L'altra Gemella

di _armida
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Una giornata qualsiasi a Firenze ***
Capitolo 3: *** Il Turco ***
Capitolo 4: *** I Figli di Mitra ***
Capitolo 5: *** Il Carnevale ***
Capitolo 6: *** La Chiave ***
Capitolo 7: *** La Biblioteca ***
Capitolo 8: *** Il Conte, parte I ***
Capitolo 9: *** Il Conte, parte II ***
Capitolo 10: *** Il Libro dell'Ebreo ***
Capitolo 11: *** "C'è una spia, in seno alla mia corte!" ***
Capitolo 12: *** Il Cuore d'Argento ***
Capitolo 13: *** Il Banchetto ***
Capitolo 14: *** La Ruota ***
Capitolo 15: *** Davvero la festa è finita? ***
Capitolo 16: *** Demoni, parte I ***
Capitolo 17: *** Demoni, parte II ***
Capitolo 18: *** Il Patto ***
Capitolo 19: *** La Spia ***
Capitolo 20: *** Il Piano ***
Capitolo 21: *** Innocenti, parte I ***
Capitolo 22: *** Innocenti, parte II ***
Capitolo 23: *** Incontri inaspettati ***
Capitolo 24: *** La Moneta ***
Capitolo 25: *** La Presentazione ***
Capitolo 26: *** Icaro ***
Capitolo 27: *** Sodomita, parte I ***
Capitolo 28: *** Sodomita, parte II ***
Capitolo 29: *** Ritrovare sè stessi ***
Capitolo 30: *** Seppellire l'ascia di guerra ***
Capitolo 31: *** Arrivederci ***
Capitolo 32: *** “Ci vediamo a Roma, Leonardo” ***
Capitolo 33: *** Roma, parte I ***
Capitolo 34: *** Roma, parte II ***
Capitolo 35: *** Villa Pazzi ***
Capitolo 36: *** Il Banchetto di Fidanzamento ***
Capitolo 37: *** Promesse ***
Capitolo 38: *** L'Inizio della Fine ***
Capitolo 39: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

 
Costantinopoli, 1458
 
Si trovavano su una scogliera a picco sul mare. Poco lontano si poteva intravedere il profilo della città, con i suoi alti minareti.
Il piccolo gruppo stava osservando il cielo, dubbioso. Il sole era sorto da poco e grossi stormi di uccelli si muovevano frenetici nell’aria. Per i semplici quello non era nient’altro che un suggestivo spettacolo, ma non per il Turco. Al-Rahim aveva imparato parecchi anni or sono a prevedere il futuro semplicemente osservandoli.
“Cosa vedete, dunque?”, chiese Cosimo de Medici abbassando il cappuccio del mantello, mostrando la lunga barba bianca e un viso stanco, causato dalle fatiche che il viaggio da Firenze a Costantinopoli avevano provocato.
“I piani sono cambiati”, gli rispose il Turco, staccando finalmente lo sguardo dalla volta celeste. Osservò i presenti ad uno ad uno, finché i suoi occhi non si fermarono su una delle due giovani donne del gruppo.
Istintivamente Anna portò una mano sul grembo; si era accorta a metà del viaggio delle sue condizioni. Aveva spedito a suo marito, Filippo Becchi, una lettera in cui gli dava la lieta notizia ma lo informava anche che avrebbe proseguito il suo viaggio; sarebbe comunque tornata appena possibile a Firenze, appena il Turco avrebbe informato i presenti sul perché di quella improvvisa convocazione. Ma quest’ultima parte l’aveva omessa. Lui non poteva capire quello che aveva spinto la sua famiglia, secoli prima, ad unirsi alla confraternita dei Figli di Mitra. Ufficialmente quello era un viaggio diplomatico.
“La nuova vita che cresce dentro di voi… avrà un ruolo determinante, quando sarà il momento”, le disse sorridendo, “Aiuterà il Prescelto nella ricerca del Libro”.
Caterina non poté fare a meno di sorridere a sua volta; il Prescelto di cui il Turco parlava era il suo bambino, che in quel momento probabilmente giocava spensierato per i prati della tenuta del padre a Vinci. Un velo di malinconia scese sui suoi occhi, lo aveva dovuto lasciare a soli sei mesi per abbracciare il suo destino.
Gli occhi di Anna si illuminarono a quelle parole, onorata da quello che aveva sentito. Ma subito una sensazione di inquietudine le si diffuse per il corpo.
“L’aiuto che lui o lei dovrà dare, sarà nel bene o nel male?”, chiese con voce tremante.
“Questo dipenderà tutto da… Caterina potreste per favore controllare il sesso del futuro nascituro?”, disse Solomon Ogbai, l’Abissino.
Anna si sfilò dal collo il suo pendente, un cuore con decorazioni floreali incise sulla superficie che al suo interno nascondeva due piccole gemme, un diamante blu e un’ametista viola; lo portava sempre con sé. Era essenziale per i Figli di Mitra.
Porse quel piccolo oggetto a Caterina che lo posizionò a mezz’aria, all’altezza del ventre di Anna.
Il ciondolo cominciò a muoversi in senso circolare.
“Femmina!”, dissero all’unisono Carlo de Medici e Lupo Mercuri. Se invece quello si fosse mosso in senso orizzontale, allora si sarebbe trattato di un maschio.
“Lei un giorno si troverà di fronte alla scelta di aiutare o meno nella ricerca. Non possiamo sapere se sceglierà la luce o le tenebre…”, per un attimo lo sguardo del Turco si focalizzò sul  più giovane dei de Medici, per poi tornare ad osservare Anna, “… il fato di quella futura vita e del piccolo Leonardo non può essere predetto”.
“Appena vi sarà possibile dovrete incominciare l’addestramento, solo così sarà in grado di superare gli ostacoli che le si pareranno davanti”, il tono dell’Ebreo era serio.
Anna annuì. I suoi lunghi boccoli biondi si muovevano leggermente, trasportati dalla brezza mattutina.
Le avrebbe tramandato tutto quello che sapeva, nello stesso modo che la sua famiglia utilizzava da secoli.
Discussero ancora un po’ su quello che attendeva tutti loro e poi se ne andarono ognuno per la propria strada. Solo il Turco rimase dov’era. C’era una cosa che non aveva detto ai suoi compagni: due di loro li avrebbero traditi in nome di falsi idoli.
 
***
 
Firenze, 1459
 
Un pianto annunciò l’arrivo di una nuova vita. Anna guardò estasiata quella piccola creatura che la levatrice teneva tra le braccia. Era esausta, il parto era stato lungo e difficile, ma si sentiva felice, come mai prima d’ora.
“Come desiderate chiamar…”, Maria, la sua fidata cameriera, non riuscì a finire la frase. Anna riprese ad urlare, in preda a nuove e lancinanti contrazioni.
“Gemelli!”, urlò una delle donne presenti nella camera.
Alcuni minuti più tardi nacque anche il secondo. Si trattava di un’altra femminuccia.
Qualcosa però non andava, la bambina aveva un colore violaceo e non respirava.
Trattennero tutti il fiato.
Dopo alcuni secondi, che parvero lunghi ed interminabili, finalmente emise anche lei quel pianto tanto atteso.
“Come desiderate chiamarle?”, chiese la levatrice porgendo ad Anna quei due piccoli fagotti.
“La prima Lucrezia”,  disse, osservando la bambina, “Per la seconda chiedete a mio marito”.
Nessuno le aveva detto che sarebbero state due. I Figli di Mitra non le avevano dato indicazioni su chi delle due avrebbe aiutato il Prescelto.
Dopo una veloce occhiata alle piccole, le diede a Maria; che uscì dalla stanza per mostrarle al neo papà.
Anna era in preda ad un dubbio che rischiava di spaccarla in due. A chi avrebbe dovuto tramandare le sue conoscenze?
In quel preciso istante decise di scegliere Lucrezia.
 
Filippo attendeva agitato appena fuori dalla porta della loro stanza. Accanto a lui vi era in loro primogenito, Aramis. Un biondino di dieci anni.
Maria uscì e si diresse nella loro direzione. Era raggiante.
“Gemelle!”, urlò Filippo incredulo, osservandole.
“La bimba di destra è Lucrezia; mentre per quella di sinistra la Signora ha delegato voi, per scegliere un nome”, lo informò con un sorriso a trentadue denti.
Filippo e Aramis si osservano a vicenda, poi puntarono lo sguardo sulla piccola. Avevano entrambi pensato la stessa cosa. Poco prima stavano leggendo un mito in greco…
“Elettra!”, dissero all’unisono.
In quell’istante la piccola aprì i suoi grandi occhioni azzurri e li osservò.

Nda
Questa è la prima volta che pubblico un mio scritto. Spero vivamente di essere riuscita a stuzzicare almeno un pochino la curiosità di chi legge.

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Capitolo 2
*** Una giornata qualsiasi a Firenze ***


Capitolo I: Una giornata qualsiasi a Firenze
 
Firenze, 1477
 
Una sottile lama di luce filtrava attraverso le pesanti tende a motivi floreali che coprivano le ampie vetrate della camera.
Un raggio di sole andò a posizionarsi proprio sul suo viso, facendola ridestare da un sonno profondo.
Elettra aprì gli occhi a fatica.
La sera precedente aveva esagerato con il vino. Si tirò su a sedere, ripercorrendo mentalmente i fatti. Seppur offuscati dall’alcol, aveva parecchi ricordi. Solo una cosa le sfuggiva: come aveva fatto ad arrivare fino al suo letto?
Evidentemente qualcuno l’aveva accompagnata a casa, trasportata di peso, per essere precisi e, a quanto pare, l’aveva anche spogliata per metterla a letto. Il corsetto e i pantaloni appoggiati sulla poltrona ne erano la prova.
Un leggero rossore le si diffuse sulle guance.
Sapeva già chi avrebbe dovuto ringraziare: della sua compagnia di amici il giovane Nico era l’unico a rimanere sempre sobrio.
Tra un bicchiere e l’altro era anche riuscita a parlare con Giuliano de Medici… de Medici…!
Un’imprecazione le uscì fuori di bocca involontariamente.
Quel giorno aveva preso appuntamento con Lorenzo per parlare del suo nuovo progetto!
Si alzò di scatto e si diresse verso la finestra. Scostò il panneggio e guardò fuori: il sole era alto nel cielo ed aveva già passato la linea dello zenit.
Uscì di corsa dalla sua camera, in cerca di qualcuno che le dicesse un orario preciso. Fortunatamente Maria era nei paraggi, intenta a passare la scopa sulla scalinata di marmo bianco.
“Che ore sono?”, le chiese visibilmente agitata.
L’anziana governante le sorrise. “Le due, mia signora”.
Elettra si sentì morire. L’appuntamento era fissato per le due!
“Dite a Goffredo si sellare subito il mio cavallo”.
Avrebbe voluto fare un cenno d’assenso alla ragazza, giusto per farle capire che aveva recepito il messaggio, ma non ne ebbe il tempo: Elettra si era rimessa a correre per le scale, diretta in camera sua. Fece un lungo sospiro e la seguì.
Quando entrò nella stanza, la sua signora era intenta a lavarsi i capelli in un catino troppo piccolo per quello scopo; c’erano acqua e vestiti sparsi ovunque.
“Ieri sera qualcuno mi ha rovesciato un bicchiere di vino rosso sui capelli”, le disse a mo’ di spiegazione.
Maria storse il naso: per quanto volesse bene a quella ragazza, la sua condotta e i suoi modi di fare la lasciavano sempre perplessa.
“Desiderate mangiare qualcosa prima di uscire?”, le chiese.
“Berrò qualcosa dai Medici, sempre che Lorenzo non decida di giustiziarmi prima!”, per quanto tentasse di mantenere un tono serio, era chiaro che fosse divertita.
“Gentile Becchi non lo permetterebbe mai! Sappiamo bene entrambi che voi siete l’unica nipote rimastagli”, lo disse in tono scherzoso, ma per un attimo le parve che Elettra non fosse dello stesso parere.
Quello che le aveva appena detto era tremendamente vero: la gemella di Elettra era misteriosamente scomparsa quando era solo una bambina insieme con la madre dopo un agguato da parte di una banda di banditi; Elettra era miracolosamente rimasta illesa, mentre delle altre due non era rimasto neanche il corpo…
In poco meno di un quarto d’ora Elettra era pronta per uscire; l’unica eccezione erano i capelli ancora gocciolanti ma, nonostante fosse marzo inoltrato, la ragazza confidava che si sarebbero asciugati lungo il tragitto.
Maria, invece, era più preoccupata che le venisse un qualche accidente ad andare in giro così.
“A cosa vi serve il cavallo, se posso chiedere, Madonna?”, le chiese Goffredo appena uscita dal portone di casa. In effetti, per arrivare a palazzo, il cavallo serviva a ben poco, visto la vicinanza.
“Devo incontrarmi con Leonardo più tardi per un esperimento fuori città”.
Il nome di Da Vinci e la parola esperimento non promettevano mai nulla di buono pronunciati in frasi differenti, raggruppati nella stessa, poi, potevano significare solo guai. I due servitori si guardarono preoccupati mentre Elettra sorrise ad entrambi un’ultima volta, prima di salutarli ed uscire.
 
***  
 
Lasciò il cavallo ad uno dei servitori prima di entrare nel cortile interno del palazzo. Le campane vicine suonarono le due e mezza.
Elettra sospirò. Trenta minuti di ritardo non erano poi molti.
“Alla buon’ora!”, le disse una voce famigliare alle sue spalle. Elettra si voltò e sorrise a Giuliano.
“Porto buone notizie”, continuò il giovane, “ho fatto ritardare il tuo appuntamento con mio fratello”.
A quel punto la ragazza gli saltò al collo abbracciandolo con tutte le sue forze e gli diede un sonoro bacio sulla guancia.
“Sei il migliore”, gli sussurrò ad un orecchio.
“Visto le condizioni in cui la mia migliore amica versava ieri sera, ho pensato che questo fosse il minimo che potessi fare. Non so se ti sei resa conto che hai una pessima cera”.
“Anche tu non sei messo meglio”, gli rispose ridendo.
“Lorenzo ti aspetta per le tre. Hai ancora mezz’ora per rimetterti un po’ in sesto” detto questo la prese sotto braccio e la condusse verso le cucine dove un infuso caldo alle erbe l’attendeva.
 
Quella tisana aveva effetti miracolosi! Quando Elettra entrò nello studio del Magnifico si sentiva come rigenerata; ed il suo sorriso raggiante ne era la conferma.
Si salutarono amichevolmente; in fondo, si conoscevano da sempre.
Nella stanza, oltre ai due de Medici, c’era anche suo zio, Gentile Becchi, consigliere fidato della Signoria.
Becchi difficilmente lo avrebbe detto ma, più il tempo passava, più si sentiva fiero di quello che la sua nipotina stava diventando.
Per il suo diciottesimo compleanno Elettra non solo aveva ricevuto in dono quella splendida casa in cui ora abitava sola e che tanto adorava, insieme all’agognata indipendenza, ma anche il suo primo ruolo importante all’interno di Firenze.
“Allora, cosa ci racconta la nostra curatrice artistica?”, chiese Lorenzo sedendosi alla sua scrivania.
Alla corte del Magnifico il compito di Elettra consisteva nel curare al meglio l’immagine della Signoria; se necessario organizzando anche feste, spettacoli e carnevali.
“Vorrei parlarvi del mio nuovo progetto”, gli rispose lei porgendoli alcune carte.
Anni e anni presso la bottega del Verrocchio stavano dando i suoi frutti.
“Questi disegni rappresentano un edificio”, constatò il Magnifico.
Elettra sorrise. Lo aveva lasciato a bocca aperta. Prima di dare ulteriori spiegazioni spostò lo sguardo su suo zio che le sorrise a sua volta. Era stato il primo a cui aveva parlato di quel progetto e ne era sempre più entusiasta. Anche Giuliano ne era a conoscenza.
“Tra poco sarà l’anniversario di morte di vostro nonno Cosimo”, disse Elettra a Lorenzo, “Quindi ho pensato al modo migliore con cui rendergli omaggio”
Fece una piccola pausa teatrale ed aggiunse “Quale modo migliore se non quello di costruire un luogo dove conservare al meglio quella cultura a cui tanto teneva?”.
Prese un foglio più grande dal mazzo che aveva posto sulla scrivania e, con tono solenne, disse: “Signori, vi presento la Biblioteca Cosimo de Medici, la prima biblioteca pubblica sul suolo di Firenze”.
A Lorenzo il progetto piacque molto e le diede subito il suo benestare. Avrebbe presentato il suo progetto anche ad altre illustri personalità fiorentine, per cercare degli investitori che affiancassero i Medici nelle spese, ma disse ad Elettra di procurarsi tutto il necessario per far avviare i lavori il prima possibile.
Per Elettra quella era una magnifica giornata.
 
***
 
Arrivò al luogo prestabilito per l’incontro con Leonardo in notevole ritardo, tanto per cambiare. L’artista era intento a ritrarre Vanessa che, dal canto suo, era molto più interessata a scoprire cosa si celasse nell’animo di Leonardo.
Elettra sorrise. In tanti anni di amicizia, non riusciva sempre a capire cosa gli passasse per la testa; le volte in cui aveva anticipato le sue mosse si potevano contare sulla punta delle dita.
“E la tua Elettra, qual è la tua paura più grande?”, le chiese Vanessa.
Non fece in tempo a rispondere che un Nico tutto di fretta li raggiunse correndo; sembrava parecchio affannato.
“Verrocchio vi sta cercando”, disse rivolto a Leonardo.
“Dovrà aspettare”, gli rispose l’altro indifferente, “Abbiamo un esperimento da fare. E tu rivesti il ruolo principale”.
Nico sembrava parecchio preoccupato.
E la sua espressione parve farsi ancora più cupa, dopo che Da Vinci rimosse il lenzuolo che copriva un grosso carro, rivelandone il contenuto.
“Ci abbiamo lavorato parecchio, Nico, non puoi rovinare tutto adesso facendotela addosso”, gli disse Elettra ridendo.
Il loro duro lavoro consisteva in due grandi ali collegate ad un imbracatura; l’avevano studiata in modo che si adattasse perfettamente al povero Nico.
“Indossa l’imbracatura”, gli disse Leonardo.
“Cosa?”, vi era un misto di stupore e terrore nella sua voce.
“Oggi cercheremo di appurare se effettivamente queste ali offrono abbastanza resistenza all’aria da sollevare il tuo peso”, Da Vinci, dal canto suo, era parecchio eccitato.
“E se non funzionassero? Zoroastro l’anno scorso si è rotto una gamba per i vostri folli esperimenti!”
“Lo hai detto tu stesso, è successo l’anno scorso. Ora ci siamo parecchio migliorati”, gli rispose Elettra con il sorriso più convincente che riuscì a fare. 
Mentre un riluttante Nico veniva aiutato da Elettra ad indossare l’imbracatura, Leonardo osservava i nastri tra i capelli di Vanessa: in questo modo avrebbe dedotto la forza e la velocità del vento.
Una volta sistemato tutto, dopo una velocissima occhiata al retro del carro, Leonardo fece partire al galoppo i cavalli.
Alle sue spalle Nico lo supplicava di slegarlo.
“E se i vostri calcoli fossero sbagliati? Maestro vi prego! No!”, urlò mentre cominciava ad alzarsi in aria.
Elettra, che si era posizionata sul retro del carro, sorrise guardando i loro ottimi risultati. Leonardo, dopo aver posizionato le briglie in modo che i cavalli continuassero a galoppare dritti senza il bisogno di nessuno, le si mise di fianco, sorridendole e ridendo.
“Stai volando, Nico!”, urlò di gioia Vanessa.
“Sono perfette!”, fu la risposta dell’artista.
Proprio quando tutti stavano cominciando a rilassarsi, Nico compreso, la complicata carrucola, a cui erano legate le corde collegate alle ali, cedette.
Nico cominciò a salire pericolosamente in alto nel cielo.
Leonardo tirò alcune leve, che aveva previdentemente installato per bloccare il tutto in caso di bisogno. Niente. La corda continuava a scorrere.
Da Vinci guardò per un attimo Elettra negli occhi. A lei le parve di scorgere una piccola scintilla di paura, nelle iridi castane dell’amico. Si guardò intorno in cerca di qualcosa di utile.
Con un gesto fulmineo estrasse la spada che Leonardo teneva legata in vita e la conficcò al centro del meccanismo.
Il tutto si fermò.
Anche Nico da lassù si tranquillizzò: “Maestro, funziona!”, urlò stupefatto.
Quando lo tirarono finalmente giù aveva un sorriso a trentadue denti.
 
***
 
“Io odio questo posto!”, disse Nico mentre percorreva, insieme a Leonardo ed Elettra, Ponte Vecchio.
“Cosa?!”, gli rispose Da Vinci contrariato. Per una volta Elettra era d’accordo con l’artista. Adorava Firenze. Non c’era nessun’altra città così al mondo e lei ne era certa. Con la scusante di dover accompagnare suo zio in qualche viaggio diplomatico, aveva potuto ammirare e scoprire parecchi altri luoghi, anche fuori dall’Italia. Ma nessuno era come Firenze.
“Dove potremo sperimentare il volo se non a Firenze? In qualunque altra città finiremo sul rogo. Qui, invece, sono soltanto un altro eretico libero pensatore. Cultura. Caos… tutto trova accoglienza fra queste mura”, continuò a filosofeggiare Leonardo.
Elettra non poteva fare altro che dargli ragione: in quale altra città una ragazza avrebbe potuto frequentare la bottega di un artista? Oppure indossare un paio di pantaloni? O vivere tranquillamente senza essere sotto la tutela di nessun uomo? Per non parlare del lavoro che faceva…
Se avesse accettato di andare a vivere con suo fratello Aramis a Roma due anni prima, probabilmente ora si ritroverebbe a bruciare su una pira… con Leonardo al suo fianco, ovviamente.
Da Vinci, nel frattempo, continuava la sua orazione .
“Firenze chiede una sola cosa a coloro che ospita, d’esser sempre desti…”, si bloccò un attimo, come incantato, mentre un’elegante dama con un mantello color prugna gli passò di fianco. “…per angeliche visioni come quella”.
“Attento a ciò che dite, maestro. È Lucrezia Donati”, lo rimproverò Nico.
“La favorita di Lorenzo de Medici. So benissimo chi è.”, gli rispose l’artista.
“Finirete sulla ruota se vi coglie a guardarla”, continuò Nico.
“Posso confermare. Lorenzo è parecchio geloso delle sue cose”, si intromise Elettra.
“E se cogliesse lei a guardare me?”, disse con aria sognante.
Elettra alzò gli occhi al cielo. Leonardo sapeva essere davvero cocciuto a volte!
Mentre erano ancora occupati a discutere della nuova amante del Magnifico, passò un cavaliere al galoppo; sembrava andare parecchio di fretta.
“Cattive notizie da Milano”, proferì Da Vinci.
Per una volta Elettra sperò che il suo geniale amico avesse sbagliato. Ma avrebbe presto scoperto il contrario.


Nda
Non c'è molto da dire su questo capitolo... come si intuisce già dalle prime righe, Elettra è una persona che non si annoia molto facilmente.
Scusate se ho rovinato così le scene originali della serie inserendo battute a caso ma mi diverto troppo a farlo. 
 

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Capitolo 3
*** Il Turco ***


Capitolo II: Il Turco
 
Il giorno dopo…
 
“Un altro carnevale?”, chiese Elettra stupita.
Si trovava nello studio del Magnifico. Era stata convocata lì di prima mattina per parlare di questioni urgenti. L’assassinio del duca Sforza aveva mandato nel caos l’intera corte medicea e, all’interno di quella stanza, l’ambiente s’era fatto parecchio pesante; niente a che vedere con l’atmosfera rilassata del giorno precedente.
“Proprio così!”, le rispose Giuliano.
“Firenze ora è sola, dobbiamo dimostrare al popolo che siamo comunque forti”, disse Lorenzo.
Elettra sapeva benissimo di cosa stava parlando; lei e Becchi ne avevano discusso spesso, del futuro della repubblica, in caso di rottura dell’alleanza con Milano. Sapeva a cosa Firenze sarebbe andata incontro.
Annuì. Avrebbe avuto un carnevale da organizzare.
“Mi date carta bianca o avete già qualche idea?”, disse rivolta a tutti i presenti.
“Niente di troppo sfarzoso”, rispose Lorenzo.
“La colombina, qualche fuoco d’artificio, qualche musico, un po’ di saltimbanchi…”, Becchi sembrava le stesse dettando la lista della spesa.
“Per la colombina mi posso informare io”, aggiunse Giuliano.
“Potresti chiedere a Leonardo Da Vinci, per la costruzione della colombina. Sta facendo parecchie ricerche sul volo e sono certa che sarà magnifica”, disse Elettra con un grande sorriso.
“Il figlio bastardo del nostro notaio? Avevo sentito che era un artista”, il volto di Lorenzo esprimeva perplessità.
“Ha molti interessi.” lo corresse Elettra, aggiungendo poi “Dico davvero, Giuliano, ti conviene andare da lui.”,.
“E dove dovremmo andare, precisamente?”, chiese Becchi.
“Alla bottega del Verrocchio”
 
***
La sera successiva…
 
“Organizzare questo carnevale mi sta prosciugando tutte le energie e devo bere”, disse Elettra posando una grossa caraffa ricolma di vino sul tavolo.
Si trovava al “Can che Abbaia”, una nota osteria fiorentina in compagnia di Nico, Leonardo e Zoroastro.
A differenza sua, gli altri erano di pessimo umore; l’argomento di conversazione fu la situazione di Firenze, tesa a causa della dipartita di quel maiale dello Sforza. A palazzo non si parlava d’altro e sperava che almeno lì si potesse svagare un po’; ma a quanto pare non era così.
Trasse un sospiro di sollievo quando Zoroastro decise di parlare del vitello a due teste nato morto alla fattoria di un suo amico; come al solito sperava di poterlo vendere a Leonardo per i suoi studi di anatomia ma l’altro non accettò.
Sembrava che l’evento più divertente della serata fosse la battuta di Nico riguardo ai carciofi; Elettra aveva sentito quella frase almeno un milione di volte.
“Io non mangio niente che abbia un cuore”, aveva detto Leonardo a Zoroastro dopo che quest’ultimo gli aveva offerto del salsiccio di maiale.
“E i carciofi allora?”, era intervenuto.
“Smettila Nico!”, lo avevano zittito tutti in coro.
Poi era arrivato Jacopo Saltarelli a fare gli occhi dolci a Leonardo che, ovviamente, lo aveva mandata via. Si vedeva lontano un miglio che quel prostituto si era preso una cotta per lui.
Per rallegrare un po’ la situazione Zoroastro aveva tirato fuori da una tasca delle carte dei tarocchi che, a detta sua, servivano per predire il futuro.
“Dai, scegline una Nico.”
“Ah si? È un trucco!”, gli rispose l’altro poco convinto.
“Forse o forse evoco il potere degli antichi”, disse in tono esageratamente teatrale.
“Con quante donne ha funzionato questa frase?”, chiese Leonardo.
“Una quantità considerevole. Tuttavia non con l’unica che desidero”, disse guardando con fare malizioso Elettra. Quest’ultima decise di stare al gioco e, con movimenti lenti e seducenti appositamente studiati, si alzò andando poi a sedersi sulle ginocchia di Zoroastro.
“Non a tutte le donne interessano questi passatempi, ne esistono sempre di più piacevoli”, gli sussurrò a voce bassa in un orecchio.
Scoppiarono tutti a ridere.
“Scegline una anche tu”, continuò Zoroastro.
“Solo se Leonardo lo fa con me”
L’altro sbuffò: come Elettra, non credeva minimamente a quelle cose ma allungò comunque una mano e, dopo una breve occhiata alla ragazza, per decidere che carta estrarre, ne scelsero una e la mostrarono all’improvvisato indovino.
“Queste carte non svelano solo il temperamento ma anche il fato. Questa carta rappresenta il sacrificio, la sospensione fra la vita e la morte e poi, forse, una grande rivelazione.”, ancora quel tono esageratamente teatrale.
“A me sembra solo un uomo appeso per una gamba. Ed è pure fatto male, io ti saprei fare un disegno migliore”, scoppiò a ridere Elettra.
La testa di Leonardo, invece, aveva cominciato a viaggiare e lui aveva quel suo solito sguardo perso nel vuoto tipico di quando ragionava. Ad un certo punto si illuminò. Aveva certamente avuto un’idea.
“Quei mercenari, Firenze non ha un esercito, quindi vendono la loro forza”
“Ed ecco che si ritorna a parlare di questo”, pensò Elettra.
“Forse c’è un modo redditizio per sfruttare le difficoltà della repubblica”
“Quale modo?”, Nico sembrava scettico.
“Quello di promuovere me stesso come ingegnere militare non come artista. La guerra è sempre stata l’ancella del progresso. Per poter sviluppare le mie idee devo farle apparire utili  per la difesa di Firenze”
“Perché quelle guardie ce l’hanno tanto con quell’uomo?”, chiese Nico cambiando discorso.
Elettra fino a quel momento non aveva fatto caso a quello che avveniva intorno al loro tavolo ma, alle parole del giovane, alzò subito lo sguardo.
Aveva un viso famigliare…
Improvvisamente si ricordò dove l’aveva già visto.
 
Aveva si e no otto anni e, come spesso accadeva, si trovava a Palazzo Medici. Stava giocando a nascondino con Giuliano e si era rifugiata nell’anticamera dell’ufficio di Cosimo de Medici, che all’epoca era ancora vivo. Si doveva essere nascosta davvero bene perché un ristretto gruppo di persone le era passato davanti senza notarla; dai loro sguardi si poteva capire che erano intenzionati a passare inosservati. La cosa intrigò ancora di più la piccola che, una volta accertatasi che tutti si fossero sistemati all’interno e che nessuno stesse spiando, sgusciò fuori posizionandosi vicino ad una vetrata che permetteva di vedere chi c’era dentro. Quello che vide la lasciò perplessa: intorno ad un grande tavolo c’erano seduti Cosimo, un signore con un cappello da ebreo, un uomo con dei pesanti segni a matita intono agli occhi, sua madre Anna e sua sorella Lucrezia.
“Cosa ci fanno là quelle due?”, si disse. Si sentiva parecchio esclusa. Nonostante fosse la copia vivente di Lucrezia, sua mamma quasi non la considerava; se ne stava sempre chiusa nel suo studio insieme alla gemella e, le poche volte che le rivolgeva la parola, era solo per sgridarla.
Gli osservò mentre discutevano; da quel poco che riusciva a capire sembravano tutti parecchio agitati.
Ad un certo punto sentì una mano poggiarsi sulla sua spalla. Senza volerlo cacciò un piccolo urlo. Quando finalmente decise di voltarsi si ritrovò a fissare il rassicurante sorriso di Carlo de Medici.
“Le brave bambine non dovrebbero origliare i discorsi dei grandi” le aveva detto, invitandola ad uscire prima che qualcun altro la scoprisse.
Fu l’ultima volta che Elettra lo vide. 
 
Quell’uomo, che le guardie della notte stavano maltrattando, aveva dei pesanti segni neri a matita intorno agli occhi… era lo stesso che aveva visto quel giorno dai Medici.
“E’ un turco, un infedele, non è sufficiente?”, disse distratto Zoroastro.
“Io lo conosco”, esordì Elettra.
La guardarono tutti stupiti.
“Era amico di Cosimo de Medici”, si spiegò lei alzandosi dal tavolo e poggiando una mano sull’elsa della spada.
Leonardo la osservò un po’ prima di seguirla.
“No, non è la vostra battaglia ragazzi”, provò a convincerli Zoroastro.
“E quando mai questo mi ha fermato” gli rispose Da Vinci.
Si diressero insieme verso gli assalitori.
“Scusate, cosa accade?”, disse Leonardo rivolto al Capitano Dragonetti.
“Tornatene ai tuoi sgorbi, scribacchino. Non ti riguarda”, lo intimò l’altro puntandogli contro la spada.
“No, non lo farà”, si intromise Elettra.
A quel punto le si pararono davanti due guardie, con le armi alzate. Diede un veloce sguardo a Leonardo, aspettando di vedere cosa avrebbe fatto l’amico. Non era il suo primo litigio con la milizia fiorentina e sapeva bene come combattere.
Mentre un apparentemente innocuo Leonardo ne disarmava uno con estrema facilità, lei estraeva la spada e, dopo appena due tocchi, riuscì nello stesso intento. Ma quegli uomini sapevano essere molto cocciuti e, infatti, ne arrivarono altri tre, che fecero la stessa fine di quegli altri. Non era neanche divertente, in quel modo, pensò Elettra. Credeva che le persone pagate per proteggere Firenze sapessero fare qualcosa di meglio, come per esempio non farsi battere così facilmente da una donna.
“Tormentate qualcun altro, Dragonetti”, disse alla fine Leonardo.
L’altro, ferito nell’orgoglio, se ne andò lanciandogli occhiate di fuoco.  
 Nel frattempo Elettra si era avvicinata al turco, per controllare che stesse bene.
“Va tutto bene?”, chiese Da Vinci.
“Molto più che bene. Sono foglio della terra e del cielo stellato…”
“…di sete sono arsa. Vi prego, fate che io mi disseti alla fontana della memoria”, Elettra senza neanche accorgersene aveva completato la frase del turco. Quelle parole le erano uscite spontanee. Gliele aveva insegnate Cosimo de Medici diversi anni prima e, dalla sua morte, era la prima volta che le sentiva di nuovo.
Leonardo la guardò stupita.
Il Turco invece continuò a parlare. “Farò ritorno a Costantinopoli fra due giorni ma sono alloggiato presso la locanda del cigno nero. Venite a trovarmi prima che parta”
Detto questo lanciò a Da Vinci una strana moneta.
“Spero di rivedervi presto, Elettra”, aggiunse prima di andarsene.
La ragazza era parecchio stupita. Come faceva quell’uomo a conoscere il suo nome?
 
Dopo qualche altro bicchiere di vino, anche loro decisero che era ora di tornare a casa. Elettra aveva bevuto molto ma, nonostante questo non era ancora ubriaca, Leonardo e Nico erano normali, mentre Zoroastro si reggeva a stento in piedi e raccontava strane storie riguardo alle sue conquiste…

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Capitolo 4
*** I Figli di Mitra ***


Capitolo III: I Figli di Mitra
 
“La morte di un uomo non dovrebbe essere definita divertente”, si ripeté nuovamente Leonardo. Solitamente non andava mai ad assistere alle esecuzioni pubbliche, ma quella mattina, in qualche modo, Zoroastro lo aveva convinto ad andarci insieme a lui e Nico. Di lì a momenti sarebbe stato impiccato un ebreo, sorpreso a rubare nella via dei librai.
Il poveretto se ne stava là, sul patibolo, con la paura negli occhi; era stato malamente rasato in testa e, molto probabilmente, picchiato dai suoi carcerieri. Indossava una lunga tunica lercia.
La folla aveva riempito la piazza ed incitava festante il boia a sbrigare il suo lavoro, impaziente di lanciare uova e frutta marcia e di fare scempio del cadavere del semita.
Era un'usanza barbara, pensò ancora Leonardo, che stonava con Firenze e la sua aura di progresso.
Poco prima che la botola si aprisse l'ebreo parlò e quelle parole fecero gelare il sangue nelle vene di Da Vinci. “Sono figlio della terra e del cielo stellato, di sete sono arso. Vi prego, fate che io mi disseti alla fontana della memoria”, disse.
Un attimo dopo il suo corpo senza vita penzolava davanti ai presenti.
Nico e Zoroastro guardarono l'amico, che sembrava parecchio impressionato da quella scena così cruda.
“Devo trovare Elettra”, disse semplicemente l'altro prima di andarsene via di fretta.
 
***
 
Elettra si trovava nella piazza del Duomo, intenta a dirigere i preparativi per il carnevale che si sarebbe tenuto a breve. In particolare, quando Leonardo arrivò, stava urlando ordini ad un uomo in bilico su una delle impalcature poste sul muro della grande chiesa. Sembrava parecchio irritata.
“Devo parlarti”, le disse.
“Al momento sono molto occupata, Leonardo, ne parliamo dopo”
“É importante”. Le mise una mano sulla spalla per trattenerla lì con lui.
La ragazza lo guardò negli occhi e si rassegnò a quella pausa imprevista. Fece cenno agli operai di fermarsi un attimo, avrebbero ripreso più tardi.
“Dimmi tutto”, si stava preoccupando per l'amico.
“L'ebreo che hanno giustiziato oggi...”
“Non sapevo che avrebbero giustiziato un ebreo oggi”, quando Elettra aveva un progetto in ballo si isolava dal mondo esterno.
“Sì, poco fa... Comunque, prima di morire mi ha guardato e ha ripetuto anche lui la frase che ti aveva insegnato Cosimo de Medici!”
La ragazza corrugò la fronte, quel fatto aveva un che di strano. Era già la seconda persona che ripeteva quella frase in poche ore. Non poteva essere un caso.
“Dobbiamo andare dal turco”, gli disse l'artista.
“Ne avevamo già parlato ed eravamo d'accordo sul lasciar perdere...”
“Dobbiamo andare”, gli ripeté e, al vedere Elettra guardare in direzione del cantiere, aggiunse “Subito”.
 
***
Si trovavano davanti all’insegna della Locanda del Cigno Nero. Elettra si chiese per la millesima volta perché avesse accettato di seguire Leonardo fino a lì. Aveva un carnevale da organizzare ed era rimasto poco tempo per farlo. Non sarebbe dovuta andare via. A consolarla un po’ c’era comunque il fatto che, per qualsiasi progetto assegnatole, creava bozzetti in modo che, nel caso le fosse successo qualsiasi cosa che le avesse impedito di lavorare, chiunque, anche un bambino, seguendo alla lettera le sue istruzioni, lo avrebbe portato a termine. Aveva lasciato tutto al capo degli operai, sperando che questo non volesse fare tutto di testa sua. Odiava delegare agli altri.
“Alloggia qui uno straniero, un uomo turco?”, chiese all’oste Leonardo, entrando.
“Lo troverete presso le rovine romane, a nord della città”, gli rispose.
Elettra imprecò mentalmente. Non le restava altra scelta che attraversare tutta la città con Da Vinci. Come se lei avesse tutto quel tempo!
“Muoviamoci. Prima tu incontri questo turco, prima io posso tornare ai miei compiti”, gli disse seccata.
 
***
 
Elettra conosceva molto bene quelle rovine romane, le aveva studiate a fondo anni prima. Eppure c’era qualcosa di strano, rispetto alle altre volte che ci era stata. Anche l’atmosfera le sembrava diversa. Più misteriosa. Forse, a farle quell’effetto, erano anche la moltitudine di candele accese disposte in ogni angolo possibile.
Camminarono per parecchio, visitando diverse stanze. Ma del Turco neanche l’ombra. Poi notarono che una delle grandi lastre disposte sotto le colonne portanti di quello che probabilmente era stato il salone principale, era stata spostata. Nello spazio lasciato vuoto si poteva osservare una stretta scala a chiocciola in pietra.
Dopo una breve occhiata, decisero di scendere.
Alla fine dei gradini vi era una piccola stanza. Quello che colpì di più i due giovani fu la presenza di una grande statua in granito che rappresentava uno strano mostro composto da parti di diversi animali. Ai piedi di essa vi era seduta la persona che andavano cercando.
Sorrise nel vederli.
“La storia è una menzogna affilata come una lama da chi ha celato la verità. Nei secoli avvenire anche la vostra storia sarà dissimulata.”
“Voi come fate a sapere tutto questo?”, chiese Leonardo.
“Conoscete il detto 'Il tempo è un fiume'? Ciò che pochi arrivano a comprendere è che il fiume è circolare. La morte di un uomo apre sempre la porta alla nascita di un altro”, era un chiaro riferimento all’ebreo.
“Ho visto giustiziare un uomo e prima di morire mi ha guardato e ha detto…”
“Sono figlio della terra e del cielo stellato, di sete sono arso. Vi prego, fate che io mi disseti alla fontana della memoria.”, fece una breve pausa, “E’ un’invocazione, un modo per i membri della confraternita di riconoscersi”.
“Noi non siamo membri della confraternita”, ribatté Elettra.
“Siete sicuri? Questo tempio una volta era il luogo di culto di una religione che ha avuto origine molto tempo prima di Cristo. Siamo conosciuti come i Figli di Mitra. Molta parte di ciò che viene chiamato progresso è semplicemente il ricordare ciò che è stato dimenticato, conoscenze che sono raccolte in un compendio noto come il Libro delle Lamine. Recentemente sono venuti alla luce alcuni indizi sull’ubicazione del libro. Abram Ben Youseff*…”, l’espressione sul suo volto mutò in una piccola smorfia di dolore, era chiaro che il Turco lo conosceva molto bene, “…stava seguendo quegli indizi quando è stato imprigionato e messo a morte. Forse avete sentito degli archivi segreti istituiti dal Vaticano. Li cura un uomo di nome Lupo Mercuri…”, anche nominare il curatore degli archivi segreti era doloroso, “…un tempo era un figlio di Mitra. Noi cerchiamo di diffondere e preservare la conoscenza, lui spera di alterarla o sopprimerla.”
“Io ancora non capisco cosa questo abbia a che fare con me o con Elettra.”, Leonardo era confuso.
“Cosa sapete di vostra madre?”, gli chiese il Turco senza badare alle parole che Da Vinci aveva pronunciato poco prima.
“Quasi niente. È scomparsa… era una serva, credo”
“Era una schiava, potata qui da Costantinopoli contro la sua volontà.”. Al-Rahim continuava a parlare con Leonardo ma Elettra non gli ascoltava più, erano sono un brusio di fondo. La sua mente era lontana, persa in ricordi che credeva di aver sepolto per sempre. 
“Cercherete il Libro delle Lamine”, disse il Turco dopo alcuni minuti. La ragazza si risvegliò dai suoi pensieri. “Il fato vi ha scelti”, disse rivolto ad entrambi.
“Da dove inizio la ricerca?”, chiese Leonardo.
“Dall'appeso. Nella sede dell'anima. La porta è già stata aperta per voi”
“E mia madre?”
“Lei vi sta già aspettando, dall'altra parte. Tutto ciò che dovete fare è entrare”.
Solo in quel momento Elettra si accorse che il Turco teneva qualcosa in mano, una strana polverina bianca simile a farina. Ma certamente non era farina.
Al-Rahim la soffiò in faccia a Leonardo, che cadde immediatamente a terra, addormentato.
La ragazza si alzò di scatto dal tappeto su cui era seduta, portando una mano sull'elsa della sua spada.
“E ora veniamo a voi, Elettra”, gli disse spostando su di lei tutta la sua attenzione. La sua espressione aveva un che di paterno.
Elettra però non si fidava di lui. E il Turco parve capirlo.
“Riponete la vostra arma e sedetevi, vi prego.”, le disse con un sorriso. Nonostante tutto aveva un tono molto convincente.
Si sedette con circospezione, attenta ad ogni mossa sospetta dell'altro.
“E' arrivato il momento di parlare della vostra, di madre”. Elettra non ne parlava mai con nessuno, era sempre stato un argomento  delicato e doloroso.
“Lei e mia sorella erano due figlie di Mitra, non è vero?”
L'altro fece un sorriso compiaciuto. “Esattamente. Vostra madre conservava per la confraternita importanti documenti. Ma il tesoro più prezioso so per certo che lo avete voi, appeso al collo”
Elettra portò una mano al ciondolo a forma di cuore che aveva al collo. Sua madre lo aveva donato a Lucrezia, poco prima dell'agguato, ma la sorella aveva insistito perché glielo tenesse lei. “Sarebbe stato più al sicuro”, le aveva detto. Da quel giorno lo aveva sempre portato con sé.
“Affiderete una ricerca anche a me, come avete fatto con Leonardo?”, gli disse in tono di sfida.
“In un certo senso. Voglio che recuperiate quei documenti. Vostra madre, prima di scomparire, stava addestrando vostra sorella per il recupero del Libro delle Lamine. Ma non era Lucrezia la prescelta, Anna ha scelto la gemella sbagliata. Il tempo è giunto ma voi non siete preparata. Confido che qualunque cosa troverete, vi sarà di grande aiuto. Il vostro destino è quello di affiancare Da Vinci in quest'impresa. Ma potrete riuscirci solo con i giusti mezzi.”
Elettra ci stava capendo davvero poco.
“Dove devo cercare?”, gli chiese.
“Voi lo sapete già”. La ragazza aveva un brutto presentimento. Non avrebbe mai messo piede in casa dei suoi genitori. Quel luogo conteneva troppi ricordi dolorosi e nessuno ci era più entrato, dopo quella tragedia. Non lo avrebbe di certo fatto lei.
Il Turco parve capire. “Dovete fare in fretta, per il bene di tutti”.
Dopodiché prese una strana moneta, identica a quella che aveva dato nella locanda a Leonardo, e incominciò a farla roteare sul terreno.
“Imparerete presto ad usarla, se deciderete a fare quello che vi ho consigliato.”, le disse riferito al piccolo oggetto rotondo, “Ricordate le parole che vi hanno insegnato. E state attenta agli indizi lasciati solo per voi.”
Poi fu tutto buio.
Gli occhi di Elettra ci misero un po', prima di abituarsi a quell'oscurità. Non c'era più niente in quella stanza, anche la statua, che doveva pesare diverse tonnellate, era scomparsa. Restavano solo lei e Leonardo, che dormiva profondamente. Come diavolo aveva fatto quell'uomo a far sparire tutto?
Vi era qualcosa che luccicava, sul terreno. Era la moneta. La raccolse e se la ripose tra le pagine del suo blocco da disegno. Poi si mise il tutto in tasca.
Stava per avvicinarsi a Leonardo, per svegliarlo, quando sentì dei passi nella sua direzione. Estrasse la spada dal fodero, senza fare rumore, e si acquattò contro il muro, vicino all'entrata. Sapere che vi erano altre persone in giro per le rovine non le piaceva per niente. Era senz'altro un posto frequentato da gente poco raccomandabile, quello.
I passi si fecero sempre più vicini, stavano scendendo la scala a chiocciola. Gli avrebbe colti di sorpresa.
Uno di quegli uomini stava per varcare la soglia. Riuscì a fermarsi giusto in tempo, con la spada a mezz'aria.
“Stavi cercando di farci fuori?”, chiese Zoroastro leggermente pallido.
Elettra trasse un profondo respiro di sollievo.
“Dove eravate finiti? Sono ore che vi cerchiamo. Ormai è quasi l'alba!”
La ragazza lo guardò con gli occhi fuori dalle orbite. Non credeva di aver passato così tanto tempo là sotto. Doveva aver perso la cognizione del tempo. Era scomparsa la mattina precedente senza dare spiegazioni a nessuno. Suo zio e i Medici dovevano essere senz'altro preoccupati.
“Il carnevale, cazzo!”, disse prima di correre su per le scale.
“E il maestro?”, chiese Nico preoccupato nel vederlo a terra privo di sensi.
“Gli ha dato qualcosa per farlo dormire”, gli urlò Elettra ormai giunta in cima. “Non preoccuparti, prima o poi si sveglierà”.
Poco dopo sentirono il rumore di un cavallo lanciato al galoppo.


Nda
*Mi scuso con i lettori per come ho scritto, è più corretto inventato, il nome dell'Ebreo, ma davvero non sapevo come fare e anche in giro non sono riuscita a trovarlo. Scusate ancora 
 

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Capitolo 5
*** Il Carnevale ***


Capitolo IV: Il Carnevale
 
Elettra si fermò poco prima di casa sua e scese da cavallo. Ormai era l'alba. Non voleva dare nell'occhio. Girò l'angolo e, quando fu in vista della sua dimora, si arrestò: c'era un piccolo drappello di guardie della notte, là davanti. La cosa che la fece preoccupare ancora di più, però, fu la carrozza con lo stemma della famiglia de Medici, parcheggiata davanti al suo cancello. Non prometteva niente di buono. Decise di farsi forza e si incamminò in quella direzione.
Riconobbe Bertino, tra quegli uomini.
“Elettra, finalmente! Eravamo tutti preoccupati per voi!”, le disse abbracciandola. Tra tutte le guardie di Dragonetti, Bertino era l'unico con cui non aveva mai litigato.
“Sono nei guai, vero?”, gli chiese.
“No, non penso. Però siete sparita così all'improvviso... vostro zio era parecchio preoccupato, come tutti in fondo, e Giuliano non ha fatto altro che camminare avanti e indietro per tutta la notte”, le disse mentre la scortava nel salotto.
Bussò alla porta e, dopo un secco “Avanti” del Magnifico, che faceva trasparire tutta la sua ansia, fece cenno ad Elettra di entrare. Prese un profondo respiro ed aprì la porta.
Al vederla Becchi si alzò di scatto dalla poltrona su cui era seduto dalla sera precedente e corse ad abbracciare la nipote.
Elettra poteva contare sulla punta delle dita le volte in cui le aveva dimostrato tutto quell'affetto davanti ad altre persone. Significava che era davvero preoccupato.
“Alla buon'ora”, le disse Lorenzo avvicinandosi.
 Giuliano invece le stava a debita distanza, sembrava l'unico adirato, in quella stanza.
“Signora, finalmente siete qui!”, Maria irruppe nella stanza dalle cucine urlando e dimenticandosi dell'etichetta. Portava ancora il grembiule da cuoca sporco di farina. Quella ragazza le avrebbe fatto venire un infarto, prima o poi. “Avete bisogno di qualcosa? Vi preparo qualcosa da mangiare o bere? O preferite farvi un bagno caldo?”. La stava sommergendo di domande e la sua ansia traspariva ad ogni parola.
“L'ultima cosa che avete detto. Grazie, Maria”, le rispose.
“Dove sei stata tutto questo tempo?”, le chiese Becchi una volta che la serva fu uscita.
Ed ecco la domanda fatidica.
Elettra non poteva di certo dirgli che era andata con Leonardo ad incontrare un infedele con non tutte le rotelle al posto giusto. E che quest'ultimo le aveva parlato della setta eretica a cui apparteneva. E che inoltre aveva scoperto che anche sua madre e sua sorella erano delle eretiche, delle adoratrici uno strano dio pagano. E che quel Turco le aveva affidato il compito di continuare per quella strada. No, non poteva farlo.
“Avevo bisogno di schiarirmi le idee, non mi sono accorta del tempo che passava”, gli disse semplicemente. Sapeva benissimo che come bugia non stava in piedi.
Becchi si limitò a sospirare.
“Lo dicevo io che frequentare quel Da Vinci non avrebbe portato a niente di buono! Stai diventando come lui!”, le urlò Giuliano.
“Giuliano, basta. L'importante è che Elettra stia bene e che sia qui.”, ribatté Lorenzo. “Però la prossima volta che decidi di prenderti una pausa avvisa qualcuno di noi. E preferibilmente evita di andartene nel bel mezzo di qualche lavoro”. Il Magnifico non era per niente arrabbiato anzi, sembrava divertito da quella strana situazione. Le sorrise e lei lo trovò molto confortante.
Elettra annuì. Aveva recepito il messaggio.
Becchi nel frattempo si era perso nei suoi pensieri. Sapeva bene che quello che la nipote gli aveva detto non era vero ma non gli importava; anche se lei magari non se ne rendeva conto, lui era informato su tutto quello che quella ragazza faceva, uscite all'osteria comprese. Eppure non riusciva mai ad arrabbiarsi con lei. Appena vedeva quei grandi occhioni azzurri specchiarsi nei suoi, si dimenticava di tutto il resto. Aveva rischiato di perderla troppe volte, per avere il coraggio di prendersela con lei. Anche se per l'aspetto sembrava la fotocopia della madre da giovane, il comportamento, e quel suo particolare modo di porsi di fronte agli altri, erano identici al padre. Entrambi passionali ed irriverenti, sempre con l'idea pronta. A differenza di Lucrezia ed Aramis, che avevano ereditato da  Anna il modo di ragionare, ponderando sempre bene le proprie scelte; Filippo ed Elettra tendevano ad essere impulsivi, ragionando più con il cuore che con la testa. E proprio in quello, stava la loro genialità.
“Sarà meglio che vada, o l'acqua del bagno si raffredda”, disse alla fine la ragazza, congedandosi dal piccolo gruppo.
 
*** 
 
Nonostante la rassicurante sensazione che l’acqua calda le dava al contatto con la sua pelle, Elettra non stava per niente bene. Ripensava alle parole che il Turco le aveva detto; a quello che aveva scoperto su sua madre. Tutti quei pensieri le stavano causando parecchio fastidio. Conosceva bene quei sintomi: la gola che si restringe, il respiro corto e affannato e lo stomaco rivoltato. Credeva di essere ormai riuscita a controllare gli attacchi di panico, che avevano cominciato a perseguitarla dopo la tragedia che aveva colpito la sua famiglia, ma a quanto pare non era così. L’altra volta li aveva sconfitti grazie alla pittura, alla bottega del Verrocchio e a quell’artista un po’ folle che l’aveva presa subito in simpatia.
Chiuse gli occhi, cercando di svuotare la mente e di rilassarsi un po’.
 “ ‘Avevo bisogno di schiarirmi le idee, non mi sono accorta del tempo che passava!’ Che razza di scusa è questa?!”, urlò Giuliano facendo irruzione nella stanza.
La ragazza lo guardò spaventata. Non lo aveva mai visto così fuori dagli stracci.
“Ora dimmi dove sei stata realmente”, continuò.
Non poteva dire neanche a lui, il suo migliore amico, la verità. Si sentiva in colpa. Tanto in colpa. Gli occhi le divennero lucidi e una lacrima solitaria le rigò il volto.
“Ho incontrato un amico di mia madre che mi ha raccontato alcune cose su di lei che io fino a questo momento ignoravo”, era la versione che più assomigliava alla verità che poteva dirgli.
L’altro sembrò capire il perché lei stesse così male.
“Tua madre era una strega. Non vale la pena versare queste lacrime per lei”, gli disse dolcemente avvicinandosi ancora un po’ alla vasca da bagno.
Elettra gli fece un sorriso tirato. Nonostante quella donna non avesse mai mostrato interesse per lei, era pur sempre sua madre.
Giuliano decise di fare ancora qualche passo in avanti.
Elettra si ricordò solo in quel momento di essere in una vasca da bagno completamente nuda. Arrossì un po’ e fece per immergersi più di quanto già non fosse, coprendosi alla meglio con la schiuma.
Il de Medici si mise a ridere, di fronte alla reazione della ragazza.
“E così non ti importa niente di posare nuda per una statua da mettere in bella vista a palazzo, ma di colpo arrossisci e tenti di coprirti se ad osservarti è il tuo migliore amico?”, le disse scherzosamente.
“Passami l’asciugamano, per favore”, sembrava che Giuliano ce l’avesse fatta a tirarle su un po’ il morale.
“Vai a prendertelo da sola, il tuo asciugamano”
“Non voglio bagnare in giro, passamelo”
Il de Medici si mise a ridere un'altra volta. Era divertente provocare Elettra.
A quel punto, la ragazza, sconsolata, si alzò velocemente e fece per andare in direzione della poltrona, dove si trovava il telo, ma Giuliano le si parò davanti e lei finì per sbattere contro il suo petto. I loro visi erano pericolosamente vicini. Lui fece per accorciare quella distanza ma Elettra voltò il viso dall’altra parte.
“Giuliano ne abbiamo già parlato. Ci tengo troppo a te per rovinare tutto così”
A quel rifiuto, decise di fare qualche passo indietro. Ridendo per essere stato così stupido.
“Sai qual è il tuo problema?”, gli disse lei scherzosamente.
Al silenzio dell’amico decise di proseguire. “Quando vedi un bel visino non capisci più niente”.
“Non sono solo gli occhi”
“Non volevo essere così volgare ma tu mi hai costretto! Allora diciamo pure che quando vedi un bel visino, con un bel paio di tette e un bel culo tu vai in confusione”
“Te lo concedo”
Si misero entrambi a ridere, questa volta.
Poi sentirono dei passi.
“Questo è mio zio. Penserà male vedendoti qui. Nasconditi!”
“E dove?”, le chiese l’altro confuso.
“Inventati qualcosa!”
Becchi si mise a bussare alla porta. “Elettra tutto bene? Posso sapere con chi sei?”
“Con nessuno”, gli disse lei aprendo la porta quel tanto che bastava per mostrare la faccia allo zio, “Stavo facendo il bagno”.
“Eppure ho sentito delle voci”, le disse poco convinto.
Elettra si fece da parte, consentendogli di entrare; nel frattempo si sistemò l’asciugamano come meglio poteva.
Becchi si guardò intorno con molta attenzione. Sembrava parecchio confuso. Era certo ci fosse qualcun altro nella stanza eppure non era così.
“La vecchiaia che avanza, mi gioca brutti scherzi. Scusa se ho pensato male di te”
“Non importa”, gli disse lei accompagnandolo alla porta.  
“Io e Lorenzo dobbiamo andare adesso. Ma per qualsiasi problema c’è Giuliano da qualche parte per la casa”
“Ci vediamo al carnevale”, lo salutò Elettra.
Appena lo zio ebbe girato l’angolo fece segno a Giuliano di uscire dal suo armadio. Era così grande che una persona poteva tranquillamente starci dentro, mischiata ai vestiti.
Lo intimò comunque al silenzio finché non sentì più i passi sulla scalinata di marmo.
Appena il rumore cessò, si scatenarono entrambi in una fragorosa risata. Per un attimo erano tornati ad essere i bambini pestiferi che terrorizzavano i servi di palazzo de Medici con i loro scherzi.
 
***
 
Finalmente tutto era pronto per la festa. Elettra guardò fiera quello che aveva organizzato. Le lanterne colorate, che sembrava fluttuassero nel vuoto, illuminavano a giorno la piazza del Duomo, i decori floreali erano perfetti, la musica era allegra e i saltimbanchi erano molto in gamba. Cominciavano anche ad arrivare le prime persone mascherate.
Lei, dal canto suo, indossava una lunga veste color carne, senza corsetto, impreziosita qua e là da ricami e perline di vetro che rendevano l’abito più luminoso; attillato fino alle ginocchia, si allargava poi leggermente fino ad arrivare a terra. Metteva parecchio in evidenza le sue forme e ricordava vagamente la Grecia classica. “Una dea”, aveva commentato Maria quando l’aveva indossato. Aveva inoltre un profondo scollo a v sul decolté. Essendo senza maniche e considerate le temperature di fine marzo, per evitare di avere freddo, Elettra si era fatta fare anche un mantello, dello stesso colore, ma coperto interamente da perline di vetro colorato dalle più svariate forme; esse erano disposte in modo da creare un decoro astratto, con linee che si intersecavano qua e là.
Quando la processione fu in vista del Duomo, la musica cessò ed Elettra andò a disporsi sui gradini della chiesa, dietro ai membri della famiglia Medici e di fianco a Gentile Becchi.
In prima fila, davanti al corteo vi erano i componenti della famiglia Pazzi, con Francesco che teneva stretta in mano la fiaccola che avrebbe azionato la colombina progetta da Leonardo. Alla giovane, quell’uomo faceva sempre ridere: le ricordava tanto un topo, con quella faccia che si ritrovava!
“La famiglia Pazzi vi affida, Lorenzo de Medici, questo nuovo fuoco, scaturito dalle schegge della pietra del Santo Sepolcro.”, proferì il vecchio Jacopo.
“Come nostro diritto, concesso al nostro antenato per le sue imprese nella prima crociata”, disse Francesco. Il suo odio per i Medici traspariva ad ogni parola.
Di mala voglia porse la torcia al Magnifico, che la alzò mostrandola alla folla in delirio.
Poi il portone della chiesa si aprì e Lorenzo scomparve al suo interno, per accendere la colombina.
Elettra era parecchio nervosa e Leonardo, che riusciva a scorgere in mezzo alla marea di gente che aveva invaso la piazza, era messo peggio di lei. L’ultima volta che si erano visti le aveva confidato che non era certo che ce l’avrebbe fatta a farla volare. Per il bene dell’amico sperava tanto di sì.
Ci fu un lungo momento di silenzio.
“Benvenuti, tutti voi nella casa di Dio”, disse il Magnifico uscendo.
Ormai mancava poco. La tensione era molta ed Elettra, quasi senza accorgersene, prese la mano di Giuliano, stringendola forse fin troppo forte.
Dopo attimi interminabili la colombina schizzò fuori dalla chiesa e si mise a fare delle spettacolari acrobazie nell’aria. Tutti i presenti erano sorpresi ed attenti ad ogni suo movimento.
Alla fine essa andò ad adagiarsi su una struttura piena di fuochi d’artificio, innescando la miccia di quest’ultimi.
Elettra guardò Leonardo che ricambiò il suo sguardo. Era fiera di lui.
La festa poi proseguì magnificamente. I fuochi erano fantastici e l’intrattenimento, a detta di molti, fu anche meglio.
La ragazza non riusciva neanche a fare due passi consecutivi, che qualcuno la fermava per complimentarsi dell’ottimo lavoro.
Ballò più che altro con Giuliano che, stranamente, sembrava avere occhi solo per lei e non per le donnette allegre in abiti succinti che gli facevano l’occhiolino ogni qual volta le guardava. Riuscì anche a convincere suo zio, ad offrirle un ballo.
Le sarebbe piaciuto fermarsi un attimo ed andare a congratularsi con Leonardo per la colombina ma l’amico sembrava essersi volatilizzato. Provò a chiedere informazioni a Zoroastro, che nel frattempo ballava con le donnette allegre in abiti succinti, ma, essendo parecchio ubriaco, riuscì a dirle ben poco, prima di offrirle un goccio di vino della bottiglia, l’ennesima, che teneva in mano. Anche Nico non le fu d’aiuto, troppo preso a controllare che Zoroastro non combinasse guai.
Un’altra cosa strana, in quella festa, fu l’assenza, da un certo punto in poi, anche di Lucrezia Donati che di solito faceva sempre bella mostra di sé.
Elettra aveva un brutto presentimento al riguardo… ma preferì ignorarlo. Era ad una festa e doveva divertirsi! Il resto per il momento non contava.
 

Nda
Per l'abito indossato da Elettra in occasione del carnevale mi sono ispirata ad un abito di uno dei miei stilisti preferiti, Zuhair Murad. Il link, per chi volesse vederlo, è questo: https://instagram.com/p/t2kqDfx9aK/?taken-by=zuhairmuradofficial.
Scusatemi per il commento parecchio acido su Francesco Pazzi, ma non è uno dei miei personaggi preferiti ed inoltre non è farina del mio sacco. E' stato mio padre, grande appassionato anche lui della serie, a farmi notare la sua somiglianza con un roditore. 
    

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Capitolo 6
*** La Chiave ***


Capitolo V: La Chiave
La notte successiva…
 
Si trovava in un luogo che era certa di non aver mai visto prima… era sui gradini di un edificio costruito completamente in una pietra bianca farinosa, probabilmente calcare. Si appoggiò ad una delle grandi colonne in stile dorico, confusa. Intorno a lei, la vita cittadina continuava indisturbata: la gente chiacchierava e rideva, alcuni osservavano la merce esposta sui vari banchi e i venditori urlavano le loro offerte; in certo senso, quel posto, le ricordava il mercato, a Firenze. Ma non era a Firenze. E non si trovava nella sua epoca.
Sia le donne che gli uomini che le passavano davanti indossavano lunghe tuniche dai colori più disparati e parlavano in una lingua che Elettra conosceva bene, ma che di certo era morta da tempo: il greco antico.
Fece qualche passo in mezzo alla folla, allontanandosi da quell’edificio, che le ricordava tanto l’epoca classica, per averne una visione d’insieme; era più imponente di quanto pensasse e sul frontone aveva inciso a grandi lettere la parola Biblioteca.
“Magnifica, vero?”, le disse una voce alle sue spalle. Nonostante Elettra indossasse abiti che di certo non appartenevano a quell’epoca, quella persona era la prima a notarla; cominciava a pensare di essere invisibile…
“Finalmente ci incontriamo, Elettra”, continuò l’uomo nel mentre lei si girava a guardarlo. Aveva i capelli e la barba bianchi e un intricato labirinto di rughe gli solcava il viso.
“Voi sapete il mio nome, ma io non conosco il vostro”, gli rispose lei con tono cauto, poggiando istintivamente la mano sinistra nel punto dove solitamente teneva la spada. Ma essa non c’era.
“Al-Rahim mi aveva avvisato della vostra poca propensione a fidarvi del prossimo ma, dopo quello che avete passato, vi capisco”
Elettra si mise ancora di più sulla difensiva.
L’anziano sospirò, sorridendo alla ragazza con fare paterno.
“Seguitemi e tutto sarà più chiaro”, le disse prendendola sotto braccio e portandola all’interno della biblioteca.
Ovunque Elettra posasse lo sguardo vi erano scaffali ricolmi di papiri, accuratamente arrotolati e tavolette di argilla nelle lingue più disparate: vi erano scritti in greco e arabo, rune celtiche, geroglifici egizi…, riconobbe anche degli alfabeti provenienti dall’oriente e vi erano anche strani segni mai visti prima.
“Immagino avrete molte domande da farmi”, continuò l’uomo, “ma il tempo a nostra disposizione è davvero poco… quindi cercate di ascoltarmi attentamente e non interrompetemi.”, il suo tono s’era fatto molto serio e il sorriso di poco prima era scomparso. “Dunque, io sono Zenodoto da Efeso…”
“Il primo direttore della biblioteca d’Alessandria”, disse la ragazza. Mordendosi subito il labbro per averlo interrotto. Aveva finalmente capito dove si trovava.
“Esatto”, confermò l’altro sospirando nuovamente. “E come i vostri antenati sono un figlio di Mitra.”
Elettra lo guardò stupita. Solo in quel momento si accorse della strana chiave che l’uomo portava al collo.
“Ho costruito questa biblioteca per preservare e divulgare la conoscenza ma ho fallito il mio compito. Tuttavia non tutto è andato perduto: alcuni documenti sono sopravvissuti alla distruzione e tramandati alle generazioni successive. Voi dovete ritrovarli e proteggerli, vi aiuteranno ad assolvere al vostro destino”.
Lentamente tutto cominciò a svanire di fronte agli occhi di Elettra.
“Il tempo è finalmente giunto. Il peggio può essere ancora evitato, se vi sbrigate”, la voce di Zenodoto era ormai lontana e quasi impercettibile.
 
Era di nuovo a Firenze. A pochi passi da lei vi era raggruppata una grande folla. Non le ci volle molto a capire il perché: stava per avvenire un’esecuzione. Per un attimo Elettra pensò di andarsene, non era da lei partecipare a simili eventi, ma la curiosità prese il sopravvento. Si fece spazio attraverso quella marea di gente fino a ritrovarsi in prima fila. Le venne quasi un colpo, nel vedere chi sarebbe stato giustiziato. Legato alla ruota e con il viso pieno di lividi vi era suo zio, Gentile Becchi.
“Cosa fate?!”, urlò in preda alla disperazione mentre osservava il boia vibrare in aria la pesante mazza. Fece per avvicinarsi ancora di più ma fu bloccata da Dragonetti e da un’altra guardia della notte di cui, però, non conosceva il nome.
“No!”, urlò mentre la mazza si abbassava violentemente.
 
***
 
Elettra aprì di colpo gli occhi. Era nel suo letto, sudata e con il respiro corto.
“E’ stato solo un brutto sogno… solo un brutto sogno”, si ripetè, cercando di autoconvincersi. Si alzò per andare ad aprire la finestra; le sembrava che l’aria fosse irrespirabile là dentro.
Dei forti colpi alla porta della sua camera la distolsero dal suo intento. Mentre indossava la vestaglia, Elettra non dormiva mai con dei vestiti addosso, prese il piccolo pugnale che teneva sempre sotto il cuscino e, facendo meno rumore possibile, si avvicinò all’entrata.
“Elettra, alza il tuo magnifico culo e vieni ad aiutarci!”, era la voce di Zoroastro.
Tirò un sospiro di sollievo ed aprì.
Zoroastro, Nico e Vanessa entrarono nella stanza.
“Va tutto bene?” chiese Vanessa notando il pallore dell’amica, “Non hai una bella cera”
“Ho fatto un brutto incubo ma non preoccuparti”, le disse sforzandosi di sorridere.
“Io mi preoccupo invece, ma per i miei soldi. Leonardo mi paga a seconda di quanto è fresco il cadavere”, le disse il moro.
“Dammi un minuto e sono pronta.”, gli rispose Elettra, “Nel frattempo vai pure a prenderti qualcosa da bere, c’è roba buona nel mobile della sala da pranzo.”
“Ci siamo già serviti. Dovevamo ingannare l’attesa in qualche modo”, fece Zoroastro mostrando la bottiglia di liquore che teneva in mano.
“Nell’ingannare l’attesa è compreso anche forzare la serratura della casa di una collaboratrice della Signoria? Penso che Dragonetti non sia molto d’accordo…”, disse Elettra con sarcasmo mentre gli altri uscivano dalla camera. “E’ stata una fortuna che qualche guardia della notte non vi abbia beccati. Sarebbe stato parecchio difficile spiegare la situazione”.
 
***
 
Il cimitero dei poveri non era decisamente il luogo adatto per una scampagnata notturna, ma aveva anche i suoi lati positivi; per esempio, essendo che vi erano seppelliti  principalmente infedeli, ebrei e condannati a morte, non vi era niente di valore, per dei semplici ladruncoli. Quindi, in quella zona isolata fuori dalle mura di Firenze, vi erano poche guardie della notte; non abbastanza per poter controllare scrupolosamente ogni angolo. Di conseguenza, usando un semplice espediente, si poteva facilmente entrare e trafugare qualche corpo senza destare sospetto alcuno.
‘L’espediente’, che avrebbe permesso a Zoroastro, Elettra e Nico di portare indisturbati il cadavere dell’Ebreo a Leonardo, si chiamava Vanessa.
“Dovrei ingaggiarla per qualche spettacolo a palazzo, è davvero un’ottima attrice”, ridacchiò Elettra a Zoroastro mentre se ne stavano accucciati dietro ad un’alta siepe, nell’attesa che le guardie della notte se ne andassero.
Vanessa, con la camicia sbottonata che le lasciava il seno in parte scoperto, il vestito sporco e sgualcito e l’aria disordinata e leggermente scioccata, stava convincendo quei due idioti ad andare a controllare un punto non ben identificato in lontananza, dove un uomo, a detta sua, aveva ‘attentato al suo onore’. Inutile dire che sembrava così convincente che quelli, una volta averla messa in sicurezza, chiudendola dietro ad uno dei cancelli del cimitero, corsero immediatamente là.
Appena ebbero svoltato l’angolo, il piccolo gruppo uscì dal suo nascondiglio.
“Mi spiace, quegli idioti hanno chiuso il cancello”, disse Vanessa.
“Dovrebbero fare meglio il loro lavoro. Un cancello chiuso non è un problema”, la rincuorò Zoroastro mentre si chinava per forzare la serratura. Elettra però lo aveva preceduto e, utilizzando due forcine per capelli, aveva facilmente aperto il lucchetto.
“Stai migliorando”, le disse stupito l’amico.
“Se a dirmelo è il miglior scassinatore di tutta Firenze allora è la verità”, gli rispose lei sorridendo mentre entravano nel cimitero.
Mentre Elettra e Vanessa facevano da pali, per controllare l’eventuale ritorno delle due guardie della notte, Zoroastro, mentre scavava, istruiva Nico ‘sulla nobile arte del tombarolo’. Le ragazze non avevano alcuna intenzione di sporcarsi di terra, invece.
 
***
 
“Il cadavere richiesto fresco, fresco”, disse Zoroastro entrando nella camera da letto/bottega di Leonardo. Aiutato da Nico, portava sulle spalle un grosso telo, in cui era stato arrotolato il corpo dell’ebreo.
Lo adagiarono su un tavolo disposto al centro della stanza.
“Avete avuto un incubo, maestro?”, chiese preoccupato Nico. A quanto pare, quella era la serata dei brutti sogni. La faccia di Leonardo non differiva molto da quella di Elettra di poche ore prima.
“No, qualcosa di diverso”, gli rispose.
Nel frattempo Zoroastro, aiutato da Elettra, aveva disposto sul tavolo gli strumenti necessari alla seduta di anatomia e messo il cadavere in una posizione più comoda.
“Annota ciò che dico, d’accordo?”, disse Leonardo a Nico, che incominciò subito a trascrivere ogni parola sul taccuino.
“Sono visibili i segni della corda usata per l’impiccagione”, nel frattempo Da Vinci indicava il collo dell’ebreo, “La laringe è spezzata… Nico!” urlò, quando questo toccò il corpo con il la matita per capirne meglio la consistenza. “Muscolatura ridotta, probabilmente per denutrizione. Membro circonciso”, continuò.
“Non ne avevo mai visto uno prima”, disse Vanessa, avvicinandosi per osservarlo meglio.
Zoroastro non riuscì a non farsi sfuggire una risatina.
“E quello che cos’è?”, Leonardo si spostò velocemente dall’altro lato del tavolo. “Manca un’unghia sul digitus primus”, ragionò ad alta voce.
“Potrebbero essere stati i suoi carcerieri”, azzardò Nico.
“Dragonetti non arriverebbe mai a torturare qualcuno così, al massimo lo farebbe riempire di botte”, gli rispose Elettra che, nel frattempo, si era messa comoda, seduta a gambe incrociate su di un tavolo lì vicino. Era intenta a giocherellare con gli strumenti di Leonardo, in particolare, sembrava molto presa dal bisturi.
“E se si fosse strappato l’unghia da solo?”, ribattè l’artista.
“Ahi!”. La ragazza non riusciva a capire come una persona potesse decidere di farsi del male così, di propria iniziativa.
 “Mi serve quel bisturi”, le disse Da Vinci avvicinandosi e tendendole la mano.
Elettra lo guardò con occhi imploranti: solitamente Leonardo le lasciava fare almeno il taglio a Y.
“Il Turco ha detto a me, e non a te, di studiare il corpo dell’Ebreo”, le fece notare. Seppur molto riluttante, Elettra glielo passò. Dopodiché scese con un piccolo balzo dal tavolo e si diresse verso il cadavere per osservare meglio ogni movimento dell’amico.
“Leonardo, che stai facendo?”, gli chiese Vanessa preoccupata mentre lo osservava incidere la carne pallida dell’Ebreo.
“Il Turco ha detto di iniziare la mia ricerca dall’uomo impiccato, nello specifico nella sede dell’anima…”, ormai il taglio a Y era stato fatto e Da Vinci stava scostando lo spesso strato di pelle dalla cassa torica, in modo da poter studiarne meglio l’interno. “…un eufemismo per lo stomaco”.
Un tanfo orribile di morte e decomposizione invase la stanza, facendo quasi vomitare Nico e Zoroastro; Leonardo ed Elettra invece sembravano immuni a quella puzza, troppo concentrati su eventuali indizi per rendersene conto.
Leonardo staccò a fatica lo sterno, appoggiandolo poi di lato. Anche Vanessa, che era alla sua prima seduta di anatomia, sembrava molto interessata a cogliere ogni singolo movimento del Maestro.
Con una pinzetta, Da Vinci cominciò ad esplorare la cavità addominale, ma non sapeva neanche lui cosa cercare esattamente. Dopo poco però, estrasse qualcosa: l’oggetto, di qualunque cosa si trattasse, era completamente coperto di sangue misto ad altri liquami e, al gruppo, ci volle un po’ per capire che si trattava dell’unghia mancante.
“A quanto pare l’unghia è qua. Strano che possa averla ingerita”, proferì Leonardo.
“Se, come dici tu, se l’è strappata da solo, allora doveva essere parecchio motivato”, gli disse Elettra. “Perché una persona dovrebbe strapparsi un unghia e poi ingoiarla?”, pensò.
L’artista però non la stava più ascoltando, aveva notato qualcosa di decisamente più strano, di quell’unghia, nell’intestino dell’Ebreo. Quando ritrasse le mani, tutte insanguinate, dalle interiora, teneva nel palmo un altro oggetto che, questa volta, Elettra mise subito a fuoco. Le venne un colpo, nel vederlo. Era la stessa identica chiave che il bibliotecario d’Alessandria portava al collo nel suo sogno! Che non fosse stato solo un incubo ma qualcosa di più? Che fosse davvero possibile, per i Figli di Mitra, percorrere il fiume della vita controcorrente, ignorando le leggi che regolano la vita e la morte? Probabilmente quello che aveva visto fare a suo zio era un qualcosa che doveva ancora succedere… Le si gelò il sangue nelle vene e divenne pallida; il colore della sua carnagione non differiva molto da quella del cadavere steso sul tavolo.


Nda
Inizialmente pensavo di unire questo capitolo al prossimo, ma mi sono resa conto che sarebbe diventato davvero troppo lungo. Diciamo che sto sforando con l'intera storia... pensavo che sarebbe venuta molto più corta (per intenderci credvo di riuscire a fare stare tutti i capitoli precedenti in uno). Scusate se per ora come ritmo è un po' lenta, si movimenterà tra poco. 
 

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Capitolo 7
*** La Biblioteca ***


 
Capitolo VI: La Biblioteca
 
Il mattino successivo…
 
Elettra stava percorrendo i lunghi corridoi di Palazzo della Signoria.
Fabrizio, uno dei camerieri più fidati dei Medici, era entrato poco prima nel suo studio, informandola che la Signora la desiderava nei suoi appartamenti. Cosa aveva di così importante Clarisse da comunicarle? Era preoccupata e non poco…
Mentre camminava, circondata da magnifici fregi e costosissimi arazzi, accompagnata solo dal ticchettio dei suoi stivali sul marmo, Elettra ripensava agli avvenimenti della sera prima.
 Aveva spiegato a Leonardo tutto, anche i dettagli più irrilevanti, di quello stranissimo sogno. L’altro l’aveva ascoltata pazientemente, annuendo qua e là. Dopodiché avevano entrambi convenuto che un’esplorazione nella casa di famiglia dei Becchi era d’obbligo. Sarebbe stato difficile, molto difficile, ma la ragazza non poteva tirarsi indietro proprio adesso. Ne andava della vita di suo zio. Anche Leonardo aveva concordato, sul fatto che si fosse trattato di una specie di visione sul futuro.  
‘Il peggio può ancora essere evitato, se vi sbrigate’, le aveva detto Zenodoto. Doveva solo avventurarsi nella casa dei suoi genitori e cercare dei libri. Lo avrebbe fatto quella sera stessa. E lo avrebbe fatto da sola.
Nonostante le rimostranze di Leonardo, che si era offerto di accompagnarla, lei sentiva che quello era un passo che doveva fare da sola, senza nessuno a tenerle la mano.
Dopo essersene andata dalla bottega di Da Vinci, era tornata a letto, ma aveva passato il resto della notte a rigirarsi tra le coperte, senza riuscire a prendere sonno. Inoltre, nonostante si fosse fatta ben due bagni, continuava a sentirsi addosso quell’odore di morte. Se, durante l’autopsia sul corpo dell’ebreo non si era resa conto del tanfo, lo aveva fatto poi  più tardi. Anche mentre raggiungeva gli appartamenti di Clarisse, lo sentiva. Probabilmente esso era solo nella sua testa perché tutti quelli con cui aveva scambiato qualche parola, quella mattina, non sembravano essersene accorti.
 
Finalmente era arrivata a destinazione.
Prese un lungo respiro e bussò.
Poco dopo una bambina dai lunghi capelli castani le aprì la porta; era Maddalena, la più piccola di casa Medici. Quando vide che era Elettra, alla porta, le si formò un grande sorriso sulle labbra e le fece segno di abbassarsi un po’; la ragazza ubbidì e lei le diede un bacio sulla guancia. Poi corse nel salottino, ridendo.
“Maddalena, dove sono finite le buone maniere?”, la rimproverò la madre, “Quando si ha un ospite alla porta bisogna riceverlo con i dovuti modi, per esempio dandogli il benvenuto e accompagnandolo dentro. Non lasciarlo sulla soglia e correre via.”
La bambina la guardò dispiaciuta, prima di sedersi su un comodo divanetto a fantasia floreale dalle tinte color pastello.
“Elettra venite pure”, disse sospirando Madonna Orsini. Era davvero dura insegnare la disciplina a quella bambina; non si ricordava di aver dovuto penare tanto, per le sue sorelle maggiori.
La ragazza entrò, trattenendo a stento una risatina e coprendosi la bocca con una mano, per nascondere il suo divertimento. “Buongiorno Signore”, salutò le donne di casa Medici.
Nella stanza, oltre a lei, Clarisse e Maddalena vi erano anche le altre due figlie di Lorenzo. Prima dell’interruzione, erano tutte impegnate a ricamare. “Clarisse, mi avete fatta chiamare?”, aggiunse.
“Si, spero di non aver interrotto nulla di importante”
“Nient’affatto”, provvide subito a dire Elettra; in effetti quella mattina non aveva assolutamente niente di importante da fare.
“Ne sono felice”, le disse con un largo sorriso, “Prego, sedetevi qui con noi un po’”.
A quelle parole Maddalena si sbrigò a rimuovere tutto quello che vi era sul divanetto, per fare spazio ad Elettra. Non l’avrebbe mai lasciata sedersi di fianco ad una delle sue altezzose sorelle.
Le due donne si sorrisero, avevano entrambe pensato la stessa cosa.
“Voi ricamate, Elettra?”, le chiese Maria, la più grande delle tre, quando si fu accomodata.
Stava per rispondere ma Maddalena la precedette. “Ti pare che Elettra sia avvezza a questi noiosi passatempi? A lei piace tirare con l’arco o infilzare i cattivi con la sua spada!”, nel mentre che parlava si alzò di scatto sul divanetto e, utilizzando il lungo ferro da ricamo come se fosse una spada, mimò qualche passo di scherma. Più il tempo passava e più, a palazzo, si rendevano conto del carattere frizzantino della piccola; assomigliava sempre di più a suo zio Giuliano.
Mentre le altre due bambine le tiravano occhiate piene di astio, Elettra e Clarisse se la ridevano di gusto.   
“Bene, direi che sia arrivato il momento di spiegarvi il motivo della convocazione” le disse la Signora, ricomponendosi. “Vorrei invitarvi da noi a cena, stasera. Chiamiamola ‘riunione di famiglia’”, sul suo volto comparve nuovamente quel largo sorriso. Adorava quella ragazza ed era una delle sue più grandi sostenitrici; per lei, cresciuta nella rigida Roma, dove ad una donna non era quasi neanche permesso uscire di casa da sola, vedere Elettra, così indipendente e che sapeva benissimo destreggiarsi tra campi solitamente considerati ‘maschili’, era importante. Anche se a volte aveva delle riserve, su alcuni suoi comportamenti, in quei grandi occhi azzurri vedeva il futuro di Firenze. Un futuro fatto di modernità e pari diritti. 
 “Non mi pare di avervi ringraziato abbastanza, per quello che fate per noi. Se questo carnevale è stato un successo e noi siamo ancora qui, è solo merito vostro. Visto che presto non avremo un attimo libero, ci conviene festeggiarvi oggi” continuò.
Elettra non sapeva davvero cosa rispondere. Quella sera proprio non poteva permettersi distrazioni.
“Mi spiace molto ma questa sera ho un impegno improrogabile… davvero, non posso”.
 
***
 
Quando era uscita dagli appartamenti di Clarisse, si era diretta subito nel suo studio. Erano ore che non ne usciva.
Bussarono alla porta.
“Avanti”, disse Elettra sentendosi improvvisamene stanca; erano notti ormai che, per una storia o per l’altra, dormiva veramente poco. Oppure non dormiva affatto. 
“Non ti ho vista oggi a pranzo, tutto bene?”, chiese Giuliano leggermente preoccupato.
“Mi sono fatta portare qualcosa da mangiare qui”, gli rispose indicando un vassoio vuoto, poi tornò ad osservare le carte che vi erano sul tavolo. Si trattavano di  documenti riguardanti la costruzione della biblioteca Cosimo de Medici. Essendo che era il primo vero progetto che Elettra faceva tutto completamente da sola, Andrea Verrocchio si era offerto di darle una mano, controllando che non vi fossero errori. La ragazza, stava appunto guardando le correzioni che il suo maestro aveva apportato qua e là. Avrebbe presentato il progetto a breve, in una seduta pubblica che si sarebbe tenuta nel duomo.     
“Che impegno hai stasera di così importante?”, le chiese Giuliano con un tono leggermente seccato, “Spero che non vorrai combinarne una delle tue…”.
Elettra si limitò a guardarlo ed alzare le spalle. Poi rimise la testa fra quelle scartoffie.
“Io non so cosa ti passa per la testa in questi giorni, ma sei strana. Più del solito!”, sbottò il de Medici.
“Non ho niente, davvero”, rispose lei poco convinta. In realtà, se avesse potuto dirgli qualcosa, non avrebbe neanche saputo da che parte cominciare.
“E’ ancora per la storia di tua madre? Per favore dimmi che non è così!”
Giuliano aveva centrato il punto. Elettra si limitò ad annuire piano.
L’altro sospirò. “Cos’hai in mente?”, le chiese rassegnato. Quando quella ragazza si metteva qualcosa in testa, era impossibile farle cambiare idea.
“Stasera andrò a fare un giro a casa dei miei. Ho bisogno di risposte.”. La sua voce era quasi un sussurro.
“Vengo con te”
“No”
“Si, invece! Non puoi farcela da sola, starai male appena metterai dentro un piede.”
“Posso farcela”
Giuliano sospirò di nuovo, frustrato. “Però prima verrai qui per cena, non durerà molto. Me lo devi, Elettra.”
Questa volta fu lei a sospirare rassegnata. “Te lo concedo”.
Il de Medici uscì da quello studio vittorioso. Clarisse ci aveva visto giusto, a mandarlo là per convincere Elettra.
 
***
 
La cena era stata molto informale e Clarisse aveva avuto ragione, a definirla ‘riunione di famiglia’; era stato davvero come cenare con i proprio famigliari, ridendo e scherzando allegramente con un buon bicchiere di vino in mano. Era una sensazione che Elettra non provava da tempo, quella di avere una famiglia. Prima di allora, non aveva mai fatto caso che i Medici la consideravano come se fosse sangue del loro sangue. Sperava di rifarlo, a breve.
Nonostante le rassicurazioni di Giuliano, sul fatto che sarebbe stata veloce, ormai era quasi l’ora del coprifuoco.
Elettra si trovava davanti al portone di ingresso dell’edificio dove aveva vissuto con la sua famiglia, prima che quella tragedia la disgregasse completamente.
Per non dare troppo nell’occhio e poter sgusciare indisturbata tra le tenebre, si era vestita completamente di nero; anche il pesante mantello che portava, con tanto di cappuccio abbassato sul volto, per non renderlo visibile, era del colore della notte.
Non aveva le chiavi, per entrare. Probabilmente, l’unico che ne era in possesso, era il guardiano, che ogni tanto andava a fare qualche veloce sopralluogo; giusto per controllare che nessuno si fosse intrufolato per rubare. Senza di esse, alla ragazza non restava altro che forzare la serratura.
Prese alcune forcine che teneva di scorta affrancate alle maniche della camicia e le inserì nella toppa; dopo alcuni movimenti sentì lo scatto. Ora non doveva fare nient’altro che entrare e trovare quei maledetti libri.
Così presa da quello che stava facendo, non si era nemmeno accorta dell’ombra minacciosa che di trovava alle sue spalle. Si accorse della sua presenza solo nell’attimo in cui una mano guantata le premette sulla bocca, per impedirle di urlare.
Con un movimento fulmineo, che il suo aggressore non poté neanche vedere, estrasse il piccolo pugnale che teneva nascosto in uno stivale e, con una mossa da manuale, riuscì a far voltare l’uomo, facendolo finire con le spalle al muro e con quell’affilatissima lama premuta contro il collo.
Solo in quel momento, decise di guardarlo in faccia.
“Giuliano, cosa stai facendo?!”, gli disse rinfoderando il pugnale, “Avrei potuto farti veramente male!”
“Wow, Filippo ha cresciuto un soldato, non una dama dell’alta società!”, le rispose l’altro con il fiato corto. Respiravano entrambi affannosamente, per la paura e l’adrenalina in circolo.
“Cosa ci fai qui?”, gli chiese a bassa voce, per non farsi udire dal vicinato. Come se non avessero fatto già abbastanza casino prima!
“Ti do una mano, mi sembra chiaro, no?”
“Ti avevo già detto che l’avrei fatto da sola”
“Non puoi farcela, non senza qualcuno al tuo fianco”, ribatté lui con una voce che aveva un che di dolce e premuroso.
Elettra si limitò a sospirare e ad aprire il grande portone dell’ingresso che, nonostante tutta la sua attenzione, cigolò in modo alquanto sinistro.
Entrarono.
Appena messo piede dentro, per Elettra, fu come essere investita da una folata di vento gelido. Un vortice di orribili sensazioni la colpì, impedendole non solo di fare un qualsiasi movimento, ma anche di respirare. Strinse forte la mano di Giuliano che si premurò di ricambiare velocemente quel gesto, stringendola ancora più di quanto aveva fatto l’amica. ‘Va tutto bene. Io sono qui con te. Non sei sola’, pareva dirle.
A Elettra, entrare in quella casa, sembrava averle risvegliato i pochi ricordi della tragedia che le erano rimasti. Sentiva le urla di sua madre e di Lucrezia, mentre quei briganti le raggiungevano, e aveva la sensazione di essere ricoperta di sangue, proprio come quel giorno. Poi un immagine, molto rassicurante, le comparve davanti agli occhi: il caldo sorriso di suo zio. Era stato lui, a ritrovarla, nascosta in un fosso. L’aveva presa in braccio e riportata a casa, continuando a ripeterle che ormai era al sicuro; l’aveva fatto finché non si era addormenta su una sua spalla, cullata da quel caldo e rassicurante abbraccio. Da quel momento le era sempre stato vicino, nel bene e nel male.
Doveva essere forte. Doveva farlo per lui. Per restituirli, almeno in parte, il favore.
Prese un lungo respiro e finalmente mosse un passo in avanti, osservando l’ampio atrio della casa: non era cambiato niente, dall’ultima volta che l’aveva visto; i mobili, seppur coperti da lenzuoli bianchi e spessi strati di polvere, erano nello stesso identico posto.
La scenografica doppia scalinata in marmo, che portava ai piani superiori, era esattamente come se la ricordava; con quei stupendi corrimani in ferro battuto con i particolari in oro colato che Andrea aveva accuratamente progettato. Ne accarezzò uno, timorosa, come se esso potesse scomparire sotto i suoi occhi da un momento all’altro. Le riportò alla mente le tante volte in cui, insieme ad Aramis e Lucrezia, scivolava lungo uno di essi, facendo a gara a chi fosse il più veloce.
“Questa casa è immensa, non possiamo perlustrarla tutta.”. La voce di Giuliano la riportò alla realtà.
“Ma cosa stiamo cercando esattamente?”, aggiunse. Ovviamente Elettra si era dimenticata di dirgli il vero motivo per cui erano lì.
“Dei libri”, gli disse mentre saliva i primi gradini.
“Dei libri?! E tu mi hai fatto venire qui per dei semplici libri?! Esistono le librerie e le biblioteche e Firenze mi pare sia pure ben fornita! Non c’era il bisogno di intrufolarsi illegalmente qui!”
“Quello che stiamo cercando non lo puoi trovare in una qualunque libreria o biblioteca”, gli rispose in tono serio.
“Quindi siamo diretti nella biblioteca dei tuoi?”, le chiese seguendola su per le scale.
“Non penso mia madre tenesse quel genere di libri in bella vista nella biblioteca”.
Ormai avevano raggiunto il primo piano ma passarono oltre, continuando a salire.
“Qui ci sono gli studi dei miei e alcune delle camere degli ospiti”, gli disse a mo’ di spiegazione sul perché erano andati avanti, senza fermarsi un attimo.
“Qua, invece, ci sono gli appartamenti dei padroni di casa e altre stanze per gli ospiti. Ci torniamo dopo”, spiegò mentre si superavano anche il secondo piano.
Arrivarono infine al terzo piano. Oltre quello vi era solo la soffitta, vuota.
“Le nostre camere erano qui”. Traspariva una nota di malinconia, dalla sua voce.
“Questa era di Aramis”, disse, indicando la prima porta sulla destra. Abbassò lentamente la maniglia ed entrò: anche quella stanza era rimasta esattamente uguale. Era arredata in modo molto minimalista, con solo il necessario; proprio come suo fratello aveva voluto. Vi erano alcuni armadi, uno scrittoio, una piccola libreria contenente soltanto volumi riguardanti la religione e un letto con la spalliera di legno intagliata. Le sembrava quasi di vederlo, chinato sul suo scrittoio a leggere la Bibbia. Aveva sempre voluto avviarsi alla carriera ecclesiastica ed ora, vescovo a Roma, era l’uomo più felice del mondo. Nonostante Elettra non riuscisse proprio a capirlo, le mancava moltissimo.
“Andiamo, qui non c’è niente”, disse uscendo.
Proseguì lungo quel corridoio, entrando poi nella camera successiva.
“Lucrezia”, disse semplicemente, una volta all’interno.
La stanza presentava un intricato motivo floreale che partiva dalle pareti e poi si rifletteva sui delicati mobili in legno di rovere. Era mite e delicata, proprio come la bambina a cui apparteneva.
Giuliano ormai aveva capito che anche su quel piano non vi era quello che stavano cercando ma non disse nulla. Sapeva esattamente perché erano lì.
“Non avrei mai pensato che anche a distanza di otto anni, lei mi mancasse come il primo giorno”. Gli occhi di Elettra erano lucidi.
Giuliano la strinse forte a sé; non riusciva neanche ad immaginare come potesse essere doloroso perdere un fratello una sorella.
Lo sguardo della ragazza fu però catturato da un vecchio foglio di carta ormai ingiallito; sulla sua superficie vi era un leggero disegno a matita. Nonostante la linea fosse ancora incerta, era di straordinaria bellezza.
“Questo ritratto di Lucrezia l’avevo fatto pochi giorni prima che comparisse. Le era piaciuto così tanto che aveva deciso di appenderlo sul muro, in bella vista”, sulle sue labbra era comparso un malinconico sorriso. Già a dieci anni, si poteva intuire il grande potenziale di Elettra, in campo artistico. La ragazza lo staccò delicatamente dalla parete e se lo mise in tasca. Poi si diresse verso l’armadio, aprendolo; al suo interno vi erano una marea di vestiti, troppo piccoli per una donna adulta, ma perfetti per una bimba di dieci anni. Ne prese uno di broccato azzurro, con dei sottili ricami tono su tono, portandoselo al viso: poteva quasi sentirlo ancora, il profumo del sapone alle mandorle e miele che la mamma le faceva usare da piccole.
“Era il suo preferito”, spiegò a Giuliano mentre lo riponeva al suo posto.
Dopodiché uscirono, richiudendo delicatamente la porta.
C’era ancora una stanza, che non avevano visitato, in fondo al corridoio. Era quella di Elettra.
“Possiamo tornare indietro, ora”, disse lei.
“ Eh no. Mi hai fatto fare il giro delle camere degli altri. Ora sono curioso di vedere la tua”. Giuliano moriva dalla voglia di rimetterci piede, era l’unico posto della casa che si ricordava ancora perfettamente.
Elettra sospirò, accompagnandolo dentro di mala voglia.
Era decisamente il luogo più in disordine della casa: vi erano fogli scarabocchiati sparsi ovunque, anche sul pavimento, ed inoltre vi erano qua e là strani modellini, alcuni carta, altri di legno e altri ancora di gesso. Anche se ormai erano passati diversi anni, il modo di fare di quella ragazza, non aveva subito grandi variazioni.
Mentre il giovane de Medici ridacchiava tra sé e sé, perso in chissà quali pensieri, l’attenzione di Elettra fu catturata da un piccolo oggetto di forma rettangolare, di metallo, decorato con pitture raffiguranti scene di via comune di popoli lontani.
“Se giri questa manovella, esso produce musica. Mio padre me lo regalò di ritorno da uno dei suoi strampalati viaggi intorno al mondo. Credo venga dalla Cina.”, disse mentre lo metteva in funzione. Una dolce melodia si diffuse per la stanza. “Non credevo che fosse rimasto qui per tutto questo tempo… pensavo di averlo perso. Meglio così!”. Per la prima volta in quella notte, sul suo volto comparve un sorriso sincero. Felice.
“Un altro souvenir da portare a casa?”, scherzò Giuliano, al vederla mettere in tasca anche quello.
Una volta usciti, si diressero al piano sottostante.
“Quello che cerchi potrebbe trovarsi nell’appartamento dei tuoi?”, le chiese guadandosi intorno dubbioso.
“ Non penso, credo che li abbia nascosti in un luogo dove nessuno sarebbe andato a ficcanasare”
“Allora passiamo oltre e andiamo diretti nello studio di tua madre. È il luogo più plausibile”
Elettra questo lo sapeva fin dall’inizio. Ma quel posto era quello che temeva di più in tutta la casa. Nella sua mente era ancora viva l’immagine di quella porta, sempre chiusa. Solo Lucrezia aveva il permesso di entrarci liberamente; lei ci passava le giornate, là dentro, con Anna. A differenza degli altri due figli, che venivano istruiti da Gentile Becchi, Anna aveva deciso di essere lei  personalmente, l’insegnante di Lucrezia. Quella porta si apriva per Elettra solo quando ne combinava qualcuna. E non era mai piacevole.
Fece per entrare ma ovviamente la porta era chiusa a chiave. Se l’aspettava. Prese due forcine e le inserì nella toppa; in un attimo la serratura scattò e i due giovani poterono entrare.
“Posso sapere dove hai imparato, a fare certe cose?”, le chiese Giuliano con un misto di preoccupazione e timore nella voce.
“Papà perdeva spesso le chiavi, ho imparato da lui.  Ma negli ultimi tempi ho affinato la tecnica”, disse lei scherzosamente.
Anche quella stanza era come se la ricordava: era scura e lugubre. Istintivamente Elettra si portò la mano dietro la schiena, nascondendola; come se sua madre potesse spuntare da un momento all’altro, con quell’odiosa bacchetta in mano. Una volta era per il vaso rotto, l’altra perché si comportava da maschiaccio, l’altra ancora perché si ostinava a scrivere con la sinistra… c’era sempre qualcosa di sbagliato, in lei, agli occhi di Anna.
“Direi che qui ne hai di libri da scegliere”, le disse Giuliano riportandola alla realtà. In effetti le pareti erano completamente occupate da scaffali in legno scuro intagliati e decorati con scene di paesaggi.
Elettra si guardava intorno, pensosa. A prima vista, non vi era niente di strano in quella stanza.
‘State attenta agli indizi lasciati solo per voi’, le aveva detto il Turco. Eppure a lei quello sembrava un normalissimo studio.
‘Ricordate le parole che vi hanno insegnato’, le sembrava di sentire la voce di Al-Rahim, riecheggiare tra quelle mura.
“Le parole che mi hanno insegnato…”, rifletté ad alta voce, “…Cosimo!” urlò.
Giuliano la guardò stranito. Che fosse impazzita davvero, questa volta?
Elettra intanto aveva cominciato ad osservare la stanza con occhi diversi: il soffitto affrescato con un cielo notturno, il paesaggio arido rappresentato sul legno, il fiumiciattolo che scorreva lungo le scaffalature… ne seguì il corso con la punta del dito, finché non scomparve dentro un piccolo calice in rilievo. Senza pensarci due volte lo premette e questo affondò nel legno, facendo scattare il meccanismo nascosto al suo interno.
Una parte della libreria ruotò, mostrando una piccola apertura. Entrarono.
Lo spazio, la dentro, era davvero angusto, due persone ci stavano davvero strette.
Giuliano lo illuminò con la lanterna che teneva stretta in mano. Ovunque posasse lo sguardo vi erano libri dall’aria antica e parecchio vissuta, pergamene arrotolate e strane tavolette d’argilla.
Guardò confuso la ragazza; lei gli avrebbe spiegato tutto più tardi.
“Sono figlia della terra e del cielo stellato, di sete sono arsa. Vi prego, fate che io mi disseti alla fontana della memoria”, disse Elettra felice.

Nda
Tra poco si entrerà nel vivo della storia. Nel prossimo capitolo Elettra farà conoscenza con il Conte; sarà un incontro piacevole? Non vi resta che leggere. Da qui in poi ci sarà da divertirsi. Almeno, io mi divertirò parecchio a scrivere. 
 

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Capitolo 8
*** Il Conte, parte I ***


Capitolo VII: Il Conte, parte I
Il mattino successivo…

“Tutto pronto per l’arrivo di Riario?”, chiese Lorenzo.
“Quasi tutto, mancano solo i particolari dell’ultimo minuto ma a quelli penseremo dopo domani, quando il Conte arriverà”, rispose Elettra.
Si trovavano nello studio del Magnifico per discutere su come accogliere al meglio il nipote del Papa e la delegazione romana al suo seguito; anche Aramis ne faceva parte.
“Allora, sei nervosa? Questi saranno i tuoi primi ospiti importanti…”, le chiese il de Medici con fare fraterno, mentre si sistemava più comodamente sulla sua poltrona.
“Assolutamente no”, disse Elettra sembrando il più convincente possibile.
“Bene, perché credo di essere già abbastanza agitato per entrambi”, sorrise nervoso Lorenzo, “Ricordo ancora come mi sentivo io, la prima volta che ho accolto una delegazione straniera. Ero ridotto a uno straccio”, aggiunse ridendo.
“Andrà tutto bene”, lo rassicurò la ragazza.
“Lo spero tanto. Come ben saprai i rapporti tra Firenze e Roma non sono mai stati così tesi come ora, basterebbe solo piccolo un passo falso, per far scoppiare una guerra”
Il viso di Elettra si incupì, a quelle parole.
“Non che io voglia farti preoccupare, però dobbiamo essere realisti”, si affrettò a rimediare il Magnifico. Peccato che il danno era già stato fatto.
***

Parlare con Lorenzo, invece di rassicurala, aveva sortito decisamente l’effetto opposto. Gli aveva mentito, a dirgli che non era assolutamente nervosa; in realtà l’ansia le stava divorando lo stomaco.
Neanche le parole di suo zio, che aveva una grandissima esperienza a riguardo, visto che era al terzo de Medici che serviva, le erano servite da conforto. Le aveva dato tutti i consigli che poteva e le aveva insegnato come comportarsi, per apparire al meglio.
Anche Clarisse le aveva dato una mano. “Niente pantaloni, finché la delegazione romana non se ne andrà”, le aveva detto. Elettra era stata obbligata a rifarsi il guardaroba, comprando parecchi abiti lunghi, gonne e corsetti, per la gioia di Maria, che smaniava dalla voglia di vedere la sua signora finalmente vestita da gran dama e non da maschiaccio.
Seduta alla sua scrivania, sospirò sconfortata. 
Tirò indietro la sedia per poter osservarsi meglio: quella mattina aveva scelto un paio di pantaloni neri in pelle, stretti e con due ampie tasche laterali sulle cosce; aveva poi messo la parte finale dei pantaloni negli stivali, alti fino al ginocchio, abbastanza larghi da contenere, nascosto in un apposito scomparto, anche il piccolo pugnale per le emergenze. Infilata in parte nei pantaloni, vi era una semplicissima camicia bianca; sopra ad essa aveva una giacchetta rossa, dal taglio maschile, con dei leggeri ricami floreali dai toni più scuri e le maniche a tre quarti. Nonostante fossero solo agli inizi di Aprile, faceva già parecchio caldo, quindi aveva arrotolato le maniche della camicia intorno a quelle della giacca. Non indossava alcun corsetto; odiava quell’infernale indumento e, poi, ne avrebbe fatto indigestione nei giorni seguenti. 
Si riavvicinò alla scrivania, tornando ad osservare le scartoffie che la riempivano. 
Il suo sguardo fu completamente catturato da un piccolo libretto con la copertina in pelle vermiglia; lo aveva preso la sera precedente dalla biblioteca della madre. Ce n’erano almeno una cinquantina, di essi, al suo interno, tutti numerati. Erano stati scritti di suo pugno da Anna; probabilmente erano i suoi diari. La prima annotazione risaliva al 4 agosto 1448, giorno del suo sedicesimo compleanno; l’ultima, invece era riportava la data del 13 giugno 1469, il giorno della sua scomparsa. Ad una veloce occhiata, Elettra aveva potuto notare che essi erano scritti in diverse lingue; fortunatamente ne conosceva la maggior parte. Dal diario numero 31, iniziato nel 1463, invece, il linguaggio cambiava, divenendo un ammasso confuso di lettere; doveva essere senz’altro successo qualcosa che aveva portato la madre a scrivere in codice.
Aprì il diario numero uno sulla prima pagina: era scritta in tedesco, la lingua madre di sua mamma; essa era una delle poche cose che le aveva insegnato. Quanto suo padre si assentava per uno dei suoi viaggi, in casa si parlava solo tedesco.
Ne lesse le prime righe lasciandolo poi ricadere sulla scrivania, svogliata. Quella crescente sensazione di inquietudine non le permetteva neanche di concentrarsi su di esso.
Si alzò e andò verso la porta, convinta che cambiare aria le avrebbe fatto bene. Lasciò su di essa il cartello ‘Lavori in corso – Non disturbare’ che aveva affisso qualche ora prima. Con esso in bella vista nessuno osava avvicinarsi. Così Elettra avrebbe potuto svignarsela tranquillamente, per sbollire un po’ d’ansia, mentre tutti, invece, la credevano nel suo studio, impegnata in chissà quale progetto. Era uno stratagemma che aveva usato parecchie volte e che aveva sempre funzionato. Per rendere il tutto più credibile, le aveva anche dato due giri di chiave.
Senza che nessuno la notasse, uscì velocemente da una delle numerose porte secondarie.
 
***

La confusione e le urla del mercato fiorentino la facevano sempre stare meglio. E anche quella mattina non fu diverso. L’inquietudine le era quasi passata del tutto.
Si fermò al banco che da anni riforniva la bottega del Verrocchio, per ordinare alcuni materiali; aveva avuto l’idea di costruire un modellino in scala della biblioteca, da mostrare alla presentazione del progetto. Un modello tridimensionale rendeva molto meglio l’idea di semplici schizzi su un foglio di carta. Quello che le serviva sarebbe stato consegnato quella sera stessa, a Palazzo della Signoria.
Dopodiché continuò quella rilassante passeggiata, fermandosi qua e là ad osservare qualche bancarella. 
Stava chiacchierando con dei mercanti provenienti dalla Francia quando scorse tra quella marea di gente un giovane poco più piccolo di lei, con una cascata di riccioli biondi in testa.
“Nico!”, urlò facendosi largo tra la folla. Al terzo richiamo il ragazzo parve sentirla; si fermò nel bel mezzo della via, guardandosi intorno.
“Elettra”, la salutò appena la vide.
“Anche tu non hai niente di meglio da fare, vero?”, gli disse scherzosamente mentre lo prendeva a braccetto.
“Il Maestro è andato a testare le sue nuove spingarde con il Magnifico e in bottega mi annoiavo”, le rispose. “Tu, piuttosto, non dovresti essere a palazzo a fare i preparativi per l’arrivo di quel conte?”, aggiunse
“Mi sembrava di soffocare, là dentro. Avevo bisogno di aria fresca”, si giustificò lei.   

Camminarono per un bel po’ tenendosi a braccetto, osservando i vari banchi e parlando del più e del meno. Di tanto in tanto Nico rideva alle battute di Elettra o ai commenti poco carini su alcune delle personalità che incontravano. Quei due, assieme, erano peggio delle comari che ogni mattina affollavano le rive dell’Arno; erano entrambi ben informati su ogni singolo pettegolezzo che girava a Firenze. 
Elettra ogni tanto voltava il capo all’indietro, come se volesse controllare che non vi fossero occhi indiscreti, ad osservarli. In realtà stava tenendo d’occhio alcune persone vestite con degli abiti scuri; era da troppo tempo che ce li avevano dietro. Sembrava quasi che li stessero seguendo.
“Andiamo di qui”, disse Elettra a Nico mentre lo trascinava sotto ad un porticato poco frequentato; gli fece fare una brusca svolta a sinistra, per arrivarci.
L’altro la guardò per un attimo confuso, poi decise di non chiedere spiegazioni a riguardo. Si era rassegnato a non capirla molto tempo prima; praticamente dal loro primo incontro.
Elettra si voltò di nuovo, ad osservare la strada alle loro spalle; per un attimo si sentì più leggera e pensò di essersi sbagliata, per una volta il suo istinto si era sbagliato. Nessuno li stava seguendo. Poi li vide, con la coda dell’occhio. Non si era sbagliata. Li stavano davvero seguendo.
Stringendosi ancora di più a Nico, aumentò il passo. Anche i loro inseguitori lo fecero.
“Quando ti dico di correre, tu corri”, sussurrò a bassa voce al ragazzo. Il suo tono di voce era fermo e deciso. L’altro annuì e, voltandosi, capì perché l’amica fosse così irrequieta. 
Stava per dare il segnale, quando altri due uomini sbucarono dal nulla proprio di fronte a loro, sbarrandoli la strada. Erano in trappola. 
Elettra li osservò con più attenzione: erano in tutto sette uomini di cui, uno era una guardia della notte, e gli altri sei indossavano le divise delle guardie svizzere, le milizie private di Roma. Sapeva benissimo che non sarebbero usciti di lì semplicemente usando le parole; di sicuro avrebbero dovuto combattere, per salvarsi la vita. Fece due calcoli veloci: la guardia della notte non la preoccupava minimamente, sapeva benissimo come disarmarla velocemente; con le guardie svizzere la storia cambiava e di molto anche: erano in sei, grandi il doppio di lei e perfettamente addestrati. L’unico modo, per salvarsi la pelle, era quello di crearsi un diverso abbastanza lungo da permette ad entrambi di fuggire. Strinse i denti e appoggiò la mano sull’elsa della spada, attenta ad ogni movimento degli altri.
La guardia della notte si fece avanti, avvicinandosi a Nico. “Abbiamo trovato delle impronte l’altra notte nel cimitero. Quelle di un asino, di un uomo e quelle di un ragazzo che indossava scarpe con la punta allungata. Esattamente come quelle che indossi tu”, gli disse puntandogli contro un pugnale. 
Elettra a quel punto estrasse la sua arma, puntandola dritta al collo dell’uomo; con la punta quasi glielo sfiorava. “Ci sono migliaia di ragazzi con quel tipo di scarpe, in giro”, disse con aria di sfida. 
La guardia della notte indietreggiò, facendo cenno agli svizzeri di attaccare. Probabilmente essi non si aspettavano di vedere una donna che sapesse usare così bene una spada; utilizzando l’effetto sorpresa, Elettra riuscì a disarmare con facilità il primo che le si avvicinò, facendolo finire a terra con un calcio ben assestato nelle parti basse. Diede una veloce occhiata a Nico, che se ne stava immobile là in mezzo, paralizzato dalla paura. Nel mentre un secondo uomo provò a colpirla da dietro, stringendo le mani intorno al suo esile collo; Elettra lo colpì al naso con l’elsa della spada. Dall’urlo di dolore che questi lanciò, doveva averglielo rotto.
“Nico scapp…”, non riuscì a finire la frase. Uno di essi, sbucato dal nulla alle sue spalle, le premette un panno impregnato di chissà quale sostanza sulla bocca. L’ultima cosa che vide fu Nico cadere anch’esso a terra.
Poi fu tutto buio.


Nda
Scusate per la brusca interruzione. Il capitolo mi è decisamente sfuggito di mano e ed è diventato davvero troppo lungo; dovevo per forza divederlo in due parti.
 

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Capitolo 9
*** Il Conte, parte II ***


Capitolo VII: Il Conte, parte II

“Sono Girolamo Riario…”; la voce del Conte le giunse lontana; era di una freddezza disarmante e  da essa non traspariva alcuna emozione. La lentezza con cui scandiva ogni singola parola era esasperante.
Inizialmente Elettra si sentiva ancora stordita da quella sostanza sconosciuta che aveva respirato e che l’aveva messa KO, senza quasi rendersene conto. Le palpebre erano molto pesanti e, per quanto si sforzasse, non riusciva ad aprirle. 
Ad un certo punto sentì un tonfo, come di un corpo che cadeva a terra; poi sentì la voce di Nico, non capiva cosa dicesse, ma era interrotta spesso da singhiozzi e lamenti. Qualsiasi cosa stesse succedendo, intorno a loro, lo terrorizzava.
Decise di non muovere un muscolo, finchè non fosse riuscita ad aprire gli occhi. Meglio se la credevano ancora addormenta.
Le urla di dolore di Nico la riportarono completamente alla realtà. Aprì gli occhi di scatto, guardandosi intorno. Ai suoi piedi vi era la testa mozzata della guardia della notte; rimase per un attimo interdetta, ma si riprese subito. Era la giusta fine che quel traditore si meritava.
Il luogo dove si trovavano lo conosceva bene: quel tipo di rovine romane non distavano molto da dove aveva avuto il primo colloquio con il Turco. Delle persone presenti, invece, riconobbe solo un volto: aveva avuto modo di parlare con il cardinale Lupo Mercuri due anni prima, a Roma, durante la cerimonia per la consacrazione di suo fratello a vescovo; Aramis era infatti il suo segretario personale. Aguzzò la vista, nel tentativo di scorgere anche lui, ma non lo vide. Ripensandoci meglio, era ovvio che non fosse lì; se ci fosse stato avrebbe di sicuro convinto Riario a lasciarla andare subito. 
Cercando di ignorare le urla di Nico, che le trapanavano la testa impedendole quasi di pensare lucidamente, analizzò la situazione. C’erano almeno una decina di guardie svizzere nelle immediate vicinanze; la cosa positiva era che o le davano le spalle, o erano troppo concentrate su quello che il Conte stava facendo, per prestare attenzione a lei. Anche Riario le dava le spalle, seduto su una sedia a pochi metri di distanza. Un altro elemento a suo favore era il fatto che non l’avevano legata stretta, come era successo a Nico; si erano solamente limitati a metterle delle manette. Probabilmente, nonostante avesse neutralizzato due uomini, non veniva considerata come una reale minaccia. Avevano commesso un grosso errore, a sottovalutarla.
Senza dare troppo nell’occhio, Elettra riuscì a prendere una delle forcine che teneva affrancate alle maniche della camicia; dopodiché la inserì nel lucchetto che teneva chiuse le manette. Le ci volle un po’, per aprirle. Lavorare con una mano sola non era facile. Alla fine, capì come fare e, senza fare il minimo rumore, fece scattare la serratura.
Si guardò nuovamente intorno. Nessuno l’aveva notata.
Senza pensare neanche un attimo alle possibili conseguenze che quel folle gesto avrebbe comportato, si alzò di scattò e con un gesto fulmineo rubò la spada alla guardia svizzera che le si trovava più vicina. Poi, approfittando del momentaneo stupore che aveva paralizzato le file romane, si scagliò contro il Conte.
Cogliendolo alle spalle, gli puntò l’arma al collo, facendo leggermente pressione con la lama. L’altro non fece neanche una piega, rimanendo imperturbabile anche quando era la sua vita, ad essere in pericolo. 
Mercuri diede ordine alle guardie di colpirla, ma dovette rimangiarsi presto le sue parole. Elettra aumentò ancora di poco la pressione della lama sulla gola di Riario, causandogli un piccolo taglio, poco più di un graffio, da cui uscirono alcune gocce di sangue. Sul volto del Conte, per un attimo, si formò una smorfia di dolore.
Quel gesto, agli occhi delle milizie romane, significava che la ragazza faceva sul serio.
Per Elettra, invece, quello che aveva fatto era stata solo una dimostrazione; sperava tanto di non doverne fare un’altra. Non ne sarebbe stata in grado. Non aveva mai ucciso un uomo e non lo avrebbe di certo fatto quel giorno, anzi, sperava di non doverlo fare neanche in futuro. Riario le serviva vivo; sarebbe stato il lasciapassare suo e di Nico verso la libertà.
“Tieni, Nico”, gli disse porgendogli il pugnale che aveva preso dalla cintola del Conte, “Liberati e muoviamoci a filare via da qui”.
Una piccola distrazione, per controllare che il suo amico non si ferisse, ed era lei, a trovarsi dalla parte sbagliata di quell’affilatissima lama che poco prima aveva puntato alla gola di Riario. Non riusciva neanche a capacitarsi, di come quell’uomo aveva ribaltato la situazione così in fretta. Era finita con le spalle premute contro quel tavolino dove, fino ad un attimo prima, ci stava lo strumento di tortura usato su Nico. Il ragazzo, dal canto suo, appena capito la situazione, aveva lasciato cadere l’arma a terra ed alzato le mani in segno di resa. 
“Sono stupito, non credevo che un bel faccino riuscisse anche a maneggiare un’arma con tale bravura”, le disse il Conte.
Elettra provò a tirarsi su, ma finì per andare ad urtare contro la lama della spada, ferendosi leggermente uno zigomo. 
“Dovete stare attenta, non volete di certo rovinare tutta questa bellezza così”, aggiunse allontanando la spada dalla faccia della ragazza. Doveva dargliene atto, era davvero bella. Non lo aveva notato prima, quando Grunwald l’aveva portata all’accampamento priva di sensi, era troppo preso dal chiedere al garzone di Da Vinci dove si trovasse la chiave. 
Fece cenno a due guardie svizzere di tenerla ferma, mentre lui la perquisiva in cerca di altre armi nascoste. Non ne trovò, ma la sua attenzione fu catturata da qualcosa che la ragazza teneva nella tasca sinistra dei pantaloni: si trattava del suo blocco da disegno. Quando fece per sfogliarlo, una moneta, contenuta al suo interno cadde a terra; non si trattava di una moneta comune, era in oro e presentava sulla sua superficie la faccia di un dio pagano. La raccolse e la osservò accuratamente.
“Cosa sapete riguardo ai Figli di Mitra?”, le chiese, facendo un sorriso freddo e distaccato che aveva come unico intento quello di intimorirla.
“Andate al diavolo!”, gli rispose lei guardandolo fisso negli occhi con aria di sfida.
Riario si lasciò sfuggire una risatina. “Non siete nella pozione l’ideale, Madonna, per usare quel tono”, le fece notare. “Non importa, per ora. Dopo che avremo recuperato la chiave dalla bottega di Da Vinci, potremo parlarne più nei dettagli”, aggiunse.
Ora Elettra cominciava davvero ad avere paura. E il Conte se ne accorse, soddisfatto di sé stesso.
 
***

Elettra chiuse gli occhi, per non vedere l'ennesimo scaffale rovesciarsi e i preziosi schizzi di Leonardo finire a terra. Le milizie romane stavano mettendo sotto sopra la bottega, in cerca di quella maledettissima chiave.
Riario non si era mai staccato da lei, non l'aveva legata, le teneva semplicemente i polsi dietro la schiena con una tale forza che probabilmente le avrebbe lasciato non pochi lividi.
Elettra poteva sentire il suo respiro sul collo, talmente le era vicino. E lui poteva sentire il profumo di vaniglia del sapone che usava ogni giorno.
Nico, invece, se ne stava immobile, piantato come un palo, in mezzo alla stanza. Aveva gli occhi fissi su un punto non ben definito del muro, due lacrime che gli solcavano perennemente il viso e continuava a massaggiarsi la mano ferita.
Elettra doveva sbrigarsi, a trovare una buona idea per fuggire di li. Sapeva benissimo che la chiave l'aveva Leonardo al collo. Quando anche Riario lo avrebbe capito, se la sarebbe presa con loro due. Poi le venne in mente della cassa dove Leonardo teneva i suoi progetti più importanti; al suo interno, oltre a qualche foglio di carta, vi era diversa polvere da sparo. La cassa era progettata per esplodere, se si provavava a forzarla. Sarebbe stato rischioso, ma ne valeva la pena.
Cominciò a fare cenni a Nico con lo sguardo; doveva essere lui a prendere l'iniziativa perchè, se avesse parlato lei della cassa, si sarebbero insospettiti tutti e avrebbero fiutato l'odore di bruciato. 
Niente. Non la notava.
"C'è qualcosa che volete dire a tutti noi?", chiese Mercuri sottolineando quel 'tutti noi'; si era accorto che Elettra tentava di attirare lo sguardo del ragazzo.
"Assolutamente no", gli rispose con un grande sorriso che aveva solo lo scopo di prenderlo in giro. Come conseguenza di ciò, Riario rafforzò la stretta sui suoi polsi. Cominciava a farle davvero male. 
"Trovate quella chiave", sibilò ai suoi uomini. La ragazza aveva capito che si stava innervosendo.
Comunque non tutto era stato vano; era riuscita ad avere l'attenzione di Nico. Controllando che nessun altro la stesse osservando, indicò all'amico un punto del muro. Inizialmente parve non capire, poi le sorrise.
Aspettò un po' e, dopo l'ennesino scaffale finito a terra, si fece coraggio e decise di agire. "Fermatevi! Non ci riuscirete mai", disse. Quando ebbe gli occhi di tutti i presenti puntati addosso, andò verso il muro dove estrasse una mattonella. Nello spazio lasciato vuoto vi era una leva. La tirò e una parete si spostò, lasciando intravedere la cassa. "Quello che cercate è li dentro", disse rivolto a Riario. L'altro fece segno a due guardie svizzere di prenderla e metterla su di un tavolo.
"Aprila". Aveva un tono di voce se possibile ancora più freddo e distaccato che in precedenza, ma Nico riuscì a reggere bene il gioco. "Non posso, è siggillata", gli rispose.
"Proteste forzare la serratura, Madonna", disse il Conte a Elettra , mentre affondava il viso nella bionda chioma della ragazza per l'ennesima volta. Aveva davvero un buon profumo.
"Prima di tutto mi servono le mani libere, per farlo, e secondo io non vedo serrature da forzare", gli rispose cercando di apparire il più sicura possibile nonostante fosse terrorizzata. Ai presenti apparve solo più impertinente del solito.
"Fatela a pezzi, allora" 
"Ci siamo", pensò Elettra. Cercò con lo sguardo qualcosa dietro cui riparasi ma non trovò nulla, nelle immdiate vicinanze. 
Tra un colpo di spada e l'altro alla cassa, vide Nico prepararsi all'impatto. Aveva un espressione seria e decisa sul volto che Elettra non gli aveva mai visto.
Riario, nel frattempo, aveva puntato tutta la sua attenzione sui comportamenti dei due giovani. Capì troppo tardi che qualcosa non tornava. "Fermatevi!", urlò agli uomini che stavano tentando di aprire la cassa. Fu inutile.
Un battito di ciglia prima che l'onda d'urto li colpisse, Girolamo fece un gesto che Elettra non si sarebbe mai aspettata: con un movimento fulmineo spostò la ragazza dietro di sè, facendole da scudo con il prorpio corpo.
Vennero entrambi scagliati all'indietro e finirono a terra. Elettra cadde di faccia, ma ebbe la prontezza di mettere le mani in avanti e riuscì così a non sbattere il naso contro il duro pavimento in pietra. Il Conte le ricadde sulla schiena con tutto il suo dolce peso.
Mentre Riario si alzava a fatica fiondandosi su Nico, che finì schiacciato con la schiena contro un tavolo rimasto miracolosamente integro, Elettra sgattaiolò via, nascondendosi dietro ad una parete. Lo sentiva inveire verso il giovane apprendista di Da Vinci, ma non riusciva a staccarsi da quel muro. Si raggomitolò su sè stessa,  nella speranza che nessuno la notasse; era terrorizzata, non riusciva a muoversi e respirava a fatica.
"Leonardo!", era la voce di Andrea. Non era mai stata felice come in quel momento di sentirla.
"Via!", urlò Riario mettendosi a correre. Erano stati scoperti.
Poco prima di sparire oltre la porta della bottega, si voltò ad osservare la ragazza. Nonostante stesse tremando sembrava apperentemente in salute. L'esplosione non l'aveva ferita, fortunatamente. Gli aveva tenuto testa per tutto il giorno; non era un fatto che gli capitava spesso. Si sentiva uno stupido a non averle chiesto neanche il suo nome.
Per un istante soltanto, i grandi occhi azzurri di lei si specchiarono in quelli color nocciola di lui.

"Va tutto bene?", chiese il Verrocchio irrompendo di corsa nella stanza. Si fermò a pochi passi dalla soglia, guardandosi intorno con gli occhi fuori dalle orbite. "Cos'è successo qui?!", ora il suo tono di voce era decisamente preoccupato. Poi vide Nico disteso su quel tavolo polveroso e andò ad aiutarlo a rimettersi in piedi. Era ancora molto scosso.
"Quegli uomini sono spie del Papa", disse Leonardo facendo il suo ingresso insieme a Zoroastro.
"Non ti bastava scontrarti con i Medici ora anche... Leonardo stai parlando del Papa!", Andrea era scioccato.
"Che potrebbe fare? Strapparci le viscere con una forchetta arrugginita?", aggiunse Zororoastro guardandosi intorno. Pio la vide. Elettra se ne stava là, con la schiena appoggiata contro quella parete; aveva gli occhi chiusi e respirava a fatica. L'aveva già vista così, più di una volta, ma era successo tantissimo tempo prima. Credeva che l'avesse superato, ormai. 
"Va tutto bene", le disse avvicinandosi. Lei aprì gli occhi e si sforzò di sorridergli. "Sono andati via", le ripetè accovacciandosi di fronte a lei e mettendole le mani sopra le ginocchia che la ragazza teneva strette al petto. "Ora puoi calmarti". 
Sentì Leonardo parlare con Nico dell'accaduto; era anche lui molto preoccupato.
"Nico è messo peggio di me", disse Elettra tentando di tirarsi in piedi, aggrappandosi al muro. Non fu una buona idea. Una volta in posizione eretta, il mondo aveva preso a vorticare velocemente. Si costrinse a rimanere lucida e, con le gambe che ancora le tremavano, si azzardò a fare qualche passo. Fortunatamente Zoroastro era al suo fianco e riuscì a sorreggerla, altrimenti sarebbe caduta immediatamente a terra.
Riuscì a raggiungere il tavolo dove vi erano Nico e Leonardo, appoggiandosi ad esso con tutto il suo peso.
Nella penombra, Zoroastro non lo aveva notato, ma ora il viso di Elettra era in piena luce. "Cosa hai fatto alla faccia?!", le  chiese preoccupato.
In quel momento, ne era certa, il suo cuore mancò un battito. Si portò una mano tremante sullo zigomo, sentendo del sangue ormai raggrumato sotto i polpastrelli. "E' tanto grave?". Aveva paura a sentire la risposta. 
Si staccò dal suo appoggio e si diresse verso una specchiera, sulla parete più lontana dal punto d'origine dell'esplosione. Nonostrante mostrasse molte crepe, sulla sua superfice, era miracolosamente ancora in piedi. Si avvicinò, osservandosi la ferita. 
"Porca puttana, Zo!", gli urlò arrabbiata, "E tu mi fai quasi venire un infarto per questo graffietto? A vedere la tua espressione credevo di esssere stata sfregiata a vita!".
Leonardo diede un coppino sulla nuca dell'amico. Se l'era davvero meritato. 
"Questa quì è una ferita di guerra di cui andare fieri!", aggiunse Elettra ridendo. 
Se aveva la forza di fare battute sull'accaduto allora voleva significare che stava decisamente meglio.
"E anche Riario ha la sua, di ferita di guerra", rivelò Nico. Gli stava davvero bene a quel bastardo.
"Sei riuscita a ferire Riario?", il tono di voce di Leonardo era tornato preoccupato.
"Alla gola", si intromise Nico, "Peccato che non sei andata più in profondità. Avresti fatto meglio ad ucciderlo".
"Ma siete impazziti tutti e due?!", urlò Andrea, "Si vendicherà appena ne avrà l'occasione!"
"Gli avete fatto vedere quanto valete. Avete fatto qualcosa di veramente eccezionale. E siete riusciti a salvarvi la vita.", nonostante anche Leonardo fosse pienamente consapevole della situazione, era fiero di loro due. 
"Dobbiamo informare il Magnifico dell'accaduto", disse ad un tratto il Verrocchio.
"Prima però lasciatemi  tornare a casa e, per favore, non fate il mio nome, quando gli racconterete i fatti. Non voglio che mio zio lo venga a sapere. Si preoccuperebbe talmente tanto che sarebbe capace di togliermi il mio incarico", quella di Elettra era una supplica.
"Gli manderò un messaggio domani mattina", disse Leonardo. "Tu stanotte domirai qui. E non lamentarti, chiaro? Ci saranno delle ripercussionie e non ti voglio sapere a casa da sola.", aggiunse rivolto ad Elettra.
Alla ragazza non le restò altro che annuire.
 
***

Leonardo era stato bravissimo con lei. Le aveva medicato le ferite, l'aveva aiutata a fare un bagno per lavare via tutta la polvere e la stanchezza di quel giorno. E l'aveva messa pure a letto.
Ora Elettra era là, nel letto dell'artista, completamente avvolta nelle coperte. Non riusciva a prendere sonno. Continuava a pensare agli avvenimenti di quel giorno. Le guardie svizzere al mercato, le urla di Nico, l'esplosione... E poi la faccia di Girolamo Riario. Non riusciva a togliersela dalla testa. Quell'uomo era cinico e spietato, eppure, non riusciva a spiegarsi quel gesto. Perchè le aveva fatto da scudo con il suo corpo? Non lo capiva e, forse, non lo avrebbe mai fatto.
Tutti i suoi pensieri si dissiparono, quando Leonardo arrivò e si sdraiò vicino a lei.
Si rigirò su un fianco in modo da poterle vedere meglio il volto. Fortunatamente se la sarebbe cavata solo con qualche livido e qualche leggera escoriazione. Anche la ferita sullo zigomo sarebbe presto andata via. 
Le si fece ancora più vicino, abbracciandola.
Protetta e cullata dal rassicurante calore che il corpo di Leonardo, a contatto con il suo, le dava, Elettra riuscì finalmente a prendere sonno.

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Capitolo 10
*** Il Libro dell'Ebreo ***


Capitolo VIII: Il Libro dell'Ebreo
 
Il giorno seguente...

Elettra fu svegliata da una serie di voci che le sembravano famigliari. C'era Lorenzo, suo zio Gentile, Giuliano, Dragonetti e, ovviamente, Da Vinci. 
Aprì gli occhi di scatto. Era ancora nel letto di Leonardo e al piano di sotto c'erano tutte le persone che certamente non avrebbero dovuto trovarsi lì! 
Aveva supplicato Leonardo di aspettare a chiamarli, almeno finchè non se ne fosse andata. L'artista, invece, aveva fatto di testa sua, come sempre.
Provò ad alzarsi ma dovette presto rinunciare: il corpo le doleva come se uno dei carri del carnevale le fosse passato sopra. Probabilemente era un effetto collaterale dell'esplosione. Fece un secondo tentativo. Riuscì a mettersi seduta. Prese un profondo respiro e sporse i piedi oltre il bordo del letto; dopodichè li mise a terra, riuscendo finalmente a stare in posizione eretta. Fece qualche passa verso lo specchio. La ferita sullo zigomo era molto arrossata e non passava di certo inosservata; per qualche giorno avrebbe dovuto di sicuro coprirla con un po' di polvere di Cipro. Il resto del corpo era messo decisamente peggio: ovunque guardasse vi erano lividi che andavano dal giallo al blu passando per il viola dei polsi, dove vi erano impresse le dita di Riario. Togliendosi la camicia che Leonardo le aveva gentilemente prestato la sera precedente, si accorse che anche il suo petto, era coperto di lividi. 
Si cambiò velocemente, indossando degli abiti che le erano stati messi lì appositamente; dovevano essere di Nico, visto che le calzavano quasi a pennello. 
Cercando di fare meno rumore possibile, scese alcuni gradini, posizionandosi poi sul pianerottolo. Si sedette appiattendosi come meglio poteva alla parete. Il punto in cui si era appostata era molto strategico: poteva osservare cosa accadeva nella bottega di Leonardo senza correre il richio di essere vista.
Becchi si stava facendo dire da Da Vinci come si erano svolti i fatti. Almeno per quello, l'artista era stato di parola, menzionando solo Nico e tralasciando la parte di storia che la riguardava. Gli avrebbe offerto da bere, una di quelle sere, per sdebitarsi di quel grandissimo favore.
Mentì anche sul perchè Riario fosse andato alla sua bottega, dicendo che voleva i progetti delle sue armi.
Lorenzo era nervoso, come poche volte lo era stato. Elettra poteva percepirlo anche da lassù. Buttò a terra alcune boccette di terracotta, urlando. Inutili furono i tentativi di Giuliano di calmarlo. Si prese anche lui una bella sfuriata.
"Voglio che i vostri uomini circondino questo palazzo, nessuno deve entrare o uscire eccetto Da Vinci e il ragazzo", disse rivolto al Capitano Dragonetti.
Merda! E lei come avrebbe fatto ad uscire di lì?
Dopo ulteriori minacce a Leonardo, per intimarlo a finire in tempo le sue spingarde, il piccolo gruppo si apprestò a lasciare la bottega.
Elettra si sporse un po', per assicurarsi che se ne stessero andando veramente. Non aveva pensato che così si sarebbe resa visibile.
Giuliano lasciò uscire tutti gli altri, prima di farlo anche lui. Ormai era sullo stipite della porta quando si girò, voleva dire ancora due parole a quell'artista ma esse gli si bloccarono in gola. A qualche metro da lui, sui gradini di una scala che portava al piano di sopra, seminascosta, se ne stava Elettra. 
I loro occhi si incrociarono e gli bastò quello sguardo veloce, per comprendere l'accaduto. Si sorrisero velocemente, prima che Elettra scomparisse nuovamente. 

***

Era riuscita ad andarsene dalla bottega passando per un'uscita secondaria. Probabilmente le guardie della notte non avevano neanche notato che ci fosse una porta, in quel punto.
Era andata a casa, aveva lasciato gli abiti impolverati del giorno prima e si era cambiata. Aveva optato per un paio di stivali beige, dei pantaloni dello stesso colore, una camicia e una giacca blu notte.
Poi si era diretta a palazzo, dove si trovava tutt'ora. Dopo una breve ricognizione nelle camere che avrebbero ospitato la delegazione romana, per controllare che tutto fosse in ordine, si era chiusa nel suo studio.
Inizialmente non sapeva bene cosa fare ma, alla vista di diversi scatoloni impilati in un angolo, contenenti i materiali ordinati il giorno prima, si era messa all'opera.
Aveva sostituito il cartello 'Lavori in corso - Non disturbare' con un 'Sostanze pericolose - Non entrare'. Si era messa in testa che il modellino della biblioteca sarebbe stato fatto in gesso e, la polvere di gesso, se respirata in grandi quantità, era parecchio dannosa per la salute. 
Lo aveva scelto pricipalmente perchè era tenero e quindi facile da lavorare. Già la scultura non era una delle arti in cui eccelleva maggiormente, se poi doveva fare una fatica del diavolo per scolpirlo, non se la sarebbe più cavata.
In poco tempo la stanza fu ricoperta da un sottile strato di polverina bianca. Anche la camicia di Elettra aveva cambiato colore; fortunatamente si era ricordata di riporre la giacca all'interno di uno degli armadi, se no anche quella si sarebbe sporcata. La finestra, nonostante fosse aperta, faceva ben poco. Molto più utile fu invece il fazzoletto bianco che si era messa su bocca e naso, a mo' di mascherina protettiva.
Imprecò, quando la colonnina in stile corinzio che stava scolpendo si ruppe a metà; era la terza consecutiva che faceva quella fine. La buttò a terra sconfortata, ma non ebbe il tempo di ridurla in polvere calpestandola. Qualcuno stava bussando alla porta.
Si sistemò meglio il fazzoletto, in modo da coprirle anche la ferita sullo zigomo, e allungò le maniche della camicia, che aveva precedentemente arrotolato per lavorare meglio.
Aprì la porta giusto il tempo necessario per uscire e poi la richiuse. 
C'era Gentile Becchi, davanti a lei.
"Tutto bene?", le chiese con quel suo solito tono apprensivo. Non la vedeva dalla mattina precedente e, passando, aveva visto quel cartello che non prometteva mai niente di buono. L'ultima volta che era stato esposto, sua nipote aveva quasi fatto saltare in aria l'intera ala del palazzo, per testare delle specie di fuochi d'artificio. La volta precedente, invece, lo studio aveva preso fuoco ed Elettra si era ustionata un braccio. Una parte di lui non voleva sapere, cosa stesse combinando. Il fatto che indossasse quel fazzoletto sulla faccia e che fosse completamente ricoperta da della polvere bianca lo faceva preoccupare, e non poco.
"Gesso", rispose lei, "Lo sto usando per creare il modellino tridimensionale della biblioteca".
'Almeno non sta maneggiando niente di esplosivo', pensò. "Fai attenzione", si limitò a dirle prima di cambiare discorso. "Puntuale stasera, mi raccomando"
"Certamente", gli disse prima di rientrare in quella nuvola bianca. 'Come dimenticarsi che stasera arriva il Conte?', pensò.

Si era rimessa da poco al lavoro, quando bussarono nuovamente. Questa volta era Fabrizio, che si limitò a corrugare la fronte, alla vista delle condizioni in cui riversava, e darle un messaggio.
Tra dieci minuti in Via dei Librai. 
Leonardo
Elettra ebbe giusto il tempo di scostarsi di dosso un po' di polvere e di indossare la giacca; poi cominciò a correre a perdifiato fra i corridoi.
Era sulla grande scalinta che conduceva all'uscita, quando andò a sbattere contro Giuliano che, a differenza di lei, stava salendo. Gli diede un bacio sulla guancia e gli sussurrò all'orecchio "Grazie", prima di riprendere a correre. Quando riuscì a capire quello che era succeso, ormai Elettra era quasi al portone.
 
***

"Sei in ritardo", le disse Leonardo quando la vide.
Elettra avrebbe solo voluto mandarlo al diavolo, ma aveva finito il fiato. Si piegò sulle ginocchia, per prendere aria, mentre Da Vinci si congedava dal vecchio cieco che aveva preso dimora sulle scale di uno degli edifici che si affacciavano sulla via. Aveva un sorriso raggiante che la fece irritare ancora di più.
"Immagino che tu non mi abbia chiamata qui per aiutarti con le spingarde", gli disse sarcastica.
"L'Ebreo..."
"Ancora con questo ebreo? Leonardo, verrai impiccato tra tre giorni se non ti sbrighi a far funzionare quelle spingarde... E tu pensi ai Figli di Mitra?!"
"...aveva due oggetti da proteggere: uno dei due abbastanza piccolo da essere ingerito, la chiave, e l'altro più grande, invece. Il che l'ha spinto a cercare un posto in cui nasconderlo.", non aveva neanche udito le parole di Elettra.
"Con pagine svolazzanti... Era un libro!", ora ci si metteva pure Nico, a dare corda alle folli idee di Da Vinci.
Non le restava altra scelta che seguirlo nella libreria dove l'ipotetico furto era avvenuto. 
Mentre Zoroastro distraeva il proprietario, Elettra, Leonardo e Nico si misero alla ricerca del libro misterioso.
"L'unghia era un indizio per la posizone del secondo oggeto. Dieci scaffali, dieci dita", disse DaVinci. Facendo un breve conto, ottennero la fila numero cinque. In corrispondenza di essa vi erano alcune goccie di sangue ormai rappresso. Leonardo aveva avuto ragione, a dire che l'ebreo si era strappato l'unghia da solo.
 C'era uno spesso strato di polvere, che ricopriva ogni cosa. Erano anni che nessuno spostava quei manoscritti. Ma, il libro appoggiato precariamente sull'ultima mensola, non ne aveva.
Da Vinci lo prese in mano e lo fogliò: era scritto in ebraico. "Credo di aver trovato l'oggetto numero due", disse vittorioso chiudendolo.

Camminavano tranquillamente per le vie di Firenze. Mentre Nico e Leonardo ridevano di gusto alle battute di Zoroastro, Elettra se ne stava con il naso immerso nel libro dell'Ebreo. 
Leonardo non conosceva bene l'ebraico e così, una volta usciti dalla libreria, lo aveva passato a lei che si era messa subito a leggerlo. Non aveva ancora staccato lo sguardo da quelle pagine polverose.
Non sentì il repentino cambio di voce di Leonardo, nè notò che si era arrestato di colpo. Si accorse di tutto quanto solo nel momento in cui finì a sbattere contro il suo braccio teso di lato, apposta per fermarla. Il libro le cadde di mano, finendo a terra. Le sue sottili pagine si misero a svolazzare.
"Ma che...", Elettra non riuscì a finire la frase. Davanti a lei vi erano una decina di guardie svizzere. Raccolse in fretta il libro, tenendoselo stretto al petto.
"Artista, voi verrete con noi. Se vi rifiutate potete chiedere al vostro piccolo amico quale sia l'ospitalità di Riario.", disse il loro capo.
"Non ne avete prese già abbastanza ieri?", si intromise con quel suo solito tono impertinente, la ragazza.
"Sfortunatamente dobbiamo declinare l'invito del Conte", aggiunse Leonardo, spostando indietro Elettra. Tirò poi fuori dalla tasca la sua tabacchiera; la stava maneggiando come se fosse una granata.
"Cos'è quello?", chiese Grunwald scettico.
"Credo che abbiate avuto modo di conoscere i miei congegni infernali, giusto? Come lo scrigno esplosivo della mia bottega. Ebbene, questa funziona più o meno con lo stesso principio, è una bomba riempita di polvere da sparo. E' attivabile con un pulsante alla base. Se dovessi togliere il pollice, il congegno esploderebbe", disse cercando di rimanere il più possibile serio.
Zoroastro si lasciò quasi sfuggire una risatina. 
"Sta mentendo, è solo una tabacchiera", si intromise uno dei soldati.
"Non mettete alla prova le mie intenzioni, non mi interessa che voi moriate oggi o un altro giorno"
"Pensate che la più grande mente di tutta l'Europa potrebbe fingere? Metteteci alla prova", Zoroastro stava reggendo il gioco di Leonardo.
"C'è un banco al mercato dove si vendono tante di quelle", ribattè la guardia.
"E' Da Vinci che state fissando, quella è una bomba!", gli urlò Zo.
"E' una tabacchiera", ripetè l'altro.
"Vi assicuro che è una bomba", rispose di nuovo il moro alzando un braccio. Sfortunatamente urtò la spalla di Leonardo, facendo finire a terra la finta bomba che si aprì rivelando al suo interno del normalissimo tabacco. "Che idota che sono", si scusò Zoroastro. Ormai non avevano più carte da giocare.
"Separiamoci è me che vogliono", urlò Leonardo al gruppo. Con un gesto fulmineo prese il libro dalle mani di Elettra e lo lanciò a Zo.
La ragazza si mise a correre, seguendo Leonardo. Le guardie svizzire erano tutte dietro di loro. 
Per un po' riuscì a reggere il passo dell'amico, poi però cominciò a perdere terreno. Mentre Da Vinci tirò dritto, in direzione del Duomo, lei fece una brusca svolta a sinistra, verso il corso dell'Arno. Un piccolo gruppo di guardie la seguì.
Continuò a correre, cambiando di volta in volta strada nel tentativo di seminarli ma, al contrario di quanto si aspettasse, essi le erano sempre più alle calcagna. Stava quasi per cedere. Poi finalmente vide la sua meta. Una piccola porta in legno. Entrò, chiudendosela in fretta alle spalle.
 
***

I due cuochi del Can che Abbaia la guardaro stupiti, mentre lei cercava qualcosa per bloccare la porta. 
"Elettra, che ci fai qui?", le chiese Vanessa entrando con un vassoio pieno di bicchieri vuoti. Lavorava lì da cameriera, da qualche giorno.
"Dei tizi mi stavano inseguendo e non sapevo dove altro andare", le rispose riprendendo fiato.
"Devono solo provare ad entrare...", le disse uno dei due cuochi agitando in aria la mannaia in un gesto più che eloquente. La fecero sedere e Vanessa le portò un bicchiere d'acqua. 
Poi sentirono delle voci. "Clienti", disse Vanessa uscendo per andare a prendere le ordinazioni.
Quando ritornò in cucina aveva il viso scuro e sembrava parecchio preoccupata. "Dieci guardie svizzere, hanno ordinato da bere", proferì. Era ovvio che non erano lì per una tranquilla bevuta tra amici.
"Gliele porto io, le birre", sorrise Elettra prendendo il vassoio pieno dalle mani di Vanessa.
"Ma sei impazzita del tutto?", le fece l'amica.
"Bertino e altre guardie della notte sono sedute al tavolo a fianco, non mi succederà niente. E poi devo solo mettere in chiaro alcune cose.", le disse tranquilla mentre usciva.

Si avvicinò al loro tavolo cercando di essere il più disinvolta possibile. Posò il vassoio pieno di birre sul tavolo. Le guardie svizzere si scambiarono tra di loro qualche veloce occhiata al metà tra il confuso e lo stupito.
"E' uno scherzo, vero?", disse il loro capo.
"Capitano Grunwald, giusto?", chiese mentra gli porgeva il boccale.
L'altro annuì. Non riusciva ancora a capire dove volesse arrivare quella ragazza. "Oltre ad essere una sgualdrina, fate la cameriera in una bettola?", ironizzò.
Elettra dovette contenersi, all'impulso di rovesciarli addosso tutta quella birra. Sorrise e continuò a servirli, come se niente fosse.
"Vorrei mettere in chiaro alcune cose", disse quando ebbe passato bicchieri a tutti. Nel vassoio rimaneva solo un calice, contente del vino bianco. "Gradirei che lasciaste i miei amici in pace. Da Vinci in primis."
Le guardie svizzere si misero a riderle in faccia.
"E mi farebbe piacere che porgeste i miei auguri di pronta guarigione al Conte, per quella brutta ferita sul collo", aggiunse sorridendo. Prese il calice e, prima di avvicinarlo alle labbra, fece un breve brindisi. "Alla salute", disse sorridendo.

Bertino andava raramente nelle osterie. E quella era una di queste. I suoi compagni lo avevano praticamente obbligato, a seguirli. "Un'ultima bevuta per ricordare i bei tempi dove la pace e la tranquillità regnavano a Firenze" gli avevano detto. Li aspettavano diverse settimane di fuoco.
Da un posto come quello poteva aspettarsi di tutto, persino un gruppo di guardie svizzere sedute nel tavolo affianco. Ma non poteva di certo aspettarsi di vedere Elettra Becchi uscire dalle cucine con su un grembiule da cameriera e un vassoio in mano. Oppure di vederla servire birra alla guarnigione romana. O ancora vederla brindare alla loro salute. No. Quello proprio non se l'aspettava.
Aveva però notato che qualcosa non andava. Mentre Elettra ostentava una calma e una tranquillità invidiabile, le guardie svizzere sembravano parecchio nervose. Alcuni di loro continuavano a togliere e mettere la mano sull'elsa della spada. C'era di sicuro qualcosa che non andava. Non voleva sapere di cosa si trattasse, in fondo, quando si parlava di quella ragazza, era cosa saggia non fare domande, ma sapeva che doveva comunque intervenire. Lo diceva il suo istinto. 
Si alzò, imitato da altri dei suoi, e si diresse al tavolo di fianco.
"Tutto bene, signori?", chiese cercando di restare calmo.
"Stavamo solo chiaccherando del più e del meno", gli sorrise Elettra.
"A quest'ora non dovreste trovarvi già a palazzo, Madonna?", le disse.
Grunwald inarcò un sopracciglio, perplesso.Cosa ci andava a fare, una così, alla corte dei Medici?
La ragazza si limitò a sorridere a Bertino con un espressione in volto che voleva dire 'Cazzo! Me ne sono completamente dimenticata e ora mi ritrovo a nuotare nel letame!'.
"Bertino, vi andrebbe di accompagnarmi a casa?", gli chiese in tono gentile porgendogli un braccio. Sapeva, che se avesse anche solo tentato di tornarsene a casa da sola, le guardie svizzere l'avrebbero catturata. Così, invece, sarebbe stata al sicuro. L'altro accettò di buon grado il braccio offerto, ed uscirono a braccetto dall'osteria.

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Capitolo 11
*** "C'è una spia, in seno alla mia corte!" ***


Capitolo IX: "C'è una spia, in seno alla mia corte!"

Una volta a casa, Elettra si era barricata in camera, non poteva permettersi di far vedere i lividi che aveva a Maria, e si era preparata alla velocità della luce. Aveva scelto un vaporoso abito azzurro, con la gonna in tulle e un po' di pizzo, l'unico abbastanza accollato da nascondere il segno lasciato dal pavimento di Leonado sul suo petto. Aveva anche le maniche lunghe, che nascondevano le impronte delle mani di Riario, e, cosa più importante, era riuscita ad allacciarselo da sola. Aveva acconciato i capelli in un rigido, ma veloce da fare, chignon.
Arrivò a Palazzo della Signoria in notevole ritardo, tanto per cambiare. Le porte del grande salone dei ricevimenti erano chiuse, segno che la cerimonia organizzata per accogliere la delegazione romana era già iniziata. "E da un pezzo", aggiunse uno dei due uomini a guardia dell'entrata. Elettra sospirò sconfortata, facendosi poi aprire una delle porte quel tanto che bastava per far passare sia lei che Bertino. La guardia della notte non se l'era sentita di lasciarla sola, una volta accompagnata a casa, e così aveva deciso di scortarla fino a palazzo e di restare la con lei.
 
***

"Non possiamo che gioire...", Clarisse interruppe la frase di benvenuto al Conte Riario a metà, distratta dall'improvviso aprirsi delle porte in fondo alla sala. Il suo sguardo fu catturato dalle due figure appena arrivate che, tentando di attirare l'attenzione il meno possibile, si erano disposte in disparte. Finalmente Elettra si era decisa a presentarsi, non ci sperava più. Era strano, però, che fosse accompagnata da una delle guardie della notte. E ancora più strana era la sua espressione; solitamente era raggiante e, non le mancava mai occasione di elargire sorrisi a tutti, ma, in quel momento, sul suo volto, non c'era la minima traccia di un sorriso, sembrava tesa e parecchio nervosa. 
Riario, indispettito dal fatto che qualcuno aveva bruscamente interrotto il suo momento, si girò per osservare chi poteva mai essere. Dovette girarsi indietro una seconda volta, per convincersi che non era uno scherzo della sua mente. In piedi, in fondo alla sala, vi era la ragazza del giorno precedente. Era così diversa, in quell'abito. Per un attimo i loro sguardi si incrociarono ma lei interruppe quasi immediatamente quel contatto, abbassando gli occhi sulla vaporosa gonna  dell'abito. Si voltò verso i padroni di casa solo quando Clarisse riprese a parlare.
Mentre la donna cercava di ingrazierselo facendogli un compliemento dopo l'altro, notò che Giuliano deMedici, in piedi dietro la seduta del Magnifico, stava facendo cenni a qualcuno alle sue spalle. A lei, di sicuro.

'Dov'eri finita?', sembrava volerle dire Giuliano. 'Ne parliamo dopo', gli fece capire a gesti. 
Elettra, in tanto, si sentiva a disagio, parecchio a disagio, in quella sala. Sentiva addosso gli occhi di tutti. Il Cardinal Orsini, seduto di fianco a sua sorella Clarisse, non aveva mai smesso di fissarla, da quando era entrata. La guardava con astio, forse un po' troppo astio. Che, in seguito ad un piccolo incidente nel Duomo che aveva coivolto Elettra su un impalcatura, il cardinale che camminava sovraprensiero sotto e un secchio di vernice rosa sfuggito dalle mani della ragazza, non la potesse sopportare era noto a tutti. Ma così stava davvero esagerando. 
Anche suo zio, vicino a Giuliano, non aveva smesso per un attimo di toglierle gli occhi di dosso. La guardava con quel suo solito sguardo apprensivo. Gli era bastata un'occhiata, per capire che la nipote aveva qualcosa che non andava. Vedere Bertino di fianco a lei poi, ne era stata la conferma. 
L'unico, che sembrava non averla notata, era stato Lorenzo. In realtà l'aveva vista, eccome, ma aveva preferito non distrarsi., sforzandosi di sorridere a Riario.
 
***

Con gran sollievo di tutti, la cerimonia di benvenuto si concluse di lì a pochi minuti. 
Appena Lorenzo uscì dalla sala, diretto nel suo studio, l'atmosfera parve farsi meno pesante e i presenti ruppero le righe.  
Riario, fermo sempre nello stesso punto in attesa di essere convocato nello studio del  Magnifico, vide Giuliano de Medici sfrecciarli di fianco. Aveva lo sguardo fisso su un punto della sala. O meglio, su di una persona presente nella sala. Lo vide farsi largo tra i cortigiani, raggiungerla e prenderle le mani tra le sue. Che la misteriosa ragazza fosse l'amante del giovane de Medici, dunque?

"Cos'è successo?". Giuliano era preoccupato ed apprensivo. Elettra l'aveva notato subito, da come le stringeva nervosamente le mani. 
"Non mi va di parlane qui", gli disse mentre si guardava in giro sospettosa. Alla fine si mise a fissare la delegazione pontificia. Era tremendamente seria in viso. A Giuliano non ci volle molto per capire il motivo per qui lei era così restia a rispondere alle sue domande.
La prese per mano e la condusse via. Passarono davanti a Riario, ma Elettra fece molta attenzione per evitare di guardarlo. Quell'uomo la metteva in soggezione. Era la prima volta che si sentiva intimorita di fronte a qualcuno e non sapeva bene come comportarsi. Se il giorno prima s'era ben guardata dal farglielo capire, oggi non c'era riuscita. Erano successe troppe cose e lei si sentiva troppo stanca per anche solo pensare di fingere una sicurezza che non aveva.

Gli era passata accanto. E non lo aveva neanche degnato di uno sguardo. Visto come gli aveva tenuto testa il giorno precedente, da quella ragazza si aspettava almeno un commento sarcastico, del tipo 'Conte, come sta il vostro collo?'. Niente, invece. Doveva ammetterlo, era rimasto un po' deluso.
Nei suoi occhi non aveva rivisto il fuoco di chi non si arrende mai. Si era semplicemente lasciata portare via da quel de Medici. Gli era sembrata docile, come un cucciolo sperduto.
"Conte Riario, Lorenzo de Medici vi sta aspettando nel suo studio". Ci mancava solo quel seccatore del consigliere del Magnifico, ad interrompere i suoi pensieri. Gli fece un cenno d'assenso e il solito sorriso freddo di facciata. Poi lo seguì, uscendo dallo stesso corridoio percorso prima da lei.
 
***

"Elettra, per favore,dimmi cosa succede. Perchè io mi sto davvero preoccupando", esordì Giuliano. Si trovavano in uno dei tanti corridoi del palazzo; fortunatamente era abbastanza isolato e nessuno gli avrebbe interrotti per un po'.
"Da dove vuoi che cominci?", gli chiese lei stringendogli ancora di più le mani. C'era un che di triste nella sua voce.
"Dal principio", disse lui con tono ovvio.
"Ieri ero al mercato, con Nico"
Il giovane de Medici sospirò. Era come prendere una pugnalata al cuore. "Te l'ha fatto Riario, quel taglio in faccia?". Aveva paura a sentire la risposta.
"Più o meno. Mi puntava la spada addosso, ho provato a liberarni e ci sono finita contro. Diciamo che è stata più sfiga, che un gesto voluto!". Tentò un mezzo sorriso e le riuscì piuttosto bene. Anche Giuliano ricambiò quel sorriso; magari, vista da un'altra prospettiva, la situazione sarebbe potuta risultare anche comica.
"Hai notato che Riario portava una camicia con il collo esageratamente alto?". Il mezzo sorriso era diventato un sorriso pieno e c'era una punta d'orgoglio nella sua voce.
"E?". Giuliano era incuriosito, dal repentino cambio d'umore dell'amica.
"Colpa mia. A puntare per prima la spada addosso a qualcuno sono stata io"
Il de Medici a questo punto non potè trattenere una risata. Riario, ferito da una donna. Probabilmente, se l'avesse raccontata in giro, l'avrebbero preso per ubriaco.
Anche Elettra si lasciò andare ad una piccola risata, prima di ritornare seria.
"Riario non era andato nella bottega di Leonardo per i progetti delle sue macchine da guerra", disse.
"Cosa?"
"Cercava un oggetto, una chiave, affidata a Leonardo dai Figli di Mitra". Elettra, dopo quella notte a casa dei suoi in cerca di quei manoscritti, aveva raccontato a Giuliano tutto quello che sapeva sulla confraternita. 
"Ancora con questi Figli di Mitra! Elettra, devi lasciarli perdere! Dimenticali e facciamola finita prima che ti succeda qualcosa di veramente brutto.". Involontariamente l'aveva afferrata per le spalle e scrollata.
"Anche oggi è successa una cosa simile. Sono andata insieme a Leonardo a recuperare un altro libro, sempre loro, e siamo incappati in una decina di guardie svizzere. Ci ho messo un po' a scrollarmeli di dosso. Per questo sono arrivata in ritardo.". Era dispiaciuta. Sapeva di farlo soffrire e preoccupare ma non poteva farci niente. "Giuliano scusami", gli disse mentre lo stringeva forte a sè. Lui rispose a quell'abbraccio con maggiore intensità.
"Va tutto bene", le sussurrò ad un orecchio quando si accorse che lei aveva gli occhi lucidi. Per risposta Elettra appoggiò dolcemente la testa sulla sua spalla.
Erano in quella posizone da parecchio, quando sentirono dei passi arrivare. Poco dopo da un altro corridoio adiacente a quello, spuntò il Conte Riario preceduto da due valleti. Lo stavano accompagnando nelle sue stanze. 
Giuliano era girato e non se ne accorse. Elettra invece lo vide bene. Si fissaro per un attimo negli occhi. 
Ancora quella sensazione, che la portava ad abbassare lo sguardo improvvsamente intimidita. 
Quando gli rialzò era scomparso.

Aveva lasciato senza parole Lorenzo de Medici. Non si sarebbe mai dimenticato, della sua espressione e di quella vena che all'improvviso aveva preso a pulsargli sotto la pelle del collo. No, la scena era stata troppo divertente per dimenticarla. Si lasciò scappare una risatina, mentre si lasciava accompagnare nei suoi alloggi. Un'espressione vittoriosa gli era stampata in viso.
Aveva appena svoltato nell'ennesimo corridoio quando, con la coda dell'occhio, vide una vaporosa gonna di tulle azzurro. Sapeva benissimo a chi apparteneva. Fece qualche passo indietro, per accertarsi che ci fosse anche lei, sotto tutto quel tessuto.
La trovò abbracciata a Giulano de Medici. Con la testa posata sulla sua spalla. Aveva gli occhi leggermente lucidi. 
Per un istante, per un solo istante, immaginò di esserci lui, li a confortarla. 
Lei lo guardò per un attimo negli occhi, prima di abbassarli nuovamente.
Non c'era più alcun bisogno di spaventarla. Almeno per quella sera. Così come era arrivato, se andò.
 
***

Quando si fu finalmente ripresa, da quell'improvvisa carenza d'affetto, si staccò da Giuliano. Il contatto le aveva fatto molto bene. Si sentiva un po' più sollevata e il sorriso, spuntato sulle sue labbra, ne era la conferma.
Si avviarono verso lo studio di Lorenzo, curiosi di sapere come fosse andato quel breve colloquio.
Non era andato bene. Per niente. 
Ai due giovani bastò un'occhiata per capirlo. La vena sul collo del Magnifico pulsava esageratamente e Becchi era molto scuro in volto.
"Sapeva tutto. Sapeva di Da Vinci e dei cinquanta fiorini che gli abbiamo promesso come pagamento", urlò Lorenzo.
"Impossibile", fece Giuliano, "Quelle erano informazioni che dovevano restare private"
"Eppure ne era conoscenza", ribattè Gentile.
"No...". Elettra aveva capito, dove suo zio e Lorenzo volevano arrivare.
Fu il Magnifico però a dare voce ai suoi pensieri. "C'è una spia, in seno alla mia corte!".
A tutti presenti gli si gelò il sangue nelle vene. Significava non potersi più fidare di nessuno.  


Nda
Per questo capitolo mi sono sbizzarrita con i cambi di focalizzazione, che ne pensate?
Per l'abito di Elettra pensavo a un qualcosa tipo questo https://instagram.com/p/3rXfVJQUVe/?taken-by=georgeshobeika

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Capitolo 12
*** Il Cuore d'Argento ***


Capitolo X: Il Cuore d'Argento

La biblioteca d'Alessandria. Fantasmi, tanti fantasmi che, come in una grande processione, si dirigevano verso il fondo. Un gruppo di donne con gli occhi azzurri e i capelli biondi, proprio come lei. Portavano al collo un ciondolo come il suo. Altri uomini con la chiave di Leonardo. Altri ancora un'altra chiave, simile a quella; la gemella da unire per aprire la Volta Celeste. 
"Le vostre antenate", disse il Turco alle sue spalle quando una di quelle donne le sorrise. Che diamine di sogno era quello? Elettra non ci stava capendo niente.
Uno spiazzo, in mezzo  a tutti quegli scaffali. Ecco dove erano finite tutte quelle ombre! Raccolte intorno ad un mosaico rappresentante Mitra. Identico ad una delle facce della moneta d'oro. Zenodoto al centro, recitva strane formule di rito. "Che rito?" "Per scacciare le corna dell'increato", le dava sui nervi sentire Al-Rahim parlare per metafore. Un gruppo di uomini fece il suo ingresso tirando un toro per le corna. I ciondoli a forma di cuore si misero a brillare, alcuni di una luce violetta, altri blu. Anche quello di Elettra si illuminò. Un cavaliera fece il suo ingresso nel mosaico, teneva una lunga spada in mano. Recise di netto la gola del toro. Il sangue ancora caldo imbrattava il pavimento colorato. "Per capirne il significato dovete solo leggere"
Buio.

 
***
Il giorno seguente...

Elettra stava sbraitando ordini a destra e a manca. Quella sera si sarebbe tenuto un banchetto in maschera. Il tema era 'Il Giardino dell'Eden' e, tenendo fede ad esso, la sala dei ricevimenti si sarebbe trasformata in una lussureggiante foresta. Aveva ordinato ogni genere di pianta e fiore conosciuto e, a Lorenzo, sarebbe venuto un colpo quando avrebbe scoperto quanto aveva speso.
Le alte colonne era state ricoperte da lunghi rami d'edera, che si arrampicavano su di esse in ampi vortici; vi erano ovunque colorati festoni floreali e vasi contenenti splendide ochidee. Anche le scalinate, erano diventate come dei piccoli cespugli verdi.
Nonostante quello non fosse decisamente il momento, non riusciva a non pensare allo strano sogno di quella notte.

A Giuliano venne da ridere. Non aveva ancora messo piede nella sala dei ricevimenti, eppure sentiva già Elettra urlare.
Quando arrivò, la ritrovò pericolosamente in bilico sul corrimano della scalinata pricipale, intenta a combinarne una delle sue. Indossava una gonna, il chè la rendeva ancora meno agile. Se fosse caduta di sotto, si sarebbe di certo rotta l'osso del collo.
"Stai cercando di ucciderti?", le disse preoccupato appena l'ebbe raggiunta.
"Fabrizio non voleva farlo. Mi ha chiaramente detto di arrangiarmi", gli rispose mentre si sporgeva ancora di più. Stava tentando di attaccare un festone.
"Fabrizio è più furbo di te", ribattè ironico il giovane de Medici tenendole la gonna. Se avesse perso l'equilibrio, magari avrebbe fatto in tempo a prenderla al volo.
"Fatto". Giuliano si sentì molto sollevato e, senza pensarci due volte, la tirò verso di sè prendendola poi in braccio. 
Elettra rise.
"Non dovresti già essere a casa a prepararti?", le chiese mentre la metteva a terra.
"Adesso vado, dovevo solo sbrigare le ultime cose". Gli diede un veloce bacio sulla guancia e cominciò a scendere i gradini. Arrivata circa a metà, si arrestò, per poi tornare indietro.
"Ci stavamo dimenticando della nostra scommessa", gli disse. Elettra e Giuliano, in occasione di qualche festa a palazzo che richiedesse un travestimento, adoravano scommettere sui costumi di alcuni invitati. Chi perdeva pagava da bere al vincitore.
"Tu, da Eva", disse lui. Elettra sorrise. Non avrebbe mai indovinato la sua maschera.
"Francesco Pazzi, da cervo o da ratto".
Il giovane de Medici si mise a ridere. "Fa già il cornuto tutto l'anno. Grazie a sua moglie Allegra passa a stento dal portone del Duomo!", disse tra una risata e l'altra, "Non penso proprio che si vestirà così. Ho già la vittoria in pugno!"
"Lucrrezia Donati e suo marito, coppia cervo-cerbiatta", continuò Elettra imperterrita, " E Riario senza costume, con la sua solita divisa. Andata?". Gli tese la mano, per suggellare la loro scommessa.
"Andata", disse Giuliano stringendole la mano. Poi la tirò a sè, baciandole la guancia.

Girolamo Riario era stufo di stare nei suoi alloggi e così, dopo pranzo, aveva deciso di fare una passeggiata, per esplorare le meraviglie che quel palazzo offriva. Era sfarzoso, forse troppo per i suoi gusti, ma comunque bello. Dopo l'ennisima svolta, si ritrovò in cima ad un'ampia scalinata. Sotto di essa si apriva un'enorme sala e, a giudicare da tutta la servitù presente e indaffarata, doveva trattarsi del salone dei ricevimenti.
Il suo sgurdo fu presto catturato da due figure che si trovavano poco più sotto, su di un grande pianerottolo.
La donna era in piedi sul corrimano e sembrava in un equilibrio molto precario mentre l'uomo, la teneva goffamente per la gonna. Riconobbe subito Giuliano de Medici e la sua giovane amante. 
Dopo poco il de Medici la strattonò più forte, facendola cadere tra le sue braccia. La ragazza rise e la sua risata cristallina rieccheggiò nell'ampio spazio del salone. La vide baciarlo, davanti agli occhi di tutti. Il Conte non riusciva a capire come, all'interno di una corte, potessero essere permesse certe cose. A Roma, le amanti sbucavano nei letti dei potenti solo con il favore delle tenebre; non si facevano mai vedere in pubblico a quel modo. Firenze era una nota città di libertini ma mai si sarebbe aspettato una simile condotta, dai suoi signori.
Era geloso del giovane de Medici, ma non voleva ammetterlo.
Un servitore gli passò affianco. "Ci sarà anche lei alla festa?", gli chiese indicandogliela.
"Elettra? Non mancherebbe mai per nulla al mondo", rispose l'altro ridendo.
Elettra. Almeno ora sapeva il suo nome.
 
***

Mancavano ancora diverse ore alla festa e, finchè Leonardo non si fosse deciso ad arrivare per aiutarla, avrebbe potuto fare ben poco. Così, una volta a casa, Elettra pensò bene di fare un salto in quello che, in teoria, sarebbe dovuto essere il suo studio; in realtà quella grande stanza al primo piano era molto di più di uno studio: fungeva anche da biblioteca e da salotto. Ogni singola parete libera era stata ricoperta da eleganti scaffali in legno intarsiato traboccanti di libri. 
Appena entrati ci si trovava davanti un piccolo salotto, con due poltrone, un divano a due posti in broccato e un tavolino letteralmente sommerso di carte e pesanti volumi. Circa a metà della sala, altre due librerie facevano da separè tra la zona relax, ovvero il salotto, e la zona studio. In quest'ultima, faceva la sua bella figura una grande scrivania formata da una lucentissima lastra d'ambra racchiusa da una ricca cornice in legno scuro; qua e là il legno era stato ricoperto da lamine d'oro, per farne risaltare alcuni particolari. Intorno ad essa, vi erano altre tre poltrone, due più piccole, per gli ospiti, e una più grande, per la padrona di casa. L'intera sala era molto luminosa, grazie a due enormi finestroni.   
Elettra andò verso la zona studio. Aveva fatto mettere lì, i libri recuperati dalla biblioteca della madre. Essendo che le librerie erano ormai piene da tempo, tutti quei preziosi manoscrtitti erano stati appoggiati in ogni possibile spazio libero: i rotoli di pergamena e le tavolette d'argilla erano state sistemate sulle poltrone e alcuni tomi molto spesso erano finiti sulla scrivania, impilati in modo molto precario e minacciando di cadere da un momento all'altro. Ai diarietti di sua madre era andata decisamente peggio: di fianco ad una gamba del tavolo, messi uno sopra all'altro, avevano creato una torre non dissimile da quella pendente di Pisa. Elettra prese quello sulla cima, facendo ondeggiare pericolosamente il tutto; con il naso immerso tra i pensieri della madre andò verso i divano, dove si sdraiò. Imprecò, quando si accorse di essersi messa sopra ad una preziosa copia del Milione di Marco Polo; con tutta la delicatezza di cui era capace, lo mise a terra.
Si stancò presto di quel diario. Sperava che tra quelle pagine si facesse menzione ai Figli di Mitra, invece non ce n'era nenache l'ombra. Era delusa. Lo chiuse di scatto e lo lanciò sulla poltrona. Tornò alla scrivania e la sua attenzione fu catturata da uno spesso volume con la copertina in pelle nera. Era scritto in arabo. Si mise a sfogliarne alcune pagine a caso. Ad un certo punto, si ritrovò su du una pagina in cui era raffigurato un ciondolo. Il suo ciondolo.

"Elettra, sei qui?", chiese Leonardo entrando con circospezione in quello che gli era stato detto fosse uno studio, ma che aveva tutta l'aria di essere una versione da ricchi della sua bottega. "L'ultima volta che ho messo piede qui, lì c'era un tavolino", disse ironicamente indicando un cumulo di libri. Forse c'era ancora, nascosto là sotto. Non ricevette ancora risposta. "Tutto bene?", si stava preoccupando.
"Leonardo vieni qui!", urlò lei da oltre il separè.
Quando Da Vinci la raggiunse, notò che aveva la sua stessa espressione di quando gli veniva un'idea. Elettra lo guardava negli occhi, eppure era come persa in qualcosa di superiore e poi quel sorriso. Leonardo adesso capiva perchè quando era lui, a fare così, la gente si spaventava. In quel momento provava la stessa sensazione.
"Elettra, respira e siediti un attimo. Per favore"
"Non c'è tempo. Guarda!". Girò il manoscritto in modo che anche Da Vinci potesse vedere.
"Ma questo è..."
"Esattamente"
"E cosa dice di preciso?"
"Racconta la sua storia"
"Elettra è fantastico!", le disse stringendola forte a sè. Se prima era solo lei ad avere quell'espressione da pazza, ora erano in due. 

Secondo quello strano volume il ciondolo d'argento a forma di cuore che Elettra portava sempre al collo poteva essere aperto; lei invece non era d'accordo: erano anni che lo aveva con sè e se fosse stato possibile, se ne sarebbe di sucuro accorta prima.
"Prova ad aprirlo", le disse Leonardo per la milionesima volta. Cominciava a perdere la pazienza.
Elettra sbuffò sfilandoselo dal collo. Lo appoggiò malamente sul tavolo, facendo vibrare la bottiglia di liquore e i due bicchieri quasi vuoti poggiati su di esso. "Fai tu", gli disse facendolo scivolare sulla liscia superfice d'ambra.
Mentre Leonardo se lo rigirava tra le mani, studiandolo, Elettra continuava la sua lettura in arabo.
"Leonardo", disse ad un certo punto.
"Si?", rispose l'altro distratto.
"Passamelo". La voce di Elettra era estremamente seria. Aveva senz'altro scoperto qualcosa. Da Vinci scattò in piedi e fece il giro del tavolo, per ritrovarsi di fianco a lei; le porse il ciondolo, tradendo una certa impazienza. La fissò attentamente. Non voleva perdersi neanche un suo singolo movimento.
Elettra guardò ciò che aveva in mano con un certo timore. "Sono figlia della terra e del cielo stellato", sussurrò portandosi il ciondolo vicino alle labbra. Sul subito si sentì sollevata, notando che non succedeva assolutamente niente; quel libro diceva il falso. Non poteva essere altrimenti.
Sbiancò, quando dal piccolo oggetto che teneva in mano provenì un click, come di un meccanismo che si sblocchi. Il ciondolo si aprì in due metà: in ognuna delle due parti, era presente una cavità, coperta da una sottile lamina di vetro, contenente una piccola gemma; quella di sinistra era blu, quella di destra viola.
"Non è possibile", balbettò Elettra. Lo sguardo di Leonardo si spostava contuamente dalla faccia dell'amica, più pallida del solito, a ciò che essa teneva tra le sue mani tremolanti. Glielo passò alla svelta, come se fosse incandescente.
"E' incredibile... è come se riconoscesse le parole...". Leonardo, solitamente loquace, di parole non ne aveva. Quello che aveva appena visto gliele aveva fatte dimenticare tutte. "Questo è senza alcun dubbio un diamante", disse indicando la pietra blu, "Sono rarissimi di questo colore. E questa è un'ametista".
"Perchè sono così importanti per i Figli di Mitra? Leo tu cosa ne pensi?". Elettra era confusa e anche un po' spaventata. 
Leonardo non riuscì a finire a risponderle: Maria entrò nella stanza con aria seccata, interromperdo così i loro studi. "Arriverete in ritardo, se non vi decitede ad uscire da questa polverosa biblioteca!"


Nda 
Piccolo fuori programma che non avevo previsto, tanto per rendere la storia un po' più lunga di quanto già non sarà.
Mi farebbe molto piacere sentire i vostri pareri; questa è la prima  ff che pubblico e vorrei capire cosa va e cosa no, per poter migliorarmi in futuro

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Capitolo 13
*** Il Banchetto ***


Capitolo XI: Il Banchetto

"Sei sicura, di volere che ti dipinga quei fiori addosso?", le disse Leonardo una volta giunti in camera di Elettra. 
"Nessun ripensamento", rispose lei.
Mentre Maria l'aiutava a truccarsi e le acconciava i capelli, Leonardo le disegnava dei delicati ricami floreali. Essi partivano da sopra il sopracciglio destro, le accarezzavano delicatamente lo zigomo ferito che, grazie alla polvere di Cipro, si vedeva molto meno e proseguivano sul suo collo di porcellana. Da esso passavano poi sulla spalla, dove facevano una giravolta, per posizionarsi poi al centro della schiena, seguendo la linea della colonna vertebrale. Poi, una volta arrivati in fondo, si spostavano sulla gamba destra, avvolgendola delicatamente, fino alla sottile caviglia.
"Prima di indossare il tuo vestito, devi aspettare che asciughi", le disse una volta finito.
"Credo che arriverò in ritardo", gli disse lei ridendo. Mentre loro chiaccheravano la festa stava già cominciando.
"Io vado. A differenza tua, ci tengo ad arrivare ad un orario decente", si congedò Leonardo.
"Ci vediamo là, allora"

***

 Era passata più di un'ora, da quando aveva salutato Leonardo, ma finalmente ce l'aveva fatta, ad arrivare a palazzo. 
La carrozza che Lorenzo le aveva mandato, per scortarla fino alla festa, si fermò davanti all'ingresso principale. Elettra arricciò il naso, avrebbe preferito passare da uno degli ingressi laterali. "Ordini del Magnifico", le rispose il cocchiere.
Quando giunse davanti al portone della sala dei banchetti, ci trovò due paggi, pronti ad annunciarla. "Provateci e domani passerete dei brutti momenti", disse quando uno di questi ultimi fece per aprire bocca. Non era una nobile, non doveva essere annunciata. Era ridicola, come cosa, quella di sentire il proprio nome urlato.
I battenti si aprirono e lei entrò.
Era magnifica, nel suo abito verde con quei leggerissimi fiori applicati. Come forma, il vestito ricordava una tunica: scendeva delicato sulla sua figura, accarezzandole leggermente le forme; sul davanti era abbasstanza accollato, con uno scollo a barchetta che arrivava fino ai lati delle spalle; aveva le maniche lunghe. Il retro invece presentava una profonda scollatura a v, che arrivava fino a metà schiena. Il ricamo floreale scompariva al suo interno, per poi ricomparire sulla gamba destra ogni volta che lo spacco dell'abito, si apriva. I capelli erano stati raccolti in una morbida treccia a lisca di pesce su di un lato; vi era qualche fiore, nascosto qua e là nei capelli e, sul capo, spiccava una sottile coroncina di fiori. 
Evitando di ascoltare i bisbigli e i sussurri che si erano levati mentre lei entrava, si diresse verso i padroni di casa. Molti la salutarono e lei rispose con dei brevi cenni del capo, senza fermarsi. Aveva una camminata lenta e studiata che, fortunatamente, non faceva trasparire tutta la sua agitazione.
"Signori", salutò i Medici con un piccolo inchino.
"E' un piacere vederti finalmente", le disse Clarisse.
"Magnifica, come sempre", si permise di dirle il Magnifico. Becchi confermò annuendo.
"Ho vinto la mia parte di scommessa", le disse Giuliano.
"Io non ne sarei così certa", sorrise Elettra.
"Sei vestita da Eva, no?", ribattè l'altro.
"No. Se avessi deciso di 'vestirmi' da Eva sarei venuta come mamma mi ha fatto". Risata di gruppo. "Sono vestita da giardino dell'Eden e per ora sono in vantaggio io"
"Voi due e le vostre scommesse...", disse Lorenzo ironico.
"Scusate signori ma vado a prendere un buon bicchiere di vino anche io", si congedò Elettra.

Girolamo Riario non l'aveva persa di vista un attimo da quando aveva fatto il suo ingresso nella sala. Aspettava solo che fosse sola, per avvicinarsi.
La vide allontanarsi per andare a prendere da bere e decise che quello era il momento perfetto per agire.
"Madonna, salve". La vide irrigidirsi e prendere un lungo respiro, prima di girarsi nella sua direzione. Nel frattempo lui indugiò sul singolare disegno che aveva sulla pelle. Il fatto che scomparisse sotto l'abito, per poi ricomparire sulla gamba lo intrigava. E non poco. Si ritrovò a fantasticare su di esso, e di come potesse apparire nei punti non visibili. Gli sarebbe piaciuto percorrelo tutto, accarezzando quella pelle di porcellana all'apparenza così delicata. "Temo che non ci siamo presentati a dovere, l'ultima volta", aggiunse semplicemente.
"No, infatti", gli disse lei sulla difensiva.
"Mi farebbe molto piacere conoscere il vostro nome"
"Costei è mia nipote Elettra", si intromise Becchi, alle spalle del Conte. L'aveva vista innervosirsi di colpo, mentre Riario le parlava e aveva deciso di intervenire in suo aiuto.
"Elettra Becchi, piacere di fare la vostra conoscenza", disse la diretta interessata con un falso sorriso sulle labbra. 
"Il piacere è tutto mio", rispose Riario portandosi la mano della ragazza alle labbra per un lento baciamano. Non riusciva a staccare gli occhi da quelli azzurri di lei. Aveva sbagliato, a giudicarla l'amante del giovane de Medici. Se ne rendeva conto solo ora.
Per Elettra, quei pochi secondi, furono i più lunghi della sua vita. Sentì come una leggera scossa elettrica, quando le labbra del Conte le sfiorarono appena la mano. D'istinto le sarebbe venuto di ritrarla immediatamente, ma la presa decisa di Riario le impedì di farlo. Arrossì leggermente: quell'uomo la metteva seriamente in soggezione ed Elettra non sapeva come comportarsi. Ci pensò uno degli ultimi arrivati, a farle dimenticare quell'imbarazzante sensazione: un uomo con dei lunghi boccoli biondi ed una veste vescovile, che camminava nella sala con lo sguardo smarrito.
Riario stava per domandarle come trovava quella festa ma la frase restò a metà. Elettra si congedò velocemente, appoggiando il calice ancora pieno sull'angolo del tavolo e poi corse via.
"Aramis", urlò di gioia appena fu abbastanza vicina al fratello. Prima che quest'ultimo capisse la situazione, lei gli era già saltata al collo, abbracciandolo. Erano da due anni che non si vedevano e sentirsi solo per lettera non era la stessa cosa. La strinse forte a sè, tentennando un attimo quando sentì il contatto con la pelle nuda della schiena di Elettra. Le fece fare una giravolta, per osservarla meglio.
"Sei cresciuta, sorellina", sentenziò alla fine.
"Tu sei sempre uguale, invece". Elettra aveva un sorriso da orecchio a orecchio.
Ci pensò il Conte, ad interrompere quel felice momento famigliare. "Ora che vi vedo uno di fianco all'altra, noto molta somiglianza.", disse sorridendo, "Sapete Elettra, vostro fratello mi parla continuamente di voi". Doveva capire prima anche quello; era stato davvero uno stupido, a non rendersi conto che era la sorella del vescovo Becchi.
Elettra si limitò a sorridergli in modo alquanto tirato.
"Aramis, pensi di invitarmi a ballare prima o poi?", disse ironica.
"Non posso proprio, sono un vescovo ora e certe usanze vanno contro la mia etica". La poveretta strabuzzò gli occhi: dannazione, era stato proprio lui ad insegnarle a ballare! Era un ballerino provetto.! Cosa gli era successo a Roma? Gli avevano fatto un lavaggio del cervello? Avrebbe voluto insultare sia lui che quella sua chiesa ma, visto la quantità di ecclesiastici e bigotti presenti quella sera, si limitò a mettergli il broncio. Riario girò un attimo la testa di lato, nascondendo una risatina. Era divertente come scena.
"Posso avere l'onore di questo ballo, Madonna?", le chiese lasciandola senza parole. Elettra era stupita e non poco, dalla proposta del Conte. Non voleva accettare ma l'unica cosa che riusciva a fare era balbettare. Quando ormai era riuscita a riprendere il controllo su se stessa, era troppo tardi. Riario l'aveva presa per mano e condotta sulla pista da ballo. 
"Mi sembrate nervosa", le disse mentre le poggiava delicatamente una mano sui fianchi e con l'altra prendeva quella di lei. 
"Voi al mio posto come stareste?", rispose lei poggiandogli la mano libera sulla spalla.
Riario ridacchiò. "Potevate dirmi di no"
"Non me ne avete lasciato il tempo", disse schietta, guardandolo fosso negli occhi. C'era un qualcosa che le impediva di staccargli lo sguardo di dosso.
La musica partì.
"Non vi facevo avvezzo a certe frivolezze, Conte". Non avrebbe mai pensato che Riario fosse così bravo, nella danza. A Elettra, invece, il ballo non era per niente congeniale e faticava e non poco a stare dietro alle movenze perfettamente studiate del Conte.
"Potrei stupirvi, Madonna", le rispose mentre le faceva fare una giravolta. 
"Illuminatemi, allora", disse ironicamente la ragazza. Riario si limitò a sorriderle; forse quello era il primo sorriso vero che faceva da quando aveva messo piede a Firenze. Aumentò la stretta sul fianco di Elettra e restarono così fino a quando la musica non si fermò.
Non si accorsero neanche che la musica era finita; erano entrambi troppo persi uno negli occhi dell'altra, per accorgersene. Elettra si rese conto di tutto solo quando sentì Giuliano tossicchiare leggermente alle sue spalle. Velocemente si staccò da Girolamo, facendo un passo indietro. Non si era resa conto di essergli così vicina.
"Lorenzo vuole fare un discorso". Aveva l'aria di essere molto infastidito, da quello che aveva appena visto. 
"Credo che sia in vostro onore", disse Elettra a Riario. In realtà lei non credeva di saperlo, lo sapeva per certo. Aveva aiutato lei Lorenzo a scriverlo e i successivi minuti si preannunciavano parecchio divertenti. Trattenne a stento una risata mentre prendeva il braccio che Giuliano le aveva offerto.
Il Conte osservò come il giovane de Medici la stringeva a sè, mentre si incamminavano verso il palchetto allestito appositamente per l'occasione. Quel gesto così possessivo e fraterno nei confronti della ragazza voleva chiaramente dire 'State alla larga da Elettra'.

"Vi prego, un po' d'attenzione", disse Giuliano salendo sul palco.
Elettra nel frattempo si posizionò in prima fila, di fianco ad uno sperduto Leonardo che, non solito occuparsi di affari di quel tipo, sembrava parecchio a disagio. Riario prese posto alla sua sinistra.
"Do il benvenuto a tutti voi a uno dei banchetti di Firenze. Così piena di vita e persone vivaci...". Pausa per gli applausi. "...Come il Giardino dell'Eden", esordì Lorenzo. Mentre lui parlava sul palco entrarono parecchi ballerini in maschera, che si muovevano sulle note di una canzone scritta da lui stesso da giovane. "Pieno di frutti rigogliosi, pieno di animali e giochi". Fece il suo ingresso una donna con un pitone sulle spalle; Elettra non riuscì a nascondere una piccola risatina. "Pieno della grazia della natura". Arrivarono Adamo ed Eva e tutti i ballerini, dopo alcune mosse, si misero nella posa finale. "Quindi come l'Eden. Ma, ovviamente, l'Eden  aveva degli ospiti...". Lorenzo accarezzò la testa del pitone; era proprio il momento che Elettra attendeva. "...così come noi.". Dovette fare uno sforzo immane per non scoppiare a ridere; girò un attimo la testa di lato, per osservare la faccia stupita di Riario. "E' pur vero che i nostri sono un pochino più piacevoli del serpente, in effetti. Lasciate dunque che dia il benvenuto al Conte Girolamo Riario, inviato da Roma al nostro Eden, la nostra adorata Firenze", concluse il Magnifico. Sul viso del Conte fece la sua comparsa un affilato sorriso che non prometteva niente di buono. Per tutta risposta Lorenzo gli fece l'occhiolino. "La cena è servita", disse.
Elettra guardò il Conte ancora più divertita. Riario invece non si stava affatto divertendo: quello era un grave affronto e poteva chiaramente vedere lo zampino di quella ragazzina impertinente; gliel'aveva fatta, un'altra volta. Forse era proprio per quell'impertinenza, aggiunta al fatto che riuscisse sempre a tenergli testa, che lei gli interessava così tanto. "Ottimo lavoro", le disse a denti stretti prima di prendere posto a tavola. 
 
***

Elettra si stava chiedendo cosa gli era passato per la testa a Gentile Becchi, per decidere quelle disposizioni ai tavoli: lei era finita in uno dei tavolini sparsi per la sala, in lontananza rispetto alla grande tavolata dove si trovavano i Medici, Riario, Becchi e le personalità più influenti di Firenze. Era seduta tra Aramis e Leonardo e fin qui, non si lamentava, ma oltre a loro vi erano anche Botticelli, che schiacciava parecchio l'entusiasmo collettivo, e altre personalità della delegazione romana, come il cardinale Mercuri e Grunwald. Il trovarsi tra suo fratello e il geniale artista finiva in secondo piano, rispetto a chi si trovava di fronte.
"Divertente", aveva detto sarcastica a Leonardo, mentre si sedevano. Gli altri non avevano chiaramente apprezzato il suo commento; sia Mercuri che Grunwald non avevano smesso un attimo di osservare lei e Da Vinci in modo alquanto tetro.
Erano passati appena dieci minuti ed Elettra non ne poteva più. Era arrivato il momento di attizzare un po' il fuoco; si riempì il bicchiere di vino e si fece forza. "Aramis hai notato la brutta ferita che ha il Conte sul collo? L'ho notata mentre ballavamo e non ho potuto fare a meno di pensare che se la sia vista davvero brutta, qualsiasi cosa abbia fatto per procurarsela.", disse con un finto tono di preoccupazione. Leonardo nascose con il pugno chiuso una risata dando corda all'amica. "Le ferite sul collo possono essere davvero pericolose. Basta applicare una leggera pressione con una lama, per morire dissanguati.", aggiunse. Mercuri li guardò ancora più torvo di prima, mentre Grunwald borbottava qualcosa in tedesco: non erano parole che andavano ripetute. "Sapete, Capitano, nostra madre Anna era tedesca e noi in casa lo parlavamo spesso", gli disse Elettra divertita. Aveva fatto sbiancare pure il capo delle guardie svizzere. Doveva essere fiera di se stessa.

Tra una portata e l'altra Elettra passava per i tavoli, intrattenendo gli ospiti con il suo spontaneo sorriso e tutta l'allegria che era capace di trasmettere agli altri. 
Tra l'antipasto e una delle prime portate aveva avuto l'occasione di parlare con Piero Da Vinci, il padre di Leonardo, che, all'esclamazione della ragazza di quanto suo figlio avesse talento, rispose con un secco: "Mio figlio ha detto di saper fare due cose contemporaneamente: ubriacarsi e scavarsi la fossa da solo". A quanto pare era l'unico di cattivo umore alla festa. Insieme ad alcuni elementi della delegazione romana, ovviamente.
In una delle successive 'pause' tra un abbuffata e l'altra (Elettra aveva ammainato bandiera bianca alla seconda prima portata), decise di dirigersi al tavolo dei Medici. Peccato che venne bloccata a metà da Francesco Pazzi, intento a parlare con il Conte Riario. "Maddona, vi ho vista così indiffarata per tutta la festa. Fermatevi un attimo a riprendere un po' di fiato", le disse prima di farle un baciamano; era un lecchino e tutti lo sapevano bene. Elettra lo guardò contrariata, mentre lo vedeva portarsi la mano alle labbra. A giudicare dalla quantità di saliva che lasciava, Pazzi non sfiorava la mano con le labbra, lui la leccava. Riario le sorrise divertito, capendo perfettamente i pensieri della ragazza.
"Come va la vostra scommessa con il giovane Giuliano?", le chiese Pazzi mentre Elettra, senza farsi notare, puliva la mano nel retro del proprio abito.
Il Conte alzò un sopracciglio, curioso.
La ragazza sospirò fingendosi dispiaciuta: Pazzi si era travestito da pennuto. "Voi non mi aiutate per niente, Francesco"
"Perchè mai, se posso chiedere?". Al vedere l'espressione di Riario,decise di spiegare meglio: "Sapete, Conte, la nostra carissima Elettra e il giovane Giuliano si divertono a indovinare le maschere degli invitati. Non lo trovate anche voi divertente?", disse con un falso sorriso sulle labbra. In realtà non sopportava quella ragazzina impertinente, così come non poteva vedere i Medici. Le avrebbe dato una lezione, il giorno in cui i Pazzi sarebbero diventati i signori di Firenze.
"Se lo dite voi, Francesco" disse disinterresato Riario.
"Tornando a noi, da cosa credevate mi sarei travestito?", chiese Pazzi ad Elettra. Lei assunse una strana espressione, tra il divertito e il non sapere cosa dire. Non poteva certo rispondere da cervo o da ratto. Non sarebbe stato educato, nessuno dei due.
"Come trovate la festa, signori?". 'Santo Becchi', pensò Elettra; era la seconda volta che la salvava da qualche figuraccia, quella sera.
"Magnifica. Come tutte le feste che vostra nipote organizza, in fondo", rispose Pazzi. Nel mentre Elettra aveva pensato bene di dileguarsi.
 
***

I festeggiamenti e tutta quella finta cortesia cominciavano ad annoiarla. Elettra, con la scusa di prendere un po' d'aria, aveva deciso di fare due passi per i corridoi del palazzo. Casualmente, passò per la galleria dove si trovavano tutti i ritratti della famiglia Medici. Si ritrovò a fissare il dipinto raffigurante Cosimo, il Mago. Era stato quasi un nonno per lei, ed era stato lui a convincere Gentile Becchi a mandare Elettra dal Verrocchio, per imparare a dipingere bene. In un certo senso, senza di lui, in quel momento non sarebbe stata lì.
"Cosimo, voi e i vostri Figli di Mitra...", pensò ad alta voce. Era talmente concentrata sui suoi pensieri che non si accorse del rumore di passi, sempre più vicini.
"Parlate anche con i quadri, ora?", disse ironico il Conte alle sue spalle. 
Non si erano mai trovati completamente soli, prima di allora. Quel pensiero la fece innervosire parecchio. 
"E voi mi seguite, Conte?", commentò sarcastica.
Riario le ripropose uno dei suoi soliti sorrisi freddi, di quelli che fanno gelare il sangue nelle vene a chiunque lo osservi. 
Fece alcuni passi verso di lei. 
Elettra, al vederlo avvicinarsi, provò a fare qualche passo indietro ma, dietro di lei c'era solo il ritratto di Cosimo de Medici. Lo guardò negli occhi, con aria di sfida. 
"Elettra", disse mentre si portava pericolosamente vicino al suo viso. Lei abbassò lo sguardo. "Dovevate fare più attenzione", le sussurrò mentre le accarezzava delicatamente lo zigomo ferito. Lei si stupì di quel gesto, appariva così estraneo alla natura del Conte. Intanto il suo cuore batteva all'impazzata; Elettra pensava quasi che le potesse uscire dal petto, da quanto batteva. Socchiuse leggermente gli occhi, quando Girolamo fece per colmare la breve distanza che separava le loro labbra. 
"Elettra, dove sei finita?". La voce di Giuliano, proveniente da uno dei corridoi adiacenti, la fece sobbalzare. 
Mentre Riario si ritraeva, distratto dalla voce del de Medici, Elettra riuscì a sgattaiolare via. "Buonanotte, Conte", disse poco prima di scomparire in un altro corridoio. Le dispiaceva, di essere stati interrotti proprio sul più bello. 
Mentre si dirigeva verso Giuliano, un sorriso da ebete le comparve in faccia, insieme ad un diffuso rossore, alquanto sospetto, sulla sua pelle solitamente bianca come il latte. 


Nda 
Una tranquilla serata a palazzo! Non penso che si svolgessero in questo modo i banchetti nel 1400, però mi piace immaginarmeli così.
Per l'abito di Elettra mi sono ispirata ad un vestito di Elie Saab (potete trovarlo qui: http://www.google.it/imgres?imgurl=http://blog.anitalianbrand.com/wp-content/uploads/2014/04/Elie-Saab-HC-RS14-5236_main_image_defile.jpg&imgrefurl=http://blog.anitalianbrand.com/mag/249/&h=563&w=404&tbnid=Q9lXGScsvO6OAM:&docid=4YBHMNWsA_9x4M&ei=8GvrVbKMNcm4acKOoOgG&tbm=isch&ved=0CC0QMygOMA5qFQoTCLLEsP734McCFUlcGgodQgcIbQ), però dovete immaginarlo in verde scuro e senza le trasparenze.

 

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Capitolo 14
*** La Ruota ***


Capitolo XII: La Ruota

Dopo aver raggiunto Giuliano, Elettra andò nel salone dei banchetti per l'ultimo brindisi prima di lasciare la festa. Peccato che dopo 'l'ultimo brindisi', se ne aggiunsero altri. Parecchi altri. Insieme a Giuliano, erano arrivati al punto di brindare per ogni persona che saliva o scendeva la scalinata. Forse Giuliano era messo peggio di lei, visto che l'idea era stata sua. Alla fine era riuscita a convincere il giovane de Medici ad andare a letto.
Per quanto riguardava lei, non se la sentiva proprio di tornare a casa e così decise di passare prima per il suo studio.
 
***

Si era addormentata a poco a poco, mentre leggeva delle carte riguardanti la costruzione della biblioteca. 

Si trovava nuovamente nella piazza dove avvenivano le esecuzioni pubbliche. Un brivido freddo le percorse la schiena: era tutto esattamente come la volta precedente. 
"Vieni! Tra poco giustizieranno il consigliere dei Medici!", disse un ragazzino a quella che sembrava poco più di una bambina. Da come gli stringeva la mano, la piccola doveva essere terrorizzata.
"No no no...", si ripetè Elettra tra sè e sè. Non poteva essere così.
La piazza era gremita di gente, per lo più curiosi, ed Elettra dovette faticare, e non poco, per farsi largo tra la folla. 
Gentile Becchi era già stato legato alla ruota e il suo viso era pieno di lividi e ferite. I loro occhi, della stessa tonalità del cielo, si incrociarono per un istante, prima che lo zio gli abbassasse. Non voleva che lei se lo ricordasse così, legato alla ruota e ridotto in uno stato pietoso. No, lei doveva andare via da quel luogo orribile che presto si sarebbe macchiato del suo sangue. Provò a dirglielo ma il suono della sua voce non riuscì ad arrivarle. 
Il boia aveva ormai finito di parlare e si apprestava a compiere il suo dovere. Prese la pesante mazza da terra e se la passò tra le mani, in attesa di usarla.
"Cosa ci fate voi qui?". La voce di Dragonetti sembrava lontana eppure lui era proprio lì, davanti a lei. "Elettra, non è una scena adatta voi. Vi consiglio di andarvene", non aveva il solito tono duro da capitano delle guardie della notte ma uno più dolce, velato di tristezza. 
"Io... io devo fare qualcosa", balbettò, incapace di spostare gli occhi dallo zio.
"Non potete più fare niente, ormai. Le prove a carico di vostro zio erano schiaccianti: ha venduto i nostri segreti a Roma!", le ripetè tirandola leggermente per un braccio, per portarla via da quella piazza.
"No! Lui non lo avrebbe mai fatto!", disse mentre due grandi lacrime le solcavano il viso. 
Dragonetti sospirò affranto, anche per lui era difficile crederci ma era tutto vero. 
L'orologio scoccò l'ora e, a quel suono, il boia vibrò in aria la pesante mazza, facendola poi colpire violentemente contro la gamba di Gentile Becchi; Elettra sentì il rumore delle ossa che andavano in frantumi e poi l'atroce grido di dolore dello zio.
"No!", urlò mentre voltava la testa per non guardare. 


Il Conte Riario, dopo l'incontro con Elettra, non era ritornato alla festa ma aveva deciso di andare nei suoi alloggi, con tutta l'intenzione di dormire. Peccato che il tanto desiderato sonno non era arrivato e così, dopo alcune ore passate a camminare avanti indietro per la camera e a leggere, decise di uscire per fare una passeggiata. 
Si trovava al piano terra, in una delle ali del palazzo che non aveva ancora avuto l'opportunità di visitare; vi erano parecchie porte chiuse, in quel corridoio, e non aveva l'aria di essere un posto molto frequentato.
Improvvisamente la quiete della notte fu rotta da un grido. Senza pensarci due volte il Conte si mise a correre nella direzione da cui l'urlo proveniva. Una sottile lama di luce filtrava da sotto una porta; doveva senz'altro provenire da lì.

Il suo corpo venne scosso da singhiozzi sempre più forti mentre la gola lentamente le si chiudeva e le gambe cominciavano a tremare.
Un secondo colpo. Questa volta fu il braccio a cedere. Elettra vide l'osso perforare la carne e uscirne, formando una brutta fratutta scomposta. 
"Per favore, fermatevi", riuscì a mormorare tra un singhiozzo e l'altro. 

 
Da oltre quella porta privenivano dei lamenti; stava sicuramente succedendo qualcosa e qualcuno era in pericolo. Riario provò ad abbassare la maniglia per entrare ma la porta era chiusa a chiave; cominciò a prenderla a spallate mentre un nuovo urlo gli giunse alle orecchie. Temeva di sapere chi ci fosse, dall'altra parte.
Ignorando il dolore crescente alla spalla, riuscì finalemente a sfondare la porta ed entrare.

Altri colpi, parecchi altri colpi, si erano susseguiti. Gentile Becchi era ormai ridotto ad un ammasso di carne sanguinante. Non aveva nenache più la forza di urlare, i suoi erano solo flebili lamenti.
"Durerà ancora molto?", chiese una donna alle sue spalle.
"Anche delle ore", rispose il suo accompagnatore. A Elettra le si gelò il sangue nelle vene, a pensare ad una simile agonia. "A cosa serve tutto questo dolore?", si domandò, sapendo che non vi sarebbe stata risposta.


Riario la vide seduta alla scrivania. Aveva gli occhi chiusi eppure poteva vedere le sue pupille guizzare da una parte all'altra, senza un attimo di tregua. Il suo corpo era scosso da fremiti e le guance erano solcate da due lacrime.
"Elettra, cos'è successo?", chiese preoccupato. Solo quando non gli rispose si accorse che dormiva. Ma di certo non tranquillamente; di qualsiasi specie fosse il sogno che stesse facendo, doveva terrorizzarla. Nel sonno mormorava alcune parole incomprensibili. 

Si guardava in giro sperduta mentre i presenti nella piazza urlavano frasi del tipo "Più forte! Boia picchia più forte!" oppure "Che stai aspettando per ucciderlo? Noi qui siamo impazienti di tirare le pietre!". Elettra non poteva credere che l'umanità fosse così malvagia; era cresciuta nella fidicia nelle potenzialità dell'uomo ma, quello che stava avvenendo, le aveva fatto cambiare drasticamnte idea.

Non poteva sopportare di vederla in quello stato e provò a svegliarla; pima delicatamente e poi sempre più forte ma lei parve addiruttura agitarsi di più. Alla fine, a Riario, non restò altro da fare che prenderla per le spalle e scuoterla.

Mentre osservava la vita lasciare lentamente il corpo di  Gentile Becchi, la terra cominciò a tremare, scossa da un potente terremoto. Lentamente, tutto quello che la circondava scomparve, lasciando spazio alla più totale oscurità. 
"Le morti che avverranno, devono avvenire", fu l'ultima cosa che sentì, prima di svegliarsi. 


Elettra aprì gli occhi di colpo, guardandosi in giro per la stanza. Se non fosse stata così concentrata a reprimere un attacco di panico di proporzioni epiche, si sarebbe accorta della punta di paura che traspariva dalle iridi color nocciola del Conte. La gola sembrava essersi chiusa completamente e l'aria le scendeva fino ad un certo punto, per poi bloccarsi e risalire.
Quando Riario vide finalmente Elettra sveglia, fu come se il grosso macigno che portava sul petto, gli fosse stato tolto magicamente: si sentiva parecchio sollevato. Ma si accorse presto, che qualcosa non andava. 
Per la prima volta da tanto tempo, il Conte non sapeva come comportarsi: fece un gesto molto semplice. Si stupì di sè stesso, credeva di aver dimenticato come si abbraccia una  persona. La strinse al suo petto più forte e, allo stesso tempo, nel modo più delicato che conoscesse; sperava così di far cessare quel tremolio che la rendeva molto simile ad un pulcino bagnato. Anche il ritmo del cuore di Elettra lo preoccupava: se avesse continuato a battere a quella veloocità avrebbe ben presto ceduto.
"Va tutto bene", le sussurrò all'orecchio mentre le accarezzava dolcemente i biondi capelli. Lei appoggiò la testa sul suo petto, piangendo tutte le lacrime che non era riuscita a piangere nel sogno.
Restarono in quella posizone fino a quando Elettra non si fu calmata abbastanza da riuscire a dire qualche parola. "Sto bene, ora. Grazie dell'aiuto, Conte", gli disse staccandosi dalla sua presa.
"Ne siete certa?". Nonostante fosse tornato alla sua solita espressione fredda e distaccata, si poteva notare una nota di preoccupazione, nella sua voce.
Elettra non fece in tempo a rispondergli: qualcuno stava bussando alla porta. Provò ad alzarsi, per andare ad aprire, ma dovette risedersi immediatamente: le gambe le tremavano ancora molto e non riuscivano a reggerla in piedi.
"Avanti". Si limitò a dire, evitanto lo sguardo di Riario che sembrasse volerle dire 'Ve l'avevo detto, che non stavate ancora bene'.
Nella stanza entrò Fabrizio, seguito da due guardie della notte con le spade sguainate. Si guardarono intorno sospettosi.
"Elettra, vi abbiamo sentita urlare", lo sguardo del servitore si posò sul Conte, era stupito di trovarlo lì, "Tutto bene?".
"Ho fatto solo un brutto sogno, sai che parlo molto nel sonno, ma ora va meglio", gli rispose lei con un sorriso tirato. Fabrizio però non sembrava ancora convinto. "Sto bene, potete andare, ora". I tre esitarono. "Davvero, è tutto a posto. Buonanotte, signori", disse facendogli segno di uscire.
"Anche voi, Conte. E' ora che ritroviate il vostro letto", gli disse una volta che gli altri tre se ne furono andati; Riario, però, non accennava minimamente a voler uscire.
"Resterò qui finchè voi non deciderete di tornare a casa"
"Pensavo di passare la notte qui"
"Bene, sarà il caso di metterci comodi allora", disse sarcastico mentre si sedeva su una delle poltroncine, dalla parte opposta della scrivania.
Elettra sbuffò infastidita. Si alzò lentamente, facendo attenzione ad ogni passo, e si diresse verso una delle ante del grande armadio; l'aprì e ne estrasse una bottiglia di un qualche tipo di liquore, insieme a due bicchierini. Posò il tutto sul tavolo, stappò la bottiglia e ne versò un goccio in entrambi i bicchieri.
"Non credete di aver bevuto abbastanza, per questa sera?"
"Mi sto mettendo comoda", disse la ragazza ironicamente, giocando sulle parole dette poco prima dal Conte, "E poi voi non siete mia madre, per dirmi cosa devo fare"
Per tutta risposta Riario fece uno dei suoi soliti sorrisi, di quelli che fanno gelare il sangue nelle vene. 
"E non sono neanche uno dei vostri nemici. Tentare di intimidirmi non mi farà cambiare idea"
Restarono un po' in silenzio, gustandosi quel buon liquore al sambuco che, rivelò Elettra, veniva distillato nella casa di campagna della famiglia Becchi.
"Cosa avete sognato?", chiese il Conte.
Elettra si versò ancora un po' di sambuco, per parlare di quell'argomento era strettamente necessario. "Mio zio. Sulla ruota". Quel 'sulla ruota' lo disse con la voce tremolante ed era quasi un sussurro. Anche gli occhi le divennero lucidi.
Riario, senza pensarci troppo, le prese una mano, stringendola delicatamente nella sua. Cosa gli stava succedendo? La conosceva da appena tre giorni eppure, ogni volta che aveva a che fare con lei, lui, che pianificava nel minimo dettaglio ogni mossa, diventava impulsivo e, sotto sotto, sembrava quasi avere un cuore.
"Andrà tutto bene", le disse per rassicurarla.
Elettra appoggiò la testa sul braccio libero e chiuse gli occhi.


Nda
So che questo capitolo non è proprio il massimo, in fatto di allegria... Compenserò con il prossimo

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Capitolo 15
*** Davvero la festa è finita? ***


Nda
Oggi ho deciso di mettere le note subito all'inizio. Innanzitutto questo capitolo è leggero e non necessario ai fini della storia (che non so ancora quali saranno); diciamo che è una 'compensazione' alla tetraggine del capitolo precendente. Qui volevo rendere l'idea di una corte allegra e vivace ma, tra imbarazzanti imprevisti, camerieri ubriachi e pessimi scherzi, credo  di aver descritto più che altro un ritrovo per alcolisti anonimi!


Capitolo XIII: Davvero la festa è finita?
La mattina seguente...

Elettra si svegliò parecchio indolenzita. A quanto pare la scrivania non era molto adatta per dormire comodamente. Quella di passare la notte nello studio, non si era rivelata la sua idea più geniale.
Sentiva qualcosa di caldo, stretto intorno alla sua mano. Si stupì, nel vedere il Conte Riario dormire placidamente dalla parte opposta della scrivania. Sembrava quasi un bambino, con la testa appoggiata di lato, nell'incavo del gomito, e i capelli leggermente arruffati. Le venne voglia di passare una mano in quei capelli color ebano, giusto per scompigliarli ancora un po', ma si limitò a staccare con delicatezza la mano dalla sua, facendo attenzione a non svegliarlo. Aveva tenuto fede alla sua promessa, restando lì con lei. Le aveva tenuto la mano per tutta la notte. Da lui non se lo aspettava proprio.
Elettra si accorse di indossare ancora il lungo vestito della sera precedente; doveva assolutamente cambiarsi. Guardò attentamente Riario: a giudicare dal ritmo regolare del suo respiro, sembrava dormisse ancora profondamente.
Con movimenti circospetti e tentando di fare meno rumore possibile, si diresse verso l'armadio.  Aprì la prima anta e ne estrasse un paio di pantaloni, una camicia e una giacca che teneva lì in caso di bisogno. Diede una seconda occhiata veloce al Conte: dormiva. Si tolse velocemente l'abito, facendolo scivolare sul pavimento. Stava per indossare la camicia, quando sentì dei movimenti sospetti, alle sue spalle.
"Mi sono chiesto per tutta la sera come potesse apparire, quel disegno, nel suo insieme", disse Riario, alzandosi dalla poltrona.
"Non tutti possono permettersi un Leonardo Da Vinci sulla pelle", rispose Elettra cercando di rimanere calma. Era una stupida (e pure nuda) e, quell'uomo, doveva avere il sonno più leggero di una piuma. 
"E neanche certe angeliche visioni appena svegli", aggiunse Riario.
"Conte, per favore". Certi apprezzamenti potevano farli solo una ristrettissima cerchia di persone e Riario non ne faceva di certo parte.
"Sto solo ammirando il paesaggio davanti ai miei occhi, mia diletta", le sussurrò ad un orecchio: si trovava alle sue spalle ed Elettra poteva sentire il suo respiro sul collo.
Le sfiorò con un dito il sottile ricamo: dalla nuca della ragazza, sulla spalla, la giravolta... Sorrise compiaciuto, era dalla sera prima che desiderava farlo. 
La sentì irrigidirsi, quando scese sulla schiena. 
Elettra non voleva ma il suo corpo stava rispondendo per lei, infiammandosi al solo contatto. Si sentì sollevata, quando qualcuno bussò. Si vestì velocemente e corse alla porta, prima che chiunque ci fosse là fuori decidesse di aprirla. 
Scostò la porta quel tanto che serviva per mostrare solo il volto.
"Buongiorno, madonna", la salutò Fabrizio. Aveva le guancie e il naso rossi e l'occhio un po' ballerino. "Ma siete rimasta qui tutta la notte?", chiese preoccupato.
"E' appena l'alba, sono passate solo poche ore", gli rispose lei reprimendo una risatina: solo i servi fiorentini potevano permettersi di bere sul lavoro. "A cosa devo la vostra visita?"
"Sto cercando il Conte Riario, il Magnifico desidera parlargli ma non si trova da nessuna parte". Elettra a quelle parole si irrigidì. Nessuno doveva sapere che Riario aveva passato la notte con lei.
"Sarà nella cappella del palazzo, di fronte a questo edificio ma più a destra, a pregare", disse fingendo un'aria vaga. Il servo la guardò perplesso, non capiva. Il Conte, invece, l'aveva capito al volo e, dopo essersi accertato che non vi fosse nessuno nel cortile, aprì la finestra ed uscì da lì, diretto alla cappella.
"Sono un po' allegro ma mi ricordo ancora dove si trova la cappella di famiglia", sbiascicò Fabrizio dopo alcuni secondi.
"Lo so", disse Elettra dandogli una pacca sulla spalla. "Vieni, ho qui un liquore fantastico al sambuco, lo distillano nella casa di campagna dello zio. Dovresti provarlo", aggiunse facendogli segno di entrare.
Rise, quando a Fabrizio scappò un colpo di singhiozzo.
 
***

Dopo che Fabrizio ebbe avvisato il Conte Riario che, ovviamente, si trovava nella cappella di famiglia dei Medici a dire un rosario, si diresse verso le cucine. Ad accompagnarlo c'erano Elettra, la bottiglia di sambuco, piena ancora a metà,  e un bicchierino quasi vuoto.
Passarono dalla sala da pranzo, dove, nonostante fosse appena l'alba, Gentile Becchi e Lorenzo stavano facendo colazione.
"Buongiorno, signori", li salutò Elettra nascondendo la bottiglia dietro la schiena e cercando di sembrare normale, nonostante quello che fosse successo poco prima con Riario la turbasse ancora molto. Aveva anche una paura del diavolo, di essere scoperta.
"Cosa ci fai qui a quest'ora?", le chiese suo zio, perplesso.
Elettra rise, cercando di rendere le sue successive parole comiche e di dissimulare il nervosismo. "Finita la festa sono andata nel mio studio a prendere delle carte e mi sino addormentata, sarà successo più o meno due ore fa"
"Allora invece del buongiorno dovrei augurarvi la buonanotte", disse ironico il Magnifico.
"Si, mi sa che è più opportuno. E voi, cosa ci fate già alzati a quest'ora?"
"Dobbiamo andare a testare le nuove spingarde di Da Vinci. Speriamo solo di non saltare in aria, di nuovo", rispose Becchi.
Nel frattempo entrò nella stanza anche il Conte Riario; Fabrizio ne approfittò, vuotando nuovamente il bicchiere. Elettra gli diede una gomitata nelle costole, per farli capire di trattenersi. "Dormito bene, Conte?", gli chiese ironica. 
"Benissimo", rispose lui con un sorriso di scherno.
"Conte Riario, felice che vi siate unito a noi per colazione", disse il Magnifico.
Nel mentre arrivò un servitore, dalle cucine, con dei vassoi  pieni di dolci. Per quanto ci provasse, non riusciva a camminare in linea retta; gli scappò anche un colpo di singhiozzo, mentre gli appoggiava sul tavolo.
Riario lo guardò perplesso. "Noi a Roma puniamo i servi per molto meno", disse acido.
"Anche i servi hanno bisogno di fare baldoria, ogni tanto", ribattè Elettra divertita. Intanto cercava di tenersi stretta la bottiglia dietro la schiena, mentre Fabrizio tentava di strappargliela di mano. "A proposito, io vado. Ci rivediamo domani mattina", aggiunse rivolta a tutti i presenti.
"Non restate qui a fare colazione, madonna?", chiese Riario stupito.
"E perdermi i commenti a caldo sulla festa? No, le comari della cucina sono le più informate di tutta Firenze!", disse divertita.
Prese a bracceto Fabrizio che, altrimenti, non sarebbe stato in grado scendere incolume le scale e se ne andò nelle cucine.

***

La situazione nelle cucine era parecchio caotica: di tutti i servi presenti, erano ben pochi quelli sobri; gli altri erano allegri oppure dormivano sul pavimento.
L'anziana cuoca, nel frattempo, sbraitava ordini a destra e a manca. "Possibile che dobbiamo ridurci così, tutte le volte che i Medici danno una festa?"
Elettra rise. "E io che sono venuta qui solo per spettegolare un po'!", disse sedendosi su uno dei grandi tavoloni al centro della stanza. Appoggiò il sambuco.
"Oh, ce ne sono di cose da dire", disse Benedetto, uno dei giovani servi, sedendosi al suo fianco. Aveva più o meno l'età di Elettra e andavano molto d'accordo.
"Sono tutta orecchie". Quasi tutti si fermarono, per ascoltare e condividere quello che sapevano. Nel frattempo Elettra riempiva dei bicchierini, che si trovavano sul tavolo, con quello che restava nella bottiglia. 
"Fabrizio! Ce ne è abbastanza per tutti!", disse quando lo vide tentare di prenderne uno.
Una delle cameriere le si avvicinò: "Ho visto la signora Pazzi lasciare la festa... e non era in compagnia di suo marito!", sussurrò.
"Dovremo ingrandire il portone del Duomo, allora. Già Francesco ci passava a stento prima, figuriamoci ora!", rise Elettra. "E chi era il fortunato?", chiese curiosa.
"Luca degli Albizzi"
"Wow, un politico fedele ai Medici. A Messer Pazzi verrà un colpo, quando lo saprà"
"E c'è anche di meglio", disse la dispensiera, "In giro circolano delle voci, riguardanti quel Conte che stiamo ospitando"
"Quali voci?"
"Si dice abbia perso la testa per una dama fiorentina!"
Elettra quasi si strozzò con la sua stessa saliva. Era chiaro che si stessero riferendo a lei. Nessuno però doveva arrivare al suo nome. "Io ho sentito che se la intende molto con Francesco Pazzi", disse. Avrebbe giocato un bel tiro, a Riario. 
"E' naturale, trama alle spalle dei Medici. Fa continui viaggi d'affari a Roma", ribattè la cuoca, che nel frattempo si era unita al gruppo delle comari.
"E se non fossero solo viaggi d'affari? Potrebbero anche essere viaggi di piacere...", disse Elettra, con l'aria di chi la sapeva lunga.
"No". Fu un coro unanime di stupore.
"Quindi quel bel pezzo d'uomo del Conte è un sodomita?", chiese Benedetto con un sorriso da orecchio a orecchio. Lui lo era, dichiaratamente.
"Io ho sentito così. Fonti certe me lo hanno riferito", mentì la ragazza.
"Ho delle notizie bomba!", proferì una delle cameriere, entrando nella cucina.
"Cosa?", ripeterono tutti in coro, tremendamente curiosi di sapere la risposta.
"Il Conte Riario non ha dormito nelle sue stanze, stanotte. Sono entrata per rifargli il letto ma era intatto"
"Che vi avevo detto! Era da Francesco Pazzi", disse Elettra, trattendendo a stento le risate.
"Ed ecco spiegato perchè era introvabile, stamattina"
"Esattamente"
"Pensi che io abbia qualche possibilità, di spassarmela un po' con il Conte?", chiese Benedetto ad Elettra, appoggiando la testa sulle sue ginocchia.
"Tu provaci". Si stava già pregustando le risate!

"Un attimo di attenzione, signori", disse Elettra dopo un po', picchiettando con una forchetta su uno dei bicchierini. "Vorrei fare un brindisi: a noi, inguaribili comare fiorentine, e a tutti quelli che ci permettono di esserlo!"
Davvero la festa era finita? No, era appena incominciata.

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Capitolo 16
*** Demoni, parte I ***


Capitolo XIV: Demoni, parte I
 
Alcuni giorni più tardi...

Le spingarde di Leonardo, fortunatamente per lui, erano finalmente funzionanti e, Da Vinci, passava le giornata alla fornace, per coordinarne la produzione su vasta scala. Nel tempo libero, era anche riuscito a risolvere l'enigma del libro dell'Ebreo, trovando una cartina geografica indicante il nascondiglio del Libro delle Lamine; peccato che quella terra non esisteva o non era ancora stata scoperta. A differenza di Leonardo, Elettra era scettica, circa la sua esistenza.
La delegazione romana, invece, se ne sarebbe restata ancora per molto, a Firenze. Le trattative si sarebbero protratte ancora per lungo tempo, visto che entrambe le parti sembravano essere arroccate sulle loro posizioni; incapaci di scendere a compromessi.
Per quanto riguardava Elettra e il Conte Riario, dalla mattina dopo la festa, non vi erano state molte occasioni per vedersi: erano entrambi molto occupati e, le poche volte che si erano scontrati per caso nei corridoi, Elettra gli aveva sempre propinato qualche scusa per svignarsela.

Quella mattina, come tutte le altre, in fondo, Elettra se ne stava sola soletta nel suo studio. Aveva quasi ultimato il modellino tridimensionale della biblioteca e, in quel mommento, stava dipingendo alcuni particolari. 
Fuori dalla porta era stato affisso il solito carte 'Lavori in corso - Non disturbare' ma, a quanto pare, neanche quello era più utile a tenere gli scocciatori alla larga: stavano bussando. Anche con una certa insistenza.
"Non avete letto il cartello", urlò scocciata.
"Signora, c'è qui una visita per voi. Dice che è urgente", disse un servo dall'altra parte.
Elettra si rassegnò ad andare ad aprire.
Sulla soglia, in lacrime, c'era Vanessa.
"Cosè successo?", le chiese abbracciandola. Era sporca di sangue. Ed era certa che non fosse dell'amica.
"Sorella Dolores... lei si è cavata gli occhi di fronte a me!", rispose tra un singhiozzo e l'altro.
Elettra non sapeva che dire. "Vieni e siediti un attimo", le disse mentre, tenendola per mano, la aiutava a sedersi su una delle poltroncine del suo studio. "Portale un bicchiere d'acqua", si rivolse al servo.
Una volta che Vanessa si fu calmata un po', le raccontò di quello che aveva visto quella mattina, al mercato. "Sembrava veramente posseduta... le sorelle del convento dicono che non è l'unica, è come se fosse scoppiata un epidemia!"
"I demoni non esistono", le ripetè dolcemente Elettra. "Sono solo l'ennesima favola della buonanotte che la chiesa ha inventato per tenere buone le masse"
"E allora cosa potrebbe essere?"
"Una qualche malattia... così su due piedi non saprei dirti di cosa si tratta"
"Devi venire con me al convento, per capire cosa sia"
"Vanessa, io non sono un medico"
"No ma sai molte cose sull'argomento"
"Aiutare durante l'epidemia di frebbre di due anni fa o i feriti della guerra dell'anno scorso non fa di me un medico"
"Io andrò a dare una mano, se non sei troppo occupata a girarti i pollici potresti venire con me", disse Vanessa seccata dal comportamento dell'amica.
Elettra sospirò e si rivolse al servo: "Fate sellare due cavalli e portatemi una di quelle sacche con tutto il necessario per le epidemie, dovrebbero essere in infermeria"
"Certo signora", le rispose prontamente il servo mentre usciva dallo studio di corsa.

Mentre Elettra e Vanessa si dirigevano verso le stalle, incrociarono per un corrodoio il Conte Riario. "Buongiorno", le salutò. Alzò un sopracciglio perplesso, alla vista della ragazza ricoperta di sangue; sembrava parecchio scossa e teneva stretta la mano di Elettra. "Buongiorno, Conte", gli rispose la bionda senza fermarsi ma continuando a camminare.
"E' successo qualcosa?", le chiese seguendola.
"Spero niente di grave", rispose sbrigativa Elettra.
"Allora perchè andate così di fretta?"
Elettra si arrestò di colpo e sbuffò spazientita: perchè Riario non era capace di farsi i fatti suoi? "Sto andando al convento di Sant'Antonio per dare una mano"
Il Conte si mise quasi a ridere, ma si trattenne. "Voi, in un convento? Riuscete sempre a stupirmi, madonna."
"Felice di saperlo, Conte", disse sarcastica, congedandosi.
 
***

Poco tempo dopo, dall'altra parte del palazzo, Giuliano raccontava gli stessi fatti a Lorenzo e a Becchi. Si trovavano anch'essi in un corridoio proprio di fronte allo studio del Magnifico.
"La violenza delle movenze, le sue grida... Sembrava davvero posseduta, Lorenzo"
"Mio fratello vede una suora pazza e crede che il diavolo vaghi libero per Firenze", ribattè scettico l'altro.
"Scusate l'interruzione", disse il Conte Riario comparendo in fondo al corridoio, "Voi parlavate a voce alta e non ho potuto fare a meno di ascoltare..."
'Come no!', pensò il Magnifico.
"...Sono stato informato di ciò che sta accadendo al convento, e vorrei offrirvi piena collaborazione, prima che la situazione peggiori ulteriormente". 
"Posso sapere chi è stato ad informarvi, Conte?", chiese Becchi. Avrebbe di sicuro fatto un bel discorsetto ai servi. Quelli non sapevano mai tenere la bocca chiusa.
"Vostra nipote, Elettra. Quando l'ho incontrata si stava dirigendo al convento insieme ad una ragazza dai capelli rossi. Ha detto che voleva dare una mano", rispose con uno dei suoi soliti sorrisi freddi.
"Vanessa", mormorò Giuliano. Lorenzo alzò un sporacciglio, stupito: suo fratello non chiamava mai le sue conquiste per nome! Cosa aveva quella di così speciale da riservarle tale onore?
"E perchè non l'avete fermata?". Giuliano aveva alzato la voce.
"Lo avrei fatto, se solo me ne avesse lasciato il tempo. E poi sappiamo tutti quanto Elettra sia testarda"
"Provvederò io", disse il giovane de Medici con tono serio. Non aveva mai assunto quel tono, prima d'ora. "Prenderò Dragonetti e un paio delle sue guardie e risolverò la cosa"
Becchi lo guardava con una punta di fierezza nello sguardo: Giuliano ed Elettra erano da sempre i suoi pupilli e, vedere il giovane de Medici così preso da questioni riguardanti la sua città, lo rendeva davvero felice.
"Il Conte Riario verrà con voi", proferì il Magnifico.
"Cosa? No!", ribattè il fratello. Riario, nel frattempo, li guardava stupito; credeva che avrebbe dovuto faticare di più, per poter immischiarsi nella faccenda.
"Se verrà con te, io potrò cercare meglio la spia romana", sussurrò Lorenzo all'orecchio di Giuliano.
"Andiamo, Conte. Il convento ci aspetta. Però verrete voi soltanto, nessun altro della delegazione romana, neanche la vostra scorta", disse a denti stretti il giovane de Medici. Riario sarebbe stato solo d'impaccio, ma non poteva fare altro.
 
***

Il convento di Sant'Antonio si trovava fuori dalle mura di Firenze, in una posizione isolata, arroccato sopra ad una ripida collina. Lungo la strada il piccolo gruppo, con a capo Giuliano de Medici, fu attaccato da due suore, apparentemente possedute. Una di queste, prima di essere immobilizzata, riuscì a ferire Bertino mentre l'altra, fu per sbaglio uccisa da Giuliano.
Una volta messo piede nel convento, la situazione parve anche peggiorare: quel posto aveva un qualcosa di tetro e, la mano mozzata e il sangue in mezzo al cortile, non davano certo delle rassicuarazioni. Si sentivano delle grida. provenire dall'interno.    
L'infermieria era degna di un girone dell'inferno di Dante; Giuliano non aveva mai visto niente del genere. Ogni letto disponibile era occupato da donne in pessime condizioni che urlavano o sussurravano strane, e alquanto inquietanti, parole; inoltre erano legate, per evitare che si ferissero da sole, o che ferissero qualcuno, nel loro delirio.
"Abyssus abyssum invocat, l'abisso invoca l'abisso, un male porta sempre un altro male: ecco cosa ha condotto il diavolo qui da noi. I Medici hanno rinnegato la volontà di Dio, non poteva non esserci un costo", disse la madre superiora, quando li vide.
'Che benvenuto amochevole' pensò ironico Giuliano ma non riuscì a tramutare in parole i suoi pensieri perchè sentì una voce, dall'altra parte della sala. Una voce famigliare.
"Madre superiora! Ho bisogno d'aiuto qui!" urlò Elettra.
Il giovane de Medici fece uno scatto in quella direzione, seguito a ruota da Riario. 
Una delle suore contagiate, nonostante fosse legata stretta alla spalliera del letto, le aveva arpionato entrambi i polsi e le sue unghie affondavano nella tenera carne della ragazza. 
Ci vollero sia Giuliano che Riario, per riuscire ad immobilizzare l'ossessa e liberare Elettra. "Grazie", disse massaggiandosi i polsi sanguinanti.
Nel frattempo, nell'ampia stanza, fece il suo ingresso Leonardo, accompagnato da Nico.
"Che ci fate voi qui?", gli chiese il de Medici con modi tutt'altro che amichevoli.
"Che ci fate tutti voi qui?", ribattè la madre superiora sempre più seccata. Aveva passato l'ora precedente a litigare con quella ragazzina impertinente e non riusciva neanche a pensare, di avere a che fare con altri eretici.
"Cerco un'amica", rispose Leonardo. Nel mentre, una delle malate si mise ad urlare; sia Da Vinci che Elettra si fiorndarono al suo capezzale.
"Vanessa, calmati", le sussurrò dolcemente Leonardo cercando di visitarla in cerca di segni visibili di qualche malattia conosciuta.
"Brucia, brucia. C'è qualcosa che arde in me", disse la poverina. Era chiaro che stesse soffrendo molto.
"Stavamo dando una mano e a un certo punto ha cominciato anche lei a mostrare i sintomi di tutte le altre", gli spiegò Elettra con rammarico. "Leonardo io... io non so cosa fare. Non credo di aver mai visto niente del genere"
"Andrà tutto bene, troveremo una soluzione", le disse prendendole una mano tra le sue. 
"Dobbiamo pensare ad un piano d'intervento rapido ed efficace", disse Leonardo.
"Gestisco io la situazione, Da Vinci", ribattè Giuliano a denti stretti.
"No! Chi prende le decisioni qui sono io.", fece la madre superiora. "E non vogliamo l'aiuto voi, eretici. Solo le preghiere e la penitenza fermeranno tutto ciò"
"Sono d'accordo con la madre superiora, è la scelta più sensata", intervenne Riario.
'Leccaculo', pensò Elettra. Doveva ammettere, però, che era davvero bravo; si sarebbe fatta dare qualche lezione, un giorno o l'altro. "Certamente, Conte. Voi andate con la madre superiora a sgranare il vostro prezioso rosario o a fare qualsiasia altra cosa si faccia in una chiesa e lasciate pure qui queste poverette a morire", disse ironica.
"Noi non le lasceremo morire, intercederemo presso Dio per liberarle dal Maligno", rispose Riario con un sorriso tirato. Non gli piaceva per niente il tono che Elettra aveva usato. In compenso lei gli rise in faccia, facendolo irritare ancora di più. 
"Ma siete davvero così ingenuo da credere alle parole che dite oppure è un'altra delle vostre macchinazioni?", Elettra stava calcando troppo la mano.
Leonardo se ne accorse e decise di intervenire, prima che la situazione peggiorasse ulteriormente. "Bene, intanto che voi due vi accalappiavate come cane e gatto, io ho pensato a come procedere". Sia Riario, che Giuliano che la madre superiora lo guardorono male; Elettra invece era infastidita, e non poco, dall'interruzione di Da Vinci: aveva ancora perecchie cose da dire al Conte!
"Elettra...", disse prendentola per mano, "...ho bisogno della tua portentosa memoria: trovami il nome di questa dannata malattia!". Poi notò i polsi insanguinati dell'amica, "Prima però vai a medicarti, non voglio vederti gocciolare su qualche antico manoscritto. Io nel frattempo cercherò di capirne l'origine e voi...", disse indicando Riario e Giuliano, "...certate di starci fuori dai piedi!"
"Come vi permettete?", urlò il de Medici parecchio adirato.
"Potreste restare qui a girarvi i pollici..." ma, vedendo la faccia scura del giovane, Da Vinci decise di cambiare metodi: "...oppure potreste darmi una mano". Dire questa seconda parte gli era costato molto.
"E io, artista, cosa dovrei fare?", chiese Riario, quasi divertito da quella surreale situazione. 
"Andate con la madre superiora a dire le vostre inutili preghiere", poi, però, gli venne un'altra idea: non poteva di certo permettersi di perdere di vista il Conte ( 'C'è lo zampino di Roma, in queste possessioni alquanto sospette', pensò), ma non poteva neanche permettersi di avercelo tra i piedi per tutto il tempo. "Siete in grado di medicare delle ferite?", gli chiese con un sorriso.
"Certo, artista", disse il diretto interessato molto seccato. 
"Allora vi ho trovato qualcosa di utile da fare! Andrete nella biblioteca ad aiutare Elettra."
"Cosa?!", disse lei sentendosi tirata in causa. Per lo stupore le erano anche cadute le garze di mano. "Leonardo sono perfettamente in grado di medicarmi da sola!"
"Ma perderesti tempo prezioso. Così, invece, mentre tu fai le tue ricerche, il Conte ti cura le ferite e prendiamo due piccioni con una fava"
Non ne era ancora convinta.
"E poi avrò qualcuno di fidato che tiene d'occhio il Conte. Sono certo che tu saprai tenerlo occupato in un modo... o nell'altro"
Elettra lo guardava con sguardo assassino. Passò tutto il necessario a Riario, in modo per niente delicato e uscì dall'infermieria sbattendo la porta.
"E così non vi fidate di me, artista?", disse ironico il Conte, prima di seguire Elettra.
 
***

"Che lingue conoscete?", chiese Elettra a Riario mentre lasciava cadere sul tavolo della biblioteca alcuni pesanti volumi, alzando così una spessa nuvola di polvere.
"In che senso?", rispose l'altro trattenendo uno starnuto.
"Latino, greco, aramaico..."
"Certo che conosco il latino.  Nel caso non lo sappiate, le sante messe sono solo in latino"
Elettra sbuffò, infastidita. "Altre?"
"Conosco un po' di greco. Ma non capisco come questo possa esservi d'aiuto"
Per tutta risposta, gli mise sotto il naso alcuni volumi. "Questi sono in latino, avvisatemi se scoprite qualcosa". Non le piaceva restare li, da sola con lui. Doveva trovare un modo per tenerlo occupato, e per tenersi occupata.
"Non dimenticate niente, madonna?"
"No, perchè?"
"I polsi"
Elettra fece una smorfia: non l'allettava per niente il pensiero di quelle ferite da disinfettare. 
Il Conte si sedette, facendole segno di sedersi anche lei, di fronte a lui. Riluttante, gli porse il primo polso mentre con la mano libera sfogliava uno dei manoscritti sul tavolo.
Riario per prima cosa le pulì la ferita con dell'acqua tiepida, per lavare via il sangue. Elettra era stupita, dalla delicatezza che stava usando. 
"Ahi!", le scappò mentre il Conte le passava sulla ferita un unguento disinfettante. Istintivamente la ragazza provò a ritrarre il braccio, che venne bloccato immediatamente dalla mano ferma dell'uomo. 
"Vi credevo più forte, madonna", ridacchiò Riario.
Elettra lo guardò male; se l'era presa parecchio per quel commento. "Avvisatemi la prossima volta e vedrete che non mi lamenterò più", disse osservando ogni suo minimo movimento. Provò a ritrarre di nuovo il braccio, quando il Conte riprovò a disinfettarle il polso. Riario, dal canto suo, dovette impegnarsi per trattenere un'altra risatina. Si limitò a sorriderle. "Ho quasi finito", le disse mentre le avvolgeva delicatamente il polso con un pezzo di stoffa. 
Lo sguardo di Elettra passò dalle mani del Conte, che si muovevano con una grazia quasi studiata ( 'Ha studiato per apparire elegante anche in questo momento?', si chiese mentalemente la ragazza), ai suoi occhi. Dannazione, era in gioco la vita di Vanessa! Possibile che non riuscisse a trovare niente di meglio da fare che pensare a quei grandi occhi color nocciola? Giuliano avrebbe riso dicendole che s'era beccata proprio una bella cotta, se non fosse stato che la cotta era per uno dei principali nemici di Firenze. No, non avrebbe riso.
Ritornò al libro che aveva davanti, facendo finta di niente, quando i Conte si accorse che lo stava osservando. Sospirò e gli porse il secondo braccio.
Finito con quel manoscritto passò al quello successivo. "Posso sapere a cosa serve sfogliare quei manoscritti così in fretta?", le chiese curioso Riario. "Siete già al terzo", aggiunse. 
"Io non li sto sfogliando, li sto leggendo", gli rispose lei seriamente.
"Impossibile, li state sfogliando"
"Ho una memoria fotografica, Conte. Di conseguenza ricordo ogni singola immagine che vedo, anche solo di sfuggita"
Per un attimo Riario sentì un brivido freddo lungo la schiena: Elettra rischiava davvero di scoprire quello che la sua spia aveva somministrato alle suore del convento. Ma, dalla sua faccia di sfinge, non trapelò nessuna inquietudine. Non le disse niente, limitandosi a finire la seconda fasciatura.
"Io qui ho finito, vado a porgere i miei aiuti alla madre superiora", le disse alzandosi.
A Elettra dispiaceva: in quei pochi momenti insieme, nell'atmosfera raccolta della biblioteca, era come se si fosse venuto a creare una spece di legame. Non voleva che quest'ultimo si rompesse, con la partenza di Riario.
"Restate", gli disse appoggiando una mano sulla sua. "Mi farebbe molto piacere se restaste, Conte", si affrettò ad aggiungere velocemente; le sue guance avevano assunto un colore tendente al rosso. 
Riario guardò prima la sua mano, nascosta sotto quella di lei, poi quegli occhi color del cielo. Era piacevolmente sorpreso, da quel gesto. "Se vi fa così piacere, madonna", le disse sorridendo.
 
***

Elettra sbuffò per l'ennesima volta, in preda allo sconforto. Erano ore che lei e il Conte si trovavano in quela biblioteca e non avevano ancora trovato niente. Aveva letto quasi tutti gli scritti presenti e niente. Nessuna malattia con i sintomi delle suore.
"Ho trovato qualcosa", le disse Riario. Ed Elettra gli credette anche, stupidamente. "Come scese dalla barca, gli venne incontro dai sepolcri un uomo posseduto da uno spirito immondo. Egli aveva la sua dimora nei sepolcri e nessuno più riusciva a tenerlo legato neanche con catene, perché più volte era stato legato con ceppi e catene, ma aveva sempre spezzato le catene e infranto i ceppi, e nessuno più riusciva a domarlo. Continuamente, notte e giorno, tra i sepolcri e sui monti, gridava e si percuoteva con pietre...", lesse.
"Ma questa è la Bibbia!", disse la ragazza seccata. C'era cascata, in pieno.
"Conoscete le Sacre Scritture?", le chiese. Era davvero stupito.
"Forse le avrò sfogliate una volta"
"Allora sapete anche voi che sono i demoni, la causa di tutto quello che sta succedendo in questo convento", le disse cercando di convincerla.
Elettra gli rise in faccia, di nuovo. "I demoni non esistono! La vostra cara chiesa se li è inventati solo per tenere buoni le masse, troppo ignoranti per ragionare con la loro testa", disse esasperata tirandosi in piedi.
Riario la guardava con un'espressione da far gelare il sangue nelle vene a chiunque. Anche Elettra ne fu intimorita. "Mi dispiace, non volevo offendere la vostra sensibilità", mormorò abbassando lo sguardo su alcuni fogli messi lì per scrivere eventuali appunti. Inconsciamente, vi aveva disegnato il viso di Vanessa. Si alzò e si diresse verso la finestra, demoralizzata. Anche Riario si alzò, per osservare meglio il ritratto: quella ragazza era davvero brava a disegnare. Lo aveva già potuto notare sfogliando il suo blocco da disegno, che aveva ancora lui dal giorno dell'esplosione, nascosto nelle sue stanze a palazzo.
Le si avvicinò, non sapendo bene cosa fare. Lei era di spalle e, anche dopo che il Conte l'ebbe chiamata, non accennò a girarsi. Facendo attenzione di non toccarle i polsi feriti, le prese un braccio e la tirò verso di sè. Dovette farlo con troppo foga, perchè Elettra finì a sbattere contro il suo petto. 
Lo sguardo della ragazza passò dalle proprie mani, ancora appoggiate al petto del Conte, a quegli occhi color nocciola. Quello di lui, invece, dopo essersi specchiato in quello di lei, si abbassò, indugiando sulle sue labbra vermiglie. Un battito di ciglia più tardi, Girolamo posò le labbra su quelle di lei.
Inizialmente Elettra spalancò gli occhi, stupita da quel gesto così avventato. Tentò di divincolarsi ma la stretta del Conte era troppo forte. Gli richiuse, lasciandosi trasportare da quel vortice di emozioni mai provate prima. Presto, quello che era nato come un semplice bacio, divenne più appassionato: Elettra sentiva le mani di Girolamo passare sulla sua schiena e poi fra i capelli, scioglendole lo chignon che aveva fatto poco prima con la matita. Ne sentì il suono, quando cadde a terra. Intanto i suoi capelli le ricaddero sulle spalle. Le sue mani, invece, accarezzavano dolcemente il petto dell'uomo mentre le loro lingue, ansiose di esplorare la bocca dell'altro, ingaggiavano una dolce lotta.
Fu un rumore di zoccoli di cavallo, all'esterno, ad interromperli. "Cavalieri da Roma", sentirono urlare una delle guardie della notte.
Giralamo si staccò da Elettra, si ricompose ed uscì velocemente dalla stanza. Lei lo osservò andare via. Ci mise un po' più del Conte, a ricomporsi. Una parte di lei era euforica: il respiro corto, il cuore che batteva all'impazzata, le farfalle nello stomaco e poi quella sensazione di sicurezza, che provava ogni volta che si lasciava andare tra le sue braccia... Poi, però, vi era l'altra parte, quella razionale, che la faceva sentire in colpa, la faceva sentire come una traditrice; Riario era un nemico di Firenze e dei Medici. Doveva essere un suo nemico, non di certo innamorarsene!
Raccolse la sua matita da terra e si affrettò a seguirlo, nel cortile.


Nda 
Come al solito mi sono fatta prendere troppo la mano e il capitolo è venuto troppo lungo; ho dovuto per forza divederlo in due.
Vorrei ringraziare di nuovo Yuliya per la sua fantastica recensione :)

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Capitolo 17
*** Demoni, parte II ***


Capitolo XIV: Demoni, parte II

  
Quando Elettra arrivò nel piccolo cortile del convento, vi trovò anche Leonardo e Giuliano. Erano scuri in volto.
Il portone si spalancò ed entrarono il Capitano Grunwald, alcune guardie romane, il cardinale Mercuri e Aramis.
"Portiamo ausilio alle amate sorelle, nella persona del prefetto Mercuri", disse il capitano delle guardie svizzere.
"Lupo Mercuri, il curatore degli archivi segreti del Vaticano", notò Leonardo.
Elettra, che si era messa al suo fianco, annuì. "Mio fratello è il suo lacchè", gli sussurrò sotto voce.
"Oggi vengo qui incaricato da sua Santità in persona", disse il diretto interessato.
"La vostra offerta d'aiuto è misericordiosa, prefetto. Ma la badessa è in grado di condurre le preghiere per il suo gregge", ribattè Giuliano. Ci mancavo solo quello, fra i piedi.
"I miei ordini sono di eseguire i sacri riti dell'esorcismo demoniaco. Non intendo certo lasciare le brave sorella alla mercè del Maligno", spiegò il cardinale.
"No, niente esorcismi. Per favore". Elettra aveva brutti ricordi, in fatto di esorcismi. Ne aveva visto praticare uno in Spagna, durante una missione diplomatica con Becchi. Aveva dodici anni  e ne era rimasta terrorizzata. Con lo sguardo cercò l'appoggio di Aramis o del Conte Riario ma fu inutile. Gli occhioni stile cerbiatto impaurito avevano fatto cilecca, per la prima volta.
"Siete così in sintonia con il maligno da percepire le loro difficltà a distanza?", chiese sarcastico Leonardo. 
"Insieme al Conte Riario abbiamo mandato una richiesta d'aiuto, pittore. Noi non rifiutiamo i guerrieri di Cristo nell'ora del bisogno", rispose la madre superiore, decisamente più seccata.
Giuliano guardò Elettra. "Non dovevi tenerlo d'occhio?"
Non se ne capacitava neanche lei, era sempre restato in biblioteca... tranne che per una manciata di minuti. Le aveva detto che sarebbe andato a rimettere a posto il materiale usato per le medicazioni. L'aveva fregata, un'altra volta. "L'ho lasciato solo due minuti. Dannazione!", commentò.
 
***

Il rito dell'esorcismo non le piaceva per niente. Inutili erano state le sue successive proteste, per evitare di arrivare a quel punto. Elettra se ne stava in disparte, tenendo stretta una mano a Giuliano, mentre il prefetto Mercuri eseguiva gli ordini del Papa. Aramis, posiozionato di fianco al cardinale, ripeteva delle formule di rito. La poveretta, da 'liberare dai demoni', nonostante fosse stata legata stretta al letto, si dimenava e urlava.
Ad un certo punto, Mercuri prese la suora per la gola, stringendo sempre di più.
Leonardo guardò Elettra, allarmato e poi scattò in avanti, deciso a fermare il prefetto ma, quando raggiunse il letto era troppo tardi: la donna era già morta. Elettra girò la testa di lato, per evitare di guardare. Quello che era successo, che quell'uomo, che si proclamava uomo di fede, aveva fatto, le dava il voltastomaco.
"Prima che la morte sopraggiungesse ho visto la luce di Dio nei suoi occhi: la sua anima è salva", disse il cardinale Mercuri facendosi il segno della croce.
"E la vostra, invece, si è macchiata della vita di un altro innocente, no? Tanto uno in più non fa molta differenza sul totale", Elettra non era riuscita a trattenersi. Avrebbe voluto aggiungere altro ma dovette correre al capezzale di Vanessa, che si era risvegliata urlando.
"Credo che sia arrivato il momento di purificare anche questa povera anima", disse Mercuri avvicinandosi.
"Non la toccate", lo minacciò Leonardo mentre Elettra stringeva forte la mano dell'amica, "Lei merita di provare a vincere questo male da sola". Il cardinale non ne era per niente convinto, invece. E neanche Riario, al suo fianco: la situazione si stava allungando, ben oltre il previsto.
"Conte, per favore, abbiamo bisogno di più tempo", lo implorò Elettra, appoggiandogli delicatamente una mano sull'avanbraccio. Se lo sguardo da cerbiatto impaurito non aveva il ben che minimo effetto, bisognava cambiare tattica.
Riario indugiò un po' sulla risposta da dare, temendo le conseguenze. "Fino all'alba", disse, "Poi, se non troverete soluzione, dovremmo espellere questo demone con il fuoco"
 
***

"Dobbiamo cambiare metodo", disse Elettra una volta tornati in biblioteca.
"I manoscritti presenti qui li avete già letti tutti, magari vi è sfuggito qualcosa", rispose vago Riario, aveva tutt'altro per la testa che quei vecchi libri.
"Impossibile",  ribattè seccata la ragazza.
"Neanche voi siete infallibile, mia diletta", le disse dolcemente prendendole entrambe le mani tra le sue. Elettra si liberò in fretta, dalla presa del Conte, andando poi ad osservare uno dei numerosi scaffali della stanza. "Non lo farete davvero, no?". C'era una vena di timore, nella sua voce.
"Fare cosa?", chiese Riario.
"Bruciare vive quelle donne". Era notte inoltrata, ormai.
"Sono un uomo di parola", disse. Era tornato alla sua soltita fredda espressione.
Elettra sospirò: non c'era molto da discutere. "Avete un bel coraggio, però, voi e i vostri compagni. Prima fate scoppiare un'epidemia nel convento, poi venite a offrire il vostro 'pio' aiuto e alla fine cosa fate? Uccidete coloro che hanno riposto fiducia in voi. Mi sembra un bel modo d'agire", disse con ironia. Vi era anche una punta di sconforto, nelle sue parole.
"Ma io non ho fatto niente", ribattè Riario con aria innocente.
"Magari voi non sarete l'esecutore materiale, ma non so quanti uomini in Vaticano hanno la mente abbastanza fine da ordire un simile piano"
"Dovrei prenderlo come un complimento?". Le labbra del Conte si allargarono in un sarcastico sorriso.
"Fate come vi pare", rispose Elettra con indifferenza mentre si sedeva su un tavolo a gambe incriciate; doveva trovare una soluzione e quella era la posizione migliore per concentrarsi. Prese un foglio e cominciò a scrivere velocemente.
Riario alzò un sopracciglio, perplesso. "Sapete che non si dovrebbe scrivere con la sinistra? Quella è la mano del diavolo"
"Allora se entro l'alba non avrò trovato una soluzione bruciatemi insieme alle suore". 
'Ma si impegnava, per essere così impertinente, o le veniva naturale?', pensò il Conte. "E avete pure una pessima calligrafia" 
"Lo so... Comunque tornando al problema, noi sappiamo i sintomi: allucinazioni..."
"Visioni demoniache", la corresse Riario.
"Allucinazioni, Conte non interrompetemi, spasmi, vomito, febbre alta, idropisia... Non credo ci siano molte malattie con queste caratteristiche". Le scrisse tutte sul foglio, in colonna. Di fianco cominciò a scriverle in altre lingue, molte altre lingue. Magari partendo dalla parola chiave si sarebbe ricordata del testo dove erano menzionate, trovando così la malattia che provocava quei sintomi. La sua memoria fotografica non poteva fare cilecca proprio in quel momento. Avrebbe trovato un nome, anche a costo di analizzare ogni singolo fotogramma della sua vita.
 
***
Nel frattempo, a Palazzo della Signoria...

"Nessuna notizia dal convento?". Lorenzo era preoccupato e temeva che il fratello non riuscisse ad essere all'altezza della situazione. Gli era stato riferito che per la città circolava la voce che quelle possessioni fossero un castigo divino, il giusto costo che i Medici doveva pagare per aver rinnegato Dio. I Medici erano al potere per volere del popolo, non potevano perdere l'appoggio delle masse.
"Ancora nessuna notizia, ne da Giuliano ne da Elettra. Non sappiamo nulla da quando Riario ha fatto chiamare alcuni dei suoi". Anche Becchi era preoccupato: quei due ragazzi non erano proprio capaci di tenersi fuori dai guai. Non ne erano mai stati capaci, neanche da bambini. 
"Il fatto che l'unico che abbia comunicato qualcosa sia Riario non è positivo"
"No, non lo è. Ma confido in Giuliano, saprà tenere a bada la situazione"
Da lontano comparve una guardia della notte.
"Riguardo alla questione della spia...", disse il Magnifico osservando la guardia arrivare, "...Ho ordinato di cercare nell'intero palazzo senza alcuna eccezione". Rivolgendosi poi alla guardia: "Avete trovato qualcosa?"
"Forse dovremo parlarne in privato, vostra magnificenza", rispose il soldato. Sembrava molto a disagio.
"Mostratemelo Conti, o penserò che voi nascondiate qualcosa". Lorenzo era conosciuto per molti pregi, ma la pazienza non era certo tra di questi. 
Riluttante, la guardia gli porse alcuni oggetti. Al Magnifico tremavano le mani, mentre li osservava: niente di tutto quello avrebbe dovuto trovarsi in casa sua. "Dove li avete trovati? Dove?", chiese mentre sentiva la rabbia crescere.
"Da messer Becchi, signoria"
Becchi strabuzzò gli occhi: non poteva credere alle proprie orecchie. "Voi mentite! Non li ho mai visti"
"Era su uno degli scaffali, Magnifico. Lo giuro. Nascosto tra altri libri", ribattè la guardia.
"Siete voi...siete voi che mi avete tradito". Il de Medici faticava ancora a crederci. Becchi era come un padre per lui e Giuliano. Gli serviva da quando suo nonno Cosimo era salito al potere.
"Lorenzo è sicuramente un errore!", disse il diretto interessato. Avrebbe voluto farlo ragionare ma sapeva già che sarebbe stato impossibile.
"Scudi romani, carte con impresso il sigillo papale, un elenco dei luoghi dove nascondere le consegne per Roma. Trovati in casa mia!"
"Vi prego, Lorenzo!". Un ceffone. In piena faccia. Se non fosse stato per la porta alle sue spalle, Becchi sarebbe caduto per le scale, talmente fu forte.
"Tacete! O vi taglierò la gola con le mie mani.", lo minacciò Lorenzo con il piccolo pugnale che teneva legato alla cintura. "Portatelo via. Rinchiudetelo al Bargello", disse alle guardie che stavano scortando fuori Becchi. Il povero consigliere era sconvolto e si guardava intorno con aria persa. Conosceva la legge, sapeva a cosa succedeva a un traditore. 
Il suo ultimo pensiero, prima di mettere piede in una umida e sporca cella del Bargello fu per sua nipote, Elettra. 
 
***

"Sono ore che..."
"Conte, per favore, fate silenzio", lo interruppe Elettra. Erano davvero poche le persone che potevano permettersi di zittire Riario senza pagarne le conseguenze.
Però Riario aveva ragione, erano ore, ormai, che Elettra se ne stava seduta su quel tavolo, a gambe incrociate e con gli occhi chiusi, a pensare e ripensare a quale malattia corrispondessero quei sintomi. Cominciava ad albeggiare.
"Che lingue mi mancano...", disse prendendo gli appunti dal tavolo. Le sfuggiva di certo qualcosa.
"Credo che qui ne abbiate scritte già abbastanza", notò il Conte con tono ovvio.
"No, mi manca di sicuro qualcosa. Gli stati dell'Europa: Italia, Inghilterra. Olanda, Francia... il francese, quello l'ho saltato!". Cominciò a scrivere i vocaboli anche in francese. Li osservò per un po'. "Ma certo!", urlò scattando in piedi. "E' senz'altro così!", disse con un sorriso da orecchio a orecchio.
Riario la guardò perplesso. 
"Ho trovato", gli disse avvicinandosi al Conte. "Possiamo ancora salvarle", disse poco prima di posare le labbra su quelle di Riario. Fu un bacio veloce, come un battito del cuore. Poi corse fuori dalla biblioteca, cercando Leonardo.
Il Conte, ancora stupito dal gesto della ragazza, si avvicinò agli appunti sul tavolo. C'era un foglio, con solo una scritta. Due parole, in latino. Il nome che tanto aveva cercato. L'aveva sottovalutata, di nuovo. 
 
***

"Leonardo! Leo!", urlava Elettra correndo per tutto il convento. Urtò una novizia, facendola quasi finire a terra.  Le indicò le scale che portavano al cortile.
"Leo! Giuliano!", chiamò quando fu fuori. Percose i gradini alla velocità della luce.
Anche Da Vinci sembrava euforico. Avevano la stessa espressione da pazzi, dipinta sul volto.
"Claviceps purpurea", disse lei. 
"Sul piede della statua di San Francesco", aggiunse l'amico. 
Si misero entrambi a ridere. Poi Leonardo la prese per mano, correndo a perdifiato fino all'infermeria. Era l'alba e dovevano sbrigarsi.

"Claviceps purpurea", urlarono all'unisono, entrando nella stanza. Erano arrivati appena in tempo: le guardie svizzere stavano cospargendo i malati con l'olio. Se fossero arrivati giusto una manciata di secondi più tardi, non avrebbero potuto fare niente, per salvarli.
"Come dite?", chiese Riario fingendo di non aver capito. Si umettò le labbra segno che, nonostante non lo desse a vedere, era nervoso.
"Il fungo della segale cornuta ha effetti tremendi: spasmi, vomito, idropisia, cancrena e, secondo i sopravvissuti, la nitida sensazione che il corpo bruci. Come tra le fiamme dell'inferno. Sconvolge la mente, capite? Causando allucinazioni e manie", spiegò Leonardo.
"Capisco", disse Riario sarcastico. 
"Il piede della statua là fuori è ricoperto di segale cornuta. Ogni vittima ha baciato il piede di Sant'Antonio prima di cadere ammalata. Tutte le sorelle colpite, Vanessa, persino il pio ufficiale, Bertino, l'hanno baciato", continuò Da Vinci.
"Ciò che voi insinuate è pura follia", ribattè Mercuri adirato.
"Davvero? E perchè nè voi ne gli uomini del capitano Grunwald siete infetti? Perchè gli eretici come Giuliano de Medici, il giovane Nico, Elettra e io non lo siamo? Noi non abbiamo baciato il piede della statua, nè voi nè i vostri uomini"
"Voi lo sapevate, l'avete architettato per minare il potere dei Medici dall'interno", disse Elettra.
"Non ascolterò oltre queste odiose calunnie", ribattè Mercuri a denti stretti.
"Vi basta baciare il piede della statua per provare che sono calunnie", controbattè Leonardo con ironia. Sapeva che non lo avrebbe mai fatto. 
Elettra sorrise sarcastica al Conte. 'Beccato', pensò.
"Segale cornuta? Chi ha mai sentito una tal cosa", commentò stizzito il prefetto Mercuri.
"Geoffroy du Breuil, uno storico francese. Ha raccontato di un'epidemia simile nel XII secolo; certi passatempi non erano solo di Boccaccio...", rispose ironica Elettra.  "Negli archivi segreti del Vaticano avrete di sicuro una copia della cronaca". In quel momento vide suo frattello impallidire di colpo e capì: era stato lui a visionare quel manoscritto, per ordine o di Mercuri o di Riario. 
"C'è un rimedio per questa afflizione: un unguento preparato con queste erbe...", disse Leonardo mentre scriveva gli ingredienti, "...ed aceto, unito a vigorosi salassi. Affrettatevi, possiamo ancora salvare le persone colpite", si rivolse alla badessa.
"Complimenti, Da Vinci", alla fine Leo ce l'aveva fatta, a guadagnarsi la stima e il rispetto di Giuliano. Una bella pacca sulla schiena ne fu la dimostrazione.
"Grazie, maestro", la stima proveniva anche dalla madre superiora. 
"E come avremmo dovuto fare, artista, per mettere in atto tutto questo?", il Conte Riario era curioso, per natura. Da sempre.
"Oh, non è stato difficile, Conte. Il convento è aperto a tutti i fedeli, come ha detto la madre priora, quindi anche un solo uomo, in qualunque momento, poteva entrare qui, contaminare il piede di Sant'Antonio ed aspettare..." 
"La spia che Lorenzo sta cercando, deve essere stato lui!", lo interruppe Elettra.
Da Vinci non fece in tempo a confermare le intuizioni dell'amica: cadde a terra in preda a spasmi e cominciò a farneticare ed urlare. Era stato contaminato anche lui. Il bacio di Vanessa.

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Capitolo 18
*** Il Patto ***


Capitolo XVI: Il Patto

Elettra si svegliò a causa di un raggio di sole che, passando da una fessura tra gli spessi tendaggi della stanza, era andato a posarsi proprio sul suo viso. Stropicciò gli occhi, ancora parecchio assonnata. 
Le ci volle un po' di tempo, per rammentarsi di tutto quello che era successo e di dove si trovasse. L'epidemia al convento, l'arresto di suo zio, la sfuriata con il Conte, la biblioteca... tra tutta quella confusione di pensieri, fece capolino un bacio. Arrossì, mordendosi il labbro inferiore per nascondere un piccolo sorriso. Doveva aggrapparsi il più possibile ai bei ricordi, per avere la forza affrontare gli avvenimenti futuri.  
Decise infine di aprire gli occhi e di mettere più a fuoco l'ambiente che la circondava: si trovava nel sallotto dell'appartamento del Conte Riario e... faceva quasi fatica a credere a quello che vedeva. Il Conte era seduto sul tappeto, immerso in un sonno profondo, appoggiato con un fianco al divanetto su cui era sdraiata Elettra, e con la testa, reclinata di lato, appoggiata sul seno della ragazza. 'Almeno ha dormito comodo', pensò ironica. Una mano, invece, era intrecciata stretta alla sua. Qualcuno, o Riario o Giuliano, le avevano anche steso addosso una coperta. 
Si guardò intorno, cercando con lo sguardo il giovane de Medici ma non lo trovò, probabilemente, se ne era andato poco dopo che si era addormentata.
Stava meglio, doveva ammetterlo, sia dal punto di vista fisico che del morale. Sapere che Girolamo non era coinvolto in quella brutta faccenda le aveva tolto un peso dal cuore.
Lentamente, cercando di non svegliarlo, si tirò seduta e, dopo essersi liberata dalla sua stretta, si alzò. Avrebbe voluto andarsene in fretta, dagli appartamenti del Conte, ma si perse nel contemplarlo: in quella posizione le faceva parecchio tenerezza, quasi come un bambino. Sorrise dolcemente, mentre gli accarezzava il contorno affilato del viso.
"Conte, non so come abbiate fatto ma mi avete fatto prendere proprio una bella cotta", gli sussurrò, certa che lui non potesse sentirla.   
Prima di uscire, gli appoggiò delicatamente la coperta addosso e recuperò il suo ciondolo da sotto il tavolino.
 
***

Elettra aveva bisogno di smaltire un po' di nervosismo ed inqiuetudine: quale modo migliore per rilassarsi se non quello di scoccare qualche freccia? Le era sempre piaciuto tirare con l'arco ed era anche piuttosto brava.
Cercando di passare il più possibile inosservata si diresse in armeria, prese un arco e qualche freccia e si diresse nei giardini del palazzo dove, in una zona ai margini e quindi poco frequentata, Giuliano, da sempre grande appassionato di quella disciplina, aveva fatto installare un poligono di tiro.
Vi era già una persona, intenta ad allenarsi. Elettra si stupì molto, quando vide chi era. 
Arimis incoccò la freccia, tirò indietro la corda e, dopo aver preso la mira, scoccò. Il dardo colpì il bersaglio fermandosi nel centro. Era la prima volta da quando era tornato a Firenze che non lo vedeva indossare la veste vescovile; al suo posto, il fratello indossava dei vecchi pantaloni dall'aria vissuta e un'anonima camicia bianca.
Elettra gli si avvicinò e, senza proferire parola, prese l'arco e scoccò una freccia, colpendo il bersaglio leggermente più a destra del fratello.
"Stai perdendo colpi, sorellina", le disse ironico Aramis. Lei gli sorrise, dandogli un'amichevole pugno sul braccio. "E tu, da quant'è che non prendi in mano un arco?", ribattè.
"Quand'è che sono stato consacrato prete?"
"Io so almeno di un'altra volta, dopo quella", sospirò malinconica, Elettra. 
Aramis parve ricordarsi, non era stato in un momento piacevole. "Quando la mamma e Lucrezia sono scomparse", sussurrò.
La sorella annuì. "Mi manca molto, Lucrezia", disse con gli occhi lucidi.
"Mancano un sacco anche a me", rispose abbracciandola forte.
"Dobbiamo smetterla ti trovarci a tirare con l'arco insieme solo in certe occasioni". Tentò di sorridere e, seppure molto tirato, un piccolo sorriso le apparve sulle labbra.
Aramis era tremendamente d'accordo con lei.
Elettra prese un'altra freccia dalla faretra che teneva legata dietro alla schiena e, dopo aver preso la mira, la lanciò. Questa volta fu un centro perfetto.
"Vuoi la guerra, allora?", scherzò il fratello inconccando un altro dardo. Elettra gli sorrise, sincera. Le era mancato così tanto il suo fratellone; quando lo aveva rivisto, aveva pensato che il Papa gli avesse fatto un lavaggio del cervello, eppure, eccolo lì. Uguale a come se lo ricordava.
"Aramis, aspetta". Le era venuta un'idea, per sbollire un po' la tensione. Prese il blocco da disegno (nuovo, visto che il Conte non aveva alcuna intenzione di restituirle l'altro) e strappò un foglio bianco; disegnò sopra un volto molto sommario: due occhi, un  naso e una bocca. Sulla fronte scrisse a caratteri cubitali la parola 'Spia'. Servendosi di alcune corde, lo posizionò sulla testa di uno dei vari fantocci di stoffa e paglia presenti nel poligono. "Il bersaglio è quello", disse.
Elettra scoccò la freccia, che lo colpì proprio in mezzo agli occhi. Poi un'altra. Poi un'altra ancora.
Per un po' Aramis la lasciò fare ma, quando vide quegli splendidi occhi celisti riempirsi di lacrime, decise che era ora ti rimettere gli archi a posto. "Elettra, calmati", le sussurrò dolcemente mettendole una mano sulla spalla. "Lo avresti già ucciso al primo colpo". Quando la sorella abbassò l'arco, la strinse forte a sè.
"Lo zio non può andarsene così! E' la sola parte di famiglia che mi resta, qui a Firenze", disse tra i singhiozzi mentre cadeva in ginocchio, imitata da Aramis.
"Non sei sola", ribattè il fratello accarezzandole la testa.
"Tu tornerai di sicuro a Roma e papà è per mare chissà dove, troppo preso da uno dei suoi strampalati viaggi!"
Aramis sospirò: sua sorella aveva ragione, purtroppo. 
Elettra pianse tutte le lacrime che le erano rimaste per quel giorno, sulla spalla del fratello che, senza farsi notare da lei, lasciò cadere qualcuna anche lui. In quel momento era a Firenze, non era a Roma. A Roma, l'unico modo di sopravvivere a tutti quei serpenti pronti a stritolarti era l'apatia. Ma ora era a Firenze. Non gli serviva a niente mostrarsi impassibile.
Un rumore di passi interruppe quel delicato momento famigliare. I due fratelli si tirarono in piedi, asciugandosi con una mano le guance ancora umide.
"Mi devi un favore, un grosso favore", esordì vittorioso Giuliano, rivolto a Elettra. Dietro di lui vi era anche il Conte Riario.
"Dimmi tutto", disse lei curiosa. Visto la faccia dell'amico, erano di sicuro buone notizie.
"Becchi ha guadagnato ancora un po' di tempo..."
"E anche noi, di conseguenza", lo interruppe Riario.
"Allora intendete davvero aiutarci, Conte?", chiese speranzosa Elettra.
"Ve l'ho già detto, madonna, sono un uomo di parola", rispose sfoderando uno dei suoi soliti sorrisi affilati, "Tuttavia, non faccio mai niente per il semplice gusto di farlo. Ma per il prezzo avremo modo di parlarne più tardi, per ora non preoccupatevi"
"Tornando al discorso di prima...", Giuliano era doppiamente seccato: sia per l'interruzione di Riario sia perchè sapeva che quel viscido serpente era la loro unica opzione per salvare Becchi. E questa considerazione lo irritava oltre ogni dire. "...dopo aver fatto un occhio nero a mio fratello...", quella rivelazione fece quasi ridere Elettra, "...sono riuscito a convincerlo che un'esecuzione sommaria non sarebbe servita a niente. Ci sarà un processo, al Palazzo di Giustizia"
"E tu ne sei felice?". La ragazza non lo era per niente, invece. Pensava a tutt'altro.
"L'alternativa era il cappio, domani all'alba"
"Giuliano, ti rendi conto che se mio zio fosse giudicato colpevole di tradimento con un processo pubblico sarebbe messo alla ruota?!"
"Il processo inizierà tra una settimana, quindi abbiamo sette giorni per far cadere tutte le accuse". Anche Giuliano sapeva che in questo modo Becchi rischiava molto di più, ma sette giorni erano molto più tempo di una manciata di ore. Sarebbero riusciti a mettere in atto un piano a prova di bomba.
"Sai già chi sarà il giudice?", chiese Elettra, sospirando.
"No, ma ti ho già procurato un avvocato: Piero da Vinci ha deciso di schierarsi dalla nostra parte"
"Ne sei certo? Tuo fratello potrebbe fargli cambiare idea"
"Certissimo. Anche Clarisse appoggia la nostra causa. Mio fratello si sentirà isolato e cambierà idea". Il giovane de Medici stava già mettendo in atto il suo piano.
"Giuliano non va bene..."
"Certo che funzionerà"
"No, non è per quello. Sapere della Signoria spaccata in due potrebbe essere interpretato come un segno di debolezza di Firenze, dagli altri stati. Firenze non può permettersi niente del genere ora". Per far capire meglio a Giuliano a cosa si riferisse, Elettra diede una veloce occhiata al Conte. Roma ne avrebbe di certo aprofittato.
Riario aveva pensato la stessa identica cosa, ovviamente in termini vantaggiosi.
"Non ci avevo pensato...", disse sconfortato Giuliano, "...ma non importa: Lorenzo deve capire di aver sbagliato! E se questo è il prezzo, troveremo un modo di rimediare più tardi"
"Sai che qualcuno al Bargello potrebbe pensarla molto diversamente. A sentirti parlare così ti tirerebbe un coppino sul collo!". Non sapeva neanche lei da dove le era uscita. Quello non era di sicuro il momento di fare dell'ironia, eppure fece ridere sia Giuliano che Aramis. Il Conte invece la guardava con quello che poteva quasi essere considerato un sorrisetto divertito; stava pensando a quanto quella ragazza non potesse fare a meno di certe battute. E a quanto questo gli piacesse e lo irritasse allo stesso tempo. "Direi di trovarci tra qualche ora, per discutere meglio della faccenda lontano da occhi indiscreti", proferì tornando alla sua solita apatia, e facendo tornare seri anche gli altri.
"Dove, Conte?", chiese Elettra.
"Nei miei alloggi, pensavo. Alle sei. E raccomando a tutti voi di essere puntuali". Quell'ultima parte, anche se rivolta all'intero gruppetto, era chiaramente riferita ad una sola persona. Era solo Elettra, ad avere problemi con l'orologio.
 
***

Elettra si mise a picchiettare nervosa con il tacchetto delle ballerine sul costoso tappeto orientale del salotto del Conte; la gonna del suo abito fluttuava leggermente nell'aria. Odiava quella gonna e lo stretto corsetto dell'abito le dava parecchio fastidio. Aveva gli occhi fissi sul basso tavolino di cristallo e non aveva alcuna intenzione di alzarli sulla persona seduta sulla poltrona dall'altra parte. Lei si trovava sul divanetto, in mezzo tra Aramis e Giuliano. 
Il Conte, seduto sulla poltrona, la osservava con uno sguardo che avrebbe fatto gelare il sangue nelle vene a chiunque. Elettra ne era intimorita; perchè quell'uomo doveva fare così? C'erano momenti in qui era di una dolcezza disarmente e altri in cui, se avesse potuto, sarebbe scappata lontano. Era da quando era arrivata, che si comportava così. Che ce l'avesse con lei per quel quarto d'ora di ritardo?
'Elettra vai via, fallo finchè puoi', pensava nel frattempo Girolamo, 'Non devi fare patti con me. Indebitarti con me è rischioso, tu non puoi sapere a quali orribili conseguenze ti porterà'. Per questo la guardava con quello sguardo freddo. La sua coscienza, che aveva cominciato a risvegliarsi quel giorno nella bottega dell'Artista, gli diceva che quello che aveva in mente era sbagliato ma, la possibilità di rendere felice il Santo Padre, suo padre, lo portò a zittire, per l'ennesima volta, quel poco di buono che vi era in lui.
"Possiamo sapere, di grazia, perchè avete voluto incontrarci nei vostri alloggi? Se era per giocare al gioco del silenzio, mi sarei risparmiato di venire qui", sbottò seccato Giuliano. La pazienza non era mai stato una virtù della famiglia de Medici.
"Siete certa di voler scendere a patti con me?", chise il Conte a Elettra.
Lei si fermò e alzò timorosa i suoi occhi su quelli color nocciola di lui. "Voi siete la mia unica possibilità", sussurrò torturandosi le mani.
Riario annuì. "Il Magnifico è accecato dall'odio e non lascerà semplicemente cadere nel dimenticatoio tutte le accuse, gli serve qualcuno su cui addossare tutta la colpa. L'unico modo per salvare vostro zio è sviare i sospetti su qualcun'altro"
"Volete condannare un altro innocente, quindi?", disse Aramis. Per quanto frequentasse il Conte da diversi anni ormai, il suo essere spietato lo lasciava sempre di stucco.
"Di certo non sacrificherò il mio informatore", rispose impassibile.
"Ovviamente", ribattè sarcastico Giuliano. L'idea non gli piaceva per niente.
"Elettra, siete consapevole che accettando la mia più che generosa offerta, avrete con me un debito", tornò a rivolgersi Riario.
"Ne sono consapevole, Conte", rispose lei.
"Un debito che che io potrò riscuotere in qualsiasi momento e nel modo che riterrò più opportuno"
"Certamente, Conte", sospirò lei. Ormai era quasi fatta, non poteva tirarsi indietro proprio ora. Neanche se il tono con cui le si era rivolto la spaventava.
"Quindi accettate la mia proposta?", chiese tendendole la mano.
"Elettra non farl...!", si lasciò scappare Giuliano. 
"Accetto", rispose lei con un sorriso forzato, stingendogli la mano che le veniva offerta.
Il giovane de Medici sospirò sconfortato: Elettra aveva appena firmato un patto con il Diavolo. Le conseguenze le si sarebbero rivoltate contro, ne era certo.
"Ottimo", disse il Conte con un affilato sorriso di compiacimento. In realtà dentro si sè soffriva già per lei. Si alzò dalla poltrona e le fece un lento baciamano. "Ci rivedremo domani, allora"


Nda 
Improbabile quartetto nelle prossime puntate. Ce la faranno i nostri eroi a salvare Becchi? E cosa avrà in mente il Conte Riario per Elettra?
Capitolo appena finito di scrivere, scusatemi per gli eventuali errori.

PS. Vorrei ringraziare ancora moltissimo Verdeirlanda per la sua recenzione, Grazie mille :D

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Capitolo 19
*** La Spia ***


Capitolo XV: La Spia
Ventiquattro ore più tardi...

Era nuovamente l'alba e i tiepidi raggi del Sole cominciavano a fare capolino tra le fitte fronde degli alberi. Il piccolo gruppo stava finalmente facendo ritorno a Firenze.
Elettra aveva passato l'intera giornata precedente ad aiutare a curare le suore e, con un Da Vinci messo KO dalla segale cornuta e una delegazione romana molto poco collaborativa, il grosso del lavoro era gravato tutto sulle sue spalle. Non dormiva da quarantotto ore.
Per quanto riguardava le condizioni di salute di Leonardo, nonostante l'amica gli avesse fortemente sconsigliato di alzarsi dal letto, lui aveva comunque deciso di fare ritorno a Firenze.
Gran parte del viaggio passò nell'assoluto silenzio: per un motivo  o per l'altro, a nessuno andava di chiaccherare. Fu Giuliano, in vista delle mura cittadine, a decidere di dire qualcosa. "Facciamo ancora in tempo a fare un salto all'osteria. Il primo giro lo offro io!", esordì festante.
"Mio signore, a quest'ora c'è ancora il coprifuoco", disse il Capitano Dragonetti.
"Non preoccupatevi, Capitano, il buon Giuliano offrirà da bere anche a voi", ribattè ironica Elettra, facendogli l'occhiolino.
Dragonetti alzò gli occhi al cielo, esasperato, facendo ridere tutti i fiorentini. La delegazione romana, invece, se ne restava in religioso silenzio, feriti nell'orgoglio.
"Giuliano io non posso venire al Can che Abbaia", disse Elettra dopo un po', "Devo prima passare da palazzo a prendere alcune carte e poi vado in bottega a tenere d'occhio Leonardo e Vanessa. Il povero Nico non ce la farà mai a tenerli a letto da solo. Temo anche che possano avere qualche ricaduta e sono più tranquilla se sto la"
"Dormire non è facoltativo", le ricordò. In effetti Elettra aveva davvero l'aria stanca e gli occhi arrossati.
 
***

Dopo aver lasciato Leonardo, Vanessa e Nico davanti alla bottega del Verrocchio, il gruppo si diresse verso Palazzo della Signoria.
Le guardie davanti all'entrata li scrutarono tutti molto attentamente. Era strano, solitamente non lo facevano, o non lo davano a notare così tanto.
Al Conte Riario, da sempre attento osservatore, non passò inosservato l'impercettibile irrigidirsi delle guardie, alla vista di Elettra. Non fece in tempo a chiedersi il perchè: due di esse, dopo che la ragazza fu scesa da cavallo, le si misero di fianco, prendendola per entrambe le braccia. 
"Cosa vi prende?", chiese la diretta interessata. Non ottenne risposta.
Giuliano, che aveva osservato la scena da lontano, estrasse subito la propria spada, dirigendosi poi con fare minaccioso verso le guardie.
Senza quasi accorgersene, anche la mano del Conte, si strinse attorno al freddo metallo della sua elsa; ma si trattenne dall'agire.
"Cosa state facendo?", urlò nel frattempo il giovane de Medici.
"Ordini del Magnifico, mio signore"
"Lascetela immediatamente o dovrete veder...", la frase fu lasciata a metà interrotta dal Capitano Dragonetti, che aveva deciso di intervenire prima che la situazione peggiorasse ulteriormente. "Lasciate subito la signorina, è perfettamente in grado di camminare da sola"
"Ma signore, noi...", tentò di spiegare uno dei due, evidentemente intimorito dal tono del suo superiore.
"A chi dovete obbedienza prima di tutti? A me o al Magnifico?", sibilò Dragonetti con intenzioni tutt'altro che amichevoli.
"A voi, Capitano", risposero entrambi con lo sguardo basso e lasciando le braccia di Elettra. 
Lei si guardò intorno perplessa. Le era capitato, una volta a Pisa, insieme a Leonardo e Zoroastro, di essere stata scambiata per una ricercata. Aveva dovuto passare una notte in cella, insieme a delle propostitute ansiose di convidere le loro esperienze, in attesa che Becchi chiarisse il malinteso. Tutto sommato era stato divertente, ma non aveva alcuna intenzione di ripetere l'esperienza. No. A Firenze nessuno l'avrebbe mai scambiata per qualcun'altro, la conoscevano tutti. Era impossibile. C'era sotto qualcos'altro. "Posso sapere perchè Lorenzo vuole che mi trattiate come una criminale?", chiese offesa.
Le due guardie si scambiarono una veloce occhiata, indecise se dirle la verità o meno. Optarono per il meno. "Il Magnifico ci ha chiesto di accompagnarvi nel suo studio il prima possibile", dissero alla fine.
"E vi sembra questo il modo di 'accompagnare' Elettra da mio fratello?", urlò Giuliano alterato.
"No...", dissero i due uomini mentre si torturavano le mani come un bambino che aveva appena combinato qualche marachella. Intanto con lo sguardo osservavano la ragazza che, a lunghi passi, si stava dirigendo nello studio di Lorenzo.
 
***

Bussò alla porta. Alle sue spalle Giuliano e un ansimante Capitano Dragonetti la stavano raggiungendo.
"Avanti", disse una fredda voce dall'altra parte. Elettra faticava a riconoscere la voce di Lorenzo.
"So che mi cercavate". Per la prima volta, si sentiva come intimidita, dall'imponente figura del Magnifico.
Lorenzo non sembrò neanche notarla, mentre entrava nel suo studio. Si alzò e si diresse verso la porta, evidentemente infastidito. "Avevo chiaramente detto di..."
"Di trattare Elettra come una pericolosa criminale?", lo interruppe Giuliano ironico, facendo irruzione nella stanza insieme a Dragonetti. "Si può sapere cosa ti prende, Lorenzo?", gli urlò in faccia.
"Ora vedrai, fratello", rispose trattenendo a stento la rabbia, "E voi, sedetevi", disse rivolta a Elettra che obbedì immediatamente, spaventata e anche un po' confusa. Non aveva mai visto Lorenzo così adirato con lei.
Il Magnifico la fissava con sguardo minaccioso; sembrava volesse fulminarla seduta stante. Solo dopo lunghi attimi di silenzio, si decise a proferire parola. "Cosa ne sapete, di queste?", le chiese mettendole davanti al naso quello che era stato trovato nello studio di Gentile Becchi.
Elettra osservò il tutto molto attentamente: c'era un sacchetto contenente scudi romani, delle carte con impresso il sigillo papale, una mappa di Firenze e dei foglietti scritti fitti fitti. "Cosa sono?". Non li aveva mai visti prima.
Lorenzo si mise a ridere, ma era una risata priva di colore. "Volete davvero farmi credere che non ne sapete niente? Siete sua complice, lo so"
"Complice di chi? Cosa sta succedendo?". Era sempre più confusa.
"Lorenzo, parla", disse Giuliano.
"Becchi ha venduto i nostri segreti a Roma e lei lo sapeva, era di sicuro sua complice!"
Elettra sentì il proprio cuore fermarsi e cominciò a perdere colore e tremare. "Mio zio... lui non... Lui darebbe la sua vita per Firenze, non avrebbe mai fatto nulla del genere!", balbettò.
"Lorenzo, ti sei bevuto completamente il cervello?", urlò Giuliano.
"Le prove sono schiaccianti, lo vedi tu stesso!", ribattè il fratello.
"Qualcuno deve aver incastrato mio zio", sussurrò flebile Elettra. Improvvisamente si sentiva la gola secca. Nelle sua mente intanto si delineava un volto impassibile, simile a quello di una sfinge, con i capelli corvini folti folti e due giganteschi e freddi occhi color nocciola. "Scusate", mormorò prima di uscire correndo dalla stanza.
 
***

Una volta rientrato nei suoi alloggi, il Conte Riario aveva deciso di farsi un bagno caldo per lavare via tutta la stanchezza di quelle ultime quarantotto ore e per rilassarsi un po'. C'erano parecchie questioni, che gli tenevano la mente occupata: ciò che era accaduto al convento sarebbe stato senz'altro considerato fallimentare; tutti sapevano come al Santo Padre non piacessero i fallimenti. Tutti erano utili, per raggiungere i suoi scopi, ma nessuno era essenziale; nemmeno il figlio che spacciava per nipote. Un'altra 'questione' aveva gli occhi azzurri e decisamente troppa impertinenza; dopo quel bacio come si sarebbe dovuto comportare con Elettra? Era chiaro che non sarebbe riuscito a starle lontano per molto; che fosse successo in un convento, aggiunto al fatto che lei sapeva fin dal principio che l'idea della claviceps purpurea era sua, lasciava ben intuire i sentimenti di entrambi. Sperava di rivederla presto; non gli era piaciuta quella piccola scaramuccia con le guardie all'entrata del palazzo.

Si era ormai tolto la giacca e aveva incominciato ad aprie i primi bottoni della camicia, quando qualcuno bussò alla porta, con una certa violenza. "Avanti" disse abbastanza seccato.
"Come avete potuto?", urlò Elettra facendo irruzione nell'appartamento del Conte. Appunto, voleva rivederla il prima possibile. La squadrò perplesso: lo aveva intuito che si fosse offesa, per quello che aveva fatto a quelle suore, ma ormai doveva esserle passato. No, c'era sotto qualcos'altro. Stavolta, di qualsiasi cosa si trattasse, poteva affermare con certezza che lui non c'entrava proprio nulla.
"Come ho potuto fare cosa, mia diletta?". Lo aveva notato, come la ragazza si addolciva, quando la chiamava 'mia diletta'; sperava si addolcisse anche questa volta.
"Smettetela di fingere di non sapere mai nulla e smettetela con quel 'mia diletta'! Io non sono vostra, e mai lo sarò". Era scossa, molto scossa. E le lacrime che le rigavano il viso ne erano la conferma. Ora a Riario toccava solo scoprire il perchè.
"Sediamoci e parliamone con calma. Di qualsiasi cosa si tratti sono certo che possiamo risolverla", disse cercando di tranquillizzarla. Per una volta desiderò di non essere così freddo e apatico.
"Voi... voi avete incastrato mio zio, facendolo passare per la vostra spia. Sono stata così stupida a parlarvi del sogno che avevo fatto! Immagino che l'idea vi sia venuta subito dopo"
"No, Elettra, vi sbagliate. Io sono estraneo a tutta questa storia, ve lo giuro". Non gli ci volle molto per capire di chi era la colpa; sapeva benissimo che il consigliere del Magnifico stava cercando una sua spia e, alla corte medicea, ve ne era una soltanto. Quella sgualdrina doveva aver avuto paura di essere scoperta... Da una parte, l'uscita di scena del fidato consigliere dei Medici poteva fare comodo a Roma, ma c'era anche da tenere conto della ricerca del Libro delle Lamine. Non sapeva ancora quanto Elettra  fosse coinvolta e la cosa migliore da fare al momento era guadagnarsi la sua fiducia. Gli venne un'idea. "Il mio informatore ha fatto una mossa avventata... e la pagherà cara, ve lo prometto", le disse facendo qualche passo nella sua direzione. La ragazza, istintivamente, provò a fare qualche passo indietro ma la sala aveva preso a vorticare velocemente intorno a lei e cadde a terra, svenuta.

Gli attacchi di panico solitamente non erano così infimi, le lasciavano il tempo di combattere. Ora capiva perchè questa volta non aveva potuto fare niente per contrastarli: si trovava nuovamente nella biblioteca d'Alessandria. Era nell'enorme spiazzo del sogno precedente ma l'atmosfera era decisamente più tetra: vi era solo un grosso bracere acceso, al centro, mentre il resto era immerso nell'oscurità. 
Zenodoto era lì, di fronte a lei, e la osservava. Anche nel suo sguardo, come in quello di Lorenzo poco prima, vi era una punta di rabbia. La luce rossastra delle fiamme che gli si riflettevano sul viso lo rendevano ancora più sinistro.
"Ci avete deluso, Elettra", disse con tono freddo. "Noi Figli di Mitra ci aspettavamo molto di più da voi"
"Io ho deluso voi?! Mi avevate chiaramente detto che se mi fossi interessata a questa storia del Libro delle Lamine, mio zio si sarebbe salvato!", urlò disperata.
"Vi avevamo avvertita: 'le morti che avverrano, devono avvenire', rammentate?"
"Io ho fatto tutto quello che mi avevate detto!". Anche nel sogno, le lacrime le rigavano il viso.
"Quello che avete fatto non è abbastanza!", le rinfacciò Zenodoto alzando il tono della voce. "I Figli di Mitra dedicano tutto il loro tempo, dedicano anima e corpo per portare a termine il compito che gli è stato affidato, passando sopra a qualsiasi altra cosa. Vostra madre questo lo sapeva bene"
"Non osate parlami di lei! Quella donna non la si potrebbe neanche definire madre". Non le aveva mai dimostrato affetto. Elettra non credeva, di avere mai avuto una madre.
"Anna era una delle nostre migliore edepte. Mentre voi, invece, non siete di certo la sua degna erede. Dovete lasciare perdere gli affetti, vostro zio è perduto ormai. Concentratevi unicamente sul compito che vi abbiamo affidato"
Elettra era in collera e, il fatto che il ciondolo che portava al collo si fosse illuminato di una luce bluastra, ne era la conferma.
"Io non ho mai desiderato fare parte di questa setta! Perchè avete scelto me?"
"Perchè? La vostra famiglia è una delle più antiche, al nostro interno. Voi, come vostra madre prima di voi, siete stata scelta come custode", lo sguardo del vecchio passò dal viso della ragazza a quello che lei portava al collo. Elettra capì a cosa si riferiva.
"Tenetevelo", disse mentre se lo toglieva. 
"Rimettetevelo subito". C'era timore, nello sguardo del bibliotecario.
"Io non lo voglio", ribattè Elettra e, con un veloce movimento, lo lanciò nel bracere.
"No!", urlò Zenodoto prima che tutto diventasse buio.


Elettra spalancò gli occhi di colpo, ansimando in cerca d'aria. Era come se la sua gola si fosse chiusa completamente. Si guardò intorno, capendo di essere stesa su di un divanetto, nel salottino dell'appartamento di Riario. Fece per tirarsi sù, ma due mani la bloccarono, costringentola a restare sdraiata. Oltre al Conte, nella sala vi era anche Giuliano; entrambi gli uomini avevano lo sguardo fisso sul petto della giovane, da cui proveniva una strana luce bluastra. Elettra, con la mano più tremolante di quanto potesse immaginare, prese il ciondolo tra le mani, riuscendo a toglierselo dal collo. Lo lanciò via, facendolo finire sotto ad un basso tavolino al centro del salotto. 
"Cosa...cos'è successo?", chiese. La sua voce era ridotta ad un flebile sussurro.
"Non ne ho idea, devi dircelo tu", rispose Giuliano accarezzandole la testa per calmarla.
"Come mai sei qui?". Era certa di non averlo visto nella stanza, prima di svenire.
"Sapevo che saresti venuta qui. Ho sentito il tonfo che hai fatto dal corridoio", le disse cercando di sembrare divertito e di non far trapelare tutta la sua preoccupazione.
"Non sono riuscito a prendervi al volo, mi dispiace molto", si scusò il Conte. A Elettra sembrava strano, vedere Riario e Giuliano seduti uno di fianco all'altro, intenti a collaborare.
"Elettra cosa ti è preso? Ti agitavi e parlavi dei Figli di Mitra, di quel loro maledetto libro e di tua madre!", il suo migliore amico sembrava davvero preoccupato per lei. Sapeva benissimo che anche il Vaticano era molto interessato al libro ma, in quel momento, gli importava solo di lei.
"Io... io mi trovavo nella biblioteca d'Alessandria e c'era il bibliotecario e abbbiamo avuto una discussione e... io non ho mai scelto di essere una delle custodi!". Era molto scossa e tremava come un pulcino bagnato.
Riario la ascoltava molto attentamente, stava scoprendo qualcosa di più riguardo ai Figli di Mitra. Una parte di lui, però, si stava dando dell'egoista da solo: avrebbe dovuto pensare a lei, in quel momento. Eppure doveva trovare il Libro delle Lamine e quella ragazza e l'arista erano la chiave di tutto. Aveva un suo metodo, per scoprire certe informazioni ma non sarebbe mai riuscito a farle del male, non volontariamente almeno.
"Custode di cosa?", le chiese Giuliano. 
"Di quel ciondolo, credo"
"E quella luce?". Ora aveva smesso di brillare. Riario per un attimo pensò di far finta di niente e farlo semplicemente scomparire; sarabbe poi ricomparso, negli archivi segreti del Vaticano, una volta tornato a Roma. Ma cambiò subito idea, c'era senz'altro un motivo se ce l'aveva lei.
"Giuliano, io non lo so... non so perchè si illumini", era spaventata.
"E di Becchi, avrà pur detto qualcosa?"
"Per loro è perduto, ormai. Lo è sempre stato", disse tra i singhiozzi, "Ma io voglio dimostrare a quei Figli di Mitra che si sbagliano. Lo voglio salvare!". Anche se per poco nei suoi occhi vi era quella scintilla, quel fuoco tipico di chi non si arrende mai.
"Faremo di tutto per salvarlo", la rassicurò il giovane de Medici.
"Avrete anche il mio aiuto, se lo desiderate". Da un punto di vista puramente politico, sarebbe stato molto utile per Roma sbarazzarsi del consigliere del Magnifico ma, per poter mettere le mani sul Libro delle Lamine, era essenziale che Elettra si fidasse di lui e quella, era un'occasione da prendere al volo. Anche il suo cuore, gli diceva di aiutarla.
Giuliano guardò Riario perplesso: che vantaggi avrebbe avuto il Conte ad aiutarli nella loro causa? 
"Sarà il caso che ti riposi un po'", disse a Elettra. "Hai bisogno di dormire quindi chiudi gli occhi e prova a rilassarti"
Lei annuì. La stanchezza accumulata e tutti gli avvenimenti delle ultime quarantotto ore fecero il resto.


Nda
Non lo so, questo capitolo non mi soddisfa molto. Per questo ho aspettato un po' a pubblicarlo; speravo che nel frattempo mi venisse in mente qualche idea migliore ma non è stato così. Spero nel prossimo :)

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Capitolo 20
*** Il Piano ***


Capitolo XVII: Il Piano
 
La mattina dopo...

"Cosa hai fatto?!", urlò Leonardo. Si trovavano nella stanza che Lorenzo gli aveva consesso per dipingere il ritratto di Lucrezia Donati. Intento a svolgere la commissione affidatogli, per una volta. O almeno era quello che stava facendo prima che Elettra e Giuliano lo interrompessero, per metterlo al corrente delle novità.
"Avete capito bene, Da Vinci, Elettra ha stretto un patto con Riario", Giuliano era seccato. E non poco.
Leonardo in un impeto di rabbia scaraventò a terra il cavalletto con il dipinto, facendo sobbalzare Lucrezia che, suo malgrado, aveva dovuto ascoltare tutto. "Ma sei stupida o solo ingenua?! Elettra cosa ti è passato per quella testa, per arrivare a fare una cosa del genere?!". Leonardo era fuori di sè.
"E' l'unico modo, per salvare mio zio", ribattè la diretta interessata. 
"Sei pienamente consapevole del potere che quell'uomo avrà su di te, finchè non dichiarerà estinto il debito?", chiese apprensivo.
"Leonardo lo so", rispose Elettra sospirando. Lo sapeva benissimo. Ci aveva pensato e ripensato, senza trovare alternative migliori.
"Cosa pensi ti chiederà di fare?". Da Vinci aveva quasi timore, a farle una simile domanda.
"Leo, non lo so... penso riguarderà il Libro delle Lamine.. non mi viene in mente nient'altro"
Giuliano scoppiò in una risata isterica: "Sei così ingenua da pensare che ti chiederà di aiutarlo a trovare il Libro delle Lamine? Ma hai mai notato come ti guarda?"
"Come mi guarda, scusa?"
Altre risa. "Sei davvero un'ingenua"
In quel momento Elettra capì. "No... non puoi pensare ad una cosa del genere...", balbettò perdendo lentamente colore.
"Sarà così, mia cara. Avresti dovuto pensarci prima... o almeno ascoltarmi"
"Io non diventerò mai la sua amante. C'è un limite a tutto!"
"Riario è stato molto chiaro, sull'assenza di limiti". Giuliano le aveva detto più volte di prestare cautela.
"Elettra, non potete tirarvi indietro... cose orribile accadono a chi si rifiuta di pagare i propri debiti... Riario sa essere spietato". Lucrezia Donati era rimasta in silenzio per tutto il tempo ma, ora, guardando il volto spaventato della ragazza, si era sentita in dovere di intervenire. Parlava per esperienza, su quanto poteva essere spietato il Conte.
"Madonna Donati ha ragione, purtroppo", disse Giuliano. 
Dopo alcuni attimi di silenzio, decise che era arrivato il momento di andarsene. "Ci vediamo dopo davanti al Bargello", si rivolse ad Elettra mentre usciva dalla stanza.
"A proposito di amanti...", Elettra desiderava fare quel discorso a Leonardo da parecchio, ormai. E ora doveva assolutamente pensare a qualcosa di diverso da suo zio e da Riario. "...voi due va avanti dalla sera del carnevale, giusto?"

***

Più tardi, al Bargello...

Elettra, Giuliano ed Aramis fecero passare parecchie celle, prima di trovare quella in cui era rinchiuso Gentile Becchi. Ovviamente quando serviva qualcuno per chiedere informazioni, questi era introvabile.
Gentile Becchi non era messo molto bene, ma neanche male come nel sogno di Elettra; era solo sporco e una folta barba bianca aveva fatto la sua comparsa sul suo volto. Fortunatamente nessuno aveva osato alzare le mani su di lui; non ancora, almeno.
"I miei ragazzi!", li salutò quando li vide, alzandosi e andando verso le sbarre. Non si sarebbe mai aspettato di rivederli.
"Come stai?", gli chiese apprensiva Elettra, stringendogli forte entrambe le mani tra le sue.
Becchi sospirò. "Sono pronto", disse semplicemente. "Vorrei che ti preparassi anche tu, per quando arriverà il momento". Sapeva che Elettra non avrebbe reagito bene, alla sua morte.
"Prima o poi succederà, ma ti resta ancora molto da vivere. Ti tireremo presto fuori di qui!", ribattè con un sorriso. Prima che suo zio potesse ribattere, si avviò in uno dei numerosi corridoi delle prigioni. "Vado a cercare qualcuno che apra questa cella, torno subito", disse.
"Dovrete starle vicini, molto vicini. Lei crede che si risolverà tutto ma non sarà così", si rivolse Becchi ad Aramis e Giuliano.
"Per una volta devo dare ragione a quella folle di vostra nipote", disse il giovane de Medici, "Abbiamo un piano, per far cadere tutte le accuse di mio fratello"
"E anche degli ottimi alleati", aggiunse Aramis. Giuliano gli tirò un occhiataccia: non avrebbe assolutamente dovuto parlarne.
"No, lasciate perdere miei cari ragazzi. In circostanze particolari come queste, quelli che voi chiamate 'alleati' hanno un prezzo, un alto prezzo, che ricadrà sulle vostre spalle"
Giuliano, a quelle parole, non riuscì a fare a meno di pensare ad Elettra. E a quello che le avrebbe chiesto di fare Riario. Sospirò. Il suo mentore aveva ragione.
Becchi sembrò leggergli nel pensiero. "L'idea non è stata vostra,vero?"
Si limitarono ad annuire.
"Avrei dovuto immaginarlo... quella ragazza è testarda e non sa rassegnarsi all'evidenza...". Quando Filippo era partito, due anni prima, alla volta del Giappone, gli aveva promesso che l'avrebbe protetta da qualsiasi cosa. Non solo era venuto meno a quella promessa ma Elettra si era cacciata nei guai per lui. Guai grossi, a vedere la faccia scura dei suoi interlocutori.
Sentirono dei passi che si avvicinavano e decisero così di cambiare in fretta discorso.
"Eccomi di ritorno", disse Elettra tornando festante. Alle sue spalle vi era il Capitano Dragonetti.
"Il prigioniero non dovrebbe vedere nessuno... per questa volta chiuderò un occhio ma vi concedo solo dieci minuti. Al mio ritorno dovrete andarvene", disse mentre apriva la cella. L'integerrimo Capitano Dragonetti non faceva mai strappi alla regola ma era da diverso tempo, ormai, che vedeva qualcosa di sbagliato, nel modo di fare di Lorenzo de Medici.
Elettra fu la prima ad entrare, andando incontro a Becchi e stringendolo forte forte a sè. 
"Cosa leggete?", gli chiese Giuliano, notando un piccolo libretti dall'aria vissuta poggiato sulla panca. Doveva assolutamente cambiare discorso, per non insospettire la ragazza.
"Il libro delle ore", rispose Becchi.
 "Il latino, senza ombra di dubbio", disse ironico il giovane de Medici. "Ho sempre detestato quella lingua"
"Era evidente dai tuoi pessimi risultati", fece notare l'anziano consigliere.
"Può darsi che voi foste un pessimo insegnate", ribattè Giuliano.
"Può darsi", disse l'altro ironicamente. Risero tutti e quattro; per loro era da sempre stato il migliore.
"Fortuna che io e Aramis compensavano questo pessimo soggetto!"
Alle parole della nipote Becchi alzò gli occhi al cielo. "Di tuo fratello non ho niente da dire ma su di te, cara nipote, avrei parecchie lamentele..."
"Ammettilo che sotto sotto ci tieni alla tua nipotina", ribattè lei con ironia.
"Tengo molto a te", ricambiò lo zio tornando serio dopo quel breve siparietto.
Gli occhi di Elettra divennero lucidi. Si sedette a terra, vicino alla gambe dello zio e appoggiò la testa sulle sue ginocchia, proprio come faceva da bambina. "Non voglio perderti", gli disse trattenendo a stento le lacrime.
Per la prima volta da molto tempo, Becchi non sapeva come fare, per rincuorarla. Si limitò ad accarezzarle dolcemente i capelli.
"Perchè non ci hai detto dei debiti di quel co... di quel buonannulla di tuo cognato", gli chiese Elettra dopo un lungo silenzio. Non aveva mai sopportato il marito di sua zia Bianca, la sorella di Gentile e Filippo. Come del resto non aveva mai sopportato lei. 
"Non vi avrei mai turbati con le loro sventure", rispose.
"Avremmo potuto aiutarti, io ed Elettra". Aramis era dispiaciuto; probabilmente, se fosse rimasto a Firenze, lo avrebbe saputo prima.
I passi lungo il corridoio annunciarono la fine del tempo a loro disposizione.
"Io mi fido di voi. Avete elargito consigli a mio nonno e anche a mio padre, avete donato la vostra vita al servizio di Firenze adoperandovi sempre per proteggere il nome dei Medici", disse Giuliano di punto in bianco, prima di uscire da quella piccola cella. Senza accorgersene, aveva esternato i propri pensieri.
"Ma quando me ne sarò andato, allora non potrò più provvedere a questa protezione", ribattè Becchi.
"Perchè non vi battete per restare, allora? Ci serve la vostra collaborazione, per tirarvi fuori di qui!". Senza volerlo Giuliano aveva alzato la voce.
"Perchè vostro fratello è incapace di ascoltare, Lorenzo è consumato da una collera furiosa che non gli permette di vedere le insidie che lo circondano!", si spiegò Gentile,  "C'è un traditore in mezzo a noi; dopo che io sarò morto e Lorenzo avrà abbassato la guardia il traditore sarà ancora qui.". Dragonetti fece segno a tutti di uscire ma l'anziano consigliere continuò a parlare: "Le persone vi sottovalutano, Giuliano. Tuttavia la debolezza percepita fa di voi l'unico in grado di portare la spia allo scoperto. Prendetevi cura di vostro fratello. Ha bisogno di voi, adesso più che mai"
"Ti faremo uscire, è una promessa", lo salutò Elettra, "Così potrai aiutare Giuliano a catturare quella spia"

I tre erano appena usciti dal Bargello quando Aramis si ricordò di qualcosa. "Il Conte Riario dice che dovremmo vederci al più presto". Lo aveva incontrato per colazione e si erano scambiati qualche breve parola.
"Ma dove potremmo incontrarci lontani da occhi indiscreti?", chiese Giuliano. Il palazzo era da escludere, a priori.
"Io un'idea ce l'avrei", disse Elettra, "Incontriamoci a casa di mamma e papà a mezzanotte. Nessuno andrebbe mai a ficcare il naso la dentro"
"Ne sei certa?". Aramis sapeva che quella casa faceva un brutto effetto, sulla sua sorellina. Ma doveva ammettere che era un'ottima soluzione.
"Certissima"
"Appena arrivati a palazzo avviserò il Conte Riario, allora"
 
***

Nel frattempo, a Palazzo della Signoria...

Lucrezia Donati bussò timorosa alla vecchia porta. Si trovava in un'ala poco frequentata del palazzo, per incontrare la principale causa di tutti i suoi mali.
"Avanti", disse una fredda voce dall'altra parte.
Lucrezia fece un profondo respiro, abbassò la maniglia d'ottone ed entrò.
"Avete nuove informazioni per me?", le chiese Riario.
No,non ne aveva. Ma aveva paura, a dirglielo. "Da Vinci e Giuliano de Medici stamattina si interrogavano su quello che voi potreste chiedere come compenso ad Elettra Becchi", rispose. Sapeva che al Conte non sarebbe interessato ma era sempre meglio di un secco no.
"Quello che deciderò non è affar vostro, o dell'artista, o del giovane de Medici", disse Riario con un affilato sorriso. Dentro, sentiva la rabbia salire. "C'è altro, che io dovrei sapere?"
"No", mormorò Lucrezia abbassando gli occhi, spaventata.
"Vi siete quasi fatta scoprire, l'altro giorno", le fece notare.
"Ho risolto la faccenda", ribattè ostentando una falsa sicurezza.
"La prossima volta che deciderete di agire di vostra personale iniziativa...", sibilò Riario stringendo con una mano l'esile collo di Lucrezia, "evitate di incolpare personalità così in vista"
"Siete adirato con me perchè così facendo ho fatto soffrire Elettra?", disse sarcastica. Si pentì presto, di quello che aveva detto. Neanche sapeva, da dove arrivassero quelle parole.
Riario strinse ancora di più e a Lucrezia cominciò ad offuscarsi la vista. 
"Non fate l'impertinente con me, cugina. Potreste pentirvene", le sussurrò lasciando finalmente la presa.
La donna fece istintivamente qualche passo indietro, portandosi le mani al collo e respirando grandi boccate d'aria.
"Comunque, nonostante le vostre gesta avventate, sono riuscito ad utilizzare la situazione a mio vantaggio. Ho già elaborato un piano e mi auguro che voi decidiate di sottostare agli ordini senza farvi scoprire.", disse con fare minaccioso. 
"Farò del mio meglio", mormorò Lucrezia.
"Le istruzioni arriveranno a breve", disse Riario congedandola.

***

Mezzanotte...

Aramis sospirò, osservando l'edificio dove aveva vissuto con la sua famiglia. Era da quel maledetto giorno di otto anni prima, che non ci metteva più piede. La loro casa aveva un che di sinistro, ora.
"Elettra sarà già arrivata?", chiese ai suoi accompagnatori. Era una domanda retorica, visto che arrivavano tutti e tre da Palazzo della Signoria.
"Dato il rapporto problematico di vostra sorella con gli orologi, presumo di no", rispose sarcastico il Conte Riario.
"Invece vi sbagliate, Conte", ribattè Giuliano. Nonostante le persiane chiuse, una fioca luce filtrava da una delle finestre al primo piano.

Elettra gli aspettava nello studio del padre, uno dei pochi luoghi di quella casa che le infondesse ancora tranquillità. 
Le era sempre piaciuta quella stanza. Le ricordava il mare e aveva un qualcosa di esotico. Mai, come dall'osservare le condizioni in cui la camera riversava, si era resa conto di quanto assomigliasse a suo padre. Il disordine regnava sovrano: vi erano scartoffie accumulate qua e là, cartine nautiche di ogni genere sparse in giro, libri e antichi atlanti ammucchiati sui mobili e mappamondi dalle più svariate dimensioni. E poi gli oggetti: tantissimi souvenir provenienti da ogni angolo del mondo conosciuto, come un abaco cinese, maschere africane, stoffe orientali... vi era persino una stele con rune celtiche e una testa umana rimpicciolita proveniente da una qualche tribù africana; vi erano anche numerosi modellini di navi, il timone della prima nave posseduta da Filippo e altri arnesi da marinaio.
La ragazza stava osservando la parete dietro alla grande scrivania del padre; essa era interamente occupata da un affresco rappresentante tutte le terre fino ad allora conosciute. Stava cercando di capire dove si sarebbe potuto trovare l'Ammiraglia, la nave di cui il padre era capitano; oltre a quella la famiglia Becchi ne aveva altre, più piccole, adatte a tratte decisamente più corte. Era una redditizia compagnia commerciale, la loro. 
Se i calcoli non erano errati (e se il viaggio fosse proceduto liscio), Elettra avrebbe potuto riabbracciare il padre di lì a pochi mesi: sarebbe dovuto arrivare tra aprile e maggio del 1478.
I suoi pensieri furono interrotti dal rumore di passi sulla grande scalinata di marmo. Per la prima volta era lei ad essere arrivata in anticipo e gli altri in ritardo.
La porta si aprì e nella stanza entrarono Giuliano, Aramis e il Conte Riario. Quest'ultimo storse un po' il naso, al vedere la testa rimpicciolita che pendeva dal soffitto, proprio sopra il suo capo.
"Non vi facevo così schizzinoso, Conte", gli fece notare Elettra mentre cercava di trattenere una risata.
"Ho visto di peggio", fece Riario con tono da superiore. Era vero, aveva visto e fatto decisamente di peggio, ma comunque non si aspettava certo di trovare lì quell'oggetto. Certi macabri manufatti non erano fatti per essere tenuti in bella vista nello studio di una rispettabile villa signorile.
"Proviene dall'Africa centrale. Quando nella tribù muore qualcuno i suoi famigliari gli tagliano la testa e ci fanno questi... ciondoli, credo. Mio padre mi ha raccontato che il capo tribù aveva una lunga collana fatta con le teste degli altri capi tribù e..."
"Elettra basta, non voglio sentire nient'altro", la interruppe Giuliano. Ancora un po' e avrebbe vomitato l'arrosto di cinghiale che aveva mangiato a cena.
"La testa rimpicciolita che c'è qui è di uno dei mozzi che è morto di malaria durante il viaggio. Papà era curioso di vedere come le fabbricavano ma la tribù era a corto di cadaveri e l'unico disponibile era quello... Volete sapere il procedimento?". Quando Elettra cominciava  a parlare dei viaggi del padre aveva sempre quella faccia da pazza stile Leonardo Da Vinci alle prese con qualche nuova strampalata idea.
"No Elettra, il Conte non è interessato a niente del genere!", sbottò Giuliano mentre ricacciava giù il cinghiale.
"Perchè non parliamo del motivo per cui siamo qui?", chiese Aramis. Neanche lui era interessato a come i rimpicciolitori di teste facevano il loro lavoro. Gli era bastato il resoconto del padre, da bambino.
Giuliano trasse un profondo sospiro di sollievo (e anche il suo stomaco fece lo stesso).

"Bene Conte, come intendete procedere?", chiese Elettra una volta che tutti si furono accomodati. Lei, ovviamente, si trovava sulla grande poltrona del padre, seduta a gambe incrociate; Aramis e Riario erano seduti dall'altra parte della scrivania, su poltroncine più piccole e Giuliano camminava nervoso per la stanza.
"Dobbiamo far credere a Lorenzo che la spia sia ancora in circolazione", disse con tono ovvio. "E per farlo ho bisogno di informazioni... strettamente riservate, che solo pochissimi possono sapere"
"Tipo accordi commerciali riservati e trattative segrete?", chiese timorosa Elettra.
"Esattamente", rispose Riario.
"Mi sembra ovvio", disse sarcastico Giuliano. Quello era solo un pretesto di Roma per conoscere meglio gli affari di Firenze! "Immagino che la vostra spia si sia già messa all'opera, a questo punto"
"La mia spia per ora è meglio che tenga un profilo basso... Quindi no, per ora non utilizzeremo il mio informatore". Il tono del Conte era estremamente serio. "Sarete voi a reperire tali informazioni", riferì ad Elettra.
Lei a quelle parole sbiancò. 
"Questa è l'idea più stupida che io abbia mai sentito!", urlò Giuliano. "Così farete finire anche lei sulla ruota!"
"Non vi chiederei mai di fare qualcosa di così pericoloso se non sapessi che voi ne siete pienamente all'altezza, mia diletta", le disse. Se il tono della sua voce era freddo e distaccato come al solito, i suoi occhi apparvero dolci quando si scontrarono con quelli spaventati di lei. Si sporse per prenderle la mano, a rassicurarla che tutto sarebbe andato bene. 
"Non provate a toccarla", sibilò Giuliano in prede alla collera.
"Altrimenti?", chiese Riario con tono di sfida mentre Elettra cercava di ritrarre la mano.
Per il giovane de Medici quella fu la goccia che fece traboccare il vaso: in un attimo prese il Conte per la giacca e lo scaraventò con le spalle sopra la scrivania. Riario si mise a ridere: era divertente come bastasse così poco, per far scattare il rampollo di casa Medici.
"Voi non mi potete fare assolutamente niente, avete troppo bisogno di me", lo provocò.  
"Giuliano lascialo andare, per favore", gli sussurrò dolcemente Elettra.
"Quest'uomo è un serpente della peggiore specie! Ci sta usando solo per i suoi scopi. Sta usando te solo per i suoi scopi!"
"Lo so, ma è la nostra unica possibilità", disse lei rassegnata, "Abbiamo veramente bisogno del suo aiuto"
"Ascoltate Elettra, caro Giuliano. Lei ha molto più senno di voi", ribattè Riario continuando a lanciargli frecciatine.
Seppur riluttante, il giovane de Medici lo lasciò andare.
Il Conte si rimise in piedi, rimettendo a posto il colletto della camicia. La ragazza gli tirò un'occhiataccia; invece lui la guardava con un sorrisetto di soddisfazione.
"Ditemi cosa devo fare, Conte", disse lei quando tutti si furono calmati.
"Mentre Giuliano distrae suo fratello, voi entrerete nel suo studio e cercherete i documenti segretati. Grazie alla vostra portentosa memoria ci metterete davvero poco a visionarli e poi vi basterà riferire il tutto a me, che ne parlerò appena possibile a Lorenzo", rispose lui con una calma disarmante, come se quello che dicesse fosse la cosa più naturale del mondo. "Non vi preoccupate, io e il vescovo Becchi vi faremo da pali. Niente potrà andare storto"
"E poi, cosa accadrà?", chiese Elettra.
"Poi, una volta che Lorenzo avrà capito che vostro zio non era la spia, Giuliano farà pressione su suo fratello perchè la ricerca continui"
"E se non lo capisce? Mio fratello sa essere molto cocciuto"
"Dovrete essere molto convincente, allora", disse il Conte con un sorriso, "Dopodichè entrerà in azione il mio informatore. Che incastrerà uno dei servi mettendo finte prove nella sua camera"
"Ha una certa abilità, nell'incastrare altre persone, la vostra spia", fece notare sarcastico Giuliano.
"Ognuno ha le sue qualità. Non trovate anche voi?"
"No, non le considero qualità"  
"Tornando a noi... una volta che Lorenzo avrà fatto perquisire l'intero palazzo e trovato la finta spia, farà liberare Gentile Becchi e questa alleanza temporanea potrà considerarsi conclusa"
"Aspetterò con ansia quel giorno", sibilò Giuliano.
"C'è ancora un'ultima questione", disse Aramis, "Chi sarà l'innocente che finirà alla ruota al posto di nostro zio?". Era la domanda che anche Elettra e Giuliano temevano.
"Dovremo cercare qualcuno di adatto", spiegò il Conte, "In modo che una volta trovato sembrerà la persona più ovvia"
"Io saprei chi". Al giovane de Medici non piaceva per niente condannare qualcuno così, ma Firenze aveva molto più bisogno di Becchi, che di un semplice servo. "Abbiamo assunto un giovane cameriere, poco dopo Pasqua. Da quello che ho sentito su di lui viene da Roma ed è anche abbastanza istruito da poter passare come probabile spia"
Anche Elettra aveva pensato alla stessa persona. Sospirò. "Avevo pensato anche io a lui... è abbastanza furbo ed era uno dei principali sospettati di mio zio"
"Ottimo, meglio di così non potevate trovarlo", sorrise Riario. 
Gli altri lo guardarono con sospetto: possibile che quell'uomo non provasse un minimo di senso di colpa nel condannare così un innocente?
"Direi che qui abbiamo finito. Ci rivedremo domani per mettere il atto la prima parte del piano", disse.
 
***

La mattina dopo...


Elettra si trovava nel suo studio, a palazzo, ed aspettava con ansia l'ok per procedere con il piano elaborato la notte precedente. Per non insospettire nessuno si era messa a fingere di visionare alcune carte; sapeva benissimo che in quel momento si stava facendo troppe paranoie, ma la paura di essere scoperta era davvero tanta che non l'aveva neanche fatta dormire, una volta tornata a casa.
Bussarono alla porta e una fitta allo stomaco le rammentò quale fosse la dura pena riservata ai traditori. Per un attimo ebbe nuovamente davanti agli occhi quell'incubo tremendo che aveva fatto la notte del banchetto.
"Avanti", disse cercando di sembrare il più naturale possibile.
La porta si aprì ed entrò il Conte Riario.
"Siamo pronti a procedere?", gli chiese lei, timorosa della risposta.
"No, ancora no", rispose mentre si avvicinava.
"E allora cosa ci fate qui?". Elettra era perplessa.
"Avevo voglia di vedervi, mia diletta", le disse mentre si appoggiava con entrambe le mani alla scrivania. Si sporse ulteriormente, in modo da avere il suo viso pericolosamente vicino a quello di lei.
Elettra si limitò a guardarlo fisso negli occhi: era incredibile come la semplice vicinanza a quell'uomo riuscisse a farle mancare il respiro. 
Girolamo era lì per assicurarsi che lei stesse bene eppure, il tuffarsi in quei grandi occhi azzurri, gli fece dimenticare tutto. Si sentiva come una falena attratta dal fuoco. Non poteva resistere alla tentazione delle sue labbra vermiglie. Non ci sarebbe mai riuscito.
Con un gesto fulmineo accorciò quella breve distanza che li divideva, prendendo avidamente possesso della sua bocca.
Lei non aspettava altro. Se il suo cervello le diceva di scappare, il suo cuore era di tutt'altro avviso. Le scariche elettriche che le si propagavano per tutto il corpo erano inebrianti e il suo sapore... quello era anche meglio. Dispettosa, gli morse leggermente il labbro inferiore. Girolamo emise un piccolo gemito, mentre la sua lingua si faceva sempre più curiosa e il suo battito aumentava di frequenza.
A entrambi venne quasi un colpo, quando la serratura scattò; senza pensarci due volte si divisero, cadendo sulle poltrone alle loro spalle. Riario, più pesante atterrò con tonfo, sulla piccola poltroncina dall'altra parte della scrivania. Tentarono di ricomporsi alla meglio e c'è chi ci riuscì e chi meno.

Giuliano, seguito da Aramis, fece il suo ingresso nello studio. Se non avesse avuto quell'espressione sconvolta, si sarebbe senz'altro accorto del rossore delle guance di Elettra e dell'espressione soddisfatta di Riario.
"Che cos'è successo?", gli chiese lei ancora con il fiato corto.
"Ho appena finito di parlare con mio fratello", disse il giovane de Medici, "Ha anticipato la data della sentenza... sarà dopodomani!", fece una pausa per riprendere fiato, "La prima udienza è fissata per domani"


Nda
Questo è l'ennesimo capitolo non previsto che inserisco nella narrazione...
Mi scuso in anticipo per il probabile lungo periodo che passerà prima di postare il prossimo capitolo ma sarà complicato (e credo anche parecchio lungo), da scrivere. Credo che dovrò dividerlo in almeno due parti.
Spero di riuscire a finirlo entro lunedì prossimo, anche perchè poi non credo che avrò più molto tempo da dedicare alla scrittura...
Bene, dopo questa carrellata di buone notizie (per niente), vorrei ringraziare nuovamente Yuliya per la sua recensione e dirle che sto prendendo seriamente in considerazione la sua idea. 

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Capitolo 21
*** Innocenti, parte I ***


Nda
Ce l'ho fatta a postare anche questo capitolo, alla fine! La seconda parte è quasi conclusa, se ho tempo la posterò domani o al massimo martedì in serata. 
Domani inizia la mia vita da universitaria. Pregate per me (tanto anche)
L'altro lato della medaglia è che non avrò più molto tempo per scrivere.... ma la storia la finsco, promesso :)


Capitolo XVIII: Innocenti, parte I

48 ore prima della sentenza...

La porta dello studio di Lorenzo si trovava lì, proprio davanti a lei. Elettra prese un profondo respiro. Doveva assolutamente calmarsi, se non voleva mandare a monte l'operazione.
Si guardò intorno con circospezione ed incontrò lo sguardo del Conte Riario che, tenendo fede a quello che aveva detto la sera precedente, camminava avanti e indietro per i corridoi adiacenti. L'avrebbe avvisata, se fosse sorto qualche problema. Quando vide quanto la ragazza era nervosa, le sue labbra si incurvarono in un timido tentativo di sorriso rassicuratore. Lei gli rispose con uno decisamente meglio riuscito, stupendosi del grande sforzo compiuto dal Conte per sembrare più umano del solito.
Osservò ancora per un po' quella porta chiusa a chiave: essa non restava mai aperta, a meno chè non ci fosse Lorenzo, al suo interno, o qualche cameriere intento a fare le pulizie. Pochissimi avevano la chiave per entrare ed Elettra non era certo tra di loro.
Non le sarebbero bastate due semplici forcine, per aprirla, ma fortunatamente Zoroastro le aveva prestato alcuni dei suoi "ferri del mestiere". Quel piccolo favore le sarebbe semplicemente costato una pinta di birra. 'Chissà se basterà anche al Conte, una pinta di birra?", pensò ironica.
Dopo aver scelto gli strumenti che più si adattavano a quel tipo di serratura, gli inserì nella toppa e cominciò a muoverli, nel tentativo di trovare la giusta posizione per aprire la porta.
Quello sarebbe stato il momento giusto, per cominciare a credere a una qualche entità trascendentale.
Finalmente la serratura scattò, salvando così eventuali divinità da bruschi atterraggi sulla terra. Elettra si guardò ancora una volta intorno, prima di abbassare la maniglia ed entrare. Richiuse immediatamente la porta alle sue spalle, rimanendo così sola nel grande studio di Lorenzo. Si diresse velocemente alla sua scrivania. Sapeva esattamente dove il Magnifico tenesse tutti i documenti più importanti. Si mise accovacciata tra la seduta del padrone di casa e lo stupendo mobile di legno con stucchi dorati ed alabastro, tastandone il bordo con le dita, in cerca di una qualche anomalia. C'era come un cerchio, leggermente in rilievo. Lo premette ed immediatamente comparve un piccolo scomparto segreto, contenente una scatola di legno. Esattamente quello che lei stava cercando.
La prese e l'appoggiò delicatamente sulla lastra d'alabastro. Era anch'essa dotata di serratura solo che, a differenza della porta, essa era decisamente più ostica: era stata progetta da Andrea, insieme con la scrivania, e quindi a prova di scassinatore.
Estrasse dalla tasca i due ferretti più fini che riuscì a trovare e si mise all'opera.
Alcuni minuti più tardi e parecchie imprecazioni dopo (che avrebbero fatto impallidire anche uno scaricatore di porto) anche questa serratura fu forzata permettendo così al Elettra di poterne studiare il contenuto. Sfogliò il tutto velocemente, certa che la sua memoria fotografica avrebbe fatto il resto. I documenti erano uno più compromettente dell'altro; le sarebbero senz'altro costati la ruota, se qualcuno l'avesse scoperta.
Una volta finito di visionarli, rimise ogni cosa al proprio posto ed uscì dalla stanza.
Stava armeggiando con i ferretti per richiudere la porta a chiave,quando udì dei passi nel corridoio. E non erano i passi del Conte Riario.
"E' finita", pensò. Il rumore era troppo vicino, non ce l'avrebbe mai fatta a fuggire. 
"Elettra, cosa stai facendo?!". Non era la voce di Lorenzo, fortunatamente, ma quella di Leonardo! La ragazza non era mai stata così felice, di sentire la voce dell'artista.
"Sshh", gli disse mentre si sentivano altri passi, provenire dal corridoio adiacente.
"Lorenzo, come state?", era la voce del Conte Riario.   
Elettra prese la mano di Da Vinci, conducendolo velocemente via.

"Potresti spiegarmi cosa sta succedendo?!". Il tono di voce di Leonardo era un misto tra preoccupazione e rabbia. Erano nella vecchia e poverosa stanza che ospitava la collezione di libri appartenuta a Cosimo de Medici; era il luogo più vicino allo studio di Lorenzo dove Elettra era sicura che nessuno sarebbe venuto a ficcanasare.
"Leo l'ho fatto", disse lei mentre, con la schiena appoggiata al muro si lasciava lentamente scivolare a terra. Si sentiva senza forze, come se quello che aveva appena fatto le avesse prosciugato tutte le energie. Da Vinci non osò proferire  parola. Elettra gli aveva spiegato tutto il piano di Riario; si limitò a sedersi vicino a lei.
"Mi sento come una traditrice!", sussurrò la ragazza mentre i suoi occhi diventavano lucidi. Appoggiò la testa sulla spalla di Leonardo.
"Va tutto bene, Elettra. Tu non sei una traditrice... a mali estremi estremi rimedi, no?", le disse per confortarla. 
Bussarono alla porta. "Elettra, siete qui dentro?". Era la voce del Conte Riario.
"Che mente arguta, Conte", rispose ironico Leonardo facendo ridere la ragazza. Sapeva esattamente come fare, per tirarle un po' sù il morale.
Riario entrò nella stanza, fulminando l'artista con lo sguardo. 
Da Vinci ricambiò con un sorriso strafottente. "Sarà meglio che vada. Voi avete parecchie cose da dirvi e io non voglio finire sulla ruota", disse ironico con un sorriso sulle labbra. "Ci vediamo più tardi", salutò Elettra passandogli una mano sulla testa e scompigliandole un po' i biondi capelli. Lei storse un po' il naso, a metà tra il divertito e il seccato.
Riario lo osservò uscire. Solo quando la porta si richiuse alle sue spalle, decise di parlare. "Ottimo lavoro", disse. Le porse le mani, per aiutarla ad alzarsi.
Elettra non rispose, limitandosi a sospirare. Accettò di buon grado, l'aiuto che il Conte le offriva.
"Avete qualcosa che non va", notò lui.
"Sagace", rispose lei, sarcastica. 
Riario alzò gli occhi al cielo: non gli bastava già quell'artista presuntuoso? Ora ci si metteva anche lei, a prenderlo per i fondelli. 'Dio li fa e poi gli accoppia', pensò. "Posso sapere, di grazia, cosa vi prende?"
"Mi sento come se stessi tradendo Firenze", disse Elettra.
"In un certo senso è quello che state facendo"
"Così non mi aiutate, Conte"
Girolamo si umettò le labbra, nervoso. Conosceva benissimo lo stato d'animo di Elettra in quel momento; ci era passato anche lui, molto tempo prima, quando il Santo Padre gli aveva chiesto di diventare la spada della sua chiesa. "So come vi sentite... io sono stato molto peggio, quando ho eseguito il mio primo incarico per ordine del Papa". Non era abituato a parlare di sè stesso. Non sapeva neanche cosa gli era preso, in quel momento, per parlarle di una cosa così delicata.
"Cosa vi aveva chiesto di fare?", chiese lei con timore. Si era resa conto che il Conte sapeva molte cose sul suo conto, ma lei su lui sapeva ben poco. 
"Magari un giorno ve lo racconterò", rispose vago distogliendo lo sguardo da quello di lei.
Elettra avrebbe giurato di aver visto quegli occhi farsi lucidi, per pochi attimi. 
Girolamo non si sentiva pronto per raccontarle di Celia o delle altre cose orribili che suo padre gli aveva ordinato di fare. Parlarne avrebbe significato mostrare le crepe che si nascondevano dietro quella maschera imperturbabile e no, non avrebbe potuto farlo. Dentro di lui vi era anche la paura, la paura di perdere Elettra, una volta che quest'ultima avesse scoperto il mostro che ci celava dietro quei modi cortesi.
"E il senso di colpa poi scompare?". Altra domanda difficile che la ragazza gli poneva.
No, non scompare. Ti perseguita appena ne ha l'occasione: ti appare davanti agli occhi, nei sogni, in momenti come quello... e ti ammonisce, ti riporta continuamente a quella notte, ti mostra quello che hai fatto. L'unico modo per resistergli è chiudersi a guscio, far credere a tutti gli altri che sei forte, che sei invincibile. Con il tempo però diventi freddo e ancora più spietato. E gli altri cominciano a temerti. "Certo, appena vostro zio sarà libero, quello che oggi avete fatto sarà solo un lontano ricordo", le disse.
Lei lo abbracciò, piangendo sul suo petto le ultime lacrime di colpevolezza.
Girolamo si stupì di quel gesto ma non ricambiò subito: per sentirsi a proprio agio doveva essere lui, ad iniziare il contatto. Doveva avere il controllo, su qualsiasi cosa.
"Cosa avete scoperto, nello studio di Lorenzo?", le chiese tornando al suo solito tono freddo e distaccato.
"Avete spostato i fondi pontifici sul banco dei Pazzi". Era più un rimprovero, che una constatazione.
"Qualcos'altro? Magari che non riguardi me. Penso di essere a conoscenza delle mie azioni", ribattè sarcastico. Per certe questioni era convinto che si dovesse arrivare subito al punto.
"Lorenzo sta cercando nuovi investitori, per compensare la perdita dei vostri fondi"
"E?"
"E ha inviato lettere a tutte le principali corti europee"
"E?". Quello sembrava più un interrogatorio; doveva toglierle le parole di bocca, perchè dicesse almeno due frasi di fila.
"Sembrava molto interessato ai reali spagnoli"
"Elettra, lo so che per voi è difficile ma provate a dirmi tutto insieme. Non posso continuare a farvi domande!"
"Poi ho letto alcune missive segrete dirette a Re Ferrante di Napoli e al Duca Federico di Montefeltro. Lorenzo sta cercando nuove alleanze militari"
"Siete stata davvero in gamba. Ottimo lavoro", le disse con un sorriso sulle labbra. Con una mano le accarezzò dolcemente una guancia, per poi scendere a sfiorarle appena il collo. Poteva sentire il battito di lei aumentare.
"Grazie Conte", rispose Elettra facendo qualche passo indietro, per aumentare la distanza tra lei e Riario.
 
***

44 ore prima della sentenza...

"Ho detto a Elettra di restare qui da noi, per cena. Non mi va che se ne stia a casa da sola, in questo periodo", esordì Giuliano sedendosi a tavola. 
Da quando la delegazione romana era giunta a palazzo i pranzi e le cene erano piuttosto affollati.
"Hai fatto bene, Giuliano", confermò Clarice con un largo sorriso. 

"Scusate il ritardo", disse Elettra entrando nella sala da pranzo. Si era cambiata d'abito, optando per uno decisamente più elegante.
Lorenzo si alzò, stingendole amichevolmente la mano: segno che, nonostante tutto, non ce l'aveva affatto con lei. "Sono fecile che vi siate unita a noi". Le fece cenno di sedersi alla sua destra, in un posto lasciato vuoto apposta per lei, proprio vicino alla piccola Maria che, saputo che ci sarebbe stata anche Elettra, aveva voluto a tutti i costi mettersi lì. Di fronte a lei vi erano invece il Conte Riario, Giuliano e Clarice.
La cena andò avanti tranquillamente tra resoconti giornalieri, risate e un po' di umorismo. 
Durante il dolce, l'atmosfera però cambiò: il Conte aveva deciso di mettere in atto la seconda parte del piano. "Sono stato informato che state cercando nuovi investitori"
"Noi cerchiamo sempre nuovi investitori, Conte Riario", rispose Lorenzo cercando di rimanere calmo.
"Mi è stato anche detto che puntate soprattutto sui sovrani spagnoli, Fernando e Isabella"
'Come diavolo fa a saperlo?!', pensò il Magnifico. Per lo stupore, rischiò di strozzarsi con la torta di mele.
Notando il silenzio, Riario decise di continuare. "So anche dei vostri tentativi di alleanza con il Duca Federico"
Lorenzo ne aveva abbastanza. La rabbia stava salendo velocemente e, se non si fosse subito calmato, avrebbe sicuramente infilzato quel viscido serpente con la forchettina da dolce. "Scusate", si congedò tra un colpo di tosse e l'altro. 
Il Conte sorrise soddisfatto ad Elettra, scura in volto. Giuliano, procedendo secondo i piani, uscì dalla stanza per cercare il fratello, seguito a ruota da Clarice.

"Com'è possibile che sappia di tutte queste cose?!", urlò Lorenzo una volta arrivato nei suoi alloggi. "Le lettere in Spagna sono state spedite stamattina all'alba e la risposta di Federico è arrivata appena prima di pranzo!"
Giuliano e Clarice lo osservarono in silenzio. Quando la vena sul collo del Magnifico pulsava, dire qualcosa di sbagliato avrebbe portato solo a brutte conseguenze. 
"Io ti avevo detto che la spia non era Gentile Becchi...", disse dopo un po' il più giovane dei de Medici con tono da saputello. Gli avrebbe lasciato tutta la notte, per pensarci un po' sù e, se la mattina successiva non si fosse deciso a riprendere la caccia alla spia, lo avrebbe spinto in quella direzione.
 
***

29 ore prima della sentenza...

La sala delle udienze del Palazzo di Giustizia era gremita di gente, per la maggior parte curiosi. Quando il giudice diede il via all'udienza, ormai vi erano solo posti in piedi.
Gentile Becchi venne fatto entrare, scortato da due guardie della notte e con i polsi legati da due pesanti manette. A Elettra le si strinse il cuore nel vederlo ridotto in quelle misere condizioni; strinse forte le mani a Giuliano ed Aramis, che si trovavano ai suoi fianchi. Non ebbe il coraggio di guardare suo zio negli occhi. Dal bancone dietro sentì sussurrare qualche parola di incoraggiamento da Leonardo, Nico, Zoroastro e dal Verrocchio; mentre Vanessa le appoggiava una mano sulla spalla. 
Oltre al più giovane dei de Medici, non vi era nessun'altro esponente del casato, all'udienza. Neanche il Conte Riario era presente, causa impegni diplomatici improrogabili, le aveva detto; aveva però rassicurato Elettra sul fatto che sarebbe venuto il giorno dopo, per la sentenza.
I due avvocati si avvicinaro al giudice per discutere alcuni particolari. Piero Da Vinci sembrava parecchio teso mentre Bernardo Machiavelli, l'avvocato dell'accusa era perfettamente a proprio agio. "Mio padre crede che questo processo sia solo una perdita di tempo, secondo lui Gentile Becchi è morto nell'esatto istante in cui l'hanno rinchiuso al Bargello", disse Nico sottovoce, cercando di non farsi sentire da Elettra. Ovviamente lei aveva udito tutto. "Tuo padre prenderà un bell'abbaglio, questa volta", ribattè voltandosi. Leonardo e Zoroastro diedero all'unisono un coppino sul collo del giovane Nico. "Ahi!", si lamentò il mal capitato. Andrea dovette intervenire per zittire le risate che nel frattempo si erano levate dal piccolo gruppo. Anche Elettra riuscì a sorridere, divertita.
"L'imputato è accusato di crimini contro la repubblica di Firenze", esordì il giudice, dando inizio all'udienza. "Come si professa il vostro cliente, avvocato Da Vinci?"
"Innocente, vostro onore"
Elettra non riuscì a non notare l'espressione divertita dell'avvocato della difesa.
Da Vinci chiese il permesso di fare un arringa iniziale. Permesso che gli venne accordato. 
Mentre Piero parlava di quanto Becchi fosse un onesto cittadino fiorentino, di come avrebbe dato la sua vita per difendere quella città e di tutto quello che aveva fatto fino a quel momento per Firenze, Elettra si perse nei propri pensieri. Stava davvero facendo la cosa giusta? Si, stava evitando che un innocente venisse condannato a morte. E l'altro innocente, quello che sarebbe finito sulla ruota al posto di Gentile Becchi? No, quello non era giusto. Davvero si sarebbe macchiata la coscenza di un simile orrore? Anche la sua, di innocenza, sarebbe scomparsa.
Fu distolta da questi pensieri quando vide suo zio alzarsi e dirigersi verso il banco degli imputati, per essere interrogato dai due avvocati.
"Giurate di dire la verità, tutta la verità e nient'altro che la verità?", chiese il giudice.
"Lo giuro", disse Gentile Becchi alzando la mano destra. Elettra sperò davvero che fosse così; non era ancora certa che suo zio avrebbe collaborato per togliersi dai guai.
"Avvocato Da Vinci, inizierete voi", si rivolse il giudice.
Piero di alzò, andando poi a sistemarsi di fianco alle prove del caso. "Questo oggetti sono vostri?", chiese all'imputato, indicandoglieli. 
"No, non mi appartengono".
Elettra emise un lungo sospiro di soddisfazione. Fortunatamente stava collaborando.
"Li avete mai visti, prima d'oggi?"  
"Me li ha mostrati Lorenzo de Medici, prima che venissi arrestato, ma prima d'allora mai"
"Obiezione, Vostro Onore! L'imputato deve limitarsi a rispondere sì o no", si intromise l'avvocato Machiavelli.
"Obiezione respinta", disse secco il giudice.
Da Vinci sorrise soddisfatto, continuando con il suo interrogatorio. "Ora vorrei chiedervi chi ha accesso al vostro studio"
"Chiunque desideri parlarmi", rispose Becchi.
"E quando non siete presente?"
"Il mio studio rimane sempre aperto, non lo chiudo mai a chiave. Ho fiducia nei miei collaboratori"
"Avvocato Da Vinci, dove volete arrivare?", chiese il giudice, scettico.
"Avete sentito anche voi: lo studio del mio cliente, ovvero il luogo dove sono state ritrovate suddette prove, rimane sempre aperto quindi è lecito supporre che chiunque sarebbe potuto entrare per sistemarvi false prove"
"Affermate dunque che il vostro cliente è stato incastrato?"
"Esattamente, Vostro Onore"
Nella sala delle udienze calò il silenzio. Anche il giudice si fece pensieroso. Il discorso filava alla perfezione. Elettra sorrise soddisfatta.Quella era esattamente la reazione desiderata. In fondo, vi era sempre la formula 'Oltre ogni ragionevole dubbio'; instillare il dubbio nei presenti era sembrata a tutti fin da subito la linea migliore. "Leo, tuo padre è un grande", sussurrò voltandosi. 
"Un grande approfittatore", ribattè l'altro.
"Ho finito, passo la parola all'accusa", disse infine Piero, tornando al suo posto.
Bernardo Machiavelli si alzò, andò verso il bancone dove vi erano poggiate tutte le prove e prese in mano un sacchetto colmo di scudi romani. Lo fece poi ricadere rumorosamente davanti agli occhi di Becchi. "Parliamo di questi"
"Come ho già detto al mio avvocato, io non  ne so nulla"
"So che la vostra famiglia ha avuto parecchi problemi di tipo economico, recentemente"
"Investimenti sbagliati", disse Becchi.
"Che hanno portato vostro cognato ad indebitarsi con alcuni strozzini dalla cattiva fama... Ma partiamo dal principio: voi avete un fratello, Filippo, e una sorella, Bianca. E' esatto?"
"Si"
"La vostra era una nota famiglia di ricchi mercanti fiorentini che, qualche decennio fa, ha deciso di passare dalle brevi tratte commerciali terrestri, ale lunghe rotte commerciali marittime. Correggetemi se sbaglio."
"Per ora è corretto"
"Ora, tornando a voi tre... voi, il primogenito, avete deciso per la carriera ecclesiastica mentre vostro fratello minore ha ereditato la passione per il commercio. Strano, non trovate?"
"Filippo non aveva il carattere per intraprendere una carriera ecclesiastica, così ci siamo scambiati i ruoli. Non vedo niente di strano in tutto questo."
"C'è un altro fatto che mi incuriosisce... voi avete deciso di cedere la vostra posizione nell'attività di famiglia ma non l'avete divisa tra Bianca e Filippo, bensì essa è andata tutta a vostro fratello. Perchè?"
"Obiezione Vostro Onore, l'avvocato Machiavelli sta sviando dal motivo per qui siamo qui oggi!", si intromise Da Vinci.
"Obiezione respinta. Però stringete il discorso Machiavelli!"
"Immagino sia per evitare l'intromissione di vostro cognato. Studiandolo ho scoperto che qualsiasi attività commerciale da lui aperta è fallita inesorabilmente; cosa che lo ha portato ad indebitarsi pesantemente"
"Non tutti hanno il fiuto per gli affari"
"Ma i problemi non sono solo su quel lato della famiglia... vostro fratello manca da molto, ormai"
"Due anni, per la precisione"
"Appunto, potrebbe anche non tornare... il mare aperto può essere molto pericoloso e la rotta per il Giappone non è di certo una delle più sicure"
Da Vinci spalancò le braccia in un gesto più che eloquente, che il giudice non potè non notare. "Siete al limite della pertinenza, Machiavelli" disse annoiato.
"Scusate Vostro Onore ma niente è fatto per niente. Volevo solo capire dall'imputato chi si occupa dei figli di Filippo, nel frattempo."
"Sanno badare a sè stessi"
"Certamente, almeno per Aramis immagino sia così... so che ha intrapreso anche lui la carriera ecclesiastica. Non è strano che l'unico erede maschio abbia fatto una simile scelta?"
"Mio nipote è stato libero di scegliere quello che più gli aggradava"
"So che, come voi, è un vescovo e so anche che è il segretario personale di Lupo Mercuri, il curatore degli archivi segreti vaticani. Di conseguenza è molto vicino al Papa"
"Immagino di sì, visto che lavora in Vaticano"
"E di vostra nipote Elettra, cosa mi dite?"
"Anche lei sa badare a sè stessa", disse Becchi a denti stretti.
"Ho qui parecchie denuncie a suo nome per schiamazzi notturni, violazioni del coprifuoco e pure una notte in carcere a Pisa. Credo che vostra nipote sia da tenere d'occhio"
"Ciò che è successo a Pisa è stato solo un grosso malinteso"
"Un costoso grosso malinteso, come tutte le altre denuncie, in fondo"
"Se legge bene i verbali delle denuncie noterete che oltre al nome di mia nipote vi sono anche altri nomi di spicco, come quello di vostro figlio Niccolò. Fareste bene a tenere d'occhio vostro figlio, avvocato Machiavelli", ribattè sarcastico Becchi. Il sarcasmo era una delle caratteristiche distintive della famiglia Becchi, per quanto lui tentasse di tenerlo celato.
"Nico hai fatto bene a mandare a quel paese tuo padre e ad unirti a noi", disse Elettra voltandosi verso di lui.
"Vogliamo parlare della casa che le avete comprato per il compleanno?", continuò Machiavelli. "Le case sono costose al giorno d'oggi..."
"Fate la vostra domanda, dunque"
"Con quale denaro l'avete pagata?"
"Di sicuro non con il denaro datomi da Roma. Il denaro proviene da un fondo fatto da me e da Filippo per gli eredi della nostra famiglia"
"Qui ho finito, Vostro Onore", disse alla fine Machiavelli.
"Riprenderemo con la seduto dopo una breve pausa", fece il giudice.

"Mi sembra sia andata bene, fino a questo momento", disse Elettra uscendo finalmente all'aria aperta. A differenza di Aramis e Giuliano, lei non se l'era sentita di andare a parlare con Gentile Becchi. Nico e Zoroastro avevano deciso di accompagnarla fuori.
"Sarebbe potuta andare meglio", ribattè Nico, "Mio padre è un osso duro"
"No, tuo padre è un fottuto bastardo", fece Zoroastro. 
"Ognuno ha portato avanti la propria linea: Piero ha instillato non pochi dubbi sull'effettiva colpevolezza di mio zio mentre Bernardo ha insistito sui punti deboli della famiglia". Elettra incrociò nervosamente le braccia sotto al seno e sospirò. "Ed io sono uno di quei punti deboli"
"Elettra non fare così", cercò di rabbonirla il moro.
"Zo, lo sai anche tu che è così!". Gli occhi le divennero lucidi.
"Piantala di piangerti addosso, cazzo! Non fai altro da giorni! Io tuo zio l'ho visto in ben poche occasioni e non sono mai state piacevoli, anzi, credo che mi odi, ma ha comunque puntato tutto sulla tua diversità. Quelli che tu consideri come 'punti deboli', lo sono solo per te. Per noi sono i tuoi punti di forza!", urlò Zoroastro al limite dell'esasperazione. "Quindi ora muovi il tuo bel culo e torni dentro perchè là dentro c'è qualcuno che ha davvero bisogno di te! E nel frattempo ti togli quell'espressione da funerale dalla faccia". Nessuno sapeva come faceva, eppure Zo, con i suoi modi tutt'altro che fini, riusciva sempre a far sta meglio gli altri.

L'udienza riprese e nella sala fece la sua apparizione la guardia della notte che aveva trovato il kit da spia nello studio di Becchi.
"Potete spiegarci con precisione ciò che avete fatto quel giorno, signor Conti?", chiese Machiavelli. Questa volta avrebbe iniziato lui a porre domande per primo.
"Alle guardie della notte era arrivato l'ordine di perlustrare l'intero palazzo alla ricerca di qualsiasi indizio sulla spia"
"E voi come mai avete deciso di ispezionare lo studio di Gentile Becchi?"
"Non l'ho scelto io, ad ogni guardia sono stati affidati precise stanze da ispezionare"
"E cosa avete fatto, una volta entrato nello studio?"
"Ho cominciato a cercare indizi e poi ho trovato quel libretto...", Conti lo indicò  sul tavolo delle prove, "si trovava su uno degli scaffali nascosto tra altri libri e quando l'ho aperto ho scoperto che conteneva proprio ciò che stavamo cercando"
"Può bastare, grazie. Vostro Onore, io qui avrei finito"
"Avvocato Da Vinci, ora è il vostro turno", disse il giudice.
Piero si alzò, avvicinandosi alla guardia della notte. "Una volta trovato le prove contro il mio cliente cosa avete fatto?"
"Sono andato immediatamente a cercare Lorenzo, per comunicargli la notizia, come da protocollo" 
"E cosa avete pensato, quando avete rinvenuto tali prove?"
"Obiezione, Vostro Onore. L'avvocato Da Vinci non può chiedere ad un testimone la sua opinione!", disse Machiavelli.
"Obiezione accolta. Da Vinci se non avete altro da chiedere tornate al vostro posto", rispose il giudice.
"Ho pensato che non era possibile: Gentile Becchi non può aver compiuto una simile azione; secondo me è stato incastrato", ribattè Conti, incurante di quello che il giudice aveva appena detto. "Scusate Vostro Onora ma non potevo tenere per me questa opinione"
"Limitatevi a rispondere alle domande che hanno la mia approvazione". Il giudice pareva seccato, molo seccato.
"Vorrei chiarire ancora un'ultima cosa", disse Piero, "Potrei sapere chi vi ha dato l'ordine di cercare la spia?". In realtà lui lo sapeva già ma, secondo la sua linea difensiva, questa domande era essenziale.
"L'ordine portava la firma di Lorenzo de Medici e di Gentile Becchi, signore"
"Grazie mille per l'informazione". Sul volto di Da Vinci comparve un largo sorriso. "Quindi, stando a quanto dicono i fatti, il mio cliente avrebbe dato l'ordine di perquisire il suo studio, consapevole che in esso ci fossero prove molto compromettenti contro la sua persona... Non mi sembra un comportamento che una mente fine come quella di Gentile Becchi metterebbe in atto". Pausa per amplificare le successive parole. "C'è qualcosa che non torna in tutto questo, Vostro Onore"
Il giudice lo guardò pensiero, mentre Piero tornava al suo posto, di fianco a Becchi. C'era davvero qualcosa che non tornava... "Dichiaro conclusa l'udienza. La sentenza è fissata per domani alle tre", si limitò a dire.

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Capitolo 22
*** Innocenti, parte II ***


Capitolo XVIII: Innocenti, parte II

24 ore prima della sentenza...

Elettra si trovava nuovamente davanti alla porta dello studio di Lorenzo de Medici. Dopo i fatti successi la sera precedente, Giuliano aveva provato a convincere il fratello a riprendere la caccia alla spia, ma il Magnifico non aveva voluto sentire ragioni; toccava a lei, ora, provare a farlo ragionare.
Bussò timorosa. "Lorenzo, posso entrare?"
Ci fu una lunga pausa, prima di ottenere il permesso.
Elettra entrò quasi impaurita, nella grande stanza. Si sentì fortemente in imbarazzo quando vide che vi era anche Lucrezia Donati. Di certo non era lì per un'innocente chiaccherata.
"Scusate per l'interruzione... se volete posso tornare più tardi", farfugliò.
"Ormai siete qui, quindi parlate", disse seccato Lorenzo.
Elettra guardò titubante l'amante del Magnifico; non era certa di poter parlare con lì lei. "Possiamo fidarci di Lucrezia", parlò il Magnifico dando voce ai pensieri della ragazza.
"Certo". Sul volto della bionda comparve un sorriso nervoso. "Vorrei parlarvi di mio zio..."
"Non ho alcuna intenzione di ascoltare", sbottò il de Medici alzando la voce. Elettra ne fu intimorita.
"Vi prego", sussurrò. Doveva farcela. Doveva assolutamente farcela, per Gentile Becchi. "Lorenzo lo so che non dovrei parlare di questo... insomma io in questa faccenda ci sono coinvolta dal punto di vista affettivo e quindi il mio giudizio è senz'altro offuscato e..."
Il Magnifico fece per interromperla ma Lucrezia riuscì a convincerlo a fare continuare la ragazza. Lucrezia non le era mai andata completamente a genio però, in seguito agli eventi degli ultimi giorni, stava cambiando idea su di lei.
"Giuliano mi ha raccontato cosa è successo ieri sera a cena", mentì Elettra, "Non potete ignorare un simile evento. Voi non potete mandare a morte un uomo quando sapete benissimo che è innocente"
"Lorenzo, Elettra ha ragione", disse la Donati. In un qualche modo lo stava convincendo a collaboare con la ragazza. Un altro punto a suo favore.
"Cosa volete chiedermi, dunque?", chiese il de Medici.
"Di far perquisire nuovamente il palazzo alle guardie della notte". Il tono di voce della bionda era sicuro, come non lo era più da tempo ormai.
Il Magnifico soppesò per un po' le sue parole, indeciso sul da farsi: una parte di lui non aveva mai creduto a quelle accuse, eppure le prove erano schiaccianti. "Domani mattina darò l'ordine di cercare nuovamente qualcosa"
Elettra fece per ribattere che il tempo era davvero poco, ma Lorenzo non la lasciò palare. "E non provate a ribattere che dovrei mettere i miei uomini subito all'opera... potrei anche cambiare idea e non dare l'ordine neanche domani mattina", disse con tono duro.
"Va benissimo così", ribattè Elettra con un largo sorriso. "Grazie mille, Lorenzo", fece prima di congedarsi.

"Allora, gli occhi da cerbiatto impaurito hanno funzionato?", le chiese Giuliano appena la vide uscire dallo studio del fratello.
"Gli occhi da cerbiatto non falliscono mai", rispose Elettra sorridente. "Tuttavia Lorenzo non farà nulla prima di domani mattina"
"Sempre meglio di niente", ribattè il giovane de Medici. 
"Più tardi andrò a comunicarlo a Riario, così potrà avvisare la sua spia"

***

18 ore prima della sentenza...

Elettra svoltò per l'ennesimo corridoio, arrivando finalmente davanti alla sua meta. Avrebbe voluto parlare prima con il Conte Riario ma il lavoro non le aveva dato un attimo di tregua; vista l'ora, sperava solo di non disturbare. Indugiò alcuni secondi, osservando il paesaggio al di fuori della finestra: la luna era alta nel cielo, circondata da una miriade di stelle luminose.
Fece qualche passo avanti, portandosi proprio davanti alla porta dell'appartamento di Riario. Timorosa, bussò delicatamente. "Conte Riario, sono Elettra", disse semplicemente.
Sul volto di Girolamo si formò un sorriso, mentre andava ad aprire. 
Inizialmente il sentir bussare l'aveva disturbato ma quando capì che era lei, la stanchezza passò subito. "Posso chiedervi cosa ci fate qui, madonna?", le chiese tornado alla solita apatia.
Eletttra si guardò intorno, per controllare che non ci fossero occhi e orecchie indiscrete. Riario capì quello che le stava passando per la testa. "Cosa ne dite se ne parliamo dentro?", le disse.
Elettra era un po' titubante ma il Conte aveva ragione: non erano questioni di cui discutere in pubblico. "Ci sto", rispose entrando. Si sedette sul divanetto, che era ormai diventato il suo posto.
"Bicchiere della staffa?", le chiese Riario andando verso un piccolo mobiletto, da dove estrasse una bottiglia di liquore e due bicchierini.
La ragazza lo guardò un po' imbarazzata: l'aspettavano al Cane Abbaiante. E lei non aveva alcuna intenzione di tornare a casa sobria, quella notte. Non voleva pensare a suo zio, almeno per poche ore. Non voleva pensare a niente, in realtà. "Ehm... non porprio", disse abbassando lo sguardo.
Il Conte la guardò con quella che poteva quasi chiamarsi preoccupazione ma si impose di non fare domande al riguardo; aveva paura della risposta di lei. "Cosa volevate comunicarmi, madonna?", le chiese appoggiando i due bicchierini sul tavolino e sedendosi sulla poltrona di fronte a lei.
"Dovete avvertire la vostra spia", disse Elettra portandosi il bicchierino alla labbra, "Lorenzo farà perquisire nuovamente il palazzo, domani mattina"
"Era ora", rispose leggermente seccato. "Siete stata voi, a fare cambiare idea al Magnifico?"
"Si. Dopo che Lorenzo ha sbattuto la porta in faccia a suo fratello, Giuliano ha mandato me a convincerlo"
Riario sorrise tra sè e sè. "Per voi sarà stato un gioco da ragazzi"
"Ho dovuto faticare parecchio anche io"
"Mi risulta difficile crederlo", le disse perdendosi nei suoi grandi occhi azzurri, "Voi potreste ottenere qualsiasi cosa desideriate semplicemente con uno sguardo"
Ok, forse questo era più imbarazzante dell'esser presa per un'alcolizzata.Non aveva fatto gli occhi dolci a Lorenzo! Cosa gli era passato per la testa a Riario, per pensare ad una simile trovata? "Ho semplicemente usato un po' di diplomazia", disse Elettra, cercando di non apparire alterata; se non fosse stata una persona orgogliosa, avrebbe anche accennato all'aiuto di Lucrezia. "Cosa completamente sconosciuta a Giuliano", aggiunse. Prese la bottiglia di liquore e si riempì nuovamente il bicchierino, cercando di non fare caso alla faccia contrariata del suo interlocutore. "Cosa pensavate che avessi fatto per convincere Lorenzo?", dal suo tono di voce appariva offesa. 
Riario si alzò, sedendosi poi sul divanetto, di fianco a lei. "Mi stavo chiedendo come mai Lorenzo abbia scelto Lucrezia Donati e non voi, come sua amante"
Elettra scoppiò a ridere. "Allora anche voi sapete fare un po' d'umorismo, mio signore"
"Io sono serio, mia diletta".
'Mia diletta'. Ecco, l'aveva detto. Elettra non riusciva proprio a non arrossire, quando Girolamo la chiamava così. In poco tempo le sue guance si colorarono di rosso vermiglio. "Conosco Lorenzo da sempre, siamo praticamente cresciuti insieme. Per me è come un fratello maggiore", disse sempre tra le risate.
"Questo non avrebbe di sicuro fermato il Magnifico". Il suo tono di voce era sempre serio.
"Ma avete mai visto Lucrezia? Se noi sorvolassimo sul piccolo particolare che vi ho fatto notare e prendessimo per vera la vostra ipotesi, ci sarebbe comunque da dire che la Donati è molto più bella di me e poi è una dama con la d maiuscola", quel discorso non le piaceva ma, comunque, non l'avrebbe mai data vinta a Riario. "Io sono disordinata, anticonformista e faccio cose che nessuna donna rispettabile farebbe mai in vita sua. Lucrezia è nettemante superiore a me" 
"Io non credo", le disse prendendole una mano tra le sue. "Se io fossi stato in Lorenzo, non avrei esisato neanche per un attimo, a scegliere voi come mia amante"
Quel discorso stava cominciando a diventare strano, molto strano. Ed Elettra cominciava a preoccuparsi; Riario non diceva mai niente per il semplice gusti di farlo. Dove voleva andare a parare, questa volta? Non lo voleva sapere. "Devo andare", disse alzandosi improvvisamente, "Leonardo mi aspetta"
Riario apparve parecchio contrariato, da qualla brusca interruzione. Avrebbe preferito continuare quel discorso.
"Buonanotte, Conte", disse Elettra uscendo. 
Non gli aveva neanche dato il tempo di replicare.
 
***  

Ora x...

Elettra si guardò intorno irrequieta. Il Palazzo di Giustizia era gremito di gente. E l'ora della verità era finalmente arrivata. Peccato che gli aveva colti impreparati: Lorenzo aveva dato l'ordine di perquisire nuovamente Palazzo della Signoria solo in tarda mattinata e, alle tre del pomeriggio, non era ancora stato ritrovato niente di compromettente. Il tempo era ormai scaduto. No, doveva farsi forza. Strinse forte le mani di Aramis e Giuliano mentre con lo sguardo cercava una figura sempre vestita di nero e impassibile come una sfinge. I suoi occhi incontrarono presto quelli color nocciola del Conte Riario, seduto alcuni banchi più indietro, nell'altra navata. Per un attimo la sua solita espressione apatica si trasformò in un sorriso di rassicurazione. 'Andrà tutto bene, mia diletta', sembrava volesse dirle. Il Capitano Grunwald era al suo fianco ed entrambi non indossavano la loro solita divisa, indossavano abiti... civili? 'Civili', venne da pensare ad Elettra. Ovviamente erano su dei toni molto scuri, non si sarebbe di certo aspettata abiti dai colori sgargianti, da quei due.
Distolse lo sguardo da Riario, andando a guardare davanti a sè: Gentile Becchi la stava osservando. La nipote cercò di sorridergli ma, nonostante ci avesse provato con tutte le sue forze, esso non era neanche la metà dei suoi sorrisi soliti.
"Sappi che ho puntato dieci fiorini sull'innocenza di Gentile Becchi", le disse Zo alle sue spalle, distraendola dallo scambio di sguardi con suo zio. "Spero che tu e il tuo amichetto", indicò il Conte Riario, "non vogliate farmi perdere la scommessa". Il tono della sua voce era ironico, per farle alzare un po' il morale.
Finalmente il giudice entrò. Aveva il volto scuro e l'aria parecchio tesa. 
Elettra sentì la mano di Aramis mollare la presa. Guardò in basso e vide che il fratello teneva in mano una lunga collana formata da tanti grani; nel frattempo bisbigliava qualcosa fra sè e sè. La ragazza fece cenno di no con la testa: non era possibile che in un momento come quello Aramis si mettesse a dire un rosario! L'avrebbe voluto insultare, ma non lo fece. Se il suo modo di reagire alla tensione del momento era quello, lo avrebbe lasciato fare. Anche se ne era molto contrariata.
Il giudice battè il martelletto sul proprio banco, intimando la folla di fare silenzio. Stava per emettere la sentenza.
 "Dopo lunghe analisi l'imputato è stato considerato colpevole di alto tradimento nei confronti della repubblica di Firenze", disse secco.
Ora il tempo era veramente scaduto. Elettra si rese conto che avevano fallito. Gli occhi cominciarono a pizzicarle. "Mi dispiace tanto, zio Gentile", sussurrò quasi come se lui potesse sentirla. Giuliano lasciò la stretta sulla sua mano e, con la strinse forte a sè cingendole la vita con un braccio. Era stato tutto inutile. Tradire Firenze era stato inutile.
Il giudice stava per dire quale sarebbe stata la pena e quando essa sarebbe stata eseguita, quando nell'aula di tribunale fece irruzione il Capitano Dragonetti, seguito a ruota da Lorenzo e altre guardie della notte. Il Magnifico teneva in mano alcune carte e aveva l'aria parecchio affannata. "Fermi tutti!", disse con il fiato corto facendo sventolare in aria alcuni fogli, "Vostro Onore, c'è una questione di cui vorrei parlarvi in privato"
Il giudice, con un espressione a metà tra il seccato (per essere stato interrotto) e lo sconvolto, gli fece cenno di seguirlo nella stanza adiacente all'aula. Presto scomparvero entrambi dalla vista di Elettra.
 
***
 
Un'ora più tardi...

Cominciavano tutti a spazientirsi. Nessuno aveva più notizie sulla sorte di Gentile Becchi da quando Lorenzo e il giudice si erano ritirati nella camera di consiglio. Elettra aveva estratto il suo blocco da disegno e, per allentare l'ansia dell'attesa, aveva cominciato a raffigurare compulsivamente qualsiasi cosa le venisse in mente. Ormai le sue mani erano sporche di matita e, passandosi una mano sulla faccia, fece apparire anche su di essa una bella riga nera. Anche Leonardo era immerso nei suoi pensieri. Aramis continuava incessantemente a ripetere quel rosario, accompagnato da Vanessa. Quella litania sempre uguale a sè stessa dava alla bionda sempre di più sui nervi . Giuliano, come Piero Da Vinci, camminava nervosamente avanti e indietro. Machiavelli cercava inutilemente di avere qualche informazione dalle guardie della notte messe di guardia alla porta. Zoroastro e Nico, invece, cercavano di allentare la tensione con continue battute di spirito mentre il povero Andrea cercava invano di zittirli. L'unico che, in tutto quel trambusto sembrasse apparire calmo era il Conte Riario. E anche Gentile Becchi, paradossalmente, sembrava relativamente tranquillo. Certamente era messo meglio di altri elementi.
"Ora basta!", esplose il Verrocchio dopo l'ennesima presa in giro di Zoroastro; si girarono tutti, ad osservare Andrea dare un coppino sul collo a Zo e Nico. Quel piccolo spettacolo attirò anche l'attenzione di Elettra che, girandosi nella loro direzione, si mise a ridere.
Quel momento di rilassatezza durò poco: Lorenzo e il giudice rientrano in aula; dalle loro facce non traspariva la benchè minima emozione. Era impossibile capire cosa li passasse per la testa.
Mentre il giudice riportava di nuovo tutti all'ordine, Lorenzo si dipose in uno dei banchi della prima fila.
"Sono giunti alla mia attenzione nuovi elementi di prova", disse il giudice, "E, da una nuova ed attenta analisi del caso, dichiaro l'imputato..."
C'era ancora speranza, tutto sommato. Doveva esserci ancora speranza.
"... prosciolto da tutte le accuse"
Elettra non riusciva quasi a crederci. Lorenzo si girò verso di lei, confermandole il tutto con un cenno della testa. Era tutto vero. Suo zio era di nuovo un uomo libero. Tutto quello che avevano fatto non era stato vano. Si lasciò andare ad un liberatorio grido di gioia. Chissenefrega se era in un aula di tribunale. Chissenefrega se le buone maniere le dicevano di contenersi. Suo zio non sarebbe finito sulla ruota! Solo di questo le importava in quel momento. Eppure, c'era una piccola parte di lei che non riusciva a gioire: se era riuscita a prosciogliere un innocente, un altro sarebbe stato condannato al suo posto. Si sforzò per zittire la propria coscenza.
Il giudice uscì in fretta dalla sala, lasciando che il clima di felicità e gioia la riempisse completamente, facendola sprofondare in un piacevole caos.
Presa dalla foga del momento, Elettra saltò letteralmente in braccio a Giuliano, che la strinse forte a sè, facendole fare una giravolta. Dopodichè la ragazza corse ad abbracciare gli altri.Suo fratello, Vanessa, Leonardo, Nico, Zo, Andrea... Tutti, quasi tutti quelli che le passavano davanti finivano per essere abbracciati. Anche Lorenzo, finì per essere abbracciato.
La frenesia del momento le fece dimenticare anche che Roma era nemica di Firenze: senza quasi rendersene conto si ritrovò ad abbracciare il Capitano Grunwald  e poi il Conte Riario, che si stupì (e non poco) del gesto avventato della ragazza. Elettra si staccò quasi subito, imbarazzata, mentre le sue guance cominciarono a prendere colore.
L'abbraccio più commovente, come ovvio che fosse, fu quello con Gentile Becchi. Suo zio. La persona più importante della sua vita. Sulla sua spalla pianse parecchie lacrime di gioia, cullata dalla sua stretta paterna, mentre una mano le accarezzava dolcemente la testa. Non si dissero niente. Non c'erano parole da dire, in quel momento.

***
 
Due ore più tardi...

Elettra, dopo l'udienza era tornata a casa, si era fatta un bagno caldo e si era preparata: suo zio avrebbe dato una piccola cena, a casa, per festeggiare il proscioglimento da tutte le accuse. La ragazza aveva optato per un lungo ed elegante abito di broccato rosso, con la gonna ampia, ma non eccessiva. L'abito aveva un corsetto molto stretto ma, per una volta, cercò di non farci troppo caso. Si truccò e acconciò i capelli in uno chignon basso, appena sopra la nuca.
Prima di andare a casa dello zio, dovette passare dal proprio ufficio per prendere alcune carte, visto che  il giorno dopo si sarebbe data certamente malata: una volta finita la cena sarebbe andata a festeggiare al Cane Abbaiante.
Già che era a Palazzo della Signoria decise di andare a trovare il Conte Riario: le sembrava di non averlo ringraziato a dovere, prima, in tribunale. Doveva assolutamente ringraziarlo. Poche parole di cortesia e poi se ne sarebbe andata.
Arrivò davanti alla sua porta e, mentre con una mano bussava delicatamente, con l'altra stringeva al proprio petto la cartelletta contenente quei documenti importanti.
Al sentire i colpi alla porta, Riario si stupì. Non aspettava visite. Quasi seccato, lasciò cadere la camicia nera sul letto. Aveva appena finito di fare un bagno e si stava rivestendo. Aveva avuto giusto il tempo di indossare i pantaloni e gli stivali. Automaticamente si tolse le due collane che portava al collo: un rosario d'argento e la seconda chiave per aprire la volta celeste, nascondendole in un cassetto. Dopodichè andò ad aprire la porta. "Salve", disse sorpreso, mentre faceva cenno ad Elettra di entrare. 
"Salve, Conte", rispose lei facendo qualche passo dentro la stanza. Indugiò per un tempo che considerò troppo lungo sugli addominali scolpiti del Conte. Arrossì imbarazzata, abbassando lo sguardo. Potevano fare invidia a quelli delle statue di età classica, pensò, arrossendo ulteriormente.
"Posso chiedervo come mai siete qui?"
"Volevo ringraziarvi, per tutto quello che avete fatto per me e per mio zio", gli rispose lei con un largo sorriso. Tuttavia non riusciva a guardarlo, era ancora troppo imbarazzata. Guardava ovunque per le stanza tranne che nei suoi occhi. E non sapeva spiegarsi il perchè. Ne aveva visti a decine, di modelli, decisamente meno vestiti del Conte, anzi, non vestiti affatto, eppure non si era mai sentita in imbarazzo con loro.
Riario parve felice di sentire quelle parole,  ma la sua faccia si fece improvvisamente seria. "C'è una questione di cui vorrei parlarvi, madonna. Riguarda il vostro debito nei miei confronti. Avreste un po' di tempo da dedicarmi?". Visto come fosse elegante, aveva di certo un impegno.
Elettra indugiò un po'. Non era certa di volerlo ascoltare. Doveva inventarsi una scusa plausibile. "Posso concedervi dieci minuti"
Riario ridacchiò. "Avete esitato a rispondere quindi ditemi, quanto tempo avete in realtà?"
Un'ora? No,non poteva di certo dirgli così. Era davvero troppo tempo. "Come fate a sapere che sto mentendo?"
Le sorrise, con quel suo solito sorriso tagliente. "Sto molto attento a voi. Avete dimostrato più volte di essere ben più pericolosa di quanto possiate apparire. Quindi non mi fido di voi"
Elettra sembrò offesa, cosa che divertì il Conte ancora di più. "Perchè, voi di me vi fidate?", le chiese ironico.
Lei aprì la bocca per parlare, ma da essa non uscì nulla. Lui aveva ragione, ma le sembrava davvero poco carino dirlo. "Come immaginavo", disse Riario. "Appurato che non potete mentirmi senza che io me ne accorga, quanto tempo potete dedicarmi?"
Non le restava che dire la verità. "Alle sette e mezza ho una cena da mio zio...ma contavo di andare la in anticipo"
Il Conte si mise a ridere. Forse era la prima volta che Elettra lo sentiva ridere di gusto. La sua risata era strana, ma piacevole da udire. Senz'altro era meglio di quel suo solito ghigno da presa per i fondelli. "Neanche il Divino con un miracolo riuscirebbe a farvi arrivare in anticipo ad un appuntamento!"
Ma come si permetteva?! Elettra prese un lungo respiro. "Visto che ho tempo, parlate dunque", disse sarcastica.
"Era proprio quello che volevo sentirvi dire", disse Riario andando alla porta.
Lei dava le spalle all'entrata e non aveva alcuna intenzione di girarsi. Si guardava ovunque intorno, cercando di evitare con lo sguardo i pettorali del Conte. Lo sentì dare due giri di chiave alla porta. In un certo era come essere in trappola. Dovette sforzarsi, per resistere all'impulso di scappare. 
Lui si dispose proprio dietro di lei. Elettra poteva sentire il suo respiro sul proprio collo e il suo corpo quasi sfiorare il suo. Il suo cuore cominciò a battere sempre più forte.
"Immagino che vorrete informazioni sul Libro delle Lamine", sussurrò timorosa.
Lui rise. Rise sulla sua pelle. "Non è quello a cui stavo pensando", le disse dandole un piccolo bacio tra la scapola e l'attaccatura del collo.
Elettra si irrigidì ancora di più, a quel contatto inaspettato, mentre un brivido le attraversava la schiena. "Di cosa si tratta, allora?". Temeva di saperlo, ma voleva comunque una conferma.
Girolamo si umettò le labbra,  in cerca delle parole giuste da dire. "Mettiamola così: quando saremo in compagnia di altre persone io sarò il freddo e apatico Conte di Imola e Forlì e voi l'affabile collaboratrice dei Medici che dispensa sorrisi a chiunque ne abbia bisogno", fece una pausa, per amplificare il significato delle sue successive parole, "Ma quando saremo soli... sarò tutt'altro che freddo con voi". Detto questo la fece girare, in modo da poterla guardare negli occhi e, senza pensarci due volte, la baciò con tutto l'ardore e la passione di cui era capace. Non sapeva neanche lui, come aveva fatto fino a quel momento a resistere a quella tentazione; o forse lo sapeva: gli piaceva giocare, con le sue prede. E poi era un ottimo, giocatore. E lei era il trofeo più ambito.
Elettra era rimasta impietrita, da quelle parole. Ma non aveva neanche avuto il tempo di riprendersi che si era ritrovata schiacciata contro il suo petto, mentre la lingua impaziente del Conte cercava la sua. Il suo cervello le diceva a gran voce di scappare mentre il cuore era andato completamente in tilt. Provò a divincolarsi ma non ci riuscì. In preda al panico gli morse in modo non molto delicato il labbro, nel tentativo di farlo desistere, ma ottenne esattamente l'opposto: Girolamo rafforzò con un braccio la stretta ai finchi della ragazza, facendo aderire ancora di più i loro corpi, mentre l'altro si posò sulla sua nuca, intensificando il bacio. Dopodichè cominciò a disfarle lo chignon. 'Deve avere un problema con i capelli legati', pensò Elettra.
"Siete molto più bella con i capelli sciolti, mia diletta", le disse quasi leggendole nel pensiero, mentre si staccava per un attimo da lei. Avevano entrambi il fiato corto.
Cercando di mantere per più tempo possibile il contatto tra i loro occhi, Girolamo si spostò dietro di lei cominciando a slacciarle lentamente il corsetto. "Rilassatevi", le sussurrò ad un orecchio tra un bacio e l'altro sul suo collo di porcellana. "Lasciatevi andare Elettra". In effetti era più tesa della corda di un arco che sta per scoccare una frecccia ma no, non ce l'avrebbe fatta a rilassarsi. Non era mai arrivata fino a quel punto. Con nessuno.
La ragazza sussultò quando, al posto dell'ennesimo bacio, Girolamo le diede un piccolo morso. 
Dopo aver aperto completamente il corsetto, il Cinte con gesto secco tirò l'ampio vestito verso il basso. L'abito scivolò lungo le forme di Elettra, cadendole poi ai piedi. Con un sorriso soddisfatto Riario si staccò da lei e, con occhiate tutt'altro che  innocenti, le camminò intorno, studiandola.
"Non ho nessun Leonardo Da Vinci sulla mia pelle, questa volta", disse ironicamente la ragazza, per allentare un po' la tensione. Ora era ancora più in imbarazzo di prima.
Lui le sorrise. "Ve l'ho già detto che siete bellissima, mia diletta?"
Lei arrossì ancora di più. 
Poi le si riavvicinò di nuovo, tornando a baciarla. Questa volta Elettra non potè fare a meno di rispondere a  quel bacio così passionale. Girolamo provò a spingerla delicatamente verso la camera da letto ma la ragazza inizialmente non comprese il perchè di quelle spinte; dopo una spinta più assestata, anche lei cominciò ad indietreggiare verso di essa. 
Ad un certo punto Elettra finì schiacciata tra la porta chiusa della camera e il corpo del Conte. Girolamo, mentre le loro lingue si sfioravano in una lenta guerra, andando a tentoni riuscì a trovare la maniglia e, abbasandola, riuscì ad aprire la porta. Peccato che la ragazza non se l'aspettasse e quando il sostegno dietro la sua schiena scomparve, ci mancò davvero poco che cadesse all'indietro; fortunatamente il Conte la prese al volo. Si misero entrambi a ridere, staccando per un attimo le labbra uno dall'altra. Avevano entrambi il fiato corto e il cuore che batteva all'impazzata. 
Le loro bocche si avvicinarono di nuovo, mentre continuavano a camminare verso il letto. 
Elettra doveva aver calcolato male la distanza tra loro e il letto, perchè ci cadde sopra si schiena, portando Girolamo con sè, che finì proprio sopra di lei. Si misero nuovamente a ridere.
Il Conte si staccò dalle sue labbra, cominciando lentamente a scendere, lasciando una piccola scia di baci. Il collo, il suo petto, la pancia... lì. Poi riprese a salire. Elettra, seppur tendando di contenersi, non riusciva a smettere di ridere. Girolamo lasciò per un attimo perdere quello che stava facendo e, appoggiando il mento sulla pancia della ragazza, si mise ad osservarla negli occhi. "Cosa vi fa ridere così tanto, mia diletta?", le chiese con un sorriso sulle labbra.
"Dovreste tagliarvi la barba, Conte", rispose lei ridendo, "Mi state facendo il solletico"
"Se vi da piacere, sarò lieto di farmela crescere ancora di più", disse lui ironico. Almeno da questo lato erano uguali: entrambi facevano tutto l'opposto di quello che gli veniva detto. Per dimostrarle che aveva compreso le sue parole si portò leggermente in avanti, strofinando quel leggero accenno di barba tra i seni di Elettra, mentre lei gli scompigliava i capelli. Le sue risate aumentarono di intensità. A Girolamo quella risata cristallina era sempre piaciuta tanto.
"Siete pronta, mia diletta?", le sussurrò dolcemente ad un orecchio, mentre con una mano si abbassava i pantaloni.
"Pronta per cosa, mio signore?", chiese lei maliziosamente. Lo sapeva bene, ma l'ironia era una sue delle caratteristiche più marcate.
Girolamo la fece sua in quel momento. 
Inizialmente Elettra si irrigidì: era una sensazione strana; ma poi su lasciò trasportare da un vortice di puro piacere.
Nel momento più intenso represse un gemito mordendo il labbro di lui.
Quando l'amplesso si concluse si spostò mettendosi di fianco a lei e stringendola forte a sè.
"E' stato piacevole, mia diletta?", le chiese ancora ansante.
"Potrebbe", rispose lei accarezzandogli delicatamente il petto scolpito. Non gliela avrebbe mai data vinta, ammettendolo. Ma il sorriso soddisfatto che le era comparso sul volto la tradiva. 
Seppur di mala voglia, Elettra si staccò da Girolamo. Raccolse i suoi vestiti, si rivestì, si risistemò il trucco e i capelli ed uscì, stando ben attenta a non farsi vedere da nessuno. Tanto per cambiare sarebbe arrivata da Gentile Brcchi in ritardo.

Mentre era per strada non fece a meno di pensare: un innocente era stato salvato ma, altri due, avevano perso la loro innocenza. Elettra ripensò a quel poveretto condannato al posto di suo zio: non aveva nessuna colpa eppure stava vivendo le pene dell'inferno. A lei non restava altro che sperare che il boia fosse misericordioso.


Nda
Colpo di scena , che in realtà non è un colpo di scena perchè ve lo aspettavate già.
Sono stata veloce a postarlo (e sono pure sopravvissuta al mio primo giorno da universitaria)
 

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Capitolo 23
*** Incontri inaspettati ***


Capitolo XIX: Incontri Inaspettati

Alcune settimane più tardi...

Elettra era impegnatissima con il progetto della biblioteca: ormai mancava davvero poco alla presentazione pubblica. Passava quasi tutto il suo tempo nella bottega del Verrocchio. 
"Trasferisciti qui in via definitiva già che ci sei", le aveva detto scherzosamente Loenardo. Non aveva tutti i torti, in fondo: alle volte restava là fino a tarda notte e capitava spesso che dormisse da lui. 
A Palazzo della Signoria ci andava veramente poco, solo se era strettamente necessario. Di conseguenza aveva visto Girolamo poche volte e sempre in pubblico; per un po' il Conte si sarebbe dovuto accontentare solo delle occhiate furtive che si lanciavano quando si incontravano nei corridoi. Forse era meglio così, si convinse Elettra. Quello che era successo era stato fantastico ma si sentiva in colpa: insomma, era pur sempre finita a letto con un nemico di Firenze! Se avesse potuto, avrebbe evitato Riario il più a lungo possibile.

Quella notte Elettra aveva deciso che avrebbe dedicato un po' di tempo alla sua più grande passione: la pittura. Era da troppo tempo che non prendeva un pennello in mano, non aveva mai tempo. 
Si trovava nella soffitta di casa sua, ovvero nel luogo che prediligeva di più; era disordinato polveroso e parecchio caotico, proprio come la bottega di un artista. 
Il carillon che aveva preso dalla casa dei suoi genitori rilasciava nell'aria una lenta e dolce melodia, quasi una ninna nanna, mentre sul cavalletto dell'artista, un volto prendeva forma. Elettra si sentiva rilassata e felice. Libera.
Non si accorse che qualcuno era entrato in casa, non si accorse neanche che la botola alle sue spalle, che portava al piano inferiore, si fosse aperta e che una figura in abiti scuri avesse fatto il suo ingresso nella soffitta.
Lui la guardò mentre dipingeva: indossava una camicia quasi sicuramente maschile, che le arrivava fino a metà coscia e nient'altro. Era a piedi scalzi e, nonostante avesse il viso e le mani sporche di pittura, era pur sempre bellissima. Gli era mancata.
Senza pensarci due volte le si era avvicinato di soppiatto, arrivando quasi a sfiorarla, senza che lei si accorgesse di nulla. Doveva essere davvero molto concentrata, per non notarlo. Stava dipingendo un ritratto di Gentile Becchi.
Ormai era lì, a pochi centimetri da lei. Doveva pur fare qualcosa, per farle capire che era lì. "Salve, mia diletta", le sussurrò ad un orecchio.
Vide la ragazza irrigidirsi e lasciar cadere a terra la piccola ampolla che teneva in mano. Una chiazza di tempera celeste cominciò ad allargarsi sul pavimento di legno. "Come fate a sapere che abito qui?". Incontrarsi a Palazzo della Signoria era un conto, ma ritrovarsi Riario in casa propria era un'altro.
E poi come si permetteva di salire fino in soffitta?! Nessuno aveva il permesso di salire in soffitta! Neanche Maria. Ed ecco spiegato il perchè essa fosse così polverosa.
"Ho i miei metodi", rispose lui con la sua solita espressione fredda.
Non lo voleva lì. Sospirò. "La porta era chiusa a chiave", gli fece notare, seria in volto.
"Voi non vi siete mai fatta problemi riguardo a questo", disse sarcastico.
A Elettra sarebbe piaciuto ribattere ma la sua bocca restò aperta, senza che ne uscisse alcun suono: per una volta Girolamo aveva ragione. Sbuffò irritata, mentre raccoglieva da terra la boccetta ormai completamente vuota; inevitabilmente si sporcò qualche dito di celeste. Il Conte alle sue spalle se la ghignava di gusto, cosa che la seccò ancora di più. Le venne un'idea. Guardò prima Riario e poi le sue dita con la pittura fresca. Sorrise fra sè e sè e gli si avvicnò cercando di sembrare il più seducente possibile. 
Girolamo abbassò la guardia, concentrandosi unicamente sui suoi occhi azzurri. Esattamente quello che Elettra voleva. Avvicinò il proprio volto al suo, le loro labbra quasi si sfiorano. Fu quando il Conte chiuse gli occhi, cercando di annullare quella distanza, che la ragazza agì: fece un passo indietro e poi toccò con un dito sporco di vernice il suo naso , lasciandoci una bella macchia color celeste.
Lui aprì gli occhi sorpreso e cercò di osservarsi il naso. La sua espressione in quel momento doveva essere parecchio buffa, perchè Elettra si mise a ridere.
Riario alzò un sopracciglio, contrariato. "Mi vendicherò presto, molto presto", le disse con tono intimidatorio. Vi era però una vena di ironia, nelle sue parole. 
"Come pensate di vendicarvi, mio signore?", chiese Elettra con tono malizioso, cercando di rimanere seria. Era chiaro che sarebbe scoppiata a ridere da un momento all'altro.
Per tutta risposta il Conte si passò la lingua sulle labbra, in un gesto più che eloquente. Lei si morse un labbro, cercando con tutte le sue forze di non ridere. "Sapete che uno dei giri di ronda delle guardie della notte passa proprio qui davanti?", gli disse avvicinandosi alla piccola finestra, l'unica presente nella soffitta. "Oh guardate, Conte, il Capitano Dragonetti sta passando ora", continuò con quel suo tono impertinente che Girolamo amava e odiava allo stesso tempo. "Salve, Capitano!", urlò sporgendosi fuori.  
Riario vide l'altro rispondere al saluto e poi fare segno ad Elettra di evitare di fare baccano. Peccato che ormai era troppo tardi. "C'è più di un cimitero a Firenze. Pensate di svegliare anche i morti con il tono della vostra voce?", disse ironico con uno dei suoi soliti sorrisi taglienti.
"A questo ci dovrebbere pensare il vostro Dio, no?", ribattè lei sarcastica. "Comunque, tornando alla questione di prima: voi fate un passo falso, io urlo e il Capitano Dragonetti irrompe qui con i suoi uomini", concluse Elettra.
"Mi state forse minacciando, mia diletta?". Ora sì che si stava davvero divertendo.
"Avete una mente arguta, Conte. Traetene voi le dovute conclusioni"
Girolamo scoppiò a ridere. Elettra doveva considerarsi davvero fortunata: era una tra le pochissime persone al mondo che potevano minacciare così apertamente Girolamo Riario, senza subirne le conseguenze. "Dovreste soppesare di più le parole che intendete usare", le disse quasi sussurrando, "O potreste finire in spiacevoli situazioni". Detto questo, con un veloce gesto, prese Elettra in braccio. Nonostante il modo di fare non molto delicato del Conte, lei si mise a ridere. "Non intendete urlare?", la canzonò. I loro visi erano talmente vicini che le loro labbra quasi si sfioravano. "Magari più tardi", disse Elettra sporgendosi in avanti, per poter toccare quelle labbra. Lui non aspettava altro e rispose al bacio con altrettanta passione.
Girolamo, dopo aver liberato un vecchio comò  da tutte le scartoffie che lo ricoprivano, buttandole a terra, vi appoggiò Elettra.
"Quegli schizzi li avevo appena messi in ordine!", si lamentò lei, staccando per un attimo le labbra da quelle del Conte. Lui in risposta, alzò un sopracciglio, perplesso. Lo stava prendendo in giro o cosa? "Voi siete siete disordinata, irresponsabile, impertinente e..."
"Si, lo so che ho molti difetti. Ma se vi ho colpito così tanto un motivo ci sarà"
"Io non ho mai detto che li considero dei difetti", disse, "Specialmente la vostra impertieneza, la trovo molto... eccitante", le sussurrò ad un orecchio.
Elettra si morse un labbro, trattenendo a stento una risatina. Prese il viso di Girolamo tra le mani e lo avvicinò al suo, unendo nuovamente le loro labbra. Le mani della ragazza erano ancora sporche di vernice e, involontariamente, colorò le sue guance di azzurro, rosso, verde e altre tonalità indefinite. Dopodichè lasciò scendere le sue mano fino al petto del Conte cominciando a slacciare bottone per bottone la sua casacca nera; nel mentre sentiva le mani di Girolamo passare sulle sue cosce, tra le sue cosce, divaricarle appena e posizionarsi nel mezzo.
Lo aiutò a togliersi la giacca e poi passò ad aprire la camicia. Nel frattempo il Conte incominciò a slacciarsi i pantaloni. Avevano entrambi il fiato corto e il cuore che batteva all'impazzata.
"Al piano di sotto ho una camera da letto, sapete?", gli disse Elettra.
"Potremmo utilizzare anch'essa, più tardi", sussurrò lui con voce roca.
"Potremmo" 
 
 ***

Qualche ora più tardi...

Elettra si svegliò nel suo letto, stretta tra le braccia di Girolamo. Aveva sete e così, facendo attenzione a non svegliarlo, aveva sciolto quel rassicurante abbraccio. Si sentiva protetta, quando si trovava con lui. Un senso di protezione che non provava da molto tempo; prova di questo era il fatto che quella notte non aveva neanche messo il suo piccolo pugnale sotto il cuscino. 
Indossò una vestaglia e scese le scale con l'intenzione di dirigersi in cucina a prendere un bicchiere d'acqua, ma poi, una volta arrivata in fondo, si ricordò di quell'invitante bottiglia di whisky, appena arrivata dall'Inghilterra. Cambiò direzione e, invece di svoltare a destra, vero la sala da pranzo e la cucina, si diresse a sinistra, verso il salotto. Là, sul mobile vicino allo stipite della porta, ci stava quella fantastica bottoglia. Fece un passo all'interno della stanza e, immediatamente, tutte le candele presenti si accesero; una calda luce si propagò nell'ambiente. Elettra si guardò intorno, parecchio stupita. Era davvero convinta di essere sveglia, di non stare ancora dormendo. Ma, visto quello che stava succedendo, non doveva essere così. 
"Ahi!", le scappò dopo essersi data da sola un pizzicotto. Le avevano detto che funzionava...
"Non state sognando, Elettra", disse una voce che la ragazza conosceva bene.
Lei guardò nella direzione da cui proveniva la voce, sorridendo tra sè e sè per non averlo capito subito. Ovviamente, chi altri poteva fare quelle entrate così ad effetto? 
Al-Rahim, seduto comodamente su una delle eleganti poltrone del salotto, le sorrise a sua volta. Le fece segno di avvicinarsi e di sedersi anche lei.
"Visto che il vostro amichetto non disturba più i miei sogni, mi sembra ovvio che i Figli di Mitra abbiano mandato qualcun'altro ad infastidirmi", disse Elettra con sarcasmo.
"Quando vi siete tolta il vostro ciondolo, durante la vostra ultima visita alla biblioteca, il contatto è stato interrotto. Ci vuole un po' di tempo, per ricrearlo"
"Fantastico...", ribattè lei con ancora più sarcasmo, "E io che pensavo che mi avreste lasciata in pace"
"Voi siete una risorsa troppo importante per la confraternita. Non possiamo di certo lasciarvi andare così"
"Ovviamente...". Il tono della sua voce avrebbe fatto desistere chiunque, dal continuare quel discorso. Chiunque tranne Al-Rahim. Quell'uomo era dannatamente testardo. Ma mai quanto Elettra. "Posso almeno sapere perchè siete qui?".  
"Per parlarvi di alcune importanti questioni riguardanti voi e il Libro delle Lamine"
"Il Libro delle Lamine... mi sembrava troppo strano che voi foste venuto qui per parlare d'altro". Sospirò seccata mentre si dirigeva verso il mobile su cui era appoggiata la bottiglia di whisky. Se prima essa era solo una possibilità, ora si era resa necessaria. "Volete anche voi?", gli chiese cercando di sembrare gentile; dovette sforzarsi parecchio ma il risultato non fu un granchè.
"Volentieri, grazie", rispose il Turco.
Elettra riempì i due bicchierini e poi appoggiò il tutto sul tavolino al centro del salotto, sedensosi poi dall'altra parte, rispetto ad Al-Rahim, dando così le spalle alla porta.
"Alla fine ce l'avete fatta a salvare vostro zio", commentò il Turco.
"E senza l'aiuto vostro o della vostra preziosa confraternita", gli fece notare la ragazza.
"Volevo congratularmi con voi, vi abbiamo sottovalutata. Non avremmo mai creduto che ce l'avreste fatta"
Elettra gli sorrise nervosa. Era vero. Ce l'aveva fatta. Ma quanto aveva dovuto sacrificare? Se Al-Rahim avesse saputo anche solo la metà delle cose che aveva dovuto fare, probabilmente non si sarebbe mai congratulato con lei.
"So quello che avete fatto", le disse facendola impallidire. "I Figli di Mitra sono informati su ogni vostra mossa". Sapeva anche leggere nel pensiero?
"Non vado fiera di quello che ho fatto, ma era necessario. Non avevo altra scelta". Il tono di voce di Elettra era serio e sicuro.
"Noi avevamo predetto la morte di Gentile Becchi ma voi siete riuscita a modificare il corso degli eventi. Non è cosa da poco". Sulle sue labbra comparve un sorriso soddisfatto. "Siete più potente di quanto pensassimo"
Elettra lo guardò perplessa, per la prima volta senza parole. 
"Tornando al motivo per cui sono venuto qui... Vorrei chiedervi cos'è successo il 13 giugno di otto anni fa", disse il Turco.
Alla ragazza si gelò il sangue nelle vene: era il giorno in cui Lucrezia e sua madre erano scomparse. Non parlava mai di quel giorno. Era una ferita che non si era mai rimarginata completamente. "Non c'è proprio niente da dire su quel giorno!", sbottò.
"C'è molto da dire, invece". Al-Rahim con lei aveva sempre un tono quasi paterno e paziente. "Fidatevi di me, Elettra"
Lei lo guardò con gli occhi che cominciavano a riempirsi di lacrime. "Non posso", sussurrò. Sapeva che appena avrebbe provato a riportare quei ricordi alla mente, avrebbe avuto un attacco di panico. Era sempre così, quando pensava a quel giorno.
"Si che potete", disse dolcemente il Turco, "Ora chiudete gli occhi e concentratevi sul suono della mia voce. Pensate solo al suono della mia voce e a nient'altro"
"Mi volete mettere sotto ipnosi?". Elettra non era per niente convinta di volerlo fare.
"Qualcosa del genere". Il sorriso di Al-Rahim era davvero convincente.
La ragazza, seppur controvoglia, tentò di rilassarsi, mettendosi più comoda sul divano, e chiuse gli occhi. Con una mano stringeva forte il suo ciondolo a forma di cuore. Lo faceva sempre, quando era nervosa.
"Ora ditemi cos'è successo quel giorno".
Nell'aria si diffuse uno strano odore che ricordava vagamente delle fragranze orientali. Ed Elettra si perse nei suoi ricordi.

Il viaggio in carrozza sembrava non finire mai. Le mura di Firenze erano solo una linea indefinita all'orizzonte e davanti vi erano solo prati e la campagna toscana.
"Siamo quasi arrivati?", chiese Elettra annoiata. Odiava i viaggi in carrozza. E in quel momento odiava anche sua madre: a quell'ora doveva essere con Giuliano a testare il nuovo arco che le aveva dato papà, non chissà dove in una carrozza! L'unico lato positivo era che almeno avrebbe passato un po' di tempo con Lucrezia.
Sua madre si limitò ad osservarla, senza proferire parola. La bambina si mise a studiarla con i suoi grandi occhi azzurri: poteva quasi vedere un lampo di paura e preoccupazione, nelle iridi della sua mamma. Nonostante quella donna non le dimostrava mai il suo affetto, provò un po' di pena per lei. Istintivamente le si mise di fianco e le strinse una mano. Si sarebbe aspettata un insulto da un momento all'altro, invece lei ricambiò, sorridendole.
"Siamo arrivati", disse Anna dopo diversi minuti. Fece cenno al cocchiere di fermarsi. "Ora voi restate qui. Per nessun motivo dovete scendere dalla carrozza. Intesi?". Le bambine annuirono. Sospirò, come se volesse scacciare un po' di tensione, e scese.
Elettra la vide dirigersi verso una donna che se ne stava immobile, in mezzo alla strada. Portava un lungo mantello scuro, con tanto di cappuccio a coprirle il volto, tipico di chi vuole passare inosservato. Quando Anna le fu vicina, la vide abbassarsi il cappuccio, scoprendo un volto dalle fattezze medio orientali. 
Le vide discutere a lungo. Dai gesti, quella donna sembrava essere parecchio agitata. Con una punta di preoccupazione, notò che anche sua madre aveva qualcosa che non andava. 
"Riesci a capire cosa si dicono?". La voce dolce di Lucrezia la riportò alla realtà. Distolse lo sguardo dalla scena fuori dal finestrino e scosse la testa. Quando tornò a guardare, la donna misteriosa non c'era più. Spalancò gli occhi, stupefatta. 
Vide sua madre tornare a lunghi passi verso di loro. 
Nel mentre da una collinetta poco lontano arrivarono un gruppetto di cavalieri; Elettra si accorse del loro arrivo dal rumore degli zoccoli dei cavalli. Spostò la sua attenzione da Anna a quegli uomini: erano completamente vestiti di nero ed indossavano degli strani elmi. Non le piacevano per niente. 
Dimenticandosi delle raccomandazione fatte poco prima, si sporse fuori dal finestrino, indicando alla mamma quelle losche figure. Lei si mise a correre, facendo segno di far partire la carrozza. 
Elettra vide uno di quegli uomini prendere un arco e mirare ad Anna, colpendola di striscio. Sua madre cadde a terra, sembrava svenuta. Lucrezia si mise ad urlare.
L'arcere lanciò una seconda freccia, colpendo alla testa il cocchiere. 
Elettra osservò l'uomo alla testa del gruppo smontare da cavallo ed avvicinarsi alla sua mamma, ancora a terra. 
No, non poteva permettere che le vacessero del male. 
Prese in mano il suo arco e, ignorando i singhiozzi disperati di Lucrezia, tirò fuori un dardo dalla faretra. Cercando di farsi notare il meno possibile, prese la mira e scoccò. La freccia andò a conficcasi nella gamba dell'uomo che cadde a terra urlando dal dolore. I banditi si guardarono, spiazzati da quell'improvvisa imboscata. Aprofittando della momentanea distrazione, Eletra scagliò un altro dardo, che però colpì l'erba.
Uno degli uomini indicò agli altri la carrozza: erano state scoperte.
"Quando ti dico di correre, tu corri", disse a Lucrezia. Lei, tra una lacrima e l'altra, annuì. Si acquattarono sul pavimento, pronte a scattare al segnare. Elettra  incoccò un'altra freccia, pronta a scagliarla se ce ne fosse stato bisogno. 
La maniglia della portiera si abbassò. 
L'arco si tese ancora di più.
Uno di quei banditi fece la sua comparsa nell'abitacolo. Istintivamente la bambina lasciò la corda e il dardo partì, andando a conficcarsi nella fronte dell'uomo, che cadde a terra morto. 
Elettra lasciò cadere l'arco, spaventata da quello che aveva appena fatto. Ci pensò Lucrezia, a farla tornare alla realtà. "Elettra, dobbiamo andarcene di qui!", disse strattonando la  giacchetta della gemella.
A quel punto la bambina non ci pensò due volte e si mise a correre, seguita a ruota dalla sorella. 
Elettra non seppe dire, per quanto tempo aveva corso. Si fermò solo quando sentì le gambe incominciare a cedere. Si trovava nel bel mezzo di un campo di grano. Si guardò intorno, cercando Lucrezia. La chiamò fino a quando ebbe esaurito tutta la voce. Non ottenne mai una risposta.
Si nascose in un fosso lì vicino, lasciandosi andare allo sconforto. Non sapeva ancora dare un nome alla sensazione di sentire la propria gola restringersi a poco a poco e a quel cuore che si era messo a battere all'impazzata, ma lo avrebbe trovato presto.


Elettra aprì gli gli occhi di scatto e provò a tirarsi su, ma venne bloccata da due mani che la costrinsero a stendersi nuovamente sul divano. Faticava a respirare e le sue guance erano solcata da due lacrime che sembrava non avessero mai fine.
Si ricordava tutto. Si ricordava di aver visto sua madre essere colpita da una freccia. Si ricordava di aver ucciso un uomo. E si ricordava di non essersi mai voltata per controllare che Lucrezia fosse dietro di lei.
"L'ho abbandonata... io...io ho abbandonato Lucrezia", sussurrò tra un singhiozzo e l'altro. 
"Avevate solo dieci anni, non potevate fare niente di più", provò a rassicurarla il Turco, "Siete stata brava". Sul suo volto comparve un luminoso sorriso.
Lei scosse la testa: non aveva fatto assolutamente niente, per meritarsi quel complimento.
"Grazie ai vostri ricordi ora ho una certezza in più", disse Al-Rahim.
"Sono morte. Lucrezia è morta..."
"Io credo invece che loro siano ancora vive"
"Come avete detto?". Elettra non era certa di aver sentito bene. Dalla sorpresa si tirò di colpo in piedi, ma dovette risedersi sul divano e chiudere gli occhi: il mondo girava parecchio intorno a lei.
"Avete capito bene"
"Come fate ad esserne così certo?". No, non poteva ancora crederci.
"Non ne ho la certezza assoluta ma, se fossero morte, lo avremmo saputo. Come ben sapete noi Figli di Mitra siamo in grado di superare il limite che divide la vita dalla morte"
"E dove sono? Perchè Lucrezia non è tornata da me?"
"A questa domanda non posso ancora darvi una risposta."
Sospirò a metà tra lo stupefatta e lo sconfortata: certo, la sua amatissima gemella era probabilemente viva ma, per non aver dato notizie di sè in tutti quegli anni, doveva esserle successo senz'altro qualcosa. 'Oppure se ne è andata perchè tu, papà e Aramis non potevate capirle. Voi non eravate dei Figli di Mitra.', le sibilò la propria coscienza. No. Elettra scacciò via quel brutto pensiero. Sua sorella non l'avrebbe mai abbandonata così.
"C'è un'altra questione di cui vorrei discutere con voi", disse Al-Rahm interrompendo i suoi pensieri pessimisti.
Per Elettra ora era difficile concentrarsi su qualcos'altro che non fosse Lucrezia. Gli fece cenno di proseguire, cercando (almeno) di apparire attenta alle parole parole del Turco.
"Chi sarà l'architetto della biblioteca che avete progettato?". Al-Rahim lo sapeva già, ma preferiva comunque chiederglielo.
"Bartolomeo della Gatta", rispose lei. Era stato un allievo del Verrocchio. Lo conosceva bene e si fidava di lui, abbastanza da affidargli la sua opera.
"E' un Figlio di Mitra"
Quella rivelazione la spiazzò completamente. Si chiese se l'uomo che aveva davanti avesse già previsto tutto. "Che cosa?"
Il Turco la guardò quasi divertito e le porse delle carte che aveva portato con sè. 
Elettra riconobbe subito che il progetto disegnato su di esse era quello della sua biblioteca. Ma c'era qualcosa in più.
"Ci siamo permessi di apportare qualche modifica", disse  Al-Rahim. 
La ragazza gli tirò un occhiataccia: come si erano permessi, quei Figli di Mitra, di modificare una sua creatura?! 
"Sapete, Elettra, Zenodoto costruì la biblioteca d'Alessandria con un scopo ben preciso: creare un qualcosa in cui si potesse preservare e diffondere le conoscenza"
"Si dice che essa fosse la più grande biblioteca mai realizzata", gli fece notare lei.
"Ma la conoscenza di cui stiamo parlando è tutt'altra: la biblioteca fu costruita per ospitare il Libro delle Lamine. Il resta era solo pura facciata"
La ragazza lo guardò stupita. Aveva immaginato che il libro doveva essere stato lì, in una qualche epoca lontana, ma non si aspettava di certo che quello di custodirlo fosse lo scopo principale.
"Come ben sapete la biblioteca andò a fuoco circa un migliaio di anni fa"
"Nel 642. Furono gli arabi a bruciarla"
"Esattamente". Sul volto del Turco comparve un sorriso soddisfatto. "I Figli di Mitra riuscirono a portare via il Libro delle Lamine prima che la distruzione fosse completa e lo portarono in un luogo lontano"
"La terra ad occidente, nella mappa di Leonardo"
Annuì soddisfatto. Era riuscito ad attirare la completa attenzione della ragazza. "Quando voi e Da Vinci troverete il libro, esso verrà messo nella camera sotterranea che abbiamo aggiunto al progetto. Firenze è la città giusta per preservare il Libro delle Lamine. La vostra sarà una nuova e gloriosa biblioteca d'Alessandria", concluse in bellezza.
"Una volta trovato, il Libro delle Lamine verrà portato a Roma, negli archivi segreti vaticani", disse una voce alle spalle di Elettra. Era una voce fredda, che la ragazza conosceva fin troppo bene. Sobbalzò, più di paura che di sorpresa.
Girolamo Riario entrò nella stanza con passo lento e sicuro. Aveva sentito tutto, dalla descrizione dell'agguato di otto anni fa, fino alle notizie riguardanti il Libro delle Lamine e i Figli di Mitra. Avrebbe avuto parecchio da riferire a Sua Santità nella prossima missiva.
Elettra si girò per osservarlo meglio: lo vedeva dal suo sguardo che stava celando tutta la sua ostilità dietro quell'espressione glaciale e quel sorriso affilato; era pronto a scattare ed affondare la sua spada nel corpo del Turco. "Il libro non verrà mai a Roma con voi", ribattè convinta, alzandosi dal divanetto.
Lui le lanciò un occhiata di fuoco. "Vi ho detto più volte di prestare cautela a quello che dite, Elettra", le disse a denti stretti.
"E così ci rivediamo, Conte Riario", lo salutò il Turco, facendo stupire notevolemente la ragazza.
"Come fate a conoscervi già?", chiese stranita e un po' confusa.
"Chi persegue gli stessi obbiettivi è inevitabile che prima o poi si scontri", rispose Al-Rahim.
Lo sguardo di Elettra passò dal Turco a Riario, in cerca di una risposta più soddisfacente. Nessuno dei due però aveva più proferito parola; si limitavano a studiarsi a vicenda.  La ragazza notò che la mano del Conte stava indugiando un po' troppo sull'elsa della spada. Stava per far notare a Girolamo che forse era il caso di abbassare le armi, quando lo vide estrarre del tutto la propria lama e, con un gesto fulmineo, avventarsi su Al-Rahim. Quest'ultimo, poco prima di essere colpito, scomparve in una nuvola di fumo.
Quando la nube si diradò, di lui non vi era più traccia.
"Dov'è andato?", sibilò ad Elettra, puntandole contro la spada. 
Lei lo guardò terrorizzata: non lo aveva mai visto così furioso. "Girolamo, calmatevi", gli sussurrò facendo un passo in avanti. "Secondo voi quell'uomo viene a dire a me dove va? Credo che mi abbiate confusa con qualcun'altro", ironizzò.
Quella parole sembrarono rilassarlo un po' di più; rinfoderò la propria lama. Aveva capito di aver sbagliato, a prendersela con lei. Sospirò. Sapeva benissimo cosa le avrebbe fatto piacere sentirsi dire, ma il suo orgoglio non gli permisi di pronunciare quelle semplici cinque lettere. "Siamo su fronti opposti anche per la ricerca del Libro delle Lamine", notò amareggiato.
"Dovremmo aggiungere una clausola al nostro contratto, Conte", disse lei facendo qualche passo in avanti e portandosi a breve distanza da lui.
"Cosa avete in mente, mia diletta?", chiese Girolamo avvicinandosi ancora di più.
" Dovremmo proibirci di parlare degli affari di Roma e Firenze, o del Libro delle Lamine". Tra i loro corpi ci passava appena un foglio di carta sottile.
"Avete avuto una buona idea"
"Approvata all'unanimità?". Le loro bocche quasi si sfioravano.
"Certamente", rispose lui baciandola appassionatamente.
Girolamo avrebbe voluto approfondire ancora di più quel bacio, ma Elettra si staccò da lui. "Sarà meglio che voi andiate, ora", disse.
"E perchè mai?"
"Perchè io ora devo lavorare". Lo aveva fregato, un'altra volta.


Nda
Prima di tutto volevo ringraziare _Anaiviv e Yuliya per le loro fantastiche recensioni; seconda cosa volevo scusarmi per il ritardo.
Beh... grandi colpi di scena in questo capitolo! Forse ho un po' esagerato con la lunghezza ma le cose da dire erano molte. Fatemi sapere cosa ne pensate ;)
 

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Capitolo 24
*** La Moneta ***


Capitolo XX: La Moneta

"Leo! Leo!", urlò Elettra facendo irruzione della bottega dell'artista. La ragazza era euforica e sprizzava energia da tutti i pori. Al vedere l'ambiente ancora scuro, corse ad aprire le imposte, permettendo così alla tiepida luce dell'alba di entrare.
Un Nico ancora assonnato si alzò pigramente dal proprio giaciglio, stropicciandosi gli occhi. La guardò mentre saliva le scale. Portava sotto braccio un grosso volume rilegato in pelle nera.
"Leonardo", chiamò una volta arrivata in cima. 
"Saranno le sei di mattina, sono andato a dormire si e no un'ora fa!", mugugnò Zoroastro con le chiappe al vento, nascondendosi la testa sotto al cuscino. Il casino fatto dall'amica poco fa lo aveva evidentemente svegliato.
Elettra guardò divertita la scena che aveva davanti agli occhi: sul letto matrimoniale dell'artista vi erano Zo, completamente nudo che dormiva (ci provava, almeno) a pancia in giù e senza neanche un lenzuolo addosso e poi, dall'altro lato, un ammasso informe di coperte. Da Vinci doveva trovarsi lì sotto, ad occhio e croce. Dovevano aver bevuto parecchio al Cane Abbaiante, la sera precedente. Non era la prima volta che quei due, completamente ubriachi, finivano a letto insieme. Capitava spesso in realtà. 
La ragazza sbuffò spazientita: quello che doveva dire a Leonardo era importantissimo; non aveva neanche un minuto da perdere! Sentire Zoroastro russare, poi, la fece irritare ancora di più. Senza pensarci due volte prese saldamente il pesante libro tra le mani e lo tirò sul sedere del poveretto. 
L'urlo che Zo lanciò e i suoi successivi gesti, Elettra non se li sarebbe mai scordati: lo vide spostarsi di colpo in avanti, andando a sbattere la testa contro la testiera del letto.
Si mise a ridere, imitata nel frattempo da Leonardo che, ridestatosi dal suo letargo, aveva fatto la  sua comparsa da sotto lo spesso strato di coperte.
Anche Nico, che nel mentre era arrivato al piano superiore, alla vista dell'amico che, con una mano si massaggiava la testa e con l'altra il fondoschiena, dove aveva fatto la sua comparsa un grosso rettangolo rosso, si mise a ridere. Risero talmente tanto che avevano tutti e tre le lacrime agli occhi.
"Divertente, davvero divertente", disse Zo sarcastico, "E al povero Zoroastro e al fatto che non potrà sedersi comodamente su una sedia per i prossimi giorni perchè avrà il culo in fiamme chi ci pensa?". Sul sedere aveva stampata la sagoma del libro che Elettra si era portata appresso.
La ragazza si ricordò improvvisamente il motivo per cui era lì. "Leo, devo farti vedere una cosa". 
Nico e Zoroastro la guardarono preoccupati: aveva quell'espressione da pazza tipica di quando le veniva qualche folle idea. Leonardo invece, contagiato dall'euforia della bionda, era impaziente di sentire le novità. Ormai non ci faceva più caso all'espressione da pazza dell'amica, in fondo, era la stessa che faceva anche lui in momenti come quello. La vide sfilarsi il suo ciondolo a forma di cuore e sistemarselo sul palmo della mano. Fece scattare il meccanismo per aprirlo e poi pronunciò una semplice parola in latino: "Lux", luce.
L'intera stanza fu illuminata da una luce blu quasi accecante.
"Porca puttana!", fu il commento di Zo. Dalla sorpresa fece un balzo indietro, inciampò nei propri vestiti buttati alla rinfusa sul pavimento e cadde con il sedere a terra. Quella non era proprio la sua giornata...
Elettra chiuse la mano a pugno, facendo così sparire quella luce. Sorrise soddisfatta di sè stessa, quando vide le facce degli altri: Nico la osservava con gli occhi fuori dalle orbite e aveva un'espressione terrorizzata; Leonardo, invece, era ammutolito di fronte ad un tale artificio. Aprì la bocca per dire qualcosa ma fu interrotto dallo sbattere della porta della bottega e da un romore di passi.
"Leonardo!". Era la voce del Verrocchio. E sembrava parecchio preoccupato.
"Siamo di sopra", rispose.
Andrea arrivò al piano superiore ansimante e in camicia da notte. Teneva in mano un compasso da disegno. Si guardò in giro, come se cercasse qualcosa. "Cosa è successo qui dentro?", chiese. Vista la strana luce aveva pensato che il suo miglior allievo si fosse dato nuovamente al testare fuochi d'artificio all'interno della propria bottega.
"Niente di chè", rispose Zoroastro con finta non curanza, "Solo Elettra che ha deciso di farsi condannare per stregoneria... ma per il resto è tutto nella norma"
Il Verrocchio guardò allarmato la sua allieva. "Che cosa?!"
"Zoroastro esagera sempre", si difese lei.
"Che cos'era quella luce?". Andrea, tuttavia, non era certo di voler sentire la risposta.
Elettra ripetè i gesti che aveva fatto poco prima ma, questa volta, fece in modo che il bagliore fosse meno intenso. Si era resa conto di aver esagerato un pochino, prima.
Il suo maestro la guardò con il terrore negli occhi. Leonardo, invece, ne era sempre più affascinato. "Bambina mia, cosa hai fatto?". Il pensiero che lei e Leonardo si cacciassero in qualche grosso lo destava spesso la notte. Sapeva che prima o poi sarebbe accaduto.
"Non è fantastico?", disse lei con un sorriso a trentadue denti. Nè Elettra nè Da Vinci capivano la preoccupazione degli altri tre.
"Come ci riesci?". Leonardo era impaziente di scoprirlo.
"E' tutto qui", rispose l'amica porgendogli il grosso volume nero. Era lo stesso che avevano sfogliato il giorno del banchetto, nella biblioteca della casa della ragazza.
Leonardo lo prese fra le mani, cominciando a far girare le pagine, nel tentativo di capirci qualcosa, ma era scritto in arabo, lingua di cui l'artista non sapeva assolutamente niente. "Hai ripreso la ricerca del Libro delle Lamine", constatò felice.
"Il Turco è venuto a trovarmi stanotte". Elettra gli raccontò della biblioteca, di quello che era riuscita a ricordare dell'agguato e del fatto che Lucrezia e sua madre fossero ancora vive, almeno secondo Al-Rahim. Mentre parlava, gli occhi le divennero lucidi dalla commozione.
"Hai passato tutta la notte sui libri?". Zoroastro odiava leggere.
"Ehm... più o meno". Ovviamente dal suo reso conto sulla nottata aveva tralasciato la parte riguardante l'ospite che era andata a trovarla in soffitta.
"Ora dimmi cosa hai scoperto leggendo quel libro". Leonardo voleva sapere a tutti i costi cosa c'era scritto. Il non saper leggere l'arabo lo irritava; un giorno o l'altro se lo sarebbe fatto assolutamente insegnare.
Elettra gli sorrise, prendendo tempo. Le piaceva tenere sulle spine la gente. "Non crederai mai a quello che ho scoperto".
"Vai immediatamente al punto". Leonardo cominciava davvero a spazientirsi.
"C'è molto più di quello che riesci a vedere, sotto la superfice"
Da Vinci alzò gli occhi al cielo, chiedendosi se il Turco le avesse fatto un lavaggio del cervello, visto che parlava come lui.
La ragazza rise, capendo esattamente quello che l'amico stava pensando in quel momento. "Il ciondolo fu costruito subito dopo la distruzione della biblioteca d'Alessandria del 642"
Leonardo non si scompose. Questo lo aveva già intuito. Quello che gli interessava maggiormente era il perchè.
"E' stata usata la tecnologia del Libro delle Lamine, per costruirlo", continuò lei.
Ecco spiegato il come si illuminava.
"Perchè fu costuito?"
Elettra sorrise. Si aspettava questa domanda. "Perchè qualcuno era riuscito ad eludere gli altri sistemi a protezione del libro". Puntò il suo sguardo sulla chiave che pendeva dal collo di Leonardo.
"Le chiavi?"
"Esatto. Sono molto più antiche di quanto pensavamo"
"Aspetta", le disse Leonardo. Cominciava a capire. "Vorresti dirmi che esiste una terza chiave?"
Elettra annuì con vigore. "Il ciondolo a forma di cuore è la terza chiave"
Nella bottega calò il silenzio.
 
***

"Sulla mia moneta sono rappresentate solo due chiavi", disse Leonardo. Era il primo che osava proferire parola, da quando si erano sistemati intorno al tavolo da lavoro al piano inferiore.
Elettra osservò pensierosa la tazza con la tisana ancora fumante che teneva tra le mani. "La mia moneta era differente dalla tua e, sinceramente, non l'ho neanche osservata bene. Mi sono limitata a raccoglierla e metterla nel blocco da disegno"
"Beh, che aspetti? Tirala fuori e controlla". Per Zo era tutto molto semplice.
"Lo farei, se avessi ancora la moneta con me". La ragazza sospirò. "Riario me l'ha presa, quel giorno alle rovine"
"Fattela ridare"
"Come se fosse semplice", disse Elettra. "Cosa faccio? Vado da lui e gli dico 'Salve Conte, non è che potreste ridarmi la moneta dei Figli di Mitra che mi avete preso? Sapete, io e Da Vinci abbiamo scoperto alcune cose e quella ci serve'. Così va bene?". Il tono della sua voce era molto sarcastico.
"Falli gli occhi dolci"
"E se invece ti intrufoli nei suoi appartamente mentre non c'è?", propose Leonardo.
"Vuoi proprio che muoia giovane", commentò Zoroastro sotto gli occhi allibiti del Verrocchio.
"Senz'altro sempre meglio del tuo piano", ribattè Elettra. Non avrebbe mai fatto gli occhi dolci a Girolamo solo per farsi ridare una stupida moneta. Il suo orgoglio non glielo avrebbe mai permesso.
"Io ho sentito già abbastanza!", disse Andrea, alzandosi dalla propria sedia sconvolto.
"Non preoccupatevi, maestro. Non mi accadrà niente", provò a tranquillizzarlo Elettra.
"E poi  ci saremo anche io e Nico", aggiunse festoso Leonardo.
Questo lo preoccupò ancora di più. Il Verrocchio sospirò ed uscì dalla bottega di Da Vinci scuotendo la testa. Quei due gli avrebbero fatto venire un infarto, un giorno o l'altro.

***

Qualche ora più tardi, a Palazzo della Signoria...

Leonardo ridacchiò osservando Elettra imprecare dopo aver tentato di infilare nella serratura l'ennesima chiave sbagliata. 
"Avremmo fatto molto prima a forzare la serratura, come avevo proposto io", disse la ragazza seccata. No, quel genio di Da Vinci, invece, si era impuntato come un mulo sul fatto di utilizzare le chiavi giuste. E così Elettra si era dovuta intrufolare furtivamente nelle stanza dove la servitù teneva tutte le chiavi. Peccato che quella in questione non c'era perchè qualche servo si era dimenticato di rimetterla al suo posto. E così aveva dovuto prendere il mazzettone completo di tutte dall'alloggio di Fabrizio, con il rischio di farsi scoprire. E ora si trovava lì a cercare quale fosse quella giusta.
Tirò un sospiro di sollievo quando finalmente, alla chiave numero ventitrè, la serratura scattò.
"Vedi che ce la potevi fare", le fece notare ironico Leonardo.
La ragazza gli tirò un'occhiataccia, poi abbassò la maniglia ed entrò.

Elettra si guardò intorno, chiedendosi dove si potesse trovare la moneta. Il Conte era a pranzo dai Pazzi (tanto per cambiare) e non sarebbe tornato prima di qualche ora, ma desiderva comunque fare il più in fretta possibile.     Si disinteressò completamente dell'ampio ingresso e del salotto e si diresse verso la camera da letto; quello era il luogo secondo lei più probabile.
Cominciò a frugare qua e là nei vari cassetti e comò. Si stupì parecchio, nel constatare quanto fosse grosso l'interno dell'armadio: nascosta tra i vestiti una persona ci sarebbe stata comodamente; era grande quasi quanto quello di casa sua.

Nico, dal corridoio adiacente a quello dove si trovavano gli appartamenti di Riario, si guardava in giro nervoso. Era passato almeno un quarto d'ora da quando Elettra era entrata a cercare la moneta; quei quindici minuti a lui sembravano un'eternità. E aveva il timore di essere scoperti da un momento all'altro. 
Sussultò quando sentì dei passi rimbombare sul pavimento marmoreo. Venivano verso di lui.
Il Conte Riario comparve alla sua vista. Appunto! Elettra gli aveva ripetuto fino alla nausea di stare tranquillo, che Riario non sarebbe tornato prima di qualche ora.
Solo in quel momento Nico si ricordò che non sapeva fischiare (il fischio era il segnale d'allarme). "Salve, Conte Riario", disse con un tono di voce esageratamente  alto, per farsi sentire dai suoi compagni. La sua voce tremava leggermente. Dopo quello che Riario gli aveva fatto aveva un certo timore nei suoi confronti.
Il Conte lo scrutò a fondo: aveva fiutato un certo odore di bruciato. Il fischio che sentì proveniente dal corridoio adiacente, fece aumentare la sua convinzione. "Il giovane Nico", constatò con un sorriso affilato.
Nico provò a sorridere nervoso. Nel mentre pensava ad un modo per prendere tempo.

Elettra aveva sentito i fischi di Leonardo. Era il segnale che qualcosa era andato storto. Tentò di restare calma. Orami c'era vicina. Ne era certa.
Aprì in fretta i tre casseti del comodino ma non trovò niente che la convincesse. Sconsolata, decise di abbandonare l'impresa.
Stava per richiudersi la porta della camera da letto alle spalle, quando le venne in mente che qualcosa che non tornava in quel comodino in effetti c'era. Corse indietro.
Aprì nuovamente il primo cassetto e poi lo richiuse. Esattamente come aveva pensato: dall'esterno il cassetto sembrava molto più profondo di quanto in realtà non fosse.
Sorrise tra sè e sè.

Nico non ce la fece a bloccare Riario e così si limitò a seguirlo fino alla porta dei suoi appartamenti dove vi era Leonardo.
Il Conte guardò pensieroso i due: era chiaro come il sole che stavano tramando qualcosa.  Fece per avvicinarsi alla porta, con l'intento di entrare nei suoi appartamenti, ma l'artista gli si parò davanti.
"Non potete entrare, Conte"
"E perchè mai, di grazia?", chiese infastidito.
"Emh...", Leonardo doveva inventarsi una scusa. E alla svelta. "La porta è rotta... uno dei servi l'ha rotta andandoci addosso con il carrello delle pulizie". Non era la scusa migliore del mondo, ma era sempre meglio di niente.
Riario lo osservò sempre più scettico: sapeva riconoscere una menzogna, quando la sentiva. "E voi cosa ci fate qui?"
"Sono l'ingegnere militare di Lorenzo, ho io il compito di rimettere tutto a posto", disse Leonardo con un sorriso strafottente. "Tornate più tardi, magari tra un'oretta o due"
"Vi conviene farmi passare, artista", sibilò Riario. Il tono della sua voce era tutt'altro che amichevole.

Elettra svuotò completamente il cassetto e poi, utilizzando la punta del suo piccolo pugnale per le emergenze, fece leva in modo da alzare il falso fondo. Sotto di esso ci trovò parecchie missive recanti il simbolo papale; se avesse avuto tempo si sarebbe senz'altro fermata a leggerle ma, i continui richiami di Leonardo le fecero ricordare che (forse) era il caso di muoversi. Frugò un po' tra di esse, fino a quando non sentì tra le dite un piccolo quadernino rilegato in pelle. Il suo blocco da disegno. 

"Si può sapere cosa succede qui?". Era la voce del Magnifico. Alle sue spalle arrivò anche Giuliano. Li aveva sentiti e aveva deciso di intervenire; sentire parlare il proprio ingegnere militare con quella serpe non era  un buon segno. L'ultima volta che era successo Da Vinci aveva preso quel conte a cannonate!
"Il vostro artista mi impedisce l'accesso ai miei appartamenti", disse Riario sempre più irritato.
Lo sguardo di Lorenzo passò dal volto di sfinge del Conte Riario, a quello di Da Vinci. Non era uno sguardo amichevole, il suo. "Potrei sapere perchè non permettete al nostro ospite di rientrare nei propri alloggi?". La vena sul suo collo aveva preso leggermente a pulsare.
"Non avete chiamato voi l'artista per riparare un'ipotetica porta rotta?". L'espressione del Conte ora appariva quasi divertita; sempre restando nei limiti della sua apatia, ovviamente.
"No, assolutamente", rispose il Magnifico. Che diamine stava tramando quel pazzo di Da Vinci? Se voleva causare un incidente diplomatico -l'ennesimo- con Roma, quella era la mossa giusta.
Giuliano, nel frattempo guardava la scena pensieroso; all'artista non piaceva molto gironzolare per il palazzo, specialmente nell'ala dedicata ad eventuali ospiti. Se proprio doveva andare in qualche zona lontana dalle stanze affidategli per eseguire il ritratto della Donati, si faceva accompagnare da Elettra...A proposito, lei dove si trovava? 
Il giovane de Medici osservò con crescente proccupazione la porta chiusa. Aveva capito dove l'amica si trovava... "Ho avvisato io Da Vinci", disse in modo frettoloso. Non era molto bravo a mentire. "Sai com'è. I servi e le loro gare di velocità con i carrelle delle pulizie...", sussurrò al fratello che nel mentre lo guardava con fare indagatorio. Aveva capito che Giuliano stava tendando di coprire Da Vinci; gli sfuggiva solo il perchè.
"Ma ora è tutto sistemato", ribattè Lorenzo con un finto sorriso stampato in volto. Fece segno a Riario che poteva entrare e zittì Giuliano e Leonardo che tentavano inutilmente di prendere tempo.
Mentre il Conte scompariva oltre la soglia, chiudendosi la porta alle spalle i due si guardavano allarmati. Nico invece era diventato pallido come un cadavere.

Elettra osservò soddisfatta il piccolo libretto che teneva fra le mani; se lo ricodava però meno sgualcito di così. Lo sfogliò velocemente, fino a quando giunse alla pagina contenente la moneta. La prese e se la mise nella tasca laterale della gonna.
Sobbalzò quando, al posto delle voci di Girolamo e Leonardo, sentì quella di Lorenzo. Si capiva fin da lì, che il Magnifico si stava infuriando. 
Rimise velocemente a posto il doppio fondo e il contenuto del cassetto.
Stava per uscire dalla camera da letto quando la maniglia della porta d'entrata si abbassò.
Cercando di non farsi prendere dal panico, cercò un nascondiglio adatto.

Il Conte Riario entrò sospettoso nei propri alloggi. La prima cosa strana che notò fu la porta della camera da letto: aperta. Lui non lasciava mai quella porta aperta. Qualcuno era di certo entrato a frugare.
Uno dei complici di Da Vinci, senz'altro.
Escludendo l'artista stesso e il giovane Nico, restavo solo il moro. Ed Elettra. Già, poteva anche essere stata lei. Le guardie svizzere incaricate di tenerla d'occhio gli avevano rifertito di quanto tempo passasse in compagnia di Da Vinci.
Cosa stavano cercando? Doveva essere qualcosa di davvero importante, per rischiare così tanto la pelle. Gli venne in mente del blocco da disegno che sfogliava quasi ogni sera. E della moneta dei Figli di Mitra. 
Aveva capito di cosa si trattava. 
Entrò con passo sicuro in camera da letto. I tacchetti degli stivali ticchettavano rumorosamente sul pavimento di parquè. Il ritmo era regolare e il rumore voluto.
Non intendeva stanarla dal suo nascondiglio che, tra l'altro, era quasi certo fosse l'armadio, ma intimorirla. Farle prendere uno spavento tale dal dissuaderla dal ripetere l'impresa una seconda volta. 

Elettra, raggomitolata sul fondo dell'armidio, sentì i passi di Girolamo farsi sempre più vicini. Poi i cassetti del comodino vennero aperti e successivamente le lenzuola del letto vennero alzate per controllare che l'intruso non si nascondesse sotto.
La ragazza trattenne il respiro e cercò di restare calma. Mancava solo un posto da controllare: l'armadio. Se necessario, le sarebbe toccato usare il piano B. Sapeva l'effetto che il suo corpo faceva su Girolamo e, quello, unito ad una buona scusa, magari l'avrebbero salvata. 
'Puttana'. Alla sua vocina interiore piaceva ricordarle quale fascia di persone agisse in quel modo.  
L'anta si aprì di alcuni centimetri, facendo filtrare all'interno una sottile lama di luce. Il cuore di Elettra mancò più di un battito. Poi, quando ormai credeva che fosse finita, sentì Girolamo cambiare direzione e dirigersi verso il bagno. La porta si chiuse rumorosamente alle spalle del Conte.
La ragazza restò per un po' in ascolto poi, non sentendo più altri rumori, si fece forza ed uscì silenziosa.

Il Conte Riario sorrise tra sè e sè. Dalla porta del bagno leggermente socchiusa aveva potuto vedere Elettra uscire dall'armadio e dirigersi in fretta verso l'uscita. Sarebbe presto andato a farle visita...

Elettra, una volta aver svoltato nel corridoio adiacente, si lasciò scivolare a terra contro il muro. Prese un lungo respiro e sospirò. Chiuse gli occhi nel tentativo di rilassarsi e di far tornare il cuore ad un numero di pulsazioni normale.
" 'Il Conte non tornerà a palazzo prima di qualche ora, non corro nessun pericolo' ", la canzonò Da Vinci, ripetendo le stesse parole  che aveva usato lei.
La ragazza aprì lentamente gli occhi: in piedi vi erano, oltre all'artista, Giuliano e Nico. A differenza di Da Vinci, che aveva il suo solito sorriso strafottente stampato in volto, gli altri due avevano l'aria parecchio preoccupata.
"Fanculo Leonardo", gli rispose lei porgendogli la preziosa moneta.
 
***

Seduti comodamente intorno alla scrivania dello studio di Elettra, il piccolo gruppo studiava attentamente la moneta.
"Qui tra le due chiavi c'è inciso anche il tuo ciondolo a forma di cuore", disse Leonardo, allontanando la lente di ingrandimento dal proprio viso. "Esattamente come pensavo"
"Esattamente come pensavamo", lo corresse Elettra, prendendo dalle mani dell'artista lente e moneta.
"E tu hai rischiato la pelle per quella?!". Giuliano era esterefatto dalla stupidità che alcune volte la sua migliore amica dimostrava. L'aveva detto lui che frequentare quel folle di Da Vinci faceva male...
La ragazza posò la moneta sulla liscia superfice della scrivania in legno di rovere finemente intagliata. Sembrava offesa dalle parole del giovane de Medici. Si limitò a fare spallucce e si mise a giocherellare con lo spicciolo. Gli diede un colpetto, facendolo roteare velocemente; la luce del sole, che filtrava dalle finestre, colpì la monetina, inondando la stanza di riflessi dorati. Elettra notò gli altre tre osservarne il moto rotatorio con sguardo vuoto. Mise una mano su di essa, fermandola. "Tutto bene?", chiese stranita.
Nessuna risposta. 
"Hei! Mi sentite?". Schioccò le dita, cercando di attirare l'attenzione su di sè.
Leonardo sbattè più volte le palpebre, confuso. "Cos'è successo?". Si portò le mani alle tempie, massaggiandosele. 
Elettra lo guardò pensierosa. Le era passata un'idea per la testa, circa quello che era appena accaduto. Era troppo folle come idea, persino per lei. Ma dai Figli di Mitra bisognava aspettarsi di tutto, ormai.
"Nico osserva attentamente la moneta", disse con un rassicurante sorriso. "Leo, Giuliano, voi invece chiudete gli occhi".
"Che vuoi fare?", le chiese Giuliano, preoccupato. In cambio ottenne solo un ampio sorriso. Niente di buono.
Elettra vide lo sguardo di Nico farsi lentamente vacuo, man a mano che la moneta girava. "Bene", commentò dopo un po', "Ora, Nico, vai nell'armadietto e prendi la bottigia di Chianti e portala qui"
Il giovane si alzò dalla propria sedia e, senza battere ciglio, fece come gli avevano ordinato. 
"Adesso bevi"
Se prima Elettra avesse potuto avere qualche dubbio sull'effettivo funzionamento della moneta, vedere Nico (assolutamente astemio) portarsi alla bocca il vino, glielo aveva completamente dissipato.
Alla terza generosa sorsata dell'amico, decise di schioccare le dita. Nico, tornato in sè, si mise a tossire violentemente. "Cosa mi è successo?". Gli veniva da vomitare e la testa aveva cominciato a girare. Per non parlare del saporaccio che aveva in bocca...
"Elettra ti ha ipnotizzato con la sua moneta", commentò euforico Leonardo. Wow, i Figli di Mitra non facevano altro che sorprenderlo. 

***

Oramai era quasi il tramonto ma, nonostante fossero passate parecchie ore, il quartetto era ancora molto preso dalla questione riguardante i Figli di Mitra. Anche Giuliano sembrava molto interesseto alla questione. Elettra aveva tirato fuori da alcuni cassetti qualche diarietto di sua madre e il pesante volume rilegato in pelle nera scritto in arabo. Ognuno si dava da fare leggendo e comunicando agli altri ciò che aveva scoperto.
"Certo che tua madre non lesinava sui particolari!", disse ridacchiando Giuliano.
"Che particolari?", chiese Elettra curiosa. Se era qualcosa di divertente era giusto condividerlo.
"Vuoi davvero saperlo?", ribattè il giovane de Medici con un finto tono malizioso.
Aveva capito che particolari. "No, non voglio saperlo. Certe cose sui miei genitori non voglio saperle"
"Che peccato", disse divertito l'altro, "Pensa che la prima notte di nozze..."
"Non mi interessa, Giuliano!", lo interruppe lei, dandogli un'amichevole gomitata nelle costole.
Risero tutti e quattro.
L'entusiasmo collettivo fu presto smorzato da un bussare insistente alla porta.
"Nico, andresti a vedere chi è?"
 L'altro si alzò dalla poltrona con il passo ancora traballante per via del vino. Gli scappò un songhiozzo mentre andava alla porta. Abbassò la maniglia impacciato e mise il naso oltre la soglia. "Merda!", urlò prima di chiudere nuovamente la porta di scatto. 
Elettra rise. Non le era mai capitato di sentirlo imprecare. Pensava che certe parole non facessero parte del suo vocabolario di Nico. "Chi era alla porta?", chiese divertita.
"Il...il Conte Riario", balbettò il giovane.
Si guardarono tutti allarmati. 
"Nascondete tutto mentre io prendo tempo", disse lei prontamente. Sul suo volto comparve un'espressione innocente, coronata da due occhi in stile cerbiatto.
Elettra aprì la porta solo di alcune spanne, lo spazio necessario per uscire. Riuscì a stento a trattenere una risatina, quando vide il volto di Girolamo: la sua faccia contrariata aveva un chè di buffo. "Salve, Girolamo. Posso sapere come vi porta da queste parti?", chiese lei con un tono di pura innocenza.
Lui sorrise scuotendo leggermente la testa. "Sapete perchè sono qui"
La ragazza si morse il labbro inferiore, fingendo di pensare al motivo. "Non ne ho idea"
Riario la scostò dalla porta in modo non molto delicato ed entrò nello studio. Elettra lo seguì, preoccupata che il tempo concesso agli amici fosse stato troppo poco.
"Salve, Conte". Leonardo era seduto sulla poltrona di Elettra, con i piedi sulla scrivania e quel suo solito sorriso strafottente stampato in faccia; Giuliano invece giocherellava con il residuo di Chianti nel suo bicchiere e Nico fece notare la sua presenza con un sonoro singhiozzo. Il suo volto, dall'imbarazzo, divenne più rosso delle vesti di Lorenzo.
"Desidero parlare in privato con la signorina Becchi", disse Riario serio in volto. Era un chiaro invito ad andarsene da lì.
Giuliano osservò allarmato Elettra e con lo sguardo le chiese se ce la faceva, a resta lì sola con il Conte. Lei annuì impercettibilmente. "Se tra un'ora non vi dò mie notizie, cominciate a preoccuparvi", gli sussurrò ad un orecchio mentre usciva. 
Quando la porta si chiuse alle sue spalle, la ragazza cercò di restare calma e di mantenere quella finta espressione innocente. 
"Finitela con questa farsa", disse Riario. Il tono della sua voce era freddo e distaccato, come non lo era mai stato con lei.
"Che farsa?"
"Vi ho vista, mentre uscivate dal mio armadio"
Elettra sentì un brivido freddo lungo la schiena. Ormai era davvero inutile continuare a fingere. Sospirò sconfortata. "La prossima volta vedrò di essere più brava, allora", disse con quel suo solito tono impertinente. Vide la mano di Girolamo alzarsi di scatto e chiuse gli occhi, pronta a ricevere il colpo. Sussultò, quando, al posto dello schiaffo, ricevette una carezza. Sentì la sua mano calda poggiarsi delicatamente sulla sua guancia e il pollice sfiorarle appena il labbro inferiore. Aprì gli occhi timorosa, incontrando subito i suoi.
"Io non posso farvi del male. Ve l'ho già detto, non riesco a farvi del male", sussurrò Girolamo. C'era del rimorso nella sua voce.
Lei lo guardò con aria ancora confusa.
"Dovete prestare più cautela, mia diletta. Non potete correre tutti questi rischi". Il suo viso pericolosamente vicino a quello di Elettra.
Lei non disse nulla limitandosi a sorridergli. Era carino, quanto lui si preoccupasse della sua sicurezza. La ragazza chiuse gli occhi e poggiò delicatamente le sue labbra su quelle del Conte. 
Un attimo, e lo sentì allontanarsi da lei. 
Quando Elettra riaprì gli occhi, Girolamo stava uscendo dallo studio.


Nda
Se siete riuscita ad arrivare fino in fondo, vi faccio i miei complimenti. Questo capitolo mi è leggermente sfuggito di mano ( e non era neanche previsto). Il prossimo sarà più corto, lo prometto (almeno lo spero). ;)


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Capitolo 25
*** La Presentazione ***


Capitolo XXI: La Presentazione
 
Una settimana più tardi...

Elettra osservò nervosa e allo stesso tempo eccitata la marea di gente che si stava riversando nel Duomo. Il giorno della presentazione pubblica del suo progetto era finalmente arrivato. La biblioteca pubblica Cosimo de Medici sarebbe stata finalmente presentata ai cittadini fiorentini.
Gentile Becchi, seduto in prima fila, di fianco a Lorenzo, le sorrise. Era fiero della sua adorata nipotina.
Le campane suonarono: mancavano ancora dieci minuti all'inizio della presentazione.
"Agitata?", le chiese Giuliano, arrivandole alle spalle all'improvviso. 
Elettra fece un salto. Letteralmente. "No", rispose cercando di calmarsi, "Cosa te lo fa pensare?". Sul suo volto comparve un sorriso nervoso.
Il giovane de Medici rise.
La ragazza si guardò nuovamente  in giro; doveva essere tutto assolutamente perfetto. Cercò uno specchio e si osservò; anche lei doveva essere al meglio. "La presentazione è più della metà dell'esibizione", le aveva detto una volta Leonardo.
Elettra, quel giorno, aveva optato per un vestito color carminio in broccato con degli arabeschi fatti intrecciando alle varie tonalità del rosso dei sottili fili d'oro; non aveva mai speso così tanto per un abito ma, doveva ammettere, che erano soldi spesi davvero bene. Nessun altro abito da lei indossato, era mai riuscito a sottolineare così bene le sue forme. 'Quando Girolamo lo vedrà...' pensò distraendosi un attimo. Sbattè più volte le palpebre per togliersi quel pensiero dalla testa. Quello non era decisamente il momento più adatto per pensare a certe cose! E poi quello che c'era tra loro era solo un semplice contratto, niente di più. Era solo quello. Per Elettra doveva essere solo quello. Non avrebbe mai dato un nome al sentimento che provava. E non voleva dargli un nome.
Tornò a guardare il proprio riflesso: non si sarebbe mai abituata ad indossare un corsetto però, a malincuore, doveva ammettere che aveva il suo perchè. Si risistemò la polvere di Cipro, rimise il rossetto dello stesso colore dell'abito e risistemò una ciocca ribelle all'interno dello chignon. Sì, così poteva andare.
Decise di uscire a prendere una boccata d'aria. Attraversò la sagrestia e si diresse nel corridoio adiacente, dove si trovava una delle uscite secondarie. 
Si stava incamminando quando una delle porte laterali si aprì di colpo e una mano guantata l'afferrò, trascinandola all'interno della stanza.
Gli occhi di Elettra non ci misero molto ad abituarsi alla scarsa luce che quell'ambiente offriva. Era angusto, parecchio angusto. "Con tutti i posti possibili, proprio nello sgabuzzino delle scope?", commentò ironica.
"Tu e il tuo tono di voce impertinente". Girolamo appariva divertito. Era da qualche giorno che, lontani da occhi indiscreti, si davano del tu. Elettra lo trovava davvero carino.
"Scusa se sono qui incriccata!". Elettra si trovava schiacciata tra il corpo del Conte e la porta. E se girava la testa a sinistra si ritrovava di fronte uno scopettone impolverato, con tanto di ragnatele abitate.
Girolamo ridacchiò. "Almeno siamo vicini", disse, facendo aderire ancora di più i loro corpi. Lei fece una smorfia divertita: era davvero strano sentir parlare così il freddo e distaccato Conte Riario. Girolamo si stava aprendo con lei, come non aveveva mai fatto con nessuno. Quando erano soli, riusciva in parte a togliersi la propria maschera; stava davvero bene con lei. "Sei pronta?", le chiese dopo alcuni attimi di silenzio durante i quali si era perso nel contemplarla. Sapeva quanto lei ci tenesse a quel progetto. Erano giorni che parlava solo di quello. In qualsiasi momento.
"Nervosa", rispose lei sinceramente.
"Andrà tutto bene", le disse mentre le accarezzava dolcemente le braccia. "I fiorentini non potranno che adorare il tuo impegno"
"Siamo in vena di complimenti, oggi", commentò ironica Elettra, cercando di mascherare il rossore che stava prendendo piede sulle sue guance. Girolamo sorrise divertito; gli piaceva vedere quella pelle bianchissima colorarsi per un suo gesto o parola. "E tu non sai quanto", le sussurrò ad un orecchio. Avvicinò il proprio volto a quello di lei con l'intento di baciarla ma Elettra si ritrasse. "Ho appena rifatto il trucco", si affrettò a spiegargli, quando vide la sua espressione contrariata. Per tutta risposta il Conte prese delicatamente il suo viso tra le mani, bloccandolo, e le diede un leggerissimo bacio sulle labbra.
"In effetti dovresti rimetterti a posto il trucco", ironizzò. Elettra scosse la testa fingendo di restare seria, nonostante fosse molto divertita. Gli scompigliò i capelli.
Il suono delle campane li riportò bruscamente alla realtà: i dieci minuti erano finiti.
Sospirarono entrambi dispiaciuti.
Elettra fece per uscire.  "Aspetta", la fermò Girolamo poggiando una mano sulla sua, stretta alla maniglia della porta.
Lei si girò, guardandolo stupita. Lui avvicinò nuovamente il proprio viso al suo. La ragazza sorrise: a questo bacio non si sarebbe di certo sottratta. Invece, Girolamo, con un gesto veloce, le sfilò il fermaglio che le teneva legati i capelli. I lunghi boccoli biondi le ricaddero sulle spalle. "Girolamo!", disse alzando la voce parecchio contrariata. 
"Te l'ho detto che stai meglio con i capelli sciolti", ribattè l'altro divertito. Prima che Elettra potesse ribattere, la spinse fuori dallo sgabuzzino, richiudendo subito la porta alle sue spalle. Lei, una volta capito di essere stata buttata fuori, sbuffò irritata: il fermaglio non glielo aveva restituito! Si mise a battere sulla porta, nel tentativo di farsi aprire.
"Ecco dov'eri finita!", le disse alle sue spalle Giuliano. "E' ora di incominciare". La prese a braccetto e si diressero verso la navata principale del Duomo. "Sai che stai meglio con i capelli sciolti?"
Ecco, ci mancava pure lui!
 
***

"Grazie di cuore a tutti per essere qui oggi". La presentazione aveva finalmente avuto inizio. Nonostante tutta la sua agitazione, la voce di Elettra era chiara e cristallina. 
Perchè all'interno del Duomo la udissero tutti, insieme a Leonardo, aveva installato degli enormi piatti concavi in bronzo che, secondo i calcoli del geniale artista, avrebbero riflesso le onde sonore. Sembrava che stessero funzionando.
"Innanzitutto vorrei spiegarvi il motivo per cui siamo qui oggi che, ovviamente, non è solo per il fantastico buffet che ci aspetta fuori". Dalla folla provvenero alcune risa. "Siamo qui per onorare al meglio quel grande uomo che fu Cosimo de Medici". Guardò le facce della prima fila, notando il sorriso malinconico comparso sul volto di Gentile Becchi; oltre ad essere stato il suo fidato consigliere erano stati anche grandi amici.
"Io era poco più di una bambina quando Cosimo ci lasciò però ho dei bellissimi ricordi di lui. Per esempio mi ricordo che tutti i pomeriggi, verso le quattro, entrava nella biblioteca di Palazzo della Signoria, dove io, Giuliano de Medici e qualche volta mio fratello Aramis studiavamo sotto l'occhio vigile di un'altro grand'uomo fiorentino -sorrise guardando suo zio, seduto in prima fila- con due bicchieri di vino e qualche fetta di torta per noi. 'Gentile, lascia un po' respirare questi poveri figlioli', ripeteva sempre prima di porgergli uno dei due bicchieri di vino. E poi passavamo il resto del pomeriggio ad ascoltare rapiti le sue storie"
Anche Giuliano annuì malinconico; era molto legato al nonno.
"Le sue storie... penso che più di tre quarti dei fiorentini tra i venti e quarantanni l'abbiamo sentito almeno una volta raccontare una delle sue storie". Elettra scandagliò nuovamente la folla per capirne l'opinione. "Vedo Paolo il fornaio annuire", commentò divertita, "Quindi non mi sto inventando tutto di sana pianta". Risero nuovamente tutti.
"I racconti di Cosimo parlavano di luoghi lontani, di genti e tradizioni lontane, per non parlare di quelle creature che sembravano uscita dalla mitologia greca! Ma sopratutto parlavano di cultura e conoscenza", si era preparata e ripetuta quel discorso decine di volte.
"Conoscenza... Quel grande figlio di Firenze che fu Dante Alighieri disse 'fatti non foste per viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza'. Ed era esattamente questo l'obbiettivo che Cosimo ha portato avanti per tutta la sua vita: divulgare la conoscenza, renderla fnalmente accessibile a tutti". Elettra fece una pausa, per amplificare le sue successive parole.
"Ed oggi, con mio grandissimo piacere, vi comunico che questo sogno sta per diventare realtà", un sorriso a trentadue le comparve sul volto. "Signori e signore, vi presento la biblioteca Cosimo de Medici, la prima biblioteca pubblica che sorgerà presto sul suolo di Firenze".
Elettra fece un cenno a Leonardo, che si trovava dietro le quinte, in disparte. Alle spalle della ragazza scese un grande telo con raffigurato il progetto della biblioteca. "Grazie", sussurrò all'artista, che contraccambiò con un sorriso.
Dalla folla si levarono dei mormorii di puro stupore.
"Come potete osservare la biblioteca si svilupperà su tre piani: il piano terra e il primo piano saranno principalmente adibiti alla conservazione dei volumi mentre, al secondo piano, saranno costruite una serie di stanze da utilizzare per diversi scopi. Per esempio, insieme ad alcune illustri personalità fiorentine, stiamo organizzando una serie di corsi completamente gratuiti per permettere a chiunque lo deisderi di impare a leggere e scrivere. Questo progetto per me è molto importamente perchè trovo inutile costruire una biblioteca pubblica se poi neanche la metà dei fiorentini ne potrà usufruire".
Elettra successivamente spiegò, attraverso un insieme di termini tecnici, l'architettura dell'edificio e poi si mise a parlare di libri. "Per quanto riguarda i volumi che la biblioteca potrà ospitare, questi saranno divisi in categorie, in base all'ambito di pertinenza e alla lingua. Molti di essi poverranno dalla collezione privata di Cosimo de Medici che Lorenzo il Magnifico ci ha gentilemente donato; anche altre famiglie e città hanno deciso di aderire al progetto, donandoci diversi volumi. Per esempio giungeranno qui degli antichissimi manoscritti provenienti da Costantinopoli e dal monastero benedettino di Montecassino. Chiunque voglia contribuire non si faccia problemi a farlo, qualsiasi dinazione di qualsiasi tipo sarà ben accetta".
Chi era riuscito a trovare un posto seduto, si alzò in piedi, unendosi agli applausi. Elettra fece un leggero inchino. "Prima di lasciare la parola a Bartolomeo della Gatta, l'architetto incaricato di seguire i lavori, vorrei ringraziare alcune persone: innanzitutto mio zio Gentile, per avermi sempre sostenuta e spronata a dare il meglio. Sei lo zio migliore che io potessi mai avere. Poi Clarisse, Lorenzo e Giuliano, che mi hanno dato immediatamente il loro appoggio, ed infine il Maestro Andrea e Leonardo Da Vinci, che mi hanno insegnato ad amare l'arte e senza cui oggi non sarei qui.". Sorrise e fece per allontanarsi dal leggio ma, all'ultimo, le venne in mente un'altra cosa. "Un'ultima comunicazione: vi invito caldamente ad andare ad osservare attentamente il modellino in scala posizionato all'uscita, prima di andarvene. Vi aspetto numerosi al buffet che si terrà nella piazza tra poco. Per qualsiasi dubbio o domanda non esitate a chiedermi. Buona giornata e grazie a tutti"
 
***

Il buffet consisteva i due grandi e lunghi tavoli straripanti di ogni tipo di leccornia conosciuta. Erano rare le occasioni in cui venivano allestiti banchetti pubblici a cui chiunque potesse partecipare; non erano occasioni che i fiorentini si lasciavano scappare tanto facilmente. Specialmente per le fascie più povere. Per evitare problemi di tipo logistico, si era dovuta chiudere l'area della piazza permettendo solo ad un numero fisso di persone l'accesso.
Elettra vide un bambino nascondersi alcuni dolciumi nelle tasche e guardarsi intorno con lo sguardo furbetto e quei rigonfiamenti nelle tasche che gli permettevano a stento di muovere qualche passo; non sarebbe di certo passato inossservato. Tentò di trattenere una risata portandosi il calice dello spumante alle labbra, gesto che non passò inosservato a Leonardo, con cui era intenta a parlare. Rise anche lui al vederlo.
"Ah, beata gioventù", commentò Zoroastro, unendosi a loro. "Giovani e inesperti ladruncoli che hanno ancora molto da imparare". Detto questo scostò leggermente la giacca, mostrando una bottiglia di Chianti. "Qualcuno dovrebbe insegnarli meglio il mestiere"
"Zoroastro!". Elettra sembrava parecchio contrariata. "Se volevi qualche bottiglia di vino buono bastava chiedere, non c'era bisogno di rubarla così"
"Deformazione professionale, cara"
Per tutta risposta ottenne un coppino sul collo seguito dalle risa di Leonardo.

Alcuni minuti più tardi Elettra stava aspettando pazientemente di avere l'attenzione del cameriere, per farsi riempire nuovamente il bicchiere di spumante quando, con la coda dell'occhio, vide Francesco Pazzi avvicinarsi. Sperò con tutta sè stessa che non cercasse proprio lei.
"Elettra", la salutò, "Stavo cercando proprio voi ".
Lei imprecò mentalmente prima di girarsi e rispondere con un sorriso il meno forzato possibile. "Salve, Francesco". Quanto gli dava sui nervi quel topo pluricornuto!
"Volevo farvi i complimenti. Trovo la vostra idea molto utile a Firenze". In realà non lo pensava affatto: c'era un buon motivo se le masse erano ignoranti ed analfabete.
Prese una mano della ragazza e se la portò alla bocca. Elettra, nel frattempo, cercò di non apparire contrariata. Nella sua testa le imprecazioni si susseguivano in fretta. Ed ogni volta erano sempre più pesanti.
Quanto Pazzi la lasciò osservò disgustata la strisciata di saliva sulla propria mano. 
Non voleva rovinarsi il vestito pulendosela nel retro. Ma non voleva neanche lasciarla sulla sua mano un secondo di più. Fortuna volle che, casualmente, Giuliano passasse di lì. Il suo fazzoletto di seta bianchissima, con lo stemma della famiglia Medici ricamato in un angolo, fuoriusciva di parecchio dalla tasca laterale dei pantaloni.    
Idea.
Elettra gli si avvicinò di soppiatto e seguendo i 'saggi' consigli di Zo su quella che lui considerava 'la nobile arte del borsaiolo', gli sfilò il fazzoletto senza che se ne accorgesse. Si ripulì in fretta la mano.
"Giuliano", lo chiamò cercando di essere normale e comparendogli alle spalle, "Ti è caduto il fazzoletto".
L'altro le sorrise e tirò su dal naso: aveva proprio un brutto raffreddore. "Grazie"
Si portò il pezzo di stoffa al naso, sotto lo sguardo sempre più divertito di Elettra.
"Cosa c'è?", chiese confuso. Osservò attentamente prima il proprio fazzoletto, poi la ragazza. Aveva la faccia di chi ne aveva appena combinata una delle sue. "Cosa hai fatto?". La sua voce -nasale- era un misto di timore e paura.
Lei rise. "Hai presente i baciamani di Francesco Pazzi?"
Giuliano cominciò ad impallidire. "Tu...?!"
"Già", disse Elettra tra le risate.
Ci mancò poco che il giovane de Medici le vomitasse addosso.

Qualche ora più tardi, Elettra camminava ancora tra la folla che non accennava affatto a diminuire. Chiunque la incontrasse non si risparmiava in complimenti: puro piacere per il lato narcisista della ragazza.
Quasi tutti si erano complimentati con lei.
Mancava solo una persona, per rendere il tutto perfetto.
"Volev farvi i miei più sinceri complimenti, madonna". Eccolo.
Elettra sorrise soddisfatta al Conte Riario. "Grazie mille, Conte". Dovevano andarci piano e non sembrare troppo legati. Non dovevano destare alcun sospetto. Doveva apparire come una normale conversaizone tra due conoscenti alla lontana. Niente di più.
"E' sempre un piacere per me, farvi un complimento"
Lei arrossì. "Il piacere è tutto mio"
Girolamo la osservò conrariato mentre prendeva da un vassioio un altro bicchiere di vino. "Ho notato che non avete parlato delle camere sotterranee commissionate dai Figli di Mitra", commentò sarcastico. Si trovavano in una zona ai margini, meno frequentata e, le persone più vicine a loro, si trovavano a metri di distanza.
"Avevamo un patto, mi pare". Parlare dei Figli di Mitra non era permesso dal loro accordo.
"E non vedo l'ora di poter onorare nuovamente il nostro patto, mia diletta", disse maliziosamente avvicindosi ulteriormente a lei.
"Io intendevo l'altro patto"
"Stasera passo da voi". Non era una domanda, quella del Conte.
"Sarò al Cane Abbaiante a festeggiare e dubito che tornerò a casa in condizioni decenti", ribattè Elettra. "Pensò che non tornerò proprio a casa sulle mie gambe", aggiunse ridendo.
Girolamo invece non trovava la situazione affatto divertente: si preoccupava per lei. Non gli paiceva affatto l'idea che si sarebbe trovata ubriaca in un osteria dalla fama poco raccomandabile. Tornò alla sua espressione fredda e distaccata.
"Possiamo sempre vederci domani", disse Elettra sorridendo. Doveva rimediare in qualche modo.
"Come desiderate". Prese la sua mano e se la portò alla bocca, assaportando per una frazione di secondo il suo buon odore. Sapeva di vaniglia. Quello era il massimo contatto che poteva avere con lei, finchè si trovavano in pubblico.
"Salve". La voce, proveniente da dietro le proprie spalle, fece rabbrividire Elettra. Conosceva fin troppo bene quella voce.
Istintivamente fece qualche passo indietro. Non si era accorta di essere così vicino a Girolamo. Lui, di malavoglia, dovette lasciare la mano della ragazza che teneva ancora stretta nella sua.
"Di cosa stavate parlando?". Il tono di Gentile Becchi era pacato, come suo solito, ma, un orecchio più attento, poteva scorgere una sottile vena di irritazione.
"Il Conte Riario e io stavamo discutendo di una possibile donazione da parte degli archivi segreti vaticani"
Girolamo dovette fare un notevole sforzo per mantenere la sua soltita apatia e non sembrare sorpreso. "Ovviamente non sarà una donazione completamente gratuita. Diciamo che Sua Santità potrebbe prendere in esame la questione in cambio di una diminuzione del debito pontificio", disse.
"Però questa parte di questione è fuori dal mio ambito di competenze", si affrettò a ribattere, Elettra. Visto le occhiatacce che suo zio lanciava sia a lei che a Riario, era saggia cosa lasciare la conversazione il prima possible.
"Si", disse suo zio, "Per questioni di questo tipo dovrete discuterne con Lorenzo. Ma dubito che le prenderà seriamente in considerazione"
Elettra fece un cenno di saluto e se ne andò alla svelta. Girolamo indugiò un po' troppo sulla sua figura minuta che si allontanava ancheggiando leggermente. La voce di Gentile Becchi lo riportò alla realtà.
"Ho visto come la guardate". Il tono della sua voce era duro. "Provate anche solo a sfiorarla con un dito e vi assicuro, Conte Riario, che passerete davvero dei brutti momenti"
'Troppo tardi', pensò lui ironico.

***

Quella sera, al Cane Abbaiante...

 "Ed ecco qui", disse Zoroastro appoggiando sul tavolo una vassoio colmo all'inverosimile di bicchierini contenenti i più svariati tipi di liquore. Passò la maggior parte ad Elettra, trannedendone solo alcuni per lui e Leonardo.
"Credevo che l'usanza di bere diciotto sciortini fosse solo per i compleanni", commentò ironica la ragazza.
"Scusa se non ho trovato una tradizione legata al bere riguardante la presentazione del progetto di una biblioteca", ribattè Zo divertito. 
Elettra sorrise soddisfatta. Quella sera si sarebbe divertita.
"Beh che fai? Non bevi?", chiese Zoroastro, notando la sua esitazione. 
"Mi stavo preparando psicologicamente", ribattè lei mentre sceglieva da dove incominciare. Prese un bicchierino con del liquido così trasperente da sembrare acqua e ne mandò giù il contenuto in un solo sorso. Fece una strana faccia, da quanto era forte.
"Zo, ma che diamine mi hai portato?"
"Boh, mi hanno solo detto che viene dalla Russia"
"Vodka", disse Leonardo tra una risata e l'altra.
"Voglio sperare che questa vodka oltre che imbevibile sia anche economica. Il vestito che indossavo alla presentazione ha prosciugato i miei risparmi", commentò ironica Elettra.
"Due fiorini", disse Zo divertito.
"Due fionini per tutto quello che abbiamo preso?"
"No no, solo per il bicchierino di vodka"
La ragazza sospirò era una cifra esorbitante. "Almeno non sono soldi buttati via!". Prese il secondo bicchierino e mandò giù.

Più tardi, dopo gli sciortini, una costosissima bottiglia di Chianti e qualche giro di birra, Elettra decise di uscire per prendere una boccata d'aria. Aveva preso di nascosto a Leonardo una delle sue sigarette artigianali. Il fumo di Da Vinci era sempre roba buona. L'accese con una candela ormai a metà che si trovava su uno dei tavoli estreni, insolitamente deserti. 
L'aria fredda che le pizzicava il viso, le ricordò che l'inverno era alle porte.
Aspirò una lunga boccata di fumo, prima di buttarlo fuori in una nuvoletta bianca. 
Fu allora che vide una figura completamente vistita di nero, con il cappuccio del mantello calato sul volto, venire verso di lei.
"Anche qui", commentò ironica, "Non riesci proprio a lasciarmi un attimo, vero?"
"Volevo solo accertarmi che stessi bene", ribattè Girolamo.
"Mai sentito parlare delle serate tra amici, senza amanti tra i piedi?"
Girolamo ridacchiò tra sè e sè.


Nda
Questo Girolamo Riario sempre in mezzo... (s)fortunatamente dal prossimo capitolo la situazione cambierà.
Mi rendo perfettamente conto che questo capitolo non è proprio il massimo ma cercate di capirmi, l'ho scritto mentre guardavo i primi due episodi della terza stagione... non per spoilerare niente ma ho appeso la bandiera a lutto...

Ps. Vorrei ringraziare nuovamente AlexTanuki e _Anaviv per le loro fantastiche recensioni :D
 

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Capitolo 26
*** Icaro ***


Capitolo XXII: Icaro

Il giorno dopo...

Convocata di prima mattina nello studio di Lorenzo. Con la sbronza della notte precedente tutt'altro che passata. Con i postumi peggiori che avesse mai avuto. 
Elettra si stropicciò gli occhi stanchi ed arrossati; quella era stata davvero una notte memorabile. Lei, Leonardo, Nico e Zoroastro erano rimasti al Cane Abbaiante fino a quando Vanessa gli aveva sbattuti fuori, verso le cinque, perchè l'ora di chiusura del locale era passata già da un pezzo. Nonostante il coprifuoco fosse ancora in vigore, il piccolo gruppo, con passo malfermo, si era messo a passeggiare per le vie di Firenze. Era andato tutto bene fino a quando Zo non si era messo a cantare a squarciagola una canzone popolare, seguito a ruota da Elettra. Il tutto successo mentre Leonardo sghignazzava come un matto e Nico tentava inutilmente di farli stare zitti tutti. Inutile dire che tutto quel rumore, alle cinque di mattina, aveva allarmato le guardie della notte. Poco dopo il Capitano Dragonetti, insieme ad un drappello di uomini, aveva fatto la sua comparsa; ci era mancato davvero poco che fossero arrestati tutti e quattro. Fortunatamente erano solo stati scritti i loro nomi su quel suo dannato libretto. Tutto sommato poteva anche andargli peggio.
Alla fine Elettra era riuscita a tornare a casa. E chi ci aveva trovato in salotto? Girolamo. Su una poltrona. Addormentato.
La ragazza aveva sorriso, davanti a tutta quella premura. Non avrebbe mai pensato che il freddo e cinico Conte Riario avesse un lato così dolce; glielo dimostrava ogni qual volta si trovassero assieme. 
Le aveva fatto tenerezza, con la testa leggermente reclinata di lato e i capelli arruffati. Gli aveva poggiato una mano sulla guancia, accarezzandogli delicatamente il contorno del viso. Lo aveva trovato un po' troppo freddo e così era andata a prendergli una coperta. Dopodichè aveva appoggiato la propria testa sulle sue ginocchia e lo aveva guardato dormire. Doveva essersi addormentata anche lei perchè, quando aveva aperto gli occhi, si era trovata nel proprio letto, con addosso solo la camicia e avvolta nelle coperte. 
Maria l'aveva svegliata urlando che era appena andato via un messaggero della Signoria e che aveva lasciato un messaggio nel quale c'era scritto di presentarsi a palazzo il prima possibile.
Morale della favola: una sbronza colossale, neanche due ore di sonno e una probabile ramanzina da parte di Gentile Becchi. Il tutto alle otto di mattina.
Elettra si stropicciò nuovamente gli occhi, infastidita da tutta quella luce. Quanto le avrebbero fatto comodo gli occhialini di Girolamo in quel momento! Nonostante li considerasse ridicoli -e lo avesse fatto notare più volte al Conte, il quale non aveva per niente apprezzato il commento-, in quel momento avrebbero avuto una certa utilità.
"Elettra, mi stai ascoltando?". La voce di Lorenzo la fece ridestare dai propri pensieri. Lo sguardo della ragazza si spostò prima sul Magnifico e poi sul volto duro di suo zio. Doveva essere davvero arrabbiato, per usare quell'espressione. 
Annuì, cercando di essere convincente. Quel semplice movimento le causò delle fitte di dolore alle tempie. Era davvero messa male.
Lorenzo sospirò. "Ripetimi quello che ho appena detto"
"Vi stavate complimentando per ieri"
"Questo è successo dieci minuti fa", il de Medici dovette trattenersi dal ridere: dal suo punto di vista la situazione appariva quasi comica. D'altro canto, però, ammirava il semplice fatto che Elettra, nonostante tutto, si fosse prontamente presentata. Almeno non lo aveva insultato e tirato un cuscino in faccia come aveva fatto Giuliano.  "Te lo ripeterò velocemente un'ultima volta", le disse cercando di rimanere serio, "Venerdì sera nominerò Da Vinci gran maestro dell'ordine di san Giovanni Battista"
"E' una grande onorificenza", commentò sorpresa Elettra.
"E tu organizzerai una grande festa in suo onore"
La ragazza sorrise soddisfatta. La sua testa aveva già incominciato a vagare tra decorazioni, inviti e abiti da sera. "Come desiderate, Lorenzo", disse dopo un po'.
Il Magnifico le sorrise, poi fece cenno a Gentile Becchi di uscire ad accogliere alcune personalità in vista di Firenze che avevano chiesto udienza per quella mattina: il colloquio con Elettra aveva sforato e, senz'altro, i prossimi sulla lunga lista di incontri giornaliera di Lorenzo erano già fuori dal suo studio in attesa. Per il bene di tutti era meglio non farli attendere troppo.
Una volta che Becchi fu uscito il de Medici si mise più comodo sulla propria poltrona ed osservò divertito Elettra. "Giuliano è tornato stanotte verso le quattro e ha vomitato l'anima per il resto della notte. Quando sono andato a chiamarlo, poco prima che arrivassi tu a palazzo, mi sono beccato un vaffanculo e un cuscino in faccia e ora credo che stia dormendo profondamente", disse trattenendo le risate. "Tu come fai ad essere qui in condizioni relativamente decenti?"
"E pensare che ho bevuto molto più di vostro fratello", ribattè la ragazza.
Si misero entrambi a ridere di gusto.
 
***
 
Qualche ora più tardi (e un infuso alle erbe dopo)...

La testa non le doleva più come prima; il merito era tutto di quella tisana presa a Palazzo della Signoria. Lo aveva detto, Elettra, che aveva effetti miracolosi. Avrebbe chiesto alla cuoca la ricetta, un giorno.
Aveva aspettato che Leonardo andasse a palazzo, per continuare a dipingere il ritratto della Donati, e poi si era diretta alla sua bottega. Elettra aveva bisogno di idee e la bottega di Da Vinci era il luogo migliore per iniziare. Per non dare troppo nell'occhio, la ragazza era passata da un'entrata secondaria, situata in una traversa frequentata principalmente da gatti randagi; quella porta non era mai chiusa a chiave. Elettra abbassò la maniglia lentamente ed entrò senza fare il minimo rumore. Si guardò intorno curiosa: si sentiva come una bambina in un negozio di caramelle. Ovunque posasse lo sguardo vi erano schizzi, progetti e modellini di ogni genere ma, il vero protagonista, il filo conduttore di tutto, era il volo: prototipi di ali, uccelli di ogni specie impagliati e di legno. Alzò la testa verso l'alto, osservando ciò che pendeva dalle travi del soffitto: c'era il modello di ali testato da Nico; un altro con un'ala spezzata, che Zo aveva spezzato, quella volta che si era rotto una gamba; una copia perfetta della colombina usata nell'ultimo carnevale... Tante, tante cose. Tutte scaturite da quella mente geniale che era Leonardo. La sua vera essenza, ecco che cosa rappresentava quel posto.
Elettra cominciò a curiosare in giro, rovistando qua e là e prendendo alcuni fogli e disponendoli su uno dei tavoli al centro della stanza.

Non sapeva dire quanto tempo fosse passato, se appena una manciata di minuti o qualche ora. Si trovava seduta a gambe incrociate su uno dei tavoli da lavoro della bottega di Leonardo. Intorno a lei vi erano decine e decine di schizzi del geniale artista. Li osservava, decifrava e poi prendeva appunti. Nonostante tutto il suo impegno, non riusciva a farsi un'idea su come avrebbe dovuto organizzare la festa: Leo era come un dado dalle troppe facce e, far rientrare tutto nella festa, sarebbe stato impossibile ma, lasciare da parte qualcosa, avrebbe significato non mostrare appieno la sua genialità. Aveva tante, troppe informazioni, ma, in ultima analisi, niente di concreto. 
Elettra dava le spalle alla porta d'ingresso. Non la sentì aprirsi, nè notò la figura che entrò. Brandiva un compasso come se fosse la più letale delle armi. La ragazza si accorse solo di una presenza alle sue spalle, quando fu abbastanza vicino.
"Salve, Maestro", lo salutò.
Andrea rimase per un attimo interdetto. "Bambina mia, cosa ci fai qui tutta sola? Avrei potuto farti del male!"
"Con un compasso da disegno?" chiese lei sarcastica.
Il Verrocchio alzò gli occhi al cielo: quella battuta l'aveva già sentita da Leonardo. Era incredibile come i suoi due pupilli si assomigliassero! Sospirò e buttò il compasso sul tavolo. Anche Elettra sospirò, prima di ritornare con il naso immerso nei progetti di Da Vinci.
Andrea la osservò attentamente: era diventata una donna ormai. Non era più quella bambina spaventata che, la prima volta che aveva messo piede nella sua bottega, stringeva forte la mano di Gentile Becchi. Non aveva più bisogno della pittura per superare la perdita di sua madre e sua sorella. Era diventata una donna forte e determinata. Era fiero della sua allieva.
"Cosa c'è che ti turba, bambina mia?". Nonostante tutto, non riusciva a fare a meno di chiamarla 'bambina mia'; era davvero molto affezionato a lei.
Elettra alzò la testa, per poterlo guardare negli occhi. "Lorenzo vuole che organizzi una festa in onore di Leo"
"E' una splendida notizia". Per Andrea, lei e Da Vinci erano i suoi migliori risultati.
"Ho paura di non riuscire a fare un buon lavoro", confessò sconfortata.
"Perchè dici così? Qualsiasi cosa che fai è sempre splendida.", cercò di confortarla. "In fondo, ti ho istruita io, no?", aggiunse il Verrocchio con un sorriso.
La ragazza gli sorrise mentre lui le accarezzava dolcemente la testa proprio come quando era bambina. Alcune cose non cambiavano mai.
"Leo è la mente più geniale di tutta l'Europa e io ho paura di non riuscire ad organizzare qualcosa che sia alla sua altezza"
"Leonardo, a mio parere, è un po' come Icaro". Voleva darle uno spunto di riflessione.
"Ma a Leo non si scioglieranno mai le ali ad avvicinarsi troppo al sole"
"Invece temo che prima o poi accadrà, bambina mia", quel pensiero teneva spesso Andrea sveglio la notte. La paura che Leonardo ed Elettra si cacciassero in qualche guaio più grande di loro era la sua più grande paura. "Quando accadrà, tu dovrai stargli vicino"
Nella stanza calò un pesante silenzio, rotto solo a tratti dal rumore della matita che sfregava sulla carta ruvida del blocco da disegno.
"Grazie, Maestro", disse dopo un po' Elettra. Parlare con il Verrocchio le era servito per mettere in ordine le proprie idee: ora sapeva che strada percorrere.
Lui le sorrise con fare paterno.
"Secondo voi Lorenzo mi permetterà di installare una spingarda nella sala dei banchetti?", chiese divertita.
Ancrea alzò nuovamente gli occhi al cielo.

***

Nel tardo pomeriggio...

Girolamo aprì gli occhi, osservando la camera da letto di Elettra. A giudicare dallo stato di torpore in cui si trovava, doveva essersi addormentato. Si stiracchiò e si girò tra le coperte, mettendosi steso di lato. Guardò rapito il profilo della ragazza stesa di fianco a lui: Elettra era sdraiata a pancia in giù; non aveva addosso niente, neanche un lenzuolo.  E, come suo solito, era con il naso immerso nel lavoro. Lei era sempre immersa nel lavoro. Talmente immersa che non si era neanche accorta che ora lui la stava osservando.
"Riuscirò, prima o poi, ad averti completamente per me?", le chiese sarcastico.
Elettra finalmente alzò la testa dai propri appunti e lo guardò. "Mi pare che siamo qui soli", rispose con quel suo solito tono di voce che Girolamo considerava sempre troppo impertinente. Ma era un'impertinenza piacevole, la maggior parte delle volte.
Fece per avvicinarsi a lei ma un improvviso scricchiolio sotto al proprio petto lo fece desistere. Contrariato, estrasse da sotto le coperte un foglio di carta tutto stropicciato. "E questo, allora?", ribattè sventolandoglielo davanti.
Il viso di Elettra parve illuminarsi, alla vista di quell'appunto mancante. "Tu non sai da quanto lo stavo cercando!", commentò strappandoglielo di mano. Soddisfatta, lo mise in mezzo a tutti gli altri.
Girolamo sbuffò: non poteva neanche muoversi liberamente, senza rischiare di sdraiarsi su qualche foglio. Si rimise a pancia in sù, osservando i complicati motivi floreali del baldacchino; era grazioso, come tutta la casa in fondo, ma per lui, amante delle tinte scure, quel posto era troppo colorato. Troppo chiaro e troppo luminoso. 
"Tu lavori troppo", le disse.
"Prova tu ad avere come ospite abusivo un logorroico conte romano e presto anche i sovrani di Spagna"
Girolamo sorrise alla frecciatina della ragazza. "Conosco molto bene Isabella e Ferdinando", le sussurrò mentre le si avvicinava. "La Regina mi ha  donato personalmente il mio andaluso nero"
"Il cavallo con problemi intestinali?", chiese lei con quel suo solito tono impertinente.
Il Conte alzò gli occhi al cielo: questa doveva senz'altro averla sentita dall'artista. Ritornò nella sua metà del letto con l'aria interdetta.
Dopo alcuni momenti di silenzio, Elettra parve perdere interesse nei propri appunti. "Stavi russando, prima", disse divertita.
Girolamo si rigirò verso di lei, osservandola negli occhi. Cercava di capire se dicesse, o meno, la verità. "Io non russo", ribattè seccato, alla fine.
"Si, tu russi", ripetè la ragazza. "Come un vecchio trombone"
"Nessuna donna me lo ha mai fatto notare". Era tornato alla sua solita apatia. Segno che aveva preso male la questione.
Elettra però era cocciuta. Non gliela avrebbe mai data vinta solo perchè la guardava con quel suo sguardo intimidatorio. "Solo perchè non ti sono mai state abbastanza vicine come me ora", disse lei avvicinandosi e poggiando delicatamente la propria testa sul petto scolpito dell'uomo.
"Zita non mi ha mai detto che russo"
La ragazza rise. "La tua serva abissina ha paura della sua stessa ombra, non oserebbe mai dirti una cosa del genere"
Girolamo borbottò tra sè e sè qualcosa su quanto le donne fiorentine potessero essere impertinenti e petulanti, poi scostò Elettra dal proprio petto e si girò su un lato, dandole così le spalle.
Lei dovette impegnarsi molto per trattenere una risata: non credeva che il Conte di Imola e Forlì fosse un uomo così permaloso, nè che da offeso avesse lo stesso comportamento di un bambino capriccioso. "Girolamo", lo chiamò.
Niente.
"Girolamo", provò a sussurrargli ad un orecchio.
Ancora niente. La stava ignorando alla grande. 
Elettra lo osservò per un attimo: il comportamento di Riario cominciava a irritarla. Doveva cambiare approccio, se voleva ottenere la sua attenzione. Gli si avvicinò ancora di più, facendo aderire il proprio corpo al suo. Gli diede un bacio su una spalla.
"Non pensare di potermi comprare, facendo così". Almeno aveva ancora una lingua. Ed era pure in grado di articolare delle parole.
"Intendo fare molto di più, in verità", gli sussurrò ad un orecchio.
A quel punto Girolamo si girò improvvisamente, cogliendola di sorpresa. Lei finì schiacciata proprio sotto al suo corpo. Gli appunti scricchiolarono, sotto al peso di entrambi. Elettra si mise a ridere: quella del Conte era stata solo una messa in scena. "Sei un manipolatore", disse divertita.
"Ha parlato l'innocenza in persona", ribattè lui.
"Rispetto a te, senz'altro" 
Girolamo avvicinò il proprio viso a quello di Elettra. Lei provò ad accorciare ancora di più quella distanza, cercando le sue labbra ma lui allontanò il proprio viso da quello di lei. Un sorriso divertito e malizioso gli comparve in volto.
La ragazza sbuffò: quell'uomo stava giocando con lei! Lo guardò fisso negli occhi, aspettando la sua successiva mossa.
Tuffarsi nei suoi occhi azzurri per il Conte era tutto. Quanto sarebbe durato ancora? Lui sapeva che quello che stava accadendo tra di loro era solo un illusione. Un castello di carte che sarebbe crollato al primo soffio di vento. Conoscendosi, probabilmente, sarebbe stato lui stesso a soffiarci sopra, rovinando tutto. Anche lei ne era consapevole, ne era certo. 
"Girolamo". La voce di Elettra lo riportò alla realtà. Lo guardava con un misto di preoccupazione e malinconia; probabilmente stavano pensando la stessa cosa. 
In entrambi stava, ormai da tempo, prendendo piede  un nuovo sentimento. Non sapevano dargli un nome o, forse, non volevano. Nessuno dei due, per orgoglio o per timore di mostrarsi, così facendo, troppo vulnerabile, voleva ammettere che c'era qualcosa di più di un semplice patto, tra loro.
Elettra provò nuovamente ad azzerare la distanza tra le loro labbra e, questa volta, Girolamo la lasciò fare. Fu un bacio dolce e passionale, che esprimeva il desiderio di entrambi di non allontanarsi l'una dall'altro. La ragazza allacciò le proprie braccia intorno al collo del Conte mentre le mani di lui percorrevano lentamente le sue cosce. Si allontanarono solo quando furono entrambi con il fiato corto. 
"Sei bellissima, mia diletta", le sussurrò ad un orecchio prima di  scendere a torturarle l'esile collo di porcellana con le sue labbra calde. Non poteva vederla in viso ma, conoscendola, era certo che le sue gote fossero diventate vermiglie. Si coloravano sempre, quando le faceva un complimento.
Il respiro di Elettra era irregolare e il battito del suo cuore accelerò ancora di più quando lo sentì lasciare una scia di baci sempre più in basso. Sussultò, quando le diede un piccolo morso sul seno. L'avrebbe pagata cara, se le avesse nuovamente lasciato il segno. 
Rise, al contatto con il leggero accenno di barba del Conte.
Rise anche dopo, vedendo Girolamo tentare di districarsi tra le lenzuola sfatte, unico ostacolo che ancora divideva i loro corpi desideriosi l'uno dell'altra.
Risero insieme, dimenticandosi del resto del mondo che li circondava.
 
***

Elettra si stropicciò gli occhi, ancora assonnata. Non sentire più il caldo abbraccio di Girolamo cullarla, l'aveva ridestata dallo stato di dormi veglia nel quale si trovava. Lo osservò mentre si rivestiva. 
Decise di fare lo stesso e, con una grazia pari a quella di un'otaria spiaggiata, si alzò di malavoglia. Recuperò la propria vestaglia, appoggiata su di una poltrona e la indossò. Dopodichè cominciò a raccogliere i propri appunti sparsi qua e là, tra le lenzuola e il pavimento. "Hai una spingarda di Leonardo sulla schiena", fece notare divertita  a Girolamo.
L'altro si girò, guardandola perplesso. Si accorse solo dopo un po', tra le risatine di Elettra, che uno dei fogli gli si era incollato sulla schiena. Con studiata nonchalance, lo porse alla ragazza, ancora parecchio divertita.
Lei gli si avvicinò, offrendosi di aiutarlo ad allacciare i bottoni della camicia, rigorosamente nera. La bionda non credeva che il Conte possedesse vestiti di altri colori.
"Dove devi andare?", gli chiese mentre gli porgeva la giacca.
"Da Francesco Pazzi, dobbiamo discutere di alcune questioni importanti", rispose lui vago. Era sempre vago, quando si trattava della famiglia Pazzi.
"Piccoli cattivi con manie di conquista del mondo crescono?", ironizzò Elettra.
"Semmai d'Italia, non del mondo", ribattè lui, fingendosi tremendamente serio. Le diede un bacio sulla guancia, prima d'uscire. 

***

Più tardi a Palazzo Pazzi...

"Conte Riario", lo salutò Francesco Pazzi con un inchino che Riario considerò esagerato. Da un... 'leccaculo', come lo aveva più volte definito Elettra, non poteva aspettarsi nient'altro. Nonostante non gli piacesse per niente, quell'uomo era necessario per la perfetta riuscita dei piani di Roma per Firenze. Doveva farselo andare bene. Per Roma. Per suo padre, il Santo Padre.
"Francesco", rispose con la sua solita freddezza.
Pazzi indugiò un po' sul colletto della camicia del Conte, sospettosamente troppo alto. Ma non abbastanza da nascondere un vistoso segno rosso di forma circolare. Le sue labbra si piegarono in un leggero ghigno, capendo cosa fosse. Un pensiero improvviso lo fece però tornare immediatamente serio: sua moglie Allegra aveva più volte espresso il suo apprezzamento sulla figura di Riario... e in quel momento non si trovava in casa. Era stata piuttosto vaga, circa la sua meta.
Il Conte si portò una mano sul colletto risistemandoselo. Lo aveva detto ad Elettra di evitare ma lei gli aveva risposto qualcosa riguardo ad una vendetta... Aveva sempre la scusa pronta, lei. Questo fatto lo faceva irritare oltre ogni dire. E gli piaceva, oltre ogni dire.
La porta del salotto per le udienze, alle spalle del Conte, si aprì ed una donna sgusciò all'interno silenziosamente.
"Madonna Donati"
Lucrezia guardò con disprezzo entrambi gli uomini. "Signori". Il suo odio traspariva da ogni singola sillaba. Era colpa loro se Amelia, la sua sorellina, era morta. Era colpa loro se ora era costretta ad essere la puttana di Lorenzo. Ed era ancora colpa loro se era una traditrice. Temeva quello che le avrebbero fatto fare, questa volta.
"Siete in ritardo", le fece notare Riario. 
"Ero da Lorenzo", rispose freddamente lei.
Il Conte le lanciò un'occhiata intimidatoria. Non doveva mai permettersi si rispondergli in quel modo.
"Perchè mi avete fatta chiamare?", continuò imperterrita la Donati.
"Il Magnifico questo fine settimana organizzerà una festa in onore di Da Vinci", spiegò Riario.
"Giocheremo un bel colpo basso, a quell'artista", disse Pazzi con un sorriso da orecchio ad orecchio. "E anche a Lorenzo".
Il ghigno malvagio dipinto sulla sua faccia fece venire i brividi a Lucrezia. Leonardo, avrebbe dovuto tradire anche lui, allora.

***

Venerdì sera, a Palazzo della Signoria... 

Elettra era in ritardo, dannatamente in ritardo. Come suo solito. Sospirò, osservando la sala ormai gremita di gente. Passò tra  i vari invitati a passo spedito, cercando con lo sguardo Gentile Becchi.
Sorrise, alla vista delle due colossali spingarde che si trovavano ai lati del portone d'ingresso della sala dei banchetti. Aveva dovuto penare -e non poco- per convincere Lorenzo a lasciargliele installare. Era anche riuscita a modificarne il meccanismo interno; durante la serata, infatti, esse avrebbero sparato coriandoli e stelle filanti per tutto il salone. Sul soffitto, invece, vi erano appesi numerosi prototipi di ali e voltatili in legno. Alla fine, nonostante tutte le sue incertezze, ce l'aveva fatta, a fare un buon lavoro.
La festa doveva essere iniziata già da parecchi minuti. Le feste che organizzava, a differenza sua, erano precise come un orologio svizzero. Doveva senz'altro essere successo qualcosa, per giustificare un tale ritardo.
Finalmente vide suo zio, seduto in seconda fila. Gli si avvicinò e si mise al suo fianco. Era nervoso. Anche i rappresentanti della famiglia de Medici sorridevano nervosi ai vari ospiti, sempre più spazientiti.
"Cosa succede?", gli chiese, sempre più preoccupata.
"Da Vinci non si è ancora visto", rispose Gentile Becchi, continuando a guardarsi intorno.
Anche Elettra si mise a guardarsi in giro, aguzzando la vista, sperando di poter scorgere finalmente Leonardo. Quante volte gli aveva ripetuto che doveva assolutamente essere puntuale? 
Sbuffò irritata. Gesto che non passò inosservato a Giuliano, che, da quando l'aveva vista fare il suo ingresso nella sala, cercava di attirare  la sua attenzione. 
Finalmente i loro sguardi si incontrarono. "Dov'è finito Da Vinci?", le chiese a gesti.
Elettra scosse la testa. Non ne aveva proprio idea.
"Vado a cercare Leonardo", disse a Gentile Becchi, alzandosi di fretta dalla propria seduta.
Girolamo la vide sfrecciare di fianco a passo spedito; era chiaro come il sole che c'era qualcosa che la irritava oltre ogni dire. Che fosse successo qualche imprevisto? Un po' gli sarebbe dispiaciuto: sapeva quanto Elettra si era impegnata, per organizzare quella festa. Nonostante fosse entrata nel suo campo visivo solo per pochi secondi, non potè fare a meno di pensare a quanto fosse magnifica, in quell'abito blu elettrico con quell'ampio scollo a barchetta, che le lasciava scoperte le spalle. Non aveva un corsetto, ma solo una lunga fila di bottoni sul retro; e la gonna non era ampia, ma ricadeva dolcemente sulle forme del suo corpo. 

Elettra non aveva smesso di imprecare dal momento esatto in cui era uscita dal salone dei banchetti. Avrebbe fatto impallidire anche uno scaricatore di porto, in quel momento. Dove cazzo si era cacciato Leonardo?
Gliel'avrebbe fatta pagare cara, se avesse rovinato la festa che lei aveva organizzato.
Uno dei servi l'aveva assicurata sul fatto di averlo visto di sfuggita attraversa uno dei numerosi corridoio, circa un'ora prima. Che cazzo stava facendo?
Sbuffò infastidita, mentre svoltava per l'ennesima volta. 
Finalmente lo vide. Era nella galleria dei ritratti della famiglia de Medici. Immobile davanti al ritratto di Cosimo. Blaterava parole incomprensibili riguardanti una spedizione navale, i Figli di Mitra e la Volta Celeste.
"Cristo Santo, Leonardo!", urlò Elettra, "Si può sapere che cazzo stai facendo?". Era furiosa e parecchio incazzata.
Quando Nico si girò per osservarla meglio, era certo di aver visto del fumo, uscirle dalle orecchie.
Da Vinci si voltò verso di lei, continuando a blaterare; aveva stampata in volto quella sua espressione folle, tipica di quando gli veniva qualche idea.
'Sorridi, annuisci e vai avanti. Sorridi, annuisci e vai avanti', si sforzò di pensare Elettra. Sapeva che se, in quel momento avesse dato corda al geniale artista, la festa poteva pure scordarsela. "Leonardo, qualsiasi cosa tu voglia dirmi, c'è tempo dopo", disse prendendolo a braccetto e conducendolo verso il salone dei banchetti. "Ora, Lorenzo ti sta aspettando"

"Mio nonno, Cosimo, aveva un sogno...". Ovviamente Leonardo era corso nella sala, senza aspettare Elettra, che entrò più tardi, mentre Lorenzo aveva già incominciato a parlare.
Cercando di passare il più inosservata possibile -per quanto il suo aspetto lo permettesse -, fece per tornare a sedersi al suo posto, di fianco a Gentile Becchi. Rimase per un attimo spiazzata, vedendolo occupato da Piero Da Vinci. Quei due, insieme, spettegolavano peggio delle comari della cucina del palazzo. Il chè era tutto dire.
Cercò con lo sguardo altri posti liberi ma, gli unici disponibili erano erano o di fianco al Capitano Grunwald ( 'Assolutamente no', pensò), o di fianco a Girolamo. Non dovevano farsi vedere troppo insieme ma non è che avesse molta scelta. 
"Conte, posso?" chiese gentilmente.
Lui parve inizialmente sorpreso, da quella richiesta ma acconsentì, mettendo in mostra uno dei suoi rarissimi sorrisi sinceri. "Sei bellissima, stasera", le sussurrò ad un orecchio.
Elettra sperò con tutta sè stessa che nessuno la stesse guardando in quel momento: le sue guance stavano assumendo lo steso colore delle vesti vermiglie solitamente indossate da Lorenzo. "Ci sono occhi e orecchie parecchio indiscrete in questa sala", gli sussurrò a sua volta, "Se fossi in voi eviterei"
Girolamo ridacchiò.
"...Nessun figlio di Firenze può rappresentare al meglio questi ideali, come Leonardo Da Vinci", nel frattempo il Magnifico aveva continuato il suo discorso. 
Un paggio entrò nel salone: portava in mano un cuscino di velluto rosso, sul quale era adagiata una lunga collana d'oro, terminante con un vistoso pendente circolare rappresentante il simbolo dell'ordine di San Giovanni Battista.
"Vi nomino Gran Maestro dell'Ordine di San Giovanni Battista, Santo Patrono di Firenze", disse Lorenzo, prendendo la collana dal cuscino e mettendola al collo di Leonardo. 
"Vi consegno la riproduzione vivente di una genialità esemplare: Leonardo Da Vinci", proferì solenne alla grande folla di invitati.
Si alzarono tutti in piedi, battendo le mani e complimentandosi con l'artista.
"Grande Leo!", urlò Elettra, aggiungendo anche qualche fischio d'ammirazione. Sentì gli occhi delle persone nelle sue vicinanze tutti addosso. Girolamo la guardò un po' male: aveva esagerato. La ragazza in quel momento avrebbe voluto sprofondare dalla vergogna: si era dimenticata di non essere al Cane Abbaiante ma nel salone dei banchetti di Palazzo della Signoria. Aveva Decisamente esagerato. Nonostante il rossore delle proprie gote, cercò di ricomporsi e darsi un tono autoritario, cosa che fece ridere ancora di più il Conte.
Elettra notò positivamente quanto Girolamo fosse di buon umore, quella sera. Di solito quel genere di feste lo infastidivano e, appena possibile, se ne andava con qualche scusa. Sembrava non vedesse l'ora di festeggiare...
"Prego, Maestro, concedeteci qualche parola", disse Lorenzo, una volta che la folla si fu calmata.
Leonardo incominciò con il suo discorso: "Le migliori esportazioni di Firenze sono sempre state le sue idee. La nostra Repubblica rappresenta la massima espressione della ricerca. Noi stiamo inventando il futuro. Tuttavia, possiamo sopravvivere solo ampliando i nostri orizzonti.", proferì rivolto alla folla. "Quindi vi propongo un nuovo ardito passo", disse voltandosi verso Lorenzo, "Esiste una terra poco nota, Vostra Magnificenza, ad occidente; in gran parte inesplorata ma assicurano che sia piena di meraviglie quindi, con il Vostro patrocinio, sarò a capo di una spedizione che ci porterà a..."
Le porte del grande salone si aprirono e alcune guardie della notte, seguite da Francesco Pazzie e da un contrariato Quattroni, fecero il loro ingresso. Il Capitano Dragonetti e il Pazzi avevano un'aria trionfante. 
Anche il Conte Riario, di fianco ad Elettra, aveva assunto un sorriso affilato, che non prometteva niente di buono...
"Capitano Dragonetti, cosa significa questo affronto?". Lorenzo era seccato, da quella sgradita interruzione.
"Vogliate perdonarmi, ma è stata avanzata una gravissima accusa contro uno dei vostri ospiti", rispose prontamente l'altro.
'Ci risiamo', pensò Elettra. Anche alla festa di Capodanno dell'anno prima era dovuto intervenire Dragonetti -ovviamente aveva interrotto il discorso di felice anno nuovo di Lorenzo -. Il Magnifico non aveva preso bene il fatto che uno dei suoi ospiti, già ubriaco fradicio prima di entrare a palazzo, si fosse messo ad adempiere ai suoi bisogni fisiologici proprio davanti al Palazzo di Giustizia...
Elettra si morse un labbro per trattenere le risate mentre, con lo sguardo, cercava di capire chi fosse, ad averne combinata una. I prossimi minuti se li aspettava parecchio divertenti.
"Non so niente di nessuna accusa. E a quanto mi risulta, voi rispondete solamente a me", disse secco il Magnifico.
"In realtà rispondo alla Signoria, Vostra Magnificenza", ribattè il capitano.
"Di cui voi siete solamente una voce", si intromise Pazzi.
"Non ho potuto dissuaderli purtroppo. E' questo il protocollo. Ho le mani legate", si scusò Quattroni.
"Continuate Capitano", disse alla fine Lorenzo, notevolmente seccato.
"E' una notizia giunta all'attenzione delle Guardie della Notte per mezzo di una denuncia anonima che recita: 'Leonardo di Ser Piero Da Vinci..."
Aspetta... Cosa?! 
Elettra, che si pregustava già le risate, guardò allarmata Leonardo che, a sentir pronunciare il suo nome, era rimasto paralizzato. Stringeva nervosamente i braccioli della sua seduta. 
"...ha commesso, in violazione degli statuti della Repubblica di Firenze e della Legge Divina e naturale l'empio reato della sodomia. Suddetto individuo verrà prontamente instradato  al Bargello..." 
"Non c'è niente di vero, è una calunnia", urlò indignato Nico. 
Anche Elettra provò a muoversi in direzione di Dragonetti, ma venne bloccata dalla forte presa di Girolamo. Si girò verso di lui: aveva una strana espressione in volto. Lo aveva visto con quell'espressione solo una volta; quando aveva parlato con Lorenzo, la sera del suo arrivo. Un dubbio tremendo cominciò a prendere piede nella sua mente. Di colpo era come se la mano del Conte che teneva saldamente il suo polso fosse diventata incandescente.
"...dove resterà fino a quando i magistrati ne avranno accertato la colpevolezza o l'innocenza. Se l'accusa verrà convalidata sarà condotto dalla pubblica piazza fino al Palazzo di Giustizia. E lì verrà bruciato. Così che morendo la sua anima venga sparata dal corpo"
"No! Questa è opera vostra, Francesco. Sento il fetore della famiglia Pazzi in ogni atto di questa farsa", urlò Lorenzo indignato.
'Non solo di Francesco Pazzi...', pensò Elettra mentre il suo viso perdeva velocemente colore. 
"No, la denuncia è reale Lorenzo. C'è una vittima disposta a testimoniare", disse con un sorriso affilato il Pazzi. 
"Nessuno viene condannato per questo crimine da più di cinquant'anni", ribattè il Magnifico. 
"Eppure è ancora nei libri dello statuto. Se avete riserve rivolgetevi al vostro avo, Cosimo. Non è stato lui a rivedere la costituzione di Firenze? O volete contravvenire alle leggi della Repubblica come meglio credete? Avevo l'impressione che vivessimo sotto una democrazia. Non sotto dittatura, invero". Francesco Pazzi lo stava provocando. E Lorenzo aveva chiaramente le mani legate.
Il Magnifico non potè fare altro che farsi da parte, lasciando che Dragonetti si avvicinasse a Da Vinci.
"I vostri polsi, prego", disse vittorioso all'artista.
Leonardo fu incatenato e portato fuori dal salone tra i mormorii e lo shock generale. 
I suoi occhi persi vagarono per la sala, andando ad incrociarsi con quelli di Elettra, ormai già umidi. Lei lo seguì con lo sguardo fino a quando le fu possibile.
Icaro era andato troppo vicino al Sole e si era scottato e, per quanto riguardava sè stessa, il suo castello di illusioni era caduto, spazzato via da un soffio di vento che, di certo, non aveva causato lei.
Guardo per un attimo il Conte Riario, al suo fianco: aveva un'espressione vittoriosa stampata in volto. 
Elettra cominciò a sentire la propria gola restringersi, il suo cuore battere sempre più forte e le gambe farsi deboli. Senza pensarci due volte corse via, lontano da quel salone e sopratutto lontano da lui: l'aveva tradita ed ora era il povero Leonardo a pagarne le conseguenze.
Si rifugiò nella biblioteca di Cosimo, chiudendo a chiave la porta dietro di sè.
Due grandi lacrime le rigarono il volto mentre il suo intero corpo veniva scosso da singhiozzi sempre più forti. Si lasciò sciovolare lungo il freddo muro fino a terra, stringendo forte le ginocchia al petto.


Nda
Si. Sono ancora viva. E mi scuso per il ritardo.
Questo capitolo è il cosiddetto 'capitolo sfigato': teoricamente era già tutto pronto settimana scorsa ma la mia chiavetta, su cui si trovavano gli ultimi dieci anni della mia vita, ha pensato bene di passare a minor vita... Ho dovuto riscrivere tutto da capo. E il fatto che domani ho l'esame di analisi non ha aiutato...
Questo è il link dell'abito che avevo pensato per la festa: http://www.google.it/imgres?imgurl=https://pbs.twimg.com/media/CPr75l1WEAA1mmc.png&imgrefurl=https://twitter.com/marchesafashion/status/647106467720511492&h=624&w=600&tbnid=5pfzsOxMwbs50M:&docid=chOOyUqN-5hMzM&ei=ftZNVv3QC8L4UNT0j5AN&tbm=isch&ved=0CC4QMygQMBBqFQoTCP2HnLHTnMkCFUI8FAodVPoD0g
Bene! Siamo tornati sulla retta via della serie TV, dopo un'ampia (ampissima) parentesi.

PS Mi Stavo quasi dimenticando... volevo ringraziare tutti: chi recensisce (e che mette sempre una buona parola per me), chi ha messo la mia storia tra le seguite e anche chi semplicemente legge :D

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Capitolo 27
*** Sodomita, parte I ***


Capitolo XXIII: Sodomita, parte I
Alcuni giorni dopo...


"La famiglia de Medici è sempre stata mecenate degli artisti, in particolare..."
"Non. Osate. Mai. Più. Toccarmi."
L'urlo che arrivo alle orecchie di Clarice Orsini la costrinse ad interrompere a metà la frase ed ad alzare gli occhi verso l'alto, verso la cima dell'ampia scalinata di pregiato marmo bianco di Carrara: là, sul loggiato, vi erano due figure, un uomo vestito di nero ed una giovane donna. 
Lo sguardo di Clarice, allarmato, si spostò da loro alle personalità al suo fianco, per saggiarne le espressioni. Ma, dal volto dell'algida regina di Spagna e di quel bigotto frate che la seguiva ovunque, non trasparì alcuna emozione.
Alzò nuovamente la testa, incrociando per un attimo gli occhi con quelli celesti della sua più fedele collaboratrice: Elettra sembrava veramente un cerbiatto spaventato, in quel momento, con quelle due grandi lacrime che le rigavano il delicato viso di porcellana. 
La ragazza guardò l'ampio salone che si apriva proprio sotto di lei. Come ci era finita lì? C'erano delle persone che la osservavano, con gli occhi sgranati e le facce sorprese. Rinobbe Clarice. 
Mentre si asciugava le lacrime dalle guance, vide il Conte Rario passarle accanto e scendere con grazia perfettamente studiata la scalinata. 
Il Conte Riario.
Stava cercando di evitarlo, per quello si era diretta verso quel salone, occupato da artisti intenti ad affrescarne le pareti. Lui però l'aveva raggiunta e le aveva afferrato un polso. A quel punto Elettra era scoppiata. Che stupida che era stata! Credeva di poterlo controllare. Credeva di poter controllare Girolamo Riario semplicemente intrappolandolo tra le sue cosce. Ma non era così. E lo aveva scoperto nel peggiore dei modi.  Al solo pensiero di Leonardo, chiuso in una lurida cella del Bargello per cause che nè lui nè lei potevano controllare, le lacrime erano tornate a pizzicarle nuovamente gli occhi. 
Un tocco, era bastato un semplice tocco, per farle ritornare alla mente tutto quello che era successo quella notte. E quello che ne aveva conseguito. Da quella notte non ce l'aveva più fatta a dormire nel proprio letto. A restare a casa propria, sola. Aveva paura di ritrovarsi Riario alla spalle, all'improvviso. Proprio come come quella notte, in soffitta. Di non sentirlo arrivare. Di capirlo solo dopo aver sentito il suo respiro sul proprio collo. Dormiva nella bottega di Leonardo, insieme a Nico e Zoroastro. Non stava mai sola e aveva ripreso a portare il proprio pugnale, nascosto sotto alle gonne. 
Elettra prese un profondo respiro e, cercando di darsi un po' di contegno, scese la scalinata. Il cuore batteva ancora all'impazzata ma, almeno la gola, sembrava essersi riaperta. Solo una volta arrivata in fondo, notò che di fianco a Clarice vi era un'altra donna. Aveva un volto già visto. Le si gelò il sangue nelle vene, quando collegò quel volto ad un nome. Ma i sovrani spagnoli non dovevano arrivare il giorno seguente? Eppure quella che parlava con Riario era proprio Isabella di Castiglia.
"Non dovevano arrivare domani?", chiese a bassa voce a Clarice.
"Già", rispose l'altra, acida. "Si sono presentati qui ieri sera"
"Perchè non mi avete avvisata? Sarei venuta immediatamente"
La Signora di Firenze le accarezzò una guancia con fare materno. "Hai già abbastanza problemi per la testa in questo periodo, Elettra". Avrebbe voluto aggiungere qualche altra parola di conforto ma Riario ed Isabella si avvicinarono a loro. 
"Vostra Altezza, mi piacerebbe molto presentarvi..."
"Conosco già la nipote di Gentile Becchi", la interruppe seccata la regina di Spagna. "Elettra, giusto?". La squadrò dall'alto al basso, con quell'aria perennemente stizzita stampata in faccia.
"Lieta che vi ricordiate di me, Altezza", disse lei ossequiosa, accennando un leggero inchino con il capo.
"Spero che la vostra dama di compagnia abbia un comportamento meno impertinente e più consono dell'ultima volta che l'ho vista". Era tornata a rivolgersi a Clarice.
Elettra non potè fare a meno di notare Riario portarsi una mano davanti alla bocca per nascondere una risata. Quel gesto la fece irritare ancora di più del fatto di essere appena stata scambiata per una dama di compagnia.
"Elettra non è una delle mie dame di compagnia, lei è la curatrice artistica della Repubblica", si affrettò a correggerla, Clarice. "Stavo giusto per mostrare alla regina Isabella e al suo accompagnatore alcune delle opere d'arte della nostra collezione ma visto che Elettra è qui..."
"La signorina Becchi è un'ottima guida, ve la consiglio vivamente", la interruppe Riario, guardando profondamente la diretta inderessata negli occhi, ma rivolgendosi ad Isabella. 
Elettra lo ricambiò con un'occhiata piena d'astio e poi sorrise falsamente alla regina. "Prego, signori. Da questa parte" 

Elettra condusse il piccolo gruppo in una sala contenente numerose sculture, affreschi, tele ed arazzi; sulla parete di fondo, dove fosse visibile a tutti, troneggiava la tela rappresentante l'Adorazione dei Magi, dipinta appena l'anno prima da Sandro Botticelli. Ai lati del portone d'ingresso, vi erano due statue rappresentante le dee Atena e Venere.
Riario si fermò, osservando attentamente quest'ultima statua. Sul suo viso si formò il suo solito sorriso aguzzo. "Noto una certa somiglianza", disse accarezzando lentamente il marmo levigato del braccio.
Elettra deglutì: le pareva di poter quasi sentire il tocco leggero del Conte sul prorpio braccio, come se, la statua per la quale aveva fatto da modella anni prima, fosse il suo stesso corpo.
"Lo scultore è Francesco Ferrucci", lo infrmò Clarice."Splendida statua. Non trovate anche voi, Conte?"
"Come la modella a cui si è ispirato, in fondo", rispose guardando Elettra.
Lei, dopo aver sbatutto più volte le palpebre per riprendersi, gli lanciò un occhiataccia che, se avesse potuto, lo avrebbe incenerito all'istante. "La famiglia de Medici è da sempre stata mecenate degli artisti, in particolare di quelli che celebrano la santa fede", disse mentre guidava il piccolo gruppo verso l'interno del salone. "Cosa che distingue nello specifico questa creazione". Si fermò ai piedi di una statua di bronzo. "David, che è stato scolpito da Donatello". Sulle sue labbra comparve un ampio sorriso mentre osservava la regina Isabella, cercando di capire cosa ne pensasse. Il suo mutismo però la preoccupava: quella statua era fra le sue preferite ma, il discorso, glielo aveva suggerito Gentile Becchi; lei non avrebbe mai detto quelle parole di sua spontanea volontà. A volte era strettamente necessario fare i lecchini: lo aveva imparato semplicemente stando accando a Riario.
"Il Signore che mi ha salvato dagli artigli del leone e dell'orsa potrà salvarmi da questo abominio", disse disgustato il frate.
Elettra rimase a bocca aperta; la sua testa, intanto, si stava affollando di possibili insulti da rivolgere a quell'ignorante. Il tutto stava a decire quale fosse più offensivo.
"Non vedete la bellezza di quest'opera, Frate Torquemada?", chiese stupita Clarice.
"L'artista è un pervertito, come altri di cui ho udito parlare in questa regione"
"Lo giudico osceno. Vi prego di coprirlo durante la nostra visita", disse la regina di Spagna, guardando in modo severo le parti basse, in bella mostra, della statua. Fece per passare avanti, ma fu bloccata da Elettra.
"Vostra Altezza, permettetemi di spiegarvi meglio. Temo che non siate riuscita a cogliere il vero significato di quest'opera"
Isabella la squadrò da capo a piedi, con un'espressione da far gelare il sangue nelle vene a chiunque. Chi era quella ragazzina impertinente per permettersi di dirle una cosa del genere? Elettra resse alla perfezione il suo sguardo: quello non era niente, rispetto a certe occhiate del Conte Riario.
"Osservate la posa", disse avvicinandosi meglio alla statua, "Osservatene le movenze, la fierezza che irradia: quest'opera rappresenta un giovane re che ha appena vinto la battaglia della vita; è la quint'essenza della vittoria. David non fu mai splendente come quel giorno e Donatello ha ripreso questo tema biblico alla perfezione, creando un perfetto connubio tra l'arte religiosa e l'esperienza dell'epoca classica. Osservatene il corpo, perfetto come quello di un dio greco o romano, perfetto come le numerose statue classiche rinvenute a Roma", guardò il Conte Riario che, pensieroso, le rispose con un cenno d'approvazione. "Qui a Firenze sta nascendo una nuova forma d'arte che raccoglie dentro di sè l'esperienza dell'età classica e la saggezza del cristianesimo. E quest'opera ne rappresenta appieno lo spirito"
Clarice, se avesse potuto, le  avrebbe battuto le mani; si limitò a guardarla con uno sguardo pieno di ammirazione. 
"Spero che non tutti i vostri collaboratori sproloquino in questo modo", disse acida la regina di Spagna.
Elettra sbuffò: doveva andarsene di lì, per evitare di insultare qualcuno e causare una guerra tra Firenze e la Spagna.
"Io trovo, invece, che il discorso della signorina Becchi sia stato molto istruttivo", ribattè pacato il Conte Riario. Provò a sorridere, in direzione di Elettra che distolse immediatamente lo sguardo.
La ragazza fece un inchino per congedarsi e si avviò a lunghi passi verso l'uscita. Non avrebbe resistito un minuto di più, là dentro.

***

'Stronza'. Era l'aggettivo più adatto che le fosse venuto in mente, per descrivere Isabella di Castiglia. Lo aveva pensato quasi dal primo istante che l'aveva vista, diversi anni prima, durante quella visita diplomatica insieme a Gentile Becchi. Le era ritornato in mente quando Giovanna, la figlia minore dei sovrani spagnoli, le aveva mostrato le cicatrici causate dagli strumenti di tortura che la madre usava per punirla. E lo aveva ripensato quel giorno. 
'Spero che non tutti i vostri collaboratori sproloquino in questo modo'. Ma come si permetteva! Aveva usato quel discorso con quasi tutte le personalità in visita a Firenze e tutti rimanevano stupiti da quelle considerazioni. Nessuno le aveva mai detto una cosa del genere. Sbuffò irritata: aveva già i suoi problemi per la testa, con Leonardo in prigione e quello stronzo del Conte... ecco, poteva essere una bella coppia insieme, Riario ed Isabella.
Camminava talmente spedita e con la testa bassa che non si accorse delle persone che giungevano dalla parte opposta. 
"Elettra! Eccoti qui", disse il Magnifico con un largo sorriso. 
La ragazza si accorse di lui solo dopo che lo ebbe sorpassato. Si voltò e lo salutò sforzandosi di sorridere ma, quello, non era neanche l'ombra dei suoi sorrisi abituali.
Gentile Becchi, al fianco di Lorenzo, la guardò con preoccupazione: il suo istinto gli diceva che c'era qualcos'altro, a impensierire la nipote, oltre all'arresto di Da Vinci.
"L'ultima volta che vi ho vista eravate poco più di una bambina e ora siete diventata una bellissima donna". Presa com'era dai suoi pensieri, Elettra non si era neanche accorta di una terza persona. 
"Vostra Altezza, salve". Ferdinando D'Aragona, a differenza della moglie, le era sempre stato simpatico. 
"Vostra nipote ormai è in età da marito: chissà quanti pretendenti tra cui scegliere, vero Becchi?"
Elettra, a sentir parlare di matrimonio si irrigidì di colpo, mentre suo zio annuì distratto al re. "Vostra figlia Giovanna come sta?". La ragazza voleva cambiare al più presto discorso. Durante il suo soggiorno in Spagna, aveva legato fin dal primo momento con la figlia dei sovrani spagnoli ed erano rimaste in contatto.
"Molto bene. Immagino che vi abbia informato che sono diventato nonno".
"Le mie congratulazioni, sire"
"So che siete andata a trovarla l'anno scorso, a Parigi. Me ne ha parlato nelle sue lettere. Parla sempre di voi nelle sue lettere"
Già, Giovanna era stata data in sposa al re di Francia, Filippo il Bello. E, l'estate precedente, Elettra era stata loro ospite a palazzo. Ma la corte francese l'aveva profondamente delusa: aveva bollato quel posto come 'una gabbia di matti' e, dopo appena una settimana, con la scusa di alcuni improrogabili impegni a Firenze, aveva levato le tende.
"Posso darvi un consiglio, Vostra Altezza?", chiese la ragazza.
"Certamente"
"Dovreste far fare a vostra moglie un corso accellerato sull'arte contemporanea... è un po' carente, sul quel lato"
"Non solo in quello è carente", ribattè il re divertito, facendole l'occhiolino.
Mentre discuteva del più e del meno, la ragazza si ricordò del processo a Leonardo. Guardò allarmata l'ora, scoprendo che mancavano ormai pochi minuti all'inizio dell'udienza. "Leonardo!", disse improvvisamente.
"Sarà meglio che tu vada"
Elettra annuì al Magnifico, salutò i tre uomini e si diresse di corsa verso il Palazzo di Giustizia.
 
***

Il processo doveva già essere iniziato da qualche minuto eppure, quando Elettra arrivò, affannata dalla lunga corsa che aveva dovuto fare, l'udienza non aveva ancora avuto inizio. 
"Cos'è successo?", chiese preoccupata a Vanessa, mentre si sedeva tra lei e Zoroastro.
"L'avvocato dell'accusa è in ritardo", rispose l'altra.
Elettra sospirò: le attese non facevano proprio per lei. Allungò il collo in modo da poter vedere meglio Leonardo: era seduto e sporco - e la ragazza non voleva neanche sapere di cosa - e disegnava compulsivamente su dei fogli.
"Ha un aspetto spaventoso", disse Vanessa dando voce anche ai suoi pensieri.
Piero Da Vinci, in piedi di fronte al giudice, si stava spazientendo. "Magistrato, la difesa è già pronta. I sostenitori dell'accusa ci raggiungeranno o si sono resi conto dell'erroneità delle calunnie che hanno mosso?"
Proprio in quel momento le porte dell'aula si aprirono ed una figura entrò nell'aula. Aveva la faccia da topo.
"La vostra risposta è arrivata", disse il giudice.
"Che ci fa qui Francesco Pazzi?", chiese pensieroso Zoroastro. "Non è avvocato"
"E' un bene per Leonardo?". Vanessa  non ne sapeva molto, di politica.
"I Pazzi sono i rivali dei Medici"
La ragazza aggrottò le sopracciglia. Non capiva come questo potesse centrare.
"No, non è un bene", disse Elettra. Si sarebbe aspettata di vedere anche il Conte Riario al processo ma, probabilmente, era ancora impegnato a leccare il culo alla regina di Spagna. Meglio così: meno lo vedeva e meglio stava. 
"Magistrato, posso sollevare un'obiezione sul ruolo di messer Pazzi nel processo? Non mi risulta che sia membro della corporazione dei notai", disse Piero, evidentemente seccato.
"L'ammissione di messer Pazzi alla corporazione è stata approvata in un'apposita riunione la scorsa notte. Per sollevare obiezioni era quella la sede appropriata. Vostro figlio desidera presentare una protesta formale?"
"Egli non è...". Piero strinse i denti: Leonardo era un figlio bastardo e lui non lo aveva mai tenuto in grande consideraizone; se non fosse stato che la richiesta di difenderlo in tribunale era arrivata direttamente dal Magnifico, lo avrebbe lasciato in balia del proprio destino. "No, nessuna protesta", disse andando a sedersi di fianco al figlio.
"L'accusato ha qualche richiesta d'attenunti da mettere a verbale?"
"Col permesso della corte, intendiamo contestare tutte le accuse". Era una mossa rischiosa. E Piero lo sapeva. Ma Leonardo si era impuntato, su questo.
Il giudice, a quelle parole, si alzò in piedi dalla sorpresa. "Ser Da Vinci, comprendete le possibili implicazioni derivanti dal contestare le accuse?"
Anche Leonardo si alzò, continuando a picchiettare la matita sul bancone e guardando il giudice con uno sguardo vuoto.
"Il mio cliente fa richiesta del privilegio di fare una dichiarazione d'apertura", disse Piero.
Nel'aula calò il silenzio, rotto solo dal picchiettare a tempo della matita; Leonardo se ne stava in piedi, con lo sguardo fisso su un punto non ben precisato della sala, in silenzio.
"Leonardo dì qualcosa". Elettra cominciava davvero a preoccuparsi, riguardo alla salute mentale dell'amico; senza neanche accorgersene, strinse forte la mano di Zoroastro. Talmente forte che il moro si mise a protestare; Andrea, seduto anche lui nella stessa fila, lo zittì prima che creasse troppo scompiglio nella sala.
Dopo attimi che sembravano interminabili, quel picchiettio costante terminò e Leonardo girò la testa verso il banco dell'accusa, studiando il Pazzi. 
"Ho dedicato tutta la mia vita allo studio della natura", disse, tornando a guardare il giudice. "Libero da superstizioni o distorsioni. Queste accuse, nel caso migliore, vengono da un pozzo di ignoranza, nel peggiore, c'è puzzo di macchinazione politica nel mettere in dubbio così le relazioni di qualcuno perchè io non ho nulla di cui vergognarmi, ne da cui mi devo difendere"
"E io lo attesterei, se potessi testimoniare", disse Vanessa.
"L'aver deflorato non lo aiuterebbe", ribattè Zo.
"Riceverebbe solo una multa. Non è più punito con il rogo"
Mentre Leonardo si sedeva di scatto e ricominciava a disegnare, come se avesse avuto una delle sue strampalate idee, Andrea richiamava per l'ennesima volta Zoroastro al silenzio.

Il processo andò avanti ancora per parecchio con discussioni tra gli avvocati e con il giudice, poi fu la volta dei testimoni.
Elettra sapeva che sarebbe toccato anche a lei, andare a testimoniare, ma probabilmente, sarebbe slittata al giorno successivo.
Il primo testimone fu il frate che seguiva come un'ombra la regina di Spagna e, quasi come per magia, tra la folla spuntò pure il Conte Riario.
"La vita di coloro che non sono mai nati grazie al loro vizio. I sodomiti in questa vostra città hanno le anime dei non nati sulle loro coscienze. Queste anime implorano giustizia gridando: 'Al rogo. Al rogo!' ", sproloquiava il frate.
E qui ci fu il primo sbadiglio di Zoroastro.
"Invece i vostri governanti promuovono la sodomia"
Secondo e rumoroso sbadiglio. E primo sbadiglio di Andrea che, più elegantemente, lo soffocò nel pugno, girandosi per non farsi notare.
"Combinando delle multe il luogo della pena appropriata, che deve essere il rogo"
Terzo sbadiglio. "Ha dormito con il culo scoperto", aggiunse poi.
"Perchè quando si tassa un crimine, lo si fa diventare una merce. I Medici hanno fatto la loro fortuna con questo vizo al prezzo della sempiterna vergogna di Firenze"
Quarto sbadiglio. "Un discorso peggiore di questo non puoi farlo, quindi stai tranquilla", sussurrò nell'orecchio ad Elettra, notando quanto fosse nervosa. 
"Obiezione magistrato, non comprendo perchè sia stato permesso ad un forestiero di testimoniare in questa sede"
'Santo Piero', pensò Elettra; non ne poteva più di quel frate. Anche Zoroastro sembrò riscuotersi dallo stato di catalessi in cui si trovava, come del reste fece tutta la sala.
"Ho chiamato io lo stimato frate Torquemada come voce di moralità, per rammentarci le nostre solenni responsabilità di fronte a Dio.". Nel mentre che il Pazzi parlava di cose delle quali, in realtà, non gliene poteva fregare di meno - e, tra l'altro, non era neanche bravo a fingere -, un paggio della Signoria entrò trafelato, avvicinandosi ad Andrea e sussurandogli qualcosa all'orecchio.
"Elettra, Giuliano de Medici ci cerca", le disse poi il Verrocchio.
"Non posso venire e Giuliano lo sa". Ovviamente, il giovane de Medici, si era scordato che c'era l'udienza e che lei doveva Assolutamente andarci. "Ditegli che appena c'è una pausa lo raggiungo"
Andrea le fece un cenno d'assenso con il capo ed uscì di fretta, dietro al paggio.
"Vorreste negargli questo diritto?", nel frattempo il Pazzi aveva continuato il suo sproliloquio. 
"Vorrei ricordare a questa corte che la gravità delle accuse non viene messa in dubbio, ma non si serve certo Dio, punendo le persone innocenti.  L'accusa deve essere ancora dimostrata" ribattè Piero.
"E probabilmente lo sarà, dopo una sospensione", sentenziò il giudice, congedando tutti.
 
***

Elettra andò velocemente a Palazzo della Signoria, in cerca di Giuliano ma, dopo un'ora passata a girare per i corridoi in cerca dell'amico, finalmente riuscì a sapere da Fabrizio che il giovane de Medici era andato alla bottega del Verrocchio.

"Calandrino e il Maiale, il Decamerone, l'Esistrata... cosa state complottando qui?", chiese Elettra una volta giunta alla bottega di Andrea. Li aveva sentiti discutere e nominare tutte quelle opere ed era curiosa.
"Lorenzo vuole che organizziamo uno spettacolo teatrale in onore dei sovrani spagnoli", rispose caldamente Giuliano.
La ragazza lo guardò pensierosa. "Quando?". Se era come pensava, non avrebbe voluto saperlo.
"Domani sera"
"Siamo nella merda", disse candidamente. Non sapeva se ridere o piangere.
"Metteremo in scena solo alcune scene del Decamerone", tentò di tranquillizzarla.
Elettra sospirò. "Iniziamo con la nostra solita scenetta?"
"Il Principe e la Principessa della Giovinezza non possono di certo mancare"
"Tu pensa ai testi, io invece mi occuperò della scenografia"
"Come sempre"
"Ah... e ingaggia anche Vanessa, è davvero un'ottima attrice"
Giuliano annuì soddisfatto: il morale di Elettra sembrava essersi un po' alzato, dall'ultima volta che l'aveva vista.
Mentre usciva dalla bottega, arrivarono Nico e Zoroastro, carichi di strani oggetti.
"Leonardo ha detto che deve parlarti il prima possibile", le disse Zoroastro.
"E tu come fai a saperlo?"
Con in ghigno soddisfatto, le sventolò davanti al naso un foglietto con scritte indecifrabili.
 
***
 
Quella sera...

La notte doveva essere ormai scesa, o almeno così pensava Leonardo: i pipistrelli che di giorno affollavano la sua cella erano spariti, probabilmente usciti a caccia. In quella lurida cella non c'era niente che gli permettesse di sapere con esattezza quale ora del giorno fosse.
Sentì la chiave girarsi nella toppa e, immediatamente dopo lo scatto della serratura: aprendosi, la porta produsse un cigolio sinistro.
Un'ombra scura sgusciò nella sua cella.
"Finalmente sei arrivata", disse con un largo sorriso. Cominciava a non sperarci più.
Elettra imprecò, mentre tentava di accendere la torcia che aveva in mano. Alla fine lasciò perdere, preferendo illuminare la stanza con la tenue luce del ciondolo dei Figli di Mitra. "Non è saggio farne bella mostra in pubblico", disse Leonardo osservando la terza chiave della Volta Celeste.
"Nessun pazzo verrebbe qui a curiosare". Quella cella era uno schifo e l'odore, forse, era anche peggio; nessuno sarebbe mai entrato, spontaneamente. Nessuno tranne Da Vinci.
"Potresti essere accusata di stregoneria"
"Ha parlato l'uomo chiuso in una cella di isolamento e ricoperto di merda di pipistrello con l'accusa di sodomia", ribattè lei sarcastica.
Leo le sorrise con fare fraterno. "Come stai?"
"Dovrei farti io questa domanda a te"
"Paradossalmente, nonostante il mio precario stato mentale, sono messo meglio di te"
Elettra era pallida, più pallida del solito, e il suo volto di porcellana era solcato da due profonde occhiaie viola; l'indossare abiti maschili completamente neri, poi, ne accentuava l'effetto, facendola apparire spenta, ben lontana dalla sua solita spensieratezza.
Lei sospirò. Non le andava di parlarne. E avevano poco tempo, infatti era riuscita ad introdursi al Bargello soltanto perchè la guardia di turno quella notte le doveva un favore.
"Perchè mi cercavi?"
"Lo spettacolo di domani sera a Palazzo"
"Aspetta... mi hai fatto venire qui per parlare di teatro?!", chiese alterata, alzando un po' troppo la voce.
"Abbassa la voce" le disse Leonardo.
Elettra sbuffò, esasperata. Credeva davvero di essere dovuta andare lì per qualcosa di importante.
"Ho in mente un modo per uscire di qui"
"Aspettare che tuo padre ti scagioni, vero?", chiese preoccupata; temeva che il geniale artista le avrebbe esposto da un momento all'altro una delle sue folli idee.
Come risposta, l'artista rise. "Conosci la novella di Calandrino e il maiale?"
Elettra piegò la testa di lato, cercando di capire le intenzioni di Leonardo. "Dove vuoi arrivare?"
"Calandrino aveva un suo poderetto non guari lontan da Firenze..."
"Leo la conosco", lo interruppe lei. "Memoria fotografica, ricordi?"
"Domani sera, a mezzanotte in punto, voglio che tu ne reciti le prime righe"
"Perchè?"
"Vedrai", le rispose Leonardo con un sorriso. "Devi solo fidarti di me"
 
***
Più tardi, nella bottega del Verrocchio...

Elettra arrivò alla bottega di Andrea che l'ora del coprifuoco era già passata da un pezzo; era stato un miracolo che nessuna delle Guardie della Notte l'avesse vista, mentre usciva dalla cella di Leonardo o durante il tragitto dal Bargello fino a lì.
Lo studio del Verrocchio era la bottega più in ordine di tutta Firenze eppure, quella notte, senbrava che per quella stanza fosse appena passato un uragano. O un Da Vinci in piena ispirazione per qualche nuova e folle idea.  
Vi erano strumenti sparsi per i tavoli e sul pavimento, assi di legno, viti, lenti di diverse forme e dimensioni e boccette contenenti chissà quali composti chimici.
"Cos'è successo qui?", chiese parecchio stupita.
"Puzzi di merda di pipistrello". A volte Zoroastro era di una finezza disarmante...
Istintivamente Elettra si portò il mantello vicino al naso, per controllare che Zo dicesse effettivamente la verità. Fece una smorfia e, con un gesto velocissimo, se lo tolse, buttandolo sul pavimento, stizzita. Sbuffò: era rimasta nella cella di Leonardo solo per pochi minuti e poi, aveva prestato molta attenzione a non toccare o anche solo sfiorare niente, là dentro. A quanto pare, era proprio l'aria, ad essere impregnata di guano di pipistrello. Per sicurezza si tolse anche la giacca.
Con una punta di dispiacere, Elettra notò che Andrea, Zoroastro, Nico e Vanessa avevano già assemblato tutto. "Perchè non mi avete aspetta?", chiese.
"Vai a tenere compagnia a Leonardo tu, invece di aiutarci", rispose ironico Zo.
"A proposito di Leonardo...", il suo viso parve illuminarsi, "Mi ha detto di dirti di procurarti una divisa da guardia della notte e raggiungerlo al Bargello domani sera ed aspettare il segnale"
Zoroastro la guardò a bocca aperta. Cosa aveva detto di fare Leonardo? "No, non lo farò", ribattè.
Elettra lo guardò con quell'espressione supplichevole e gli occhi da cerbiatto a cui quasi nessuno era mai riuscito a dire di no.
"E smettila di guardarmi così, non lo farò"
Espressione ancora più supplichevole.
Zo emise un lungo e rumuroso sospiro. "Mi devi una birra"
"Tutte quelle vuoi", disse Elettra saltandogli al collo.
Poi la sua attenzione fu attirata da un vecchio lenzuolo dall'aria logora, che copriva uno strano arnese appoggiato su uno dei tavoloni; alzò in parte il telo, infilandosi poi sotto fino al busto ed osservando l'oggetto con attenzione.
"Zoroastro, smettila di guardarmi il culo", disse ironicamente dopo alcuni secondi.
L'altro sbuffò, divertito. "Me lo devi", ribattè dandole un'amichevole pacca sul didietro.
"Questo periscopio fa ciò che dobrebbe fare?", chiese la ragazza mentre si rimetteva in piedi.
"Ho seguito alla lettera le indicazioni ma non ne so certo più di te", ripose Andrea.
"Cosa mi dite degli altri oggetti dell'elenco?". Elettra non aveva avuto il tempo di leggere la lista che Leonardo aveva fatto ed era curiosa di sapere.
"Questa tiene bloccata un uomo per parecchio, prima di dissolversi", disse Zo, passandole un barattolo contenente una sostanza biancastra con una consistenza simile al miele.
"Io ho provato questa su Nico. Ha perso i sensi per quindici minuti", disse Vanessa.
"Potevi dirmelo che sarebbe successo. Ho rischiato di rompermi la testa", ribattè parecchio contrariato, il diretto interessato.
"Qualcuno sa dirmi chi incolleremo a cosa e perchè?", chiese Zoroastro. Era una domanda retorica.
"E a te Leo cosa ti ha detto?", chiese la rossa ad Elettra.
"Devo leggere Calandrino e il Maiale a mezzanotte in punto, domani, durante lo spettacolo"
"Il nostro amico può aver perso il senno in progione, a volte capita", rispose Andrea. "Una pozione, un prisma, un periscopio, un maiale, una novella di Boccaccio e un vaso di mastice. Se un folle avesse ideato una caccia al tesoro sarebbe stata proprio così" 
Restarono ancora un po', a parlare del più e del meno. Poi Vanessa andò a casa e Andrea invitò caldamente Elettra, Nico e Zoroastro a ritrovare i loro letti.

Una volta uscita nel cortile della bottega del Verrocchio, Elettra fece per dirigersi verso lo studio di Leonardo. Aveva già la mano sulla maniglia, quando Zo parlò: "Dovresti andare a casa tua, dormire nel tuo letto" le guardò attentamente il viso, notando i profondi segni violacei sotto ai suoi occhi. "O provarci almeno". Il suo tono di voce non era il solito ridente e ironico: c'era preoccupazione per la salute dell'amica. Nonostante fossero giorni che si cervellasse sul perchè di quello strano comportamento, il moro non aveva ancora trovato una causa plausibile. Non era solo per Leonardo, di questo ne era certo.
Elettra scosse leggermente la testa. "Non posso", sussurrò appena. La sua voce tremava leggermente.
"Si che puoi"
Lei scosse nuovamente la testa.
Zoroastro in quei giorni stentava a riconoscere Elettra, in quella giovane donna dall'aria sciupata che non faceva altro che piangersi addosso. L'Elettra che conosceva lui a quest'ora avrebbe già scatenato l'inferno in terra per liberare Leonardo. E ora probabilmente sarebbe al Cane Abbaiante a festeggiare.
"Io e Nico abbiamo deciso che stanotte dormiremo a casa di una certa Elettra Becchi", disse Zo con quel suo solito sorriso furbetto.
"Cosa? Io non ho dec...", Nico non riuscì a finire la frase a causa di un calcio sullo stinco da parte del moro.
Elettra distese le labbra in un sorriso. Stanco, ma pur sempre un sorriso. Era incredibile quanto le persone a cui teneva si davano da fare, per farla stare meglio. 
"Bene, Zo", disse dandogli una pacca sulla spalla, mentre si dirigevano a casa sua, "Cosa vorresti bere, stasera?"


Nda
Innanzitutto volevo scusarmi per il grande ritardo con cui pubblico questo capitolo ma, tra il fatto che ho poco tempo per scrivere e il capitolo che è lungo come la fame (infatti è diviso in due parti), mi sono un po' persa via. Però so come farmi perdonare: sto lavorando ad una sorpresa che pubblicherò alla vigilia di Natale ;)
Ps. Dopo la descrizione che ho fatto  del David di Donatello sto prendendo in considerazione l'idea di mollare ingegneria e andare a fare storia dell'arte ahahahah 

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Capitolo 28
*** Sodomita, parte II ***


Capitolo XXIII: Sodomita, parte II

La mattina dopo...

Elettra picchiettava nervosamente il piede a terra, mentre si guardava in giro per la l'aula del Palazzo di Giustizia dove si trovava: tra poco avrebbe testimoniato in favore di Leonardo. 
Osservò lo spazio intorno a lei: c'era molta più gente, rispetto al giorno prima e, ormai, per assistere all'udienza, vi erano solo posti in piedi. Sorrise a Vanessa, Nico, Zoroastro ed Andrea seduti in seconda fila. Leonardo, sotto lo sguardo attento di suo padre, le fece l'occhiolino. Per un attimo i suoi occhi, vagando per la sala, si incrociarono con quelli del Conte Riario, ma ruppe subito quel contatto. 
Guardò Francesco Pazzi che camminava avanti e indietro proprio davanti a lei: sembrava spazientito dal fatto che il giudice non si fosse ancora deciso a dichiarare l'inizio dell'udienza.
Elettra sospirò: non sapeva davvero che domande aspettarsi dal Pazzi. Piero le aveva detto, quella mattina, fuori dal tribunale, che le Guardie della Notte avevano perquisito la bottega di Leonardo e preso alcuni appunti 'incriminanti'.
'Respira, sorridi e sii gentile. Respira, sorridi e sii gentile...', pensava. Subito dopo l'agguato aveva il terrore degli occhi degli altri addosso. Poi, con il tempo, aveva imparato a sopportarli. Alle feste le piaceva avere gli occhi di tutti puntati addosso ma, in quel momento, era come se fosse tornata bambina. Cominciava ad avere il respiro corto.
Il giudice diede il suo benestare e l'udienza ebbe inizio.
Elettra chiuse un attimo gli occhi, concentrandosi il più possible per calmare il ritmo delle proprie pulsazioni e quella sgradevole sensazione della gola che lentamente le si restringeva. 
Doveva aiutare Leonardo e, già che c'era, dare una bella lezione a quel lecchino del Pazzi e al Conte. E doveva farlo restando l'affabile e gentile collaboratrice della Signoria. Quindi sorridere, fare qualche battutina -sempre nei limiti della decenza-, cercare di mantenere l'espressione da cerbiatto innocente e convincere le persone in aula quel giorno che Leonardo fosse innocente.
Pazzi si avvicinò a lei e quel suo solito sorrisino da lecchino scomparve, lasciando spazio ad un ghigno che non prometteva niente di buono. Teneva in mano alcuni fogli, probabilmente presi dalla bottega di Leonardo.
"Ricerche più accurate su Leonardo Da Vinci hanno portato alla luce altre parti di una mente contro natura", incominciò. "Questi disegni erano nello studio di Da Vinci", disse sventolandoglieli davanti. 
Elettra aguzzò la vista, per cercare di capire cosa raffigurassero, ma essi erano troppo lontani. "Francesco, permettete?" chiese candidamente.
Il Pazzi glieli passò di mala voglia. "Mi rincresce molto, madonna, mettervi in queste condizioni, che di certo non si addicono ad una giovane donna del vostro rango"
"Leccaculo", commentò Zoroastro dalla tribuna, facendo ridere Vanessa.
Elettra osservò con attenzione gli schizzi di Leonardo; piegò la testa leggermente di lato e si concentrò, cercando di pensare in fretta alla sua prossima mossa. "Sinceramente, non capisco proprio cosa abbiamo questi disegni di incriminante", disse con tono innocente, lasciando di stucco il Pazzi.
"Non notate con quali dettagli il pervertito ha ritratto l'anatomia maschile?", chiese l'altro.
"Ma se un'artista non utilizzasse questi dettagli, come potete anche solo pensare che si possa raggiungere la perfezione di un David di Donatello o di un Apollo del Belvedere?", chiese, osservando la platea davanti a lei e cercando conferma delle proprie parole, tra le tante facce che la scrutavano attente. "Gli studi di anatomia sono necessari, di qualsiasi parte atomica si parli"
Sul volto di Francesco Pazzi si formò un sorriso aguzzo, un misto tra rabbia e intimidazione. Elettra gli rispose con uno dei suoi caldi sorrisi.
Si stava svolgendo una sottile guerra, all'interno dell'aula di tribunale, fatta di sguardi e finta cordialità.
"E cosa sapete dirmi di questo quaderno, che è stato trovato riposto in uno scomparto segreto", riprese il Pazzi, mostrandole uno dei blocchi per gli appunti di Leonardo.
Alla ragazza si gelò il sangue nelle vene, quando lo vide. Lo conosceva troppo bene, quel quaderno: in esso Leonardo aveva scritto tutto quello che avevano scoperto sui figli di Mitra. Anche lei vi aveva scritto.
Da Vinci, al vedere il proprio blocco per gl appunti, si alzò di colpo in piedi, osservando il Pazzi in cagnesco.
Nonostante stesse tentando con tutte le sue forze di rimanere impassibile, Elettra non potè impedire alle proprio mani di tremare, quando prese il quaderno che Francesco le porgeva. Si mise a sfogliarlo: ogni singolo disegno, annotazione ed appunto li avrebbe fatto rischiare il rogo. 
"Dovete scusare le condizioni delle prove, ma chiaramente l'accusato ha tentato in tutti i modi di impedire la divulgazione di queste riproduzioni pagane, bruciandole", disse il Pazzi. 
Elettra prese un lungo respiro. 'L'avevo detto a Leonardo che saremmo finiti sul rogo insieme'. Quando alzò gli occhi da quei fogli, il suo sguardo era deciso e determinato più che mai. "Cosa volete chiedermi a riguardo, Francesco?"
"Una testa d'animale su un corpo d'uomo. Un Dio pagano. E non solo uno, decine. E' l'adorazione di un eretico", rispose.
"In realtà sono solo delle semplici ricerche che io e Leonardo stiamo portando avanti"
Nella sala calò il silenzio.
Elettra vide il Conte Riario spalancare gli occhi per lo stupore e poi farle segno di stare zitta, di fermarsi finchè poteva. Anche Da Vinci ebbe la stessa reazione.
"Il dio pagano qui rappresentato è Mitra, una divinità romana". No, non avrebbe dato retta a nessuno dei due. "E le rovine del tempio romano appena fuori città erano il luogo di culto dedicato a questa divinità e..."
"Ammettete di essere un'eretica, quindi?", la interruppe il Pazzi.
'Eretica libera pensatrice, per l'esattezza', pensò.
"No, non sono un'eretica, come non lo è Leonardo"
"Non si tratta di un'adorazione ma solamente di studi a fini artistici", disse Piero. Avrebbe dovuto bloccare Elettra molto prima. Aveva sbagliato ed ora doveva cercare di tamponare il più possibile i danni.
"Davvero?", lo prese in giro il Pazzi. "Io dico che non solo questo pervertito pratica la sodomia,  ma anche la stregoneria. Alla corte chiedo dunque di considerare la condanna a morte"  
Elettra prese un lungo respiro. Cosa le aveva detto Zoroastro? Che un discorso peggiore di quello di quel frate non poteva farlo. Zo si era sbagliato. Aveva fatto di peggio.
Ora, l'unica cosa che poteva salvare la pelle a Leonardo, era seguire il suo folle piano.
 
***
 
Nel pomeriggio...

"Siete andato troppo oltre". La voce del Conte Riario era poco più che un sibilo, un sibilo affilato, da far venire i brividi. Pazzi non gli era mai piaciuto e sapeva che non avrebbe esitato un attimo a voltare le spalle ai propri alleati, per il proprio tornaconto; ma mai si sarebbe aspettato una simile ribellione, quando sapeva benissimo che l'appoggio di Roma era essenziale, per diventare Signore di Firenze. "Avevo chiaramente detto di avere dei progetti per Leonardo Da Vinci. Doveva essere solo arrestato, non messo al rogo"
"Questo è nelle mani della corte", rispose il Pazzi, sprezzante. "Ho pensato che potremmo rincarare la dose, contro Lorenzo: più la Signoria apparirà debole, più sarà  facile per la mia famiglia salire al potere", continuò nonostante le occhiatacce del Conte. "Per esempio, potremmo far arrestare quell'impertinente della nipote di Becchi per stregoneria...". Pazzi non riuscì a terminare di esporre il suo piano, bloccato da Riario che lo aveva preso per il colletto della camicia e sbattuto contro il muro.
"Voi non la toccherete. Avete capito bene, Pazzi?", disse in modo intimidatorio.
Dopo una lunga occhiata, lo lasciò andare. Riario prese un lungo respiro. Cosa gli stava succedendo? Non aveva mai agito così d'istinto ma, quando si trattava di lei, diventava un damerino pronto a menar le mani. Era letteralmente esploso, prima. Prese un lungo respiro, cercando di calmarsi. Guardò Pazzi che si allentava nervosamente il colletto della camicia, nel tentativo di prendere più aria.
"Quella sgualdrina vi ha letteralmente stregato, Conte"
Avrebbe potuto buttarlo nuovamente con le spalle al muro, oppure fargli assaggiare l'affilata lama della sua spada o dello stiletto, ma preferì trattenersi. Arrabbiarsi ulteriormente non avrebbe fatto altro che confermare le parole del Pazzi.
"Sarei curioso di sapere cosa ne pensa il Santo Padre, riguardo a questa storia"
Riario rispose a quell'ulteriore provocazione con uno dei suoi soliti sorrisi freddi.
Il Pazzi sorrise fra sè e sè. "Come pensavo". Si mise a camminare avanti e indietro per la sala. "Sarebbe un peccato se il Santo Padre lo venisse a sapere e accadesse, disgraziatamente, qualcosa a quella povera ragazza"
"Cosa volete, Pazzi?"
"Firenze, ovviamente"
"Come da patti"
"E un esercito"
"Si potrebbe fare"
"E la testa di Lorenzo e Giuliano de Medici e di Leonardo Da Vinci" 
 
***
 
Quella sera...

Elettra scostò leggermente il pesante tendaggio di velluto rosso che copriva il palco: lo spettacolo sarebbe iniziato a breve e il giardino di Palazzo della Signoria era ormai stipato all'inverosimile di persone di ogni rango. Era anche quella la bellezza di Firenze: trovare fianco a fianco, come se niente fosse, nobili e semplici contadini. Era quell'atmosfera leggera e felice, che quella sera lei e Giuliano volevano comunicare ai sovrani spagnoli.
La ragazza sussultò quando qualcuno le appoggiò una mano sulla spalla: temeva sempre di ritrovarsi Riario alle spalle. Si girò, trovando il rassicurante volto di Giuliano. "Tutto bene?", le chiese, notando il suo pallore. 
Elettra annuì.
Il giovane de Medici sapeva benissimo che quella non era la verità ma, ormai, conosceva bene Elettra e sapeva che era meglio lasciarla in pace: se avesse voluto parlare, glielo avrebbe detto. "Andiamo a fare il discorso d'inizio ai nostri attori", le disse, passandole un braccio intorno alle spalle.
"Attori, attenzione". Giuliano si trovava in piedi su una cassa di legno. "Metteremo in scena il Decamerone questa sera, però non in tutte le sue parti". Dalla  piccola folla che si era raccolta intorno a lui provennero alcuni lamenti e borbottii. "Mi è stato consigliato di rimuovere tutte le scene immorali, per rispetto ai nostri regali ospiti", pausa ad effetto, "Solo che Firenze non è casa loro. E' casa nostra! O apprezzeranno la recita, o se ne andranno", disse con un ampio sorriso. "Fate dunque in modo che rimangano solo le storie più sconce e volgari"
"Eccellenza che dirà vostro fratello?". Andrea appariva parecchio preoccupato e, ad Elettra, sembrò essere impallidito.
"Si contorcerà dalle risate come tutti gli altri", rispose Giuliano.
"E poi mi licenzierà", aggiunse sarcastica Elettra. 
"E del maiale che facciamo?", chiese Vanessa.
"Rimane. Che cos'è la nostra città senza un maiale o due?"
 
***

Le luci si spensero e il sipario si alzò, lasciando così spazio alle due figure ai lati del palco di entrare in scena. 
Appena gli spettatori videro Elettra e Giuliano, scoppiarono in una fragorosa risata: la ragazza indossava abiti chiaramente di foggia maschile mentre, il giovane de Medici, era strizzato in uno stretto e scollato corsetto rosso fuoco, con un ampia gonna con tanto di strascico. Aveva un'espressione sofferente e, con le mani, tentava inutilmente di mettere il bustino in modo più comodo o di allentarlo. Una volta arrivato sul palco, finse di non aver notato prima la folla sottostante e, immediatamente, il suo volto assunse un'aria stizzita e si mise più composto, nel tentativo di assomigliare ad una vera regina, come la corona sulla sua testa faceva pensare. "Cosa ci fa qui tutta questa plebaglia?", chiese stizzito; ricordava una certa regina spagnola...
"Lo spettacolo, Vostra Altezza. Rammentate?", disse Elettra.
"Certamente. Osate forse pensare che io sia una smemorata?!", urlò in falsetto.
"Io non intendevo..."
"Volete forse essere condannato per stregoneria?". Giuliano si girò verso il pubblico. "Cosa devo fare per trovare un consorte alla mia altezza?". 
Elettra, nel frattempo, teneva lo sguardo basso, fingendosi un re mortificato ed intimidito dalla propria moglie. Da quel poco che aveva visto in Spagna, non era di certo il re a portare i pantaloni...
Giuliano sbuffò e, mantenendo quell'aria stizzita, si alzò leggermente l'orlo della gonna e si allontanò verso il fondo del palco. Arrivato quasi alla fine, scoppiò a ridere e si rigirò, tornando di fianco ad Elettra che, scomparsa quell'espressione da cane bastonato dalla faccia, rideva anche lei.
"Buonasera, buonasera.", dissero. "Questa sera vogliamo farvi un dono da parte di Firenze: il Decamerone di Boccaccio. Ma per il vostro bene abbiamo scelto di non presentarlo in tutte le sue parti". Anche dagli spettatori, come dagli attori poco prima, si alzarono dei sussurri di protesta. "Cento storie richiederebbero un tempo notevole e non volevo che gli sfortunati in prima fila fossero ammorbati dal puzzo di Maurizio il Pastore". Dalla folla si sentirono parecchie risa.
"Io propongo un caloroso applauso per il nostro Maurizio, che non si è mai perso uno spettacolo", disse Elettra, cominciando ad applaudire. "Un bell'applauso, dai. Se no, questo Natale, rischiamo di rimanere senza l'agnello da fare arrosto", aggiunse facendo l'occhiolino al pastore. 
"Questa sera potrete cogliere il vero spirito di Firenze: la sua fede e le sue virtù, insieme alle sue libertà e alle sue volgarità. Godetevi il Decamerone", concluse Giuliano che, insieme alla ragazza, fece un'ampio inchino agli spettatori.
Dopodichè, tra loro e la folla, calò un sottile sipario nero. Un'intensa luce venne direzionata sui due, permettendo agli osservatori di vedere solo le loro ombre, proiettate sull'ampio lenzuolo nero.
"Riprenditi subito questa diavoleria!", disse Giuliano, tentando di allentare lo stretto corsetto. "E ridammi i miei abiti"
"Quante storie solo per un corsetto!", ribattè Elettra, cominciando a spogliarsi. Si tolse prima la giacca, poi gli stivali e i pantaloni ed infine anche la camicia, rimanendo completamente nuda.
"Tu non puoi sapere cosa si prova, strizzati qui dentro!"
"Certo che lo so, sono una donna"
"Ma piantala, tu non metti mai i corsetti. E dammi una mano a togliermelo!"
Elettra sbuffò, fingendosi spazientita. Si mise dietro Giuliano e cominciò a slacciargli il bustino.
"Dovevi per forza spogliarti così?", disse il giovane de Medici.
La ragazza sbuffò di nuovo, incrociando le braccia sotto al seno e facendo un passo indietro.
"Non che io non apprezzi, anzi", si affrettò ad aggiungere.
Elettra tornò ad armeggiare con il corsetto. "Cosa ci trovate di così eccitante, voi uomini, nello slacciare un corsetto? Io lo trovo snervante", chiese.
"Il ben di Dio che c'è sotto, ovviamente", fu la pronta risposta del de Medici.
Quando il bustino fu completamente aperto, Giuliano si lasciò andare in un sospiro liberatorio e, alla velocità della luce, si tolse l'abito, porgendolo ad Elettra, indossò i propri vestiti e scese dal palco.
 La ragazza restò sul palco, osservando con l'aria stizzita l'abito. Lo teneva con due dita, il braccio teso, in modo da averlo il più lontano possibile dal corpo, neache fosse un pannolino sporco. Alla fine lo lasciò cadere per terra e scese dal palco.

"Siamo andati magnificamente", disse Giuliano, appena vide Elettra. Le porse immediatamente una vestaglia da indossare.
"Visto? E tu che non eri convinto", ribattè lei, dandogli un'amichevole gomitata nelle costole.
"Là fuori ci sono persone con le lacrime agli occhi dal ridere!" 
 
***

Mentre lo spettacolo continuava, Elettra decise di farsi un giro per la tribuna d'onore dove vi erano seduti i sovrani spagnoli, Gentile Becchi, i signori di Firenze e il Conte Riario. Voleva saggiarne le opinioni. E sapere se aveva ancora un lavoro. E poi era troppo curiosa di vedere la faccia di Riario: Vanessa le aveva detto di averlo visto con gli occhi spalancati dallo stupore e leggermente più pallido del solito, durante la scenetta dello spogliarello con Giuliano. 
"Cosa ne pensate, per ora, dello spettacolo?", chiese con un largo sorriso, a Ferdinando d'Aragona.
Lui la osservò con un sorriso a trentadue denti. "Non ho mai riso così tanto come stasera. Ho le lacrime agli occhi dal ridere"
"Quindi ho ancora un lavoro, vero, Vostra Eccelenza?", disse ironica a Lorenzo. 
Becchi la guardò scuotendo la testa.
"Per questa volta...", rispose Lorenzo. Tentava di rimanere serio, ma la piega delle sue labbra lo tradiva.
Elettra si sedette proprio di fianco a Riario, tra lui e Gentile Becchi. Indossava ancora la vestaglia; accavallò le gambe e lo spacco di aprì, mostrandone una fino a metà coscia.
Rise fra sè e sè, osservando Girolamo umettarsi le labbra, nervoso, e lanciarle occhiate furtive.
Dopo un po' si alzò e gli passò lentamente davanti, ancheggiando un po'. La vendetta era un piatto che andava servito caldo. Molto caldo.

***

Mezzanotte...

Elettra salì sul palco: ora toccava a lei fare la sua parte nel piano di Leonardo per salvarsi la pelle. La sua figura eterea era così in contrasto con quello che avrebbe detto e con quello che sarebbe successo. 
Indossava una veste bianca, fatta in un tessuto talmente sottile da sembrare impalpabile e semitrasparente; il trucco era leggerissimo e, a completare il quadro, indossava due ampie ali bianchissime, simili a quelle di un angelo. Sembrava davvero un angelo, con quell'aurea d'innocenza.
Srotolò lentamente la pergamena che teneva in mano e cominciò a leggere.
 
"Calandrino aveva un suo poderetto non guari lontan da Firenze, che in dote aveva avuto dalla moglie, del quale, tra l’altre cose che sù vi ricoglieva, n’aveva ogni anno un maiale; e era sua usanza sempre colà di dicembre d’andarsene la moglie e egli in villa, e ucciderlo e quivi farlo salare.
Ora avvenne una volta tra l’altre che, non essendo la moglie ben sana, Calandrino..."


La mezzanotte scoccò e, puntualissima, un'immagine comparve nel cielo nuvoloso di Firenze: era di un uomo. Stava sodomizzando un maiale.
"Guardate!", disse Elettra puntando il dito verso l'alto, "Guardate, Calandrino! Calandrino, cosa mi combini?"
Gli spettatori scoppiarono in fragorose risate. Anche lei, nonostante cercasse con tutte le sue forse di mantenere quel'espressione angelica ed innocente, non potè fare a meno di lasciarsi scappare qualche piccola risata.
L'immagine restò nel cielo per alcuni secondi e poi, come era arrivata, scomparve.
La folla applaudì vigorosamente, alcuni si alzarono anche in piedi.
Elettra fece un profondo inchino ed uscì di scena.
 
***

"Oh, quale confusione sopraggiunge col chiaro. Porta a me l'oscurità non lontano. Con così tanto da sapere, ognuno di noi imparerà, che ci sono le migliori sorprese nell'oscurità"


Vanessa concluse lo spettacolo spegnendo la candela che teneva tra le mani; istantaneamente calò il sipario.
Elettra e Giuliano si guardarono, sorridendosi soddisfatti: finalmente avevano concluso. E avevano concluso in bellezza.
"Magnifica", disse Giuliano alla rossa. 
"Uno spettacolo mirabile, Vostra Eccellenza. Con quell'immagine in cielo: non ho mai visto niente di simile", si complimentò Quattroni, nel frattempo arrivato dietro le quinte.
"Per questo dovete ringraziare Elettra, quell'idea è stata sua. E, ad essere sinceri, ha fatto una sorpresa a tutti quanti"
"Non ho fatto niente di particolare", ribattè lei. L'unico da ringraziare veramente era Leonardo. Ma ovviamente non poteva dirlo.
"E' pura magia!", disse Giuliano.
"E' vero, è magico!". Vanessa saltò al collo del giovane de Medici e, dopo essersi guardati per un attimo negli occhi, le loro labbra si toccarono in un dolce bacio.
Elettra e Quattroni si guardarono, imbarazzati. Nel mentre, in sottofondo, si sentiva la voce di Andrea che si complimentava con gli attori.
La ragazza osservò malinconica la coppietta. "Scusate", disse per congedarsi. Aveva bisogno di stare da sola e di prendere un po' di aria fresca.

***

I giardini di Palazzo della Signoria erano un'immagine magnifica: entrare nel suo labirinto era un po' come entrare nella Foresta Incantata delle favole; fiori, piante, giochi d'acqua. E a coronare il tutto vi era cielo, tornato finalmente sereno. Quella sera sembrava che anche la Luna e le stelle brillassero più del solito, quasi volessero partecipare alla gioia che Elettra provava.  
"Leonardo, sei un fottuto genio!", disse felice, osservando quella miriade di puntini bianchi, sopra la sua testa, quasi come se Da Vinci fosse proprio là, e potesse sentirla. Aveva un sorriso a trentadue denti, in quel momento.
"Ho immaginato che l'artista fosse collegato a quell'immagine in cielo. Ora ne ho la conferma"
Elettra sobbalzò, a sentire quella voce alle proprie spalle. Si girò, osservando il Conte Riario con un'espressione fredda e distaccata. O almeno quello era il proposito. Sentiva il proprio respiro diventare più corto, gli occhi cominciavano a pizzicarle e le mani tremavano impercettibilmente. "Cosa ci fate voi qui?", chiese, facendo ricorso a tutto il suo autocontrollo.
"Tu ed io dobbiamo parlare, mia diletta"
"Non avete il diritto di darmi del tu", ribattè lei. "Non più". C'era una nota amara, in quelle sue ultime parole.
"Elettra, io...", disse mentre le si avvicinava. Tese una mano, nel tentativo di sfiorare la sua, tremante.
"No!". La ragazza fece alcuni passi indietro e ritrasse di scatto la mano.
 Girolamo l'aveva seguita con tutte le buone intenzioni: voleva dirle che, sì, l'idea di far arrestare l'artista per sodomia era sua, che non aveva alcuna intenzione di farla soffrire ma che, se ora sulla testa di Da Vinci pendeva la condanna al rogo, non era colpa sua. Voleva metterla in guardia da Francesco Pazzi, sia per lei, che per le persone a cui era legata. Ma la sua cocciutaggine, unita al fatto di averlo rifiutato così, gli fecero cambiare idea.  
Non le avrebbe chiesto scusa. No, non lo avrebbe mai fatto. Non aveva fatto niente di che, solo svolto un ordine del Papa. Era il suo lavoro, svolgere gli incarichi che il Santo Padre gli affidava. Non doveva chiedere scusa a lei perchè aveva svolto il suo lavoro.
Prese un lungo respiro, tentando di calmarsi. "Tu... voi non avete idea di quello che ho dovuto fare, per proteggervi. Di come mi sono esposto e di quello che ho dovuto promettere a Pazzi perchè vi lasciasse in pace"
"Voi non..."
"Lasciatemi continuare, per  favore. Dopo il vostro maldestro tentativo di aiutare Da Vinci, fingendovi sua complice, Francesco Pazzi voleva denunciarvi per stregoneria; sono riuscito miracolosamente a convincerlo a desistere. Tuttavia, ho dovuto pagare  pegno: ho dovuto promettere molto, forse troppo, a quell'uomo"
"So cavarmela da sola. Non c'era bisogno del vostro galante aiuto", ribattè lei, sarcastica.
"Certo, magari sarete anche riuscita a scagionare vostro zio e Da Vinci, ma un'accusa di stregoneria è tutt'altra cosa, rispetto ad un'accusa di tradimento o sodomia: se foste denunciata come probabile strega, non sarà la repubblica di Firenze a giudicarvi, ma la Santa Inquisizione, che risponde solamente a Roma. Neanche Lorenzo de Medici potrebbe intervenire concedendovi la grazia e, anche se riusciste a fuggire da Firenze, sareste comunque cercata anche nelle altre città. E se per caso l'inquisizione vi trovasse... non oso neanche immaginare cosa potrebbe farvi". C'era dolore, nelle parole del Conte, ma anche rabbia. Perchè Elettra non riusciva a capire la gravità della situazione? "Si, certo. So cosa state pensando", continuò. "Serve una confessione, per essere incriminata come strega e voi, non avete alcuna intenzione di confessare ma, stare pur certa che vi faranno cambiare idea. Siete forte e testarda e, magari, potete resistere per i primi giorni o per le prime settimane ma, di fronte a giorni e giorni di torture e atroci dolori, cosa farete? Capirete che non vale la pena di vivere in quel modo e confesserete, direte di sì, che avete fatto ognuna delle cose per le quali siete accusata. Perchè sarà più facile, vi sentirete come se vi foste tolta un macigno dal petto e, per un istante, per un solo istante, avrete l'illusione di essere libera", la osservò, per capire cosa le stesse passando per la testa in quel momento. "Tutti crollano, è inevitabile", disse amaramente. "Poi verrete condotta sulla pubblica piazza, dove vi attenderà la pira. Verrete legata ad essa e cosparsa d'olio e, mentre il fuoco vi brucia le carni fino alle ossa e voi lancerete urla strazianti, la folla sottostante farà festa. Strana natura, quella umana". La guardò profondamente negli occhi. "Cosa pensate di fare, dunque, madonna?"
Elettra lo guardava con quella che poteva chiamarsi paura. Cosa fare? Lei non lo sapeva. I problemi aveva imparato ad affrontarli solo quando le si paravano davanti, non prima. Sbattè più volte le palpebre, pensando alla prossima mossa. Il suo cuore le diceva di avvicinarsi a Girolamo e piangere sul suo petto tutte le lacrime che, a stento, stava riuscendo a trattenere; ma il suo cervello le diceva di no, che non poteva farlo: lui aveva causato troppi danni, alla sua vita e a Firenze. 
Elettra alzò i suoi occhi, ormai appannati, incontrando quelli del Conte: anche nei suoi grandi occhi color nocciola, così freddi e distanti, poteva leggere la paura per l'avvenire. "Perchè non mi lasciate semplicemente andare e vivere la mia vita?", chiese con un filo di voce.
"Abbiamo un patto, che ci lega", rispose lui, pacato.
"Questo patto è andato ben oltre il previsto"
"Volete che giunga al termine, vero?"
Elettra annuì.
"Bene", disse Riario, seccato. "Allora guardatemi negli occhi e ditemi che non mi avete mai amato"
Lei lo osservò, titubante.
"Fatelo, e sarete libera"
Elettra raccolse tutte le sue forze e gli si si avvicinò, guardandolo negli occhi. "Io... io non vi ho mai amato, quello che c'era tra noi era solo un contratto", sussurrò velocemente, cose se, così facendo, fosse meno doloroso; in realtà ogni singola parola era come una pugnalata dritta al cuore, per entrambi. Indietreggiò, dandogli le spalle. Non voleva che Girolamo vedesse le lacrime che le rigavano il viso. "Ora tocca a voi, Conte" 
"Dichiaro il vostro debito nei miei confronti estinto". Le passò di fianco, a lunghi passi, e, senza degnarla neanche di uno sguardo, si diresse verso il Palazzo.
Ed Elettra restò sola, a guardare quel cielo tornato nuovamente nuvoloso.

***

La mattina dopo...

Elettra si trovava nuovamente in quell'aula di tribunale. Aveva un aspetto orribile, con quelle due grandi occhiaie violacee: non aveva dormito, quella notte. Dopo l'incontro con Riario era corsa a casa, piangendo e, aveva continuato a farlo, fino alle prime luci dell'alba. 
In quel momento si trovava seduta tra Vanessa e Zoroastro che, stranamente, si era trattenuto dal commentare la sua faccia stravolta. Probabilmente, anche Zo riusciva a provare un po' di pietà.
Sapeva che c'era anche il Conte, in aula quel giorno, ma si sforzò con tutta sè stessa di non voltare la faccia per cercare il suo sguardo. Era finalmente libera di ritornare alla sua vita. Ma, allora, perchè si sentiva così vuota?
Il giudice entrò nel salone e, immediatamente, calò il silenzio. 
"Ha una camminata strana", disse Elettra.
"Prova tu, a restare bloccato per ore dentro un maiale", ribattè Zo.
"Anche volendo sperimentare, non posso", rispose lei, sarcastica. Per quando male potesse stare, quel suo sarcasmo non l'avrebbe mai abbandonata. E poi, con affianco Zoroastro, non si riusciva proprio a restare con il morale a terra.
Andrea tirò un'occhiataccia ad entrambi, intimandoli, per il loro bene, al silenzio.
Elettra osservò il giudice mentre scandagliava pensieroso la folla, indeciso su cosa dire. "L'imputato è stato accusato di... devianza ed eresia", disse. "Dopo le dovute considerazioni la delibera di questa corte è che non è stato possibile dimostrare la colpevolezza dell'imputato. Dichiaro dunque nulle tutte le accuse contro Leonardo Da Vinci". Appena ebbe finito, il giudice uscì di fretta dall'aula, probabilmente spavento da quello che lo attendeva nell'immediato futuro: tradire il Pazzi e il Conte Riario era molto rischioso.
"Beh, sono un genio", esordì Zoroastro, alzandosi dalla panca su cui era seduto. Elettra era certa che si sarebbe vantato di 'Aver parato il culo a Leonardo Da Vinci', per tutta la vita.
"Puzzi di cacca di pipistrello", gli fece invece notare Vanessa, divertita. Quello era un brutto colpo per l'autostima del moro.
Elettra si guardò intorno, sollevata che tutto fosse andato per il verso giusto. Notò tra la folla il Conte Riario che confabulava con Francesco Pazzi; si mise ad osservarli molto attentamente. Sentendosi di colpo osservati, i due uomini si girarono verso di lei. Elettra gli sorrise ad entrambi, esibendosi in un perfetto sorriso strafottente alla Leonardo Da Vinci.

***

Quella sera...

L'atmosfera al Cane Abbaiante sembrava più caotica del solito o, almeno, a Elettra sembrava così, mentre festeggiava il rilascio di Leonardo.
"A Firenze, dove puoi sodomizzare chiunque e dovunque e farla franca". I brindisi di Zoroastro erano sempre molto originali.
"Agli amici che lo rendono possibile", aggiunse Leonardo, alzando il proprio boccale di birra, seguito a ruota da Elettra, Vanessa e Nico.
"Salute"
"Sono fortunato ad avervi", disse Leonardo dopo una lunga sorsata di birra.
"Rammentalo quando mi laverai la merda di pipistrello dal culo", ribattè Zo, divertito.
Per tutta risposa Leo gli sputò addosso dell'altra birra, facendo ridere l'intero gruppo. 
Si stavano divertendo. O forse, pensò Elettra, quella era solo un'illusione? Non si sentiva depressa e persa, come i giorni passati, però aveva qualcosa che non andava. Il poco entusiasmo di fronte al proprio bicchiere di vino bianco, ne era la prova: ne aveva bevuto un piccolo sorso, durante il brindisi, e poi aveva continuato a rigirarselo tra le mani. Era come se avesse perso la voglia di vivere. Probabilmente sarebbe tornata la ragazza ridente e spensierata di prima, ma ci sarebbe voluto del tempo, perchè la ferita si rimarginasse.
Osservò Leonardo sparire velocemente. Poi Zo correre a scommettere sulle lottatrici seminude che, in quel momento, stavano dando spettacolo a suon di schiaffi; seguito a ruota da Nico, sempre preoccupato che l'amico si cacciasse in qualche guaio. Infine dalla porta d'entrata, fece il suo ingresso Giuliano e Vanessa corse subito da lui. Il giovane de Medici sorrise ad Elettra, prima di concentrare tutta la sua attenzione sulla rossa.
E così, Elettra rimase sola al tavolo; in serate normali sarebbe sicuramente andata con Zo e Nico ma, quella, non era una serata come le altre. Bevve lentamente il proprio bicchiere di vino e si avviò verso il bancone, per pagare. Disse all'oste di metterle in conto anche quello che avrebbero poi bevuto Leonardo e Zoroastro; come sempre, sarebbe passata il giorno dopo a pagare i propri debiti.
"Te ne vai di già?". La voce di Da Vinci le giunge da dietro le spalle, mentre ritirava alcuni spiccioli nella bisaccia. Sembrava sorpreso.
"Si... è stata una giornata faticosa", rispose Elettra. "Dì agli altri che non mi sentivo tanto bene e che sono andata a casa"
Leonardo la osservò mentre indossava il proprio mantello. "Dobbiamo parlare", disse.
"Di cosa?". Elettra ormai era quasi alla porta.
"Di te e dei tuoi comportamenti"
"Leo, te l'ho già detto: sono solo stanca. Dammi qualche giorno e starò bene"
"Siediti", le disse indicando un tavolo vuoto.
La ragazza lo squadrò, cercando di capire cosa avesse in mente. Gli obbedì e si sedette dalla parte opposta, rispetto al geniale artista. Lo guardò, aspettando che dicesse o facesse qualcosa.
"Lo hai lasciato, vero?"
Elettra sbattè più volte le palpebre, dalla sorpresa. Come faceva Leonardo a sapere del Conte Riario? "Non so di cosa stai parlando", disse, assumendo la sua solita aria innocente.
"Sto parlando di Riario, Elettra. Di te e di lui. E non mentirmi: con me certe cose non funzionano". Il tono di voce di Da Vinci era pacato e dolce.
La ragazza annuì. "Il contratto è finito", aggiunse con un filo di voce. Sentiva che gli occhi erano tornati a pizzicarle.
Leonardo quasi rise ma, al vedere l'espressione triste di Elettra, si trattenne. "Quello tra voi non era solo un contratto"
"Si, era solo quello", ribattè lei.
Da Vinci scosse la testa. "No, tu lo ami"
"Leo, l'amore è solo un impedimento", disse Elettra mentre gli occhi le divennero lucidi. "Guarda dove ci ha portato: io e Riario, tu che rischi ogni giorni la ruota pur di stare anche solo per pochi secondi con Lucrezia e, guarda quei due". La ragazza gli indicò Giuliano e Vanessa, che si scambiavano tenere effusioni qualche tavolo più in là. "Pensi che potranno restare per sempre insieme? Giuliano, prima o poi, sarà costretto a sposare qualche nobile viziata e Vanessa?". Elettra guardò l'artista negli occhi. "L'amore serve solo a farci soffrire"
Leonardo, per la prima volta in vita sua, non sapeva cosa dirle.
La ragazza si alzò, sospirando. "Domani parlerò con mio zio. Mi aveva dato tempo fino al mio ventesimo compleanno, per vivere la mia vita, poi mi avrebbe trovato un marito", si appoggiò allo stipite della porta, quasi non avesse la forza di reggersi in piedi da sola. "Tanto vale toglierci il pensiero e farlo subito"


Nda
Sono in ritardo con la pubblicazione (come mio solito) ma, questa volta, ho delle attenuanti. Visto che occuparmi di una sola storia, con il poco tempo che ho, non mi bastava, mi sono data alla scrittura di altre due nuove storie. E, in più, ho già completato la sorpresa per Natale :D (dai, questa, come attenuante, è proprio buona).

Ps Se, per curiosità, volete andare a dare una sbirciatina alle mie due nuove storie, sono queste: Fronti opposti e Guerriera

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Capitolo 29
*** Ritrovare sè stessi ***


Capitolo XXIV: Ritrovare sè stessi
 
Alcune settimane più tardi...

Tutte le ferite, con il tempo, riuscivano a rimarginarsi. Elettra ne era certa: le sembrava di stare lentamente riuscendo a riprendere il controllo sulla propria vita. Era tornata a sorridere: il suo caldo e rassicurante sorriso era tornato sul suo volto, per la gioia di tutti.
L'inverno era ormai alle porte e, le freddi notti invernali, erano lunghe, da passare sola. Ma a lei non importava: aveva passato anni, sola nel proprio letto, possibile che qualche mese con qualcuno, avesse cambiato tutto? No. E poi sarebbe stato solo temporaneamente.
Come detto a Leonardo, la mattina successiva alla sua assoluzione del geniale artista, Elettra si fece trovare alle otto in punto davanti all'ufficio di suo zio. Si era seduta alla sua scrivania, proprio come se fosse andata lì per un'udienza ufficiale. Gentile Becchi l'aveva ascoltata in silenzio, aveva ascoltato le sue ragioni, annuendo qua e là. Elettra aveva ovviamente mentito, sul perchè di questo repentino cambio di idee; non poteva di certo dirgli la verità. E lui ovviamente l'aveva intuito.
Quando lei terminò, Becchi le fece solo una domanda.
"Dimmi che non sei incinta"
Era stata più un invocazione, che una domanda.
Elettra, rimasta seria per tutto il tempo, a questo punto non era riuscita a fare a meno di scoppiare a ridere. Incinta?Lei? No, era sempre stata attenta. E poi lei odiava i bambini. Le bastava giusto passare per strada e sentire un pianto proveniente da qualche casa, per farle venire la pelle d'oca. No, se fosse stata incinta avrebbe di sicuro risolto in fretta il problema. E Gentile Becchi non sarebbe di certo venuto a saperlo.
Chiarito il grande malinteso, suo zio aveva acconsentito alla sua richiesta anche se, appena Elettra chiuse la porta dello studio alle sue spalle, Becchi si mise a pensare ad un modo per farle cambiare drasticamente idea: lei non era affatto adatta ad un matrimonio! Non poteva di certo permettere a sua nipote di rovinarsi la vita alla prima delusione. L'Elettra che aveva cresciuto non si sarebbe mai buttata giù in quel modo. Doveva farle cambiare idea. E doveva farla tornare quella di prima.

Per quanto riguardava la principale causa di tutti i mali di Elettra, che Becchi ancora ignorava, la ragazza cercava in tutti i modi possibili di evitare il Conte Riario. Se proprio non riusciva a farne a meno, tra di loro vi erano solo pochi parole di cortesia, seguite dai soliti gesti di rito. E nient'altro, almeno dalla parte di Elettra. Ma non era certa che fosse così anche Riario. 

Mentre Leonardo, in quelle settimane...

24 ore dopo l'assoluzione...

Elettra entrò nella bottega di Da Vinci, convinta che il geniale artista si stesse ancora riprendendo dai postumi della sbronza della notte precedente; invece lo scenario che le si parò davanti, una volta aperta la porta, le fece rimangiare tutti i suoi pensieri: vi era fibrillazione nell'aria e disordine. Tanto disordine. Più disordine del solito.
Leonardo era intendo a camminare, scrivere compulsivamente sul suo blocco da disegno e borbottare frasi senza senso, Nico era tutto concentrato, nel vano tentativo di seguire mentalmente il proprio maestro, e Zoroastro se la rideva sotto ai baffi. 
Elettra osservò tutti con attenzione: la particolare e caotica atmosfera del momento, i gesti di Nico, Zo e Leo, le bisacche più piene del solito, ammassate in un angolo... C'era una sola spiegazione plausibile: quei tre erano in partenza!
"Dove state andando?", chiese.
"A liberare l'abissino", rispose Nico, di fretta.
"Chi?"
"Un altro di quei Figli di Mitra", spiegò meglio Zoroastro, con un tono piatto, come se quello fosse un fatto abituale, per loro.
Elettra annuì. "E dove si trova questo 'abissino'?"
Il moro fece spallucce. "Prigioniero del signore della Valacchia", rispose, con fare apparentemente annoiato.
La ragazza strabuzzò gli occhi. "Stai parlando di Vlad l'Impalatore?!"
L'altro le fece cenno di sì con la testa, distratto. 
Nel mentre passò Leonardo, che le mise in mano una bottiglia, contente probabilmente un qualche tipo di liquore, senza degnarla di uno sguardo.
Lei lo osservò, con un'espressione tra l'essere in collera e il confuso. "E con questa che dovrei farci? Affogare i miei dispiaceri nell'alcol?", disse con sarcasmo.
Solo in quel momento Da Vinci si voltò a guardarla. La osservò come se la vedesse per la prima volta. "Oh...Ciao Elettra. Sei qui da molto?". Era talmente preso dai propri pensieri che non si era neanche accorto di lei. E non l'aveva neanche sentita urlare. Osservò la bottiglia, che la ragazza stava cercando di aprire. Velocemente, gliela tolse di mano, scambiandola con un'altra identica, presa da un ripiano dello scaffale più vicino.
"Perchè? Questa cosa aveva che non andava?", chiese spazientita.
"Meglio che tu non sappia, cosa c'è dentro"
Elettra sbuffò. "E della vostra imminente vacanza in Valacchia, cosa mi dici?"
"Vuoi venire anche tu?", chiese candidamente Leonardo.
"No, non voglio venire!"
"Non vuoi o non puoi?"
Lei sbuffò nuovamente. "Non posso e tu lo sai bene. Ho preso degli impegni, qui a Firenze, e non posso di certo andarmene così su due piedi!". Gli puntò un dito contro. "E anche tu, Leonardo, hai preso degli impegni con la famiglia de Medici"
"Sarà solo per qualche settimana, nessuno sentirà la mia mancanza", rispose l'altro, quasi divertito dal modo di fare dell'amica.
"Leo, tu stai parlando di andare a liberare uno sconosciuto dalle grinfie dell'Impalatore. L'Impalatore! Questo soprannome non ti dice niente?"
L'altro scosse la testa.
"Impalamento, cazzo! Sai in cosa consiste, vero?"
Zoroastro, nel frattempo, fece un gesto con la mano, più che eloquente. "Ci infilerà un palo sù per il culo prima ancora di avvicinarsi al tuo caro Abissino". commentò.
"Ecco! Ascolta Zo, per una buona volta", ribattè Elettra.
"Hai sentito, Leonardo? Ascolta il buon vecchio Zoroastro, per una volta", disse il diretto interessato.
Leonardo guardò l'amica negli occhi, notando tutta la preoccupazione che traspariva dalle sue iridi azzurre. Le prese le mani tra le sue. "Lo so che questo non è il momento adatto per andarmene, ma tu sei forte e hai tante persone che ti vogliono bene e che farebbero qualsiasi cosa per te. E poi tu sei forte, ce la farai"
Lei gli sorrise.
"Anche se so già che sarà difficile, non vedere la mia bellissima faccia ogni giorno"
Elettra scoppiò a ridere e gli schiaffeggiò amichevolmente le mani.
Anche Nico e Zoroastro di avvicinarono. Si abbracciarono tutti e quattro. 
"Per favore, tornate tutti interi", disse la ragazza. "E possibilmente senza pali o oggetti simili infilati in posti strani!"


Le settimane erano passate ed Elettra non aveva ancora avuto loro notizie. Si fidava di Leonardo: sarebbero presto tornati a casa sani e salvi.
Aveva dovuto inventarsi una buona scusa, per spiegare l'assenza prolungata dell'artista alla corte medicea. "Leonardo è partito per Pisa, per testare una nuova macchina da guerra, progettata per funzionare in mare. Secondo i suoi calcoli, potrebbe volerci parecchio", aveva detto a Lorenzo.
Senza i suoi compagni di bevute, anche le serate non erano un granchè: aveva provato ad andare al Cane Abbaiante solo con Giuliano, ma si era ritrovata a fare il terzo incomodo, tra il giovane de Medici e Vanessa. Allora aveva provato a partecipare ad una delle 'seratone' che suo zio organizzava a casa propria: c'era un torneo ci scacchi, quella sera, ma Elettra si era annoiata a morte e aveva fatto di tutto, per perdere ed avere una buona scusante per tornare a casa. L'unica cosa positiva della serata erano stati i pettegolezzi: non immaginava che Gentile Becchi e Piero Da Vinci, insieme, spettegolassero così tanto. Per non parlare degli altri partecipanti...
Senza niente per occupare le proprie serate, Elettra si era buttata a capofitto nel lavoro: quasi tutti i fine settimana,organizzava un ballo a tema a Palazzo della Signoria, per la gioia dell'alta società fiorentina. Un po' meno gioioso era Lorenzo, costretto a sborsare fior fiori di fiorini.
Anche quella sera, ci sarebbe stato un ballo: il tema era la mitologia romana.
Elettra -in ritardo come al solito-, si stava preparando. Osservò il proprio abito, disteso sl grande letto a baldacchino: era fatto in una stoffa leggerissima, dall'aria impalpabile, di un azzurro talmente chiaro da sembrare quasi bianco. Le maniche erano larghe ed aperte e, a prima vista, apparivano più  come un mantello corto, se non fosse stato per la stretta fascia di stoffa che andava ad avvolgersi intorno ai polsi sottili. Il corpetto presentava un profondo scollo a v ed era interamente coperto da fiori freschi, abilmente intrecciati nella trama del tessuto; la vita, stretta, era ancora più accentuata da una fascia, anch'essa fatta  di fiori, da cui ne pendevano a cascata altri, che si perdevano nelle pieghe e negli strati della vaporosa gonna. 
"Fa molto ninfa dei boschi, vero Maria?", chiese Elettra alla sua fidata governante.
"Si, mia signora"
Quante volte la ragazza le aveva ripetuto di non chiamarla 'signora' ma solo Elettra? Sorrise tra sè e sè, a quel pensiero.
Sentirono un rumore di cavalli in movimento, provenire dalla strada ed Elettra corse alla finestra per vedere se fosse il suo accompagnatore al ballo.
"E' il vostro promesso sposo?", le chiese Maria.
Alla giovane venne la pelle d'oca, a sentirla dire 'promesso sposo': non si era ancora abituata all'idea. Annuì, vedendo scendere dal cocchio Edoardo Portinari, figlio di uno dei più influenti membri del consiglio direttivo della banca medicea, nonchè lui stesso banchiere per la famiglia de Medici. 
Fortunatamente, in quanto ad aspetto non aveva preso dal padre, completamente pelato e grassoccio. Non aveva certamente lo sguardo magnetico di Girolamo e, probabilmente, neanche il suo corpo atletico, ma era comunque di bell'aspetto. Elettra pensò di essere stata fortunata: ricco, giovane e bello, che poteva volere di più? Gentile Becchi sembrava avesse scelto proprio bene. Ora bisognava solo scoprire come fosse in quanto a carattere: si erano incontrati solo una volta, alcuni giorni prima a casa di suo zio, per bere un tè. Avevano parlato, ma non abbastanza per avere un quadro completo su di lui.
"Sarà meglio che vado ad aprire la porta", disse Maria.

Elettra non voleva di certo farsi vedere da lui con indosso solo un asciugamano, ma Maria non arrivava più e, da sola, non ce l'avrebbe di certo fatta ad indossare il proprio abito. Erano dieci minuti che sentiva la sua fidata cameriera parlare a raffica, senza fermarsi un attimo. Appariva più come un monologo, che una chiacchierata a due. Sbuffò: la festa era già incominciata da un pezzo, ormai! Si sistemò l'asciugamano come meglio poteva ed uscì dalla camera, diretta ai piani inferiori.
Maria, nel frattempo, era impegnata a raccontare un'imbarazzante storia sull'infanzia della sua signora; Edoardo la guardava con una faccia disgustata: doveva fermarla il prima possibile prima di oltrepassare la linea di non ritorno.
Si fermò a metà della scalinata, tossicchiando leggermente per far sentire la propria presenza. "Salve, Edoardo", disse con un sorriso.
L'uomo, che dava le spalle alla scala, si girò. Appena si accorse che la ragazza portava solo un asciugamano, spostò lo sguardo altrove. Elettra non avrebbe saputo dire se per imbarazzo o disapprovazione. Ci restò però un po' delusa: se al posto del giovane Portinari ci fosse stato Girolamo, probabilmente avrebbe fatto qualche commento sarcastico. E poi le avrebbe proposto alternative differenti, dell'andare a qualche festa.
Girolamo, in sua presenza, riusciva persino ad essere più sarcastico di lei. Da sempre, fin dal loro primo 'incontro', alle rovine romane, all'incontro 'ufficiale', al banchetto di benvenuto per la delegazione romana e persino a quel piccolo incidente -se così lo si vuole chiamare- nel suo studio, la mattina successiva a quella festa.
Un sorriso malinconico le comparve sulle labbra: le capitava sempre, quando pensava a lui. Sbattè più volte, per togliersi quel pensiero dalla testa. 
"Maria, ho bisogno di te, per il vestito", disse, cercando di mantenere un tono di voce normale. Poi guardò Edoardo. "Nel frattempo, perchè non prendete qualcosa da bere? Nell'armadietto degli alcolici c'è parecchia scelta. Vi consiglio la zuica, proviene dalla Valacchia e l'ho assaggiata ieri notte e non è affatto male"
Questa volta, lo sguardo dell'uomo era contrariato.

***

Arrivarono a Palazzo della Signoria che la festa era già entrata nel vivo da un po': anche degli invitati, ne erano arrivati la maggior parte.
Edoardo scese per primo dalla carrozza, porgendo poi il braccio ad Elettra, per aiutarla a scendere. Lei accettò di buon grado l'aiuto, piegando i lati delle labbra in un ampio sorriso.
Una volta arrivati davanti alle porte del salone dei ricevimenti, i paggi ai due lati gli studiarono molto attentamente: non capitava molto spesso di vedere Elettra Becchi arrivare ad una festa con un accompagnatore. Che le voci su un suo possibile fidanzamento fossero fondate?
"Beh, che fate?", scherzò la diretta interessata, "Per una volta che voglio essere annunciata, voi restate qui fermi senza dire niente?"
I due paggi si guardarono in faccia, stupiti da una tale richiesta. Uno dei due, dopo alcuni secondi annuì confusamente e aprì le porte. "Elettra Becchi e..."
"Edoardo Portinari", gli suggerì lei, mettendosi una mano davanti alla bocca per non ridere. 
"...Edoardo Portinari", concluse il paggio.
Il giovane gli lanciò un'occhiataccia.
Da quello che Elettra aveva potuto vedere, a quell'uomo non piaceva per niente essere messo in secondo piano. Un punto a suo sfavore. A cui andava tolto un altro punto per non essersi mascherato. E un altro ancora per non aver accettato un po' di zuica. 
"Da questa parte", disse Elettra a Edoardo, mentre procedevano a braccetto all'interno dell'ampio salone. "Devo farvi conoscere alcune persone" 
Raggiunsero la famiglia de Medici. 
Lorenzo li sorrise caldamente, stringendo energicamente la mano del giovane Portinari. Giuliano, invece, non disse niente, limitandosi ad osservarlo in cagnesco. Non voleva che Elettra si sposasse; si sarebbe solo rovinata la vita. Lui lo sapeva che quello era solo un capriccio momentaneo. La sua espressione stonava, in contrasto con il suo costume da Bacco, con tanto di otre di vino -piena- sottobraccio.     
"Posso contribuire?", gli chiese Elettra, ironica, indicando l'anfora con il vino. 
Annuì, facendo cenno ad uno dei servi di portargli un bicchiere. 
"Non sei vestita da Venere, vero?"
La ragazza rise: Giuliano aveva scommesso sulla divinità sbagliata. "Ninfa dei boschi", disse dandogli una pacca amichevole su una spalla. "E tu mi devi un giro di birra"
Edoardo guardò i due con un'espressione sempre più truce. Non gli piaceva il comportamento dei due.
Nel frattempo il bicchiere richiesto arrivò e il giovane de Medici le versò un po' di vino. 
Alzò maldestramente l'otre, in un brindisi alquanto improvvisato."Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia...", disse.
"...chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza", completò Elettra.
Incrociarono le braccia tra loro, mentre bevevano il vino tutto d'un fiato.
"Tu lo sai che stasera non riuscirai ad andare a letto sulle tue gambe, vero?", commentò divertita.
"Dovrai rimboccarmi anche le coperte, allora", ribattè Giuliano.
 
***

"Non mi piace il vostro comportamento con il giovane de Medici", disse Edoardo, mentre passeggiavano tra i vari invitati.
Elettra piegò la testa da un lato: non sapeva se sentirsi offesa o confusa.
"E' un vostro superiore, non potete di certo comportarvi così. E neanche dargli del tu"
"Siete forse geloso di Giuliano, Edoardo?" chiese lei, prendendo un bicchiere di Chianti dal vassoio che Fabrizio le aveva prontamente messo sotto al naso. 
Il Portinari sbuffò: non sapeva neache lui se a infastidirlo di più fosse il vederla bere in modo esagerato o il suo comportamento da bambina. 
L'avrebbe sposata solo per il fatto che la famiglia Becchi aveva un peso politico non indifferente, all'interno del governo di Firenze. Inizialmente l'aveva presa per l'ennesima dama di corte, frivola e senza cervello, ma ora dubitava che lei fosse davvero così: era intelligente, troppo intelligente per i suoi standard, e ribelle. Addomesticarla non sarebbe stato facile: avrebbe decisamente preferito la dama stupida. Almeno avrebbe ubbidito senza battere ciglio.
"Avete per caso visto il signor De Rossi*?", le chiese, cercando di non apparire infastidito.
Elettra cercò con tutte le sue forze di non ridere. "Stasera da Madame Singh c'è una serata speciale: conoscendolo, immagino che sia lì", rispose candidamente, portandosi il calice con il vino alle labbra.
Il Portinari sbattè le palpebre più volte: come riusciva a parlare così tranquillamente di certe tematiche? No, quella non poteva di certo essere una dama.
"Cosa avete sul polso?", disse, cercando di cambiare discorso. Lo aveva notato, mentre la osservava bere il vino.
Elettra impallidì leggermente, osservandosi l'interno del polso; copriva sempre quel piccolo tatuaggio con della povere di Cipro, ma quella sera doveva proprio essersi dimenticata. "E' un giglio stilizzato, il simbolo di Firenze". Ecco cosa accadeva, a perdere certe scommesse con Zoroastro... 
Il Portinari la guardò malissimo: i galeotti e i pirati, si facevano tatuare la pelle, non le dame. "Quello non è vostro fratello?", chiese, cambiando nuovamente discorso.
La ragazza si voltò, per osservare se fosse proprio lui: era proprio Aramis, intento a parlare con Riario. "Più tardi ve lo presento", disse. Non voleva di certo dover scambiare qualche parola con il Conte.
"Perchè non adesso?"
Quasi a volerlo fare apposta, suo fratello si girò verso di lei, invitandola ad avvicinarsi a loro.

"Aramis!", lo salutò Elettra, abbracciandolo. L'aria fiorentina gli aveva fatto proprio bene: i mesi passati alla corte medicea avevano riportato suo fratello alla sua solita spensieratezza, togliendoli quell'aria rigida che gli era stata imposta a Roma. Il fatto che quella sera avesse lasciato nell'armadio la veste vescovile, optando per una lunga toga, ne era l'esempio più lampante.
Forse fu per il troppo vino, bevuto a stomaco vuoto, o almeno, Elettra diede la colpa a quello, per decidere di rivolgere la parola a Riario. "Vi siete travestito da Ade, Conte?", chiese sarcastica. 
Ovviamente lui indossava la sua solita divisa nera. 
Lo vide sorridere e subito si pentì del suo gesto. Un semplice e sbrigativo 'Buonasera' sarebbe stato più che adatto.
"E tu, cara sorella, sembri la dea della primavera", ribattè Aramis. "Che poi la dea della primavera non era moglie di Ade?", aggiunse.
La ragazza per poco non si strozzò con la sua stessa saliva. Doveva aver bevuto anche suo fratello, per uscire con una simile battuta.
Il naso e le guance rosse, uniti agli occhi leggermente lucidi, furono la conferma alla sua idea.
La musica partì, ad Elettra non ebbe il tempo di ribattere con una delle sue solite battute sarcastiche.
"Vuoi ballare, sorellina?", le chiese Aramis, tendendole la mano.
Lei prese la sua mano e si diressero al centro del salone, dove vi erano già parecchie altre coppie.
Il Conte Riario e il giovane Portinari rimasero soli.
"Non ci siamo ancora presentati", disse il primo.
"Edoardo Portinari, piacere di fare la vostra conoscenza, Conte". Gli tese la mano, per stringerla, gesto che Girolamo evitò spontaneamente.
"In che rapporto siete con la signorina Becchi?". Dritto al punto, come sempre.
Il Portinari sorrise in modo alquanto ambiguo. "La signorina Becchi diventerà presto la signora Portinari", si limitò a dire.
La mascella del Conte, a quelle parole, si contrasse leggermente. "Elettra è una persona fantastica, siete un uomo molto fortunato", finse.
"Voi la conoscete bene?"
Le sue labbra si curvarono all'insù, pensando ai loro momenti insieme. "Elettra è molto espansiva ed amichevole con tutti. Provate a chiedere a chiunque, qua dentro, e vi dirà le mie stesse identiche parole"
"Ho notato che è molto espansiva e, aggiungerei anche, iperattiva", disse il Portinari, con una punta di irritazione. "Mi ha presentato tutte le persone presenti in sala questa sera, servitù compresa"
'Tipico', pensò Girolamo. Dentro di sè provava malinconia, per averla persa; ma dalla sua espressione fredda e distaccata non appariva niente. "Avete dei progetti, per dopo il matrimonio?"
"Andarcene da Firenze, questa città è diventata troppo libertina, per i miei gusti..."
'Ad Elettra questo non avrebbe di certo fatto piacere'
"...In qualità di banchiere per i Medici, ho potuto visitare parecchi luoghi: pensavo che potremmo trasferirci in Spagna..."
'Elettra odia la Spagna'
"Oppure a Parigi"
'Elettra l'aveva definita una gabbia di matti'
"Anche Roma, mi è piaciuta molto. E poi la signorina Becchi avrebbe lì suo fratello"
'No, per Elettra Roma è troppo pericolosa. Mio padre la metterebbe di certo al rogo'
Girolamo annuì, anche se dentro di sè cominciava a preoccuparsi per lei. "Elettra non lascerebbe mai Firenze", si limitò a dire.
Il Portinari si mise a ridere. "Quando sarà mia moglie, non le permetterò di certo di contraddire le mie decisioni". Un sorriso sadico, gli comparve in volto. "Sottostarà alle mie scelte, come ogni devota moglie fa. O sarà peggio per lei"
Il Conte, in quel momento avrebbe voluto prenderlo a pugni, o passarlo a fil di spada. Invece si limitò a sorridergli, in modo alquanto tirato.
"Non trovate anche voi che le feste organizzate dai Medici siano così pacchiane?", aggiunse il Portinari, cambiando discorso.
"Le organizza la vostra futura moglie, queste feste". Quale sforzo immane aveva dovuto fare, per chiamarla 'vostra futura moglie'?
"Non capisco perchè una dama di compagnia della Madre di Firenze debba mettersi ad organizzare feste"
Elettra, se lo avesse sentito chiamarla 'dama di compagnia', lo avrebbe preso a calci.
Girolamo ridacchiò, a quel pensiero. "Elettra non è una dama di compagnia, è la curatrice artistica della signoria di Firenze"
Avrebbe voluto aggiungere altro, ma l'arrivo del vescovo Becchi, lo distolse da tale proposito; Aramis appariva parecchio affannato. Per lo sforzo, era diventato rosso.
"Abbiamo fatto ben tre balli di fila", disse, prendendo aria ad ogni parola. "Sarà che sto invecchiando, ma mia sorella ha una tale energia che si fatica a starle dietro"
Riario annuì: lui lo sapeva bene.
"Bene, vecchio mio", disse Aramis, dando una pacca sulla spalla al Portinari. "E poi non venite a dirmi che non vi avevo avvisato". Gli fece l'occhiolino, in segno di'intesa.
Il vescovo Becchi doveva proprio aver esagerato con il vino, per comportarsi così.
"A proposito di vostra sorella", disse il giovane Portinari, "Potrei sapere, di grazia, dove si è cacciata?". Il non averla continuamente sott'occhio lo irritava oltre ogni misura.
"L'ultima volta che l'ho vista stava ballando con Giuliano de Medici"
"Non vi sembra che il comportamento di vostra sorella con il giovane de Medici sia alquanto inopportuno?"
Aramis si mise a ridere. "Mi fido ciecamente di Giuliano. E poi lui ed Elettra sono cresciuti insieme, è normale che siano così legati", ribattè. "Non è che voi siete geloso, Edoardo?"
Mentre il vescovo Becchi lanciava frecciatine a più non posso a quell'imbecille del Portinari, Girolamo vide Elettra passare in mezzo alla folla e dirigersi verso la grande porta finestra che portava direttamente ai giardini interni del palazzo.
"Scusate, signori", di congedò. "Ho bisogno di un po' d'aria fresca"
 
***

I giardini interni di Palazzo della Signoria si trovavano leggermente più in basso, rispetto al livello del salone dei banchetti. Per ovviare a questo problema, era stata costruita una breve scalinata. Breve, ma pur sempre maestosa.
A destra di essa, sempre leggermente rialzato, rispetto ai giardini, vi era un bersò in glicine: una bellezza per gli occhi, in primavera, quando fioriva.
Girolamo si diresse proprio in quella direzione, certo di trovarla.
Infatti non si sbagliava, Elettra era proprio là, appoggiata alla ringhiera, intenta a sorseggiare del vino bianco. Scrutava pensierosa il cielo notturno.
Le si mise di fianco, appoggiandosi anche lui alla balconata. Si mise ad osservare le stelle. "Quell'uomo è un imbecille", disse, continuando a guardare la volta celeste e non lei.
"Imbecille quasi quanto voi?", chiese lei, con quel suo solito tono impertinente. Anche lei non distolse gli occhi dal cielo.
Girolamo sorrise: mai un insulto alla propria persona gli era sembrato così dolce. Non ribattè; lei aveva ragione, era stato uno sciocco a permetterle di andarsene via da lui. Finalmente si decise a voltare lo sguardo nella sua direzione, osservando ogni suo particolare, ogni curva del suo corpo.
Elettra sentiva il suo sguardo addosso: era uno sguardo profondo, che faceva infiammare il proprio corpo al solo pensiero. Anche lei si girò, incontrando subito i suoi grandi occhi color nocciola.
Girolamo era combattuto, tra il rispettare quello che si erano detti nella loro ultima conversazione e il desiderio di stringerla nuovamente fra le proprie braccia. Per la prima volta in vita sua, decise di seguire il proprio cuore. 
Le si avvicinò lentamente, arrivando ben presto ad annullare quella distanza. 
Elettra, anche se molto tentata di farlo, non indietreggiò. Lo lasciò prendere le proprie mani tra le sue, senza opporre resistenza.
"Elettra, vi supplico, non sposate quello'uomo"
A dividere le loro labbra era solo un sottile soffio d'aria.
"Lui vuole portarvi via da Firenze. Vi farà soffrire, se non sottosterete alle sue scelte". Si fermò, osservandola negli occhi. "Io non posso permettere che questo accada", sussurrò con un filo di voce. 
Stava per annullare completamente quella sottile distanza che divideva le loro labbra, quando il Portinari arrivò.
"Cosa sta succedendo qui?", chiese, evidentemente alterato.
Elettra fece qualche passo indietro, staccandosi da Girolamo. Scosse leggermente la testa, per cercare di riprendersi. Non riusciva a capacitarsi, su come avesse potuto permettere al Conte di arrivare quasi fino a quel punto. Di nuovo.
Fortunatamente non ci era cascata. Ma ci era mancato poco.
"Io e il Conte Riario stavamo discutendo del nostro matrimonio, Edoardo", rispose lei, facendo la sua solita faccia innocente, da cerbiatto spaventato.
"Desidero parlare in privato con la signorina Becchi, Conte", disse, sempre più irritato.
Girolamo guardò Elettra: sarebbe bastato anche il suo segno più impercettibile, per rifilare un buon gancio destro a quell'uomo.
"Conte, ci fareste il favore di lasciarci soli?", chiese lei, gentilmente.
"Come desiderate, madonna", rispose, avvicinandosi e facendole un breve baciamano.

Elettra aspettò di vederlo scomparire all'interno del salone, prima di parlare. 
Il Portinari nel frattempo la guardava con uno sguardo che non prometteva niente di buono.
"Pensate di lasciare Firenze, dopo il matrimonio?"
L'uomo annuì.
"E così la nostra sarà un'unione a distanza"; commentò lei. Il pensiero non l'allettava molto ma, anche i suoi genitori, passavano poco tempo assieme, per via del lavoro di suo padre. Se ce l'avevano fatta loro, poteva farcela pure lei.
"No, voi verrete con me"
Elettra scoppiò a ridere. "No, io non lascerò mai Firenze: ho preso degli impegni, con la repubblica, e non intendo venire meno ad essi"
"Ma pensate davvero che vi permetterò di continuare a lavorare per i Medici, anche dopo il matrimonio?". Ora era lui, che cominciava a divertirsi: piegarla al proprio volere sarebbe stato esilarante.
La ragazza tornò seria, cominciando a capire che non scherzava. "Certo, che continuerò a lavorare qui. Come continuerò a dipingere e a frequentare le persone e i luoghi che frequento adesso". La sua voce era ferma e c'era una leggera aria di sfida, nel suo tono di voce.
Tono di voce che fece andare ancora più in bestia il giovane Portinari. L'afferrò violentemente per un polso, stringendolo forte e causandole parecchio dolore. "Voi vi piegherete al mio volere", le sussurrò malevolo.
Elettra osservò prima lui, poi il suo polso, stretto nella sua mano. "Lasciatemi subito", disse in tono calmo.
L'altro le rise in faccia. In fondo, cosa poteva fargli, una donna? Loro erano creature fragili e volubili, buone solo a parlare. 
La sottovalutava troppo.
"Lasciatemi", ripetè nuovamente la ragazza. Non era mai stata brava, nel combattimento corpo a corpo, ma Girolamo le aveva insegnato qualche nuova mossa.
Vedendo che l'uomo non aveva intenzione alcuna di cedere, con un rapido ed inaspettato gesto, lo afferrò per il braccio che teneva stretto il proprio polso e, una volta liberatasi dalla sua stretta, si portò dietro di lui, facendo assumere al braccio una posizione alquanto innaturale -e anche parecchio dolorosa, a sentire i lamenti dell'uomo-. Ancora una piccolissima pressione e quel braccio si sarebbe spezzato come un fuscello secco.
"Sapete, non credo che arriveremo mai all'altare", disse, trattendendo a stento un sorriso. 
Prese il bicchiere di vino, pieno ancora per metà, che aveva appoggiato sulla balconata e gli rovesciò l'intero contenuto in testa.
Lo lasciò lì così: solo, inzuppato di vino e ancora dolorante.
 
***

Elettra rientrò nel salone sotto lo sguardo attendo della maggior parte degli invitati, che avevano assistito allibiti alla scena.
"Quell'uomo è forse più imbecille di voi", disse, mentre passava accanto al Conte Riario.
Con studiata nonchalance, depose il bicchiere ormai vuoto su un vassoio. Poi chiese a Fabrizio di portarle il proprio mantello. Il fidato cameriere dei Medici le chiese se volesse anche una carrozza, per tornare a casa, ma la ragazza declinò l'invito con uno dei suoi soliti caldi sorrisi, come non se ne vedevano da un po', preferendo fare due passi.
Giuliano le fu subito vicino. "Wow, hai dato a quel galletto una lezione che non si dimenticherà tanto facilmente"
Si guardarono negli occhi, scoppiando entrambi a ridere. "Cane Abbaiante?", propose lei.
Uscirono da palazzo a braccetto e sorridenti.
Elettra era davvero tornata ad essere quella di prima.

Nel frattempo, due figure che erano rimaste ai margini della sala, quella sera, e che avevano visto per intero la scena tra Elettra e il Portinari, discutevano amichevolmente tra di loro, sorseggiando del buon vino rosso.
"Lo sapete, vero, che dovrete scusarvi con Tommaso Portinari, per come vostra nipote ha umiliato suo figlio?", chiese Piero Da Vinci, con una vena di ironia. 
Gentile Becchi sbuffò e sul suo viso comparve un'espressione contrariata, identica a quella che faceva la nipote, quando non le andava di fare qualcosa. "Domani gli manderò una mia lettera di scuse"
"Sarà meglio che lo facciate di persona"
"Se lo meritava"
I due uomini si guardarono, scoppiando a ridere in modo alquanto rumoroso.
"Ma avete visto, come piagnucolava mentre vostra nipote gli torceva il braccio?", disse Piero, tra una risata e l'altra. La sua faccia in quel momento assomigliava così tanto a quella di Leonardo quando rideva.
"Perchè, avete notato come era zuppo di vino, quando se n'è andato?"
I due vecchi amici avevano le lacrime agli occhi, dal ridere.
"Dimmi, Gentile, avevi previsto tutto. Vero, vecchia volpe?"
"A mali estremi, estremi rimedi"


* Il Signor De Rossi è il membro del consiglio che, quando Nico tenta di andare a riscuotere le tasse al bordello di Madame Singh, nella terza stagione, sta 'banchettando' su una prostituta distesa su un tavolo. Si, la scena mi ha fatto abbastanza schifo; per questo la ricordo. 


Nda
Ok, con un buon bicchiere di vino (non prendetemi per un'alcolizzata, per favore), della musica classica per rilassarsi e la mia nuova coperta con le maniche ( <3 ), si scrive meglio. Ahahahahahah
Il link per l'abito che avevo pensato per Elettra da indossare per la serata è questo
Ps: ecco qui la nostra Elettra, con l'outfit della serata
Image and video hosting by TinyPic
Grazie mille a Shaon Nimphadora per questo fantastico disegno :D

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Capitolo 30
*** Seppellire l'ascia di guerra ***


Capitolo XXV: Seppellire l'ascia di guerra
 
Alcuni giorni più tardi...

Elettra sbuffò per l'ennesima volta, quella mattina. Si sistemò meglio sulla propria poltrona, lasciando cadere in modo tutt'altro che delicato il piccolo volume che teneva in mano, sulla scrivania del proprio studio, a palazzo de Medici. Si trattava di uno dei preziosi libretti vergati di suo pugno da Dragonetti e che conteneva i nomi dei malcapitati che, per loro sfortuna, erano stati trovati dal Capitano a vagare per le strade di Firenze dopo il coprifuoco.
Con l'aiuto di Bertino, li aveva 'presi in prestito' dall'ufficio di Dragonetti, a sua insaputa. Il termine più esatto, per quello che aveva fatto, era rubato. Ma presi in prestito era decisamente una parola più carina. 
Sarebbe finita in guai grossi, se qualcuno fosse venuto a conoscenza di quello che stava facendo. Che Giuliano le aveva chiesto di fare.
Era da un po' che il giovane de Medici pensava ad un modo per scoprire la vera spia che aveva tentato di incastrare Gentile Becchi e che ancora vagava indisturbata per il palazzo. E poi, una sera, mentre si trovava al Cane Abbaiante, insieme a Vanessa, ecco che l'ispirazione era finalmente arrivata. 
Ovviamente era toccato ad Elettra, fare tutto il lavoro sporco.
La ragazza guardò con aria disgustata la colonna di libretti che si stava accumulando sulla propria scrivania; solo studiandoli attentamente, si era resa conto che forse aveva un po' esagerato, con le uscite insieme a Leonardo, Nico e Zoroastro: i loro nomi comparivano decisamente troppo spesso! 
Anche Giuliano e Bertino, negli appartamenti del giovane de Medici, ne stavano analizzando altri. Con tutto quel lavoro, si vedevano davvero poco. E sempre per discutere delle reciproche scoperte.
Stava per allungare la mano, per prenderne un'altro, quando la maniglia della porta che dava su uno dei numerosi corridoi del palazzo, si mosse.
Elettra era certa che da un momento all'altro sarebbero entrati Bertino e Giuliano, per comunicarle qualche novità.
"Ho bisogno di un aumento!", disse mentre la porta si apriva.
Con sua grande sorpresa sulla soglia non comparvero Bertino e Giuliano, ma il Conte Riario.
L'uomo la guardò con un'espressione che poteva quasi dirsi divertita. Sempre restando nella limitatezza della sua apatia, si intende. "I Medici vi fanno forse lavorare troppo, Madonna?", chiese. C'era una vena di sarcasmo, nella sua voce.
Elettra si mise più composta, sulla propria poltrona, e rimise a terra le gambe, fino a quel momento incrociate sulla seduta. "Non si usa più bussare, Conte?",chiese, mantenendosi sulla difensiva.
Dalla sera della festa, dopo avergli dato dell'idiota (per ben due volte), lo aveva deliberatamente evitato.
"Il Magnifico mi ha gentilmente chiesto di riferirvi che, per oggi, siete sollevata dal compito che state svolgendo, qualunque esso sia", le disse, mentre osservava con interesse il volume aperto al centro della scrivania e la pigna di libretti simili a quello, di fianco.
Elettra chiuse il libretto di Dragonetti, appoggiandolo sopra agli altri, e poi prese l'intera colonna, deponendola in un'anta dell'armadio, che chiuse poi a chiave; non voleva di certo che quell'impiccione del Conte si mettesse a frugare tra le sue cose. Specialmente se esse riguardavano un'indagine sulla spia romana.
"Adesso fate anche il piccione viaggiatore per Lorenzo?", chiese lei, mentre tornava alla sua scrivania, con quel suo solito tono impertinente.
A giudicare dalla quasi impercettibile contrazione della mascella dell'uomo, Elettra doveva aver detto qualcosa di grosso. Gioì di sè stessa, pensando a quanto tempo il Conte avrebbe impiegato, a girare sui propri tacchi e uscire, sbattendo rumorosamente la porta e borbottando parole incomprensibili su quanto fosse esasperante ed infantile.
"Oh, ma non vi siete ancora chiesta quale nuovo compito vi abbia affidato il Magnifico". Le sue labbra si incurvarono in un affilato sorriso. 
La ragazza lo fissò attentamente: si capiva da lontano, che Riario ne era a conoscenza. "Parlate, dunque", disse irritata.
"Verrete con me a visitare le rovine romane"
Se fosse stato realmente possibile, ad Elettra sarebbe cascata la mascella, da quanto rimase a bocca aperta. "Ho da fare, Conte. Sarà per la prossima volta", ribattè sbrigativa. Dovette mordersi la lingua, per evitare di cominciare ad apostrofarlo con epiteti non proprio adatti.
"Non potete sottrarvi ad un ordine di Lorenzo"
Riario aveva ragione, ma in quel momento non aveva nessuna intenzione di ammetterlo.
"Andrò a chiederlo a Lorenzo, di persona", ribattè adirata.
Quasi a volerlo fare apposta, in quel momento qualcun'altro bussò alla porta. "Un messaggio del Magnifico". Era la voce di Fabrizio.
"Entra pure Fabrizio", disse Elettra, sedendosi stancamente sulla propria poltrona.
Il fidato servitore entrò. "Lorenzo riferisce che..."
"Che dovrò accompagnare il Conte Riario a visitare le rovine romane fuori città", lo interruppe lei, con voce annoiata.
L'uomo la guardò, sorpreso."E voi come fate a saperlo di già?". Solo in quel momento, si accorse della presenza del Conte. 
Il suo sguardo passò dalla figura di  Riario, ad Elettra, tutt'altro che felice, della notizia appena comunicale.
"Ho qualche altra opzione, su come passare la mia giornata, oggi?", chiese lei, ormai senza più speranze.
"Io non mi azzarderei a contestare un ordine del Magnifico", rispose cauto il servo. "Specialmente oggi... pare che sia di pessimo umore"
"Perfetto", commentò sarcastica, la ragazza.
Evitò di guardare la faccia di Riario, ben consapevole del ghigno di vittoria che gli era comparso in volto.
Congedò Fabrizio che, prima di uscire, fece un ampio inchino.
Elettra sospirò. "Perchè proprio le rovine romane?"
Il Conte le sorrise, con uno dei suoi soliti sorrisi affilati. "Vostro zio mi ha parlato degli studi accurati che avete fatto su di esse. E poi, come immagino avrete senz'altro udito, io e il Magnifico siamo finalmente giunti ad un accordo, riguardo alla questione del debito pontificio. E desideravo visitare meglio Firenze, prima di fare ritorno a Roma"
"Aspetto con ansia il giorno in cui ve ne andrete, Conte", disse la ragazza, con uno dei suoi soliti sorrisi strafottenti alla Leonardo Da Vinci.
 
***

"Perchè avete deciso di non portare con voi qualche guardia?", chiese Elettra mentre smontava da cavallo. Ad una decina di metri da loro, i primi cumuli di mattoni, indicavano la presenza di una qualche antica costruzione. 
La ragazza si era cambiata, prima di partire, sostituendo la scomoda gonna di broccato con un paio di pantaloni di pelle nera. 
Avrebbe decisamente preferito che ci fosse qualcun'altro con loro; non lo avrebbe mai ammesso a sè stessa eppure, il trovarsi sola con Riario, in un luogo isolato, la faceva sentire inquieta.
Il Conte ridacchiò tra sè e sè, intuendo i suoi pensieri. "Sono perfettamente addestrato e in grado di garantire l'incolumità di entrambi", disse, rispondendo alla sua domanda.
"So difendermi da sola", ribattè Elettra, sistemandosi la spada che aveva preso in prestito dall'armeria di Palazzo della Signoria. Nonostante quella fosse il modello più piccolo e leggero di cui disponessero, era comunque troppo pesante per lei. Non lo avrebbe mai detto a Riario, eppure rimpiangeva la propria, di spada, fatta su misura e in acciaio di Damasco, il migliore in quanto a leggerezza e resistenza. E, ovviamente, lasciata a casa.
"Quella spada non è adatta a voi". Da ottimo soldato, il Conte aveva intuito pure quello.
"Ho altre armi, se proprio vi interessa saperlo", ribattè lei, seccata. Per altre armi, intendeva il piccolo pugnale che teneva nascosto nella fodera dello stivale sinistro.
"E così questo è un posto di briganti", constatò Riario, girandosi lo stiletto tra le mani, per poi rinfoderarlo nella propria cintura. Anche il Conte aveva lasciato a palazzo la propria divisa, optando per degli abiti senza impresso il simbolo pontificio. Ovviamente sempre neri; le altre gamme di colori erano inesistenti.
"Di notte non è consigliabile vagare per questi luoghi", aggiunse Elettra.
Passò a fianco a Riario e, senza controllare che lui la stesse seguendo, si diresse a passo spedito verso le rovine. 

Elettra spiegò a Riario la storia, di quelle rovine, come dovevano apparire secoli prima e la loro architettura. Per permettere al Conte di avere un'idea più chiara, fece anche qualche schizzo veloce sul proprio blocco degli appunti, porgendoglielo e, con quel suo solito tono sarcastico, raccomandagli di restituirglielo, una volta osservato quello che doveva. Visto quello che era successo, in quello stesso luogo, durante il loro primo incontro, ad Elettra sembrava ovvio, fargli quella raccomandazione. L'altro libretto, non glielo aveva più restituito.
Il Conte restava sempre di qualche passo distanziato, rispetto alla ragazza, facendo sentire la propria presenza solo quando le porgeva qualche domanda, oppure annuendo ad alcune sue affermazioni. Per il resto, quell'uomo aveva il passo più silenzioso di quello di un felino; fatto che faceva innervosire ancora di più Elettra.
Ad un certo punto, entrarono in un edificio -uno dei pochi, ancora in piedi-.
"Questa costruzione veniva usata come luogo di culto per il dio Mitra", disse lei, fermandosi al centro della sala.
Ora, come minimo, si sarebbe aspettata qualche domanda riguardante i figli di Mitra e il Libro delle Lamine. Invece ci fu solo un lungo silenzio.
Elettra si chiese se magari il Conte non si fosse perso lungo il tragitto; si voltò, ritrovandosi il viso di Riario a pochi centimetri dal suo. Aveva un'espressione divertita, stampata in faccia.
La ragazza fece un passo indietro, sentendosi sempre più a disagio. Si spostò di lato, per oltrepassarlo, ma anche lui, fece la stessa cosa; allora Elettra provò a spostarsi dall'altra parte, ma l'unico risultato che ottenne fu di finire a sbattere contro il suo solido petto.
Indietreggiò di qualche passo, incrociando le braccia sotto al seno. Le sue guance, per l'imbarazzo, avevano assunto un colore vermiglio. Sbuffò spazientita, non sapendo neanche lei se ad irritarla di più fosse il comportamento di Riario oppure il proprio corpo, che dava risposte completamente diverse a quelle che il suo cervello ordinava.
"Pensate di aver finito di giocare, Conte? Perchè, in caso affermativo, vi mostrerei l'affresco che si trova su quella parete, alle vostre spalle", disse sarcastica.
Con un suo tipico sorriso da presa per i fondelli, Riario si fece da parte, per permetterle di passare.
Elettra si diresse verso la parete, dove l'affresco si trovava. Nonostante i secoli trascorsi e le condizioni atmosferiche non proprio ideali, esso era molto ben conservato; si trattava di uno sfondo rosso, sul quale erano state dipinte con maestria e perizia, alcune scene di caccia. 
"Come vi sembra?", chiese la ragazza.
"Splendido, quasi quanto voi", le sussurrò lentamente ad un orecchio.
Elettra non si aspettava di certo che le fosse nuovamente così vicino e sobbalzò. Si impose di restare immobile pensando che, rimanendo impassibile, probabilmente Girolamo l'avrebbe lasciata in pace. Il suo cuore che batteva all'impazzata e il suo respiro irregolare, però, la tradivano.
Lo sentì affondare il viso tra i suoi capelli e assaporarne il profumo. Le mani, invece, le sfioravano lentamente le braccia.
La ragazza si accorse di avere la pelle d'oca, come conseguenza dei gesti del Conte. Nel tentativo estremo di resistere al proprio corpo, intenzionato a fare tutto l'opposto di quello che lei desiderava, ripensò a quello che Girolamo aveva fatto, contro Firenze, contro Lorenzo e contro Leonardo. Ma anche questo fu inutile.
Il Conte le poggiò delicatamente le mani sulle spalle, tese, facendola voltare. Le sorrise, guardandola dritta negli occhi. C'era confusione e indecisione, nelle sue iridi azzurre.
Senza farselo ripetere due volte, Girolamo annullò completamente la breve distanza che divideva le loro labbra, poggiando delicatamente le proprie su quelle di lei.
Elettra si stupì, di quel gesto così inaspettato, e tentò con una debole spinta di liberarsi dalla sua presa. Ma, forse, neanche lei voleva che lui si allontanasse. E il suo corpo se ne era reso conto molto tempo prima di lei.
Sentì la lingua di Girolamo sfiorarle delicatamente le labbra e dischiuse la propria bocca, soddisfacendo così la sua muta richiesta. 
In un ultimo istante di lucidità, si chiese se volesse davvero che tutto ricominciasse. La risposta che si diede da sola, la stupì.
Sfiorò la lingua di Girolamo con la propria, ricambiando così il bacio.
"E' ora di deporre l'ascia di guerra, mia diletta", sussurrò il Conte, staccandosi dalle sue labbra. La sua voce era più arrochita di quanto pensasse. E il suo respiro irregolare.
Elettra lo guardò dritto negli occhi. Non disse nulla, limitandosi ad annullare di nuovo quella distanza, di sua spontanea iniziativa. Un bacio vale più di mille parole, in fondo.
Girolamo le cinse la vita, annullando ogni possibile distanza fra i loro corpi. La ragazza allacciò invece le proprie braccia attorno al suo collo.
Con il passare dei secondi il loro bacio divenne più passionale e profondo, il loro respiro più irregolare e i loro battiti cardiaci aumentarono di frequenza.
Elettra sentì le sue mani vagare per il proprio corpo e poi poggiarsi sull'allacciatura dei pantaloni, nel tentativo di aprirli.
A Girolamo sembrava così strano: non gli era mai capitato di spogliare una dama che portava dei pantaloni; ma lei non era una dama qualunque...
Sorrise, a quel pensiero.
Lei, intuendo i suoi propositi, lasciò andare la presa sul suo collo, prendendo delicatamente le sue mani tra le proprie e staccando le labbra dalle sue.
Il Conte la osservò con uno sguardo interrogativo, mentre entrambi riprendevano fiato.
"Stasera", disse semplicemente Elettra, conducendolo verso l'uscita. "Ci sono ancora molte cose, da vedere qui"
Girolamo sorrise tra sè e sè, ricordandosi che prima di tutto, per lei veniva l'arte. In qualsiasi momento e in qualsiasi occasione.
 
***
 
Quella sera...

Quanto tempo ci aveva messo Elettra, per pentirsi di quello che aveva fatto? Le era bastato chiudersi la porta di casa propria alle spalle, per rendersi conto di tutto. Fortunatamente Maria era già andata via, se no sarebbe impallidita, ad udire le imprecazione che la sua signora aveva lanciato, con il Conte ma, sopratutto, contro sè stessa.
'Stasera', gli aveva detto. Gli aveva dato appuntamento per quella sera! A casa propria, poi!
Elettra scosse la testa, sconsolata. Cosa le era passato per la testa, per cascarci di nuovo? Più che il termine 'cascarci di nuovo', avrebbe dovuto usare 'cadere tra le sue braccia di nuovo'. Era bastato semplicemente sentire le sue mani passare lentamente sulle proprie braccia e il suo fiato caldo sul proprio collo, per mandare completamente il tilt il proprio cervello e mandare all'aria tutti i buoni propositi che si era imposta la sera dell'arresto di Leonardo, mentre si trovava in lacrime sul freddo marmo della biblioteca di Cosimo de Medici, a Palazzo della Signoria, intenta a reprimere l'ennesimo attacco di panico causato da quell'uomo. 
Un fosco presentimento la portò a pensare che sarebbe presto tornata, a piangere in quell'angolo della biblioteca.
E poi erano bastate le sue labbra premute sulle proprie, per ridurre ad un flebile sussurro appena udile la propria coscienza. E tutti i sensi di colpa ad essa connessi.
E cosa doveva dire, poi, di quella sera?
Elettra non riusciva neanche a capacitarsi di cosa le era passato per la mente quando, dopo essersi fatta un bagno caldo, invece dei suoi soliti vestiti maschili, aveva indossato quella sottile sottoveste in seta nera, con le spalline sottili e quel pizzo, posizionato sull'ampio scollo a v e sul fondo, e che produceva un leggero e piacevole frusciare contro il pavimento di candido marmo bianco ad ogni singolo passo.
Ora era là, che passeggiava avanti e indietro, rivolgendo continuamente lo sguardo alla porta d'entrata, con indosso quella ridicola sottoveste e con una bottiglia di chianti dall'aria invitante, appoggiata sul tavolino del salotto, di fianco a due raffinati calici di cristallo.
Sbuffò, spazientita: avrebbe voluto levarsi subito quell'abito, sostituirlo con la sua solita camicia che usava per dipingere, stappare la bottiglia e berla direttamente a canna, mentre si dirigeva verso la soffitta! E poi scolarsela tra uno schizzo su una tela e l'altro! Altro che perdere il suo tempo così! L'unica cosa che voleva era sentire la rassicurante consistenza della tempera sulle proprie mani, o il liscio legno di uno dei suoi pennelli fra le dita.
Eppure una parte di lei lo aspettava. Lo aspettava con crescente aspettativa e desiderio. Non riusciva a fare nient'altro, in quel momento, se non aspettare che Girolamo arrivasse.
Così convinta che il Conte sarebbe entrato da quella porta, che dava su quella via trafficata, dove chiunque l'avrebbe potuto vedere e chiedersi cosa ci facesse lì (già, idea di Elettra era proprio buona...) sobbalzò, sentendo la porta sul retro, quella che dava su una traversa secondaria sempre deserta, cigolare.
Lo sguardo della ragazza si focalizzò immediatamente sul tagliacarte, posizionato sul piccolo mobiletto di fianco alla porta d'ingresso. Senza pensarci due volte, lo prese e, cercando di vedere qualcosa nelle tenebre che avvolgevano la casa, si diresse cauta verso la cucina, dove vi era l'uscita adibita alla servitù, che di fatto non veniva mai usata.
Aveva appena oltrepassato la soglia, quando sentì qualcuno arpionarle la vita con un braccio. Istintivamente alzò il tagliacarte, per colpire lo sconosciuto.
La sua mano però fu fermata da quella libera dell'intruso, che strinse il suo polso con una tale forza da farle cadere l'arma improvvisata a terra.
L'estranio rise ed Elettra lo riconobbe subito. "Che fai? Stavi, forse, tentando di uccidermi?", chiese sarcastico Girolamo.
La ragazza si diede della stupida, per non aver pensato che sarebbe passato dalla porta sul retro -come in ogni sua precedente visita- e non da quella principale.
"Avresti potuto bussare", disse massaggiandosi il polso dolorante. Non sapeva di essere più irritata con sè stessa, per quella svista, o con lui, per averla disarmata con una tale facilità. "Sai che avrei potuto farti male, vero?", aggiunse.
"Con quel tagliacarte?". Girolamo dovette sforzarsi, per trattenere una risata, mentre si chinava a raccogliere l'oggetto da terra. Restò inginocchiato a terra, tenendo l'arma sui palmi aperti delle proprie mani. "Tenete, mia signora. Fate di me ciò che volete", disse solenne. 
Elettra sbuffò, infastidita dal quel tono da presa per i fondelli. Prese il tagliacarte e poi si diresse a grandi passi verso l'entrata, dove lo rimise a posto, in modo tutt'altro che delicato. Girolamo, alle sue spalle, ridacchiava tra sè e sè.
"Avevo preparato del vino da offrirti, ma penso che serva più a me che a te", disse la ragazza, dirigendosi verso il salotto.
Il Conte entrò nella stanza, guardandosi intorno curioso. "Vino, bicchieri di cristallo, la veste che indossi... Mi aspettavi con impazienza, non è vero?"
"Certo che no", ribattè lei, immediatamente, "Il vino qui c'è sempre e in quanto al mio abito, la mia governante è parecchio indietro con il lavare e lo stirare", mentì.
Neanche se fosse stata di ottimo umore, avrebbe ammesso di aver fatto tutte quelle cose per lui.
"Come dite voi, mia diletta", le sussurrò alle spalle, cingendole la vita con entrambe le braccia. Le solleticò l'orecchio con il leggero accenno di barba. Sapeva perfettamente riconoscere quando diceva la verità o meno. Quella era una delle volte meno.
Sentì Elettra rabbrividire, per quelle ultime due parole usate. Era certo che le sue guance avessero ormai assunto una colorazione tendente al rosso. Fatto che lui adorava.
Lentamente, tracciò tutta la curva del suo morbido collo di porcellana, con le proprie labbra calde. Quanto tempo era che non gli era più permesso farlo? Troppo.
Con una mano, le scostò delicatamente i biondi capelli. In risposta, lei piegò il collo dall'altra parte, per permettergli di avere più spazio a disposizione.
La sentì trattenere il fiato, quando sostituì la propria lingua con i denti. Le diede un piccolo morso.
Elettra, dopo numerosi tentativi andati a vuoto a causa della forte stretta in vita, riuscì finalmente a girasi, osservandolo in volto. Avvicinò le proprie labbra alle sue, baciandolo. Le sue mani, nel frattempo, vagavano per la folta chioma corvina di lui, scompigliandoli e arruffandoli i capelli, sempre perfettamente in ordine. A lei piaceva, lasciare un po' del proprio disordine su di lui, perfetto e in ordine ai limiti dell'esasperazione.
Girolamo la prese fra le proprie braccia e cominciò a salire le scale, verso la camera da letto della ragazza. Zittì ogni sua protesta sul fatto di essere perfettamente in grado di camminare da sola, con le proprie labbra.

La fece distendere sull'ampio letto matrimoniale, osservando il suo petto alzarsi ed abbassarsi velocemente, al ritmo del suo respiro accelerato.
Sotto lo sguardo attento di Elettra, si tolse prima la giacca e poi la camicia. Le si avvicinò, aiutandola a sfilarsi la leggera sottoveste di seta.
Tornarono nuovamente a baciarsi, mentre Girolamo si slacciava i pantaloni, unico indumento che ancora divideva i loro corpi, desideriosi l'uno dell'altra.
Ad Elettra scappò un leggero gemito, quando tornò ad essere sua per l'ennesima volta. Si strinse forte alle spalle del Conte, mentre tutto ciò che c'era intorno a loro perdeva lentamente consistenza. C'erano solo loro due. E il momento che stavano vivendo assieme.
Quando tutto finì, Girolamo scivolò al suo fianco, cingendole le spalle con la sua stretta protettiva. Elettra, quasi a voler cercare ancora più protezione, si rannicchiò contro il suo petto.
"Vivere l'attimo", sussurrò, ancora ansante, persa tra i suoi pensieri.
Girolamo non disse niente, limitandosi ad appoggiare le proprie labbra sulla sua fronte, prima di chiudere gli occhi.


Nda
I nostri due piccioncini hanno finalmente fatto pace.
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Si, lo so: non vedevate l'ora che questo accadesse. Ma il tempo a disposizione di Girolamo, per stare a Firenze, sta scadendo... Cosa succederà nelle prossime puntate? Ahahahah non vi resta che leggere.
Grazie ancora un sacco a Shaon Nimphadora, per i suoi fantastici disegni :D
Ps: per una volta, passetemi eventuali errori di battituta. Cercate di capirmi...sono le due e mezza del mattino! Ahahahah
 

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Capitolo 31
*** Arrivederci ***


Avvertenze: preparate i fazzolettini, prima di leggere. Piccolo consiglio ;)


Capitolo XXVI: Arrivederci
Alcuni giorni dopo...

"E' ora di alzarsi, mia diletta"
Elettra mugugnò qualcosa di incomprensibile mentre Girolamo le solleticava un orecchio con il suo sottile accenno di barba.
Fece per alzarsi dal letto, ma la ragazza gli si stinse ancora di più addosso, appoggiando la testa sul suo petto e mettendosi in una posizione il più comoda possibile, ma sempre cercando il massimo contatto con il suo corpo, che rilasciava un piacevole calore.
Girolamo sorrise malinconico, mentre le accarezzava lentamente i biondi e soffici capelli.
Gli sarebbero mancati quei piccoli ma dolci gesti. 
Gli sarebbe mancata lei. E quel suo modo di fare per nulla convenzionale.
Non lo avrebbe mai pensato, eppure, gli sarebbero mancati anche la sua impertinenza e quell'avere sempre la risposta pronta, che riuscivano ogni volta a farlo irritare oltre ogni modo.
Una parte di lui non vedeva l'ora di tornare a Roma, di tornare a casa, lontano da quella corte troppo chiassosa e da quel covo di eretici e sodomiti che era Firenze. Ma una parte di lui, una parte che prima di quella visita credeva di aver sepolto per sempre, aveva trovato qualcosa di prezioso ed importante, in quella strana città: aveva trovato lei.
Cosa sarebbe successo, d'ora in avanti?
Girolamo sospirò, non sapendo neanche lui cosa l'avvenire avrebbe riservato loro. Sentiva una strana morsa allo stomaco, una sensazione, anche quella, che non provava da tempo, ormai.
Le sue carezze si fecero più possessive e nervose.
Elettra, sentendo quell'improvviso cambio di modi, aprì finalmente gli occhi, incontrando immediatamente quelli color nocciola di lui. Gli baciò delicatamente il mento, sorridendogli poi dolcemente.
Girolamo si umettò le labbra, segno che, per quanto cercava di non darlo a vedere, si sentiva nervoso. "E' ora di andare", le disse, appoggiando le proprie labbra sulla sua testa.
La ragazza sospirò, per nulla contenta.
"Non voglio che Lorenzo si insospettisca per la tua improvvisa assenza", le sussurrò ad un orecchio. Sapeva che avrebbe dovuto allentare la stretta intorno al suo punto vita, per permetterle di alzarsi, vestirsi ed uscire un'ultima volta da quelle stanze, ma la parte non razionale del suo cervello, in quel momento, stava avendo la meglio.
Fu un bussare insistente alla porta d'entrata, a riscuotere entrambi dai loro pensieri, ognuno rivolto all'altro.
"Chi c'è?", chiese Girolamo, cercando di mantenere quel suo solito tono di voce freddo e distaccato; quando c'era sempre lei, nelle vicinanze, non riusciva proprio a sembrare l'inflessibile Conte di Imola e Forlì. Si diresse velocemente verso l'entrata.
"Conte, siamo pronti a partire". Era la voce del Capitano Grunwald.
Girolamo tirò un sospiro di sollievo. "Ottimo", disse, anche se non lo pensava affatto, mentre si affacciava alla porta. "Trenta minuti e sarò da voi. A più tardi Capitano" lo congedò velocemente.
Tornò nella camera da letto, trovando Elettra intenta a cercare con lo sguardo il proprio vestito. La vide alzarsi dal letto, trascinandosi dietro le grandi lenzuola in cui aveva avvolto il proprio corpo sottile.
Girolamo non potè fare a meno di sorridere, di fronte a quell'inaspettata manifestazione di pudore: ormai conosceva ogni singolo centimetro della sua pelle, così candida e delicata.
La ragazza si chinò su una delle numerose poltrone, prendendo il mano il proprio vestito. Era blu notte, con una pesante gonna in broccato e il corsetto stretto. Decisamente non da Elettra.
"Spero che tu non faccia l'abitudine a questi abiti così tetri", commentò Girolamo. Era la prima volta che la vedeva con un abito dai colori così scuri. "Trovo che ti mortifichino troppo", disse gentilmente, per non offenderla.
"In fondo, non c'è proprio niente da festeggiare", ribattè lei, in tono malinconico. Sul suo volto, però, comparve presto un sorriso divertito. "Almeno fino a stasera: Fabrizio ha organizzato una festa clandestina nelle cucine"
Il Conte ridacchiò sommessamente: per un istante si era davvero preoccupato di aver avuto una cattiva influenza su di lei.
"Ti perderai anche il lancio di tutti questi orribili vestiti con gonne ampie e corsetti stretti dalla finestra di casa mia", continuò Elettra. 
"Allora c'è davvero qualcosa di positivo, nella mia partenza", commentò Girolamo, ironico.
'Indosserei sempre un corsetto, pur di svegliarmi ogni mattina al tuo fianco', pensò lei. Ma quel pensiero non si tramutò in parole: non voleva dargli quella soddisfazione. Di certo non dopo il tono di voce che aveva usato, troppo scherzoso, per passare nuovamente a discorsi seri. "Già, ho trovato un lato positivo", disse la ragazza. "Unito al fatto che da questo pomeriggio potrò tornare ad indossare i miei amatissimi pantaloni". Se le sue labbra aveva assunto una curva ironica, i suoi occhi erano tristi. 
Girolamo parve notarlo e le si avvicinò, carezzandole con il palmo della mano una guancia. Con il pollice tracciò più volte il contorno delle sue labbra. "Ammettilo che ti sei affeziona a me", le sussurrò, ad un soffio dal viso.
"Magari un pochino", ribattè lei.
"Io l'ho fatto"
Elettra quasi si commosse a sentire parlare così l'inflessibile e spietato Conte Girolamo Riario: come faceva quell'uomo ad essere così freddo con gli altri e così dolce con lei?
Sarebbe stato quello, il momento di dire quella frase: due semplici parole, cinque lettere in tutto. Ma nessuno dei due lo fece, nessuno dei due era pronto a dichiarare all'altro i propri sentimenti in modo così aperto. Sarebbe stato troppo. Sarebbe stata una promessa troppo grande. 
Restarono entrambi in silenzio. Un silenzio pesante, fatto di sguardi carichi di malinconia e parole non dette.
"Girolamo, potresti, per favore, allacciarmi il corsetto?", chiese Elettra. Fece per girarsi e dargli la schiena, ma lui le prese delicatamente una mano tra le sue.
"Aspetta", disse, mentre la conduceva verso il letto.
"Non abbiamo tempo", protestò la ragazza. 
Alla fine, si convinse a sedersi di fianco a Girolamo, sul bordo del letto.
Lui le prese entrambe le sue mani tra le sue, stringendole in modo apprensivo. "Promettimi...", si umettò le labbra. "Promettimi che non verrai mai a Roma"
Elettra piegò la testa di lato, osservandolo parecchio confusa. "Girolamo, io...". Perchè non poteva andare a Roma per, ad esempio, fare visita a suo fratello?
"Se ti dovesse succedere qualcosa...Io a Roma non posso proteggerti", il Conte sospirò sconfortato. "Resta qui. A Firenze sarai al sicuro. Resta vicino ai Medici e...", le sorrise, "Non ho mai neanche immaginato di poterlo dire, ma cerca di restare vicino anche a Da Vinci. So che per le persone a cui tiene veramente farebbe qualsiasi cosa. E so anche che tu rientri tra di loro"
Questa volta fu Elettra, a sospirare. 
"Promettimelo", insistè lui, stringendole un po' di più le mani. "Solo per Roma. Quando sarò ad Imola o a Forlì, potrai venire a farmi visita tutte le volte che vorrai", cercò di tranquillizzarla.
La ragazza annuì, impercettibilmente ma annuì.
Girolamo parve soddisfatto di sè stesso. Si avvicinò ancora di più al suo viso, annullando ben presto ogni distanza che divideva le loro labbra. Se non fosse stato per il poco tempo a loro disposizione, probabilmente, da quel bacio sarebbe nato altro. Invece si limitarono ad osservarsi, con i battiti del cuore accelerati e il respiro irregolare.

Quando Elettra uscì dal bagno degli appartamenti di Girolamo era pronta per andarsene: indossava quel lungo abito blu notte, si era truccata e i capelli, seppur lasciati sciolti -perchè a Girolamo piacevano così-, erano stati pettinati raccogliendo il ciuffo davanti un una morbida treccia, che andava poi a scomparire dietro l'orecchio.
Guardò l'orologio: quei dannati trenta minuti erano quasi passati. Sospirò, mentre si dirigeva verso il salotto, dove Girolamo, seduto sulla sua solita poltrona, giocherellava con un rimasuglio di liquore nel bicchiere: non aveva mai visto il Conte bere alcol al'infuori del bicchiere della staffa e di un po' di vino durante i pasti; doveva senz'altro averlo influenzato lei.
Gli si mise di fronte, osservandolo con un sorriso malinconico.
Lui, sentendosi addosso i suoi occhi, alzò i propri, incrociando immediatamente i suoi.
"Io...dovrei andare", disse riluttante Elettra.
"Si...dovresti". Anche la voce del Conte appariva decisamente poco convinta. Girolamo si alzò dalla poltrona. "Ti accompagno fino alla porta"
Mancavano pochi passi all'uscita, quando lui la prese dolcemente per mano, impedendole di allontanarsi. "Aspetta, mi stavo quasi dimenticando". La lasciò un attimo sola e si diresse velocemente verso la camera, dove vi erano i suoi bagagli, pronti per essere trasportati fino a Roma. Andò verso uno dei bauli, lo aprì ed estrasse qualcosa. Tornò da lei, che, nel mentre, lo osservava curiosa.
Girolamo teneva in mano un libretto dall'aria vissuta, con una copertina in pelle nera.
"Il mio blocco da disegno", commentò Elettra, stupita di ritrovarselo di nuovo davanti. Strano, eppure era certa di ricordarselo in condizioni migliori. Lo prese tra le mani, sfogliandolo: c'erano molti abbozzi di progetti della biblioteca dedicata a Cosimo, qualche ritratto, tra cui riconobbe il viso di Giuliano e Vanessa. Sorrise, al vedere un disegno rappresentante Leonardo, Nico e Zoroastro intenti a dare forma ad una qualche nuova invenzione; accarezzò i loro volti con fare malinconico, sperando che, ovunque fossero, stessero bene. C'erano anche altri disegni, alcuni precisi nei minimi dettagli, altri semplicemente abbozzati; disegni di ciò che aveva intorno, fatti così, a volte per noia, in altri casi per stemperare la tensione: c'erano volte in cui solo il disegno le permetteva di tranquillizzarsi. Era così che aveva imparato a controllare gli attacchi di panico. C'erano anche dei suoi autoritratti, fatti davanti ad uno specchio, come esercizio.
"Non posso accettarlo", disse dopo un lungo silenzio, restituendo il blocco a Girolamo.
L'uomo la osservò confuso. "Ma è tuo, è giusto che te lo restituisca"
"E' stato con te per tanto tempo, voglio che ora lo tenga tu". Prese la mano libera di lui tra le sue. "Così, quando lo guarderai, ti ricorderai di me"
"Tu di me, però, non hai niente"
"Non è vero, ho la cosa più importante di tutte"
Si guardarono intensamente negli occhi.
"Ora credo proprio che tu debba andare". Era già la terza volta che uno dei due ripeteva quella frase.
"Già..", commentò Elettra. Fece alcuni passi verso la porta, dandogli le spalle ma tenendo sempre stretta la mano di Girolamo. Quando arrivò il momento di lasciarla, si fermò.
Lui la osservò malinconico, notando  il tremolio delle sue spalle tese. La vide girarsi nella sua direzione: due grandi lacrime le solcavano il viso. Un attimo dopo, le sue braccia erano strette attorno al collo di Girolamo. Lui la strinse ancora di più a sè, appoggiando le labbra sui suoi soffici capelli mentre, le proprie mani percorrevano la sua schiena, nel tentativo di tranquillizzarla.
Anche gli occhi del Conte divennero lucidi e, involontariamente, una lacrima solitaria percorse tutto il suo viso, finendo la sua corsa sui capelli di Elettra. Da quanto tempo non piangeva? Tanto, davvero tanto tempo. L'ultima volta era stata quando aveva stretto le sue mani intorno al collo di sua madre...
La ragazza si era ripromessa che quel giorno non avrebbe versato neanche una lacrima, che sarebbe stata forte ma...ma quando aveva visto la porta avvicinarsi sempre di più, si era resa conto che presto sarebbe cambiato tutto. Quando un sistema veniva perturbato, esso si spostava in modo da poter tornare all'equilibrio. Già, ma, loro, questo equilibrio, lo avevano appena trovato. E presto sarebbe cambiato di nuovo tutto. Quanto tempo ci avrebbero messo, questa volta?
Suo padre se ne era andato, Leonardo se ne era andato e, adesso, anche Girolamo stava per lasciarla...
"Andrà tutto bene mia diletta", disse lui, con una voce decisamente più tremante del previsto.
Elettra alzò la testa dall'incavo della sua spalla, osservandolo negli occhi e trovandoli anch'essi lucidi. Si mise in punta di piedi, per arrivare meglio alle sue labbra, e lo baciò.
"Ogni bacio trasmette un messaggio", disse. Lo aveva sentito da Leonardo, molto tempo prima. "E questo è un arrivederci".
Senza indugiare oltre, si staccò da Girolamo ed uscì per l'ultima volta da quegli appartamenti.
Cercò di asciugarsi le ultime lacrime con il dorso della mano ed osservò malinconica la porta che si era chiusa alle spalle: aveva lasciato una parte di sè, là dentro.
A passo spedito si diresse verso il proprio studio, per, almeno tentare, di darsi un'aria presentabile.

***

Il Cardinale Mercuri batteva impaziente il piede sul pavimento della corte interna di Palazzo della Signoria: non vedeva l'ora di poter finalmente lasciare quel covo di eretici e sodomiti che era Firenze. Ma la delegazione romana non poteva di certo andarsene senza prima aver salutato tutti i membri del casato dei Medici. E ovviamente Giuliano de Medici non si era ancora presentato. Insieme a quell'impertinente della sorella del suo assistente. Sbuffò, attirando su di sè l'attenzione di tutti.
"Non preoccupatevi, Cardinale, sono certo che Elettra e Giuliano arriveranno presto", provò a confortarlo Aramis; anche lui era abbastanza inquieto, circa quel ritardo. Ma sapeva benissimo quanto sua sorella ci tenesse, a salutarlo un'ultima volta. Non lo avrebbe mai lasciato partire così.
"La signorina Becchi ha sempre avuto qualche problema con l'orologio", disse il Conte. "Suppongo che abbia contagiato anche il giovane Giuliano"
Lorenzo gli sorrise nervoso, maledicendo in cuor suo quei due combinaguai.
Pochi minuti più tardi, quando ormai erano in pochi, a sperare ancora nel loro arrivo, eccoli scendere dalla scalinata: Giuliano teneva Elettra a braccetto, sussurrandole qualcosa di divertente all'orecchio.
Girolamo aveva notato che solitamente la ragazza rispondeva a quelle battute con la sua risata cristallina ma, quel giorno, con una punta di tristezza, la vide solamente piegare le labbra vermiglie in un timido sorriso.
Per una frazione di secondo, quando i due giovani misero piede a terra, furono fulminati dallo sguardo adirato di Lorenzo. Fortunatamente, l'intervento di Clarice, che gli appoggiò delicatamente una mano sull'avambraccio, massaggiandoglielo lentamente, lo fece calmare.
"Bene", disse il Magnifico con un sorriso, "Eccoci finalmente tutti qui"
Girolamo cercò con lo sguardo Elettra che, intenzionalmente, guardava ovunque tranne che nella sua direzione.
"Conte Riario", continuò Lorenzo, porgendogli la mano e distogliendolo così dai suoi pensieri, "E' stato un piacere, avermi come mio ospite". Sapevano entrambi che non era vero e che quella era tutta una farsa. Si strinsero la mano.
Mentre Girolamo e il Magnifico parlavano, Elettra, seguita da Gentile Becchi, si avvicinò ad Aramis. 
"Comportati bene a Roma, fratellone", gli disse, abbracciandolo forte. "E non esagerare troppo con le messe: non voglio che ti vada il cervello in pappa un'altra volta"
Risero entrambi di gusto, vedendo il Cardinale Mercuri, di fianco a loro, alzare gli occhi al cielo.
"E tu cerca di non cacciarti nei guai", ribattè lui. Si guardarono per un attimo negli occhi, scoppiando nuovamente a ridere: sapevano benissimo tutti e due, che erano parole al vento.
Gentile Becchi appoggiò una mano sulla dei suoi due nipoti, in un raro gesto d'affetto. "Buona fortuna", disse semplicemente. 
Elettra sospirò, asciugandosi velocemente una lacrima con il dorso della mano. Notò che anche Aramis, aveva gli occhi leggermente lucidi.
Guardò il Cardinale Mercuri e il Capitano Grunwald, osservare la scena seccati. Strano a dirsi, eppure in quel momento le apparivano più insensibili del Conte.
"Ammettetelo che un po' vi mancherò", disse sarcastica.
"Io non ci metterei la mano sul fuoco, Madonna", rispose il Cardinale, ma il suo tono di voce aveva un chè di ironico.
Il Capitano, con sorpresa di tutti, le fece un veloce baciamano.
Il saluto più 'complicato' fu, come ovvio, quello al Conte Riario: nessuno dei due sapeva come comportarsi, senza destare sospetti.
Elettra gli si avvicinò, sospirando. "E così, Conte, è arrivato il momento di salutarci"
"E' stato un piacere conoscervi, Madonna". Stava per farle anche lui un baciamano, ma la ragazza fu più veloce e lo abbracciò in un gesto d'impeto.
Si allontanarono subito entrambi, parecchio imbarazzati. La faccia di Elettra aveva assunto un colore che si avvicinava molto alla veste vermiglia che Lorenzo indossava in quel momento.
Uscirono tutti fuori dal palazzo ed Elettra osservò molto attentamente Girolamo salire sul proprio andaluso nero. 
Una volta in sella, lui cercò subito il suo sguardo. I loro occhi si incontrarono per un'ultima volta, prima che il cavallo partisse velocemente al galoppo.
Elettra lo osservò per alcuni secondi, immobile in mezzo alla strada fino a quando non scomparve alla sua vista. Cominciò a sentire le lacrime pizzicarle gli occhi. 
Si congedò velocemente e corse nella biblioteca di Cosimo: sapeva che ci sarebbe tornata, in quell'angolino, a piangere. Ma non pensava così presto.
 
***
 
Quella notte...

Era restata là, a piangere su quel freddo marmo bianco, fino a quando Giuliano non l'aveva trovata; si era seduto di fianco a lei e le aveva fatto appoggiare la testa sulle proprie ginocchia, parlandole e rassicurandola fino a quando non si era calmata. Non le aveva chiesto il motivo di quella crisi di pianto, ma aveva certamente intuito qualcosa: di certo sapeva benissimo che tutte quelle lacrime non erano solo per il distacco dal fratello. Ma aveva paura a chiederle altro. Temeva che l'amicizia che li legava avrebbe subito un drastico mutamento, se lei gli avesse rivelato la verità. Preferiva di gran lunga lasciare le cose come stavano.
Una volta uscita dalla biblioteca, Elettra era corsa a cambiarsi, indossando finalmente un paio di pantaloni. Non un paio qualsiasi: per quel giorno aveva scelto il suo paio preferito; dei pantaloni neri, stretti e molto usurati, tanto da apparire un po' sbiaditi e con un taglio su uno dei ginocchi. Sopra ad essi aveva indossato una semplice camicia bianca e una giacca di pelle nera. 
Poi, sempre insieme a Giuliano, erano andati alla festa clandestina nelle cucine. Peccato che quando erano arrivati, si erano ritrovati davanti Gentile Becchi, Lorenzo e Clarice, lividi di rabbia. Inutile dire che la festa se la sarebbero potuti giusto scordare.
Ci sarebbero state delle conseguenze, ma il verdetto sarebbe stato dato solo il giorno dopo.
Elettra ora si trovava davanti alla porta di casa. 
C'era una bottiglia di acquavite, ad attenderla impazientemente in salotto: la giusta fine per quella giornata da dimenticare. L'aveva preparata lì quella mattina, apposta.
Inserì la chiave nella serratura ed entrò. Come ormai suo solito, non ci pensò neanche ad accendere qualche lume, ma utilizzò il proprio ciondolo. 
Eppure, appena messo piede nel salotto, tutte le luci si accesero contemporaneamente. 
Sospirò, intuendo già chi ci fosse, ad attenderla. "Al-Rahim", lo salutò ancora prima di individuarlo, seduto comodamente su una delle numerose poltrone.
"Salve a voi, Elettra"
"Posso sapere cosa ci fate a casa mia?", chiese lei, mentre prendeva due bicchierini dalla dispensa.
"Vi avevo detto che sarei tornato"
La ragazza sospirò. "Immagino che mi direte dove mia sorella si trova". Porse uno dei due bicchierini al Turco. Lei, dal canto suo, lo bevve  tutto d'un fiato, tornando a riempirlo subito dopo: per parlare di certi argomenti, l'alcol si rivelava strettamente necessario.
"No, non so con esattezza dove Anna e Lucrezia sono tenute prigioniere"
Elettra sbarrò gli occhi, a quell'affermazione. "Tenute prigioniere?"
"Temiamo di sì". Anche Al-Rahim sembrava rammaricato, dalla propria constatazione.
"E chi le sta facendo questo?". Pensò a Lucrezia e a come sarebbe potuta stare, dopo quasi nove lunghi anni di prigionia; lei probabilmente non ce l'avrebbe fatta, sarebbe imapzzita prima...E se anche la sua gemella fosse impazzita? In che condizioni avrebbe riversato, quando finalmente l'avrebbe ritrovata?
Il Turco parve voler dire subito qualcosa, ma si bloccò, ponderando meglio le proprie parole. "Non ne abbiamo ancora la certezza", disse semplicemente.
"A me basta un nome", commentò Elettra, stringendo le dita a pugno, fino a farsi sbiancare le nocche. Avrebbe salvato sua sorella e sua madre, fosse anche stata l'ultima cosa che avrebbe fatto. E il responsabile o, come più probabile, i responsabili, avrebbero pagato con il loro sangue.
"E lo avrete, una volta entrata in possesso di alcuni documenti"
"Che documenti?"
"Immagino che avrete conosciuto il curatore degli Archivi Segreti Vaticani, Lupo Mercuri"
La ragazza annuì. "Era un Figlio di Mitra, prima di schierarsi con il Vaticano"
Questa volta fu il turco, a fare un gesto affermativo. "Ci tradì alcuni anni prima della scomparsa di vostra madre e di vostra sorella ma, tuttavia, quando scomparvero, avviò una ricerca. Sono certo che nei suoi appunti sul caso, troverete gli indizi che vi servono"
Strano, eppure era davvero la prima volta che il Turco aveva la piena attenzione di Elettra; prima, lei non si era mai completamente fidata di lui.
"Dove sono questi appunti?". Temeva di saperlo, però.
"Negli Archivi Segreti Vaticani"
La ragazza sospirò: non poteva andare a Roma, lo aveva promesso a Girolamo. E Al-Rahim non poteva non saperlo: quel ficcanaso era perfino più informato della migliore comara fiorentina!
"Immagino che conosciate la mia delicata situazione al riguardo"
"I patti sono fatti per essere infranti", disse il Turco, con un sorriso sottile.
Elettra non si aspettava di certo questi comportamenti da ribelle da una persona controllata, come poteva apparire quell'uomo misterioso.
"Voi la fate semplice, Al-Rahim", commentò lei, "Ma mettiamo anche che io, presa da non si sa quale folle idea, decida di andare a Roma, come pensate che possa farcela, ad entrare negli Archivi Segreti ed oltretutto uscirne incolume con quei documenti?"
"Non sarete sola"
"Non ho nessuna intenzione di coinvolgere mio fratello e Gi...il Conte Riario non mi aiuterà mai"
Il Turco si mise a sghignazzare, apparentemente divertito dall'affermazione della ragazza. "Non sarete di certo sola. Presto anche Da Vinci si recherà a Roma: vi aiuterete a vicenda"
"Cosa dovrebbe andare a farci Leonardo a Roma?". All'artista Roma non piaceva affatto e poi, bisogna sempre vedere se sarebbe tornato incolume dalla Valacchia...
"Riceverete presto un suo messaggio, nel quale vi comunicherà di recarvi immediatamente nella Città Eterna"
"Si ma..."
"Tenetevi pronta. Quando il messaggio giungerà, dovrete partire immediatamente", la interruppe lui, alzandosi dalla poltrona. 
Elettra fece per aggiungere altro, ma prima di poter aprire bocca, una luce accencante inondò la stanza.
Quando la ragazza aprì gli occhi, del Turco non c'era più traccia.
"Fantastico", commentò tra sè e sè, sacastica.


Nda
Vi prego, non prendetevala troppo con me. Era ASSOLUTAMENTE necessario ai fini della trama. Ma non preoccupatevi, in un modo o nell'altro, i nostri picciocini torneranno insieme anche nella prossima puntata :D

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Capitolo 32
*** “Ci vediamo a Roma, Leonardo” ***


Capitolo XXVII: “Ci vediamo a Roma, Leonardo”

La sabbia calda a contatto con la propria schiena, la piacevole sensazione del Sole sulla pelle, il rumore cadenzato delle onde del mare che si infrangevano sul bagnasciuga... 
Girolamo Riario respirò a pieni polmoni l’aria salmastra, finalmente rilassato; chiuse gli occhi, gustandosi quel raro  momento di tranquillità. Doveva essersi assopito, perchè non la sentì avvicinarsi. L’unica cosa che sentì fu dell’acqua fredda, all’improvviso, sulla propria pancia.        
Girolamo aprì gli occhi di scatto, con la mente immediatamente vigile. Un’abitudine che aveva affinato in anni e anni di addestramento e che gli aveva salvato la vita in più occasioni.

Trovò due grandi occhi azzurri, che lo osservavano divertiti dall’alto.
Elettra, in piedi di fianco a lui, finì di strizzarsi i lunghi capelli biondi. La sua bocca vermiglia aveva assunto una piega ironica.   
“Ti ho chiamato ma non rispondevi”, disse, come a cercare un’attenuante per quello che aveva fatto. “Vi siete forse addormentato, Conte?”, lo punzecchiò con quel suo solito tono impertinente.

Il lungo abito bianco, con le spalline sottile e l’ampio scollo a V era bagnato fradicio, segno che l’aveva indossato anche in acqua. Girolamo la osservò attentamente, constatando che esso copriva ben poco. Improvvisamente quell’abito si era fatto di troppo...
“Pensi di venire a fare un bagno o mi lasci sola anche adesso?”, gli chiese Elettra, osservandolo divertita.
“Pensi di toglierti quell’abito?”

La ragazza assunse un’espressione pensierosa. “Magari”. Si voltò di spalle, verso il mare. “Ma solo se riesci a prendermi”. Alzò leggermente la gonna dell’abito, per poter correre più velocemente, e si buttò in acqua.
Il Conte la osservò divertito, decidendo che se la sarebbe presa con calma, giusto per lasciarle un po’ di vantaggio e la vaga idea di potergli sfuggire. Si alzò, si spogliò, lasciando i propri vestiti sulla riva e andò verso l’acqua, senza alcuna fretta.
Vide Elettra, a una decina di metri dalla riva, osservarlo attentamente, pronta a scattare appena lui si fosse avvicinato troppo.

“Così però non vale”, protestò lei.
Nel frattempo, Girolamo cominciò a dare delle ampie bracciate a nuoto. 
La ragazza si voltò, con tutta l’intenzione di scappare ancora ma l’abito lungo, zuppo d’acqua, le fu d’impaccio, rendendola decisamente troppo lenta.  
Inutile dire che l’uomo ci mise un attimo a colmare la distanza che li divideva. La prese per un polso, tirandola a sè. “Volevo darti l’illusione della vittoria, mia diletta”, le sussurrò ad un orecchio.
Nonostante le sue guance diventate colorate, Elettra sbuffò, infastidita.

“L’abito”, le rammentò lui, ad un soffio dalle sue labbra.
“L’abito cosa?”. I suoi grandi occhi azzurri avevano assunto un’espressione innocente.
“Lo sai benissimo”, le disse, mangiandola con gli occhi.
Lei si lasciò andare ad una risatina, prima di immergersi improvvisamente.
Girolamo sospirò, frustrato, poi prese un lungo respiro e la seguì sott’acqua.

Riemersero una manciata di secondi più tardi, qualche metro più vicini alla riva, dove l’acqua li arrivava appena sotto le spalle.
Il Conte attirò Elettra a sè, ben intenzionato a non lasciarsela sfuggire, questa volta. Cercò immediatamente le sue labbra, mentre le sue dita agguantavano la sottile stoffa dell’abito, con tutta l’intenzione di sfilarglielo al più presto. 
Cominciarono lentamente ad arretrare verso la spiaggia.
“Devo farti vedere una cosa”, disse la ragazza, staccandosi dalle sue labbra e prendendolo per mano.

Girolamo fece una smorfia, piantando i piedi a terra.
“Sono certa che ti piacerà”
L’uomo sbuffò. Erano su una spiaggia deserta, lontana dalla civiltà e da ogni possibile distrazione come quadri, architetture singolari e antiche rovine; possibile che fosse riuscita a trovare qualcosa anche lì?
Si inoltrarono per alcuni metri nella fitta boscaglia che proteggeva la laguna da occhi indiscreti; tra i vari rumori che caratterizzavano il sottobosco, si poteva udire il rilassante suono dell’acqua che scorreva. Probabilmente dovevano trovarsi nelle vicinanze di un qualche piccolo corso d’acqua.

Elettra si fermò improvvisamente, voltandosi verso Girolamo con un sorriso a trentadue denti. L’uomo si guardò intorno, osservando nient’altro che alberi ed arbusti. Alzò un sopracciglio, perplesso.
Alla vista della sua espressione, la ragazza non riuscì proprio a trattenere una risatina. Scostò alcune grandi foglie verdi, appartenenti ad una pianta sconosciuta, mostrando così ciò che si celava alla loro vista: davanti ai loro occhi vi era una piccola cascata, le cui acque andavano poi a raccogliersi in una pozza poco profonda dall’aria cristallina; da essa, alla fine, fuoriusciva un piccolo ruscello.

“Soddisfatto?”, chiese Elettra, correndo sotto la cascatella. Alzò il viso verso l’alto, lasciando che l’acqua le scorresse sopra.
“Quasi”, le sussurrò lui ad un orecchio, cingendole la vita con un braccio.
Il calore del petto di Girolamo, appoggiato alla propria schiena e l’acqua fretta della cascata sul proprio volto, creavano un contrasto tutt’altro che spiacevole.

Elettra sospirò quando sentì le sue labbra calde posarsi sul proprio collo. Si girò, alzandosi leggermente sulle punte per aver il viso all’altezza di quello di Girolamo e lo baciò.
Le mani di lui corsero velocemente alle spalline dell’abito, aiutandola a sfilarselo e...


Girolamo aprì a fatica gli occhi, per nulla soddisfatto di quella brusca interruzione. Lanciò un’occhiataccia a Zita che, in piedi poco lontano dal letto, lo aveva chiamato, svegliandolo. 
La serva abissina abbassò in fretta il capo, mortificata.   
Il Conte pensò di richiudere gli occhi, con la speranza di poter riprendere quel sogno dove lo aveva lasciato, ma accantonò presto l’idea. Sospirò, pensando ad Elettra: da quando era tornato a Roma –diverse settimane prima-, non aveva ancora avuto il tempo di scriverle; i problemi della città e il proprio incarico al servizio del Papa non gli avevano lasciato neanche un attimo di riposo.
Era talmente impegnato che non era nemmeno riuscito a parlare con Sisto delle novità riguardanti la ricerca del Libro delle Lamine; non che di questo si lamentasse, anzi, era meglio così, visto che da quel lato il suo soggiorno prolungato a Firenze si era rivelato un fallimento.
“Sua Santità vi ha fatto chiamare”, disse Zita, torturandosi nervosamente le mani e tenendo la sguardo puntato sul pavimento. Anche il semplice nominare quel...non poteva chiamarlo uomo, non dopo tutto quello che le aveva fatto: i lividi della notte precedente erano ancora lì, sulla sua pelle, gli ennesimi di una lunga lista.
Girolamo sospirò, volgendo il viso verso le ampie finestre, coperte da dei pesanti panneggi di velluto scuro: a giudicare dalla scarsità di luce, non doveva essere nemmeno l’alba.
Era sempre stato abituato ad alzarsi prima del sorgere del Sole ma, da quando era stato a Firenze, certe abitudini erano venute meno.
Si alzò dal letto, congedando la serva con un gesto.
*** 

Il grande portale ligneo che conduceva ai bagni papali si aprì ed una vampata di vapore ed aria calda investì Girolamo, lasciandolo per un istante stordito. 
Prese un lungo respiro, facendo mente locale su tutto quello che avrebbe dovuto dire a Sua Santità, e si diresse all’interno con passo sicuro e la solita espressione fredda e distaccata. 

Oltre la soglia vi erano già Sisto, Mercuri e, con un certo stupore, notò anche Lucrezia Donati.
“Sei in ritardo, nipote”, disse il Papa, alzando appena un sopracciglio. Incurante di tutte le persone presenti nei bagni, si tolse la pesante vestaglia in broccato, restando completamente nudo e si diresse verso l’acqua.
Riario si limitò ad abbassare lo sguardo, ben consapevole che qualsiasi parola avesse detto, sarebbe stata inutile.
“Cosa è successo a Firenze?”. C’era una rabbia trattenuta a stento, nelle parole di Sisto, unite ad una buona dose di disprezzo.
Girolamo si umettò le labbra, nervoso. “Ci eravamo sbagliati sul conto del vescovo Aramis, non era a lui che era stata affidata la terza chiave”
Nella sua mente riaffiorarono i ricordi di quando la ricerca del Libro delle Lamine aveva avuto inizio, di quando il Cardinale Mercuri aveva nominato per la prima volta i Figli di Mitra e la sua esperienza all’interno della Confraternita. Avevano innanzitutto cercato di reperire le chiavi ma, mentre la prima metà -quella che il Conte portava sempre al collo- era stata trovata in modo relativamente semplice, per l’altra parte l’impresa si era rivelata fin da subito ardua ed allora si erano concentrati sull’ultima chiave, un cuore d’argento. Mercuri gli aveva parlato della sua proprietaria e di come era misteriosamente scomparsa, insieme ad una delle figlie, la prescelta a cui un giorno sarebbe toccato il compito di custodirlo; avevano discusso circa il destino di quel ciondolo, arrivando entrambi alla conclusione che non poteva essere scomparso anch’esso. Era troppo prezioso per i Figli di Mitra per scomparire nel nulla.
Attraverso i ricordi del Cardinale, avevano analizzato il resto della famiglia, cercando di capire a chi gli altri adepti avrebbero potuto affidare il cuore; restavano altre due possibilità: o l’unico erede maschio, oppure la figlia minore. Quest’ultima era stata da subito esclusa, visto il comportamento di Anna nei suoi confronti, che l’aveva da sempre considerata indesiderata. 
Era rimasto solo Aramis.      
Casualmente quest’ultimo si era avviato alla carriera ecclesiastica e non era stato difficile trovare un modo per portarlo a Roma; l’idea di promuoverlo vescovo e di offrirgli un lavoro come segretario del Cardinale Mercuri si era rivelata da subito ottima e, ovviamente, il giovane prete aveva accettato immediatamente, entusiasta.
Lo avevano tenuto d’occhio per due anni, con la speranza che la terza chiave spuntasse fuori da un momento all’altro, o che qualcuno dei Figli di Mitra lo contattasse. 
Invece non era successo niente.
Avevano pure provato ad accennargli del Libro delle Lamine, per vedere la sua reazione, ma il ragazzo si era comportato come una qualsiasi persona curiosa di fronte a nuove scoperte. Avevano pensato che fosse molto in gamba a mentire, convincendosi che avrebbero dovuto cambiare approccio.
E così avevano deciso di portarlo con loro a Firenze, pensando che fosse lì che teneva nascosta la chiave.
Poi aveva conosciuto Elettra. L’ultima persona che si sarebbe aspettata come custode.
Gli era stato chiaro fin da subito che quella ragazzina impertinente non avesse la minima idea di quanto fosse prezioso ciò che portava sempre al collo. Se ne avesse conosciuto l’importanza, probabilmente non ne avrebbe fatto libero sfoggio davanti a tutti.
Avrebbe potuto rubargli quel ciondolo in qualunque momento, eppure... Quei due grandi occhi azzurri e quel suo irritante modo di fare lo avevano stregato, letteralmente.
Aiutandola a scarcerare Gentile Becchi credeva di riuscire a legarla a sè ed ottenere la sua piena fiducia. Credeva di riuscire a convincerla a dargli quel ciondolo di sua spontanea volontà.
Invece era caduto nella propria trappola.
Se in quel momento Girolamo Riario avesse chiuso gli occhi, era certo di trovarsela davanti, con quel finto sguardo innocente e il sorriso rassicurante. Doveva proteggerla da Roma e dal Papa, ma doveva anche fare il proprio lavoro in quanto Capitano Generale della Santa Romana Chiesa.
Sarebbe dovuto stare attento ad ogni singola parola che avrebbe detto durante quel colloquio: se avesse parlato troppo, avrebbe firmato con le proprie mani la sua condanna a morte ma, se al contrario, avesse detto troppo poco, Sua Santità si sarebbe insospettito e il risultato sarebbe stato lo stesso.
“Dove sono le chiavi?”. Sisto sapeva tutto. Ovviamente era rimasto in contatto per lettera con i propri sottoposti, per tutti quei mesi, pretendendo di rimanere continuamente aggiornato. Godette nel vedere la faccia terrorizzata di Mercuri, che lo fissava con gli occhi spalancati e la bocca aperta, alla disperata ricerca delle parole giuste da dire. Vide il Cardinale voltarsi verso Riario, implorandolo con lo sguardo ad incominciare a parlare lui.
Il Conte si umettò le labbra per l’ennesima volta. “Il Turco aveva finalmente affidato la seconda chiave della volta all’Ebreo, che avrebbe dovuto portarla al nuovo custode ma...”. Girolamo abbassò il proprio sguardo in direzione del raffinato pavimento marmoreo; non aveva mai sopportato vedere l’ira e il disprezzo grondare dalle iridi del Santo Padre, suo padre. Il pensiero di deluderlo lo teneva persino sveglio la notte.
Quell’uomo lo aveva creato, quell’uomo lo poteva distruggere.
“Quell’infedele ha preferito morire, piuttosto che consegnarci la chiave”, concluse il Cardinale Mercuri.
Un sadico sorriso fece la sua comparsa sul volto di Sisto, rendendolo ancora più inquietante del solito. “E come ha fatto l’artista ad entrare in possesso della chiave?”
“Questo dettaglio per ora ci sfugge”, mormorò il Cardinale.
“Ve l’ha fatta sotto il naso, in poche parole”, commentò sarcastico Sua Santità. 
“Almeno sappiamo dove si trova: Da Vinci ha un contratto che non gli permette di lasciare Firenze”, ribattè in modo pacato il Conte, ritrovando almeno in parte la sicurezza che da sempre lo aveva contraddistinto. 
“Ehm...”. Ciò che si lascio sfuggire Mercuri fu un sussurro appena udibile. “E’ sorta una questione urgente”
Sisto alzò un sopracciglio; dallo sguardo, pareva volesse fulminare il Curatore degli Archivi Segreti Vaticani da un momento all’altro. Anche Girolamo lo osservò perplesso: qualsiasi cosa stesse per dire, lui non ne era a conoscenza.
Mercuri si girò verso Lucrezia Donati, rimasta fino a quel momento in silenzio, in una posizione secondaria rispetto ai due uomini, facendole cenno di parlare.
La donna fece qualche passo avanti. “Arrivo ora da Firenze, Vostra Santità”, disse, cercando ad ogni singola parola il coraggio per dire la successiva. Nella sua mente era ancora vivo il ricordo di quell’orribile giorno in cui la sua sorellina era stata uccisa. Spostò il proprio sguardo sul pavimento, incapace di guardare negli occhi l’assassino della piccola Amelia. “Da Vinci ha lasciato la città, nessuno sa dove sia”
Il Papa scattò in piedi, buttando schizzi d’acqua ovunque. “’Non avrebbe lasciato Firenze’, non è forse quello che hai appena detto, nipote?”
Girolamo tenne lo sguardo basso, ben consapevole che aprire bocca in quel momento avrebbe solo peggiorato la situazione.
“Voglio almeno sperare che conosciate la posizione della terza chiave”, disse Sisto, alzando il tono della voce.
“Possiamo recuperare quella chiave in qualsiasi momento”, provò ad imbonirlo il Conte.
“E allora perchè non ce l’hai ancora con te?”
Girolamo si umettò ancora le labbra. Lui lo sapeva il perchè. Quante occasioni aveva avuto per prenderlo? Più di una volta, con Elettra che dormiva profondamente fra le sue braccia, aveva avuto l’impulso di sfilarglielo dal collo ed andarsene. Sarebbe stato facile. E il Santo Padre sarebbe stato soddisfatto.
La verità era che, con quel ciondolo stretto fra le dita e lei addormentata accanto, i sensi di colpa arrivavano a schiacciarlo; il fatto di tenere sempre al collo il cuore d’argento era un gesto di fiducia da parte di Elettra. Fiducia che però lui non aveva mai ricambiato: la ragazza non sapeva che era lui ad avere l’altra chiave.
Sisto lo osservò attentamente, lasciandosi andare ad una risata di scherno. “Ma guardati! Dovevi solo sedurla, invece la puttana fiorentina ha sedotto te!”
Sua Santità si divertiva a provocare così i suoi collaboratori. La lieve contrazione della mascella del Conte lo convinse che aveva toccato il tasto giusto.
Si sarebbe aspettato una reazione più evidente, ma purtroppo lo aveva addestrato bene. Troppo bene, forse.
“Un’artista e una puttana fiorentini! Vi siete lasciati fregare da un’artista e una puttana fiorentini!”, continuò ad inveire, avanzando minacciosamente verso di loro. “Come posso stupirmi del fatto che Firenze mi resista così bene quando guardo la qualità dei miei alleati?”. La sua voce si era notevolmente alzata. 
“Noi cercavamo solo di servire la vostra gloria, non avevamo il beneficio della vostra guida divina”, disse Mercuri. 
Inutili furono le occhiate allarmanti che Riario gli lanciò, cercando di zittirlo. Purtroppo il Conte sapeva benissimo cosa sarebbe successo di lì a poco.
“Una guida?! Volete una guida?!”, gli urlò in faccia Sisto, prendendolo per il colletto della camicia. “Vi ricordate che cosa si prova che io sono stato scelto da dio?!”. Lo trascinò verso l’acqua.
“Così tanti accadimenti, santità”, farfugliò il Cardinale, sempre più terrorizzato.
“Il modo in cui sono sopravvissuto all'annegamento da bambino? Vediamo cosa succede con voi”. Sisto gli mise la testa sott’acqua, tenendolo fermo.
Girolamo osservò la scena irrequieto, indeciso se intervenire o meno. Il Papa avrebbe di sicuro ucciso Mercuri, se non si fosse deciso s fare qualcosa. Ancor prima di aprire bocca, però, sapeva già che quel gesto gli si sarebbe ritorto contro. “Santo padre, di certo un dio amorevole mostra pietà no?” 
“Osi domandare a me? La pietra su cui si fonda la parola di dio?”, ribattè, lasciando finalmente andare il Cardinale e dirigendosi verso di lui. 
Girolamo lo osservò avvicinarsi, ben consapevole di quello che sarebbe successo. Nella sua testa passò l’idea che ad un uomo in forma e perfettamente addestrato non ci sarebbe voluto niente per far passare a Sisto la voglia di prendersela con lui. Ma una vocina dentro di lui tornò a ripetergli che se il Santo Padre lo aveva creato, permettendogli di trovarsi lì, lo avrebbe anche potuto distruggere con la stessa facilità.
“Bacia l'anello”
Il primo pugno arrivò al naso con violenza, facendolo arretrare appena; il secondo invece lo colpì sopra al sopracciglio sinistro, facendogli perdere l’equilibrio e finire a terra. Sentì qualcosa di vischioso colargli dalla ferita aperta, sopra all’occhio.
Sisto si rimise la pesante vestaglia, dirigendosi verso l’uscita dei bagni papali.
“Il mio bagno è rovinato”, commentò con una certa amarezza.
“Metti fine a questa storia, o io metterò fine a te”, sibilò minacciosamente al nipote, dandogli alla fine un calcio.
Una volta che Sua Santità fu uscito, Girolamo si mise ad osservare Lucrezia Donati, che a sua volta lo guardava con gli occhi spalancati.
Il Cardinale Mercuri, invece, si trovava ancora in acqua, aggrappato con tutte le proprie forze al bordo, ancora intento a riprendere fiato.
La furia di Sisto faceva paura a tutti e tre.
***

L’aria era rovente e il fumo talmente denso che non permetteva di vedere ad un palmo dal proprio naso. 
Elettra si coprì la bocca e il naso con un lato del proprio mantello, cercando così di riuscire a respirare meglio. Gli occhi le lacrimavano e il caldo le arrossava il viso, rendendole ogni passo più difficoltoso del precedente. 
Vi era un forte odore di bruciato nell’aria...
Una folata di vento, più forte delle precedenti costrinse la ragazza a fermarsi. Elettra si guardò intorno, cercando di capire dove si trovasse. Tra le nubi, riuscì a scorgere le merlature delle mura della propria città: si trovava appena fuori Firenze, sulla strada che portava a Roma. Intorno a lei si stagliava la campagna toscana. O almeno si sarebbe dovuta stagliare, se non fosse stato per tutto quel fumo.
Firenze stava andando a fuoco.

Quel pensiero le arrivò alla mente rapido, mandandola in agitazione. Cosa era successo?
Istintivamente, si diresse verso la città.
Sotto alle mura, a distanze regolari, vi erano come dei falò. Poteva intravvedere la luce che si propagava dalle fiamme.
Si avvicinò, schermandosi gli occhi come meglio poté.
Un’altra improvvisa folata di vento la costrinse a chiuderli.
Quando gli riaprì il fumo era scomparso e il fuoco si era spento. Si avvicinò cautamente alle braci, ancora fumanti. 

C’era qualcosa, tra quei resti: la ragazza inorridì quando capì di cosa si trattava. C’era un corpo umano semicarbonizzato tra i resti della legna. Indietreggiò, coprendosi la bocca con entrambe le mani per non urlare.
Ritornò sui propri passi velocemente, fino a ritrovarsi sulla strada principale. Si guardò nuovamente intorno, spaventata: la città era ridotta ad un cumulo di macerie fumanti e quella strada... Elettra aguzzò la vista, cercando, con gli occhi ancora arrossati dal fumo, di mettere a fuoco ciò che la circondava. C’erano delle croci disposte ai lati della strada. Ma non erano le solite croci a quattro braccia: vi era il corpo principale che si alzava in verticale poi, dove esso finiva, ne iniziavano altri due, disposti in obliquo che terminavano con due specie di corna e tenuti insieme tra loro da una trave orizzontale. 
Ve ne erano a centinaia...e tutte occupate.
Ad ogni croce vi era inchiodata una persona.
Elettra deglutì, ripetendosi che quello era solo un brutto sogno. Doveva assolutamente essere solo un brutto sogno.
Si avvicinò alla croce più vicina, spaventando così un corvo, che si era messo a becchettare nell’orbita vuota del
cadavere. 
Gli occhi mancavano, così come la lingua. Prima di essere crocefisso, quell’uomo era stato sicuramente torturato. 
Stava per tornare sul sentiero principale, con tutta l’intenzione di tornare in città e con la speranza che quell’angosciante incubo finisse presto, quando uno dei corpi inchiodati alle croci attirò la sua attenzione. Sempre più terrorizzata, gli si avvicinò: ad ogni passo che faceva, quel cadavere si faceva sempre più famigliare.
Non riuscì a non fare a meno di urlare, quando ebbe l’assoluta certezza di chi si trattasse. “Nico...”, sussurrò, mentre sue grandi lacrime le solcarono i viso.
Non vi era solo Nico, però. Sulle croci successive vi erano Vanessa, Leonardo, Zoroastro e, se Elettra avesse continuato ad avanzare, era certa che avrebbe trovato tutte le persone a lei più care.
Le tornò alla mente il sogno di suo zio sulla ruota e, al pensiero che tutto si stesse ripetendo di nuovo, si lasciò cadere a bocconi a terra, senza più forze. La gola nel frattempo aveva cominciato a restringersi sempre di più.

Sentì un lieve tocco sulla spalla e si costrinse a voltarsi.
In piedi, davanti a lei, vi era il custode della Biblioteca d’Alessandria, Zenone. La osservava con uno sguardo apprensivo. “Elettra, alzatevi”
La ragazza, ancora incerta sulle gambe, fece come le era stato detto. Il suo viso aveva assunto un’espressione seria, a tratti persino intimidatoria. “Dovete smetterla di rovinarmi la vita in questo modo!”, sbottò. “Succederà ancora, non è vero? Succederà la stessa cosa che è accaduta con mio zio!”, urlò. 

“No, non se questa volta non vi coglierà impreparata. Facciamo due passi e parliamo un po’”. L’anziano le tese la mano, in un gesto di pace. Elettra però ignorò deliberatamente quel gesto, cominciando a camminare. Zenone si limitò a sospirare e a seguirla.
“Come avete potuto capire, questi uomini non si fanno alcuno scrupolo”, disse il bibliotecario, dopo alcuni secondi di silenzio. 

Elettra annuì mestamente, distogliendo lo sguardo dal corpo martoriato di Clarice, inchiodato ad una croce proprio di fianco a lei, e prendendo a guardare il ciottolato sotto ai propri piedi. “Chi sono?”, chiese.
“Sono conosciuti come le Ombre al centro del Labirinto, oppure come Corna dell’Increato. Uomini spietati, il cui scopo è quello di trovare e distruggere il Libro delle Lamine” 

Quando li incontrerò?”. Dalle parole appena dette da Zenone, la ragazza intuì che lo scontro era inevitabile.
“Tutto dipende dalle scelte che farete e dalla piega che subiranno gli eventi”, rispose il bibliotecario.
Elettra lo osservò attentamente, capendo che non le stava dicendo tutto quello che sapeva. “Per una volta ditemi tutta la verità”, disse. C’era una nota di amarezza nella sua voce. 
L’uomo sospirò. “Li avete già incontrati, in verità, in più di un’occasione”
La ragazza stava per fargli altre domande quando un cavaliere lanciato a tutta velocità sfrecciò sulla strada; gli zoccoli del suo cavallo producevano un rumore cadenzato contro i ciottoli dell’antica strada romana.
Si fecero entrambi da parte, per evitare di essere investiti. Elettra osservò attentamente l’uomo e il cavallo: entrambi indossavano pesanti paramenti in pelle nera e anche l’elmo era di pesante cuoio. Lei aveva già visto quello strano abbigliamento... Sbiancò, rendendosi conto di dove e quando. “Sono loro che hanno rapito Lucrezia e mia madre!”, disse, cercando di riportare alla mente più particolari possibili di quel tragico giorno.
Si voltò verso Zenone, sperando che potesse rivelarle qualcosa in più o almeno confermare la sua ipotesi, ma lui era già scomparso e lentamente anche ciò che le stava intorno svanì...


Elettra si svegliò di soprassalto, guardandosi intorno con aria spaesata. Si trovava alla propria scrivania, a Palazzo della Signoria. Si ricordò che stava studiando alcune carte... Doveva essersi assopita.
Si stropicciò gli occhi, facendo mente locale sullo strano sogno che aveva appena fatto.
‘Le ombre al centro del Labirinto’... 
La voce del bibliotecario le giunse nitida alle orecchie, quasi se Zenone fosse proprio davanti a lei. Erano loro che tenevano prigioniere Lucrezia e sua madre.
Ripensò a ciò che aveva visto, a tutti quegli uomini e donne crocefissi, con la lingua e gli occhi strappati. Nella sua mente ritornarono le immagini dei suoi amici e conoscenti, delle persone che le erano più care, inchiodati a quelle croci. 
“Maledetta memoria fotografica”, mormorò tra sè e sè, scuotendo la testa per cercare di scacciare quelle immagini.
Un pensiero, un orribile pensiero si fece spazio nella sua mente, gelandole il sangue. Poteva chiaramente sentire un brivido freddo salirle lungo la colonna vertebrale. E se Lucrezia e sua madre avessero subito la stessa sorte?
No, non poteva essere così: loro due dovevano stare bene. Dovevano assolutamente stare bene.
Una vocina malefica dentro di sè però continuava a ripeterle che non tutti i tipi di tortura erano mortali: cavare gli occhi e strappare una lingua non avrebbe implicato per forza la morte.
Cosa avrebbe fatto se avesse trovato sua sorella in quello stato?
No, doveva scacciare quei pensieri nefasti dalla mente ed essere positiva. Doveva conservare la speranza che lei stesse bene.
Dei colpi alla porta la riportarono all’interno di quella stanza ed Elettra ringraziò mentalmente chiunque ci fosse dall’altra parte per averla distolta dalle proprie preoccupazioni.
“Avanti”, disse, cercando di mantenere un tono di voce neutro, che non facesse trasparire tutta la sua angoscia.
Fabrizio entrò trafelato; dalle guance rosse e la fronte imperlata di sudore, pareva aver corso molto. “Un messaggio per voi”, disse ansimante. Le passò la lettera, piegandosi poi sulle ginocchia e prendendo dei lunghi respiri.
Elettra si rigirò alcune volte la carta fra le mani in cerca di un qualcosa che indicasse il mittente. 
“L’ha consegnata un mercante romano ad una delle cuoche, pregandola di portarla a voi al più presto”, spiegò il servitore, notando la sua indecisione ad aprirla.
Sulle labbra della ragazza si formò un largo sorriso: sapeva esattamente di chi era. Aspettava quel messaggio da molto tempo.
Osservò Fabrizio che, capendo di essere diventato ormai di troppo all’interno dello studio, dopo un leggero inchino si congedò.
Appena la porta si richiuse alle sue spalle, Elettra prese il tagliacarte, aprendo impaziente la busta. 

Roma, ghetto ebraico, locanda del Leone Blu, chiedi di Amos. Ti spiegherò tutto appena arrivi, fai il prima possibile.
Leonardo  

‘Sintetico’, pensò sarcastica la ragazza. Non aveva notizie di Leonardo, Nico e Zoroastro da mesi e l’unica cosa che Da Vinci le diceva era di muovere il culo ed andare ad aiutarli. Niente, neanche un ‘Noi stiamo bene e non abbiamo pali infilati in posti strani’. Solo di muoversi ad andare a Roma.
Sospirò,  pensando che da Leonardo non potesse aspettarsi niente di diverso da quello che le aveva appena scritto.
Si diresse velocemente verso l’armadio, dove, da settimane ormai, una sacca con tutto il necessario per il viaggio attendeva solo di essere presa ed utilizzata. 
L’appoggiò sul tavolo, raccogliendo velocemente alcune carte e documenti dallo scrittoio.
Nel mentre, la porta si aprì di nuovo e nella stanza entrò Giuliano: aveva un’aria trionfante, stampata in volto.
“So chi è la spia!”, disse con un sorriso a trentadue denti. 
Il suo sorriso però si spense presto, notando la sacca da viaggio e la lettera sulla scrivania. Sapeva cosa significassero, Elettra gli aveva spiegato tutto. Sapeva della sua folle idea di infiltrarsi negli archivi segreti vaticani. 
Il de Medici sospirò. “Sei in procinto di partire”, constatò amaramente.
La ragazza gli rivolse un leggero sorriso che però sapeva di rimorso. “Chi è la spia?”, chiese.
“Non hai risposto alla mia domanda”, ribattè lui.
“Non c’era niente da rispondere, tu lo avevi già capito”
“C’è qualcosa che posso dire o fare per farti cambiare idea?”. Giuliano però sapeva che era una battaglia già persa in partenza. Ma sapeva anche che se Lorenzo fosse scomparso nel nulla e l’unico modo di ritrovarlo fosse stato andare a Roma, non avrebbe esitato neanche un attimo a compiere gli stessi gesti di Elettra.
Lui la stimava. E le voleva bene, proprio come se fosse stata sua sorella.
La vide scuotere la testa. “Neanche tu hai risposto alla mia”
“Lo saprai al tuo ritorno”, le disse, avvicinandosi a lei e stringendola forte. “Almeno avrai un motivo in più per tornare a Firenze sulle tue gambe”, aggiunse ironico.
Per tutta risposta, ottenne un amichevole pugno su di un braccio, seguito dalla sua risata cristallina. 
“Anche io sono in procinto di partire, sto per andare a Siena a stanare la spia che ha tentato di incastrare Becchi”, le rivelò.
“Buon viaggio, Giuliano”, le disse lei, prendendo la sacca dal tavolo e mettendosela su di una spalla. Gli baciò una guancia, prima di uscire.
“Buon viaggio anche a te”, le augurò lui, mentre la vedeva aprire la porta. “Ci rivediamo al ritorno”
Lei gli sorrise. Per l’ultima volta.
***
 
Elettra osservò il cielo terso sopra alla propria testa, schermandosi gli occhi con una mano. Il cavallo su cui viaggiava nitrì, facendo così sentire la propria presenza.
La ragazza si voltò: le mura di Firenze erano ormai diventate una linea all’orizzonte. Davanti a lei, zigzagando tra le colline toscane, si estendeva la strada che portava alla Città Eterna.
“Ci vediamo a Roma, Leonardo”


Nda
Dopo quasi due mesi di assenza, rieccomi di nuovo qui con un capitolo di passaggio. Bene, tra morti e feriti sono riuscita sopravvivere a quell'incubo studentesco che è la sessione invernale di esami... Esperienza traumatica che non vi consiglio affatto ahahahah
Tornando alle cose più importanti, questo capitolo l'ho appena finito di scrivere quindi, essendo l'una e mezza di notte, spero tanto che mi passiate eventuali errori. Devo ammettere che questa parte è stata particolarmente travagliata, specialemente la parte del dialogo con Sisto...
So che dopo ben due mesi di asenza non è molto, ma spero comunque di sentire presto i vostri pareri. A presto (o almeno lo spero) ;) 

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Capitolo 33
*** Roma, parte I ***


Capitolo XXVIII: Roma, parte I

    Un paio di giorni più tardi...

Roma era... 
“Triste”, venne subito da pensare ad Elettra. 
Quello che si stava svolgendo sotto ai suoi occhi era un carnevale, la festa per eccellenza, eppure... ‘A carnevale ogni scherzo vale’, recitava il proverbio. Il popolo avrebbe dovuto festeggiare con bagordi e gozzoviglie, non osservare silenziosamente dei miseri carri a malapena decorati e rappresentanti noiose scene tratte dalla Bibbia o dalle vite di qualche santo semisconosciuto. Se per caso avesse organizzato uno spettacolo del genere a Firenze, probabilmente l’avrebbero già messa alla forca.
Firenze...
Chissà come se la stavano cavando con il carnevale a Firenze? Aveva lasciato tutti i suoi progetti ai propri sottoposti, sperando che seguissero le sue indicazioni alla lettera e che non vi fossero imprevisti. Anche a Firenze, però, quell’anno la festa sarebbe stata meno allegra del solito... 
Non si era mai persa un carnevale fiorentino, quella volta sarebbe stata la prima. Anche Giuliano si sarebbe perso i festeggiamenti, così impegnato come era nella ricerca della spia.
Al pensiero del proprio migliore amico, le venne alla mente il carnevale di due anni prima, quando, sulla cima di uno dei carri del carnevale, avevano interpretato Bacco e Arianna.
Quant’è bella giovinezza,
che si fugge tuttavia!
chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza’

Il ritornello della Canzone di Bacco e Arianna. Quei semplici quattro versi erano un puro inno alla vita, a lasciarsi andare e a cogliere l’attimo, ed erano diventati subito il loro motto per eccellenza.
Quel carnevale aveva consacrato Giuliano come Principe della Giovinezza e, che principe sarebbe stato, se non avesse avuto al suo fianco una principessa degna di quel nome? Elettra era perfetta per quel ruolo. E Firenze aveva avuto così la sua coppia di burloni.
Ma non per il carnevale del 1478.
Sospirò, tornando ad osservare quella città grigia, senza colori ed allegria. Ciò che restava della maestosità della Roma Antica non era nient’altro che uno spettro: macerie pericolanti ed edifici vuoti. Dove erano finiti lo sfarzo e la leggerezza dei banchetti e delle feste dell’epoca imperiale? Spazzati via, insieme a tutto il resto dell’impero. Le rovine del Colosseo, alle sue spalle, ne erano la prova più lampante.  
Tornò a guardare i carri che, lentamente, le sfilavano davanti. Cosa ci faceva lì? Avrebbe dovuto dirigersi immediatamente verso i ghetto ebraico, da Leonardo, Nico e Zoroastro, non perdere tempo per le vie del centro. Si sistemò meglio il proprio mantello sul capo; il rischio che qualche guardia svizzera la riconoscesse era basso, eppure c’era. Purtroppo Elettra sapeva benissimo cosa ci facesse lì: non si trovava lì per camminare tra le rovine della Roma Antica (anche se era molto tentata di farlo), si trovava lì con la speranza di poter vedere una persona. Una persona vestita sempre di nero, con l’aria impassibile e due grandi occhi color nocciola. Una persona che prima di andarsene da Firenze l’aveva rassicurata che le avrebbe dato al più presto sue notizie. 
Le settimane erano passate e dal Conte Riario non aveva ricevuto neanche uno straccio di lettera! L’avrebbe strozzato con le sue stesse mani, se le fosse capitato a tiro. 
Quell’ultima ipotesi però era alquanto remota, visto che Girolamo non avrebbe assolutamente dovuto sapere che lei si trovasse a Roma.
Elettra gli aveva promesso che non avrebbe mai messo piede nella Città Eterna. Ma tutto ciò era successo prima che il Turco le rivelasse di quei documenti nascosti negli Archivi Segreti Vaticani e riguardanti la scomparsa di sua madre e di sua sorella.
Stava per voltarsi ed andarsene, quando, a poca distanza dall’ultimo carro della sfilata, arrivò un manipolo di guardie svizzere, seguite da un calesse bianco.
“Cosa sta succedendo?”, chiese ad un uomo, di fianco a lei.
Lo vide strabuzzare gli occhi, evidentemente sorpreso dalla domanda. “Ma come? Non riconoscete Sua Santità?”
“Oh...”
In effetti quello sulla carrozza era proprio Sisto. La ragazza si diede della stupida da sola per non esserci arrivata. Era così ovvio!
“Scusate, non sono di qui”, disse, propinando all’uomo uno dei suoi migliori sorrisi innocenti. 
Probabilmente avrebbe aggiunto anche qualcos’altro, se non fosse stata completamente rapita dalla figura in abiti scuri che, dall’alto del proprio andaluso nero, di fianco al calesse papale, studiava con attenzione la folla raccolta ai lati della strada.
Sul volto di Elettra si formò un largo sorriso nel constatare che Girolamo stava bene. 

Girolamo Riario osservava attentamente la marea di persone che affollavano la via, ammassati uno sopra l’altro nel tentativo di poter scorgere anche per un solo momento Sua Santità. Studiava ogni singolo volto, alla ricerca di possibili minacce alla sicurezza del Santo Padre. Temeva che tra tutta quella folla vi fosse sempre qualche malintenzionato e toccava a lui e alle proprie guardie svizzere difendere Sisto da eventuali attacchi. Sospirò, pensando che se qualcuno avesse davvero voluto far del male al Papa, con tutta quella gente, a ben poco sarebbe stato utile. 
Strinse la mano intorno all’elsa della propria spada, riposta al suo fianco, mentre con l’altra teneva strette le briglie del proprio cavallo.
Un volto, tra tutta quella folla attirò la sua attenzione: esso era in parte coperto da un cappuccio scuro, eppure una ciocca bionda, ribelle, le ricadeva sul viso dai lineamenti delicati. Non si rese minimamente conto di aver fermato il proprio destriero, talmente preso come era. Si accorse di tutto quando una delle guardie svizzere gli si avvicinò, domandandogli cosa avesse scorto.
Il Conte Riario lo liquidò con un cenno della mano, utilizzando come spiegazione una svista dovuto alla stanchezza di quei giorni.
Quando riposò il proprio sguardo sulla folla lei era già scomparsa.
Scosse la testa: forse era davvero la stanchezza che gli giocava brutti scherzi. Lei non poteva essere a Roma. Non doveva essere a Roma. Glielo aveva promesso.

 ***
 
 Poco tempo dopo...

Elettra si fermò davanti ad una porta di legno dall’aria vissuta: a giudicare dalle condizioni in cui riversava, quell’infisso non aveva mai visto un goccio di vernice.
Sopra alla sua testa, invece, pendeva un insegna ormai quasi completamente sbiadita, rappresentante un leone di colore blu.
Quella molto probabilmente era la locanda che le aveva detto Leonardo. Sperò che fosse la locanda che le aveva indicato Leonardo. Il pensiero di dover girare ancora per il ghetto ebraico non le piaceva affatto. I vicoli erano stretti e maleodoranti e, in ogni dove, si poteva intuire la povertà di suoi abitanti.
Anche il ghetto ebraico fiorentino non era proprio il migliore quartiere della città, ma senz’altro era in condizioni migliori di quello romano. Gli ebrei a Firenze erano conosciuti sopratutto per le loro doti come guaritori ed erboristi e ad Elettra capitava spesso di passare per il ghetto a cercare qualche tipo particolare di merce. Non si era mai sentita nervosa o irrequieta a passeggiare per quelle vie. Ma non poteva di certo dire la stessa cosa in quel momento...
Osservò guardinga un mendicante seduto al lato della strada, nel fango, che guardava il suo polso con decisamente troppo interesse. Abbassò anche lei lo sguardo su di esso, osservando il proprio braccialetto in oro bianco ed acquemarine, dono di Girolamo. Imprecò, dandosi mentalmente della stupida –di nuovo- per non aver pensato di celarlo alla vista. Lo indossava sempre e, spesso, si dimenticava persino di averlo con sè,  talmente ne aveva fatto l’abitudine. 
Poggiò la mano sull’elsa della spada, anch’essa in bella vista –ma per una buona ragione questa volta-.
Rimise attentamente il braccialetto sotto la manica della camicia, in modo che restasse nascosto e, inevitabilmente, si mise a pensare all’uomo che glielo aveva regalato. 
Sentì un brivido freddo correrle lungo la schiena al pensiero che poco prima si era fatta quasi scoprire da Girolamo a vagare per le vie di Roma. Quando il suo sguardo profondo si era specchiato nel proprio, Elettra era andata per un attimo nel panico e l’unica cosa che le era venuta in mente di fare era stata quella di mischiarsi nuovamente fra la folla, sperando che lui non la seguisse. 
Scosse la testa, pensando che, tra tutta quella marea di gente, lui non poteva assolutamente averla riconosciuta. La sua paura era senz’altro infondata. O almeno riuscì a convincere sè stessa che fosse così. Girolamo doveva crederla ancora a Firenze, intenta a svolgere qualche incarico per conto della Signoria. Gli aveva promesso che non sarebbe mai andata a Roma. Non poteva permettersi di farsi beccare così.
Diede ancora una veloce occhiata al triste vicolo, prima di stringere forte la maniglia della porta ed entrare.

Elettra storse il naso a sentire l’odore che quella locanda emanava: l’aria era viziata e sapeva di fumo e vino andato a male. I suoi occhi, abituati alla luce esterna, ci misero un po’ ad adattarsi al buio di quel locale; a ben poco servivano le flebili luci delle candele alle pareti.
L’ambiente era sporco e qua e là vi erano dei lunghi tavoloni di legno grezzo. 
Nonostante indossasse ancora il suo mantello con il cappuccio calato in testa, sentiva addosso troppi occhi. Sospirò e, cercando di sembrare a proprio agio, si diresse a passo svelto verso il bancone.
“Sto cercando un certo Amos”, disse all’anziano intento a servire birra e vino. 
L’uomo la osservò con diffidenza. “Non so chi sia”
Elettra abbassò i proprio cappuccio, in modo che la potesse vederla meglio in viso. “Un amico mi ha detto di venire qui e chiedere di Amos”
Un barlume di curiosità passò negli occhi del vecchio. “E voi siete?”
“Mi chiamo Elettra”
Sul volto del suo interlocutore si formò un ampio sorriso e scoppiò a ridere. “Sono io la persona che state cercando e se mi seguirete, vi porterò dal maestro Da Vinci”
La ragazza lo guardò perplessa. Perchè non dirle subito chi era?
“Scusate se mi sono preso un po’ gioco di voi, ma quando nel ghetto arriva qualcuno da fuori e chiede di te, raramente è piacevole”

Amos portò Elettra ad una porta secondaria, che dava su di un affollato porticato dove vi erano presenti alcuni tavolini sparsi qua e là. Gliene indicò uno dove, tra una marea di scartoffie, due persone erano intente a discutere. La ragazza non potè fare a meno di sorridere, raggiante, alla vista di Nico e Leonardo.
Fece un cenno di ringraziamento all’uomo, prima di correre verso i suoi amici.
“Leo, Nico!”, urlò, prima di saltare al collo di Da Vinci e stringerlo forte a sè.
L’artista ricambiò la presa, allontanandosi subito dopo per osservare meglio l’amica. “Ti vedo bene, decisamente meglio dell’ultima volta”. Un sorrisetto malizioso si formò sulle sue labbra. “Non sarà che...”
“Tutto sistemato”, disse Elettra. Sulle sue guance si fece strada un diffuso rossore. “Anche voi sembrate in forma”, commentò, cercando di scacciare dalla propria mente l’immagine di Girolamo. Si guardò in giro, in cerca del terzo amico, ma di Zoroastro non vi era traccia. “Zo dov’è?”, chiese. C’era una sfumatura di timore nella sua voce.
Leonardo sospirò, con l’aria affranta. “In Valacchia, con un palo infilato nel...”, lasciò la frase a metà, come a darle più enfasi. Vide Elettra sbiancare. 
Se non fosse stato per Nico, che, incapace di trattenersi, si era messo a sghignazzare alle sue spalle, probabilmente quello sarebbe stato ricordato negli anni come uno dei suoi migliori scherzi.
Gli occhi della ragazza guizzarono veloci dal giovane Machiavelli all’artista; se ne fosse stata capace, lo avrebbe senz’altro fulminato lì, sul momento. “Leonardo Da Vinci, come osi scherzare su una cosa del genere?!”. Il tono della sua voce era pieno di indignazione.
Leonardo scoppiò a ridere. “Non ti facevo così permalosa”
“Non ho vostre notizie da mesi e fino ad un paio di giorni fa non sapevo neanche se foste vivi o morti e tu mi vieni a dire che sono permalosa?! Anche solo due righe con scritto ‘Stiamo tutti bene’ potevi anche mandarmele!”. Ora invece si sentiva offesa.
Le risate dell’artista aumentarono di intensità. “Oh, guardalo là l’impalato che cammina”, disse indicando un punto oltre i porticato. Zoroastro comparve poco dopo; con aria tranquilla, cercando di passare il più inosservato possibile, si avvicinò al loro tavolo. “I cambi delle guardie all’entrata sud sono serrati come le gambe di una suora di venerdì santo”, disse, osservando le varie mappe disposte sul tavole e non facendo assolutamente caso alla giovane donna che ora si trovava alle spalle di Leonardo.
“Zo!”
In modo del tutto inaspettato, il moro si ritrovò Elettra fra le braccia. Sul suo viso si formò un ampio sorriso, mentre la sua mano si spostò dalla schiena della ragazza ad un punto un po’ più basso. “Quanto mi sei mancato”, commentò.
La bionda si staccò da lui; aveva l’aria contrariata. “Passi dei mesi senza vedermi e la prima cosa che ti viene in mente è dire quanto ti è mancato il mio culo?”. Sbuffò: prima Leonardo che esordisce con un pessimo scherzo –cosa voleva, che le venisse un infarto a tutti i costi?- e ora questo.
“Ma è la verità”, disse Zoroastro, cominciando a sghignazzare, seguito a ruota da Da Vinci. “Di certo non potevo dire che mi era mancata la tua lingua lunga...a proposito, non è che a breve dovrai fare da modella per qualche quadro?”
“Pensiamo prima a tornare vivi a Firenze”, ribattè Elettra, prendendo posto intorno al tavolo, imitata dagli altri. “Leonardo, cosa pensi di trovare negli Archivi Segreti?”
L’artista la osservò in modo strano: non aveva ancora accennato alla ragazza quale era la loro meta. “Come fai a sapere che devo entrare negli Archi Segreti?”
“Il Turco è venuto a farmi visita, diverse settimane fa, e...”
“Ti ha detto altro?”
Elettra prese un lungo respiro: ora veniva la parte difficile. “Devo entrare anche io negli Archivi Segr...”
“Non se ne parla neanche!”, la interruppe bruscamente Da Vinci. “È troppo pericoloso”
La ragazza si aspettava quella resistenza da parte sua. 
“Per una volta dò ragione a Leonardo”, aggiunse Zoroastro.
Anche da lui.
“Io devo assolutamente farlo”, disse con tono sicuro, puntando i suoi occhi color del cielo in quelli castani dell’artista. C’era risolutezza nelle sue parole. E la sua solita tenacia, unita a un po’ troppa testardaggine.
Chiunque sapeva che quando Elettra Becchi si metteva in testa qualcosa, era impossibile farle cambiare idea.
“Cosa ti ha detto il Turco?”. Leonardo sapeva che i due fatti erano direttamente collegati.
“Negli Archivi ci sono dei documenti contenenti indizi sul dove potrebbero trovarsi mia madre e mia sorella”
Da Vinci annuì: chi meglio di lui poteva sapere quale forza spingesse quella ragazza ad imbarcarsi in una così rischiosa impresa? 
Zoroastro e Nico, nel frattempo, li osservavano chiedendosi come sarebbe andata a finire. Zo, però, temeva già di sapere l’esito. E l’espressione che Leonardo fece poco più tardi, non fu altro che un’ulteriore conferma. “Non vorrai portarla con te, vero?”
“Ovviamente”
 
*** 

 Più tardi (e parecchie discussioni dopo)... 

“Bene, allora io recupererò quei documenti e Leonardo invece si occuperà dell’ultima chiave della Volta Celeste”. Elettra in quel momento appariva come la personificazione della vittoria.
Zoroastro, sfinito, si lasciò cadere sulla propria sedia: aveva provato ad opporsi a quella sua folle idea di infiltrarsi negli Archivi Segreti Vaticani, ma la cocciutaggine di quella ragazzina –unita a quella di Da Vinci, ovviamente- aveva avuto la meglio.
Elettra guardò i visi dei propri compagni, in attesa di sentirli dire qualcosa. Invece ciò che udì fu solo il vociare della gente intorno a loro. Diede un’altra occhiata ai disegni disposti sul tavolo, poi decise di prendere nuovamente la parola. “Avete qualche idea su come fare?”
“Abbiamo esaminato ogni entrata, uscita, finestra, galleria, buco...entrare in Vaticano senza essere scorti è impossibile”, disse Zo.
“Sai che la parola ‘impossibile’ mi spinge a provare con più determinazione”, ribattè Leonardo.
“Maestro, le sentinelle sorvegliano ogni apertura”, provò a farlo ragionare Nico.
“Ecco che ne arrivano due”, sussurrò il moro.
Immediatamente si misero tutti e quattro all’opera per nascondere tutto ciò che c’era di eventualmente sospetto sul tavolo.
Amos, vedendoli in difficoltà, gli si avvicinò. “Non preoccupatevi amici miei, finchè vi pensano ebrei qui nel ghetto non avete nulla da temere. Non gli notano neanche gli ebrei”. Per rendere meglio l’idea ai suoi ospiti, sputò a terra: un gesto del genere solitamente avrebbe attirato l’attenzione delle guardie, invece esse gli passarono accanto senza battere ciglio; non sembravano neanche averlo notato. “ Vedete? Non fanno caso a voi perchè indossate il giallo”.
A Roma, per essere riconosciuti,, gli ebrei avevano l’obbligo di indossare un berretto giallo.
“Vi ringrazio per averci accolto”, disse Leonardo.
“Anche se non foste qui per nuocere ai nostri oppressori gli amici di Zoroastro sono i benvenuti, perchè ne ha talmente pochi”, ribattè l’anziano, dando un’amichevole pacca sulla spalla al moro; dopodichè tornò ai propri affari, sghignazzando fra sè e sè.
Da Vinci si rimise a studiare i vari disegni. “Castel Sant’Angelo, la fortezza collegata alle mura vaticane, se riuscissi a trovare un modo per raggiungere questa torre, allora...”
“Leonardo, ascoltami ti prego: questa è una prigione, è chiaro? Insomma, ti è piaciuto così tanto il Bargello che hai nostalgia delle sbarre?”, provò a farlo ragionare nuovamente Zo.
“Dietro quelle sbarre mi ci hanno messo delle persone, Zoroastro, e devono pagare per la loro follia”  
Alle parole dell’artista, lo sguardo di Elettra si abbassò sulle proprie mani, poggiate sul tavolo. I suo volto, solitamente solare, si rabbuiò: sapeva benissimo a chi Leonardo si stesse riferendo e non poteva fare a meno di sentirsi in colpa al pensiero di ciò che Girolamo gli aveva fatto. C’erano delle notti in qui il senso di colpa la teneva sveglia ed altre in cui si svegliava di soprassalto, con ancora viva la sensazione delle proprie mani grondanti del sangue di qualche innocente. Come poteva quel sentimento che gli univa essere sbagliato? Poteva provare ad ingannare anche sè stessa, eppure sapeva che quella era la verità; se la storia di loro due fosse venuta alla luce, nessuno avrebbe esitato a bollarla come traditrice.
Chiuse gli occhi, sforzandosi di non pensarci: quello non era nè il momento, nè il luogo adatto. 
“Perchè siete convinti di voler entrare a tutti i costi di soppiatto, senza essere notati?”. Elettra aveva ideato un suo piano durante tutte quelle settimane. E non era neanche così folle. 
“Perchè altrimenti verremmo scoperti ed imprigionati, se non peggio...”, le rispose Zoroastro, con tono ovvio..
“E se entrassimo con la...ehm...autorizzazione di un qualche pezzo grosso?”
Nelle iridi di Leonardo brillò una strana luce. “Spiegati meglio”
 “Potrei facilmente procurarmi una falsa autorizzazione scritta del Cardinale Mercuri”
“ ‘E perchè il Cardinale Mercuri autorizzerebbe una funzionaria dei Medici ed un artista  ad accedere agli Archivi Segreti Vaticani?’, qualche sentinella potrebbe farti questa domanda”, fece notare Zo, scettico.
Elettra sorrise: aveva già pensato anche a quello. “Perchè sia il Cardinale Mercuri che il suo fedele assistente, nonché mio fratello, saranno indisposti a causa di alcuni problemi di salute e, visto che il Cardinale avrà un bisogno urgentissimo di alcuni documenti conservati nel suo studio, la dolce ed innocua sorellina nel vescovo Becchi si offrirà gentilmente di andare a prenderli per lui”
“Non se la berranno mai”, ribattè. “È un’idea folle”
“Che però potrebbe funzionare”. Leonardo guardava Elettra con ammirazione, segno che quel piano gli piaceva. “L’unico problema è che in quel modo potrai entrare solo tu, io troverò un altro stratagemma”
Già, quello era l’unico problema.
“E se qualcosa dovesse andare storto? Come pensi di fare ad uscire? La porta d’entrata è da escludere”
Elettra aveva pensato anche a quello. “Mio fratello tempo fa mi ha parlato dei cunicoli sotterranei che si estendono sotto tutta Roma. Mi procurerò una mappa e male che vada utilizzerò quei passaggi per uscire”
“A proposito di materiale da reperire: dove pensi di trovare il necessario per falsificare l’autorizzazione di Mercuri?”, chiese Leonardo.
“A casa di mio fratello, ovviamente. Insieme alla mappa dei sotterranei di Roma: a tutti gli impiegati degli Archivi ne viene fornita una copia”
“Quindi pensi di coinvolgere anche lui?”. A Zoroastro sembrava così strano che Elettra fosse in grado di mettere a rischio in quel modo la sicurezza di suo fratello.
“Certo che no”, rispose prontamente lei. “Ma per nostra fortuna so dove abita Aramis e, a grandi linee, conosco anche i suoi orari: andrò a dare un’occhiata mentre lui è fuori di casa”

 ***
 
Quella notte...  

Leonardo aveva svegliato tutti di soprassalto, urlando e vaneggiando di avere finalmente trovato un modo per entrare in Vaticano senza essere visto. Con la testa completamente zuppa d’acqua e quella solita espressione da pazzo, aveva esposto agli altri il suo geniale piano. Parola chiave: le fogne.
Zoroastro lo aveva guardato con un misto di scetticismo e sonno, dandogli retta più che altro per  poter tornare a dormire il prima possibile che realmente interessato al progetto; tanto sapeva che Da Vinci avrebbe ripetuto tutto il mattino seguente.
Anche Nico, mentre ascoltava il proprio maestro, sembrava più che dormisse in piedi che altro.
Elettra, invece, sembrava la più attiva di tutti; in realtà lei era grata a Leonardo per averla svegliata. Aveva passato quasi tutto il resto della notte a rigirarsi tra le coperte e, quando finalmente si era assopita, era piombata in uno dei più frequenti incubi: c’era Lucrezia, la sua sorellina, che con la mano tesa la implorava di aiutarla, ma Elettra poteva solo osservare quella mano allontanarsi sempre di più, incapace di muoversi. 
Da quel tragico giorno di nove anni prima gli incubi avevano minacciato spesso il suo sonno ma, con l’affetto di suo zio e la pittura prima, e con la compagnia di Girolamo dopo, era riuscita ad evitarli. Ma da quando Girolamo era partito, essi erano tornati, con sempre più frequenza. Sua sorella, Firenze in fiamme, Girolamo che tramava alle sue spalle...aveva davvero troppe preoccupazioni in quel momento.
Si rigirò nuovamente tra le coperte, cercando una posizione più comoda. Ormai intorno a lei si era nuovamente calmato tutto e ognuno era tornato nel proprio letto.
Anche Leonardo, che si trovava nella parte in basso di quel letto a castello, continuava a muoversi, segno che qualcosa gli stava turbando il sonno. 
“Elettra?”, lo sentì chiamare sottovoce, per non svegliane Nico e Zo, ormai nel mondo dei sogni.
“Si, Leonardo”, rispose lei, mettendosi a pancia sotto e allungando un braccio verso il basso.
Da Vinci sospirò: voleva farle quella domanda appena l’aveva vista arrivare, ma poi altri fattori l’avevano fatta passare in secondo piano. “Tu conosci una certa Celia Lisymachus?”
Elettra ci pensò sù un po’. “È un nome ebraico”, ragionò tra sè e sè. “No, non la conosco”
“Riario ti ha mai parlato di lei?”
Ci fu ancora del silenzio. “No, mai...perchè me lo chiedi?”
“L’ho visto portare dei fiori sulla sua tomba”
La ragazza sospirò. “Mi dispiace Leonardo ma non ne so niente. Girolamo sa più cose di me di quante non ne sappia io, eppure io di lui non so quasi niente. E quel poco che so, non me lo ha di certo rivelato lui”. C’era dell’amarezza nelle sue parole, mista a u po’ di malinconia.
Ci fu di nuovo del silenzio, nel quale Leonardo continuava ad aprire e chiudere la bocca, indeciso se parlare o meno. Alla fine decise. “Lo ami?”
Elettra lo sapeva che prima o poi avrebbe dovuto affrontare quel discorso con Da Vinci. Prese un lungo respiro, mentre sentiva la mano dell’artista stringersi intorno alla sua, ancora a penzoloni. “Non lo so...”. Il suo fu un sussurro appena udibile. “So solo che mi sono affezionata a lui”
Leonardo non stentava a credere che ciò che lei gli stava dicendo fosse la verità: nei confronti di Lucrezia Donati lui provava gli stessi sentimenti contrastanti.
“E se fossi costretta a scegliere tra...”
Elettra non gli lasciò completare la frase, rispondendo immediatamente. “La mia fedeltà va innanzitutto a Firenze. Tu dovresti saperlo meglio di me”. Il suo tono di voce era sicuro, fermo e deciso.
Sarebbe stato difficile, eppure non avrebbe esitato un attimo a preferire la propria città a Girolamo. Anche lui avrebbe fatto lo stesso. Le parole che si erano detti, il giorno in cui lui era ripartito per Roma, non le lasciavano alcun dubbio.
‘Io a Roma non posso proteggerti’ 
Anche lui aveva scelto la fedeltà alla propria città.
“Il giorno in cui se ne andò da Firenze mi fece promettere che non avrei mai messo piede a Roma”, disse Elettra, dando così voce ai suoi pensieri. 
“Almeno hai un motivo in più per evitare di farti beccare a spasso per il Vaticano”. Il tono di voce dell’artista si era fatto ironico.
La ragazza sorrise fra sè e sè, pensando alla faccia contrariata del Conte; era sempre divertente la sua espressione da offeso. “Unito al fatto che non mi va di finire arrostita”. La conversazione ormai era finita sul ridere.
Leonardo ridacchiò, mentre sentiva Elettra scendere dal proprio letto. Poco dopo sentì le proprie coperte alzarsi e il calore del corpo di qualcuno, accanto al suo.
“Non sono più abituata a dormire sola”, disse la ragazza.
Da Vinci la abbracciò. “Ed immagino che quando gli hai fatto quella promessa a Riario eravate più vicini di noi in questo momento”, le sussurrò ad un orecchio. “E decisamente meno vestiti”
Le guance di Elettra presero velocemente colore. “Leonardo Da Vinci, sempre a pensare a quello!”
“Dimostrami che non era così”
“Girolamo era vestito e io quasi”
“Oh...allora capisco perchè lo hai fatto”
“Mi stavo rivestendo”
“Interessante...”, commentò l’artista fra sè e sè.
Elettra si voltò, in modo da poter avere il viso di Leonardo di fronte al suo. “Sei forse invidioso di me, artista?”, lo punzecchiò.
Da Vinci la osservò con uno dei suoi soliti sorrisi strafottenti. “Beh...se si tralascia il fatto che mi ha quasi messo al rogo, non è proprio niente male”, disse ironico. “E poi io sono curioso di natura quindi...”
“Buonanotte, Leonardo”, lo interruppe Elettra, chiudendo gli occhi, certa che almeno per il resto della  notte gli incubi l’avrebbero lasciata in pace.

 *** 

Il pomeriggio successivo...

Elettra si guardò intorno sospettosa, sistemandosi meglio il cappuccio dell’elegante mantello color prugna e delicati arabeschi dalle sfumature violacee. Le venne da sorridere al pensiero della facilità con cui Zoroastro riusciva a procurarsi qualsiasi cosa. E per qualsiasi cosa intendeva vestiti dall’aria costosa, adatti a passare inosservata nei quartieri più ricchi della città e che, sopratutto, le calzassero a pennello.
In quel momento, mentre gli altri tre erano impegnati nella messa a punto della speciale tuta subacquea di Leonardo, lei camminava tranquillamente per uno dei quartieri più lussuosi di Roma. La sua meta? L’abitazione di Aramis.
Era certa di poter arrivare a casa sua per l’ora dei vespri e, ovviamente, a quell’ora suo fratello si sarebbe senz’altro trovato in qualche cappella del Vaticano a svolgere...Elettra ci pensò sù, ma non le venne in mente in cosa potessero consistere i vespri, a parte sgranare qualche perla del rosario. Scosse la testa: certe cose non facevano decisamente per lei.
Si era dovuta vestire elegante per non attirare troppo l’attenzione. Fortunatamente, quel poco di educazione da alta società che Gentile Becchi aveva tentato con tutte le sue forze di inculcarle in testa, ogni tanto veniva fuori, permettendole di passare inosservata in situazioni come quella.
L’unico lato negativo di quel momento era che, per raggiungere la casa di Aramis, Elettra doveva assolutamente passare di fianco a Palazzo Riario, residenza del Conte Girolamo Riario.
Sbuffò, sistemandosi nuovamente il cappuccio; la dea bendata non poteva avercela così tanto con lei da farle incontrare Girolamo di nuovo. Se il Conte l’avesse scorta per quelle vie, sarebbe stata la fine del suo brillante piano.
Eppure, come ogni volta, la curiosità ebbe la meglio su Elettra; si fermò a bordo strada, osservando con attenzione l’edificio che si ergeva dal lato opposto: Palazzo Riario a prima vista appariva come un’anonima palazzina di tre piani, con la facciata austera e ben pochi fronzoli o decorazioni; una vera rarità in quel periodo. Alla ragazza non fu difficile immaginarne il motivo...certamente un certo Conte aveva fatto di tutto per ridurre al minimo indispensabile ogni elemento architettonico. 
Vide uno dei portoni aprirsi e per un istante il suo battito cardiaco si fermò: era certa di sapere chi fosse. Cercò con lo sguardo una via secondaria in cui svoltare o un ostacolo dietro cui nascondersi ma, con rammarico, dovette constatare che l’unica possibilità era la Chiesa di Sant’Apollinare, situata proprio alle sue spalle. Si calò il cappuccio più che potè sul viso e si voltò verso il portone di legno massiccio. Gli si avvicinò e poggiò una mano su di esso ed entrò, lasciando aperta appena una fessura.
Con sua grande sorpresa, da Palazzo Riario uscì una donna dalla pelle scura e con indosso abiti molto umili. Doveva trattarsi senz’altro di Zita, la serva abissina di cui Girolamo le aveva tanto parlato.
Non riuscì a tirare un sospiro di sollievo che una mano le si posò su una spalla, facendola sussultare. Dovette mordersi la lingua, per non lasciarsi scappare un urlo ed evitare di estrarre lo stiletto che teneva nascosto tra la stoffa dell’abito.
Si voltò lentamente, trovando ad osservarla incuriositi due occhi dall’aria rassicurante.
“Non era mia intenzione spaventarvi, madonna”, disse l’uomo sconosciuto.
Elettra lo osservò meglio: dal saio e il particolare taglio di capelli intuì che si trattasse di un frate. Un frate anziano, a giudicare dall’intricato labirinto di rughe che gli solcavano il volto. Aveva l’accento fiorentino. Eppure, nonostante quello e il sorriso rassicurante, c’era qualcosa in quell’uomo che non convinceva troppo la ragazza.
Anche se chiaramente sulla difensiva, Elettra tentò di apparire con la sua solita aria innocente. “Non preoccupatevi, sono io che mi allarmo per qualsiasi cosa”
“Dall’accento direi che siete fiorentina pure voi”
“Già”, rispose garbatamente lei.
Il modo in cui quel frate la osservava, però, non le piaceva affatto.
“Mi chiamo Girolamo Savonarola”, disse.
Elettra aveva sentito parlare di quell’uomo: aveva contestato i Medici in più di un’occasione, accusandoli di aver portato alla rovina Firenze con il loro modo di fare frivolo e dissoluto.
“Piacere di conoscervi”. Si diresse verso la porta. “Ora dovrei andare, scusate per l’interruzione”
“Il piacere è stato mia, madonna Becchi”
La ragazza si irrigidì di colpo: come faceva a sapere il suo nome?
“Vostra madre mi ha parlato molto di voi”
Quell’inaspettata rivelazione riuscì quasi a convincerla a restare, per chiedergli cosa sapesse su Anna, ma il suono delle campane, che annunciavano l’inizio dei vespri, le ricordò quale era il suo obbiettivo per quel giorno: non aveva tempo da perdere; sarebbe di certo tornata poi.
“Arrivederci”, disse prima di uscire.

La casa di suo fratello era proprio lì, davanti ai suoi occhi: era una modesta palazzina di due piani, grande pressapoco come la casa di Elettra.
La ragazza si guardò intorno, per accertarsi che non vi fossero occhi indiscreti. Non possedeva le chiavi, quindi l’unico modo per entrare era forzare la serratura. E non era il caso di farlo con un pubblico attorno; se qualcuno l’avesse beccata, la situazione sarebbe stata complicata da spiegare...
Fortunatamente, da quando le campane avevano preso a suonare, le strade si erano completamente svuotate. 
‘Tutti uomini timorati di Dio da queste parti’, pensò Elettra con sarcasmo, mentre armeggiava con un paio di forcine nella serratura.
Quando udì lo scatto di apertura, abbassò la maniglia e con nonchalance entrò in casa.

La casa di Aramis era semplice e minimalista, senza fronzoli eccessivi. E ordinata. Esageratamente ordinata.
Ad Elettra passò per la mente l’idea di mettergliela un po’ in disordine, giusto per i gusto di immaginarsi la faccia sconvolta del fratello quando sarebbe ritornato a casa, proprio come faceva da bambina, ma il tempo stringeva e poi Aramis non doveva assolutamente sospettare che qualcuno si fosse introdotto in casa sua.
Dopo una rapida occhiata all’atrio, prese le scale che portavano al piano superiore, dove vi era lo studio.
Sorrise, mentre osservava i quadri alle pareti: vi era uno scorcio di Firenze, con la cupola del Brunelleschi che svettava in tutta la sua grandiosità sopra ai tetti delle abitazioni; poco più in alto invece vi era un ritratto di Aramis, con indosso la veste vescovile e, nel punto più alto, dove tutti lo potevano osservare, vi era un altro ritratto. Quel ritratto era di una famiglia. La loro famiglia, quando erano ancora tutti insieme; come tutti gli altri quadri della casa, era stata Elettra a dipingerlo.
Era una rivisitazione di una quadro che la famiglia aveva affidato al Verrocchio una decina di anni prima; la ragazza ne aveva dipinto quattro copie: una l’aveva lei, una Gentile Becchi, una Aramis e l’ultima, la più recente, si trovava incartata sulla scrivania di suo padre, nella casa di famiglia, in attesa del ritorno a casa di Filippo.
Nel quadro vi erano tutti loro: Gentile Becchi era in piedi, a sinistra, di fianco a lui vi era Filippo e a destra,in posizione seduta, si trovava Anna; Elettra e Aramis si trovavano davanti ai due capifamiglia, con le loro mani appoggiate sulle spalle mentre Lucrezia si trovava più a destra, insieme alla madre, in una posizione più distaccata rispetto agli altri componenti.
Si fermò un attimo davanti ad esso, osservando pensierosa il viso sorridente della piccola Lucrezia.
“Ti troverò, è una promessa”, sussurrò, prima di svoltare nel corridoio che portava allo studio di Aramis.
Anche quella stanza,  come il resto della casa presentava un’ordine maniacale. Ordine che a Elettra dava alquanto sui nervi. Lo avrebbe sistemato lei suo fratello, un giorno che le sarebbe capitato sotto mano.
Osservò il pendolo e, a giudicare dall’ora che segnava, doveva sbrigarsi a reperire ciò che le serviva.
Si mise a cercare qua e là. In fondo ad un mobile di legno massello trovò la mappa dei sotterranei che si estendevano sotto a Roma mentre, da uno dei cassetti della scrivania estrasse alcune lettere scritte dal Cardinale Mercuri. Ne osservò attentamente la calligrafia e poi, con mano sicura (tipica di chi era abituato a falsificare firme da anni), aprì il barattolo dell’inchiostro e ci intinse il calamaio, cominciando lentamente a comporre delle parole.  

*** 

Elettra non sapeva quanto tempo era passato, aveva paura ad alzare la testa ed osservare il pendolo. I vari fogli appallottolati, buttati alla rinfusa sul pavimento, erano la testimonianza del tempo, ormai agli sgoccioli.
Dannazione a quell’inchiostro a lenta asciugatura e al suo essere mancina! Ogni volta che per caso sbavava con il fianco della mano, doveva ricominciare da capo.
Aveva quasi finito –entità ultraterrene permettendo-, quando dal piano inferiore si udirono delle voci e dei rumori alquanto sospetti.
Il respiro le si bloccò in gola e il cuore prese a martellarle all’impazzata. Chiuse gli occhi, sforzandosi di pensare razionalmente. Non poteva essere così sfortunata; se Aramis era in compagnia di qualche ospite, non era detto che si sarebbero diretti proprio nello studio, potevano sempre rimanere nel salotto.
Tese l’orecchio, attenta a scorgere ogni singolo rumore: la prima voce che sentì fu quella di suo fratello, poi ne udì un’altra, sconosciuta, decisamente più bassa, ma non seppe dire se fosse di una donna o di un uomo. Infine le cose cominciarono a farsi decisamente strane, quando cominciò ad udire sospiri pesanti e sussurri appena accennati.
Le sue guance si tinsero di rosso, al pensiero di ciò che stava succedendo al piano inferiore.
Poi il rumore di passi si fece sempre più vicino ed Elettra capì che stavano salendo le scale; sentì qualche gemito e dei tonfi. La situazione si stava facendo sempre più imbarazzante.
Se stava davvero succedendo quello che la ragazza intuiva, senz’altro lo studio sarebbe stato l’ultimo posto in cui sarebbero andati. O almeno così pensava.
L’abbassarsi della maniglia della porta, però, la contraddisse per l’ennesima volta. Si guardò in giro, in cerca di un nascondiglio.

“Devo lavorare”, disse Aramis, con il fiato corto e assolutamente nessuna voglia di interrompere quello che stava succedendo. Si voltò afferrando distratto la maniglia della porta del proprio studio.
Alle sue spalle udì uno sbuffo frustrato. “Tu lavori troppo”
“E chi lo sente il Cardinale domani, se non gli porto quei resoconti?”. Entrò nella stanza con gli occhi momentaneamente chiusi, mentre con una mano si massaggiava la tempia, che aveva preso a pulsare in modo fastidioso; la giornata era stata pesante ed oltretutto aveva trovato la porta di casa non chiusa a chiave: avrebbe dovuto fare una bella ramanzina alla signora che ogni mattina svolgeva i lavori domestici per aver lasciato, per l’ennesima volta, la porta aperta.
Sospirò: sapeva esattamente di cosa aveva bisogno, ma non ne aveva il tempo. Ci mancava solo Mercuri e quelle incombenze dell’ultimo minuto che gli aveva affidato!
Tutti quei pensieri però svanirono nell’attimo in cui due mani gli si poggiarono sul petto, stringendo la stoffa viola dell’abito vescovile ed attirandolo verso due invitanti labbra vermiglie. Labbra che si posarono con foga sulle sue, ritrasportandolo in un vortice di piacere.
Aramis sospirò pesantemente: era esattamente quello di cui aveva bisogno.
Quel momento di pace però si infranse poco dopo, quando un rumore di cocci in frantumi, alle sue spalle lo riportò violentemente alla realtà. In un gesto dettato dal puro istinto, si staccò da quelle labbra, afferrando velocemente il tagliacarte appoggiato sul basso mobiletto al suo fianco. Lo puntò verso la finestra, coperta completamente da un pesante tendaggio in broccato, lungo fino a terra.
“Chi c’è?!”, chiese, tentando di apparire il più sicuro possibile e soprattutto cercando di incutere timore.
La tenda si scostò leggermente e la figura dietro ad esse uscì lentamente dal proprio nascondiglio.

Elettra si era portata due mani alla bocca quando, attraverso il tendaggio, aveva visto suo fratello baciare...un uomo! Aveva sbattuto più volte le palpebre, cercando di convincersi che era la sua vista a farle brutti scherzi, eppure quello era proprio un uomo. E non era un uomo qualunque: a giudicare dal modo in cui era vestito era pure un cardinale!
Istintivamente, aveva fato un passo indietro, in direzione della finestra. Peccato che sul davanzale ci fosse poggiato un vaso di fiori, che aveva urtato, facendolo finire a terra.
Un paio di santi in quel momento avevano avuto un brusco atterraggio sulla Terra.
Inutile dire che ai due amanti clandestini il rumore di un vaso che andava in frantumi non era passato inosservato.
Ed ora si trovava proprio davanti a loro, con le mani alzate in segno di resa e il viso rosso per l’imbarazzo.
Il volto del fratello era, se possibile, ancora più rosso. 
Il lampo di paura che la ragazza aveva inizialmente visto nelle iridi azzurre del fratello, era ormai scomparso, però vi era ancora dell’inquietudine nel suo sguardo.
“Aramis, abbassa il tagliacarte per favore”, gli disse in tono pacato.
Il giovane vescovo osservò la propria mano, che teneva ancora stretta l’improvvisata arma e che tremava vistosamente. “Scu-scusa”, balbettò, lasciando cadere il tagliacarte sul tavolo. 
“Ma come, non sei felice di vedermi?”, chiese lei, cercando di smorzare la tensione e l’imbarazzo con dell’ironia. Si sedette sulla scrivania, cominciando a giocherellare con l’arma improvvisata.
“C-certo”, rispose suo fratello, osservando l’oggetto che la ragazza rigirava con abilità fra le mani. Deglutì rumorosamente: gli oggetti contundenti non gli erano mai piaciuti e già gli bastava il Conte Riario con il suo stiletto. “Sono felice di vederti, ma sarebbe stato meglio se prima mi avessi avvisato”. 
Elettra non riuscì a fare a meno di ridacchiare, coprendosi la bocca con una mano; il suo sguardo nel frattempo spaziava da quello color peperone del fratello a quello dell’uomo vestito di rosso, rimasto leggermente in disparte: era giovane, probabilmente aveva qualche anno in più di lei, i capelli biondi, di qualche tonalità più scuri di quelli dei due fratelli Becchi, lisci, gli arrivavano appena sopra alle spalle. A differenza del fratello, appariva tranquillo anzi, ad osservare la sua espressione, appariva fin divertito da quella singolare situazione. 
La fissò a sua volta con due grandi occhi azzurri che trasmettevano un’immediata simpatia.
“Aramis, non mi presenti il tuo...”, Elettra non sapeva come definirlo. “...Cardinale?”
L’amante di suo fratello si mise a ridere di gusto; fece un passo avanti, avvicinandosi. “Cardinale Raffaele Riario Sansoni”, si presentò. “Al vostro servizio, madonna”, aggiunse facendole l’occhiolino. Le prese la mano, facendole un baciamano.
La ragazza gli sorrise caldamente. “Voi dovete essere il cugino di Girol...ehm...del Conte Riario, vero?”. Stava per tradirsi e per l’imbarazzo le guance le si colorarono di rosso.
Raffaele la osservò divertito. “Io sono il cugino carino e simpatico di Girolamo”, ribattè ironico. “E datemi del tu, per favore”
“Anche tu”, ricambiò lei. Osservò suo fratello, che però non sembrava affatto essersi tranquillizzato.
“Elettra”, esordì con un tono estremamente serio. “È inutile che io ti dica che quello che hai visto non deve assolutamente uscire da queste mura. Se certe voci arrivassero alle orecchie sbagliate...”
Elettra non gli lasciò finire la frase e gli prese una mano tra le sue. “La pena dell’angoscia è un pessimo modo per morire e io non posso permettere che accada”, gli disse, sorridendogli dolcemente. “E poi devo ammettere che hai scelto proprio bene!”, aggiunse scherzosa.
Erano i Becchi ad avere un debole per i Riario o viceversa?
Lo sguardo di Aramis, nonostante tutto ancora  troppo imbarazzato per alzarsi su quello della sorella, vagò per la stanza, posandosi sulle carte in disordine poggiate sulla superficie della scrivania e che Elettra aveva tentato di nascondere con il proprio corpo. “Cosa ti porta da queste parti?”, le chiese, cambiando improvvisamente il discorso. Cominciava a fiutare l’odore di bruciato. Anche la sua espressione mutò.
“Mi mancava il mio fratellone, ovviamente”, rispose prontamente lei, facendo i suoi soliti occhi a cerbiatto.
Aramis si avvicinò alla scrivania, cominciando ad osservare attentamente le carte. Il suo sguardo passò dalla mappa dei sotterranei romani al timbro papale e la ceralacca appoggiata di fianco ad un calamaio aperto e, infine, alla lettera che la sorella stava scrivendo. Con mani tremanti la prese e cominciò a leggere.

Con la seguente missiva io, Cardinale Lupo Mercuri, autorizzo alla signorina Elettra Becchi l’accesso agli Archivi Segreti Vaticani. In seguito a mia impossibilità e a quella del mio segretario a svolgere il seguente compito, affido alla già citata persona l’incarico e il permesso di entrare nel mio studio e recuperare alcuni importanti documenti di estrema necessità.
Cordiali sal...’

“Elettra!”. Aramis in quel momento avrebbe strozzato sua sorella con le sue stesse mani. La osservò con un’espressione glaciale, mentre lei prese a torturarsi un labbro con insistenza.
“Per favore, dimmi che questa non è la calligrafia del Cardinale Mercuri e che tu non stai per fare quello che immagino”, la implorò.
Questa volta fu lei ad abbassare lo sguardo, incapace di osservare lo sconcerto e la delusione che traspariva dagli occhi di Aramis.
Sospirò: non voleva coinvolgerlo in quella brutta storia ma... “Temo invece che sia proprio come pensi”, mormorò.
Vide suo fratello appoggiarsi con tutte le sue forze alla scrivania e serrare gli occhi, cercando di calmarsi e non fare una scenata davanti a tutti. Un pesante silenzio scese nella stanza, mentre cercava le parole giuste da dirle. Sentì Raffaele passargli affianco e raccogliere la lettera, che aveva lasciato cadere sulla scrivania.
“I miei complimenti”, disse il Cardinale, ironico. “Sembra davvero la calligrafia di Mercuri”
Elettra gli rivolse un timido sorriso, mentre Aramis gli lanciò un’occhiataccia: ci mancava solo lui e il suo sarcasmo.
“Scriverò immediatamente a zio Gentile, per informarlo di venire a prenderti e riportarti a Firenze il prima possibile”, li interruppe Aramis, con un tono di voce estremamente serio.
Sua sorella boccheggiò, cercando qualcosa da dire. “Ti prego, non farlo”, mormorò.
Nei suoi occhi passò un lampo di paura e il fratello comprese. “Lui non sa che tu sei qui”
La ragazza prese un lungo respiro. “Crede che io sia a Pisa con Leonardo”
“Ovviamente”, ribattè sarcastico. Chi altri poteva aver coinvolto, se non quel folle artista? Da Vinci, per la sua esperienza, faceva rima con guai. 
Ci fu ancora del silenzio. “Elettra, cosa stai combinando? Prendi in giro le persone che hanno fiducia in te, entri in casa mia forzando una porta e tenti di entrare negli Archivi Segreti Vaticani!”, le rinfacciò, alzando, senza rendersene conto, la voce. La osservò negli occhi. “Sai qual’è la pena per chi viene scoperto a rubare? Vengono tagliate entrambe le mani!”
“Io verrei messa al rogo”, gli confessò Elettra.    
Aramis sbarrò di nuovo gli occhi; le gambe avevano cominciato a tremargli. Deglutì, racimolando le ultime forze per parlare. “Gli eretici vengono messi al rogo”, disse in un sussurro appena udibile.
La vide annuire lentamente; la sua faccia, solitamente allegra e solare si era oscurata. “Aramis, siediti”, gli consigliò. “Io devo dirti una cosa”
Elettra sperava di poter rimandare quel discorso, ma ormai non era più possibile; avrebbe voluto parlare delle nuove scoperte su Lucrezia e la mamma al ritorno del padre da quel suo viaggio intorno al mondo, quando sarebbero stati tutti assieme. 
Raffaele, nel frattempo, si guardava in giro per la stanza, a disagio. “Vado a prendervi un po’ d’acqua”, disse, allontanandosi.
“Prendi qualcosa di più forte”, ribattè Aramis.
“Molto più forte”, aggiunse Elettra.
Il giovane Cardinale si diresse verso un armadietto, prendendo una bottiglia dall’aria invitante e tre bicchierini. “Peccato, avevo sperato di poterla aprire in circostanze decisamente differenti, ma mi rendo conto che serve di più ora”, ironizzò, cercando di alleggerire un po’ la tensione.     

Si trovavano tutti e tre riuniti intorno alla scrivania: Aramis e Raffaele seduti su due poltrone ed Elettra sulla liscia superficie di legno. 
La ragazza si rigirò tra le mani il proprio bicchierino, pensierosa; se lo portò alle labbra, bevendo tutto d’un fiato il liquore di colore scuro al suo interno. “Hai mai sentito parlare dei Figli di Mitra?”, chiese, guardando il fratello dritto negli occhi.
Aramis ci meditò sopra per alcuni secondi. “Mercuri mi fece la stessa domanda tempo fa e io gli risposi che non li avevo mai sentiti nominare. Poi mi fece un altro nome...”, aggrottò le sopracciglia, mentre cercava di concentrarsi e ricordare meglio. “Il Libro delle Lamine, se non ricordo male. Da quello che mi ha raccontato è una reliquia leggendaria, un po’ come il Santo Graal”
Elettra annuì. “È una setta considerata eretica”
Vide il viso di suo fratello contrarsi in una smorfia.
“Uno di loro, il Turco, contattò me e Leonardo circa un anno fa, parlandoci di quel libro...”, i suoi occhi si focalizzarono di nuovo su quelli di Aramis, della stessa tonalità. “E di nostra madre e di Lucrezia”
Sospirò: ora arrivava la parte difficile. “La famiglia di nostra madre fa parte dei Figli di Mitra da secoli e nei suoi piani, Lucrezia avrebbe dovuto prendere il suo posto un giorno”
“Ecco perchè Lucrezia non ha avuto come tutore lo zio ma la mamma!”, la interruppe Aramis. “La stava addestrando!”. Nonostante fosse arrivato a quella conclusione da solo, la rivelazione lo fece impallidire.
“Aramis, noi siamo sempre stati collegati a loro. Non ci hanno mai persi d’occhio”
“Che intendi dire?”
“Ora ti farò due nomi di persone che un tempo erano Figli di Mitra”
Elettra attese un cenno di assenso, prima di ricominciare a parlare. “Cosimo de Medici”
“Quel Cosimo de Medici?!”
Annuì. “Il Mago. E Lupo Mercuri”
Raffaele  emise un lungo fischio di sorpresa, mentre Aramis guardava la sorella ad occhi sbarrati. 
“Tradì i Figli di Mitra qualche anno prima della scomparsa di nostra madre e di Lucrezia”, continuò Elettra. Prese in mano ancora la bottiglia, riempendo nuovamente i bicchieri di tutti. Guardò ancora una volta suo fratello negli occhi, prima di tornare ad osservare quel liquido scuro dall’aspetto così invitante; sospirò: ora veniva la parte difficile. “Aramis, bevi. Per quello che sto per dirti ti servirà parecchio alcol”
Il fratello annuì, vuotando il bicchierino in un solo sorso.
“Il Turco è venuto da me un po’ di tempo fa”, riprese a raccontare la ragazza, “Mi ha aiutato a ricordare cosa successe quel giorno, nove anni fa”
Aramis gli appoggiò una mano sul ginocchio, cominciando ad accarezzarlo lentamente, cercando di tranquillizzarla: sapeva l’effetto che le faceva parlare del giorno della scomparsa della mamma e di Lucrezia.
“Ricordo tutto”, la sentì mormorare, mentre i suoi occhi diventavano lucidi. Elettra abbassò per un attimo il capo, tirando sù con il naso. Quando rialzò gli occhi, le sue iridi celesti parevano un mare in tempesta. Tutte le emozioni che aveva cercato di trattenere avevano trovato sfogo in quello sguardo deciso e a tratti guerriero, così in contrasto con la sua figura giovane ed esile.
“Aramis, loro sono vive. Prigioniere ma vive”
“Non...non è poss...”, balbettò lui.
“Mercuri ha fatto delle indagini a suo tempo. I documenti relativi sono conservati negli Archivi Segreti, per questo devo assolutamente entrare”, disse Elettra, poggiando una mano su quella del fratello, ancora abbandonata sulla sua gamba. “Io te lo avrei detto...ve lo avrei detto a tutti, una volta che papà fosse tornato a casa”
“Elettra, lascia che li prenda io quei documenti...non posso lasciarti esporre ad un rischio così grande”
“Non voglio coinvolgerti in tutto questo”, ribattè lei, abbozzando un timido sorriso.
“Ma io ormai ci sono già dentro!”, esplose Aramis, alzandosi di scatto e prendendo a camminare per la stanza.
“Se proprio vuoi aiutarmi, dimmi un luogo nello studio di Mercuri dove quelle carte potrebbero trovarsi”
Suo fratello ci pensò un po’, prima di rispondere. “C’è un armadietto che resta sempre chiuso a chiave, solo il Cardinale può aprirlo. Non permette neanche a me di accedervi”, disse a malincuore. Per quanto avesse potuto tentare di intralciarla in quella folle impresa, sapeva che lei ci avrebbe tentato comunque. Tanto valeva semplificarle le cose, per quanto gli fosse possibile.
“Grazie”, sussurrò Elettra, riprendendo in mano la lettera e il calamaio per finire quello che aveva incominciato. Appose la firma di Mercuri, poi sciolse sopra alla lettera chiusa un po’ di ceralacca, imprimendoci alla fine il marchio papale.
“Elettra, non fare cazzate”, le raccomandò Aramis, guardandola in modo serio negli occhi. “Non sei più a Firenze, qui nessuno sarà clemente con te se dovessi essere beccata”
Lei annuì, ben consapevole di tutto. Le sue labbra non poterono fare a meno di assumere una piega ironica, a sentire quel linguaggio, così inusuale per suo fratello. “E tu fai finta di non avermi mai vista”, disse, raccogliendo le sue cose.
“Scrivimi appena sarà tutto finito e tu sarai al sicuro”
“Lo farò”. Elettra si diresse verso la porta ma, prima di uscire, si voltò verso Raffaele. “Prenditi cura di lui, per favore”
“Farò del mio meglio”, rispose il Cardinale, facendole un cenno di saluto con il capo. 
La ragazza prese un lungo respiro, poi abbassò la maniglia ed uscì.
 

Nda
Salve a tutti! Rieccomi qui con un nuovo capitolo. Innanzitutto voglio partire con alcune precisazioni. Primo ho fatto alcune ricerche e ho scoperto che Palazzo Riario esiste davvero (ora però si chiama Palazzo Altemps) e fu costruito per ordine del Conte e completato nel 1480 (dai, ho un po’ anticipato i tempi, ma neanche di tanto ahahah). Diciamo che da fuori non è proprio il massimo, ma c’è di peggio.
Secondo: come avrete già notato –visto che non è la prima volta che la cito- anche qui sono presenti alcuni versi della Canzone di Bacco e Arianna. La poesia fu scritta nel 1490 da Lorenzo, ma anche qui ho anticipato un po’ i tempi. Scusatemi, ma mi piace troppo. 
Terzo (ed ultimo): la scena dell’incontro con Girolamo Savonarola sembra un po’ buttata lì per caso, ma ha anch’essa la sua funzione; diciamo che dopo attente analisi della terza stagione e dai ricordi di terza superiore, ho fatto un po’ un parallelismo tra il frate e il misterioso Architetto del Labirinto, trovando parecchi punti in comune. Quindi, visto che nella serie non si fa il minimo accenno al vero nome dell’Architetto, ho deciso di dare una mia personale interpretazione al tutto; in fondo quel gran rompiscatole del bibliotecario lo aveva detto che Elettra avrebbe avuto presto a che fare con loro...
Bene, ci risentiamo alla prossima puntata, quando Elettra entrerà finalmente negli Archivi.

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Capitolo 34
*** Roma, parte II ***


Capitolo XXVIII: Roma, parte II
 
La sera successiva...

Elettra, da dietro un angolo della strada, osservò attentamente le guardie che sorvegliavano l’entrata. Erano due, proprio come aveva detto Zoroastro.  
Si sistemò meglio il mantello blu notte sulle spalle ed abbassò leggermente la già pronunciata scollatura dell’abito. Era perfettamente consapevole che, in caso di fuga tempestiva, la lunga gonna l'avrebbe rallentata parecchio, ma un paio di pantaloni non l’avrebbero fatta passare così inosservata.
Ovviamente non aveva potuto portare la sua spada con sè e, in caso di bisogno, avrebbe potuto contare solo sul piccolo pugnale nascosto tra gli strati di stoffa e sul sacchettino che teneva in tasca; al suo interno era contenuta una polvere soporifera, una ricetta dei Figli di Mitra, trovata fra le pagine di uno dei diari della madre.
Prese un lungo respiro, chiudendo gli occhi; la festa stava per cominciare, con lei che entrava dalla porta principale e Leonardo attraverso le fogne.
Quando gli riaprì, essi avevano assunto la loro solita espressione innocente; con passo volutamente incerto e guardandosi intorno irrequieta, si diresse verso l’entrata.
Era un’ottima attrice e quella sarebbe dovuta essere la sua migliore interpretazione.

“Scu-scusate”, balbettò, attirando così l’attenzione delle guardie. 
“In cosa possiamo esservi utili, madonna?”, chiese gentilmente una di queste, studiandola attentamente e fermando infine il suo sguardo all’altezza della scollatura dell’abito.
Elettra abbassò il capo, fingendosi imbarazzata. Le sue guance si tinsero leggermente di rosso. “Ehm..io-io ho qui una lettera del Cardinale Mercuri...”, disse, cominciando a rovistare nella propria bisaccia. In modo il più goffo possibile, estrasse da essa la missiva, che le scivolò volontariamente dalle mani, in un gesto che però non apparve per nulla forzato. 
Lasciò che la guardia si chinasse per raccoglierla. “Scusatemi...sono così sbadata”, balbettò nuovamente.
L’uomo le sorrise. “Non preoccupatevi, sono cose che capitano”. Ruppe il sigillo, cominciando così a leggere.
“Succede troppo spesso, invero...”, cominciò a raccontare, con voce rotta. I suoi occhi cominciarono a diventare lucidi. “Come oggi... Sono ospite da mio fratello, il Vescovo Becchi e mi aveva comunicato che stasera sarebbe venuto a cena da noi il Cardinale Mercuri e io...io ho avuto la malsana idea di mettermi a cucinare...poveretti. Io...io non volevo di certo fargli prendere un’intossicazione alimentare. Non...non avevo idea che il pollo fosse andato a male e...”. Come a coronare quel teatrino, una lacrima le scese lentamente su di una guancia, impietosendo ancora di più le due guardie. “Il Cardinale aveva bisogno di alcuni importanti documenti ma con i suoi problemi intestinali non poteva di certo uscire e mio fratello era messo quasi peggio e così mi sono offerta io di venire a prendere quelle carte...”, mormorò. “Spero non li accada niente mentre sono via...voi non avete idea di quante volte ho già svuotato i loro vasi da notte...e se ne avessero bisogno mentre sono qua?”. Finse un leggero panico, mentre le guardie la osservavano, provando pena per quel povero esserino.
I due uomini si lanciarono un’occhiata, annuendo. “Solitamente per un permesso del genere bisognerebbe chiedere l’autorizzazione al Capitano Grunwald o al Conte Riario, ma, visto che dovete tornare il prima possibile a casa, per questa volta faremo un’eccezione” 
Ai loro occhi Elettra appariva come una timida ragazzina spaventata. Un’assolutamente innocua timida ragazzina spaventata.
A quelle parole il suo viso si aprì in un largo sorriso, apparentemente pieno di gratitudine. “Io-io...non so davvero come ringraziarvi”, squittì, abbracciando l’uomo che le era più vicino  e dandogli un bacio sulla guancia, in un gesto goffo. Si ritrasse subito, imbarazzata.
La guardia le lanciò un’espressione soddisfatta. “Vi accompagno nello studio del Cardinale”, disse, facendole cenno di passare. Le si accostò, poggiandole una mano nell’incavo della schiena e lasciandola scendere leggermente.
Elettra deglutì, mentre le sue guance tornarono a colorarsi di rosso. Dalla rabbia, questa volta. 
Si sforzò di sorridergli, nonostante stesse cercando con tutte le sue forze di vincere l’impulso di dargli un sonoro ceffone in faccia.

Lo studio di Mercuri era un luogo piuttosto lugubre, dominato dai colori scuri: al centro della stanza dominava un’imponente scrivania di legno massiccio e tutto intorno ad esso, contro alle pareti, vi erano diversi armadi e scomparti, pieni zeppi di carte e libri; non vi erano finestre, dal momento che esso si trovava sotto terra.
Elettra si guardò in giro, cercando di individuare l’armadietto contenente i documenti più importanti. Non le ci volle molto, dal momento che era l’unico dotato di serratura.
“Il Cardinale vi ha detto dove ha messo i documenti di cui ha bisogno?”. La guardia svizzera, alle sue spalle, la riportò con i piedi per terra. Ad Elettra, la vista di troppi libri nella stessa stanza, causava sempre un attimo di smarrimento; se non fosse stata lì per ‘prendere in prestito quel documento’, probabilmente si sarebbe messa a sfogliarli tutti.
La ragazza si voltò verso l’uomo. “Mi ha detto che dovrebbero trovarsi sulla scrivania”, disse, avvicinandosi ad essa. Per sua fortuna, vi era un voluminoso plico di fogli su di essa, vicino alla seduta del Cardinale. Passò volutamente troppo vicino ad un portamatite, appoggiato in equilibrio precario su di un angolo. Ovviamente il mantello le si impigliò, facendolo finire a terra. “Oh...che sbadata che sono!”, si lamentò, mettendosi in ginocchio e cominciando a raccogliere i vari oggetti dal pavimento.
Anche la guardia si mise in ginocchio ad aiutarla. 
Una piccola distrazione dell’uomo ed Elettra, con un gesto fulmineo, estrasse dalla tasca una piccola manciata di polvere, soffiandogliela in faccia.
“Ma cos...?”. L’uomo non riuscì a finire a frase, visto che cadde su di un fianco, addormentato. 
Elettra si tirò in piedi, lanciandogli un’occhiata piena d’odio.
Si diresse alla porta, assicurandosi che fosse ben chiusa, poi sfilò una forcina dai capelli e si diresse verso l’armadietto.
La serratura scattò appena una manciata di secondi dopo e si lasciò sfuggire un sorriso soddisfatto, mentre prendeva in mano una cartelletta in pelle, etichettata come ‘Caso Becchi’.
Tutto procedeva a meraviglia. O almeno così pensava...

 *** 
 
Nel frattempo, all’entrata degli Archivi Segreti... 

La guardia svizzera era immobile, ritto nella propria posizione; l’unico dettaglio insolito era il sorrisetto sornione che aveva fatto la comparsa sul suo volto. 
Il suo compagno di ronda se ne era andato da un po'; probabilmente si stava ‘intrattenendo’ con la ragazza. Chiuse gli occhi, pensando a quel corpo all’apparenza perfetto, a quel viso dai lineamenti delicati e quei luminosi occhi azzurri. Sì, se fosse stato in lui, ci avrebbe messo molto tempo a tornare. Possibile che prima di allora nessuno avesse mai parlato della sorella del Vescovo Becchi? Una del genere non passava di certo inosservata...
Scosse la testa, cercando di scacciare via certi pensieri inopportuni dalla propria testa.
Era da troppo che non toccava una donna: aveva bisogno di un permesso per una notte. E di un bordello.
Ci stava fantasticando un po’ sopra, quando due persone arrivarono di fretta. 
Impallidì, al vedere il Capitano Grunwald in compagnia di...Lupo Mercuri.
Il Curatore degli Archivi Segreti Vaticani era proprio davanti a lui!
Da quello che la sorella del Vescovo Becchi gli aveva detto, non sarebbe neanche riuscito ad alzarsi dal vaso da notte... E non solo era lì, appariva pure in perfetta salute!
“Perché sei qui di guardia da solo?”, gli chiese bruscamente Grunwald.
Lo sguardo incredulo della guardia passò velocemente dal Capitano a Mercuri. “Voi...il pollo..l’intossicazione alimentare...il vaso da notte...”, si mise a balbettare. Gli sembrava di essere diventato come quella ragazzina impacciata. Sbarrò gli occhi: gli era sembrata innocua ed indifesa...perché aveva la brutta sensazione di essere stato raggirato?
“Questa guardia è ubriaca!”, si lasciò sfuggire il Cardinale. 
“Voi...”, disse guardandolo, “Vi credevo a casa del Vescovo Becchi con...ehm...gravi problemi intestinali”
Mercuri gli scoppiò a ridere in faccia. “Il Vescovo Becchi è a cena dal Cardinale Riario Sansoni e io, come potete vedere con i vostri occhi, sono in perfetta forma” 
“Ma la ragazza...lei aveva detto così...aveva  una vostra missiva che recava queste parole...c’era anche la vostra firma!”
Mercuri e Grunwald si guardarono, allarmati. 
“Quale ragazza?!”. Il Cardinale, in un gesto inaspettato, prese la sua spada, premendola contro il collo della guardia, che si trovava con le spalle schiacciate contro il muro.
“La-la sorella del Vescovo Becchi”, balbettò. 
“Quella strega!”, urlò rabbioso Mercuri. “Dov’è ora?!”
“Nel vostro studio con l’altra sentinella”
“C’è un protocollo da seguire!”, disse in modo tutt’altro che amichevole Grunwald. “Dovevi chiedere l’intervento del Conte Riario”
La guardia abbassò lo sguardo, ben consapevole del proprio errore.
“Dobbiamo catturarla prima che riesca ad uscire dal mio studio!”, borbottò Mercuri, dirigendosi a passo spedito all’interno degli Archivi, la spada stretta in mano, pronta a colpire: avrebbe fatto passare a quella ragazzina impertinente la voglia di comportarsi in quel modo.

Elettra aveva appena messo un piede fuori dallo studio di Mercuri, quando delle voci sospette le giunsero alle orecchie: sapeva benissimo a chi appartenevano.
Lanciò sottovoce una sfilza di imprecazioni che avrebbero fatto impallidire persino uno scaricatore di porto: stava andando tutto bene, Mercuri non poteva aspettare ancora una manciata di minuti prima di presentarsi negli Archivi?
Valutò le opzioni: era inutile scappare, l’abito lungo le avrebbe fatto rapidamente perdere terreno e Grunwald o qualcuna delle sue guardie svizzere l’avrebbe senz’altro raggiunta in poco tempo. Tanto valeva tornare dentro ed aspettarli; se nessuno aveva ancora dato l’allarme, significava che molto probabilmente la loro intenzione era quella di coglierla di sorpresa. E per farlo non potevano di certo allertare molte guardie svizzere.
Se questa ultima ipotesi fosse stata vera, una volta aver messo al tappeto Mercuri, Grunwald e la sentinella all’entrata, il pericolo sarebbe rientrato.
Si sedette sulla scrivania, cominciando a sfogliare i documenti su Lucrezia e sua madre, in attesa dell’arrivo dei tre.
Attesa che durò appena una manciata di secondi.

Mercuri e Grunwald entrarono come due furie nello studio, ma si bloccarono non appena videro la ragazza seduta comodamente sul piano di legno della scrivania.
“Cardinale Mercuri, Capitano Grunwald, buonasera”, gli salutò, facendo un sorrisetto ironico e accavallando le gambe, come a mostrare che in quella situazione si sentiva pienamente a proprio agio. Teneva una mano nascosta dietro alla schiena.
“Cosa ci fate voi qui?”, chiese Mercuri, fumante di rabbia.
“Ma come? In tutte queste settimane non avete sentito la mia mancanza?”. Sempre quel tono troppo impertinente.
“Arrendetevi e magari potrei essere misericordioso con voi”, tentò di convincerla il Cardinale.
“E come pensate di fare? Magari ordinando al boia di strangolarmi prima di finire arrostita sul rogo?”
Vide Mercuri digrignare i denti e sorrise, soddisfatta delle proprie parole.
“Cosa nascondete dietro alla schiena?”. Grunwald la guardava con astio e la spada sguainata, puntata contro di lei.
“Potrei anche mostrarvelo, se abbasserete le armi”
“Pensate davvero che siamo così ingenui da cascarci?”. Questa volta fu il Cardinale e non lei a fare del sarcasmo.
Elettra fece finta di assumere un’espressione pensierosa. “In effetti...”, disse, scendendo dalla scrivania e avvicinandosi ai due uomini.
Stava per fare una cosa folle, se ne rendeva perfettamente conto, però non aveva molte altre opzioni. “Lux”, mormorò.
Una forte luce, proveniente dal ciondolo al suo collo, si propagò per l’ambiente, accecando momentaneamente i due, colti alla sprovvista. Con un gesto fulmineo, la ragazza li soffiò in faccia la polvere soporifera e, prima ancora di capire cosa stesse succedendo loro, caddero a terra addormentati.
Elettra uscì di corsa dallo studio, chiudendolo a chiave, e si mise a correre. La sentinella all’entrata non era con Grunwald e Mercuri: era senz’altro andato a chiamare rinforzi. Uscire dalla porta principale era da escludere, quindi doveva trovare uno dei numerosi passaggi segreti. 
Superò in fretta alcuni corridoi, cerando di allontanarsi il più possibile dal rumore concitato di passi e dal tintinnio delle armature.
Si accostò ad un arazzo, ben consapevole che dietro ad esso vi era un cunicolo che portava direttamente al cuore degli Archivi; roteò il candelabro appeso alla parete e, dopo aver sentito il rumore dello sblocco della serratura, spinse la parte di muro, entrando senza alcuna esitazione nel buio più profondo.
Ben pochi conoscevano quei passaggi segreti, quindi sarebbe stata relativamente al sicuro.
Appoggiò una mano contro al muro mentre camminava, in modo da cercare di orientarsi. Dopo alcuni minuti, nell’oscurità riuscì a scorgere una sottilissima lama di luce, segno che il cunicolo terminava lì: era giunta a destinazione. Cercò a tentoni la leva per azionare il meccanismo di sblocco del muro e, dopo averla tirata verso il basso, essa si aprì di alcune spanne, permettendole di entrare in quella che aveva tuta l’aria di essere una gigantesca biblioteca.
Si fermò, osservando a bocca aperta la miriade di scaffali stracolmi di libri e documenti; in quel momento si mise ad invidiare suo fratello, che poteva godere di quel meraviglioso spettacolo ogni giorno. 
Un rumore sospetto, poco lontano da lei, la fece tornare alla realtà. Velocemente, Elettra estrasse il suo pugnale, nascondendosi poi dietro ad una libreria. Prese a camminare tra quei libri, ben decisa ad arrivare il prima possibile al prossimo corridoio.
Per quanto cercasse di restare concentrata sul suo obbiettivo, si perse nell’osservare i titoli che correvano veloci al suo fianco. Si accorse troppo tardi di un rumore di passi, sempre più vicini.
Sentì qualcosa sibilare nell’aria e fece appena in tempo a spostarsi di lato, che vide un dardo conficcarsi nella copertina di un libro, a poca distanza dalla sua testa.
Si voltò di scatto nella direzione da cui era partito il colpo. “Leonardo”, chiamò l’uomo a pochi metri da lei, per farsi riconoscere.
“Elettra”, disse lui. Osservò prima l’amica e poi la libreria. “Ti avevo scambiata per una guardia svizzera” 
“Non importa, io stavo per tagliarti la gola a tradimento”, ribattè lei, rigirandosi tra le mani il pugnale. Si guardò in giro, notando la figura alle spalle di Da Vinci, tenuto in scacco dalla balestra dell’artista: era vestito di bianco e la ragazza sapeva fin troppo bene di chi si trattava.
“Vedo che ti sei fatto un nuovo amichetto”, disse, indicando Sisto, che la guardava torvo.
“E i tuoi amichetti?”, chiese Leonardo, stando al gioco.
La ragazza sbuffò, continuando con quel tono ironico. “Dormono; a quanto pare sono diventata una persona noiosa”
L’artista cercò in tutti i modi di soffocare una risatina. “Hai trovato quello che cercavi?”
Elettra diete alcuni colpetti alla bisaccia che teneva a tracolla. “È tutto qui. E tu?”
“Ancora no”
La ragazza era tentata di dirgli che sarebbe restata ad aiutarlo, però Leonardo l’anticipò. “Elettra, vai finchè sei in tempo”
Annuì, a malincuore. “Buona fortuna, Leonardo”
Gli girò le spalle, dirigendosi lontano. 
“La puttana fiorentina...”, mormorò Sisto dopo alcuni secondi di silenzio.
“Sapete Santità che le donne non si insultano? Specialmente se vi trovate dalla parte sbagliata di una balestra”, commentò Da Vinci.
 
 *** 

Elettra era arrivata in uno strano cubicolo, scavato interamente nella roccia. Tutto intorno a lei vi erano strani reperti, provenienti da chissà dove. Nonostante la sua grande curiosità, cercò in tutti i modi di ignorarli.
Deglutì e chiuse gli occhi. Come faceva spesso, mentre era nervosa, strinse fra le dita il proprio ciondolo.
“Ahi”, le scappò, osservandosi i polpastrelli arrossati: il cuore d’argento era insolitamente caldo...
Si guardò intorno, come in cerca di qualcosa. Ma non sapeva neanche lei di cosa.
E poi lo vide: un foglio di carta, racchiuso all’interno di due spessi vetri e una cornice di legno dorato.
Elettra si avvicinò, come una falena attirata dal fuoco. Non c’era bisogno che qualcuno le dicesse di cosa si trattasse, lei sapeva che quella era una pagina del Libro delle Lamine. Lo riusciva a percepire. 
Osservò rapita le parole cambiare continuamente davanti ai suoi occhi: molti di quegli alfabeti lei non li aveva mai visti. Senza quasi rendersene conto, poggiò un dito sulla fredda superficie di vetro.
Le parole lasciarono lentamente spazio a delle immagini: un ripido sentiero di montagna, una città di pietra sulla sua sommità e una strana donna dalla pelle ambrata, con indosso degli strani abiti decisamente troppo succinti e una strana corona d’oro simile ad un sole.
La ragazza trattenne il fiato mentre davanti a lei si formava l’immagine di uno strano edificio a gradoni, con al centro una scalinata, in cima ad essa vi era una persona, una donna dalla pelle diafana e i lunghi capelli biondi; i suoi abiti non erano molto diversi da quelli della strana figura vista poco prima. Il volto era sfocato e coperto parzialmente da una maschera: stava osservando se stessa? Oppure era la sua sorella gemella?
Di chiunque delle sue si trattasse, non pareva passarsela molto bene, dal momento che si trovava con le mani legate ad una sottile colonna di roccia. Dalla scalinata prese a salire un uomo: indossava un panneggio di stoffa scura, che gli copriva solamente la zona del basso ventre, lasciando scoperti il petto largo e gli addominali scolpiti, coperti da strane linee colorate. Aveva i capelli corvini e in mano un affilato pugnale. Anche la sua faccia era sfocata. Elettra associò immediatamente quella figura a Girolamo: che fosse lì per salvarla?
Un forte rumore la risollevò dai suoi pensieri: qualcuno aveva dato l’allarme! O lei o Leonardo erano appena stati scoperti. 
Diede un’ultima veloce occhiata alla pagina, prima di riprendere la sua corsa per il corridoio.
Se fosse restata una manciata di secondi in più, avrebbe visto l’uomo affondare il pugnale nella tenera carne della donna.
 
 ***

Elettra corse a perdifiato fino a quando si ritrovò in un corridoio riccamente decorato; ancora un paio di svolte e avrebbe imboccato il passaggio segreto che l’avrebbe portata all’interno della basilica di San Pietro, dalla quale sarebbe poi potuta uscire indisturbata.
Peccato che dalla parte opposta del corridoio, sbucarono una decina di guardie svizzere, bloccandole così il passaggio.
La ragazza si bloccò un istante e poi, ricordandosi della mappa che aveva preso a casa di Aramis, fece una brusca svolta a destra, correndo verso l’ennesimo arazzo, messo in quel punto per celare l’ennesimo passaggio segreto; lo aprì in fretta, richiudendoselo poi alle spalle e bloccando il meccanismo come meglio potè.
Nonostante i colpi ben decisi delle guardie, intenzionati ad abbattere quel muro, Elettra si fermò un attimo per riflettere. Un brivido freddo le percorse la schiena per tutta la sua lunghezza, quando si rese conto che quel passaggio portava direttamente nel cuore delle prigioni di Castel Sant’Angelo. 
Si era messa in trappola da sola.
Quel pensiero le fece mozzare il respiro, costringendola ad appoggiarsi al muro per non perdere l’equilibrio e cadere a terra; non era il momento di lasciarsi prendere dal panico, doveva  pensare lucidamente ad un modo per uscire viva da lì.
“Girolamo!”, si lasciò sfuggire. Lo studio di Girolamo si trovava proprio nelle prigioni! 
Un sorriso le comparve sulle labbra, mentre riprendeva a camminare. 
Sorriso che però fu di breve durata.
‘Io a Roma non posso proteggerti’
Quella frase le torno alla mente, facendola per un attimo bloccare.
‘Al diavolo!’, pensò, ‘Non permetterebbe mai alle sue guardie di catturarmi’
Sollevata dalla sua stessa conclusione, riprese a correre.

I corridoi delle prigioni di Castel Sant’Angelo erano deserti, fatta eccezione per qualche sentinella, rimasta a vegliare sui prigionieri. L’allarme scattato negli Archivi doveva aver fatto spostare velocemente la maggior parte delle guardie svizzere nei sotterranei.
Elettra si acquattò il più possibile contro l’angolo dove si era rintanata, cercando di restare dove l’oscurità era più fitta. Uno dei carcerieri passò lentamente nel corridoio adiacente e, mentre i suoi passi rimbombavano sul freddo pavimento di roccia, la ragazza trattenne anche il respiro, pensando che, se per caso l’avesse scoperta, scappare sarebbe stato alquanto complicato, visto la stazza dell’uomo, non dissimile da quella di un armadio. 
La guardia passò oltre e, dopo essersi assicurata che fosse ben lontano, la ragazza sgusciò fuori dal proprio nascondiglio, dirigendosi velocemente verso le scale che portavano allo studio di Girolamo.
Ancora una volta si ritrovò a ringraziare la propria memoria fotografica; senza di essa, non sarebbe stata assolutamente in grado di orientarsi in quel labirinto.
Salì le scale silenziosamente, trovandosi alla fine davanti ad un ampio portone.
Poggiò la mano su una delle due maniglie ed ebbe un attimo di esitazione: se Girolamo fosse stato lì, cosa gli avrebbe raccontato?
No, in quel momento non doveva assolutamente pensare alle conseguenze, la massima priorità era salvarsi la pelle.
Abbassò la maniglia e, senza indugiare oltre, entrò, chiudendo in fretta la porta alle sue spalle. Per sicurezza la bloccò anche con una sbarra di legno.
Con ormai l’adrenalina che veniva meno, si appoggiò alla porta, lasciandosi lentamente scivolare a terra, esausta. Chiuse gli occhi e prese alcuni lunghi respiri, cercando di calmarsi.
Decise di riaprirli dopo una manciata di secondi, guardandosi attorno curiosa. Fece un espressione perplessa: non era di certo così che si era immaginata lo studio di Girolamo. Quello che aveva davanti agli occhi, più che uno studio le sembrava un appartamento in miniatura, con tanto di comodo divanetto per le dormite. Evidentemente il Conte passava parecchio tempo chiuso là dentro.
Guardò verso l’imponente scrivania, rendendosi finalmente conto di essere sola: Girolamo non era lì; probabilmente si era diretto anche lui negli Archivi.
Elettra non sapeva se la notizia la tranquillizzasse oppure no; se da un lato avrebbe evitato imbarazzanti spiegazioni sul cosa ci facesse nelle prigioni di Castel Sant’Angelo con in mano alcuni documenti provenienti dagli Archivi Segreti, dall’altro era come se fosse stata in trappola. 
In preda ad un’ansia sempre più crescente, cominciò a rovistare in giro, in cerca di qualcosa che potesse darle un’idea su come uscire da lì sulle proprie gambe.
Aprì il cassetto di un basso mobiletto di legno, trovandoci dentro il proprio blocco da disegno. Nonostante la situazione, un sorrisetto da ebete fece capolino sul suo volto. Lo prese in mano, sedendosi poi sul divanetto e cominciando a sfogliarlo. Dopo aver girato alcune pagine, qualcosa, che evidentemente si trovava fra quei fogli, cadde a terra, producendo un rumore metallico. Elettra si chinò per raccoglierlo: si trattava di un anello in oro bianco, con incastonata una pietra trasparente, probabilmente un diamante; aveva l’aria di essere molto antico. Presa dalla curiosità, decise di provarlo, constatando che le calzava a pennello.
“Molto bello, vero?”
Al suono di quella voce la ragazza afferrò velocemente il proprio pugnale, guardandosi intorno con circospezione; se prima, a causa della poca luce, non aveva notato le sbarre ora, con gli occhi  ormai abituati all’oscurità, riuscì anche a scorgere una persona, in piedi, dietro ad esse.
“Appartiene alla famiglia Della Rovere da molte generazioni”, continuò l’uomo.
Elettra si sfilò l’anello, poggiandolo sul libretto, ancora aperto sul divano, e sì avvicinò alla cella.
Era anziano, con i capelli bianchi piuttosto lunghi ed una folta barba e...assomigliava decisamente troppo a Sisto.
“Chi siete?”, chiese. Le rotelle nella sua testa avevano intanto preso a girare velocemente: non sapeva che il Papa avesse dei fratelli, solo alcune sorelle. E poi la somiglianza era troppa, per essere solo semplici fratelli, sembravano più...gemelli!
Non ottenendo risposta, decise di dare voce alle proprie supposizioni. “Siete il gemello di Sisto?”
“Oppure quell’altro è il gemello di Papa Sisto IV”, rispose lui.
Elettra deglutì. “Che intendete dire?”
“Siete la dama fiorentina che ha stregato il Conte Riario, non è vero? Se siete sveglia come dicono, dovreste arrivarci da sola”
“Quello che tutti credono sia il vero Sisto non è altro che un impostore”, mormorò lei. 
Il vero Papa annuì.
“Perché Girolamo lo permette? Credevo fosse un uomo di chiesa...”
“Perché l’influenza che esercita suo padre su di lui è troppo forte”
La ragazza lo guardò un attimo smarrita. “Suo padre? Cosa centra adesso Paolo Riario?”
Per tutta risposta ottenne solo una risata. “Davvero credete che Bianca e Paolo siano i suoi genitori naturali?”. Fece un passo avanti, arpionando con le mani rugose le sbarre della cella. “Quella è solo pura facciata, il suo vero padre è il falso Sisto!”
“Che-che cosa?”, prese a balbettare lei, incredula.
“Dovete andare ora”, riprese a parlare il vero Sisto, “Passate dalle cucine e se qualcuno vi chiede qualcosa, dite di essere una nuova serva e che vi siete persa cercando l’uscita”
“Venite con me”, disse lei, prendendo una forcina dai capelli e cercando la serratura della cella. “Venite con me e mostrate al mondo questo inganno”
L’uomo mise una mano davanti alla toppa, impedendole di infilare la forcina. “No, io sono esattamente dove devo essere”. La guardò dritta negli occhi. “E ora voi dovete andarvene”
Elettra, ancora stordita da tutte quelle rivelazioni, annuì, dirigendosi velocemente verso l’uscita.
“Addio”, disse prima di abbassare la maniglia.
L’uomo prese la propria pipa, aspirando una lunga boccata di fumo. “Sono certo che ci rivedremo un giorno o l’altro”

Era appena passata una decina di minuti da quando Elettra Becchi aveva richiuso la porta dello studio alle sue spalle, quando essa si riaprì nuovamente.
Un giovane uomo entrò. Era evidentemente di fretta.
Il prigioniero sorrise fra sè e sè: finalmente aveva davanti a sè il grande Leonardo Da Vinci.
“Giornata di visite, oggi”, constatò.
 
 ***
 
Poco dopo, lungo le rive del Tevere...   

Elettra arrivò al punto di incontro con gli altri che era ancora nottefonda; aveva il fiato corto, da quanto aveva corso. Fortunatamente, nel tragitto dallo studio di Girolamo alle cucine di Castel Sant’Angelo, non aveva incontrato assolutamente nessuno. Appena si era lasciata quella fortezza alle spalle, si era messa a correre come una matta.
Osservò soddisfatta il fuoco che scoppiettava; intorno ad esso erano stati sistemati alcuni tronchi.
Le due persone, sedute su di essi, di spalle, attirati dai rumori prodotti dai passi della ragazza, si girarono verso di lei.
“Elettra”, disse Zoroastro, andandole incontro.
“Zo”, lo salutò lei, abbracciandolo. “Voi non avete idea di quello che ho scoperto!”, urlò, rivolgendosi anche a Nico. 
Prima ancora di incominciare, il moro la bloccò. “Hai trovato quello che cercavi?”
Elettra estrasse dalla propria bisaccia la cartelletta contenente il rapporto sulla scomparsa di sua madre e di Lucrezia. “Ovviamente, però ho dovuto mettere al tappeto sia Mercuri che Grunwald”
“La polvere soporifera ha funzionato?”
“Si sono addormentati come due neonati”. A ricordare la scena, la ragazza non riuscì a fare a meno di ridere. La sua faccia però si fece immediatamente seria. “Qualcuno deve aver scoperto me o Leonardo perché ad un certo punto è suonato l’allarme...mi sono fatta per un attimo prendere dal panico ed invece di uscire nella Basilicata di San Pietro mi sono ritrovata nelle prigioni e...”
“E il maestro?”, chiese Nico. Al sentire il racconto di Elettra, aveva cominciato ad impallidire.
“L’ultima volta che ho visto Leonardo teneva in ostaggio Sisto”
“Quello riesce sempre a pararsi il culo in un modo o nell’altro, è inutile preoccuparsi”, intervenne Zoroastro. Eppure, ad un orecchio attento, anche dalla sua voce traspariva una nota di preoccupazione.
“Ero in preda al panico e, non sapendo dove altro andare mi sono diretta nello studio di Riario”, continuò a raccontare la ragazza. “Lui fortunatamente non c’era, ma ho avuto modo di parlare con un prigioniero...”, ora veniva la parte complicata. “Quello che noi pensiamo sia Sisto, in realtà non è alto che il gemello, che inoltre ho scoperto essere il padre di Riario”
Zo piegò la testa da un lato, osservandola perplesso. 
“Spero che Leonardo trovi quella chiave al più presto, devo assolutamente dirglielo anche a lui”
“Ehm...”, si lasciò sfuggire il moro, “Sarà un po' complicato che Leonardo trovi la chiave...Vieni, devo mostrati una cosa”
Elettra lo guardò senza capire, ma si allontanò comunque con lui.
Percorsero alcuni metri, fino a quando non arrivarono ad un albero. Sulle labbra di Zoroastro si formò un sorriso furbetto, certo della reazione della ragazza. “Elettra, ti presento l’ultima chiave per aprire la Volta Celeste”
Ma lo sguardo della ragazza era puntato su tutt’altro. “Cosa gli avete fatto?!”
No, non era quella la reazione che Zo si sarebbe aspettato.
Elettra osservò preoccupata il volto sofferente di Girolamo, solcato da una ferita sulla guancia. Era legato con la schiena contro l’albero e la bocca tappata con uno straccio.
Il suo sguardo passò in fretta dall’inaspettato prigioniero al moro, che la guardava scioccato.
La ragazza si accovacciò di fronte al Conte, prendendo a studiare le sue ferite.
Girolamo la osservò con le pupille dilatate; lei non avrebbe saputo dire se dalla sorpresa o per il timore di qualcosa. Fece una piccola smorfia, quando lei gli sfiorò lo zigomo ferito con un dito.
Si avvicinò al suo viso e portò entrambe le mani al pezzo di stoffa. 
“Elettra, cosa stai facendo?”, chiese Zo, spalancando gli occhi dalla sorpresa.
Abbassò il bavaglio, togliendoglielo dalla bocca. 
“E così anche voi riuscite a cacciarvi nei guai, Conte”, disse, cercando di abbozzare un sorriso per sdrammatizzare un po’ il momento.
“Non quanto te, però”, sussurrò lui, con voce flebile. 
Si guardarono negli occhi per alcuni istanti.
“L’hai avuta tu fin dal principio”, mormorò, prendendo la chiave fra le mani.
Girolamo sospirò, ben consapevole che il tenergliela nascosta era stato un gesto di mancata fiducia.
L’attenzione della ragazza, però, si concentrò nuovamente sulle sue ferite. “Zo, mi passeresti...”, incominciò a dire, ma si bloccò, a bocca aperta. Si voltò verso il moro, osservandolo dritto nelle sue iridi scure. C’era delusione e rabbia nella sua espressione.
Lui lo aveva capito.
Zoroastro sapeva. Sapeva cosa la legava a Girolamo.
Elettra boccheggiò, in cerca delle parole giuste da dire. Ma non ne trovò.
“Da quanto?”. La freddezza con la quale parlò Zo fu disarmante.
Abbassò il capo, per evitare che lui la potesse vedere in faccia e notasse i suoi occhi che diventavano lucidi a poco a poco. “Zo...io...”
“Ti ho chiesto da quanto”
Sospirò, cercando di ricacciare indietro le lacrime. “Dall’assoluzione di mio zio”
Zoroastro annuì. La sua espressione, solitamente allegra, si era trasformata in una maschera di apatia. Le diede le spalle, incominciando a dirigersi verso il fuoco.
Elettra guardò spaesata Girolamo. “Vado a prendere qualcosa per medicarti”, mormorò, correndo dietro a Zo.
“Zo”, provò a chiamarlo, ma lui non parve neanche sentirla. Lo afferrò per un braccio, nel tentativo di fermarlo. “Io posso spiegarti...”
“Non c’è assolutamente niente da spiegare”, ribattè lui, ritraendo l’arto come se si fosse appena scottato.
La ragazza rimase rimase per alcuni istanti immobile, osservandolo allontanarsi. Prese un lungo respiro e poi si diresse verso alcune bisacce, cominciando a rovistare dentro ad una.
Zo e Nico guardavano il fuoco, facendo come se lei non esistesse. All’improvvisato accampamento era sceso un silenzio glaciale.
Elettra prese alcune bende e unguenti medicanti, poi, senza alzare la testa sui due uomini seduti poco lontano da lei, ritornò da Girolamo.
Il Conte, a vedere la tristezza che emanavano i suoi occhi, provò a sorriderle. Come risposta, sulle labbra della ragazza si formò un timido sorriso.
“Non ti curare di loro”, le disse.
“Sono certa che presto tornerà tutto a posto”, ribattè lei, cercando più che altro di convincere sè stessa. Perchè, allora, aveva la sensazione che qualcosa si fosse rotto per sempre?
“Hai altre ferite?”, gli chiese, dopo alcuni secondi di pesante silenzio. Doveva assolutamente cambiare discorso.
“Una sulla mano e credo un brutto bernoccolo in testa”, rispose lui.
Elettra lo guardò stupita, mentre intingeva una delle bende nell’acqua calda, per pulirgli la ferita. “Zo ti ha conciato proprio per le feste”, commentò, cercando di trattenersi dal fare dell’ironia.
“Invero è stato i giovane Nico”
“Oh”, riuscì a dire lei, sorpresa. Nico non avrebbe mai fatto certe cose, prima di quel giorno alle rovine romane. “Te la sei proprio andata a cercare”, aggiunse con quel suo solito tono impertinente.
Girolamo borbottò tra sè e sè qualcosa di incomprensibile.
Fece una smorfia di dolore, quando Elettra cominciò a passargli sulla pelle un unguento disinfettante.
“Vi credevo più forte, Conte”, disse lei, trattenendo a stento una risatina. Aveva usato le stesse identiche parole di Girolamo, quel giorno al convento, quando le aveva medicato i polsi. Se l’era presa parecchio per quel commento e non aveva mai visto l’ora di poter ricambiare.
Lui le lanciò un’occhiataccia e, per tutta risposta, lei scoppiò a ridere.
“Mi avevi promesso che non saresti mai venuta a Roma”. Il tono e l’espressione tremendamente seria di Girolamo avevano decretato la fine di quel momento di leggerezza.
Lei abbassò lo sguardo, concentrandosi sui medicamenti.
“Elettra, ti rendi conto che quello che hai fatto è stato estremamente pericoloso? Cosa avrei dovuto fare, se ti avessero catturata?”
“Non potevo fare altrimenti”, mormorò lei. 
Girolamo sospirò, osservando attentamente ogni suo singolo movimento.
“Perchè non mi hai mai parlato di tuo padre e di tuo zio?”, chiese la ragazza, dopo un lungo silenzio.
“Certi segreti sono troppo pericolosi e io non volevo metterti in pericolo”
Elettra annuì e cercò di sorridergli.
Ci fu un altro, l’ennesimo, silenzio, rotto soltanto dal rumore del bosco circostante.
“Chi era Celia?”. La domanda della ragazza uscì improvvisa ed inaspettata per Girolamo.
La guardò negli occhi, in cerca del modo migliore per parlargliene. “Era mia madre”
Lei prese un lungo respiro. Qualcosa dentro di lei le diceva di fermarsi, di non chiedergli altro, ma lei doveva sapere. Doveva assolutamente sapere. “Come è morta?”
“Fu il mio primo incarico per ordine del Santo Padre”
Vide un lampo di paura passare nelle sue iridi azzurre. Avrebbe dovuto fermarsi per il suo bene, ma aveva bisogno di parlarne con qualcuno. Aveva tenuto dentro di sè quel dolore per troppo tempo. “Non sapevo chi fosse...non fino a quando ho stretto le mani intorno alla sua gola. Lo capimmo entrambi in quel momento...avrei dovuto fermarmi, invece strinsi ancora di più”. Fece una breve pausa, per prendere fiato e ricacciare indietro le lacrime che scalpitavano per uscire. “Non dimenticherò mai il suo ultimo sguardo”
Aveva un disperato bisogno che lei lo capisse e che accettasse anche quel suo lato più oscuro. In quel momento aveva bisogno di lei più che mai; fece per avvicinarsi alle sue labbra, ma Elettra si ritrasse.
“Vado a prenderti qualcosa per il dolore alla testa”, disse, prima di voltargli le spalle. Sperava così di nascondergli il senso di paura che provava, ma Girolamo lo notò comunque; come notò anche la lacrima che gli scese sul viso e che lei cercò di coprire asciugandosela in fretta con una mano.
Anche nel loro rapporto qualcosa sarebbe mutato.
 
 ***   
 
La mattina successiva... 

Zoroastro osservò Elettra rannicchiata in un angolo, addormentata. Non sapeva bene di cosa si trattasse, eppure era successo qualcosa tra lei e Riario, quella notte; da quando era tornata là con loro, dopo avergli medicato le ferite, non aveva detto una parola, sistemandosi semplicemente il quell’angolo, vicino al fuoco. Il moro aveva dovuto mettercela tutta per resistere all’impulso di avvicinarsi ed abbracciarla, quando aveva visto il tremore delle sue spalle e sentito dei singhiozzi soffocati. 
Non poteva fidarsi di lei. Non più. Eppure...lei era fra le persone più care che aveva; ne aveva passate tante, ma non si era mai lasciata scoraggiare. Almeno fino a quando Riario non aveva fatto la sua comparsa. Quel coglione non la meritava e, lentamente, la stava cambiando. Nei suoi ricordi Elettra era sempre stata solare ed allegra, con la battuta sempre pronta e il sorriso contagioso. Ora quei sorrisi sinceri si stavano facendo ogni giorno sempre più rari.
Nico, che da parecchio, ormai, continuava a camminare avanti e indietro, lo distolse da quei pensieri. Sapeva cosa lo turbava: Leonardo non si era ancora fatto vivo.  “Non angustiarti, Nico, sta bene”, provò a confortarlo.  “Quello che hai fatto prima, venire in mio aiuto è stato coraggioso perciò...grazie”. Se non fosse stato per Nico, probabilmente sarebbe entrato per davvero nel coro delle voci bianche. 
“Anche io dovrei ringraziarti”, disse il giovane.
Un rumore di passi, a poca distanza da loro, lo costrinse a girarsi in quella direzione: Leonardo, zoppicante, stava andando verso di loro.  “Maestro, eravamo in pensiero”
“Leonardo!”. Anche Elettra si era svegliata e gli era corsa incontro, stringendolo forte a sè. “Sei ferito”, constatò con rammarico.
“Non è niente di grave”, minimizzò lui.
“Ah finalmente! Non vedo l‘ora di lasciare questo postaccio”, commentò Zo.
“Ho paura...ho paura di non poterlo fare: non ho trovato la seconda chiave. Resterò qui finchè non ci riuscirò”, ribattè l’artista, facendo una smorfia sofferente.
“Leonardo”, lo chiamò Zoroastro.
“Cosa?”
“Preparati ad una sorpresa”
Lo condusse all’albero dove era legato il Conte Riario; sul petto, lasciato in bella vista dalla camicia completamente aperta, spiccava l’ultima chiave per aprire la Volta Celeste.
“Ma come...?”, fece Da Vinci, sorpreso.
“Il merito è dello smidollato: io volevo sventrarlo ma lui mi ha fermato”, disse Zo, ironico.
Elettra, nel frattempo, a pochi passi di distanza, osservava la scena in rigoroso silenzio.
Leonardo tolse a Riario il bavaglio. 
“Artista, vedo che siete scappato”, disse il Conte, appena fu in grado di parlare, in un tono di voce che non prometteva niente di buono.
“E io vedo una chiave, che voi consegnerete a me”, ribattè Leonardo. Era la seconda volta nel giro di poche ore che qualcuno usava le stesse parole di Riario contro di lui.
“Meglio che mi uccidiate prima”, disse lui. Provò ad osservare Elettra, a vedere se avrebbe fatto qualcosa, ma lei abbassò lo sguardo.
Leonardo prese la chiave fra le mani e la strappò dal collo del Conte.  “Vi seguirò fino agli estremi confini della terra per riavere ciò che è mio”, disse quest’ultimo, trattenendo a stento la rabbia.
“Arriverà forse un giorno in cui sarò costretto a prendere la vostra vita, Girolamo, ma non è oggi”, ribattè con tono serio Da Vinci. “ Sono venuto in casa vostra e vi ho portato via la cosa che era per voi più cara di ogni altra”
“Io ho...ho in mente di restituirvi presto il favore, portandovi via quanto di più caro avete al mondo”
Elettra lo osservò con attenzione, capendo che non si trattava di una minaccia a vuoto. Ma a cosa si riferiva?
Vedere Leonardo allontanarsi da Girolamo, la distolse da quel pensiero: aveva tutto il viaggio di ritorno a Firenze per pensarci.
“Maestro lo lasciamo in vita?”, chiese Nico.
Leonardo si voltò verso la ragazza: lei lo stava implorando con lo sguardo di lasciarlo vivere.
“Essere ossessionati dai propri errori, Nico, è un destino molto peggiore della morte”, disse l’artista.
Elettra si voltò un’ultima volta verso Girolamo, prima di seguire i suoi amici. Ciò che il Conte vide in quelle iridi azzurre fu tormento, paura ed indecisione. Un’anima spaccata in due


Nda
Rieccomi qui con la seconda parte del capitolo dopo così poco (?) tempo. Diaciomo che il capitolo è iniziato in modo abbastanza spensierato (si sa, Elettra è un'ottima manipolatrice. E poi ha imparato da un certo Conte...) , per poi diventare mano a mano più serio... Ormai siamo alle battute finali, non aspettatevi troppi momenti di allegria. Ancora tre-quattro capitoli e L'Altra Gemella potrà dirsi conclusa.
Alla prossima (esami permettendo)   

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Capitolo 35
*** Villa Pazzi ***


Capitolo XXIX: Villa Pazzi
 
Alcuni giorni più tardi...

Girolamo Riario camminava per i corridoi di Castel Sant’Angelo, gli occhi arrossati, bisognosi di riposo, e due profonde occhiaie a solcargli il volto, più pallido del solito.
Si fermò davanti ad uno dei numerosi specchi, osservandosi il viso stanco e quel brutto taglio sullo zigomo: nonostante le tempestive cure di Elettra, sarebbe senz’altro rimasta la cicatrice per un po’ di tempo.
Sospirò e riprese la camminata verso il proprio studio. Gli era stato riferito che Da Vinci si era barricato all’interno prima di riuscire miracolosamente a sfuggire e, quando le guardie svizzere erano infine riuscite a sfondare la porta, avevano trovato la cella del prigioniero aperta ma lui, a quanto pare, non si era mosso di un millimetro: suo zio aveva deciso di restare dietro a quelle sbarre, nonostante Da Vinci gli avesse chiaramente offerto una via di fuga.
Da Vinci...
Aveva detto a quel presuntuoso di un artista che gli avrebbe tolto quanto di più caro avesse al mondo ed era proprio quello che si apprestava a fare: Lucrezia Donati, la sua spia, che si era compromessa a causa dei sentimenti che provava per Da Vinci –e da lui ricambiati- a quell’ora sarebbe già dovuta essere cibo per i vermi e, presto, si sarebbe preso anche la sua preziosa città, la sua amata Firenze... Gliela avrebbe fatta pagare per quell’affronto, per essersi preso la seconda chiave per aprire la Volta Celeste. La sua chiave.
Osservò ciò che rimaneva della porta del proprio studio, poi fece alcuni passi nella cupa stanza aspettandosi di trovare disordine, con preziosi documenti e manoscritti sparsi sul pavimento o buttati alla rinfusa in qualche angolo, proprio come dopo il passaggio di un ladro, invece era tutto in ordine, nel modo in cui lo aveva lasciato l’ultima volta che vi aveva messo piede.
Tutto in ordine, perfettamente in ordine...fatta eccezione per un quadernino aperto e poggiato distrattamente sul divanetto; tra le due pagine, il sottile anello d’oro bianco con diamante, rilasciava timidi riflessi. 
Prese il gioiello tra le mani, tergiversando sul da farsi e passandoselo più volte da una mano e l’altra. Gli venne un’idea: si sfilò dal collo il proprio crocefisso d’argento, ne aprì la catenina ed inserì anch’esso all’interno, dopodichè la riallacciò e se la rimise al collo.
Osservò il blocco da disegni di Elettra, aperto su una pagina raffigurante un volto di una giovane dai lineamenti delicati, i lunghi capelli biondi e due grandi occhi chiari: appariva corrucciata, probabilmente per via della difficoltà che rappresentava un autoritratto, ma dalle sue iridi azzurre traspariva spensieratezza. Una spensieratezza che Girolamo non le vedeva da parecchio tempo, ormai.
Accarezzò lentamente la ruvida carta, lo sguardo malinconico e il pensiero rivolto a lei.
“È stata qui, sapete?”
La voce del prigioniero lo riportò alla realtà. Chiuse bruscamente il blocco da disegno, rimettendolo poi nel cassetto da cui era stato preso.
“Sua Santità richiede la mia presenza a Firenze”, disse, ignorando completamente l’affermazione dell’anziano. “Temo che non ci rivedremo per parecchio tempo”

***
 
Alcuni giorni dopo...

“Tu non partirai con noi alla volta della terra indicata dalla mappa dell’ebreo, vero?”
“No, Leonardo, io non posso partire”


“Elettra...mi stai ascoltando?”
La giovane sbattè più volte le palpebre, prima di concentrare tutta la propria attenzione su Lorenzo, seduto di fronte a lei, dal lato opposto della scrivania.
Era stata convocata a Palazzo non appena tornata a Firenze e aveva giusto avuto il tempo di appoggiare i propri bagagli e cambiarsi gli abiti, impolverati dal lungo viaggio.
Il suo sguardo passò dall’imponente figura del Magnifico ad un punto imprecisato della stanza. Chiuse per un istante gli occhi, cercando di riportare alla mente almeno l’argomento della conversazione in atto, ma fu tutto inutile. Le parole dette poche ore prima, le riecheggiavano ancora nelle orecchie, impedendole di pensare ad altro.

“Lo fai per quel coglione di Riario, non è vero?”
“No, Zoroastro, non lo faccio per lui”


“Il viaggio di ritorno da Pisa è stato così stancante?”, chiese Lorenzo, osservando la ragazza davanti a sè con fare indagatore.
“Un po’, in effetti”, rispose Elettra, piegando le labbra in un sorriso alquanto tirato. Era da quella notte, da quando Girolamo le aveva raccontato della triste fine toccata alla madre , che dormire era diventato difficoltoso; anche i rari momenti in cui finalmente il sonno sopraggiungeva era tormentati da incubi e nemmeno lo stare stretta tra le braccia di Leonardo riusciva a far allontanare i demoni. Un paio di vistose occhiaie sotto agli occhi e il colorito più pallido del solito ne erano la prova.
Gentile Becchi, in piedi alle spalle di Lorenzo sospirò preoccupato: se fosse stato per lui, sua nipote non sarebbe mai andata a Pisa a fare da balia a Da Vinci e ai suoi assistenti.
Elettra alzò lo sguardo, incontrando immediatamente quello dello zio, della stessa tonalità d’azzurro: chissà cosa passava per la testa del fidato consigliere della Signoria in quel momento; probabilmente si stava chiedendo cosa avessero combinato quei quattro durate quel breve soggiorno a Pisa. Alla ragazza non era mai pesato nascondere qualche piccolo particolare a quello zio troppo apprensivo, ma ora i segreti erano diventati troppi. E pericolosi.
Cercando di ignorare per l’ennesima volta i sensi di colpa, spostò nuovamente l’attenzione sul Magnifico.
“Abbiamo fatto alcuni progressi con le nuove armi testate a Pisa, ma il maestro Da Vinci non si sente ancora pienamente soddisfatto per divulgare le proprie scoperte”, mentì spudoratamente. Quella era la versione che aveva concordato insieme con Leonardo.
Le labbra di Lorenzo si piegarono in sorriso soddisfatto. “Fa sempre piacere come voi giovani vi impegnate per la salvaguardia e la sicurezza di Firenze”, disse, enigmatico. “Anche se confido che presto le armi non saranno più necessarie alla difesa di Firenze”, aggiunse.

“Lo faccio per Firenze. Ho preso degli impegni con la Signoria e con i Medici, non posso partire”

Elettra sbattè un altro paio di volte le palpebre, confusa. “Cosa...cosa significa che le armi non saranno più necessarie per la difesa di Firenze?”
Lorenzo si lasciò scappare una risata. “‘Tieniti stretti gli amici e ancora più stretti i nemici’, si dice così, no?”
La ragazza annuì, nonostante non fosse per nulla convinta di quello strano ragionamento. Le labbra arricciate e la fronte corrugata ne erano la prova. Si guardò in giro per l’ennesima volta, certa che in quella sala mancasse qualcosa...o qualcuno. “Dov’è Giuliano?”, chiese. Avrebbe dovuto partire per Siena poco dopo la sua partenza per Roma...e sarebbe dovuto essere già tornato con Lucrezia Donati.
L’espressione del Magnifico si fece nuovamente enigmatica. “Volevo proprio parlare di mio fratello”, disse, poggiando i gomiti sulla scrivania ed incrociando le mani sotto al mento. “È partito giusto ieri, ma non ho idea per dove”
Elettra invece lo sapeva, ma ovviamente non poteva rivelarlo a Lorenzo o a Becchi; la sua espressione rimase quella perplessa di poco prima, invitando così il Magnifico a proseguire con il proprio misterioso ragionamento.
“Inaugureremo una nuova era qui a Firenze, senza faide o dissapori con i nostri antichi nemici”. Ci furono alcuni istanti di silenzio, volti ad amplificare il significato delle sue successive parole. “Giuliano sposerà Camilla Pazzi. Unendo in matrimonio le nostre due famiglie riusciremo finalmente a porre fine a gran parte dei nostri problemi”
Lo sguardo della giovane passò in fretta dall’espressione soddisfatta di Lorenzo a quella invece più cupa di suo zio: quella scelta non doveva avergli fatto molto piacere. E probabilmente nemmeno a Giuliano...
“Vostro fratello come l’ha presa?”, chiese, cercando di mantenere un tono neutrale, che non facesse trasparire anche la sua, di preoccupazione.
“Ha convenuto con me che non c’era altro modo, sa che deve farlo”
Elettra annuì. “Certo che non posso lasciarvi soli nemmeno una settimana che qui ne succedono di tutti i colori”, disse, cercando di sdrammatizzare un po’ e piegando le labbra in ampio sorriso divertito.
Le parve per un istante di vedere Gentile Becchi sospirare di sollievo; anche se la giovane non ne comprese pienamente il motivo, probabilmente suo zio aveva creduto che avrebbe reagito male alla notizia.
Lorenzo si lasciò andare ad una breve risata, prima di ritornare serio, mantenendo però un’espressione ironica. “Sabato i Pazzi daranno un banchetto per festeggiare il fidanzamento nella loro tenuta di campagna. Vorrei che tu andassi a dare una mano per l’organizzazione”
“Certamente”, rispose prontamente lei, trattenendo a stento l’entusiasmo.
“Arriveranno dignitari da tutta la penisola, mi aspetto che trovino una festa all’altezza della loro importanza”
“E sarà proprio così”, gli fece eco la ragazza, alzandosi e dirigendosi verso la porta.
“Elettra?”, la richiamò il Magnifico, quando ormai era già sullo stipite.
“Sì?”, rispose lei, voltandosi di nuovo verso di lui.
“Fatti preparare immediatamente un cavallo, andrai subito dai Pazzi. Consegnerai a Francesco una mia lettera con le dovute spiegazioni e...se qualcosa non dovesse convincerti, non farti problemi a fare di testa tua”, aggiunse facendole l’occhiolino.
“Sarà fatto”, disse lei, prima di congedarsi ed uscire.
 
***
 
Poco dopo...

Elettra sistemò svogliatamente le ultime cose che le servivano nella propria sacca da viaggio, poggiata sulla scrivania. Sospirò, la mente concentrata altrove, ancora ferma a quella mattina. A ciò che aveva detto Leonardo, all’espressione delusa di Zoroastro.

Dalla collina su cui si trovavano potevano avere una visuale perfetta di Firenze: l’intera città si estendeva sulla pianura sottostante, circondata da basse colline, boschi e campi coltivati.
La cupola di Brunelleschi si stagliava imponente nel cielo, con la sua sua struttura massiccia e le classiche tegole rossicce; poco lontano, la torre di Palazzo della Signoria e, se si aguzzava ancora un po’ la vista, si poteva notare Ponte Vecchio, con i suoi incessante via vai di persone, che apparivano come tante piccole formiche operaie. Sotto di loro, l’Arno scorreva pigramente, attraversando l’intera città.
Leonardo smontò da cavallo, facendo alcuni passi avanti, verso il limite della vetta della collina. “Mi mancherà questo posto”, disse, osservando con aria malinconica Firenze, la sua Firenze: la città che lo aveva accolto e in cui era cresciuto. Ma anche la città che non aveva esitato a voltargli le spalle quando ne avrebbe avuto più bisogno. Si voltò, tornando ad osservare i propri compagni di viaggio. “E voi, mi mancherete anche voi, amici miei”, aggiunse. 
Sarebbe partito. 
Sarebbe andato in quella terra sconosciuta, dove il Libro delle Lamine era custodito. 
Ormai aveva tutto: aveva le due chiavi per aprire la Volta Celeste, aveva la mappa dell’Ebreo in cui era rappresentata quella terra sconosciuta e aveva la pelle dell’Abissino, con la legenda necessaria per interpretare la mappa.
Zoroastro gli sorrise come solo lui sapeva fare, con quel classico ghigno da presa per i fondelli di chi ha in mente qualcosa. “Ti abbiamo in seguito in tante bravate che non si contano, perché non aggiungere un’altra tacca?”, gli chiese ironico, scendendo da cavallo e mettendosi di fianco all’amico.
“Non potrei mai chiedervi di seguirmi attraverso l’oceano”, ribattè Leonardo, combattuto tra il bisogno di avere accanto i propri amici e la consapevolezza dei pericoli a cui sarebbero senz’altro andati incontro.
“Sì, ma noi vogliamo farlo, maestro”, disse Nico, smontando anche lui da cavallo e avvicinandosi agli altri due. “La Volta Celeste, il Libro delle Lamine, vogliamo scoprirli insieme a voi”
“Lui è un imbecille che si lesserebbe le palle nello sterco di vacca fumante se tu glielo chiedessi. E invece io ho accumulato debiti di gioco che renderanno problematica la mia permanenza a Firenze”, aggiunse Zoroastro, mantenendo tutta la propria ironia. “Dunque dove si va? Ci serve una nave se non sbaglio”
La notizia che due delle persone a lui più care sarebbero state al suo fianco in quell’avventura parve alleggerire le preoccupazioni di Leonardo che, tuttavia, si voltò verso la quarta componente del gruppo, rimasta in disparte. Osservò Elettra in volto, i suoi lineamenti tesi e gli occhi tristi.
“Tu non partirai con noi alla volta della terra indicata dalla mappa dell’ebreo, vero?”, chiese, nonostante conoscesse già la risposta.
“No, Leonardo, io non posso partire”, rispose lei, abbassando subito dopo lo sguardo, incapace di sostenere quello dei suoi compagni di viaggio.
“Lo fai per quel coglione di Riario, non è vero?”. La voce del moro appariva irritata e i lineamenti del suo volto erano insolitamente duri.
“No, Zoroastro, non lo faccio per lui”, disse Elettra.
Da quella notte, da quella lunga notte di alcuni giorni prima, era calato il gelo tra loro due; le poche volte che lo aveva sorpreso ad osservarla nei suoi occhi aveva visto soltanto delusione. Anche Nico appariva imbarazzato in sua compagnia, rivolgendole la parola solo quando strettamente necessario. L’unico che fingeva che niente fosse successo era Leonardo.
“Lo faccio per Firenze. Ho preso degli impegni con la Signoria e con i Medici, non posso partire”, aggiunse. Era la verità. O almeno a lei piaceva credere che fosse così.
Il moro scosse la testa, tornando a darle le spalle, fingendo di essere particolarmente interessato ad un punto indefinito di Firenze.
“Vorrei poter fare qualcosa in più per voi ma l’unica nave in grado di solcare l’oceano è l’Ammiraglia, al momento ancora in mare”. Elettra sospirò, la mente rivolta al pensiero di quell’imponente galeone e al suo capitano, quel padre che non rivedeva da ben due anni. Che cosa avrebbe trovato al suo ritorno? Una figlia completamente cambiata, dal volto pallido, le occhiaie marcate e l’aria malinconica. Mancavano ormai poche settimane al suo ritorno, ma sapeva anche che ci sarebbe anche voluto qualche mese perchè la nave fosse nuovamente pronta a ripartire. Tempo che di certo Leonardo non voleva attendere. 
“Va bene così, Elettra”, disse lui, piegando le labbra in un sorriso di incoraggiamento. “I portoghesi hanno rotte commerciali per l’Africa occidentale, da lì salpiamo per le Canarie e poi improvvisiamo”, aggiunse, mostrando sicurezza nelle proprie parole. 
Subito dopo il suo volto parve farsi pensieroso. “Prima però ho dei conti in sospeso con la famiglia de Medici”
Era chiaro che quel ‘conto in sospeso’ portava il nome di una donna: Leonardo voleva mettere in guardia Lorenzo da Lucrezia Donati. Un ultimo aiuto alla città prima di lasciarla per molto tempo. 
“Perché pensi ancora ai Medici? Cancella Firenze del tutto”, ribattè Zoroastro, con tono ovvio.
“C’è una situazione che devo chiarire con Lorenzo, devo parlargliene di persona”, gli spiegò Leonardo; il suo sguardo prese a vagare da un parte all’altra della collina, incapace di fermarsi per più di un istante sullo stesso soggetto. La mente persa nei propri pensieri. Poi parve riscuotersi, tornando a prestare attenzione ai propri compagni d’avventura. “Ci vediamo al cane abbaiante stasera?”, chiese.
“Perché no?”, disse Zo, retorico. “Qualche birra e un’ultima incursione in una passera fiorentina, così vediamo se le palle di Nico sono lesse o no”, aggiunse, con la propria immancabile ironia.
Elettra, rimasta in disparte, li osservò con aria malinconica: le sarebbero mancati molto, tutti e tre. Le sarebbero mancate le loro avventure e quei momenti di leggerezza, passati tra le battute di Zoroastro, l’aria perplessa di Nico e le bizzarre idee di Leonardo. Momenti che erano sempre in grado di strapparle un sorriso. 
Così presa dai propri pensieri, nemmeno si accorse che tutti e tre si erano voltati verso di lei e la osservavano in attesa di una risposta.
“Verrai anche tu?”, le chiese il moro, lasciandola parecchio stupita.
Lo sguardo della giovane passò da lui a Leonardo, che le sorrise, come segno di incoraggiamento.
Annuì, non potendo fare a meno di sorridere a quel piccolo passo in avanti. “Certo che verrò”


La porta dello studio si aprì, senza che nessuno avesse precedentemente bussato, e Gentile Becchi sgusciò in fretta all’interno, i movimenti tipici di chi voleva passare il più possibile inosservato.
“Elettra?”, chiamò la nipote, in piedi, di spalle, poggiata con entrambe le mani alla scrivania.
La giovane parve non sentirlo in un primo tempo, poi lentamente rilassò la propria postura ed infine si voltò verso di lui.
“Tutto bene?”, le chiese, apprensivo solo come un padre avrebbe saputo fare; spesso si dimenticava di non esserlo.
Elettra annuì, cercando di mostrarsi il più convincente possibile e piegando le labbra in un sorriso, che però apparve innaturale. 
Sapeva che lei mentiva, da troppo tempo.
“C’è qualcosa che posso fare per te?”, domandò nuovamente.
“Grazie, ma qui ho finito”, rispose lei.
Sapevano entrambi che non era ciò che intendeva.
“Come l’hai presa?”
“Che cosa?”, chiese la ragazza, perplessa. Forse era la prima volta da quando era entrato che lei gli prestava completamente la propria attenzione.
“Il matrimonio di Giuliano”
Il suo volto si fece teso. “Sai che i matrimoni combinati non mi piacciono, ma so anche che, come per Lorenzo, anche per Giuliano il bene di Firenze viene prima”
Gentile Becchi sorrise, un sorriso dolce amaro: la felicità di una singola persona, contro quella di un’intera città.
“Ai livelli del signore di una città o...di un nobile l’amore passa in secondo piano”, aggiunse Elettra.
L’anziano consigliere annuì. “Già”, commentò serio, prima che un pensiero, a detta sua divertente, gli sfiorasse la mente, portandolo ad incurvare le labbra all’insù. “Peccato che la servitù non sia in grado di elaborare un simile pensiero: appena saputo dell’imminente matrimonio, alcuni servi hanno pensato di presentare a Lorenzo una protesta formale”
La giovane lo osservò perplessa. “E perchè mai?”, chiese, piegando la testa da un lato in un’espressione quasi infantile.
“Erano tutti certi che ci saresti stata tu al fianco di Giuliano, non Camilla Pazzi”
“Oh...”, le scappò, sorpresa.
Zio e nipote si osservarono negli occhi per alcuni istanti, prima di scoppiare entrambi a ridere.
“Sarebbe...”, provò a dire Elettra tra e risate. “Sarebbe stato come sposare mio fratello”
“Proprio quello che ho provato a spiegare loro”, disse Becchi.
“Sarebbe stato parecchio imbarazzante”, aggiunge lei ridendo.
L’uomo si fermò un attimo, osservandola con il sorriso sulle labbra, assaporando quella risata cristallina che tanto gli era mancata.
La ragazza parve accorgersene e anche le sue labbra si piegarono in un sorriso. “Grazie”, disse semplicemente. A modo suo, era riuscito a tirarle un poco sù il morale.
“Grazie per esserci sempre”, aggiunse, dando un buffetto sulla guancia allo zio. Dopodichè prese la propria sacca da viaggio ed uscì. 
 
***
 
Un’ora più tardi...

La villa di campagna della famiglia Pazzi era graziosa, almeno ad osservarla da lontano; peccato che più ci si avvicinava, più essa appariva trascurata.
Elettra consegnò il proprio cavallo ad uno stalliere e si guardò in giro: il cancello d’ingresso era imponente, in ferro battuto, con dei motivo floreali e sarebbe stato molto ad effetto per gli invitati...se non fosse stato in parte ricoperto da edera. I giardinieri dovevano avere un serio problema con quella pianta: anche la recinzione ne era ricoperta, così come alcuni alberi limitrofi e una parte della facciata della grande abitazione; quel rampicante era completamente fuori controllo!
Si appuntò mentalmente di dover far chiamare alcuni dei giardinieri di Palazzo.
Ci sarebbe stato parecchio lavoro da fare, forse troppo; la festa si sarebbe tenuta quel sabato, appena sei gironi più tardi: quel banchetto si sarebbe rivelato una bella sfida.
“Da questa parte”, le disse un uomo di mezza età che, a giudicare dagli abiti, doveva essere un po’ più alto di livello rispetto ad un semplice servo, probabilmente era il custode della villa.
Gli consegnò la lettera di Lorenzo, chiedendogli gentilmente di consegnarla a Francesco Pazzi il prima possibile.
Venne scortata fino ad un lungo corridoio, terminante con una grande porta in legno scuro, riccamente intagliata. Il suo accompagnatore le fece un inchino di congedo, prima di bussare e scomparire oltre la soglia; Elettra pensò che fosse andato ad avvisare i Pazzi del suo arrivo, ma la sua attenzione era ormai attirata da altro e non ci fece troppo caso.
Più che un corridoio, esso appariva come una galleria di ritratti di famiglia, fin dalle sue origini; i dipinti si trovavano a livello dello spettatore mentre, un paio di metri sopra ad essi, vi era una fila ordinata di trofei di caccia, immancabili in una villa di campagna.
Elettra osservò il ritratto di Francesco Pazzi, poi alzò lo sguardo verso l’alto, non potendo fare a meno di ridere quando vide che il ‘trofeo’ corrispondente era la testa di un cervo, con un ampio palco di corna.
‘Quei due possono fare a gara a chi ce l’ha più grande’, pensò, coprendosi una mano con la bocca.
 
***
 
Nel frattempo...

“Qualcuno potrebbe definirci cospiratori, ma non è così”, disse Francesco Pazzi, seduto capotavola nell’ampia sala adibita agli incontri ufficiali. Di fronte a lui, l’imponente portone ligneo era sorvegliato da un paio di guardie della notte del Capitano Dragonetti, anch’esso presente. “Noi siamo i salvatori della nostra città, noi siamo i salvatori di Firenze”, continuò Pazzi, alzandosi in piedi e tendendo verso l’alto il bicchiere per l’ennesimo brindisi.
Il Conte Riario, seduto alla sua destra, sollevò leggermente il proprio calice con aria annoiata: non riusciva a comprendere lo scopo di quella riunione, non con Francesco che da più di mezz’ora sproloquiava riguardo all’inutilità dei Medici, su come avessero portato alla rovina Firenze e di come si sarebbero invece comportati i Pazzi: a suo parere la città sarebbe rinata a nuova vita. La verità? Senza i finanziamenti e l’intervento di Roma i Pazzi sarebbero stati ancora a rodersi il fegato ed accampare inutili diritti per l’accensione di una colombina. Derisi e messi all’angolo dal resto della nobiltà. Francesco non sapeva nemmeno tenere a bada la propria servitù, figuriamoci se c'è l’avrebbe fatta a mantenere saldamente il controllo su un città grande quanto Firenze.
Riario bevve appena un sorso di vino rosso dal proprio calice, prima di poggiarlo sulla liscia superficie di legno scuro. Si portò entrambe le mani alle tempie , massaggiandosele lentamente: una volta eliminati i Medici sarebbe spettato a lui e ai suoi uomini tutto il lavoro duro.
“Lorenzo è un traditore debole e fallito, che si fa scudo di privilegi politici”, riprese Francesco.
Girolamo voltò la testa nella sua direzione, fulminandolo con lo sguardo ma l’uomo, talmente preso dalle proprie parole, nemmeno se ne accorse. 
“Come può Firenze essere una potenza se l’Europa sa che la repubblica è in simili mani?”
Il Conte tornò a guardare il proprio bicchiere e prese un lungo respiro: per il bene di tutti i presenti, era meglio passare a qualcosa di più pratico.
“Il nome dei Pazzi dà legittimità e sicurezza ai soci in affari e...”
“Francesco, cosa ne dite se passassimo a questioni più pratiche?”, lo interruppe.
L’uomo parve bloccarsi un istante, per nulla soddisfatto di quella interruzione. “Come desiderate, Conte”, disse alla fine, piegando le labbra in sorriso falso, di pura cortesia.
“Forse è il caso di fare nuovamente il punto della situazione”, continuò Riario.
Pazzi annuì, prima di riprendere nuovamente la parola. “Stermineremo i Medici durante il banchetto: lasceremo che si divertano, che bevano e scherzino poi, quando avranno abbassato completamente la guardia, colpiremo”
“Non sarebbe meglio attaccare Lorenzo durante il viaggio ?”, chiese Bernardo Baroncelli, membro di spicco di un influente famiglia di mercanti fiorentini.
“Dobbiamo colpire i fratelli quando sono insieme”, rispose il Conte, togliendo le parole di bocca Francesco. “Lorenzo e Giuliano hanno eguale influenza, seppur di diversa natura, sulla lealtà del popolo. Se non venissero uccisi entrambi, il sopravvissuto reclamerebbe il potere. Eliminandoli insieme invece mutileremmo la loro stirpe...”
“Permettendo così alla mia famiglia di avere finalmente tutto il potere che le spetta di diritto”, terminò il Pazzi, velocemente, per paura che il Conte potesse rovinargli anche quel piccolo momento di gloria interrompendolo.
“E che ne sarà dei sostenitori dei Medici?”, chiese Lorenzo Giustini, politico molto vicino al Papa.
Girolamo sospirò, preferendo lasciare la spinosa risposta a Pazzi.
“Chi si opporrà a noi morirà, è semplice. Gli altri potrebbero essere imprigionati o mandati in esilio”, rispose, dando in fine mostra di un sorriso malvagio, che non prometteva nulla di buono.
Il Capitano Dragonetti si alzò in piedi, chiedendo il permesso di prendere la parola. “Io credo, vostra grazia, che alcuni collaboratori di Lorenzo potrebbero avere la loro utilità, almeno in una prima fase di transizione”
Francesco, seduto comodamente sulla propria poltrona, proruppe in una fragorosa risata, indispettendo non poco il proprio interlocutore. “Sono curioso, Capitano”, disse dopo alcuni secondi, ironico.
“Quattrone, capo delle milizie fiorentine, Piero Da Vinci e Gentile Becchi potrebbero darvi importanti consigli durante la transizione, dando una parvenza di continuità alla popolazione fiorentina fortemente disorientata dalla perdita dei propri signori”
“Non collaboreranno mai”, replicò Pazzi, con fermezza.
“Becchi sì”, ribattè il Conte, esternamente certo delle proprie parole: per settimane si era arrovellato sul trovare un modo per mettere in salvo Elettra dalla furia dei congiurati, non riuscendo però a formulare un piano che riuscisse a soddisfarlo completamente. E ora Dragonetti gliene aveva servito uno su di un piatto d’argento. “La nipote potrebbe essere mia ospite a Forlì. Temendo per la sua sorte, Becchi offrirà tutta la propria collaborazione”
“Lei”, disse Francesco, alzandosi dalla propria seduta e puntando un dito in direzione del Conte. “La ragazzina impertinente può avere senz’altro la propria utilità”. Non potè fare a meno di trattenersi dal ridere, prima di continuare. “Potrebbe intrattenere le truppe del Duca Federico, intrattenere è il suo lavoro. Poco importa che sia un intero esercito di affamati mercenari”
Anche il Cardinale Orsini, al suo fianco, scoppiò a ridere.
Girolamo prese un lungo respiro, le mani strette a pugno.
“Che c’è, Conte Riario? Voi non credete di esservi già divertito abbastanza con quella ragazzina?”, inveì ancora il Pazzi.
Riario stava per ribattere, ma fu interrotto dall’arrivo di uno dei servitori: appariva pallido in volto e portava tra le mani una lettera con lo stemma Mediceo. L’uomo consegnò la lettera a Francesco e il Conte approfittò di quella temporanea distrazione per alzarsi; fece un cenno di congedo e si diresse verso la porta.
Le ultime parole che udì prima di uscire fu il Pazzi sbraitare in tono isterico: a quando pare la lettera non era portatrice di buone notizie.      

Appena varcato il pesante portale ligneo l’aria si fece incredibilmente più leggera e Girolamo potè finalmente rilassarsi un po’. Prese un lungo respiro, prima di guardarsi intorno curioso: la galleria con i trofei di caccia era uno dei pochi luoghi della villa di campagna della famiglia Pazzi che lo aveva piacevolmente colpito.
C’era una persona, una donna, nella galleria: i lunghi capelli biondi erano raccolti in una coda alta, i suoi pantaloni, di colore scuro, erano strappati su un ginocchio e sopra indossava solamente una semplice casacca bianca.
Il Conte si bloccò ad osservarla; una parte di sè non poteva fare altro che restare ammaliato dalla sua figura ma l’altra, la parte più razionale del suo essere, gli ricordò dolorosamente che nella stanza accanto si stava discutendo sul modo migliore per uccidere la famiglia a cui lei aveva giurato fedeltà. 
Elettra era in pericolo. 
E quello era proprio l’ultimo luogo in cui si sarebbe dovuta trovare.
Fece un paio di passi nella sua direzione silenziosamente; il pregiato tappeto persiano attutiva ogni rumore provocato dai pensanti stivali in pelle.
La giovane si trovava davanti al ritratto di Francesco Pazzi e doveva trovarlo davvero divertente, visto che si stava coprendo la bocca con una mano per evitare di ridere. 
“Elettra”, la chiamò con il suo solito tono di voce: basso e lento. Tuttavia, ad un orecchio più attento, si sarebbe potuto trovare una vena di timore in quella voce.
Osservò le spalle della giovane farsi più rigide, la sua postura in generale più tesa.
Elettra portò le mani ai lati del proprio corpo e prese un lungo respiro, incapace di capire se la voce che aveva sentito chiamarla alle spalle era reale o solo un crudele scherzo della propria mente, causata dalla stanchezza e dalle troppe ore di sonno in arretrato. Si voltò lentamente, quasi temesse che una volta girata, l’uomo che aveva pronunciato il suo nome si rivelasse solo un illusione.
Passarono alcuni secondi, eppure lui restava sempre davanti a lei, reale più che mai, con lo sguardo fisso nei suoi occhi colore del mare. 
“Girolamo”, disse alla fine, in quello che era poco più di un sussurro. 
Le sue labbra vermiglie si piegarono in sorriso dolce, rassicurante, in cui lui avrebbe tanto desiderato perdersi per l’ennesima volta, ma c’era qualcosa che non lo convinceva appieno: quando lei si era voltata lo aveva visto, aveva visto quel lampo di paura passare nel suo sguardo e no, non lo poteva di certo ignorare. Prese un lungo respiro, prima di decidersi a dire qualche parola. “Dovremmo parlare, mia diletta”
Eletta distolse momentaneamente lo sguardo, concentrandosi su un punto indefinito del pavimento. “Sì, dovremmo”


Nda
Ed eccomi di nuovo qui dopo lungo tempo con un capitolo di transizione. Voglio scusarmi in anticipo per il ritardo (di nuovo); contavo di riuscire a finire questa parte decisamente prima, ma queste ultime settimane per me sono state molto particolari...Spero per i prossimi di essere un po' più puntuale.
Bene, siamo ai capitoli finali ormai: ne mancheranno tre più l'epilogo, prima di passare al seguito. Sì, ci sarà un seguito (di cui ho già scritto un capitolo ahahah)
Fatta questa piccola comunicazione di servizio, alla prossima 

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Capitolo 36
*** Il Banchetto di Fidanzamento ***


Capitolo XXX: Il Banchetto di Fidanzamento 

25 Aprile 1478, Sabato Santo

Una lama di luce filtrava appena appena nella stanza, rivelando che la notte ormai era finita, che 
il Sole era sorto nuovamente. 
Girolamo aprì lentamente gli occhi, abituandosi piano piano alla semi oscurità in cui la stanza era 
immersa. Si impose di restare immobile, per non svegliare la dolce fanciulla che aveva scambiato 
il suo petto per il più comodo dei cuscini. Cautamente, cominciò a percorre tutta la sua schiena con le dita, sfiorandole appena la delicata pelle di porcellana. 
Arrivò infine ai suoi capelli, passando la mano tra quei boccoli dorati, districando eventuali 
nodi. 
Elettra, ancora completamente immersa nel sonno, parve agitarsi e la sua mano, fino a quel 
momento poggiata sul petto dell'uomo, si chiuse a pugno, graffiandogli appena la pelle. 
Girolamo sospirò e i suoi gesti, dapprima lenti e leggeri, si fecero più frequenti.
I preparativi per il banchetto che si sarebbe tenuto quel giorno erano stata ultimati a sera tarda e lui non se l’era sentita di permettere alla giovane di tornare a Firenze sola, attraversando i boschi e la campagna fiorentina con il buio. Così era riuscito a convincere Francesco Pazzi ad invitarla a restare per la notte. Ovviamente, quando lei era entrata nella stanza che le avevano preparato, aveva trovato il letto già occupato.
La nottata era passata in modo piacevole, almeno fino a quando Elettra non aveva incominciato ad agitarsi nel sonno, proprio come ora.
“Giuliano”, mormorò appena.  
A quanto pare in quel momento stava sognando il giovane de Medici. 
Girolamo poggiò le labbra tra i suoi capelli, le mani che non avevano smesso per un istante di lasciarle dolci carezze sulla schiena. “Va tutto bene, Elettra”, sussurrò, cercando di calmarla.
La sua mano, stretta a pugno, parve distendersi.
Sospirò, anch’egli inquieto, ma per motivi differenti da quelli della giovane: Elettra era angosciata per la sorte di Giuliano, che non dava sue notizie da più di una settimana, ormai; Girolamo invece era preoccupato per quello che sarebbe potuto accadere quel giorno, se fosse riuscito nei propri intenti.
L’unico punto certo era che lei non doveva correre alcun  rischio: poco prima dell’inizio della carneficina, infatti, l’avrebbe portata lontano dal vivo della festa e le avrebbe offerto un calice di vino. Vino a cui avrebbe precedentemente aggiunto un potente sonnifero. Sarebbe restato con lei fino a quando non fosse stato certo che dormisse profondamente, dopodichè l’avrebbe caricata su una carrozza diretta a Forlì, dove sarebbe stata al sicuro.
Sospirò, pensando che quella era la parte facile, rispetto a quello che sarebbe avvenuto dopo: l’avrebbe raggiunta il prima possibile e le avrebbe spiegato ciò che era successo al banchetto, ciò che anche lui aveva contribuito a fare.
Girolamo non aveva idea di come lei avrebbe reagito; disorientata forse, disperata e delusa, immensamente delusa. Delusa dall’uomo che probabilmente amava e di cui si fidava. 
Già, nonostante tutto quello che era accaduto tra loro, tutto quello che le aveva rivelato, Elettra si fidava di lui. Glielo aveva dimostrato, più volte. 
Come sei giorni prima, quando si erano rivisti inaspettatamente nella galleria dei trofei; avrebbero dovuto parlare, ma alla fine si erano ritrovati a fare tutt’altro: quando Girolamo aveva ripreso il controllo del proprio corpo ormai si ritrovava a torso nudo, nel proprio alloggi, con Elettra aggrappata lui, le loro bocche incollata l’una all’altra e le mani di entrambi che vagavano senza controllo. Gli era sembrato il momento più sbagliato per interrompere il tutto con delle parole. Aveva ignorato quel poco di buon senso che gli gridava a gran voce che urgeva un chiarimento tra loro ed era andato avanti. E lo aveva fatto ancora e ancora e, probabilmente, avrebbe continuato a farlo finchè avesse potuto.
Scosse la testa, cercando di concentrarsi sul futuro: Elettra avrebbe trovato la forza per guardarlo ancora negli occhi dopo quel giorno? Di perdonargli la morte di persone che lei considerava come fratelli? 
Girolamo ne dubitava, ma non avrebbe potuto fare altrimenti; il tempo guariva molte cose, prima o poi se ne sarebbe fatta una ragione. Doveva essere così: lui non avrebbe potuto sopportare di perderla per sempre. 
Le sue mani, che ancora le accarezzavano senza sosta la schiena scivolarono con delicatezza verso il suo punto vita, portandola ad avvicinarsi ancora di più.
Sospirò, pensando che quella probabilmente sarebbe stata l’ultima volta che si sarebbero trovati in una tale intimità: tra loro dopo quel giorno qualcosa si sarebbe spezzato di sicuro.
Osservò il suo volto, la sua pelle chiara, i lineamenti delicati. Portò una mano all’altezza del suo viso, spostando una ciocca di capelli che le era finita davanti agli occhi; nel compiere quel gesto indugiò con il pollice sulla sua guancia, incapace di distogliere lo sguardo da lei, cercando di capire cosa la rendesse così tesa in quell’istante, se era solo per la sorte incerta del giovane dei Medici o se ci fosse altro sotto alla superficie. 
Se solo avesse potuto leggerle nelle mente...

Elettra si guardò intorno, alla disperata ricerca di qualcosa che le sembrasse familiare, che l’aiutasse a capire dove si trovasse. 
La sua vista in quel momento sembrava voler essere poco collaborativa: il paesaggio circostante le appariva sfocato e non riusciva a distinguere i diversi colori, proprio come quando si passa velocemente da un ambiente troppo luminoso ad uno troppo tetro.
Sbattè più volte le palpebre cercando di aiutare i propri occhi ad abituarsi ma, mentre ciò che la circondava divenne più nitido, i colori stentavano a tornare. Abbassò lo sguardo verso i propri piedi: anche l’erba sotto ai propri stivali non appariva del verde brillante che solitamente la caratterizzava, ma era grigia. Una triste tonalità di grigio che aveva pervaso tutto intorno a lei.
Prese un lungo respiro e chiuse gli occhi, cercando di concentrare la propria attenzione sugli altri suoi sensi.
Alle sue orecchie giunse un rumore d’acqua in movimento. Le ci vollero alcuni secondi per capire che direzione seguire, ma poi si diresse alla sua sinistra, incoraggiata dalla visione di un paio di cavalli con collo chinato, come se si stessero abbeverando; il fatto che entrambi gli animali fossero sellati poteva indicare la presenza di esseri umani nelle immediate vicinanze. 
Arrivò ad alcuni metri dalle bestie, ma poi si fermò, innervosita dallo sbuffare irrequieto di una di esse. 
Elettra si guardò nuovamente intorno.
Un colore.
Tra tutti quei grigi finalmente si poteva intravvedere un colore.
Rosso, rosso sangue.
Tra i ciottoli dalla forma arrotondata che caratterizzavano la sponda del fiume, vi erano delle gocce di sangue. La giovane si chinò su una di esse con l’intento di studiarla. 
A poca distanza da esse ve ne era un’altra, poi un’altra ancora...le tracce portavano fin dentro al fiume. Prese un altro lungo respiro, prima di dirigersi in quella direzione, il passo che si faceva sempre più titubante.
In quel punto l’acqua raggiungeva a malapena i pochi centimetri, permettendo di guadare il fiume in completa sicurezza.
C’era un uomo riverso a metà percorso, a pancia in giù; Elettra non faticò a riconosce la divisa dei guardiani della notte che indossava.
Si fermò ad un metro dal corpo, premendosi una mano sulla bocca: non c’era bisogno di vederlo in faccia, sapeva che quello era l’ufficiale Bertino, la guardia che Giuliano aveva portato a Siena con sè per arrestare la spia. Ma se lui era lì allora...
Elettra non riuscì a finire di formulare quello spaventoso pensiero, che udì un flebile lamento. 
La voce chiedeva aiuto e proveniva da un punto più a valle, dove il fiume si faceva più profondo e mosso.
Con il cuore in gola la giovane corse in quella direzione; in quel momento non le importava di fare attenzione a dove metteva i piedi, alla litta che ricopriva i ciottoli in diversi punti. Scivolò e cadde nell’acqua, di faccia; si rimise in fretta in piedi e corse verso quel suono che si faceva di momento in momento sempre più flebile.
Finalmente lo vide: era bloccato tra un paio di rocce e, se con un braccio si teneva ad una di essere per evitare che la corrente lo portasse via, l’altra mano era premuta sul ventre. La camicia in quel punto presentava una grande chiazza scarlatta.
“Elettra”, la chiamò il giovane de Medici.  
“Giuliano!”, rispose lei, cercando un modo per avvicinarsi a lui. Il suo sguardo passò più volte da quell’uomo che considerava come un fratello a ciò che lo circondava. Velocemente salì su alcune rocce, poi da queste si spostò verso delle altre, abbastanza vicine da poter tendere la mano verso di lui.
“Prendila”, gli urlò, avvicinandosi più che poteva.
Con una smorfia di dolore il giovane tolse la mano dalla ferita, cercando con tutte le proprie forze di arrivare a toccare la sua. Elettra la strinse con entrambe, cercando di attirarlo a sè ma la corrente era sempre più forte e lentamente stava strascinando via entrambi.
Osservò con gli occhi ricolmi di paura il giovane de Medici e lui accennò un sorriso. “Devi lasciarmi andare”, disse, con un tono di voce che appariva calmo, come se ormai si fosse rassegnato al proprio triste destino, accettandolo con dignità.
Lei scosse la testa con vigore, le lacrime che cominciavano a rigarle le guance. “No!”, urlò. “No, non posso farlo!”, ripetè. Strinse i denti, cercando di attingere alle ultime forze che le erano rimaste per cercare di tirare l’uomo verso di sè, ma l’unico risultato che ottenne fu quello di scivolare ancora di più verso l’acqua.
Giuliano sorrise nuovamente, comprensivo. “Devi farlo, Elettra, devi accettare il fatto che non sarò per sempre al tuo fianco”, disse, prima di scivolare via dalla presa di lei e perdersi tra i flutti.

   
Elettra aprì gli occhi di scatto, un leggero strato di sudore ad imperlarle la fronte pallida e quella fastidiosa sensazione di sentire la propria gola restringersi velocemente.
Si mise seduta, sforzandosi di prendere dei profondi respiri.
Due robuste braccia le cinsero prontamente la vita, stringendola in morsa decisa ma allo stesso tempo dolce e premurosa.
“Va tutto bene, Elettra”, sussurrò Girolamo, contro ai suoi capelli. Una sua mano si intrecciò nei  lunghi capelli color dell’oro della giovane, all’altezza della sua nuca, mentre l’altra cominciò a percorrerle lentamente la schiena, cercando di calmarla.
Elettra affondò il viso nell’incavo del collo del Conte, soffocando sulla sua pelle i violenti singhiozzi che le scuotevano per intero l’esile corpo. Cercò di regolarizzare il proprio respiro concentrandosi sul battito del cuore di Girolamo; premette la mano destra sul suo petto, in modo da poterlo udire pulsare con più nitidezza. Anch’esso aveva un ritmo più sostenuto del solito, segno di quanto fosse preoccupato per lei.
“Va tutto bene”, ripetè dolcemente lui, lasciando successivamente una serie di baci sul suo capo.
Elettra allentò la presa sul suo collo e prontamente le mani di lui corsero al suo viso, asciugandole con i pollici le tracce lasciate dalle lacrime sulle sue guance.
Prese altri profondi respiri, mentre le dita agili di Girolamo le carezzavano dolcemente la sua delicata pelle, scendendo ed indugiando un po' sulle labbra, prima di riprendere il loro compito.
“È...è passato”, mormorò lei, ancora con il fiato corto.
 Il Conte la studiò per alcuni istanti con lo sguardo, quasi a volersi assicurare che quello che lei diceva fosse la verità, poi annuì, comprensivo. Avvicinò il proprio viso al suo, lasciandole un bacio a fior di labbra. “Vuoi parlarne?”, le chiese dopo, ancora ad un soffio dalla sua bocca.
Elettra scosse la testa, allontanandosi da lui e poggiando la schiena contro la testiera del letto. Si strinse le ginocchia al petto, poggiando poi la testa su esse, voltata in direzione opposta rispetto a dove si trovava l’uomo. “Sono solo preoccupata per Giuliano”, disse con un filo di voce.
Girolamo sospirò: desiderava poterle dare qualche certezza sulla sorte del giovane de Medici, ma nemmeno lui sapeva dove fosse in quel momento; si limitò a mettersi al suo fianco e a passare un braccio intorno alle sue spalle, per portarla ad avvicinarsi ancora di più a sè. Chiuse per un istante gli occhi anche lui, perdendosi nei propri pensieri: se quello era il modo di Elettra di preoccuparsi per giovane de Medici, come avrebbe reagito quando avrebbe scoperto che sarebbe stato proprio lui a firmare la sua condanna a morte?
Un bussare insistente lo riscosse. 
Osservò la giovane alzarsi, guardarsi in giro, raccogliere da terra la sua camicia scura ed infine dirigersi verso la porta.
Tornò poco dopo, la fronte corrugata in un’espressione perplessa e degli abiti scuri piegati tra le braccia; un osservatore qualsiasi avrebbe potuto dire che ogni traccia di preoccupazione era sparita dal suo volto, ma Girolamo poteva comunque ancora trovarla nei suoi occhi, non brillanti come di solito.
Elettra lasciò cadere la divisa del Conte sul fondo del letto, mantenendosi sempre pensierosa mentre la scrutava con attenzione.
L’uomo si alzò dal letto, disponendosi alle spalle della giovane e cingendole la vita con le braccia muscolose. “Mi adori così tanto da indossare anche i miei abiti, ora?”, le chiese con una punta di ironia nella voce. Con la punta del naso le sfiorò lentamente il collo, mentre le mani le sbottonavano abilmente la camicia.
“E voi state forse scendendo in guerra, Conte?”, lo punzecchiò lei, prendendo da in cima alla pila di abiti uno spesso panciotto di pelle nero. “Altrimenti questo non si spiega”, commentò ironica, lasciandolo poi ricadere tra le lenzuola sfatte.
“Sarei tentato di farlo”, ribattè lui, scostando la stoffa dalla sua spalla e lasciandole un piccolo morso.
Elettra si voltò, osservandolo negli occhi. “È forse una dichiarazione di guerra, questa?”, chiese. Nei suoi occhi azzurri brillava una punta di malizia.
“Tu cosa ne pensi, mia diletta?”, disse lui, ad un soffio dalle sue labbra.
Elettra poggiò le mani sulle sue spalle, facendole poi scorrere lentamente fino al collo. “Sarei tentata di accettare la sfida”, sussurrò sensuale. “Ma mi vedo costretta a rifiutare”, aggiunse, staccandosi da lui e facendo alcuni passi indietro. Lasciò cadere a terra la camicia dell’uomo, prima di dirigersi verso l’armadio. “Abbiamo un banchetto a cui partecipare tra poco”
Girolamo sorrise, divertito. “Ti diverte così tanto stuzzicarmi?”
“Tu non ne hai idea”, rispose lei, poggiando sul letto un abito color panna. 
Il Conte si avvicinò, studiandolo con attenzione. “Devi per forza indossarlo?”, chiese ironico.
La giovane sbuffò di finta esasperazione, non riuscendo a celare un sorriso. Aprì i bottoni sul retro dell’abito, per poi indossarlo facendolo passare per la testa. “Me lo allacceresti?”, domandò, sbattendo lentamente le palpebre e facendo mostra di uno dei suoi migliori sguardi da cucciolo.   
“In questo momento vorrei fare tutt’altro”, ribattè lui, sospirando. 
“Il temibile Conte Riario ha così poco autocontrollo?”, replicò lei, mordendosi poi un labbro.
“Sì, se continui a provocarmi in questo modo”, rispose Girolamo, quasi piagnucolando. Passò un dito lungo la sua colonna vertebrale fin dove l’abito glielo permetteva poi, con un brontolio frustrato, cominciò ad eseguire quello che la giovane gli aveva chiesto.
“Indossi un abito così semplice?”, domandò, quand’ebbe finito, osservando con attenzione il semplice vestito color panna, primo di qualsiasi decoro, senza maniche e dalla gonna a trapezio.
“A dire il vero...”, disse lei, correndo ad aprire un cassetto, “...ci sarebbe anche questa”. Tra le mani teneva una casacca a mezze maniche, completamente ricoperta da finissimi ricami argentati; aveva dei lacci sul retro.
Girolamo prese un altro lungo respiro, prima di aiutarla ad indossare anch’essa.
“Tu, invece?”, gli chiese, osservando l’uomo ancora completamente nudo. 
“Nutro ancora la speranza che tu cambi idea”
Per tutta risposta ricevette i propri abiti in faccia, seguiti da una risata, mentre Elettra si dirigeva verso la specchiera, per finire di prepararsi. 
Indossò velocemente pantaloni e stivali, osservando spesso il riflesso della giovane, nello specchio. Prese la propria camicia, indossandola ma lasciandola aperta e si sedette sul letto, perso nuovamente nei propri pensieri su quella giornata: non era mai stato così nervoso prima d’ora quando si trattava di togliere di mezzo qualche oppositore del Santo Padre; sapeva a cosa era dovuto quel cambiamento. O a chi.
Cercò con lo sguardo Elettra che, senza che se ne accorgesse, si trovava in piedi di fronte a lui. Gli tese la mano, per aiutarlo ad alzarsi e, senza dire niente, cominciò ad allacciargli la camicia e poi il panciotto in pelle.
Sempre in silenzio, prese tra le mani il suo mantello, di colore scuro.
“Potrò accompagnarti a braccetto al banchetto?”, le chiese, rompendo quel momento di quiete.
Nel frattempo lei gli fissò il mantello sotto al collo con l’aiuto di due spille a forma di testa di grifone. 
“Non sembrerà sospetto?”. C’era dispiacere nelle parole di Elettra.
Girolamo sorrise, cercando di contagiare anche lei. “Se qualcuno dovesse chiedere possiamo sempre rispondere che ci siamo incontrati nel corridoio e che da gentiluomo ho deciso di accompagnarti”
“E che io ho accettato per pura cortesia e pietà” aggiunse lei, scherzosa, facendo un buffetto sulla guancia del Conte. Gli porse il braccio, che lui si premurò di accettare immediatamente e si diressero verso la porta.

***

Alcune ore più tardi...

Girolamo si portò lentamente il raffinato calice d’argento alle labbra, sorseggiando piano piano del vino rosso, pregiato prodotto locale. Si guardò intorno, osservando e studiando attentamente i pochi invitati ancora presenti a quella che doveva essere una festa, ma che in realtà si era rivelata un’inutile, lunga attesa: il promesso sposo, Giuliano de Medici, non si era presentato, facendo così saltare tutti i piani dei congiurati.
Il suo sguardo si soffermò per un istante su Clarice e Lorenzo che, a pochi metri dalla grande tavolata del banchetto, discorrevano con alcuni invitati; se la Madre di Firenze appariva calma e rilassata, lo stesso non si poteva dire per il marito, che esibiva un sorriso nervoso e faticava a restare fermo, non altrettanto bravo a celare la propria preoccupazione. Li udì vagamente scusarsi per la mancanza del festeggiato.
Voltò poi la testa alla propria destra, per osservare la famiglia Pazzi: la promessa sposa appariva seccata e oltraggiata dalla seduta vuota al suo fianco; Francesco e Iacopo, invece, confabulavano tra loro, probabilmente riguardo alle successive mosse. Vide il primo stringere tra le mani un coltello e osservare in cagnesco Lorenzo, dall’altra parte della tavolata; gli lanciò un occhiata di ammonimento, facendogli intuire di posarlo subito, cosa che fece appena un istate dopo.
Tornò a guardare dritto davanti a sè: Gentile Becchi stava conversando con Piero da Vinci, il padre dell’artista, e Andrea Verrocchio, ma il suo sguardo era continuamente distratto, rivolto oltre i due uomini, ai margini del giardino; seguì anche lui quella direzione, osservando con preoccupazione Elettra che, bicchiere alla mano, camminava nervosamente avanti e indietro. Era molto tentato di alzarsi e andare da lei, ma lo zio della giovane lo anticipò, dirigendosi in quella direzione.
Mentre osservava Gentile Becchi tentare di calmare la nipote, con la coda dell’occhio vide Lorenzo e Clarice dirigersi verso il Capitano Dragonetti; anche l’attenzione di Francesco Pazzi era stata attirata verso loro tre che, un istante più tardi, furono raggiunti da Elettra, tenuta a braccetto da suo zio.
“Capitano, tenere traccia dei spostamenti dei fiorentini è la vostra specialità, dunque: dov’è mio fratello?”, chiese il de Medici, non riuscendo a non far trasparire dal tono della propria voce apprensione.
“Non saprei dirvelo”, rispose Draginetti. “Una settimana fa il mio ufficiale Bertino ha accompagnato Giuliano a Siena, da allora non ho più notizie”
Ad ascoltare quelle parole Elettra strinse ancora di più a presa sul braccio di Becchi; lei sapeva la verità e dovette mordersi la lingua, per non rischiare di parlare. 
“Perché a Siena?”, domandò Clarice, perplessa.
‘Perchè Lucrezia Donati avrebbe dovuto essere a Siena’, pensò Elettra. Serrò con forza gli occhi, cercando di non dare ragione alla propria voce interiore, che continuava a chiederle perchè lei non fosse partita con Giuliano. 
“Giuliano ambiva ad ultimo svago prima delle sue nozze”, disse il Capitano.
“Santo cielo”, si lasciò scappare Lorenzo.
“Bertino mi ha promesso di tenerlo lontano dai guai”, cercò di tranquillizzarlo Dragonetti, mantenendo sempre un tono di voce fermo e pacato; la calma che quell’uomo ostentava era invidiabile.
“E se Bertino avesse fallito?”, chiese nuovamente Clarice, anch’ella preoccupata. “E se Giuliano avesse subito un agguato?”
Ormai il braccio di Gentile Becchi doveva aver perso sensibilità da quanto Elettra lo teneva stretto; lo sguardo della giovane, spaventato, vagò da una parte all’altra del giardino, addobbato a festa, fermandosi infine sulla figura di Girolamo, che stava giungendo insieme a Francesco Pazzi.
“Non vedrei altra ragione per la sua assenza irriverente”, disse quest’ultimo, facendo sfoggio dell’ennesimo, falso sorriso di circostanza.
“Potrebbe aver semplicemente avuto un imprevisto”, aggiunse il Conte Riario, con un tono di voce insolitamente caldo e rassicurante; i suoi occhi furono immediatamente catturati dall’esile figura di Elettra, stretta al braccio di suo zio, e le accennò un lieve sorriso di conforto, che però ottenne come unico risultato quello di farle abbassare lo sguardo sul ciottolato ai loro piedi, come se si sentisse colpevole. 
“Potrebbe...”, mormorò appena lei, chiudendo per un lungo istante gli occhi.
Girolamo prese a studiarla attentamente: era chiaro che qualcosa in lei non andasse, lo aveva intuito già qualche giorno prima, ma si era guardato bene dall’indagare troppo a fondo ma, tuttavia, non gli era di certo passato inosservato il suo sospetto chiudersi a riccio ogni qual volta si faceva il nome del giovane de Medici, o il farsi improvvisamente vaga, o ancora il tentare di cambiare immediatamente discorso. Nascondeva qualcosa.
Non fu l’unico a giungere a quella conclusione, dal momento che anche Dragonetti cominciò ad osservarla sospettoso; il Capitano delle guardie della notte aprì e chiuse la bocca più volte, indeciso se azzardarsi a domandare o meno cosa sapesse. Alla fine convenne che sarebbe stato meglio indagare quanto prima. “Se sapete qualcosa al riguardo, vi converrebbe dirlo subito”, le disse, cercando di utilizzare un tono il più garbato possibile.
Tutti gli occhi del piccolo gruppo si concentrarono su di lei, il cui sguardo tormentato passava da una persona all’altra, fermandosi infine su Gentile Becchi. 
Girolamo pensò che avrebbe avuto un crollo da un momento all’altro, talmente gli appariva fragile ed indifesa.
“Mi...mi dispiace tanto”, mormorò.
L’uomo la guardò perplesso e preoccupato allo stesso tempo.
“Io...io sarei dovuta andare con Giuliano”, continuò lei.
“Elettra, dov’è mio fratello?”, si intromise Lorenzo, preoccupato.
“Lui...lui e Bertino sono andati a Siena, ma non per bordelli”, disse la giovane, facendo una breve pausa per ricacciare indietro le lacrime. “Sono andati là per arrestare la spia”
“Quale spia?”, domandò nuovamente il de Medici.
Elettra prese l’ennesimo, lungo respiro; i suoi occhi si misero ad osservare Girolamo, quasi a cercare in quello sguardo la forza per andare avanti con il proprio discorso. “Io...vi devo dire una cosa”, confessò a Lorenzo. “Il servo mandato alla ruota con l’accusa di tradimento era...era stato incastrato”. Finì la frase a fatica, con la voce che si faceva più flebile ad ogni parola. “Non...non avevamo altra scelta, ci serviva più...tempo”, concluse, cercando lo sguardo di suo zio.
Gentile Becchi era come bloccato: i suoi pupilli erano stati capaci di sacrificare la vita di un innocente pur di salvarlo da una morte certa; distolse lo sguardo da quello della nipote, quasi come se lui stesso si sentisse colpevole di ciò che Elettra e Giuliano avevano dovuto fare per salvarlo.
“La vita del consigliere di Firenze vale molto di più di quella di un semplice servo, specialmente di questi tempi”, mormorò la giovane. “Non potevamo perderti: Firenze ha bisogno di te...noi abbiamo bisogno di te”, disse infine, rivolta al proprio zio.
Lorenzo, nel frattempo, la osservò con la rabbia trattenuta a stento. “Chi è la spia?”
Elettra osservò Girolamo, quasi come si aspettasse una sua mossa da un momento all’altro, ma lui si imitò ad osservarla con un’espressione da sfinge.
Quel tacito scambio di sguardi non passò inosservato al de Medici, che fissò la sua fedele collaboratrice con astio. “Devi chiedere il permesso al Conte Riario per parlare?”, chiese, con malcelata irritazione.
La giovane scosse la testa e concentrò la propria attenzione sulla pavimentazione ai suoi piedi; con la mano sinistra strinse il proprio ciondolo, come soleva fare ogni qual volta fosse nervosa. “Lucrezia Donati”, disse in un sussurro.
Il Magnifico sbarrò per un istante gli occhi al sentir pronunciare il nome della propria amante. “Non...”, mormorò appena, giusto il tempo per riprendere il controllo delle proprie emozioni. “L’accusa che stai muovendo è molto grave, specialmente in mancanza di prove”. Il tono di voce che si era fatto nuovamente serio e deciso.
“Non avremmo mai agito senza prove certe”, ribattè Elettra. “Ci è bastato confrontare i periodi delle fughe di notizie con i libretti del coprifuoco del Capitano Dragonetti”, spiegò, sicura delle proprie parole. “Mi dispiace, Lorenzo”, aggiunse dopo una pausa di alcuni secondi.
Dragonetti la osservò perplesso. “Come avete fatto ad accedere ai miei appunti?”, chiese.
“Io e Bertino ci siamo introdotti nel vostro studio di nascosto”, rispose lei, la sicurezza ostentata poco prima di nuovo evaporata.
Becchi strabuzzò gli occhi, staccandosi dalla nipote, in un gesto d’istinto, non voluto. “Elettra...ti rendi conto della gravità di ciò che avete fatto?”, disse, alzando involontariamente il tono di voce.
Gli occhi della giovane divennero leggermente lucidi, mentre prendeva alcuni lunghi respiri per calmarsi. “Noi...non avevamo altra scelta, non potevamo coinvolgere nessuno senza...”. Si bloccò, interrotta da Lorenzo, per sua fortuna; altrimenti avrebbe avuto parecchio da spiegare.
“E tacendo sulle vostre intenzioni mio fratello è scomparso”, disse lui, con non poco veleno nella voce.
Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso: le lacrime, che fino a quel momento Elettra si era sforzata di contenere, cominciarono a riempirle gli occhi. Si sforzò di prendere alcuni lunghi respiri, di nuovo. “Io...”, provò a dire. “Scusate”, mormorò infine, voltando le spalle a tutti e dirigendosi verso il giardino, dove la vegetazione si faceva più fitta. A nessuno dei presenti passò inosservato il tremolio delle sue spalle mente si allontanava.
Clarice lanciò un’occhiata di ammonimento al marito, prima di seguirla.
Lorenzo cercò di restare indifferente, mentre dava ordine a Dragonetti di perlustrare le strade tra Firenze e Siena in cerca di Giuliano.
Girolamo si allontanò di alcuni passi, indeciso se raggiungere Elettra o meno; alla fine decise che avrebbe aspettato qualche minuto, per evitare che apparisse sospettoso.

***

Alcuni minuti più tardi...

“Va tutto bene, Elettra”, ripetè Clarice per l’ennesima volta. “Vedrai che Giuliano sta bene. Probabilmente è andato davvero in qualche bordello e ha perso la cognizione del tempo”, disse con ironia, cercando di tranquillizzarla. 
Per la prima volta da quando si era seduta sotto quell’albero, sulle sponde del piccolo laghetto artificiale della tenuta dei Pazzi, Elettra alzò la testa dalle proprie ginocchia. Osservò per alcuni istanti Clarice, gli occhi azzurri tristi e le guance umide di lacrime. 
La Madre di Firenze la guardò speranzosa, convinta che le sue ultime parole avessero sortito almeno in parte l’effetto voluto; i suoi desideri si infransero quando la giovane tornò a poggiare il viso sulla stoffa del proprio abito. Sospirò: oltre alla pazienza aveva esaurito anche le parole di conforto.
La osservò per alcuni istanti e un sorriso malinconico fece capolino sulle sue labbra pensando a quante volte in passato si era ritrovata a rincuorarla; aveva cercato di farle da madre, quando aveva perso la sua. Solo ora, solo studiandola attentamente, si era resa conto che quella che a palazzo consideravano ancora tutti una bambina era diventata ormai una donna adulta. Con le preoccupazioni di un adulto: non piangeva più per un ginocchio sbucciato o uno scherzo dei bambini più grandi, ora le sue lacrime erano reali, di affetto, come in questo caso...di amore, in altri. 
Lo aveva visto nel suo sguardo alle volte sognante che si innamorata; anche lei aveva guardato Lorenzo con quello stesso sguardo, prima di tutti quei tradimenti. 
All’inizio tutti a palazzo avevano creduto che Elettra si fosse presa una cotta per Giuliano; sarebbe stato carino vedere quei due, amici fin dall’infanzia, felicemente insieme. Probabilmente Firenze sarebbe stata in festa per giorni alla notizia di un eventuale fidanzamento. Tutte quelle fantasie si erano ben presto infrante contro la dura realtà. A molti, però, sarebbe piaciuto sapere chi occupasse i pensieri della giovane.
Un rumore di passi, distrasse Clarice dai suoi pensieri. Si guardò in giro, notando sulla riva opposta il Conte Riario camminare con l’aria pensierosa; a prima vista si sarebbe potuto dire che l’uomo non si era minimamente accorto della presenza delle due donne, ma la Signora di Firenze sapeva che non era così: Riario era fin troppo conosciuto per la sua bravura nel saper dissimulare o per il non far trapelare la benchè minima emozione. In quel momento però le appariva veramente inquieto e vulnerabile; distrattamente pensò che fosse per il fatto che Elettra avesse smascherato la spia proprio davanti ai suoi occhi.
Nel frattempo la giovane alzò la testa dalle proprie ginocchia, osservando dritto davanti a sè. Clarice vide il Conte fermarsi e ricambiare lo sguardo della ragazza. 
Le loro facce, le loro espressioni, i loro occhi...ad una donna di corte come la Orsini tutto questo non passò di certo inosservato: aveva una sua teoria a riguardo.
Riario notò che lo stava osservando e in una frazione di secondo la sua espressione tornò ad essere indecifrabile. “Madonna Orsini, madonna Becchi, scusate se vi ho disturbate, non vi avevo notate”, disse, seppur sapesse benissimo che come scusa faceva acqua da tutte le parti.
Clarice piegò le labbra in un sorriso di circostanza. “Perchè non venite qui con noi, Conte?”
L’uomo annuì distrattamente, seppur il suo passo, solitamente lento ed elegante, in quel momento tradiva una certa impazienza.
“Il Magnifico ha mandato i suoi uomini a perlustrare le strade tra Firenze e Siena”, rivelò, non appena fu abbastanza vicino. “Troveranno il giovane Giuliano, potete starne certe”, aggiunse, parlando ad entrambe ma guardando solo Elettra.
A quelle parole la giovane parve risollevarsi un pochettino. “Vado ad aiutare nelle ricerche”, disse, alzandosi di scatto in piedi. Sarà stato per il movimento troppo brusco, dopo tutto quel tempo passato seduta a terra, ma fatto sta che non appena provò a fare il primo passo la colse un violento capogiro. Sarebbe caduta se non fosse stato per i riflessi di Girolamo: l’uomo intervenne prontamente, cingendole la vita per sorreggerla.
Clarice lo vide di nuovo, vide di nuovo quella luce quando gli occhi color del cielo di Elettra si scontrarono con quelli nocciola del Conte. Girolamo indugiò più del dovuto in quello sguardo, cercando di dedurre i suoi pensieri, quale emozione dominasse tra le tante che in quel momento la scuotevano; le poteva quasi vedere combattere tra di loro in quelle iridi azzurre che un attimo prima potevano apparire più spente del solito e un istante dopo brillare, animate da qualcosa di nuovo. Le sue mani la trattenevano fermamente per la vita, mentre le mani della giovane affondavano nella soffice stoffa delle maniche della giacca di lui.
“Sto bene”, mormorò Elettra, facendo un passo indietro. Prontamente la presa di Girolamo si fece meno ferrea, stentando comunque a lasciarla andare completamente. “Davvero”, aggiunse, lasciando gli avambracci dell’uomo e portando le mani sopra a quelle di lui, nel tentativo di sciogliere la presa con la quale ancora la stava tenendo.
“Voglio esserne certo”, ribattè lui, non potendo fare a meno di piegare le labbra in dolce sorriso, che per un estraneo appariva così lontano dalla natura solitamente fredda e distaccata del Conte, ma a cui lei aveva ormai fatto l’abitudine.
“È stato solo un istante, può capitare a tutti”, provò a convincerlo Elettra.
Girolamo la studiò con occhio critico, per assicurarsi che quello che diceva corrispondesse al vero. Alla fine annuì, lasciando completamente la presa.
“Grazie, Conte”, disse la ragazza, prima di girarsi verso Clarice. “Vado a cercare Dragonetti, voglio unirmi nelle ricerche”
“Non credo sia il caso”, si intromise Girolamo, con tono serio, che non ammetteva repliche. Come risposta ottenne uno sguardo oltraggiato, teso a fargli capire che non aveva voce in capitolo, che non avrebbe dovuto parlare.
Anche la Madre di Firenze se ne accorse, ma per la prima volta in vita propria non poteva che essere d’accordo con il principale nemico di Firenze. “Il Conte Riario ha ragione, Elettra. Saresti molto più utile a palazzo”
Lo sguardo della giovane passò da lei a Riario più volte: sapeva che quello era un ordine camuffato da consiglio e che, come tale, non poteva essere contestato senza apparire fuori luogo, ma comunque  non le piaceva che fossero gli altri a decidere per lei.
“Gentile Becchi ha bisogno di te in questo momento. Vai da lui, per favore”, continuo Clarice.
Si vedeva che Elettra non era per niente d’accordo, ma non le restò altro che annuire. “Vado a far preparare la carrozza per il viaggio di ritorno a Firenze”, disse, prima di congedarsi.
Girolamo fece per seguirla, ma fu bloccato dalle parole della Signora di Firenze. “Conte Riario, mi fareste il piacere di restare qui ancora per qualche minuto?”, chiese, facendogli intuire con il solo sguardo che non poteva rifiutarsi di farlo.
Riario annuì, mascherando sotto ad un lieve sorriso di circostanza tutta la propria irritazione. Osservò con apprensione l’esile figura di Elettra allontanarsi e scomparire oltre gli alberi.
“Cosa intendete fare con lei?”
Il Conte si voltò verso Clarice, osservandola perplesso.
“Ho visto come lei guarda voi e come voi guardate lei. Dunque ditemi: che cosa intendete fare con lei?”, ripetè.
“Vi è bastato un semplice scambio di sguardi, Madonna Orsini?”, ribattè Girolamo, scettico.
Le labbra della Madre di Firenze si piegarono in un enigmatico sorriso. “Noi donne siamo migliori di qualsiasi soldato perfettamente addestrato quando si tratta di scandagliare l’animo umano. Credevo fosse per questo che avete deciso di usare una donna come spia”
“Può darsi”, rispose lui vago, ignorando nuovamente la domanda della donna.
“E riguardo a ciò che vi ho chiesto precedentemente?”. Anche la Orsini era cresciuta a Roma, tra intrighi e complotti; non si sarebbe mai lasciata distrarre da un cambiamento di discorso. 
“Ormai è inutile negare l’evidenza”, disse il Conte, con una nota di amarezza nella voce. “So che i nostri sentimenti potrebbero comprometterla, ma sto facendo del mio meglio perché lei sia al sicuro”
Clarice rimase in silenzio per alcuni istanti, studiandolo attentamente. “Mi rincuora ammettere che state dicendo la verità”
Riario la osservò: il suo intuito gli diceva che c’era ancora dell’altro.
“Il vostro segreto è in buone mani, ma sappiate che lo faccio unicamente per Elettra. Se fosse stata un’altra persona non avrei esitato a rendere il tutto di pubblico dominio”, proferì, estremamente seria. “Purtroppo non si può scegliere chi amare”, aggiunse, non potendo non fare a meno di non celare una nota di amarezza nella voce.
“Grazie”, fu l’unica parola che a Girolamo venne da dire. Fece un leggero inchino con il capo, prima di voltare le spalle alla donna e tornare sui propri passi. Ne riuscì a fare appena un paio, prima di sentire una presa ad un polso. 
“Vi conviene continuare a trattarla come avete fatto fino ad ora”, disse Clarice, con un tono di voce minaccioso, simile al sibilare di un serpente. “Una donna ferita è il peggiore nemico che un uomo può avere”, aggiunse. 


Nda
Salve a tutti! Ho finito questo capitolo parecchio tempo fa, ma la pigrizia è una brutta bestia...
L'abito di Elettra che avevo pensato per il banchetto è questo.
I giochi sono quasi finiti :D
Buona lettura ;)

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Capitolo 37
*** Promesse ***


Capitolo XXXI: Promesse
 
Pomeriggio di sabato 25 aprile 1478

Gentile Becchi alzò il capo dal pensate manoscritto che stava leggendo, osservando propria nipote camminare avanti e indietro proprio davanti alla scrivania; prese un lungo respiro, cercando di portare pazienza. 
“Finirai per consumare il pavimento del mio studio”, disse, cercando di far apparire le proprie parole come un ammonimento; in realtà dal tono della sua voce traspariva affetto.
Elettra si fermò per alcuni istanti, osservando lo zio con sguardo vacuo: i suoi occhi fissi in quelli di lui, ma la mente altrove, a chilometri di distanza, persa tra le campagne toscane, proprio come la persona a cui quel pensiero era rivolto.
Sbattè più volte le palpebre, prima di riprende nuovamente a camminare a lunghi passi da una parte all’altra dello studio.
L’anziano consigliere della repubblica sbuffò, improvvisamente inquieto. “Elettra, stai mandando in ansia pure me”, commentò.
La giovane si fermò ancora una volta a metà del proprio percorso. Le braccia conserte, strette sotto al seno, e un broncio insoddisfatto ad incorniciarle l’ovale pallido del volto. Emise uno sbuffo sonoro, prima di lasciarsi letteralmente cadere su una delle poltrone dedicate ad eventuali visitatori. Si passò entrambe là mani sul volto, prima di cercare con lo sguardo qualcosa; dalla sua espressione, ciò che cercava pareva esserle essenziale.
Gentile Becchi sospirò, poi aprì uno dei numerosi cassetti della propria scrivania, estraendo una matita e diversi fogli bianchi. Li passò alla nipote, che si mise immediatamente a disegnare su di essi ad un ritmo che pareva umanamente impossibile.
“Quelli sono gli unici fogli che ho qui, vedi di farteli bastare per qualche ora”, disse in un tono di voce che sarebbe dovuto apparire serio, ma da cui, in realtà, traspariva uno smisurato affetto. Sul suo volto comparve un sorriso malinconico e alla mente non potè non tornare il ricordo di una bambina dai grandi occhietti azzurri che scrutavano il mondo con attenzione e i lunghi boccoli biondi, seduta a quella stessa scrivania, intenta a scarabocchiare qualcosa; chiuse per un istante gli occhi: gli sembrava quasi di sentire la sua risata infantile in grado di contagiare chiunque. Li riaprì, ritrovandosi davanti quella stessa bambina: la posa era la stessa, con le gambe incrociate e la matita tra i denti mentre pensava, la poltrona era la medesima e perfino i segni scuri di colori su guance e fronte parevano simili. L’unica differenza era che ora Elettra era un’adulta.
La osservò per un tempo indefinito e si dispiacque quando, attirata da un rumore di cavalli al galoppo, si diresse in fretta verso la finestra che si affacciava su Piazza della Signoria.
“Dragonetti è tornato”, disse con un sorriso a trentadue denti, faticando a rimanere ferma dall’emozione. “Giuliano sarà con lui”, aggiunse euforica.
Gentile Becchi non riuscì nemmeno a dire una parola, dal momento che la nipote si fiondò verso la porta dello studio, correndo poi a perdifiato per le scale che portavano all’entrata del palazzo.

***

Elettra osservò le persone nel grande atrio: dalla posizione in cui si trovava riusciva a scorgere Lorenzo, Dragonetti e una manciata di guardie della notte, ma nessuna traccia di Giuliano.
Il sorriso, che era spuntato sulle sue labbra non appena aveva sentito gli uomini arrivare, sfumava ad ogni singolo gradino che scendeva. Una volta in fondo i suoi occhi non brillavano più di un’emozione trattenuta a stento, come quando era uscita correndo dallo studio di suo zio, ma apparivano tristi e spenti. Osservò in viso Lorenzo, che appena la notò scosse la testa, ricambiando il suo sguardo con uno ricolmo di sconforto. “Non c’è traccia di Giuliano sulla strada per Poggibonsi”, riferì.
Elettra annuì mestamente, stringendosi ancora di più le braccia sotto al seno. Sospirò, angosciata.
Mentre Gentile Becchi scendeva la scalinata, si sedette su uno dei gradini e chiuse gli occhi; alla mente le ritornato le immagini del sogno che aveva fatto appena quella mattina: il fiume, le colline, il paesaggio...Elettra si mise di scatto in piedi, suscitando la perplessità degli altri presenti. “Avete già perlustrato la strada per il Chianti?”, chiese a Dragonetti, con l’espressione tipica di quando le veniva un’idea.
“No, non ancora”, disse Dragonetti. “La strada per il Chianti pullula di banditi, Bertino non avrebbe mai permesso a Giuliano di percorrerla”
“Ma è la più rapida”, contestò la giovane. “Per spostamenti veloci la Donati utilizzerà di certo quella”
“Una donna sola per quelle strade...ne dubito”, ribattè il Capitano, scettico.
Elettra ci pensò un po’: era certa del proprio ragionamento, anche le tempistiche lo dimostravano eppure...eppure c’era qualcosa che le sfuggiva, un piccolo dettaglio che non aveva considerato. Con un’espressione pensierosa stampata in volto, si mise a camminare avanti e indietro per l’atrio.
Si fermò di colpo, voltandosi di scatto verso Gentile Becchi. “I lebbrosi utilizzano solitamente la strada per il Chianti per spostarsi perchè è quella meno frequentata, vero?”
Il fidato consigliere di Lorenzo ci pensò un po’, prima di annuire con il capo.
“Non capisco dove tu voglia arrivare”, ammise il Magnifico.
“Potrebbe essersi travestita, nessuno oserebbe mai controllare”
Dragonetti la osservò stupito: anche a lui parve che il discorso non facesse una piega.
“Giuliano e Bertino potrebbero essere arrivati alle mie stesse conclusioni”, continuò lei, ottenendo l’approvazione dell’uomo.
“Darò ordine ai miei uomini di passare al setaccio anche la strada per il Chianti”, decretò alla fine.
Lorenzo, inizialmente poco convito, alla fine annuì. “Fate presto, Capitano”, disse prima di voltare le spalle agli altri presenti e salire a larghe falcate la scalinata. 
 
***
 
Un paio di ore più tardi...

Elettra si trovava ancora nello studio di suo zio, seduta sulla medesima poltrona, intenta a leggere l’ennesimo noioso libro che aveva preso una manciata di minuti prima dalla libreria personale di Gentile Becchi; alla sua sinistra, sul bordo della scrivania, ve ne erano una pigna già letti, che aspettavano solo di essere rimessi al proprio posto. Sbuffò, richiudendo il libro con un tonfo sordo che causò una nuvoletta di polvere.
L’anziano consigliere, dalla parte opposta della liscia superficie di legno intarsiato, tossicchiò e portò in fretta un fazzoletto bianco alla bocca. 
“Elettra, fai più attenzione”, l’ammonì per l’ennesima volta.
“Mi annoio”, protestò lei. “E questa attesa mi sta uccidendo”, aggiunse, più seria.
Becchi allungò la mano sulla scrivania ed immediatamente la nipote la strinse nervosamente. Le dispiaceva non poterle dare rassicurazioni in quel momento, nemmeno lui sapeva nulla sulla sorte del proprio pupillo e, sotto sotto, anche lui, come Elettra, temeva il peggio. Qualsiasi parola di conforto non avrebbe fatto altro che apparire falsa e vuota, aggravando solo la situazione.
Un bussare alla porta distolse entrambi dai propri pensieri.
“Avanti”, disse Gentile Becchi, cercando di far sparire dal proprio volto ogni traccia di turbamento ed assumendo un’aria più professionale.
Lorenzo comparve sulla soglia: la sua espressione era cupa, portatrice di cattive notizie.
“Hanno trovato un corpo”, rivelò.
Elettra si alzò di scatto di scatto dalla propria seduta. Una mano premuta sulla bocca e il volto mortalmente pallido.
“Giu...”, tentò di mormorare.
“No”, la interruppe subito il Magnifico. “Non è lui”
L’espressione della giovane si fece per un istante più distesa.
“Io...vado a parlare con il Capitano Dragonetti”, continuò l’uomo, augurandosi che gli altri invece restassero lì, nello studio. Le sue speranze si infransero non appena Elettra aprì bocca. 
“Vengo con voi”, disse, facendo alcuni passi verso la porta.
A Lorenzo non restò altro che annuire e seguirla lungo la scalinata.
“Ho fatto allontanare Clarice, per risparmiarle qualunque tipo di emozione alla vista del corpo”, spiegò, mentre scendeva velocemente i gradini. Sperava di essere ancora in tempo per far desistere Elettra, ma la giovane, invece, non parve nemmeno notare il velato invito a seguire l’esempio della Madre di Firenze.
Nell’atrio, esattamente come prima, vi era il Capitano Dragonetti; di fianco a lui, quattro uomini reggevano una barella ricoperta da un velo nero. 
“Non esitate, fate vedere”, lo incitò Lorenzo.
Dragonetti tolse il velo dalla parte superiore del corpo del morto, scoprendo un volto in parte ricoperto da sangue e terriccio. “È l’ufficiale Bertino che è stato trovato sulla strada per il Chianti”, spiegò, anche se i presenti lo avevano capito non appena aveva mostrato il viso.
Elettra chiuse gli occhi di scatto e piegò la testa di lato, nascondendola sul petto dello zio.
Gentile Becchi si premurò immediatamente di stringerla a sè, accarezzandole i soffici capelli nel tentativo di darle un minimo di conforto; sapeva fin troppo bene che in quel momento più che di parole la nipote aveva bisogno di sentire il calore e l’affetto di un altro essere umano.
Nel frattempo, Lorenzo prese a studiare il corpo. “Ferito a morte”, constatò, incontrando il consenso del Capitano. “Banditi?”, azzardò, ben sapendo che era l’ipotesi più plausibile.
“Molto probabile”, rispose Dragonetti. “I loro corpi sono appena qui fuori, fate ancora in tempo a dare un’occhiata prima che i miei uomini si occupino di loro”
Quelle parole risvegliarono in parte Elettra, che si staccò da Gentile Becchi, si asciugò le lacrime dalle guance e si diresse fuori, nella Piazza della Signoria.     
Gli uomini la seguirono con lo sguardo finchè non scompare oltre il portone d’ingresso, poi ripresero a parlare tra loro.
“Tuttavia non abbiamo trovato tracce di Giuliano”, rivelò il Capitano.
Lorenzo prese un lungo respiro, incapace di decidere se ciò fosse positivo o meno: Giuliano poteva essere riuscito a fuggire ai banditi, come poteva essere stato ucciso e il corpo fatto scomparire. “Radunate più uomini, trovatelo. Riportatelo vivo o morto, devo conoscere la sorte di mio fratello”, decretò alla fine.

***

Si stava cominciando a radunare una piccola folla in Piazza della Signoria. Le voci del ritrovamento del corpo di un ufficiale dei Guardiani della Notte si diffondevano in fretta per la città, attirando un gran numero di curiosi; quella macabra manifestazione assumeva dimensioni ancora maggiori se vi erano anche dei colpevoli da punire. In questo caso i colpevoli erano già periti, ma tuttavia si poteva ancora infierire sui loro corpi.
La folla voleva spettacolo e sangue. I compagni di Bertino, vendetta.
E così che veniva giustificato il fare letteralmente a pezzi quei cadaveri.
Ad Elettra veniva il voltastomaco solo al pensiero che in una città all’avanguardia come Firenze si compissero ancora atti di una tale barbarità.
“Vi conviene rientrare, madonna. Certi spettacoli non sono adatti al vostro stomaco”, si fece beffe di lei uno dei Guardiani della Notte, scatenando le risa dei tre compagni che lo stavano aiutando a scaricare uno dei corpi da un misero carretto. Fecero alcuni passi verso il centro della piazza, lasciando malamente andare la presa sul cadavere, che cadde a terra. Uno di loro gli diede un calcio, facendolo rotolare alcuni metri più avanti, in direzione della sempre più numerosa folla.
Elettra cercò di ignorarli, seppure quelle parole le bruciassero più di quanto volesse dare a vedere. Si diresse verso il carretto, sul quale erano stati ammucchiati altri tre corpi.
Li osservò con attenzione, certa che qualcosa non le tornasse: forse era la corporatura a non convincerla appieno; difficilmente si potevano trovare banditi con una forma fisica perfetta come quella di quei quattro cadaveri. I banditi solitamente erano dei reietti della società, gente ridotta alla fame e alla miseria, oppure ubriachi.
Le saltò immediatamente all’occhio un piccolo particolare: quello in cima al mucchio portava alla cintura un pugnale.
La giovane si guardò in giro, per controllare che nessuno in quel momento la stesse guardando e velocemente glielo sfilò, nascondendolo poi sotto alla giacca. Fece alcuni passi, portandosi verso il perimetro della piazza, in una posizione secondaria, e si concesse qualche secondo per rigirarselo tra le mani e studiarlo: era leggero, probabilmente in acciaio, la fattura era pregiata e sulla lama, vicino all’impugnatura, spiccava il simbolo del marchio pontificio. Era un pugnale di ordinanza, di quelli che venivano dati in uso alle Guardie Svizzere.
Le ci volle appena una frazione di secondo a capire che quelli che tutti credevano banditi in realtà erano i mercenari al soldo di Roma, travestiti.
Dalla rabbia, strinse l’impugnatura dell’arma fino a sentire dolore. 
Voleva delle risposte.
E sapeva chi era perfettamente in grado di dargliele.

***

Un’ora più tardi...

Era da quando era rientrata a Palazzo che si trovava seduta sui primi gradini della scalinata che dall’atrio conduceva al resto della corte. 
Elettra sbuffò, passandosi le mani sul volto per l’ennesima volta; il pugnale che aveva preso ad uno dei morti, se al primo acchito che era sembrato leggero, ora le pesava sulla coscienza come un macigno: avrebbe dovuto mettere Lorenzo al corrente delle proprie conclusioni nell’istante stesso in cui le aveva formulate, eppure non lo aveva fatto. Nella propria testa si sentiva colpevole tanto quanto la persona che aveva dato l’ordine. E sapeva perfettamente chi fosse a dare ordini alle Guardie Svizzere.
Mentre era a Roma aveva detto a Leonardo che non avrebbe esitato a scegliere Firenze rispetto a Girolamo, ma ora, tacendo su quelle informazioni, stava facendo proprio l’esatto opposto.
Prese dei lunghi respiri, cercando di farsi coraggio e lentamente si mise in piedi, con tutta l’intenzione di dirigersi al più presto dal Magnifico, quando il portone d’ingresso si aprì ed una Guardia della Notte entrò a lunghi passi.
A giudicare da quanto era in affanno, doveva aver cavalcato parecchio.
“Dove si trova il Magnifico?”, le chiese con un filo di voce, riprendendo fiato tra una parola e l’altra.
“Nel suo studio”, rispose prontamente lei, seguendolo sù per la scalinata. “Portate notizie di Giuliano?”, domandò nel mentre.
La Guardia si voltò verso di lei. “È vivo, mia signora”

***

Poco dopo....

“Dragonetti sta scortando Giuliano all’andatura che le sue ferite permettono”, spiegò la Guardia della Notte. “Vista l’entità del danno dovranno certamente fermarsi per la notte ed arrivare a Firenze domani mattina”
Lorenzo, dalla propria seduta, annuì. Il suo volto decisamente più disteso di qualche minuto prima. 
Anche Gentile Becchi, alle spalle del Magnifico pareva di umore migliore.
Elettra, invece, appoggiata allo stipite della porta aveva i lineamenti tesi e la testa altrove; aveva a malapena ascoltato le parole del messo, troppo concentrata a trovare un modo per tornare alla tenuta di campagna dei Pazzi per parlare con Girolamo senza apparire come una visita troppo sospetta.
“Mio fratello vi ha detto qualcosa?”, chiese Lorenzo.
“Ha rivelato al Capitano Dragonetti il nome dell’aggressore”, rispose la Guardia della Notte. “È stata Lucrezia Donati a ferirlo”
“Che cosa?”, disse Elettra di getto. Non si aspetta di certo una risposta di quel tipo.
“Pare che i banditi l’abbiano aggredita lungo la via e Giuliano e Bertino siano intervenuti in suo aiuto ma...”, la Guardia si fermò un attimo e si morse la lingua, come a trattenere un’imprecazione. “Sappiamo già come sono stati ricompensati”
“Oddio”, sfuggì dalle labbra del Magnifico. Il suo sguardo ferito attraversò involontariamente l’intero studio, fermandosi infine su di un cavalletto da disegno, ricoperto da un telo bianco: sotto ad esso, vi si trovava il ritratto della Donati che Da VInci stava dipingendo. “Toglietelo dalla mia vista”, ordinò a Becchi, con un tono che non ammetteva repliche.
Elettra osservò suo zio prendere il dipinto sotto braccio ed uscire a lunghi passi dalla stanza.
Anche la Guardia della Notte, probabilmente intimidita dal modo di fare di Lorenzo, non vedeva l’ora di andarsene; allo giovane sembrò quasi di sentire il sollievo dell’uomo quando il Magnifico lo congedò con un cenno della mano. Fece un inchino e sparì anch’egli oltre la porta.
La giovane studiò ancora per alcuni secondi Lorenzo: forse aveva trovato un modo per risolvere il proprio dilemma. 
L’uomo la guardò a sua volta con fare interrogativo, chiedendosi mentalmente perchè fosse ancora lì.
“Immagino vogliate informare Francesco Pazzi dell’accaduto”, disse lei.
Il volto del Magnifico non accennò a distendersi, restando con la fronte corrucciata e le labbra leggermente arricciate, invitandola così a proseguire.
“L’assenza di Giuliano al banchetto immagino sia stata interpretata dai Pazzi come un affronto, se fossero informati quanto prima dell’aggressione sono certa che la situazione si farebbe meno tesa”, concluse, piegando le labbra in un convincente sorriso.
Lorenzo annuì. “Manderò un messo con una lettera quanto prima”
“Potrei...”, affermò Elettra, con una punta di indecisione nella voce. “...potrei consegnarla io. L’attesa non è una delle mie doti, almeno avrò qualcosa da fare mentre aspettiamo Giuliano”
L’uomo di fronte a lei si voltò ad osservare la finestra, nuovamente pensieroso. “Dovrai promettermi che tornerai prima del tramonto, altrimenti chi lo sente Becchi?”
Quando tornò ad osservarla nei suoi occhi vi era un lampo di contagiosa ironia che fece ridere la giovane.
Elettra incrociò le dita della mano. In volto un’espressione simile a quella di una bambina. “Promesso”, disse, con voce infantile.
 
***

Villa Pazzi...

Girolamo Riario osservò soddisfatto la Guardia della Notte in piedi davanti a lui: l’aveva inviata il Capitano Dragonetti per mettere i congiurati al corrente del ritrovamento di Giuliano de Medici; gli aveva rivelato che era stata Lucrezia Donati a ferirlo e che, a dispetto del compito che aveva affidato ai suoi uomini, anche lei era viva. 
In fuga da tutto e da tutti. Ma pur sempre viva.
La Guardia lo aveva rassicurato che il più giovane dei fratelli Medici non sarebbe vissuto abbastanza da rivedere Firenze, ma il Conte non ne era pianamente convinto: vista la facilità con cui in una mattinata era naufragato un piano messo appunto da mesi e curato fin nei minimi dettagli, non era più certo di nulla.
Francesco Pazzi, anch’egli in piedi a pochi passi da lui, lo osservava con malcelata impazienza, in attesa di una qualche direttiva: Riario aveva più volte sottolineato l’importanza di uccidere i due fratelli quando erano insieme, ma ora si apprestava a dare il proprio consenso a Dragonetti, andando contro l’idea base del proprio piano.
Il Conte prese un lungo respiro, poi lentamente si tolse i propri occhiali da sole. “Alla messa di Pasqua”, disse, in tono di voce non dissimile dal sibilo di un serpente, in grado di far accapponare la pelle anche ai più temerari. Forse era riuscito ad intimidire anche sè stesso. “All’alba di domani avveleneremo Lorenzo nell’istante esatto in cui farà la santa comunione. Superando il Cardinal Orsini e le sue pie esitazioni sembrerà che Dio stesso abbia deciso di deporre il tiranno”, concluse, lasciando quasi senza parole Pazzi. Sorrise, soddisfatto del risultato, poi concentrò là propria attenzione sulla Guardia della Notte, impassibile nella propria pozione, ma che non potè fare a meno di irrigidire la postura quando si accorse di aver attirato su di sè lo sguardo del Conte. 
“Come vi chiamate?”, gli chiese.
“Capaldi”, rispose lui, seppur la sua voce non appariva sicura e decisa come quando aveva riferito il messaggio del Capitano.       
“Trovate Padre Bagnone e Padre Maffei, fate sii che preparino l’ostia per Lorenzo e sua moglie e tutte le loro figlie. Poi tornate da Dragonetti e verificate che Giuliano abbia incontrato la sua fine”
L’ordine pronunciato da Riario era stato riferito in modo freddo e spietato, troppo spietato perfino per una creatura che si credeva senza cuore come il Conte. Era una sentenza di morte: avrebbero avvelenato il Magnifico, mutilando così la stirpe dei Medici, ma non solo. La morte di Clarice poteva essere definita come un danno collaterale, la tragica fine della moglie devota che pur di non abbandonare il marito sceglie di morire con lui. Ma le figlie? Tre creature innocenti condannate in questo modo: era troppo perfino per Riario.
La Guardia della Notte restò per qualche istante in silenzio, lo sguardo basso, concentrato al suolo, a rammentarsi perchè lo stesse facendo, poi ricordò: aveva giurato fedeltà al Capitano Dragonetti e ai Guardiani della Notte, li avrebbe dovuti seguire, in ogni loro scelta. “Consideratelo fatto, Signore”, disse infine, congedandosi.
Il Conte lo osservò allontanarsi, poi si mise più comodo sulla panchina sulla quale era rimasto sempre seduto, accavallando le gambe. Pulì gli occhiali in un raffinato fazzoletto dai bordi di pizzo nero, dopodichè li indossò. “Tra qualche ora avremo in pugno Firenze”, commentò, osservando in volto Francesco Pazzi, che era rimasto insolitamente silenzioso per quasi tutto il colloquio.
L’uomo annuì, attento: appariva come intimorito dal proprio interlocutore. 
Dopo quello che aveva detto alla Guardia, Riario non era poi più di tanto stupito da quella reazione anzi, non era stupito affatto.
Prese dal basso tavolino al lato della seduta un calice di cristallo pieno per metà di vino rosso e lo portò lentamente alle labbra. Un rumore di passi sulla ghiaia del vialetto gli arrivò alle orecchie, portandola ad alzare nuovamente lo sguardo verso il porticato da qui l’uomo di Dragonetti era appena uscito; probabilmente quel giovane si era dimenticato di riferirgli qualche altro dettaglio e stava tornando appunto indietro. Con una punta di dispiacere per non aver indovinato, Girolamo osservò uno dei servi procedere a lunghi passi verso di loro.
“C’è qui un messo da parte di Lorenzo de Medici”, disse quest’ultimo dopo un profondo inchino, riprendendo fiato tra una parola e l’altra.
“Un messo?!”, sbottò Francesco Pazzi, in modo quasi isterico.
Il pover uomo annuì, terrorizzato dal tono di voce del proprio padrone, prima di voltarsi nella stessa direzione dalla quale era arrivato.
“Salve, signori”, disse una voce che sia Pazzi sia Girolamo conoscevano fin troppo bene. 
Elettra sorrise ad entrambi, mentre si avvicinava a lenti passi; portava tra le mani una lettera con impresso lo stemma mediceo.
“È una lettera di Lorenzo, nella quale espone ciò che è accaduto a Giuliano e si scusa per la sua assenza”, spiegò lei, passando la lettera a Pazzi. “Credo che ci siano scritte le stesse cose che vi sono state riferite dalla Guardia che è appena uscita dalla tenuta. È stato carino da parte di Dragonetti inviarne una anche da voi. Quell’uomo pensa sempre a tutto”
Se il suo sorriso appariva quello di sempre, con quella punta di ironia di cui Girolamo non riusciva più a fare a meno, quando lei si avvicinò non potè dire lo stesso del suo sguardo: c’era qualcosa in esso, che non lo convinceva appieno, una sfumatura di blu anomala. Che avesse ascoltato qualcosa del discorso di poco prima o che la Guardia della Notte si fosse lasciata sfuggire qualcosa?
La osservò attentamente negli occhi mentre il Pazzi era distratto a leggere la lettera del Magnifico. 
No, si convinse, non sarebbe stata quella la sua reazione...non sarebbe stata controllata come in quel momento. Doveva essere altro.
Francesco poggiò la lettera sul basso tavolino, studiando a sua volta i due; alla fine, non riuscendo ad attirare semplicemente così la loro attenzione, tossicchiò leggermente.
“Grazie per essere accorsa con tale tempestività, madonna”, disse, facendo mostra dell’ennesimo falso sorriso di circostanza. “E ringraziate anche Lorenzo per questo chiaro gesto d’amicizia”
Elettra fece un cenno di riverenza con il capo. “Sarà fatto”
Lo sguardo del Pazzi passò da lei a Riario più volte, prima di riprendere nuovamente la parola. “Vi conviene tornare al più presto a Firenze, presto farà buio. Sono certo che al Conte non dispiacerà accompagnarvi fino all’uscita”
“Sarà un vero piacere per me”, disse prontamente il diretto interessato, offrendo il proprio braccio alla giovane, che però lo accettò con un certo contegno.

 
***

Elettra non aveva detto una parola da quando si erano incamminati.
Avevano scelto la via più lunga per arrivare all’uscita, in modo da avere più tempo a disposizione per restare in compagnia. La strada era poco più che un sentiero in terra battuta che inizialmente correva parallelo al piccolo laghetto artificiale, per poi allontanarsi ed addentrarsi in una pineta.
Girolamo osservò attentamente la giovane, qualche passo davanti a lui: la sua postura appariva nervosa, le spalle tese e i sensi in massima allerta.
“Siamo soli, Elettra”, disse, rompendo così il surreale silenzio del bosco.
La ragazza arrestò la propria camminata, guardandosi intorno per accertarsi che dicesse la verità.
“Non ci può sentire nessuno”, ripetè lui, facendo qualche passo incerto verso di lei.
Se prima l’idea che ci fosse qualcosa che non andasse fosse solo un presentimento, ora ne era sempre più convinto.
“È successo qualcosa?”, chiese cauto.
“Invero, sì”, rispose lei, uscendo dal sentiero e poggiando una mano al primo albero che trovò. “Ci sono dei dettagli dell’aggressione a Giuliano che non mi tornano”
Girolamo la osservò chiedendosi mentalmente cosa Elettra sapesse o meno: le era stato riferito che era stata Lucrezia Donati a ferire il giovane de Medici o Lorenzo credeva si trattasse ancora di banditi? 
“Cosa non ti torna?”
La giovane portò una mano dietro alla schiena, estraendo qualcosa. “Questo...”, mormorò appena, conficcando il pugnale che aveva trovato addosso ad uno dei presunti banditi nella corteccia dell’albero.
Lo sguardo del Conte passò dal Sigillo Pontificio, che spiccava sulla lama dell’arma, agli occhi azzurri di lei: apparivano come mare in tempesta. Una tempesta in cui un capitano spera di non voler mai incappare perchè sa che il mare reclamerebbe la sua nave e la sua vita.
Restò in silenzio ad osservarla.
“Non...non hai niente da dirmi?”, disse lei, con un filo di voce.
“Niente...”
Elettra si staccò di scatto dall’albero, facendo alcuni passi tra il soffice terriccio formato dagli aghi di pino. “Certamente, ogni bandito porta un pugnale della Santa Romana Chiesa con sè”, sbottò, impregnando ogni singola parola di pungente sarcasmo.
Girolamo la osservò stupito, ma non osò aprire bocca.
“Voglio sapere come è andata veramente”, mormorò lei, dandogli le spalle e stringendo nervosamente le braccia sotto al seno. 
“Io...”, tentò di dire lui, tutt’altro che certo di raccontarle tutta la verità.
“Me lo devi, Girolamo”, lo interruppe lei.
L’uomo prese un lungo respiro. “Avevo mandato i miei uomini ad uccidere Lucrezia Donati, Giuliano de Medici deve essersi messo in mezzo per qualche motivo a me ignoto”. Avrebbe voluto aggiungere che lo considerava un incosciente, ma si trattenne dal dirlo apertamente.
“Volevano giustizia”, ribattè amara Elettra.
“Un corpo da esporre nella pubblica piazza non gli bastava?”
“Un processo, Girolamo. È in questo che consiste la giustizia: un processo nel quale anche l’accusato abbia comunque la possibilità di difendersi”. La sua voce appariva irritata dalla mentalità del Conte.
“Sarebbe morta comunque”, disse lui, in tono piatto, indifferente alle argomentazioni della giovane. Non doveva rendere conto a lei dei suoi ordini, Elettra questo avrebbe dovuto capirlo molto tempo prima.
“Ma dopo un giusto processo”, ribattè comunque lei.
Girolamo prese un lungo respiro: aveva creduto che dopo la tentata accusa di sodomia all’artista la questione circa le proprie mosse contro Firenze fosse acqua passata.
“Perchè volevi la tua spia morta? Che utilità poteva mai avere per te da morta?”, chiese lei, in un misto di perplessità e collera.
“I sentimenti verso l’artista l’avevano compromessa, non aveva più alcuna utilità per me”
Lo sguardo con cui Elettra lo osservò gli apparve offeso, immensamente deluso. “Non è più compromessa di quanto lo sia tu”, disse, in un tono di voce freddo, estraneo al suo solito calore.
“Io ragiono lucidamente”, ribattè immediatamente lui.
Le labbra della giovane si piegarono in un sarcastico sorriso, che aveva come unico intento quello di deriderlo. “Certo, ogni tua scelta in tutti questi mesi era volta unicamente al bene della tua carissima chiesa, non mi hai mai messa in primo piano”
Il Conte fece per aprire bocca, ma lei fu più veloce, continuando il proprio discorso. “L’arresto di mio zio, non ti dice niente? Togliere di mezzo il consigliere della Signoria sarebbe stato più che positivo per Roma: senza il suo braccio destro Lorenzo si sarebbe sentito perso, invece tu hai deciso di rischiare la tua reputazione pur di aiutarmi. Roma aveva bisogno di un’amante? O eri tu ad averne bisogno?”
“Eri pronta a tutto, avresti finito per metterti nei guai. Non potevo permetterlo”, rivelò lui con un filo di voce,  abbassando lo sguardo.
Per un istante l’espressione di Elettra parve addolcirsi, ma tornò immediatamente seria. “Non posso non notare una discrepanza tra quello che tu e i tuoi uomini potete fare. Tu non hai dei soldati  alle calcagna che vogliono ucciderti”
“Elettra...”, tentò o mormorare.
“Dovresti”, disse, facendo una breve  pausa per amplificare le sue successive parole, decisamente più pensati delle precedenti. “Oppure potresti andare direttamente alla fonte ed eliminare me. Chi mi potrebbe dare la certezza che non lo farai un giorno?”
“Non potrei mai nemmeno immaginare di farti del male”, mormorò lui.
“Farmi del male...”, ripetè le, sbuffando alla fine. “Ti sei mai fermato un istante a pensare alle conseguenze dei tuoi ordini? Alla gran quantità di persone che stai facendo soffrire?”. Elettra chiuse gli occhi e prese dei lunghi respiri per ricacciare indietro le lacrime che si stavano formando. Scosse la testa, amareggiata. “No, certo che no”, si rispose da sola, sarcastica. “Tu non hai mai pensato che le persone che fai uccidere potrebbero avere una famiglia: fratelli, sorelle, figli o genitori che piangono per loro”
“Se mi fermassi a quello non riuscirei più a fare il mio lavoro”, rispose Girolamo, serio. Dalla sua voce però traspariva una nota amara, di tristezza: lui non aveva mai potuto avere possibilità di scelta, quello era ciò che Sisto gli aveva imposto. Ed era l’unica cosa che sapeva fare.
“Cosa...cosa dovrei dire io ora ai genitori di Bertino?”, mormorò Elettra, lasciandosi scappare oltre alle lacrime anche alcuni singhiozzi.
Girolamo non ce la faceva a vederla in quello stato e, dopo alcuni istanti di tentennamento, la raggiunse a grandi passi, stringendola in una morsa decisa ma tenera allo stesso tempo. Le accarezzò più volte la schiena per tutta la sua lunghezza, fino a quando non la sentì smettere di tremare e singhiozzare.  “Era il suo lavoro, Elettra, sapeva quali erano i rischi”, sussurrò a pochissima distanza tra le sue labbra, prendendole in viso tra le mani e asciugandole delicatamente le guance umide di lacrime con i pollici.
Elettra lo guardò con i suoi grandi occhi azzurri, che in quel momento non apparivano più ricolmi di una rabbia trattenuta a stento, ma solo portatori di una tristezza immensa. “Promettimi..”, mormorò, prima di essere costretta a fare una pausa per controllare la propria voce, che appariva più tremolante del solito. “Promettimi che non farai più nulla del genere, che non darai più ordini del genere, che non ucciderai più nessuno”
A quelle parole Girolamo ruppe il contatto che si era creato tra i loro occhi: la sua mente era andata lontana, al giorno dopo, a quello che sarebbe successo nel Duomo fiorentino. 
No, non poteva farlo.
“Promettimelo”, ripetè lei. “Promettimelo guardandomi negli occhi”
La giovane prese il suo viso tra le mani, costringendolo ad osservarla.
Saranno stati quello occhi, quello sguardo ricolmo di tristezza al quale non si poteva dire di no, ma le parole gli uscirò dalla bocca come dotate di una vita propria.
“Lo prometto”, disse con un filo di voce.


Nda
Salve a tutti :D
Rieccomi qui dopo tanto tempo con il capitolo numero -2. Ancora poco e L'Altra Gemella sarà conclusa 
Ho appena iniziato l'università e sono un po' sempre di fretta, ma cercherò di postare gli ultimi due a breve, promessso :) 
Un saluto e alla prossima 

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Capitolo 38
*** L'Inizio della Fine ***


Capitolo XXXII: L’inizio della Fine
 

26 aprile 1478, domenica di Pasqua


Una settimana prima il Turco aveva fatto visita a Leonardo, ragguardandolo circa i dettagli del suo imminente viaggio nella terra sconosciuta ad occidente: c’era una nave ancorata al porto di Pisa, il Basilisco. Con quella nave, le proprie conoscenze e gli strumenti in proprio possesso l’artista avrebbe dovuto essere in grado di raggiungere il luogo in cui secoli prima era stato portato il Libro delle Lamine. Il capitano della nave, un certo Antonio de Noli, in quei giorni si trovava con una chiatta a Firenze, a caricare alcune merci. Leonardo lo aveva raggiunto ed era riuscito a rimediare un passaggio per tre sulla sua nave.
La chiatta sarebbe partita quella mattina alla volta di Pisa.
Per quella ragione,  Elettra si era recata al piccolo porto fiorentino, che sorgeva sulle rive dell’Arno, in un’ansa naturale, che permetteva così alle piccole imbarcazioni che riuscivano a risalire il fiume di avere un minimo riparo dalle intemperie.
Solitamente la giovane evitava di passare davanti al porto fiorentino: quella piccola realtà le ricordava per molti aspetti il porto di Pisa. E il porto di Pisa era associato con una nave che si perdeva all’orizzonte e lunghe attese sul porticciolo. I porti le ricordavano quel padre che non vedeva da due anni. E il mare. Quel mare di cui sentiva il disperato richiamo, ma che si era convinta ad ignorare: lei non sarebbe stata come suo padre, non se ne sarebbe mai andata da Firenze.
Camminò per un po’ tra pescatori che cercavano di vendere il frutto del lavoro di una notte e scaricatori di varie merci, prima di trovare ciò che cercava: seduti sulla banchina, in un zona del porto relativamente tranquilla, si trovavano Nico e Zoroastro. 
Lei gli sorrise a distanza, prima di unirsi a loro.
La sera del ritorno a Firenze si erano trovati al Cane Abbaiante tutti assieme: all’inizio i due si erano comportati in modo piuttosto freddo ed indifferente nei confronti di Elettra, poi con il passare della serata i rapporti si erano fatti più distesi. Come a tutte le cose, bisognava dargli tempo.
“Salve, signori”, disse, osservandoli attentamente: le sarebbero mancati, tutti quanti. Si conoscevano tutti e quattro fin da bambini e non avevano mai passato troppo tempo lontani da allora. Ora non si sarebbero più rivisti per mesi.
La giovane prese un lungo respiro, cercando di scacciare il fastidio alla gola, un avvertimento che le lacrime per la partenza erano già lì, pronte per essere versate.
Zoroastro le sorrise, come solo lui sapeva fare, con quel misto di ironia e sfrontatezza che lo distinguevano. “Come sei elegante, oggi”, commentò, tendendole una mano. La ragazza l’accettò più che volentieri e il moro le alzò leggermente il braccio, guidandola in una lenta  giravolta che aveva come intento quello di osservare ancora meglio la sua figura: quel giorno indossava una delicata giacca in broccato dai colori pastello, con una fantasia floreale; le arrivava a metà coscia e sotto portava un paio di pantaloni neri, quasi invisibili sotto agli stivali che le arrivavano fin sopra il ginocchio. Sotto alla giacca portava una camicia bianca, mentre i capelli erano stati raccolti molto attentamente in una treccia a corona. 
“Oggi sono a pranzo dai Medici”; spiegò lei. “Devo incontrarmi con mio zio fuori dal Duomo non appena la messa di Pasqua finisce e poi andiamo insieme a palazzo ad aspettare Giuliano”
“Ti stanno addomesticando troppo quelli là”, disse Zoroastro. Il suo sguardo pareva malinconico. “Ti preferivo prima, più selvaggia”
Lei fece spallucce, non riuscendo però a trattenere una piccola risata. “A differenza tua, la gente normale piano piano cresce”, commentò ironica, scompigliandogli i capelli.
L’uomo la prese tra le braccia, facendole fare nuovamente la giravolta e strappandole un urletto di sorpresa.
“Mi mancherai, sai”, mormorò Zoroastro, una volta che l’ebbe rimessa a terra.
“Mi mancherete anche voi”, rispose lei, abbracciandolo e invitando anche Nico ad unirsi a loro due. Involontariamente, una lacrima le scivolò velocemente su una guancia.
Il moro la notò, sbrigandosi a scacciarla il prima possibile.
L’abbraccio si ruppe.
“Promettimi una cosa”, disse l’uomo, con un’espressione insolitamente troppo seria stampata in volto. “Promettimi che dirai a quel bastardo che se osa farti soffrire appena torno lo vengo a cercare e lo concio per le feste”
“Sarà fatto, Zo”, rispose lei. “In fondo, chi non ha paura del temibile Zoroastro?”, aggiunse ironica.
Il suo sguardo però si fece più pensieroso, quando notò Nico guardarsi in giro con la stessa espressione di un cucciolo smarrito che cerca la propria mamma: evidentemente cercava il proprio maestro, che non si era ancora fatto vivo.
In ritardo fino all’ultimo.
Zoroastro sospirò, chiedendosi mentalmente dove fosse andato a cacciarsi Leonardo. Si guardò in giro a sua volta, in cerca di qualcosa da fare. “Che ne dice se ti predicessi il futuro per un’ultima volta?”, chiese rivolto ad Elettra.
“Sai che non credo in queste cose, ma per questa volta potrei anche accontentarti”, rispose lei.
Il moro sorrise, soddisfatto di sè stesso, ed estrasse dalla bisaccia che teneva a tracolla il proprio mazzo dei tarocchi. “Estrai due carte”, le spiegò. “In una ci sarà il tuo futuro e nell’altra quello di Leonardo”
La giovane annuì e chiuse gli occhi, poi tastando le carte, ne estrasse un paio: la prima era un carro rovesciato, mentre la seconda rappresentava uno scheletro che portava tra le mani una falce. “Cosa significano?”
La sua domanda rimase senza risposta, dal momento che Da Vinci fece improvvisamente la sua comparsa.
“Che ti venga un accidente, dove sei stato tutta la notte?”, gli chiese il moro.
“Sono stato stregato da un ultimo addio”, rispose lui, lo sguardo vago, la mente rivolta alla notte prima, a Lucrezia Donati. A quello che si erano detti. A quello che avevano fatto.

“Riario e i Pazzi stanno venendo a Firenze, vogliono uccidere Lorenzo”

Ciò che lei gli aveva rivelato era la verità, o l’ennesima delle sue manipolazioni? Quelle parole lo avevano tormentato per tutta la notte. E lo stavano tormentando anche ora.
“Maestro, la chiatta è stata caricata e il Capitano è ansioso di partire”, disse Nico.
“Quel pallone cancrenoso ha minacciato di raddoppiare il biglietto per il ritardo”, aggiunse Zoroastro. 
Lo sguardo dell’artista invece era ancora perso. E non accennava a tornare con i piedi per terra.
“Leonardo, Zo ha ragione, dovreste partire”. La voce di Elettra era ridotta ad appena un sussurro, quando poggiò la mano sulla sua spalla.
Da Vinci, soprappensiero, a quel contatto inaspettato sobbalzò. Si voltò verso di lei, l’inquietudine nel suo sguardo malcelata. “Cosa...farai tu, ora?”, le chiese.
La giovane sorrise, mestamente. “Innanzitutto vi stritolo ancora un po’”, disse, aprendo le braccia ed invitando così l’artista ad abbracciarla. “E poi resterò qui sul molo a sventolare un fazzolettino bianco fino a quando non diventerete un puntino indefinito all’orizzonte”
“E poi?”, chiese nuovamente, come se qualcosa non lo soddisfacesse appieno. 
“Sarò tutto il giorno a palazzo”
Le iridi dell’artista si dilatarono, forse per un sentimento non dissimile dalla paura. Fu solo un istante, poi Leonardo parve finalmente tornare in parte con i piedi a terra. “Bene, cerchiamo di risparmiare denaro e muoviamoci”, disse, posando lo sguardo sulle carte che Elettra aveva estratto poco prima. “E quelli che significano?”, chiese a Zoroastro.
“Ah niente, ci stavamo interrogando su dove diavolo fossi finito”, rispose lui.
“Il carro...rovesciato?”, chiese perplesso.
“Un’incontrollata passione conduce alla sconfitta”, disse il moro. “È tempo di andare, direi. Coraggio”, aggiunse, focalizzando finalmente la conversazione sul motivo per cui si trovavano lì.
“È così quieto”, commentò Leonardo, guardandosi in giro e concentrando la propria attenzione sull’imponente cupola del Brunelleschi, che spiccava su tutte le altre costruzioni, dall’altra parte dell’Arno.  “Le campane si sono fermate, la messa è cominciata”, aggiunse soprappensiero.
Sospirò, poggiando meglio la propria bisaccia su una spalla. 
“ Al diavolo!”, disse, poggiandola di scatto a terra. “Devo fare una cosa prima di partire”
“Maestro, non c'è tempo”. L’espressione di Nico era seriamente perplessa, come del resto quella di tutti gli altri.
“La chiatta non aspetterà”, gli fece eco Zoroastro. “Devi decidere: il Libro delle Lamine o qualunque sia la cosa che ti distoglie, decidi!”
“Ho deciso”, rispose Leonardo, sistemandosi meglio la propria spada al fianco. “Tu trova...trova un modo per tenerli qui almeno finché non torno, d’accordo? Non starò via molto, tu ritardali un po', intesi? Per favore”
Zo e Nico lo guardarono allibiti, mentre afferrava Elettra per un polso. Appariva parecchio di fretta. 
“Hai una spada?”, le chiese.
La giovane lo guardò a metà tra il perplesso e il preoccupato. “Sì, perchè me lo chiedi?”
“Muoviamoci”, disse per tutta risposta, trascinandola via.
Il giovane Machiavelli e il moro li osservarono allontanarsi fino quando non scomparvero alla loro vista. Poi si guardarono a vicenda, ancora troppo frastornati per dire anche solo una qualche parola.
Fu Nico, dopo parecchi secondi, a rompere il silenzio. Il suo sguardo fu attirato dalle carte ancora poggiate su di un vecchio barile.
“Quella cosa significa?”, chiese, indicando la carta con disegnato lo scheletro armato di falce.
“Una fine che non può essere evitata in alcun modo”, rispose Zoroastro.
 

***


“Leonardo, che sta succedendo?”, chiese Elettra preoccupata, con il fiato corto mentre cercava di restare al passo del brillante artista, che aveva preso a correre per le vie fiorentine.
“I Pazzi vogliono uccidere Lorenzo, dobbiamo avvisarlo prima che sia troppo tardi”, rivelò lui, voltandosi un istante per strappare un lembo di stoffa da una delle numerose bancarelle che affollavano le vie del mercato. Lo usò come tappo per una strana boccetta che gli era comparsa tra le mani e che conteneva uno strano liquido scuro.
“Girolamo...”, mormorò lei, fermandosi nel bel mezzo della strada e obbligando così Da Vinci, che ancora le teneva il polso a fare lo stesso. La frase sarebbe continuata con un ‘...sa di questo piano?’, ma non ebbe il coraggio di pronunciarla.
Leonardo a guardò negli occhi, sinceramente dispiaciuto. “Mi dispiace, Elettra”
La giovane annuì, in un gesto di autocommiserazione: quell’uomo l’aveva ingannata per l’ennesima volta. Le aveva mentito. Le aveva mentito guardandola negli occhi, per di più.
Prese dei lunghi respiri per calmarsi, mentre si concentrava su un punto indefinito della strada di terra battuta ai propri piedi. Quando rialzò lo sguardo sull’artista, esso apparve come un mare in tempesta. Quegli occhi avevano un chè di combattivo, che appariva così in contrasto con l’espressione dura del suo viso. “Dobbiamo muoverci”, disse, con la voce che cercava di essere ferma e decisa, ma che, invece, pareva tremante.
Si udirono delle urla e istintivamente si voltarono entrambi verso il Duomo: da quella che doveva essere la navata centrale usciva del denso ed inusuale fumo nero.
Elettra si girò di scatto verso Leonardo. “Dobbiamo sbrigarci!”, urlò per farsi udire sopra alle grida della gente.
Si misero immediatamente entrambi a correre di nuovo.
 

***

 
Per quanto in quei pochi minuti di corsa avesse cercato di prepararsi mentalmente a ciò che avrebbe trovato una volta oltrepassato il portale di accesso del Duomo, Elettra non era pronta.
Non era pronta a ciò che la stava aspettando.
La gente correva in preda al panico in cerca di salvezza, urtandola e cercando di spingerla verso l’uscita.
La fazione fedele ai Medici e quella fedele ai Pazzi combattevano tra loro senza esclusione di colpi. Intorno a lei i corpi di persone che conosceva fin da quando era nata cadevano a terra come tanti birilli.
Si udivano urli, pianti e lamenti.
Ma Elettra non udiva nè vedeva nulla all’infuori di Vanessa in lacrime, china su di un corpo. Sotto ad esso una chiazza di sangue si allargava a vista d’occhio.
Giuliano.
Restò per diversi secondi immobile, sulla soglia, incapace di muovere qualsiasi muscolo poi si decise: doveva far qualcosa. Con gesti fulminei, li raggiunse, chinandosi anche lei affianco all’uomo, ormai morente.
“Giuliano”, mormorò, non riuscendo a trattenere e lacrime.
“Sto...morendo”, disse lui, con un filo di voce.
Elettra scosse la testa. “No...io non posso permetterlo”, ribattè, cercando di tamponare come meglio poteva il ventre dell’uomo con la stoffa della propria giacca. Per ogni punto che tamponava, il sangue prendeva a sgorgare con più intensità da altri. In preda al panico, osservò Giuliano dritto negli occhi: sapevano entrambi che non c’era più niente da fare.
“Va...bene...così”, sussurrò lui, con voce sempre più flebile. Dovette fare uno sforzo immane per riuscire ad afferrare debolmente le mani delle due giovani accorse al suo capezzale.
Elettra la strinse con entrambe le proprie. Il viso ricolmo di lacrime e i singhiozzi trattenuti a stento.
Vanessa invece guidò la sua mano verso il proprio ventre, poggiandola su di esso. “La vostra stirpe continuerà a vivere in me”, disse, riprendendo anche lei fiato tra un singhiozzo e l’altro.  “Porto in grembo vostro figlio, Giuliano”
Il giovane de Medici piegò leggermente le labbra in quello che pareva un accenno di un sorriso, dopodiché chiuse gli occhi, la stretta delle sue mani che veniva meno.
Elettra voltò il capo dall’altra parte, incapace di osservare il corpo di quello che un tempo era stato il suo migliore amico. Si coprì il volto con la mano libera, soffocando con essa ogni singolo singhiozzo che le scuoteva per intero l’esile corpo.
Inorridì quando si osservò le mani, ricoperte di sangue. Il sangue di Giuliano.
Anche gli abiti ne erano zuppi.
“È troppo tardi...venite via”
Quando era arrivato Andrea? O era lì da ancora prima?
Lo vide cercare di aiutare Vanessa ad alzarsi, ma la giovane invece si buttò sul corpo di Giuliano, stringendo tra le mani la stoffa impregnata di sangue della sua camicia, ridotta a brandelli dalle innumerevoli coltellate che i congiurati gli avevano inflitto. 
“Venite via”, ripetè lui. “Vanessa...Elettra”, tentò di chiamarle.
A sentire il maestro pronunciare il suo nome, Elettra parve riscuotersi almeno in parte. “Vanessa...dovresti fare come dice Andrea”, disse con un filo di voce, poggiando una mano sulla sua, ancora poggiata sul petto di Giuliano. 
“No”, ribattè lei, categorica.
Fu in quel momento che uno dei congiurati si avvicinò brandendo una spada e puntandola verso il Verrocchio che, di spalle rispetto al suo aggressore, vide appena il luccichio della lama. Troppo tardi per poterlo evitare. Non gli restò atro che alzare le mani in un inutile quanto istintivo gesto di protezione ed attendere il colpo.
Colpo che però non arrivò mai.
Fu un clangore di spade a portarlo a riaprire nuovamente gli occhi che la paura gli aveva fatto serrare.
In piedi davanti a lui, con la spada stretta in pugno, Elettra aveva parato l’attacco nemico.
Vide l’avversario della giovane ritrarre la propria arma, frastornato: evidentemente non si aspettava che qualcuno sarebbe stato in grado di contrastarlo. Tentò un nuovo affondo, questa volta diretto alla ragazza, ma lei fu più veloce e con un gesto fulmineo conficcò la propria lama nel ventre dell’uomo.
Lo vide dilatare gli occhi dalla paura e poi, mentre estraeva la spada, il suo aggressore cadde sulle propria ginocchia, prima di crollare a terra, morto.
Elettra si voltò verso Andrea, che nel frattempo era riuscito a staccare Vanessa dal corpo di Giuliano. Il suo viso era scosso e, per la prima volta in vita sua, anche lo sguardo del suo maestro pareva disorientato.
“Andate!”, disse rivolta ad entrambi.
“Vieni con noi”, provò a convincerla il Verrocchio.
Scosse la testa. “Non posso, ho giurato fedeltà ai Medici”. Un ultimo sguardo, poi si buttò nuovamente nella mischia.


***


Elettra cercò di guardarsi in giro alla ricerca di Leonardo, ma la confusione era troppa. Riuscì in modo fortuito a schivare un colpo di spada, scartando all’ultimo verso destra e poi, in gesto fulmineo, disarmò il proprio aggressore. Fu in quella frazione di secondo che vide Clarice e Gentile Becchi: si trovavano in una zona marginale del Duomo; alle loro spalle le tre figlie di Lorenzo cercavano di nascondersi tra le vesti dei due come un piccolo gruppo di anatroccoli spaventati si rifugia tra le piume dei genitori. Davanti a loro, invece, Padre Maffei e Padre Bagnone avanzavano lentamente tenendo stretti in pugno alcuni affilati coltelli.
Lo sguardo di Clarice vagava senza sosta da una parte all’altra, in cerca di qualcosa che aiutasse loro ad uscire da quella brutta situazione; i suoi occhi si fissarono su una delle armi che uno dei loro aggressori impugnava. Istintivamente, portò un braccio dietro alla schiena, in gesto di protezione verso le sue bambine, che si strinsero ancora di più tra loro. Arretrarono tutte insieme, ben consapevoli che ogni passo le avvicinava ancora di più alle solide pareti del Duomo fiorentino. Presto sarebbero stati tutti quanti in trappola.
La Madre di Firenze si guardò in giro: in quel momento la sua espressione pareva non differire troppo da quella di un topo in gabbia.
Poi lo vide. 
Sulla sottile balaustra che divideva la zona dell’altare dal resto della chiesa vi era poggiato un pensante candelabro d’argento. Le sarebbe bastato allungare il braccio per afferrarlo.
In un gesto estremo, prese l’oggetto tra le mani e poi, con tutta la forza con cui disponeva, lo utilizzò per il colpire il prete a lei più vicino. L’uomo, già ferito, stramazzò immediatamente al suolo.
L’altro congiurato, sentendo mancare l’appoggio del compare, alzò in aria il proprio coltello, pronto a colpire Gentile Becchi.
Il colpo però non andò mai a segno: un’istante prima di abbassare l’arma, l’uomo strabuzzò gli occhi e lo lasciò cadere a terra; con le ultime forze cercò di portare le mani al proprio petto, da cui fuoriusciva la lama insanguinata di una spada. Il corpo ormai morente sussultò quando essa venne estratta e poco dopo piombò al suolo.
Becchi osservò disorientato la chiazza di sangue che si allargava sempre di più sotto a quello che ormai era diventato un cadavere, poi alzò lo sguardo verso la persona che aveva salvato la vita all’intero gruppo: Elettra sembrava anche lei scossa per ciò che aveva dovuto fare; teneva la propria arma abbassata ed aveva gli abiti inzuppati di sangue. Sangue che le aveva screziato anche l’ovale pallido del viso.
“Dobbiamo...andare”, disse con un filo di voce. 
Non si accorse, nessuno lo fece, che il prete che Clarice aveva colpito si era rialzato da terra, nè che aveva recuperato il proprio coltello, intenzionato a colpire la giovane che, all’oscuro di tutto, gli stava dando le spalle. Se ne accorse quando ormai era troppo tardi, quando vide Becchi trasalire. Fece per voltarsi, ma qualunque gesto sarebbe stato comunque vano.
Per l’ennesima volta, quel giorno, il fato pareva essere dalla sua parte: nemmeno quel colpo, come quello di poco prima, riuscì ad andare a segno. 
Lucrezia Donati, proprio l’ultima persona che si sarebbe aspettata come salvatrice, si interpose tra lei e il suo aggressore, pugnalandolo al ventre con uno stiletto.
Elettra ci mise qualche istante a riprendersi e per capire cosa effettivamente fosse successo. Non appena ciò accadde, fece alcuni passi indietro, la spada di nuovo alta davanti a sè, puntata verso Lucrezia. 
La donna alzò immediatamente le mani, non lascando però la presa sulla propria arma. “Se avessi avuto l’intenzione di farvi del male, non sarei intervenuta”, disse.
“Come faccio a sapere che non è un altro dei vostri trucchi?”, chiese la bionda, ostile.
La domanda restò a vuoto, dal momento che lo sguardo di tutti fu attirato da un grido di esultanza, proveniente dalla bocca di Francesco Pazzi: Lorenzo era a terra, disarmato, che teneva una mano premuta sul collo, da cui nonostante la pressione esercitata, il sangue fuoriusciva copiosamente. Videro la spada del Pazzi calare con forza sul Magnifico ma, all’ultimo istante, essa venne fermata da una seconda arma, quella di Leonardo: le due lame cozzarono con violenza, producendo nell’aria un intenso rumore metallico.
Tirarono un sospiro di sollievo.
Esso, però, fu di breve durata dal momento che Da Vinci fu presto accerchiato dai congiurati e, nonostante la sua incredibile abilità nel maneggiare contemporaneamente due spade, riusciva giusto a parare i colpi avversari, figuriamoci a rispondere.
In quelle condizioni sarebbe presto perito anche lui.
Lo sguardo di Elettra passò velocemente più volte da quella scena, che si stava svolgendo dalla parte opposta del Duomo, a Lucrezia, su cui teneva ancora la spada puntata.
La giovane non sapeva che fare: non intervenire in aiuto di Leonardo avrebbe firmato la condanna a morte sia del brillate artista che del Magnifico, ma lasciare soli suo zio, Clarice e le bambine sarebbe equivalso anch’esso ad una sentenza di morte.
“Dovete aiutare Lorenzo”, disse la Donati, guardandola negli occhi e fermando così il suo sguardo. “Lui e Leonardo moriranno se non farete immediatamente qualcosa”
“Devo portare loro in salvo”, ribattè Elettra.
In quel momento, Leonardo perse l’equilibrio, riuscendo a schivare per miracolo un fendente altrimenti mortale.
La giovane, già in procinto di allontanarsi, si bloccò, osservando la scena pietrificata.
“Elettra...”, mormorò Lucrezia in tono implorante. “Se Lorenzo muore saremo morti tutti quanti”, aggiunse.
“Dovresti andare”, ripetè Gentile Becchi, in tono dolce, lo stesso che usava quando lei era bambina. “Noi...sapremo cavarcela”. Se dalla sua voce non traspariva nient’altro che affetto e una velata supplica, i suoi occhi, così simili a quelli della nipote, apparivano preoccupati, a tratti fin impauriti. 
“Non è vero...”, sussurrò Elettra.
“Li porterò al sicuro io”, si intromise la Donati.
“No!”, ribattè la giovane, decisa. “Voi siete una spia, non esiterete a tradirci”
“Non avete altra scelta”
Era vero. Elettra non aveva altra scelta, non se voleva salvare tutti quanti.
Sospirò, annuendo impercettibilmente con la testa. 
Sentì Lucrezia spronare gli altri a muoversi, ma all’ultimo la fermò, bloccandola con la propria spada premuta sul collo. “Sappiate che se dovesse succedere qualcosa a mio zio, alle bambine o a Clarice, se esco viva da qui vi vengo a cercare”, sibilò, nel tono più minaccioso che fosse in grado di fare.
Lasciò la presa, permettendo così al gruppo di fuggire, e lei si mise a correre, cercando di raggiungere Leonardo e Lorenzo il prima possibile.
 

***


“Lasciatemi finire i Medici, scribacchino, e vi lasceremo vivere”, disse Francesco Pazzi, puntando la propria arma in direzione di Leonardo. Le sue parole non poterono apparire più false dal momento che, appena finito di pronunciarle, tentò un affondo dritto al ventre dell’artista che, senza neanche troppi sforzi, evitò il fendente scartando a destra.
“In una Firenze governata dai Pazzi?”, ribatté Leonardo, con pungente sarcasmo. “Preferirei morire combattendo”
“Come volete”, commentò il Pazzi. Un ghigno stampato in volto. Provò ad attaccare di nuovo il geniale artista, che non solo evitò nuovamente il colpo ma che, con un gesto fulmineo, contrattaccò. Francesco, ancora sbilanciato in avanti per via del fendete andato a vuoto, fu troppo lento ad arretrare e venne ferito di striscio ad una gamba. Nonostante esso fosse poco più di un graffio, lanciò un grido di dolore e, tenendo una mano premuta sulla parte lesa, fece alcuni passi indietro, zoppicando. Immediatamente un paio di suoi scagnozzi si fecero avanti, cominciando ad incalzare Leonardo con le proprie spade. 
Il colpo di una di esse sarebbe senz'altro andato a segno, se non fosse stato deviato da una terza lama. Da Vinci spostò per un istante lo sguardo a destra dove, al proprio fianco, Elettra aveva fatto la sua comparsa. La giovane in quel momento stava dimostrando una tecnica invidiabile: evitava con agilità i fendenti nemici e, approfittando delle debolezze altrui, riusciva a contrattaccare in modo fulmineo ed estremamente preciso; a Leonardo, attendo osservatore della natura, quel comportamento appariva non dissimile da quello di una vipera.
“Posso tenerli a bada per un po'”, disse lei, tra un colpo di spada e l’altro. “Tu porta in salvo Lorenzo”, aggiunse.
“Ho qualcosa di meglio”, ribattè Leonardo, con uno dei suoi tipici sorrisetti sfrontati. “Tu tieniti pronta a correre”
Elettra annuì.
Con un abile gesto, Da Vinci prese dalla propria cintura la strana boccetta che aveva tappato con della stoffa mentre correvano in Duomo. Dopodiché la lanciò in aria insieme ad una candela accesa: al contatto con la fiamma, il tessuto prese immediatamente fuoco. L’ampolla cadde infine a terra, andando in frantumi e permettendo al liquido al suo interno di spargersi per tutto il pavimento; esso doveva essere altamente infiammabile dal momento che prese immediatamente fuoco, producendo un bagliore accecante.
Leonardo portò un braccio del Magnifico intorno alle proprie spalle e poi, facendo leva sulle ginocchia si alzò, trascinandolo velocemente fino alla sagrestia, alle loro spalle.
Elettra cercò di seguirli, ma uno dei congiurati, che a differenza degli altri non era cascato nel trucco del geniale artista, le bloccò il passaggio. Osservò Da Vinci armeggiare con le due pesanti porte della sagrestia: appariva in difficoltà.
“Leonardo, chiudi quella porta!”, gli urlò, come ad incoraggiarlo. Lo vide tirare verso di sè le grandi maniglie con un po' più di forza, ma i battenti si mossero appena; a quanto pare per muoverle serviva più di una persona.
Con un brivido freddo lungo la schiena, Elettra si accorse che Francesco Pazzi e gli altri congiurati si erano ormai accorti dello stratagemma di Da Vinci e si stavano dirigendo verso di lui.
La giovane osservò l’uomo davanti a sè, poi i cospiratori, che avanzano minacciosamente, ed infine Leonardo, ora in evidente difficoltà. Con una punta di rammarico, Elettra si rese conto che non avrebbe mai fatto in tempo a raggiungere Da Vinci ed aiutarlo a chiudere le porte dall’interno; tuttavia c’era un’ultimo gesto che poteva tentare. 
In quel caso non avrebbe avuto via di scampo... Ma le importava davvero?
Il suo sguardo finì per una frazione di secondo sul corpo di Giuliano, inerte nel bel mezzo della navata centrale, in un pozza del suo stesso sangue.
No, non le importava.
Ignorando completamente l’uomo armato davanti a lei, scattò verso le porte, buttandosi contro ad esse con tutto il proprio peso. Inutili furono i tentativi di Leonardo per mantenerle aperte, per permetterle di entrare.
“Proteggi Lorenzo, Leonardo”, disse con un filo di voce, all’artista che dall’altra parte gridava il suo nome, ben consapevole delle conseguenze che quel gesto disperato avevano portato.
Elettra prese un lungo respiro mentre lo udiva bloccare le serrature: una parte di lei si sentiva sollevata che per una volta Leonardo stesse facendo ciò che gli aveva chiesto.
Era certa che almeno loro due si sarebbero salvati.
Si voltò lentamente, mantenendosi con le spalle premute contro il pesante portale: davanti a lei i congiurati la osservavano con le spade puntate. 
Forse quella sarebbe stata davvero la fine, pensò Elettra, stringendo nervosamente l’elsa della propria arma.


Nda
Vi prego, non odiatemi.
Il motivo per cui ho deciso di pubblicare oggi questo capitolo è che a Natale si è tutti più buoni, quindi nutro la speranza che non verrete a casa mia armati di torce e forconi per farmi la pelle. Se deciderete di infierire dopo le vacanze, molto probabilmente mi troverete barricata al Castello Sforzesco, che mi sembra un luogo abbastanza sicuro. 
Così questo è il penultimo capitolo, l'epilogo pensavo di pubblicarlo il 21 gennaio (se me ne scordo però ricordatemelo, la memoria è quella che è), insieme ai ringraziamenti e ai saluti.
L'avventura è quasi finita.
Alla prossima e buone feste.
 

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Capitolo 39
*** Epilogo ***


Epilogo 

“Brucerete presto all’inferno”, disse Francesco Pazzi. 
“Anche voi”, ribattè Elettra, con il fiato corto, mentre cercava di parare l’ennesimo colpo di spada dell’uomo.  
Si guardò in giro: una parte dei congiurati si era chiusa a semicerchio intorno a lei, impedendole qualsiasi tentativo di fuga. 
Davanti a lei delle accumunate spade. Dietro, le massicce porte della sagrestia. 
Doveva resistere. Doveva resistere per permettere a Leonardo di portare in salvo Lorenzo. 
Alle spalle dei suoi aggressori intravvide il corpo di Giuliano. Dove si trovava lui ora? Sarebbe finito tutto così o c’era altro, dopo? Presto lo avrebbe scoperto anche lei, forse si sarebbero rivisti. 
Provò a prendere aria, ma la sua gola si faceva di momento in momento sempre più serrata. La paura dell’ignoto, di quello che sarebbe o meno venuto dopo, ora si faceva sentire. 
Tutto si stava facendo confuso intorno a lei; i suoi erano gesti meccanici: affondi e parate volti unicamente a distrarli, a non permettere loro di avvicinarsi a quelle porte. 
Quasi non si accorse di essere stata ferita ad un braccio dalla lama del Pazzi; sentì solo una leggera pressione, poi vide la stoffa della propria giacca strappata e una chiazza di sangue che si allargava a vista d’occhio, che andava a ricoprire i delicati ricami color pastello del broccato di rosso scarlatto. Avrebbe dovuto provare dolore, ma non ne sentì. Come non sentì la propria spada caderle di mano e qualcuno bloccarle violentemente i polsi dietro alla schiena. 
Si ritrovò a terra, china sulle proprie ginocchia, bloccata. 
Vide Francesco Pazzi accovacciarsi di fronte a lei, talmente vicino che poteva sentire il suo fiato caldo sul viso. 
“Come desiderate morire, madonna?”, chiese, con un sorrisetto sadico e l’espressione fin troppo soddisfatta. 
Elettra cercò di prendere fiato; la sua gabbia toracica che si alzava ed abbassava velocemente, a cercare di prendere più aria possibile. Aria che nonostante tutto pareva mancare totalmente. 
Provò ad aprire bocca, ma alla fine ci rinunciò, rendendosi conto che qualsiasi cosa avesse detto la sua voce sarebbe risultata tremolante. Sbattè più volte le palpebre, cercando di scacciare così le lacrime che le annebbiavano la vista: non avrebbe pianto, non gli avrebbe dato la soddisfazione di vedere in lei la paura. 
Lo avrebbe guardato dritto negli occhi. Fino alla fine. 
Il Pazzi la osservò per alcuni istanti, in silenzio, in attesa di una risposta. Poi, probabilmente annoiato, si alzò. Quell’espressione soddisfatta che non voleva scomparire dal suo viso. 
“Come desiderate”, disse sarcastico. “Deciderò io” 
Fece cenno ad una delle guardie armate con lui di passargli la spada della giovane; avrebbe usato quella. 
Si concesse alcuni secondi, poi alzò la spada verso l’alto e la calò. 
In quell’istante il pesante portone ligneo centrale dell’ingresso si spalancò. 


Nda
E così siamo arrivati alla fine di questo viaggio lungo quasi un anno e mezzo. 
Mi dispiace di non essere riuscita a pubblicare il giorno che avevamo stabilito, ma prima ci sono stati dei problemi di connessione (grazie Telecom -.-), poi ho avuto dei seri problemi in famiglia ed infine, la cigliegina sulla torta, la sessione invernale di esami. Sono più o meno sopravvissuta a tutto ed ora eccomi qui per i ringraziamenti.
E' stata una splendida avventura, questo devo dirvelo. Una splendida avventura che mi ha permesso di conoscere delle persone straordinarie, che mi ha fatto crescere e anche aprirmi un po' di più con gli altri.
Non so voi, ma io sono qui che scrivo con gli occhi lucidi di commozione.
Ci sono stati dei momenti difficili, mi tocca ammetterlo, ma questa storia mi ha dato tanto e, nel mio piccolo, spero di essere riuscita a trasmettere qualcosa anche a voi, come voi d'altro canto avete fatto con me. 
Come sempre, fatemi sapere cosa ne pensate e arrivederci al seguito
Questo è il link del seguito: Cielo e Tenebra
 

 

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