InFAMOUS: Wrong

di edoardo811
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sbagliata ***
Capitolo 2: *** Ali di carta ***
Capitolo 3: *** Colpe ***
Capitolo 4: *** Dolce notte ***



Capitolo 1
*** Sbagliata ***


Piccola precisazione:  avevo già scritto e pubblicato questa storia con il nome di "Sbagliata". Successivamente l’avevo rimossa per ragioni mie, ma ora ho deciso di ripubblicarla con il nome "Wrong", perché penso che suoni meglio, più qualche piccola modifica qua e la. Nulla di troppo drastico, giusto qualche piccolo ritocchino. Spiegazioni più dettagliate a fondo capitolo.

Nel caso siate alla vostra prima visione di questa storia, vi dico solamente che è uno spin-off di Infamous The Darkness’ Daughter (in cui la protagonista non sarà Rachel) e che pertanto sarebbe meglio leggere la storia completa per poter capire qualcosa di questa (potete tranquillamente trovarla nella omonima serie da me creata o sulla mia pagina autore).

Non voglio rubarvi altro tempo, buona lettura!





InFAMOUS:

 

 

Wrong

 

I

SBAGLIATA

 

 

 

Era stanca. Stanca di tutto quanto. Stanca fisicamente, stanca mentalmente, stanca di tutti quei ricordi che continuavano a vorticare nella sua mente senza darle nemmeno un dannato attimo di tregua.

Come faceva a continuare ancora? Come poteva, una come lei, riuscire ancora a camminare in quel luogo dimenticato da Iddio, senza fermarsi e cominciare a gridare come una pazza, piangere, oppure fare entrambe le cose in contemporanea?

Ne aveva quasi bisogno. Il suo corpo, la sua mente ormai dilaniata, la imploravano di lasciar perdere tutto quanto e accasciarsi per terra, per poi non fare più niente se non lasciarsi sopraffare da quei sentimenti che per troppo tempo aveva cercato di tenere rinchiusi dentro di lei.

Rachel aveva sempre creduto di essere una specie di mostro incontrollabile, l’unica che dentro di sé nascondeva chissà quale essere indomabile. Beh, non era così; non lo era mai stato. Anche lei aveva qualcosa di molto oscuro racchiuso dentro il proprio corpo.

Più il tempo passava, più sentiva la propria mente pulsare. Aveva sonno, aveva sete, aveva fame. E, soprattutto, aveva bisogno del suo lettore mp3 e della sua compilation degli Slipknot. Necessitava di ascoltare quelle canzoni che parlavano di pazzi psicopatici con personalità multiple. Anche perché lei si rispecchiava parecchio in quei testi.

Si appoggiò ad un muro, sfinita. Si massaggiò le tempie, mugugnando per il dolore e per la fatica. Si guardò alle spalle. La strada era deserta, come da quando aveva cominciato a percorrerla. Quel posto, la zona industriale di Sub City, le faceva schifo a dire poco. Era un tugurio pieno di ruggine, mostri di cemento abbandonati e di... beh, nient’altro.

Un quartiere gigantesco pieno zeppo di nulla. Ecco cos’era quel posto. E in un certo senso... era proprio come lei. Un guscio vuoto un tempo pieno zeppo di emozioni contrastanti, e che ora, dominato solo da rabbia, rancore e sensi di colpa, cadeva a pezzi.

I suoi pensieri non le davano pace. I ricordi, nemmeno. Ormai immobile, vinta dalla stanchezza, ed impossibilitata a combattere in tutti i sensi, si lasciò scappare un profondo sospiro e chiuse gli occhi. Era inutile resistere. Permise a tutte quelle immagini di apparire nitide di fronte a lei. Ognuna di esse fu un tormento insostenibile.

Rivide i suoi fratelli, sconvolti, che le dicevano che i loro genitori erano morti. Rivide suo zio nel letto malato. Rivide il cratere gigante nel Centro Storico. E, infine, rivide il suo fratellino. Tutto ciò che aveva avuto, perso, la sua vita caduta in frantumi e lei era sempre stata lì, in prima fila, a godersi la scena senza poter fare nulla per impedire che le cose cambiassero.

E sopra tutte queste immagini, spiccava una figura: una ragazza, con i capelli rossi come il fuoco e gli occhi verdi come smeraldi. Quella stessa persona che le aveva sconvolto la vita da cima a fondo, che le aveva sempre impedito di potersi comportare come un’adolescente qualsiasi. Con il suo sorriso, la sua presenza, il suo profumo, la sua gentilezza...

Strinse i pugni con forza, un grugnito infastidito uscì dalle sue labbra, insieme ad una lacrima che invece scese dai suoi occhi.

Sbagliata. Ecco com’era lei. La sua vita, il suo comportamento, la sua mente. Tutto era sbagliato, in lei. Era una cosa che si ripeteva in continuazione e che, ovviamente, non poteva affatto portare a nulla di concreto. Aveva perso il conto di tutti gli specchi che aveva rotto, pur di non vedere nel riflesso quel volto emaciato che aveva imparato ad odiare con ogni fibra del suo essere: perché se doveva assegnare la colpa a qualcuno per tutte le sue sventure, quel qualcuno era proprio sé stessa.

E mentre continuava a riempirsi di critiche, uno dei suoi tanti ricordi si fece largo tra le immagini, apparendole più nitido rispetto agli altri. E ormai era troppo tardi per cacciarlo via.

 

***

 

Le sue mani scivolavano avide sul suo corpo, palpando quasi con forza tutto ciò che incontravano. La sua lingua le imitava, assaporando ogni lembo di carne possibile, pur di saziare la sua fame.

Non riusciva più a fermarsi, ormai. Più ne aveva, più ne voleva. Era consumata del desiderio.

E anche la sua compagna se ne accorse. «C-Cavolo, v-vacci piano!» sussurrò, a fatica, mentre lei le carezzava l’interno coscia con voga.

«Scusa.» Non era sincera. Non lo era affatto. A lei non le importava nulla di cosa l’altra avesse pensato. Doveva placare la sua fame, in qualche modo, e non sarebbe stata la paura di fare del male a quella gallina senza cervello ad impedirle di avere ciò di cui aveva bisogno.

E senza dire altro, tornò a cercare con fervore le sue labbra.

Era stata un’altra notte di fuoco, quella. Aveva posseduto quella ragazza fino a quando, ormai sazia, non l’aveva lasciata addormentare sul suo letto. Dopodiché l’aveva guardata mentre era imprigionata tra le braccia di Morfeo, sfinita da quel lungo amplesso.

Ma mentre osservava la sua pelle liscia e pallida, i suoi seni floridi, i suoi capelli castani e lunghi e il suo viso bello e accattivante, non vedeva altro che il corpo di un’altra ragazza. E non appena rese conto di ciò, distolse lo sguardo con un grugnito frustrato, premendosi le mani sulle tempie.

E la sua compagna d’avventura, di cui nemmeno ricordava il nome, la sentì. Si svegliò, strofinandosi le palpebre, esausta, per poi mugugnare: «Che stai facendo? Non... non dormi un po’?»

«No» rispose lei, secca, per poi voltarsi e guardarla con aria glaciale. «Devi andartene da qui.»

E senza permetterle di dire altro, la fece  rivestire e uscire quasi di peso, cercando di fare il minimo rumore per non farsi beccare. Nessuno in casa sapeva che a lei piaceva il genere sbagliato, ed era intenzionata a mantenere quel segreto a costo di sacrificare anima e corpo, o comunque ciò che di essi rimaneva.

Poco prima di cacciarla sul vialetto, la ragazza castana si voltò verso di lei, guardandola quasi implorante. «Ma... credevo tu volessi...»

Non le permise nemmeno di parlare. Si congedò con bruschezza, si voltò e se ne ritornò in casa, abbandonandola la fuori con la sua frase a metà.

Risalì le scale. Probabilmente avrebbe dovuto sentirsi in colpa per averla trattata così, ma la realtà era ben diversa.

Mentre puntava verso la sua camera, una porta del corridoio si aprì all’improvviso, facendola trasalire. Sua sorella apparve sull’uscio, con indosso il suo ridicolo pigiama rosa. Che però riusciva comunque a starle bene.

La ragazza arrossì stupidamente quando ebbe quel pensiero, ringraziando il cielo per la penombra che inondava il corridoio. Tuttavia, questa non era stata sufficiente per nasconderla agli occhi della minore. Se non altro, si era messa qualche straccio addosso, prima di uscire da camera sua, e non era completamente impresentabile.

«Komi, che... che stai facendo? È tardissimo!» le disse la rossa, prima con voce impastata, e poi con più decisione, quasi con preoccupazione. Come per dirle, "se mamma e papà ti beccano, si arrabbieranno!". Era riuscita a preoccuparsi per lei anche in un momento così banale.

Lei la guardò senza sapere cosa rispondere. Aprì e chiuse le labbra come un baccalà per diversi istanti, prima di riuscire a riscuotersi. Nel modo sbagliato, ovviamente.

«Levati dai piedi» rispose, scorbutica, passandole accanto e spingendola verso la porta di camera sua, strappandole un verso sorpreso. Non si voltò più. Subito dopo era di nuovo nella sua stanza, appoggiata contro la porta, intenta a sospirare rumorosamente, una cosa che faceva da fin troppo tempo ormai.

Ma tanto sapeva benissimo che nessun muro o porta sarebbe riuscito ad impedirle di vedere l’espressione demoralizzata che sua sorella doveva aver assunto dopo la sua sgarbata reazione.

 

***

 

Amalia sospirò, riaprendo gli occhi e guardandosi le ginocchia. Aveva perso il conto di tutte le sere trascorse in quel modo, passate a cercare di dimenticare un desiderio irrealizzabile, facendolo tuttavia nel peggior modo possibile.

La sua sessualità non era mai stata un problema troppo grave per lei. Era una cosa con cui aveva imparato a crescere, all’inizio con un po’ di stupore e perplessità, in particolar modo quando, mentre tutte le altre ragazze sbavavano dietro a chissà quale fotomodello, lei si ritrovava a fare lo stesso ma osservando giornaletti dal dubbio gusto raffiguranti tutt’altra roba, ma poi con il tempo le cose si erano appianate. Ricordava ancora con una sorta di amaro divertimento i giorni in cui, da bambine, lei e sua sorella guardavano i classici film di principesse alla televisione e Stella, rannicchiata sul divano assieme alla loro madre, raccontava di come da grande avrebbe voluto incontrare un principe azzurro proprio come quello dei cartoni, mentre Amalia, sdraiata a pancia in giù sul tappeto, pensava solamente a quanto bella la principessa fosse.

Non le era mai stato troppo difficile riuscire a trovare compagnia per la notte, anche perché per le ragazze era quasi diventata una moda essere bisessuali, o quantomeno fingere di esserlo. Sì, perché nemmeno un quarto delle ragazze con cui era stata erano davvero convinte di ciò che stavano facendo, ma a lei non era mai importato un accidente.

Se quelle erano pronte a fingersi una persona che non erano per poter attirare più attenzioni, allora era peggio per loro. Lei non era così.

Da un lato non aveva mai avuto paura di ammetterlo, lei era lesbica. E preferiva che le cose andassero in quel modo, piuttosto che cambiare orientamento sessuale in base a come tirava il vento come molti suoi coetanei facevano, il tutto, ovviamente, sempre e solo con l’unico fine di essere più popolari.

Ma poi la sua sessualità aveva voluto giocarle un brutto scherzo. Ed era stato allora che aveva imparato ad odiarsi e a combinare un disastro dietro l’altro. Si era allontanata sempre di più dalla retta via, dalla propria famiglia, da quei pochi amici che era riuscita a farsi, aveva gettato tutto nel cesso. Da allora aveva capito di essere sbagliata.

E poi era successo tutto il resto. La morte dei suoi genitori, l’esplosione, la morte di Kori, quella di Ryan. Tutto quanto era caduto a pezzi, mentre lei, invece, come se si trovasse nell’occhio di chissà quale sadico e cinico ciclone, era rimasta illesa.

Ryan avrebbe potuto trovarsi al suo posto, Kori avrebbe potuto, i suoi genitori avrebbero potuto, invece era toccato a lei. Lei, quella che meno di tutti se lo sarebbe meritato, era ancora viva. Dopo aver tradito la fiducia delle persone che le volevano bene, dopo aver causato loro sofferenza, dispiacere, problemi su problemi, era ancora lì, a rimpiangere tutto ciò che aveva perso e che mai aveva imparato ad apprezzare come avrebbe davvero dovuto.

Si sentiva sull’orlo di un baratro, combattuta tra la paura di saltare e il desiderio di mettere fine a tutto quanto e farlo. Era questione di un attimo, bastavano una pistola ed un proiettile, e lei li aveva entrambi proprio nella sua tasca. In questo modo avrebbe potuto finalmente rimettere ogni cosa al proprio posto, tutto avrebbe ritrovato il proprio equilibrio. Ma allo stesso tempo sapeva, in cuor suo, che quella non era davvero la soluzione.

Kori non lo avrebbe fatto, tantomeno Ryan. Per quanto docili, per certi aspetti loro due erano molto più agguerriti di lei.

Fare ciò sarebbe stato l’ennesimo gesto che dimostrava che a lei, della sua famiglia, non le era mai importato nulla, che preferiva scegliere la via facile piuttosto che quella difficile. E per quanto la via facile la tentasse, era a conoscenza del fatto che non era arrivata fino a lì per nulla. Se era sopravvissuta, se era toccato a lei doversi sorbire la propria vita mentre veniva distrutta di fronte ai suoi occhi, era perché c’era ancora qualcosa ad attenderla. Positivo o negativo che fosse, toccava a lei scoprire cosa fosse questo qualcosa. A lei e lei soltanto. Ed era proprio per questo che si era staccata dal suo gruppo di compagni di viaggio.

Anche se, sotto certi aspetti, aveva rimpianto quella decisione.

«Ma guarda cosa abbiamo qui!» esclamò una voce all’improvviso, facendola trasalire.

Sollevò gli occhi di scatto, per poi trovarsi di fronte un pick-up fermo, con quattro ragazzi radunati attorno ad esso, ognuno di loro con lo sguardo incollato su di lei. Anzi, più che dei ragazzi, sembravano dei fenomeni da circo.

Uno di loro era un nano, nel vero senso della parola, con i capelli rasati. Un altro, invece, era alto almeno due metri e aveva dei capelli ed una barba di un colore arancione carota quasi fastidioso alla vista. Gli altri due, un ragazzo afroamericano e un altro pallido con un cappello rosso, invece sembravano quasi normali.

«Ti hanno mai detto che sei proprio uno schianto?» disse il nano, sorridendole, mostrandole i suoi bei denti ingialliti. «Che ne diresti di venire a farti un giretto insieme a noi?»

Amalia si rialzò lentamente in piedi, digrignando i denti. Era stata così immersa nei propri pensieri che non si era nemmeno accorta dell’arrivo di quei tizi. E, forse, fermarsi sul ciglio della strada in quel modo non era stata proprio una grande idea. «Preferirei di no» rispose, sulla difensiva.

«Oh, andiamo! È perché sono basso? Credimi, posso compensare molto bene questo mio piccolo difetto...» insistette il piccoletto, ammiccando.

«Ok, forse non mi sono spiegata bene...» ribatté lei, con tono calmo, mentre si piantava le unghie nei palmi. «... levatevi dai piedi. Immediatamente!»

«Accidenti, sei una che si scalda facilmente!» sghignazzò ancora il nuovo arrivato, mentre i suoi compari sorridevano in maniera inquietante alla mora. «Dimmi... che cosa faresti se invece restassimo qui?»

Nello stesso momento in cui parlò, il resto del gruppo cominciò ad estrarre qualche arma. Komand’r li osservò; due coltelli e un piede di porco. Il capo, invece, era disarmato. Intuì comunque che non l’avrebbero lasciata andare tanto facilmente. Non che la cosa la preoccupasse, d’altronde aveva tappato la bocca a persone molto più minacciose di quel manipolo di clown.

Si sfilò il borsone, per poi sgranchirsi il collo. «D’accordo, ho capito. Chi vuole essere il primo? O preferite fare tutti insieme?»

«Se facessimo tutti insieme dopo non riusciresti più a camminare» si intromise il colosso, incrociando le braccia.

«Credimi. Io sono una tosta» ribatté lei, sorridendo glaciale. «Posso tenervi a bada tutti quanti in contemporanea.»

«Sentito gente? Questa sì che è un’esperta!» tornò all’attacco il nano. Il gruppo di ragazzi cominciò a ridacchiare, mentre tutti loro si avvicinavano a lei. «Scommetto che ha una bocca fantastica.»

«A tua madre è piaciuta molto.»

Il ragazzo sgranò gli occhi, mentre i suoi compagni cambiavano bersaglio e si facevano beffe di lui. «Che avete da ridere, idioti?!» protestò quello, zittendoli, per poi indicare la ragazza. «Prendete subito quella putta...»

Komand’r estrasse una pistola dal retro dei pantaloni un attimo prima che potesse finire la frase. «Voi non fate proprio un cazzo, invece.»

Il ragazzo ammutolì di colpo, per poi sollevare le mani. Sorrise incerto. «E-Ehi, coraggio, calmati. Stavamo solo scherzando.»

«Avete scelto un pessimo momento per scherzare con me.» Amalia abbassò il cane, ringhiando di rabbia. «Vi do tre secondi per sparire. Dopodiché, non mi assumerò la responsabilità delle mie azioni.»

«D’accordo, d’accordo, rilassati. Ce ne andiamo.» Il ragazzo cominciò ad indietreggiare, imitato dai suoi compagni.

Ma non appena sembrò che stessero davvero per andarsene, quello sorrise meschino, dopodiché fece un cenno all’afroamericano. Costui non ebbe bisogno di ulteriori chiacchiere: abbassò una mano di colpo, per poi puntarla verso di Komand’r.

Un istante prima che lei potesse fare qualsiasi cosa, un raggio di luce rosso sfavillante uscì dal suo palmo, dirigendosi verso di lei. La ragazza urlò per la sorpresa e si gettò a terra per schivare il colpo. Rotolò sul suolo e si alzò in piedi serrando la mascella, poi risollevò la pistola. Nello stesso momento, il colosso barbuto urlò e cominciò a correrle incontro, mentre i suoi compagni correvano ai ripari dietro al pick-up.

Amalia fece fuoco, ma i proiettili si conficcarono nel torace del bestione, perforandolo solo superficialmente e senza causare danni ingenti. Colta di sorpresa, Komi venne raggiunta e afferrata per il collo. Sgranò gli occhi e la pistola le cadde di mano, mentre il bestione la sollevava come una bambola di pezza, per poi stringere la presa attorno alla sua gola.

La ragazza emise un verso strozzato per via del dolore, ma non si sarebbe arresa così facilmente. Mentre con una mano cercava di allentare la presa, con l’altra si frugò in una delle tasche del cappotto, per poi tirare fuori il coltello a serramanico. Gridò e lo sollevò, per poi conficcarlo più e più volte nel polso del suo assalitore. All’inizio le parve di conficcarlo in un blocco di legno, ma poco per volta riuscì a scalfire la pelle e a penetrare più a fondo, fino ad arrivare a ferirlo.

Il rosso grugnì per il dolore e mollò la presa, facendola cadere, per poi afferrarsi il polso insanguinato. Amalia tossì, rotolò di lato e si rimise subito in piedi, per poi cominciare a correre; non poteva affrontare quei tizi da sola. Era evidente che il colosso e l’afroamericano erano dei conduit, e molto probabilmente lo erano anche gli altri due. Non aveva speranze, non senza armi. Si maledisse per aver perso la pistola e anche il borsone in cui aveva nascosto il fucile.

Alle sue spalle sentì gli schiamazzi del nano, il quale probabilmente stava incitando la sua truppa ad inseguirla. Lei svoltò al primo angolo e si infilò in un vicolo tra una recinzione di ferro, oltre la quale si trovavano delle grosse strutture cilindriche, ed una fabbrica. In lontananza riuscì ancora ad udire il pick-up di quei quattro accendersi e partire facendo fischiare le gomme. Si voltò e vide la macchina svoltare, per poi inseguirla.

«Cazzo» ansimò, per poi accelerare.

Il veicolo si avvicinava sempre di più e il colosso, in piedi sul vano di carico, la osservava furibondo. Intuendo di essere nei guai, Amalia si gettò contro la recinzione e la scavalcò, per poi saltare dall’altro lato.

Corse a perdifiato in mezzo a quel labirinto di cisterne, passerelle sopraelevate e scalette, mentre, dietro di lei, la recinzione saltava in aria e il pick-up continuava ad inseguirla.

Lasciatemi in pace, bastardi!

Komand’r zigzagò tra le grosse cisterne, e poco per volta udì il rumore del motore della macchina dei suoi inseguitori affievolirsi. Infine, si fermò per riprendere fiato. Si appoggiò contro la superficie metallica di uno di quei cilindri ed inspirò ed espirò profondamente.

«Ma tu guarda se dovevano proprio capitarmi dei conduit...» mugugnò, per poi lasciarsi cadere seduta a terra. «E oltretutto sono disarmat...»

Il rumore di quel maledetto pick-up tornò a farsi sentire all’improvviso. La ragazza si irrigidì come un palo, mentre dall’altro lato della cisterna poteva perfettamente udire la macchina di quei conduit passare, per poi fermarsi di colpo.

Amalia trattenne il fiato. Dubitava che l’avessero trovata, pertanto non doveva assolutamente farsi notare.

Udì il motore spegnersi e le portiere aprirsi, per poi richiudersi con forza. Erano scesi.

«Non può essere lontana.» Questo era il nano che parlava. «Da qui andiamo a piedi, così saremo più silenziosi. Setacciate questo posto e trovatela. Billy, tu resta qui a fare la guardia. Non sia mai che quella puttana ci rubi la macchina.»

«Sì capo.»

Rumore di passi. Amalia si appiattì più che poté contro la cisterna, perle di sudore freddo le scivolavano lungo la fronte. Vide un’ombra apparire alla sua destra e si spostò di lato, sempre strisciando contro la superficie ferrosa, in modo da fare meno rumore possibile. Il conduit afroamericano apparve all’improvviso nel suo campo visivo, facendola irrigidire ulteriormente. Quello camminò per un breve tratto, mentre lei continuava a spostarsi silenziosamente, aggirando la struttura cilindrica, dopodiché lui si guardò attorno di scatto, facendo un verso diffidente.

Amalia si morse la lingua e si fermò di botto. Il ragazzo puntò gli occhi verso la sua direzione. Nonostante si fosse nascosta in tempo, la ragazza pensò di essere ugualmente fottuta. Così non fu. Dopo qualche altro istante, l’afroamericano scosse la testa e continuò a camminare. Komi attese almeno sessanta secondi prima di respirare di nuovo. Quel tizio non l’aveva notata, per fortuna non sembrava molto scaltro. Beh, nessuno di loro doveva essere molto scaltro, per lasciarsi comandare da un nanetto con manie di protagonismo.

Non notando altre presenze, con il cuore che pompava nel petto all’impazzata, decise di uscire lentamente dal suo nascondiglio. Arrivò al bordo della cisterna, poi si sporse. Di fronte a lei vide il pick-up di quei quattro parcheggiato in mezzo ad altre cisterne, più il ragazzo con il berretto a fare il palo.

Komand’r strinse con forza la presa attorno al coltello. Poteva scappare, tuttavia... quella macchina la tentava e non poco. E quel tizio, Billy, sembrava essere l’unico nei paraggi. E tra tutti e quattro, forse era quello da temere di meno. La ragazza annuì a sé stessa, mentre un sorrisetto si dipingeva sul suo volto. Quei tizi avrebbero presto capito con chi avevano a che fare.

Si mosse di soppiatto, passando da cisterna a cisterna ogni volta che Billy non guardava verso la sua direzione. Lentamente, molto lentamente, si avvicinò al pick-up, fino a quando non si trovò esattamente dall’altro lato della cisterna di fronte alla quale esso di trovava. Strisciò contro la superficie, accovacciata. Uscì dal nascondiglio ed andò a posizionarsi dietro il vano di carico della macchina. Billy, appoggiato contro la portiera, sbadigliò.

Era il momento giusto. Komand’r si frugò tra le tasche e trovò un caricatore della sua pistola. Lo aprì ed estrasse un proiettile, dopodiché se lo rinfilò in tasca. Strinse tra le mani la cartuccia color bronzo, poi la gettò contro la cisterna accanto a Billy, producendo un rumore metallico. Quello trasalì e si guardò attorno, sorpreso. Si avvicinò al luogo di origine del tintinnio per controllarne la provenienza, e le diede le spalle.

Sei mio!

Amalia girò attorno al pick-up e si avvicinò a lui, dopodiché si alzò in piedi e lo assalì, afferrandolo da dietro. Billy si accorse di lei e cercò di gridare, ma lei fu più rapida e gli tappò la bocca con una mano. E senza dargli ulteriore tempo, sollevò il coltello e glielo piantò nel collo, facendogli emettere un altro gridò, questa volta di dolore.

«Pessima idea fare il palo!» sussurrò lei, rigirando il coltello nella sua carne, facendogli emettere urla sempre più forti, tuttavia offuscate dal palmo della mano della ragazza.

Billy cercò di dimenarsi e di liberarsi, ma nel giro di poco tempo cessò di lottare e chinò il capo in avanti. «Sogni d’oro, bastardo.» Amalia lo lasciò cadere pesantemente a terra, poi si avvicinò alla macchina per esaminarla meglio. Dentro il vano di carico, non poté non notare proprio il suo borsone. Si illuminò non appena lo vide. C’era praticamente un pezzo di lei stessa, lì dentro... beh, non proprio, ma c’era il suo fucile, ed era quello l’importante.

Si avvicinò al retro della macchina per prendere ciò che era suo, ma un sibilo la costrinse a voltarsi di scatto. Vide una luce rossa accecante, e subito dopo si ritrovò a terra a gridare di dolore a causa di un terribile bruciore al fianco. Sentì perfino odore di vestiti e carne bruciata.

«Porca troia, Billy!» Il conduit afroamericano arrivò di corsa, per poi chinarsi sul socio, il quale giaceva immobile in una pozza di sangue. Lo osservò per un breve momento, poi drizzò gli occhi su di lei. «L’hai ucciso! Cazzo, lo hai ucciso, psicopatica che non sei altro!»

Komand’r grugnì di dolore e cercò di strisciare verso il suo coltello, che le era caduto quando era ruzzolata a terra, ma un calcio sul fianco ferito la fece desistere all’istante.

«E sta ferma, pazza schizzata!»

Amalia gemette, portandosi una mano sul fianco ferito. Lo sentiva andare a fuoco, letteralmente. Era come se l’avessero ustionata con la fiamma ossidrica. Ancora una volta si vide costretta a riempirsi di maledizioni: si era fatta beccare come una stupida.

«Che sta succedendo qui?!» Un’altra voce, questa volta del nano. Sia il capo della banda che il gigante erano tornati, probabilmente attirati dalle esclamazioni dell’afroamericano.

«Questa stronza ha ucciso Billy! Gli ha tagliato la gola, cazzo!»

I due nuovi arrivati osservarono basiti il loro collega immobile al suolo, dopodiché il colosso ringhiò di rabbia e si avvicinò a lei. «Adesso me la paghi!» La afferrò per i capelli e cominciò a tirare con forza, facendola gridare e costringendola a mettersi in ginocchio.

«Volevamo solo divertirci un po’ con te, ma adesso la faccenda è personale!» Il rosso la tirò in piedi, continuando a farla urlare per il dolore alla testa. Ma non appena fu completamente eretta, serrò la mascella e sferrò un poderoso calcio al suo interno coscia. Quello urlò in maniera disumana, con voce più alta di un’ottava, e si portò entrambe le mani sul luogo martoriato. Amalia cadde di nuovo a terra, poi afferrò il coltello.

«Mammoth!» gridò l’afroamericano, mentre il colosso cadeva a terra, per poi digrignare i denti. «Ora basta, mi hai...»

Amalia non gli concesse il lusso di terminare la frase. Raccolto il coltello, glielo lanciò con tutta la forza che ancora aveva, colpendolo ad una spalla. Il ragazzo gridò di dolore e cadde a sua volta in ginocchio. Komi boccheggiò, poi si rimise di nuovo in piedi. Di fronte a lei, solamente il nanetto. Digrignò i denti non appena lo notò. Quello intuì il pericolo, perché prima osservò i suoi amici, probabilmente in cerca di aiuto, e poi, realizzando che loro non l’avrebbero salvato, indietreggiò. «As-Aspetta!»

Lei lo ignorò. Urlò a perdifiato, poi gli corse incontro. Il piccoletto sbraitò a sua volta, ma per lui ormai era tardi; la ragazza gli fece assaggiare la suola del proprio stivale dalla punta rinforzata, scaraventandolo a terra e calpestandogli, letteralmente, il volto, lasciandolo a terra tramortito. Dopodiché corse. Non si voltò, non fece nient’altro, non pensò a nient’altro. Doveva scappare, e al più presto. Mandò al diavolo la macchina, la borsa, il coltello; l’unica cosa che contava era fuggire.

Il dolore al fianco non le dava tregua. Teneva una mano premuta su di esso per cercare di alleviarlo, ma tra il cappotto e la canottiera strappati non sentiva altro che bruciore e sangue.

Questa volta si assicurò di allontanarsi a dovere da quel luogo. Le gambe le imploravano pietà, lo stesso valeva per il fianco, ma lei non aveva intenzione di fermarsi. Se si fosse fermata e quelli l’avrebbero trovata, l’avrebbe pagata molto cara. Non aveva fatto semplicemente un casino, poco prima. No, assolutamente no. Quello che aveva fatto rientrava a pieni voti nella categoria delle puttanate. E solamente poche volte aveva compiuto gesta degne di quel nome.

Le cisterne si trovarono ad un quartiere di distanza da lei. Poi a due, poi a tre, quattro, cinque.  Andò avanti fino a quando le gambe non cedettero, letteralmente. Ruzzolò a terra, graffiandosi i palmi delle mani sull’asfalto, gemendo di dolore. Rimase immobile, sdraiata sulla strada per qualche istante, a cercare di riprendere fiato e a lasciare che il cuore smettesse di battere all’impazzata, prima di farselo esplodere nel petto.

Continuò a boccheggiare per quelle che le parvero eternità, fino a quando un rumore che ormai conosceva troppo bene le fece sgranare gli occhi. Sollevò il capo e si voltò, per poi scorgere in lontananza una macchina avvicinarsi. Non le fu intuire di quale macchina si trattasse.

Merda!

Si rimise in ginocchio di scatto, ma quel movimento così repentino le causo una lancinante fitta di dolore al fianco, che la costrinse a cadere di nuovo a terra. «No... devo... farcela...» Cominciò a strisciare, letteralmente. Ogni millimetro mosso era un’atroce sofferenza, ma non poteva fermarsi. Se quelli l’avrebbero trovata lì, ridotta in quello stato, sarebbe stata spacciata.

Puntò ad un vicolo proprio accanto a lei, che si affacciava sulla strada. Tuttavia, più si avvicinava ad esso, più le pareva lontano, più le pareva difficile continuare muoversi. Perfino respirare cominciò a causarle dolore al fianco. Si sentiva come se ce lo avesse arpionato al terreno, e ad ogni suo movimento il gancio che la teneva immobilizzata le azzannava la pelle, costringendola a fermarsi.

La macchina era sempre più vicina. Ormai incapace di muoversi ulteriormente, tese una mano verso il vicolo, poi si accasciò a terra. Il dolore continuava a divorarla, non sentiva più le gambe e anche la testa le faceva un male cane. Le palpebre si appesantivano sempre di più al passare dei secondi. Infine, il veicolo si fermò accanto a lei, e qualcuno scese. Amalia gemette e si voltò verso di esso, ma a causa della vista affaticata non riuscì a distinguere nulla di nitido. Riuscì a malapena a scorgere una figura che si avvicinava a lei, per poi inginocchiarsi.

Qualche strano rumore giunse alle sue orecchie, probabilmente erano delle parole, ma non riuscì a disgiungere nessuna di esse.

L’ultima cosa che ricordò, prima di arrendersi al suo destino, fu quell’individuo oscuro accovacciato su di lei.






Sì, l’ho ripubblicata. Sì, ho cambiato il titolo. Sì, sono un cretino. Sì, la finirò questa volta. No, non mi aspetto che accettiate le mie scuse, perché sono un cretino. Ma, ehi, la storia è di nuovo qui quindi urrà! È il pensiero che conta, giusto? Giusto. Ci sarà qualche piccola modifica qua e là ma probabilmente nemmeno ve ne accorgerete, visto che, comunque, la trama è la stessa della scorsa volta e i fatti che accadono sono i medesimi.

Bene, per chi stia leggendo questa storia per la prima volta, invece, sì, la protagonista non è più Rachel, bensì Amalia, in quanto anche lei è stata un personaggio molto particolare e che mi è piaciuto, moltissimo, realizzare, quindi ho colto l’occasione della sua fuga come palla al balzo per dedicarle una storiellina tutta sua, in cui la sua, molto difficile, personalità possa risaltare al meglio. Come avrete già potuto notare, il suo punto di vista è leggermente diverso da quello di Rachel. Spero che vi piaccia, dai, io l’ho trovata un’idea carina la prima volta che la scrissi... poi l’ho cancellata, ma questo è un altro discorso. Come ho già detto, adesso è di nuovo qui, quindi urrà! Giusto? Giusto.

 

Bye bye!

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Capitolo 2
*** Ali di carta ***



II

ALI DI CARTA

 

 

«Per caso... avete dieci dollari da prestarmi?» domandò Kori, quasi intimorita, ai suoi fratelli mentre cenavano nella spoglia cucina del loro zio di Empire.

Komand’r non le rispose nemmeno, si limitò a continuare a rimestare svogliatamente la zuppa nel suo piatto. Era felice che la sorella fosse tornata a casa dal collegio per il weekend, a trovarli? Certo che lo era. Lo dava a vedere? Assolutamente no.

«Io dovrei averceli» rispose Ryan, nel frattempo, disponibile.

Amalia soffocò un sorrisetto. No, lui non ce li aveva. Non dopo che lei era passata in camera sua, una sera, prima di uscire. Il suo caro fratellino avrebbe fatto meglio ad imparare a nascondere meglio le sue cose.

«Perché ti servono?»

«Per comprare il biglietto del museo. Domani abbiamo una gita laggiù. A chi paga la retta la scuola li ha già dati, però... ho perso il mio...»

Ryan sospirò pesantemente, per poi scuotere la testa. «Ti pareva...»

«Per favore, Ryan! La scuola non effettua rimborsi, ma sono solo venti dollari, e dieci ce li ho già! Ti prometto che te li restituisco!»

«Ma devi andare per forza? Insomma... è solo un museo, cos’ha di così entusiasmante?»

Kori si strinse nelle spalle. «Beh, nulla a dire il vero, però... verrà anche Richard, e mi piacerebbe passare un po’ di tempo con lui anche fuori dalla scuola...»

«Adesso capisco tutto...» Il ragazzino sghignazzò. «Vuoi un po’ di intimità con il tuo fidanzatino...»

Stella arrossì violentemente e distolse lo sguardo da lui. «Dai, smettila...» mormorò appena, facendo ridacchiare il fratello.

Dall’altro lato del tavolo, Amalia strinse con forza il cucchiaio, fino a farsi male alla mano. Richard. Da qualche mese a quella parte non si sentiva parlare d’altro, in quella casa. Anche perché le uniche volte in cui si parlava era quando tornava Kori, circa una volta a settimana. 

«Te li do dopo cena, ok? Ma vedi di non esagerare con Richard...»

«Ryan!»

Il rosso ridacchiò di nuovo. Amalia, intanto, si rabbuiò ulteriormente. Sentì una profonda rabbia montarle dentro. Ma che aveva di così speciale quel Richard? Lei non lo conosceva, nemmeno lo aveva mai visto, ma era pronta a scommettere tutto quello che aveva che era solo l’ennesimo bamboccio che si era lasciato incantare da Kori.

Qual è il problema, Amalia? Sei gelosa?

Komand’r si alzò di scatto dalla sedia, sopprimendo un urlo, portandosi una mano sulla tempia. Nel farlo urtò con le ginocchia il tavolo, facendo tintinnare posate e bicchieri.

«Komi, tutto bene?» domandò Kori, con tono sorpreso, guardandola quasi preoccupata. Un’espressione molto differente da quella che aveva invece Ryan.

Amalia distolse lo sguardo dalla sorella, imbarazzata. «Sto bene. Vado in bagno.» E senza dire altro si diresse verso il corridoio, cercando in tutti i modi di ignorare lo sguardo di Stella.

Seduta sul gabinetto, la mora si torturò i capelli con le mani. «Ma perché?! Perché questa storia non vuole finire?!» sussurrò a denti stretti, per poi grugnire infastidita.

Per quanto ancora sarebbe dovuta andare avanti in quel modo? Perché non riusciva a togliersi dalla testa quel maledetto problema che aveva? Quante altre ragazze avrebbe dovuto portarsi a letto per cancellarsi dalla mente quella trappola dai capelli rossi?

Se qualcuno avesse scoperto che cosa nascondeva dentro di lei... rabbrividì al solo pensiero. Riusciva perfettamente ad immaginare la reazione dei suoi genitori. Sicuramente l’avrebbero cacciata di casa, gridandole che lei era solamente stata un errore. E mentre le indicavano la porta, lei avrebbe visto la delusione e il risentimento che nutrivano nei suoi confronti nei loro occhi.

Come biasimarli.

Quando erano ancora vivi lei non aveva fatto altro che causare loro problemi. Problemi su problemi. Scoprire la sua deviazione mentale probabilmente sarebbe stata la batosta decisiva, per loro.

Komand’r si abbracciò le spalle e singhiozzò contro il proprio volere. Era troppo chiedere una vita normale? Perché quando si trattava di lei tutto doveva essere così incasinato? Che cosa aveva di diverso rispetto a tutte le ragazze della sua età? 

Amalia si prese il volto tra le mani, per poi scuotere con forza la testa. «Cazzo...»

Qualcuno bussò alla porta, facendola trasalire. «Komi, sei ancora dentro?» domandò la voce squillante di Kori dall’esterno.

«S-Sì, un attimo...» biascicò Amalia, per poi alzarsi. Chissà quanto tempo era rimasta dentro il bagno. E la cosa migliore era che nemmeno lo aveva usato per davvero. Si avviò verso la porta e la spalancò, per poi ritrovarsi di fronte il volto sorridente di sua sorella.

«Tutto bene?» le domandò.

Komi distolse subito lo sguardo da lei. «Certo, perché non dovrebbe?» chiese a sua volta, con tono molto più brusco di quello che avrebbe voluto utilizzare.

Stella si strinse nelle spalle, mentre il suo sorriso vacillava. «Non saprei... volevo... volevo solo...»

«Sto bene.» Amalia uscì dal bagno con prepotenza, costringendo Kori a spostarsi, dopodiché tirò dritto verso camera sua, senza nemmeno voltarsi.

La sentì sospirare profondamente, abbattuta, e di conseguenza percepì una forte fitta di dolore allo stomaco. Odiava fare così, odiava trattarla in quel modo, ma non poteva farci nulla; o quello, o cedere ai sentimenti. E per quanto stronza potesse apparire agli occhi degli altri, tutto era preferibile a come avrebbero reagito se avessero scoperto cosa teneva nascosto dentro di lei.

Raggiunse la sua camera e si chiuse la porta alle spalle, per poi abbandonarsi contro di essa inspirando profondamente, esausta. I poster delle sue band metal preferite appesi al muro sopra il letto le infusero un po’ di coraggio. Pensò che probabilmente sarebbe rimasta in camera a spararsi musica ad alto volume nelle orecchie per il resto della sera, ma mentre adocchiava la propria scrivania per vedere dove aveva lasciato l’mp3, notò il suo portafoglio posato vicino al vecchio computer fisso. Si morse il labbro, mentre sentiva il proprio stomaco annodarsi nuovamente.

Kori aveva chiesto dieci dollari, ma Ryan non poteva darglieli, perché quei soldi se li era presi lei, ed ora erano lì, proprio in quel portafoglio. Non le bastava solo essere scortese con sua sorella, ora doveva perfino impedirle di poter andare in quel museo ed essere felice per un paio d’ore con quel ragazzo. Come se lei potesse davvero impedire di frequentare chi voleva, con o senza gita al museo. Una volta finito con Richard, ne sarebbe arrivato un altro. E poi un altro. E poi un altro ancora.

Era così, Kori. Era sempre stata così. Era una calamita per ragazzi, e probabilmente anche per ragazze. E lei avrebbe dovuto imparare a conviverci, o non sarebbe più riuscita ad andare avanti.

Sospirò profondamente ed afferrò il portafoglio, per poi uscire dalla sua stanza. Sentì le voci dei suoi fratelli provenire ancora dalla cucina, quindi dedusse che Ryan ancora non le aveva dato niente. Con passo leggero si diresse verso la camera di suo fratello, per poi sgattaiolarci dentro. Prese i soldi che aveva fregato al minore giorni prima, tra cui anche i dieci dollari che tanto servivano a Kori, e li rimise dove li aveva trovati, nel portafoglio nascosto sotto al cuscino. Poi, silenziosa com’era entrata, uscì e ritornò a barricarsi in camera sua, rasserenata dal fatto che, forse, per una volta nella sua patetica vita era riuscita a fare qualcosa di buono per sua sorella.

Sperò, un giorno, di trovare il coraggio per potersi riappacificare con lei. Di sicuro, avrebbe provato a comportarsi in maniera migliore. Era sua sorella, la sua famiglia, e lei, anche se tendeva a nasconderlo, le voleva bene. Forse anche troppo, ma non era quello il punto. Avevano sofferto troppo, in passato, era stupido ed inutile continuare a vivere in quel modo. Sicuramente non sarebbe cambiata da un giorno all’altro, ma si ripromise a sé stessa che ci avrebbe provato. Lo avrebbe fatto per Kori, per Ryan e anche per sé stessa.

Un piccolo sorriso si accese sul suo volto. Sì, sarebbe cambiata. Per un futuro migliore, per poter essere, un giorno, davvero felice assieme alle persone che amava con tutto il cuore, ma che spesso faticava a dimostrare.

Si avvicinò alla finestra e guardò fuori. Il triste paesaggio del Dedalo si estendeva di fronte a lei per chilometri e chilometri, ma quella vista non la turbò. D’altronde, il peggio ormai era passato. Erano in una nuova città, in buona salute, Kori andava al college, Ryan aveva trovato un lavoro e anche lei dava il suo contributo, di tanto in tanto. Per quanto barcollante fosse la loro situazione, se la cavavano abbastanza bene.

Per una volta, pensare ad un futuro migliore non le parve più un’assurdità colossale.

 

***

 

Komand’r riaprì gli occhi di scatto. Una parete bianca e sporca come la neve accatastata sul bordo della strada apparve di fronte a lei. Si sollevò lentamente a sedere, rendendosi conto di trovarsi sotto alle lenzuola di un letto. Mugugnò, portandosi una mano sulla tempia, poi si guardò attorno. Un armadio di legno ed una finestra da cui filtrava la luce del giorno decoravano la stanza. Nient’altro.

Dove sono?

L’ultima cosa che ricordava era la strada di periferia sulla quale si era accasciata, più una figura oscura accovacciata su di lei. Che collegamento c’era tra quello e la camera da letto in cui si trovava? Quei tizi che la stavano inseguendo non l’avevano uccisa? O forse l’avevano catturata e portata in quel luogo come loro prigioniera?

Si accorse ben presto che il dolore al fianco si era affievolito. Si sollevò la maglietta strappata e con sua enorme sorpresa trovò la parte di corpo dapprima ferita ora fasciata con delle garze bianche e pulite. Inarcò un sopracciglio. Decisamente, a prelevarla dalla strada e a portarla lì non erano stati i suoi inseguitori. Ma allora chi?

Scese lentamente dal letto, intenta a scoprirlo. Si sforzò con tutta sé stessa a non pensare al suo sogno, se così poteva chiamarlo. Doveva solo concentrarsi sulla situazione attuale e non lasciarsi tormentare dai fantasmi del passato per almeno cinque minuti, tempo di capire che cosa fosse successo, e dopo avrebbe potuto benissimo ricominciare a compiangersi per come aveva pensato che tutto potesse andare per il meglio proprio il giorno prima dell’esplosione di Empire City.

Il giorno in cui Kori era morta. Il giorno in cui tutto era di nuovo finito dritto nel cesso.

Amalia strinse i pugni e serrò la mascella. No, non doveva cedere a quei pensieri. Non in quel momento. Afferrò il giaccone nero che era rimasto sul fondo del materasso, poi aprì la porta della camera da letto ed uscì, ritrovandosi in un piccolo corridoio buio che conduceva solamente a tre porte, di cui solamente una con un po’ di luce che filtrava tra i vetri. Decise di seguire il corridoio ed andare proprio verso di questa, con passo felpato, per non allarmare chiunque l’avesse portata fino a lì. Anche se le avevano fasciato la ferita, non poteva fidarsi al cento percento. Era vulnerabile, e anche disarmata.

Appoggiò la mano alla maniglia e la abbassò lentamente. Non appena il primo spiraglio di luce comparve dalla porta, un odore molto più gradevole ai quali si era tristemente abituata invase le sue narici, accompagnato da un canticchiare sommesso, ma comunque melodioso, di una voce femminile.

La ragazza sollevò un sopracciglio, poi decise di aprire la porta con un unico, secco gesto. Il canticchiare cessò immediatamente, nel momento in cui la mora fece la sua comparsa in quella stanza e la donna di fronte a lei, dapprima girata di spalle e china su un fornello elettrico, si voltò per guardarla. Dopo un attimo di stupore iniziale, questa sorrise. «Oh, sei sveglia. Entra pure, stavo preparando qualcosa da mangiare.» Sollevò il cucchiaio di legno che aveva in mano come a conferma di questa affermazione, anche se l’odore di uova strapazzate e carne era una prova più che convincente.

Komi avanzò di qualche passo, rimanendo in silenzio mentre osservava meglio il volto dell’interlocutrice. Aveva i capelli lisci e ben pettinati, di un colore argenteo, che arrivavano appena all’altezza del collo. Sul volto portava i segni di una bellezza ormai estinta dal tempo, ma comunque ancora percepibile alla vista, a causa di alcune rughe sotto gli occhi scuri e le guancie scavate.

«Come ti senti? La ferita fa male? Ho cercato di rattopparla come ho potuto, ma forse faresti meglio a farti controllare da qualche esperto... sempre se riesci a trovarne uno» disse, con una punta di macabra ironia nella voce.

«Sto bene» borbottò Amalia, secca, osservando quella donna, il cibo sul fornello e il tavolo apparecchiato con piatti e posate per due persone come se tutto quello fosse la cosa più anormale del mondo. Cosa vera, tra l’altro. Chi era quella donna? Perché l’aveva aiutata? Perché le stava preparando... cos’era, pranzo, colazione? Non sapeva che fuori dalle mura di quella casa il mondo era caduto a pezzi? No, lo sapeva, altrimenti non avrebbe fatto quel commento di poco prima. Ma allora perché?

Forse avrebbe fatto meglio a chiederglielo direttamente, ora che ci pensava. Ma prima che potesse aprire bocca, quella la anticipò. «Mi chiamo Ursula» disse, tornando a girarsi sul fornello. «Tu invece?»

La ragazza esitò. Le pareva azzardato rivelare il suo nome in quel modo, ma vista la naturalezza con cui lei, Ursula, le si era rivolta, forse era giusto ricambiare. E poi, pensandoci meglio, era solo un nome. Mica le aveva chiesto la sua sessualità.

«Amalia» rispose, optando per rivelarle direttamente il suo nome tradotto, piuttosto che quello originale.

«Amalia» ripeté Ursula, facendosi pensierosa per un momento, per poi guardarla di nuovo con la coda dell’occhio. «Che bel nome. Mi ricorda "camelia". Sai, no, il fiore. Hai presente?»

«Sì...» Komi annuì lentamente, anche se non aveva idea di cosa stesse parlando.

«No, non è vero» ribatté la donna, ridendo. «Sei una pessima bugiarda.»

Komand’r sentì le guancie andare in fiamme. La cosa peggiore era che il suono di quella risata era tanto bello quanto innaturale. Non aveva mai sentito nulla di simile, non in quei mesi, perlomeno. Era una risata così... spontanea, sincera, non qualche risata forzata o da psicopatico come quelle a cui lei si era abituata, tipo quella di Dreamer.

Era... così strano sentirla. Le ricordava quella di Kori. Quella dei tempi in cui le cose andavano meglio, i tempi prima della morte dei suoi genitori. E per certi versi... assomigliava anche a quella di Tara, probabilmente l’unica ragazza che avesse conosciuto che ancora sembrava possedere un pizzico di fiducia e bontà in quel mondo in cui erano stati costretti a vivere.

Non appena ripensò all’amica, Amalia sgranò gli occhi. Chissà come stava. Non era passato molto da quando l’aveva salutata, eppure era un po’ preoccupata. Con tutta la storia dei suoi poteri ed eccetera, temeva per la sua salute. Sperò che se la cavasse, che Rachel e Rosso la aiutassero. Perché se lo meritava. Non aveva mai fatto nulla di male a nessuno e tutte le volte che l’aveva vista, in passato, le era parso di vedere un fiore in mezzo ad un campo di erbacce.

Perché per quanto Rachel e Rosso potessero cercare di sembrare i buoni della situazione, non erano molto diversi da Amalia. Anche loro nutrivano rabbia, odio, rancore, anche se tendevano a nasconderlo, proprio come lei. Tara invece no. Non era l’odio ciò che la alimentava. Non agiva per vendetta, o per egoismo. Certo, provava tristezza, nostalgia, era molto più tormentata di quanto desse a vedere, ma non era come loro. Era come Kori, come Ryan e come pochi altri. Lei era... "pura". Non sapeva come altro descriverla. Le sarebbe piaciuto un sacco assomigliarle.

«Ehi, ci sei?» La voce di Ursula la riportò alla realtà. Amalia trasalì. «Ehm... sì, scusa. Stavo... pensando.»

La donna la osservò per un momento, probabilmente domandandosi se stesse avendo a che fare con una qualche disagiata mentale, poi annuì, rimettendosi ai fornelli. «Mh, va bene. Comunque, la camelia è il fiore degli innamorati, secondo la tradizione. Dovresti essere felice del fatto che il tuo nome ricordi così tanto una cosa stupenda come...»

«Senti, perché mi hai salvata?» tagliò corto Amalia, con tono molto più duro di quanto avrebbe voluto usare.

Così duro che per poco Ursula parve quasi offesa, facendo sentire di conseguenza Amalia una stupida di prima categoria. La donna si voltò di nuovo verso di lei, posò il cucchiaio e si strinse nelle spalle. «Ti ho vista sul bordo della strada, sembravi piuttosto malmessa e bisognosa di aiuto, io ho solamente... voluto dartelo. Tutto qui.»

Le due si osservarono a vicenda dritto negli occhi. Ursula sembrava nascondere qualcosa, Amalia se n’era resa benissimo conto, ma di qualunque cosa si trattasse, non era malvagia. Non era la malvagità a spingere una persona a cercare di aiutarne un’altra. Certo, esisteva la possibilità che Ursula avesse un secondo fine, ma probabilmente nemmeno quello era malvagio. Ora che la osservava meglio... Komi notava una sorta di malinconia dello sguardo dell’albina. Forse quella di Ursula era solamente stata compassione, magari aveva voluto aiutarla perché nessuno in passato aveva aiutato lei.

Amalia abbassò lo sguardo, sentendosi di nuovo in imbarazzo. «Ti chiedo scusa... non avrei dovuto risponderti in quel modo...»

«Non preoccuparti.» La donna abbozzò un sorriso. «Ho capito che tipo sei. È difficile guadagnarsi la tua fiducia. E francamente, non ti posso biasimare.» Con gesto della mano, le indicò il tavolo. «Vuoi sederti? Tanto qui è quasi pronto. Nel frattempo possiamo chiacchierare ancora un po’. Vuoi?»

La ragazza annuì. «Va bene. Grazie.»

Si accomodò, mentre Ursula continuava a controllare il cibo sul fornello. In parte, Komand’r non era ancora molto convinta da quella situazione. L’albina sembrava riuscire a leggere dentro di lei come se fosse un libro aperto. Non riusciva davvero a spiegarsi tutto ciò. Forse in passato era stata una specie di psicologa, magari era anche per quello che aveva deciso di aiutarla.

«Che ti è successo ieri sera?» domandò ancora Ursula. «Chi ti ha ferita?»

Amalia fece una smorfia, ripensando a quanto accaduto con quei quattro tizi. «Un conduit...» borbottò, incrociando le braccia ed osservando con aria assente il piatto di ceramica di fronte a lei. «Avevo camminato per qualche chilometro nella zona industriale e mi ero fermata a riprendere fiato, quando questi quattro ragazzi hanno accostato vicino a me e sono scesi. Non sapevo cosa volessero, ma a giudicare dalle parole del loro capo, credo che stessero solo cercando un po’ di compagnia, se capisci cosa intendo... peccato che io non ero affatto in vena.»

Ursula fece schioccare la lingua, scuotendo la testa in segno di disappunto. «Sì, capisco. Che schifo. E ti hanno aggredita perché non hai voluto accontentarli?»

Komi piegò la testa. «Sì e no. Diciamo che la prima ad estrarre la pistola sono stata io, anche se non avrei mai potuto immaginare che due di loro fossero conduit. Mi hanno attaccata, poi uno di loro mi ha aggredita e ha cercato di farmi perdere i sensi. Ho capito che se glielo avessi permesso le cose non sarebbero affatto finite bene, per me. Sono riuscita a liberarmi e sono scappata, e loro mi hanno inseguita.»

«Io non ti giudico di certo. Forse sei stata un po’ avventata, ma anche tu hai solo cercato di difenderti. E comunque bisogna essere proprio dei vigliacchi per aggredire in quattro una ragazza sola.»

«Si, beh... ora sono solo più in tre» commentò Amalia, con un sorrisetto malizioso stampato in faccia. Sorriso che svanì non appena si accorse dell’espressione basita di Ursula.

«Hai... hai ucciso uno di loro?» domandò la donna, a bocca aperta.

Improvvisamente, Komi si sentì minuscola sotto il suo sguardo. Non aveva la più pallida idea del perché, ma si sentiva parecchio condizionata dal pensiero che l’albina potesse avere di lei.

«Avevano preso la mia roba» cercò di giustificarsi la giovane. «Dovevo riprendermela, ma c’era questo stronzo di guardia e io...»

«L’hai ammazzato come il peggiore dei criminali. Ho capito» la anticipò Ursula con tono incolore. Spense il gas e prese la padella con dentro le uova, per poi versarsene un po’ nel suo piatto.

«Loro avrebbero ucciso me in ogni caso! Che altro avrei dovuto fare?!» domandò a Amalia, irritata.

«Potevi lasciare perdere. Tanto non mi pare che tu abbia riavuto la tua roba. Avevi solo quel giaccone quando ti ho trovata.» L’albina prese il piatto della mora, poi cominciò a riempire anche il suo.

Amalia la osservò, sempre più accigliata. «Che ne sapevo io che gli altri tre mi avrebbero beccata?!»

«Non urlare.»

«Non sto urland...» Komand’r sgranò gli occhi, interrompendosi di colpo. Si, lo stava facendo. Con le guancie in fiamme si portò entrambe le mani di fronte alla bocca, imbarazzata.

Ursula, nel frattempo, andò a prendere la padella con dentro la carne. «Non voglio che ti giustifichi con me per le tue azioni. Io non sono tua madre, non mi interessa ciò che fai. Certo, mi da fastidio sapere di avere aiutato un’assassina, ma sei comunque una persona. E in ogni caso non avrei mai potuto abbandonare una ragazza ferita sul bordo della strada, alla mercé di chissà quanti malintenzionati.» La donna posò la padella sul tavolo, sopra ad uno straccio per non bruciare la tovaglia, poi puntò l’indice dritto verso la ragazza. «Ma voglio che tu sappia che c’è tanta rabbia dentro di te, e tu stai cercando di tirarla fuori nel modo sbagliato. E non credere che io non sappia di cosa sto parlando, perché io stessa un tempo ero come te. La rabbia ti consuma, ti senti bloccata in un vicolo cieco, senza vie di fuga e l’unica cosa che ti resta da fare è urlare, mandare tutto a quel paese, ho ragione?»

Amalia non rispose, si limitò a chinare il capo. Quello fu silenzio assenso, per la donna.

«Non si può fuggire da sé stessi. Non da soli, almeno. Cercare di farlo... è come volare troppo vicini al sole con delle ali di carta. Certo, per un po’ riesci ad andare avanti, ma prima o poi il calore te le brucerà. E a quel punto precipitare sarà inevitabile. E la caduta sarà dolorosa.»

Komand’r si strinse nelle spalle. Quella metafora era esattamente ciò di cui non aveva bisogno, ma preferì tenere quell’osservazione per sé. E comunque, era esattamente così che si sentiva. Stava precipitando, lo stava facendo già da un pezzo.

«E come ci si può salvare?» domandò invece, quasi con tono implorante. Raramente si era rivolta in quel modo a qualcuno, ma quella volta ne aveva bisogno. Aveva bisogno di uscire da quel tunnel di dolore e sofferenza in cui da troppo tempo era entrata, aveva bisogno di liberarsi dalle sue angosce e dai suoi tormenti. Aveva bisogno di aiuto.

D’altronde, era quello il motivo principale per cui aveva deciso di staccarsi dal suo gruppo di compagni di viaggio. Il suo obiettivo era riuscire a capire che cosa voleva veramente, doveva pensare, riflettere, trovare la sua vera sé. Ed Ursula, forse, avrebbe potuto aiutarla.

«Qualcuno deve afferrarti al volo» rispose la donna, indicandole con il mento la finestra dietro di loro dove, sul davanzale accanto ad un vaso per i fiori, si trovava una fotografia.

Raffigurava due giovani donne sorridenti e strette in un abbraccio, e per Amalia non fu affatto difficile riconoscere Ursula. Nell’immagine aveva i capelli a caschetto neri e lucenti, mentre le righe del volto erano completamente assenti per lasciar spazio ad una pelle abbronzata e priva di imperfezioni. L’altra donna, invece, aveva i capelli biondi raccolti in una coda e un paio di occhiali da vista di fronte agli occhi azzurri. Era più pallida, ma non per questo meno avvenente della prima. Entrambe sorridevano in maniera serena, rilassata, come se al momento della fotografia nulla avesse importanza eccetto quel momento.

Un piccolo sorriso nacque sul volto di Amalia mentre osservava la fotografia in ogni suo piccolo dettaglio. «Chi è lei?» domandò, quasi senza rendersene conto. «Una tua amica?»

Una tenue risatina nacque dalla gola della donna. «No, non proprio.» Ursula sospirò quasi nostalgica, mentre Komand’r spostava lo sguardo su di lei inarcando un sopracciglio.

«Era... la mia compagna.»

La faccia che fece Amalia subito dopo aver sentito questa affermazione dovette essere davvero sorpresa, perché non appena la donna se ne accorse ridacchiò. «Perché mi guardi così? Non dirmi che sei omofoba...»

La ragazza trasalì. «C-Cosa? N-No, io... no, non lo sono. È solo che... non me lo sarei aspettato...»

Ursula annuì. «Sì, capisco. Beh, vedi, quando ero giovane io... diciamo che essere omosessuali era quasi l’equivalente di essere degli alieni. Non era per niente facile convivere con questa cosa, per me. Mi sentivo esclusa, incompresa, non accettata dagli altri. Ero arrabbiata, scontrosa, ce l’avevo con tutto e tutti e per sfogarmi frequentavo locali e persone non molto raccomandabili.»

Komand’r abbassò lo sguardo sentendo quelle parole. Mi ricorda qualcuno..., pensò amareggiata.

«Ma in cuor mio sapevo che quello era il modo sbagliato di comportarsi. Un giorno, poi, ebbi un incidente. Un pirata della strada mi lasciò in fin di vita su un marciapiede. Credevo di essere spacciata, ma mi risvegliai qualche giorno dopo in ospedale. E qui conobbi un infermiera. Lei.» Ed indicò la fotografia. «Gretchen, che mi spiegò che erano stati degli omofobi a farmi questo. Cosa di cui non mi sorpresi, visto che gli episodi di violenza su di noi erano all’ordine del giorno. Qualunque omosessuale che avesse avuto il coraggio di dichiararsi tale apertamente, come me, non faceva quasi mai una bella fine. Ma avrei preferito morire, piuttosto che non essere libera di essere me stessa. E Gretchen la pensava esattamente come me. Ed è stato allora che ho capito di non essere davvero sola. Lei mi ha afferrata, e mi ha salvato la vita. Il resto... beh, suppongo che tu possa ben immaginarlo. Quindi...»

Ursula riportò l’attenzione su di lei. «... credimi, quando ti dico che so bene cosa si prova ad essere arrabbiati. Non sei la prima e non sarai neanche l’ultima ad avercela con il mondo per chissà quale ragione. Tutto quello che ti serve è qualcuno che sia disposto ad afferrarti. Qualcuno che possa ascoltarti, capirti, amarti.»

Amalia soffocò una smorfia sentendo quelle parole. Se davvero fosse stato così facile risolvere i suoi problemi, probabilmente non si sarebbe trovata lì. Nessuno poteva capirla veramente. Lei stessa non riusciva ad accettarsi, come potevano farlo gli altri?

Scosse lentamente la testa, sospirando. «Nessuno può capirmi, tantomeno amarmi.»

«Io pensavo lo stesso di me.»

«Ma questa volta è vero!» protestò Amalia, sollevando lo sguardo ed inchiodandolo sugli occhi neri di Ursula. «Io... non sono normale. Le persone normali non... non avrebbero i pensieri che ho io.»

«Quali pensieri?» domandò allora l’albina, con voce più morbida.

Komand’r si strinse nelle spalle. «Non... non voglio parlarne...»

«Perché non vuoi?»

«Perché non voglio vedere... quello sguardo.»

Ursula sollevò un sopracciglio. «Quale sguardo?»

«La commiserazione!» esclamò Amalia, con voce incrinata. «Non intendo essere guardata dall’alto verso il basso da nessuno! Non intendo essere giudicata dagli altri, io stessa mi giudico già abbastanza! Io so chi sono, so quello che ho fatto e so che è un qualcosa che non potrà essere cambiato in alcun modo, e tutto questo altro non è che un problema mio! Non mi serve qualcuno con cui confidarmi, un’altra persona pronta a liquidarmi con un "oh, mi dispiace", per poi guardarmi schifata non appena rivolgo lei le spalle!»

«Se qualcuno farà così con te allora significa che non è chi cerchi» rispose Ursula, calma di fronte al repentino cambio di umore di Komi. «Anche io all’inizio pensavo che Gretchen fosse un’altra di quei bigotti omofobi, ma mi sono sbagliata. Lei mi ha capita, mi ha aiutata, mi ha regalato emozioni indescrivibili ed indimenticabili. L’ho amata come lei ha amato me, ed insieme eravamo felici. Quando c’era lei, io non pensavo ad altro che a noi. Mi ha salvato la vita. Mi ha salvata da me stessa. Ma se tu non riesci a capirlo, allora forse meriti davvero di rimanere sola e chiusa nel tuo odio.»

L’albina le si avvicinò, per poi posarle una mano sul ginocchio. «Io forse non posso capirti come tu vorresti, ma rifletti... c’è qualcuno, la fuori, che forse potrebbe farlo? Qualcuno che possa aiutarti a dimenticare ciò che hai fatto, che ti aiuti a voltare pagina? Perché, credimi, non è affatto facile riuscirci. Soprattutto se si è soli.»

Amalia si mordicchiò un labbro. Non voleva davvero rimanere sola. Ma non voleva neanche essere giudicata. Aveva paura di cosa gli altri avrebbero potuto pensare di lei. Rachel, l’unica persona con cui si era confidata, e neanche in maniera troppo chiara, non era stata davvero in grado di aiutarla. Certo, la sua reazione era stata probabilmente la migliore che avrebbe potuto aspettarsi, ma alla fine non aveva cambiato davvero le cose.

Poi chi altro c’era? Rosso? Probabilmente nemmeno lui l’avrebbe giudicata, ma l’ultima cosa che desiderava era apparire debole dinnanzi ai suoi occhi. Piuttosto che quello, avrebbe preferito tirare le cuoia direttamente.

A quel punto restava lei. Tara. L’avrebbe capita? Probabilmente sì. L’avrebbe giudicata? Probabilmente no. Ma non voleva comunque coinvolgerla nei suoi casini. Non era giusto nei suoi confronti, nei confronti di quella ragazza che non aveva fatto del male a nessuno e che aveva perso comunque tutto ciò che amava. Il suo ragazzo, la sua famiglia, la sua vita. Rivolgersi a lei sarebbe stato un atto tremendamente egoista, e lei non voleva più comportarsi in quel modo.

La ragazza sospirò. «Io...»

Un suono stridulo proveniente da fuori dalla finestra la costrinse ad interrompersi di scatto. Sia lei che Ursula drizzarono il capo, sorprese. «Ma cosa...?» domandò la donna, per poi alzarsi ed andare ad affacciarsi. Non appena lo fece, spalancò gli occhi. «Oh no...»

Quella reazione non piacque per niente ad Amalia. «Che succede?» domandò, allarmata, alzandosi subito in piedi e affiancandola. Non appena anche lei vide cosa c’era fuori casa, rimase sorpresa tanto quanto Ursula.

Proprio sotto di loro, in strada, un pick-up si era fermato sul ciglio della carreggiata. Di fianco a lui, probabilmente scesi da poco, si trovavano i suoi passeggeri, e tutti e tre stavano guardando proprio verso le finestre sopra le loro teste, con l’aria alquanto corrucciata.

Amalia non poté credere alla propria sfortuna. Proprio sotto di lei... si trovavano i conduit che l’avevano aggredita.











Sì, ho pubblicato in fretta, ma è solo perché volevo subito togliermi dalle scatole questi primi due capitoli che tanto ormai conscete bene (mi riferisco a chi ha già letto Sbagliata), se invece siete nuovi su questa storia, beh, vi è andata di fortuna. In genere io non aggiorno così presto. Finalmente, il prossimo capitolo sarà quello che nessuno aveva ancora avuto l'onore di leggere, perciò urrà! 

Vabbene, alla prossima!

Paper Wings


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Capitolo 3
*** Colpe ***


III

COLPE

 

 

 

 

«Dannazione, di nuovo loro!» esclamò Ursula, allontanandosi di scatto dalla finestra, probabilmente per non farsi vedere.

Amalia la imitò subito dopo, osservandola sorpresa. «Conosci quei tizi?!»

La donna annuì, nervosa. «Sono un gruppo di conduit che vive in questa zona e che adora causare problemi, ma credevo che fossero scappati tempo fa, quando sono arrivati quegli uomini armati.»

«Gli Underdog?» chiese ancora Komi, inarcando un sopracciglio.

«Sì, loro. In genere si occupavano sempre dei conduit che causavano problemi.»

 Allora non erano poi così inutili..., osservò Amalia tra sé e sé, con un po’ di amarezza.

«Perché sono venuti proprio qui?» domandò ancora la ragazza, con il cuore che le batteva all’impazzata nel petto. Una parte di lei conosceva la risposta a quella domanda, e il terrore che Ursula potesse trovarsi in pericolo per colpa sua era enorme. Al solo pensiero, sentiva i sensi di colpa divorarla. Come se non ne avesse già abbastanza, tra l’altro, di sensi di colpa.

«Non lo so.» L’albina scosse la testa. «Probabilmente vogliono qualcosa da me. In passato sono già venuti ad estorcermi cibo o medicine. Se gli darò quello che vogliono probabilmente mi lasceranno in pace.»

«Ho paura che questa volta non vogliano solo del cibo...» commentò Amalia, cupa, ottenendo uno sguardo perplesso da parte della donna. La giovane si sentì tremendamente a disagio sotto quegli occhi scuri come la pece.

«Che intendi dire?» le domandò Ursula, incrociando le braccia.

Komand’r sospirò profondamente, poi decise di vuotare il sacco. «Loro... sono i conduit che mi hanno aggredita.»

Ursula spalancò gli occhi. «Oh... cazzo...» sussurrò, dopo un attimo di silenzio.

«Credi che ti abbiano vista mentre mi salvavi?» interrogò ancora la ragazza, continuando a gettare occhiatine furtive alla finestra.

«Non... non lo so. Io non ho visto nessuno mentre ti caricavo sulla mia macchina, ma non devono averci messo molto a fare due più due.»

Amalia soffocò una delle sue migliori imprecazioni. «Che cosa facciamo?»

«Tu devi nasconderti» asserì la donna, con sicurezza. «Se non ti trovano qui probabilmente lasceranno perdere.»

«Se sono qui è perché sanno che tu c’entri qualcosa. Se non trovano me, faranno sicuramente del male a te.» La giovane si avvicinò alla donna, posandole una mano sulla spalla. «Dobbiamo scappare, tutte e due.»

«E come? La mia macchina è fuori, vicino alla loro!»

«Merda!» Questa volta Amalia non si trattenne. Si voltò di nuovo verso la finestra e si affacciò appena, per poi scoprire con suo enorme orrore che i tre erano spariti. Probabilmente erano entrati e ora stavano salendo. Il tempo stringeva. Mise in moto il cervello per trovare una soluzione, anche se di scappatoie non ne vedeva molte. L’unica che le veniva in mente, era quella che involveva una delle poche cose che aveva imparato a fare in quei mesi di sopravvivenza disperata: combattere.

Cercando di ignorare la voce nella sua mente che le urlava disperata di non avere speranze contro tre conduit, tornò a guardare l’albina. «Tu... hai qualche arma?»

Ursula parve capire immediatamente quali fossero i suoi pensieri, perché la guardò allarmata. «Vuoi... vuoi ucciderli?»

Komand’r si irrigidì sotto allo sguardo dell’interlocutrice. Distolse gli occhi da lei. Proprio non riusciva a spiegarsi il perché quella donna le facesse quell’effetto. Si sentiva condizionata da lei, dalle sue reazioni. Era quasi come se... non volesse deluderla, e non ne capiva il motivo.

Forse... era perché le aveva salvato la vita. Ed era stata gentile con lei. E, beh, le sembrava davvero una brava persona, e di brave persone in giro non ne aveva viste molte, a parte Tara. Le aveva dato una chance, pensando di avere a che fare con una ragazza per bene, ed Amalia non voleva che invece anche lei dovesse confrontarsi con la persona schifosa che in passato era stata. Aveva finalmente l’occasione di cambiare, di essere una persona migliore e, soprattutto, di dimostrare davvero di tenere alle persone che la circondavano. Conosceva Ursula da poco, ma, sì, teneva a lei. Perché l’aveva salvata. Perché l’aveva aiutata. E perché... erano molto più simili di quanto avrebbe mai potuto immaginare. Non poteva negare di non essere rimasta colpita dalla sua storia, dalle sue parole. Il suo coraggio di essere sé stessa anche quando i tempi erano altri e come il semplice amore potesse averla cambiata ed aiutata ad essere una persona migliore.

Forse era proprio quello che il destino aveva in serbo per lei: farle conoscere quella donna. L’unico modo che aveva per scoprirlo, era rimanere accanto a lei, proteggerla e soprattutto... cercare di non deluderla.

«No» rispose, infine. «Non... non voglio farlo. Non se non sarò costretta. Ma se loro ci trovano... non avranno pietà. Dovremo difenderci in qualche modo.»

Ursula la osservò attentamente per un momento, sicuramente cercando di capire se fosse sincera oppure no, ma poi, probabilmente per la mancanza di tempo – anche se Amalia preferì pensare che si stesse fidando di lei – decise di annuire lentamente. «D’accordo. Il mio vicino di casa era un cacciatore, prima che... beh, hai capito. Forse nel suo appartamento c’è qualcosa.»

Un bagliore di speranza si accese immediatamente, come un faro, per Amalia. Forse la sua nave non era ancora destinata ad affondare. La ragazza fece un cenno di assenso. «Me ne occupo io. Ora però dobbiamo uscire da qui, arriveranno da un momento all’altro.»

Senza farselo ripetere, la donna albina le diede le spalle e si diresse verso la porta, seguita dalla giovane. Una volta nella tromba delle scale, riuscirono perfettamente ad udire gli schiamazzi di quell’odioso nano e i brontolii del colosso, il quale probabilmente non stava gradendo quella lunga scalata verso la sua preda. In effetti, Amalia li aveva davvero fatti penare per catturarla. Sicuramente sarebbero stati più che felici di metterle le mani addosso e saziare tutti i loro bisogni. La mora rabbrividì a quel pensiero, poi scosse la testa. Avrebbe preferito morire piuttosto che fare quella fine. Si voltò verso Ursula: «L’appartamento, qual è?»

L’albina le indicò una porta verso il fondo del corridoio di fronte a loro. «Però temo sia chiusa.»

«Non è un problema per me. Tu continua a salire, io li distraggo e quando vedi che la via è libera corri alla macchina. Io vedrò di raggiungerti.»

Non menzionò nulla sull’eventualità che quel piano, campato così grossolanamente all’aria, fallisse. E nemmeno Ursula lo fece. Semplicemente, non doveva fallire.

«Ci vediamo alla macchina» asserì Ursula, per poi correre su per le scale. Amalia annuì, chiuse la porta dell’appartamento per far sì che prima andassero a cercarle lì e dopodiché si diresse verso la sua meta.

L’ingresso era sbarrato, ma la serratura era vecchia ed usurata e la porta era realizzata con un legno piuttosto scadente. Alla ragazza bastò muovere un paio di volte la maniglia per accorgersi di come quella stesse ancora chiusa per grazia divina. Prese una leggera rincorsa, dopodiché con una spallata riuscì a scardinarla, pregando di non aver fatto troppo rumore. Richiuse immediatamente l’ingresso e spazzò via tutti i trucioli che aveva creato, tentando di non lasciare tracce. Osservando l’appartamento si rese conto che era praticamente identico a quello di Ursula, perciò non le fu difficile orientarsi. Non sapeva esattamente cosa cercare fino a quando non aprì la porta della camera degli ospiti, dove non trovò nessun letto bensì degli armadietti di ferro ed un banco da lavoro.

«Bingo!» sorrise la ragazza, per poi entrare nella stanza. Ma il buon umore svanì alla svelta, non appena si rese conto che gli armadietti erano tutti vuoti.  «No, no, no!» esclamò, mentre ne apriva uno dietro l’altro trovandoci dentro solamente polvere ed insetti morti. Niente armi, solo un pugno di mosche. Letteralmente. L’unica cosa degna di nota fu un mazzo di fascette, ma con quelle, più che legarsene una attorno al collo, non sapeva che farci.

La ragazza imprecò coloratamente, poi sbatté la porta dell’ultimo armadietto. «Che diavolo faccio adesso?!» Si guardò attorno, non ancora pronta ad arrendersi, e notò qualcosa sul tavolo da lavoro. Si avvicinò di nuovo colma di speranza, per poi rimanere delusa per l’ennesima volta. Una fiamma ossidrica. «E a cosa può servirmi, invece, questa?!» sbottò, afferrandola ed osservandola attentamente. Provò ad accenderla e con sua enorme sorpresa funzionò, sprigionando la sua piccola fiamma blu dal beccuccio. 

Amalia sospirò e la abbassò, dopodiché il suo sguardo cadde ai piedi del banco da lavoro, dove, accanto ad esso, notò qualcos’altro. Si chinò e vide meglio: una tagliola. La ragazza inarcò un sopracciglio: che diavolo di cacciatore era il vicino di Ursula?!

Si avvicinò all’oggetto per esaminarlo. Era più ruggine che altro, ma comunque il meccanismo sembrava ancora intatto. Komi la afferrò, dopodiché posò ciò che aveva trovato sul bancone. Un mazzo di fascette, una tagliola portatrice di tetano ed una fiamma ossidrica. La ragazza si passò una mano tra i capelli. «Sono spacciata...» mugugnò.

Un tonfo secco la fece sobbalzare e voltare di scatto. Qualcuno aveva sfondato la porta. La ragazza si irrigidì come un chiodo quando sentì il rumore dei passi dello sconosciuto nuovo arrivato ed un parlottare soffuso. Si infilò le fascette in tasca, dopodiché afferrò la fiamma ossidrica, decidendo di abbandonare, per il momento, la tagliola. Era troppo ingombrante da prendere e probabilmente non le sarebbe servita a nulla. Si appoggiò contro al muro della stanza e spense la luce, facendola piombare nel buio. La porta del corridoio si aprì con un lento cigolio e la ragazza riuscì ad udire meglio la voce del nuovo arrivato: era il ragazzo di colore.

«Che stronzi...» borbottò questo con diverse vene di irritazione nella voce, mentre si muoveva nel corridoio. «"Io e Mammoth pensiamo alla ragazza, Seymour, a te se vuoi lasciamo la vecchia"» recitò con voce in falsetto, probabilmente imitando il proprio capo. «Tsk. Dici una volta che ti piacciono le donne stagionate e rimani marchiato a vita...»

Amalia trattenne un conato di vomito udendo quelle parole. Ma con che razza di gente aveva avuto il dispiacere di aver a che fare?! Scosse la testa e si appiattì contro al muro, stringendo con forza l’impugnatura della fiamma ossidrica. Il rumore dei passi si avvicinò. Komi trattenne il fiato. Un’ombra penetrò nella stanza. Seymour, il ragazzo, mugugnò mentre cercava l’interruttore. «Come se quella schizzata potesse davvero trovarsi qu...»

Non finì mai quella frase. Non appena accese la luce, Komand’r lo colpì alla tempia con il calcio della sua arma improvvisata. Il ragazzo gridò di dolore e cadde a terra, tenendosi una mano sulla testa. Amalia non perse tempo e si chinò su di lui, stendendolo con un’altra mazzata. Il conduit si accasciò sul suolo con il capo, una chiazza di sangue fresco che scivolava sotto l’attaccatura dei corti capelli castani. Amalia controllò le sue condizioni e notò che respirava ancora. Tirò un sospiro di sollievo; per un momento temeva di averlo fatto fuori, il che avrebbe mandato al diavolo tutti i suoi buoni propositi di poco prima, ma fortunatamente così non era stato. Anche se, probabilmente, dopo due simili colpi alla testa lo aveva lobotomizzato.

Beh, almeno è ancora vivo... è pur sempre un piccolo passo avanti.

Senza perdere altro tempo, la giovane afferrò le fascette e bloccò polsi e caviglie del conduit. Probabilmente non sarebbero bastate ad immobilizzarlo a lungo, ma visto lo stato in cui era ridotto era anche altrettanto probabile che non si sarebbe svegliato poi così presto. Osservò poi le fascette, compiaciuta. Alla fin fine, erano davvero servite a qualcosa. Soffocando dopodiché diverse imprecazioni, trascinò il corpo in un angolo della stanza e lì lo abbandonò. Una fitta di dolore le colpì la zona in cui era stata colpita da quello stesso conduit e solamente allora si ricordò di tutte le sue fasciature e della sua brutta ferita. Represse una smorfia, sperando che la cosa non si rivelasse un problema troppo grave. Mise le proprie armi nelle tasche del giaccone, spense la luce e chiuse la porta, abbandonando Seymour all’interno. Ed uno era sistemato. Ne mancavano altri due.

La ragazza tornò nella tromba delle scale, per poi notare la porta dell’appartamento di Ursula sfondata. Era ovvio che gli altri due fossero entrati. Sperò che Ursula fosse riuscita ad aggirarli e che fosse sana e salva, mentre iniziava a scendere di corsa. Più gradini percorreva e più accelerava, voleva solamente più andarsene da quel luogo, scappare da quei folli che la inseguivano e sperare di non rivederli mai più. Lasciare direttamente la città, possibilmente. Tuttavia, quando credeva i essere quasi arrivata, un’altra atroce fitta di dolore la fece trasalire e per poco perdere l’equilibrio. Ebbe la freddezza di afferrare il corrimano per evitare una disastrosa caduta, ma subito dopo si ritrovò piegata su sé stessa ad annaspare.

«Merda, merda, merda...» imprecò, portandosi una mano sulle fasciature sotto la canottiera. Quel lievissimo contatto le causò ancora più dolore di quanto già non ne provasse. Non andava bene, non andava per niente bene. Sola contro il mondo, disarmata e perfino ferita. Una situazione decisamente sgradevole. Sperò davvero che Ursula la stesse già aspettando in macchina. Lentamente, riprese a scendere le scale, questa volta però senza accelerare il passo e tenendo una mano sul corrimano. Gradino dopo gradino, fitta dopo fitta, imprecazione dopo imprecazione, la giovane riuscì a raggiungere il piano terra. Zoppicò fino all’uscita e rientrò in strada, dove una folata di aria gelida la travolse. Un vero toccasana per il suo umore.

«Ursula?» chiamò, incerta, avvicinandosi alla macchina della donna. «Ci sei?» Si affacciò sul finestrino, per poi sbiancare; il sedile era vuoto.

Indietreggiò di scatto, con un gemito. Cominciò a girare attorno alla macchina, mentre il panico si insinuava lentamente dentro di lei, dapprima solo superficialmente e poi, poco per volta, sempre più profondamente, fino a stritolarle il cuore e a contorcerle le interiora. Non c’era. Ursula non c’era.

«Cerchi qualcuno?»

Quella voce la trafisse come una lancia. La ragazza si voltò lentamente, il terrore di sapere che cosa la aspettasse che si faceva sempre più forte, dopodiché ogni speranza di sbagliarsi fu vanificata. Dietro di lei, sull’uscio del condominio, il nano ed il gigante avevano Ursula in ostaggio, con quest’ultima tenuta per il collo e sollevata da terra di almeno dieci centimetri dal braccio di Mammoth.

«Amalia... mi dispiace...» sussurrò la donna, prima che il colosso stringesse la presa attorno al suo collo, facendola gemere di dolore. Cercò di liberarsi dalla stretta e scalciò, ma quello non parve nemmeno notare i suoi sforzi, perché rimase concentrato ad osservare Komand’r.

«Pensavate che fossi nato ieri, eh?!» domandò poi il nano, attirando l’attenzione su di lui.

«Vista la tua statura, sì» replicò Amalia, suscitando una risatina dal gigante, il quale venne subito folgorato con lo sguardo dal compare. Ursula, invece, si limitò a scuotere la testa, per farle capire che, forse, non era il caso di peggiorare ulteriormente la situazione.

«Hai ucciso il nostro amico, mi hai calpestato la faccia ed ora hai anche il coraggio di fare battute?!» piagnucolò il bamboccio, pestando i piedi per terra. «Mi hai davvero stancato. E che diavolo hai fatto a Seymour?!»

«Chi?»

«Non prendermi per il culo!» ululò ancora il moccioso, estraendo una pistola che nelle sue mani pareva quasi un giocattolo.

Amalia sollevò le mani. «Sta facendo un pisolino» rispose a quel punto, calma. «È ancora vivo, se è quello che ti importa.»

«Portami da lui» ordinò a quel punto il suo interlocutore.

«Ma è qui so...»

«HO DETTO PORTAMI DA LUI!»

Komi sussultò, per la prima volta in assoluto quel tizio riuscì ad inquietarla. Annuì lentamente. «O-Ok... però, lasciate andare lei. Non ha nulla a che fare con questa storia» disse, accennando con il mento ad Ursula, la quale la osservava sempre più spaventata.

Un sorriso sadico si accese sul volto del nano, a quella richiesta. «Non sei nella posizione di dare ordini, puttanella. Adesso tu fai quello che ti dico, dopodiché, forse, lascerò andare la tua amichetta.»

«"Forse" non è una condizione che mi sta bene...» mugugnò Amalia, quasi ringhiando.

«Peccato che tu non abbia molta scelta» incalzò ancora quello, agitando la pistola e continuando a sorriderle. «E adesso, prego, prima le signore.»

Komand’r fece una smorfia, poi, con il capo chinato, si diresse di nuovo verso la porta. Mentre faceva ciò, la sua mente elaborava la prossima strategia. Aveva ancora la fiamma ossidrica nascosta nella tasca del cappotto, fortunatamente non l’avevano perquisita, ma non aveva la più pallida idea di come usarla. Semplicemente, avrebbe dovuto aspettare l’occasione d’oro. Ma con il dolore al fianco che non le dava tregua, Ursula tenuta in ostaggio ed una pistola puntata alle sue spalle, faticava ad immaginare uno spiraglio per poter agire. E il peggio doveva ancora venire: una volta scoperto in che condizioni era stato ridotto Seymour, quei due si sarebbero incazzati come iene. Stava passando dalla padella alla brace e non aveva la più pallida idea di che cosa fare se non riempirsi da sola di insulti per aver abbandonato le persone più simili a degli amici che avesse incontrato.

Rachel, Rosso, Tara... se fosse rimasta con loro non si sarebbe cacciata in quel guaio. E anche se fosse successo, loro l’avrebbero aiutata a tirarsene fuori. Non credeva che avrebbe mai potuto rimpiangere in quel modo la compagnia di quei tre, anche se, sotto sotto, doveva ammettere che si era affezionata a loro. A Tara, soprattutto.

Tara...

La mora strinse i pugni. No, non doveva arrendersi. Non ancora. Lei era Komand’r Anderson. La pazza dal grilletto facile, colei che aveva ficcato un coltello nel collo di Deathstroke, colei che aveva fatto fuori quel sociopatico di Jeff Dreamer. Ne aveva viste di cotte e di crude, aveva combattuto contro giganti di ferro, uomini armati, psicopatiche drogate, ed era la stessa che, già una volta, era riuscita a fregare quei quattro babbei, ormai solo più tre, che stavano minacciando lei e la sua nuova conoscente, una donna innocente che aveva semplicemente commesso l’errore di trovarsi nel posto sbagliato ma al momento giusto. Era stanca di essere la responsabile dei problemi altrui. Doveva rimediare, doveva salvarla. E lo avrebbe fatto, da sola.

Salirono le scale, in silenzio. Il dolore al fianco non dava tregua ad Amalia, ma lei per tutto il tempo si sforzò di ignorarlo. Infine, si ritrovarono di fronte all’appartamento in cui aveva lasciato Seymour. Mentre entravano, il suo cervello viaggiava a mille chilometri orari, macinando pensieri su pensieri nel tentativo di trovare un modo per cacciarsi fuori da quella situazione. Infine, si ritrovarono di fronte alla stanza delle armi.

«Qui dentro» asserì Amalia, cercando di apparire più sicura possibile.

«Cosa aspetti ad entrare, allora?» domandò il nano.

«Coso, ti prego...» sussurrò Ursula, parlando di nuovo per la prima volta. «Deve esserci un altro modo...»

«No, non c’è invece. E comunque, nessuno ti ha interpellata, vecchia!»

«Ma ascolta...»

«Ti ho detto di tacere!» esclamò Coso, arrabbiandosi di nuovo, per poi sollevare la pistola. «O preferisci che...»

«Basta!» si intromise Amalia, alzando la voce ed ottenendo lo sguardo di tutti. La ragazza, poi, osservò la donna albina. «Non preoccuparti, Ursula. Vedrai che andrà tutto bene.»

«Nei tuoi sogni, forse » sghignazzò Mammoth.

Komi represse una smorfia. Si limitò a volgere ad Ursula un cenno del capo, poi inspirò profondamente e si voltò verso la porta. Sapeva cosa fare. Era rischioso, folle, ed inoltre aveva anche bisogno dell’aiuto dell’albina, ma sapeva che quella avrebbe capito. Se davvero erano simili come lei stessa aveva detto, sicuramente lo avrebbe fatto. Se così non fosse stato... beh, erano comunque spacciate, quindi il risultato finale non sarebbe cambiato poi così tanto.

Avvicinò la mano alla maniglia ed aprì la porta. I quattro entrarono nella stanza ed Amalia approfittò della penombra per infilare una mano nella propria tasca.

Tre...

«Puoi accendere la dannata luce, per favore?» domandò Coso, irritato.

La giovane obbedì, posando un dito sull’interruttore.

Due...

Accese la luce. Non appena Mammoth e il suo capo videro in che condizioni Amalia aveva ridotto Seymour, questi sgranarono gli occhi. E Komi poté approfittare di quel minuscolo momento di distrazione.

UNO!

«Ma che diav...» Coso tentò di parlare, ma fu immediatamente interrotto dalla legnata che si beccò su una tempia. Il nano urlò e cadde a terra, perdendo la pistola. Nello stesso momento, Mammoth si riprese dallo stupore per Seymour e si rese conto di quello che stava succedendo. Urlò di rabbia, ma qualsiasi cosa volesse fare fu interrotta dal morso di Ursula, che conficcò con quanta forza possedesse ancora i propri incisivi nel polso del colosso. Questo tramutò così il proprio grido di rabbia in uno di dolore misto a sorpresa. Mollò la presa sull’albina, che cadde pesantemente a terra, ma non ci mise molto a riprendersi dallo stupore. Sollevò entrambe le mani e cercò di avventarsi sulla donna, ma Amalia si frappose tra loro brandendo la fiamma ossidrica. Mentre inceneriva la faccia del colosso facendolo sbraitare come un condannato alla pena capitale, un sorriso di trionfo si accese sul suo volto; Ursula aveva capito, e aveva fatto molto meglio di quello che avrebbe potuto aspettarsi.

Un disgustoso odore di carne bruciata si diffuse nell’aria mentre Mammoth cadeva a terra coprendosi il volto, sempre senza smettere di urlare. La ragazza a quel punto fece per piombarsi su di lui e finirlo, ma l’urlo di Ursula la fece voltare. «Amalia!»

La giovane vide Coso e l’albina litigare per prendere possesso della pistola del primo, il quale si era già rialzato dopo il colpo subito. Era una scena quasi surreale, vista la loro elevata differenza di statura, ma Ursula non era più una ragazzina, era troppo debole, perfino per uno come lui. Aveva bisogno di aiuto. Amalia fece  per correrle incontro, ma qualcosa la afferrò per una caviglia, facendola cadere rovinosamente. Gridò di dolore, per la caduta e per l’ennesima fitta al fianco, poi si accorse della mano di Mammoth attorcigliata attorno al suo stivale. Il conduit la osservava con il volto dilaniato dalle ustioni e dal sangue raggrumato, un occhio cieco e con un’espressione di pura rabbia. Komi dimenò il piede per liberarsi, ma quello non era assolutamente intenzionato a mollarla. A quel punto la ragazza urlò di rabbia e con la gamba libera sferrò un calcio sul volto del rosso, facendolo grugnire. La presa si affievolì e a quel punto Komand’r gliene sferrò un altro, poi un altro e poi un altro ancora.

Usò il suo volto come zerbino, letteralmente, udendo perfino lo scricchiolio delle ossa del suo naso rotte, fino a quando quello non la lasciò andare, gridando nuovamente per il dolore ed afferrandosi il volto ormai ridotto ad una maschera di sangue.

La ragazza a quel punto si alzò in piedi, fece per correre ma un boato la bloccò all’istante. Vide la scena a rallentatore. Ursula che barcollava all’indietro, Coso che invece veniva sbalzato via. Amalia ci mise un momento per capire cosa fosse successo, ma quando si accorse della mano di Ursula premuta sul proprio addome, più il liquido vermiglio che le macchiava la maglia, capì ogni cosa. L’albina avanzò ancora di qualche passo, poi si voltò verso la giovane. Le due si guardarono per un breve momento, ma parve durare un’ eternità. Fu un semplice sguardo, che però valse più di qualsiasi altra parola. Dopodiché, la donna roteò gli occhi e si accasciò al suolo.

Amalia la osservò paralizzata mentre il suo corpo si accasciava esanime sul pavimento con una lentezza straziante. Dopodiché, quando si fu capacitata a cento percento di quanto fosse successo, il suo urlo disperato giunse fino al fondo della tromba delle scale.

Senza perdere altro tempo, la ragazza corse da lei. Le si inginocchiò accanto dopodiché le prese il volto tra le mani. «Ursula!» chiamò, ormai prossima alla disperazione. «URSULA!»

La donna aveva gli occhi sbarrati, un rivolo di sangue le colava dalla bocca. Amalia continuò a chiamarla e a scuoterle il capo, senza nessun successo. La donna non riapriva gli occhi.

NO, NO, TI PREGO, NO!!

Amalia continuò con quel suo tentativo disperato di svegliarla, ma più i secondi passavano, più la dura realtà si abbatteva su di lei con il suo peso schiacciante. Continuò fino a quando non sentì le braccia cederle per la fatica, dovuta anche al continuo ed incessante dolore al fianco. Gli unici movimenti che ormai riusciva solo più a compiere, erano quelli involontari delle spalle, causati dal suo pianto, di cui nemmeno aveva fatto caso fino a quel momento.

Morta. Ursula era morta. Di fronte a lei. Senza che lei potesse fare nulla per salvarla. Morta per colpa sua, dopo che lei aveva giurato a sé stessa di salvarla.

Era morta. Morta, come Kori. Morta, come Ryan. Morta, come i suoi genitori.

Morta.

Per colpa sua.

Non l’aveva nemmeno ringraziata per averla salvata, ora che ci pensava. Nemmeno per aver cercato di aiutarla con i suoi problemi. Anzi, le aveva urlato contro. Ed ora era lì, immobile, come una statua di cera. Proprio davanti ai suoi occhi.

Se solo non avesse perso la voce nell’urlo di poco prima, Amalia avrebbe gridato di nuovo. Invece, si limitò a chinare il capo sul ventre dell’albina e a riempirlo di lacrime.

Rivide Ryan, nella sua mente. Rivide il suo corpo esanime, la sua figura insanguinata. E dopo rivide Kori, e dopo i suoi genitori. E poi tutte quelle persone a lei care che erano morte. Attorno a lei, tutto quanto svanì. Si ritrovò immersa nel buio più totale, circondata da tenebre, senza più alcuna fonte di luce. Ancora una volta, terra bruciata era stata fatta. Quel ciclone che era la sua vita ne aveva spazzata via un’altra, di nuovo. E lei, come al solito, era rimasta illesa. Perché, perché quel proiettile non aveva colpito lei anziché Ursula?! Perché lei continuava ad essere viva?! Perché non poteva esserci lei al suo posto, o al posto di Ryan, o a quello di Kori?!

Perche? PERCHÈ?!?!

Un rumore improvviso la fece destare da quello stato di semicoscienza. Era rimasta così concentrata su quanto appena accaduto che si era dimenticata perfino dello scontro precedente. Rivide Coso rialzarsi a fatica, brontolando qualcosa di incomprensibile, mentre, alle sue spalle, Mammoth continuava a piagnucolare per il dolore alla faccia.

Quando Coso drizzò lo sguardo e si accorse di Amalia ed Ursula sgranò gli occhi. Komi lo osservò, in silenzio, apatica. Il nano parve apparire sempre più spaventato man mano che i secondi passavano, come se avesse intuito lo stato d’animo della giovane. Si voltò verso la pistola, probabilmente era stato proprio lo sparo di quest’ultima a farlo cadere, e si fiondò su di essa. Ma Amalia fu più veloce.  Il moccioso mise mano sul calcio dell’arma, per poi ritrovarsela schiacciata contro di essa dalla suola dello stivale di Komi. Quello sussultò, per poi alzare lo sguardo. Komand’r non poteva vedersi in faccia, ma sapeva per certo che lo sguardo che gli rivolse mai era stato rivolto a qualcun altro.

Uno sguardo di odio puro, misto a rabbia. Uno sguardo che mai, mai, una deviata mentale come lei avrebbe dovuto avere.

«As... aspetta, ti pre...»

Coso non ebbe il lusso di poter finire quella frase. Il calcio che si beccò in pieno volto gli fece cadere di netto le parole dalla bocca, assieme anche a qualche dente. Il nano fu sbalzato dall’altra parte della stanza e si afferrò il naso, facendo diversi versi di dolore. Komand’r nel frattempo si chinò per prendere la pistola, dopodiché rimosse il caricatore e svuotò la canna. Non voleva che accadessero altri spiacevoli incidenti con quell’arma e non voleva nemmeno che le cose si risolvessero così facilmente. Lasciò cadere la pistola, dopodiché si diresse verso la fiamma ossidrica, che le era caduta di mano quando Mammoth l’aveva fatta inciampare. Il suo sguardo cadde poi sulla tagliola per orsi, rimasta in disparte in un angolo della stanza fino a quel momento. Subito dopo, la ragazza controllò la tasca; le fascette c’erano ancora.

Amalia si guardò attorno, concentrandosi sui corpi dei due bastardi che l’avevano trascinata in quella situazione di merda. Strinse con forza i pugni, conficcandosi le unghie nei palmi fino a farsi male.

Avrebbero pagato. Avrebbero pagato fino all’ultimo centesimo, con tanto di interessi. E quella non era una minaccia, ma una promessa. Una promessa che, questa volta, era intenzionata a mantenere.

Dopo averlo immobilizzato con le fascette, si avvicinò al nano, brandendo la fiamma ossidrica. Questo sollevò lo sguardo, terrorizzato. Tentò di supplicarla, con le lacrime agli occhi, ma lei non lo ascoltò. Non sentì più nulla.

Mentre deturpava quel volto odioso con la fiamma ossidrica, non vedeva altro che il corpo di Ursula mentre si accasciava a terra. Mentre Coso gridava, scalciava, piangeva e il sangue colava come una cascata dal suo volto, Komand’r vedeva suo fratello Ryan, sua sorella Kori, i suoi genitori, tutti quanti.

Man mano che la pelle rosa del nano si trasformava in un mosaico di ustioni, tagli e liquido vermiglio, la ragazza ripensava al dolore, alla sofferenza, alle occasioni perdute. Quei pensieri deviati che le avevano distrutto la vita e che non era mai riuscita ad esprimere.

Fu così persa in quel turbinio di ricordi ed emozioni contrastanti che non si accorse nemmeno del momento preciso in cui Coso smise di gridare, anche se immaginava che dovesse essere accaduto quando gli aveva aperto quel buco talmente grosso sulla fronte da poterci vedere la carne viva attraverso. Ma nonostante il nano fosse morto, lei continuò ad infierire, incurante, insensibile a tutto e tutti, fino a quando non udì un verso provenire alle sue spalle. La ragazza a quel punto mollò sul pavimento l’ex capo della banda, ormai irriconoscibile, tuttavia non si voltò.

Udì la massiccia figura di Mammoth rialzarsi lentamente. Lo udì muoversi, udì i suoi passi, capì che era diretto verso di lei, ma non si mosse ugualmente. Lo sentì ringhiare di rabbia e sentì anche le sue nocche scrocchiare, ma rimase, ancora, impassibile. Quello camminò ancora verso di lei, fino a quando un rumore metallico non ruppe improvvisamente il silenzio. Si udì uno scatto, come quello di un meccanismo che si attivava. E subito dopo, le urla strazianti del gigante. Solo a quel punto la ragazza si voltò, per poi vedere il conduit stramazzato a terra, intento a tenersi per la caviglia dilaniata. Dilaniata dalla tagliola per orsi disposta in precedenza dalla mora, proprio lì di fronte al colosso.

Komand’r si alzò, brandendo fiamma ossidrica e fascette, e si diresse anche verso di lui. Mentre lo immobilizzava come aveva fatto con gli altri due, quello la osservò con sguardo a metà tra il terrorizzato e il disgustato. Anche se era difficile intuirlo, viste le condizioni del suo volto.

«Tu sei... pazza...» sussurrò lui, oramai impossibilitato a muoversi anche se lo avesse voluto.

Amalia sospirò, inginocchiandosi ed osservandolo con aria assente. «Magari fosse solo questo» rispose con voce atona, semplicemente. Quella sensazione, quella sensazione di vuoto che la assaliva, quel suo non provare più nulla, la totale apatia, nei confronti degli altri, nei confronti di sé medesima, nei confronti della vita stessa... non era bello. Non era bello per niente. Non ricordava di essersi mai sentita così... strana. Così fuori posto. Così... sbagliata.

Accese la fiamma. Per la seconda volta di fila, le urla strazianti della sua vittima le parvero distanti anni luce.

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Capitolo 4
*** Dolce notte ***


IV

DOLCE NOTTE

 

 

 

Amalia appoggiò il capo contro il muro, sospirando profondamente. L’odore di carne bruciata pungeva il suo olfatto, mentre sangue ancora fresco colava dalle sue mani. Non il suo, di sangue, ovviamente.

Qualcuno stava piangendo. Esattamente di fronte a lei, accasciato contro il muro dall’altro lato della stanza, Seymour stava facendo guizzare lo sguardo da lei a ciò che rimaneva dei suoi due amici. «T-Ti prego...» stava dicendo, tra un singhiozzo e l’altro. «Non... non uccidermi...»

Komand’r fece una smorfia. Erano minuti interi che andava avanti in quel modo. Lei ancora non gli aveva risposto. Ed era intenzionata a non farlo. Comunque no, non lo avrebbe ucciso. Si era già abbastanza sporcata le mani, quel giorno. Anche se quel tizio meritava di fare la stessa fine dei suoi amici per come si stava comportando. Lui non avrebbe esitato ad ucciderla, se l’avesse catturata. Anzi, già in diverse occasioni l’aveva quasi fatta fuori, con i suoi dannati raggi laser. Lui ed i suoi amici erano intenzionati a rapirla, violentarla e poi ammazzarla, ed ora quel tizio implorava pietà?

Disgustoso. Patetico. Inaccettabile.

Dreamer non aveva pianto quando lei gli aveva puntato una pistola di fronte alla testa. Lui sapeva che ogni azione aveva una conseguenza e sapeva che prima o poi sarebbe toccato anche a lui. E se sotto quel frangente perfino un essere abominevole come Dreamer era migliore di quei quattro perdenti che avevano cercato di catturarla, allora significava che quei tizi erano davvero ripugnanti. E lui, Seymour, avrebbe dovuto imparare più cose su come il mondo, il loro mondo, funzionava davvero. Ma non da Amalia. Lei non era più in vena di insegnamenti. Si alzò in piedi e si diresse verso la porta, lasciandosi alle spalle i corpi di tutti i presenti. Spense la luce e chiuse la porta, abbandonando Seymour ai suoi piagnistei, sperando che, dopo quella giornata, questo decidesse di svanire per sempre dalla faccia della terra. Ammesso e concesso che fosse riuscito a superare lo shock e liberarsi dalle fascette.

Komi si diresse poi verso la camera da letto, dove il corpo di Ursula la attendeva, sdraiato sopra al letto matrimoniale. La giovane aveva pulito il sangue, l’aveva cambiata e l’aveva pettinata. Sembrava quasi che stesse dormendo. Una fitta allo stomaco la colpì quando ripensò a ciò che era successo alla donna. Scosse la testa, ricacciando le lacrime, poi le si avvicinò.

«Mi dispiace...» sussurrò, con voce rotta. «Riposa in pace, Ursula... grazie di tutto. Non mi dimenticherò mai di te.»

Con il peso del mondo ancora sulle proprie spalle, Amalia abbandonò la stanza, poi l’appartamento e poi il condominio. Salì sul camioncino di Coso e la sua banda e trovò la chiave ancora inserita nel quadro. Senza esitare la girò ed avviò il motore. Dopodiché, iniziò a spostarsi. Non sapeva dove dirigersi con esattezza, sapeva solo che, ovunque sarebbe andata, i terribili ricordi di quella città l’avrebbero seguita.

Tutto le sembrava assente, irreale e distante, in quel momento. Il volante che stringeva tra le mani, gli edifici che mano a mano svanivano da attorno a lei, la strada che percorreva, le luci dei lampioni accesi. Nemmeno si era accorta che era scesa la sera. Era come se nulla avesse più importanza per lei, ormai. Si sentiva un guscio vuoto che camminava e che respirava. Lo stesso guscio vuoto che era sempre stata.

Non sapeva più cosa dire, cosa fare, cosa pensare. Le sembrava di essere imprigionata in un ciclo infinito in cui tutte le persone che sembravano tenere a lei o a cui lei stessa teneva erano destinate a morire. Valeva davvero la pena continuare così?

Il rumore del motore dell’auto che si affievoliva lentamente la fece destare da quei pensieri. Sentì i giri del veicolo diminuire ciclicamente, fino a quando il mezzo non si ritrovò ad avanzare a strattoni. E, per finire, si arrestò direttamente. Solo in quel momento la ragazza notò la spia della benzina accesa. Chissà da quanto lo era, poi. Amalia sospirò e scosse la testa. Quei quattro idioti non avevano fatto il pieno. Anche quando non rappresentavano più una minaccia diretta riuscivano ad irritarla.

Soffocando la milionesima imprecazione di quel giorno, la mora scese dal veicolo e sbatté la portiera con forza. Si affacciò sul cassone, sperando di trovare un’eventuale tanica di benzina, per poi vedere con enorme stupore il suo borsone. Komi sgranò gli occhi. Solo in quel momento si ricordò che quei quattro gliel’avevano rubato. Ma il sollievo provato nel ritrovarlo si trasformò ben presto in rabbia. Si sbatté una mano sulla tempia, con forza, digrignando i denti. Se solo se ne fosse ricordata prima, avrebbe potuto prendere il suo fucile per salvare Ursula. Anche se, forse, era più semplice a dirsi che a farsi. Dubitava che sarebbe riuscita a nascondere il fucile in tasca come invece aveva fatto con la fiamma ossidrica.

Sospirò profondamente. Ormai, era tardi per avere simili pensieri, e sicuramente non aveva bisogno di torturasi più di quanto già stesse facendo. Afferrò il borsone e proseguì per la sua strada a piedi, visto che di taniche di benzina non c’era nemmeno l’ombra. Ricevette diverse fitte di dolore al fianco mentre camminava, ma era un dolore comunque sopportabile. E, in ogni caso, avrebbe anche potuto avere una gamba rotta, se ne sarebbe comunque andata da quella dannata città; a piedi, in macchina, strisciando sui gomiti, non le importava; doveva andarsene.

Continuò a camminare, immersa nel silenzio di quella notte, accompagnata solamente dalle brezze di aria fredda e dalle luci dei lampioni e della luna piena. In effetti, la luna era davvero bella quella sera. Non che la cosa le importasse più di tanto, però.

Sinceramente, non le importava più di niente. Voleva solamente andarsene da quella città e non voltarsi mai più indietro, anche se sapeva che non sarebbe stato così facile. Ciò che era successo giusto poche ore prima... nulla avrebbe potuto cancellarglielo dalla mente. Le morti di Ursula, di Coso e di Mammoth ormai erano ricordi indelebili, marchiati a fuoco nel suo cervello. Dubitava che sarebbe riuscita a dormire mai più sonni sereni, anche se già a stento ricordava l’ultima volta che davvero era riuscita ad averne uno.

Un mostro, un’assassina, una psicopatica e per giusta lesbica, anche se quest’ultima cosa non era davvero un problema... se non si menzionava il fatto che si fosse presa una cotta per la sua stessa dannata sorella. Quello cambiava decisamente tutto quanto.

Aveva iniziato quel viaggio solitario solamente un giorno prima per poter riflettere e pensare, e si era ritrovata con ancora più problemi ed angosce. Se solo non se ne fosse mai andata, se solo fosse rimasta in quel magazzino, se solo non avesse lasciato...

«Tara...» sussurrò, sollevando lo sguardo mentre una lacrima le rigava il volto. Osservò la luna piena, con un moto di nostalgia. Alla ragazza bionda sarebbe piaciuta quella notte. E a lei sarebbe piaciuto trascorrerla assieme a lei. Guardare il cielo, fumarsi una sigaretta, chiacchierare del più e del meno senza filtri, senza pensieri, senza preoccupazioni. Quanto avrebbe voluto poterlo fare di nuovo. Ma senza Ryan... non sarebbe stata la stessa cosa. Dubitava che sarebbe davvero mai più riuscita a sorridere sinceramente, non con la consapevolezza di aver perso suo fratello, l’unica persona cara che le era rimasta.

Se lui avesse visto che cosa aveva fatto a quei due...

«Ma cosa c’è che non va in me?» sussurrò la ragazza, chinando il capo e strizzando le palpebre per ricacciare le lacrime. Non poteva mettersi a piangere lì, non in quel momento. Non proprio quando era così vicina al confine della città. Ormai la zona industriale si era quasi del tutto diradata e riusciva perfettamente a scorgere, in lontananza, gli alberi e la fitta vegetazione del New Jersey. Mancava poco, ormai. Avrebbe lasciato la città, trovato un posto per dormire e dopo avrebbe potuto piagnucolare quanto voleva. Ma fino ad allora, doveva stringere i denti e proseguire, ignorando il dolore, fisico o mentale che fosse.

E così fece. Più avanzava e più voleva accelerare il passo. Non ne poteva più di quelle strade. Il confine si fece sempre più vicino. La ragazza pensò quasi di poter finalmente tirare un sospiro di sollievo, ma un bagliore improvviso proveniente dalle sue spalle la fece irrigidire di colpo. Si voltò e vide una macchina in strada, la quale teneva i fari puntati proprio verso di lei. La mora fece una smorfia e socchiuse gli occhi. Chi diavolo poteva essere? Qualcun altro che voleva lasciare la città? Altri nemici? Seymour che cercava vendetta? Dubitava di quest’ultima eventualità. Ma allora chi?

L’auto la sorpassò e proseguì dritta. Per un momento la ragazza pensò quasi che avrebbe proseguito in quel modo, ignorandola completamente, ma questa, invece, iniziò a rallentare, per poi accostare ad una ventina di metri di distanza da lei.

«Altri guai? Sul serio?!» sussurrò lei, per poi mettere mano al borsone. Non aveva alcuna intenzione di farsi fregare di nuovo. Chiunque ci fosse dentro quell’auto, avrebbe dovuto tenersi a debita distanza da lei o avrebbe assaggiato il suo piombo. Afferrò il fucile e lo sollevò, dopodiché lo puntò verso la portiera anteriore, la quale si stava aprendo.

«Vuoi qualcosa da me? Vieni a prenderlo!» bisbigliò ancora, avvicinando il dito al grilletto. Ma non appena il guidatore scese e la ragazza vide il suo volto – il suo brutto volto – illuminato dal lampione sopra di lui, rimase a bocca aperta.

«Sì, anch’io sono felice di rivederti» disse quello, accennando con il mento al fucile della mora. «Ora però potresti abbassare quel coso?»

«Non ci credo...» sussurrò lei, abbassando lentamente l’arma. Anche altre due portiere si aprirono, ed altre due persone scesero dalla macchina. Rimase esterrefatta. Anche queste si voltarono verso di lei. Ci fu un breve momento di silenzio, in cui nessuno disse o fece nulla. Il tempo parve quasi fermarsi. Poi, la figura dai capelli biondi, sorrise entusiasta. «KOMI!»

Si separò dagli altri e le corse incontro. Amalia la osservò immobile, sempre più interdetta, sempre più convinta di star sognando. Ma quando Tara la stritolò in un abbraccio, quando vide i sorrisi di Rachel e Rosso rivolti verso di loro, quel momento le parve più reale che mai.

«Komi!» esclamò ancora la bionda, appoggiando il mento sulla sua spalla. «Non sai quanto sia felice di rivederti!»

«T-Tara...» sussurrò Amalia, ancora incredula, mentre un piccolo sorriso si accendeva sul suo volto, allargandosi man mano che il tempo passava e realizzava che tutto quello stava accadendo per davvero. Il fucile le cadde di mano mentre ricambiava la stretta con quanta forza ancora avesse in corpo, ignorando il dolore, la stanchezza, ogni cosa. «Tara!»

 Nemmeno si rese conto delle lacrime che cominciarono a scenderle dagli occhi. Mentre la vista le si appannava, non riusciva a ricordare un altro momento della sua vita in cui si era sentita così felice di vedere qualcuno. Le lacrime cominciarono a scendere in maniera autonoma, dapprima in un segno di sollievo, felicità, ma ben presto al sollievo si aggiunsero anche la tristezza, il rammarico, la rabbia.

Ciò che all’inizio era un semplice pianto di gioia si tramutò ben presto in uno sfogo vero e proprio, mentre tutte quelle lacrime che per troppo tempo si era tenuta dentro iniziavano a sgorgare senza freni. Pianse per la felicità di trovarsi lì, con loro, con lei, dopodiché pianse per la morte di Ursula, per quella di Ryan, per quella di Kori, pianse per essersene andata in quel modo ed essersi cacciata in quel guaio enorme, pianse per il mostro che sapeva di essere, pianse perché sapeva di essere sbagliata, pianse perché la sua vita era stata un autentico inferno e, per finire, pianse perché qualcuno che teneva a lei ancora esisteva, e, questa volta, lo avrebbe protetto fino a quando non avrebbe esalato il suo ultimo respiro. Affondò il volto nella spalla dell’amica e lo riempì di lacrime.

«T-Tara...» disse ancora, semplicemente. Si sentì tremendamente stupida, patetica, vulnerabile. E allo stesso tempo, mentre la bionda le carezzava i capelli e la schiena e le sussurrava all’orecchio che ora che erano di nuovo insieme non doveva più preoccuparsi di nulla, si sentì la persona più felice dell’universo.

Era lei. Era Tara, la sua amica. E l’aveva ritrovata.

 

***

 

Komand’r buttò fuori una nuvola di fumo dalla bocca. Quanto le era mancato il gusto amaro delle sigarette sul suo palato. Sapeva che ogni tiro fatto da quelle cose erano un minuto di vita che se ne andava, ma a lei non importava; fumare, ormai, era una delle poche soddisfazioni che le erano rimaste.

Anche una scopata non mi dispiacerebbe...

La mora sollevò lo sguardo, verso il cielo, dove poté constatare che il tempo non era affatto cambiato. Faceva freddo, certo, soprattutto dove si trovava lei in quel momento – sul tetto della stazione di servizio, parecchio fuori città, in cui si erano accampati per la notte – però il cielo era sereno, non c’era nessuna nuvola e la luna piena e le stelle erano ancora lì, libere di risplendere quanto volessero. E comunque, anche il freddo aveva smesso di essere un problema quando Rachel le aveva prestato una delle sue felpe.

«Così siamo pari» le aveva detto. Amalia non aveva nemmeno capito il perché di tale affermazione in un primo momento, solamente più tardi si era ricordata di quella volta che l’aveva rivestita e messa a dormire nel suo letto, ad Empire, in quella notte di pioggia torrenziale. Sembrava passata una vita intera da allora. Ne erano successe così tante...

Per quanto dura fosse stata, quella che aveva vissuto era comunque stata un’avventura assolutamente degna di un libro, o di un film. Tra pazzi maniaci, criminali, assassini, mostri con poteri disumani, ne aveva un sacco da raccontare.

Essere di nuovo con i suoi compagni di viaggio... le sembrava così strano. Era passato, quanto, uno, due giorni, da quando se n’era andata? Invece le pareva che fosse passato molto più tempo. Inoltre, era ormai così convinta di non incontrarli mai più che perfino in quel momento, ormai ore dopo la loro riunione, le sembrava tutto surreale.

Tara e Rachel le avevano detto che era stato grazie a Rosso se l’avevano ritrovata, che era stato lui a dedurre dove sarebbe andata, ossia verso il confine della città. Un sorrisetto si dipinse sul volto della ragazza a quel pensiero; sinceramente, il fatto che fosse stato proprio lui il maggior responsabile del suo ritrovamento le appariva quasi buffo, in particolare dopo tutte le volte che avevano cercato di azzannarsi a vicenda. Probabilmente c’erano gli zampini di Rachel e Tara, dietro.

E a proposito di Rachel, la mora aveva notato una certa intesa tra lei e Rosso, da quando era tornata. Cioè, un’intesa molto più forte di quella che ricordava. Forse alla fine i piccioncini si erano svegliati ed avevano capito di essere fatti l’uno per l’altra, forse.

Subito dopo la sua crisi di pianto, di cui ancora si vergognava leggermente, il trio le aveva raccontato che cos’era accaduto in sua assenza, e la mora doveva ammettere di essere in parte grata di essersi perso il combattimento con quel conduit impazzito, Domenico, o come cavolo si chiamava. Poi, quando Tara le aveva raccontato di essere di nuovo senza poteri, si era sinceramente sentita felice per lei. E quando le avevano detto che erano stati proprio i poteri di Rachel a "guarire" la bionda, non aveva potuto non provare un piccolo moto di gratitudine nei suoi confronti e, sicuramente, essere grata del fatto che Roth fosse dalla sua parte. Anche perché, sicuramente, senza la ragazza corvina non sarebbe mai sopravvissuta a Sub City.

L’aveva perdonata per la morte di Ryan, questo già gliel’aveva detto, però si era ripromessa di ripeterglielo. Perché era vero, Rachel non aveva nessuna colpa. Il responsabile di quell’atrocità aveva già pagato, ormai, ed era inutile rimuginarci su.

Ryan... quanto avrebbe voluto che fosse lì con lei, con loro, in quel momento. Quanto avrebbe voluto poterlo rivedere, potergli parlare, poter sentire la sua voce... poterlo abbracciare e potergli chiedere scusa per ogni cosa. Quanto avrebbe voluto...

«Non vai a dormire?» Un istante prima che la mora iniziasse a piangersi nuovamente addosso, la voce di Rosso provenne dalle sue spalle.

La ragazza ricacciò le lacrime e si voltò verso di lui, riacquistando la solita spavalderia che usava in sua presenza. «Potrei farti la stessa domanda...»

«Sì, ma te l’ho chiesto prima io» replicò il ragazzo, avvicinandosi e sedendosi sul bordo del tetto, accanto a lei. «Sarai esausta dopo quello che ti è successo. Quattro conduit non devono essere una passeggiata per nessuno. Ancora mi chiedo come tu abbia fatto a sopravvivere...»

Un sorrisetto provocatorio si accese sul volto della mora. «Sono piena di risorse.»

«Non voglio sapere altro...» mugugnò Rosso, strappandole una risatina.

Il silenzio scese tra loro per un momento, dopo che il ragazzo tacque. I due rimasero fermi, ad osservare il cielo e la vegetazione che li circondava, entrambi immersi nei propri pensieri. Amalia non sapeva perché Rosso si trovasse lì con lei, ma scoprì con una enorme sorpresa che la sua presenza non la infastidiva poi così tanto. Del resto, per quanto in disaccordo potessero essersi trovati in quei giorni, erano pur sempre una squadra. E comunque, grazie a lui Komi poté distrarsi per un poco dai suoi tormenti.

«Ascolta...» disse poi Lucas, rompendo il silenzio, tenendo gli occhi fissi sulle stelle. «... so che io e te abbiamo iniziato con il piede sbagliato, e so anche che probabilmente non saremo mai i migliori amici del cuore, ma voglio comunque che tu sappia che... che sono felice che tu stia bene.»

Komand’r lo osservò, questa volta con un sorriso perplesso stampato in faccia. «Questa è la cosa più carina che tu mi abbia mai detto, lo sai?»

«Sì, beh, non farci l’abitudine» rispose lui, voltandosi verso di lei e abbozzando un sorrisetto a sua volta. «È solo che mi sarebbe spiaciuto vederti tirare le cuoia. E, sicuramente, la cosa sarebbe spiaciuta anche a Rachel. E a Tara.»

«Lo so» convenne Amalia, sentendo le propria interiora attorcigliarsi quando la Markov venne nominata. «Ma posso assicurarvi che episodi simili non si verificheranno mai più. Non so a cosa stessi pensando quando me ne sono andata, ma so che me ne sono pentita fin dal primo istante. Dopotutto, nel bene e nel male, noi siamo una squadra.»

«Hai ragione, lo siamo. Perciò... credo che forse sia il caso di smettere di litigare, almeno per un po’. Che dici?»

«Vuoi fare la pace?» domandò Komi, inarcando un sopracciglio.

Lucas piegò il capo. «Chiamiamola... tregua.»

Amalia annuì, ridacchiando sommessamente. «Va bene, ci sto.»

Rosso annuì a sua volta, allargando leggermente il sorriso, dopodiché si voltò nuovamente. Il suo sorriso, tuttavia, ci mise poco a vacillare, come se stesse pensando a qualcosa di non esattamente felice. Abbassò lentamente lo sguardo, fino ad osservarsi le ginocchia. Komi si accorse immediatamente di quel suo repentino cambio d’umore e si insospettì. «Che ti prende? C’è qualcosa che non va?»

A quella domanda, lui tornò a guardarla. Il suo sguardo tradì qualsiasi emozione. Era... triste. La ragazza non riuscì proprio a spiegarsi il perché di ciò.

«Ascolta, Amalia...» iniziò a dire, incerto. Mai lei lo aveva visto così, forse solamente quando erano stati catturati da Dreamer. Ma anche all’epoca, più che altro le era sembrato arrabbiato. In quel momento, invece, sembrava davvero abbattuto. «... c’è... c’è una cosa che dovresti sapere...»

«Che cosa? Non vorrai mica dichiararti a me, vero? Scusa ma non sei il mio tipo» cercò di sdrammatizzare lei, ma lo sguardo serio di lui non mutò di una virgola. Anzi, parve quasi non gradire quella battutina.

«Non c’è da scherzare. Questa cosa riguarda me, te e chissà quante altri milioni di persone.»

Dopo quella frase, la mora iniziò seriamente ad essere turbata. «Di... di che cosa stai parlando?»

«Non è facile da spiegare, ma riguarda noi, persone che non possediamo il gene conduit. Vedi, c’è... c’è una...» Per tutto il tempo Lucas cercò di evitare il suo sguardo, ma non appena i loro occhi si incontrarono, il moro si interruppe. Amalia lo osservava sempre più perplessa ed anche preoccupata, mentre lui, invece, parve impossibilitato a dire altro. Distolse di nuovo lo sguardo, apparendo impossibilitato a reggerlo, quasi come un bambino di fronte ad un adulto.

«Niente, lascia stare» disse infine, rialzandosi in piedi e liquidando la faccenda. «Non è nulla di importante.»

Komi inarcò un sopracciglio, sempre più basita. «Davvero? Sei sicuro?»

«Sì, sta tranquilla. Sei appena tornata e non voglio romperti le scatole fin da subito. Ne riparleremo un’altra volta, in un momento più opportuno, magari.»

«Così mi metti ancora più soggezione, lo sai, vero?»

«Fidati, non è niente.» Rosso le diede le spalle e sollevò una mano. «Meglio che tu vada a riposarti adesso, domani ci aspetta un viaggio lungo. La California è piuttosto lontana da qui.»

Komand’r non era molto convinta, ma annuì ugualmente. «Sì, hai ragione. Buonanotte, Rosso.»

«’Notte.»

Rosso scese dal tetto passando per le scale sul retro. Amalia lo seguì con lo sguardo, con la mente piena di interrogativi. Che cosa voleva dirle Rosso? Perché le era sembrato così a disagio? Prima le sorrideva e faceva tutto il cordiale e subito dopo si tramutava nel bel – per modo di dire – tenebroso che ormai aveva imparato a conoscere? E lei che pensava di essere l’unica pseudo bipolare...

«Ahh, al diavolo» la ragazza si massaggiò una tempia, sbadigliando rumorosamente. Era troppo stanca per pensarci, e comunque, Lucas aveva ragione, un lungo viaggio attendeva tutti loro l’indomani. Avrebbe fatto meglio a riposarsi.

Si alzò in piedi e si diresse verso le scale a sua volta, sperando che quella notte di sonno cancellasse i brutti ricordi della giornata. Sapeva che non sarebbe mai stato così, però volle comunque aggrapparsi a quella speranza. D’altronde, sperare era una delle poche cose che le erano rimaste.

 

***

 

La ragazza entrò nella stanza sul retro, quella in cui "alloggiavano" lei e Tara. Vide la bionda dormire ancora profondamente, avvolta nel suo sacco a pelo. Un piccolo sorriso nacque sulle labbra di Komi. La Markov sembrava così tranquilla, così rilassata, come una bambina. Ancora una volta, la ragazza mora si rese conto di quanto una come lei si trovasse fuori posto in un mondo schifoso come quello. Bastava un solo sguardo per capire quanto fragile fosse, sia fisicamente che emotivamente. Anche lei aveva sofferto e non poco in quegli ultimi mesi, in quegli ultimi giorni soprattutto.

Le ritornò in mente il giorno in cui gli UDG avevano irrotto nel loro vecchio magazzino. Non aveva potuto fare niente per proteggerla; le avevano sparato, dopodiché avevano afferrato Tara e l’avevano portata via di forza. Le sue urla ed il suo pianto erano ancora vividi nella sua mente. A quei pensieri, la mora rabbrividì. Scosse rapidamente la testa, cercando di allontanare quegli spiacevoli ricordi, dopodiché si sedette sul pavimento, accanto all’amica. Se non altro, ora era al sicuro, assieme a lei. Con un tenue sorriso, Komand’r passò una mano fra i capelli di Tara, suscitando un verso di protesta da parte sua e facendola rigirare nel suo giaciglio quasi indispettita. Komi trattenne a stento una risatina.

Era così buffa. Così innocente. Così buona. Così... carina.

Amalia sospirò, dopodiché si sdraiò sul pavimento, accanto a lei, e congiunse le mani sopra al proprio ventre. Osservò in silenzio i neon spenti appesi al soffitto sopra di lei, con il solo suono del respiro della Markov a riempire la stanza. Un parlottare soffuso arrivava invece da oltre le pareti. Rachel e Lucas, sicuramente. Chissà che cosa si stavano dicendo. Si domandò se avesse a che fare con la cosa di cui Rosso voleva parlarle. O magari stavano solamente tubando un po’... ciò avrebbe spiegato il perché si erano presi una stanza tutta per loro. Ma dal tono di voce apparentemente agitato, quasi irritato, di lui, scartò ben presto questa opzione.

A quanto pare era successo qualcosa in sua assenza. Qualcosa di grosso. E lei, sinceramente, dubitava di voler davvero sapere di che cosa si trattasse.

«Mhhh...» Il verso impastato proveniente dal sacco a pelo di Tara la fece voltare di scatto. Vide la bionda girarsi nuovamente, questa volta verso di lei, per poi aprire lentamente gli occhi. «K... Komi?» domandò, assonnata.

Komand’r non poté trattenere un altro sorriso. «Presente.»

Tara fece un altro verso, questa volta facendola ridacchiare. «Sono felice che tu sia tornata...» mugugnò la bionda, per poi sbadigliare.

«Me l’hai già detto» rispose Amalia girandosi su un fianco e trovandosi faccia a faccia con l’amica.

«Sì, lo so, però... non ti avevo detto che mi dispiace.»

«Di cosa?»

«Non avrei dovuto... lasciarti andare via in quel modo. È stata colpa mia...» spiegò la bionda, abbassando lo sguardo.

«Ma che stai dicendo?» domandò Amalia, quasi basita. «Sono stata io ad andarmene, la colpa è solo mia. Non devi assumerti la responsabilità per le mie cazzate.»

«Sì, però... però...» La bionda singhiozzò. Komand’r sgranò gli occhi. Stava... stava piangendo?

«Ho avuto paura... di non rivederti più...» sussurrò Tara. «Quando... quando ti abbiamo ritrovata... ero al settimo cielo... ma non appena ho visto la tua ferita... io... io...»

«Tara...»

«E se fossi morta?! Se non ti avessimo più trovata?!» La bionda alzò la voce, per un momento Komi temette che Rosso e Rachel potessero addirittura sentirle. «E se quei tizi ti avessero... ti avessero...»

«Tara, calmati!» esclamò Amalia avvicinando una mano ed afferrando quella della bionda. Non avrebbe mai potuto pensare che tenesse a lei in quel modo. Certo, sapeva che erano amiche, una specie, perlomeno, però... era comunque un qualcosa a cui Komi non aveva mai pensato. Forse perché mai prima di allora qualcuno aveva davvero sembrato tenere a lei.

Tranne Kori. Od Ursula.

Strinse la mano della compagna. Ripensando alla donna albina, le ritornarono in mente le sue parole. Da sola non poteva fuggire da sé stessa, dai suoi demoni interiori. Ma con l’aiuto di qualcun altro, una persona fidata, qualcuno che fosse disposta a capirla, ad accettarla, qualcuno che davvero tenesse a lei...

Qualcuno che la afferrasse al volo. Qualcuno che la salvasse.

Tara...

«Non fare così, Tara. Ormai siamo qui, no? Siamo insieme. Non dobbiamo più preoccuparci di niente.»

«Non... non mi lascerai più?»

«No. Non lo farò.»

«Me lo... me lo prometti?»

«Sì.»

Le due ragazze si guardarono negli occhi. Nonostante la penombra, Amalia non sarebbe mai riuscita a non restare incantata di fronte alle splendidi iridi celesti di Tara. Di fronte a quell’espressione così... così dolce, così ingenua, così... buona.

Diavolo, ma come aveva potuto pensare anche solo per un momento che scappare fosse la cosa migliore da fare? Restare da sola e separarsi dall’unica persona che era riuscita ad avvicinarla e ad andare d’accordo con lei nonostante il suo caratteraccio. Certo, anche con Rachel andava d’accordo, però con lei non aveva la stessa intesa che aveva con Tara, nemmeno lontanamente. E ora che era lì, con lei, in quella stanza, si sentiva come se potesse confidarle anche il più oscuro dei suoi segreti.

Fino a quel mattino aveva pensato che rivolgersi a lei fosse un gesto egoista e sbagliato, ma in quel momento, di fronte a quello sguardo apprensivo, le sembrava l’esatto contrario, perché tanto sapeva che lei non l’avrebbe giudicata, mai.

E anche il dolore, la sofferenza provati per la morte di Ryan, erano ancora presenti, facevano ancora male, certo, tuttavia erano quasi come affievoliti. Non credeva che sarebbe mai successo, ma era così. Era Tara, era la sua presenza, era il suo calore a permettere ciò. Stando accanto a lei si sentiva come all’interno di un confortevole rifugio. E aveva deciso che quel rifugio non lo avrebbe più abbandonato. «Non ti lascerò... mai più.»

Un timido sorriso si accese sul volto della bionda. Fu la cosa più adorabile che Amalia avesse mai visto in quegli ultimi mesi.

«Mai... mai più...» rispose la ex conduit con voce sempre più flebile, come la fiamma di una candela pronta a spegnersi. Subito dopo, la Markov chiuse lentamente gli occhi. Si riaddormentò di fronte a lei, con ancora la mano intrecciata con quella della mora ed il sorriso sul volto.

Le labbra di Komi si arricciarono verso l’alto di fronte a quella scena. Probabilmente Tara non si sarebbe nemmeno ricordata di quella loro discussione l’indomani mattina. Era stanca, spossata dal suo precedente combattimento, era probabile che quello per lei fosse stato solamente un sogno, ma Amalia sapeva che non era così. Quella discussione era accaduta davvero. E la promessa che le aveva fatto, quella era determinata a mantenerla. Si avvicinò alla ex conduit e le diede un bacio sulla fronte. Aveva fallito a proteggere i suoi fratelli ed Ursula, ma non avrebbe fallito a proteggere lei, la sua amica, la sua migliore amica.

Anche se, sotto sotto, sentiva che quella che stava iniziando a provare per lei non era più semplice amicizia. Ma la cosa, anziché preoccuparla, la faceva sentire bene. Tremendamente bene. Aumentò la presa attorno alla mano della ragazza bionda, dopodiché si avvicinò ulteriormente a lei, poggiando la fronte contro la sua, e chiuse lentamente gli occhi.

Quella, fu la notte di sonno migliore che riuscì a trascorrere dopo anni ed anni.

 

 

 

 

 

 

 

 

E con questo, possiamo dichiarare finalmente conclusa la parentesi spin-off. C’è voluto un secolo emmezzo, ma alla fine ce l’abbiamo fatta. Mi spiace davvero di non essere riuscito a concludere questa piccola storiellina prima, ma come già dissi, non mi stava soddisfacendo abbastanza. Ma con qualche piccola modifica qua e là sono riuscito a farmela andare bene.

Vorrei ringraziare ArkhamTerror per avermi incitato a scrivere di nuovo, perché senza di lei probabilmente avrei lasciato il file di questo spin off ancora intoccato (per fortuna ho comunque avuto il sangue freddo di non cancellare i due capitoli che già avevo scritto, altrimenti sai quanti santi sarebbero piovuti per riscrivere tutto e lasciare intatta la perfetta impressione che avevo voluto dare di Amalia).

Quindi niente, la ringrazio di cuore.

Poi ovviamente ringrazio Rose Wilson per non avermi abbandonato. Non ancora, perlomeno. Hai una bella pazienza, lasciatelo dire.

Eustass_Sara, che da quando è ritornata ha saputo benissimo dimostrarmi tutto il suo supporto, e di questo le sono infinitamente grato.

Per concludere, Nanamin , che, anche se è davvero una brutta persona, mi ha fatto capire quanto questa storia fosse importante per lei e probabilmente anche per altri.

Tutte quante hanno scritto a loro volta delle storielline davvero carine sui nostri TT, pertanto vi consiglio caldamente di passare anche sul loro profilo per dare un’occhiata, perché secondo me meritano molto!

E niente, per il momento è tutto. Ci becchiamo alla prossima!

 

 

 

 

 

 

 

Stick Together

 

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