Io sono l'Alfa e l'Omega

di adria
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Anteprima ***
Capitolo 2: *** Prologo ***
Capitolo 3: *** Adriana ***
Capitolo 4: *** Vala ***



Capitolo 1
*** Anteprima ***


Ho conosciuto bene e male,
peccato e virtù, giustizia e ingiustizia;
ho giudicato e sono stato giudicato;
sono passato attraverso la nascita e la morte,
attraverso la gioia e il dolore, il cielo e l'inferno
e alla fine ho capito
che io sono nel tutto
e il tutto è in me.

 
Hazrat Inayat khan
 

 
 
 
 
 

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Capitolo 2
*** Prologo ***


Prologo
 
 

 
14 Marzo 2010
Londra, Inghilterra
Cimitero di Highgate


Era mezzogiorno.
Cielo limpido.
Il sole brillava alto.
Non soffiava un filo di vento e nell’aria c’era odore di ghiaccio, faceva freddo.
Il cimitero era affollato quel giorno: si stavano svolgendo tre funerali in simultanea.
Tre bare color ciliegio avevano sfilato per il sentiero in selce fino al luogo del loro eterno riposo. Tre famiglie piangevano la morte prematura di quelle creature e attorno a loro si erano riuniti, parenti,  amici e conoscenti in un macabro abbraccio nero. Al centro il prete, unica presenza bianca, unica luce solitaria, unica guida.
Questo era lo spettacolo che si osservava dalla collinetta che lo sovrasta.
Questo era lo spettacolo a cui assisteva in silenzio Derek Cabrera al riparo di una splendida quercia secolare. Una delle tante che erano state piantate nei dintorni.
Di sotto nessuno si era accorto della presenza di quel ragazzo alto, dal corpo atletico fasciato in un pesante cappotto nero, dalle spalle larghe, dai corti capelli cioccolato fondente, dalla mascella scolpita e dai cupi occhi ambrati che osservava silenzioso nell’ombra come un guerriero ninja.
- La morte è la curva della strada,
morire è solo non essere visto.
Se ascolto,
sento i tuoi passi esistere come io esisto.
La terra è fatta di cielo.
Mai nessuno s’è smarrito.
Tutto è verità e passaggio. - recitò in un sussurro solenne al cielo il ragazzo rompendo il silenzio di quel luogo sacro. Il tono era piatto.
- Fernando Pessoa. – rispose una voce maschile alle spalle di Derek.
Come Derek anche l’uomo era stretto in un cappotto doppio petto nero, avevano la stessa corporatura, ma l’uomo era di qualche anno più vecchio, aveva lunghi capelli biondi stretti in un codino, occhi neri e un lieve cenno di barba sul mento spigoloso.
- Esatto Edward. – si complimentò il ragazzo voltandosi a fronteggiare il nuovo arrivato. L’ombra di un sorriso tirato gli balenò sul viso.
- È stata una morte orribile. – disse Edward guardando il cimitero alle spalle del suo interlocutore
- Già. – si voltò ancora per un’ultima occhiata.
– Mi dispiace per la loro morte. Erano così giovani, avevano ancora tutta la vita davanti. –
- Già. – e non poté impedire al senso di colpa di trafiggergli il petto come avrebbe fatto la lama sottile del trafiere, la cosiddetta misericordia, non che lui pensasse di meritarsela eppure, razionalmente, non era stata colpa sua, non del tutto per lo meno.
Il silenziò calò di nuovo mentre i due osservavano il cimitero svuotarsi lentamente. Le bare erano state inghiottite dalla terra, sparite per sempre.
- Andiamo. – disse Derek ad un tratto avviandosi svelto giù per il sentiero tra le lapidi che avevano percorso per salire.
L’altro lo seguiva in silenzio come un’ombra.
Raggiunta l’appariscente berlina rossa, parcheggiata ai piedi della collina, salirono. Edward al fianco dell’autista e Derek dietro dove aspettava composto un ragazzo che era la sua esatta copia.
- Possiamo andare? – chiese il giovane al gemello appena questi chiuse la portiera.
- Certo Alan. – rispose Derek voltandosi a guardare il gemello con gli occhiali da sole che teneva lo sguardo fisso davanti a sé come sempre.
- Non mi sono mai piaciuti i funerali. – il tono di voce neutro.
- Lo so. –
Entrambi sorrisero.
Un sorriso tirato, stanco, triste.
A vederli così, l’uno di fianco all’altro, l’unica vistosa differenza era che Alan portava i capelli abbastanza lunghi da far si che qualche ciocca ribelle ricadesse disinvolta sulla fronte e gli coprissero un po’ i lobi delle orecchie, ma se il giovane si fosse tolto gli occhiali da sole con lenti a specchio firmati Armani avrebbe rivelato l’altra grande differenza: due occhi color ghiaccio tendenti al bianco, completamente ciechi.
- Dove andiamo? – chiese dal sedile anteriore l’autista guardandoli attraverso lo specchietto retrovisore. Aveva una voce cavernosa, potente.
- A caccia. – rispose Alan non curante.
L’autista accettò passivo la risposta e mise in moto.

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Capitolo 3
*** Adriana ***


23 Aprile 2014
Cagliari, Sardegna
Piazza Matteotti


L’otto, l’autobus cittadino, si fermò frenando di colpo di fianco all’isola pedonale in piazza Matteotti. Al suo solito posto.
Adriana Atzori scese tranquilla e s’incamminò sull’isola pedonale, giù, verso la stazione degli autobus, lontano dalle strisce pedonali. Scese dall’isola, si voltò a destra e attese che due macchine le passassero davanti, poi attraversò velocemente insieme ad un gruppo di persone con valige e borsoni tutti diretti alla stazione ferroviaria.
Come sempre una folata di vento avvolse la ragazza subito dopo aver messo piede nella stazione. I capelli, lunghi e mossi, mulinarono sotto l’effetto del vento e le ciocche che componevano il ciuffo laterale le finirono negli occhi, li tolse con non curanza e sorrise. Le era sempre piaciuta la sensazione del vento tra i capelli, specie se lunghi.
Adriana alzò lo sguardo verso l’orologio appeso: l’una e venti, era in perfetto orario.
Attraversò l’arco rilassata e senza rallentare il passo guardò il grande schermo con tutti gli orari e i binari dei treni in partenza. Il suo occhio allenato trovò facilmente il treno che le interessava e proseguì.
La voce registrata gracchiò dagli altoparlanti che un treno diretto chissà dove era in partenza da chissà quale binario, ad Adriana non importava, ma ad un gruppo di ragazzi con gli zaini in spalla che la superarono di corsa si. Era bello arrivare in anticipo, camminare tranquillamente verso il proprio binario mentre la gente ti superava correndo rischiando l’osso del collo. Sorrise a questo piacere malsano dettato dal fatto che una volta tanto non era lei a rischiare l’osso del collo per prendere un treno.
Al binario 5 il treno attendeva immobile i passeggeri.
La ragazza salì alla prima porta, entrò nello scompartimento di sinistra, superò i primi tre posti di fianco alla porta e prese posto nei quattro successivi. A parte due uomini seduti l’uno di fronte all’altro, qualche posto più avanti, lo scompartimento era vuoto. Mise borsa, busta e giubbotto nel sedile che dava sul corridoio e prese posto in quello vicino al finestrino abbandonandosi contro lo schienale.
Dopo aver osservato fuori dal finestrino per almeno cinque minuti il controllore attirò la sua attenzione chiedendole di mostrare il biglietto per poi riconoscerla come un’abbonata e dicendole che non importava. La ragazza sorrise mentre lo osservava uscire dalla parte opposta alla quale era entrato, sicuramente diretto nel suo ufficio. Tornò a guardare fuori nel vano tentativo di rimandare il più possibile l’inevitabile, ma alla fine si arrese e tornò a voltarsi per tirar fuori il quaderno degli appunti della penultima lezione che le aveva passato Ilaria, quella che aveva dovuto saltare per un appuntamento improrogabile dal medico. Lo sfogliò distrattamente, non aveva alcuna voglia di sistemare quegli appunti, peccato che non aveva nient’altro da fare visto che si era dimenticata il suo appassionante thriller a casa … e poi, in ogni caso, avrebbe comunque dovuto metter mano agli appunti, prima o poi, e dato che doveva occupare il tempo era meglio prima. Con un sospiro di pura rassegnazione frugò nella borsa recuperando il suo quaderno e la penna. Adorava il proprio quaderno a spirale con copertina rigida perché poteva piegarlo e scrivere comodamente praticamente dovunque come se fosse aperto per esteso su una superficie rigida. Sorridendo ne lisciò per bene la copertina come fosse un tesoro di inestimabile valore, osservò la maestosa una tigre bianca che vi era raffigurata e si accomodò meglio sul sedile registrando a malapena la figura elegante che prese posto sul sedile diagonalmente opposto al suo.
Mentre era immersa nella lettura preliminare il treno iniziò a muoversi, ma lei non vi badò come non prestava attenzione a ciò che le accadeva intorno. Non si accorse che quello scompartimento era occupato da sole quattro persone: lei, l’uomo che aveva davanti e i due uomini che aveva intravisto appena entrata. Non si accorse che questi ultimi avevano silenziosamente preso posto ai due lati del corridoio e presidiavano le porte dirottando chiunque volesse entrare e perfino confinando il povero controllore nel suo ufficio nella coda del treno. Non si accorse neanche che l’uomo che le stava di fronte la stava studiando attentamente al di sopra del giornale che avrebbe, in realtà, dovuto leggere.
L’uomo era lievemente sorpreso: quando gli avevano affidato quell’incarico gli avevano detto che non era un tipo molto comune certo, ma non aveva pensato alla possibilità di trovarla tanto interessante. Osservava assorto il suo delicato viso dai tratti comuni intenta a leggere mentre, con la penna, si arricciava una ciocca castana con riflessi dorati che gli ricordavano il miele, come stressava il labbro inferiore mentre scriveva e non poteva fare a meno di ammirare le gambe toniche accavallate avvolte nell’attillato jeans nero sul quale poggiavano i quaderni; per non parlare degli occhi di un stupefacente azzurro brillante che ogni tanto alzava senza rendersene conto, un gesto del tutto spontaneo. Non aveva nulla di particolare, escludendo gli occhi, non possedeva la bellezza delle super modelle e di certo non così appariscente, non aveva neanche delle gambe chilometriche, ma nessuno avrebbe mai potuto negare che era carina. Non ne aveva viste molte di bellezze del genere o più probabilmente non si era mai soffermato a studiarle, d’altronde, con il suo lavoro, non aveva il tempo per occuparsi anche del gentil sesso.
Con una frenata leggera che produsse un discreto contraccolpo il treno si fermò per la terza volta.
Adriana si riscosse e guardò fuori dal finestrino, Decimomannu gridava il cartello a lettere maiuscole.
L’uomo vide dipingersi un’espressione di leggera incredulità su quel volto da bambina, dal canto suo, lei non si capacitava del fatto che fossero ancora a Decimo. Le sembrava fosse passata un’eternità da quando si era messa a sistemare quei dannatissimi appunti che avrebbero dovuto essere il suo passatempo fino alla fine del viaggio. Non avrebbe dovuto iniziare prima della partenza del treno, si disse per poi sospirare. Ad ogni modo adesso non poteva farci niente, così, lentamente, rimise tutto al proprio posto per poi voltarsi a guardare la stazione al di là del vetro. Il suono acuto delle porte che si chiudevano e il treno riprese a muoversi.
La stazione rimase alle loro spalle dove, la ragazza lo sapeva bene ormai, l’avrebbe ritrovata il mattino seguente a darle il buon giorno.
Per la prima volta da quando aveva sepolto il naso negli appunti Adriana si guardò intorno e vide l’uomo che le stava davanti leggere il giornale che teneva tra le grandi mani. Lo osservò per qualche istante: ad occhio e croce doveva avere una trentina d’anni al massimo e l’eleganza del completo blu elettrico denotavano un notevole buon gusto e i capelli biondi stretti in un codino non gli stavano tanto male. Sorrise inconsciamente a quel pensiero abbassando lo sguardo sulle mani che aveva posato sul grembo, non erano certo affari suoi le acconciature degli altri. Subito dopo notò che lo scompartimento era molto tranquillo.
Troppo tranquillo trillò una fastidiosa voce emersa da chissà quale recesso della sua mente.
Smettila di fare la paranoica guardi troppi telefilm la rimproverò tornando a rivolgere la sua attenzione al paesaggio che scorreva fuori. L’unico passatempo che le era rimasto.
Guardò l’orologio. Miracolosamente il treno era in orario e se avesse continuato così avrebbe fatto in tempo a prendere il pulmino per rientrare in paese senza rompere le scatole a casa.
Il treno si fermò e riprese la sua corsa varie volte, non le aveva contate.
- Miss … scusi? – il tono incerto dell’uomo attirò l’attenzione di Adriana riscuotendola dalle sue considerazioni.
Si voltò e occhi color del cielo ne incontrarono un paio che parevano due pozzi neri.
- Ha sentito parlare degli omicidi? – chiese più sicuro adesso che aveva l’attenzione della ragazza.
Adriana registrò che la voce calma dell’uomo aveva l’accento inglese.
- Quali omicidi? – chiese lei presa alla sprovvista, non era una domanda che si sarebbe mai aspettata da uno sconosciuto che voleva attaccare bottone e dato che era da un po’ che viaggiava e per attaccare bottone ne aveva sentito di tutti i colori, ma quella proprio … le mancava ancora, ecco.
Per tutta risposta l’uomo voltò il giornale mettendo in mostra la prima pagina dove c’era l’immagine di una pineta che pullulava di carabinieri e poliziotti sovrastata dal titolo a lettere cubitali “Colpisce ancora. Ventunenne uccisa nel campidanese. Le autorità brancolano nel buio”.
Oh … quegli omicidi …
- Si. Gran brutta storia. – rispose lei non sapendo che altro si aspettasse di sentire l’uomo. D’altro canto lei non si era fatta un’opinione sulla faccenda, erano notizie che le sue orecchie captavano la mattina mentre usciva di corsa da casa e nulla più.
L’uomo inclinò un po’ la testa con un’espressione indecifrabile sul volto.
Certo che era un tipo strano!
- Cosa ne pensa? –
Adriana aveva la spiacevole sensazione di essere sotto esame, invece di essere una, per modo di dire,  semplice conversazione, pareva un velato interrogatorio. Nonostante ciò si costrinse a rispondere educatamente – Spero che tutto si sistemi in fretta. Mi pare sia la quarta o quinta vittima in poco tempo. –
- La sesta in effetti. –
- Bene, ulteriore conferma che il mondo sta andando a scatafascio. – constatò con un tono un po’ acido.
- Così sembrerebbe. – sorrise lievemente guardandola come se la stesse studiando.
Quell’individuo la metteva decisamente in soggezione e quella conversazione era durata anche troppo per i suoi gusti, quindi decise di tacere. L’altro parve capire l’antifona perché non tentò di rivolgerle ancora la parola.
Il treno si stava allontanando da Sanluri Stato e automaticamente Adriana iniziò a prepararsi a scendere. Era lieta di avere qualcosa da fare per distrarsi dallo sguardo dell’uomo che percepiva addosso e per ignorare uno strano senso d’inquietudine che sentiva salirgli dallo stomaco. Fortunatamente stava per andarsene.
Si mise il giubbotto e mentalmente contò i ponti che la separavano da San Gavino e quando il treno rallentò nuovamente prese borsa e busta e si alzò rivolgendo un sorriso di circostanza allo strano tipo che ricambiò ritirando le gambe per farla passare.
Oltrepassò i tre sedili vicini alla porta, uscì dallo scompartimento e trasse un respiro profondo; stava per scendere e dimenticare quello strano e quasi inquietante incontro. Crogiolandosi in questo pensiero afferrò la sbarra in metallo davanti alle porte senza accorgersi che l’occupante di uno dei tre posti al di là della porta l’aveva raggiunta e con un movimento fulmineo le mise una mano sulla bocca tirandola a sé. La busta le scivolò di mano per la sorpresa e prima di realizzare a pieno l’accaduto sentì una puntura alla base del collo, un allarmante pizzicore sotto la pelle e un istante dopo una strana e repentina debolezza impadronirsi del suo corpo.
Io l’avevo detto! la sgridò la famosa vocina Ti avevo avvisato, ma tu non mi hai dato retta!
Le gambe iniziarono a cederle prima che lei potesse anche solo rendersene conto. Si sentì sostenere dalle braccia forti dell’aggressore. La vista si stava annebbiando, una figura scura e sfocata avanzava verso di loro e poi più nulla.
Tutto nero.

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Capitolo 4
*** Vala ***


 
Nello stesso momento
 JFK airport, Long Island
New York

 
 
Vala Miller portava un caschetto sfilato perennemente scompigliato e in quel momento i lisci capelli biondi le andava a coprire mezzo viso: si era addormentata durante il tragitto verso l’aeroporto.
Vala era in una discoteca, si stava scatenando sul cubo con un affascinante ragazzo, un ballerino, la folla esaltata ai suoi piedi la idolatrava.
Ad un tratto la stanza si riempie di fumo.
Una densa coltre di fumo che li avvolge.
La musica techno che prima spaccava i timpani si attenua.
Il ballerino davanti a lei non c’è più, la stanza diventa fredda, i suoi piedi scalzi sono accarezzati dall’erba bagnata e i suoi polmoni avverto l’acqua nell’aria.
Non è fumo, è nebbia.
Non aveva mai visto nebbia tanto fitta in vita sua. Non riesce a distinguere bene le sue mani neanche se le mette davanti al naso.
Inizia ad agitarsi.
Non sa che fare, procede a tentoni seguendo un istinto primordiale.
Arriva, non sa come, ad una sepoltura gotica, dei ringhi bassi scuotono la nebbia e Vala inizia istintivamente a correre.
Corre senza una meta.
Corre e basta.
Improvvisamente sente l’assenza del terreno sotto i suoi piedi ed è come essere sospesa nell’aria, solo per un secondo che pare durare un’eternità, poi la forza di gravitò la reclama e precipita.
Vala si svegliò di colpo sull’auto.
Il cuore batteva furioso nel petto e aveva il fiatone.
Era stato un sogno, solo uno stupidissimo sogno.
Al suo fianco, suo padre, un uomo robusto con occhi castani e capelli brizzolati dal taglio marziale, era intento a fare manovra per riuscire a parcheggiare nell’unico posto miracolosamente libero davanti al JFK.
- Incubo? – chiese senza voltarsi.
- Devo smetterla di guardare horror giapponesi. – rispose la ragazza raddrizzandosi – Anzi, meglio evitare di guardare gli horror e basta! –
Il padre rise spegnendo il motore della Volvo per poi scendere.
Vala usò lo specchietto della tendina parasole per sistemarsi i capelli che le erano finiti sugli occhi durante il riposino. Un paio di grandi occhi cioccolato la fissarono dalla superficie riflettente, occhi da cerbiatto, innocenti, che la facevano assomigliare ad una bambola di porcellana. Sistemate le ciocche ribelli, prese la sua adorata Prada di pelle scamosciata color cammello che aveva abbandonato sul sedile posteriore e poi si decise finalmente a scendere dall’auto dove il padre che l’attendeva con trolley e borsone.
Appena le lunghe gambe inguainate nei jeans attillati fecero la loro comparsa varie teste iniziarono a girarsi con grande disappunto di suo padre. Succedeva sempre, il suo corpo snello, da ballerina, con tutte le curve al posto giusto attiravano gli sguardi come le api vengono attirate dal miele.
Il caldo soffocante l’avvolgeva come una pesante coperta umida.
E pensare che l’estate è ancora lontana, pensò amareggiata.
Trasse un respiro profondo come a voler imprimere nella memoria quell’aria pesante prima di dire allegramente - Possiamo andare. – e saltellando si avviò verso le porte scorrevoli che si aprirono al suo passaggio. L’incubo era dimenticato, sciolto come neve al sole.
Il padre sospirò e s’incamminò dietro la luce dei suoi occhi. Gli ricordava la madre, Alice, dalla quale aveva ereditato, oltre agli occhi, la camminata ancheggiante che faceva voltare ogni uomo etero nel raggio di decine di metri, la tendenza all’esibizionismo e un bel caratterino.
Una volta dentro, al fresco dell’aria condizionata, Vala guardò l’orologio, erano in anticipo di un’ora e mezza sull’imbarco e ciò significava che avevano il tempo per concedersi un momento di relax al bar e una visita al bagno, che lei riteneva obbligatoria visto che detestava i cubicoli claustrofobici degli aeri, prima di andare a sistemare il biglietto e imbarcarsi sull’aereo. Si voltò raggiante verso il genitore che vedendo quello sguardo si diresse immediatamente verso il bar senza fiatare. Conosceva sua figlia e sapeva bene che era inutile discutere con lei quando si metteva in testa qualcosa. Vala Clarice Miller era un vulcano in eruzione capace di travolgere tutto ciò che incontrava sul suo cammino.
Arrivati al bar, sobrio e accogliente, presero posto in un tavolo al centro del locale e subito un cameriere con l’acne, probabilmente un ragazzino al suo primo lavoro part-time, venne a prendere l’ordinazione.
- Ditemi. – disse allegro fissando Vala e la sua scollatura come se fosse l’incarnazione della Vergine Maria in abiti succinti.
- Un caffè nero. – rispose acido l’uomo guardando torvo l’adolescente che non smetteva di fissare la figlia intenta a recuperare il cellulare dalla borsa.
Vala alzò lo sguardo un attimo e disse - Per me un thè freddo alla pesca, grazie. – e si morse appena il labro inferiore compiaciuta dall’attenzione che le rivolgeva il ragazzino per poi riportare gli occhi sullo schermo illuminato del telefono su cui spiccavano le parole “Trovata n5” in una nuvoletta da fumetto color verde chiaro. Il suo cuore perse un battito dall’eccitazione e un grosso sorriso le si aprì in volto prima che potesse impedirselo, erano settimane che aspettava quella notizia.
 Percepì lo sguardo curioso del genitore, ma lo ignorò non aveva tempo, sentiva il proprio cuore battere veloce e sapeva che doveva darsi una calmata, non era il caso di attirare l’attenzione del padre. Trasse un respiro profondo e si rivolse al ragazzino che non si era mosso di un millimetro – Posso sapere dov’è il bagno? –
- Lì, in fondo a destra. – rispose sognante
- Asciugati il filo di bava e cresci. – lo rimproverò il signor Miller facendo sorridere la figlia che scosse la testa divertita e alzandosi addolcì il sorriso mentre posava lo sguardo sul povero cameriere che per poco non andò a sbattere contro un tavolino lungo il percorso verso il bancone.
Mentre si avviava verso il bagno molte teste si girarono ad ammirarla e lei, nonostante l’agitazione, era consapevole che immaginavano di toglierle gli attillati blue jeans a sigaretta e la canotta smanicata bianca con scollatura rotonda ampia abbastanza da mettere in mostra un bel pezzo di pelle dorata senza scadere nell’osceno e desideravano affondare le mani nei capelli biondi. Vala adorava quel genere di situazione, amava suscitare l’interesse degli uomini e l’invidia delle donne, sua madre l’aveva fatta bella e lei non trovava giusto nascondere il suo corpo e negare l’evidenza, perciò lo metteva volentieri in mostra, ma con classe. Era una ragazza per bene dopotutto.
Quando s’infilò nel bagno era già più tranquilla.
Notò che era vuoto e decise che, dopotutto, era meglio approfittarne ed entrò nel primo cubicolo libero senza indugi da cui ne uscì pochi istanti dopo tirando lo sciacquone. Si rassettò la canotta e rialzando la testa rimase bloccata a metà passo.
Vicino ai lavandini c’era un uomo alto, capelli castani, occhiali da sole e un fisico da palestrato in maglietta e jeans scuri. Si riscosse in fretta dalla sorpresa e, come se nulla fosse, si avvicinò al lavandino per lavarsi le mani.
- Hai sbagliato. È il bagno delle donne. – disse senza guardarlo
Uno strano pizzicore alla nuca e un guizzo di colore riflesso nello specchio le segnalò che l’uomo si era spostato alle sue spalle.
- Credo proprio di no. – rispose seducente con un sorriso sghembo.
La ragazza alzò gli occhi dalle mani scuotendole lievemente per asciugarle un po’, fissò le lenti scure degli occhiali nel riflesso e con lentezza inaudita si voltò e disse - Allora dovresti andare da un bravo oculista perché il cartello sulla porta parla chiaro e il disegno è a prova di idiota. –
L’individuo si avvicinava a passi lenti e calcolati, lei non si mosse di un millimetro.
- Chi ti dice che non l’abbia semplicemente ignorato? – adesso era a pochi centimetri dalla ragazza che poteva sentirne il profumo inebriante dell’acqua di colonia – E sai un’altra cosa? Ciò che vedo mi piace moltissimo. –
- Ti saresti trovato nei guai altrimenti. -
L’uomo non le permise di aggiungere altro, non che lei lo volesse comunque, e la baciò facendo aderire i loro corpi.
Un bacio lungo e carico di passione.

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