Il profumo delle Calendule di Tada Nobukatsu (/viewuser.php?uid=947887)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Rosso sangue ***
Capitolo 2: *** Animale selvaggio ***
Capitolo 3: *** Quel luogo chiamato casa ***
Capitolo 4: *** La bambina delle pere ***
Capitolo 5: *** Forza ***
Capitolo 6: *** Impegno ***
Capitolo 7: *** Obiettivo ***
Capitolo 8: *** Mani sporche di sangue ***
Capitolo 9: *** La Ragazza Rubino ***
Capitolo 10: *** Chi sei veramente ***
Capitolo 11: *** Desiderio e paura ***
Capitolo 12: *** Senza Anima ***
Capitolo 13: *** Comprensione ***
Capitolo 14: *** Erwin Smith ***
Capitolo 1 *** Rosso sangue ***
Rosso
sangue
Levi
percorse il cortile esterno del centro di addestramento, diretto verso
l'ufficio di Erwin, seguito da un paio dei suoi sottoposti. Era stato
convocato per discutere della prossima spedizione e dato che
nell'ultimo periodo Erwin si era preso bizzarramente la briga di
presidiare alcuni degli addestramenti delle reclute, Levi si era
trovato costretto a raggiungerlo lì.
Fu
allora che la vide per la prima volta, con la coda dell'occhio, e certo
non gli avrebbe dato molta importanza se non fosse stato per quei suoi
accecanti capelli rossi: come fiamme le avvolgevano il viso, ricadendo
appena sotto il mento e premurandosi di nascondere uno dei suoi occhi
azzurri con una ciocca. Era sola. Da dentro il casolare alle sue spalle
sopraggiungevano le urla dei compagni, intenti a cenare e far
comizi, discutendo della faticosa giornata appena superata. Ma lei era
sola, appoggiata alla ringhiera in legno con il naso rivolto al cielo
stellato. Sorrideva come una bambina, una bambina piena di gioia
pensò Levi visto che potè distintamente sentirla
canticchiare, nell'istante in cui le passò a fianco.
Chissà che aveva da essere tanto allegra. Dondolava la testa
delicatamente e intonava un motivetto a fior di labbra. Aveva la voce
morbida, anche se particolarmente acuta.
Levi
la superò senza concederle ulteriori attenzioni, anche se
quei capelli rossi non se li sarebbe più tolti dalla testa
per il resto della serata. Riportava alla mente il sangue che troppe
volte aveva visto versare intorno a lui, quello stesso sangue che
puntualmente lasciava qualche orribile macchia nascosta sui suoi
vestiti o sulle sue armi e che poi ripulire era una vera rogna. Era un
colore che non gli piaceva per niente. Esistevano davvero persone che
lo portavano addosso con tanta disinvoltura e giovialità? La
cosa lo irritava.
«Sei
in ritardo» lo accolse Erwin, aprendo la porta del suo
casolare e permettendogli di entrare.
«Non
dire stupidaggini» lo rimbeccò Levi, entrando.
«Sei
nervoso» notò Erwin, accorgendosi di come il tono
di Levi fosse risultato più aspro del solito.
«Le
reclute mi irritano» spiegò Levi, mettendosi a
sedere con pesantezza sulla sedia davanti alla scrivania.
«Le
hai conosciute?» chiese Erwin,raggiungendolo.
«Non
proprio» ma quei capelli color sangue bastavano a fargli
venire il mal di stomaco dal nervoso.
«Andrò
subito al sodo, allora, visto il tuo umore. Eccoti tutti i
dettagli...» annunciò porgendo al capitano un
fascicolo e cominciando a spiegare la strategia della prossima
spedizione.
Era
da poco mattina, quando le reclute si riunirono nel cortile esterno per
un allenamento libero. Le regole prevedevano il corpo a corpo, semplice
combattimento umano contro umano, niente di particolarmente stancante
se entrambe le parti si accordavano nell’impegnarsi il meno
possibile. I ragazzi si raggrupparono a due a due nei vari angoli del
cortile, provando tecniche di combattimento di vario genere, mentre uno
degli ufficiali passeggiava tra loro correggendo solo qualche postura e
valutandone le capacità. Poi si scambiavano, sceglievano
liberamente il prossimo compagno, ogni tanto azzardavano addirittura a
riposarsi, anche se non troppo a lungo per evitare le sgridate e le
punizione, e dopo ricominciavano. Il resto degli ufficiali era intento
a discutere di faccende private, in un angolo, buttando solo un occhio
ogni tanto sul gruppo di reclute per assicurarsi che ci fosse ordine e
disciplina.
Erwin
era tra loro e scorreva gli occhi sulla lista dei cadetti, leggendone i
nomi, mentre i suoi colleghi si preoccupavano di politica e
finanziamenti. Non era quello di cui si impensieriva maggiormente lui
in quel momento, per questo destinava loro la minima attenzione.
«Quanti
di loro hanno espresso il desiderio di unirsi all’Armata
Ricognitiva?» la voce di Levi alle sue spalle diede
consistenza alle sue preoccupazioni.
«Sempre
troppo pochi. Badano bene a voler salva la vita» disse Erwin.
«Non
copriremo le perdite, non è così?»
«Se
continuiamo di questo passo l’Armata Ricognitiva
andrà scomparendo. Senza considerare che anche il popolo non
prova fiducia in noi e i piani alti sono sempre più
riluttanti a concederci finanziamenti per le spedizioni.»
"Che
branco di idioti" avrebbe voluto dire Levi, ma si tenne per
sé quell'insulto, sapendo che tanto non ce ne sarebbe stato
bisogno: Erwin sapeva sempre cosa pensava.
Si
guardò intorno, apparentemente disinteressato e annoiato,
quando Erwin gli porse la domanda che avrebbe voluto fargli anche
prima: «Come mai qui?»
«Volevo
dare un'occhiata» si limitò a rispondere Levi.
«Chissà quali di questi volti rivedrò
la settimana prossima tra le file della nostra armata.»
«Non
sei mai stato uno a cui interessava.»
«Allora
non mi conosci abbastanza.»
Non
era vero, Erwin lo conosceva eccome e Levi sapeva che aveva ragione.
Ancora
una volta gli occhi caddero con una certa prepotenza su quel colore
rosso così accecante. Più lo guardava,
più gli ricordava il sangue versato nei campi là
fuori e la cosa lo mandava in bestia.
«Da
quanto tempo è in pausa?» chiese con una certa
irritazione, notando come lei fosse l'unica tra i suoi compagni a
starsene seduta a terra. La testa sollevata al cielo, gli occhi chiusi,
come addormentata, e ancora quello stupido sorriso sulle labbra. Gli
dava decisamente sui nervi.
Erwin
guardò la ragazza e tirò un leggero sospiro,
senza rispondere, come se non ne avesse bisogno. A parlare al suo posto
fu l’istruttore Keith, una volta Comandante, un uomo
scorbutico, irascibile e sicuramente poco propenso al perdono. Si
avvicinò alla ragazza ringhiando come un cane e
alzò la gamba, pronto a sferrarle un calcio. La mano della
ragazza scattò come meccanica, afferrando la punta dello
stivale dell’istruttore, bloccandolo. Solo allora lei
aprì gli occhi e guardò curiosa ciò
che aveva afferrato, come se neanche avesse avuto coscienza di
ciò che era successo. Quando notò lo stivale
sobbalzò, spaventata.
«Che
fai qui a terra?» le urlò contro Keith, ignorando
il fatto che il suo piede fosse ancora ben saldo tra le dita della
ragazza.
«Niente!»
balbettò lei, sconvolta dal fatto che
l’istruttore avesse voluto colpirla.
«E
i tuoi compagni che fanno invece?» urlò nuovamente
Keith.
La
ragazza si guardò attorno, come se fosse appena arrivata,
poi sorridente rispose: «Si stanno allenando!»
Si
rizzò sulla schiena, orgogliosa di aver dato una risposta
corretta, ma la cosa parve non compiacere Keith come aveva forse
sperato.
«E
perché tu non lo stai facendo?» urlò
Keith sempre più forte, facendola spaventare ancora di
più.
«Non
lo so, lo chieda a loro!» piagnucolò lei.
«L'hanno
di nuovo messa da parte» osservò Erwin.
«Nessuno vuole avere a che fare con lei.»
Quei
capelli rossi come il sangue erano per Levi un motivo più
che sufficiente, ma comunque chiese con una certa curiosità:
«Per quale motivo?»
Erwin
si limitò a sospirare e alzare le spalle, in un gesto di chi
sa ma preferisce lasciar perdere.
«Luciel!»
chiamò Kieth, facendo sobbalzare un ragazzo alto circa un
metro e ottanta, dai capelli biondi legati dietro la nuca. Era un bel
colosso, certamente non all'altezza della ragazza che pareva un vero e
proprio scricciolino.
«Battiti
con Mari» ordinò.
Luciel
fece una smorfia di disappunto, guardando dall'alto al basso la ragazza
ancora seduta ai suoi piedi, pochi metri più distanti. Mari
in risposta gli sorrise luminosa, ma ricevette in cambio un altro
sbuffo irritato. Quel Luciel non sembrava proprio d'accordo con la
scelta dell’istruttore, che con un ultimo strattone
finalmente liberò il piede e si allontanò di
qualche passo. «Avanti, fatemi vedere di cosa siete
capaci.»
«Ma
lei lo sa già di cos...» cominciò Mari,
ma fu prontamente interrotta da un furibondo: «Esegui gli
ordini senza obiettare» che la fece urlare come una
ragazzetta spaventata dal buio.
«Sembra
così infantile, come può essere arrivata fino a
questo punto?» in molti abbandonano gli addestramenti ben
prima, pensò Levi. Come poteva lei, piccola e minuta, con
quell'atteggiamento così stupido, essere arrivata fino a
quel punto con quel sorrisetto gioioso e soddisfatto?
«Non
sottovalutarla» l'ammonì Erwin.
«Non
ho intenzione di farlo» disse Levi, prima di fare qualche
passo verso la coppia che si preparava a combattere. «Ehy
tu!» chiamò, facendo voltare la ragazza che si
indicò con aria interrogativa, chiedendosi se parlasse a lei.
«Sì,
parlo a te, come hai detto che ti chiami?»
«Mari»
balbettò, ora improvvisamente agitata. Forse
incredula che si trovasse di fronte proprio il famigerato capitano
Levi.
Levi
esitò un attimo prima di chiedere: «Solo Mari? Non
hai un cognome?»
«Nessuna
famiglia, nessun cognome, Signore!» Sembrò
risvegliarsi e scattò sull’attenti, con il saluto
militare. «Qui mi chiamano in molti modi diversi, a dire il
vero, ma per il momento Mari è quello che
preferisco.»
"Nessuna
famiglia? È orfana" constatò Levi, prima di
proseguire con la domanda che più gli premeva:
«Hai deciso a quale corpo militare ti unirai, finito
l'addestramento?»
A
quella domanda, gli occhi della ragazza andarono spalancandosi e
lentamente si mossero per posarsi sullo stemma cucito sulla giacca del
capitano. Le ali della libertà. Lo stemma
dell’Armata Ricognitiva.
Uno
strano sorriso le incurvò il viso mentre mormorava:
«Io metterò le ali.»
Non
fu difficile per Levi capire ciò che intendeva dire, quella
frase non poteva che significare una sola cosa. Eppure il modo in cui
aveva pronunciato quella risposta lasciava aperte nella mente del
capitano mille porte.
"Verrà
con noi in esterno. Potrei trovarmela a fianco durante un combattimento
o una cavalcata. Quei rossi capelli color sangue potrebbero stare al
mio fianco più a lungo del previsto" e la cosa lo metteva
poco a suo agio.
Si
tolse la giacca e la porse a Erwin al suo fianco. Poi
cominciò a tirarsi su le maniche.
«Levi,
cosa vuo...» iniziò a chiedere Keith, ma Levi lo
zittì, ordinando a Mari: «Battiti con
me.»
«Eh?»
stridette lei in risposta, arrossendo in viso. «Dice sul
serio?» balbettò.
«Sì,
se dovrai cavalcare al mio fianco voglio testare personalmente le tue
capacità.»
«È
molto premuroso da parte sua, capitano, ma tanto vale a questo punto
che mi mettiate direttamente tra le fauci di un gigante!»
«Hai
paura?» chiese Levi inarcando un sopracciglio. Dov'era finita
la sicurezza e la tranquillità che aveva avuto fino a quel
momento?
«Certo
che ne ho! Sono solo una recluta, cosa crede possa fare contro uno dei
migliori capitano dell’armata?»
"È
falsa modestia? O fa sul serio?" quella ragazza continuava a metterlo
di fronte a mille domande e nessuna risposta. Chi diamine era?
Levi
terminò la preparazione e si posizionò davanti a
lei, al posto di quel Luciel che non parve essere rammaricato dall'idea
di rinunciare all'incontro.
«Ne
è sicuro allora?» chiese ancora lei, poco convinta
e intimorita.
«Se
porterai con te questa esitazione, quando andrai lì fuori,
sarai la prima a morire, lo sai?»
Mari
restò pensierosa qualche istante, portando lo sguardo
direttamente agli occhi di Levi, centrando le sue pupille senza nessun
tipo di esitazione o timore. La cosa lo turbò appena,
notando come improvvisamente lo squilibrio delle cariche e delle forze
non sembrasse pesarle più.
«Un
animale, se minacciato, non attacca subito» disse lei, con un
tono improvvisamente differente da quello avuto fino a poco prima.
Sembrava che qualcosa si fosse risvegliato in lei, qualcosa di meno
stupido e più pericoloso.
«Ma prova prima a risparmiare le forze, lanciando
avvertimenti. Lo sapeva? Non crede che sia da prendere
d’esempio? Basta solo accantonare l'orgoglio, ammettere "ho
paura" e si eviterebbero centinaia di spargimenti di sangue
inutili.»
"Ma
di che parla?" si chiese lui.
«Ma
qualora le minacce non funzionassero a evitare lo scontro, allora si
è inevitabilmente chiamati alle armi. Non ci si
può tiare indietro. La priorità diventa la
sopravvivenza. Che cosa affascinante, non crede?» sorrise
infine, continuando a fissare gli occhi del capitano. Quella
sfacciataggine, ammetteva, lo faceva sentire poco a suo agio, ma non
abbassò lo sguardo neanche per un istante.
«Sei
una gran chiacchierona» constatò lui.
«Siamo
dotati di una tale capacità come il linguaggio, non vedo
perché non sfruttarlo» sorrise ancora, senza
però battere ciglio. Era come se avesse le pupille incollate
a quelle dell'avversario, non abbassava lo sguardo e non mostrava segno
di cedimento neanche per un istante.
Levi
percepì lo stesso fastidio che avrebbe potuto provare se
avesse fissato il sole troppo a lungo, e senza rendersene conto si
ritrovò a socchiudere appena gli occhi, come per proteggersi.
«Vuoi
andare avanti per molto? O mi fai vedere di cosa sei capace?»
«Lo
sto già facendo» mormorò lei
candidamente e una strana sensazione chiuse per un attimo la gola di
Levi. Era... inquietante.
Non
avrebbe aspettato oltre, cominciava a stufarsi, perciò
passò all'attacco per primo allungando il pugno nella sua
direzione. Mari non si mosse fino all'ultimo, continuando a cercare gli
occhi del capitano e fissandolo. Poi schivò il colpo con
destrezza, muovendosi il minimo indispensabile. Levi non
sprecò tempo e continuò a colpire, pugno dopo
pugno, calcio dopo calcio. Mari si dimostrò rapida e agile
nello schivare, ma la cosa che continuò a metterlo in
difficoltà furono quegli occhi azzurri puntati ai propri,
nonostante i movimenti. Non guardava le mani, non guardava i piedi,
solo gli occhi e riusciva comunque a schivare per tempo.
Tentò con un altro calcio e lei saltò
incredibilmente in alto, schivando ancora.
"È
straordinariamente agile" pensò Levi mentre tentava altri
colpi, sempre più potenti e sempre più aggressivi
e più mirati. Ma Mari riusciva in ogni caso a schivarli,
indietreggiando o saltando. Ma non attaccava. Continuava a fissarlo, ma
non attaccava.
"Quanto
mi da sui nervi!" pensò Levi digrignando i denti e provando
come gesto disperato a lanciarsi contro di lei, tentando di afferrarla
in una presa e impedirle di divincolarsi ancora.
"Adesso!"
pensò Mari e in un istante si piegò, salvandosi
dalla presa, e si spinse contro lo stomaco del capitano. Levi fece
appena in tempo ad abbassare lo sguardo, vedendosela catapultare
contro,
e ancora una volta incrociò i suoi azzurri occhi ben
impiantati nei propri. Ebbe un istante di esitazione e Mari ne
approfittò per scaraventarlo a terra, atterrandogli sopra.
La ragazza sollevò velocemente la testa, guardando sorpresa
il capitano sotto di sé, scuotendo i capelli come un animale
appena uscito dall'acqua. Poi lanciò un urletto
allegro, esclamando: «Incredibile, ce l'ho
fatta!»
Levi
l'osservò da quella sua posizione sottomessa, incredulo. Si
era lasciato fregare: lei non aveva fatto altro che provocarlo per
tutto il tempo e lui si era lasciato andare all’impulso,
perdendo la concentrazione per un breve istante. Istante che Mari aveva
straordinariamente colto e aveva volto a suo vantaggio. Era irritante,
era decisamente irritante. Interruppe i suoi festeggiamenti con un
colpo di fianchi, ribaltando velocemente la situazione, sbattendola al
suolo e posizionandosi sopra di lei. Le piantò un braccio
contro la gola, per immobilizzarla, e sollevò il pugno
chiuso sopra il suo viso. Mari tenne gli occhi momentaneamente chiusi,
lamentando dolore alla testa, che aveva battuto a terra nel
ribaltamento. Non appena li riaprì vide il
pugno di Levi cadere rapidamente verso il suo naso, ma fermarsi appena
in tempo per non colpirla realmente. «Mai cantare vittoria
troppo presto» le mormorò a pochi centimetri dal
viso, col tono di chi l'avrebbe volentieri uccisa. Solo allora
tornò a fissare i suoi occhi, chiedendosi se avesse
finalmente abbandonato quella sfacciataggine. Ciò che vi
trovò invece lo fece rabbrividire: l'occhio sinistro di
Mari, l'unico visibile dato che i capelli coprivano il destro, fissava
il pugno ancora fermo a pochi millimetri dal suo viso. Immobile,
sembrava avesse addirittura smesso di respirare. La pupilla ristretta
in maniera quasi innaturale si spostò lentamente dal pugno
al viso di Levi e lui per un istante ebbe la sensazione di cadere nel
vuoto. Che razza di sguardo era quello? Metteva i brividi.
Si
sollevò, con una velata impellenza, e si affrettò
ad allontanarsi da lei, cercando comunque di non dare troppo
nell'occhio e di risultare normale.
«E
non distrarti» aggiunse, prima di voltarsi e tornare da Erwin
per riprendersi la giacca.
«Che
ne pensi, allora?» approfittò il comandante del
suo momento di rivestizione, per chiedere.
«È
ancora un pulcino» comunicò Levi, e lo pensava
davvero. Era bastato poco per farla piagnucolare di dolore e paura, era
bastato poco per ribaltare le situazione, non aveva mostrato la minima
traccia di tecniche di combattimento né di esperienza. Era
debole, non sarebbe riuscita a buttarlo a terra se lui non fosse stato
sbilanciato e avesse vissuto quel momento di confusione, e scioccamente
non aveva nemmeno cercato di concludere il combattimento. Non aveva
avuto modo di verificare la potenza dei suoi colpi, ma per quello che
aveva visto era sicuro che non fossero tanto precisi né
potenti. Era decisamente un pulcino. Sollevò una mano,
osservandola quasi con irritazione: "Ma allora perché sto
tremando in questo modo?"
--------------------------------------------------------------------------------------------------
NDA.
Hello
to Everybody! Probabilmente non mi conoscete (e come potreste?) ma
magari chi frequenta anche il fandom di Haikyuu ha già avuto
modo incrociare le strade con me. In caso contrario
(com’è probabile) mi presento:
Nome
in codice: Tada Nobukatsu-kun (sì, sono una ragazza ma uso
il kun u.u per capirlo dovreste conoscere l’origine di questo
nome, ma certo questo non è il posto migliore per
raccontarlo [ma tanto vi basta andare nelle mie Bio per capirlo]).
Origine:
Villaggio degli elfi di Babbo Natale.
Impiego:
Distruggere i regali di Natale e incolpare Rudolph!
Età:
indefinita.
Stupidità:
smisurata!
Tornando
seri (AOT è un Fandom serio! Cerchiamo di mischiarci alla
folla e non farci notare, Rudolph!)... scrivere questa fic mi ha dato
non pochi problemi. Per la difficoltà? Per il messaggio
subliminale? Per l’analfabetismo acuto che ogni tanto mi
distrugge dentro? No… per i nomi, cazzo! Possibile che non
si riescano ad accordare e dire “tizio si chiama
così e caio cosà”? No, da una parte ci
sta scritto Erwin, dall’altra Elvin, da una parte lo chiamano
corpo di ricerca, dall’altra Armata Ricognitiva (nelle scans
è addirittura scritto Legione Esplorativa), da una parte si
chiamano Giganti, dall’altra Titani. Quindi, tutto questo per
dirvi che se trovate scritte cose differenti (può essermi
sfuggito un corpo di ricerca tra le armate ricognitive) non datemi per
pazza, ho solo avuto difficoltà a scegliere a quale versione
adattarmi.
Poi,
ancora, per il momento di AOT ho visto solo l’anime, il manga
ho cominciato a leggerlo da poco e per quanto conosca alcuni risvolti
futuri (non sono mica andata a spoilerarmi il mondo su wikia, nono) e
abbia visto gli OVA, ci sta che ci siano imprecisioni dovuti al fatto
che con la fonte ufficiale cartacea sono un po’ indietro.
Perciò fffffforry, don’t kill me please.
Ancora…
(sono una gran chiacchiera, proprio come Mari, lo so u.u ma essendo la
prima NDA devo specificare qualcosa. I prossimi NDA saranno
più leggeri, promesso) in che periodo è
ambientato il tutto? Come scoprirete più avanti, appena
prima della storia originale, un anno dopo la caduta del Wall Maria. In
realtà avrei voluto ambientarla ancora prima, ma dato che il
nostro Levi è entrato in Armata appena nel 844, non ho
potuto fare grandi miracoli e mi sono dovuta adattare (lasciandomi la
licenza poetica -non so quando quando realmente sia successo- di
affermare che sia diventato capitano non troppo tempo dopo). Essendo
dunque appena prima dell’originale, potrete ritrovare alcune
delle nostre vecchie conoscenze (come avete già potuto
vedere con l’istruttore Keith e, ovviamente, Erwin),
mischiati a tanti OC dai nomi pescati dal cilindro (ad cazzum, come
dico sempre *Luciel cof cof*).
CREDO
di non dover aggiungere altro… (era pure l’ora!!!).
Vi
saluto e vi lascio appuntamento alla prossima settimana! Se volete
lasciarmi un commentino i’m happy shalalalalala…
altrimenti grazie lo stesso per aver almeno letto fin qui xD
Per
concludere… vi lascio un’immagine creata con un
bellissimo sito (Rinmaru Games, per chi fosse interessato) in cui ho
dato un viso reale a Miss Mari senza-cognome.
Click
sul link qua sotto se volete vedere la ragazza dai capelli color sangue
(venghino signori venghinoooo ahahah) (Che in realtà
nell’immagine è un normalissimo rosso, ma nella
mia testa è veramente un rosso sangue).
*cof
cof nell’immagine è presente un piccolo spoiler,
ma tanto se non sapete cos’è non potete
riconoscerlo cof cof*
Mari!
-> https://postimg.org/image/hb8lpj2cv/
<- Mari!
BYYYYYEEEEE
Tada
Nobukatsu-kun
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Animale selvaggio ***
Animale
selvaggio
«Anche
oggi ci onori della tua presenza» sorrise Erwin guardando
Levi sedersi al suo fianco, all'interno di quella mensa, con un piatto
tra le mani. Era stato l'ultimo ad arrivare, facendo per un attimo
pensare che fosse partito la mattina stessa senza lasciar detto dove
fosse diretto, e invece sorprendentemente era ancora lì tra
loro. Forse per noia -Erwin si era ben premurato di non lasciargli
ordini momentaneamente, perchè averlo al suo fianco anche
durante l'addestramento delle reclute era pur sempre un vantaggio- o
forse perchè sinceramente interessato a ciò che
combinavano in quel luogo dimenticato da Dio.
«Hai
detto che nella prossima spedizione vuoi portarti dietro alcune delle
reclute. Voglio sapere quali volti e capacità
avrò al mio fianco durante la cavalcata, per evitare brutte
sorprese.»
«Non
ti fidi di loro?» chiese Erwin, anche se in qualche modo
sapeva già a chi in particolare si stesse riferendo. Levi,
il giorno prima, aveva mostrato un certo interesse verso Mari, anche se
la connotazione da dare al tutto sentiva non poteva essere propriamente
positiva. Quella ragazza sembrava metterlo in agitazione, era
più nervoso del solito quando ce l'aveva intorno e il motivo
di tale -eccessiva, avrebbe aggiunto- reazione non era proprio chiara
agli occhi del Comandante, anche se poteva avere dei sospetti. Ma poco
se ne importava e preferiva lasciar andare il fiume alle sue rapide,
aspettando solo con curiosità di vedere quando e dove fosse
sopraggiunta la valle. Già solo il fatto che Levi si fosse
interessato a qualcuno, negativamente parlando o meno, era pur sempre
un evento degno di essere osservato. Ed Erwin era un grande osservatore.
«L'ho
mai fatto?» e come volevasi dimostrare, Levi anche quel
giorno era di pessimo umore. Erwin lo conosceva abbastanza da riuscire
a cogliere quelle sottili sfumature della sua voce, sfumature che a
volte nemmeno Levi stesso percepiva, e per lui questa era una sua
personale vittoria. Ancora una volta provò a interrogarsi
sul motivo di quel risveglio poco pacifico con se stesso che aveva
subito il suo sottoufficiale, e ancora una volta credette di conoscere
la risposta. Spostò cautamente lo sguardo sul corpo delle
reclute che pranzavano dall'altro lato della sala, quei pochi che erano
già arrivati, avendo dovuto lasciare la precedenza ai
superiori. Isolata su un tavolo tutto per sé, Mari aveva
appena cominciato a buttar giù cucchiaiate di minestra,
masticando di tanto in tanto un tozzo di pane raffermo. Era come
un'ombra dimenticata da tutti, i quali ben si guardavano
dall'incrociare la strada con una come lei. Stato che alla fine,
però, non sembrava nemmeno dispiacerle. Non erano i suoi
bizzarri capelli rossi a turbare più di tanto e spingere
chiunque avesse attorno a schivarla, ma quel suo sguardo cacciatore. Lo
sguardo di chi non si accontenta di ciò che viene mostrato
da colui che gli sta di fronte, ma ambisce alle verità
più profonde della sua anima, scavando negli angoli remoti
dei suoi occhi. Non faceva distinzione, come affamata di conoscenza,
puntava lo sguardo nelle iridi di chiunque gli capitasse davanti, lo
spogliava di ogni apparenza, e infine lo abbandonava ai margini di una
strada nudo e violato. Era uno dei motivi per cui in molti la
evitavano: la trovavano irritante, innaturale e spaventosa. Levi
probabilmente stava vivendo la stessa cosa, con la sola differenza che
lui essendo un ufficiale aveva tutto il diritto di manifestare
apertamente quell'astio e colpire la diretta interessata.
Durante
tutta la durata di riflessioni di Erwin, Mari non aveva fatto che
mangiare avidamente, in silenzio. A prima vista nessuno avrebbe pensato
che dentro una figura così minuta, così candida,
fosse potuto celarsi un simile animale, perché proprio di un
animale selvaggio alla fine dei conti si trattava. Interruppe il pasto
che ancora aveva il proprio piatto pieno per metà e ignorata
da tutti uscì all'esterno, senza che nessuno la fermasse
chiedendole dove portasse il proprio cibo. Ignorata da tutti, tranne
che dallo stesso Erwin e, scoprì appena dopo, da Levi che
discretamente aveva alzato appena gli occhi dal proprio piatto per
puntarli a lei.
«Vacci
piano con lei. È solo una poveretta che è
cresciuta per strada tra i gatti» si sentì di
dirgli Erwin, un po' timoroso che l'irritazione di Levi nei suoi
confronti lo portasse a renderle la vita impossibile in maniera
ingiustificata.
«Gatti?»
Levi stesso si stupì di aver posto la domanda.
«Lei
e suo fratello vivevano di stenti e dovendo passare gran parte della
vita per strada, una colonia di gatti l'ha accettata come fosse una di
loro.»
«Una
selvaggia» ora capiva molte cose.
«Perché vuole arruolarsi nell'Armata Ricognitiva?
Potrebbe avere tutto, stando nel corpo di Gendarmeria.»
«L'hai
sentita, no? Vuole mettere le ali» e un leggero sorriso gli
incurvò le labbra, sorriso che sarebbe potuto passare per
divertito, forse velatamente denigratorio, ma che in realtà
nascondeva una chiara consapevolezza. Lui sapeva qualcosa di
più sul conto della ragazza, ormai i dubbi di Levi ebbero
conferma.
«E
il fratello?» chiese, ma Erwin esitò
più del dovuto prima di dare una secca risposta:
«Non è qui.»
«Capisco
che il suo modo di fare possa darti sui nervi, non sei l'unico che ha
difficoltà ad approcciarsi a lei»
continuò Erwin, accantonando subito il discorso fratello.
«Ma dovresti darle una possibilità. Ha ottime
capacità, anche se inesperta.»
«È
debole.»
«Ma
agile e veloce.»
«Infantile.»
«Ma
è un'attenta osservatrice. Hai visto anche tu come riusciva
a schivare i tuoi colpi solo guardandoti negli occhi.» Erwin
sapeva che la sua non era stata stregoneria, ma semplice strategia,
sfruttando quel suo modo di scavare negli animi delle persone che gli
conferiva la possibilità di prevedere dove e come
l'avversario sarebbe andato a colpire.
«Non
ha disciplina» continuò Levi, sempre
più irritato.
«Ma
sa cos'è giusto e cos'è sbagliato.»
«Non
te la sarai presa un po' troppo a cuore?» lamentò
infine il caposquadra, cominciando a trovare fastidioso il fatto che
Erwin la stesse difendendo da ogni sua -giustificata- accusa.
«Non
è la prima volta che lotto per avere al mio fianco qualche
reietto della società solo perché lo considero
prezioso per la nostra causa.» e con quest'ultima
affermazione Erwin riuscì a mettere a tacere Levi. Era
difficile dimenticare come fosse riuscito a convincerlo ad abbandonare
la vita da delinquente nelle fogne per entrare nell'Armata Ricognitiva,
due anni prima. Era difficile dimenticare come gli avesse cambiato
così radicalmente la vita.
«Nel
pomeriggio andremo a fare un'esercitazione nel bosco, ti unirai a
noi?»
«Tienimi
un posto» si limitò a rispondere Levi, alzandosi e
portando via il suo piatto ora ripulito a dovere. Quella chiacchierata,
benché l'avesse visto perdente nella disputa delle ragioni,
l'aveva lasciato più incuriosito che risentito. Conosceva
abbastanza Erwin da sapere che aveva in mente qualcosa, che riguardasse
Mari o no non ne aveva la certezza, ma sicuramente il suo voler essere
presente a quell'addestramento e il suo insistere a protezione della
ragazza avevano qualcosa sotto. Non doveva far altro che restare a
guardare e aspettare che il Comandante lo avesse reso partecipe. Per il
momento si sarebbe limitato ad assecondarlo.
Mari
entrò correndo nel bosco, mentre il resto dei suoi compagni
attivò immediatamente la manovra tridimensionale. Percorse
qualche metro a terra, fintanto che non trovò un ramo
abbastanza basso a cui aggrapparsi e saltò. Si diede una
spinta e volteggiò sopra di esso, atterrandoci sopra. Si
guardò rapidamente intorno, poi si voltò verso il
tronco dell'albero e lo scalò, raggiungendo a mani nude uno
dei rami più alti. Restò in piedi su di esso,
perfettamente in equilibrio, corse verso la punta e saltò,
aggrappandosi al ramo di un albero affianco. Ancora
volteggiò e si diede la spinta necessaria a raggiungere il
ramo successivo. E così percorse parte del bosco saltando e
arrampicandosi, ramo dopo ramo, albero dopo albero, sfruttando la
manovra tridimensionale solo sporadicamente. Raggiunse il primo gigante
di cartone e ci si lanciò contro tenendo ben strette le
lame. Aggiungendo alla propria forza quella di gravità,
riuscì a incidere un taglio sufficientemente ampio sulla
nuca del gigante da considerarlo abbattuto. Attivò gli
arpioni e tornò su un ramo lì a fianco,
osservando il suo operato, prima di tornare a correre, verso il
prossimo obiettivo.
«Ti
stanchi di più in questo modo, rossa!»
«Nah,
non così tanto» sorrise lei, guardando chi gli
aveva rivolto parola. Si chiamava Luke, era un compagno in
addestramento e ultimamente era uno di quelli che non riusciva a tenere
la bocca chiusa quando la incrociava.
«Siete
troppo dipendenti da quei cosi. Vi rammollite e
soprattutto...» disse prima di saltare e afferrare un ramo
con un urletto allegro. «Vi perdete tutto il
divertimento!» gridò prima di scappare via,
lasciando Luke a se stesso.
«Ehy!
Quello laggiù l'ho visto prima io! Non rubarlo!»
gridò lui, cercando di accelerare per raggiungerla e
impedirle di fregarle il gigante. Per quanto sfruttasse principalmente
la forza delle gambe e poco il dispositivo, anche se a volte sfruttava
la propulsione del gas per accelerare e rendere più ampi e
veloci i salti, era comunque molto rapida e la cosa gli dava sui nervi.
Raggiunsero il cartonato ed entrambi si lanciarono contro di lui,
cercando di superare l'altro in velocità. Mari ci sarebbe
probabilmente arrivata prima se all'ultimo non avesse deviato,
annunciando: «Tutto tuo!»
Luke
ne rimase sorpreso, ma non si lasciò sfuggire l'occasione
per accaparrarsi il punto. La guardò stranito, mentre lei
atterrava su un altro ramo e se ne stava lì impalata a
guardarsi attorno con gli occhi socchiusi.
"È
decisamente strana" pensò lui, prima di allontanarsi
decidendo che non gli interessava poi troppo ciò che faceva.
Mari
restò in ascolto qualche istante, concentrata: c'era uno
strano eco nell'aria che aveva attirato improvvisamente la sua
attenzione e non era lontano. Non ci volle molto per stabilire la
provenienza di quel suono sinistro, perciò
cominciò a corrergli incontro. Attraversò foglie
e rami con velocità, sfruttando più del solito
l'uso del movimento tridimensionale per cercare di arrivare
più velocemente, fino a quando finalmente non
scoprì la natura e la provenienza del suono che aveva
attirato in quel modo la sua attenzione: l'attrezzatura di Angelica. La
ragazza dai lunghi capelli castani, legati in una coda, volteggiava
parallelamente a Mari, ignara di essere seguita e soprattutto ignara
del fatto che la sua attrezzatura producesse un suono bizzarro.
"Quel
dispositivo ha qualcosa che non funziona!" constatò Mari, ma
non fece in tempo neanche a finire di pensarlo che Angelica, nel punto
più alto del suo salto, a più di quindici metri
da terra, si ritrovò con il meccanismo bloccato, incapace di
sparare un arpione.
«Merda!»
riuscì a dire, ora in caduta libera verso terra. Il panico
si impadronì delle sue dita, che cominciarono a premere
convulsamente i tasti sui manici per far scattare il meccanismo, senza
successo. Era inceppata e lei si sarebbe presto schiantata al suolo se
Mari non fosse stata pronta ad afferrarla, riuscendo ad acchiappare una
delle sue cinghie intorno a una coscia. Ciò che
però la rossa non aveva considerato fu che il peso
improvviso non era affatto facile da gestire. Perse il controllo del
volo, evitando per un pelo che il naso di Angelica andasse a
sbriciolarsi nello strofinare al suolo, e guardò con
preoccupazione il tronco dell'albero che si faceva sempre
più vicino e su cui presto si sarebbe schiantata.
Nella
disperazione di trovare repentinamente una soluzione, optò
per lo scarico del peso, facendo volare Angelica all'interno di un
cespuglio di rovi e provando in quei pochi istanti che le restavano a
raddrizzarsi e tornare padrona di quella situazione. Inutilmente.
Con
un urlo terrorizzato, colpì in pieno il tronco dell'albero
che aveva di fronte. Appesa com'era, ancora con i ganci arpionati a un
ramo, divincolò piedi e mani, provando nuovamente a tornare
stabile, ma quel suo movimento frenetico peggiorò solo la
situazione. Si ribaltò a testa in giù, con un
piede ben incastrato e avvolto da uno dei cavi. Provò di
nuovo a risollevarsi, ma ancora risultò complicato,
girandosi e rigirandosi nel groviglio ormai formatosi.
Alla
fine, si arrese e rimase avvolta e incastrata nella sua attrezzatura, a
testa in giù, con un rivolo di sangue che le scendeva dal
naso.
Angelica
nel frattempo scattò in piedi urlando per le spine che
andavano a conficcarsi ovunque e si affrettò ad allontanarsi
da quella trappola mortale. Si voltò a guardare la compagna
che l'aveva salvata, confusa e chiedendosi se avesse dovuto
ringraziarla o maledirla per averla lanciata nell'unico cespuglio
spinoso di tutto il bosco.
«Sei
tutta intera, vero?» chiese Mari in quell'istante con uno
strano orgoglio negli occhi. La ridicola posizione a cui era costretta,
con i capelli arruffati e pieni di erbacce, il viso sfregiato, facevano
a botte col suo atteggiamento fiero. E questo fece scoppiare a ridere
Angelica, facendole dimenticare l'incidente, contagiando nella sua
ilarità anche la stessa Mari.
Il
fruscio delle foglie anticipò l'arrivo di qualcun altro e
Mari smise di sorridere appena in tempo per vedere atterrare vicino a
loro il capitano Levi. L'osservava con quel solito sguardo duro e
impassibile, come se da una come lei non si fosse certo potuto
aspettare niente di meglio.
«Capitano!»
sorrise Mari, ignorando il modo di fare severo di Levi, che ora gli
camminava incontro. «Ha visto? Salvataggio da
maestro!»
«Se
fossimo stati circondati da veri giganti a quest'ora tu e la tua amica
sareste morte» constatò lui, chinandosi a guardare
le attrezzature di Mari. Allungò una mano verso il pulsante
sul manico, che ora penzolava per conto proprio a pochi centimetri dal
suolo, e permise agli arpioni di staccarsi dai rami, facendo cadere
Mari di testa per terra.
«Sei
un disastro» commentò ancora lui, guardandola
mentre si rendeva ridicola nel tentativo di districarsi dai cavi e
rialzarsi.
«Sì,
ma le ho salvato la vita!» brontolò lei,
contrariata dal fatto che lui non desse peso a quel grande evento. Levi
l'osservò dall'alto al basso, assottigliando ancora di
più lo sguardo, cercando di trasmetterle tutto il rimprovero
che non esprimeva a voce e nel frattempo si concesse di studiarla. Le
guance leggermente gonfie, nello sforzo di evitare di imbronciarsi
-cosa che invece sembrava le venisse spontanea- erano lievemente
arrossate. Un colore che ben si abbinava a quello dei suoi capelli e
che, bizzarramente, mettevano in risalto l'azzurro dei suoi occhi
lucidi. Continuava a fissarlo scontenta come una bambina a cui era
stato negato un balocco e per quanto risultasse ancora una volta
stupida e infantile, in un qualche modo che neanche lui seppe bene
spiegarsi... le fece tenerezza.
Allungò
una mano verso i suoi capelli, afferrò una foglia che le si
era incastrata tra le ciocche e la tirò via. Un innocuo
gesto, forse mosso dal fastidio che quella foglia gli recava nel
vederla imprigionata lì in mezzo, ma che racchiudeva in
sé la vaga idea di una carezza. «Sei stata
brava» decretò apatico alla fine, prima di
allontanarsi e tornare sui suoi passi.
Mari
l'osservò con lo sguardo inebetito fintanto che non
sparì tra gli alberi, lasciandola di nuovo sola con Angelica
-che nel frattempo aveva cercato di togliersi di dosso qualcuna di
quelle dolorose spine-.
«Sono
stata... brava?» balbettò, trasognante. Non sapeva
ben spiegarsi se a recarle quella forte emozione fosse stato il
complimento in sé, a cui ammetteva di non essere affatto
abituata, o il fatto che a dirglielo fosse stato proprio il capitano
Levi, famoso per la sua scontrosità e antipatia. Quel
capitano di cui aveva aveva sentito parlare come uno degli uomini
più potenti -tanto quanto scorbutici- che esistesse.
«Stai
bene? Mari?» chiese Angelica, notando come la ragazza fosse
improvvisamente diventata silenziosa e tanto immobile da poter essere
scambiata per un ornamento del posto. Mari si voltò verso di
lei e Angelica sobbalzò quando la vide larga nel sorriso, ma
col viso rigato di lacrime.
«Che
fai? Piangi adesso?» chiese Angelica sconvolta tanto quanto a
disagio.
«Ha
detto che sono stata brava» balbettò ancora Mari,
interrompendosi ogni tanto per ridere, mentre ancora le lacrime le
uscivano a fiotti.
«Ma...
e reagisci così? Ti sembra il caso?» chiese
Angelica, ancora imbarazzata. Ma niente sembrò in grado di
calmare la ragazza, che più piangeva e più
sembrava averne voglia, aumentando l'enfasi dei singhiozzi minuto dopo
minuto.
-----------------------------------------------------------------------------------------------
NDA.
Hola
Chicos! Dopo un'attenta riflessione e un eccessivo sforzo nel
controllare l'impulso di pubblicare tutti i capitoli (che vi informo
sono già scritti, fino al The End) in un solo giorno, ho
deciso che il giorno della Calendula sarà il
Lunedì. Perciò potrete trovare sempre (salvo
imprevisti) un capitolo nuovo ogni settimana, il suddetto giorno.
Poi
passo a ringraziare tutte le persone che hanno aperto (e forse anche
addirittura letto *-*) la mia storia e soprattutto quelle due anime
sante che l'hanno inserita tra i preferiti/seguiti. Mi date speranza
*-* (sì, sono una persona molto insicura e tutte le volte
alla pubblicazione mi autosommergo di "che schifo è questo?
Non piacerà a nessuno! Ma cosa m'è passato per la
testa? E' la roba più stupida che abbia mai visto. Non
avrò neanche una visualizzazione e verrò
ricoperta di insulti").
Perciò,
davvero GRAZIE.
Per
chi già mi conosce sa che mi piace lasciare una piccola
anticipazione dei capitoli successivi (tipo serie tv XD),
perciò anche qui non sarò da meno.
Prima
però... altra immaginetta!!! Sì, ho amato questo
sito e ne ho fatte una decina che posterò gradualmente. Come
sempre posterò solo il link di rimando, così chi
preferisce sottostare esclusicamente alla propria fantasia
può tranquillamente evitarla :)
Vi
presento... Angelica! (che, vi rivelo, non smetterà di
essere presente, anzi).
Angelica
->
https://postimg.org/image/wn9gngfah/
<- Angelica
E
ora l'anticipazione (potrebbe subire piccole modifiche dovute al
revisionamento):
Voltandosi,
in cerca di una qualsiasi faccia amica, trovò quella del
comandante Erwin sorprendentemente più vicina del previsto.
In piedi, appena dietro di lei, l'osservava con uno sguardo truce,
assolutamente contrariato.
"L'ho
fatto arrabbiare" pensò e un singhiozzo la scosse. Le
lacrime le appannarono la vista e in quella macchia indistinta dai
capelli biondi, Mari riuscì a riconoscerci un viso ben noto
e dallo sguardo altrettanto duro.
«Har...
vey... mi... mi dis... »
A
Lunedì prossimo!
Tada
Nobukatsu-kun
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Quel luogo chiamato casa ***
Quel
luogo chiamato casa
And
they say She's in the class A team
Stuck
in her daydreams, been this way since eighteen
But
lately her face seems slowly sinking, wasting
Crumbling
like pastries
They
scream the worst things in life come free to us
Cos
we're just under the upperhand
«Ehy,
rossa!» chiamò Sierk, fermandosi davanti al tavolo
di Mari. La sera
era calata da poco, le reclute stavano ormai finendo i propri pasti
dopo il duro allenamento del pomeriggio. Allenamento da cui Mari ne
era uscita con un cerotto sulla fronte, laddove aveva scoperto
successivamente di essersi tagliata nel tentativo di salvare
Angelica.
«Sei
stata davvero brava oggi» sghignazzò lui,
enfatizzando
spropositamente la frase. Per quanto Mari apprezzasse quel genere di
complimenti, come era stato con Levi quello stesso pomeriggio, non fu
difficile nemmeno per lei ritracciarvi all'interno una velata presa
in giro che le impedì di prendere il compagno sul serio.
Afferrò il
tozzo di pane che giaceva al fianco del suo piatto e lo
utilizzò per
raccogliere una manciata di fagioli e portarseli alle labbra,
ignorando il ragazzo dalla rasa capigliatura bionda che le
sghignazzava davanti.
«Beh?
Con me non ti metti a piangere? Ti commuove solo se a dirtelo
è il
capitano?» insistè ancora Sierk, ora affiancato da
Zhen e Craig, le
sue due marionette, come le piaceva definirli. In genere era Sierk
che, forse sicuro della sua gonfia massa muscolare, si faceva avanti
per primo, mentre gli altri due restavano alle sue spalle a ridersela
intervenendo solo di tanto in tanto per rimarcare le parole del capo
banda. Un gruppo di idioti che, nonostante tutto, rientravano tra i
migliori del corso accademico e questo dava loro possibilità
di
vantarsi ancor più della loro presunta
superiorità, soprattutto con
Mari. La ragione di tanto astio nei confronti della rossa? Loro erano
entrati in accademia due anni e mezzo prima, seguendo tutto il
percorso d'addestramento dall'inizio, guadagnandosi con fatica quel
punteggio. Invece Mari aveva fatto il suo ingresso solo un anno
prima, a percorso già iniziato, e nonostante si fosse
comunque
dimostrata all'altezza dei compagni a quei tre non andava
giù il
fatto che lei fosse stata tanto avvantaggiata. Aggiungendo poi il
fattore "animale selvaggio", il fatto che Mari fosse
riuscita a superare Sierk in alcuni dei test e infine le voci che
giravano sul conto della ragazza, il livello di antipatia nei suoi
confronti era cresciuto esponenzialmente. Avere un motivo per
riversare direttamente su di lei tutto quell'odio era diventato quasi
un obiettivo per quel trio, che Mari sopportava ogni giorno di meno.
«Il
gatto prova piacere nel sentirsi dire di essere forte dalla tigre,
non dal topo» commentò Mari con apatia, incapace
di tenere a freno
la lingua. «Le ovvietà non destano nessun
sentimento.»
«Che
stai dicendo?» ringhiò Sierk. «Mi stai
dando del topo?»
«Le
interpretazioni sono sintomo di buona immaginazione e
intelligenza»
sorrise lei, guardandolo con innocenza. «Dovresti andarne
fiero.»
«Sei
talmente incapace di affrontare una persona faccia a faccia che ti
nascondi dietro ai tuoi detti ed enigmi!» disse Zhen,
supportando
l'amico.
«Avete
avuto la possibilità di potermi prendere a pugni senza
incappare in
una punizione, durante l'allenamento corpo a corpo, eppure non vi
siete avvicinati. Se io sono incapace di affrontare una persona
faccia a faccia, allora voi cosa siete?» rispose ancora Mari.
«Stai
per caso dicendo che siamo smidollati?» intervenne anche
Craig,
innervosendosi quanto gli altri. Dato tutto il retroscena che aveva
quella ragazza, certo non poteva sentirsi in diritto di fare certi
commenti.
«Anche
tu sai fare delle buone interpretazioni! I miei complimenti!»
sorrise Mari e quel suo modo di fare sempre candido e pacato, come se
fosse superiore a qualsiasi cosa, peggiorava i loro stati d'animo.
«Ehy!
Lasciatela in pace!» intervenne Angelica, mettendosi tra i
tre e
Mari. Aveva esitato un po', ma alla fine si era decisa ad avvicinarsi
alla compagna per scambiare qualche parola con lei e magari riuscire
a ringraziarla. Dopo l'episodio di quella mattina, Mari purtroppo si
era allontanata e non c'era più stata occasione di
avvicinarla, come
se lei stessa avesse cercato di scivolare via da tutti. Prima di
allora, Angelica non ci aveva mai fatto troppo caso. Anzi, prima di
allora, non l'aveva quasi mai neanche notata. Era la persona
più
invisibile e silenziosa che avesse mai conosciuto, e questo l'aveva
spinta alla curiosità, visto ciò che aveva fatto
per lei.
«Ti
salva una volta la vita e diventi una sua tirapiedi?»
brontolò
Sierk, avvicinandole il viso ghignato. Mari, dal suo punto di vista,
era solo un'ipocrita raccomandata che le piaceva fare la preziosa,
certo non meritava di essere difesa. Detestava quel suo modo di farsi
superiore, destava lei e quel suo dannato modo di guardare le persone
come se non meritassero una propria dignità ma fossero tutti
feccia
che poteva domare a piacimento. Meritava solo di essere zittita e
tornare da dove se n'era venuta, in quel lurido e squallido posto che
sicuramente più si addiceva a una come lei,
anzichè tutto quel
lusso immeritato.
«Niente
di tutto questo, solo gli ufficiali ci osservano»
mormorò Angelica,
lanciando uno sguardo di sbieco al tavolo dove erano radunati a
cenare tutti i Superiori. «Vedete di non creare problemi o ci
farete
finire nei guai.»
Sierk
voltò lo sguardo allo stesso tavolo appena indicato da
Angelica.
Nessuno dei Superiori sembrava minimamente interessato a ciò
che
stavano facendo le reclute, tanto meno a loro. Eppure ebbe lo stesso
la sensazione di essere tenuto d'occhio e questo bastò a
metterlo in
allarme e agitazione.
«Tsk»
si lasciò sfuggire, irritato come poche volte. Si
allontanò da
Angelica di un passo e lanciò un altro sguardo a Mari, che
sembrava
sempre concentrata sul suo piatto, anche se, sotto quel suo enorme
ciuffo rosso sangue, poteva vederlo lo scintillio dei suoi odiosi
occhi affilati. Quanto non li sopportava quegli occhi e quel loro
modo di osservare le persone. Non si fidava di lei nemmeno un po'. Un
giorno avrebbe trovato il modo di farle rimangiare tutta
quell'arroganza che le usciva dallo sguardo e da ogni singola parola.
Un giorno Mari avrebbe abbassato la testa. Ma per quella sera, Sierk
tornò al suo tavolo.
Angelica
fece un lungo sospiro, tornando finalmente a respirare e rilassarsi.
Aveva temuto che quell'idiota si fosse imbattuto in un litigio con
lei davanti allo sguardo di tutte le reclute e Superiori. Ma per
fortuna, per quella sera, il pericolo guai era stato sventato.
«Non
ce n'era bisogno» disse Mari, prima di portarsi alle labbra
un'altra
cucchiaiata di fagioli. «Si sarebbero stancati e se ne
sarebbero
andati da soli, ti sei esposta inutilmente.»
«Come
se quei tre idioti mi avessero potuta spaventare»
ridacchiò
Angelica, mettendosi a sedere davanti a lei. Mari la guardò
sospresa, forse lievemente spaventata, restando qualche secondo con
il cucchiaio sollevato per aria e Angelica rispose al suo
interrogativo con un cordiale sorriso.
«Mangi
sola anche questa sera? Se ti fossi avvicinata al nostro tavolo, non
ti avremmo certo trattata come quei tre imbecilli laggiù.
Perchè
non ti avvicini mai a nessuno?» chiese senza porsi il dubbio
che
magari quella fosse una domanda delicata. Quel suo modo di fare, ora
che lo notava, aveva suscitato nel corpo delle reclute svariate
reazioni. C'erano quelli come Sierk, che lo interpretavano come segno
di presunta superiorità e rispondevano con
l'aggressività, poi
c'erano quelli che invece ne provavano timore perchè
leggevano in
quegli occhi l'aggressività di un animale che è
pronto a scattare e
uccidere, e infine c'erano quelli come Angelica stessa, che neanche
la notavano perchè lei non voleva farsi notare. In tutti e
tre i
casi il risultato era lo stesso: Mari restava sempre sola. Chiedersi
quale fosse il motivo di quel suo modo di fare era più che
lecito,
visto che alla fine non sembrava una che disprezzasse il sorriso e la
parola.
Mari
arrossì e muovendo leggermente al testa in avanti nascose
più gli
occhi sotto il grosso ciuffo di capelli. «Non mi trovo a mio
agio
con le persone» ammise.
«Eppure
sembri una ragazza così solare e sicura di te»
osservò ancora
Angelica, studiando l'esile figura che sembrava farsi più
piccola
parola dopo parola.
«Non
ti da fastidio se resto qui con te?» chiese ancora, dopo una
lunga
riflessione a cui Mari aveva lasciato tutto lo spazio, continuando a
mangiare come se fosse sola.
«No,
fai pure» le rispose con semplicità.
«Non
credo di essermi mai presentata, a proposito! Mi chiamo Angelica
Vazquez, vengo da un villaggio ad est del Wall Rose. Lì le
cose non
vanno poi troppo male, la mia famiglia riesce a vivere abbastanza
agiamente perchè mio padre è un artigiano e
riesce a vendere un bel
po' dei suoi lavori. Stavo imparando anche io, non mi dispiaceva, mi
piace il lavoro manuale ma ho sempre trovato affascinanti le divise e
la forza degli uomini che la indossavano. Sai, una volta un uomo
della Gendarmeria ci ha salvati da un ladro che, entrato in casa, ha
cercato di rubarci ogni cosa. Ci ha minacciati di ucciderci, ma il
soldato l'ha steso in poco tempo! E' stato un vero eroe! E quindi...
eccomi qui, a spaccarmi la schiena invece che produrre
argille»
ridacchiò, come se fosse stato una divertente barzelletta e
Mari si
scoprì ad aver abbandonato il suo pasto, curiosa e
interessata da
quella storia tanto da dimenticarsi di avere fame. «Tu,
invece,
perchè sei qui?»
«Io?»
chiese Mari, sorpresa che qualcuno avesse potuto rivolgerle quella
domanda. Abbassò nuovamente lo sguardo alla manciata di
fagioli che,
ormai freddi, le sfioravano le labbra e riscavando nella propria
mente, alla ricerca di una risposta, si trovò a sorridere.
Persa in
un dolce pensiero, le guance lievemente arrossate e il cuore che le
concesse un paio di pulsate un po' più forti del solito.
«Io voglio
imparare a volare.»
«Volare?
Ah! Parli delle ali della libertà dell'Armata Ricognitiva,
giusto?»
chiese conferma Angelica.
«Voglio
sentire il vento accarezzarmi il viso e arrivare a toccare il cielo,
percependo su di me la consistenza delle nuvole. Veloce, libera e
irraggiungibile» continuò Mari, proseguendo su una
scia di pensieri
che non avevano preso in considerazione la domanda di Angelica,
nè
tanto meno la sua presenza.
«Il
movimento tridimensionale lo usano anche le altre legioni, non solo
l'Armata Ricognitiva» osservò Angelica,
interpretando le parole di
Mari come un desiderio a utilizzare il dispositivo.
«Non
è la stessa cosa» disse Mari, facendo di nuovo
riferimento a ciò
che la compagna stava dicendo, e tornando in sè
ingoiò finalmente
quel boccone. «Per quanto grande possa essere la gabbia, un
uccello
non potrà mai sentirsi veramente capace di volare se chiuso
al suo
interno. Mura e tetti impediscono la vista da qualsiasi prospettiva
li si guardi.»
«Sei
disposta a farti mangiare dai Giganti solo per poter avere un po' di
visuale in più? Non credi sia una motivazione un po' troppo
debole?»
chiese Angelica sovrapensiero.
«Tu
credi?» chiese candidamente Mari e solo allora Angelica si
rese
conto di aver parlato a sproposito e si affrettò ad
aggiungere: «Non
volevo dire che sei superficiale! Scusami.»
«Perché
mi chiedi scusa?»
«Perché...
ho detto che la tua motivazione... è debole»
balbettò Angelica,
chiedendosi se la compagna se avesse capito o meno. Chiunque si
sarebbe offeso per una cosa del genere.
Mari
si portò il cucchiaio vuoto al mento e sollevò
gli occhi al
soffitto, pensierosa, non mostrando minimanente fastidio per quanto
detto da Angelica.
«Forse
hai ragione» osservò. «Allora ne
troverò un'altra!» sorrise
infine, soddisfatta della soluzione appena trovata al problema, e
tornò a mangiare incurante.
"Ne
troverà un'altra? Dice sul serio?" pensò
Angelica, restando
allibita di fronte all'ingenuità che quella ragazza
mostrava. Per la
prima volta, si trovò a chiedersi dove fossero andati a
pescarla.
Non si era posta troppe domande quando Keith l'aveva introdotta nel
corpo d'addestramento praticamente a metà corso, senza
specificare
altro che il suo nome. Non le era sembrato un evento troppo curioso,
o per lo meno non si era considerata nella posizione di dover fare
delle domande. Poi erano arrivate quelle voci, pettegolezzi tra
compagni di corso che invece erano stati più curiosi di lei
sulla
nuova arrivata, che sembrava essere stata portata tra le file dei
soldati direttamente dal comandante Erwin Smith. Solo voci a cui non
aveva prestato attenzione, considerandole troppo cattive e poco
obiettive, sicuramente false. Ma ora che aveva a che fare con lei,
con quei suoi modi strani, quei modi che la facevano sembrare come
estranea a tutto, come se fosse appena venuta al mondo, la
curiosità
aveva bussato anche alla sua di mente.
«Mari...
tu da dove vieni?» Chiese sovrappensiero, cominciando a
dubitare
dell'effettiva falsità di quelle voci. Che ci fosse un fondo
di
verità? Certo la via migliore era chiedere alla diretta
interessata,
ma date le circostanze, se davvero fossero state vere, forse sarebbe
stato crudele chiederle di rivelarlo così apertamente a una
totale
sconosciuta. Ma tutto questo arrivò ad Angelica solo troppo
tardi,
quando ormai aveva dato fiato alla bocca e non poteva tornare
indietro.
Guardò
imbarazzata la compagna di fronte a sè che finiva il suo
pasto
silenziosamente, con la stessa identica espressione di poco prima,
minimamente scomposta. Attese qualche secondo, chiedendosi se non
avesse lo stesso colmato quella curiosità nonostante la
sfacciataggine che lei aveva appena avuto, ma solo il silenzio
colmò
quell'attesa.
«Scusa,
forse non avrei dovuto chiedertelo. Ci conosciamo appena»
disse,
sentendosi una gran maleducata ad aver chiesto qualcosa di tanto
privato a qualcuno che conosceva da così poco.
«Mh?»
alzò finalmente la testa Mari, guardandola ancora con quel
suo
sguardo curioso e indagatore, per niente turbato, solo un po'
sorpreso. «Chiedere cosa?»
«Ma...»
si pietrificò Angelica. «Non mi hai
sentita?»
«Scusami,
ero sovrapensiero.» sorrise candidamente lei, prima di
alzarsi in
piedi e afferrare il proprio piatto vuoto. «Ci vediamo domani
mattina. Grazie della compagnia.»
«Vai
già a letto?» chiese Angelica, voltandosi per non
perdere il
contatto visivo, nonostante Mari fosse già passata oltre,
come se
avesse avuto fretta ad allontanarsi.
Mari
annuì e accennando un ultimo saluto si allontanò,
dirigendosi verso
il lavello dove sciacquare e riporre il piatto sporco. Non aveva
nessuna intenzione di andarsene subito a letto, ma, esattamente come
aveva detto ad Angelica, non si trovava particolarmente a suo agio
con le persone e aveva desiderato allontanarsi quanto prima. Non
tanto per colpa di Angelica stessa: se ci fosse stata solo lei non
sarebbe stato un problema. Ma era tutta la sala piena a metterla in
agitazione: troppe voci, troppi volti e troppi occhi a cui fare
attenzione. Per questo appena poteva, fuggiva via. Senza contare che
Sierk con quegli stupidi dei suoi amici l'avevano irritata abbastanza
per quella sera e certo non era il caso di restare lì a
rimuginarci.
E infine... la domanda.
"Da
dove vieni?"
L'aveva
sentita eccome. Ma non aveva avuto nessuna intenzione di rispondere.
In realtà... non ne aveva avuto il coraggio.
Camminò a testa china,
ben attenta a non incrociare lo sguardo con nessuno, osservando
minuziosamente lo sporco del proprio piatto e nient'altro.
Passò
attraverso quel mormorio di voci indistinte, sottofondo a una marcia
interminabile. Cercò di estraniarsi a tutto quello, di
sentirsi sola
col suo respiro. Presto sarebbe uscita fuori e avrebbe respirato
l'aria della notte, sola, gatta ferita e terrorizzata che apprezza
solo la compagnia di chi riesce a starle più lontano: Luna e
Stelle.
Amiche che presto avrebbe raggiunto, o a cui perlmeno si sarebbe
avvicinata.
"È
davvero così superficiale?" si chiese, pensando a
ciò che
Angelica aveva detto della sua motivazione ad entrare nell'Armata
Ricognitiva. Eppure il focore che sentiva nel petto al solo pensiero
era così invadente.
Il
piede, ormai autonomo nella sua marcia silenziosa, si bloccò
improvvisamente a mezz'aria, ostacolato. L'equilibrio le
mancò tanto
da farle battere il cuore dalla paura e presto raggiunse il pavimento
in uno fragore di cocci che andavano sparpagliandosi da tutte le
parti.
I
presenti in sala non diedero importanza a quanto successo, solo
qualcuno che stava più vicino a lei si zittì
momentaneamente,
semplicemente incuriosito per l'accaduto, ma nemmeno troppo
interessato. Eppure per Mari quel silenzio fu assordante quasi quanto
gli sghignazzi che provenivano soffusi dalla sua destra. Non aveva
ancora capito cosa fosse successo, ma al momento riusciva solo a
sentire dolore. Il suo respiro rimbombava nelle orecchie, mentre un
male improvviso cominciava a martellarle le ossa.
La
testa le girava, la visuale era sfocata. Ma che stava accadendo? Cosa
era accaduto?
Cercò
di rialzarsi, ma nel muovere una mano verso di sè la vide
lasciare a
terra una striscia di sangue rossa, probabilmente fuoriuscita da una
ferita provocatole dai cocci del piatto rotto su cui era stesa. La
vista andò ad annebbiarsi ancora di più,
focalizzandosi su quel
singolo punto carminio. Poteva sentirlo in bocca, il sapore del
sangue, benchè non avesse ferite lì.
E
le risate, le voci, gli echi e una frase: «La puttana non
perde il
vizio di star stesa.»
Chi
l'aveva pronunciata? Chi aveva riportato a galla certi pensieri?
Certi ricordi? Chi dopo così tanto tempo l'aveva di nuovo
chiamata
in quel modo?
Alzò
gli occhi, cercando il volto di chi aveva osato ma davanti a
sè
trovò solo delle mani.
«Dai
aiutatela.»
Mani
che si allungavano.
«Che
patetica.»
Verso
di lei.
«Non
riesce nemmeno a rialzarsi.»
E
l'afferravano.
«Non
toccarmi!» gridò con rabbia mentre si lanciava
verso il suo
aggressore. Stretto tra le dita, tanto da conficcarsi con la punta
nel palmo, aveva uno dei cocci del piatto appena rotto e con esso
cercò di colpire Zhen. Il ragazzo indietreggiò,
provando ad
allontanarsi dalla traiettoria del colpo, ottenendo così un
semplice
graffio sullo zigomo. Ma Mari gli fu addosso e alzò il
coccio sopra
la sua testa, pronto a conficcarlo nel collo.
«Ferma!»
ordinò una voce alle sue spalle, e qualcuno le
bloccò il braccio
appena in tempo. Non vide chi era, non importava, in quel momento non
riusciva nemmeno a capire perché vedesse sangue da tutte le
parti.
Si voltò di scatto e colpì Craig con un pugno in
pieno viso. Il
colpo fu più forte del previsto e fece barcollare il ragazzo
all'indietro, scuotendo la testa confuso. Mari tornò a
guardare Zhen
steso a terra e di nuovo si lanciò su di lui, ma di nuovo
qualcuno
intervenne, afferrandola per la vita e sollevandola da terra per
allontanarla.
«Toglile
quel coso di mano!» ordinò un'altra voce.
"Non
toccatemi! Non toccatemi!" continuò a pensare Mari, mentre
nella sua mente si affollavano mani e dita, dirette nelle sua
direzione. Volevano di nuovo toccarla, afferrarla, farle male, piene
del diritto che si sentivano di avere nei suoi confronti. Pagata,
comprata, venduta come un misero oggetto senza anima. Si
piegò in
avanti e con un colpo secco tirò indietro la testa, colpendo
in viso
chi aveva osato prenderla alle spalle. Sentì la presa su di
lei
allentarsi e permetterle di tornare con i piedi per terra.
«Mari...»
sentì una voce chiamarla. Sembrava l'unica che non
appartenesse a
quel mondo di nebbie e mani, ma che venisse da un'altra parte. Troppo
debole, non abbastanza convincente. Lei restava in quella gabbia di
confusione e dolore.
«Mari!»
la stessa voce più imperativa. Le gambe andavano, le braccia
ugualmente. La mano colpì lo stomaco di qualcun'altro. Una
mano le
afferrò il polso, ma lei si divoncolò e
sentì il sapore del sangue
in bocca. Non il suo.
«Mari!
Basta!»
"Erwin...
Smith?" pensò Mari nell'istante in cui potè
sentire di nuovo
prendere possesso del suo corpo. Riprese coscienza delle sue braccia,
doloranti, e delle gambe che tremavano. In mano, il coccio le faceva
un gran male. Spalancò gli occhi, come se si fosse appena
svegliata
da un incubo, e si prese qualche secondo per riconoscere Zhen
bloccato tra il pavimento e il suo braccio, serrato al suo collo per
impedirgli di muoversi. La guardava in un misto tra il terrorizzato e
l'incazzato, giurando mentalmente vendetta non appena si fosse
liberato. Mari allentò la presa, sorpresa di quanto stesse
accadendo, e Zhen ne approfittò per lanciarla via con
rabbia. Un
gruppo di ragazzi gli andarono a fianco, poggiandogli le mani sulle
spalle, chiedendogli se fosse tutto a posto ma lui non aveva occhi
che per Mari, progettando probabilmente di fargliela pagare quanto
prima.
«Merda!
La stronza mi ha morso!» sentì dire da qualcuno al
suo fianco e
vide Rodrick, un altro cadetto, tenersi una mano insaguinata.
Cos'era
successo? Lei voleva solo portare al suo posto il piatto e poi uscire
a guardar le stelle. Perché ora si trovava a terra, le mani
impregnate di sangue e le gambe doloranti? Perché ora aveva
tutti
gli sguardi su di sè in quel modo.
Si
voltò, a guardare chi fosse al suo fianco proprio come si
trovava al
fianco di Zhen e di Rodrick, nella speranza di essere assistita dalla
stessa comprensione. Nessuno. Intorno a lei solo vuoto e silenzi.
«Mi...
mi dispiace... » balbettò. Quando aveva cominciato
a piangere?
Voltandosi,
in cerca di una qualsiasi faccia amica, trovò quella del
comandante
Erwin sorprendentemente più vicina del previsto. In piedi,
appena
dietro di lei, l'osservava con uno sguardo truce, assolutamente
contrariato.
"L'ho
fatto arrabbiare" pensò e un singhiozzo la scosse. Le
lacrime
le appannarono la vista e in quella macchia indistinta dai capelli
biondi, Mari riuscì a riconoscerci un viso ben noto e dallo
sguardo
altrettanto duro.
«Har...
vey... mi... mi dis... » balbettò
con un filo di voce, ma
non riuscì a terminare la frase e probabilmente Erwin non
riuscì
neanche a sentirla, in quell'indistinto singhiozzare.
«Caspita,
quello è proprio un bel taglio!» disse il capitano
Hanji, ora
inginocchiata al fianco della ragazza. Allungò una mano
verso quella
insanguinata di Mari, ma lei la ritrasse impanicata. Ovunque
guardasse c'erano quegli sguardi che facevano così male. E
tutti
cercavano di toccarla, di afferrarla. Si sentiva soffocare, chiusa in
quella gabbia di occhi e mani. Indietreggiò, arrancando,
cercando di
allontanarsi da Hanji e continuando a balbettare quanto fosse
dispiaciuta. Ma il cerchio di occhi non si dissipava nemmeno un po',
continuando a puntarla, accusarla, colpirla.
"Io
volevo solo uscire a veder le stelle".
«Lo
trovate così interessante?» e la gabbia di sguardi
si spostò
immediatamente da Mari alla fonte della voce che aveva appena
parlato: la voce di Levi.
Un
profondo respiro e la gola di Mari tornò a rilassarsi,
facendole
meno male, ora che una prima porta era stata aperta, ora che sentiva
di poter avere una via d'uscita.
«Proverò
a fare altrettanto quando sguazzerete nel vostro sangue e nella
vostra merda, il giorno che verrete divorati dai Giganti.
Chissà che
non mi diverta anche io.» La frase risultò
più come una minaccia
che un rimprovero e probabilmente per questo molti dei cadetti
lì
presenti si dileguarono all'istante, tornando ognuno ai propri
affarri. La gabbia era finalmente sparita, lasciandola libera.
Mari
volse un altro sguardo a Erwin, che ancora la guardava con
severità
e colta da un fremito di paura si rialzò e fuggì
via.
Erwin
la seguì con lo sguardo mentre si dileguava fuori e
tirò
successivamente un sospiro affranto, anche se a occhi inesperti
sarebbe potuto risultare scocciato.
«Si
calmerà presto» disse, voltandosi per tornare al
suo tavolo.
«Ha
un bel taglio! Va medicata!» disse Hanji, poco convinta,
chiedendosi
se non fosse il caso di andarla a cercare.
«Nello
stato d'animo in cui si trova non riusciresti nemmeno ad avvicinarla.
Tornerà quando si sarà calmata e avrà
bisogno di un tetto sopra la
testa.»
«Stai
parlando di una ragazza o di un animale randagio?» chiese
Levi,
guardandolo di sottecchi. La ridicola scena a cui aveva appena
assistito doveva avere una spiegazione sotto, nessuno reagisce con
tale panico a così poco, e sicuramente Erwin doveva avere le
risposte. «Dove l'hai raccolta, Erwin?» chiese,
senza aspettare che
il comandante rispondesse alla sua prima domanda. Era giunto il
momento di rivelare parte di quei misteri in cui si era ritrovato
coinvolto.
«Lei
proviene dallo stesso luogo da cui arrivi tu»
rivelò Erwin, senza
farsi pregare troppo, come se alla fine quei misteri non fossero poi
troppo importanti. Levi sorprese il proprio cuore ad aumentare
lievemente i battiti, nel ricordare la vita passata chiuso in quella
fogna puzzolente: la Città Sotterranea. Quel luogo che un
tempo
aveva chiamato casa.
«Hai
notato i suoi capelli? Prima li aveva molto più lunghi.
Quella
sfumatura così accesa è rara. Pregiata, si
potrebbe definire.» E
non ci fu bisogno che Erwin aggiungesse altro. Levi conosceva
abbastanza la vita di quel posto per sapere che fine avesse potuto
fare una ragazza come lei. Se perfino il suo occhio disinteressato
era stato catturato con tale magnetismo da quella sfumatura amaranto,
se perfino la sua mente ne era rimasta folgorata, tanto da non
riuscire più a togliersela dai pensieri, sicuramente
altrettanto
effetto -se non superiore- aveva sugli uomini dalla dubbia
moralità
che giravano per quelle strade.
Erwin
considerò terminate le spiegazioni e tornò al suo
tavolo, insieme
agli altri ufficiali, pronto a finire il suo pasto e dimenticare
l'accaduto. Levi lo seguì e in un primo momento
sembrò intenzionato
a fare altrettanto, ma poi afferrò il suo piatto e si
allontanò.
«Me
ne vado a dormire» annunciò secco solo per
rispondere agli sguardi
interrogativi di chi aveva intorno.
But
she don't want to go outside tonight
And
in a pipe she flies to the Motherland
or
sells love to another man
It's
too cold outside
for
Angels to fly
NDA.
Ciao!!!
Eccomi (quasi) puntuale xD
Comincio
subito con i credits: la strofa utilizzata (spezzata a metà
a inizio
e metà a fine capitolo) è presa da "The A team"
di Ed
Sheeran. Se non la conoscete, ascoltatela *-* è bellissima
(A dir il
vero... tutte le canzoni di Eddino sono bellissime). In
realtà la
canzone si riferisce più a tossicodipendenti, ma quel
particolare
pezzo (che poi è il ritornello) ben si addice anche alla
storia di
Mari (che con la droga non c'entra nulla, ma col resto sì...
tanto
poi andando avanti spiego meglio tutti i retroscena).
(Ma
quante cavolo di parentesi sto facendo sta volta?)
(O.o)
(Adesso
scrivo tutte le NDA così...) xD
No,
vabbè, basta... immagine del capitolo!!! In
realtà Rinmaru Games fa
tutte le scenette abbastanza kawaii-allegre-love, poco si adattano
allo spirito di questo capitolo, perciò mi limito a
condividere con
voi la tenera scenetta Angy-Mari in chiave moderna (se Rinmaru me lo
avesse permesso, avrei evitato la chiave moderna xD sono limitata
capitemi u.u), dove la prima racconta della sua provenienza alla
compagna assorta.
MARY
& ANGY -> https://postimg.org/image/azaeiuf4f/
<- MARY & ANGY
Nel
prossimo capitolo faremo un tuffo nel passato e risponderemo alla
domanda di Angy: "Mari... tu da dove vieni?"
Ma
non solo! Tante novità e tanti "wow" nel prossimo capitolo
che si intitolerà:
La
bambina delle pere
Estratto:
«Che
disastro» sospirò Harvey. «Ma non sembri
avere niente di rotto.»
«Il
polso mi fa male.»
«Mettilo
della bacinella d'acqua fredda, dopo te lo fascio e te lo blocco.
Dev'essere solo una storta, guarirà.»
«Tu
allora non hai idea di chi siano?» chiese Mari tornando sul
discorso
uomini volanti.
«Perchè
sei tanto interessata a loro?» la brontolò Harvey,
cominciando ad
applicare impacchi freddi sui lividi.
«Perchè
sapevano volare!»
A
lunedì prossimo!!!
Tada
Nobukatsu-kun
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** La bambina delle pere ***
La
bambina delle pere
Città
sotterranea
Anno
841
Dolf
Schubert trascinò dentro il proprio negozio la cassa con i
rifornimenti. Qualche tozzo di pane, un po' di farina, acqua, delle
patate. Quel giorno era perfino riuscito ad accaparrarsi delle pere,
che avrebbe sicuramente rivenduto a caro prezzo. Cercò di
aprire la porta con un piede, mentre il resto del corpo lo impiegava
nello sforzo, ma stranamente restò chiusa. Tentò
di nuovo, infastidendosi sempre più, fino a quando preso per
disperazione non lasciò il carico e tentò in
maniera canonica, con le mani. Niente da fare: la porta era bloccata
dall'interno.
«Ma
che cazzo...?» brontolò, facendo il giro del
casolare e sbirciando dalla propria finestra. Lanciò un urlo
quando vide distintamente ben due gatti che si erano sentiti liberi e
padroni di salire sulla sua tavola e divorare il suo cibo.
«Bestiacce!
Fuori dal mio negozio!» gridò, afferrando un
mattone e lanciandolo contro il vetro, spaccandolo. I gatti schizzarono
ovunque per la paura, ma ben si guardarono dall'uscire dal negozio e
abbandonare lì tutto quel cibo.
«Vi
faccio arrosto!» gridò ancora Dolf, scavalcando la
finestra ed entrando. Afferrò una scopa e
cominciò a dar la caccia ai gatti, che soffiavano e
scattavano ovunque terrorizzati. Finalmente riuscì a
scacciarli via, quando un altro rumore attirò la sua
attenzione, ma questa volta proveniente dall'esterno.
Ci
mise qualche istante a farsi tornare la memoria e ricordare:
«La mia roba!»
Scattò
verso la porta, l'aprì e uscì fuori appena in
tempo per vedere una folta chioma rossa uscire dalla cassa spaccata.
Una bambina, di poco più di dieci anni, teneva stretto al
petto del pane e una bella manciata di quelle pere che aveva pagato oro.
«Ladruncola
bastarda!» le urlò contro, lanciandosi verso di
lei con la scopa serrata in mano. La bambina saltò fuori
dalla cassa, la refurtiva ben stretta al petto, e cominciò a
correre per le strade della città a perdifiato. Si
affrettò a tirarsi il cappuccio della casacca sopra la
testa, cercando di nascondere il più possibile il suo
marchio distintivo, quei capelli che nessuno non avrebbe potuto non
notare. Spesso erano stati proprio quelli la causa dei suoi guai:
saltando subito all'occhio non le permettevano di rubare in pace e la
gente finiva subito per riconoscerla per strada. Tempi che erano andati
persi molto prima, quando Harvey aveva avuto la brillante idea di
cucirle quella casacca perfetta per rinchiuderci dentro quel trascina
sfortuna.
«Al
ladro!» gridò Dolf alle sue spalle, arrancando
benché fosse un uomo abbastanza forte e allenato. Quella
disgraziata era veloce, agile e piccola abbastanza da scivolare tra le
gambe delle persone senza venirne rallentata, mentre lui non aveva
quella fortuna nel suo metro e settanta. La bambina svincolò
tra due signore intente a parlare dei guai della città e
della sfortuna di vivere in quella miseria, facendo interrompere i loro
discorsi con un urlo sorpreso e acuto, ma nessuna delle due ebbe la
prontezza di afferrarla.
«Torna
qui! Se ti prendo lo vedi cosa ti combino, bastarda!»
gridò ancora Dolf alle sue spalle. Nonostante tutto non
sembrava stancarsi nemmeno un po'.
"Com'è
testardo" pensò la piccola, scocciata. "Adesso ti faccio
vedere io!"
Scivolò
dietro un muretto, correndo all'interno di uno stretto vicolo dietro un
casolare. La strada, arrivata in fondo, si interrompeva per un enorme
staccionata che divideva i quartieri, alta abbastanza da bloccare
qualsiasi uomo di qualsiasi altezza.
Al
suo fianco, però, a dispetto di ciò che poteva
servire quella barricata in legno, c'era un grosso ammasso di
spazzatura. Mari ci saltò sopra e la scalò senza
difficoltà, infine con un ultimo salto arrivò al
bordo superiore. Si sporse e saltò giù,
dall'altro lato. Dolf l'avrebbe sicuramente seguita ancora, ma aveva
visto abbastanza da credere che non sarebbe riuscito a scendere
dall'altro lato prima che lei non fosse sparita. Era forte e robusto,
ma goffo e sicuramente non agile abbastanza da risalire quell'accumulo
di schifezze con la facilità con cui ci era riuscita lei.
Corse
fuori dal vicolo e sentì Dolf sbattere contro il legno della
staccionata alle sue spalle, colpendola e lanciandole insulti. Si
voltò, intimorita per un istante all'idea che avesse potuto
sfondarla, ma ciò non accadde. Al contrario, qualcos'altro
mandò in fumo tutto ciò che aveva fatto fino a
quel momento. L'unica cosa che vide fu un'ombra piombare su di lei dal
cielo: troppo grossa per essere un uccello, troppo veloce per essere
qualsiasi cosa conoscesse. Si bloccò, interrompendo la sua
corsa e permettendo all'essere di passare oltre senza investirla, ma
ormai era troppo tardi. Colpita, anche se solo su una spalla, cadde a
terra e la refurtiva andò sparpagliandosi per terra.
Guardò il disastro ai suoi piedi confusa e mosse
immediatamente uno sguardo a ciò che l'aveva quasi uccisa,
scoprendo solo allora che non era un essere nè tanto meno un
animale. Era un uomo, anzi due uomini e una ragazza per la precisione.
Volavano sopra i tetti come uccelli, destreggiandosi con
abilità e velocità. L'uomo dai capelli scuri,
quello che era in testa al gruppo, si voltò lanciandole uno
sguardo infastidito e di disappunto, mentre la ragazza dai capelli
rossi al suo fianco le urlava: «Guarda dove vai,
moccioso!»
Pochi
secondi, un contatto visivo di appena pochi secondi, ma era bastato a
imprimere a fuoco nella sua memoria quel viso affilato.
«Sanno...
volare...» balbettò, guardandoli incantata mentre
sparivano poco più avanti.
Si
ricordò di dov'era e di ciò che stava facendo
solo quando sentì la grossa mano di Dolf afferrarla per il
colletto della maglia e sollevarla da terra.
«Beccata!»
disse soddisfatto e lei cominciò inutilmente a dimenarsi
come un anguilla, incapace veramente di scivolare via da quella ferrea
presa.
Quando
Mari aprì la porta di casa, Harvey era seduto al tavolo,
impegnato a sorseggiare una tazza fumante. Il viso, ancora delicato nei
suoi lineamenti di bambino che aveva solo da poco cominciato ad
abbandonare, era disteso in un sorriso soddisfatto. Inspirò
il profumo della bevanda, che sorseggiava come un nobile alla corte del
Re, e si passò platealmente una mano tra gli scompigliati
capelli aranciati -troppo scuri per essere definiti biondi, troppo
chiari per essere definiti rossi.
«Latte
caldo, ne hai mai provato? Giornata fruttuosa per il tuo astuto
fratellino che è riuscito a conquistare con successo ben due
bottiglie!» disse con orgoglio, prima di voltarsi a guardare
la sorella.
«Che
diavolo t'è successo?» chiese stranito, notando
solo allora il suo stato. Il viso di Mari era ricoperto di polvere e
sangue, pulito solo su due strisce sulle guance, via che avevano
sicuramente percorso fiumi di lacrime. Un labbro spaccato, l'occhio che
cominciava a gonfiarsi, i capelli arruffati e con una mano si teneva
stretta un polso, probabilmente dolorante. Poche volte era tornata
ridotta così male.
«Mi
hanno presa» borbottò lei, sforzando la voce per
evitare di tornare a piangere. Ogni cosa le faceva male, ogni singolo
punto del corpo era stato preso a calci e bastonate, non aveva mai
preso tanti colpi come quella volta. Tutto per delle dannate pere che
aveva pure perso per la strada e aveva dovuto abbandonare.
«Ti
sei
fatta prendere» specificò Harvey, che sapeva bene
che quando voleva Mari sapeva correre più del vento. Era un
vero e proprio gatto randagio, impossibile da afferrare, proprio come
quegli animali che si portava appresso spesso e volentieri, come
amichetti al parco giochi.
«Non
è stata colpa mia!»
«E
di chi? Sentiamo.»
Mari
abbassò lo sguardo, puntandolo a un angolo del pavimento,
mentre rivedeva perfettamente nella sua memoria il volto dell'uomo
volante. L'uomo che l'aveva travolta, che aveva causato quel guaio e
che neanche si era preoccupato di chiederle scusa, ma anzi l'aveva
guardata con disprezzo, come se fosse stata lei a intralciarlo e dargli
impiccio.
«Mi
hanno investita» disse con disprezzo, ma subito si
ammorbidì. Nonostante tutto non riusciva a provare rancore
verso quelle persone. «Delle persone volanti»
aggiunse con un primo accenno di emozione. Persone volanti, come
potevano esistere? Davvero c'era chi era in grado di farlo? Nessuno
avrebbe mai potuto prenderli lassù! «Tu sai chi
sono?» chiese, ora improvvisamente interessata.
«Non
ho la più pallida idea di cosa tu stia dicendo»
l'ammonì Harvey, lasciando la sua tazza sul tavolo e
alzandosi. Andò a spostare una sedia e con un gesto
invitò Mari a sedercisi sopra. La bambina obbedì,
trovandosi poco dopo a dondolare i piedi nel vuoto. Quelle sedie erano
troppo alte per lei, o forse era lei che si ostinava a restare troppo
piccola?
«Erano
tre! Volavano come uccelli, avresto dovuto vederli! Erano incredibili,
velocissimi!»
«Non
esistono persone volanti.»
«Invece
ti dico che loro lo facevano! Davvero tu non li conosci? Tu conosci
chiunque!»
«Se
non mi dici come erano fatti come posso dirti se li conosco?»
brontolò lui, prima di di posizionarsi davanti a Mari e
cominciare a pulirle il viso con un panno umido.
«Uno
era un ragazzo credo abbastanza alto, biondo. Non so dirti molto di
più, era di spalle ed è l'unico che non si
è girato. Poi c'era la ragazza, aveva i capelli rossi come i
miei ma più scuri e meno appariscenti» e una nota
amara condì quell'ultimo commento. Detestava i suoi capelli
che attiravano così l'attenzione. «Mi ha detto
"guarda dove vai, moccioso!". Credo che il cappuccio abbia nascosto il
mio viso, se mi ha preso per maschio. Aveva due codini, il viso
allegro, forse un po' di lentiggini. Era lontana, non sono riuscita a
vedere molto.»
«E
il terzo?» chiese distrattamente Harvey, ora prendendo a
medicare il sopracciglio tagliato. L'ascoltava il minimo necessario,
non veramente interessato, ma finchè parlava del suo
bizzarro incontro non brontolava per il dolore dei tagli e questo gli
permetteva di lavorare alla medicazione con assoluta
tranquillità.
«Il
terzo...» mormorò Mari, tornando a ripensare a
quello sguardo glaciale. «Aveva i lineamenti un po' duri. Gli
occhi mi hanno fatto venire i brividi, mi ha guardata come se avesse
voluto uccidermi. Erano piccoli, affilati e scuri come i suoi capelli.
Rasati qui, dietro la nuca» e si indicò.
«E invece un po' più lunghi sopra, tanto che
qualche ciuffo gli svolazzava davanti agli occhi. Non sembrava molto
alto e grosso, ma credo che fosse il capo banda. E' stato lui a
travolgermi e mentre io son caduta a terra, lui non sembra averne
risentito per niente, anche se credo che mi abbia insultata.»
Harvey
terminò la pulizia e medicazione del viso e con un gesto,
senza parlare, la invitò a togliersi i vestiti. Ancora una
volta Mari obbedì, cominciando a scoprire con dolore i
lividi sparsi sul suo corpo.
«Che
disastro» sospirò Harvey. «Ma non sembri
avere niente di rotto.»
«Il
polso mi fa male.»
«Mettilo
della bacinella d'acqua fredda, dopo te lo fascio e te lo blocco.
Dev'essere solo una storta, guarirà.»
«Tu
allora non hai idea di chi siano?» chiese Mari tornando sul
discorso uomini volanti.
«Perché
sei tanto interessata a loro?» la brontolò Harvey,
cominciando ad applicare impacchi freddi sui lividi.
«Perchè
sapevano volare!» disse Mari colma di eccitazione.
«Siamo
chiusi sottoterra, la capacità di volare non li
porterà a niente.»
«Non
è vero! Sono inafferrabili lassù e poi basterebbe
trovare un buco nel soffitto per poter scappare via da tutto questo!
Vedere il cielo e magari arrivare a toccare le nuvole! Tu sai come sono
fatte le nuvole?»
«Sta'
ferma!» l'ammonì Harvey, scocciato dal fatto che
la sorella si stesse agitando tanto. Mari tornò a rilassarsi
e immergere il polso nell'acqua fredda, pensierosa. Non riusciva a
togliersi quel viso, quello sguardo, dalla testa.
"Quanto
mi piacerebbe imparare come loro" pensò.
«Comunque...»
riprese a parlare Harvey, dopo qualche secondo di riflessione.
«Può essere che tu ti sia imbattuta nella banda di
Levi.»
«Levi?»
chiese Mari, emozionata di poter conoscere il suo nome. In un solo
gesto estrasse nuovamente il polso fuori dall'acqua e si
voltò verso il fratello, che seccamente le
afferrò la testa e la riportò prepotentemente
nella posizione precedente. Un silenzioso ammonimento: doveva stare
ferma e smettere di agitarsi.
«Già.
Fai una cosa, stampati bene in testa questo nome.»
«E
perchè mai?»
«Perchè
quel tipo non mi piace per niente. Stanne alla larga.»
«Ma
chi è?» chiese ancora più interessata
Mari.
«Ne
ho sentito parlare nella zona mercantile, pare che ultimamente lui e
quei due idioti che gli vanno dietro stiano creando non pochi problemi.
Per colpa loro la Gendarmeria nella zona ha triplicato i controlli e
chi ci rimette sono i poveracci che lottano per un bicchiere di latte
come noi, che vengono subito scovato. O le bambine distratte come
te!» si affrettò ad aggiungere, strofinando una
nocca contro la sua testa e facendola lamentare per il dolore.
«Dicono
che da poco abbiano rubato delle attrezzature militari che permette
loro di saltare oltre i tetti delle case e viaggiare a gran
velocità. Sinceramente, spero che li ammazzino presto
perché qui sta diventando sempre più difficile
portare a casa del pane.»
«O
delle pere» aggiunse Mari, sconsolata.
«Tieniti
a distanza da loro, fammi questo favore.»
«Sì»
mormorò Mari. «Lo farò, stai
tranquillo.»
It’s
a damn cold night Trying to figure out this life
Won’t
you take me by the hand? Take me somewhere new
I
dont know who you are But I’m with you
NDA
E
niente, mi è presa sta cosa carina di mettere pezzi di
canzoni alla fine dei capitoli tipo "sigla fine episodio" xD
Questa,
come magari avete potuto riconoscerla, è "I'm with you" di
Avril Lavigne.
Piccolo
tuffo nell'infanzia di Mari, dove si scopre di questo (bizzarro?)
incontro e vengono rivelate le prime fondamenta. Come magari si
può cominciare a intuire, il cammino di Mari è
cominciato già molto prima, esattamente quel giorno dell'841
quando Levi, travolgendola, l'ha resa vittima di un pestaggio coi
fiocchi (e le ha fatto perdere le sue preziosissime pere). Ma cosa
avrà portato la piccola Mari dal "ok, Harvey caro, gli
starò lontana" al "Mi ha detto che son stata brava, mi metto
a piangere"? XD E, ancora, quale ruolo ha avuto in tutto questo Erwin,
che sembra esserne più invischiato di quanto ci si possa
immaginare? E che fine avrà fatto Harvey?
Vi
lascio con queste domande e saluto!
Cià
cià
Tada
Nobukatsu-kun
Anticipazione:
"«Mi
sono dimostrata degna! Ho superato tutte le prove a cui sono stata
sottoposta, nonostante sia entrata in ritardo in addestramento, non
può dire che non sono forte abbastanza!»
«Sei
scoppiata a piangere per uno sgambetto» tagliò
corto Levi, fulminandola.
«È...
è stato un incidente! Non accadrà più
glielo assicuro!» balbettò, completamente pervasa
dall'imbarazzo. Era stata una vera stupida, se ne rendeva conto. Era
andata nel panico per una scemenza, era veramente una vergogna, ma non
era nemmeno giusto che quell'incidente andasse a rovinare tutto,
facendo crollare ogni sorta di impegno, determinazione e sogni."
E
una piccola child-Mari :3
MARI
->
https://postimg.org/image/gz3n3ks5n/
<- MARI
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Forza ***
Forza
Centro
di addestramento
Anno
846
Aveva
girato in lungo e in largo, ma alla fine era riuscito a trovarla.
Rannicchiata, raccolta in se stessa, nascosta tra l'erba troppo alta ai
fianchi di un albero, su una collina appena alle spalle dal centro di
addestramento. La testa le cadeva tra le ginocchia, su cui poggiava le
braccia, stese in avanti e i palmi ancora insanguinati rivolti al
cielo, come una mendicante che chiedeva l'elemosina. Le spalle ancora
si scuotevano per i singhiozzi. Nonostante fosse passata una buona
mezzora, lei non si era calmata neanche un po' e le mani ancora sporche
lo dimostravano più delle sue stesse lacrime.
Levi
le si avvicinò silenzioso, ma cercando di non esserlo troppo
per permetterle di rendersi conto che non era più sola. Al
fruscio dell'erba calpestata dagli stivali, Mari reagì
chiudendo appena le dita, in un bizzarro gesto di protezione.
«Non
volevo... mi dispiace... » riuscì a sentirla
mormorare con un filo di voce, sussurrando a se stessa, persa in un
loop di pensieri, ricordi e paure. «Non farmi male... non lo
farò più, non farmi male...» e Levi
restò in ascolto di quei mormorii agonizzanti ancora qualche
istante. «Sarò brava. Sarò brava. Non
farmi male.»
«Nessuno
vuole farti male» intervenne lui, cominciando a trovare
patetico che restasse ancora rinchiusa in quel nodo. Mari scosse la
testa intrappolata tra le ginocchia, dondolandola da un lato a un altro.
Strinse
definitivamente le dita sul palmo della mano, serrandole a pugno, e le
ritirò verso il busto, alzando la testa quel tanto che
bastava per osservarle una volta raggiunte e poggiate sulle ginocchia.
Il viso storpiato dal dolore si allungò in un'espressione
spaventata, come se si fosse accorta solo in quel momento del sangue.
«Le
mie mani...» balbettò ancora più
confusa, mentre davanti ai suoi occhi si diramavano scene che niente
avevano a che vedere con quello che stava realmente accadendo. Un
pavimento pregno di sangue, la sua veste stracciata, le urla di
qualcuno alle sue spalle, una porta che sbatte e un corpo esanime sul
pavimento. Tutto è macchiato di rosso, proprio come i suoi
capelli. Poteva ancora sentire il gocciolio del sangue che dalle sue
mani cadeva nella pozza sotto di sé e quell'acre odore
ferruginoso che le facevano venire i conati di vomito.
«Lui
mi ha afferrata...» mormorò mentre vedeva una mano
scendere verso il suo viso, pronta a colpirla. Serrò gli
occhi, rannicchiandosi ancora di più, come se veramente
qualcuno la stesse per picchiare ed urlò: «Non
volevo ucciderlo! Mi ha afferrata! Non farmi male!»
Allungò i palmi aperti in avanti, a protezione della sua
testa che ora girava vorticosamente.
"Ucciderlo?"
si chiese Levi, spalancando appena gli occhi, chiedendosi quali altri
segreti nascondesse quella ragazza. Sicuramente Erwin non gli aveva
raccontato tutto. In effetti, la scusa che si fosse interessato a una
prostituta tra le tante solo per la colorazione singolare dei suoi
capelli non reggeva molto. Doveva essere successo qualcosa di
più significativo che aveva attirato la sua attenzione.
Qualcosa
come un uccisione, ad esempio.
Estrasse
un fazzoletto dalla tasca e sbuffando si avvicinò di un
altro paio di passi. Con un colpo netto, evitando che lei avesse tempo
di realizzare e dimenarsi, le fece un rapido nodo intorno al palmo
della mano, comprendo sangue e ferita.
«Quel
sangue è il tuo, stupida» disse con astio, prima
di allontanarsi nuovamente, volgendole le spalle. Da quel punto della
collina cominciava la discesa, quasi priva di alberi, ed era facile
avere la visuale scoperta tanto da poter vedere con chiarezza il cielo.
Il panorama non era niente male, si ritrovò a pensare con
sorpresa e piacere. Si sarebbe dovuto ricordare di quel posto, in
futuro.
Mari
restò sorpresa del gesto e per un momento riuscì
a tornare al presente, lasciando i ricordi al loro posto.
Osservò il fazzoletto legato frettolosamente: non avrebbe
mai potuto chiuderle la ferita o essere d'aiuto. Non poteva che essere
solo un gesto simbolico, data la sua inutilità in quella
posizione. Eppure aveva un suo effetto. Il sangue che tanto la
terrorizzava con quegli odori, con quei colori e quella viscida
consistenza, ora non c'era più.
«La
tua mano è tutta sporca. Così la ferita si
infetterà. Sarebbe da veri idioti morire per così
poco, non credi?» chiese Levi.
Mari
si morse un labbro, sentendo nuovamente i sensi di colpa crescergli
nella pancia e fare a pugni col suo stomaco. Tremolante si avvolse
meglio il fazzoletto intorno alla ferita, mentre nella testa
rimbombavano insulti di ogni genere per essersi permessa di mostrare
quel lato terribile di sé proprio di fronte al famigerato
Levi. Com'era possibile che tutte le volte che capitava che si
incrociassero, lei cadeva stupidamente e finiva col farsi del male?
Com'era possibile che per una volta non riuscisse a mostrare un minimo
di dignità?
«Tu
vieni dai sotterranei, vero?» chiese Levi, continuando a
guardare il cielo sopra di sé. Infilò le mani
nelle tasche e se ne restò lì, a volgerle le
spalle, come se non gli importasse niente di lei.
"I
sotterranei..." pensò Mari, facendo riaffiorare i ricordi.
Alzò lo sguardo e lo puntò alla schiena di Levi.
Sembrava ancora così distante, così superiore,
proprio come quella volta. Riusciva a volare, a raggiungere il cielo.
Inavvicinabile, di nuovo ignorava la sua esistenza mentre lei non
poteva che ammirarlo e invidiarlo. Abbracciò le proprie
ginocchia, tornando ad affondarci all'interno il volto, e
sussurrò non veramente intenzionata a farsi sentire:
«Sono la bambina delle pere.»
«Mh?»
si limitò a chiedere Levi, avendola sentita mormorare
qualcosa di indistinto. Ma nel voltarsi a guardarla, la vide nella
stessa identica posizione rannicchiata, con il volto nascosto, e
pensò che fosse stato solo un altro dei suoi mormorii
confusi rivolti ai fantasmi del passato.
"Non
può ricordarselo... non riuscì neanche a vedermi
in viso, tanto che mi scambiò per un maschio"
pensò, anche se l'idea sotto sotto parve rincuorarla
più che dispiacerle. Andava bene così, sarebbe
stato imbarazzante se si fosse ritrovata a dover spiegare le potenti
sensazioni che aveva suscitato in lei quel giorno. Il giorno che le
aveva fatto nascere dentro la consapevolezza che una via d'uscita
poteva esserci per tutti.
«Eri
costretta a prostituirti per sopravvivere» disse Levi,
tornando al discorso che aveva appena cominciato. A rispondergli,
ancora una volta, fu solo il silenzio e il sibilo del vento. Ma
benché la voce di Mari tacesse, il corpo non riusciva a fare
altrettanto e vide la sua mano, avvolta nel fazzoletto, stringersi a
pugno tanto forte da cominciare a tremare.
"I
sotterranei..." dove mentre Levi continuava a salire, sempre
più in alto, nella sua incredibile capacità di
volare, lei invece non faceva che andare a fondo. Giorno dopo giorno,
sempre più stretta da quella morsa, sempre più
distante, sempre più soffocata.
«Era
tuo fratello a costringerti, non è
così?» chiese ancora Levi, senza preoccuparsi di
rigirare il coltello in quella chiara ferita, ora aperta e impegnata a
riversare sangue. I muscoli di Mari si fecero sempre più
rigidi e ben presto non solo le mani tremarono, ma ogni singolo
centimetro del suo corpo, come fosse attraversata da
un’insistente spira di ghiaccio.
«Se
non lo facevi ti picchiava, così...» e per
concludere, Levi tentò di confermare la sua teoria con
un'ultima ipotesi azzardata: «Così un giorno l'hai
ucciso.»
«Io
non ho ucciso Harvey!» gridò Mari con tale impeto
che per un breve istante Levi quasi si spaventò quando la
vide scattare e alzare la testa. Quegli occhi, quegli stessi occhi che
il primo giorno gli avevano fatto venire i brividi, ora erano di nuovo
lì e bruciavano di un tale fuoco che Levi ebbe come la
sensazione di sentirne il calore sulla pelle.
«Sei
tornata tra noi, era ora» si limitò
però a commentare, ignorando la sua ira. Finalmente aveva
smesso di tremare ed era tornata al presente, alla realtà,
senza più mormorare cose assurde. «Non vedo cosa
ci sia da arrabbiarsi tanto, comunque. Io l'avrei fatto.»
Una
confessione così pesante, così pericolosa, come
l'ammettere che non avrebbe avuto remore a commettere un omicidio,
avrebbe dovuto scuoterla. Invece, miracolosamente, ebbe l'effetto
opposto. Perfino lui avrebbe ucciso e non ne avrebbe sofferto
così tanto. Quel sangue non era allora poi così
vergognoso da portare addosso?
«Ho
visto un sacco di sangue versato, tanto persone morire, alcune anche a
causa mia. Le mie mani sono sporche tanto quanto le tue in questo
momento, se non addirittura di più. Ma non mi pento di
nessuna delle decisioni prese, nemmeno di quella che ha creato
più vittime.» Si prese una pausa, osservando come
il fuoco nello sguardo della ragazza andasse pian piano estinguendosi.
Poi proseguì: «Quando usciamo in esterno, con
l'Armata Ricognitiva, in cui tu brami tanto di entrare a farne parte,
chi sta troppo a lungo fermo in uno stesso luogo... poi muore. Impara
questa lezione. Devi sempre andare avanti, anche se questo significa
cavalcare sul cadavere di chi conoscevi.»
Mari
restò in silenzio a lungo, semplicemente ascoltando il suono
della sua voce e imprimendo a fuoco nella propria mente tutto
ciò che Levi stava cercando di dirle. Era crudele, faceva
venire i brividi, ma riusciva ad essere efficace tanto da infonderle
pace. Era passato un anno da quando aveva abbandonato la
Città Sotterranea, un anno da quando si era lasciata tutto
quello alle spalle, eppure la sua mente era sempre rimasta intrappolata
là sotto. Non aveva mai smesso di essere quella bambina che
guardava con invidia chi riusciva a innalzarsi sopra la sua testa,
credendo che mai sarebbe riuscita a raggiungerli. Ma ora era giunto il
momento di andare avanti, abbandonare quella bambina e soprattutto
abbandonare il corpo martoriato che ancora infestava i suoi incubi. Il
cadavere di cui portava sporche le mani. Cavalcare su di lui, uscire
finalmente all'aria aperta, a qualsiasi costo. Non aveva smesso un solo
giorno di desiderarlo e ora poteva farlo davvero.
Libera.
«Comunque,
non credo che tu avrai mai modo di mettere in pratica questi
insegnamenti, visto che non uscirai mai» concluse Levi, prima
di mettersi in cammino per poter tornare al centro d'addestramento.
«Sta' tranquilla, non farò rapporto e non
dirò che ti sei allontanata senza permesso.»
«Cosa?»
si risollevò Mari, lasciando crollare improvvisamente ogni
sorta di pensiero ed emozione che fino a quel momento l'aveva tenuta
incollata al suolo. «Come sarebbe a dire che non
uscirò mai?»
«Non
sei forte abbastanza per sopravvivere ai Giganti. Mi opporrò
personalmente alla tua entrata nell’Armata
Ricognitiva.»
«No!
Sta scherzando?! Aspetti, capitano Levi! Non può fare una
cosa simile!» balbettò sull'orlo di un
urlo. Si alzò in piedi e si affrettò a
raggiungerlo, talmente veloce nei movimenti che quasi non
inciampò sui suoi stessi piedi.
«Posso
farlo eccome» rispose semplicemente Levi. Duro nel volto, non
sembrava stesse scherzando e tanto meno sembrava dubbioso su quanto
avesse appena deciso.
«Mi
sono dimostrata degna! Ho superato tutte le prove a cui sono stata
sottoposta, nonostante sia entrata in ritardo in addestramento, non
può dire che non sono forte abbastanza!»
«Sei
scoppiata a piangere per uno sgambetto» tagliò
corto Levi, fulminandola.
«È...
è stato un incidente! Non accadrà più
glielo assicuro!» balbettò, completamente pervasa
dall'imbarazzo. Era stata una vera stupida, se ne rendeva conto. Era
andata nel panico per un’idiozia come quella: era veramente
una vergogna, ma non era nemmeno giusto che quell'incidente andasse a
rovinare tutto, facendo crollare ogni sorta di impegno, determinazione
e sogni.
«Hai
tentato di uccidere un tuo compagno! Ci pensano già i
Giganti a farci fuori, senza che tu gli dia una mano.»
«Io...
non volevo...» mormorò lei, abbandonando per un
attimo la vena determinata e disperata. Aveva davvero tentato di
uccidere un ragazzo tra le reclute? Non riusciva neanche a ricordarlo.
«Il
volere o il non volere non sono abbastanza. Devi dimostrare che
puoi.»
«Lo
farò! Signorsì!» si rizzò
lei, cercando di assumere la posa del soldato perfetto, facendo il
segno del saluto.
Levi
le lanciò uno sguardo, pochi passi avanti qual era, e prima
di riprendere a camminare le disse: «Troppo tardi, per me sei
fuori.»
«Che
cosa?! No, la prego! Non può farmi questo!»
«Posso
fare quello che voglio.»
«Il
comandante Smith ha chiaramente espresso il suo desiderio di avermi
nell'Armata Ricognitiva!» provò ad aggrapparsi a
qualsiasi cosa per cercare di dissuaderlo almeno un minimo, perfino a
quello.
«Il
capitano Smith si fida delle mie decisioni, ascolterà
ciò che avrò da dirgli.»
Niente
da fare. Irremovibile, proprio come il suo sguardo di ghiaccio. E tutto
cominciò a svanire, come la nebbia di un sogno che al
risveglio viene dissolta dal sole.
«La
prego, mi dia un'altra possibilità»
supplicò.
"Non
lasciarmi di nuovo indietro" e un leggero nodo andò a
chiuderle nuovamente la gola.
Levi
salì gli scalini che portavano ai suoi alloggi, allungandosi
sulla maniglia della porta. Entrò e prima di richiudere,
mettendo definitivamente un muro tra lui e quella ragazza, le rivolse
un ultimo: «Vai a dormire e lasciami in pace.»
«Ma,
capitano Levi...» tentò lei, non sapendo bene a
cosa avrebbe potuto portare quell'ultimo "ma". Inutile, tutto inutile,
e la porta venne chiusa.
Mari
restò immobile a fissare il legno tarlato, stringendosi al
petto la mano ferita e fasciata, prima di lasciarsi sfuggire uno:
«Stronzo!» a voce fin troppo alta. Mossa
dall'istinto, tirò un calcio a un sasso che andò
a schiantarsi contro il muro del casolare. Una finestra al piano
superiore venne spalancata improvvisamente e la testa di Levi ne
uscì, puntando gli occhi furibondi sulla figura nel cortile.
Mari rabbrividì per la paura e, consapevole dell'ulteriore
guaio in cui si stava cacciando, si diede alla fuga.
NDA
Buongiorno!
Dato che la giornata oggi non è cominciata nei migliore dei
modi, oggi le NDA saranno brevi. Eeeee ci troviamo di fronte a un primo
guaio. Sappiamo tutti che Levi non tollera gli smidollati,
perciò ecco che, dopo essere quasi sembrato un carino
capitano preoccupato, ha distrutto tutto. Niente da fare, Mari non gli
piaceva e ha trovato la scusa ideale per tagliarla fuori (povera
piccola xD).
Nel
prossimo capitolo vedremo la risposta di Mari con il ritorno in scena
di Sierk e famiglia…
Con
Rinmaru Games ho provato a dar vita a Levi e la piccola discussione
avvenuta qui… non è facile, soprattutto rendere
Levi con quel poco che il sito offre, ma il risultato è
caruccio lo stesso xD
IMG
-> https://postimg.org/image/jyeh4tn9r/
<- IMG
«Ora
non fai tanto la grossa, non è così?»
rise Sierk, ma Mari a malapena lo sentiva e continuava a respirare.
Solo a respirare. La mano di Sierk stringeva su di lei come un serpente
che stritola la preda prima di divorarla, ma anche i serpenti, dopo
esser sicuri di aver ucciso la vittima, allentano la presa per potersi
godere il pasto.
«Non
cantare vittoria troppo presto» recitò come un
mantra, anche se nella sua mente a dirlo fu la voce di Levi.
Cià
Cià!
Tada
Nobukatsu-kun
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Impegno ***
IMPEGNO
Non
era mattina da molto, quando Mari uscì dal suo dormitorio
sbattendo violentemente la porta. Negli occhi le bruciava vivo il fuoco
dell'ira e della determinazione, e a passi pesanti raggiunse il resto
dei suoi compagni nell'enorme cortile esterno. Si diede una rapida
occhiata intorno, cercando gli ufficiali, e li trovò come
sempre impegnati a chiacchierare tra loro, mentre lasciavano le reclute
libere di combattere come forma di riscaldamento. Tra loro, come aveva
sperato, c'era anche Levi.
«Non
sono abbastanza forte un corno» mormorò Mari,
digrignando i denti, prima di avviarsi a passi pesanti verso il trio
che era stato la causa di tutto.
«Ti
faccio vedere io, capitano bastardo!» disse ancora tra
sè e sè, prima di puntare un dito contro Sierk e
urlare: «Spilungone battiti con me!»
Sierk
interruppe ciò che stava facendo e la guardò di
traverso, chiedendosi se non fosse impazzita tutta in un attimo. Stava
per rifiutare, assolutamente non intenzionato a perdere tempo con lei
dopo quello che era successo, ma gli tornò alla mente la
provocazione che gli aveva lanciato quando aveva suggerito che fossero
tre topi rammolliti. Zhen, pochi passi dietro di lui, diede un colpo al
petto di Craig per attirare la sua attenzione e indicò i due
che si guardavano come due belve intenzionate a sbranarsi a vicenda.
«Ti
sei fatta un bel taglio ieri sera, eh?» disse Sierk guardando
la mano di Mari ancora fasciata col fazzoletto di Levi. Non che la sua
fosse reale preoccupazione, ma sapeva che riportare a galla l'evento
appena passato, con tutta l'umiliazione che poteva averne subito, non
faceva che provocarla quel tanto che bastava a farla uscire dai
gangheri.
«Niente
di grave, passerà in poco tempo» rispose lei,
cominciando a mettersi in posizione d'attacco. Sierk
ridacchiò un po', cercando solo di mostrarsi superiore, poi
senza esitare si lanciò su di lei con furia, cercando di
sfruttare l'effetto sorpresa. Mari puntò gli occhi affilati
in quelli dell'avversario e proprio com'era stato con Levi
cominciò a schivare ogni suo colpo. Sembrava quasi
prevedesse dove sarebbe arrivato l'eventuale pugno o calcio e riuscisse
a predirre perfettamente come muoversi per evitarlo. L'incredibile
capacità di leggere negli occhi delle persone era l'unica
cosa su cui poteva fare affidamento in quei momenti, insieme alla sua
velocità, allenata per anni nei bassifondi quando doveva dar
sfogo a tutta la forza nelle gambe e la capacità di saltare
per riuscire a sfuggire da chi voleva catturarla. Una vita passata a
correre e cogliere negli occhi di chi aveva di fronte i punti ciechi da
sfruttare a proprio piacimento battevano di gran lunga quei miseri due
anni e mezzo di allenamento a cui si era sottoposto Sierk.
"È
troppo lento. Sarà facile." pensò Mari, schivando
l'ennesimo pugno. Sierk tentò un altro colpo, allungandosi
in avanti per raggiungerla, ma lei indietreggiando riuscì a
schivare ancora. Approfittò poi della posizione del ragazzo,
curvo in avanti, per posargli le mani sulle spalle. Saltò e
usò lo stesso Sierk come trampolino, arrivando in alto
abbastanza da roteare sopra la sua testa e atterrargli alle spalle. Ma
non raggiunse il suolo senza prima aver raccolto le ginocchia al petto
e aver tirato una pesante ginocchiata alla sua nuca. Il ragazzo,
già di per sè sbilanciato in avanti, sentendosi
colpire così alle spalle cadde definitivamente sbattendo una
rovinosa testata a terra.
Mari
cercò di allungare velocemente le gambe verso il suolo per
atterrare in piedi, ma non fu rapida abbastanza e riuscì a
malapena a poggiare i talloni, scivolando sulla ghiaia del cortile e
cadendo di sedere a terra. Sul viso le si dipinse una smorfia di
dolore, che si affrettò a cancellare.
"Non
mi farò vedere debole neanche un po'!" pensò con
determinazione, affrettandosi a rialzarsi prima che potessero notare
quel suo errore. Si mise di nuovo in posizione e osservò
Sierk che si rialzava davanti a lei. Sul viso sfregiato poteva
benissimo leggere i suoi pensieri, colmi di rabbia e disprezzo: quanto
detestava quella ragazza!
«Puttana»
mormorò, rimettendosi in guardia davanti a lei. Mari
sentì un moto d'ira accecarle gli occhi, mentre
quell'appellativo riecheggiava nelle sue orecchie in maniera sinistra.
L'odiava, l'odiava con tutta se stessa. Serrò la mascella e
respirò con tale fatica tra i denti stretti che quasi
sembrò soffiare come un felino.
«Sono
più grosso!» urlò Sierk, mentre si
lanciava nuovamente verso Mari con una scarica di pugni. A sinistra e a
destra, Mari muoveva agilmente il bacino e i piedi per riuscire a
schivarli tutti, senza desistere.
"L'ammazzo"
pensò mentre schivava l'ennesimo colpo. La guardia di Sierk,
in quell'ultima mossa, si era abbassata e lei approfittò di
quello spiraglio per scagliarsi sul suo viso. Ma Sierk
sorprendentemente dimostrò di aver previsto quel colpo e con
una mano riuscì a bloccarle il braccio.
Approfittò subito di quel vantaggio per effettuare una
presa, ritorcendo il braccio di Mari dietro la sua schiena e
bloccandola. La ragazza si lasciò sfuggire un grido non
appena il braccio raggiunse la massima estensione, provocandole una
fitta alla spalla, ma subito tornò a corrucciarsi e
trattenersi.
«Sono
più furbo» le sibilò all'orecchio.
Il
suo respiro sul collo nell'istante in cui le pronunciò
quelle parole e le mani ben serrate su di lei le riaccesero nuovamente
i ricordi, le orribili sensazioni che per anni aveva dovuto subire. La
gola le si chiuse e un martellante "non toccarmi" tornava a farle male
nella testa. Cominciò a tremare, mentre cresceva nuovamente
in lei il desiderio di uccidere chiunque avesse osato anche solo
sfiorarla.
Ma
tutto sparì all'istante, quando stringendo in se stesse le
dita della mano libera percepì la stoffa del fazzoletto di
Levi.
Istintivamente
alzò gli occhi, guardandosi attorno, cercandolo, e lo
trovò. La stava osservando. Braccia conserte, sguardo
severo, sarebbe potuto risultare disinteressato visto che pochi istanti
dopo, non appena si accorse di essere stato guardato, distolse lo
sguardo tornando a concentrarsi sui discorsi di Erwin al suo fianco. Ma
Mari riuscì in qualche modo a percepirla quella
commiserazione, la delusione nell'avere di fronte una cadetta che non
riteneva valida.
Non
doveva cedere ai suoi pensieri, doveva liberarsi di ogni cosa, rendersi
più leggera possibile. Solo così avrebbe potuto
spiccare il volo, come desiderava.
Chiuse
gli occhi, rilassandosi e tirò un lungo sospiro,
concentrandosi solo sulle sensazioni del suo corpo. Analizzò
ogni singolo centimetro di pelle, incrociando anche le mani di Sierk
che ancora non sembravano intenzionate a lasciarla andare. La voce del
ragazzo, alle sue spalle, rideva cantando vittoria e tornando a
insultarla e denigrarla. Aveva appena dimostrato di essere migliore,
aveva appena battuto la ragazza che nessuno voleva combattere, la
ragazza che la sera prima aveva osato chiamarlo topo e smidollato.
«Ora
non fai tanto la grossa, non è così?»
rise Sierk, ma Mari a malapena lo sentiva e continuava a respirare.
Solo a respirare. La mano di Sierk stringeva su di lei come un serpente
che stritola la preda prima di divorarla, ma anche i serpenti, dopo
esser sicuri di aver ucciso il pasto, allentano la presa per poter
banchettare.
«Non
cantare vittoria troppo presto» recitò come un
mantra, anche se nella sua mente a dirlo fu la voce di Levi.
«Che
dici?» chiese Sierk, sporgendosi verso il suo viso per
sentire che stava farfugliando. E fu in quell'istante che il serpente
allentò le sue spire e la preda potè cogliere
l'attimo per scivolargli via. Sierk ebbe appena il tempo di rendersi
conto ciò che stava accadendo che Mari era già
libera e lo stava colpendo allo stomaco con una potente gomitata. Il
ragazzo, in un mugolio dolorante, si chinò in avanti,
tenendosi lo stomaco appena colpito e Mari decise di finirlo con un
altro colpo dietro la nuca, che chinato com'era lo spedì
direttamente di faccia a terra. Lo osservò qualche secondo,
cercando di capire se fosse definitivamente sconfitto o avesse ancora
la forza di alzarsi, ma quando lo sentì tossire e lo vide
tremare tra la polvere decretò la sua vittoria. Si
chinò verso il suo viso, con una mano sul fianco e l'indice
dell'altra alzato verso il cielo.
«E
non distrarti» disse ancora, cercando quelle parole nella
memoria di un paio di giorni addietro.
Sierk
alzò il viso dalla polvere, ancora mugolando e digrignando i
denti per il duro colpo subito, e tentò di mandarla a quel
paese ma non riuscì che a boccheggiare. Mari notò
poi che gli occhi del ragazzo si spostarono su un punto al di sopra la
sua testa e seguì quello sguardo fino ad arrivare al volto
dell'istruttore Keith, impegnato a girare e valutare le reclute. Lo
vide scrivacchiare qualcosa sulla sua cartella e poi allontanarsi con
un disinteressato: «Ben fatto», complimento che
probabilmente destinava di routine a chiunque riuscisse a buttare a
terra un compagno. Ma questo bastò comunque a far
sprigionare un'euforia nel petto di Mari che mai aveva avuto prima. Il
sorriso era così tirato in viso che gli angoli della bocca
le facevano male, gli occhi inumiditi avrebbero potuto cominciare a
versare lacrime da un momento a un altro e irrefrenabile
cominciò a gongolare e gioire con dei lievi urletti che a
malapena riusciva a trattenere.
Sierk,
furioso come non mai, benchè ancora a gattoni,
tentò di lanciarsi sulla ragazza, con chiari intenti
omicidi. Ma Mari gli piantò un pesante piede dritto in
faccia e bloccò la sua discesa furiosa.
«Abbiamo
appena finito! Non barare! Non è carino!» gli
urlò contro.
Ma
Sierk non apprezzò il gesto e cominciò a
dimenarsi, arrancando e allungando compulsivamente le braccia verso di
lei, mentre Mari continuava a restituirgli tutto a suon di calci sul
viso.
«Ti
strozzo! Ti faccio a brandelli!» ringhiava lui.
«Provaci!
Ti faccio più bello di quello che sei a suon di
calci!» diceva Mari in tutta risposta e i due continuarono a
bisticciare come cane e gatto, facendo una gran confusione e attirando
inevitabilmente l'attenzione di Keith, poco più avanti.
L'istruttore
riuscì a interrompere la rissa con un semplice colpo di
tosse, attirando l'attenzione dei due. Guardò attentamente
Sierk, ora in piedi e con una mano artigliata alla camicia di Mari, che
invece era aggrappata alle sue spalle e impegnata a tirargli i capelli.
Stesso sguardo colmo di furia e rimprovero destinò anche a
lei e i due capirono di essere nei pasticci senza bisogno che gli fu
detto esplicitamente.
«Stasera
dopo l'allenamento farete cento giri di corsa del cortile e non
verrette a cena fintanto che non avrete finito»
comunicò l'istruttore, prima di allontanarsi con un ultimo:
«Sempre se resterà qualcosa.»
«Eh?»
stridulò Mari contrariata all'idea di dover rischiare di
perdersi la cena.
«Hai
detto qualcosa, cadetta?» chiese con finta calma Keith,
mentre si voltava a fulminarla.
Mari
aprì la bocca per dire qualcosa, ma Sierk fu rapido a
mettergli una mano davanti, tappandogliela e costringendola solo a
bofonchiare qualcosa di incomprensibile.
«Assolutamente
niente, Signore! Siamo mortificati, non accadrà
più e obbediremo agli ordini!» parlò
lui.
Keith
parve accettare le scuse e si affrettò ad allontanarsi,
prima che avesse cambiato idea.
«Sei
proprio una stupida!» l'ammonì Sierk e Mari
provò a rispondere a tono, ma la mano del ragazzo ancora le
impediva di formulare qualcosa di comprensibile.
«Comunque
ho vinto io» riuscì a dire finalmente,
liberandosi. Si allontanò, pulendosi le mani, mentre il
ragazzo alle sua spalle ringhiava e non sarebbe riuscito a contenere il
desiderio di malmenarla di nuovo se non fossero intervenuti i suoi due
amici.
Nda.
Siamo
sotto le feste perciò non è stato facile
prendersi un momento per rileggere/sistemare e postare XD per lo stesso
motivo le note saranno brevi. Voglio ringraziare tutti quelli che
leggono e soprattutto chi ha messo tra preferite/seguite <3 mi
scuso se settimana scorsa sono mancata, ho avuto qualche problema
>.<
Infine
ne approfitto per farvi gli auguri di buone feste! Ingrassate! E che
questo 2017 porti fortuna a tutti!
Piccolo
tributo Natalizio da parte di Mari, Angy, Harvey e Levi (anche se
quest'ultimo è venuto malissimo, ma sono limitata dalle
alternative del sito perciò ho dovuto arrangiare).
BUON
NATALE ->
https://postimg.org/image/ns0hguz61/
<- BUON NATALE
E
una piccola anticipazione del prossimo cap:
«Angelica!»
La
diretta interessata sobbalzò.
«Io
ti ho salvato la vita!» disse Mari, puntandole un dito
aggressivo contro.
«Vuoi
ricattarmi ora?» chiese Angelica, spaventata da
quell'atteggiamento.
«No.
Però sei in debito con me!»
«Non
ho chiesto io di essere salvata!» cercò di
difendersi Angelica.
«Ho
bisogno che mi aiuti...» ammise Mari, ignorando l'accusa
dell'amica.
Cià
cià
Tada
Nobukatsu-kun
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Obiettivo ***
Obiettivo
La
sera calò in fretta anche quel giorno, dopo una serie di
infinite prove e allenamenti in cui Mari cercò sempre di
dare il massimo, sforzando ogni muscolo fino allo stremo e cercando di
eccellere anche laddove per lei risultava estenuante.
E
come se non fosse bastato, dopo tutto quello, si trovò
costretta a compiere i cento giri di corsa di punizione insieme a
Sierk, dovendo sopportare la sua presenza più del dovuto.
Cento giri di corsa che presto si trasformarono in una vera e propria
gara tra i due, che aumentarono la velocità sempre
più, arrivando in fondo inutilmente stremati.
«Io
non sono debole» ansimò Mari, mentre si trascinava
verso la mensa.
«È
inconcepibile che una ragazzetta stronza come te possa
battermi» ansimò Sierk al suo fianco, altrettanto
spalmato per terra. «Non lo permetterò.»
«Dimostrerò
di essere forte.»
«Sei
solo un insetto.»
«Posso
farcela.»
«Ti
farò vedere io chi è il migliore.»
«Smettila
di interrompere il mio discorso motivazionale!»
ringhiò lei, voltandosi a fulminarlo.
«Io
faccio quello che voglio!» gli rispose a tono Sierk.
«E poi era un mormorio confuso il tuo, non c'era niente di
motivazionale!»
«Sì
invece! Io ho un obiettivo!» si illuminò
improvvisamente lei, stringendo i pugni con determinazione.
«Ah
si? E sentiamo, sarebbe?» chiese lui, scettico ma curioso.
«Io
dimostrerò a...» cominciò Mari, ma poi
si interruppe, fulminando il ragazzo al suo fianco.
«Perché mai dovrei rivelarlo a uno come
te?»
In
quel momento la porta della mensa si spalancò, facendo
sussultare i due. A uscire, impegnati a parlare tra loro, fu il gruppo
di ufficiali che aveva appena finito di cenare. Nessuno di loro parve
badare ai due ragazzi, quasi interamente stesi sugli scalini del
casolare, ma ciò non impedì a quest'ultimi di
tentare lo stesso di assumere un certo tono dignitoso, sforzando ogni
singolo muscolo per cercare di rimettersi in piedi.
"Mio
Dio, sono distrutto" pensarono, mentre cercavano lentamente di darsi
una rassettata, senza riuscirci troppo. Quella folle corsa, subito dopo
la giornata di esercitazioni, aveva dato loro il colpo di grazia. In
fondo, i superiori non li degnavano nemmeno di uno sguardo, quindi che
problema c'era se per una volta non erano perfetti?
Ma
quando il viso di Levi fece capolino dietro Erwin, improvvisamente Mari
si sentì carica di energia nuova. Si alzò di
colpo e decisa fece il saluto battendosi il pugno sul petto, ignorando
il tremolio delle proprie gambe che minacciava di ributtarla a terra da
un momento all'altro. Il suo cambio di posizione fu talmente improvviso
che perfino Sierk ne rimase sorpreso e quasi si spaventò
quando la vide scattare in quel modo, ma non fece da meno e
cercò di imitare la compagna. Certo non si sarebbe reso meno
disciplinato e forte di quella squallida ragazzetta delle fogne.
«Riposo,
cadetti» disse Darius, l'unico che li aveva vagamente degnati
di uno sguardo. Sierk abbandonò la posa del saluto,
obbedendo -e ringraziando mentalmente- all'ordine dell'istruttore, ma
Mari invece rimase dritta e composta fintanto che non furono passati
tutti.
«Ha
detto riposo!» bisbigliò Sierk al suo orecchio,
chiedendosi se non avesse capito o fosse solo stupida, ma ricevette in
tutta risposta una focosa occhiataccia.
Solo
quando tornarono a essere di nuovo soli, su quella veranda, Mari si
rilassò anche se gli occhi non cessarono di seguire il
gruppo allontanarsi. Levi durante tutto il giorno non aveva fatto altro
che lanciarle qualche sguardo, ma non era mai sembrato molto
interessato a quello che facesse, nonostante lei avesse fatto di tutto
per attirare la sua attenzione e dare una bella immagine di
sè. Tutto il giorno a forzare il più possibile
mente e corpo, solo con l'intenzione di sorprenderlo, di far vacillare
anche in minima parte l'idea che si era costruito di lei... tutti
quegli sforzi buttati al vento. Anche in quel momento, che era passato
davanti a lei, non l'aveva degnata neanche di uno sguardo. Nonostante
tutto, non faceva che voltarle le spalle e lasciarla indietro, ogni
istante di più.
"Riuscirò
a convincerlo?" si chiese un po' demoralizzata, rabbuiandosi.
«Dì
un po'... non starai mica cercando di fare colpo su qualche Superiore,
vero?» la punzecchiò Sierk, ridendo sotto i baffi:
il suo atteggiamento non era certo fraintendibile. L'espressione "fare
colpo" portò alla mente di Mari un'eventualità
che fino a quel momento non aveva neanche immaginato. Lei desiderava
solo convincere Levi che era degna di avere un posto nell'Armata
Ricognitiva, convincerlo che era forte abbastanza da volare con loro,
certo le sue intenzioni non erano mai state tanto audaci. Non aveva mai
pensato a Levi in quei termini, ma ora che la frase di Sierk l'aveva
costretta a farlo per qualche secondo si ritrovò
inevitabilmente ad arrossire.
«Che
dici? Sei scemo?» l'attaccò, chiedendosi cosa gli
passasse per la testa. Era imbarazzante anche solo immaginarlo.
«Sei
tutta rossa» ridacchiò maligno lui.
«Ha
caldo! Ho corso, ricordi? Babbeo!» ringhiò ancora
lei, camminando a passi pesanti verso l'interno della mensa e
lasciandosi alle spalle quello che considerava un grosso imbecille e
basta.
"Mi
da sui nervi!" pensò, distanziandolo.
«Chissà
se è rimasto qualcosa da mangiare»
piagnucolò poi, vedendo come la sala si stesse svuotando.
Avevano finito tutti di mangiare, sicuramente non avevano lasciato
molto. Mentre pensava a cosa avesse potuto raschiare da
chissà quale pentola, sentì un profumino
arrivarle al naso appena prima di un piatto che ondeggiò
davanti a lei. Mari si voltò a guardare a chi appartenessero
le mani che stavano facendo svolazzare quel prezioso gioiello sotto al
suo viso e trovò Angelica, ridacchiante e soddisfatta.
«Ho
lottato con i denti per riuscire a tenertelo da parte, ma ho
vinto!»
Mari
la guardò come avrebbe potuto guardare un angelo sceso sulla
terra per annunciarle la gioia e vita eterna. Poi le lacrime
cominciarono a correrle sul viso e lei si asciugò maldestra
con la manica della camicia, mugolando: «Ti ringrazio! Sei
troppo gentile!»
Angelica
sobbalzò nel vederla in quello stato e le uscì un
incontenibile: «Ma tu piangi sempre?»
Lo
stato d'animo di Mari non durò a lungo e presto si riprese,
appropriandosi del suo piatto e sedendosi a mangiare avidamente, sotto
lo sguardo sempre curioso di Angelica.
«Davvero,
non c'era bisogno ti preoccupassi» disse storpiano le parole
per il cucchiaio che teneva in bocca.
«Te
lo meritavi, dopo aver dato quella bella lezione a Sierk! Era quello
che gli ci voleva!»
«Non
l'ho fatto per vendetta» disse lei con ingenuità.
«Ah
no?»
«Volevo
solo dimostrare di essere forte e lui è bello grosso. Ho
pensato che se l'avessi battuto, avrei potuto provare di essere
degna!» spiegò distrattamente, sempre intenta a
buttar giù più cibo di quanto la bocca riuscisse
a contenere. Ora che finalmente si era seduta a un tavolo, la pancia
aveva prepotentemente fatto sentire la sua voce e non riusciva a
pensare ad altro che riempirla il più possibile per zittirla.
Angelica
inclinò leggermente la testa di lato, non riuscendo bene a
cogliere il filo conduttore del discorso.
«Essere
degna per cosa?» chiese, ancora una volta succube della sua
curiosità.
«Per
l'Armata Ricognitiva!» rispose Mari come se avesse appena
detto un'ovvietà.
«Scusa,
ma perché devi dimostrare di esserne degna? Superato
l'addestramento, ognuno entra dove desidera. Tranne che per la
gendarmenia, lì ci sono i posti contati, ma per l'Armata
Ricognitiva non mi pare abbiano mai messo restrizioni, o sbaglio? Anzi,
credevo che fossero addirittura a corto di personale.»
Mari
la guardò un po' corrucciata, tanto che Angelica si chiese
se avesse detto qualcosa di sbagliato. Che avessero cambiato i
regolamenti senza che lei ne avesse saputo niente?
«Non
per me» mormorò poi Mari, prima di tornare a
mangiare sovrapensiero.
«Eh?
Ma di che parli?» chiese Angelica, ancora più
confusa, quasi preoccupata. Che c'entrasse col fatto che fosse entrata
in addestramento a metà corso?
Mari
restò in silenzio, pensierosa, per qualche secondo,
alimentando il fuoco della curiosità di Angelica. Poi,
finito di mangiare, posò con decisione il cucchiaio sul
tavolo e tornando a guardare la ragazza di fronte a sè
esclamò: «Angelica!»
La
diretta interessata sobbalzò.
«Io
ti ho salvato la vita!» disse Mari, puntandole un dito
aggressivo contro.
«Vuoi
ricattarmi ora?» chiese Angelica, spaventata da
quell'atteggiamento.
«No.
Però sei in debito con me!»
«Non
ho chiesto io di essere salvata!» cercò di
difendersi Angelica.
«Ho
bisogno che mi aiuti...» ammise Mari, ignorando l'accusa
dell'amica.
«Aiutarti?»
cambiò tono Angelica, capendo che non c'era niente di
maligno nel suo incipit. Mari si guardò rapidamente intorno,
accurandosi che nessuno li stesse ascoltando, poi si chinò
in avanti invitando l'amica a fare altrettanto per poterle bisbigliare
qualcosa.
«Devo
sapere tutto ciò che riguarda il capitano Levi»
sussurrò e Angelica strabuzzò gli occhi,
esclamando a gran voce: «Levi?»
Mari
arrossì e l'imbarazzo la colse così violentmente
da farle perdere un paio di battiti. Si affrettò a tappare
la bocca di Angelica e soffiarle contro un incazzato:
«Ssh!!»
Tornò
a guardarsi attorno, pregando che nessuno avesse dato loro importanza o
le avesse sentite. Per fortuna molti erano già andati via e
quei pochi che restavano se ne stavano in disparte a parlare tra loro,
ignorandole.
«Quell'idiota
di Sierk crede che io stia cercando di fare colpo su qualcuno degli
ufficiali, non alimentiamo questa sua stupida convinzione o
finirò nei pasticci! Perciò tieni a freno la
lingua!» la rimproverò Mari.
Angelica
provò a rispondere ma le parole, chiuse nella mano di Mari
che ancora restava ben serrata intorno alla sua bocca, risultarono solo
bofonchii incomprensibili. Mari attese qualche secondo prima di
toglierla, pregando che si fosse data una regolata e che non le uscisse
un'altra di quelle esclamazioni da infarto.
«Ma
scusa...» sussurrò Angelica, guardandosi attorno
in maniera altrettanto circospetta, prima di sdraiarsi sul tavolo per
arrivare più vicina all'amica.
«Se
non vuoi fare colpo su di lui perché ti servono informazioni
sul suo conto?»
Mari
sospirò rumorosamente, affranta e abbattuta, e alla fine
rivelò: «Perché ha detto che non sono
forte abbastanza e perciò si opporrà
personalmente alla mia entrata nell'Armata Ricognitiva. Io voglio solo
che capisca il mio valore e cambi idea, tutto qua.»
«Che
cosa?» urlò Angelica, indietreggiando con la
testa. «Sul serio ha detto che...» ma il resto
della frase morì nuovamente nella mano di Mari che
scattò rapidamente verso la sua bocca, tappandogliela
nuovamente.
«Non
puoi farne a meno, vero?» le chiese irritata.
Angelica
bofonchiò ancora qualcosa di incomprensibile, ma questa
volta la rossa riuscì a cogliere un «Mi
dispiace» tra quei mugolii. La lasciò nuovamente
libera e tornò a sedersi composta, osservando il suo piatto
ora vuoto.
«Tu
credi che possa farlo davvero? Impedirti di entrare nel corpo di
ricerca, dico» chiese Angelica, tornata anche lei
più composta.
«Non
lo so, ma credo di sì. È di un capitano che
stiamo parlando.»
«E
non di uno qualunque» pensò ad alta voce Angelica,
spingendosi indietro con la schiena e cominciando a dondolarsi sulle
gambe posteriori della sedia. «Con tutti i capitani che
potevi inimicarti, sei andata a sceglierti il peggiore»
aggiunse.
«Credi
l'abbia fatto di proposito?» chiese Mari indispettita.
«Non
so, ma qualcosa devi avergli fatto. Ti ha preso di mira.»
«Dici?
Credi che abbia sbagliato qualcosa?»
"E
se mi avesse riconosciuta e fosse ancora arrabbiato per essergli stata
d'intralcio quella volta?" si chiese, cominciando a sudare freddo. In
fondo, lo sguardo che le aveva rivolto il giorno del loro primo scontro
non lasciava dubbi. Sicuramente l'aveva insultata, se non ad alta voce
almeno mentalmente.
«Il
primo giorno che è arrivato se non sbaglio ti sei battuta
con lui, durante il corpo a corpo» ipotizzò
Angelica, andando a ripescare indietro con la mente qualsiasi ricordo
avesse sulla faccenda.
«Sì,
ma ha vinto lui! Non può avercela con me per
quello!»
«Sì,
ma all'inizio l'hai atterrato tu.»
«Credi
se la sia presa per questo?» chiese Mari terrorizzata. Non
poteva avere tutti i torti, Levi le era sembrato particolarmente
irritato quando si era rialzato. «Forse dovevo lasciarlo
vincere e basta! Che guaio!»
«Forse.
Chissà. Ho sentito tante voci sul suo conto, a dire il vero,
ed effettivamente non mi è sembrato un tipo che accetta la
sconfitta tanto facilmente.»
«E
quindi secondo te cosa dovrei fare? Lo sfido e mi faccio mettere al
tappeto con un colpo? Ma così non sarebbe un sottolineare
che lui ha ragione nel dire che non sono abbastanza forte? Poi
è un tipo sveglio, capirebbe la farsa e si sentirebbe ancora
più offeso. Sì, è meglio lasciar
perdere la sfida» disse Mari e continuò a lungo a
generare pensieri ad alta voce, alla disperata ricerca di una soluzione.
«Senti
cosa dovresti fare secondo me!» intervenne alla fine
Angelica, facendo cadere la sedia in avanti e raggiungendo rapidamente
il volto di Mari. «Se è arrabbiato con te per
qualche motivo, basterà far in modo che ti
perdoni.»
«Gli
chiedo scusa?»
«Stupida!»
e le battè una nocca sulla testa. «Non sai che
alle persone orgogliose da fastidio che gli si venga detto apertamente
che lo sono?»
«Ma
non andrei a dirgli che mi dispiace che lui è
così!»
«No,
ma se tu andassi a dirgli che ti dispiace aver provato a batterlo lui
capirebbe che indirettamente stai cercando di dirgli che lo
è!»
«Non
credo di aver capito» lamentò Mari, ancora
più confusa.
«Ascoltami
e basta! Basterà fare in modo che tu cominci a piacergli! Se
ti prende in simpatia dimenticherà presto l'accaduto e non
ti metterà più i bastoni tra le ruote!»
«Dovrei...
farmelo amico?»
«Sì
ma con rispetto e riverenza! È un superiore non
scordartelo.»
«Dovrei
in pratica diventare la sua preferita?»
«Esatto!»
«Ma
non è un po' da ruffiani?»
«Cosa
te ne frega! L'importante è che riuscirai ad ottenere
ciò che desideri, no?»
«Ho
già provato alltre volte a sforzarmi di piacere a qualcuno,
adattandomi e fingendo, solo per ottenere qualcosa in cambio. Non
è una sensazione che mi fa stare bene» ammise
Mari, poco convinta, pensando alle volte che era stata costretta a
risultare carina per qualche uomo che poi avrebbe pagato per il suo
corpo.
«Allora
mettila su questo piano: ti farebbe piacere se il capitano Levi
cominciasse ad apprezzarti?»
Nella
mente di Mari i ricordi degli uomini che schifosamente avevano provato
ad avvicinarla e a cui lei aveva dovuto accontentare ogni richiesta e
capriccio svanì, lasciando spazio a una piccola foresta,
tiepida e leggermente soleggiata. Una foglia che veniva tirata via dai
suoi capelli spettinati e la voce di Levi che pronunciava con
morbidezza: «Sei stata brava.»
Non
erano la stessa cosa, non lo erano affatto.
«Sì...»
mormorò timida, arrossendo lievemente.
«Sì, mi piacerebbe.»
Non
doveva fingere per diventare qualcosa che avrebbe potuto piacergli, non
doveva sforzarsi al solo scopo di compiacerlo. Ora aveva un motivo per
impegnarsi tanto, un motivo che non interessava solo agli altri ma che
aveva un ritorno anche per sè. Era la prima volta che
desiderava davvero piacere a qualcuno e che non lo faceva solo
perché costretta.
«E
quindi che devi fare?» chiese Angelica retoricamente,
aspettandosi una risposta precisa.
«Cercare
informazioni!» rispose Mari con entusiasmo, battendo i palmi
sul tavolo.
«Esatto!»
le puntò un dito contro Angelica e le due restarono in
silenzio a guardarsi qualche istante, prima che Mari chiedesse con
imbarazzo: «Ma non è da dove siamo
partite?»
«Sì,
effettivamente il nostro discorso era partito proprio da qui»
mormorò Angelica portandosi un dito al mento.
«Non
abbiamo fatto molti progressi.»
«Eppure
sono venti minuti che parliamo.»
«Dunque...
sai qualcosa su di lui?» chiese Mari.
«Vuoto
totale» rispose candidamente Angelica.
«Questo
non è d'aiuto però!» lamentò
Mari.
«Che
vuoi? Non posso avere le risposte a tutto per forza!»
Mari
si risedette, sospirando affranta: «Sono punto e da capo. E
ho pochi giorni per riuscire nell'impresa.»
«È
vero... tra tre giorni ci saranno i diplomi e dovremmo presentare
domanda.»
«Non
ce la farò mai.»
«Non
abbatterti! Adesso ci sono io ad aiutarti! Vedrai, scoprirò
perfino il numero di capelli che ha in testa!»
«Dodicimila
settecentotrentadue» rispose Mari con naturalezza, senza
cambiare tonalità. Angelica sobbalzò,
strabuzzando gli occhi, e chiese stralunata: «Mi prendi in
giro?»
Mari
alzò la testa ridacchiando e facendole una leggera
linguaggia ammise: «Sì, un po'.»
«Per
un attimo ho pensato tu glieli avessi contati veramente»
sospirò Angelica.
«E
come avrei potuto, scusa?» rise Mari.
«Che
vuoi che ne sappia? Magari ti eri infiltrata nella sua stanza la
notte» alzò le spalle Angelica e questo fece
ridere ancora di più Mari, che istintivamente si
portò una mano al petto, ad ascoltare il suo cuore.
Desiderava mettere le ali della libertà, volare via da
quella gabbia, allontanarsi il più possibile da quel posto,
diventare irraggiungibile e inafferrabile, poter sentire la consistenza
delle nuvole tra le dita... eppure in quel momento aveva come la
sensazione che stesse già volando.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Mani sporche di sangue ***
Mani
sporche di sangue
La
mattina dopo Mari si svegliò che era appena l'alba.
Saltò giù dal letto con forza e raccolse
rapidamente tutte le sue cose, mentre una delle compagne di stanza,
quella che dormiva nel letto sotto al suo, borbottava infastidita per
il rumore.
«Scusami,
a più tardi!» si limitò a bisbigliare
prima di scappare fuori che ancora si stava vestendo.
"Ho
solo tre giorni, non sprecherò neanche un istante!"
pensò, raggiungendo il cortile. L'aria era fresca, pungente,
ma frizzante, per niente fastidiosa. Da quando aveva raggiunto la
superficie, abbandonando l'artificiale tremolio delle lampade a olio e
concedendosi del vero sole, aveva scoperto che le piaceva l'alba
più di qualsiasi altro momento. Il nero della notte veniva
lentamente spazzato via da quei primi timidi raggi, pulito come veniva
pulito un viso ricoperto di terra e sporcizia e tutto tornava a
risplendere nel più completo silenzio. Quel silenzio che le
riempiva le orecchie e le dava la sensazione di vivere in un luogo
paradisiaco, tanto poteva risultare irrealistico ma pacifico.
Tirò un grosso sospiro, riempiendo i polmoni di quella prima
abbondanza di ossigeno, e mormorò a nessuno in particolare:
«Buongiorno.»
Qualche
altro sguardo intorno, solo per godersi la solitudine e la freschezza
della mattina, poi cominciò con il riscaldamento e lo
stretching. Quando più tardi le prime reclute si
svegliarono, la trovarono ancora impegnata negli esercizi fisici in
solitudine, ma nessuno la degnò di molta considerazione.
Cosa che a dirla tutta faceva solo piacere a Mari, che di aver gente
intorno al momento proprio non ne aveva voglia.
Finì
l'ultima serie di piegamenti e si accasciò a terra, con lo
sguardo rivolto al cielo, prendendo ampie boccate d'aria. Il mondo da
quella prospettiva era davvero incredibile e le nuvole, con le loro
forme sfumate, rilassavano lo sguardo.
"Sì,
vorrei proprio imparare a volare" pensò sorridendo tra
sé e sé, poco prima che un volto entrasse nel suo
campo visivo. I capelli castani sciolti, lunghi, cadenti verso di lei e
un sorriso gioviale sul viso le diedero il saluto.
«Ti
dai da fare già di prima mattina, eh?» chiese
Angelica, osservandola dall'alto. Poi mostrando il pollice, le fece un
occhiolino e mormorò soddisfatta: «Il tuo capitano
ti ha notata, ben fatto!»
Mari
a quell'espressione voltò lo sguardo curioso verso la via
principale, dove passavano cadetti e ufficiali, diretti alla mensa per
la colazione. Scorse un paio di visi e infine notò anche
Levi, che si stava allontanando proprio in quel momento, dopo essere
passato anche lui di lì.
«Mi
ha notata mentre cadevo a terra per riprendere fiato e avrà
pensato che batto la fiacca!» piagnucolò.
«Che
pessimismo!» si allarmò Angelica. «Non
devi abbatterti! Stai facendo un ottimo lavoro, continua
così! Al resto ci pensa la tua Angy!» disse con un
altro occhiolino.
"La
tua Angy?" pensò Mari un attimo sorpresa. Quella ragazza si
era avvicinata a lei con naturalezza, forse il tutto spinto dal senso
di gratitudine per averla aiutata, ma ora risultava così
strano. Non aveva mai avuto una vera amica in vita sua, non una che non
fosse una gatta, e non poteva non provare un po' di disorientamento
quando Angelica si mostrava così aperta con lei. Come
avrebbe dovuto comportarsi?
«Avanti,
adesso vieni a fare colazione. Hai bisogno di energie» la
invitò Angelica.
«Vai
pure avanti, mi do una ripulita e ti raggiungo.»
«Sbrigati
o non potremo studiarlo!»
«Ma
chi sei? Una spia?» sobbalzò Mari, vedendola
strana e trovando inquietante il suo modo di fare. Era interessata a
studiare Levi, certo, e voleva capire come convincerlo a darle
un'opportunità ma trovava il modo di fare di Angelica un po'
esagerato. La cosa la metteva a disagio.
«Io
lo seguo, tu sbrigati!» le disse Angelica, scappando via.
"Chissà
se avrò fatto bene a coinvolgerla" pensò Mari
alzandosi e dirigendosi verso i bagni, pronta a lavarsi e poi
raggiungere i compagni cadetti. La faccenda l'aveva esaltata
più di quanto si fosse aspettata, e data la sua scarsa
capacità a tenere per sé i pensieri il rischio
che combinasse pasticci era alto.
Levi
camminava solitario attraverso il cortile, in quel momento abbastanza
trafficato. Sembrava assorto nei suoi pensieri, come sempre succedeva,
ma d'altro canto era difficile leggere veramente attraverso quegli
occhi così affilati. In realtà osservava bene
tutto quello che aveva attorno, e inutile negare che aveva notato anche
Mari già sveglia intenta a far esercizi. Non era sciocco e
certamente lei non era l'unica che vantava buone capacità
osservative: sapeva che il motivo di tutto quel esagerato impegno era
lui e la sua promessa di impedirle di entrare nell'Armata Ricognitiva.
Promessa che aveva scosso il suo animo più di quanto si
fosse aspettato, date le sue reazioni. Non sapeva ancora cosa avesse
spinto quella ragazza a desiderare così fortemente di
mettere le ali della libertà, sicuramente doveva esserci
qualche motivazione di fondo che non fosse il semplice e banale "voler
imparare a volare", ma al momento i perché non gli
interessavano e si limitò a valutare solo ciò che
aveva da offrire. L'intensità con cui compiva i suoi
esercizi, la furia con cui si lanciava in ogni missione, l'attenzione
che riponeva in qualsiasi compito e la prontezza nell'offrirsi
volontaria per qualsiasi lavoro extra, anche il più
degradante, tutto questo aumentava esponenzialmente quando lui le
volgeva gli occhi. Non notarlo era difficile, così come era
difficile non riuscire a cogliere i suoi continui sguardi pretenziosi,
come se implorasse: "guardami!".
"Chissà
che magari non riesca a convincermi" pensò divertito da
tutto lo sforzo che la ragazza stava facendo. Non aveva mai visto
nessuno più testardo, determinato e disposto a sacrificarsi
come stava facendo lei. E per il momento lui si divertiva altrettanto,
rispondendo a tutta quella richiesta implicita d'attenzioni con
l'indifferenza. Forse, se qualcuno avesse colto quei pensieri e quella
situazione, avrebbe potuto recriminarlo di starsi prendendo gioco di
lei. Avrebbero potuto dire che era un bastardo che giocava con i
sentimenti altrui, ma al momento non c'era nessuno che avesse potuto
dire una cosa simile -e anche ci fosse stato, certo non gli avrebbe
dato peso.
Era
un'ottima strategia, dove vincevano tutti. Lei migliorava a vista
d'occhio e lui si allietava un po' le giornate. Incredibilmente,
sentiva meno il peso del fiato dei Giganti sul collo, quando lei gli
gironzolava attorno. Che potesse considerarla una vacanza?
Chissà, magari era proprio quello l'obiettivo di Erwin, fin
dall'inizio.
Ebbe
una strana sensazione, un pizzicore alle spalle, e si fermò,
voltandosi a guardare cosa ci fosse dietro di lui. Persone che
andavano, persone che tornavano, la mattina che svegliava tutti quanti
e in mezzo a tutto questo Angelica, la ragazza salvata da Mari pochi
giorni prima, fischiettava guardandosi attorno. Levi
l'osservò qualche secondo, assottigliando lo sguardo, poi
sospirando riprese a camminare.
«Potevi
sceglierti un'alleata più capace»
mormorò tra sè e sè.
Raggiunse
la mensa e si guardò momentaneamente attorno, studiando la
situazione, prima di raggiungere Erwin in un angolo separato dal resto,
intento a sorseggiare del tè. Aveva dei fogli tra le mani e
li studiava assorto, come al solito. Levi gli si sedette davanti e
anche lui si servì una tazza, restando silenzioso a
sorseggiare.
Erwin
alzò gli occhi dopo qualche minuto, guardando un punto
lontano, oltre il profilo di Levi, senza sorprendersi di trovarselo
davanti.
«Una
dei cadetti ti fissa» comunicò.
«Ignorala»
rispose seccamente Levi, prima di bere un altro sorso del suo
tè. Era ovvio che fosse già a conoscenza della
presunta spia.
«Che
intenzioni ha?» chiese Erwin con semplice
curiosità.
«Chissà...
magari imbavagliarmi e torturarmi. Ti terrò
aggiornato.» E quella che sembrava essere una vaga battuta,
riuscì a strappare un sorriso divertito al comandante.
«Sei di buon umore stamattina» osservò,
tornando con noncuranza ai suoi fogli. L'osservazione sorprese Levi
più del dovuto. «Tu dici?» chiese
sorpreso e Erwin rispose con un cenno del capo affermativo, non
distraendosi troppo da ciò che stava facendo.
Voltò una pagina, leggendone il retro ed ebbe tempo di
finirla che ancora entrambi sorseggiavano ognuno i propri tè
in silenzio, pensierosi ognuno per i fatti propri.
Mari
entrò nella mensa in quel momento e Levi potè
vederla con la coda dell'occhio correre verso Angelica. Non notare
quella sfumatura rossa in mezzo a tutti quei colori tenui era difficile
e per quanto spesso si sforzasse di ignorarla, l'occhio ne veniva come
attirato. Erano davvero irritanti.
Lanciò
una fugace occhiata nella loro direzione, guardando Angelica riempire
la poveretta di parole, che nel frattempo non faceva che allungarsi in
direzione della pentola per poter riempire un piatto e cominciare a
mangiare. Si portò nuovamente la tazza alle labbra, ma non
bevve, interrotto un profondo sospiro proveniente dal comandante al suo
fianco.
«Qualcosa
non va?» chiese, notando come fosse stato più
scocciato del solito.
Erwin
esitò un po', prima di posare quella che sembrava
una lettera di convocazione sul tavolo, tra lui e Levi. Non
lo stava invitando esplicitamente a leggerla, ma lo stava mettendo
nelle condizioni che se avesse voluto farlo avrebbe potuto.
«Sarò
via fino a domani, probabilmente. Sono stato convocato al tribunale,
nella capitale.»
«Questioni
importanti?»
«Per
la salvezza del genere umano e la nostra missione? No, proprio no. Solo
faccende e impicci personali» disse Erwin allungandosi verso
la teiera e versando un altro po' di tè nella sua tazza.
Chissà a che numero era arrivato, da quando si era
svegliato. Era ovvio che il fatto di doversi spostare e stare dietro a
tutto ciò che non riguardasse il suo lavoro, lo irritava
terribilmente.
«Sono
stato io ad accusare e arrestare Harvey, perciò adesso che
sta per essere scagionato hanno bisogno della mia presenza per
spiattellarmi in faccia il presunto fallimento»
spiegò, senza che Levi gli avesse chiesto esplicitamente di
farlo.
«Harvey?»
chiese, curioso più perché Erwin sembrava
intenzionato a voler condividere quella faccenda con lui che per la
storia in sé. Di ciò che faceva Erwin nel suo
tempo libero e della sua vita privata certo gli importava ben poco.
«Il
fratello di Mari» spiegò il Comandante, lanciando
una rapida occhiata alla ragazza ancora intenta a prendersi da mangiare
mentre Angelica l'assediava e non stava zitta un solo momento. Si
sorprese a fissarla più del dovuto, incuriosito dalla scena.
Era la prima volta che non la vedeva sola e soprattutto che qualcuno le
stesse addosso più di quanto non si aspettasse.
«Ha
fatto amicizia» notò, con uno strano sollievo
nella voce. Levi interpretò quello come un ulteriore segno
del fatto che, secondo lui, Erwin l'avesse presa fin troppo a cuore.
Aveva sentito parlare alcune delle reclute, durante quei giorni che
stava soggiornando lì, accennando al fatto che fosse stato
proprio il comandante a portarla in addestramento benché il
corso fosse già iniziato da un anno e mezzo, smuovendo e
mandando in tilt ogni sorta di burocrazia. Aveva sentito dire, da
quelle stesse reclute, che il motivo di tanto accanimento nei suoi
confronti risiedeva nel fatto che lei era una prostituta e lui
probabilmente veniva ripagato della gentilezza di darle una vita
dignitosa con qualche favore poco pulito e poco morale. Se non avesse
conosciuto abbastanza Erwin da sapere quanto fosse poco interessato a
quel genere di attenzioni, anche lui avrebbe potuto dubitarlo, visto il
modo in cui la considerava. Era discreto, silenzioso, sembrava quasi
che non la conoscesse, eppure era il primo a intervenire in suo aiuto
quando ce n'era bisogno, proprio come due sere prima, quando
lei aveva avuto quella crisi di panico: per primo si era alzato da
tavolo, andando a controllare, e proprio il suo richiamo era riuscita a
riportarla indietro. Erwin non era proprio tipo da prostitute e favori
sessuali, eppure non poteva escludere che tra quei due non ci fosse
stato qualcosa che l'avesse marcato nel profondo.
«Le
ha salvato la vita e probabilmente ora la sta ripagando in qualche
modo» spiegò Levi, lanciando una rapida occhiata
al duo su cui si era concentrato Erwin e tornando poco dopo alla sua
tazza.
«È
la ragazza dell'incidente dell'altro giorno?» chiese il
Comandante.
«Già»
e Levi lasciò nuovamente cadere il silenzio, prima di
aggiungere, deciso a togliersi quell'ultimo dubbio: «Non mi
hai mai raccontato come l'hai trovata.»
«La
cosa ha importanza?» chiese Erwin tornando a guardare i fogli
che stringeva tra le mani.
«Potrebbe»
si limitò a rispondere Levi. Non gli interessava davvero, ma
aveva messo insieme alcuni dei pezzi e voleva in qualche modo
completare il quadro. A partire dal motivo per cui Erwin si fosse preso
la briga di far arrestare un qualunque ragazzo dei bassifondi e salvare
la sorella dalle sue grinfie, portandola in Armata. Aveva sospettato
che ci fosse di mezzo un omicidio, ma inizialmente aveva creduto che ad
essere morto fosse proprio il fratello. Invece ora veniva a scoprire
che non solo il fratello era vivo, ma lo stesso Erwin aveva fatto in
modo che finisse in cella. Per quale motivo? Costrizione alla
prostituzione? Davvero si era mai interessato a certe storie
strappalacrime? E allora quell'uccisione che ancora macchiava le mani
della ragazza, di chi era? Sorrise, rendendosi conto di quanto si
sentisse ridicolmente interessato a tutta quella faccenda. Forse un po'
poteva anche definirsi curioso e sicuramente quella fu la
giustificazione che si diede, ma probabilmente la verità che
mai avrebbe ammesso a se stesso era che sapere che c'era qualcun altro
tra quelle persone che aveva vissuto i primi anni nella merda in cui
aveva vissuto lui gliela faceva sentire un po' più vicina.
Come se lei avesse potuto capire molte delle cose a cui chiunque
sarebbero state incomprensibili, e, di contro, che lui avrebbe potuto
comprendere realmente molte delle cose che la riguardavano. Se c'era
qualcuno al mondo che avesse avuto il diritto e la capacità
di sapere e capire, quello era solo lui. Sensazioni, solo sensazioni,
ma a cui quei dannati capelli rossi continuavano a richiamare
l'attenzione. Glieli avrebbe fatti rasare, un giorno o un altro.
«Conoscevi
Gerwin Roff?» chiese Erwin, interrompendo lo scialacquio dei
suoi pensieri.
«Era
un caporale dell’Armata Ricognitiva, abbiamo lavorato
insieme, come potrei non conoscerlo?» rispose Levi,
chiedendosi se non stesse cercando di eludere la domanda andando a
parare su un altro argomento.
«Gerwin
Roff è stato dichiarato morto per malattia, anche se il suo
corpo non è mai stato somministrato ad analisi accurate e il
caso è stato chiuso con frettolosità»
spiegò Erwin, serio e corrucciato nel volto. No, non aveva
cercato di sviare la domanda, ma cominciava a mettere insieme i primi
pezzi e Gerwin Roff doveva essere un altro dei tasselli mancanti del
puzzle.
«La
verità su di lui è stata ritenuta vergognosa per
il corpo militare e hanno cercato di infangare la cosa. Era vergognoso
che un capitano militare frequentasse bordelli nei sotterranei con
cadenza quasi settimanale. Lì le donne sono più
facili da reperire e meno costose e quando Roff è venuto a
conoscenza di una ragazza dagli occhi di ghiaccio e i capelli dalla
colorazione singolare del fuoco non ha saputo resistere alla
tentazione. Di quel colore rosso poi lui ne ha visto sicuramente in
abbondanza prima di morire.»
Levi
restò in ascolto senza smuoversi. Bloccato come una statua,
con le gambe accavallate e la tazza a fior di labbra. Lo sguardo fisso
davanti a sé, che sembrava mostrargli le immagini di un
libro mentre venivano svelate le prime verità su
quell'assurda storia.
Il
sangue di Gerwin Roff, era quello che macchiava ancora le mani di Mari
tanto da trascinarla ancora nei propri incubi. E dato che si trattava
di uno degli uomini di Erwin, cominciava ad essere chiaro anche come
fosse venuto a conoscenza di un'anima invisibile come lo era lei.
«Un'assassina
che ha ucciso un pezzo grosso del corpo militare»
osservò Levi, muovendo semplicemente le labbra, continuando
a restare fisso con lo sguardo davanti a sé.
«Perché hai voluto portarla qua?»
«Tu
stesso hai detto di aver conosciuto Roff. Era forte, era grosso e
violento abbastanza da essere pericoloso. Lei invece aveva solo la sua
veste. Le condizioni in cui era ridotto Roff non lasciano spazio a
dubbi: lei ha combattuto e ha vinto, uscendone miracolosamente indenne.
Sono venuto a conoscenza di Mari e di suo fratello perché
Roff faceva parte della nostra legione e sono stato chiamato in
tribunale. Doveva essere solo burocrazia, ma quando ho sentito quello
che era successo ho capito che lasciarla alla pena di morte sarebbe
stato uno spreco. Sono intervenuto, ho indagato personalmente sul conto
di Harvey e sono riuscito a trovare un accordo, permettendole di venire
qua e lasciando a suo fratello l'onore di occupare quella stanza
vuota.»
«L'hai
accusato di un omicidio che non ha commesso.»
«Pensi
che non se lo sia meritato?» chiese Erwin con provocazione.
«Sai
bene cosa penso» disse Levi lasciando trapelare un certo
astio. L'avrebbe volentieri preso a pugni lui, quell'Harvey,
così come avrebbe preso a pugni Roff ora che sapeva quali
schifose pratiche amava attuare durante il suo tempo libero. Sapere di
aver lavorato spalla a spalla con un sacco di merda come lui gli faceva
venire solo il voltastomaco. «L'accordo dunque è
saltato? Lo stanno liberando?» chiese ancora Levi.
«Non
conosco ancora tutti i particolari, ma credo che sia dovuto al fatto
che qualche ricco mercante fosse un suo cliente fidato e non abbia
apprezzato che fosse potuto venir fuori il suo nome.»
«Tsk»
si lasciò sfuggire Levi, increspando il viso.
«Inutili mangia merda.»
«Probabilmente
il verdetto è già deciso e io servo solo per
ritirare formalmente le accuse» osservò Erwin,
sapendo già come certe cose giravano nei piani alti.
Lanciò un'altra occhiata a Mari, che finalmente era riuscita
ad appropriarsi del suo piatto, e rese partecipe Levi di una sua
personale preoccupazione: «Si rifarà vivo. La
sorella gli fruttava un bel guadagno.»
«Che
ci provi» si limitò a rispondere Levi, prima di
posare bruscamente la tazza sul tavolo. Si alzò e senza dire
un'altra parola si allontanò, dirigendosi a passi svelti e
pesanti verso l'uscita.
Mari
abbandonò il contatto visivo con Angelica, che non aveva
cessato un solo istante di parlare di quanto trovasse eccitante quella
missione e cosa fosse riuscita a scoprire -ancora niente, ma c'era
quasi, affermava-, e guardò Levi sparire all'esterno.
«Chissà
cos'è successo...» si chiese, un po' preoccupata.
«Mh,
credi sia successo qualcosa?» chiese Angelica, non capendo
cosa avesse potuto destare così la preoccupazione
dell'amica. Anche lei aveva visto Levi uscire, concentrata nella sua
missione di scoprire quanto più su di lui era ben
intenzionata a non lasciarselo sfuggire nemmeno per errore, ma non
aveva colto niente di diverso dal solito.
«Aveva
qualcosa nello sguardo...» rifletté Mari.
«Non lo so, mi sembrava cupo.»
«Lui
è sempre cupo» disse Angelica con naturalezza. Che
ci trovava di strano?
«Sì,
beh... ma è diverso» insistè Mari,
accennando un sorriso divertito per l'affermazione -esageratamente
vera- dell'amica.
«Magari
gli hanno raccontato una barzelletta» alzò le
spalle la castana e questo bastò per far dimenticare a Mari
ogni sorta di preoccupazione, lasciandosi andare a una fragorosa e
intrattenibile risata.
E
Angelica, colpita piacevolmente da quella reazione, si sentì
stimolata a continuare su quello stesso filone: «Magari
quello è il suo modo per esprimere ilarità, non
puoi saperlo.»
Nda.
Rieccomi
e buongiorno! Finalmente si apre un’enorme porta sulla vita
di Mari (un’altra xD) e scopriamo di chi è il
sangue che ancora le macchia le mani (per chi non ricordasse, qualche
capitolo addietro, quando ebbe l’attacco di panico,
restò per un po’ confusa a mormorare cose tipo
“non volevo ucciderlo” “lui mi ha
afferrata” ecc…).
Inoltre,
scopriamo il prezioso ruolo di Erwin in tutto questo. Le voci sul conto
di Mari la proclamavano la personale prostituta del comandante (ed ecco
perché in molti la guardano male), ma in realtà
lui l’ha tirata fuori dalla prigione, ritenendola forte
abbastanza da dar un buon contributo alla propria causa, e in cambio ha
rinchiuso il fratello. Fratello che in realtà dai primi
ricordi che vi ho riportato sembrava tanto gentile e
premuroso… (invito a rileggere “la bambina delle
pere” se non ricordate).
Cos’avrà
portato al cambiamento? Cosa l’avrà spinto a
diventare il suo aguzzino e a venderla come fosse merce?
Vi
rivelo che nel prossimo capitolo faremo un altro salto nel passato e
darò risposta anche a queste domande.
Vi
aspetto Lunedì prossimo con “La
ragazza Rubino”.
Cià
cià!
Tada
Nobukatsu-kun
<> mormorò Harvey alla sorella un istante
prima di lanciarsi coraggiosamente contro l'uomo. Mari lo
guardò un po' preoccupata, chiedendosi come ne sarebbe
uscito vivo, ma sapeva che la parola di suo fratello era legge
perciò obbedì e scappò all'interno del
vicolo, sapendo che avrebbe potuto usare qualsiasi aggancio per saltare
sul tetto e sparire. Ma tutte le sue previsioni andarono in frantumi
quando si scontrò contro un altro uomo, altrettanto
terrificante come il primo, ma più sottile di corporatura.
L'afferrò per il polso e la bloccò, evitandole di
fuggir via.
<>
Voce fuori campo: E Levi
intanto si domanda "chissà cosa ha spinto la ragazza a
desiderare tanto di mettere le ali della liberta"... non vien voglia di
prenderlo per il collo e urlargli "Sei tu, brutto scemo!!!! Sei tu!!!"?
XD
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** La Ragazza Rubino ***
LA
RAGAZZA RUBINO
Città
sotterraneo
Anno
842
Mari
si sistemò meglio il cappuccio sopra la testa, premurandosi
di nascondere ogni singolo ciuffo di capelli e tenere quanto
più in ombra il viso. Silenziosamente e cercando di
mischiarsi alla folla, passeggiò sulla via principale della
zona mercantile. Alcuni banchetti erano già stati allestiti
con stoffe, manufatti e soprattutto cibarie, anche se molte non
emanavano un buon odore e l'aspetto non era dei migliori. Ma lei
avrebbe comunque addentato volentieri una di quelle mele dal colore
marroncino poco rassicurante. Ultimamente lei e Harvey riuscivano ad
accaparrarsi ben poco ed erano costretti sempre più alla
fuga. Le strade erano controllate più che mai, soprattutto
vicino alla zona mercantile, dove fino a poco prima era stato invece
più facile rubare qualcosa per l'abbondanza di
possibilità. Ma la banda di Levi, proprio come aveva detto
Harvey, aveva messo in allarme chiunque e aveva alzato fin troppo la
guardia non solo della Gendarmeria (che poco si sprecava ad usare le
proprie risorse per tre delinquenti tra delinquenti) ma di chiunque,
mercanti compresi, che raramente giravano disarmati o senza qualche
mercenario che proteggesse la propria roba in cambio di denaro.
Quando
Mari passò di fronte a un banchetto su cui erano posate una
quindicina di pere, un lieve sorriso la sorprese e fu costretta ad
abbassare ancora di più il viso per nascondersi. Nonostante
stesse soffrendo la fame e si fosse trovata più volte in
pericolo per colpa della banda di Levi, non riusciva a recriminarlo
nemmeno un po'. Loro potevano volare, era tutto ciò che
riusciva a pensare. E tutte le volte che li vedeva volteggiare sopra le
vie, non poteva che restare incantata da quei loro movimenti
così sicuri e leggiadri, incuranti di tutto, come se quella
terra non gli appartenesse. Li invidiava, li invidiava come nessun
altro.
Ma
sapeva che suo fratello aveva ragione, perciò badava bene a
tenersene a distanza ed evitare di incrociare le strade con loro. Gente
come quella non poteva che essere pericolosa. Si accostò a
un banchetto dove il commerciante era impegnato a convincere una donna
a comprare le sue merci, si finse interessata e infine si
allontanò con tranquillità senza destare
sospetti. Dopo qualche passo studiò ciò che era
riuscita a infilare sotto il mantello: un vasetto di marmellata. Gli
occhi le brillarono e si affrettò a nascondere la refurtiva,
con una certa agitazione. Poco più avanti, infine, si
infilò in un vicolo accertandosi di restare nell'ombra. Si
accucciò vicino al muro e non attese oltre:
l'aprì, ci infilò dentro due dita e si
portò il contenuto alle labbra. Una dolcissima sensazione le
si spandè dalle labbra fino giù in gola e allo
stomaco, tanto dolce che non riuscì a trattenere una
lacrima. Tremolante infilò nuovamente le dita nel vasetto e
ne portò ancora in bocca, mangiando avidamente,
dimenticandosi perfino di essere accucciata in un vicolo puzzolente di
piscio.
Senza
neanche rendersene conto, in pochi minuti, lo finì.
«Oh
no» mormorò quando si rese conto.
«Harvey mi ucciderà per non avergliene lasciato un
po'.»
Si
guardò le mani sporche e appiccicaticce, prima di pensare al
da farsi. L'unica soluzione era riuscire a prenderne un altro e
portarglielo. Era pericoloso, lo sapeva bene, non bisognava mai tornare
due volte in breve tempo nello stesso posto o si rischiava di venir
scoperti. Ma che altra soluzione poteva avere? Ormai il danno era fatto
e ultimamente Harvey era sempre di pessimo umore per la fame, se
l'avesse scoperta l'avrebbe picchiata. Si strofinò la mano
sporca contro la maglia, pulendosela, e decise di fare quel disperato
tentativo. Tanto nessuno aveva visto niente, nessuno si era allarmato,
aveva alte probabilità di farcela.
Si
avvicinò nuovamente al banchetto, guardandosi furtivamente
attorno. Nessuno sembrava darle peso o averla notata e il mercante era
ancora impegnato a discutere con la signora indecisa, che ora non
sembrava più tanto indecisa visto che pian piano stava
riempiendo il proprio cestino. Allungò una mano,
parzialmente nascosta dal mantello, tenendo d'occhio il mercante.
Afferrò
il vasetto e se lo infilò sotto al mantello. Col cuore
martellante di paura, si voltò intenzionata ad andarsene
prima che la fortuna decidesse di voltarle le spalle. Sentì
in quell'istante un gran baccano provenire dalla via perpendicolare,
duecento metri più indietro. Si voltò appena in
tempo per vedere Levi e i suoi due compagni volare oltre i tetti delle
case, sotto le urla delle persone che probabilmente avevano appena
attaccato. Restò paralizzata qualche secondo, guardando con
meraviglia come fossero capaci di librarsi tanto in alto senza nessuna
difficoltà, mentre le persone sotto di loro provavano
stupidamente a rincorrerli.
"Non
li prenderete mai" pensò Mari con sicurezza. Come avrebbero
potuto? Loro erano capaci di volare, come avrebbero potuto afferrarli?
Sentì
uno scalpitio di passi alle sue spalle e si voltò appena in
tempo per vedere un gruppo di soldati correre nella sua direzione,
probabilmente intenzionati a mettersi all'inseguimento di Levi. Mari
sbarrò gli occhi e imprecando tra i denti si diede alla
fuga, infilandosi nel primo vicolo che riuscì a trovare. Si
schiacciò contro il muro, riprendendo fiato, poi si sporse
leggermente per riuscire a vedere i soldati della Gendarmeria passare
oltre e far scattare le proprie attrezzature per rincorrere Levi e gli
altri.
Stava
cominciando a calmarsi, quando una mano ferrea le si posò
sulla spalla e la trascinò, sbattendola contro il muro alle
sue spalle.
«Che
cazzo fai qui?» mormorò Harvey, guardandola
furioso. In quei due anni si era alzato ancora, si era leggermente
ingrossato di spalle e i lineamenti del viso avevano cominciato a
indurirsi. Stava diventando un uomo, abbandonando il ragazzino che era
stato fino ad allora.
«C'è
il mercato» balbettò Mari, terrorizzata. Quanto
odiava vederlo in quello stato, le metteva i brividi. Poche volte
Harvey era stato violento nei suoi confronti, in genere si limita a
lasciarla in balia dei guai che lei stessa creava come lezione di vita,
ma negli ultimi tempi la fame e le difficoltà l'avevano
inasprito. Non era raro che, preso dalla furia di qualche suo errore,
l'avesse colpita.
«Lo
so bene che c'è il mercato, ma qui dovevo venirci io, lo
sai! Tu dovevi occuparti della zona est, per l'acqua!»
«Io
avevo fame» piagnucolò Mari. «Volevo
venire a mangiare qualcosa, non riesco a lavorare a stomaco
vuoto.»
«No,
tu non riesci a lavorare e basta! Ultimamente non hai fatto altro che
portare a casa fallimenti su fallimenti! Non riesco a capire che ti
prenda, sei la più veloce e la più agile dei due
eppure non riesci a concludere niente. Non sei concentrata! Che ti
passa per la testa? Si può sapere a che pensi?»
"Vorrei
volare come Levi e la sua banda" no, questo non poteva dirglielo.
«Ho
preso questo» balbettò allora, sperando di
riuscire a calmarlo almeno un po', e gli mostrò il vasetto
di marmellata. Harvey lo guardò a lungo, ammorbidendosi pian
piano e alleggerendo anche la presa che aveva su di lei.
«Questo?»
chiese con un filo di voce. «Hai idea di quanto valga?
Potremmo rivenderlo e col ricavato comprarci del pane e forse anche
della frutta.»
"Delle
pere" pensò Mari, speranzosa. La gioia negli occhi di Harvey
dapprima la allietarono, poi le fecero nascere la paura: come avrebbe
reagito se avesse scoperto che ne aveva preso anche un altro, ma che
l'aveva mangiato tutto?
«Oppure,
potreste darlo a me e tornare a casa tutti interi»
parlò una voce alla loro sinistra. Harvey scattò,
ripassando il vasetto a Mari e spingendola alle sue spalle per
proteggerla. Di fronte a loro un uomo nerboruto, dalla barba scura e le
braccia talmente pelose da far venire il prurito solo a guardarle, li
fissava con una mazza tra le mani.
«Credi
che non ti abbia visto nessuno, ragazzina, mentre lo rubavi?»
disse l'uomo, ma nessuno dei due fratelli rispose. Harvey
digrignò i denti, prevedendo guai, e preparandosi
mentalmente a un eventuale scontro.
«Andiamo,
sei grosso quanto il mio braccio, cosa credi di fare?»
«Prova
ad avvicinarti e lo vedrai» lo minacciò Harvey.
Non era sicuro di riuscire a uscirne intero, era abbastanza sveglio da
rendersi conto dello svantaggio in cui si trovava, ma questo non gli
avrebbe impedito di difendere sua sorella e quel benedetto vasetto di
marmellata con le unghie e coi denti.
«Non
fare il duro con me, moccioso» disse l'uomo, che non sembrava
proprio aver risentito di quella minaccia.
«Mari,
corri» mormorò Harvey alla sorella un istante
prima di lanciarsi coraggiosamente contro l'uomo. Mari lo
guardò un po' preoccupata, chiedendosi come ne sarebbe
uscito vivo, ma sapeva che la parola di suo fratello era legge
perciò obbedì e scappò all'interno del
vicolo, sapendo che avrebbe potuto usare qualsiasi aggancio per saltare
sul tetto e sparire. Ma tutte le sue previsioni andarono in frantumi
quando si scontrò contro un altro uomo, altrettanto
terrificante come il primo, ma più sottile di corporatura.
L'afferrò per il polsi e la bloccò, evitandole di
fuggir via.
«Lasciala,
pezzo di merda!» urlò Harvey, ora steso a terra
per un colpo di mazza dritto sulla schiena.
«Prendile
il vasetto» ordinò l'uomo con la mazza al compagno
che teneva ben ferma Mari. Quest'ultimo non se lo fece ripetere due
volte e le infilò una mano sotto al mantello, cercando di
afferrare la refurtiva che la ragazza si ostinava a tenere stretta al
petto.
«Per
essere una ragazzina hai delle belle forme»
ridacchiò, mentre senza farsi scrupoli sfruttava l'occasione
per arrivare a toccare anche dove non doveva. Mari con uno scatto
riuscì a divincolarsi, approfittando che l'uomo la stesse
tenendo solo con una mano, impegnato a cercare. Rapidamente gli
tirò una gomitata nello stomaco, riuscendo così a
liberarsi del tutto e cercò di fuggire via, puntando a
scivolare con velocità tra il muro e l'uomo che ancora
colpiva Harvey con la sua mazza.
Ma
l'uomo alle sue spalle, benché rantolante,
allungò una mano nella sua direzione e le afferrò
il cappuccio, tirandolo. Mari ancora una volta si dimenò e
riuscì a sfilarselo, sfuggendo alla presa. Infine, mise in
atto il piano, correndo verso l'unica via di fuga che aveva.
«Ferma
dove sei bambolina o l'ammazzo questo topo di fogna!»
minacciò l'uomo con la mazza, puntandola alla testa di
Harvey.
«È
bella pesante, due colpi ben assestati alla tempia e vedi come schizza
fuori il cervello.» Mari si fermò, obbedendo,
terrorizzata dall'idea di diventare la causa della morte di Harvey. Non
poteva perderlo! Non aveva altri che lui, non conosceva niente di bello
al mondo se non la sua vicinanza e il sostegno che riusciva a darle.
Gli voleva bene e le permetteva di sopravvivere, queste erano
certamente delle ottime ragioni per evitare che venisse ucciso.
«Guardami
in faccia. Voltati!» ordinò ancora l'uomo con la
mazza. E Mari, anche se riluttante e spaventata, obbedì
volgendo a lui i suoi occhi azzurri. L'uomo la scrutò a
lungo, prima di allungarsi e afferrarle una di quelle ciocche rosse tra
le dita.
«Non
toccarla!» strillò impanicato Harvey, ai suoi
piedi, e tentò di rialzarsi per andare a proteggerla, ma
venne schiacciata al suolo da un pesante colpo di stivale.
«Sta'
tranquillo moccioso, non ho intenzione di farle del male»
disse l'uomo, prima di chiedere a Mari, sempre strofinando tra due dita
una delle sue ciocche: «Dì un po', ragazzina,
quanti anni hai?»
Ma
Mari non rispose, abbassando lo sguardo, tremolante.
«Ti
ho fatto una domanda! Rispondi se non vuoi avere addosso brandelli di
cervello!»
«Quattordici!»
quasi urlò, spaventata.
«Quattordici,
è interessante» mormorò l'uomo tra
sè e sè, prima di voltarsi a guardare Harvey
steso a terra. «Ragazzino, hai la più pallida idea
di quale tesoro hai tra le mani?»
«Di
che cazzo parli?» ringhiò Harvey,
«Dei
capelli come questi non se ne vedono in giro, sono davvero particolari,
attirano lo sguardo e sono difficili da dimenticare. E guarda inoltre
che bel visino!»
«È
di mia sorella che parli, sudicio cane! Non azzardarti!»
ringhiò ancora Harvey, che ora cominciava a capire dove
l'uomo volesse andare a parare.
«Prima
ascolta quello che ho da dirti e dopo deciderai se provare ad
ammazzarmi. Ho una proposta per te: lasciala a me e tu puoi tenerti il
vasetto di marmellata. Non solo! Conosci il negozio di frutta e verdura
qui all'angolo? Io e mio fratello ci lavoriamo assieme. Bene, ti
consegnerò ogni mese ben due cassette del nostro
raccolto.»
«Due?
Sei pazzo?» l'ammonì il compagno.
«Sta'
zitto! Coi soldi che ci farà fare questa qui ne
riguadagniamo il triplo di quello che cediamo!» gli rispose a
tono, prima di tornare ad Harvey, che ora lo fissava con gli occhi di
chi sta per morire di fame. Tutto quel cibo senza impegno, senza
più preoccuparsi, era sicuramente molto più di
quello che Mari fosse mai riuscita a rubare. Ma a sconvolgerlo
così non fu tanto la proposta di cibo, ma la frase appena
detta. Una come lei poteva davvero guadagnare tanto? Avrebbe risolto
ogni loro problema. Diceva sul serio?
«Allora?
Che ne dici? Fornitura gratis a vita in cambio della
ragazzina.»
Mari
non riusciva ben a mettere a fuoco ciò che stesse
succedendo, ma sentiva di essere in pericolo. Profondamente in
pericolo, e questo la faceva tremare come un fuscello.
Guardò suo fratello, speranzosa che lui l'avrebbe protetta e
riportata a casa, ma gli occhi famelici di Harvey distrussero ogni sua
aspettativa.
«Solo
per oggi.» disse Harvey. «Te la vendo in cambio del
vasetto. Puoi tenerla tutto il giorno, poi lei torna a casa.»
La
gola di Mari si andò a chiudere: ciò che aveva
appena sentito fu talmente inverosimile che per lo shock non
riuscì neanche a pensare. Il vuoto più completo,
assoluto, di fronte all'evidenza che suo fratello l'aveva appena data
in cambio come fosse merce. Un qualsiasi oggetto esposto su un
banchetto, sotto lo sguardo affamato di chi aveva intorno, incapace di
sfuggirgli. Succube, intrappolata dov'era, arpionata a terra.
«Mi
sta bene lo stesso» e quella fu la prima mano che mai
l'avesse afferrata.
"Vorrei
imparare a volare come Levi."
Now
angel won't you come by me
angel
hear my plea
take
my hand lift me up
so
that I can fly with thee
NDA
Chiedo
scusa per il ritardo >.<
Comunque
sono qua con questo nuovo capitolo e un altro lembo del passato di
Mari. Un altro tassello importante: il giorno che Harvey ha cominciato
a venderla, spinto dalla fame e dalla paura dell’uomo con la
mazza. E il primo pensiero di Mari va a Levi, alla sua
capacità di volare, all’invidia che prova verso
quel suo dono che, se ne avesse avuto possesso anche lei, le avrebbe
permesso di scappare. Possiamo quindi trovare una delle prime risposte
alle nostre domande: dove arriva quel folle desiderio di Mari di volare
che l’ha spinta a tentare di entrare nell’Armata
Ricognitiva? Ecco qua a voi servita la risposta :)
La
strofa di canzone alla fine è presa da “Waiting on
an Angel” di Ben Harper.
Ora
Angelo non verrai al mio fianco
Angelo
ascolta la mia preghiera
Prendi
la mia mano e sollevami
Così
che io possa volare insieme a te…
Molto
bella e significativa, vero? Sì, avete capito bene,
l’”Angelo” è proprio Levi,
perché alla fine si può dire che lei cominci a
vederlo proprio in quel modo. Un angelo capace di volare, di sfuggire,
e a cui rivolge la silenziosa preghiera di venirla a prendere.
Vaaaa
bene mi sono dilungata troppo.
Vi
mando un saluto e vi lascio appuntamento al prossimo Lunedì!
Cià
cià
Tada
Nobukatsu-kun
Anticipazione:
«Ma
ora comincio a trovarlo seccante, soprattutto se devo essere pedinato e
spiato.»
"È
la fine"
«Stai
esagerando.»
"Mio
fratello sarà furioso perché me ne sono andata."
«Non...»
provò a pronunciare Mari, approfittando di un momento di
silenzio di Levi, ma la voce le morì in gola. Si strinse un
polso con una mano, cercando di costringerlo a smettere di tremare.
"Non
lasciami indietro."
Levi
posò la tazza sulla scrivania, poi tornò a
osservarla, incuriosito da quella mezza frase che aveva tentato di
dire. Rimase in silenzio, permettendole di tentare di concludere.
«Non
mi mandi via...» riuscì a pronunciare Mari con un
filo di voce.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** Chi sei veramente ***
Chi
sei veramente
Centro
d'addestramento
Anno
846
Angelica
si guardò attorno, china su se stessa, schiacciata contro il
casolare in legno. Fece un paio di passi verso l'angolo, da cui poi si
sporse leggermente. In giro non c'era nessuno, se non il capitano Levi
diretto chissà dove.
"Spia
Angy in azione!" pensò euforica, prima di voltare l'angolo e
continuare a seguire di soppiatto il capitano. Era la prima volta che
faceva qualcosa di tanto audace, per quanto fosse sempre stata una
ragazza che si cacciava spesso nei guai questo era dovuto per la
maggior parte delle volte solo a causa della sua bocca che non stava
zitta. Mai si era beccata qualche rimprovero o punizioni a causa di
guai veri e propri: alla fine era una brava ragazza. Ma forse proprio
quell'essere brava ragazza l'aveva spinta a esagerare l'incarico di
aiutare Mari, ritrovandosi addirittura a pedinare di nascosto un
ufficiale dell'esercito. In fondo, la sua vita era sempre stata
così noiosa che non appena era successo qualcosa di
interessante, come poteva esserlo Mari e la sua missione, ci si era
immersa completamente. Vide Levi sparire dal suo sguardo, camminando di
fronte a quello stesso casolare, e silenziosa ne raggiunse l'estremo
che dava sul cortile, camminando lungo il fianco. Si sporse, per
controllare la posizione del capitano e capire dove fosse diretto, ma
la vista non riuscì ad andare oltre il proprio naso, che si
andò quasi a schiacciare contro la camicia di Levi, ora
fermo, in piedi davanti a lei, che la fissava.
«Lo
sai che potrei farti rinchiudere in cella d'isolamento per
questo?» la minacciò Levi, seccato.
«Mi
dispiace!» sobbalzò Angelica, ora verde in volto
dalla paura. Chissà per quale motivo non aveva messo in
conto il pericolo di poter essere scoperta.
«Che
cosa vuoi?»
«Mari
vuole tanto entrare nell'Armata Ricognitiva e mi ha mandato in
avanscoperta per studiarla e capire come convincerla ad
accettarla!» disse Angelica tutto d'un fiato. Levi
spalancò appena gli occhi, stupito nel sentirla confessare
con così tanta facilità.
«Complimenti
per la capacità di mantenere un segreto. Ricordami di non
coinvolgerti mai in qualche piano che ne preveda.»
«Chiedo
scusa!» mugolò Angelica, abbassando la testa. Non
poteva farci niente, lei era fatta così: la lingua andava
sempre per conto proprio, non era capace di averne il controllo.
«Lei
dov'è?» chiese Levi, cambiando tono e incrociando
le braccia al petto.
«In
questo momento è in esercitazione nel bosco con l'istruttore
Keith.»
«Dille
di passare da me quando avrà finito» e si
voltò, intenzionato a non aggiungere altro.
«Le
darà una possibilità?» chiese
istintivamente Angelica, emozionata al pensiero che forse la sua amica
avesse potuto avere una chance.
«No»
rispose seccamente Levi, allontanandosi. «Ma riferisci il
messaggio e non farti più vedere in giro, o la prossima
volta potrei non essere di così buon umore.»
"Buon
umore? Io l'avevo detto che gli avevano raccontato una barzelletta!"
pensò Angelica, sorridendo divertita, prima di darsela a
gambe. Corse senza fermarsi, diretta nella foresta dove in quel momento
Mari era impegnata al suo addestramento. Ci mise un po' a trovarla, ma
alla fine riuscì a distinguere la sua sagoma accovacciata su
di un ramo. Era impegnata a guardarsi attorno, forse studiando la zona
circostante, quando sentì la voce di Angelica arrivare come
un uragano nella sua direzione pronunciando quasi senza prendere fiato:
«Mari Mari Mari...»
Atterrò
pesantemente al suo fianco, facendo traballare pericolosamente il ramo
su cui si trovavano, tanto che Mari dovette artigliarlo per evitare di
perdere l'equilibrio e cadere giù.
«Che
c'è? Che succede?» chiese abbastanza contrariata
per l'irruenza con cui l'aveva assalita.
«Grandi
notizie!» disse Angelica, con le guance rosse per l'emozione
e afferrando l'amica per le spalle le rivelò: «Ho
scoperto qualcosa sul capitano Levi di molto interessante!»
«Sul
serio? Tanto interessante da non poter aspettare stasera per dirmela?
Lo sai che se Keith ci vedesse perdere tempo ci concerebbe per le
feste?»
«Gli
piace bere il tè!» disse repentinamente Angelica,
ignorando i rimproveri di Mari. Ci fu un lungo silenzio in risposta a
quella rivelazione, silenzio in cui Mari tentò in qualche
modo di rendere quell'informazione qualcosa di utile ai suoi scopi,
senza riuscirci pienamente. Come poteva una cosa simile aver esaltato
tanto l'amica da farla correre da lei e rischiare di essere scoperta e
ripresa dall'istruttore? Si corrucciò, mentre chiedeva
ironica: «Mi vesto da maid e gli servo il
tè?»
«Perverso!»
esclamò Angelica, arrossendo mentre la mente partiva a
immaginare scenari non troppo casti la cui protagonista era appunto
Mari con su un costumino da Maid. «Ma geniale!»
«Mi
rifiuto!» urlò Mari, pervasa da un profondo
imbarazzo nel rendersi conto di cosa stesse cercando di suggerirle
l'amica. Aveva già provato più volte la
sensazione di dover compiacere gli uomini con cose del genere e l'aveva
sempre trovato disgustoso, non avrebbe permesso a Levi di entrare a far
parte di quei ricordi da cancellare. E poi quel tipo di attenzioni non
erano quelle che cercava da parte sua!
«Non
sei collaborativa» brontolò Angelica.
«Inventati
qualcos'altro!»
«Il
capitano Levi ha chiesto di te.»
Mari
spalancò la bocca, pronta a brontolarla ancora, credendo che
le avesse suggerito qualcos'altro di inutile e imbarazzante, ma si
paralizzò quando cominciò a realizzare.
«Come,
scusa?» chiese poi, inarcando un sopracciglio.
«Mi
ha scoperto mentre lo pedinavo.»
«Lo
stavi pedinando?» urlò Mari, sempre più
sconvolta.
«E
mi ha minacciato di chiudermi in isolamento.»
«Sei
folle! Hai idea del rischio che hai corso?»
«Sì,
è stato divertente!» ridacchiò Angelica.
«Ma
che dici? Sei impazzita?»
«Comunque
gli ho detto tutto.»
«Tutto?
Tutto cosa?» cominciò a tremare Mari. Non che si
vergognasse della sua missione di dimostrarsi forte per farsi
accettare, ma la spaventava l'eventualità che Angelica
avesse interpretato a modo suo le cose come a volte faceva su quella
faccenda e quella che avesse rivelato fosse solo l'idea che si era
fatta e non la realtà. Come avrebbe potuto guardarlo di
nuovo in faccia, se gli avesse detto che lei stava cercando di "fare
colpo" su di lui?
«Gli
ho detto che stai cercando la sua approvazione per entrare nell'Armata
Ricognitiva e per questo lo stavo seguendo» e Mari
tirò un sospiro di sollievo. Aveva riferito le cose come
stavano davvero, senza aggiungere niente di suo che avrebbero potuto
creare fraintendimenti. A dir il vero, il fatto che lui avesse
espressamente chiesto di vederla dopo aver scoperto Angelica che lo
pedinava avrebbe dovuto solo farla preoccupare maggiormente, ma per il
momento si godeva semplicemente il sollievo di non dover spiegare i
fraintendimenti.
«Si
batte la fiacca?» l'imperativa voce di Keith, arrivata
improvvisamente, fece urlare entrambe per lo spavento.
«Vi
toglierò dei punti per questo! Muovetevi! Non siamo in
villeggiatura, femminucce!»
Mari
e Angelica, prese dal panico per il rimprovero, fecero scattare
immediatamente i propri dispositivi tridimensionali e volarono via,
ognuna verso una direzione diversa.
«Comunque
ti sta aspettando!» urlò Angelica, un attimo prima
di sparire tra i rami della foresta.
«Asp...»
balbettò Mari. Per lo spavento e la quantità di
informazioni inutili con cui Angelica aveva condito il tutto, si era
dimenticata di chiedere qualcosa di più su ciò
che era veramente importante: Levi aveva chiesto di vederla. Dove? E
soprattutto, perché?
«Angy!»
provò a urlare, senza successo.
«Maledizione!» sibilò tra i denti, prima
di ruotare intorno a un albero e tornare indietro. Provò ad
inseguirla, prendendo la sua stessa direzione, ma non ci mise molto a
rendersi conto che l'aveva persa. Sospirò, sconsolata e
decise di ricorrere al piano B: andare direttamente da Levi e scoprire
sul momento dal diretto interessato quello che doveva sapere. Angelica
non aveva la più pallida idea di dove fosse andata, ma
sapeva invece dove trovare l'istruttore Keith e da lui si diresse.
«Capitano
Keith!» gridò, raggiungendolo in volo.
«Stai
ancora bighellonando? Non ti avevo ordinato di tornare al
lavoro?» ringhiò Keith, fulminandola.
«Il
capitano Levi ha espressamente richiesto la mia presenza»
disse Mari, cercando di risultare formale e ignorando il rimprovero.
Con lui era meglio andare subito al sodo, senza girarci troppo attorno,
o ci avrebbe sicuramente perso e basta.
«Per
quale motivo?» chiese Keith, poco convinto.
«Non
ne ho la più pallida idea, Signore!» se solo
Angelica glielo avesse detto, invece che parlare di quanto fosse stato
divertente farsi quasi sbattere in isolamento.
Keith
ringhiò qualcosa di incomprensibile, probabilmente insulti
rivolti alla stessa Mari, ma poi esclamò: «Sei
congedata, cadetta.»
«Grazie
Signore!» esclamò Mari, portandosi il pugno al
cuore in segno di saluto e sparì rapidamente, raggiungendo
in pochi minuti il confine della foresta, dove aveva legato il proprio
cavallo. Lo liberò, vi salì sopra e corse verso
il centro di addestramento, sul lato opposto della collina.
Per
tutto il tempo del tragitto non potè che chiedersi quale
motivo avesse spinto Levi a chiedere di vederla. Non poteva far a meno
di pensare che non gli andasse a genio il fatto che lei avesse cercato
di fargli cambiare idea, forse desiderava smorzare la cosa, magari lo
vedeva come un insulto alla sua superiorità. E forse
l'arrivare addirittura a pedinarlo doveva essere stata la goccia che
aveva fatto traboccare il vaso, per quanto lei non avesse mai chiesto
ad Angelica di fare una cosa simile.
"Non
avrei mai dovuto spingermi tanto oltre" pensò, mentre usciva
dalla stalla dove aveva legato e sistemato il proprio cavallo. Si
liberò dell'attrezzatura per il movimento tridimensionale e
si affrettò a raggiungere il casolare destinato al capitano
Levi. Entrò e salì le scale: la stanza di Levi
doveva essere al piano superiore, visto che un paio di sere prima
l'aveva visto sbucare da lì.
"Speriamo
di indovinare" pensò mentre si avvicinava alla prima porta
sulla sinistra. Alzò il pugno, pronta a bussare, e si
scoprì in quel momento in tremenda agitazione. La mano non
riusciva a non tremare e la gola raschiava da tanto era secca. Aveva
paura, una paura folle! Levi era un tipo brusco e potente, poteva
permettersi di fare qualsiasi cosa, persino cacciarla.
"E
se mi rispedisse nella città sotterranea?" il pensiero le
chiuse lo stomaco. Poteva farlo, poteva farlo eccome e poteva essere
incazzato abbastanza da permetterselo. Si morse un labbro, mentre il
fiato cominciava a mancarle.
"Non
posso. Non voglio tornare là!" pensò, mentre in
lei cominciava a farsi strada il desiderio di fuggire via. Era una
ladra, scappare era sempre stata la sua specialità, se si
fosse data alla fuga nessuno sarebbe più riuscito ad
acchiapparla e Levi non avrebbe potuto ricacciarla là sotto.
No, non era vero. Ovunque andasse, finché restava ancorata
al suolo, le mani avrebbero sempre potuto raggiungerla. Solo chi volava
era irraggiungibile e inafferrabile, e lei aveva sognato troppo a lungo.
Chiuse
gli occhi, cominciando a pregare qualsiasi divinità fosse
potuta esistere e alla fine bussò. L'attesa parve
estenuante, poi finalmente una voce: «Avanti».
Femminile.
"Non
è lui. Ho sbagliato?" si domandò deglutendo. "Qui
va sempre peggio! Non riesco a combinarne una giusta!"
Aprì
e si affacciò in quella che, scoprì allora,
essere la stanza di Hanji Zoe.
«Chiedo
scusa...» balbettò, mentre l'ufficiale la guardava
curiosa. «Stavo cercando il capitano Levi, devo essermi
sbagliata.»
«La
stanza a fianco» sorrise Hanji, indicando la parete alla sua
sinistra. Era sempre stata gentile con lei, nonostante fosse un suo
Superiore. Sorrideva sempre, la sua compagnia era dolce e rilassante.
«Grazie.
Scusi il disturbo» disse cordialmente e richiuse la porta.
"Sarebbe
un gran peccato se non dovessi più riuscire a vederla"
pensò e questo aumentò il senso di vuoto e dolore
che le stava prendendo alla bocca dello stomaco.
Si
voltò verso quella che era la porta di Levi e
sobbalzò spaventata quando la trovò
già aperta, con il capitano che l'osservava affacciato.
Il
suo viso come al solito trasmetteva solo sdegno e serietà.
Metteva una gran soggezione, nonostante tra tutti gli ufficiali fosse
uno dei più piccoli di statura e stazza. La
scrutò e Mari ebbe la sensazione di essere fatta a pezzi,
smembrata e analizzata in ogni singola parte.
«Entra»
disse infine Levi, prima di sparire dentro la propria stanza.
Mari
abbassò la testa, puntando gli occhi ai piedi che ora
sembravano così pesanti e difficili da gestire. Il rumore
del proprio cuore, sempre più potente nei suoi rintocchi,
l'assordava e la stordiva. Con fatica, decise di obbedire mentre ancora
una volta sentì l'impulso di fuggire via.
«Chiudi
la porta» ordinò ancora Levi, raggiungendo la sua
scrivania. Si lasciò cadere su una sedia su quello stesso
lato, dando le spalle a Mari, ma non rimase in quella posizione e
roteando tornò a puntare gli occhi sulla ragazza. Mari
ancora una volta obbedì meccanicamente, poi percorse un paio
di passi dentro la stanza e vi ci si fermò in mezzo, dritta
nella posizione che lo stesso Erwin le aveva insegnato. Non riusciva a
pensare a niente, se non che aveva paura. Levi si allungò
sulla scrivania, afferrò una teiera e si versò
del tè in una tazza.
«Ne
vuoi un po'?» chiese, impegnato in quell'azione.
Per
quanto quella situazione le avesse fatto tornare alla mente il discorso
maid affrontato con Angelica poco prima, e per quanto questo avesse
potuto scuoterla un po', non ebbe minimamente l'effetto che avrebbe
potuto.
«No,
grazie Signore» rispose, sforzando la voce di risultare
normale. Avrebbe avuto modo di rivederla ancora, Angelica? O quella
sbrigativa chiacchierata sul ramo sarebbe stato l'ultimo ricordo che
Mari si sarebbe portata dietro di loro due? Cercava di non pensarci,
cercava di convincersi che Levi non le avrebbe mai fatto una cosa
simile, cercava di rincuorarsi... ma più cercava conferma a
quegli incoraggiamenti sul volto del capitano e più non ne
trovava. Così severo, così nervoso, come poteva
sperare nella sua magnanimità? Come ne sarebbe uscita da
quella stanza?
«La
tua amica mi seguiva per conto tuo» disse Levi, andando
subito al sodo della questione. La gola di Mari si chiuse
improvvisamente, mentre le sue paure cominciavano a prendere forma. Ora
non sarebbe più riuscita a pronunciare neanche una sillaba,
perfino con tutto lo sforzo del mondo. Era vero, tutte quelle paure
erano vere e lui non l'avrebbe mai perdonata. Si era cacciata in un
grosso guaio, ancora una volta. Ancora una volta, stava affondando,
trascinata, mentre lui volava via dal suo campo visivo. Irraggiungibile.
"Non
lasciarmi di nuovo indietro."
«All'inizio
il tuo modo di fare lo trovavo divertente. Infantile, ma divertente,
devo esser sincero.» e mentre Levi diceva questo lo sguardo
di Mari prese a diventare sempre più vuoto, sempre
più assente.
"Non
voglio tornare lì sotto! Non voglio tornare... da loro"
riusciva solo a pensare, mentre il dolore le attanagliava lo stomaco.
«Ma
ora comincio a trovarlo seccante, soprattutto se devo essere pedinato e
spiato.»
"È
la fine"
«Stai
esagerando.»
"Mio
fratello sarà furioso perché me ne sono andata."
«Non...»
provò a pronunciare Mari, approfittando di un momento di
silenzio di Levi, ma la voce le morì in gola. Si strinse un
polso con una mano, cercando di costringerlo a smettere di tremare.
"Non
lasciami indietro."
Levi
posò la tazza sulla scrivania, poi tornò a
osservarla, incuriosito da quella mezza frase che aveva tentato di dire
e rimase in silenzio, permettendole di tentare di concludere.
«Non
mi mandi via...» riuscì a pronunciare Mari con un
filo di voce.
"Non
lasciarmi indietro."
«La
prego, non mi rimandi là» ripetè, prima
che una lacrima scappasse dai suoi occhi e le scendesse giù
per la guancia. Mari sobbalzò, appena se ne accorse, e si
portò velocemente una mano al viso, asciugandosi
rapidamente. Ma un'altra lacrima scese giù dallo stesso
percorso e un'altra la seguì ancora, una dopo l'altra, man
mano che nella sua mente tornavano i ricordi di quegli ultimi tempi
alla luce del sole, accanto a persone che cominciava ad apprezzare per
la prima volta nella sua vita.
"Voglio
volare come te."
«No,
merda» si lasciò sfuggire, mentre cercava
disperatamente di asciugarsi e impedire alle lacrime di sgorgare,
schiacciando i polsi contro gli occhi. Levi cercava persone forti, Levi
l'aveva allontanata perché non lo era abbastanza,
perché si era messa a piangere due sere prima e ora lei
stava commettendo lo stesso errore.
A
occhi chiusi, impegnata com'era a lottare contro se stessa, non si era
nemmeno resa conto che Levi si era alzato dalla sua sedia e le era
andato incontro. L'afferrò per la fronte, immergendo le dita
tra quei capelli color sangue e la costrinse a sollevare il viso. Mari
alzò gli occhi completamente umidi e incrociò lo
sguardo increspato di Levi, spaventandosene. Più correva
disperata per raggiungerlo e più arrancava e inciampava.
Proprio come quel giorno, sarebbe tornata a casa ricoperta di lividi
mentre lui sarebbe sparito all'orizzonte. Quello sguardo furibondo non
lasciava spazio ad alternative.
Con
una spinta, Levi la fece cadere su una poltrona lì a fianco.
Poggiò entrambe la mani sui braccioli e piegandosi in avanti
raggiunse il viso di Mari, fermandosi a pochi centimetri di distanza,
senza interrompere il contatto visivo. Ogni cosa, dallo sguardo ai
movimenti, trasmetteva aggressività e questo le faceva
paura, tanto che si ritrovò a schiacciarsi contro la
poltrona su cui era stata spinta, quasi avesse speranza di affondarci
dentro e sparire.
«Hai
idea di chi sono io?» ringhiò Levi.
«Il
capitano Levi, il soldato più forte
dell'Umanità» mormorò Mari con un filo
di voce, rispondendo meccanica come un robottino. Metteva soggezione,
eccome se lo metteva! Aveva persino smesso di piangere, sopraffatta da
quel suo modo di fare, arrivando persino a temere di essere malmenata
se solo avesse accennato a riprendere.
«Sai
chi sono veramente?» insisté lui, non smuovendosi
di neanche un millimetro.
Mari
esitò qualche secondo, per poi rivelare: «Era un
delinquente della città sotterranea.»
«Esatto.
Anche io sono nato in quella fogna! Mi credi davvero così
bastardo da volerti rimandare là?» e detto questo,
finalmente si alzò, abbandonando il contatto visivo con la
ragazza che ora cominciava a vedere una luce di speranza. Tutto il
dolore e la paura la lasciarono come una macchia che veniva finalmente
pulita via e lei si ammorbidì su quella poltrona. Levi si
allungò ad afferrare una sedia e la trascinò
davanti a lei. Poi ci si lasciò cadere e tornò ad
essere distaccato, incrociando le braccia al petto.
«Non
sono in molti a conoscere la mia provenienza, non mi aspettavo tu la
sapessi, anche se forse a pensarci non mi sarei dovuto stupire visto
che vieni da lì anche tu. Avrai sentito qualche
voce» osservò.
"Sono
la bambina delle pere" pensò Mari e per un istante credette
di averlo detto ad alta voce. Un malinconico sorriso le
incurvò leggermente gli angoli della bocca, mentre
realizzava: "Non può ricordarselo. Non mi vide neanche in
faccia."
«Tutti
la conoscono da quelle parti, al tempo faceva molto parlare di
sè e quando è riuscito ad andarsene le voci sono
andate aumentando» disse Mari con una certa emozione nella
voce. Lei c'era, lei c'era sempre stata e aveva potuto vederlo. Non se
lo sarebbe mai potuto dimenticare.
«Quindi
mi conoscevi già» osservò Levi.
Mari
arrossì un po', prima di ammettere: «Beh,
sì.»
Il
piede di Levi scattò con una tale rapidità che
Mari ebbe appena il tempo di notarlo. Si schiacciò contro la
poltrona nel vederlo arrivare nella sua direzione e chiuse gli occhi,
trattenendo con fatica un urlo. La suola dello stivale di Levi
arrivò a sfiorarle il naso, ma non si scontrò mai
con esso, restando bloccato a mezz'aria.
«E
nonostante tutto hai creduto davvero che fossi un tale
bastardo?» ringhiò lui contrariato.
«Mi
dispiace!» balbettò Mari osservando terrorizzata
la suola a pochi millimetri dal suo viso.
«Stupida»
disse Levi, come se avesse appena sputato il nocciolo di un'oliva e
riportò il piede a terra. «Perché non
l'hai fermato?»
«Come?»
chiese confusa Mari.
«Ti
avrei potuto fracassare il naso, perché non mi hai
fermato?»
«Lei...
è stato troppo veloce» mormorò Mari, ma
Levi rispose repentinamente: «Stronzate! I riflessi non ti
mancano, ti ho visto io stesso fermare il calcio di Keith senza neanche
aprire gli occhi!»
«Io...»
provò ancora a mormorare Mari, non sapendo che altra scusa
andare a prendere. Aveva ragione, avrebbe potuto fermarlo, il braccio
stesso si era irrigidito nell'istante in cui l'aveva visto arrivare e
se glielo avesse permesso l'avrebbe bloccato senz'altro. Ma non aveva
voluto farlo per colpa di un pensiero quasi incosciente, che era andato
a ripescare le parole di Angelica della sera prima, quando aveva
supposto che tutta quell'ira nei suoi confronti derivasse dal fatto che
lei fosse riuscita ad atterrarlo. Doveva cercare la sua compiacenza,
non farlo arrabbiare ulteriormente dimostrando ancora una volta che
tutta quella superiorità che vantava poteva essere
intralciata. Ma proprio come lei stessa aveva poi ipotizzato: Levi era
troppo sveglio e si era accorto del suo volersi trattenere e la cosa lo
stava facendo incazzare ancora di più.
«E
se sei riuscita ad ammazzare quello scimmione di Gerwin Roff a mani
nude allora vuol dire che non ti manca neanche la forza!»
continuò Levi e bastò pronunciare di quel nome
per far cambiare ancora una volta espressione alla ragazza, che ora
sembrava essere caduta in un pozzo buio. In un misto tra lo spaventato
e il sorpreso, il volto le si oscurò e smise improvvisamente
di vedere ciò che la circondava.
«Perché
non mi hai fermato?» chiese ancora Levi, scandendo bene le
parole. Mari finalmente alzò gli occhi e, affilati, vitrei,
li volse a lui, anche se per la meccanica con cui si mosse
sembrò un gesto non intenzionale. Levi ebbe di nuovo quella
terribile sensazione che aveva provato la prima volta, quando l'aveva
stesa a terra e la stava per colpire. La sensazione spiazzante e quasi
terrificanti di trovarsi un davanti un corpo apparentemente privo di
anima, ma pronto a uccidere. Ricordava quasi lo sguardo dei Giganti, se
non fosse stato per l'espressività delle labbra, incurvate
verso il suolo. Che fosse quello il motivo per il quale Levi, allora,
aveva sentito la necessità di allontanarsi con tale fretta?
«Credi
che io non sia capace di farti del male come te l'ha fatto
Roff?» continuò Levi, cercando di ingoiare
quell'esitazione che per un attimo l'aveva stritolato. Avrebbe
combattuto quegli occhi proprio come faceva con tutti gli altri
Giganti: con forza, violenza e capacità tattiche.
«Rispondi
quando un superiore ti parla!» urlò Levi,
scattando nella sua direzione e afferrandola per il collo. Proprio come
il loro primo combattimento, Mari si ostinava a tenere lo sguardo fisso
nel suo, alla ricerca profonda di un punto debole. Ma a differenza di
allora, si limitò a quello, rimanendo immobile,
benché avesse ogni singolo muscolo teso e tirato.
«Credi
non sia capace di farti quello che ti ha fatto lui?»
insisté ancora Levi. Mari non era l'unica che cercava i
punti deboli dell'avversario e lui stesso stava approfittando di quello
scambio di sguardo, delle sue conoscenze, per colpirla laddove sapeva
che fosse più debole. Laddove sapeva poi l'avrebbe fatta
crollare a terra.
«Non
cederò» sibilò Mari, sorprendendolo.
«So bene cosa sta cercando di fare. Ma io non
perderò il controllo.»
Provocazioni,
solo provocazioni a cui lei avrebbe resistito a qualsiasi costo.
Strinse i pugni sulla stoffa della poltrona sotto di sé,
tanto che avrebbe potuto strapparla da un momento all'altro. Il corpo,
il cuore, ogni cosa la portava a scattare, ad accecarla proprio come
quella volta... ma la mente restava lucida e ben impiantata in quelle
iridi che per anni aveva solo visto sparire oltre i profili delle case,
arrendendosi all'evidenza che mai avrebbe potuto raggiungerle. Quello
sguardo da brivido, che aveva dato inizio a tutto.
Non
conosceva il motivo che spingesse Levi a colpirla tanto duramente, ma
non gli avrebbe permesso ancora una volta di dimostrare che lei era
debole e che non meritava l'entrata in Armata. Avrebbe resistito ad
ogni costo, non avrebbe ceduto all'istinto come qualche sera prima,
portandolo a confermare ciò che aveva decretato.
«Ne
sei sicura?» il tono di voce di Levi le fece venire i
brividi, riportandole alla mente il fatto che si trovasse di fronte
all'uomo più iracondo, forte e violento che
l'umanità conoscesse. Per un istante, ebbe paura.
Levi
la tirò in avanti, spostandosi quel tanto che bastava per
scaraventarla a terra. Il tonfo che produsse rese l'idea della forza
che aveva impresso. I mugolii di Mari, doloranti, ne furono ulteriore
conferma.
«Il
soldato più forte dell'umanità, sei stata tu a
dirlo» disse lui, torvo in viso, affiancandola e guardandola
dall'alto al basso. Mari poggiò i palmi delle mani a terra e
cercò di rialzarsi, ma Levi l'anticipò colpendola
con un calcio nello stomaco che la ributtò a terra.
«Potrei
ucciderti. Penso tu sappia che posso farlo» e
continuò a colpirla sempre con più forza, sempre
con più violenza, lasciando che i suoi gemiti di dolore
riempissero la stanza. Mari, rannicchiata su se stessa,
cercò di proteggersi come potè, avvolgendosi le
mani intorno alla testa e provando a tenere fuori dalla portata di tiro
del capitano almeno il viso.
"Non
perderò il controllo! Non devo cedere!" continuava a
ripetersi, ostinandosi a non reagire e lasciare che Levi sfogasse la
sua ostilità contro il proprio corpo. Un calcio alla bocca
dello stomaco, un altro alla spalla, poi al petto, al ginocchio e di
nuovo allo stomaco. Uno, due, tre colpi. E la sua forza non sembrava
diminuire nemmeno un po', ma anzi pareva quasi che andassero aumentando
d'intensità botta dopo botta. Colpi come quelli nemmeno
Harvey nelle sue sfuriate era mai riuscito a darle, la forza di Levi
non era solo leggenda. Ma lei poteva resistere, poteva farlo, lo
sentiva... doveva farlo.
«Tu
sai chi sono io! Il soldato più forte
dell'umanità. Criminale in passato. Ora capitano dell'Armata
Ricognitiva! Lo sai bene, hai detto che mi conosci. Sai chi sono e sai
che potrei ucciderti qui, senza neanche troppi rimorsi. Esattamente
come tu hai fatto con Roff, solo che poi io me ne dimenticherei
perché...» e si fermò, si
inginocchiò e afferrandola per quegli odiosi capelli rossi
la costrinse a sollevarsi e tornare a guardarlo negli occhi. Una scia
di sangue partiva dalla sua fronte, confondendosi con il colore di
alcune ciocche impiastricciate lì in mezzo e Levi si prese
solo qualche istante per constatare con ribrezzo che sì,
avevano lo stessa schifosa tonalità.
«Solo
che poi io me ne dimenticherei perché tu invece sei solo una
puttana» concluse e forse il ribrezzo provato per la
colorazione sanguigna delle sue ciocche -a cui aveva appena trovato
conferma- rese ancora più convincente il suo tono
distaccato, freddo, quasi ripugnato. Lo stesso identico tono, la stessa
identica espressione di tutti gli uomini che erano stati con lei
durante quei terribili anni di costrizione. Il tono di chi ha di fronte
a sè un oggetto di cui servirsi a piacimento, ma che poi, al
di fuori del suo momento, lo rifugge come qualcosa di vergognoso,
qualcosa che non merita che la morte nel più totale silenzio
e solitudine. Un oggetto che ormai concluso il suo lavoro non ha altro
destino che la discarica.
Perse
anche quell'ultima parte di autocontrollo che tanto aveva lottato a
trattenere, ormai incapace di trovare qualcosa a cui aggrapparsi. Il
buio della disperazione e dell'ira annebbiò anche
quell'ultima speranza che era sempre riuscita a darle forza, portandola
a dimenticare per cosa avesse stretto i denti fino a quel momento. Quel
nomignolo, quello sguardo, quel tono di voce... voleva spazzare via
tutto.
«Non
è così?» insistè Levi,
soddisfatto di essere riuscito nel suo intento. Lo sguardo di Mari, lo
stesso sguardo che probabilmente Roff si era portato nella tomba,
finalmente si era riempito, abbandonando quell'inquientate somiglianza
con gli occhi privi di anima dei Giganti. Ora traboccava odio e rabbia.
Ora vivevano e in loro riusciva distintamente a cogliere la forza e il
desiderio di chi avrebbe continuato a farlo ancora a lungo, a discapito
di tutti e di tutto.
«Non
è così?» gridò ancora,
determinato a non mollare proprio ora che aveva sfondato quel muro, e
alzando rapidamente la mano libera caricò un pugno in
direzione del suo viso.
«No,
non lo è!» urlò Mari con rabbia.
Rapida, proprio come lo era stata il giorno del loro primo scontro,
lanciò una mano in direzione del pugno di Levi e
riuscì a farlo deviare. Era scattata, non avrebbe
più subito in silenzio, non si sarebbe più
sottomessa a quelle umiliazioni. Altrettanto rapidamente, poi,
colpì il polso della mano di Levi che ancora teneva serrati
i suoi capelli, riuscendo a liberarsi dalla presa, anche se non senza
rinunciare a qualcuna delle sue carminie ciocche. Levi non si
lasciò sopraffare e decise di contrattaccare con una
testata, ma Mari lo schivò prontamente, allungò
una mano verso di lui e slanciandosi in avanti lo spinse indietro,
facendolo arrancare e indietreggiare, fintanto che non trovò
la scrivania a bloccarlo. Levi portò istintivamente entrambe
le mani dietro di sé, cercando un qualcosa a cui
appigliarsi. Teiera, tazza e qualche penna caddero a terra, facendo un
gran fracasso, mentre la stessa scrivania strofinava a terra, spinta da
Mari che ancora non si era fermata.
Levi
l'afferrò per le spalle e con forza la contrasto,
spingendola via e cercando di allontanarsi dalla scrivania per uscire
dall'angolo in cui era stato messo. Per quanto Mari fosse veloce e
incazzata, lui restava comunque il più forte e riuscire a
sbatterla contro il muro non fu un problema. Hanji nella stanza accanto
sobbalzò nel sentire il tonfo contro la propria parete, ma
si limitò a infastidirsi per il fracasso, senza
preoccuparsene.
«E
allora chi sei?» sibilò lui con
aggressività, mentre lottava contro il suo divincolarsi per
tenerla ben ferma, schiacciata alla parete.
«Io
sono Mari!» gridò lei, prima di lanciare la testa
in avanti e colpirlo con una testata. Levi barcollò per il
colpo e Mari approfittò per spingerlo via un'altra volta, ma
questa volta fu difficile mantenere l'equilibrio e Levi cadde a terra,
sotto al peso di Mari che non smise di spingerlo con la chiara
intenzione di sovrastarlo.
«Io
sono Mari!» urlò lei ancora, colta da una strana
voglia di farlo sapere al mondo intero. «Recluta del corpo
militare, futuro soldato dell'Armata Ricognitiva!» concluse
con tutto il fiato che aveva in corpo. Mai avrebbe immaginato che una
cosa simile sarebbe potuta essere tanto liberatoria, che avesse potuto
darle una simile eccitazione. La faceva stare bene, le faceva avere per
la prima volta il pieno controllo di sé. L'aver ribadito con
forza il suo diritto di essere ciò che desiderava e non
ciò che gli altri volevano, l'averlo forse lei stessa
accettato, ora le dava gioia, anche se ricoperta di sangue e lividi.
Prese
fiato, mentre riapriva gli occhi, sorpresa per quanto fosse appena
accaduto, ma stranamente priva di sensi di colpa.
La
mano di Levi, che ancora si trovava steso sotto di lei, andò
a posarsi aperta sulla sua testa. Mari d'istinto chiuse gli occhi e si
irrigidì, aspettandosi un altro colpo, ma si
stupì quando invece si rese conto che tutto ciò
che stava facendo Levi era accarezzarle la cute come fosse stata un
cagnolino, scompigliandole ulteriormente i capelli.
«Ben
detto» le disse con un tono totalmente differente da quello
utilizzato fino a quel momento, più pacato, quasi
soddisfatto. Mari si diede il tempo di riprendersi e solo allora si
rese conto del cuore che batteva nel petto impazzito. Forse per
l'agitazione, forse per l'emozione, ma certo non sarebbe uscita da
quella stanza nello stesso modo in cui vi era entrata.
Notò
un rivolo di sangue uscire dal naso di Levi e cadergli lungo la guancia
e solo allora ebbe la forza mentale per lasciarlo andare.
«Oh
no...» mormorò, fissando il volto di Levi
macchiato da quel suo danno. Aveva fatto di tutto per impedire al suo
istinto di prevalere, per cercare di subire senza rispondere, e invece
non solo alla fine aveva ceduto ma aveva addirittura ferito un
capitano. Quel
capitano.
«Non
ci sei andata leggera» commentò lui, toccandosi la
guancia sporca e osservando il liquido rosso sulla mano. Fece una
smorfia di disgusto, prima di prendere un fazzoletto dalla tasca e
pulirsi.
«Neanche
Lei mi sembra che si sia trattenuto molto» mormorò
Mari, mossa da un pizzicante senso di orgoglio che le impediva di
abbassare totalmente la testa, visto quello che era stata costretta a
subire. Lui alla fine se l'era cavata solo con un po' di sangue dal
naso, lei invece aveva tutta la faccia appiccicaticcia, la testa che
faceva male per alcune delle ciocche strappate e sicuramente addosso
era cosparsa di lividi. Alla fine, Levi non aveva nessun diritto di
lamentarsi.
«Ti
sbagli» le rispose lui e questo la fece sussultare,
improvvisamente impaurita: in che condizioni sarebbe stata ridotta
allora se non si fosse trattenuto?
In
quel momento la porta dello studio di Levi si spalancò con
un tonfo, sotto il peso della rabbia di Hanji.
«Insomma,
avete finito?» gridò furibonda. «Qua
accanto c'è chi sta cercando di lavorare!»
comunicò e neanche si stupì nel vedere la stanza
messa a soqquadro e Mari seduta a terra piena di lividi e sangue.
«Ottimo
tempismo» commentò Levi alzandosi in piedi.
Afferrò Mari per il colletto, dietro la nuca, e
cominciò a trascinarla, mentre lei arrancava e gattonava per
riuscire a stargli dietro. La riportò alla poltrona e di
nuovo la costrinse a sedercisi sopra.
«Penso
abbia bisogno di una mano, vedi cosa riesci a fare, Hanji»
disse lui, prima di allontanarsi e lasciarsi cadere sulla sua sedia,
tenendosi ancora il fazzoletto premuto alla narice per bloccare il
flusso di sangue.
Hanji
sbuffò, ma senza brontolare ulteriormente si
avvicinò alla ragazza e le diede un'occhiata prima di andar
a prendere il kit del pronto soccorso e mettersi al lavoro.
«Guarda
come l'hai ridotta!» brontolò, mentre tamponava il
sangue che fuoriusciva da un taglio su uno zigomo. «Almeno
è servito a qualcosa?»
«Lo
vedremo» rispose vagamente Levi, alzando con ripugnanza uno
dei fogli che aveva sulla scrivania, ora completamente bagnato di
tè. La teiera nello scontro si era rovesciata e non c'era
cosa che si fosse salvata.
«Ecco
fatto» annunciò Hanji mettendo un cerotto sullo
zigomo di Mari. «Come nuova»
«Grazie
mille» disse Mari, che era rimasta per tutto il tempo in
silenzio. Quel delicato tocco sulla pelle, la dolce sensazione di
essere accudita e curata, le aveva riportato alla mente una leggera
malinconia. Contrastante nel suo cuore, faceva a botte con la
felicità di essersene andata, ma come dimenticarsi di Harvey
e delle attenzioni che bene o male le aveva sempre rivolto? Quando non
avevano altri che loro stessi, quando erano pronti a raccogliere
l'altro dalla strada, a salvarlo dalla cattura, a portargli un pasto a
casa. Quante volte Harvey si era ritrovato a fare ciò che
Hanji stava facendo in quel momento, ad occuparsi dei suoi pasticci e
rimettere in ordine i guai.
Chissà
dov'era, in quel momento, suo fratello.
«Bene»
si alzò Levi, catturando la sua attenzione. «E
adesso...» ma non concluse la frase, andando a rovistare
dentro un armadietto. Mari cominciò ad agitarsi chiedendosi
cos'altro avesse in mente per lei. Prenderla a calci non era stato
abbastanza? Cos'altro avrebbe dovuto subire?
La
risposta furono stracci e spazzolone, che furono bruscamente lanciati
sulle ginocchia della ragazza. «Diamo una ripulita»
annunciò Levi. Hanji scoppiò a ridere
così forte che Mari al suo fianco sobbalzò. Che
cosa c'era di tanto divertente?
«Abituati»
le disse la donna. «Se avrai a che fare con lui anche in
futuro, assicurati che tutto sia sempre ordinato e tirato a
lucido.» Poi, sussurrando al suo orecchio, aggiunse:
«Deve avere una specie di disturbo ossessivo, o qualcosa del
genere. Sfiora il patologico, fidati di me.»
Levi
si voltò, fulminandola, e ringhiò: «Ti
ho sentito!»
"È
ossessionato dalla pulizia?" si chiese Mari, che ancora stringeva lo
spazzolone tra le braccia come fosse un bambino appena nato. Era
interessata ad avere informazioni sul suo conto, era vero, e certamente
non aveva smesso di desiderarlo. Quella era sicuramente una delle
rivelazioni del giorno, ma diamine, chi poteva aspettarsi un cosa
simile? Il criminale che le aveva scompigliato l'infanzia, il soldato
più forte dell'umanità, il capitano
più temuto... era una casalinga a tutti gli effetti.
«Allora?
Che fai ancora seduta? Le gambe non te le ho rotte» le disse
Levi, portandosi le mani ai fianchi con fare minaccioso. A quel
richiamo Mari scattò in piedi come un vero soldatino, pronta
ad obbedire a qualsiasi assurda richiesta le avesse fatto. Dopo quella
discussione -se discussione poteva chiamarsi- era più
determinata che mai nella sua missione di compiacerlo, sentendosi
più avanti di quanto lo fosse stata prima di entrare in
quella stanza. Poteva farcela, poteva superare tutte le prove.
«Datti
una mossa.»
«Signorsì!»
rispose Mari correndo vicino alla scrivania per raccogliere da terra i
cocci della teiera e della tazza, frantumati nella colluttazione.
«Io
torno al mio lavoro, buon divertimento!» disse Hanji, prima
di fuggire fuori, ora improvvisamente di fretta: fosse mai stato che a
Levi gli fosse passato per la testa di chiedere anche a lei di mettersi
a pulire la sua stanza.
"Beh,
mi aspettavo qualcosa di diverso" pensò Mari, impegnata nel
suo lavoro. "Ma se le pulizie possono essere un buon modo per avere il
suo benestare, certo non mi faccio scappare l'occasione!" e una nuova
luce si accese nei suoi occhi, mentre metteva più vigore nel
braccio che passava il panno.
"Farò
risplendere questo posto!" pensò sempre più
infervorata all'idea di aver trovato una via facile e sicura per
vincere quella sua piccola battaglia.
In
neanche mezz'ora tutto era tornato come prima. Levi osservò
il loro operato con le mani puntate ai fianchi e lo sguardo critico di
chi cerca minuziosamente il pelo nell'uovo.
«Ho
finito, Signore!» annunciò Mari, rizzandosi davati
a lui. Lo spazzolone ancora ben stretto al petto, come fosse stata
l'arma della vittoria, e un fazzoletto legato tra i capelli. Sorrideva,
soddisfatta, ma non si sbilanciava troppo aspettando con ansia il
verdetto. Levi si avvicinò a un mobile e si rese conto che
perfino da lì era stata tolta la polvere, benché
non c'entrasse niente col disordine appena fatto per colpa dello
scontro.
Mari
comparve al suo fianco, sorridente e luminosa, per osservare
l'espressione del capitano e cercare di capire se fosse rimasto
soddisfatto o meno. Era talmente solare e in trepidazione che pareva
risplendere di luce propria. Levi la guardò sottecchi e di
nuovo si trovò a provare quella sensazione di tenerezza che
aveva provato qualche giorno addietro nel bosco, quando lei dopo aver
salvato Angelica aveva cercato di accaparrarsi un suo complimento. E,
come allora, le tolse un batuffolo di polvere da una ciocca e
l'accontentò con un: «Sei stata brava.»
Il
cuore di Mari parve scoppiare dalla felicità e si sarebbe
messa a urlare, se non fosse stata trattenuta dal senso del pudore.
Sentirselo dire era favoloso, sentirselo dire da lui rendeva il tutto
ancora migliore. Il sorriso in viso si allargò
smisuratamente e gli occhi tornarono a inumidirsi, ma per quella volta
riuscì a trattenere le lacrime.
«Posso
fare altro, Signore?» chiese, pronta a lanciarsi nella
pulizia dell'intero centro d'addestramento se solo glielo avesse
chiesto.
«Torna
ai tuoi allenamenti» le disse Levi, prima di tornare a
sedersi sulla sua scrivania, apparentemente disinteressato. Mari
posò lo spazzolone al suo posto e togliendosi il fazzoletto
dai capelli, si avviò verso l'uscita.
«Ah,
Mari!» la fermò Levi e lei si voltò un
attimo prima di uscire. «Dì alla tua amica che se
me la vedo di nuovo gironzolare attorno vi faccio secche tutte e
due.»
Mari
rabbrividì alla minaccia, ben sapendo che non si trattavano
solo di parole e che se avesse voluto avrebbe davvero potuto farle
fuori con poco. «Certo! Sarà fatto!»
balbettò e uscì.
Attese
qualche secondo con ancora la maniglia stretta in mano, poi si
voltò dando le spalle alla porta e tirò un lungo
sospiro di sollievo, portandosi una mano al cuore martellante in petto.
Un
sorriso, un sincero sorriso colmo di felicità e
tornò dalle altre reclute.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** Desiderio e paura ***
Desiderio
e Paura
Levi
raggiunse l'ufficio dell'istruttore Keith ed entrò senza
neanche bussare. Era stato convocato, come gli altri ufficiali presenti
al centro addestramento per discutere delle faccende del giorno. In
genere il tutto si limitava a decidere le esercitazioni per i cadetti e
come presidiare, ma quel giorno ci sarebbero state delle
novità.
«Come
sappiamo, Erwin nel pomeriggio partirà per la
capitale» disse Keith, ignorando il fatto che Levi fosse
arrivato in quel momento e proseguendo da dove aveva lasciato.
«E sarà via fino a domani sera per motivi
personali, perciò non potrà esserci d'aiuto. Ci
è stata inviata la richiesta da parte della Guarnigione
affinchè gli mandiamo una decina di reclute per un supporto
nel controllo e rinforzo del Wall Sina.»
«Posso
andarci io» disse Ludwing, un ex comandante della legione di
Guarnigione. «Raccolgo i cadetti necessari e mi dirigo
immediatamente.»
«Ottimo,
si tratterebbe comunque di una cosa di giornata. In serata dovreste
già essere sulla via del ritorno.»
«Nessun
problema» disse Ludwing.
«Infine,
ho bisogno di qualcuno che scenda giù in città.
Il carro con i nostri rifornimenti è fermo lì,
pare sia stato seguito e importunato da dei banditi durante il tragitto
e ora tema ad affrontare l'ultima tratta senza copertura.»
«Non
dovrebbe occuparsene la Gendarmeria?» chiese Levi, scocciato.
«Dicono
di essere troppo impegnati per stare dietro a un gruppo di mercanti
terrorizzati. Quelle scorte ci servono e non ho intenzione di perdere
un singolo giorno. Inoltre ho pensato che questo sarebbe potuto essere
un buon addestramento per i cadetti.»
«Allora
andrò io» disse Levi.
«Perfetto,
prendi le reclute necessarie e recati lì dopo pranzo. Quindi
per oggi al centro addestramento resteremo solo io, Hanji e
Darius» disse Keith prima di sproloquare con riassunti e
formalità varie. Fu sbrigativo, lui stesso detestava quel
genere di situazioni e preferiva mettersi subito al lavoro,
perciò non ci mise molto a sciogliere l'assemblea.
«Ludwing»
e l'istruttore si bloccò nel sentire il proprio nome venir
pronunciato dall'imperativa voce di Levi. Si voltò,
chiedendosi cosa avesse portato il capitano a bloccarlo non appena
messo piede fuori dall'ufficio di Keith.
«Oggi
porta Mari con te» disse Levi, trasformando quella che doveva
essere una richiesta in un ordine. Non che avesse voluto surclassare le
cariche, ma chiedere per favore e dare giustificazioni non rientrava
proprio nel suo modo di fare.
«Mari?
La rossa?» chiese Ludwing poco convinto. L'incarico
assegnatogli non era dei più complessi, semplice routine,
una scocciatura per la maggiore, ma Mari non era ben vista dai compagni
e mai avrebbe voluto avere a che fare con liti e disaccordi tra le sue
file.
«Dice
che vuole prendere parte all'Armata Ricognitiva, ma non ha mai visto un
Gigante in vita sua. Vedere con i propri occhi la preparerà
a ciò che troverà la fuori.»
«Allora
non è vero che ti opporrai alla sua entrata nell'Armata
Ricognitiva» sghignazzò Ludwing, prendendo a
camminare al suo fianco.
«Le
voci girano in fretta» osservò Levi, scocciato per
il fatto che fosse al centro dei pettegolezzi.
«Il
centro è più piccolo di quello che può
sembrare, e ci si annoia molto.»
«Ho
intenzione di oppormi... per il momento» rispose seccamente
Levi.
«Allora
perché tutto quel discorso sul prepararla?»
«Perché
magari mi renderà il compito più
semplice.»
Passarono
davanti a una delle torri di vedetta, dietro al quale videro la diretta
interessata intenta a un allenamento straordinario in singolo sul
combattimento. Sferrava pugni e calci a nessuno in particolare,
cercando semplicemente di correggere la postura e continuando
imperterrita. Con addosso una semplice canotta per allenamento, Levi
riuscì a scorgere un paio di brutti lividi all'altezza della
spalla e capì che quelli dovevano essere gli effetti della
loro chiacchierata di quella mattina.
«A
me sembra determinata più che mai»
commentò Ludwing guardandola mentre sferrava un gancio.
«Ti darà filo da torcere»
ridacchiò, battendo un paio di colpi sulla spalla del
collega. Colpi che ricevettero in cambio una delle occhiatacce
più infuocate del repertorio Levi, ma Ludwing lo
ignorò e concluse con: «Ma va bene, la
porterò con me oggi.»
Levi
non lo ringraziò nemmeno e si allontanò,
avvicinandosi a Mari. Ancora un altro paio di pugni, e nel voltarsi la
ragazza si trovò il capitano davanti, proprio mentre stava
sferrando un altro colpo. Levi la guardò con indifferenza,
come se si fosse trovato lì per caso, ma poi disse:
«Raddrizza la schiena.»
E
Mari obbedì all'istante, tesa come poche volte si era
sentita.
«Hai
le gambe troppo divaricate» le comunicò ancora
Levi, prendendo a girarle attorno per osservarla meglio, e lei di nuovo
obbedì, sistemandosi rapidamente.
«Alza
i pugni e stringi i gomiti» e ancora lei come una bambola che
veniva messa nella posizione ideale, obbedì.
«Colpisci
davanti a tè» e lei sferrò il primo
pugno. «Va bene, ma cerca di accompagnare col resto del
corpo» continuò lui e le si mise affianco,
assumendo la sua stessa posizione.
«Così!»
disse e diede dimostrazione.
«Ho
capito» annuì Mari e provò a imitarlo.
«Non
ci siamo, prova ancora» la sollecitò Levi,
mostrandole ancora una volta come avrebbe dovuto muoversi. Mari
riprovò, ancora e ancora, non togliendo lo sguardo da Levi
al sul fianco e cercando di imitare i movimenti che faceva lui. Destro
e sinistro, ginocchiata e calcio, andarono avanti ancora per un po'.
Quando Erwin passò da lì insieme a Darius, Levi
era ipegnato a mostrare a Mari come bloccare un avversario tramite una
presa al braccio: la stessa che Sierk aveva usato con lei. Le spiegava
e nel frattempo le dava dimostrazione, usandola come marionetta. Poi la
liberò e permise anche a lei di fare altrettanto, facendosi
usare come bambola d'addestramento. Mari provò a imitarlo,
ma il risultato fu decisamente più scarso, tanto che pochi
istanti dopo era a terra, rovesciata dallo stesso Levi che si era
liberato facilmente. Le disse qualcosa, probabilmente degli ammonimenti
per aver sbagliato, poi allungò la mano verso di lei e
l'aiutò a rialzarsi.
Riprovarono
e ancora Mari venne scaraventata a terra una, due, tre volte. Qualsiasi
cosa facesse, Levi trovava sempre il modo di liberarsi con
rapidità e ribaltarla. Probabilmente la cosa non le
andò a genio, visto che all'ennesimo tentativo fallito in
cui Levi l'aveva buttata a terra, quando lui le porse la mano per
aiutarla, lei se lo tirò dietro con forza e lo fece cadere
di faccia a terra. Levi si sollevò repentinamente,
fulminandola e incrociando il suo sguardo infastidito e imbronciato.
Per quell'azione sconsiderata, si beccò un colpo di nocca
sulla testa e qualcosa che somigliava molto a uno
«Stupida».
Si
rialzarono, apparentemente indenni, anche se Mari non smise un attimo
di massaggiarsi il punto in cui era stata colpita, continuando a
brontolare, forse a piagnucolare. Levi la lasciò sfogare per
un po', sembrando che la cosa non gli interessasse molto, ignorandola
apparentemente, impegnato a sbattersi via la polvere dai vestiti. Ma
poi le posò la mano sulla testa e le scompigliò i
capelli tanto vigorosamente da lasciarla ancora più
imbronciata. Dalla sua posizione fu difficile per Mari scorgere
l'angolo della bocca di Levi leggermente tirato verso l'alto, in un
accenno di sorriso. Il capitano ben si guardava nel dare esplicita
dimostrazione di certi stati d'animo, ma lo stesso non si poteva dire
per Erwin, che ora li osservava con un'aria vagamente soddifatta.
«Alla
fine, Levi ha ceduto» sorrise Hanji, affiancando il
comandante.
«E'
ancora presto per parlare» disse Erwin, lasciando stare
l'allenamento improvvisato dei due e tornando per la sua strada.
«Oh,
andiamo. Conosci Levi, fa il duro e l'antipatico ma alla fine ha il
cuore tenero. Insomma, guardalo come si diverte col nuovo animaletto
che gli hai procurato» sghignazzò Hanji,
camminando al fianco di Erwin. Benchè non si fosse voltata
ad osservare la reazione del comandante, riuscì comunque a
percepirlo su di sè il suo sguardo interrogativo, lievemente
infastidito.
«Non
credere che non l'abbia capito, conosco Levi tanto quanto conosco te e
so bene che non l'avresti fatto venire fin quaggiù, tu
stesso non ci saresti venuto, trascinandomi con te, se non avessi avuto
un obiettivo ben preciso in mente.» Ed Erwin
ridacchiò a quell'affermazione, senza però
preoccuparsi di smentirla. «In fondo, Mari, l'hai raccolta
tu, no?»
«Chissà,
magari con l'età mi sto rammollendo»
commentò Erwin, chiedendosi per la prima volta se fosse
stata solo la forza della ragazza a convincerlo a portarla
nell'esercito o se semplicemente non ci fosse stato altro nella sua
storia ad averlo smosso. Magari proprio quella sua disperata
ammirazione per Levi.
«Sei
un vecchio romantico, anche se non l'ammetterai mai» lo
stuzzicò Hanji, facendolo ridere ancora.
«Però sento che quella ragazza, prima o poi,
avrà il suo momento di gloria.»
«Ben
arrivato, capitano!» saltò in piedi Mari,
portandosi il pugno al petto. «Le sue attrezzature sono
pulite a dovere e pronte all'uso!»
Levi
la guardò un po' stupito, chiedendosi quando avesse avuto il
tempo, dopo pranzo, di andare in officina e pulire e rassettare tutte
le attrezzature. E soprattutto, perchè? «Io non te
l'ho chiesto.»
«Sì,
lo so bene!» si limitò a rispondere Mari,prima di
aggiungere: «Stasera quando tornerà mi
insegnerà quell'incredibile mossa che ha fatto oggi con i
piedi?»
«Mossa
con i piedi?» chiese Levi, inarcando un sopracciglio,
divertito per l'ingenuità della ragazza. Afferrò
il suo meccanismo per il movimento tridimensionale e gli diede
un'occhiata accurata, mentre Mari al suo fianco si dimenava nel
tentativo di tirare qualche calcio in aria, senza troppo successo, a
dimostrazione di quale fosse la "mossa coi piedi" di cui stava parlando.
«Ah!
Come le sembrano?» chiese poi, avvicinandosi a Levi e
guardando con trepidazione l'attrezzatura. Ci aveva messo anima e corpo
nel cercare di renderla splendente, andando a pulire perfino i
meccanismi più complessi da raggiungere a mani nude.
«Non
male» commentò lui, muovendo il manico da un lato
a un altro per controllarlo da ogni angolatura.
«Sono
stata brava?» chiese con uno strano scintillio negli occhi.
Levi le aveva appena confermato che il suo era stato un buon lavoro,
eppure sembrava trepidasse per ottenere un esplicito complimento nei
suoi confronti. In particolare, sembrava ci tenesse particolarmente nel
sentirsi dire che "era stata brava". Non si chiese nemmeno
perché, sentendo che le risposte risiedevano sicuramente
nelle sue lacrime e nelle preghiere che aveva fatto due sere addietro,
quando aveva giurato ai fantasmi del suo passato che sarebbe stata
buona e li aveva pregati di non farle del male. Chi era bravo non
veniva picchiato e poteva continuare a sopravvivere: era questa la
lezione che le era stata insegnata.
«Sì»
rispose morbido nella voce, deciso ad accontentarla. «Sei
stata brava.»
Il
sorriso di Mari risplendè sul suo viso, facendola quasi
brillare, mentre le guance assumevano una lieve colorazione rosata
assolutamente in tinta con quei capelli che ora cominciavano a non
irritarlo più così tanto. Erano sangugnei,
l'aveva appurato, ma era un sangue che non macchiava e non sporcava. In
un certo senso, era sangue vivo, come un prolungamento del suo sistema
cardiaco, riceveva quella colorazione direttamente dal cuore con le sue
incessanti pulsazioni. Ne poteva quasi sentire il calore e le
vibrazioni, quando vi immergeva le dita.
«Oggi
andrai con il capitano Ludwing» le annunciò, anche
se probabilmente ne era già al corrente, visto che sarebbe
partita da lì a pochi minuti.
«Sì,
lo so» rispose lei.
«Sei
pronta?»
«Sì,
ho preparato tutto attentamente e minuziosamente!»
«No,
intendevo... sei pronta a vederli?»
Mari
esitò qualche secondo, prima di chiedere, cupa nella voce:
«Parla dei Giganti, non è
così?»
Levi
non rispose, ma Mari sapeva bene che quella era un assenso. Fece un
passo indietro e si lasciò cadere su uno sgabello, sedendosi
in maniera scomposta. Quell'unico occhio che si riusciva a intravedere
sul suo viso parzialmente nascosto dai capelli si era fatto
più sottile, più affilato. Ora non sembrava
affatto la bambina che Levi aveva lamentato somigliasse. Era
consapevole e cosciente, non affatto sprovveduta. Mari era forte,
più di quanto volesse far credere. Più di quanto,
forse, lei stessa credesse.
«Una
volta, all'età di otto anni, mentre cercavo qualcosa da
mangiare tra i rifiuti di un fruttivendolo, nascosta in un vicolo
insieme a tre dei gatti della colonia, vidi un uomo. Indossava la
divisa della Gendarmeria, ma era rannichiato in un angolo buio in fondo
alla strada, da solo, e piangeva. Provai ad avvicinarlo, chiedendomi
preoccupata se non avesse avuto bisogno di aiuto ma la paura prevalse,
anche perchè io ero una ladruncola e lui un militare, e alla
fine decisi di restare nascosta dietro il cassonnetto fintanto che non
decise di andarsene. Prima di farlo, però, preso da un moto
di rabbia, stracciò un foglio di carta e lo
lasciò lì. Non mi ci volle molto per rimettere
insieme i pezzi e allora capii perché quell'uomo fosse tanto
disperato: quella era una lettera ufficiale del corpo militare. Sopra
c'era scritto "le riferiamo dolorosamente che sua sorella Clarice Price
ha servito con onore il corpo militare e con altrettanto onore ha
sacrificato la sua vita nella battaglia dell'umanità contro
i Giganti". È stato così che sono venuta a
conoscenza di questi esseri. Fino ad allora avevo creduto che la
povertà fosse l'unico male dell'uomo. Non ho idea di che
forma abbiano, o almeno non ne avevo fino a quando non ho letto i libri
reperibili nella biblioteca ufficiale del corpo militare. Non sapevo
cosa fossero, come fossero fatti, nè perché
fossero tanto pericolosi per l'uomo. Eppure sapevo che là
fuori delle persone stavano morendo per combatterli per noi. Cominciai
a pensare che fosse tutta colpa loro, se noi eravamo costretti a vivere
in quel modo, e cominciai a pensare che se i soldati fossero mai
riusciti a sconfiggerli allora avremmo potuto vivere felici anche noi.
Non so se avessi ragione o meno, ma ogni giorno mi svegliavo nella
speranza che qualcuno cominciasse a gridare per le strade: "la guerra
è finita, siamo liberi!"» e ridacchiò,
come se avesse appena raccontato una barzelletta.
«Perché
mi racconti tutto questo?» chiese Levi, che ancora osservava
le lame della sua attrezzatura, benchè avesse già
appurato che fossero splendenti. Un semplice gesto che serviva a
piazzare un muro tra loro due, non lasciarsi coinvolgere da quel
racconto.
«Perché
per ogni topo esiste un gatto! È la natura, capitano Levi.
Non possiamo governarla a nostro piacimento, possiamo solo adattarci e
fare di tutto per cercare di far durare le nostre vite il
più possibile. Per amor proprio, solo per puro egoismo,
perché quando il gatto riuscirà ad artigliare e
divorare quel topo l'ordine naturale delle cose, il mondo intero, non
ne sarà destato minimamente. È così e
non possiamo farci niente.»
«Ti
stai arrendendo alla morte?» chiese Levi con riluttanza.
«Oh,
no! Al contrario! Mi sto arrendendo alla vita. Non siamo onnipotenti,
esisterà sempre un ordine superiore al nostro e Lei che vive
la politica militare dovrebbe ben saperlo. Se ci ostiniamo a negare i
nostri limiti, a non accettarli, il giorno che lasceremo questo mondo
avremo la sensazione di aver sbagliato qualcosa, che sia stato colpa
nostra. Al mondo abbiamo solo noi stessi, tutto il resto è
un'illusione, e se alla fine perfino noi arriviamo a tradirci, a
rinnegarci, cos'altro ci sarà rimasto?»
«Fai
dei pensieri complessi per essere una ragazza dei
sottoborghi» osservò Levi e Mari rispose alzando
le spalle, come se fosse stata una cosa naturale e di poca importanza.
«Non
ho mai avuto possibilità di proteggere il mio corpo, ho
dovuto trovare un modo per sopravvivere. La morte spaventa perfino una
gatta randagia come me.»
«Hai
paura di morire, dunque?»
«Perché?
Lei no?» chiese con stupore Mari. Esisteva qualcuno al mondo
che non temesse la morte?
«Chi
si arruola nell'Armata Ricognitiva prima o poi muore. Lo sai,
vero?»
«Lei
è ancora vivo.»
«Tu
non sei me!» la fulminò Levi, prima di aggiungere.
«E comunque non sappiamo ancora per quanto.»
«Il
futuro è un mistero per chiunque, non esiste chi
è più al sicuro e chi meno. Conosco persone che
sono morte per uno starnuto.»
«Disgustoso»
si lasciò sfuggire Levi.
«Dico
sul serio!» si animò Mari. «Gli sono
usciti gli occhi dalle orbite, metteva i brividi! Io non l'ho visto,
per fortuna, ma c'è chi l'ha visto e lo racconta!»
«Insomma!»
la interruppe Levi, predicendo l'arrivo di un'altra delle sue storie su
quando era bambina e sulle strade che, sinceramente, lui non voleva far
altro che dimenticare. «Predichi la difesa della vita,
ammetti di temere la morte, ma poi sembra che ignori il vero
significato della tua scelta. Sei contraddittoria! Perché
vuoi arruolarti, rischiando di morire domani stesso, quando dici di
voler sopravvivere e di voler evitare la morte? Non capisco cosa ti
passi per la testa! È tanto divertente giocare a fare l'eroe
coraggioso?»
«Io
ero quel topo, capitano Levi» rispose seccamente Mari.
«E lo sono ancora! C'è un gatto là
fuori destinato a mangiarmi, questo lo so. Non mi prenda per
sprovveduta. Ma i mangiatori di carne, che siano topi o umani, fanno
più paura quando sono celati nell'oscurità e non
sai cosa ti balzerà addosso e quando. Almeno ora
saprò da cosa devo difendermi e posso imparare a
farlo.»
«I
Giganti, lì sotto, non sarebbero mai arrivati. Che cosa
avevi da temere?»
«Ci
sono esseri che divorano più di un Gigante, capitano. Esseri
che divorano e non uccidono.» E gli occhi affilati di Mari si
posarono su Levi, facendogli di nuovo venire i brividi. Quegli occhi
erano porte spalancate su un mondo che non desiderava vedere. Un mondo
di incubi e terrore, di ombre dalle orribili fattezze umane. Non
mostri, non giganti, umani... e perciò raccapriccianti.
«Io
ho paura della morte» disse Mari, alzandosi in piedi.
«Ma a volte un sorriso, un desiderio, un battito di cuore,
hanno più forza della paura. E se si chiude gli occhi, si
riesce a percepire il soffio del vento sulla pelle, la melodia degli
uccellini, la morbidezza al tatto di un prato, il profumo di un
fiore... e il dolore sparisce come per magia.» La
determinazione e la sicurezza con cui espresse quest'ultimo pensiero,
fece intuire che fosse qualcosa che avesse fatto molto spesso. Un
meccanismo di cui ne conosceva perfettamente il funzionamento.
Chissà quante volte, stesa sotto qualche schifoso corpo
sudato, avesse chiuso gli occhi e avesse fatto sparire il dolore "per
magia".
«Sono
ancora quel topo terrorizzato, ma sono un topo che vuole dare forma
alle sue paure. Poter loro guardare negli occhi, capirne la grandezza,
studiarlo e provare a imparare a sopravvivere davvero. E se la paura
sarà troppa, allora non dovrò far altro che
trovare un desiderio che sia più forte e riesca ad andare
oltre.»
«Belle
parole, non c'è che dire» disse Levi, che ora
sembrava più irritato che mai. Non poteva far a meno di
pensare che quella fosse solo una ragazza che sognasse di fare l'eroe,
come quelli nei libri, e che non si rendesse conto della
realtà. «Ma cosa saprai fare quando ti troverai
davanti il tuo "gatto mangiatore di carne"? Avrai tempo e forza di
soppesare paure e desideri?»
«Mi
metta alla prova» lo provocò.
«No.
Non lo farò. Non ho nessuna intenzione di portarmi appresso
un cadavere che cammina» la fulminò, prima di
allontanarsi a passi pesanti. Era riuscita a irritarlo, nonostante
avesse da poco cominciato a tollerare la sua presenza, quasi ad
apprezzarla. Si era dimostrata tenace, forte abbastanza da rivendicare
il suo diritto di essere se stessa e lottare per sè. Ma
adesso, dopo quella sfilza di stronzate sulla morte e sui desideri, era
tornato a pensare che fosse solo una ragazzetta che doveva ancora
crescere e imparare cosa fosse la realtà. Lo irritava, tutta
quella sfilza di pensieri assurdi lo irritavano terribilmente. E stava
di nuovo tornando sulla sua ferrea decisione di impedirle di arruolarsi.
L'unica
cosa che ancora non riusciva a capire, però, era da dove
arrivasse tutta quella riluttanza nel vederla nel corpo dell'Armata
Ricognitiva. Perché l'idea che lei perdesse la vita lo
mandava così in bestia? Eppure aveva sempre apprezzato chi
si fosse dimostrato forte tanto da mettere a repentaglio la propria
vita.
«Capitano
Levi!» chiamò Mari, senza scomporsi, quasi
imponendogli di fermarsi e ascoltarla. «La pensi pure come
preferisce, mi prenda per sciocca, ma io le prometto che un giorno Lei
comprenderà la mia forza. Anche se sarà troppo
tardi.»
E
con un verso di disappunto, Levi si allontanò
definitivamente.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 12 *** Senza Anima ***
Senza
anima
Il
cigolio della carrucola era diventato quasi un rumore di sottofndo,
mentre davanti ai suoi occhi non facevano che scorrere segni e crepe.
I mattoni di quel muro erano davvero vecchi, corrosi dalle intemperie
e dal tempo, non era certo difficile immaginare perché ci
fosse
bisogno di così tanta manutenzione. Quando il grigiore dei
mattoni
invecchiati lasciò spazio al primo azzurro del cielo, gli
occhi d
Mari andarono spalancandosi, chiedendosi quali meraviglie ci fossero
al di sotto di esso. La delusione la colpì malamente quando
vide un
altro muro a coprire l'orizzonte: il Wall Maria. Solo case e alberi,
lo stesso identico scenario ovunque guardasse. La stessa identica
gabbia.
«Avanti!
Seguitemi!» ordinò il capitano Ludwing al gruppo
di reclute che con
lui si sarebbe occupato di sostenere alcuni lavori di manutenzione
del muro.
«Beh,
fa il suo effetto, non c'è che dire»
commentò Brown, uno dei
cadetti scelti da Ludwing per quel noioso lavoro di routine ma che
avrebbero dato un po' di esperienza in più a quelle mele
acerbe.
«Già!
Guarda che panorama» gli diede corda Annalise, una ragazza
alta
tanto quanto mascolina, perfino nel taglio di capelli.
«Si
vede solo il muro» si intromise Mari, benchè
certamente nessuno
avesse chiesto il suo parere. Lo sguardo abbassato, le sopracciglia
corrucciate e il tono di voce avvilito con cui aveva parlato non
lasciava spazio a fraintendimenti: qualcosa la turbava.
«Cosa
succede? Ti è morto il gatto?» la
punzecchiò Paul. Un ragazzetto
basso e dalla folta chioma scura, tanto ispida da sembrare un riccio.
«Paul!
Razza di insensibile, non lo sai che lei ci è cresciuta in
mezzo ai
gatti?!» l'ammonì Annalise.
«Ah!
Sul serio?» sobbalzò Paul, dimostrando che
veramente non sapeva
niente e la sua voleva solo essere un'ingenua battuta. «E
quindi sai
parlare il gattese? Dimmi! Che significa "miao miao miao"?»
«Sei
idiota per caso?» chiese Brown, alzando un sopracciglio.
«Significa
"sei un'idiota, l'hai solo fatto arrabbiare"»
sospirò
Mari, accelerando il passo e cercando di allontanarsi da quei tre.
Brown
si fermò, chinando a testa da un lato e guardando la rossa
con
l'aria di chi ha appena visto passare un folle.
«Non
diceva sul serio, vero?» chiese poi a Annalise, che aveva
assunto la
stessa identica espressione stralunata. «È
così da quando siamo
partiti. Chissà che le è successo»
aggiunse poi.
«Non
state lì impalati! Forza, abbiamo del lavoro da
fare!» li richiamò
Ludwing e questo li costrinse a rimettersi in cammino. Mari
proseguì
a testa bassa. Dalla mente non riusciva a togliersi le immagini della
chiacchierata avvenuta quella mattina stessa con Levi, rammaricandosi
e colpevolizzandosi di come fossero andate le cose. Il desiderio di
ottenere una sua approvazione l'aveva spinta a impegnarsi tanto,
poteva dire di aver trovato un motivo più forte al
"desiderio
di volare come lui" che la spingesse a inseguire l'Armata
Ricognitiva con tanto affanno: lei voleva essere con lui.
Ma erano bastati dieci minuti a distruggere tutto.
"Non
ho nessuna intenzione di portarmi appresso un cadavere che cammina"
aveva detto con tale astio e convinzione che pensare e sperare in un
suo ripensamento era diventato sempre più difficile.
In
un delicato gesto, le dita della mano destra andarono a chiudersi su
se stesse, cercando il contatto con la stoffa di quel fazzoletto che
si ostinava a portare legato alla mano benchè ormai la
ferita fosse
chiusa. Le dava sicurezza, averlo con sè. Era un dono a cui
non
avrebbe voluto mai rinunciare. Com'era stato gentile la sera che si
era preoccupato di andarla a cercare, com'era stato gentile quando la
prima volta, nel bosco, le aveva detto di essere stata brava, e
quanto era stato gentile nel fermarsi a insegnarle qualche tecnica di
combattimento. La sua schiena che si allontanava in volo, il suo
sguardo di astio e disapprovazione, dopo averla urtata, stavano
sfumando come gesso su una lavagna strofinata con insistenza. Sarebbe
riuscita a riottenerli, quei gesti? O questa volta le avrebbe portato
rancore per sempre?
Che
persona complicata era Levi e quanto sapeva essere stupida lei!
Sospirò,
portandosi la mano fasciata al petto, solo per poter avvicinare quel
pezzo di stoffa al cuore. Avrebbe provato a chiedergli perdono,
avrebbe provato a rimediare, ma era difficile accettare tutto
quell'astio dopo che finalmente aveva ottenuto dei sorrisi da parte
sua. Non le interessava più dimostrare che avesse ragione,
non le
interessava più costringerlo a comprenderla, ma desiderava
solo...
solo che le scompigliasse ancora i capelli. Il tocco apparentemente
burbero, ma sorprendentemente delicato in verità, delle sue
dita che
le accarezzava la cute, infiltrandosi tra le sue ciocche. Un soffio
di vento fece quello che aveva appena desiderato: là sopra
il vento
era più forte che altrove e spesso bisognava fare grande
forza con
le gambe per riuscire a contrastarlo.
"Se
si chiude gli occhi, si riesce a percepire il soffio del vento sulla
pelle, la melodia degli uccellini, la morbidezza al tatto di un
prato, il profumo di un fiore... e il dolore sparisce come per
magia."
Strinsele
dita contro la stoffa della sua camicia e fece come lei stessa aveva
detto: chiuse gli occhi. Il soffio del vento era pungente contro la
sua pelle, non morbido come aveva sperato e sempre sognato. Sotto le
sue mani, sotto i suoi piedi, c'era solo ruvida e fredda roccia. Non
riusciva a percepirlo il tocco del prato. Ispirò l'aria,
sperando in
almeno i profumi, ma percepì solo l'odore della pietra e del
metallo.
Perché
non ci riusciva? Perché non riusciva più a farla
quell'incredibile
magia dove riusciva a eliminare tutto il dolore? Per anni era stato
così semplice quando voleva scappare dalla fogna in cui
viveva,
quando voleva scappare dal tocco di quelle mani sudaticce e violente.
Fece
un profondo respiro, cercando di calmare il cuore in petto che
scoprì
battere più forte del previsto. Ma niente, era come una
maledizione.
Il dolore non se ne andava neanche con la più potente delle
immaginazioni.
Fu
in quel momento che lo sentì: suoni gutturali, sembravano
quasi
urla, una sfida a chi imprimeva più forza nelle corde
vocali.
Provenivano da sotto le mura, versante esterno, tra le case di quella
città che l'anno prima apparteneva agli uomini ma in cui ora
invece
primeggiavano solo Giganti.
Mari
aprì gli occhi e senza pensarci oltre, corse verso
l'estremità
esterna del muro.
Doveva
vederli, doveva vederli bene, scrutare loro negli occhi, coglierne i
segreti e apprenderne come sopravvivere. Doveva farlo non per se
stessa, ma per comprenderlo. Comprendere Levi e la sua ira.
«Mari!»
richiamò Annalise, terrorizzata, quando la vide scattare
verso il
bordo.
«Si
butta?» chiese Paul ingenuamente, curioso, forse
inquietantemente
speranzoso.
Ludwing
si voltò ad osservare i cadetti che si era portato appresso
per il
lavoro, chiedendosi perché facessero tutto quel baccano, e
vide
appena in tempo Mari arrivare al bordo e inchiodare, fermandosi a
guardare sotto di sè. Sobbalzò, spaventato
all'idea che la ragazza
avesse potuto per un attimo pensare al suicidio, ma poi si
ricordò
di Levi che gli aveva chiesto di portarsela per "mostrarle i
giganti". Non ne aveva mai visto uno, e tutto ciò che
desiderava fare era colmare quella lacuna.
Mari,
dall'alto delle mura, osservò gli esseri che sotto di
sè si
dimenavano, arrancando sulla pietra scivolosa, e allungavano le
braccia verso il cielo nella vana speranza di raggiungere le proprie
prede. Come dicevano i libri, ce n'erano di alti e di bassi,
dall'anatomia più o meno simile e lo sguardo assente. Il
corpo di
alcuni sembrava disgustosamente sproprzionato o disarticolato, ma
alla fine non erano poi tanto diversi dagli esseri umani.
Si
inginocchiò sul bordo, avvicinandosi un po' nella loro
direzione e
continuò ad osservarli. Il cuore in petto le batteva forte,
mentre
realizzava quanto fossero terrificanti e, soprattutto, reali. Niente
ombre, niente mostri nell'oscurità, solo la pura
verità.
«Chi
siete, voi?» chiese lei, sovrappensiero.
E
si buttò.
Le
urla di Annalise partirono all'unisono di quelle di Brown e del
capitano Ludwing, che invece chiamarono il suo nome, prima di correre
verso di lei nella vana speranza di riuscire ad afferrarla e
impedirle la caduta.
Mari
si ammorbidì, lasciandosi trascinare giù dalla
forza di gravità,
premurandosi solo di mantenere sempre un contatto visivo con le
creature che si facevano sempre più grosse sotto di
sè. Cercava
risposte, cercava qualcosa che neanche lei sapeva cos'era.
Però il
cuore ardeva.
"Ma
cosa saprai fare quando ti troverai davanti il tuo "gatto
mangiatore di carne"? Avrai tempo e forza di soppesare paure e
desideri?"
Roteò
rapidamente e fece scattare il suo meccanismo per il movimento
tridimensionale. L'arpione si conficcò nel muro e presto il
cavo
bloccò la caduta della ragazza a pochi metri prima di
raggiungere i
mostri sotto di sè. Si voltò, tornando a
guardarli, quasi con aria
di sfida, mentre loro si allungavano e cercavano di afferrarla. A
bocche aperte, come bestie, si affaccendavano... ma nei loro occhi
primeggiava il vuoto.
«Siete
terrificanti» commentò Mari.
Sopra
di lei le voci dei suoi compagni la raggiunsero nell'eco della valle.
La chiamavano, le dicevano di tornare su, il capitano la
minacciò di
punirla severamente per il colpo di testa. Ma Mari restava immobile,
come se non percepisse e non vedesse altro che quelle bocche
gigantesche che nell'aprirsi sembravano tanto dei sorrisi. Le mani,
le enormi mani, che grattavano contro la roccia e cercavano di
raggiungerla. Gli occhi vuoti, le cui palpebre neanche sbattevano. Un
urlo gutturale la raggiunse, riuscendo a distogliere la sua
attenzione e puntarla su un nuovo gigante. Aveva corso per
raggiungerli e riuscì a notarlo appena in tempo per vederlo
balzare
nella sua direzione. Mari fece scattare il meccanismo, permettendogli
di trascinarla su appena in tempo per non essere afferrata. Quando
era arrivato? Se non l'avesse visto e non avesse reagito per tempo
sarebbe stata presa e divorata. La sua sicurezza per la distanza
ottimale che sentiva di avere era stata stracciata in un istante. Per
quante altre persone doveva essere andata così? Quanti erano
morti
perché non erano riusciti a notarli o reagire per tempo?
Quanti
avevano abbandonato dolorosamente quel mondo pensando "è
stata
colpa mia"?
Il
cavo si riavvolse rapidamente e Mari in pochi secondi fu di nuovo al
sicuro sopra il muro, tra i suoi compagni. Le ginocchia si
ammorbidirono e lei si accasciò, inginocchiandosi,
improvvisamente
indebolita, ma Ludwing le impedì di toccare terra.
L'afferrò per il
colletto e avvicinò il proprio viso al suo, urlando con gli
occhi
furiosi: «Hai idea del pericolo che hai corso? Ti
è dato di volta
il cervello?»
«Mi
dispiace» bofonchiò lei, senza però
esserne realmente turbata. Il
suo sguardo ora sembrava vuoto proprio come quello dei giganti.
«Ho
capito.»
Una
frase che forse non aveva niente a che vedere con quanto stava
accadendo, ma che si riallacciava a quello stesso filo di pensiero
che l'aveva spinta a buttarsi. Ma Ludwing, che non si trovava dentro
quella testa, non poteva saperlo.
«Quando
torneremo ci penserà l'istruttore Keith a darti una
punizione
esemplare! Questo tuo comportamento sconsiderato, se attuato in
esterno, avrebbe potuto mettere in pericolo tutti noi! Ha ragione
Levi! Ti manca la disciplina! Mandarti lì fuori sarebbe un
rischio
per tutti!»
A
sentire quel nome Mari parve rianimarsi appena, ma tutto ciò
che
cambiò fu solo il suo sguardo, ora addolorato.
«Mi
dispiace» mormorò.
«Sciocca
sconsiderata!» ringhiò Ludwing lanciando via la
ragazza, contro gli
altri compagni. Brown, vedendosela arrancare contro, la
bloccò per
le spalle, impedendole di caderle addosso. «La prossima volta
che
hai questi colpi di testa assicurati di non sopravvivere,
così da
non complicare ulteriormente la vita a chi ti sta attorno! Non
perdiamo altro tempo, abbiamo del lavoro da fare!» disse
ancora il
comandante e voltandosi tornò a procedere lungo il muro.
«Dimmi,
sei pazza?» chiese Brown.
«Startene
rinchiusa sottoterra con i gatti ti ha mandato in fumo il cervello
ragazza mia» disse Annalise, contrariata per quanto appena
successo.
Odiava essere ripresa dai superiori e per quanto non fosse stata
rivolta a lei il rimprovero, sapeva che ora il capitano Ludwing era
di pessimo umore e qualsiasi sgarro sarebbe stato pagato caro. Brown
lasciò andare Mari e la superò, seguendo il resto
dei suoi compagni
dietro al capitano. I sensi di colpa e il dispiacere per una tale
situazione si fecero sentire nel petto di Mari, ma non si
pentì di
quanto successo. Lei doveva vedere, doveva capire. Era necessario e
loro questo non l'avrebbero mai potuto comprendere.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 13 *** Comprensione ***
Comprensione
Il
sole era in procinto di cadere a ovest e il cielo cominciava ad
aranciarsi e ingiallirsi, perdendo gradualmente la sua colorazione
azzurra. Mari ormai allo stremo continuava però a correre
intorno al cortile, con sulle spalle uno zaino carico di mattoni. Una
punizione simbolica per permetterle di comprendere il peso che portava
sulle spalle, ma che al momento l'unica cosa che stava stremando era il
fisico. Ludwing la guardava e si assicurava che eseguisse gli ordini,
con ancora sul viso lo sguardo furibondo che aveva mantenuto tutto il
pomeriggio. Se c'era una cosa al mondo che detestava era proprio chi si
comportava stupidamente e Mari si era appena aggiudicata il podio nel
suo libretto dei nomi da ricordare e detestare. I respiri affannosi
avevano costretto Mari a tenere le fauci spalancate ormai da un po' e
l'aria stava cominciando a seccare così tanto la sua gola da
recarle dolore. Ogni muscolo bruciava e le spalle si sarebbero potute
spezzare da un momento all'altro per il peso che trascinavano e
sopportavano.
Ma
non fiatava e obbediva. L'aveva sempre fatto, certo non avrebbe smesso
in quel momento.
Alzò
lo sguardo, osservando l'entrata al canyon dove era stato allestito il
campo di addestramento e tenne gli occhi puntati ad essa, fintanto che
il giro non la costrinse a voltargli le spalle. Arrivò in
fondo al cortile e si voltò per cominciare un altro giro
ancora. Nuovamente gli occhi andarono all'entrata e lì vi
restarono fintanto che non fu costretta a voltarsi ancora una volta.
Trascinò il piede destro in avanti, ma non riuscì
a piantarsi a terra in tempo, troppo stanco ormai per star dietro al
suo passo, e Mari cadde a terra. Il peso dei mattoni contro la sua
schiena la fecero lamentare per il dolore e fu costretta a prendersi
qualche secondo, per aspettare che se ne andasse e potesse provare a
rialzarsi.
«In
piedi!» ordinò Ludwing. Mari poggiò i
palmi a terra e si sforzò di sollevare le ginocchia,
alzandosi piano piano.
«In
piedi!» gridò con più forza Ludwing e
digrignando i denti Mari riuscì finalmente a rialzarsi. Fece
due enormi respiri, riprendendo fiato, poi riprese a correre, o meglio:
a trascinarsi. Altri giri, altri tentennamenti e stava ancora una volta
per cadere a terra ormai stremata quando finalmente vide un carro
scendere lungo l'entrata che portava al cortile. Davanti e dietro di
esso Levi e tre reclute lo scortavano a piedi. Una di queste si reggeva
una mano con un fazzoletto insanguinato, ma nessun altro sembrava aver
riportato danni di nessun genere, tantomeno il carro.
Arrivati
nel cortile, i cavalli con il carico si diressero verso il magazzino
autonomamente e Levi si fermò invece a dare qualche
disposizione ai ragazzi che l'avevano seguito. Il ragazzo con la mano
ferita venne accompagnato in infermeria dai compagni e presto il
capitano fu di nuovo solo. Mari si portò le mani alle
bretelle dello zaino e cominciò a sfilarselo
frettolosamente, mentre i piedi la stavano già portando da
lui.
«Dove
credi di andare?» urlò Ludwing con tale forza da
far voltare perfino Levi, dall'altro lato del cortile. «Torna
immediatamente a correre!»
Mari
esitò, ma gli occhi erano ancora puntati su Levi, desiderosi
di raggiungerlo, ignorando ogni sorta di impedimento. Doveva parlargli,
aveva desiderato farlo per tutto il giorno e ora finalmente ce l'aveva
davanti. Intercettò il suo sguardo severo, che parve
indurirsi ancora di più non appena la vide. Era ovvio che
fosse ancora furioso con lei e questo spingeva la ragazza a desiderare
ancora di più un confronto.
"Ha
ragione Levi! Non hai disciplina!" rimbombò la voce di
Ludwing nella sua mente, ricordandosi della sgridata che aveva subito
quel pomeriggio. Davvero il capitano Levi pensava questo di lei?
Davvero la giudicava tanto male perché a volte faceva di
testa sua? Strinse le spalline dello zaino tra le dita,
abbassò lo sguardo corrucciandosi e infine riprese a
correre. Levi la squadrò qualche secondo, indecifrabile nel
volto, poi se ne andò, diretto al capanno di Keith per fare
rapporto.
Ancora
una volta lo vide passare poco dopo, diretto al suo casolare,
probabilmente per rinfrescarsi e cambiarsi, e ancora una volta non
poté raggiungerlo per colpa della punizione. Quando
finalmente Ludwing decise che era abbastanza e la lasciò
libera di riposarsi, il sole ormai era calato. Mari si
liberò velocemente del peso sulle spalle, sentendo
necessario prendersi qualche istante per godersi la bellissima
sensazione di leggerezza e libertà. Le spalle facevano un
male indicibile e le gambe non smettevano di tremare. Probabilmente ci
avrebbe pensato due volte, la prossima occasione, prima di fare
qualcosa di tanto folle davanti a un superiore. Era stato orribile e
non ne voleva più sapere di mattoni per un bel po'.
Corse
verso le mense, dove si stavano riunendo compagni e superiori per la
cena. Entrò, guardandosi attorno freneticamente, in cerca di
un volto specifico. Levi non era lì, ma arrivò
pochi istanti dopo, accompagnato da Erwin e Hanji. Mari
esitò di fronte a quell'espressione così dura:
saperlo furibondo con lei le faceva così male.
Nell'istante
in cui le passò davanti, senza degnarla di uno sguardo,
capì che non poteva far altro che tentare di avvicinarlo.
Allungò una mano nel vuoto, cercando di attirare
l'attenzione e chiamò: «Capitano Levi!»
Il
trio si fermò nel sentirla e sia Hanji che Erwin si
voltarono a guardarla, ma non Levi che invece si ostinò a
volgerle le spalle. Mari arrossì lievemente per l'imbarazzo
di dover tentare di parlargli di fronte agli altri due ufficiali, che
sembravano più interessati di quanto si fosse aspettata.
«Potrei
parlarle un minuto?» balbettò, abbassando lo
sguardo. Era così imbarazzante! Perché gli altri
due si ostinavano a guardarla in quel modo?
«Non
ora» rispose secco Levi e si allontanò. Hanji e
Erwin esitarono un istante, prima di seguirlo, lasciando sola la
ragazza con la sua delusione e il suo rammarico.
«La
poveretta ce la sta davvero mettendo tutta per riuscire ad attirare la
tua attenzione» ridacchiò Hanji, affiancando
l'amico.
«Questa
mattina era sveglia all'alba per fare esercizio» disse Erwin,
lanciando uno sguardo divertito a Hanji.
«E
subito dopo è andata a pulire le attrezzature»
annuì Hanji. «Non sarai un po' troppo duro con
lei?»
«Non
mi pare che il nostro addestramento sia avvenuto in un clima gioviale e
amichevole» rispose Levi, lanciando uno sguardo scocciato a
Hanji. «E comunque non sono affari che ti
riguardano» aggiunse, prima di sedersi al tavolo per mangiare.
Hanji
volse automaticamente lo sguardo a Erwin, cercando risposte o forse
conferma alle sue osservazioni. Ma il comandante al suo fianco non
sembrò trasmetterle niente, benché il suo sguardo
fosse vagamente divertito, forse soddisfatto. Come se capisse meglio la
situazione di quanto in realtà lo facessero gli altri.
Per
il resto della serata non venne più fatto cenno
all'argomento Mari e gli ufficiali si limitarono a discutere di lavoro
o di quanto quella sera la cena fosse particolarmente ricca, forse per
le scorte appena arrivate con successo.
Dall'altra
parte della sala, Mari era impegnata a giocherellare con una carota
galleggiante nel suo brodo, pensierosa. A ogni respiro che faceva
corrispondeva una fitta all'altezza delle spalle e del petto, ma dava
loro la minima importanza.
Un
paio di mani sottili si posarono su quelle spalle doloranti e fecero
una leggera pressione, muovendo le dita in senso circolare, e al tocco
Mari si irrigidì, mugolando di dolore.
«Ne
sei uscita viva per miracolo» disse Angelica alle sue spalle,
rivelando che fosse lei a tentare quel massaggio che in
realtà non faceva che peggiorare la situazione.
«Non ho mai visto l'istruttore Ludwing così
furioso, si può sapere che hai combinato?»
«Mi
sono buttata dalle mura per guardare i giganti da vicino»
disse Mari con voce rotta dal dolore. Angelica scoppiò a
ridere divertita, ma non disse altro, restando a guardare il volto di
Mari.
Solo
dopo pochi secondi di silenzio, strabuzzò gli occhi e
chiese: «Aspetta! Non era una battuta?»
«No,
l'ho fatto sul serio» disse Mari. La presa di Angelica sulle
sue spalle si fece più stretta e questo per poco non la fece
urlare.
«E
non ti hanno divorata?» chiese rauca.
Mari
restò inebetita a lungo, prima di dire con una strana
serietà: «Sì, dalla vita in
giù.»
«Sul
serio?» strillò Angelica, lanciandosi sotto al
tavolo per vedere personalmente il corpo sventrato di Mari. Si
rialzò con una strana delusione nel volto, quando
constatò che l'amica l'aveva solo presa in giro.
«Perché
l'hai fatto?»
«Non
lo so» sospirò Mari, allontanando il proprio
piatto da sotto al naso e accasciandosi al suo posto, avvolgendo la
testa tra le braccia. «Ma è stata la cosa
giusta.»
«Che
dici? Potevi morire!»
«Adesso
lo comprendo meglio» sospirò Mari, sollevando la
testa e poggiandola sulle braccia avvolte, così da non
sentire direttamente sulla pelle il ruvido e il freddo del legno.
Voltò la testa di lato, riuscendo a intravedere il capitano
Levi attraverso le ciocche smosse dei suoi rossi capelli.
«Comprendere
cosa?» chiese Angelica con curiosità, ma Mari
decise questa volta di non rispondere.
«Stasera
c'è la luna piena» mormorò tra
sé e sé, socchiudendo gli occhi in un sospiro.
Angelica non potè far a meno di farsi ancora più
domande, ma a malincuore si rese conto che avrebbe dovuto aspettare per
avere delle risposte. La sua amica sembrava essersi appisolata.
NDA.
Era
da un po' che non ne scrivevo uno. Come avete potuto intuire dalla
sporadica presenza che ho mostrato negli ultimi tempi, questo
è stato un periodo particolarmente difficile per me e
riuscire a pubblicare con puntualità non è stato
semplice (tant'è che non sempre lo facevo...).
Volevo
solo chiedere scusa per la semi assenza dimostrata ultimamente,
rinnovare la speranza di riuscire a riprendermi presto e tornare attiva
come sempre e ringraziare soprattutto chi ancora legge la storia di sta
poveraccia di Mari xD
Il
prossimo capitolo si intitolerà "Erwin
Smith"
e sarà un altro tuffo nel passato... A voi le supposizioni
su ciò che accadrà :P. Io non accenno altro ehehe
Vi
aspetto!
Cià
cià!
Tada
Nobukatsu-kun
|
Ritorna all'indice
Capitolo 14 *** Erwin Smith ***
Erwin
Smith
Città
Sotterranea
Anno
844
Il
tonfo della porta di casa che andava chiudendosi fu come la scritta
"fine" nei libri che Mari era riuscita a rubare in qualche casa. Le
piaceva leggere, era un modo totalmente diverso, ma pur sempre
efficace, di spiccare il volo e allontanarsi da tutto quello.
Ultimamente però non riusciva a trovare libri che non avesse
già letto e questo non aiutava i suoi tentativi di fuga. Si
raggomitolò sotto quel sottile lenzuolo, tirandoselo fin
sopra la testa, in un infantile tentativo di nascondersi da quello che
la circondava. Isolarsi, restare finalmente sola, anche se faceva
freddo. Il consumato materasso, messo direttamente a contatto con il
pavimento, non isolava del tutto e certamente non bastava un misero
lenzuolo stracciato a riscaldare il suo corpo nudo. Eppure, dopo aver
sopportato per mezzora un calore sopra di sé per niente
piacevole, ora anche il freddo della stanza sembrava quasi paradisiaco.
La solitudine la rassenerava e pian piano tornava a respirare.
La
porta della stanza si aprì alle sue spalle, ma lei non si
voltò a guardare chi fosse entrato e restò
immobile, a fissare la bizzarra angolatura che prendeva la strada fuori
dalla sua finestra spalancata. Poteva vedere le crepe del muro di
fronte articolarsi come un fiume, verso l'alto, aprirsi in una piccola
voragine di muschio e erbacce e poi il vuoto. Oltre, ancora solo
roccia, benché le ombre prodotte su quella crepa fossero
quasi simpatiche.
L'ospite
che era appena entrato nella sua stanza le si avvicinò a
passi lenti, delicati, quasi che non avesse voluto disturbarla e si
sedette alle sue spalle. Mari continuò a non volgergli
l'attenzione, sperando che la scambiasse per addormentata, ma quando
percepì il delicato tocco della sua mano contro i propri
capelli, intenta ad accarezzarli, tutto il dolore parve sparire in un
istante. Quel tocco era l'unico che riuscisse a tollerare, anzi, quasi
ad apprezzare, soprattutto quando su di lei cadeva morbido, gentile e
non violento e iracondo.
«Muller
sembrava essere soddisfatto» le disse la delicata voce di
Harvey. «Hai fatto un buon lavoro, sorellina. Ci ha pagati
bene.»
La
notizia avrebbe dovuto rincuorarla, forse addirittura renderla
orgogliosa, ma non ebbe affatto l'effetto desiderato. Non provava che
disgusto, dolore e rammarico. Sapere che le persone potevano trovare
del piacere nel recarle quelle orribili sensazioni non la rincuorava
per niente.
«Sai,
è stato generoso. Con la promessa di tornare, ci ha lasciato
una piccola mancia» insistè Harvey.
«Dovremmo ringraziarlo, perciò assicurati di
dargli lo stesso trattamento anche la prossima volta, intesi?»
L'idea
che avrebbe presto rivisto quegli occhi viscidi, famelici, e avesse
risentito quel terribile odore su di sé le fecero venire i
conati di vomito. Harvey le afferrò una ciocca di capelli
dal viso e gliela portò dietro l'orecchio, scoprendo
così i suoi occhi umidi e pieni di lacrime. Li
osservò per un paio di interminabili secondi, poi
afferrandola per una spalla la costrinse a voltarsi. Se la
tirò contro, facendole poggiare la testa sulle proprie gambe
e avvolgendole le spalle con un braccio riprese ad accarezzarle i
capelli. Era sempre così gentile dopo che i clienti uscivano
da casa loro soddisfatti, e a volte bastava questo per convincere Mari
a stringere i denti.
«Sai
che ti dico? Con quei soldi in più ti compro un
regalo!» e per la prima volta gli occhi di Mari sembrarono
tornare vivi, spalancandosi leggermente. «Caspita, non credo
di essere mai riuscito a fartelo un vero regalo, qualcosa che non fosse
rubato. Non lo trovi magnifico? Questa vita, la tua grande
qualità, ci sta donando una vera vita. Figurati che tra poco
neanche ricordo più cosa voglia dire avere fame»
ridacchiò, credendo divertente quella sua ultima battuta.
«Sono così fiero di te, sorellina»
disse, tornando dolce nel tono.
Sì,
decisamente bastava quello a convincerla a stringere i denti e
accettare un altro lavoro.
«Allora!»
continuò a parlare lui, prima di allungarsi sul mobile a
fianco e prendere una spazzola. «Fatti dare una
sistemata» e la sollecitò a mettersi seduta. Mari
obbedì, premurandosi di tenere ben stretto il lenzuolo
contro il proprio seno, nascondendo il corpo ancora nudo, e
lasciò che il fratello cominciasse a spazzolarle i capelli.
«Che
regalo vuoi? Un vestito nuovo? Scarpe? O magari posso vedere di trovare
qualche cosmetico che usano tanto le donne di un certo rango. Chiedi
quello che vuoi e il tuo fratellino te lo porterà!»
«Libri»
mormorò Mari con un filo di voce.
«Libri?»
chiese conferma Harvey, inarcando un sopracciglio.
«Sì.
Libri nuovi, che non ho mai letto.»
Harvey
esitò un po', prima di rispondere: «Se
è quello che desidera la mia principessa, allora
l'avrà.»
Un
timido sorriso fece capolino sul volto corrucciato di Mari, e pian
piano dalla sua espressione eliminò il dolore lasciando
spazio a una piacevole sensazione di benessere. Era sempre
così bello, dopo.
Mari
si sistemò meglio il cappuccio sopra la testa, sforzandosi
di coprire il più possibile i suoi carmini capelli. Harvey
le proibiva di tagliarli e più crescevano e più
diventava difficile gestirli e nasconderli, anche se Harvey le diceva
sempre di non farlo. Se si fosse mostrata in giro più uomini
sarebbero venuti a conoscenza di quella caratteristica che incollava lo
sguardo e loro avrebbero potuto avere più clienti. Proprio
per quello stesso motivo lei, invece, si impegnava a nasconderli il
più possibile. Sfilò da sotto la casacca una pera
appena comprata -e non rubata, il che la rendeva ancora più
gustosa- e ne tirò un morso. Il sapore dolciastro,
leggermente contrassegnato dall'aspro del frutto non ancora maturo del
tutto, le pervase la bocca. Il succo umido, unito alla croccantezza
della buccia e la sua ruvidezza, in contrasto con la polpa morbida,
rendeva diverso ogni morso. Mai si era goduta così un pasto
e la libertà di poterlo fare alla luce del sole, in mezzo
alle persone, senza nascondersi, era un delizioso premio a tutti quei
sacrifici. Alla fine Harvey aveva ragione, lo sapeva che aveva ragione
e lei avrebbe solo dovuto stringere i denti.
Si
inoltrò nella zona mercantile, ora affollata per il mercato
della mattina. I banchetti, come sempre, erano le zone dove
più si concentravano le persone, anche se in pochi
compravano e altrettanti si affaccendavano a rubare. Mari vi
passeggiò attraverso, gustando la sua pera, senza una meta
precisa, godendosi solo la tranquillità di un luogo ormai
fin troppo familiare.
Passò
davanti al banchetto con i vasetti di marmellata ed esitò
qualche istante, osservandoli con riluttanza. I ricordi ad essi
associati erano così terribili, la responsabilità
legata a quella stupida sostanza zuccherina era così alta,
che l'avrebbe ripudiata in eterno nonostante il magnifico sapore. Stava
per rimettersi a passeggiare, quando casualmente intercettò
una conversazione tra due mercanti.
«Ce
n'è di tranquillità ultimamente, da queste
parti» aveva detto il primo.
«Da
quando Levi e i due deficienti che lo seguivano sono stati portati via
sembra un'altra città» rispose il secondo, e fu
proprio quel nome a convincere Mari a temporeggiare ancora un po'
davanti a quel terribile banchetto della vergogna.
"Li
hanno portati via?" si chiese, curiosa tanto quanto sconvolta. Erano
riusciti a prenderli? Loro, che erano in grado di volare,
irraggiungibili sopra i tetti, erano stati presi?
«Sono
stati portati via? Finalmente la Gendarmeria ha avuto la
meglio!»
"Non
può essere!"
«E
invece ho sentito che non è stata opera della Gendarmeria,
lo sai?» disse il secondo, con un velo di orgoglio nella
voce. L'orgoglio di chi ha un gustoso pettegolezzo nel taschino della
giacca da sventolare, sapientemente, sul muso degli ignari.
«Ah
no? E chi è stato? Rivali? Li hanno ammazzati? Non trovo
difficile credere che gente come quella fosse pieno di
nemici.»
«Niente
di tutto questo, ma qualcosa di ancora più
sconvolgente!»
«Sul
serio? E chi li ha portati via, dimmelo!» certo quell'uomo
non vantava di scarsa curiosità.
«Erwin
Smith!» disse solennemente il compagno.
"Erwin
Smith?" si chiese Mari, non riuscendo ad attribuire nessun viso a quel
nome. Chi diavolo era quell'Erwin Smith? Quanto poteva essere forte,
per essere riuscito ad acciuffare Levi e i suoi?
«Erwin
Smith? Il comandante dell'Armata Ricognitiva?»
«Proprio
lui!»
«Hanno
smesso di dar la caccia ai Giganti e si son dati ai banditi? D'altro
canto, con tutti quei fallimenti sulle spalle, chiunque avrebbe chiuso
baracca.»
«No,
no, no! Non riesci proprio a capire, citrullo? Li hanno
arruolati!»
«Arruolati?»
chiese sconvolto, allungando smisuratamente la parola.
«Sì!
Quel folle, dev'esser proprio disperato per venire a raccattare
delinquenti qua sotto» rise. «Eppure è
così! Se ne parla un sacco tra le file della Gendarmeria,
trovando sconvolgente tanto quanto vergognoso che siano venuti a
prendere questi disgraziati di cui non ci si può fidare e
che abbiano deciso di regalar loro soldi, un letto e del cibo senza che
lo meritassero. La galera! In galera dovevano sbatterli! E invece...
che storia! Fanno morir di fame i poveracci e regalano la bella vita ai
bastardi!»
«Veramente
una vergogna.»
«Signorina?»
l'improvvisa voce del mercante, davanti a lei, la riscosse
così bruscamente da farle venire il batticuore dallo
spavento. «Signorina, desidera comprare qualcosa?»
Mari
strabuzzò gli occhi, spaventata più che mai:
quanto tempo era rimasta ferma a fissare quei dannati barattoli di
marmellata? Negò rapidamente con la testa e senza spiccicare
parola, scappò via, lasciandosi cadere dalle mani la pera
divorata per metà.
Harvey
afferrò la patata bollita e se la portò alle
labbra, strappandone un pezzo a morsi. Buttò giù
anche del pane e subito dopo una manciata di fagioli, aiutandosi
nell'ingoiare con un lungo sorso d'acqua. Sembrava non mangiasse da
mesi. Da quando il cibo sulla tavola era cominciato ad essere
più abbondante, non faceva che abbuffarsi con ingordigia,
come se con quel singolo pasto avesse colmato anni di digiuno.
Mari,
seduta di fronte a lui, fissava il suo piatto silenziosa giocherellando
con un fagiolo, facendolo roteare da una parte all'altra. Un guancia
posata sul palmo della mano, il gomito ben piantato sul tavolo e lo
sguardo più assorto che avesse mai avuto.
«Com'è
andata la tua passeggiata?» chiese Harvey, notando come fosse
strana.
«Bene»
rispose senza troppo interesse.
«Hai
comprato qualcosa?»
«Una
pera.»
«Ancora
pere? Devono piacerti proprio tanto!» la canzonò,
sperando di riuscire a strapparle un sorriso, almeno uno sguardo, senza
successo. «Sai, ho chiesto al mercante se riuscisse a
procurarmi libri nuovi, magari qualcosa che viene dal nord. Ha detto
che forse è in grado di recupare qualcosa di
interessante.»
Mari
esitò qualche istante, ancora immersa nel suo fagiolo che
ormai si era percorso l'intero piatto rotolando, poi finalmente disse,
decisa nel tono: «Harvey, tu sai chi è Erwin
Smith?»
«Erwin
Smith?» si corrucciò appena, Harvey.
«Perchè vuoi saperlo?»
«Ecco...»
arrossì appena, Mari. «Oggi ho sentito due uomini
parlare di lui. Dicono sia un comandante dell'Armata Ricognitiva, ma
non so cosa significhi.»
Harvey
esitò, continuando a guardarla poco convinto. Sapeva
benissimo chi era Erwin Smith, ciò che però non
sapeva e che lo turbava era perché Mari improvvisamente
fosse tanto interessata a lui e all'Armata. Ma decise di mettere da
parte i suoi pregiudizi e rispondere alle curiosità di sua
sorella, come sempre aveva fatto. Era meglio che certe cose venisse a
saperle da lui che da qualche voce in giro che avrebbe potuto metterle
in testa strane idee.
«Il
corpo militare è diviso in tre legioni principali. La
Gendarmeria, che è quella che si occupa dell'ordine delle
strade. Poi c'è la Guarnigione, che si occupa invece delle
Mura, quelle che proteggono gli umani dai Giganti» aveva
già sentito parlare dei Giganti e delle Mura che tenevano
imprigionati gli umani lì dentro, proprio come loro lo erano
sottoterra, perciò non fu difficile per lei capire di cosa
stesse parlando. «E infine c'è l'Armata
Ricognitiva, che invece si occupa delle spedizioni in esterno. Vanno
dritto in bocca ai Giganti, a contargli quanti denti hanno»
disse con riluttanza. Aveva sperato di destare la stessa sensazione
nella sorella, di infonderle timore per quegli idioti che andavano a
morire, invece quando alzò lo sguardo su di lei lesse sul
suo viso tutto tranne che la paura. Gli occhi sgranati, le labbra
dischiuse, e lo sguardo di una bambina di fronte a un meraviglioso
gioco. Che diavolo le passava per la testa?
«Non
c'è niente di emozionante in quello che fanno! Vengono
mandati a morire, trucidati e senza nessuno che possa dir loro a
addio.»
«Ma
escono fuori» balbettò Mari. «Dove non
ci sono mura, né soffitti.»
«Non
dire stronzate! Che valore ha un po' di visuale in più se
dieci passi più avanti vieni sgranocchiato per
bene?» rispose Harvey sempre più nervoso. Ci
mancava solo che la sorella cominciasse a provare ammirazione verso
quei bifolchi, e che magari le passasse per la testa di seguirli! Non
le avrebbe mai permesso di andarsene, nemmeno per sogno.
«Tanto
ai reietti come noi non è permesso nemmeno di annusarla
quell'aria. Dimenticalo.»
«Non
è vero!» disse Mari, ora improvvisamente
emozionata. Si sollevò in piedi e sbatté il
cucchiaio sul tavolo, continuando a dire sempre più
focosamente: «Non è vero! Hanno portato
lassù la banda di Levi! Sono venuti a prenderli, Erwin Smith
è venuto a prenderli! Li ha portato fuori, ti rendi conto?
Dove non ci sono mura né soffitti, a vedere il cielo e le
nuvole! La Luna! A respirare la vera aria! Erwin Smith porta fuori
quelli come noi! Non è vero che...» non
terminò la frase che un pesante schiaffo da parte del
fratello la fece tacere.
Il
silenzio calò tra i due con una pesantezza tale da
costringere Mari a tornare seduta. E tremolante, si portò
una mano ad accarezzare la guancia colpita che ora bruciava da morire.
«Pensi
ancora a quel Levi? Pensavo di essere stato chiaro!»
Gridò severo, Harvey. «Lasciali perdere, sono
sacchi di merda e per questo che il tuo eroe Erwin Smith è
venuto a prenderli! Per lanciarli direttamente tra le fauci dei
Giganti, perché nessuno piangerebbe la perdita di reietti
come noi! Vuoi fare anche tu quella fine? Morire nel peggiore dei modi,
sacrificata da chi non gliene frega un cazzo di te, da chi ti vede solo
come carne da macello? Ci usano per ingrassarli, ecco la
verità! Togliti dalla testa qualsiasi sciocchezza fiabesca,
quell'Erwin Smith è la peggiore delle fecce ed è
venuto qui a raccogliere qualcuno di altrettanto peggiore da
sacrificare per i suoi luridi scopi! Mi stai ascoltando,
cazzo?» gridò ancora, provando ancora
più ira nel vedere il viso spento della sorella, come se non
fosse lì. Con un colpo di mano colpì il suo
piatto e lo lanciò a terra, frantumandolo. Mari
sussultò al rumore e volse gli occhi, ora terrorizzati, ad
Harvey.
«Non
voglio più sentirti pronunciare quel nome, né
tanto meno quello di Levi! E' chiaro?» e Mari
continuò a guardarlo terrorizzata, mentre gli occhi le si
riempivano di lacrime. «E' chiaro?» urlò
ancora più forte, ormai accecato dall'ira.
«Sì!
Sì! Ho capito!» si affrettò a
rispondere Mari e questo, miracolosamente, sembrò calmarlo
in parte.
«Spero
possa sentire distintamente le proprie ossa sbriciolarsi, quel Levi,
prima di morire in bocca a quegli schifosi.»
Amore,
amore, amore, amore, amore, amore
Cercami
trovami fammi sentire il tuo odore
Rendimi
libera dall’idea che io stessa ho di te
Salvami,
salvami da me
Fa
che la mia solitudine si dissolva nel vento con le lacrime
Portami
via con te
(Missiva
d’amore - Arisa)
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=3578025
|