Damnata ab omnibus, ad infinitum

di Sophja99
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


Salve! Ringrazio chi è entrato a dare uno sguardo, chi leggerà e chi deciderà di lasciare una recensione! Spero che la storia vi incuriosisca e, soprattutto, che vi piacerà.

Devo però innanzittutto avvertire che nella storia saranno presenti molte note, perché ho deciso di scrivere alcune frasi in gaelico scozzese, per rendere la vicenda più realistica, e che i nomi delle città sono tutti nella loro forma in gaelico, ovvero quella originale. Inoltre, non aspettatevi una long, perché è solo una corta longfic di due capitoli.^^

Spero che li apprezzerete!

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Damnata ab omnibus, ad infinitum


1

Luine staccò un fiore dal terreno e rimase a fissarlo con curiosità e invidia. Quella piccola e innocente piantina non aveva nient'altro da fare nella vita se non nutrirsi e riprodursi in altri mirabili e variopinti fiori. Non doveva preoccuparsi di nulla di più; non ne aveva motivo, poiché viveva in tutti gli agi che il mondo poteva donare, ignara del dolore e della solitudine. Era proprio questo che invidiava di quel fiore: non provava alcuna sofferenza, perché semplicemente non sentiva nessuna emozione. Si limitava a sopravvivere per quanto quel mondo le permetteva prima di porre fine alla sua inutile vita. La mezzelfa chiuse la mano a pugno, spezzando e sminuzzando ciò che rimaneva del fiore.

«Luine!» gridò una voce cristallina poco lontano. La mezzelfa si voltò e notò un gruppo di elfe non troppo distanti dalle rocce dove si trovava sdraiata. Una di queste le faceva segno con la mano di andare da loro. «Accompagnaci!»

Lei finse un sorriso forzato e urlò di rimando: «Non ho voglia, ma grazie lo stesso.»

L'elfa che la aveva chiamata fece una smorfia e si rigirò verso le altre, ridendo e andandosene con loro. Luine poteva immaginare benissimo cosa si stessero dicendo quelle pettegole: “Ma l'avete vista? È talmente pigra da non riuscire nemmeno ad alzarsi”, “Non credo che sia pigra, quanto più incredibilmente introversa” e ancora “Ve lo dico io: è solo un'emarginata.”

Poteva chiaramente sentire nella sua mente le risate argentine delle elfe prenderla in giro, come altre innumerevoli volte era accaduto sin dalla sua nascita. I momenti che erano più vividi nella sua mente ricollegati all'infanzia erano proprio le battute che gli altri bambini elfi solevano farle tutte le volte che lei era in loro presenza. Aveva impresso le loro parole derisorie nella testa e, da allora, tutte le volte che aveva cercato un approccio con gli altri, quelle erano sempre tornate a farsi sentire prepotentemente. Sei solo una mezzelfa. Non sei come noi. Non hai la minima idea di chi siano i tuoi genitori. Potrebbero averti abbandonata perché ti odiavano; e forse non avevano tutti i torti a farlo.

Lasciò cadere a terra i resti del fiore e si prese la testa fra le mani, come accadeva ogni volta in cui quei pensieri tornavano a tormentarla, cercando di pensare a qualcos'altro, a qualsiasi altra cosa. Abbassò le mani quando si fu calmata e lo sguardo le cadde sul bracciale che teneva legato al polso, come soleva fare per cercare un po' di tranquillità. Non era nulla di troppo elegante o artificioso: una semplice striscia di cuoio legata con delle minuscole cordicelle. Gli elfi antichi le avevano rivelato di avere trovato solo quello sopra alla leggera coperta con cui il suo corpicino da neonata era stata protetto dal gelido vento del nord. Nient'altro: nulla che potesse ricondurla ai suoi genitori, nessun segno, nessun biglietto. Il nulla più totale. A dire il vero, qualcosa le avevano lasciato oltre al bracciale: una indomabile massa di capelli rossi. Gli elfi della luce avevano tutti chiome di colore chiaro, che andavano dal biondo al bianco; per questo, lei vedeva i suoi capelli come un tratto distintivo, uno dei tanti elementi che la differenziava dagli altri, solo più evidente di due orecchie leggermente meno appuntite. Ormai alla Corte tutti tendevano a riferirsi a lei come alla mezzelfa rossa, a rimarcare la netta separazione tra lei e tutti loro.

Mille volte Luine era arrivata a domandarsi se fosse vero che i suoi genitori l'avevano abbandonata perché la odiavano. Si era chiesta cosa avesse fatto di male un'innocente bambina per meritarsi questo, ma mai la sua domanda aveva trovato una risposta. Sebbene non fosse un'elfa completa, ma solo a metà, e fosse, quindi, frutto dell'unione di un umano, - uomo o donna -, con uno della loro specie, gli elfi della Corte Benedetta, il luogo in cui lei era stata lasciata, la accolsero tra le loro schiere e decisero, non dopo un aspro dibattito, di tenerla con loro e crescerla. Eppure, lei non si era mai sentita a suo agio tra di loro: non era una loro pari, - non lo sarebbe mai stata -, e gli altri elfi non perdevano occasione di ricordarle la sua inferiorità.

Luine sfiorò il bracciale e lo rigirò sul polso, per osservare tutta la sua superficie, sebbene ormai conoscesse a menadito ogni più piccola piaga del cuoio e imperfezione dovuta all'usura. Il tempo non aveva fatto altro che peggiorare la sua situazione, poiché, man mano che i giorni e gli anni passavano, Luine non faceva altro che allontanarsi dalle poche conoscenze che aveva con fatica stretto e isolarsi sempre di più dalla società e dalla vita cittadina della Corte Benedetta. Sapeva benissimo di non essere ben accetta dagli elfi solo perché le sue orecchie non erano perfettamente a punta; aveva preso atto di ciò e aveva agito di conseguenza, ignorando i commenti e le frecciate che spesso le venivano rivolte e reagendo con diffidenza. Aveva imparato a controllare il dolore e la rabbia e a nascondere abilmente le sue vere emozioni agli occhi degli altri, per non mostrare punti di debolezza che quelli avrebbero subito sfruttato per scalfirla.

Non poteva fargliene una colpa; in fondo, non si comportavano così con tutti e con la maggior parte delle persone tenevano anche un atteggiamento gentile, in quanto elfi della luce, ovvero portati per loro natura a compiere azioni giuste, o, almeno, quasi sempre. Con lei, tuttavia, era diverso: la loro circospezione verso di lei, che spesso sfociava in vero e proprio disprezzo, era per certi versi giustificabile. Luine era spuntata fuori da non si sapeva dove, lasciata davanti alle porte della Corte Benedetta. Non si conoscevano i suoi genitori, né si poteva sapere con certezza la loro natura. Avevano solo potuto ipotizzare che dovessero essere un elfo, sebbene fosse impossibile appurare se della luce o dell'oscurità, e un mortale. Non era possibile sapere altro del suo passato e il bracciale che doveva essere appartenuto ai suoi genitori non era di alcun aiuto in questo. Più volte aveva tentato di chiedere agli elfi più influenti della Corte se fosse possibile sfruttare quell'oggetto per localizzare almeno uno dei suoi genitori, ma quelli avevano sempre evitato l'argomento in modo molto brusco. Un giorno, dopo tante insistenze da parte della mezzelfa, uno di loro si spazientì e le rivelò che ciò che cercava era pericoloso e oscuro. Luine comprese che dovesse trattarsi di magia nera, ma, nonostante ciò, la risposta dell'elfo aveva ottenuto l'effetto opposto alle sue intenzioni: aveva riacceso in lei la speranza di poter incontrare la sua vera famiglia.

Si alzò e scese dalle rocce in cui spesso negli ultimi vent'anni si era seduta, appartata dal resto della Corte, alla ricerca di un po' di pace, che, tuttavia, non era mai riuscita a trovare pienamente. Si affrettò a ripercorrere a ritroso la strada che portava dal bosco alle abitazioni della Corte Benedetta. Aveva già atteso troppo tempo; non poteva ritardare oltre la sua partenza.

Entrò nella piccola casa che da pochi anni le era stato permesso di possedere dopo lunghe richieste. Non le era mai piaciuto vivere insieme agli altri elfi bambini e, non appena era diventata abbastanza grande, aveva subito chiesto il trasferimento. Aveva sempre pensato che ci fosse troppo chiasso per i suoi gusti; lei amava il silenzio e la solitudine. O era stata indotta a preferirli, da quando gli altri avevano iniziato ad escluderla da ogni attività e iniziativa. Di certo gli elfi non si erano lamentati quando era andata a vivere da sola; anzi, erano contenti di non averla più tra i piedi per tutto il tempo.

Prese una sacca e vi radunò dentro gli oggetti a cui era più attaccata: rimase quasi delusa quando si accorse di quanto pochi questi fossero. Non aveva mai tentato un contatto un poco più profondo con il mondo e le persone che la circondavano e, isolandosi, era arrivata a distaccarsi da tutto e tutti. Di sicuro nessuno avrebbe sentito la sua mancanza: con ogni probabilità, non si sarebbero nemmeno accorti che se ne era andata.

Si richiuse dietro la porta della casa che l'aveva accolta per un lasso di tempo tanto breve e si incamminò per la strada affollata da elfi della luce, silvani, pixie e ogni altro tipo della loro specie, tutti allegri e pieni di vita, intenti a parlare concitatamente tra loro e a ridere. In lontananza, poteva sentire canti elfici alzarsi e permeare l'intera Corte, che appariva per certi versi come uno dei tanti villaggi umani di cui spesso parlavano gli elfi più anziani, e ancora più distante riusciva a distinguere lo scroscio dell'acqua proveniente dalla cascata poco fuori il centro abitato e dal fiume che vi passava attraverso. Tutta quella gioia non faceva che accrescere la sua tristezza al pensiero di quello che si lasciava alle spalle. Aveva avuto la possibilità di trascorrere una vita felice in mezzo agli elfi, ma, già svantaggiata di suo per la sua natura incompleta, si era totalmente allontanata da loro. Si era autoesclusa e di questo non poteva incolpare altri che se stessa.

Si lasciò alle spalle i canti e la spensieratezza della Corte Benedetta, per imboccare la via che la avrebbe condotta verso il mondo umano, a lei totalmente sconosciuto, guidata solo da un incerto suggerimento. Per caso, pochi giorni prima aveva sentito un elfo pronunciare il nome di un individuo che, secondo lui, possedeva poteri del tutto fuori dal comune. Il Druido Seumas.

«Dicono che costui abbia la capacità di mettersi in contatto con gli spiriti e usare la magia, proprio come un elfo delle stelle» aveva affermato l'elfo.

«Ho sentito di persone che affermano di avere tali poteri, ma sono tutti degli imbroglioni» aveva ribattuto un altro.

«Credo che stavolta questo sia un vero e proprio mago esperto delle arti magiche» aveva continuato. «È stato avvistato da alcune pixies a nord della Scozia, nei pressi di Diùranais.»

Appena sentito questo discorso, era corsa subito a casa per scriversi da qualche parte i nomi citati, per evitare di scordarli. Anche ora osservava quello stesso foglio, su cui era scritto in una calligrafia un po' storta Diùranais, nord della Scozia. Mentre camminava nella foresta che costeggiava la Corte Benedetta, un pensiero occupò tutta la sua mente, costringendola a fermarsi. Lei non era mai uscita. Non sapeva dove fosse la Scozia, dove si sarebbe ritrovata una volta varcato il portale della Corte, come fosse il mondo là fuori e da quali creature fosse abitato. Non aveva visto altro che elfi nella sua vita e conosceva “gli umani” solo di nome e per alcune loro usanze che aveva studiato. Le era stato detto che uno dei suoi genitori era un mortale, ma lei non sapeva nemmeno come questa specie fosse d'aspetto. E questo Druido, con la sua strana magia... Il solo nome bastava a farle montare la paura e lo sconforto. Eppure, tanto valeva tentare pur di sapere la verità sui suoi genitori. In fondo, era una mezzelfa: avrebbe trovato un modo per sopravvivere, sarebbe riuscita a trovarlo, chiedendo aiuto alle persone del posto, e così avrebbe finalmente conosciuto la posizione dei suoi veri famigliari.

Ripartì con maggiore ardore di prima e continuò il suo viaggio tra gli alberi del bosco, attraverso i quali filtravano spiragli di luce che illuminavano la strada verso il portale. Questo era un enorme arco di pietra, decorato dalla natura che lo circondava e con grandi rampicanti che si attorcigliavano intorno alle colonne fino a raggiungere la sommità della porta. Dall'arco partivano grandi mura che circondavano l'intera Corte; non servivano a molto, dato che la terra degli elfi era già invisibile alle altre razze, in particolare agli uomini, e non c'era alcun pericolo che qualcuno tentasse di attaccarlo o entrarvi con la forza, poiché nessuno ne aveva motivo. Per miliardi di anni, gli elfi erano vissuti là nel benessere e nella pace.

Guardò per l'ultima volta dietro di sé, prima di prendere un grande respiro e attraversare il portale, conscia del fatto che stava abbandonando la casa che l'aveva vista crescere e che con ogni probabilità non avrebbe più rivisto. Venne attraversata da una folata di vento, che le scompigliò i fluenti e lunghi capelli rossi. Era fatta: aveva oltrepassato le mura. Si voltò, ma non vide altro che una normale foresta: il portale e la Corte Benedetta erano scomparsi. Quindi, il suo sguardo cadde a terra; quello era l'esatto punto in cui, molti anni addietro, era stata depositata e abbandonata dai suoi genitori.

A malincuore si girò verso la direzione opposta e continuò a percorrere la strada. Avrebbe camminato fin quando non avrebbe incontrato altre creature a cui avrebbe potuto chiedere aiuto.


Una volta uscita dal bosco, il paesaggio si era rivelato sempre uguale: miglia e miglia di erba verdeggiante e colline a vista d'occhio. Era ormai da un'ora che camminava e non aveva ancora incontrato nulla di diverso dalla brulla natura: nessun segno di esseri viventi. L'abito blu scuro iniziò a darle fastidio nei movimenti e i piedi le dolevano da impazzire, a causa delle scarpette di pelle con cui non era abituata a percorrere tante iarde. Pensò che il mondo esterno non era poi tanto differente dalla Corte: alla fin fine, entrambi erano circondati da boschi, alberi e natura incontaminata e coperti da un meraviglioso cielo azzurro. Luine, guardando alcuni nuvoloni in lontananza che si stavano avvicinando pericolosamente, pensò che doveva sbrigarsi se voleva proteggersi dalla pioggia, che le avrebbe reso più arduo il cammino, e affrettò il passo, nonostante i piedi dolenti. Finalmente, ridiscesa una collinetta, vide all'orizzonte una piccola costruzione. Senza riflettere, iniziò a correre, poiché le nuvole avevano già riempito tutto il cielo e promettevano una tempesta. In pochi minuti, si ritrovò davanti all'edificio, che, tuttavia, come suggeriva il nome sull'insegna poco leggibile Reul na maidne1, intuì che non fosse una comune abitazione, bensì una locanda. Poco prima di entrare, si sistemò bene i capelli sopra le orecchie per evitare di mostrare il tratto distintivo dei mezzelfi. Fece il suo ingresso proprio mentre le prime goccie di pioggia iniziavano a scendere e a bagnarle il mantello.

Comprese subito di averci visto giusto, dato che la stanza in cui si ritrovò era piena di tavoli e sedie tutti vuoti e vi era un grande bancone, dietro il quale stava un uomo intento a pulire alcuni bicchieri con uno straccio. Quando quello sentì la porta d'ingresso richiudersi con un tonfo, alzò lo sguardo, accorgendosi della presenza di Luine. Subito posò il panno sul banco e le disse in una lingua tagliente e sconosciuta: «Halò. Dè tha sibh ag iarraidh?2»

Luine rimase interdetta. Tutto si era aspettata tranne che gli esseri di quelle terre avrebbero parlato una lingua diversa dalla sua. In fondo, quella locanda si trovava a pochi chilometri dalla Corte e agli elfi bambini veniva insegnata sia la lingua elfica, sia quella umana, vivendo a un passo da loro, come anche quelle delle altre specie, come i folletti, le fate e gli gnomi. Essendo la vita degli elfi immortale, questi dedicavano gran parte del tempo alla ricerca di una conoscenza totale del mondo, nel tentativo di sapere ogni cosa di esso e delle razze circostanti. Se lei fosse rimasta alla Corte e avesse continuato gli studi, probabilmente sarebbe arrivata anche lei ad imparare tutte le lingue esistenti, ma il suo destino aveva deciso diversamente.

«N-non capisco cosa ha detto» disse con voce leggermente tremante. I modi burberi dell'uomo la mettevano a disagio.

L'uomo la guardò senza sembrare afferrare le sue parole. «Cò as a tha sibh?3» continuò.

«Gavyn, dè tha dol?4» urlò una voce femminile e potente da una stanza adiacente. Pochi attimi dopo, sbucò un donna anch'essa forzuta come l'oste, che lanciò uno sguardo a Luine, prima di girarsi di nuovo verso l'uomo. Scambiò con lui qualche parola, per poi volgersi nuovamente verso la mezzelfa. «Dè an t-ainm a th’ort?5»

«Io... Non capisco...»

«Oh, non comprendi il gaelico» esclamò quella finalmente nella lingua conosciuta anche da Luine. «Si vede che non sei di qui. Devi scusare Gavyn, ma lui è ignorante e non sa parlare altra lingua oltre questa.» Indicò verso l'uomo, che ora aveva ripreso a pulire i bicchieri e i piatti. «Cosa vuoi?»

«Devo chiedere un'informazione» iniziò, sperando con tutta se stessa che quella donna avrebbe potuto aiutarla. «Sapete dove si trova la Scozia del nord?»

La donna, come sentì la sua domanda, scoppiò in una fragorosa risata, tanto da attirare l'attenzione dell'oste, che sollevò impercettibilmente la testa verso di lei. «Caileag6, ti trovi nella Scozia del nord.»

«Oh, e dove precisamente?»

L'altra la guardò con un'espressione di pura curiosità; evidentemente doveva considerare assurde le domande che le stava ponendo, ma non c'era altro modo per saperlo.

«Davvero non ne hai idea?» chiese, stupita. «Strano, perché sembri parlare benissimo lo scots.»

Luine fece cenno di no con la testa. Non sapeva nemmeno che la lingua con cui stava parlando e che le era stata insegnata da bambina fosse propria di quella zona.

«Beh, allora, se non hai intenzione di prendere niente da bere, credo proprio che questa informazione ti costerà qualche moneta.»

La mezzelfa rimase incredula davanti a quella richiesta: davvero gli umani erano disposti a far pagare per così poco? Però, non aveva altra scelta che dargli ciò che quella donna chiedeva, se voleva sapere dove si trovasse Diùranais. «Quanto?»

«Voglio essere magnanima: mi bastano cinque sterline.»

Gli elfi non avevano soldi alla Corte, poiché a loro bastava ciò che riuscivano a reperire in natura, senza comprarlo da altri, ma era venuta a sapere di quanto le altre specie vi fossero attaccate, come, appunto, gli umani, i nani, i folletti e molte altre. Era però riuscita a trovare, o, meglio, rubare, diversi oggetti preziosi, come anelli e orecchini d'oro, spesso messi dalle elfe in occasione delle feste in cui venivano fatti innumerevoli canti e danze che duravano interi giorni.

Luine tirò fuori dalla sacca un piccolo rubino staccato da un anello e lo passò alla donna, che, come lo vide, spalancò gli occhi per lo stupore. «Questo può bastare?»

«Naturalmente» affermò l'altra, rigirandosi tra le mani il rubino. Anche l'uomo, come lo vide, lo fissò con espressione incredula. «Allora, la locanda si trova in prossimità di Am Parbh, sulla punta della Scozia e vicino al mare.»

«Dove si trova Diùranais

«È a qualche ora di viaggio da qua.Ti basterà rimanere vicino alla costa, poco lontana da qui, e in men che non si dica ti troverai lì.»

«Grazie mille» disse Luine, sorridendo alla donna.


Fece come le era stato indicato dall'umana della locanda e camminò spedita nella direzione che le aveva detto di seguire, fermandosi solo una volta per mangiare un pezzo di pane. I mezzelfi avevano ereditato dagli elfi la capacità di riuscire a rimanere anche per due giorni interi senza riposarsi. Naturalmente sentiva la stanchezza del viaggio, ma non l'impellente bisogno di dormire e riprendere le forze, tale da impedirle di continuare, né di mangiare. Poteva resistere un intero giorno senza toccare cibo e senza sentire i crampi della fame. Nel cammino le capitò di incontrare piccoli laghi e brevi corsi d'acqua, che le permisero di pulirsi il viso, darsi una rinfrescata e bere un po' d'acqua, ciò che davvero le serviva per recuperare le forze. Vedere il mare e avere la possibilità di rimanervi accanto durante il viaggio fu per lei un'esperienza totalmente nuova. Non aveva mai visto prima di allora qualcosa di tanto magnifico e immenso: nella corte vi erano solo piccoli laghetti, cascate e stagni, ma affatto comparabili allo stupefacente panorama che le si presentava davanti agli occhi.

Proprio come aveva detto la donna, imphiegò quattro ore ad arrivare al villaggio, poiché era costretta a fermarsi ad ogni centro abitato che incontrava per accertarsi se si trattava o no di Diùranais e vi mise almeno un'ora per aggirare una lunga rientranza nella costa, chiamata proprio, come scoprì grazie agli abitanti vicini, Kyle of Diùranais, per la vicinanza del paese.

Finalmente arrivò a Diùranais, che si presentò come un minuscolo villaggio alle pendici di un dirupo che sprofondava a picco nel mare, composto da poche casette di legno. Provò a bussare in una qualsiasi di esse, dato che, nonostante la bella giornata, sembrava che nessuno fosse uscito fuori, e le venne aperto solo dopo pochi secondi. «Tha?» domandò un'anziana dai radi capelli bianchi e dai denti gialli, che si intravedevano attraverso la bocca aperta in una smorfia di curiosità per l'arrivo inaspettato di Luine.

La mezzelfa pensò che la domanda della donna fosse una sorta di “Sì?” e, nonostante non sapesse bene la sua lingua, questa era simile alla lontana a quella conosciuta da Luine, e questa provò a formulare una breve frase. «Cerco il Druido Seumas.»

Con sua fortuna vide il volto dell'anziana illuminarsi e questa le afferrò il braccio con incredibile forza per la sua età. «Seumas

«Tha» rispose Luine, che ormai aveva intuito che significasse “sì”.

«In an Smoo Cave.»

Smoo Cave? si chiese Luine. Che cos'era?

L'anziana sembrò aver compreso la sua perplessità, poiché uscì dalla casa, richiudendosela dietro e la trascinò lontano dal villaggio, verso lo strapiombo. Proprio quando Luine iniziava a dubitare della donna e a credere che avesse intenzione di buttarla giù, si accorse che in realtà ai piedi del dirupo non c'era il mare, o, almeno, non era attaccato alla rupe, ma vi era una stradina che portava alla spiaggia sottostante. Esattamente sotto vi era una rientranza della roccia, che probabilmente era una grotta, sebbene lei non riuscisse a vederla bene da quella posizione.

«Smoo Cave» ripeté l'anziana con un sorriso che mostrava tutti i denti gialli e anche i punti in cui questi erano caduti, lasciando solo uno spazio vuoto.

«Grazie» disse Luine, ricambiando il sorriso prima di lasciarla e avviarsi lungo la via scoscesa. La percorse tutta correndo, ansiosa di fare la conoscenza del Druido e, quando arrivò alla fine, si trovò davanti un enorme buca all'interno della parete rocciosa che la lasciò stupefatta. Mai aveva visto qualcosa di tanto imponente e stupendo, eccezion fatta per l'oceano.

Seguì un piccolo fiumiciattolo che si addentrava nella caverna e in un attimo si ritrovò all'interno, ricolmo del suono incessante dell'acqua che doveva scorrere all'interno della grotta, mentre la luce diminuiva sempre di più man mano che entrava maggiormente. Si voltò solo una volta per osservare il mare sempre più lontano: così facendo, le parve di scorgere una figura ammantata di nero in piedi sulla spiaggia. Ebbe l'impressione che quell'individuo stesse guardando proprio lei e Luine, invasa da uno strano presentimento, si affrettò a girarsi e inoltrarsi maggiormente nella grotta.

Imboccò un corridoio, saltando da una pietra all'altra per evitare di bagnare ulteriormente le scarpe, dato che nel pavimento passava uno scarso corso d'acqua proveniente dal mare.

Quindi, si accorse che, laddove il livello del fiume iniziava a salire, erano state costruite delle scale di legno che si reggevano tramite un ingegnoso sistema simile a quello delle palafitte, solo che in quel caso il tetto veniva offerto dalla caverna stessa. Attraverso piccoli buchi tra le tavole di legno su cui stava camminando, poteva vedere l'acqua scorrere sinuosa sotto la piattaforma.

Alla fine del corridoio, questo si aprì in un'enorme camera; la pedana si interrompeva esattamente alla metà di essa, poiché dall'altra parte vi era una piccola cascata. Il piano in legno era arredato come se fosse una vera e propria casa: mobili e armadi ricolmi di libri, un tavolo e tre sedie dall'aria molto antica e un po' malconcia. Si avvicinò ad una delle librerie e fece scorrere un dito sulle copertine dei libri, alcune molto rovinate.

 «Cò thusa?7» domandò una voce imperiosa, facendola sobbalzare e scattare indietro. Si voltò e vide che nel corridoio da cui lei era venuta era apparso un uomo all'apparenza assai attempato per il corpo gracile e la barba e i capelli bianchi. Eppure, mostrava anche un'innaturale forza nel portare un'alta pila di libri, che depositò sul tavolo. Però ciò che davvero riusciva a trasmetterle un'incredibile acutezza d'ingegno e intelligenza erano i suoi occhi, che ora erano puntati su di lei.

Luine balbettò un «Cosa?», sia perché non aveva capito nulla di ciò che le aveva chiesto, sia perché era ancora scioccata per il suo arrivo improvviso.

L'anziano comprese la lingua in cui parlava la mezzelfa e ripeté: «Chi sei e cosa vuoi qui?»

«Mi chiamo Luine. Cerco il Druido Seumas.»

«L'hai trovato» affermò quello. «Cosa devi chiedermi?»

Luine, senza riflettere, si portò una ciocca di capelli rosso fuoco dietro all'orecchio, mentre iniziava a spiegare il motivo per cui era partita ed era giunta fin lì: «Ho sentito che tu hai dei poteri magici e speravo che potessi aiutarmi a trovare i miei genitori. Loro... mi abbandonarono quando ero solo una bambina e...»

«Una mezzelfa» disse Seumas, interrompendola. Nonostante il modo in cui aveva pronunciato la sua specie, non sembrava particolarmente stupito che creature come lei esistessero davvero. A Luine era sempre stato detto che gli umani non credevano nell'esistenza della Corte, degli elfi e del resto del Piccolo Mondo, sebbene fossero a conoscenza dei nomi delle loro razze. Il druido, invece, a differenza degli altri uomini, sembrava avere grande familiarità e conoscenza del mondo di Luine. «Chissà che tipo di elfo fu tuo padre o tua madre...» rimurginò tra sé e sé, per poi dire: «E così vuoi trovare i tuoi veri genitori. Mi serve un oggetto appartenuto a uno di loro.»

Lo sguardo corse subito al bracciale che portava al polso. «Qual è il prezzo?»

«Tranquilla, non mi interessa il denaro. Faccio pagare i miei servizi con qualcosa di... diverso. Una parte della tua anima.»

«La mia anima?» trillò Luine, che tutto si sarebbe aspettata tranne quella richiesta stravagante.

«Una parte. La magia ha sempre un prezzo alto e questo è quello da pagare se vuoi rivedere i tuoi genitori. In quanto mezzelfa, la tua anima è come spezzata in due tra la tua essenza elfica e quella umana. Io voglio che tu mi dia la parte umana, quella che da sempre ti fa sentire incompleta e isolata dagli altri elfi.»

Luine rimase a bocca aperta: come faceva quel druido a sapere così tante cose sul suo conto? Era forse in grado di entrarle nella mente? Tuttavia, non poteva negare che l'offerta fosse allettante e anche a suo favore, poiché da essa non avrebbe ottenuto altro che guadagni: da un lato avrebbe raggiunto e finalmente conosciuto i suoi genitori, dall'altro si sarebbe liberata della parte di lei che la teneva ancorata al mondo umano e che l'aveva fatta sempre sentire a disagio nella Corte. «Accetto.»

«Bene» affermò l'anziano, sorridendo. Iniziò a muoversi per la stanza alla ricerca degli oggetti che gli sarebbero stati utili al rito: un bastone, delle pietre, una mappa. Posizionò tutto sul pavimento, i sassi in circolo e al centro la cartina leggermente logora che mostrava il regno degli umani. Luine notò che si trovavano in un'isola, divisa tra Regno di Scozia al nord, in cui capì di trovarsi in quel momento, Regno di Strathclyde e Regno di Northumbria, che si collocava a sud. Mentre osservava l'uomo disporre gli oggetti sul pavimento, chiese: «Perché hai bisogno di una parte della mia anima?»

«La magia funziona in un modo molto particolare: si rinnova tramite i sentimenti, le anime e gli spiriti, a qualsiasi persona, genere e razza essi appartengano. È un circolo vizioso: gli uomini o le altre creature sovrannaturali richiedono i miei incantesimi e in cambio mi lasciano una parte di loro, con cui alimento la mia magia per sfruttarla a sua volta nel compiere altri incantesimi.»

Luine annuì proprio mentre il druido si rialzava, sorreggendosi ad uno strano bastone interamente bianco. «Dammi l'oggetto.»

La mezzelfa si slacciò il bracciale e lo passò al druido, che lo posizionò al centro della mappa. Quindi, Seumas tirò fuori dalla tasca della casacca un coltellino. «Ora devi tagliarti.» Notando lo sguardo allibito di Luine, si affrettò ad aggiungere: «È necessario per l'incantesimo di localizzazione. Basta anche una piccola goccia di sangue.»

Luine prese tra le mani l'arma e applicò una leggera incisione sull'indice. Come la lama tagliò la pelle, apparve un puntino rosso. Su indicazione del druido, la fece ricadere esattamente al centro della cartina, macchiando il bracciale. Seumas si sedette davanti al cerchio di pietre, con il bastone appoggiato sulle ginocchia, e iniziò a cantare una nenia con voce profonda e intonata in una lingua sconosciuta, ma molto simile al gaelico in cui tanto aveva sentito parlare in quel giorno. Luine si accorse che la goccia di sangue si stava iniziando a muovere e ad allontanare dal centro della cartina, avvicinandosi al territorio su cui capeggiava la scritta Regno di Scozia e fermandosi nella zona centrale, dove si andò a coagulare.

«Sruighlea» affermò il druido, che guardava con le sopracciglia aggrottate la zona in cui dovevano trovarsi i genitori di Luine. «Potrai trovarla nel castello sulla sommità del villaggio. Non sono in grado di vedere e dirti altro.»

«Sono là?» domandò la mezzelfa, espirando tutto il fiato che aveva tenuto sospeso durante l'intero processo.

«Sì. Ora devi darmi ciò che mi spetta» disse, alzandosi.

«Farà male?» chiese Luine, temendo ciò che l'anziano le avrebbe fatto. In fondo, doveva sempre privarla di una parte della sua anima.

«Un po'» affermò, mentre scostava la mappa con sopra il bracciale. «Devi entrare nel cerchio.»

Luine fece come le era stato indicato e socchiuse gli occhi, troppo spaventata per guardare. Sentì il druido cantare nuovamente la stessa melodia, solo stavolta leggermente diversa dalla precedente nelle parole che venivano pronunciate. Quindi, percepì una lieve pressione, forse ad opera della punta del bastone, poco sotto il seno, nel punto in cui si trovava il cuore, seguito da un'impercettibile scossa. Dopo pochi istanti, la punta del bastone iniziò a provocarle un leggero prurito e fastidio, seguito dall'impressione che il suo corpo stesse inspiegabilmente venendo prosciugato da esso. Il prurito divenne puro dolore nella zona toccata e, anche quando Seumas allontanò il bastone, Luine continuò a sentire la sofferenza che da lì si andava dipanando nel resto del corpo, come una terribile malattia. Portò una mano al cuore; le sembrava che si fosse spaccato in due per quanto le faceva male. Ma un pensiero si fece strada nella sua mente, più forte di qualsiasi dolore: Sono libera. Non era più inferiore agli altri elfi. Una volta eliminata la sua parte umana, era diventata completamente una di loro e ormai non aveva più nulla da invidiargli. Ora si sentiva finalmente completa.

«Ho finito. Puoi riprendere il tuo bracciale e ti offro anche la mappa: ti servirà per non perderti, dato che non sembri essere molto esperta di queste terre.» Mentre Luine si piegava per riprendere gli oggetti dal pavimento, sentì Seumas aggiungere, con aria grave: «Sulla tua anima aleggia un'aria oscura. Attenta a scegliere con senno e cura le tue azioni future e non lasciare mai che la follia prenda il possesso delle tue facoltà.»


La prima cosa che da lontano notò di Sruighlea fu l'enorme e imponente castello che svettava sopra una collina, ai cui piedi si trovava il villaggio, minuscolo se paragonato alla grandezza dell'edificio. Aumentò il passo per raggiungere prima Sruighlea, sebbene avesse i piedi in fiamme e fosse stanchissima. Aveva impiegato tre giorni per percorrere tutta la Scozia, senza fermarsi quasi mai, animata dall'eccitazione al pensiero che di lì a poco avrebbe conosciuto i suoi veri gentiori e dal desiderio di vederli.

Come entrò nel villaggio, venne accolta da un'atmosfera festosa: tutti gli abitanti erano usciti dalle loro case e si erano radunati per le strade, chi per andare a lavorare, chi per comprare qualcosa da mangiare, chi semplicemente per passare il tempo a spettegolare e parlare con i propri conoscenti. Tuttavia, la mezzelfa intuì che dovesse esserci un altro motivo per cui quelle persone erano tanto gioconde. Non sapeva se quella gente avrebbe compreso la sua lingua, ma provò a fare un tentativo: forse in quella zona avrebbe avuto la fortuna di trovare persone che la avrebbero capita. Fermò un uomo, chiedendogli cosa il villaggio stesse celebrando. Quello le rispose che era appena arrivata al castello di Sruighlea la famiglia reale e che questa avrebbe trascorso là un'intera settimana. Per gli abitanti poter ospitare il sovrano e la sua famiglia nel loro villaggio era motivo di grande gioia e onore.

Luine venne travolta dall'allegria delle persone e si avviò con rinnovato vigore verso il castello di Sruighlea. Percorse il breve tratto in salita che collegava questo con il villaggio; passò, quindi, su un grande ponte, seguendo il flusso di persone anch'esse dirette al castello, e oltrepassò le mura che lo cingevano e difendevano, attraversando un maestoso arco. Non aveva mai visto una struttura architettonica tanto grandiosa e armoniosa, resa ancora più incantevole dallo sfondo delle verdeggianti pianure scozzesi.

Sia le guardie che si trovavano accanto all'entrata dell'edificio, sia quelle nelle torri ai lati dell'arco, pronte ad avvistare eventuali minacce da una visuale più alta, la lasciarono passare senza preoccuparsi di controllare il motivo per cui fosse lì. Si lasciò trascinare dalla folla proveniente dal villaggio e, quando entrò nel cortile interno del castello, si accorse che questo era già gremito di persone, radunate intorno a qualcosa che ancora non riusciva a scorgere. Andò avanti a spintoni, senza curarsi delle lamentele e degli insulti dei popolani. Finalmente, dopo tanta fatica, riuscì a superare l'enorme massa di persone e a raggiungerne il margine, potendo in questo modo vedere quale fosse il motivo di quella adunanza. Davanti, ad ustruirle parte della vista, si ritrovò una guardia che, insieme ad altre accanto, tentava di contenere la folla e farla indietreggiare. Tuttavia, mettendosi in punta di piedi, riuscì a scorgere oltre le spalle dell'uomo le persone su cui si era focalizzata l'attenzione dell'intero villaggio: la famiglia reale. Si poteva facilmente comprenderlo dagli abiti incredibilmente sfarzosi e raffinati che indossavano, quanto Luine non aveva mai visto. Gli elfi avevano anch'essi vestiti molto eleganti, ma neanche minimamente paragonabili a quelli che possedevano il sovrano e la regina.

La mezzelfa notò che in realtà la famiglia reale era composta da soli tre membri: il sovrano, il figlio, che doveva avere circa dodici anni, e la moglie. Ciò che, però, colpì maggiormente Luine non furono gli abiti del sovrano, ma la figura della regina: si distingueva dal resto della famiglia per i capelli di un rosso talmente vivo da sembrare puro fuoco, ben più appariscente dell'ordinario castano del marito e del figlio.

Il cuore di Luine perse un battito quando si mise ad osservare con più attenzione la regina: i capelli, i lineamenti del viso, l'aspetto e le fattezze del corpo. Era come guardare il proprio riflesso sulla sponda di un lago. Mamma pensò, con il fiato sospeso.

La regina salutò la folla e, seguita dal re e dal principe, fece rientro nel castello: evidentemente avevano appena pronunciato un discorso, ma era arrivata troppo tardi e se l'era persa. Le guardie iniziarono a spingere per far uscire la folla dal palazzo; molti cittadini si voltarono e se ne andarono di loro spontanea volontà, mentre altri tentarono di opporre resistenza per avere la possibilità di vedere ancora il re e magari parlare con lui.

Luine provò a fermare un ragazzo più o meno della sua età, anche lui impegnato a farsi spazio per uscire, e gli chiese: «Come si chiama la regina?»

Quello la guardò come se fosse pazza e se quello che gli stava domandando fosse la cosa più ovvia del mondo. «Eithne.»

Eithne si ripeté nella mente, mentre si sforzava di riavvicinarsi al castello e al punto in cui l'aveva vista l'ultima volta. Cercò un modo per oltrepassare la barriera costituita dai soldati, ma quelli continuavano a sospingerla verso l'uscita e la porta in cui era passata sua madre si allontanava sempre di più. «Madre!» tentò di urlare, invano.

Sono una mezzelfa si disse improvvisamente. Anzi, ormai sono un'elfa completa. Sono più agile e forte di un qualsiasi essere umano.

Si lasciò trascinare dalla spinta delle persone fino a poca distanza dalla porta di uscita e dalle mura; quindi, fuoriuscì dalla massa e con uno scatto si allontanò, prendendo una via laterale e infilandosi nella prima porta trovata aperta. Dal forte odore che la investì immediatamente appena mise piede nell'edificio, capì di essere capitata nelle cucine. Su un camino un allegro fuoco ardeva e veniva attizzato da alcuni servi perché arrostisse più rapidamente la carne posta su uno spiedo davanti alla fiamma. Altre persone erano impegnate a mescolare intrugli che da lontano sembravano minestre e a preparare altri piatti elaborati, proprio perché destinati al sovrano. Attraversò la stanza, stando attenta a non urtare nessuno e a non creare disastri, per poi rispuntare in un'enorme sala piena di personaggi nobili e alcune guardie. Fortunatamente erano tutti impegnati a parlare animatamente tra di loro e nessuno notò la sua presenza; si appiattì lungo la parete di pietra e scivolò su di essa fino a raggiungere una porta laterale, che aprì cercando di fare il minimo rumore, ma allo stesso tempo di affrettarsi, e vi entrò. La porta dava su delle alte scale; non vedendo nessuno, le percorse tutte fino ad arrivare a un ampio corridoio su cui si affacciavano due porte. All'improvviso sentì uno scricchiolio e una di esse aprirsi senza alcun preavviso: Luine, stupita, non ebbe il tempo di nascondersi, né riuscì a trovare un rifugio adatto prima che la ragazza che uscì dalla stanza la notasse.

La mezzelfa pensò che, se non avesse trovato qualche scusa plausibile per la sua presenza lì, probabilmente la giovane sarebbe corsa a chiamare le guardie e allora Luine non avrebbe più avuto alcuna speranza di incontrare sua madre.

Quella la guardò accigliata.

«Io... sto cercando la regina» le disse, sperando che questo le bastasse per lasciarla stare.

«Per quale motivo?» chiese quella, incrociando le braccia.

Luine si prese qualche secondo per pensare a cosa dire, tentando di non rendere troppo palese che stesse riflettendo su una giustificazione da darle. «Devo portarle un messaggio importante» affermò con sicurezza. Per evidenziare l'urgenza con cui doveva incontrare la regina, aggiunse: «Su ordine del re.»

Quella si mostrò sorpresa, ma durò solo un attimo. Il secondo successivo riacquistò tutta la severità che aveva mostrato anche prima. «Avverto la regina.» La ragazza si rintornò e bussò alla stessa porta da cui pochi secondi prima era uscita. Qualcuno all'interno rispose e quella fece il suo ingresso, mormorando un «Vostra grazia...»

Luine non riuscì a sentire altro, poiché la serva si era richiusa la porta dietro di sé. Dovette aspettare solo pochi istanti prima che quella si riaprisse e la giovane apparisse nuovamente, facendole segno di avvicanarsi ed entrare.

La mezzelfa ebbe un tuffo al cuore quando, affacciandosi, riconobbe i selvaggi capelli rossi della madre, gli stessi che lei aveva ereditato. Era girata e seduta su un tavolo che doveva fungere da scrittoio, su cui era impegnata a scrivere qualcosa. «Puoi andare, Moyra» disse, riferita alla serva, che uscì, lasciandole sole.

Luine sentì i battiti del cuore accelerare mentre osservava la figura della madre alla luce del sole e ascoltava la sua voce, che non aveva mai avuto la possibilità di sentire prima. «Mi chiedo quale sia questo messaggio tanto importante da inviare un messaggero anziché venire mio marito di persona» esclamò, mentre riponeva sul tavolo il calamo e si voltava per guardare in faccia il suo interlocutore.

Quando vide Luine, tuttavia, si immobilizzò. Sarà stato per i capelli o per l'incredibile somiglianza fisica, ma dal suo sguardo la mezzelfa comprese subito che aveva capito chi fosse.

«Madre» mormorò Luine, mentre le lacrime premevano per uscirle dagli occhi.

Eithne si alzò, barcollando e reggendosi al tavolo. «Non è possibile...» sussurrò, per poi domandare a voce alta, con un'espressione di sconcerto in viso: «Chi diavolo sei?»

«Mamma, sono io, Luine. Sono tornata.»

«No, tu non sei mia figlia. Non lo sei mai stata. Ti ho diseredata, abbandonata. Non puoi essere tornata...» continuò la regina, incapace di realizzare che Luine fosse lì davanti a lei.

La mezzelfa aprì la bocca per dire qualcosa, per poi richiuderla di scatto. Lei non la voleva. Aveva fatto tutta quella strada convinta che, una volta incontrata sua madre, avrebbe ritrovato l'ordine nella sua vita e ogni pezzo sarebbe andato a posto, ma quello era esattamente il contrario di ciò che stava accadendo. Le sembrava quasi che la madre, dicendo quelle parole, l'avesse pugnalata a tradimento. Esatto, si sentiva proprio in questo modo: ferita, tradita e abbandonata una seconda volta.

«Tu non dovresti nemmeno esistere; sei il frutto di qualcosa che non sarebbe mai dovuto accadere e che ogni singolo attimo della mia vita ho tentato di dimenticare. Se solo avessi avuto il coraggio di ucciderti, anziché abbandonarti soltanto, forse oggi non sarei stata costretta a ricordare. Non avrei visto il passato bussare di nuovo alla porta.»

«Perché mi hai abbandonata?» ora la voce di Luine era divenuta dura e quasi atona. Tuttavia, sebbene stesse cercando di non far trasparire alcuna emozione e di non mostrarsi debole, non riusciva a coprire la nota di dolore, vedendosi ancora una volta respinta dalla madre, da colei che l'aveva creata e che ora la stava distruggendo solo con la forza delle parole, taglienti come lame.

«Ho dovuto» disse, socchiudendo gli occhi, mentre una lacrima scolcava il suo bel volto. «Non potevo abbandonare tutto. Non potevo.»

«E così hai deciso di abbandonare me» sibilò Luine. Ormai nel suo cuore non c'era più spazio per la gioia che aveva provato quando aveva visto per la prima volta sua madre. «E per cosa? Perché volevi essere una regina, servita e reverita da tutti? Avresti potuto benissimo tenermi con te, anziché lasciarmi a morire in una foresta.»

«Devi andartene» disse Eithne di punto in bianco, senza dare una risposta alle mille domande che affollavano la testa di Luine.

La mezzelfa la guardò con uno sguardo pieno di rabbia e sofferenza.

«Vattene» ripeté la madre, sedendosi ai piedi del letto a baldacchino della sua camera. Luine, dopo un attimo di esitazione, si girò per non mostrare alla madre le lacrime che sgorgavano senza freno e corse fuori.




1 Stella del mattino in gaelico scozzese.

2 “Ciao. Cosa vorresti?” in gaelico scozzese.

3 “Da dove vieni?”

4 “Gavyn, cosa sta succedendo?”

5 “Come ti chiami?”

6 Ragazzina, bambina.

7 “Chi sei?”

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Capitolo 2
*** 2 ***


2



Luine uscì dal castello quanto più velocemente poteva. Voleva solo allontanarsi da sua madre, dal dolore che le aveva inflitto e dalla famiglia che lì si era costruita, da cui lei era stata completamente estromessa. Si asciugò le guance umide con il palmo della mano e si strappò via con rabbia le lacrime che continuavano suo malgrado a scendere.

Un'egoista senza cuore, ecco cos'era la sua madre naturale.

Presa da una collera incontrollabile, si slacciò il bracciale dal polso e lo scagliò lontano, voltandosi subito dopo per non vedere dove si fosse posato. L'unica cosa che desiderava in quel momento era cancellare il ricordo di Eithne dalla testa, ma non ci riusciva proprio. Nonostante tutta la sofferenza che le aveva causato e sebbene si fosse rivelata una donna completamente diversa da quella che si era immaginata, rimaneva pur sempre sua madre.

Eppure, la rabbia e la delusione persistevano: in tutti quegli anni aveva pensato così tanto spesso ai suoi genitori che ne aveva quasi idealizzato le figure; si era inventata e immaginata come fossero e come sarebbe stato il loro incontro. Molte volte le era venuta in mente l'immagine dei genitori, dall'aspetto e i tratti simili ai suoi, che bussavano alla porta della sua casa alla Corte Benedetta e la abbracciavano, promettendole che da allora in avanti non l'avrebbero mai più lasciata da sola. Ma quel meraviglioso sogno non si era mai avverato e ora Luine aveva anche chiarissimo il perché: loro non l'avevano voluta allora e non l'avrebbero accolta nemmeno adesso.

Aveva sempre vissuto con il forte desiderio di avere una famiglia felice, unita e perfetta, ma ormai, dopo il suo incontro con la regina Eithne, lo vedeva solo come un qualcosa di irrealizzabile, perché il destino aveva deciso di privarla di quelle gioie.

Aveva la mente talmente occupata da questi pensieri, che non si accorse nemmeno di starsi dirigendo al giardino che si trovava poco sotto le mura del castello. Si sedette a terra, a guardare il panorama di prati verdi e incantevoli, che, tuttavia, non riuscivano a calmarla.

«Non saresti dovuta venire» disse una voce sconosciuta e maschile dietro di lei. Luine si voltò subito e il suo sguardo cadde su un uomo vestito di un mantello nero, dalla pelle tanto pallida da apparire bianca come quella di un cadavere e dai corti capelli mori, messi in risalto dal colorito cereo. Si vedeva chiaramente che fosse un adulto, ma in qualche modo appariva quasi... senza età, con tratti sia giovanili, sia maturi. Inoltre, aveva un'aria terribilmente familiare, sebbene Luine fosse certa di non avere mai visto in vita sua un individuo simile. Poi si ricordò di aver scorto qualcuno di simile poco prima di entrare nella grotta del druido Seumas.

«Tu chi sei?» domandò la mezzelfa, alzandosi e indietreggiando.

«Non mi riconosci?» continuò l'uomo, facendo un passo avanti e accennando un sorriso. Ora che era più vicino, Luine si accorse di un particolare che prima le era sfuggito: le orecchie erano a punta. Era un elfo. «Luine, sono tuo padre.»

«Cosa?» sussurrò la ragazza, improvvisamente senza fiato e con le gambe molli. Ora comprese perché i lineamenti del viso e la sua fisionomia le fossero subito sembrati tanto noti. Eppure, non riusciva ancora a capacitarsi come potesse quell'uomo che aveva davanti, dall'aria tanto misteriosa e pericolosa, essere sangue del suo sangue.

«Proprio così» affermò. «Ho continuato a seguirti e a tenerti d'occhio durante tutto il tuo stupido viaggio per ritrovare tua madre. Un viaggio a vuoto, perché, come ti saresti dovuta aspettare, lei non ti ha voluta. Non saresti mai dovuta partire.»

«Perché mi dici questo? Io... volevo solo incontrarvi, conoscervi e...» balbettò Luine. Quindi, chiuse gli occhi, come per mettere ordine alla tempesta di pensieri che affollavano la sua mente. «Perché l'avete fatto? Come avete potuto?»

«Intendi perché ti abbiamo abbandonata? Per capirlo devi conoscere l'intera storia.»

«E allora, padre» disse la mezzelfa, mettendo particolare enfasi e ironia in quell'ultima parola «raccontami come è andata davvero. Aiutami a capire.»

Quello volse lo sguardo altrove, verso l'orizzonte, e sussurrò: «Sì, meriti di saperlo», poco prima di iniziare a narrare.


Una ragazza correva tra i campi verdi e rigogliosi della Scozia, lasciando che il vento le sferzasse i lunghi capelli rossi e l'abito bianco. Tutti a corte le invidiavano i bei riccioli che le incorniciavano il volto e le serve si sentivano sempre fiere quando le dovevano acconciare i capelli. Insomma, l'avevano resa famosa in tutta la società scozzese.

Eppure, tutta quell'attenzione l'aveva sempre fatta sentire a disagio e, man mano che cresceva e le responsabilità e le speranze risposte in lei aumentavano, sempre più spesso ricercava momenti di solitudine e pace, per pensare lucidamente alla piega che stava prendendo la sua vita. Non aveva mai desiderato un'esistenza dedita solo alle frivolezze della corte, all'importanza data alla reputazione e, soprattutto, al matrimonio. Non sapeva nemmeno cosa significasse la parola “amore”, figurarsi se avrebbe accettato di buon grado di essere mandata in sposa con un uomo che neanche conosceva, come spesso avveniva nella società di allora. Quella tradizione la disgustava: come si poteva costringere una donna a sposarsi con qualcuno che non amava? Le sembrava assurdo e disumano.

Anche adesso Eithne stava scappando dal castello per rimanere per qualche ora da sola, come spesso faceva. Sapeva bene che al suo ritorno l'avrebbero attesa i rimproveri del padre, ma non le interessava. Quei momenti di intimità con se stessa valevano qualsiasi sacrificio.

Si introdusse nel bosco che circondava il castello. Non era grande; tuttavia, si estendeva per una zona relativamente estesa, perfetta per la caccia. Si tolse le scarpette di cuoio e fece un sospiro di sollievo quando le piante dei piedi entrarono a contatto con l'erba umida e la terra. Continuò a camminare, sempre tenendo a mente la strada di ritorno, e, una volta trovato il posto adatto, si sedette sulle radici di un albero. Socchiuse gli occhi, godendosi la luce del sole che filtrava attraverso le fronde, fin quando non sentì il rumore di un ramo che veniva spezzato, segno che qualcuno stava arrivando.

Si alzò immediatamente, pronta per scappare, temendo che si stesse avvicinando un brigante, poiché questi spesso si appostavano nelle foreste, dove potevano nascondersi meglio dalle guardie reali e attaccare con più facilità chi passava.

Indietreggiò lentamente, guardando nella direzione da cui era provenuto il suono. A un tratto da dietro un albero apparve un individuo, che si mostrò in tutta la sua interezza a Eithne. Le prime cose che colpirono la ragazza furono la sua giovinezza e la bellezza. Doveva dimostrare poco meno di vent'anni e aveva dei lineamenti talmente graziosi, sebbene un po' spigolosi, che la lasciarono senza parole. Il suo aspetto aveva una tale armonia da quasi non sembrare umano.

Tuttavia, nonostante la sua bellezza non poteva essere messa in dubbio, rimaneva pur sempre uno sconosciuto, di cui Eithne non sapeva le intenzioni. Fece per fuggire, ma lui disse: «Aspetta!»

Inspiegabilmente, quella parola ebbe il potere di indurla a fermarsi. Forse era stato il tono di voce, argentino come mai le era capitato di ascoltare, o il modo in cui lo disse, senza alcuna nota di comando o cattiveria. Quando si voltò verso di lui, quello la stava guardando con un'espressione carica di curiosità e l'attimo di silenzio che si andò a creare le diede modo di guardarlo con più attenzione. Aveva dei capelli neri come una notte senza stelle, lasciati crescere fino al collo, e gli occhi, per quanto potesse vedere a quella distanza, dello stesso colore. Indossava poi una tunica e dei pantaloni di seta dalle tonalità scure e sopra un mantello, che dava l'impressione che quell'uomo avesse viaggiato molto per giungere fin lì, tesi avvalorata dal fatto che le scarpe fossero logore e sporche, come potevano diventare solo dopo un lungo viaggio.

«Chi sei?» domandò Eithne, con voce roca. Non aveva mai visto un uomo come quello che aveva davanti, tanto bello e misterioso e con dei capelli così scuri; non erano frequenti da incontrare in Scozia.

«Mi chiamo Fenimel» disse l'uomo. «E tu, invece?»

«Eithne. Non hai un nome...» la ragazza cercò la parola adatta per non offenderlo «usuale

«Diciamo solo che vengo da molto lontano» rispose lui, accennando un sorriso.

Eithne ricambiò. Ormai non sentiva più la paura e l'inquietudine che aveva provato quando lo aveva visto la prima volta. In qualche modo Fenimel riusciva ad ispirarle fiducia, sebbene ancora non lo conoscesse affatto.

«Da dove?» domandò, troppo curiosa per frenare la sua lingua.

«Se te lo dicessi, non mi crederesti» affermò, piegando un poco la testa, come se la stesse studiando. Fu allora che notò uno strano particolare che prima non aveva visto, perché coperto dai capelli: le sue orecchie erano a punta. Eithne continuò ad osservarle, senza capacitarsi di come fosse possibile qualcosa del genere e Fenimel dovette intuire la sua perplessità e confusione per un qualcosa che giudicava anomalo.

«Cosa sei davvero?» domandò Eithne, la voce leggermente tremante.

«Promettimi che non scapperai urlando» disse Fenimel e Eithne, nonostante la paura e la reticenza, annuì, troppo interessata a sapere di più sul conto di quel misterioso individuo. Allora lui continuò: «Sono un elfo.»

Eithne spalancò la bocca, ma da essa non uscì alcun verso. Non riusciva proprio a credere che davanti a lei vi fosse una delle creature che da sempre avevano popolato le fantasie del loro popolo e le storie che la madre da piccola le narrava prima di andare a dormire. «Un... elfo

Fenimel annuì e lei chiese: «Allora, se tu sei davvero un elfo, esistono anche tutte le altre creature? Le fate e i folletti?»

«Già. Tutte le leggende che vengono narrate su queste terre sono vere.»

«Com'è possibile?» domandò Eithne.

«Viviamo nascosti dagli umani, in luoghi a voi invisibili.»

La ragazza si scoprì a non avere alcuna paura di lui; anzi, si sentiva in modo del tutto inspiegabile calamitata a quell'elfo. «I posti da cui provieni? Quelli che si trovano molto lontani da qui?»

«Sì» disse Fenimel. «In realtà si trovano nel nord della Scozia.»

«E... come sono?» domandò Eithne, stranamente curiosa.

«Da una parte c'è la Corte Benedetta, meravigliosa e incantata, dove vivono gli elfi della luce, silvani e delle stelle, insieme alle creature del Piccolo Popolo, come gli gnomi e le fate. Poi c'è la Corte Maledetta, dove vivono tutte le creature più malvagie e spregevoli, primi fra tutti gli elfi oscuri.»

«Vorrei tanto vederle...» disse Eithne, sospirando.

«Purtroppo, gli umani non possono entrarvi, ma io posso raccontarti di loro e delle creature che vi abitano. Posso dirti ogni singolo particolare: non sarà come vederle direttamente, ma, almeno, potrai farti un'idea più chiara di come siano.»

La ragazza annuì e si avvicinò a lui. Restarono tutto il pomeriggio seduti ai piedi dell'albero a parlare.


Dopo l'incontro iniziale, i due cominciarono a vedersi sempre più spesso: almeno una volta ogni giorno. Eithne non sempre aveva la possibilità di incontrarlo a causa degli impegni di corte, ma sfruttava ogni scusa per allontanarsi dal castello e andare al loro punto di ritrovo, su un colle accanto al palazzo e al bosco, dove lui puntualmente stava ad aspettarla. Tuttavia, il momento della giornata che più preferiva era la notte, quando si stendevano a parlare sul prato e guardavano il firmamento sopra di loro. Con solo la luna e le stelle ad illuminarli, i racconti di Fenimel sul Piccolo Popolo e le due Corti di elfi esistenti, l'una Benedetta, l'altra Maledetta, sembravano prendere vita e riempire l'aria di magia.

Rimanevano tutta la notte svegli, a parlare e sognare mondi incantati e creature fantastiche, fin quando le prime luci dell'alba facevano capolino all'orizzonte, annunciando l'arrivo del sole e il momento della loro momentanea separazione.

Anche quella notte si erano incontrati sul colle, non troppo distante dal castello, ma abbastanza perché nessuno li vedesse. Eithne si rigirava tra le mani una rosa dal colore molto chiaro, della cui specie dozzine di fiori si potevano facilmente trovare nelle campagne scozzesi, mentre si lasciava cullare dalla voce calmante e dolce dell'elfo.

A un tratto Eithne lo interruppe, poiché un pensiero le era appena balenato nella testa. «Com'è l'amore tra voi elfi?»

«L'amore?» domandò Fenimel, stupito dalla domanda. «Non saprei come spiegarlo: è una cosa del tutto normale e naturale, come credo che sia anche per gli umani e gli animali. Quando due elfi si incontrano e iniziano a provare qualcosa l'uno per l'altro, tra i due avviene un'unione sia fisica, sia mentale. È come se divenissero un tutt'uno: si crea un filo che li lega, che mette in collegamento le loro menti, i loro sentimenti e i loro pensieri.»

«Possono entrare uno nella mente dell'altro?» chiese la ragazza, affascinata dall'argomento.

«Sì. È un legame tanto potente da unire i due elfi per l'eternità.»

«E da voi vengono celebrati i matrimoni?»

«Matrimonio?» ripeté Fenimel, aggrottando le sopracciglia.

«Sarebbe la celebrazione dell'unione tra due persone, quando questa diventa ufficiale, legando i due per tutta la vita» affermò Eithne, rabbuiandosi subito dopo. «Dovrebbe sancire l'amore che unisce due individui, ma in realtà oggi è solo un patto, usato per accrescere il prestigio, l'onore e la ricchezza delle famiglie. Sono certa che i miei genitori mi daranno in sposa ad un uomo che non amo, come sta accadendo a tutte le mie amiche...»

«Senza amore?» esclamò Fenimel, incredulo. «Como possono legarti ad una persona verso cui non provi alcun sentimento?»

Eithne non rispose alla domanda; invece, gli chiese: «Da voi esistono i matrimoni?»

«Non come i vostri. Da noi si chiamano Meleàdh1, e sono solo il momento in cui i due amanti si scambiano le promesse eterne davanti a tutto il popolo elfico e non. Qualcosa di puramente formale.»

Eithne osservò la bellezza e l'incanto della luna, una sfera tanto fulgente che al confronto le stelle impallidivano.

«Eithne, c'è una cosa che devo dirti...» iniziò Fenimel, interrompendo il silenzio che si era andato a creare. L'elfo parlò con un tono di voce talmente denso di preoccupazione che la ragazza si voltò subito a guardarlo. «Tutte le cose di cui ti ho parlato appartengono alla Corte Benedetta, come avrai capito. Il punto è che io non ne faccio parte. Vivo nella Corte Maledetta, dove si trovano tutti gli spiriti maligni e gli elfi oscuri. Io sono uno di loro.»

«Sei... un elfo oscuro?»

«Sì. Ho vissuto ogni singolo giorno della mia vita in mezzo a ladri, assassini e individui spietati, senza alcuna pietà o morale. Finora non te l'ho detto perché temevo che non mi avresti più guardato allo stesso modo, che avresti avuto paura di me. Però, ti prego, non pensare che io sia davvero uno di loro. Forse lo sono per il sangue che scorre nelle mie vene e per il mio passato, ma sono fuggito dalla Corte Maledetta proprio perché odiavo le persone che mi stavano intorno e quello che facevano. Non volevo vivere lì, né essere come loro: desideravo solo stare alla Corte Benedetta, insieme agli elfi a cui tanto volevo assomigliare.»

«Tu lo sei» affermò Eithne, alzandosi a sedere e appoggiando a terra la rosa per prendere la mano di Fenimel e stringerla tra le sue. «Sei come gli elfi della Corte Benedetta. Non importa il tuo aspetto, il tuo passato o il tuo sangue. Ciò che davvero conta è quello che senti e che sei qui dentro» continuò, appoggiando una mano sul suo petto, all'altezza del cuore. «Io so che sei una brava persona; l'ho capito dal primo momento che ti ho visto. All'inizio naturalmente ero diffidente, come è normale che sia di fronte ad uno sconosciuto, ma mai ho avuto paura che tu potessi farmi del male.»

Alla candida e lieve luce delle stelle, la pelle bianca dell'elfo sembrava risplendere e i suoi occhi guardarla nel profondo, con un'intensità tale da farla arrossire. In quel momento Eithne si ricordò di avere ancora la mano appoggiata al petto dell'elfo, ma non tentò di scostarla. Quel leggero contatto la faceva sentire più vicina a lui, al suo cuore.

Fenimel accostò delicatamente la mano alla guancia della ragazza, accarezzandole il viso fino ad arrivare alle labbra, dove anche i suoi occhi si posarono. Eithne, lasciatasi trasportare dall'atmosfera magica che si era andata a creare, si avvicinò a lui, finché le loro bocche non si toccarono in un lieve bacio.

La mano di Eithne risalì fino alle sue spalle, andando a scostare il mantello per toccare direttamente la pelle nuda. Il bacio si fece più ardito e infuocato, mentre gli strati che dividevano i loro corpi diminuivano e la passione prendeva possesso della ragione e delle loro facoltà. Stesi su un tappeto di erbe e fiori, con le stelle e la luna come uniche testimoni, un elfo e un'umana divennero un unico, singolare fuoco, che divampò alto e potente come l'amore che li univa.


Continuarono a vedersi anche dopo quella fatidica notte; i loro incontri si susseguirono per mesi e ogni notte il fuoco veniva attizzato con nuova aria e passione, rendendo il loro amore ancora più forte. Però, tutto cambiò nel momento in cui Eithne scoprì di essere incinta. Le prime settimane riuscì facilmente a nascondere la pancia, ma già al secondo mese iniziò a notare un leggero rigonfiamento, che sarebbe andato aumentando e non sarebbe certo scappato agli sguardi attenti delle serve e dei genitori, e a manifestare i primi sintomi della gravidanza, come il vomito, la stanchezza e frequenti dolori al ventre.

Fu costretta a rivelare tutto al padre e alla madre, omettendo l'identità di Fenimel e dicendo loro soltanto che colui con cui aveva perso la verginità e che l'aveva messa incinta era un semplice garzone del villaggio. Il padre non la prese bene e iniziò anche a meditare un aborto, ma la madre cercò di farlo ragionare e, dopo una lunga discussione, decisero di allontanarsi dal palazzo con la scusa di una vacanza nel castello di certi loro cugini per il tempo necessario prima di affidare il bambino ad una qualsiasi delle tante famiglie che abitavano un villaggio vicino, prima di fare ritorno.

Partirono immediatamente e si stabilirono nella tenuta di alcuni parenti, che, pensando anche loro che la loro visita fosse del tutto casuale, non sospettarono minimamente della gravidanza di Eithne. Questa, quindi, trascorse i mesi successivi segregata nella sua stanza, dove avrebbe potuto conservare le forze in vista del parto. La ragazza, tuttavia, sapeva che i genitori avevano perso la fiducia in lei e non si fidavano più a lasciarla libera di andarsene in giro.

Tutte le notti, quando si affacciava alla finestra per guardare il cielo e le stelle, piangeva ricordando i momenti felici trascorsi con l'elfo. Eppure, nonostante tutti i dolori, sia fisici, sia psicologici, che il loro amore le stava provocando, non c'era neanche un minimo di pentimento in lei. Ciò per cui davvero piangeva, però, non era tanto l'assenza di Fenimel, che pure si faceva sentire con violenza, quanto il destino della creatura che stava prendendo vita dentro di lei. Come sarebbe stata? Che fine avrebbe fatto? Sarebbe stata trattata bene?

Eithne partorì in un giorno di primavera e quella che si scoprì essere una bambina uscì proprio nel momento in cui l'alba sorgeva e i raggi del sole mattutino si insinuavano nella camera da letto.

La levatrice, una volta coperta la bambina con panni bianchi per pulirla dal sangue di cui era cosparsa, fece per portarla subito via, ma, dopo le assidue proteste di Eithne, questa ottenne di poterla tenere per un po' di tempo prima di mandarla via. «Posso... tenerla con me solo fino a questo pomeriggio? Solo per oggi?»

La donna ne parlò con la madre di Eithne, che, vista la disperazione della figlia, acconsentì alla sua richiesta. La ragazza, con le guance umide per il dolore del parto, i capelli incollati al viso e al collo e madida di sudore, sorrise quando la bambina le venne messa tra le braccia e questa iniziò a piangere. Le sue mani tremarono quando vide la creatura a cui lei stessa aveva dato la vita e prese a cullarla per calmarla. Rimase con lei per tutta la mattina e il pomeriggio, senza toccare cibo o fare nient'altro per la paura di far cadere la bambina o svegliarla dal sonno a cui con fatica l'aveva condotta. Le sembrava talmente piccola e fragile che temeva che al minimo movimento potesse andare in frantumi.

Al tramonto, quando la piccola si era destata affamata e Eithne era impegnata ad allattarla, la finestra della stanza si aprì e con grande stupore della ragazza vi entrò Fenimel.

«Cosa ci fai qui?» domandò la donna con voce tremante. Era da così tanto tempo che non si incontravano che le sembrava di vedere un fantasma.

«Sei sparita» disse lui, l'espressione e il tono di voce duro come non lo aveva mai sentito. «Non mi hai fatto più sapere nulla, non ti sei più fatta vedere e non sai quanto ci ho messo a scoprire che eri venuta qui e a raggiungerti. Eri incinta di nostra figlia e non mi avevi detto niente. Perché?»

«Ho dovuto dire tutto ai miei genitori o non sarei mai riuscita a far passare inosservata la gravidanza. Se si fosse saputo in giro che ho avuto una relazione al di fuori dei vincoli matrimoniali, questo avrebbe potuto rovinare l'onore della mia famiglia.»

«Al diavolo l'onore!» sibilò l'elfo. «A nostra figlia non ci hai pensato?»

Ci ho pensato ogni singolo giorno di questi ultimi mesi pensò. Ed è proprio per il suo bene che ho fatto questa scelta. «Portala via» disse Eithne.

«Cosa?»

«Non è umana» indicò le orecchie leggermente a punta, ma solo accennate, che si potevano notare solamente con uno sguardo più attento. «Lei non appartiene a questo mondo come me. Portala via, alla Corte Benedetta, in cui hai detto che vivono gli elfi della luce. È l'unico posto in cui potrebbe vivere bene.»

«Eithne, io non posso andarci. Non mi permetteranno mai di entrarvi.»

«Ma lei sì. Sono certa che non la rifiuteranno.»

«Oppure possiamo scappare tutti insieme.»

«Sai bene che non posso. Io non appartengo al vostro mondo, ma a questo. Qui ho dei doveri e anche dei sogni da realizzare. Per quanto io ami te e la bambina, non posso lasciare tutto e andarmene» disse, mentre una lacrima scendeva a rigarle il volto.

Guardò la neonata e i suoi grandi occhi azzurri. Luine pensò. Ti chiamerai così. O, almeno, in questo modo ti ricorderò quando non sarai più accanto a me. «Addio, mia piccola Luine» disse, lasciando un ultimo leggero bacio sulla sua testa, prima di porgerla a Fenimel. Questo la guardò con un'espressione colma di dolore, mentre prendeva Luine tra le mani e se la stringeva al petto.

«Aspetta» sussurrò Eithne, poco prima che Fenimel se ne andasse. Si slacciò dal polso un bracciale sottile e semplice, che tese verso l'elfo. «Lasciaglielo come ricordo di sua madre.»

Fenimel lo prese e le lanciò un ultimo sguardo carico di amore e rimorso. Eithne scoppiò in lacrime poco dopo che le sagome delle due persone che più aveva amato nella vita scomparivano nella notte appena calata. Al posto del fuoco di un tempo ormai non era rimasto altro che fumo e cenere.


«Quella fu l'ultima volta che la vidi» disse il padre, dopo aver finito di parlare. «Più tardi seppi grazie ai servitori più stretti dei suoi genitori che, poco dopo la mia partenza insieme a te, Eithne disse alla madre che la bambina era stata portata via dall'ostetrica. La faccenda venne velocemente liquidata e, quando lei recuperò tutte le forze, fecero ritorno a corte, per dimenticare l'accaduto e ricominciare. Naturalmente continuai a informarmi sul suo conto, ma non ebbi più il coraggio di incontrarla ancora. Tre anni più tardi ho saputo che si era sposata con l'uomo che sarebbe poi divenuto il re di Scozia e il suo attuale marito, e da lui aveva avuto un figlio maschio. Insomma, alla fine ha avuto la vita normale che tanto aveva desiderato.»

«Lei... è stata sua la decisione di abbandonarmi. E tu non hai minimamente protestato» proruppe Luine, il cuore più a pezzi di prima dopo aver sentito la storia dei suoi genitori. «Avresti potuto tenermi con te, ma hai scelto di fare come lei ti aveva detto.»

«Non potevo portarti alla Corte Maledetta; lì non saresti mai vissuta bene e tutti ti avrebbero guardata con disprezzo per essere un'ibrida.»

«Non pensare che alla Corte Benedetta mi sia trovata meglio: ero un'orfana, un'elfa a metà in mezzo a individui praticamente perfetti e intoccabili» sputò fuori tutta la sofferenza accumulata in quegli anni di solitudine. «E a voi non è mai importato nulla. Avete continuato per le vostre vite senza minimamente preoccuparvi della figlia che avute avuto e rinnegato.»

«Luine» affermò il padre, con sguardo duro. «Torna alla Corte. Questo non è il tuo posto. Lascia tua madre vivere in pace, senza costringerla ad affrontare i suoi demoni del passato.»

«Già, poverina» la voce di Luine grondava amara ironia. «Però, non mi sembrava molto sofferente mentre il popolo la acclamava come regina e lei sorrideva ai loro complimenti.»

«Vai via, Luine» ripeté il padre, stavolta con un tono che non ammetteva repliche, a tratti rabbioso.

Lei si voltò con le lacrime agli occhi e si allontanò da lui il più rapidamente possibile. Quel giorno era come se entrambi i suoi genitori l'avessero rifiutata una seconda volta, provocandole una ferita al cuore che Luine non credeva sarebbe più stata in grado di risanare.


Si sdraiò sul prato, osservando il castello da lontano, che appariva come un'enorme rocca circondata da un esiguo bosco. La sua testa era affollata da miriadi di pensieri, che si andavano accumulando con le parole taglienti pronunciate dai suoi genitori. Tu non dovresti nemmeno esistere. Vattene. Non saresti mai dovuta partire. Questo non è il tuo posto.

Luine strizzò gli occhi, per impedire che altre lacrime scendessero e si accumulassero con quelle già versate. Era stanca; stanca di piangere, stanca di sentirsi inadeguata e rifiutata, stanca di non avere un posto a cui davvero apparteneva e in cui sarebbe sempre potuta tornare, stanca dei sogni che non si sarebbero mai avverati.

In tutta la sua vita non aveva voluto altro che una famiglia normale, come quelle degli elfi che popolavano la Corte. Ognuno di loro aveva una madre e un padre che pensavano a loro e alle loro necessità, che li accompagnavano nel cammino della loro vita. Lei non li aveva avuti e aveva sperato di poter cambiare le cose con quel viaggio, che in realtà si era rivelato solo una perdita di tempo e forze e che non le aveva dato altro che nuovo dolore da aggiungere a quello che già si era accumulato dentro di lei.

Eppure, guardando gli uccelli che fendevano il cielo azzurro, si ritrovò a pensare che forse c'era ancora speranza. Non aveva fatto tutta quella strada solo per vedersi sbattere la porta in faccia. Aveva la possibilità di rimettere a posto le cose a modo suo e realizzare i suoi sogni più reconditi.

Con lo sguardo fisso in direzione del palazzo, si alzò di scatto, mossa da rinnovata forza. I suoi genitori avevano solo paura di abbandonare la vita a cui ormai erano attaccati per accogliere lei. Luine non doveva fare altro che rendergli più facile il distacco, eliminando gli ostacoli si frapponevano tra lei e loro, cosicché sarebbero stati più propensi ad accettarla finalmente e a recuperare il tempo perduto. L'unica cosa che voleva era una famiglia perfetta ed era certa che, se si fosse impegnata, sarebbe riuscita ad averla e a riunirsi con Eithne e Fenimel, a qualsiasi costo.


Luine mise piede nell'area del palazzo dove si trovavano le residenze della famiglia reale; entrare nel castello era stato un gioco da ragazzi. Tutta la servitù era a dormire già da ore e la mezzelfa aveva impiegato solo pochi minuti a circuire le guardie, distraendole, o a stordirle con un colpo veloce, ma potente, molto più di quanto un comune umano sarebbe riuscito a infliggere. Inoltre, aveva privato una di loro della spada che la guardia non aveva fatto in tempo a sfoderare prima di essere ucciso e che ora teneva stretta tra le mani.

Camminava lungo il corridoio buio, illuminato solo dalla leggera fiamma di una fiaccola appesa al muro, ma i suoi piedi non sembravano nemmeno toccare il suolo. Una delle migliori doti che aveva ereditato dal padre era proprio la discrezione tipica della razza elfica, che poteva farla diventare quasi invisibile. La luce del fuoco si rifletteva nella lama, facendola apparire come infuocata.

Aprì lentamente una delle due porte che vi erano in quel piano, lo stesso in cui era stata quel giorno durante il suo incontro con la regina. Sussultò al ricordo della lite avuta con lei e delle parole che quella le aveva rivolto, ma si calmò ripetendosi che tutto sarebbe finito bene perché sarebbe riuscita a rimettere a posto le cose.

Davanti a lei si presentò un'ampia stanza, dai muri decorati con arazzi sapientemente tessuti, raffiguranti innumerevoli figure a cui non seppe dare un'identità o una spiegazione alle azioni che stavano compiendo, e dalle finestre coperte da pregiate tende rosse. A un lato della camera troneggiava su tutto un grande letto a baldacchino, al cui interno Luine poteva scorgere una figura tramite le bianche e fini tende di cotone. Si accostò al letto e scostò la cortina per rivelare il giovane corpo del principe, che dormiva infilato sotto coperte pesanti con in viso un'espressione di pura serenità. Luine non provò alcuna simpatia o compassione per quel ragazzo dai capelli castani e ancora acerbo; l'unica immagine che aveva in testa era lo sguardo d'orgoglio che la madre gli aveva rivolto lungo tutta l'adunanza nel cortile del castello. Qualcosa che a lei era stato precluso non una, bensì due volte. Non è giusto pensò, mentre gli occhi le si inumidivano. Perché lui ha avuto tutto dalla vita, e io nulla?

La mezzelfa sentì la rabbia farsi largo nel suo petto e offuscarle la mente, impedendole di concepire altri pensieri che non fossero la collera e la sofferenza che aveva dentro. Strinse l'elsa della spada tra le mani e posizionò la lama poco sopra il collo scoperto del ragazzo.

Si bloccò pochi attimi prima di alzare l'arma: lei voleva davvero farlo? Togliere la vita ad un ragazzo di appena dodici anni? Osservò il viso dai tratti delicati e giovani e solo ora si accorse di quanto assomigliasse alla madre che avevano in comune. Dentro di lui scorreva il suo stesso sangue, o, almeno, parte di esso; eppure, Eithne aveva ugualmente deciso di mettere lei da parte e scegliere lui, il figlio legittimo e prediletto, quello che mai aveva conosciuto il dolore e la solitudine, i sentimenti con cui, invece, Luine era cresciuta. Aveva ricevuto tutto l'amore che due genitori potevano dargli: la sua vita era esattamente quella che Luine aveva da sempre desiderato.

Il destino non aveva avuto pietà di lei e Luine non ne avrebbe avuta per quel ragazzino.

Con un movimento deciso sollevò l'arma e la fece ricadere sul collo del principe, che si recidette senza alcuna difficoltà. Luine pensò a quanto le sue ossa fossero fragili e ancora non ben formate, mentre uno schizzo di sangue le sporcava la veste e il viso e le lenzuola bianche si tingevano lentamente di rosso. Luine osservò, senza alcun rimorso nel cuore, la testa del ragazzo, ora staccata dal corpo e rimasta scomposta accanto al cuscino: aveva ancora in volto un'espressione quasi beata. Almeno non ha sofferto si disse. Non tanto quanto me.

Afferrò la spada grondante di sangue e uscì svelta dalla camera, lasciandosi dietro il cadavere del principe. Entrò poi in quella accanto, in cui già era stata quella mattina. Tuttavia, allora era stata troppo focalizzata su sua madre per osservare con attenzione la camera da letto. Lasciò vagare lo sguardo sui mobili all'apparenza molto costosi e di qualità, e sugli arazzi attaccati alle pareti, molto più grandi di quelli della stanza del fratellastro. Infine, guardò il letto a baldacchino al centro della stanza: era ben più largo dell'altro, poiché era matrimoniale, ospitando la coppia reale.

Strinse l'elsa fino a far sbiancare le nocche della mano e scostò le tende appese al letto con la lama dell'arma, dipingendole di chiazze rosse e scoprendo i volti di sua madre e del suo nuovo marito. Gli occhi chiusi, le mani unite e i corpi stretti l'uno con l'altro. Luine si portò una mano alla bocca e si lasciò sfuggire una smorfia: come riusciva Eithne a dormire così serenamente con un uomo che non amava, dopo tutto quello che aveva causato a lei e a suo padre?

Quindi il suo sguardo ricadde sul re, un uomo dalla corporatura vigorosa e sana, da vero guerriero e sovrano. Il viso severo ora era disteso in un'espressione che mostrava incredibile pace e tranquillità. Aveva l'orribile impressione di stare rovinando un momento fin troppo intimo tra i due coniugi. Coniugi. Odiava pensare alla madre come a una donna sposata con qualcuno che non fosse Fenimel: era stata tutta colpa sua se lei non aveva avuto una famiglia normale. Sua e di quel mostro che si trovava accanto a lei.

Luine, con le lacrime agli occhi per la rabbia, sollevò la spada con entrambe le mani, la punta aguzza della lama a un passo dal petto dell'uomo, e la lasciò cadere con violenza. Le lacrime continuavano ad uscirle e a rigarle il volto, mentre l'arma entrava sempre più in profondità, lacerando pelle, muscoli e ossa, e la veste, intorno al punto in cui aveva introdotto la spada, si tingeva del rosso scuro del sangue.

Lasciò l'elsa di scatto, guardando il re aprire gli occhi di soprassalto e svegliarsi per il dolore improvviso, ancora ignaro di stare per morire. Il suo corpo cominciò a tremare e dalla bocca uscirono versi senza alcun senso, insieme ad un piccolo rivolo di sangue. Le scosse sempre più deboli del sovrano destarono anche Eithne, che sollevò la testa stroppicciando gli occhi. Quando mise a fuoco la terribile scena che si presentava davanti a lei e la spada ancora conficcata nel corpo ormai senza vita del marito, lanciò un grido.

«Cosa hai fatto?» urlò la donna, piegandosi sul re e accarezzando le sue guance pallide, nel vano tentativo di aiutarlo.

«Ho sistemato tutto. Ho rimediato al tuo errore. In fondo, quel ragazzo era solo il frutto di qualcosa che non sarebbe mai dovuto accadere» rispose Luine, citando le stesse parole che quella mattina la madre le aveva rivolto, riferendosi alla sua nascita e intera esistenza. Sul suo volto sporco di sangue ancora vivo spuntò un sorriso, che raggelò il sangue nelle vene alla madre.

«Cosa gli hai fatto? Mostro, cosa hai fatto a mio figlio?» la tempestò di domande Eithne, con le lacrime agli occhi, e subito dopo si alzò e si precipitò nella stanza accanto. Nonostante le pareti che dividevano le due camere, Luine sentì chiaramente le acute urla di dolore lanciate da Eithne alla vista della testa mozzata del figlio.

La mezzelfa la seguì, ma dovette fermarsi alla porta, perché, come la madre la vide affacciarsi, incominciò a urlare più forte. «Stai lontana. Guardie! Guardie, prendetela! Tenetela lontana da me e mio figlio!» Abbracciò i resti del corpo del ragazzo, scossa da singhiozzi incontrollati.

«Nessuno verrà» mormorò Luine, accennando poi a un sorriso. «Ma questo non ha più alcuna importanza. Mamma, ti sto offrendo un nuovo inizio: dimentica queste persone, che ormai fanno parte del passato, e sii la madre che ho sempre voluto.»

«Ho detto allontanati!» strillò Eithne, mandando avanti le braccia nel tentativo di proteggere se stessa e il figlio dalla creatura a cui lei stessa aveva dato la vita e che le si stava ritorcendo contro.

«Guardati intorno: hai avuto tutto quello che un umano potrebbe mai desiderare. Oro, potere, una famiglia, per quanto fasulla. Ora puoi riprendere da dove ti eri interrotta: ti sei persa tutta la mia infanzia e crescita, ma non fa niente. Ci sarà ancora tempo per recuperare gli anni perduti.»

«Voglio solo che tu te ne vada e mi lasci da sola con la mia vera famiglia...» sibilò Eithne, ormai allo stremo delle forze.

«Noi siamo la tua vera famiglia» continuò Luine, avvicinandosi di nuovo a sua madre. «Io e papà. E potremo essere di nuovo insieme. Tutti noi.» Tuttavia, non riuscì a terminare le ultime due parole che sentì un dolore lancinante al petto. Quando abbassò lo sguardo sul suo corpo, vide la punta di una lama spuntare poco sotto il seno sinistro, nel punto esatto in cui si trovava il suo cuore.

Le gambe cedettero, mentre il dolore si diffondeva in ogni zona del corpo, prosciugandole le forze e rendendole sempre più arduo respirare. Poteva chiaramente sentire il suo cuore battere sempre più lentamente e con maggiore difficoltà e il corpo iniziare a non rispondere ai comandi. Il sudore puntellava il suo viso, mischiandosi al sangue delle persone che aveva ucciso, e la sua pelle diventava sempre più pallida e fredda, in modo del tutto innaturale.

Il cuore di Luine, già martoriato da indicibili sofferenze, smise definitivamente di pulsare; l'ultimo battito terminò, portandosi via la sua vita e un male incurabile e troppo grande da sopportare.


Era arrivato troppo tardi. Aveva creduto di essere riuscito a convincere Luine a desistere dalle sue folli idee, ma si era sbagliato. Ed ora stava pagando le conseguenze del suo errore proprio Eithne, insieme al marito e al figlio. O a ciò che era rimasto di loro.

Come vide il massacro che la sua stessa figlia aveva compiuto e l'orrore stampato nel volto di Eithne, aveva agito d'istinto: aveva preso la spada lasciata a terra dalla mezzelfa e le aveva trafitto il cuore con un colpo preciso e letale. Aveva visto Luine, il frutto del suo amore per Eithne, cadere a terra, uccisa dal suo stesso padre, e morire. Anche ora stava guardando il corpo divenuto cereo di Luine, i suoi capelli rossi sparsi sul pavimento di legno macchiato di sangue e gli occhi spalancati in un'espressione insieme di stupore, rabbia e sofferenza. Si chiese come fosse riuscita una ragazza così giovane a sopportare delle emozioni talmente forti e dolorose e come fosse arrivata a compiere delle azioni tanto terribili. Poi si ricordò che non era stata altro che colpa loro: sua e di Eithne. Non avevano saputo volerle bene, l'avevano rifiutata e quello era il risultato dei loro sbagli.

Sapeva del suo patto con il druido Seumas: anche quella volta, come ora, non era riuscito ad intervenire per fermarla in tempo e, quando lei era entrata nella grotta, ormai era troppo tardi per fare alcunché senza che il druido avvertisse la sua presenza. Però, era a conoscenza di cosa Luine avesse barattato con Seumas per poter incontrare lui ed Eithne: la sua parte umana, quella dove erano racchiuse tutte le virtù e le qualità della mezzelfa, lasciando solo i sentimenti appartenenti alla sua anima da elfa oscura, gli stessi che la avevano logorata fino a portarla alla rovina e che anche Fenimel in tutta la sua esistenza aveva cercato di combattere e mettere a tacere.

Lasciò cadere con una smorfia di disgusto l'arma con cui aveva tolto la vita a sua figlia e si voltò verso Eithne, che aveva osservato la scena con la mano premuta sulla bocca; l'elfo non sapeva dire se l'avesse fatto per lo stupore o per reprimere un grido. Le lacrime scendevano copiose lungo le sue guance e Eithne continuava a guardare il corpo riverso al suolo della figlia.

Fenimel le si avvicinò e la strinse a sé, tremante come una foglia scossa dal vento. La sofferenza che lui sentiva non era minimamente paragonabile a quella che Eithne doveva stare provando, sebbene fosse stato lui a infliggere il colpo fatale a Luine.

Un tempo erano stati potenti e felici. Una fiamma alta e superba, che, tuttavia, prima e o poi è destinata a spegnersi, lasciando dietro di sé solo la cenere. Lei aveva avuto tutto: aveva conosciuto l'amore, la gioia, il potere e, infine, la sofferenza. Alla fine, però, tra le mani non le era rimasto più nulla.

La figlia rinnegata, il figlio, il marito: ormai non erano altro che cenere. Cadaveri che presto sarebbero stati dimenticati da tutti e diventati nulla più che polvere e aria.

Abbracciò Eithne più forte, pensando a quanto dolore avesse portato il loro amore proibito. Se avessero deciso diversamente, se, anziché lasciarla andare, lui avesse tentato di farla rimanere accanto a sé, forse sarebbero diventati davvero la famiglia perfetta che tanto Luine aveva desiderato. E, invece, ora eccoli lì, a cercare di trarre l'una un po' di conforto dall'altro, unici sopravvissuti al fuoco che un tempo era stato il loro amore e che aveva provocato le morti di tante persone innocenti.

Eppure, mentre cullava Eithne, la cui schiena continuava ad alzarsi ad ogni singhiozzo, pensò che forse sarebbero riusciti a ricominciare. In qualche modo, insieme, avrebbero rimesso a posto i pezzi, risanato le profonde ferite che quella esperienza aveva lasciato loro e sarebbero andati avanti. Se quella volta avessero deciso di restare insieme, forse il fuoco di un tempo avrebbe ripreso ad ardere, potente come allora.




1Non è una parola davvero esistente, ma inventata da me, fondendo il termine Meleth, ovvero “amore” secondo la lingua elfica tolkeriana, e Gràdh, con lo stesso significato, ma in gaelico scozzese.

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Angolo dell'autrice:

Grazie infinite a chi è arrivato fino a questo punto! Devo dire che non sono molto abituata a scrivere storie così dark e dai toni tanto cupi. Tendo ad avere una propensione verso storie un pizzico più positive e a lieto fine, soprattutto quando c'è di mezzo una storia d'amore: infatti, anche in questa, dopo tutto ciò che Fenimel ed Eithne hanno passato con Luine, ho deciso di lasciare un minimo di speranza a queste povere anime, almeno nel finale. Non me la sentivo proprio di rendere la situazione più drammatica di così.^^

Ad ogni modo vorrei fare un appunto riguardo al titolo che ho scelto: "Damnata ab omnibus, ad infinitum" è una frase latina presente nella canzone "The city of the dead" della cantante Eurielle, che mi è piaciuta moltissimo e che ho trovato azzeccata per il personaggio di Luine. Disprezzata, rinnegata da tutti, anche dai suoi stessi genitori: dannata a rimanere per sempre da sola e avviata dall'odio e la rabbia che prova nella via di dolore e del massacro a cui è stata portata dagli eventi e che in parte ha scelto quando ha stretto l'accordo con il druido. Proprio per questo ho deciso come nome della locanda in cui fa visita per chiedere indicazioni "Stella del mattino", paragonando la sua successiva e progressiva caduta, man mano che la sofferenza e la follia vincono la razionalità, a quella di Lucifero. Un piccolissimo dettaglio che ho voluto spiegare.

Spero che vi sia piaciuta! Mi farebbe molto piacere leggere i vostri pareri e critiche su di essa. 

Un abbraccio,

Sophja99

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