運命のファルファラ - Farfalla Of Fate.

di Class Of 13
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cooking!AU - Questione di Responsabilità. ***
Capitolo 2: *** Your Name!AU - Qual è il tuo nome? ***
Capitolo 3: *** Violet Evergarden!AU - Fiordaliso. ***



Capitolo 1
*** Cooking!AU - Questione di Responsabilità. ***


Questione Di Responsabilità.


Kurisu Makise non si era mai ritenuta un genio ma, senza ombra di dubbio, aveva notevole fiducia nelle proprie capacità. In numerosi avevano elogiato il suo talento culinario così precoce e credeva che, facendo richiesta di lavoro presso il May Queen, un lussuoso ristorante di Tokyo, avrebbe potuto coronare il suo sogno di diventare apprendista del leggendario Chef Tennōji, principale fautore della fama del suddetto posto.
Di certo, però, non si aspettava di essere buttata a fare la cameriera. O meglio, era perfettamente cosciente del fatto che, per arrivare all'apice del successo, sarebbe dovuta partire dal basso, ragion per cui occupare il ruolo della sguattera le sarebbe andato bene... Se il suo caposala non fosse stato lui.
Suzuki Kōichi, più noto, tra i dipendenti del ristorante, come Shidō, era un mezzo teppista figlio del direttore che si divertiva a trattare come marionette i suoi sottoposti - e non solo - per il solo gusto di sentirsi superiore. Era il suo capo e, da quando aveva messo piede al May Queen come cameriera, non aveva fatto altro che provarci spudoratamente con lei. Eppure, per quanto la povera Kurisu cercasse di rifiutare le sue avances con educazione per non perdere il posto di lavoro dopo due soli mesi, questi non sembrava non comprendere come non ci fosse trippa per gatti.
E adesso si ritrovava lì, seduta su un secchio capovolto nella strada sul retro del locale, stremata sia mentalmente che fisicamente. Era stata, fino a quel momento, una giornata particolarmente pesante: un importante critico culinario era stato ospite del ristorante e l'ammontare di lavoro era praticamente raddoppiato prima ancora che Kurisu potesse avere il tempo di prepararsi mentalmente.
L'unica consolazione, in quel breve momento di pausa, era la bella giornata di tarda primavera che l'aveva accolta all'esterno: si era lasciata andare ad occhi chiusi sotto i tiepidi raggi del sole e il cielo terso  e aveva sentito scivolare via, almeno in parte, lo stress di quella mattinata. Quando riaprì gli occhi, il suo sguardo fu catturato da una splendida farfalla azzurra che svolazzava distrattamente nei dintorni di un albero di ciliegio del parco retrostante il locale. Non ne aveva mai vista una dai colori così brillanti e, sebbene fosse una persona tutt'altro che superstiziosa, si concesse di pensare ad essa come un presagio di buona fortuna.

«Allora eri qui, dolcezza».

Kurisu Makise si ritrovò a soffocare, per l'ennesima volta in quella giornata, il desiderio di alzare gli occhi al cielo. Dopo aver preso un profondo respiro si voltò verso la fonte della voce, sforzandosi di usare il tono di voce più educato che riuscisse a trovare. «Posso aiutarla in qualche modo, Shidō-san?».

Il ragazzo dai capelli ossigenati e della carnagione scura palesemente frutto di una intensa serie di sedute abbronzanti sotto raggi UV, le si avvicinò rivolgendole un sorriso mellifluo. «Hai lavorato bene, oggi. Sai, stavo pensando di farti staccare prima, così possiamo uscire e farci un giretto solo noi due, se capisci ciò che intendo».

Kurisu sentì un brivido gelido scenderle lungo la schiena e dovette usare tutta la propria forza di volontà per reprimere un'espressione di sincero disgusto quando sentì la mano del ragazzo posarsi sulla sua spalla. Doveva trovare una scusa per rifiutare senza perdere il lavoro, e in fretta.

«Il suo invito mi lusinga, ma la verità... La verità è che non posso».

«Non puoi?», domandò l'altro con estremo disappunto.

Perfetto. Era stato bello finché era durato. Doveva solo farsi licenziare con dignità. «Beh, ecco... Sono... Ho già un impegno e -».

«Ehi, ti cercano in cucina».

Era colpa dell'istinto di sopravvivenza. Ricordava di averlo studiato in biologia, a scuola. L'uomo era un animale e, in quanto tale, era in grado di compiere azioni quasi involontarie al fine di garantire la propria sopravvivenza. Si era alzata di scatto e aveva afferrato il braccio del ragazzo che era improvvisamente sbucato sull'uscio della porta della cucina, sfoderando un sorriso a trentadue denti.

«La verità è che Okabe-san è il mio ragazzo e, sa com'è, avevamo programmato un appuntamento dopo il lavoro, oggi».

 
§

«Ti è andato per caso di volta il cervello?».
Kurisu Makise voleva sotterrarsi molto molto in profondità e tornare in superficie solo quando ormai tutti si fossero dimenticati di lei. Okabe Rintarō, un suo collega addetto alla cucina un anno e mezzo più grande di lei, si era trovato nel posto sbagliato al momento giusto ed era finito col diventare, almeno sulla carta, il suo ragazzo.
Era solo una misura temporanea, aveva spiegato, avrebbero dovuto fingere di stare assieme quando Shidō li osservava e lei, in cambio, avrebbe messo una buona parola per lui nel momento in cui la sua imminente promozione ad aiuto chef si fosse realizzata. Era un semplice contratto di lavoro.
«Per una volta siamo d'accordo, è un'assurdità. Ma proprio per questo potrebbe funzionare», spiegò al ragazzo mentre si avviavano fuori dal locale, lontani da orecchie indiscrete.
Okabe, in tutta risposta, le rivolse un sorriso strafottente. «E va bene, Christina, il sottoscritto, Hōōin Kyōma, ti concederà il suo aiuto dall'alto della sua immensa magnanimità, cerca di esserne grata».
Kurisu soppresse con immensa pazienza il bisogno di prenderlo a ceffoni. Okabe Rintarō era una pertica ambulante con un carattere decisamente difficile da gestire, con le sue fisse su cospirazioni varie e quel suo atteggiamento da "scienziato pazzo" che tanto le sapevano di sindrome adolescenziale.
«Certo, certo. Infinite grazie, Hōōin-san», tagliò corto prima di perdere quel briciolo di pazienza rimastole. «Ad ogni modo, perché mi stai accompagnando fino alla stazione?».
«L'Organizzazione potrebbe fare la sua mo- Okay, scusa», si affrettò a dire fulminato da un'occhiataccia rivoltagli dalla ragazza. «Un gentiluomo deve scortare la sua dama, giusto, Christina?»
«... Idiota. E ti ricordo che non c'è nessun "-tina"!».

 
§

I dieci giorni successivi furono qualcosa di molto simile al paradiso, ammesso che un luogo del genere esistesse. La notizia che Kurisu fosse sentimentalmente impegnata doveva aver scosso non poco Shidō, dal momento che questi l'aveva - finalmente- lasciata in pace durante le ore lavorative.
Con il suo principale scocciatore fuori dalle scatole, era riuscita a dare tutta se stessa sul posto di lavoro e la promozione ad aiuto chef divenne una realtà tangibile: quando non era troppo impegnata ai fornelli poteva osservare da vicino il modo in cui Tennōji preparava i suoi piatti e ricavare importanti consigli su come migliorare i propri. Era certa che, col tempo, tutti in quella cucina si sarebbero accorti del suo talento.

«Se cuoci i pettini di mare in questo modo eviterai di farli diventare gommosi, me l'ha spiegato Tennōji-san».

«Ah, grazie, Makise-san».

«Bene bene, vedo che stare vicino a chef Tennōji sta dando i suoi frutti, piccola». L'udire la voce di Shidō fin troppo vicina alle sue orecchie le provocò una tale ondata di disgusto che per poco non lasciò cadere la padella con i pettini che aveva cucinato con tanto impegno. «E mi sembra che il tuo fidanzato non si sia complimentato a dovere con te. Lascia che ti offra qualcosa dopo il lavoro per festeggiare».

 
§

«Nyon vai ad aiutarla, Kyōma-nyan?». Faris, la cameriera tuttofare più popolare del May Queen, nonché sua unica amica all'interno di quella cucina, gli rivolse un'occhiata piena di disappunto. «Shidō-nyan comincerà a dubitare della vostra farsa se non fai qualcosa!».

«Uh, dici che dovrei aiutarla?».

«Mi sembra ovvio, nya! Qualunque ragazzo dovrebbe dimostrarsi un myinimo geloso se qualcunyo ci provasse con la sua fidanzata». Okabe le rivolse uno sguardo che, con grande probabilità, rendeva molto bene quanto non comprendesse quel genere di cose. «Nyaaa, nyon mi stupisce che tu non abbia mai avuto una ragazza, Kyōma-nyan. Adesso va' e fai qualcosa per tirare quella poverinya fuori dai guai».
Spinto dalla cameriera dalla buffa parlata, si avvicinò a Kurisu, la quale era ancora impegnata a borbottare scuse che facevano acqua da tutte le parti e, senza pensarci troppo e senza curarsi della presenza di Shidō, le passò un braccio attorno alla vita, stringendola a sé. La ragazza si voltò verso di lui come se avesse visto un fantasma prima di avvampare e Okabe, in tutta risposta, la trascinò in un abbraccio degno di questo nome. Era una cosa che aveva visto fare in uno di quei drama di cui Mayuri, la sua migliore amica, era patita e sperò che la cosa fosse abbastanza convincente da far battere il ragazzo in ritirata.

«Ehi, ti sembra il modo di interrompere una conversazione?».

«Ah, scusa amico, ma ho saputo solo ora della promozione di Chris- volevo dire, della mia ragazza, quindi mi sentivo in dovere di complimentarmi con lei».
Kurisu, ancora stretta contro il suo petto in una farfugliante massa di capelli ramati, gli rivolse un'occhiata che probabilmente lo avrebbe fatto secco, se gli sguardi fossero stati in grado di uccidere. Okabe, che d'altra parte cominciava a rendersi conto di aver compiuto un gesto alquanto imbarazzante davanti a tutta la cucina, si chinò su di lei, bisbigliandole all'orecchio di reggergli il gioco se voleva che la sua strategia funzionasse.

«A-ah, t-tesoro! Che pensiero dolce che hai avuto! M-ma non ti saresti dovuto prendere tutto questo disturbo, stavo proprio per chiederti di uscire alla fine del turno!», la sentì dire, rossa fino alla radice dei capelli e con un sorriso che pareva più una paresi facciale che altro,  mentre posava la testa contro il suo petto.

Nonostante la cosa apparisse incredibilmente imbarazzante e forzata, Shidō evidentemente non doveva brillare per intelligenza, perché, con un'espressione visibilmente scocciata sbottò un "ho capito, ho capito, ma evitate di fare la coppietta cariadenti durante l'orario di lavoro" prima di girare sui tacchi e andarsene.

Non appena furono certi di essere fuori pericolo, si separarono immediatamente, quasi una forza repulsiva fosse intercorsa tra di loro. Senza dire nulla, ma ancora rossa come un pomodoro maturo in viso, Kurisu si voltò per tornare ai propri doveri, causando un moto di stizza nel ragazzo.

«Non c'è di che, Christina».

Vide la ragazza fermarsi di botto per poi voltarsi e caricarlo come una belva inferocita. Si sentì strattonato per una manica della divisa e pochi istanti dopo si ritrovò nella dispensa con uno scricciolo dai capelli ramati che a malapena arrivava sotto il suo mento che lo guardava in cagnesco. Proprio quando si sentì mentalmente pronto per ricevere un cazzotto in pieno viso successe qualcosa che non si sarebbe mai aspettato.

«... Gra-grazie».

Okabe era piuttosto sicuro che, se non fosse stata saldamente articolata al cranio, la sua mandibola avrebbe raggiunto il pavimento, in quel momento.

«Uhm, non c'è di che, tensai shōjo. Uno scienziato pazzo non rimangia mai la parola data».

«N-non farti strane idee! Non è che io ti sia propriamente grata, ma tengo davvero tanto a questo lavoro e quel deficiente di Shidō non vuole lasciarmi in pace e ti ho trascinato in tutto questo senza chiederti niente...».

Okabe la osservò perplesso per qualche istante, prima di lasciarsi sfuggire un sorriso divertito. Adesso capiva. Kurisu Makise era una tsundere e una della peggior specie, per di più.

«Si vede», la interruppe con calma. «Che ami questo lavoro, intendo».

«Beh, diventare un'allieva di Tennōji-san è sempre stato il mio sogno sin da quando ero una bambina», disse osservandosi i piedi. «Mi è sempre piaciuto cucinare, perché mio padre ha gestito un piccolo ristorante e io adoravo guardarlo cucinare e farmi insegnare da lui a preparare i piatti che più mi piacevano».

«Non avrei voluto essere nei panni di chi ha assaggiato i tuoi primi piatti», commentò ridacchiando.

«Ehi! Sono migliorata piuttosto in fretta!», lo rimbrottò la ragazza tirandogli giocosamente una gomitata nello stomaco.

«Ahia! Certo che sei davvero terribile...», la prese in giro prima di avviarsi verso la porta. «Ad ogni modo, il turno è finito. Fuori è buio, ti accompagno in stazione».

Kurisu lo guardò sorpresa per qualche istante prima di rivolgergli un cenno di assenso.«Oh... Grazie».

«Sicura di stare bene? Mi hai già ringraziato due volte nel giro di dieci minuti».

«Taci, stupido».

 
§

«Ma sei stupido o cosa? Ti avevo detto di stare attento e di controllarli affinché non si bruciassero mentre andavo ad aiutare Hashida-san con i dessert!».

«Stammi a sentire, zombie, tu non sei il mio capo e io ho altre mansioni a cui badare oltre a stare a sentire i tuoi ordini».

«Altre mansioni come, tanto per fare un esempio, far bruciare i migliori wonton che io sia mai riuscita a produrre?».

«Che sarà mai, basta togliere la parte bruciata e--».

«Faris-san, trattienimi, o questa volta lo prendo a pugni sul serio!».

Se doveva essere onesta si aspettava che, prima o poi, una cosa del genere sarebbe successa. Nell'ultimo mese e mezzo lei ed Okabe erano andati fin troppo d'accordo rispetto ai soliti standard, trascorrendo le loro pause a ridacchiare nello sgabuzzino delle facce assurde che Shidō faceva quando li vedeva assieme. In realtà non facevano nulla di eclatante. Si prendevano per mano per qualche istante, a volte si sforzavano di rivolgersi qualche sorriso, ogni tanto Okabe la abbracciava quando il molestatore le si avvicinava troppo e Kurisu si era perfino sforzata di lasciargli un bacio sulla guancia per ringraziarlo quando le aveva portato un mazzo di fiori per congratularsi per la sua promozione con il risultato di svenire a seguito di una copiosa epistassi.
 Ognuno dei quei gesti costava loro uno sforzo immenso. Kurisu aveva vissuto tutta la sua adolescenza in funzione del proprio sogno e Okabe, con i suoi bizzarri modi di fare e la sua completa incapacità nel leggere l'atmosfera, non aveva mai avuto una ragazza: il solo abbracciarsi o sfiorarsi le mani procurava ad entrambi una strana tensione  che non avrebbero definito come spiacevole ma che comunque gli impediva di essere completamente a loro agio con l'altro.

I membri della cucina che stavano assistendo a quell'ennesima litigata tra i due tra risatine e alzate di occhi al cielo, d'altro canto, non si ponevano domande su cosa stesse succedendo tra loro, vedendo l'accaduto come una delle tante scaramucce tra innamorati e proseguendo imperterriti nel loro lavoro, finché una voce da tutti conosciuta e odiata fece irruzione nella stanza.
«Ma insomma, che sta succedendo qui? Cosa sono queste urla? E voi due», inquisì Shidō puntando l'indice contro Okabe e Kurisu. «Voi due non me la raccontate giusta. Siete sicuri di essere davvero una coppia? Non credo che due persone innamorate finirebbero quasi con lo scannarsi tra di loro per degli involtini».

Nella stanza calò il silenzio. I neuroni di Kurisu Makise cominciarono a lavorare a pieno ritmo.

Non ora. Non adesso. Non quando sono così vicina a realizzare il mio sogno.

Davvero. Non era dipeso da lei nemmeno quella volta. Era il suo corpo ad essersi mosso da solo, spinto da quel desiderio irrefrenabile di non voler rinunciare ad un obiettivo ad un passo dalla sua realizzazione. Avrebbe pensato dopo alle conseguenze. Afferrò il ragazzo davanti a lei per il bavero della divisa, costringendolo a chinarsi per ovviare alla loro differenza d'altezza, e, serrando con forza gli occhi, posò con impeto le labbra sulle sue. Una scossa elettrica sembrò percorrerla da capo a piedi in quei brevissimi istanti in cui le loro labbra furono a contatto. Dai loro colleghi si alzò qualche colpo di tosse e qualche coraggioso si permise perfino di fischiare. Hashida-san, con voce indignata, invece, aveva urlato qualcosa sulle righe di "morte alle coppie in 3D!".

«Sono litigi tra innamorati», tagliò corto dopo aver mollato la presa su Okabe e rivolgendosi a Shidō. «Nulla che un bacio e una bella chiacchierata non possano risolvere».

«Mah, vedete di calmarvi durante la pausa. Non possiamo mandare a monte il servizio dell'ora di cena per i vostri litigi da coppietta», li rimproverò prima di sparire oltre le porte che davano sulla sala.

Quando Kurisu trovò il coraggio di guardare Okabe, questi la stava fissando visibilmente scioccato, le guance tinte di un pallido rosso. I loro colleghi li osservavano con espressioni visibilmente divertite.

«Tu», disse rivolgendosi ad Okabe senza guardarlo in faccia. «Ci vediamo al solito posto, dobbiamo discutere di un paio di cose durante questa pausa».

Il ragazzo la osservò dirigersi a passo svelto, ancora palesemente sconvolto, verso il magazzino prima di fissare imbarazzato il pubblico che popolava la cucina. «Ehi, voi», borbottò dopo essersi schiarito la voce. «Che avete da guardare? Tornate al lavoro».

 
§

Quando Okabe la raggiunse nel magazzino, Kurisu non riusciva a distogliere lo sguardo dalle interessantissime piastrelle a tinta unita del pavimento. Si sentiva terribilmente in imbarazzo per il gesto che aveva compiuto ma non se ne pentiva e non era del tutto sicura che ciò fosse dovuto al fatto che era riuscita a salvare, ancora una volta, il suo preziosissimo sogno.
Sentiva lo sguardo di Okabe su di sé, ma tutto il suo coraggio doveva essersi esaurito in quel momento in cui lo aveva baciato davanti a tutta la cucina, perché non riusciva davvero a guardarlo in faccia. Cielo, aveva dato il suo primo bacio ad un idiota.

«Kurisu».

Era la prima volta che la chiamava con il suo vero nome e, quasi istintivamente, i loro sguardi si incontrarono.
Kurisu si ritrovò a chiudere gli occhi, le guance che le pizzicavano e un leggero formicolio sotto la pelle, e le labbra di Okabe si posarono delicatamente sulle sue, separandosi prima ancora che potesse formulare un pensiero coerente. Non era stato molto meglio rispetto a quello nella cucina, dove, nella foga del gesto, aveva sbattuto contro i denti dell'altro. Se avesse dovuto descrivere quel secondo bacio lo avrebbe associato all'immagine di due passerotti che si beccavano l'un altro. Breve, timido, leggero e, soprattutto, pieno di imbarazzo.

«Soltanto... Soltanto un bacio», rispose alla tacita domanda che lesse nello sguardo del ragazzo.

E poi, senza che nemmeno lei si ricordasse come ci era finita, si era ritrovata di schiena contro la parete della dispensa e un braccio di Okabe attorno alla vita, intenta a muovere languidamente le proprie labbra assieme a quelle del ragazzo. In un momento non precisato - forse quando si era reso conto di poterla baciare senza temere di romperla- lui le aveva addirittura posato una mano sulla guancia, carezzandola distrattamente con il pollice.

«Quante... Quante volte fino ad ora?», domandò Okabe separandosi un attimo dalle sue labbra per riprendere fiato.
«Che ne so... 26, forse?».
«Le hai contate?!».
«S-sta' zitto!».
§

Non le era esattamente chiaro il perché lei e Okabe fossero finiti con lo spendere la loro pausa di quel giorno a baciarsi nel magazzino delle provviste, sapeva solo che da quel giorno, per entrambi, era diventato molto meno difficile comportarsi come una coppia di innamorati. Certo, avevano continuato a battibeccare come una vecchia coppia sposata un giorno sì e l'altro pure, e lei riusciva a farsi chiamare con il suo nome da Okabe, il quale si ostinava ad usare quei soprannomi ridicoli in ogni occasione, soltanto quando si ritrovavano a reiterare quanto successo nel magazzino.

E poi, un giorno di un paio di mesi dopo, era arrivata una nuova ragazza in cucina - come si chiamava? Ah, sì, Ruka Urushibara - e Shidō era finito con lo spostare le proprie mire su di lei e lei ed Okabe si erano sentiti in dovere di festeggiare l'avvenimento.
Rubata una bottiglia di sakè dal frigo, si erano rifugiati dietro l'uscita posteriore del locale, concedendosi un brindisi.

«Ho l'impressione che Shidō non sarà molto felice quando scoprirà che Rukako è un ragazzo», commentò Okabe visibilmente divertito prima di buttare giù un sorso di liquore.

«Però c'è da dire che è un ragazzo estremamente talentuoso, potrebbe rubarmi il posto se non faccio attenzione».

«Sei davvero terribile, non fai altro che pensare al lavoro», la prese in giro riempiendole di nuovo il bicchiere di sakè.

«Non è vero, e comunque mi ami lo stesso». In realtà era stata una cosa detta per scherzare. Non era nemmeno sicura che tra lei ed Okabe ci fosse effettivamente qualcosa, ma aveva voluto fare quella battuta per ridere con leggerezza di quel periodo che avevano dovuto passare a fingere di essere una coppia.

«Invece è vero», fu la risposta inaspettatamente seria di Okabe. «E sì, ho, veramente, completamente perso la testa per te, quindi assumitene la responsabilità».

Kurisu avvampò. «U-umph. Io mi assumo sempre le mie responsabilità».

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Capitolo 2
*** Your Name!AU - Qual è il tuo nome? ***


Non credo ci siano parole adatte per esprimere quanto io sia affezionata a questa storia. Alla sua prima stesura impiegai davvero tanto a scriverla e il risultato, per quanto fosse una buona partenza di base, presentava un sacco di problemi sia a causa della ruggine che avevo messo su come "scrittrice" sia a causa della pigrzia, che mi aveva impedito di elaborare ulteriormente determinate scene. Se questa storia adesso è bella e struggente è perché Cross- flame ha fatto un immenso lavoro di correzione di bozze, aiutandomi a capire davvero un sacco di cose sul "ritmo" che una storia dovrebbe avere (oltre al fatto che la pigirizia è la mia peggior nemica). Siamo passati da 10.000 parole a quasi 12.500, quindi direi che c'è stato un bel labor limae da entrambe le parti.

Quanto al tema della storia, dal momento che precedentemente non mi ero espressa al riguardo, posso solo dire di essere una fan sfegatata delle opere di Makoto Shinkai, e che certi momenti di Your Name. non smettono mai di commuovermi, anche per merito della splendida colonna sonora. Kurisu e Okabe nel mio cuore sono sempre stati dei perfetti Mitsuha e Taki, i cosiddetti "star-crossed lovers", perciò sono davvero contenta di essere riuscita a scrivere questa storia e di averla sistemata.

Per il resto, come al solito, mi sono divertita a fare un mucchio di citazioni a diverse opere relative a Steins;Gate e mi auguro che qualche hardcore fan come me le colga e ne gioisca (o ne soffra, visto che il 90% delle mie produzioni è composto da sofferenza su foglio virtuale, ma va bene). Vi consiglio anche di ascoltare le OST del film originale, perché i RADWIMPS hanno fatto un lavoro eccelso, ma penso che anche le stesse OST di S;G e S;G 0 vadano più che bene per la storia. Siate un po' voi gli artefici della colonna sonora di questa storia, potrebbe essere divertente.


 


 


«Ogni tanto la mattina, quando mi sveglio, mi capita di ritrovarmi in lacrime.
Mi resta la sensazione che qualcosa sia perso per sempre.
Il sogno che so di aver fatto non riesco mai a ricordarlo.
Però... Sono sempre alla ricerca di qualcuno».


Quando Okabe Rintarō si risveglia, in quella brillante mattinata di inizio primavera, comprende subito come ci sia qualcosa che non quadra. Ad accoglierlo non appena apre gli occhi non c'è il familiare soffitto del Laboratorio, ma quello monotono di ciò che suppone dover essere la sua camera da letto. Pareti tinte di un tenue color glicine, tende e lenzuola di colori pastello. Una piccola scrivania giace contro un muro, una miriade di fogli sparpagliata sulla superficie di legno. Dei peluche piuttosto carini rappresentanti delle mascotte di diversi anime sono abbandonati sul letto su cui stava dormendo fino a qualche istante prima.

Nel momento in cui schizza a sedere, una cascata di lunghi e setosi capelli ramati gli oscura la vista, sparpagliandosi sulle sue ora esili spalle nel momento in cui delle mani piccole e sottili - che scopre essere le sue - si prodigano di toglierli dalla sua visuale.

In preda al panico, le sue mani afferrano istintivamente qualcosa che dovrebbe trovarsi sotto il tessuto della maglia. Non può nascondere il suo disappunto quando ci trova qualcosa di pericolosamente vicino al nulla.

Con incredibile sforzo, si alza alla ricerca di uno specchio, per poi trovarlo sopra il lavandino del bagno (da quando ha il bagno in camera?). Sta indossando una ridicola t-shirt rosa e un paio di pantaloncini neri che appartengono sicuramente ad un pigiama e la persona che ricambia il suo sguardo è una donna dagli occhi azzurri e il corpo snello che non sembra essere molto più giovane di lui.

“...Eh?”

Un urlo appartenente ad una voce femminile che di sicuro non si addice ad uno scienziato pazzo del suo calibro riecheggia per la casa. La delusione si appropria completamente del suo essere mentre osserva con occhi increduli il suo “nuovo” corpo.


“Tutturu!~”

Il bizzarro saluto è ciò che desta, accompagnato da un terribile mal di schiena, Makise Kurisu dal suo sonno.

Kurisu si obbliga ad alzarsi da quello che sembra essere un divano troppo piccolo per le sue gambe lunghe e ossute. È sempre stata così alta? E da quando ha comprato dei pantaloni color kaki?

Davanti a lei si erge una ragazzina bruna, con delle folte sopracciglia e un gran sorriso e la situazione si fa improvvisamente molto chiara e allo stesso tempo terribilmente confusa: qualcosa non è come dovrebbe essere.

Si rende conto di trovarsi in una stanzetta immersa nella penombra e in un quantitativo assolutamente poco salutare di polvere. Un ragazzo decisamente troppo… tondo per i normali standard siede davanti ad un PC, ridacchiando. Qualcosa nella sua risata la turba.

Quando si passa una mano sul volto non può evitare di sentire l’affilatezza dei suoi zigomi e l’accenno di barba sul suo mento. «Uhm… potresti dirmi dove si trova il bagno?»

La ragazza, dopo aver rivolto a Kurisu un cenno interrogativo con la testa, risponde subito. «È lì, Okarin». Punta il dito alle sue spalle . «Ci vai sempre--».

Kurisu ignora il resto dei commenti della ragazza e corre in bagno, sbattendo la porta dietro di sé. Nel momento in cui si gira si trova di fronte ad uno specchio che riflette l’immagine di un ragazzo sui vent’anni dai capelli neri tirati disordinatamente indietro e che indossa un polveroso camice bianco su una semplice t-shirt.

Nel momento in cui si accorge che c’è effettivamente qualcosa tra le sue gambe, lancia un grido che minaccia di crepare tutti i vetri dell’appartamento.


Per tre volte, quella settimana, si ritrovano a fare degli strani sogni che somigliano tanto alla vita di qualcun altro. Il ricordo, al loro risveglio, è qualcosa di indistinto e sfocato, ma le reazioni delle persone attorno a loro non lasciano spazio ad altre possibilità sull'accaduto.

Maho Hiyajō, sua collega e rispettata “senpai” di Kurisu presso la Victor Chondria University, la osserva con sospetto, quasi stesse cercando di esaminarla. Non può fare a meno di tirare un sospiro di sollievo nel momento in cui la sua analisi giunge al termine.

«Ah, oggi sembri normale, finalmente».

«Normale? Non capisco di cosa tu stia parlando, senpai», risponde confusa.

«Te ne sei dimenticata? Prima dimentichi il tuo nome, poi come parlare inglese e infine hai dimenticato le credenziali di accesso ad Amadeus. La gente del laboratorio sta cominciando a chiedersi cosa ti sia successo.»

Kurisu Makise, di lì a qualche mese diciottenne e affermata neuroscienziata in un prestigioso istituto americano, ricorda qualcosa e improvvisamente a chi dare la colpa dell'accaduto, anche se la cosa va contro ogni possibile teoria scientifica che passa in rassegna nella sua mente.
Il giorno prima aveva avuto uno strano sogno in cui si svegliava su un polveroso divano nei panni di un ragazzo dall’aspetto ordinario, circondata da persone che non conosceva. Subito dopo i suoi colleghi più anziani nel laboratorio le avevano fatto presenti alcuni cambiamenti piuttosto sospetti nel suo comportamento di cui lei non era a conoscenza.

Aveva brevemente preso in considerazione una perdita di memoria a breve termine, ma le reazioni dei suoi conoscenti suggerivano come non fosse quello il caso. Perciò, dopo un’attenta analisi degli eventi era arrivata alla conclusione che ciò di cui erano stati testimoni fosse una personalità completamente diversa dalla sua.

Con un sospiro si lascia cadere sulla sedia davanti alla sua scrivania, decidendo di focalizzare la propria attenzione sulla revisione della tesi che avrebbe dovuto consegnare quella settimana. Scorrendo le pagine qualcosa attira il suo sguardo. Porta l’orlo di una pagina più vicino al suo volto e Kurisu riconosce una serie di disordinati caratteri giapponesi che recitano:

Si può sapere chi sei?

Kurisu osserva la frase per qualche istante ed improvvisamente è certa che, nei giorni passati, un qualche fenomeno strano e straordinario abbia colpito il suo cervello.

 



Quella mattina la figura imponente del Professor Alexis Leskinen la saluta con un gran sorriso e Kurisu nota immediatamente il dispositivo di traduzione che il suo superiore è solito indossare durante i suoi viaggi all’estero.

«Ah, Kurisu! Ohayō gozaimasu, kyō wa genki desu ka?».

«-- La ringrazio, Professore, ma oggi sono finalmente tornata in perfetta forma, perciò non è necessario che ne faccia uso. Chiedo scusa per la mia performance degli scorsi giorni», risponde in fluente inglese.

Vedere il professor Leskinen rivolgersi a lei nella sua lingua natia è un’ulteriore conferma della sua ipotesi: lei e quel misterioso ragazzo si stanno scambiando i corpi. Per una conferma più definitiva prende una penna e scarabocchia qualcosa in hiragana sulla sua mano destra:

 

Chi sei TU,  piuttosto!
 


«Okarin, amico, credo che sia finalmente giunto il momento in cui tu abbia perso completamente la testa».


Rintarō Okabe, diciotto anni, studente di Ingegneria Elettronica alla Tokyo Denki University, guarda il suo fido braccio destro, Itaru Hashida - detto semplicemente "Daru" -  con aria perplessa.

«Taci, SupaH HackaH. Io sono il folle scienziato pazzo Hōōin Kyōma, è normale che il mondo fatichi a comprendere il mio genio!», esclama con fare teatrale  incrociando le braccia in una posa altrettanto esagerata.

«Oooh, Okarin è tornato se stesso, Mayushii è così felice!».

Mayuri Shiina, sedici anni, sua amica d'infanzia, gli corre incontro abbracciandolo con più esuberanza del solito. Quando sente qualcosa di morbido premere contro il suo addome, per qualche misterioso motivo, anziché provare il solito imbarazzo, ripensa allo strano sogno che ha fatto: sarebbe stato decisamente migliore se quella ragazza avesse avuto le curve della sua amica. Okabe mette rapidamente da parte l’idea per rispondere alla sua amica.

«Ti ho già detto che il mio nome è Hōōin-».

«Mayushii temeva che ad Okarin fosse successo qualcosa di strano, o che fosse arrabbiato con lei», spiega la ragazza ignorando come al solito le sue proteste. Mayuri allora gli fa presente la propria perplessità sul suo bizzarro comportamento, descrivendo con aria in qualche modo preoccupata come abbia detto di non conoscere nessuno chiamato “Hōōin Kyōma” e che lei non “fosse affatto un ostaggio”.

Lo sguardo di Okabe saetta tra i suoi due amici, non capendo cosa stia succedendo. Cosa intende dire Mayuri con tutto quello?

Dopo qualche istante di riflessione decide di attribuire la sua confusione all'essersi svegliato da poco, così si prodiga a porre rimedio al problema ingurgitando per metà una bottiglietta di Dr.Pepper.

«Molto meglio. Sento già le mie sinapsi tornare a funzionare a dovere grazie all'elisir degli intellettuali».

La sua attuale situazione si fa ancora più bizzarra con il passare dei secondi e Okabe comincia a domandarsi come le cose possano essere andate così. Lui è un folle scienziato pazzo ma ciò che è accaduto va ben oltre la sua solita follia, a meno che non ci sia qualcosa che non sta tenendo in conto.

Ripercorre rapidamente gli eventi della settimana appena trascorsa e improvvisamente ricorda: un paio di giorni prima aveva avuto uno strano sogno in cui stava vivendo la vita di una giovane donna… “Kurisu”, forse?

“...Che ci sia una connessione tra di loro?” Inizia a teorizzare.

Daru lo interpella all’improvviso, interrompendo i suoi pensieri.
«Okarin, che diavolo hai sul braccio?» .


Sollevando appena la manica sinistra del suo camice, Okabe trova una scritta nera che era sicuro non fosse stata lì, quando era andato a dormire la notte precedente.

Chi sei TU, piuttosto!

E improvvisamente realizza che non è stato un sogno. Lui e quella misteriosa ragazza si stanno realmente scambiando i corpi.

 


Anche se avevano finalmente superato il problema della comunicazione, ciò non significava che fosse facile vivere in un corpo diverso dal proprio.


La tabella di marcia lavorativa di Kurisu è assurdamente piena e, al termine di ogni giorno vissuto nel corpo della giovane scienziata, si sente come se il suo cervello sia sul punto di esplodere, anche se il “suo” corpo sembra essere abituato alla mancanza di sonno e alla costante alimentazione a base di caffeina. Un giorno in particolare, mentre cerca di comprendere le basi sul funzionamento di un cervello umano, Okabe si addormenta nel poco familiare laboratorio della Victor Chondria University, sbavando molto poco educatamente su tutti i suoi appunti.

Perché nella tua vita tutto sembra ruotare attorno alla scienza, zombie?
Non mi sorprende che tu non abbia un ragazzo. ( ̄▼ ̄)

Perché è il mio lavoro, duh.
Non ne ho uno semplicemente perché non ne voglio uno. (¬▂¬)

 

Ma che razza di faccia di bronzo è lui per prenderla in giro per il suo essere single? Non è che la sua situazione sia molto diversa dalla sua; è abbastanza sicura del fatto che le sue capacità di socializzazione siano pressoché inesistenti, data la… “variegatezza” di quel gruppo che sono i suoi amici. Almeno lei ha avuto la sua buona dose di spasimanti ma è troppo concentrata sulla sua ricerca per prestar loro attenzione.

Sì, bella scusa, Christina. Molto credibile.

Razza di idiota! E poi non è che tu abbia una ragazza, eh.
E chi sarebbe “Christina”?

Sei tu, ovviamente.
Nullpo.

Non ricordo di averti mai dato il permesso di assegnarmi soprannomi. (`A´)
GAH!

 

Hōōin Kyōma non ha bisogno di alcun permesso, Kurigohanandkamehameha.

Grazie alla citazione di quel familiare nickname Kurisu viene a sapere che Okabe ha scoperto il suo account di @channel prendendo parte a diverse discussioni e shitpostando a suo nome durante l’orario lavorativo. La cosa le procura una tale rabbia da spingerla a chiamare immediatamente il numero che lui le ha fornito, determinata a farlo pagare per le sue malefatte.
La sua rabbia non fa altro che aumentare nel momento in cui una voce gentile risponde che il numero da lei chiamato è inesistente, rivelando che quello fornitole da quell’idiota di uno scienziato pazzo è falso.

Che hai combinato con il mio account di @channel?


4.37 del mattino? Ti cibi mai di qualcosa che non sia caffeina, ragazza geniale?
Ho semplicemente fatto ciò che, tu, mia cara @chan lovely, avresti fatto. ( ̄▼ ̄*)


Piantala di prendermi in giro, mi hai persino dato un numero falso!
Non hai il diritto di farmi la predica quando sei il primo a vivere di ramen al sale di bassa qualità.
Non che sia preoccupata per la tua salute, ovviamente. ( ̄⊿ ̄)

 

Tsundere orz. ( ̄ー ̄;
Invece di fare scorta di quelle tue pessime bibite energetiche dovresti mangiare ciò che tua madre prepara per te, falle un po’ di compagnia. Sembra che si senta sola.

 

Non sono una tsundere! ヽ(*゚д゚)ノ

Smettila di ficcare il naso nei miei affari personali. (ʘдʘ╬)

Ad ogni modo… cercherò di essere più presente.


Okabe è un patetico idiota per gran parte del tempo, ma Kurisu ha cominciato a comprendere come sappia essere una persona (quantomeno) decente. Lo ha visto nello sguardo triste eppure felice di Mayuri nel ricordare un’infanzia che questo corpo, e non la quasi diciottenne che lo ha preso in prestito, aveva vissuto.

Okabe sembra anche dividere il suo tempo tra i propri amici - che, per qualche motivo a lei sconosciuto, paiono avere davvero una bella opinione di lui - e le lezioni in università. I suoi voti non sono terribili come aveva immaginato (e la prima impressione che aveva avuto di lui era quella di un idiota) e il suo aspetto è tutto sommato decente (anche se doveva davvero smettere di sfoggiare quel suo outfit da “mad scientist”). Ad un certo punto, senza alcuna vera ragione, Kurisu si chiede come mai, pur essendo circondato da belle ragazze che lo hanno in gran considerazione, Okabe non abbia mai ricevuto una dichiarazione da nessuna di queste.

 

Ecco perché decide di rimboccare le sue - no, le sue - maniche e prendere in mano la situazione.


Kurisu Makise è una scienziata prodigio di soli diciassette anni apparentemente stimata da tutto il mondo accademico. Eppure si sta accorgendo di come sotto quel titolo ci sia molto di più. L'agenda di Kurisu è formata al 90% da impegni lavorativi, scadenze e conferenze da tenere, con qualche buco per pranzare e cenare con sua madre (aveva ascoltato il suo consiglio, a quanto pare!).


Le sue mail recitano tutte nomi di illustri scienziati, primi tra tutti Maho Hiyajō e Alexis Leskinen, e nella sua vita nulla sembra corrispondere a ciò che una ragazza di diciassette anni normalmente fa. Non avendo amici, Kurisu a quanto pare non possiede nemmeno un ragazzo né tantomeno la possibilità di conoscere qualcuno di interessante; eppure, adesso che la guarda meglio allo specchio, i suoi occhi sono di un colore raro e circondati da ciglia lunghe e scure. I suoi capelli sono lisci come seta e di un bel colore ramato. Ignorando il suo seno pressoché inesistente, la ragazza ha sicuramente l’aspetto fisico dalla sua parte: se Kurisu volesse uscire con qualcuno ci sarebbero moltissimi potenziali interessi romantici che affascinerebbe con facilità.

Perciò Okabe decide di prendere in mano la situazione.


Si può sapere cosa hai combinato?!
Amadeus mi ha riferito che non hai fatto altro che chiamarla "Christina".
Adesso tutti quanti in laboratorio mi prendono in giro con quel tuo odioso soprannome! (TдT)

Tu e quell'intelligenza artificiale siete due esseri demoniaci, sappilo. ┬─┬ノ(ಠ_ಠノ)
Inoltre "Christina" è il tuo nome, quindi non vedo perché non dovrei usarlo.
Al Professor Leskinen è piaciuto così tanto che si pente di non averti chiamata così da subito. Lui ed Hiyajō ti sono davvero affezionati.

Insultami ancora una volta e trasformerò la tua corteccia cerebrale in un vaso da fiori. (ʘдʘ╬)
Lo dirò ancora una volta: non c’è nessun “tina”, sono stata chiara?
E ti ho detto di non impicciarti nella mia vita privata.
… Piuttosto dovresti concentrarti sul conquistare il cuore di Mayuri. ღゝ◡╹)ノ♡

Taci, verginella americana.
Mayuri è soltanto un’amica d’infanzia.  =( ̄□ ̄;)⇒

 


Quando Rintarō Okabe si sveglia, in quella calda mattina del 28 Luglio, ha la strana sensazione di dover controllare con urgenza il suo telefono cellulare. Una nota di Kurisu risalente alla sera prima giace non letta sullo schermo del suo smartphone:


Buongiorno, Okabe!

Se stai leggendo questa nota significa che oggi è un grande giorno per te e che, per una volta, mi vedo costretta ad invidiarti.
Mayuri Shiina ti aspetta alle 10.30 davanti alla stazione di Akihabara per un appuntamento romantico dal momento che “tu” l’hai invitata. Visto l'entusiasmo con cui ha accettato e conoscendo la tua assoluta incapacità di relazionarti con il genere femminile - per non parlare dei tuoi pessimi gusti in fatto di abbigliamento - ho preparato per te un completo adatto all'occasione, lo trovi ripiegato sulla sedia davanti alla scrivania.
Ho prenotato a tuo nome in quell'adorabile café estremamente popolare di fronte alla stazione di Ikebukuro, sii galante e offrile tutto ciò che ordina e, soprattutto, cerca di fare conversazione (anche se sono sicura che la cosa non risulterà difficile, considerato il lungo tempo di conoscenza tra te e Mayuri).

In caso dovessi trovare difficoltà, ti lascio alcuni indirizzi contenenti delle utili dritte per dei verginelli pervertiti senza esperienza come te!  (◠‿◠✿)


Okabe scatta immediatamente a sedere nel momento in cui si accorge che ha solo mezz'ora di tempo per rendersi presentabile.

Mentre si prepara ad una velocità allarmante (rischiando di finire lungo disteso sul pavimento più di una volta nell'infilare gli stretti jeans che Kurisu gli ha rifilato) maledice quella donna e la sua tendenza a trattare la sua vita sentimentale come uno dei suoi esperimenti. Mayuri è molto molto carina, è gentile e ha un gran cuore, e per questo motivo Okabe le ha voluto un gran bene sin da quando erano bambini, ma non è affatto sicuro che il tipo che affetto che prova sia di tipo romantico come la scienziata sostiene.

§

 

Quando Mayuri lo vede correre affannato verso di lei, lo accoglie con il suo solito saluto ("Okaaarin! Tutturu~") e un sorriso anche più brillante del solito. Non le dà alcun fastidio il ritardo di Okabe nonostante lui la inondi di scuse imbarazzate.

Il treno per Ikebukuro è pieno fino all'orlo di passeggeri al punto che qualcuno spintona la piccola figura di Mayuri per entrare. La sua “partner” finisce con l’essere schiacciata contro il suo petto e l’imbarazzante posizione lo costringe ad arrossire. Dopo alcuni istanti Okabe si ritrova ad essere a disagio, anche se non a causa della loro vicinanza. C’è qualcosa in tutto ciò che proprio non gli va giù; in tutta onestà è come se stesse uscendo assieme a sua sorella, piuttosto che con una potenziale fidanzata.

Sulla strada per il café lui e Mayuri parlano come sempre: tutto ciò che Okabe riesce a buttar fuori per mantenere viva una conversazione è il solito nonsense sull'Organizzazione e i “complotti orditi dai suoi quattro leader”, i cui nomi vengono puntualmente (e innocentemente) distorti dalla più piccola.

Poco dopo, però, i suoi sforzi si rivelano essere vani, dal momento che, mangiando, si rende conto che gran parte della conversazione è tenuta in piedi da Mayuri. Okabe finisce inevitabilmente in preda al panico e si congeda per un momento in bagno per trovare nei link lasciatogli da Kurisu qualcosa che non renda il suo appuntamento un completo fiasco.

§

Okabe sente l'imbarazzo e la frustrazione crescere esponenzialmente man mano che scorre le pagine a cui i link lo reindirizzano, tutte con titoli odiosamente simili scelti sicuramente al fine di prenderlo in giro: "Appuntamenti for dummies", "Come conquistare una ragazza anche se si è dei totali incompetenti", "Relazioni sentimentali e chūnibyō: perché non possono coesistere?", "Perché la mia ragazza mi ha scaricato? Eppure ho detto di avere dei poteri sigillati nel mio braccio destro!".

Okabe avverte un moto di frustrazione nel momento in cui si rende conto che probabilmente questo è il modo di Kurisu di vendicarsi dello scherzo di @channel.

«Quell’essere demoniaco».

 

§


Nel tardo pomeriggio, quando il sole sta ormai tramontando dietro gli alti grattacieli di Tokyo, si lascia trascinare da Mayuri al palazzo di Radio Kaikan, dove è stata allestita una mostra sul cervello umano. "Sono sicura che ad Okarin piacerà questo posto!" commenta la ragazza dai capelli corvini mentre indica le locandine affisse all’entrata. Le congetture da chuunibyou di Okabe cessano mentre quest’ultimo dedica loro la propria attenzione. Si prende persino la briga di leggere una strana tesi su come i ricordi umani possano essere “digitalizzati” fino a che un colpetto sulla sua spalla non lo interrompe.

«Uhm, Okarin… Ti dispiace se Mayushii ti chiede una cosa?»

Okabe le rivolge uno sguardo interrogativo, deglutendo mentre l'ansia comincia a diffondersi sottile sotto la sua pelle e nel suo sistema nervoso: “Non dirmi che ha intenzione di dichiararsi. Sarebbe… complicato. Gli scienziati pazzi non sanno come funzionano i sentimenti!

Non si rende nemmeno conto di star annuendo con vigore fino a che Mayuri non gli rivolge nuovamente la parola.

«Fino a qualche settimana fa ad Okarin piaceva Mayushii, vero?».

Quasi soffoca nel sentirsi rivolgere quella domanda, e le parole gli muoiono in gola, costringendolo a boccheggiare senza emettere realmente alcun suono.

«Sai, Mayushii se ne era accorta, ed era felice, perché a Mayushii Okarin piace così tanto! Non importa se è Hōōin Kyōma o Okarin, la persona gentile che mi ha invitata ad uscire», prosegue Mayuri con un sorriso venato di malinconia. Okabe, nonostante il continuo vorticare dei suoi pensieri,  la ascolta con attenzione, in attesa del "ma" che sa essere in procinto di giungere.

«Eppure Mayushii ha la sensazione che le cose non stiano più così. Oggi ne ha avuto semplicemente conferma. Okarin proprio non riesce a vederla come Mayushii vede lui...».

Le sue labbra si stendono in un sorriso triste e la sua voce si fa simile a quella di un bambino che sta trattenendo a fatica le lacrime prima di concludere: «... perché Okarin si è innamorato di un'altra ragazza, non è vero?»

Okabe si sente avvampare fino alla punta delle orecchie. «N-no, Mayuri… C-cosa stai dicen-».

«Mmmh-mh», lo interrompe lei scuotendo coraggiosamente il capo. «Non c'è bisogno di dire una bugia perché Mayushii stia meglio». Alza lo sguardo, la voce che le trema in maniera appena percettibile. «A Mayushii importa soltanto che Okarin sia felice».

Okabe abbassa il capo, incapace di rispondere. Al momento non sa davvero come sentirsi, ma Mayuri, proprio come ha dimostrato in passato, ha sempre ragione e perciò dev’essere così anche in questo momento; cos’altro potrebbe dirle senza finire con il mentire spudoratamente?


«Adesso sarà meglio che Mayushii vada», aggiunge scuotendo appena il capo. Prima di sparire dietro le porte dell’ascensore aggiunge: «Non preoccuparti troppo per il tuo ostaggio».

Okabe si ritrova senza parole. Il senso di colpa tortura il suo cuore nel ripensare all’immagine del triste sorriso di Mayuri e alle sue parole gentili e non può fare a meno di sentirsi come se l’avesse in qualche modo tradita. Ma perché si sente in quella maniera? Non è che abbia realmente fatto qualcosa di sbagliato ma una voce nella sua testa sembra dare credito alle parole della sua amica d’infanzia.

È… innamorato di qualcun altro?

All’improvviso il volto sorridente di Kurisu appare nella sua mente. Sopprime un sussulto posando una mano sulla propria bocca solo per scoprire come il suo volto sia in fiamme.

Oh.

Alla fine si lascia sfuggire un sospiro, concentrandosi sul vagare tra modelli in 3D del cervello umano e rappresentazioni in computer grafica della trasmissione degli impulsi nervosi, finché un altro cartello non attira la sua attenzione.

"Memoria e intelligenze artificiali: la nuova frontiera delle Neuroscienze", recita, ma non fa in tempo a dedicarsi alla lettura che una voce femminile stranamente familiare richiama la sua attenzione.

«Interessante, vero? Se vuoi saperne di più a breve il Professor Leskinen terrà una conferenza sull'argomento».

L'avrebbe scambiata al massimo per una ragazzina delle medie, se non avesse visto quel volto ogni volta si risvegliava nel corpo di Kurisu Makise.

«Ah, il mio nome è Hiyajō Maho, sono l'assistente del Professore».

«Hi… Hiyajō?», domanda sgomento.

Se Maho è in Giappone assieme al Professor Leskinen, allora anche lei deve essere lì. Perché non lo ha avvertito di una cosa tanto importante?

«Uhm, Okabe Rintarō», dice più nervosamente di quel che vorrebbe. Per qualche motivo  necessita di una grossa presa di coraggio prima di chiedere:

«Lei per caso è una collega di Kurisu Makise? So che avete lavorato insieme a questo progetto».

Maho lo osserva a bocca aperta per qualche breve istante, prima che un'ombra di dolore le offuschi lo sguardo. La sua espressione trasmette un’infinita tristezza mentre le sue labbra si stirano in una linea sottile nel sentire menzionare il nome di Kurisu.

«Quindi lei… Non lo sa?».

Una sgradevole sensazione di gelo gli attanaglia improvvisamente la bocca dello stomaco. «Sapere cosa?».

L'espressione della scienziata, se possibile, si fa ancora più cupa e triste. «Il… 28 luglio dell'anno scorso un aereo di linea diretto dall'America al Giappone è precipitato nell'oceano per colpa di un'avaria ai motori. Non ci sono stati superstiti e… », si interrompe; deve farsi violenza anche solo per terminare la frase.

«… Kurisu era su quell’aereo».



Il resto della settimana passa in un piatto susseguirsi di luce e buio. Kurisu Makise, la persona che ha dato nuovo vigore alla sua vita con la sua presenza un po' saccente ma di buon cuore, è morta, svanita per sempre da questo mondo come il ricordo effimero di un sogno.


Rimane da solo al Laboratorio, senza sollevarsi dal divano se non per bere e andare al bagno, abbandonandosi al dolore nel buio della piccola stanza. Ha chiesto a tutti i suoi amici di lasciarlo solo per un po', rifiutando perfino le gentili parole di conforto di Mayuri, la prima ad essere in diritto di avercela con lui.

Il suo telefono vibra, la luce dello schermo gli fa dolere gli occhi. Mentalmente Okabe incolpa quest’ultima per la lacrime che appannano i suoi occhi, ma in realtà queste non sono che una conseguenza del messaggio che ha appena ricevuto.

Mittente: Mayuri
Oggetto: Sono preoccupata. (。。*)

Tutturu! Sono Mayushii. (´・ω・`)
Ehi, Okarin. Come stai? Daru-kun ha detto a Mayushii che in questi giorni sei più strano del solito, da quando ti hanno detto di Makise-san.
Mayushii spera che non sia colpa delle sue parole, perché non se lo perdonerebbe mai.

Sai, Mayushii ha sempre visto Okarin come il suo Hikoboshi, ma sapeva anche di non essere mai stata la sua Orihime.

Il fatto che la Orihime-sama di Okarin non possa più splendere è doloroso anche per Mayushii.
Mayushii non vuole essere un fastidio, però si sente in dovere di dirti che Hōōin Kyōma non si arrenderebbe così facilmente.
Ti voglio bene.

Il senso di colpa attanaglia il suo cuore. Il suo comportamento sta ferendo i sentimenti di Mayuri, eppure… è lei ad essere convinta che sia tutta colpa sua. Come può anche solo pensare di essere un peso?

Qualcuno bussa alla porta del Laboratorio.

«Uhm, chiedo scusa, per caso Okabe-san si trova qui?».

È ancora così frastornato dal contenuto del messaggio di Mayuri che, senza rifletterci due volte, va ad aprire il vecchio portone di metallo cigolante.  


«Posso…»

Maho Hiyajō osserva il suo volto e la sua espressione si tramuta rapidamente in una di preoccupazione.

«...entrare?».

«Ah… Uhm, sì, certo. Perdona il disordine», risponde distrattamente lasciando libero l'uscio. Maho entra senza troppe cerimonie, lasciando le buffe ciabatte spaiate che indossa davanti al gradino retrostante la porta.

«Ehm, le mie scuse. Il mio bagaglio è andato perduto e mi sono dovuta arrangiare con le prime cose che ho trovato», taglia corto la scienziata sedendosi sul divano. Non perde alcun tempo nel girare attorno alla questione:


«Sarò schietta. Tu… Conoscevi Kurisu, non è vero?».

Si domanda cosa dovrebbe dire in una situazione del genere. Hiyajō è una scienziata ed è certo che non crederebbe ad una spiegazione così assurda come quella dello scambio di corpi. Ecco perché opta per una risposta vaga nella speranza che non inquisisca ulteriormente.


«Sì, ma le circostanze erano piuttosto particolari», spiega accomodandosi accanto a lei. «Potrei raccontare la questione in mille modi diversi, ma non mi crederesti comunque».

«Uno scienziato deve verificare tutte le possibilità», insiste Maho. Le sue parole gli ricordano improvvisamente il modo in cui Kurisu era solita comportarsi e al pensiero il suo cuore si stringe.


«È quasi ironico, sai?», dice Maho, la voce che le trema impercettibilmente. «Pensavo di conoscere Kurisu abbastanza bene ma adesso mi rendo conto che c’è stato un lato di lei a me sconosciuto. Voglio dire, io… io non sapevo nemmeno che voi due foste amici...».


E all’improvviso vede la piccola donna davanti a lui singhiozzare appena. Kurisu aveva sempre avuto un buon rapporto con Maho, o almeno quella era la conclusione a cui era giunto osservando il modo in cui si comportava con “lei”. Farle avvicinare ulteriormente gli era stato naturale, perché nelle parole di Maho Hiyajō, in quel momento come in quelli passati, aveva sempre avvertito un profondo rispetto nei confronti di Kurisu. Uno strano calore gli invade il petto e si ritrova a reprimere il poco appropriato impulso di abbracciare la giovane donna davanti a sé e rivelarle ogni cosa, di salvarla dal dolore che non meritava di provare.

Ed è quello che fa.

§


E così le racconta l’assurda storia di come Okabe Rintarō e Makise Kurisu si sono incontrati e, nonostante l’iniziale esitazione, Hiyajō Maho crede ad ogni sua singola parola. Tra di loro si insinua un lungo silenzio che si prolunga fino al momento in cui Okabe decide di rompere il ghiaccio.

«Hiyajō-san».

«Mh?».

Okabe osserva Maho con incrollabile risolutezza e, commosso dalla sua stessa storia, giunge ad una realizzazione:

«Io… sono innamorato di Kurisu».


L’improvvisa presa di coscienza lo colpisce con la forza di un treno in corsa e tutto ha finalmente senso. Era sempre stato così. Era stato accecato dalla brillante autostima e dal sopraffino acume di Kurisu sin dai primi, guardinghi messaggi che si erano scambiati, al punto da nutrire la convinzione che qualcuno come lui non avesse il diritto di parlare così a cuor leggero con una persona così straordinaria. Era per quel motivo che non era mai stato capace di chiamarla con il suo vero nome, era semplicemente troppo imbarazzato.


Un po’ ficcanaso, orgogliosa e sempre così testarda. Dopo le loro prime conversazioni aveva davvero pensato di non aver mai incontrato una donna così sgradevole. Ma sotto quella facciata fredda e distante si era rivelata così gentile e fragile e dolce. Aveva lavorato così duramente per migliorare la sua relazione con i suoi amici e, nonostante il suo appuntamento con Mayuri si fosse rivelato un fallimento, lo aveva davvero aiutato a fare chiarezza sui sentimenti che provava per lei. Kurisu non era soltanto la persona con cui si scambiava di corpo, lei era… la donna per lui più importante. Colei che, anche provandoci, non avrebbe mai potuto dimenticare.

«Bene», la scienziata gli rivolge un sorriso divertito.

Maho si interrompe per un istante, il suo sorriso che muta in un leggero broncio mentre giocherella distrattamente con le punte dei suoi scuri capelli ribelli.


«Ascolta… la ami abbastanza da essere disposto ad aiutarmi?».

Okabe non esita nemmeno per un istante.

«Lo farò».


Qualcosa in lui si agita, si contorce e pulsa, e Okabe decide di tentare il tutto per tutto: se anche solo una minuscola parte di Kurisu è rimasta in lui, è disposto ad andare perfino in America pur di riportarla indietro.


§

Le undici ore e mezzo di volo che lo separano dall'America sono estenuanti. Da un lato Hiyajō crolla, sbavando in maniera molto poco elegante sulla sua spalla sinistra. Dall'altro il Professor Leskinen - il quale si è subito dimostrato entusiasta nei confronti del suo aggregarsi a loro non appena Maho ha nominato Kurisu - gli propone di vedere un film alla tv inserita nei sedili davanti a loro, premurandosi di inserire i sottotitoli in giapponese.


Alla fine la pellicola si rivela essere una sdolcinata commedia romantica che non ha mai sentito nominare e Okabe si pente presto di aver accettato l’offerta. Non sa se sia peggio il fatto che il rapporto tra i protagonisti gli ricordi terribilmente il suo con Kurisu, o l'espressione ammiccante che Leskinen gli rivolge durante la visione, quasi avesse intuito il tipo di sentimento che lo legava alla scienziata.

Alla fine, stremato dall'imbarazzo e dalle pacche non esattamente delicate del professore sulla sua spalla, cede anche lui ad un sonno agitato, costellato di immagini della vita che lui e Kurisu hanno condiviso per alcuni mesi.

§

Dopo aver lasciato i bagagli nel piccolo hotel dove lui e Maho avrebbero alloggiato, la scienziata chiama un taxi e borbotta all'autista alcune frasi in fluente inglese. Una cittadina scorre davanti ai suoi occhi mentre l'auto gialla sfreccia tra le strade, e Okabe si fa presto l'idea di un posto tranquillo e piacevole, ricco di zone verdi e di case dai colori brillanti.

L'auto li abbandona davanti ad una serie di villette a schiera con giardino, e Maho lo conduce, senza mostrare alcuna esitazione, ad una casa dalle pareti bianche e un albero di quelli che sembrano essere limoni piantato nel prato.

Il cognome sul campanello, scritto in caratteri occidentali, manda un brivido lungo la sua schiena.

Il suo stomaco si ribella e la sua mente sembra non volergli fornire alcun tipo di aiuto facendogli associare la situazione a quella di un ragazzo che incontra per la prima volta i genitori della persona con cui sta uscendo.

Ad aprire la porta è una donna sui cinquant'anni che somiglia quasi a quella che potrebbe essere una versione più adulta di Kurisu, se questa avesse avuto la possibilità di invecchiare: bassa statura, fisico esile, capelli ramati ad altezza spalle e occhi castani. Accoglie lui e Maho con un sorriso triste; anche se Okabe lo osserva farsi rapidamente più luminoso nel momento in cui Maho lo presenta ufficialmente come “un amico che ha conosciuto Kurisu durante uno scambio culturale tra la Tokyo Denki e la Viktor Chondria”.

«Mia figlia era così impegnata con il lavoro da non avere mai tempo di fare nuove amicizie. Sono felice che abbia avuto anche te oltre a Maho-san, anche se per poco tempo. Anche se devo ammettere di essere piuttosto sorpresa, dal momento che non ha mai fatto menzione di te, Okabe-kun».

L'affermazione della signora Makise lo mette in leggero imbarazzo, il rossore che sale prepotente fino alle sue guance mentre distoglie lo sguardo. Okabe avrebbe preferito che la sua mente non l’avesse interpretata come una conferma del fatto che lui sia una delle persone che Kurisu considerava speciali. “Non dare per scontato che le ipotesi corrispondano alla realtà dei fatti”, potrebbe quasi immaginare di sentirla dire.


«Non ho messo mano ai suoi effetti personali; sono esattamente come lei li ha lasciati». C’è una pausa mentre la madre di Kurisu osserva la stanza di sua figlia con chissà quali e quante emozioni. «La affido a voi»

La stanza di Kurisu non sembra essere cambiata da quando “lui” ci ha vissuto, con le pareti rosa pastello e le tende bianche da cui filtra la luce calda del pomeriggio estivo. Sul letto giace ancora quel peluche bianco con una buffa emoji al posto del volto.

«Ha sempre avuto un debole per quel… Coso. Anche se, adesso che lo guardo meglio, ha un non so che di carino», commenta Maho con un sorriso carico di nostalgia.

«Kurisu aveva un lato inaspettatamente tenero, vero?», domanda osservando distrattamente la scrivania.

«Puoi scommetterci», conferma la scienziata guardandosi attorno. «Se quello che mi hai raccontato è vero avrai sicuramente visto come Amadeus Kurisu reagisce alle prese in giro, no?».

Lo aveva visto eccome.

È notte inoltrata e il laboratorio di neurofisiologia della Victor Chondria University è vuoto e silenzioso, fatta eccezione per una singola stanza. Okabe Rintarō, finalmente solo con la controparte virtuale di Kurisu, si sta godendo una bella “chiacchierata” con lei. Anche se è qualcosa di terribilmente imbarazzante da dire ad alta voce, più bisticcia con「Kurisu」più non vede l’ora di incontrare la sua versione reale per la prima volta. Il solo pensiero fa strane cose al suo cuore.


- Stai arrossendo, a cosa stai pensando?
- Taci, Christina!
- Uh? Non c'è nessun "-tina"!
- È il tuo nome, non lo riconosci, forse?
- Il mio nome è Ku-Ri-Su!
- Non ho sentito bene, American virgin.
- Ah! Tu, razza di…

“... affascinante”, commenta, la voce che gli si incrina appena.

Respirare diventa un po' più difficile. Quei buffi scambi tra lui e Kurisu non sono altro che un ricordo pieno di nostalgia, nostalgia per qualcosa che avrebbe potuto esserci ma che non ci sarà mai.
Una folata di vento solleva le tende oltre la finestra socchiusa, e un raggio del sole morente entra con prepotenza nella stanza, tingendola di arancio. Un bagliore argenteo colpisce il suo sguardo: adagiato con un cura sul diario di Kurisu, al centro della scrivania, giace un cucchiaio d'argento finemente decorato.

In Europa si dice che serva a raccogliere la felicità. È un regalo di buon auspicio!

«Quello cos'è?», domanda a Maho indicando l'oggetto.

La scienziata osserva il cucchiaio per qualche istante, accigliandosi. «È un semplice cucchiaio», risponde interdetta dal bizzarro interesse di Okabe nei confronti del pezzo di argenteria.

«Oh, quello».

La voce della signora Makise alle loro spalle strappa a lui e Maho un sobbalzo. Sul volto della donna c'è lo stesso sorriso carico di malinconia che aveva intravisto prima sul volto della scienziata e Okabe sente qualcosa nel petto stringersi. «Quel cucchiaio è il regalo che mio marito fece a Kurisu il giorno del suo decimo compleanno». Il suo sorriso si trasforma in un cipiglio mentre distoglie lo sguardo. «Puoi tenerlo, se vuoi. Sono sicura che Kurisu sarebbe stata d’accordo».


Non sa esattamente cosa dire. Che genere di rapporto pensa che abbia avuto con Kurisu al punto da cedergli un ricordo così importante di lei?

§

Quando sono sul taxi di ritorno verso l’hotel, il cucchiaio è stretto con forza tra le sue dita.

«Beh… Immagino di aver detto una piccola bugia per far procedere le cose senza intoppi, ammette la scienziata senza esitazione e senza distogliere il proprio sguardo dallo smartphone. «Ho semplicemente detto che eri il ragazzo di Kurisu, niente di che».

Okabe sente il proprio viso andare in fiamme. «Questa non la chiamerei una “piccola bugia”!».

Maho alza lo sguardo solo per rivolgergli un ghigno scherzoso. «Andiamo. Sappiamo entrambi che sarebbe andata finire così se tu e Kurisu vi foste incontrati di persona».

«Non puoi saperlo!».

«Ceeerto, posso eccome… se ho letto il suo diario. Era gelosa di una certa Mayuri, ma voleva che tu fossi felice e si è fatta da parte».

«Hai letto il suo diario?».

Maho arrossisce immediatamente. «Mi è stato dato il permesso di farlo! La prima volta in cui ho visitato la sua stanza dopo la sua dipartita sua madre me lo ha ceduto così che potessi leggere con i miei stessi occhi quanta… ehm», si morde il labbro, imbarazzata. «Quanta stima Kurisu nutrisse nei miei confronti». Lo sguardo agitato di Maho si sposta sul paesaggio in rapido cambiamento al di fuori della macchina.

Okabe le rivolge uno sguardo interrogativo. Lei e Kurisu condividevano quella che ai suoi occhi era una splendida amicizia fatta di rispetto reciproco e ammirazione, perciò per quale motivo Maho avrebbe mai dovuto sentire la necessità di avere conferma dell’opinione che la sua collega più giovane aveva di lei?
Prende in considerazione la possibilità di chiederglielo, ma scarta rapidamente l’opzione, sentendo in qualche modo di non avere il diritto di porle una domanda così personale.

Maho rompe il silenzio.

«E-ecco quando mi sono imbattuta nel nome della tua amica!».

Okabe sorride divertito. Kurisu andava nel panico con altrettanta facilità.

«Voi donne siete dei veri demoni».


§

Quella notte non riesce a prendere sonno. Continua a rigirare il piccolo cucchiaio d'argento tra le sue mani, osservando rapito i giochi di luce che si creano sulla superficie metallica quando è colpita dai tenui raggi della luna che filtrano attraverso le tende.

Okabe pensa.

Pensa a quanto sia giunto lontano senza avere in mente nulla che somigli ad un piano. Pensa a quanto quella donna abbia cambiato la sua vita nel giro di pochi mesi. Pensa a Kurisu e quanto vorrebbe vederla in quel momento.

Un timido bussare alla porta della sua stanza lo distoglie dai suoi pensieri. «Uhm, Okabe-san. Sei sveglio?».

Okabe apre la porta per ritrovarsi davanti una Maho Hiyajō in camicia da notte e capelli spettinati e, con una leggera esitazione, la lascia entrare.

«È successo qualcosa, Hiyajō-san?».

Okabe la osserva, stringendo gli occhi nella penombra della stanza. Maho appare ancora più giovane, in quel momento. «Come sai, domani mattina dovrò tornare in università per un impegno di lavoro improrogabile assieme al professor Leskinen, perciò vorrei che visitassi questo posto, prima di prendere il volo di ritorno domani sera», spiega porgendogli un pezzo di carta. Sulla superficie stropicciata, vergato in grandi caratteri occidentali, vi è un indirizzo assieme al nome di un posto che non ha mai sentito.

«Cosa…?».

«Era il posto preferito di Kurisu. È un po' fuori mano, le piaceva andarci per trascorrere un po’ di tempo lontana dal suo posto di lavoro», spiega alzandosi per poi guardarlo negli occhi. «Okabe. In quanto scienziata non dovrei dirlo ma… Io credo davvero che tu possa riportarla indietro. Perciò fa' del tuo meglio».

E, senza dire una parola, Hiyajō Maho gli rivolge un sorriso prima di scomparire dietro la porta della sua stanza d'albergo.

Cercando l’indirizzo su Deloodle Maps scopre che il posto è un vecchio motel andato in fallimento alcuni anni prima. Mentre il pensiero che a Kurisu piaccia un posto così strano in gli ispira in qualche modo tenerezza, non può fare a meno di domandarsi come dirigersi lì debba aiutarlo a salvarla.
Alla fine chiude l’app con un sospiro, decretando di venire a capo della cosa una volta giunto sul posto.

Kurisu forse non aveva mai realizzato quanto fosse stata fortunata ad aver avuto un'amica del genere al suo fianco, ma si sarebbe ricordato di spezzare una lancia a favore di Maho quando avrebbe finalmente incontrato la donna che aveva letteralmente popolato i suoi sogni. Perché lui sapeva che l’avrebbe incontrata.

Con un mezzo sorriso, Okabe si porta il cellulare all'orecchio, senza chiamare nessuno. «Sì, sono io. Quando verrò a salvarti? Non temere, il momento è quasi giunto. Eheheh… Per chi mi hai preso? Ascoltami bene! Io sono lo scienziato pazzo Hōōin Kyōma, e non mi rimangio mai la parola data! Perciò, per adesso, aspettami. Ti libererò dalle catene del tempo che ti tengono prigioniera. Sì, te lo prometto. El. Psy. Kongroo».

§

Quando Maho gli aveva detto che il posto era "un po' fuori mano" si aspettava una buona mezz'ora di viaggio in taxi, ma, quando quest'ultimo lo lascia all'ingresso di un grande stradone che taglia in mezzo al deserto, capisce di aver sottovalutato l'entità delle sue parole.

Cammina in fretta lungo la strada polverosa, mentre il sole si abbassa languido sull'orizzonte, tingendo d'oro e amaranto le dune sabbiose.

Quando finalmente giunge, esausto e sudato, nel luogo indicato sul foglio, scopre che si tratta di un vecchio motel abbandonato. Quattro porte arrugginite una di fianco all'altra si ergono su una balconata comune a qualche metro dal suolo, raggiungibile tramite delle scale ricoperte dalla sabbia trasportata dal vento.

Si lascia andare, sfinito, contro il muro polveroso. È arrivato fin lì. Cosa dovrebbe fare, adesso? Gridare il suo nome? Non servirebbe a niente, ma ciò non toglie che non sappia più dove sbattere la testa. Si aspettava forse che giungere in un luogo caro a Kurisu gli avrebbe permesso di rivederla? Si sente privo di tutta la forza di volontà che lo aveva caratterizzato fino a qualche istante prima.

Infila una mano della tasca dei pantaloni scuri per tirarne fuori un piccolo cucchiaio d'argento, osservando rapito come il panorama si rifletta e si distorca sulla sua superficie ricurva, creando strani giochi di luci, ombre e colori.


Avrebbe tanto voluto chiederle cosa fare.

Di sicuro lei gli avrebbe dato la risposta che cercava. Borbottando timidamente, le guance tinte di rosso e quella scintilla di curiosità nei suoi begli occhi, avrebbe esposto una delle sue complicate teorie come se fosse la cosa più naturale del mondo e Dio soltanto sa quanto sarebbe stata bella in quel momento. La verità è che, anche se non l'ha mai incontrata davvero, gli manca da morire.

Non sa nemmeno lui perché lo fa. È un gesto imbarazzante e che probabilmente non ha alcuna utilità, ma lo fa lo stesso.

Prende il cucchiaino d'argento tra le sue mani e, come se fosse la cosa più delicata e preziosa vi posa appena le labbra. È freddo. Non fa assolutamente niente.

O così pensava.


Per un attimo il mondo sembra fermarsi. Il vento comincia ad ululare e le sue palpebre hanno improvvisamente difficoltà a rimanere aperte. E poi, succede: un mal di testa terribile, un dolore tanto intenso da dargli la sensazione che qualcuno stia aprendo il suo cranio in due e nuove immagini scorrono davanti ai suoi occhi.


«Buon decimo compleanno, Kurisu! Ecco una cosetta da parte mia», esclama l’uomo sui quarant’anni con i suoi stessi occhi azzurri porgendole un pacchetto incartato con cura. Immagina sia qualcosa di leggero. «In Europa si dice che serva a raccogliere la felicità. È un simbolo di buon auspicio!».


Gli occhi azzurri di Makise Kurisu brillano della più pura delle gioie.


Una vertigine violentissima lo coglie, quasi stesse precipitando nel vuoto, risucchiato da una forza pari a quella di un buco nero. Un sottile filo rosso si dipana dal mignolo della sua mano sinistra, estendendosi nell'infinito dello spazio in cui si trova.
 

Nuove immagini invadono la sua mente.


«Guardati, con quel vestitino sembri proprio una principessa! Papà quasi non ci crede che tu abbia già undici anni e… Oh? Mi hai portato un tema da leggere?».


Un padre e sua figlia sono in uno studio, la fioca luce di una lampada ad illuminare i loro volti. Kurisu, in due adorabili codine e un vestitino rosa, porge una serie di fogli al signor Makise. Sul suo volto vi è lo stesso sguardo fiero e imbarazzato che Okabe ama così tanto. «Sì, papà, riguarda quelle macchine del tempo di cui parli sempre», risponde con il tipico sorriso di un bambino che ha tentato qualcosa per la prima volta.

Gli occhi dell’uomo leggono il foglio parola per parola e lui sembra non essere in grado di sopportarlo. In poco tempo i suoi lineamenti si distorcono, il sorriso paterno ormai svanito. Un lampo di rabbia e dolore attraversa lo sguardo di Makise Shōichi e tutto crolla in un istante.

«La mia stessa figlia che confuta i miei lavori… sei soddisfatta, adesso?».

 

Kurisu sente il mondo crollare su di lei, quasi stesse negando la sua stessa esistenza. Mentre il suo cuore va in pezzi Okabe pensa che nessun bambino dovrebbe sentirsi dire parole simili, specialmente da un genitore.


«Ehi, ma quella non è Kurisu Makise? Ha solo 16 anni, no?».


«Sì, è lei. Pare che sia già stata ammessa ad alcuni dei corsi avanzati».

«Proprio non mi piace, ha sempre l'aria di guardarti dall'alto in basso».


Un alto professore con indosso un completo marrone annuncia il suo nome in un giapponese claudicante. «Lavorerà nel nostro laboratorio, d'ora in poi. Non fatevi ingannare dalla sua giovane età, è una signorina piuttosto in gamba».

Gli scienziati del Laboratorio di Neuroscienze della Viktor Chondria University la guardano in cagnesco e Kurisu, con una forza d'animo che stupisce perfino Okabe, li ignora, prendendo posto sul palchetto accanto ad una ragazza dall'aspetto infantile e dai lunghi e disordinati capelli neri.

«Non farci caso», la rassicura la sua collega abbozzando un sorriso. «Facevano così anche con me, all'inizio».

«È un comportamento un po' immaturo, se appartenente a delle persone adulte», constata Kurisu con indifferenza.

Ottiene una risatina in risposta. Una mano piccola e pallida si allunga verso di lei. «Hiyajō Maho, lieta di conoscerti».

Kurisu la afferra.


Osserva Kurisu nel suo corpo che aiuta Mayuri e Rukako nei compiti e che stupisce la commissione al suo esame di Analisi 1, Kurisu che frequenta un corso di cucina cercando di ignorare le prese in giro di Maho - "Oh, Kurisu, c'è qualcuno di speciale a cui vuoi regalare questo dolce?" - Kurisu che scrive "pervertito" a caratteri cubitali sulla sua fronte.


E poi, qualcosa di completamente nuovo…


«Scusami, potresti venire un attimo con me?». 

Vede Kurisu afferrare per una manica un ragazzo allampanato e trascinarlo fuori da quella che sembra essere una sala conferenze.

«Oh, capisco. Il mio fascino di folle scienziato pazzo ti ha colpita al punto da volermi parlare a tutti i costi, non è vero?».

La diciottenne gli rivolge un’occhiata interrogativa prima di profondere in un sospiro. «… è davvero così che vorresti iniziare la nostra prima vera conversazione?».

Lo “scienziato pazzo” abbandona la propria recita.

«Ah? Di cosa stai parlando, scusa? Ci conosciamo, forse?».


Okabe Rintarō la osserva senza dare la minima impressione di averla riconosciuta.

Qualcosa nello sguardo di Kurisu si rabbuia e quasi gli pare di poterle leggere nel pensiero.

«Okabe… davvero non ricordi?», la sua voce si incrina appena. Le sue mani si chiudono a formare due pugni, l’espressione indecifrabile mentre abbassa lo sguardo e i capelli ramati che le coprono il viso. «A che gioco stai giocando?».

C’è un silenzio imbarazzante in cui non possono fare altro che rimanere fermi in piedi fino a che…

«Okarin, tutturu~».

«Ah, Mayuri!», ricambia il saluto. Pare che l’interruzione sia molto gradita.

«Daru-kun ha chiamato per chiederci di raggiungerlo al May Queen, ha detto di aver dimenticato il portafogli…».

«Ah, un attimo solo, devo finire la mia chiacchierata con questa ammiratrice del sottoscritto, Hōōin-».

«Uhm, Okarin… Non c'è nessun altro qui, oltre me e te…».

Si volta per riprendere la conversazione…

… solo per notare come la ragazza sia sparita. Mayuri, ignara come al solito, domanda cosa c’è che non va.


Okabe assiste impotente alla visione di Kurisu che scende di corsa le scale del palazzo di radio Kaikan con un'espressione ferita sul volto e il cellulare all'orecchio mormorando “non sarei dovuta andarci” e “... sì, torno in anticipo”.

… gli ci vuole qualche istante per comprendere le implicazioni della cosa.

«Kurisu!», cerca di gridare, ma in realtà la sua gola non emette alcun suono mentre continua a cadere nel vuoto, il filo rosso che continua a dipanarsi, intrecciandosi, volteggiando e allungandosi ancora. Come poteva aver dimenticato quel loro incontro? Se si fosse ricordato di lei magari non avrebbe preso quel volo che l’avrebbe privata della vita. Se soltanto avesse saputo quanto sarebbe diventata importante per lui…

 

Il destino sa essere crudele, nella sua ineluttabilità. Ti dona ciò che desideri di più per poi strappartelo via nel modo più doloroso possibile, senza preavviso.


Kurisu è seduta sul letto matrimoniale di quella che sembra essere una stanza d’albergo. I suoi occhi sono arrossati e gonfi e tiene tra le sue braccia quella che riconosce come una mascotte di @channel, stringendola al petto prima di alzarsi con un sospiro frustrato.


«Piantala! Datti una regolata, Makise Kurisu!», si rimprovera marciando verso il minifrigo in un angolo della stanza.

Okabe immagina che sia arrabbiata per via del loro precedente incontro e sente una fitta di senso di colpa pungergli il cuore. Gli piacerebbe davvero scusarsi ma sa che, non importa quanto gridi, la sua voce non la raggiungerà. Anche se non dipende da lui il fatto che le loro linee temporali siano sfasate si sente davvero male per aver ferito i suoi sentimenti in quella maniera.


Kurisu sceglie una bottiglia di Dr.Pepper e se ne scola metà in un paio di secondi. Non può fare a meno di pensare che il fatto che si arrabbi perfino per il proprio comportamento sia in qualche modo tenero. Non ha la possibilità di elaborare ulteriormente il pensiero perché Kurisu diventa improvvisamente rossa come un peperone, osservando la bibita come se fosse un qualche essere alieno.

«Questo non è il momento per pensare a cose futili come i baci indiretti!», farfuglia parlando con nessuno in particolare.

Gli ci vuole qualche istante per capire a cosa Kurisu stesse pensando. Sente il volto andare in fiamme nel chiedersi che sapore avrebbero avuto le sue labbra.

All’improvviso la stanza si distorce e l’immagine davanti ai suoi occhi muta in un ambiente familiare.

 



«Aaah! Adesso basta! Sei un uomo adulto, santo cielo! Cosa sono tutte queste fandonie sull'Organizzazione? Solo parlarti è imbarazzante». 


Kurisu è sola nella sua stanza, con ancora indosso il suo camice da laboratorio e una strana espressione sul volto. Dalle sue parole Okabe intuisce come il suo monologo sia in qualche modo diretto a lui.

«E poi il tuo senso della moda è osceno! Di che colore sono quei pantaloni? Sembra che ci sia cresciuto sopra del muschio. Farai bene ad indossare il completo che ho preparato per te, all'appuntamento».

Kurisu si ferma un attimo, respira pesantemente e tira su col naso. Okabe sente il petto dolergli e prova il folle desiderio di allungare una mano per carezzarle una guancia, ma il suo corpo sembra non rispondere ai comandi.

Ignara di tutto, Kurisu continua a parlare tra i singhiozzi. «Insomma, un tizio privo di attrattive come te non potrebbe mai essere il mio tipo…».

E all'improvviso la vede crollare in ginocchio sul pavimento, le lacrime che le bagnano il viso e le mani che cercano di fermare i singulti che le scuotono il petto. Okabe non sa cosa le sia successo, ma sente il cuore stringersi a quella visione.


«Allora io vado, senpai», si congeda Kurisu trascinandosi dietro la sua valigia. 

«Fa' buon viaggio e ricordati di portarmi qualche souvenir dal Giappone», la saluta Maho con un mezzo sorriso.
«Sarà fatto!».
«E fammi sapere com'è andata con quel ragazzo!».
Kurisu arrossisce improvvisamente. «N-non è che io stia andando in Giappone per lui o qualcosa del genere…».
«Certo, certo. Eppure sono sicura che la conferenza di tuo padre non sia l'unico motivo per cui stai tornando in Giappone», controbatte Maho con un sorriso sornione.
Kurisu si volta nella direzione opposta, dirigendosi verso il tunnel d’imbarco con le guance rosse ad incorniciare il suo sorriso.

 

Il luminoso e vivace aeroporto si trasforma in una stanza più buia e certamente più piccola. I suoi occhi hanno bisogno di alcuni istanti per abituarsi al cambiamento, ma presto una figura familiare prende forma davanti a lui.

Kurisu dorme pacificamente su un sedile della prima classe di un aereo, i capelli sparsi attorno a lei come un'aureola ramata. Non c’è alcun suono oltre al quieto borbottio del motore dell’aereo e al suo respiro regolare. Una voce gentile annuncia che sono in volo sull’Oceano Pacifico e che atterreranno all’Aeroporto Narita di Tokyo tra 10 ore.
L’atmosfera rilassante del volo è interrotta da un boato improvviso seguito da tremori fortissimi. I bei occhi azzurri di Kurisu si aprono mentre un’espressione allarmata si dipinge sul suo volto e Okabe sente il bisogno di correre verso di lei per portarla via dall’inferno che si sta scatenando.

Ancora una volta il suo corpo non obbedisce ai suoi ordini e Okabe maledice la propria impotenza.

Quando Kurisu realizza ciò che sta succedendo è già tardi: seguono solo il buio più totale, un impatto terribile e la sensazione dell’acqua gelata che invade i suoi polmoni.


 

 

Okabe si sveglia di soprassalto, annaspando. Quando finalmente il suo respiro sembra prendere un ritmo più regolare, lascia che il suo sguardo analizzi il luogo in cui si trova.

 

Al posto delle dune sabbiose e del motel semidistrutto, davanti ai suoi occhi ci sono delle ormai familiari pareti dai colori pastello.


«Ehi, ho capito che le hai più grandi delle mie, ma non c'è bisogno di vantarsi così spudoratamente», biascica qualcuno.

Abbassa lo sguardo. Sulla buffa maglietta rosa che indossa c’è una familiare cascata di capelli ramati. Lo sguardo di Okabe saetta sulle sue mani occupate a tastare il seno di Kurisu Makise.

Non può farci nulla se sono così morbide.

«Hi-Hiyajō-san, posso spiegare!».

«Uh? Da quando mi chiami per cognome? Sei sicura di stare bene? Hai forse mangiato qualcosa di strano, ieri sera?».

 

Okabe osserva i capelli scompigliati di Maho e la sua espressione assonnata e improvvisamente il suo cuore viene inondato da speranza e sollievo. Se è tornato nel corpo di Kurisu potrebbe davvero avere la possibilità di salvarla. Sa che è una scommessa e che avrà bisogno dell’aiuto di Maho per avere successo, ed esita un attimo.


«N-no, cioè, voglio dire… Sono soltanto felice di vederti, senpai!».


Maho gli rivolge uno sguardo perplesso e Okabe potrebbe giurare di riuscire a sentire le sinapsi del cervello della scienziata lavorare a pieno ritmo. «Tu non me la racconti giusta. Sputa il rospo».

 

Le rivolge un’occhiata sorpresa. Grazie al tempo trascorso con lei nel futuro Okabe sa che Maho è una persona estremamente percettiva, ma il modo in cui è riuscita a scoprirlo con un singolo indizio è quasi sovrannaturale. Nonostante questo sa molto bene che, in quanto scienziata, è una persona estremamente razionale e che la sua stessa storia è difficilmente credibile.

«Non mi crederesti nemmeno se provassi a spiegartelo».


«Mettimi alla prova».

Lo fa e lei, proprio come l’ultima volta, ascolta con attenzione ogni sua parola e gli crede.

«Il volo di Kurisu è questa sera alle 20.30, dobbiamo trovare un modo per fermare quell'aereo», decreta infine la scienziata con un'espressione mortalmente seria. Fuori dalla finestra il cielo è scuro e costellato di stelle. L’orologio sul comodino lo informa di essersi svegliato alle 3 del mattino.


Passa distrattamente le dita tra i capelli di Kurisu, trovando conforto nel fatto che sia viva mentre percepisce il suo corpo con i propri sensi.

«Ci ho pensato anche io, ma non potremmo farlo senza finire...», Okabe fa fatica a trovare le giuste parole e quelle a cui pensa rendono fin troppo brutale la realtà della morte di Kurisu.

«Di certo non possiamo telefonare in aeroporto e avvertire della presenza di una bomba sull'aereo».

Okabe la guarda come se avesse visto la luce per la prima volta.


«Aspetta, io stavo scherzando».

«Potrebbe non fermare la partenza, ma potrebbe permetterci di guadagnare del tempo prezioso», la interrompe Okabe sentendo un sorriso disperato farsi strada sul suo volto.

 

Sembra che sia giunto il momento di tirare fuori una vecchia conoscenza.

«Hiyajō-san, saresti in grado di costruire qualcosa che possa distorcere la mia voce al telefono?».

Maho Hiyajō lo guarda interdetta per qualche istante, riflettendo. «Posso riuscire a preparare qualcosa di semplice, ma mi ci vorrà comunque un po' di tempo. Cosa hai intenzione di fare nel frattempo?».

Okabe sorride, osservando il sole ormai allo zenit nel cielo d'estate. «Vado ad incontrare Kurisu».

§

La prima cosa che Kurisu sente quando si sveglia è, per la seconda volta, dolore. Le gambe le bruciano e dolgono ad ogni movimento, come se avesse corso la maratona di New York senza un briciolo di allenamento e la schiena protesta nel momento in cui cerca di alzarsi.

Davanti a lei si estendono solo una strada polverosa e le immense dune del deserto, dietro le quali il sole sta inevitabilmente calando. Un piccolo edificio grigio si erge in mezzo al nulla. I mattoni rossi fanno capolino sulla vecchia facciata là dove l’intonaco si è sgretolato e una fila di porte arrugginite si affaccia su una balconata.
Ricordi di questo motel invadono la sua mente e quasi si dimentica dei crampi alle sue gambe.

… cosa ci faccio qui?


Il tremendo ricordo del suo tuffo nel vuoto la assale e per un attimo respirare diventa estremamente difficile.

Non dovrei essere qui. Io non dovrei semplicemente esistere, punto.

Eppure è lì, nel suo posto preferito, ad osservare un magnifico tramonto. In giro non c'è traccia di anima viva, né tantomeno della sua decappottabile rosa. Come ho fatto ad arrivare lì?

Gli ultimi raggi del sole si fanno strada tra le dolci colline di sabbia, tingendo il cielo di sfumature di azzurro, rosa e arancio di cui scopre estasiata l'esistenza solo in quel momento.

Kataware doki.

Con una spallata colpisce una delle porte, non sorprendendosi della facilità con cui questa cede. La stanza all'interno è un cumulo di polvere e detriti, e Kurisu si augura vivamente di non incappare in ospiti indesiderati.

Si fa strada a tentoni nella penombra, raggiungendo il bagno. Lo specchio, sopra il lavandino arrugginito e scheggiato, è integro quanto basta da mostrare l'ombra del suo riflesso, l'immagine di un ragazzo alto e fin troppo magro, dai disordinati capelli neri tirati indietro.

 


 


Il viaggio in taxi gli pare interminabile, più lungo delle innumerevoli ore di volo che lo hanno portato in America. Il tassista lo lascia all'entrata di quello stradone chiuso al traffico che attraversa il deserto, davanti alle transenne che bloccano il passaggio, e con sguardo preoccupato - probabilmente si starà domandando cosa ci faccia una ragazza così giovane nel mezzo del deserto - gli domanda se è “sicura che quella sia la sua destinazione”. Okabe annuisce, osservando la vettura gialla fino a che questa non sparisce dalla sua vista.

Il sole sta tramontando dietro l'orizzonte e, prima ancora che il cervello possa impartire un vero e proprio ordine, le gambe di Kurisu stanno correndo all'impazzata sull'asfalto polveroso. Inciampa nei ciottoli, strappandosi una calza e facendo sanguinare appena il ginocchio, e si scusa mentalmente con la sua preziosa Christina, meditando di farlo di persona, se gli verrà concesso un miracolo.

Corre, corre e corre finché i polmoni non gridano a gran voce il loro bisogno di aria e le gambe protestano. Una voce nella sua testa - nel suo cuore - lo supplica di correre, di fare in fretta, e infine lo vede. Un punto nero sul ciglio della strada, con le porte arrugginite e le scale pericolanti, che si fa sempre più grande man mano che si avvicina.

La milza gli duole e in bocca sente il sapore metallico del sangue, ma quasi non ci fa caso. Si aggrappa alla balaustra arrugginita e urla con tutto il fiato che gli rimane.

«Kurisu!».

Il vento ulula mentre l'ultimo spicchio di sole viene inghiottito dalle dune. Una farfalla di un azzurro brillante svolazza nel cielo che si scurisce, per poi sparire improvvisamente, inghiottita dall'oscurità.

Silenzio.

Okabe?

Si volta di scatto, scandagliando i dintorni alla ricerca della persona a cui appartiene quella voce.

«Kurisu!», grida ancora una volta. «Kurisu, sei… ».

«…lì?».

Sembrava una visione dentro un sogno, qualcosa a cui non avrebbe mai creduto se non lo stesse vivendo in quel momento. Attimi prima stava osservando un tramonto nel corpo della sua persona più importante e adesso...

La sua presa di coscienza è così improvvisa da fargli venir meno le parole.

Un silenzio carico di aspettativa riempie l’aria, Okabe osserva la sua figura come se la vedesse davvero per la prima volta. La sua corporatura esile, la sua pelle pallida, il leggero broncio sulle sue labbra e le guance imporporate. Il solo pensiero che Kurisu sia reale e viva davanti a lui sembra essere troppo da sopportare.

Il suo corpo pare muoversi di propria volontà e, prima ancora di potersene rendere conto, la sta stringendo tra le sue braccia. Una breve esclamazione di sorpresa sfugge dalle sue labbra.

«E-ehi! C-che stai-»

Il suo corpo è tiepido e pulsante di vita e Okabe si ritrova a stringerla con più forza. Con un sospiro tremante Kurisu ricambia lentamente l’abbraccio, le sue mani sottili che si aggrappano al retro del suo camice.

 

«Credevo che non ti avrei rivisto mai più».

«Mi ferisci», risponde con un sorriso carico di tenerezza, «non avrei mai potuto abbandonare la mia cara assistente».

Kurisu si allontana appena. «Non sono la tua-», distoglie lo sguardo e lo scienziato coglie un accenno di rossore sulle sue guance. «- Ah, è inutile».

Okabe pensa di aver aspettato per tutta la sua vita solo per questo momento. Non avrebbe mai immaginato che quella donna forte eppure così fragile sarebbe diventata così importante per lui. Sin dal loro primo scambio Kurisu era diventata il centro del suo mondo, espandendolo oltre limiti che non avrebbe mai pensato di attraversare.

Kurisu, fedele ai propri modi di fare da tsundere fino alla fine, pare non essere dell’umore per fare conversazioni smielate. La sua espressione muta presto in una di rimprovero.

«Anche se sei venuto fin qui, per me rimani sempre un pervertito. Non credere che Hiyajō-senpai non mi abbia detto che mi hai palpato il seno!».

Okabe sente le guance scottare ma trova comunque il coraggio di rivolgerle un sorriso malizioso. «I-il nulla non si può palpare, pervertita ragazza geniale!».

«Taci, verginello pervertito!».

«Senti chi parla, verginella america- ».

Uno strattone al suo camice e un leggero profumo di agrumi gli pizzica le narici.

La sua mente si svuota.

Sono solo lui, Kurisu e la penombra del crepuscolo che li avvolge, quasi come se il tempo si fosse fermato. Le sue labbra sono soffici e delicate. Le sue mani tremano impercettibilmente mentre si alza sulle punte dei piedi. Il suo cuore batte selvaggiamente contro la gabbia toracica e Okabe si ritrova a desiderare che questo momento duri per sempre, che il tempo si fermi.

Ma il tempo è in realtà fugace e Kurisu non riesce proprio a rimanere ferma.

«… non è che l’abbia fatto perché ne avessi voglia», dice Kurisu in preda al panico non appena allontana le proprie labbra dalle sue.

«N-nella commedia di Shakespeare i protagonisti dimenticano l'accaduto nel momento stesso in cui si risvegliano dal sogno. Inoltre esperienze intense come, ma non limitate a, il primo bacio rimangono impresse nell'ippocampo più facilmente e pertanto sono difficili da dimenticare», la sente dire tutto d'un fiato mentre il suo tono si addolcisce. «… non volevo che ti dimenticassi di me».


Okabe sorride con dolcezza, il cuore colmo di amore per Kurisu. «È un vero peccato, mia adorata Christina», comincia in tono borioso mentre lascia scivolare un braccio attorno alla sua vita sottile. «Poiché questa non è stata la prima volta in cui una fanciulla ha ceduto al mio fascino di scienziato pazzo e ha baciato queste mie labbra».

Kurisu apre la bocca con espressione indignata, solo per venire interrotta dalla mano di Okabe che, in un gesto carico di tenerezza, le sposta una ciocca di capelli ramati dietro l'orecchio.

«S-soltanto un bacio», concede, e il suo sguardo sfugge per un attimo a quello dell'altro solo per tornare ad indugiarvi.

Le loro labbra si incontrano di nuovo. All'inizio è lieve come il battito d'ali d'una farfalla. Quel breve contatto, però, quasi a voler sottostare alle leggi della teoria del caos, dà vita a qualcosa di più grande.

Mentre la mano di Okabe le accarezza con delicatezza una guancia è come se i loro campi gravitazionali si attraessero, i loro sentimenti che straripano in un momento sospeso al di fuori del continuum spazio-temporale.

§

«Quindi…», ricomincia Kurisu schiarendosi la voce e rifiutandosi di guardarlo negli occhi. «Quell'aereo è destinato a schiantarsi nell'oceano, non è vero?».

«Sì, a quanto pare c'è un'avaria ai motori», risponde Okabe con schiettezza.

«Sai che non ho intenzione di lasciar morire delle persone innocenti pensando a salvare solo me stessa, no?».

Okabe sorride, e Kurisu rivede in lui Hōōin Kyōma, quell'idiota di uno scienziato pazzo di cui, per qualche assurdo motivo, si è innamorata. «Non mi aspetterei altro da te, Christina. Ma non sarai sola. Hiyajō-san sa tutto e al momento sta lavorando per aiutarci. Sono sicuro che troverete il modo di farcela».

Kurisu annuisce e un lungo istante di silenzio si frappone tra loro. «Il kataware doki…».

«… sta per finire», conclude al suo posto Okabe, tirando fuori un pennarello rosso dal taschino del suo camice. «Dammi la tua mano».

«Eh?», domanda all'istante Kurisu, avvampando.

«N-non in quel senso», gracchia trascinando la punta del pennarello sulla pelle pallida come spiegazione. «Meglio essere doppiamente sicuri».

Kurisu annuisce con entusiasmo, prendendo la mano dello scienziato nella sua. L'inchiostro ha appena cominciato a vergare la prima sillaba quando anche l'ultimo raggio di sole sparisce dietro la linea dell'orizzonte. E Kurisu svanisce all'improvviso, il pennarello che tocca il pavimento polveroso come se non ci fosse mai stato nessuno a reggerlo in primo luogo.

Okabe osserva il cielo ormai scuro, il cuore che duole già con una punta di nostalgia.

Kurisu, fino al giorno in cui potremo incontrarci, tutto ciò che ho… Lo dono a te.

§

«Kurisu».


«Senpai».

L'aeroporto brulica di gente quando lei e Maho riescono finalmente ad incontrarsi, ad una sola ora di distanza dall'orario prefissato per la partenza del volo. Maho la osserva con un sopracciglio alzato, il suo scetticismo più evidente che mai.

«Sei tornata in te, vedo».


«Sì. Lui… è riuscito a darmi una seconda possibilità».


«Lo vedo», commenta la scienziata abbozzando un sorriso. «Prendi questo», aggiunge porgendole un telefono cellulare. «Su richiesta di quel tizio ci ho installato su un'applicazione che modifica automaticamente la voce quando effettui una chiamata, ma non so che cosa avesse intenzione di farci».


Gli occhi di Kurisu si illuminano con una scintilla di comprensione.

«Ho un'idea. Ma, qualunque cosa io faccia… non ridere», borbotta trascinandola con sé in un bagno vuoto. Prende un respiro profondo e preme il tasto di chiamata sullo schermo dove figura il numero di telefono della torre di controllo.

Kurisu comincia a parlare con boriosa superiorità non appena la cornetta dall'altro capo viene sollevata.

.«Fufufufu… Fuahahahahah! Ascoltatemi bene, stolti! Il mio nome è...», Kurisu si ferma, sentendosi persa per un istante. «… beh, non è necessario che voi sappiate il mio nome. Ma sono il folle scienziato pazzo che sovvertirà la struttura di controllo del mondo. Una bomba è stata piazzata sul volo delle 20.30 diretto all'aeroporto di Narita, Tokyo. Questo… è un avvertimento. Non cadete nella trappola dell'Organizzazione o persone innocenti perderanno la vita».

Maho la guarda come se avesse visto un alieno per qualche istante, prima di scoppiare in una fragorosa risata, portando oltre ogni limite possibile il suo imbarazzo.


«A-ad ogni modo!», la interrompe Kurisu. «Ho bisogno di chiederti un altro favore».


«M-mamma… P-papà… D-dove siete? Mammina! Papino!».

Kurisu si fa violenza per trattenere una risata nel vedere Maho piagnucolare, in una sorprendente imitazione di una bambina sperduta, nel mezzo della hall di attesa dei gate d'imbarco.

Come previsto, la farsa mette  in subbuglio tutto il personale del cancello d’imbarco. Le gente corre incontro alla sua amica più grande offrendosi di accompagnarla al banco di Assistenza per lanciare un annuncio ai suoi genitori. In tutta risposta la scienziata si mette a strillare con ancora più forza, catalizzando su di sé l'attenzione di tutti presenti.

Approfittando della distrazione generale, Kurisu sgattaiola nel corridoio d'imbarco, correndo con tutte le sue forze nel momento in cui la voce di qualcuno tuona minacciosa a pochi metri di distanza da lei.

Capitombola nel corridoio dell'aereo con un tonfo sordo e una dolorosa fitta alla caviglia, nascondendosi tra le file di sedili per prendere fiato. Con la coda dell'occhio riesce a scorgere il suo obiettivo, sorvegliato da una hostess: la cabina di comando.
Nel momento in cui prova ad alzarsi, facendo leva sulle braccia, una nuova fitta, più dolorosa, la costringe ad abbassare lo sguardo. Ma ad attirare la sua attenzione non è la caviglia, già livida e gonfia, quanto piuttosto delle parole scritte con inchiostro rosso sulla sua mano destra:

Ti amo.

Sicuramente si tratta di lui, il folle scienziato pazzo, ma, per quanto si sforzi di ricordare il suo nome, qualcosa sembra mancare e, prima che se ne possa rendere conto, la vista è annebbiata dalle lacrime.

È un attimo. Si alza in piedi, incurante del dolore pressappoco lancinante, e si lancia in una corsa disperata verso la cabina di comando, strappando una bottiglietta di Dr.Pepper dal carrello delle bibite.


Quando fa irruzione nella saletta e, sotto gli occhi increduli del comandante e del vice comandante, riversa l'intero contenuto della bottiglia sui pannelli pieni di congegni elettronici, si sente quasi in pace con se stessa.
La caviglia le pulsa e il dolore è così forte da annebbiarle la vista. Quando i due uomini nella cabina la afferrano è tardi; le gambe cedono e il mondo si oscura. Un unico pensiero le occupa la  mente:

Non posso ricordare il tuo nome, così…

§


Ultimamente la sua vita ha preso una strana piega. Alle volte la mattina, appena sveglio, gli capita di ritrovarsi in lacrime, vittima della sensazione di aver perduto per sempre qualcosa di importante.

Strani sogni popolano le sue notti ma, per qualche motivo, non riesce mai a ricordarli. Va avanti nelle sue giornate spinto dal desiderio di trovare qualcosa, qualcuno di imprecisato, di irraggiungibile, eppure estremamente importante, qualcosa che completi il quadro altrimenti monotono della sua vita.

La strada di Akihabara che costeggia il palazzo della radio è affollata come sempre; la gente va e viene in un movimento frenetico ed incessante, mossa da uno scopo. Uno scopo… alle volte Okabe si domanda se ne abbia uno.

Un profumo di agrumi e un lampo di capelli ramati lo distolgono dai suoi pensieri, obbligandolo a fermarsi di colpo in mezzo alla strada quasi avesse visto un fantasma. Nel momento in cui, con estrema lentezza, si volta, si ritrova costretto a soffocare le lacrime, senza sapere esattamente il perché.

Una ragazza dai capelli ramati e gli occhi azzurri lo fissa con un'espressione che, ne è certo, è specchio della sua. Qualcosa nel suo atteggiamento le ricorda una bambina sperduta che cammina senza certezze verso qualcosa di indefinito. Riesce ad accorgersene perché anche lui è così, mentre cammina sotto il limpido cielo estivo alla ricerca di qualcosa che non ha ancora un nome. Ecco perché, nonostante la sua timidezza, decide di rivolgerle la parola.

«Scusami», comincia titubante. «Ma… ho l'impressione di averti già incontrata da qualche parte».

Una ragazza qualsiasi l'avrebbe preso a ceffoni, scambiando quella sua domanda innocente per un terribile tentativo di abbordaggio, ma lei no. Lei piange e, con voce esitante, gli risponde.

«Ah, oh… Che strano, è esattamente ciò che ho pensato io».

«Questa dev’essere la scelta di-», Okabe si trattiene dallo sfoderare la figura dello scienziato pazzo. «… ah, dimentica che abbia detto qualcosa».

Per un lungo istante si guardano negli occhi provando la familiare sensazione di vedere il tempo fermarsi. E mentre, in maniera del tutto accidentale, porgono la stessa domanda sanno di averlo ritrovato.

«Qual è… il tuo nome?».

 

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Capitolo 3
*** Violet Evergarden!AU - Fiordaliso. ***



Note dell'autrice: Questa storia è stata un vero parto. L'ho cominciata che Violet Evergarden aveva iniziato ad andare in onda da un mesetto e, tra crisi di mancanza di ispirazioni, crisi in cui non sapevo come scrivere una determinata scena e mancanza di tempo in generale, l'ho terminata solo qualche giorno fa.
Precisiamo: non serve aver visto Violet Evergarden per comprendere questa storia, perché essa è ambientata nello stesso mondo (di cui quindi ho ripreso la geografia) e al massimo scorgerete qualche breve riferimento all'opera originale, ma nulla di più, anche perché i dettagli necessari alla comprensione sono tutti spiegati nel testo. Sono oltre 18.000 parole (il mio personalissimo record çWç) di sofferenza, lo ammetto, ma parlare di sentimenti in un mondo in guerra non è facile, specie se i due personaggi in questione hanno una storia difficile alle loro spalle. Spero di non essere stata troppo banale o smielata in alcuni punti, in tal caso... tiratemi pure i pomodori virtuali addosso, me li merito.

Sicuramente è una storia piena di difetti e magari più in là nel tempo ci rimetterò mano e troverò duemila cose da cambiare, ma per il momento mi dovrò accontentare di questo risultato. Qui i personaggi hanno una caratterizzazione decisamente più simile a quella di S;G 0, quindi non soprendetevi se Okabe non fa l'idiota e se Kurisu non lo tempesta di risposte tsundere, la loro è una situazione davvero difficile. TwT

Per questa volta ho voluto riassumere le parti della storia tramite delle citazioni a canzoni di Fabrizio De André, perché le ritengo molto vicine alla poesia e in certo senso prese da sole è come se raccontassero già una storia da loro. E poi bisognava rendere omaggio alla parte bella della musica italiana. L'idea del fiordaliso infatti mi è venuta da un verso de "La Canzone di Marinella" ("Furono baci e furono sorrisi, poi furono soltanto i fiordalisi") e la fortuna ha voluto che il colore del fiore fosse straordinariamente simile a quello degli occhi di Kurisu. Mi è dispiaciuto un po' non poter citare la canzone in sé, ma alla fine non ho avuto la possibilità di inserirla nella trama.

Ah, per inciso: l'arma inventata da Kurisu non è altro che il Gas Nervino. Il suo funzionamento me lo sono studiato da quel magggggico posto che è Wikipedia. Tutte le info relative ai suoi effetti e al suo meccanismo d'azione sono già inseriti nella storia~ 

 



Per un periodo della sua vita aveva sentito dire che lo scopo dell’esistenza dell’uomo fosse ricercare la bellezza assoluta. All’epoca, complice la sua giovane età, non ci aveva dato molto peso ma, in quel momento, sentiva di poter dare almeno parzialmente ragione a quell'affermazione.

Tra le sue braccia giaceva quanto di più bello la vita gli avesse offerto. La pelle pallida illuminata dalla luce della luna, le ciglia scure che proiettavano lunghe ombre sulle guance immacolate, quel volto inaspettatamente dolce. Sembrava quasi che dormisse.

Nella sua relativamente breve esistenza aveva appreso come la vita fosse in grado di dare e togliere in ugual misura. Mai avrebbe voluto vedere quella figura che tanto amava col volto rigato di lacrime e macchiato dal sangue.

Il corpo tra le sue braccia emanava ancora lo stesso tepore della prima volta che lo aveva stretto a sé, in netto contrasto con il gelo che lentamente si stava impossessando delle sue membra.

Ah… Ho perso troppo sangue. Non sento più le gambe.

Avvicinò a fatica le labbra a quelle sottili della figura che riposava beata. Un lieve e tiepido respiro si levava da queste, così tenue da non condensarsi nell’aria gelida. Improvvisamente una gioia pura e selvaggia si impossessò del suo cuore: viveva ancora.

Avrebbe continuato a vivere anche se lui, che la stringeva disperatamente a sé, non sarebbe riuscito a seguirla e andare avanti.

Il suo pensiero volò a quante cose la vita le avrebbe riservato di lì in avanti: avrebbe pianto, avrebbe riso, avrebbe sofferto e gioito. Una nostalgia straziante si mescolò alla gioia e in quel momento si rese conto di aver vissuto soltanto perché lei potesse sorridere.

 

§



 

“Passano gli anni, i mesi, |
e se li conti anche i minuti, |
è triste trovarsi adulti |
senza essere cresciuti”.
(da “Un giudice” - Fabrizio De Andrè, 1971)

 

Fine Marzo - Leiden.

 

Non era difficile intuire perché il May Queen fosse la locanda più lussuosa di tutta la Capitale: un'antica struttura dagli interni in lucido legno, pavimenti ricoperti da tappeti pregiati e arazzi dai disegni intricati che si abbandonavano dalle pareti. Era un posto frequentato dall’aristocrazia e dagli alti ufficiali dell’esercito e, proprio per quel motivo, sentiva che non fosse adatto a lui.

«Kyōma! Da quanto!».

Una ragazza in divisa da cameriera e dallo sguardo furbo lo salutò energicamente nel momento in cui si avvicinò alla reception. Era un sollievo trovare una figura familiare in un posto in cui si sentiva così fortemente a disagio.

«Ah, buonasera, Rumiho. È da molto che non ci vediamo».

La ragazza gonfiò le guance in uno sguardo carico di disappunto. «Non conosco nessuna “Rumiho”. Faris è Faris, ricordi?».

«Oh, hai ragione, Faris, perdonami», rispose con un sorriso di scuse. «Ad ogni modo, sapresti dirmi in quale stanza si trova il Tenente Colonnello Tennōji?».

«Certamente!», trillò Faris entrando in “modalità lavoro”. «La prego di seguirmi da questa parte, signore!».

La cameriera lo guidò attraverso un corridoio illuminato da numerose lampade ad olio fino ad una porta in lucido mogano. «Hai notizie di Mayushii, per caso? Con la guerra di mezzo Faris teme che le sue lettere non le siano arrivate», domandò improvvisamente la ragazza abbandonando per un attimo il suo solito sorriso.

«Ah, sì. Ho ricevuto una sua lettera la settimana scorsa, pare che la presenza dell’esercito di Leiden nelle vicinanze della città abbia garantito una certa normalità del tenore di vita. Sembra che la famiglia di Mayuri sia impegnatissima con il lavoro, ultimamente».

«Faris è felice di sentirlo. Portale i miei saluti se dovessi capitare da quelle parti», la sentì raccomandarsi mentre prendeva congedo con un perfetto inchino. «Le auguro una buona permanenza al May Queen, gentile cliente!».

Osservò inespressivo la porta per diversi istanti. Oltre la barriera di legno e vernice si udiva soltanto un silenzio assoluto. Con un profondo respiro bussò due volte sul mogano scuro. Un uomo calvo e dalla statura impotente si attaccò sulla soglia, scrutandolo con aria truce. Represse un brivido di terrore e si posizionò immediatamente sull’attenti.

«Signore! Maggiore Okabe a rapporto».

La gigantesca sagoma del Tenente - Colonnello Tennōji lo scrutò minacciosa per alcuni istanti, per poi aprirsi inaspettatamente in un gran sorriso.

«Eccolo qui, l’uomo della serata!», esclamò Tennōji trascinandolo nella stanza e assestandogli una vigorosa pacca sulla schiena. «Accomodati, ragazzo, mangia tutto quello che vuoi».

Nella lussuosa suite della locanda, decorata con tende di tessuto damascate e mobili di lucido legno, era stato imbastito un tavolo colmo di pietanze dall’aspetto squisito. Okabe osservò le portate per qualche istante, avvertendo una forte sensazione di nausea nel momento in cui la bocca del suo stomaco si chiuse in segno di rifiuto.

«La ringrazio, ma ho già cenato», declinò infine l’invito rivolgendo un cenno di scuse con il capo prima di accomodarsi nella poltrona posta all’altro capo della tavola.

Il colonnello scoppiò in una fragorosa risata, prima di versare del vino nel proprio bicchiere. «Sei un ragazzo in gamba, ma dovresti mettere un po’ di carne su quelle ossa, o rischi di svenirmi sul campo di battaglia».

C’era qualcosa, nella persona del Colonnello Tennōji, che gli aveva sempre impedito di sentirsi a proprio agio in sua presenza. L’uomo sorrideva sempre in maniera bonaria e lo trattava in maniera quasi paterna, ma Okabe sentiva in qualche modo che il confine tra la gloria e la disgrazia fosse molto sottile, quando si trattava di quell’uomo.

«Signore, potrei sapere come mai ha richiesto la mia presenza, stasera?», domandò infine con cautela.

Tennōji finì di vuotare il proprio bicchiere con un sospiro soddisfatto. «Per congratularmi per la tua promozione a Maggiore, naturalmente. Ho sentito parlare molto bene del tuo coraggio in battaglia, perciò non mi sorprende che tu stia scalando in fretta i ranghi nonostante la tua giovane età».

«Ho solo svolto il mio dovere nei confronti della patria, signore».

«Sciocchezze!», tuonò l’uomo con un sorriso. «Godi di un’ottima fama nell’esercito del Leidenschaftlich. Come se la passa la tua famiglia? Immagino sarà orgogliosa di avere un figlio come te».

Okabe represse un sussulto. I suoi genitori erano due semplici agricoltori che vivevano del ricavato dell’esportazione dei propri prodotti nelle regioni vicine. Come il Leidenschaftlich, la regione di Enciel godeva di un clima mite durante tutto l’anno e le sue terre pianeggianti l’avevano resa un grande centro di produzione agricola dalla fervente economia. Tuttavia, con l'inasprirsi del conflitto tra le alleanze del Sud e del Nord, molte braccia nei campi erano state chiamate alle armi e per loro mandare avanti l’attività di famiglia si era fatto sempre più difficile. Okabe, allora solo 17enne, aveva deciso, nonostante le suppliche dei suoi genitori, di arruolarsi nell’esercito dell’alleanza del Sud, guidata dalla piccola nazione militare del Leidenschaftlich.
 

«… Sì, credo di sì».

Tennōji annuì appena, facendosi improvvisamente serio. «Ho una missione da affidarti che, se portata a termine, metterà la parola “fine” alla guerra prima dell’arrivo dell’estate».

Negli ultimi due anni la guerra era rimasta in una situazione di stallo in cui, nonostante la superiorità numerica dell’esercito dell’impero Gardarik a nord, nessuna delle due forze in conflitto riusciva a prevalere sull’altra. Il prezzo in vite continuava a farsi sempre più alto e le vita nelle città di confine si faceva sempre più dura a causa dei bombardamenti che avevano severamente danneggiato la linea ferroviaria che collegava tra loro le varie città del continente di Telesis.

«Porre fine alla guerra? Se mi permette, una cosa del genere sarebbe possibile solo conquistando Intens, la roccaforte nemica».

«Ottima osservazione, ragazzo mio, ed è proprio questo ciò di cui vorrei che tu e la tua squadra vi occupaste», confermò Tennōji alzandosi dalla sua poltrona.

Okabe sgranò immediatamente gli occhi. Volevano mandarlo a compiere una missione suicida? Certo, la sua famiglia avrebbe potuto vivere tranquilla a conflitto terminato, ma il pensiero della morte rimaneva comunque terrificante.

«Signore, con tutto il dovuto rispetto, la roccaforte di Intens è circondata dai monti e sia questa che il territorio circostante della regione di Bociaccia sono sorvegliate da un totale di circa 40.000 soldati dell’alleanza nemica, non avremmo...».

«Non temere, non è una missione suicida quella che voglio che tu intraprenda. Non correremmo mai il rischio di addentrarci in territorio nemico senza avere una strategia infallibile a supportarci. Anche se in questo caso bisognerebbe parlare più di un’arma, che di una strategia...», spiegò il tenente-colonnello. Il rumore dei suoi passi pesanti riecheggiò per il soggiorno della lussuosa suite, fermandosi davanti ad una porta di legno scuro non dissimile da quella di entrata. «Lascia che ti presenti la chiave della nostra vittoria».

Okabe avvertì un brivido corrergli lungo la schiena mentre una delle gigantesche mani dell'uomo bussava sul mogano laccato. Aveva il presentimento di essersi cacciato in qualcosa che era molto più grande di lui. Erano passati due anni e non era cambiato di una virgola.

«Ehi, signorina, abbiamo ospiti. Vieni a salutare».

Ci fu qualche breve istante di silenzio in cui Okabe riuscì a sentire solo il proprio respiro irregolare e il quieto ronzio dell’elettricità. Poi, all’improvviso, un rumore di passi leggeri si udì da quella che immaginò essere una camera da letto. Quando la porta si aprì con un leggero cigolio Okabe osservò qualcosa che non si sarebbe mai aspettato di vedere.

Nella penombra della stanza un paio di occhi tra l’azzurro e il violetto circondati da ciglia lunghe e scure lo osservavano impenetrabili.

«Lei è Makise Kurisu, la nostra risorsa più preziosa nonché fulcro della tua prossima missione».

La ragazza, che sembrava avere circa la sua età, indossava una sciatta divisa da lavoro composta da un largo pantalone nero tenuto su da un paio di bretelle e una camicia bianca troppo grande per il suo corpo minuto. Sopra di essi svettava un logoro camice bianco. Come poteva una ragazza così giovane essere il fulcro di un’operazione militare?

Come se fosse stato in grado di capire i suoi pensieri in un solo sguardo, Tennōji intervenne nuovamente. «Non farti ingannare dalla sua giovane età. Questa signorinella è una scienziata piuttosto in gamba. È stata lei ad inventare l’arma che ci permetterà di conquistare Intens».

«Ah, ecco… Uhm, l-lieto di conoscerla, signorina Makise, mi chiamo Rintarō Okabe e… Uhm, sono un… maggiore dell’esercito del Leidenschaftlich».

In tutta risposta al suo disastroso tentativo di presentazione, la ragazza si prostrò in un lieve inchino, lasciando che una massa di capelli ramati piena di nodi scivolasse sulle sue spalle.

«Sfortunatamente la signorina Makise è l’unica ad essere in grado di utilizzare la propria invenzione in maniera corretta, perciò si unirà al tuo plotone e viaggerà con voi verso la città di Kazaly. Lì vi riunirete con parte dell’esercito dell’Alleanza del Sud e marcerete verso Intens. Le montagne della regione di Bociaccia sono ricche di caverne e di boschi di sempreverdi, il tenente - colonnello Hashida vi attenderà da quelle parti e assieme alla signorina Makise elaborerete la strategia migliore per condurre l’assedio. Sono stato chiaro?».

Okabe deglutì il groppo amaro che si era formato nella sua gola. A soli 19 anni gli era stata affidata la vita di centinaia di uomini, di una ragazzina e, assieme ad essi, buona parte delle sorti di un conflitto che divideva a metà un intero continente.

Non si era arruolato né per l’onore né tantomeno per la gloria, ma solo perché il denaro del suo stipendio potesse garantire ai suoi genitori una vita tranquilla fino a che il conflitto non fosse giunto al termine. Nei due anni e mezzo trascorsi sul campo di battaglia aveva vissuto con la morte che pendeva sul suo capo come una spada di Damocle e ciò gli aveva fatto credere di essere stato costretto a crescere prima del tempo. Eppure la verità era ben altra: se con gli anni il suo corpo era diventato quello di un uomo, lui era rimasto il ragazzino codardo che era fuggito di casa per decretare la vita o la morte di persone che erano esattamente come lui.

 

§

 

Il Leidenschaftlich era diventato, nonostante le sue dimensioni estremamente ridotte, una nazione molto potente grazie alla sua favorevole posizione geografica. Nonostante le correnti a sud del continente fossero piuttosto violente, la piccola nazione godeva di baie e porti molto tranquilli che l’avevano resa il cuore commerciale del continente di Telesis.

Il territorio si faceva pianeggiante nell’avvicinarsi al mare e cominciava ad alzarsi in piccoli rilievi montuosi a nord, al confine con la regione di Bociaccia.

Il clima era generalmente mite durante tutto l'anno, con estati decisamente calde ma ventilate e inverni tiepidi ma piovosi.

Nonostante aprile fosse ormai alle porte, su quel sentiero di montagna a poche ore di cammino da Kazaly, un villaggio di confine che sorgeva sulle sponde di un fiume in mezzo ad una piccola valle, le temperature erano rimaste piuttosto rigide.

Gli uomini del contingente guidato dal Maggiore che l’aveva presa in custodia si erano ormai ritirati tutti nelle proprie tende per la notte, cercando riparo dall’insolito freddo nei sacchi a pelo. Sarebbero ripartiti all’alba per giungere alle porte di Kazaly prima che il sole raggiungesse lo zenit.

L’atmosfera della guerra non le piaceva affatto. Sebbene i soldati la ignorassero per gran parte del tempo e i ritmi di marcia non fossero eccessivamente pesanti, tra i ranghi aleggiava una sorta di tensione impalpabile, anche quando gli uomini si riunivano attorno al fuoco per affogare le proprie ansie e i propri timori nelle risate dettate dal consumo di bevande alcoliche di pessima qualità.

Trascorreva le proprie giornate in silenzio, osservando le facce scure e piene di cicatrici delle persone con cui marciava e che, su ordine del Maggiore, si assicuravano che rimanesse sana. A volte le era capitato di capitare sotto la custodia di qualche ufficiale donna che, per cercare di trascorrere in maniera più piacevole il tempo interminabile dei loro spostamenti, aveva tentato di intavolare una conversazione con lei, ma Kurisu, non trovando alcuna utilità nel perdersi in futili chiacchiere con persone per cui era poco più di un oggetto, si chiudeva nel suo solito silenzio.

Quella notte, per qualche motivo, sembrava non riuscire a dormire. Non poteva dire di empatizzare con quelli che, presumibilmente, avrebbe dovuto chiamare “commilitoni”, perché l’idea di morire non la spaventava affatto. Era passato già diverso tempo dal momento in cui era giunta alla conclusione che la morte fosse una parte naturale e fondamentale del ciclo della vita e si accontentava di studiare le leggi che governavano l’uomo e la natura per trascorrere in maniera interessante il tempo che la separava dall’imprecisato giorno in cui il suo ciclo vitale sarebbe giunto al termine.

Era seduta su un tronco di legno davanti a ciò che rimaneva del fuoco, godendosi nella quiete della notte il calore delle fiamme e della deliziosa miscela di caffè che custodiva come un piccolo tesoro personale.Contemplava in che modo potesse alterare le percentuali delle varietà di semi usate nella miscela per rendere il sapore più ricco, quando un rumore di passi la sorprese, portandola immediatamente sul chi vive.

Dubitava si trattasse del Maggiore, l’uomo - di cui proprio non ricordava il nome - la considerava un impiccio, con molta probabilità, perciò lasciava la responsabilità della sua custodia ad altre persone e non si interessava del modo in cui trascorreva le sue giornate.

«Uhm, ecco… Mi scusi, non… Io non… Non volevo disturbarla, signorina Makise, mi… mi perdoni».

La voce che l’aveva inondata di scuse era sottile e delicata e apparteneva ad un ragazzo il cui aspetto la rispecchiava perfettamente. Gracile, dalla pelle pallida come porcellana e corti capelli scuri. Era sicura che, se le ciocche che incorniciavano appena il volto del giovane fossero state più lunghe, non avrebbe esitato a scambiarlo per una bellezza androgina che avrebbe suscitato l’invidia di molte giovani donne dell’aristocrazia.

Il ragazzo sobbalzò, rivolgendole un’espressione terrorizzata. Persa nelle sue considerazioni, doveva averlo osservato con troppa intensità, spaventandolo.

In una tacita offerta di pace, si spostò verso un’estremità del tronco, guardando con espressione curiosa il giovane che ricambiava il suo sguardo con esitazione. Con la mano libera indicò il posto accanto al proprio in un tacito invito ad accomodarsi.

«Uh, ecco… Grazie. Mi perdoni il disturbo».

Normalmente avrebbe completamente ignorato la presenza di altre persone, continuando a comportarsi come se non ci fosse nessun altro. Non le piaceva stare in mezzo alla gente, specialmente quando si trattava di sconosciuti ma la visione di qualcuno così giovane nei ranghi dell’esercito aveva pizzicato la sua curiosità.

Il giovane si era seduto accanto a lei con una grazia ed eleganza che non avrebbe mai associato ad un soldato, mantenendo un’aria di timida riservatezza che in qualche modo percepiva affine alla sua indole.

Osservandolo da vicino riuscì a notare come l’uniforme che portava indosso gli stesse leggermente larga e si ritrovò a pensare come fosse fondamentalmente sbagliato che una persona simile avesse a che fare con la guerra.

«Mi scusi se l’ho disturbata, signorina Makise. Non mi aspettavo di trovare qualcun altro in piedi a quest’ora», si scusò il soldato per l’ennesima volta, osservando i propri piedi con aria sinceramente dispiaciuta. Kurisu trovò in qualche modo tenero il suo atteggiamento e si ritrovò a scuotere appena il capo, lasciando intendere come non fosse necessario inondarla di scuse per qualcosa di simile.

«La verità è che proprio non riesco a dormire, stanotte. Domani saremo a Kazaly e… e poi...».

Kurisu lo osservò curiosa, cercando di capire a cosa fosse dovuta l’improvvisa esitazione. Il giovane alzò improvvisamente lo sguardo, guardandola per qualche istante con una certa ritrosia prima di parlare.

«La verità è che… ho paura. Ho così tanta paura che ogni passo che mi porta più vicino al confine mi riempie di terrore. Io…non sono tagliato per fare il soldato».

La voce del ragazzo tremava, quasi fosse in procinto di piangere e Kurisu si domandò perché, pur non temendo lei stessa la morte, provasse dolore per uno sconosciuto che invece la temeva più di ogni altra cosa.

«Sa, non ho scelto io questa vita. Io volevo diventare una Bambola di scrittura automatica, avevo perfino frequentato la scuola di Leiden. Mi sono finto donna pur di inseguire il mio sogno. Poi, però, mio padre mi ha scoperto e mi ha costretto ad arruolarmi».

Kurisu si ritrovò ad ascoltare le parole pronunciate da quella voce delicata con più interesse di quello che si sarebbe mai aspettata. Ancora una volta il suo intuito non l’aveva ingannata: quel ragazzo dall’aspetto così fragile possedeva una volontà che bruciava con grande ardore. In qualche modo si sentì estremamente vicina a quella figura di una bellezza quasi eterea che la osservava esitante.

«Mi… Mi scusi. N-non so cosa mi sia preso. Sono… Sono sicuro che troverà piuttosto strano quello che ho detto, non ci faccia ca...».

«Come… Come ti chiami?».

«Ah… Oh… Uhm… Ruka. Ruka Urushibara», fu la risposta quasi automatica che ricevette.

In pochi istanti l’espressione di disagio dipinta sul volto delicato del suo interlocutore si trasformò in una di puro stupore, la luce tenue delle fiamme che si rifletteva nei grandi occhi sgranati del giovane. «Ma… Ma lei… Parla!».

Kurisu alzò un sopracciglio, avvertendo un angolo della bocca tirarsi su in un’espressione di leggero divertimento nel vedere una reazione così sincera e spontanea. «Sì, certo, sono in grado di svolgere l’azione del parlato, se è questo che intendi. Semplicemente… Non mi piace farlo».

Ruka Urushibara inclinò leggermente il capo, assumendo un’espressione piuttosto confusa. «Non… le piace?».

«Esatto. Trovo che le parole siano inutili. La gente riempie la propria esistenza di parole vuote, utilizzandole come un modo per occupare il tempo che separa ogni singolo essere umano dalla propria inevitabile fine. Penso che sia uno spreco di energie parlare quando non si ha nulla di importante da dire».

«Le parole sono inutili...», ripeté il ragazzo a se stesso come a volersi accertare del significato stesso della frase.

«C’è una cosa che vorrei chiederti», cominciò posando la tazza di caffè sul terreno e voltandosi verso il suo interlocutore. «Cos’è una “bambola di scrittura automatica”?».

Per la seconda volta quella notte, Ruka Urushibara le rivolse un’espressione sinceramente stupita, come se avesse appena domandato il significato di qualcosa di molto ovvio o di molto inaspettato, per poi mostrare un sorriso entusiasta. Ancora una volta pensò che la presenza di una persona così pura in quel posto fosse qualcosa di profondamente sbagliato.

«È comprensibile che non ne abbia sentito parlare», spiegò il ragazzo in tono comprensivo. «Si tratta di un fenomeno nato alcuni anni fa ma che è passato in sordina a causa della guerra. Le “bambole” sono delle ragazze, generalmente di bell’aspetto, che si occupano di scrivere lettere per conto della gente».

«Sono degli scribi, dunque».

«In apparenza potrebbe sembrare così, ma in realtà sono molto di più!», gli occhi di Ruka Urushibara si illuminarono di una gioia abbagliante. «Molte persone hanno difficoltà ad esprimere a parole concetti come le emozioni per via della loro natura astratta, perciò spetta alle Bambole comprendere questi sentimenti e metterli per iscritto. In questo modo il destinatario di una lettera può percepire le emozioni che il mittente voleva che cogliesse».

L’entusiasmo con cui Ruka Urushibara parlava del proprio sogno era qualcosa che non le era mai capitato di vedere. Naturalmente era in grado di spiegare con minuzia i fenomeni chimici e biologici dietro quell’ “emozione" ma vederla manifestarsi con una tale intensità era un’esperienza nuova.

«Perciò il compito delle bambole è… descrivere queste emozioni?».

«In un certo senso è così, ma è il vero significato del loro compito che rende così speciale questo mestiere. Le parole… hanno molto più potere di quello che potrebbe pensare, signorina Makise. Le parole possono creare legami persino tra persone che sono separate da tempi e spazi enormi. Possono dare speranza, conforto, possono esprimere dolore, gioia, amore... anche quando la voce viene meno».

In linea teorica riusciva a cogliere perfettamente ciò che significava essere una bambola di scrittura automatica: comprendere i sentimenti di una persona ed elaborarli in una forma scritta che fosse allo stesso tempo più comprensibile ed esteticamente piacevole. Ciò che non riusciva a capire era come un insieme di caratteri associati a formare delle parole o una vibrazione delle corde vocali potessero unire emotivamente le persone.

L’essere umano nasceva come una creatura fondamentalmente sola, dal momento che ogni uomo era in linea di massima in grado di comprendere completamente solo se stesso e i propri bisogni. Naturalmente alcuni tratti della personalità, così come negli animali, venivano acquisiti tramite la stimolazione dei neuroni specchio causata dalle interazioni sociali, ma dubitava seriamente che due persone potessero capirsi realmente, specialmente attraverso una forma di comunicazione facilmente fraintendibile e abusata come la parola.

Eppure riusciva a comprendere dallo sguardo raggiante di Ruka Urushibara come lui credesse sinceramente nel potere delle parole e si ritrovò a pensare che forse, quel giovane soldato a cui la vita aveva brutalmente tarpato le ali avrebbe potuto cambiare un po’ lo stato delle cose, se gli fosse stata data la possibilità di farlo. Improvvisamente sentì una grande tristezza pesarle addosso.

«Mi dispiace che tu non abbia potuto realizzare il tuo sogno», disse infine con voce carica di un rammarico così sincero da stupire persino se stessa.

Inaspettatamente, Ruka Urushibara sorrise, rivelando tutta la bellezza dei lineamenti delicati del proprio volto. «Non deve essere triste per me, signorina Makise. Oka- Volevo dire, il Maggiore mi permette di scrivere lettere per conto dei soldati analfabeti, perciò è un po’ come se a modo mio stessi vivendo il mio sogno».

Kurisu volse lo sguardo verso la valle circondata dai monti dove sorgeva la cittadina di Kazaly. Dietro il profilo scuro delle montagne la luce del sole cominciava a rischiarare il cielo.

«Sarà meglio che vada in tenda a prepararmi», annunciò Ruka alzandosi dalla posizione che aveva occupato fino a quel momento. «La ringrazio infinitamente per la compagnia».

Nonostante la sua espressione fosse tranquilla, Kurisu percepì distintamente il tremolio nella sua voce. «Urushibara», chiamò improvvisamente. Il ragazzo si voltò verso di lei con aria interrogativa. «Quando torneremo a Leiden… vivi la tua vita come vorresti veramente. Non permettere a nessuno di dire cosa devi o non devi essere, perché tu sei tu».

Una risata cristallina si levò nell’aria frizzante dell’alba.

«Che strano. Conosco una persona che mi ha detto la stessa identica cosa!».

 

§

 

Il paesaggio che circondava Kazaly era profondamente diverso da quello della nazione di Enciel o da quello che circondava la Capitale.

La piccola valle, dove scorreva un affluente del grande fiume Temis, era protetta da numerose cime montuose di modesta altitudine ricoperte da una fitta vegetazione. Nell’aria fresca del primo mattino l’odore della resina e del terreno impregnavano l’aria della foresta, la cui quiete era interrotta soltanto dal verso sporadico di qualche uccello e dal rumore soffice di passi sulla terra umida.

Scrutando la mappa per qualche istante calcolò che sarebbero giunti nei pressi della città nel giro di un paio d’ore di cammino, subito dopo aver attraversato la foresta. L’idea di aver ormai raggiunto il confine era tanto rincuorante quanto snervante: non avevano incontrato forze nemiche durante il loro viaggio, ma sapeva che non sarebbero stati così fortunati una volta entrati nel territorio della nazione di Bociaccia.

Il suo sguardo saettò verso la persona la cui vita o morte avrebbe determinato l’esito della guerra: Kurisu Makise, con indosso un’uniforme militare decisamente troppo grande per lei, camminava inespressiva accanto al giovane Ruka Urushibara, il quale sembrava parlarle con entusiasmo di qualcosa.

Era una scena bizzarra, si concesse di pensare. Era raro vedere Rukako rivolgersi con una tale naturalezza a qualcuno, e la visione assumeva i toni dell’assurdo se soffermava la propria attenzione sul fatto che il suo interlocutore fosse una donna che sospettava non potesse nemmeno essere qualificata come essere umano.

Makise Kurisu non aveva detto una singola parola dal momento in cui l’aveva incontrata e tra i ranghi del suo plotone girava voce che fosse in realtà completamente muta. Obbediva agli ordini senza fiatare, senza cambiare espressione, osservando tutto e tutti con lo stesso sguardo vuoto. Era quasi incredibile pensare che qualcuno del genere possedesse una mente tanto geniale da riuscire ad inventare un’arma che avrebbe potuto ribaltare le sorti della guerra.

D’altro canto Rukako, che conosceva sin da bambino, era sempre stato un ragazzo estremamente timido e poco propenso a conversare con le altre persone. Suo padre, che godeva di alcune conoscenze nell’esercito, aveva fatto sì che venisse assegnato al suo stesso plotone poco prima della sua promozione al grado di maggiore.

Ruka era di costituzione fragile e di una delicata bellezza insolita per un ragazzo di soli sedici anni; era sempre stato prima un bambino e poi un giovane uomo molto sensibile alle emozioni altrui, cosa che spesso lo aveva portato ad essere oggetto delle prese in giro dei suoi coetanei. Quando qualche anno prima gli aveva confessato titubante di essersi iscritto alla scuola per Bambole di scrittura automatica di Leiden, Okabe non aveva potuto fare altro che esprimere il proprio sostegno. Tutto ciò che aveva sempre desiderato era vedere le persone a lui care essere felici, perciò, quando improvvisamente Ruka era passato da “amico” a “sottoposto” gli si era spezzato il cuore.

La sua posizione di maggiore, ovviamente, portava con sé altri benefici, oltre alla paga più che lauta, perciò aveva deciso di proteggere quel suo caro amico con tutte le sue forze, tenendolo lontano dal campo di battaglia e affidandogli il compito di scrivere lettere per conto dei suoi commilitoni o per le famiglie di coloro che erano caduti nel conflitto.
Era la prima volta che vedeva Ruka sorridere e parlare con così tanto entusiasmo da quando era entrato nell’esercito, perciò decretò che non aveva importanza con chi facesse amicizia fintanto che il suo caro amico trovasse un po’ di felicità all’interno dell’orrore della guerra.

«Attenzione!».

Un grido improvviso squarciò la quiete della foresta, seguito dal fragore di uno sparo. A pochi metri di distanza il corpo senza vita di un suo commilitone si accasciò per terra mentre il rumore degli spari si mischiava alle grida dei suoi uomini. Il suo sguardo saettò tra gli alberi, scorgendo alcuni uomini in mimetica nascosti tra i rami.

«Correte al riparo, è un’imboscata!», gridò con quanto fiato aveva in gola prima di gettarsi dietro uno spuntone roccioso che sorgeva dal terreno. Prese un respiro profondo: dalla sua posizione riusciva a scorgere due uomini appostati su due alberi ad un paio di metri di distanza intenti a sparare a vista. Dalle sue spalle provenivano urla indistinte e colpi di fucile. Il suo cuore batteva con furia contro la sua gabbia toracica, ogni sensazione amplificata di mille volte nel suo cervello.

«Io sono... Kyōma Hōōin!», sussurrò rivolgendosi a nessuno in particolare prima di sporgersi sulla superficie rocciosa e sparare due colpi decisi. Una sensazione di disgusto risalì dal profondo della sue viscere mentre i due uomini rovinavano per terra tra urla agonizzanti.

Hōōin Kyōma non era nessuno. Era una personalità immaginaria che la sua mente aveva prodotto per evitare di essere sopraffatta dalla paura di avere a che fare con la morte. Pensare di non essere se stesso almeno in quegli istanti gli infondeva il coraggio necessario a premere il grilletto.

Diede un rapido sguardo ai suoi dintorni: tra gli alberi e i cespugli giacevano riversi i cadaveri di diversi uomini ma, con un sospiro di sollievo, notò che gran parte di questi indossavano un’uniforme diversa dalla sua. Fu allora che li vide: alcuni metri più in là, correndo a perdifiato verso un’insenatura tra due rocce, c’erano Ruka Urushibara e Kurisu Makise.

Le sue gambe parvero muoversi prima ancora che il suo cervello impartisse un vero e proprio ordine. Un bruciore acuto scoppiò sulla sua guancia destra quando un proiettile la sfiorò. Il suo corpo pareva di piombo e i pochi metri da percorrere davano l’impressione di non finire mai.

«Quei capelli! È la scienziata!».

L’esclamazione proveniente dalle sue spalle ebbe lo stesso effetto di un secchio d'acqua gelata. Il suo campo visivo fu immediatamente riempito dalla visione degli inconfondibili capelli ramati di Kurisu Makise e dal giovane uomo che, gettandosi su di lei, la trascinò con sé per terra. Una macchia scura si allargò sulla schiena di Ruka Urushibara.

Puntò i piedi sul terreno umido, cercando di rallentare la propria corsa per poi schiantarsi al suolo, il sapore della terra che si mischiava a quello del sangue nella sua bocca. Con uno sforzo di volontà sovraumano si rialzò solo per sentire le gambe cedere immediatamente sotto il peso della fatica, costringendolo ad inginocchiarsi.

Impugnando il fucile che gli pendeva da una spalla, si voltò, sparando non appena il nemico entrò nel suo campo visivo. Quando l’uomo si accasciò per terra, con un copioso rivolo di sangue che scorreva dalla testa là dove la pallottola aveva disintegrato l’osso e lacerato la carne, Okabe corse in direzione opposta, raggiungendo i suoi commilitoni.

Ruka Urushibara giaceva riverso sulla schiena, la testa posata sul grembo di Kurisu Makise, il cui volto, pallido come un cencio slavato, lo osservava in palese stato di shock, lo sguardo azzurro che saettava freneticamente tra la sua figura e quella del ragazzo tra le sue braccia.
I suoi occhi incontrarono quelli appannati del suo amico, il quale gli sorrise debolmente.

«Rukako…!».

Una flebile risata gorgogliò dal petto del giovane seguita da un rivolo di sangue scuro che scendeva da un angolo delle sue labbra pallide.

«… a-andate», la sua voce era flebile, poco più di un sussurro. «Okabe… Kurisu…  grazie… di tutto».

Un dolore così forte da mozzargli il respiro si impadronì del suo petto mentre, prendendo per mano Kurisu Makise, corse verso le sagome dei suoi compagni, cercando la salvezza oltre il confine della foresta.

In una luminosa mattina di primavera, Okabe Rintarō, maggiore dell’esercito del Leidenschaftlich, aveva lasciato morire una delle persone che aveva giurato di proteggere a costo della sua stessa vita.

 

§



 

«Anche la luce sembra morire |
nell'ombra incerta di un divenire».
(da “Inverno” - Fabrizio De Andrè, 1968)

Le forze militari del Leidenschaftlich stanziate presso le mura di Kazaly accolsero il suo plotone senza grandi cerimonie, occupandosi immediatamente di curare i feriti e di fornire un alloggio ai sopravvissuti. Sarebbero rimasti accampati sulle sponde del fiume che attraversava la città per una settimana, per poi partire insieme alle altre truppe alla volta di Capria, capitale dello stato di Bociaccia poco distante dalla roccaforte di Intens.

Dopo aver dato disposizioni affinché i cadaveri fossero recuperati prima del calar della sera, Okabe si rinchiuse nella tenda assegnatagli, dedicandosi a scrivere il rapporto sul viaggio da consegnare al suo superiore. Sentiva che, se non avesse tenuto occupata la mente, avrebbe perso quel barlume di lucidità che gli aveva permesso di non abbandonarsi alla disperazione e al senso di colpa.

«Maggiore!», lo chiamò la voce di un soldato, costringendolo ad abbandonare il rifugio della tenda. Un uomo di mezza età con un incisivo mancante lo accolse sull’attenti, un’espressione allarmata sul volto bruciato dal sole.

«Riposo. Cosa succede?», domandò stancamente massaggiandosi il setto nasale con i polpastrelli.

«È… È impazzita, signore!», fu la risposta tanto criptica quanto concitata dell’uomo.

«Chi sarebbe impazzito? Spiegati meglio».

«La scienziata! Volevano seppellire il corpo del novellino con la faccia da donna, ma si è messa in mezzo e non lascia avvicinare nessuno al cadavere!».

Okabe si lasciò sfuggire un pesante sospiro, trattenendo l’impulso di prendere a pugni l’uomo per il modo in cui aveva descritto il suo defunto amico. «Dove si trova, ora?».

«Nel cimitero militare, signore, verso il lato est delle mura».

§


Le lunghe ombre del crepuscolo oscuravano parzialmente la grande distesa verde costellata di tumuli. Alcuni di questi erano ornati da fiori, altri erano semplici cumuli di terra su cui torreggiava un elmetto sudicio. In un angolo lontano, sotto i rami di un grande albero in piena fioritura, Kurisu Makise scavava con foga quasi maniacale nel terreno umido. Accanto alla donna, avvolto in un telo pieno di rattoppi, giaceva il cadavere del giovane Ruka Urushibara.

Nonostante la mancanza mancanza di luce data dal tramontare del sole al lato opposto della valle, Okabe riuscì a scorgere le mani graffiate e incrostate di sangue e terra della scienziata. Senza proferire parola, si inginocchiò accanto alla donna, afferrandone con delicata fermezza i polsi. Kurisu Makise alzò finalmente lo sguardo verso di lui, il volto inespressivo. I suoi occhi, resi scuri dalla luce fioca del crepuscolo, erano spenti e privi di vita. Sembrava che le avessero tirato via quel po’ di umanità che aveva dato parvenza di possedere.

Aprendo con delicatezza i pugni serrati di Kurisu, posò l’asta di legno consunto di una pala sui suoi palmi tremanti. Poi, con la stessa silenziosa reverenza con cui le si era avvicinato, infilò le mani nella terra smossa e ne sollevò una grossa manciata, gettandola sull’orlo della buca che la donna aveva cominciato a scavare. Dopo alcuni istanti, la punta di ferro arrugginito della pala si unì alle sue mani.

Terminarono la sepoltura che era ormai notte, rimanendo ad osservare in silenzio il tumulo e la corona di fiori candidi posta sopra di esso. Un profondo sfinimento pesava sulle sue membra e sul suo cuore, e Okabe non poté che essere egoisticamente grato di ciò, rimandando i suoi pensieri al mattino seguente, quando il corpo e la mente avrebbero ritrovato un fioco barlume di energia.

In lontananza si udiva lo scrosciare pigro delle acque del fiume e il verso di qualche gufo nascosto nei boschi. Poi, improvvisamente, un singulto strozzato ruppe la quiete della sera.

«Perché… Non è… giusto…».

Per un attimo credette di aver avuto un'allucinazione uditiva. Dopotutto i fattori scatenanti c’erano tutti. Eppure, quando i suoi occhi misero nuovamente a fuoco la figura di Kurisu Makise, i movimenti delicati delle sue labbra non lasciarono spazio a supposizioni: aveva parlato.

Nonostante questo, ciò che lo stupì di più non fu il fatto che la donna da cui dipendevano le sorti della guerra fosse effettivamente in grado di parlare - lo aveva trovato tutto sommato ovvio, quasi come se, per qualche assurdo e inspiegabile motivo, avesse sempre pensato che fosse così -  a lasciarlo in preda al più puro stupore fu il fatto che dai suoi grandi occhi solitamente inespressivi scendevano piccole e brillanti perle alla luce della luna. Kurisu Makise stava piangendo la morte di Ruka Urushibara.

«Signorina Maki-».

«Non è giusto… non meritava di morire…», la sua voce, rotta dai singulti del pianto, era sottile, inaspettatamente delicata. I suoi occhi pieni di lacrime lo fissavano con un’intensità quasi intimidatoria.

«Io...».

«Tu…! Tu lo hai lasciato morire!».

I pugni della donna, ancora sporchi di sangue misto a terra, si abbatterono con violenza sul suo petto, facendo vibrare l’impatto fino alle profondità dei suoi visceri. Il suo stomaco sembrò precipitare in un baratro senza fondo, il groppo nella sua gola si fece troppo difficile da mandare giù.

«È tutta… È tutta colpa tua!».

Okabe chiuse gli occhi, lasciando che le lacrime bruciassero sulle sue guance ferite. Rimase immobile, lasciando che i pugni continuassero a colpirlo con veemenza. La realtà piombò sul suo cuore con la stessa violenza cui veniva picchiato: Ruka era morto e nulla avrebbe potuto riportarlo indietro.

«Lo so».

 

§




«Ma se ti svegli e hai ancora paura ridammi la mano |
cosa importa se sono caduto se sono lontano |
perché domani sarà un giorno lungo e senza parole |
perché domani sarà un giorno incerto di nuvole e sole».
(da “Hotel Supramonte” - Fabrizio De Andrè, 1981)

Kazaly - Inizio aprile.


Mayuri Shiina aveva la stessa età di Ruka Urushibara. Era poco più bassa di lui, con dei capelli scuri un po’ ribelli che le incorniciavano appena il volto leggermente paffuto e adornato da un sorriso sereno. Le iridi cerulee circondate da folte ciglia la osservavano curiosa mentre le tendeva una mano dalle dita piccole ma sottili.

«Forza, andiamo, signorina Kurisu», la incitò in tono allegro, trascinandola in maniera decisa ma gentile all’interno di una casa in pietra di modeste dimensioni circondata da un piccolo e rigoglioso giardino. «Abbiamo un sacco di cose divertenti da fare assieme!».

In quella brillante mattina di inizio primavera la peculiare figura di Mayuri aveva improvvisamente fatto irruzione nella sua tenda all’interno dell’accampamento, sostenendo di essere stata incaricata dal Maggiore Okabe di prendersi cura di lei per quel giorno.

“Mayushii desidera tanto fare amicizia con te!”, aveva esordito con una naturalezza e un’onestà che l’avevano completamente spiazzata. Così, ancora intontita dal sonno, si era lasciata trascinare, seppur con un certo riserbo, per le viuzze della vivace cittadina.

Dopo essere stata convinta, a suon di sorrisi e di rimproveri benevoli, ad accettare la squisita colazione preparatale, scorse Mayuri Shiina osservarla intensamente per alcuni istanti con l’aria di qualcuno in profonda contemplazione per poi aprirsi in un’espressione di leggero disappunto.

«Così non va. Scienziata o meno, una bella ragazza come la signorina Kurisu non può andare girando con la divisa e i capelli conciati in quel modo», si sentì rimproverare.

Kurisu le rivolse uno sguardo perplesso, domandandosi quale connessione potesse avere il suo aspetto con la professione che svolgeva. Non serviva particolare cura della propria apparenza per pensare in maniera lucida.

«Mayushii adesso le prepara un bel bagno caldo e le sistema quella divisa», annunciò trionfante prima di posare le piccole mani sulle sue spalle e spingerla verso una porta in legno situata in fondo ad uno stretto corridoio su cui si affacciavano altre due stanze.

Non avrebbe definito Mayuri Shiina come una persona insistente o fastidiosa, ma sicuramente non era una ragazza come le altre. In qualche modo sembrava brillare di luce propria con il suo modo di fare dolce ma inflessibile. Nonostante la sua giovane età, l’atteggiamento con cui le si rivolgeva le ricordava un po’ quello di una madre nei confronti di una figlia un po’ capricciosa.

«Oh, che capelli splendidi che ha, signorina Kurisu», esclamò passando pazientemente una spazzola tra le sue ciocche bagnate. «Sono di un colore bellissimo e si pettinano così facilmente. Sono sicura che i bambini si divertirebbero un mondo a giocarci».

Al suo sguardo interrogativo Mayuri socchiuse gli occhi, lasciando che un sorriso più delicato prendesse il posto della sua espressione raggiante. «Mayushii la domenica insegna ai bambini che non possono permettersi un’istruzione. Le ricorda quando lei, Okarin e Ruka erano piccoli».

Kurisu osservò il volto di Mayuri Shiina riflesso nello specchio del piccolo bagno: il suo sorriso non accennava a voler lasciare le labbra sottili, ma c’era qualcosa, un dolore nascosto dietro le sue iridi cerulee, che in qualche modo rendeva la sua espressione di una tristezza infinita.

«Sa, noi tre siamo cresciuti nello stesso posto, un villaggio della nazione di Enciel. Eravamo inseparabili, parte di un gruppo di combinaguai di cui Okarin era il leader indiscusso. I miei genitori sono dei sarti abbastanza rinomati ed erano sempre impegnati con il lavoro, perciò io sono stata cresciuta da mia nonna. Due anni fa, poco prima che Okarin si arruolasse nell’esercito, mia nonna morì improvvisamente e la mia famiglia decise di trasferirsi qui a Kazaly, così da essere più vicina alla capitale. Non ho più rivisto Ruka, da allora».

Per alcuni secondi un silenzio malinconico riempì la piccola stanza da bagno. La guerra non aveva fatto altro che strappare gente alla propria patria, persone innocenti ai propri cari. La guerra non faceva altro che togliere, senza dare nulla in cambio se non una vacua gloria che il tempo avrebbe logorato.

Il pensiero che qualcosa che aveva ideato con la sua mente e costruito con le sue stesse mani potesse porre fine a quell’atrocità era fonte di orgoglio e di speranza, ma d’altro canto la morte di Ruka Urushibara le aveva fatto comprendere come la scienza non fosse onnipotente come aveva sempre creduto e che, per quanto la morte fosse il naturale compimento del ciclo vitale, la vita della persone rimaneva comunque qualcosa di estremamente prezioso che andava protetto.

«Accidenti, Mayushii si è lasciata trasportare dalla nostalgia e ha parlato troppo». La voce di Mayuri, tornata alla sua solita spensierata dolcezza, la riscosse dalle sue riflessioni. Lo sguardo della ragazza era fisso sulla sua uniforme militare, accuratamente ripiegata e riposta su una sedia addossata alla parete.«Mmmh, Mayushii teme proprio che dovrà chiedere ai suoi genitori di sistemarla, dei rattoppi di emergenza non durerebbero niente».

In realtà le condizioni della divisa che le era stato ordinato di indossare non avevano grande importanza, nella sua ottica. Non partecipava ai combattimenti e per lei quegli abiti non erano altro che un modo per confondersi tra i soldati, dal momento che i vestiti che era solita indossare avrebbero attirato con fin troppa facilità l’attenzione del nemico. Quando però aprì finalmente bocca per esprimere la propria opinione, Mayuri la interruppe scuotendo vigorosamente il capo.

«Mayushii non accetta proteste, perciò adesso le presterà un bell’abito e la porterà in giro a fare un po' di compere, signorina Kurisu».

Nella sua tutto sommato breve esistenza Kurisu aveva incontrato poche tipologie di persone: c’erano le persone meschine e opportuniste come suo padre, che volevano usare il suo intelletto a scopo di lucro, c’erano le persone con una mentalità focalizzata sul raggiungimento dei propri obiettivi come il tenente-colonnello Tennōji e c’erano le persone che temevano e allo stesso tempo veneravano la sua intelligenza.

Ruka Urushibara e Mayuri Shiina non appartenevano a nessuna di queste: pur non conoscendo nulla di lei se non la sua fama di scienziata, non desideravano altro se non la sua amicizia e la sua comprensione. Il suo cuore si riempì improvvisamente di un’emozione nuova.

«Grazie, Mayuri», disse semplicemente voltandosi verso di lei.

Il sorriso che ricevette in risposta fu una stella nel firmamento notturno.

 

§


Era stata una giornata che lo aveva portato a nutrire una sorta di ambivalenza nei confronti della sua posizione all’interno dell’esercito. Se da un lato la sua carica di Maggiore lo aveva costretto a trascorrere il giorno chiuso nella sua tenda a scrivere lettere alle famiglie dei caduti, dall’altro lo aveva aiutato nel tenere la mente occupata, accantonando temporaneamente il dolore per la morte di Ruka.

Kurisu Makise aveva ragione: era tutta colpa sua. Se fosse stato più attento, se fosse stato di più pronta reazione e soprattutto… se avesse accettato di rischiare la propria vita per cercare di portarlo in salvo, forse il suo amico sarebbe stato ancora lì con lui. Ovviamente sapeva anche quanto fosse inutile e deleterio perdere tempo nel rimuginare su qualcosa che, in quanto appartenente al passato, era ormai immutabile, ragion per cui si era tenuto occupato con la burocrazia fino a quando il suo corpo non aveva ceduto alla stanchezza.

Nonostante il tempo trascorso dal suo arruolamento e le esperienze vissute sul campo di battaglia, Okabe continua a considerarsi un codardo. L’unica cosa di cui era sempre stato veramente capace era pensare a se stesso, ignorando i sentimenti degli altri: aveva deciso di abbandonare uno dei suoi amici di una vita per proteggere Kurisu Makise e il tutto solo per il fine ultimo di porre rapidamente fine ad una guerra che minacciava costantemente la sua incolumità. Non riusciva nemmeno a trovare il coraggio di scrivere ai propri genitori, i quali ricevevano notizie su di lui soltanto tramite Mayuri e allo stesso modo, quel giorno, non era stato in grado di scrivere una lettera ai signori Urushibara per comunicare loro della morte di loro figlio.

«Ma guarda un po’... chi avrebbe mai detto che nascondessi un corpicino del genere».

La voce, decisamente troppo entusiasta e alta per i suoi gusti, proveniva dall’esterno della sua tenda.

Okabe sospirò. Non era raro che qualche soldato del suo plotone, durante le soste in città, cercasse la compagnia di qualche prostituta. Ogni giorno poteva essere l’ultimo, perciò molti dei suoi uomini cercavano di godersi il presente il più possibile, indugiando in abitudini che trovava, forse anche a causa della sua giovane età, piuttosto discutibili. Tuttavia non aveva mai trovato motivo di riprenderli o di biasimarli, dal momento che le loro attività al di fuori del campo di battaglia non lo riguardavano fintanto che queste non influivano sull’esito delle operazioni militari.

“Potrebbe almeno essere più silenzioso”, pensò seccato mentre impilava ordinatamente le lettere scritte.

«La nostra scienziatina da strapazzo era un diamante grezzo, eh? Perché non vieni a farmi compagnia? Ci divertiremo, te lo prometto».

Gli sarebbe piaciuto poter dire di aver sentito male o di non aver capito a chi quelle parole fossero rivolte, perché non era sicuro di poter sopportare ulteriore stress emotivo senza esplodere. Tuttavia, quel po’ di buonsenso che gli era rimasto fu sufficiente a ricordargli che parte del suo compito consisteva nel proteggere Kurisu Makise, la quale, proprio come lui, aveva subito un grande lutto.

«”No”? Non sai usare quella deliziosa vocina che sicuramente possiedi? O forse vuoi che sia io a tirartela fuori? Dopotutto sai come si dice, no? Chi tace acconsente».

Inspirando profondamente, Okabe si alzò dalla brandina, marciando a passo deciso verso l’uscita della tenda. Aveva tutta l’intenzione di dirne quattro al suo sottoposto, avrebbe spiegato che essere soldati non implicava poter fare i propri comodi con i comuni civili e che la signorina Makise meritava di essere rispettata non solo in quanto loro alleata, ma anche - e soprattutto - in quanto essere umano.

Un gemito di dolore seguì un rumore secco ed improvviso. Sul terreno davanti alla sua tenda giaceva agonizzante, mentre con le mani andava a coprirsi un occhio, il proprietario della fastidiosa voce di qualche istante prima e, a poca distanza da lui, una semplice scarpa nera. A meno di un metro dall’uomo, tra gli sguardi a metà tra l’ammirato e il terrorizzato del resto dell’esercito, Kurisu Makise, priva di una scarpa, osservava il malcapitato con malcelato disgusto. Dopo alcuni istanti di imbarazzante silenzio in cui persino lui rimase senza parole, la donna, fasciata in un delizioso abito color glicine, si chinò con grazia per recuperare la calzatura usata come arma, lasciando che una cascata di lisci capelli ramati scivolasse lungo le sue spalle.

In quel momento il Maggiore Rintarō Okabe ebbe la realizzazione più ovvia e scontata dei suoi 19 anni di vita, una realizzazione scontata persino per un bambino ma che aveva tardato a giungere fino a quel momento.

Kurisu Makise era una donna.

Teoricamente parlando, quella nozione gli era stata chiara sin dal momento in cui il colonnello Tennōji gliel’aveva affidata, ma praticamente parlando la sua testa sembrava non aver colto appieno il concetto fino a quel momento. E se da una parte si sentiva un completo idiota per l’ovvietà delle sue riflessioni, dall’altra pensava di non potersi biasimare completamente per queste: dopotutto in quel mese Kurisu Makise gli aveva rivolto la parola soltanto una volta, senza contare il modo in cui aveva palesemente evitato di avere a che fare con lui. A ciò si aggiungeva il fatto che, le poche volte in cui le loro strade si erano incrociate, l’aveva vista indossare abiti maschili, portando la sua mente a conformarla agli altri suoi sottoposti.

«Co… Cosa sta succedendo, qui?», riuscì infine a domandare.

Kurisu Makise sbuffò, palesemente contraria all’idea di dovergli delle spiegazioni. «Mi sembra ovvio, no? Sono stata importunata e ho reagito di conseguenza».

Un brusio carico di stupore si levò dagli spettatori nel momento in cui la donna parlò e Okabe sentì per la prima volta una forte empatia nei confronti dei suoi commilitoni. Non era una conclusione insensata pensare che Kurisu Makise non fosse in grado di parlare, perciò comprendeva piuttosto bene lo shock generale.

«Adesso, con permesso, vorrei tornare alla mia tenda», sentenziò stizzita la scienziata mentre Okabe la guardava allontanarsi con un’espressione che, se fosse stato in grado di vedersi, gli avrebbe terribilmente ricordato quella di uno stoccafisso.

«Maggiore, quella lì è un demonio», commentò il suo sottoposto alzandosi finalmente da terra. Il suo occhio destro stava già assumendo una tonalità pericolosamente tendente al violetto.

La figura di Kurisu sparì nell’oscurità che si era insinuata tra le tende dell’accampamento.

«E tu sei un idiota, Kamakura».

 

§

Quando la mattina dopo Mayuri si era presentata in accampamento con un gran sorriso sulle labbra chiedendogli di pranzare insieme, Okabe non pensava che l’invito comprendesse la presenza di Kurisu Makise. Dopo quanto era accaduto nella foresta era piuttosto sicuro che la donna provasse nei suoi confronti un sentimento pericolosamente vicino all’odio e, per evitare di complicare ulteriormente la loro già difficile convivenza, aveva pensato di starle ancor più lontano di prima.

In realtà cosa si nascondesse dietro il silenzio di Kurisu, che osservava assorta il modo in cui Mayuri trafficava con gli utensili da cucina, suscitava in lui un certo grado di curiosità. Tutto ciò che sapeva era che si trattava di una persona estremamente intelligente che nutriva un’assoluta confidenza nelle proprie capacità e che in qualche modo si era in qualche modo guadagnata l’affetto incondizionato dei suoi due più cari amici.

«Okarin», la voce della sua amica d’infanzia si levò da dietro i fornelli, dove era intenta a tagliare alcune carote. «Mayushii non vuole essere pedante, ma… dovresti prenderti più cura di te stesso».

Okabe sentì le proprie labbra stendersi in un sorriso: era così tipico di Mayuri preoccuparsi tutto il tempo per gli altri, anche quando apparentemente era impegnata a fare altro. Era una delle sue caratteristiche che desiderava non cambiassero mai, perché, a suo modo, la rendeva unica.

«Non hai motivo di preoccuparti per me, sto bene, come puoi vedere».

Mayuri si voltò, brandendo il coltello con minacciosa innocenza. «A Mayushii le bugie non piacciono. Quel brutto taglio che hai sulla guancia si infetterà, se non lo curi».

«Oh», si ritrovò a dire mentre le sue dita andavano automaticamente in cerca della ferita. Erano stati giorni così pieni di eventi che non vi aveva dato più pensiero. «È solo un graffio, guarirà da solo».

L’espressione di Mayuri si fece carica di disappunto mentre posava la mano libera su un fianco, puntando il coltello nella sua direzione con fare accusatorio. «Mayushii non vuole sentire scuse», disse voltandosi poi verso Kurisu, seduta al capo opposto del tavolo rispetto a lui. «Kurisu, tu sei una dottoressa, vero? Potresti disinfettare la ferita di Okarin?».

Kurisu sobbalzò sulla sedia, rivolgendo a Mayuri un’espressione a metà tra l’esasperato e lo scioccato. «Possiedo delle conoscenze mediche di base, ma credo che sia meglio che sia tu ad occuparti di una cosa del genere».

Mayuri scosse il capo con un sorriso. «Mayushii è molto impegnata con la cucina e poi è sicura che non potrà mai essere brava quanto te».

Okabe si ritrovò ad osservare la scena interdetto, non riuscendo a comprendere a cosa fosse dovuta tutta l’improvvisa insistenza della sua migliore amica. Mayuri era una persona estremamente perspicace, quando si trattava degli altri, doveva sicuramente aver notato come Kurisu detestasse stare in sua prossimità.

«… D’accordo», si arrese infine Kurisu con un sospiro sconfitto.

«Trovi tutto il necessario nell’armadietto del bagno», trillò Mayuri tornando a dedicarsi alle verdure del suo stufato.

Per qualche motivo Okabe ebbe la sensazione di essere appena stato incastrato dalla sua migliore amica.

 

§

La situazione era palesemente imbarazzante. Non riusciva ancora a comprendere come Mayuri, a suon di sorrisi e parole gentili, fosse riuscita a ficcarlo in quel genere di situazione.

Sotto il sole gentile della primavera, seduta accanto a lui su una panchina del piccolo giardino di casa di Shiina, Kurisu Makise si stava accingendo a disinfettare la sua ferita. La sua espressione era inquieta mentre, con una scioltezza sorprendente, bagnava un pezzo di stoffa con un liquido dall’odore pungente.

Era la prima volta che gli capitava di osservarla così da vicino. Prima di allora i loro incontri erano avvenuti a debita distanza o in momenti di grande tensione in cui la sua attenzione era focalizzata su altro. I suoi occhi, adombrati da lunghe ciglia, fissavano concentrati la ferita sulla sua guancia mentre le labbra erano contratte in una linea sottile. Era sorprendente con quanta serietà avesse preso una semplice medicazione e Okabe si ritrovò a pensare che quella strana donna doveva davvero amare il proprio mestiere.

Un leggero verso di sorpresa fuggì dalle sue labbra nel momento in cui, con una delicatezza sorprendente, Kurisu andò a posare la stoffa sulla sua ferita, premendo leggermente. Una sensazione di intenso bruciore pervase la sua guancia, strappandogli un sibilo di dolore.

«Sii paziente. Durerà solo qualche minuto», disse Kurisu andando ad incontrare il suo sguardo per la prima volta dalla notte della sepoltura di Ruka Urushibara. I suoi occhi erano leggermente allungati, le iridi di un azzurro così intenso da sembrare quasi violetto. Il suo viso era piccolo e affusolato, incorniciato da lunghe ciocche di capelli liscissimi e da una frangetta irregolare che le cadeva appena sopra gli occhi.

È… davvero una bella ragazza.

Resosi improvvisamente conto del percorso intrapreso dai suoi pensieri, distolse prontamente lo sguardo dalla figura della scienziata ancora intenta a tamponare con delicatezza la sua ferita. Il lombrico che stava cercando di nascondersi sotto uno dei sassi nel terreno gli parve improvvisamente molto interessante.

«Ehi», lo chiamò Kurisu.

Okabe sobbalzò, sentendosi come un bambino colto con le mani nella marmellata.

«… Mi dispiace per l’altra sera. So che questo non cambierà il fatto che mi odi, ma sono stata ingiusta nei tuoi confronti».

L’espressione sul volto della ragazza era contrita, quasi a voler rafforzare il concetto espresso dalle proprie parole. Okabe la osservò esterrefatto per qualche istante, incapace di processare immediatamente il significato dell’accaduto. Non aveva idea di come avrebbe dovuto reagire, ma pensò che una buona base di partenza sarebbe stata ricambiare la sincerità.

«Io… non ti odio. La verità è che hai ragione. Ruka… Ruka è morto per colpa mia, perché non ho fatto nulla per salvarlo. Perciò hai tutto il diritto di odiarmi o di incolparmi».

Kurisu abbassò lo sguardo, spostando la mano dalla sua guancia e giocherellando nervosamente con il tampone. «Non sei tu l’oggetto del mio odio. L’altra sera mi sono fatta sopraffare dalle emozioni e ti ho addossato colpe che non hai».

La sua espressione mutò in una che mai le aveva visto fare prima di allora. Sembrava così fragile da dargli l’impressione di potersi dissolvere nel momento in cui avesse distolto lo sguardo.

«La verità è che la persona che odio più di chiunque altro è me stessa. Ruka Urushibara si sarebbe potuto salvare se io non gli fossi stata d’impiccio, se non l’avessi messo in una situazione così rischiosa standogli vicino durante l’assalto».

«Sono sicuro che Ruka avrebbe cercato di proteggerti anche se ti fossi allontanata da lui. Ma io… Se solo fossi stato più veloce, se solo...».

«Basta così, voi due».

La voce di Mayuri, apparsa improvvisamente sulla soglia, risuonò decisa per il piccolo giardino.

«Mayushii non era lì con voi, questo è vero, ma è certa che la colpa non sia né di Okarin né di Kurisu. La responsabile di tutto questo dolore, di tutte queste perdite… è soltanto la guerra».

«Mayuri, io…», provò a dire Okabe prima di essere nuovamente interrotto.

Mayuri stava piangendo.

«Mayushii… Mayushii ve lo chiede in ginocchio. Ponete fine a questa guerra… Non lasciate che Ruka sia morto invano!».

Con sua grande sorpresa Kurisu si alzò dalla panchina, raggiungendo Mayuri in poche falcate. Prendendo le mani della sua amica tra le proprie, parlò con voce risoluta.

«… lo faremo. Lo giuro sulla mia stessa vita».

 

§

 

«Tu prova ad avere un mondo nel cuore e non riuscire ad esprimerlo con le parole».
(da "Un matto" - Fabrizio De Andrè, 1971)

 

«Come? Aiutarti a scrivere delle lettere? Guarda che sono una scienziata, non una Bambola di scrittura automatica».

Nei giorni successivi all’invito a pranzo di Mayuri il rapporto tra lei e Okabe era migliorato. Dall’ignorarsi completamente erano passati a rivolgersi goffi saluti, suscitando peculiari reazioni tra i soldati che variavano da esclamazioni di stupore a fischi e risate.

In realtà il fatto che il tempo di Okabe fosse occupato in gran parte dai suoi doveri di ufficiale dell’esercito le dava un certo sollievo: non avrebbe saputo cosa dire nel caso avesse cercato di fare conversazione con lei e l’idea di sprecare del tempo prezioso in chiacchiere inutili la irritava non poco. Perciò, quando a due giorni dalla partenza da Kazaly Okabe si era presentato alla sua tenda nel cuore della notte chiedendole con aria disperata di aiutarlo a scrivere delle lettere, era stata colta da uno stupore non indifferente.

Era sempre stata molto brava ad inquadrare la personalità di coloro che la circondavano. La sua vita era stata un susseguirsi di persone che cercavano di usarla per i propri fini, perciò, chiudendosi nel suo silenzio, aveva imparato ad osservare e capire la gente da piccoli gesti, dalle inflessioni della voce, dalle parole scelte.

Proprio per questo motivo Okabe per lei rappresentava un piccolo mistero. Era senz’altro diverso da persone come suo padre e il colonnello Tennōji: era ligio al proprio dovere ma possedeva una morale, era dotato di discrete capacità strategiche, era trattato con rispetto da tutti i suoi commilitoni e i suoi più cari amici sembravano nutrire una profonda ammirazione nei suoi confronti. Da un punto di vista estetico non era particolarmente attraente: la sua eccessiva magrezza veniva accentuata dall’elevata statura, il volto scavato e gli occhi perennemente cerchiati da profonde occhiaie gli davano un aspetto quasi trasandato. Un suo segno distintivo, tuttavia, era la sua aria perennemente malinconica, come se ci fosse qualcosa che segretamente lo affliggeva su cui non riusciva a proferire parola.

Se non altro poteva dire che Rintarō Okabe la incuriosiva.

«E poi perché dovresti avere bisogno di aiuto? Voi ufficiali dell’esercito non dovreste essere abituati a scrivere lettere ai familiari dei caduti?».

«Sì, questo non posso negarlo, tuttavia...», si interruppe fissando i propri piedi con aria contrita. La tenue luce della lampada ad olio creava giochi di ombre sul volto del giovane uomo davanti a lei e per un attimo ebbe l’impressione che Okabe fosse invecchiato di dieci anni in pochi istanti. «Vorrei scrivere ai genitori di Ruka Urushibara e… alla mia famiglia».

Kurisu sollevò un sopracciglio con fare scettico, non comprendendo quale fosse il motivo di tanta esitazione. «Tu e Urushibara non eravate amici d’infanzia?», domandò con sincera curiosità facendo cenno di sedersi accanto a lei sulla brandina.

Dopo qualche momento di esitazione Okabe obbedì. «Inoltre, perché dovresti avere bisogno del mio aiuto per scrivere ai tuoi genitori? Io e te potremmo al massimo definirci “conoscenti”».

Okabe sospirò pesantemente, tenendosi la testa tra le mani. «Ascoltami, io non so nulla di te e tu non sai nulla di me, è vero. È proprio per questo motivo sono venuto a chiederti aiuto. Credo che non riuscirei a dire quello che vorrei se provassi a scrivere da solo o se chiedessi aiuto a Mayuri».

Kurisu si portò una mano al mento con aria assente, riflettendo in silenzio per alcuni istanti. «Capisco. Effettivamente, per quanto possa sembrare un controsenso, alcuni meccanismi psicologici di difesa possono venire meno quando ci si rapporta con persone con cui si ha poca confidenza».

«Io non voglio… che Mayuri soffra».

Okabe aveva parlato all’improvviso in tono greve, l’espressione sul volto emaciato nascosta dalla penombra della tenda. Kurisu lo osservò sorpresa per qualche istante prima di annuire piano.

Sarebbe risultato evidente per chiunque il fatto che Okabe Rintarō e Shiina Mayuri fossero legati da un profondo affetto. Proprio per questo era certa che Okabe non fosse all’oscuro della sorprendente perspicacia della sua amica d’infanzia, la quale si preoccupava sempre più per lui e per gli altri suoi cari piuttosto che per se stessa. Poteva dire con un buon margine di certezza che una delle ragioni principali per cui il Maggiore Okabe avesse chiesto l'aiuto di una scienziata dalla fama controversa come lei era il non voler dare a Mayuri ulteriori motivi di preoccupazione nei suoi confronti.

Kurisu si alzò dalla brandina con un cigolio, dirigendosi verso il suo unico bagaglio riposto in un angolo della tenda. «Va bene, ti darò una mano. Però non posso garantirti un buon risultato, è la prima volta che scrivo una lettera».

Okabe le rivolse uno sguardo perplesso. «Non hai mai scritto una lettera? Voglio dire, sei una scienziata, dovresti sapere come si fa…».

«Hai centrato il punto della questione. Sono una scienziata, non una Bambola di scrittura automatica. Oltretutto la mia è stata un’istruzione piuttosto atipica anche per una persona di scienza», fu la risposta seccata di Kurisu mentre rovistava tra i propri averi. Pochi istanti dopo riemerse dalla penombra con alcuni fogli sgualciti e una penna stilografica che aveva l’aria di essere di pregevole fattura.

«Non capita tutti i giorni di vedere una cosa del genere», commentò Okabe osservando l’oggetto mentre Kurisu lo riponeva con cura sul tavolino di legno consunto che presumeva avrebbe utilizzato come scrivania.

«Beh, non ci sono macchine da scrivere in accampamento e non ho alcuna intenzione di andare fino in città per procurarmene una. Perciò ti dovrai accontentare».

Okabe parò le mani davanti a sé, quasi a volersi difendere dalla pungente schiettezza della scienziata. «La mia non era una lamentela, ero soltanto colpito dalla bellezza di quella penna».

«È un regalo», si lasciò sfuggire Kurisu. Le sue mani sottili svitavano il tappo dell'oggetto con la destrezza e la cura di chi aveva compiuto quel gesto già molte volte.

«Del tuo ragazzo?».

Kurisu si voltò di scatto, rivolgendo al giovane uno sguardo che avrebbe potuto uccidere, ma non riuscendo a nascondere il rossore sulle sue guance. Perché improvvisamente il maggiore si interessava alla sua vita? E, ammesso e non concesso che fosse necessario farlo per qualche assurdo motivo, perché doveva interrogarla proprio su un argomento così futile e imbarazzante?

Okabe in tutta risposta le scoccò uno sguardo terrorizzato prima di profondere in una serie di goffe giustificazioni. «Voglio dire, le ragazze di buona famiglia che hanno più o meno la tua età sono generalmente già promesse in sposa a qualcuno, perciò… ecco…».

«… La questione non ti riguarda», tagliò corto. Non le piaceva quella sensazione di imbarazzo. «Ti conviene iniziare a dettare se non vuoi che perda la pazienza. Queste chiacchiere inutili mi fanno venire mal di testa».

 

§

 

«”Mamma, papà. È da lungo tempo che medito di scrivervi ma è soltanto ora, dopo due lunghi anni di silenzio, che trovo il coraggio di farlo.

Nonostante il passare del tempo, credo di non essere affatto cambiato o maturato, continuo a seguire ciò che il mio cuore impulsivamente mi suggerisce, finendo inevitabilmente con il fare del male agli altri. Non ci sono parole che possano esprimere appieno il rammarico che provo nell’essere andato via contro la vostra volontà, arrivando al punto di arruolarmi di nascosto pur di fare ciò che egoisticamente credevo fosse la cosa giusta. Per quanto sono certo che queste mie parole possano essere di ben poco conforto, desidero che sappiate che non c'è giorno in cui non vi abbia pensati e non abbia pregato il destino perché foste felici ed in salute.

In questi due anni sono successe molte cose; la mia impulsività mi ha portato a scalare inaspettatamente i ranghi e adesso ricopro la posizione di Maggiore dell’esercito del Leidenschaftlich e mi auguro che i miei guadagni vi permettano di vivere serenamente, poiché, se ho lasciato voi e la placida vita di paese in favore della crudele realtà della guerra, è soltanto per questo motivo.

In un’occasione più lieta non avrei mancato di annunciarvi con gioia e sollievo di essere in buona salute, oltre che vivo, ma la realtà dei fatti è che in questo momento non sento di essere meritevole del dono della vita che voi mi avete dato con amore. In questi anni ho compreso che, se un dio effettivamente esiste, deve essere in possesso di un crudele senso dell’umorismo, perché ha permesso che una persona innocente perdesse la vita per difendere la mia. Il giovane Ruka Urushibara ha combattuto splendidamente durante un’imboscata del nemico per proteggere me e un’altra persona che, come lui, non avrebbe mai dovuto essere testimone di questo orrore. Le sue ultime parole sono state di gratitudine nei miei confronti, ma non posso fare a meno di ritenermi immeritevole anche di queste, poiché se avessi rischiato di più, se avessi messo in gioco la mia stessa vita, forse sarei finalmente riuscito a proteggere qualcuno. Con immutato affetto, Okabe Rintarō"».

Non aveva idea di quanto tempo fosse passato e, stranamente, scoprì che non poteva importargli di meno. Inizialmente, quando Makise Kurisu aveva ammesso di non aver mai scritto una lettera, aveva creduto di essersi effettivamente rivolto alla persona sbagliata.

Eppure, nel momento stesso in cui le parole avevano abbandonato le sue labbra, Kurisu aveva subito una trasformazione davanti al suo sguardo incredulo. La schiena dritta nonostante lo scomodo sgabello su cui era seduta, il modo in cui spostava le lunghe ciocche di capelli ramati mentre era concentrata, il modo in cui la luce abbracciava i contorni morbidi del suo viso, il miscuglio di emozioni silenziose che scorrevano sul suo volto mentre con mano sicura e grafia elegante metteva su carta i pensieri di un uomo distrutto dalla guerra. E poi la sua voce sottile, le inflessioni che questa assumeva mentre leggeva con espressione ogni singola parola, quasi i suoi sentimenti si fossero riversati in quella ragazza così strana eppure così bella per poi fluire tramite la sua penna.

Kurisu Makise poteva non essere una bambola di scrittura automatica, ma brillava di malinconica bellezza e intelletto sopraffino più di qualunque altra persona lui avesse mai incontrato.

«Quindi? Soddisfatto?», la voce della scienziata lo riscosse dallo stato di contemplazione in cui era caduto senza rendersene conto.

«Sono… davvero sorpreso. Hai fatto un lavoro incredibile», commentò con sincera ammirazione.

Vide Kurisu concedersi un sospiro di sollievo per poi aprirsi in un leggero sorriso. «Meno male. Tutto ciò non ha nulla a che vedere con i miei studi, perciò mi sono dovuta basare sulle mie generiche conoscenze sul mestiere delle Bambole di scrittura e sulla letteratura di genere epistolare in cui mi sono imbattuta nel corso degli anni. Sicuramente è possibile ottenere risultati migliori, ma personalmente non posso lamentarmi».

Okabe sentì le proprie labbra tendersi in un sorriso, per poi lasciarsi sfuggire una leggera risata.

«E-ehi, cos’hai da ridere?», domandò Kurisu visibilmente stizzita.

«Nulla, nulla. Solo… è insolito sentirti parlare così tanto. Ti facevo una persona taciturna», ammise distogliendo lo sguardo dalla ragazza per concentrarlo sul bagliore tenue della stilografica riposta sulla scrivania improvvisata.

«Devo ammettere di non essere un’amante delle conversazioni, specialmente quando l’argomento di discussione è qualcosa di futile. Lo ritengo uno spreco di energie», precisò Kurisu osservando seria i fogli vergati dalla sua grafia. « Prima di conoscere Urushibara pensavo che le parole fossero inutili, perché nella scienza non sono sufficienti, una teoria va sempre dimostrata, altrimenti non rimane altro che un involucro vuoto».

«È stato Rukako a parlarti delle bambole di scrittura automatica?».

Kurisu annuì piano, socchiudendo gli occhi.

«È stato… la notte prima che succedesse. Ci siamo incontrati per caso davanti al fuoco dell’accampamento. Trovo tristemente ironico come mi abbia confessato di non riuscire a dormire per la paura. La morte è la conclusione naturale della vita, ma lui… non meritava di morire così presto. Non ha nemmeno avuto la possibilità di realizzare il proprio sogno».

«In un certo senso...», cominciò Okabe stringendo i pugni, il suo sguardo che incontrava finalmente quello di Kurisu. «È riuscito a realizzarlo, i suoi sentimenti hanno lasciato un segno su qualcuno, così come il suo amore per le parole».

La scienziata scosse il capo e, per la prima volta, Okabe riuscì a scorgere distintamente sul suo volto l’ombra di tutto il suo dolore.

«Avrebbe potuto fare affidamento su qualcuno migliore di me. Sono stata cresciuta perché capissi i fatti, non le emozioni, per poi vedere il mio intelletto venduto al miglior offerente. Accetta la realtà, Okabe, io non posso realizzare il suo sogno, mi manca quella fondamentale caratteristica dell’essere umano che è l’empatia».

Com’era possibile che Kurisu, in tutta la sua brillante intelligenza, non riuscisse a comprendere la grandezza di ciò che aveva appena fatto? Non sapeva nulla di lui, della sua vita, del suo dolore, eppure solo sentendo la sua storia, condividendo con lui la sofferenza per la scomparsa di Rukako, era stata in grado porre in maniera indelebile, nero su bianco, i pensieri che lo avevano tormentato per gli ultimi due anni.

«Perché non capisci?», domandò in tono più aggressivo di quel che avrebbe voluto. «Se tu non provassi nulla, se tu non capissi le emozioni, non saresti stata in grado di scrivere quella lettera, non avresti pianto per la sua morte e non avresti sentito alcun senso di colpa!».

Perfino lui, che di lei conosceva soltanto il nome e poco più, era riuscito a scorgere quella delicatezza e quella fragilità che non sarebbero mai dovuti appartenere ad un campo di battaglia, quella capacità di comprendere il dolore degli altri al punto da renderlo proprio. Chiunque avesse ridotto Kurisu Makise a pensare che l’unica cosa di valore in lei fossero le sue capacità intellettuali doveva essere stato un mostro.

«… Sì, io non capisco, hai perfettamente ragione», disse piano Kurisu, la voce ridotta a poco più di un sussurro. «Non capisco perché nessuno mi ha insegnato a farlo. Non capisco perché non c’è libro che spieghi cosa rende una persona “umana”».

Okabe sussultò nell’udire lo schietto candore di quell’ammissione, il sentore dell'amara verità che lo attendeva nelle parole di Kurisu che stringeva il suo cuore in una morsa gelida.

«Sono figlia di uno scienziato, di un fisico. Non so cosa abbia visto in me, ma dal momento in cui ho imparato a parlare ha deciso che avrei seguito le sue orme. Non mi importava trascorrere la mia esistenza chiusa in casa, immersa nei libri e nelle lezioni dei miei precettori. Mio padre, che per me era tutto, parlava sempre con orgoglio della mia intelligenza, mi trattava come se fossi preziosa e tanto mi bastava per provare felicità», spiegò Kurisu con un sorriso amaro.

Ne parlava come se la cosa non la riguardasse, ma la sua espressione tradiva tutta la tristezza e la rassegnazione che provava.

«Poi, un giorno, fu cacciato dal laboratorio in cui lavorava, accusato di aver usato i loro fondi per i propri fini personali. Più la sua fama nella comunità scientifica precipitava, più si diffondeva la voce del mio genio. Fu un duro colpo al suo orgoglio, una ferita così profonda da portarlo a non sopportare più la mia sola esistenza. Così, quando alcuni alti ufficiali dell’esercito gli proposero una somma di denaro sufficiente da farlo vivere agiatamente per il resto dei suoi giorni in cambio della completa giurisdizione sulla mia persona, mi gettò via senza pensarci due volte».

«Kurisu, io… Mi...».

Per quanto avesse immaginato come dietro una figura criptica come la sua ci fosse una storia difficile, non avrebbe mai potuto prevedere quanto questa potesse essere ingiusta e crudele. Vivere un’esistenza alla mercé della volontà altrui, senza poter scegliere il proprio destino era una condanna più crudele della morte.

La giovane donna scosse nuovamente il capo, mordendosi le labbra sottili.

«Come può una persona come me, che ha vissuto per l’arida conoscenza dei libri, capire cosa significhi essere umani? È bene che io rimanga nel ruolo che mi è stato assegnato sin dall’inizio: la scienziata prodigio inventrice dell’arma che ribalterà le sorti della guerra».

Okabe sentì gli occhi bruciare per le lacrime non versate, le lacrime che avrebbe voluto spendere ancora e ancora per la sorte che era toccato al suo amico e per la sorte che era toccata a Kurisu, entrambi vittime di un destino che non conosceva pietà.

Si era sempre egoisticamente sentito come un eroe tragico, protagonista della propria triste avventura, ma adesso comprendeva finalmente l’abisso che lo separava da chi una tragedia l’aveva vissuta per davvero. Se lui aveva avuto la possibilità di decidere da solo la propria sorte scegliendo di gettare la propria vita in guerra sfuggendo ad un'esistenza vuota e priva di un vero e proprio scopo, Kurisu Makise e Ruka Urushibara non avevano avuto possibilità di scelta, costretti ad abbandonare i propri sogni per sottostare a ciò che altri avevano determinato per loro.

«Perdonami», fu tutto ciò che riuscì a dire.

Kurisu, in tutta risposta, gli sorrise, una singola lacrima che correva lungo una guancia pallida. «Non è colpa tua».

 

§


Primavera non bussa, lei entra sicura, | come il fumo lei penetra in ogni fessura, | ha le labbra di carne, i capelli di grano, | che paura, che voglia che ti prenda per mano. | Che paura, che voglia che ti porti lontano”. (Un chimico - Fabrizio De André, 1971)
 


Ultima decade di Aprile, Bociaccia.
 

Nonostante fosse ormai primavera inoltrata, le regioni settentrionali dell’impero Gardarik mantenevano temperature rigide. Avevano attraversato solo da qualche giorno il confine tra il Leidenschaftlich e Bociaccia, entrando ufficialmente in terra nemica. Il clima freddo ma sereno aveva accelerato i tempi di marcia grazie all’assenza di precipitazioni nevose, permettendo all’esercito alleato di raggiungere il sentiero tra i monti al confine settentrionale nel giro di una decina di giorni.

L’uomo a capo del gruppo di ricognizione, affannato e con il terrore dipinto negli occhi, era corso da Okabe, distante pochi metri da lei, annunciando a gran voce come a massimo un’ora di cammino il contingente nemico che difendeva Capria, la fiorente capitale dello stato, fosse in attesa del loro arrivo, armato di cannoni.

Il suo sguardo incontrò quello ambrato di Okabe, il quale le rivolse un’espressione disperata. Non era necessario essere esperti di strategia militare per comprendere come l’unico modo per riuscire ad oltrepassare l’ultima linea di difesa prima della roccaforte di Intens era sabotare i cannoni mandando un gruppo in avanscoperta. Gli uomini che avrebbero intrapreso quella missione si sarebbero trovati faccia a faccia con il confine sottile che divideva la vita dalla morte, affidando le proprie sorti ad un gioco crudele.

Lei e Okabe non si erano parlati molto negli ultimi giorni a causa dei serrati ritmi di marcia ma spesso, come in quel momento, i loro sguardi si incrociavano in mezzo alla folla di persone agghindate nella medesima uniforme, quasi a volersi accertare che l’altro fosse ancora lì, su quella terra verde ricoperta dalla brina.

Il sole era calato dietro l’orizzonte già da diverse ore quando Okabe, con voce risoluta, arringò i 20 uomini che avevano deciso di mettere a rischio la propria vita per la possibilità di porre finalmente termine ai conflitti. L’Okabe che si rivolgeva sicuro ai propri sottoposti e che combatteva con tutte le proprie forze sul campo di battaglia era una persona leggermente diversa da quella che aveva avuto modo di conoscere nelle loro brevi ma intense conversazioni. Sembrava quasi che volesse infondere il coraggio che fingeva di possedere ai suoi commilitoni.

Non lo biasimava affatto per il suo provare paura, così come non aveva biasimato Ruka Urushibara quando le aveva rivolto la medesima confessione. Lei stessa era stata colta da un profondo senso di inquietudine dal momento in cui avevano lasciato Kazaly, un’inquietudine che riusciva a collegare unicamente al peso della promessa rivolta a Shiina Mayuri.

Era dunque questo che si provava a mettere in gioco la propria vita per il bene di qualcuno diverso da se stessi? Nessun altro doveva morire o soffrire per proteggerla.

«Voglio combattere», dichiarò decisa nel momento in cui Okabe le si avvicinò, pronto a darle le ennesime disposizioni su come muoversi per evitare di essere coinvolta nella battaglia.

La cicatrice scura che lo scontro nei pressi di Kazaly aveva lasciato sul volto del giovane spiccava in netto contrasto con la pelle illuminata dal pallore della luna. Non riuscì a vedere che espressione avesse ma una mano inaspettatamente grande e nodosa si posò attorno al suo polso sottile, strattonandola via senza dire una parola.

Per alcuni minuti si udì soltanto lo scricchiolio dei loro pesanti stivali sull’erba ricoperta dal gelo notturno e il vociare sommesso dell’esercito che si faceva distante.

Comprese di essere stata portata contro una delle pareti rocciose che costeggiavano il sentiero quando la sua schiena toccò la superficie dura della pietra, il profumo della terra umida che si mischiava a quello di Okabe. Nell’ombra i suoi occhi la osservarono in disperato silenzio, finché con un gemito sommesso, la fronte del giovane non si posò accanto al suo volto, a contatto con la roccia gelida.

Riusciva ad udire distintamente il suo respiro irregolare e il calore irradiato dalla vicinanza del suo corpo.

«Cosa succe-».

«Ti prego», la interruppe Okabe con voce strozzata. «Ti prego, non… Non farlo».

Kurisu si lasciò sfuggire un sospiro tremante, lasciando che il proprio sguardo si perdesse nella semioscurità che li circondava. «Non posso. Non voglio che altri innocenti muoiano per difendermi. Per una volta voglio essere io a decidere la mia sorte».

Un pugno colpì la roccia con un tonfo sordo. «Non capisci… Se dovesse succederti qualcosa… Se per caso tu...».

«Lo so, la sorte di questa guerra dipende dalla mia sopravvivenza. Ne sono cosciente», tagliò corto Kurisu.

Era stanca di sentirselo ripetere.

Comprendeva l’importanza strategica che lei - o meglio, la sua invenzione - ricopriva nella guerra, ed aveva tutta l’intenzione di non venire meno alla sua promessa di porre fine a tutto quello, ma voleva farlo contando sulle sue forze.

«Ma per una volta voglio - Ah!».

Senza alcun preavviso le braccia di Okabe Rintarō si strinsero attorno alla sua vita, trascinandola nel primo abbraccio che avesse mai ricevuto. Il suo corpo emanava un tepore quasi confortante, rispetto alle temperature rigide della notte, ma Kurisu non riusciva ad essere realmente felice per quel gesto.

«Se dovesse succedere qualcosa anche a te… non riuscirei a convivere con il rimorso». La voce sofferente di Okabe risuonò piano nel loro abbraccio.

Kurisu strinse convulsamente i pugni ai propri fianchi, mentre un sorriso amaro si stese sulle labbra screpolate dal freddo. «Ti istruirò su come usare la mia invenzione. Così se stanotte dovessi perire in battaglia potrete vincere anche senza la mia presenza».

«Davvero non capisci?».

L’intensità della disperazione nella voce di Okabe era pari a quella della sua stretta. Una mano nodosa si insinuò delicatamente tra i suoi capelli, accompagnando la sua testa sulla spalla dell’uomo davanti a lei.

«Pensi davvero che dopo aver perso Ruka, dopo tutto quello che è successo, abbia a cuore la tua sorte solo per il suo legame con l’esito di questa guerra?».

Silenzio. Oltre il loro abbraccio si estendeva soltanto l’oscurità.

La mente di Kurisu era un agglomerato di pensieri indefiniti. Si trovava in una terra straniera, tra le braccia di un uomo che fino a due settimane prima era soltanto un volto tra i tanti di coloro avevano voluto usarla. Lei di Okabe Rintarō non sapeva quasi niente e a legarla a lui non c’erano altro che gli eventi pieni di dolore di cui quel conflitto li aveva costretti a diventare protagonisti.

Qualunque esso fosse, il sentimento che li legava era un sentimento macchiato dal sangue.

«Okabe… Lasciami andare, per favore».

Un singhiozzo sommesso.

«Mi dispiace ma… rimaniamo così solo un altro po’».

Il dolore e la paura nelle parole di Okabe spezzarono qualcosa in lei.

«Io… non voglio morire ma...», si interruppe Kurisu allontanando il proprio volto dalla spalla che lo aveva accolto. I suoi occhi cercarono quelli dorati di Okabe, ancora arrossati dal pianto. «Devo correre questo rischio. Per Urushibara. Per Mayuri. Se non lo facessi… sarebbe come scappare dalle mie promesse».

Mayuri e Urushibara l’avevano trattata come se fosse la sua vita avesse un valore che andava ben oltre la sua intelligenza. L’avevano trattata come se fosse stata una normale ragazza di diciassette anni, non come una risorsa da sfruttare. E Okabe… Okabe la stava stringendo come se tenesse di vederla scomparire da un momento all’altro. Per queste persone che avevano mostrato tanta gentilezza nei suoi confronti la sua vita era qualcosa di importante, eppure… che senso avrebbe avuto giurare di porre fine alla guerra per poi rimanere in disparte, mandando a morire degli sconosciuti che non avevano alcun legame con lei?

Okabe sembrò percepire la determinazione che si nascondeva dietro le sue parole, perché sciolse la presa su di lei con un sospiro tremante.

«D’accordo, ti lascerò combattere», concesse chiudendo gli occhi. «Ma a due condizioni. La prima è che devi promettermi che stanotte non morirai».

Kurisu aprì la bocca per controbattere, interrompendosi poi con un sospiro. «È illogico promettere qualcosa di simile quando il fattore di rischio è così alto, ma va bene. Farò tutto ciò che è in mio potere per non morire».

«Secondo», continuò Okabe prendendo improvvisamente il suo volto tra le mani. Kurisu, colta alla sprovvista, sobbalzò. Riusciva a scorgere i suoi occhi fissarla intensamente nella penombra creata dal chiarore della luna. «Devi rimanere costantemente al mio fianco, lì dove io possa tenerti sotto controllo. Non ti devi allontanare da me».

«È inverosimile che tu riesca a prestare attenzione a me in mezzo al caos, dovresti porre condizioni più sensate», sbottò incrociando le braccia al petto. Un calore inspiegabile si diffuse improvvisamente sulle sue guance e Kurisu comprese, con un certo grado di orrore, di essere arrossita. Con che coraggio era in grado di pronunciare frasi da letteratura rosa di infima qualità poco prima di una battaglia in cui avrebbero rischiato la vita?

«Inoltre… Non puoi dire cose simili ad una ragazza come se nulla fosse! Si potrebbe fare un’idea sbagliata», lo rimproveró.

Le mani di Okabe non si scostarono dal suo viso.

«Fatti tutte le idee sbagliate che vuoi, l’importante è che tu mi stia vicino, dove posso tenerti d’occhio», fu la risposta spudorata che Okabe le rivolse prima di girare sui tacchi e dirigersi verso il resto del contingente.

Kurisu lo osservò allontanarsi per qualche istante, persa nei suoi pensieri. Non le era ancora chiaro per quale altra motivazione -oltre alla sua importanza strategica - Okabe tenesse così tanto alla sua vita. Più provava ad elaborare delle ipotesi, più queste le parevano tanto improbabili quanto illogiche.

Quando finalmente giunse in vista dei propri commilitoni intenti a prepararsi per l’imminente scontro, decise che la scelta più opportuna sarebbe stata rimandare la ricerca di una risposta ai propri quesiti al giorno successivo.

Voleva credere che sarebbe andato tutto bene.

 

§

 

Non provava una simile stanchezza dalla notte in cui aveva sepolto il corpo di Ruka Urushibara nel cimitero militare di Kazaly.

Aveva la sensazione di provare dolore ad ogni singolo muscolo del proprio corpo mentre nella sua testa rimbombavano ancora le urla della battaglia e il rumore degli spari.

L’attacco a sorpresa contro il contingente nemico a difesa di Capria volto a mettere fuori gioco i loro cannoni aveva avuto successo, ma tutti e 20 gli uomini del gruppo incaricato di fare da avanscoperta avevano ottenuto questo risultato sacrificando le proprie vite.

Per opera di un miracolo concesso da qualche entità sulla cui esistenza preferiva non interrogarsi, lui e Kurisu se l’erano cavata solo con qualche graffio e delle contusioni, anche se il numero di uomini su cui potevano contare era pressoché dimezzato.

L’alba scese silenziosa dal cielo, illuminando la grande distesa erbosa su cui lo scontro aveva avuto luogo. Il prato luccicante per la brina era puntellato dalle macchie scure del sangue e dei cadaveri mentre l’aria gelida ristagnava dell’odore nauseabondo della guerra. Un nuovo giorno aveva inizio sull’ennesimo desolante paesaggio di morte e disperazione.

Pian piano le rimanenti truppe si stavano radunando, cercando di prestare soccorso ai feriti. Il loro obiettivo era raggiungere Capria e ricongiungersi con le truppe del colonnello Hashida prima del calare del sole.

Un profumo delicato, ben diverso da quello della polvere da sparo e della morte, pizzicò le sue narici.

«Cosa c’è?», lo chiamò Kurisu. Come da promessa, non aveva lasciato il suo fianco per tutta la notte. Se erano usciti pressoché incolumi da quella battaglia era merito del loro essersi guardati le spalle a vicenda.

Quando le aveva chiesto se era pronta all’eventualità di uccidere qualcuno Kurisu aveva semplicemente annuito, rispondendo: “sono diventata un’assassina dal momento in cui ho costruito quell’arma. Devo assumermi le mie responsabilità”.

Per qualche motivo sentì che quelle parole, per quanto dotate di una loro logica, non corrispondevano affatto alla Kurisu che aveva conosciuto e che lo osservava con espressione stanca in quel momento.

«C’è un fiore lì, in mezzo ai cadaveri», rispose infine dopo qualche istante, puntando il dito davanti a sé.

Kurisu osservò in silenzio il prato per alcuni secondi. Poi, improvvisamente, il suo sguardo si illuminò, riacquistando un po’ di vigore. «È un centaurea cyanus», disse chinandosi per osservare meglio il fiore dai petali a metà tra l’azzurro e il violetto. «Se non erro è comunemente noto con il nome di “fiordaliso”».

Seguì l’esempio di Kurisu, chinandosi vicino l’oggetto della loro attenzione. Era piccolo e dai colori brillanti, dal profumo così delicato che probabilmente non si sarebbe accorto della sua presenza se non gli fosse stato così vicino. Si ergeva solitario in mezzo ai cadaveri, aggrappandosi con tenacia alla vita, ma allo stesso tempo dando l’impressione di essere tremendamente fragile.

La sua attenzione si spostò su Kurisu, i cui grandi occhi azzurri ricambiavano silenziosamente il suo sguardo. “A cosa stai pensando?”, sembravano domandare curiosi e Okabe ponderò brevemente se fosse il caso di rispondere.

«Il fiore», cominciò accarezzandone distrattamente i petali. «Ti somiglia. Ha il colore dei tuoi occhi».

La labbra sottili e screpolate di Kurisu si schiusero appena in un’espressione di sorpresa. Le sue guance pallide si tinsero appena di rosa e Okabe si ritrovò a chiedersi come fosse possibile aver pensato anche solo per un istante che quella donna davanti ai suoi occhi non fosse in grado di provare emozioni.

«Somiglia… a me?».

Okabe, malgrado la stanchezza, sorrise appena. «È tutto ciò che c’è di bello in questo campo di battaglia».

«Cosa… Cosa stai dicendo? Io...».

Kurisu andò adorabilmente in confusione e per un attimo Okabe valutò la possibilità di risponderle onestamente. Il suo sguardo, però, cadde sulle mani sporche di sangue della ragazza. Il senso di colpa divorò un altro pezzo del suo cuore. Non avrebbe mai dovuto accettare di coinvolgerla in tutto quello.

Si alzò in piedi, sibilando per il dolore. Forse aveva qualche costa incrinata.

«Andiamo, è ora di mettersi in marcia per Capria».

 

§

 

«Io t'ho amato sempre, non t'ho amato mai; | amore che vieni, amore che vai».
(“Amore che vieni, amore che vai” - Fabrizio De Andrè, 1966)

 

I due giorni successivi erano passati in fretta. Dopo una breve sosta a Capria si erano uniti alle truppe del Colonello Hashida e, una volta confermati i piani, erano partiti alla volta della roccaforte di Intens.

Intens era una città che sorgeva arroccata sul versante di un piccolo monte e che ospitava l’ultima resistenza delle forze armate. In tempi di pace era luogo di pellegrinaggi religiosi e la sua maestosa Cattedrale era un capolavoro architettonico famoso in tutto il continente.

Alcune spie di Hashida avevano confermato che gran parte delle forze dell’Impero Gardarik erano concentrate alle entrate della roccaforte e nei pressi della Cattedrale, dove si era insediato il comandante nemico assieme ai suoi uomini più fidati. Il loro scopo era conquistare il luogo di culto e spingere il nemico alla resa, cercando di ridurre al minimo gli spargimenti di sangue.

«Dunque, Makise-shi, sarebbe così gentile da illustrarci in cosa consiste la famosa “arma” da lei costruita?».

Il colonnello Hashida la osservava dietro le lenti dei propri occhiali, il volto contratto in una smorfia seria assai diversa dall’espressione gioviale che aveva mostrato nel vedere Okabe. I due, aveva scoperto, avevano fatto amicizia ai tempi dell’accademia militare: mentre Okabe si era fatto strada nei ranghi grazie alle proprie discrete abilità strategiche, Hashida aveva raggiunto un grado maggiore grazie ai contributi economici che la sua ricca famiglia di mercanti versava regolarmente all’esercito.

Per qualche motivo si ritrovò a cercare il volto di Okabe nella penombra della tenda. Incrociando il suo sguardo l’uomo le rivolse un cenno di assenso.

Si chinò per raccogliere la borsa che conteneva i suoi pochi effetti personali e ne estrasse degli oggetti che suscitarono immediatamente la perplessità dei presenti.

«Mi perdoni, signorina Makise, ma a me queste sembrano delle normalissime granate», obiettò uno degli uomini di Hashida.

Kurisu non si scompose. «Permettetemi di illustrarvi. All’interno di questi involucri è contenuto, a pressione elevatissima, un gas di mia invenzione. Tale composto, quando inalato, va ad inibire rapidamente l’acetilcolinesterasi, un enzima presente all’interno del corpo umano in grado di degradare un composto chiamato acetilcolina».

Si interruppe per un attimo, osservando i volti dei presenti e notando, con un certo orgoglio, l’attesa presente nei loro sguardi. Okabe, invece, nascosto in un angolo della tenda, la guardava con un’espressione indecifrabile, gli occhi fissi sulla sua figura e le labbra socchiuse.

«L’acetilcolina è un mediatore della trasmissione degli impulsi nervosi dal neurone al muscolo. L’impossibilità di degradare questo composto dovuta all’inibizione dell’acetilcolinesterasi, porta ad una paralisi di tipo spastico della muscolatura volontaria e non. In parole povere, il soggetto colpito diventa incapace di muoversi pur rimanendo cosciente. Ne deriva, nella maggior parte dei casi, un decesso per asfissia».

La tenda cadde nel silenzio.

«Makise-shi», intervenne infine il colonnello Hashida, «è al corrente del fatto che la sua arma è in grado di colpire indiscriminatamente tanto le forze nemiche quanto quelle alleate?».

Kurisu annuì. «In preparazione all’evenienza di un avvelenamento accidentale delle nostre truppe, ho creato un antidoto», spiegò indicando la valigetta in metallo opaco che aveva posato sul tavolo assieme agli ordigni. «Sono circa una ventina di dosi. Va iniettato nella coscia non appena cominciano ad apparire i primi sintomi di avvelenamento».

«Questo implica che solo un numero ristretto di uomini potrà occuparsi delle forze che occupano la Cattedrale».

«Esatto. Inoltre è necessaria la mia presenza per attivare gli ordigni. Non c’è tempo per spiegare agli uomini come utilizzarli, senza contare che, così facendo, i rischi di fallimento aumenterebbero».

Aveva saputo sin dal primo momento che quella sarebbe stata la sua inevitabile sorte. Non le importava di morire se era necessario a mantenere la sua promessa. Mayuri e Okabe avrebbero vissuto una vita felice assieme e Urushibara avrebbe potuto finalmente riposare in pace.

In parole povere, la sua sopravvivenza non era un fattore fondamentale per garantire un futuro felice alle persone a lei care.

«Io e i una parte dei miei uomini ci occuperemo della Cattedrale assieme a Kurisu», intervenne improvvisamente Okabe con un’austerità che non gli si addiceva. «Le restanti truppe potrebbero occuparsi di aprirci un varco tra le fila nemiche per permetterci di entrare in città».

Il colonnello Hashida rivolse un’occhiata preoccupata ad Okabe. «Okarin… Volevo dire, Maggiore Okabe, è sicuro di volerlo fare?».

Una parte di lei sperò con tutto il cuore che Okabe tornasse sui propri passi. Era lei la pedina sacrificabile. La sua scomparsa non avrebbe fatto soffrire nessuno.

«Sì. Ho protetto la signorina Makise per tutto il viaggio da Leiden fin qui. Mi sembra quantomeno doveroso scortarla fino alla fine».

Il colonnello Hashida sospirò, evidentemente poco felice della decisione di Okabe.«E sia. Date ordine alle truppe di prepararsi, ci muoveremo tra un’ora».

Così come si era riempita poco prima, la tenda si svuotò, lasciando lei, Hashida e Okabe da soli.

Il colonnello posò le proprie enormi mani sulle spalle di Okabe, il volto contratto in una smorfia preoccupata. «Okarin, amico, sei davvero sicuro di volerlo fare?».

Okabe socchiuse gli occhi sorridendo appena. «Sì. È una cosa che ho deciso da tempo».

«C’entra per caso… la morte di Ruka-shi?».

«È una delle motivazioni», rispose il Maggiore con un sospiro sconfitto. Aveva l’aria di non volerne parlare. «Ma non l’unica».

Lo sguardo di Okabe, seguito da quello perplesso del Colonnello, si spostò sulla sua figura.

Hashida sorrise.

«...capisco. Se hai deciso di stare con lei fino alla fine immagino che non ci sia nulla che io possa dirti per farti cambiare idea».

Okabe annuì brevemente, aprendosi in un sorriso sincero e Kurisu per un attimo si domandò se la sua presenza fosse di troppo.

«Una perspicacia degna del mio braccio destro preferito».

«A volte mi chiedo come faccia ad esserti amico».

Nonostante l’acidità delle sue parole il volto di Hashida era sorridente.

«Voglio che torniate vivi. Tutti e due. Mi sono spiegato?», domandò il colonnello facendo saettare il proprio sguardo tra le loro figure.

Kurisu gli rivolse uno sguardo interrogativo. Perché il Colonnello Hashida provava interesse per la sua sorte? Finché fosse riuscita ad attivare gli ordigni da lei progettati e piegare le rimanenti forze nemiche la sua sopravvivenza non aveva alcuna rilevanza per l’esercito.

«Sissignore!», rispose scherzosamente Okabe ponendosi sull’attenti.

Hashida, in tutta risposta, scosse il capo con un sorriso, abbandonando la tenda. Davanti alla fioca luce della lampada ad olio erano rimasti soltanto lei ed Okabe. I suoni provenienti dall’esterno, per qualche motivo, parevano giungere ovattati alle sue orecchie.

«Hai deciso di rimanere con me fino alla fine?», domandò più per rompere il silenzio che per sincera curiosità. Non era sicura di come avrebbe dovuto interpretare quelle parole.

Okabe, in tutta risposta, sobbalzò appena. Sulle sue guance scavate riuscì a cogliere un lieve rossore.

Era… imbarazzato?

«Ah… No, io… Cioè...», balbettò incoerentemente evitando i suoi occhi.

Kurisu ridacchiò appena. Non avrebbe mai immaginato di poter trovare la propria strada in quel modo, tra lacrime, sorrisi e parole che mai avrebbe pensato di poter rivolgere a qualcuno.

Aveva visto albe e tramonti su posti che mai avrebbe immaginato di visitare. Nonostante tutto il dolore e l’orrore che la guerra le aveva gettato addosso, aveva iniziato a pensare che il mondo fosse un posto incredibilmente brillante.

Si rese conto solo in quell’istante di essere estremamente grata per quel dono che andava oltre ogni legge scientifica chiamato “vita”.

E Okabe… Okabe era davvero diverso da chiunque avesse conosciuto fino a quel momento della sua esistenza. Con quel suo impacciato modo di preoccuparsi per i suoi cari e per lei aveva dato nuova forza a quel barlume di umanità rimasto nel suo cuore.

Alzò lo sguardo su di lui, ancora impegnato a farfugliare frasi incomprensibili con un’espressione così ridicola da risultare quasi adorabile. Lo aveva sempre osservato da lontano, realizzò, vinta dalla curiosità di conoscere quella persona che la trattava in maniera differente da tutte le altre e che riconosceva in lei una fragilità che nemmeno sapeva di possedere.

Il pensiero di perdere tutto quello rinnovò il terrore sopito nel suo animo e la costrinse a reprimere a fatica le lacrime.

«Okabe?».

Lo sguardo incerto dell’altro incontrò il suo.

Con una falcata chiuse la distanza che li separava, sollevandosi istintivamente in punta di piedi.  Le labbra di Okabe erano secche e ruvide, ma il loro calore suscitò in lei una gioia indefinita: in quel momento entrambi erano vivi.

Dopo un istante che sembrò lungo un'eternità, fece un passo indietro, osservando brevemente la sua espressione palesemente scioccata solo per ritrovarsi ad abbassare lo sguardo. Nonostante il freddo della notte le sue guance scottavano.

«Co… K-Kurisu...»..

La voce di Okabe era un sussurro strozzato. Nel sentire il proprio nome Kurisu sobbalzò, sentendosi insolitamente in subbuglio.

Non avrebbe mai immaginato che le cose sarebbero finite in quel modo. Le sarebbe piaciuto attribuire la causa di quel gesto così audace ai neurotrasmettitori che la paura metteva in circolo nel suo corpo ma la verità era che, quando si trovava accanto a  lui, la sua parte razionale sembrava vacillare. Le sue azioni erano certamente sconsiderate, considerato il tipo di sentimento che quasi sicuramente lo legava a Mayuri, eppure sentiva che non se lo sarebbe mai perdonata se non lo avesse fatto.

Okabe si schiarì la voce e Kurisu si trovò ad osservare la monotonia del terreno illuminato dalla fioca luce della lampada a petrolio con estremo interesse. Ancora una volta gli occhi le bruciarono come se fosse sul punto di piangere.

La mano di Okabe si posò sulla sua guancia con impacciata delicatezza. Quando alzò lo sguardo fu certa che l’espressione sul volto dell’altro fosse specchio della sua.

«Ho paura».

Le parole erano sfuggite alla sua bocca prima ancora di potersene accorgere. Con un certo orrore si rese conto che le tremava la voce.

Si era ostinata a nasconderlo persino a se stessa. Sarebbe stata un’imperdonabile mancanza di coerenza da parte sua ammettere qualcosa di simile dopo tutte le promesse fatte. Ironicamente comprese in quell’istante come non ci potesse essere amore per la vita senza timore della morte.

Inaspettatamente, lo sguardo di Okabe si riempì di tenerezza.

«Anche io», fu la sua risposta mentre, con dita tremanti, le spostava una ciocca di capelli dal viso.

Chissà come sarebbe stato conoscersi in un altro tempo, in un altro luogo, senza il terrore della morte che pendeva sui loro capi come una spada di Damocle. Le avrebbero rivolto quelle stesse espressioni? Avrebbe avuto ancora sul volto i segni del dolore ad aggiungere una nota di malinconia ai suoi rari sorrisi? Le loro conversazioni avrebbero avuto lo stesso sapore agrodolce di quel momento?

«Non… Non piangere», mormorò piano Okabe avvicinandosi al suo viso. Anche le sue guance erano tinte da un pallido rossore.

Non si accorse delle lacrime che correvano sulle sue guance finché le sue labbra non le baciarono via. La dolcezza dei suoi gesti agitò qualcosa nel suo petto a cui non sapeva dare un nome.

«Ehi...».

La sua voce riverberò nel breve spazio che separava i loro volti.

«Cos’è… questo sentimento?».

Il sorriso che Okabe le diede in risposta fu il più triste che avesse mai visto.

«...Chissà».

§
 

I suoi polmoni bruciavano, implorando di ricevere aria. Attorno a lui vi erano solo una fitta coltre di fumo e il rumore assordante degli spari. L’unica cosa che lo manteneva ancorato alla realtà era il calore della mano di Kurisu, che correva disperatamente accanto a lui.

A pochi metri da loro, tendendosi disperatamente verso il cielo puntellato di stelle, si estendeva un’imponente torre in pietra scura su cui spiccava il quadrante di un orologio.

Alle loro spalle gli uomini della fazione nemica tentavano disperatamente di resistere ai primi devastanti sintomi dell’avvelenamento causato dalla letale arma di cui Kurisu era madre.

«Non lasciateli… scappare!», gridò una voce cercando di sovrastare le urla agonizzanti che si mischiavano agli spari.

Una pallottola colpì la sua gamba sinistra, strappandogli un grido di dolore. L’odore pungente del gas penetrò con forza nelle sue narici, costringendolo a tossire.

«Okabe!».

La voce di Kurisu era disperata.

“Non parlare, o finirai avvelenata anche tu”, avrebbe voluto dirle, ma il suo corpo sembrava già non rispondere più a dovere alla sua volontà. Come se fosse stata in grado di leggere la sua espressione, Kurisu sgranò gli occhi, portando la mano libera a coprire bocca e naso.

«An… diamo», riuscì a dire mentre con tutta la forza di cui era capace impartiva alle sue gambe lo stimolo di correre.

Accanto a lui Kurisu sibilò. Una macchia scura si allargò sul suo braccio. Okabe imprecò tra i denti.

Dovevano andare via da lì, dovevano guadagnare del tempo affinché il gas facesse effetto sulle fila nemiche. Ogni secondo passato su quel campo di battaglia li avvicinava inesorabilmente alla morte.

Kurisu gesticolò freneticamente verso la torre. Il quadrante dell’orologio li osservava dall’alto, segnalando impassibile lo scorrere del tempo. La manica della sua uniforme era già completamente bagnata dal sangue.

I secondi che li separarono dalle mura di pietra furono i più lunghi della sua vita. Stando alle parole di Kurisu era un miracolo anche solo il fatto che riuscisse ad imprimere movimenti volontari ai suoi arti.

Un altro colpo si abbatté sulla sua gamba, questa volta senza alcun dolore.

Adrenalina”, gli avrebbe spiegato Kurisu con quel suo solito tono un po’ saccente e lui l’avrebbe ascoltata con un sorriso terribilmente idiota sul volto, perso nel sentire la sua voce mentre parlava di cose a lui sconosciute.

Buttò giù ciò che rimaneva della porta di legno con il peso del proprio corpo, crollando a terra. Dopo pochi istanti Kurisu fu in ginocchio accanto a lui, i loro respiri affannati che riecheggiavano per la lunga scalinata a chiocciola.

«Non possiamo rimanere qui», la sentì dire con urgenza. Si aggrappò disperatamente al suono della sua voce. «Presto il gas si diffonderà anche quaggiù e renderà inutile prendere l’antidoto».

Okabe si lasciò sfuggire una rauca risata.

«Non… esco… ermi».

La sua bocca era impastata, non riusciva a muoverla come avrebbe voluto.

Il volto di Kurisu era mortalmente pallido ma gli occhi azzurri brillavano come un fiore baciato dalla rugiada.

«Non dire... idiozie». Nonostante il tono arrabbiato la sua espressione era disperata. «Resisti soltanto... un minuto, dobbiamo solo... salire… un po’ più in alto».

Un rumore sordo, un ago che penetrava nella carne. Il volto di Kurisu si contrasse per un istante. Doveva essersi iniettata la propria dose di antidoto. Sì, così si sarebbe potuta mettere in salvo. Avrebbe continuato a vivere e…

«Non pensare nemmeno… per un attimo… di fare l’eroe».

Kurisu, ancora una volta, sembrò leggergli nel pensiero. Un dolore acuto attraversò la sua gamba sana. Il tintinnio del vetro sulla pietra risuonò nel buio.

 

Il fragore dello scontro giungeva attenuato. Chiuse gli occhi per un istante.

 

§

 

Plic.

Plic.

Plic.

Gocce che cadevano.

Un respiro affannato.

Il rumore di passi che si trascinavano sulla pietra.

«Cosa...».

«Ah… sei… sei tornato».

«...Mh?».

«Sei svenuto, prima. Mi hai fatto prendere un colpo».

I suoi occhi misero lentamente a fuoco la scena. Erano ancora nella torre. Da una stretta finestra nella parete di pietra scura filtravano i raggi pallidi della luna. Riusciva a scorgere i tetti degli edifici circostanti, perciò dovevano essere saliti di un bel po’.

Kurisu aveva sistemato il suo braccio sulle proprie spalle, tenendo stretto il resto del suo corpo con il proprio arto sano. Alla luce della luna le sue labbra erano mortalmente pallide.

«Credo… che qui possa bastare», gli disse adagiandolo con fatica contro il muro. Il freddo della pietra penetrò presto nella sua uniforme.

Nonostante non fosse completamente lucido notò subito come si stesse sforzando di sorridergli. Sembrava esausta. Aveva trascinato il peso morto del suo corpo per chissà quanti metri.

«Dovresti andare via», biascicò.

Con una certa sorpresa si accorse di riuscire a parlare più o meno normalmente. L’antidoto doveva aver cominciato a fare effetto.

«Non dire sciocchezze». Il suo tono di voce era così dolce da fargli dolere il cuore. «Sbaglio o avevi detto che saresti rimasto con me fino alla fine?».

Non poteva davvero competere con lei. Non aveva avuto alcuna possibilità di resisterle sin dal loro primo, assurdo incontro. Vivendo una guerra diventava normale imparare a mettere da parte le proprie emozioni, ma lei, senza neanche volerlo, aveva acceso in lui la timida fiamma di qualcosa.

Ogni volta che le parlava il suo straordinario acume e la sua sensibilità fuori dal comune lo lasciavano senza parole. Era rimasto ammaliato dalla fragilità che si nascondeva dietro quella facciata apparentemente fredda e inespressiva e, prima che potesse anche solo cercare di fermarla, Kurisu si era inevitabilmente fatta strada nel suo cuore.

Cercò disperatamente di fermare le lacrime che minacciavano di fuoriuscire.

«Sei ferita...».

Kurisu si guardò un fianco con nonchalance, osservando la macchia scura che adornava la sua uniforme come se non fosse nulla di eccezionale.

«È soltanto un graf...».

«Kurisu!».

Il volto della scienziata si fece, se possibile, ancora più pallido e la sua figura sottile vacillò per un attimo. Quando cercò di protendersi per attutire un’eventuale caduta un dolore lancinante attraversò la sua gamba sinistra. Per alcuni istanti la sua testa si svuotò. Okabe si accorse solo allora che la sua uniforme, lacerata in più punti, era zuppa di sangue.

Si sentì maledettamente impotente.

«Non provare a dirmi… di andarmene». Kurisu gli sorrise come se non fosse successo nulla. «Sai, Okabe. Sono felice di averti incontrato».

«Kurisu… basta...», implorò.

Nulla escludeva che ci fosse qualche sopravvissuto delle forze nemiche in agguato, nulla impediva loro di essere trovati. Se Kurisu avesse usato le sue ultime forze per fuggire verso la città gli uomini di Daru l’avrebbero sicuramente tratta in salvo.

Sarebbe stata libera.

«Sai, in realtà io… vorrei stare per sempre…».

No, non poteva dirgli una cosa simile, altrimenti lui...

«Ora basta!», gridò con quanta forza gli era rimasta in corpo. Le lacrime bruciavano lungo i tagli sul suo volto. Non voleva davvero lasciarla andare. «Vivi e sii libera, è… un ordine».

Il sorriso di Kurisu si affievolì fino a diventare una linea sottile. Le sue labbra tremarono appena. Era la prima volta che la vedeva piangere per lui. Una parte di lui pensò che fosse qualcosa di tremendamente ingiusto.

Sentì i propri occhi socchiudersi, gli angoli delle sue labbra che si tiravano appena verso I’alto.

«Io ti amo».

Il volto di Kurisu perse ciò che rimaneva del proprio colore, aprendosi nel primo vero sorriso che lei gli avesse mai rivolto. Si sentiva in pace con se stesso, in certo senso. Magari in un altro mondo, in un altro tempo, ci sarebbe stato un futuro più felice davanti a loro.

«Che strano...», mormorò Kurisu senza perdere il proprio sorriso. «Ho pensato proprio la stessa… cosa».

Il suo corpo cadde al suolo in un turbinio di capelli ramati.

 

§


«Eh... Quindi mi hai raccontato questa storia solo per dirmi che la guerra è brutta e che ha ucciso i tuoi amici?».

Hashida Suzuha era delusa. Molto delusa. Non le capitava di passare molto tempo con suo padre da quando aveva cominciato a frequentare la scuola per Bambole di Scrittura Automatica, perciò era stata davvero felice di accettare il suo invito ad andare in gita sul lago nel suo giorno di riposo dalle lezioni.

La sua felicità era raddoppiata nel momento in cui le aveva proposto di raccontarle un aneddoto della propria gioventù, promettendole una storia romantica e piena di emozioni che le sarebbe sicuramente piaciuta.

E così era stato.

La storia del Maggiore Okabe e della Dottoressa Makise aveva catturato immediatamente il suo interesse: aveva ascoltato le parole di suo padre con così tanta attenzione da non rendersi conto di come fosse già arrivato il tramonto. Sarebbe stato tutto perfetto se avesse escluso… quel finale.

Hashida Itaru sospirò, scuotendo il capo. «Non ho mai detto che siano morti. Okarin e Makise-shi sono vivi e felicemente assieme».

Lo sguardo di Suzuha si illuminò. «Davvero? Me li presenterai?».

Suo padre si portò una mano al mento ricoperto da una folta barba, perdendosi un attimo nei propri pensieri. «Potrei farci un pensierino su se ti diplomi con un buon voto alla scuola per Bambole».

Avrebbe dovuto immaginarlo.

«Ma papà! La signorina Tennōji non mi sopporta, non fa altro che trovare difetti nelle mie lettere!».

Tennōji Nae, istruttrice della scuola per Bambole di Leiden, era una Bambola di Scrittura Automatica molto famosa e richiesta. Le ragazze che si diplomavano presso la sua scuola andavano incontro ad una brillante carriera lavorativa, amate da tutti i clienti per la loro cortesia e per il loro straordinario talento.

«Suzuha, io credo che in realtà la signorina Tennōji veda in te un grande potenziale», le rispose pazientemente carezzandole i capelli. «Però credo anche che, come me, abbia l'impressione che tu stia sottovalutando l’importanza del tuo futuro mestiere».

Suzuha sentì le proprie labbra contrarsi in una smorfia di disappunto nel sentire la solita ramanzina. «Si tratta di scrivere delle semplici lettere, cosa c’è di così importante da capire?».

Suo padre le rivolse un sorriso. «Rifletti sulla storia che ti ho appena raccontato. Credi che le cose sarebbero andate allo stesso modo se Okarin e Makise-shi non avessero espresso chiaramente i propri sentimenti? Cosa credi abbia dato loro la forza di aggrapparsi alla vita?».

Suzuha aggrottò la fronte, visibilmente irritata. Perché la loro piacevole conversazione si era trasformata in una riflessione sull’importanza dei sentimenti?

«Va bene, va bene, il loro amore li ha salvati. Tutto molto romantico, ma non vedo come abbia a che fare con le Bambole».

«Qual è lo scopo delle lettere che scrivete?».

«Beh», cominciò con una leggera nota di saccenza nella voce. «Fare in modo che i sentimenti del mittente raggiungano in modo chiaro il destinata- Oh».

Il sorriso sul volto di suo padre si fece più luminoso. «Esatto. Suzuha, i sentimenti possono salvare una persona in più di un modo, così come le lettere che scriverai».

Suzuha osservò le proprie mani. Qualcosa scritto di suo pugno poteva cambiare la vita di una persona? Era davvero possibile che qualcosa di semplice come delle parole su carta potesse dare origine ad un cambiamento così grande?

Non vedeva l’ora di scoprirlo.

«Papà… Urushibara-san è ancora sepolto a Kazaly?».

Hashida Itaru riprese a remare di buona lena, indirizzando la barchetta di legno verso il piccolo molo sulla sponda del lago. L’espressione sul suo viso era serena, velata da una leggera malinconia. Il pensiero della morte del suo caro amico lo doveva rendere triste anche dopo tutti quegli anni.

«Naturalmente».

«Mi piacerebbe fargli visita».


























 


 



 


 




 

 


 










 









 

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