2
Luine
uscì dal castello quanto più velocemente poteva.
Voleva solo
allontanarsi da sua madre, dal dolore che le aveva inflitto e dalla
famiglia che lì si era costruita, da cui lei era stata
completamente
estromessa. Si asciugò le guance umide con il palmo della
mano e si
strappò via con rabbia le lacrime che continuavano suo
malgrado a
scendere.
Un'egoista
senza cuore, ecco cos'era la sua madre naturale.
Presa
da una collera incontrollabile, si slacciò il bracciale dal
polso e
lo scagliò lontano, voltandosi subito dopo per non vedere
dove si
fosse posato. L'unica cosa che desiderava in quel momento era
cancellare il ricordo di Eithne dalla testa, ma non ci riusciva
proprio. Nonostante tutta la sofferenza che le aveva causato e
sebbene si fosse rivelata una donna completamente diversa da quella
che si era immaginata, rimaneva pur sempre sua madre.
Eppure,
la rabbia e la delusione persistevano: in tutti quegli anni aveva
pensato così tanto spesso ai suoi genitori che ne aveva
quasi
idealizzato le figure; si era inventata e immaginata come fossero e
come sarebbe stato il loro incontro. Molte volte le era venuta in
mente l'immagine dei genitori, dall'aspetto e i tratti simili ai
suoi, che bussavano alla porta della sua casa alla Corte Benedetta e
la abbracciavano, promettendole che da allora in avanti non
l'avrebbero mai più lasciata da sola. Ma quel meraviglioso
sogno non
si era mai avverato e ora Luine aveva anche chiarissimo il
perché:
loro non l'avevano voluta allora e non l'avrebbero accolta nemmeno
adesso.
Aveva
sempre vissuto con il forte desiderio di avere una famiglia felice,
unita e perfetta, ma ormai, dopo il suo incontro con la regina
Eithne, lo vedeva solo come un qualcosa di irrealizzabile,
perché il
destino aveva deciso di privarla di quelle gioie.
Aveva
la mente talmente occupata da questi pensieri, che non si accorse
nemmeno di starsi dirigendo al giardino che si trovava poco sotto le
mura del castello. Si sedette a terra, a guardare il panorama di
prati verdi e incantevoli, che, tuttavia, non riuscivano a calmarla.
«Non
saresti dovuta venire» disse una voce sconosciuta e maschile
dietro
di lei. Luine si voltò subito e il suo sguardo cadde su un
uomo
vestito di un mantello nero, dalla pelle tanto pallida da apparire
bianca come quella di un cadavere e dai corti capelli mori, messi in
risalto dal colorito cereo. Si vedeva chiaramente che fosse un
adulto, ma in qualche modo appariva quasi... senza età, con
tratti
sia giovanili, sia maturi. Inoltre, aveva un'aria terribilmente
familiare, sebbene Luine fosse certa di non avere mai visto in vita
sua un individuo simile. Poi si ricordò di aver scorto
qualcuno di
simile poco prima di entrare nella grotta del druido Seumas.
«Tu
chi sei?» domandò la mezzelfa, alzandosi e
indietreggiando.
«Non
mi riconosci?» continuò l'uomo, facendo un passo
avanti e
accennando un sorriso. Ora che era più vicino, Luine si
accorse di
un particolare che prima le era sfuggito: le orecchie erano a punta.
Era un elfo. «Luine, sono tuo padre.»
«Cosa?»
sussurrò la ragazza, improvvisamente senza fiato e con le
gambe
molli. Ora comprese perché i lineamenti del viso e la sua
fisionomia
le fossero subito sembrati tanto noti. Eppure, non riusciva ancora a
capacitarsi come potesse quell'uomo che aveva davanti, dall'aria
tanto misteriosa e pericolosa, essere sangue del suo sangue.
«Proprio
così» affermò. «Ho continuato
a seguirti e a tenerti d'occhio
durante tutto il tuo stupido viaggio per ritrovare tua madre. Un
viaggio a vuoto, perché, come ti saresti dovuta aspettare,
lei non
ti ha voluta. Non saresti mai dovuta partire.»
«Perché
mi dici questo? Io... volevo solo incontrarvi, conoscervi
e...»
balbettò Luine. Quindi, chiuse gli occhi, come per mettere
ordine
alla tempesta di pensieri che affollavano la sua mente.
«Perché
l'avete fatto? Come avete potuto?»
«Intendi
perché ti abbiamo abbandonata? Per capirlo devi conoscere
l'intera
storia.»
«E
allora, padre»
disse la mezzelfa, mettendo particolare enfasi e ironia in
quell'ultima parola «raccontami come è andata
davvero. Aiutami a
capire.»
Quello
volse lo sguardo altrove, verso l'orizzonte, e sussurrò:
«Sì,
meriti di saperlo», poco prima di iniziare a narrare.
Una
ragazza correva tra i campi verdi e rigogliosi della Scozia,
lasciando che il vento le sferzasse i lunghi capelli rossi e l'abito
bianco. Tutti a corte le invidiavano i bei riccioli che le
incorniciavano il volto e le serve si sentivano sempre fiere quando
le dovevano acconciare i capelli. Insomma, l'avevano resa famosa in
tutta la società scozzese.
Eppure,
tutta quell'attenzione l'aveva sempre fatta sentire a disagio e, man
mano che cresceva e le responsabilità e le speranze risposte
in lei
aumentavano, sempre più spesso ricercava momenti di
solitudine e
pace, per pensare lucidamente alla piega che stava prendendo la sua
vita. Non aveva mai desiderato un'esistenza dedita solo alle
frivolezze della corte, all'importanza data alla reputazione e,
soprattutto, al matrimonio. Non sapeva nemmeno cosa significasse la
parola “amore”, figurarsi se avrebbe accettato di
buon grado di
essere mandata in sposa con un uomo che neanche conosceva, come
spesso avveniva nella società di allora. Quella tradizione
la
disgustava: come si poteva costringere una donna a sposarsi con
qualcuno che non amava? Le sembrava assurdo e disumano.
Anche
adesso Eithne stava scappando dal castello per rimanere per qualche
ora da sola, come spesso faceva. Sapeva bene che al suo ritorno
l'avrebbero attesa i rimproveri del padre, ma non le interessava.
Quei momenti di intimità con se stessa valevano qualsiasi
sacrificio.
Si
introdusse nel bosco che circondava il castello. Non era grande;
tuttavia, si estendeva per una zona relativamente estesa, perfetta
per la caccia. Si tolse le scarpette di cuoio e fece un sospiro di
sollievo quando le piante dei piedi entrarono a contatto con l'erba
umida e la terra. Continuò a camminare, sempre tenendo a
mente la
strada di ritorno, e, una volta trovato il posto adatto, si sedette
sulle radici di un albero. Socchiuse gli occhi, godendosi la luce del
sole che filtrava attraverso le fronde, fin quando non sentì
il
rumore di un ramo che veniva spezzato, segno che qualcuno stava
arrivando.
Si
alzò immediatamente, pronta per scappare, temendo che si
stesse
avvicinando un brigante, poiché questi spesso si appostavano
nelle
foreste, dove potevano nascondersi meglio dalle guardie reali e
attaccare con più facilità chi passava.
Indietreggiò
lentamente, guardando nella direzione da cui era provenuto il suono.
A un tratto da dietro un albero apparve un individuo, che si
mostrò
in tutta la sua interezza a Eithne. Le prime cose che colpirono la
ragazza furono la sua giovinezza e la bellezza. Doveva dimostrare
poco meno di vent'anni e aveva dei lineamenti talmente graziosi,
sebbene un po' spigolosi, che la lasciarono senza parole. Il suo
aspetto aveva una tale armonia da quasi non sembrare umano.
Tuttavia,
nonostante la sua bellezza non poteva essere messa in dubbio,
rimaneva pur sempre uno sconosciuto, di cui Eithne non sapeva le
intenzioni. Fece per fuggire, ma lui disse:
«Aspetta!»
Inspiegabilmente,
quella parola ebbe il potere di indurla a fermarsi. Forse era stato
il tono di voce, argentino come mai le era capitato di ascoltare, o
il modo in cui lo disse, senza alcuna nota di comando o cattiveria.
Quando si voltò verso di lui, quello la stava guardando con
un'espressione carica di curiosità e l'attimo di silenzio
che si
andò a creare le diede modo di guardarlo con più
attenzione. Aveva
dei capelli neri come una notte senza stelle, lasciati crescere fino
al collo, e gli occhi, per quanto potesse vedere a quella distanza,
dello stesso colore. Indossava poi una tunica e dei pantaloni di seta
dalle tonalità scure e sopra un mantello, che dava
l'impressione che
quell'uomo avesse viaggiato molto per giungere fin lì, tesi
avvalorata dal fatto che le scarpe fossero logore e sporche, come
potevano diventare solo dopo un lungo viaggio.
«Chi
sei?» domandò Eithne, con voce roca. Non aveva mai
visto un uomo
come quello che aveva davanti, tanto bello e misterioso e con dei
capelli così scuri; non erano frequenti da incontrare in
Scozia.
«Mi
chiamo Fenimel» disse l'uomo. «E tu,
invece?»
«Eithne.
Non hai un nome...» la ragazza cercò la parola
adatta per non
offenderlo «usuale.»
«Diciamo
solo che vengo da molto lontano» rispose lui, accennando un
sorriso.
Eithne
ricambiò. Ormai non sentiva più la paura e
l'inquietudine che aveva
provato quando lo aveva visto la prima volta. In qualche modo Fenimel
riusciva ad ispirarle fiducia, sebbene ancora non lo conoscesse
affatto.
«Da
dove?» domandò, troppo curiosa per frenare la sua
lingua.
«Se
te lo dicessi, non mi crederesti» affermò,
piegando un poco la
testa, come se la stesse studiando. Fu allora che notò uno
strano
particolare che prima non aveva visto, perché coperto dai
capelli:
le sue orecchie erano a punta. Eithne continuò ad
osservarle, senza
capacitarsi di come fosse possibile qualcosa del genere e Fenimel
dovette intuire la sua perplessità e confusione per un
qualcosa che
giudicava anomalo.
«Cosa
sei davvero?» domandò Eithne, la voce leggermente
tremante.
«Promettimi
che non scapperai urlando» disse Fenimel e Eithne, nonostante
la
paura e la reticenza, annuì, troppo interessata a sapere di
più sul
conto di quel misterioso individuo. Allora lui continuò:
«Sono un
elfo.»
Eithne
spalancò la bocca, ma da essa non uscì alcun
verso. Non riusciva
proprio a credere che davanti a lei vi fosse una delle creature che
da sempre avevano popolato le fantasie del loro popolo e le storie
che la madre da piccola le narrava prima di andare a dormire.
«Un...
elfo?»
Fenimel
annuì e lei chiese: «Allora, se tu sei davvero un
elfo, esistono
anche tutte le altre creature? Le fate e i folletti?»
«Già.
Tutte le leggende che vengono narrate su queste terre sono
vere.»
«Com'è
possibile?» domandò Eithne.
«Viviamo
nascosti dagli umani, in luoghi a voi invisibili.»
La
ragazza si scoprì a non avere alcuna paura di lui; anzi, si
sentiva
in modo del tutto inspiegabile calamitata a quell'elfo. «I
posti da
cui provieni? Quelli che si trovano molto lontani da qui?»
«Sì»
disse Fenimel. «In realtà si trovano nel nord
della Scozia.»
«E...
come sono?» domandò Eithne, stranamente curiosa.
«Da
una parte c'è la Corte Benedetta, meravigliosa e incantata,
dove
vivono gli elfi della luce, silvani e delle stelle, insieme alle
creature del Piccolo Popolo, come gli gnomi e le fate. Poi
c'è la
Corte Maledetta, dove vivono tutte le creature più malvagie
e
spregevoli, primi fra tutti gli elfi oscuri.»
«Vorrei
tanto vederle...» disse Eithne, sospirando.
«Purtroppo,
gli umani non possono entrarvi, ma io posso raccontarti di loro e
delle creature che vi abitano. Posso dirti ogni singolo particolare:
non sarà come vederle direttamente, ma, almeno, potrai farti
un'idea
più chiara di come siano.»
La
ragazza annuì e si avvicinò a lui. Restarono
tutto il pomeriggio
seduti ai piedi dell'albero a parlare.
Dopo
l'incontro iniziale, i due cominciarono a vedersi sempre più
spesso:
almeno una volta ogni giorno. Eithne non sempre aveva la
possibilità
di incontrarlo a causa degli impegni di corte, ma sfruttava ogni
scusa per allontanarsi dal castello e andare al loro punto di
ritrovo, su un colle accanto al palazzo e al bosco, dove lui
puntualmente stava ad aspettarla. Tuttavia, il momento della giornata
che più preferiva era la notte, quando si stendevano a
parlare sul
prato e guardavano il firmamento sopra di loro. Con solo la luna e le
stelle ad illuminarli, i racconti di Fenimel sul Piccolo Popolo e le
due Corti di elfi esistenti, l'una Benedetta, l'altra Maledetta,
sembravano prendere vita e riempire l'aria di magia.
Rimanevano
tutta la notte svegli, a parlare e sognare mondi incantati e creature
fantastiche, fin quando le prime luci dell'alba facevano capolino
all'orizzonte, annunciando l'arrivo del sole e il momento della loro
momentanea separazione.
Anche
quella notte si erano incontrati sul colle, non troppo distante dal
castello, ma abbastanza perché nessuno li vedesse. Eithne si
rigirava tra le mani una rosa dal colore molto chiaro, della cui
specie dozzine di fiori si potevano facilmente trovare nelle campagne
scozzesi, mentre si lasciava cullare dalla voce calmante e dolce
dell'elfo.
A
un tratto Eithne lo interruppe, poiché un pensiero le era
appena
balenato nella testa. «Com'è l'amore tra voi
elfi?»
«L'amore?»
domandò Fenimel, stupito dalla domanda. «Non
saprei come spiegarlo:
è una cosa del tutto normale e naturale, come credo che sia
anche
per gli umani e gli animali. Quando due elfi si incontrano e iniziano
a provare qualcosa l'uno per l'altro, tra i due avviene un'unione sia
fisica, sia mentale. È come se divenissero un tutt'uno: si
crea un
filo che li lega, che mette in collegamento le loro menti, i loro
sentimenti e i loro pensieri.»
«Possono
entrare uno nella mente dell'altro?» chiese la ragazza,
affascinata
dall'argomento.
«Sì.
È un legame tanto potente da unire i due elfi per
l'eternità.»
«E
da voi vengono celebrati i matrimoni?»
«Matrimonio?»
ripeté Fenimel, aggrottando le sopracciglia.
«Sarebbe
la celebrazione dell'unione tra due persone, quando questa diventa
ufficiale, legando i due per tutta la vita»
affermò Eithne,
rabbuiandosi subito dopo. «Dovrebbe sancire l'amore che
unisce due
individui, ma in realtà oggi è solo un patto,
usato per accrescere
il prestigio, l'onore e la ricchezza delle famiglie. Sono certa che i
miei genitori mi daranno in sposa ad un uomo che non amo, come sta
accadendo a tutte le mie amiche...»
«Senza
amore?» esclamò Fenimel, incredulo.
«Como possono legarti ad una
persona verso cui non provi alcun sentimento?»
Eithne
non rispose alla domanda; invece, gli chiese: «Da voi
esistono i
matrimoni?»
«Non
come i vostri. Da noi si chiamano Meleàdh1,
e sono solo il momento in cui i due amanti si scambiano le promesse
eterne davanti a tutto il popolo elfico e non. Qualcosa di puramente
formale.»
Eithne
osservò la bellezza e l'incanto della luna, una sfera tanto
fulgente
che al confronto le stelle impallidivano.
«Eithne,
c'è una cosa che devo dirti...» iniziò
Fenimel, interrompendo il
silenzio che si era andato a creare. L'elfo parlò con un
tono di
voce talmente denso di preoccupazione che la ragazza si
voltò subito
a guardarlo. «Tutte le cose di cui ti ho parlato appartengono
alla
Corte Benedetta, come avrai capito. Il punto è che io non ne
faccio
parte. Vivo nella Corte Maledetta, dove si trovano tutti gli spiriti
maligni e gli elfi oscuri. Io sono uno di loro.»
«Sei...
un elfo oscuro?»
«Sì.
Ho vissuto ogni singolo giorno della mia vita in mezzo a ladri,
assassini e individui spietati, senza alcuna pietà o morale.
Finora
non te l'ho detto perché temevo che non mi avresti
più guardato
allo stesso modo, che avresti avuto paura di me. Però, ti
prego, non
pensare che io sia davvero uno di loro. Forse lo sono per il sangue
che scorre nelle mie vene e per il mio passato, ma sono fuggito dalla
Corte Maledetta proprio perché odiavo le persone che mi
stavano
intorno e quello che facevano. Non volevo vivere lì,
né essere come
loro: desideravo solo stare alla Corte Benedetta, insieme agli elfi a
cui tanto volevo assomigliare.»
«Tu
lo sei» affermò Eithne, alzandosi a sedere e
appoggiando a terra la
rosa per prendere la mano di Fenimel e stringerla tra le sue.
«Sei
come gli elfi della Corte Benedetta. Non importa il tuo aspetto, il
tuo passato o il tuo sangue. Ciò che davvero conta
è quello che
senti e che sei qui dentro» continuò, appoggiando
una mano sul suo
petto, all'altezza del cuore. «Io so che sei una brava
persona; l'ho
capito dal primo momento che ti ho visto. All'inizio naturalmente ero
diffidente, come è normale che sia di fronte ad uno
sconosciuto, ma
mai ho avuto paura che tu potessi farmi del male.»
Alla
candida e lieve luce delle stelle, la pelle bianca dell'elfo sembrava
risplendere e i suoi occhi guardarla nel profondo, con
un'intensità
tale da farla arrossire. In quel momento Eithne si ricordò
di avere
ancora la mano appoggiata al petto dell'elfo, ma non tentò
di
scostarla. Quel leggero contatto la faceva sentire più
vicina a lui,
al suo cuore.
Fenimel
accostò delicatamente la mano alla guancia della ragazza,
accarezzandole il viso fino ad arrivare alle labbra, dove anche i
suoi occhi si posarono. Eithne, lasciatasi trasportare dall'atmosfera
magica che si era andata a creare, si avvicinò a lui,
finché le
loro bocche non si toccarono in un lieve bacio.
La
mano di Eithne risalì fino alle sue spalle, andando a
scostare il
mantello per toccare direttamente la pelle nuda. Il bacio si fece
più
ardito e infuocato, mentre gli strati che dividevano i loro corpi
diminuivano e la passione prendeva possesso della ragione e delle
loro facoltà. Stesi su un tappeto di erbe e fiori, con le
stelle e
la luna come uniche testimoni, un elfo e un'umana divennero un unico,
singolare fuoco, che divampò alto e potente come l'amore che
li
univa.
Continuarono
a vedersi anche dopo quella fatidica notte; i loro incontri si
susseguirono per mesi e ogni notte il fuoco veniva attizzato con
nuova aria e passione, rendendo il loro amore ancora più
forte.
Però, tutto cambiò nel momento in cui Eithne
scoprì di essere
incinta. Le prime settimane riuscì facilmente a nascondere
la
pancia, ma già al secondo mese iniziò a notare un
leggero
rigonfiamento, che sarebbe andato aumentando e non sarebbe certo
scappato agli sguardi attenti delle serve e dei genitori, e a
manifestare i primi sintomi della gravidanza, come il vomito, la
stanchezza e frequenti dolori al ventre.
Fu
costretta a rivelare tutto al padre e alla madre, omettendo
l'identità di Fenimel e dicendo loro soltanto che colui con
cui
aveva perso la verginità e che l'aveva messa incinta era un
semplice
garzone del villaggio. Il padre non la prese bene e iniziò
anche a
meditare un aborto, ma la madre cercò di farlo ragionare e,
dopo una
lunga discussione, decisero di allontanarsi dal palazzo con la scusa
di una vacanza nel castello di certi loro cugini per il tempo
necessario prima di affidare il bambino ad una qualsiasi delle tante
famiglie che abitavano un villaggio vicino, prima di fare ritorno.
Partirono
immediatamente e si stabilirono nella tenuta di alcuni parenti, che,
pensando anche loro che la loro visita fosse del tutto casuale, non
sospettarono minimamente della gravidanza di Eithne. Questa, quindi,
trascorse i mesi successivi segregata nella sua stanza, dove avrebbe
potuto conservare le forze in vista del parto. La ragazza, tuttavia,
sapeva che i genitori avevano perso la fiducia in lei e non si
fidavano più a lasciarla libera di andarsene in giro.
Tutte
le notti, quando si affacciava alla finestra per guardare il cielo e
le stelle, piangeva ricordando i momenti felici trascorsi con l'elfo.
Eppure, nonostante tutti i dolori, sia fisici, sia psicologici, che
il loro amore le stava provocando, non c'era neanche un minimo di
pentimento in lei. Ciò per cui davvero piangeva,
però, non era
tanto l'assenza di Fenimel, che pure si faceva sentire con violenza,
quanto il destino della creatura che stava prendendo vita dentro di
lei. Come sarebbe stata? Che fine avrebbe fatto? Sarebbe stata
trattata bene?
Eithne
partorì in un giorno di primavera e quella che si
scoprì essere una
bambina uscì proprio nel momento in cui l'alba sorgeva e i
raggi del
sole mattutino si insinuavano nella camera da letto.
La
levatrice, una volta coperta la bambina con panni bianchi per pulirla
dal sangue di cui era cosparsa, fece per portarla subito via, ma,
dopo le assidue proteste di Eithne, questa ottenne di poterla tenere
per un po' di tempo prima di mandarla via. «Posso... tenerla
con me
solo fino a questo pomeriggio? Solo per oggi?»
La
donna ne parlò con la madre di Eithne, che, vista la
disperazione
della figlia, acconsentì alla sua richiesta. La ragazza, con
le
guance umide per il dolore del parto, i capelli incollati al viso e
al collo e madida di sudore, sorrise quando la bambina le venne messa
tra le braccia e questa iniziò a piangere. Le sue mani
tremarono
quando vide la creatura a cui lei stessa aveva dato la vita e prese a
cullarla per calmarla. Rimase con lei per tutta la mattina e il
pomeriggio, senza toccare cibo o fare nient'altro per la paura di far
cadere la bambina o svegliarla dal sonno a cui con fatica l'aveva
condotta. Le sembrava talmente piccola e fragile che temeva che al
minimo movimento potesse andare in frantumi.
Al
tramonto, quando la piccola si era destata affamata e Eithne era
impegnata ad allattarla, la finestra della stanza si aprì e
con
grande stupore della ragazza vi entrò Fenimel.
«Cosa
ci fai qui?» domandò la donna con voce tremante.
Era da così tanto
tempo che non si incontravano che le sembrava di vedere un fantasma.
«Sei
sparita» disse lui, l'espressione e il tono di voce duro come
non lo
aveva mai sentito. «Non mi hai fatto più sapere
nulla, non ti sei
più fatta vedere e non sai quanto ci ho messo a scoprire che
eri
venuta qui e a raggiungerti. Eri incinta di nostra figlia e non mi
avevi detto niente. Perché?»
«Ho
dovuto dire tutto ai miei genitori o non sarei mai riuscita a far
passare inosservata la gravidanza. Se si fosse saputo in giro che ho
avuto una relazione al di fuori dei vincoli matrimoniali, questo
avrebbe potuto rovinare l'onore della mia famiglia.»
«Al
diavolo l'onore!» sibilò l'elfo. «A
nostra figlia non ci hai
pensato?»
Ci
ho pensato ogni singolo giorno di questi ultimi mesi pensò.
Ed è
proprio per il suo bene che ho fatto questa scelta. «Portala
via» disse Eithne.
«Cosa?»
«Non
è umana» indicò le orecchie leggermente
a punta, ma solo
accennate, che si potevano notare solamente con uno sguardo
più
attento. «Lei non appartiene a questo mondo come me. Portala
via,
alla Corte Benedetta, in cui hai detto che vivono gli elfi della
luce. È l'unico posto in cui potrebbe vivere bene.»
«Eithne,
io non posso andarci. Non mi permetteranno mai di entrarvi.»
«Ma
lei sì. Sono certa che non la rifiuteranno.»
«Oppure
possiamo scappare tutti insieme.»
«Sai
bene che non posso. Io non appartengo al vostro mondo, ma a questo.
Qui ho dei doveri e anche dei sogni da realizzare. Per quanto io ami
te e la bambina, non posso lasciare tutto e andarmene» disse,
mentre
una lacrima scendeva a rigarle il volto.
Guardò
la neonata e i suoi grandi occhi azzurri. Luine
pensò.
Ti
chiamerai così. O, almeno, in questo modo ti
ricorderò quando non
sarai più accanto a me. «Addio,
mia piccola Luine» disse, lasciando un ultimo leggero bacio
sulla
sua testa, prima di porgerla a Fenimel. Questo la guardò con
un'espressione colma di dolore, mentre prendeva Luine tra le mani e
se la stringeva al petto.
«Aspetta»
sussurrò Eithne, poco prima che Fenimel se ne andasse. Si
slacciò
dal polso un bracciale sottile e semplice, che tese verso l'elfo.
«Lasciaglielo come ricordo di sua madre.»
Fenimel
lo prese e le lanciò un ultimo sguardo carico di amore e
rimorso.
Eithne scoppiò in lacrime poco dopo che le sagome delle due
persone
che più aveva amato nella vita scomparivano nella notte
appena
calata. Al posto del fuoco di un tempo ormai non era rimasto altro
che fumo e cenere.
«Quella
fu l'ultima volta che la vidi» disse il padre, dopo aver
finito di
parlare. «Più tardi seppi grazie ai servitori
più stretti dei suoi
genitori che, poco dopo la mia partenza insieme a te, Eithne disse
alla madre che la bambina era stata portata via dall'ostetrica. La
faccenda venne velocemente liquidata e, quando lei recuperò
tutte le
forze, fecero ritorno a corte, per dimenticare l'accaduto e
ricominciare. Naturalmente continuai a informarmi sul suo conto, ma
non ebbi più il coraggio di incontrarla ancora. Tre anni
più tardi
ho saputo che si era sposata con l'uomo che sarebbe poi divenuto il
re di Scozia e il suo attuale marito, e da lui aveva avuto un figlio
maschio. Insomma, alla fine ha avuto la vita normale che tanto aveva
desiderato.»
«Lei...
è stata sua la decisione di abbandonarmi. E tu non hai
minimamente
protestato» proruppe Luine, il cuore più a pezzi
di prima dopo aver
sentito la storia dei suoi genitori. «Avresti potuto tenermi
con te,
ma hai scelto di fare come lei ti aveva detto.»
«Non
potevo portarti alla Corte Maledetta; lì non saresti mai
vissuta
bene e tutti ti avrebbero guardata con disprezzo per essere
un'ibrida.»
«Non
pensare che alla Corte Benedetta mi sia trovata meglio: ero
un'orfana, un'elfa a metà in mezzo a individui praticamente
perfetti
e intoccabili» sputò fuori tutta la sofferenza
accumulata in quegli
anni di solitudine. «E a voi non è mai importato
nulla. Avete
continuato per le vostre vite senza minimamente preoccuparvi della
figlia che avute avuto e rinnegato.»
«Luine»
affermò il padre, con sguardo duro. «Torna alla
Corte. Questo non è
il tuo posto. Lascia tua madre vivere in pace, senza costringerla ad
affrontare i suoi demoni del passato.»
«Già,
poverina» la voce di Luine grondava amara ironia.
«Però, non mi
sembrava molto sofferente mentre il popolo la acclamava come regina e
lei sorrideva ai loro complimenti.»
«Vai
via, Luine» ripeté il padre, stavolta con un tono
che non ammetteva
repliche, a tratti rabbioso.
Lei
si voltò con le lacrime agli occhi e si allontanò
da lui il più
rapidamente possibile. Quel giorno era come se entrambi i suoi
genitori l'avessero rifiutata una seconda volta, provocandole una
ferita al cuore che Luine non credeva sarebbe più stata in
grado di
risanare.
Si
sdraiò sul prato, osservando il castello da lontano, che
appariva
come un'enorme rocca circondata da un esiguo bosco. La sua testa era
affollata da miriadi di pensieri, che si andavano accumulando con le
parole taglienti pronunciate dai suoi genitori. Tu
non dovresti nemmeno esistere.
Vattene.
Non saresti mai dovuta partire. Questo non è il tuo posto.
Luine
strizzò gli occhi, per impedire che altre lacrime
scendessero e si
accumulassero con quelle già versate. Era stanca; stanca di
piangere, stanca di sentirsi inadeguata e rifiutata, stanca di non
avere un posto a cui davvero apparteneva e in cui sarebbe sempre
potuta tornare, stanca dei sogni che non si sarebbero mai avverati.
In
tutta la sua vita non aveva voluto altro che una famiglia normale,
come quelle degli elfi che popolavano la Corte. Ognuno di loro aveva
una madre e un padre che pensavano a loro e alle loro
necessità, che
li accompagnavano nel cammino della loro vita. Lei non li aveva avuti
e aveva sperato di poter cambiare le cose con quel viaggio, che in
realtà si era rivelato solo una perdita di tempo e forze e
che non
le aveva dato altro che nuovo dolore da aggiungere a quello che
già
si era accumulato dentro di lei.
Eppure,
guardando gli uccelli che fendevano il cielo azzurro, si
ritrovò a
pensare che forse c'era ancora speranza. Non aveva fatto tutta quella
strada solo per vedersi sbattere la porta in faccia. Aveva la
possibilità di rimettere a posto le cose a modo suo e
realizzare i
suoi sogni più reconditi.
Con
lo sguardo fisso in direzione del palazzo, si alzò di
scatto, mossa
da rinnovata forza. I suoi genitori avevano solo paura di abbandonare
la vita a cui ormai erano attaccati per accogliere lei. Luine non
doveva fare altro che rendergli più facile il distacco,
eliminando
gli ostacoli si frapponevano tra lei e loro, cosicché
sarebbero
stati più propensi ad accettarla finalmente e a recuperare
il tempo
perduto. L'unica cosa che voleva era una famiglia perfetta ed era
certa che, se si fosse impegnata, sarebbe riuscita ad averla e a
riunirsi con Eithne e Fenimel, a qualsiasi costo.
Luine
mise piede nell'area del palazzo dove si trovavano le residenze della
famiglia reale; entrare nel castello era stato un gioco da ragazzi.
Tutta la servitù era a dormire già da ore e la
mezzelfa aveva
impiegato solo pochi minuti a circuire le guardie, distraendole, o a
stordirle con un colpo veloce, ma potente, molto più di
quanto un
comune umano sarebbe riuscito a infliggere. Inoltre, aveva privato
una di loro della spada che la guardia non aveva fatto in tempo a
sfoderare prima di essere ucciso e che ora teneva stretta tra le
mani.
Camminava
lungo il corridoio buio, illuminato solo dalla leggera fiamma di una
fiaccola appesa al muro, ma i suoi piedi non sembravano nemmeno
toccare il suolo. Una delle migliori doti che aveva ereditato dal
padre era proprio la discrezione tipica della razza elfica, che
poteva farla diventare quasi invisibile. La luce del fuoco si
rifletteva nella lama, facendola apparire come infuocata.
Aprì
lentamente una delle due porte che vi erano in quel piano, lo stesso
in cui era stata quel giorno durante il suo incontro con la regina.
Sussultò al ricordo della lite avuta con lei e delle parole
che
quella le aveva rivolto, ma si calmò ripetendosi che tutto
sarebbe
finito bene perché sarebbe riuscita a rimettere a posto le
cose.
Davanti
a lei si presentò un'ampia stanza, dai muri decorati con
arazzi
sapientemente tessuti, raffiguranti innumerevoli figure a cui non
seppe dare un'identità o una spiegazione alle azioni che
stavano
compiendo, e dalle finestre coperte da pregiate tende rosse. A un
lato della camera troneggiava su tutto un grande letto a baldacchino,
al cui interno Luine poteva scorgere una figura tramite le bianche e
fini tende di cotone. Si accostò al letto e
scostò la cortina per
rivelare il giovane corpo del principe, che dormiva infilato sotto
coperte pesanti con in viso un'espressione di pura serenità.
Luine
non provò alcuna simpatia o compassione per quel ragazzo dai
capelli
castani e ancora acerbo; l'unica immagine che aveva in testa era lo
sguardo d'orgoglio che la madre gli aveva rivolto lungo tutta
l'adunanza nel cortile del castello. Qualcosa che a lei era stato
precluso non una, bensì due volte. Non
è giusto pensò,
mentre gli occhi le si inumidivano. Perché
lui ha avuto tutto dalla vita, e io nulla?
La
mezzelfa sentì la rabbia farsi largo nel suo petto e
offuscarle la
mente, impedendole di concepire altri pensieri che non fossero la
collera e la sofferenza che aveva dentro. Strinse l'elsa della spada
tra le mani e posizionò la lama poco sopra il collo scoperto
del
ragazzo.
Si
bloccò pochi attimi prima di alzare l'arma: lei voleva
davvero
farlo? Togliere la vita ad un ragazzo di appena dodici anni?
Osservò
il viso dai tratti delicati e giovani e solo ora si accorse di quanto
assomigliasse alla madre che avevano in comune. Dentro di lui
scorreva il suo stesso sangue, o, almeno, parte di esso; eppure,
Eithne aveva ugualmente deciso di mettere lei da parte e scegliere
lui, il figlio legittimo e prediletto, quello che mai aveva
conosciuto il dolore e la solitudine, i sentimenti con cui, invece,
Luine era cresciuta. Aveva ricevuto tutto l'amore che due genitori
potevano dargli: la sua vita era esattamente quella che Luine aveva
da sempre desiderato.
Il
destino non aveva avuto pietà di lei e Luine non ne avrebbe
avuta
per quel ragazzino.
Con
un movimento deciso sollevò l'arma e la fece ricadere sul
collo del
principe, che si recidette senza alcuna difficoltà. Luine
pensò a
quanto le sue ossa fossero fragili e ancora non ben formate, mentre
uno schizzo di sangue le sporcava la veste e il viso e le lenzuola
bianche si tingevano lentamente di rosso. Luine osservò,
senza alcun
rimorso nel cuore, la testa del ragazzo, ora staccata dal corpo e
rimasta scomposta accanto al cuscino: aveva ancora in volto
un'espressione quasi beata. Almeno
non ha sofferto si
disse. Non
tanto quanto me.
Afferrò
la spada grondante di sangue e uscì svelta dalla camera,
lasciandosi
dietro il cadavere del principe. Entrò poi in quella
accanto, in cui
già era stata quella mattina. Tuttavia, allora era stata
troppo
focalizzata su sua madre per osservare con attenzione la camera da
letto. Lasciò vagare lo sguardo sui mobili all'apparenza
molto
costosi e di qualità, e sugli arazzi attaccati alle pareti,
molto
più grandi di quelli della stanza del fratellastro. Infine,
guardò
il letto a baldacchino al centro della stanza: era ben più
largo
dell'altro, poiché era matrimoniale, ospitando la coppia
reale.
Strinse
l'elsa fino a far sbiancare le nocche della mano e scostò le
tende
appese al letto con la lama dell'arma, dipingendole di chiazze rosse
e scoprendo i volti di sua madre e del suo nuovo marito. Gli occhi
chiusi, le mani unite e i corpi stretti l'uno con l'altro. Luine si
portò una mano alla bocca e si lasciò sfuggire
una smorfia: come
riusciva Eithne a dormire così serenamente con un uomo che
non
amava, dopo tutto quello che aveva causato a lei e a suo padre?
Quindi
il suo sguardo ricadde sul re, un uomo dalla corporatura vigorosa e
sana, da vero guerriero e sovrano. Il viso severo ora era disteso in
un'espressione che mostrava incredibile pace e tranquillità.
Aveva
l'orribile impressione di stare rovinando un momento fin troppo
intimo tra i due coniugi. Coniugi.
Odiava pensare alla madre come a una donna sposata con qualcuno che
non fosse Fenimel: era stata tutta colpa sua se lei non aveva avuto
una famiglia normale. Sua e di quel mostro che si trovava accanto a
lei.
Luine,
con le lacrime agli occhi per la rabbia, sollevò la spada
con
entrambe le mani, la punta aguzza della lama a un passo dal petto
dell'uomo, e la lasciò cadere con violenza. Le lacrime
continuavano
ad uscirle e a rigarle il volto, mentre l'arma entrava sempre
più in
profondità, lacerando pelle, muscoli e ossa, e la veste,
intorno al
punto in cui aveva introdotto la spada, si tingeva del rosso scuro
del sangue.
Lasciò
l'elsa di scatto, guardando il re aprire gli occhi di soprassalto e
svegliarsi per il dolore improvviso, ancora ignaro di stare per
morire. Il suo corpo cominciò a tremare e dalla bocca
uscirono versi
senza alcun senso, insieme ad un piccolo rivolo di sangue. Le scosse
sempre più deboli del sovrano destarono anche Eithne, che
sollevò
la testa stroppicciando gli occhi. Quando mise a fuoco la terribile
scena che si presentava davanti a lei e la spada ancora conficcata
nel corpo ormai senza vita del marito, lanciò un grido.
«Cosa
hai fatto?» urlò la donna, piegandosi sul re e
accarezzando le sue
guance pallide, nel vano tentativo di aiutarlo.
«Ho
sistemato tutto. Ho rimediato al tuo errore. In fondo, quel ragazzo
era solo il
frutto di qualcosa che non sarebbe mai dovuto accadere»
rispose Luine, citando le stesse parole che quella mattina la madre
le aveva rivolto, riferendosi alla sua nascita e intera esistenza.
Sul suo volto sporco di sangue ancora vivo spuntò un
sorriso, che
raggelò il sangue nelle vene alla madre.
«Cosa
gli hai fatto? Mostro, cosa hai fatto a mio figlio?» la
tempestò di
domande Eithne, con le lacrime agli occhi, e subito dopo si
alzò e
si precipitò nella stanza accanto. Nonostante le pareti che
dividevano le due camere, Luine sentì chiaramente le acute
urla di
dolore lanciate da Eithne alla vista della testa mozzata del figlio.
La
mezzelfa la seguì, ma dovette fermarsi alla porta,
perché, come la
madre la vide affacciarsi, incominciò a urlare
più forte. «Stai
lontana. Guardie! Guardie, prendetela! Tenetela lontana da me e mio
figlio!» Abbracciò i resti del corpo del ragazzo,
scossa da
singhiozzi incontrollati.
«Nessuno
verrà» mormorò Luine, accennando poi a
un sorriso. «Ma questo non
ha più alcuna importanza. Mamma, ti sto offrendo un nuovo
inizio:
dimentica queste persone, che ormai fanno parte del passato, e sii la
madre che ho sempre voluto.»
«Ho
detto allontanati!»
strillò Eithne, mandando avanti le braccia nel tentativo di
proteggere se stessa e il figlio dalla creatura a cui lei stessa
aveva dato la vita e che le si stava ritorcendo contro.
«Guardati
intorno: hai avuto tutto quello che un umano potrebbe mai desiderare.
Oro, potere, una famiglia, per quanto fasulla. Ora puoi riprendere da
dove ti eri interrotta: ti sei persa tutta la mia infanzia e
crescita, ma non fa niente. Ci sarà ancora tempo per
recuperare gli
anni perduti.»
«Voglio
solo che tu te ne vada e mi lasci da sola con la mia vera
famiglia...»
sibilò Eithne, ormai allo stremo delle forze.
«Noi
siamo la tua vera famiglia» continuò Luine,
avvicinandosi di nuovo
a sua madre. «Io e papà. E potremo essere di nuovo
insieme. Tutti
noi.» Tuttavia, non riuscì a terminare le ultime
due parole che
sentì un dolore lancinante al petto. Quando
abbassò lo sguardo sul
suo corpo, vide la punta di una lama spuntare poco sotto il seno
sinistro, nel punto esatto in cui si trovava il suo cuore.
Le
gambe cedettero, mentre il dolore si diffondeva in ogni zona del
corpo, prosciugandole le forze e rendendole sempre più arduo
respirare. Poteva chiaramente sentire il suo cuore battere sempre
più
lentamente e con maggiore difficoltà e il corpo iniziare a
non
rispondere ai comandi. Il sudore puntellava il suo viso, mischiandosi
al sangue delle persone che aveva ucciso, e la sua pelle diventava
sempre più pallida e fredda, in modo del tutto innaturale.
Il
cuore di Luine, già martoriato da indicibili sofferenze,
smise
definitivamente di pulsare; l'ultimo battito terminò,
portandosi via
la sua vita e un male incurabile e troppo grande da sopportare.
Era
arrivato troppo tardi. Aveva creduto di essere riuscito a convincere
Luine a desistere dalle sue folli idee, ma si era sbagliato. Ed ora
stava pagando le conseguenze del suo errore proprio Eithne, insieme
al marito e al figlio. O a ciò che era rimasto di loro.
Come
vide il massacro che la sua stessa figlia aveva compiuto e l'orrore
stampato nel volto di Eithne, aveva agito d'istinto: aveva preso la
spada lasciata a terra dalla mezzelfa e le aveva trafitto il cuore
con un colpo preciso e letale. Aveva visto Luine, il frutto del suo
amore per Eithne, cadere a terra, uccisa dal suo stesso padre, e
morire. Anche ora stava guardando il corpo divenuto cereo di Luine, i
suoi capelli rossi sparsi sul pavimento di legno macchiato di sangue
e gli occhi spalancati in un'espressione insieme di stupore, rabbia e
sofferenza. Si chiese come fosse riuscita una ragazza così
giovane a
sopportare delle emozioni talmente forti e dolorose e come fosse
arrivata a compiere delle azioni tanto terribili. Poi si
ricordò che
non era stata altro che colpa loro: sua e di Eithne. Non avevano
saputo volerle bene, l'avevano rifiutata e quello era il risultato
dei loro sbagli.
Sapeva
del suo patto con il druido Seumas: anche quella volta, come ora, non
era riuscito ad intervenire per fermarla in tempo e, quando lei era
entrata nella grotta, ormai era troppo tardi per fare
alcunché senza
che il druido avvertisse la sua presenza. Però, era a
conoscenza di
cosa Luine avesse barattato con Seumas per poter incontrare lui ed
Eithne: la sua parte umana, quella dove erano racchiuse tutte le
virtù e le qualità della mezzelfa, lasciando solo
i sentimenti
appartenenti alla sua anima da elfa oscura, gli stessi che la avevano
logorata fino a portarla alla rovina e che anche Fenimel in tutta la
sua esistenza aveva cercato di combattere e mettere a tacere.
Lasciò
cadere con una smorfia di disgusto l'arma con cui aveva tolto la vita
a sua figlia e si voltò verso Eithne, che aveva osservato la
scena
con la mano premuta sulla bocca; l'elfo non sapeva dire se l'avesse
fatto per lo stupore o per reprimere un grido. Le lacrime scendevano
copiose lungo le sue guance e Eithne continuava a guardare il corpo
riverso al suolo della figlia.
Fenimel
le si avvicinò e la strinse a sé, tremante come
una foglia scossa
dal vento. La sofferenza che lui sentiva non era minimamente
paragonabile a quella che Eithne doveva stare provando, sebbene fosse
stato lui a infliggere il colpo fatale a Luine.
Un
tempo erano stati potenti e felici. Una fiamma alta e superba, che,
tuttavia, prima e o poi è destinata a spegnersi, lasciando
dietro di
sé solo la cenere. Lei aveva avuto tutto: aveva conosciuto
l'amore,
la gioia, il potere e, infine, la sofferenza. Alla fine,
però, tra
le mani non le era rimasto più nulla.
La
figlia rinnegata, il figlio, il marito: ormai non erano altro che
cenere. Cadaveri che presto sarebbero stati dimenticati da tutti e
diventati nulla più che polvere e aria.
Abbracciò
Eithne più forte, pensando a quanto dolore avesse portato il
loro
amore proibito. Se avessero deciso diversamente, se, anziché
lasciarla andare, lui avesse tentato di farla rimanere accanto a
sé,
forse sarebbero diventati davvero la famiglia perfetta che tanto
Luine aveva desiderato. E, invece, ora eccoli lì, a cercare
di
trarre l'una un po' di conforto dall'altro, unici sopravvissuti al
fuoco che un tempo era stato il loro amore e che aveva provocato le
morti di tante persone innocenti.
Eppure,
mentre cullava Eithne, la cui schiena continuava ad alzarsi ad ogni
singhiozzo, pensò che forse sarebbero riusciti a
ricominciare. In
qualche modo, insieme, avrebbero rimesso a posto i pezzi, risanato le
profonde ferite che quella esperienza aveva lasciato loro e sarebbero
andati avanti. Se quella volta avessero deciso di restare insieme,
forse il fuoco di un tempo avrebbe ripreso ad ardere, potente come
allora.
1Non
è una parola davvero esistente, ma inventata da me, fondendo
il
termine Meleth, ovvero “amore” secondo la lingua
elfica
tolkeriana, e Gràdh,
con lo stesso significato, ma in gaelico scozzese.
Angolo
dell'autrice:
Grazie
infinite a chi è arrivato fino a questo punto! Devo dire che
non sono molto abituata a scrivere storie così dark e dai
toni tanto cupi. Tendo ad avere una propensione verso storie un pizzico
più positive e a lieto fine, soprattutto quando
c'è di mezzo una storia d'amore: infatti, anche in questa,
dopo tutto ciò che Fenimel ed Eithne hanno passato con
Luine, ho deciso di lasciare un minimo di speranza a queste povere
anime,
almeno nel finale. Non me la sentivo proprio di rendere la situazione
più drammatica di così.^^
Ad
ogni modo vorrei fare un appunto riguardo al titolo che ho scelto:
"Damnata ab omnibus, ad infinitum" è una frase latina
presente nella canzone "The city of the dead" della cantante Eurielle,
che mi è piaciuta moltissimo e che ho trovato azzeccata per
il personaggio di Luine. Disprezzata, rinnegata da tutti, anche dai
suoi stessi genitori: dannata a rimanere per sempre da sola e avviata
dall'odio e la rabbia che prova nella via di dolore e del massacro a
cui è stata portata dagli eventi e che in parte ha scelto
quando ha stretto l'accordo con il druido. Proprio per questo ho deciso
come nome della locanda in cui fa visita per chiedere indicazioni
"Stella del mattino", paragonando la sua successiva e progressiva
caduta, man mano che la sofferenza e la follia vincono la
razionalità, a quella di Lucifero. Un piccolissimo dettaglio
che ho voluto spiegare.
Spero
che vi sia piaciuta! Mi farebbe molto piacere leggere i vostri
pareri e critiche su di essa.
Un
abbraccio,
Sophja99
|