BLIND - Oltre la nebbia

di sam_di_angelo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***




 

BLIND - Oltre la nebbia


«Non permettere alle tue ferite di trasformarti in ciò che non sei.»

Difficile, quando le tue ferite diventano quotidiano dolore, quando non si rimarginano, quando ti strappano qualcosa che non potrà mai più tornare indietro.

Prima dell'incidente, non ho mai dato peso a ciò che la natura mi ha regalato alla nascita: i fiori erano colorati, profumati, fragili sotto le dita, ma mi sembrava una cosa così scontata che solo Dio sa quanto stessi sbagliando.

Dell'incidente ricordo tutto. Ricordo l'impatto, il dolore che esplodeva nel mio corpo, le ossa frantumarsi, la mia ultima preghiera; quella di morire. Sì, perché quando sei ad un passo dalla morte e vivere significa provare quel dolore straziante, lacerante, preferisci lasciarti cadere nelle sue braccia nere e farla finita.

I fari della macchina, l'ultima cosa che ho visto. Nel vero senso della parola. Da tre anni a questa parte, i fiori hanno perso i loro colori, e mi sono ritrovato addirittura a rimpiangere quella luce abbagliante. Quella che mi ha inondato lo sguardo, prima che mille schegge di metallo mi squarciassero i bulbi oculari.

***

«Jimin... Come ti senti, tesoro?» ignoro la voce di mia madre e mi allungo verso il comodino, il letto scricchiola sotto il mio peso. I miei polpastrelli incontrano il legno freddo e rugoso, scivolano sulla superficie in cerca del mio oggetto. Avverto un leggero fruscio accanto alla mia mano e capisco che la donna mi ha preceduto. La sento stagliarsi in piedi, come ogni giorno, accanto al mio letto.

«Tieni...» giro il palmo verso l'alto e lei ci lascia cadere il mio anello.

E' freddo, proprio come la giornata di oggi.

«Sei sicuro di non volere un passaggio?» stringo la presa e sento le unghie affondarmi nel palmo. Ancora una volta la ignoro e mi infilo il cerchio metallico all'anulare sinistro, come se fossi sposato con la mia disgrazia.

«Me lo chiedi ogni giorno. Mamma, sono cieco, non invalido.» mi metto a sedere, cerco il bastone appoggiato al letto. Fa freddissimo e come ogni mattina vorrei solo abbandonarmi fra le coperte e dormire.

«Jimin...» la pietà che traspare dalla sua voce mi rende matto. Ingoio il nodo che ho in gola e non appena trovo il mio fedele compagno di avventura mi dirigo lentamente verso la cucina.

Se c'è una cosa che ho sempre amato è la libertà, e l'indipendenza. Non poter vedere non significa dover rinunciare alla propria autonomia.

Mi siedo al mio tavolo e inizio a mangiare in silenzio quello che la mamma mi ha preparato. So benissimo dove posiziona il piatto, le posate, lo sciroppo d'acero da versare sui pancakes. E' una delle cose che più mi mancano dell'America. Quello sciroppo d'acero buono, paradisiaco e dolce sulla lingua.

Lascio che il passato scivoli giù nella mia gola accompagnato dal latte e caffè e mi alzo. Oggi è una giornata come tutte, e come sempre compio la stessa, noiosa routine.

Appoggio le mani al lavandino di ceramica. Ghiacciato anche questo. Lo ricordo bianco, lucido. Alzo la testa per incontrare il mio riflesso nello specchio, ma come al solito tutto ciò che vedo è il buio. Mia madre dice che sono bello come una volta, ma non le credo. Mi immagino: con le occhiaie nere, le cicatrici dei tanti interventi che ho subito, e, soprattutto, le iridi non più color nocciola, ma azzurre. Di un azzurro latteo, spento, segno che forse tre anni fa sono caduto davvero nelle braccia della morte, ma senza morire del tutto nel corpo. A dir poco terrificante.

Se c'è una cosa che ho imparato, è carpire gli sguardi. Riesco a leggerli sulla pelle, come se al momento in cui ho perso la vista io avessi accesso un sesto senso.

Quello che sento sul mio viso adesso è compassione, dolore e sofferenza. Immagino gli occhi di mia madre, pieni di lacrime. Neanche me lo ricordo più il suo viso. Ho il terrore di dimenticarlo, ed è per questo che continuo a tenermi in allenamento, sforzando la mente a disegnare i contorni dolci del suo viso, con tutti i colori caldi che gli appartenevano: la pelle ambrata, i capelli color cioccolato, morbidi come onde, le labbra piene e rosee, le guance, gli occhi a mandarla e i denti bianchi e dritti. Mi manca da morire poter vedere il suo sorriso. O poter sentire il suo sorriso. Non sorride mai.

Dalla Corea, all'America. Dall'America, all'Italia. Penso, ripercorrendo a ritroso la mia esistenza. Ho imparato a parlare tre lingue diverse. Sono finito in una piccola città nel sud dell'Italia, proprio nel tacco, e da tre anni a questa parte posso benissimo capire e parlare italiano. Una delle cose di cui i miei genitori sono fieri, delle poche cose.

Mentre aspetto l'autobus che mi porterà a scuola, al mio liceo scientifico, assaporo l'odore del mare e penso: chissà se è azzurro come nelle fotografie. Dicono che il mare italiano sia il più bello; non potrò mai saperlo.

Il bus arriva. Si aprono le porte e mi avvicino leggermente.

«Questo è il numero cinque?» sto sudando sotto gli occhiali da sole che ho sul naso.

«Sì, figliolo, sono Franco.» sorrido.

«Buongiorno Frank!» sento l'autista spegnere il motore e scendere dal mezzo. Si dirige verso di me, mi prende sotto braccio e mi aiuta a salire e a trovare un posto per sedermi.

«Grazie Frank, gentilissimo come sempre.»

«Sai che lo faccio con piacere.» adoro i giorni in cui Franco è di servizio. E' una delle persone più gentili che conosca. Le macchine dietro il bus iniziano a suonare i clacson. Franco li manda a quel paese con un'espressione del dialetto di questa città e riparte.

E io sorrido sentendolo.

***

Conto i minuti che mi separano dalla libertà. Il mio dito scivola sui pallini in rilievo mentre leggo il Paradiso di Dante. O almeno, ci provo. Sono così annoiato che non sto capendo nulla.

La mia carriera, da ballerino. Dio, quanto mi manca.

Avrei dovuto fare il mio debutto in Corea in un gruppo musicale formato da altri sei ragazzi, un gruppo k-pop. Mi allenavo costantemente, e pensavo solo e soltanto alla danza.

Poi, dopo l'incidente, sono volato in America per sei mesi, sono stato sotto i ferri dei migliori chirurghi. I miei hanno speso tutto il loro patrimonio, per nulla. Nessuna tecnica innovativa ha funzionato, e io mi sono risvegliato cieco, con la voglia di morire e senza niente nel petto.

Però, la cecità non mi ha impedito di continuare a ballare. Ogni giorno, per tutto il pomeriggio, mi chiudo nella scuola di danza vicino casa. La mia insegnante, Aurora, mi aiuta a creare coreografie a dir poco meravigliose. Lo so, anche se non posso vedermi. Mi immagino.

Quando ballo mi sembra di poter volare: chiudo tutto il mondo fuori. Ci sono solo io, la musica che riempie il mio vuoto, ed è tutto magia.

L'unico momento in cui mi sento davvero vivo.

Non mi importa dei concorsi, delle competizioni, e Aurora lo sa: ballo soltanto per vivere. Lei dice che vede me come la pura essenza della danza, vede la purezza e la bellezza. Ma purezza e bellezza per me, è solo e soltanto la danza, non sono io.

Le lancette dell'orologio sembrano pigre e lente, più del solito.

«Che ore sono?» domando a Matilda, la mia professoressa di sostegno. Mi aiuta negli studi e coordina il mio lavoro scolastico. E' molto dolce e gentile, anche se a volte mi da così tante cose da studiare che vorrei sparire dalla faccia della terra.

«Jimin, ancora? Me lo hai chiesto due minuti fa...» faccio spallucce.

«Voglio andare a danza.» le dico sinceramente.

«Lo so, ma se non ti concentri, il tempo passerà ancora più lentamente.» sento la sua mano poggiarsi sulla mia. Il suo tocco è tiepido e delicato, proprio come la sua voce. «Dai, leggiamo insieme.» ha ragione, se mi concentro il tempo passerà più in fretta. Prendo coraggio e leggo.

"Quel sol che pria d'amor mi scaldò 'l petto, di bella verità m'avea scoverto, provando e riprovando, il dolce aspetto."

 

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***



 

II


Voglio soltanto andarmene da qui. Diventare un ballerino e finalmente avere la vita che desidero da anni. Lontano da tutti, fra visi nuovi, fra nuove avventure. Voglio rischiare, prendere tutto come viene e se possibile avere i soldi. Tanti soldi. Per poter viaggiare, viaggiare e volare via, dovunque io desideri. 

Dal diario di Park Jimin, 07/02/2014

«Mi fidavo di te!» 

Sono furioso, fuori di me. Tiro un pugno e un rumore metallico mi scuote fino alle ossa. Ho colpito un armadietto. 

«Jimin, sii ragionevole, è per il tuo bene! Sai di aver bisogno di aiuto...»

Non ho bisogno di aiuto. Ho solo bisogno di stare da solo, cazzo. Stringo il pugno e sento le nocche stridere.

«Matilda, tutto ciò che mi serve adesso è pace. E non la troverò di certo andando da uno strizzacervelli.» mi avvicino pericolosamente al suo volto, fino a sentire il suo respiro sulla pelle. Il suo profumo di cannella mi invade le narici e mi da il voltastomaco. Digrigno i denti quando percepisco lo sguardo di tutti gli studenti del corridoio fissarsi su di me. 

Un moto di rabbia e odio mi ribolle nel petto, mi incendia la ragione.

«Tu e mia madre non avete capito che non ho bisogno di pietà, né tanto meno di altra gente che ficchi il naso nella mia vita.» chissà di che colore sono gli occhi, o i capelli, se è carina. So solo che ha ventotto anni, e che in questo momento mi guarda dispiaciuta, quasi ferita.

Ma non mi importa.

Afferro il bastone e mi volto. Prendo a camminare spedito, urtando qualcuno di tanto in tanto. Che si togliessero dalle palle, voglio andar via di qui.

I pancakes mi risalgono dallo stomaco fino alla gola, trattengo l'istinto di riversare tutto sul pavimento e continuo a camminare.

Almeno Matilda ha evitato di seguirmi, avrei dato di matto definitivamente. 

Spero che la mia memoria non mi inganni quando allungo la mano per trovare la porta di ingresso dell'istituto. Stringo la maniglia e spingo, e finalmente l'aria fresca mi inonda il viso. 

Faccio un respiro profondo ed esco, lasciandomi quell'inferno alle spalle. 

Decido di camminare verso casa. Il vento è gelido sulla faccia, pungente. Riempio i polmoni e assaporo la sensazione di freddo, dei brividi. I capelli sbatacchiano da una parte all'altra facendomi il solletico.

Ci metto molto ad arrivare. Quando apro la porta di casa (dopo aver faticato per trovare la toppa con la chiave) sento mia madre sussultare. In un millesimo di secondo mi stringe fra le sue braccia, quasi mi stritola.

«Jimin! Dio sia lodato! Ma sei pazzo? Hai tardato così tanto e... Pensavo che ti fosse successo qualcosa... Dio, Dio...» la voce si incrina.

Le accarezzo la spalla dolcemente, nel tentativo di rassicurarla. 

«E' tutto okay, stavo solo camminando un po', avevo bisogno di schiarirmi le idee.»

«Lo sai, lo sai che mi fai preoccupare come una matta! Un messaggio, Jimin, una telefonata! Quegli stupidissimi aggeggi elettronici dovranno pur servire a qualcosa, dannazione!»

Non rispondo. La abbraccio e aspetto che si tranquillizzi, come sempre. Conto i secondi che mi separano dal mio letto, e scelgo la canzone da ascoltare.

«Mamma, vado a stendermi un po'.» lei mi lascia andare titubante, e mi sfila il cappotto. Quasi perdo l'equilibrio inciampando nel bastone. L'odore di casa subito mi culla. Così familiare, così... Da posto sicuro.

«Fra poco è pronto, Jimin. Ti chiamo.» mamma mi da un bacio sulla fronte, sui capelli che mi scendono scomposti sul viso. Lei dice che sono tornati castani, scurissimi, che la tinta bionda che avevo fatto tre anni fa è andata via.

«Okay» rispondo solo, cercando di farle un sorriso. Spero si possa accontentare di una minima curva.

***

Mi maledico quando dagli auricolari inizia a sgorgare la canzone che più mi ricorda la Corea, e la mia vecchia vita. 

Stoppo e strappo via le cuffiette, ma ormai è troppo tardi. Sento un tuffo al cuore e non riesco a fermare la mia mente. Corre, si tuffa nel passato a va a rispecchiare il ricordo che più di tutti mi fa male. 

JungKook mi sorride. 

«Finalmente ti sei trovato la ragazza, Jiminnie!» tutti i miei amici mi spintonano e ridono, dandomi delle gomitate.

«Manda giù!» urla Taehyung alzando il suo bicchiere pieno di vodka rossa. Faccio lo stesso e entrambi i recipienti di vetro tintinnano e brillano in un brindisi. Dalle casse, dall'impianto stereo del garage di Yoongi, pompa la nostra canzone. Quella delle cazzate, quella che parla di noi, di quanto leggeri si può essere quando non si pensa a nulla se non alla musica, alla vita.

Le nostre risate riempiono la notte quando, ormai passate le due, siamo tutti brilli, e felici. Jin e Namjoon ballano, e tutti noi ridiamo. E' così che vorrei che fosse la mia vita: gioia, felicità e spensieratezza. Sono contento di averli incontrati, di aver incontrato i compagni con i quali debutterò e con i quali inizierò la mia carriera.

Chiudo gli occhi e butto la testa indietro, e rido. I cerchietti di metallo sulle mie orecchie tintinnano, e non mi sembra esista suono più bello.

«A noi!» urla Hoseok. E tutti rispondiamo gridando. "A noi!" e mandiamo giù l'ennesimo alcolico, con la testa leggera e la vita nel cuore.

Sto per morire dalla nostalgia.

***

«Jimin, le braccia! Più giù. Le dita, Jimin, tira le dita!» sono distratto. Sento Aurora battere nervosamente il piede sul parquet, segno che si sta spazientendo.

«Spiegami cos'hai.» dice, dopo aver spento lo stereo. Cerco di riprendermi dal fiatone e mi poggio con le mani sulle ginocchia. Una gocciolina di sudore rotola sulla mia fronte, fino a tuffarsi giù dal mento. Chissà dove cadrà.

«Scusami, è che oggi sono un po'...» so che non la berrà, perciò decido di andare dritto al sodo.

«Ora come ora, mi mancano i miei amici e la mia vecchia vita.»

«Sai che questa è la tua vita ora, Jimin. Non puoi tornare indietro. Non c'è futuro per chi vive nel passato. Perciò adesso concentrati e esci le palle.»

Come farei senza di lei? 

Aurora è una donna meravigliosa. Ha trent'anni, è bassa, un po' tozza e paffuta (me lo ha detto lei, e le credo) ma la sua fisicità non è mai riuscita ad abbattere i suoi sogni: ha ballato in giro per il mondo fin da piccola, ospite di teatri famosi, persino nei programmi in tv. Tuttavia, ha conservato tutto il suo denaro per le tre figlie, gemelle, e per la loro università, per il loro futuro. Adesso insegna come una qualunque maestra di ballo in una scuola di danza, molto umile e dedita al suo lavoro. La ammiro, perché, personalmente, non sarei stato capace di fare lo stesso. Avrei sperperato tutto senza pensarci due volte, solo per me stesso.

«Allora, Jimin... Cosa vuoi fare? Piangerti addosso, oppure tornare a respirare?»

«Sai che per noi ciechi è impossibile piangere.»

«Non è vero, stupido.» la sento avvicinarsi a passo svelto e darmi uno schiaffetto sulla testa. Sorrido.

«Con me non attacca, tesoro mio. Adesso bevi un po' d'acqua e riprendiamo, forza.»

Cerco di domare l'affanno e mi alzo, dritto sulla schiena. Mi avvicino ad Aurora, e le poggio una mano sulla spalla.

«So cosa stai pensando, Jimin. Non sto sprecando il mio tempo, e tu non devi dirmi grazie. Ora, tirati su, e balla.»

Chiudo gli occhi, quando lei poggia la sua mano sulla mia, e una scarica mi percuote. Ha dannatamente ragione. E' che a volte mi sento un peso per lei... Per tutti. E non potrò mai smettere di ringraziarla per tutto ciò che ha fatto e fa per me. 

Ricaccio indietro le maledette lacrime e mi chino per afferrare la bottiglietta di plastica che ho lasciato accanto allo specchio della sala. 

In questo momento, non mi importa del mio riflesso. Sono solo io, qui, ora. E posso scegliere cosa farne di me: 

ti piangerai addosso, o ti rialzerai, Jimin?

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