del genere. Chiunque altro avrebbe dovuto affrontare serie conseguenze a seguito di un simile affronto, ma trattandosi della sua futura regina avrebbe lasciato passare. Se c’era qualcosa che Zaron ammirava in una donna era la forza di volontà, la tenacia con cui era in grado di difendere le sue opinioni. Erano queste caratteristiche che erano state ricercate e incoraggiate nelle sue concubine, scelte con cura non tanto per la loro bellezza quanto per i loro spiriti. Le sue concubine… aveva pensato a Perla vedendo entrare nella sala Deja in quell’abito tradizionale issiano che dava l’impressione che ci fossero curve dove in realtà non ce n’erano e che per un attimo l’aveva fatta sembrare più vecchia di quello che era. Ma era tutta un’illusione, il suo viso, privo di belletti e disadorno, rendeva perfettamente la sua giovane età e Zaron provò per l’ennesima volta quella fitta di delusione e amarezza per l’età della sua sposa. Dei, quello che lo aspettava quando quella sera si sarebbe ritirato, Perla di sicuro gli avrebbe dato dell’idiota, di nuovo.
Perla, una specie di nome d’arte ma, in tanti anni di amicizia prima e convivenza poi, lei non gli aveva mai voluto dire il suo vero nome, era la sua più vecchia concubina, in ogni senso. Si erano conosciuti quando Zaron aveva solo diciassette anni, era solo un capitano e non sapeva quale futuro lo aspettava. Era sempre stato orgoglioso e dai gusti difficili e, mentre i suoi compagni all’accademia militare frequentavano i bordelli con regolarità, lui aveva risparmiato con fatica l’ingente somma necessaria per permettersi la più costosa e ricercata cortigiana della capitale. Aveva deciso che per la sua prima volta si sarebbe concesso il meglio che c’era sul mercato e così aveva risparmiato per quasi due anni al solo scopo di comprarsi quattro ore del suo tempo.
Era stato nervoso ma era rimasto piacevolmente sorpreso dalla gentilezza e dalla comprensività di quella ragazza, solo diciannovenne avrebbe scoperto poi, che si era presentata semplicemente come Perla. Era bellissima, ovviamente, dai tratti tipicamente rakiani: carnagione ramata, perfetta, lineamenti simmetrici, occhi e capelli neri. Ciò che però l’aveva conquistato era stato il suo sorriso, accogliente e aperto. Quelle quattro ore gli avevano fatto scoprire un mondo nuovo e meraviglioso: non solo il sesso era stato straordinario, ma lei gli aveva pazientemente mostrato come dare piacere oltre che riceverlo e avevano chiacchierato e riso e allo scadere del suo tempo Zaron era già perdutamente innamorato. Sapeva di non potersi permettere nuovamente una spesa simile quindi aveva implorato la ragazza di permettergli almeno di scriverle. Lei era sembrata imbarazzata ma non aveva saputo dire di no a quel ragazzo di pochi mezzi che la guardava come fosse stata una dea. E così si erano scritti, all’inizio con lentezza e impaccio, poi sempre più spesso e infine, con gli avanzamenti di carriera di Zaron e i conseguenti aumenti di salario, avevano anche cominciato a vedersi più spesso e l’infatuazione che lui aveva provato per lei si era tramutata in una solida amicizia. Il sesso era ancora stupendo, ma quello che l’attirava di più era la possibilità di conversare direttamente con lei, che lo accoglieva sempre con un sorriso sincero. Quando poi era diventato inaspettatamente khan aveva licenziato l’harem del padre, pieno di ragazzine compiacenti e sottomesse, ed aveva fatto chiamare Perla per un colloquio privato. Non le aveva ordinato ma chiesto di diventare la sua prima concubina; ormai si conoscevano da più di dieci anni e lei, pur essendo ancora bellissima, era stata soppiantata da tempo da altre ragazze più giovani e fresche. Perla aveva sorriso sorniona, quel sorriso che tanti anni addietro gli aveva fatto perdere la testa e aveva voluto subito mettere in chiaro che solo perché adesso era khan non voleva dire che dovesse credere di poter possedere chiunque. Se accettava lo avrebbe fatto per una sua libera scelta, non perché costretta dalle circostanze, dato che negli anni aveva accumulato una discreta fortuna, e, sempre se avesse accettato, voleva fosse chiaro fin da subito che non avrebbe permesso che la si comandasse e che lei poteva andarsene come e quando voleva.
Lui aveva acconsentito alle sue richieste e Perla si era trasferita a Palazzo quel giorno stesso.
Le altre, Mira, Oscia, Tallia e Cara, erano venute in seguito. Gli avevano offerto donne di ogni tipo, etnia ed età e lui aveva lasciato che fosse proprio Perla a scremare le indesiderabili, si fidava del suo giudizio e comunque non le avrebbe mai messo al fianco donne che lei non avrebbe potuto sopportare.
Le sue concubine erano tutte rakiane e la più giovane, Cara, aveva venticinque anni. Erano belle, certo, e abili nello svolgimento delle loro funzioni, ma quello che interessava di più a Zaron era il loro carattere, il fatto che potesse intrattenersi a discutere con loro. Gli piaceva come Mira suonava il sitar* e come urlava di gioia quando le regalava degli spartiti nuovi. Oscia gli parlava di storia e i suoi appartamenti erano gremiti di libri e spesso lui si era ritrovato completamente perso, incapace di seguire il filo dei suoi ragionamenti dato che citava persone morte secoli prima e a lui totalmente sconosciute. Tallia era la sua anima oscura, quella con cui poteva essere aggressivo perché dava quanto riceveva, inoltre era la sua cassa di risonanza: quando non era in grado di schiarirsi la mente ne discuteva con lei e attraverso le loro epiche litigate riusciva focalizzare le idee e a vedere il problema da una diversa angolazione. Infine Cara, giovane, dolce Cara, era una spietata giocatrice di shah-mat** e apprezzava oltremodo i suoi manuali di strategia militare.
E adesso a loro si sarebbe aggiunta quella bambina issiana, così diversa nell’aspetto da quello che cercava solitamente in una donna. Ma almeno il carattere prometteva bene e sembrava essere intelligente. Per l’aspetto avrebbe dovuto accontentarsi e pazientare che crescesse: era una ragazzina graziosa, una volta adulta sarebbe stata di sicuro bella. Intanto doveva solo sperare che sopravvivesse al nido di serpenti velenosi che poteva essere la corte rakiana, che difficilmente avrebbe accettato quella bambina straniera come regina.
Non sapeva come Deja avrebbe reagito a Perla e alle sue altre ragazze, ma di certo non avrebbe tollerato che lei le insultasse o degradasse. Le sue concubine erano lì per restare, oltretutto lui non avrebbe potuto toccare sua moglie per anni, lei non poteva pretendere che mantenesse il celibato. D’altra parte era molto probabile che accogliesse con sollievo la notizia, grata che ci fossero altre a prendersi cura di lui.
La morale issiana era alquanto ambigua su quel punto. La prostituzione e i bordelli erano illegali, eppure nelle zone più degradate c’erano prostitute in ogni angolo. I matrimoni con i minori di quindici anni erano vietati, si era subito informato al riguardo una volta scoperta l’età di Deja, eppure quelle stesse prostitute, che non avrebbero dovuto esistere, erano loro stesse spesso giovanissime. Ci si aspettava che, una volta contratto un matrimonio, i coniugi rimanessero fedeli gli uni agli altri, eppure tra le possibili cause di scioglimento dei vincoli matrimoniali c’era il tradimento. Il divorzio, inserito recentemente nello statuto issiano, era qualcosa di inimmaginabile a Rakon. Un matrimonio era per sempre, fino alla morte del coniuge, eppure a Rakon i matrimoni erano ancora spesso combinati tra uomini adulti e ragazze giovani, anche se Zaron aveva cercato di dissuadere i suoi nobili da tale pratica, e ora proprio lui stava dando il cattivo esempio. A Issa invece un matrimonio, contratto ufficialmente per mutua scelta e in piena libertà, poteva essere sciolto con la stessa facilità con cui si scioglieva una società commerciale. Per Zaron era una contraddizione incomprensibile.
Ritornò al presente contemplando Aborn, il suo futuro suocero, che cercava di ottenere un’udienza privata con lui.
- Come desideri, Aborn. Ho del tempo da dedicarti.
L’uomo più anziano lo ringraziò e gli chiese di seguirlo, portandolo in un piccolo studio la cui porta era nascosta dietro un drappo. Le sue guardie ispezionarono la sala e poi li lasciarono soli. Zaron si sedette dietro la scrivania, al posto che era stato evidentemente di Aborn, lasciandogli così la scelta tra lo stare in piedi e sedersi dirimpetto a lui. Invece Aborn aprì un piccolo mobiletto vicino alla scrivania che conteneva dei bicchieri di cristallo e delle bottiglie e si versò un bicchiere di quello che pareva un potente liquore, dalla densità del liquido e da come gli occhi dell’uomo si fecero lucidi quando ne rovesciò l’intero contenuto in gola. Poi si versò un altro bicchiere e ne preparò uno anche per Zaron. Li portò alla scrivania e gli mise il suo davanti prima di lasciarsi cadere sulla sedia. Zaron sollevò stupito il sopracciglio: Aborn sembrava angosciato e nervoso e l’argomento di cui voleva parlargli doveva risultargli particolarmente difficile dato che aveva cercato coraggio nel liquore.
- Maestà, dobbiamo parlare…
Zaron si rilassò sulla sedia imbottita, prendendo in mano il bicchiere, ma senza avere nessuna intenzione di bere: non era uno sprovveduto.
- Ed è proprio quello che stiamo facendo Aborn. O mi hai portato qui per dividere con me la tua riserva di alcolici?
L’altro uomo abbassò lo sguardo, fissando dritto il proprio bicchiere.
- Riguarda mia figlia e il vostro matrimonio.
La voce di Zaron da giocosa si fece cupa.
- Spero non abbia cambiato idea, non dopo il discorso che ha fatto davanti a tutta la popolazione.
- No.
Rispose amaramente Aborn, un lato della bocca piegato in giù, come se stesse assaporando qualcosa dal gusto particolarmente vile.
- Mia figlia è decisa a mantenere la sua parte dell’accordo. Sono io che ho bisogno di… sono io che…
Il vecchio issiano sembrava far fatica a trovare le parole, poi bevve un sorso dal bicchiere e continuò.
- Cercate di capire, sire. Io sono suo padre, qualsiasi padre si preoccuperebbe. Voi siete un uomo fatto e mia figlia è così giovane. Ho bisogno, devo sapere che la tratterete bene, che non le farete del male, che le mostrerete rispetto nel letto coniugale. È così giovane, così piccola.
Il viso di Aborn si contrasse in un’espressione angosciata.
- Ho bisogno di sapere che vi mostrerete paziente. L’avete vista, non potete aspettare qualche anno per il matrimonio? Dov’è la fretta? Di sicuro non potrete trarre piacere da una ragazza così giovane! Forse potreste considerare un fidanzamento, uno che duri tre anni, lasciatele almeno raggiungere l’età minima. Passerà con voi il resto della sua vita, cosa sono tre anni d’attesa, per permetterle di crescere?
Zaron aveva composto il viso in una maschera impassibile quando si era reso conto dove Aborn voleva arrivare, quello che stava implicando. Davvero l’altro uomo pensava che lui avrebbe voluto portarsi a letto la sua sposa? Per chi lo aveva preso? Cercò di contenere la sua rabbia e di rispondere intanto alla sua richiesta meno oltraggiosa.
- Non ci sarà nessun lungo fidanzamento che possa incitare ribellioni o cambiamenti d’idea. Una volta che i documenti necessari saranno pronti e le formalità espletate, si terrà la cerimonia nuziale. Ne faremo una qui, secondo il rito issiano e poi io e la mia regina ci sposteremo a Halanda, dove ci uniremo secondo il rito rakiano; non voglio si avanzino sospetti di illegalità o illeceità. Mia moglie vivrà con me a Halanda per la maggior parte dell’anno, ma torneremo periodicamente qui a Issa, che è il seggio del suo trono.
A questo punto Zaron permise a un po’ del suo sdegno di trasparire dalla sua espressione.
- Riguardo al resto... per che razza di depravato mi prendi? Trovo offensive le tue insinuazioni. Io non brutalizzo le donne e di sicuro non mi accosto al letto delle bambine. Non ho intenzione di consumare il matrimonio finché Deja è ancora così giovane.
Aborn, che era sbiancato nell’apprendere che avrebbe portato la sua bambina a Rakon, udendo che Zaron non aveva intenzione di far del male alla figlia aveva chiuso gli occhi, afflosciandosi per il sollievo.
- Detto questo,
Continuò implacabile Zaron perché l’argomento, per quanto spiacevole fosse, andava affrontato.
- È molto probabile che si renda necessario mantenere una certa apparenza. Dovrà sembrare che io abbia consumato il matrimonio, altrimenti Rakon non accetterà mai Deja come regina. Dovremo avere una prima notte di nozze, durante la quale, in confidenza, ti posso dare la mia parola e giurare difronte a tutti gli dei, che non toccherò tua figlia. Poi lei potrà avere delle stanze tutte sue, anche se dovrà sembrare che passiamo delle notti insieme. Ma, ripeto, non succederà nulla. Non ho gusti perversi, anche se probabilmente verrò accusato di questo dalla tua gente. Non mi appresto a sposare tua figlia perché la trovo desiderabile, il mio è un mero calcolo politico.
Aborn cercò di ricomporsi.
- Perché Deja, perché noi? Ha conquistato tutti gli altri regni con brutalità, schiavizzando le popolazioni, sterminando le case regnanti. Avrebbe potuto fare lo stesso con Issa. E invece si è fermato e ha proposto un matrimonio che va a vantaggio nostro. Issa viene risparmiata, mantiene la sua dignità e la sua identità, anche se non la sua indipendenza. Se Deja vi darà un erede nel corso di poche generazioni i nostri due popoli saranno una cosa sola. Perché ha scelto noi?
Questo era stato il cruccio che aveva tormentato Aborn tutto il giorno, come una corrente sotterranea, sepolto dalla preoccupazione per la sorte della figlia. E ora che il suo nemico gli aveva offerto assicurazioni, anche se solo verbali, delle sue buone intenzioni, quella domanda era sgorgata spontanea.
Il volto dell’imperatore si era però fatto chiuso e inflessibile. Si alzò dalla sedia, abbandonando sulla scrivania il bicchiere intatto.
- Credo che questa conversazione si sia conclusa. Confido che informerai tu tua figlia che non ha nulla da temere da me, che non pretenderò che lei assolva ai suoi doveri coniugali già dalla prima notte. Sono sicuro che ne sarà estremamente sollevata. Desidero parlarle, riguardo alla sua futura sistemazione e a quello che mi aspetto da lei, il prima possibile. Vedi di organizzare un incontro. So che è giovane ma mi auguro che non ci saranno recriminazioni né inutili isterismi. Deja mi è parsa una ragazzina intelligente e decisa. Credo che non avremo problemi a capirci. Non ritengo ci sia altro di cui discutere.
E se ne andò lasciando Aborn da solo nel suo studio con due bicchieri, uno vuoto e uno pieno, e molto su cui riflettere. Aveva sudato freddo sin da quando la porta dello studio si era richiusa alle loro spalle e loro erano rimasti soli. Aveva trovato oltremodo difficile discutere con il sovrano rakiano dei propri timori riguardanti le sue intenzioni nei confronti della figlia. Difficile trovare le parole per implorare quell’uomo di non abusare della sua giovane sposa, una volta che il matrimonio fosse avvenuto e lui avesse avuto tutto il diritto di accedere al letto di Deja. Se lo era immaginato, quel soldato imponente e brutale, sopra il corpo minuto e impotente della sua bambina, si era immaginato le lacrime, le urla e la consapevolezza che era impossibile aiutarla lo aveva dilaniato. Era stato male, incapace di mangiare per tutto il giorno. La sua vita era stata una delle richieste della figlia per acconsentire a quell’unione e Aborn si era chiesto se davvero la sua vita valesse così tanto. Poi l’uomo di stato aveva preso il sopravvento: anche se lui fosse morto, Deja avrebbe sposato comunque Zaron per salvare la sua gente e la sua città. Ma il padre in lui aveva continuato a disperarsi, immaginando scenari via via più cupi. Quando Zaron aveva liquidato i suoi timori con ribrezzo, indignato per le sue supposizioni, Aborn non era riuscito a nascondere il suo sollievo. La pietra che gli aveva pesato sullo stomaco per ore era venuta via e lui aveva finalmente ripreso a respirare. E tuttavia… tuttavia Zaron non aveva detto quanto avrebbe aspettato, quale era secondo lui l’età giusta, quando avrebbe reputato la sua sposa pronta. Ma Aborn temeva che non sarebbe mai stata pronta. Come puoi imparare ad amare il tuo carceriere? Colui che ti ha privata della libertà di scelta, di rifiuto? Aborn aveva ripensato al proprio matrimonio, a quanto profondamente avesse amato la madre di Deja, Marida, a come si erano conosciuti da giovani.
Quando gli erano state presentate le fanciulle che i suoi genitori ritenevano adatte a lui, Marida gli era subito balzata agli occhi e dopo poche settimane di frequentazione, aveva deciso che sarebbe stata lei o nessun’altra. Erano stati così giovani allora, lui aveva avuto vent’anni e lei sedici e dopo cinque anni di fidanzamento si erano sposati e lui era stato l’uomo più felice sulla terra. L’aveva sempre amata e il suo cuore e i suoi occhi non avevano mai deviato da lei. L’unico dolore che avevano conosciuto era dovuto all’apparente incapacità di Marida di dargli dei figli. Per anni i suoi consiglieri gli avevano fatto pressioni, cercando di convincerlo a divorziare da lei e a risposarsi con una ragazza in grado di dare al regno l’erede di cui aveva bisogno, ma Aborn era stato inamovibile. Marida era tutta la sua vita, l’unica donna che avesse mai amato e la prospettiva di allontanarla e prendere un’altra moglie era non solo intollerabile ma addirittura ridicola. E poi era avvenuto il miracolo e a quarantasette anni Marida era rimasta incinta. La loro felicità era stata completa, tanto che avevano ignorato gli avvertimenti dei guaritori che ammonivano la regina, sconsigliandole di portare avanti quella gravidanza, perché troppo in là con gli anni. Deja era venuta al mondo e, poche ore dopo, la sua adorata Marida era spirata. Aborn aveva giurato alla sua piccola bambina che le avrebbe dato il doppio dell’amore, che l’avrebbe amata anche per la madre che non c’era più e poi aveva messo nella culla la lunga collana d’oro con il pendente in topazio blu che sua moglie aveva indossato per tutta la gravidanza, insistendo che così il loro bambino avrebbe amato il mare e il cielo e che, chissà, magari avrebbe ereditato gli occhi azzurri del padre. Per sua figlia aveva immaginato, sperato, in un’unione d’amore, come era stato tra lui e la madre. E invece le era toccato un freddo matrimonio politico, con un uomo molto più vecchio di lei, uno straniero che l’avrebbe portata via con sé, lontano dalla sua città, dai suoi amici e dalla sua famiglia. Quando c’è amore, tutto si può sopportare, ma non vi era amore in quell’unione. Deja non avrebbe mai conosciuto quella completezza, quella perfetta felicità, quell’estasi che deriva dallo stare con la persona amata. E questo riempiva Aborn d’angoscia e rimpianto. L’unica cosa che lo confortava era che Zaron si sarebbe astenuto, almeno per il momento, dal toccarla. Ma per quanto? A Halanda lui non avrebbe potuto aiutarla, non avrebbe potuto difenderla. Peggio ancora, una volta uniti in matrimonio Zaron avrebbe avuto la precedenza su di lui, per tutto quello che riguardava sua figlia. Zaron sarebbe stato quello presso cui sua figlia avrebbe dovuto cercare rifugio, quando era proprio lui quello da cui lei aveva bisogno di essere protetta.
Tormentato da quei cupi pensieri aveva bevuto il bicchiere che aveva preparato per Zaron e poi si era alzato per portare alla scrivania l’intera bottiglia. Finita quella si era trascinato al mobiletto e ne aveva aperta un’altra, trovando difficile coordinare i movimenti. Quando Deja era entrata nello studio, parecchie ore dopo, lui non aveva neanche consapevolezza di quanto tempo fosse passato.
Lei si era inginocchiata ai suoi piedi, poggiando il capo sulle sue ginocchia, la gonna ingombrante del vestito lilla allargata tutta intorno a lei. Aveva avuto paura per lei, vedendola in quell’abito, vedendo come esso la faceva apparire più grande di quello che era, scoprendo audacemente le spalle e accentuando i fianchi. In qualsiasi altra occasione vedere la sua bambina così cresciuta lo avrebbe commosso e inorgoglito, ma non in quella, non con Zaron in agguato che meditava chissà quali pensieri. Le sfiorò amorevolmente le trecce e la corona, sussurrando il suo nome e Deja alzò lo sguardo per incrociare i suoi occhi.
- Dalla presenza delle bottiglie vuote devo dedurre che l’incontro con Zaron non sia andato bene. Non avere timore di riferirmi alcunché, padre. Dimmi, senza indugio, quale sorte mi aspetta.
Gli occhi di Deja erano brillanti e risoluti anche se la sua voce tremava e Aborn fu commosso per come cercava di mascherare la sua paura.
- Ha detto che un fidanzamento è fuori questione, che il matrimonio avverrà il prima possibile e che ha intenzione di portarti via, a Halanda. Ma… ha anche detto che non ha intenzione di toccarti. Mi ha giurato che non consumerà il matrimonio finché non sarai cresciuta.
Deja scoppiò a piangere, nascondendo il viso contro le ginocchia del genitore. Non sapeva neanche lei per cosa piangeva, se per il sollievo di aver scampato il letto matrimoniale o per la disperazione alla prospettiva di dover abbandonare la sua casa.
- Mi porterà via e io non ti rivedrò più!
Il padre le appoggiò una mano ferma e sicura sulla spalla.
- No, lui ha detto che ti riporterà a Issa ogni tanto. D’altra parte tu sei la regina di Issa e devi essere presente nel tuo regno. Ha anche detto che, pur non consumando il matrimonio, dovrà dare l’impressione di averlo fatto, ha detto che dovrete passare delle notti insieme anche se mi ha promesso che ti rispetterà e non ti toccherà. Dovrai essere coraggiosa, bambina mia. E pregare con me che lui mantenga la parola data.
Le accarezzò la schiena, cercando di confortarla, mentre Deja piangeva e piangeva. La tensione lo abbandonò e la testa cominciò a ciondolare. Perse i sensi senza accorgersene e quando la figlia non riuscì a svegliarlo, chiamò delle guardie issiane che lo aiutassero a recarsi nelle sue stanze. Aborn non si destò fino al mattino seguente.

* Sitar: è uno strumento musicale a corda che ricorda un po' una chitarra. Non sono un'esperta..
** Shah-mat: è la parola da cui deriva "scacco matto". Qui mi sto ovviamente riferendo agli scacchi.
 
NOTA DELL’AUTRICE: Eccoci finalmente a metà strada! Spero che qualsiasi dubbio sul carattere di Zaron sia stato fugato! Alla prossima, e fatemi sapere, vi prego, se questa storia vi sta piacendo.

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Capitolo 4
*** Quando fuori è silenzio e la luna è alta nel cielo ***


IV. QUANDO FUORI È SILENZIO E SOLO LA LUNA È ALTA NEL CIELO

 
 
Era ormai passata di molto la mezzanotte quando Zaron si ritirò negli appartamenti che gli erano stati assegnati a palazzo. Le stanze erano lussuose, anche se sicuramente non le più lussuose, e in qualsiasi altra occasione gli avrebbero strappato una smorfia di disappunto in quanto era abituato a dormire nel letto del sovrano sconfitto, ma ora non badò alle stanze: la sua attenzione si concentrò completamente sulla persona che già le occupava.
Perla lo attendeva in camera da letto, reclinata sulle lenzuola. Teneva la schiena appoggiata alla testata, circondata da cuscini, e leggeva alla luce di numerosi lumi. Zaron notò che era ancora vestita di tutto punto, l’abito blu oltremare di seta iridescente era completo di blouse coordinato. I lunghi capelli neri erano sciolti e adornati di elaborati fermagli dorati. Era evidente che non si trovava nel suo letto perché aveva intenzione di intrattenersi con lui quella notte.
Lui e Perla litigavano raramente e alcune volte gli era toccato di ingoiare l’orgoglio e chiederle scusa. Zaron sapeva già in partenza che questa sarebbe stata una di quelle volte.
Lei non alzò gli occhi dal libro sentendolo avvicinarsi, lui si sfilò la cinta che reggeva l’elsa contenente la spada e l’appoggiò per terra, a fianco del letto, poi si sedette sulla sponda. Perla ancora non lo guardava ma poteva vedere che i suoi occhi erano fissi sulla pagina del libro e non si muovevano nella lettura.
- Di’ qualcosa.
- Qualcosa.
Rispose lei laconicamente e voltò pagina.
Lui le strappò il libro dalle mani e se lo buttò alle spalle senza badare dove sarebbe atterrato.
- Non essere infantile.
Lei lo guardò finalmente, e lo sguardo che gli rivolse era inizialmente irritato e spazientito per poi divenire via via più iroso.
- Infantile? Io? Non sono io che ho nascosto a tutti la mia intenzione di prendere moglie, come se fosse un piccolo, sporco segreto. Non sono io la bambina che ti appresti a sposare.
Poi, dopo una brave esitazione volta a sottolineare la parola, aggiunse.
- Idiota.
Lui fece una smorfia colpevole.
- Non sapevo come dirvelo…
Lei lo interruppe.
- Magari dicendo “Perla, ragazze, ho deciso finalmente di sposarmi e prendere una regina”. Non è difficile!
Quando lui non replicò aggiunse in tono esasperato.
- Cosa c’è, non avrai mica pensato che avremmo reagito male? È un pezzo che rimandi il matrimonio, era ora che ti sposassi, il regno intero attende un erede, se non te ne fossi accorto. Erano tutti preoccupati, anche noi. Ci chiedevamo quando finalmente ti saresti deciso! Anche se sinceramente non mi sarei aspettata che la tua scelta sarebbe ricaduta su quella ragazzina issiana, non è da te, non dopo tutto il putiferio che hai fatto quando il vecchio Varkis a ottant’anni suonati ha sposato quella quindicenne. Perché, in nome di tutti gli dei, non ne hai parlato con noi, prima? Almeno con me, avresti potuto confidarti! Ti fidi così poco?
L’ultima domanda era stata rivolta con un filo di voce e Zaron notò allarmato che a Perla era sfuggita una lacrima. Le prese il volto tra le mani, con tenerezza, e le asciugò la guancia.
- Certo che mi fido di te, Perla. Lo sai. Tu sei la persona di cui io mi fido di più in tutto il mondo. Ti affiderei la mia vita. Sei la mia più cara e fedele amica. Non volevo ferirti. Ti prego perdonami.
La strinse al petto e la udì ripetere “idiota” parecchie volte prima che si calmasse.
- Cara è convinta che tu non ci abbia detto nulla perché vuoi licenziarci. Le ho detto di non essere sciocca. Dimmi che la sciocca non sono io…
Lei si era ricomposta e si era passata rabbiosamente le mani sugli occhi e Zaron provò rimorso per averla fatta inutilmente preoccupare.
- Non sei una sciocca. Non vi licenzierò. Mai. Ti ho detto, come ho detto anche a Cara e alle altre, che non vi manderò mai via, non per sostituirvi con altre, né per altri motivi. Soprattutto non te, Perla. Ti ho invitata al mio fianco per restare e solo tu puoi decidere quando e se andartene. Ricordi?
Le sorrise esitante e si sentì sollevato quando lei gli restituì il sorriso. Lei si rilassò sui cuscini e, considerando evidentemente concluso l’argomento, socchiuse gli occhi, assumendo la posa e l’espressione di una madre che ha pizzicato il figlio piccolo con le mani sporche di marmellata.
- Allora, questa Deja di Issa. Com’è? Dalle chiacchiere che sono riuscita a racimolare so solo che è molto giovane e molto graziosa.
- Deja è giovane, terribilmente giovane, ha solo dodici anni.
Si passò una mano sulla faccia ma non gli sfuggì comunque il sussulto di sorpresa di Perla.
- Colpa mia che non mi sono informato sulla sua età: suo padre ha superato la sessantina, come potevo sospettare che sua figlia, la sua prima e unica figlia, fosse così giovane? È una ragazzina graziosa, suppongo. Sinceramente ho cercato di non soffermarmici. Lo sai come la penso al riguardo: c’è “giovane” e c’è “troppo giovane” e lei rientra fermamente in quest’ultima categoria. Anche per questo Cara non avrebbe dovuto preoccuparsi, passeranno anni prima che possa consumare il matrimonio o pensare a un erede; temo che il regno dovrà attendere ancora per un po’. Per quanto riguarda il suo carattere…
Si mise a ridere ripensando alla temerarietà della ragazza quella sera.
- Sai cos’ha fatto? Stavo annunciando il nostro futuro matrimonio al suo popolo e lei mi ha interrotto e mi ha rubato la parola, annunciando di aver accettato la mia proposta e presentandomi come il futuro re di Issa…
Perla sorrise con lui.
- A quanto pare non ti permetterà di metterle i piedi in testa. Questa è una cosa positiva.
Lui sollevò il sopracciglio e la guardò incuriosito finché lei non elaborò il suo pensiero.
- Già parti avvantaggiato: sei il khan di Rakon, non esiste nessuno con autorità pari alla tua. Hai conquistato con la forza delle armi il suo regno e quindi tutto quello che lei ha, lo ha perché tu le permetti di averlo e, credimi, una cosa del genere non si dimentica mai. Non so quanta possibilità di negarti il suo consenso al matrimonio le hai lasciato, non molta scommetto visto che nessuna fanciulla acconsentirebbe con gioia a sposare un uomo molto più vecchio di lei, che ha preso con la forza tutto quello che le apparteneva. E poi è così giovane, a quell’età si è praticamente ancora inesperti del mondo e della vita! Io a dodici anni già vivevo in un bordello, ma per me è stato diverso: io era la figlia di una prostituta, non certo una nobildonna. Tu hai tutto il potere, potresti farle qualsiasi cosa e lei non avrebbe l’autorità per dirti di no. Il fatto che non ti tema è un bene, Zaron. Non vorrai mica portarti a casa un agnellino terrorizzato che ti dice sempre di sì, con lo sguardo fisso a terra? Come le concubine di tuo padre, ricordi? Poverette…
Zaron si era steso sul letto, con la testa appoggiata sul grembo di Perla. Le prese una mano ingioiellata e se la portò alle labbra.
- Hai ragione mia perla. Infatti il suo atteggiamento mi ha divertito. Promette bene la ragazza. Spero solo che possa andare d’accordo con voi. La devo sposare, Perla.
Lei gli carezzò il viso e poi gli appoggiò la mano sul petto.
- Perché devi?
Lui sospirò.
- I miei piani per Issa, di quelli ti avevo parlato. Se voglio la città, con la sua ricchezza, i suoi scienziati, le sue invenzioni… Per avere la loro lealtà, la forza non solo non basta, ma sarebbe controproducente.
Lei sembrò illuminarsi, comprendendo il suo piano.
- Ma se sposi la loro legittima regina, diventi il loro legittimo re. Se si rifiutano di obbedirti non è una ribellione, ma una rivolta. Non avrebbero nessun altro da mettere sul trono, gli porti via l’unica bandiera sotto cui possono giustificare una sollevazione di massa. Loro ti seguiranno perché con te seguiranno lei!
Poi Perla si incupì.
- L’integrazione che desideri però non avverrà tanto facilmente.
- Cosa intendi?
Questa volta fu lei a sospirare.
- Dovrai promuovere molti matrimoni misti se vuoi che le due corti si unifichino, se vuoi che i due popoli si unifichino, e questo non piacerà a molti. Gli ordinamenti sono diversi, le usanze sono diverse e Issa e Rakon sono lontane geograficamente. Come pensi di realizzare il tuo progetto?
Zaron era sempre stato vago riguardo a quel punto quando ne avevano parlato precedentemente, ma ora decise di spiegarsi meglio.
- Halanda dovrà necessariamente rimanere la capitale ufficiale e amministrativa. Resterà il seggio della mia, delle due corone unite. Per Issa immagino un futuro come capitale intellettuale, un centro le cui idee e novità vengano abbracciate con entusiasmo dal resto del mio impero. Voglio che gli abitanti di Halanda guardino a Issa con invidia e desiderino emularla. Voglio che i nobili di Rakon facciano a gara per inviare qui i loro figli a studiare così che quei figli tornino a Halanda con le idee issiane in testa e le applichino. Voglio che i mercanti di Issa si affrettino ad aprire filiali in tutta Rakon esportando i loro beni e il loro lusso. Con gli anni, con le generazioni, Issa perderà importanza e Halanda diverrà il centro del mondo: potente militarmente, benestante, pulita e ordinata, ricca di cultura e vivace intellettualmente.
Gli occhi di Zaron brillavano mentre si figurava quel futuro, quel suo sogno che aveva coltivato per anni e che finalmente vedeva alla propria portata.
- Ma tutto questo si basa sulla tua capacità di integrare la corte issiana in quella rakiana. Se i tuoi nobili faranno resistenza e snobberanno la tua regina, come farai? Senza contare i pugnali avvelenati che si alzeranno alle sue spalle… Quanti attentati alla tua vita hai subito nei tuoi primi anni di regno? Sette? A quanti pensi riuscirà a sopravvivere lei?
Zaron sbuffò seccato.
- Lo so, e hai ragione. Ho già pensato che dovrò portare con noi un gruppo di nobili e burocrati issiani e dovrò per forza assegnare loro posizioni di prestigio nel mio governo. I mie cortigiani dovranno cercare di ingraziarseli se vedono che li favorisco. Dovrò anche portarmi dietro un contingente militare issiano che faccia da guardia personale a mia moglie. So già che sarà un incubo dal punto di vista della sicurezza. Ma di loro mi posso fidare: faranno da scudo a Deja con i loro stessi corpi, a costo della vita. E poi come dici tu, dovrò promuovere i matrimoni misti… Speriamo che il mio prendere in moglie un’issiana incoraggi la moda. Magari potrei suggerire a qualche casata minore di offrire le loro figlie in spose a nobili issiani. Vedendo che li sostengo a discapito di casate maggiori magari anche loro si affretteranno a combinare alleanze matrimoniali.
- Se vuoi posso aiutarti in questo. Sì… Ti sottoporrò quali famiglie potrebbero essere indotte a fare una simile scelta, quali fanciulle. Ma bada che per convincere i tuoi nobili a sposare fanciulle issiane non posso esserti d’aiuto. Gli uomini sanno essere cocciuti e orgogliosi, in questo senso. Soprattutto se si parla dei loro eredi maschi.
Lui le sorrise.
- Sei già di grande aiuto. Per le ragazze, chiederò a Deja di portarsi dietro un numero consistente di nobildonne per farle compagnia. Di certo qualcuna attirerà le attenzioni dei miei nobili.
- Basta che siano le attenzioni giuste. Non vuoi che quelle ragazze di nobile famiglia vengano aggredite solo perché non conoscono le nostre usanze e sono considerate una preda facile.
Lui fece una smorfia, disgustato.
- La mia corte dovrà accettare l’inevitabile. Per la legge issiana le donne hanno molto più potere politicamente e partecipano alla vita di palazzo, non se ne stanno rintanate a casa. Oggi all’incoronazione i nobili issiani si erano portati dietro mogli e figlie, nonostante la minaccia rappresentata dai miei soldati che presidiavano il palazzo.
- Notevole. Spero proprio che questa regina issiana riesca ad andare d’accordo con noi. Sembra un’amica interessante da avere.
Perla sbadigliò con eleganza e poi scostò il capo di Zaron, prima di alzarsi.
- È tardissimo e devo ancora parlare con Cara, mi aspetta alzata sai. È meglio che riposi anche tu. Dai, che ti aiuto a toglierti l’armatura.
Zaron si mise in piedi e le permise di denudarlo. In genere era un lavoro che avrebbe fatto un paggio ma Zaron, cresciuto senza servitori, non aveva mai voluto essere aiutato a svestirsi e rivestirsi e anche per le sue abluzioni preferiva fare da solo, sempre che una delle sue concubine non si offrisse di assisterlo, come in quel caso. A differenza delle altre volte, però, Perla non si spogliò anche lei, ma lo salutò con un bacio e, dopo aver indossato nuovamente il velo, si ritirò negli appartamenti a fianco ai suoi, che gli disse avrebbe diviso con Cara per la durata del loro soggiorno a Issa e, prima di congedarsi, gli intimò nuovamente di riposare. Zaron ispezionò la stanza, controllando le porte e le finestre e poi finalmente si stese a letto, con la spada a portata di mano e un pugnale sotto il guanciale, come era sua abitudine. Si addormentò più sereno di quanto si fosse svegliato quella mattina, ora che aveva conquistato la mano della regina issiana e aveva l’appoggio di Perla.
 
Per Deja era stato facile mantenere un fronte coraggioso e determinato finché aveva altri da convincere. Era stata coraggiosa, presentandosi al popolo con Zaron al suo fianco, la mano di lui stretta attorno alla sua; era stata altera e fredda davanti alla corte, perché altrimenti sarebbe scoppiata a piangere e doveva a tutti i costi apparire come una regina, non una ragazzina spaventata, non solo davanti alla sua gente, ma soprattutto davanti ai nobili rakiani che le avevano rivolto occhiate di ostilità ogni volta che aveva guardato nella loro direzione. A quanto pare erano entusiasti quanto lei del suo prossimo matrimonio.
Era stata coraggiosa anche davanti a suo padre, il suo povero padre, che lei non aveva mai visto così vecchio e disperato, neanche quando la città era caduta. Allora si era comportato con onore e dignità, come un re, ora invece era stato il padre a prevalere su tutto il resto e la sua angoscia alla prospettiva di perderla, di vederla andare via, era stata palpabile. Questa volta era stata lei che aveva dovuto essere forte per entrambi e, anche se aveva pianto aggrappata a lui, era stato Aborn a crollare ubriaco, proprio lui che le aveva sempre detto che indugiare negli alcolici era un segno di debolezza che un sovrano non può permettersi. Mentre accompagnava le guardie che lo portavano di peso nei suoi appartamenti aveva riflettuto che doveva essere quello il punto di non ritorno che segna la fine della fanciullezza e l’inizio dell’età adulta: quando ti rendi conto che i tuoi genitori non solo non possono più aiutarti, ma sei tu adesso a dover aiutare loro. Suo padre, quell’uomo gentile ma serio e autorevole, che l’amava e l’aveva sempre guidata, che era stato il suo compasso morale, la persona a cui lei aveva sempre guardato come un modello di vita da imitare con ammirazione, le era improvvisamente parso piccolo e fragile e molto umano nel suo dolore. Si era chiesta se la perdita di sua madre lo avesse prostrato allo stesso modo a suo tempo o se l’impegno di regnare e una figlia piccola a cui pensare gli avessero imposto di superare il suo personale dolore e continuare a essere il pilastro di fermezza che era sempre stato.
Aveva permesso alla preoccupazione per il padre di essere preponderante nella sua mente, costringendosi a non pensare a nient’altro, almeno finché anche Larissa non se ne fu andata e lei si era ritrovata sola in camera, a letto, e aveva potuto dare libero sfogo alla sua tristezza e sconforto. Si era nascosta sotto le lenzuola e aveva premuto il viso con forza contro il cuscino, piangendo e singhiozzando senza ritegno, soffocando nella piuma le sue urla di rabbia e pura disperazione. Dopo si era sentita spossata, senza forze. Il naso le colava, gli occhi secchi le pizzicavano e aveva un forte mal di testa. Si era alzata e si era lavata il viso, ma non era bastato e allora aveva riempito il catino di acqua gelata e sommerso tutto il viso e parte dei capelli finché i polmoni non le avevano cominciato a bruciare per la mancanza d’aria. Seduta per terra, con l’acqua fredda che le colava dal viso e dai capelli e le inzuppava la camicia da notte, si era sentita sorprendentemente meglio, dopo aver dato sfogo in modo così fisico e infantile al suo dolore.
Si era promessa che quella sarebbe stata l’ultima crisi isterica, che ormai era cresciuta, era diventata una regina e con rimpianto disse addio alla sua infanzia. Al matrimonio non voleva neanche pensarci, ma si costrinse: troppo a lungo aveva rifuggito di affrontare l’argomento con sé stessa. Avrebbe voluto prendere un foglio e cominciare a scrivere, per facilitare l’ordine dei suoi pensieri, ma non voleva lasciare niente di scritto, trattandosi di un ragionamento così personale e delicato.
Decise di partire da ciò che sapeva: Zaron l’avrebbe sposata molto presto, al meglio avrebbe avuto circa cinque giorni per prepararsi alle nozze; Zaron non aveva intenzione di forzarla, e quel particolare pensiero aveva ancora la capacità di torcerle lo stomaco e rubare il fiato, anche se a quanto pare il pericolo era stato evitato; dopo la cerimonia di nozze Zaron l’avrebbe condotta a Halanda per unirsi nuovamente a lei con il rito rakiano e lì lei sarebbe rimasta, una regina issiana sul trono rakiano.
Presto quindi lei si sarebbe sposata. Non aveva molta esperienza di come fosse la vita da sposati, in quanto suo padre era vedovo e non aveva preso una nuova moglie. Tutto quello che sapeva lo aveva appreso osservando le sue amiche sposate e i genitori dell’unica sua amica coetanea. Mise con forza da parte il pensiero di Anka, che era fuggita con la famiglia due giorni prima, quando la fuga era ancora possibile e che l’aveva salutata in lacrime e con un abbraccio che faceva facilmente intendere che non si aspettava di rivederla mai più.
 A Issa il matrimonio era un affare tra eguali, i coniugi avevano gli stessi diritti e doveri di sostegno, amore reciproco e fedeltà. Le sue amiche adulte si lamentavano spesso dei loro mariti, ma altrettanto spesso li lodavano, sottolineando con quanta cura loro le trattassero e quanto amore. Anche i genitori di Anka erano una coppia felice e, anche se litigavano ferocemente, come le aveva rivelato la sua amica, poi facevano pace e qui Anka imitava sempre di dare di stomaco, per sottolineare quanto stucchevoli i suoi genitori potessero diventare nelle loro reciproche dimostrazioni d’amore.
Deja non sapeva virtualmente nulla della cultura rakiana. Quando si era rifugiata in biblioteca dopo il litigio con il padre aveva tirato giù dagli scaffali tutti i libri su Rakon di cui la loro biblioteca disponeva e aveva notato con disappunto che il più recente era stato un trattato di storia vecchio di duecento anni. Lo aveva comunque sfogliato, cercando di assimilare il più possibile nel poco tempo che aveva a disposizione e così aveva scoperto che Rakon era una monarchia assoluta, come la loro, ma che, a differenza di Issa, l’intero regno era militarizzato e la carriera militare era lo sbocco preferibile per i membri della nobiltà. Il regno di Rakon era molto più vasto di quello di Issa, anche prima che iniziasse la campagna di conquista di Zaron, e attraversava varie fasce climatiche con il risultato che, mentre parte del suo regno soffriva di siccità cronica, un’altra parte era sommerso da piogge torrenziali che potevano durare per un lungo periodo di tempo che loro chiamavano “mesi monsonici”. Il libro faceva apparire la società rakiana come molto semplice: al vertice la nobiltà che fungeva da apparato burocratico, poi i militari, i mercanti e i contadini. Deja però pensava che fosse tutto troppo semplicistico. Difficilmente una società vitale si lascia incardinare in tali rigide caste. Nel libro non vi era nessun accenno alle donne e questo ora la faceva preoccupare. Sapeva che il regno di Issa era progressista da quel punto di vista: anche se un erede maschio aveva sempre la precedenza quando si trattava di titoli nobiliari, l’eredità dei beni mobili e pecuniari veniva divisa tra tutti i figli e spesso il primogenito, anche se femmina, aveva la precedenza e la quota maggiore. In caso di mancanza di eredi maschi era la primogenita femmina a ereditare il titolo e la posizione a corte, con tutti gli onori e gli oneri che essa comportava, e il titolo passava all’erede di lei e, in caso di matrimonio, se lo sposo non era a sua volta l’erede di una casata, i loro figli mantenevano il nome della madre. Le donne erano burocrati, ambasciatrici, avevano influenza politica ed economica, in quanto gestivano personalmente i loro beni, erano guaritori, artisti, mercanti, proprietarie di compagnie, di botteghe, di terreni. Anche in presenza di un marito mantenevano la loro autonomia e indipendenza finanziaria. Potevano studiare ed essere scienziate apprezzate per il loro intelletto dai loro compagni maschi, anche se gli studiosi che provenivano da fuori Issa facevano sempre fatica all’inizio ad accettarle. Deja sapeva che tutta quella libertà che lei aveva sempre dato per scontata non era goduta da tutte le donne del continente, né si illudeva che la situazione fosse perfettamente idilliaca neanche a Issa. Ma almeno a Issa le donne avevano la costituzione e la legge dalla loro se erano costrette a lottare per far valere i loro diritti.
Nel breve capitolo dedicato alla cultura rakiana non aveva trovato nessun accenno alla posizione delle donne nella società. Cercò di farsi forza e sperò che in duecento anni la situazione fosse cambiata, perché se fosse stata costretta a non far nulla, privata della possibilità di partecipare alla vita politica e sociale in quanto femmina, probabilmente sarebbe impazzita. E se lui le avesse impedito di regnare su Issa, seppur da lontano… non sapeva cosa avrebbe fatto, ma di sicuro non si sarebbe arresa senza lottare. Intanto doveva ancora vedere una donna rakiana: i membri della delegazione che aveva accompagnato Zaron erano tutti uomini, ma Larissa le aveva detto che la servitù aveva preparato gli appartamenti al fianco di quelli assegnati all’imperatore per le sue concubine. Quindi c’erano delle donne a seguito dell’esercito, anche se con funzioni che ripugnavano Deja. Si chiese come potessero essere quelle donne, che avevano dedicato tutta la loro vita a compiacere un uomo, se fossero lì di loro spontanea volontà o se fossero costrette. Soprattutto si chiese se lui si aspettasse che lei interagisse con loro, se l’avrebbe rinchiusa in uno degli harem rakiani tanto favoleggiati da Larissa. Si chiese come un uomo può relazionarsi con delle donne che sono lì solamente per compiacerlo e saziare i suoi … appetiti. Quando aveva voglia ne sceglieva una a caso o aveva delle favorite? E le altre cosa facevano? Cosa facevano le sue concubine per tutto il tempo in cui lui non era con loro? E come poteva avere lui una relazione stretta con ciascuna di loro se aveva molte tra cui scegliere e se il solo tempo che passava in loro compagnia era dedicato a … quello? Solo il tempo avrebbe dato risposta alle sue domande. Magari durante il viaggio verso Halanda avrebbe avuto modo di conoscere le concubine di Zaron e conversare in privato con loro.
Il suo prossimo viaggio verso Halanda… La prospettiva di lasciare la sua patria, suo padre, tutti i suoi amici la riempiva di un’angoscia profonda. Era acutamente consapevole della sua ignoranza riguardo Rakon, i suoi usi, le sue leggi. Si apprestava a diventare la regina di un regno di cui non conosceva praticamente nulla. Normalmente avrebbe saccheggiato la biblioteca dell’Accademia e interrogato fino allo sfinimento tutti i rakiani che avesse incontrato, ma se la prima opzione era possibile, la seconda le pareva altamente improbabile e Deja sapeva che la conoscenza ricavata da persone che hanno esperienza della materia studiata era senza prezzo e preferibile a quella appresa dai libri, il cui contenuto non era verificabile ed era affidabile quanto l’autore che li aveva scritti. Tuttavia sperava che le informazioni reperibili in Accademia fossero più recenti di quelle della biblioteca reale. Soprattutto sperava ci fossero libri di diritto perché il funzionamento della società rakiana le era completamente sconosciuto e lei desiderava commettere il minor numero possibile di passi falsi sotto lo sguardo attento e maldisposto della sua nuova corte. Deja non si faceva illusioni riguardo l’accoglienza che le sarebbe stata tributata. Se gli uomini che accompagnavano da vicino il khan e che lui doveva ritenere i più fedeli erano contrari alle nozze allora neanche il resto della sua corte ne sarebbe stata lieta. E se lei voleva far funzionare quello sciagurato matrimonio, se voleva sopravvivere e servire degnamente la sua gente, doveva farsi benvolere dai suoi futuri sudditi e conquistare il favore della nobiltà. Doveva informarsi e la mole di cose da sapere era davvero immensa. Pensò a quello che sapeva della sua corte, a quanto aliena doveva sembrare agli invasori. Presto i ruoli si sarebbero rovesciati e loro sarebbero tornati a casa mentre lei si sarebbe trovata sperduta in terra straniera.
Per ultimo affrontò il problema rappresentato da Zaron stesso. Se le circostanze fossero state diverse era molto probabile che non avrebbe avuto paura di lui. Certo, a una prima occhiata sembrava un uomo brutale, il suo aspetto sembrava calcare l’immagine di una natura guerriera, violenta, che rispecchiava le voci riguardanti la sua spietatezza in battaglia. Eppure… eppure con lei non era stato aggressivo, con suo padre si era comportato in maniera cortese, pur date le circostanze. Forse stava nascondendo il suo vero carattere, ma non aveva ragioni di farlo: era il vincitore, il conquistatore, avrebbe potuto prendere tutto quello che voleva, eppure aveva voluto il loro consenso, per quanto estorto. Forse questo era indice di un bisogno di affermare la sua autorità, il suo controllo su di loro, eppure quando quella sera gli aveva mancato di rispetto, interrompendolo, lui non si era adirato, non aveva cercato di riprendere il controllo della situazione a discapito della di lei autorità. Avrebbe dovuto parlare con lui in privato per approfondire lo studio del suo carattere e comunque solo una prolungata frequentazione avrebbe potuto permetterle di inquadrarlo senza superficialità. E di tempo per conoscerlo ne avrebbe avuto molto: il resto della sua vita. Il pensiero dell’imminente matrimonio, di legarsi a vita a qualcuno in modo così profondo, la riempiva ancora di costernazione e panico. E poi c’era l’aspetto fisico della faccenda. Quando suo padre le aveva assicurato che Zaron aveva intenzione di aspettare prima di consumare il matrimonio si era sentita venir meno dal sollievo: quello era stato il maggior motivo di panico, la maggior fonte di ribrezzo alla prospettiva di sposarlo. L’idea di accoglierlo nel proprio letto oltre che nella propria vita l’aveva terrorizzata e disgustata. Non aveva visto altro esito che la distruzione del proprio spirito e del proprio corpo come risultato, anche se lui fosse stato gentile e paziente non riusciva a pensare di potergli permettere di toccarla senza ribellarsi, senza combattere, tanto alieno e opposto a ogni sua inclinazione era l’atto a cui lui l’avrebbe forzata. Adesso invece era confortata dall’idea che forse neanche lui era entusiasta dell’aspetto fisico del loro matrimonio, che lui non era attratto da lei quanto lei non lo era da lui. Forse questo sarebbe cambiato negli anni a venire, quando lei sarebbe cresciuta lui avrebbe voluto consumare l’unione. Ma ciò sarebbe avvenuto chissà quando e intanto lei avrebbe avuto modo di conoscerlo e lui non sarebbe più stato un estraneo. Forse non l’avrebbe mai amato, forse non sarebbero neanche stati in grado di andare d’accordo, ma Deja si augurava che sarebbero stati in grado di comportarsi civilmente l’uno con l’altra, con rispetto. Tutto si basava sulla loro eventuale compatibilità e sul carattere di Zaron e solo conoscendolo avrebbe saputo se quel matrimonio forzato sarebbe stato sopportabile o si sarebbe rivelato l’incubo che aveva presagito di primo acchito.
Deja era sfinita quando finalmente si coricò con l’intenzione di dormire. I capelli erano ancora un po’ umidi ma non bagnarono il cuscino né le lenzuola. Il capo le doleva così tanto che fu un sollievo poggiarlo sul guanciale e chiudere gli occhi. Scivolò con un sospiro in un sonno profondo.

 
NOTA DELL’AUTRICE: 
Abbiamo finalmente fatto la conoscenza di una della fantomatiche concubine, adoro Perla e sono orgogliosa di come mi sia venuta. Forse il suo abbigliamento vi avrà confuso, ma spiegherò tutto quando sarà il turno di Deja di indossare l’abito tradizionale rakiano. Scopriremo con lei come vestono le donne a Rakon. Le farò uscire gli occhi dalle orbite, e non vedo l’ora. Non so se lo avete mai notato, ma quando adotto il punto di vista di un personaggio non spiego mai le cose che per quel personaggio sono ovvie, le spiego dopo, quando sono viste da un personaggio che non le comprende. Ci sono molte differenze culturali tra i miei protagonisti, ma si parleranno e spiegheranno l’uno all’altra (e anche a noi) le cose che ho lasciato in sospeso.

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Capitolo 5
*** Qualcosa di blu ***


Voglio dedicare il capitolo a morganglasses che mi ha lasciato il primo commento e che è stata paziente con me quando i problemi che efp ha avuto con il server hanno cancellato la mia risposta. Grazie ancora!
 

 V. QUALCOSA DI BLU

 
 
I giorni a seguire furono oltremodo frenetici per Deja. Come nuova regina ci si aspettava che scegliesse nuovi membri del consiglio, sostituendo quelli vecchi con persone a lei più congeniali, ma lei non lo fece: di prima mattina, come suo primo atto da regina rinnovò tutte le cariche, anche quella di lady Pastis con cui non era mai andata d’accordo. Nella prospettiva della sua prossima partenza voleva assicurarsi che non ci fossero intoppi nel governo del regno e lasciare al loro posto funzionari che avevano svolto quei compiti per anni ed avevano familiarità con le funzioni assegnate loro le era parsa la soluzione migliore. In serata invece, aveva ricevuto la delegazione rakiana accompagnata dall’annunciata lettera di Zaron in cui lui le indicava quali posizioni all’interno del suo governo i suoi uomini avrebbero ricoperto e lei aveva dovuto acconsentire a sostituire quegli uomini e quelle donne che conosceva e di cui poteva predire l’operato con dei perfetti sconosciuti di cui non si fidava per niente. Almeno Zaron era stato sufficientemente considerato da imporre un numero di nobili rakiani pari a quello dei nobili issiani, così da rendere il consiglio bilanciato. Deja aveva però ottenuto la sua rivincita nominando il padre Lord Reggente, facendosi scudo della propria età e della legge che prevedeva la presenza di un tutore per gli eredi che non avevano ancora raggiunto i quindici anni. Il padre avrebbe potuto prendere le decisioni in sua vece anche se per ogni atto promulgato avrebbe avuto bisogno del suo consenso e dell’apposizione del suo sigillo. Questo avrebbe rallentato di molto lo svolgimento delle attività di governo, in quanto Deja avrebbe dovuto ricevere rapporti regolari e dettagliati di ogni seduta e inviare risposte e commenti e apporre il suo sigillo e la sua firma su ogni cosa per sostenere le decisioni paterne, o per disconoscerle.
Il suo sigillo era stato pronto in meno di ventiquattr’ore. Un grosso anello con lo stemma di famiglia, un delfino curvato in un balzo che tocca con la punta del muso una stella e a cui lei aveva aggiunto il suo tocco personale: in luogo della piccola ape del padre, che aveva indicato il suo desiderio di adoperarsi per il servizio degli altri, lei aveva scelto una ghianda, una piccola cosa da cui sarebbe nata una pianta maestosa, sempreverde e dalla lunga vita secolare. Suo padre aveva portato il proprio sigillo al mignolo della mano destra, ma le dita di Deja erano sottili e ancora piccole e il sigillo sarebbe parso ridicolmente grande alla sua mano e così portava l’anello al collo, infilato alla catena d’oro con il pendente di topazio. Se ci fosse stato bisogno aveva già constatato che le calzava almeno al pollice e, seppur scomodo, avrebbe potuto indossarlo così.
Aveva presieduto alla stesura del trattato di pace, incapace di opporsi alle requisizioni di terreni e allo svuotamento delle casse dello stato conscia che, essendosi arresi incondizionatamente, non poteva far nulla per opporsi alle richieste dei vincitori. Zaron non aveva partecipato a quelle riunioni, lasciando che fossero i suoi funzionari a occuparsi dell’aspetto burocratico, anche se ogni documento da loro presentato recava la firma e il sigillo del sovrano. Deja l’aveva osservato incuriosita: una spada incoronata con un picco montuoso sullo sfondo e un drago appollaiato sull’elsa, ad ali stese. I sigilli erano simbolici, Deja lo sapeva: quello della sua famiglia sottolineava la vocazione marinara che aveva sostenuto finanziariamente la sua ascesa al trono e la stella toccata dal delfino indicava come le aspirazioni dei membri della famiglia guardassero figurativamente al cielo, al continuo miglioramento di sé. Non la stupiva che il sigillo di un khan rakiano avesse come elementi la spada e la corona a manifestare la posizione autoritaria del suo possessore, né la scelta dell’animale rappresentato: dopotutto “Drago” era il soprannome con cui i soldati delle sue armate lo chiamavano, l’appellativo che urlavano quando si gettavano nella mischia della battaglia. Considerò fugacemente come i loro sigilli avrebbero potuto combinarsi prima di darsi della sciocca e pensare ad altro, come alle oltraggiose richieste rakiane.
I nobili che avevano sostituito i cinque membri issiani del suo gabinetto erano, neanche a dirlo, tutti uomini e tre di loro, dalla corporatura e dall’abitudine che avevano di portare la mano al fianco disadorno, dovevano essere stati militari. Erano rispettosamente cortesi con lei e con l’unica altra donna del consiglio, ma tendevano a non badare alle parole di lady Vidissa e anche quando si trattava di Deja stessa sembravano guardare suo padre, come aspettandosi da lui la conferma delle decisioni prese da lei. Era frustrante. Almeno i suoi le riservavano un’attenzione e una deferenza maggiore rispetto al dovuto, come a controbilanciare il comportamento dei rakiani a cui riservavano occhiate di disapprovazione e ostilità ogni volta che le loro argomentazioni seguivano una linea che sembrava ignorare completamente le parole di lady Vidissa. Anche quando Deja sapeva che in qualsiasi altra occasione si sarebbero opposti a lei ferocemente, ora invece sembravano appoggiarla in linea di principio. Suo padre la consolava, dicendole che era normale che all’inizio i membri di un nuovo governo si scontrassero, che anzi i rakiani stavano dimostrando un riguardo per le tradizioni e le leggi di Issa che non si era aspettato. Deja però disperava: come avrebbe potuto conquistare il loro rispetto e la loro lealtà se tra pochi giorni sarebbe dovuta partire? Poteva solo affidarsi a suo padre che tuttavia avrebbe potuto fare le sue veci per soli altri tre anni, poi avrebbe dovuto ritirarsi e se il consiglio in quel periodo non avesse imparato a collaborare, sarebbe stato un disastro.
Intanto i preparativi del matrimonio procedevano e Deja si era resa conto con sorpresa che la parte più difficile, e che avrebbe preso più tempo, sarebbe stata la preparazione del suo abito nuziale. Lo sconforto all’idea del matrimonio l’aveva indotta a lasciare alla sarta tutte le decisioni riguardanti l’abito. Cosa poteva importare a lei di come sarebbe stato? Aveva il governo del suo regno a cui pensare e moltissimi dettagli da sistemare prima della sua partenza e così aveva lasciato tutto alla discrezione del maestro di cerimonia e a lady Pastis che, pur essendole antipatica, sapeva avrebbe impegnato tutte le sue energie e il suo incommensurabile orgoglio per rendere la cerimonia e i festeggiamenti degni di una regina issiana.
Il pomeriggio seguente alla sua incoronazione aveva avuto il colloquio privato richiesto da Zaron. Suo padre era stato restio a lasciarli soli, nella sala delle udienze private, ma Deja non voleva che lui pensasse che lei lo temeva e quindi aveva rassicurato con un sorriso il genitore e gli aveva dato licenza di lasciarli. La sala delle udienze private era piccola, lo scopo era di non intimidire l’ospite. Le bandiere issiane decoravano le pareti e la stanza era dominata da un piccolo trono su cui sedeva Deja, un tavolino basso su cui erano disposti due calici e due caraffe di vino bianco e nero e dall’altra parte del tavolinetto una sedia imbottita ma decisamente meno imponente di quella della sovrana.  Zaron aveva guardato con disdegno la sedia a lui riservata ed era rimasto in piedi, in una posa rigida e allerta finché suo padre non si era accommiatato.
Era seguito un lungo silenzio durante il quale lui l’aveva osservata con sguardo penetrante e lei si era irrigidita, cercando di mascherare la sua inquietudine.
- Mia signora,
Lui aveva ammorbidito l’espressione e anche la voce, profonda e dal timbro basso, aveva assunto una tonalità rassicurante.
- Deja. Ritengo di potermi permettere di usare il tuo nome, date le circostanze.
Lei aveva annuito, cercando di apparire altera. Anche se avesse voluto non avrebbe potuto negargli la familiarità dell’uso del proprio nome, d’altra parte anche lei si era riferita a lui sempre come Zaron nella propria mente e parlando col padre.
- Anche tu, quando siamo soli, puoi chiamarmi Zaron, se lo desideri.
Lei aveva annuito e poi, per ripicca, aveva aggiunto.
- Come volete, sire.
Lui le aveva inaspettatamente rivolto un sorriso divertito, come se lei avesse inteso fare una battuta di spirito. Poi, sorprendendola ulteriormente, si era lasciato cadere sulla sedia a lui riservata, allungando le gambe sotto il tavolo e appoggiando il capo sullo schienale in una posa apparentemente rilassata.
- Non devi avere paura di me. Spero che tuo padre ti abbia rassicurata al riguardo.
Deja era arrossita violentemente per quello che le sue parole implicavano e poi aveva rapidamente cambiato discorso.
- Sì, mi ha riferito la vostra conversazione. Mi ha anche detto che subito dopo il matrimonio ha intenzione di condurmi a Halanda e di farmi risiedere lì.
Lui aveva annuito, accettando che l’argomento fosse accantonato.
- Esatto. Appena conclusosi i festeggiamenti prenderemo la mia aeronave privata e ripartiremo alla volta di Halanda.
Lei era sussultata per la sorpresa e si era lasciata sfuggire un rantolo.
- Così presto?
Lui le aveva rivolto uno sguardo risoluto.
- Sì, non ha senso tardare. È mia intenzione far passare il minor tempo possibile tra le due cerimonie. A tal proposito volevo chiederti: come si svolgerà il rito issiano?
Deja si era presa un attimo per pensare: ancora non ne aveva parlato con il maestro di cerimonie e con il Gran Sacerdote che avrebbe officiato la cerimonia e le sue conoscenze a riguardo erano superficiali.
- La cerimonia si svolgerà al tempio principale della dea Lona, sarà officiato dal suo Gran Sacerdote, forse vi ricorderete di lui dalla cerimonia di incoronazione, sire.
Lui la interruppe, corrucciandosi leggermente.
- Ti ho già detto che voglio che mi chiami Zaron. Dammi del tu. Presto sarò tuo marito Deja, mi sembra che tu abbia diritto a parlarmi schiettamente senza onorificenze di mezzo.
L’unico segno di nervosismo che lei lasciò trasparire fu il tremore delle mani appoggiate sui braccioli del trono.
- Sarà come desideri… Zaron.
Lui sembrò compiaciuto dall’udire il proprio nome.
- Dunque, il Gran Sacerdote svolgerà i riti propiziatori. Noi due saremo sul podio davanti all’altare, con lui. Poi la sposa si inginocchia e il sacerdote porge un nastro blu allo sposo che ne lega un’estremità alla mano destra della sposa e poi gira intorno a lei tre volte, avvolgendole il nastro attorno al polso, annunciando a ogni giro difronte a tutti i presenti che lei è sua moglie. Poi è il turno dello sposo di inginocchiarsi e la sposa lega l’altra estremità del nastro al polso sinistro dello sposo, ripetendo i tre giri e riconoscendolo come suo marito. A quel punto i due si alzano in piedi tenendosi per mano e il sacerdote benedice l’unione avvenuta.
Zaron era scoppiato a ridere forte, rovesciando indietro la testa e Deja lo aveva guardato perplessa.
- È forse per questo che il tuo popolo è ammutolito ieri sera, quando ho sollevato le nostre mani giunte? Pensavano fossimo già sposati?
Deja rifletté un attimo, colpita dal suo intuito e poi disse lentamente, riflettendo a voce alta.
- Potrebbe essere come dici. Una volta sposati ci presenteremo entrambi a quel balcone per mostrare al popolo le nostre mani giunte legate assieme. Con il buio della sera che era calata la mia gente probabilmente non era certa che il nastro nuziale non ci fosse, dato che il gesto da te fatto implicava la sua presenza.
Deja si riscosse e riprese la spiegazione.
- In genere alla cerimonia segue un banchetto e un festeggiamento. La lunghezza può variare ma dato che si tratta di me probabilmente i festeggiamenti si protrarranno fino all’alba.
- Ed è costume che gli sposi partecipino?
Chiese lui.
- No. Dopo il banchetto gli sposi si ritirano, lasciando amici e parenti ai festeggiamenti.
Zaron notò che la sua interlocutrice si era nuovamente irrigidita.
- Deja, ti ho già detto che non ho intenzione di farti del male. L’ho anche giurato a tuo padre. Cos’altro posso fare per rassicurarti?
La regina si era imposta di rilassarsi, o per lo meno di apparire più rilassata.
- Non essere adombrato, mio… Zaron. Ogni sposa ha il diritto di essere nervosa. La tua parola d’onore è garanzia sufficiente.
Poi si costrinse a fatica, perché l’argomento le risultava ancora difficile da affrontare, a pronunciare le parole che la cortesia le imponeva di pronunciare. Tuttavia non riuscì a guardare in faccia Zaron, limitandosi a poggiare lo sguardo sulla sua spalla, dove la leggera armatura in cuoio che lui indossava quel giorno terminava e iniziava la casacca di seta rossa che portava al di sotto.
- A questo riguardo desidero esprimerti tutta la mia gratitudine. La tua predisposizione ad attendere che io sia pronta ti fa onore e mi è di profondo conforto.
- Deja, guardami.
Lei si sentì in dovere di incrociare il suo sguardo, a quelle parole pronunciate lentamente e in tono basso.
- Lo so che forse in questo momento fai fatica a crederlo, ma non sono un mostro. Sono un soldato: conquisto e uccido, ma non sono inutilmente crudele e non provo piacere a procurare dolore o a incutere paura. Mi auguro che con il tempo imparerai a conoscermi. Mi auguro di poter conversare liberamente con te, mi auguro che con il tempo potremo divenire amici, io e te. Il nostro è un matrimonio politico, ma non deve per forza essere un matrimonio infelice. Sono un uomo ragionevole e sono sicuro che finirai per trovare piacevole la mia compagnia.
Lei annuì rigidamente. Lui aveva ragione su un punto: trovava difficile credergli.
- Cambiando argomento. Posso solo immaginare quanto l’idea di seguirmi a Halanda sia sconcertante per te. Quindi ritengo sarebbe auspicabile che tu portassi con te delle persone che ti accompagnino. In giornata riceverai la lista dei mie uomini che ritengo siano adatti per entrare nel tuo consiglio ristretto. Quelli che sarai costretta a licenziare per fare loro posto potranno seguirti nella tua nuova casa, se lo desideri. Prepara una lista delle nobildonne che ritieni possano accompagnarti: non voglio che tu ti senta sola, una ventina mi sembra un numero adeguato. Infine             sarebbe appropriato che tu avessi una scorta di soldati issiani ben addestrati e ben armati che funga da tua guardia personale. Io ovviamente ti assegnerò i miei uomini migliori: la tua sicurezza è per me fondamentale, ma sono sicuro che tu ti troveresti maggiormente a tuo agio circondata da persone che conosci e di cui ti fidi. Fai pervenire le informazioni riguardanti la tua scorta militare a Bors, il mio secondo in comando, e a Starkos, il mio facente funzioni di ciambellano, l’elenco dei nobili che ti accompagneranno fino a Rakon perché prepari le accomodazioni. Alla fine del banchetto nuziale partiremo con la mia aeronave privata, il tuo entourage ci seguirà con un’altra nave o via terra. A questo scopo sarebbe opportuno che tutti i tuoi bagagli fossero pronti già al mattino, per essere imbarcati. 
Deja aveva annuito durante il discorso di Zaron, stordita dalle notizie che lui le forniva. Furiosa per dover accettare senza discutere degli uomini non scelti da lei nel suo consiglio, grata e stupita che lui la incoraggiasse a portare con sé un contingente militare per la propria protezione. Nella sua mente stava già facendo l’elenco delle persone che l’avrebbero accompagnata quando lui si alzò, ritenendo chiaramente conclusa l’udienza. Per un attimo sembrò indugiare, come se volesse avvicinarla, poi le fece un cortese cenno del capo e si accommiatò.
 
A Zaron Deja era apparsa stanca e pallida all’indomani della sua incoronazione. Certe persone, quando gli viene porto il potere diventano arroganti e insensibili ai bisogni altrui. Altre si consumano per utilizzare quel potere al servizio degli altri e Zaron ritenne che lei potesse appartenere a quella seconda categoria.
Messo da parte l’elaborato abito tradizionale la regina indossava nuovamente un comodo abito moderno, dello stesso colore dei suoi occhi e riccamente ricamato e accessoriato. Portava la corona sui capelli sciolti e gli sembrava nuovamente la bambina spaventata della biblioteca, più che la giovane ragazza decisa e determinata della sera prima che dopo l’annuncio al suo popolo non lo aveva più degnato di uno sguardo, limitandosi a elargire qualche cenno di cortesia ai nobili che le si inchinavano dinnanzi, offrendole la loro lealtà. Aveva quindi deciso di mettere da parte l’etichetta e di essere franco con lei, accettando di sedersi e concedendole l’uso del proprio nome. Aveva cercato di rassicurarla in ogni modo, a parole e cercando di apparire il meno minaccioso possibile, assumendo un tono di voce pacato e parlando lentamente.
Lei era deliziosamente arrossita, il viso, il collo e persino le orecchie erano divenute di un accattivante colore rosso; le donne rakiane, a causa della loro carnagione scura, non arrossivano e lui, se da una parte era attratto da questa sua capacità, dall’altra era costernato di averla messa in imbarazzo per così poco e le aveva quindi consentito di cambiare argomento. Era irritato all’idea di doversi inginocchiare durante la cerimonia nuziale, ma d’altra parte quelli erano gli usi issiani e anche lei si sarebbe inginocchiata a lui quindi supponeva di poter cedere su quel punto, e si ripromise di chiederle in seguito maggiori informazioni sulla dea Lona che, aveva notato, era la divinità principale del panteon issiano. Accommiatandosi aveva per un attimo dibattuto con sé stesso se farle o meno il baciamano. Nella sua cultura era considerato appropriato baciare la mano di una fanciulla che ci si appresta a sposare, l’unico contatto fisico concesso con la ragazza prima del matrimonio. Ma poi aveva valutato che probabilmente Deja lo avrebbe frainteso come segno di interesse e lei era parsa anche troppo spaventata da lui, anche se lo aveva nascosto ammirevolmente. Zaron tuttavia aveva un fiuto imbattibile per le bugie e per leggere la postura di chi gli stava difronte e aveva intuito che Deja non era solo nervosa, ma intimorita dalla sua presenza. Una volta che fossero stati sposati sperava di poter mettere a tacere i suoi timori. Progettava di passare tutto il tempo possibile con lei sull’aeronave e nei suoi primi giorni a Halanda, per conoscerla e per darle modo di conoscerlo così da quietare le sue paure infondate ma perfettamente comprensibili.
 
E così si erano svolti gli ultimi quattro giorni da nubile di Deja: tra interminabili e frenetici impegni di governo, incontri con le famiglie nobili che erano rimaste a Issa per trovare chi fosse stato disposto a seguire la regina nella sua nuova residenza e le prove del suo abito da sposa.
Quando la mattina del suo matrimonio la sarta la vide con addosso l’abito, scoppiò a piangere e le si inginocchiò davanti, sfiorando il bordo dell’abito con le labbra in un’antichissima forma di devozione. Le sussurrò che aveva dato l’anima per quel vestito, che lei e le sue ragazze avevano cucito e ricamato senza sosta perché avesse un abito degno e perfetto che la onorasse adeguatamente e con rabbia concluse che non era giusto che il suo lavoro … che lei fosse sacrificata a quel barbaro invasore. Quando la guardò i suoi occhi bagnati erano pieni di compassione e pena e a Deja si mozzò il respiro quando si rese conto che quella povera donna pensava che sarebbe stato il khan rakiano a rimuoverle l’abito da sposa la notte stessa. Dovette sedersi e la sua reazione fu confusa per terrore dalla donna e dalle ancelle, che le si fecero intorno, abbracciandola e confortandola in una dimostrazione di cameratismo femminile che Deja non si sarebbe mai aspettata.
Quando suo padre venne a prenderla, per scortarla fino al tempio, si prese un attimo per ammirarla e poi la strinse a sé, disperatamente.
- Deja, come sei bella. Se solo tua madre fosse ancora viva… Sarebbe orgogliosa di te, bambina mia.
Le prese il viso tra le mani e la guardò attentamente negli occhi.
- Ti amo tesoro. Non dimenticarlo mai. Non potrò essere presente per te nella tua vita, ma i miei pensieri saranno tutti rivolti a te, piccola mia. Sempre.
Deja sorrise tremante, lasciandosi sfuggire qualche lacrima. Fu lieta di aver rifiutato la proposta di Larissa che aveva voluto applicarle un leggero trucco: desiderava presentarsi a Zaron senza artifici e temeva che avrebbe pianto durante la giornata e quindi non voleva che il trucco le colasse, rivelando la sua debolezza.
Poi suo padre le porse il braccio e la scortò fuori dalle sue stanze, ormai spoglie perché tutto quello che possedeva era già impacchettato e gli uomini rakiani erano già passati a ritirare i suoi bagagli. Deja non si voltò ma non riuscì a trattenere un singhiozzo e qualche lacrima, sopraffatta dalla consapevolezza che era l’ultima volta che chiamava sue quelle stanze. Uscì dal palazzo, per prendere posto nella carrozza scoperta che l’avrebbe condotta al tempio. Le strade erano gremite di gente e al suo passaggio il brusio confuso del cicaleccio diveniva un'unica parola ripetuta, e quella parola era il suo nome. Così il suo popolo le rendeva omaggio e lei non poté far a meno di rivolgere loro un saluto con la mano e un sorriso raggiante, pieno di coraggio, perché il loro sostegno le dava la forza di andare avanti e di non piangere.
L’esterno del tempio era gremito di nobili rakiani e issiani di rango minore che non avevano potuto accedere all’interno e si aprirono in due ali, confondendosi nell’eccitazione del momento. Il padre le porse nuovamente il braccio ma lei con un sorriso e un cenno di diniego lo rifiutò. Era la sovrana regnante di Issa: nessuno l’avrebbe guidata verso l’altare.
Avanzò lentamente, a testa alta, le mani appoggiate mollemente alla gonna, pronte a sollevarla per percorrere la gradinata di marmo bianco che conduceva agli imponenti battenti bronzei del tempio, spalancati per l’occasione. L’abito, totalmente bianco e argento, era pesantissimo. Il corpetto stretto era interamente ricoperto di ricami in filo metallico e cristalli lucenti che disegnavano un intricato motivo floreale. Il petto e le spalle erano coperti con una sottile trama di pizzo che lasciava appena vedere la pelle sottostante e che le si stringeva attorno alla gola al punto che sentiva il gancetto metallico che le chiudeva il girocollo graffiarle l’ultima vertebra cervicale. La gonna, dotata di uno strascico lungo sette metri, che a stento era entrato nella carrozza e che a ogni passo sembrava tirarla indietro, era ricamata con settemila perline. I capelli erano raccolti strettamente, decorati con fermagli in diamanti a forma di piccole stelle attorno a un fermaglio più grande, a forma di mezzaluna, le cui punte sfioravano la corona, sul retro della testa. Non indossava altri gioielli, a parte la collana con il pendente e il sigillo, che comunque erano nascosti sotto il corpetto.
Al suo ingresso nell’edificio sacro il coro di dieci fanciulli e dieci fanciulle che si trovava ai piedi della statua della dea cominciò a cantare. Faticò a percorrere la navata centrale del tempio, perché a ogni gradino sembrava che lo strascico si incagliasse. Finalmente arrivò difronte al Gran Sacerdote, a fianco del suo sposo. Lo aveva osservato fugacemente mentre gli si avvicinava: indossava un abito interamente rosso, con ampi ricami dorati lungo i bordi delle maniche e del colletto. Sul capo portava una corona d’oro, una fascia semplice, ma alta, e avvicinandosi notò che aveva disegnata sulla fronte una curiosa riga rossa, che partiva dalla radice del naso fino all’attaccatura dei capelli. Indossava molte collane d’oro e anelli gemmati a ogni dita delle mani.
Dopo essersi inchinato profondamente alla volta della statua della dea Lona, il Gran Sacerdote si rivolse a lei, riservandole un triste sorriso tremante, le prese il polso destro e la invitò a inginocchiarsi, sostenendole la mano sinistra per aiutarla. Porse il lungo nastro di seta blu a Zaron, chiedendogli di intimare le sue intenzioni nei riguardi della fanciulla inginocchiata accanto a lui.
Zaron annodò il nastro al polso che Deja teneva sollevato sopra la testa lasciandolo largo perché non la stringesse e annunciò, con voce decisa:
- Costei è mia moglie.
Fece per girarle attorno ma lo strascico glielo impediva: anche allungando il passo avrebbe dovuto camminarci sopra e così facendo avrebbe frantumato le perle intessute nella stoffa e probabilmente lasciato l’impronta dello stivale. Così si limitò ad avvolgerle il nastro attorno al polso una volta, prima di rivolgere il viso al pubblico assiepato nel tempio e ripetere, con tono di sfida:
- Costei è mia moglie.
Avvolse per la seconda volta il nastro e ripeté, con una nota di trionfo nella voce:
- Costei è mia moglie!
Avvolse per la terza e ultima volta il nastro e lo legò nuovamente, perché non le scivolasse lungo il braccio. Poi l’aiutò a rialzarsi, afferrandola saldamente con entrambe le mani, e fu un bene perché Deja non era sicura che ci sarebbe riuscita da sola: aveva le gambe molli per l’emozione e la consapevolezza di quello che stava accadendo.
Zaron la fissò dritta negli occhi mentre si inginocchiava, lentamente, poggiando prima il ginocchio destro e poi il sinistro. Con mani gelide e tremanti prese l’altro capo del nastro che lui le porse e lo legò al suo polso sinistro, lasciandosi un po’ di nastro per fissarlo alla fine, come le aveva mostrato il Gran Sacerdote.
Si schiarì la voce e poi, temendo che le uscisse tremante e flebile, parlò forte, facendo risuonare la sua voce per tutto il tempio:
- Costui è mio marito.
Arrossì, rendendosi conto di aver pronunciato quelle parole con voce persino più forte e decisa di quella di Zaron. Sapendo di non essere in grado di girare attorno a lui, a causa dell’abito nunziale, imitò Zaron e si limitò ad avvolgere il nastro attorno al suo polso.
- Costui è mio marito.
Questa volta il tono di voce era ragionevole, né alto né basso, sereno. Impassibile, avvolse nuovamente il nastro, guardando solo la stoffa e il polso dell’imperatore, rifiutandosi di guardarlo in viso o di guardare la folla silenziosa che assisteva alla cerimonia, temendo di arrossire nuovamente o, peggio ancora, di scoppiare in lacrime.
- Costui e mio marito.
Questa volta la voce le tremò leggermente e le dita fecero fatica ad annodare il nastro, dopo averlo avvolto per la terza volta. Avanzavano una ventina di centimetri di stoffa, a collegare i loro polsi. Zaron si rialzò e le prese la mano destra con la propria mano sinistra.
Sollevò sopra le loro teste le mani giunte, legate assieme a simboleggiare il legame stretto che ora li univa.
I rakiani esplosero in un boato di giubilo, invocando a gran voce il loro khan. Gli issiani li seguirono, un po’ incerti all’inizio ma poi, trascinati dallo spirito di competizione, urlarono ancora più forte degli invasori.
Le fanciulle del coro abbandonarono la loro posizione e si affrettarono a prendere i lembi dell’abito della loro regina, permettendole di girarsi e di percorrere a ritroso la navata, affiancata dal suo novello sposo.
Uscirono dal tempio accolti dalle ovazioni della folla. Zaron era serio, Deja invece regalò un vero sorriso al suo popolo, prima di atteggiare il viso in un sorriso di circostanza che non le raggiungeva gli occhi e che presto le avrebbe fatto dolere i muscoli delle guance.
Ci fu l’ennesimo intoppo causato dal suo abito quando fu il momento di risalire in carrozza. Zaron voleva lasciare che salisse lei per prima e Deja dovette indicargli di salire prima lui, perché solo una volta che lui si fosse seduto, lei avrebbe potuto tirare su lo strascico.
Lui sembrò esasperato da tutta quella sovrabbondanza di stoffa che gli copriva interamente le gambe e mentre la carrozza li riportava a palazzo per il banchetto si chinò su di lei, gridandole all’orecchio, perché era impossibile parlarsi tra le urla della folla.
- L’abito che indosserai a Halanda sarà più corto!
Deja fu turbata da quella vicinanza, dal fiato di lui che le solleticò la nuca e la gola, e con uno scatto voltò il viso, sollevando velocemente la mano libera per salutare il suo popolo e mascherare quell’istintiva reazione. Non fu abbastanza abile però, Zaron corrugò la fronte e digrignò i denti, scontento.
Percorsero il breve tragitto che li separava dal palazzo reale; Zaron rilassò la mandibola ma rimase corrucciato, l’aiutò a scendere, le strinse la mano, intrecciando le loro dita, notando che mentre lui teneva il braccio lungo il corpo lei doveva piegare il suo e con amarezza considerò che sembravano davvero un adulto che porta a spasso un bambino. Quasi la trascinò per il palazzo, fino alla sala del trono e fuori sul balcone, esponendo davanti alla popolazione issiana le loro mani giunte e i polsi legati strettamente dal nastro nuziale. Deja si sentì come un bottino di guerra messo in mostra davanti a tutti e fu difficile mantenere quel sorriso che si era imposta di esibire anche perché lui le stringeva con forza eccessiva la mano fino a farle perdere sensibilità. Solo quando furono rientrati rilassò i muscoli del viso che le dolevano e, manifestando la sua scontentezza, strattonò la mano e il braccio di Zaron, costringendolo a fermarsi. Lui si voltò verso di lei con un’espressione interrogativa.
- Zaron, ti prego, mi fai male!
Deja con la mano sinistra cercava di costringere le dita di Zaron a rilassare la presa. Lui le lasciò la mano immediatamente. Gli occhi della sua giovanissima sposa erano lucidi di lacrime trattenute e si reggeva la mano sinistra, illividita dalla sua stretta. Provò vergogna per aver permesso alla sua irritazione di prendere il sopravvento e per averle arrecato dolore. Le prese con delicatezza del dita doloranti e le sfiorò con le labbra.
- Io… mi dispiace Deja, perdonami.
Le spalle della ragazzina tremarono per un attimo e Zaron poté vedere con che sforzo Deja riprendesse il controllo, rilassando le spalle e il viso. Le porse la mano aperta e lei vi posò con leggerezza i polpastrelli, lasciando che lui l’accompagnasse, guidandola senza trascinarla con la forza di prima, fino ai giardini del palazzo dove si teneva il banchetto.

 
NOTA DELL’AUTRICE: E così finalmente sono sposati (per metà). Per l’abito sono andata a guardarmi lo strascico di lady D. Io avevo uno strascico di un metro e un velo più lungo dell’abito di 20 cm. E’ stato un incubo, specialmente il velo: a ogni passo mi tirava indietro la testa. Lo strascico praticamente non lo sentivo, tranne quando lo calpestavo… E prima che protestiate: gli intoppi ai matrimoni capitano, e a raffica pure, se sei sfortunato! Alla fine Zaron è un po’ violento ma considerate che è molto più forte di Deja, e che può non rendersi conto di farle male (non vi dico che urla ho cacciato io in banca quando il direttore mi ha “stretto” la mano: parliamo pure di stritolamento! Mi sono rimasti i segni degli anelli sulle dita per un bel po’), e che è più alto di lei, quindi a ogni passo suo lei ne deve fare uno e mezzo (con chili di abito da portarsi appresso).

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Capitolo 6
*** Metter via le cose infantili ***


VI. METTER VIA LE COSE INFANTILI*

 
 
Il palazzo reale si era riservato una buona parte dello spazio cittadino per i giardini reali. In concomitanza con alcune feste pubbliche erano aperti alla popolazione, ma non in quella occasione. I giardini, un vero e proprio parco, iniziavano con un vasto prato d’erba che terminava in una sontuosa fontana rettangolare arricchita da statue di marmo da cui zampillavano getti d’acqua. Oltre la fontana c’erano delle aiuole contenenti tutte le specie di piante che crescevano naturalmente a Issa, costeggiate sulla sinistra da una serra che ospitava le specie non autoctone e più sensibili al clima. Tutto intorno, il parco era cinto da un fitto boschetto che impediva la vista delle mura.
Sul prato erano disposti i tavoli lunghi su cui erano siti i commensali. Alla sinistra il tavolo dei rakiani, riccamente abbigliati ma come sempre armati, e sulla destra il tavolo degli issiani, dagli abiti variopinti e con rappresentanti di ambo i sessi e di ogni età. Al centro tra i due, un tavolo rialzato da un piccolo podio con due sedie vuote, riservato agli sposi.  Le tovaglie erano bianche, i centrotavola erano delicati vasi di fine cristallo con bellissimi fiori bianchi dalle ampie corolle e dal profumo dolce e intenso; sulle tovaglie erano sparsi petali di rosa rossi e bianchi, tinti di blu per l’occasione. Il servizio di piatti era in porcellana con decorazioni dorate, come d’oro erano anche le posate. I tavoli erano coperti da un baldacchino con drappi azzurri e rossi.
Tra i commensali si aggiravano con zelo dei camerieri che riempivano i calici in attesa dell’arrivo degli sposi che avrebbe segnalato l’inizio vero e proprio del banchetto.
Al loro comparire Aborn si alzò e venne loro incontro con espressione preoccupata. Rivolse un frettoloso inchino allo sposo prima di rivolgersi alla figlia.
- Tutto bene, Deja?
Lei gli sorrise, cercando di rassicurarlo.
- Sì padre, non preoccuparti.
Lui non sembrò crederle e rivolse un’occhiata indignata al sovrano rakiano.
- Ha detto che va tutto bene, Aborn, smettila di comportarti come una chioccia ansiosa.
Deja gli piantò le unghie nel palmo e Zaron realizzò che il suo atteggiamento non risultava solo scortese, ma che le sue parole avrebbero solo che fatto agitare di più il padre della sposa.
- La giornata è stata lunga e la cerimonia sorprendentemente frustrante. Perdona le mie parole brusche… caro suocero.
Zaron ebbe il piacere di veder diventare l’altro uomo paonazzo poi, accompagnato da Deja, prese posto al tavolo a loro riservato, da cui potevano vedere tutti i commensali.
Il banchetto iniziò; le numerose portate, di carne e di pesce, venivano portate fuori in ampi vassoi, trasportati a spalla dai camerieri, e presentati prima agli sposi e poi serviti anche a tutti gli altri, in ordine di importanza. I piatti erano davvero elaborati e sfarzosamente arricchiti da decorazioni. Davanti a un pesce spada bardato da una vera e propria decorazione floreale che il cameriere gli assicurò essere interamente edibile, Zaron si rivolse a Deja e notò che anche lei guardava la portata di pesce con occhi sbarrati ed espressione sorpresa.
- Devo dedurre che l’organizzazione non è opera tua?
Le chiese in tono divertito. Lei scosse la testa, senza staccare lo sguardo da quella incredibile processione di cibo.
- No, ho lasciato tutto al mio maestro delle cerimonie e a lady Pastis… Non pensavo sarebbero stati così… stravaganti.
Lui guardò il piatto di Deja, le porzioni che i camerieri le servivano venivano a malapena toccate.
- Mangi sempre così poco o sono le pietanze a non risultarti gradite?
Deja non lo guardò in viso, ma giocherellò con lo stelo del suo calice. Almeno non aveva neppure bevuto, constatò Zaron. I servitori le avevano servito alcolici e, data la corporatura e l’età, era sicuro che sarebbe bastato un calice di vino a farla ubriacare.
- No, il fatto è che … io sono destra, non mancina.
Così dicendo allungò la mano destra, legata alla sua mano sinistra e fece tendere il nastro che le univa. Non arrivava al piatto. Zaron aveva notato che le pietanze che venivano loro servite, a differenza di quelle di tutti gli altri, erano già tagliate in piccoli pezzi e per fortuna, altrimenti non sarebbe riuscito a utilizzare il coltello e la forchetta contemporaneamente.
- Questa storia del nastro nuziale mi sembra davvero poco pratica. Non pensi che potremmo togliercelo, ormai?
Lei scosse rapidamente il capo.
- No, porta sfortuna! Il nastro va tolto in privato.
- Ma come fa la sposa a mangiare?
Le guance di Deja si colorirono leggermente e ancora non volle sollevare il viso per guardarlo in faccia.
- In genere lo sposo la imbocca. A quanto pare viene considerato romantico.
Zaron provò imbarazzo perché era ovvio che gli issiani si erano aspettati che fosse lui a porgere da mangiare alla sua regina e probabilmente aveva fatto la figura del maleducato mangiando solo lui. Così le sussurrò a denti stretti.
- Perché non me lo hai detto prima, non avrei avuto problemi a …
Deja lo interruppe, mostrandosi agitata e incrociando finalmente il suo sguardo.
- No! Non osare provarci. Non voglio che mi imbocchi come se fossi una bambina. Sarebbe umiliante, date le circostanze.
Lei sostenne il suo sguardo per pochi secondi prima di distoglierlo nuovamente, spostando nervosamente gli occhi sugli ospiti al banchetto. Zaron seguì il suo sguardo. I rakiani sembravano rilassati, mangiavano e bevevano e ridevano conversando tra di loro. Gli issiani erano anche loro all’apparenza rilassati, ma non gli sfuggirono le occhiate ostili e alcune di aperto disgusto che lanciavano nella sua direzione. Aborn aveva la fonte aggrottata e un’espressione di perenne disapprovazione.
Zaron prese con delicatezza il polso di Deja e lentamente lo avvicinò al suo piatto.
- Mangia. Terrò la mano ferma e abbastanza vicina a te. Se ti chinerai per mettere in bocca la forchetta non dovresti avere problemi.
Lei però sembrò impuntarsi.
- No, grazie, non serve. Tanto non ho fame.
Se credeva di essere testarda lei, aveva incontrato un degno avversario, pensò Zaron. Chinò il capo con lentezza, invadendo il suo spazio e sapendo che quello l’avrebbe infastidita e poi, come in carrozza, le parlò all’orecchio, sussurrando.
- I tuoi nobili si aspettano che io mi comporti in modo consono secondo le vostre usanze. Se non vuoi che ti porga io il cibo, va bene. Rispetterò la tua volontà. Però tu mangerai.
Per sottolineare le sue parole, le strinse una volta la mano, prima di poggiare il polso sul bordo del tavolo, dandole ampia libertà di manovra.
Deja aveva tremato tutta mentre lui le parlava, ma questa volta non si era ritratta. Impugnò la forchetta e cominciò a mangiare.
Zaron si concesse un sorriso di soddisfazione e poi fece cenno a un servitore di avvicinarsi. Questo, sollecito, allungò la caraffa di vino verso il calice del sovrano, ma lui lo coprì prontamente con la mano.
- Per me basta così. Porta due bicchieri nuovi e qualcosa di non alcolico.
Il sole era stato alto nel cielo quando erano arrivati e il banchetto si protrasse da mezzogiorno al tramonto. Con l’arrivo della torta Zaron era convinto che il pranzo fosse giunto al termine e invece era stata solo la prima di una serie di dolci serviti ai commensali. I servitori avevano acceso le torce disseminate per il prato e le candele disposte sui tavoli e ancora le portate non erano finite. Zaron non aveva problemi a passare un intero pomeriggio ad allenarsi con la spada ma odiava essere costretto a stare fermo e seduto e le ore passate al tavolo gli sembravano interminabili. Anche Deja gli pareva prostrata.
- Quanto ancora pensi che andrà avanti?
- Siamo al gelato, ormai devono aver esaurito i dolci.
Per fortuna Deja aveva ragione, perché Zaron era ormai giunto al limite: era pronto ad alzarsi e ad andarsene se quel dannato banchetto non si fosse concluso in fretta. Dopo il gelato furono portati fuori dei biscotti secchi e servite delle bevande calde. Agli sposi furono presentate tre coppe fumanti e Zaron riconobbe con sorpresa il contenuto di una di esse.
- Questo è thè!
Ne aspirò con piacere il profumo intenso e poi lo bevette, a piccoli sorsi.
Deja gli sorrise per la prima volta con soddisfazione.
- Merce d’importazione.
Sollevò la sua coppa in una specie di brindisi, che Zaron ricambiò. Incoraggiato da quell’apertura prese un’altra coppa, contenente del denso liquido scuro.
- E questo? Altra merce d’importazione?
Deja indicò la propria coppa.
- Questo è chocol. È davvero squisito e raro. Devono aver saccheggiato le dispense di tutti i nobili oltre che quella di palazzo per raccoglierne così tanta da servirla a tutti gli invitati. È densa e amara. Io preferisco consumarla con i biscotti.
Con la sinistra prese uno dei biscotti secchi e lo usò come se fosse un cucchiaio per raccogliere un po’ del liquido marrone scuro.
- E la terza coppa?
L’ultima coppa conteneva un liquido nero e dall’odore pungente.
Deja deglutì e si spazzolò via dalle labbra le briciole del biscotto.
- Quello è kafè.
Storse il naso e fece una smorfia di disgusto.
- Ha le stesse proprietà del thè ma è più forte. E molto più amaro.
Zaron sorseggiò prima il chocol e poi il kafè. Fece una smorfia di disgusto simile a quella della sua sposa.
- Chi beve questa roba?
Deja sorrise dietro un biscotto e rispose con voce impertinente.
- Chi non può permettersi il thè. Da quando è iniziata una certa guerra il prezzo delle foglie di thè è schizzato alle stelle. Mi chiedo come mai…
Zaron rise, rovesciando la testa all’indietro. Da rilassata Deja era capace di essere spiritosa, ne era lieto.
- Credo che mi limiterò al thè, grazie tante. Anche se la chocol non è male.
Continuarono a conversare del più e del meno finché il maestro di cerimonie non si presentò ai convitati per annunciare che il banchetto era concluso. Batté le mani e numerosi servitori cominciarono a servire in calici lunghi e stretti un chiaro vino ghiacciato.
Aborn si alzò in piedi, con il proprio bicchiere in mano. Gli invitati issiani fecero silenzio e anche quelli rakiani si voltarono verso di lui, per sentire cosa avesse da dire. Anche Deja si era zittita.
- Nobili lord e nobili lady. Desidero ringraziarvi per aver partecipato ai festeggiamenti per le nozze della mia unica figlia, la nostra regina Deja.
Aborn si interruppe e gli issiani applaudirono educatamente.
- Oggi la nostra sovrana, regina da neanche una settimana, ci lascia per partire alla volta di Halanda, dove risiederà con suo marito, l’imperatore Zaron.
La voce di Aborn era ferma ma quelli che gli erano più vicini poterono vedere come la mano che reggeva il calice tremasse leggermente.
- Salutiamola degnamente. Lunga vita alla regina Deja.
Gli issiani si alzarono tutti, sollevando i loro calici e ripeterono dopo Aborn:
- Lunga vita alla regina Deja!
Bevvero il vino e scagliarono il calice per terra. Il cristallo fece fatica a rompersi sull’erba, quindi molti furono costretti a pestarlo. Poi si inchinarono in profonde reverenze.
Deja si era alzata e Zaron si era affrettato a imitarla. Senza dire niente aveva anche lei sollevato il suo calice, ne aveva bevuto un sorso e poi, dopo aver rovesciato il resto del vino, lo aveva infranto sul bordo del tavolo.
- Onore a voi, miei buoni sudditi, onore e prosperità.
Sembrava una frase di rito, come rituale doveva essere la rottura del bicchiere. Per quanto il popolo issiano sembrasse progressista in molte cose, di certo amava indugiare nelle sue tradizioni. Passato il momento Zaron prese la parola.
- Desidero porvi il mio ringraziamento per aver così graziosamente ospitato il mio matrimonio, gente di Issa, Aborn. Sono orgoglioso di potervi chiamare mio popolo, da oggi in avanti. So che l’annessione di Issa al mio impero è stata dolorosa per voi, ma mi auspico che dopo un tale turbolento inizio, ci possa essere una pacifica convivenza, mutualmente proficua. So che vi faccio un torto privandovi così presto della vostra regina, ma lei…
Prese la mano di Deja, sollevandola per mostrarla a tutti.
- … adesso è anche la mia regina, e la regina di tutti i rakiani e i sudditi del mio impero. È stata vostra per tutti questi anni, lasciatela a me per un po’.
Con quell’ultima battuta aveva inteso sciogliere un po’ la tensione, ma si rese conto presto di aver ottenuto il risultato opposto. Gli issiani gli rivolsero sguardi di profondo astio e non velato ribrezzo e Zaron realizzò che con le sue parole aveva solo che accentuato la giovane età della sua sposa. Bevve dal suo calice e si rivolse ai suoi uomini.
- Continuate pure i festeggiamenti, noi ci ritiriamo. Ci aspetta un lungo viaggio.
Guidò Deja giù dal podio e la condusse all’interno del palazzo. Aborn li raggiunse rapidamente e li affiancò, mettendosi alla sinistra della figlia. Salirono nuovamente sulla carrozza, che li attendeva da ore ormai assieme alla scorta rakiana e a un piccolo gruppo di soldati issiani. Aborn montò sul cavallo che si era fatto preparare e seguì la carrozza come aveva fatto all’uscita dal tempio. La carrozza procedette per le strade di Issa, ancora affollate di gente in festa e li condusse fuori dalle mura e poi oltre l’accampamento rakiano, fino ai campi presso cui erano attraccate le aeronavi. Gli sposi erano rimasti in silenzio durante il tragitto e Zaron aveva osservato attentamente Deja. La ragazzina aveva guardato fisso avanti a sé finché erano stati all’interno delle mura cittadine ma una volta usciti, quando suo padre si era accostato alla carrozza e si era chinato verso di lei, Deja gli aveva porto la mano libera, stringendo quella che lui le aveva allungato, e aveva cominciato a piangere silenziosamente.
Raggiunsero il campo che ospitava la sua aeronave. La macchina era pronta alla partenza. All’apparenza non sembrava diversa da tutte le altre che giacevano come giganti addormentati nei campi vicini, Zaron aveva voluto così, insistendo che non avesse nulla che potesse contraddistinguerla come sua, non per modestia ma per paranoia. Non voleva che i suoi nemici la sabotassero o la facessero particolare oggetto di attacchi, sapendo che lui era a bordo.
Il pallone, enorme per sostenere il peso della gondola in legno con rinforzi metallici, era colorato di rosso e sul timone era dipinto lo stemma rakiano: una croce con un cerchio nella sua parte superiore e un triangolo sullo sfondo che Deja intuì essere la stilizzazione del sigillo reale.
Prima di scendere dalla carrozza Zaron si sciolse il nastro blu.
- Così potrai salutare adeguatamente tuo padre.
Deja gli fu grata per quella gentilezza e gli sorrise, poi raccolse le voluminose gonne e si lanciò tra le braccia del padre che la prese al volo, aiutandola a scendere.
Zaron scese dall’altro lato, lasciando a padre e figlia un po’ d’intimità per accomiatarsi, e si avvicinò a Bors.
- Quanti issiani?
Il suo secondo in comando gli rivolse un breve inchino.
- Venti, mio khan. Volevano portarne di più, ma gli altri dovranno seguirci con l’esercito o con l’altra aeronave. Già così staremo stretti.
Fece una smorfia scontenta.
- Già così dovremo dormire a turno.
Lo spazio sull’aeronave non era molto, Zaron era l’unico con una cabina vera e propria, che comunque era più piccola della cella che all’accademia militare aveva diviso con un altro cadetto. I suoi uomini, così come l’equipaggio, dormivano in una stretta stanza, su brandine agganciate alle pareti, le une sopra le altre in quattro righe, così vicine che se un uomo si alzava seduto sbatteva la fronte sulla schiena di quello soprastante.
- Non ricordarmelo. Considerami dei vostri: dormirò con voi.
Bors sbatté le palpebre, stupito.
- Sire?
- Cederò la mia stanza alla regina. Dopotutto siamo sposati solo per metà.
Bors era abituato alle stranezze del suo signore e non era la prima volta che il khan divideva la branda, o il pasto, con i suoi soldati.
- Pensi che gli issiani saranno un problema?
- No, mio khan. Sono soldati ben addestrati e con esperienza.
Bors esitò un attimo.
- Ad avere il comando è un certo lord Ostin. Ho avuto a che fare con lui nei giorni passati: bravo ragazzo, ben addestrato, ma ostile. Se non si calma potrebbe diventare un problema, un problema con un pugnale tra le scapole.
L’uomo gli indicò uno dei soldati issiani e Zaron riconobbe il ragazzo che aveva protestato con Aborn il giorno in cui Issa era caduta. Si accigliò.
- Tienilo d’occhio. Se causa guai dovranno sostituirlo, non mi interessano le sue credenziali.
Bors annuì.
- Come desideri, così sarà fatto, mio khan.
Poi, a malincuore, interruppe il commiato di Deja e Aborn. Lui la stringeva al petto e la cullava, tenendo la guancia appoggiata contro la sua testa. Deja tremava, scossa dai singhiozzi.
- È ora di andare.
Aborn sollevò il capo e lo guardò con occhi lucidi pieni di disperazione. Sua figlia si staccò da lui e fece un passo verso Zaron che le porse il braccio. Deja lo prese.
- Questo non è un addio Aborn, non ti avevo forse promesso così? Torneremo a Issa, non disperare.
Condusse la sua sposa sulla rampa per salire a bordo. Lei si fermò a metà, guardandosi attorno e rivolgendo un ultimo saluto con la mano al padre, che ormai piangeva apertamente. Poi furono dentro.
L’interno dell’aeronave era stato pesantemente modificato rispetto all’originale consegnato dai cantieri issiani. Era stato concepito come un mezzo di trasporto di lusso, ma Zaron lo aveva fatto spogliare di tutti gli elementi inutili, ordinando ai suoi ingegneri di ricavare il maggior spazio possibile per il trasporto di uomini e materiale. Il risultato era stato un ampio vano di carico, diviso tra brande per i soldati, deposito bagagli e una minuscola cambusa con una piccola sala mensa in cui non potevano starci più di trenta persone alla volta. Le gondole di alcune aeronavi poi erano state modificate in modo da poter aprire delle botole da cui lanciare armi o massi, per bombardare dall’alto i nemici. Tra le cose di cui Zaron voleva discutere con Deja c’era la possibilità di costruire aeronavi che fossero dedite esclusivamente al trasporto di merci, convinto che questo avrebbe dato nuovo impulso al commercio, permettendo il veloce trasporto di materie prime deperibili, difficile via mare e impensabile su ruota, oppure allo spostamento rapido di persone, accorciando di settimane i viaggi via terra a cui erano costretti i suoi sudditi.
Per adesso Zaron condusse la sua sposa per i corridoi stretti e bui, fino alla coda della gondola, in cui era stata ricavata la sua cabina. Davanti alla porta la fermò.
- Ti auguro una buona notte, mia signora. Questa è la mia cabina personale, te la cedo. Viaggeremo tutta la notte e tutto il giorno e se non troviamo venti contrari saremo a Halanda prima del tramonto. Mi dispiace se l’accomodazione non è all’altezza, ma lo spazio è limitato.
Deja annuì e lui si concesse finalmente di baciarle la mano appoggiando le labbra sul dorso in un prolungato contatto, fissandola dritta negli occhi, conscio degli sguardi dei suoi uomini e delle due guardie issiane che li avevano accompagnati.
- Fuori dalla porta avrai due guardie rakiane e una issiana. Per qualsiasi cosa sentiti libera di chiedere di me, i miei uomini sanno dove trovarmi.
Detto questo si congedò da lei, dirigendosi verso la plancia per rivedere con il capitano la rotta che avrebbero seguito.
Deja aprì la porta, stordita dagli eventi. Dire addio a suo padre l’aveva distrutta, aveva voglia di rannicchiarsi e piangere. Fece appena un passo oltre la soglia e si fermò interdetta. La stanza era minuscola, lunga e stretta, con un piccolo letto inchiodato alla parete, un armadietto fissato alla parete opposta, un tavolino e un paravento che copriva un angolo della stanza. Tra il letto e l’armadio c’era Larissa che le sorrideva.
- Mia signora!
Deja ebbe l’impulso di correre ad abbracciarla, ma la porta era aperta e i soldati potevano vederle. Trascinò dentro la stanza lo strascico dell’abito, maledicendolo per l’ennesima volta in quella sciagurata giornata, aiutata da Larissa, che poi chiuse con soddisfazione la porta, girando la chiave e mettendo il catenaccio.
- Oh, Larissa! Come sono contenta di vederti! Ma cosa ci fai qui?
Larissa si erse orgogliosa.
- Mi sono offerta volontaria per seguirvi, mia signora! Non potevo abbandonarvi.
Deja fece qualcosa che sconvolse la sua fedele cameriera: l’abbracciò.
- Oh, Larissa, cara, fedele Larissa! Non potrò mai ringraziarti abbastanza!
- Mia regina! Non dovete ringraziarmi, è mio dovere seguirvi, sono orgogliosa di essere con voi!
Deja strattonò con impazienza l’abito da sposa.
- Ti prego, aiutami a toglierlo, non ne posso più di questo … questo …
Si divincolò, emettendo un verso frustrato.
- Lasciate che vi aiuti, mia signora.
Larissa la fece girare e con dita abili aprì i bottoncini dell’abito e i gancetti sul retro del corsetto, facendola finalmente respirare bene da quando lo aveva indossato quella mattina. Si massaggiò il collo e piegò la schiena, grata di sentirsi finalmente libera. Poi con gioia uscì anche dalle gonne.
Lei e Larissa rimasero a guardare per un attimo tutta quella stoffa che occupava il poco pavimento disponibile della cabina.
- Non entrerà mai nell’armadio.
Constatò la cameriera. Poi porse alla regina la vestaglia e le chiese di ritirarsi dietro il paravento, arrotolò come meglio poteva l’abito, sollevandolo poi tra le braccia, e aprì nuovamente la porta.
- Ehi, tu!
Apostrofò uno dei soldati rakiani.
- Prendi questo, portalo nel deposito dove sono custoditi i bagagli della regina e mettilo su una delle casse.
Lo costrinse a prendere l’abito, spingendoglielo tra le braccia, ignorando le proteste del soldato. Con il piede spinse in corridoio un lembo della gonna che ancora si trovava sul pavimento della cabina e sbarrò nuovamente la porta.
La regina riemerse da dietro il paravento, nascondendo dietro una mano una risatina nervosa.
- Missione compiuta, mia signora!
Risero insieme e poi Larissa le mostrò l’armadio, che conteneva un abito per il viaggio e un cambio per il loro arrivo a Halanda. Un altro abito tradizionale notò con disappunto Deja. D’altra parte voleva impressionare il suo nuovo popolo.
Larissa l’aiutò a indossare la camicia da notte e poi le sciolse l’acconciatura, riponendo la corona e i fermagli in un bauletto, contenente pochi altri gioielli. Con un sospiro di sollievo Deja si massaggiò lo scalpo e poi guardò con desiderio il letto, prima di rimanere interdetta.
- Ma tu dove dormirai Larissa?
- Sul pavimento mia signora!
La regina si adombrò.
- Non se ne parla nemmeno: io sono piccola e se ci stringiamo possiamo stenderci entrambe sul letto.
Larissa scosse freneticamente il capo in segno di diniego.
- No, no, no, mia signora, non potrei mai. E poi…
Arrossì.
- Quello è il letto di vostro marito, io non potrei mai stendermici!
Anche Deja arrossì.
- Almeno, ti prego, accetta i cuscini, il pavimento deve essere duro! Avremmo dovuto tenere il vestito, almeno tutta quella crinolina e seta sarebbero state di qualche utilità!
- Oh no, mia signora! Troppe perle e pietre ricamate sulla stoffa: quelle sono dure!
Risero nuovamente, poi Deja prese possesso del letto, insistendo a che Larissa avesse il copriletto e la coperta, oltre che la maggior parte dei cuscini, tenendosene per sé solo uno. Spensero tutti i lumi e al buio Deja ascoltò il respiro di Larissa e il rumore dei motori.
- Secondo te siamo già partite?
La voce di Larissa le rispose dal basso.
- Sì, mia signora. Ho sentito quando ci siamo staccati dal suolo, prima che voi entraste in stanza.
Deja trovò strano non essersene accorta, ma forse in quel momento era troppo sconvolta per l’addio al padre per notare altro. Si raggomitolò, era stanchissima ma troppo agitata per dormire, eppure doveva: il giorno seguente sarebbe sbarcata nella sua nuova casa, non voleva avere un aspetto stanco e sbattuto. Chissà come sarebbe stata la capitale dell’impero, chissà… Scivolò in un sonno profondo e pesante senza concludere il pensiero.
 
 
 
* “I put away childish things” San Paolo, lettera ai Corinzi. La traduzione inglese mi è sempre piaciuta di più. Quella italiana è: “Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino; ma quando sono diventato uomo, ho smesso le cose da bambino”. Non si parla di età anagrafica ovviamente, ma mentale.

 
 
 
NOTE CONCLUSIVE DELL’AUTRICE: Qui si conclude il primo ciclo, quello che si svolge a Issa. Che sudata! Nel secondo libro, La dea della luna, FINALMENTE i nostri protagonisti cominceranno a conoscersi meglio. Vi prego, fatemi sapere cosa avete pensato di Il dio della guerra.
 

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