Il cavaliere e la fanciulla bionda

di Makil_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***
Capitolo 9: *** IX ***
Capitolo 10: *** X ***
Capitolo 11: *** XI ***
Capitolo 12: *** XII ***
Capitolo 13: *** XIII ***
Capitolo 14: *** XIV ***
Capitolo 15: *** XV ***
Capitolo 16: *** XVI ***
Capitolo 17: *** XVII ***
Capitolo 18: *** XVIII ***
Capitolo 19: *** XIX ***
Capitolo 20: *** XX ***
Capitolo 21: *** XXI ***
Capitolo 22: *** XXII ***
Capitolo 23: *** XXIII ***
Capitolo 24: *** XXIV ***



Capitolo 1
*** I ***




Il manto sauro della giumenta era divenuto un tutt’uno con il terriccio arido di quella piana.                                      
Quando si era accasciata per terra, Bart aveva capito che era giunta la sua ora, e aveva avuto la decenza di allontanarsi dalla cavalcatura, accompagnandola dolcemente per terra. “Non avrei mai pensato di doverti dire addio così rapidamente” rifletté “eri l’unica compagnia che mi restava”. Si avvicinò dolcemente al corpo della giumenta e si mise a gattoni al suo fianco.                                                                                                                          
«Quantomeno sei andata via senza soffrire …» sospirò «o forse mi sto sbagliando, eh, vecchia mia?». Bart si era affezionato abbastanza a quella bestiola dopo essere partito da Sette Scuri. Avevano trascorso parecchie settimane insieme lungo la strada. Se chiudeva gli occhi poteva udire ancora gli insistenti nitriti di rabbia che emetteva quando Bart non le dava il suo pezzo di carota, parte della sua calda pagnotta o almeno un po’ d’acqua. “Acqua … è quella che ti ho fatto mancare”. Purtroppo la guerra aveva ridotto allo stremo i villaggi, e con loro anche gli uomini. Il cibo era venuto a mancare immediatamente, e l’acqua era come evaporata. In giorni caldi come quelli l’acqua serviva più del cibo, perché se alla fame si poteva resistere, la sete non tollerava i deboli. Bart si dissetava bevendo pinte di birra su altre pinte di birra, ma ad una giumenta non si poteva dar da bere qualcosa di simile. S’inginocchiò sul terreno, posando al suo fianco la spada e la cintola per mettersi comodo. Tentò di scavare con le mani, ma tutto ciò che ottenne fu un dolore atroce alle dita. Il terreno era troppo duro e secco per poter essere bucato. Decise allora di togliere il corpo rinsecchito dalla strada e di nasconderlo da sguardi indiscreti. In realtà avrebbe preferito seppellire la giumenta per proteggerla dai corvi o dalla pioggia, lei ne era terrorizzata. Ma dovette rimpiazzare presto quell’idea. Alzatosi da terra, Bart afferrò la giumenta per le due gambe anteriori e la trascinò di forza. “Pesa meno di quanto peserebbe se fosse la metà di quel che era”. Si era ridotta ad un insieme accozzato di ossa sporgenti, ognuna delle quali riconoscibile attraverso la pelle fina ed asciutta. Nel trascinarla Bart impresse qualche solco sul terreno. Si allontanò di poco dal punto in cui aveva lasciato spada e cintola, quindi fece un ultimo e decisivo sforzo prima di adagiare gli arti della giumenta dietro ad un cespuglietto.
«Voglio sperare che tu sia sempre al sicuro qui dietro.» disse Bart guardando le spoglie della sua compagna di viaggio. Poi, estrasse una carota fresca dalla tasca larga delle brache e la posò accanto alla sua testa. «Chi mi terrà compagnia adesso? La strada fino a Roshby è ancora lunga, vecchia mia. Sarai sempre nei miei pensieri, dolce creatura. Spero che per te sia lo stesso». Malgrado la sua devozione alle Grazie, al momento non gli balzava in mente nessuna preghiera da dedicare alla sua compagna di viaggio. “È stata gentile con me. Un dono gentile”. Era stato Dalton Kordrum, signore di Sette Scuri, ad affidargli quella giumenta. Lo aveva fatto per permettergli di vincere la distanza che lo separava dalla sua meta; Roshby. L’infermo Dalton stava ancora perendo sul letto di morte quando Bart aveva lasciato il regno di Sette Scuri su suo ordine. «Tua è la mia giumenta, valoroso cavaliere. È una creatura incauta e di pessima compagnia.» l’aveva redarguito prima di salutarlo per l’ultima volta «e si adatta a te, Bart lo Sventurato». Per un momento avvertì come una fitta allo stomaco. “Il tuo signore non avrebbe mai permesso che la sua giumenta perisse tanto a lungo” si disse. “Lui avrebbe posto fine alle sue sofferenze senza ridurla allo stremo. Sciocco, ecco cosa sei”.
Il sole stava calando ad ovest e il suo chiarore stava andando sempre più affievolendosi. Gettò un’ultima occhiata alla giumenta coricata su un solo fianco. «Adombrati, dolce bestiola, e abbi cura di te.» disse infine, quindi la baciò e poggiò una carota sulla coscia della giumenta. Quando si ricompose, il sole era scomparso oltre le dune ad ovest, e l’aria si stava raffreddando un po’. “Quel minimo che basta per implorarle di restare ancora ed ancora” pensò stanco Bart. La giumenta lo aveva tenuto talmente tanto impegnato da non fargli notare cosa stesse accadendo attorno a lui. Sotto le braccia, seppur protette da una leggerissima camicia di lino, si erano formati due enormi chiazze di sudore. Aldilà di quelle due prove schiaccianti, per nessun altro motivo si poteva dire che Bart avesse faticato. Eppure si reggeva in piedi a stento. Negli ultimi giorni la sua marcia oltre le valli si era fatta sempre più ardua. Aveva lasciato la strada alle sue spalle parecchie settimane dopo la partenza, per immettersi nuovamente sul percorso solo dopo aver superato Pugno Sbocciato. Il territorio ostile delle Terre dei Venti era dimora fissa di predoni e razziatori durante quei periodi avversi, e Bart non avrebbe potuto sopportare l’idea di correre un rischio così elevato passando sotto il naso di tanto losche personalità. In primo luogo avrebbe dovuto rispettare la sua promessa, e certamente non sarebbe stato possibile se l’avesse infranta in partenza. Sapeva che Dalton era stato sconfitto, ma finché i suoi sostenitori vivevano anche lui avrebbe continuato a vivere. E Bart, fino a prova contraria, si reputava uno tra i tanti amici del trapassato signore di Sette Scuri. «Va’ e battiti in mio nome sul campo di Roshby. Vinci, se proprio è necessario, ser Bart, ma lasciati sconfiggere almeno una volta per dare ad altri la soddisfazione di avermi abbattuto. E sii forte». Non avrebbe dimenticato mai le parole pronunciate da Dalton Kordrum poco prima di abbandonarlo al suo destino. Era stato il suo signore, il suo educatore ed il suo guerriero preferito. Bart tornò nel punto in cui la giumenta era collassata per prendere ciò che aveva lasciato per terra. Impugnare per un momento la spada gli immise nuovamente una piccola ma febbricitante voglia di proseguire, seppur da solo, il viaggio. Secondo le parole dell’ultimo esperto che aveva incontrato lungo il tragitto, patres Vynn, Roshby non distava poi così tanto.                         
Bart era molto meno forte di quanto lo era stato prima di partire da Sette Scuri. Il viaggio aveva tentato di indebolirlo e sfiancarlo, ma il ragazzo aveva resistito bene ai colpi. Era un giovane alquanto slanciato per la sua età, dalle spalle larghe e le braccia forti, malgrado fosse abbastanza magro. La folta zazzera di capelli biondi era scossa da delicati soffi di vento, che mischiava le ciocche dorate al bronzeo colore della sua pelle. Improvvisamente la leggiadria del silenzio di quel momento venne smorzata dal delicato suono di una campana che risuonava in lontananza. Bart portò una mano sulla fronte per guardare meglio verso nord. A giudicare dalle rigide mura nere che scorgeva a poca distanza da quella stradicciola, il suono doveva provenire dalla cittadina di Werny. Aveva bisogno di mangiare e riposare, e non gli dispiaceva affatto il pensiero di passare una notte su un letto comodo e sotto delle calde coperte.  La campana suonò un’altra volta.  “Due rintocchi ci invitano al raccoglimento e alla preghiera. Sono sicuro che a Werny ci sarà un posto per un cavaliere come me. Oltretutto ho una giumenta da pregare.

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Note d'autore: 
Carissimi lettori, vi ringrazio calorosamente per aver letto fino a questo punto del capitolo!
Volevo spendere poche parole in merito a ciò che avete letto (una cosa che mi proporrò di fare nel tempo, per assicurarmi che tutto proceda per bene). Questa è la prima storia a cui mi dedico con serietà, determinato a proseguirla fino ad una possibile conclusione. "Il cavaliere e la fanciulla bionda" altro non è che una raccolta di novelle incentrate sulle vicende a Pantagos di Bart di Fondocupo. Chiaramente avrete letto molti termini a cui non sapete dare un'esatta definizione. Vedrete che capirete molto di più col proseguire degli eventi. Lavoro su questo mondo, comune ad un altro romanzo, da più di due anni e ho sentito che, oggi, c'era il bisogno di condividerlo in parte con voi. Per questo motivo vi esorto a lasciare una recensione, buona o cattiva che sia, in grado di farmi capire quanto possa valere la mia storia. Non c'è molto da dire su questo capitolo, spero siate così gentili da continuare la lettura. L'aggiornamento avverrà ogni settimana, il lunedì (salvo imprevisti da cui non sono esonerato). Buona serata a tutti! :)

 

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Capitolo 2
*** II ***


 
Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata. 
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Quando giunse a Werny, del sole non restava altro che il ricordo.
Ad oriente, il cielo era chiazzato da lacrime di porpora che si apprestavano a lasciare spazio alle tenebre della notte. Werny era una cittadina molto ben tenuta, ubicata nel ventre di quelle terre insolitamente fertili che sorgevano davanti alle sinuose alture di Campo Verde. Le fondamenta delle sue mura erano fatte di granito, ma, man mano che si innalzavano, davano spazio alla robusta pietra nera, simbolo di una loro recente restaurazione. La cittadina si estendeva in forma quadrangolare su quelle che un tempo erano state le Terre dei Fiori, ma nessuno aveva dubbi sul fatto che, adesso, di Terre dei Fiori non restava neppure il nome. Il territorio era stato annesso alla Valle del Vespro secoli orsono, e i fiori avevano iniziato a seccare già allora. Ormai, le strade che dalle Terre dei Venti si dipanavano fino alla Valle del Vespro, erano circondante da decine e decine di campi inariditi e disseccati, dove perlopiù crescevano indisturbati rovi ed erbacce. Ma questi erano solo alcuni degli effetti disastrosi della guerra.
Per contro, Bart aveva notato che quel luogo era più fertile di quanto si fosse aspettato. La porta di principale ingresso alla cittadina di Werny era spalancata, pertanto Bart non si fece problemi ad entrare. Dalla sommità di una torretta le campane stavano continuando a suonare, ed il loro era l’unico suono presente in quel luogo. Non c’erano bambini divertiti in giro per quelle stradicciole, né donne intenti a scambiarsi pettegolezzi o a stendere i panni gocciolanti, e neppure uomini chiassosi uniti in chiacchiere inutili.
Dove sono tutti?” si chiese Bart avanzando in quella spoglia e desolata cittadina. Le strade di Werny erano davvero molto strette. Era probabile che quattro cavalli disposti in fila non sarebbero riusciti a camminare senza restare incastrati. Bart continuò ad avanzare osservando i tetti marroni delle casupole stagliate contro il cielo. Scorse qualche luce fievole proveniente dalle finestre sbarrate delle abitazioni, e questo bastò a convincerlo di non essere solo. All’angolo della strada sorgeva una locanda malandata, poco più grande delle abitazioni che aveva scorto lungo la via. Bart spinse con entrambe le mani la porta ed entrò. Perfino ad un ragazzo appena fatto come lui quel luogo apparve poco confortevole. Le pareti erano sporche di salnitro e, insieme a sedie rovesciate e tavoli impolverati, giacevano numerose stoviglie sul bancone principale, bisognose di una giusta lavata. Il locandiere era un uomo goffo, sulla quarantina, con una barbetta ispida e grigia. Era probabile che, date le sue guance paonazze, avesse bevuto qualche calice di birra nell’attesa di un buon cliente. La sua, quella del locandiere e di un anziano uomo, erano le uniche presenze nella locanda.                            
«È libero?» chiese Bart all’uomo seduto alla sua destra, indicando la sedia di fronte a cui era seduto. L’anziano fece cenno di sì col capo. Il suo volto era rachitico e sporco di fuliggine, così come sporca era la barbetta mal rasata che portava sul mento. A giudicare dalla lunga faretra rossa che svettava dalla spalla sinistra, l’anziano doveva essere un arciere, ma non aveva né arco né frecce a dimostrazione di ciò.                                                                                                    
«Buon uomo, sai dirmi per caso dove sono finiti tutti?» domandò insospettito Bart. L’anziano sollevò il capo con un lentezza che lo sorprese, per rivolgergli un’occhiata assonnata e stanca.       
«Me lo chiedo anch’io da qualche mese ormai.» rispose con voce rauca l’uomo. «Spariti, ser, tutti quanti! Da quando la Guerra Grigia ha preso il sopravvento, non un uomo né una donna si vedono più in giro. Vedessi come si accalcano nelle loro case! Molti cavalieri hanno avuto da fare col torneo, ser, e sono partiti.» Poi l’anziano alzò la mano verso l’oste, che si precipitò di fretta verso il loro tavolo, come scosso da un brivido di febbrile eccitazione. «Una pinta di birra» ordinò l’arciere senza distogliere lo sguardo da Bart.
«Due» sottolineò Bart «E qualcosa da mangiare, se è possibile.»                                                                                                                          
«Abbiamo soltanto carne di montone della scorsa battuta di caccia, pane nero e secco e qualche porzione di lenticchie e cipolle.»                                                                                                                                                                                      
«Prendo tutto.» disse Bart stupendo entrambi gli uomini che aveva di fronte.                                                             
«Tutto quanto?» domandò il locandiere sgranando gli occhi. «E sia, ser. Se questo ti compiace.» Poi l’uomo tornò al suo bancone, per scomparire oltre una rampa di scale. Prima di partire da Sette Scuri, Dalton Kordrum gli aveva affidato un’ingente quantità di ori. «Non dissipare la mia eredità» gli aveva detto scherzoso. Ma Bart aveva preferito lasciarne gran parte ad Amisa Witeolm, la vedova di Dalton, per poter esserle vicino in quel momento tanto ostile per lei. Dalton era morto sul suo letto, con le mani strette tra quelle della sua signora, dopo aver sofferto a lungo le peggiori pene del mondo. Il signore di Sette Scuri era stato contagiato dal Fiore Rosso, la spietata malattia che sopraggiunse con l’arrivo delle truppe delle Terre Spezzate, alleate coi comandanti della Punta. Un morbo difficilmente placabile che si saziava delle forze vitali di qualsiasi uomo, forte o debole che fosse, fino a ridurlo a niente poco di meno che un ammasso di pelle asciutta e flaccida. Dalton era stato un giudice estremamente severo, un lupo forte e vigoroso. Lo stesso Lennard Pomsalty, suo alleato, era stato detto Fuoco d’Avorio.  Eppure, il Fiore Rosso non aveva risparmiato né l’uno né l’altro quando si erano alleati per sconfiggere i ribelli alle Colline di Sale, nella Battaglia Rossa.     
Bart portò le mani alle tasche e le tastò a lungo, per poi fare lo stesso con la casacca che pendeva dalla spalla destra. “Se non altro devo ricordarmi di tenere qualcosa per l’armatura” pensò “E per una nuova giumenta”. Entrambe cose che gli mancavano. Se non fosse stato per la siccità, però, una l’avrebbe avuta ancora. «Niente armatura, mia signora, appesantisce soltanto la marcia. La comprerò a Roshby.» aveva detto ad Amisa. In realtà lo aveva fatto per non appesantire la marcia della giumenta, anche se pareva non essere servito a molto. Bart tornò a rivolgersi all’anziano arciere. «Hai menzionato un certo torneo, si tratta di Roshby per caso?»           
«Certamente, ser. Se non di quello, allora di quale?»                                                                                                                                                                                   
«Sai dirmi per caso a quanto dista da qui?»                                                                                                                               
«Roshby? Due giorni a cavallo, pregando le Grazie che tutto vada per il meglio.» rispose l’uomo grattandosi il mento. «Anche mio figlio ne ha preso parte, per gioco direi. Non penso che potrà partecipare. Quel torneo è per signorotti e guerrieri famosi, non per cavalieri erranti o sconosciuti. Lo stesso vale per te, forse». L’arciere portò le mani sul tavolo, le dita intrecciate sotto i guanti marroni.                                                                                                                          
«Oh, no, signore. Suo figlio ha fatto bene. Chiunque può prenderne parte.»                                                                                                
«Chiunque, vero.» ribatté sconfortato l’arciere «Ma non lui.»                                                                                               
A prescindere dal lignaggio o dal titolo, Bartimore avrebbe partecipato al torneo. Dalton aveva delegato lui per farlo combattere in sua vece, e per confermare il tutto gli aveva anche scritto ogni cosa su una missiva vergata. «Dovrai consegnare questa a Wolbert Dorran. A lui e nessun altro.» gli aveva detto dandogliela in mano.
In quel momento, la porta della locanda si aprì di colpo lasciando entrare una figura tarchiata e piuttosto bassa. L’uomo, anch’egli abbastanza avanti con gli anni, aveva una lunga barba grigia lunga quasi fino all’ombelico, ed in perfetto contrasto con la pallida tunica bianca che vestiva. Si trattava di un devoto, Bart non ebbe dubbi su questo. Qualche capello aveva resistito alla forza del tempo, e non era caduto via. Ma per il resto, l’uomo era quasi totalmente stempiato. Il devoto si avvicinò al tavolo, dunque afferrò una sedia vicina e sedette insieme a loro. La sua tunica svolazzava da un lato all’altro ogni volta che egli si muoveva.                   
«Benvenuto, ser, che le Grazie ti benedicano!» enunciò. Mera formalità, quella dei devoti, rivolgere ad ognuno lo stesso augurio. Non credeva affatto che avrebbero detto lo stesso se si fossero trovati a baciare la guancia del nemico. Bart gli sorrise e ricambiò l’augurio.                                                                                                    
«Qui per riposare in vista del torneo?» chiese l’uomo palesemente incuriosito dalla sua presenza. Dal tono di voce pomposo e fuori luogo, a Bart sembrò che quell’uomo fosse nervoso.                                                                                            
«Esattamente, mio signore.» rispose Bart. «E un po’ di ristoro mi sarebbe d’aiuto in giornate come queste. La mia giumenta è morta sulla strada e ho avuto da fare con lei. Credo di meritarmi un po’ della misericordia delle Grazie in vista dei combattimenti.»                                                                                                                       
Il devoto si rizzò sulla sedia. «Combattimenti… so che per noi devoti la questione dovrebbe essere indifferente, ma… posso sapere per chi combatti?». L’espressione dell’uomo si fece rude. Il suo volto incartapecorito e dello stesso colore della pergamena ingiallita si curvò. In tempi oscuri come quelli che correvano questa domanda segnava il confine tra il voler vivere e il voler morire. L’unica via di scampo, a volte, era non rispondere. Se si fosse trovato dinanzi ad un’altra figura, Bart non avrebbe certo rischiato. Ma quello che aveva di fronte era un devoto, un uomo del cielo inviato a divulgare la parola delle Grazie, scelto dalla Torre dei Fiori e dal giudizio della Grazia Madre. Se gli uomini non potevano fidarsi di una figura del genere, allora di chi dovevano fidarsi?
Bart si guardò intorno comunque. Era meglio diffidare, anche solo per un momento. Poi, poggiando i gomiti sul tavolo e spingendosi in avanti, disse:                        
«La mia spada è e sarà sempre al servizio dell’Accademia.»                                                                                                                                              
Il devoto sorrise consolato. «E allora sarai sempre il benvenuto qui a Werny, ser. Il mio nome è Baricald.»                                              
Anche Bart si presentò: «Ser Bartimore di Fondocupo». Di certo un cavaliere non poteva vantare di essere nato in quel luogo. Ma Bart, per quanto fosse nato proprio a Fondocupo, non aveva mai conosciuto quel luogo, a detta di tutti, tanto ostile. A pochi mesi dalla sua nascita era stato condotto in fasce a Sette Scuri dalla madre Wanda, la quale aveva ottenuto il grado di incantatrice di Dalton Kordrum. Una malattia, però, aveva stroncato la sua vita, almeno secondo i resoconti di Amisa Witeolm, e lui era stato cresciuto dalla signora e dal signore di Sette Scuri. Avrebbe potuto dire di essere originario di Sette Scuri, dopotutto era vero in parte, ma perché rinnegare le proprie origini?  
In quel momento, il taverniere giunse nuovamente nell’atrio della locanda, portando goffamente con sé tre vassoi di legno scuro. Tra pinte di birra, boccali, stoviglie e piatti di cibo, Bart si chiese come riuscisse a camminare. L’oste posò tutto sul tavolo e riscosse il denaro dai commensali. Nel farlo, alcuni rotoli di grasso gli fuoriuscirono dal grembiule.
«Sono tredici argenti, ser, per la cena. La birra non è nel conto» gli disse. Bart afferrò il denaro dalle tasche e glielo posò nella mano. Sul vassoio che gli era stato poggiato davanti c’era un piatto colmo di carne di montone filamentosa e secca. Il pane era davvero nero come aveva predetto il locandiere. L’unica cosa invitante sarebbe stata la birra, se Bart non avesse avuto la stessa fame di un facocero a digiuno da mesi. L’ultima volta che aveva mangiato qualcosa risaliva a quattro giorni prima che la giumenta s’accasciasse lungo la strada. Aveva trovato quella locanda a due giorni di marcia da Sette Scuri, che, rispetto a quella in cui si trovava, era molto più invitante, grande e popolata.                                                                                                                                                                                      
Bart afferrò il boccale e ne sorseggiò il contenuto. La birra era buona, non si poteva negare.                                                   
«Oh, ser. Il pane è duro, certo. Ma immergilo nella birra, vedrai che verrà meglio.» gli suggerì il vecchio arciere che pareva essersi svegliato dal suo sonnecchiare. L’uomo stava facendo proprio ciò che suggeriva.                                          
«In tempi come questi, sfido chiunque a trovare una birra migliore.» disse il devoto Baricald che stava bevendo qualcosa di molto chiaro all’interno di un calice più grande. A giudicare dalla consistenza non doveva essere birra.
«Vieni dalle Terre dei Venti, non è così?» domandò il devoto inarcando le sopracciglia.                                                                   
«Come fai a saperlo?»                                                                                                                                                                                    
«Oh, una questione d’orecchio. So riconoscere le cadenze nei modi di parlare delle varie regioni di Pantagos. Sono stato a lungo nelle Terre dei Venti, per gli studi religiosi alla Torre dei Fiori. Be’… davvero molto, ora che ci penso. Poi mi fu dato il compito di viaggiare per le Terre Spezzate.»  
«Nelle Terre Spezzate?» domandò Bart incuriosito. «Così lontano?»                                                                            
«Talvolta, pur di portare la pace tra gli uomini, i devoti devono raggiungere terre ostili. La Torre dei Fiori cercava di fare da tramite per il benessere comune. Come immaginerai, però, in quel luogo, a Caantos, dove fui inviato, non una sola persona voleva ascoltarmi. Quegli uomini hanno usanze troppe ambigue per noi e sono troppo diversi. Parlano e scrivono in un altro modo, e in molti sono neri come il carbone. Se in secoli di storia nessuno ha mai avuto la capacità di congiungere il nostro mondo con il loro, come avrei dovuto farlo io? Durante quegli anni conobbi Agabbo Nobb, il Ciclone Nero, il quale aveva preso in ostaggio alcuni membri della mia piccolissima scorta, additandoli come traditori. Ero così debole, ser Bart, che non seppi reagire. Avrei dovuto riferirgli di ridarmi indietro i miei amici, quei poveri ragazzini innocenti e deboli, ma non ne ebbi il coraggio. Quando fui chiamato a rispondere del mio arrivo a Caantos, piuttosto che affrontare il Ciclone Nero, scappai a bordo di una galea e tornai a Pantagos. Prego ogni sera, dico davvero, affinché le Grazie mi perdonino per questo mio atto di spregevole disumanità. E prego affinché prendano la mia vita piuttosto che quella dei ragazzi che ho lasciato nelle Terre Spezzate, se ancora è possibile.»                                                           
«È per loro che suonavano le vostre campane? » domandò Bart portando un’altra volta la birra alle labbra.  Il devoto scosse il capo. «Suonavano per Werny. Tu credi nelle Grazie, cavaliere?»                                                                                
«Sì» confermò Bart. Le cinque Grazie erano le uniche a cui Bart poteva rivolgersi quando tutto sembrava andare male. Da piccolo, era stata la balia Reyanne ad indirizzarlo verso le braccia calorose ed accoglienti della Grazia Madre. «Lei, insieme a le sue quattro figliolette, ti difenderà per sempre. Bartimore, non rinnegarle mai!» gli diceva l’esperta. E a Bart, l’idea di essere difeso da loro non dispiaceva affatto. Né gli dispiaceva pregarle.    
«Ebbene, Werny ha bisogno di tanta fede per ora. Qualcuno si è accanito contro i più deboli, contro di noi. E solo la speranza di credere potrà darci la forza di rialzarci da terra.» Il devoto ingollò un altro sorso di quel che stava bevendo. «Sai, qualche notte fa Werny è stata attaccata aspramente. Ribelli coi forconi hanno appiccato il fuoco per ben sei volte, infiammando questa locanda e tante altre strutture. La nostra cittadina è impoverita da carestie e sommosse. Non abbiamo più alcun sussidio da nessuno. Un tempo, quando patres Gareth governava la cittadina in qualità di castellano, di Werny si poteva dire tutto meno che fosse vuota. Ma adesso che io ho dovuto prendere in mano le redini del suo governo, le cose sono cambiate. Che sia forse la mia incapacità politica? Arriverà il giorno in cui Werny sarà abbandonata da ogni abitante, e prima che sia dannatamente tardi anche io dovrò lasciarla. C’è già chi ha iniziato a farlo.»     
Bart lo aveva notato. Afferrò un pezzo di pane e lo accompagnò in bocca con entrambe le mani. La birra era terminata e adesso non gli restava che darsi da fare per saziarsi con il montone e il pane. Bart era abbastanza ignorante in fatto di politica, ma sapeva bene come funzionasse quel genere di cose. Le cittadine, possedimenti terrieri di regni più grandi di loro, dipendevano esattamente dal signore del regno stesso. Solitamente, il governo dei possedimenti di un regno veniva affidato a persone capaci come signorotti meno nobili o esperti inviati dall’Accademia. Ma mai in vita sua Bart aveva conosciuto una cittadina retta da un devoto.                   
«E dove sta il vostro signore in tutto questo?» chiese ai due uomini seduti insieme a lui.                                                       
Il devoto prese nuovamente la parola: «Samwal Wotor? Un bambino di soli otto anni che si diverte con bambolotti e soldatini di legno. Non ha pugno né capacità di governo. Come potrebbe aiutarci? E l’Accademia si interessa ben poco di questi avvenimenti, al momento. I patres e le matres sono stati richiamati in riunione all’Accademia per indire il torneo di Roshby, e pochi di loro hanno fatto ritorno alle loro sedi.»                                
A quel punto fu l’arciere a parlare, gli occhi socchiusi e il tono nuovamente pacato. «A noi chi ci pensa, ser? Alla nostra bocca che si affama e ai nostri stomaci che brontolano? Oh, di certo non il nostro signore. Di certo non Samwal Wotor il Re Fanciullo. Dovrebbero chiamarlo il Re Fannullone, altroché!»                                        
Il devoto gli rivolse un rapido sguardo pungente, che bastò per sedarlo un’altra volta e farlo tornare quieto.                    
«Dunque, cosa dovrei farmene io della vittoria di quella o dell’altra fazione nella Guerra Grigia? Quei nobili uomini che si fanno chiamare signori, che si fregiano di quel titolo in ogni angolo della strada, si stanno massacrando a vicenda. Ha avuto inizio per una richiesta, quella fastidiosissima richiesta del Cavaliere Rosso! E ora ecco dove siamo arrivati!»        
Il devoto alludeva chiaramente al motivo per cui la Guerra Grigia aveva preso il sopravvento. Era nato tutto per uno stupido pretesto, probabilmente solo per avanzare pretese di possesso su terre o castelli. O forse per rancori mai totalmente affievoliti tra due partiti con origini differenti. Sta di fatto che il Cavaliere Rosso, Renegar Redrock, aveva chiesto all’Accademia che fosse ridata alla Punta la possibilità di condannare a morte i giustiziati tramite l’ingollo, l’antica tecnica di uccisione che si serviva del fuoco di Ghysa per bruciare dall’interno i condannati. Senza alcun ripensamento, il Supremo Patres Polwyr aveva rifiutato quella folle richiesta, facendo insorgere contro l’Accademia stessa, e contro il proprio governo, la furia del Cavaliere Rosso. E, malgrado la morte di Renegar Redrock, la Guerra Grigia non era ancora terminata. Il suo piano facinoroso aveva continuato a vivere, guidato questa volta dalla spietata mente di Roger Wyndwat.                                                                                                                                 
«Vedi, tra i partecipanti al torneo di Roshby e i suoi spettatori, tra i fuggitivi per le oscenità delle scorse sere e i paurosi che si nascondono dentro le loro case, di Werny è rimasto solo uno scheletro spoglio.» Il devoto Baricald portò il pugno sulle labbra e ruttò sonoramente. Poi, dopo aver svuotato tutto il calice in bocca, si voltò per riempirlo nuovamente.
«Mio signore, bere in questo modo ti ucciderà.» lo avvertì Bart.            
«Sono vecchio ormai. Se anche non dovesse uccidermi l’idromele, credi che vivrei tanto a lungo da vedere concludersi questa guerra? Neppure i bambini vivono quanto dovrebbero vivere. E io che diritto ho di vivere più di un innocente ragazzino?» Il devoto ricadde sulla spalliera della sedia, piegandola leggermente all’indietro. «Oh, ti starò annoiando! Tu sei qui per riposare e io ti sto disturbando più del dovuto. Adesso ti prego di scusarmi soltanto un momento.» L’uomo si alzò e uscì fuori dalla locanda rantolando qualcosa sottovoce e trattenendo al petto la lunga veste bianca.        
Bart era fin troppo impressionato da quei suoi discorsi sulla Guerra Grigia. «A Roshby c’è un torneo. Un torneo indetto dall’Accademia per far ricongiungere le due fazioni ribelli e legarle con l’indissolubile fermaglio della pace» gli aveva detto Amisa. «Fa’ di tutto per far valere la voce dei deboli, Bart. Fa’ di tutto!» “La voce dei deboli” pensò Bart. Poi il cavaliere alzò la mano richiamando l’attenzione del locandiere.
Ancora una volta, questi si precipitò verso di lui esibendo gli strati di grasso flaccido che gli pendevano dalle vesti. Bart prese tra le mani il piatto di lenticchie e cipolle e lo alzò.                                               
«Quante altre porzioni te ne restano?» gli domandò.                                                                                                                                                 
Il locandiere inarcò le sopracciglia, incuriosito non poco dalla sua domanda.          
«Umh, eh …» Si fece qualche conto sui polpastrelli e poi rispose «… una cinquantina, circa. Vuoi anche quelle? Per le Grazie! Sarai pure giovane, ma mangi più di tutti i miei figli!»                                     
«Esatto.» rispose Bart «Più una stanza per la notte. A quanto?»           
«Facciamo sessanta argenti per tutto, d’accordo?»
Bart tornò a tastare il contenuto delle sue tasche, poi alzò lo sguardo verso l’oste. «Solo se mi prometti di distribuire cipolle e lenticchie ad ogni abitante di questa cittadina. Oh, e di’ che le manda Dalton Kordrum.»
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Note d'autore:
Rieccoci qui, cari lettori! In questo periodo ho ricevuto un paio di recensioni, per le quali ringrazio calorosamente ognuno di voi. Purtroppo il testo non ha un'impaginazione particolarmente accattivante (non riesco proprio a fare di meglio), ma spero che la trama, i personaggi e le azioni possano colmare questa mancanza. Come promesso, ecco qui il secondo capitolo della mia storia. Dunque, che ne pensate del gesto di Bart? Cosa credete che si celi dietro la figura del devoto Baricald e cosa ne pensate del suo comportamento? Ha parlato in quel modo per far compiere volutamente quel gesto a Bart o ha soltanto agito spinto dal suo animo caritatevole? Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, ci vediamo alla prossima pubblicazione (settimana seguente) e nelle recensioni (per cui mi prendo la briga di leggerle e rispondere). 
Un saluto, Makil_ 

 

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Capitolo 3
*** III ***


Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 

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La stanza era molto più accogliente di come l’aveva immaginata.
Una vasta varietà di delicate stoffe color porpora erano stese sul pavimento di legno. L’oste gli aveva detto che quelli erano tappeti di Tyt, tessuti dalle mani laboriose di una balia. Sul tetto erano disposte, in successione, file di assi di legno che, nel complesso, affidavano alla stanza un inusuale senso di calore. Il letto di piume era collocato al centro dell’appartamento, ricoperto di tendaggi marroni, di fronte al caminetto spento e dalle braci ridotte in ceneri nere.
Dopo aver chiuso alle sue spalle la porta, Bart si slacciò i sandali e li posò ai piedi del letto. I talloni e le dita dei piedi erano doloranti e terribilmente gonfi. Bart si stravaccò nel letto e iniziò a massaggiarli. Non poco lontano dalla sua posizione, notò un angolo simile a quella che sembrava essere una zona in cui potersi dedicare alle proprie necessità. Accanto a una piccolissima latrina c’era anche una stretta vasca d’ottone dalle gambe tozze e contorte riempita d’acqua. Bart non poteva dire che non fosse necessario darsi una bella strigliata prima di andare a dormire. Ogni muscolo gli doleva sotto la maglia e, quando la tolse via dalla testa, notò che il petto era particolarmente arrossato dal sole. Sfilatosi le brache, di ser Bart restò solo Bartimore di Fondocupo, un ragazzino quasi per poco sviluppato, ma cresciuto troppo in fretta con in mano una spada e sul corpo un’armatura.
Scivolò dentro la vasca in un battibaleno. L’acqua era gelida e limpida, ma quando immerse dentro il primo piede, una macchia scura si diradò lentamente nella superficie. Quella sensazione di freschezza che avvolse il suo corpo lo fece sentire pulito. Iniziò a strigliarsi di dosso la polvere nera che aveva sulle braccia, a mani nude. Poi passò lentamente alle gambe. Strofinò per  bene le mani sotto al collo, dietro alle orecchie e sulla nuca, inumidendosi i capelli. Poi si prese tutto il tempo che gli serviva per passarsi le mani sul volto, massaggiandolo e bagnandolo d’acqua fresca. Era da tempo che non faceva una cosa del genere.
Un bagno come quello era tutto ciò che avrebbe potuto chiedere al momento. “Un dono delle Grazie” pensò. Avrebbe voluto restare per molto tempo dentro la vasca, avvolto dal fresco abbraccio dell’acqua gelida raffreddata dalla notte, ma non poté. Qualcuno bussò alla porta in modo perentorio.   
«Ser Bart» lo chiamò una voce dall’esterno. «Posso accomodarmi?»                                                                                   
«Solo un momento.»                                                                                                                                                                        
Bart non riconobbe la voce poiché attutita dalla spessore della porta. Immediatamente balzò fuori dalla vasca, grondante d’acqua e con la fronte imperlata di gocce. Afferrò in mano la prima cosa che gli capitò sott’occhio, la sua stessa maglia, e con quella si asciugò rapidamente. Poi, ancora bagnata, la indossò facendo scivolare le braccia dentro le maniche, mentre già le mani erano in cerca delle brache. Quando si fu rivestito, aprì la porta.
La sagoma scura del devoto Baricald era stagliata nel corridoio buio, ammantata da una cappa nera sopra alla solita veste bianca, il cappuccio tirato sul capo. Non appena la porta fu abbastanza aperta da permettergli di entrare, Baricald si immise con prepotenza nella stanza.                                                                                                                                                              
«Perdona l’insistenza, ser Bart.» cominciò col fiatone. «Prima di tutto ho davvero bisogno di ringraziarti a nome di ogni cittadino di Werny. Il tuo gesto, mio signore… Oswald mi ha informato. Sei stato fin troppo generoso con noi. Sono davvero commosso. Il detto è vero, allora: non c’è cavaliere più umile di colui che è nato tra i ricchi.»                                                                                                                                              
«L’ho fatto per Werny. Consideratelo un dono dei Kordrum.» disse Bart.                   
«I Kordrum» ripeté il devoto con gli occhi dispersi nel vuoto. «Tante lodi a loro, dunque. E cinque grazie al tuo signore.»       
«Lui è morto» disse Bart con un tono che non ammetteva replica.     
«E per questo ti offro le mie condoglianze, ser Bart». Il devoto chinò lievemente il capo. «Non intendevo arrecarti fastidio: saprai meglio di me cosa significa vedere un proprio caro morire.»
“Se lo so?” si disse Bart. Avrebbe voluto non farlo, in verità, benché di quei tempi persino i bambini imparavano a conoscere la morte ben prima del gioco.                                   
Il devoto Baricald prese la sua mano tra le sue e si chinò di fronte a lui, riservandogli una riverenza molto regale.                                                                                                                                                                                          
«Spero tu non crederai che io abbia detto quelle cose per spingerti a fare questo gesto. So che hai bisogno di denaro per il torneo di Roshby; ogni cavaliere che è passato di qui era pieno di ori fino alle orecchie. Eppure nessuno mai ha dato ai miei cittadini un contributo tanto ricco di compassione. Tu non hai avuto alcun ripensamento nel donare tutto quel cibo a Werny. Te ne siamo debitori, ser Bart. Io… io… come potrei sdebitarmi?»                                                                                                                       
«Non c’è motivo di pensarci. Oh, e alzati pure da terra. Il mio signore diceva sempre che nessuno dovrebbe chinare il capo a nessuno, nemmeno il più piccolo dei contadini al più grande dei signori. Piegarsi significa mostrarsi deboli.»                             
«È tutto ciò che posso darti per ringraziarti. Non è segno di debolezza, te lo assicuro.»                                                                     
«Non vorrà dire debolezza, ma puoi alzarti comunque.»                                                                                                        
Il devoto Baricald ascoltò il suo consiglio e, con una mano posata sulla spalla di Bart, si alzò lamentando dei dolori alle anche e alle ginocchia. Poi si spostò verso la latrina facendo dondolare la sua lunga barba grigia da una parte all’altra. Bart arrossì quando Baricald alzò la tunica e spinse giù le brache senza alcuno scrupolo, esibendosi  nello svuotare la sua vescica di fronte ai suoi occhi. Le sue gambe erano rachitiche, nodose, e scure come il legno rinsecchito.      
Quest’uomo soffre più di chiunque altro.”  L’unica cosa in grado di proteggerlo era la sua veste bianca e candida, sempre perfettamente pulita così com’era consono alle sue morali. Sporcarla sarebbe stato come peccare, e Baricald, nel suo ordine, non poteva permetterselo. “Una tunica limpida come la neve.” pensò Bart. Un peccato che il sole sciogliesse anche quella.                                                                                                                                                           
«Ser Bart, potrei chiederti un favore? So bene che tu me ne abbia già fatti a decine, ma questo mi riguarda personalmente». L’uomo non attese una risposta, continuò. «Nella piccola comunità che ho tentato di ricreare qui a Werny mi sono proposto di accogliere quante più persone possibili: dagli orfani alle vedove, dai veterani di guerra agli anziani e gli stupidi. E ho sempre avuto pietà di loro, prendendomene cura senza necessitare di aiuto. Tutto questo mi è stato possibile per mezzo delle Grazie, probabilmente, che mi hanno saputo sorreggere nelle loro braccia senza farmi mai cadere. Eppure, talvolta, l’uomo non può che fallire e peccare, e le Grazie possono solo perdonarlo. Ho compiuto numerosi peccati nella mia vita, lo ammetto. Ma il più grave, il più osceno e sporco, è quello che mi sta anche più al cuore. Ed è quello per cui ho maggiore bisogno di aiuto.»                                        
«Vedrò cosa posso fare.» rispose Bart sistemandosi i sandali ai piedi.                                                                                            
«È successo parecchi anni fa, vedi. Ho riflettuto a lungo sulla situazione, mi sono detto che il passato è passato e che non è possibile dimenticarlo, ma solo saperne prendere coscienza può aiutarci a far sì che certi atti non si ripetano. E io – per tutte le Grazie – non riesco a farlo!»
“Parla come parlerebbe un assassino prima di consegnarsi alla giustizia”.
«Siamo uomini, ser Bart, e gli uomini sbagliano continuamente. Purtroppo mi invaghii di una schiava di Agabbo Nobb, nelle Terre Spezzate. Un dettaglio che tralascio nel momento in cui racconto delle mie disavventure nelle isole. Una donna dalla pelle chiara come la nostra, bella come solo le cose belle possono essere. Al cuore non si comanda, lo imparai prestissimo, ma alla spada sì. E la spada del Ciclone Nero era fredda e tenebrosa. Lo hai conosciuto? Hai anche solo intravisto la sua spada?»
«Fortunatamente no» rispose Bart. “E vorrei poter restarmene lontano da lui il più a lungo possibile.
Baricald rabbrividì. «Non potevo rischiare la vita per lei. La nostra relazione fugace non durò a lungo e fu un fiasco. Quando quella donna mi diede una bambina e mi costrinse a portarla via con me ancora in fasce, io ne fui scosso. Che avrei dovuto fare, allora? Se fossi stato intercettato con una lattante tra le mani, probabile che me le avrebbero staccate di netto. E non avrei saputo né voluto dire cosa avrebbero fatto alla bambina. Nessuno deve sapere che quella fanciulla è mia figlia. Nessuno. Un devoto non può reggere una vergogna di tale spessore. Sai com’è, il peccato non può essere cancellato una volta che la tunica si è macchiata. Lei è una ragazzina vispa, e vuole tanto vedere come si svolgerà il torneo di Roshby. Tu sei diretto lì, ser Bart. E io… io non posso che chiederti un ultimo favore».
«Mio signore» iniziò Bart che aveva inteso le volontà dell’anziano. «Io non so se…»
Il devoto ca
mminò fino alla porta e vi posò sopra il braccio, come a serrare l’infisso da entrate indiscrete. Un gesto fulmineo della destra lo condusse ad estrarre una piccola pergamena dalla tasca della tunica, il sigillo di ceralacca giallo in bilico sulla carta. «Siediti pure, ser Bart» mormorò il devoto Baricald. «La notte è lunga, e ogni uomo che si pente ha molto da dire…»

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Note d'autore:
Nuovo capitolo, nuovi eventi. Rinnovo il ringraziamento a tutti i miei lettori, soprattutto per coloro che hanno speso (e che spenderanno, mi auguro) parte del loro tempo per lasciare anche solo un piccolo commento. Purtroppo non sono riuscito a fare di meglio con l'impaginazione che, a detta di tutti, appesantisce la lettura. Ho provato ad utilizzare i vostri consigli... ma niente. Quello che ho potuto fare, è stato cambiare il carattere, nella speranza che sia meno pesante. Ribadisco che si tratta di una raccolta di novelle, non tanto del vero e proprio romanzo della saga, quanto più di una sorta di prequel ambientato a Pantagos. E' per voi un problema l'avere capitoli così brevi? Ho bisogno di saperlo. Dunque, Baricald questa volta ha parlato dei suoi bisogni senza utilizzare più dei larghi giri di parole. Il suo intento, è chiaro, è sempre stato quello di giungere all'argomento che più gli stava a cuore... e ora ci è riuscito! Cosa vorrà da Bartimore? E' stato davvero un gesto coraggioso quello del devoto? O almeno pertinente alle sue morali religiose? E Bart, secondo voi, accetterà le sue insolite richieste? 
Alla prossima settimana, Makil_

 

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Capitolo 4
*** IV ***


Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 

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Come tutte le mattine, anche quella a Werny fu inevitabilmente segnata dal caos.                                                                      
Bart si stava ricredendo su tutto ciò che aveva pensato fino alla notte precedente. Che non ci fosse neppure un cane, adesso, non era proprio la verità. Tra le urla di una folla inferocita di uomini che acclamavano qualcuno tra di loro, gli abbai rauchi dei mastini nei canili, e le campane in suono sopra la sua testa, Bart si chiese se davvero la città fosse spoglia come gli era stato detto. “Di certo non come credevo.” rifletté. Attorno a lui la folla era animata da urla e vocii e, di tanto in tanto, da applausi di stupore. Gli uomini, disposti in cerchio vicino ad una fontana logora e crepata su un lato, inneggiavano ad una ragazza in groppa al suo destriero nero che correva da una parte all’altra delle mura. Bart era lì da meno di un’ora, ma già poteva vedere come la cittadina si stesse rianimando. La notte l’aveva spenta e il giorno le stava dando carica.
Bart stava attendendo il devoto Baricald, il quale, tra le tante altre indicazioni, gli aveva detto di aspettarlo dinanzi alla stalla. A giudicare dai nitriti provenienti da quella casupola diroccata, l’edificio che aveva di fronte doveva essere proprio quello che stava cercando.
Qualcuno gli urlò di scansarsi di lato e Bart fece in tempo ad avvertire il comando, che dall’alto piovve una cascata di fetidi escrementi viscidi. Una donna aveva appena svuotato il vaso da notte dalla balconata, e ora stava sorridendo ad un’altra anziana affacciata poco vicino. La seconda volta che fu costretto a spostarsi di lato fu a causa della ragazzina a cavallo, che gli passò accanto ad una velocità esorbitante, con la lunga chioma dorata scossa dal vento. «Ragazzaccia insolente» si lamentò Bart. Lui e il clamore non erano mai stati una sola cosa. Bart odiava le giornate caotiche come quella e lo innervosivano i mercati. Non sopportava vedere la gente accalcarsi l’una sull’altra, corpo contro corpo, urla su urla, specie se questi dovevano interferire forzatamente con lui. “Dovrò sbrigarmi; il torneo non aspetta certo me.”                                                          
Ancora una volta la ragazza a cavallo lo costrinse ad arretrare, questa volta cavalcando verso la folla alle sue spalle con in mano la spada di legno mulinante sopra la testa. Stava per redarguirla di buon grado, quando qualcuno gli pose una mano sulla spalla.                                                                                                                                                                             
«Non pensavo di trovarti.» disse Baricald. Il devoto si apprestò a camminare verso l’inferriata che sbarrava l’ingresso alla stalla, con la premura di chi capisce di essere in ritardo. «Be’, non che sia difficile trovare una stalla qui. D’altronde ne abbiamo solo una, e tante grazie per questa.»          
Non appena ebbe aperto il cancello scuro, il devoto lo invitò ad entrare. All’interno la stalla puzzava più di quando avrebbe dovuto puzzare. Le pile di sterco secco erano immense in ogni box, e i cavalli erano tenuti in condizioni più che pessime. Bart non poté che pensare alle immense stalle di Sette Scuri. «La reggia dei cavalli» la chiamava Dalton Kordrum. Ed era vero, in confronto all’oscenità di quella in cui si trovava. Forse era stato abituato a vivere nell’agio e nel lusso, e questo lo aveva reso cieco.
Così come ogni altra cosa a Werny, anche la stalla era una struttura piccola e quadrangolare. Le staccionate di chiaro legno scheggiato dividevano un box dall’altro, trattenendo cinque cavalli in cinque spazi mediocri per ognuno. Solo uno di questi era vuoto ed aperto. Fievoli raggi di sole penetravano da alcune fessure nel tetto, illuminando il tappeto di paglia sotto ai loro piedi.
«Gli diamo da mangiare tre volte al giorno. Sono cavalli forti e davvero molto fedeli» il devoto afferrò un secchio contenente dell’acqua e lo portò davanti al box di un puledro dal manto marrone. «Questo è uno dei premi che mi furono dati per il compimento della missione a Caantos». Il devoto si schiarì la voce con un colpo di tosse. «Compimento… be’… tu sai come andarono le cose, insomma…»                                                           
Più avanti, un palafreno grigio stava dando del filo da torcere ad un destriero fulvo. Entrambi nitrivano fragorosamente, scambiandosi scalci e urti.                                                                                                                                  
«Oh oh, guardali ser Bart! Questi due sono tosti.» disse Baricald. Afferrò qualche pugno di cibo dalle tasche della tunica e glielo portò alla bocca. «La tua giumenta era così furente?»                                                                               
«Molto di più.» Quel pensiero lo fece sorridere. La giumenta che Dalton gli aveva regalato in occasione del viaggio era stata più che furente. “Una vera furia della natura, spavalda e astuta. Chissà se mi pensa ancora.”      
Il devoto aprì piano il cancelletto che fermava l’accesso al box del destriero più grosso. Poi tirò le redini della cavalcatura e lo accompagnò fuori dal suo abitacolo per mostrarlo a Bart.                                                                                                  
«So che non potrà competere con la tua, ser Bart, ma accetta questo mio dono in segno di ringraziamento per tutto ciò che hai fatto. È un destriero vispo e in carne, robusto e giovane come pochi. Prendilo». Il devoto gli allungò le redini spronandolo ad afferrarle.                                                                                                                                                      
«Non posso, mio signore.» disse Bart. «Non mi piace il pensiero di dover sostituire la mia giumenta. È troppo presto per farlo.»                                                                                                                                                                        
«Non ti ho mai chiesto di farlo per te, né per lei. Niente cavaliere senza un cavallo, non te lo hanno mai detto? Come intendi partecipare a quell’insulso torneo? Suvvia, ser Bartimore, non farmi spazientire. Prendi! Il suo nome è Lenticchia.»            
Bart, un po’ per dare a Baricald la soddisfazione di fare ciò che gli era stato chiesto, afferrò le redini di quel cavallo, tirandolo leggermente verso di sé. Bastò quel gesto per far sì che Lenticchia abbassasse il capo e si facesse accarezzare. Quando il cavallo curvò di lato la testa, una serie di muscoli sorsero alla base del collo. Il suo pelo si allungava all’altezza delle zampe, ricadendo copioso verso gli zoccoli.
Non ebbe il tempo di ribattere qualcosa o semplicemente ringraziare, che il cancello della stalla si aprì spalancandosi e scaraventandosi contro le pareti. La ragazzina bionda entrò di corsa al suo interno, con un ingresso talmente tanto repentino da fare impennare tutti i cavalli nei loro box. Non appena il cavallo che cavalcava la vide scendere dal suo dorso, si allontanò col capo basso.          
«Ragazzina!» tuonò il devoto Baricald. «Quante volte dovrò ripeterti che non ti è concesso utilizzare i cavalli né indossare quelle strane armature di legno? Oh, e nemmeno la spada. Lasciala immediatamente! La guerra non è cosa da donne. Anzi, non è neppure cosa da uomini. Guarda che figura hai appena fatto con ser Bart!»             
L’insolente fanciulla non gli rivolse neppure lo sguardo. Dopo essersi sganciata l’armatura dalle spalle, la gettò a terra facendo sì che si spezzasse, poi lasciò cadere ai piedi del devoto la spada di legno. Infine portò le braccia conserte, e si accigliò corrucciata. Si voltò per dare una carota al cavallo da cui era smontata, gettandosi i capelli dorati dietro alle spalle. Al fianco portava una faretra colma di frecce, e dalla sua spalla svettava un lungo arco di legno chiaro. La ragazzina poteva vantare di essere davvero molto bella. I suoi lineamenti erano squadrati dalla grazia e dalla morbidezza. Aveva un naso piccolo e sottile che, insieme a due occhi a cerbiatto, le conferivano un aspetto del tutto differente da quello che la facevano sembrare l’arco o la spada. Bart rivolse un’occhiata incerta a Baricald, completamente paonazzo in volto, il quale prese parola.
«Ser Bart, non so chi ti darà più da fare effettivamente.» disse curvando la bocca verso la fanciulla. «So soltanto che una delle due, tra il destriero e la ragazzina intendo, è domabile. L’altra, invece, ti accorgerai che scalcia!»

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Note d'autore:
Rieccoci qui! Mi prendo giusto un pizzico di questo spazio per ringraziare i miei puntuali lettori, sempre così gentili ed arguti; accolgo con immenso piacere ogni vostro parere! Anche questo un capitolo breve, sempre a dimostrazione del fatto che si tratti di una normalissima raccolta di novelle. Dunque, oggi finalmente entra in scena la tanto attesa fanciulla bionda, il cui aspetto già sembra lasciare a desiderare, allontanandola dai soliti cliché collegati inevitabilmente alle ragazze bionde (occhi azzurri, viso bello -> principessa ;P). Bart riceve un nuovo destriero e il devoto Baricald continua ad elargire con generosità ciò che possiede (che sia qualcosa di concreto o astratto), ma siete sicuri che sia tutto qui? Sarebbe carino capire se qualcuno ha scorto qualche nesso tra il cavallo e un gesto di Bart, magari non proprio casuale. Che ne pensate della ragazzina bionda? E, ora, che potete dire di Baricald? Ci prepariamo a salutare Werny, lettori, e... ad imbracciare le armi! ^^
Il prossimo aggiornamento dovrà essere, stranamente (e per rimediare alla brevità di questo capitolo e dello scorso) a metà settimana corrente. A presto e sempre grazie di cuore. 
Makil_


 

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Capitolo 5
*** V ***


Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre.
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos. 
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Oltre Capo Lussuria trovarono ad aspettarli il vespro.
Lenticchia aveva un’andatura del tutto delicata, accompagnata di tanto in tanto da nitriti di stanchezza. Il suo passo non aveva nulla a che vedere con quello fiero e caparbio della giumenta di Dalton. Il destriero che gli aveva donato il devoto Baricald pareva avere tanto sonno quanti erano tutti i peli del suo corpo. “Pigro come un mulo” aveva pensato Bart non appena gli era salito sul dorso. Le dune tortuose di Campo Verde erano sempre più vicine adesso, e a nord già si potevano scorgere le prime luci degli accampamenti degli altri cavalieri che, come lui, avrebbero percorso la strada per Roshby. In alto il cielo era sorvolato da uccelli che lo macchiavano di nero. “Le Grazie ce ne scampino, è in arrivo un temporale!” rilevò. Bart aveva imparato a leggere i presagi del cielo e i segni degli animali quando era ancora niente poco di meno che un bambino. Amisa Witeolm aveva assunto per lui un’incantatrice che gli insegnasse l’arte della medicina, dell’alchimia e della stregoneria. Un’anziana donnetta che gli aveva insegnato come si aprivano i fegati delle capre, come si perlustravano le fondamenta dei castelli, come si curavano le piaghe dei piedi, e tanta altra robaccia di cui Bart non si era mai nemmeno lontanamente interessato. Per attirare la sua attenzione, l’incantatrice aveva addirittura provato a mostrargli i suoi ampi saperi sulle tanverne, le enormi bestie squamate che popolavano le leggende del volgo, i canti degli aedi e i miti trascritti dagli amanuensi. Quelle bestie che giacevano nelle segrete di qualsiasi regno di Pantagos, celate alla vista degli stolti. Ma nulla di tutto ciò aveva funzionato con Bart, che preferiva piuttosto passare le giornate tra le gambe di Dalton, vederlo combattere ed emulare i suoi movimenti. Dalton Kordrum era stato tutto ciò che Bart avrebbe potuto desiderare che egli fosse: padre rispettoso, tutore austero. «Un giorno avrò una spada!» diceva continuamente al signore di Sette Scuri. «Una spada vera, proprio come la tua». E Dalton non aveva mai avuto modo né motivo di dissentire. Non appena Bart crebbe abbastanza da poterne reggere una, Dalton fece forgiare Lungacresta, e gliel’affidò allo stesso modo in cui avrebbe affidato un figlio nelle mani di una balia. Si potevano dire molte cose di Bart durante quel periodo: era un ragazzino vivace e svelto di comprendonio, instancabile come tutti gli altri e molto, molto curioso. Egli stesso si sarebbe definito con la larghe parole, magari diverse da quelle che, invece, avrebbe utilizzato Amisa, la quale, temendo altamente per la sua incolumità, si era dispiaciuta quando Bart le aveva confessato di voler impugnare l’acciaio. Certo, era stato tantissime cose: alle volte giuste, altre volte sbagliate. Ma mai Bart era stato tanto impertinente quanto quella ragazzina.
Stavano camminando ormai da molte ore, talmente tanto che di Werny avevano smesso di vederne le mura già dalla mattina in cui erano partiti. Lei, la ragazzina di cui ancora non aveva potuto sapere il nome, galoppava sul dorso del suo palafreno macchiato a poca distanza da Bart, alle sue spalle. Aveva tentato in molti modi di spronarla a parlargli, ma non c’era riuscito con nessun tentativo. La ragazza era rimasta corrucciata dalla partenza, e nulla aveva saputo farle scivolare via quel risentimento. Il devoto Baricald aveva cortesemente chiesto a Bart di accompagnarla a Roshby, data la sua enorme passione per il combattimento. Era stata un’azione piuttosto generosa, aveva pensato Bart. Un’azione per cui la ragazzina avrebbe dovuto ringraziare sette volte suo padre, e ne sarebbe dovuta essere soddisfatta. Ma nulla di tutto ciò che Bart pensava sembrava corrispondere a quel che la ragazzina faceva: non solo si era rifiutata amaramente di ascoltarlo, ma aveva deciso di tappare la bocca con una forza così grande che Bart non era neppure riuscito a strapparle un delicato sorriso. Ed aveva taciuto per tutto il cammino, senza neppure rivolgergli uno sguardo di incerta curiosità. L’indifferenza della ragazzina – non si poteva negare - lo stava facendo innervosire non poco.      
Bart fermò Lenticchia in prossimità di un incrocio, punto in cui la strada si divideva in due viottoli differenti, l’uno più contorto dell’altro. Ai margini del cammino crescevano lillà, viole e altri fiori azzurri e gialli, che impregnavano l’aria di mille particolarissimi profumi.                                                                                                                                                                            
«Destra o sinistra?» chiese Bart alla fanciulla, che si era fermata al suo fianco poco dopo di lui. Indossava un corpetto di cuoio che le metteva in risalto i seni, e, stretto sui fianchi, le conferiva un aspetto smilzo.             
La ragazza si limitò a guardare più avanti, ostinata a non conferire con lui per chissà quale strano motivo. “Non capisco” pensò Bart “Sto facendo più del dovuto e questo è il ringraziamento?”                                                              
«Puoi anche rispondere, ragazzina. Qual è il tuo nome?»                                                                                                                                
«Esmerelle» mugugnò lei, guardandolo per la prima volta. I suoi occhi erano profondi, solcati da striature di azzurro. “Occhi da principessina” pensò Bart “Che sia questo a farla sembrare così arrogante?”                                                     
«Esmerelle» ripeté Bart. «Come Esmerelle la Regina del Colloblu?»                                                                                                         
La ragazzina non rispose. Bart non si aspettava che conoscesse quella Esmerelle, di cui solo chi era nato nelle Terre dei Venti poteva esserne a conoscenza. Si trattava di una vecchia figura popolare nei racconti degli aedi, che si diceva avesse plasmato le acque del Colloblu utilizzando solamente le sue mani, e che avesse sposato il Fanciullo delle Acque per suggellare un patto di trecento anni di pace. Ma l’Esmerelle che aveva di fronte non aveva molto a che fare con quella delle ballate.                                                                                               
«Io sono Bartimore» disse Bart senza che gli fosse chiesto di presentarsi. «Ma puoi chiamarmi Bart.» In campo di pazienza, notò, era uno dei migliori. “Fossi stata un ragazzo ti avrei già cacciata via. Ma ho fatto una promessa a tuo padre” pensò.
«Non serve. Dubito che ti chiamerò.»                                                                                                                                                        
«Allora dovrò riportarti da tuo padre.» ribatté secco Bart.            
Esmerelle scoppiò a ridere, sfacciata. Bart ne fu stupito e stranito allo stesso momento.                                                        
«Mio padre? E, dimmi, come vorresti trovarlo? Forse profanando tutte le tombe di Città del Grano? Fallo e poi lascia che ti processino per averlo fatto.»    
Bart continuava a non capire. Il tono della fanciulla si era fatto ancora più fastidioso. Cosa intendeva dire con quelle parole?          
«No. Tuo padre, a Werny. Il devoto Baricald.» rispose Bart. Forse Bart aveva svelato qualcosa che non avrebbe dovuto svelare. Che non sapesse chi fosse suo padre?                                                                               
«Mio padre chi?» domandò Esmerelle inarcando le sopracciglia. «Sono orfana da molto tempo. Mio padre è morto.»    
Che diavolo di tranello è mai questo?” si chiese Bart. «Chi è il devoto Baricald, allora?»                      
«Ti sei risposto da solo: un devoto.»                                                      
Quanta arroganza. Tuo padre avrebbe dovuto impartirti un po’ di buone maniere. Chiunque egli fosse.”                                                 
«E che ci facevi a Werny, ragazzina?»  
«Ser Kyle Ashawer mi ci portò insieme ad una carovana di altre persone. Scappavamo da una razzia a Città del Grano, dove mio padre fu assassinato. Eravamo fuggitivi. Proprio come te, no?»     
«In realtà io credevo di essere un cavaliere. E, per la cronaca, siamo diretti a Roshby, al torneo.» disse Bart. Le parole di Esmerelle sapevano essere sfrontate ed offensive.    
«L’unica cosa positiva in tutto questa messinscena». Esmerelle si grattò gli occhi con delicatezza. La ragazzina era poco più piccola di lui, eppure sembrava avere la sua stessa età. Se non fosse stato per tutta quella caparbietà, il suo aspetto l’avrebbe sicuramente fatta sembrare molto più matura. Bart aveva visto il timore stampato negli occhi del devoto Baricald poco prima della partenza. Ora, probabilmente, riusciva a capire a cosa fosse riferito. Quell’uomo l’aveva ingannato senza un’apparente ragione. Perché non dirgli che quella, in realtà, non era sua figlia? Dopotutto non c’era nulla di male. Anzi, forse sarebbe stato anche un gesto migliore per preservare la sua dignità. “Inventare una storia del genere solo per rifilarmi tra i piedi una ragazzina? Perché?” si chiese Bart. “Forse voleva solo togliersela dai piedi.” E chi era il più colpevole in tutto ciò? Quell’uomo aveva timore di lei, di quel che pensava potesse essere.
«È nelle mie intenzioni andarci, quantomeno. Ma se non mi dici quale via prendere, destra o sinistra, è probabile che invecchierò prima di poter partecipare a quel maledetto torneo!»                                                                                                                                                                               
Esmerelle rise sonoramente, ancora una volta, e non per quel che aveva detto Bart.                                      
«Parteciperai al torneo? Tu?» chiese la ragazzina in un misto di incredulità e sfottimento.
«Be’, cos’ho che non va?» Bart spinse fuori il petto, dritto sul dorso di Lenticchia.                                                                 
«Non ho mai visto un cavaliere così… »                                                                                                                           
«Giovane?» concluse per lei Bart con fare quasi orgoglioso.          
«… asciutto. Sì, è proprio questo il termine. Sembri proprio un’asta, ora che ti guardo meglio. Rischieresti di spezzarti al primo colpo di freccia.»        
«Fa’ silenzio ragazzina.» la rimproverò Bart. «Mi aspetto delle scuse adesso, per la tua arroganza.»          
La ragazza fece nuovamente silenzio, ma questa volta non distolse minimamente lo sguardo da lui, squadrandolo con aria di sfida.    
«Allora» riprese Bart «Come ti giustifichi?»                                                                                                                            
«Devo fare silenzio o posso parlare?»                                                                                                                                  
«Puoi parlare» concesse Bart «Ma solo se hai da dire qualcosa per scusarti.»  
«Allora posso restarmene in silenzio» replicò Esmerelle. Poi fece avanzare il suo palafreno di qualche passo e, superando Bart, si spinse verso la stradina a destra.                                                                                                
«No» contestò Bart. «Si va a sinistra, ragazzina». E senza neppure accertarsi che lei lo stesse seguendo, tirò le redini di Lenticchia ed avanzò più veloce del dovuto. 
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Note d'autore:
Eccoci qui con questo aggiornamento straordinario che avevo promesso lo scorso lunedì, dettato dal fatto che il capitolo V è una sorta di tutt'uno con il IV. Be', come al solito - prima di ogni altra cosa - ogni mio ringraziamento va ai miei lettori assidui e a tutti quelli che, con grande impegno, lasciano sempre un commento ^^
Detto ciò, che ne pensate di questa svolta? Esmerelle è un ragazzina un po' particolare... ma ogni comportamento è sempre dettato - ovviamente - dal passato che grava sui personaggi. Insomma, null'altro da aggiungere, spero che le vicende siano sempre di vostro interesse e gradimento. Ci vediamo, con un aggiornamento regolare, lunedì 20, con un capitolo abbastanza corposo!
A presto :)
Makil_

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Capitolo 6
*** VI ***


Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre.
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos. 
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Quello stesso giorno, il buio li colse sul sentiero.
Non appena furono costretti a fermarsi, quella che si trovarono di fronte fu una visione molto più funesta del bivio in cui erano incappati nel pomeriggio. Dai rami del grande castagno robusto che cresceva al lato del sentiero penzolavano due corpi nudi, inermi. Le loro gole erano strette all'interno di due cappi, cinte in un nodo robusto e stretto, e ricadevano da uno dei rami più forti dell’albero. La loro carne era sanguinolenta, ingiallita e dilaniata dai corvi.
Lentamente, Bart fece qualche passo verso i due cadaveri in palese stato di decomposizione, e Lenticchia arretrò quando ne avvertì l’odore. Attorno a loro gravava un’aria fetida, talmente satura degli odori dei morti, che perfino Bart, il cui fiuto era molto meno sottile di quello del destriero, se ne accorse. “Devono essere qui da un bel po’” valutò scendendo dal dorso di Lenticchia. A giudicare dal loro stato, pareva proprio così. La loro pelle non era solo emaciata, ma anche macchiata da punte e chiazze di sangue raggrumato. A uno dei due mancava addirittura una mano, che sembrava essergli stata divorata.
Lupi” pensò Bart. “Questo è lavoro dei lupi.” Ma non seppe né volle sapere quali lupi fossero. Meravigliarsi di quella scena era inutile, Bart ormai ci aveva fatto l’abitudine: e non solo lui. Pantagos, in tempi come quelli che correvano, era disseminato di feriti e morti nella stessa quantità con cui lo era mosche. Lungo ogni sentiero erano ammucchiati cadaveri pronti per essere bruciati, accasciati l’uno sull’altro come sacchi di riso abbandonati dai contadini. Anziché essere chiuse dai muri, le strade erano delimitate dai corpi di uomini e donne di qualsiasi età e classe sociale, pronti per essere bruciati dal sole ancor prima che dai briganti.
Più si avvicinava ai due corpi, più aumentava il puzzo di decomposizione. Fu solo quando avvertì il primi conati di vomito che si fermò, proprio sotto di loro. Erano due uomini, su questo non aveva dubbio. O quantomeno lo erano stati. Adesso, come poté notare da quella distanza, di loro non restavano altro che brandelli di carne, cibo per le mosche che implacabilmente gli ronzavano attorno.                                                                                                          
«Le Grazie sanno, le Grazie vedono» recitò ricordando le parole di Amisa Witeolm «Puniranno chi vi ha fatto questo e accoglieranno voi, buone anime.»                                                                                                                                                              
Il cielo era ormai scuro sopra di loro, e la notte stava proprio iniziando a calare più veloce del previsto. Di lì a poco sarebbero stati sommersi dalle tenebre, che avrebbero impedito loro di continuare la marcia. Non era proprio il caso di continuare a camminare, decise Bart. Specie dopo aver visto quei corpi. “Potrebbe essere colpa di mercenari senza onore. O potrebbe essere colpa di qualche bandito.” Se fosse stato da solo, probabilmente, avrebbe cercato di rimettersi in marcia, malgrado lo sforzo e la fatica. Ma, per quanto sembrasse esattamente il contrario, lui non era solo. La vista di quei corpi aveva fatto irrigidire anche Esmerelle, che si era fermata poco lontano da loro.                                                                                                                                        
«Dormiremo qui questa notte. Sotto questo castagno.» disse Bart cominciando a slegare la cintola dal fianco. Un posto abbastanza strategico, aveva notato il cavaliere. In caso di pioggia, la chioma del castagno li avrebbe riparati adeguatamente.                                                                                                                                                                                                
«Nemmeno se mi frusti.» replicò disgustata Esmerelle. «Ci sono due morti qui, nel caso in cui non te ne fossi accorto. E io non dormo sotto i loro piedi.»      
«Dovrai farlo, o puoi anche tornartene a Werny a galoppo.» disse Bart, tediato dal suo comportamento.                                                 
«Non hai neppure un padiglione, cavaliere.» continuò sfrontata. Bart notò come si ostinasse a non chiamarlo per nome. «Non ho mai visto un cavaliere senza.»                                                                                            
«Vero.» concordò Bart tirando Lenticchia per le redini ed accompagnandolo verso il castagno. «Ma ho una spada e un cavallo. E ho anche del denaro. Posso comprarlo, il padiglione, se ciò farà di me un cavaliere.»                  
«Anche mio padre poteva permettersi una scure, eppure non diceva mai di essere un falegname.»                              
«Hai un’altra soluzione?» le chiese, facendo finta di non aver sentito. «Se continuiamo a camminare potremmo finirci noi su un albero. E non per contare le uova di una rondine, stanne certa. È comunque troppo tardi per procedere ancora, e le strade sono buie. Non so neppure se abbiamo preso la via corretta. Dovremo obbligatoriamente attendere l’alba, che tu lo voglia o no.»                                                                                                                                                             
«Io l’attenderò da un’altra parte.» disse Esmerelle. Poi, al trotto sul suo palafreno, girò attorno al vigoroso fusto del castagno dalla foglie gialle. L’ultimo suono che Bart udì fu il trottare dei passi della bestia che cavalcava.                                  
Non c’era modo di ragionare con quella ragazzina. Per quanto Bart avesse provato, ogni azione e ogni minima forma di dialogo erano stati troncati in partenza, talvolta senza neppure poter nascere. In vita sua, Bart non aveva mai conosciuto persona più caparbia.
Legò Lenticchia ad una radice sporgente dal suolo, accanto ad un prato di verde erba fresca. Poi gettò ai piedi dell’albero Lungacresta, gelida all’interno del suo fodero. “Maledettissima sorte” pensò adirato Bart mentre si sbottonava il mantello.“Se non fosse morta la mia giumenta non sarebbe mai accaduto tutto ciò. Io non sarei mai andato a Werny, ma avrei proceduto dritto verso Roshby. Non avrei mai incontrato il devoto Baricald, in effetti. E non avrei avuto questa impertinente tra i piedi. Invece, ecco cosa mi tocca sopportare!”.
Bart ripose il suo fardello tra le radici del castagno e si assicurò che fosse incastrato tra due massi. Poi, dopo essersi sgranchito la schiena, si sedette sul terreno ammorbidito, con le spalle poggiate sul tronco. Sopra la sua testa, i morti stavano continuando ad oscillare, scossi sempre più lievemente dai sospiri del vento. Quei corpi potevano essere appartenuti a chiunque, nessuno avrebbe mai ricordato chi fossero. Eppure, per qualche momento, Bart si chiese come e perché fossero finiti lì sopra, in quelle condizioni. Sulla strada che da Sette Scuri lo aveva condotto verso gli Artigli, Bart aveva conosciuto due contadini alti, robusti e muscolosi, anche se non aveva mai potuto chiacchierare con loro, dal momento che li aveva scorti nelle stesse condizioni in cui aveva scorto questi altri. Qualcuno, da anni ormai, si divertiva a combinare questo genere di scempi. I briganti utilizzavano il pretesto della guerra per agire silenziosamente, facendo ricadere le loro colpe sugli altri. «Se hai una spada, puoi difenderti. Ma se hai un aratro, puoi solo arare.» soleva sempre dire Dalton. Ed era proprio vero. I contadini, molto più di tutti, perivano ogni giorno. Le loro fattorie ai margini delle strade erano le prime fonti di interesse dei fuorilegge, che rubavano i loro raccolti, distruggevano i loro campi, bruciavano le loro case e massacravano le loro famiglie.                                                                                            
Poco più tardi, il profondo rombo di un tuono riecheggiò in lontananza. “Le Grazie ce ne scampino” pensò Bart. “Non abbiamo bisogno di acqua proprio adesso.” Ma nessuno ascoltò la sua preghiera. In pochissimo tempo, la pioggia iniziò a cadere copiosa dal cielo, bagnando tutto ciò che si trovava attorno a lui. “Quantomeno sono riparato qui sotto.” pensò Bart accucciandosi meglio sotto il castagno. Per giorni Bart non aveva sperato altro che ricevere un po’ di acqua dal cielo. Aveva pregato a lungo prima che la giumenta morisse, affinché le Grazie concedessero anche un solo secondo di pioggia alle terre aride in cui aveva posato piede. Eppure, ora non sembrava più desiderarla così tanto. Lenticchia stava scalciando infastidita dalla pioggia, e Bart decise che era meglio slegarla, onde evitare che impazzisse. Un paio di gocce gli caddero sui capelli e un rigagnolo d’acqua gli trapassò delicatamente i lineamenti del viso.                                                                                                                           
«Cavaliere». Esmerelle si stava avvicinando sempre più al suo giaciglio, i capelli biondi fradici e appiccicati sul viso. La ragazzina teneva tra le mani un bastoncino contorto, aguzzato sulla punta.                                                            
«Cosa c’è? Non hai trovato nessun altro albero?» domandò Bart non degnandola neppure di uno sguardo.                       
«Effettivamente no.» rispose Esmerelle, costretta a dover ammetter di aver fallito. Il suo volto gocciolava d’acqua e alcune lacrime le scendevano lungo le gote.                                                                                                                                     
«E dimmi» riprese Bart strofinandosi le mani sulle brache «Dov’è che credevi di andare?»                                                  
«Non molto lontano.» rispose lei.                                                                                                                                                    
«Io sto cercando di rispettare una promessa fatta ad un devoto. Che sia o no tuo padre, a me non importa. Rientra tra gli onori di un cavaliere: un vero cavaliere. Che tu lo voglia o no, passeremo la notte qui. Potrei staccare i corpi e seppellirli, ma vedi… forse è meglio non toccarli.»                                                                                                             
«Spero tu mi faccia restare, cavaliere.» biascicò Esmerelle evidentemente a disagio. «Forse avrei dovuto ascoltarti.»      
Forse” pensò Bart leggermente amareggiato. «Resta.» rispose invece «Ma che non accada mai più. Se ti venisse in mente un’altra volta di fuggire, sappi che non avrai speranze lontano da questa strada. Prova a pensare di scendere verso sud e ti ritroveresti a Werny. Il resto delle direzioni, invece, ecco dove ti porta». Bart indicò i due cadaveri appesi ai rami, ormai quasi totalmente inzuppati d’acqua.                                                                        
Esmerelle scosse la testa, forse spaventata. «So difendermi molto bene, cavaliere.» rispose poi, la voce marcata da un nuovo velo di irriverenza.
«Sai difenderti, dici? Non hai neppure idea di cosa si trova lungo le strade. Finiresti per essere uccisa in pochissimo tempo, se tutto ti va per la meglio. Nel peggiore dei casi potresti essere stuprata o catturata da qualche brigante.»                
«Non oso immaginare» rispose Esmerelle, più divertita che spaventata dall’idea. La ragazzina balzò giù dal suo palafreno e, tirandolo per le briglie, lo portò sotto il castagno.                                                                               
«Fai proprio bene, a non immaginare.» ribatté Bart. «Potresti rimanerne sconvolta.»                                                     
«Ci vuole ben altro per sconvolgermi, cavaliere. Un po’ di sangue non mi ha mai sconcertata. Ma l’odore dei cadaveri, quello sì.»  
Esmerelle si posizionò sotto il castagno, accompagnando il suo palafreno accanto a Lenticchia.                                                 
«Dove hai preso quel bastone?» domandò ser Bart.                                                                                                      
«Su un albero. L’ho appuntito quanto basta per farlo sembrare una lama.»                                                                         
Una lama di legno.” pensò Bart. “Utile tanto quanto un cavaliere senza spada.” «E che intendi farci?»                                       
«Ormai nulla.» rispose Esmerelle tirando su con il naso. «Avrei dovuto fare qualcosa quando avevo sei anni, quando Lower Standrom assassinò la mia famiglia». Esmerelle si rabbuiò. Una lacrima sotto l’occhio le scese lungo lo zigomo alto, solcandolo da parte a parte. Quel suo pianto era un lamento struggente, impacciato ed imbarazzato.                                                                                                                                                                           
«Cosa c’è?» chiese Bartimore, alzando lo sguardo su di lei. «Esmerelle, scusami, io non volevo… »    
La ragazza si strofinò le nocche sugli occhi rossi, riassumendo la sua solita espressione accigliata. Bart provò ad avvicinarsi, ma lei si scostò rapidamente.                                                                                                                                     
«Sono nata sfortunata, ecco cosa c’è. Mia nonna diceva sempre che quando un uomo nasce le Grazie lanciano un sasso. E poi stanno ad osservare, per assicurarsi che il sasso cada di pancia … »                                                    
«…o di schiena.» concluse Bart. «Sì, è una cosa che diceva anche mia madre. Le Grazie non danno tutte le virtù e tutti i difetti ad un solo uomo.»                                                                                                                                    
«Invece non è vero, cavaliere!» lo rimproverò lei. Poi scaraventò il suo bastone appuntito contro il castagno, facendolo rimbalzare sul terreno. «Non è vero proprio nulla. Sono nata in una notte di burrasca e mia madre morì nel darmi al mondo. Mia nonna mi abbandonò quando ancora ero una bambina di due anni, crepando sulla latrina. E infine, come se le Grazie non fossero già sazie, vidi morire anche mio padre. Il nome di tutte le mie disgrazie è Lower Standrom, la Spada di Sabbia». Nel pronunciare quelle parole la bocca di Esmerelle si inarcò, e nei suoi occhi sorse un’espressione di furore represso.                                                
Non merita tutto ciò” rilevò Bart. “Nessuno lo merita.”                                                                                       
«Quell’uomo sterminò la mia famiglia. La sua giustificazione? C’era la guerra e andava fatto. Andava fatto, soltanto perché Città del Grano apparteneva ai lealisti. Ma mio padre che colpa ne aveva? Tu sai rispondermi, cavaliere? Tu, che affidi la tua spada ai piedi di un signore, sai rispondermi? Oh, non importa. Adesso non importa più. Tutto ciò che mi ha lasciato quel codardo è un sapore nuovo tra le labbra. Chiamalo ira, desiderio di vendetta, speranza di rivalsa; non fa proprio alcuna differenza. Avere il cognome degli Standrom significa avere il cuore di sabbia, diceva sempre mia nonna. E io lo avrò, quel cuore. Oh, sì che lo avrò.»  
«Lo avrai» la rassicurò Bart. Avrebbe voluto dirle che non era possibile, che non c’era speranza nelle sue parole così come non c’era speranza nelle parole di chiunque altro. Anche lui aveva desiderato vendetta, tempo addietro, quando patres Gregorot lo aveva informato della malattia che aveva colpito Dalton sul campo di battaglia. Ma non c’era modo di avere vendetta ormai. Adesso che l’Accademia aveva indetto quel torneo, nessuno poteva continuare a nutrire rancori per i propri nemici. «Ma sono in molti a volerlo, ora come ora. Dovrai lottare… mia signora.»                                                                                                                                      
«E allora lotterò, cavaliere. E non chiamarmi signora. Non ho proprio alcuna voglia di essere chiamata come le mogli di tutti quegli uomini che sterminano poveri innocenti per il solo piacere di farlo. Quegli uomini mi fanno schifo. Lower Standrom mi fa schifo.»          
In lontananza, il ticchettio della pioggia sul terreno fu sovrastato da un suono dolce ed allo stesso tempo spaventoso. Bart colse immediatamente il rumore del trotto di un cavallo, accompagnato da fragorose risate di scherno.  
«Fa’ silenzio.» disse Bart osservandosi in giro per scrutare qualche possibile brigante. «Non urlare così.»          
«Io non ho paura di dire queste cose. Mi taglino pure la lingua per alto tradimento e poi se ne vadano al diavolo!»                                                                                                                                                                                    
«Non è per questo. Fa’silenzio. Sta arrivando qualcuno.» Bart ebbe appena il tempo di concludere la frase che a nord del sentiero apparvero dei bagliori. Erano le armature di due cavalieri chiassosi a riflettere la luce della luna. Bart raggirò il castagno, ordinando ad Esmerelle di nascondersi dietro al tronco, e lasciar fare a lui. Sollevò Lungacresta e la riattaccò rapidamente alla cintola, portandolo avanti e indietro per sistemarla sul bacino. Poi, anche lui si sistemò dietro al fusto dell’albero. Quegli uomini potevano essere briganti o, peggio ancora, nemici. Un solo passo falso gli sarebbe costata la vita. “Due vite” pensò ser Bart. “E due sono troppe.” Entrambi i cavalieri avanzarono lentamente al fianco del castagno, facendo trottare i loro stalloni marroni più rapidamente del necessario. Ma non appena fecero per raggirarlo, inevitabilmente, scorsero la loro presenza.                                            
«Chi va là?» domandò con fare fin troppo baldanzoso uno dei due. La sua voce riecheggiò lungo la via silenziosa. «Là, dietro quel castagno. Esci, furfante. Non è modo di nascondersi quello lì.»                                                                                                                                                                                               
Bart non se lo fece ripetere due volte ed uscì allo scoperto alzando le mani aperte al cielo. La spavalderia con cui fece quel gesto fu dovuta all’essere stato chiamato brigante. Questa parola, si disse Bart, non poteva che suggerire che i due cavalieri non fossero furfanti.
Uno dei due, quello che gli aveva ordinato di farsi vedere, si era fatto guardingo. Era un uomo gobbo, spelacchiato sulle tempie e aveva un naso rosso e due guance paonazze, che sottolineavano uno stato di ebbrezza. “Oh, poveri noi.” pensò ser Bart nel vederlo. Non sapeva chi fosse quell’uomo, ma il secondo aveva come l’impressione di conoscerlo. Molto più burberamente del primo, l’altro uomo fece avvicinare il suo stallone al castagno, con un portamento degno di un severo cavaliere.                                                                                                                                                                        
«Chi sei, ragazzino?» domandò l’uomo facendo vibrare la mascella squadrata. Sulle guance e sul mento cresceva un’ispida barba bagnata dalla
pioggia.                                                                                                                                                                  
«Potrei farvi la stessa domanda.» ribatté Bart con un tono molto più insolente del previsto.                                 
«Non sei nella posizione di fare domande. Chi sei, ragazzino?». L’uomo serrò la mascella e digrignò fortemente i denti. L’altro cavaliere lo stava fissando con aria schifata, quasi come se fosse pronto a sputargli sul volto. L’ultima volta che Bart aveva visto un uomo così disgustato era stato quando Amisa Witeolm aveva mostrato le ferite sanguinanti di Dalton all’incantatore Ludwig, il quale aveva addirittura vomitato per il ribrezzo.    
«Konrad, il ragazzo non è solo». Un brivido gelido scosse ser Bart. “Non fatele del male.” pensò. Ma si accorse presto che non c’era motivo di pensarlo: il cavaliere non si riferiva ad Esmerelle.                                                                            
«Assassino. È questo quello che sei? Dacci le tue armi, in nome della giustizia. Chi sono questi uomini che hai ucciso?»                                                                                                                                                                                                       
«Io non ho ucciso nessuno.» disse Bart alzando il tono della sua voce. «E non ti darò le mie armi. Sono un cavaliere anch’io.»  
«Non siamo venuti qui per sentire le stupidaggini che hai voglia di raccontarci. Quelle potrai dirle a tua madre!» tuonò l’altro cavaliere.      
«Vuoi costringerci a sguainare le spade?» domandò il cavaliere che sembrava chiamarsi Konrad. «Se no, evita di fare lo sbruffone, ragazzo. Con noi non è proprio il caso di farlo. Ti sei lordato le mani di sangue questa notte. Chi sono questi uomini?»    
«Non ne ho idea. Vi ho già detto che non sono stato io ad ucciderli. Stava piovendo e io camminavo sul sentiero, così ho deciso di restare qui sotto per la notte. E loro erano già qui prima di me. Non ditemi che lo considerate un…»    
«Oh certo!» esclamò il cavaliere gobbo facendo rizzare il suo stallone. «Come quando sputai nella minestra di mio cugino Willy e diedi la colpa a mio fratello per evitare che mio padre mi menasse. Siamo nati prima di te, ragazzo. Per chi combatti?»  
Quella domanda era il limite oltre cui si sarebbero potuti spingere quei cavalieri.                                                                                  
«Non vi riguarda.» rispose Bart. Non poteva far altro che non rispondere; se avesse detto di combattere per l’Accademia si sarebbe potuto ritrovare col cappio alla gola. E avrebbe potuto ricevere lo stesso trattamento se avesse detto di combattere per la Punta. Non sapendo chi sostenessero gli uomini che aveva di fronte, decise era meglio non rispondere.                                                                                                                                                                                             
«Ah, non ci riguarda? E da quando la parola di un bamboccio vale di più di quella di un cavaliere onorevole? Da quando?». Ser Konrad inarcò le scure e folte sopracciglia e si grattò la barba.
Onore” pensò ser Bart “Dove sta l’onore nelle tue frasi?” «Un bamboccio?» domandò Bart cercando di mantenersi rispettoso. «Sono un cavaliere. E potrei definirmi anch’io onorevole.»                                                                        
«Questo lo giudichiamo noi.» farfugliò l’altro cavaliere.      
«Prendigli il cavallo, Mold.» ordinò ser Konrad. «Vediamo che cavaliere è questo insolente.»                                                                                                        
Ser Mold smontò dal suo stallone con difficoltà. Poi corse sotto il castagno e gettò una strana occhiata a Bart. “Occhi pieni di odio” notò Bart. Mold si avvicinò fin troppo a Lenticchia.                                                                                                                                              
«Non vi permetto di toccare il mio cavallo. Cavaliere, abbassa quelle mani da lui.» sbraitò Bart infastidito dal loro comportamento. «Come osate fare una cosa simile?»                                                                                                                                                             
Nessuno gli prestò attenzione. Ser Mold afferrò Lenticchia per le redini e lo strattonò attirandolo verso di sé. «Il ragazzo non è solo.» disse. «Ci sono due cavalli. E non ho mai visto uomo che cavalca due cavalli contemporaneamente.  Dicci, cavaliere, ci state tendendo un agguato tu e i tuoi amici?»                                              
«Volete fare finta di essere in pericolo?» domandò Bart. «Siete voi ad aver teso un agguato a me.»                                    
«A voi» corresse ser Konrad. «Due piccioni con una sola fava. Due assassini con un solo colpo di balestra. Dove si nasconde il tuo complice? Dopotutto avrei dovuto capirlo subito. Un ragazzino così magro non potrebbe mai sollevare due corpi per appenderli ad un albero.»                                            
«Io non ho fatto nulla di tutto ciò che insinuate.» ripeté ser Bart. «Il mio nome è ser Bartimore di Fondocupo. E io sono qui su ordine di un potente signore, diretto a Roshby per il torneo.» Bart decise che non c’era motivo di rivelare il nome di Dalton Kordrum, né altri tipi di informazioni sul suo conto.                                           
Ser Mold fece un gesto sconcio e sputò per terra. «E io sono Edwarck Rovyrus, signore di Therstone. Ragazzino, siamo più grandi di te. Se devi inventarti delle frottole, almeno abbi l’accortezza di farlo come si deve.»    
Più grandi di me? Non sembra proprio.” si disse Bart. «Chi è il vostro signore?» domandò curioso.                                           
«Fai ancora domande? Non sei nella posizione di poter parlare. Ragazzino, basta così. Prendi le tue cose e preparati a seguirci. Affronterai chi di dovere, poi vedremo se avrai ancora le forze di fare domande o parlare.»                                  
«Io non affronterò nessuno.» ribatté violentemente Bart. «Forse non vi è chiaro: non avete alcun diritto di dire queste cose. Vi ho detto che non ho ucciso questi due uomini, che la loro morte mi rattrista quanto infastidisce voi, per questo non potete fare altro che lasciarmi stare.»    
Bart notò Mold portare la mano sinistra al fodero, con una rapidità tale da poter meravigliare addirittura una mosca. Il cavaliere però non sfilò la lama, forse perché impacciato a causa del peso dell’armatura che indossava, o forse perché aveva semplicemente timore di farlo. “Passerebbe dalla parte del torto” valutò Bart. “Più di quanto già non lo sia.”                                                                                    
«Ah!» sbraitò poi. «Ecco dove si nascondeva l’altro. Anzi, l’altra. Cos’è, oltre ad essere un assassino sei anche un uomo sporco? Dimmi un po’, sei uno di quelli che vendono le bambine?»                                                                          
Esmerelle scattò fuori dal suo nascondiglio prima che Mold riuscisse a metterle sopra le mani, balzando verso sinistra come un felino. «Vi farò sanguinare!» urlò la ragazzina. Poi, con un solo gesto, afferrò la cintola di Bart e la strappò con violenza. Non appena lasciò la presa, il fodero si staccò da Lungacresta ed Esmerelle fece per alzare la spada al cielo. Ma ser Konrad, che nel frattempo era furiosamente sceso da cavallo, caricò un pugno ammantato di ferro sulla lama, facendola volar via dalla sua mano. Mold invece sferrò un calcio sul polpaccio di Bart, alle sue spalle, facendolo cadere sulle ginocchia nel terreno madido d’acqua. Bart ebbe voglia di afferrare i due per il collo e strangolarli, ma represse subito il suo furore, per evitare di mettersi ancora di più nei pasticci. Entrambi i cavalieri sguainarono le loro lame, che biancheggiarono nell’oscurità della notte, e le alzarono verso di loro con fare seriamente minaccioso, puntando le loro gole.                    
«Un cattivo modo di fare conoscenza. Dici di essere un cavaliere, ma non sai neppure difenderti.» disse ser Konrad ergendosi su di lui.                                                                                                                                                                                                 
Bart non raccolse, ma rimase genuflesso ai suoi piedi.                                                                                                                  
«Un ragazzo ed una ragazza. Due banditi che si divertono ad uccidere gli uomini più deboli. Vi faremo vedere noi come ci si comporta con quelli della vostra risma». Ser Mold alzò la lama al cielo, con un gesto furente e colmo di rabbia.          
«Fermo Mold!» lo redarguì Ser Konrad. «Non occorre macchiare la tua lama, anche se ora come ora sarebbe facile pulirla. E il loro è sangue fetido. Uccidere dei poveri innocenti solo per essere acclamati da altri briganti… come è si spinta in basso la feccia di questo mondo.»    
Esmerelle alzò gli occhi verso il cavaliere e gli urlò contro: «Razza di imbecilli schifosi! È per quelli come voi che mio padre è morto. E io vi farò sanguinare tutti. Tutti!». La ragazzina si spinse in avanti e gli scaraventò un pugno sull’armatura con una forza che Bart non avrebbe mai pensato potesse avere. Mold l’afferrò per le braccia piegandogliele all’indietro e facendole sfuggire un gemito di dolore.                                                                                                  
«Toccala e ti taglio le mani.» minacciò Bart. La risposta che ricevette fu una fragorosa risata di completo sfottimento. Ser Konrad non venne scosso minimamente dal colpo di Esmerelle, anzi, sembrò parlare con maggior tranquillità.    
«Alzati, giovanotto. E tu ricomponiti, fanciulla». Il cavaliere rinfoderò la sua lama con un gesto fulmineo. «Prendete i vostri cavalli e le vostre cose. Vi concedo soltanto qualche minuto, poi ci seguirete in silenzio. E allora vedremo chi sanguinerà per primo.»
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Note d'autore:
Eccoci qui con il VI capitolo della storia. Si entra nel vivo delle vicende, a diretto contatto con l'estrema fragilità dello scenario di guerra che grava su Pantagos. L'ingiustizia regna sovrana il tempi simili, e le vicende appena accadute ne sono perfetti testimoni. Bart, ovviamente, ha evitato uno scontro con l'acciaio per una sola ed unica ragione: è consapevole di avere con sé Esmerelle, e sa di non poter mettere la sua vita repentaglio per salvaguardare il proprio onore. Che ne pensate di questo gesto? E cosa pensate di ser Mold e ser Konrad? Hanno agito perché spinti dal senso della giustizia o dell'onore? Cosa pensate possa accadere adesso?
Vi avevo detto che questo sarebbe stato un capitolo molto più denso di eventi: a voi la parola, dunque. Noi ci vediamo con un prossimo aggiornamento, in modo straordinario, martedì 28. Grazie ai recensori assidui e ai lettori costanti e/o silenziosi. 
Makil_

 

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Capitolo 7
*** VII ***



Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):
 
Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre.
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos. 
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Quando i due cavalieri diedero ordine di fermarsi, Bart ed Esmerelle furono costretti a restare lontani dal padiglione del loro signore, scossi dall’agitazione nel cuore della notte. Il buio pervadeva ogni angolo di quel luogo, attraversato appena da freddi soffi di vento. La pioggia aveva cessato di cadere da un po’, abbandonandoli nel tragitto verso l’accampamento dei due cavalieri disonesti. Bart, però, non aveva smesso di udire il fluire dell’acqua in lontananza. Probabile che nelle vicinanze ci fosse un fiume, fu costretto a dirsi. O probabile che fosse tutto completamente allagato sotto ai suoi piedi. Di certo non poteva dire nulla con sicurezza, dal momento che non c’era una sola luce ad illuminare quel breve sentiero roccioso su cui stavano camminando. L’unica cosa di cui poteva parlare con certezza era l’odore della carne lasciata ad arrostire sulle braci, dimenticata fuori da quei tre grandi padiglioni decolorati.
Cosa darei per averne un pezzo!” pensò tentando di frenare il brontolio del suo stomaco. Dal punto in cui si erano fermati Bart poteva scorgere alcuni uomini intenti a montare le loro tende per la notte, in quell’accampamento quadrangolare che era stato creato appositamente per accogliere un vastissimo numero di milizie.
«Aspettateci qui» avevano detto all’unisono ser Konrad e ser Mold prima di abbandonarli lì fuori. «E non muovetevi di un solo piede, o ve lo tagliamo e lo appendiamo ad un albero, proprio come fareste voi». Nel viaggio lungo la strada, quegli uomini si erano dimostrati anche più riprovevoli di quanto Bart aveva pensato di sostenere. Non solo non gli avevano dato modo di giustificarsi di azioni mai compiute, ma non avevano neppure permesso loro di mormorare alcuna parola. «Non vi leghiamo le mani e la bocca solo perché vogliamo essere buoni.» aveva detto ser Mold. «Consideratelo un gesto di misericordia». Ma di certo non era stato il genere di misericordia che Bart si sarebbe aspettato da un cavaliere che soleva definirsi onorevole. “Chissà dove siamo” si chiese Bart: in effetti, potevano trovarsi ovunque. La stanchezza aveva preso il sopravvento su di lui durante la marcia, e non gli aveva neppure concesso di memorizzare le strade che man mano avevano percorso. Perlomeno, se Bart avesse prestato attenzione al sentiero su cui avevano camminato, avrebbe saputo dire quale strada prendere per tornare al castagno; anche se qualcosa gli faceva dire che non lo avrebbero mai più rivisto.                                                                                                                                                                                    
Il campo era attraversato per lungo da una fila compatta di tendaggi. Al centro sorgeva il più grosso ed alto, quello su cui svettavano un araldo rosso e tre lunghe bandiere bianche. Il padiglione era veramente sfarzoso nella sua mediocrità, se paragonato agli altri due che lo difendevano ai lati, molto più piccoli e malmessi. Dal loro interno, anche da quella distanza, si poteva sentir provenire urla, strilli e canti, che rendevano quella notte tenebrosa  meno gelida, cingendo tutto il campo nel loro abbraccio coinvolgente.                                                                                                                                              
Non dovrei essere qui.” pensò Bart angosciato. “Dalton non si sarebbe mai fatto catturare. Lui avrebbe sfoderato la sua lama e avrebbe abbattuto quei due impostori con due semplici colpi. Lui avrebbe fatto tutto quello che io non sono stato capace di fare”. A lungo Bart si era preparato per dimostrarsi abile e forte fuori dalle mura di Sette Scuri. A lungo, la sua preparazione cavalleresca, il suo allenamento continuo e faticoso, gli avevano imposto delle sane e rigide regole, che pensava lo avrebbero condotto a perfezionare la sua lucidità e i suoi riflessi. Ma a cosa erano serviti tutti quei suoi sforzi, a cosa era servita tutta quella fatica, se non aveva mai imparato ad essere un cavaliere come tutti gli altri?
Ormai di certo non c’era più il tempo di pensarlo né il tempo di rammaricarsi per essere stato tutto quello che non avrebbe mai sperato di essere. Se mai avesse dovuto pensarci, lo avrebbe dovuto fare prima di accettare tutti quegli incarichi, a partire dal pesantissimo fardello affidatogli da Dalton Kordrum, e concludendo con il difficoltoso impiccio di Esmerelle. Che cosa avrebbe pensato Amisa Witeolm, se l’avesse visto ritornare a Sette Scuri incapace di proseguire il suo viaggio? Cosa avrebbe mormorato il mondo, se ser Bartimore di Fondocupo non avesse portato a termine quella missione?                                                                                                  
Esmerelle sedeva immusonita sul suo palafreno, ammantata della cappa di Bart. Non aveva fiatato durante tutto il cammino, né aveva rivelato quali pensieri gli sfuggissero per la mente; una cosa insolita da una parte e abbastanza prevedibile dall’altra.  
«Se mi avessi ascoltata, cavaliere, ora non saremmo in questo pasticcio.» mormorò Esmerelle facendosi più rude. «Sbaglio o ti avevo detto di proseguire a destra quando ci siamo fermati in quel bivio? Se tu non fossi stato così testardo, forse ora non saremmo qui a morire dal freddo.»                                                                                     
«Se tu non fossi stata così testarda.» la corresse Bart riservandole un’occhiata gelida. «Non pensare di riversare le colpe su di me. Forse non avrei dovuto insistere sul fermarci sotto il castagno, ma l’ho fatto solo perché era l’unico luogo in cui poter dormire. L’unico, almeno nella via di sinistra.»          
«Che hai voluto prendere tu, forzatamente.» sottolineò lei con un tono sempre più arrogante.                                                      
«Dopo averti chiesto verso dove proseguire, però. E tu non mi hai risposto. Vuoi che te lo ricordi o fai da sola? Ecco come abbiamo pagato la tua impertinenza!»         
«Un cavaliere che non sa badare all’impertinenza di una ragazza non è degno di impugnare una spada.»                               
Bart non raccolse.                                                                                                                                                                                         
Esmerelle parve accorgersi di aver detto davvero qualcosa di troppo e sembrò fare un passo indietro. Per questo, poco dopo, aggiunse: «E poi quel castagno non proteggeva neppure dalla pioggia.»                                              
Qualche minuto dopo, finalmente, ser Konrad tornò a trovarli nel punto in cui li aveva lasciati. L’uomo aveva il viso rosso, solcato da un’insolita espressione, il respiro affannoso e gli occhi scuri e tramortiti.                           
«Il mio signore è pronto a conferire con voi.» li informò ansimando. «Potete seguirmi, se volete. Oh, signorinella, da’ qui». Ser Konrad porse il suo braccio ad Esmerelle, che lo guardò sospetta prima di convincerlo ad abbassarlo. Entrambi lo seguirono lungo il sentiero scosceso, attraverso una stradicciola di terra battuta e ciottoli. Anche Lenticchia era stanco, più del solito. Il destriero si reggeva a malapena sulle gambe, che ora parevano essere stecche gracili e tremolanti come giunchi scossi dal vento.
Nel passare tra l’accampamento, gli sguardi curiosi e circospetti degli altri cavalieri si soffermarono a lungo su di loro. “Dalla padella alla brace” pensò Bart. Ser Konrad li accompagnò dinanzi al tendaggio disadorno del suo signore, quello centrale, la cui entrata era presidiata da due guardie per lato. Anche questi, come tutti gli altri attorno, gli rivolsero uno sguardo coperto di malevolenza.                          
Bart fece per entrare all’interno della tenda, ma ser Konrad lo strattonò leggermente per il braccio.                                    
«Io e ser Mold non ti abbiamo toccato, giusto ser Bart?» gli domandò con la voce rauca. Bart fu stranito dalle parole del cavaliere.    
«Tu… cavaliere… tu…». Negli occhi di ser Konrad sorse un ombra nera, terrificante. Un velo che ricordò a Bart lo stesso timore che aveva visto stagliato negli occhi di Dalton, immobile sul suo letto, prima di abbandonarlo. «Tu non ci hai torto un capello». Dopotutto c’era della verità in quella frase.                                                
Due cavalieri gli dissero di lasciare i cavalli in un piccolo spazio sterrato, e Bart ed Esmerelle passarono a loro le redini, smontando dal dorso delle bestie. Infine, lo stesso ser Konrad spalancò la cortina del padiglione con entrambe le mani ed invitò Bart ad accomodarsi, esibendosi in un gesto di riverenza fin troppo recitato. Bart fu accolto da un sussulto.                                                                                                                 
«Ser Bartimore di Fondocupo, un fottutissimo regalo della notte». Dietro a quella voce, lo richiamarono una serie di imprecazioni e di bisbigli.
Prim’ancora di alzare lo sguardo verso la voce, Bart capì di chi si trattava. Solo un uomo poteva ruggire in quel modo. E solo un uomo poteva parlargli così. Il gigantesco signore di Ardua Scogliera si trovava proprio di fronte a lui, e con la sua possanza era in grado di sovrastare completamente tutto ciò che aveva dietro.       
Bart posò il ginocchio destro per terra e si piegò in avanti tenendo la mano sinistra al petto. Al suo fianco, Esmerelle tentò di imitare i suoi movimenti, riuscendoci piuttosto bene. Davanti a loro, Ortys Wysler rimase a fissarli per qualche secondo, silenzioso ed immobile come solo una lastra di metallo poteva esserlo. Poi, la sua risata fragorosa s’infranse contro le pareti del padiglione, smorzando il freddo silenzio del luogo.        
«Alzati, Bartimore!» gli comandò dandogli una violenta pacca sulla spalla. «Da quando ti inchini davanti a me?»          
«Da quando i tuoi uomini mi arrestano senza alcun motivo, mio signore.» rispose secco Bart.                                                    
«Oh, razza di imbecilli! Dovrai scusarli, ser Bart, che tu lo voglia o no. Magari posso offrirti qualcosa per sdebitarmi, eh?»
Bart acconsentì. Ortys Wysler era un uomo enorme, nel vero senso della parola. I lunghi capelli neri come la pece gli ricadevano a ciocche sulle spalle. Sul suo volto arcigno cresceva una barbetta brizzolata, molto meno folta dei capelli. L’uomo indossava una camicia di seta marrone, sbottonata quasi completamente, che metteva in mostra i suoi pettorali perfettamente scolpiti. “Faccia di bronzo, braccia di ferro.” pensò Bart. Era passato molto più di un anno dall’ultima volta che lo aveva visto. Ortys era stato uno degli amici più fidati di Dalton, uno degli alleati più forti e coraggiosi di cui il signore di Sette Scuri aveva potuto vantare durante il corso della sua florida vita. 
Il suo padiglione era il perfetto riflesso della sua possanza: non c’erano oggetti inutili, né mobili o tappeti ad abbellire quella tenda. Il tutto era ammantato da un senso di cupa stabilità, mischiato ad un silenzio quasi irreale. Su un angolo sorgevano alcuni letti di paglia, mentre al centro della tenda era posta una tavolata di legno scuro. Ortys sedette sul suo scranno, alto e rifinito d’argento, proprio accanto alla figura silenziosa di un esperto ingobbito su una pergamena, il quale sedeva su uno sgabello, cingendo tra le mani alcuni tomi impolverati.                                                                                                                                                                         
Bart ed Esmerelle presero posto dinanzi a loro due, nelle seggiole che erano poste poco vicino.                                                      
«Si direbbe che avete avuto da fare questa notte, eh?» domandò Ortys. «Gradisci del vino, Bartimore? È una delle migliori vendemmie che io abbia mai saggiato. Patres Steffon me lo ha portato da Pyp. È dolcissimo, bevine un po’.»                                                                                                                                                                                          
«Meglio di no.» rispose Bart spingendo avanti le mani ed agitandole. «Per questa sera sto già bene così.»                                 
Ortys fece finta di non aver udito e gli riempì ugualmente un calice di vino rosso come il sangue.                                        
«Sei diventato un uomo» constatò malizioso il signore di Ardua Scogliera, facendosi sfuggire un sorrisino malevolo. «E hai deciso di portare con te una ragazzina, vedo. Come si chiama?»                                                                                                                                  
«Il mio nome è Esmerelle.» rispose lei, socchiudendo gli occhi verso Ortys Wysler, e precedendo Bart nel rispondere. «E so parlare anche io.»                                                                                                                                                            
«Oh, mio signore, non fare caso ai suo modi sfrontati. Deve ancora capire chi è chi e fino a dove può spingersi con le parole.»  
«Taci, Bart.» lo rimproverò Ortys. «Mi domando se sia rimasta della giovinezza in te. Hai perso il giovane Bart da quando sei diventato un cavaliere. Questa ragazza mi piace. Oh, e a proposito di modi sfrontati … le mie scuse ad entrambi per ciò che hanno fatto i miei uomini: due immensi imbecilli. Vi hanno fatto del male?»     
«No, mio signore. Ci hanno solo confusi per dei briganti.»                                                                                                         
«Un’offesa più larga delle legnate. Oh, razza di imbecilli! Te lo dico, un conto è non farsi problemi a dire le cose come stanno, un altro è sapere come e quando dirle per evitare di perdere la testa… una cosa che i miei uomini non hanno ancora imparato. Ma lo impareranno presto, stanne certo.»                                           
Bart gustò lentamente il sapore di quel vino dal retrogusto dolciastro. Ortys non mentiva, si trattava davvero di un’eccellente vendemmia.
«Allora, come avete ucciso quei contadini?» domandò Ortys serrando il pugno sul tavolo.                                 
«Mio signore, noi…» farneticò velocemente Bart.                                                                                                                                
«Suvvia, Bart! Sei diventato fin troppo pudico per quel che mi riguarda. Fossi stato in te avrei dato una buona lezione ai miei uomini. Ti hanno accusato di infedeltà e tu sei rimasto a guardare? Troppo silenzioso, ecco cosa sei. Un gufo che sta appollaiato su un ramo in attesa che arrivi il sonno». Ortys si riempì un’altra caraffa di vino. «Che ci facevate da quelle parti?»
«Stavamo cercando un rifugio per la notte.» rispose Bart buttando giù un altro sorso.                                                                       
«Per la notte, ovviamente.» disse il signore di Ardua Scogliera lanciando uno sguardo interrogatorio ad Esmerelle. «Che fine ha fatto la tua giumenta, ser? I miei uomini mi hanno detto di non averti riconosciuto perché non hai più quel cavallo. E in più con te c’era questa ragazzina. Voglio dire, Amisa ci aveva informati…»      
«La giumenta è morta sulla strada, mio signore. Era secca e fragile da giorni ormai. Non c’è più acqua in giro per le Terre dei Venti.»                                                                                                                                                                  
«Non c’è più acqua in giro per il mondo.» sottolineò Ortys Wysler, la voce rombante come un tuono. «Bevi Bart, non lasciare che il vino perda il suo sapore.»                                                                                                                                  
Bart bevve. «Mio signore, sai per caso se i combattimenti sono iniziati? Dalton mi ha fatto promettere di…»                  
«Assolutamente no, Bartimore.» lo arrestò Ortys. «Il torneo non inizierà finché tutti i partecipanti non saranno giunti. Questo significa che potrò bere fino a che non sarò ubriaco come lo è un uomo che ha bevuto per sei anni consecutivi, dato che non devo preoccuparmi di dover fare le cose in fretta.»  
L’esperto al suo fianco voltò lievemente lo sguardo. Come un topino che scorge per la prima volta, dopo mesi, un pezzetto di formaggio, quel patres si rizzò sullo sgabello ed ascoltò le parole di Ortys Wysler con occhi glaciali. Il patres era abbastanza giovane per essere un esperto. Sul suo capo svettava una corta chioma marrone che scendeva trasformandosi in basette altrettanto corte vicino alle orecchie. Non aveva peluria sul volto, ma compensava con quella nel petto, intravedibile oltre la sua tunica di seta.
«Vedi di non prendere troppo alla leggera il torneo, Ortys.» suggerì l’ometto con aria confidenziale. «E vedi di non contagiare il povero ser Bart con le tue insolenze.»                                                                                                                                                                  
«Scrivi per ore senza rivolgermi neppure la parola e ora che devi stare muto ti fai sentire. Patres Steffon, a volte mi chiedo se tu provi piacere nel vedermi bestemmiare.»                                                                                             
«Mai e poi mai, mio signore. Sono gli oneri accademici a farmi parlare. Sia io che ser Bartimore e la sua fanciulla sappiamo quali sono i veri motivi che hanno spinto gli esperti ad indire il torneo a Roshby. Talvolta, il gioco e la competizione possono far riappacificare due fazioni in guerra. L’unico obbligo a cui siete chiamati a rispondere è il mettervi in gioco ed abolire ogni forma di rancore verso tutti i vostri sfidanti. L’accademia non ha certo discusso su cosa fare per dare più vino ad Ortys Wysler.»                                                                                                   
«Patres Steffon!» tuonò Ortys. «Parli con troppa franchezza adesso. Credo possa bastare per il momento.»                      
Il patres tornò chino sulla sua pergamena, riafferrando la lunga piuma con la mano destra. Ma prima di smettere di parlare, si apprestò ad aggiungere: «Oh, ser Bart, scuserai l’indecenza delle mie maniere. Le mie condoglianze per la tua perdita. Le Grazie soltanto sanno quanto quell’uomo fosse buono e giusto.»                     
L’esperto parlava di Dalton Kordrum.                                                                                                                                              
«Grazie.» rispose Bart. Purtroppo i ricordi di Dalton lo facevano vagare con la mente, verso i lunghi momenti di gioia passati insieme a lui. Bart non poté che ripensare alle quieti passeggiate che adorava fare in sua compagnia, fuori e attorno alla cinta muraria di Sette Scuri, alle lunghe cavalcate fatte attorno ai campi del regno, su per i declivi delle colline e oltre i sentieri impervi.                                                                              
Ortys gli rivolse uno sguardo consolatorio, come se avesse colto il suo dolore.                                                                       
«Sai come lo chiamavano, Bartimore?» domandò sorridente. L’uomo non attese certo una risposta. «Il Sole del Sud. È strano scorgere i suoi raggi giù nelle nostre terre, tanto quanto era strano incontrare un uomo come Dalton. In quel nome era riassunto tutto il suo coraggio, la sua forza, la sua celebrità ed il suo splendore. E, per quanto qualcosa mi dicesse che lui non ci avrebbe mai lasciati, il sole può tanto sorgere quanto tramontare.»      
«Eppure» s’intromise nuovamente patres Steffon. «Diversi studi astronomici ci dicono che il sole non ci abbandona mai. Nemmeno durante la notte, sai, ser Bartimore? I suoi raggi illuminano la luna che a sua volta illumina la terra. C’è del poetico nel pensiero che il tuo signore vegli ancora su di te, come il sole che non smette mai di darci luce. Conosci il modo atroce e tragico in cui morì, e non mi interessa affatto riproportelo. Dov’eri  - se posso - quando il Fiore Rosso prese il sopravvento nelle Terre dei Venti?»                                                                                                                                                                                 
«A Sette Scuri, patres. Amisa Witeolm aveva fatto serrare ogni ingresso ed ogni uscita del regno. L’unico contaminato fu Dalton, e nessuno oltre lui fu contagiato.»                                                                                              
«E tante grazie al cielo, allora. La tua Amisa è una donna dallo straordinario acume. Di certo non come molte altre signore che hanno lasciato che la malattia sopraggiungesse a sterminare le loro famiglie». Come se avesse detto qualcosa di troppo, patres Steffon tornò a dedicarsi alla sua pergamena in rispettoso silenzio.                   
«Era uno dei miei migliori amici, Bartimore.» disse Ortys Wysler. “Anche il mio, signore.” avrebbe voluto rispondere Bart, ma Ortys non gli diede la possibilità di parlare. L’uomo continuò: «Un uomo di cui mi fidavo come di pochi. Ogni notte ripenso a ciò che feci quando seppi della sua sconfitta. Ogni notte ripenso a quante volte durante la battaglia di Loggia Infuocata mi capitò sotto mano il collo di quell’impostore di Roger Wyndwat. Nei miei sogni più quieti ci sono io che stringo forte quell’uomo, sollevandolo da terra con i piedi all’aria. E ci sono io che premo sulla sua faccia, fino a che quell’animale non esala il suo ultimo e fievole respiro. Io che rido dei suo guaiti di dolore. Io che rido del suo modo vile di morire. Vorrei averlo massacrato davvero in questo modo, Bartimore, già soltanto per dare vendetta al nobile nome di tuo padre.                                                                                                                                                             
«Eppure non riuscii nell’intento. Patres Steffon potrebbe confermati come andarono le cose quel giorno. Quel suo lurido scagnozzo, Spada di Sabbia, stava tenendo d’assedio Dartstorm, mentre Wyndawat e Agabbo Nobb si precipitavano a scontrarsi contro Loggia Infuocata. Fortuna per Josher Fyrestone che io mi trovassi lì in quei giorni, a discutere dell’avanzare della guerra: ciò forse gli risparmiò la vita, anche se Roger uccise ugualmente suo fratello Tordow.»
«E patres Steffon può confermarti anche che gli esperti intervennero a dovere quel giorno.» s’inserì bruscamente l’esperto. «Non appena furono assaltati, l’Accademia impiegò pochissimo tempo per inviare loro gli Elmi Scuri, l’esercito addestrato appositamente per mettere a tacere i conflitti nel grande reame. Che ne fu del Ciclone Nero e del suo capitano Roger Wyndwat? Ortys, non rammenti cosa gli facemmo?»
«Li incatenaste e li spediste nelle vostre celle, dove nessuno seppe più nulla di loro. Dimmi, patres, li avete anche liberati o possiamo continuare a dormire sonni tranquilli?»                                                                          
«Ti basterà sapere che tutto ciò che rimane di Roger Wyndwat è un uomo menomato impossibilitato nei movimenti.»                                                                                                                                                                                    
Esmerelle, che fino ad allora aveva ascoltato i loro discorsi sbadigliando di tanto in tanto, sembrò farsi vispa. La ragazzina si rizzò sulla sedia e, colta dallo stupore, disse:                                                                                                  
«Solo questo? Non basta.»                                                                                                                                                             
Bart le rivolse un’occhiataccia di dissenso, ma a prendere la parola fu proprio patres Steffon, che adagiò sul tavolo la sua penna d’oca e si fece molto più serio di prima.                                                                                                      
«Non ci è dato togliere la vita a nessuno. Ragazzina, vuoi forse dire tu cosa avremmo dovuto fare di lui? È pur sempre un uomo.»      
«Patres Steffon!» lo redarguì Ortys, il collo taurino ormai color porpora a causa dei numerosi calici di vino ingollati. «Non bestemmiare nella mia tendo o ti butto via a calci! Quella belva era tutto meno che un uomo. Bart, bevi un altro po’, vedi com’è dolce?». Allora riempì un altro calice per Bartimore e lui dovette prenderlo pur non desiderando più bere. Gli girava un po’ la testa, per la stanchezza e per l’ebbrezza. Quel vino, scoprì presto e a sue spese, era molto forte.  
«A noi del sud la guerra è qualcosa che scorre nelle vene.» rimproverò patres Steffon. L’esperto non aveva tutti i torti. «E voi sapete soltanto acciuffarvi come bestie. Ecco i risultati di ciò che avete creato.»                                                                                                      
«Non solo loro.» rispose secca Esmerelle. «Anch’io ho la guerra nel sangue. E non sono del sud, per fortuna.»            
«Una ragazzina non può dire certe cose.» la rimproverò patres Steffon diventando quasi paonazzo in volto per la rabbia. «Con quale diritto una fanciulla si permette di discutere di affari simili? Avanti, rispondi. Odio e rancore, ecco cosa vi fanno parlare. E voi non potrete partecipare al torneo se non li metterete da parte anche solo per un secondo. Lo stesso vale per te, Ortys. Ricordate lo scopo dei giochi a Roshby, ricordate cosa ha deciso l’Accademia. E ricordate di essere grati a noi esperti per ciò che stiamo cercando di darvi: un patto di pace che potrà risparmiarvi le vite.»                                                                                                                        
«Sarò grata all’Accademia solo quando potrò sputare sulla tomba di Lower Standrom e di tutti coloro che hanno ucciso dei poveri innocenti.» rispose Esmerelle. La ragazzina aveva assunto nuovamente la sua intollerabile espressione di sfida, ma questa volta Bart non ebbe motivo di contraddirla.            
«La ragazza ha ragione.» concluse Ortys Wysler con una voce che schiacciò tutte le altre. «E vedi di placare i tuoi toni, o dovrò prendere seri provvedimenti, patres Steffon. Non sopporto che tu parli così ai miei ospiti.»                      
«Non era nelle mie intenzioni offendere qualcuno, se l’ho fatto chiedo venia. Tutto ciò che voglio è farvi capire che molte cose non sono come molti pensano che siano. Spero di non avervi fatto credere di esservi contro». L’esperto rivolse a Bart ed Esmerelle un sorrisino distorto.    
«Se lo hai fatto» intervenne Ortys con il suo fare polemico e la sua voce tonante. «È perché era nei tuoi intenti. E allora ne dovrai pagare le conseguenze. Sta di fatto che non è la prima volta che ti sento dire certe cose in mia presenza: vedi di mangiarti la lingua più avanti! La tua arroganza non potrà essere giustificata con delle scuse. Tu sei un fattore ubriaco, patres Steffon. Se stacchi la coda al tuo cavallo e subito dopo gliela riattacchi, non significa che tu non gli abbia fatto del male.»                                                                                                                       
«Non siamo offesi» rispose Bart cercando di riportare la quiete. «Non c’è motivo di parlare ancora di queste  cose». Dopo quella frase, patres Steffon gli lanciò un’occhiata di approvazione.                                                                                                    
«Allora basta così, Bartimore. Questi discorsi stanno annoiando la tua pulzella bionda e anche me. Sei ancora certo di voler andare a Roshby o hai deciso di aver di meglio da fare sotto i castagni, in compagnia della tua fanciulla?»  
Esmerelle arrossì imbarazzata, mentre Bartimore cercò di trovare le parole adatte per replicare.                                            
«Mio signore, mi è bastato sapere che…»
«Sì, giusto, il tuo pudore.» lo interruppe Ortys. «Bartimore, bevi. Ecco, tieni… guarda com’è rosso. Mai assaporato uno migliore in vita mia. E ne ho assaggiati di vini!» L’uomo gli riempì un altro calice, questa volta con più vino, quasi fino a farlo debordare oltre l’orlo. Bart provò a ritrarre la mano, ma Ortys gliel’afferrò inducendolo, poco dopo, a bere tutto il contenuto.                                                                                                        
Esmerelle trattene una piccolissima risata, gesto impacciato che a Bart non sfuggì. La ragazzina aveva probabilmente notato il suo pessimo stato, e ne era divertita. Da un lato fu felice, forse, di essere riuscito a strapparle un sorrisetto. Quando rideva era anche più bella.
Ortys riprese a parlare, sempre più viola sul volto.                    
«Ho altre dodici botti di questo vino. Vedo che ti sta piacendo più di quanto mi sarei aspettato! Magari te ne regalerò due o tre, se mai riuscirò a separarmene. E potrai portarlo nel tuo padiglione.»                                                        
«Se mai ne avesse uno.» lo schernì Esmerelle.                                                                                                                         
«Bartimore, volevi congelarti le chiappe là fuori? La notte è fredda e buia, e i briganti adorano agire sul tardi. La ragazzina non potrà continuare a vivere per strada come te. E se vuoi essere considerato un cavaliere, dovrai avere un padiglione a tutti i costi. Specie adesso che stai andando nella mischia di grandi signori e valorosi cavalieri.»                                                                                                                                                                      
«Ne comprerò uno a Roshby.» promise Bart. Il vino lo aveva inebriato a tal punto da rendergli difficile perfino il parlare. «Considerala una parola d’onore». Un’aggiunta involontaria.                                                                                                                                                                          
«Onore… onore…» ripeté Ortys portando una mano alla pancia. «Al diavolo tu e il tuo onore, Bartimore! Ringrazia chi vuoi ringraziare per averti fatto trovare me.»                                                                                               
«I tuoi uomini mi hanno fatto trovare te. Io non ringrazio quegli sporchi disgraziati!» disse Bartimore con una voce che ormai non era più la sua. Poi assestò perfino un pugno al tavolo, che fece sobbalzare patres Steffon dalla sua postazione.    
«Ebbene, parli sul serio? Adesso sì che rivedo il vecchio Bart». Ortys sorrise a trentadue denti, come se avesse ritrovato un vecchio compagno d’avventure smarrito da troppo tempo in un bosco. «Non ci sarà bisogno di spendere una sola moneta. Tu e la tua fanciulla sarete accolti da me. Ho un padiglione disponibile che sarà tutto per voi. Non è di certo uno dei migliori, ma potrà bastarvi suppongo. Pelle di daino marrone ben rifinita, per nulla scucito o leso. I miei uomini vi metteranno dentro anche un letto a baldacchino, una vasca e due vasi da notte.»          
Patres Steffon sollevò nuovamente gli occhi dalla pergamena, questa volta molto più incuriosito delle precedenti. «Mio signore, non mi avevi detto di avere un’altra tenda. Avremmo potuto darla a ser Gonard e la sua combriccola di fanciulli, la scorsa sera. Hai mandato via quell’uomo! E poi… questa tenda dove l’abbiamo presa? Devo segnarla tra i nuovi possedimenti giunti alle scorte?». Il patres appuntò qualcosa sulla pergamena, poi le sue mani corsero alla ricerca di qualche tomo più piccolo ammassato sugli altri. Quando si calò gli occhiali sul volto e diede una lettura ad un pezzo di carta ingiallito riparlò: «Una tenda identica alla mia.»      
«Una tenda che è la tua.» sottolineò aspramente Ortys Wysler.                                                                                               
Patres Steffon sgranò gli occhi e si tolse immediatamente gli occhiali dal naso con fare confuso. «Che vuol dire tutto ciò?»        
«Soltanto una cosa: per qualche notte dormirai per terra, patres Steffon. Dopotutto in molti dicono faccia bene alla schiena.»      
Bart non seppe dire molto sul modo in cui quella discussione era terminata. Per quanto poteva ricordare, aveva provato a lungo a contestare quella scelta, affinché il patres non fosse escluso dal suo padiglione, ma non c’era stato modo di contraddire la decisione di Ortys. Probabile che, in condizioni migliori di quelle a cui lo aveva ridotto il signore di Ardua Scogliera, avrebbe saputo ribellarsi al suo pugno fermo: ma a quanto parve, quella notte non c’era riuscito affatto. Tutto ciò che ricordò vagamente fu l’invito di Ortys a procedere con loro il viaggio verso Roshby, sotto la sua ala protettiva almeno fino all’arrivo nella cittadina in cui si sarebbe tenuto il grande e sfarzoso torneo. Bart, riuscì a constatare troppo presto, aveva accettato quella proposta. E insieme a quella, anche l’obbligo di svegliarsi la mattina prima del sorgere del sole. Impegno che, malgrado la sbronza, mantenne alla perfezione.
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Note d'autore:
Nuovo aggiornamento, come promesso! I nostri due protagonisti sono sfuggiti al peggiore dei pericoli: la morte. Diciamo che le Cinque Grazie li hanno "graziati" con questo dono insolito: una coincidenza degna di merito, senza la quale avrebbero rischiato di grosso! Entrano in scena nuovi personaggi: l'indomito Ortys Wysler e il fedele patres Steffon, entrambi caratteri di notevole spicco d'ora in avanti nelle vicende, e l'uno l'opposto dell'altro. Che pensate di questi due nuovi volti? Avete apprezzato il gesto, seppur insolito, del signore di Ardua Scogliera? E' stato anche questo un capitolo abbastanza lungo, il prossimo sarà l'esatto opposto. Ci vediamo lunedì prossimo, come al solito, con la nuova parte. Grazie di vero cuore a tutti i miei recensori ormai fedeli, a quelli che mi aiutano e mi correggono e a tutti quelli che rimangono in silenzio! Alla prossima! 
:) 
Makil_

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Capitolo 8
*** VIII ***


Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):
 
Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre.
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos. 
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Roshby era molto meno di ciò che Bart aveva creduto potesse essere.                                                                                                
La cittadina si estendeva sull’altura più dolce e morbida di Campo Verde, inghirlandata dalle numerose onde che l’erba fresca formava sotto le sue mura di granito. Così come un masso abbandonato da troppo tempo e ripescato dal terreno dopo un lungo inverno, tutt’attorno crescevano rovi, erbe del malaugurio, creste di edere e radici di alberi ormai trapassati da tempo, che demarcavano un forte stato di trasandatezza della città. Oltre quell’immensa barriera dello stesso colore della sabbia, svettava, più alta di tutte le altre strutture, un’aspra e disarmonica torre dalla pianta ottagonale, che sembrava essere molto più rigida e tozza di tutti gli altri edifici che le crescevano attorno.
Patres Steffon, durante la non troppo lunga cavalcata mattutina che li aveva condotti finalmente a Roshby, gli aveva spiegato che la cittadina era stata poco popolata durante tutto l’anno precedente, e che adesso, sorteggiata casualmente per ospitare l’evento più lieto degli ultimi anni, aveva dovuto riprendersi dal grave collasso che era seguito all’abbandono delle sue spoglie.
E che spoglie!” pensò Bart non appena poté scorgere meglio le discontinue punte dei tetti variopinti della cittadina, che si alzavano e si abbassavano oltre le sue mura, difesi dalla robusta pietra.
Roshby era stata costruita tempo addietro per ospitare le infinite milizie di Giardino Fiorito, seggio di casa Penflow. Negli anni in cui fu eretta, la Valle del Vespro non aveva ancora avuto a che fare con la guerra e con le colonizzazioni straniere, e pertanto quella zona su cui si estendeva era ancora sotto al dominio fragile del Flarg, che dominava dalla più remota altura della regione su tutte le Terre dei Fiori. Ma da quei tempi tutto era cambiato e tutto era stato stravolto: non esistevano più le Terre dei Fiori, ormai totalmente annesse al territorio della Valle del Vespro. Non esisteva più il Flarg, l’imponente struttura esagonale che aveva funto da sede per Flagorn Veleno dei Vivi, e che era stato raso al suolo come il grano mietuto durante la sua raccolta. Non per nulla quel gravoso evento fu presto battezzato come la Raccolta dei Fiori, in seguito alla quale, i nuovi signori posero il loro dominio sulle terre straniere, e con i loro resti ne costruirono le loro corone di petali intrecciati e giunchi morti. E allora, come un fiore sorto dall’entroterra, era stato costruito il regno di Pugno Sbocciato, ora di sede di casa Wotor, ma a quei tempi soltanto una torre di vedetta da cui ammonire i ribelli e fargli piegare la schiena fino allo spezzamento. Con il monotono susseguirsi delle stagioni, tutto aveva avuto il suo cambiamento: tutto eccetto l’Owerstock, il fiume che scorreva limpido e fresco ad ovest di Roshby, e che ne bagnava i confini lasciando fertile il terreno, facendo sì che crescessero rigogliosi i boschi.
Era stato proprio quel fiume ad indicargli la via da seguire per procedere verso la cittadina, e Ortys aveva dato ordine di camminare lungo le sue sponde per evitare di smarrire il percorso. Non appena si trovarono fuori dalle mura della città, Ortys diede ordine di montare i padiglioni, comandando ai suoi uomini di accostare quello di Bart non troppo lontano dal suo, malgrado l’insufficienza di spazio. Con la stessa intensità delle erbacce, ma forse con più vigore, nel campo sorgevano numerosissimi padiglioni, tutti appartenenti agli altri sfidanti del torneo. Padiglioni logori si contrapponevano a padiglioni mai utilizzati e ancora profumanti di fresca pelle d’animale. Padiglioni grigi e disadorni si contrapponevano a padiglioni sfarzosi e dipinti di tutte le gradazioni di colori possibili e immaginabili. E padiglioni amici si contrapponevano a padiglioni nemici, ognuno addossato sull’altro, e ciascuno legato al prossimo dalle infinite casse di vettovaglie che erano sparse sul campo come anelli di una catena. Di certo, immerso in quell’ammasso di tende, il padiglione che Ortys aveva regalato a Bart ed Esmerelle non poteva essere trovato neppure se cercato con minuziosità.

Bart ed Esmerelle avevano legato i loro cavalli all’esterno, sotto ad un salice piangente, le cui fronde cascavano abbondanti sul terreno. La loro tenda era stata innalzata accanto a quella di Darrick Sunfall, il Principe Stellato, signore di Baia della Cometa, alle spalle del padiglione di Ortys. Quando Bart era sceso finalmente dalla groppa di Lenticchia, gli era sembrato che il cavallo avesse tirato un respiro di sollievo, dal momento che era stato costretto a galoppare per molte ore al fianco dello spavaldo e ruggente destriero nero di Ortys, molto più grosso e molto più muscoloso. Nella loro tenda erano già stati portati i vasi da notte, il letto a baldacchino promessogli e la vasca d’ottone. Non era uno spazio molto ampio, ma Bart pensò che per due sarebbe stato sufficiente. D’altronde, non avrebbe potuto chiedere di meglio.                                                                                                                                      
Non appena gli allestimenti e i preparativi cessarono, Bart si slacciò il mantello madido di sudore sul colletto, e lasciò cadere fodero e spada sul letto. “Tu non mi servirai, per ora. Sarà meglio conservarti per quando dovrai essere pronta. Ho bisogno che tu lo sia .” pensò guardando Lungacrestra, che se ne stava impassibile nel suo fodero.  
«Esmerelle». Bart richiamò l’attenzione della ragazzina, la quale era intenta a scrostare il fango che aveva sotto gli stivali, seduta sull’uscio del padiglione. «Ho degli affari da sbrigare ora. Non so quando tornerò né con chi. Non muoverti da qui per nessunissima ragione. Se vuoi farti un bagno, approfitta del momento e fattene uno.»                
«E perché me lo riferisci?» fece lei con tutta l’aria di infiammare una discussione.
«Per evitare che tu ti allontani mentre io non ci sono: che non accada, signorinella! D’ora in avanti farai come ti dico; qui a Roshby non c’è più tempo per scherzare.»   
«Vedrò» rispose lei.
«Vedrai di far perdere la testa a qualcuno? Dovrai fare come ti dico d’ora in avanti, che tu lo voglia o no.» 
«No!» fece eco lei.
«Come sarebbe a dire?»
«Un “no” è semplicemente un “no”». Esmerelle lo guardò con un’indifferenza fanciullesca.     
Bartimore le voltò le spalle e fece per uscire. «Fai come ti ho detto e vivremo in pace, ragazza.»                                                                                                                                                                        
Esmerelle annuì silenziosamente. «Dov’è che vai, allora?»                                                                                                             
Bart si fermò davanti all’ingresso. Si voltò nuovamente, aprì la casacca tanto quanto bastava per infilarci dentro la mano e afferrò la missiva che gli aveva affidato Dalton Kordrum, ormai completamente spiegazzata ed accartocciata lungo tutti i lati. L’unica cosa rimasta intatta, fortunatamente, era il sigillo di ceralacca viola del suo signore.                                                          
«Devo consegnare questa ad un uomo importante». Bart agitò la lettera ripensando alle parole che Dalton gli aveva detto nel dargliela. «E a lui soltanto.»                                                                                                                                                                                   
«Vedi di non perderti» gli suggerì la ragazzina, quasi insoddisfatta della risposta. «E vedi di non perderla, allora.»      
«Certamente» rispose Bart scuotendo il capo. «Per chi diavolo mi hai preso?»                                                                            
«Per Bartimore di Fondocupo» rispose lei che per la prima volta aveva pronunciato il suo nome. Sulle sue labbra, quelle parole risuonarono dolci, soavi, sospese su delle note armoniose e delicate. «E tanto basta.»

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Note d'autore:
Finalmente siamo giunti a Roshby! 
Come sempre ringrazio tutti i miei lettori, in particolare coloro che commentano il mio lavoro continuamente e con una certa minuziosità che mi fa sempre sorridere nel momento in cui leggo. Spero che la storia vi stia piacendo, che iniziate a provare un pizzico d'affetto per i personaggi. Mantendo lo stile novellistico dell'opera, questo capitolo si è dimostrato estremamente corto, ma piuttosto pesante per il suo contenuto: spero di non avervi deluso per questo! Si tratta di un blocco di "passaggio", una sorta di capitolo in cui si ricompongono gli squilibri precedenti per proiettare il lettore verso le nuove vicende che da ora interesseranno i personaggi. Che ne pensate, a questo punto, del rapporto che sta iniziando a crearsi tra i due? Potrà mai sorgere un'intesa? 
Ci vediamo settimana prossima con un nuovo aggiornamento, corposo e ricco di azione. 
Makil_ 

 

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Capitolo 9
*** IX ***


Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):
 
Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa:
particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre.
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos. 
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile. 
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Se la Valle del Vespro era chiamata così, un motivo doveva pur esserci.
  Il tramonto di quella giornata fu il più bello degli ultimi anni, a detta di ogni cavaliere che Bart aveva incontrato lungo la strada. Il sole stava tingendo di porpora il cielo, bagnandolo di fiamme rossastre che si diradavano ad ovest e che ricadevano nell’Owerstock infiammandone le acque.
Ortys stesso gli aveva suggerito il luogo in cui andare per presentare la lettera di Dalton, una piccola capanna allestita proprio per l’occasione, utile a ricevere coloro che volevano iscriversi al torneo. Trovarla, però, fu l’impresa più ardua sostenuta da Bart durante tutto il viaggio da Sette Scuri. Gli era stato detto che doveva trovarsi vicino alla porta di ingresso, ma ciò non lo aiutò affatto, dal momento che d'ingressi a Roshby ce n’erano ben quattro. Aveva girato a lungo e in largo in cerca di ogni possibile informazione su quella capanna, tra le vie che tagliavano i percorsi attorno ai padiglioni, seguendo il perimetro degli accampamenti posti lungo le mura della città. Alla fine, per fortuna,  Bart riuscì a trovare la capanna, susseguita da una fila tanto lunga di persone da poter confondere anche un esperto. Come il resto dei partecipanti, Bart si mise in fila, la tracolla pendente dalla spalla che già iniziava a dargli fastidio e a bagnarli la camicia di seta di sudore.
Passò un po’ di tempo prima che la folla si dimezzasse, e nel frattempo era giunto anche patres Steffon, anch’egli indaffarato e sudato sulla fronte. Probabile che fosse stato mandato da Ortys per iscriverlo al torneo, mentre lui se ne stava al riparo all’interno del suo padiglione, sorseggiando fiaschi di vino e parlando più di quanto richiesto.                                                                                                                                                    
«Ser Bart». L’esperto lo salutò facendo volteggiare il braccio. Poi mise la mano sulla fronte e guardò verso l’altra direzione. «Una fila abbastanza lunga vedo. Da quanto tempo sei qui?»       
«Già da un po’, patres Steffon.» rispose Bartimore alzando lo sguardo al cielo. «La fila è lenta.»                                             
«Certi affari vanno fatti con calma, ser Bart, o si rischierebbe di sbagliarli». Il patres si asciugò qualche lacrima di sudore con il palmo della mano. Poi gettò uno sguardo in lontananza, verso la punta della fila. «Sempre che qualcuno non si sia addormentato con la penna in mano. Vado a dare un’occhiata, non vorrei fare la fila per nulla». Poi si allontanò con lo stesso silenzio che lo aveva annunciato prima di arrivare.                                                   
Bart si guardò intorno, cercando di non far notare quanto fosse già annoiato da quel caotico ammasso di persone che si accalcavano l’una sull’altra, maledicendosi a vicenda e spintonandosi di tanto in tanto.                                 
Poco dopo, patres Steffon tornò, il volto grigio solcato da un’espressione di dubbia incredulità.                      
«Ci toccherà aspettare, ser Bart». L’uomo gli rivolse un sorrisino innocente mentre avanzava verso l’altro apice della fila. «Se non si addormenterà l’amanuense, saremo noi i primi a farlo.»                                                                                                  
Passò un’altra ora, ma Bart continuò a restare fermo nel punto in cui lo aveva lasciato l’esperto. Gli facevano male i piedi e la gambe a forza di restare alzato, e la schiena gli doleva dal collo al fondoschiena. Avrebbe preferito avere quei dolori a seguito di una lunga cavalcata, che sarebbe stata anche più soddisfacente dell’attesa. Ma il pensiero che alla fine quella fila lo stava attendendo colui che lo avrebbe inserito nella lista dei partecipanti per permettergli di gareggiare, così come aveva promesso di fare a Dalton, e così come desiderava anche lui, gli infuse un po’ di tenacia. E questo bastò a rilassarlo tanto da allontanare il fastidio dei dolori. Se si vuole qualcosa, e se si vuole veramente a tutti i costi, dobbiamo essere pronti ad affrontare qualsiasi ostacolo.” si disse. “Qualsiasi.”             
Ma non seppe rispettare alla lettera questo suo pensiero, poco dopo.
La delicata brezza del tardo pomeriggio fece alzare dal terreno gli strati di polvere superficiali, che si schiantarono contro i corpi di tutti i cavalieri in fila. E con questa, portò con sé anche un giovane cavaliere a cavallo del suo destriero grigio. Il ragazzo trottò fino alla punta della fila, col petto all’infuori durante tutta la marcia. Il passo del suo cavallo era colmo di fierezza, saturo della stessa spavalderia che si poteva leggere nei lineamenti del suo padrone. Lineamenti ossuti, belli, che solcavano un viso lungo dagli zigomi alti. La folta chioma nera di capelli gli ricadeva sul collo, liscia e pulita come poche altre. Quel giovane non poteva certo passare inosservato, dal momento che l’armatura che indossava era così lucente e smaltata da riflettere i raggi di quegli spiragli di luce che erano ancora nell’aria. Il ragazzo si fermò proprio alla destra di Bart e, sempre sulla sella del suo cavallo, osservò tutti gli uomini in fila, sbuffando.        
«Ehi tu!» urlò ad un certo punto. Bart si girò in direzione della voce. «Parlo con te, ragazzino!».                 
Davanti a lui, anche il bambino che quel giovane stava chiamando si voltò, osservandolo con occhi sgranati e timidi, in parte coperti da un largo cappello di paglia con una lunga piuma.                                                                                                                                  
«Con me?» domandò il bambino con una vocina flebile. Il suo volto era asciutto, abbronzato fin troppo dal sole.                             
«E con chi sennò?» Il ragazzo dai capelli neri smontò dal suo cavallo grigio con un balzo. La lunga spada che teneva alla schiena vibrò quando i suoi piedi toccarono terra. «Fai spazio, bamboccio. Vorrei tanto sapere cosa ci fai qui, alla tua età. Dove hai lasciato la tua mamma? La tua presenza offende la validità di tutti noi cavalieri.»  
«Io sono lo scudiero di Derry». Il fanciullo tossì, coprendosi la bocca con la mano. «Voglio dire… del principe Derek… Derek Winemors.»                              
Quando sentì quel nome, il ragazzo dai capelli neri si fece più sfrontato. «Allora la tua presenza mi offende ancora di più, bambinetto dei miei stivali. Spostati! Questo era il mio posto prima che i tuoi piedi sporchi arrivassero. Va’ a bere il latte da un’altra parte.»                  
Il bambino strofinò le punte dei piedi per terra, guardandoli senza alzare lo sguardo. «Scusami… mio signore. Non volevo offenderti e non voglio offenderti. Però ti scongiuro… è tutto il pomeriggio che aspetto qui, mio signore. Mi fanno male le gambe e ho le vesciche ai piedi. Io non sapevo che questo era  il tuo posto.»      
«Tu non sapevi neppure di essere uno scudiero fino a poco fa. Togliti ho detto, o a fine giornata avrai le vesciche anche in faccia per tutti gli schiaffi che stai per ricevere. E spera di uscirne solo con quelle.»     
Il bambino fu scosso da un tremolio e le sue braccia corte ed esili andarono in cerca dei lembi dell’abito sgualcito che indossava. Probabilmente finse di non aver udito quella minaccia: non si spostò neppure di un passo.   
«Sei  proprio un fantoccio, eh? Ti ho detto di spostarti e stai continuando a fare come ti pare. Vuoi veramente vedermi arrabbiato? Sai che faccio quando mi arrabbio, eh?». A quel punto , il giovane dai capelli neri lo spinse all’indietro, facendolo ricadere sul terreno e sporcandolo di fango. Gli occhi del bambino diventarono umidi di lacrime, che, però, non uscirono mai fuori. «Adesso va’ dal tuo principino e digli che io ti ho sporcato di fango. Diglielo, fetente. Dovrai riferirgli chiaramente che Wictor Wyndwat ti ha fatto del male, e che presto gliene farà anche a lui. Oh, e poi vedremo chi riderà di più quando gli avrò ficcato anche la sua spada su per il…»      
«Miei signori!» lo fermò una voce possente proveniente dalle spalle di Bart. «Avanzate!»  
Il bambino raccolse la carta che gli era caduta, restando in assoluto silenzio e gattonando ai suoi piedi.  Insieme a quella afferrò anche un po’ di fango che gli rimase incrostato tra le mani. Si rimise in piedi con un balzo, strusciandosi le braccia sulla toga ormai completamente macchiata di terra.
Razza di spregiudicato. Ti ci vorrebbe una buona lezione.” pensò Bart. “Troppe persone buone a fare i cavalieri sono contadini, e troppe persone buone a fare contadini sono cavalieri.”                                                                  
«Dirò a Derek quello che mi hai fatto, mio signore.» minacciò il ragazzino mettendosi sulle punte. «E sarò io a ridere di più quando te le darà di santa ragione, proprio come l’ultima volta!»    
Wictor Wyndwat, il figlioletto di Roger Wyndwat, si fece paonazzo. Un solo rapido gesto, e la sua mano smorzò l’aria infrangendosi contro la guancia del povero bambino. Poi, prima che questi potesse rendersene conto, lo afferrò per le braccia anchilosate e lo strattonò quanto bastò per farlo cadere di nuovo ai suoi piedi. Il braccio del bambino si piegò come se stesse per spezzarsi. Wictor sguainò un pugnale dalla cintola, con una rapidità propria di poche persone e…           
«Fermo!». Bart si interpose tra i due e con entrambe le mani gli abbassò il braccio facendo forza sulla sua armatura d’acciaio. «Fermo!»
«Togliti di mezzo, sbruffone!» gli urlò contro. «Togliti o faccio del male anche a te!»                                                                   
Bart non si tolse: anzi, con una forza ancora più marcata tentò di spingergli in basso il braccio. Wictor lo strattonò un po’ , ma infine abbassò la lama.             
«Ottimo» disse allora. «Mi tolgo di mezzo». Si girò dall’altro lato e restò in silenzio. Bart pensò di essere riuscito a quietarlo, ma il giovane fece uno scatto e, molto velocemente, gli assestò un pugno allo stomaco, talmente forte da fargli risalire il pasto che aveva fatto a Werny. Bart non si fece abbattere. Anche lui, rispose con un pugno, dritto in pieno petto. Ma quel ragazzo, a differenza sua, aveva un’armatura. Bart si spostò indietro, poi gli assestò un altro pugno sul braccio mandandosi in frantumi le nocche della mano: questo bastò per far perdere la presa di Wictor sul suo pugnale, che Bart schiacciò non appena ebbe sotto ai piedi. Poteva sentire qualcuno urlare attorno a loro, ora la fila si era scomposta e si stava accalcando a cerchio per vedere chi tra i due avesse la meglio sull’altro. Urla, starnazzi e ancora urla. «Sbruffone!» gridò qualcuno. Forse era stato proprio Wictor ad urlarglielo. «Razza di imbecille!». Un manrovescio colpì in pieno volto Bart, che ebbe un momento di confusione. Un altro pugno, ancora in pieno, ma questa volta era stato lui a darlo a Wictor. E lo fece con tanta forza da sentire sotto la mano le ossa del cranio del ragazzo andare in frantumi. Wictor si spostò e vacillò un po’, poi si abbassò per terra in cerca del suo pugnale, probabilmente annebbiato dal colpo ricevuto. Bart colse il momento per lanciarsi sopra le sue spalle, e il suo peso lo fece crollare all’indietro. Quando fu sopra di lui, prese a dargli pugni sul petto, scatenando la sua ira su quell’insolente ragazzo che aveva osato colpire un bambino e chiamarlo sbruffone. Gli diede un altro colpo, questa volta dritto sul naso, da cui iniziò a colare sangue. Alzò il pugno per sbatterglielo sulla placca pettorale, ancora, quando lui venne scosso da un sussulto. Sentì uno strappo, e pensò il peggio per le ossa. Ma tutto ciò che vide di strappato fu la sua casacca, che era piombata sul terreno ed era stata sommersa da una valanga di calci. Wictor si sollevò con una forza inaspettata, e afferrò entrambi i polsi di Bart girandoglieli dietro la schiena. Gli diede un pugno sulle costole ed un calcio ammantato d’acciaio sulle ginocchia. Bart cadde per terra. Allora Wictor lo afferrò per la nuca, con la sua mano possente e callosa, e spinse fino a quando Bart non toccò con la faccia il terreno bagnato di sangue, piscio ed acqua.
«Mangiala!» urlò Wictor sputando saliva. «Mangiala ho detto, lurido figlio di una baldracca!»  
Gli spinse ancora di più il volto contro il terreno, costringendolo a chiudere gli occhi per non farsi male. In bocca, Bart poteva affermare di avere sangue e terra, ma non ne riusciva a riconoscere affatto il sapore. Tutto gli doleva come se il suo corpo fosse stato perforato da lame arroventate sul fuoco, come se ogni sua articolazione fosse stata colpita tre volte da un martello di piombo. La terra gli si infilò su per il naso e dentro la bocca. Per quanto stesse tentando di non mangiarla, dovette per forza dare quella soddisfazione umiliante a Wictor, o sarebbe morto soffocato. Tentò di liberarsi più volte dalla presa di quel ragazzo, ma lui era molto più forte di quanto pensasse. Ed era vestito d’acciaio. Nulla era in confronto, perciò, la sola ed un’unica protezione che avvolgeva Bart: una semplicissima camicia di seta che non sapeva neppure proteggere dall’aria gelida della notte.                                                                                                                                                     
Fu tirato su con una bestemmia, trascinato via per i piedi ormai totalmente privi di sensi. Quando il chiarore della luce serale gli si infranse sugli occhi, Bart rimase completamente accecato. Attorno a lui, il bambino dalla toga sgualcita stava ancora tremando di paura. Quello che più lo sorprese però, non fu certo la vista di Wictor allontanatosi dalla mischia, né la vista della folla sparpagliatasi lungo la strada, scioccata ed inebetita allo stesso momento. Di fronte a lui, patres Steffon reggeva una spada bianca, luccicante di luce propria. E la teneva alta, puntata contro Wictor, che lo squadrava dall’alto in basso, quasi terrorizzato. La sua tunica accademica era strappata all’altezza della vita, e il suo volto era solcato da una lunga ferita rossa accesa sul viso, proprio sotto l’occhio, che lacrimava di sangue come gli occhi di Wictor lacrimavano di paura. La spada che reggeva il patres doveva essere esattamente la spada che era appartenuta a Wictor fino a poco prima, dal momento che ora non svettava più dalla sua spalla. Forse perché inerme, o forse perché in lui era rimasto quel briciolo di buon senso che gli vietava di fare del male ad un esperto, Wictor stava alzando le mani al cielo, quasi come supplicando di finirla lì. Ma le sue suppliche silenziose non durarono a lungo. Con un balzo, Wictor si spinse in avanti e afferrò il polpaccio di patres Steffon, tirandolo verso di sé con l’intenzione di farlo cadere. Non ci riuscì, però. Steffon lo afferrò per la collottola dell’armatura, la sollevò leggermente e vi conficcò dentro la spada, accorgendosi di non farla passare oltre la cotta di maglia. La lama entrò dalla parte superiore dell’armatura e uscì dallo spazio che c’era tra placca del sottobraccio e l’acciaio del braccio stesso. Wictor rimase bloccato nei movimenti, dal momento che la spada non gli permetteva di muovere più il braccio destro. Patres Steffon lo guardò con aria di sfida: i suoi occhi erano glaciali, tanto che avrebbero potuto facilmente congelare perfino la roccia nuda. E Wictor ricambiò l’occhiataccia, forse anche più carica di odio e di rancore. Allora l’esperto si voltò senza proferire neppure una sola parola e lasciando Wictor in quello stato di assoluta difficoltà.                                                                                                                                                             
«Alzati, ser Bart.» gli disse andandogli incontro con una freddezza disarmante. Poi lo aiutò ad alzarsi poggiandogli una mano sotto l’ascella e tirandolo verso l’alto. «Alzati e fa’ silenzio.»                                                                                                                                                    
Fecero strada insieme quella sera, passando attraverso i padiglioni degli altri sfidanti con fare indaffarato e confuso. Bart si preoccupò di restare in silenzio, proprio come gli aveva ordinato il patres. Lo avrebbe fatto anche se nessuno glielo avesse ordinato, tanto gli doleva la mandibola e tanto era il dolore che lacera i suoi muscoli. Perfino respirare l’aria notturna, gelida come il tocco dell’armatura di Wictor sulla sua pelle, gli causava dolore. Ma la ferita che più gli faceva male era quella al petto, al cuore. Quell’insolente ragazzaccio lo aveva abbattuto di fronte a una folla di persone, ancora prima che i combattimenti iniziassero. Dove stava il suo onore in quell’atto di così meschina disumanità? Bart si era piazzato tra lui e un bambino di meno di sette anni, un povero innocente che non stava facendo altro che rispettare l’ordine impartitogli dal suo principe. Proprio come lui. Si era sentito così vicino a quel bambino più di quanto già non fosse coi piedi, molto più di quanto già non fosse col cuore. Ma Wictor Wyndwat lo aveva ferito all’orgoglio, la parte di un cavaliere che nessun punto di sutura, nessuna fasciatura, né alcuna medicazione, avrebbero mai saputo risanare.                                       
Patres Steffon non aveva parlato neppure per accennare un comando, ma Bart lo stava seguendo con un passo più veloce del normale. L’esperto s’intrufolò attraverso le stradine sterrate che s’insinuavano attorno ai padiglioni più grandi ed importanti. Le gambe di Bart tremavano involontariamente, e non riusciva neppure a pensare a cosa stesse succedendo. Tutto quel disordine repentino lo aveva annebbiato. Qualche cavaliere lì fuori lo stava osservando con aria curiosa. Non che Bart ne fosse stupito, dopotutto doveva essere combinato davvero male.
Patres Steffon si fermò ad un incrocio, punto in cui una strada si ramificava in tre diversi sentieri. Esitò per qualche secondo, poi tornò a camminare con passo più deciso di prima, seguendone il percorso centrale. Una curva, infine, li ricondusse nella piana su cui avevano allestito i loro padiglioni. Bart riconobbe il suo, ma non perché avesse visto la pelle della tenda, bensì perché si ricordò del salice sotto cui aveva lasciato Lenticchia. Fu lì che loro strade si divisero. Il patres non accennò neppure a guardarlo, ma dritto raggirò il salice e si fece strada verso il padiglione di Ortys, superando Bart con una marcia molto più nervosa di quella avuta fino a poco prima. Forse a quel gesto Bart avrebbe dovuto rispondere andandogli dietro. Cosa che non fece.                                                                                             
Bart avanzò, invece, di qualche passo, intento ad avvicinarsi sempre più al suo padiglione. Che cosa avrebbe detto Esmerelle del suo stato? Lo avrebbe deriso, quasi sicuramente. E lei non avrebbe mai saputo che Bart aveva affrontato un uomo tante volte più grosso e forte di lui. Lei non avrebbe mai saputo che Bart si era battuto contro un nemico, il figlio di una persona che Esmerelle odiava con tutta sé stessa. Lei non avrebbe mai saputo che Bart aveva combattuto Wictor Wyndwat, principe di Canto della Bufera, figlio di Roger Wyndwat, solo per preservare l’innocenza di un bambino molto più fragile di una foglia. Lei non avrebbe mai saputo che era stato a un passo dalla morte, schiacciato contro il suolo come un ragazzino incapace di difendersi. Dopotutto, molte cose di cui non sarebbe stata a conoscenza, forse, avrebbero facilitato la situazione. C’era molto di cui doversi vergognare e tantissimo di cui andare fiero; ma lei non avrebbe mai saputo niente. 
Bart continuò a camminare. Quando Lenticchia lo vide si limitò a nitrire, forse un po’ più forte di come avrebbe fatto di solito. Bart si guardò le mani che erano rosse e gonfie: non voleva neppure pensare a come fosse il suo volto. Sentì una voce nelle vicinanze, flebile, sottile, che si contrapponeva a uno strano rumore di percosse. Quella era senza dubbio la voce di Esmerelle.                        
Esmerelle” pensò di farfugliare Bart. Ma non ebbe neppure le forze per aprire bocca.            
«Lower Standrom, maledetto lui.» pronunciò lei. Poi un colpo.                                                                                                                 
Esmerelle, ascoltami”. Un altro pensiero, nulla che non fosse più vicino ad un lamento offuscato da rabbia e dolore che a delle parole.  
«Roger Wyndwat, maledetto lui». Un altro colpo, meno forte del primo.                                                                               
Ti prego”. Ancora un pensiero che non riusciva ad essere tirato fuori dalle sue labbra.    
«Emerard Carwock, maledetto lui». Un nome, un botto.  
Non appena Bart si fu avvicinato tanto da vederla, riuscì a capire solo in parte cosa stesse facendo. Esmerelle aveva un bastone acuminato in mano, molto più chiaro di quello che Bart le aveva sottratto sotto il castagno. Ogni volta che pronunciava un nome, percuoteva l’albero con una forza più o meno marcata, come se immaginasse che al centro di quel tronco ci fosse l’uomo che nominava.
Fece qualche passo in avanti, le gambe tremolanti per il freddo e per la tensione. Il suo volto era contuso, gonfio, pezzato di viola. Le sue labbra erano spaccate, sanguinolenti. E la sua faccia era completamente ricoperta di terra scura.              
«Oghello Y’ku Boqq, maledetto lui». Un tonfo, molto più forte del precedente.                                                                                        
Non dirlo, non farlo”. Un nome, un colpo, un passo.    
«Dephyso Maraphen, maledetto lui.». Il bastone colpì di nuovo il tronco scheggiandolo.                                                               
Non dirlo a nessuno. Non lo dirò a nessuno”. Bart fece due ultimi passi verso la ragazza, poi cadde sulle ginocchia.
«Kaw… Bartimore!». Esmerelle batté il bastone contro il tronco con una forza tale da mandarlo in frantumi. Non appena scorse la sua presenza genuflessa per terra, la ragazzina corse contro di lui e lo afferrò per le spalle. «Bartimore… aiuto!» urlò. «Qualcuno ci aiuti!»      
Bart avrebbe voluto dire qualcosa, ma non riuscì neppure a sorriderle. Tutto quello che desiderava ora era non essere lì, non essere con lei in quello stato. Attorno, tra i tanti fuochi accesi, nessuno si mosse oltre alle fiamme scoppiettanti nelle braci nere. Un uomo, fuori dal padiglione che sorgeva al loro fianco, quello del Principe Stellato, stava passando lentamente la cote sulla sua lama, ma non sembrava essersi accorto di quel trambusto. Bart gettò un’occhiata nella sua direzione, e tanto bastò, forse, per farlo avvicinare con più furore del previsto.                                                                         
«Esmerelle». Finalmente riuscì a rantolare quella parola. Il suo nome. Dovette sputare sangue e terra prima di poter parlare ancora. «Non lo dirò a nessuno. Ma ti prego… aggiungi anche il suo nome… la prossima volta. Ti prego… aggiungi anche il nome di Wictor.»      
«Che succede, ragazzi? Oh, portatelo qui… oh…oh». Una voce rauca, strisciante come il sibilo di un serpente.                          
Poi il rumore di un cavallo al galoppo, il fischio del vento nei recinti, dentro ai vicoli di Roshby, oltre le case e dentro le numerose tende dei cavalieri. Nessuno parlò più, o forse Bart non fu in grado di sentire altro.          
Il cielo era nero, cupo, ammantato di tenebre. Ma Bart vide solo il bianco.
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Note d'autore
Nonostante i numerosi impegni, ho avuto modo di aggiornare la storia. Eccoci a questo nuovo capitolo, pieno - come promesso - di azione e movimento. Entra in scena un nuovo personaggio, Wictor Wyndwat, figlio del già menzionato Roger Wyndwat, e principe di Canto della Bufera, nella Punta. Be', cosa pensate di lui? E cosa del comportamento adottato da Bart? Ha fatto bene a mettersi tra lui e lo scudiero di Derek Winemors? E cosa pensate di patres Steffon e tutto ciò che ha fatto in questo capitolo? 
Spero di avervi lasciato con molte domande, con tanta voglia di proseguire la lettura (ora che Bart è praticamente andato)! Come al solito ringrazio tutti i miei lettori, uno per uno, e ciascuno dei miei recensori; siete davvero eccezionali! Ci vediamo al prossimo aggiornamento, con un capitolo molto criptico e pieno di personaggi che finora sono stati solo menzionati. [lunedì 20]. 
A presto ^^

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Capitolo 10
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Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
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È giorno, tutto risplende di vita.                                                                                                                                                                  
Bart cammina lentamente nel bel mezzo di una piana che si dirada senza fine. Cade la neve, bianca come gocce di latte piovente dal cielo. I fiocchi, delicati come le dita di una donna e candidi come il cotone, si spargono ai suoi piedi. La neve sembra preparargli il percorso da seguire, assumendo l’imperfetta forma di una strada che si srotola sotto ai suoi occhi. Non c’è nessuno oltre lui in quella strada. Non c’è nessuno, in effetti, oltre lui, in quel mondo. Un luogo dolce, in cui la neve si mischia alla felicità di Bart. Alcuni fiocchi gli ricadono sul volto, e questo lo rende felice. Molto.
Bart continua ad avanzare senza sapere dove andare, munito di un bastone bianco che alza e abbassa puntellando il sentiero e scavando la neve. Le dune al confine sono montagne di neve bianca, e le nuvole non esistono nel cielo. Non c’è un sole, eppure tutto è bianco e tutto è lucente, molto più che in qualsiasi altro posto. Alcune civette, bianche anche loro, volano sopra la sua testa, cinguettando versi indecifrabili: lo salutano, lo accolgono nel loro santuario. Quegli animali, uniche presenze che Bart sembra scorgere, appaiono come sagome ritagliate nella neve a cui è stata infusa la vita.
Bart sorride ed è felice, ma non ne capisce il motivo. Non sa perché sta sorridendo. Bart, in verità, non sa neppure perché si trova lì da solo. Eppure sorride sempre più rumorosamente.                                                                                       
L’unico suono che riesce a distinguere è quello delicato dei suoi passi che si infrangono sulla coltre bianca di neve sotto ai suoi piedi. La zolla di terra che percorre è candida, morbida, soffice. Non c’è alcun rumore in quel luogo, persino quello del suo battito è attutito dalla presenza di tutta quella neve.                                                                                                     
Qualcuno lo tocca, proprio sulla spalla, e Bart si gira verso questi. È Amisa Witeolm, l’aggraziata signora di Sette Scuri, la moglie del suo più prezioso confidente. La donna veste il bianco della piana, in perfetto contrasto con la sua pelle scura. Sulla chioma bionda svetta un’enorme corona di neve, lunga, dalla forma a spirale, che si appuntisce all’apice come uno scoglio sporgente dall’oceano. Amisa sta piangendo.                                                                                                                                                                 
«Bartimore.» lo chiama con voce spezzata dal dolore. «Bart.»          
Alle sue spalle, la neve è in parte scomparsa. Adesso c’è una piccola piazzetta sulla quale svettano sette lapidi, aguzze come canini affilati. Ai piedi della nobile signora ci sono sette scuri bianche, quasi indistinguibili su quel manto ancora chiaro.  
Bart si avvicina a colei che è stata la sua tutrice, la sua insegnante, sua madre.                                              
«Sette scuri per sette alberi.» dice Amisa. «Sette posti per sette anime.»                                                                                                  
Poi Amisa guarda verso nord. I fiocchi di neve le ricadono sulle ciocche bionde, sulla sontuosissima veste lattea che mette in mostra tutte le sue delicate forme. Sta ancora piangendo quando un’altra figura passa accanto a loro, senza neppure rivolgergli uno sguardo. Anche la nuova arrivata è una donna. Bassa, dotata di una bellezza timidamente graziosa. È bianca come la luce pura, ma più cammina, più la sua pelle invecchia e s’incupisce. Un passo dopo l’altro e il bianco del suo volto si dirada, si spezza. In breve, quando la donna è ormai al loro fianco, di lei non è rimasto altro che una pelle grigiastra, emaciata, sfibrata.        
«Una lastra marmorea, Bart. Un pezzo di gelido ghiaccio vigoroso» mormora Amisa al suo fianco. Il suo singhiozzare si affievolisce. «Ma le scuri spezzano anche quello.»                                                                                                                                                             
La donna si posiziona vicino alla prima lapide. Bart sa chi è, lo ha capito. Quella donna è sua madre, l’unica vera signora che lui ancora spera di conoscere, ma che non hai mai veramente conosciuto. La rivede ora, in quella piana. Vorrebbe correre verso di lei, abbracciarla, stringerla, baciarla. Vorrebbe scaldarla col suo calore, coprirla dei suoi abiti, solo e soltanto per vederla smettere di tremare sotto tutta quella neve. Ma Amisa lo trattiene per la maglia e lui non riesce a muoversi. La donna si solidifica con le braccia conserte, diviene di porcellana e rimane immobile, custode di ricordi mai susseguitisi, di fronte ad una lapide troppo scura per quel luogo.  
Bart sorride di nuovo, non vorrebbe. Lui avrebbe voglia di piangere, di strapparsi i capelli per il dolore, ma tutto ciò che gli riesce è sorridere. E più soffre per quel motivo, più ride forte. Amisa torna a guardare a nord, la luce pura che riflette sui suoi occhi scuri. La cortina di neve si spalanca e una figura composta, alta, robusta, sorge dal terreno. Con luminosa essenza di vita, Dalton Kordrum cammina altezzoso, dentro la sua solita armatura più bianca del normale. L’uomo è saturo di luce, candido più della neve. La barba brizzolata, i capelli che sembrano nuvole condensate sul suo capo. Più cammina, più il suo volto si fa rosso. I suoi lineamenti si irrobustiscono, si gonfiano. Quando Dalton passa accanto a loro, del suo volto non è rimasto altro che una costellazione di fiori rossi sparsi sotto ai suoi occhi.                                                                               
«Fiori, Bart. Fiori rossi come il sangue. Il fiore è amico dell’albero, e l’albero è forte» dice Amisa. «Ma le scuri spezzano anche quello.»   
I fiori gli succhiano l’essenza della vita, le loro radici attraggono la sua immensa lucentezza, la rendono flebile, sottile, vacua, spenta, morta. Dalton cammina fino alla seconda lapide, e lì si ferma. I suoi già induriti lineamenti si fanno grezzi. Le nuvole sul suo capo condensano. Un alone grigio lo avvolge, lo bacia come lo bacerebbe la dolce ed aggraziata Amisa. Ma lei non può farlo, così come Bart non può fermare quel doloroso momento. Può solo guardare e ridere, ridere e guardare.
Dalton si solidifica, le braccia conserte al petto, molto meno impassibile di quant’è stato in vita.
«Non guardare, Bart.» mormora Amisa. «Non guardare più a nord.»                                                                          
Bart non l’ascolta, come sempre. Nel girare il suo collo verso quella direzione, una figura esile, bionda, sinuosa, sorge da un nugolo bianco. Amisa lo afferra per il braccio, lo strattona, gli piega il polso.                                        
«Un’anima per ogni lapide, Bart. Più a nord guarderai, più la neve cadrà fitta. Non farlo, Bart. Non farlo.»                                               
Bart inizia a ridere fragorosamente, divertito dal fatto che non sta ascoltando il consiglio di Amisa. E lei, la donna che fino ad allora aveva pianto, inizia a tremare, si scompone per la prima volta. La figura sorta si avvicina sempre di più alle braccia di Bart, fino a quando lui non la riesce a vedere. Esmerelle, completamente coperta di neve candida, appare molto più soffice del normale in quel luogo. Molto più bella del solito.                          
Le sette scuri che stanno sul suolo iniziano a muoversi, come animate da una forza impropria ma tremendamente forte. Il loro abbraccio li cinge all’interno di un cerchio, mentre queste iniziano a ruotare, acquistando velocità nel farlo. Ormai, Esmerelle e Bart sono circondati da neve e lame acuminate.                
Fuori dal cerchio di scuri volteggianti, Amisa piange ancora. Non più lacrime, però. Adesso dai suoi occhi sgorga sangue a flussi copiosi. La signora di Sette Scuri si sporca completamente di rosso, del sangue del suo corpo. La bellezza del suo abito si incrosta di sangue, e lei inizia ad urlare, molto più forte di quanto abbia mai fatto in vita sua. Le sue mani si sfogano sulle sue carni, aggrappandone i lembi della sua morbida pelle. Amisa tira fino a che il suo volto non è dilaniato dal furore, fino a che il suo cranio, bianco proprio come la neve e il latte, non è esposto alla luce del giorno. Le sue ossa luccicano di energia propria, una forza potentissima e corrosiva per gli occhi. Ma Bart non smette ancora di ridere. Ora, insieme ad Esmerelle, lui ride ancora più forte, quasi come per deridere Amisa, mentre il suo corpo si accascia per terra, straziato, lacerato e distrutto dal dolore. La candidissima signora di Sette Scuri si decompone rapidamente, screpolandosi in una pioggia di cenere e residui grigi. Il suo teschio, però, rimane intatto, immobile sulla cresta della neve, rosso perché totalmente ricoperto di sangue ancora non versato. Le orbite cave, vuote, che riescono a fissare con rabbia ed accanimento gli occhi di Bart, rimproverandoli con un tenebroso silenzio. Non ha più una lingua, eppure Amisa può ancora parlare.  
«Torna a Sette Scuri, Bart. Fallo per i poveri, per gli innocenti, per Dalton. Fallo per le mie ossa! Fallo per il mio sangue!». Il teschio luminescente rotola nelle neve solcandola di una scia rosso fiamma. «Hai guardato a nord, Bart. Sette lapidi per sette anime. E la neve n’è priva ancora di cinque.»                                                       
Bart afferra il braccio di Esmerelle, vuole scappare da quel vortice di scuri che gli ruotano attorno, ma è impossibile. Il cranio di Amisa stride, emette suoni macabri, acutissimi. La sua voce si è fatta metallica, soffocata, graffiante. «Sette anime, Bart. Tu sai già chi sono. Tu sai già che le sette lapidi avranno sette anime.»
Poi un tonfo. La luce si disperde nell’aria, mentre le scuri prendono a vibrare e a ruotare sempre più velocemente, sempre più furiosamente. Il teschio di Amisa inizia a sbriciolarsi lentamente, come pane secco compresso tra due mani robuste e callose. Le lapidi esplodono in coriandoli di pietra grigia, le statue di Dalton e di sua madre si accartocciano, si sfaldano, perdono i loro pezzi. Tutto prende a ruotare con la neve, i corpi, le ossa, il sangue. E ruotano anche le scuri.      
«Dove sei stato?» chiede la voce di Amisa. Bart non riesce più a vedere la sua signora, ma il suo timbro ormai cupo è ancora nell’aria. «Perché non sei ancora tornato?»                                                                                                                              
«Una promessa, Amisa». Per la prima volta Bart avverte la sua voce, che fuoriesce a fatica dalla sua bocca, quasi forzatamente. «Una promessa che non potrò non portare a termine. Dalton lo sa.»                  
«Non una sola» risponde lei. Il cielo s’incupisce, tutto il bianco di quel luogo perde valore. La luce diviene fioca, sempre più debole, fino a lasciare addirittura spazio al vuoto e alla tenebra. «Dove sei stato?»               
«Sono stato con lei. Io starò sempre con lei.»                                                                                                                       
Un rombo, un cupo ed impetuoso frastuono nell’alto dei cieli annuncia l’arrivo di una tempesta mai udita prima. È la voce di Amisa a produrre quel suono.                                                                                                                                          
«Due lapidi piene, due promesse fatte. Ma di lapidi ne rimangono ancora cinque.»
Tutto inizia a scorticarsi, tutto inizia a tremare. Il buio sale da sud e il suo alone gelido ricopre ogni cosa, soffoca chiunque. Non c’è più luce, è tutto oscurato dalla notte ore, e le civette suonano nelle tenebre. Al suo fianco, Bart può ancora avvertire la presenza di Esmerelle, aggraziata e silenziosa nel suo gelido manto di neve. Non può parlare, può solo contemplare le ombre.      
«Prometti». La voce di Amisa è sempre più lontana, sempre più gelida e nera.                                                                          
«Cosa, mia signora?» chiede Bart.                                                                                                                                           
«Prometti che le cinque lapidi avranno cinque anime. La neve non sarà sazia fino a che le lapidi non saranno riempite. Prometti Bart. Prometti.» 
Bart promette.

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Note d'autore
Un capitolo molto strano, me ne rendo conto, peraltro scritto utilizzando il solo tempo presente: una tecnica che ho sfruttato per rendere più chiara l'immagine, trattandosi ovviamente di un sogno che Bartimore sta vivendo nel suo stato di coma. Come avevo preannunciato, nel capitolo hanno fatto la loro apparizione alcuni personaggi finora solo menzionati: si tratta di Amisa Witeolm, la guida spirituale di Bartimore, di Dalton Kordrum, il signore dipartito di Sette Scuri, e infine la vera madre di Bart, colei che l'ha messo al mondo. Questa volta ho una sola domanda per voi: cosa pensate possa voler significare questo sogno? Si dice che talvolta i sogni siano la vera rivelazione di chiunque li viva... ma questo?
Ringrazio ogni mio singolo lettore e tutti i miei recensori, vecchi e nuovi arrivati, che mi sostengono ogni giorno con i loro inestimabili commenti. Al prossimo aggiornamento [lunedì 27] e a presto!
Makil_

 

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Capitolo 11
*** XI ***


Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
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Si risvegliò di soprassalto, sudato come non mai. Giaceva su un letto di paglia soffice, le gambe e le braccia spalancate sul materasso. Gli doleva fortemente il cranio, da parte a parte della fronte. Aveva gli occhi puntati in alto, la testa posata su un soffice cuscino di piume. Si trovava in un tendone di cui non sapeva indicarne il proprietario. Non poteva essere il suo e non poteva neppure essere quello di Ortys, dal momento che il tetto del tendaggio era di un blu scuro e cupo, puntellato qua e là di infinite macchiette gialle e bianche. Nel complesso, a Bart sembrò di star osservando un cielo chiazzato di stelle, ognuna delle quali capace di disegnare una miriade di costellazioni che si disperdevano più o meno lontano in una distesa di tenebre notturne.
Si tastò lentamente la testa, pressandone i lati con i pollici. Comprimere i due punti esterni alla fronte affievoliva il dolore che già possedeva. “Per quanto tempo sono stato qui?” si chiese. “Che ne è stato del torneo?”. Gli sembrava davvero fossero passati tanti giorni da quando era svenuto tra le braccia di Esmerelle. Aveva smesso veramente di avere ogni concezione del tempo e dello spazio dopo quell’evento. C’erano solo due cose che poteva affermare con estrema certezza: sapeva di essere vivo, e tanto lo rassicurò a lungo. Poteva aver dormito addirittura per giorni, settimane, mesi, ma gli bastò pensare che si era risvegliato; e questo era già un fatto positivo. E sapeva che era giorno, dal momento che da una piccola finestrella ritagliata sulla parete della tenda si spargeva la luce del sole, che illuminava di vita ogni angolo di quel grigio padiglione.                                     
Bart si mise a sedere sul letto, portando avanti le gambe e piegandole per tastare le ginocchia. Poi tossì. La cortina della tenda si aprì rapidamente, e dall’esterno entrò la figura robusta e grassoccia di un anziano uomo paffuto e dal naso paonazzo che, con fare indaffarato e goffo, si precipitò verso di lui.
«Ser!» lo chiamò con voce pomposa. L’ometto non aveva capelli, e la barba gli cresceva spelacchiata sotto le orecchie e sulle gote. «Finalmente ti sei svegliato! Devo dire che te la sei presa piuttosto comoda. Oh, ma per quel che mi riguarda non mi hai dato da fare, sappilo.»                                                                                                           
«Dove sono?» domandò Bart. Avrebbe voluto chiedere tantissime altre cose, ma ciò che più gli premeva gli uscì dalla labbra quasi come autonomamente. «Che ne è stato del torneo?»                                                                                   
«Oh, piano, una domanda alla volta ser, anche perché ti potrebbe dolore ancora la mandibola. Il mio signore, Darrick Sunfall, ti ha fornito me per ricevere le dovuto assistenze mediche. Sei nella sua tenda ora. Il tuo caro e vecchio amico Wysler mi ha fatto promettere di salvarti le ossa: e tanto credo di aver fatto. O almeno voglio sperarlo. Da’ qui la mano». L’uomo gli prese la mano tra le sue, calde come due ciottoli lasciati sotto il sole. Poi, con la sinistra andò alla ricerca di qualcosa all’interno delle tasche della sua casacca. «Ecco, stringi questa». L’anziano sollevò una cipolla bianca e gliela mise in mano.                                     
Bart fece come gli era stato suggerito, stringendo la cipolla nella sua presa, pur non sapendo a cosa potesse servire.              
«Oh ecco, bene. Stringi un altro po’. Vedi ser, questo lavoro andava fatto da sveglio: non potevo permettermi di tastare la validità delle tue ossa se tu non stringevi la cipolla. Ecco sì». L’uomo fece scorrere il suo indice calloso lungo le sue dita e sui fianchi della mano. Più andava avanti, più metteva forza nel pressare sull’arto. Gli suggerì di ripetere l’operazione con l’altra presa. «Ti faccio male per caso?»  
«No» rispose Bart. «Per nulla.»                                                                                                                                          
«Allora non abbiamo di che preoccuparci. Credo sia tutto tranquillo, davvero. Ho controllato il resto mentre dormivi. Non hai alcun tipo di frattura, né una sola lesione. Ho medicato le tue contusioni con dell’aceto e un po’ di vino di ciliegia: un toccasana per i lividi neri! Ti fa male la testa?»                                                                                                           
«Un po’.» rispose Bart toccandosi nuovamente la fronte.                                                                                                    
«Ti assicuro che non ha a che fare con il colpo. Credo sia per via della lunga dormita. Sai, ser, hai dormito per un giorno intero. Mi sono preso la briga di non allontanarmi neppure un momento dal tuo giaciglio, se non per prendere qualche boccata d’aria e mangiare qualcosa.»
«Ti ringrazio» disse Bart. «Adesso avrei bisogno di un po’ d’acqua, se non chiedo troppo.»                                         
«Oh certo!». L’anziano ometto si chinò a sinistra ed afferrò un’ampolla piena d’acqua ed un calice. Nel riempire quest’ultimo fece precipitare qualche goccia fuori dal recipiente. Bart bevve l’acqua tutta d’un sorso, come fosse stato lasciato a perire la sete per due settimane. Aveva proprio bisogno di far una lunga bevuta, perciò se ne fece presto riempire un secondo. Aveva la lingua asciutta e poteva sentire uno strano sapore secco ed acido in bocca.                                                                                                                 
«Cosa mi dici del torneo?» chiese di nuovo Bart.                                                                                                                
«Tante e poche cose. Ho saputo che non hai ancora avuto modo di inserirti in lista. Avrai tempo di iscriverti anche tu, se è questo che vuoi sapere. Ma devo dirti anche che hanno bloccato le richieste di proroga e il torneo inizierà tra circa tre giorni, se non erro. Oh, a proposito di questo, patres Steffon mi ha detto di consegnarti una cosa». L’ometto afferrò la casacca macilenta di Bart da sotto il letto e gliela porse.                                      
«Grazie tante, signore» disse Bart che non ricordava neppure di averla persa. Lo scontro contro Wictor Wyndwat gli aveva annebbiato ogni ricordo. Mentre Bart stava provando a piegare avanti e indietro le dita della mano, la cortina della tenda si aprì un’altra volta. Fecero ingresso due uomini alti e robusti che Bart riconobbe immediatamente come Ortys Wysler e Darrick Sunfall.  
«Oh cielo!» tuonò meravigliato il Principe Stellato, giovane signore di Baia della Cometa. L’uomo aveva un viso lungo, solcato un naso adunco e due labbra sottili. Sotto al colletto verde smeraldo ricadeva un mantello rosso sangue che fluttuava a mezz’aria sopra ai suoi piedi. Le sue mani erano ricoperte da guanti dello stesso colore del tendaggio in cui abitava. Al suo fianco, Ortys indossava una larga camicia di satin ambrato infilata dentro a calzoni marroni molto gonfi, stretti da una cintura ornata d’oro. Ai piedi portava stivali di cuoio nero. Sul suo capo svettava un piccolo cappelletto di piume colorate.                                                                                              
Il signore di Ardua Scogliera fu il primo a prendere veramente parola.                                                                            
«Eccolo di nuovo qui, cari amici. Bartimore è più sano di noi tutti. Non è così, ragazzo?». Ortys gli strinse forte la mano, come per congratularsi con lui di quella sua ardua impresa riuscita bene: l’essersi svegliato.                    
«Sto bene, Ortys…» iniziò Bart.                                                                                                                                          
«Ma staresti meglio se ti avessi portato la testa di Wictor Wyndwat.» concluse Ortys sorridendo sfarzosamente. «Lo so bene questo.»
«Non tediarlo con i tuoi discorsi, Ortys. Il ragazzo non è ancora del tutto cosciente magari. Tyrus, che ne è delle sue ossa?»       
L’ometto che lo aveva assistito fino a poco prima gli voltò le spalle. «Del tutto in buona forma, mio signore. Il ragazzino è stato forte. Forte e di buona volontà. Proprio come le sue ossa.»                                                                                                        
«Meglio così. Questo vorrà dire che sei libero di tornare alla Gilda, Tyrus. Non ti nego di far ritorno ai tuoi affari, per quanto averti qui mi sia di maggior interesse. Se tu potessi restare… credo sarebbe meglio per ogni cavaliere della mia scorta. Non ci sono molti incantatori qui al campo, e neppure dietro le mura di Roshby. E vedi,  una sera sì e una sera no ci scappa un morto da quello che mi pare di aver notato. Per non parlare dei feriti poi, che piovono a bizzeffe come pioggia dal cielo.»                                                          
«Resterò, mio signore.» concluse rapido l’incantatore Tyrus. Finché la Gilda non avrà qualcosa di meglio da assegnarmi, potrò affidare le mie mani al vostro servizio. Solo la Gilda può…»             
«Ebbene» interruppe Ortys. «Io non sono la Gilda, ma posso comunque suggerirti di andare fuori per qualche minuto, incantatore. Adesso vorrei tanto restare a parlare in privato con Bartimore, il ser troppo magro e coraggioso.»                                
L’incantatore Tyrus chinò il capo e afferrò con la mano sinistra la sua casacca per stringerla al petto. Poi, con lo sguardo rivolto verso i suoi piedi, s’incamminò fuori dal padiglione in giudizioso silenzio. Ortys riempì due calici di vino, come se quella tenda fosse stata la sua e quegli oggetti gli appartenessero. Con la medesima sicurezza porse da bere a Darrick Sunfall, che nel frattempo si era seduto comodamente su una poltrona marrone.                                        
«Bart, per tutti i cieli, cos’hai fatto?» domandò Darrick. «Come ti è venuto in mente di scontrarti con quell’uomo?»              
«Darrick, non sminuirlo. Patres Steffon ha detto che non ha colpe nell’accaduto. Se è questo che quel Wictor si meritava, allora Bartimore ha fatto bene a suonargliele». Ortys sorseggiò il vino che aveva nel suo calice. «Raccontaci che cosa è successo chiaramente. Patres Steffon non ha avuto modo di dirci di certo ogni cosa. Peraltro lo hanno accusato di… di… come avevano detto? Ah sì, di essersi aizzato violentemente contro sua maestà il principe di Canto della Bufera, Wictor Wyndwat, e ha dovuto sostenere un ampio colloquio con Dorran per questo, che tu voglia saperlo o meno. Fortunatamente ne è uscito vincitore.  Quell’uomo mi stupisce sempre, Bartimore. È un tipo tosto, e se la cava piuttosto bene con le parole.»                                      
«E anche con la spada.» mormorò Bart. Quelle parole gli uscirono in fretta dalle labbra.                                    
«E anche con la spada.» ripeté Ortys. «Sì, dopotutto è stato anche lui un cavaliere. Credo tu debba ringraziarlo per questo.»           
«Sì, è la prima cosa che farò quando lo vedrò». Poi Bart prese a raccontare nel dettaglio tutto ciò era gli era successo, e nel farlo avvertì nuovamente delle fitte alle tempie. Gli disse della fila per l’iscrizione, del piccolo scudiero del principe Winemors, dell’arrivo di Wictor a cavallo e dello scontro, interrompendo la narrazione di tanto in tanto solo per evitare alcuni dei più violenti dettagli. Tutto quel parlare, alla fine, gli fece dolore ancora la mandibola.    
«Ti ha costretto a mangiare la terra. Quel brutto figlio…»                                                                                            
«Non vogliamo altri spargimenti di sangue, specie nella mia tenda.» tuonò Darrick Sunfall facendosi altezzoso sulla sua poltrona. Poi incrociò le braccia la petto. «Non possiamo permetterci che ci siano altri scontri prima del torneo. Quello dovrà essere il solo scenario di battaglia; una battaglia fittizia. E Steffon ha ragione: se deve essere attribuito un nome a al torneo di Roshby, questo deve essere “pacifico”. Non si possono, non si devono anzi, permettere atti di insolenza così avanzati nei confronti avversi. La proposta di eliminazione della proroga da parte di Wictor è un fatto che avrebbero dovuto bloccare sul nascere. Quel ragazzo lo ha fatto per un solo scopo: troncare alla radice le iscrizioni e non permettere a ser Bartimore di partecipare. Avrebbe voluto vendicarsi in questo modo dell’affronto… una cosa assurda…»                                                                                                                                           
«Mi è stato detto che posso ancora iscrivermi.» commentò Bart.                                           
«Verissimo.» concordò Darrick. «Ma devi ringraziare le Grazie per questo. Se non ti fossi svegliato oggi e lo avessi fatto domani, forse non avresti più potuto gareggiare. Ecco che la giustizia dà il buon esempio al mondo, come sempre.»                
«Giustizia?» tuonò Ortys facendo tremare il calice che aveva in mano. «Non parlare di giustizia, Darrick. Sono l’unico a non vedere nulla di giusto in tutto questo grande imbroglio?»                                                                      
«No, non sei l’unico Ortys. E per fortuna, aggiungerei.» sospirò Darrick Sunfall. «Ma forse dovremmo essere tutti un po’ più ciechi alle volte. Questo risparmierebbe molte fatiche e altrettante violenze.»                                                                                              
Ortys non concordò con il Principe Stellato, e glielo fece notare vagamente accennando una smorfia di disapprovazione.                
«Hai detto che Wictor ha fatto del male allo scudiero di Derek Winemors» disse Ortys socchiudendo il pugno «Sai almeno perché lo ha fatto?»                                                                                                                             
«A dire la verità no. Ma quel ragazzo aveva davvero tutta l’aria di fargli del male: sul serio! Se non fossi intervenuto, Wictor avrebbe pestato a sangue il bambino. E tutto solo per il pretesto di entrare nella fila.»                                                     
Darrick rise. «In verità non è poi quello il motivo. Diciamo che io so più di voi, almeno per questa volta».      
Il signore di Baia della Cometa si alzò dalla sua poltrona, lasciando impresso sul sedile il suo fondoschiena per qualche attimo. «Rancore. È questo che l’ha fatto agire. A differenza di suo padre Roger, Wictor non è ancora un vegetale: il che lo rende particolarmente pericoloso se lasciato in così tanta libertà. Vedete, il ragazzo era già stato sconfitto qualche tempo fa da Derek Winemors. Quando Roger comandò l’assedio di Fresco Alloggio e Rifugio dell’Aurora al suo capitano Emerard Carwock, gli Highcrown di Corona Verde chiesero l’aiuto dei loro più importanti e fidati confidenti. I primi a schierarsi dalla loro parte furono i Traven. Poi, Melkor Winemors, il Cavallo dei Mari, gli affidò parte della sua flotta navale, dandone il comando a suo figlio Derek. Vi basterà sapere che fui chiamato anch’io in causa, quel giorno, e anch’io dovetti cedere alcune delle mie truppe migliori. Ma fui io stesso a richiederne personalmente il comando. La battaglia che si tenne sul Dreflyng fu sanguinosissima e ne uscimmo tutti sconfitti. Garter Traven scese a sud e scatenò la sua ira sui nemici, che erano guidati dallo stesso Wictor. Traven riuscì ad abbatterli in parte, colpendoli alle spalle… ma questo prima di essere ferito mortalmente e prima che gli fosse tranciata la mano. A quel punto però, Wictor diede ordine di ritirata e fuggì verso nord, lasciando che le sue armate andassero a disperdersi. Peccato che la nostra strategia prevalse sulla sua forza, quando da nord risalirono gli eserciti di Symon Highcrown, che mandarono in frantumi ogni speranza di rivalsa nemica. A quel punto, Wictor inviò un messaggero a richiedere l’aiuto di Carwock, che stava ancora tenendo l’assedio dei due regni lealisti. Non ci volle molto per far giungere la richiesta all’alleato, il quale avanzò verso il Dreflyng più spedito che mai e ci venne addosso con un esercito fresco, con cavalli vigorosi e possenti, reduci di un assedio che non aveva prodotto alcun ferito. Emerard Carwok uccise Symon Highcrown, e così io e Garter ripiegammo verso la sede dei Traven, arrendendoci definitivamente. Ci avrebbero sgozzati se non avessimo proposto quel gesto… un gesto che presto facemmo finta di non aver mai fatto.
«La nostra vittoria fu fortuita e avvenne solo quando dal fiume risalì la flotta di Derek Winemors, il principe di Acquaverde, che diede l’esito positivo alla battaglia. Egli si occupò da solo dei nemici, facendo scendere dai ventri dei vascelli più di trecento soldati ben addestrati al combattimento, irrobustiti dal sale e dal vento. Ci volle meno di un’ora per distruggere totalmente la resistenza nemica, e Derek riuscì a mandare nel fango Emerard Carwock e Wictor Wyndwat, e con loro anche il loro onore cavalleresco. I due signorotti furono costretti a tornare nelle loro sedi come dei perdenti, umiliati di fronte ai loro eserciti. Per la cronaca, Derek comandò al suo esercito di latrare dinanzi ai due corpi macilenti dei due comandanti nemici, mentre i loro eserciti si dileguavano alle loro spalle.»               
«E questo cosa vuole giustificare? Il ragazzino non aveva colpa, ad ogni modo.» constatò Ortys Wysler. «E Bart ha fatto bene a schierarsi tra lui e l’imbecille di Wictor. È bene che qualcuno inizi di nuovo a latrare per parlare con quel principino… credo che non abbia ancora imparato per bene la lezione. Il bambino non aveva colpa, Darrick. E tu non contraddirmi.»   
«Questo lo penso anch’io.» disse Darrick. «Per quanto vorrei che fosse stato qualcun altro a…»                                                               
«Mio signore!». L’incantatore Tyrus aveva fatto ritorno di corsa all’interno della tenda, il fiato sospeso in gola. «Mio signore, vieni! I tuoi cavalli sono impazziti. Ser Joffer sta tentando di placarli, ma non c’è verso! Corri! Corri!»                  
Darrick rivolse ai suoi ospiti uno sguardo perplesso, colmo di imbarazzo. «Vogliate perdonarmi» disse poi, prima di correre anche lui verso l’uscita.                                                                                                                                                
Ortys si riempì un’altra caraffa di vino, questa volta ne mise molto meno di quanto aveva fatto la volta precedente.                        
«Non te ne offro neppure un goccio, Bartimore, per due distinte ragioni: punto primo, non è lo stesso vino che hai saggiato nella mia tenda. E poi è meglio che tu non beva per ora.»                                                                                           
«Non ne avrei voglia adesso.» rispose Bart. «Ortys… dov’è Esmerelle?». Quella domanda lo stava perseguitando da un paio di minuti ormai, eppure non aveva ancora avuto modo né motivo di porla.                                          
«Oh, Esmerelle.» ridacchiò il signore di Ardua Scogliera. «Una ragazzina d’oro, in ogni senso. Sai, non si è mossa da questa tenda neppure un momento. Questa mattina è andata a dare da mangiare ai cavalli, è per questo che non la trovi qui con te. Ma posso assicurarti che è stata più interessata a te di tutti noi. Ha trascorso accanto al tuo giaciglio molto più tempo di quanto non abbia fatto l’incantatore Tyrus.»                                                                         
Bart sorrise. Un lato di lui conosceva già la risposta, un lato di lui l’aveva sempre saputa. Nel sogno, Bart era stato con lei, e nella notte Esmerelle era stato con lui. Notò che ci fosse qualcosa di intenso in quell’evento, qualcosa di stranamente poetico.  
«Quanto prima dovrai alzarti, Bart. Hai numerose faccende da sbrigare. Devi ancora iscriverti al torneo, non ti è rimasto tanto tempo adesso. E dovrai andare da lei il prima possibile.»                                                                     
«Lo so.» rispose Bart. Poi si spinse in avanti col corpo, stringendo i denti nell’alzarsi dal letto. Ortys gli diede il braccio destro, aiutandolo a rimettersi in piedi. Le sue gambe si erano fatte più fragili del normale, o forse erano solo troppo poco affaticate dall’essere state inutilizzate per molte ore. «E devo anche comprare un’armatura per la gara. Non l’ho portata da Sette Scuri per non affaticare la giumenta nella marcia.»                                                                                                                    
«Oh, e aggiungi anche un altro impegno. Quasi me ne stavo dimenticando». Ortys buttò giù in gola tutto il vino e poi batté con forza il bicchiere sul tavolino accanto. «Patres Steffon mi ha detto di riferirti che vorrà parlati questa sera, non appena gli sarà possibile farlo. E che vuole che siate soli, sotto il pioppo che cresce vicino alla tua tenda. Soli, Bart… soli.»  
«A quattr’occhi, insomma.» sottolineò Bart portando indietro le mani e piegandosi per sgranchire la schiena. Fare quel movimento gli diede piacere.
«Proprio così, Bartimore». Ortys sorrise. «Non uno, non mezzo. Adesso che hai riaperto finalmente gli occhi, Steffon vuole vederli tutti e due.»
                                                                                                                              


Fuori dalla tenda di Darrick Sunfall il sole stava illuminando dolcemente quella fresca giornata, dipingendo i confini di Roshby con i suoi flebili raggi di luce, e coronando le sue mura con una merlatura dorata propria delle sole tiare di una dama. Bart si sentì abbastanza confuso quando la luce si scontrò con i suoi occhi, abbagliando per qualche istante prima di consentirgli di vedere. Il mondo intorno a lui non aveva smesso di muoversi neppure un momento. Attorno all’ammasso di padiglioni, sulla destra, Bart avvistò la sua tenda, alle cui spalle svettava alto il salice dalle foglie chiare. Quando si avvicinò all’albero, Lenticchia e il palafreno di Esmerelle, entrambi legati ancora alle radici del salice, lo squadrarono con fare insospettito. Bart poteva giurare di vedere negli occhi di Lenticchia un’espressione di insolita curiosità, quasi come se l’animale si stesse chiedendo cosa gli fosse successo, e cosa lo avesse trattenuto così a lungo lontano da lui.                  
Trovò Esmerelle intenta a cuocere tre grossi pesci ripuliti dalla lisca su un braciere appena acceso. L’odore che si propagava nell’aria era tanto invitante quanto gustoso.                                                                                               
«Esmerelle». Bart chiamò la ragazzina che, di spalle, non lo aveva neppure sentito arrivare.                                       
Quando lei si voltò, il suo volto fu solcato inevitabilmente da un’espressione di sana incredulità e meraviglia.                             
«Oh, Bartimore!» urlò lei di tutta risposta, lasciando cadere il ramo coi pesci in mezzo alle fiamme. La ragazzina si alzò rapidamente da terra, il corpetto ancora sporco di fango.                                                              
«Hai bruciato il pranzo.» disse Bart sorridendo. «Adesso dovremo accontentarci di qualcos’altro.»                                       
Esmerelle corse verso di lui con una rapidità tale da sorprenderlo, e fece qualcosa che Bart non si sarebbe mai atteso: lo abbracciò; un gesto impacciato, innaturale e colmo di una gioia e di uno stupore talmente calorosi da poter sciogliere il ghiaccio.
«Ti sei rotto qualcosa?» chiese ripulendosi del fango che aveva sulle ginocchia. «Voglio sperare di no. Ho sperato di no per tutto il tempo della tua assenza.»                        
«Fortunatamente no.»  rispose Bart. «Non ho dato questa soddisfazione a Wictor Wyndwat. Gli farà sicuramente piacere sentirlo.»    
«Lo sentirà presto.» affermò Esmerelle, le parole sormontate da una lieve punta di disgusto e rancori affogati. «Molto presto.»  
«Esmerelle» iniziò Bart. «Non voglio che tu vada di mezzo in questa faccenda. La situazione è già abbastanza complicata per tutti noi. Patres Steffon è stato richiamato da Wolbert Dorran, ha dovuto tenere testa alle sue accuse… rischiando anche tanto per me. E hanno sospeso il diritto di proroga per tutti i cavalieri. Io ti prego…»
«Oh certo, perché questa situazione sta a cuore solamente a te!». La ragazzina gli lanciò un’occhiataccia colma di dissenso. Si staccò dal suo corpo. «No, Bartimore di Fondocupo. Ser Bartimore di Fondocupo. Questa questione riguarda me da prima che nascessi. E mi riguarda anche da vicino.»                                                                                                                                                   
«E invece no, Esmerelle». Bart si fece più rude. «Adesso basta. Abbiamo già fatto troppo scalpore nel campo, non c’è bisogno di continuare a girare il coltello nella piaga. Wictor Wyndwat pagherà per le sue pene, per tutto quello che ha fatto a me e al piccolo scudiero di Winemors. Ma sarà l’Accademia a punirlo, non tu… non io.»                                                                                             
«Decido io se potrò punirlo o meno, non tu. Non sono tua figlia e non sono tua sorella, Bartimore di Fondocupo, e la mia vita non ti appartiene.»                                                                                                                        
«Sei nel mio padiglione e sotto la mia protezione. Dipendi da me, che tu lo voglia o meno.»                                                 
Esmerelle serrò il pugno e trattenne una smorfia. La sua bocca s’inarcò all’ingiù, cupa e silenziosa. «Il padiglione non è tuo, Bartimore, e appartiene a me quanto a te.»                                                                         
Ah, dannazione!” «Vorrei tanto che tu capisca tutto ciò che ti dico. Vorrei che tu sappia che cosa potrebbe accadere se la situazione dovesse degenerare. Ho perso un padre per un disastro simile, e ho un compito da rispettare. » “Tre ora, ricorda.” «Io ho già fallito, ti prego di non rendere la mia situazione più complicata.»           
La ragazzina si girò verso il suo palafreno, sfrontata ed impettita, chiaramente indisposta ad ascoltarlo. In quel momento le ricordò l’irriverente ragazzina dai capelli color oro che aveva incontrato nelle stalle di Werny. E se i cavalli erano là di fronte… e se lì c’era lei… lui non poteva che essere il devoto Baricald. “No” pensò. “Questa situazione non può continuare così.”                        
«Guardami, Esmerelle». Bart l’afferrò per il braccio e la fece voltare forzatamente. «Guardami ho detto. Vorrei tanto esserti vicino in questo momento, più di quanto tu non immagini. Abbiamo più o meno la stessa età, e io non sono qui per farti da padre né per importi delle regole. Voglio soltanto il tuo bene e, se è possibile, anche il mio.»                                                                              
Esmerelle lo guardò e gli riservò uno sbadiglio. Non ebbe nulla da replicare né da aggiungere. Voltò di scatto la faccia e rivolse lo sguardo altrove.
«È per un bambino che ti sei acciuffato con quell’uomo, ser Bartimore?». Esmerelle non attese neppure un momento, l’aria tediata. «Un gesto da vero cavaliere. È questo quello che sei, dopotutto, no?»                                                                                                
Fu Bartimore a non rispondere questa volta, intenzionato a capire dove volesse andare a parare la ragazzina. Quella solita aria ricca del più impudente senso di sfottimento lo tormentava anche durante la notte.              
«Lo avrei fatto anch’io. Vedi, se io avessi avuto una spada avrei fatto tantissime altre cose.» aggiunse poco dopo. «Avrei salvato la vita di mia nonna, avrei salvato la vita di mio padre… e avrei salvato la mia, di vita. A poco a poco, pezzo dopo pezzo, percorso dopo percorso, e noi due non ci saremmo mai incontrati. Chissà, io avrei potuto gareggiare in un torneo, avrei potuto trovarti in qualità di rivale in una schermaglia». Imitò un impacciato fendente immaginario facendo finta di impugnare con la destra una spada fantasma. «E magari avrei potuto infilzarti. Puf, un colpo dritto al petto! Mi basterebbe una spada… una semplicissima lama.»
Bart non poteva non concordare con lei. «A questo possiamo rimediare» sorrise Bartimore. «Magari se mi prometterai di non infilzarmi durante il sonno, nonostante l’inimicizia che ci separa.» “Oh no, cosa dici, stupido Bartimore, ser di non chissà cosa, e natio di quello stupidissimo luogo sperduto e malsano?”                                                                                                                                        
«E se ti promettessi anche di non utilizzarla che per pescarci?» chiese lei.                                                                         
«Allora sarei molto più tranquillo.» ribatté a tono Bartimore. «Esmerelle, non metto in dubbio le tue potenzialità, ma qui ci troviamo nella bocca del leone, tra le fauci del nemico. Capisci la gravità della cosa? Un passo falso e le uniche teste tagliate saranno la mia e la tua. Vuoi vendetta per i torti che ti hanno fatto, è ovvio. Ma come puoi averla se adori rischiare il peggio? I morti non hanno ancora imparato a vendicarsi sui vivi.»    
Esmerelle si fece guardinga. Chissà se quei discorsi la infastidivano, l’annoiavano o la impressionavano. La sua espressione era sempre la stessa.                                                                                                                                                           
«Ti prometto che avrai ciò che desideri, oggi, domani o dopodomani. Ma tu devi promettermi che saprai attendere sempre. Vedi cosa capita a chi non sa farlo?». Bart indicò la larga contusione che aveva sul braccio. «E potrei mostrarti tante altre persone che hanno subito dei torti per la loro impazienza. Un giorno avrai tutto ciò che desideri… lo capisci? Lo vedi?»                                         
«Vedo.» rispose lei duramente.                                                                                                                      
Attorno a loro, Lenticchia e il palafreno di Esmerelle avevano iniziato ad azzuffarsi con dispettosi nitriti, per poi tornare a leccarsi l’un l’altro. In un certo senso quelle due bestie erano molto simili ai loro padroni indispettiti.
«Allora, me lo prometti?»                                                                                                                                                                                   
«Te lo prometto ad una sola condizione.» pronunciò Esmerelle con veemenza. «Una soltanto.»                                      
«Quale?» chiese Bartimore curioso.                                                                                                                                       
«Quando tutto sarà finito, io verrò con te nelle Terre dei Venti. Voglio tanto vedere il mondo giù a sud, viaggiare sulle onde, ascoltare il ruggito del vento e il suono dell’acqua del mare». Lo sguardo di Esmerelle era perso nel vuoto più totale. «Ho sempre amato viaggiare, e ho sempre voluto ammirare le coste delle tue terre. Me ne parlava tanto mia nonna, da piccola, prima di morire. E io vorrei percorrere i paesaggi che mia nonna utilizzava per le sue leggende serali. Voglio visitare le tue terre, ser.»    
“Mie?”. Bartimore rise. “Appartengo a questo territorio, fanciulla bionda, molto più di quanto tu non immagini. Ho perso anch’io mia madre… forse a causa della guerra… della brutta bestia che è la malattia. E la malattia è il morbo della guerra, da sempre. Ma anch’io serbo più rancore di ogni uomo di questo maledettissimo campo. Ti rendi conto di quanto siamo simili io e te?”.Bart tenne per sé ogni particolare pensiero. Si limitò a sorriderle dolcemente, meravigliato non poco da quella insolita richiesta. «E sia. Se saprai attendere avrai questo e tanto altro. Chiunque ha tutto ciò che desidera se sa attendere.»

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Note d'autore
Un capitolo abbastanza lungo per gli standard della storia, in cui ho praticamente condensato due spezzoni che sarebbe stato inutile dividere ulteriormente. Che dire? Innazitutto sempre tante grazie a chi legge con assiduità la storia, a chi mi supporta continuamente con i suoi commenti, corti o lunghi che siano, complessi o semplici... sono davvero tutti molto importanti per me! E' stato difficile scrivere il dialogo tra Esmerelle e Bartimore, perché trattasi di semplici piccoli passi che entrambi stanno facendo per cercare un accordo che possa farli vivere in serenità... e spero di essere riuscito a render bene la situazione, nonostante non mi convinca molto. A voi il parere, dunque: sono pronto ad ascoltarvi. Ad ogni modo, qui si spiega un po' più il motivo dell'aggressione di Wictor allo scudiero di Derek Winemors; cosa ne pensate? E che mi dite del nuovo personaggio introdotto in questo capitolo - Darrick Sunfall, signore di Baia della Cometa? Cosa pensate di patres Steffon alla luce degli ultimi avvenimenti? E cosa potete credere di Esmerelle?
Ancora grazie, un buon lunedì e al prossimo aggiornamento, con un capitolo più corto e "di passaggio" per lo scioglimento di questi ultimi! [lunedì 3 Aprile]

 

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Capitolo 12
*** XII ***


Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
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Quando il sole scese lontano ad ovest, remoto oltre le dune stagliate contro il cielo, Bart si ritrovò nuovamente nella lunga fila che aveva abbandonato con furore qualche giorno prima. Questa volta, era tra i primi in direzione della casupola dell’amanuense, molto più convinto a raggiungerla.
Nel mezzo di quel campetto in cui si diradava la fila, Bart scorse il punto in cui era avvenuta la rissa tra lui e Wictor, un piccolo spazio sterrato e ancora sporco di sangue, pezzi di armature e stoffa stracciata. “Il vento dovrebbe portare via tutto ciò, lasciarne solo un ricordo nelle menti di chi ha assistito. Non voglio che si sappia che sono caduto prima ancora di iniziare il torneo. Non voglio che Dalton sappia che sono già stato sconfitto.”                                                 
Sotto il cielo ormai colorato dal rosso del tramonto, la fila avanzò sempre più rapidamente, dissipandosi nel passare all’interno della capanna, una struttura in legno chiaro con quattro travi per lato ed un tetto di paglia secca sostenuto da assi robuste.
Fu solo quando il sole lasciò definitivamente spazio alla scura luce della sera, che Bart riuscì a vederla da vicino e ad oltrepassarne le porte. All’interno, in uno spazio ben poco angusto, si ergeva una scrivania dello stesso colore del legno che la circondava. Alle sue spalle giaceva chino un amanuense gobbo ed imbruttito dall’età, che scriveva furiosamente su un foglio di pergamena che si andava arrotolando oltre i suoi piedi. Bart sedette sul piccolo sgabello che si trovava nella capanna, esattamente dinanzi a quello. 
«Nome e cognome.» pronunciò l’amanuense senza neppure sollevare lo sguardo dal suo lavoro.                       
«Ser…» rispose Bart, ma le parole gli si conficcarono nella gola e lì rimasero. Tossì. «Bartimore. Ser Bartimore.»                   
«Tale ser Bartimore ha un cognome?»                                            
«No, non ha nessun cognome. In molti mi chiamano anche Bart, se può servire.»                                                             
«Credo proprio di no.» rispose l’amanuense. «Luogo di provenienza?»                                                                                
«Sette Scuri» rispose Bart. «Più impropriamente Fondocupo.»                                                                                                 
«Un uomo non può provenire da due luoghi distinti e separati. Sette Scuri o Fondocupo?»                                                              
Bart provò vergogna nel pronunciare nuovamente quel nome, per quanto da sempre gli era stato detto di non rinnegare le sue origini per nessuna ragione. «Fondocupo.»                                                                                                                            
«Bene, ser Bartimore di Fondocupo, la tua categoria è questa qui». L’ometto tarchiato indicò con l’indice scarno una lista composta da una decina di nomi, tutti poco rilevanti e conosciuti. Sulla sinistra, invece, erano elencati i nomi di tutti i partecipanti più nobili e famosi.
«Oh, quasi dimenticavo, signore. Io dovrei far parte della lista regale. Sostituisco Dalton Kordrum, il signore di Sette Scuri, e gareggio al suo posto». Bart aprì la casacca alla ricerca della missiva di Dalton. «Solo un momento». Con le mani che improvvisavano una strana danza all’interno della tasca, Bart cercò rapidamente la lettera che il suo signore gli aveva affidato per poter gareggiare.
Dinanzi a lui, l’amanuense lo guardava con fare insospettito. Quando Bart tirò fuori la missiva, notò che di questa non era rimasto altro che un insieme accozzato di frammenti di carta, ceralacca e pelle rossa. “Oh no, per tutte le Grazie!”. La missiva doveva essersi strappata nella foga della rissa contro Wictor, ed ora era ridotta ad uno stato davvero inaccettabile. Bart aveva attraversato strade, irti declivi scoscesi, vallate sinuose e campi aridi; aveva sopportato la fame, la sete e la disgrazia, e quella missiva aveva saputo resistere con lui. Poi, allo stesso modo, si era lasciata distruggere in un mero battito di ciglia quando anche il suo possessore era stato abbattuto. “Un’ingiustizia” pensò Bart nel tirare fuori i tre frammenti che la componevano. Posò tutto sul tavolo dell’amanuense che lo stava guardando sempre più con disinteresse. L’uomo tastò con due dita i frammenti di carta, avvicinandoli a formare una sola massa compatta.                                                                                                                                          
«E con queste che vorresti farci, ser Bartimore di Fondocupo?» chiese.                                                                             
«Intendo gareggiare al torneo. Purtroppo questo è quel che è rimasto della missiva del mio signore, ma posso assicurarti che è stata vergata dalla mano di Dalton Kordrum, il Sole del Sud, signore di Sette Scuri e difensore dei Verdi Confini.»            
«Tu puoi pure assicurare quel che vuoi fino a notte fonda, ser Bartimore di Fondocupo. Qui stiamo lavorando, e non è consentito richiedere di essere spostati nella lista regale senza un dovuto consenso.»                                                                                
«Il consenso c’è» disse Bart. «Ed è questa lettera. O quanto ne rimane.»                                                                                                
«Il consenso non c’è, dico io». L’uomo si fece più sfrontato del necessario e parlò con un tono di voce molto più tediato. «Vedi di accontentarti delle liste comuni se vuoi partecipare, o tornatene da dove sei venuto.»      
«Questo non è corretto» pronunciò Bart. «Posso far testimoniare Ortys Wysler, signore di Ardua Scogliera. Lui sa chi sono e sa chi mi ha delegato e perché.»                                                                                                                                  
«Nessuno può garantire per nessuno. Il torneo di Roshby è un avvenimento molto delicato ed importante allo stesso tempo: non è consentita la partecipazione di cavalieri inesperti nella lista regale. Vorrai scusarmi, ser, ma dovrai accontentarti; non ho scritto io le regole.»  
«Ho viaggiato per settimane pur di arrivare qui, da solo e sotto il sole cocente. Non è colpa mia se la missiva è arrivata in queste condizioni.»                                                                                                                                              
«Be’, non è neppure colpa mia». L’amanuense, insospettito da quelle parole, diede uno sguardo alla carta strappata e la esaminò con una rapida occhiata. «Ebbene, ser Bartimore di Fondocupo. Se tu fossi in me, un uomo che ha una responsabilità tanto elevata, accetteresti questo ammasso di carta distrutta? Accetteresti la partecipazione di un cavaliere sconosciuto, anonimo, alle liste regali? Lo faresti?»                                                                                                                      
Probabilmente no”. «Sì» disse secco Bart. «Ti ripeto che Dalton Kordrum ha scritto questa lettera. Ha delegato me per combattere in sua vece. Perché avrei dovuto fare tutta questa strada e tutta questa fila con un’epistola in mano, altrimenti?»        
«Per avere l’onore di gareggiare con i più celebri signori e cavalieri dell’epoca in cui i nostri genitori ci hanno messo al mondo. Sai in quanti lo fanno? Sai quante persone tentano di eludermi?». L’amanuense si grattò il naso con la penna d’oca. «Riformulo la domanda: se tu fossi me ed io fossi te, accetteresti questa… missiva?»                                           
«Sì, l’accetterei. So riconoscere un cavaliere onesto e sincero quando lo vedo. E questo perché anch’io lo sono.»                
«Male, molto male.» biascicò l’amanuense. «Ringraziamo le Grazie per aver fatto sì che io sia me e tu sia te, allora. Vedi in che disastro avresti cacciato il torneo, in tal caso?»                                                                                                                                                    
Bart s’incupì e l’amanuense parve notarlo fin troppo bene. «Oh, suvvia, ser Bartimore di Fondocupo, non restarne umiliato, dopotutto le liste comuni non sono poi così male. Credo tu abbia anche la stoffa per vincere tutti quelli che finora si sono proposti: scudieri, contadini, fattori, muratori. Oh, e c’è anche un aedo, uno di quelli tosti, s’intenda. Lo chiamano Pinky il Giallo, e dicono combatta con l’arpa e le corde della sua cetra.»                                                                                                                                                                            
«Non m’interessano quelle liste.» ribatté Bart con fare scontroso. Poi gli balenò alla mente la nobile frase del suo signore. “Consegna quella missiva a Wolbert Dorran. A lui soltanto”.  Rammentava ancora il tono sfinito di Dalton Kordrum nel suo letto di morte, le lenzuola ricoperte di aceto ed acqua, gli impacchi di cotone e seta bollente sulla fronte… e le macchie rosse sul suo viso, lungo le sue braccia, lì pronte a succhiare il suo sangue come pipistrelli nella più oscura spelonca. Era ciò che andava fatto, si disse, qualsiasi cosa fosse rimasto della lettera. «Dove posso trovare Wolbert Dorran?»                                                                                          
«Il castellano non farà miracoli. La sua parola, qui, vale molto meno di quella mia. E la mia vale tanto, sappilo. Non sono certo seduto qui per un brutto scherzo del destino… il mio posto è stato sudato duramente.»                                                                                        
«Non sono venuto qui a discutere di quanto valga la tua parola, signore». Bart lo rimproverò con lo sguardo, e lo stesso fece anche l’amanuense che aveva lasciato cadere la penna sulla pergamena. «Dimmi dov’è che posso trovarlo e poi me andrò.»                        
«Lo trovi nella sua torre. Lui sta sempre là a rimuginare sugli eventi e sulle catastrofi che si abbattono su noi uomini poveri ed innocenti. Vedi di non disturbarlo troppo per queste tue sciocchezze irrisolvibili.»                                                                                                  
Bart si alzò dallo sgabello e riafferrò i vari pezzetti di carta che aveva posto sulla scrivania. L’amanuense lo fermò prima che uscisse esclamando il suo nome, le braccia incrociate al petto.                                                                                                                 
«Hai le mani grandi e la parlantina svelta. Il tuo viso è lo stesso di chi lavora i campi, ser Bartimore di Fondocupo». L’amanuense ridacchiò in modo sfarzoso. «Sei sicuro di non voler tornare ad afferrare il tuo aratro? Ti vedrei meglio con quell’oggetto tra le mani. D’altronde, non vedo neppure la tua spada. Dove sono finiti i costumi cavallereschi che imponevano l’utilizzo delle armi a tutti i più buoni uomini votati?»                                                                                                                                                                                      
«Oh». Bart sbuffò sonoramente. «Anche tu hai le mani grandi e la parlantina svelta. Quel che ci distingue, però, è che quantomeno io ho avuto la decenza di non paragonarti al giullare di corte di Dalton Kordrum.»                        
«Questa voleva essere un’offesa?» domandò l’uomo. «Corri pure da Wolbert Dorran, ser Bartimore di Fondocupo. Di Fondocupo… un nome ed una garanzia! Poi torna, mi raccomando, se avrai la faccia tosta per farlo, ma portami una canzoncina decente quando avrai scoperto chi tra noi due è il vero giullare di questa deliziosa corte.»

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Note d'autore
Fiuh! Non credo nemmeno di esserci riuscito: questa settimana aggiornare è stato un lavoraccio incredibile, in quanto ho avuto davvero poco tempo per dedicarmi in toto alla storia (che è pronta, sia chiaro, ma che comunque richiede correzioni e qualche minuto di tempo libero pomeridiano), ma ce l'ho fatta!
Un capitolo di transizione, come avevo annunciato, che ci dimostra quanto sfortunato sia il povero Bartimore, ma soprattutto fa emergere il suo lato più testardo e sfrontato, mettendolo dinanzi ad un ometto tutt'altro che garbato. Insomma, anche Bartimore sa essere pungente se stuzzicato a lungo, una cosa che finora non avevamo avuto modo di vedere.
Vi ringrazio tutti, lettori e recensori passivi ed attivi, e mi congratulo con voi per avermi fatto raggiungere l'obiettivo di ben 100 recensioni; una cosa che non mi sarei mai aspettato. I vostri pareri mi sostengono e mi aiutano a migliorare giorno dopo giorno.
Detto ciò vi aspetto al prossimo capitolo [lunedì 10], uno spezzone della storia che sarà la base di tutta l'intera vicenda... da non perdere assolutamente, e che darà il via alla vera azione del Cavaliere e la fanciulla bionda. 
Makil_

 

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Capitolo 13
*** XIII ***


Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
Castellano: figuro (molto spesso un esperto) incaricato di reggere, in vece del sovrano al quale è subordinato, un altro regno, un piccolo borgo o una cittadina appartenente all'uomo cui giura lealtà. 

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Le vecchie e logore vie di Roshby si insinuavano lungo tutti i percorsi della città, circondando le case e oltrepassando decaduti pontili traballanti. La cittadina, all’interno, era anche più malandata di come appariva circondata dalle sue spesse mura. Le strade erano piccole e strette, e le case che le sormontavano non avevano nulla a che vedere con quelle di Sette Scuri. La maggior parte degli edifici era costruita in pietra chiara, che riluceva di un’essenza propria sotto ai flebili raggi lunari.
Il cielo sopra di lui si era fatto scuro, dello stesso colore del livido che portava sul braccio. Tra non meno di qualche ora, Bart avrebbe dovuto sostenere un confronto a quattr’occhi con patres Steffon, sotto al pioppo in cui gli aveva dato appuntamento. “Se mai riuscirò a fare in tempo”. Di certo non poteva affermarlo con chiarezza, dal momento che, prima di quello, Bart aveva bisogno di sostenere un altro colloquio, forse anche maggiormente importante.
Avvistò la torre ottagonale di Roshby a poca distanza da un edificio solido, rigido e disarmonico, costruito in pietra robusta e scurissima, che risaltava rispetto a tutti gli altri che lo circondavano ai lati e alle spalle.
In breve, Bart fu dentro la torre del castellano di Roshby, riscaldata a dovere da tre fuochi che ardevano su tre diversi camini costruiti in tre diverse pareti. L’aria nella torre era satura dell’odore della cenere, addolcita dalla vaga presenza di essenza di garofano. C’erano un’infinità di librerie ricolme di scartoffie ed altrettante scrivanie poste a cerchio su cui erano accatastate pergamene malandate e antichi tomi poderosi. Nel pavimento di legno erano addossati tre enormi tappeti sgargianti, probabilmente di curata provenienza estera. Quel salone era molto silenzioso, ammantato di una strana pacatezza e di una tranquillità che non poteva essere accostata alla notte. Accanto ad una delle scrivanie, una donna anziana e gobba stava spolverando il bordo del tavolo. Bart si avvicinò a lei.                                         
«Scusi per il disturbo, stavo cercando Wolbert Dorran, il castellano, mi hanno detto di poterlo trovare qui.»                              
«Qui?» domandò la vecchietta ingobbita. «Quell’uomo non scende nemmeno per pisciare. Al massimo lo trovi al piano di sopra, se ti interessa». La donna gli indicò una rampa di scale a chiocciola che si allungavano in alto, verso il tetto della torre. Le sue dita erano nodose e rigide, distorte dalla gotta.                         
«Grazie tante». Bart proseguì verso la scala, come gli era stato suggerito, e nel salirla rivolse un’ultima occhiata all’anziana serva di nuovo dedita alle pulizie. Fu certo di sentirle dire qualcosa di sconvolgente su Wolbert Dorran. Qualcosa che riguardava lui, lei, le sue anche e l’inferno.                                                                                                          
Al terminare delle scale si estendeva un androne pezzato di stoffe verdi smeraldo. Bart bussò con insistenza ad uno dei battenti dell’enorme portone di legno scuro che si ritrovò davanti: dall’interno nessuno rispose. Per questo Bart fu costretto a bussare un’altra volta, con più forza della precedente, tanto che la porta, a quanto pare socchiusa, si aprì lentamente cigolando nello spostarsi. Bart lanciò un’occhiata dietro di sé, poi a destra e a sinistra, ed infine infilò dapprima un piede e poi tutto il corpo dentro lo studio di Wolbert Dorran. Fu immediatamente coperto dal porpora che dipingeva completamente le otto pareti di quella sala, molto più accogliente e piccola dell’ingresso di sotto. Lì le librerie erano molte di più, ed erano anche molto più antiche, impolverate e logore. La stanza era completamente pavimentata con legno scuro e lucido, che si interrompeva ad un tratto lasciando spazio alle fresca e candida murata bianca. Le pareti di spessa pietra grigia erano ricoperte da arazzi di ogni colore e tipologia, disposti in modo da mascherare le varie crepe incise dal tempo lungo tutto il torrione, simbolo della sua marcata ed ostile decadenza. Di Wolbert Dorran non c’era neppure l’ombra, per quanto le varie scartoffie abbandonate sulla scrivania, la boccetta d’inchiostro versato sulla pergamena asciutta e vuota, ed il fuoco scoppiettante dentro a un delicatissimo caminetto, alludevano alla sua presenza.
Bart perlustrò la stanza in cerca del castellano che tanto sperava di trovare. “Non ho voglia di ritornare un altro giorno. Lo attenderò qui finché non sarà tornato. E pensare che non scendeva dal suo studio neppure per andare in bagno!
Lungo la parete principale del solarium di Wolbert Dorran, Bart scorse la variopinta incisione quadrangolare che raffigurava le otto figure stilizzate degli Otto Arcani di Therstone. Bartimore, sin da piccolo, era stato istruito a dovere da Amisa Witeolm e Dalton Kordrum sulla storia che aveva solcato il mondo nell’antichità e dopo di questa. Il suo signore aveva molto a cuore l’istruzione di Bart, in quanto riteneva fosse più importante del saper maneggiare qualsiasi tipo di spada. «Imparai da piccolo a leggere e scrivere ancor prima di imparare a mangiare.» gli aveva confidato un giorno Dalton. «Se sai fare queste due cose, allora il resto è più semplice che starnutire. Un uomo povero e ignorante non può sperare che sopravvivere nel suo campo, ma un uomo povero e istruito può aspirare alla vetta di qualsiasi montagna». E, tra le tante cose che Bart aveva imparato negli anni, c’era sicuramente la storia di Therstone, dalla sua mistica fondazione che si dissipava negli annali più antichi dei più antichi tomi dei più antichi amanuensi, fino agli anni più recenti del mondo. Gli Otto Arcani erano stati i primi otto signori di Therstone, la grande roccia che si alzava sul mare del sud come un’onda sulle sue acque. «Comprendi il passato e comprenderai il futuro.»  diceva sempre Amisa.                                                                                                                      
“Bardagar, Hergal, Edwyge, Megara, Gambun, Ollerya, Gryffard e Roderwyk.” pensò scorrendo con gli occhi sulle otto figure disposte in linea di successione sulla parete. “Uno più anziano dell’altro, uno più potente e scaltro dell’altro.” I suoi pensieri si dispersero nell’aria quando il silenzio venne smorzato da una flebile e quasi impercettibile risatina proveniente da poco vicino. Bart camminò attorno alla stanza con l’unico scopo di avvertire qualcos’altro. Qualcuno lì vicino stava parlando, e la sua voce risultava attutita e compressa dallo spessore della parete di pietra. Il suono delle parole era ruvido e grave, mantenuto il più ovattato possibile. Bart si avvicinò ad una porta che aveva notato solo adesso, leggermente aperta verso l’interno, dannandosi di averlo fatto pochi attimi dopo.
«…cavalli indomabili» disse una vociona indistinta e sconosciuta. «…ovvio che sì.»                                                                                                                
Bart si avvicinò lentamente allo spazio tra la porta e la parete, tanto vicino da poter scorgere tre figure in movimento che parlottavano a bassa voce gesticolando all’impazzata. Uno di loro era di spalle, vestito con una lunga veste color cielo dalle maniche a losanga, sormontata in alto da una chioma bionda che gli ricadeva sulle spalle, in parte coperte da una spessa e sporca gorgiera. Gli altri due, invece, erano di fronte a Bart. L’uomo sulla sinistra aveva il collo taurino, le spalle massicce e larghe. Il suo volto era robusto e scavato, delineato da una rossa barba cortissima e da capelli altrettanto corti e rossi. Vestiva una toga color porpora, stretta ai fianchi da una spessa cintola di cuoio dietro la quale svettava un lungo mantello rosso sangue dai lineamenti neri. Alla destra dell’uomo in rosso sedeva, con fare baldanzoso e menefreghista, un ragazzino vispo segnato dal sole. La sua pelle era dello stesso colore dell’argilla, secca e quasi biancastra sulle guance e sotto alle orecchie. Sul capo faceva capolinea una zazzera di capelli castani che gli cadeva a caschetto sulla fronte. Il ragazzo era davvero molto esile, pur se vestito con bracciali di acciaio e pezzi di cuoio disgiunto sul petto.  
«Non è stato caso, Wolbert.» mormorò il ragazzino esile con un accento che non apparteneva ad alcun regno di Pantagos. «E non sarà caso neppure quando cadrà da cavallo. Ragazzo non mente, ragazzo non mente mai.»  
«Non vorrete farmi credere davvero che non lo avevate neppure previsto.»                                                                      
«Ci fosse qualcosa che non abbiamo previsto, signorotto.» disse la vociona cupa dell’uomo in rosso.                                  
«Proviamo a puntare scommessa su torneo. Quanto per testa di Melkor?» domandò il ragazzo esile. Gli altri due scattarono a ridere in modo fragoroso.                                                                                                                            
«Quanto è ovvio che tutti sono pronti a colpire. Vino rosso come il sangue; è questo che avranno in premio i vincitori.»          
Un’altra risata, questa volta molto più forte.  
«Roger marcisce dentro una prigione, e loro vorrebbero anche di più». Wolbert Dorran si lasciò sfuggire un sogghigno. «Magari avranno anche di più… più di quel che si aspettano.»                                                                                                                              
«Certo, magari avranno i teschi sgusciati dei loro compagni.» derise uno.                                                                                             
Poi la voci si attutirono un’altra volta, dal momento che i signori avevano iniziato a sussurrare sempre più debolmente.
«…e allora scapperemo sul mare. Agabbo ha flotte che vanno da qui fino a Caantos, navi che sono robuste e spesse come pareti di una torre. Vascelli che potrebbero ricoprire il Mare del Vespro se messi l’uno dietro l’altro. E galee che potremmo utilizzare con facilità, qualora servissero.»                                                                                          
«E Agabbo giace in una prigione, forse te ne sei dimenticato Lemmon» gli ricordò Wolbert con una voce strisciante. 
«No, signorotto. Forse sei tu ad esserti dimenticato di come sono andate le cose. Hobbamar lo ha liberato una settimana fa: il Ciclone Nero non ha avuto problemi nell’evadere. Non puoi sapere, se te ne stai sempre qui dentro. Il mondo cambia, gli uomini vivono. E tu stai iniziando a puzzare di letame.»                                                                                
«Quando inizierò a puzzare seriamente la mia serva me lo farà notare, e sarò sicuro di potermi pulire. Tu, invece, Lemmon Cappa Rossa, come ti pulirai quando saprai di puzzare di intrigo?»  
«Vorrei risponderti come si deve, signorotto, ma credo che sarei troppo volgare… e non mi sembra affatto il caso; insomma, siamo o non siamo nobiluomini?»                                                                            
Ancora una volta le loro voci divennero flebili, quasi impercettibili all’orecchio di Bart. Ci volle poco meno di un minuto perché la voce rauca del castellano di Roshby prevalesse di nuovo sulle altre.                                                       
«…ci sono sette ingressi al campo. Le lizze sono state irrobustite da Alabryse, che ci ha messo dentro legno di acero.»   
«Non basterà.» ribatté la voce del ragazzino smilzo. «Cavalli possono spezzare legno. Una volta cavallo spezzò cranio di mio fratello con sue zampe. Cavalli caricano e abbattono ogni cosa, specie dentro tornei.»                 
«I cavalli che non sono ammaestrati a fare altro.» sottolineò Wolbert Dorran facendosi più serio. «Il cavallo che sarà dato a Melkor è il destriero possente di ser Wulbrese l’Accigliato. Un cavallo che è furente, ma che è anche una femmina. E, almeno secondo i calcoli dell’incantatore di Kriffenes, è in calore.»                                                         
Lemmon Cappa Rossa si esibì in un lunga risata, trattenendo i fianchi con le mani. Il suono del suo divertimento passò severo all’interno delle mura delle torre, risuonando più alto di ogni altro, deciso ad incutere più timore del necessario. «E cosa dovrebbe interessare a me delle condizioni del cavallo dell’Accigliato? Signorotto, se anche una delle cose che dici non dovesse essere vera, tu saresti in grossi, grossissimi guai.»
Wolbert Dorran si ritrasse di qualche passo e spinse la porta indietro col piede nel farlo. Bart ebbe l’impressione di scontrarsi con l’infisso, ma i suoi riflessi gli diedero la forza di scostarsi prima di farsi notare.
«Guai? Non posso assicurarvi che le cose andranno come avete previsto – di certo non sono un veggente -  ma posso dirvi con certezza che i presupposti ci sono. E non mi avete ancora dato la parte che mi spetta, per cui non avrei motivo di farvi fallire e perdere il riscatto insieme alla testa.»
«Potresti farlo, non c’è onore in te.»
«Potrei dire lo stesso di tutti voi, allora. L’onore vale molto meno del letame, ora come ora. Vorresti forse negare ciò, Cappa Rossa?»
Bart si soffermò a lungo a riflettere, intento ad osservare il tutto con gli occhi dispersi nel flusso della sua memoria, le fiamme crepitanti nel caminetto. Era capitato, per pura indecenza della sorte, in un luogo sbagliato e in un momento altrettanto errato. Quegli uomini erano riuniti in complotti oscuri, perfino la mente di uno sciocco, di un uomo leso dall’età o reso stupido dagli eventi, avrebbe saputo notarlo con estrema chiarezza. Gli esperti, probabilmente, non avevano idea di ciò che si stesse mormorando nella torre del castellano di Roshby, e Bart, in un certo senso, seppe di non volerlo sapere, per quanto già avesse sentito troppo. Desiderò per poco di non essere lì, e desiderò che con lui ci fosse patres Steffon o Ortys Wysler: aveva bisogno che qualcun altro sentisse ciò che stava sentendo lui, che qualcuno gli negasse ciò che Bart aveva inteso. Ma, dal momento che non c’era nessuno ad assolvere quel ruolo, Bart non poté che continuare ad ascoltare. “Sempre meglio che farsi vedere”. Se fosse rimasto lì, avrebbe saputo qualcosa in più di tutto ciò che stavano tramando su Melkor Winemors e sui loro oscuri desideri. Se fosse scappato, non avrebbe mai saputo nulla di tutto quello che si stava silenziosamente confabulando ai danni dei più buoni. Quale azione migliore per confermare al mondo che lui, ser Bartimore di Fondocupo, non aveva paura dei ribelli e non temeva la guerra? Dalton Kordrum ne sarebbe stato fiero, ovunque egli si trovasse.
Se fosse rimasto a sentire, avrebbe potuto riferire tutto a patres Steffon, l’uomo che a lungo gli aveva detto di sottostare a un solo intento: portare la pace a Pantagos col torneo Roshby. E lui sicuramente gli avrebbe saputo dire cosa fare molto presto, dal momento che gli doveva ancora un’udienza privata. Inoltre, far passare quelle parole per ciò che non erano, ovvero disquisizioni utili solo ad orecchie esperte, non aveva molto senso. Lasciare che da quelle trame nascessero disgrazie sarebbe stato come venir meno ad un giuramento, rifugiandosi nell’omertà di chi sa ma non vuol dire nulla a chi può far qualcosa.
«…cavallo… signorotto. Non c’interessano i tuoi problemi, men che meno i tuoi pareri. Vogliamo solo sapere cosa accadrà per filo e per segno, poi potrai tornare al tuo lavoro, supponendo che tu ne abbia uno.» 
«Il cavallo è in calore, ho detto. E Melkor dovrà cavalcarlo al posto del suo durante l’ultimo scontro con Spada di Sabbia. Melkor è il cavaliere più potente tra gli iscritti: se la congiura colpirà lui prima degli altri, avremo un quarto di problemi in meno da affrontare.»
«E a che serve dire che cavallo è in calore?» chiese il ragazzino straniero corrugando la fronte.
«Serve a sapere che quando il destriero di Lower si abbatterà su quello di Melkor facendogli perdere il controllo delle redini, non sarà stato il caso, ma un evento programmato. Allora si procederà come pattuito e voi farete il resto del lavoro sporco. Vi ho detto che ci sono sette ingressi al campo…»
«Ce ne basteranno due, suppongo.»
I due uomini a colloquio con il castellano si scambiarono un’occhiata di concordia, quasi come se avessero inteso qualcosa che Wolbert Dorran non poteva capire.
«Signorotto, mi preme farti una domanda. Come possiamo assicurarci che Melkor Winemors cavalcherà quel destriero? Non dirmi che non ne ha uno suo!»
«Non te lo dico, allora. Ma tu conosci già la risposta.» disse Wolbert Dorran facendo ondeggiare la lunga manica azzurra della sua veste. «E saprai pure che gli animali possono morire come muoiono gli uomini. Un incendio del tutto funesto e casuale spezzerà via perfino le ossa del suo cavallo una sera prima del torneo, e noi ci prenderemo la briga di far ricadere la colpa su qualcuno che non sia dei nostri.»                                                                         
I due non risposero, o forse Bart non riuscì a sentire la loro risposta. Tenendo le mani ferme sul pomello del battente di legno cercò di avvicinare sempre di più l’orecchio, facendo ben attenzione a non far spostare di un solo passo la porta.
«…vederlo.»
«…sanno cosa significa.»
Lemmon si strinse la cappa al petto per qualche attimo, prima di staccare la rossa spilla di rubini a forma di cerbiatto, e farla ricadere su un tavolo. Liberatosi del peso della sua cappa rossa, Lemmon iniziò a frugare nelle tasche della sua mantella. Infine, si voltò verso gli altri due esibendo qualcosa che Bart non riuscì a scorgere.
«… ha tenuto l’assedio a lungo, anni fa». Ancora una volta le voci si abbassarono repentinamente. Bart era quasi stufo di quell’alternanza di toni. Cercò di unire le varie parole udite, ma senza alcun risultato. La voce pomposa di Lemmon parlava del Nord, del regno di Ockswert, e di certe minacce che neppure loro conoscevano.
«Difatti non mi sembra di averlo visto.» sottolineò Wolbert Dorran.
«Perché non c’è!» esclamò il ragazzo straniero. «Lui non parteciperà. Uomo è scappato lontano dall’Accademia, dicono.»
«L’Accademia!» vociò Wolbert. «Un’altra cosa di cui dovremmo parlare, vi dico. Ci sono troppi patres in giro, sapete che non avremo scampo dopo? Dimmi Lemmon, il vostro piano includeva di consegnarci direttamente agli esperti per ricongiungerci con Roger o lasciare che ci giustiziassero spontaneamente?»
«Non essere spiritoso, signorotto. Il piano non include affatto la fastidiosa presenza degli esperti. Affari loro se vogliono mettere lo zampino; vorrà dire che dovremo tagliarne uno in più.»
«Non temiamo Accademia.» s’inserì la voce del ragazzo straniero. «Ormai non più. Una volta finito tutto, esperti potranno pure cacciarci o cercarci. Ci troveranno su mare, su navi dirette a Caantos. E lì non hanno potere. Peggio per loro se vorranno farci visita…»
«Peraltro, l’Accademia è ben occupata al momento.» illustrò Lemmon che si stava riallacciando la cappa al collo. «L’organizzazione del torneo tiene ancora gli esperti chini sulle pergamene. E Maniero del Corvo è sotto assedio da ieri mattino. Vedrai che saranno occupati a manovrare le loro truppe al nord, a schierare in battaglia i loro Elmi Scuri. E mentre un giocatore posiziona le varie pedine di gioco, l’altro può fare le proprie mosse non visto.»
«Maniero del Corvo?» domandò perplesso Wolbert Dorran. «Medgar Rayven è qui a Roshby, iscritto alle liste regali per il torneo. Lui non sa?»
«Potrebbe non saperlo» rise Lemmon. «Oppure potrebbe soltanto far finta di non aver sentito. Vedrai che prima del giorno d’inizio torneo, Medgar sarà tornato alla sua catacomba. E dovrà sperare che gli uomini di Bywatt Pellur gli abbiano lasciato gli occhi per poter piangere, allora. Polvere e rocce incrostate di sangue, ecco su cosa potrà posare il capo piangente quando avrà fatto ritorno a casa. Bywatt non è il tipo con cui poter scherzare. Credo abbia fatto del male anche alla moglie.»
«Quanti, troppi intrighi!» si lamentò Wolbert Dorran scuotendo la mano a destra e manca. «Che piano avete per il resto degli sfidanti? Ci sono uomini potenti quanto Melkor Winemors, altri che potrebbero avvicinarsi alla sua destrezza.»
«Per quanto ci riguarda, il grosso è fatto. Melkor pagherà per i soprusi avanzati contro Roger ed il suo principino, e tanto basta. Il resto degli sfidanti è un affar tuo, signorotto. Dopotutto non mi sembra che ci sia alcunché di preoccupante dalla posizione in cui ti trovi. Ho annoverato una lista dei possibili avversari degni di tale nome, e posso dirti che rimangono tra le dita di una mano. Una sola». Lemmon Cappa Rossa alzò la mano aperta verso il castellano di Roshby, con fare talmente tanto violento da sembrare che stesse per sbattergliela in pieno volto. Non appena ebbe tossito un paio di volte, parlò di nuovo: «Cinque altri uomini che potrebbero darci problemi. Herpo Greewald ha abbattuto un paio di signori alla scorsa quintana di Bastion Vermiglio, ma ora non è più abbastanza in forma. Ci sarebbe Aedon Penflow, la Serpe Verde, che ha saputo disarcionare Agador Bucolargo. Per non parlare di Adam Weckport, di cui solo gli dei sanno a che gioco vuol giocare. Oh, e ci sarebbe un’altra figura di interesse, mi informano. Non è qui da molto, credo. Si tratta di Ortys Wylser, il signore di Ardua Scogliera: la sua stazza farebbe tremare anche il migliore dei campioni, signorotto.»
«Potremmo sbarazzarcene noi.» mormorò il ragazzo esile.
«No, Dephyso.» rispose Lemmon. «L’unico a poter muover arma contro Ortys Wysler è il castellano. Wolbert Dorran, nel nome di Roger di casa Wyndwat, signore di Canto della Bufera e comandante indiscusso delle armate ribelli nella Punta, io ti comando di espellere Ortys Wysler dalla lista reale e di umiliarlo a tal punto da farlo tornare ad Ardua Scogliera dietro alla sottana della sua signora.»
Wolbert Dorran rimase in silenzio a lungo, l’indice premuto sulla fronte. «Mi serviranno delle prove per farlo, o gli esperti noteranno l’equivoco. Hanno occhi grandi così». Il castellano allargò indice e pollice per mostrare la misura di cui stava parlando.
«E i tuoi, di occhi?»
Dal pianterreno risalirono dei rumori chiassosi e rimbombanti che oscurarono nuovamente i discorsi dei tre abili uomini uniti in colloquio. Bart fu scosso da un brivido gelido lungo la schiena. Si voltò di colpo e si scansò di lato, le mani contro le pareti fredde. La porta si aprì senza neppure cigolare.
«Ragazzo!» tuonò la voce rauca del castellano, gli occhi sgranati e furenti su di lui. «Cosa ci fai qui?»
Wolbert Dorran si erse dinanzi a lui con le mani strette ai fianchi. L’uomo era piuttosto basso, vestito da capo a piedi di bianco e azzurro cielo. Sul petto scorrevano tre spille dorate dalla forma ovale, nella cui più grande era incastonata una pietra azzurra. Ai piedi calzava due stivaletti dalla punta affusolata, che richiamavano i colori scuri dei lunghi calzoni che indossava. La gorgiera sporca sotto il mento fungeva da cuscino per i suoi lunghi capelli biondi.
Bart rimase in silenzio a lungo, per poco tempo concentrato sulle possibilità di risposta. «Mio signore, mi scuso per l’intromissione. Forse avrei dovuto aspettare.»      
«Oh, sei scusato». Wolbert Dorran agitò la mano callosa nella sua direzione. «Avresti dovuto aspettare, credo proprio di sì. Ma una volta che sei qui, oramai, penso pure che non occorra più giustificarsi. Cosa ti porta da me, giovane?»           
Bart guardò il castellano per molto tempo. I suoi lineamenti erano induriti dall’età, solcati da rughe a zampe di gallina sotto agli occhi. I lunghi baffi ingialliti dalla birra non riuscivano a stare fermi sopra le labbra, muovendosi ogni volta che la sua bocca si apriva e si chiudeva. Avrebbe parlato, su questo non c’erano dubbi, ma lo avrebbe fatto con una sfrontataggine tale da poter lasciare intendere che non avesse udito niente di tutto ciò che fino a quel momento si era confabulato?
«Ho bisogno di qualcuno garantisca per la mia iscrizione nelle liste regali, dal momento che non mi è stato permesso fuori da qui». Bart afferrò i pezzi di carta laceri della missiva di Dalton Kordrum, facendo attenzione a prendere con cura quelli che contenevano il sigillo di ceralacca. «Questo è quel che rimane della lettera del trapassato Dalton Kordrum, signore di Sette Scuri, lealista delle terre di Pantagos. Lui aveva delegato me in sua vece. E lui mi aveva detto di presentare il tutto a voi, mio signore. Io sono ser Bartimore di Fondocupo, protetto di Dalton Kordrum e Amisa Witeolm. E la mia spada è al loro servizio.»
«Sette Scuri?» domandò incerto il castellano. «Si trova nel Sud, se non erro. Non ho mai conosciuto quei luoghi, per quanto mia moglie provenisse proprio da Macigno Salato. Dicono che il vento non smetta mai di soffiare laggiù, e che il mare sia sempre in combutta con le rocce delle spiagge. È vero?»
«Sissisgnore.» confermò Bart, secco.
«Ebbene» mormorò Wolbert riservandogli un sorriso mellifluo. «Fammi dare un’occhiata.»
Bart posò tutti i pezzettini di carta sulla scrivania del castellano, assicurandosi di non disperderli sull’inchiostro caduto dalla boccetta. Mentre lo faceva, il castellano gli spostò un paio di tomi impolverati per consentirgli di adagiare la carta senza particolari problemi.
«Non si direbbe che sia in un buono stato, ragazzo.» notò l’uomo. «Ma a me non importa. Se la ceralacca mi permetterà di considerarla valida, allora potrai iscriverti tranquillamente. D’altronde il torneo serve a questo. Come ama dire un mio superiore: tendiamo la mano a chi non ha più mani e in un modo o nell’altro si aggrapperà all’arto. Se neghiamo la possibilità di partecipare a chicchessia, e se mettiamo da parte la fiducia, allora tanto vale dare alle fiamme le lizze.»
Cosa che voi avreste fatto senza scrupoli.” pensò Bart, ma si assicurò bene di tenerlo solo per sé. Wolbert Dorran si chinò sul pezzo di missiva che riportava il grosso sigillo dei Kordrum ancora impresso sulla pelle rossa della carta sfilacciata. Con l’altra mano, senza neppure richiederne il consenso, afferrò i rimanenti pezzi di carta e li mandò in fiamme gettandoli nel fuoco brulicante. «Non ti serviranno più quelli là. Occorre che sia presente il solo sigillo, per quanto mi avrebbe fatto piacere leggere un paio di parole di un signore trapassato. Farebbe uno strano effetto, non lo credi anche tu?»
Bart cercò di non badare alle parole del castellano. “Prima sarò fuori da qui, prima potrò tornare a respirare”. «Allora, cosa si può fare?»
Wolbert Dorran si leccò l’indice robusto della mano e lo fece scorrere sulla carta. Ripeté l’operazione per due volte prima di sollevare lo sguardo e, insieme a questo, anche il sigillo, che portò in bocca e strinse tra i denti. Non appena ebbe finito, gettò anche quello dentro al camino, assicurandosi che cadesse sotto agli alari e lasciando che la ceralacca lacrimasse sulle braci.
«Non ho dubbi sulla tua onestà, ragazzo. Quella è ceralacca vera, praticamente impossibile da trovare in mano ad un contadino o un brigante. E poi mi sembri un tipo a posto.»
«Vi ringrazio, mio signore.»
«Non potrò darti per certo un posto tra i primi combattenti, ma posso assicurarti che parteciperai al torneo. Vedi di stare tra la folla quando gli araldi passeranno ad elencare i nomi degli sfidanti nella lista reale.»
Bart annuì. «Quando inizieranno gli scontri?»
«Presto, molto presto. C’è bisogno che inizino il più presto possibile.»
Wolbert raggirò la scrivania e andò a sedersi sulla sua poltrona, riprendendo a scrivere ciò che aveva lasciato incompleto molto prima. Dopo d’allora fu come se Bartimore fosse del tutto assente, scomparso di colpo dallo studio del castellano.
«Allora io vado» disse Bart esibendosi in un lieve inchino di formalità e considerandosi congedato. “E spero di non vedervi più”.  
Ma prima che fosse fuori dalla porta, Wolbert rialzò gli occhi verso di lui. «Sai, credo di avere una mezza idea del motivo per cui Twycott non ti abbia permesso di iscriverti alle liste reali». L’uomo tossì portando la mano alla bocca. «Solitamente un cavaliere che si rispetti, uno di quelli che vogliono far parte delle liste delle alte signorie, porta sempre un qualcosa che faccia sapere al mondo chi è e perché vuole a tutti i costi ciò che chiede. Che sia una spada, uno scudo o un pezzo di armatura non importa, ma è importante avere qualcosa che faccia sapere agli altri che tu sei un cavaliere, ragazzo. Se io non te lo avessi chiesto, avrei potuto scambiarti per un garzone, un mugnaio o, peggio ancora, una spia. E di questi tempi è un rischio troppo alto. Dovresti imparare a considerarlo.»
“Una spia, eh?” pensò Bart. “Quantomeno lo faccio per una buona causa.” «È probabile.» rispose.
«Sicuro, oserei dire». Wolbert, con aria pensosa, attorcigliò i mustacchi biondi tra l’indice e il pollice. «La penna è l’amica degli esperti. La corona è il sigillo dei signori. E così come i macellai hanno la mannaia, un cavaliere deve avere…»
«… un cavallo!» affermò velocemente Bart, quasi certo della risposta: questo gli aveva insegnato Dalton Kordrum.
«Non proprio, ragazzo. Piuttosto che di un cavallo, un cavaliere ha sempre bisogno della sua armatura. Se non ne hai ancora una, ti consiglio di procurartela subito. Dovresti fare un salto da Garmold, è il migliore in circolazione nel campo, per adesso, e forse anche l’unico, stando ai resoconti dei miei ultimi visitatori. Sono sicuro che saprà darti una mano, presto o tardi, anche se ora sarà davvero molto impegnato, credo. Troppe persone hanno bisogno di un elmo e tante altre di una spada. E credo che tutti farebbero bene a richiedere un’armatura. Ora sarebbe più utile che mai.»

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Note d'autore
Dire che questa settimana sono stato molto impegnato è dire poco: pertanto, mi scuso per aver risposto con immenso ritardo alle vostre recensioni! Grazie a tutti i miei lettori/recensori, a tutti coloro che perdono qualche attimo a sottolinearmi sviste e appunti per la mia storia, a quelli che mi aiutano con la lettura silenziosa e a quelli che chiedono informazioni sul mondo che mi sono preso la briga di creare; mi piace molto illustrare ciò che giace alle spalle di questa breve raccolta di novelle. 
Passando al capitolo odierno; un bel colpo, eh? In molti - sono sicuro - avevano già in mente una svolta del genere, dopotutto come non aspettarselo? E' chiaro che nemici ed amici non possono convivere insieme... nonostante Bartimore ed Esmerelle abbiano fatto di tutto per accettarsi: qui il conflitto va ben oltre quello tra due semplici ragazzini. Dunque; cosa pensate del comportamento di Bartimore? Ha fatto bene a restare ad origliare il tutto? E cosa mi dite della combriccola di disgraziati - Wolbert Dorran, Lemmon Cappa Rossa e Dephyso Maraphen? 
Spero di aver gestito bene il climax ascendente di questo capitolo; vi do appuntamento a lunedì prossimo [17 del mese corrente]. 
Un buona serata :))
Makil_

 

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Capitolo 14
*** XIV ***


Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
Castellano: figuro (molto spesso un esperto) incaricato di reggere, in vece del sovrano al quale è subordinato, un altro regno, un piccolo borgo o una cittadina appartenente all'uomo cui giura lealtà. 

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«Risolto un dilemma, ne sorge spontaneamente un altro.» soleva dire Dalton Kordrum, l’irremovibile ed incontrastabile signore di Sette Scuri. E ora Bartimore, per quanto avesse sempre pensato che la sua teoria fosse del tutto insensata, si trovò a considerare quella frase più che veritiera. Se iscriversi al torneo era stata un’operazione impegnativa, trovare il fabbro che Wolbert Dorran gli aveva consigliato, l’unico presente al campo, lo fu sette volte di più. Se fosse stato a casa sua, Bartimore non sarebbe mai andato in un luogo consigliatogli da un palese nemico della corona, ma in questo caso – e perché non aveva altra possibilità se non quella che gli era stata mostrata – il cavaliere decise di seguire le uniche indicazioni che conosceva.
La notte non era troppo fredda quel giorno, e un solo un pizzico di gelo frizzante riusciva a permeare nell’aria. Bart passò con fare indaffarato tra i vari padiglioni ammassati nel campo. Il terriccio attorno al viale in cui camminò era stato bagnato a lungo da numerose secchiate d’acqua, tante quante ne servivano per renderlo malleabile. Sparse sul terreno giacevano le orme dei passanti, altrettanto impegnati nel muoversi, mischiate a quelle dei cavalli e dei mastini. La strada si contorceva a sud-est e svoltava dietro ad un padiglione enorme dalla forma pentagonale, viola come un livido tumefatto sul corpo. Due delle fiancate della tenda erano ornate con cuciture dorate che rappresentavano le figure stilizzate di un uomo nudo in combattimento con un leone, nella prima, e lo stesso uomo con il leone sulle spalle, nelle rimanenti. La cortina era semiaperta, giusto quel poco che bastava per proiettare fuori un minimo della luce che inondava l’interno. Bart non aveva mai visto un padiglione tanto sfarzoso. “Deve appartenere a qualcuno di veramente importante” constatò. “Ma di certo non può essere un fabbro”.
Bart aveva conosciuto il padiglione da guerra di Dalton Kordrum, il quale gli aveva raccontato numerose volte che, come la sua armatura e la sua spada ancestrale, era appartenuto al padre di suo padre e al loro zio prima di lui. Ricordava vagamente anche la forma di quella tenda: circolare, tutto un’unica gradazione di colore; il porpora. Impresso sul tetto spiovente c’erano due semilune incrociate e ridenti, che stavano a simboleggiare la costante ilarità del padrone. Eppure, quel padiglione non era stato mai in tutta la sua vita splendido tanto quanto quello che Bart aveva appena visto.
Aumentò il passo e voltò a sinistra. Nel girare l’angolo, senza che neppure se ne fosse accorto, Bart si scontrò corpo a corpo con un uccello planante su di lui. A quell’attacco repentino sul petto, stupefatto non poco per la velocità dell’impatto, Bart rispose con un gemito.
«Ragazzo!» chiamò una voce lontana. «Sta’ fermo. Non muoverti o gli farai del male.»
L’uccello aveva una delle zampette incastrata nella sua camicia, e più la tirava verso di sé più batteva le ali con vigore, graffiando il petto di Bart come se gli stessero passando delicatamente sopra la punta di una lama. Fu solo quando l’uccello iniziò a beccare il suo polso che Bart sollevò lo sguardo verso la voce che lo aveva richiamato. Lungo la strada stava correndo un ragazzo alto, muscoloso ed in forma. I capelli dello stesso colore dell’ebano gli incorniciavano il volto lungo e spigoloso, rendendolo quasi appuntito sul mento. Il ragazzo correva reggendo una lanterna con la mano sinistra, dentro la quale un lumino stava ardendo flebilmente, e nella destra cingeva una gabbia di legno e ferro lucido.
«Non muoverti e non abbassare il braccio, per favore». Il ragazzo si piantò dinanzi a Bart ed afferrò un piccolo uncinetto dalla tasca. «Non vi farò del male.»
Poi si piegò giusto un po’ verso di lui e, servendosi dell’uncino, scavò giusto un po’ la cucitura della camicia di Bart, assicurandosi di portare fuori le unghie del suo uccello. Non appena il rapace fu libero, volò a ringraziare il suo padrone con un cinguettio bizzarro e planò sul dorso del suo avambraccio, già dritto e rigido, pronto ad attenderlo. 
«Dovrai scusarmi, amico.» iniziò il ragazzo alto. «Non mi capita spesso di lasciarmelo scappare in questo modo.»
«Non è successo nulla» rispose Bart scuotendo il capo.
«Meglio così.» sorrise lui. «La scorsa volta mi hanno sequestrato il fringuello perché era finito nella tenda di Theodas Wadpayn. E due giorni fa hanno ferito il mio allocco con una freccia. Questo è un falco pescatore, se può interessarti, il più docile tra le mie creature piumate. Loro sono come dei fratelli per me.»
«È davvero molto bello.» disse Bart. A quell’affermazione, come se avesse capito il loro linguaggio, il falco spalancò le ali e si fece gli occhi più scuri. Coronato da tanta bellezza, l’uccello chinò il capo e si lasciò accarezzare, ripiegando soltanto dopo le lunghe ali sul dorso.
Il ragazzo indossava una lunga faretra sulla spalla, e dal bacino pendeva il fodero di un’altrettanto lunga spada dal pomolo disadorno. “Forse lui sa dove posso trovare il fabbro.”
«Conosci il fabbro Garmold, per caso?» chiese Bart.
«E me lo chiedi? Chi non conosce Garmold?» fece lui. «Oh, ma è ovvio! Sei anche tu un cavaliere? È un onore, allora, fare la tua conoscenza. In tempi come quelli che corrono, la cavalleria è ricoperta da disonestà e lussuria. Ma tu mi sembri proprio il tipo con cui poter bere un calice di vino in santa pace. Che ne pensi, ser…?»
«Bartimore.» disse Bart.
«Ser Bartimore! Ti andrebbe di bere qualcosa? Dopotutto ti devo un favore, sei stato molto cordiale con lui e con me. Posso permettermi di accompagnarti nella tenda del mio signore?»
«Dipende, cavaliere.» rispose Bart con tutta l’aria di dissentire.
«Dipenda da cosa, se posso?»
«Dalla persona per cui combatti». Questo Bart non avrebbe mai voluto dirlo, malgrado fosse essenziale un tempo. Eppure, tutti quei discorsi che aveva udito nella torre di Wolbert Dorran lo avevano scosso a tal punto da farlo dubitare di ogni sconosciuto.
Il ragazzo si fece guardingo, girò il capo prima a sinistra e poi a destra, come per accertarsi che non ci fosse nessuno oltre loro su quella strada, e infine rispose: «Hollard Norstone, ragazzo. Per lui e nessun altro. E il mio nome è Dayn. Ser Dayn.»
Bartimore fu consolato non poco da quella risposta. “Ringrazio le Grazie per questo.” I Norstone di Vento Burrone erano un’antica casata di bravi galantuomini e fedeli governatori, che amavano l’ospitalità e la cordialità più di qualsiasi altra cosa. E anche loro, come Bart, provenivano dalle Terre dei Venti.
Bart tesa la mano verso il ragazzo. «Sette Scuri.»
«Lo so bene» disse Dayn che nel frattempo si era piegato per terra per far sì che il suo falco rientrasse nella gabbietta. «Ti ho parlato liberamente solo perché lo sapevo.»
«Come facevi a saperlo?» domandò Bart.
«È tutta una questione di accenti, ti dico. Noi del sud siamo facilmente riconoscibili.»
Dayn si rimise in piedi e si sistemò la maglia che calzava al petto. «Allora, vuoi seguirmi?»
«Sarà per un’altra volta, ser Dayn. Ho delle faccende da sbrigare prima. Spero di non risultare scortese.»
«Scortese, ser Bartimore?» domandò retorico lui. «Lasciami dire che noi del sud non conosciamo quella parola. Vedrai che avrai modo di rifarti prima della fine delle giostre. Quando lo vorrai, le morbide poltrone di Hollard Norstone saranno nella sua tenda ad aspettarti. Ecco, vedi, è quella col tetto dalla punta rossa.»
Bart l’avvistò in lontananza, sgargiante nei suoi colori gialli e arancioni, sormontata da una punta rosso fuoco.
«Oh, quasi dimenticavo!». Ser Dayn si spostò di lato, il braccio puntato verso nord. «Lassù, vedi? È lì che troverai il fabbro che cerchi. Ha una piccola e malandata casupola in legno, tutta piena di pezzi di ferro rattoppanti e travi di metallo. E poi è tutta dipinta di bianco. Non puoi sbagliarti, amico.»
E, di fatto, Bartimore non si sbagliò. 
 
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Note d'autore
Il fatto che domani - giorno previsto per la normale pubblicazione - sarà un dì festivo, mi ha costretto a pubblicare oggi pur di non rimandare a tardi l'aggiornamento. Si tratta di un capitolo molto breve, di rapida lettura serale, che non funge solo da passaggio, ma introduce un nuovo personaggio: ser Dayn, un carattere che sarà molto importante più avanti. Continuiamo a seguire Bartimore nelle varie tappe, sapendo però che il cavaliere ha tra le mani un ordigno pronto ad esplodere da un momento all'altro. Cosa pensate di tutta questa storia? Come credete che si svilupperà la vicenda d'ora in avanti? Per qualsiasi domanda, comprendendo chiaramente che molti discorsi e molti termini possano risultare alieni alla lettura, io sono qui. 
Colgo l'occasione per scusarmi della mancata risposta alle recensioni dello scorso capitolo - rimedierò non appeno avrò un minuto di tempo - ma vi ringrazio tutti, lettori silenziosi, passivi ed attivi, e vi do appuntamento al prossimo aggiornamento. Augurandovi di trascorrere al meglio queste festività, vi saluto,
Makil_

 

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Capitolo 15
*** XV ***


Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
Castellano: figuro (molto spesso un esperto) incaricato di reggere, in vece del sovrano al quale è subordinato, un altro regno, un piccolo borgo o una cittadina appartenente all'uomo cui giura lealtà. 

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La salita lungo la stradina sterrata e scoscesa non fu certo delle più facili. Ogni due passi Bart aveva rischiato di schiantarsi con le natiche al suolo, ed aveva stretto i denti ogni volta che aveva posato piede su un sasso fasullo o un rovo spinoso.
Quantomeno, la faticosa salita fu remunerativa. Non appena ebbe scavalcato l’ultimo anfratto del suolo, seppe di essere arrivato nel luogo che gli aveva indicato ser Dayn. Poco lontano da quel punto s’innalzava una garitta caduta a pezzi, vicino ad un porticato abbandonato e distrutto. Lì, come fosse un luogo infetto o fatiscente, nessuno aveva posizionato il proprio padiglione. Non c’erano neppure alberi o casse piene di vettovaglie, né cavalli o altri animali. Non si udiva il continuo mormorio di mille voci intenti a preparare l’essenziale per i combattimenti, né i mugolii dei cani lasciati a perire la fame o il cozzare delle lame contro l’acciaio. Tutto in quel piccolo angolo di campo era secco, libero, semplice. Un luogo puro, appartato, ancora per poco incontaminato dalla mano degli sfidanti. Bartimore avrebbe pensato che fosse stato bruciato da poco, dato il colore riarso della terra su cui posava i piedi. Ma a cancellare questo pensiero della sua mente fu proprio la sonnecchiante figura dell’unica presenza in quel posto: un fabbro. Senza alcun dubbio, pensò, quello doveva essere Garmold.
L’omaccione giaceva per terra, le spalle posate contro la fredda casupola mal dipinta di bianco, il cui tetto spiovente era fatto di tegole di argilla scura e in perfetto stato di degradazione. Aveva un petto possente, solcato dalle varie lineature scolpite dalla muscolatura pompata e gonfia, ricoperto dappertutto da peli ispidi e neri come tizzoni arsi. Non indossava altro che le braghe, tenute al bacino da una spessa cintura di cuoio. Stava passando la cote sulla lama di una grossa ascia, quando alzò il volto verso Bart, che si era fermato ben poco lontano dalla sua bottega. Con tutta la delicatezza di un fabbro ferraio, l’uomo si alzò dal terreno lasciando precipitare l’ascia e la cote per terra.
«Come posso servirti?» gli domandò passandosi una mano tra i capelli folti e scuri. Sul suo volto cresceva incolta una barba ispida come i peli del petto.
Bart posò una mano dentro la casacca che teneva con la sinistra, giusto il tempo per constatare la presenza delle monete. «Mi servirebbe un’armatura per il torneo.» spiegò. «Una delle più resistenti che hai, se è possibile.»
«Le armature di Garmold non peccano mai di resistenza, buon vecchio mio.» gli disse portando una mano sul bancone. Dietro di lui un ragazzino sudaticcio stava lavorando di incudine e martello su un’arma lunga ed affilata. «Vieni da questa parte ché Terry ti prende le misure.»
Il ragazzo che pareva chiamarsi Terry si mosse immediatamente dalla sua postazione, andando alla ricerca fugace di tutto l’occorrente. Ritornò subito dopo con un metro di fettuccia bianca arrotolato sul braccio ed un piccolo sgabello tondo sulle spalle. Bart raggirò la casupola per avvantaggiare il lavoro del ragazzino senza capelli che ne uscì, mingherlino e tutto bagnato di sudori sulla fronte e sotto le ascelle.
«Alza il braccio, cavaliere». Bart fece come gli era stato ordinato. Il fanciullo si mise sopra lo sgabello e gli misurò la lunghezza del braccio. Poi continuò: «Adesso lasciami misurare la gamba». Bart avanzò di poco portando avanti la gamba. Il ragazzo gli disse anche di piegarla un po’, affinché prendesse le dovute misure del ginocchio. Poi fu la volta delle mani, che gli fu detto di aprire e chiudere tre volte.
«Piedi grandi, eh, Terry?» mormorò Garmold che nel frattempo aveva acceso una pipa.
«Davvero» fece il ragazzino continuando a dargli le spalle e accingendosi a prendere la misura dell’apertura del braccio. Eseguì altre operazioni lungo tutto il suo corpo, per dire, solo infine, di aver concluso il suo lavoro.  
Bart si rivolse nuovamente a Garmold, al bancone, lasciando che Terry tornasse dentro la casupola di legno.
«È da sedici.» disse al fabbro, mentre rimetteva al suo posto lo sgabello. «Massimo mezzo punto di più.»
«Soltanto sedici?» domandò meravigliato Garmold. «Ti avrei dato di più, giovanotto.»
Bart non aveva idea di cosa stessero parlottando quei due, ma non lasciò che loro notassero ciò. Si limitò, pertanto, ad annuire e dare conferme di cui neppure conosceva la risposta.
«Allora» borbottò Garmold grattandosi la barba scura. «Fammi un po’ vedere qui cosa posso darti.»
Garmold diede un calcio ad un mobile di legno scuro che intralciava i suoi passi mandandolo dall’altra parte della bottega. Poi afferrò una lunga spranga di ferro chiaro e si servì di quest’ultima per fare forza sull’anta di un armadio incassato alla parete. Quando finalmente riuscì ad aprirla, il fabbro si esibì in un soddisfatto sorriso a trentadue denti. Da quel guardaroba celato caddero giù alcuni pezzi d’acciaio, appartenenti ad armature adagiate su qualche scaffale più lontano, o incastrate in qualche piolo nella parete. Tra le tante cose che Garmold tirò fuori vi erano due ginocchiere lucide, due cosciali, due guanti, un usbergo appena intaccato, quattro schinieri, tre placche pettorali, due manopole, una panziera poco più scura e sei elmi.
«Il resto lo acciuffo dopo» assicurò sorridendo. «C’è tutto da Garmold.»
Bart ricambiò il sorriso di approvazione e iniziò ad osservare le condizioni dei pezzi che il fabbro voleva vendergli. In effetti, notò, erano tutte in perfetto stato. Nessuna di quelle parti d’armatura sembrava intaccata dagli eventi, distrutta dalla pioggia o, peggio ancora, dal tempo.
Garmold afferrò qualcosa da un piolo agganciato ad una trave sulla sinistra.
«Ecco qui la piastra frontale da sedici» disse adagiando quella parte d’armatura sul bancone accanto agli altri pezzi accatastati l’uno sull’altro. «Questa ti protegge meglio di un miracolo di tutt’e cinque le Grazie.»
«Non ho dubbi» rispose scherzoso Bart, che in realtà, per quell’argomento, ne aveva più di no.
«Bene, vediamo un po’» cominciò il fabbro «Quale tra questi elmi preferisci? Non che ti dispiacerà sapere che quel bacinetto lo abbiamo preso ad un morto, suppongo.»
L’espressione di Bart si contrasse in un misto tra il ribrezzo e il disgusto. E Garmold parve notarlo fin troppo bene.
«Va bene, niente bacinetto allora». Un colpo secco col braccio e l’elmo volò via dal bancone, passando oltre l’incudine e Terry. Garmold si passò la pipa tra le mani e la portò dall’altro lato della bocca, poi riparlò: «Il resto va bene? È tutto su tua misura. Non ti propongo di farti fabbricare qualcosa di nuovo soltanto perché non avrei il tempo di farti avere quello che richiedi. Devi sapere che stiamo già lavorando per Ariston Rowland, per Cristabar Sunrayse, per Pereghyn Moppin e per altri della loro bella risma. Non avevo mai lavorato tanto in vita mia. Lui lavora per Corbran Roosevelt, sai? Diglielo, Terry!»
Il ragazzino annuì silenziosamente.
«Sì» rispose Bart. «Prendo tutto il resto, se mi accerti che non è appartenuto a nessun un cadavere.»
«Ci giuro la mano» disse lui mettendo in mostra le cinque dita grosse, tozze e piene di peli neri sulle nocche. «E io con le mani ci lavoro.»
L’uomo afferrò un grosso pezzo di legno con due lunghe aste simmetriche sui lati che sembravano delle braccia, e lì dispose per lungo i vari pezzi dell’armatura.
«Sarà difficile da portare con te, magro come sei. Se vuoi lui ti può dare una mano o due, eh, Terry?»
Il ragazzo annuì distrattamente, intento molto di più a continuare a battere il martello sull’incudine, dove la lama che stava lavorando era ormai divenuta incandescente.
«Posso fare da solo.» disse, pensando invece a quanto sarebbe stato arduo riscendere dalla collinetta scoscesa con in mano quel pilastro d’acciaio e legno.
«L’alternativa sarebbe indossarla. E non credo ti convenga.»
«No, infatti.»
«Per ultima cosa, buon giovane, scegli l’elmo che ti piace di più». Garmold ne avvicinò uno spesso, scuro, dalla larga visiera bucata e rigonfia. «Questo ti costerebbe più degli altri». Gli diede un paio di leggeri colpetti sopra. «Ma ne vale due, ti dico io. Lo ha fatto lui con le sue manine, sai? Sei diventato più bravo, eh, Terry?»
«Lo prendo allora». Bart si concesse un momento per osservare il giovane Terry compiaciuto dal suo gesto, orgoglioso della sua scelta, gratificato.
«D’accordo.» disse Garmold dandosi una pacca sulla pancia sormontata da addominali prorompenti. Poi adagiò il grosso manichino di legno coperto d’acciaio sul pavimento dietro di sé. «Ti do tutto a quattro ori e centotrentadue argenti. Un prezzo che non trovi d’altre parti, ti assicuro. E poi è tutto così forte quello che hai preso. C’è chi ti chiederebbe perfino di più.»
Bart portò avanti la sua casacca ed estrasse il sacchettino di cuoio pieno di monete che gli aveva lasciato Dalton, gettandolo, poi, a capofitto sul bancone di legno. Quando il laccetto si sciolse, il contenuto straripò sul legno come avrebbe fatto l’acqua di un fiume dopo un mese di pioggia copiosa. Il suono che produsse quel gesto, la dolce musicalità prodotta dallo scontrarsi delle monete, meravigliò Garmold e Terry a tal punto da fargli dimenticare il loro lavoro. E ciò che più li fece trasalire fu il colore di quel denaro: oro, completamente oro, luccicante e splendente come la luce delle stelle.
«Cavaliere! Giovane, giovanissimo amico» cominciò il fabbro con la salivazione quasi del tutto assente. Garmold non riusciva a distogliere lo sguardo da tutto quel bene caduto sul suo bancone. «Tu ci proponi più di quanto ti chiediamo. Quante sono tutte queste monete?»
«Molte, signore.» disse lui. “Quel povero Terry ha proprio bisogno di una nuova maglia di seta. E anche tu hai bisogno di una camicia, ora come ora.” pensò. “Amisa parlava di voce dei deboli. E tu, Terry, non hai più una voce. Ora, è necessario che tutti ne abbiamo una. E forte.”
«Prendetele tutte. E prendetele tutt’e due». Bart fu compiaciuto dal vederli sorridere sempre di più, mortificati e sorpresi l’uno più dell’altro. «Voi ne avete bisogno proprio come io ho bisogno di un’armatura.»
Bart, in effetti, non necessitava più di monete. Peraltro, ne aveva ancora un paio dentro le tasche interne della casacca, ma sapeva già che non le avrebbe utilizzate. “Ho usato quelle che dovevo usare per ciò che Dalton me le aveva date. Le monete erano destinate all’armatura e al torneo. Non appena sarà finito, le rimanenti torneranno ad Amisa, a Sette Scuri.”. «Sii altruista anche la notte.» diceva sempre Dalton. Quale miglior azione per dimostrargli che lui aveva imparato dal migliore?
«Ragazzo, credo proprio che non ci sia il bisogno di… insomma…» iniziò Garmold, ma i suoi occhi luccicanti contraddicevano ogni sua parola.
«Non ho finito.» disse Bart fermandolo in partenza. «Voglio anche una spada, una delle tue più grandi, forti e robuste.»
Garmold si guardò alle spalle e si scambiò un’occhiata con Terry. «Te ne darei tre, di spade, se le avessi.»
«Me ne basta una.» replicò Bart.
«L’unica che ho. Oh, e ti darò anche uno scudo!» fece Garmold. Poi si girò verso l’atterrito Terry, il martello ancora in mano. I suoi occhi passarono lungo la lama appena forgiata dal suo giovane compagno. «Il vecchio Corbran Roosevelt potrà pure aspettare, eh, Terry?»

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Note d'autore
In questo periodo sono estremamente impegnato, talmente tanto da non essere riuscito a rispondere a tutte le vostre magnifiche recensioni, né a molti dei messaggi privati che mi sono stati inviati. Ci tengo a scusarmi per questo, nonché per un aggiornamento a quest'ora... non potevo fare altro. 
Per me, scrivere questo capitolo è stato piuttosto divertente. Finalmente, rivediamo quel lato dell'animo di Bartimore che lo contraddistingue: la sua straordinaria bontà (cosa con cui eravamo entrati in contatto già precedentemente [vd. cap. II]). Che impressione vi ha dato il giovane e gracile Terry? E cosa pensate del gesto di Bartimore? Il cavaliere si è fatto dare una spada in cambio, riuscite ad ipotizzare per quale motivo? Ricordiamo che lui possiede già Lungacresta, l'ancestrale spada affidatagli da Dalton Kordrum!
Devo proprio scappare ora, un ringraziamento a tutti e ancora tante scuse!
Makil_

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Capitolo 16
*** XVI ***


Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
Castellano: figuro (molto spesso un esperto) incaricato di reggere, in vece del sovrano al quale è subordinato, un altro regno, un piccolo borgo o una cittadina appartenente all'uomo cui giura lealtà. 

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Passare tra i tendaggi decolorati dalla notte, facendo attenzione a posare i piedi sul terriccio umido e non su dei sassi franosi, con in mano quel grosso assemblaggio di legno e acciaio, fu un’impresa non poco complicata.
Era impossibile non notare che fosse notte già da un po’. La mezzaluna splendeva alta nel cielo, accanto a lei le stelle tingevano di luce le tenebre, dando quasi vitalità a quella notte fresca. Passando tra i viali sterrati dell’accampamento, Bart fu costretto a fermarsi un paio di volte per rilassare le braccia dal peso di ciò che stava portando. Accanto a lui, un piccolo fuoco stava ardendo su una pira, circondato in ogni lato da un gruppo di cavalieri in armatura totalmente assopiti l’uno sulla spalla dell’altro. L’aria era satura dell’odore della notte, di quel brivido che entra nella pelle, rinfresca l’erba ed inumidisce il terreno; quel freddo lieve che basta per far capire a tutti che è ora di ritirarsi a dormire. Tutto taceva ora e ognuno era nascosto dietro la propria tenda. Il silenzio incombeva sul campo, facendolo apparire diverso dalla sua versione mattutina.
Lo stesso, però, non si poteva dire del pioppo vigoroso che cresceva vicino al suo padiglione, immobile sotto la coltre oscura di tenebre nel cielo. Lenticchia stava brucando delicatamente l’erba, emettendo di tanto in qualche nitrito di lamento. “Magari rabbrividisce qui.” pensò Bart passandogli accanto e facendogli scorrere la mano sul dorso. Accanto, il palafreno di Esmerelle agitava la coda da un lato all’altro sferzando l’aria rapidamente, gli occhi puntati su di lui. Oltre alla loro presenza non c’era nessun altro. Bart si era aspettato di trovare un indaffarato ed impaziente patres Steffon sotto alle fronde pioventi dell’albero, eppure dell’esperto non c’era nemmeno l’ombra. Il giovane cavaliere aprì le cortine della tenda con una sola mano e si precipitò in quello che ormai era il suo padiglione.
Trovò Esmerelle sul letto di paglia, le tendine appena richiuse tutt’attorno. Posò l’armatura in un angolo del padiglione e lasciò cadere la casacca ormai quasi del tutto vuota sul mobiletto accanto al letto, insieme allo scudo che Garmold gli aveva regalato. Il suo mantello e Lungacrestra giacevano lì accanto, il primo ripiegato accuratamente, la seconda distesa al suolo, silenziosa e gelida nel suo fodero marrone. Bart si slacciò la cintola a cui era legata la spada che aveva acquistato poco prima da Garmold, molto più piccola di Lungacrestra, ma tanto più affilata. Il fodero nuovo pendeva dal suo bacino senza neppure arrivare all’altezza del ginocchio. “Per lei andrà più che bene” si disse. La estrasse con un gesto fulmineo. La spada era dannatamente bella, lucida e sottile. Una curvatura l’attraversava nella lama perfettamente affilata ed adeguatamente spuntata, che rifletteva con nitidezza i bagliori di due ceri lasciati a bruciare sul mobiletto. “Dovrà rimanere così per ora, intaccata e pura. La sua era una promessa. E le fanciulle non utilizzano le spade in mezzo ai cavalieri”.
Avrebbe voluto donargliela da sveglia, mentre lei poteva sentirlo, lodarlo e, perché no, ringraziarlo, ma seppe che non c’era modo di attendere. Doveva trovare Ortys Wysler e patres Steffon al più presto, raccontare loro cosa aveva sentito, informarli del pericolo che incombeva sul campo e dell’intrigo che correva tra le vie sterrate come un cavaliere a cavallo, pronto a falciare via numerose teste dal loro collo. Non c’era tempo da perdere, si disse, loro dovevano sapere. E dovevano farlo subito.
Si avvicinò di qualche passo al corpo dormiente della fanciulla con cui ormai aveva imparato a condividere la sua avventura. “Un’avventura che sta per terminare. E per te, Esmerelle, dovrà terminare prima che sia davvero finita”. Il viaggio di ritorno al padiglione gli aveva dato modo, tra le tante altre cose, di riflettere a lungo sul da farsi. Aveva pensato alle possibilità di risvolta e aveva notato con immenso dispiacere che non ce n’erano molte. E seppure queste esistevano, Esmerelle non avrebbe dovuto averne a che fare. Lei era una ragazza, una fanciulla, e tra qualche anno sarebbe stata donna a tutti gli effetti. E lei non doveva avere modo di vedere tutto quello che stava per accadere, tramato nelle menti dei più odiosi uomini nel campo. Lei, Esmerelle, era venuta fino a Roshby con Bart solo per assistere al torneo. C’era stato un tempo in cui aveva pensato che l’onore cavalleresco fosse qualcosa di straordinariamente potente, in grado di vincere le peggiori difficoltà della vita. Gli aveva detto che desiderava tanto vendetta per ciò che le era successo, qualcosa che solo l’onore, solo il torneo avrebbe saputo darle. Ma se avesse visto che non c’era onore neppure nell’evento più onorevole mai proposto dall’Accademia, che ne sarebbe stato delle sue speranze di rivalsa?
Bart era più che convinto a non permetterle di vedere oltre. Lui avrebbe fatto di tutto pur di risparmiarle quella vista.
Per poco più di metà coperto da una leggerissima coperta di seta, il corpo sinuoso e delicato di Esmerelle era disteso su quel materasso. Il solito corpetto di cuoio, ancora un po’ bagnato d’acqua del laghetto in cui era stato lavato, le stringeva il petto e le metteva in risalto le forme. Bart si prese un momento per ammirare la bellezza della ragazza che aveva di fronte. Il suo volto longilineo era puro, coperto da una pelle chiarissima, perlacea. I suoi occhi erano grandi, simili a quelli di un cerbiatto. I lunghi e foltissimi capelli biondi le ricedevano sulle spalle a ciocche splendenti, contornandole il viso in una cornice d’oro fuso.
Bart posò la lama accanto a lei, qualche passo lontano dai piedi del letto, scoperta. Al risveglio avrebbe avuto modo di vederla, lì, pronta a difenderla: dopotutto sarebbe stata utilizzata proprio questo scopo. Ma adesso, mentre le tenebre incombevano tutt’attorno al campo, e mentre il gelo si levava da sud, a difenderla ci sarebbe stato il padiglione di cuoio, innalzato come una guardia insonne pronta a calare la sua lama contro i briganti della notte. E, almeno fino ad allora, con lei ci sarebbe stato lui, ser Bartimore di Fondocupo, intenzionato più che mai a preservare la sua purezza.
Uscì dalla tenda di corsa, diretto verso il padiglione di Ortys Wysler. Ora che si era liberato del peso dell’armatura, del legno, della casacca e della spada, camminare gli venne molto più semplice. Attraversò una piccola stradina di terra battuta, oltrepassando un cavaliere assonnato a guardia di due piccole braci su cui giravano due maiali cotti e pronti per essere serviti ad un banchetto. “Si bruceranno” pensò.
Il padiglione del signore di Ardua Scogliera era spento, buio e silenzioso. “Troppo, per appartenere ad Ortys Wysler”. Davanti alla cortina d’ingresso un cavaliere dall’aria regale bloccava l’accesso, l’alabarda d’acciaio piegata su un lato. Bart conosceva quell’uomo, ma non la sua arma.
«Ser Konrad» salutò posizionandosi di fronte lui. L’uomo non l’aveva neppure visto arrivare. Ammiccò un paio di volte prima di rispondere al saluto e parlargli con fare impacciato.
«Ser Bartimore, che ci fai qui?». La mascella squadrata di ser Konrad si mosse appena.
«Devo vedere Ortys.» spiegò velocemente mettendo un piede in avanti. «E devo parlare con patres Steffon. Al più presto».Pronunciò quelle parole con più violenza del previsto.
L’uomo non spostò di un passo l’alabarda. «Non potrai farlo, ser Bartimore. Né questa sera, né la prossima.»
«Che vuoi dire?» domandò perplesso.
«Voglio dire che il mio signore è partito questo pomeriggio, dopo pranzo. E con lui è andato via anche il patres. Mi spiace, ser Bartimore. Se si trattava di qualcosa di veramente importante, saresti dovuto venire prima.»
«Che significa?» chiese incapace di trovare un senso a quella prima risposta. «Dove sono andati? E quando torneranno?». La furia con cui pose quelle due domande gli fece dolere la mandibola non ancora del tutto sanata.
«Un impegno, ser Bartimore. A noi uomini della sua scorta non è dato sapere né come né dove né perché. Mi hanno comunicato di tenere il padiglione per loro e non far entrare nessuno. Non devono essere andati molto lontano, da quel che ho capito. Parlavano di una locanda, di un’importante riunione. Li ho sentiti parlare di casa
«Una locanda? Che locanda?»
«Una locanda su un certo fiume… qui al Nord è tutto così diverso… io non conosco molto. Dicevano che dovevano incontrare un uomo. Oh! Non chiedermi chi sia o chi non sia. Non ho altro da dirti a riguardo.»
Bart chinò il capo. Com'era possibile tutto ciò? Ortys era andato via senza neppure informarlo. E patres Steffon lo aveva seguito: strano per un uomo come lui, uno così legato ai suoi principi a alle sue promesse, venir meno ad un impegno. Dopotutto era mancato all’appuntamento che aveva preso con Bart. Perché?
Bart si rivolse di nuovo a ser Konrad, ormai passato in posizione di riposo, l’arma tenuta piuttosto vicino a petto. «Sai quando torneranno?»
«Un giorno di marcia per andare, uno per tornare. L’impegno non richiederà più di alcune ore. Credo che saranno qui a torneo inoltrato.»
«Torneo inoltrato?» domandò stupefatto Bart.
«Sì, non hai sentito?» chiese a sua volta ser Konrad, la bocca semiaperta ripiegata in un sorrisino severo e distorto. C’era un che di fastidioso in quell’espressione. «Qualche ora fa hanno comunicato l’inizio del torneo. Ser Bartimore, insomma, sei stato o no al campo di Roshby? Faresti meglio a prepararti: le gare avranno inizio domani!»
Una cosa che non poteva aspettarsi di sapere così, con tanta fretta. Si sentì come confuso, in un modo che non era più quello che aveva lasciato a Sette Scuri. Tutto stava andando avanti troppo rapidamente, nel vortice di un oscuro intrigo che avrebbe comportato solo spargimenti di sangue. E lui, l’unico a poterlo sapere, non aveva modo di parlarne con nessuno. Si trovava come bloccato, incatenato nel bel mezzo di una valle ricoperta dalle spire di centinaia e centinaia di vipere velenose. Poteva mettere a tacere quello di cui era a conoscenza e fare finta di non averlo mai udito, legarlo con un nodo alla gola ed inghiottirlo insieme ad un grumo acido di disprezzo e rabbia repressa, ma sarebbe stato onorevole ed umano?
Mai come allora Bartimore si era sentito tanto disorientato. Fino a quel momento non si era reso davvero conto che la repentina scomparsa di Ortys avrebbe davvero implicato il non averlo più al suo fianco. Con chi si sarebbe sfogato ora che se n'era andato? Sarebbe stato troppo tardi quando avrebbe fatto ritorno, una volta che il torneo era già iniziato? Su di lui gravava una congiura, un inganno che nella sua assenza sarebbe stato modellato e perfezionato dai ribelli. Avrebbe fatto in tempo per ricongiungersi con Bart?
Il giovane cavaliere ringraziò ser Konrard e fece per andarsene istintivamente, smarrito in una valanga di dubbi.
«Un’ultima cosa» disse voltandosi un’altra volta. Ser Konrad era già tornato in posizione di difesa.
«Dimmi cos’altro vuoi sapere.»
«Sai dove si trova il padiglione di Melkor Winemors?» domandò.
«Se lo so?» fece lui. «Mi pare proprio di sì, ser Bartimore». Poi indicò una tenda verde acqua poco lontano dalla loro postazione, molto grande e vistosa. La punta di quel padiglione era sormontata da alcune borchie d’acciaio. «Dovrebbe essere quella lì. Perché me lo chiedi?»
«Voglio che tu sappia che questa notte, lì vicino, ci sarà un incendio. Il fuoco brucerà il cavallo di Melkor Winemors e lui sarà costretto a prenderne un altro. Una cavalla, se proprio dobbiamo dirla tutta.»
Ser Konrad non capì. Bartimore si pentì di averglielo detto, poco conscio del motivo per cui lo aveva fatto.
«Non capisco.» evidenziò lui corrugando le sopracciglia. Per un momento si scompose di nuovo, l’alabarda al fianco, questa volta, più che in posizione di riposo, totalmente disorientato. «Davvero non capisco cosa vuoi dire.»
«Vedi di startene dentro quando accadrà. E non dirmi che non ti avevo avvertito.»
Poi Bart si girò lasciando il cavaliere e la sua alabarda nell’ombra del campo buio, insieme immersi l’uno nella rigida severità dell’altro.
Tornato nella sua tenda Bart non poté che ripiegarsi a pensare e ripensare a tutto ciò che gli era successo in così poco tempo. Dubbi, proposte, riflessioni, certezze e interrogativi gli risalirono dai piedi fino al capo, coprendolo come avrebbe fatto una coperta di seta. Accoccolato su se stesso accanto al letto, vicino all’elsa della spada gelida di Esmerelle, Bart, senza neppure farci caso, si perse in un mondo di incertezza ed esitazione, di illogici dubbi e fastidiose perplessità, prima di cadere in un sonno profondo e senza sogni.

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Note d'autore
Ancora una volta sono costretto ad aggiornare di domenica pur di non lasciarvi senza un capitolo settimanale; domani non avrò proprio modo di dedicarmi anche solo un secondo ad efp, quindi ho preferito prendere al volo lo squarcio di tempo di oggi. Una serie di problemi, purtroppo, mi stanno tenendo lontano dal pc, impossibilitandomi numerose attività: tra cui, mio malgrado, la scrittura. Prima di ogni altra cosa, perciò, ci tenevo a scusarmi qui per essere mancato alla consueta recensione alle storie dei miei fidati recensori Innominetuo e Fan Of The Doors: farò del mio meglio per recuperare il prima possibile!
In questo capitolo, che possiamo dividere in due parti, succedono un paio di cose che, nonostante non sembri, sono molto rilevanti. Bartimore si confronta con una dormiente Esmerelle, e si pone di fronte numerosi problemi. Il cavaliere sta cambiando dentro di sé: cosa pensate di questo principio di trasformazione? E' la paura che possa accadere qualcosa di brutto ad Esmerelle a farlo penare, o c'è dell'altro? 
Ma la cosa più importante si trova nel secondo spezzone del capitolo: Bartimore si confronta con una vecchia conoscenza, ser Konrad, il quale gli riferisce qualcosa di molto scombussolante. Dove sono andati Ortys e patres Steffon? E perché fuggire tanto rapidamente, senza informare nessuno, neppure i membri della loro scorta? A voi le teorie!
Un grazie a tutti coloro che continuano in ogni modo a sostenermi; lettori attivi e silenziosi! Il prossimo aggiornamento sarà di passaggio verso qualcosa che in molti aspettano dalle prime righe della storia, a presto cari!
Makil_

 

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Capitolo 17
*** XVII ***


Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
Castellano: figuro (molto spesso un esperto) incaricato di reggere, in vece del sovrano al quale è subordinato, un altro regno, un piccolo borgo o una cittadina appartenente all'uomo cui giura lealtà. 

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La mattina seguente, invece che dal canto di un gallo, ogni cavaliere fu svegliato dall’incoraggiante suono di trionfo dei numerosi araldi sparsi per il campo, ognuno dei quali intento a bandire un solo ed unico messaggio: il torneo di Roshby era ufficialmente iniziato.
Bart ed Esmerelle avevano fatto colazione insieme fuori dalla tenda, nel piccolo spazio accanto al pioppo in cui avevano allestito un tavolo di pino scuro coperto dalla tovaglia rossa a chiazze bianche che la ragazza aveva trovato in un mercato poco vicino. Bartimore, malgrado non fosse un ottimo pescatore, era riuscito ad acciuffare un paio di pesci guizzanti nel laghetto poco vicino, facendo in modo di averli prima degli altri cavalieri affamati. Esmerelle, invece, si era procurata un paio di legna e qualche pietra per accendere un fuoco mattutino. I due si erano svegliati quasi contemporaneamente all’alba, entrambi in ansia per il torneo. Con l’unica differenza che, se Esmerelle lo era per gli scontri mozzafiato cui avrebbe assistito, di Bart non si poteva dire lo stesso.
Fecero colazione con il pesce abbrustolito sul fuoco, ed entrambi mangiarono più di quanto avevano previsto. Esmerelle fremeva dalla voglia di andare al campo, ancor più eccitata per aver ricevuto la sua spada. Quando l’aveva vista ai piedi del suo letto, riconoscendo che quella non fosse affatto Lungacresta, Esmerelle si era lasciata sfuggire un gemito di stupore. Aveva ringraziato Bart tre volte prima di impugnarla saldamente.
«Ti calza a pennello» le aveva fatto notare lui sorridendo. Esmerelle era stata ad un passo dal corrergli incontro per abbracciarlo, ma il suo animo scontroso e freddo aveva domato quello più dolce impedendole di fare qualcosa del genere: Bart, oramai, sapeva riconoscere anche quello. Non si era sentito offeso , per niente: meno avrebbe continuato ad affezionarsi alla ragazza, meno avrebbe sofferto al momento della sua partenza. Infatti Bart aveva deciso che, dopo aver assistito ad almeno due giorni di torneo, la ragazzina bionda sarebbe tornata a casa, a Werny, dal devoto Baricald, malgrado tutto e tutti. Non c’era spazio per lei in quel luogo di assassini e cospiratori, e non c’era posto per lei nella tenda di un cavaliere che avrebbe combattuto per Dalton Kordrum fino alla morte. Se le Grazie lo avessero voluto, Bart sarebbe tornato a prenderla a torneo concluso… sempre che fosse nei desideri della ragazzina. E allora le avrebbe fatto vedere i regni aldilà degli Artigli innevati, i luoghi delle Terre dei Venti in cui era cresciuto e che l’avevano reso ciò che era ora: un uomo ormai fatto, pronto a dimostrare quanto valeva la sua parola e quanto forte era il taglio della sua lama. Bart le avrebbe presentato Amisa, l’elegante signora di Sette Scuri, e l’avrebbe portata in giro per le stradine che aveva percorso insieme a Dalton Kordrum, dopo averla fatta conoscere, magari, anche a quest’ultimo, nella tomba che era stata innalzata per lui nel Giardino di Roccia del regno.
Esmerelle aveva inflitto un paio di fendenti sghembi all’aria, giusto per provare a maneggiare un po’ l’arma.
«Dovrai darle un nome» le aveva suggerito Bart. «Solitamente ogni spada importante ha un nome importante.»
«La chiamerò Esmerelle, proprio come me e la Regina del Colloblu» aveva risposto lei.
Al che Bart si era lasciato sfuggire una risata: quantomeno si era ricordata della Regina. «Non puoi chiamarla come te.»
«E perché no?» aveva chiesto. «Almeno potrò dire che Esmerelle può uccidere qualcuno, se lo vuole. E che Esmerelle è affilta… e tagliente
«Potrai dirlo anche senza chiamarla col tuo nome» le aveva detto Bart. «E non dovrà uccidere nessuno, quella spada. Almeno finché sarai sotto la mia protezione. Su questo mi sembrava di essere stato abbastanza chiaro.»
Finirono di fare colazione quando il sole iniziò a splendere alto nel cielo. Un araldo poco vicino stava continuando a suonare la sua tromba tenendola con entrambe le mani. Sul su cappello a punta rosso svettava una lunga bandierina bianca, immobile ed in parte afflosciata sulla spalla.
«Armi in pugno, cavalieri del Nord e del Sud! Armi in pugno, cavalieri dell’Ovest e dell’Est! Oggi come mai le armi cozzeranno come leoni affamati! Armi in pugno valorosi combattenti!»
La sua voce squillante si disperse nel campo, ma fu presto sostituita da quella di un altro ometto tarchiato vestito come il primo. Gli araldi avevano tutta l’intenzione di svegliare chi ancora dormiva, nascondendo quella loro reale intenzione con cori e urla dall’aria trionfale.
«Dovremmo entrare ora. È tempo che io indossi la mia armatura.»
Esmerelle trattenne un risolino. «Ti vedrò vestito da cavaliere, Bartimore. Non riesco ad immaginarti con un’armatura.»
«Dovrai farlo» rispose lui alzandosi da terra. Tutto quello stare piegato sulle ginocchia gli aveva iniziato a dare dolori. «E dovrai anche aiutarmi ad indossarla.»
Quel giorno Esmerelle gli fece da scudiero. La ragazzina si apprestò a rispettare fremente il compito datole da Bartimore e fece come gli veniva suggerito, aiutandolo nell’indossare ogni cosa, a partire dalla piastra pettorale. Bart aveva già indossato la gorgiera in cuoio a protezione del collo, stretta sotto il mento come la ferrea presa di un uomo. Prima di calarsi addosso l’usbergo, Bart aveva calzato una semplice camicia di seta soffice e vellutata. Dopo essersi infilato i calzari di cuoio, disse ad Esmerelle di passargli le ginocchiere e li fissò alle ginocchia, poco sopra gli schinieri già perfettamente agganciati.  Poi fu il turno dei cosciali, che incastrò attorno alla gamba e sopra le ginocchiere. La ragazzina gli passò alle spalle e gli strinse la piastra pettorale nella schiena attraverso le giunture di cuoio. Bart sistemò accuratamente quel pezzo dell’armatura, lucido come se fosse nuovo, conoscendone l’importanza. Nella sua mente risuonava l’eco delle parole austere del suo signore: «Nessun’armatura può difenderti più della tua stessa forza. Non esiste acciaio in grado di fermare il male, Bartimore. È il riconoscere le nostre debolezze l’unico scudo di cui abbiamo bisogno». Attaccò Lungacresta al fianco facendola ondeggiare un paio di volte nel legare il fodero alla cintola. Il rumore dell’acciaio inondò il padiglione; quel suono era uno spruzzo di vitalità cavalleresca in un mondo che da cavalieri aveva ormai poco.
«Mi passeresti i guanti?» chiese Bart sistemandosi gli schinieri un po’ stretti.
Esmerelle annuì e si affrettò ad andarli a prendere sul mobiletto di fronte. Bart indossò i guanti di cuoio solo dopo aver incastrato per bene i bracciali.
«Ti mancano le manopole» fece notare la ragazzina che lo stava osservando con le braccia conserte al petto. «Mia nonna diceva sempre che un cavaliere senza manopole è come una porta senza maniglia.»
«Tua nonna aveva ragione: le mani sono molto importanti, in effetti.» constatò lui. «Sono lassù, guarda, sul manichino.»
Esmerelle gliele portò immediatamente. Bart si fece passare l’infula sul capo e strinse un nodo sotto al mento. Imbottito com’era, i colpi non avrebbero di certo causato alcun dolore. Sicuramente non più di quanti già non ne avesse a causa dello scontro con Wictor Wyndwat. La mandibola era tornata a dolergli da un paio di ore e Bart era ora più irrequieto che mai.
Si fece scorrere le manopole sulle mani aperte, sopra i guanti di cuoio. Aprì e chiuse le dita un paio di volte, giusto per assicurarsi che potesse muoverle ancora sotto tutti quegli strati di protezione.
Non appena fu pronto, Bart si alzò per prendere l’elmo. Aveva deciso di non indossarlo per il momento, sicuro che sarebbe stato solo un peso maggiore da sopportare nell’attesa di gareggiare. Effettivamente non sapeva quando lo avrebbero chiamato e contro chi si sarebbe dovuto scontrare. Era una qualcosa che Wolbert Dorran, tra le tante altre, non aveva saputo garantire. Assicurò sottobraccio l’elmo e spalancò la cortina della tenda con la sinistra, tenendo l’altra mano poggiata sull’elsa di Lungacresta. Esmerelle lo precedette, la spada anonima pendente dal bacino. Il sole baciò il cavaliere e la fanciulla bionda, e riservò loro il miglior saluto della giornata.
«Quella è meglio se la lasci qui» suggerì Bartimore riferendosi alla lama di lei.
Esmerelle lo guardò torvo prima di rispondergli. «Hai paura che la utilizzi, eh, Bart?»
Bartimore la fissò per un po’ prima di aprire bocca invano. La ragazzina lo precedette anche nel rispondere.
«La lascerò, allora. Non ho intenzione di darti problemi. Ne hai già uno, vedo.»
Bart si fece guardingo. «Non capisco. Quale problema vedi?»
Esmerelle si catapultò nuovamente fuori dalla tenda, sotto ai raggi del sole. Afferrò la mano di Bart con un gesto repentino. La stretta che gli riservò fu dolce e delicata, ma quasi impercettibile oltre gli strati che l’avvolgevano. Bart continuò a non capire, ma giurò di essere diventato di colpo rosso come un pomodoro. Non si sarebbe aspettato mai un gesto del genere da quella ragazza. Fu una fortuna per lui l’essere coperto da tutti quegli strati di protezione sul volto, forse lei non avrebbe scorto il suo imbarazzo.
«La manopola non era agganciata bene. Hai già dimenticato le parole di mia nonna? Un cavaliere senza manopole…»
«Sì, lo so.» fece il giovane cavaliere mettendola a tacere.
Esmerelle piegò il capo e lo guardò torvo. «Vedi, Bart? Dovresti fare più attenzione.»

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Note d'autore
Dopo ben diciassette capitoli esatti, il gran torneo di Roshby è ufficialmente iniziato, e il campo della cittadina non può che essere immensamente esaltato a causa sua. In questo capitolo di transizione, Esmerelle riceve il dono del suo compagno di viaggio, il quale ha ormai fatto le sue decisioni, a notte conclusa. Il cavaliere è pronto a battersi nel nome di Dalton Kordrum, armato e rivestito di acciaio, e ora non può che far tutto il possibile per dedicarsi in toto alle giostre che lo attendono. Eppure, qualcosa pare stia iniziando a germogliare in lui... di cosa potrebbe trattarsi? 
Quali sono le vostre opinioni a questo punto della storia? Cosa vi aspettate da torneo (evento che prenderà vita nel prossimo capitolo)? E cosa pensate possa accadere d'ora in poi? 
Nell'attesa di proseguire verso il campo insieme ai due giovani protagonisti, vi propongo una domanda molto misteriosa e dal valore inestimabile: secondo voi, perché Ortys e Steffon sono stati costretti ad allontanarsi da Roshby con così tanta fretta? Buttate in campo le vostre teorie; premierò le migliori! 

++Volevo comunicare inoltre che, sperando nel vostro piacere, nella mia home (esattamente nella sezione della biografia) è stato rivelato il titolo del "romanzo" che seguirà a "Il cavaliere e la fanciulla bionda", alludendo alla possibilità che di Pantagos ne avremo ancora per un bel po'. Spero di avervi fatto un regalo serale con questa nuova... e così vi lascio. 
Al prossimo aggiornamento [lunedì 15]
Makil_

 

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Capitolo 18
*** XVIII ***


Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
Castellano: figuro (molto spesso un esperto) incaricato di reggere, in vece del sovrano al quale è subordinato, un altro regno, un piccolo borgo o una cittadina appartenente all'uomo cui giura lealtà. 

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La folla si accaniva con urla e boati contro il campo sterrato ancora vuoto. Per quanto anche gli spalti fossero ancora abbastanza liberi, i vocii della moltitudine di persone già sedute sulle panche lasciavano presagire il peggio per ciò che sarebbe arrivato in seguito.
Esmerelle e Bart avevano preso posto in una lunga panca della terza fila sul lato ovest. Da quel punto, almeno per ora, la visuale sembrava delle migliori.
Bart si era reso conto troppo tardi di quanto potesse fare caldo con tutte quelle protezioni addosso. Aveva lasciato Lenticchia nella stalla che si estendeva dietro e sotto gli spalti del campo, affidandone le redini allo stalliere mezzo ubriaco e stordito da un risveglio caotico. Il cavallo si era separato da lui guardandolo con occhi scuri e profondi, ma senza aggiungere un solo nitrito. “La mia giumenta avrebbe scalciato” pensò ricordandola. “Chissà dov’è ora. Starà galoppando?”
Il campo che era stato innalzato per l’avvenimento era uno dei più grandi che Bart avesse mai visto. C’erano due linee di lizze nell’arena sterrata, ma per il torneo ne avrebbero utilizzata solo una per turno. Lo spazio dedicato al combattimento era delimitato da staccionate di legno scuro, alle cui spalle s’innalzavano le quattro enormi e lunghe file di spalti sorrette da file altrettanto alte di palizzate chiare. Nella zona centrale, sotto agli spalti del lato est, era stato eretto un palchetto di legno su cui erano posizionati tre scranni rifiniti in oro. In quello centrale sedeva il sonnecchiante Wolbert Dorran, per l’occasione vestito di sete variopinte che andavano dal rosso al viola, dal giallo all’arancione. Sul capo calzava un cappello dalla larga visiera con un pennacchio dalle mille gradazioni di colori. Era impossibile non far ricadere gli occhi sul suo abbigliamento stravagante e al tempo stesso lussuoso. Alla sua sinistra, a gambe e braccia incrociate, faceva capolinea Theodas Wadpayn, l’uomo che, a detta di molti, aveva finanziato sfarzosamente il  torneo affinché riuscisse nel migliore dei modi. Il signore di Stonespike aveva un’aria severa e rigida, in perfetto contrasto con i sorrisi distorti che sfoggiava, invece, Wolbert Dorran. La sua fronte era aggrottata e solcata da appena qualche ruga di vecchiaia a simboleggiare la sua profonda saggezza. La zazzera di capelli rossicci sul capo splendeva come oro illuminato dai raggi del sole, allo stesso modo in cui brillava la sua barbetta brizzolata. L’uomo indossava un panciotto di cuoio ed un lungo mantello rosso come il vino che stava sorseggiando. Quello che più lo rendeva fiero era il portamento con cui reggeva al fianco la sua enorme spada. Alla destra del castellano di Roshby sedeva, invece, Elmor Brasengard, il nobile signore di Brasengard, che Bartimore aveva conosciuto qualche anno addietro al torneo indetto da Dalton Kordrum per la nascita di una sua lontana nipote. Egli era un giovane signore, molto abile con la spada e con le parole. I lunghi capelli castani gli cadevano a ciocche sulle guance glabre, in parte sorretti da una coroncina di ferro grezzo. Aveva occhi lunghi e profondi, su un viso bianco e dai lineamenti appuntiti. Il giovane signore vestiva un lungo abito color sabbia, stretto al petto da un’elegante giacca marrone a cui erano abbinati i due lunghi guanti e i due scuri stivaletti. Sull’intero vestiario era ricucita una fantasia a fiori che si attorcigliava con delle spire attorno al suo corpo.
Esmerelle stava cercando di darsi da fare per poter vedere qualcosa oltre l’ammasso di teste e spalle robuste che si erano posizionate davanti a loro. Non appena capì che non c’era modo di vedere nulla, la ragazzina si mise in piedi sulla panca. Bart, invece, riusciva ancora ad avere una buona visuale della scena. Un uomo stava assicurando al terreno le lizze con un martelletto di piombo che le scalfiva ad ogni colpo. “Non sono così robuste come dicevano” notò Bart. Il giovane guardò un po’ in giro per gli spalti ormai gremiti di folla. 
Poco lontano dalla sua postazione, scorse ser Dayn insieme ad un’altra combriccola di cavalieri, tutti ammantati d’acciaio dalla testa ai piedi. Nella parte opposta alla sua, per miracolo delle Grazie, sedeva uno stufo e nervoso Wictor Wyndwat, la spada sporgente dalla spalla e l’armatura più lucida che mai. Accanto al palchetto dei tre nobili signori, Bart poté vedere con piacere anche la presenza del fabbro Garmold, la schiena poggiata alla parete di legno della palizzata, che aveva indossato una camicia di lana sottile e un paio di brache meno logore delle solite. Gli occhi di Bartimore andarono alla ricerca di Ortys Wysler, impossibile da non notare. L’uomo, ovviamente, come aveva predetto ser Konrad, non era presente. Bart sperò almeno che non gli fosse accaduto nulla di male. Per quanto ne sapeva, dal momento che ser Konrad era stato molto vago sui fatti, non poteva affermare nulla con certezza.
In mezzo al clamore della folla, Bart scorse un’imponente ser Mold in armatura d’acciaio consumato, più poderoso e grosso del normale. Negli spalti che si estendevano a sud, invece, una folla di cavalieri si raccoglieva attorno ad un signore dall’aria consumata, i capelli rasati e la barba ispida. Poco distante da quel crocchio, Darrick Sunfall si ergeva con aria ridente tra due signori che stavano discutendo, intento a porgere loro delle parole di conforto ed un fiore dai petali bianchi. Il suo collo era percorso da un colletto d’acciaio che si estendeva in entrambe le spalle possenti ed alte. Sotto a quei pezzi d’armatura ricadeva un abito verde con svariate ricuciture gialle e bianche, ed un mantello più scuro che cascava fin oltre i suoi piedi come uno strascico. Qualche passo più avanti, Bart intravide anche Lemmon Cappa Rossa, incupito nel rosso delle sue vesti sgargianti. Il solito mantello rosso sangue pendeva dalle sue spalle, trattenuto da due fermagli a forma di mano. L’uomo teneva il lungo spadone dal pomolo con un grosso rubino centrale in mezzo alle cosce, immobile dentro il suo fodero di cuoio spesso.
La folla ricominciò a vociare quando Wolbert Dorran si mise in piedi e spostò indietro lo scranno. Al castellano bastò battere tre volte le mani per far sì che gli starnazzi della massa di persone sugli spalti s’interrompessero bruscamente.
Tutti si alzarono in piedi. Al fianco di Bart, Esmerelle prese a fissare con stupore tutta la scena.
«Carissimi signori e carissimi cavalieri del reame» cominciò con la voce strisciante e resa più debole dai continui mormorii della folla. «Se oggi siamo qui riuniti in gioco è per sopperire alla grave mancanza di rispetto che negli anni ci ha portato a combatterci l’un l’altro.»
Bart avrebbe fatto a meno di ascoltare tutte quelle parole vuote e prive di significato, utili solo a conferire teatralità al torneo. Ma non poteva di certo tapparsi le orecchie dinanzi a tutti quegli eleganti uomini che lo circondavano. Wolbert Dorran stava continuando il suo discorso, ormai nuovamente soffocato dai continui vocii.
«…e la pace imposta amorevolmente dall’Accademia. Il mio invito personale è quello di abolire definitivamente ogni nota di contrasto o di disprezzo passato. Il torneo è stato indetto per tale scopo, solo ed unicamente per permetterci di lavare l’onta di dissapori che hanno colmato negli anni i nostri cuori. Per mille anni o forse più, gli eroi delle nostre terre hanno combattuto minacce tanto più grandi porgendosi sempre la mano in forma di cordialità e rispetto. Dov’è finita tutta questa loro cavalleria?»
Sicuramente non nella tua torre, Dorran.” pensò disgustato Bartimore. Nel palchetto, Wolbert Dorran gesticolava nel parlare, chiudendo di tanto in tanto gli occhi, come se quel discorso fosse già stato ripetuto talmente tante volte da conoscerlo a memoria.
«…reciproco e scambievole. Ho lodato, insieme a tutti gli esperti presenti al nostro campo oggi, la volontà di ognuno di voi, buoni uomini. Voi che, richiamati a torneo contro i vostri rivali, avete saputo tralasciare gli antichi dissapori di guerra per dedicarvi alla sana competizione. Ahimè, un gioco che avremmo dovuto proporre prima…». Wolbert Dorran alzò al cielo le braccia e simulò una contorta espressione di dispiacere. «In onore di tutti i caduti nella sanguinosa Guerra Grigia che ci ha distrutti uno ad uno. Le mie condoglianze vanno a coloro che hanno perso qualcuno a causa della vergognosa battaglia scaturita nel nostro suolo per il disprezzo di non essere nati vicini. Spero che i vostri cuori propongano, allo stesso modo, la pace comune. E spero che le mie parole non siano per voi motivo di discussione…»
“Vergognati, uomo da quattro soldi. Con cos’è che ti hanno comprato?”. Bart si fece spazio con le spalle e tornò a sedersi, noncurante delle parole del castellano. Un gesto che non passò inosservato tra gli uomini che lo circondavano.
«…il torneo di bastoni con cui sarete chiamati a confrontarvi vedrà un solo vincitore…»
Quantomeno, la civiltà non era mai stata messa da parte a Pantagos, neppure durante dei giochi in cui si pensava potesse essercene di meno. I tornei dei regni erano garantiti da leggi accademiche che ne regolavano la loro sicurezza. I cavalieri potevano giostrare nelle quintane liberamente, a condizione che brandissero un’asta o un bastone. Era vietato fare uso di spade di qualsiasi genere, forma e materiale, per quanto in molti considerassero quelle di legno innocue e proponibili.
«…un messaggio di pace e fraternità, che possa spingerci ad accertati l’un l’altro, a prescindere dall’età, dalla cultura e dalla provenienza. Nella pace del reame, io, Wolbert Dorran, castellano della cittadina di Roshby, vi do il benvenuto ai tornei». Wolbert fece un profondo inchino «Nella speranza che possano svolgersi con correttezza: che vinca il migliore!»
Non appena l’uomo fu nuovamente seduto sul suo scranno, un piccolo ometto vestito di una lunga tunica si avvicinò alla pedana dei tre nobili reggendo una pergamena tra le mani. L’esperto si fece strada accanto alle lizze, superando con fare confuso i tre uomini seduti. Solo dopo essersi cimentato in una complessa apertura del documento che aveva tra le mani, prese a leggerne il testo.
«Il torneo è torneo» disse con un tono pomposo. «E, per tale ragione, vigono delle regole chiare e dettagliate, elargite con discrezione dall’Accademia sin dall’alba dei tempi. Punto primo: putacaso qualcuno dovesse perdere lo scontro e un arto, lo sfidante che ha causato ciò non è impegnato a risarcire il dolente per mezzo di qualsiasi pagamento che possa essere condotto dall’individuo umano. Punto secondo: non esistono e mai esisteranno principi che consentano l’utilizzo di armi non adatte al torneo. Con la seguente si intende limi…»
Serie di fischi e boati si levarono da tutti gli spalti. I cavalieri seduti nelle panche si alzarono ed iniziarono a vociare in coro. Un pomodoro andò a schiantarsi contro la tunica dell’anziano, che si macchiò non solo di salsa, ma anche di vergogna. L’esperto fu costretto ad avvolgere rapidamente la propria pergamena e a tornare, su consiglio di Wolbert Dorran, al suo padiglione.
Quando l’esplosione di voci e grida terminò, Wolbert Dorran, Theodas Wadpayn ed Elmor Brasengard si alzarono contemporaneamente. I due nobili al fianco del castellano sguainarono simultaneamente le loro spade lucenti e le innalzarono al cielo. Poi annunciarono insieme: «Possa la forza rendere grazie: che vinca il migliore!»
Da un angolo del campo, lo strombettio di un araldo comunicò l’aver udito quella formula e, dopo essersi esibito in un paio di suoni trionfanti, scandì ad alta voce i nomi dei primi due sfidanti: «Sua signoria Ensifer di casa Loodstock, signore di Sala del Falco, e sua signoria Emerard di casa Carwock, signore di Trionfo del Re!»
I due uomini vennero accolti da applausi e schiamazzi incoraggianti. Tutti gli spettatori erano in piedi sulle panche, così Bart fu costretto ad imitarli per riuscire a vedere. I due combattenti fecero trottare i loro destrieri a lungo prima di fermarsi l’uno di fronte all’altro, entrambi coperti dalle loro robuste armature, dritti sul dorso delle bestie. Ensifer Loodstock, il Grifone Dorato, indossava un’armatura nera come la pece dall’elmo possente e buio, sulla cui punta svettava un cimiero di piume bianche. Entrambi i cavalieri trottarono lungo i bordi della palizzata, acclamati dalle voci provenienti dalle tribune. Anche Bart si unì alla folla. Ambedue ghermivano in una mano una lunga asta che mantenevano alta verso il cielo, e nell’altra un vigoroso scudo di legno bordato d’acciaio. Ensifer Loodstock si spostò a sud, dove rimase ad attendere il suo avversario. Egli stava ancora ricevendo l’acclamazione del suo pubblico, intento ad incoraggiarlo e lodarlo. Emerard Carwock calzava un’armatura opaca dalle spalliere possenti e robuste. Il suo stallone nero era furente quasi quanto lui, la bocca macchiata da chiazze di saliva raggrumata. L’uomo fece avanzare il destriero verso nord, dove si posizionò con fermezza. Entrambi i cavalli scalciarono la terra un paio di volte, nervosi tanto quanto i loro padroni. Poi, Emerard Carwock si calò la celata sul capo, nascondendo alla luce il suo volto invecchiato.
Nel campo calò il silenzio, trasportato dall’evidente tensione sul viso di ogni spettatore. Perfino i tre nobili sul palchetto erano chiaramente tesi. L’araldo suonò una sola volta, poi il duello prese vita nelle mosse degli sfidanti.
E, solo allora, il torneo di Roshby ebbe veramente inizio.
Gli avversari partirono in corsa contemporaneamente sollevando dal terreno un ammasso di terra fine e secca. Dopo aver corso l’uno contro l’altro per un paio di passi, calarono le loro aste spuntate tenendole dritte a mezz’aria. Il Grifone Dorato galoppò violentemente verso l’avversario e solo alla fine della corsa avvicinò lo scudo al petto. Emerard non lo emulò. Non appena il suo sfidante raggiunse la metà della lizza, il signore di Trionfo del Re spinse di lato l’asta, illudendo Ensifer che stesse per scansarlo, e poi la riportò in linea con il percorso. L’asta di legno di Emerard s’impennò sull’armatura di Ensifer, che si sforzò dolorosamente per mantenere la presa sulle briglie. Quando il Grifone Dorato venne colpito al petto, il suo cavallo nitrì.
Emerard cavalcò verso sud con una marcia rapidissima e riportò l’asta al cielo, ancora per poco illesa. Il Grifone Dorato lo seguì alle spalle per un lungo tratto, poi raggirò verso nord. I due spinsero ancora le aste verso il basso e si puntarono per la seconda volta. I cavalli ripartirono in carica nitrendo di rabbia e i loro signori strinsero gli speroni sui loro fianchi. Di nuovo, i due avversari si ritrovarono a galoppare l’uno contro l’altro. Emerard mantenne fissa l’asta verso un solo punto dell’armatura di Ensifer: l’elmo. I due diedero di speroni e si scontrano ancora. L’asta di Emerard mancò l’obiettivo e colpì in pieno centro lo scudo del Grifone Dorato, che si frantumò in una pioggia di vernice e schegge di legno. Ensifer Loodstock gettò via lo scudo e tornò al trotto nella sua postazione a sud. Emerard caricò un’altra volta, senza neppure far riposare un attimo il suo destriero nero. In un battito di ciglia, il cavaliere fu di nuovo sul Grifone e la sua asta si infranse sul suo petto. Ensifer caracollò all’indietro e infine perse la presa e cadde da cavallo di schiena.
Ad annunciare la vittoria di Emerard Carwock non fu solo il suono della tromba dell’araldo, ma anche gli immensi boati che si levarono dalla folla. Bart applaudì.
«Non mi è piaciuto per niente» sottolineò Esmerelle voltandosi verso di lui. «Hanno combattuto male.»
Anche Bart aveva notato questo particolare. «Erano tesi» le fece notare. «Vedrai che i prossimi ti faranno saltare dalla panca.»
Emerard Carwock fece trottare il suo cavallo lungo i fianchi della palizzata e si tolse l’elmo dal capo, scuotendo la testa nel farlo. L’uomo, indurito nei lineamenti rovinati dal tempo, portava una barba incolta sul viso e due lunghi baffi grigi. Mentre l’intorpidito signore di Sala del Falco veniva trasportato dal suo scudiero lontano dal campo, Emerard sorrise al suo pubblico e fece avanzare il suo cavallo lontano dalla loro vista, scomparendo accompagnato dalla stessa acclamazione che lo aveva ricevuto.
L’araldo suonò un’altra volta: «Sua signoria Gladwyn di casa Rosenfer, signore  di Capo Lussuria, e sua signoria Adam di casa Weckport, signore di Alta Giornata!»
Entrambi gli uomini furono accolti da grida e frastuoni di ogni genere. Il primo ad attraversare il campo fu Gladwyn Rosenfer, smagliante nella sua armatura dorata. Sul suo capo svettava un’enorme elmo chiaro dalla forma di un secchio capovolto, che non lasciava intravedere neppure il suo naso. Lo stallone che cavalcava era bianco come il latte esposto alla luce: nel complesso, quell’uomo sembrava essere fatto di neve. L’ingresso del corpulento Adam Weckport fu teatrale come pochi. L’uomo diede di speroni col suo cavallo e si fermò proprio dinanzi al palchetto dei nobili prima di fare impennare la bestia sulle due zampe anteriori. Il grosso signore di Alta Giornata vestiva un’armatura di acciaio chiarissimo, quasi bianco, sul cui petto era incisa una corona grigia. L’ammasso di capelli resi bianchi dall’età si mischiava allo splendore della sua armatura, ma non aveva nulla a che vedere con il macchiato che cavalcava. Dopo aver trottato fino alla postazione nord, si fece passare il bacinetto bianco dal suo scudiero e lo calò giù per il capo insieme alla visiera.
Un solo squillo di tromba e i due partirono con più ferocia del previsto. Entrambi spinsero i loro destrieri lungo la lizza ed entrambi abbassarono rapidamente le loro aste. Si mancarono ambedue al primo assalto, e furono costretti a raggirare la lizza per riposizionarsi. Adam Weckport diede di speroni e si mantenne saldo alle briglie del suo macchiato. Quando i due avversarsi si riscontrarono, Weckport puntò l’asta verso il petto di Rosenfer, che ebbe giusto un momento per innalzare lo scudo a protezione della sua armatura e della sua cavalleria. L’asta di Adam Weckport tornò al cielo, e l’uomo trottò questa volta verso sud. I due avversari invertirono i loro sensi di marcia e si scambiarono le postazioni, poi ripreso la corsa. Poco prima di scontrarsi, Gladwyn Rosenfer alzò l’asta al cielo e la portò rapidamente prima sul fianco destro e poi sul fianco sinistro. Il gesto confuse l’anziano Adam Weckport che fu colto alla sprovvista ed ebbe giusto il tempo di innalzare lo scudo sulla prima fiancata che la furia del signore di Capo Lussuria lo colse sulla ginocchiera. Adam fu mandato a rotolare sul terreno, ed il suo cavallo crollò insieme a lui.
«Bravi! Bello scontro! Complimenti!» urlarono gli ammassi di voci. Ma per alcuni anche quella giostra fu insoddisfacente.
La giornata andò avanti molto lentamente, con uno stancante susseguirsi di applausi, incitazioni, grida, urla, cavalli, cavalieri, aste spezzate, scudi distrutti, strombettii e vincitori vari. Ci fu uno scontro degno di nota in cui un certo ser Ullmor della Piana mandò nel fango il valoroso e potente Hallow Obertell, guadagnandosi il riconoscimento di “Ullmor il Distruttore”. Bart ed Esmerelle assistettero con stupore a molte vittorie, tra cui anche a quella che avvenne nello scontro  che fu considerato il più bello della giornata: il duello che vide avversari Dwayne Valoys, detto il Tasso Rosso e Aedon Penflow, la Serpe Verde. I due ingaggiarono un insolito duello con le aste, durato per più di sette minuti, che si concluse con la sconfitta di Aedon Penflow e la vittoria di Dwayne Valoys. Solo alla fine del duello con le lance, il Tasso Rosso riuscì a disarcionare la Serpe Verde assestandogli un pugno ammantato di acciaio sulla piastra pettorale. Un esperto ebbe qualcosa da dire a proposito, ma infine decise di convalidare quel gesto e diede il permesso alle trombe di proclamare Dwayne Valoys vincitore dello scontro.
Un tale ser Clawyn Oller disarcionò ser Dorron il Brutto e i due finirono per acciuffarsi nel fango come bestie, prima di essere separati di forza da Theodas Wadpayn e da Elmor Brasengard. Al termine della disputa il terreno del campo si ritrovò puntellato di schegge di legno, denti frantumati e saliva. Al loro seguì lo scontro tra i fratelli Medgar ed Osgar Rayven, i Corvi Neri, nel quale i due si affrontarono per la prima volta dinanzi ad un pubblico che non fosse la loro famiglia. Medgar dimostrò molto più valore di Osgar nel campo, dandogli non poco filo da torcere. Osgar cavalcò uno stallone forte e robusto che gli diede la possibilità di sostenere a lungo la bravura del fratello. I due si scontrarono per molto tempo, impiegando tanto più di due scontri per abbattersi. Medgar, infatti, sfruttò le capacità che aveva con la spada anche sull’asta e, infine, con ovvia speranza del pubblico, prevalse sul fratello. Il loro scontro fu chiamato presto “Il gioco dei Corvi” e fu l’ultimo gioco interessante della giornata di giostre.
«Non mi sono piaciuti» disse un uomo grasso sulla quarantina al loro fianco. «E voi che dite?»
«Nemmeno a me» rispose Esmerelle.
L’uomo la guardò e le sorrise calorosamente. «E tu che ne sai, ragazzina, dei tornei?»
«Molto più di quanto ne sappia tu». Una risposta che gelò completamente il pover’uomo. Bartimore fece per redarguirla con un’occhiataccia, ma qualcosa lo spinse a dirsi di non farlo. Così, puntò gli occhi sul campo ormai vuoto. Gli spalti, invece, gremiti di pubblico, non erano ancora del tutto quietati.
L’insoddisfazione di molti era palpabile e ben scaturiva dall’osservazione dei loro volti in parte indignati: per i veri giochi del torneo di Roshby, la folla dovette attendere il secondo giorno di sfide.

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Note d'autore
Ciao carissimi! 
Finalmente possiamo annunciare che il torneo di Roshby ha definitivamente avuto inizio: è stata una lunga attesa, non è vero? Un lasso di tempo talmente tanto lungo da aver contribuito a rendere molto più instabile la situazione di sconforto e squilibrio su cui già si affacciava Pantagos all'inizio della storia: una guerra sanguinosa che l'aveva dilaniata. 
Il campo di Roshby ha rimesso in mostra la maggior parte dei personaggi finora incontrati da Bartimore - da Wictor Wyndwat a Darrick Sunfall, da ser Mold a ser Dayn. 
Cosa pensate di queste giostre iniziali? E cosa avete da dire sul discorso d'apertura di Wolbert Dorran? Credete che il castellano sia stato minacciato da qualcuno o che il suo ruolo sia stato acquisito spontaneamente? Cosa pensate possa voler significare la frase finale "per i veri giochi
del torneo di Roshby, la folla dovette attendere il secondo giorno di sfide"? E quali sfide vi aspettate? Con l'inizio del torneo, ci avviciniamo adesso ad una discesa verso il finale del primo romanzo, un tragitto che andrà in picchiata diretta verso la sua conclusione. 
In più, vi preannuncio che, molto probabilmente (e qui mi prendo ogni responsabilità), al raggiungimento di 200 recensioni alla storia, verrà pubblicato uno spin-off molto particolare e non troppo lungo su un personaggio abbastanza emblematico. 
Un grazie di vero cuore a tutti coloro che mi sostengono continuamente. Spero di aver soddisfatto l'attesa per il tanto agognato torneo.
Al prossimo aggiornamento!
Makil_

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Capitolo 19
*** XIX ***


Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
Castellano: figuro (molto spesso un esperto) incaricato di reggere, in vece del sovrano al quale è subordinato, un altro regno, un piccolo borgo o una cittadina appartenente all'uomo cui giura lealtà. 

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Bart ed Esmerelle erano già ai loro posti sugli spalti quando le successive giostre ebbero inizio. Le panche erano piene di uomini immersi in chiassose chiacchiere ed acclamazioni inutili. Era stata una fortuna per i ragazzi ritrovare il loro posto sullo stesso spalto ad ovest. Quel giorno, la folla era aumentata notevolmente e il cielo si era ingrigito fin troppo.
Quando l’araldo annunciò per la prima volta i due sfidanti, tutti si rizzarono sulle sedute, Bart compreso.
«Sua signoria Darrick di casa Sunfall, signore di Baia della Cometa, ed il principe Wictor di casa Wyndwat, da Canto della Bufera!»
I due sfidanti entrarono insieme, accolti dai boati e dagli elogi degli spettatori affamati di quel gioco di lance. Bartimore venne colto da un momento di rabbia per non aver potuto confrontarsi in persona con Wictor, nel campo.
«È lui?» chiese Esmerelle che probabilmente aveva notato il furore nel volto di Bart.
Il ragazzo annuì.
«Perderà lo scontro e pure qualche arto, se le Grazie ti vogliono bene. Vedrai.»
Bart le sorrise. Wictor aveva indossato la stessa armatura che calzava il giorno in cui si erano sfidati nella coda. Le sue spalle possenti, il suo volto sagomato e i suoi capelli lucidi erano messi in ombra dallo splendore di quell’acciaio luccicante. L’armatura del giovane principe rifletteva con chiarezza i raggi del sole e li rifrangeva contro il suo avversario. Darrick, invece, vestiva una lunga stola verde sopra l’armatura scura e rigata dal tempo. Il suo esile corpo faceva su e giù dalla sella, mentre il suo stallone color sabbia trottava per il campo agitando il capo fiero. Il signore di Baia della Cometa era sorridente e tubava con ogni fanciulla presente nella prima fila degli spalti, regalando lodi e sorrisi smaglianti.
Il suono della tromba li riportò ai loro posti, nord e sud, ognuno con gli occhi incrociati verso lo sguardo dell’altro. Wictor si fece porgere il suo elmo da uno degli stallieri e lo calzò con forza sul cranio, il lungo pennacchio appuntito ondeggiante sulla sua testa. Darrick richiamò il suo giovane scudiero, il quale corse verso di lui con il grosso elmo sottobraccio. L’esile signore calzò l’elmo con grazia e delicatezza, poi si sistemò lo scudo al braccio e raggirò tre volte l’asta nella mano destra.
Nessuno squillo annunciò l’inizio della giostra. Entrambi gli avversari partirono prima del previsto, scuotendo con forza le briglie dei loro destrieri furibondi. Avevano tutt’e due gli occhi solcati da linee di furore ed entrambi stringevano i denti sotto gli elmi. Darrick superò in velocità il suo avversario e raggiunse per primo la metà della lizza. Le aste cozzarono dopo qualche secondo, andandosi a schiantare l’un l’altra contro le armature dei nobili. Nessuna delle due si spezzò e nessuno dei due cadde da cavallo. Proseguendo per le strade inverse, ambedue fecero girare i cavalli e si puntarono nuovamente. Corsero, si schiantarono. Darrick incespicò un momento, ma mantenne la presa sulle briglie con una forza straordinaria che Bart non aveva pensato potesse avere. Wictor non venne scosso minimamente dalla botta.
Un’altra volta tornarono alle postazioni di nord e sud e un’altra volta caricarono. Alzarono le aste, le abbassarono, le rialzarono e le portarono ai fianchi. Corsero e si scontrarono con ardore. Wictor si lasciò sfuggire un urlo di rabbia prima di caricare con più forza verso l’avversario e si spinse in avanti sul dorso del cavallo, l’asta che puntava verso l’avversario come il pungiglione di un’ape. Dall’altro lato, Darrick strinse con saldezza l’asta e le briglie e puntò chiaramente alla spalla del principe di Canto della Bufera. L’assalto fu dolorosissimo. Darrick venne colpito al petto con una forza distruttiva, ma il reggersi al collo del suo destriero non gli fece perdere l’incontro. Wictor invece ricevette uno sbalzo dalla sella per il forte rinculo della sua stessa asta e venne spintonato brutalmente all’indietro. La forza che impiegò Darrick nel spingergli contro l’asta, prima che questa gli sfuggisse di mano e andasse a rotolare nel terreno, lo mandò a schiantarsi altrove insieme all’arma. La folla si sollevò dagli spalti, le loro voci innalzate dalla potenza dello strombettio dell’araldo. Wictor urlava frasi sconnesse tastando il terreno con le mani fradice di fango, mentre Darrick Sunfall, tornato ridente ed ilare, trottava compiaciuto dalle numerose acclamazioni che lo sostenevano.
Bart vide il furore nascere nei lineamenti di Wictor, ma il ragazzo trattenne per sé la rabbia. Il suo scudiero venne nel campo a trascinarlo per le braccia verso fuori, ma lui si rialzò in piedi e gli urlò contro di tagliarsi le mani e la lingua. Poi abbandonò l’arena senza neppure salutare l’avversario o concedere un sorriso al suo pubblico.
«Contento, Bartimore?» chiese Esmerelle. Il ghigno sulle labbra della ragazzina bionda era pungente.
Bart si era reso conto di aver gioito per la caduta di Wictor: una cosa che, a Sette Scuri, non avrebbe mai pensato di fare. “Non entrava negli onori di un cavaliere” si disse. “Eppure, ora, dove ho messo gli onori?”
«Sarei un mostro se ti dicessi di no. Avrei voluto essere al posto di Darrick Sunfall. E avrei voluto che Wictor perdesse più che il solo incontro.»
Esmerelle stava per aggiungere qualcos’altro, ma la sua attenzione fu attirata altrove.
«Sua signoria Baldon della casa Doradon, signore di Casmellor, e sua signoria Lower della casa Standrom, signore di Sogno di Sabbia!» annunciò l’araldo. Esmerelle si rabbuiò non appena sentì quel nome e si voltò senza proferire un’altra parola. Con la mano stretta attorno allo schienale della panca, prese posto accanto a Bart e rimase silenziosa.
«Vedrai che lui sarà il prossimo a cadere.» le disse. Lei non rispose, evidentemente a disagio.  
I signori trottarono lungo la lizza nei due sensi inversi e si esibirono in una serie di inchini fin  troppo formali. Entrambi non aveva la loro asta, ma reggevano soltanto uno scudo nello stesso braccio con cui trattenevano le briglie. I loro destrieri erano entrambi grigi, ma quello di Baldon Doradon era un po’ più piccolo dell’altro, e molto più magro, schiacciato, peraltro, dal peso della possente armatura che calzava il suo signore. Baldon era un uomo dal viso asciutto, gli occhi glaciali e una lunga chioma di capelli grigio chiaro che portava legati all’indietro in una piccola treccia. L’armatura era coperta da una mantella dal collo peloso che gli ricadeva dietro le spalle, in parte ornata da gioielli in diamante. L’uomo era detto da tutti l’Inginocchiato, in quanto i suoi figli e gli uomini di cui si circondava amavano far conoscere agli sconosciuti la profonda devozione che egli aveva per le Grazie e l’immenso interesse con cui le pregava ogni giorno. Non c’erano calli sulle sue ginocchia, però, a detta di tutti coloro che davvero lo avevano indotto a piegarsi ai loro piedi; un’altra cosa che il signore in questione non sapeva evitare. Eppure, a quanto parve, l’ausilio divino non gli era servito a molto in quella giostra: il caso aveva voluto che si scontrasse con un uomo alto il doppio e muscoloso il quadruplo. Lower Standrom era, infatti, un colosso di pietra vestito da capo a piedi di acciaio robusto e scuro, una montagna dalle pendici fatte di lussuria, ricchezza e spavalderia; arroganza, possanza e fierezza. Le enormi spalliere e la possente placca pettorale della sua armatura risaltavano sugli altri pezzi, conferendogli un aspetto minacciosamente forte. Il suo viso era solcato da ferite e cicatrici di guerra, una talmente tanto lunga da passargli per l’occhio bianco e concludersi sul suo collo taurino. I due avversari si posizionarono l’uno di fronte all’altro, mentre i loro scudieri si affrettavano a passargli le aste di legno e i loro elmi. Baldon coprì il capo con un gesto irrilevante, facendo più attenzione alla presa sull’asta. Bart vide che si preoccupò di incastrare l’estremità finale nella giuntura dell’armatura. Un trucco che Dalton gli aveva suggerito molte volte, ma che spesso avrebbe potuto rilevarsi anche disastroso se il cavallo fosse stato colto da un improvviso impulso di rabbia o se semplicemente fosse caduto a terra. “Spero almeno che l’abbia messa bene” pensò “Un piccolo passo falso e l’asta si conficcherebbe nella sua spalla prima che in quella di Lower”.
Dall’altra parte, il signore di Sogno di Sabbia indossò il suo elmo con le due enormi borchie ai lati, simili alle corna di un cervo. Dopo aver dato un paio di scosse alla sella e al suo cavallo gagliardo, Lower Standrom afferrò con la destra l’asta e la posizionò parallela al terreno.
Uno squillo, una successione di applausi, e poi il furioso ticchettio delle bestie in corsa.
L’uno più concentrato dell’altro, i due avversari avanzarono rapidamente contro. Nella folla la tensione era palpabile: quella era la prima quintana in cui gli spettatori mantenevano il silenzio. La stessa Esmerelle rimase seduta, immobile, a prestare maggiore attenzione all’esito della giostra più che alle azioni degli sfidanti, la tensione e la rabbia divenute evidenti nei lineamenti ossuti del suo volto magro.
Baldon Doradon caricò contro Lower Standrom per la seconda volta. Bart lo vide correre e staccarsi lentamente l’asta dallo spazio incavo dell’armatura in cui l’aveva inserita. I due puntavano entrambi allo stesso obiettivo: il loro petto. Quando si scontrarono, il rumore che l’impatto produsse fu terribilmente spaventoso. Baldon fu spinto all’indietro, ma si resse saldamente alle briglie. Il suo cavallo s’impennò, nitrì e scalciò. Lower Standrom tirò verso sé le briglie, rallentando lo scontro, ma il suo cavallo non riuscì a sostenere l’azione, e fu spinto di lato. Si spinsero a nord e sud per la terza volta, e ancora tornarono indietro con la aste puntate l’uno verso l’altro. Il rumoroso scalciare dei cavalli di entrambi gli sfidanti si concluse con un nulla di fatto. I due si mancarono per bene tre volte di seguito, esaltati ad ogni modo dalla folla caotica. Continuarono a caricare l’uno contro l’altro, finché non fu il momento dell’ultimo vero e proprio scontro. Questo fu nuovamente spietato, e il suo colpo totalmente devastante. Baldon Doradon non si resse sul cavallo e, prima di volare via dalla sella, fu costretto a lasciare cadere  l’asta. Il vincitore Lower Standrom galoppò verso nord, prese la rincorsa, fece scalciare tre volte il suo destriero, e poi saltò sopra al corpo annichilito del perdente, inginocchiato davvero dinanzi a tanta spavalderia. Quando Lower Standrom si tolse l’elmo e fece per scendere dalla sella, Esmerelle si raddrizzò in piedi come animata da un’energia sconosciuta.
«Quell’uomo ha barato!» urlò portando fuori il petto. «Guardate! Guardate tutti! La sua sella non rispetta le regole!»
La folla sembrò non tenere conto di quelle parole, schiacciate dal tonare di tutte le altre ovazioni. Gli unici a guardare la sella furono Bart e un uomo grassoccio al suo fianco. In effetti, l’arcione possedeva delle giunture di cuoio che Lower Standrom stava segretamente sfilando dalle placche dell’armatura. 
«La ragazza ha ragione!» vociò l’omaccione. La sua voce era tonante, capace di prevalere sulle urla. «Quel tizio vuole imbrogliarci! Guardatelo, da quel cavallo non si può cadere! Ma per chi ci ha presi?»
Ad uno ad uno tutti i volti degli uomini presenti sugli spalti si voltarono prima sull’uomo che gridava quelle accuse, poi sul cavallo e sulla sella del vincitore.
«Imbroglione! Meschino! Fannullone!». La folla trasformò la propria voce in una sola. Alcuni lanciarono della frutta secca in campo, altri addirittura sassi, altri ancora, i più vicini, cominciarono a sputare.
Wolbert Dorran si alzò dal suo scranno, totalmente paonazzo in volto. Poco lontano dal palchetto, Baldon Doradon venne trasportato lontano dal suo scudiero, in direzione del suo padiglione.
«Lower Standrom!» vociò impettito il castellano. «Cos’hai da dire a tua discolpa? Sei stato colto in flagrante!»
L’uomo scese violentemente dal suo destriero, che scosse rapidamente il capo non appena fu libero da tutto quel peso. Lower Standrom si avvicinò bruscamente al palchetto del castellano, dinanzi ai volti raggelati di ogni spettatore. Perfino Esmerelle stava guardando fremente.
«Questo» disse l’uomo. La sua voce era rimbombante come poche. Alzò al cielo l’asta e la mandò a spezzarsi sul terreno; schegge grandi quanto il braccio di un bambino volarono via in tutti le direzioni del campo, e una di queste colpì in pieno volto Elmor Brasengard. Wolbert Dorran portò le braccia al petto. Sembrò sforzarsi a lungo per reprimere la rabbia – o per fingere di provarne un pizzico -  infine risedette accanto ai suoi due nobili. Gli sguardi interrogatori degli astanti cessarono di colpo. «Che il torneo riprenda!» si  vociò.
Lower Standrom, la bocca contorta in un’insolita espressione di disgusto, uscì dal campo senza neppure guardarsi attorno. Seppur contro la volontà del castellano, il pubblico sembrò spaventato a tal punto da rabbuiarsi in un gelido silenzioso. Fu solo dopo che Wolbert ebbe dato il consenso di procedere, dopo che gli squilli delle trombe ricominciarono come se nulla fosse successo, che gli spettatori si rianimarono. Un istante dopo parve addirittura che Lower Standrom e quel suo incredibile imbroglio non fossero mai stati su quel terreno. Per uniche prove inconfutabili di ciò rimasero, però, due piccoli gruppetti petulanti intenti a scambiarsi battutacce sul conto del signore di Sogno di Sabbia e la risata fragorosa di una fanciulla bionda, divertita non poco per l’umiliazione di un uomo che di forte aveva solo il corpo.
Gli scontri della giornata proseguirono con una certa rapidità, e videro protagonisti numerosi cavalieri ed altrettanti signori nobili. Nel particolare, la folla assistette con stupore alle migliori quintane degli ultimi anni, a detta di molti, che furono scenari di gioco per uomini di valore come l’anziano Finn Wotor, per cui il torneo era stato un espediente per allontanarsi, dopo anni, dal suo regno. Lemmon Cappa Rossa fronteggiò, invece, la possanza militare di Lewyn Deniavor, riuscendo ad avere la meglio sul giovane signore di Coppward. Lemmon aveva mantenuto la sua cupa severità durante tutto lo scontro, ma, fortunatamente, non aveva utilizzato i suoi soliti metodi di vittoria. Infatti, a detta di molti, la sua cappa non era certo rossa per l’imbarazzo, quanto perché il suo padrone amava intingerla nel sangue di tutti coloro che cadevano per mano sua. Bart fu costretto a dirsi che, molto probabilmente, da lì a poco quella cappa sarebbe diventata più rossa del previsto.
La monotonia degli scontri fu interrotta, ad un certo punto, da una voce tonante alle spalle di Bart.
«Ser Bartimore» sussurrò sommessamente. Fu come una disgustosa alitata a trascinare con sé il resto della frase. «Ti prego di seguirmi. È urgente.»
Bart si voltò verso l’uomo che lo chiamava. Si trattava di ser Mold, il grasso cavaliere della scorta di Ortys Wysler, vestito anche lui di un acciaio grigio che lo ingigantiva.
«Per quale motivo?» chiese Bart perplesso nel vederlo lì.
«Il mio signore mi manda a chiamarti, non posso dirti altro qui». Mold prese un profondo respiro e riuscì a fermare l’affanno che gli impediva di esprimersi con chiarezza. Il suo alito puzzava di vino e gocce di sudore gli colavano dalla fronte al naso arrossato. «Vuole parlarti in privato.»
Bart annuì e fece per girarsi verso Esmerelle, ferma a guardare lo scontro in atto nel campo.
«In privato» sottolineò in un misto tra un sussurro rauco e un rimprovero glaciale: parole che fecero rabbrividire inconsciamente Bartimore.
Senza che Esmerelle si accorgesse della sua scomparsa, Bart seguì ser Mold lungo tutti i gradini degli spalti, cercando di farsi spazio tra la folla urlante e i lamenti impacciati di un cavaliere grasso e fin troppo lento. 

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Note d'autore
Ciao carissimi! 

Purtroppo, il periodo che segue non è uno dei più propizi: lo studio sta occupando molto del mio tempo e, come se non bastasse, negli ultimi giorni un grave danno al mio portatile mi ha tenuto lontano da efp e dalla scrittura [stavo rischiando di perdere tutto il materiale...]. Come avrete notato, non solo non ho avuto tempo né modo di rispondere alle vostre recensioni (che ho letto tutte), ma non ho potuto nemmeno passare dalle storie che seguo con immensa curiosità. Mi scuso, dunque, con Morgengabe, con Fan Of The Doors e con Innominetuo. Per adesso dovrò utilizzare il cellulare, nella speranza che i problemi col pc si risolvano presto. 
Ma, inutili discussioni a parte, passiamo al capitolo: come preannunciato dalla voce narrante nel corso del cap. precedente, ecco i due scontri emblematici del torneo, almeno per i nostri due giovani. Cosa avete pensato di entrambe le dispute? E cosa avete provato nel vederle riuscire o fallire? Cosa pensate, adesso, di Darrick Sunfall, il già citato Principe Stellato? E cosa di Lower Standrom, il celebre assassino della famiglia di Esmerelle? Insomma, qual è il vostro punto di vista, adesso, in merito torneo? 
Nell'ultima parte, Bartimore viene destato dall'arrivo di una vecchia conoscenza: ser Mold. Ortys Wysler è tornato al campo di Roshby... cosa o chi sarà arrivato con lui? E, secondo voi, perché tanta urgenza da parte del grasso cavaliere?
Ribadisco i miei ringraziamenti a tutti voi; vi auguro una buona settimana! Il prossimo appuntamento sempre regolare - si spera [29 maggio], in cui grandi avvenimenti faranno la loro comparsa!
Makil_, 

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Capitolo 20
*** XX ***


Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
Castellano: figuro (molto spesso un esperto) incaricato di reggere, in vece del sovrano al quale è subordinato, un altro regno, un piccolo borgo o una cittadina appartenente all'uomo cui giura lealtà. 

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Trovò Ortys Wysler così come lo aveva lasciato: in una mano il calice di vetro, nell’altra la brocca piena di vino. Il signore di Ardua Scogliera sedeva al tavolo della sua tenda, sul suo volto un’espressione che non gli apparteneva affatto. Ortys era accigliato e al tempo stesso pensieroso, immerso in un silenzio troppo quieto per essere tipico di quell’uomo e aggrottato in un’impassibilità statuaria. Alla sua destra sedeva patres Steffon, anche lui scosso e confuso. Non aveva neppure rivolto uno sguardo a Bartimore quando aveva avvertito il suo arrivo. A capo della tavolata sedeva anche un uomo sulla cinquantina che Bart non conosceva, intento a grattarsi il mento cosparso di peli bianchi. Ser Konrad sedeva invece ai piedi del letto di piume, la mano sulla cote che scivolava lentamente sulla lama della sua spada trattenuta sulle cosce.
«Bart, siediti pure.» disse Ortys senza sollevare lo sguardo dal calice. Quell’invito risuonò più come un ordine.
Bart fece come gli era stato suggerito, accomodandosi nell’unica sedia vuota presente. Per un momento nessuno aprì bocca.
«Diglielo, Steffon.» comandò Ortys sollevando solo allora lo sguardo dal vino. Fece ondeggiare un paio di volte il contenuto del bicchiere, come a volerne constatare l’annata ed il sapore.
Patres Steffon si fece rigido. I suoi occhi erano contornati da due borse scure e delineati in parte da lunghe zampe di gallina.
«Ser Bartimore» iniziò con voce rauca. Tossì. «Crediamo necessario informarti su qualcosa che ci sta molto a cuore. Qualche sera fa, un nostro messaggero fidato ha fatto ritorno al campo dalle Terre dei Venti. Ortys lo aveva inviato ad Ardua Scogliera per visitare in sua vece il regno e la sua famiglia, per mandare loro i suoi saluti e le sue notizie. Ma quell’uomo non ha fatto ritorno da solo, purtroppo. Con lui è giunto l’armaiolo e… e ci ha informati di una guerra, di un disastro... Ser Bartimore, purtroppo i nemici hanno preso il sud. Le Terre dei Venti sono cadute e… e…»
«Sette Scuri?» chiese Bart facendosi irrequieto. «Amisa?»
«Sette Scuri è stato preso d’assedio.»                
Bart fu colto dal dolore. Una parte di lui aveva sospettato che fosse successo qualcosa di simile quando ser Mold gli aveva ordinato di seguirlo con una tale compostezza. Non riuscì a parlare.
«Amisa Witeolm sta bene, questo è un dato di fatto. Puoi stare tranquillo.» assicurò l’esperto. «Ma Sette Scuri è caduto non appena la tua signora ha mollato la resistenza. I nemici hanno attaccato da sud e da ovest, hanno attraversato le mura, si sono aperti una breccia nelle più forti pareti e hanno depredato il regno.»
«Quali nemici?» domandò Bart.
«I nemici provenienti dal mare, ser Bartimore.» disse patres Steffon. «Nemici che cavalcano galee, barche a remi e immensi vascelli pirata. I nemici delle Terre Spezzate, per la precisione.»
«Nemici che stanno dalla parte dei nostri nemici.» aggiunse l’uomo sconosciuto. «Putridi ammassi di sterco che agiscono su comando dei signori della Punta. E gli alleati dei nostri nemici sono pur sempre nostri nemici.»
«Non spetta a noi deciderlo, ser Mark. Fattene una ragione!» lo ammonì severamente Steffon. Poi continuò. «Ancor più difficile è la situazione presente alle Colline Salate. Maevan Therèzz ha innalzato i suoi padiglioni proprio lì e ha comandato l’assedio di Macigno Salato. I nemici hanno fatto incursione nella notte, hanno defenestrato i figli di Lennard Pomsalty e hanno ucciso la sua signora costringendola a gettarsi da una delle scogliere.»
«Di che uomini stiamo parlando?» fece ser Mark arcuando le folte sopracciglia. «Cos’è che sono questi, pattume o vermi?»
Patres Steffon fece una pausa, si pressò le tempie con le dita. «Hanno preso il Colloblu e ne hanno bloccato i traffici. Hanno assediato Trundat e l’hanno data alle fiamme. E hanno attaccato Ardua Scogliera.»
Ortys si rabbuiò e strinse la morsa sul calice. Il vino ricadde sul tavolo.
«Patres Gilmon ha saputo tenere il regno.» continuò Steffon. «Quantomeno abbiamo resistito. Il colpo è stato duro, senza dubbio, ma abbiamo saputo quali armi utilizzare contro i nemici.»
«Che ne è stato di Amisa?» chiese Bart con un pizzico di egoismo sulla lingua. «Mi hai detto che non le è successo nulla, che sta bene. Ma com’è possibile, se il regno è caduto?»
«Ti avevo già detto che Amisa è una donna fin troppo forte. La tua signora ha coraggio nella stessa quantità con cui un cavaliere ha il suo acciaio. Aveva sventrato la rivolta prima ancor che nascesse, o almeno questo ci hanno riferito. Ha ceduto, certo, ma lo ha fatto per onorare il tuo Dalton Kordrum e per evitare di raggiungerlo ora». Patres Steffon sorrise. «Amisa è andata a nord con tutta la sua corte. Per quanto ne sappiamo ha condotto il reame a Vecchio Colle, dal fratello Constantine: egli non ha preso parte alle gare, ma ha preferito restarsene a casa propria, lontano – e qui ti riporto le sue parole – da questo coacervo di melma.»
E ha fatto benissimo” pensò Bart. “Constantine Witeolm. Cinque volte grazie alle Grazie”. «Amisa mi aveva parlato un paio di volte di lui, ma non l’ho mai conosciuto. Che ne sarà di Sette Scuri ora?». Bart non poteva credere che la sua casa fosse caduta nelle mani sporche di nemici che non appartenevano neppure al loro territorio. I Kordrum avevano trattenuto il potere sul regno per tutto il tempo che era passato dalla fondazione di Sette Scuri fino alla dipartita di Dalton. Che ne sarebbe stato ora?
«Solo il tempo potrà darti risposta.» disse patres Steffon. «Solo e soltanto il tempo.»
Ser Mark si fece paonazzo in volto e parlò sputacchiando saliva sul tavolo. «Siamo stati vittime di un inganno, purtroppo.»
«Non uno solo» disse Bart. Gli occhi di tutti ricaddero su di lui. Perfino Ortys alzò lo sguardo su Bart, per la prima volta da quando era entrato. I suoi erano cerchiati di nero, dispersi, vacui.
«Come sarebbe a dire?»
«Ero nella torre di Dorran quando ho sentito ciò che stanno tramando. Ascoltatemi tutti, miei signori. Avrei voluto dirvi tutto ciò prima di ora, ma vi ho cercati e voi eravate partiti.»
«Per l’appunto» fece patres Steffon. «Cosa devi dirci?»
«Ero andato da Wolbert Dorran per iscrivermi al torneo e sono uscito dalla sua torre come una spia. Li ho visti e li ho sentiti, lui e altri due signorotti, parlare di inganni e di stragi.»
«Loro chi?» domandò crudelmente ser Mark. «Facci i nomi, giovane ser… in questo caso i fatti non hanno alcuna rilevanza.»
«Lemmon Cappa Rossa e un altro ragazzino straniero. Un tipo con le guance macchiate di bianco.»
«Umh» fece lui per risposta portando l’indice sulle labbra. «Dephyso Maraphen, senza dubbio, l’Arciere Bianco.»
Bart continuò. «Li ho sentiti parlare di affari privati. So che non avrei dovuto farlo, ma ne andava di mezzo la sorte di tutti. Ho sentito che avrebbero rinforzato le palizzate, che avrebbero fatto in modo di far gareggiare Melkor Winemors con un destriero che non fosse il suo, e che lo avrebbero fatto combattere contro Lower Standrom. Parlavano di un cavallo in calore, addestrato per farlo cadere e incastrarlo nella congiura. Il torneo è corrotto
Patres Steffon sussultò. «Ser Bart, quella che ci stai proponendo è un’accusa grossa quanto un macigno. Ti rendi conto della gravità della questione?»
«Da prima che venissi qui, patres Steffon». Si strinse nelle spalle e continuò. «Hanno parlato di sangue e teschi. Progettavano addirittura la loro fuga dopo una strage, e li ho sentiti perfino discutere di combinazioni di duelli vantaggiosi per i loro fini. Ortys, hanno parlato anche di te…»
«Che hanno detto?» domandò patres Steffon trasalendo all’improvviso.
«Dicevano che avrebbero fatto qualcosa per espellerlo dalle gare… che lui fosse uno dei più complessi da abbattere e togliere di mezzo.»
«Perlomeno hanno avuto il buonsenso di notare questo particolare» fece ser Mark con un tono scherzoso e del tutto inadatto alla situazione. «Schifo, vergogna. Ci uccideranno tutti, presto o tardi.»
Patres Steffon si mise in piedi e cominciò a girare per il padiglione. «Non possiamo credere a queste parole, mi spiace.» iniziò. «Io non posso farlo. L’Accademia non prevede che io sia così imparziale nel giudizio, e mi sembra abbastanza affrettato dire cos’è e giusto e cosa non lo è. Si tratta di onore… onore e leggi… e c’è di mezzo anche la salvezza dell’intero reame; non una cosa da poco!»
Ortys lo guardò truce. «Voi e il vostro stupido onore! Pulitevi il culo con quello, piuttosto… potrebbe esservi più utile di quanto pensiate. Ho perso mio padre per il suo onore, quando la Guerra Blu scaturì nel sud. Non ho intenzione di perdere la mia famiglia ora. Ho una moglie ad Ardua Scogliera, scossa per aver dovuto far fronte ad una battaglia che non avrebbe mai desiderato combattere da sola, senza il proprio marito al suo fianco. Ma tu cosa puoi saperne di tutto questo, patres Steffon? Tu hai mai avuto una moglie? Hai mai avuto il grande e faticoso compito di sedere su uno scranno e indossare una corona fino a far ripiegare le ossa del tuo collo su sé stesse? Rispondimi, patres Steffon! Tu hai mai conosciuto l’amore? Eh, Steffon… tu che mi parli di quella bestia che è l’onore? Con quale coraggio, mi chiedo? Con quale coraggio?»
«Io… mio signore, sono scosso anch’io, ma…»
«Ser Bartimore dice la verità». Una voce soffusa si alzò dal lato opposto del padiglione. Era stato ser Konrad a parlare. «Me ne ha dato conferma la scorsa sera, quando è venuto a chiedermi dove foste e perché non vi aveva trovati al campo. Mi aveva avvertito su un fatto: che vicino al padiglione di Winemors sarebbe sorto un incendio e che le fiamme avrebbero ucciso il suo cavallo. Ebbene, tutte situazioni che si sono verificate per davvero.»
«Non conosco ser Bartimore» fece ser Mark. «Ma non ha la faccia di un veggente. Almeno che non sia stato lui ad appiccare il fuoco, credo che sia impossibile dargliene colpa.»
Patres Steffon si grattò il mento, pensieroso. Il suo silenzio andava oltre ogni parola.
«La chiamavano guerra dei pesci e guerra grigia; avevano proprio ragione.» fece Ortys battendo forte il calice sul tavolo. «Pesce e grigiore sono le uniche cose che ci rimangono ora. E io sento più puzza di quanto ne sentiate tutti voi. L’onore non cancella il fetore; l’onore non paga mai.»
Patres Steffon lo guardò con glacialità. «Che intendi fare, allora… mio signore?»
«Siamo arrivati fin qui per gareggiare» cominciò. «Ma per chi combatteremo, ora che il sud è caduto? Quali venti soffieranno per noi, ora che il sud è caduto? Dove ci rifugeremo quando sarà il momento di ritirarci, ora che il sud è caduto? Se il sud è caduto, e giusto che anche loro cadano uno ad uno! Ciò che mi fa parlare è la sete di vendetta, Steffon, non voglio negarlo. Sono assetato… lo sono davvero. E il vino non servirà a farmi stare meglio. Voglio vendetta, lo capisci? Voglio il loro sangue sulle mie mani, contro ogni legge dell’uomo e degli dèi!»
«E spingerci ai loro livelli?»
«Un tempo lo avresti fatto, Steffon. Che ne è stato dei tuoi onori cavallereschi?»
Steffon si fece rosso in volto. Parlò a labbra serrate. «Quelli sono morti con il vecchio Steffon.»
«Tu sei il vecchio Steffon, patres dei miei più sudici stivali! Quando lo capirai sarà fin troppo tardi. E allora sarà il mondo ad essere vecchio per te… rammenta le mie parole, se sarai tanto stolto da vivere più di me.»
Nel padiglione calò un freddo silenzio. Bart abbassò lo sguardo verso i suoi pollici.
«Avrei dovuto prevederlo.» mormorò Ortys con lo sguardo calato verso il calice di vino. «Sapevo che il torneo puzzasse di intrigo, ma non avrei mai immaginato di poter sentire qualcosa di simile. Dov’è l’Accademia adesso, patres Steffon?»
«L’Accademia c’è e ci sarà sempre: siete voi ad essere tanto ciechi da non vederla.»
«Mi ritieni forse cieco?». Ortys Wysler frantumò con un pugno il calice che stringeva. Si alzò e diede due goffe manate sul tavolo che traballò fino a scheggiarsi. Ser Mark e ser Bartimore si rivolsero uno sguardo fugace, imbarazzati e spaventati allo stesso modo. Ortys Wysler ruggì come un orso a cui erano appena stati sottratti tutti i cuccioli dalla tana; il signore di Ardua Scogliera non era mai stato tanto porpora in volto da quando Bartimore lo conosceva. Anche Steffon si rialzò.
«Calmati, Ortys!» lo rimproverò. «Sei nervoso, siamo nervosi. Proviamo a discuterne... proviamo a parlarne civilmente.»
«Non c’è nulla da discutere, Steffon. È una congiura che vogliono tenderci: ebbene, che la tendano pure! Ma che sappiano quanto valiamo noi del sud. Andrò a chiamare a raccolta tutti i signori delle Terre dei Venti - dovesse costarmi  tre volte la testa! – li convincerò a schierarsi con me e faremo in modo che tutti quegli sporchi traditori muoiano prima ancora che possano dare inizio al loro massacro. Permettimi di rifiutare la stessa morte che i macellai riserverebbero ai polli prima di mozzargli il collo… permettimi di salvare la purezza di mia moglie, patres Steffon… e permettimi di far di tutto pur di non lasciarla da sola in questo mondo disonesto. A qualsiasi costo.»
Patres Steffon gemette, parve cercare di mettere a freno la lingua, scosse un paio di volte la testa e poi parlò. «Che intendi fare, allora?»
«Farò quello che sentirò di fare. Io vincerò o perderò, ma senza dubbio potrò dire di aver combattuto per una causa che è mia quanto lo è di tutti voi. Sapevo che un torneo non avrebbe potuto fare nulla contro dissapori portati avanti da anni, e lo sapevi pure tu, Steffon!». Ortys sedette sul suo scranno. «Quando tutto ciò sarà finito, deporrò la mia corona ai piedi di un altare e mi farò benedire da un devoto. Dopodiché acquisterò una galea e fuggirò via da queste terre desolate. Io e mia moglie diverremo dei vagabondi, degli eremiti, se questo ci consentirà di vivere in pace lontano da questa politica corrotta.»
Patres Steffon, ancora in piedi, portò al braccia al petto. «E allora io taglierò la mia tunica, perché se Ardua Scogliera crolla, crolla anche la sua corte. Mio signore, per favore, ti supplico… ascolta la voce di Steffon, non quella dell’esperto che voi tutti vedete. Fa’ come vuoi fare, combattiamoli pure… ma evitiamo di passare dalla parte del torto… ve lo chiedo per il vostro bene.»
«Cosa suggerisci?» chiese Ortys socchiudendo gli occhi. «Sei un patres: parla e sarai ascoltato.»
«La soluzione ai grandi problemi è sempre una linea tra la costruzione e la distruzione. Tutti noi preferiamo la pace: chi per le famiglie, chi per l’onore, chi per i campi, chi per l’amore. Forse hai ragione, potremmo spargere il messaggio nel campo, informare tutti i lealisti della grave minaccia che incombe. Dovremmo assicurarci che tutti i nostri alleati siano al corrente di ciò che sta per avvenire, ma allo stesso tempo dobbiamo assicurarci che tutto ciò avvenga in modo controllato… razionale, ecco. Attueremo la tattica del fattore che brucia il grano secco nel campo; sa di star compiendo un gravissimo danno per il raccolto, e conosce le gravi conseguenze che potrebbero sorgere se il fuoco dovesse spargersi nell’orto, eppure non demorde. Ecco, quantomeno saremo pronti a contrattaccare, se proprio è necessario.»
«Sapere e fingere di non sapere?» chiese Ortys.
«Proprio così» rispose patres Steffon. «Se mai dovessimo fuggire…»
«Fuggire?» tuonò Ortys. «Io non fuggirò neppure se mi dovessero comunicare che il vino è finito. Non mi muoverò da queste terre finché non avrò potuto strangolare chi ha comandato l’assedio nelle mie. E io so chi è stato.»
«Io voglio aiutarvi» disse Bart. «Non ho intenzione di lasciare così il torneo. Dalton non si sarebbe mosso di un solo passo. E io sono qui in sua vece, oggi, domani e sempre.»
Patres Steffon lo guardò a lungo. «Giovane ragazzo, io mi rivedo molto in te. Avrei voluto dirti di tornare a Sette Scuri, qualche sera fa, ma il caso ha voluto che le cose non andassero come previsto. Un tempo servii il signore di Vento Burrone, prima ancor di ricevere la mia toga da esperto. Ti avrei assicurato un carro e un paio di vettovaglie per il viaggio, ma ora non so più che promesse farti. Se vuoi restare, è giusto così. Anch’io lo avrei fatto, in fin dei conti… per amore, è vero, ma sarei rimasto. Sempre.»
«Ed Esmerelle, che dovrò dire a lei?»
Ortys fissò cupamente il patres, il quale prese subito parola. «Lei ha lingua troppo lunga e tu le mani troppo svelte. In un certo senso vi completate l’un l’altro. Che dirle?»
«Nulla» rispose Ortys. «Bartimore, non dirle nulla. Quando tutto ciò sarà finito, lei verrà al sud con noi e magari potremo garantirle un posticino ad Ardua Scogliera… Bracken Ossoduro, il maestro d’armi, saprà cosa fare con una donna così tenace.»
«Ne sarà felice» disse Bart sorridendo, più confortato.
Un refolo di vento si schiantò contro il padiglione, entrò attraverso la cortina, spalancò le pagine di un tomo logoro sul tavolo. Il vento portò via tutta la tensione dalla tenda, sibilando come un serpente lasciato a morire sotto al sole.
«Dunque» disse Ortys. «Io andrò ad informare Melkor e Baldon Doradon. Patres Steffon, mi faresti la cortesia di andare a divulgare la voce un po’ ovunque tra i tuoi compagni? E anche tu, Bart… se hai conoscenti… insomma, sarebbe meglio che…»
«Ne ho» fece lui. “E ho anche una bevuta in sospeso con ser Dayn”.
«Informerai per me Darrick Sunfall, lui sarà più che convinto di darci una mano, ne sono certo.»
Bart annuì fermamente deciso. Sapeva dove trovare l’uomo in questione e sapeva di averlo già dalla loro.
«Tu, ser Mark, ti darai da fare per convincere i tuoi compagni ser Ulwar e ser Diggon. E poi andrai a dire qualcosa anche ad Ariston Rowland. Assicurati di portarlo dalla nostra parte, a qualsiasi costo.»
«Considerali già parte del piano» fece ser Mark. «Uno schiocco di dita e saranno con noi.»
Patres Steffon afferrò una pergamena sgualcita  che gli diede del filo da torcere prima di farsi aprire. Ne lesse il contenuto rapidamente, poi passò il messaggio arrotolato a ser Mark.
«Oh, un’ultima cosa: potremmo utilizzare i carri, mio signore.» disse l’esperto. «Se è vero che attaccheranno Melkor Winemors, potremmo caricare un paio di armi sui carri e lasciarli all’entrata del campo. Se mai dovesse necessitare soccorso, saremo pronti a contrattaccare.»
«Se dici questo per non dare nell’occhio, credo proprio che non servirà poi a molto. Non c’è spazio per i cavalli nelle stalle del campo… non oso immaginare quali posti siano riservati alle vettovaglie. Non ci permetteranno di portare con noi neppure una sola mazza ferrata.»
«Questo non è del tutto vero». Patres Steffon sorrise. «Conosco lo stalliere… gli comanderò di fare ciò che gli viene chiesto. Potrei dargli qualche argento per comprare il suo silenzio, no?»
«Compra pure quel che vuoi» sbottò improvvisamente Ortys. «Le casse di Ardua Scogliera non serviranno più se i Wysler cadranno a Roshby. Prima avremo finito, prima potremo ripartire.» Infine il signore di Ardua Scogliera tirò un profondo sospiro di sollievo. Per la prima volta in tutta la sua vita, Bartimore vide Ortys Wysler in uno stato di disarmante vulnerabilità. E per un momento si chiese che cosa avrebbe detto Dalton Kordrum al suo sconsolato amico d’infanzia se lo avesse visto in quella situazione.
«Allora sarà fatto.» disse poi. «Dovranno passare sui nostri corpi prima di poter anche solo avanzare un gesto del genere. E noi li combatteremo fino al loro ultimo respiro.»
«Ci proveremo» biascicò patres Steffon. «Provare non ha mai ucciso nessuno.»
«Provare no» rispose ser Mark tamburellando con le dita sul tavolo. Il ser spalancò gli occhi. «Ma gli intrighi sì.»

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Note d'autore
Buonasera carissimi! Come state? Spero bene!
Vi avevo preannunciato che il capitolo odierno avrebbe dato una forte scossa all'intera storia; e così sembra essere stato. Il ritorno di Ortys Wysler e di patres Steffon ha dato il via al contrattacco.
Ma prima di ciò, è necessario soffermarsi su alcuni aspetti. L'arrivo di Ortys Wysler ha portato con sé anche una cattiva notizia: Sette Scuri è caduto e il Sud è passato nelle mani dei ribelli provenienti dalle Terre Spezzate [il popolo di Dephyso Maraphen e Agabbo Nobb, per intenderci]. Come avete preso la notizia? E cosa pensate della fuga strategica di Amisa Witeolm? Pur non conoscendola, come vi immaginate questo personaggio dalle parole di chi l'ha già conosciuta?
Il capitolo mostra anche molti lati del carattere di Ortys Wysler, alcuni dei quali individuabili dal suo aspetto e dalle sue parole... che ne pensate? Le sue parole sono giustificabili in qualche modo, o la sua furia è praticamente inadatta alla situazione? 
Importante è il ruolo dell'esperto, patres Steffon, anche lui molto complesso da gestire. Sappiamo che un alone di mistero vaga intorno a Steffon... alla luce di questi avvenimenti e delle sue parole, cosa pensate di lui? Inoltre, è apparso un personaggio nuovo - ser Mark - un cavaliere alla mano che ci seguirà ancora nelle vicende!
Pianificata l'intera strategia e sedato il signore di Ardua Scogliera, Bartimore e i restanti tre uomini dovranno mettersi all'opera per informare quante più persone possibili al campo. Credete che ciò possa rivelarsi un male ai fini del loro piano? O pensate che, informando le giuste persone, il problema non si porrà? E cosa pensate, in totale, del piano architettato da patres Steffon? 
So che sto ponendo tante domande, ma mi piace farvi soffermare su alcuni aspetti che, benché non sembrino, sono importanti. Secondo voi, Bartimore riuscirà a convincere Darrick Sunfall e ser Dayn? 

+Purtroppo devo anche informarvi che - per ovvia mancanza di tempo a causa del danno avvenuto al mio pc - la mini-long programmata per le 200 recensioni non sarà pubblicata in tempo contemporaneo al traguardo nei commenti. Ne sono dispiaciuto... ma per scusarmi, ho deciso di rivelare il titolo e lo scenario in cui ci troveremo. Quindi, ecco qui: "Spada rossa, cuore bianco" è il titolo dell'opera che si svolgerà nel regno di Corallo Rosso... nel profondo Sud di Pantagos ed esattamente nella regione della Punta. A voi le teorie!
Con ciò vi saluto e vi ringrazio immensamente; al prossimo aggiornamento! [lunedì 5 Giugno]

Makil_

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Capitolo 21
*** XXI ***


Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
Castellano: figuro (molto spesso un esperto) incaricato di reggere, in vece del sovrano al quale è subordinato, un altro regno, un piccolo borgo o una cittadina appartenente all'uomo cui giura lealtà. 

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Darrick Sunfall lo fece accomodare nella stessa morbida poltrona che gli aveva prestato quando il suo incantatore si era curato di lui. L’uomo sedeva da solo di fronte ad una piccola scrivania, intento a scribacchiare qualcosa di indecifrabile su un piccolo pezzo di pergamena mal arrotolata. Accanto alla sua destra, un piccolo lume fiammeggiante era l’unica luce nella penombra del suo buio padiglione. Nel bel mezzo di quel cupo ammasso di tenebre, il Principe Stellato sembrava quasi invisibile, tutt’altro che splendente, a dispetto del suo nome.  
«Hai visto il mio duello di oggi, giovane ser Bart? » chiese. Nel vedere Bartimore annuire, proseguì. «Che te ne è parso?»
«Sicuramente degno di nota; verrà ricordato.»
«Oh, suvvia, non degno di nota a tal punto da essere definito memorabile. Sono sicuro che avrai visto di meglio nel corso della tua giovane vita. Ciò nonostante, in che modo posso servirti?»
Il signore di Baia della Cometa indossava una sopravveste color magenta ed una blusa dalle maniche a sbuffo dello stesso colore della terra riarsa, con non poche ricamature color prugna lungo tutte le maniche.
«Sono qui a parlarti di una questione molto complicata. Sono sicuro, però, che saprai comprendere il modo in cui ti racconterò ogni cosa. Su comando di Ortys Wysler e di patres Steffon, mio signore, io sono venuto fino a te per riferirti che il torneo è corrotto
Ci fu un momento di quieto silenzio in cui non si avvertì neppure il fruscio della più piccola mosca. Poi, Darrick sorrise mellifluamente. Che non avesse capito? «Come sarebbe a dire corrotto, ser Bartimore?»
Bart raccontò la vicenda per filo e per segno, sforzandosi nell’inserire quanti più particolari possibili. Nel farlo, notò come di tanto in tanto Darrick perdesse la concentrazione e guardasse altrove. L’aria del Principe Stellato era una delle più stanche.
«E così credete che unendoci si possa fare qualcosa? Ragazzo mio, sei ancora giovane per capire quale sia la differenza fra la guerra e la pace, penso proprio. Ma se mi assicuri che queste parole provengono anche in parte da Ortys Wysler e dal suo esperto, giuro di cominciare a pensare che quegli uomini abbiano battuto fortemente la testa. In questi giorni non li ho visti al campo, effettivamente… che siano andati a fare scorta di un paio di funghi allucinogeni? Di questi tempi, le incantatrici che ne fanno uso e che li vendono a modestissimi prezzi sono numerosissime. Aborrirei sapere che il buon caro Ortys Wysler fregia le sue scrivanie di simile robaccia.»
«Mio signore…»
Darrick Sunfall si mise in piedi. «Perdonami, ser Bartimore, ma io non posso che dirti di fuggire. Faresti meglio ad abbandonare il torneo, se è così che pensi si possa concludere. Personalmente è ciò che farò io. Ho avuto la mia vittoria: credo che me ne possa bastare anche una sola. Ho combattuto, ho gioito, ho vinto; il popolino ha amato la mia giostra e ha amato la mia prestazione. Ora è tempo che torni a casa, a Baia della Cometa, dove mi attendono vini, feste, banchetti e tanto altro ancora. Ora è tempo che io torni ad essere ciò che ero prima di varcare il confine di Roshby: un signore giocondo e lieto, lontano dalle disgrazie di questa dannata guerra. Le mura di Baia della Cometa sono state costruite dagli antenati degli antenati dei bisnonni del mio signore padre, e per secoli hanno trattenuto fuori ogni disparata forma di insidia. Sono del parere che potranno ergersi ancora per un po’ col titolo di baluardo del mio possente regno, sì. Con ciò non voglio lasciar intendere che io sia un codardo… be’, ricorda solo che la fedeltà ha lo stesso prezzo del tradimento, in tempo di guerra.»
«Guerra…» mormorò Bartimore. «Ne sorgerà un’altra se qualcuno non proverà ad opporsi. E ci saranno vittime, mio signore, molte più di quante tu possa immaginarne.»
«La guerra è guerra» rispose a tono lui. «E se i signori sono nati per governare, lei è nata per mietere. Uomini o donne, bambini o anziani, ricchi o poveri, siamo destinati tutti a perirne le conseguenze.  Cosa vuoi farci, ser? Un fagotto pieno di mele innalzato contro la penuria non pone fine alle carestie… e una spada contro un gigantesco conflitto non è che uno spuntone in un gomitolo fin troppo intricato. La mia famiglia ha già sofferto abbastanza, non posso far altro che correre ad assisterla il più presto possibile. I miei uomini necessitano del loro signore.»
Bart aggrottò le sopracciglia e rimase per un attimo a meditare. «Ma, mio signore…  questo non sarebbe onorevole» disse. «Io ti ho visto combattere al torneo di questa cittadina e, prima ancora, anche se indirettamente, a quello indetto anni fa da Dalton Kordrum. Ero solo un bambino e non ricordo molto di te. Eppure Dalton mi ha spesso raccontato quanto grandi fossero stati il tuo valore ed il tuo coraggio. So che al torneo di Sette Scuri vincesti tre quintane di seguito e abbattesti il ser Testarasata, Pynnel Sygar e Jonathan Crabber. Dalton ti premiò con la corona d’alloro e fece salire la tua signora nel palco dei nobili affinché ti incoraggiasse nei duelli. Cenaste insieme quella sera, Dalton non smetteva mai di parlarmene. Ricordava a memoria tutte le canzoni che gli proponesti… e mi narrava spesso e volentieri del potere della tua voce. So che amavi circondarti di giullari e musici. E so che Dalton Kordrum ti permise di portarne un paio anche alla sua corte… cosa di cui non si pentì mai. Ricordi, mio signore?»
«In parte» fece lui. «La mia memoria vacilla come un’enorme pila di stivali traballante, e io mi avvicino all’età anziana di mio padre e di mio nonno. Vorrei poter vivere in pace gli anni che mi restano, se non chiedo troppo. Vorrei poter tornare a casa tutto intero e il più presto possibile. E, infine, vorrei poter tornare alla terra, in una tomba tranquilla, accanto ai miei avi… nelle mie terre, non in quelle nemiche e straniere.»
Bart aveva capito cosa volesse dire, ma continuò ad insistere. «Mio signore, con ciò vorresti dire che stai per abbandonare il campo?»
«Con tuo rammarico» disse. «Sì.»
«Ma… ma… mio signore, sei stato tu a parlarmi per primo di giustizia quando Wictor Wyndwat mi ha umiliato di fronte ad una folla di cavalieri e nobili. Sei stato tu a dirmi che il suo era stato un gesto vile come pochi. Abbandonare il campo non farà di te un nobile galantuomo.»
«Se posso» cominciò tossendo. «Mi costringi ad ammettere che non mi importa affatto di come appaia la mia galanteria agli occhi del mondo, in questo momento. Io vorrei essere il galantuomo di mia moglie, se non chiedo troppo. Sarai d’accordo con me, ser Bartimore: se ci sono cose a cui non si può dire addio, queste sono la famiglia e la casa; il resto conta davvero poco. Potrò pure sembrare un vigliacco, ser Bartimore, ma non ho intenzione di cedere alle tue provocazioni. Bella storia, quella del torneo di Sette Scuri, per quanto sia un peccato che io non sappia neppure di cosa tu stessi parlando.»
Bartimore fissò i suoi occhi, pozzi d’acqua scura e malsana, al cui centro s’era ormai spenta ogni forma di bagliore. Il Principe Stellato distolse lo sguardo dall’ospite e rivolse la sua testa al lumino che ardeva accanto alla pergamena.
«Peraltro» riprese «Mi sembra di notare che non sono l’unico ad avere una memoria corta. Se non sbaglio, quando ti parlai della giustizia e del comportamento adottato da Wictor Wyndwat, ti dissi anche che a volte sarebbe meglio per tutti essere ciechi. Spesso, non vedere il movimento del male è un ottimo modo per non conoscerlo e non prenderne parte». Il Principe Stellato scosse la mano destra in direzione dell’uscita, congedando definitivamente Bartimore. Prima che il ragazzo fosse fuori, Darrick Sunfall fece passare la mano sulla fiamma del lume, che si affievolì fino a spegnersi definitivamente.
«E io, da ora, vorrei essere un po’ più cieco». Il fumo che fuoriuscì dal lume divagò nell’aria fino a sfumare completamente, lasciando che il buio avvolgesse il padiglione. L’ombra e la figura del Principe Stellato furono divorate dalle tenebre. 

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Note d'autore
Buongiorno e benvenuti in questo nuovo aggiornamento!
Il seguente capitolo ci ha dato modo di prendere un respiro di sollievo dalla continuità del torneo, nonché dagli ultimi scottanti avvenimenti riguardanti il complotto, la guerra e il piano dei lealisti. Piuttosto, molti di voi mi hanno fatto sapere già il loro punto di vista circa il piano adottato da patres Steffon... alla luce di questi avvenimenti, cosa ne pensate?
Questo passaggio di transizione ci ha permesso di analizzare la figura di Darrick Sunfall, un personaggio che avevamo visto ben poco. In molti avevano altre idee di lui - Bartimore e Ortys compresi - per cui, vi aspettavate una sua uscita del genere? Credete che le motivazioni sostenute da Darrick Sunfall - i suoi doveri di marito, padre e signore - siano giustificazioni ammissibili? E ancora, pensate che sia corretto o sbagliato il suo parere riguardo alla guerra? Nessuno può opporsi... o anche la più piccola luce nella più oscura notte potrebbe fare la differenza? Diciamo che il ragionamento di Darrick è un pensiero attuale, contemporaneo anche ai nostri giorni, introducibile in qualsiasi ambito della vita... e forse è questo che mi ha spinto ad inserire un personaggio non tanto codardo, quanto illusorio in questa storia... in cui già i figuri misteriosi non mancano. 
Io ringrazio ognuno dei miei lettori, nuovi o vecchi che siano, per il supporto datomi non solo nel leggermi con costanza, ma anche nel recensirmi. Ora mancano davvero pochissimi capitoli alla fine del primo libro... per cui, stay tuned!
Al prossimo aggiornamento
 [lunedì 12 Giugno]
Makil_


 

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Capitolo 22
*** XXII ***


Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
Castellano: figuro (molto spesso un esperto) incaricato di reggere, in vece del sovrano al quale è subordinato, un altro regno, un piccolo borgo o una cittadina appartenente all'uomo cui giura lealtà. 

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Non di certo soddisfatto, Bart si recò a parlamentare con qualcuno di meno testardo di Darrick Sunfall, per quanto la delusione di non aver saputo adempiere il compito lasciatogli da Ortys non lo aveva rasserenato affatto.
Il padiglione di Hollard Norstone s’innalzava ancora nel punto in cui Bart l’aveva visto l’ultima volta. Almeno questo, pensò, non era ancora caduto in rovina. Malgrado la tenda non fosse delle più belle e sfarzose, poteva vantare di essere tre volte più larga ed ampia del padiglione di Ortys Wysler, accesa dalle forti gradazioni del porpora, dell’arancione e del giallo. La punta, su cui uno spesso stendardo garriva a malapena, era tinta di un rosso così acceso da risaltare nel complesso.
Trovò ser Dayn davanti alla cortina dai drappi color fuoco, la mano destra sul fodero della spada e l’altra sul pomolo sciupato.
«Ser Bartimore» lo accolse sorridente. «Come vanno le cose, caro amico?»
Bart si guardò attorno tre volte prima di avvicinarvisi lemme lemme. «Ogni cosa potrebbe andare meglio, ser Dayn. Abbiamo una bevuta in sospeso, se non sbaglio. Che ne pensi di scambiare due chiacchiere?»
«Qualsiasi desiderio è per me un piacere.» rispose il ragazzo. I suoi lunghi capelli gli ricaddero davanti agli occhi quando voltò rapidamente la testa e si fece spazio per entrare. «Entriamo pure.»
La tenda di Hollard Norstone aveva tutta l’aria di essere stata disabitata per molto tempo, nonostante la presenza di altri due uomini armati negasse quel suo aspetto. All’interno del padiglione, oltre che il profumo della carne abbrustolita appena portata sui tavoli, regnava l’acre odore della pelle fresca di animale.
«Siedi pure con noi, ser Bartimore». Ser Dayn lo fece accomodare su una sedia di legno dalla gambe semidistrutte e vacillanti, assicurandosi personalmente che fosse al tavolo con loro.
«Cosa gradisci?» chiese uno dei due altri cavalieri presenti al tavolo. «Assaggia quei maialini da latte, ser,  ti assicuro che sono squisiti.»
«Grazie, ma non ho fame.»
«E sia» fece uno dei due. «Vorrà dire che noi mangeremo di più.»
Ser Dayn non insistette ulteriormente, ma gli porse un calice colmo di vino viola e si assicurò che Bart bevesse con lui qualche sorso. Il ragazzo aveva l’aria di un uomo, per quanto il suo volto fosse glabro e pallido. «Hai il viso di qualcuno con cui poter potere avere conversazioni interessanti» disse Dayn sorridendogli. «Dimmi tutto.»
«Dayn, amico» cominciò Bart che non sapeva affatto come iniziare. «Questi uomini sono con te?»
«Dipende» rispose lui criptico. «Nella maggior parte dei casi li trovi con me, nell’altra restante loro mi sono contro… ma solo quando si tratta di puntare scommesse, sia chiaro. Sono imbattibili, te lo assicuro.»
I due risero di buon gusto, e uno finì per sputacchiare ciò che stava masticando.
«Allora potete ascoltarmi tutti» confermò Bart. Poi iniziò a spiegargli il motivo della visita, fermandosi più e più volte per assicurarsi che i due cavalieri intenti a cenare non perdessero il filo del discorso. Rispose alle loro domande, ad alcuni dei loro dubbi, accertandosi che non avessero perplessità su ciò che stava dicendo. Appena concluse il suo discorso, Bart restò in silenzio ad ascoltare il brulichio delle fiamme in una stufa a carbone poco distante. Qualche uccello stava svolazzando all’interno della propria gabbia, facendo innalzare polvere e piume sulla credenza in cui era lasciato a riposare. Ser Dayn s’incupì non poco.
«Io… ser Bart… io non avrei mai immaginato…» balbettò Dayn. «Com’è possibile tutto ciò?»
«Non lo so, ser Dayn.» rispose vago Bart. «Ma ho pensato di informarti per assicurarmi che tu fossi al corrente di tutto. E che voi foste con noi.»
«Un gesto per cui ti ringrazio cinque volte, ser Bartimore. Ma…»
«…e ti sarei grato se informassi anche il tuo signore di questo.» lo fermò bruscamente. Bart non aveva visto Hollard Norstone al padiglione e non poteva affatto permettersi che lui rimasse all’oscuro di tutto ciò. Preferì assicurarsi che ne venisse informato al più presto, d’altronde erano le sue forze che servivano ad Ortys, e Bartimore non doveva fallire un’altra volta.
«Senza alcun problema» rispose fermamente ser Dayn, il volto ormai serio e contratto in un’espressione di incredulità. «Sono sicuro che il mio signore saprà cosa fare: lui è un uomo degno della sua discendenza di nobile, davvero. Autorevole, austero, cordiale, altruista e benevolo al tempo giusto. Io servo Hollard Norstone come i miei esemplari alati servono me.»
Bart annuì. «Non ho dubbi. Ser Dayn, c’è qualcun altro che conosci qui al campo? Se così fosse, potresti fare in modo che coloro di cui più ti fidi sappiano di questo… intrigo.»
«Ci sono un paio di amici, ser Bartimore, uno meno fidato dell’altro però. Potrei, e dovrei, parlarne prima con il mio signore. Se le cose andranno per il meglio, lui accoglierà queste notizie con la consapevolezza di un buon sovrano e il nostro aiuto non ti sarà negato.»
«Non è a me che lo negherete in quel caso» replicò Bart con un certo astio sulla lingua. «In che modo saprò se avrà accettato l’idea di aiutarci o meno?»
Ser Dayn afferrò un pezzo di carne andato a male per terra e lo diede all’allocco che teneva nella gabbia alle spalle. L’uccello divorò il cibo del padrone e gli beccò il dito.
«Semplice, Bartimore». Dayn afferrò un altro pezzo di carne dal piatto del suo amico. «Hollard Norstone sta gareggiando al momento; lo hanno inserito nelle lizze per le gare notturne. Ha sempre amato combattere al buio piuttosto che alla luce del sole: dice che la luna riesca a renderlo forte. Solitamente è di buon umore quando vince una quintana, per cui potrei sfruttare quel momento per accennargli il problema.»
«Accennare, solamente?» chiese Bart. «Ser Dayn… non vorrei essere troppo oppressivo, ma purtroppo non c’è il tempo di accennare e basta. C’è bisogno che il tuo signore si convinca seduta stante.»
«Ci proverò, davvero. Se mai dovesse portare a casa la vittoria, convincerlo sarà un gioco da ragazzi. Ma se dovesse essere abbattuto… insomma… tutti sarebbero furiosi…»
Uno dei due cavalieri al tavolo attirò l’attenzione di Bart, finalmente, spezzando il suo silenzio tombale. «Io ho un paio di amici, cavaliere. Posso chiamarli, se hai bisogno. Sanno come comportarsi; gente a posto loro, te lo assicuro. Se mai il mio signore non dovesse accettare, intendo.»
«Ser Clewyn, se stai parlando di quei tuoi due amici cavalieri che passano il tempo a macellare le mucche nelle fattorie più vicine, puoi anche evitare di farli conoscere a ser Bart. E lo stesso vale per quel tuo sciocco amico che si fa chiamare ser Willy Corpo-Grosso»
«Colpo» corresse ser Clewyn. «Non corpo, Dayn. E molte fanciulle di malafede si ostinano a sostenere anche altro.»
«Non mi riferivo a quel mezz’uomo» rispose Dayn. «Parlo del vile.»
«Il vile?» borbottò il cavaliere di nome Clewyn. «Assolutamente no, Dayn. Per l’amor del cielo, proprio no, anzi! Quelli di cui parlo sono amici di famiglia… mai mi andrebbero contro.»
L’altro cavaliere ruttò sonoramente e poggiò entrambi i gomiti sul tavolo. «Ser Bart, la tua causa è giusta. Io sono dalla tua parte.»
«Ser Vincent, non pensavo fossi così coraggioso.» lo schernì ser Clewyn.
«Le Grazie dovevano pur darlo a qualcuno il coraggio… tenerlo tutto per loro sarebbe stato inutile.» rispose lui gravemente. «Vado a chiamare Donant, lui ci può aiutare sicuramente. Ser Dayn, se non sarò qui per notte, assicurati che il mio cavallo abbia briglie attaccate e tutto il resto. Poh! E chiamerò anche Arrel… il ragazzo ha la stoffa per seguirci in campo… e sua madre vuole che diventi forte». Il cavaliere non attese neppure una risposta o un cenno, si alzò e caracollò verso l’uscita.
Tornerà mai?” si indusse a pensare Bart. Le sue condizioni erano pessime, dopotutto, ma Bartimore doveva pur confidare in qualcosa. «La speranza non muore mai, neppure quando il suo portatore abbandona la terra» osava sempre bisbigliare Dalton al suo orecchio, con una saggezza tanto robusta da continuare a perdurare ancora nella sua mente.
Ser Dayn si alzò dalla sedia e afferrò il piatto di cibo presente al centro della tavola. «E cos’è che avete intenzione di fare?»
«Contro di loro?» fece Bart. «Ortys Wysler e patres Steffon faranno in modo che dei carri trasportino le nostre armi nelle stalle del campo. Le utilizzeremo quando saremo certi che l’attacco a Melkor Winemors starà per essere messo in atto. Dopodiché scenderemo dagli spalti e afferreremo le nostre spade, e poi… e poi…» “E poi?”«E poi solo le Grazie potranno assisterci. Non so proprio cosa succederà dopo.»
Ser Dayn annuì delicatamente, sganciò la piccola spranga che teneva chiusa la gabbia dell’allocco e infilò dentro la mano per accarezzarlo. «Sei stato al campo, vero, Bartimore? Avrai visto che c’è un palco per i nobili e che ci sono occhi puntati sulle lizze in ogni direzione. Che cosa farete con loro? Insomma, nessuno vieterà a quegli uomini di dare l’allarme.»
Baldon Doradon capirà, se mai dovesse vedere.” pensò Bart. Ma quanto agli altri due? «Patres Steffon ha detto che sapremo cosa fare solo quando Melkor Winemors sarà gettato giù dal cavallo. Non sappiamo se hanno intenzione di mettere in atto un rivolta a tutti gli effetti… insomma, sono pur sempre voci quelle su cui ci basiamo. Ecco, voci che parlavano di…»
«Di?» chiese curioso Dayn con un pizzico di incertezza sulla lingua.
«Vino rosso come il sangue» farfugliò Bartimore tutto d’un fiato «E non di certo il loro». Vuotò il calice in bocca e lo posò sul tavolo. «Ser, credo sia ora che io vada. Devo ancora fare quattro passi prima di tornare al mio padiglione… camminare nella notte e respirare un po’ dell’aria notturna di questo campo mi fa pensare molto. E domani non so cosa possa attendermi fuori dalla mia tenda.»
«Vuoi già andartene, ser Bart?» chiese ser Dayn provando a soffocare il dispiacere. «Se rimanessi almeno un altro po’, potresti riuscire a vedere l’allocco addormentarsi. Fa sempre tre giri su sé stesso prima di accoccolarsi: è una scena così simpatica…»
Bart gli sorrise. «Ti prometto che lo vedrò, ma non questa sera». “Non c’è tempo per le simpatie, questa sera”.
Sentendosi congedato, Bart fece per uscire, dopo aver saluto tutti i presenti ed averli ringraziati per l’aiuto fornitogli. Allora, Dayn lo fermò.
«Vedo molte capacità in te, ser Bart, dico davvero». Gli occhi di ser Dayn si fecero lucidi. «Mi ricordi molto mio fratello Alys in alcuni tuoi modi di fare e di porti. Era un giovane abbastanza in gamba lui… e io gli volevo davvero molto bene. Ma lui è morto tanti anni fa, mio caro amico, in una feroce rivolta. Vorrei aiutarti, credimi… così come avrei voluto aiutare lui.»
«So che lo farai, ser Dayn.»
Dayn si alzò in piedi, portò le mani ai fianchi e sfilò rapidamente la sua spada. Il suono metallico risuonò nell’aria e si disperse nel padiglione, mentre la lunga lama lucida rifletteva lo scintillio delle braci.
«Risposta corretta, amico. Ma saperlo non basta: sono le certezze che tu vuoi, e tanto avrai da me. Tu sei un cavaliere del Sud» iniziò alzando la spada. «E lo sono anch’io. Considerami dalla tua parte allora, ser Bartimore, qualunque sia il giudizio del mio signore.»
Bartimore stava per aggiungere qualcosa quando la cortina alle sue spalle si spalancò improvvisamente. Una folata di gelido vento accompagnò l’entrata di figura alta, massiccia, dalle spalle robuste e il collo taurino. L’uomo indossava un’armatura incrostata di terra e sangue, logora quasi quanto una roccia franata dalle montagne. Non curandosi dell’ospite, Hollard Norstone si sfilò l’elmo dalla testa, scombinando la sua capigliatura grigia con la mano sinistra. Bart pensò il peggio quando l’uomo mostrò a tutti la lunga cicatrice che gli percorreva il volto, ancora grondante di sangue fresco, e la spada che traballava al fianco.
«Sono caduto da cavallo» annunciò con voce tonante. L’uomo portò in avanti il petto e si fece rubicondo sul volto, poi rise fragorosamente. «Ma l’ho abbattuto io quel cane rabbioso di un Alberryng. Abbiamo vinto, giovani! Abbiamo vinto! Abbiamo vinto!»
Bartimore si trattenne giusto un altro paio di secondi, il tempo che bastò per vedere la sua ridotta scorta di uomini alzare i suoi calici colmi di vino in aria, acclamando la vittoria della loro signoria. Ser Bart sorrise soddisfatto nel farsi strada fuori, consapevole che quella sera, per la prima volta dalla partenza da Sette Scuri, anche lui era stato un vincitore. 

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Note d'autore
Buonasera, cari, e bentornati a Pantagos!
Se il colloquio con Darrick Sunfall non aveva prodotto alcun frutto, quello con ser Dayn pare aver dato un minimo di speranza al piano di Steffon e all'animo di Bartimore. Ser Dayn, come al primo incontro con il nostro beniamino, si è dimostrato subito affabile, cordiale e pronto all'ascolto. Avete dubbi sulla sua figura?
Hollard Norstone, il suo signore, pare aver riportato la vittoria che tanto lo farà giocondo... si sa, con un bel calice di vino in mano e una vittoria di cui vantarsi, gli uomini di quel tempo erano sempre più disposti al confronto. Come pensate che prenderà il tutto Hollard Norstone, una volta narratagli la vicenda da ser Dayn? Pensate che il cavaliere della sua scorta - essendo votato a lui - riuscirà a convincerlo più o meno di Bartimore? E cosa pensate della superficilità talvolta mostrata da ser Dayn? O, ancora, del comportamento generale del seguente cavaliere e dei suoi compagni di tenda? 
Se c'è qualcosa che non ho chiesto, ma che avete voglia di dire, io sono ovviamente disposto ad ascoltarvi. Ci avviciniamo alla fine... ormai manca davvero pochissimo (ma davvero, eh!), per cui mi farebbe tanto piacere iniziare a conoscere il parere di tutti quei numerosi lettori che fino ad ora hanno preferito restare nell'ombra. 
Con un immenso grazie per tutto ciò che fate e dite per questa storia, io vi saluto anche oggi! Il prossimo aggiornamento [lunedì 19 c.m.] darà spazio ad Esmerelle - che per adesso avevamo lasciato - e...e... non posso svelare altro! 
P.S. Lo spin-off promesso è finalmente in fase di stesura: con ciò voglio informarvi che il primo capitolo è già bello pronto, e che - una volta conclusa la scrittura del secondo - inizierà ad essere pubblicato. Credo che ne sarete informarti tutti personalmente tramite mp, quindi state tranquilli; non ve lo perderete per strada! ;)
Ancora grazie a tutti!
Makil_



 

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Capitolo 23
*** XXIII ***


Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
Castellano: figuro (molto spesso un esperto) incaricato di reggere, in vece del sovrano al quale è subordinato, un altro regno, un piccolo borgo o una cittadina appartenente all'uomo cui giura lealtà. 

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Fuori dal padiglione di Hollard Norstone, la notte incombeva sul campo come una bestia affamata pronta ad azzannare le proprie prede. Un rombo cupo nel più alto dei cieli aveva segnato l’inizio di un temporale: ora la pioggia cadeva fitta e scorreva sul terriccio come un fiume in piena.
Bartimore camminò verso il suo padiglione, oltrepassando con noncuranza gli sguardi indiscreti di tutti quei cavalieri presi dalle cene attorno ai loro fuochi. “La felicità di chi non sa ciò che lo aspetta” si disse camminandovi vicino. Passò accanto al piccolo giaciglio di un mendicante che, con il cappello tra due mani e i capelli completamente appiccicati sul volto, chiedeva del pane da mettere sotto ai denti e qualche argento da posare in tasca. “Te ne darei un paio, se solo avessi qualcosa con me”.
Procedette lungo la strada fino a trovarsi dinanzi alla propria tenda. «Beati coloro che non hanno denaro da spartire con gli altri a causa della loro povertà, perché in loro risiede la ricchezza del mondo.» soleva dire Dalton Kordrum, lo stesso uomo che, più di una volta, si era battuto con ogni sua forza per il benessere del suo popolo, benestante o no che fosse.
Esmerelle aveva fatto ritorno al padiglione e si era anche occupata di legare le briglie dei cavalli al salice. La ragazzina stava imparando quante più cose sulla vita cavalleresca: non che Bartimore si ritenesse esattamente il genere di maestro adeguato a quel compito, ma non poteva far finta di non vedere quanto il viaggio e il tenore di vita aspro di un cavaliere avessero fatto crescere la ragazzina bionda. In meglio o in peggio, non stava a lui giudicarlo.
 Lenticchia stava attendendo il suo arrivo indispettito, nervoso come poche altre volte. “Anche lui sa cosa sta per accadere”. Se era vero che gli animali percepivano i disastri prim’ancora dell’uomo, Lenticchia doveva già essersi reso conto della gravità degli eventi che stavano prendendo luogo nel campo.
Poco lontano dal salice, Esmerelle si stava esercitando con la sua lama. La ragazzina aveva preparato una poco graziosa figura di paglia e legno su cui poter sfogare i propri colpi, e ne aveva sotterrato la base nel terreno affinché non cedesse al primo soffio del vento. Vagamente, quel colosso di paglia e fango aveva le insolite sembianze di un uomo calloso, nerboruto e quasi ciclopico, senza occhi a redarguire lo spirito indomito della fanciulla che lo combatteva.
«Ah, sei qui, Bartimore» fece non appena lo intravide. «Pensavo che non ci saremmo più rivisti: non che me ne sarei fatta un dispiacere, sia chiaro». I lucidi capelli biondi resi sporchi dalla poggia e arruffati dal vento le incorniciavano il viso come oro fuso, donandole un aspetto regale e nobile, come fossero, nell’insieme, un brillante velo intinto del chiarore del sole e delle stelle della notte.
«Ho avuto da fare» si giustificò Bart. «Si trattava di un’urgenza.»
«Talmente urgente da farti dimenticare di me?»
Bartimore indugiò. «Perdonami, Esmerelle. Hai ragione, avrei dovuto assicurarmi che tu fossi tornata qui. Puoi accettare le mie scuse?». “Stessa situazione del castagno, stessa pioggia e stesso impiccio. Con l’unica differenza che adesso a chiedere scusa sono io”. Bart sorrise fino a digrignare i denti.
Esmerelle lo guardò torvo, rinfoderò la lama e si spostò con lui sotto al castagno. «Dove sei stato?»
«Ortys è tornato» rispose Bart. «E patres Steffon voleva vedermi con la massima urgenza. Mi hanno detto che il Sud è stato preso dai nemici, purtroppo. Persino Sette Scuri è caduto. E la mia signora madre è fuggita a Nord.»
«Come sarebbe a dire? » chiese addolorata lei accostandosi maggiormente al salice.
Bart alzò le spalle. «Nemici dalle Terre Spezzate, Esmerelle. Gli stessi uomini che ora hanno parenti disseminati qui al campo di Roshby. La guerra non avrà mai veramente fine... forse perché nessuno vuole che essa ne abbia una». Nel pronunciare quelle parole, il suo pensiero si rivolse inevitabilmente al Principe Stellato.
«Tutto ha una fine e un inizio.» fece Esmerelle. «Finirà, prima o poi. E finirà nel sangue di tutto il reame, che ti piaccia o no. Ho visto finire la vita di mio padre, quell’uomo che io credevo indistruttibile da bambina. E se è caduto lui, ogni cosa può cadere.»
«Non è così, Esmerelle. Questo conflitto va avanti da tre anni… tre dannatissimi anni! Non tre ore, non tre giorni! Tutti coloro che hanno provato ad opporsi sono morti, tutti coloro che hanno provato a sedarlo sono scomparsi. Non esiste benefattore o devoto in grado di fermare la guerra: questa è la dura realtà.»
«Ovvio, perché le Grazie non sanno cosa significa combattere una guerra. Loro se ne stanno lassù, nel cielo, in attesa che noi le preghiamo a le supplichiamo di aiutarci. Ma loro non sanno cosa significa odiare; loro non sanno cosa vuol dire avere fame di vendetta. E nemmeno i devoti. Te l’ho detto, solo il sangue potrà dare una fine a questo disgraziato conflitto.»
Vino rosso come il sangue”. Quelle parole risuonarono oscure nella mente di Bart, rauche, metalliche e minacciose. Di colpo, un brivido di freddo attraversò per lungo la schiena di Bartimore. «Esmerelle, hai preparato tutto per domani?»                                                                                             
«Domani?» fece lei. «Cosa c’è domani?»
«La mia giostra» rispose Bart cercando di non far trasparire la presenza della bugia. “E quasi sicuramente quella di tutti.”
«Dici sul serio?» chiese la ragazzina. «Come fai a saperlo?»
Bart rifletté un attimo. Le parole che seguirono uscirono dalla sua bocca come spontaneamente. «Me lo ha detto patres Steffon, proprio mentre mi tratteneva nella tenda di Ortys. Lui ha un paio di amicizie giù al campo... sì, uno stalliere ad esempio. Oh, e molti organizzatori lo conoscono meglio di Ortys Wysler. E indovina con chi mi sfido?»
Esmerelle corrugò la fronte pensierosa. Bart la guardò riflettere, i biondi capelli ormai sparsi sul capo come una balla di fieno arruffata. «Quell’imbecille di Wictor Wyndwat?»
«Per le Grazie, vorrei.» rispose lui. «No. Contro Darrick Sunfall, signore di Baia della Cometa.»
«Oh, Darrick Sunfall… com’è che lo chiamano? Il Principe Stellato… senti come suona bene? Il principe e il cavaliere…» fece lei. «Un duello impari». Gli occhi della ragazzina riflettevano il buio della notte, splendendo azzurri come l’acquamarina. La sua esile figura dalle forme poco accentuate era talmente graziosa sotto la pioggia, che Bart si sentì attratto da lei per qualche istante. “A freno la mente e gli impulsi, cavaliere. Quello non è pane per i tuoi denti.”
«Dovrò essere pronto» spiegò Bart. “A qualsiasi cosa e a qualsiasi costo”. «Ho bisogno che domani mi prepari ogni pezzo dell’armatura, se è possibile. Dovremo essere al campo prima dell’alba.»
«Prima dell’alba?» ripeté lei. «Sveglieremo i galli, così facendo.»
«Ci sono molte cose da preparare. E poi anche i galli hanno bisogno di qualcuno che li svegli». “Ecco cosa devo fare pur di proteggerti!” «Ah, e io dovrò passare la cote su Lungacresta.»
«È talmente lunga da richiedere una notte di lavoro?»
«Neppure immagini quanto tempo ci voglia. Oh, e dovrai badare a Lenticchia per un po’, per favore, e montare le briglie questa sera stessa.»
Esmerelle si limitò a fissarlo disinteressata. Quando la pioggia li costrinse a retrocedere con le spalle sulla corteccia del salice, si ritrovarono inevitabilmente l’uno vicino all’altra.
«Hai dato un nome alla tua spada?» domandò Bart passandosi una mano sulla fronte per asciugarla dall’acqua piovana.
«Non ancora» rispose Esmerelle. «E non credo che lo farò. Ho pensato ad ogni nome possibile ed immaginabile, ma non me ne piace nessuno. Una spada anonima taglia come una spada col nome.»
«Giusto. Assicurati che sia con te, domani.»
Gli occhi di Esmerelle gli si piantarono addosso, splendenti come fari nella notte. «Sbaglio o mi avevi fatto promettere di non utilizzarla mai?»
«Utilizzarla?» sbraitò Bart. “Dannazione!” «Non ti ho detto di farlo. Tienila con te domani e sempre.»
«E perché?» domandò lei incapace di dare spiegazione alla contraddittorietà di Bartimore. «Domani sarai tu a combattere, non io. E non serve una spada nei tornei di bastoni.»
«So cosa serve nei tornei di bastoni. Ho detto che devi portarla, non aggiungere altro.»
«La lama non è ancora abbastanza tagliente» ribatté Esmerelle senza badare neppure un momento alle sue parole. «Anche se l’avrò con me, sarà meno utile di un laccio.»
«Anche i lacci sanno essere taglienti se affilati. Potrai passarci la cote questa notte, te lo concedo.»
«Me lo concedi? Per caso mi hai scambiato per una schiava o per una sporca concubina? Io faccio quello che voglio e che sento di dover fare.»
«Dovresti voler passare la cote, allora. Neppure immagini quanto sia necessario farlo.»
«Devo farlo io? Sono una ragazza, ser, e non ho mai affilato una lama». Esmerelle inarcò le sopracciglia. «E tu che farai nel frattempo? Sbaglio o anche tu hai delle mani abili come le mie? Dovresti iniziare ad usarle.»
«Posso farlo adesso.»
Bart la prese delicatamente nel suo abbraccio, la strinse a sé, accarezzò la sua guancia e posò le sue labbra su quelle di Esmerelle. Il gesto che seguì fu naturale come lo sbocciare, nel pieno di una rigogliosa stagione primaverile, di una gemma. Quello che Bartimore le riservò fu un bacio lento, in cui le lacrime d’acqua scesero suoi loro volti incorniciandoli entrambi e solcando i loro lineamenti per costringerli a fondersi in tutt’uno di forme. Il rumore della pioggia smise per un istante di echeggiare nell’aria, silenziato dall’inatteso romanticismo del momento. Le labbra della ragazzina bionda erano delicate come un cuscino di piume, soffici e morbide come il cotone appena estratto.
Malgrado l’insistenza di Bartimore, quel bacio fu tutto meno che lungo. Quando Esmerelle ritirò indietro il volto e mandò avanti le mani, la pioggia tornò fragorosamente a ticchettare sul terreno. Seguì uno sguardo imbarazzato, proprio di una fanciulla ora aggraziata come una principessa, gli zigomi solcati da una leggera sfumatura di porpora. L’occhiata che gli riservò dopo poco fu un monito freddo, indiscutibile, quasi un rimprovero glaciale. La ragazzina non accennò neppure minimamente un sorriso né aggiunse nulla al suo silenzio, ma si voltò facendo schizzare via un paio di goccioline d’acqua, per poi correre dentro al padiglione.
Che cosa ho fatto?
Bartimore non aveva mai baciato una ragazza, per quanto fosse stato baciato molte volte. Non aveva avuto problemi nel lasciarsi trasportare dai propri sentimenti, dall’entusiasmo del momento. Ricordava ancora l’imbarazzo che aveva provato quando Jayne Wealfing, la dolce principessina di Alto Vessillo, aveva posato le sue labbra su quelle sue. Bart era solo un ragazzino allora, e quello era stato un bacio furtivo, immaturo, brutto, nel quale non aveva trovato nulla di romantico.
Adesso la situazione era totalmente differente. Forse perché aveva saputo che non c’era più tempo da perdere, o forse perché aveva totalmente smarrito il senno andandosene così tante volte in giro per il campo, Bartimore non aveva riflettuto affatto sul possibile esito di quel gesto. Baciare Esmerelle lo aveva riportato in vita, per un momento, e gli aveva dato quella sorta di stimolo a non abbandonare neppure per un solo istante lo scopo della sua missione al campo. Una strana sensazione, quasi una spinta, ad agire per uno scopo preciso che prima non era ben definito nella sua mente. Posare le sue labbra su quelle soffici della ragazzina lo aveva fatto tornare a Sud, a casa, tra le calde mura del regno del suo signore. Ora era come se lui non fosse lì, al campo di Roshby, a riflettere su una battaglia che non apparteneva a loro due. Come se la guerra non fosse mai sorta nel reame di Pantagos; come se lui non si fosse mai separato dai suoi fidati amici, dal suo signore, da sua madre. Come se il mare in tempesta che con le sue onde non aveva smesso di stargli alle calcagna dal giorno in cui i portoni di Sette Scuri si erano richiusi alle sue spalle si fosse finalmente allontano dalla baia, quieto, spianandogli la strada verso il suo ultimo obiettivo. Come se quegli istanti celassero, in realtà, la bellezza eterna di un momento dannatamente perfetto. 

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Note d'autore
Buondì carissimi!
Vi avevo preannunciato che in questo aggiornamento avremmo rivisto la fanciulla bionda, che in questi ultimi capitoli era stata messa un po' di lato - a buone ragioni, probabilmente! 
Abbiamo ora una svolta atipica nella storia, ma non completamente inattesa: insomma, il titolo dell'opera nonché la stessa nota sulla voce "coppia", purtroppo, avevano lasciato presagire da tempo immemore questo particolare. E quindi, ecco qui, la scintilla pare essere definitivamente scattata. Almeno da parte di Bartimore, però... povero!
Be', il suo vi è parso un gesto giustificato da un'attrazione fisica per Esmerelle o da un coinvolgimento molto più profondo? O forse il suo gesto può essere giustificato dal fatto che abbia intuito - a seguito degli ultimi avvenimenti - che occorre rimboccarsi le maniche perché non c'è più tempo da perdere? Inoltre, come vi è sembrata la reazione di Esmerelle? Il suo allontanamento sarà stato dettato dal suo forte e potente orgoglio, o si tratta, invece, di un categorico rifiuto? 
Ad ogni modo, sarei davvero curioso di conoscere ogni vostro parere; per cui ditemi, ditemi, ditemi!
Io concludo ringraziando chi, fin dal primo aggiornamento, ha seguito me e Bartimore in questa non proprio dolce avventura, lettori silenziosi compresi. Vi auguro un buon lunedì e vi do appuntamento al prossimo capitolo: l'epilogo, ormai, è prossimo!
Makil_

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Capitolo 24
*** XXIV ***


Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
Castellano: figuro (molto spesso un esperto) incaricato di reggere, in vece del sovrano al quale è subordinato, un altro regno, un piccolo borgo o una cittadina appartenente all'uomo cui giura lealtà. 

Ossa di tanverna: vengono impiegate, fuse, nella creazione di gioielli d'importantissimo valore e armi, poiché molto robuste, lunghe, e spesso colme di essenze magiche o, addirittura, proprietà venefiche. 
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Un risveglio traumatico preannunciò una giornata traumatica.
La pioggia aveva continuato a battere incessantemente su ogni angolo di Roshby, causando non pochi problemi. Il campo si era quasi del tutto svuotato di uomini, e alcune tende erano come evaporate. Tra le scomparse, purtroppo, c’era anche il padiglione di Darrick Sunfall. “Un vigliacco, senza dubbio.”
A giudicare dal buio fitto del mattino, come se neppure il sole avesse intenzione di risvegliarsi dal suo sonnecchiare per illuminare quel triste giorno, nessuno poteva assicurare che fosse davvero l’alba. Nuvole grigie chiazzavano il cielo, macchiandolo come pozze di olio scuro su una tovaglia che di bianco aveva solo i bordi. Nessun gallo cantò quel giorno, né alcun araldo si esibì nelle sue solite composizioni pompose e trionfanti. Non ci furono i soliti vocii indistinti di masse di cavalieri intenti a limare le loro armi, gettare fango sui loro stivali, lucidare le loro armature al lago, serrare i loro scudi e i loro bacinetti. Quel giorno pieno di rammarico non poté che incidere un solco più aspro sul dolore che già affliggeva Bart. Rapidamente si gettò un po’ d’acqua fresca sul volto per accelerare il suo risveglio, attaccò Lungacresta alla cintola e indossò pian piano l’armatura. Si prese un paio di minuti per osservare tristemente il cupo cielo che quel giorno aveva deciso di salutarli. La sera prima di andare a dormire, patres Steffon aveva fatto un salto al padiglione di Bartimore ed Esmerelle, giusto per assicurare il ragazzo che ogni cosa stava andando per il meglio. Ciononostante, Bartimore non ebbe il tempo di raccontargli i suoi esiti, in quanto gli era parso che l’esperto andasse veramente di fretta, come un dardo grigio scoccato con un’incredibile forza da un preparatissimo avversario. Lo stesso giorno, accertò Steffon, si sarebbe tenuto la tanto attesa – per disgrazia – quintana di Melkor Winemors. Prima di chinare il volto, si lasciò bagnare dalle lacrime del cielo e rivolse una rapida preghiera alle Grazie. “Ora più che mai abbiamo bisogno della vostra forza.”
Non c’erano ovazioni tenute ad alta voce, quel giorno nel campo, né i soliti nitriti dei cavalli a cui venivano attaccate le briglie e gli speroni.
La vita è come un duello con le lame, Bartimore, se cadi e resti per terra t’infilzano, ma se cadi e ti rialzi schivi il fendente che i nemici ti riservano”. Una frase che Dalton non aveva mai smesso di ripetergli. Quel giorno come mai, Bart sentiva il bisogno di farsi valere. Era pronto a tutto, qualora qualcuno avesse avuto intenzione di dichiarare guerra con un torneo. Sapeva che poteva contare sui suoi amici, in ogni caso, che aveva una spada da difendere e con la quale difendersi, che aveva una morte da vendicare. E sapeva soprattutto che avrebbe dovuto fare più di quanto non sapesse fare, pur di risparmiare il peggio ad Esmerelle.
Svegliò la ragazzina poco più tardi. Esmerelle si limitò a concludere i compiti iniziati la notte scorsa senza pronunciare una sola parola. L’imbarazzo era rimasto integro nei suoi lineamenti, malgrado il gesto di Bart non sembrava averla scossa poi così tanto. Bart si era chiesto se, magari, avesse sbagliato, ma si era convinto altrettanto velocemente che era stato un gesto coerente. Se così non fosse stato, Esmerelle non avrebbe avuto certo problemi nel farglielo notare aspramente: questa era l’unica cosa che lo consolava. Eppure, la ragazzina non lo aveva degnato né di un commento, né di un accenno di sorriso. Il suo sguardo era rimasto corrucciato per tutta l’intera mattinata, e mai era finito più di due volte contro quello di Bartimore. La sua espressione era al tempo stesso un rimprovero anche a sé stessa, che forse non si capacitava del motivo per cui si stesse comportando in quel modo. “Magari non ha mai provato tutto ciò” si limitò a concludere Bart. “Forse il suo mondo è sempre stato fatto di solo odio e rancore. E io sono stato un vento stravolgente per lei… fin troppo, magari, nella sua vita. Tutti abbiamo paura del cambiamento.”
Incontrarono Ortys Wysler, patres Steffon e ser Mark fuori dal padiglione del signore di Ardua Scogliera, al riparo dall’acqua sotto una garitta semidistrutta. Il grosso e muscoloso Ortys era ricoperto d’acciaio su ogni parte del suo corpo. L’armatura lo aveva ingigantito enormemente, facendolo apparire come un colosso sospeso su due enormi colonne di pietra lucida. Possente Sovrano pendeva dal suo fianco, lasciando intravedere il suo pomolo a forma di rombo traslucido. La lama, arma ancestrale della sua casa, forgiata, almeno secondo i resoconti degli aedi, a partire dal cuore della roccia di una scogliera impossibile da abbattere, era immobile nel suo fodero. Nel lato opposto, la sua possente mano stringeva uno scudo rotondo, dello stesso colore dell’armatura, con un bassorilievo impresso sul dorso. L’enorme elmo non aveva un celata, ma compensava quell’assenza con un foltissimo pennacchio dai colori sgargianti dell’arcobaleno. L’armatura era lucida come uno specchio, bordata di finissime lineature d’oro che richiamavano alla mente l’opulenza e la straordinarietà della casa Wysler.
Per la prima volta, Bart vide patres Steffon nei panni di ser Steffon. L’esperto si era svestito del privilegio di un accademico per indossare un’altra volta i panni del cavaliere che era stato in passato, con la spada che, probabilmente, lo aveva accompagnato nelle sue avventure. Tutto ciò che aveva indossato Steffon era un’armatura di cuoio spesso, sorretta da qualche giuntura in acciaio sulle spalle e nel petto, dietro a cui svolazzava un mantello nero inchiostro. “Tutto materiale riciclato” pensò Bart. “Un po’ come la sua virtù”.
Quel giorno patres Steffon aveva l’aria di essere più vecchio di chiunque altro, malgrado Bart sapesse che fosse un suo stretto coetaneo. Non un solo barlume di speranza alimentava il suo sguardo, due occhi neri come le ali di un corvo, divorati dall’incapacità di rivedersi attorno a quel trambusto senza onore.
Ser Mark era davvero poco ilare sotto le poche protezioni che l’armatura gli conferiva. Un accenno di barba malcurata era sorto sul suo volto come erbaccia nata su un campo incolto. “Una sola notte ci ha resi tutti più vulnerabili”. Il suo volto era gonfio, tipico di una vecchiaia del Sud, i capelli striati di bianco e grigio e gli occhi spenti, il suo sguardo irrequieto e reso malinconico dalle lacrime che cadevano dal cielo. “Il cielo piange per noi” si disse Bart. “Le Grazie non ci hanno abbandonato. Raramente lo fanno”.
«Ser Bart» lo salutò ser Mark. «Alla buon’ora per tutto.»
Bartimore lo guardò vago, annuì e prese un profondo sospiro. Steffon non lo aveva neppure degnato di uno sguardo, ma aveva continuato a fissare vagamente la punta dei suoi piedi. La voce di Ortys risuonò sul frastuono del temporale.
«Se siete pronti, è tempo di andare.»
Bart si prese un attimo per osservare l’espressione disorientata di Esmerelle. La ragazzina tentava di capire per quale motivo si fossero riuniti tutti lì, restando il più vaghi possibili, ma alludendo a situazioni che lei non poteva conoscere. Forse, lentamente, stava iniziando a sospettare qualcosa, nonostante fosse irrilevante di fronte al problema reale.
Steffon trainò avanti il cavallo di Ortys, uno stallone nero, ruggente, dalle lunghe narici bagnate d’acqua e muco bianco raggrumato. «Usciamo da questa catapecchia, tanto vale lasciarsi bagnare. Vino rosso come il sangue, ricordate. L’acqua può solo farci restare sobri.»
«Avete chiamato tutti?» chiese Bartimore attirando a sé Lenticchia, la cui agitazione era evidente persino da quella distanza.
«Tutti non proprio» rispose Ortys. «Baldon è dalla nostra, e lo stesso vale per Melkor. Ha detto che non poteva immaginarsi minimamente di aver a che fare con un simile intrigo, e ha detto anche che parteciperà comunque, pur di non lasciare il suo onore a rotolare sul fango. Solite storie, insomma. Con noi c’è anche il figlio, Derek. Sapranno cosa fare quando la cavalla in calore lo butterà giù dal suo destriero. E se mai il suo avversario dovesse attaccarlo… allora sarà guerra… un’altra volta… e proprio come l’ultima.»
Steffon alzò gli occhi al cielo, come un uomo distrutto dal tempo che incombe sulle sue spalle, aggobbito a causa di un fardello che non gli apparteneva poi così tanto. “Insomma, non appartiene a nessuno di noi.”
I suoi occhi si tinsero di grigio e scrutarono le nuvole scure come con la malinconia di qualcuno che da lì a poco avrebbe smesso di vederle.
«Abbiamo ser Ulwar e ser Diggon» disse ser Mark. «Ma Ariston Rowland ha già smontato il padiglione: altro codardo. Al suo posto ora c’è solo fango. In molti sono fuggiti quando li abbiamo informati, e molti altri hanno rifiutato di crederci. Ma andiamo adesso, non abbiamo altro tempo da perdere.»
Meno si ha paura della morte, più si è liberi”. Accompagnata da quel pensiero comune, probabilmente, la combriccola avanzò sotto la pioggia martellante verso il campo di Roshby, l’uno più scosso dell’altro, ed ognuno, a parte Esmerelle, col proprio cavallo al seguito.
Arrivati al campo, diedero i loro destrieri a patres Steffon, il quale li sistemò uno ad uno nelle stalle sotto agli spalti, pagò lo stalliere e si assicurò che fossero presenti anche i carri con le armi più robuste e con la sua stessa spada. Il piano prevedeva di prendere le armi solo se Melkor fosse stato attaccato davvero, per non suscitare prima troppo scalpore senza un’apparente ragione. «Siamo in una botte di ferro» aveva commentato ser Mark, rimanendo vago sul significato della sua espressione.
Sugli spalti superiori non c’era abbastanza spazio per Ortys, perciò furono costretti a restare nella pedana inferiore. Il campo era bagnato d’acqua, ridotto a una poltiglia di fango scuro. Malgrado la pioggia incessante, gli spalti erano pieni come al solito. Tra sguardi loschi ed insicuri di ragazzini dalla pelle macchiata dal sole, ventri flaccidi di macellai, garzoni, mugnai e contadini, Bart riconobbe alcuni uomini. Ser Dayn aveva mantenuto al meglio la sua promessa, portando con sé il suo nobile signore. Il ragazzo vestiva completamente i panni di un cavaliere slanciato, esile come pochi ed agile più del normale sotto l’armatura spessa, elegante e raffinata. “Ho sempre saputo di potermi fidare di te, ser Dayn”. Bartimore sorrise nel riconoscere l’immensa fedeltà del cavaliere della scorta di Norstone.
Come un fiore solitario, al centro di una panchina lunga a sud del campo, sedeva cupamente Baldon Doradon, il signore di Casmellor, dai lineamenti ridotti ad un ammasso ingrigito di rughe, le gambe accavallate con fare pensieroso. Forse, l’anziano signore stava meditando sul grave errore commesso: finanziare anche lui a grandi spese il torneo di Roshby, regalando così la possibilità ai ribelli di mettere in atto il loro sporco piano di vendetta. “Magari gli peserà sulla coscienza un giorno... o forse no.”
Esmerelle si era seduta accanto a lui, immobile e silenziosa come una pietra. Per quella giornata di tornei aveva indossato un abito rosa dalle rifiniture pallide che, come gli aveva confidato, aveva trovato su una bancarella di oggetti smarriti tra l’ammasso di padiglioni, alla cui proprietaria non aveva dovuto pagare nulla. Steffon aveva gli occhi ridotti a due fessure sottili e, immerso nei pensieri, se ne stava alla destra di Ortys, sovrastato dall’imponenza di quest’ultimo. Bart intravide anche ser Konrad con la lunga alabarda al fianco, la spada alla cintola, intento a conversare distrattamente con il suo compagno Mold. Entrambi sembravano aver perso la loro vitalità e la loro testardaggine quel giorno. Bart li aveva incontrati in una notte di pioggia, ora che ci rifletteva, le espressioni corrucciate sul volto, piegate in simbolo di dissenso e caparbietà, ma pur sempre meno rigide di quelle che avevano ora. Quando ser Mold lo intravide, allungò leggermente il braccio e face un cenno di saluto nella loro direzione.
Sul palchetto dei nobili non c’era nessuno ai fianchi di Wolbert Dorran, il quale aveva indossato una lunga veste nera dalle maniche a sbuffo, totalmente in sintonia con il manto grigio che copriva il cielo di quel giorno. Sul suo capo svettava un cappello di feltro dello stesso colore della pece, le sue tre punte indirizzate al cielo come volerlo indicare con superiorità e aria di sfida.
Lo strombettio impacciato di un araldo riportò l’attenzione sul campo più e più volte. Gli scontri di quel giorno furono, per la maggior parte dei casi, privi di ogni qualità, essendo combattuti sotto una pioggia che rendeva il tutto fin troppo difficile da seguire. Peraltro, non ci furono scontri rilevanti, almeno finché l’araldo non richiamò nel campo i nomi di due nobili delle Terre Spezzate, i quali si scontrarono nel duello più bello fin ora visto al campo,  a detta di molti spettatori e dello stesso Steffon.
«Mawar Mayer, signoria dei mari di Andaryn» vociò l’araldo. «E Garagherio Peggryns, principe di Caantos». I due sfidanti stranieri si fecero strada sotto la pioggia, trottando sul dorso dei loro destrieri bianchi. Mawar indossava un’armatura particolarissima, tinta di un viola forte ed acceso. Era tipico degli abitanti di Andaryn, quei pochi che popolavano l’isola, tingere qualsiasi cosa passasse loro sotto mano, rendendola unica e di inestimabile valore. Il viola, però, non donava per nulla a Mawar Mayer, i cui baffi neri spioventi, i capelli unti d’acqua e sorretti all’indietro, gli conferivano un’aria severa, sminuita dal colore del suo acciaio.
L’uomo si accostò alla palizzata sud, indossò l’elmo viola e chiuse la celata con un gesto fulmineo. Afferrò la lunga asta di legno e la portò avanti, assicurandosi che non ci fossero problemi nel maneggiarla e che i suoi movimenti non fossero ostacolati da alcunché. Forse perché la pioggia lubrificava le varie giunture, i movimenti di Mayer furono presto dettati da una fluidità degna di nota.
Garagherio Peggryns indossava, invece, un’armatura completamente dorata, luccicante come poche altre cose sotto la pioggia, rifinita nei minimi dettagli e solcata da soli che intrecciavano i loro raggi nel ricoprire il suo corpo. Alle spalle del principe, un lungo mantello porpora garriva nel vento come uno stendardo. Lui prese posto a nord, dove fece con comodo ciò che il rito di gioco consigliava. Indossò il suo elmo, sistemò accuratamente la lunga asta e, solo infine, si ritenne pronto per cominciare.
L’araldo suonò solo due volte, poi i due presero a corrersi incontro con violenza. I primi colpi che si scambiarono fecero sobbalzare chiunque dalle loro postazioni; perfino Ortys trasalì un paio di volte, quasi fosse spaventato dal cozzare delle armi sull’acciaio delle placche pettorali. Si scambiarono colpi irrilevanti sulle piastre delle ginocchia, sui gambali e sull’elmo, caracollando e danzando come fossero pronti a distruggersi, ma senza mai veramente farsi del male. Ad un certo punto, l’asta di Mawar Mayer caricò su un solo punto dell’armatura del nemico: la spalla. Il colpo che il cavaliere viola assestò al suo avversario fece crollare all’indietro quest’ultimo, che non perse però la presa dalle briglie, anzi lo spronò a dare di speroni e a caricare con più furia, tanto da abbattersi sul nemico e distruggergli l’asta sul petto. Mille pezzi di legno, schegge lucide dell’arma, piovvero sul fango seguendo il ritmo della pioggia. Garagherio tornò a nord, alla sua postazione, e si fece passare un’altra asta. I sussulti della folla incitarono lo scontro, gli diedero forza e conferirono valore ai due combattenti.
 Il terreno tremò quando  la furia di Garagherio si infranse un’altra volta sul busto di Mawar Mayer. Tutti trasalirono negli spalti, Bart compreso. Esmerelle gli afferrò di colpo la mano. “È fatta” intuì Bartimore rallegrandosi, ma non ebbe il tempo di voltarsi a guardarla che si avvertì un suono metallico nel campo. L’asta di Mawar Mayer scaraventò lontano Garagherio, il quale precipitò giù da cavallo e andò a schiantarsi al suolo con un potente tonfo. Mawar si fece strada nel campo, oltrepassò gli sguardi emozionati dei suoi spettatori, raccolse i frutti della vittoria: gli urli, i boati e gli applausi. Il viola della sua armatura era ora macchiato di rosso, e da qualche punto il signore dei mari di Andaryn grondava sangue. Molto sangue.
Il vino, infine, aveva iniziato a scorrere.
Il brusio di cento uomini tutti vestiti allo stesso modo - cappa marrone, corpetto di cuoio robusto, larghe brache sorrette da una cintola scura - si sollevò tutt’attorno, accompagnò il rumore degli zoccoli del cavallo di Mawar Mayer e lo strombettio che seguì alla sua uscita.
POM! POM! Il suono dell’araldo risuonò più forte, carico di possanza e teatralità. La pioggia fu sovrastata dal suono della tromba. POM! POM! Due suoni, quattro passi. Entrò al galoppo Lower Standrom, senza che neppure fosse annunciato, ricoperto da capo a piedi di acciaio. La lunga spada vibrava nel fodero alla cintola, e il grosso signore mulinava impazientemente la sua lunga asta.
«Sua signoria Lower di casa Standrom, signore di Sogno di Sabbia». POM! POM! «E sua signoria Melkor di casa Winemors, signore di Acquaverde!»
Melkor incitò violentemente il suo stallone ad entrare. Il signore di Acquaverde non aveva un elmo sul capo, ma una corona d’oro e d’acciaio con spessi rostri grigi sui lati. “Vuole portare il suo onore nella tomba” pensò Bartimore nel vederlo. I lunghi capelli biondi ed arricciati gli ricadevano sulle spalle, fondendosi con la barba e le folte sopracciglia color cenere. Attaccata alla cintola traballava una potente mazza chiodata dall’impugnatura di cuoio rigido, e uno scudo faceva capolinea sul braccio sinistro. La lunga asta era ferma sul perno stretto al collo dello stallone, parallela al terreno di battaglia.
Lo sguardo di Bart cadde su una figura accovacciata dietro la spalliera dello scranno di Dorran. Un ragazzo poco furbo era appostato dietro al castellano di Roshby con fare agitato e pressoché disorientato. Pareva non farsi sfuggire un solo, piccolo passo, e sta immobile senza distogliere lo sguardo, neppure per un mero istante, dal campo. La sua figura nella penombra era esile, slanciata,ossuta nei lineamenti. Nella mano sinistra stringeva un ventaglio rosso. “Un nascondiglio abbastanza alla vista. Ho già visto quel ragazzo”.
«Ortys» chiamò Bart. «Guarda là.»
Mentre Bart indicava il punto in cui aveva avvistato il furtivo, Ortys si guardò attorno e sgranò gli occhi. Il signore di Ardua Scogliera inghiottì a vuoto due volte. «Balestrieri» mormorò. «Sono tutti attorno a noi, mascherati come semplici spettatori. Questo non era in conto». Il volto di Ortys aveva perso tutta la sua sicurezza. L’uomo si girò verso Steffon, immobile al suo fianco, il quale accolse il suo sussurro e scattò via dagli spalti con fare confuso e completamente disorientato.
POM! POM! Un tuono, poi l’intensificarsi della pioggia, e infine il duello prese vita.
Melkor Winemors diede di speroni e corse per primo contro il rivale. Dall’altra parte, il possente Lower Standrom gli andò incontro con una furia determinata a distruggerlo. La rabbia prese il sopravvento nei lineamenti di Melkor, il quale strinse gli occhi nel caricare contro il nemico. Bartimore fu costretto a chiedersi se avesse realmente intuito le vere intenzioni del suo sfidante, tanto egli sembrava sicuro di sé nel combatterlo. Il colpo che si diedero entrambi non produsse alcun risultato.
I due rivali scattarono indietro, uno verso sud e l’altro verso nord, e ripreso a mirarsi. Tirarono le briglie e diedero di speroni un’altra volta. Tre assalti seguenti furono resi teatrali dalle urla del pubblico, che sobbalzava dalla propria postazione ogni volta che i due incrociavano le loro aste sotto al cielo grigio.
Due giri coi cavalli e poi si mirarono di nuovo: corsero, frenarono a poca distanza da entrambi e tentarono di gettarsi nel fango, ma ad abbattersi non furono loro. POM! POM!
Il cavallo di Lower Standrom si impennò sulle zampe posteriori e nitrì focosamente. L’eccitazione della bestia fu allora evidente a tutti, tanto che in molti presero anche a ridere fragorosamente, scambiando commenti inappropriati e blaterando parole inutili. Ma l’eco di un rumore assordante zittì all’istante ogni risata. POM! POM! I due cancelli ad ovest furono spalancati di forza dalle pedate di due furenti stalloni grigi, impennati sulle zampe. I loro nitriti echeggiarono sul rumore della pioggia, poi si precipitarono nella mischia, coi cavalieri che reggevano sul loro dorso le lunghe aste. Bart riconobbe i due trasgressori: si trattava di Elmor Brasengard e Wictor Wyndwat. La folla urlò e si alzò inferocita sugli spalti, sconcertata da quella grave trasgressione alle regole del gioco. Bart si scambiò una rapida occhiata con ser Mark, terrorizzato allo stesso modo. Nel loro sguardo un solo messaggio: «Che la fortuna sia con te, cavaliere, amico.»
«Che succede!?» urlavano in coro gli uomini sugli spalti. Una sola voce, una sola unica e disarmante vena di terrore che pulsava come pronta all’esplosione.
«Bartimore, cosa sta succedendo?» chiese preoccupata Esmerelle stringendogli più forte la mano.
Ma Bart non riuscì a risponderle. Fu tirato di forza da Ortys per il braccio sinistro e fu costretto a seguirlo, inconscio anche lui della destinazione. In quell’istante, tutto prese a correre velocemente, tra il fragore della pioggia e la tenebrosità della mattinata.
Ortys si lanciò giù dagli spalti, sguainando la pallida lama d’osso di tanverna in volo. Bart lo seguì, ed Esmerelle gli rimase alle calcagna. In breve, ser Mark gli fu dietro. Attesero un momento sul lato degli spalti, accanto alla palizzata, le spalle sul legno. Il cozzare dello scontro li perseguitò fino ad un certo punto, poi fu rovina.
Wictor Wyndwat caricò alle spalle di Melkor Winemors, mentre gli altri due gli restringevano il campo sul davanti. Melkor girò, diede di speroni, alzò rapidamente l’asta… ma non riuscì a parare il colpo. Elmor picchiò la sua asta sullo scudo dell’anziano signore di Acquaverde, e questo andò a schiantarsi contro il palchetto di Wolbert Dorran, che nel mentre si era nascosto sotto al suo scranno.
Sugli spalti l’agitazione si sollevò e si quietò a ritmo della pioggia. Nel campo scesero altri cavalieri che Bart non fu in grado di distinguere, molti contadini armati, persino Derek Winemors e ser Dayn. Il primo corse verso il padre, ormai a gattoni per terra. Melkor Winemors cercò di afferrare la mazza chiodata, portò la mano al bacino e poi… track! Un suono simile alla rottura di un enorme macigno: l’asta di Wictor Wyndwat si conficcò nella sua nuca e gli fuoriuscì violentemente dall’occhio sinistro. Melkor Winemors cadde per terra di faccia, l’asta ancora sporgente dal volto, la mazza stretta gelosamente nel  pugno.
La pioggia divenne furente come le urla degli spettatori: allora iniziò il vero massacro.  
«GIÙ!» urlò una voce. Bart ebbe giusto il tempo di gettarsi nel fango con Esmerelle che dagli spalti sorsero file e file di balestrieri con l’arma carica alle mani. Al posto di Wolbert Dorran, il ragazzino magro e dalle guance biancastre iniziò a coordinare i colpi col ventaglio: ora Bart ne era sicuro, si trattava di Dephyso Maraphen, il ragazzo straniero incontrato nella torre di Dorran. In quell’istante la pioggia di frecce si mischiò a quella d’acqua.
Ortys scartò di lato, prese a mulinare con forza la sua spada urlando frasi indistinte, bestemmie perse nella pioggia. Ser Mark e un altro uomo alzarono il loro scudo al cielo a guisa di barriera, come a volerli proteggere dalla morte certa. Presto alla loro barriera di scudi si unirono anche quelli di Hollard Norstone, ser Dalwar, ser Clewyn e Baldon Doradon. Bart sguainò Lungacrestra, che irradiò il campo di luce metallica. Afferrò l’arma per l’impugnatura, la maneggiò e iniziò a rotearla sul capo. Le urla si mischiarono presto al sapore dell’acqua piovana.
Bart trattenne Esmerelle per la mano per un po’ di tempo, poi le comandò con forza di stare per terra e fuggire lontano, di corsa. Alle spalle, Wictor Wyndwat, ormai sul campo anche lui senza il suo cavallo, gli si mise di fronte e prese a sghignazzare. Non si era dimenticato di lui, proprio come aveva fatto Bartimore.
«Lurido ignobile!». Mulinò la lunga spada contro di lui. «Oggi ti taglio le palle.»
“Vincili Bart!”. La voce di Dalton gli risuonò cupa e lontana. Si scaraventò contro il corpo armato di Wictor con la spalla destra. Le spade ingaggiarono a mezz’aria facendo risuonare l’acciaio. Bart mirò al suo collo scoperto, mulinò la spada, poi si abbassò e provò con un fendete. Wictor maneggiava la spada con troppa destrezza, e non fu facile tenergli testa. Gli assestò un paio di colpi, ma Bart riuscì a schivarli tutti, poi fendette l’aria con un mondante che non andò a segno. Rotolò per terra, cercò di colpirlo, ma Wictor scartò di lato e fece una finta. Bart si rialzò e il nemico lo colpì di affondo. Tirò violentemente l’acciaio dal tessuto della cotta di Bart, che impugnò la spada di sinistra e si scaraventò di nuovo contro di lui mordendosi le labbra.
La voce dei deboli!”. Le parole di Amisa aleggiarono sul campo con il cozzare delle armi. Poteva giurare di vederla, lassù, dietro le nuvole, la sua signora stagliata accanto al sole, più luminosa dello stesso astro. Avrebbe combattuto per lei.
Wictor gli assestò un pugno sul cranio e diede una pedata a Lungacresta che rotolò sotto ai suoi piedi. Bart cadde confuso per terra e tutto prese a volteggiare intorno a lui. Esmerelle stava correndo via, inseguita da due balestrieri che tentavano di colpirla, le mani a reggere i lembi del lungo vestitino rosa. Dall’altra parte del campo vide Ortys che provava a sovrastare l’agilità di Lemmon Cappa Rossa, insudiciato di sangue non soltanto nel mantello. La potenza di Ortys Wysler non aveva eguali, pareva, ed egli stava dando molto filo da torcere al suo avversario. Patres Steffon era per terra, la maglia già imbevuta di rosso sul collo, il cuoio lacero sul ventre, forse in fin di vita. Sulla destra c’era ser Dayn, intento a sfidare focosamente Elmor Brasengard, l’esile signore di Brasengard. Dietro al suo cavaliere, Hollard Norstone si stava confrontando con il colosso Lower Standrom, il quale urlava frasi insensate ed inneggiava all’odio e al sangue. In fondo, molto più in fondo, proprio sul palco innalzato per i nobili, ser Clewyn e ser Mold stavano tentando di infilzare Wolbert Dorran, il quale si difendeva scagliando su di loro i cuscini dei suoi scranni e le sedie stesse che occupavano lo spazio. Ma, a fargli da barriera più forte, c’erano gli abili balestrieri guidati dal giovanissimo Maraphen, i quali avevano già scoccato un paio di dardi sui due cavalieri, con colpi che erano andati quasi tutti a segno.
La spada di Wictor Wyndwat tagliò la terra accanto a lui. Bart fece per rialzarsi, ma Wictor gli assestò un profondo calcio ai polpacci che lo fece ricadere per terra. Bart sputò un grumo di sangue e saliva.
«Mangerai di nuovo la terra, oggi, idiota di un cavaliere. Dov’è finito il tuo patres, eh? Sei spacciato senza di lui! Dove sta quel piccolo bastardo?». Alzò la spada al cielo e fece per abbassarla su di lui. Bart portò le mani avanti; Lungacresta era troppo distante da lui. Una freccia colpì alla spalla Wictor, che si girò furente. Bart allora scartò di lato, si gettò verso i suoi piedi e afferrò con forza Lungacrestra. Sentì la fiamma insorgere dentro al suo petto, vide la pioggia colorarsi di rosso e i boati della tempesta farsi immediatamente spazio tra i combattimenti. Il buio avvolse la sua lama, il furore accecò la sua vista, la rabbia danneggiò gravemente ogni suo lineamento facciale. Urlò. Colpì al petto Wictor: la spada rimbalzò con furia sulla sua armatura. Assestò un paio di colpi al suo cosciale prima di riuscire a farlo ricadere sulle ginocchia. Allora Bart alzò allo stesso modo la lama al cielo. Lungacrestra scintillò, si bagnò, ma quando fece per calarla sulla faccia del nemico, due possenti braccia lo presero dalle spalle e lo sollevarono da terra con un forza immane. Bartimore riuscì a voltarsi, benché sigillato da una potenza barbara che non gli permetteva di respirare correttamente.
Lower Standrom gli si puntò di fronte, lo scaraventò con forza bruta contro la palizzata. Bart sentì una fitta alle costole e avvertì il dolore di una frattura all’osso del piede. L’intero colonnato di legno iniziò a tremare quando il corpo senza forza di Bartimore vi fu gettato di peso. Sputò un altro grumo di sangue e denti spezzati ai suoi piedi. Tentò di rialzarsi, ma i dolori lancinanti lo fecero ricadere per terra.
Intravide allora ser Mark, due o tre frecce sporgenti dalle spalla destra, il braccio ferito pendente su un lato come un sacco di iuta appeso ad un gancio finissimo. Il cavaliere stava duellando ferocemente contro Mawar Mayer brandendo la spada con la sola sinistra. Il suo rivale non era affatto sporco del colore del terrore, e la sua armatura viola come i lividi tumefatti sul corpo di ser Mark lo rendeva addirittura fin troppo ilare. Ser Dayn e la sua piccola combriccola erano disposti a cerchio, spalla a spalla, e si stavano occupando di fronteggiare un paio di balestrieri scesi nel campo. Poco lontano da quello scontro, ser Konrad agitava con rapidità la sua alabarda, mietendo vittime con la stessa velocità di ogni assassino con in mano una balestra. Ortys era infangato e pieno di sangue sul volto, intento ora a combattere Emerard Carwock. Possente Sovrano riluceva di bagliori propri tagliando l’aria accompagnata dalla furia del signore che la brandiva. Ortys stava sfogando ogni suo risentimento ed ogni sua frustrazione contro Emerard Carwock, mulinando la sua spada e aizzandogliela contro come fosse parte del suo muscoloso braccio.
Bart cercò di rialzarsi un’altra volta, e ci riuscì. Corse verso il centro del campo, gli occhi che saettavano alle ricerca di Esmerelle. Un suono acuto trapassò l’aria e una freccia lo colpì precisamente sul polpaccio. Bart trasalì, un gemito gli sfuggì dalle labbra. Il dolore lancinante si intensificò quasi subito dopo il colpo: il giovane cavaliere strascicò la gamba per terra, gemette un po’ e continuò a farsi strada nel campo a denti stretti. La pioggia stava tentando di lavar via il sangue dal terreno, ma invano. Ad ogni goccia d’acqua corrispondevano fiotti di sangue umano che tristemente venivano spruzzati verso ogni direzione. Un tappeto rosso si estendeva lungo tutte le direzioni della lizza, in sostituzione ai combattenti che avevano solcato quello stesso campo, contornando cadaveri e acciaio, legno distrutto, scudi martoriati dalle lame, cavalli che scalpitavano nel fango, colpiti anch’essi dalle frecce.
Raggiunse in corsa Ortys, ormai tristemente bloccato all’interno di un cerchio di cavalieri. Il signore di Ardua Scogliera era solo contro una schiera di uomini in acciaio rilucente, ma non aveva ancora perso le sue speranze. Il suo volto incuteva timore ora, tanto la sua rabbia e, forse, la sua angoscia erano palpabili. Ortys era completamente rosso sul volto, i capillari del naso scoppiati e gli occhi più scuri del carbone.
«ORYTS!» gli urlò «ORTYS!». Per quanto forti fossero le sue grida, Ortys Wysler non poteva sentirlo.
Bart fu raggiunto di nuovo da Lower Standrom, che s’interpose tra lui e il campo come una montagna grigia sull’orizzonte. Il vecchio gigante alzò e abbassò la lama, gli diede un calcio. Bart reagì, schivò un suo fendente, provò con un montante e lo colpì al ginocchio. Lower fece per cadere, ma si rialzò con un pugno nella usa traiettoria, che lo colpì sul mento. Bart si fece sangue sul labbro per la forza con cui lo morse e dovette chiudere gli occhi per il dolore atroce del colpo. Quando li riaprì si ritrovò con le mani strette attorno a quella callosa di Lower Standrom, le braccia piegate come a spezzarsi. Tentò di scalciare, di prendere fiato, di guardarsi attorno. Il gigante anziano lo sollevò da terra di un paio di centimetri e lo mandò a schiantarsi al suolo ancora una volta, ma con più collera delle precedenti. I lineamenti induriti dal furore del gigante grigio sembrano essere stati paralizzati da un’irrefrenabile voglia di massacrare ed uccidere.
Bart brancicò sul terreno, gli arti che gli dolevano come mai in vita sua, il suo stesso petto che gli impediva di respirare e, lentamente, gli pulsava di un dolore lancinante. Ripensò alle valorose gesta di Dalton, a come doveva essersi sentito al suo capezzale, e poi ripensò alla destrezza politica di Amisa, alla sua sagacia e alla sua abilità strategica: non li avrebbe più rivisti o chiamati. Ripensò ad Esmerelle, al suo amore, forse platonico, che aveva provato per lei nell’arco di un’avventura dal cattivo esito. E ripensò a tutto il bene nel mondo, come se, pensando, lo potesse portare con la mente nel campo, in mezzo alla furia del combattimento, e sedarlo anche solo per un istante, per permettergli di riprende coscienza e salutare così ogni suo caro. O affinché potesse utilizzarlo come barriera contro il colosso che gli stava trascinando via gli ultimi respiri, per sfuggire alla sua presa e correre in aiuto di Ortys e degli altri suoi compagni. Perché mai avrebbe desiderato perdere la vita in un luogo tanto malvagio e circondato da assassini piuttosto che amici.
Gattonò prono come un cane sul terreno, annaspando affannato e completamente sfiancato. Le frecce schioccavano nell’aria, il suono della pioggia trasportava i lamenti di morte dei caduti e lavava la terra del loro sangue. Presto, di disse, sarebbe tutto finito così come era iniziato. Presto si sarebbe unito a loro.
Lower Standrom gli fu nuovamente davanti. Bartimore ebbe il tempo di aggrapparsi alla palizzata, mettersi completamente supino e tirarsi su di forza. Nel momento in cui si rialzò, come spontaneamente, roteò Lungacrestra contro il gigante, fece per infrangerla sul suo volto. L’anziano signore parò alcuni colpi, ne raccolse altri con una destrezza ed una velocità esorbitanti. Bart sfogò la sua ira sul corpo del nemico, mulinando la spada e assestando fendenti sbiechi a causa dei dolori lancinanti. Lo sentiva respirare con affanno sotto l’elmo; forse lo stava gradualmente sfiancando.  “Muori, brutta bestia. Voglio vederti coi miei occhi mentre ti accasci al suolo. Voglio vederti morire ai miei piedi. Voglio il tuo sangue sulla mia lama, per ripagare un debito aperto a Città del Grano.
Lungacresta riuscì a fendere una placca della spalliera e si fece strada dentro la fessura aperta. Bart si lasciò sfuggire un sorriso di soddisfazione, ma gli ci volle davvero molta forza di volontà per farlo. Lo colpì.
«Argh!» urlò Lower tentando di deviare i successivi colpi. Gli assestò un pugno andato a vuoto e corse via verso l’altra estremità del campo, barcollando un po’ a sinistra e un po’ a destra. Bart gli corse dietro, gettò a terra lo scranno di Wolbert Dorran e lo mandò a rotolare nel fango, a metà strada tra loro due. Lower raggirò la lizza e notò, suo malgrado, che non c’era modo di attraversare l’altra metà del campo perché gremita di combattenti furenti, amici o nemici che fossero. Si voltò di scatto verso Bartimore, ma inciampò improvvisamente nella sedia del castellano e la sua spada gli sfuggì drasticamente dalle mani. Di colpo il suo volto si rabbuiò.
Fu allora che Bart intravide uno spiraglio di luce, invece, in tutte quelle tenebre. Non sapeva neppure dove avesse trovato quella forza, malridotto così com’era, eppure si precipitò contro l’atterrito signore di Sogno di Sabbia. Lower sguainò improvvisamente il suo pugnale e lo tenne per la sinistra. Il momento di tensione fu troncato da una freccia che passò proprio accanto all’orecchio di Lower Standrom, il quale fu colpito alle spalle da ser Mark, cadde un’altra volta per terra, annaspò un momento, e perse anche la presa del pugnale. Quando i due uomini iniziarono a combattersi, ser Mark gli fece cenno con la testa di fuggire. Bartimore fece come suggeritogli, ma non perse di vista il combattimento, in cui ser Mark non mancò di eseguire una lunga serie di montanti e fendenti diretti verso il nemico. “Esmerelle… devo trovarla subito.
Dalla stalla vennero fuori tre file di cavalli ruggenti, ognuno più furente dell’altro. Le bestie presero a correre sul campo, colpite dalle frecce, bagnate dalla pioggia e dal sangue. Intravide Wictor, fece per corrergli dietro, ma un’improvvisa visione lo bloccò. Ortys Wysler giaceva in ginocchio attorniato da cinque cavalieri alti e dalle spalle larghe. Al centro c’era Emerard Carwock, le mani ai fianchi in modo burbero.  Il signore di Ardua Scogliera aveva gli occhi lucidi rivolti al cielo, neri come la pece, la barba scura inzuppata d’acqua. Il suo sangue era raggrumato sotto agli occhi e sul collo, tale che aveva reso la sua pelle simile al manto di un cavallo maculato, la gola attraversata da una freccia. Rivolse uno sguardo carico d’emozioni a Bart, come per urlargli di raggiungerlo, che si precipitò verso la mischia. «ORTYS!»
Tra i cavalieri, tre erano dei balestrieri. POM! POM! Le frecce furono scoccate con la rapidità di un saluto. Ortys rimase immobile con i dardi conficcati sul petto per un paio di secondi, esattamente nel punto in cui l’armatura era stata distrutta, finché uno lo colpì tra gli occhi. Due rigagnoli di sangue gli uscirono dalle labbra e, a poco a poco, il flusso prese ad intensificarsi. Sembrò che Ortys Wysler stesse risputando fuori tutto il vino che aveva bevuto in vita sua; un vino che le sue labbra non avrebbero mai più saggiato. Infine, il suo corpo ricadde in avanti, la faccia sul terreno madido del suo stesso sangue, la pioggia già pronta lavare il suo cadavere del tipico puzzo dei morti e dell’acre olezzo dell’indegnità.
Bart urlò contro i nemici, cercò di farsi spaziò tra la folla. Si sentì impaurito per la prima volta, annebbiato come mai: era circondato da morti e moribondi, uomini che avevano perso ogni speranza. Vide ser Konrad intento a mulinare affaticato la sua lama contro un cavaliere a lui sconosciuto, Steffon con la maglia sgualcita ridotta ad un ammasso di stracci, che tentava di fermare i copiosi flussi di sangue pressandovi sopra della stoffa grigia. Accanto al palchetto dei nobili, Lower Standrom si raggirava a gattoni sul fango, come stesse cercando qualcosa di invisibile agli occhi, mentre ser Mark era stato completamente assalito e soffocato da un drappello vestito d’acciaio nero. Per terra, poco lontano, il cadavere supino ed  insanguinato di ser Mold era uno dei più grossi e panciuti, e pareva essere caduto proprio accanto alla testa mozzata di ser Clewyn, gli occhi aperti verso un nuovo mondo, come fari spenti infine dall’ultimo soffio di vento. Hollard Norstone stava infilzando un uomo con la sua lunga spada, probabilmente un balestriere, ma non c’erano tracce di ser Dayn. “Il fango lo avrò inghiottito.”
«Bartimore!». La voce singhiozzante di Esmerelle richiamò rapidamente la sua attenzione. Bart si girò. Alle sue spalle, Wictor reggeva la ragazzina per le braccia e la teneva nella sua presa mentre lei si dimenava come una gazzella precipitata nella fiera morsa di un leone. Bartimore fu preso dallo sconforto. Puntò Lungacresta verso il nemico, la mano tremante accompagnata dal gelo della pioggia.
«Lasciala, Wictor.»
Il giovane principe di Canto della Bufera ghignò e spinse in avanti il corpo di Esmerelle con un colpo secco del busto. «Uh, eccolo qui il nostro pulcino umido! Lascia per terra la tua spada, pezzente. E metti in alto le mani.»
Bart fece come gli era stato ordinato e adagiò lentamente ai suoi piedi Lungacresta. «Posa anche la tua, Wictor. Lei non ha colpe, lasciala. Non ti conosce neppure. Lasciala e chiudiamo tra noi la faccenda.»
Wictor non si fece scrupoli nel compiere il primo gesto. Sguainò lo spadone e lo gettò nel fango senza pensarci due volte. «Questa cagna mi ha dato dei problemi, ma alla fine l’ho presa. Corre come corrono le scrofe… ma lei è più bella, lo ammetto». Il malfattore le passò la mano sul collo improvvisando una violenta carezza. Fece scivolare la mano fin oltre il petto, penetrò l’arto nel suo vestito rosa e fece per strapparlo.
Esmerelle stava piangendo sommessamente, gli occhi puntati verso i propri piedi, così impacciata e imbarazzata da non riuscire a sollevare lo sguardo. Bart capì che la ragazzina si stava sentendo davvero impotente per la prima volta.
«Ho detto lasciala!» urlò raccogliendo tutte le sue ultime forze. Si piegò sul fianco destro e si scagliò di peso sul corpo di Wictor Wyndwat con la spalla. Lo scontro tra le due armature produsse un fragore metallico fastidiosissimo, tanto che la placca pettorale di Wictor si crepò sul punto in cui fu colpita. Il principe di Canto della Bufera barcollò all’indietro e perse l’equilibrio, ma anche Bartimore ricevette lo stesso trattamento e fu respinto dalla potenza del rinculo. Esmerelle si liberò di colpo della presa del suo aggressore, si gettò sul fango e improvvisamente si rialzò: tra le mani, ora, riluceva il tagliente splendore dell’arma di Bartimore, Lungacresta, che la fanciulla bionda pareva brandire meglio del suo effettivo possessore. Gli occhi azzurri della ragazzina si macchiarono di una fiamma oscura che Bartimore non aveva mai visto in nessuno sguardo: c’era il sapore acre della vendetta in quell’occhiata, e quello malsano dell’odio mai assopitosi. Wictor, che nel mentre si era rialzato, fu aggredito violentemente dalla ragazzina.
«Sta’ ferma con quella cosa, cagna maledetta!»
«Troppo tardi» fiatò Esmerelle saltando sulla sua postazione. La punta acuminata di Lungacresta attraversò di lato il naso di Wictor Wyndwat e andò dritta verso l’occhio del molestatore. Esmerelle tirò a sé la lama, Bartimore afferrò il lungo spadone di Wictor, e quest’ultimo iniziò ad imprecare e bestemmiare focosamente, le mani, ormai lorde del suo stesso sangue, poggiate sull’incavo dell’occhio sinistro. Esmerelle lo aveva accecato recidendogli completamente il bulbo oculare. Perduto nella sua stessa ira, Wictor afferrò uno stiletto dal fianco, diede un pugno sul petto di Bartimore e gli conficcò l’arma sulla giuntura del braccio. Il giovane cavaliere urlò per il dolore mentre un brivido gli attraversava per intero l’arto; la spada di Wictor ricadde sul terreno a peso morto.
«Me la pagherai!»
Ma, questa volta, era troppo tardi per lui. In poco meno di un battito d’ali, il principe di Canto della Bufera macchiò del suo sangue la seta rosa di Esmerelle sollevandola di peso con entrambe le mani. La strattonò talmente tante volte da lacerarle per intero ogni tratto del suo splendido vestitino. Poi Wictor la piegò in avanti schiacciandole la schiena contro il suo ginocchio. La risata macabra di Wictor Wyndwat accompagnò gli ultimi momenti di giustizia di quel disastroso evento.
POM! POM! Due frecce provenienti dagli spalti saettarono nell’aria, si aprirono la strada nella pioggia e colpirono Esmerelle al petto. La ragazzina gemette e cadde per terra sulle ginocchia con un tonfo spaventoso. Fu allora che Bart perse davvero la vista di ogni cosa, annebbiato completamente da una vulcanica esplosione di ferocia. Afferrò Lungacresta, immobile in mezzo al fango, con una sola mano e si abbatté contro Wictor con una potenza innaturale, spinto da un’impulsività sconosciuta, dimenticatosi di ogni ferita e di ogni dolore.
Non c’era altro ora, il torneo non esisteva più, la sua vita non esisteva più, e lui non vedeva che con gli occhi del furore e della rabbia. Erano rimasti in due, ora: lui e quell’essere ignobile, spregevole, disgustoso. Quella bestia insanguinata in tutta la parte sinistra del volto, completamente imbrattato di sangue sulle mani. Il sangue suo e di Esmerelle.
«No!». Patres Steffon e ser Mark, come spuntati dal nulla, s’interposero tra i due, alzarono le proprie lame a croce e pararono i colpi che Wictor tentò di assestare a Bart, mentre questi veniva spinto per terra. Steffon sfidò a colpi di fendenti e finte Wictor, lo combatté e lo allontanò da quel punto. Ser Mark corse dall’altra parte del campo per andare in aiuto ad un morente Hollard Norstone.
Bart gattonò fino al corpo di Esmerelle, coricata su un lato in mezzo al fango. Dalle ferite sul petto sgorgava sangue a flussi copiosi, le creste delle frecce sporgenti verso il cielo. Bart la prese delicatamente per le spalle, l’avvicinò a sé fino a sentire il calore del suo corpo. Adesso il cielo non era il solo a lacrimare.
«Bartimore…»
Bart posò la sua testa su di lei, le impose il silenzio con un dito sulla bocca. In breve i due furono occhi negli occhi, mano nella mano.
«…portami con te… Bart… per sempre». Il sangue sgorgò fuori dalla sua bocca a spruzzi, come se stesse tossendo. «Per sempre. Portami con te… ti prego
Esmerelle cessò di respirare lentamente. I suoi occhi persero la loro vitalità poco a poco, e l’azzurro del mare si schiarì lasciando spazio alle tenebre grigie, finché la pioggia non prese vita nel corpo della ragazza dai capelli d’oro. Bart l’abbracciò con una forza maggiore, non quanto bastava, però, perché lei potesse ricambiare quel gesto. La furia della battaglia, per un momento, cessò nell’amore del cavaliere e della fanciulla bionda.
Ci volle meno di un minuto perché gli occhi di Esmerelle si spegnessero definitivamente della loro vitalità, perché il suo fiato si facesse corto e perché lei smettesse anche solo di far scorrere lentamente la mano sul fango. Il giovane ser, completamente sfiancato, alzò lo sguardo ormai sbiadito verso il cielo e si fece bagnare totalmente dalle sue tristi lacrime gelide. Il disarmante urlo di ser Bart riecheggiò per tutto il campo, facendosi spazio tra i corpi dei moribondi e il loro algido portamento, mentre le sue mani ghermivano ancora il corpo molle di Esmerelle con la vana speranza che potesse riprendere vita e rialzarsi.
«Ser Bartimore». Il tono affannato, senza vita, di Steffon lo costrinse a girarsi. Gli occhi iniettati di sangue del patres si soffermarono sui suoi. «È finita». Il tono dell’esperto non ammetteva contraddizioni: era incolore, vuoto, terribilmente spaventoso. Il patres alzò al cielo il pomolo della sua lama, gli girò violentemente la nuca verso di sé e lo colpì con determinazione.
Un colpo aspro che lo mandò a scontrarsi col fango.
Il cozzare delle armi si dileguò, amici e nemici scomparvero come ombre di spettri bianchi in un’accecante esplosione di fumo. La pioggia di fuoco continuò a battere incessantemente sul campo, attorno ai suoi lineamenti. Il furore del conflitto si smarrì nel terreno, sotto al suo mento, fu assorbito dal dolore di tutte le vittime di quel massacro e fu incanalato dal fango. Nonostante ciò, le lacrime del cielo rimasero vigorose, insaziabili, dannatamente ingorde del sangue di tutte quelle povere anime.
 
Fine.
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Note d'autore
Ebbene sì, questo che avete appena letto è proprio l'epilogo de "Il cavaliere e la fanciulla bionda", una raccolta di novelle che, senza quasi volerlo, si è trasformata in un'opera un pizzico più grande. Vorrò spendere due paroline sul conto di questa storia, ma lo farò dopo, prima rimaniamo sul capitolo. 
Purtroppo, il piano di patres Steffon - che già molti avevano notato fare acqua da tutte le parti - non ha prodotto alcun risultato, anzi! Pare che qualcuno sia stato informato della questione del "fattore che brucia il campo" e, a prova di ciò, sembra che siano stati aggiunte al conflitto le schiere di balestrieri, un pezzo dell'intrigo che nessuno aveva origliato prima. 
Tra gli scontri dei capitani esteri, il complotto ordito ai danni di Melkor Winemors, arriviamo al fatidico momento... una triste, tristissima sorte. Io non voglio spendere molte parole sul capitolo in questione, ma lasciare a voi il modo di esprimervi a dovere. Mi spiace, ad ogni modo, se ho ferito anche in parte i vostri sentimenti... alcune morti si riveleranno necessarie più avanti. E così ci lasciano molti personaggi, tra cui Ortys Wysler e la stessa Esmerelle. Come avete preso il tutto?
Vorrei, invece, passare a qualcosa che mi sta più a cuore: voi tutti lettori! Come spesso dico io, apporre la parola "fine" ad un'opera non è mai facile. E' come affidare completamente un figlio - perché di una propria creazione si parla - in mani estranee a quelle proprie. E, se nel crescere un figlio si utilizza ogni parte del proprio cuore, anche nello scrivere una storia - di qualsiasi portata essa sia - vige questa regola. In ciò che ho scritto, in ogni singola parola da me composta, ho inserito un frammento del mio cuore, una parte della mia anima, e l'ho donata a voi; voi che, dalla parte vostra, l'avete accettata e l'avete apprezzata in ogni sua sfumatura o forma. Perciò, i dovuti ringraziamenti vanno a tutti coloro che mi hanno seguito con una costanza mitologica in ogni mio piccolo passo, in ogni errore, in ogni strafalcione. Un particolare grazie va a chi ha inserito la storia tra i preferiti, a chi nelle seguite, a chi nelle ricordate, perché mai mi sarei aspettato un "successo" simile. E un particolarissimo grazie va a tutti coloro che mi hanno sostenuto dal primissimo atto, ognuno di essi prezioso come pochi: Ayr, Old Fashioned, Spettro94, The3rdLaw, Stregattina, Easter_huit, evelyn80, Davos, alessandroago_94, Serares, Fan of The Doors, morgengabe, la luna nera, innominetuo, BekySmile97. Spero di non aver dimenticato nessuno in questa lista, in ogni caso ritieniti parte dell'elenco anche tu che stai ora leggendo. In ognuno di loro ho trovato delle differenze molto nette, ma accomunate tutte dalla stessa peculiarità: la voglia di mettersi in gioco, di viaggiare con la fantasia, di lasciarsi trasportare dai sentimenti, dalle emozioni e... di afferrare quel pezzo di cuore posto nella storia! A nome mio e di tutti i miei personaggi, io vi ringrazio di vero cuore, amici, per ogni cosa!
Concludo dicendo che nel giro di qualche settimana - dovrei partire a giorni - sarete informati della pubblicazione de "Spada rossa, cuore bianco", così come vi verrà riferito tramite mp il giorno della pubblicazione de "La spada e le due fiamme", perché sì, miei cari, le avventure di ser Bartimore a Pantagos non sono ancora terminate. Anzi, per tamponare un po' il probabile dolore e lo sconforto causato delle scomparse in questo capitolo, vi preannuncio una cosa: nel prossimo libro, i protagonisti saranno cinque fuggiaschi - tutti personaggi che conosciamo già. Chi potrebbero essere o chi vorreste che siano? 
Con una nota talmente tanto prolissa, io vi saluto... per adesso continueremo a sentirci nelle risposte alle vostre recensioni e nei mp, con una possibilità di parlare più ampiamente della trama! Ancora infinite grazie ad ognuno di voi!
P.S. Quasi dimenticavo; mi piacerebbe sapere cosa ne pensate, adesso, dei personaggi principali della storia, del modo in cui si sono evoluti (se lo hanno fatto) e del rapporto che hanno avuto con la trama. E, per finire, a cosa pensate sia servito il gesto finale di patres Steffon?
Makil_
 
 
 

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