Belle's nightmares di VeronicaDauntless (/viewuser.php?uid=528790)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGO ***
Capitolo 2: *** C'era una volta.. ***
Capitolo 3: *** Sacrificio ***
Capitolo 4: *** Prigioniera ***
Capitolo 5: *** Ore sette ***
Capitolo 6: *** Fiamme ***
Capitolo 7: *** Leon ***
Capitolo 8: *** Una rosa per i tuoi pensieri ***
Capitolo 9: *** La biblioteca ***
Capitolo 10: *** Adam ***
Capitolo 11: *** Un invito ***
Capitolo 12: *** Perché i mostri si temono ***
Capitolo 13: *** Promise? Promise.. ***
Capitolo 14: *** Burattinaio ***
Capitolo 15: *** Bestia ***
Capitolo 16: *** Sopra ogni altra cosa ***
Capitolo 17: *** Un dono ***
Capitolo 18: *** Tè o zuppa? ***
Capitolo 19: *** L'incubo peggiore ***
Capitolo 20: *** Risveglio ***
Capitolo 21: *** Sconfitta ***
Capitolo 22: *** Marchio ***
Capitolo 23: *** Presto. ***
Capitolo 24: *** Impronte ***
Capitolo 25: *** Neve ***
Capitolo 26: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** PROLOGO ***
PROLOGO NVU
In quasi
tutte le fiabe, la protagonista è figlia
unica di un padre rimasto vedovo, dolcissima
e dai capelli come raggi del sole.
Oppure, tra vari fratelli, è comunque la prediletta.
Io non ero nulla di tutto ciò. Innanzitutto, ho due
fratelli più grandi e sono sicuramente
l’ultima in ordine di preferenza. I miei
capelli non sono aghi dorati, ma piuttosto una massa
informe di ricci scuri. Inoltre,
non è stata mia madre a morire prematuramente, ma mio padre.
Fin da bambina la mia più grande paura è stata
quella di addormentarmi. In sogno vedo
cose che poi, nella maggior parte dei
casi, si avverano. Sono
solo scherzi
della mia mente,
ne sono sicura. Ma non sono mai riuscita ad evitarlo o a
provare meno paura ogni volta che
chiudevo gli occhi.
Ho diciannove anni, mi chiamo Belle e questa,
signore e signori, è la mia storia.
Avrebbe
potuto dire di aver perso la sua umanità
molti anni addietro, ma la verità era che
non l’aveva mai avuta. Era stato
simile ad un uomo nelle fattezze, ma non era mai stato un
uomo. E, quando anche
il suo aspetto si era trasformato, aveva creduto che niente avrebbe
più potuto
salvarlo. Nessuno avrebbe più potuto salvarlo.
L’aveva creduto davvero.
Ma, di
fronte a quegli occhi, l’aveva sperato con tutto se stesso.
Ma lui non sarebbe mai stato altro che una bestia.
Questa non è la sua storia. Questa è la storia di
come il suo cuore riprese a battere.
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Capitolo 2 *** C'era una volta.. ***
Aprì gli occhi di colpo. Respirava affannosamente, tremava, il suo corpo era ricoperto di sudore. Aveva fatto
un altro di quei sogni, quegli strani sogni che ormai faceva da anni..
Si passò una mano sul volto e si alzò. Era ancora presto, stavano ancora dormendo tutti. Si fece una doccia
veloce e poi frugò nella dispensa in cerca di qualcosa che potesse tirarle su il morale. Alla fine prese un
cioccolatino e lo masticò lentamente. Le immagini del sogno
continuavano a torturarla. C’era un pozzo. Un vecchio pozzo tra l’erba alta. Si era guardata intorno, ma non
aveva visto altro che erbaccia e l’orizzonte. Allora si era
avvicinata piano al pozzo e vi si era affacciata. Il livello dell’acqua era basso, riusciva appena a scorgere il
proprio riflesso sbiadito. Guardò le mani che stringevano
la pietra fredda e si accorse che quello che credeva fosse umidità, era in realtà sangue. Aveva le mani
macchiate di rosso. Inorridita, cercò di pulirsi, strusciandosele
addosso, ma il sangue non si staccava dalla sua pelle. Un rumore improvviso la fece voltare di scatto. Era un
urlo. E lei si ritrovò a cadere nell’oscurità di quel pozzo,
il suo urlo si unì a quello che ancora poteva sentire.
Scosse il capo e prese un sorso d’acqua dal rubinetto. Fin da bambina sognava queste strane vicende.
Solo quando era diventata più grande si era resa conto che nella maggior parte dei casi, le immagini che
animavano i suoi sogni si avveravano. Non si riteneva una strega
o una medium o qualsiasi altra cosa del genere. Era solo una persona che arrivava a conclusioni
ragionevoli e le interpretava a modo suo nei sogni. Per questo ciò che
vedeva, poi accadeva davvero. Era solo quello. Solo quello.
Guardò l’orologio: erano quasi le sette. Salì le scale e aprì appena la porta della camera dei suoi
fratelli. Dominic dormiva aggrovigliato tra le coperte. Si voltò verso Christiàn, ma il suo letto era vuoto.
Fece vagare lo sguardo nella stanza e lo trovò accovacciato davanti
allo specchio a figura intera. La mamma lo aveva comprato per la loro camera pochi giorni prima,
in un negozio di antiquariato. Aveva il bordo ovale, in legno scuro.
-Ma che stai facendo?-
-E tu che ci fai qua?-
-Sono le sette, ero venuta a svegliarvi-
-È già così tardi?-
-Mi dici che cavolo ci fai lì a terra?-
-Sono affari miei-
Si inginocchiò accanto a lui. –Dai, non fare l’antipatico, dimmelo-
Christian era il più grande ed era anche il preferito in casa, ma si cacciava spesso in guai che poi non
riusciva a risolvere.
Le sorrise. –E va bene, ma tu non devi dirlo a nessuno. L’ho scoperto qualche giorno fa.. lo so che
sembra.. assurdo, ma.. neanch’io lo credevo possibile.. guarda-
Avvicinò una mano allo specchio.. e ne trapassò la superficie. La sua mano era scomparsa.
La guardò sorridente, ma lei non disse nulla. Il suo cuore aveva perso un battito. Lo specchio, il riflesso..
come nel pozzo del suo sogno. L’immagine delle mani colme di sangue le riempì la testa.
Lanciò un grido strozzato.
Gli spinse la mano via dallo specchio.
-Non farlo mai più!-
-Ma che ti prende?-
-Tu non.. solo non farlo mai più, ok? Non avvicinarti più a questo specchio-
Non sapeva dei suoi sogni. Nessuno sapeva dei suoi sogni né avrebbe mai dovuto saperlo. Sfilò
velocemente il lenzuolo dal suo letto e coprì lo specchio. Lo guardò.
-Ti prego, porterà solo guai-
La mattina seguente, entrando nella stanza dei fratelli, vide che Christian non c’era. Il lenzuolo era
stato tirato via dallo specchio. Sospirò, si rannicchiò sul suo letto e aspettò.
Riaprì gli occhi davanti ad un sorriso entusiastico.
-Dov’eri?-
-Belle, dovresti vedere cosa c’è dall’altra parte! Ero in un castello.. una reggia! E c’era oro
ovunque! E..-
Lo fermò con un gesto rapido della mano. –Non mi interessa. Tutto ciò non porterà a nulla di buono.
Non è una cosa normale! Per favore, per favore, promettimi che non andrai mai più oltre lo specchio-
Lui la guardò. Non era da lei e lui lo sapeva. In circostanze diverse sarebbe stata entusiasta di una
tale scoperta, ma quel sogno..
E i suoi sogni si avveravano sempre.
Ma lui non promise.
Sospirò ancora, alzandosi e avviandosi fuori dalla camera. Prima di uscire, si voltò verso di lui.
Spero di sbagliarmi, spero che non ti accada nulla.
-Per una volta, ascoltami-
Quella notte nuove immagini arrivarono per torturarla. Occhi neri, artigli e sangue. Artigli che fendevano
l’aria, verso di lei, su di lei. Un dolore atroce, al cuore. Urla, le sue, ma non solo. Trafiggevano il suo
udito, più dolorose del varco sul petto. E sangue, troppo sangue.
Ovunque, su di lei, tra le dita. Sotto il suo corpo stramazzante a terra. E ancora quel pozzo. Era di
nuovo affacciata verso il proprio riflesso. Consapevole di cosa stava
per accadere, si guardò le mani. Le strusciò con rabbia sui vestiti, invano. Un urlo. Si voltò di scatto e
il tempo parve fermarsi. Sentiva il proprio respiro, il vento sul
viso, davanti a lei l’erba iniziò a diramarsi. C’era qualcosa all’orizzonte. Veniva verso di lei, correva
verso di lei. Una bestia..
Arretrò, cadde, sentì il vuoto oltre i piedi e nello stomaco. E poi il buio.
Si svegliò di soprassalto. Fece dei respiri profondi, cercando di calmare il fiato affannato. Si mise seduta
sul bordo del letto, prendendosi la testa tra le mani.
Guardò la sveglia sul comodino: le sei meno un quarto. Erano anni che non riusciva a farsi un’intera
nottata di sonno. Come ogni mattina, lasciò che l’acqua della doccia le scivolasse addosso per quasi
un quarto d’ora, si vestì con calma e scese in cucina. Afferrò il solito
cioccolatino al latte e lo masticò lentamente. Accese la televisione, cercando di scacciare le
immagini del suo sogno con quelle sullo schermo.
Alla fine spense la tv e salì in camera dei fratelli. Sentì dalla stanza in fondo al corridoio la
sveglia della madre attivarsi.
Il letto di Christian era vuoto, ancora una volta. Sospirò. Scosse il ragazzo che dormiva
sulla sinistra. Lui fece una smorfia e richiuse gli occhi. Stette così ancora qualche secondo,
ma alla fine si alzò. Indicò il letto del fratello con il mento.
-Dov’è Christian?-
-Io.. non lo so-
-Beh, vorrà dire che il bagno è mio-
Quando fu di nuovo sola, si accostò allo specchio. Dove si era cacciato? Perché non
tornava? Una terribile sensazione le attanagliò le viscere. E tutto il sangue del suo sogno.. Allungò una mano verso la superficie riflettente e la vide scomparire. La ritirò con un
sussulto.
Maledizione, Christian, te l’avevo detto.
Il sangue sulle mani, il pozzo..
Si voltò verso la porta chiusa, tornò a guardare il proprio riflesso. Esitò, chiuse gli occhi. E
l’attraversò. |
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Capitolo 3 *** Sacrificio ***
Si ritrovò in un’ampia stanza dalle pareti di legno e piena di attrezzi da giardino ricoperti di
polvere e abbandonati a terra. Dietro di lei, uno specchio identico a quello che aveva
appena attraversato, le rimandava indietro la sua immagine. Provò a sfiorane la superficie,
ma le dita scomparvero oltre la superficie. Le ritrasse immediatamente e si voltò verso la
porta. Sulla soglia, si guardò intorno, in quello che sembrava una distesa d’erba bassa.
Doveva essere in una rimessa. Davanti ai suoi occhi, si stagliava un enorme castello. Altro
che splendore, fratello..
Il cielo era cupo, carico di pioggia non ancora caduta, una distesa di alti alberi secchi
circondava il palazzo. Centinaia di rampicanti risalivano lungo la scalinata d’ ingresso e sui
muri della struttura. Nessun fiore, solo spine. Delle guglie appuntite spuntavano
incombenti dal tetto. All’interno, nessuna luce animava l’ambiente. Le vetrate erano
maestosamente decorate, ma erano scure anch’esse, piene di polvere.
Rabbrividì di freddo e si affrettò attraverso i tronchi privi di vita. I rami le graffiavano le
braccia e il volto. Cercò di proteggersi gli occhi con le mani, una ciocca di capelli le si
impigliò tra i rami, facendola rimbalzare all’indietro. Afferrò i capelli e tirò. Si guardò
intorno. Mille occhi gialli la scrutavano. Girò su se stessa col fiato corto, perse la strada.
Tutto era uguale. E quei maledetti rami erano ovunque. Gufi. Dovevano essere gufi.
Doveva calmarsi, prendere fiato e..
Un ululato pervase l’aria. Zampe sulla terra, fiati concitati, ringhi, ovunque intorno a lei.
Corse più veloce che poteva. Inciampò. Il colpo le mozzò il fiato. Altri ululati la
raggiunsero, si rimise in piedi con uno scatto e corse, corse. Sempre di più. Ignorò la fitta
al fianco, il vento tra i capelli, i rami sul viso, il dolore lancinante ai polmoni. Si voltò,
guardò alle sue spalle, senza fermarsi. Due canini affilati fendettero l’aria ad un soffio dal
suo volto. Aprì la bocca per urlare, ma il respiro le era morto in gola quando qualcosa
l’aveva fatta cadere all’indietro. Con il cuore in gola e le tempie che non smettevano di
pulsare, sbatté più volte le palpebre. Ma davanti a lei non c’erano altro che alberi. Una
lacrima di paura le solcò la guancia, ma l’asciugò rapida. Abbassò lo sguardo. Era sulla
scalinata. Si rimise in piedi e raggiunse tremante la porta d’ingresso. Vi si poggiò con tutto
il peso e quella scivolò silenziosa verso l’interno. Cercò di vedere cosa ci fosse oltre quella
porta, ma scorgeva solo l’oscurità.
Non hai idea di quanto tu sia in debito con me, Christian.
Deglutì, fece un profondo respiro ed entrò. Una fiaccola si accese a pochi metri da lei.
Fece un primo passo e la porta si richiuse con un tonfo alle sue spalle.
Camminò lungo il corridoio finché non si ritrovò ad un bivio. Sulla sinistra c’era un enorme
salone riscaldato da un fuoco ardente. C’erano due poltrone e un lungo tavolo. Suo fratello
non c’era. Alla sua destra, il corridoio continuava fino ad una scalinata stretta che
scendeva ancora più in profondità. Prese coraggio e imboccò le scale. Appena poté,
si affacciò per vedere dove portavano. Erano celle. Celle con sbarre di ferro, come quelle dei
palazzi antichi.
-Christian- sussurrò. Non ebbe risposta. Provò ancora.
-Belle? Belle!- un movimento catturò la sua attenzione. –Sono qui-
Corse verso la cella e lui le strinse le mani attraverso le sbarre. I suoi occhi erano sbarrati.
-Che ci fai qui? Devi andartene prima che lui ti veda-
-Devo farti uscire da qui-
-No! Devi andartene!-
-Io ti avevo avvertito!-
-Ora non ha più importanza. Devi salvarti, vattene!-
-Sono venuta a prenderti e non me ne vado senza di te-
-Tu non capisci, non posso andarmene da qui. Lui.. lui mi ha imprigionato a questo luogo..-
Le mostrò la mano destra. Il disegno di uno stelo spinato e di una rosa scarlatta risaliva
dal dorso fin sopra il polso.
-Se vado via, morirò-
Un fulmine illuminò per un istante l’ambiente e lei vide una figura emergere dall’ombra.
Urlò e cadde a terra. Alzò lo sguardo sul carceriere. E inorridì.
Ringhiò, mostrandole le zanne. Arrivava fin quasi al soffitto, era ricoperto da una pelliccia
scura, la schiena era incurvata, come un orso che si solleva sulle zampe prima di
attaccare, e le sue zampe erano provviste di artigli lunghi e affilati. Due grandi occhi gialli
erano puntati su di lei. Era una.. bestia.
-Via dal mio castello- disse con voce roca in un ringhio.
Incapace di muoversi o anche solo di respirare, guardò la belva con gli occhi sbarrati.
-Vattene, Belle!-
La voce di suo fratello parve riscuoterla.
-La prego- urlò, sperando che sentisse il suono tremante della sua voce.
-Lasci andare mio fratello-
-NO!- tuonò. Le si avvicinò ancora. –È un ladro e non lo lascerò andare fino a quando non
avrà estinto il suo debito-
-Allora le propongo uno scambio. Prenda me. Al suo posto. Tenga me e lasci andare lui-
Ad un soffio dal suo viso, quegli occhi gialli quasi s’insinuarono nei suoi. Parve soppesarla
qualche istante. Si allontanò.
-E sia!-
Aprì la cella con un solo gesto e afferrò il braccio del ragazzo.
-Belle!-
Pietrificata, vide la bestia trascinare suo fratello lungo il corridoio. Si riscosse e salì di
corsa dietro di loro, ma la porta si richiuse dietro le spalle del suo proprietario. Tentò di
aprirla, le fu impossibile. Corse nel salone, cercò con lo sguardo una finestra e, quando la
trovò, vi accorse.
-Belle!- continuava a chiamare.
-Christian!- poggiò le mani sul vetro freddo, quasi cercando di raggiungerlo. Vide svanire
le loro figure oltre gli alberi, mentre sul dorso della sua mano e sul polso compariva
sempre più nitida l’immagina di una rosa scarlatta. Si accasciò a terra.
L’ho fatto per te.
Dopo minuti che le sembrarono solo istanti, la porta si aprì e si richiuse con un tonfo. La
bestia fece il suo ingresso nel salone e la guardò.
Scattò in piedi.
Cosa ho fatto?
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Capitolo 4 *** Prigioniera ***
Sbuffò.
Erano ore che se ne stava davanti alla finestra, immobile. La bestia
l’aveva
condotta al piano superiore,
in una stanza provvista di qualche mobile e con
due grandi
vetrate decorate. Aveva sbattuto la porta dietro di lei, senza dirle
nulla e non si era vista da
allora. Il letto a due piazze era coperto da una
spessa coperta bianca ricamata lungo i
bordi ed aveva un’alta testiera
accostata al muro alla destra delle finestre.
L’armadio
aveva tre ante e, quando
aveva trovato il coraggio di sbirciarci dentro, aveva visto
con
stupore che
conteneva decine di abiti meravigliosi. Erano voluminosi, con corpetti
impreziositi da perline o piccoli brillanti, maniche a sbuffo e sottane
di
tulle. Li aveva
guardati uno per uno, estasiata. Erano abiti degni di una
principessa, come quelli che
aveva ammirato con sospiri guardando i film
ambientati nell’ottocento o alle corti imperiali.
Aveva sfiorato ogni ricamo,
ogni lembo di tessuto con un’attenzione reverenziale. Ma alla
fine li aveva
rimessi tutti al loro posto e aveva chiuso l’armadio con un
sospiro
demoralizzato. Non avrebbe dovuto toccare nulla. Dopotutto, lei
lì era solo una
prigioniera,no?
Eppure, la bestia l’aveva portata in quella stanza invece di
rinchiuderla nelle segrete come aveva
fatto con suo fratello. La toiletta era
composta da uno specchio ovale fissato al muro, una piccola
bacinella vuota e
una sedia. Dio, le sembrava davvero di essere capitata in una di quelle
storie
che amava tanto. Ma lei non era una principessa e quella storia non
avrebbe
avuto un lieto fine.
Guardandosi intorno, si era accorta anche che l’ambiente
era pulito, ogni superficie risplendeva
come se qualcuno pulisse ogni giorno.
Si era seduta sul sottile davanzale e aveva aspettato che
accadesse qualcosa.
Ma non era accaduto nulla.
Tuttavia,
quando il sole era sorto, a poco a poco,
l’oscurità aveva lasciato il posto
alla luce. Una
luce calda e accogliente. Gli alberi si erano rinfoltiti di
fronde verdeggianti e i tronchi erano diventati
più solidi. Le rampicanti che
ricoprivano le pareti esterne si erano riempite di splendide rose
rosse
e i
colori delle vetrate erano apparsi più vivaci.
Stupita,
alla fine aveva deciso di osare. Si affacciò fuori dalla
stanza e guardò nel
corridoio illuminato
dalla luce del giorno. Non vedendo nessuno, si affrettò
giù per le scale e raggiunse la porta
d’ingresso
cercando di fare meno rumore
possibile. Si voltò un’ultima volta e
uscì fuori.
Chiuse
gli occhi e rise, godendosi il calore del sole sul volto.
Inspirò profondamente
quell’aria così limpida.
Forse
non avrebbe dovuto. Forse si stava solo mettendo nei guai. Cosa avrebbe
detto
il suo carceriere?
Cosa avrebbe fatto?
In
fondo, però, era stato lui a non chiuderla a chiave. E, poi,
non voleva mica
fuggire. Avevano stretto un
patto e lei non veniva mai meno alla parola data.
Voleva solo.. vedere quel posto.
Corse
giù e poi tra gli arbusti rinati. Si fermò e
alzò il volto verso la luce del
sole. Girò su se stessa, finché
non vide un bagliore lontano. Si incamminò in
quella direzione, schermandosi gli occhi per poterlo vedere
meglio. Al limitare
della foresta, però, il bagliore scomparve. Si
guardò intorno disorientata.
Cos’era stato?
Che fosse un’altra delle stranezze che vedeva nella sua
testa?
Notò
che a pochi passi da lei c’era una fontana con base
circolare, una struttura
centrale a due piani e un
angelo sulla cima. L’acqua usciva a fiotti dalle
strutture mediane e ricadeva in figure circolari nella vasca interna.
Si
avvicinò, si inginocchiò sul terreno umido e si
sporse verso la superficie
d’acqua. Vi fece scorrere la mano
placidamente, perdendosi nella contemplazione
di quella costruzione. Non si accorse del sole che lentamente
svaniva oltre
l’orizzonte, o del freddo pungente che si sovrapponeva al
torpore del giorno, o
dell’oscurità che
tornava ad avvolgere quel luogo. Non vide gli alberi tornare
secchi e funerei. Non vide il cielo farsi buio. Non
vide la fontana, prima
splendente e candida, diventare vecchia, cosparsa di crepe ed erbacce,
fonte di
un’acqua sporca e stagnante. Non poteva vederlo. Davanti ai
suoi occhi
quell’acqua era ancora così limpida.
Così pura. Fresca al tatto. E due occhi
che non erano i suoi avevano incatenato alla fonte il suo
sguardo.
Due occhi
blu oltreoceano. Un viso delicato quanto evanescente. Una chioma
fluttuante
nell’acqua. La figura
aveva allungato le dita verso le sue. Le avvicinò. Sempre
di più.
Le
afferrò il polso. Tirò. Non poté
gridare. Non ne ebbe il tempo. Cadde
nell’acqua. Gelida. E fu sommersa.
Dall’altra
parte di un vetro due occhi gialli la guardavano.
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Capitolo 5 *** Ore sette ***
Cadeva.
Attraverso
l’acqua gelida e stagnante. La superficie era sempre
più lontana. Le gambe,
che
prima aveva cercato di muovere, ore sprofondavano inesorabilmente. E i
polmoni,
che con
tanta furia avevano cercato l’aria, si erano arresi.
Così, cadeva.
Poi, un misero
istante prima che i suoi occhi si chiudessero del tutto, un tocco la
riportò
alla realtà.
Quegli occhi che l’avevano incatenata alla fonte, ora le
chiedevano qualcosa.
‘Seguimi’, sussurrò
nella sua mente. Tese nuovamente le dita verso le sue, invitandola..
Spalancò
gli occhi ed inspirò di colpo. Ancora col fiato affaticato,
balzò a sedere e si
guardò intorno.
Era nel salone del castello, il fuoco scoppiettava tranquillo
nel camino. Si rese conto che i suoi vestiti
erano completamente bagnati e che
stava tremando da capo a piedi. L’aveva visto, con la
coda
dell’occhio. La
bestia. Se ne stava in angolo, la osservava, come la prima volta che
l’aveva
incontrato.
Si voltò verso di lui e fissò gli occhi nei suoi.
-Non
devi più uscire di notte- la sua voce era bassa, ma
possente. Risuonò per tutta
la stanza, facendola
rabbrividire.
-Io..
non mi ero accorta che fosse così tardi-
-Non
avresti potuto. È per questo che non uscirai più
dal castello-
-Cosa?-
Fece
per andarsene, ma lei gli corse dietro.
-No,
aspetti! Per favore, non mi tenga rinchiusa qui dentro-
Se
avesse dovuto rimanere lì per, dio, quanto? Anni? Quando il
suo carceriere avrebbe
ritenuto estinto
il debito di suo fratello? Era davvero pronta a restare in
quella prigione incantata per gli anni migliori della sua vita?
Si
fermò. Tremava ancora e si strinse le braccia attorno al
corpo in cerca di un
po’ di calore. Lo guardava
allontanarsi.
-Per
favore-
La
bestia si voltò appena, fermandosi. Non poteva vederlo in
volto e un mantello
nero gli copriva gran parte
del corpo, ma anche così la sua stazza riusciva a
spaventarla. E le sue mani era delle zampe maledizione!
-Di
giorno non posso proteggerti- disse roco. Sembrava che quelle parole
gli
costassero molto.
-Prometto
che sarò di ritorno prima del tramonto- propose con uno
slancio, sperando con
tutta se stessa
che accettasse.
-Bene.
Ogni giorno alle sette esatte sarai nel salone per la cena. Se
ritarderai,
lascerò che la foresta ti uccida-
Lo
avrebbe ucciso. Lo avrebbe torturato, riempito di pugni e.. aah! Lei
glielo
aveva detto. Lo aveva avvertito
o no? Non avvicinarti più a quello specchio,
gli aveva detto. Ma lui no, doveva fare l’idiota! Non solo
era entrato
nel
palazzo, aveva dovuto rubare! Chissà cosa diavolo aveva
cercato di prendere. E
ora per colpa sua lei era
costretta a rimanere lì con una bestia orrenda. Se ritarderai lascerò che la foresta ti
uccida.. fantastico.
Quella
foresta poteva ucciderla. Ottimo. Beh, diciamo che aveva immaginato
qualcosa
quando una fontana
aveva cercato di farla affogare, ma sentirselo dire era
tutta un’altra faccenda. Insomma, se neppure il
proprietario
di casa poteva
proteggerla..
E
poi che diavolo era quel posto? Di giorno era il paese delle meraviglie
e di
notte la casa degli orrori. Vestivano
ancora come l’ottocento, non c’era luce
elettrica né qualsiasi tecnologia degli ultimi due secoli.
Eppure, non poteva
credere di pensarlo davvero, c’era magia. Magia! Suvvia, dame
del lago,
cambiamenti repentini di vegetazioni,
uno specchio che l’aveva portata in un
altro luogo, una bestia che parlava! Se non era magia, allora era
davvero
impazzita del tutto. In effetti, neanche questa opzione poteva essere
esclusa a
priori.
Ignorando
il freddo che ancora le attanagliava le ossa, salì nella sua
stanza e sbatté la
porta dietro di sé. Sbuffò.
Ogni
giorno alle
sette esatte..
Ma
chi credeva di essere? Avrebbe dovuto.. cenare con lui? Glielo aveva
ordinato!
Che.. animale! E se avesse
tardato di proposito? Se si fosse rifiutata di
uscire dalla sua camera? L’avrebbe uccisa? Gettata fuori dal
castello,
dove la
foresta l’avrebbe uccisa?
Sospirò,
cercando di calmarsi. Si massaggiò la fronte. Okay, per
prima cosa, doveva trovare
qualcosa di asciutto
da mettersi.
Frugò
nei cassetti dell’armadio finché non
trovò un paio di vesti da notte lunghe
fino alle caviglie, larghe e
completamente bianche. Beh, non poteva certo
dormire con uno di quei vestiti strabordanti di balze.
Tolse i vestiti bagnati,
poggiandoli sulla sedia accanto alla toiletta, indossò la
vestaglia e asciugò i
capelli con lo
straccio che stava ripiegato sulla sedia. Già le mancavano
gli
asciugamani. Per non parlare del fono. Si allontanò
appena dalla specchio ovale
per potersi vedere a figura intera e fu costretta ad ammettere che
quella
vestaglia
non era poi tanto male. Era larga e le ricadeva sulle braccia,
lasciandole una spalla e il collo scoperti. Inoltre era troppo
trasparente per
i suoi gusti, ma, dopotutto, chi avrebbe dovuto vederla? Si
infilò sotto le
coperte e il sonno la colse quasi subito.
Prima
che l’oblio la avvolgesse, pensò che era stata la
bestia a salvarla dall’acqua
e da qualsiasi cosa tentasse di annegarla.
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Capitolo 6 *** Fiamme ***
Non
era uscita tutto il giorno. Avrebbe voluto dire che era
perché si sentiva
incredibilmente
stanca, che gli eventi del giorno prima l’avevano spossata,
ma
la verità era che aveva
semplicemente paura. Di ciò che sarebbe potuto accadere
se, ancora una volta, si fosse
attardata troppo. Così, era rimasta a letto
finché non aveva visto il sole alto nel cielo, poi
si
era arrischiata fuori
dalla sua camera ed aveva vagato per il corridoio del piano
superiore.
Non era
coraggio o curiosità la sua, ma un’incredibile
voglia di fare un bagno caldo.
Ovviamente,
pensò, non ci sarebbero state di certo docce, si sarebbe
accontentata di una tinozza e un paio
di brocche d’acqua. Doveva pur esserci
qualche domestico, altrimenti chi puliva le stanze?
E i pavimenti, che
sembravano sempre brillare?
C’erano
altre tre stanze da letto vicino alla sua, ma dentro non vi era
nessuno. E più
si allontanava
dalla sua camera, più l’ambiente si rabbuiava,
come se qualcuno
avesse coperto tutte le finestre.
Giunta al limite del piano, vide che sulla
destra si allungavano delle scale a chiocciola di pietra.
Stava per salire,
quando una voce la fece sobbalzare.
-Miss,
cosa fate? Di lì non potete andare-
Dio,
grazie! C’era davvero qualcun altro..
O
qualcos’altro. Si immobilizzò, gli occhi sbarrati
dalla sorpresa.
Si
era voltata per trovarsi di fronte una figura sottile quanto eterea,
formata da
tante piccole fiammelle.
-Oh-
fu tutto ciò che riuscì a dire. La figura non
aveva volto, né forma, eppure le
sembrò che le
tendesse la mano. Sentì una lieve risata e
ipotizzò fosse la sua.
-Faccio
sempre questo effetto. Vi prego, miss, scendete-
-Io..
volevo solo vedere cosa ci fosse-
-Oh,
nulla di interessante, sono le stanze del padrone, ma le vostre sono
decisamente più belle-
-Io
mi chiamo Belle-
-Ed
io sono Rebecca, al vostro servizio-
Si
piegò appena in avanti in un inchino che la fece sorridere.
Che strana
domestica.
-Sapete
come posso fare per.. uhm.. vorrei fare un bagno-
-Certo,
certo, tornate in camera, vi porterò subito
l’acqua-
Fece
come le era stato ordinato. Aspettò che Rebecca tornasse con
una tinozza e poi
con più
di una brocca colma d’acqua riscaldata sul fuoco. Come
immaginava. Quel
bagno le sembrò il
migliore della sua vita. Ma forse era semplicemente il fatto
che Rebecca continuò a parlarle per
tutto il tempo e lei, solo ora riusciva ad
ammetterlo, si sentiva così sola in quel posto.
-Io
non sono sempre stata così, sapete? Un tempo avevo
lunghissimi capelli rossi e
delle gambe
per niente male- rise delle sue stesse parole.
-Cosa
vi è successo?-
-Cosa
è successo a tutto questo posto, vorrete dire. Anche il
padrone, prima, era
davvero un bell’uomo-
-Cosa
è successo, Rebecca?- si sporse verso di lei, ma la figura
si allontanò piano.
-È
stato tanto tempo fa, miss-
Uscita
dalla piccola vasca improvvisata, si asciugò e
indossò nuovamente la camicia da
notte.
Aspettò che Rebecca se ne fosse andata, portando con
sé tutto ciò che
era servito per il bagno e
tirò fuori dall’armadio tutti i vestiti. Uno ad
uno,
li soppesava, li appoggiava sul petto per immaginare
come le sarebbero stati e
poi passava al successivo. Alla fine aveva scelto un abito con la gonna
e
la
parte del corpetto che le fasciava il seno argentati, il resto del
corpetto fin
giù alla gonna superiore,
arricciata così da essere sollevata fin sotto il
ginocchio, erano invece di un intenso blu oceano. Si
sistemò i capelli in uno
chignon morbido con giusto qualche riccio più corto che le
ricadeva sulla
fronte,
davanti alle orecchie e sul collo e infilò un paio di scarpe
blu senza
tacco che aveva trovato in un altro cassetto.
Come
si sentiva sciocca, ora, sulla cima delle scale che
l’avrebbero portata da lui.
Era stata così stupida.
Tutti quegli abiti stupendi e l’ambiente da favola, le
avevano fatto perdere di vista la realtà. Stava
eseguendo l’ordine impostole
dal suo carceriere. Si era imbellettata per una bestia. Quanto, quanto
si
sentiva sciocca. Per un istante, soppesò l’idea di
tornare indietro per
indossare di nuovo il suo
jeans logoro e la felpa nera. Oh, ma quel vestito era
così bello e lei aveva sempre sognato di essere
come una di quelle principesse
che danzavano formando spirali di tulle e colori.
Così,
aveva fatto un gran respiro e si era affacciata nel salone. Come al
solito, il
camino era acceso
e riscaldava l’ambiente. Era l’unica fonte di luce
nella
stanza. A capotavola, nel posto più lontano
dal fuoco, la bestia le dava le
spalle. Indossava il solito mantello nero.
-Siediti-
ordinò.
Sbirciò
oltre le sue spalle e vide che il posto preparato per lei era al capo
opposto.
Col cuore che
batteva frenetico, irrequieto, si sedette sulla sedia
dall’alto
schienale e alzò lo sguardo sul suo cavaliere.
Ancora non riusciva a vederlo
bene in volto, ma distingueva l’abito rosso che portava. Con
un certo
stupore,
si rese conto che il suo, in realtà, era l’unico
posto preparato. La bestia non
aveva piatti
davanti a sé né posate. E mentre lei
guardava il brodo fumante nel
suo piatto, la bestia guardava lei.
Sentiva i suoi occhi addosso, come se
potessero perforarla. Di cosa si cibava?
-Mangia-
ordinò ancora.
-Voi
non mangiate?-
-Non
ora-
Rabbrividì.
Un tempo era stato un uomo.. almeno così aveva detto
Rebecca. Mangiava come
tutti
gli altri uomini? Mangiava animali? Represse un brivido. O persone?
Immerse
il cucchiaio nel brodo, concentrandosi con tutta la sua
volontà per non alzare
lo sguardo su di lui.
Ne prese solo pochi sorsi, prima che il tremore alla mano
la costringesse a fermarsi. Perché voleva
che lei mangiasse lì? Perché voleva
che mangiasse con lui? Se quello era un modo per metterla a
disagio e
ricordarle chi comandava, era riuscito nel suo intento. Tuttavia, che
modo
crudele era.
E lui l’aveva salvata solo poche ore prima. Per un momento,
le
balenò nella testa l’idea che forse
voleva solo compagnia. Magari, pensò, si
sentiva terribilmente solo, proprio come lei. Ma fu solo
un attimo e quel
pensiero volò via.
Incapace
di mangiare oltre, abbandonò le mani in grembo e si
voltò per guardare le
fiamme.
Il calore le riscaldava il viso e le spalle. E quella danza sinuosa la
incantò, incatenandola a quella visione.
Una
volta, quand’era bambina, aveva sognato le fiamme. Si era
svegliata in lacrime
e col cuore in gola.
Sua madre le aveva accarezzato la testa, sussurrandole che
era solo un sogno e che ciò che ci
spaventa col buio, con la luce cambia
aspetto. Ma le immagini che tanto l’avevano spaventata di
notte,
la
terrorizzarono di giorno, quando videro scoppiare un incendio in un
palazzo
accanto al loro.
-Perché
non mangi?-
Nella
sua voce traspariva dell’ irritazione malamente repressa. O
era rabbia?
Voltandosi
verso di lui, vide che teneva i pugni tanto stretti da far sbiancare le
nocche.
-Non
ho più fame-
-Avresti
più fame se io non ci fossi?-
Abbassò
gli occhi.
La
bestia si sollevò con furia, scaraventò la sedia
a terra, ringhiò, gettò per
aria tutto quello che gli capitò
davanti, afferrò il tavolo per un lato e lo
rovesciò. Con poche falcate furiose fu da lei. Strinse i
braccioli
della sedia
su cui era seduta, imprigionandola. Avvicinò il volto al suo
ed espirò.
Ora.
Solo ora, per la prima volta, lo vide in viso.
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Capitolo 7 *** Leon ***
Ora. Solo ora, per la prima
volta, lo vide in viso...
Non
era una bestia. Almeno, non come aveva pensato fino ad allora. Il muso
leggermente
sporgente e i denti, come zanne, le mani più simili a zampe,
le
ricordavano più un leone.
Ma i suoi occhi,
decisamente felini, che dapprima le erano sembrati solamente gialli,
ora
mostravano qualcosa che la sorprese. Speranza. Erano velati di
speranza. E
dolore. Un
dolore profondo che si nascondeva nel retroscena.
Guardò
il volto ricoperto da una peluria rossiccia e i capelli più
folti di quelli di
un uomo. Un
leone, così lo vedeva, non una bestia, ma un uomo con
sembianze
vagamente animalesche.
-A
cosa pensi?- sussurrò.
Ma
lei, gli occhi sbarrati, il fiato sospeso, il cuore in tumulto, non
riusciva a
parlare. Era pietrificata.
-Ti
disgusto-
Con
la stessa furia con cui si era avvicinato, ora si allontanava.
Sparì oltre la
porta prima che
lei potesse riprendere il controllo del suo corpo. Lo seguì
subito.
-No,
aspettate!-
Non
la disgustava. Aveva frainteso il suo silenzio. Era spaventata per il
modo
improvviso in cui
si era avvicinato, per la ferocia che aveva mostrato. Ma non
per il suo aspetto.
Corse
dietro di lui, cercando di stare al suo passo. Lo seguì fino
al piano che le
era proibito.
Sbatté contro la porta che si era richiuso alle spalle. La
colpì
con la mano. Una volta. Due.
Voi
non mi disgustate, avrebbe dovuto dire. Ma, in fondo, gli importava
davvero di
ciò che
pensava lei? E a lei, importava che lui
tenesse al suo giudizio?
Lasciò
cadere le braccia lungo i fianchi, guardò quel corridoio
così tetro, immerso
nell’oscurità,
e tornò nella sua camera. Una voce la raggiunse al di
là del
legno.
-Miss,
va tutto bene? Vi serve aiuto per togliere il vestito?-
No.
Non voleva aiuto. Non voleva quei vestiti. Non voleva cene con bestie.
Non
voleva nulla di
tutto quello. Tirò via i lacci, si strappò di
dosso il
corsetto, gettandolo a terra. Sgusciò fuori dalle
gonne e le lasciò lì. Si
infilò sotto le coperte e lasciò che la
coprissero del tutto. Voleva solo
tornare a casa. Voleva solo che quei sogni finissero.
-Miss-
chiamò ancora, ma la ignorò.
Voleva
solo lasciare tutto fuori da quella stanza.
A
notte inoltrata lasciò la sua stanza per entrare in
un’altra. Si avvicinò alla
finestra e guardò la
desolazione della sua proprietà.
Ad
un tavolino, le mani poggiate con il dorso verso l’alto, le
labbra cucite, la
donna aprì gli occhi.
I capelli corvini erano pieni di polvere e il suo viso
sembrava di porcellana.
-Lei
può fermare tutto ciò? Dimmelo!-
Non
dipende da lei,
Adam. Dipende solo da te.
Sentì
quella voce familiare nella testa.
-Allora
fa’ in modo che possa conoscere i suoi pensieri-
Allungò
una mano verso di lui, senza voltarsi. Tra le dita stringeva una rosa.
Questo
ti permetterà
di entrare nei suoi sogni. Un petalo per ogni sogno.
Prese
il fiore e si avviò alla porta.
Ma
fa’ attenzione,
l’ultimo petalo sarà la tua ultima occasione per
salvarvi entrambi. Quando i
petali termineranno, anche il suo soggiorno qui come prigioniera
terminerà. Ed
allora, ogni vostra
possibilità sarà perduta. Per sempre.
Sorrise,
tornando ad essere sola.
Un
petalo per un
sogno..
Correva.
Si guardò
alle spalle. Era vicino, la braccava. Sentiva i suoi ululati, i suoi
artigli
graffiare
il pavimento, le zanne pregustare la preda. Ma nella sua testa
c’era
spazio solo per il battito
frenetico del cuore. Girò l’angolo. E corse. Si
voltò ancora. Sbatté contro qualcosa e cadde a
terra. Trattenne il fiato. Alzò
lo sguardo. Due occhi spalancati la guardavano. Le porse una
mano per aiutarla
a rimettersi in piedi. Lei la strinse.
-Corri- disse
concitata. Lo tirò avanti, lungo il corridoio. Verso la
porta che si faceva
sempre più
stretta. Sempre più piccola.
-Corri!-
Spalancò la porta e
vi appoggiò le spalle, una volta che fu chiusa dietro di
lei. Tirò un sospiro
di
sollievo.
Il nuovo arrivato la
scrutava.
Ancora col fiato
corto e il petto in fiamme, gli sorrise.
-E tu chi sei?-
-Sono.. un amico-
-Ed hai un nome?-
-Mi chiamo.. Leon-
Gli porse la mano.
–Io sono Belle, Leon. Benvenuto nella mia testa-
Qualcosa urtò con
forza contro la porta, facendola balzare in avanti. Tornò
subito a poggiarsi
sul
legno. Il ragazzo seguì il suo esempio.
-Chi c’è là fuori?-
-Vorrai dire cosa. In
realtà, non lo so. Ma direi che è meglio che non
ci prenda-
-I tuoi sogni sono
sempre così.. movimentati?-
Lei rise. –Ti ci
abituerai- lo guardò, soppesandolo da capo a piedi. Aveva i
capelli biondi, il
fisico
magrolino e i suoi occhi, di un verde intenso, le ricordavano qualcosa.
-Sai, è strano che la
mia mente ti abbia fatto così, i biondi li detesto-
Sorrise. –Perché?-
-Perché nelle storie
più belle le protagoniste sono sempre bionde, mentre..- si
fermò.
-Mentre tu non lo
sei-
-Già-
-Neanche a me
piacciono le bionde, hai ragione-
-Ma se hai i capelli
chiarissimi!-
-Tu mi vedi così, ma
non vuol dire che io sia così-
-Sei frutto della mia
mente, quindi sei come ti vedo-
-Allora cerca di
vedermi diversamente-
Un rumore sordo li
fece voltare entrambi. Proveniva dall’oscurità
davanti a loro.
-Ci ha trovati-
sussurrò. Gli strinse con forza la mano e lui si
voltò a guardare quelle dita
che
stringevano convulsamente le sue.
-Sono contenta che tu
sia qui, chiunque tu sia davvero. Nei miei sogni, sono sempre stata
sola-
Lo spinse via.
–Vattene, prima che ci raggiunga-
Un ululato la fece
rabbrividire. Il cuore tornò a pulsarle terrorizzato nel
petto.
-Scappiamo allora- si
alzò e le porse la mano. Ma lei non lo guardava
più. Il suo sguardo era
terrorizzato.
I suo occhi spalancati verso il buio.
-Non capisci. In
questi sogni cercano sempre di uccidermi. E mi sveglio sempre nello
stesso
momento-
-Cioè?-
-Un istante prima di
morire-
La belva balzò fuori
dall’ombra. Con gli occhi gialli e le zanne ricoperte di
sangue. Corse verso di
lei
ringhiando. Saltò. E lei vide quei denti ad un soffio dal
suo viso.
Sobbalzò.
Fece vagare lo sguardo a destra e a sinistra, in cerca della luce.
Espirò.
Ancora quei
dannatissimi sogni. Da quando era arrivata nel palazzo, si erano
fatti più vividi. Distingueva ogni dettaglio,
ogni parola, come se stesse
davvero vivendo tutto ciò che sognava. E, quando si
svegliava, ricordava
ogni
singolo particolare. Da quando era lì, in tutti i suoi sogni
qualcosa cercava
di ucciderla. E ci riusciva.
Si
alzò dal letto e le gambe per un attimo le tremarono. Quella
notte, però, aveva
sognato qualcosa di nuovo.
Leon. Anche lui faceva parte di quei
sogni. Quelli che lei sapeva si sarebbero avverati. Forse, un
giorno,
lo avrebbe incontrato davvero. Nella realtà.
Si
avvicinò alla finestra. Quella sera avrebbe rivisto la
bestia. O, dopo ciò che
era accaduto la sera prima,
non si sarebbe presentata? Cosa le avrebbe detto?
Avrebbe mostrato la stessa furia del giorno precedente?
Le avrebbe mostrato
ancora il suo volto?
|
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Capitolo 8 *** Una rosa per i tuoi pensieri ***
Si
sedette accanto alla finestra e prese la rosa tra le dita. Quella sera
era
stata così silenziosa. Aveva tenuto
lo sguardo basso per tutto il tempo, gli
era sembrata sovrappensiero, catturata da qualcosa nella sua
mente
che lui non
poteva conoscere. Era sceso appositamente in ritardo, per permetterle
di
mangiare almeno qualcosa.
In sua presenza, non osava toccare cibo. E lui voleva
che mangiasse. Se solo avesse visto come si cibava lui.
Gettò la rosa a terra e
ringhiò, frustrato.
Tutto
ciò era assurdo. Lei non avrebbe mai potuto salvarlo. Era
stata così
coraggiosa, quando si era offerta
al
posto del fratello. E altruista. Ed era talmente bella.
Mentre
lui.. lui non era altro che una bestia. Una creatura orripilante.
Come
sperava anche solo lontanamente che lei potesse salvarlo?
E
perché avrebbe dovuto? Perché si sarebbe dovuta
interessare di lui?
Eppure,
quando era arrivato nel salone, gli era parso che lei fosse.. felice.
No,
era impossibile. Doveva aver frainteso.
Nessuno
dei due aveva proferito parola e per tutto il tempo lui non aveva fatto
altro
che desiderare ardentemente
poter sapere cosa pensava.
Tornò
a guardare la rosa. Un petalo per un sogno. Era stato l’unico
momento in cui lei
gli aveva parlato davvero,
in cui gli aveva rivelato tutto ciò che pensava.
La
sollevò da terra e ne strappò un petalo, che
lentamente svanì nella sua mano.
Chiuse gli occhi e l’oscurità l’avvolse.
Ed
eccola lì. Seduta
accanto ad un letto, la schiena poggiata al muro e le braccia intorno
alle
gambe. Teneva
il mento sulle ginocchia. Aveva lo sguardo lontano. Nel sogno
della notte precedente aveva il vestito azzurro che
le aveva visto a cena.
Quegli abiti non facevano altro che aumentare la sua bellezza. Ora,
invece,
indossava il
pantalone e quella strana camicia scura che le aveva visto indosso
quando era arrivata lì.
-Qualcosa ti turba?-
Non sollevò lo
sguardo, né si mosse. Si sedette accanto a lei.
-Sto impazzendo-
-Perché dici questo?-
-Perché è così- una
lacrima le solcò il viso. E lui sentì il bisogno
impellente di rincuorarla.
Allungò una mano verso
di lei, ma si fermò. Lui era solo una bestia. Lei
sarebbe stata inorridita del suo gesto. Poi però si
ricordò che, in quei
sogni,
lui era semplicemente Leon.
Allora le sfiorò il
viso, asciugando quella lacrima.
-Oh, Leon- si voltò a
guardarlo e vide nei suoi occhi una luce che non aveva mai visto.
-Solo tu lo sai-
-So cosa?-
-Dei miei sogni,
perché li hai visti. Ho sempre fatto degli strani sogni, fin
da quando ne ho
memoria. E spesso ciò
che sognavo.. accadeva davvero. Si avverava, capisci? Non
l’ho mai detto a nessuno, nessuno avrebbe capito.
Ma tu puoi. Perché sei qui,
nella mia testa. Sognavo le fiamme e arrivava l’incendio,
sognavo qualcuno e
arrivava
la morte.. –
Il suo sguardo tornò
a farsi vago. –Ho sognato mio padre, la notte prima che
morisse.. e ho sognato
il pozzo e c’era
il mio riflesso e tutto quel sangue.. e sono passata
attraverso lo specchio.. il riflesso, capisci? Ma erano solo immagini
e finché
restavano tali, potevo illudermi che fosse normale, che fosse solo.. ma
da
quando sono in quel castello, non
sono più solo immagini. Ora i sogni sono così
reali e temo che ciò che vedo non solo si
avvererà, ma comporterà
qualcosa di più.. -
No,
non stava
impazzendo. Era solo ancor più speciale di quanto lui avesse
pensato. Ed era
ovvio che in quel posto
impregnato di magia, i suoi sogni sembrassero più
reali.
-Non tutti i sogni
sono necessariamente fiamme e morte. Forse hai talmente paura delle
cose brutte
che sogni, che
non riesci a concentrarti su quelle belle-
-Non so. Forse è
davvero come dici, eppure..-
Eppure mi sembra che ci
sia qualcosa che mi costringe a sognare sempre la mia morte.
Perché lei era
sempre sul
punto di essere uccisa. E aveva quella strana sensazione che quei
sogni così vividi, quelli iniziati al castello, non erano
completamente opera
sua.
-Eppure?-
Un rumore li fece
voltare di scatto. Era al di là della porta chiusa. Come uno
scroscio costante.
Come il rumore delle
onde del mare che si infrangono l’una sulle altre.
-Cos’è?-
Si strinse ancora di
più le ginocchia al petto.
–Acqua-
La porta si spalancò
sotto il peso del flutto. L’acqua entrò
prepotente, puntò verso di loro feroce.
Era troppa. Troppa.
E li sommerse entrambi.
Maledizione.
Era stato strattonato fuori dal sogno prima che anche lei si
svegliasse. Si
alzò e si precipitò al piano di sotto.
Lei doveva star ancora dormendo. Davanti
alla sua porta esitò. Il modo in cui si era confidata con
lui.. no, non con
lui.
Con Leon.
Entrò
piano, facendo attenzione a non fare il minimo rumore e si
avvicinò al letto.
Come immaginava, stava ancora
dormendo. Aveva le mani abbandonate accanto al
viso e respirava piano. Osò avvicinare la mano per sfiorarle
la guancia
con il
dorso.
E
se, svegliandosi, lo avesse visto? Quel suo gesto l’avrebbe
di certo ripugnata.
Si
ritrovò a sperare che si svegliasse, nonostante tutto. Solo
per vedere ancora
quegli occhi..
Si
voltò e uscì di corsa dalla stanza. Cosa gli era
saltato in testa? Solo nei
sogni, solo lì, avrebbe potuto sfiorarla.
Sprofondava
di nuovo.
Cadeva in acque sempre più profonde, incapace di muoversi,
di raggiungere la
superficie e
respirare. Leon era scomparso. Un tocco familiare la scosse. La
donna dagli occhi di un intenso blu le porgeva la mano.
Seguimi, sussurrò nella sua mente. E lei lo
fece. La
guidò tra le acque, finché non si
ritrovò su un prato illuminato
dalla luce del
giorno e scoprì di poter respirare di nuovo. Girò
su se stessa, in cerca della
donna. La riconobbe a
pochi passi da lei, ma non era come l’aveva sempre vista.
Ora aveva lunghissimi capelli biondi raccolti in una treccia
morbida che le
ricadeva sulla schiena, indossava uno di quei vestiti ampi, pieni di
tulle, con
il corpetto dorato, ricco
di ricami e il suo volto era illuminato da un sorriso
gioioso. Stava correndo nel bosco anteriore alla casa. Spesso
si
voltava
indietro, ridendo.
-Sono
più veloce di
te-
La raggiunse e guardò
nella direzione del suo sguardo. Ma non vide nessuno.
-Ti sto solo facendo
vincere- rispose la voce di un uomo.
Lei rise ancora,
riprendendo la corsa.
Prima che le desse le
spalle, vide due occhi di un blu intenso perforarle l’anima.
Sbatté
le palpebre più volte. Quella era la donna che aveva visto
nell’acqua della
fontana. Un terribile presentimento si
fece strada in lei. Aveva sempre visto
solo il futuro nei suoi sogni, per cui non aveva mai pensato di poter
vedere
altro.
E se, invece, quello che stava vedendo non fosse il futuro, ma un
ricordo del passato?
Si
mise a sedere e alzò lo sguardo.
La
porta della sua stanza era aperta.
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Capitolo 9 *** La biblioteca ***
8- la biblioteca
I bei
libri si distinguono perché sono più veri di
quanto lo sarebbero
se
fossero storie vere.
Ernest
Hemingway
Erano
passati alcuni giorni. Aveva ripreso ad uscire, di giorno. Passeggiava
tra gli
arbusti
oppure arrivava fino alla distesa d’erba, si sedeva a terra,
chiudeva
gli occhi, e lasciava
che il sole la inondasse, riscaldandola. Dietro il
castello, erano state costruite due serre e
riempite di decine di tipi di
piante, ma dovevano essere abbandonate da tempo, i vetri
erano sporchi, opachi,
i fiori secchi, morti. Aveva chiesto alla bestia se ci fosse
già qualcuno
che
se ne prendesse cura e lui le aveva semplicemente detto che ‘se la cosa le era di
gradimento, poteva
occuparsene lei’. E così aveva fatto.
Inoltre, stesso il giorno seguente,
le si era avvicinato un uomo, Paul, affermando che un tempo era lui che
si
occupava delle
serre, prima che il padrone desse l’ordine di non curarle
più.
Paul l’aiutò a ripulire tutto,
buttare le piante vecchie e portare le nuove. Le
diceva i nomi dei fiori che lei non conosceva,
le mostrava come trattarli,
quanta acqua e quanto concime mettere. Da quando aveva
scoperto quel luogo, era
lì che passava la maggior parte del tempo. Ogni mattina le
annaffiava,
toglieva
le erbacce e potava i rami troppo sporgenti. Di tanto in tanto,
raccoglieva
qualcuno
di quei fiori e li portava nel castello. Quando poi scendeva per la
cena, li sistemava al centro
del tavolo, in un vaso che si era fatta portare da
Rebecca. La maggior parte delle volte, però,
li sistemava nella sua camera,
accanto al letto cosicché, al suo risveglio dopo uno dei
soliti
incubi, avesse
qualcosa di bello da vedere. Appena la luce iniziava ad attenuarsi,
rientrava
nel castello. Non si era più avvicinata alla fontana. Si era
anche arrischiata
a mettere il naso
nelle stanze sul piano che non le era proibito, tenute nella
penombra da spesse tende e strati
di polvere, ma erano per lo più vuote. Una
sera, mentre l’aiutava a prepararsi, Rebecca le
aveva rivelato che quelle stanze
erano le più odiate dal padrone, tuttavia, quando gliene
aveva
chiesto il
motivo, lei aveva cambiato discorso senza aggiungere altro. La stanza
che più
la
colpì e, in effetti, l’unica ancora arredata, era
un’enorme biblioteca, in cui
facevano bella mostra
decine e decine di scaffali ricolmi di libri. Due
scalinate, ai due lati opposti, risalivano dal
pavimento fino ad un livello
superiore, dove una lunga scaffalatura accoglieva tomi più
antichi.
La prima
volta che era entrata nella stanza, si era sentita mancare il fiato. I
suoi
occhi avevano
vagato frenetici lungo i due piani, vagliando e sfiorando ogni
rilegatura, ogni volume, increduli.
Non aveva mai visto così tanti libri. Per
un’intera settimana, si era rintanata lì ogni
giorno,
dalle prime luci dell’alba
fin quando non si era accorta di essere terribilmente in ritardo per
la cena.
Aveva sfogliato così tante pagine e sfiorato così
tante copertine. Non avrebbe
fatto
in tempo a leggerli tutti neanche in una vita intera. Adorava leggere
fin
da bambina, aveva la
camera piena di libri, dai romanzi più moderni alle
raccolte dei migliori classici, ma quelli.. erano
davvero più di quanti ne
avesse mai visti in assoluto.
Anche
quella sera aveva fatto tardi. Si era scusata, come ormai faceva ogni
volta ed
aveva
preso posto a tavola.
-Ho
trovato la biblioteca- disse infine, quando trovò il
coraggio.
-Sì,
lo so- rispose solamente. Rebecca aveva l’ordine di
informarlo ogni giorno su
di lei. L’aveva
osservata spesso, rapito, mentre camminava piano, decidendo
quale libro prendere. Nascosto
oltre la porta, la spiava sedersi su una delle
poltrone, aprire il libro sulle gambe incrociate e
leggere per ore. Lui restava
lì, incatenato a quella visione, incantato e staccarsi era
sempre
più
difficile. Il volto le si illuminava di una luce che non le aveva mai
visto,
sembrava così rilassata.
Non osava pensare che magari lei potesse essere..
felice. Anche lì. Anche con lui.
Ora,
gli sorrideva spesso. Ogni mattina la sentiva uscire di buon ora e
camminare
canticchiando
fino alle serre. Nel ritornare si attardava sempre nel bosco
oppure si allungava fino al prato e,
una volta rientrata, si precipitava in
biblioteca. Sceglieva sempre gli stessi generi. Poesie o tragedie.
Qualche
commedia teatrale. E poi c’erano i libri più
antichi, quelli che gli erano
pervenuti da suo
nonno. Li sfogliava con un’ammirazione devota, quasi fossero
reliquie sacre. Si soffermava sulle
vecchie storie, le leggende di paesi
lontani. Era passato così tanto tempo da quando lui
aveva
smesso di leggere. O
di curare le piante.
Quella
ragazzina gli stava lentamente ricordando cosa volesse dire vivere.
-Ci
sono dei libri davvero stupendi- continuò.
Negli ultimi giorni cercava spesso il suo viso.
Non
per paura, non con
disgusto. Voleva solo.. poterlo guardare in volto.
E
lui stava iniziando a concederglielo.
Cadde
il silenzio e lei abbassò lo sguardo.
-Sono
contento che.. ti piaccia-
Un
sorriso le illuminò nuovamente il volto.
–A voi piace leggere?-
-Un
tempo leggevo molto-
-Allora
dovreste riprendere-
-Potresti..
– no, cosa stava facendo? Era una follia.. lei non avrebbe
mai accettato.. e
lui non avrebbe
dovuto chiederlo.. perché avrebbe dovuto accettare?.. -..leggere per me-
La
vide sgranare gli occhi ed esitare. E i suoi pugni si chiusero
finché non sentì
le unghie nella carne.
Poi,
però, sorrise. –Sì. Vado subito a
prenderne uno-
Corse
via e tornò poco dopo, tenendo tra le braccia tre volumi.
-Allora,
abbiamo Shakespeare, i sonetti, poi i viaggi di Gulliver e il fantasma
di
Canterville. Quale preferite?-
Si
sedette davanti al fuoco, sistemandosi la veste dell’abito e
lisciando il
tessuto con le mani. Si posò i
libri in grembo e lo guardò, in attesa di una
risposta.
-Gulliver-
sussurrò, ancora incredulo. Le si sedette accanto.
Quando
lei iniziò a leggere, lui non poté fare a meno di
sorridere, dopo tanto tempo.
E
sperò che, poco a poco, lei dimenticasse la sua vecchia vita
e iniziasse ad
amare la nuova.
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Capitolo 10 *** Adam ***
Al
quarto sbadiglio, le sorrise.
-Continuiamo
domani-
Lei
annuì, alzandosi. Prima di andarsene, si voltò
verso di lui.
-Non
mi avete mai detto come vi chiamate-
-Adam-
-Adam.. come l’uomo che fu
cacciato dal
paradiso- lo guardò seria. –Cosa vi è
accaduto?-
La
sua espressione si indurì. –Sono stato cacciato
dal paradiso-
-Qualsiasi
sia stata la vostra colpa, vi siete punito più di quanto non
siate stato già
punito da
questa.. maledizione. Magari
mi sbaglio, ma credo che da tempo abbiate smesso di
considerarvi come un uomo
che aveva fatto un errore e abbiate iniziato a considerarvi
solo
come un
mostro-
-Un
uomo che compie un atto mostruoso, diventa un mostro-
-Non
siete un mostro. Siete una persona che ha commesso molti errori-
-Ed
il mio aspetto mi ricorda ciò che ho fatto-
-Il
vostro aspetto vi ricorda che dovete migliorare. Non è una
punizione, è un
monito-
-Dunque
non mi consideri un mostro?-
-Io..
non so ancora come considerarvi- fece per andarsene, ma ancora una
volta si
voltò.
-Siete
stato voi ad aprire la porta della biblioteca, vero? Prima quella
stanza era
chiusa a chiave-
Lui
non rispose e abbassò lo sguardo.
Annuì. -Grazie-
Era
nel castello, all’ultimo
piano, quello che le era proibito. Eppure ora nessuna tenda
impediva alla luce
di entrare dalle finestre e illuminare il corridoio. Guardò
fuori. Doveva
essere mattina presto. Delle risate la raggiunsero da una delle camere,
si
avvicinò alla
porta e vi accostò l’orecchio. Erano due voci
distinte e lei le
conosceva entrambe. Abbassò
la maniglia e si sporse appena oltre la soglia. Dietro
un paravento a quattro ante proveniva
la voce di un uomo; sul letto, stesa, gli
occhi rivolti verso il sole oltre il vetro e le mani
abbandonate accanto alla
testa, c’era la donna della fontana, i lunghi capelli biondi
erano
sparsi sul
cuscino e sulla veste da notte.
‘Adam,’, disse d’un
tratto la donna, ‘perché non fai costruire una di
quelle stupende fontane
da
giardino? Una di quelle da cui l’acqua sgorga come
cascate’
‘Perché proprio una
fontana?’
‘Il castello di mio
padre era molto vicino ad un lago, ricordi? Mi manca tanto quel luogo. E
non
possiamo certo costruire un lago nel giardino’
L’uomo rise. Sì,
anche la sua voce conosceva. Adam. Era la bestia, prima che divenisse
tale.
‘D’accordo, Rosaline.
Se la mia bellissima sposa vuole una fontana, una fontana
avrà’
Rosaline sorrise.
-Belle!- sentì
chiamare. Leon. Una strana sensazione le attanagliò il
petto. Come se lui non
dovesse sapere, come se non dovesse scoprire quello che Rosaline le
stava
mostrando.
Tornò rapida nel corridoio e si chiuse la porta alle spalle.
-Belle- la scrutò
perplesso. –Che ci fai lì?-
Si staccò dalla porta
e gli andò incontro. –Tu piuttosto, sei.. castano-
Si toccò i capelli.
–Davvero? Oh, questo è strano-
Rise. –Mi hai detto
di vederti diversamente, magari sto iniziando a farlo- lo
soppesò. –Già,
così
stai decisamente meglio- gli porse la mano. –Vieni, vediamo
cosa c’è in queste
stanze-
Evitò accuratamente la
camera da cui era appena uscita ed entrò in quella
più distante dalle
scale. Doveva
essere una camera per gli ospiti, era arredata come una camera da
letto, ma
non
c’era nessuno.
Si sedettero accanto
alla finestra, sul piccolo davanzale, uno di fronte
all’altra. Belle guardava
fuori, sovrappensiero.
-Che ne pensi di
questo posto?- gli chiese d’un tratto.
Lui la imitò,
voltandosi verso il vetro. –Lo trovo adorabile, ma la
verità è che mi
piacerebbe
molto vivere vicino al mare-
-Sì, sarebbe davvero
bello- chiuse gli occhi, immaginandosi la scena.
-E tu? Che ne pensi
di questo posto?-
Sospirò. –Non so.. il
fatto è che qui tutto ha una doppia faccia.
C’è la foresta notturna dove il
primo giorno un lupo ha cercato di sbranarmi e capirai che quella non
mi è mai
piaciuta
particolarmente e poi c’è la foresta fiorente del
giorno, con un sole
che scalda perfino il cuore.
C’è la bestia che ha rapito mio fratello e..
l’uomo che mi chiede di leggere per lui.
C’è una donna
che cerca di affogarmi,
ma in realtà non chiede altro che essere ascoltata..-
Leon strinse i pugni,
la sua espressione si fece dura, ma lei non se ne accorse.
La
mia bellissima sposa.. quella donna era
sua moglie.
-Tutto
è orrendo,
terribile e un attimo dopo è tutto perfetto e meraviglioso e
io.. io credo che
non
mi piaccia nessuna delle due versioni. Insomma, di giorno
c’è sempre il
sole, non sarebbe bello
vedere la pioggia anche quando la foresta è fiorita?
Non sarebbe bello vedere il sole quando gli
alberi sono secchi? Qui tutto è
estremo-
-Perché non vai via?-
Abbassò gli
occhi. –Non
posso- sfiorò con le dita la
rosa sulla mano. Da un po’ di giorni si era
accorta che si stava lentamente
sfoltendo, sembrava quasi che i petali diminuissero giorno dopo
giorno. Non
aveva mai avuto il coraggio di chiederne il motivo ad Adam, ma si era
chiesta
più
volte se, una volta che il fiore avesse perso tutti i suoi petali, lei
fosse stata libera.
-Perché la bestia ti
tiene intrappolata qui?-
-Non è solo questo..
mio fratello mi disse che non poteva andar via o sarebbe morto, ma io
ho
stretto un accordo e non voglio andarmene prima che lui ritenga il
debito
saldato-
-Il tuo carceriere?
Com’è?-
-È..- rise,
nervosa. –Perché
ti interessa?-
Leon, che l’aveva
scrutata con attenzione fino a quel momento, scrollò le
spalle.
-Faccio
conversazione. Quindi è per tuo fratello che sei qui?-
Annuì. –Non
mi ha mai dato ascolto. Mia madre alcuni
giorni fa ha comprato uno specchio in un
negozio di antiquariato e mio fratello
una mattina mi disse di aver scoperto che poteva attraversarlo,
che dall’altra
parte c’era un posto bellissimo, ricco d’oro. Io
gli ho detto di non usarlo mai
più, di
non avvicinarsi a quel posto- sospirò.
–Ma non mi ha mai ascoltato e non l’ha
fatto questa volta.
Così, quando
l’ho visto in quella cella.. non potevo lasciarlo
lì, no?-
-Tu l’avevi avvisato.
Perché sacrificarti per lui? Non avevi paura di quello che
sarebbe potuto
succederti?-
-Sì, ma lui è mio
fratello. Dovevo aiutarlo-
Leon abbassò lo
sguardo, perso nei suoi pensieri.
-Se la bestia di cui
parli, ti lasciasse andare, te ne andresti? Se ti liberasse dal tuo
patto-
-Credo di sì-
Credo di sì.. perché
aveva risposto così? Perché non aveva detto solo
di sì? Credo.. non era più
sicura di volersene andare? Ma che le veniva in mente? Restare
lì, con.. Adam.
Sarebbe stata poi
un’idea così brutta? Le aveva mostrato la
biblioteca, anche
se in un modo tutto suo, le aveva
chiesto di leggere per lui.. No, no, no! Era
forse impazzita? Adam era pur sempre una bestia.
Una bestia che aveva rapito
suo fratello e che la teneva prigioniera, non doveva
dimenticarlo.
Lei era pur
sempre imprigionata lì contro la sua volontà.. o
no?
-Belle?-
Riemerse dai suoi
pensieri e gli sorrise. –Cosa?-
-Mi hai detto che tuo
padre è morto. Parlami di lui-
-Morì sul lavoro
quando avevo sei anni. Faceva il muratore. Ricordo che la notte prima
sognai
che
eravamo andati a pattinare e lui era scivolato sul ghiaccio. Mi sorrise
e
mi disse che stava bene.
Il giorno seguente mia madre venne a prendere me e i
miei fratelli a scuola, dicendoci che nostro
padre era caduto da
un’impalcatura, che era andato in un posto migliore- sorrise
triste. –Ricordo
che non piansi quel giorno. Dicevo a
tutti ‘tranquilli, mi ha detto che sta bene’. Ma da
allora le cose
sono
cambiate. Mia madre non ha mai detto nulla, ma era chiaro che ha sempre
preferito i miei
fratelli a me. Non che non mi volesse bene, è solo che.. non
ci siamo mai capite. Io vivevo in questo
mondo tutto mio fatto di strani sogni
e spesso dicevo cose senza senso, mentre lei cercava solo
un po’ di sicurezza.
Una sicurezza che io non ho mai potuto darle e che, invece, ha trovato
nei miei
fratelli. Christian e Dominic erano più grandi di me,
sapevano dare consigli
concreti, ragionati. Non
ci siamo mai capite, ecco-
-Non le hai mai detto
dei tuoi sogni, perché?-
-Non l’ho mai detto a
nessuno, è una cosa troppo strana perché possano
capirla. Mi prenderebbero
per
pazza e la verità è che io stessa penso di
esserlo- scosse il capo, quasi
volesse scacciare quel
pensiero. Poi lo guardò e sorrise. –Ma tu non
dovresti
già saperle queste cose, visto che sei nella mia
testa?-
Le sorrise a sua
volta. –Raccontate da te hanno tutto un altro effetto-
Fece per ribattere,
ma un colpo contro la porta li fece sbandare entrambi. Balzarono in
piedi e lei
gli
strinse la mano.
-Si accettano
scommesse su cosa sarà questa volta- scherzò, ma
la sua voce tremava e il suo
sorriso
era tirato, il cuore martellava contro le costole. Strinse con
più
forza la mano di Leon. Un altro colpo.
La porta tremò.
-Grazie- disse, continuando
a tenere lo sguardo agitato fisso sulla porta. Un altro ancora.
-Per cosa?-
-Perché tu mi ascolti
sempre-
La porta si spalancò.
Rovi puntellati di spine per tutta la loro lunghezza li raggiunsero in
pochi secondi,
strisciarono fino ai loro piedi, si avvolsero alle caviglie di Belle,
la
strattonarono, cadde a terra con uno
strillo spezzato. La trascinavano verso la
porta, verso l’oscurità che attendeva oltre. Leon
le strinse la
mano con forza,
cercando di trattenerla. I suoi piedi scivolavano sul pavimento. Cadde
anche
lui, si
aggrappò ad un piede del letto e la guardò. Non
riusciva a tenerla.
Lei urlò, le spine
che le perforavano la pelle. I rovi la strattonarono con forza,
tirandola
sempre di più.
Il sogno non sarebbe finito finché non avesse lasciato che
la
portassero via.
Ricambiò il suo
sguardo, cercando di calmare il battito del cuore. Non riusciva a non
avere
paura, anche
se sapeva che era solo un sogno, anche se sapeva che ogni volta
qualcosa avrebbe cercato di farle del
male, non riusciva a non avere paura.
Lasciò la presa sulla
mano di Leon e strinse gli occhi.
-Belle!- sentì,
mentre veniva trascinata nell’ombra.
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Capitolo 11 *** Un invito ***
11-
Aprì
l’armadio e passò in rassegna gli abiti, come
ormai faceva tutti i giorni. Ne
scelse uno
rosso, con la gonna non molto ampia e sul davanti uno spacco dalla
scollatura a cuore fino
alla vita che rivelava altro tessuto rosso impreziosito
da piccoli brillanti. Raccolse i capelli in
una treccia laterale e scese in
salotto per la cena.
Adam
era già lì, in piedi davanti al camino, le dava
le spalle.
-Adam-
lo chiamò in un sussurro, ma se ne pentì subito.
Le sembrava così strano
chiamarlo
per nome. Lui si voltò e le sembrò stupito
proprio come lei. Felicemente stupito.
Dopo
che lei ebbe finito di mangiare, Adam le porse il libro dei viaggi di
Gulliver
e si sedette
ancora una volta accanto a lei per ascoltare la sua voce. Non si
accorse nemmeno di essersi
lasciata scivolare il libro dalle mani un istante
prima di addormentarsi contro la poltrona. La
mattina seguente avrebbe
ricordato solo sprazzi di immagini e suoni, due braccia che la
sollevavano da
terra con delicata attenzione, le lenzuola del suo letto poco dopo, dei
passi
che si allontanavano e la sua stessa voce.
‘Adam’,
avrebbe ricordato vagamente di aver biascicato, ‘domani
potreste venire con me
alle
serre’
Immersa
nell’oblio del sonno, non vide la bestia esitare, stringere i
pugni,
combattendo contro
se stesso. E poi quell’assenso appena sussurrato, prima che
andasse via.
La
mattina seguente si svegliò placidamente, come accadeva
raramente. Nessun incubo
aveva
agitato i suoi sogni e rimase alcuni istanti rannicchiata sotto le
coperte, sorridente.
Le
giornate erano passate così rapidamente tra le serre, la
biblioteca e le cene
con.. Adam.
Arrossì di colpo e si
maledì subito. La bestia. Doveva tenere bene a mente che lui
era pur sempre
una
bestia. Qualsiasi cosa avesse fatto per diventare così,
doveva essere stato
qualcosa di grave,
no? Aveva fatto del male a qualcuno? A quella donna? Sua
moglie. Una fitta di gelosia le
colpì
inaspettatamente il petto, ma la scacciò via con rabbia.
Scosse il capo,
cercando di riportare
ordine tra i suoi pensieri. Bestia. Bestia. Bestia..
Doveva
continuare a considerarlo semplicemente come una bestia se non voleva
correre
il rischio
di affezionarsi a lui. Si morse il labbro e tirò le lenzuola
sopra
la testa, sospirando.
Ma
temeva che ormai fosse troppo tardi per questo.
Un
pensiero le attraversò la mente, ma fu talmente rapido che
non riuscì ad
afferrarlo e fuggì lontano
dalla sua portata. Poi, improvvisamente, le tornarono
alla mente le parole della sera prima. Domani
potreste venire con me alle serre.
Dio,
cosa le era saltato in testa? Cosa credeva di fare? Una passeggiata
romantica
tra i fiori, eh, Belle?
Tu e il tuo carceriere. Perfetto. Iniziamo a soffrire
della sindrome di Stoccolma?, pensò, maledicendosi
e alzandosi come una furia
dal letto. Si guardò allo specchio. E aveva un aspetto
orribile! Con quei
capelli arruffati e le guance arrossate.. ma cosa diavolo stava
facendo? Ringhiò,
frustrata. Cosa
avrebbe dovuto importarle dei capelli o dei vestiti o di quella
stupida passeggiata o.. di lui.
Bestia,
bestia,
bestia,
continuò a ripete sottovoce, cercando di rimanere con i
piedi per terra. Sei
una
prigioniera, Belle, e sei qui solo per salvare tuo fratello, non certo
perché dopo tanto tempo ti sei sentita
di nuovo apprezzata, no, assolutamente
no. E decisamente non per le serre o per i libri o per come ti
ascolta
ammaliato quando leggi per lui..
In
fondo, era lì a causa di Christian, aveva compiuto un atto
eroico, allora
perché non cercare di godere
dei lati positivi della vicenda?
Vide
il jeans e la felpa nera che Rebecca aveva lavato e sistemato sulla
sedia
accanto allo specchio.
Non li indossava da quando era caduta nella fontana e
lui l’aveva salvata. Aprì l’armadio e
sorrise.
Avrebbe messo l’abito verde.
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Capitolo 12 *** Perché i mostri si temono ***
12- perchè i mostri si temono
I'll tell you my sins
and you can sharpen your knife..
Hozier, Take me to church
Camminava
avanti e indietro di fronte alla porta principale. Non avrebbe dovuto
accettare. Avrebbe dovuto
inventare una scusa, dire che era impegnato, che non
usciva mai dal castello di giorno e non avrebbe
incominciato per lei.. e invece
avrebbe incominciato proprio per lei. Perché non era ancora
scesa? Perché
ci
stava mettendo tanto? Aveva cambiato idea? Sicuramente aveva cambiato
idea. Sì,
doveva essere così.
Quando, la sera prima, gli aveva chiesto con voce impastata
di sonno se avesse voluto accompagnarla alle
serre, per un attimo aveva creduto
di aver sentito male. Perché avrebbe voluto stare in sua
compagnia?
Si
voltò verso il corridoio illuminato dalla luce del giorno e
la vide. Lo
guardava con un sorriso divertito sul
volto. Portava un abito verde e bianco,
con le spalline sottili che ricadevano oltre le spalle e una fascia
alta
stretta
sul corpetto. Aveva notato con una certa gioia che non aveva
più indossato
quegli strani vestiti che
portava il primo giorno. Forse avrebbe davvero potuto
convincerla a restare lì, con lui.
Le
aprì la porta e si scostò per farla passare.
Prima di raggiungerla, esitò,
guardando il cielo.
-Qualcosa
non va?- gli chiese.
-Io..
non sono mai uscito di giorno.. tutta questa bellezza non si addice al
mio
aspetto-
Lei
sorrise. –Gli alberi o il sole non vi giudicheranno,
fidatevi- gli porse la
mano. –Venite-
Guardò
la mano che gli porgeva, la strinse. La sua pelle era delicata, liscia,
in
contrasto con i suoi artigli e la
pelle ruvida. Ed era calda. Una stretta che
raggiungeva perfino l’anima, riscaldandola. Uscì
alla luce del sole,
affidandosi
a quel gesto e ben presto si ritrovò a stringere la sua mano
quasi
convulsamente, anelando quel
contatto come una flebile fiammella dopo anni di
gelo. Non era come nei suoi sogni, lì, l’aveva
stretta a Leon,
ad un uomo
normale. Ora, la stava stringendo ad una bestia. E non sembrava esserne
turbata
o ripugnata. Non
appena lei si voltò, incamminandosi, lui sorrise. Sperava
che
lei fosse felice lì, ma, in fondo, voleva che restasse
soprattutto perché lui
era felice da quando lei era lì.
La
seguì in silenzio, esultando tra sé e
sé per ogni suo passo entusiastico.
Conosceva
bene la strada fino alle serre, ma lasciò che fosse lei a
guidarlo, felice che
non avesse lasciato la
presa sulla sua mano per tutto il tragitto.
Gli
mostrò tutte le piante che stava curando, parlando senza
sosta di quelle che
più le piacevano o di come se ne
era presa cura insieme a Paul o di come fosse
stata contenta quando aveva scoperto quel posto.
-Paul
ha una certa fissazione per la puntualità. Ogni giorno,
appena il sole inizia a
tramontare, mi butta fuori di qui,
ordinandomi di tornare nel castello e sono
più che sicura che in questo ci sia il vostro zampino- gli
sorrise raggiante
e
lui non poté fare a meno di abbassare lo sguardo. In
effetti, aveva dato
specifiche istruzioni a Paul affinché
facesse attenzione che rientrasse prima
che il sole fosse tramontato. Non voleva altri incidenti come quello
della
fontana. Se le fosse accaduto qualcosa..
Si
riscosse e si schiarì la voce, avvicinandosi ad una delle
piante. Non ti
scordar di me. Non gli erano mai piaciuti
quei fiori, aveva deciso di metterne
qualcuno nella serra solo perché Rosaline li adorava. Che
macabra coincidenza.
Dopo tutto quello che era accaduto, non si sarebbe mai scordato di lei.
Alzò lo
sguardo su Belle e si accorse che
lo stava osservando.
-Sembrate
sovrappensiero. Quei fiori vi ricordano qualcosa?-
-Sì-
disse solo, tornando a guardarli.
-Mi
piacerebbe sapere qualcosa di voi-
Lui
non rispose e lei inspirò profondamente. Voleva conoscere
l’uomo che aveva scombussolato
così radicalmente
la sua vita, l’uomo che aveva rapito suo fratello, ma che non
le aveva mai fatto del male. Voleva sapere perché
era
diventato una bestia.
-Avevate
una moglie, non è così?-
Trasalì.
-Come
fai a saperlo?-
Ancora
una volta quella fitta al cuore. Gelosia.
-La
donna della fontana.. io.. ho solo supposto che..-
Strinse
gli occhi, scrutandola con attenzione.
Supposto? No, non gli stava dicendo tutto. Doveva averla
vista in uno
dei suoi sogni. Non poteva permettere che scoprisse la
verità, non avrebbe mai
dovuto sapere cosa aveva fatto,
cos’era successo a Rosaline. Mai.
Le
si avvicinò in poche falcate, l’espressione dura.
Parlò con un tono più severo
di quanto volesse.
-Non
devi, per nessun motivo, avere a che fare con lei. Non ascoltare
ciò che dice,
non avvicinarti alla fontana e non..
seguirla-
Lo
guardava con gli occhi spalancati, immobile. Si ritrasse appena,
rendendosi
conto di averla spaventata. –Hai capito?-
Annuì.
Non seguirla. Parlava come se
sapesse
dei suoi sogni, come se sapesse che non si stava riferendo
solo
all’immagine
che aveva visto nell’acqua. Ma come poteva saperlo? Non gli
aveva mai detto dei
suoi sogni e così a
Rebecca o a Paul.
E
quel pensiero, che già una volta le aveva attraversato la
mente, tornò a farsi
vivo, sfuggendole.
L’espressione
della bestia si addolcì appena.
-Non
voglio che ti succeda qualcosa- sussurrò e, per alcuni
istanti, lei lo fissò,
incredula. Arrossì, pentendosi subito
di quelle parole, ma poi lei rivolse lo
sguardo su un’altra pianta e gli indicò un fiore
dai petali blu disposti a
corona
intorno ad un centro di un tenue viola. Fiordaliso.
-Questo
è il mio preferito-
-È
stupendo, in effetti- indicò un altro fiore dai pochi petali
lunghi. –Io
adoro i lilium bianchi-
Si
voltò per guardarli e sorrise.
-Sì,
sono molto belli- si incamminò tra i due lunghi tavoli su
cui erano appoggiati
i vasi contenenti le piante dai rami
più corti.
-Raccontatemi
di lei. Vostra moglie-
Non
avrebbe dovuto dirle nulla, non avrebbe voluto dirle nulla, tuttavia,
la
speranza che in questo modo non avrebbe
cercato informazioni altrove lo spinse
a parlare. Sospirò.
–Si
chiamava Rosaline. Era la figlia di un conte che amministrava dei
terreni al
nord. Stringemmo un accordo d’affari
e, per sancirne il vincolo, volle che io
sposassi sua figlia. E così fu-
-L’amavate?-
-Credevo
che si potesse imparare ad amare una persona-
-E
lei vi amava?-
-Era
una donna bellissima- sussurrò, perso nei ricordi.
–Forse ciò che amavo era
proprio la sua bellezza. Feci di tutto
perché lei mi amasse, le donavo tutto
ciò che desiderava, facevo tutto ciò che chiedeva
e, sì, credo che alla fine
lei
abbia iniziato ad amarmi-
-Avete
cercato di comprare il suo amore-
-Chi
non lo farebbe?-
-Chiunque
voglia un amore sincero. Poi cos’è successo?-
-Suo
padre mi tradì e lei morì-
Un
brivido le percorse la schiena. Che fosse stato lui ad ucciderla?
Alzò
lo sguardo su di lei, inchiodandola. Che fosse questa
l’azione mostruosa di cui
parlava?
Le
si avvicinò piano, soppesando i suoi movimenti e si
fermò a pochi centimetri da
lei, continuando a tenere lo sguardo
fisso nel suo.
Perché
era diventato una bestia? L’aveva davvero uccisa lui? Forse
per vendicare il
tradimento del padre?
-Perché
non hai paura di me?-
-Non
mi avete mai fatto del male, perché dovrei avere paura di
voi?-
-Perché
i mostri si temono-
-Ci
sono mostri ben peggiori da temere e che si celano dietro un volto
angelico-
-E
se io non fossi un mostro solo nell’aspetto?-
-Se
mai vedrò in voi un mostro, allora vi temerò-
Le
sfiorò la guancia con la mano e lei piegò
leggermente la testa, abbandonandosi
a quel contatto. Chiuse gli occhi.
Passeggiavano
uno accanto all’altra. Gli aveva raccontato della sua
famiglia, di tutti i guai
in cui si era ficcato Christian e
dei salti mortali che lei e Dominic avevano
dovuto fare per sistemare le cose senza che la madre lo sapesse, di
come si
era
procurata la piccola cicatrice che aveva sul ginocchio. Quando aveva
accennato
a ciò che avrebbe voluto fare appena
tornata a casa, lui si era rabbuiato, così
aveva cambiato argomento, gli aveva chiesto della sua vita prima. Prima
di
aver
e quell’aspetto, prima di Rosaline. E lui si era rivelato
più loquace di
quanto immaginasse. Le aveva parlato della sua
infanzia, di come suo nonno, suo
padre e poi lui si erano prodigati per trovare sempre nuovi libri per
la
biblioteca, di come
i suoi genitori fossero morti durante un lungo viaggio
quando aveva solo sedici anni, lasciandogli averi, titoli,
possedimenti..
E
un senso di
solitudine che non era riuscito a colmare,
pensò tristemente.
Un
animale sfrecciò davanti a loro e corse via.
Belle
sorrise raggiante. –Era
un cerbiatto!-
Poi,
quella strana sensazione che le rimbombava spesso nel petto, si
ripresentò, frastornandola.
Era la stessa sensazione
che provava nei sogni che poi si avveravano, era come
se qualcosa le indicasse esattamente cosa fare. Guardò
nella
direzione in cui
il cerbiatto era scappato. E lo vide, poco distante da loro, si era
fermato, la
guardava. Stava aspettando
che lo seguisse.
Gli
corse dietro, dimentica di Adam e della loro passeggiata o del vestito
che le
rendeva così difficile affrettarsi tra tutti quei
rami o della voce che
continuava a chiamarla.
-Belle!-
Lo
ignorò, continuò a correre, a tenere lo sguardo
fisso sull’animale, una presa
ferrea la trattenne, la strattonò, facendola
voltare. Spalancò gli occhi
davanti all’espressione furiosa della bestia. Il suo sguardo
ardeva di rabbia.
Strinse la presa,
avvicinandola ancora di più a sé.
Cercò di liberarsi,
inutilmente, sentì gli artigli graffiarle la pelle.
-Mi
fate male- sussurrò, con una smorfia di dolore, ma la presa
non si allentò.
-Ti
avevo detto di non seguirla!- ringhiò contro di lei.
-Ma..
dovevo..-
Seguirla?
Di cosa stava parlando? Il cerbiatto l’aveva aspettata,
voleva mostrarle
qualcosa.. Si guardò intorno, confusa.
Erano ancora nella foresta, ma si
stavano avvicinando al castello.. no, alla fontana. Rosaline.
Era Rosaline che voleva
mostrarle qualcosa, voleva farla
tornare alla sorgente. E lui lo sapeva.
-Sapete
che lei cerca di dirmi qualcosa- strattonò il braccio e
stavolta la lasciò
andare. Il fianco le doleva per la corsa e
respirava ancora affannosamente.
Fissò gli occhi nei suoi, cercando di cogliere qualsiasi
pensiero li
attraversasse.
-L’avete
uccisa?-
Il
suo sguardo si fece imperscrutabile, lontano, un muro troppo solido per
potervi
vedere oltre. E, quando rispose, la sua voce
era priva di emozioni.
-Sì-
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Capitolo 13 *** Promise? Promise.. ***
13- Promise? Promise
“Non
dobbiamo promettere ciò che non dovremmo, per non essere
chiamati a svolgere
ciò che non
possiamo.”
Abraham Lincoln
-Adam!-
La donna corse verso
l’ingresso, gli strinse il braccio, l’espressione
stravolta, tremava. Lui
si
fermò, aspettandola, ma continuò a darle le
spalle.
Si prese la testa tra
le mani, guardando la scena. Doveva star sognando. Non
ricordava
neanche di
essersi addormentata. Non osò avvicinarsi ai due coniugi e
rimase immobile,
aspettando che Rosaline continuasse a parlare.
-Ti prego, è mio
padre.. per favore, risparmialo-
Con uno strattone, si
liberò dalla sua presa e si incamminò calmo verso
la scalinata. Un
cavallo lo
aspettava, Paul lo tratteneva per le redini.
-Adam!- urlò ancora,
chiamandolo. –Promettimelo-
sussurrò e
per un attimo credette che
lui non avesse sentito. Ma l’uomo si fermò,
evitando
ancora di voltarsi. Poté vedere solo il
fisico robusto e imponente, i capelli
bruni che gli ricadevano sul collo. Strinse i pugni, come
gli aveva visto fare
molte volte.
-Promettimelo-
sussurrò ancora lei, facendo un passo oltre la soglia, in
attesa.
-Te lo prometto- rispose
semplicemente, prima di avvicinarsi al cavallo.
Un rumore costante e
lontano attirò la sua attenzione, facendola voltare. Fece
pochi passi
lungo il
corridoio. Era uno sciabordio d’ onde. Spalancò
gli occhi, quando vide l’acqua
comparire oltre il bivio del corridoio e dirigersi impetuosa verso di
lei. La
vide sovrastarla,
trattenne il fiato, si coprì il volto con le braccia e
aspettò.
L’impatto la gettò
indietro, facendole perdere presa sul pavimento e togliendole il fiato
che
aveva trattenuto. Cercò istintivamente di urlare e
l’acqua le riempì la gola.
Fu sbattuta a terra, la
schiena e la testa sbatterono contro il pavimento duro, mentre sentiva
il petto
bruciarle per la mancanza d’ossigeno. Inspirò di
colpo ed espirò. Aprì gli
occhi,
continuando a respirare affannosamente. Tossì, sputando
l’acqua
rimastale in gola. Era
accanto alla fontana, stesa sulla terra, il sole stava
tramontando. Si rimise in piedi, tremando
per gli abiti completamente fradici.
In ginocchio, un braccio appoggiato al bordo della vasca,
Rosaline faceva
scorrere le dita sul filo dell’acqua, proprio come aveva
fatto lei tempo prima.
Le si avvicinò. La prima volta che l’aveva vista,
in sogno, aveva pensato che
fosse bellissima,
con la pelle candida e i lunghi capelli biondi, sembrava un
essere quasi angelico. Ma adesso
un’ombra oscurava il suo volto. Lo
trasformava, rendendolo cupo, angosciato.
-Aveva promesso-
disse, come se fosse rivolta all’acqua. Il sole
calò completamente,
lasciando
che la notte ricoprisse il cielo.
Alzò lo sguardo su di
lei, trafiggendola. Trasalì, arretrò, gli occhi
sbarrati. Come poteva vederla?
Com’era possibile? Era solo un sogno. Non poteva vederla, era
assurdo. Non
poteva sapere
che era lì, quello era un ricordo.. un ricordo..
Un ululato la scosse.
Si voltò, tremava, fece un passo indietro, le zampe
dell’animale avanzavano
rapide sul terreno. A chi doveva stare attenta? Alla donna? Al lupo?
Cosa
doveva fare? Si voltò
verso la donna, che la guardava impassibile, ignara del
mostro che si avvicinava. Perché?
Perché non sentiva anche lei il rumore del
fiato concitato della bestia? Di chi doveva avere paura?
Lacrime amare le
rigarono il volto, agitate quanto il suo respiro.
Cosa fare? Cosa
doveva fare?
Cercò tra gli alberi.
Cercò quegli occhi gialli che ormai conosceva. Li
cercò, aspettando che le
si
avventassero contro. Guardò di nuovo la donna.
-Scappa- mosse appena
le labbra, quasi senza proferire suono.
E lei scappò via.
Corse attraverso la foresta, senza alcuna idea di dove stesse andando.
-Belle!-
Leon. Era la voce di
Leon. No! Doveva andare via. Via di lì.
Continuò a correre,
ignorò la voce di Leon che continuava a chiamarla, i suoi
passi dietro di lei.
Sapeva che era lui. Il ragazzo che l’aveva ascoltata, a cui
aveva raccontato
dei suoi sogni. E
sapeva che non doveva fermarsi. Corse ancora, sebbene
esausta, corse sempre più lontano.
Vide la rimessa per gli attrezzi, un moto di
speranza le accese l’anima. Aprì la porta,
camminò
nell’oscurità, cercando di
vedere lo specchio che l’aveva portata lì.
Lo trovò, esattamente
dove ricordava che fosse, si avvicinò e allungò
una mano. Doveva
andarsene.
L’immagine di suo fratello si rifletté sul vetro,
immobilizzandola.
L’unica
cosa che pensò fu che lui stava tornando a prenderla.
|
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Capitolo 14 *** Burattinaio ***
14
Salve
a tutti...chiedo
venia per il tremendo ritardo nel pubblicare
(*sorride imbarazzata*)...
ma spero di farmi perdonare con questo
nuovo capitolo (*sfoggia
due
enormi occhioni da cane bastonato*).
Grazie a tutti quelli che mi
seguono e che sostengono Belle nella
sua
stramba avventura.
Sbuffò.
Il tempo sembrava non passare mai in quella stanza. Si alzò
da sopra il
davanzale,
camminò avanti e indietro, si guardò allo
specchio, cercando di
sistemare almeno un po’ il
groviglio dei suoi capelli, soppesò il risultato e
sospirò ancora. Si era svegliata dopo un
sogno che l’aveva turbata molto.
Christian sarebbe tornato presto. Per lei. Ma la bestia non
l’avrebbe lasciata
andare. Guardò la rosa sulla sua mano, seguendone i
lineamenti con le
dita, il
bocciolo era sempre più piccolo a mano a mano che passavano
i giorni. Erano
rimasti pochi petali. Una volta che non ne fosse rimasto più
nessuno, Adam
l’avrebbe liberata,
no?
Eppure,
quel sogno le aveva mostrato anche qualcos’altro. Finalmente
era riuscita ad
afferrare quel pensiero che più di una volta
l’aveva sfiorata. La bestia non
aveva fatto altro
che cercare di ammaliarla per tutto quel tempo, di
convincerla a restare, aveva cercato di
farle dimenticare cosa c’era dall’altra
parte dello specchio. I libri, le serre, le letture davanti al
fuoco, era stato
tutto un inganno per intrappolarla lì di
sua volontà. Aveva fatto tutto perché
lei
volesse rimanere, per non farla
più andare via. Era stata una
stupida. Si era fatta abbindolare
per tutto il tempo, aveva permesso che
manovrasse la sua mente e quanto abilmente il
burattinaio aveva guidato i fili,
manipolando i suoi sentimenti, quanto malleabile si era
dimostrata lei, creta
ignara. Aveva evitato la realtà dei fatti, lei non sarebbe mai stata altro che
una prigioniera.
E
si era sentita ancor più sciocca nel momento in cui si era
resa conto che,
oltre la rabbia, c’era
la delusione, il dolore.
Così,
si era imposta di non uscire da quella stanza per nulla al mondo. Se
era una
prigioniera,
allora quella sarebbe stata una prigione a tutti gli effetti.
Era
sceso nel salone molto prima delle sette. Non era riuscito ad aspettare
un
attimo di più,
si era tormentato tutto il giorno, a stento aveva chiuso occhio
durante la notte.
L’avete
uccisa? Sì..
Cosa
diavolo gli era venuto in mente? Doveva essere sconvolta, terrorizzata,
disgustata..
Gli
aveva detto che non lo riteneva un mostro, ma ora che sapeva..
Si
allontanò dalla finestra e si affacciò nel
corridoio. Perché non era ancora
arrivata?
Non
l’aveva sentita uscire quella mattina e Rebecca gli aveva
detto che non era
andata neanche
in biblioteca. Sicuramente era turbata dopo quello che le aveva
detto.
Eppure
avrebbe dato qualsiasi cosa per vederla scendere le scale.
Sentì dei passi e
trattenne
il fiato, scrutando la penombra.
Rebecca
comparve a pochi passi da lui, illuminando l’ambiente.
-Signore-
-Cosa
c’è ora?-
-Mi
manda a riferire che..- arretrò impercettibilmente. -..non
scenderà per la
cena-
-Cosa?-
Avrebbe
dovuto immaginarlo. Finalmente aveva visto cos’era realmente,
una bestia.
Logico che
lo evitasse, che ora lo temesse, che non volesse più vedere
il
mostro, le aveva rivelato di aver
ucciso sua moglie, era stato lui a
spaventarla. Era.. sensato, ragionevole, ovvio, lecito, eppure..
Non
era solo la bestia che stava rifiutando, ma anche lui.
Al suo arrivo non le aveva
forse detto che non
avrebbe tollerato una sua assenza? Che, in tal caso,
avrebbe lasciato che il
bosco la uccidesse? Minacce
inconsistenti ovviamente, tuttavia una sola
cosa le aveva imposto, scendere
ogni sera per la cena e non avrebbe concesso una disobbedienza.
-Allora
dille che è un ordine-
-Mio
signore.. io.. non credo scenderà comunque-
Ringhiò.
Si precipitò per le scale con furia, raggiunse la porta
della sua camera e
picchiò con forza.
-Credevo
di averti detto di scendere per la cena alle sette esatte-
sbraitò contro il
legno.
La
sua voce lo raggiunse calma, fredda, impassibile.
-Non
ho fame-
-Se
non uscirai da qui, butterò giù la porta!-
Gli
rispose solo il silenzio. Rebecca lo guardava dalla cima delle scale.
-Signore,
forse.. con più gentilezza..-
-Sono
stato fin troppo gentile e questo è il risultato-
tuonò, indicando con enfasi
la porta e
fulminandola con lo sguardo. Fece un profondo respiro, cercando di
calmarsi. Dopotutto.. magari..
se avesse provato..
-Potresti
scendere per la cena?- chiese, cercando di modulare la voce. Rebecca
gli fece
un cenno
con la mano, incitandolo a continuare.
-Per
favore?- aggiunse, tra i denti, con un certo sforzo.
-No-
rispose solo.
Il
suo ringhio riecheggiò per tutto il castello, rimbombando
attraverso le pareti.
Colpì con forza la
porta, spalancandola. Belle, seduta sul davanzale, balzò in
piedi, gli occhi sbarrati, lo spavento
dipinto sul volto.
Avanzò
verso di lei, guardandola truce. Le afferrò il braccio e la
trascinò fuori, giù
per la scalinata e
poi nel sotterraneo. La strattonava con forza, tirandola
dietro di sé per farla stare al suo passo.
Rebecca continuava a chiamarlo,
implorandolo, ma la ignorò.
Lei
non fiatò, arrancò dietro di lui, stringendo a
sua volta la zampa chiusa in una
morsa dolorosa.
Respirava affannosamente, invasa dalla paura.
Furente,
aprì una delle celle e la spinse dentro senza garbo.
Richiuse le sbarre, trafiggendola
con
uno sguardo di fuoco.
-Se
vuoi rimanere rinchiusa, ti accontenterò-
Lo
vide scomparire prima che potesse rendersi conto di cosa stesse
succedendo. Si
mise seduta,
sentendo le articolazioni brontolare per il modo barbaro in cui avevano
picchiato terra. Si massaggiò
il braccio dolorante, guardandosi intorno.
Eccola
lì, alla fine, nelle segrete. Dove sarebbe dovuta stare fin
dall’inizio.
Sbuffò, spostandosi i
capelli da davanti agli occhi e sistemandosi la felpa.
Aveva indossato di nuovo i suoi panni e si era
sentita proprio come il primo
giorno, quando aveva visto suo fratello allontanarsi con la bestia.
Sola, persa,
in trappola.
Allo
stesso tempo, però, aveva percepito i suoi piedi tornare a
toccare terra. Non
era mai stata
una principessa, un’eroina di quelle storie che adorava
tanto,
era di nuovo semplicemente la
ragazzina spaventata che aveva fatto di tutto per
salvare suo fratello, la ragazzina che si era sempre
sentita sola ma che
avrebbe fatto il possibile per tornare a casa. Si era sentita di nuovo
se
stessa
e non quella versione perfetta quanto evanescente di una regina.
Si
alzò, appoggiandosi alle sbarre, si asciugò una
lacrima solitaria sfuggita al
suo controllo e sospirò.
Non
riusciva ancora a considerarlo una bestia. Dopotutto, non aveva fatto
nulla che
non avesse
avuto il diritto di fare.
Suo
fratello aveva rubato in casa sua e lui lo aveva imprigionato. Avevano
fatto
uno scambio e ora era
lei quella rinchiusa in una cella.
Era
suo diritto. Non era un mostro per questo. Era un uomo che era sempre
stato
solo e aveva
dimenticato cosa volesse dire l’umanità. Questo
vedeva. Guardò
la mano. Rimanevano solo due
petali. Due notti. Solo due notti e poi sarebbe
stata libera.
Si
stese a terra, accanto al muro, raggomitolandosi su se stessa e
stringendosi le
ginocchia al petto.
Chiuse con forza gli occhi, ignorando le lacrime che
iniziarono a bagnarle il volto amare.
Inoltre,
presto sarebbe arrivato Christian. Lei sarebbe stata libera, Christian
sarebbe
tornato a
prenderla e sarebbero andati via insieme.
Con
questo pensiero, si addormentò.
C’era
una volta, in
una terra prospera e lambita da un enorme lago, una donna, figlia del
nobile
che possedeva quella terra. Ella, che era in realtà una
ninfa marina, dotata di
straordinaria
bellezza e immortalità, era priva dell’anima. Come
le leggende
avrebbero poi narrato negli anni
avvenire, le ninfe marine potevano ottenere
l’anima solo sposando un uomo mortale, ma
ciò
avrebbe sancito anche la perdita
dell’immortalità. Così la ninfa accolse
lieta il matrimonio
impostole dal padre
e, ottenuta l’anima e abbandonata
l’immortalità, iniziò ad amare
quell’uomo
che
esaudiva ogni suo desiderio e che aveva giurato di amarla oltre
qualsiasi cosa.
Ma il padre della
ragazza tradì il patto stretto, così, nonostante
il giuramento fatto alla
giovane
sposa, l’uomo si recò da lui per ucciderlo.
Aveva giurato di
amarla sopra ogni altra cosa, ma la vendetta era venuta prima del suo
amore.
Aveva promesso di risparmiare il padre, e così non era stato.
La ninfa, sopraffatta
dal dolore, si tolse la vita e maledì il suo sposo.
Lo trasformò in una
bestia, così che tutti sapessero che mostro era stato nel
venir meno alla
parola data. Lo marchiò con l’immagine di una rosa
e di questi fiori ricoprì
ogni superficie, così
che ricordasse ogni momento ciò che aveva fatto.
Trasformò il giorno in un perenne paradiso
e la notte in un incubo infernale,
per ricordargli la menzogna in cui era vissuta. Marchiò
ogni
abitante presente
e futuro del castello, affinché sapesse che non era il solo
a rispondere delle
sue azioni.
Infine, poiché le
aveva dato la possibilità di ottenere l’anima, gli
concesse una sola occasione.
Una sola occasione perché qualcuno potesse amarlo sopra ogni
altra cosa,
nonostante il suo
aspetto mostruoso. Una sola occasione perché lui amasse
qualcuno sopra ogni altra cosa.
Una sola occasione per redimersi ed essere
finalmente libero..
Era nel bosco,
circondata dagli alberi e dalla luce tenue del mattino. La voce dolce
e
malinconica che l’aveva cullata fino a quel momento in una
tenera litania, si
era affievolita
poco a poco. Si guardò intorno in cerca di Rosaline, per
chiederle perché aveva voluto
raccontare tutto questo proprio a lei.
Sicuramente non era di lei che parlava, qualcuno che
potesse amarlo.. lei non
lo amava. Ed era certa che neanche lui l’amasse, considerato
che
l’aveva appena
rinchiusa in una squallida cella.
-Rosaline- chiamò.
Si incamminò,
sperando di aver preso la direzione della fontana, anche se non
riusciva a
vedere
altro che alberi. Dei passi affrettati la fecero voltare di colpo.
Trattenne il fiato.
Rosaline.
-Oh, sei tu- lasciò
andare l’aria e continuò a guardarsi intorno. Leon
le si avvicinò cauto.
-Ti aspettavi qualcun
altro?-
Si voltò, puntando lo
sguardo nel suo. Perché sembrava così teso? E il
suo sguardo era carico
di..
pentimento? Cosa aveva combinato?
-Stai bene?-
-Perché non dovrei
stare bene?- sorrise per la sua preoccupazione. In effetti, non le
dispiaceva
che
le rivolgesse tutte quelle attenzioni. Forse temeva che la bestia le
avesse
fatto del male?
Il sorriso le morì
sulle labbra, mentre continuava a guardare quegli occhi. Quello sguardo
carico
di
speranza e dolore..
Uno sguardo che così
tante volte le era parso familiare.
Guardò l’uomo che le
stava di fronte, così diverso da come l’aveva
visto la prima volta, con i
capelli scuri, la corporatura possente e il volto statuario. Non
temeva che la
bestia le avesse
fatto del male. Sapeva
che
la bestia le aveva fatto del male.
-Sei
tu- arretrò, spiazzata, la mente in
subbuglio.
–Sei sempre stato tu, Leon non è mai esistito-
Avanzò
verso di lei,
la mano protesa, lo sguardo colmo d’ansia.
-Belle, aspetta..-
Arretrò ancora,
allontanando le braccia per non farsi toccare.
-Gliel’avevi
promesso.. è colpa tua.. tutto questo solo perché
non hai voluto mantenere la
parola data..-
Aveva detto di averla
uccisa lui perché si sentiva colpevole della sua morte. Ed
era così.
Non aveva ucciso lei,
ma aveva comunque assassinato un uomo.
Si prese la testa tra
le mani, stringendo gli occhi e cercando di calmare il vortice di
pensieri che
continuava a frastornarla.
-Avresti infranto la
parola data di nuovo, non è così?-
Ora capiva. I sogni,
Rosaline che le diceva di scappare.. le stava dicendo che non
l’avrebbe mai
fatta andare via. Aveva capito che cercava di convincerla a restare, ma
sperava
che, terminata
la sua prigionia, una volta che il debito fosse stato estinto,
l’avrebbe liberata. Ecco perché le
aveva mostrato la sua storia. L’aveva
avvertita. Non avrebbe mantenuto l’accordo, ancora una
volta. Non l’avrebbe mai
liberata.
-Volevi trattenermi
qui! Hai cercato di rabbonirmi, di.. di.. convincermi che qui ero
più felice,
mi hai ingannata! Non mi lascerai mai tornare a casa..-
Adam era immobile, le
braccia abbandonate lungo i fianchi, la guardava in silenzio.
Una luce sinistra
illuminò i suoi occhi.
-Dove nessuno sa dei
tuoi sogni? Dove ti aspetta un fratello che ti ha messo in questa
situazione?
Dove hai il perenne timore che ti credano pazza?-
-Almeno lì nessuno mi
ha mai mentito. In tutta questa storia l’unico mostro sei tu-
Una lacrima le solcò
il volto, mentre lo vedeva abbassare il capo e chiudere gli occhi,
sconfitto.
Voleva andare a casa.
Voleva solo andare a casa.
Aprì
gli occhi di colpo, trattenendo il fiato. Balzò a sedere e
sbatté più volte le
palpebre.
Accanto
a lei, Rebecca la chiamava insistentemente.
-Miss!
Miss!- sussurrava concitata. –Forza,
prima che il padrone se ne accorga. Venite-
Si
alzò, ancora frastornata, e la seguì.
-Come
hai fatto a prendere le chiavi della cella?-
-Ho
i miei assi nella manica, miss-
Si
diresse verso il lato più in ombra dei sotterranei,
allontanandosi dalle scale,
si accostò al muro
dove faceva bella mostra un drappeggio raffigurante una
scena di caccia.
Belle
si passò una mano sul volto, senza farsi vedere, e
notò di avere il volto umido
di lacrime,
l’asciugò in fretta, con un gesto rabbioso.
Rebecca la guardava.
-Spostate
il dipinto, troverete una porta e un sentiero che vi porterà
fuori dal
castello. Una volta
fuori, dovete proseguire sempre dritto e arriverete alla
rimessa-
-Come
conosci questo passaggio?-
-Miss,
lavoro qui da molto ormai, conosco ogni centimetro e ogni antro-
Sorrise,
sentendo l’improvviso bisogno di abbracciarla.
-Perché
mi stai aiutando?-
Un
rumore di passi affrettati fece voltare entrambe.
-Andate-
la incitò ancora.
Aprì
la porta di legno con la chiave che Rebecca le aveva dato e, dopo
averle sorriso
per l’ultima
volta, se la richiuse alle spalle.
A
quel punto fu completamente al buio, sola. Tastò le pareti
attorno a lei. Era
uno stretto corridoio
in pietra, alto pochi centimetri più di lei e non
abbastanza largo da permetterle di tenere le braccia
distese. Si incamminò,
seguendo le mura con le mani. Più di una ragnatela le si
impigliò tra i
capelli
o tra le dita e ogni volta un brivido di ribrezzo le percorreva la
schiena.
Probabilmente
era stata una fortuna che non vedesse nulla, chissà quanti
insetti le stavano
camminando tranquillamente intorno ai piedi. Sospirò, chiuse
gli occhi, soffocò
il disgusto e proseguì.
Doveva andarsene il prima possibile.
Dopo
un tempo che le parve un’eternità, scorse una luce
fioca raggiungerla e farsi
sempre più intensa
mano a mano che proseguiva. Velocizzò il passo,
finché non
si ritrovò davanti una grata di ferro
chiusa a chiave. Oltre quella, la notte
faceva capolino sopra una foresta particolarmente silenziosa.
Usò ancora una
volta la chiave che le aveva dato Rebecca e la grata si
aprì. Uscì da quel
cunicolo
orribile e si levò di dosso le ragnatele. Scosse i piedi,
lasciando
cadere i piccoli insetti che
cercavano di risalire lungo la gamba e dovette prendersi un
momento per controllare il conato di vomito
che l’aveva assalita.
Odiava gli insetti. Odiava i ragni. Odiava qualsiasi animale che
le camminasse
addosso.
Sospirò.
Cos’era costretta a fare.
Riaprì
gli occhi e girò su se stessa, respirando a pieni polmoni la
brezza fredda
della notte.
Rebecca
le aveva detto di continuare dritto per tornare alla rimessa.
Fece un profondo respiro e si incamminò, senza
voltarsi indietro.
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Capitolo 15 *** Bestia ***
15- Bestia
Aveva distrutto l’unica
speranza che avrebbe
mai avuto. L’aveva frantumata, sbriciolata,
calpestata, polverizzata, e con le
sue stesse mani. Aveva visto una possibilità
profilarsi
all’orizzonte, si era
prodigato affinché ogni cosa andasse nel verso giusto e poi
aveva
rovinato
tutto. Le aveva confessato di essere la causa della morte di sua moglie
e lei
aveva semplicemente smesso di guardarlo. Era tornata al castello,
silenziosa,
senza
aspettarlo né proferire parola. Non aveva osato seguirla,
fermarla,
provare a spiegare. E,
quando non era voluta scendere per la cena, aveva
sentito ogni suo sforzo farsi vano,
l’ultima sua occasione scivolargli via
dalle mani come acqua, lui, che come un bambino
troppo smanioso aveva cercato
di afferrarla. Alla fine lei lo aveva riconosciuto per quello
che era davvero,
un mostro e lui non poteva sopportarlo. Lei era la sua unica
possibilità
per
porre fine alla maledizione e tornare quello che era un tempo. La
frustrazione
aveva
bussato alla sua porta, pronta, e lui aveva lasciato che lo
sopraffacesse, che la rabbia le si
sostituisse indisturbata.
Ed
esattamente in quell’istante, aveva sancito la sua condanna.
Continuava
a vedere quello sguardo spaurito, terrorizzato che lo fissava
allibito.
L’espressione spaesata quando l’aveva lasciata
nelle segrete, il rumore del
fiato trattenuto
quando l’aveva stretta con troppa forza.
Cosa
rimaneva dell’uomo, ora che non aveva più neanche
il controllo di sé?
La
bestia. Rimaneva solo e sempre la bestia.
Uscì
dalla sua camera con furia, davanti alle scale che conducevano alle
celle esitò
per alcuni
istanti.
Scusarsi,
parlare, spiegare, essere gentile..
Avrebbe
dovuto andare da lei?
Con
un ringhio soffocato recuperò la furia che l’aveva
animato e uscì dal castello.
Cosa
rimaneva
dell’uomo..? Solo la bestia..
Sull’ultimo
gradino iniziò la sua corsa.
Sovrastato
dalla notte, circondato da morte e gelo, fu a quattro zampe, come
l’animale che
era, avanzava, rapido, letale, fiutando l’aria, sguainando
gli artigli,
mostrando le zanne,
cacciava.
Si
era illuso di poter essere ancora un essere umano, quando non era altro
che un
predatore
e della preda sentì l’odore, rintracciò
la corsa, braccandola.
Catturò
il cerbiatto, ruggendo, avventandosi su di lui con le fauci spalancate.
E
la preda non ebbe scampo.
Ma,
con i denti e l’anima immersi nel sangue e nella carne della
creatura, avidi
della sazietà,
un sussulto richiamò la sua attenzione, facendogli sollevare
di
scatto la testa.
Due
occhi sbarrati lo fissavano sconvolti.
Un
sussulto le aveva scosso il corpo e si era coperta la bocca con le mani
per non
urlare.
Quegli occhi gialli, ora folli, la guardarono per pochi attimi, prima
che la bestia si
sollevasse, aspettando una sua azione. Era coperto di sangue, intorno alla bocca, sulle
zanne, sul corpo,
ritirò gli artigli, continuando a scrutarla. Il cerbiatto
giaceva a terra, ai
suoi
piedi, ormai senza vita, dilaniato.
A
quella visione, si girò e scappò via, sperando
che non la raggiungesse,
pregando di
arrivare allo specchio prima che la fermasse, chiamò a
raccolta
tutte le sue forze, implorò i
muscoli di sostenerla. Non osò voltarsi indietro,
né ascoltare il rumore dei suoi passi dietro
di lei, sentiva solo il proprio
fiato sfiancato e terrorizzato tuonarle nel petto, il battito ansioso
del cuore
pulsarle nella testa. Respinse le lacrime che già le
pungevano gli occhi,
mentre,
sfinita, rallentava la sua corsa.
Non
ce l’avrebbe fatta..
Un
ululato la raggiunse, vicinissimo, e si fermò di colpo.
Più di un ululato. In un
battito di ciglia
cinque lupi la circondarono, fissando gli occhi su di lei e sfoderando
i canini.
Come
nel suo sogno, quello di fronte a lei balzò, scagliandosi
contro il suo volto e
lei urlò,
coprì il viso con le braccia e strinse gli occhi.
Ma
il colpo non arrivò mai. Per uno splendido istante,
pensò di essersi svegliata,
che quello
fosse tutto solo un incubo. Quando aprì gli occhi, vide la
bestia
lottare con i lupi.
Lo
circondarono, avventandosi su di lui, mordendolo.
Lui
urlava, ferito, ma continuava a graffiare a sua volta, mordendo,
ringhiando
contro di loro,
animato da una furia più folle che mai.
Lo
guardava, incapace di muoversi, un terrore acuto che ancora le
squarciava il
petto.
I
lupi erano in maggioranza, forti e la bestia parve arrendersi,
accasciandosi
sulle ginocchia,
respirando a fatica. I lupi lo sovrastarono.
Si
guardò intorno, agitata. Doveva aiutarlo. Le serviva
qualcosa, qualunque cosa.
Raccolse
da terra un ramo spezzato, abbastanza sottile per poterlo stringere in
una
presa salda
e poterlo sollevare. Raggiunse una delle belve e la colpì
con
forza.
Non
sarebbe scappata mentre lui moriva. Non l’avrebbe
abbandonato.
Il
lupo guaì, voltandosi e guardandola con occhi iniettati di
sangue.
Arretrò,
spaventata, impugnando con forza il ramo davanti a sé.
Sarebbe
morta, di questo era certa, ma non l’avrebbe abbandonato.
Poi, con un sussulto,
sentì un
urlo brutale e la bestia si eresse dietro l’animale,
scaraventandolo
via con una zampa. Quello guaì
ancora e corse via, abbandonando i corpi ormai
senza vita dei suoi compagni.
Belle
li guardò, stesi sulla terra macchiata di sangue, inermi. E
guardò Adam, ancora
in piedi di
fronte a lei, ferito, che la scrutava in silenzio. Lui l’aveva
salvata. Di nuovo.
Notò
che barcollava leggermente sulle gambe sanguinanti e aveva il fiato
affannato.
Gli porse la
mano e lo aiutò a tornare al castello.
Aveva
chiesto a Rebecca di portare dell’acqua e delle bende,
sorridendole, quando aveva
esitato,
vedendola. Ad Adam, invece, aveva detto di sedersi davanti al fuoco,
sulla poltrona, poi si era
inginocchiata accanto a lui e aveva pulito le sue
ferite, facendo ben attenzione a non alzare gli occhi
sul suo viso, nonostante
sentisse il suo sguardo rovente puntato addosso.
-Stavi
scappando- disse alla fine, ritraendo appena la mano. Doveva fare molto
male,
ma lei non
poté fare a meno di sorridere.
-Sì-
disse solo.
-Chi
ti ha aiutato?-
Sollevò
lo sguardo, alzando le sopracciglia.
–Va
bene, non dirmelo-
Fasciò
l’avambraccio con una delle bende, poi passò al
volto. Lavò via il sangue,
tamponò
delicatamente i tagli con una delle bende asciutte. Cerotti e acqua
ossigenata sarebbero andati molto
meglio.
-Perché
non sei andata via quando potevi?-
-Non
abbandono qualcuno che è in pericolo-
-Neanche
me?-
-Adam,
tu sei.. una bestia e non intendo questo- indicò il suo
volto. –Hai dimenticato
cosa vuol dire
l’umanità già da prima della
maledizione, ma.. se ti avessi
lasciato lì lo sarei stata anch’io-
Abbassò
lo sguardo, stringendo i pugni e serrando la mascella.
-Quindi
ora lo vedi- tornò a fissare gli occhi nei suoi. –Il mostro-
Ripensò
al cerbiatto, al sangue, al modo in cui l’aveva trascinata
nelle segrete. Una
buona azione non
riscattava tutto.
-Sì-
-Perché
mi hai visto nella foresta?-
-Perché
mi hai ingannato, perché non hai imparato nulla dal passato.
Solo le bestie
compiono sempre
gli stessi errori- sospirò.
–Avresti mai considerato il debito estinto?-
Non
rispose, si limitò a guardare il disegno della rosa sulla
mano che teneva
ancora la benda. La indicò.
-Se
avessi attraversato lo specchio, saresti morta. Cosa avevi intenzione
di fare?-
-Io..
beh, c’è un solo petalo ancora, quindi manca una
sola notte. Avrei aspettato
nella rimessa,
sperando che tu non ti accorgessi della mia fuga fino a quel
momento. Ma, se tu non avessi
considerato il mio pegno pagato neanche allora,
immagino che sarebbe stato inutile-
Chiamò
Rebecca, le porse la bacinella piena d’acqua cremisi e le
bende avanzate. Tornò
a sedersi
accanto a lui.
-In
ogni caso, grazie per avermi salvato. Neanche tu eri costretto-
Si
morse il labbro, avvolgendo le braccia intorno alle ginocchia. –Dimmi una cosa.
Eri nei miei sogni..
com’è
possibile?-
-Una
strega. È arrivata qui attraverso lo specchio anche lei e
non è più voluta
andare via-
-Lo
specchio nella rimessa? Perché è lì?-
-L’ho
fatto spostare io, subito dopo l’arrivo della strega. Avrei
voluto
distruggerlo, ma lei mi convinse
a risparmiarlo-
-Era
di Rosaline?-
Annuì.
Ma
allora.. era stata Rosaline a fare in modo che lei arrivasse in quel
posto o
erano state tutte
coincidenze? La copia dello specchio che la mamma aveva
trovato nel negozio di antiquariato, la strega
che l’aveva convinto a non
distruggerlo.
Aveva
fatto in modo che Adam entrasse nei suoi sogni. Leon.. in fondo, le
mancava.
Spostò
lo sguardo sulle vetrate del salone, mentre le prime luci
dell’alba facevano
capolino in lontananza.
-Belle!-
un urlo ancora fioco la raggiunse. Scattò in piedi, il
battito accelerato e gli
occhi sbarrati.
-Belle!-
sentì ancora, più chiaramente.
Sorrise,
sollevata e raggiante. Era Christian. Era tornato a prenderla, come nel
suo
sogno.
Suo
fratello era lì.
Balzò
alla porta, il fiato sospeso, un enorme sorriso che le illuminava il
volto. –È
Christian!-
Sulla
soglia del salone si fermò, perdendo il sorriso. Si
voltò verso Adam, che non distoglieva
l’attenzione
dalle fiamme nel camino.
Tornò
da lui, cadde in ginocchio, le mani poggiate sul bracciolo della
poltrona, lo
sguardo implorante.
-Ti
prego- sussurrò. –Non
fargli del male-
Fissò
lo sguardo spento nel suo, imprigionandola per alcuni istanti.
Le
mostrò il palmo della mano, chiedendole con quel gesto la
sua.
Esitò,
studiando la sua espressione, ma alla fine lo assecondò e
aspettò.
Sfiorò
la rosa con le dita e quella sparì poco a poco, come un
serpente che si
allontana tra l’erba alta. Lo
stelo spinato, il bocciolo ornato da un solo
ultimo petalo.
Sgranò
gli occhi e li fissò nei suoi. La stava lasciando andare?
-Il
debito è estinto, sei libera. Va’ da tuo fratello,
tornate a casa-
Avrebbe
dovuto sorridere. Avrebbe dovuto gioire, non perdere altro tempo e
correre
fuori. Ma non ci riuscì.
Non poté sorridere e non si sentiva felice. Per quanto
Adam le avesse mentito, Leon le era sempre stato
accanto. Continuò a tenere lo
sguardo fisso nel suo, con l’anima preda di mille parole che
avrebbe voluto
pronunciare e che invece si persero prima di arrivare alle sue labbra.
La
bestia ruppe improvvisamente quel contatto, voltando la testa verso il
fuoco.
-Vattene!-
sbraitò rude.
Sobbalzò,
scattando in piedi. Lo guardò un’ultima volta.
-Belle!-
sentì ancora.
-Prima
che cambi idea- aggiunse.
Si
avviò al portone d’ingresso, ma, prima di
raggiungerlo, tornò a voltarsi.
-Grazie-
sussurrò.
Non
vide i pugni serrati o gli occhi privi di luce inchiodati sulle fiamme
o
l’anima che crollava in frantumi
sempre di più ad ogni suo passo.
Attraversò
l’ingresso, si precipitò per le scale e poi tra
gli arbusti, senza mai voltarsi
indietro.
-Christian!-
urlò in risposta.
E
lo vide. Non molto distante da lei, gli occhi cerchiati da grandi
occhiaie e il
volto pallido che si illuminò
non appena la scorse.
Spalancò
le braccia e lei vi si catapultò, lasciando che la
stringesse a sé.
-Ero
così preoccupato- sussurrò contro i suoi capelli.
Gli
prese la mano e lo esortò a velocizzare il passo. Doveva
allontanarsi da quel
posto, da quegli eventi e
da quell’uomo. Avrebbe dovuto semplicemente
dimenticare ogni cosa, lasciarsi tutto dietro le spalle.
Arrivati
alla rimessa, Christian le fece segno di andare per prima attraverso lo
specchio. Fece un profondo
respiro, costringendosi a guardare solo lo specchio
e il suo riflesso su di esso, a non voltarsi indietro, a
non esitare, a non
soffermarsi su quel piccolo rifugio che ora le sembrava meno oscuro e
crudele.
Guardò suo
fratello, che le sorrise, chiuse gli occhi e passò
attraverso la sua
immagine riflessa.
Riaprì
gli occhi in una stanzetta stretta, soffocata da troppe cianfrusaglie
inutili o
dimenticate e illuminata solo
da una piccola lampada da comodino. Suo fratello
apparve subito dopo di lei.
-Ho
spostato lo specchio nello sgabuzzino, sai, per evitare che accadesse
qualcosa
a Dominic o alla mamma
e anche perché non mi vedessero tentare di
attraversarlo-
-Tentare..?-
-Dopo
che la bestia mi ha scaraventato indietro, non sono più
riuscito a passare, non
fino ad oggi. Credo che
ci fosse una specie di.. barriera, non so, o forse
permette solo un determinato numero di viaggi ogni mese,
l’importante ora è che
tu sia qui-
-Ogni
mese?-
I
giorni erano passati così velocemente e allo stesso tempo le
era sembrato che
fosse passato molto più tempo.
Era stata via per un mese.
-Cosa
hai detto alla mamma?-
-Ecco..-
si portò una mano alla nuca con aria colpevole.
–Non le ho detto nulla, lei ha pensato che tu
fossi, beh..
scomparsa. Ha
chiamato la polizia-
Lo
fulminò con lo sguardo, sospirando. Ma dopotutto, non
avrebbe certo potuto dire
che una bestia al di là di uno
specchio la teneva prigioniera. Fece per uscire
dallo sgabuzzino, pronta ad inventarsi chissà quale bugia,
quando
Christian la
fermò.
-Belle,
mi dispiace davvero tanto per quello che è successo, giuro
che d’ora in poi ti
darò sempre ascolto-
Era
ora.
-Sono
così dispiaciuto, è stata tutta colpa mia e lo so
che sarà difficile
perdonarmi, ma..-
-Christian-
lo zittì con un gesto.
–Ti ho già
perdonato, dopotutto, sei tornato indietro per me-
-Temevo
che ti facesse del male-
-Non
mi ha fatto del male, sto bene-
La
studiò e lei sorrise, rassicurandolo.
Sospirò,
lasciando la presa sul suo braccio.
–Una
strana avventura da raccontare quando saremo vecchi-
Afferrò
una mazza da baseball che Dominic aveva voluto comprare ad ogni costo,
ma che
poi era stata
abbandonata lì, inutilizzata.
-Che
vuoi fare?-
-Evitare
che accada ancora-
Alzò
le braccia e colpì lo specchio. Lei urlò,
cercando di fermarlo, ma era troppo
tardi. Un rumore acuto li circondò
e si coprirono il volto per proteggersi
dalle schegge. Quando rialzò lo sguardo, Christian aveva
lasciato cadere a
terra la mazza da baseball e fissava l’involucro vuoto che
gli stava di fronte.
Decine di pezzi di vetro facevano
risplendere il pavimento, rimandando indietro
i loro riflessi spezzati.
Non
sarebbe più potuta tornare indietro.
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Capitolo 16 *** Sopra ogni altra cosa ***
16- Casa
Casa
non le era mai sembrata così bella. Vestiti comodi, acqua
calda che usciva dal
doccione, phon, cibo preconfezionato, riscaldamenti, nessuna fontana
assassina
o lupi e
soprattutto nessun incubo. Non sognava da quando era tornata ed erano
passati giorni
ormai. Sua madre aveva quasi avuto un infarto quando l’aveva
vista. L’aveva stretta con
tanta forza da soffocarla quasi e anche Dominic era
stato più affettuoso del solito. Non
aveva saputo che scusa inventare per il
fatto di essere sparita per un mese, così aveva
semplicemente detto la più
assurda delle bugie. Non ricordava nulla. Assolutamente nulla.
Christian
l’aveva trovata priva di sensi in un vicolo della
città e l’ultima cosa che
ricordava
era che era uscita di casa la mattina in cui era scomparsa. Sua madre
non aveva indagato
oltre, le aveva solo chiesto centinaia di volte se stesse
bene. In effetti, tutte quelle attenzioni
non le dispiacevano. Veniva
coccolata, viziata e, per la prima volta da tanto, ascoltata.
Quello
che non aveva apprezzato erano state le attenzioni della polizia.
L’avevano
sommersa di domande, scrutandola come se fosse una pazza o una
bugiarda. E non
avevano tutti i torti. Ma lei aveva continuato a sostenere la sua tesi.
Non
ricordava nulla.
Inoltre Christian aveva detto di averla trovata a terra,
svenuta.
Aveva
dovuto fare anche una visita medica di accertamento dei
“danni”, ma l’unica
lesione
che avevano trovato era stato il livido che aveva sul polso sinistro,
dove la bestia l’aveva
afferrata per portarla nelle segrete. Alla fine i
poliziotti avevano lasciato perdere, almeno
finché lei non avesse ricordato
qualcosa che potesse aiutarli nelle indagini.
Christian
era diventato più protettivo nei suoi confronti, come tutti
del resto. Ogni
notte, prima
di andare a dormire, socchiudeva appena la porta della sua stanza
e le chiedeva se fosse
tutto okay.
Aveva
sfiorato più volte il pensiero di raccontargli tutta la
storia, di Rosaline e
dei suoi sogni,
ma ogni volta scacciava quell’idea.
Inoltre,
che importanza aveva più? Ora che Christian aveva rotto lo
specchio, non
avrebbe
più rivisto il castello, né tanto meno Adam.
Aveva
riposto quel poco che restava del fiore sotto una piccola teca di
vetro, l’aveva
lasciato al buio, in una stanza dove non sarebbe entrato mai
più, dove non
avrebbe più
potuto vederlo. Aveva chiesto alla strega di proteggerlo con un
incantesimo, così che non
sarebbe appassito mai, così che ci sarebbe sempre
stato almeno quel flebile ricordo.
Avrebbe
voluto distruggerlo, bruciarlo, stringerlo tra le mani
finché tutto il suo
colore non
l’avesse abbandonato, scorrendo sulle sue mani colpevoli, ma
non
aveva potuto, perché
ora quel sottile petalo rimasto conteneva tutta la sua
anima. E lui non era altro che un
corpo vuoto.
Aveva
dovuto, aveva dovuto lasciarla andare. Lì, costretta in
quelle mura, con una
bestia
che non aveva fatto altro che mentirle, sarebbe morta. E lui non
avrebbe
sopportato che
quella luce nei suoi occhi si spegnesse, non se lo sarebbe mai
perdonato.
Aveva
sempre creduto di essere solo un mostro e che nessuno avrebbe mai
potuto
salvarlo, ma, quando quella notte aveva visto per la prima volta i suoi
occhi,
l’aveva sperato
con tutto se stesso. Aveva sperato che potesse essere salvato,
redento, per poter essere
degno di quello sguardo. Si era aggrappato con
disperazione alla speranza che potesse
anche solo avvicinarsi a quell’anima che
vedeva attraverso quegli occhi.
E
aveva quasi creduto che il suo desiderio potesse avverarsi. Ma quella
notte, di
fronte
all’orrore che riempiva il suo sguardo, aveva capito che lui
non sarebbe
mai stato altro che
un animale che un tempo era la brutta controfigura di un
uomo. Il suo cuore, che così
timidamente e sorprendentemente aveva ripreso a
battere, nutrito da un sentimento che
credeva gli sarebbe stato per sempre
estraneo, si era infranto definitivamente, finché non ne
era rimasto altro che
un muscolo avvizzito di cenere molle. Lo sentiva ancora
sanguinare
copiosamente, strappato all’anima che lui aveva rinchiuso in
una teca
impolverata,
nascondendola, preda del ricordo di un’altra anima affine,
ora
troppo lontana.
E
avrebbe voluto rincorrerla, fermarla, costringerla a tornare da lui,
quell’anima, perché il primo
istinto di chi non trova aria è spalancare la
bocca e respirare, e perché se il suo cuore non
fosse tornato a battere, lui
sarebbe morto.
Ma
non aveva potuto. Per la prima volta in tutta la sua vita, aveva
sentito il
bisogno di
mettere la felicità di qualcun altro prima della propria.
Così,
aveva perso l’aria per i suoi polmoni, la benda che gli
teneva in vita il cuore
e né le
urla né la furia con cui aveva distrutto ogni cosa nel
castello, nella
serra, avevano potuto
lenire quella mancanza.
Si
era rinchiuso in una stanza, a fissare il vuoto con lo sguardo perso,
sopraffatto da un
dolore che non conosceva e che era molto più forte di lui,
tenendo lontano il pensiero della
rosa e dell’ultimo sogno che gli era rimasto.
Mi
sono sentito uno
stupido, sai?,
le aveva detto quella sera, quando aveva bussato alla
sua porta, come ormai
faceva sempre. Insomma, urlavo il tuo
nome al vento e ho pensato,
ecco, ora quella bestia mi sente e mi riduce a
polpette, ma non sapevo se fossi ancora nel
castello e magari, se mi avessi
sentito.. non ho riflettuto molto.
Oh,
Christian,
non era riuscita a
non rispondere, non è una bestia.
Suo
fratello l’aveva guardata, aspettando che continuasse, ma lei
era rimasta in
silenzio,
restituendogli lo sguardo.
L’importante
ora è
che tu sia qui,
aveva sussurrato alla fine e, dopo averle sorriso,
l’aveva
lasciata sola.
Già.
Lei era lì, a casa, quello era l’importante. O no?
Sospirò,
esasperata, rigirandosi ancora una volta nel letto. Non avrebbe mai
detto che i
suoi
sogni le sarebbero mancati, ma la sua mente la stava torturando con
quel
silenzio ad oltranza.
Scalciò via le coperte, si alzò e
avanzò scalza fino alla
cucina. Si raggomitolò sul divano,
avvolgendosi con una coperta e accese la tv.
Poco a poco, mentre attori e telecronisti si
susseguivano sullo schermo, gli
occhi le si fecero pesanti e fu avvolta dall’oblio.
Sbatté le palpebre
più volte, guardandosi intorno e non poté fare a
meno di sorridere.
Stava
sognando. Portava l’abito verde e bianco che aveva indossato
per andare alle
serre
con Adam, prima che scoprisse la verità su Rosaline e su
Leon. Si scostò
i capelli dal viso,
cercando di capire dove fosse. Di fronte a lei si allungava
una scalinata di marmo bianco
spezzata in più rampe, i cui tasselli erano
bianchi scalini rovinati dal tempo, costellati di
crepe. Ad ogni curva, una
finestra rettangolare lasciava intravedere un prato secco,
circondato da un
alto cancello di ferro e più su, la notte. Alle sue spalle
occhieggiava una
porta, anch’essa totalmente bianca, socchiusa.
Soppesò l’idea di continuare a
salire, ma
alla fine optò per la porta, ritrovandosi in un ampio
androne dalle
pareti bianche e le grandi
finestre, arredato solo con due tavoli rotondi e
qualche sedia sparsa qua e là, molte delle
quali rotte o con i piedi spaccati.
L’edificio doveva essere stato abbandonato anni prima, il
pavimento era
ricoperto da uno spesso strato di polvere, i vetri erano sporchi e in
molti
angoli
i ragni tessevano silenziosi le loro ragnatele. Aprì
l’unico altro uscio
della stanza e attraversò
il corridoio costellato di soglie chiuse, finché non
arrivò ad un’ altra porta, più grande,
provò
ad aprirla, ma doveva essere
chiusa a chiave. Sembrava una specie di ospedale o ricovero.
Chissà perché
avevano smesso di utilizzarlo.
Si avvicinò ad una
delle tante porte, spingendola delicatamente, e guardò
dentro. C’erano
solo due
letti e un piccolo armadio, la solita finestra rettangolare e poi una
figura.
Un uomo.
Sembrava guardarsi intorno, confuso.
Trattenne il fiato,
lasciando la presa sulla maniglia.
-Adam?- si voltò di
scatto, non appena udì la sua voce. Fece un passo verso di
lei, ma poi
si
bloccò, sovrappensiero.
Gli era mancata
terribilmente. E rivederla non faceva altro che ricordargli quanto
quella
mancanza gli facesse male. Avrebbe dovuto rimanere nel suo dolore
solitario,
oscuro,
lontano da quella rosa, spoglia dopo quella notte, e lasciare che lei
lo dimenticasse.
Ma l’istinto era
stato più forte, lo aveva condotto fino alla teca,
tentandolo e lui aveva
ceduto.
-Io.. volevo solo
assicurarmi che tu stessi bene-
-Sto bene- si
avvicinò appena. -E
così, questo è il
tuo vero aspetto-
Nel suo ultimo sogno,
era stata così presa da ciò che Rosaline le aveva
mostrato, che non
si era
presa il tempo per guardarlo e studiarne ogni dettaglio. Si
avvicinò ancora,
sollevando
la mano, e lui rimase immobile, scrutandola con attenzione, mentre
faceva scivolare le dita
sulla fronte ampia, il naso appuntito, le guancie. Se
non l’avesse più rivisto, voleva almeno
imprimersi a fuoco nella mente ogni
particolare. Lasciò cadere la mano.
-Mio fratello ha
rotto lo specchio- sussurrò, senza neanche sapere
perché.
-Io.. credevo che non
volessi tornare al castello-
-È così, ma..-
Arretrò, portandosi
le mani sul volto, mentre il suo respiro accelerava. Ma? Aveva detto ma?
Dio,
era così confusa. Quando era tornata a casa si era sentita
così sollevata e non
voleva
tornare al castello, non voleva tornare da una bestia che
l’aveva
ingannata. Adam, però, le
mancava ogni giorno di più, le mancava la
felicità
che aveva provato con lui e, sebbene le
avesse mentito, l’aveva fatto per
poterle stare accanto, lui l’aveva sempre ascoltata,
l’aveva
salvata più di una
volta, le aveva donato la biblioteca e la serra, anche se in un modo
tutto
suo.
Non voleva lasciare la sua famiglia e non voleva perdere Adam.
-Io non posso farlo.
C’è la mia famiglia e.. non posso-
Lui annuì, abbassando
lo sguardo, quella lieve speranza svanita dai suoi occhi.
-Adam, la maledizione
può essere spezzata solo da qualcuno che ti ami sopra ogni
altra
cosa.. tu..
pensavi che fossi io?-
No, non l’aveva mai
pensato, ma l’aveva desiderato ardentemente.
-Non ha importanza.
Se anche non fossi tu e un giorno arrivasse qualcuno, non avrebbe
importanza.
La maledizione più grande non era non essere amato, ma non
amare
nessuno, ma
ora.. ora tutto è cambiato-
Cosa? Tutto è
cambiato? Si accigliò, lasciando che lui si avvicinasse.
-Che vuoi dire?-
Le afferrò il
braccio, attirandola a sé e poggiò le labbra
sulle sue, stringendola con la
foga
di chi respira di nuovo dopo tanto tempo.
Si staccò da quel
contatto di malavoglia e, in realtà, anche stupito non solo
che lei glielo
avesse lasciato fare, ma che avesse risposto con lo stesso impeto.
Voleva che
lei capisse.
-Belle, al diavolo la
maledizione, non mi importa di essere un mostro, perché tu
non vedi la
bestia,
tu vedi..-
Indicò se
stesso. -.. questo.
Quello che voglio
dire è che non mi importa più ciò che
io vedo
allo specchio, ma ciò che vedi
tu-
Le prese il volto tra
le mani, costringendola ad alzare lo sguardo. –Belle?-
Cosa avrebbe dovuto
dire? La confusione che aveva provato prima non era nulla in
confronto al
vortice con cui mille pensieri la stavano torturando.
Aprì la bocca per
rispondere, ma non uscì alcun suono. Un movimento oltre le
spalle di
Adam
attirò la sua attenzione. Ma che..? Quando erano finiti in
quel bosco? Sbatté
le
palpebre insistentemente, sicura di vedere male, anche se una brutta
sensazione le aveva
attanagliato lo stomaco. Il movimento che aveva attirato la
sua attenzione era la corsa di un
cerbiatto in fuga da qualcosa. Si sporse
oltre Adam, cercando di capire cosa stesse
succedendo.
-Belle?- lo ignorò,
scrutando la vegetazione.
Il cerbiatto
riapparve nel suo campo visivo, sfrecciandole accanto. Seguì
la sua corsa,
prima
di tornare a voltarsi. A poca distanza da loro, una figura
d’uomo avvolta
dall’ombra, si era
appena fermata. Sollevò il fucile, puntò,
premette il
grilletto.
Belle sgranò gli
occhi, trattenendo il fiato. No, no, no.
Era solo un sogno,
solo un sogno..
Non poteva lasciare
che colpisse Adam. Non poteva permettere che gli accedesse qualcosa.
Al diavolo
la maledizione, al diavolo ciò che aveva fatto in passato,
il suo aspetto, ciò
che le
aveva rivelato Rosaline, al diavolo i suoi sogni, il fatto che non
l’avrebbe rivisto mai più.
Lo scostò, sentendo il
proiettile perforarle la carne, ferirle l’addome. Trattenne
il fiato, il
cacciatore svanì poco a poco, Adam urlò il suo
nome, la sorresse, stendendola
delicatamente a terra.
Guardò l’espressione
di dolore e stupore che gli scolpì il volto.
Lei lo amava, più di
ogni altra cosa.
Le accarezzò i
capelli, il volto, mentre una lacrima silenziosa gli solcava il viso.
-Andrà tutto bene,
okay? È solo un sogno, solamente un orrendo incubo. Deve essere
solo un sogno-
-Lo
è- sussurrò, le
palpebre sempre più pesanti.
Lo era, solo che
prima o poi si sarebbe avverato.
Spalancò
gli occhi in un’oscurità che non si
diramò poco a poco grazie ai raggi della
luna.
Un’oscurità immobile che la circondava, senza
lasciarle fiato. Non poteva
muoversi,
parlare, sollevare le dita e non poteva piangere, come avrebbe
voluto. Era in un limbo
silenzioso e scuro dal quale voleva risvegliarsi a
tutti i costi, così, presa dal panico del
sogno e dell’insolito risveglio,
urlò.
Una
luce pallida l’accecò e delle braccia la scossero,
finché non mise a fuoco il
volto teso
di sua madre.
L’abbracciò
d’istinto e lasciò che le accarezzasse i capelli e
la schiena, sussurrandole
parole dolci e rincuoranti.
-Oh,
mamma- piagnucolò, nascondendo il volto sulla sua spalla. –Ero in un posto
buio e
non potevo muovermi o
parlare-
Si
strinse di più a lei, tenendo gli occhi sbarrati in cerca
della luce.
-Tesoro,
calmati, era solo un sogno-
Smise
di tremare e lasciò la presa, tornando a stendersi.
Guardò sua madre come se
fosse una figura troppo distante per poterla toccare ancora.
-Sei
più tranquilla ora?-
Annuì,
la mente lontana.
-Lascio
la luce accesa?-
Scosse
la testa. Non era l’oscurità a spaventarla, ma
quelle parole. Era solo un
sogno..
L’ultima
volta che sua madre aveva detto così, delle persone erano
morte.
|
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Capitolo 17 *** Un dono ***
" />
17
Ed
ecco finalmente il
nuovo capitolo (con un ritardo imperdonabile, lo so, ma spero
che possiate
perdonarmi. Non accadrà più, giuro ^.^)
Sei
mesi prima.
Non
si preoccupò di mettere bene a fuoco ciò che lo
circondava, si alzò, percorse
il
corridoio in poche falcate e spalancò la porta, senza
aspettare il permesso
di entrare.
Raggiunse la donna, seduta come sempre al tavolino, il volto
impassibile, la scosse con
forza, costringendola ad aprire gli occhi vitrei su
di lui, ma nulla turbò l’espressione serena
che aveva ogni volta che la
guardava.
-Stava
morendo! Ero nel suo sogno e lei era ferita..-
Camminò
col fiato corto fino alla porta, poi tornò dalla donna, e
poi di nuovo verso la
porta.
-Nei
suoi sogni è successo altre volte, certo, che.. che ..
qualcosa- attraversò
ancora la
stanza, gesticolando, lo sguardo perso dietro a pensieri
confusi. –qualcosa, non qualcuno
cercasse di farle del male, ma ora..-
sospirò, tornò a guardare la donna -finora era
Rosaline a mostrarle dei ricordi,
questo era uno dei suoi sogni- si accostò al vetro,
scrutando la sua proprietà
popolata solo dai lupi, in cerca di una minaccia invisibile.
-e
i suoi sogni si avverano sempre- si voltò, lo sguardo duro,
si avvicinò e
sbatté le mani
sul legno del tavolo
-dimmi come salvarla, strega!-
Quella
non parve turbata, puntò lo sguardo ghiacciato nel suo e
indurì a sua volta
l’espressione, pronunciando seria parole che riecheggiarono
nella sua mente.
Ti
avevo già detto
come salvarla. Ti avevo detto che l’ultimo petalo sarebbe
stata l’ultima
possibilità per salvare entrambi. Ora, non
c’è più nulla che tu possa fare.
Nel
suo ultimo attimo di lucidità, pensò che non
poteva proteggerla, poiché non
conosceva
cosa o chi la minacciava, pensò che poteva sopportare di
saperla
lontana, saperla morta
era tutt’altra storia.
Così,
non appena questo pensiero lo assalì, lasciò che
la bestia prendesse il
sopravvento
sulla mente umana e sul corpo già trasfigurato.
In
seguito, si sparsero delle voci. Nel paese vicino si vociferava di una
bestia
che aveva
appiccato l’incendio nella boscaglia della tenuta maledetta,
che
nulla si era salvato dalla
rovina, né il castello, né le serre, si
vociferava
anche che la bestia vagava ancora per le
strade, senza nessun rimorso per aver
distrutto tutto ciò che possedeva.
Le
fiamme si erano espanse rapide, molti uomini, giovani e vecchi, donne e
ragazzi, si
erano arrischiati fuori dal paese per spegnere il fuoco prima che
raggiungesse le loro case.
Degli abitanti del palazzo non videro nessuno e
pensarono che nessuno era riuscito a salvarsi
, se non un uomo intossicato dal
fumo a cui diedero ospitalità, ma che morì quella
notte stessa.
Il
mostro, il mostro,
sussurravano alla
compagna di chiacchiere, al marito, quello
che fu
maledetto, il mostro, è uscito dal castello, presto
arriverà qui, ci
ucciderà.
Sprangarono
porte e finestre, tennero stretti tra le sottane i bambini.
Intanto,
già a molte miglia da lì, una bestia avanzava con
una luce folle che gli accecava
la vista.
Non si sarebbe fermato finché non avesse trovato quel mago.
Non
avrebbe avuto pace finché
non l’avesse salvata.
Mercoledi
11 Aprile. 12:05
E
così, dimenticò.
O
meglio, finse di dimenticare.
Le
sembrò la cosa migliore da fare. E, dato che non poteva, non
riusciva a
dimenticare, a
cancellare ciò che aveva visto e sognato e provato,
semplicemente lo tenne ben nascosto,
chiuso sottochiave in un angolo della sua
mente dove faceva ben attenzione a non
avvicinarsi mai.
Non
sognò più né Adam, né nulla
che avesse a che fare con lui o con il cacciatore e
questo
l’aiutò, almeno in parte. Sognava spesso
l’edificio bianco, invece, si
aggirava per quelle
stanza deserte, tra mille oggetti abbandonati, finché non
si svegliava.
La
vita era tornata quella che era sempre stata, lei aveva ripreso ad
andare
all’università,
Dominic aveva trovato un lavoro fuori città e aveva preso
una
stanza in affitto insieme ad altri
ragazzi, sua madre le aveva comprato uno
spray antiaggressione da portare sempre nella
borsa e Christian aveva
finalmente iniziato a darle ascolto. Di tanto in tanto bussava
ancora
alla
porta della sua camera, chiedendole se stesse bene. Lei sorrideva e
mentiva.
-Sì-
diceva. E diventava sempre più brava, tanto che, trascorsi i
giorni e le settimane,
iniziò
a crederci persino lei. Forse era davvero così. Stava bene.
Più
se lo ripeteva, più si convinceva. Smise di pensare ad Adam,
alla sua strana
avventura,
al sogno in cui veniva uccisa e tornò alla sua vecchia vita.
Fu
come se nulla fosse mai accaduto.
Ancora
quel maledetto
edificio bianco. Ancora quelle stanze vuote, quel corridoio cesellato
di porte,
quel senso di solitudine sempre più acuto. Ancora quel
sogno.
Ormai aveva guardato
su ogni piano, in ogni camera, percorso tutte le scale, guardato fuori
da ogni
finestra ed era tutto assolutamente spoglio.
Si era seduta a
terra, le gambe incrociate, la schiena contro il muro ed era rimasta
così a
lungo, rimuginando, finché il suono sordo di uno sparo non
la scosse. Si alzò,
precipitandosi
nella direzione da cui aveva sentito provenire il colpo, ma,
quando arrivò, nulla era cambiato
dall’ultima volta che aveva guardato, né vide
nessuno.
Qualsiasi cosa
accadesse dall’altra parte dello specchio ridotto in
frantumi, lei non poteva
più farne parte. Sospirò, tornando al posto dove
prima si era seduta e chiuse
gli occhi,
aspettando di riaprirli nella realtà.
Una scia di sangue,
lì dove lei non aveva scorto nulla, spiccava a prova di un
reato che lei
non
poteva scorgere, sulle mattonelle candide, incidendole.
Parcheggiò
nello spiazzo adiacente al mercato e scese dalla macchina. Era tardi,
le strade
accoglievano decine di automobili, i negozi aspettavano quei pochi
minuti
ancora prima di
poter chiudere, l’aria era gremita di profumi e il mercato
che
facevano tutte le mattine nella
piazza si era riempito di voci, bancarelle e
passanti. Attraversò il mercatino per tutta la sua
lunghezza, fino ad arrivare
alla bancarella di fiori dove il proprietario, un uomo dai
capelli
bianchi e
gli occhiali sottili, la riconobbe, le sorrise e le chiese cosa
volesse.
-Un
mazzo di fiori per mia madre- rispose contraccambiando il sorriso.
–È il suo
compleanno.
Vorrei una composizione con delle margherite e.. quelli cosa sono?
Girasoli?
Anche quelli
allora-
Pochi
minuti dopo pagò e tornò tra la gente che animava
il mercato, ripercorrendo la
strada
a ritroso e sgusciando tra i frettolosi e i distratti, cercando di
evitare urti e piedi vaganti. Di
tanto in tanto si fermava a qualche bancarella
per lanciare un’occhiata ai vestiti o ai libri e,
prima che potesse arrivare
alla macchina, una donna di mezz’età, con i
capelli grigi sciolti sulle
spalle,
una gonna scura lunga fino alle caviglie e un enorme sorriso che le
ingentiliva
il volto,
le si avvicinò, fermandola.
Tra
le mani teneva un cesto pieno di rose scarlatte, ne prese una e gliela
porse,
continuando
a sorridere.
-Manca
una rosa-
-Grazie,
ma non la voglio-
Ci
aveva messo sei mesi per dimenticare tutto ciò che aveva a
che fare con le
rose. Ma il suo
cuore, infido, incespicò, promemoria che non sarebbe potuto
tornare tutto esattamente come
era sempre stato; inoltre la donna insistette,
sorridendole.
-Un
dono- disse.
Soppesò
il gesto, contraccambiando il sorriso e accettò il regalo.
-Grazie-
le rispose, portandosi la rosa al viso per gustarne il profumo.
Alzò
di nuovo lo sguardo, ma la donna si era già allontanata. La
cercò tra la folla,
e,
quando la scorse, quella si voltò, sorridendole ancora.
Belle allentò la
presa, lasciando che
la rosa cadesse a terra, fece un passo avanti, trattenendo
il fiato, calpestò il fiore
abbandonato e la rincorse.
-Aspetta!-
urlò, cercando di seguirla tra la folla sempre
più fitta.
Urtò
alcuni passanti, si scusò più volte, si
sollevò sulle punte dei piedi, cercando
ancora
quel volto, che ormai era scomparso tra mille facce, ma alla fine si
fermò, sospirando. Era
sicura di quello che aveva visto. Quella donna era
Rosaline.
Guardandosi
intorno, si rese conto di averla seguita più in
là di quanto pensasse, così da
ritrovarsi in una strada che ricordava vagamente, davanti ad un negozio
che
recava l’insegna
“Il bello
dell’antiquariato”. Una spia luminosa si accese
nella sua mente, ricordando che
sua
madre le aveva parlato di quel negozio. Era lì che aveva
comprato lo
specchio per la camera
dei suoi fratelli. Uno specchio che poi si era rivelato
più speciale di quanto affermasse il suo
certificato di autenticità.
Consapevole che, per quanto assurdo potesse sembrare, Rosaline
l’aveva portata
in quel posto per un motivo, fece un profondo respiro ed
entrò.
L’ambiente
doveva essere piuttosto grande, ma era talmente ricolmo di oggetti che
c’era a
stento lo spazio per camminare. La luce era fioca, soffusa, donava
un’atmosfera
raccolta, forse
addirittura soffocante, ma caratteristica, come un film degli
anni ottanta. Nell’aprire la porta,
un campanello segnalò la sua presenza e una
voce di donna risuonò dall’altro lato del negozio.
-Arrivo
tra un secondo, dia pure uno sguardo in giro-
-Ehm..
d’accordo-
Fanciulli
e ragazzine le sorridevano attraverso volti di porcellana dai loro
angoli sui
comodini a
tre piedi o sui tavoli di legno placcato, osservandola a decine, una
coppia di carlini seduti
educatamente le apriva la via e vari tipi di quadri e
piccoli ritratti ricoprivano ogni centimetro
della carta da parati a fiori,
mentre fronzoli di ogni genere attiravano vagamente la sua
attenzione.
Avanzò
piano, guardando bene dove metteva i piedi e si chiese se avrebbe
dovuto
evitare quei
tappeti dai filamenti dorati e i rombi scuri e camminare nelle
sottili strisce di pavimento che
lasciavano libere.
Mentre
proseguiva a zig zag per evitare di toccare qualsiasi oggetto, un
quadro in particolare
la
spinse a fermarsi, attirandola con le rose rosse asfissiate da un
intrico di
rami e spine, dipinti su
uno sfondo totalmente nero. Si avvicinò, seguendo con
gli occhi ogni particolare e ne sfiorò la
superficie, ritrovandosi del colore
sulle dita e una scia scura che imbrattava l’opera, uno scippo
fluido che
intaccava la bellezza dell’immagine.
Oddio,
oddio, oddio, oddio! Cosa aveva combinato, doveva fare qualcosa,
doveva..
doveva
andarsene, scappare via?, no, doveva prendersi la
responsabilità, pagare
il danno, doveva..
L’indice
e il medio, che aveva posto nuovamente sulla sbavatura per cercare di
arginarla, erano
scomparsi oltre la tela.
Ma
porca.. non poteva succedere ancora!
Se
Rosaline si stava prendendo gioco di lei, l’avrebbe uccisa.
Beh, per modo di
dire.
Si
voltò, cercando con lo sguardo e con l’udito
qualche indizio che la
proprietaria stesse arrivando,
sentì i suoi passi avvicinarsi, spalancò gli
occhi verso la mano che non riusciva più a vedere.
Pensò
ad Adam, al colpo del
cacciatore che era rivolto a lui, al sogno dell’edificio
bianco, pensò che lui
doveva essere in pericolo, pensò che i suoi sogni non
mentivano mai e,
diversamente da come si
era ripromessa e da ciò che aveva creduto negli ultimi
mesi, attraversò il portale. Di nuovo.
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Capitolo 18 *** Tè o zuppa? ***
Tè o zuppa?
Cinque
mesi prima.
Camminava
da giorni, settimane forse. Non aveva dato peso al susseguirsi della
luce e
dell’oscurità, si fermava solo quando la
stanchezza gli impediva di proseguire
oltre, trovava un posto isolato, lontano dai villaggi, nei boschi che
attraversava, si copriva con il mantello, per la prima volta grato
della sua
natura animalesca che gli permetteva di non patire il freddo come una
persona
qualunque, e lì riposava. Non appena recuperava le forze,
riprendeva il viaggio.
Di tanto in tanto era stato rallentato anche dalla fame e dalla sete,
aveva
dovuto prendersi del tempo per cacciare, trovare un ruscello o una
fonte
d’acqua, non volendo avvicinarsi alle abitazioni. Tenere a
bada la bestia stava
diventando sempre più difficile, prendeva il sopravvento,
oscurando i suoi
occhi e la sua mente e trasformandolo in un essere fuori controllo.
Dopo
quello che gli parve un tempo interminabile, scorse la dimora del mago,
lontana
da occhi indiscreti, adiacente al ruscello che scendeva fino a valle e
che
aveva seguito per tutto l’ultimo tratto. Era una casa
modesta, edificata da
mani non molto esperte, tuttavia non poté evitare di
guardarsi intorno, in
cerca di possibili trucchi o pericoli, prima di avvicinarsi.
Prima
ancora che bussasse, un uomo canuto, dal volto scavato, gli
aprì la porta. Era
molto più basso di lui, dal fisico esile sotto i pantaloni
scuri e la camicia
bianca, gli occhi annaquati dall’età lo scrutarono
vispi per alcuni secondi, la
fronte corrugata, poi gli mostrò un enorme sorriso.
-Entra,
forza-
Adam,
che lo aveva scrutato a sua volta con gli occhi stretti, rimase fermo
dov’era, sulla
difensiva, guardando il vecchio. Che fosse cieco e non avesse visto il
suo
aspetto? Che fosse matto?
L’uomo
lo lasciò sulla soglia e gli voltò le spalle,
dirigendosi verso il focolare,
dove era stata posizionata una piccola pentola, la tolse dal fuoco e ne
versò
il contenuto in due tazze, prima di aggiungere delle erbe essiccate.
-Vuoi
del tè, giovanotto?- sollevò lo sguardo su di
lui, aspettando. –Beh, io l’ho
preparato, se vuoi, te lo porto lì-
Giovanotto? -Sono
qui per il vostro aiuto-
-Tutti
quelli che vengono qui vogliono chiedermi qualcosa, ma loro almeno
entrano in
casa e si siedono educatamente, prima di pormi le loro domande-
Gli
indicò la poltrona di fronte a quella su cui si era appena
seduto e sorrise
gentilmente, così Adam, guardandosi un’ultima
volta alle spalle, chiuse la
porta e si accomodò, evitando però la bevanda
scura.
-Non
siete cieco-
-Sei
venuto fin qui per chiedermi se sono cieco?-
-No..-
-Ma
ti chiedi perché non temo il tuo aspetto. Ecco, non ho visto
minacce in te e,
nel caso diventassi un problema, sono sicuro di poterti sopraffare
più
facilmente di quanto tu creda-
Fece
una smorfia. Non era la prima persona a dirgli una cosa simile.
Se
mai vedrò in voi
un mostro, allora vi temerò. Alla
fine, però, lei il mostro lo aveva visto.
Guardò
ancora il volto rugoso e le spalle delicate, le mani sottili che gli
porgevano
la tazza fumante.
-Si
parla meglio con le membra riscaldate-
Sorseggiò
il suo tè, il volto rilassato, gli occhi socchiusi.
-Sono
venuto a chiedere il vostro aiuto per una.. situazione molto importante-
Lo
indicò. –Si
tratta della maledizione che
ti ha trasformato? Non posso fare più nulla per quello-
-No,
non è per la maledizione. Un uomo mi ha parlato del vostro
potere, mi ha detto
che avete fermato la sua trasformazione, venne da voi molti anni fa-
-L’uomo
con la rosa sulla mano..-
-Sì,
quell’uomo mi ha detto che siete riuscito a fermare la
maledizione-
-Fermare,
non eliminare. Il mio potere è umano, legato al mio corpo
terreno, il potere
che ha scagliato la maledizione era divino, non potevo cancellarlo,
l’ho solo
contenuto, ne ho arginato le conseguenze, evitando che si trasformasse
ed ho
potuto farlo solo perché la sua trasformazione non si era
ancora ultimata.
Inoltre immagino che il tuo amico non ti abbia parlato delle
implicazioni del
suo gesto. Per impedire che l’incantesimo si compisse
appieno, ha dovuto
offrire qualcosa in cambio. Ha legato la sua vita alla fonte della
maledizione,
tutto ciò che essa subisce, subisce anche lui-
-Ma
se siete riuscito in questo, potrete di certo aiutare anche me e non mi
importano le conseguenze. Si tratta di qualcosa che non è
ancora accaduto-
-Interferire
con il futuro? Giovanotto, la tua mente è più
offuscata dalla bestia di quanto
pensassi. Con la materia si può giostrare, ma il tempo
è tutta un’altra
questione-
-Si
tratterebbe di evitare un evento-
-E
questo come lo chiami?-
Adam
strinse i pugni, cercando di calmare la furia che gli offuscava la
vista.
Il
mago lo osservò a lungo, in silenzio e sostenne il suo
sguardo.
-La
cosa che ti porti dentro ha più potere di quanto pensassi..
è sempre più
difficile mantenere il controllo, non è così? E
sarà sempre peggio se non trovi
il modo di spezzare questo legame-
Quel
modo lui l’aveva già trovato e aveva rovinato
tutto.
-Non
sono qui per questo. Si tratta di una persona e lei deve assolutamente
aiutarmi-
E
il suo sguardo, dapprima duro, si ammorbidì.
-Vi
prego-
Così,
il vecchio ascoltò con pazienza ed attenzione mentre il suo
ospite gli
raccontava chi fosse questa persona e quale fosse il problema.
-Quindi
stiamo parlando di qualcosa che è successo in un sogno?-
Annuì. –Ma
i suoi sogni si..-
-Si
si, ho capito, l’hai già ripetuto decine di volte.
E questa.. strega ti ha
detto che non puoi fare più nulla-
Annuì
ancora.
-Beh,
non ha tutti i torti. Finché interferisci con un sogno non
ci sono
ripercussioni e se, come dici, i suoi sogni si avverano, allora si
sarebbe avverato
ciò che lei aveva visto in sogno, tuttavia.. –
Si
massaggiò il mento, lo sguardo perso e si versò
altro tè.
-Se
ho ben capito non è che i suoi sogni si avverino, ma
semplicemente lei riesce a
vedere ciò che sta per accadere, di conseguenza giovanotto,
si potrebbero
invertire le carte in tavola, lasciando intatto il gioco-
-Che
cosa intendete?-
-Quanto
tieni a questa persona?-
Socchiuse
gli occhi per vedere oltre l’oscurità, ma tutto
ciò che riusciva a distinguere
erano le pareti nere, che si assottigliavano sempre di più e
un bagliore tenue,
troppo lontano perché le permettesse di vedere altro.
Soppesò il mazzo di fiori
che aveva ancora in mano, ormai rovinato dalla sua folle corsa dietro
la donna,
e si lasciò scappare un sospiro. L’aveva pagato
quasi venti euro. Inoltre, se
fosse scomparsa di nuovo, probabilmente sarebbe stata la volta buona
che a sua
madre venisse un infarto. Poi, c’era da considerare il sogno
che aveva fatto,
se si fosse avverato, lei sarebbe morta. Ancora, i suoi rapporti con
Adam
erano.. complicati, insomma, l’aveva rinchiusa, lei gli aveva
detto che era un
mostro, l’aveva salvata dai lupi assassini che altrimenti
l’avrebbero
utilizzata come cena e poi lei se n’era andata.
Gliel’aveva detto chiaramente,
no?
Non
posso... credevi
che fossi io?...
Tra
lui e il suo mondo, avrebbe scelto il suo mondo. Che poi avesse capito
di
amarlo subito dopo, quando l’aveva visto in pericolo, quello
era tutto un altro
discorso.
Infine,
c’era l’odio profondo, immenso e incontrollabile
che provava nei confronti di
Rosaline. L’aveva portata da Adam una volta e ora eccola di
nuovo lì,
attraverso un quadro.. un quadro maledizione, la stava prendendo in
giro? La
odiava, la odiava terribilmente.
Considerato
tutto, forse sarebbe semplicemente dovuta tornare a casa. Lei e il suo
mazzo di
fiori da venti euro.
Perfetto.
Doveva iniziare a pensare un po’ di più prima di
fare qualcosa.
Ormai,
però, era lì, tanto valeva cercare di capire cosa
stesse succedendo. In fondo,
se aveva accettato l’invito, se così si poteva
dire, di Rosaline, era solo
perché temeva per la vita di Adam. Perché quel
cacciatore, chiunque fosse, non
aveva puntato lei, ma Adam.
Lasciò
cadere i fiori rassegnata e si incamminò nel corridoio
malamente illuminato,
rendendosi conto che, più avanzava, più le pareti
si stringevano su di lei,
assottigliando sempre di più lo spazio, finché
non fu costretta a proseguire
con la schiena ricurva, poi gattoni, infine quasi strisciando,
tirandosi con le
braccia. Raggiunse il bagliore che aveva intravisto prima,
riconoscendolo come
l’unica via d’uscita. Si sporse con il busto oltre
lo stretto ovale, ma non
riusciva a vedere nulla al di là di esso. C’era
solo luce, proprio come prima
c’era stata solo l’oscurità. Si
passò una mano sul volto. Odiava davvero tanto
quella donna. Fece un profondo respiro, si spinse di più con
le gambe, chiuse
gli occhi, e si lasciò cadere.
La
caduta fu breve. Colpì il pavimento con la schiena e un
gemito di dolore le
fece aprire gli occhi. Si voltò prima sul lato, rendendosi
conto che il
pavimento in realtà era un terreno brullo segnato da radici
e, quando le fitte
alla schiena cessarono, si mise in piedi. Riconosceva quel posto, era
la
foresta della tenuta di Adam. Qualcosa, però, non tornava.
Insomma, quando se
n’era andata, la foresta non era completamente bruciata,
giusto? Cosa diavolo
era successo? Il terreno era cosparso di fuliggine, i rami dei pochi
arbusti
sopravvissuti erano spogli, mentre gli altri alberi erano orrendamente
mutilati. Doveva essere scoppiato un incendio. Soffermò lo
sguardo sul
castello, le vetrate in frantumi, le rampicanti bruciate, i muri
anneriti e,
ancora, la fontana distrutta, come se qualcuno l’avesse
colpita con un oggetto
pesante, l’acqua totalmente evaporata.
Era
tutto in rovina. Salì le scale, superò quello che
era rimasto della porta
d’ingresso e trattenne il fiato. Ogni cosa era andata
distrutta nell’incendio o
dai colpi rabbiosi di qualcuno. Sentì le lacrime offuscarle
la vista, mentre
valutava i danni di ogni camera, le tende, i mobili, tutto distrutto.
Il corrimano
di legno era stato incenerito, ma salì comunque le scale e
corse nella
biblioteca. Tutti i libri che aveva sfiorato rapita solo poco tempo
prima, la
poltrona su cui si sedeva.. Anche
della
sua stanza era rimasto ben poco, e così degli abiti
meravigliosi che aveva
indossato. Dovette allontanarsi, le lacrime che rischiavano di vincere
le sue
resistenze. Non poté andare oltre il secondo piano, le
macerie impedivano il
passaggio. Un lampo le attraversò la mente e si
affrettò fuori, verso le serre,
ma non ci fu bisogno di spingersi molto lontano. Poteva già
vedere le vetrate
in pezzi, i vasi di terracotta sparsi a terra, vuoti.
Ma
cos’era accaduto?
Non
sapendo cos’altro fare, si incamminò nella
direzione opposta al castello.
Doveva pur esserci qualcuno, no? Un villaggio, magari. Qualcuno a cui
chiedere
cosa fosse successo, un posto dove poter pensare a cosa fare.
Durante
tutto il cammino, continuò a chiedersi dove fossero Rebecca
e Paul, dove fosse
Adam e soprattutto se stesse bene.
Aveva
scorto le case quando il sole aveva iniziato a tramontare e, quando si
era
affacciata sulla strada sporca e deserta, era già buio e
dalle case provenivano
voci sommesse e luci tremolanti. Aveva bussato alla prima locanda che
aveva
incontrato e aveva chiesto ospitalità, nonostante la lunga
occhiata
inquisitrice della donna che le aveva aperto. Era robusta, spalle
larghe
seguivano il volto duro e squadrato, due occhi scuri, i capelli erano
legati
dietro la nuca, ma qualche ciocca ricadeva scompostamente sul viso e i
vestiti
erano lerci, rattoppati in più punti. La locandiera
l’aveva lasciata entrare,
offrendole un letto per la notte e un piatto caldo, o meglio, uno
strano
intruglio che doveva essere una specie di minestrone. In ogni caso, lei
si era
limitata a ringraziare e ingoiare senza soffermarsi troppo
sull’aspetto,
rispondendo con un sorriso al cipiglio burbero della donna. I due
uomini seduti
ad un tavolo poco distante dal suo si allontanarono poco dopo il suo
arrivo,
sparendo oltre le scale. Se gli abitanti di quel villaggio erano tutti
così,
dovevano essere tipi davvero strani, anche se probabilmente era lei a
sembrare
strana, considerato il modo in cui avevano scrutato i suoi vestiti, il
modo in
cui parlava, così lontano dal loro dialetto. Nonostante
ciò, dovevano essere
persone gentili, le avevano offerto aiuto senza chiedere troppe
spiegazioni.
Mentre
mangiava, il figlio della locandiera le si era avvicinato e si era
seduto di
fronte a lei, soppesandola con due grandi occhi marroni. Doveva avere
sette o
otto anni.
-Non
sei come i viandanti che ospitiamo di solito-
-Ah sì?-
-I
tuoi vestiti sono strani-
-Già,
ehm.. da dove vengo io sono molto comuni-
-Come
ti chiami?-
-Belle,
e tu come ti chiami?-
-Antoine,
ma tutti mi chiamano Chicco. Noi ti ospitiamo senza un pagamento per
stanotte,
ma domani te ne devi andare, lo sai?-
Sì,
davvero gentili. -Tua
madre me lo ha già
detto-
-Vieni
anche tu dal castello, vero? Lavoravi lì anche tu?-
-Dal
castello? Chi altro avete ospitato, Antoine?-
-Un
uomo, diceva di chiamarsi Paul, ma è morto durante la notte-
Morto?
Paul era morto? Soppresse un brivido.
–Non avete visto nessun altro?-
Il
bambino scosse il capo. –Lavoravi anche tu per la bestia, eh,
Belle? Tu.. tu
l’hai vista? Mamma non vuole che ne parli, dice che
sennò lui mi ucciderà-
-Lui
non ti ucciderà-
-Allora
tu l’hai visto davvero? Sai, la bestia ha distrutto il suo
stesso castello, ha
dato fuoco a tutto e ora non ha più nulla- si sporse verso
di lei con fare
cospiratorio, facendola sorridere. –Ora si aggira per i
villaggi, completamente
folle, in cerca di qualcuno da mangiare- sussurrò.
Che
sciocchezze. Scosse il capo, ma almeno sapeva che era ancora vivo.
Così come
Rebecca, dopotutto, il fuoco non poteva certo ucciderla, no? Ma, se
quello che
si vociferava era vero e cioè che era stato lui a
distruggere tutto, ad
appiccare l’incendio, che fosse vero anche che era diventato
completamente
folle?
Doveva
trovarlo.
-Antoine,
l’uomo che avete aiutato, Paul, ha detto qualcosa?-
-Solo
che la bestia era impazzita- scrollò le spalle.
–Ah, e che aveva ospitato una donna arrivata
attraverso uno specchio e
scomparsa allo stesso modo, oltre uno specchio. Una strega, secondo mia
madre. Ha
detto che a volte indossava abiti strani, che non aveva mai visto qui e
parlava
anche in modo strano. Inoltre, l’aveva sentita parlare con la
bestia, gli
chiedeva come avesse fatto ad entrare nei
suoi sogni. Mia madre pensa che sia una strega della peggior specie,
questo
dice, che riesce a controllarti la mente, per questo dopo che se
n’è andata, la
bestia è impazzita, ma molti qui dicono che è
solo una pazza che deve essere
rinchiusa-
-Chicco!-
il bambino si voltò verso la madre e corse da lei.
Belle
abbassò gli occhi, sentendo comunque il peso dello sguardo
della donna su di
sé, deglutì a fatica e allontanò la
ciotola ancora mezza piena.
..indossava
abiti
strani.. parlava anche in modo strano.. i tuoi vestiti sono strani..
In
che razza di guaio si era cacciata? Doveva andarsene
immediatamente. Doveva andare via di lì. Si
alzò, ma una fitta lancinante alle tempie la
bloccò, costringendola ad
appoggiarsi con forza al tavolo. Le girava la testa, si sentiva
confusa, vedeva
ogni cosa ruotare vorticosamente intorno a lei, sfrecciando troppo
velocemente
davanti ai suoi occhi, cercò di mettere a fuoco la zuppa, la
locandiera, il suo
sguardo duro, le braccia strette attorno al bambino.
Traballò. Doveva
andarsene.. subito..
..i
tuoi vestiti sono
strani..
Cadde
in ginocchio, si prese la testa tra le mani e chiuse gli occhi,
cercando di
afferrare pensieri sempre più sfuggenti, sempre
più confusi. Doveva..
andarsene..
Lei..
doveva..
La
zuppa, qualcosa nella zuppa, l’ultimo pensiero lucido fu che
le avevano messo
qualcosa in quella brodaglia dall’aspetto orrendo.
..doveva..
Perse i sensi.
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Capitolo 19 *** L'incubo peggiore ***
l'incubo peggiore
Alzò
lo sguardo sulla notte, solo per una frazione di secondo, prima di
trasformarsi
in un poeta. Se avesse potuto cacciare le stelle come si cacciano gli
animali, o
come lui cacciava i derelitti, avrebbe guadagnato sicuramente di
più. Sbuffò,
ma non si mosse dalla colonna contro cui aveva appoggiato la schiena,
era lì
già da molti minuti. Il vento aveva smesso di soffiare,
anche se mancava ancora
molto all’alba. Sentì il rumore delle ruote sulla
strada e ruotò appena il
volto, aspettando che la carrozza si fermasse, la raggiunse in poche
falcate,
guardandosi ancora una volta intorno per assicurarsi che non ci fosse
nessuno.
Salì sulla vettura, si sedette di fronte all’uomo
e si tolse il cappello.
-Hai
novità per me?-
Annuì. –Sapete
la storia dell’uomo maledetto? L’uomo
che abitava nella tenuta distrutta dall’incendio e che si
diceva fosse stato
trasformato in una belva orrenda-
-È
solo una leggenda, quel castello è abbandonato da anni e gli
stolti lo evitano
per paura-
–Se
non fosse solo una leggenda? Ieri è arrivato un uomo al
villaggio, l’unico
sopravvissuto dell’incendio, diceva di lavorare per la
bestia, parlava anche di
una ragazza, l’aveva sentita chiedere alla bestia come avesse
fatto ad entrare
nei suoi sogni. Diceva che aveva attraversato uno specchio. Una strega
secondo
alcuni-
-O
una povera anima in pena bisognosa di aiuto-
Nella
penombra della carrozza non riusciva a vedere il volto del suo
interlocutore,
ma ormai ne conosceva ogni gesto e sapeva che doveva aver rivolto gli
occhi
fuori, nella notte, mentre si stropicciava distrattamente le mani.
-Una
ragazza convinta di avere una qualche specie di potere dei sogni..
potrebbe
essermi utile nella mia ricerca-
Rimase
in silenzio ancora alcuni attimi.
-Portamela.
Quando me l’avrai consegnata, riceverai il tuo compenso-
-E
la bestia?-
-Fanne
ciò che vuoi, ma prima, portami la ragazza-
Annuì,
si mise il cappello e aprì la portiera, ma una stretta salda
lo fermò prima che
scendesse dalla vettura.
-Gaston,
che non si ripeta l’errore dell’ultima volta-
Lo
lasciò e, non appena richiuse lo sportello, la carrozza
ripartì, lasciandolo
nuovamente solo. Un ghigno gli illuminò sinistro il volto.
Quella sarebbe stata
la caccia migliore della sua vita.
Sei
mesi dopo.
-Chicco,
va’ di sopra-
Il
tono di sua madre non ammetteva repliche, come sempre.
Sgattaiolò per le scale,
fermandosi sull’ultimo gradino, avvicinando il viso alle
sbarre della ringhiera.
Sua madre aprì la porta e, subito dopo, tre uomini varcarono
la soglia. Il primo
indossava un cappello dalla tesa larga, si accostò a sua
madre e le porse una
piccola sacca di pelle, facendole un cenno col capo, gli altri due
avevano le
spalle più grosse e il volto scoperto, si avvicinarono alla
ragazza stesa a
terra, sollevandola. Uscirono senza il minimo fiato e sua madre
richiuse la
porta alle loro spalle, poi aprì il sacchetto e lo
rovesciò sulla mano libera.
Contò le monete, le lasciò cadere di nuovo nella
sacca e alzò lo sguardo su di
lui.
Qualcosa
continuava a infastidirla, distogliendola
dall’oscurità in cui si era smarrita
da tempo, colpiva i suoi occhi, insistente, riportandola lentamente e
controvoglia alla realtà, dove si rese conto che altro non
era che un fascio di
luce accecante che si fermava sul suo viso. Dovette aspettare alcuni
secondi
che la vista si abituasse, prima di mettere a fuoco la stanza dove si
trovava,
il materasso duro sotto la schiena, il letto vuoto accanto al suo, la
finestra
decorata da sbarre di ferro, la porta massiccia, le pareti bianche..
Si
mise seduta e si prese la testa tra le mani, cercando di fermare lo
stordimento
che d’ ora in avanti avrebbe associato sempre ad una
disgustosa zuppa di
verdure. Quando il mondo smise di girare e la vista si fece
più chiara, si alzò
sui piedi scalzi, si scostò i capelli dagli occhi e si
accostò al vetro per
cercare di capire dove fosse. Oltre le sbarre vide un prato ben curato
illuminato da un sole che rischiarava indisturbato il cielo, una decina
di
persone, coperte solo da un leggero camicie bianco e uno scialle,
ingobbite,
dallo sguardo vacuo o dall’espressione rassegnata camminavano
pigramente,
alcuni sorretti da donne il cui volto era coperto da enormi copricapi,
bianchi anch’essi. Suore, no.. infermiere. Si strinse le
braccia al corpo,
rabbrividendo. Quelle mura trattenevano un gelo peggiore di quello
invernale e
di certo nessun calore aveva mai riscaldato la stanza.
Guardò il camicie che
indossava anche lei, lungo fino alle ginocchia, semplice, pulito, ma
logoro,
come se fosse stato usato e lavato più e più
volte. Sentì le forze mancarle, mentre
capiva che lì, come nei suoi sogni, tutto
quell’eccesso di candore non aveva
niente a che vedere con la purezza. Si gettò contro la
porta, sbattendovi
contro i pugni con forza, urlando fino a ferirsi la gola.
Non
doveva essere lì, non era il suo posto, non poteva essere
rinchiusa.
Colpì
la porta fino a sentire dolore nei polsi, nelle mani, nelle dita, e
oltre,
continuò finché non sentì dei passi
affrettati e delle voci concitate
dall’altra parte, gridò fino a stordire anche i
propri timpani.
Non
poteva, non poteva essere vero, non doveva trovarsi lì, lei
non doveva essere
in un posto simile.
Era
il peggiore dei suoi incubi, la più crudele delle sue paure.
Essere creduta
matta.
La
porta si aprì e due uomini molto più alti e
possenti di lei la presero per le
braccia, bloccandola, mentre lei si dimenava, calciava, scuoteva la
testa, resa
cieca dall’odio verso Rosaline, verso chiunque, persino verso
se stessa. Non si
rese conto di piangere, non sentì le lacrime bruciare sul
suo volto, non si
accorse neanche dei suoi disperati tentativi di richiesta di essere
lasciata andare.
Una donna dalla candida aureola le si avvicinò, il viso
pacato. Ma non era
altro che l’angelo della morte.
-Sshhh-
continuava a ripetere, in un macabra cantilena, mentre di soppiatto le
infilzava nel braccio la sua spada di fuoco, annebbiandole la mente,
rendendo
vano ogni suo attacco, demolendo tutte le sue difese.
Venne
invasa da quel rilassante calore che non avrebbe mai abitato le mura
che la
circondavano, chiuse gli occhi e fu di nuovo il nulla.
Quello
era il suo peggiore incubo.
E
se i suoi incubi si avveravano sempre, alla fine, anche questo aveva
preso
vita.
Guardò
i due portantini sistemare la ragazza, la nuova paziente, nel letto
della cella
d’isolamento e un’infermiera legarle i polsi e le
caviglie alle sbarre del
letto.
-Cos’è
successo?- chiese alla donna, quando richiuse la porta della cella.
-Ha
reagito male al risveglio, dottore, abbiamo dovuto sedarla-
-Capisco.
Quando si sveglia, chiamatemi-
-Sì,
dottore-
Distolse
lo sguardo dalla finestra da cui si sentivano provenire le grida e
sorrise
appena all’infermiera, sapendo fin troppo bene che i
ficcanaso non erano graditi
in quel posto.
Doveva
essere una nuova arrivata, reagivano quasi tutti così. I
medici lo chiamavano
delirio, ma avrebbe dato di tutto per vedere come quegli aguzzini
avrebbero
reagito nelle stesse condizioni. E pensare che sua figlia pagava fior
di
quattrini per tenerlo in una prigione dalle lenzuola sterilizzate. Per
il suo
bene, diceva, affinché si prendessero cura di lui nel modo
migliore. Bazzecole,
lui non era pazzo e se mai fosse uscito da lì, avrebbe tolto
a quella figlia
degenere fino all’ultimo penny della sua eredità.
La famiglia, brutta bestia.
L’infermiera
gli si avvicinò.
-Allora,
signor Lefebvre, come ha dormito stanotte?-
-Oh,
signorina, benissimo- mostrò un ampio sorriso, prima di
farle l’occhiolino - ma
le ho ripetute mille volte che può chiamarmi Maurice-
|
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Capitolo 20 *** Risveglio ***
Era
sveglia già da un po’, una delle infermiere le
aveva portato un vassoio con
acqua, pane e una scodella di brodo, ma lei non aveva toccato nulla.
L’aveva
slegata, anche se era ancora in quella umida cella piccola e senza
finestre, di
tanto in tanto un uomo dagli occhi chiari apriva lo spioncino
rettangolare
della porta e le lanciava uno sguardo, forse per assicurarsi che fosse
ancora
lì. Di certo non poteva scappare. Si era stesa sul letto, lo
sguardo puntato
ben oltre la parete davanti a sé, perso in un luogo dove non
avrebbe dovuto
pensare a nulla, ma quel piccolo angolo di pace che si era creata non
durò a
lungo.
La
porta si aprì, l’infermiera e l’uomo
dagli occhi chiari la scortarono in
un’altra stanza, grande, luminosa, ben arredata, con una
libreria ricolma di tomi
e una scrivania grande oltre la quale sedeva un uomo anziano, canuto,
ben
rasato e dal fisico magro. Indossava un completo elegante, scuro e
sopra di
esso spiccava il camicie bianco.
Le
sorrise, vedendola entrare, ma quel ghigno servì solo a
metterla a disagio. Si
strusciò le mani sulle braccia scoperte, nonostante non
facesse freddo, si
portò i capelli, che ormai dovevano sembrare solo un rovo
incasinato, dietro
l’orecchio e cercò di deglutire, ma un groppo le
bloccava la gola.
-Siediti-
Le
indicò la sedia di fronte alla scrivania e lei
obbedì silenziosa, sentendo i
passi dei suoi aguzzini che si allontanavano oltre la porta chiusa.
-Io
sono il Dottor Delacroix, gestisco questo posto. Sai dirmi il tuo nome?-
Qualsiasi
cosa le avessero iniettato, doveva essere un farmaco potente,
perché la nebbia
non aveva ancora smesso di offuscarle la mente, non riusciva a pensare
lucidamente.
Una
vocina le disse che sarebbe stato meglio mentire, ma nella confusione
di
immagini e suoni, non poté trovare neanche un nome.
-Belle Duval-
-Sai
dove ti trovi e perché sei qui?-
Sono
nel mio peggiore incubo. –In
un
manicomio-
-Una
casa di cura- la corresse subito, forzando ancora di più il
sorriso.
-Questo
è.. reale? Se fosse solo un sogno..-
-Sei
qui perché eri un pericolo per te stessa e per gli altri,
Belle, vagavi in
stato confusionale, capisci cosa intendo? È reale-
In
stato confusionale..? Ce l’avevano portata loro in stato
confusionale!
-Io..
non è così..-
-Perché
credi di trovarti in un sogno?-
-Perché
se non è così..- il suo sguardo vagò
sui tanti titoli della libreria, anatomia
umana.. delirio e le cure..
nuovi
metodi per la cura della schizofrenia..
-Questo
è un manicomio..-
Lo
aveva già detto?
-Una
casa di cura- la corresse ancora, alzandosi e appoggiandosi alla
scrivania,
guardandola con attenzione.
-Credi
di poter controllare i sogni?-
Oh,
se solo avesse potuto controllarli.. la
voce di quell’uomo non le piaceva, così pacata,
sinuosa, così serpentina.
Doveva essere per forza velenosa.
Le
tornò in mente la brodaglia della locanda, le pareti bianche
della stanza in
cui si era svegliata, l’infermiera che le faceva
l’iniezione. Chiuse gli occhi,
lasciando che tutte le sue forze scivolassero via senza opporre
resistenza, accogliendo
il vuoto che ne rimase come unica ancora di salvezza. Guardò
gli occhi piccoli
e luccicanti del medico e non trovò assolutamente nulla da
dire, nulla che volesse dire.
Lui
continuò a porle delle domande, a chiamarla, ma lei rimaneva
in tranquillo
silenzio consolatorio. Alla fine l’uomo dagli occhi chiari
tornò a prenderla,
ma stavolta la scortò nella stanza dove si era svegliata o,
almeno, era
identica a quella, ma ugualmente vuota. Niente compagna di stanza per
lei.
L’infermiera chiuse la porta alle sue spalle.
Si
rannicchiò sul letto, le ginocchia strette al petto, la
schiena incastrata
nell’angolo del muro, avvolse le braccia attorno alle gambe e
fissò nuovamente
lo sguardo lontano da lì, in quel mondo tutto suo che non
aveva mai raggiunto
veramente, fatto di illusioni e pace, tuttavia, questa volta era una
pace che
mascherava unicamente il vuoto. E lei vi si perse, grata di averlo
finalmente
trovato, perché, se avesse voluto sopravvivere, non
c’era altro modo.
Il
dottor Delacroix continuò a parlare con lei, giorno dopo
giorno, ma lei continuò
a non rispondere e, poco a poco, il suo sguardo si fece sempre
più vacuo, il
suo corpo sempre più provato dalle privazioni, nonostante
qualcuno ai margini
della sua visuale, continuasse a lasciarle un vassoio di cibo nella
stanza, la
sua pelle sempre più pallida, forse perché
evitava il sole rintanandosi nel suo
angolo oscuro finché non calava la notte.
Poi,
dopo un tempo che a stento aveva sentito scorrere,
l’infermiera l’aiutò a
scendere delle scale fino a che non sentì il calore del
giorno sul viso e la
luce accecante negli occhi.
Sbatté
le palpebre e vide un prato ben curato, animato da molte anime assenti
come
lei.
Chiuse
gli occhi, ancora e ancora, ma quella visione non sparì.
Dov’era il suo angolo
buio? Dov’era il suo angolo privato di vuoto e silenzio?
Il
suo sguardo si posò sugli uomini e le donne smunte e dallo
sguardo perso, anche
lei appariva così?, sugli angeli candidi della morte nei
loro abiti bianchi,
sul palazzo maestoso alle sue spalle.
L’infermiera
la fece sedere su una sedia e le disse che si sarebbe allontanata
alcuni
istanti. In fondo, anche se aveva lasciato quel vuoto così
confortante, poteva
continuare a restare nel suo silenzio. Almeno così non
l’avrebbero imbottita di
sedativi.
Un
uomo dalle guance paffute e il viso sorridente le si sedette vicino.
Non lo
degnò di uno sguardo. Ma lui continuava a fissarla
sorridendo, con i capelli
grigi scompigliati e la posa rilassata.
-Ehilà,
ragazzina, finalmente ti hanno fatta uscire, eh? Dì un
po’, come ti chiami?-
Finse
di ignorarlo, ma lui non la lasciò comunque in pace.
-Io
sono Maurice, paziente già da.. allora, vediamo.. due anni,
ma, ehi, non hanno
sperimentato ancora nessuna nuova cura su di me. Certo, qualche volta
mi hanno
rimpinzato di farmaci per ‘alleviare la tensione’-
sbuffò –Che sciocchezze.
Metà della gente che sta qui non era altro che povera gente,
persone che
avevano tutte le rotelle apposto e ora guardale- indicò con
il mento alcuni
pazienti che camminavano con lo sguardo incantato rivolto al cielo e la
bocca spalancata
in un sorriso scomposto.
-Il
dottor Delacroix sperimenta sui suoi pazienti un nuovo metodo di cura
all’avanguardia, ma ancora in via sperimentale. Quando li
portano via, sono
normali, quando li rivedi.. e più passa il tempo,
più peggiorano. Chissà quanto
ci metterà a decidere che è il mio turno. Ma tu
sei sanissima, proprio come me,
dico bene?-
La
scrutò, trafiggendola con uno sguardo intenso che non aveva
più nulla di
giocoso.
-Mi
chiamo Belle- sussurrò.
-È
un piacere, Belle. I nuovi arrivati hanno sempre delle
difficoltà, ma io ti
consiglio di lasciar perdere il mutismo e collaborare. Meno loro ti
credono
matta, più tempo avrai prima di..- lasciò cadere
il discorso, ma i suoi occhi
erano puntati nuovamente sui pazienti che le aveva indicato poco prima.
Si
voltò nuovamente verso di lei e le diede una leggera
gomitata, riportandola
fuori dai suoi pensieri.
-Molti
di noi si creano un mondo tutto loro appena arrivati, per sfuggire a
tutto
questo, ma ciò non vuol dire che tu sia davvero matta-
E,
solo per un attimo, trovò la forza di sorridere.
Si
impegnava davvero. Ogni giorno, durante l’ormai abituale
seduta con il dottor
Delacroix, si sforzava di rispondere placidamente a tutte le domande
che le
porgeva, cercava, beh, cercava di non sembrare pazza, come le aveva
consigliato
Maurice. Aveva ripreso a mangiare, non si era più fatta
prendere da crisi di
panico o di mutismo, sorrideva alle infermiere, anche se ciò
le costava uno
sforzo non indifferente e chiacchierava spesso con Maurice, durante
l’ora d’aria
o nel pomeriggio, quando li lasciavano liberi nella stanza principale,
dove
ognuno poteva sedersi ai tavoli rotondi, leggere dei libri portati
dalla
famiglia o, nella maggior parte dei casi, fissare inebetiti il vuoto.
C’erano
un paio di tipi che la facevano rabbrividire tutte le volte, Maurice le
aveva
sussurrato che a volte anche i criminali venivano portati lì
e che quei due
uomini erano stati condannati per omicidio appena l’anno
prima. Così, evitava
di incrociare il loro sguardo o, ancora meglio, la loro strada. Passava
la
maggior parte del tempo libero con Maurice e Simon, un uomo che doveva
aver
passato i cinquanta già da un po’, con una
calvizie evidente e le mani troppo
piccole per un uomo, uno dei pochi che aveva ancora tutte le rotelle
apposto.
A
volte aveva sorpreso alcuni dei portantini fissarla in maniera alquanto
insistente e si era sentita vulnerabile, indifesa, consapevole che
quelli,
almeno nel suo mondo, non erano stati tempi d’oro per le
donne, soprattutto in
un posto dove o eri matto davvero, o ti ci facevano diventare. In ogni
caso
nessuno di loro aveva protezione, lì.
Ma
lei abbassava lo sguardo, ignorava il tremolio alle mani, ingoiava il
groppo
che rischiava di soffocarla e pregava con tutto il cuore che riuscisse
a tornare
a casa illesa.
Insomma,
lei si impegnava davvero, ma quei dannatissimi sogni dovevano sempre
incasinarle la vita, smascherarla, puntarle il dito contro, mostrando a
tutti
quanto davvero fosse fuori di testa. Si svegliava spesso in piena
notte, urlando
in preda a orribili incubi, e le infermiere accorrevano per sedarla. Il
pomeriggio aveva sempre una terribile emicrania che le dilaniava la
testa.
Maurice
le diede una leggera gomitata sul braccio, ma lei non tolse le mani dal
cranio
né aprì gli occhi.
-Ehilà,
bella addormentata, non escluderci così-
Si
massaggiò le tempie, sospirando.
–Sono
sicura che la mia testa scoppierà da un momento
all’altro-
-Non
ti accadrà nulla, devi solo smetterla di farli arrabbiare-
-Non
è colpa mia, gli incubi mi perseguitano. Se solo non
sognassi più..-
Aprì
gli occhi e vide che Simon se ne era andato. Perfetto, non
l’aveva neanche
sentito allontanarsi. Maurice si voltò verso di lei.
-Dì
un po’, ragazzina, è vero che hai un qualche..
potere dei sogni? Gira voce che
è per questo che sei diventata il nuovo giocattolino del
dottor Braise*-
-Braise?-
-Sì,
è il nuovo nome che gli hanno appioppato, perché
sai, dopo le terapie.. a volte
riesci a sentire l’odore di bruciato.. l’odore dei
tuoi neuroni che vanno in
fumo, almeno così dicono-
Lo
fissò basita. Era orribile.
-Allora?
È vero?-
Sospirò
ancora. –Non
ho nessun potere, è solo
che, alcune volte.. i miei sogni si avverano-
-Chiarisci
alcune volte-
Scrollò
le spalle. –Nove
volte su dieci-
-Però,
ragazzina, chi l’avrebbe mai detto- rise di gusto. –Magari
sei davvero una strega-
Lo
fulminò con lo sguardo, ma non poté evitare di
sorridere a sua volta.
Continuava
a girare
su se stessa, ad avanzare in una direzione, tornare indietro, cercare
ovunque,
ma tutto intorno a lei non esisteva altro che buio. Il respiro divenne
irregolare, mentre il panico le attanagliava il petto e la gola si
chiudeva,
impedendole di respirare.
Poi, proprio davanti
ai suoi piedi, si disegnò una scia luminosa che, tuttavia,
in tutta
quell’oscurità non l’accecava, invece,
la invitava, rassicurante, le mostrava
dolcemente la via e lei la percorse. Fece alcuni passi, forse
camminò a lungo,
a lei sembrò un tempo infinito, ma quella strada non
conduceva a nient’altro
che a nulla. Si fermò, si voltò indietro, voleva
tornare sui suoi passi, ma,
appena oltre i suoi piedi, la strada scompariva, tornando ad essere
notte e
cecità, cancellata da una mano accurata, letale,
impassibile, sicura, eliminata
lentamente, ma sempre più indietro. E lei non poteva
più percorrerla, non
poteva più tornare indietro. E allora dimenticava
perché era lì, come era
arrivata in quell’unico punto luminoso sotto i suoi piedi.
Quando anche quello
si spegneva, lei ripiombava nel buio, nella paura,
nell’inconsapevolezza del
perché fosse lì. La gola si chiudeva, ancora, il
petto dilaniato dal panico,
ancora, il fiato mozzo, ancora.
E lei urlava.
*Braise
in francese significa brace
Angolo
autrice: Salve a tutti, come al solito pubblico con un
immenso ritardo (non odiatemi), spero che il nuovo capitolo vi piaccia.
La scelta dell'immagine non è casuale, diciamo che questa
è stata l'immagine che ha messo in moto tutta la storia, che
ha generato l'idea a cui poi non ho potuto evitare di dare vita. Fatemi
sapere cosa ne pensate, buona lettura.
|
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Capitolo 21 *** Sconfitta ***
21- Sconfitta
Ehm..
sì, beh.. siamo a Giugno.
Vedo già pietre e pomodori volarmi addosso, per cui chiedo
subito perdono per questa lunga, lunga assenza, purtroppo è
un
periodo incasinato, capitemi >.<
Come segno di pace, vi porto il nuovo capitolo; appena
potrò,
risponderò alle vostre recensioni, che sono sempre
strafelice di
leggere.
*E mentre arretra, lieta di aver evitato pietre e pomodori, augura:
Buona lettura*
Per
giorni, cercò un modo per andare nel mondo di Belle, per
raggiungerla, per
evitare che il suo sogno si avverasse. Rimase dal mago
finché lo ritenne
necessario, consultando i suoi libri, le sue conoscenze e, mentre lui
cercava
un modo per trovare lei, qualcun altro aveva trovato lui.
Era
un uomo dai corti capelli neri, gli occhi altrettanto scuri, il mento
sporgente
e le spalle larghe, aveva con sé un fucile, quando aveva
tentato di sparargli o
di catturarlo, non l’aveva capito. Aveva sentito che qualcuno
lo seguiva,
osservandolo, nel bosco e, da predatore che era, aveva trasformato il
cacciatore
in preda, sorprendendolo alle spalle, aveva ringhiato, servendosi di
quei
secondi di paura e smarrimento per stordirlo con un colpo ben assestato
alla
testa.
Quando
l’uomo aveva riaperto gli occhi, si era ritrovato in una
piccola stanza
accogliente riscaldata dal fuoco, legato saldamente alla sedia su cui
era
seduto.
-Non
voglio ostaggi in casa mia, giovanotto- disse una voce che
collegò al vecchio
seduto accanto al camino.
-Non
è un ostaggio- rispose la seconda voce.
–Voleva uccidermi. Prima scoprirò il
motivo, poi lo lascerò andare.. o
lo ucciderò, dipende-
La
bestia gli si avvicinò e lui sollevò il mento,
fronteggiandolo. Eccolo. Il
mostro. La sua preda migliore. Quando fosse stato di nuovo libero, ne
avrebbe
fatto il suo trofeo più maestoso. Lo aveva preso alla
sprovvista, questo doveva
ammetterlo, con quell’aspetto più simile ad una
belva di quanto non sembrasse
da lontano, ma nessuna preda gli era mai sfuggita. Né umana
né animale.
-Il
tuo “amico” si è svegliato-
-Chi
sei?- tuonò la bestia, ignorando il vecchio.
-Sono
Gaston Legrand- rispose, sollevando il mento.
-Mi
seguivi. Perché?-
Sorrise,
nonostante la testa pulsasse ancora per il colpo ricevuto.
Di
quella conversazione non ricordò molto dopo quel momento.
Giorno dopo giorno,
ricordava solo che ad ogni domanda a cui non rispondeva, la bestia lo
colpiva
sempre più forte, la follia sempre più dilagante
nei suoi occhi. Non mangiò.
Non gli diede da bere se non le poche volte in cui rispose alle sue
domande.
Ti
ha mandato
qualcuno? No
Ce ne sono altri con
te? Sì
Da quanto sei sulle
mie tracce? Due mesi.
Il
secondo giorno, gli aveva gettato ai piedi i corpi senza vita dei suoi
uomini.
-Giovanotto!
Chi pulirà tutto quel sangue?- aveva sbraitato il vecchio,
ma la bestia non
aveva distolto lo sguardo dal suo.
Dopo
quella che gli parve una settimana, anche se poteva essere un mese o
semplicemente
due giorni, sfiancato dalla sete e dalla fame, all’ennesima
tortura di
quell’animale, cedette.
-Se
ti dirò tutto, mi lascerai andare?-
-Tu
inizia a parlare-
Fece
un profondo respiro, cercando di inamidare le labbra secche e rotte con
quel
poco di saliva che produceva e alzò lo sguardo su di lui.
-In
paese parlavano: la leggenda della bestia è vera, il
castello è stato distrutto
dal mostro e lui si aggira per i villaggi. Gli uomini del mio villaggio
avevano
soccorso un uomo scampato alle fiamme, disse di aver lavorato per la
bestia, e
che da quando la strega se n’era andata lui era diventato
completamente folle-
-Sono
stati gli uomini del villaggio a mandarti da me, per uccidermi?-
Sorrise
appena. –No, ti ho cercato per mio unico volere. Saresti
stato il mio trofeo
più straordinario. Signore e signori, la renna,
l’orso, il lupo e.. la bestia-
La
prospettiva che la sua testa mozzata venisse eretta su una parete come
dimostrazione della forza di un uomo non parve scuoterlo.
-L’uomo
che vi ha detto ciò, dov’è ora?-
-È
morto la notte stessa-
Per
alcuni minuti, la bestia lo scrutò, soppesando
ciò che gli aveva rivelato, poi
si adagiò sulla sedia che sosteneva a stento il suo peso e
il suo volto sembrò
rilassarsi.
-È
tutto?-
-Mi
lascerai andare?-
-Se
questo è quanto hai da dirmi, no, ti ucciderò-
-C’è
dell’altro- esclamò subito, provocandogli un
ghigno.
-Riguardo
la strega-
-La strega? Arrivò al mio
castello come
una mendicante e sono convinto che sia scampata all’incendio
senza difficoltà;
inoltre, non vedo perché dovrebbe importarmi di lei-
-Scampata
all’incendio? L’uomo disse che la ragazza era
passata attraverso uno specchio prima
dell’incendio-
Fu
allora che comprese. Strega. Non parlava della donna che aveva accolto
al
castello tempo prima, ma di Belle.
Raddrizzò
le spalle, avvicinandosi a lui, gli occhi ridotti a due fessure, i
pugni
stretti.
-Continua-
gli intimò.
-L’uomo
disse che la ragazza era arrivata attraverso uno specchio e allo stesso
modo
era scomparsa, che credeva di avere dei poteri, di poter entrare nei
sogni
degli altri e che con la sua magia aveva scatenato la pazzia della
bestia-
Gaston
esitò un istante, soppesandolo e Adam capì che
nulla di buono sarebbe seguito.
-Ho
riferito quello che sapevo al dottor Delacroix, che gestisce la casa di
cura,
sapevo che sarebbe stato interessato al caso della strega-
Esitò
ancora e Adam ringhiò, scuotendolo.
-Non
so altro, giuro!-
-Menti-
sibilò, mentre una lama fendeva l’aria,
conficcandosi senza sforzo nella carne
dell’uomo. Gaston urlò inorridito, sorpreso,
fissandosi la gamba sinistra. La
fronte già imperlata di sudore si corrugò nello
sforzo di non lasciarsi
sfuggire altre grida.
-Io
ho solo detto al dottore quello che sapevo, non so cosa abbia fatto di
quelle
informazioni-
Adam
strinse saldamente il manico del pugnale, tenendo lo sguardo fisso sul
volto
sofferente, ruotò appena la lama, lentamente, godendosi i
gemiti di dolore del
suo interlocutore.
-Ne
sei sicuro?-
Ruotò
ancora e Gaston si lasciò sfuggire un altro grido strozzato.
Puntò gli occhi
iniettati di sangue su di lui.
-Delacroix
mi incaricò di portarla da lui, ho pagato la locandiera
perché mettesse delle foglie
di laudano* nel suo piatto e l’ho consegnata al dottore. Non
l’ho più vista-
Com’era
possibile che fosse tornata in quel mondo, se lo specchio era rotto?
Che avesse
trovato un altro passaggio? E, soprattutto, perché
l’aveva fatto?
-Quindi
ora dov’è?-
-Io
l’ho lasciata alla casa di cura-
Il
manicomio.
Si
costrinse a restare lucido. Solo così poté
organizzare tutto, obbligare Gaston
a garantire per lui con uno dei medici che lavoravano al manicomio,
facendolo
passare come dottor Martin, chiedere al mago se conoscesse un modo per
farlo
tornare umano il tempo necessario per fingersi un dottore e portare
Belle fuori
da quel posto maledetto.
Il
vecchio non rispose subito, rifletté a lungo, prima di
sospirare, alzando lo
sguardo su di lui.
-Un
modo ci sarebbe- disse -ma,
una volta
che ti tramuterai di nuovo in bestia, non sarai più altro
che questo. Penserai,
agirai e proverai unicamente come se non fossi mai stato un uomo, sarai
solo..
un animale come tanti-
-Quanto
tempo avrò a disposizione?-
-Una
settimana-
-Sarà
sufficiente-
Fece
per allontanarsi, ma l’uomo gli stinse il braccio,
fermandolo.
-Adam,
te lo sconsiglio vivamente- era la
prima volta che lo chiamava col suo nome. Il suo sguardo era serio e
determinato come non lo aveva mai visto. –Perderai te stesso,
per sempre-
-Posso
perdere me stesso, ma non posso perdere lei. Non di nuovo-
Il
mago lasciò la presa e annuì, senza aggiungere
altro.
Sotto
minaccia di morte, Gaston aveva portato a termine il suo compito,
convincendo
uno dei medici della casa di cura ad accogliere il nuovo dottore, con
la possibilità di
mandarlo via, se non si fosse rivelato all’altezza, ma dopo
era scomparso nel
nulla.
Da
parte sua, Adam non aveva perso tempo a cercarlo, ora che non gli
serviva più.
Era
tornato alle macerie del castello e lì era rimasto
finché, guardando il suo
riflesso, aveva visto ciò che non vedeva da tempo,
ciò che pensava perduto per
sempre.
Recuperare
l’aspetto umano si era rivelato più complicato e
doloroso di quanto avesse
immaginato. Si era procurato un lungo taglio al centro del petto e,
infilatavi
la mano, aveva afferrato il proprio cuore, lo aveva tirato fuori con
uno
strattone e, la mano tremante e insanguinata, lo aveva riposto in uno
scrigno
che il mago aveva ricoperto di rune a lui sconosciute. Per due giorni
rimase in
uno stato di semi incoscienza, preda della febbre e di un dolore sordo
che gli
assediava tutto il corpo. Quando recuperò le forze e la
coscienza di sé, non
trovò più le zampe o gli occhi felini sul suo
corpo, ma solo le fattezze di un
uomo.
Conscio
di aver già perso due giorni e irritato per il disaggio che
provava in quella
pelle ormai sconosciuta, si affrettò a raggiungere il
villaggio, comprò dei
vestiti nuovi e pagò la locandiera per poter dormire in una
delle stanze della
locanda. Alla vista della generosa somma di denaro che
lasciò cadere sul
bancone, la donna cambiò aspetto e lo guidò con
ogni premura nella sua stanza,
preparandogli un bagno caldo e una cena che non prevedesse zuppa
soporifera.
Adam
represse l’istinto omicida nei confronti della donna che
aveva firmato la
condanna di Belle, consapevole che il suo piano sarebbe andato a buon
fine solo
se fosse stato in forze e se fosse sembrato davvero un dottore arrivato
da
poco.
Ad
accoglierlo fu un giovane medico dal camice bianco che mascherava
malamente il fisico
magro e il volto pallido.
Lo
guidò lungo i corridoi dell’edificio, indicandogli
brevemente le varie camere e
i nomi dei pazienti di cui si sarebbe occupato, infine lo condusse dal
dottor
Delacroix, che gli strinse rapidamente la mano e lo salutò
con un cenno distratto
del capo, prima di mandar via sia lui che la sua guida.
Era
ancora molto presto, i pazienti aspettavano nelle loro camere il giro
di visite
e il giovane medico gli indicò nuovamente il corridoio dove
si trovavano i
pazienti di cui si sarebbe occupato, prima di allontanarsi verso il
lato
opposto dell’edificio.
Un’infermiera
gli si accostò, affermando che l’avrebbe assistito
nel giro di visite.
Dopo
una manciata di camere e di uomini ancora assonnati o mentalmente
assenti, si
avviò alla penultima camera e si bloccò, lo
sguardo fermo sul nome scritto
sulla porta.
Belle
Duval.
Socchiuse
appena gli occhi, cercando di mettere a fuoco i corpi da cui
provenivano le
voci che l’avevano svegliata o almeno di capire che ora
fosse, ma, come ogni
mattina, non riuscì neanche ad alzare la testa e, incapace
di tutto fuorché di
ascoltare, rinunciò all’impresa.
-Perché
è in questo
stato?- aveva
chiesto una delle due voci, quella più roca, la voce di un
uomo.
Le
abbiamo
somministrato dei sedativi.. per farla dormire..
Questa,
invece, era una donna, sicuramente una delle infermiere.
..prima
che si
rimetta..?
..dottore.. tra poche
ore.. benissimo..
E
tornò nel suo mondo buio e inconsistente.
Si
svegliò che era ormai tarda mattinata e
l’infermiera la condusse nella sala
comune, dove gli altri pazienti stavano aspettando il pranzo seduti ai
tavoli o
camminando lungo il corridoio. Si sedette accanto alla finestra,
determinata a
tenere lo sguardo fisso sulla pioggia primaverile che precipitava
violenta e
costante contro i vetri, ripulendo le anime o riempiendole di
inquietudini.
Maurice le si sedette accanto, le spalle rivolte alla finestra e le
mani
incrociate comodamente sulla pancia rotonda.
-Ci
siamo alzati col piede sbagliato stamattina, eh?-
Lei
sospirò, ma lui parve non notare il suo malumore, o
semplicemente lo ignorò.
-Hai
visto il nuovo tirapiedi di Braise? È arrivato stamattina,
un giovanotto non
molto sveglio, secondo me, se è venuto in questo posto
abbandonato da Dio-
-Dio
non esiste-
-Mmm-
la soppesò serio. –giornata
brutta più
del solito?-
-È
solo che.. se Dio esistesse, perché dovrebbe accanirsi su
una persona?-
-Non
è Dio, ragazzina, ma quei pazzi squilibrati che si credono
dio-
-No,
non sto parlando di questo posto, né del fatto che
continuino a sedarmi tutte
le notti senza preoccuparsi minimamente della mia salute, ma..-
posò uno
sguardo rapido sul dottore, sui capelli bruni, gli occhi profondi che
la
scrutavano a sua volta, e tornò con uno scatto a fissare la
pioggia, infine
sospirò e chiuse gli occhi.
-..continuo
a vedere qualcuno che è solo nella mia testa.. -
-Parli
dei tuoi sogni?-
-Parlo
della realtà, Maurice! Parlo della stramaledetta
realtà in cui niente sembra
più avere senso.. io..-
-Ci
trattano come pazzi, ragazzina, ma non lo siamo, non lasciarti
convincere da
loro, non sei pazza, sei solo più speciale di noi-
Sorrise
triste. –Da dove vengo io, si dice che una persona
è speciale solo per non dire
che è strana-
-Oh,
sei la persona più strana che io abbia mai incontrato,
questo è certo, ma la
normalità non mi è mai piaciuta-
E
questa volta il suo sorriso fu sincero.
Insistette
per fare anche il turno di notte, nonostante tutto sembrasse
tranquillo, con le
poche infermiere rimaste che di tanto in tanto controllavano i pazienti
più
instabili e il silenzio colorato di dolore che pesava
sull’edificio. E poi quel
grido che lacerava la notte, agghiacciante, sofferente, senza tregua.
L’infermiera
corse nella stessa direzione in cui era accorso lui e aprì
la porta della
stanza, superando quella soglia sulla quale lui era rimasto
pietrificato dallo
shock e dalla stessa sofferenza che pervadeva una voce che gli era
troppo cara.
Belle,
il volto una maschera di paura e la pelle imperlata di sudore, si
dimenava con
furia, urlando, gli occhi ancora chiusi dal sogno.
-Come
le dicevo, dottore, tutte le notti la stessa storia-
Un’altra
infermiera giunse per aiutare la prima, provarono a tenerla ferma, ma
lei si
dimenò ancora, colpendo entrambe, divincolandosi da qualcosa
che loro non
potevano vedere. Quando riuscirono a bloccarla, la prima infermiera
premette
con forza l’ago di una siringa contro l’interno del
gomito, rilasciando il
sedativo.
Belle,
ora calma e immobile, il respiro regolare, socchiuse solo per un attimo
gli
occhi arrossati, fissandoli nei suoi.
-Adam..-
sussurrò, ma le sue palpebre erano già chiuse.
Strinse
i pugni, uscendo dalla stanza senza aspettare le infermiere,
né proferire
parola. L’avrebbe portata fuori da lì
l’indomani stesso.
Pioveva
a dirotto anche quel giorno. Un pianto scrosciante e rabbioso,
precipitava
impetuoso, lanciato dal vento, schiantandosi contro vetrate e arbusti.
Il
pomeriggio stava volgendo al termine e così la sua pazienza,
mentre Belle
continuava a tenere lo sguardo spento fisso sulla pioggia che oscurava
qualsiasi visuale, il volto stanco e smunto, le ginocchia strette al
petto in
una presa debole.
Fece
un cenno all’infermiera, aspettando che si avvicinasse.
-Il
dottor Delacroix mi ha incaricato di portare la paziente Duval da lui-
L’infermiera
annuì, accingendosi a sollevare Belle dal suo angolo e
guidandola fino da lui.
Strinse
delicatamente la presa sul suo braccio, conducendola lungo il corridoio
che
portava allo studio del dottore, riportando alla mente il tragitto che
li
avrebbe condotti alle scale e poi fuori dall’edificio.
-Dottor Martin- si sentì chiamare da una voce
bassa e decisa, che lo costrinse a fermarsi.
Delacroix
gli si accostò insieme a un altro medico e uno dei
portantini.
-L’infermiera
mi ha riferito che stava già portando la paziente nel mio
studio, anche se, ad
essere sinceri, non ricordavo di averlo chiesto a lei. Ma non importa,
la
ringrazio dottore, ora ce ne occupiamo noi-
Il
portantino strinse la presa sull’altro braccio, mentre Belle
rabbrividiva.
La
sentì tremare, posare lo sguardo su Delacroix, poi sul
medico che lo affiancava
e sospirare leggermente e si sentì impotente, mentre era
costretto a lasciare
la presa, a guardarla allontanarsi, a rimanere immobile, ad aspettare
ancora.
Un
uomo, un paziente, raggiunse il corridoio con poche falcate, la fronte
corrugata in un’espressione preoccupata.
-Belle-
la chiamò a voce troppo bassa perché potessero
sentirlo, ma lei si voltò
comunque, gli occhi sbarrati su pupille dilatate e li guardò
entrambi per un
interminabile, straziante istante.
Il
paziente, Maurice Lefebvre se non ricordava male, sospirò
pesantemente,
scrollando il capo e tornando nella sala comune con gli altri. Adam
tornò a
guardare il corridoio ormai vuoto, uno strano presentimento che gli
lambiva il
petto, perché quell’uomo, Maurice, gli era
sembrato che sapesse cosa stava per
succedere, gli era sembrato.. sconfitto.
*Il
laudano è narcotico.
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Capitolo 22 *** Marchio ***
In
futuro, solo poche immagini sarebbero rimaste impresse nella sua mente
come il marchio su una bestia. Sempre le stesse avrebbero popolato i
suoi incubi, come
ricordi
lontani. Scalini di pietra, sporchi, logorati, imbanditi di fratture,
l’ansia opprimente che le
chiudeva la gola, soffocandola, provocandole un
potente conato di vomito. La penombra gelida, priva di pace, spezzata
da una
sola luce in un antro distante dalle scale.
Sotterraneo, questo aveva pensato
in un primo momento, ma con molta probabilità si
sbagliava e, volendo essere
sinceri, non si era soffermata a lungo a capire dove fosse,
piuttosto perché.
Forse era solo un altro piano dell’edificio, ricavato
così in profondità che nessun suono, anima o
respiro, sarebbe mai risalito.
Il
lettino già sistemato, al centro di quella camera infernale,
i macchinari
palpitanti che lo circondavano a pochi metri di distanza,
l’infermiera che
attendeva pacata, inespressiva, che si avvicinò non appena
vide gli ospiti, che
aiutava il giovane medico e il gigante a tenerla ferma, stenderla su
quel
lettino candido, rigido, spoglio, che li aiutava a bloccarle polsi,
caviglie e
spalle con cinghie di cuoio. E invano si dimenava, invano urlava,
provava a
liberarsi da una morsa disumana, implorava, invano.
Fin
da bambina la sua più grande paura erano stati i suoi sogni.
Su lenzuola
pulite, scoprì che c’era una paura ancor
più grande e lacrime acide di quella
paura le bruciavano il volto. La
voce che aveva odiato sin dalla prima sillaba che aveva ascoltato, gli
elettrodi che il giovane dottore posizionò con delicatezza
sulle tempie,
sussurrandole che dopo sarebbe stata meglio, l’apribocca di
gomma che
l’infermiera le costrinse ad accettare, molto meno
delicatamente.
Alla
fine, pregò. Pregò qualsiasi dio esistente, se
qualcuno esisteva, di non
abbandonarla a quel destino, e a quella preghiera sussurrata con tutta
l’anima si
aggrappò, finché il dolore non la costrinse ad
abbandonare la presa,
squassandole il corpo intero.
Ancora
cosciente, non riuscì a ritrovare quella invocazione
disperata per avvinghiarcisi
nuovamente.
…
somministrare un
secondo trattamento... voltaggio più alto...
Oh,
quella voce. Quella stramaledettissima voce odiosa.
Se
un dio esisteva, non l’avrebbe salvata, no, avrebbe fatto
marcire lui
all’inferno per l’eternità, anche solo
per quella seconda scarica.
Ma,
di tutto ciò che accadde, in futuro, lei conservò
solo poche immagini.
Scalini
di pietra sporchi e rovinati, l’ansia talmente opprimente da
provocarle un
conato di vomito, l’immobilità, il dolore. Un
atroce dolore in tutto il corpo.
E
sì, si ritrovò a pensare molto tempo dopo,
l’odore di bruciato lo sentiva.
Quell’odore
avrebbe popolato i suoi peggiori incubi, quel dolore sarebbe stato la
sua paura
più grande.
-Perché non si
sveglia?-
-Si sveglierà-
-Ma perché non si è
ancora svegliata?-
-Si sveglierà,
vedrai-
Ma
questa, più che una rassicurazione, sembrava una speranza.
La
prima cosa che percepì fu il proprio respiro regolare.
Inspirava, espirava. Poi
sentì un lieve torpore abbandonarla, lentamente,
così che potesse seguire il
dolore che lo sostituì lungo ogni muscolo e su quello
successivo. Ancora, l’udito:
iniziò a sentire i rumori prodotti intorno a lei, i
sussurri, il fruscio delle
lenzuola sotto le dita che iniziavano a muoversi, una porta aperta e
subito
richiusa senza garbo.
Infine,
la vista. Sollevò le palpebre, abituò gli occhi
alla luce tenue, inspirò, posò
lo sguardo sui due uomini che la scrutavano, in attesa, mise a fuoco e
urlò.
Arretrò
con uno scatto, raggomitolandosi contro la testiera del letto, le
braccia tese
in avanti a farsi scudo contro i due estranei.
-Chi
siete?- strillò, gli occhi sbarrati e il respiro rapido.
Quello
più giovane fece un passo verso di lei, chiamandola per nome
con dolcezza,
nonostante la voce roca.
-Come
conosci il mio nome? Do.. dove sono?-
L’altro,
più avanti negli anni e con qualche centimetro di girovita
più del necessario, sospirò,
abbandonandosi pesantemente contro lo schienale della sedia su cui
stava
seduto. –Ti
avevo avvisato che poteva
accadere-
Il
più giovane chiamò ancora il suo nome, ora
più allarmato, avanzando di un altro
passo.
Lei
scattò in piedi, liberandosi delle coperte e precipitandosi
alla porta, la
spalancò, corse scalza sul legno del pavimento,
arrivò all’ingresso, si
precipitò fuori. E si fermò.
Sbalordita,
fu tentata di sorridere. Quanto avrebbe amato una visione del genere,
se solo
avesse ricordato come ci era arrivata. La luce che filtrava tra
migliaia di
foglie verdi, appollaiate su rami sottili, accarezzate dal vento, la
terra che
le solleticava i piedi nudi, miglia e miglia colorate solo di arbusti e
fronde.
-Belle-
si voltò a quel sussurro, fissando lo sguardo in quello
colmo di apprensione
del giovane. –Cos’è
l’ultima cosa che
ricordi?-
-Ero
a casa.. mia madre.. lei aveva appena comprato uno specchio-
-Così..
tu eri un paziente del manicomio, come me-
Maurice
annuì, sorridente. Osservandola, seduta con le gambe
incrociate e i capelli
disordinati, si chiese se fosse stato davvero un male ciò
che era accaduto.
Conosceva Belle da poco, ma nei suoi occhi c’era sempre stato
quel vortice
caotico di tristezza e ineluttabilità, mentre ora gli
sembrava così serena.
Adam
gli aveva raccontato del patto e della strega, dei sogni in cui si era
finto
Leon, del fratello che era tornato a prenderla e poi
quell’ultimo sogno, più
per il bisogno di rivelare tutto a qualcuno che per il desiderio di
metterlo al
corrente dell’intera vicenda, ma lui aveva ascoltato ogni
parola, pazientando
durante i silenzi, in attesa che riprendesse a parlare. E aveva inteso
più di
quello che Adam lasciava trapelare dalle parole: sperava con tutto il
cuore che
lei recuperasse la memoria, che si ricordasse di lui,
per questo lo aveva avvisato ripetutamente, mettendolo in
guardia sulla possibilità che lei non conservasse alcun
ricordo, com’era
accaduto a molti dei pazienti di Delacroix.
Le
era rimasto accanto, giorno e notte, vegliando su di lei, aveva donato
la sua
vita, riducendola a sette miseri giorni per poterla portare via da quel
posto,
aveva viaggiato per settimane in cerca di un aiuto, convinto che,
altrimenti,
lei sarebbe morta.
Teneva
a lei, più di quanto potesse un uomo e più di
quanto una bestia possa
dimostrare, ma, nonostante questo, lui sperava ciò che per
Belle era la cosa
migliore.
Nonostante
questo, sperava che Belle non recuperasse mai più i suoi
ricordi.
Adam
sarebbe diventato una bestia nel corpo e nella mente, ma Belle poteva
ancora
tenersi stretta la serenità che ora, solo ora da settimane,
scorgeva sul suo
viso.
-E
quell’uomo.. Adam.. mi ha salvata.. dopo avermi tenuta
prigioniera?- rise
appena, scuotendo il capo.
-Non
so se sia più assurdo quello che mi racconti o che io ti
stia a sentire-
Doveva,
però, sapere la verità. Non avrebbe ricordato
Adam, ma avrebbe ricordato il suo
gesto.
-Perché
mi ha salvata?-
-Perché
ti ama-
Belle
voltò il viso, seguendo con lo sguardo i movimenti di Adam,
nella stanza
accanto.
-E
io lo amavo?-
-Non
lo so, ragazzina, ma oramai importa davvero? Ora che il suo tempo sta
per
scadere?-
-Che
intendi?-
-Gli
restano solo due giorni. Tornerà ad essere una bestia e
questa volta sarà per
sempre-
Continuò
ad indugiare con lo sguardo sulla figura dell’uomo, senza in
realtà pensare a
nulla, semplicemente studiandone il volto, soffermandosi sui movimenti,
sui
gesti.
Le
aveva salvato la vita e non ricordava nulla di lui.
Una
bestia..
No,
neppure quegli occhi talmente carichi
di un sentimento che non riusciva a definire, neppure quelli
risvegliavano la
sua memoria.
Allora
perché il solo saperlo lì, il solo poterlo
vedere, poter essere sicura che lui
fosse a pochi metri da lei le donava una pace calda e rincuorante?
-Credo
di doverti ringraziare-
Si
voltò, incrociando un accenno di sorriso e tornò
a guardare davanti a sé.
-Per
avermi aiutata- continuò, sedendosi sul gradino del misero
portico di legno
antistante la casa.
Annuì
leggermente, senza posare gli occhi su di lei, che abbassò i
propri,
torturandosi le mani.
-Maurice..
– prese fiato –Maurice mi ha detto che sai dei miei
sogni-
Questa
volta sollevò lo sguardo, trovando il suo, agitato e
preoccupato.
-Te
l’ho detto io?-
Non
aspettò una risposta. –È
che.. non l’ho
mai detto a nessuno.. non l’avevo
mai
detto a nessuno e.. –
-Non
me l’hai detto-
Non
a me. L’hai detto
a Leon, non a me.
-Come?-
-L’ho
scoperto-
-E
non credi che io sia pazza?-
-No,
non lo credo-
Scrutò
attentamente i suoi occhi, cercandovi, forse, proprio quei ricordi che
lei non
poteva più trovare.
-Perché
mi hai aiutata, Adam?-
-Perché
non potevo fare altrimenti-
Tornò
a dirigere lo sguardo davanti a sé, senza aggiungere altro e
lei fece lo
stesso, lasciando che il silenzio si propagasse quieto per i minuti che
seguirono.
-Mi
dispiace- disse d’un tratto, attanagliata davvero da quel
sentimento.
-Per
cosa?-
-Perché
non mi ricordo di te-
Correva
a perdifiato,
guardandosi continuamente alle spalle, guardava
l’oscurità e quella correva
come lei, più veloce di lei, la incalzava e lei fuggiva,
fuggiva, seguendo
l’unico sentiero luminoso che vedeva.
L’oscurità non doveva raggiungerla, lei
non voleva che l’oscurità la inghiottisse. E poi,
improvvisamente, stava
cercando qualcuno, qualcuno che neanche conosceva.
-Leon!- chiamava a
gran voce, fin quasi a sgolarsi. –Leon!-
Ma l’uomo che aveva
davanti non aveva volto e lei disperava.
-Non riesco a
vederti- diceva, la voce rotta, ma l’uomo rimaneva immobile,
impassibile,
spento.
-Non riesco a
vederti- ripeté in un sussurro, cercando di riprendere il
fiato perso durante
la corsa. –Non
riesco a vederti-
E, ancora, correva,
con i muscoli urlanti, fitte dolorose al fianco, i polmoni brucianti, i
passi
rimbombanti nella testa, inspiegabilmente inseguita
dall’oscurità in una caccia
senza fine.
Si
svegliò nel cuore della notte, sorpreso di essersi
addormentato. All’alba
sarebbe partito, voleva allontanarsi il più possibile da
Belle prima di
trasformarsi in una belva priva di coscienza e non voleva trascorrere
quelle
ultime ore dormendo, ma il sonno doveva aver avuto la meglio. Strinse
gli
occhi, abituandosi al buio della stanza e il suo sguardo corse subito
al letto dove
riposava Belle, trovandolo però vuoto.
Si
alzò, cercandola nella modesta casa che avevano scelto come
rifugio temporaneo,
prima di uscire fuori. La trovò là, in piedi a
qualche metro di distanza dal
portico, sotto la fitta pioggia primaverile, il capo rivolto in alto e
le
braccia strette attorno al corpo, come riparo dal freddo della notte.
-Belle-
la chiamò piano, quando le fu vicino.
La
vestaglia da notte impregnata d’acqua le aderiva al corpo e i
riccioli scuri si
erano appesantiti sulle spalle e attorno al viso.
Abbassò
il capo e sbatté le palpebre più volte, cercando
di vedere oltre la pioggia.
Perché
era lì? Da quanto tempo se ne stava sotto l’acqua?
-Cosa
stai facendo?-
-Ho
fatto un sogno orribile- disse -Ti
cercavo, ma non riuscivo a vederti-
-Cercavi
me?-
Scosse
il capo, scrollando i capelli impregnati di pioggia.
–No, un uomo di nome Leon-
Adam
trattenne il fiato, irrigidendosi.
–Era
uno di quei sogni?-
Scosse
di nuovo la testa, abbattuta.
Represse
un singhiozzo e strinse ancora di più le braccia attorno al
corpo.
Adam
fece un altro passo verso di lei, osservandola corrucciato.
-Stai
piangendo?-
-No!-
disse subito, concitata, pulendosi con gesti frenetici le guance che
subito si
coprirono nuovamente di pioggia e lacrime.
Le
scostò le mani dal volto, cercando di capire il motivo del
suo stato d’animo,
nonostante lei evitasse il suo sguardo.
-Perché
piangi?-
-Perché
è una sensazione così brutta- sussurrò
così a bassa voce che quasi credette di
esserselo immaginato.
-Quale
sensazione?-
-Io..-
sollevò gli occhi e la mano sul suo volto. Esitò,
prima di poggiare le dita
sulla sua pelle, la fronte corrugata, seguì il profilo della
fronte, del naso,
delle guance, come già aveva fatto in sogno.
–La
tua voce.. io so di averla già sentita, i tuoi occhi mi sono
così familiari, ma
non riesco a ricordarmi di te.. è come sentire una canzone e
sapere di
conoscerla, ma non riuscire a ricordarne il titolo e io mi sforzo e
continuo a
pensare, a cercare di ricordare, ma.. è inutile-
-Una
bestia? Nel
senso di un animale?- aveva chiesto a Maurice, quel giorno.
-Nel senso di una
bestia senza ragione né anima- le aveva risposto lui.
Poche
ore. Avrebbe voluto che recuperasse la memoria, avrebbe voluto darle
tempo per
riacquistare i ricordi, aiutandola a ricordare, ma
non aveva tempo.
Poche
ore. Forse non avrebbe ricordato mai più e lui non aveva
abbastanza tempo.
Gli
serviva dannatamente, il tempo, e lui non ne aveva più.
Le
afferrò il polso. Fermò la sua mano.
Lui
sarebbe tornato ad essere una bestia e lei sarebbe tornata dalla sua
famiglia,
alla sua vita.
E
allora, forse, sarebbe stato meglio che non ricordasse nulla.
Fece
un passo indietro, lasciando la presa.
Aveva
la possibilità di cancellare tutto. Ogni errore, ogni parola
detta con rabbia,
ogni inganno, ogni segreto passato.
Guardò
quegli occhi spalancati, l’ espressione stupita.
Gli
era stata concessa un’ ulteriore possibilità. Per
salvarla.
Arretrò
ancora.
Per
salvarla da lui.
-Non
sforzarti più di ricordare-
E
la sua voce era dura, fredda.
-Ma..-
-Non
riesci a ricordare perché ti farebbe male-
Gli
faceva terribilmente male. Mollare la presa, pronunciare quelle parole,
lasciarla
andare. Di nuovo. Per sempre.
-Non
ricordi nulla perché hai sperato così
ardentemente di dimenticare tutto che,
appena ha potuto, la tua mente ha cancellato ogni cosa. Non ricordi
nulla
perché non erano altro che ricordi di un mostro che ti ha
fatto soffrire,
ricordi di giorni infernali, di una persona che ti ha strappato via
dalla tua
famiglia, che ha minacciato tuo fratello, che ha minacciato te, rinchiudendoti nelle segrete. Non
ricordi nulla perché non vuoi ricordare-
Era
questo il motivo, no? Dopotutto, per quale ragione avrebbe dovuto voler
recuperare tutti quei tristi ricordi?
Perché
non voleva ricordare?
-E
allora smettila di provarci, smetti di cercare di ricordare qualcosa,
qualsiasi
cosa e torna a casa-
Là,
forse, sarai
felice.
Ma
lei rimaneva immobile, continuava a scrutarlo, per nulla scossa dalle
sue
parole.
Ancora
una volta, si era dichiarato un mostro e, ancora una volta, lei non lo
scorgeva.
Tuttavia
ora, resa insicura dall’oblio nella sua mente, tentennava,
esitava, incerta su
cosa pensare, se credergli.
-Maurice..-
-Maurice
mente! Sei scappata via da me, prima di ritrovarti di nuovo qui, non te
ne
chiedi il motivo? Volevi fuggire, andare il più possibile
lontano da me-
-No,
io..-
Lei
cosa? Adam non sembrava un mostro, ma poteva esserne sicura? Nel suo
sogno
stava scappando.. che la sua memoria stesse riaffiorando e la stesse
mettendo
in guardia da lui?
Ma
allora perché la voleva allontanare? Perché
appariva così abbattuto, così
sconfitto?
Sospirò,
abbassando il capo e massaggiandosi la fronte.
-Torna
a dormire, Belle, ma dammi retta, appena ne hai l’ occasione,
torna a casa-
Ma
lei restava immobile, continuava a guardarlo, continuava a non
credergli.
E
pensare che le aveva detto solo la verità nuda e cruda.
Ma
lui non aveva tempo.
-Vattene!-
urlò.
Lei
sobbalzò, spalancando gli occhi.
E
lei poteva ancora tornare al punto di partenza, come se nulla fosse mai
successo.
-Vattene!-
urlò ancora.
E
lei scappò in casa.
Tra
poche ore, d’altronde, neanche lui avrebbe più
ricordato nulla di lei.
Angolo
autrice: *evita disinvoltamente di far notare il laaargo
ritardo con cui
ormai aggiorna
e afferma*: una svolta inaspettata. Aggiungo un'unica cosa: E
ora?
Un grazie di cuore a tutti i carissimi lettori che seguono la storia di
Belle.
|
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Capitolo 23 *** Presto. ***
23. Presto
L’aveva
sentito andar via. Aveva trascorso il resto della notte immobile, gli
occhi
stretti nella speranza di riprendere sonno, ma la sua mente continuava
a
lavorare e l’udito le riportava i passi dell’uomo,
sempre più distanti, lievi,
finché era tornato il silenzio. Al mattino Adam non era
ancora rientrato, al
suo posto un uomo bizzarro si era presentato alla porta. Era anziano, i
capelli
bianchi spettinati lo rendevano ancora più sbarazzino di
quanto non facessero i
vestiti larghi che indossava o l’enorme sorriso, sprovvisto
di un paio di
denti, che aveva mostrato al suo ingresso. Aveva un fisico minuto, i
polsi
piccoli e le gambe magre, ma i capelli non erano per nulla radi e la
pelle, per
quanto ricoperta di rughe, era ancora rosea.
Maurice
lo guardò per alcuni istanti, gli occhi sbarrati per
cacciare il sonno e il
corpo rilassato.
-Sì?-
domandò e l’uomo non attese oltre,
entrò in casa e poggiò la sua minuscola
borsa a terra, accanto alla porta.
-Sono
un amico di Adam-
-Oh-
Maurice sembrò scrutarlo un momento, prima di stringere gli
occhi. –Lei
è l’uomo di cui mi ha parlato- lo
soppesò un istante ancora, prima di scuotere la testa e
tornare sui suoi passi,
brontolando.
-Una
strega va bene, ma due.. guarda un po’ Maurice se non ti
cacci sempre nei guai-
Belle
fece un passo verso il vecchio, seguendo i suoi movimenti.
-Mi
scusi.. cosa.. lei chi è?-
-Sono
un mago naturalmente-
-Un..
? Cos..?-
Senza
aggiungere altro, iniziò a rovistare tra le poche stoviglie,
la schiena curva.
Di tanto in tanto sbuffava.
-E..
ehm, perché è venuto qui?-
-Ho
visto che avevate bisogno di aiuto, cara- rispose pacato, come se fosse
l’
ovvietà del giorno.
-Oh
finalmente!- si sollevò, stringendo nella mano un pentolino
non molto capiente
e le sorrise.
-Un
the?-
Aveva
iniziato a fare caldo e lei avrebbe preferito di gran lunga
un’aranciata, ma
dubitava che sarebbe comparsa a breve in quel posto.
-Mmm..
d’accordo-
Maurice
li aveva raggiunti in tempo per vedersi consegnare una tazza fumante.
-Sapevo
che quel giovanotto avrebbe combinato un pasticcio,- esordì
il vecchio,
sedendosi senza troppe cerimonia -ma
bevete il the, su, rilassa le membra-
Ne
aveva preso un sorso, iniziando a volgere la mente altrove, ma il mago
aveva
subito richiamato la sua attenzione.
-Belle,
giusto?- le aveva porto la mano, stringendo la sua in una presa troppo
salda
per una persona della sua età e continuando a sorriderle
allegro.
Aveva
esitato, ritirando lentamente la mano e lanciando uno sguardo furtivo a
Maurice.
-Sì-
Il
vecchio l’aveva scrutata ancora per qualche istante, prima di
volgere la sua
attenzione ad un Maurice particolarmente eloquente, permettendole di
rilassare
i muscoli.
Il
sole si alzava velocemente e lei approfittò di un momento di
silenzio per
rivolgersi all’amico.
-Dov’è
Adam?-
Maurice
si irrigidì, sospirando e abbassando le spalle, prima di
voltarsi verso di lei.
-Se
n’è andato stamattina, lui non.. non
tornerà, Belle-
Lei
annuì, alzandosi e posando la sua tazza, ora vuota.
Quando
vide lo sguardo indagatore dell’altro, si sforzò
di sorridere.
-Non
mi interessa cosa gli succederà, davvero-
Già,
non le interessava. Che scappasse via, che diventasse una bestia, non
le
importava.
-Attenta
a ciò che dici, ragazzina, le bugie non le sai dire-
Il
nuovo arrivato non la guardava, ma lei lo vide ruotare leggermente la
propria
tazza, scrutandone il fondo.
-Qui
è diverso dal posto da cui vieni, non è
così?-
Si
voltò verso l’uomo alla sua destra, che le
sorrideva mesto, e tornò a guardare
davanti a sé, scrutando l’oscurità
della vegetazione in cerca di una risposta
che la luce del giorno non riusciva a darle.
-Sì-
gli rispose, sospirando. Era un tipo strano, quel mago.
Da
giorni il silenzio dei suoi sogni la tormentava, frustrandola
più degli insetti
che le pungevano la pelle o del modo incondizionato in cui era
costretta ad
affidarsi a Maurice in quella terra che non ricordava. Le aveva
raccontato
tutto ciò che Adam aveva riferito a lui su
quell’uomo e non aveva ancora
digerito il fatto che Adam avesse spiattellato il segreto dei suoi
sogni ad un estraneo.
Inoltre, il silenzio non le permetteva di dormire, costringendola a
rimuginare
più di quanto avrebbe voluto.
Così
aveva ipotizzato varie alternative.
Uno:
l’avevano rapita, drogata, magari le avevano dato anche una
botta in testa e
ora stavano utilizzando l’amnesia a loro vantaggio, per farle
chissà cosa.
Due:
l’assurda storia della bestia, dell’ ex-moglie
incazzata e di lei che tornava
indietro per salvare il bestione antipatico era vera. Nella sua testa.
In
sintesi, era diventata pazza.
Tre:
la storia della bestia, dell’ex-moglie incazzata e di lei che
tornava indietro
per salvare il bestione antipatico era vera. Per davvero. E lei era
pazza
comunque. Oh, andiamo, perché diavolo avrebbe voluto mettere
a rischio la sua
vita per salvare quell’uomo così scostante, che
ora molto probabilmente correva
tra i boschi, a quattro zampe, ricoperto di peli, ululando alla luna?
Era
fantastico, no, davvero, chi poteva vantare nel proprio curriculum la
voce
‘matta da legare’?
Beh,
in effetti i sogni premonitori erano stati un primo enorme segnale. E
ora non
si facevano più vivi, bastardi. E lei brancolava nel buio,
giorno o notte che
fosse.
-Sì-
ripetè. –Da dove vengo io è diverso-
-Cosa
c’è qui che lì non c’era?-
Si
voltò a guardarlo e incontrò i suoi occhi pacati.
Cosa
c’è qui che lì
non c’era?,
sentì ripetere una vocina nella sua testa.
-Lì
c’erano i miei sogni, qui.. –
-Qui
no?-
-No,
ci sono anche qui, almeno credo, ma prima era tutto chiaro, mentre ora
mi
sembra di essere su una strada senza luce e non so dove mettere i piedi
e.. –
-E
non trovi la strada di casa-
-Cosa?
No, io..- si prese la testa tra le mani e inveì sottovoce.
–Vorrei ricordare,
ecco tutto- terminò, la voce più calma.
-Capisco.
Non sai perché sei qui, né se gli uomini che hai
incontrato siano davvero tuoi
amici, né se tutta questa stramba storia che ti hanno
raccontato sia vera. Non
sai chi sei-
-Io..
perché non ricordo più nulla? Come posso fare se
non ricordo nemmeno le mie
stesse azioni?-
-Se
non ricordi nemmeno i tuoi stessi pensieri?-
-Già-
alzò nuovamente lo sguardo su di lui.
–Tu sei un mago, vero? Puoi aiutarmi?-
-Potrei,
ma io posso restituirti solo le immagini, pallide, gelate scene di
vita. I
ricordi sono qualcosa di solo tuo e solo tu puoi toccarli, ripescarli.
Io posso
darti il passato, ma è davvero ciò che vuoi?-
Le
sfiorò appena la spalla, senza aggiungere altro
né aspettare che assimilasse le
sue parole e si allontanò silenziosamente, tornando in casa.
Belle
riportò lo sguardo sull’oscurità,
ripensando alle parole del vecchio.
Quella
notte, dopo quasi un mese di notti silenziose, fu proprio un sogno a
svegliarla.
Destra,
sinistra. Un
piede dopo l’altro. Avanzava nel buio, rassicurata dalla
candela che creava una
bolla di luce attorno al suo corpo, ben salda nel suo piedistallo
dorato.
Strinse la presa nel minuscolo manico, continuando a camminare, le
spalle
dritte, il passo deciso e lo sguardo alto, senza chiedersi dove stesse
andando
o dove dovesse andare.
Un ramo spezzato la
fece voltare di scatto, cercando nella sua sfera luminosa
l’autore del rumore e
trovò a fronteggiarla una figura di donna bellissima e
sorridente, i cui occhi
luccicavano alla luce della candela.
Ammirò i suoi lunghi
capelli d’oro, il viso aggraziato e la pelle bianca.
-Chi sei?-
-Vendo rose-
-Ma io non ho come
pagarle-
-Rose rosse
scarlatte-
-Davvero? Devono
essere bellissime-
-Erano bianche, ma io
ho usato il sangue per tingerle di rosso-
Arretrò lentamente,
inorridita, squadrando quella figura angelica, dallo sguardo
luccicante.
-Chi sei?-
La donna le porse la
mano, ma lei arretrò ancora.
-Chi sei?!- urlò, ma
la donna, con il viso non più angelico, ma freddo, livido,
fiore della morte,
rimase in silenzio.
-Possiedi anche tu
delle rose?- chiese in un fiato ghiacciato che le scivolò
lungo la spina
dorsale, facendola rabbrividire.
-No! Io non sono come
te!-
Trasalì, scottata da
una goccia di cera bollente, lasciò la presa, la candela
cadde a terra, si
frantumò con un suono sordo, la bolla di luce
scoppiò, sentì un alito
ghiacciato ad un soffio dal suo viso e scappò via.
Sotto i suoi passi
terrorizzati, il terreno franò, la terra la
inghiottì, facendola precipitare
nell’acqua limpida e fresca che le chiuse i polmoni,
infiammandoli. Lei
scalciava, arrancava, colpiva l’acqua, cercava di farsi
largo, di tornare a
riva, di respirare, spinta
sempre più giù.
Lottava sommersa, l’acqua irruppe al
posto dell’aria. Annegava.
-Cosa
ti è successo alla faccia?-
Tenne
gli occhi fermi sul boccale quasi vuoto, il quinto.
Dannato
bambino. Faceva troppe domande.
-Sto
parlando con te-
E
non gli piaceva per niente.
-Lo
so. Ti sto ignorando-
-Qualcuno
ti ha picchiato? Chi ha vinto? Lo hai ucciso?-
-Non
uccido gli uomini- lo
guardò. E sollevò
un lato della bocca in un ghigno nascosto dall’ ombra soffusa
della locanda. –Ma
tu potresti essere il primo-
Il
bambino sostenne il suo sguardo, ma alla fine abbassò gli
occhi.
-Tornatene
da tua madre-
-Io
ti ho visto con la strega. Non zoppicavi, prima-
-Neanche
tu zoppichi, per ora-
-Ti
sei ferito mentre cercavi di prendere lui?-
Sbuffò. –Chi?-
-La
bestia-
Strinse
la presa sul boccale, digrignò i denti.
-Lo
prenderò. Appenderò la sua testa sulla mia parete
dei trofei. Presto. –
|
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Capitolo 24 *** Impronte ***
24. Impronte
Mettimi
come sigillo sul tuo cuore,
come sigillo sul tuo braccio;
perché forte come la morte è l'amore,
tenace come gli inferi è la passione:
le sue vampe son vampe di fuoco.
Cantico
dei Cantici
-Christian?-
Frugava
nella credenza, le dava le spalle, indossava ancora il pigiama. Si
voltò verso
di lei, la scatola di cereali in una mano, una tazza nell’
altra.
-Che
c’è?-
-Stai
facendo colazione?-
Il
suo sguardo si fece interrogativo e, dopo un attimo, rise. –Non devo?-
Si
guardò intorno nella cucina illuminata dai primi raggi del
mattino, la sveglia
della mamma in lontananza, la coperta malamente buttata sul divano, la
televisione ancora accesa.
Doveva
essere stato un altro dei suoi orrendi incubi.
-Ho
fatto un sogno assurdo, non ci crederai mai. La mamma aveva comprato
uno
specchio e tu l’hai attraversato e c’era una reggia
che di giorno era stupenda
e di notte diventava la casa degli orrori e poi un pazzo mi ha
rinchiuso in un
manicomio e diceva che ero io la matta-
Rise
di nuovo e lei con lui. –Magari
sei
davvero pazza- la punzecchiò, lanciandole addosso una
manciata di cereali al
cioccolato.
-Ehi-
si appoggiò al tavolo, fingendosi offesa.
D’un
tratto, però, una stretta improvvisa le mozzò il
fiato. Si portò una mano
sull’addome, riprendendo fiato, e toccò un
corpetto ricamato, allacciato sulla
schiena.
-Ma
che diavolo è?-
-Cosa?-
-Ma
stai scherzando? Il corpetto, Christian!-
-Belle..
stai bene?-
-Non
lo vedi..?-
Non
lo vedeva? Com’era possibile?
I
lacci strinsero ancora. E ancora. Cercò di strapparselo di
dosso, tirò i lacci,
forzò il tessuto, portò le mani al petto,
ansimante.
-Non
respiro.. –
-Belle,
che ti prende?- la
sua voce era
allarmata.
-Non
riesco a respirare.. – sussurrò appena, rossa in
volto per la mancanza d’aria,
i gesti rallentati, la vista annebbiata.
E,
in un attimo, suo fratello le dava di nuovo le spalle, lei lo chiamava,
e
chiamava, ma nessun suono usciva dalle labbra livide. Non aveva voce.
Lui non
la sentiva.
Il
sogno finiva e il successivo iniziava. Senza tregua.
Ogni
notte, da quando era arrivato il mago, sogni diversi affollavano il suo
sonno.
Un uomo minuto, dai
capelli d’oro, la fronteggiava. Tra loro, a dividerli, una
scia di sangue
spiccava sul terreno candido.
-Sono impronte?-
chiese all’uomo.
Lui annuì.
-Sai di chi sono?-
Annuì ancora.
-Forse ha bisogno di
aiuto-
Annuì una terza
volta.
-E cosa fai ancora
lì? Dobbiamo aiutarla-
-Allora aiutala-
E il fuoco,
improvviso e feroce, lambì la scia scarlatta, innalzando un
muro oltre cui un
uomo minuto, dai capelli d’oro, continuava a guardarla.
Continuamente.
Quando
aprì gli occhi, la trovò lì, accanto
al letto, lo guardava e sorrideva.
Sbatté
più volte le palpebre, strinse gli occhi e poi li
spalancò, cercando di mettere
a fuoco nell’oscurità. Si sollevò sui
gomiti e sbadigliò.
-Ragazzina,
sei inquietante-
Lei
rise. –Mi
ricordo di te-
Si
pietrificò per alcuni secondi, scrutandola come se cercasse
di capire se stesse
ancora sognando, poi, completamente sveglio, si precipitò ad
abbracciarla,
continuando a chiederle se lo stesse prendendo in giro.
-Mi
ricordo di te e dello specchio e ..– storse il naso,
contrariata. –della
casa di cura-
-Beh,
bentornata, era ora- si schiarì la voce, guardandosi
distrattamente le mani.
-E..
Adam?-
Scosse
il capo. –No,
di lui non ricordo ancora
nulla-
-Oh,
suvvia, non disperare, non puoi mica ricordare tutto in una sola volta.
Inoltre, hai ricordato la cosa più importante. Me-
-A
cosa pensi, ragazzina?-
Alzò
gli occhi, puntandoli in quelli dell’amico seduto accanto a
lei, accennò un
sorriso, scuotendo piano le spalle. Era l’alba, non era
più riuscita a prendere
sonno e Maurice l’aveva seguita nella cucina, preparando per
entrambi un the
caldo. Le lanciava sguardi furtivi, di tanto in tanto, soppesandola, ma
non
aveva osato fare di nuovo cenno ad Adam.
Riscaldata
dalla bevanda fumante, le ginocchia al petto, sospirò, ma
ancora non rispose.
-Non
tornerai lì, te lo prometto, Delacroix non ti
farà più del male-
Sorrise,
mentre le lacrime iniziavano a rigarle le guancie e i singhiozzi a
scuoterle il
corpo, senza che potesse fermarli, spingendo via dalla sua testa il
ricordo dei
gradini di pietra, del dolore atroce, dell’odore di bruciato,
inutilmente.
Lasciò che Maurice la stringesse a sé,
rilassandosi in quell’abbraccio e
abbandonandosi al pianto, terrorizzata che ciò che era
successo al manicomio
potesse succederle ancora e sollevata perché, alla fine, i
ricordi erano
tornati.
Si
lasciò cadere sul terreno umido del mattino, sdraiandosi
sulla schiena, gli
occhi rivolti al cielo chiaro e il respiro pesante. Era partito subito
dopo
aver parlato con Belle e aveva camminato a lungo, a passo svelto,
cercando di
mettere più distanza possibile tra lui e la casa che aveva
appena lasciato.
Quella doveva essere una radura poco visitata dall’uomo,
visto lo stato
selvaggio della natura e le molte bestie che gli giravano intorno,
annusando il
suo odore e scrutandolo sospetti. Doveva sembrare loro una creatura
molto
strana, né uomo né bestia. La trasformazione era
già iniziata, sentiva tutto il
corpo formicolare, la pelle indurirsi e la mente confondersi. Il suo
cuore
giaceva ancora nello scrigno coperto di rune, strappato al suo petto,
ma lui
riusciva a sentirlo, nonostante ciò, batteva più
rapido, sempre più frenetico e
contemporaneamente il respiro diveniva concitato. Non era riuscito a
camminare
oltre, il dolore gli attraversava le ossa, i muscoli, fitte appuntite
gli
spillavano i denti, gli occhi, le punte delle dita. Stremato, chiuse
gli occhi,
continuando a cullare nella mente il pensiero che adesso lei era salva.
Ripescò
l’immagine del suo viso rilassato quando leggeva per lui
accanto al fuoco, del
sorriso che gli aveva rivolto, prendendolo per mano e guidandolo fuori
dal
castello, alla luce del sole. Si aggrappò a quel sorriso,
alla stretta sulla
sua mano ruvida, a quell’emozione che non aveva saputo
definire, allora, e che
gli aveva riempito il petto, strabordando.
Si
aggrappò a quei ricordi, sempre più tenacemente,
finché non fu solo il buio.
Riaprì
gli occhi, inspirando rumorosamente. Due occhi gialli.
|
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Capitolo 25 *** Neve ***
25- Neve@
Zoppicava
ancora. Un medico aveva ricucito la ferita, ma lo aveva avvertito che
probabilmente non avrebbe mai più ripreso a camminare
normalmente e poi aveva
iniziato un lungo monologo sul perché, quali danni la ferita
aveva inferto,
cosa era stato danneggiato, ma lui aveva già smesso di
ascoltare. Non gli
importava. Non importava se ancora zoppicava, se avrebbe zoppicato per
tutto il
resto della sua vita. Avrebbe avuto la testa di quell’animale
sulla sua parete
dei trofei e questo avrebbe ripagato tutto. Maledetta bestia,
l’avrebbe
catturata finalmente.
Fece
un cenno ai suoi nuovi, decisamente più numerosi, uomini,
immobilizzandosi a
sua volta. Molti del villaggio si erano offerti di aiutarlo nella sua
caccia
contro la bestia che minacciava i loro figli e le loro figlie.
La
bestia? Si è
avvicinato così tanto al villaggio?
Era
bastato che gonfiasse un po’ la verità, la storia
di come il mostro lo aveva
ferito a sangue freddo, di come aveva progettato di andare al villaggio
e
divorarne gli abitanti, di come i suoi occhi erano iniettati di sangue,
le sue
zanne armi spaventose.
Aveva
sentito qualcosa. E, appena qualche metro avanti a loro, vide due occhi
gialli
scintillare minacciosi. Ma la bestia, invece di attaccarli, si
voltò, dando
loro le spalle e si allontanò pacatamente. Pregustando
già la gloria che lo
avrebbe accolto una volta tornato al villaggio con la testa del mostro
che
aveva ucciso completamente da solo, si avviò dietro la
bestia, distanziandosi
dagli altri, il fucile pronto. Alcuni passi dopo, la belva si
fermò,
fronteggiandolo. Poco oltre svettava il castello che una volta era
stata la sua
abitazione, ora desolato, distrutto, nient’altro che una
rovina. Non sembrava volersi
difendere, immobile sulle quattro zampe. Il suo aspetta era peggiore di
quanto
ricordasse e così quegli occhi gialli iniettati di sangue.
Puntò i piedi a
terra e, sollevato il fucile, prese la mira.
Rideva. Era una
bambina, avanzava tentennando senza pattini sul ghiaccio, tenendosi al
bordo
per non cadere e rideva. Suo padre doveva essere lì, poco
distante da lei,
nell’altro sogno lui era lì con lei, ma quando
alzò lo sguardo, sul ghiaccio,
nella notte, c’era solo una bestia. La guardava, immobile
sulle quattro zampe,
respirava piano e il sorriso le morì sulle labbra.
A lungo guardò la
bestia, ma quella non attaccò.
-Perché
nessuno mi ha svegliato?-
Maurice
rise, guardando i capelli scompigliati e gli occhi ancora assonnati, il
mago,
invece, non alzò gli occhi, intento a preparare la cena.
-Ho
sognato una bestia-
-Davvero?-
Annuì. –Era
sul ghiaccio, come mio padre-
-Mmm-
assaggiò il contenuto della pentola, storcendo appena il
naso e aggiungendovi
qualcosa. –Paragone
interessante. E..
cosa faceva?-
Esitò,
riflettendo. –Aspettava-
Così,
ancora una volta, pensò che quell’uomo vedesse
molto più lontano di quanto non facessero
i suoi stessi sogni.
Era
in un posto buio,
ma gli occhi si abituarono subito alla luce della luna e distinse un
corridoio
vuoto, due porte chiuse sulla sinistra, una ringhiera di legno color
mogano
sulla destra, più avanti una scalinata. Portò le
mani sul vestito, ne strinse
il tessuto liscio, sorridendo. Era bellissimo, con il corpetto decorato
di
perline, l’ampia gonna sopra strati di tulle, frusciava
deliziosamente ad ogni
suo minimo movimento. Sollevò la veste con una mano,
avanzando lentamente.
-Mamma?- sussurrò,
aprendo la prima porta. Poi la seconda.
-Christian? Dominic?-
si guardò intorno, scrutò oltre la ringhiera,
raggiunse la soglia delle scale.
Un ringhio alle sue spalle la fece sobbalzare, si voltò di
scatto,due occhi
gialli brillavano nel buio, lasciò la presa sul legno scuro,
inciampò, la terra
mancò sotto i suoi piedi. Cadde, ruzzolò per le
scale, urlando, ogni gradino le
feriva le gambe, la testa, le braccia alzate a proteggere il volto.
Finalmente
a terra, distesa sulla schiena senza forze, scombussolata,
probabilmente
ferita, sollevò lo sguardo sulla cima delle scale.
Lì, immobile nel
buio, le zampe anteriori posate sul primo gradino, c’era una
bestia. Gli occhi
gialli lampeggiavano, guardandola. Ma non l’aveva inseguita,
non ringhiava. Era
lì, immobile.
Chiudeva gli occhi e
li riapriva all’aperto, al freddo, il sole pallido che la
riscaldava appena
attraverso le fronde degli alberi sopra di lei, la neve si stava
lentamente
sciogliendo sotto il suo peso, in una macchia sempre più
scura. Qualcuno la
teneva stretta tra le braccia, ma non ne vedeva il volto, vedeva solo
le foglie
che ondeggiavano, lentamente, mosse da un vento leggero. E lei aveva
freddo,
molto freddo.
Aprì
gli occhi, vide la luce ancora tenue del mattino fare capolino dalla
finestra,
riscuotendola dal torpore e si mise in piedi, vestendosi velocemente ed
uscendo
dalla casa.
Non
aveva dato a quell’ultimo sogno molta più
importanza di quanto non ne avesse
dato ai precedenti; sapeva di aver già sognato qualcosa di
simile in effetti,
ma non ricordava altro. Ciò che più la assillava
negli ultimi giorni, però, non
erano i suoi sogni, per quanto bizzarri.
Cosa
c’è qui che lì
non c’era?
Quando
il mago le aveva posto questa domanda, aveva pensato che le stesse
semplicemente chiedendo se le mancasse casa sua, ed era
così. Le mancava
terribilmente. Dominic sarebbe stato sconvolto, Christian avrebbe
sospettato
qualcosa, probabilmente, e forse si stava chiedendo come tornare in
quel mondo
per riportarla indietro, di nuovo. E sua madre.. beh, era sparita due
volte
nell’arco di un anno, sarebbe stata distrutta.
Avrebbe voluto essere lì, stringerla forte, rassicurarla e
dirle che era tutto
a posto, che lei stava bene. Non ne era stata in grado, fino ad allora.
Non
aveva potuto strapparle via dalla mente il dolore e i ricordi e
l’odiosa
nostalgia che spesso le oscurava il viso; si era limitata a starle
accanto,
accettando l’idea che non avrebbe mai potuto comprenderla
come invece facevano
i suoi fratelli. Ma neanche adesso poteva, no? Era lontana da casa,
dalla sua
famiglia e..
Cosa
c’è qui che lì
non c’era?
Aria.
Ecco cosa c’era. Fresca e pura e ristoratrice. Respirava. Per
la prima volta
respirava. I
suoi sogni erano dall’una e dall’altra parte, non
erano quelli a soffocarla.
Non si trattava di cosa ci fosse o meno da una parte o
dall’altra, si trattava
di cosa ci fosse per lei.
Si
fermò, prendendosi il tempo per inspirare a pieni polmoni e
sentire l’odore di
pino che negli ultimi giorni l’aveva sempre accompagnata
nelle lunghe
passeggiate con cui cercava di far passare il tempo. Si sedette sulle
radici di
un albero e il suo sguardo cadde sulla terra secca e scura. Nel suo
sogno c’era
la neve, ma mancava ancora molto all’inverno. Nel sogno lei
stava.. morendo,
no? Sarebbe successo d’inverno? No, non era quello, aveva la
netta sensazione
che la neve non indicasse il momento, ma fosse una specie di
similitudine.
E,
nonostante non avesse dato particolare peso a quel sogno, si era
trovata a
raccontarlo a Maurice, senza neanche capirne il motivo. Quella stessa
sera,
mentre rientrava nella casa del mago, li aveva sentiti parlare, ignari
della
sua presenza appena oltre la porta.
-Adam
mi ha raccontato di quel sogno, ma entrambi pensavamo che fosse ormai
un
pericolo lontano, visto quanto è accaduto-
Il
mago sembrava tranquillo, come sempre d’altronde. –Ma lei lo ha
sognato di nuovo-
Era di
nuovo nel corridoio buio, la ringhiera sulla destra e le due porte
chiuse alla
sua sinistra. Non portava più l’ampio abito
dell’altra volta, indossava
semplicemente un jeans e una maglia scura a maniche corte. Si
guardò intorno,
alla ricerca della bestia che l’aveva spaventata, facendola
ruzzolare giù per
le scale, ma non ce n’era traccia.
Aprì
la prima porta,
aspettandosi di trovare la stessa stanza vuota dell’ultima
volta e, invece, la
camera era piena di oggetti, mobili, quadri, tutti distrutti e raccolti
lì per
essere dimenticati. Avanzò con attenzione, raggiunse uno dei
pochi ritratti
ancora appesi alla parete e allungò la mano per tenere
insieme la tela ferita.
Sembrava quasi che fosse stata squarciata da artigli molto affilati,
eppure non
c’era niente nell’uomo rappresentato che potesse
spiegare un tale odio. Guardò
a lungo il suo viso, gli occhi azzurri, i capelli bruni, ma poi una
luce tenue
richiamò la sua attenzione, allontanandola dal quadro e
attirandola verso un
piccolo tavolino rotondo proprio davanti al balcone chiuso. Su di esso,
coperta
da una cupola di vetro, brillava una rosa. Sembrava rimanere dritta da
sola,
poggiata sulla base dello stelo sottile. Sollevò la teca e
ne sfiorò i petali
lisci con le dita, esitante. Come poteva brillare in quel modo?
Sembrava
ricoperta di una rugiada simile a piccoli diamanti. Strinse lo stelo
per
prenderla e sentirne l’odore, ma si punse e la
lasciò ricadere subito, con un
lamento di dolore. Tornata magicamente al suo posto, Belle la
coprì nuovamente
e uscì in fretta dalla stanza, con la strana sensazione che
non dovesse essere
trovata lì.
Si avviò verso la
seconda porta e scoprì che anche questa, come la prima, non
era più vuota. Al
centro della stanza spiccava un piccolo tavolo di legno e, oltre, una
donna
dagli occhi chiusi e
le labbra
orrendamente cucite insieme se ne stava seduta con le mani poggiate sul
tavolino, il dorso rivolto verso l’alto. Si
avvicinò, sedendosi di fronte a lei.
Sembrava interamente ricoperta di polvere, quasi fosse stata
abbandonata lì
come i mobili della stanza accanto, i suoi capelli erano scuri, lunghi,
un rovo
non curato da tempo, il suo abito nero era logoro.
Non appena si fu
seduta, la donna aprì gli occhi vitrei, inchiodandola al suo
posto.
-Tu sei.. – corrugò
la fronte, cercando di ricordare.
-..
Rosaline-
Vendo
rose. Le sembrò di sentire la voce
nella
sua testa. Rose rosse. Erano bianche, ma io ho usato il
sangue per tingerle
di rosso.
-Cosa?
Aspetta..
questo me l’hai già detto, giusto? Sai cosa
significa la neve, non è vero?-
Erano
bianche, ma io ho usato il sangue per tingerle di rosso.
-Erano
bianche.. e la
neve si è tinta di rosso.. Io non capisco.. quando la neve
non sarà più bianca,
vuoi dire questo? Un momento.. il manicomio era sempre bianco nei miei
sogni..
accadrà quando ricorderò tutto, è
così?-
La donna sorrise e le
cuciture si tesero orrendamente, gli occhi vacui sempre fissi davanti a
sé, tese
il braccio sinistro e puntò l’indice verso il
pavimento. Gocce di sangue ne
macchiavano la superficie impolverata. Si alzò in piedi per
guardare meglio.
-Sai di chi sono? È
in pericolo-
Allora
salvala.
-Ma..
ma il
cacciatore non mirava a me, mirava a Leòn-
Una presa dolorosa la
fece voltare di scatto, trasalendo. Stretta attorno al suo braccio
c’era una
mano scheletrica e, oltre, un corpo putrefatto, un volto vivido di
carne morta
e ossa visibili. Urlò, ma nessun suono uscì dalle
sue labbra, il fiato bloccato
in gola.
Con gli occhi
sbarrati, guardò quelli ancora vitrei della strega e si
sentì gelare il sangue.
Il
suo nome, la sua voce era più
possente e
fredda di prima, non
è Leòn.
Strattonò
il braccio
dalla sua presa e corse via, uscendo dalla stanza e precipitandosi
giù per le
scale, il cuore che palpitava in gola e il respiro corto.
Si voltò solo un
secondo, per assicurarsi che non la stesse seguendo e fu allora che li
vide.
Due occhi gialli, proprio in cima alle scale. La bestia
ringhiò, mostrando le
zanne coperte di sangue, ai suoi piedi, un cerbiatto giaceva senza
vita, il
corpo dilaniato.
Questa volta sentì il
proprio urlo acuto, prima di scappare nuovamente via, ancora
più lontano, fuori
dal castello, il più velocemente possibile, il freddo che
riempiva i polmoni
già doloranti. Arrivò ad un lago ghiacciato, ma
continuò a correre, ignorando
il rumore del ghiaccio che si crepava sotto i suoi passi, voltandosi
ancora
una volta indietro. La bestia la stava inseguendo, era ad un soffio da
lei,
molto più veloce, i capelli le nascosero la vista, tirati
dal vento e lei sentì
un rumore sordo, il suolo crollarle sotto i piedi e cadde, sommersa
dall’acqua
gelida. Presa di sorpresa, spalancò la bocca per urlare e
respirare e..
Inspirò
di colpo, spalancando gli occhi. Scattò a sedere, portandosi
una mano al petto
e cercando di regolarizzare il respiro. Era ancora notte fonda, ma non
doveva
perdere tempo. Balzò in piedi, si vestì
rapidamente e uscì di corsa dalla
casa, addentrandosi nel bosco, senza avvertire nessuno, senza pensare a
cosa
stesse facendo, a dove stesse andando, senza badare a come dovesse
sembrare
stravolto il suo viso. Si allontanò senza voltarsi indietro
neanche una volta,
sicura che non avrebbe sbagliato strada. Un unico pensiero occupava la
sua
mente. Adam.
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Capitolo 26 *** Epilogo ***
Epilogo
Commiato d'autore: Ebbene
sì, sono ancora viva. In realtà avevo
già in mente il finale di questa storia e l'avevo anche
già abbozzato, ma non so perchè ho esitato a
postarlo. Forse mettere la parola fine ad una storia che ho sentito
particolarmente mia mi rattristava un po', ma è anche giusto
che i personaggi (e i lettori) abbiano il loro finale. A questo punto
avrete capito che questo è il capitolo finale, per cui mi
eclisserò in fretta. Volevo solo ringraziare tutti quelli
che hanno seguito la storia, perchè ogni racconto ha
raggiunto il suo scopo, se anche vi fosse un solo lettore a portarlo
nel cuore. Un bacio, VeronicaDauntless.
La
prima cosa che vide fu il fucile. Nei suoi
sogni il colpo rimbombava così vivido che le sembrava
familiare. Ad
imbracciarlo con mani sicure, un occhio già chiuso per
prendere la mira, c’era
un uomo giovane, le spalle larghe e i capelli scuri lunghi. Anche lui
le sembrò
familiare, come se avesse popolato i suoi incubi allo stesso modo
dell’arma che
impugnava.
E
poi c’era la bestia. Le zampe solide piantate a terra, il
corpo incurvato e la
bocca leggermente spalancata sulle zanne bianche. Gli occhi
scintillavano nella
poca luce del mattino, gialli, grandi, privi d’espressione,
come non li aveva
mai visti. Fu questo a scuoterla.
Si
gettò contro l’uomo, afferrando la canna del
fucile e cercando di cambiarne la
traiettoria, prima che fosse troppo tardi. Il colpo mancò il
bersaglio, volò
lontano, il rombo la fece sobbalzare, gli occhi stretti.
-Che
diavolo.. – il cacciatore strattonò la sua presa,
liberando il fucile e spingendola
lontano con violenza. –Maledetta
strega-
sputò con la voce impregnata di disprezzo.
Strega.
Sbatté
con forza contro il tronco di un albero, sentì un dolore
sordo infiammarle la
spina dorsale, le spalle, prima di rovinare a terra. La caduta le
mozzò il
fiato e le graffiò le mani, immobilizzandola sul terreno
umido.
L’uomo
puntò l’arma verso di lei, che spalancò
gli occhi, trattenendo il fiato. Ma il
colpo non arrivò. Al suo posto, un ringhio feroce le
percorse la schiena,
attirando l’attenzione di entrambi. La bestia
balzò contro Gaston, che si
scansò, ma subito dopo emise un gemito di dolore e si
portò una mano sul
braccio, dove quattro profonde scie rosse gli sfregiavano la pelle
bianca.
-Adam-
sussurrò, ma lui non la stava guardando, continuava a tenere
gli occhi fissi
sull’avversario, mentre questi sollevava nuovamente il fucile
e, senza perdere
tempo per prendere la mira, sparò.
Belle
sentì l’ululato di dolore dell’animale
trafiggerle il corpo, scuotendola, si
sollevò, ignorò le fitte che le
attraversavano la schiena ad ogni respiro e tenne gli occhi fissi sui
due
contendenti. Adam aveva attaccato di nuovo, sfruttando il momento di
esaltazione dell’altro e ora lottavano, troppo vicini
perché lei avesse il
coraggio di afferrare il fucile, che ora giaceva abbandonato a terra, e
sparare.
D’un
tratto vide qualcosa luccicare tra loro, ma fu solo un secondo,
l’istante dopo
il mugolio straziante della bestia la raggiunse e capì che
Gaston doveva avere
con sé un pugnale. Subito dopo lo vide correre nella
direzione opposta alla
sua, verso il castello distrutto dalle fiamme a cui non aveva rivolto
nemmeno
uno sguardo. Adam lo seguì, l’andatura incostante,
eppure notò che anche
l’altro zoppicava leggermente.
Corse
dietro di loro, arrivando in tempo per vederli salire la scala
annerita, ma
quella scala si interrompeva presto, affacciandosi nel vuoto e, ancora
oltre,
sulla fontana abbandonata.
Gaston
arrivò sul penultimo gradino e si voltò, il fiato
corto, la lama sollevata, la
bestia si erse in tutta la sua grandezza, lui si fece indietro, perse
l’equilibrio, sul suo viso comparve una smorfia spaventosa e
lei urlò,
vedendolo oscillare nel vuoto, sorretto solo dalla zampa di Adam, che
gli
graffiava la spalla e dall’intrico di foglie e rose che
risaliva sulla facciata
del castello. La sembrò che i rami fossero mossi dal vento,
leggermente,
costantemente, finché non li vide avvinghiare le braccia di
Gaston, che cercava
di trovare un appiglio sul muro franato, stringersi intorno ai gomiti,
ai
polsi, ad ogni singolo dito, finché la pelle non
iniziò a farsi pallida, sempre
più pallida e poi cinerea, come cenere, o meglio, come
brandelli di una statua
di pietra. Lui urlò, terrorizzato, gli occhi spalancati fino
a sembrare enormi
cerchi scuri, la bocca aperta in un grido senza fine, sempre
più acuto.
-Aiutami!-
urlò, strappando le foglie, i rami, allungò il
braccio verso Adam, ne afferrò
il pelo, ma le dita si sgretolarono, come frammenti del castello che
aveva
intorno.
La
bestia ringhiò, non minacciosa, ma confusa, guardava
l’uomo e l’uomo fissava le
sue dita, quello che ne era rimasto, mentre la carne cinerea cadeva,
pezzo dopo
pezzo, nel vuoto, precipitando nell’acqua con un rumore
tonfo.
Quando
anche l’altra mano si sfaldò, cadde, avvolto dalle
sue stesse grida e dal
silenzio attonito di Belle e della bestia, di cui ancora vedeva gli
occhi
gialli. L’impatto con l’acqua gli mozzò
il fiato, zittendolo, e sollevò un’onda
scomposta attorno a lui.
Belle
si precipitò, allungando le mani per aiutarlo, ma quando
stava già per sentire
la ruvidezza dei suoi abiti, vide due mani delicate, due braccia lunghe
avvolgergli il corpo e spingerlo verso il fondo, in acque
più profonde di quanto
avrebbero dovuto essere. Allora ritrasse le mani, ancora distese verso
di lui e
fece un passo indietro. I suoi occhi, ancora spalancati e colmi di
terrore,
scomparvero presto. Un unico gorgoglio distorto precedette il silenzio,
mentre
l’acqua tornava liscia e calma.
Non
si concesse un attimo di più e corse all’interno
della casa, scorse la bestia
accasciata sul pavimento coperto di fuliggine, gli occhi socchiusi e la
bocca
aperta in un respiro affannoso. Accennò un passo nella sua
direzione, ma lui mostrò
le zanne, ringhiando, le orecchie ebbero un fremito e lei si
arrestò.
-Adam-
sussurrò, prima di far scivolare il piede di qualche
centimetro più avanti,
lentamente.
-Adam,
sono io, sono Belle-
La
sua voce si ruppe e solo allora si rese conto di avere la vista
annebbiata.
Sbatté più volte le palpebre, ricacciando
indietro le lacrime e il groppo che
le chiudeva la gola.
-Sono
Belle, sono qui, Adam-
La
bestia continuava a tenere gli occhi stretti su di lei, ma a mano a
mano che
lei avanzava, ritraeva gli artigli, lasciando ricadere le zampe senza
forza,
poi smise di ringhiare, aprì bene gli occhi e
lasciò che lei cadesse in
ginocchio al suo fianco.
-Oh,
Adam- sollevò la mano, seguendo la ferita del fucile alla
spalla, e del
pugnale, al petto, ma non riuscì a toccarlo. Sanguinavano
entrambe,
sporcandogli il pelo scuro e rallentandogli il respiro.
Spostò lo sguardo sui
suoi occhi, ignorò le lacrime che ora, prepotenti, le
inondavano il volto,
scuotendole il petto e gli sfiorò il viso in una carezza
delicata. L’animale
guaì e lei dovette reprimere un singhiozzo.
-Adam
non farmi questo.. non puoi lasciarmi.. mi ricordo di te ora.. Adam..
–
I
suoi occhi si schiarirono, ma fu solo un istante e lei trattenne il
fiato,
sentendo la sua mano tra i capelli, la stessa mano che aveva stretto
quando
tutto le era ancora troppo confuso. Chiuse gli occhi, coprendo la mano
con la
propria, ma quando li riaprì, la sua mano era tornata una
semplice zampa,
ricadde debole sul suo grembo e lei lo scosse, chiamando il suo nome
tra i
singhiozzi, lo sguardo fisso sui suoi occhi ora chiusi. Alla fine si
abbandonò
contro di lui, affondando il viso contro la pelliccia ruvida, sentendo
il
sangue ancora caldo macchiarle la pelle e pianse, stringendo
convulsamente tra
le mani il pelo scuro.
-Io
ti amo-
Sussurrò
impercettibilmente e lasciò fuoriuscire il fiato, allentando
la presa sul suo
corpo, quando il calore quasi la scottò, costringendola ad
allontanare di
scatto le mani e il viso. Scosse la testa, ma i fasci di luce dorata,
sempre
più numerosi, più luminosi, c’erano
davvero, avvolgevano il corpo di Adam in
una spira morbida. Arretrò, balzando in piedi e asciugandosi
il viso con gesti
frettolosi. Le tornò alla mente cos’era successo
all’altro uomo, alle mani che
lo avevano afferrato, trascinandolo giù e balzò
verso Adam, le braccia già
allungate verso di lui, in cerca di un appiglio, ma la luce divenne
talmente
accecante che le bruciò gli occhi e lei dovette scostare la
faccia,
proteggendosi il viso con le braccia. Quando la luce sembrò
affievolirsi, osò
riaprire gli occhi, in cerca del corpo della bestia, ma il pavimento
era vuoto.
Davanti a lei, però, c’era un uomo. I capelli
scuri gli ricadevano sulle
spalle, incorniciando la pelle chiara del volto, le linee marcate del
naso,
delle sopracciglia, le labbra incurvate in un sorriso.
Continuava
a girare le mani davanti al viso, guardandole stupito, poi
alzò gli occhi su di
lei e li puntò nei suoi. Trasalì, arretrando.
Lui
le porse la mano.
-Belle-
Socchiuse
gli occhi, scrutandolo. Non era l’uomo che aveva conosciuto
nei suoi sogni né
quello che l’aveva portata via dalla casa di cura,
c’era qualcosa di diverso
adesso, una strana luce nel suo sguardo. Un ricordo le
attraversò la mente,
ridestato, rivide davanti a sé quello stesso sguardo e
quella stessa luce in
due occhi simili, ma appartenenti ad una bestia. Era lo sguardo che
vedeva ogni
giorno, quando leggeva per lui o quando passeggiavano fianco a fianco.
-Adam?-
Corse
verso di lui, che aprì le braccia e lei vi si
gettò, lasciando che la
stringesse a sé con forza, mentre affondava il volto contro
la sua pelle e
sentiva il calore del suo corpo.
-Ti
ho visto morire- sussurrò, senza sciogliere
l’abbraccio.
-Anch’io
ti avevo vista morire. Ma ora è tutto finito-
-Mi
avevi riconosciuta-
-E
tu hai ricordato chi ero-
Le
prese il viso tra le mani, costringendola a sollevare lo sguardo e le
sfiorò
con le dita la fronte, il naso, il mento, come più di una
volta aveva fatto
lei. Sorrise, poggiando la mano sulla sua e inclinando leggermente il
capo per
sentire tutto il calore di quella carezza.
-Non
lasciarmi più andare via-
-Mai
più- soffiò sul suo volto, prima di poggiare le
labbra sulle sue e stringerla
nuovamente a sé.
Prima
di tornare da Maurice, Adam aveva dato un ultimo sguardo al castello,
poi i
suoi occhi si erano fermati su una piccola scatola intagliata,
l’aveva presa da
terra e l’aveva aperta, sorridendo al suo interno. Aveva
cercato di sbirciare
oltre la sua schiena, chiedendogli cosa fosse, ma lui l’
aveva richiusa in
fretta, rispondendo che era solo un vecchio regalo del mago e a lui la
consegnò, appena arrivarono a casa. Mentre andavano via,
lasciandosi alle
spalle il castello in rovina e la fonte d’acqua che era stata
tomba di Rosaline
e ora di Gaston, avevano dovuto evitare una folla di uomini che
parlavano a
gran voce. Tra di loro, Belle riconobbe Chicco, il figlio della
locandiera e,
per quanto provasse ancora dell’odio verso quella donna, non
poté evitare di
sorridere allo sguardo stupito del bambino. Gli sorrise, mentre si
dirigevano
nella direzione opposta e si portò un dito alle labbra,
facendogli segno di non
dire nulla.
Il
bambino la guardò con gli occhi sgranati, ma alla fine la
sua espressione si
fece risoluta ed annuì.
Alla
vista dello scrigno, il vecchio aveva annuito, sorridendo ad Adam e
toccandogli
gentilmente la spalla, eppure lei era sicura che fosse vuota.
Maurice
aveva brontolato per un bel po’, continuando a rimproverarla
per averlo fatto
preoccupare ed essere andata da Adam senza chiamarlo, ma, quando lei lo
strinse
a sé, lui ricambiò l’abbraccio. Strinse
anche la mano di Adam, sussurrandogli
un ‘ben fatto’.
Andarono
a vivere in una casa piccola, ma accogliente, abbastanza lontana dal
villaggio
perché Delacroix non li trovasse, se anche stesse ancora
dando loro la caccia.
Maurice accettò l’invito del vecchio di
trascorrere qualche giorno da lui,
sebbene il mago continuò a sostenere di non ricordare di
aver mai avanzato
nessun invito, finché non avesse trovato un posto dove
vivere.
-Ti
sei autoinvitato, Maurice?- gli chiese un giorno, lontano
dall’ancora ottimo
udito del mago e lui aveva mostrato un sorriso sghembo, guardandola, ma
non
aveva risposto e, sebbene continuasse a dirgli che avrebbe potuto stare
con lei
ed Adam per tutto il tempo che voleva, lui ripeteva che lì
stava bene, si
sentiva a casa ed era contento così.
Andava
da loro più spesso che poteva e la maggior parte delle volte
li trovava seduti
accanto al fuoco con in mano una tazza di the. Era sicura che Maurice
non
sarebbe più andato via da quella casa e che al vecchio, in
fondo in fondo, non
dispiacesse poi tanto.
-Hai..
visto la tua famiglia?- le chiese Maurice un
giorno.
Lei
abbassò lo sguardo, le sembrava ancora così
strano poter parlare liberamente
dei suoi sogni, ma sì, aveva visto la sua famiglia.
L’aveva sognata.
Sorrise. –Sì-
-E?-
E..
aveva visto più in là di quanto avrebbe voluto.
Dominic aveva una famiglia,
Christian viveva in una casa tutta sua e sua madre sorrideva spesso,
anche se
spolverava ogni giorno una foto che ritraeva tutti e tre i fratelli
abbracciati, sorridenti. Faceva scivolare l’indice sui loro
volti e si
soffermava a lungo sul suo, guardandolo con gli occhi lucidi. Passato
quel
minuto, abbandonava la fotografia e tornava ai suoi impegni.
-E
stanno bene, tutti-
-Ti
mancano-
Non
era una domanda, ma lei rispose ugualmente.
–Mi mancheranno sempre, ma è qui che
voglio stare-
Maurice
le sorrise sornione, come al solito, dandole una leggere gomitata.
-Ti
mancherei troppo, eh?-
Aveva
ricevuto anche una visita inaspettata. Una mattina qualcuno aveva
bussato alla
porta e si era trovata davanti una ragazza bellissima, la vita stretta,
fluenti
capelli rossi e un sorriso sbarazzino. Sollevò appena la
lunga gonna, mostrando
le ginocchia e lei sgranò gli occhi, presa di sorpresa.
-Le
avevo detto che avevo delle belle gambe, miss-
-Rebecca!-
Trascorsero
la giornata a parlare, Rebecca le raccontò dove si era
rifugiata dopo
l’incendio e la sorpresa quando si era vista di nuovo umana,
che era tornata
dalla sua famiglia e che, in paese, un ragazzino, il figlio della
locandiera,
ne raccontava delle belle: la bestia aveva ucciso Gaston e mangiato la
bella,
altre volte che la bella aveva baciato la bestia, scaldandole il cuore
e
rendendola umana, o ancora che i due amanti sfortunati si erano
tramutati in
cervi e adesso vivevano nei boschi, insieme.
-Che
storie assurde- aveva esclamato, facendole l’occhiolino.
La
sera si congedarono con la promessa di vedersi presto.
Stavano
bene, tutti.
Prese
un profondo
respiro, lisciandosi distrattamente la gonna ampia, prima di sorridere
ad Adam
e stringere la mano che le porgeva. Le mise una mano sulla vita,
avvicinandola
a sé e ricambiando il sorriso. Registrò solo il
primo passo, prima che la
musica iniziasse a guidarla autonomamente, e che il suo sguardo si
perdesse in
quello, adesso così luminoso, del suo accompagnatore. Adam
sollevò il braccio,
trascinando in alto anche il suo e facendola girare, prima di
stringerla
nuovamente contro di sé. Rise. Come doveva sembrare goffa.
Ma fu il pensiero di
un istante, sparì subito, così com’era
sparita l’ansia. Pensò a come doveva
brillare, il suo vestito dorato, mentre ruotava, inseguendo i suoi
volteggi,
gonfiandosi intorno alle sue gambe e ondeggiando l’attimo
dopo, accarezzandole
le caviglie, per poi tornare ad accostarsi al blu dell’abito
di Adam, e questi
pensieri la riempirono di contentezza. Rideva ogni volta che lui la
faceva
girare, sperando di non inciampare, di non pestargli i piedi, ma lui
era un
ottimo cavaliere, riusciva a guidarla nei movimenti e lei tornava
sempre di
fronte a lui, stretta nel suo braccio, dove quasi riusciva a percepire
il
battito del suo cuore e dove il suo sorriso la riempiva di calore e
d’amore in
un solo istante..
Si
svegliò di soprassalto, delusa che il sogno fosse
già finito. Tornò a chiudere
gli occhi, mentre Adam la stringeva a sé, affondando il viso
nei suoi capelli.
-Adam?-
-Mmm?-
rispose, non del tutto sveglio.
-Ho
sempre voluto imparare a ballare-
Lui
sorrise, gli occhi ancora chiusi.
–Ti
insegnerò io-
FINE
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