Metamorfosi di Red Owl (/viewuser.php?uid=31841)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** VI ***
Capitolo 6: *** V ***
Capitolo 7: *** VIII ***
Capitolo 8: *** VII ***
Capitolo 9: *** IX ***
Capitolo 10: *** X ***
Capitolo 1 *** I ***
E
poi se n’erano andati, veloci
com’erano arrivati. Avevano lasciato sul campo i corpi dei
caduti, abbandonati al
becco degli avvoltoi o alla pietà dei nemici, ed erano
spariti, inghiottiti
dalla boscaglia bassa e impenetrabile che era la loro casa.
Odeb à Fànur, i
Nati dalla Nebbia. Uomini come tutti gli altri, in
fin dei conti. Solo un po’ più feroci, forse. Si
diceva combattessero a mani
nude, avvolti solo dalla pelle degli animali di cui si nutrivano, e che
cionondimeno fossero in grado di strappare il cuore dal petto
dell’avversario,
squarciandogli il torace con la mera forza delle loro dita possenti.
Zeru,
capitano della Guardia
Reale, rovesciò con la punta dello stivale il corpo di un
uomo che la morte
aveva scaraventato a faccia in giù in una pozzanghera. A mani nude, pensò, scoprendo
i denti in un sorriso più simile a un
ringhio. Alcuni di loro, forse. Altri usavano però tozzi
gladi affilati o mazze
o corte lance adatte alla mischia. Altri ancora erano armati di archi
lunghi;
ed erano stati proprio gli arcieri a coglierli di sorpresa. Erano stati
degli
idioti, non avrebbero dovuto abbassare la guardia in quel modo, cullati
e
rassicurati dalle fandonie che si raccontavano a proposito dei barbari
della
brughiera. Non avrebbero dovuto riporre troppa fiducia nelle loro
armature e
nei loro scudi, illudendosi che questi li avrebbero protetti dalla
furia di
quelle bestie.
Avevano
respinto l’attacco, sì,
ma il prezzo era stato alto. Il soldato distolse lo sguardo dal volto
esanime
del nemico caduto e lo lasciò scorrere attorno a
sé, mentre la sua mente esaminava
con lucida freddezza le perdite subite. Dei cento uomini che avevano
formato la
scorta della famiglia reale ne erano rimasti in piedi una sessantina e
tra
quelli a terra solo una dozzina riportavano ferite facilmente
guaribili: gli
altri erano morti o lo sarebbero comunque stati presto.
Ai
piedi di un albero poco
distante, Zeru scorse Dan e Kyran, i figli gemelli di quello che era
stato il
suo più grande amico d’infanzia: avevano solo
sedici anni, ma già dimostravano
un’abilità non comune nel maneggiare la spada e un
giorno sarebbero diventati
due validi soldati. O, per lo meno, Dan lo sarebbe diventato: Kyran non
sarebbe
sopravvissuto alla ferita che gli arrossava il fianco e che suo
fratello
cercava inutilmente di tamponare, il volto contratto in una maschera
d’angoscia.
Sarebbe
toccato a lui dare la
notizia ad Asam, il padre dei ragazzi: il pensiero gli
procurò un tremito di
dolore, ma subito la sua mente corse a cose più pratiche.
Perché li avevano
attaccati? I Nati dalla Nebbia avevano la fama di essere dei briganti,
i feroci
assalti che sferravano ai rari viandanti che attraversavano quel tratto
di brughiera
erano ben noti a tutti, ma quelli che erano piombati loro addosso non
erano dei
volgari predoni, no. Li avevano attaccati per uccidere, non per
saccheggiare, e
l’avevano fatto in modo estremamente organizzato, seguendo un
ordine preciso.
E
non v’era alcun dubbio che l’obiettivo
non erano i soldati.
Alle
sue spalle un cavallo nitrì
e Zeru guardò con apprensione la carrozza nella quale
viaggiava la famiglia
reale: il re, la regina consorte, la principessa Arina della Piana del
Gigante
e la principessa Marai, la più giovane tra i figli dei
sovrani di Adaval. Poteva
solo pregare gli Dei che i suoi occupanti fossero illesi, o le
conseguenze
sarebbero state terribili: per il popolo, naturalmente, ma anche per
lui.
Se,
come temeva, quello che avevano
subito era stato un attacco volto a eliminare re Yasu e la sua
famiglia, era
fondamentale individuarne il prima possibile i mandanti. Non poteva
trattarsi
di un’iniziativa nata in cuore alle orde dei Nati dalla
Nebbia: per quanto
feroci e brutali, gli Odeb à
Fànur vivevano
in un mondo a parte, in un universo fatto di acquitrini, erica gigante
e
scogliere a picco sul mare; e poco badavano agli affari della capitale.
Non erano
noti per essere mercenari, ma, pensava Zeru, con ogni
probabilità nemmeno loro
erano immuni al fascino del denaro e, forse, qualcuno era riuscito a
comprare i
loro servigi.
Qualcuno che vuole eliminare il re, ma chi?
In
quanto capitano della Guardia
avrebbe dovuto sapere tutto sull’identità di
coloro che mettevano in pericolo
la vita del suo sovrano, ma la politica non era mai stata il suo forte.
Lui si
occupava di tenere l’ordine, di garantire la sicurezza, di
allontanare i
pericoli. Non era solito guardare in faccia nessuno, non gli importava
sapere
il nome e lo stato di chi aveva davanti: se costituivano un problema,
si
preoccupava di far sì che non fossero più in
grado di nuocere nessuno; al resto
non badava.
«Capitano!»
La
voce di un giovane soldato di
cui non ricordava il nome lo distolse dai suoi pensieri. Il ragazzo
zoppicava e
aveva il volto sporco di sangue, ma pareva tutto sommato piuttosto in
salute.
«Il
re vuole parlarti.»
Naturalmente.
Se
il re voleva parlargli,
significava che il re era vivo; e questo era certo un bene. Tuttavia,
l’espressione
del giovane che era venuto a convocarlo era tetra e non prometteva
nulla di
buono.
Il re è vivo, ma le donne?
«Bene.»
Con
un cenno risoluto, Zeru
sorpassò il suo sottoposto, dirigendosi verso la carrozza e
sperando che il suo
passo deciso non tradisse il suo tremito interiore.
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Capitolo 2 *** II ***
Nella
carrozza non c’era più
spazio. Non appena vi mise piede, Zeru si sentì sopraffare
dall’atmosfera
claustrofobica e dal silenzio interrotto soltanto dal singhiozzare di
una
donna.
La regina?
Il
soldato fece appena in tempo a
registrare la presenza del suo secondo in comando e del confessore
personale
del sovrano, che il re in persona gli si fece incontro, gli occhi
spalancati e
il volto terreo.
«Chi
ci ha attaccati?»
Re
Yasu era più basso di lui di
parecchie spanne – e assai più esile –
eppure le sue dita gli artigliarono le
spalle con una forza inaudita, simili a morse di acciaio.
«Gli
Odeb à Fànur, sire» rispose,
con voce pacata.
«No,
chi ci ha attaccati?»
ripeté il sovrano, serrando ancora di più la
presa e scuotendolo leggermente.
«Gli…»
Zeru fece per ripetere la
risposta data un istante prima, credendo che il re, sotto shock, non
l’avesse
intesa, ma poi si fermò, comprendendo la vera natura della
domanda che gli era
stata posta. «Ancora non lo sappiamo, sire. I Nati dalla
Nebbia si sono
dileguati, ma i miei uomini stanno controllando i corpi rimasti a
terra: se
hanno lasciato qualche indizio, lo troveremo.»
Gli
occhi neri del re rimasero
fissi nei suoi ancora per qualche istante, ma poi un velo parve
ricoprirli e il
sovrano abbassò il capo, lasciando che le mani scivolassero
via dalle spalle
del soldato e gli ricadessero inermi lungo i fianchi. Solo in quel
momento Zeru
si rese conto che, durante quel breve scambio di battute, i singhiozzi
della
regina non erano mai cessati.
Per
una frazione di secondo, il
soldato ebbe l’impressione che il mondo attorno a lui
tremasse e si facesse
sfocato, poi l’uomo si schiarì la voce, cercando
di dar voce alla domanda che
non avrebbe mai voluto fare: «Cosa…»
«Le
principesse sono state
colpite» lo prevenne il confessore, pratico.
La
risposta non lo stupì – aveva
indovinato la verità sin dall’istante in cui era
entrato nella carrozza, ma
aveva cercato di negarla – e Zeru incontrò gli
occhi del sant’uomo, grato per
la fermezza che trovò in essi. Padre Tyban era stato un uomo
estremamente
robusto, in gioventù, e la forza che l’aveva
contraddistinto un tempo non
l’aveva nemmeno una volta passato il traguardo dei
sessant’anni, così come non
l’avevano abbandonato il suo coraggio e la sua forza
d’animo.
Con
un mesto cenno del capo, il
confessore si spostò di lato e permise a Zeru di scorgere le
due giovani donne
riverse sui sedili della carrozza.
«Com’è
successo?»
Il
capitano si era da sempre
fatto vanto della freddezza che non lo abbandonava nemmeno nei momenti
più
difficili, eppure, in quel momento, davanti a quei due corpi esanimi e
alle
lacrime della donna che piangeva su di loro, quasi si
vergognò del tono
distaccato della propria voce.
«Le
frecce sono penetrate
attraverso il finestrino» spiegò Difan, il suo
secondo in comando. «Le
principesse sedevano proprio su quel lato della carrozza, non abbiamo
potuto
fare nulla per evitarlo.»
«Avreste
dovuto sprangarlo»
ringhiò Zeru, esaminando i cocci dei vetri che erano caduti
sul pavimento di
legno.
«Non
ce n’è stato il tempo» si
giustificò
l’altro soldato. «L’arciere non tirava a
caso, mirava proprio la finestra. Ha
ucciso due uomini e poi, prima che le principesse avessero il tempo di
mettersi
in salvo, ha scoccato altre tre frecce.»
«Tre
frecce soltanto?» chiese,
pensieroso.
«Sì,
signore» replicò Difan,
corrugando la fronte.
«Hm.»
Perché non cercare di uccidere tutti gli
occupanti della carrozza?
Arina è relativamente importante, ma Marai… Marai
vale poco, o niente. Perché
non uccidere il re?
Per
rispetto, Zeru si astenne
dall’esternare le sue perplessità, almeno per il
momento, e si avvicinò alle
due ragazze.
«Sono
gravi?» chiese,
inginocchiandosi di fronte alla regina. La donna chiuse gli occhi e
inspirò a
fondo, cercando di darsi un contegno, ma un singhiozzò
scappò comunque dalle
sue labbra.
«Sono
gravi» rispose Padre Tyban,
posando una mano sulla spalla della sovrana, cercando forse di
trasmetterle un
poco di conforto. «Temo che non supereranno la
notte.»
Volgendo
lo sguardo alla propria
sinistra, Zeru lasciò scorrere gli occhi sul corpo di Arina,
la fanciulla
straniera andata in sposa a Spiro, il primogenito di re Yasu e della
regina
Lisi. Avrebbe dovuto essere regina, un giorno non lontano, e
l’uomo non poté
fare a meno di pensare che anche allora, mentre giaceva a un passo
dalla morte
sullo scomodo sedile della carrozza, la ragazza aveva un’aria
regale, con i
suoi zigomi alti e con i capelli neri come la notte adornati da una
retina di
diamanti. La veste di seta smeraldina che indossava era macchiata in
due punti,
sulla spalla e sul fianco destro, lì dove le frecce
l’avevano colpita.
«Ha
cercato di proteggere Marai»
mormorò la regina, con la voce arrochita dal pianto.
«Si è buttata su di lei.»
Ma non è servito a molto.
Marai,
esile come un giunco e
ancora più pallida di quanto l’uomo ricordasse,
era stata comunque colpita da
una freccia all’altezza dello stomaco, una ferita che
difficilmente lasciava
scampo a un uomo nel pieno delle forze e che era una condanna a morte
certa per
una ragazza così minuta.
«Povera
piccola» gli scappò
detto, mentre la sua mente rivedeva la ragazzina che era stata, una
bimbetta
bionda e timida che spiava il mondo da dietro le sottane della madre.
Non si meritava questo. Nessuna delle due se lo
meritava.
Un
fremito di rabbia lo costrinse
a serrare la mascella e a distogliere gli occhi dal volto esangue della
fanciulla. Zeru si alzò, pronto a promettere di impegnare
tutto se stesso nella
ricerca degli assassini delle due ragazze, pronto a implorare re Yasu
di
lasciarlo al suo posto almeno fino a quando non li avesse trovati
– e che poi
facesse quello che voleva di lui, che lo punisse per le sue
inadempienze, se lo
credeva necessario – quando la mano di Padre Tyban
calò sulla sua spalla.
«Lasciaci»
disse il sacerdote,
rivolto a Difan.
Con
un profondo inchino rivolto
ai due sovrani, il soldato uscì dalla carrozza,
evidentemente grato della
possibilità di lasciare quel luogo umido di pianto e amaro
di dolore. Quando il
giovane se ne fu andato, Zeru si voltò di nuovo verso il
sacerdote, sentendo
che una sorta di pudore gli impediva di guardare ancora le due
fanciulle.
«C’è
qualche speranza di salvezza
per le principesse?» chiese, con voce cupa, pur sapendo che
la risposta di
Padre Tyban non sarebbe stata diversa da quella che gli aveva dato poco
prima.
«Hai
certamente visto abbastanza
battaglie per trovare da solo una risposta, capitano»
replicò infatti il
confessore, quasi con gentilezza.
«Non
sono un esperto guaritore»
si giustificò il soldato. «Tu,
invece…»
«Non
vi è alcuna speranza di
sopravvivenza, per loro» lo interruppe allora il sacerdote,
con un sospiro. «Se
fossimo Rocca del Vento potrei forse provare a curarle; e anche
così strapparle
alla morte sarebbe un’impresa assolutamente ardua. Ma Rocca
del Vento è a un
giorno di viaggio da qui e temo che le ragazze non vivranno tanto a
lungo.»
Nell’udire
quelle parole il re si
premette un pugno sulle labbra e il suo corpo fu scosso da un sussulto.
I suoi
occhi rimasero asciutti, però; e Zeru immaginò
che il sovrano fosse già a
conoscenza di quanto disperate fossero le condizioni di sua figlia e di
sua
nuora.
«Malgrado
le circostanze, però,
la principessa Arina non ha nulla da temere»
continuò Padre Tyban, sfiorando
con la punta della dita il piede della giovane.
Zeru
abbassò sulla fanciulla uno
sguardo scettico: a lui non pareva affatto che la poveretta non avesse
nulla da
temere.
«Quando
abbandonerà la vita
terrena ed entrerà nella Sala degli Antenati,
verrà accolta con tutti gli
onori. È stata una donna giusta, che ha vissuto secondo i
principi degli Dei. La
principessa Marai, invece…»
«È stata giusta anche
lei!»
abbaiò la regina, con la voce ancora rotta dal pianto.
«È
stata… è una
brava ragazza, una ragazza dolce, gentile…»
«Certamente,
mia signora» mormorò
Padre Tyban, con gli occhi bassi. «Ma, pur essendo
già da tempo in età da marito,
non è sposata e questo è contrario alla legge
divina. Se dovesse presentarsi
alle Porte Celesti in queste condizioni… se dovesse
presentarsi in queste
condizioni le verrebbe negato l’ingresso e la sua anima
sarebbe costretta a
vagare sulla terra per tutta l’eternità, senza
trovare mai un vero riposo.»
La
regina strinse la mano in un
pugno e Zeru esalò lentamente, chiedendosi quanta
verità ci fosse nelle parole
del sacerdote. Davvero gli Dei – ammesso che esistessero
davvero - avrebbero
punito una fanciulla innocente come la principessa?
«Noi...»
la regina si interruppe,
inspirando a fondo nel tentativo di calmarsi. «Marai
è la nostra bambina, non
volevamo separarci da lei così presto, non credevamo ci
fosse il bisogno di… Ci
stavamo pensando, ma…»
«Avevate
già pensato a un
giovane adatto, che potesse aspirare alla
sua mano?» chiese il capitano, interpretando le frasi
spezzate della donna.
Il
re scosse il capo: «No, erano
solo idee vaghe e per nulla concrete.»
«In
ogni caso, non ci sarebbe
stato il tempo per raggiungere il suo promesso sposo»
mormorò Padre Tyban,
cercando gli occhi del sovrano. «Se vogliamo salvarla, la
principessa deve
sposarsi; e deve farlo ora.»
I
genitori della fanciulla si
scambiarono un’occhiata vagamente perduta.
«Ora?»
chiese il re, aggrottando
la fronte. «Stai suggerendo di darla in sposa a un
soldato?»
«Non
a un soldato qualunque»
replicò il sacerdote, voltando il capo verso Zeru.
Inconsciamente,
il capitano fece
un passo indietro.
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Capitolo 3 *** III ***
Non essere ridicolo, certamente hai capito male.
Facendo
forza su se stesso, Zeru
si impose di mantenere un’espressione neutra e di sostenere
lo sguardo del
sacerdote di fronte a lui.
«Tu
non hai famiglia, capitano»
costatò Padre Tyban, guardandolo con quegli occhi spaiati
che erano sempre
stati un suo segno distintivo.
«No»
confermò il soldato, senza
sbilanciarsi.
«Allora
potrai farti carico di
questo impegno, se i miei signori sono d’accordo»
fece il sacerdote, voltandosi
per osservare i sovrani, immobili accanto al corpo della figlia. I due
si
scambiarono un’occhiata titubante, ma poi il re fece un cenno
che, se non era
d’assenso, non era certamente nemmeno di diniego.
«No»
Zeru fu quasi sorpreso
nell’udire la sua voce parlare, ma poi le sue labbra si
curvarono in una
smorfia determinata. «È
una follia, sire. Si deve trovare un’altra
soluzione.»
Il
sacerdote gli si avvicinò di
un passo: «Capisco che non si tratti di una decisione
semplice, capitano, e la
tua reticenza ti fa indubbiamente onore: in molti vedrebbero nella
possibilità
di sposare la principessa un mezzo per migliorare il proprio status. Ma
tu hai
giurato di proteggere il re e la sua famiglia; ed è
esattamente quello che ti
stiamo chiedendo di fare, ora.»
«Proteggerla…»
Proteggerla da viva, non da morta, era
quello che avrebbe voluto
dire, ma le parole gli morirono in gola. Non aveva fatto un gran bel
lavoro,
quando si era trattato di garantire la sicurezza di Marai e Arina, e la
prova
era lì, davanti ai suoi occhi. Ma
rimane
pur sempre una pessima, pessima idea. Non possono essere seri, nel
propormi una
cosa del genere.
«È solo una
bambina» provò
allora a obiettare, osservando il corpo minuto della ragazza.
«Ha
vent’anni» lo contraddisse il
re, con voce insolitamente sottile. «Tutto si può
dire, fuorché che sia una
bambina.»
«Ma
non li dimostra» mormorò il
soldato, rivolto più a se stesso, che al suo interlocutore.
Poi tossicchiò,
parlando in modo più chiaro: «E io ne ho quasi il
doppio. Potrei essere suo
padre.»
«Ma
suo padre sono io» ribatté il
re, rianimandosi. Dalla luce che si accese nei suoi occhi, Zeru si
accorse, non
senza un certo orrore, che il suo sovrano si stava rapidamente
convincendo che
quella proposta dal suo confessore fosse una soluzione perfettamente
accettabile. «Non sei poi così vecchio, capitano:
quanti anni hai? Trentatré,
trentaquattro?»
«Trentasei»
precisò l’uomo, con
una smorfia.
«Lo
ripeto: non sei troppo
vecchio. E, in ogni caso, non ha importanza: si tratta solo di salvare
l’anima
di mia figlia, non di darle uno sposo di suo gradimento. Purtroppo
è possibile
che Marai non si risvegli mai più e che non sappia mai chi
ha sposato; e una
volta giunta nell’aldilà… chi
può dire cosa accadrà, allora.»
Non è dell’aldilà
che mi preoccupo, pensò Zeru, cercando di fare
rapidamente mente locale.
«Mio
signore… io sono figlio di
un mercante di vino. La famiglia di mia madre era nobile, ma
è decaduta ormai
da tempo. Non ho nessun titolo per ambire alla mano di tua figlia: la
principessa forse non avrà mai modo di protestare, ma, tra i
vivi, ci sarà
certamente chi lo farà.»
«Non
preoccuparti della politica:
a quella ci penseremo noi. Spiegheremo a tutti le circostanze che hanno
condotto a questo matrimonio, mostreremo loro che si è
trattato di una scelta
obbligata. Nessuno di fedele alla nostra famiglia avanzerà
obiezioni. Anzi,
sarà anche un modo per testare la lealtà delle
casate.»
Come fa a trovare un aspetto positivo in una
situazione del genere?
Si chiese Zeru, allibito.
«Naturalmente
verrai
ricompensato» continuò il sovrano.
«Marai non ha diritti sul trono, ovviamente,
ma riceverai delle terre. Anche il titolo di barone, se lo desideri;
potrai
riscattare l’onore della tua famiglia.»
Il
capitano fece per dire che non
era interessato a un titolo nobiliare, ma poi il suo pensiero
volò alle sue
sorelle e a quanto migliore avrebbe potuto essere la loro posizione,
con un
tale riconoscimento. L’uomo abbassò lo sguardo sul
viso pallido di Marai, sulle
sue labbra secche, sul movimento rapido e leggero del suo petto.
«E
se… se la ragazza sopravvivesse?»
«È improbabile»,
rispose Padre
Tyban, «Ma, se la ragazza sopravvivesse, sarebbe
un’ottima notizia, un dono
degli dei.»
«Naturalmente»
concesse il
soldato, con un sorriso storto. «Ma allora sarebbe sposata a
me; e questa non
sarebbe affatto un’ottima
notizia. Un
giorno potrebbe esserci il bisogno di consolidare la
stabilità del regno
attraverso un matrimonio mirato;
cosa
chiaramente impossibile, se la principessa avesse già un
marito.»
«Dopo
un anno sarebbe comunque
possibile richiedere l’annullamento»
ribatté il sacerdote, senza perdersi
d’animo, prima di aggiungere: «Solo nel caso in cui
il matrimonio non sia stato
consumato, però.»
«Ovviamente» ringhiò
Zeru, a denti stretti. La piega che stava
prendendo il discorso lo infastidiva: non perché avesse un
qualche interesse
nei confronti della giovane principessa, ma perché parlare
di sesso in
relazione a una ragazzina in punto di
morte – e per di più di fronte ai suoi genitori
– era semplicemente sbagliato.
Avvertendo
forse il malumore del
soldato, re Yasu tornò all’attacco:
«Come vedi, capitano, non c’è nulla di
cui
preoccuparsi. Si tratterebbe di una semplice formalità, uno
stratagemma, se
vogliamo, per salvare l’anima di mia figlia. Se gli dei
saranno compassionevoli
e vorranno restituircela, poi, sarà solo questione di
aspettare un anno e poi
il vostro legame sarà sciolto. Non ci sarà
nessuna conseguenza negativa, per
te, anzi, ne uscirai arricchito e con il titolo di barone.»
Zeru
guardò il suo sovrano,
trattenendo a stento la tentazione di lanciargli un’occhiata
torva: se non fosse nato principe,
pensò, sarebbe stato un ottimo
imbonitore. La sa
vendere bene, la sua merce. Cionondimeno, le parole del re
non l’avevano
convinto fino in fondo: c’era qualcosa che gli suggeriva che
c’era un che di
vagamente immorale, in tutta quella faccenda e, soprattutto, non era
affatto
certo che non ci sarebbero state conseguenze negative, per lui. Il
titolo di
barone era pur sempre cosa ambita da molti.
L’uomo
fece per protestare
ancora, per invitare il sovrano a una riflessione più
attenta, ma alzando lo
sguardo incrociò quello della regina, ancora seduta tra
Arina e Marai. Negli
occhi della donna, ancora lucidi di lacrime, il soldato lesse una
scintilla di
speranza e una preghiera silenziosa. Lo sapeva, la regina, che non
avrebbero
dovuto fargli quella proposta, che quello che gli chiedevano non era
giusto né
per lui né per la principessa. Eppure sapeva anche che
quella era l’unica
possibilità di salvare sua figlia e che, se avesse
rifiutato, avrebbero dovuto
cercare un altro uomo, magari meno fidato di lui.
Era
vero, lui aveva giurato di
proteggere Marai fino a che fosse stata in vita, ma era altrettanto
innegabile
che era per colpa della sua superficialità che ora la
fanciulla si trovava a un
passo dalla morte. Non doveva forse fare ammenda come poteva?
Lisi
lesse la risposta sul suo
volto ancora prima che lui la pronunciasse.
«Grazie» esalò la donna,
rivolgendogli un sorriso così pallido che il soldato
stentò a coglierlo.
«Accetti?»
gli chiese il re,
voltandosi di scatto nella sua direzione.
«Accetto»
sospirò lui, sentendosi
stranamente privo di forze.
«È la scelta giusta,
capitano»
lo lodò il sacerdote. «Procediamo, allora: le
condizioni della principessa sono
troppo instabili per attendere oltre.»
«Subito?»
chiese Zeru, senza
riuscire a nascondere la nota di allarme che si manifestò
nella sua voce. Accorgendosene,
provò a formulare meglio il suo pensiero: «So che
ci sono dei tempi da
rispettare, un cerimoniale…»
«È vero»
confermò Padre Tyban. «Normalmente
si dovrebbe seguire un procedimento più lungo e normalmente
la sposa dovrebbe
essere cosciente, ma, in casi come questo, è certamente
possibile fare un’eccezione.
Avvicinati a lei.»
Con
la netta impressione che le
cose gli stessero sfuggendo di mano, il capitano raggiunse il capezzale
della
fanciulla. Non sapendo che altro fare, l’uomo si
inginocchiò accanto a lei,
ritrovandosi così all’altezza del suo viso pallido.
«Mio
signore, dai il consenso
affinché quest’uomo sposi tua figlia?»
A
quella domanda, gli occhi neri
di re Yasu incontrarono quelli verdi di Zeru, poi il sovrano
annuì: «Sì, do il
mio consenso.»
«E
tu, capitano, giuri di
proteggere e onorare questa fanciulla fino al giorno in cui gli Dei
vorranno
separarvi?»
Il
soldato fece per rispondere,
ma, di nuovo, le parole non lasciarono la sua gola.
«Ehm»
mormorò, schiarendosi la
voce. Si sentiva un po’ stupido, ma non poteva tacere:
«In realtà questo
matrimonio durerà soltanto un anno, quindi giurerei il falso
se dicessi che…»
«È solo una formula,
capitano»
sospirò Padre Tyban, levando gli occhi al cielo.
«Significa che le sarai fedele
e ti prenderai cura di lei fino al momento della sua morte o, in
alternativa,
fino a quando vi verrà concesso l’annullamento dal
Sacro Consiglio: comunque
vada, sarà sempre per volontà degli
Dei.»
«Va
bene.»
«Dunque
lo giuri?» insistette il
sacerdote.
Zeru
annuì, sebbene il suo animo –
e quasi anche il suo corpo – gli gridasse si non farlo, di
non lasciarsi
coinvolgere in quella follia: «Lo giuro.»
«Ora
siete sposi agli occhi degli
Dei e degli uomini» annunciò Padre Tyban e,
nonostante si sentisse
momentaneamente assordato dal rumore del suo stesso cuore che gli
martellava nelle
orecchie, stordendolo come raramente gli era capitato, il capitano
colse il
tono malinconico con cui il sant’uomo pronunciò
quelle parole.
Quando
il sacerdote non aggiunse
altro, Zeru rimase immobile per qualche istante, leggermente spaesato. Tutto qui? Si chiese, incerto su come
procedere. Dopo alcuni attimi di silenzio, però,
l’uomo divenne consapevole
degli sguardi che gravavano su di lui. Ah,
no, comprese, con una smorfia.
Sporgendosi
verso la principessa e
facendo attenzione a non disturbarla con il suo peso – sapeva
bene quanto
potesse essere dolorosa una ferita del genere –
l’uomo le sfiorò la fronte con
un bacio leggero. Si era quasi aspettato di trovarla già
fredda, ma il lieve
calore che avvertì sotto le sue labbra gli
ricordò che la fanciulla era ancora
viva e che, forse, avrebbe lottato per sopravvivere.
Sentendosi
triste e stanco come
non gli accadeva da tempo, Zeru si alzò e si
voltò verso re Yasu.
«Molto
bene» mormorò il sovrano,
sforzandosi di sorridere. «Ti ringrazio davvero molto,
capitano. Quando faremo
ritorno a Rocca del Vento discuteremo di tutti i dettagli del nostro
accordo,
ma, per il momento, credo sia meglio rimettersi subito in cammino verso
Adaval:
voglio dare a mio figlio la possibilità di dire addio a sua
moglie e a sua
sorella.»
«Naturalmente,
sire» acconsentì
il soldato, chinando il capo. «Dirò agli uomini di
prepararsi subito a
partire.»
Con
quelle parole, Zeru fece per
uscire dalla carrozza, ma la voce di Padre Tyban incrinò la
bolla di
stordimento nella quale si sentiva immerso:
«Capitano… credo sia meglio di non
rivelare a nessuno ciò che è successo, almeno per
il momento.»
Annuendo
una seconda volta, il
soldato si lasciò alle spalle l’aria densa e scura
della carrozza, lasciando
che la luce del sole tornasse ad accarezzargli la pelle.
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Capitolo 4 *** IV ***
Zeru
si appoggiò alla parete
della carrozza, aspettando che lo shock per quello che era accaduto lo
investisse con tutta la sua potenza, ma niente, non avvertì
nemmeno un tremito.
Il sole continuava a splendere, incurante del suo matrimonio e dei
corpi sparsi
per terra, gli insetti continuavano a ronzare nell’aria, le
onde del mare
continuavano a infrangersi contro la scogliera, laggiù,
lontano, e lui
continuava a essere quello di sempre.
Non
si sentiva cambiato, non
avvertiva alcun sconvolgimento nella profondità del suo
animo, la vita non
aveva improvvisamente assunto un significato nuovo: era come se la sua
mente
avesse preso atto di quello che era accaduto, ma si rifiutasse di
considerarlo
qualcosa di più di un evento di routine, uno dei tanti che
si trovava ad
affrontare nella vita di tutti i giorni.
L’uomo
rimase immobile per
qualche istante, poi, indispettito dal suo subconscio che pareva non
avere
alcuna intenzione di dare il giusto peso a un evento tanto eccezionale,
si
allontanò di scatto dalla parete di legno alle sue spalle,
dirigendosi invece
verso il gruppetto di uomini davanti a lui.
«Capitano!»
lo accolse un
soldato, lasciando il corpo del barbaro che stava esaminando e
alzandosi in
piedi. «Difan ci ha detto di quello che è accaduto
alle principesse.»
«Sì»
confermò Zeru, mentre gli
uomini attorno a lui sospendevano le loro attività e si
voltavano per
osservarlo. «Quello che è accaduto è
estremamente grave e va certamente
vendicato, ma ora è tempo di fare ritorno ad Adaval.
Raccogliete i feriti, lasciate
i morti: le principesse hanno bisogno di cure urgenti, cure che possono
ricevere solo a Rocca del Vento.»
«Lasciamo
i morti?» ripeté un
soldato, incredulo.
«Non
c’è altra scelta, purtroppo»
replicò Zeru, amaramente. «Torneremo a prenderli
il prima possibile, ma ora non
c’è tempo. Dobbiamo arrivare ad Araval e non
possiamo permetterci di impoverire
ulteriormente la scorta. Se venissimo attaccati nuovamente, ogni
singolo uomo
sarà fondamentale per respingere l’attacco. Andate
e informate anche gli altri.»
Pur
con qualche mormorio di
dissenso, i soldati annuirono e poi si dispersero, dirigendosi verso i
compagni
che erano ancora sparpagliati qui e là sul luogo dove era
avvenuta l’imboscata.
Dopo avere atteso qualche istante per assicurarsi che i suoi ordini
venissero
eseguiti, Zeru avvicinò il suo secondo in comando:
«Avete trovato qualcosa di
utile?»
Difan
chinò il capo: «Nulla che
ci aiuti a capire il perché di questo attacco, ma qualcosa
di strano c’è, in
effetti.»
«Cioè?»
«Gli
uomini che ci hanno teso l’imboscata
non appartenevano tutti alla stessa tribù: le pitture di
guerra sono diverse.
Abbiamo trovato il rosso delle Aquile di Mare, il bianco delle Lance
del Sale,
il verde dell’Orda della Palude e persino il blu del Clan
delle Ossa Bianche.»
«È strano che si siano
spinti
così a occidente» rifletté Zeru.
«Ed
è strano anche che si
trovassero tutti insieme: le diverse tribù dei Nati dalla
Nebbia sono spesso in
guerra le une con le altre.»
«Già…»
Difan
aggrottò per un istante la
fronte e poi gli sfiorò un braccio e gli fece cenno di
seguirlo un po’ più in
disparte, come per indicare che desiderava parlare di un argomento
delicato,
non adatto alle orecchie di tutti. Zeru acconsentì a quella
richiesta
silenziosa e lo seguì fino ai piedi di un albero ai margini
della radura nella
quale si trovavano, poi lo guardò con fare interrogativo.
«Capitano…
io non ne so molto,
degli Odeb à Fànur»,
mormorò il
soldato, «ma so che, se non hanno mai costituito un pericolo
serio per Adaval e
gli altri regni, è perché sono sempre
stati troppo divisi per creare un esercito degno di tal nome. Credi che
sia
possibile che qualcuno sia riuscito a unirli in un’unica
grande tribù?»
«Qualcuno
come un re, intendi?»
chiese Zeru, cercando di capire dove volesse andare a parare il giovane
uomo.
Quando
quest’ultimo annuì, il
capitano scosse la testa, sospirando: «Non credo che sia
un’ipotesi realistica:
Adaval ha molte spie sparse per il continente e credo che ci sarebbero
arrivate
delle voci, se qualcuno stesse unificando le tribù. No,
penso piuttosto che
quelli che ci hanno attaccato fossero mercenari, forse dei reietti
anche tra la
loro stessa gente: se qualcuno li comanda, come credo, si tratta di
qualcuno
esterno al loro popolo.»
«Qualcuno
che, per un qualche
motivo, vuole morto re Yasu» concluse Difan.
«Qualcosa
del genere» annuì il
capitano, ripensando a come l’arciere si fosse limitato a
colpire le
principesse. «Naturalmente, nessuna ipotesi va scartata a
priori: appena
arrivati a Rocca del Vento chiederò un incontro con i
consiglieri e con il
conte Jarad, per sentire anche il loro parere.»
Quando
il soldato si limitò a
chinare il capo in un cenno d’assenso, Zeru gli
posò una mano sulla spalla e,
insieme, i due si diressero di nuovo verso gli altri uomini.
***
Zeru
chiuse gli occhi ed espirò
con forza, serrando le dita sul marmo della balaustra di fronte a lui.
Un
giorno e già le cose andavano male.
Quando,
la sera prima, erano
arrivati a Rocca del Vento, la prima preoccupazione di tutti era stata
quella
di fornire tutte le cure possibili ad Arina e Marai: contro ogni
aspettativa,
le due ragazze erano sopravvissute al viaggio e, anche se non avevano
ripreso
conoscenza, né avevano dato segni di ripresa, le loro
condizioni parevano
stabili.
Il
giorno successivo, però, re
Yasu non aveva perso tempo e aveva fatto inviare dei messaggi a tutte
le
casate, annunciando l’unione tra sua figlia e il capitano
della Guardia Reale e
spiegando le circostanze che avevano condotto a
quell’accordo. Anche se era
troppo presto per sapere come avrebbero reagito i destinatari di quelle
lettere,
le reazioni dei membri della corte ai quali il sovrano aveva comunicato
personalmente la novità erano state invece molto chiare e,
in linea generale,
poco entusiastiche. E Zeru era stato lì, immobile come un
idiota, senza
riuscire a difendersi dalle frecciatine e dalle insinuazioni velenose
che si
erano levate da più parti.
Una
figura ben misera, quella che
aveva fatto, indegna di un uomo nella sua posizione e di un soldato con
la sua
esperienza.
E dire che io ho cercato di oppormi, a questa
pazzia, pensò,
sentendosi simile a un bambino che i genitori avevano ripreso
ingiustamente.
La
verità era che, anche se il
suo ruolo lo aveva portato spesso in contatto con la vita di corte,
l’uomo si
era accorto solo in quel momento di quanta differenza ci fosse tra
l’assistervi
come uno spettatore esterno, un guardiano incaricato di sorvegliare che
non ci
fossero incidenti, e il viverla sulla propria pelle. Non faceva per
lui, quella
vita: l’aveva sempre sospettato e ora ne aveva la conferma.
Il
re gli aveva consigliato di
non lasciarsi turbare da ciò che era stato detto quella
mattina, assicurandogli
che, in quelle occasioni, era tutt’altro che raro che
venissero pronunciato
parole pesanti; e Zeru aveva cercato di seguire il suo suggerimento,
concentrandosi invece su quello che era il suo ruolo di capitano.
Neanche così,
però, era riuscito a calmare la sua mente: malgrado avesse
discusso per ore e
ore con il potente conte Jarad e con gli altri responsabili della
sicurezza,
non aveva ancora elementi per capire il perché
dell’attacco subito due giorni
prima.
Sapeva
bene che la Corona aveva
numerosi nemici, ma, sebbene chiunque di essi avrebbe potuto rivolgersi
a dei
mercenari – ammesso che i Nati dalla Nebbia fossero davvero
dei mercenari – non
avevano alcun elemento per accusare l’uno anziché
l’altro. Il capitano aveva
sperato che il conte Jarad, Primo Consigliere del re ed esperto dei
sottili
giochi di potere che si consumavano a corte, avesse qualche sospetto
che
potesse metterli sulla strada giusta, ma, sfortunatamente,
così non era stato:
il conte pareva brancolare nel buio.
Zeru
percorse con un dito il
marmo lucido, percorso da sottili screziature grigiastre, riflettendo.
La parte
di lui che desiderava ottenere vendetta e punire i responsabili
dell’imboscata
gli chiedeva di mandare immediatamente l’esercito a est,
attaccando
indiscriminatamente gli Odeb à
Fànur,
ma la parte razionale della sua mente gli impediva di farlo. I loro
assalitori
non erano riconducibili a un’unica tribù e non
c’era dunque un unico gruppo di guerrieri
contro il quale scagliarsi: non solo una rappresaglia troppo rapida
avrebbe
colpito molti innocenti, ma, per ottenere giustizia e non solo
un’illusoria
vendetta, avrebbero dovuto combattere su un territorio immenso; e
avrebbero
dovuto farlo senza conoscere il loro nemico.
No,
andavano trovati i responsabili,
coloro che avevano ordinato l’attacco.
Ammesso che ci sia davvero qualcuno, dietro a
quello che è successo.
Mentre
era immerso in quei
pensieri, la porta alle sue spalle si spalancò e Padre Tyban
gli si avvicinò,
accompagnato dal conte Jarad.
«Abbiamo
bisogno del tuo parere,
capitano» annunciò il sacerdote.
Il
soldato fece un cenno d’assenso:
«A che proposito?»
«Potrebbe
esserci un modo per
provare a identificare i mandanti dell’attacco»,
disse il conte, «ma Padre
Tyban ritiene che ricorrervi sia ancora prematuro e che, per il
momento,
dovremmo concentrarci sul salvare la vita alle principesse.»
«Non
è esattamente quello che ho
detto» ribatté il religioso. «Non credo
che il re o il regno siano in pericolo
immediato: chiunque abbia ordito l’attacco ha avuto successo
perché aveva a
disposizione un esercito di selvaggi pronti ad attaccarci alle spalle.
Qui nella
capitale, però, questo non può accadere e
un’eventuale minaccia può venire solo
da un singolo uomo: basterà aumentare la sorveglianza e re
Yasu e la sua
famiglia non correranno alcun pericolo.»
«Lo
capisco, ma quello che è
successo non può restare impunito. Se esiste un modo per
ottenere una traccia,
credo che dovremmo sfruttarlo. Le principesse devono ricevere le
migliori cure
possibili, naturalmente, ma non vedo come le due cose siano in
contrasto.»
«Esattamente»
il conte Jarad
annuì in sostegno di quello che Zeru aveva appena detto, ma
Padre Tyban scosse
il capo.
«Si
tratta di un metodo un po’… particolare.
Non dobbiamo preoccuparci
solo di ciò che accade sulla terra, capitano, ma anche delle
ripercussioni che
le nostre azioni potrebbero avere nel mondo celeste.»
Zeru
aggrottò la fronte: «Temo di
non capire.»
Dopo
un attimo di esitazione, il
sacerdote gli fece cenno di seguirlo: «Vieni con
me.»
Padre
Tyban e il conte Jarad lo
condussero fuori dal palazzo e poi sotto gli archi che portavano alle
segrete,
giù per le scale umide di muschio e nere di fuliggine.
Quando, giunti a un
pianerottolo illuminato da una torcia, i due uomini svoltarono a
destra,
anziché a sinistra, il cuore di Zeru accelerò i
battiti, intuendo quale fosse
la loro meta.
I
tre scesero ancora due rampe di
scale e si fermarono infine davanti a una porta che, se non fosse stato
per la
struttura rinforzata da pesanti bande di metallo, sarebbe stata uguale
a tutte
le altre.
«Come
saprai, l’accesso è
concesso soltanto ai membri del Culto, alla famiglia reale e al primo
consigliere» disse Padre Tyban, guardandolo con cipiglio
severo. «Tu adesso sei
un membro della famiglia reale, sebbene le circostanze che ti hanno
portato a
esserlo siano molto particolari, quindi hai il diritto di sapere. Spero
sia
ovvio, però, che quello che ti mostreremo richiede il
massimo riserbo.»
Leggermente
irritato dal discorso
del sacerdote, ma cionondimeno eccitato dalla prospettiva di varcare
quella
porta, Zeru annuì: «Naturalmente. Il mio incarico
ha sempre richiesto riservatezza,
non si tratta certo di una novità,
per me.»
Con
un cenno d’assenso, il
sacerdote mise mano al mazzo di chiavi che portava appeso alla cintura
e me
impugnò una dall’aspetto del tutto anonimo,
facendo scattare la serratura. Inspirando
profondamente, Zeru si preparò a conoscere il Flagello di
Hadi.
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Capitolo 5 *** VI ***
Abituato
alla piccola cella dal
rigore monastico nella quale era solito dormire, Zeru rimase quasi
abbagliato
dalla ricchezza della camera nella quale riposava Marai. Le pareti di
pietra
erano tappezzate di arazzi che, oltre a dare un tocco di colore
all’ambiente
severo, isolavano un poco il locale dalle intemperie. Il pavimento di
legno
scuro, rovinato dai molti passi che l’avevano percorso, era
per gran parte
ricoperto da tappeti di lana, spessi e caldi.
La
principessa amava il rosso.
Non l’avrebbe mai detto, prima di mettere piede in quella
stanza. Se avesse
dovuto scommettere, avrebbe pensato che le preferenze della fanciulla
andassero
ai colori tenui, al rosa, al bianco, al turchese:
quell’esplosione di toni scarlatti
e accoglienti era una sorpresa.
«Vuoi
entrare o preferisci
rimanere sulla porta?» le parole della robusta guaritrice che
si affaccendava
attorno a Marai lo riscossero bruscamente. Il capitano rivolse
un’occhiata
severa alla donna che, apostrofandolo in quel modo, dimostrava di avere
ben
poco rispetto per la sua posizione.
«Entro,
naturalmente» replicò,
sdegnoso. «Mi stavo solo chiedendo se l’aria non
sia troppo secca, qui dentro:
è marzo, è davvero necessario che il fuoco nel
camino arda in quel modo?»
«Chiudi
la porta» ribatté la
donna, per tutta risposta. «La principessa deve rimanere al
caldo, non può
permettersi di prendere colpi d’aria o un raffreddore. E non
preoccuparti per
l’aria secca: la vedi, quella pentola? Serve appunto per
mantenerla umida.»
Strega, pensò Zeru, eseguendo,
non senza un certo fastidio,
l’ordine impartitogli dall’arcigna guaritrice. Se
non fosse stato per la sua
straordinaria abilità nel curare anche le ferite
più difficili, il soldato
dubitava che Wenza sarebbe mai stata ammessa al castello: con la sua
lingua
tagliente e i suoi modi sgarbati aveva attirato su di sé
più di un’antipatia.
Arricciando le labbra in una smorfia disgustata, Zeru
ricordò la sgradita occasione
in cui una brutta frattura a una gamba l’aveva costretto ad
affidarsi alle sue amorevoli cure:
non era un’esperienza
che aveva fretta di ripetere, quella.
«Come
sta la ragazza?» chiese,
allora, tanto per distogliere l’attenzione da sé.
«È viva e non è
peggiorata: date
le premesse, questo è già un ottimo
risultato.»
Già, pensò il
capitano, avvicinandosi al letto in cui giaceva la giovane.
Wenza, che fino a quel momento era rimasta al fianco della principessa,
si
allontanò di qualche passo e prese ad armeggiare con una
sorta di unguento
giallognolo. Dopo un attimo di esitazione, Zeru si lasciò
scivolare sulla sedia
posta accanto al capezzale della fanciulla.
È ancora più pallida di come
me la ricordavo, pensò, con una
smorfia, esaminando il viso sottile di Marai. Malgrado quello che aveva
detto
la guaritrice, la principessa non sembrava passarsela troppo bene: i
suoi occhi
erano cerchiati da profonde occhiaie violacee, le labbra avevano perso
ogni
colore, le guance parevano scavate e i capelli erano sporchi e
disordinati.
Il
volto della ragazza era
rivolto verso di lui e una ciocca chiara le lambiva il naso, tremando a
ogni
respiro lieve. Automaticamente, Zeru allungò una mano e lo
allontanò dal viso
di Marai, sfiorandone inavvertitamente la pelle con le nocche.
Nell’avvertirne
il calore, l’uomo sospirò e, spinto da un impeto
di tenerezza per quella
ragazzina che continuava a sembrargli tanto giovane, percorse
l’arco delicato di un suo
sopracciglio con la punta di un dito.
Così fragile.
«Pensi
che ce la farà?»
Nell’udire
quella domanda posta a
mezza voce, la guaritrice si strinse nelle spalle.
«È ancora viva»
ripeté,
continuando a trafficare con i vasetti trasparenti posti su un tavolo
poco
distante.
«Lo
vedo» ribatté il soldato,
lasciando che la sua mano scivolasse via dal volto della fanciulla
addormentata
e ricadesse sulla stoffa liscia del cuscino. «Ma ti sarai
fatta un’idea, in
questi giorni: credi che sopravvivrà?»
Wenza
inspirò profondamente e,
quando si voltò verso di lui, il vasetto di unguento stretto
in una mano, nei
suoi occhi glaciali Zeru lesse una concentrazione quasi analitica.
«Quando
l’ho vista per la prima
volta, credevo che non avrebbe superato la notte. Pensavo che Padre
Tyban
stesse solo perdendo tempo, cercando di curarla. Ma la principessa non
è morta
e, anche se non ha ripreso coscienza, la sua
ferita…»
«Cos’ha
la sua ferita?»
«Da’
un’occhiata tu stesso»
replicò la donna, avvicinandosi al letto e tirando indietro
la coperta che proteggeva
Marai. La principessa era vestita molto meno di quanto
l’etichetta avrebbe previsto;
nonostante ciò Zeru sospettava che le brache di lino e la
camiciola smanicata
che indossava fossero una concessione al suo status: se la poveretta
fosse
stata una serva e non una principessa, avrebbe con ogni
probabilità dovuto
sopportare l’umiliazione di farsi vedere nuda in un momento
in cui era tanto
indifesa.
Wenza
pareva ben lungi dal porsi
i dubbi etici che in quel momento attraversavano la mente del soldato e
sembrava anzi determinata ad affrontare la situazione con la sua
abituale
freddezza e professionalità. Deciso a non essere da meno,
Zeru si sporse un
poco verso Marai, ma quando la guaritrice sollevò la camicia
della fanciulla,
esponendo due strisce di pelle candida, non poté fare a meno
di deglutire,
leggermente a disagio.
«Sciogli
le bende» ordinò la donna,
con piglio militaresco. «Io ho le mani sporche di unguento,
non voglio
rischiare di impiastricciare le coperte: sarebbe già la
terza volta.»
«Io?»
chiese Zeru, accorgendosi
un istante troppo tardi della stupidità della domanda.
«Sì,
tu, capitano. Sei pur sempre
suo marito, no?»
Per modo di dire, pensò
l’uomo, maledicendo per l’ennesima volta il
giuramento strappatogli dal sovrano e da Padre Tyban.
«Certo,
è solo che…» Zeru si
interruppe, scuotendo il capo. «Niente, lascia
perdere.»
Con
un sospiro, l’uomo si alzò in
piedi e cercò il punto in cui la fasciatura che circondava
il torso della
ragazza era stata fissata con alcuni ganci. Non era la prima volta che
svolgeva
un’operazione del genere, l’aveva già
fatto innumerevoli volte, quando aveva
voluto controllare le ferite dei suoi soldati, eppure in
quell’occasione quel
gesto gli parve sorprendentemente intimo, quasi sconveniente.
L’uomo si accorse
suo malgrado di avere le mani sudate e pregò che quel
particolare sfuggisse all’occhio
di falco della guaritrice. Quando, non senza una certa
difficoltà, riuscì però
a rimuovere completamente la bendatura, la sua attenzione si
concentrò
interamente sul taglio scarlatto che attraversava il lato sinistro
dello
stomaco della fanciulla.
«Non
avremmo voluto tagliare così
tanto», disse Wenza, anticipando la domanda del soldato,
«ma la freccia era
penetrata con un’angolatura che non ci consentiva di fare
altrimenti… non senza
causare dei grossi danni, perlomeno.»
«Certo»
annuì Zeru, piegandosi
per osservare più da vicino la ferita. Era ancora
decisamente arrossata e i
punti ordinati con cui la guaritrice l’aveva ricucita erano
leggermente gonfi,
tuttavia… «Non sembra infetta.»
«No,
sta guarendo bene» confermò
la donna, approfittandone per ricoprire il tutto con uno spesso strato
di unguento.
«La principessa è stata sicuramente fortunata,
considerato quanto tempo è
passato dal momento in cui è stata colpita a quello in cui
abbiamo rimosso la
punta della freccia… se fosse sopraggiunta
un’infezione non sarebbe più qui,
probabilmente.»
«Mh.
E non credi che la freccia
abbia lesionato gli organi interni?»
Wenza
scosse il capo: «Anche in
questo caso, la ragazza non sarebbe vissuta tanto a lungo.»
La
guaritrice richiuse il
barattolo dell’unguento e con gesti precisi cambiò
la garza e la benda che
proteggevano la ferita, stringendo il busto di Marai in una nuova
fasciatura. Poi
sul volto della donna passò un’ombra strana e Zeru
alzò lo sguardo su di lei,
cercando di capire a cosa la turbasse: «Cosa
c’è?»
«Prima
ho detto che il fatto che
le condizioni della principessa siano rimaste stabili è un
buon segno:
solitamente questo è certamente vero, ma in questo
caso…»
«Avresti
preferito che si fosse
aggravata?» chiese Zeru, senza capire.
«Certo
che no!» sbottò la donna,
fulminandolo con i suoi occhi incredibilmente azzurri. «Ma se
la ragazza non ha
lesioni agli organi interni, se non ha la febbre, se non ha segni di
infezione…
perché non si sveglia? C’è qualcosa che
le impedisce di riprendere conoscenza,
qualcosa che non conosco: e quello che non conosco non mi piace, mi fa
paura.»
«Forse
è solo troppo debole»
osservò Zeru, pacato, percorrendo ancora con gli occhi
l’esile figura di Marai.
«Forse
sì» mormorò la guaritrice,
soppesando brevemente con lo sguardo la giovane che giaceva nel letto.
Poi scosse
il capo, come per allontanare un pensiero sgradito, e si riprese:
«Bene, tu
resta pure con lei, se lo desideri: io devo occuparmi della principessa
Arina,
adesso.»
«Come
sta?» le chiese il
capitano, tornando a sedersi.
Wenza
scosse il capo: «È
ancora
priva di sensi, esattamente come lei. È stata colpita da due
frecce, però; e le
sue ferite non sono belle come quelle di Marai.»
«Capisco»
sospirò Zeru, chinando
la testa.
La
guaritrice si congedò da lui
con un cenno del capo e, quando fu rimasto solo, l’uomo prese
le dita della
fanciulla tra le sue. E così
potresti
farcela, ragazzina, pensò, giocherellando con le
sue unghie arrotondate. Il
pensiero suscitava in lui reazioni contrastanti: se, da un lato, la
prospettiva
che Marai potesse salvarsi e sopravvivere lo rallegrava,
dall’altro temeva
quello che il risveglio della principessa avrebbe comportato, per lui.
Non voglio certo che tu muoia,
pensò ancora, percorrendo con il
pollice il palmo della mano della ragazza, ma
mi spieghi come farò a dirti cosa mi hanno costretto a fare?
Avrai sognato un
matrimonio felice e privo di ombre, tu, non di dover divorziare da un
uomo
troppo vecchio e troppo poco nobile. Non
è una cosa da cui ti libererai facilmente, questa.
Mentre
era immerso in quei
pensieri, la porta si aprì e Zeru sobbalzò,
lasciando ricadere la mano di Marai
sul materasso. «Altezza» mormorò,
alzandosi in piedi e poi chinando il busto in
direzione del nuovo arrivato.
«Non
scomodarti, capitano: sono
solo venuto per ringraziarti… e per avere un po’
di compagnia.»
Il
soldato sorrise e si spostò di
lato, lasciando libera la sedia che aveva occupato fino a qualche
istante
prima, ma Spiro, fratello maggiore di Marai, si sedette sul letto,
accanto ai
piedi della sorella.
Se
non fosse stato per i
lineamenti delicati, sarebbe stato impossibile capire che i due erano
imparentati: i capelli del principe erano scuri tanto quelli di Marai
erano
chiari, gli occhi di lui neri, quelli di lei azzurri come il cielo
d’inverno –
lui era il ritratto del padre, lei della madre.
«Come
sta?» chiese il giovane,
posando una mano sul piede della sorella.
«La
sua ferita sta guarendo bene
e non c’è alcun segno di infezione»
spiegò Zeru. «La guaritrice dice che, se
non ci saranno imprevisti, è possibile che si
riprenda.»
Wenza
non aveva detto proprio così,
ma il volto del principe era
talmente stanco e provato che l’uomo pensò che un
poco di speranza non avrebbe
che potuto fargli bene.
«Bene»
sorrise infatti il
ragazzo. «Questa è una buona notizia.»
Zeru
esitò, incerto se chiedergli
notizie della moglie o meno, quando Spiro lo precedette:
«Come dicevo, volevo
ringraziarti per quello che stai facendo per mia sorella.»
Il
soldato non riuscì a
trattenere un sibilo sarcastico: «Non potevo fare altrimenti,
dal momento che,
se sono riusciti ad arrivare a lei, è stato per colpa mia.
Non avrei dovuto
sottovalutare i Nati dalla Nebbia.» Rendendosi conto che le
sue parole
avrebbero potuto sembrare un po’ troppo brusche,
l’uomo sospirò: «Non
fraintendermi, mio signore, sposare tua sorella è certamente
un onore, ma… ma è
anche, perdonami il termine, una grandissima rogna.»
Spiro
si lasciò sfuggire un’esalazione
che assomigliava quasi a una risata: «Lo so, lo so: non ti
conosco molto,
capitano, ma immagino che la vita di corte si addica poco a un uomo
come te.»
Come sono gli uomini come me? Fu tentato
di chiedergli Zeru,
incuriosito, ma si astenne dal farlo, temendo di risultare troppo
invadente.
«Non
sarà felice di scoprirlo,
quando si sveglierà» disse allora, indicando la
principessa. «Certamente aveva
ben altri progetti per se stessa.»
«Marai?»
chiese Spiro, sorpreso.
«Oh, dubito seriamente che mia sorella avesse alcun progetto,
in questo senso.»
Notando
lo sguardo interrogativo
del soldato, il principe si spiegò meglio: «Marai
è sempre stata una ragazza un
po’… particolare.
È cresciuta, è
vero, ma in un certo senso è un po’ come se fosse
rimasta ancora una bambina:
lo sai che il massimo della felicità, per lei, è
passare ore e ore a dare la
caccia ai goblin in giardino?»
Zeru
non trattenne un sorriso:
«Eh?»
«Sì»
confermò Spiro, rivolgendo
alla sorella un’occhiata carica di affetto. «Un
paio di volte è anche riuscita
a farsi mordere… Wenda ha cercato di spaventarla con la
prospettiva di denti
avvelenati e dita amputate, ma lei non si è mai lasciata
impressionare. Forse è
anche per questo che i miei genitori non si sono mai sforzati
più di tanto per
trovarle un marito: stanno aspettando che la testa si metta al passo
con il
corpo e diventi quella di una persona adulta.»
Inconsciamente,
la mano di Zeru
corse di nuovo a sfiorare il polso di Marai.
«Beh,
ma in ogni caso…»
«La
situazione è già abbastanza
complicata così com’è, capitano: non
preoccuparti anche della reazione di
Marai. Sono sicuro che, al di là di tutto, quando si
risveglierà capirà
benissimo che non si poteva fare altrimenti. E, in ogni caso, credo che
lei ti
ammiri, sai? E la stessa cosa vale per me: se Gano non fosse morto,
avrei
voluto entrare nell’esercito.»
«E
saresti stato un ottimo
guerriero, ragazzo: da bambino eri estremamente promettente»
sorrise Zeru, ricordando
quando il suo Capitano gli aveva presentato il giovane principe, un
ragazzino
intelligente e agile come un gatto. Sarebbe stato un ottimo guerriero,
sì, se
la febbre non si fosse presa suo fratello, facendo ricadere su di lui
il peso
della corona.
«Ti
ringrazio» mormorò Spiro, il
volto pieno di nostalgia. «Sai, stavo pensando che, adesso
che siamo parenti,
potresti insegnarmi qualcosa. Quando avrai tempo, naturalmente, e
quando Arina
e Marai si saranno riprese: mia moglie ne sarebbe deliziata, dice
sempre di trovare
irresistibile un uomo che sa combattere.»
«Perché
no» acconsentì il
soldato, lasciandosi ricadere contro lo schienale della sedia, con un
sospiro. Forse,
pensò, i mesi a venire non sarebbero stati così
terribili, se avesse avuto l’amicizia
di Spiro e di Arina.
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Capitolo 6 *** V ***
Quarant’anni
prima, quando Hadi,
padre di Yasu, era al potere, la Contea di Pietralana aveva richiesto
l’aiuto della
Corona per proteggere i propri confini dagli attacchi dei barbari della
brughiera. Quella che era partita come una semplice campagna che
avrebbe dovuto
respingere gli invasori verso la costa, però, si era
protratta più a lungo del
previsto, tanto che, dopo mesi di battaglie combattute tra praterie e
paludi,
il re in persona si era recato sul campo di battaglia. Per rinfrancare
gli
animi dei soldati, si diceva.
Quella
decisione gli era quasi
costata la vita.
Le
cronache raccontavano che, in
una notte di luna nuova, la tribù delle Aquile di Mare, la
più occidentale
delle stirpi dei Nati dalla Nebbia, aveva attaccato Cahde, un forte
militare
che si credeva imprendibile e nel quale il sovrano aveva dunque deciso
di
stabilirsi. L’attacco aveva colto tutti di sorpresa e gli
Odeb à Fànur avevano
trucidato un gran numero di soldati: era stato solo grazie alla
disperata
resistenza degli uomini di Hadi che il forte aveva retto quel tanto che
bastava
perché l’esercito del conte di Pietralana venisse
in loro aiuto, disperdendo o
uccidendo i barbari.
Nei
giorni in cui i soldati
vittoriosi avevano fatto ritorno a casa, però, tra la gente
comune aveva
iniziato a circolare una voce diversa, una storia che con il passare
degli anni
aveva preso forza, pur non trovando mai nessun riscontro ufficiale. Si
diceva
infatti che non fossero state le Aquile di Mare ad attaccare Cahde,
bensì una
creatura mostruosa, grande come dieci uomini e forte come venti di
loro. Il
Flagello di Hadi, lo chiamavano, un mostro venuto dalla notte e
dall’aria
salmastra, figlio di una gigantessa e di uno spirito maligno, un
abominio che
aveva attaccato col favore delle tenebre, facendo a pezzi e poi
divorando
chiunque gli si parasse davanti. Si diceva anche che, dopo una
battaglia durata
dal tramonto all’alba, i guerrieri di Rocca del Vento e di
Pietralana fossero
riusciti a soggiogarlo, ma, dietro ordine di Hadi, non
l’avessero ucciso,
limitandosi a incatenarlo. Il re, si raccontava, desiderava comprendere
la
natura della creatura che aveva compiuto un tale scempio; e per questo
l’aveva
fatta rinchiudere nelle segrete del castello, nella speranza che
qualcuno
potesse prima o poi svelarne i segreti.
Zeru
non aveva mai veramente
creduto a quella storia. Un tempo, quando i troll vagavano ancora a sud
dei
ghiacciai boreali, si era imbattuto in un paio di esemplari di quella
stirpe
reietta. Anche se era solo un ragazzino, uno scudiero al servizio
dell’anziano
zio di sua madre, ricordava perfettamente la forza mostruosa racchiusa
nei loro
corpi tozzi, la facilità con cui erano stati in grado di
spezzare le catene più
resistenti. Se davvero la bestia che aveva attaccato Cahde era
ciò che si
narrava, essa era assai più temibile di un troll ed era
dunque improbabile che
essa fosse rimasta prigioniera per quasi mezzo secolo, senza mai dare
segno
della propria presenza.
A meno che non sia stata mutilata in un qualche modo,
rifletté il
capitano, o che non sia soggiogata da un
qualche incantesimo.
Zeru
era anche poco incline a
credere che i sedicenti maghi e stregoni avessero veramente i poteri
che millantavano
di possedere, ma quello era un altro discorso. Quello che contava era
che,
mentre seguiva
Padre Tyban e il Conte
Jarad oltre la porta che mai prima d’allora aveva vista
aperta, sentiva tremare
tutte le sue certezze. C’era davvero un mostro, là
dietro?
Oltre
alla soglia vi era una
stanza piccola, dal soffitto basso e illuminata soltanto dalla luce
tremolante
di una torcia. A destra dell’ingresso era stato sistemato uno
scrittoio
dall’aria vetusta e un adepto del Culto sedeva lì
dove, in una segreta normale,
si sarebbe dovuta trovare una guardia armata.
Non c’è nessun’altra
protezione? Si chiese Zeru, scettico, spiando
con discrezione il piccolo locale.
Non
appena i tre varcarono la
soglia, il guardiano si alzò in piedi, pronto ad accoglierli.
«Facciamo
da soli, fratello» lo
rassicurò però subito Padre Tyban, allungando una
mano e prendendo la chiave
posata sullo scrittoio. Con quella, il sacerdote aprì una
seconda porta posta
sul lato opposto dello stanzino e condusse i suoi accompagnatori nella
sezione
in cui si trovavano le celle.
«Piano»
mormorò il religioso,
rivolto a Zeru, invitandolo a non fare movimenti bruschi.
Dietro
a delle sbarre che erano
solo leggermente più robuste di quelle poste a guardia di un
prigioniero
comune, rannicchiata in un angolo buio e sporco, c’era una
creatura. Quando i
tre uomini si schierarono davanti alla sua cella, l’essere
ebbe un tremito, ma
non sollevò il capo nella loro direzione e non sciolse la
posizione fetale
nella quale era raccolto.
La
prima cosa che Zeru notò era
che, qualunque cosa fosse, non era nemmeno lontanamente grande come
dieci
uomini. Anche se la sua posa contratta rendeva difficile valutarne la
statura,
il soldato notò che i suoi arti parevano insolitamente
lunghi, il che lo
rendeva probabilmente un poco più alto di un uomo normale.
Le gambe – le zampe?
– erano interamente ricoperte di folto pelo nero e
terminavano in quelli che
parevano zoccoli di cavallo. La pelle delle braccia, al contrario, era
visibile
e priva di vello, ma pareva squamata, solcata da spaccature profonde e,
attorno
alle spalle possenti, si rapprendeva in scaglie grigiastre. Lo sguardo
di Zeru
si soffermò un istante sulle unghie lunghe e simili di
artigli che ornavano le
mani della creatura, poi scivolò sulle escrescenze brune che
si levavano in
corrispondenza della sua spina dorsale, lacerando in alcuni punti la
camicia
lurida che qualcuno gli aveva fatto indossare, e si appuntò
sulle corna
d’ariete che svettavano sul suo capo.
«Che
cos’è?» chiese, provando uno
strano turbamento.
«Nessuno
è mai stato in grado di
dire che cosa sia» replicò Padre Tyban, osservando
quasi con compiacimento il
prigioniero. «Una creatura unica, con ogni
probabilità, forse l’ultimo della
sua specie. Di certo, un essere malevolo.»
«Si
tratta della creatura che si
dice abbia attaccato il forte di Cadhe?»
«Sì»
rispose il Conte Jarad,
avanzando di un passo. «Contrariamente a quanto narra la
leggenda, però, non ha
decimato da solo l’esercito di Hadi; e non sappiamo se abbia
davvero divorato i
defunti. I registri militari però ne descrivono chiaramente
la ferocia e la
forza sovraumana. Pare che sia in grado di fare letteralmente a pezzi
un uomo
armato e che la sua furia cresca con il procedere della lotta: dopo ore
di
battaglia, egli diviene un nemico molto più temibile di
quanto non sia
all’inizio del combattimento.»
Quasi
avesse udito – e,
soprattutto, compreso – quelle parole, la creatura
levò il viso verso di loro
e, nel vederlo, Zeru sussultò, sorpreso dalla bizzarra
commistione di umanità e
bestialità che scorse in esso. I tratti
dell’essere erano grossolani, il mento
sfuggente, il naso appena accennato, l’arcata sopraciliare
prominente; eppure,
in mezzo alla peluria nera che celava in parte i lineamenti della
creatura,
brillavano due occhi chiari, grandi e innegabilmente dotati, se non di
intelletto, quanto meno di coscienza.
Il
capitano ebbe l’impressione
che il prigioniero cercasse proprio i suoi occhi, forse incuriosito
dalla sua
presenza, e si impose di sostenerne lo sguardo. Dopo qualche istante la
creatura
tornò a piegare il capo sulle ginocchia e Zeru si
sentì libero di rivolgersi a
Padre Tyban: «Se davvero è così
pericoloso, è saggio tenerlo in un luogo così
poco protetto, così vicino al castello?»
«La
sua stessa natura viene in
nostro aiuto, capitano» sorrise il sacerdote.
«Vedi, il ferro lo ferisce: il
semplice contatto con quel metallo gli causa delle piaghe estremamente
dolorose.»
«Il
ferro» ripeté Zeru,
allungando quasi inconsciamente una mano per sfiorare le sbarre davanti
a lui. Come per la Prima Gente, si
disse,
mentre il suo pensiero correva alle creature che si narrava avessero
dominato
la terra all’alba dell’era degli uomini.
«Sì,
il ferro» mormorò il
sacerdote, con un sorriso appena accennato. «So a cosa stai
pensando, ma sono
tante le cose che non conosciamo, su questa terra. Forse ci sono
davvero le
ninfe nelle profondità dei nostri laghi, forse gli elfi
vivono davvero in
magnifici palazzi sotterranei e forse tra le foglie degli alberi
più alti si
celano davvero le fate. Il che, in un certo senso, ci riporta al motivo
per cui
siamo qui.»
Jarad
si schiarì la voce e
scalpicciò sul posto, ma, prima che potesse dire qualcosa,
Padre Tyban riprese
a parlare: «Hai sentito parlare della Vergine della Fonte
d’Argento, immagino.»
Zeru
annuì: «Naturalmente sì: è
una veggente. So che viene consultata prima di prendere decisioni
importanti.»
«Esattamente.
Tuttavia, quello di
predire il futuro non è il suo unico dono: ella è
in grado di rispondere a
qualsiasi quesito, a patto che le venga dato qualcosa a cui
aggrapparsi,
qualcosa di collegato con la domanda che le viene posta. Fornendole del
sangue
di questa creatura, la Vergine potrebbe dirci qualcosa di
più a proposito delle
persone che ci hanno attaccato, l’altro giorno.»
«Qualcosa
di più? L’identità dei
mandanti?»
«Oh,
non aspettarti risposto così
chiare, da lei» replicò Padre Tyban, con una punta
di amarezza. «No. Come sai,
l’essere rinchiuso lì dentro viene dalla
brughiera, dalla terra dei Nati dalla
Nebbia: il conte crede che, assaggiando il suo sangue, la vergine
potrà dirci
se facciamo bene a cercare lì i nostri nemici o se dovremmo
piuttosto
concentrarci sulla capitale.»
«E
non è così?» chiese Zeru,
osservando i due uomini.
«È
così» sospirò Padre Tyban.
«Ma lui… questa creatura non dovrebbe trovarsi
qui. Personalmente ritengo che
sia stato un errore, non ucciderla la notte in cui attaccò
il forte. In ogni
modo, il ruolo della Vergine è sacro e chiederle di entrare
in contatto con
qualcosa di tanto vile come il sangue di quest’essere
è a dir poco sacrilego e
non farà certo piacere agli Dei.»
«E
non farlo significa rinunciare
a identificare i colpevoli» ribatté il conte
Jarad. «Non avrei proposto questa
soluzione, se ve ne fosse un’altra, ma, sfortunatamente, non
c’è altro modo. Tu
cosa ne pensi, capitano?»
Zeru
irrigidì la mascella.
«Io
penso…»
… che rinunciare a questa
possibilità per timore di un’ipotetica
punizione divina sia un’idiozia, avrebbe voluto
dire, ma si trattenne prima
che le parole lasciassero le sue labbra. Se un’affermazione
del genere avrebbe
potuto essere tollerata se a pronunciarla fosse stato il capitano della
Guardia
Reale, il suo nuovo ruolo di consorte della principessa Marai
richiedeva
maggior prudenza.
«Io
penso che se ne debba
discutere con il re e con il principe Spiro» disse allora,
correggendo il tiro.
«Spetta
a loro decidere quali sono i rischi che si possono correre per
assicurare il
benessere e la salvezza del regno.»
«Certamente» annuì
Padre Tyban. «Ho
voluto mostrarti questa creatura affinché tu avessi
più elementi per decidere:
sei il capitano della Guardia, anche il tuo parere è
importante.»
«Per quanto riguarda il tuo
suggerimento», si intromise Jarad, avvicinandosi a Zeru fino a posargli una mano sul
braccio, «sappi che
il re desidera più di ogni cosa assicurare alla giustizia
chi ha ordinato un
atto tanto spregevole e ha già dato il suo consenso a
procedere.»
«E il principe, invece?»
«Il principe è in compagnia di
sua
moglie», rispose Padre Tyban, precedendo il conte,
«e, mentre rifletti su
quanto hai appreso oggi, forse potresti anche tu visitare la
tua.»
Zeru gli rivolse un sorriso di
circostanza e fece per dire che il rapporto che c’era tra
Spiro e Arina era ben
diverso da quello che lo legava a Marai, ma si fermò,
pensando che, forse, era
opportuno prendere tempo e considerare attentamente ogni aspetto della
situazione in cui si trovava.
«Credo che sia una buona idea»
mormorò
allora.
Fu solo quando voltò il capo nella sua
direzione che si accorse che gli occhi di vetro della creatura
rannicchiata in
fondo alla cella erano di nuovo puntati su di lui.
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Capitolo 7 *** VIII ***
Fu
una carezza a svegliarla. Non
sulla fronte o tra i capelli, ma piuttosto nella mente, un tocco lieve
che
solleticò il suo animo, disturbando
l’immobilità del nulla che lo avvolgeva.
Durò solo un istante, poi arrivò il dolore: le
fitte violente la trapassarono
da fianco a fianco, ghermendole la schiena e artigliandole le spalle.
«Ah!»
Ancor
prima di aprire gli occhi,
Marai provò a mettersi a sedere, ma il suo corpo si
rifiutò di collaborare e
ebbe solo un debole tremito esausto. Una seconda carezza –
questa volta molto
più tangibile – le sfiorò il viso e
d’un tratto la fanciulla ebbe l’assoluta
certezza di essere sveglia.
«Ragazza?
Mi senti?»
Stringendo
i denti nel tentativo
di combattere il mal di testa che era sbucato da chissà dove
e subito aveva
preso a martellarle le tempie, la fanciulla annuì.
«Sì» mormorò, ma la sua voce
fu solo un soffio rauco. «Sì»
ripeté, più forte. «Mi fa male
tutto.»
«Mi
stupirei se non fosse così.»
La
fanciulla gemette e poi si
decise a socchiudere gli occhi, affrontando con cautela la luce che
illuminava
l’ambiente in cui si trovava. Un secondo più tardi
li spalancò per la sorpresa:
davanti a lei c’era il viso serio di Wenza. Non il modo
migliore, per
svegliarsi.
Cosa…
Poi,
la ragazza ricordò. Il viaggio.
L’imboscata. La freccia.
«Sono
stata ferita?» chiese, pur
conoscendo già la risposta. Guidata dall’istinto,
la sua mano cercò di
raggiungere il fianco per ispezionare il punto da cui, ora che era
più lucida,
le pareva avesse origine il dolore, ma la guaritrice
intercettò il suo polso e
la costrinse a riabbassarlo sulle coperte.
«Sì,
sei stata colpita da una
freccia: considerato il punto in cui è penetrata, sei
fortunata a essere ancora
viva.»
Nell’udire
quelle parole, Marai
provò una fitta di preoccupazione appena tamponata dalla
consapevolezza di
essere sopravvissuta a un pericolo potenzialmente mortale.
«Ci saranno
conseguenze?» indagò, con la voce un po’
impastata.
Wenza
sollevò appena una spalla,
senza distogliere gli occhi dai suoi: «È
troppo presto per dirlo. Dovremo
aspettare e vedere quello che accadrà nei prossimi giorni.
Per ora la ferita
sta guarendo bene, ma è meglio essere cauti.»
«Quanto
tempo è passato?» chiese
ancora la fanciulla, con la voce resa tremula dal dolore.
«Sei
rimasta priva di sensi per
quattro giorni» la informò Wenza, in tono
insolitamente gentile. «C’è stato un
momento in cui credevamo che non ce l’avresti
fatta.»
«Quattro
giorni» ripeté Marai,
meravigliata, soppesando le parole della guaritrice. Quattro giorni non
erano
pochi, ragionò, senza riuscire a nascondere un brivido al
pensiero del pericolo
scampato.
Come
indovinando ciò che le stava
passando per la testa, Wenza scrollò le spalle.
«Personalmente credo che il
peggio sia alle spalle, ormai» la rassicurò.
«Dovrai avere ancora un po’ di
pazienza, ma a breve tornerai come nuova: come ho detto, le tue ferite
stanno
guarendo bene e non hai febbre. Se non ci saranno complicazioni, ti
riprenderai
completamente.»
Nonostante
le fitte lancinanti
che continuavano a dilaniarle il torso, nell’udire quelle
parole la ragazza
provò un inaspettato brivido di trionfo. Ci avevano provato,
a ucciderla. Ci
avevano provato, ma non ce l’avevano fatta. Lei era ancora
lì e… un pensiero
improvviso le attraversò la mente e la principessa
sbiancò, sentendo l’angoscia
mozzarle il fiato.
«Gli
altri come stanno? Mia
madre, mio padre e…»
La
guaritrice sospirò,
adombrandosi. «Il re e la regina stanno bene: sono scossi,
naturalmente, ma non
sono stati feriti. Tua madre è venuta spesso a trovarti, in
questi giorni, sarà
deliziata nell’apprendere che hai ripreso conoscenza.
Purtroppo, tua cognata,
la principessa Arina, è state ferita e non ce l’ha
fatta: è morta questa
notte.»
Marai
la guardò a bocca aperta,
quasi stentando a dare un senso ciò che aveva udito.
«Arina…»
«L’abbiamo curata come abbiamo curato
te – anzi, forse anche meglio. Ciononostante non siamo
riusciti a fermare
l’infezione. Probabilmente la principessa era troppo debole
per sopravvivere: è
stata colpita da due frecce e ha perso molto
sangue…»
«Capisco» mormorò la
fanciulla,
abbassando mestamente gli occhi sulle lenzuola stropicciate. Le
sembrava
strana, la sua voce. Come se appartenesse a qualcun altro.
«Il funerale c’è già
stato?»
La guaritrice scosse il capo: «No, si
terrà domani.»
Marai deglutì, cercando di allentare
il nodo doloroso che le stringeva la gola. «Voglio
partecipare.»
Ancor prima che la ragazza finisse di
pronunciare quelle poche parole, Wenza emise un sibilo di
disapprovazione.
«Credo proprio che non sia il caso, principessa. Devi
recuperare le forze, prima
di azzardarti a lasciare questa stanza. La sorte è stata
generosa, con te: non
essere così stupida da sfidarla.»
«Non voglio sfidare la sorte»
protestò
la fanciulla, più flebilmente di quanto avrebbe desiderato.
«Voglio solo dire
addio ad Arina: era quasi come una sorella, per me. E poi glielo
devo.»
«Può essere»,
replicò la guaritrice,
impassibile, «ma, per quanto mi riguarda, la cosa
più importante, ora, è che tu
guarisca: andrai alla cerimonia solo se sarai abbastanza forte per
farlo. In
caso contrario, dovrai pregare dal tuo letto.»
La principessa aprì la bocca per
protestare, ma poi la richiuse, stringendo debolmente la coperta tra i
pugni
sudati. Wenza aveva ragione: come poteva pensare di reggersi in piedi,
se non
riusciva nemmeno a stare seduta sul proprio letto? L’idea di
non potere dare
l’ultimo saluto ad Arina, però, le faceva
più male delle ferite della carne.
Lei e la sposa di Spiro non si conoscevano da molto, ma nel poco tempo
in cui
avevano vissuto sotto allo stesso tempo Marai aveva imparato ad
ammirare la
cognata, che si era fin da subito dimostrata più determinata
e coraggiosa di
quanto lei avrebbe mai potuto essere. Era sempre stata buona, con lei,
e, senza
chiedere nulla in cambio, l’aveva presa sotto alla sua ala
protettrice.
Ed
è morta, per questo,
pensò, mentre le lacrime le pizzicavano gli
occhi. Non le sembrava vero. Ricordava chiaramente il modo in cui Arina
si era
gettata su di lei, probabilmente per proteggerla da
quell’attacco tanto
improvviso e inaspettato.
Sentendosi sul punto di scoppiare a
piangere, Marai si passò una mano sugli occhi, cercando di
trattenersi.
Dimostrando un tatto che solitamente le era estraneo, Wenza si
allontanò da
lei. «Vado a chiamare tua madre, principessa. Tu resta a
letto e non fare nulla
di avventato.»
Annuendo in silenzio, la fanciulla
nascose il volto tra le mani e si concesse un pianto silenzioso.
***
Marai sospirò, appoggiata al petto di
suo madre, godendosi le carezze leggere con le quali la donna le stava
pettinando i capelli arruffati. Doveva essere passata quasi
un’ora dal momento
in cui Wenza le aveva lasciate sole, ma la regina non dava cenno di
voler fare
ritorno alle sue occupazioni abituali.
E, del resto, la principessa non
sentiva alcun bisogno di riposare. Il dolore non era diminuito, ma la
presenza
di sua madre le dava forza e riportava un poco di ordine nei suoi
pensieri,
sconvolti dalla notizia della morte della cognata. Si sentiva
più in forze e,
soprattutto, sentiva crescere il bisogno di comprendere ciò
che era successo.
«Ma quindi i suoi genitori non faranno
in tempo a venire al funerale?»
«Temo di no» mormorò
la regina,
chinando il capo per posare un bacio sulla fronte della figlia.
«Ma non sarebbe meglio aspettare
qualche giorno e dargli il tempo di arrivare?»
obiettò piano Marai, pensando
come si sarebbero potuti sentire il padre e la madre di Arina, in
quelle
circostanze.
«Meglio di no»
ribatté la regina.
«Meglio rispettare i tempi che gli Dei hanno fissato: a
questo punto, re
Lashkar vorrà sapere che lo spirito di sua figlia
è in salvo, visto che per il
corpo, purtroppo, non c’è più nulla da
fare, ormai.»
« È davvero brutto,
però» commentò
tristemente la fanciulla, sentendosi totalmente impotente di fronte
alle
ingiustizie del mondo. «Spiro come sta?»
Lisi esitò un secondo, prima di
rispondere. «È arrabbiato» disse, poi.
«Non l’ho mai visto così arrabbiato:
vuole
andare a cercarli.»
Allarmata dal tono della madre, la
fanciulla raddrizzò la schiena, stringendo i denti contro la
stilettata che la
passò da parte a parte. «Quelli che hanno ucciso
Arina, intendi? Vuole andarci
da solo?»
Le pareva una domanda innocente,
quella, eppure sua madre si irrigidì di nuovo.
«No, non da solo: ha dato ordine
di radunare un corpo di soldati e di esploratori»
mormorò, prima di inspirare
profondamente. «Senti, c’è anche
un’altra cosa che devi sapere.»
La fanciulla avvertì chiaramente
l’ombra di incertezza nella voce della madre e la cosa le
fece contrarre lo
stomaco in un crampo che non aveva nulla a che fare con la ferita che
la
freccia aveva aperto nella sua carne o con i punti di sutura con cui
Wenza
l’aveva richiusa.
«Cioè?» chiese,
leggermente tremula.
«Quando sei caduta a terra e non
c’era
modo di svegliarti, pensavamo che per te non ci fosse più
nulla da fare»
mormorò la regina, con voce mesta.
«Lo so, Wenza me l’ha
detto.»
«Però eri ancora viva; e Padre
Tyban
era lì con noi.»
Marai aggrottò la fronte, cercando di
capire dove volesse andare a parare sua madre. Ricordava perfettamente
la
presenza del confessore al suo fianco, nella carrozza, ma non vedeva
come la
cosa potesse essere di un qualche interesse, per lei.
«Lui ci ha raccomandato di fare il
possibile per assicurarci che il tuo spirito fosse salvo; e che gli
venisse
garantito l’accesso alla Sala degli Antenati.»
«Ah?» la fanciulla avvertiva
che c’era
un pericolo, lì, nascosto da qualche parte, ma ancora non
riusciva a vederlo.
Alzando lo sguardo sulla regina, Marai vide che la gote della donna si
erano
fatte scarlatte.
«Lui ha detto che non eri più
una
bambina e che, alla tua età, il fatto di non essere sposata
era contrario alla
legge divina… quindi siamo stati costretti a trovarti un
marito.»
La regina pronunciò quelle ultime
parole tutte d’un fiato, quasi che tenerle dentro di
sé fosse diventato troppo faticoso
– o imbarazzante. La ragazza si scostò bruscamente
da lei, ignorando la fitta che
le mozzò il fiato. «Quindi devo
sposarmi?» chiese, inorridita. Rendendosi conto
di quanto poco consona fosse la sua reazione, la principessa si
schiarì la
voce, portandosi una mano al fianco nel tentativo di tamponare il
dolore.
«Voglio dire… sarò lieta di sposarmi,
se questo è quello che avete stabilito
per me, ma è una decisione così
improvvisa…»
L’ombra di compassione che scorse
negli occhi azzurri di sua madre le fece morire le parole in gola.
«Non ti devi
sposare» mormorò la donna. «Sei già
sposata.»
La principessa sbatté lentamente le
palpebre, certa di avere interpretato male le parole della regina.
«Eh?»
«Ma non è una cosa
definitiva!» scattò
immediatamente Lisi, posando entrambe le mani sulle spalle della
figlia, prima
di rendersi conto che quel gesto le procurava dolore. «Non
devi preoccuparti,
si è trattato ovviamente solo di un proforma, di un
espediente per…»
«Ma non ero nemmeno cosciente!»
pigolò
Marai, a metà tra le lacrime e l’indignazione.
Non
è possibile. Non così.
«Lo so, lo so: credimi, non
l’avremmo
mai fatto, se avessimo pensato di avere un’alternativa. Ma
eravamo convinti di
averti perso e abbiamo fatto il possibile per salvare almeno la tua
anima.»
La fanciulla rimase immobile per
alcuni istanti, fissando la madre con aria vacua. Inconsciamente, il
suo
sguardo corse all’anulare destro, dove non c’era
nemmeno l’ombra di una fede
nuziale. Sono sposata? Si chiese,
mentre la testa iniziava a girarle. Con chi?
E cosa significa che “non è una cosa
definitiva”?
«Temo di non capire, madre»
mormorò la
principessa, facendo del proprio meglio per mantenere un contegno
quantomeno
dignitoso.
Perché si stupiva tanto?
Perché si
sentiva quasi tradita dalla decisione dei suoi genitori? Dopotutto
sapeva che
era ormai solo una questione di tempo: aveva già
vent’anni, non poteva sperare
di rimanere nubile per sempre. Prima o poi suo padre le avrebbe
comunque scelto
un marito e, con ogni probabilità, lei non avrebbe avuto
alcuna voce in
capitolo. Tuttavia, il modo in cui era successo non faceva altro che
rendere
ancora più traumatica quell’esperienza.
«Beh…» Lisi sorrise,
palesemente
imbarazzata. «Il matrimonio doveva essere celebrato subito,
quindi abbiamo
dovuto cercare un uomo tra quelli che erano lì con
noi.»
Marai deglutì e sgranò gli
occhi,
aspettando con trepidazione il seguito, mentre l’adrenalina
le faceva quasi
dimenticare il fatto di essere ferita.
Non
mi avranno mica fatto sposare Padre Tyban, vero? Si chiese,
cercando disperatamente di ricordare se, in circostanze particolari, i
sacerdoti potessero prendere moglie.
«Ovviamente tra di essi non
c’era
nessuno che fosse alla tua altezza, quindi abbiamo dovuto scegliere il
meno
peggio. Fortunatamente il capitano ha compreso perfettamente la
situazione e ha
accettato di buon grado di concederti la separazione, non appena
sarà trascorso
l’anno in cui, per legge, è impossibile sciogliere
il matrimonio.»
La regina guardò la figlia, aspettando
una sua reazione, ma i pensieri di Marai erano inciampati sulla parola
“capitano”
e da lì non si erano più mossi.
«Il… capitano? Il capitano
della
Guardia Reale? Mi avete fatta sposare con lui?» chiese, con
un filo di voce.
Lisi si morse leggermente un labbro,
poi annuì: «Sì.»
Qualcosa prese a suonare, nella testa
di Marai. Qualcosa che assomigliava tremendamente a delle campane a
festa. Le gote
della fanciulla si fecero roventi e le sue labbra iniziarono lentamente
a
piegarsi verso l’alto. Resasi conto di quanto stava
accadendo, la principessa
irrigidì la mascella, cercando di non far trasparire alcuna
emozione.
Zeru! Pensò,
mentre l’euforia la faceva fremere e cancellava per un
istante anche il dolore.
«Marai? Tutto bene?»
Senza osare incontrare lo sguardo di
sua madre, la ragazza annuì. «Credo che sia un
brav’uomo» disse, misurando le
parole con grande attenzione.
«Oh, lo è
senz’altro» concordò la
regina, palesemente sollevata. «In molti non avrebbero
esitato ad approfittare
della situazione, ma lui era decisamente restio a fare quello che gli
stavamo
chiedendo. Pensa che l’abbiamo dovuto pregare a lungo, prima
di convincerlo ad
accettare: è davvero un uomo estremamente fedele alla
corona, il che è una cosa
rara, di questi tempi.»
Le parole di Lisi raffreddarono un
poco l’improvviso entusiasmo della fanciulla. «Lo
è davvero» considerò, con
voce controllata.
Le cose poco chiare, in quella
situazione, erano ancora troppe e Marai sentiva di non avere il
coraggio di
confessare a sua madre che lei, per Zeru, aveva una cotta mostruosa da
quasi sette
anni - da quando, per la precisione, il capitano, fresco di
investitura, aveva
cenato con la famiglia reale in una lontana sera d’estate.
L’uomo aveva più
volte sorriso alla principessa, allora tredicenne, servendole anche da
bere e
offrendole i bocconi migliori: la ragazzina, che fino a quel giorno non
gli
aveva mai prestato particolare attenzione, aveva pensato che non
potesse
esistere un uomo più bello e più gentile.
Crescendo, l’aveva tenuto
d’occhio da
lontano, dissimulando il proprio interesse, imparando a conoscere lui e
i tanti
difetti che, a prima vista, le erano sfuggiti. Tuttavia quelle piccole
imperfezioni non erano servite che a farglielo piacere ancora di
più, a
renderlo più umano, ai suoi occhi.
Era sempre stata convinta che la sua
fosse condannata a rimanere una semplice infatuazione;
e invece ora si ritrovava sposata all’oggetto
dei suoi desideri. Anche se, da quanto aveva capito, Zeru
l’aveva presa in
moglie solo perché gli era stato ordinato di farlo; e non
aveva alcuna
intenzione di portare avanti quel matrimonio.
La ragazza sentì la delusione
bruciarle la gola, poi un tremito di determinazione la scosse da capo a
piedi. A
lei il capitano piaceva; e pure tanto. Quante volte aveva pregato gli
Dei,
chiedendo loro che l’uomo si accorgesse di lei? Quel
matrimonio imprevisto – e,
soprattutto, insperato – poteva davvero essere soltanto il
frutto del caso?
Forse
gli Dei vogliono dirmi qualcosa,
rifletté la fanciulla. Probabilmente
per lui adesso sono solo un incarico
come tutti gli altri, ma chissà se, conoscendomi meglio, non
cambierebbe idea? Anzi,
pensò ancora, in un guizzo di intraprendenza, sono
certa di riuscire a
fargli cambiare idea, se mi ci metto d’impegno.
Il fatto che lei non avesse la benché
minima esperienza, in materia di uomini, le pareva in quel momento un
particolare di nessuna importanza. Prima di tutto, comunque, doveva
capire con
esattezza come stavano le cose. «E ora cosa
succederà?» chiese, allora, rivolta
a sua madre.
«Non abbiamo ancora discusso dei
particolari» sospirò la regina. «La
morte di Arina ha sconvolto tutto: ne
riparleremo a breve, non appena avremo sistemato le cose più
urgenti. Non preoccuparti,
però: per te cambierà poco, o nulla. Non dovrai
vivere con lui, se è di questo
che ti preoccupi.»
Oh,
non mi preoccupo affatto,
pensò Marai, abbassando lo sguardo sulle
coperte, con aria contrita.
«I nobili e i signori delle casate
sono stati tutti avvertiti delle circostanze che hanno condotto a
questo
matrimonio: tra un anno la tua vita tornerà esattamente
quella di prima» Lisi
si interruppe e guardò la figlia con
un’espressione insolitamente determinata.
«E poi, cara mia, sarà proprio il caso di trovarti
un marito vero: non vorrei portare
male, ma un
matrimonio fasullo può anche andare, due proprio no.»
Marai deglutì: doveva forse rivelare a
sua madre i suoi veri sentimenti? Osservando per una frazione di
secondo l’espressione
sdegnosa della regina, però, la ragazza desistette da quel
proposito. Con ogni
probabilità la donna riteneva – forse a ragione
– che il capitano della Guardia
non fosse uno sposo all’altezza di sua figlia e lei, la
figlia in questione,
sentiva di non avere la forza di intavolare una discussione in
proposito. Non in
quel momento, almeno.
«Se la cosa può farti stare
più
tranquilla, però,» continuò la regina,
ignara dei pensieri della fanciulla,
«posso chiedere al capitano di venirti a trovare: sono certa
che lui potrà
risolvere ogni tuo dubbio.»
Marai sobbalzò: «No, no.
Domani,
forse, ma oggi non mi sento in grado di affrontarlo.»
Morirei
di vergogna. Non saprei nemmeno cosa dirgli. E poi mi fa male
dappertutto. E puzzo
pure.
«Sei stanca, vero?» chiese
Lisi,
facendosi improvvisamente apprensiva. «Mi sono trattenuta
troppo. Scusami:
chiederò a Wenza di darti qualcosa che ti aiuti a
riposare.»
Così dicendo, la donna si
chinò e posò
un bacio sulla fronte sudata della ragazza. Quando se ne fu andata,
Marai si
adagiò sul cuscino, espirando profondamente. Quasi non
aspettassero altro che
la partenza della regina, le mille novità che aveva appena
appreso si
abbatterono tutte insieme sulla fanciulla, risvegliando anche il dolore
che per
qualche tempo era passato in secondo piano.
Marai gemette, rannicchiandosi su un
fianco e portandosi le mani sulla ferita.
«Ecco, ti sei stancata troppo.»
La voce brusca di Wenza le fece
socchiudere un occhio e la principessa si sforzò di adottare
di nuovo una
postura più rilassata. «Forse», ammise,
«ma almeno ho scoperto un sacco di cose
decisamente importanti.«
«Mh. Il tuo matrimonio,
immagino.»
«Proprio così.»
«Strano uomo, tuo marito»
mormorò la
guaritrice. «Non sono mai riuscita a inquadrarlo
perfettamente.»
«Come mai?» chiese la ragazza,
aggrottando
la fronte, sospettosa.
Wenza si strinse nelle spalle: «Non lo
so: mi sembra uno che nasconde molto. Ma niente disquisizioni
filosofiche,
adesso: è ora di dormire.»
Davanti a quell’ordine che la fece
sentire una bambina, Marai non trattenne un sospiro. «Non
vedo come potrei
dormire, visto che mi fa male dappertutto: posso avere un po’
di latte di grano
rosso?»
«Ma nemmeno per sogno!»
sbottò la
guaritrice. «Te ne ho somministrato fin troppo, durante i
primi giorni: non ti
ho salvata solo per vederti morire avvelenata dal latte.»
«Ma mia madre ha
detto…»
«Lo so cosa ha detto tua madre, ma la
guaritrice sono io; e dico che, al massimo, posso darti qualche foglia
di
stella del sole.»
Pur con una smorfia di disappunto, la
fanciulla annuì e allungò una mano per afferrare
le piccole foglie giallastre
che la donna le stava porgendo. Infilandosele in bocca e soffocando il
conato
di vomito che il loro gusto acre le provocò, la ragazza
aspettò pazientemente
che il blando anestetico contenuto in esse iniziasse a fare effetto,
mettendo a
tacere, almeno per qualche tempo, il dolore del corpo, la tristezza per
la
morte di Arina e gli interrogativi a proposito del suo nuovo marito.
***
Scusate
il ritardo: tra le feste natalizie e una one-shot per un concorso ho
dovuto
mettere un attimo in stand-by questa storia. Da gennaio però
gli aggiornamenti
torneranno regolari.
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Capitolo 8 *** VII ***
Fermo
ai piedi della scalinata
che conduceva al santuario, Zeru si rigirò tra le mani la
boccetta contenente
il vischioso liquido scuro. Alzandola contro il tiepido sole
primaverile e
inclinandola un poco, l’uomo osservò
l’alone rosso rubino che il sangue
lasciava contro il vetro: colore e consistenza erano identici a quelli
che
aveva sempre conosciuto. Avrebbe potuto essere il suo sangue, quello. E
invece
apparteneva alla bestia rinchiusa nelle segrete sotto al castello. Era
curioso
pensare che il sangue era sempre sangue; e che nelle vene del mostro
non
scorreva alcun liquido nero e velenoso.
Due
giorni dopo al suo colloquio
con il principe Spiro, Arina era morta. Erano state le Campane della
Notte,
ancor prima di Padre Tyban, a darne la notizia al capitano della
Guardia Reale.
Il lugubre rintocco delle enormi campane nere, tanto penetrante da far
tremare
i vetri alle finestre e forse anche le ossa di chi le udiva,
l’aveva svegliato poco
prima dell’alba. Zeru s’era destato di soprassalto,
le orecchie tese e un nodo
all’altezza dello stomaco: da quasi tre secoli quel suono
annunciava al popolo
la morte di un componente della famiglia reale e, in quelle
circostanze,
c’erano solo due persone che potevano aver scomodato il
campanaro a quell’ora
del mattino.
Senza
che potesse far nulla per
evitarlo, il pensiero dell’uomo era subito corso a Marai:
l’ultima volta che
l’aveva vista le sue condizioni erano stabili, ma non si era
ancora svegliata
e, come Wenza si era premurata di dirgli, non poteva ancora essere
considerata
fuori pericolo. Che vi fosse stato un peggioramento nel corso della
notte?
Quando
era giunto nell’ala del
palazzo nella quale dimoravano le principesse, Padre Tyban gli si era
fatto
incontro e gli aveva posato una mano sulla spalla: «Arina non
ce l’ha fatta»
gli aveva detto. «Il suo cuore non ha sopportato il peso
della febbre.»
Sapere
che la sua principessa era ancora
in vita
l’aveva rincuorato per un istante soltanto: le conseguenze
della morte di Arina
non avrebbero tardato a farsi sentire, dentro e fuori Adaval.
«I
genitori della ragazza ne sono
stati informati?» aveva chiesto, in un sussurro, cercando la
risposta negli
occhi del confessore.
«Un
messaggero è stato inviato
giorni fa, informando re Lashkar e sua moglie dell’attacco
che abbiamo subito e
delle condizioni in cui versava la principessa. Tuttavia, da Piana del
Gigante
non è giunta alcuna risposta.»
«E…?»
«Non
appena è stato evidente che
non c’era più nulla da fare, abbiamo fatto partire
una seconda staffetta» aveva
continuato il sacerdote. «Non ci resta che aspettare la
reazione del sovrano.»
Zeru
aveva annuito, serrando la
mascella per tenere a bada la preoccupazione. Lashkar, signore del
regno di
Tawas-Silai, non era un uomo facile. Salito al potere con un colpo di
stato
delle milizie che lui stesso comandava, aveva preso a guidare la sua
terra con
mano ferma e decisa, dimostrandosi un sovrano giusto, sì, ma
poco incline ai
compromessi. E, del resto, l’immenso regno desertico che
sorgeva a occidente di
Adaval non avrebbe potuto sopravvivere con un signore meno determinato:
Tawas-Silai aveva una lunga e gloriosa tradizione militare, ma le
risorse
naturali scarseggiavano e i pochi fiumi che lo attraversavano erano
soggetti a
lunghi periodi di secca. In passato i suoi abitanti erano stati predoni
temuti e
odiati al pari dei Nati dalla Nebbia, ma, in epoche più
recenti, il regno aveva
adottato un approccio più diplomatico
e aveva iniziato a tessere rapporti di buon vicinato con gli stati
confinanti.
Ed
era proprio nell’ottica di
rinforzare quei rapporti che Arina era stata data in sposa a Spiro:
Adaval
aveva guadagnato dei guerrieri valorosi, Tawas-Silai grano, olio e
frumento.
Tuttavia molti nobili di Rocca del Vento non avevano visto di buon
occhio quel
matrimonio, propendendo invece per un’unione che potesse
avvantaggiare questa o
quella famiglia: ora che Arina era morta, non vi era alcun dubbio che
sarebbero
tornati a proporre una nuova moglie per il principe, facendo
sì che, questa
volta, soddisfacesse le loro esigenze. E Lashkar, dal canto suo,
sarebbe stato
tutt’altro che entusiasta di quella novità.
Probabilmente a turbarlo non
sarebbe stato tanto il dolore per la perdita della figlia –
del resto ne aveva dieci, di
figlie, e Zeru dubitava che
una in più o una in meno avrebbe fatto una gran differenza,
per lui – quanto
piuttosto il timore che i privilegi acquisiti potessero venir meno, ora
che il
matrimonio non esisteva più.
Erano
ancora troppo lontani
dall’identificare i colpevoli dell’imboscata, non
potevano permettersi di
guadagnare altri nemici. Quasi gli avesse letto nel pensiero, Padre
Tyban si
era avvicinato ulteriormente a lui. «Dobbiamo assolutamente
trovare dei nomi da
offrire a re Lashkar, quando verrà
a
chiederci conto di quello che è successo» aveva
mormorato. «Dobbiamo
identificare gli assassini di Arina… a ogni costo.»
E
così eccolo lì, con una fiala
di sangue in mano, in attesa di venire ammesso al santuario della Fonte
d’Argento. Padre Tyban avrebbe voluto trovare una soluzione
alternativa, ma, davanti
alle richieste di Re Yasu e del principe, aveva dovuto fare buon viso a
cattivo
gioco, ingoiare le proprie riserve e chiedere ad alcuni sacerdoti di
rango più
basso di estrarre un po’ di sangue dalla creatura. Sulle
prime Zeru aveva
creduto che Spiro li avrebbe accompagnati, ma il giovane, che aveva
amato
veramente sua moglie, aveva preferito restare accanto a lei fino al
giorno
seguente, quando si sarebbero tenuti i funerali e il corpo della
principessa
sarebbe stato bruciato. Questo non significava però che non
volesse giustizia,
pensò Zeru, con una smorfia, preoccupato per quella che
sarebbe stata la
reazione del principe.
Improvvisamente
la porta del
santuario si aprì e una sacerdotessa si affacciò
all’estremità superiore della
scalinata. «Finalmente» sbottò il conte
Jarad, seduto su un gradino a pochi
passi da Zeru, senza avere cura di non farsi sentire dalla donna.
«La
Vergine è pronta a ricevervi»
comunicò loro la religiosa. «Il vostro compagno,
Padre Tyban, le sta già
illustrando la vostra situazione.»
«Come
se la ragazzina non la conoscesse
già, la nostra situazione» ringhiò
ancora il conte, ma, mentre saliva la
gradinata che conduceva all’interno del santuario, Zeru non
gli prestò ascolto.
Sebbene fosse nato e cresciuto nella capitale, non aveva mai messo
piede
all’interno dell’edificio sacro, limitandosi a
osservarlo dall’esterno: si
trattava di un’imponente costruzione a pianta esagonale,
sormontata da una
cupola color ardesia e alleggerita da vetrate azzurre, alte e sottili.
La
piazza nella quale sorgeva era la più bella di Rocca del
Vento, ma si diceva
che, all’interno, il santuario fosse ancora più
impressionante, soprattutto se
visitato in un giorno di sole.
«Benvenuti»
mormorò la
sacerdotessa, facendo loro cenno di entrare. Varcando la soglia, Zeru
dovette
ammettere che le voci che aveva sentito a proposito di quel luogo erano
tutt’altro che infondate. All’interno, il santuario
era composto da un unico,
immenso locale. Sebbene si trattasse di un ambiente chiuso, tutto dava
la
curiosa impressione di trovarsi all’aria aperta: tra le
pietre piatte che
ricoprivano il pavimento cresceva l’erba e il soffitto
altissimo non opprimeva
il visitatore, ma, al contrario, suscitava in lui una sensazione di
grandezza e
libertà. Le finestre affusolate lasciavano filtrare la luce
e i disegni che le
decoravano davano ai raggi del sole una sfumatura azzurrognola e
purissima,
simile a quella che si poteva trovare in alcune grotte che si
affacciavano sul
mare. Ed era proprio l’acqua, lì, a farla da
padrona: il santuario era stato
costruito su una sorgente e le acque cristalline sgorgavano da un masso
situato
nelle prossimità della parete nord dell’edificio.
Dopo poche decine di metri il
corso d’acqua tornava a scomparire delle
profondità della terra, ma, prima di
farlo, riempiva il santuario del riflesso cangiante dei suoi flutti e
del canto
irregolare delle sue onde.
Nell’epicentro
del santuario,
sopra al fiume neonato, si ergeva una sorta di baldacchino
d’argento: era
quello, il luogo in cui la Vergine accoglieva coloro che venivano a
cercare il
suo consiglio.
«Prego,
la Vergine vi sta
aspettando.»
La
voce delicata dell’anziana
sacerdotessa che li aveva accolti costrinse Zeru a interrompere la sua
contemplazione.
Stringendo inconsciamente la boccetta nel pugno, l’uomo
rivolse un’occhiata al conte
Jarad e poi si diresse verso la struttura metallica, salendone i
gradini quasi
in punta di piedi, come se temesse che i suoi passi pesanti potessero
rovinare
l’atmosfera quasi ultraterrena di quel luogo.
Giunse
in cima rapidamente,
ignorando i tonfi prodotti dal conte che arrancava alle sue spalle e,
quando i
suoi occhi si posarono sulla Vergine, si fermò un istante,
prendendo un respiro
profondo. Eccola lì. Era una bambina, sei mesi prima aveva
preso il posto della
decrepita vegliarda che l’aveva preceduta e si diceva che
avesse un pessimo
carattere.
Il
piccolo oracolo, il cui vero
nome era destinato a perdersi nelle nebbie della storia, era nata
schiava e con
una vista che era sempre stata molto debole. Era stato solo verso i
quattro o i
cinque anni, però, che una patina argentea aveva ricoperto i
suoi occhi,
rendendola completamente cieca. Il suo padrone, un orafo piuttosto
rinomato,
l’avrebbe forse uccisa o venduta, se solo il velo che
l’aveva condannata a
vivere nelle tenebre non fosse stato di quel
colore, del colore degli Dei. L’uomo, che aveva la vista
lunga, l’aveva tenuta
nascosta sino al giorno in cui l’anziana Vergine della Fonte
d’Argento non era
morta e le sue sacerdotesse non avevano iniziato a percorrere le vie
del regno
alla ricerca di una bambina che potesse sostituirla. Allora
l’orafo era uscito
allo scoperto, sostenendo che gli occhi argentei della sua piccola
schiava
fossero un segno: e aveva ragione, perché le sacerdotesse
avevano riconosciuto
alla bambina delle doti profetiche.
Ciò
che l’orafo non aveva
previsto, però, erano l’odio e il rancore che la
ragazzina aveva covato per
tutta la sua breve vita. Quando, a nove anni, si era ritrovata fra le
mani
tanto potere, la Vergine aveva preteso – e avuto –
la testa del suo vecchio
padrone, la confisca dei suoi beni e l’esilio della sua
famiglia. Il suo
comportamento era blasfemo, aveva detto, aveva insultato più
volte e in
innumerevoli modi lei, la prescelta degli Dei.
La
piccola era vendicativa: chi
aveva avuto a che fare con lei riferiva che i suoi poteri erano
notevoli, ma
che c’era un’amarezza di fondo in lei, dei piccoli
sprazzi di crudeltà
compiaciuta che apparivano anomali, in una fanciulla tanto giovane.
Zeru
irrigidì la mascella ed
espirò. Non dire niente che possa
offenderla, si ricordò. Non
farle
pensare che stai mettendo in dubbio le sue abilità. Meglio
ancora, lascia che
sia il sacerdote a parlare.
«Ecco,
sono arrivati i miei
compagni» annunciò Padre Tyban, voltandosi verso
di loro.
«Lo
so» replicò la ragazzina, con
voce annoiata. «Sono cieca, non sorda.»
Iniziamo bene.
«Ehm…»
Eccellenza? Mia Signora? Santità?
«…
ciao» Zeru storse le labbra di
fronte alla propria incapacità di trovare un saluto
più adeguato, ma poi scosse
il capo, inginocchiandosi su uno dei cuscini posti di fronte alla
bambina.
«Santità
illustrissima» mormorò
il conte Jarad, imitandolo.
Ah, ecco.
«Il
sangue della bestia, prego»
tagliò corto la Vergine, allungando una mano fin sotto al
naso di Zeru. A causa
di quel movimento, la manica della veste che indossava le
scivolò fino al
gomito e sulla pelle d’ebano della piccola l’uomo
vide chiaramente la traccia di
vecchie ferite ormai rimarginate.
Il
capitano storse la bocca,
leggermente turbato da segni che deturpavano l’avambraccio
della bambina.
Sebbene non fosse incoraggiata, ad Adaval la schiavitù era
in una certa misura
tollerata: se uno straniero si trasferiva nel regno, aveva il diritto
di
conservare gli schiavi che erano già di sua
proprietà prima del trasferimento;
e i figli nati da essi.
Una delle tante porcherie che esistono al mondo,
pensò Zeru, con
una smorfia, prima di riscuotersi davanti al tossicchiare impaziente
della
ragazzina.
«Certo»
mormorò, posando nel suo
palmo la fialetta. Un istante più tardi si accorse che
avrebbe forse dovuto
aprirla, ma la Vergine non esitò nemmeno un secondo prima di
stapparla
personalmente e di portarsela al naso, annusandola con circospezione.
Poi,
prima che qualcuno dei presenti avesse il tempo di commentare, la
bambina gettò
all’indietro il capo e inghiottì
l’intero contenuto della fialetta. Mentre la
ragazzina si leccava le labbra per eliminare i residui di sangue, Zeru
lanciò
uno sguardo incredulo a Padre Tyban: aveva creduto che si sarebbe
trattato di
un assaggio più discreto;
vedere la
ragazzina trangugiare il contenuto della boccetta con tanta ingordigia
l’aveva
spiazzato.
Dallo
sguardo contrariato – quasi
scandalizzato – del sacerdote, il soldato intuì
che, con ogni probabilità,
quella non era affatto la prassi; e si chiese se il sant’uomo
avrebbe in
qualche modo commentato quel bizzarro spettacolo. Tuttavia, Padre Tyban
rimase
in silenzio, lasciando che fosse la giovane veggente a parlare per
prima.
«Allora?»
chiese infatti la
bambina, dopo qualche istante di silenzio rotto soltanto dal canto del
ruscello. «Cosa volete sapere, esattamente?»
«Il
sangue che hai bevuto viene
da una creatura della Brughiera» rispose prontamente il
sacerdote. «I Nati
dalla Nebbia vengono dal medesimo luogo: è corretto cercare
tra di loro i
responsabili dell’attacco ai danni del nostro re?»
La
ragazzina schioccò
rumorosamente le labbra, poi scosse la testa: «No.»
Zeru
e il conte Jarad si
scambiarono uno sguardo allarmato e Padre Tyban interrogò di
nuovo la veggente.
«Il
nemico si nasconde allora
nella capitale?»
Di
nuovo, la bimba fece un cenno
di diniego: «Non ho detto questo.»
Un
fantasma si affacciò nella
mente del capitano: non poteva trattarsi del padre di Arina,
certamente, non
aveva alcun senso…
«Tawas-Silai?»
chiese ancora il
sacerdote, giungendo alle stesse conclusioni del soldato.
Davanti
a quella domanda, la
Vergine scoppiò a ridere, un suono stranamente gorgogliante.
«Siete
proprio disperati»
sghignazzò.
La
compassione che Zeru aveva
provato per lei qualche minuto prima iniziò a scemare
rapidamente, ma l’uomo
strinse i denti, cercando di tenere a bada la propria irritazione.
Forse
offeso dalla risposta
sprezzante della piccola, il sacerdote chinò il capo, ma il
conte Jarad si
sporse verso di lei.
«Non
in seno agli Odeb à Fànur»,
disse, lentamente, «ma forse nella Brughiera?»
La
bambina gli rivolse un sorriso
smagliante: «Esattamente.»
«Hai
dei nomi, mia signora?»
insistette il conte, ma questa volta la risposta fu negativa.
«Nessun
nome, no. E nessun volto.
Dovete cercare nella Brughiera, ma non so cosa
dovete cercare. Il che è davvero un bel problema,
eh?»
Chissà perché non mi sembri
particolarmente afflitta, pensò Zeru,
provando un moto di antipatia per la piccola impertinente.
«Comunque
i Nati della Nebbia non
hanno niente a che fare con questa storia, giusto?» le
chiese, tanto per essere
sicuro di aver capito bene.
Zeru
ebbe quasi l’impressione di
vederla alzare al cielo i suoi spettrali occhi argentati. «I
guerrieri che vi
hanno attaccato erano Odeb à Fànur, quindi loro
c’entrano, ovviamente»
cantilenò la ragazzina, facendo ondeggiare i ricci neri
come il carbone. «Tuttavia loro sono solo la mano:
se volete punire la mente,
dovrete spingervi più in là.»
I
tre uomini si scambiarono uno
sguardo pensieroso, poi Padre Tyban annuì, risoluto.
«Ti
ringrazio, mia signora: ci
sei stata molto utile.»
«La
cosa mi fa piacere» ribatté
la bambina. «Toh, capitano: riprenditi la fialetta, che io
non me ne faccio
niente.»
Automaticamente,
Zeru allungò la
mano per afferrare la boccetta, ma la ragazzina fu più
rapida e gli ghermì il
polso con entrambe le mani, tirandoselo poi all’altezza del
viso e leccandogli le
dita, fulminea. Nell’avvertire quel contato umidiccio,
l’uomo trasalì.
«Ma,
insomma…!» gli scappò detto,
prima di riuscire a trattenersi.
Tuttavia,
la Vergine non parve
prendersela e si strinse nelle spalle: «Ti troverai presto
nei guai, capitano:
guai belli grossi. Ti conviene venirmi a trovare, una volta ogni tanto:
scommetto che il mio aiuto ti farà comodo.»
Impietrito
– non era forse quella
una conferma di tutti i suoi timori? – Zeru
deglutì, prima di provare a
indagare oltre: «Che tipo di guai?»
La
bimba si mordicchiò un labbro,
pensierosa.
«Eeeh…
non te lo dico!» trillò
poi, rivolgendogli un altro sorriso.
«Cosa?»
Incurante
dell’espressione di
Padre Tyban, l’uomo si accucciò davanti alla
bambina. «Perché non me lo dici?»
le chiese, cercando di mantenere un minimo di cortesia nella sua voce.
«Oh,
non arrabbiarti, capitano»
sospirò la piccola, posandogli una mano su una guancia e
picchiettandola come
se fosse stata quella di un cucciolo. «In un modo o
nell’altro, sempre di guai
si tratta: se non ti dico niente, però,
c’è la possibilità di cavarcene
qualcosa di buono. Se ti dico di cosa si tratta, invece, non ne
verrà niente di
buono, ma solo miseria. Per te; e per tutti.»
Davanti
a quella spiegazione
fornita con tono quasi accorato, così diverso da quello che
la bambina aveva
utilizzato fino a quel momento, Zeru sentì la propria rabbia
dissolversi come
neve al sole. Al suo posto, montò la preoccupazione. Il
capitano cercò gli
occhi dei suoi accompagnatori, ma, quando li trovò, in essi
non lesse altro che
la sua stessa confusione.
«Andate,
adesso» ordinò loro la
Vergine, tornando a parlare con voce imperiosa. «Siete qui da
un sacco di tempo
e di sicuro c’è gente che sta aspettando di
parlare con me.»
Una
volta che si furono accomiatati
dalla veggente, i tre uomini fecero ritorno al palazzo, ognuno immerso
negli
stessi identici pensieri. Un nemico senza volto, nascosto nelle
profondità
segrete della Brughiera, e un pericolo imminente le cui conseguenze,
forse,
sarebbero ricadute su tutti.
Su me di sicuro, si disse Zeru, con un
tremito di apprensione. E forse anche sulla
mia famiglia. Su mia
madre e sulle mie sorelle e…
Non
appena giunsero nel cortile
del castello, notarono una certa concitazione tra le guardie che
presidiavano l’ingresso.
Ancora
turbato dal colloquio
avuto con la Vergine, a Zeru parve di venir colto da un brutto
presentimento e
dunque interrogò l’uomo alla sua destra:
«Cos’è successo?»
Contrariamente
a quanto si era
aspettato, la guardia sorrise: «La principessa Marai si
è svegliata, capitano.»
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Capitolo 9 *** IX ***
«Tua moglie non è
venuta?»
Zeru si voltò di scatto, quasi stupito
di trovarsi di fianco il conte Jarad. Era talmente assorto nei suoi
pensieri e
talmente occupato a osservare i movimenti di Difan che non si era
accorto della
presenza dell'uomo. Riponeva una grande fiducia nelle
capacità del suo secondo
in comando, ma il funerale di un membro della famiglia reale era pur
sempre una
questione estremamente delicata e il capitano voleva essere certo che
nulla
andasse storto.
Con una smorfia appena accennata, Zeru
si rivolse all’uomo alla sua destra. «No»
mormorò, rispondendo alla domanda che
il conte gli aveva posto poco prima. «Avrebbe voluto essere
presente,
naturalmente, ma le sue condizioni di salute non gliel'hanno
permesso.»
O, per lo meno, quella era la
conclusione alla quale era giunto quando, poco prima, si era fatto la
stessa
domanda. Perché, in verità, lui Marai non l'aveva
vista: era stata sua
intenzione andarla a trovare, quando aveva appreso che si era
svegliata, ma la
regina gliel'aveva impedito, dicendo che la principessa preferiva
aspettare
qualche giorno, prima di incontrarlo.
Per
recuperare le forze e la lucidità, aveva spiegato, ma Zeru sospettava
che il motivo fosse un altro.
E come biasimare quella povera
ragazza? Poteva solo provare a immaginare come dovesse sentirsi:
ferita,
dolorante, sconvolta per la perdita di Arina e, come se tutto
ciò non bastasse,
pure sposata contro la sua volontà. La cosa lo turbava
più di quanto avrebbe
voluto ammettere e il capitano si trovava ad accarezzare sempre
più spesso il
proposito di disobbedire agli ordini della regina e di andare comunque
da
Marai. Solo per rassicurarla, si intende: trovava assolutamente
detestabile
l'idea che la fanciulla vivesse nell'angoscia, immaginando forse che
lui avesse
chissà quale sgradite intenzioni, nei suoi confronti.
Se
le spiegassi per bene che questo matrimonio è solo una
formalità – alla quale
io ho cercato di oppormi, tra l'altro – e che non ho nessuna
intenzione di
disturbarla più di quanto non sia strettamente necessario,
la ragazza
dormirebbe sonni tranquilli, no?
«Come sta? Le chiacchiere mi avevano
fatto intendere che si stesse riprendendo in fretta: non posso negare
di essere
stupito di non vederla qui, oggi.» Ignaro dei pensieri che
stavano
attraversando la mente di Zeru, il conte Jarad gli si
avvicinò ancora di più,
abbassando la voce affinché le persone attorno a loro non
potessero seguire
quello scambio di battute.
«E infatti è proprio
così» improvvisò
il capitano. «Marai sta guarendo bene, ma non è
ancora in grado di lasciare il
letto così a lungo. La ferita è profonda, non si
rimarginerà tanto in fretta.»
Ammesso
che non si sia data malata solo per evitare me, aggiunse
silenziosamente, osservando la reazione del conte con una punta di
nervosismo.
Anche se re Yasu gli aveva consigliato di non preoccuparsi dei risvolti
politici del suo matrimonio, Zeru non poteva fare a meno di chiedersi
se fosse
opportuno che il conte – e con lui gli altri nobili della
Capitale – conoscesse
tutti i particolari della relazione tra lui e la principessa. Aveva
infatti
imparato, negli anni passati a servire la corona, che certe persone, in
certe
circostanze, non esitavano a sfruttare le debolezze altrui, se in esse
vedevano
un’occasione di guadagno.
«Stavo ripensando a quello che ti ha
detto ieri la Vergine» continuò il conte, dopo un
attimo di silenzio. Qualcosa,
nel suo tono, mise ulteriormente in allarme Zeru, che rivolse
un'occhiata
obliqua al compagno, invitandolo a proseguire.
«Stavo pensando, più che
altro, al
modo in cui ha formulato la frase» continuò il
nobiluomo, lasciando scorrere
attorno a sé uno sguardo di finta indifferenza.
«Eravamo in tre, nel santuario,
eppure la ragazza si è rivolta esclusivamente a te: ha detto che tu
ti
saresti trovato presto nei guai.»
«Ha detto anche che, se avesse parlato
troppo, le cose si sarebbero messe male per tutti»
ribatté il capitano, sottolineando quell’ultima
parola.
«Naturalmente. Ma, ti prego, seguimi
un attimo: cos’è che ti riguarda in prima persona,
ma che ha indubbiamente il
potenziale di esercitare una certa influenza sulla vita di
tutti?»
Zeru lo fissò per qualche istante,
cercando di capire dove volesse andare a parare, poi sollevò
le sopracciglia:
«Marai?»
«Esattamente»
replicò il conte, con un
mezzo sorriso che non raggiunse i suoi occhi.
La
piega che sta prendendo il discorso non mi piace neanche un
po’, si
disse
il capitano. Non era mai stato un amante dei giri di parole e
desiderava che,
se Jarad aveva qualcosa di dire, lo dicesse senza perdere tempo in
giochetti
inutili.
«Temo di non capire» fece
allora,
senza riuscire a impedire che una nota fredda facesse capolino nella
sua voce.
L’uomo al suo fianco mosse il capo e,
con il mento, fece discretamente cenno all’altare. Accanto
alla grande lastra
di pietra bianca, Padre Tyban stava cospargendo d’olio sacro
il feretro di
Arina. «Re Lashkar non sarà contento di aver perso
il suo aggancio con Adaval.
Non so quanto amasse sua figlia, ma, se lo conosco, cercherà
di allacciare un
nuovo legame con il nostro regno il prima possibile.»
«Non lo metto in dubbio»
ribatté Zeru,
che aveva già in precedenza fatto lo stesso ragionamento.
«Lashkar ha dieci
figlie, se non ricordo male: tra di loro ce ne sarà
sicuramente una che potrà
diventare la nuova moglie del principe Spiro.»
«Ammesso che il principe desideri
prendere nuovamente moglie in tempi rapidi e ammesso che, tra quelle
dieci
figlie, ce ne sia adatta a diventare sua moglie.»
«Beh…» Zeru
aggrottò la fronte,
confuso.
«La principessa Nahali è fuori
discussione, è la primogenita ed erediterà il
trono di Tawas-Silai: non ha
fretta di sposarsi, lei. Delle altre figlie in età da
marito, due o tre sono
già sposate e una quarta è pazza. Le rimanenti
sono solo delle bambine e di
certo poco adatte per convolare rapidamente a nozze. Il nostro principe
non ha
molta scelta, temo.»
Il capitano sospirò, riflettendo sulle
parole del conte. «Capisco. In ogni caso, però,
non vedo cosa c’entri Marai in
tutto ciò: Lashkar non ha figli maschi,
quindi…»
«No, però ha un nipote che ha
preso
sotto la sua ala protettrice molto tempo fa. Un giovane di
vent’anni; e molto
aitante, mi dicono. Lo sposo perfetto, per la nostra piccola
principessa.»
Soffocando un moto di fastidio che,
subdolo, gli strinse lo stomaco, Zeru incontrò gli occhi
dell’uomo. «Sì, ho
sentito parlare di lui, anche se non l’ho mai incontrato. In
ogni caso, non
vedo ostacoli alla loro unione, se re Yasu la approverà.
Basterà aspettare un
anno – anzi, qualche giorno in meno – e Marai
sarà libera di sposare questo
ragazzo.»
«Non è affatto detto che
Lashkar sia
disposto ad aspettare un anno: possono succedere tante cose, in un
anno.»
«Beh, temo che non si possa fare
diversamente, visto che, al momento, Marai è sposata con
me» sbottò il
capitano, con un sibilo di frustrazione. Poi, chiudendo brevemente gli
occhi
per scacciare il nervosismo, continuò: «A meno che
Padre Tyban non trovi un
modo per annullare il matrimonio in tempi più rapidi. Anzi,
questa sarebbe
forse la soluzione migliore…»
«Parli come se non conoscessi Padre
Tyban» lo interruppe immediatamente il Conte Jarad.
«Per lui, la religione
viene prima di tutto e le regole degli Dei sono il codice
più alto al quale
attenersi.»
Zeru puntò gli occhi chiari in quelli
del conte: «È un uomo di fede, questo è
ovvio, ma non ho mai dubitato della sua
fedeltà alla corona. Mai, nemmeno per un istante.»
«Oh, no, non sto dicendo che non sia
fedele
al regno!» si affrettò a rettificare il conte.
«Sono anzi convinto che lo abbia
sempre servito con tutto se stesso. Certo… a modo suo.
Secondo la legge divina.
Lui crede che solo seguendo la legge divina si possa assicurare
benessere e
prosperità ad Adaval.»
Sospirando, Zeru alzò lo sguardo sul
grande rosone di vetro dei colori del tramonto che sovrastava
l’altare.
Filtrando attraverso al mosaico colorato, la luce del sole riempiva la
cappella
di mille riflessi cangianti. «E chissà che non sia
proprio così» disse, piano,
mettendo per una volta da parte la propria razionalità e il
proprio
scetticismo.
«Chissà»
ripeté il conte. «Ma, per
qualche motivo, sento che re Lashkar non sarà dello stesso
avviso.»
«Non capisco dove vuoi
arrivare»
ringhiò Zeru, iniziando a sentirsi esasperato dal modo in
cui Jarad stava
conducendo quella conversazione. «Cosa dovremmo fare, secondo
te?»
L’uomo gli rivolse un sorriso amaro,
prima di tornare a rivolgersi verso l’altare, portando di
nuovo gli occhi sul
corpo senza vita di Arina. «Non voglio arrivare da nessuna
parte: volevo solo
renderti partecipe di una mia riflessione.»
«Mh.»
Sentendo che quella conversazione era
terminata, almeno per il momento, il soldato tornò a
osservare i movimenti rituali
compiuti da Padre Tyban, cercando di prestare attenzione alla cerimonia
e non
riuscendo però a evitare che i suoi pensieri vagassero un
tutt’altra direzione.
***
Quando il rito fu terminato e il
feretro di Arina fu trasportato nella camera in cui, dopo un riposo di
un
giorno e una notte, sarebbe stato bruciato, Zeru vide il principe Spiro
avvicinarsi a lui.
«Altezza», mormorò
il soldato,
chinando il capo, «le mie condoglianze. Sarei venuto da te
prima, ma non volevo
importi la mia presenza in un momento tanto
doloroso…»
«Ti ringrazio per il pensiero»
sospirò
il ragazzo, trovando la forza di rivolgergli un sorriso di circostanza.
«Mi
sembra così… così incredibile che lei
non ci sia più. Mi sembra che non possa
essere vero, mi viene ancora da girarmi e di cercarla, lì,
vicino a mia madre.»
«Mi spiace. So cosa vuol dire perdere
una persona cara e so che le parole non servono a nulla.»
Il principe annuì: «Le parole
no, ma
le azioni possono molto. Devo parlarti, capitano.»
Sorpreso dal tono improvvisamente deciso
del giovane, Zeru si guardò rapidamente attorno.
«Qui?» chiese. «Adesso?»
Posandogli una mano sul braccio, Spiro
lo condusse accanto a una colonna,così da frapporre qualche
metro in più tra
loro e il resto delle persone radunate nella cappella. «Ho
saputo che ieri
avete fatto visita alla Vergine: avete scoperto qualcosa a proposito
degli
assassini di Arina?»
Il capitano esitò un istante, prima di
rispondere. «Hai già parlato con Jarad o Padre
Tyban?»
Il principe arrossì lievemente:
«No,
non ho trovato il tempo di farlo.»
«D’accordo» fece il
soldato, annuendo
lentamente. «Abbiamo parlato con la Vergine, è
vero», ammise, dopo un istante
di riflessione, «ma non ci ha dato una risposta
chiara.»
«C'era da aspettarselo»,
replicò Spiro,
con un cenno secco del capo, «del resto è
così che si esprimono gli oracoli:
ma, al di là della forma... Siete comunque riusciti a
ricavare qualche
informazione utile?»
«In un certo senso: la Vergine sostiene
che gli Odeb à Fànur siano soltanto il braccio e
che, per trovare la mente, ci
dobbiamo spingere oltre.»
«Oltre?» ripeté il
principe,
aggrottando la fronte.
«Sempre nella Brughiera. Secondo la
ragazza, però, dietro all'attacco che abbiamo subito si
nasconde qualcun altro.
Ovviamente, non è stata in grado di dirci chi sia questo qualcun altro, né di darci
qualcosa a cui aggrapparci.»
Spiro piegò le labbra in una smorfia,
pensieroso. «Nella Brughiera vivono solo i Nati dalla Nebbia.
Ci sono diverse
tribù, ma la sostanza non cambia. Se l’attacco non
è stato ordinato da qualcuno
che si nasconde qui, nella capitale, se dietro a quello che
è accaduto c’è
qualcuno che si trova tra quelle paludi… beh, non vedo
proprio di chi potrebbe
trattarsi, se non degli Odeb à Fànur. Non ci sono
molti candidati, a parer
mio.»
«La Vergine non avrebbe avuto alcun
interesse a mentire» gli fece pacatamente notare Zeru.
«Lo so, ma tutto questo mi sembra
così
strano» il giovane si interruppe e si passò
stancamente una mano sul viso.
«Oltretutto, non posso andare a dire al padre di Arina che
non abbiamo la
benché minima idea di chi abbia ucciso sua figlia.»
«Ancora nessuna rivendicazione o
rapporto dei nostri informatori, immagino» disse,
più che chiedere, Zeru.
Spiro scosse il capo. «E ancora
nessuna risposta da parte di Tawas-Silai?» indagò
ancora il soldato.
«Nessuna» confermò
il giovane bruno. «Ma
di certo non tarderà ad arrivare.»
Zeru esitò per qualche secondo,
indeciso se parlare o meno al principe di ciò che gli aveva
riferito poco prima
il conte Jarad, ma poi decise che il ragazzo - che, a conti fatti, non
era più
un ragazzo - aveva il diritto e il dovere di essere al corrente della
situazione. «Hai preso in considerazione l'ipotesi di
risposarti?» gli chiese,
senza incontrare il suo sguardo.
«Con una delle sorelle di Arina,
intendi?» quando il capitano annuì, il giovane
sospirò. «Sì, ci ho pensato.
Immagino che sia un'eventualità tutt'altro che remota, anche
se il pensiero di
sostituire così mia moglie mi disgusta. Ma sono il principe,
no? E un giorno
sarò re: ho dei doveri che vengono prima dei miei desideri
personali.»
Come
tutti,
considerò silenziosamente Zeru, con una punta di cinismo.
«Hai mai
conosciuto le principesse?» gli chiese, invece. «Il
conte Jarad sostiene che,
probabilmente, quelle in età da marito sono già
sposate.»
Spiro scosse il capo: «No, mi pare che
una non abbia ancora marito. Non ricordo il suo nome, ma Arina
sosteneva che
fosse una ragazza timida e... Beh, non proprio una bellezza. Non che
sia
importante, naturalmente.»
Il giovane era arrossito e Zeru provò
a venire in suo soccorso. «In realtà»,
disse, con gentilezza, «ho sentito che
ce n'è una che è davvero molto bella.»
«Manira, sì. Ha tredici anni.
Non
credo sia il caso di prenderla in considerazione.»
«Già» Zeru
abbassò lo sguardo a terra,
lasciando sfumare il discorso. Non era il caso, decise, di disquisire
della
bellezza delle sorelle di Arina, quando si era appena celebrato il suo
funerale
e quando era assolutamente chiaro che il principe soffriva per la
perdita della
moglie.
«Tra due giorni andrò nella
Brughiera.»
Il soldato alzò di scatto il capo,
sorpreso dalle parole del giovane. «Come?» chiese,
sebbene fosse certo di aver
capito bene.
«Sì, intendo cercare delle
risposte:
il generale Balzan ha individuato alcuni uomini scelti che potranno
accompagnarmi nelle terre delle Aquile di Mare.»
«Non credo sia una buona idea»
ribatté
Zeru, aggrottando la fronte. «Finché non abbiamo
almeno un nome o un indizio, chiunque
è un potenziale nemico. Sarebbe più prudente per
te restare a palazzo, al
sicuro: sono certo che gli uomini del generale possano trovare le
risposte che
cerchi anche senza la tua presenza al loro fianco.»
«Forse sì, ma non intendo
restarmene
nascosto a Rocca del Vento, quando mia moglie è stata
uccisa.»
«Capisco, ma…»
«No, capitano.» La voce di
Spiro si
fece insolitamente brusca e il soldato lo guardò con
un’attenzione nuova. «Non
intendo tirarmi indietro, questa volta.» Zeru lo
squadrò da capo a piedi,
chiedendosi se il padre del ragazzo fosse al corrente dei suoi
propositi, ma
desistette dalla tentazione di chiederglielo. Dopotutto lui non aveva
alcuna
autorità su quello che, un giorno, sarebbe stato il suo re;
e in ogni modo far
ragionare il principe non era certo un compito che spettava a lui.
«E cosa intendi fare, una volta
arrivato lì?»
«Il generale mi ha detto che uno dei
suoi uomini è originario della Brughiera.» A Zeru
quell’informazione non
piacque affatto, ma Spiro non gli lasciò il tempo di
obiettare. «Non è un Odeb
à Fànur», disse, infatti, «ma
il figlio di un commerciante di lana che si è
trasferito nelle terre delle Aquile di Mare. Sai, quella gente
commercia spesso
con noi. Sono un po’ diversi dalle altre tribù,
sono più… più come noi, direi.
Più o meno?»
«Più o meno»
concesse Zeru, scettico.
Il ricordo di uno degli ultimi incontri con una gruppetto di
contrabbandieri
provenienti dai territori che il principe intendeva visitare gli
piegò le
labbra in un sorriso sarcastico.
«In ogni caso, voglio parlare con
quella gente» continuò il principe. «Se
nella Brughiera sta succedendo qualcosa
di insolito, è probabile che chi vive lì abbia
per lo meno avuto qualche
avvisaglia, non credi?»
«È possibile.»
«Voglio solo fare qualche domanda,
sondare un po’ il terreno» spiegò il
ragazzo, cercando suo malgrado un briciolo
di approvazione negli occhi del soldato. «Nulla di troppo
appariscente.»
Già, pensò
Zeru, costringendosi a sorridere. Il
principe ereditario che compare nella Brughiera, accompagnato da un
manipolo di
soldati: perché mai dovrebbe dare nell’occhio? «Continuo
a pensare che non
sia una buona idea», disse poi, con un sospiro, «ma
sono certo che ci hai
pensato bene, prima di prendere questa decisione; e io non ho il potere
di
farti cambiare idea.»
«Ci ho pensato bene,
sì» confermò
Spiro, annuendo deciso. Poi scosse il capo, come per cambiare discorso.
«Oh,
c’è anche un’altra cosa che volevo
chiederti: credi che sia il caso di andare a
far visita a mia sorella? Non l’ho ancora vista e vorrei
farlo, prima di
partire. Ma forse è ancora troppo debole, non vorrei
disturbarla o farla
preoccupare…»
«Vai da lei» rispose
l’uomo, senza
esitare. «Io non ho ancora avuto modo di farlo, ma sono
sicuro sarà felice di
salutarti.»
Spiro sgranò gli occhi. «Non
le hai
ancora parlato? E perché?»
Zeru deglutì, leggermente a disagio.
«Avrei voluto farlo, ma ho parlato con la regina e ho come
avuto l’impressione
che tua sorella preferisse aspettare un po’, prima di
incontrarmi.
Probabilmente è ancora troppo scossa da quello che
è successo e non si sente
ancora in grado di affrontare anche questa faccenda.»
Gli occhi scuri di Spiro si
illuminarono in un sorriso divertito. «Oh, non credo proprio:
Marai è sempre
stata curiosa, di certo non vede l’ora di
incontrarti.»
Il soldato scosse appena il capo: «In
ogni caso, tua madre è stata chiara: non ho il permesso di
andare da lei.»
«Non hai il permesso di far visita a
tua moglie?» sogghignò il principe, evidentemente
grato di aver trovato un
diversivo che lo distraesse dal dolore della perdita di Arina.
«Non si è mai
sentita una cosa del genere: vieni con me, ci andiamo insieme, a
trovarla!»
«Non credo proprio
che…» Zeru fece per
protestare, ma poi si morse la lingua: non era forse quella
l’occasione che
stava aspettando per confrontarsi con la principessa?
«D’accordo» sospirò
alzando, alzando le mani in segno di resa e facendo cenno a Spiro di
fare
strada.
***
Fermo davanti alla porta della camera di
Marai, Zeru teneva gli occhi fissi su Wenza, senza però
sentire nemmeno una
parola delle raccomandazioni che la guaritrice stava facendo a lui e a
Spiro.
Mi
sudano le mani. È ridicolo. Sono nervoso come un ragazzino
di tredici anni. Infastidito
dal tradimento del suo corpo, il soldato serrò bruscamente
le mani, stringendo
fino a quando non sentì le unghie penetrare nella carne del
palmo.
«Va bene, entrate. Ma non fatela
stancare troppo, è ancora in via di guarigione.»
La voce brusca della donna lo sferzò e
l’uomo si ritrovò ad annuire automaticamente,
mentre già il suo sguardo correva
oltre la corpulenta figura della guaritrice, cercando di sbirciare
attraverso
lo spiraglio dell’uscio socchiuso.
Scrutandoli un’ultima volta con
un’aria di insondabile disapprovazione, Wenza
sfilò loro accanto,
allontanandosi a passi rapidi lungo il corridoio. Senza perdere tempo,
Spiro
spinse la porta e marciò nella camera della sorella. La
principessa stava
evidentemente aspettando il loro arrivo, perché era seduta
ben dritta sul
letto, la schiena appoggiata alla testata intarsiata e il lenzuolo
stretto tra
le mani sottili. Il suo sguardo scivolò sul fratello come
una carezza, ma poi
subito si appuntò su Zeru.
Trovandosi improvvisamente sotto
all’esame di quegli occhi chiari, il capitano
sentì un’ondata di panico
lambirgli lo stomaco e la vergogna stringergli la gola.
Perché si vergognava?
Perché si sentiva in colpa? Non era stato certo lui a
metterla in quella
situazione.
Non
del tutto, almeno.
Durante quel brevissimo scambio di
sguardi, Spiro aveva coperto i pochi metri che lo separavano dalla
fanciulla e
si era piegato su di lei, cingendole le spalle in un abbraccio.
«Come stai?» le
sussurrò. Quelle parole soffiate furono sufficienti per
scuotere la
principessa, che interruppe il contatto visivo con Zeru e si
concentrò sul
fratello.
«Oh, io sto bene» disse, con la
voce
solo un po’ più roca di quanto il capitano
ricordasse. «Ma avrei tanto voluto
esserci anch’io, oggi. Wenza me lo ha impedito… mi
dispiace tanto, Spiro. Mi
dispiace davvero tanto. Non è giusto. Volevo bene ad Arina;
e non è giusto che
sia successo proprio a lei.»
«Lo so» il principe
deglutì e poi
affondò il viso tra i riccioli biondi della ragazza.
«Stiamo facendo del nostro
meglio per trovare i colpevoli, per vendicare Arina e per mettere al
sicuro
tutti noi, ma, nel frattempo… sono felice di vedere che stai
bene.» l giovane
si interruppe, allontanando da sé la ragazza e osservandola
più attentamente.
«Perché stai bene, vero?» aggiunse poi,
in tono un po’ incerto.
«Sto bene» sospirò
Marai. «Beh, più o
meno. Mi fa male la ferita. E la schiena. E la testa. E anche le gambe,
in
effetti, e quella strega non mi da più il latte di grano
rosso. Mi fa masticare
quelle foglioline che, oltre a non avere praticamente alcun effetto,
hanno pure
un gusto schifoso.»
Spiro si lasciò sfuggire una risata
soffocata e attirò a sé la sorella, stringendola
in un abbraccio contro il suo
petto. Dalla sua posizione privilegiata, Zeru vide la smorfia di dolore
che
attraversò il volto della fanciulla, subito rimpiazzata da
un’espressione di
placido affetto. Sentendosi forse osservata, la ragazza
sollevò lo sguardo e
incontrò di nuovo quello del soldato. Forse fu solo per
colpa della luce, ma
l’uomo ebbe l’impressione di vedere
l’ombra di un sorriso disegnarsi sulle sue
labbra.
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Capitolo 10 *** X ***
Marai chiuse gli occhi per qualche
secondo, ascoltando il battito regolare del cuore di suo fratello.
Aveva sempre
voluto bene a Spiro: quando lui era accanto a lei, la principessa si
sentiva
protetta, in pace con il mondo. In quella specifica circostanza,
però, c’era
qualcosa che disturbava, almeno in parte, la sua serenità:
il pizzicorino che
avvertiva all’altezza della nuca, infatti, le faceva capire
che il capitano la
stava osservando.
Socchiudendo appena un occhio e sbirciando
in direzione della porta, la fanciulla esaminò rapidamente
la postura rigida
dell’uomo, con le spalle spinte in avanti e il collo
leggermente incassato in
esse: era nervoso?
Sì,
è nervoso,
decise la ragazza. Se da un lato la cosa le faceva quasi piacere
– il fatto che un guerriero tanto esperto fosse a disagio a
causa sua era
semplicemente adorabile –
dall’altro
quella consapevolezza le causava qualche piccolo crampo allo stomaco:
lui non
aveva voluto sposarla, ricordò. Riuscire a fargli cambiare
idea e, di
conseguenza, farsi apprezzare da lui, sarebbe stato
tutt’altro che semplice.
Il
repentino cambio di posizione di Spiro la
costrinse a interrompere le sue riflessioni. «Non puoi
continuare a bere quella
droga» sospirò il giovane, sfiorandole la guancia
con un buffetto affettuoso.
«A lungo andare ti farebbe più male, che bene: se
Wenza non te ne da più, è
solo perché vuole che tu ti riprenda il prima
possibile.»
Naturalmente, pensò
Marai, trattenendosi a stento dall’alzare gli occhi al cielo
di fronte
all’ovvietà appena espressa da suo fratello.
«Può essere», commentò, poi,
sollevando appena una spalla, «ma forse si diverte a
guardarmi mentre mi
contorco dal dolore: quella donna ha una certa vena sadica,
credimi!»
Spiro sorrise, ma nei suoi occhi non
c’era traccia della sua solita allegria.
«Può essere» concesse. «Ma del
resto
non può permettersi di sbagliare nulla: nostro padre e
nostra madre le stanno
letteralmente con il fiato sul collo da giorni. E non solo a lei, a
dire il vero.»
Con quelle parole, il principe lanciò un’occhiata
oltre le spalle della
sorella, in direzione di Zeru.
Incuriosita e un po’ confusa, Marai si
voltò di nuovo a guardare il soldato, che abbozzò
un sorriso e distolse lo
sguardo. «Pensa», continuò Spiro,
«che nostra madre gli ha addirittura vietato
di venire a trovarti.»
Voleva
venire a trovarmi?
Le guance della fanciulla assunsero una
delicata sfumatura rosata e la sua testa si fece improvvisamente
leggera. «Ah.
Ehm» la ragazza si schiarì la voce, cercando di
obbligare la sua gola –
improvvisamente secca – a collaborare con lei. «Ah,
no. Gliel’ho chiesto io,
quello. Di aspettare un po’ prima di incontrarlo,
intendo.»
Non appena quelle parole ebbero
lasciato la sua bocca, la principessa sbiancò. Cretina! Si disse, vedendo come sul volto
di Zeru si fosse
immediatamente disegnata un’espressione allarmata. Prima che
avesse il tempo di
correggersi, il capitano fece un passo indietro e chinò
rispettosamente il capo
nella sua direzione. «Mi dispiace, Altezza: volevo solo
accertarmi delle tue
condizioni. Non era mia intenzione disturbarti: ti lascio
riposare.»
«No!» Marai avvampò,
imbarazzata per
l’esclamazione, decisamente troppo enfatica, che non era
riuscita a trattenere.
«No», ripeté, più calma,
«era solo che…»
Che
mi vergognavo a farmi vedere da te in quello stato, tutta sporca e
puzzolente? La principessa
deglutì, cercando disperatamente
una spiegazione migliore. Non avrebbe mai avuto il coraggio di dire una
cosa
tanto audace: il solo pensiero che il soldato potesse intuire il suo
interesse
nei suoi confronti la faceva morire dalla vergogna –
soprattutto se detto
interesse si fosse rivelato interamente non corrisposto.
«… era solo che ero ancora
troppo
stanca e confusa per sostenere una conversazione»
proseguì allora la fanciulla,
prima di incontrare per un secondo gli occhi dell’uomo.
«Adesso sto molto
meglio, però, e desidero ringraziarti per quello che hai
fatto.»
Marai annuì, sentendosi molto fiera
del modo in cui si era tratta d’impiccio, e poi
sgranò gli occhi quando Zeru
scoppiò in un’inaspettata risata secca.
«Aspetta a ringraziarmi, principessa»
le consigliò l’uomo, incrociando le braccia
davanti al petto.
«Eh?» Presa in contropiede, la
ragazza
si ritrasse inconsciamente contro il corpo di Spiro. Proprio mentre le
dita
della fanciulla correvano a stringersi sulla camicia del giovane, il
principe
si raddrizzò, si sciolse dall’abbraccio della
sorella e si mise in piedi.
«Eh, sì, il capitano ha le sue
idee, a
proposito di questa storia.» Per una frazione di secondo,
Marai scorse una
traccia dell’antica allegria sul viso del fratello e quel
particolare accese in
lei una scintilla di curiosità. «Non so se siano
giuste o sbagliate, ma forse
dovreste discuterne?»
Dalla sua posizione accanto alla
porta, Zeru sbuffò e rivolse a Spiro un’occhiata
quasi severa. «Credo che
spetti a tua sorella decidere. Non si è ancora ripresa del
tutto e io non
voglio farla stancare troppo.»
«Non la farai stancare troppo»
replicò
il principe. «Certe cose è meglio chiarirle
subito, non credi?»
Marai, che era rimasta momentaneamente
paralizzata dal rapido evolvere della situazione, fece per lanciarsi
sul
fratello, cercando di trattenerlo: l’improvvisa
consapevolezza che di lì a
pochi secondi sarebbe rimasta da sola con il capitano la
gettò nel panico. Una
fitta violenta all’altezza della ferita la costrinse
però a desistere,
facendola afflosciare sul materasso con un sibilo di dolore.
«Piano!» Zeru le si
avvicinò
rapidamente, mentre Spiro si limitò a lanciarle
un’occhiata per assicurarsi che
stesse bene.
«Dove vai?»
piagnucolò Marai, rimettendosi
a sedere e guardando il fratello con gli occhi sgranati.
«Ho da fare: partirò tra due
giorni e
ci sono ancora un mucchio di cose da preparare. Passerò a
trovarti stasera.»
Senza darle il tempo di replicare, Spiro lasciò la stanza,
abbandonando la
fanciulla al suo destino.
«Ma allora ci va davvero?»
chiese
Marai, con un filo di voce, fissando il punto dove un istante prima
c’era suo
fratello.
«Ci va davvero?»
ripeté Zeru
perplesso.
«A cercare la gente che ci ha
aggredito» mormorò la ragazza, mentre il cuore le
si stringeva improvvisamente
per la preoccupazione.
«Sì, principessa. Ma non
sarà solo» la
rassicurò l’uomo. «Sarà
scortato da alcuni uomini del generale Balzan: si
tratta di guerrieri scelti… tuo fratello non
correrà alcun pericolo.»
Non
correrà nessun pericolo? Si ripeté la fanciulla, in preda
all’angoscia. Noi avevamo ben
più di
qualche “uomo scelto”; e guarda
cos’è successo.
«Tu non andrai con lui?» lo
interrogò
ancora, sebbene la prospettiva di sapere in pericolo anche Zeru non la
confortasse affatto.
Quando scosse la testa, l’uomo parve
quasi imbarazzato. «No: io sono a capo della Guardia Reale e,
in questo
momento, il mio compito è quello di proteggere il re e la
regina consorte.»
E
me no?
«… e anche te,
adesso.»
Ecco,
questo è il momento. Digli che apprezzi veramente quello che
ha fatto per te.
Sii una persona adulta e responsabile. Nonostante i suoi buoni propositi,
però, la ragazza non riuscì a trovare il modo
giusto per affrontare l’argomento:
la sua testa era piena di parole e mezze frasi, ma erano tutte
sbagliate.
«Principessa…» Zeru
le si avvicinò e,
dopo un istante di indecisione, sedette accanto a lei, sulla sedia che
era
solitamente occupata da Wenza o da sua madre. «Se sono qui,
è per dirti che
sono davvero dispiaciuto da quanto è accaduto. In primo
luogo mi vergogno di
aver fallito il mio compito e di non essere stato in grado di
proteggere te e
la principessa Arina. In secondo luogo, poi, voglio che tu sappia che
sono
assolutamente mortificato dalla
decisione presa dal re tuo padre: probabilmente, se ci fossimo presi
qualche
istante in più per riflettere, avremmo trovato una soluzione
migliore.»
Marai si strinse le mani in grembo e
abbassò gli occhi sulle lenzuola stropicciate. Anche se
sapeva che il capitano
era tutt’altro che soddisfatto dallo stato delle cose,
sentirglielo ammettere
così candidamente fu un colpo più duro di quanto
avrebbe immaginato. Ma che cosa credo di
fare, io? Si
chiese, mentre il suo petto era attraversato da una fitta che non aveva
nulla a
che fare con le ferite fisiche. Sono
un’imbranata totale, in queste cose. Sono
un’imbranata totale in tutto, a dire
il vero. Perché dovrebbe trovarmi interessante? È
assolutamente impossibile che
un uomo come lui mi veda mai come qualcosa di più di una
ragazzina da
proteggere.
Eppure, nonostante ciò, Marai sentiva
di dover fare almeno un tentativo per realizzare il suo sogno. Se non
altro, si
disse, aveva il tempo dalla sua parte: in un anno potevano succedere un
sacco
di cose. Il che non significava che
l’impresa
sarebbe stata semplice, non ultimo perché la fanciulla non
aveva la benché
minima idea di quale atteggiamento tenere in presenza
dell’oggetto dei suoi
desideri: nelle sue fantasie – e oh,
ne aveva a migliaia, di fantasie sull’argomento! –
era sempre lui a cercare lei e mai viceversa.
«Non devi… non devi sentirti
in colpa»
balbettò allora, decidendo di procedere un passo alla volta
e di provare a
navigare a vista. «Io non ne capisco niente, di queste cose,
ma ho sentito che
i Nati dalla Nebbia sono selvaggi come animali e che spesso gli
accorgimenti
per proteggersi da loro sono del tutto inutili…»
«Non è proprio
così, principessa» la
corresse Zeru, con un sorriso amaro. «Sono uomini come tutti
noi, il che
dovrebbe renderli prevedibili.»
«Oh.» Marai sbatté
rapidamente le
palpebre, cercando una risposta adeguata. «E, ehm…
per quanto riguarda il resto, non
te ne faccio certo una colpa.
D’altro canto, se stavo per morire…»
«È stato Padre Tyban a
suggerirlo» la
informò Zeru, come per difendersi. «Non metto in
discussione la sua saggezza,
ma a volte è forse un po’ troppo drastico nelle
sue decisioni.»
«Sulle prime pensavo mi avessero fatto
sposare lui» gli
confidò la fanciulla,
che iniziava a sciogliersi un poco e a non essere più
così nervosa in compagnia
dell’uomo.
Zeru ridacchiò, poi scosse il capo.
«Non sarebbe cambiato molto, principessa. Anzi, per te
sarebbe forse stato
meglio così: almeno nessuno avrebbe potuto fraintendere la
situazione.»
«In che senso?»
«Nessuno metterebbe mai in dubbio la
condotta di un sant’uomo» sospirò il
capitano, spostando lo sguardo sul
caminetto spento. «Purtroppo temo che la mia reputazione non
sia altrettanto
intonsa.»
«Non ho mai sentito nulla di
sconveniente sul tuo conto» replicò Marai,
corrugando la fronte, contrariata.
«Questo è perché
sei una fanciulla per
bene.» La principessa non fu in grado di capire se
l’uomo stesse scherzando o
meno, ma, prima che avesse il tempo di indagare, il capitano
tornò a
concentrarsi su di lei. «In ogni modo»,
continuò, «voglio rassicurarti. Questo…
matrimonio è ovviamente
soltanto una
formalità. Ora che sei fortunatamente fuori pericolo, non
c’è motivo di
preoccuparsi troppo di questa faccenda: non ci resta che aspettare un
anno e
poi sarai nuovamente libera e potrai dimenticarti di questo inconveniente. Io, dal canto mio,
cercherò di non esserti di alcun fastidio.»
Quando ebbe finito il suo discorsetto,
le spalle di Zeru si rilassarono e l’uomo sospirò,
lasciandosi ricadere contro
lo schienale della sedia come se si fosse liberato di un peso. Marai lo
osservò
in silenzio per qualche istante e poi, senza rendersene conto, prese a
rosicchiarsi l’unghia di un pollice. Fai
attenzione
a quello che dici, adesso, si raccomandò, cercando
di non arrossire
sotto allo sguardo
del soldato.
«Be’»
sospirò, dopo qualche minuto.
«Quello che è fatto, è fatto. Non ti
conosco bene, ma quello che ho sentito su
di te mi fa pensare che mi sarebbero potuti capitare uomini
peggiori.»
«Indubbiamente»
concordò Zeru, con
voce piatta. «Questo però non significa che questo
matrimonio sia un bene.»
«Ma forse non è nemmeno un
male…
almeno per me» cinguettò Marai, colta da un lampo
di genio. «Mia madre vuole
trovarmi uno sposo vero:
probabilmente
sarebbe stata della stessa idea anche se non ci avessero aggredito, ma
l’imboscata
ha accelerato le cose. Io non ho proprio nessuna voglia di sposarmi,
tanto meno
con una persona che non conosco: il fatto di essere occupata per almeno un anno è un
vantaggio.»
«In che modo?» Zeru
sbatté lentamente
gli occhi, confuso.
La ragazza scrollò le spalle, mimando
una disinvoltura che non provava affatto, poi sorrise: «In un
anno avrò il
tempo di guardarmi in giro e di scartare i candidati meno
desiderabili.»
Davanti a quella spiegazione, anche il
capitano si lasciò sfuggire un sorriso. Dopo qualche
istante, però, sul suo
viso si disegnò un’espressione pensierosa.
«E, dimmi: hai già in mente qualche
candidato? Se posso chiedertelo, naturalmente.»
Contro ogni suo buon proposito, la
principessa si ritrovò ad arrossire. «No,
veramente no» confessò, tornando a
tormentare un’unghia già troppo mangiucchiata.
«Ho sempre saputo che un giorno
avrei dovuto prendere marito, naturalmente, ma… non ci ho
mai pensato
seriamente. Ho sempre cercato di… procrastinare. Credevo di
avere molto più
tempo a disposizione. Un po’ stupido, da parte mia, in
effetti.»
Marai si scostò una ciocca bionda dal
volto e guardò di sottecchi il volto del soldato.
«Hai mai sentito parlare del
cugino della principessa Arina?»
La domanda di Zeru la colse di
sorpresa e la fanciulla aggrottò la fronte. «Arad,
se non ricordo male. Arina l’ha
menzionato un paio di volte: perché me lo chiedi?»
«Lui potrebbe essere un
candidato.»
Marai si morse un labbro, studiando
una reazione adeguata. In realtà non le importava nulla di
quel ragazzo senza
volto che aveva sentito nominare un paio di volte: il suo marito ideale
era già
lì, davanti a lei.
Se
solo avessi il coraggio di confessarglielo. E se solo avessi la
certezza che
lui non scoppierebbe a ridermi in faccia!
«Oh. Oh, non so, non ho elementi per
dare un giudizio» fece allora, con voce un po’
incerta. «Ma non credo che Re
Lashkar me lo proporrà come potenziale marito: dopotutto,
è assai probabile
che, a tempo debito, Spiro sposi una sorella di Arina.»
«Sì? E chi?»
«Eyla, la quinta figlia. È
ancora
nubile» rispose prontamente la principessa, ignorando il tono
scettico dell’uomo
e decisa a sviare il discorso dal suo ipotetico
futuro marito. «Anche se a me piacerebbe tanto Nahali
Occhio-di-Giaguaro.»
Nell’udire quelle parole, Zeru
scoppiò
a ridere. «È troppo vecchia per tuo fratello. E
poi, temo davvero che abbia
altro per la testa.»
Marai si strinse nelle spalle, con
espressione vagamente sognante. «Forse. Ma sarebbe comunque
bello. Mi è sempre
piaciuta tanto, Nahali.»
«È una tua eroina?»
la interrogò il
capitano. Davanti al cenno affermativo della fanciulla,
l’uomo reclinò di
qualche grado il capo sulla spalla. «Forse di lei non sai
tutto quello che so
io, però: non sono del tutto convinto che sia quel che si dice una brava persona.»
«Non fa niente»
replicò la ragazza,
facendo il gesto di portarsi le mani alle orecchie, così da
difenderle da
rivelazioni sgradite. «Finché non la conosco,
posso fingere che lo sia.»
Malgrado il tono leggero della
conversazione, Marai si prese qualche istante per riflettere sulle
parole di
Zeru. Era già la seconda volta nel giro di pochi minuti che
l’uomo insinuava
che l’idea che lei aveva delle persone fosse, appunto, troppo
idealizzata e che non corrispondesse
alla realtà.
Se
di Nahali mi interessa relativamente poco, con lui il discorso
è diverso. Era vero che,
negli ultimi anni, Marai aveva osservato Zeru con un interesse che
rasentava l’ossessione,
ma forse le era sfuggito qualcosa di importante? Sono
una fanciulla per bene e certe cose non le posso proprio sapere,
si disse, ripetendosi le parole che il capitano le aveva rivolto poco
prima. Però credo di avere un
certo intuito, quando
si tratta di giudicare chi mi sta davanti. Tuttavia…
Tuttavia, forse, quell’anno al termine
del quale sarebbe stato possibile annullare tutto poteva avere i suoi
vantaggi.
«Capitano?»
Zeru, che si era perso in qualche
riflessione, alzò bruscamente il capo, incontrando gli occhi
della principessa.
«Stavo pensando a una cosa: visto che
dobbiamo comunque restare insieme per un anno, forse,
anziché evitarci, potremmo
cercare di conoscerci meglio?»
L’uomo parve preso in contropiede da
quella proposta e sgranò gli occhi: una reazione quasi
comica, se Marai non
avesse temuto che avrebbe rifiutato anche quel minuscolo primo passo.
«Perché?» chiese
Zeru, con voce
controllata.
«Beh, tu sei il capitano della Guardia
Reale, io la principessa: non è un po’ strano che
siamo praticamente due
estranei? Tu sei un uomo di assoluta fiducia per la Corona, ma, come mi
hai
giustamente fatto notare, io non so nulla di te – e tu non
sai nulla di me. Non
mi sembra il punto di partenza ideale per… ehm, per
costruire un rapporto… di
fiducia.»
Marai si interruppe, sentendo di aver
perso il filo del discorso. Parlare sarebbe stato indubbiamente
più semplice,
se Zeru non avesse iniziato a guardarla in quel modo, come se stesse
cercando
di leggere qualcosa scritto tra le righe. La fanciulla sentì
le proprie guance
iniziare a farsi più calde, ma poi il soldato
annuì, salvandola dall’imbarazzo
di dover riformulare quanto aveva appena detto.
«D’accordo: ha senso» concesse.
«Però con i giusti tempi e i giusti modi: non
voglio interferire con la tua
vita e, soprattutto, non voglio dare a nessuno motivo di pensare che
dietro
alla nostra unione si nasconda qualcosa di più di un
semplice espediente per
salvare la tua anima.»
Perfetto. Marai deglutì,
ingoiando l’ennesimo boccone amaro, ma poi si
sforzò di sorridere. Dopotutto era
solo un bocconcino, quello che aveva dovuto mandare giù in
quel momento.
«Naturalmente» acconsentì, giudiziosa.
I due rimasero in silenzio per qualche
minuto, mentre la tensione e l’imbarazzo tornavano a crescere
tra loro. La principessa
si ritrovò più volte a guardare di soppiatto il
suo compagno, sperando che lui
prendesse in mano le redini del discorso, ma Zeru sembrava a disagio
tanto quanto
lei.
«Ehm» iniziò il
soldato, quando il
silenzio iniziò a farsi troppo pesante.
«C’è qualcosa che vuoi fare, in
particolare? Qualcosa di cui desideri parlare?»
Marai aprì la bocca, ma poi la
richiuse subito. Erano tante, le cose che avrebbe voluto chiedergli,
tante le
curiosità alle quali avrebbe voluto dare risposta, ma, in
quel momento, la sua
mente rimase completamente e desolatamente vuota. C’è
qualcosa che voglio fare? No, non c’era niente di
particolare
che voleva fare, date le sue condizioni. Si sentiva ancora troppo
debole per
andare a passeggiare nelle stalle o per sgattaiolare in giardino e
riprendere i
suoi esperimenti e le sue osservazioni. Sapeva che quel
particolare, piccolo goblin ricoperto di una peluria ramata che, ne era
certa, stava
iniziando a interagire con lei non si sarebbe fatto vedere, se il
capitano
fosse stato nei paraggi.
Che
cosa posso fare?
Che cosa poteva fare, per non rimanere
di nuovo sola con Wenza? Improvvisamente, la ragazza fu colta da
un’idea: un’idea
che la rattristò, ma che, allo stesso tempo, le parve anche
innegabilmente giusta.
«Una cosa ci sarebbe» disse,
allora,
cercando gli occhi di Zeru. «Vorrei salutare per
un’ultima volta Arina. Prima che…
prima che venga cremata.»
Dalla sua espressione, Marai capì che
il capitano non si era aspettato una richiesta di quel tipo, ma
l’uomo annuì.
«Va bene: chiederò a Wenza di portarti degli abiti
più adatti, poi ti
accompagnerò. Dovrei chiedere il permesso a Padre Tyban,
però…»
«No!» la fanciulla si protese
verso di
lui, allarmata. «No, non devi dirlo a Wenza: non mi
lascerebbe mai uscire dalla
mia camera. Ha paura che sia ancora troppo debole – il che
è una sciocchezza,
posso ovviamente camminare per cinque minuti. E meglio non dire niente
nemmeno
a Padre Tyban: non si sa mai.»
«E allora che facciamo?» chiese
Zeru,
guardandola con gli occhi un po’ socchiusi, quasi sospettoso.
«Vieni qui dopo che avranno servito la
cena» lo istruì la ragazza, provando un brivido di
eccitazione alla prospettiva
di infrangere una piccola regola. «A quell’ora mi
lasciano sempre da sola,
quindi non si accorgeranno mai che ho lasciato la stanza.»
«Un piano geniale»
commentò l’uomo,
alzando gli occhi al cielo.
Anche se era evidente che la stava prendendo
in giro, Marai sorrise, deliziata dal luccichio divertito che lesse
negli occhi
del soldato.
«Ci vediamo dopo cena, allora?»
Zeru scosse il capo, poi sorrise,
quasi con accondiscendenza: «Ci vediamo dopo cena,
principessa.»
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