Il profumo delle Calendule

di Tada Nobukatsu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Rosso sangue ***
Capitolo 2: *** Animale selvaggio ***
Capitolo 3: *** Quel luogo chiamato casa ***
Capitolo 4: *** La bambina delle pere ***
Capitolo 5: *** Forza ***
Capitolo 6: *** Impegno ***
Capitolo 7: *** Obiettivo ***
Capitolo 8: *** Mani sporche di sangue ***
Capitolo 9: *** La Ragazza Rubino ***
Capitolo 10: *** Chi sei veramente ***
Capitolo 11: *** Desiderio e paura ***
Capitolo 12: *** Senza Anima ***
Capitolo 13: *** Comprensione ***
Capitolo 14: *** Erwin Smith ***



Capitolo 1
*** Rosso sangue ***


Rosso sangue



Levi percorse il cortile esterno del centro di addestramento, diretto verso l'ufficio di Erwin, seguito da un paio dei suoi sottoposti. Era stato convocato per discutere della prossima spedizione e dato che nell'ultimo periodo Erwin si era preso bizzarramente la briga di presidiare alcuni degli addestramenti delle reclute, Levi si era trovato costretto a raggiungerlo lì.

Fu allora che la vide per la prima volta, con la coda dell'occhio, e certo non gli avrebbe dato molta importanza se non fosse stato per quei suoi accecanti capelli rossi: come fiamme le avvolgevano il viso, ricadendo appena sotto il mento e premurandosi di nascondere uno dei suoi occhi azzurri con una ciocca. Era sola. Da dentro il casolare alle sue spalle sopraggiungevano le urla dei compagni, intenti a cenare e far comizi, discutendo della faticosa giornata appena superata. Ma lei era sola, appoggiata alla ringhiera in legno con il naso rivolto al cielo stellato. Sorrideva come una bambina, una bambina piena di gioia pensò Levi visto che potè distintamente sentirla canticchiare, nell'istante in cui le passò a fianco. Chissà che aveva da essere tanto allegra. Dondolava la testa delicatamente e intonava un motivetto a fior di labbra. Aveva la voce morbida, anche se particolarmente acuta.

Levi la superò senza concederle ulteriori attenzioni, anche se quei capelli rossi non se li sarebbe più tolti dalla testa per il resto della serata. Riportava alla mente il sangue che troppe volte aveva visto versare intorno a lui, quello stesso sangue che puntualmente lasciava qualche orribile macchia nascosta sui suoi vestiti o sulle sue armi e che poi ripulire era una vera rogna. Era un colore che non gli piaceva per niente. Esistevano davvero persone che lo portavano addosso con tanta disinvoltura e giovialità? La cosa lo irritava.

«Sei in ritardo» lo accolse Erwin, aprendo la porta del suo casolare e permettendogli di entrare.

«Non dire stupidaggini» lo rimbeccò Levi, entrando.

«Sei nervoso» notò Erwin, accorgendosi di come il tono di Levi fosse risultato più aspro del solito.

«Le reclute mi irritano» spiegò Levi, mettendosi a sedere con pesantezza sulla sedia davanti alla scrivania.

«Le hai conosciute?» chiese Erwin,raggiungendolo.

«Non proprio» ma quei capelli color sangue bastavano a fargli venire il mal di stomaco dal nervoso.

«Andrò subito al sodo, allora, visto il tuo umore. Eccoti tutti i dettagli...» annunciò porgendo al capitano un fascicolo e cominciando a spiegare la strategia della prossima spedizione.


Era da poco mattina, quando le reclute si riunirono nel cortile esterno per un allenamento libero. Le regole prevedevano il corpo a corpo, semplice combattimento umano contro umano, niente di particolarmente stancante se entrambe le parti si accordavano nell’impegnarsi il meno possibile. I ragazzi si raggrupparono a due a due nei vari angoli del cortile, provando tecniche di combattimento di vario genere, mentre uno degli ufficiali passeggiava tra loro correggendo solo qualche postura e valutandone le capacità. Poi si scambiavano, sceglievano liberamente il prossimo compagno, ogni tanto azzardavano addirittura a riposarsi, anche se non troppo a lungo per evitare le sgridate e le punizione, e dopo ricominciavano. Il resto degli ufficiali era intento a discutere di faccende private, in un angolo, buttando solo un occhio ogni tanto sul gruppo di reclute per assicurarsi che ci fosse ordine e disciplina.

Erwin era tra loro e scorreva gli occhi sulla lista dei cadetti, leggendone i nomi, mentre i suoi colleghi si preoccupavano di politica e finanziamenti. Non era quello di cui si impensieriva maggiormente lui in quel momento, per questo destinava loro la minima attenzione.

«Quanti di loro hanno espresso il desiderio di unirsi all’Armata Ricognitiva?» la voce di Levi alle sue spalle diede consistenza alle sue preoccupazioni.

«Sempre troppo pochi. Badano bene a voler salva la vita» disse Erwin.

«Non copriremo le perdite, non è così?»

«Se continuiamo di questo passo l’Armata Ricognitiva andrà scomparendo. Senza considerare che anche il popolo non prova fiducia in noi e i piani alti sono sempre più riluttanti a concederci finanziamenti per le spedizioni.»

"Che branco di idioti" avrebbe voluto dire Levi, ma si tenne per sé quell'insulto, sapendo che tanto non ce ne sarebbe stato bisogno: Erwin sapeva sempre cosa pensava.

Si guardò intorno, apparentemente disinteressato e annoiato, quando Erwin gli porse la domanda che avrebbe voluto fargli anche prima: «Come mai qui?»

«Volevo dare un'occhiata» si limitò a rispondere Levi. «Chissà quali di questi volti rivedrò la settimana prossima tra le file della nostra armata.»

«Non sei mai stato uno a cui interessava.»

«Allora non mi conosci abbastanza.»

Non era vero, Erwin lo conosceva eccome e Levi sapeva che aveva ragione.

Ancora una volta gli occhi caddero con una certa prepotenza su quel colore rosso così accecante. Più lo guardava, più gli ricordava il sangue versato nei campi là fuori e la cosa lo mandava in bestia.

«Da quanto tempo è in pausa?» chiese con una certa irritazione, notando come lei fosse l'unica tra i suoi compagni a starsene seduta a terra. La testa sollevata al cielo, gli occhi chiusi, come addormentata, e ancora quello stupido sorriso sulle labbra. Gli dava decisamente sui nervi.

Erwin guardò la ragazza e tirò un leggero sospiro, senza rispondere, come se non ne avesse bisogno. A parlare al suo posto fu l’istruttore Keith, una volta Comandante, un uomo scorbutico, irascibile e sicuramente poco propenso al perdono. Si avvicinò alla ragazza ringhiando come un cane e alzò la gamba, pronto a sferrarle un calcio. La mano della ragazza scattò come meccanica, afferrando la punta dello stivale dell’istruttore, bloccandolo. Solo allora lei aprì gli occhi e guardò curiosa ciò che aveva afferrato, come se neanche avesse avuto coscienza di ciò che era successo. Quando notò lo stivale sobbalzò, spaventata.

«Che fai qui a terra?» le urlò contro Keith, ignorando il fatto che il suo piede fosse ancora ben saldo tra le dita della ragazza.

«Niente!» balbettò lei, sconvolta dal fatto che l’istruttore avesse voluto colpirla.

«E i tuoi compagni che fanno invece?» urlò nuovamente Keith.

La ragazza si guardò attorno, come se fosse appena arrivata, poi sorridente rispose: «Si stanno allenando!»

Si rizzò sulla schiena, orgogliosa di aver dato una risposta corretta, ma la cosa parve non compiacere Keith come aveva forse sperato.

«E perché tu non lo stai facendo?» urlò Keith sempre più forte, facendola spaventare ancora di più.

«Non lo so, lo chieda a loro!» piagnucolò lei.

«L'hanno di nuovo messa da parte» osservò Erwin. «Nessuno vuole avere a che fare con lei.»

Quei capelli rossi come il sangue erano per Levi un motivo più che sufficiente, ma comunque chiese con una certa curiosità: «Per quale motivo?»

Erwin si limitò a sospirare e alzare le spalle, in un gesto di chi sa ma preferisce lasciar perdere.

«Luciel!» chiamò Kieth, facendo sobbalzare un ragazzo alto circa un metro e ottanta, dai capelli biondi legati dietro la nuca. Era un bel colosso, certamente non all'altezza della ragazza che pareva un vero e proprio scricciolino.

«Battiti con Mari» ordinò.

Luciel fece una smorfia di disappunto, guardando dall'alto al basso la ragazza ancora seduta ai suoi piedi, pochi metri più distanti. Mari in risposta gli sorrise luminosa, ma ricevette in cambio un altro sbuffo irritato. Quel Luciel non sembrava proprio d'accordo con la scelta dell’istruttore, che con un ultimo strattone finalmente liberò il piede e si allontanò di qualche passo. «Avanti, fatemi vedere di cosa siete capaci.»

«Ma lei lo sa già di cos...» cominciò Mari, ma fu prontamente interrotta da un furibondo: «Esegui gli ordini senza obiettare» che la fece urlare come una ragazzetta spaventata dal buio.

«Sembra così infantile, come può essere arrivata fino a questo punto?» in molti abbandonano gli addestramenti ben prima, pensò Levi. Come poteva lei, piccola e minuta, con quell'atteggiamento così stupido, essere arrivata fino a quel punto con quel sorrisetto gioioso e soddisfatto?

«Non sottovalutarla» l'ammonì Erwin.

«Non ho intenzione di farlo» disse Levi, prima di fare qualche passo verso la coppia che si preparava a combattere. «Ehy tu!» chiamò, facendo voltare la ragazza che si indicò con aria interrogativa, chiedendosi se parlasse a lei.

«Sì, parlo a te, come hai detto che ti chiami?»

«Mari» balbettò, ora improvvisamente agitata. Forse incredula che si trovasse di fronte proprio il famigerato capitano Levi.

Levi esitò un attimo prima di chiedere: «Solo Mari? Non hai un cognome?»

«Nessuna famiglia, nessun cognome, Signore!» Sembrò risvegliarsi e scattò sull’attenti, con il saluto militare. «Qui mi chiamano in molti modi diversi, a dire il vero, ma per il momento Mari è quello che preferisco.»

"Nessuna famiglia? È orfana" constatò Levi, prima di proseguire con la domanda che più gli premeva: «Hai deciso a quale corpo militare ti unirai, finito l'addestramento?»

A quella domanda, gli occhi della ragazza andarono spalancandosi e lentamente si mossero per posarsi sullo stemma cucito sulla giacca del capitano. Le ali della libertà. Lo stemma dell’Armata Ricognitiva.

Uno strano sorriso le incurvò il viso mentre mormorava: «Io metterò le ali.»

Non fu difficile per Levi capire ciò che intendeva dire, quella frase non poteva che significare una sola cosa. Eppure il modo in cui aveva pronunciato quella risposta lasciava aperte nella mente del capitano mille porte.

"Verrà con noi in esterno. Potrei trovarmela a fianco durante un combattimento o una cavalcata. Quei rossi capelli color sangue potrebbero stare al mio fianco più a lungo del previsto" e la cosa lo metteva poco a suo agio.

Si tolse la giacca e la porse a Erwin al suo fianco. Poi cominciò a tirarsi su le maniche.

«Levi, cosa vuo...» iniziò a chiedere Keith, ma Levi lo zittì, ordinando a Mari: «Battiti con me.»

«Eh?» stridette lei in risposta, arrossendo in viso. «Dice sul serio?» balbettò.

«Sì, se dovrai cavalcare al mio fianco voglio testare personalmente le tue capacità.»

«È molto premuroso da parte sua, capitano, ma tanto vale a questo punto che mi mettiate direttamente tra le fauci di un gigante!»

«Hai paura?» chiese Levi inarcando un sopracciglio. Dov'era finita la sicurezza e la tranquillità che aveva avuto fino a quel momento?

«Certo che ne ho! Sono solo una recluta, cosa crede possa fare contro uno dei migliori capitano dell’armata?»

"È falsa modestia? O fa sul serio?" quella ragazza continuava a metterlo di fronte a mille domande e nessuna risposta. Chi diamine era?

Levi terminò la preparazione e si posizionò davanti a lei, al posto di quel Luciel che non parve essere rammaricato dall'idea di rinunciare all'incontro.

«Ne è sicuro allora?» chiese ancora lei, poco convinta e intimorita.

«Se porterai con te questa esitazione, quando andrai lì fuori, sarai la prima a morire, lo sai?»

Mari restò pensierosa qualche istante, portando lo sguardo direttamente agli occhi di Levi, centrando le sue pupille senza nessun tipo di esitazione o timore. La cosa lo turbò appena, notando come improvvisamente lo squilibrio delle cariche e delle forze non sembrasse pesarle più.

«Un animale, se minacciato, non attacca subito» disse lei, con un tono improvvisamente differente da quello avuto fino a poco prima. Sembrava che qualcosa si fosse risvegliato in lei, qualcosa di meno stupido e più pericoloso. «Ma prova prima a risparmiare le forze, lanciando avvertimenti. Lo sapeva? Non crede che sia da prendere d’esempio? Basta solo accantonare l'orgoglio, ammettere "ho paura" e si eviterebbero centinaia di spargimenti di sangue inutili.»

"Ma di che parla?" si chiese lui.

«Ma qualora le minacce non funzionassero a evitare lo scontro, allora si è inevitabilmente chiamati alle armi. Non ci si può tiare indietro. La priorità diventa la sopravvivenza. Che cosa affascinante, non crede?» sorrise infine, continuando a fissare gli occhi del capitano. Quella sfacciataggine, ammetteva, lo faceva sentire poco a suo agio, ma non abbassò lo sguardo neanche per un istante.

«Sei una gran chiacchierona» constatò lui.

«Siamo dotati di una tale capacità come il linguaggio, non vedo perché non sfruttarlo» sorrise ancora, senza però battere ciglio. Era come se avesse le pupille incollate a quelle dell'avversario, non abbassava lo sguardo e non mostrava segno di cedimento neanche per un istante.

Levi percepì lo stesso fastidio che avrebbe potuto provare se avesse fissato il sole troppo a lungo, e senza rendersene conto si ritrovò a socchiudere appena gli occhi, come per proteggersi.

«Vuoi andare avanti per molto? O mi fai vedere di cosa sei capace?»

«Lo sto già facendo» mormorò lei candidamente e una strana sensazione chiuse per un attimo la gola di Levi. Era... inquietante.

Non avrebbe aspettato oltre, cominciava a stufarsi, perciò passò all'attacco per primo allungando il pugno nella sua direzione. Mari non si mosse fino all'ultimo, continuando a cercare gli occhi del capitano e fissandolo. Poi schivò il colpo con destrezza, muovendosi il minimo indispensabile. Levi non sprecò tempo e continuò a colpire, pugno dopo pugno, calcio dopo calcio. Mari si dimostrò rapida e agile nello schivare, ma la cosa che continuò a metterlo in difficoltà furono quegli occhi azzurri puntati ai propri, nonostante i movimenti. Non guardava le mani, non guardava i piedi, solo gli occhi e riusciva comunque a schivare per tempo. Tentò con un altro calcio e lei saltò incredibilmente in alto, schivando ancora.

"È straordinariamente agile" pensò Levi mentre tentava altri colpi, sempre più potenti e sempre più aggressivi e più mirati. Ma Mari riusciva in ogni caso a schivarli, indietreggiando o saltando. Ma non attaccava. Continuava a fissarlo, ma non attaccava.

"Quanto mi da sui nervi!" pensò Levi digrignando i denti e provando come gesto disperato a lanciarsi contro di lei, tentando di afferrarla in una presa e impedirle di divincolarsi ancora.

"Adesso!" pensò Mari e in un istante si piegò, salvandosi dalla presa, e si spinse contro lo stomaco del capitano. Levi fece appena in tempo ad abbassare lo sguardo, vedendosela catapultare contro, e ancora una volta incrociò i suoi azzurri occhi ben impiantati nei propri. Ebbe un istante di esitazione e Mari ne approfittò per scaraventarlo a terra, atterrandogli sopra. La ragazza sollevò velocemente la testa, guardando sorpresa il capitano sotto di sé, scuotendo i capelli come un animale appena uscito dall'acqua. Poi lanciò un urletto allegro, esclamando: «Incredibile, ce l'ho fatta!»

Levi l'osservò da quella sua posizione sottomessa, incredulo. Si era lasciato fregare: lei non aveva fatto altro che provocarlo per tutto il tempo e lui si era lasciato andare all’impulso, perdendo la concentrazione per un breve istante. Istante che Mari aveva straordinariamente colto e aveva volto a suo vantaggio. Era irritante, era decisamente irritante. Interruppe i suoi festeggiamenti con un colpo di fianchi, ribaltando velocemente la situazione, sbattendola al suolo e posizionandosi sopra di lei. Le piantò un braccio contro la gola, per immobilizzarla, e sollevò il pugno chiuso sopra il suo viso. Mari tenne gli occhi momentaneamente chiusi, lamentando dolore alla testa, che aveva battuto a terra nel ribaltamento. Non appena li riaprì vide il pugno di Levi cadere rapidamente verso il suo naso, ma fermarsi appena in tempo per non colpirla realmente. «Mai cantare vittoria troppo presto» le mormorò a pochi centimetri dal viso, col tono di chi l'avrebbe volentieri uccisa. Solo allora tornò a fissare i suoi occhi, chiedendosi se avesse finalmente abbandonato quella sfacciataggine. Ciò che vi trovò invece lo fece rabbrividire: l'occhio sinistro di Mari, l'unico visibile dato che i capelli coprivano il destro, fissava il pugno ancora fermo a pochi millimetri dal suo viso. Immobile, sembrava avesse addirittura smesso di respirare. La pupilla ristretta in maniera quasi innaturale si spostò lentamente dal pugno al viso di Levi e lui per un istante ebbe la sensazione di cadere nel vuoto. Che razza di sguardo era quello? Metteva i brividi.

Si sollevò, con una velata impellenza, e si affrettò ad allontanarsi da lei, cercando comunque di non dare troppo nell'occhio e di risultare normale.

«E non distrarti» aggiunse, prima di voltarsi e tornare da Erwin per riprendersi la giacca.

«Che ne pensi, allora?» approfittò il comandante del suo momento di rivestizione, per chiedere.

«È ancora un pulcino» comunicò Levi, e lo pensava davvero. Era bastato poco per farla piagnucolare di dolore e paura, era bastato poco per ribaltare le situazione, non aveva mostrato la minima traccia di tecniche di combattimento né di esperienza. Era debole, non sarebbe riuscita a buttarlo a terra se lui non fosse stato sbilanciato e avesse vissuto quel momento di confusione, e scioccamente non aveva nemmeno cercato di concludere il combattimento. Non aveva avuto modo di verificare la potenza dei suoi colpi, ma per quello che aveva visto era sicuro che non fossero tanto precisi né potenti. Era decisamente un pulcino. Sollevò una mano, osservandola quasi con irritazione: "Ma allora perché sto tremando in questo modo?"



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NDA.

Hello to Everybody! Probabilmente non mi conoscete (e come potreste?) ma magari chi frequenta anche il fandom di Haikyuu ha già avuto modo incrociare le strade con me. In caso contrario (com’è probabile) mi presento:

Nome in codice: Tada Nobukatsu-kun (sì, sono una ragazza ma uso il kun u.u per capirlo dovreste conoscere l’origine di questo nome, ma certo questo non è il posto migliore per raccontarlo [ma tanto vi basta andare nelle mie Bio per capirlo]).

Origine: Villaggio degli elfi di Babbo Natale.

Impiego: Distruggere i regali di Natale e incolpare Rudolph!

Età: indefinita.

Stupidità: smisurata!

Tornando seri (AOT è un Fandom serio! Cerchiamo di mischiarci alla folla e non farci notare, Rudolph!)... scrivere questa fic mi ha dato non pochi problemi. Per la difficoltà? Per il messaggio subliminale? Per l’analfabetismo acuto che ogni tanto mi distrugge dentro? No… per i nomi, cazzo! Possibile che non si riescano ad accordare e dire “tizio si chiama così e caio cosà”? No, da una parte ci sta scritto Erwin, dall’altra Elvin, da una parte lo chiamano corpo di ricerca, dall’altra Armata Ricognitiva (nelle scans è addirittura scritto Legione Esplorativa), da una parte si chiamano Giganti, dall’altra Titani. Quindi, tutto questo per dirvi che se trovate scritte cose differenti (può essermi sfuggito un corpo di ricerca tra le armate ricognitive) non datemi per pazza, ho solo avuto difficoltà a scegliere a quale versione adattarmi.

Poi, ancora, per il momento di AOT ho visto solo l’anime, il manga ho cominciato a leggerlo da poco e per quanto conosca alcuni risvolti futuri (non sono mica andata a spoilerarmi il mondo su wikia, nono) e abbia visto gli OVA, ci sta che ci siano imprecisioni dovuti al fatto che con la fonte ufficiale cartacea sono un po’ indietro. Perciò fffffforry, don’t kill me please.

Ancora… (sono una gran chiacchiera, proprio come Mari, lo so u.u ma essendo la prima NDA devo specificare qualcosa. I prossimi NDA saranno più leggeri, promesso) in che periodo è ambientato il tutto? Come scoprirete più avanti, appena prima della storia originale, un anno dopo la caduta del Wall Maria. In realtà avrei voluto ambientarla ancora prima, ma dato che il nostro Levi è entrato in Armata appena nel 844, non ho potuto fare grandi miracoli e mi sono dovuta adattare (lasciandomi la licenza poetica -non so quando quando realmente sia successo- di affermare che sia diventato capitano non troppo tempo dopo). Essendo dunque appena prima dell’originale, potrete ritrovare alcune delle nostre vecchie conoscenze (come avete già potuto vedere con l’istruttore Keith e, ovviamente, Erwin), mischiati a tanti OC dai nomi pescati dal cilindro (ad cazzum, come dico sempre *Luciel cof cof*).

CREDO di non dover aggiungere altro… (era pure l’ora!!!).
Vi saluto e vi lascio appuntamento alla prossima settimana! Se volete lasciarmi un commentino i’m happy shalalalalala… altrimenti grazie lo stesso per aver almeno letto fin qui xD

Per concludere… vi lascio un’immagine creata con un bellissimo sito (Rinmaru Games, per chi fosse interessato) in cui ho dato un viso reale a Miss Mari senza-cognome.

Click sul link qua sotto se volete vedere la ragazza dai capelli color sangue (venghino signori venghinoooo ahahah) (Che in realtà nell’immagine è un normalissimo rosso, ma nella mia testa è veramente un rosso sangue).

*cof cof nell’immagine è presente un piccolo spoiler, ma tanto se non sapete cos’è non potete riconoscerlo cof cof*


Mari! -> https://postimg.org/image/hb8lpj2cv/ <- Mari!


BYYYYYEEEEE


Tada Nobukatsu-kun



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Capitolo 2
*** Animale selvaggio ***


Animale selvaggio


«Anche oggi ci onori della tua presenza» sorrise Erwin guardando Levi sedersi al suo fianco, all'interno di quella mensa, con un piatto tra le mani. Era stato l'ultimo ad arrivare, facendo per un attimo pensare che fosse partito la mattina stessa senza lasciar detto dove fosse diretto, e invece sorprendentemente era ancora lì tra loro. Forse per noia -Erwin si era ben premurato di non lasciargli ordini momentaneamente, perchè averlo al suo fianco anche durante l'addestramento delle reclute era pur sempre un vantaggio- o forse perchè sinceramente interessato a ciò che combinavano in quel luogo dimenticato da Dio.

«Hai detto che nella prossima spedizione vuoi portarti dietro alcune delle reclute. Voglio sapere quali volti e capacità avrò al mio fianco durante la cavalcata, per evitare brutte sorprese.»

«Non ti fidi di loro?» chiese Erwin, anche se in qualche modo sapeva già a chi in particolare si stesse riferendo. Levi, il giorno prima, aveva mostrato un certo interesse verso Mari, anche se la connotazione da dare al tutto sentiva non poteva essere propriamente positiva. Quella ragazza sembrava metterlo in agitazione, era più nervoso del solito quando ce l'aveva intorno e il motivo di tale -eccessiva, avrebbe aggiunto- reazione non era proprio chiara agli occhi del Comandante, anche se poteva avere dei sospetti. Ma poco se ne importava e preferiva lasciar andare il fiume alle sue rapide, aspettando solo con curiosità di vedere quando e dove fosse sopraggiunta la valle. Già solo il fatto che Levi si fosse interessato a qualcuno, negativamente parlando o meno, era pur sempre un evento degno di essere osservato. Ed Erwin era un grande osservatore.

«L'ho mai fatto?» e come volevasi dimostrare, Levi anche quel giorno era di pessimo umore. Erwin lo conosceva abbastanza da riuscire a cogliere quelle sottili sfumature della sua voce, sfumature che a volte nemmeno Levi stesso percepiva, e per lui questa era una sua personale vittoria. Ancora una volta provò a interrogarsi sul motivo di quel risveglio poco pacifico con se stesso che aveva subito il suo sottoufficiale, e ancora una volta credette di conoscere la risposta. Spostò cautamente lo sguardo sul corpo delle reclute che pranzavano dall'altro lato della sala, quei pochi che erano già arrivati, avendo dovuto lasciare la precedenza ai superiori. Isolata su un tavolo tutto per sé, Mari aveva appena cominciato a buttar giù cucchiaiate di minestra, masticando di tanto in tanto un tozzo di pane raffermo. Era come un'ombra dimenticata da tutti, i quali ben si guardavano dall'incrociare la strada con una come lei. Stato che alla fine, però, non sembrava nemmeno dispiacerle. Non erano i suoi bizzarri capelli rossi a turbare più di tanto e spingere chiunque avesse attorno a schivarla, ma quel suo sguardo cacciatore. Lo sguardo di chi non si accontenta di ciò che viene mostrato da colui che gli sta di fronte, ma ambisce alle verità più profonde della sua anima, scavando negli angoli remoti dei suoi occhi. Non faceva distinzione, come affamata di conoscenza, puntava lo sguardo nelle iridi di chiunque gli capitasse davanti, lo spogliava di ogni apparenza, e infine lo abbandonava ai margini di una strada nudo e violato. Era uno dei motivi per cui in molti la evitavano: la trovavano irritante, innaturale e spaventosa. Levi probabilmente stava vivendo la stessa cosa, con la sola differenza che lui essendo un ufficiale aveva tutto il diritto di manifestare apertamente quell'astio e colpire la diretta interessata.

Durante tutta la durata di riflessioni di Erwin, Mari non aveva fatto che mangiare avidamente, in silenzio. A prima vista nessuno avrebbe pensato che dentro una figura così minuta, così candida, fosse potuto celarsi un simile animale, perché proprio di un animale selvaggio alla fine dei conti si trattava. Interruppe il pasto che ancora aveva il proprio piatto pieno per metà e ignorata da tutti uscì all'esterno, senza che nessuno la fermasse chiedendole dove portasse il proprio cibo. Ignorata da tutti, tranne che dallo stesso Erwin e, scoprì appena dopo, da Levi che discretamente aveva alzato appena gli occhi dal proprio piatto per puntarli a lei.

«Vacci piano con lei. È solo una poveretta che è cresciuta per strada tra i gatti» si sentì di dirgli Erwin, un po' timoroso che l'irritazione di Levi nei suoi confronti lo portasse a renderle la vita impossibile in maniera ingiustificata.

«Gatti?» Levi stesso si stupì di aver posto la domanda.

«Lei e suo fratello vivevano di stenti e dovendo passare gran parte della vita per strada, una colonia di gatti l'ha accettata come fosse una di loro.»

«Una selvaggia» ora capiva molte cose. «Perché vuole arruolarsi nell'Armata Ricognitiva? Potrebbe avere tutto, stando nel corpo di Gendarmeria.»

«L'hai sentita, no? Vuole mettere le ali» e un leggero sorriso gli incurvò le labbra, sorriso che sarebbe potuto passare per divertito, forse velatamente denigratorio, ma che in realtà nascondeva una chiara consapevolezza. Lui sapeva qualcosa di più sul conto della ragazza, ormai i dubbi di Levi ebbero conferma.

«E il fratello?» chiese, ma Erwin esitò più del dovuto prima di dare una secca risposta: «Non è qui.»

«Capisco che il suo modo di fare possa darti sui nervi, non sei l'unico che ha difficoltà ad approcciarsi a lei» continuò Erwin, accantonando subito il discorso fratello. «Ma dovresti darle una possibilità. Ha ottime capacità, anche se inesperta.»

«È debole.»

«Ma agile e veloce.»

«Infantile.»

«Ma è un'attenta osservatrice. Hai visto anche tu come riusciva a schivare i tuoi colpi solo guardandoti negli occhi.» Erwin sapeva che la sua non era stata stregoneria, ma semplice strategia, sfruttando quel suo modo di scavare negli animi delle persone che gli conferiva la possibilità di prevedere dove e come l'avversario sarebbe andato a colpire.

«Non ha disciplina» continuò Levi, sempre più irritato.

«Ma sa cos'è giusto e cos'è sbagliato.»

«Non te la sarai presa un po' troppo a cuore?» lamentò infine il caposquadra, cominciando a trovare fastidioso il fatto che Erwin la stesse difendendo da ogni sua -giustificata- accusa.

«Non è la prima volta che lotto per avere al mio fianco qualche reietto della società solo perché lo considero prezioso per la nostra causa.» e con quest'ultima affermazione Erwin riuscì a mettere a tacere Levi. Era difficile dimenticare come fosse riuscito a convincerlo ad abbandonare la vita da delinquente nelle fogne per entrare nell'Armata Ricognitiva, due anni prima. Era difficile dimenticare come gli avesse cambiato così radicalmente la vita.

«Nel pomeriggio andremo a fare un'esercitazione nel bosco, ti unirai a noi?»

«Tienimi un posto» si limitò a rispondere Levi, alzandosi e portando via il suo piatto ora ripulito a dovere. Quella chiacchierata, benché l'avesse visto perdente nella disputa delle ragioni, l'aveva lasciato più incuriosito che risentito. Conosceva abbastanza Erwin da sapere che aveva in mente qualcosa, che riguardasse Mari o no non ne aveva la certezza, ma sicuramente il suo voler essere presente a quell'addestramento e il suo insistere a protezione della ragazza avevano qualcosa sotto. Non doveva far altro che restare a guardare e aspettare che il Comandante lo avesse reso partecipe. Per il momento si sarebbe limitato ad assecondarlo.


Mari entrò correndo nel bosco, mentre il resto dei suoi compagni attivò immediatamente la manovra tridimensionale. Percorse qualche metro a terra, fintanto che non trovò un ramo abbastanza basso a cui aggrapparsi e saltò. Si diede una spinta e volteggiò sopra di esso, atterrandoci sopra. Si guardò rapidamente intorno, poi si voltò verso il tronco dell'albero e lo scalò, raggiungendo a mani nude uno dei rami più alti. Restò in piedi su di esso, perfettamente in equilibrio, corse verso la punta e saltò, aggrappandosi al ramo di un albero affianco. Ancora volteggiò e si diede la spinta necessaria a raggiungere il ramo successivo. E così percorse parte del bosco saltando e arrampicandosi, ramo dopo ramo, albero dopo albero, sfruttando la manovra tridimensionale solo sporadicamente. Raggiunse il primo gigante di cartone e ci si lanciò contro tenendo ben strette le lame. Aggiungendo alla propria forza quella di gravità, riuscì a incidere un taglio sufficientemente ampio sulla nuca del gigante da considerarlo abbattuto. Attivò gli arpioni e tornò su un ramo lì a fianco, osservando il suo operato, prima di tornare a correre, verso il prossimo obiettivo.

«Ti stanchi di più in questo modo, rossa!»

«Nah, non così tanto» sorrise lei, guardando chi gli aveva rivolto parola. Si chiamava Luke, era un compagno in addestramento e ultimamente era uno di quelli che non riusciva a tenere la bocca chiusa quando la incrociava.

«Siete troppo dipendenti da quei cosi. Vi rammollite e soprattutto...» disse prima di saltare e afferrare un ramo con un urletto allegro. «Vi perdete tutto il divertimento!» gridò prima di scappare via, lasciando Luke a se stesso.

«Ehy! Quello laggiù l'ho visto prima io! Non rubarlo!» gridò lui, cercando di accelerare per raggiungerla e impedirle di fregarle il gigante. Per quanto sfruttasse principalmente la forza delle gambe e poco il dispositivo, anche se a volte sfruttava la propulsione del gas per accelerare e rendere più ampi e veloci i salti, era comunque molto rapida e la cosa gli dava sui nervi. Raggiunsero il cartonato ed entrambi si lanciarono contro di lui, cercando di superare l'altro in velocità. Mari ci sarebbe probabilmente arrivata prima se all'ultimo non avesse deviato, annunciando: «Tutto tuo!»

Luke ne rimase sorpreso, ma non si lasciò sfuggire l'occasione per accaparrarsi il punto. La guardò stranito, mentre lei atterrava su un altro ramo e se ne stava lì impalata a guardarsi attorno con gli occhi socchiusi.

"È decisamente strana" pensò lui, prima di allontanarsi decidendo che non gli interessava poi troppo ciò che faceva.

Mari restò in ascolto qualche istante, concentrata: c'era uno strano eco nell'aria che aveva attirato improvvisamente la sua attenzione e non era lontano. Non ci volle molto per stabilire la provenienza di quel suono sinistro, perciò cominciò a corrergli incontro. Attraversò foglie e rami con velocità, sfruttando più del solito l'uso del movimento tridimensionale per cercare di arrivare più velocemente, fino a quando finalmente non scoprì la natura e la provenienza del suono che aveva attirato in quel modo la sua attenzione: l'attrezzatura di Angelica. La ragazza dai lunghi capelli castani, legati in una coda, volteggiava parallelamente a Mari, ignara di essere seguita e soprattutto ignara del fatto che la sua attrezzatura producesse un suono bizzarro.

"Quel dispositivo ha qualcosa che non funziona!" constatò Mari, ma non fece in tempo neanche a finire di pensarlo che Angelica, nel punto più alto del suo salto, a più di quindici metri da terra, si ritrovò con il meccanismo bloccato, incapace di sparare un arpione.

«Merda!» riuscì a dire, ora in caduta libera verso terra. Il panico si impadronì delle sue dita, che cominciarono a premere convulsamente i tasti sui manici per far scattare il meccanismo, senza successo. Era inceppata e lei si sarebbe presto schiantata al suolo se Mari non fosse stata pronta ad afferrarla, riuscendo ad acchiappare una delle sue cinghie intorno a una coscia. Ciò che però la rossa non aveva considerato fu che il peso improvviso non era affatto facile da gestire. Perse il controllo del volo, evitando per un pelo che il naso di Angelica andasse a sbriciolarsi nello strofinare al suolo, e guardò con preoccupazione il tronco dell'albero che si faceva sempre più vicino e su cui presto si sarebbe schiantata.

Nella disperazione di trovare repentinamente una soluzione, optò per lo scarico del peso, facendo volare Angelica all'interno di un cespuglio di rovi e provando in quei pochi istanti che le restavano a raddrizzarsi e tornare padrona di quella situazione. Inutilmente.

Con un urlo terrorizzato, colpì in pieno il tronco dell'albero che aveva di fronte. Appesa com'era, ancora con i ganci arpionati a un ramo, divincolò piedi e mani, provando nuovamente a tornare stabile, ma quel suo movimento frenetico peggiorò solo la situazione. Si ribaltò a testa in giù, con un piede ben incastrato e avvolto da uno dei cavi. Provò di nuovo a risollevarsi, ma ancora risultò complicato, girandosi e rigirandosi nel groviglio ormai formatosi.

Alla fine, si arrese e rimase avvolta e incastrata nella sua attrezzatura, a testa in giù, con un rivolo di sangue che le scendeva dal naso.

Angelica nel frattempo scattò in piedi urlando per le spine che andavano a conficcarsi ovunque e si affrettò ad allontanarsi da quella trappola mortale. Si voltò a guardare la compagna che l'aveva salvata, confusa e chiedendosi se avesse dovuto ringraziarla o maledirla per averla lanciata nell'unico cespuglio spinoso di tutto il bosco.

«Sei tutta intera, vero?» chiese Mari in quell'istante con uno strano orgoglio negli occhi. La ridicola posizione a cui era costretta, con i capelli arruffati e pieni di erbacce, il viso sfregiato, facevano a botte col suo atteggiamento fiero. E questo fece scoppiare a ridere Angelica, facendole dimenticare l'incidente, contagiando nella sua ilarità anche la stessa Mari.

Il fruscio delle foglie anticipò l'arrivo di qualcun altro e Mari smise di sorridere appena in tempo per vedere atterrare vicino a loro il capitano Levi. L'osservava con quel solito sguardo duro e impassibile, come se da una come lei non si fosse certo potuto aspettare niente di meglio.

«Capitano!» sorrise Mari, ignorando il modo di fare severo di Levi, che ora gli camminava incontro. «Ha visto? Salvataggio da maestro!»

«Se fossimo stati circondati da veri giganti a quest'ora tu e la tua amica sareste morte» constatò lui, chinandosi a guardare le attrezzature di Mari. Allungò una mano verso il pulsante sul manico, che ora penzolava per conto proprio a pochi centimetri dal suolo, e permise agli arpioni di staccarsi dai rami, facendo cadere Mari di testa per terra.

«Sei un disastro» commentò ancora lui, guardandola mentre si rendeva ridicola nel tentativo di districarsi dai cavi e rialzarsi.

«Sì, ma le ho salvato la vita!» brontolò lei, contrariata dal fatto che lui non desse peso a quel grande evento. Levi l'osservò dall'alto al basso, assottigliando ancora di più lo sguardo, cercando di trasmetterle tutto il rimprovero che non esprimeva a voce e nel frattempo si concesse di studiarla. Le guance leggermente gonfie, nello sforzo di evitare di imbronciarsi -cosa che invece sembrava le venisse spontanea- erano lievemente arrossate. Un colore che ben si abbinava a quello dei suoi capelli e che, bizzarramente, mettevano in risalto l'azzurro dei suoi occhi lucidi. Continuava a fissarlo scontenta come una bambina a cui era stato negato un balocco e per quanto risultasse ancora una volta stupida e infantile, in un qualche modo che neanche lui seppe bene spiegarsi... le fece tenerezza.

Allungò una mano verso i suoi capelli, afferrò una foglia che le si era incastrata tra le ciocche e la tirò via. Un innocuo gesto, forse mosso dal fastidio che quella foglia gli recava nel vederla imprigionata lì in mezzo, ma che racchiudeva in sé la vaga idea di una carezza. «Sei stata brava» decretò apatico alla fine, prima di allontanarsi e tornare sui suoi passi.

Mari l'osservò con lo sguardo inebetito fintanto che non sparì tra gli alberi, lasciandola di nuovo sola con Angelica -che nel frattempo aveva cercato di togliersi di dosso qualcuna di quelle dolorose spine-.

«Sono stata... brava?» balbettò, trasognante. Non sapeva ben spiegarsi se a recarle quella forte emozione fosse stato il complimento in sé, a cui ammetteva di non essere affatto abituata, o il fatto che a dirglielo fosse stato proprio il capitano Levi, famoso per la sua scontrosità e antipatia. Quel capitano di cui aveva aveva sentito parlare come uno degli uomini più potenti -tanto quanto scorbutici- che esistesse.

«Stai bene? Mari?» chiese Angelica, notando come la ragazza fosse improvvisamente diventata silenziosa e tanto immobile da poter essere scambiata per un ornamento del posto. Mari si voltò verso di lei e Angelica sobbalzò quando la vide larga nel sorriso, ma col viso rigato di lacrime.

«Che fai? Piangi adesso?» chiese Angelica sconvolta tanto quanto a disagio.

«Ha detto che sono stata brava» balbettò ancora Mari, interrompendosi ogni tanto per ridere, mentre ancora le lacrime le uscivano a fiotti.

«Ma... e reagisci così? Ti sembra il caso?» chiese Angelica, ancora imbarazzata. Ma niente sembrò in grado di calmare la ragazza, che più piangeva e più sembrava averne voglia, aumentando l'enfasi dei singhiozzi minuto dopo minuto.


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NDA.

Hola Chicos! Dopo un'attenta riflessione e un eccessivo sforzo nel controllare l'impulso di pubblicare tutti i capitoli (che vi informo sono già scritti, fino al The End) in un solo giorno, ho deciso che il giorno della Calendula sarà il Lunedì. Perciò potrete trovare sempre (salvo imprevisti) un capitolo nuovo ogni settimana, il suddetto giorno.

Poi passo a ringraziare tutte le persone che hanno aperto (e forse anche addirittura letto *-*) la mia storia e soprattutto quelle due anime sante che l'hanno inserita tra i preferiti/seguiti. Mi date speranza *-* (sì, sono una persona molto insicura e tutte le volte alla pubblicazione mi autosommergo di "che schifo è questo? Non piacerà a nessuno! Ma cosa m'è passato per la testa? E' la roba più stupida che abbia mai visto. Non avrò neanche una visualizzazione e verrò ricoperta di insulti").

Perciò, davvero GRAZIE.

Per chi già mi conosce sa che mi piace lasciare una piccola anticipazione dei capitoli successivi (tipo serie tv XD), perciò anche qui non sarò da meno.

Prima però... altra immaginetta!!! Sì, ho amato questo sito e ne ho fatte una decina che posterò gradualmente. Come sempre posterò solo il link di rimando, così chi preferisce sottostare esclusicamente alla propria fantasia può tranquillamente evitarla :)


Vi presento... Angelica! (che, vi rivelo, non smetterà di essere presente, anzi).

Angelica -> https://postimg.org/image/wn9gngfah/ <- Angelica


E ora l'anticipazione (potrebbe subire piccole modifiche dovute al revisionamento):


Voltandosi, in cerca di una qualsiasi faccia amica, trovò quella del comandante Erwin sorprendentemente più vicina del previsto. In piedi, appena dietro di lei, l'osservava con uno sguardo truce, assolutamente contrariato.

"L'ho fatto arrabbiare" pensò e un singhiozzo la scosse. Le lacrime le appannarono la vista e in quella macchia indistinta dai capelli biondi, Mari riuscì a riconoscerci un viso ben noto e dallo sguardo altrettanto duro.

«Har... vey... mi... mi dis... »


A Lunedì prossimo!


Tada Nobukatsu-kun

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Capitolo 3
*** Quel luogo chiamato casa ***


Quel luogo chiamato casa


And they say She's in the class A team
Stuck in her daydreams, been this way since eighteen
But lately her face seems slowly sinking, wasting
Crumbling like pastries
They scream the worst things in life come free to us
Cos we're just under the upperhand


«Ehy, rossa!» chiamò Sierk, fermandosi davanti al tavolo di Mari. La sera era calata da poco, le reclute stavano ormai finendo i propri pasti dopo il duro allenamento del pomeriggio. Allenamento da cui Mari ne era uscita con un cerotto sulla fronte, laddove aveva scoperto successivamente di essersi tagliata nel tentativo di salvare Angelica.
«Sei stata davvero brava oggi» sghignazzò lui, enfatizzando spropositamente la frase. Per quanto Mari apprezzasse quel genere di complimenti, come era stato con Levi quello stesso pomeriggio, non fu difficile nemmeno per lei ritracciarvi all'interno una velata presa in giro che le impedì di prendere il compagno sul serio. Afferrò il tozzo di pane che giaceva al fianco del suo piatto e lo utilizzò per raccogliere una manciata di fagioli e portarseli alle labbra, ignorando il ragazzo dalla rasa capigliatura bionda che le sghignazzava davanti.
«Beh? Con me non ti metti a piangere? Ti commuove solo se a dirtelo è il capitano?» insistè ancora Sierk, ora affiancato da Zhen e Craig, le sue due marionette, come le piaceva definirli. In genere era Sierk che, forse sicuro della sua gonfia massa muscolare, si faceva avanti per primo, mentre gli altri due restavano alle sue spalle a ridersela intervenendo solo di tanto in tanto per rimarcare le parole del capo banda. Un gruppo di idioti che, nonostante tutto, rientravano tra i migliori del corso accademico e questo dava loro possibilità di vantarsi ancor più della loro presunta superiorità, soprattutto con Mari. La ragione di tanto astio nei confronti della rossa? Loro erano entrati in accademia due anni e mezzo prima, seguendo tutto il percorso d'addestramento dall'inizio, guadagnandosi con fatica quel punteggio. Invece Mari aveva fatto il suo ingresso solo un anno prima, a percorso già iniziato, e nonostante si fosse comunque dimostrata all'altezza dei compagni a quei tre non andava giù il fatto che lei fosse stata tanto avvantaggiata. Aggiungendo poi il fattore "animale selvaggio", il fatto che Mari fosse riuscita a superare Sierk in alcuni dei test e infine le voci che giravano sul conto della ragazza, il livello di antipatia nei suoi confronti era cresciuto esponenzialmente. Avere un motivo per riversare direttamente su di lei tutto quell'odio era diventato quasi un obiettivo per quel trio, che Mari sopportava ogni giorno di meno.
«Il gatto prova piacere nel sentirsi dire di essere forte dalla tigre, non dal topo» commentò Mari con apatia, incapace di tenere a freno la lingua. «Le ovvietà non destano nessun sentimento.»
«Che stai dicendo?» ringhiò Sierk. «Mi stai dando del topo?»
«Le interpretazioni sono sintomo di buona immaginazione e intelligenza» sorrise lei, guardandolo con innocenza. «Dovresti andarne fiero.»
«Sei talmente incapace di affrontare una persona faccia a faccia che ti nascondi dietro ai tuoi detti ed enigmi!» disse Zhen, supportando l'amico.
«Avete avuto la possibilità di potermi prendere a pugni senza incappare in una punizione, durante l'allenamento corpo a corpo, eppure non vi siete avvicinati. Se io sono incapace di affrontare una persona faccia a faccia, allora voi cosa siete?» rispose ancora Mari.
«Stai per caso dicendo che siamo smidollati?» intervenne anche Craig, innervosendosi quanto gli altri. Dato tutto il retroscena che aveva quella ragazza, certo non poteva sentirsi in diritto di fare certi commenti.
«Anche tu sai fare delle buone interpretazioni! I miei complimenti!» sorrise Mari e quel suo modo di fare sempre candido e pacato, come se fosse superiore a qualsiasi cosa, peggiorava i loro stati d'animo.
«Ehy! Lasciatela in pace!» intervenne Angelica, mettendosi tra i tre e Mari. Aveva esitato un po', ma alla fine si era decisa ad avvicinarsi alla compagna per scambiare qualche parola con lei e magari riuscire a ringraziarla. Dopo l'episodio di quella mattina, Mari purtroppo si era allontanata e non c'era più stata occasione di avvicinarla, come se lei stessa avesse cercato di scivolare via da tutti. Prima di allora, Angelica non ci aveva mai fatto troppo caso. Anzi, prima di allora, non l'aveva quasi mai neanche notata. Era la persona più invisibile e silenziosa che avesse mai conosciuto, e questo l'aveva spinta alla curiosità, visto ciò che aveva fatto per lei.
«Ti salva una volta la vita e diventi una sua tirapiedi?» brontolò Sierk, avvicinandole il viso ghignato. Mari, dal suo punto di vista, era solo un'ipocrita raccomandata che le piaceva fare la preziosa, certo non meritava di essere difesa. Detestava quel suo modo di farsi superiore, destava lei e quel suo dannato modo di guardare le persone come se non meritassero una propria dignità ma fossero tutti feccia che poteva domare a piacimento. Meritava solo di essere zittita e tornare da dove se n'era venuta, in quel lurido e squallido posto che sicuramente più si addiceva a una come lei, anzichè tutto quel lusso immeritato.
«Niente di tutto questo, solo gli ufficiali ci osservano» mormorò Angelica, lanciando uno sguardo di sbieco al tavolo dove erano radunati a cenare tutti i Superiori. «Vedete di non creare problemi o ci farete finire nei guai.»
Sierk voltò lo sguardo allo stesso tavolo appena indicato da Angelica. Nessuno dei Superiori sembrava minimamente interessato a ciò che stavano facendo le reclute, tanto meno a loro. Eppure ebbe lo stesso la sensazione di essere tenuto d'occhio e questo bastò a metterlo in allarme e agitazione.
«Tsk» si lasciò sfuggire, irritato come poche volte. Si allontanò da Angelica di un passo e lanciò un altro sguardo a Mari, che sembrava sempre concentrata sul suo piatto, anche se, sotto quel suo enorme ciuffo rosso sangue, poteva vederlo lo scintillio dei suoi odiosi occhi affilati. Quanto non li sopportava quegli occhi e quel loro modo di osservare le persone. Non si fidava di lei nemmeno un po'. Un giorno avrebbe trovato il modo di farle rimangiare tutta quell'arroganza che le usciva dallo sguardo e da ogni singola parola. Un giorno Mari avrebbe abbassato la testa. Ma per quella sera, Sierk tornò al suo tavolo.
Angelica fece un lungo sospiro, tornando finalmente a respirare e rilassarsi. Aveva temuto che quell'idiota si fosse imbattuto in un litigio con lei davanti allo sguardo di tutte le reclute e Superiori. Ma per fortuna, per quella sera, il pericolo guai era stato sventato.
«Non ce n'era bisogno» disse Mari, prima di portarsi alle labbra un'altra cucchiaiata di fagioli. «Si sarebbero stancati e se ne sarebbero andati da soli, ti sei esposta inutilmente.»
«Come se quei tre idioti mi avessero potuta spaventare» ridacchiò Angelica, mettendosi a sedere davanti a lei. Mari la guardò sospresa, forse lievemente spaventata, restando qualche secondo con il cucchiaio sollevato per aria e Angelica rispose al suo interrogativo con un cordiale sorriso.
«Mangi sola anche questa sera? Se ti fossi avvicinata al nostro tavolo, non ti avremmo certo trattata come quei tre imbecilli laggiù. Perchè non ti avvicini mai a nessuno?» chiese senza porsi il dubbio che magari quella fosse una domanda delicata. Quel suo modo di fare, ora che lo notava, aveva suscitato nel corpo delle reclute svariate reazioni. C'erano quelli come Sierk, che lo interpretavano come segno di presunta superiorità e rispondevano con l'aggressività, poi c'erano quelli che invece ne provavano timore perchè leggevano in quegli occhi l'aggressività di un animale che è pronto a scattare e uccidere, e infine c'erano quelli come Angelica stessa, che neanche la notavano perchè lei non voleva farsi notare. In tutti e tre i casi il risultato era lo stesso: Mari restava sempre sola. Chiedersi quale fosse il motivo di quel suo modo di fare era più che lecito, visto che alla fine non sembrava una che disprezzasse il sorriso e la parola.
Mari arrossì e muovendo leggermente al testa in avanti nascose più gli occhi sotto il grosso ciuffo di capelli. «Non mi trovo a mio agio con le persone» ammise.
«Eppure sembri una ragazza così solare e sicura di te» osservò ancora Angelica, studiando l'esile figura che sembrava farsi più piccola parola dopo parola.
«Non ti da fastidio se resto qui con te?» chiese ancora, dopo una lunga riflessione a cui Mari aveva lasciato tutto lo spazio, continuando a mangiare come se fosse sola.
«No, fai pure» le rispose con semplicità.
«Non credo di essermi mai presentata, a proposito! Mi chiamo Angelica Vazquez, vengo da un villaggio ad est del Wall Rose. Lì le cose non vanno poi troppo male, la mia famiglia riesce a vivere abbastanza agiamente perchè mio padre è un artigiano e riesce a vendere un bel po' dei suoi lavori. Stavo imparando anche io, non mi dispiaceva, mi piace il lavoro manuale ma ho sempre trovato affascinanti le divise e la forza degli uomini che la indossavano. Sai, una volta un uomo della Gendarmeria ci ha salvati da un ladro che, entrato in casa, ha cercato di rubarci ogni cosa. Ci ha minacciati di ucciderci, ma il soldato l'ha steso in poco tempo! E' stato un vero eroe! E quindi... eccomi qui, a spaccarmi la schiena invece che produrre argille» ridacchiò, come se fosse stato una divertente barzelletta e Mari si scoprì ad aver abbandonato il suo pasto, curiosa e interessata da quella storia tanto da dimenticarsi di avere fame. «Tu, invece, perchè sei qui?»
«Io?» chiese Mari, sorpresa che qualcuno avesse potuto rivolgerle quella domanda. Abbassò nuovamente lo sguardo alla manciata di fagioli che, ormai freddi, le sfioravano le labbra e riscavando nella propria mente, alla ricerca di una risposta, si trovò a sorridere. Persa in un dolce pensiero, le guance lievemente arrossate e il cuore che le concesse un paio di pulsate un po' più forti del solito. «Io voglio imparare a volare.»
«Volare? Ah! Parli delle ali della libertà dell'Armata Ricognitiva, giusto?» chiese conferma Angelica.
«Voglio sentire il vento accarezzarmi il viso e arrivare a toccare il cielo, percependo su di me la consistenza delle nuvole. Veloce, libera e irraggiungibile» continuò Mari, proseguendo su una scia di pensieri che non avevano preso in considerazione la domanda di Angelica, nè tanto meno la sua presenza.
«Il movimento tridimensionale lo usano anche le altre legioni, non solo l'Armata Ricognitiva» osservò Angelica, interpretando le parole di Mari come un desiderio a utilizzare il dispositivo.
«Non è la stessa cosa» disse Mari, facendo di nuovo riferimento a ciò che la compagna stava dicendo, e tornando in sè ingoiò finalmente quel boccone. «Per quanto grande possa essere la gabbia, un uccello non potrà mai sentirsi veramente capace di volare se chiuso al suo interno. Mura e tetti impediscono la vista da qualsiasi prospettiva li si guardi.»
«Sei disposta a farti mangiare dai Giganti solo per poter avere un po' di visuale in più? Non credi sia una motivazione un po' troppo debole?» chiese Angelica sovrapensiero.
«Tu credi?» chiese candidamente Mari e solo allora Angelica si rese conto di aver parlato a sproposito e si affrettò ad aggiungere: «Non volevo dire che sei superficiale! Scusami.»
«Perché mi chiedi scusa?»
«Perché... ho detto che la tua motivazione... è debole» balbettò Angelica, chiedendosi se la compagna se avesse capito o meno. Chiunque si sarebbe offeso per una cosa del genere.
Mari si portò il cucchiaio vuoto al mento e sollevò gli occhi al soffitto, pensierosa, non mostrando minimanente fastidio per quanto detto da Angelica.
«Forse hai ragione» osservò. «Allora ne troverò un'altra!» sorrise infine, soddisfatta della soluzione appena trovata al problema, e tornò a mangiare incurante.
"Ne troverà un'altra? Dice sul serio?" pensò Angelica, restando allibita di fronte all'ingenuità che quella ragazza mostrava. Per la prima volta, si trovò a chiedersi dove fossero andati a pescarla. Non si era posta troppe domande quando Keith l'aveva introdotta nel corpo d'addestramento praticamente a metà corso, senza specificare altro che il suo nome. Non le era sembrato un evento troppo curioso, o per lo meno non si era considerata nella posizione di dover fare delle domande. Poi erano arrivate quelle voci, pettegolezzi tra compagni di corso che invece erano stati più curiosi di lei sulla nuova arrivata, che sembrava essere stata portata tra le file dei soldati direttamente dal comandante Erwin Smith. Solo voci a cui non aveva prestato attenzione, considerandole troppo cattive e poco obiettive, sicuramente false. Ma ora che aveva a che fare con lei, con quei suoi modi strani, quei modi che la facevano sembrare come estranea a tutto, come se fosse appena venuta al mondo, la curiosità aveva bussato anche alla sua di mente.
«Mari... tu da dove vieni?» Chiese sovrappensiero, cominciando a dubitare dell'effettiva falsità di quelle voci. Che ci fosse un fondo di verità? Certo la via migliore era chiedere alla diretta interessata, ma date le circostanze, se davvero fossero state vere, forse sarebbe stato crudele chiederle di rivelarlo così apertamente a una totale sconosciuta. Ma tutto questo arrivò ad Angelica solo troppo tardi, quando ormai aveva dato fiato alla bocca e non poteva tornare indietro.
Guardò imbarazzata la compagna di fronte a sè che finiva il suo pasto silenziosamente, con la stessa identica espressione di poco prima, minimamente scomposta. Attese qualche secondo, chiedendosi se non avesse lo stesso colmato quella curiosità nonostante la sfacciataggine che lei aveva appena avuto, ma solo il silenzio colmò quell'attesa.
«Scusa, forse non avrei dovuto chiedertelo. Ci conosciamo appena» disse, sentendosi una gran maleducata ad aver chiesto qualcosa di tanto privato a qualcuno che conosceva da così poco.
«Mh?» alzò finalmente la testa Mari, guardandola ancora con quel suo sguardo curioso e indagatore, per niente turbato, solo un po' sorpreso. «Chiedere cosa?»
«Ma...» si pietrificò Angelica. «Non mi hai sentita?»
«Scusami, ero sovrapensiero.» sorrise candidamente lei, prima di alzarsi in piedi e afferrare il proprio piatto vuoto. «Ci vediamo domani mattina. Grazie della compagnia.»
«Vai già a letto?» chiese Angelica, voltandosi per non perdere il contatto visivo, nonostante Mari fosse già passata oltre, come se avesse avuto fretta ad allontanarsi.
Mari annuì e accennando un ultimo saluto si allontanò, dirigendosi verso il lavello dove sciacquare e riporre il piatto sporco. Non aveva nessuna intenzione di andarsene subito a letto, ma, esattamente come aveva detto ad Angelica, non si trovava particolarmente a suo agio con le persone e aveva desiderato allontanarsi quanto prima. Non tanto per colpa di Angelica stessa: se ci fosse stata solo lei non sarebbe stato un problema. Ma era tutta la sala piena a metterla in agitazione: troppe voci, troppi volti e troppi occhi a cui fare attenzione. Per questo appena poteva, fuggiva via. Senza contare che Sierk con quegli stupidi dei suoi amici l'avevano irritata abbastanza per quella sera e certo non era il caso di restare lì a rimuginarci. E infine... la domanda.
"Da dove vieni?"
L'aveva sentita eccome. Ma non aveva avuto nessuna intenzione di rispondere. In realtà... non ne aveva avuto il coraggio. Camminò a testa china, ben attenta a non incrociare lo sguardo con nessuno, osservando minuziosamente lo sporco del proprio piatto e nient'altro. Passò attraverso quel mormorio di voci indistinte, sottofondo a una marcia interminabile. Cercò di estraniarsi a tutto quello, di sentirsi sola col suo respiro. Presto sarebbe uscita fuori e avrebbe respirato l'aria della notte, sola, gatta ferita e terrorizzata che apprezza solo la compagnia di chi riesce a starle più lontano: Luna e Stelle. Amiche che presto avrebbe raggiunto, o a cui perlmeno si sarebbe avvicinata.
"È davvero così superficiale?" si chiese, pensando a ciò che Angelica aveva detto della sua motivazione ad entrare nell'Armata Ricognitiva. Eppure il focore che sentiva nel petto al solo pensiero era così invadente.
Il piede, ormai autonomo nella sua marcia silenziosa, si bloccò improvvisamente a mezz'aria, ostacolato. L'equilibrio le mancò tanto da farle battere il cuore dalla paura e presto raggiunse il pavimento in uno fragore di cocci che andavano sparpagliandosi da tutte le parti.
I presenti in sala non diedero importanza a quanto successo, solo qualcuno che stava più vicino a lei si zittì momentaneamente, semplicemente incuriosito per l'accaduto, ma nemmeno troppo interessato. Eppure per Mari quel silenzio fu assordante quasi quanto gli sghignazzi che provenivano soffusi dalla sua destra. Non aveva ancora capito cosa fosse successo, ma al momento riusciva solo a sentire dolore. Il suo respiro rimbombava nelle orecchie, mentre un male improvviso cominciava a martellarle le ossa.
La testa le girava, la visuale era sfocata. Ma che stava accadendo? Cosa era accaduto?
Cercò di rialzarsi, ma nel muovere una mano verso di sè la vide lasciare a terra una striscia di sangue rossa, probabilmente fuoriuscita da una ferita provocatole dai cocci del piatto rotto su cui era stesa. La vista andò ad annebbiarsi ancora di più, focalizzandosi su quel singolo punto carminio. Poteva sentirlo in bocca, il sapore del sangue, benchè non avesse ferite lì.
E le risate, le voci, gli echi e una frase: «La puttana non perde il vizio di star stesa.»
Chi l'aveva pronunciata? Chi aveva riportato a galla certi pensieri? Certi ricordi? Chi dopo così tanto tempo l'aveva di nuovo chiamata in quel modo?
Alzò gli occhi, cercando il volto di chi aveva osato ma davanti a sè trovò solo delle mani.
«Dai aiutatela.»
Mani che si allungavano.
«Che patetica.»
Verso di lei.
«Non riesce nemmeno a rialzarsi.»
E l'afferravano.
«Non toccarmi!» gridò con rabbia mentre si lanciava verso il suo aggressore. Stretto tra le dita, tanto da conficcarsi con la punta nel palmo, aveva uno dei cocci del piatto appena rotto e con esso cercò di colpire Zhen. Il ragazzo indietreggiò, provando ad allontanarsi dalla traiettoria del colpo, ottenendo così un semplice graffio sullo zigomo. Ma Mari gli fu addosso e alzò il coccio sopra la sua testa, pronto a conficcarlo nel collo.
«Ferma!» ordinò una voce alle sue spalle, e qualcuno le bloccò il braccio appena in tempo. Non vide chi era, non importava, in quel momento non riusciva nemmeno a capire perché vedesse sangue da tutte le parti. Si voltò di scatto e colpì Craig con un pugno in pieno viso. Il colpo fu più forte del previsto e fece barcollare il ragazzo all'indietro, scuotendo la testa confuso. Mari tornò a guardare Zhen steso a terra e di nuovo si lanciò su di lui, ma di nuovo qualcuno intervenne, afferrandola per la vita e sollevandola da terra per allontanarla.
«Toglile quel coso di mano!» ordinò un'altra voce.
"Non toccatemi! Non toccatemi!" continuò a pensare Mari, mentre nella sua mente si affollavano mani e dita, dirette nelle sua direzione. Volevano di nuovo toccarla, afferrarla, farle male, piene del diritto che si sentivano di avere nei suoi confronti. Pagata, comprata, venduta come un misero oggetto senza anima. Si piegò in avanti e con un colpo secco tirò indietro la testa, colpendo in viso chi aveva osato prenderla alle spalle. Sentì la presa su di lei allentarsi e permetterle di tornare con i piedi per terra.
«Mari...» sentì una voce chiamarla. Sembrava l'unica che non appartenesse a quel mondo di nebbie e mani, ma che venisse da un'altra parte. Troppo debole, non abbastanza convincente. Lei restava in quella gabbia di confusione e dolore.
«Mari!» la stessa voce più imperativa. Le gambe andavano, le braccia ugualmente. La mano colpì lo stomaco di qualcun'altro. Una mano le afferrò il polso, ma lei si divoncolò e sentì il sapore del sangue in bocca. Non il suo.
«Mari! Basta!»
"Erwin... Smith?" pensò Mari nell'istante in cui potè sentire di nuovo prendere possesso del suo corpo. Riprese coscienza delle sue braccia, doloranti, e delle gambe che tremavano. In mano, il coccio le faceva un gran male. Spalancò gli occhi, come se si fosse appena svegliata da un incubo, e si prese qualche secondo per riconoscere Zhen bloccato tra il pavimento e il suo braccio, serrato al suo collo per impedirgli di muoversi. La guardava in un misto tra il terrorizzato e l'incazzato, giurando mentalmente vendetta non appena si fosse liberato. Mari allentò la presa, sorpresa di quanto stesse accadendo, e Zhen ne approfittò per lanciarla via con rabbia. Un gruppo di ragazzi gli andarono a fianco, poggiandogli le mani sulle spalle, chiedendogli se fosse tutto a posto ma lui non aveva occhi che per Mari, progettando probabilmente di fargliela pagare quanto prima.
«Merda! La stronza mi ha morso!» sentì dire da qualcuno al suo fianco e vide Rodrick, un altro cadetto, tenersi una mano insaguinata.
Cos'era successo? Lei voleva solo portare al suo posto il piatto e poi uscire a guardar le stelle. Perché ora si trovava a terra, le mani impregnate di sangue e le gambe doloranti? Perché ora aveva tutti gli sguardi su di sè in quel modo.
Si voltò, a guardare chi fosse al suo fianco proprio come si trovava al fianco di Zhen e di Rodrick, nella speranza di essere assistita dalla stessa comprensione. Nessuno. Intorno a lei solo vuoto e silenzi.
«Mi... mi dispiace... » balbettò. Quando aveva cominciato a piangere?
Voltandosi, in cerca di una qualsiasi faccia amica, trovò quella del comandante Erwin sorprendentemente più vicina del previsto. In piedi, appena dietro di lei, l'osservava con uno sguardo truce, assolutamente contrariato.
"L'ho fatto arrabbiare" pensò e un singhiozzo la scosse. Le lacrime le appannarono la vista e in quella macchia indistinta dai capelli biondi, Mari riuscì a riconoscerci un viso ben noto e dallo sguardo altrettanto duro.
«Har... vey... mi... mi dis... » balbettò con un filo di voce, ma non riuscì a terminare la frase e probabilmente Erwin non riuscì neanche a sentirla, in quell'indistinto singhiozzare.
«Caspita, quello è proprio un bel taglio!» disse il capitano Hanji, ora inginocchiata al fianco della ragazza. Allungò una mano verso quella insanguinata di Mari, ma lei la ritrasse impanicata. Ovunque guardasse c'erano quegli sguardi che facevano così male. E tutti cercavano di toccarla, di afferrarla. Si sentiva soffocare, chiusa in quella gabbia di occhi e mani. Indietreggiò, arrancando, cercando di allontanarsi da Hanji e continuando a balbettare quanto fosse dispiaciuta. Ma il cerchio di occhi non si dissipava nemmeno un po', continuando a puntarla, accusarla, colpirla.
"Io volevo solo uscire a veder le stelle".
«Lo trovate così interessante?» e la gabbia di sguardi si spostò immediatamente da Mari alla fonte della voce che aveva appena parlato: la voce di Levi.
Un profondo respiro e la gola di Mari tornò a rilassarsi, facendole meno male, ora che una prima porta era stata aperta, ora che sentiva di poter avere una via d'uscita.
«Proverò a fare altrettanto quando sguazzerete nel vostro sangue e nella vostra merda, il giorno che verrete divorati dai Giganti. Chissà che non mi diverta anche io.» La frase risultò più come una minaccia che un rimprovero e probabilmente per questo molti dei cadetti lì presenti si dileguarono all'istante, tornando ognuno ai propri affarri. La gabbia era finalmente sparita, lasciandola libera.
Mari volse un altro sguardo a Erwin, che ancora la guardava con severità e colta da un fremito di paura si rialzò e fuggì via.
Erwin la seguì con lo sguardo mentre si dileguava fuori e tirò successivamente un sospiro affranto, anche se a occhi inesperti sarebbe potuto risultare scocciato.
«Si calmerà presto» disse, voltandosi per tornare al suo tavolo.
«Ha un bel taglio! Va medicata!» disse Hanji, poco convinta, chiedendosi se non fosse il caso di andarla a cercare.
«Nello stato d'animo in cui si trova non riusciresti nemmeno ad avvicinarla. Tornerà quando si sarà calmata e avrà bisogno di un tetto sopra la testa.»
«Stai parlando di una ragazza o di un animale randagio?» chiese Levi, guardandolo di sottecchi. La ridicola scena a cui aveva appena assistito doveva avere una spiegazione sotto, nessuno reagisce con tale panico a così poco, e sicuramente Erwin doveva avere le risposte. «Dove l'hai raccolta, Erwin?» chiese, senza aspettare che il comandante rispondesse alla sua prima domanda. Era giunto il momento di rivelare parte di quei misteri in cui si era ritrovato coinvolto.
«Lei proviene dallo stesso luogo da cui arrivi tu» rivelò Erwin, senza farsi pregare troppo, come se alla fine quei misteri non fossero poi troppo importanti. Levi sorprese il proprio cuore ad aumentare lievemente i battiti, nel ricordare la vita passata chiuso in quella fogna puzzolente: la Città Sotterranea. Quel luogo che un tempo aveva chiamato casa.
«Hai notato i suoi capelli? Prima li aveva molto più lunghi. Quella sfumatura così accesa è rara. Pregiata, si potrebbe definire.» E non ci fu bisogno che Erwin aggiungesse altro. Levi conosceva abbastanza la vita di quel posto per sapere che fine avesse potuto fare una ragazza come lei. Se perfino il suo occhio disinteressato era stato catturato con tale magnetismo da quella sfumatura amaranto, se perfino la sua mente ne era rimasta folgorata, tanto da non riuscire più a togliersela dai pensieri, sicuramente altrettanto effetto -se non superiore- aveva sugli uomini dalla dubbia moralità che giravano per quelle strade.
Erwin considerò terminate le spiegazioni e tornò al suo tavolo, insieme agli altri ufficiali, pronto a finire il suo pasto e dimenticare l'accaduto. Levi lo seguì e in un primo momento sembrò intenzionato a fare altrettanto, ma poi afferrò il suo piatto e si allontanò.
«Me ne vado a dormire» annunciò secco solo per rispondere agli sguardi interrogativi di chi aveva intorno.

But she don't want to go outside tonight
And in a pipe she flies to the Motherland
or sells love to another man
It's too cold outside
for Angels to fly



NDA.
Ciao!!! Eccomi (quasi) puntuale xD
Comincio subito con i credits: la strofa utilizzata (spezzata a metà a inizio e metà a fine capitolo) è presa da "The A team" di Ed Sheeran. Se non la conoscete, ascoltatela *-* è bellissima (A dir il vero... tutte le canzoni di Eddino sono bellissime). In realtà la canzone si riferisce più a tossicodipendenti, ma quel particolare pezzo (che poi è il ritornello) ben si addice anche alla storia di Mari (che con la droga non c'entra nulla, ma col resto sì... tanto poi andando avanti spiego meglio tutti i retroscena).
(Ma quante cavolo di parentesi sto facendo sta volta?)
(O.o)
(Adesso scrivo tutte le NDA così...) xD
No, vabbè, basta... immagine del capitolo!!! In realtà Rinmaru Games fa tutte le scenette abbastanza kawaii-allegre-love, poco si adattano allo spirito di questo capitolo, perciò mi limito a condividere con voi la tenera scenetta Angy-Mari in chiave moderna (se Rinmaru me lo avesse permesso, avrei evitato la chiave moderna xD sono limitata capitemi u.u), dove la prima racconta della sua provenienza alla compagna assorta.

MARY & ANGY -> https://postimg.org/image/azaeiuf4f/ <- MARY & ANGY

Nel prossimo capitolo faremo un tuffo nel passato e risponderemo alla domanda di Angy: "Mari... tu da dove vieni?"
Ma non solo! Tante novità e tanti "wow" nel prossimo capitolo che si intitolerà:

La bambina delle pere

Estratto:

«Che disastro» sospirò Harvey. «Ma non sembri avere niente di rotto.»
«Il polso mi fa male.»
«Mettilo della bacinella d'acqua fredda, dopo te lo fascio e te lo blocco. Dev'essere solo una storta, guarirà.»
«Tu allora non hai idea di chi siano?» chiese Mari tornando sul discorso uomini volanti.
«Perchè sei tanto interessata a loro?» la brontolò Harvey, cominciando ad applicare impacchi freddi sui lividi.
«Perchè sapevano volare!»


A lunedì prossimo!!!

Tada Nobukatsu-kun

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Capitolo 4
*** La bambina delle pere ***


La bambina delle pere


Città sotterranea

Anno 841


Dolf Schubert trascinò dentro il proprio negozio la cassa con i rifornimenti. Qualche tozzo di pane, un po' di farina, acqua, delle patate. Quel giorno era perfino riuscito ad accaparrarsi delle pere, che avrebbe sicuramente rivenduto a caro prezzo. Cercò di aprire la porta con un piede, mentre il resto del corpo lo impiegava nello sforzo, ma stranamente restò chiusa. Tentò di nuovo, infastidendosi sempre più, fino a quando preso per disperazione non lasciò il carico e tentò in maniera canonica, con le mani. Niente da fare: la porta era bloccata dall'interno.

«Ma che cazzo...?» brontolò, facendo il giro del casolare e sbirciando dalla propria finestra. Lanciò un urlo quando vide distintamente ben due gatti che si erano sentiti liberi e padroni di salire sulla sua tavola e divorare il suo cibo.

«Bestiacce! Fuori dal mio negozio!» gridò, afferrando un mattone e lanciandolo contro il vetro, spaccandolo. I gatti schizzarono ovunque per la paura, ma ben si guardarono dall'uscire dal negozio e abbandonare lì tutto quel cibo.

«Vi faccio arrosto!» gridò ancora Dolf, scavalcando la finestra ed entrando. Afferrò una scopa e cominciò a dar la caccia ai gatti, che soffiavano e scattavano ovunque terrorizzati. Finalmente riuscì a scacciarli via, quando un altro rumore attirò la sua attenzione, ma questa volta proveniente dall'esterno.

Ci mise qualche istante a farsi tornare la memoria e ricordare: «La mia roba!»

Scattò verso la porta, l'aprì e uscì fuori appena in tempo per vedere una folta chioma rossa uscire dalla cassa spaccata. Una bambina, di poco più di dieci anni, teneva stretto al petto del pane e una bella manciata di quelle pere che aveva pagato oro.

«Ladruncola bastarda!» le urlò contro, lanciandosi verso di lei con la scopa serrata in mano. La bambina saltò fuori dalla cassa, la refurtiva ben stretta al petto, e cominciò a correre per le strade della città a perdifiato. Si affrettò a tirarsi il cappuccio della casacca sopra la testa, cercando di nascondere il più possibile il suo marchio distintivo, quei capelli che nessuno non avrebbe potuto non notare. Spesso erano stati proprio quelli la causa dei suoi guai: saltando subito all'occhio non le permettevano di rubare in pace e la gente finiva subito per riconoscerla per strada. Tempi che erano andati persi molto prima, quando Harvey aveva avuto la brillante idea di cucirle quella casacca perfetta per rinchiuderci dentro quel trascina sfortuna.

«Al ladro!» gridò Dolf alle sue spalle, arrancando benché fosse un uomo abbastanza forte e allenato. Quella disgraziata era veloce, agile e piccola abbastanza da scivolare tra le gambe delle persone senza venirne rallentata, mentre lui non aveva quella fortuna nel suo metro e settanta. La bambina svincolò tra due signore intente a parlare dei guai della città e della sfortuna di vivere in quella miseria, facendo interrompere i loro discorsi con un urlo sorpreso e acuto, ma nessuna delle due ebbe la prontezza di afferrarla.

«Torna qui! Se ti prendo lo vedi cosa ti combino, bastarda!» gridò ancora Dolf alle sue spalle. Nonostante tutto non sembrava stancarsi nemmeno un po'.

"Com'è testardo" pensò la piccola, scocciata. "Adesso ti faccio vedere io!"

Scivolò dietro un muretto, correndo all'interno di uno stretto vicolo dietro un casolare. La strada, arrivata in fondo, si interrompeva per un enorme staccionata che divideva i quartieri, alta abbastanza da bloccare qualsiasi uomo di qualsiasi altezza.

Al suo fianco, però, a dispetto di ciò che poteva servire quella barricata in legno, c'era un grosso ammasso di spazzatura. Mari ci saltò sopra e la scalò senza difficoltà, infine con un ultimo salto arrivò al bordo superiore. Si sporse e saltò giù, dall'altro lato. Dolf l'avrebbe sicuramente seguita ancora, ma aveva visto abbastanza da credere che non sarebbe riuscito a scendere dall'altro lato prima che lei non fosse sparita. Era forte e robusto, ma goffo e sicuramente non agile abbastanza da risalire quell'accumulo di schifezze con la facilità con cui ci era riuscita lei.

Corse fuori dal vicolo e sentì Dolf sbattere contro il legno della staccionata alle sue spalle, colpendola e lanciandole insulti. Si voltò, intimorita per un istante all'idea che avesse potuto sfondarla, ma ciò non accadde. Al contrario, qualcos'altro mandò in fumo tutto ciò che aveva fatto fino a quel momento. L'unica cosa che vide fu un'ombra piombare su di lei dal cielo: troppo grossa per essere un uccello, troppo veloce per essere qualsiasi cosa conoscesse. Si bloccò, interrompendo la sua corsa e permettendo all'essere di passare oltre senza investirla, ma ormai era troppo tardi. Colpita, anche se solo su una spalla, cadde a terra e la refurtiva andò sparpagliandosi per terra. Guardò il disastro ai suoi piedi confusa e mosse immediatamente uno sguardo a ciò che l'aveva quasi uccisa, scoprendo solo allora che non era un essere nè tanto meno un animale. Era un uomo, anzi due uomini e una ragazza per la precisione. Volavano sopra i tetti come uccelli, destreggiandosi con abilità e velocità. L'uomo dai capelli scuri, quello che era in testa al gruppo, si voltò lanciandole uno sguardo infastidito e di disappunto, mentre la ragazza dai capelli rossi al suo fianco le urlava: «Guarda dove vai, moccioso!»

Pochi secondi, un contatto visivo di appena pochi secondi, ma era bastato a imprimere a fuoco nella sua memoria quel viso affilato.

«Sanno... volare...» balbettò, guardandoli incantata mentre sparivano poco più avanti.

Si ricordò di dov'era e di ciò che stava facendo solo quando sentì la grossa mano di Dolf afferrarla per il colletto della maglia e sollevarla da terra.

«Beccata!» disse soddisfatto e lei cominciò inutilmente a dimenarsi come un anguilla, incapace veramente di scivolare via da quella ferrea presa.


Quando Mari aprì la porta di casa, Harvey era seduto al tavolo, impegnato a sorseggiare una tazza fumante. Il viso, ancora delicato nei suoi lineamenti di bambino che aveva solo da poco cominciato ad abbandonare, era disteso in un sorriso soddisfatto. Inspirò il profumo della bevanda, che sorseggiava come un nobile alla corte del Re, e si passò platealmente una mano tra gli scompigliati capelli aranciati -troppo scuri per essere definiti biondi, troppo chiari per essere definiti rossi.

«Latte caldo, ne hai mai provato? Giornata fruttuosa per il tuo astuto fratellino che è riuscito a conquistare con successo ben due bottiglie!» disse con orgoglio, prima di voltarsi a guardare la sorella.

«Che diavolo t'è successo?» chiese stranito, notando solo allora il suo stato. Il viso di Mari era ricoperto di polvere e sangue, pulito solo su due strisce sulle guance, via che avevano sicuramente percorso fiumi di lacrime. Un labbro spaccato, l'occhio che cominciava a gonfiarsi, i capelli arruffati e con una mano si teneva stretta un polso, probabilmente dolorante. Poche volte era tornata ridotta così male.

«Mi hanno presa» borbottò lei, sforzando la voce per evitare di tornare a piangere. Ogni cosa le faceva male, ogni singolo punto del corpo era stato preso a calci e bastonate, non aveva mai preso tanti colpi come quella volta. Tutto per delle dannate pere che aveva pure perso per la strada e aveva dovuto abbandonare.

«Ti sei fatta prendere» specificò Harvey, che sapeva bene che quando voleva Mari sapeva correre più del vento. Era un vero e proprio gatto randagio, impossibile da afferrare, proprio come quegli animali che si portava appresso spesso e volentieri, come amichetti al parco giochi.

«Non è stata colpa mia!»

«E di chi? Sentiamo.»

Mari abbassò lo sguardo, puntandolo a un angolo del pavimento, mentre rivedeva perfettamente nella sua memoria il volto dell'uomo volante. L'uomo che l'aveva travolta, che aveva causato quel guaio e che neanche si era preoccupato di chiederle scusa, ma anzi l'aveva guardata con disprezzo, come se fosse stata lei a intralciarlo e dargli impiccio.

«Mi hanno investita» disse con disprezzo, ma subito si ammorbidì. Nonostante tutto non riusciva a provare rancore verso quelle persone. «Delle persone volanti» aggiunse con un primo accenno di emozione. Persone volanti, come potevano esistere? Davvero c'era chi era in grado di farlo? Nessuno avrebbe mai potuto prenderli lassù! «Tu sai chi sono?» chiese, ora improvvisamente interessata.

«Non ho la più pallida idea di cosa tu stia dicendo» l'ammonì Harvey, lasciando la sua tazza sul tavolo e alzandosi. Andò a spostare una sedia e con un gesto invitò Mari a sedercisi sopra. La bambina obbedì, trovandosi poco dopo a dondolare i piedi nel vuoto. Quelle sedie erano troppo alte per lei, o forse era lei che si ostinava a restare troppo piccola?

«Erano tre! Volavano come uccelli, avresto dovuto vederli! Erano incredibili, velocissimi!»

«Non esistono persone volanti.»

«Invece ti dico che loro lo facevano! Davvero tu non li conosci? Tu conosci chiunque!»

«Se non mi dici come erano fatti come posso dirti se li conosco?» brontolò lui, prima di di posizionarsi davanti a Mari e cominciare a pulirle il viso con un panno umido.

«Uno era un ragazzo credo abbastanza alto, biondo. Non so dirti molto di più, era di spalle ed è l'unico che non si è girato. Poi c'era la ragazza, aveva i capelli rossi come i miei ma più scuri e meno appariscenti» e una nota amara condì quell'ultimo commento. Detestava i suoi capelli che attiravano così l'attenzione. «Mi ha detto "guarda dove vai, moccioso!". Credo che il cappuccio abbia nascosto il mio viso, se mi ha preso per maschio. Aveva due codini, il viso allegro, forse un po' di lentiggini. Era lontana, non sono riuscita a vedere molto.»

«E il terzo?» chiese distrattamente Harvey, ora prendendo a medicare il sopracciglio tagliato. L'ascoltava il minimo necessario, non veramente interessato, ma finchè parlava del suo bizzarro incontro non brontolava per il dolore dei tagli e questo gli permetteva di lavorare alla medicazione con assoluta tranquillità.

«Il terzo...» mormorò Mari, tornando a ripensare a quello sguardo glaciale. «Aveva i lineamenti un po' duri. Gli occhi mi hanno fatto venire i brividi, mi ha guardata come se avesse voluto uccidermi. Erano piccoli, affilati e scuri come i suoi capelli. Rasati qui, dietro la nuca» e si indicò. «E invece un po' più lunghi sopra, tanto che qualche ciuffo gli svolazzava davanti agli occhi. Non sembrava molto alto e grosso, ma credo che fosse il capo banda. E' stato lui a travolgermi e mentre io son caduta a terra, lui non sembra averne risentito per niente, anche se credo che mi abbia insultata.»

Harvey terminò la pulizia e medicazione del viso e con un gesto, senza parlare, la invitò a togliersi i vestiti. Ancora una volta Mari obbedì, cominciando a scoprire con dolore i lividi sparsi sul suo corpo.

«Che disastro» sospirò Harvey. «Ma non sembri avere niente di rotto.»

«Il polso mi fa male.»

«Mettilo della bacinella d'acqua fredda, dopo te lo fascio e te lo blocco. Dev'essere solo una storta, guarirà.»

«Tu allora non hai idea di chi siano?» chiese Mari tornando sul discorso uomini volanti.

«Perché sei tanto interessata a loro?» la brontolò Harvey, cominciando ad applicare impacchi freddi sui lividi.

«Perchè sapevano volare!» disse Mari colma di eccitazione.

«Siamo chiusi sottoterra, la capacità di volare non li porterà a niente.»

«Non è vero! Sono inafferrabili lassù e poi basterebbe trovare un buco nel soffitto per poter scappare via da tutto questo! Vedere il cielo e magari arrivare a toccare le nuvole! Tu sai come sono fatte le nuvole?»

«Sta' ferma!» l'ammonì Harvey, scocciato dal fatto che la sorella si stesse agitando tanto. Mari tornò a rilassarsi e immergere il polso nell'acqua fredda, pensierosa. Non riusciva a togliersi quel viso, quello sguardo, dalla testa.

"Quanto mi piacerebbe imparare come loro" pensò.

«Comunque...» riprese a parlare Harvey, dopo qualche secondo di riflessione. «Può essere che tu ti sia imbattuta nella banda di Levi.»

«Levi?» chiese Mari, emozionata di poter conoscere il suo nome. In un solo gesto estrasse nuovamente il polso fuori dall'acqua e si voltò verso il fratello, che seccamente le afferrò la testa e la riportò prepotentemente nella posizione precedente. Un silenzioso ammonimento: doveva stare ferma e smettere di agitarsi.

«Già. Fai una cosa, stampati bene in testa questo nome.»

«E perchè mai?»

«Perchè quel tipo non mi piace per niente. Stanne alla larga.»

«Ma chi è?» chiese ancora più interessata Mari.

«Ne ho sentito parlare nella zona mercantile, pare che ultimamente lui e quei due idioti che gli vanno dietro stiano creando non pochi problemi. Per colpa loro la Gendarmeria nella zona ha triplicato i controlli e chi ci rimette sono i poveracci che lottano per un bicchiere di latte come noi, che vengono subito scovato. O le bambine distratte come te!» si affrettò ad aggiungere, strofinando una nocca contro la sua testa e facendola lamentare per il dolore.

«Dicono che da poco abbiano rubato delle attrezzature militari che permette loro di saltare oltre i tetti delle case e viaggiare a gran velocità. Sinceramente, spero che li ammazzino presto perché qui sta diventando sempre più difficile portare a casa del pane.»

«O delle pere» aggiunse Mari, sconsolata.

«Tieniti a distanza da loro, fammi questo favore.»

«Sì» mormorò Mari. «Lo farò, stai tranquillo.»



It’s a damn cold night Trying to figure out this life

Won’t you take me by the hand? Take me somewhere new

I dont know who you are But I’m with you



NDA


E niente, mi è presa sta cosa carina di mettere pezzi di canzoni alla fine dei capitoli tipo "sigla fine episodio" xD

Questa, come magari avete potuto riconoscerla, è "I'm with you" di Avril Lavigne.

Piccolo tuffo nell'infanzia di Mari, dove si scopre di questo (bizzarro?) incontro e vengono rivelate le prime fondamenta. Come magari si può cominciare a intuire, il cammino di Mari è cominciato già molto prima, esattamente quel giorno dell'841 quando Levi, travolgendola, l'ha resa vittima di un pestaggio coi fiocchi (e le ha fatto perdere le sue preziosissime pere). Ma cosa avrà portato la piccola Mari dal "ok, Harvey caro, gli starò lontana" al "Mi ha detto che son stata brava, mi metto a piangere"? XD E, ancora, quale ruolo ha avuto in tutto questo Erwin, che sembra esserne più invischiato di quanto ci si possa immaginare? E che fine avrà fatto Harvey?

Vi lascio con queste domande e saluto!

Cià cià


Tada Nobukatsu-kun


Anticipazione:


"«Mi sono dimostrata degna! Ho superato tutte le prove a cui sono stata sottoposta, nonostante sia entrata in ritardo in addestramento, non può dire che non sono forte abbastanza!»

«Sei scoppiata a piangere per uno sgambetto» tagliò corto Levi, fulminandola.

«È... è stato un incidente! Non accadrà più glielo assicuro!» balbettò, completamente pervasa dall'imbarazzo. Era stata una vera stupida, se ne rendeva conto. Era andata nel panico per una scemenza, era veramente una vergogna, ma non era nemmeno giusto che quell'incidente andasse a rovinare tutto, facendo crollare ogni sorta di impegno, determinazione e sogni."


E una piccola child-Mari :3


MARI -> https://postimg.org/image/gz3n3ks5n/ <- MARI


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Capitolo 5
*** Forza ***


Forza


Centro di addestramento

Anno 846


Aveva girato in lungo e in largo, ma alla fine era riuscito a trovarla. Rannicchiata, raccolta in se stessa, nascosta tra l'erba troppo alta ai fianchi di un albero, su una collina appena alle spalle dal centro di addestramento. La testa le cadeva tra le ginocchia, su cui poggiava le braccia, stese in avanti e i palmi ancora insanguinati rivolti al cielo, come una mendicante che chiedeva l'elemosina. Le spalle ancora si scuotevano per i singhiozzi. Nonostante fosse passata una buona mezzora, lei non si era calmata neanche un po' e le mani ancora sporche lo dimostravano più delle sue stesse lacrime.

Levi le si avvicinò silenzioso, ma cercando di non esserlo troppo per permetterle di rendersi conto che non era più sola. Al fruscio dell'erba calpestata dagli stivali, Mari reagì chiudendo appena le dita, in un bizzarro gesto di protezione.

«Non volevo... mi dispiace... » riuscì a sentirla mormorare con un filo di voce, sussurrando a se stessa, persa in un loop di pensieri, ricordi e paure. «Non farmi male... non lo farò più, non farmi male...» e Levi restò in ascolto di quei mormorii agonizzanti ancora qualche istante. «Sarò brava. Sarò brava. Non farmi male.»

«Nessuno vuole farti male» intervenne lui, cominciando a trovare patetico che restasse ancora rinchiusa in quel nodo. Mari scosse la testa intrappolata tra le ginocchia, dondolandola da un lato a un altro.

Strinse definitivamente le dita sul palmo della mano, serrandole a pugno, e le ritirò verso il busto, alzando la testa quel tanto che bastava per osservarle una volta raggiunte e poggiate sulle ginocchia. Il viso storpiato dal dolore si allungò in un'espressione spaventata, come se si fosse accorta solo in quel momento del sangue.

«Le mie mani...» balbettò ancora più confusa, mentre davanti ai suoi occhi si diramavano scene che niente avevano a che vedere con quello che stava realmente accadendo. Un pavimento pregno di sangue, la sua veste stracciata, le urla di qualcuno alle sue spalle, una porta che sbatte e un corpo esanime sul pavimento. Tutto è macchiato di rosso, proprio come i suoi capelli. Poteva ancora sentire il gocciolio del sangue che dalle sue mani cadeva nella pozza sotto di sé e quell'acre odore ferruginoso che le facevano venire i conati di vomito.

«Lui mi ha afferrata...» mormorò mentre vedeva una mano scendere verso il suo viso, pronta a colpirla. Serrò gli occhi, rannicchiandosi ancora di più, come se veramente qualcuno la stesse per picchiare ed urlò: «Non volevo ucciderlo! Mi ha afferrata! Non farmi male!» Allungò i palmi aperti in avanti, a protezione della sua testa che ora girava vorticosamente.

"Ucciderlo?" si chiese Levi, spalancando appena gli occhi, chiedendosi quali altri segreti nascondesse quella ragazza. Sicuramente Erwin non gli aveva raccontato tutto. In effetti, la scusa che si fosse interessato a una prostituta tra le tante solo per la colorazione singolare dei suoi capelli non reggeva molto. Doveva essere successo qualcosa di più significativo che aveva attirato la sua attenzione.

Qualcosa come un uccisione, ad esempio.

Estrasse un fazzoletto dalla tasca e sbuffando si avvicinò di un altro paio di passi. Con un colpo netto, evitando che lei avesse tempo di realizzare e dimenarsi, le fece un rapido nodo intorno al palmo della mano, comprendo sangue e ferita.

«Quel sangue è il tuo, stupida» disse con astio, prima di allontanarsi nuovamente, volgendole le spalle. Da quel punto della collina cominciava la discesa, quasi priva di alberi, ed era facile avere la visuale scoperta tanto da poter vedere con chiarezza il cielo. Il panorama non era niente male, si ritrovò a pensare con sorpresa e piacere. Si sarebbe dovuto ricordare di quel posto, in futuro.

Mari restò sorpresa del gesto e per un momento riuscì a tornare al presente, lasciando i ricordi al loro posto. Osservò il fazzoletto legato frettolosamente: non avrebbe mai potuto chiuderle la ferita o essere d'aiuto. Non poteva che essere solo un gesto simbolico, data la sua inutilità in quella posizione. Eppure aveva un suo effetto. Il sangue che tanto la terrorizzava con quegli odori, con quei colori e quella viscida consistenza, ora non c'era più.

«La tua mano è tutta sporca. Così la ferita si infetterà. Sarebbe da veri idioti morire per così poco, non credi?» chiese Levi.

Mari si morse un labbro, sentendo nuovamente i sensi di colpa crescergli nella pancia e fare a pugni col suo stomaco. Tremolante si avvolse meglio il fazzoletto intorno alla ferita, mentre nella testa rimbombavano insulti di ogni genere per essersi permessa di mostrare quel lato terribile di sé proprio di fronte al famigerato Levi. Com'era possibile che tutte le volte che capitava che si incrociassero, lei cadeva stupidamente e finiva col farsi del male? Com'era possibile che per una volta non riuscisse a mostrare un minimo di dignità?

«Tu vieni dai sotterranei, vero?» chiese Levi, continuando a guardare il cielo sopra di sé. Infilò le mani nelle tasche e se ne restò lì, a volgerle le spalle, come se non gli importasse niente di lei.

"I sotterranei..." pensò Mari, facendo riaffiorare i ricordi. Alzò lo sguardo e lo puntò alla schiena di Levi. Sembrava ancora così distante, così superiore, proprio come quella volta. Riusciva a volare, a raggiungere il cielo. Inavvicinabile, di nuovo ignorava la sua esistenza mentre lei non poteva che ammirarlo e invidiarlo. Abbracciò le proprie ginocchia, tornando ad affondarci all'interno il volto, e sussurrò non veramente intenzionata a farsi sentire: «Sono la bambina delle pere.»

«Mh?» si limitò a chiedere Levi, avendola sentita mormorare qualcosa di indistinto. Ma nel voltarsi a guardarla, la vide nella stessa identica posizione rannicchiata, con il volto nascosto, e pensò che fosse stato solo un altro dei suoi mormorii confusi rivolti ai fantasmi del passato.

"Non può ricordarselo... non riuscì neanche a vedermi in viso, tanto che mi scambiò per un maschio" pensò, anche se l'idea sotto sotto parve rincuorarla più che dispiacerle. Andava bene così, sarebbe stato imbarazzante se si fosse ritrovata a dover spiegare le potenti sensazioni che aveva suscitato in lei quel giorno. Il giorno che le aveva fatto nascere dentro la consapevolezza che una via d'uscita poteva esserci per tutti.

«Eri costretta a prostituirti per sopravvivere» disse Levi, tornando al discorso che aveva appena cominciato. A rispondergli, ancora una volta, fu solo il silenzio e il sibilo del vento. Ma benché la voce di Mari tacesse, il corpo non riusciva a fare altrettanto e vide la sua mano, avvolta nel fazzoletto, stringersi a pugno tanto forte da cominciare a tremare.

"I sotterranei..." dove mentre Levi continuava a salire, sempre più in alto, nella sua incredibile capacità di volare, lei invece non faceva che andare a fondo. Giorno dopo giorno, sempre più stretta da quella morsa, sempre più distante, sempre più soffocata.

«Era tuo fratello a costringerti, non è così?» chiese ancora Levi, senza preoccuparsi di rigirare il coltello in quella chiara ferita, ora aperta e impegnata a riversare sangue. I muscoli di Mari si fecero sempre più rigidi e ben presto non solo le mani tremarono, ma ogni singolo centimetro del suo corpo, come fosse attraversata da un’insistente spira di ghiaccio.

«Se non lo facevi ti picchiava, così...» e per concludere, Levi tentò di confermare la sua teoria con un'ultima ipotesi azzardata: «Così un giorno l'hai ucciso.»

«Io non ho ucciso Harvey!» gridò Mari con tale impeto che per un breve istante Levi quasi si spaventò quando la vide scattare e alzare la testa. Quegli occhi, quegli stessi occhi che il primo giorno gli avevano fatto venire i brividi, ora erano di nuovo lì e bruciavano di un tale fuoco che Levi ebbe come la sensazione di sentirne il calore sulla pelle.

«Sei tornata tra noi, era ora» si limitò però a commentare, ignorando la sua ira. Finalmente aveva smesso di tremare ed era tornata al presente, alla realtà, senza più mormorare cose assurde. «Non vedo cosa ci sia da arrabbiarsi tanto, comunque. Io l'avrei fatto.»

Una confessione così pesante, così pericolosa, come l'ammettere che non avrebbe avuto remore a commettere un omicidio, avrebbe dovuto scuoterla. Invece, miracolosamente, ebbe l'effetto opposto. Perfino lui avrebbe ucciso e non ne avrebbe sofferto così tanto. Quel sangue non era allora poi così vergognoso da portare addosso?

«Ho visto un sacco di sangue versato, tanto persone morire, alcune anche a causa mia. Le mie mani sono sporche tanto quanto le tue in questo momento, se non addirittura di più. Ma non mi pento di nessuna delle decisioni prese, nemmeno di quella che ha creato più vittime.» Si prese una pausa, osservando come il fuoco nello sguardo della ragazza andasse pian piano estinguendosi. Poi proseguì: «Quando usciamo in esterno, con l'Armata Ricognitiva, in cui tu brami tanto di entrare a farne parte, chi sta troppo a lungo fermo in uno stesso luogo... poi muore. Impara questa lezione. Devi sempre andare avanti, anche se questo significa cavalcare sul cadavere di chi conoscevi.»

Mari restò in silenzio a lungo, semplicemente ascoltando il suono della sua voce e imprimendo a fuoco nella propria mente tutto ciò che Levi stava cercando di dirle. Era crudele, faceva venire i brividi, ma riusciva ad essere efficace tanto da infonderle pace. Era passato un anno da quando aveva abbandonato la Città Sotterranea, un anno da quando si era lasciata tutto quello alle spalle, eppure la sua mente era sempre rimasta intrappolata là sotto. Non aveva mai smesso di essere quella bambina che guardava con invidia chi riusciva a innalzarsi sopra la sua testa, credendo che mai sarebbe riuscita a raggiungerli. Ma ora era giunto il momento di andare avanti, abbandonare quella bambina e soprattutto abbandonare il corpo martoriato che ancora infestava i suoi incubi. Il cadavere di cui portava sporche le mani. Cavalcare su di lui, uscire finalmente all'aria aperta, a qualsiasi costo. Non aveva smesso un solo giorno di desiderarlo e ora poteva farlo davvero.

Libera.

«Comunque, non credo che tu avrai mai modo di mettere in pratica questi insegnamenti, visto che non uscirai mai» concluse Levi, prima di mettersi in cammino per poter tornare al centro d'addestramento. «Sta' tranquilla, non farò rapporto e non dirò che ti sei allontanata senza permesso.»

«Cosa?» si risollevò Mari, lasciando crollare improvvisamente ogni sorta di pensiero ed emozione che fino a quel momento l'aveva tenuta incollata al suolo. «Come sarebbe a dire che non uscirò mai?»

«Non sei forte abbastanza per sopravvivere ai Giganti. Mi opporrò personalmente alla tua entrata nell’Armata Ricognitiva.»

«No! Sta scherzando?! Aspetti, capitano Levi! Non può fare una cosa simile!» balbettò  sull'orlo di un urlo. Si alzò in piedi e si affrettò a raggiungerlo, talmente veloce nei movimenti che quasi non inciampò sui suoi stessi piedi.

«Posso farlo eccome» rispose semplicemente Levi. Duro nel volto, non sembrava stesse scherzando e tanto meno sembrava dubbioso su quanto avesse appena deciso.

«Mi sono dimostrata degna! Ho superato tutte le prove a cui sono stata sottoposta, nonostante sia entrata in ritardo in addestramento, non può dire che non sono forte abbastanza!»

«Sei scoppiata a piangere per uno sgambetto» tagliò corto Levi, fulminandola.

«È... è stato un incidente! Non accadrà più glielo assicuro!» balbettò, completamente pervasa dall'imbarazzo. Era stata una vera stupida, se ne rendeva conto. Era andata nel panico per un’idiozia come quella: era veramente una vergogna, ma non era nemmeno giusto che quell'incidente andasse a rovinare tutto, facendo crollare ogni sorta di impegno, determinazione e sogni.

«Hai tentato di uccidere un tuo compagno! Ci pensano già i Giganti a farci fuori, senza che tu gli dia una mano.»

«Io... non volevo...» mormorò lei, abbandonando per un attimo la vena determinata e disperata. Aveva davvero tentato di uccidere un ragazzo tra le reclute? Non riusciva neanche a ricordarlo.

«Il volere o il non volere non sono abbastanza. Devi dimostrare che puoi.»

«Lo farò! Signorsì!» si rizzò lei, cercando di assumere la posa del soldato perfetto, facendo il segno del saluto.

Levi le lanciò uno sguardo, pochi passi avanti qual era, e prima di riprendere a camminare le disse: «Troppo tardi, per me sei fuori.»

«Che cosa?! No, la prego! Non può farmi questo!»

«Posso fare quello che voglio.»

«Il comandante Smith ha chiaramente espresso il suo desiderio di avermi nell'Armata Ricognitiva!» provò ad aggrapparsi a qualsiasi cosa per cercare di dissuaderlo almeno un minimo, perfino a quello.

«Il capitano Smith si fida delle mie decisioni, ascolterà ciò che avrò da dirgli.»

Niente da fare. Irremovibile, proprio come il suo sguardo di ghiaccio. E tutto cominciò a svanire, come la nebbia di un sogno che al risveglio viene dissolta dal sole.

«La prego, mi dia un'altra possibilità» supplicò.

"Non lasciarmi di nuovo indietro" e un leggero nodo andò a chiuderle nuovamente la gola.

Levi salì gli scalini che portavano ai suoi alloggi, allungandosi sulla maniglia della porta. Entrò e prima di richiudere, mettendo definitivamente un muro tra lui e quella ragazza, le rivolse un ultimo: «Vai a dormire e lasciami in pace.»

«Ma, capitano Levi...» tentò lei, non sapendo bene a cosa avrebbe potuto portare quell'ultimo "ma". Inutile, tutto inutile, e la porta venne chiusa.

Mari restò immobile a fissare il legno tarlato, stringendosi al petto la mano ferita e fasciata, prima di lasciarsi sfuggire uno: «Stronzo!» a voce fin troppo alta. Mossa dall'istinto, tirò un calcio a un sasso che andò a schiantarsi contro il muro del casolare. Una finestra al piano superiore venne spalancata improvvisamente e la testa di Levi ne uscì, puntando gli occhi furibondi sulla figura nel cortile. Mari rabbrividì per la paura e, consapevole dell'ulteriore guaio in cui si stava cacciando, si diede alla fuga.




NDA


Buongiorno! Dato che la giornata oggi non è cominciata nei migliore dei modi, oggi le NDA saranno brevi. Eeeee ci troviamo di fronte a un primo guaio. Sappiamo tutti che Levi non tollera gli smidollati, perciò ecco che, dopo essere quasi sembrato un carino capitano preoccupato, ha distrutto tutto. Niente da fare, Mari non gli piaceva e ha trovato la scusa ideale per tagliarla fuori (povera piccola xD).

Nel prossimo capitolo vedremo la risposta di Mari con il ritorno in scena di Sierk e famiglia…

Con Rinmaru Games ho provato a dar vita a Levi e la piccola discussione avvenuta qui… non è facile, soprattutto rendere Levi con quel poco che il sito offre, ma il risultato è caruccio lo stesso xD


IMG -> https://postimg.org/image/jyeh4tn9r/ <- IMG


«Ora non fai tanto la grossa, non è così?» rise Sierk, ma Mari a malapena lo sentiva e continuava a respirare. Solo a respirare. La mano di Sierk stringeva su di lei come un serpente che stritola la preda prima di divorarla, ma anche i serpenti, dopo esser sicuri di aver ucciso la vittima, allentano la presa per potersi godere il pasto.

«Non cantare vittoria troppo presto» recitò come un mantra, anche se nella sua mente a dirlo fu la voce di Levi.


Cià Cià!

Tada Nobukatsu-kun


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Capitolo 6
*** Impegno ***


IMPEGNO


Non era mattina da molto, quando Mari uscì dal suo dormitorio sbattendo violentemente la porta. Negli occhi le bruciava vivo il fuoco dell'ira e della determinazione, e a passi pesanti raggiunse il resto dei suoi compagni nell'enorme cortile esterno. Si diede una rapida occhiata intorno, cercando gli ufficiali, e li trovò come sempre impegnati a chiacchierare tra loro, mentre lasciavano le reclute libere di combattere come forma di riscaldamento. Tra loro, come aveva sperato, c'era anche Levi.

«Non sono abbastanza forte un corno» mormorò Mari, digrignando i denti, prima di avviarsi a passi pesanti verso il trio che era stato la causa di tutto.

«Ti faccio vedere io, capitano bastardo!» disse ancora tra sè e sè, prima di puntare un dito contro Sierk e urlare: «Spilungone battiti con me!»

Sierk interruppe ciò che stava facendo e la guardò di traverso, chiedendosi se non fosse impazzita tutta in un attimo. Stava per rifiutare, assolutamente non intenzionato a perdere tempo con lei dopo quello che era successo, ma gli tornò alla mente la provocazione che gli aveva lanciato quando aveva suggerito che fossero tre topi rammolliti. Zhen, pochi passi dietro di lui, diede un colpo al petto di Craig per attirare la sua attenzione e indicò i due che si guardavano come due belve intenzionate a sbranarsi a vicenda.

«Ti sei fatta un bel taglio ieri sera, eh?» disse Sierk guardando la mano di Mari ancora fasciata col fazzoletto di Levi. Non che la sua fosse reale preoccupazione, ma sapeva che riportare a galla l'evento appena passato, con tutta l'umiliazione che poteva averne subito, non faceva che provocarla quel tanto che bastava a farla uscire dai gangheri.

«Niente di grave, passerà in poco tempo» rispose lei, cominciando a mettersi in posizione d'attacco. Sierk ridacchiò un po', cercando solo di mostrarsi superiore, poi senza esitare si lanciò su di lei con furia, cercando di sfruttare l'effetto sorpresa. Mari puntò gli occhi affilati in quelli dell'avversario e proprio com'era stato con Levi cominciò a schivare ogni suo colpo. Sembrava quasi prevedesse dove sarebbe arrivato l'eventuale pugno o calcio e riuscisse a predirre perfettamente come muoversi per evitarlo. L'incredibile capacità di leggere negli occhi delle persone era l'unica cosa su cui poteva fare affidamento in quei momenti, insieme alla sua velocità, allenata per anni nei bassifondi quando doveva dar sfogo a tutta la forza nelle gambe e la capacità di saltare per riuscire a sfuggire da chi voleva catturarla. Una vita passata a correre e cogliere negli occhi di chi aveva di fronte i punti ciechi da sfruttare a proprio piacimento battevano di gran lunga quei miseri due anni e mezzo di allenamento a cui si era sottoposto Sierk.

"È troppo lento. Sarà facile." pensò Mari, schivando l'ennesimo pugno. Sierk tentò un altro colpo, allungandosi in avanti per raggiungerla, ma lei indietreggiando riuscì a schivare ancora. Approfittò poi della posizione del ragazzo, curvo in avanti, per posargli le mani sulle spalle. Saltò e usò lo stesso Sierk come trampolino, arrivando in alto abbastanza da roteare sopra la sua testa e atterrargli alle spalle. Ma non raggiunse il suolo senza prima aver raccolto le ginocchia al petto e aver tirato una pesante ginocchiata alla sua nuca. Il ragazzo, già di per sè sbilanciato in avanti, sentendosi colpire così alle spalle cadde definitivamente sbattendo una rovinosa testata a terra.

Mari cercò di allungare velocemente le gambe verso il suolo per atterrare in piedi, ma non fu rapida abbastanza e riuscì a malapena a poggiare i talloni, scivolando sulla ghiaia del cortile e cadendo di sedere a terra. Sul viso le si dipinse una smorfia di dolore, che si affrettò a cancellare.

"Non mi farò vedere debole neanche un po'!" pensò con determinazione, affrettandosi a rialzarsi prima che potessero notare quel suo errore. Si mise di nuovo in posizione e osservò Sierk che si rialzava davanti a lei. Sul viso sfregiato poteva benissimo leggere i suoi pensieri, colmi di rabbia e disprezzo: quanto detestava quella ragazza!

«Puttana» mormorò, rimettendosi in guardia davanti a lei. Mari sentì un moto d'ira accecarle gli occhi, mentre quell'appellativo riecheggiava nelle sue orecchie in maniera sinistra. L'odiava, l'odiava con tutta se stessa. Serrò la mascella e respirò con tale fatica tra i denti stretti che quasi sembrò soffiare come un felino.

«Sono più grosso!» urlò Sierk, mentre si lanciava nuovamente verso Mari con una scarica di pugni. A sinistra e a destra, Mari muoveva agilmente il bacino e i piedi per riuscire a schivarli tutti, senza desistere.

"L'ammazzo" pensò mentre schivava l'ennesimo colpo. La guardia di Sierk, in quell'ultima mossa, si era abbassata e lei approfittò di quello spiraglio per scagliarsi sul suo viso. Ma Sierk sorprendentemente dimostrò di aver previsto quel colpo e con una mano riuscì a bloccarle il braccio. Approfittò subito di quel vantaggio per effettuare una presa, ritorcendo il braccio di Mari dietro la sua schiena e bloccandola. La ragazza si lasciò sfuggire un grido non appena il braccio raggiunse la massima estensione, provocandole una fitta alla spalla, ma subito tornò a corrucciarsi e trattenersi.

«Sono più furbo» le sibilò all'orecchio.

Il suo respiro sul collo nell'istante in cui le pronunciò quelle parole e le mani ben serrate su di lei le riaccesero nuovamente i ricordi, le orribili sensazioni che per anni aveva dovuto subire. La gola le si chiuse e un martellante "non toccarmi" tornava a farle male nella testa. Cominciò a tremare, mentre cresceva nuovamente in lei il desiderio di uccidere chiunque avesse osato anche solo sfiorarla.

Ma tutto sparì all'istante, quando stringendo in se stesse le dita della mano libera percepì la stoffa del fazzoletto di Levi.

Istintivamente alzò gli occhi, guardandosi attorno, cercandolo, e lo trovò. La stava osservando. Braccia conserte, sguardo severo, sarebbe potuto risultare disinteressato visto che pochi istanti dopo, non appena si accorse di essere stato guardato, distolse lo sguardo tornando a concentrarsi sui discorsi di Erwin al suo fianco. Ma Mari riuscì in qualche modo a percepirla quella commiserazione, la delusione nell'avere di fronte una cadetta che non riteneva valida.

Non doveva cedere ai suoi pensieri, doveva liberarsi di ogni cosa, rendersi più leggera possibile. Solo così avrebbe potuto spiccare il volo, come desiderava.

Chiuse gli occhi, rilassandosi e tirò un lungo sospiro, concentrandosi solo sulle sensazioni del suo corpo. Analizzò ogni singolo centimetro di pelle, incrociando anche le mani di Sierk che ancora non sembravano intenzionate a lasciarla andare. La voce del ragazzo, alle sue spalle, rideva cantando vittoria e tornando a insultarla e denigrarla. Aveva appena dimostrato di essere migliore, aveva appena battuto la ragazza che nessuno voleva combattere, la ragazza che la sera prima aveva osato chiamarlo topo e smidollato.

«Ora non fai tanto la grossa, non è così?» rise Sierk, ma Mari a malapena lo sentiva e continuava a respirare. Solo a respirare. La mano di Sierk stringeva su di lei come un serpente che stritola la preda prima di divorarla, ma anche i serpenti, dopo esser sicuri di aver ucciso il pasto, allentano la presa per poter banchettare.

«Non cantare vittoria troppo presto» recitò come un mantra, anche se nella sua mente a dirlo fu la voce di Levi.

«Che dici?» chiese Sierk, sporgendosi verso il suo viso per sentire che stava farfugliando. E fu in quell'istante che il serpente allentò le sue spire e la preda potè cogliere l'attimo per scivolargli via. Sierk ebbe appena il tempo di rendersi conto ciò che stava accadendo che Mari era già libera e lo stava colpendo allo stomaco con una potente gomitata. Il ragazzo, in un mugolio dolorante, si chinò in avanti, tenendosi lo stomaco appena colpito e Mari decise di finirlo con un altro colpo dietro la nuca, che chinato com'era lo spedì direttamente di faccia a terra. Lo osservò qualche secondo, cercando di capire se fosse definitivamente sconfitto o avesse ancora la forza di alzarsi, ma quando lo sentì tossire e lo vide tremare tra la polvere decretò la sua vittoria. Si chinò verso il suo viso, con una mano sul fianco e l'indice dell'altra alzato verso il cielo.

«E non distrarti» disse ancora, cercando quelle parole nella memoria di un paio di giorni addietro.

Sierk alzò il viso dalla polvere, ancora mugolando e digrignando i denti per il duro colpo subito, e tentò di mandarla a quel paese ma non riuscì che a boccheggiare. Mari notò poi che gli occhi del ragazzo si spostarono su un punto al di sopra la sua testa e seguì quello sguardo fino ad arrivare al volto dell'istruttore Keith, impegnato a girare e valutare le reclute. Lo vide scrivacchiare qualcosa sulla sua cartella e poi allontanarsi con un disinteressato: «Ben fatto», complimento che probabilmente destinava di routine a chiunque riuscisse a buttare a terra un compagno. Ma questo bastò comunque a far sprigionare un'euforia nel petto di Mari che mai aveva avuto prima. Il sorriso era così tirato in viso che gli angoli della bocca le facevano male, gli occhi inumiditi avrebbero potuto cominciare a versare lacrime da un momento a un altro e irrefrenabile cominciò a gongolare e gioire con dei lievi urletti che a malapena riusciva a trattenere.

Sierk, furioso come non mai, benchè ancora a gattoni, tentò di lanciarsi sulla ragazza, con chiari intenti omicidi. Ma Mari gli piantò un pesante piede dritto in faccia e bloccò la sua discesa furiosa.

«Abbiamo appena finito! Non barare! Non è carino!» gli urlò contro.

Ma Sierk non apprezzò il gesto e cominciò a dimenarsi, arrancando e allungando compulsivamente le braccia verso di lei, mentre Mari continuava a restituirgli tutto a suon di calci sul viso.

«Ti strozzo! Ti faccio a brandelli!» ringhiava lui.

«Provaci! Ti faccio più bello di quello che sei a suon di calci!» diceva Mari in tutta risposta e i due continuarono a bisticciare come cane e gatto, facendo una gran confusione e attirando inevitabilmente l'attenzione di Keith, poco più avanti.

L'istruttore riuscì a interrompere la rissa con un semplice colpo di tosse, attirando l'attenzione dei due. Guardò attentamente Sierk, ora in piedi e con una mano artigliata alla camicia di Mari, che invece era aggrappata alle sue spalle e impegnata a tirargli i capelli. Stesso sguardo colmo di furia e rimprovero destinò anche a lei e i due capirono di essere nei pasticci senza bisogno che gli fu detto esplicitamente.

«Stasera dopo l'allenamento farete cento giri di corsa del cortile e non verrette a cena fintanto che non avrete finito» comunicò l'istruttore, prima di allontanarsi con un ultimo: «Sempre se resterà qualcosa.»

«Eh?» stridulò Mari contrariata all'idea di dover rischiare di perdersi la cena.

«Hai detto qualcosa, cadetta?» chiese con finta calma Keith, mentre si voltava a fulminarla.

Mari aprì la bocca per dire qualcosa, ma Sierk fu rapido a mettergli una mano davanti, tappandogliela e costringendola solo a bofonchiare qualcosa di incomprensibile.

«Assolutamente niente, Signore! Siamo mortificati, non accadrà più e obbediremo agli ordini!» parlò lui.

Keith parve accettare le scuse e si affrettò ad allontanarsi, prima che avesse cambiato idea.

«Sei proprio una stupida!» l'ammonì Sierk e Mari provò a rispondere a tono, ma la mano del ragazzo ancora le impediva di formulare qualcosa di comprensibile.

«Comunque ho vinto io» riuscì a dire finalmente, liberandosi. Si allontanò, pulendosi le mani, mentre il ragazzo alle sua spalle ringhiava e non sarebbe riuscito a contenere il desiderio di malmenarla di nuovo se non fossero intervenuti i suoi due amici.


Nda.

Siamo sotto le feste perciò non è stato facile prendersi un momento per rileggere/sistemare e postare XD per lo stesso motivo le note saranno brevi. Voglio ringraziare tutti quelli che leggono e soprattutto chi ha messo tra preferite/seguite <3 mi scuso se settimana scorsa sono mancata, ho avuto qualche problema >.<

Infine ne approfitto per farvi gli auguri di buone feste! Ingrassate! E che questo 2017 porti fortuna a tutti!

Piccolo tributo Natalizio da parte di Mari, Angy, Harvey e Levi (anche se quest'ultimo è venuto malissimo, ma sono limitata dalle alternative del sito perciò ho dovuto arrangiare).


BUON NATALE -> https://postimg.org/image/ns0hguz61/ <- BUON NATALE


E una piccola anticipazione del prossimo cap:


«Angelica!»

La diretta interessata sobbalzò.

«Io ti ho salvato la vita!» disse Mari, puntandole un dito aggressivo contro.

«Vuoi ricattarmi ora?» chiese Angelica, spaventata da quell'atteggiamento.

«No. Però sei in debito con me!»

«Non ho chiesto io di essere salvata!» cercò di difendersi Angelica.

«Ho bisogno che mi aiuti...» ammise Mari, ignorando l'accusa dell'amica.


Cià cià


Tada Nobukatsu-kun

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Capitolo 7
*** Obiettivo ***


Obiettivo


La sera calò in fretta anche quel giorno, dopo una serie di infinite prove e allenamenti in cui Mari cercò sempre di dare il massimo, sforzando ogni muscolo fino allo stremo e cercando di eccellere anche laddove per lei risultava estenuante.

E come se non fosse bastato, dopo tutto quello, si trovò costretta a compiere i cento giri di corsa di punizione insieme a Sierk, dovendo sopportare la sua presenza più del dovuto. Cento giri di corsa che presto si trasformarono in una vera e propria gara tra i due, che aumentarono la velocità sempre più, arrivando in fondo inutilmente stremati.

«Io non sono debole» ansimò Mari, mentre si trascinava verso la mensa.

«È inconcepibile che una ragazzetta stronza come te possa battermi» ansimò Sierk al suo fianco, altrettanto spalmato per terra. «Non lo permetterò.»

«Dimostrerò di essere forte.»

«Sei solo un insetto.»

«Posso farcela.»

«Ti farò vedere io chi è il migliore.»

«Smettila di interrompere il mio discorso motivazionale!» ringhiò lei, voltandosi a fulminarlo.

«Io faccio quello che voglio!» gli rispose a tono Sierk. «E poi era un mormorio confuso il tuo, non c'era niente di motivazionale!»

«Sì invece! Io ho un obiettivo!» si illuminò improvvisamente lei, stringendo i pugni con determinazione.

«Ah si? E sentiamo, sarebbe?» chiese lui, scettico ma curioso.

«Io dimostrerò a...» cominciò Mari, ma poi si interruppe, fulminando il ragazzo al suo fianco. «Perché mai dovrei rivelarlo a uno come te?»

In quel momento la porta della mensa si spalancò, facendo sussultare i due. A uscire, impegnati a parlare tra loro, fu il gruppo di ufficiali che aveva appena finito di cenare. Nessuno di loro parve badare ai due ragazzi, quasi interamente stesi sugli scalini del casolare, ma ciò non impedì a quest'ultimi di tentare lo stesso di assumere un certo tono dignitoso, sforzando ogni singolo muscolo per cercare di rimettersi in piedi.

"Mio Dio, sono distrutto" pensarono, mentre cercavano lentamente di darsi una rassettata, senza riuscirci troppo. Quella folle corsa, subito dopo la giornata di esercitazioni, aveva dato loro il colpo di grazia. In fondo, i superiori non li degnavano nemmeno di uno sguardo, quindi che problema c'era se per una volta non erano perfetti?

Ma quando il viso di Levi fece capolino dietro Erwin, improvvisamente Mari si sentì carica di energia nuova. Si alzò di colpo e decisa fece il saluto battendosi il pugno sul petto, ignorando il tremolio delle proprie gambe che minacciava di ributtarla a terra da un momento all'altro. Il suo cambio di posizione fu talmente improvviso che perfino Sierk ne rimase sorpreso e quasi si spaventò quando la vide scattare in quel modo, ma non fece da meno e cercò di imitare la compagna. Certo non si sarebbe reso meno disciplinato e forte di quella squallida ragazzetta delle fogne.

«Riposo, cadetti» disse Darius, l'unico che li aveva vagamente degnati di uno sguardo. Sierk abbandonò la posa del saluto, obbedendo -e ringraziando mentalmente- all'ordine dell'istruttore, ma Mari invece rimase dritta e composta fintanto che non furono passati tutti.

«Ha detto riposo!» bisbigliò Sierk al suo orecchio, chiedendosi se non avesse capito o fosse solo stupida, ma ricevette in tutta risposta una focosa occhiataccia.

Solo quando tornarono a essere di nuovo soli, su quella veranda, Mari si rilassò anche se gli occhi non cessarono di seguire il gruppo allontanarsi. Levi durante tutto il giorno non aveva fatto altro che lanciarle qualche sguardo, ma non era mai sembrato molto interessato a quello che facesse, nonostante lei avesse fatto di tutto per attirare la sua attenzione e dare una bella immagine di sè. Tutto il giorno a forzare il più possibile mente e corpo, solo con l'intenzione di sorprenderlo, di far vacillare anche in minima parte l'idea che si era costruito di lei... tutti quegli sforzi buttati al vento. Anche in quel momento, che era passato davanti a lei, non l'aveva degnata neanche di uno sguardo. Nonostante tutto, non faceva che voltarle le spalle e lasciarla indietro, ogni istante di più.

"Riuscirò a convincerlo?" si chiese un po' demoralizzata, rabbuiandosi.

«Dì un po'... non starai mica cercando di fare colpo su qualche Superiore, vero?» la punzecchiò Sierk, ridendo sotto i baffi: il suo atteggiamento non era certo fraintendibile. L'espressione "fare colpo" portò alla mente di Mari un'eventualità che fino a quel momento non aveva neanche immaginato. Lei desiderava solo convincere Levi che era degna di avere un posto nell'Armata Ricognitiva, convincerlo che era forte abbastanza da volare con loro, certo le sue intenzioni non erano mai state tanto audaci. Non aveva mai pensato a Levi in quei termini, ma ora che la frase di Sierk l'aveva costretta a farlo per qualche secondo si ritrovò inevitabilmente ad arrossire.

«Che dici? Sei scemo?» l'attaccò, chiedendosi cosa gli passasse per la testa. Era imbarazzante anche solo immaginarlo.

«Sei tutta rossa» ridacchiò maligno lui.

«Ha caldo! Ho corso, ricordi? Babbeo!» ringhiò ancora lei, camminando a passi pesanti verso l'interno della mensa e lasciandosi alle spalle quello che considerava un grosso imbecille e basta.

"Mi da sui nervi!" pensò, distanziandolo.

«Chissà se è rimasto qualcosa da mangiare» piagnucolò poi, vedendo come la sala si stesse svuotando. Avevano finito tutti di mangiare, sicuramente non avevano lasciato molto. Mentre pensava a cosa avesse potuto raschiare da chissà quale pentola, sentì un profumino arrivarle al naso appena prima di un piatto che ondeggiò davanti a lei. Mari si voltò a guardare a chi appartenessero le mani che stavano facendo svolazzare quel prezioso gioiello sotto al suo viso e trovò Angelica, ridacchiante e soddisfatta.

«Ho lottato con i denti per riuscire a tenertelo da parte, ma ho vinto!»

Mari la guardò come avrebbe potuto guardare un angelo sceso sulla terra per annunciarle la gioia e vita eterna. Poi le lacrime cominciarono a correrle sul viso e lei si asciugò maldestra con la manica della camicia, mugolando: «Ti ringrazio! Sei troppo gentile!»

Angelica sobbalzò nel vederla in quello stato e le uscì un incontenibile: «Ma tu piangi sempre?»

Lo stato d'animo di Mari non durò a lungo e presto si riprese, appropriandosi del suo piatto e sedendosi a mangiare avidamente, sotto lo sguardo sempre curioso di Angelica.

«Davvero, non c'era bisogno ti preoccupassi» disse storpiano le parole per il cucchiaio che teneva in bocca.

«Te lo meritavi, dopo aver dato quella bella lezione a Sierk! Era quello che gli ci voleva!»

«Non l'ho fatto per vendetta» disse lei con ingenuità.

«Ah no?»

«Volevo solo dimostrare di essere forte e lui è bello grosso. Ho pensato che se l'avessi battuto, avrei potuto provare di essere degna!» spiegò distrattamente, sempre intenta a buttar giù più cibo di quanto la bocca riuscisse a contenere. Ora che finalmente si era seduta a un tavolo, la pancia aveva prepotentemente fatto sentire la sua voce e non riusciva a pensare ad altro che riempirla il più possibile per zittirla.

Angelica inclinò leggermente la testa di lato, non riuscendo bene a cogliere il filo conduttore del discorso.

«Essere degna per cosa?» chiese, ancora una volta succube della sua curiosità.

«Per l'Armata Ricognitiva!» rispose Mari come se avesse appena detto un'ovvietà.

«Scusa, ma perché devi dimostrare di esserne degna? Superato l'addestramento, ognuno entra dove desidera. Tranne che per la gendarmenia, lì ci sono i posti contati, ma per l'Armata Ricognitiva non mi pare abbiano mai messo restrizioni, o sbaglio? Anzi, credevo che fossero addirittura a corto di personale.»

Mari la guardò un po' corrucciata, tanto che Angelica si chiese se avesse detto qualcosa di sbagliato. Che avessero cambiato i regolamenti senza che lei ne avesse saputo niente?

«Non per me» mormorò poi Mari, prima di tornare a mangiare sovrapensiero.

«Eh? Ma di che parli?» chiese Angelica, ancora più confusa, quasi preoccupata. Che c'entrasse col fatto che fosse entrata in addestramento a metà corso?

Mari restò in silenzio, pensierosa, per qualche secondo, alimentando il fuoco della curiosità di Angelica. Poi, finito di mangiare, posò con decisione il cucchiaio sul tavolo e tornando a guardare la ragazza di fronte a sè esclamò: «Angelica!»

La diretta interessata sobbalzò.

«Io ti ho salvato la vita!» disse Mari, puntandole un dito aggressivo contro.

«Vuoi ricattarmi ora?» chiese Angelica, spaventata da quell'atteggiamento.

«No. Però sei in debito con me!»

«Non ho chiesto io di essere salvata!» cercò di difendersi Angelica.

«Ho bisogno che mi aiuti...» ammise Mari, ignorando l'accusa dell'amica.

«Aiutarti?» cambiò tono Angelica, capendo che non c'era niente di maligno nel suo incipit. Mari si guardò rapidamente intorno, accurandosi che nessuno li stesse ascoltando, poi si chinò in avanti invitando l'amica a fare altrettanto per poterle bisbigliare qualcosa.

«Devo sapere tutto ciò che riguarda il capitano Levi» sussurrò e Angelica strabuzzò gli occhi, esclamando a gran voce: «Levi?»

Mari arrossì e l'imbarazzo la colse così violentmente da farle perdere un paio di battiti. Si affrettò a tappare la bocca di Angelica e soffiarle contro un incazzato: «Ssh!!»

Tornò a guardarsi attorno, pregando che nessuno avesse dato loro importanza o le avesse sentite. Per fortuna molti erano già andati via e quei pochi che restavano se ne stavano in disparte a parlare tra loro, ignorandole.

«Quell'idiota di Sierk crede che io stia cercando di fare colpo su qualcuno degli ufficiali, non alimentiamo questa sua stupida convinzione o finirò nei pasticci! Perciò tieni a freno la lingua!» la rimproverò Mari.

Angelica provò a rispondere ma le parole, chiuse nella mano di Mari che ancora restava ben serrata intorno alla sua bocca, risultarono solo bofonchii incomprensibili. Mari attese qualche secondo prima di toglierla, pregando che si fosse data una regolata e che non le uscisse un'altra di quelle esclamazioni da infarto.

«Ma scusa...» sussurrò Angelica, guardandosi attorno in maniera altrettanto circospetta, prima di sdraiarsi sul tavolo per arrivare più vicina all'amica.

«Se non vuoi fare colpo su di lui perché ti servono informazioni sul suo conto?»

Mari sospirò rumorosamente, affranta e abbattuta, e alla fine rivelò: «Perché ha detto che non sono forte abbastanza e perciò si opporrà personalmente alla mia entrata nell'Armata Ricognitiva. Io voglio solo che capisca il mio valore e cambi idea, tutto qua.»

«Che cosa?» urlò Angelica, indietreggiando con la testa. «Sul serio ha detto che...» ma il resto della frase morì nuovamente nella mano di Mari che scattò rapidamente verso la sua bocca, tappandogliela nuovamente.

«Non puoi farne a meno, vero?» le chiese irritata.

Angelica bofonchiò ancora qualcosa di incomprensibile, ma questa volta la rossa riuscì a cogliere un «Mi dispiace» tra quei mugolii. La lasciò nuovamente libera e tornò a sedersi composta, osservando il suo piatto ora vuoto.

«Tu credi che possa farlo davvero? Impedirti di entrare nel corpo di ricerca, dico» chiese Angelica, tornata anche lei più composta.

«Non lo so, ma credo di sì. È di un capitano che stiamo parlando.»

«E non di uno qualunque» pensò ad alta voce Angelica, spingendosi indietro con la schiena e cominciando a dondolarsi sulle gambe posteriori della sedia. «Con tutti i capitani che potevi inimicarti, sei andata a sceglierti il peggiore» aggiunse.

«Credi l'abbia fatto di proposito?» chiese Mari indispettita.

«Non so, ma qualcosa devi avergli fatto. Ti ha preso di mira.»

«Dici? Credi che abbia sbagliato qualcosa?»

"E se mi avesse riconosciuta e fosse ancora arrabbiato per essergli stata d'intralcio quella volta?" si chiese, cominciando a sudare freddo. In fondo, lo sguardo che le aveva rivolto il giorno del loro primo scontro non lasciava dubbi. Sicuramente l'aveva insultata, se non ad alta voce almeno mentalmente.

«Il primo giorno che è arrivato se non sbaglio ti sei battuta con lui, durante il corpo a corpo» ipotizzò Angelica, andando a ripescare indietro con la mente qualsiasi ricordo avesse sulla faccenda.

«Sì, ma ha vinto lui! Non può avercela con me per quello!»

«Sì, ma all'inizio l'hai atterrato tu.»

«Credi se la sia presa per questo?» chiese Mari terrorizzata. Non poteva avere tutti i torti, Levi le era sembrato particolarmente irritato quando si era rialzato. «Forse dovevo lasciarlo vincere e basta! Che guaio!»

«Forse. Chissà. Ho sentito tante voci sul suo conto, a dire il vero, ed effettivamente non mi è sembrato un tipo che accetta la sconfitta tanto facilmente.»

«E quindi secondo te cosa dovrei fare? Lo sfido e mi faccio mettere al tappeto con un colpo? Ma così non sarebbe un sottolineare che lui ha ragione nel dire che non sono abbastanza forte? Poi è un tipo sveglio, capirebbe la farsa e si sentirebbe ancora più offeso. Sì, è meglio lasciar perdere la sfida» disse Mari e continuò a lungo a generare pensieri ad alta voce, alla disperata ricerca di una soluzione.

«Senti cosa dovresti fare secondo me!» intervenne alla fine Angelica, facendo cadere la sedia in avanti e raggiungendo rapidamente il volto di Mari. «Se è arrabbiato con te per qualche motivo, basterà far in modo che ti perdoni.»

«Gli chiedo scusa?»

«Stupida!» e le battè una nocca sulla testa. «Non sai che alle persone orgogliose da fastidio che gli si venga detto apertamente che lo sono?»

«Ma non andrei a dirgli che mi dispiace che lui è così!»

«No, ma se tu andassi a dirgli che ti dispiace aver provato a batterlo lui capirebbe che indirettamente stai cercando di dirgli che lo è!»

«Non credo di aver capito» lamentò Mari, ancora più confusa.

«Ascoltami e basta! Basterà fare in modo che tu cominci a piacergli! Se ti prende in simpatia dimenticherà presto l'accaduto e non ti metterà più i bastoni tra le ruote!»

«Dovrei... farmelo amico?»

«Sì ma con rispetto e riverenza! È un superiore non scordartelo.»

«Dovrei in pratica diventare la sua preferita?»

«Esatto!»

«Ma non è un po' da ruffiani?»

«Cosa te ne frega! L'importante è che riuscirai ad ottenere ciò che desideri, no?»

«Ho già provato alltre volte a sforzarmi di piacere a qualcuno, adattandomi e fingendo, solo per ottenere qualcosa in cambio. Non è una sensazione che mi fa stare bene» ammise Mari, poco convinta, pensando alle volte che era stata costretta a risultare carina per qualche uomo che poi avrebbe pagato per il suo corpo.

«Allora mettila su questo piano: ti farebbe piacere se il capitano Levi cominciasse ad apprezzarti?»

Nella mente di Mari i ricordi degli uomini che schifosamente avevano provato ad avvicinarla e a cui lei aveva dovuto accontentare ogni richiesta e capriccio svanì, lasciando spazio a una piccola foresta, tiepida e leggermente soleggiata. Una foglia che veniva tirata via dai suoi capelli spettinati e la voce di Levi che pronunciava con morbidezza: «Sei stata brava.»

Non erano la stessa cosa, non lo erano affatto.

«Sì...» mormorò timida, arrossendo lievemente. «Sì, mi piacerebbe.»

Non doveva fingere per diventare qualcosa che avrebbe potuto piacergli, non doveva sforzarsi al solo scopo di compiacerlo. Ora aveva un motivo per impegnarsi tanto, un motivo che non interessava solo agli altri ma che aveva un ritorno anche per sè. Era la prima volta che desiderava davvero piacere a qualcuno e che non lo faceva solo perché costretta.

«E quindi che devi fare?» chiese Angelica retoricamente, aspettandosi una risposta precisa.

«Cercare informazioni!» rispose Mari con entusiasmo, battendo i palmi sul tavolo.

«Esatto!» le puntò un dito contro Angelica e le due restarono in silenzio a guardarsi qualche istante, prima che Mari chiedesse con imbarazzo: «Ma non è da dove siamo partite?»

«Sì, effettivamente il nostro discorso era partito proprio da qui» mormorò Angelica portandosi un dito al mento.

«Non abbiamo fatto molti progressi.»

«Eppure sono venti minuti che parliamo.»

«Dunque... sai qualcosa su di lui?» chiese Mari.

«Vuoto totale» rispose candidamente Angelica.

«Questo non è d'aiuto però!» lamentò Mari.

«Che vuoi? Non posso avere le risposte a tutto per forza!»

Mari si risedette, sospirando affranta: «Sono punto e da capo. E ho pochi giorni per riuscire nell'impresa.»

«È vero... tra tre giorni ci saranno i diplomi e dovremmo presentare domanda.»

«Non ce la farò mai.»

«Non abbatterti! Adesso ci sono io ad aiutarti! Vedrai, scoprirò perfino il numero di capelli che ha in testa!»

«Dodicimila settecentotrentadue» rispose Mari con naturalezza, senza cambiare tonalità. Angelica sobbalzò, strabuzzando gli occhi, e chiese stralunata: «Mi prendi in giro?»

Mari alzò la testa ridacchiando e facendole una leggera linguaggia ammise: «Sì, un po'.»

«Per un attimo ho pensato tu glieli avessi contati veramente» sospirò Angelica.

«E come avrei potuto, scusa?» rise Mari.

«Che vuoi che ne sappia? Magari ti eri infiltrata nella sua stanza la notte» alzò le spalle Angelica e questo fece ridere ancora di più Mari, che istintivamente si portò una mano al petto, ad ascoltare il suo cuore. Desiderava mettere le ali della libertà, volare via da quella gabbia, allontanarsi il più possibile da quel posto, diventare irraggiungibile e inafferrabile, poter sentire la consistenza delle nuvole tra le dita... eppure in quel momento aveva come la sensazione che stesse già volando.


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Capitolo 8
*** Mani sporche di sangue ***


Mani sporche di sangue


La mattina dopo Mari si svegliò che era appena l'alba. Saltò giù dal letto con forza e raccolse rapidamente tutte le sue cose, mentre una delle compagne di stanza, quella che dormiva nel letto sotto al suo, borbottava infastidita per il rumore.

«Scusami, a più tardi!» si limitò a bisbigliare prima di scappare fuori che ancora si stava vestendo.

"Ho solo tre giorni, non sprecherò neanche un istante!" pensò, raggiungendo il cortile. L'aria era fresca, pungente, ma frizzante, per niente fastidiosa. Da quando aveva raggiunto la superficie, abbandonando l'artificiale tremolio delle lampade a olio e concedendosi del vero sole, aveva scoperto che le piaceva l'alba più di qualsiasi altro momento. Il nero della notte veniva lentamente spazzato via da quei primi timidi raggi, pulito come veniva pulito un viso ricoperto di terra e sporcizia e tutto tornava a risplendere nel più completo silenzio. Quel silenzio che le riempiva le orecchie e le dava la sensazione di vivere in un luogo paradisiaco, tanto poteva risultare irrealistico ma pacifico. Tirò un grosso sospiro, riempiendo i polmoni di quella prima abbondanza di ossigeno, e mormorò a nessuno in particolare: «Buongiorno.»

Qualche altro sguardo intorno, solo per godersi la solitudine e la freschezza della mattina, poi cominciò con il riscaldamento e lo stretching. Quando più tardi le prime reclute si svegliarono, la trovarono ancora impegnata negli esercizi fisici in solitudine, ma nessuno la degnò di molta considerazione. Cosa che a dirla tutta faceva solo piacere a Mari, che di aver gente intorno al momento proprio non ne aveva voglia.

Finì l'ultima serie di piegamenti e si accasciò a terra, con lo sguardo rivolto al cielo, prendendo ampie boccate d'aria. Il mondo da quella prospettiva era davvero incredibile e le nuvole, con le loro forme sfumate, rilassavano lo sguardo.

"Sì, vorrei proprio imparare a volare" pensò sorridendo tra sé e sé, poco prima che un volto entrasse nel suo campo visivo. I capelli castani sciolti, lunghi, cadenti verso di lei e un sorriso gioviale sul viso le diedero il saluto.

«Ti dai da fare già di prima mattina, eh?» chiese Angelica, osservandola dall'alto. Poi mostrando il pollice, le fece un occhiolino e mormorò soddisfatta: «Il tuo capitano ti ha notata, ben fatto!»

Mari a quell'espressione voltò lo sguardo curioso verso la via principale, dove passavano cadetti e ufficiali, diretti alla mensa per la colazione. Scorse un paio di visi e infine notò anche Levi, che si stava allontanando proprio in quel momento, dopo essere passato anche lui di lì.

«Mi ha notata mentre cadevo a terra per riprendere fiato e avrà pensato che batto la fiacca!» piagnucolò.

«Che pessimismo!» si allarmò Angelica. «Non devi abbatterti! Stai facendo un ottimo lavoro, continua così! Al resto ci pensa la tua Angy!» disse con un altro occhiolino.

"La tua Angy?" pensò Mari un attimo sorpresa. Quella ragazza si era avvicinata a lei con naturalezza, forse il tutto spinto dal senso di gratitudine per averla aiutata, ma ora risultava così strano. Non aveva mai avuto una vera amica in vita sua, non una che non fosse una gatta, e non poteva non provare un po' di disorientamento quando Angelica si mostrava così aperta con lei. Come avrebbe dovuto comportarsi?

«Avanti, adesso vieni a fare colazione. Hai bisogno di energie» la invitò Angelica.

«Vai pure avanti, mi do una ripulita e ti raggiungo.»

«Sbrigati o non potremo studiarlo!»

«Ma chi sei? Una spia?» sobbalzò Mari, vedendola strana e trovando inquietante il suo modo di fare. Era interessata a studiare Levi, certo, e voleva capire come convincerlo a darle un'opportunità ma trovava il modo di fare di Angelica un po' esagerato. La cosa la metteva a disagio.

«Io lo seguo, tu sbrigati!» le disse Angelica, scappando via.

"Chissà se avrò fatto bene a coinvolgerla" pensò Mari alzandosi e dirigendosi verso i bagni, pronta a lavarsi e poi raggiungere i compagni cadetti. La faccenda l'aveva esaltata più di quanto si fosse aspettata, e data la sua scarsa capacità a tenere per sé i pensieri il rischio che combinasse pasticci era alto.


Levi camminava solitario attraverso il cortile, in quel momento abbastanza trafficato. Sembrava assorto nei suoi pensieri, come sempre succedeva, ma d'altro canto era difficile leggere veramente attraverso quegli occhi così affilati. In realtà osservava bene tutto quello che aveva attorno, e inutile negare che aveva notato anche Mari già sveglia intenta a far esercizi. Non era sciocco e certamente lei non era l'unica che vantava buone capacità osservative: sapeva che il motivo di tutto quel esagerato impegno era lui e la sua promessa di impedirle di entrare nell'Armata Ricognitiva. Promessa che aveva scosso il suo animo più di quanto si fosse aspettato, date le sue reazioni. Non sapeva ancora cosa avesse spinto quella ragazza a desiderare così fortemente di mettere le ali della libertà, sicuramente doveva esserci qualche motivazione di fondo che non fosse il semplice e banale "voler imparare a volare", ma al momento i perché non gli interessavano e si limitò a valutare solo ciò che aveva da offrire. L'intensità con cui compiva i suoi esercizi, la furia con cui si lanciava in ogni missione, l'attenzione che riponeva in qualsiasi compito e la prontezza nell'offrirsi volontaria per qualsiasi lavoro extra, anche il più degradante, tutto questo aumentava esponenzialmente quando lui le volgeva gli occhi. Non notarlo era difficile, così come era difficile non riuscire a cogliere i suoi continui sguardi pretenziosi, come se implorasse: "guardami!".

"Chissà che magari non riesca a convincermi" pensò divertito da tutto lo sforzo che la ragazza stava facendo. Non aveva mai visto nessuno più testardo, determinato e disposto a sacrificarsi come stava facendo lei. E per il momento lui si divertiva altrettanto, rispondendo a tutta quella richiesta implicita d'attenzioni con l'indifferenza. Forse, se qualcuno avesse colto quei pensieri e quella situazione, avrebbe potuto recriminarlo di starsi prendendo gioco di lei. Avrebbero potuto dire che era un bastardo che giocava con i sentimenti altrui, ma al momento non c'era nessuno che avesse potuto dire una cosa simile -e anche ci fosse stato, certo non gli avrebbe dato peso.

Era un'ottima strategia, dove vincevano tutti. Lei migliorava a vista d'occhio e lui si allietava un po' le giornate. Incredibilmente, sentiva meno il peso del fiato dei Giganti sul collo, quando lei gli gironzolava attorno. Che potesse considerarla una vacanza? Chissà, magari era proprio quello l'obiettivo di Erwin, fin dall'inizio.

Ebbe una strana sensazione, un pizzicore alle spalle, e si fermò, voltandosi a guardare cosa ci fosse dietro di lui. Persone che andavano, persone che tornavano, la mattina che svegliava tutti quanti e in mezzo a tutto questo Angelica, la ragazza salvata da Mari pochi giorni prima, fischiettava guardandosi attorno. Levi l'osservò qualche secondo, assottigliando lo sguardo, poi sospirando riprese a camminare.

«Potevi sceglierti un'alleata più capace» mormorò tra sè e sè.

Raggiunse la mensa e si guardò momentaneamente attorno, studiando la situazione, prima di raggiungere Erwin in un angolo separato dal resto, intento a sorseggiare del tè. Aveva dei fogli tra le mani e li studiava assorto, come al solito. Levi gli si sedette davanti e anche lui si servì una tazza, restando silenzioso a sorseggiare.

Erwin alzò gli occhi dopo qualche minuto, guardando un punto lontano, oltre il profilo di Levi, senza sorprendersi di trovarselo davanti.

«Una dei cadetti ti fissa» comunicò.

«Ignorala» rispose seccamente Levi, prima di bere un altro sorso del suo tè. Era ovvio che fosse già a conoscenza della presunta spia.

«Che intenzioni ha?» chiese Erwin con semplice curiosità.

«Chissà... magari imbavagliarmi e torturarmi. Ti terrò aggiornato.» E quella che sembrava essere una vaga battuta, riuscì a strappare un sorriso divertito al comandante. «Sei di buon umore stamattina» osservò, tornando con noncuranza ai suoi fogli. L'osservazione sorprese Levi più del dovuto. «Tu dici?» chiese sorpreso e Erwin rispose con un cenno del capo affermativo, non distraendosi troppo da ciò che stava facendo. Voltò una pagina, leggendone il retro ed ebbe tempo di finirla che ancora entrambi sorseggiavano ognuno i propri tè in silenzio, pensierosi ognuno per i fatti propri.

Mari entrò nella mensa in quel momento e Levi potè vederla con la coda dell'occhio correre verso Angelica. Non notare quella sfumatura rossa in mezzo a tutti quei colori tenui era difficile e per quanto spesso si sforzasse di ignorarla, l'occhio ne veniva come attirato. Erano davvero irritanti.

Lanciò una fugace occhiata nella loro direzione, guardando Angelica riempire la poveretta di parole, che nel frattempo non faceva che allungarsi in direzione della pentola per poter riempire un piatto e cominciare a mangiare. Si portò nuovamente la tazza alle labbra, ma non bevve, interrotto un profondo sospiro proveniente dal comandante al suo fianco.

«Qualcosa non va?» chiese, notando come fosse stato più scocciato del solito.

Erwin esitò un po', prima di posare quella che sembrava  una lettera di convocazione sul tavolo, tra lui e Levi. Non lo stava invitando esplicitamente a leggerla, ma lo stava mettendo nelle condizioni che se avesse voluto farlo avrebbe potuto.

«Sarò via fino a domani, probabilmente. Sono stato convocato al tribunale, nella capitale.»

«Questioni importanti?»

«Per la salvezza del genere umano e la nostra missione? No, proprio no. Solo faccende e impicci personali» disse Erwin allungandosi verso la teiera e versando un altro po' di tè nella sua tazza. Chissà a che numero era arrivato, da quando si era svegliato. Era ovvio che il fatto di doversi spostare e stare dietro a tutto ciò che non riguardasse il suo lavoro, lo irritava terribilmente.

«Sono stato io ad accusare e arrestare Harvey, perciò adesso che sta per essere scagionato hanno bisogno della mia presenza per spiattellarmi in faccia il presunto fallimento» spiegò, senza che Levi gli avesse chiesto esplicitamente di farlo.

«Harvey?» chiese, curioso più perché Erwin sembrava intenzionato a voler condividere quella faccenda con lui che per la storia in sé. Di ciò che faceva Erwin nel suo tempo libero e della sua vita privata certo gli importava ben poco.

«Il fratello di Mari» spiegò il Comandante, lanciando una rapida occhiata alla ragazza ancora intenta a prendersi da mangiare mentre Angelica l'assediava e non stava zitta un solo momento. Si sorprese a fissarla più del dovuto, incuriosito dalla scena. Era la prima volta che non la vedeva sola e soprattutto che qualcuno le stesse addosso più di quanto  non si aspettasse.

«Ha fatto amicizia» notò, con uno strano sollievo nella voce. Levi interpretò quello come un ulteriore segno del fatto che, secondo lui, Erwin l'avesse presa fin troppo a cuore. Aveva sentito parlare alcune delle reclute, durante quei giorni che stava soggiornando lì, accennando al fatto che fosse stato proprio il comandante a portarla in addestramento benché il corso fosse già iniziato da un anno e mezzo, smuovendo e mandando in tilt ogni sorta di burocrazia. Aveva sentito dire, da quelle stesse reclute, che il motivo di tanto accanimento nei suoi confronti risiedeva nel fatto che lei era una prostituta e lui probabilmente veniva ripagato della gentilezza di darle una vita dignitosa con qualche favore poco pulito e poco morale. Se non avesse conosciuto abbastanza Erwin da sapere quanto fosse poco interessato a quel genere di attenzioni, anche lui avrebbe potuto dubitarlo, visto il modo in cui la considerava. Era discreto, silenzioso, sembrava quasi che non la conoscesse, eppure era il primo a intervenire in suo aiuto quando ce n'era  bisogno, proprio come due sere prima, quando lei aveva avuto quella crisi di panico: per primo si era alzato da tavolo, andando a controllare, e proprio il suo richiamo era riuscita a riportarla indietro. Erwin non era proprio tipo da prostitute e favori sessuali, eppure non poteva escludere che tra quei due non ci fosse stato qualcosa che l'avesse marcato nel profondo.

«Le ha salvato la vita e probabilmente ora la sta ripagando in qualche modo» spiegò Levi, lanciando una rapida occhiata al duo su cui si era concentrato Erwin e tornando poco dopo alla sua tazza.

«È la ragazza dell'incidente dell'altro giorno?» chiese il Comandante.

«Già» e Levi lasciò nuovamente cadere il silenzio, prima di aggiungere, deciso a togliersi quell'ultimo dubbio: «Non mi hai mai raccontato come l'hai trovata.»

«La cosa ha importanza?» chiese Erwin tornando a guardare i fogli che stringeva tra le mani.

«Potrebbe» si limitò a rispondere Levi. Non gli interessava davvero, ma aveva messo insieme alcuni dei pezzi e voleva in qualche modo completare il quadro. A partire dal motivo per cui Erwin si fosse preso la briga di far arrestare un qualunque ragazzo dei bassifondi e salvare la sorella dalle sue grinfie, portandola in Armata. Aveva sospettato che ci fosse di mezzo un omicidio, ma inizialmente aveva creduto che ad essere morto fosse proprio il fratello. Invece ora veniva a scoprire che non solo il fratello era vivo, ma lo stesso Erwin aveva fatto in modo che finisse in cella. Per quale motivo? Costrizione alla prostituzione? Davvero si era mai interessato a certe storie strappalacrime? E allora quell'uccisione che ancora macchiava le mani della ragazza, di chi era? Sorrise, rendendosi conto di quanto si sentisse ridicolmente interessato a tutta quella faccenda. Forse un po' poteva anche definirsi curioso e sicuramente quella fu la giustificazione che si diede, ma probabilmente la verità che mai avrebbe ammesso a se stesso era che sapere che c'era qualcun altro tra quelle persone che aveva vissuto i primi anni nella merda in cui aveva vissuto lui gliela faceva sentire un po' più vicina. Come se lei avesse potuto capire molte delle cose a cui chiunque sarebbero state incomprensibili, e, di contro, che lui avrebbe potuto comprendere realmente molte delle cose che la riguardavano. Se c'era qualcuno al mondo che avesse avuto il diritto e la capacità di sapere e capire, quello era solo lui. Sensazioni, solo sensazioni, ma a cui quei dannati capelli rossi continuavano a richiamare l'attenzione. Glieli avrebbe fatti rasare, un giorno o un altro.

«Conoscevi Gerwin Roff?» chiese Erwin, interrompendo lo scialacquio dei suoi pensieri.

«Era un caporale dell’Armata Ricognitiva, abbiamo lavorato insieme, come potrei non conoscerlo?» rispose Levi, chiedendosi se non stesse cercando di eludere la domanda andando a parare su un altro argomento.

«Gerwin Roff è stato dichiarato morto per malattia, anche se il suo corpo non è mai stato somministrato ad analisi accurate e il caso è stato chiuso con frettolosità» spiegò Erwin, serio e corrucciato nel volto. No, non aveva cercato di sviare la domanda, ma cominciava a mettere insieme i primi pezzi e Gerwin Roff doveva essere un altro dei tasselli mancanti del puzzle.

«La verità su di lui è stata ritenuta vergognosa per il corpo militare e hanno cercato di infangare la cosa. Era vergognoso che un capitano militare frequentasse bordelli nei sotterranei con cadenza quasi settimanale. Lì le donne sono più facili da reperire e meno costose e quando Roff è venuto a conoscenza di una ragazza dagli occhi di ghiaccio e i capelli dalla colorazione singolare del fuoco non ha saputo resistere alla tentazione. Di quel colore rosso poi lui ne ha visto sicuramente in abbondanza prima di morire.»

Levi restò in ascolto senza smuoversi. Bloccato come una statua, con le gambe accavallate e la tazza a fior di labbra. Lo sguardo fisso davanti a sé, che sembrava mostrargli le immagini di un libro mentre venivano svelate le prime verità su quell'assurda storia.

Il sangue di Gerwin Roff, era quello che macchiava ancora le mani di Mari tanto da trascinarla ancora nei propri incubi. E dato che si trattava di uno degli uomini di Erwin, cominciava ad essere chiaro anche come fosse venuto a conoscenza di un'anima invisibile come lo era lei.

«Un'assassina che ha ucciso un pezzo grosso del corpo militare» osservò Levi, muovendo semplicemente le labbra, continuando a restare fisso con lo sguardo davanti a sé. «Perché hai voluto portarla qua?»

«Tu stesso hai detto di aver conosciuto Roff. Era forte, era grosso e violento abbastanza da essere pericoloso. Lei invece aveva solo la sua veste. Le condizioni in cui era ridotto Roff non lasciano spazio a dubbi: lei ha combattuto e ha vinto, uscendone miracolosamente indenne. Sono venuto a conoscenza di Mari e di suo fratello perché Roff faceva parte della nostra legione e sono stato chiamato in tribunale. Doveva essere solo burocrazia, ma quando ho sentito quello che era successo ho capito che lasciarla alla pena di morte sarebbe stato uno spreco. Sono intervenuto, ho indagato personalmente sul conto di Harvey e sono riuscito a trovare un accordo, permettendole di venire qua e lasciando a suo fratello l'onore di occupare quella stanza vuota.»

«L'hai accusato di un omicidio che non ha commesso.»

«Pensi che non se lo sia meritato?» chiese Erwin con provocazione.

«Sai bene cosa penso» disse Levi lasciando trapelare un certo astio. L'avrebbe volentieri preso a pugni lui, quell'Harvey, così come avrebbe preso a pugni Roff ora che sapeva quali schifose pratiche amava attuare durante il suo tempo libero. Sapere di aver lavorato spalla a spalla con un sacco di merda come lui gli faceva venire solo il voltastomaco. «L'accordo dunque è saltato? Lo stanno liberando?» chiese ancora Levi.

«Non conosco ancora tutti i particolari, ma credo che sia dovuto al fatto che qualche ricco mercante fosse un suo cliente fidato e non abbia apprezzato che fosse potuto venir fuori il suo nome.»

«Tsk» si lasciò sfuggire Levi, increspando il viso. «Inutili mangia merda.»

«Probabilmente il verdetto è già deciso e io servo solo per ritirare formalmente le accuse» osservò Erwin, sapendo già come certe cose giravano nei piani alti. Lanciò un'altra occhiata a Mari, che finalmente era riuscita ad appropriarsi del suo piatto, e rese partecipe Levi di una sua personale preoccupazione: «Si rifarà vivo. La sorella gli fruttava un bel guadagno.»

«Che ci provi» si limitò a rispondere Levi, prima di posare bruscamente la tazza sul tavolo. Si alzò e senza dire un'altra parola si allontanò, dirigendosi a passi svelti e pesanti verso l'uscita.

Mari abbandonò il contatto visivo con Angelica, che non aveva cessato un solo istante di parlare di quanto trovasse eccitante quella missione e cosa fosse riuscita a scoprire -ancora niente, ma c'era quasi, affermava-, e guardò Levi sparire all'esterno.

«Chissà cos'è successo...» si chiese, un po' preoccupata.

«Mh, credi sia successo qualcosa?» chiese Angelica, non capendo cosa avesse potuto destare così la preoccupazione dell'amica. Anche lei aveva visto Levi uscire, concentrata nella sua missione di scoprire quanto più su di lui era ben intenzionata a non lasciarselo sfuggire nemmeno per errore, ma non aveva colto niente di diverso dal solito.

«Aveva qualcosa nello sguardo...» rifletté Mari. «Non lo so, mi sembrava cupo.»

«Lui è sempre cupo» disse Angelica con naturalezza. Che ci trovava di strano?

«Sì, beh... ma è diverso» insistè Mari, accennando un sorriso divertito per l'affermazione -esageratamente vera- dell'amica.

«Magari gli hanno raccontato una barzelletta» alzò le spalle la castana e questo bastò per far dimenticare a Mari ogni sorta di preoccupazione, lasciandosi andare a una fragorosa e intrattenibile risata.

E Angelica, colpita piacevolmente da quella reazione, si sentì stimolata a continuare su quello stesso filone: «Magari quello è il suo modo per esprimere ilarità, non puoi saperlo.»



Nda.

Rieccomi e buongiorno! Finalmente si apre un’enorme porta sulla vita di Mari (un’altra xD) e scopriamo di chi è il sangue che ancora le macchia le mani (per chi non ricordasse, qualche capitolo addietro, quando ebbe l’attacco di panico, restò per un po’ confusa a mormorare cose tipo “non volevo ucciderlo” “lui mi ha afferrata” ecc…).

Inoltre, scopriamo il prezioso ruolo di Erwin in tutto questo. Le voci sul conto di Mari la proclamavano la personale prostituta del comandante (ed ecco perché in molti la guardano male), ma in realtà lui l’ha tirata fuori dalla prigione, ritenendola forte abbastanza da dar un buon contributo alla propria causa, e in cambio ha rinchiuso il fratello. Fratello che in realtà dai primi ricordi che vi ho riportato sembrava tanto gentile e premuroso… (invito a rileggere “la bambina delle pere” se non ricordate).

Cos’avrà portato al cambiamento? Cosa l’avrà spinto a diventare il suo aguzzino e a venderla come fosse merce?

Vi rivelo che nel prossimo capitolo faremo un altro salto nel passato e darò risposta anche a queste domande.

Vi aspetto Lunedì prossimo con “La ragazza Rubino”.

Cià cià!


Tada Nobukatsu-kun


<> mormorò Harvey alla sorella un istante prima di lanciarsi coraggiosamente contro l'uomo. Mari lo guardò un po' preoccupata, chiedendosi come ne sarebbe uscito vivo, ma sapeva che la parola di suo fratello era legge perciò obbedì e scappò all'interno del vicolo, sapendo che avrebbe potuto usare qualsiasi aggancio per saltare sul tetto e sparire. Ma tutte le sue previsioni andarono in frantumi quando si scontrò contro un altro uomo, altrettanto terrificante come il primo, ma più sottile di corporatura. L'afferrò per il polso e la bloccò, evitandole di fuggir via.

<>

Voce fuori campo: E Levi intanto si domanda "chissà cosa ha spinto la ragazza a desiderare tanto di mettere le ali della liberta"... non vien voglia di prenderlo per il collo e urlargli "Sei tu, brutto scemo!!!! Sei tu!!!"? XD

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Capitolo 9
*** La Ragazza Rubino ***


LA RAGAZZA RUBINO





Città sotterraneo

Anno 842


Mari si sistemò meglio il cappuccio sopra la testa, premurandosi di nascondere ogni singolo ciuffo di capelli e tenere quanto più in ombra il viso. Silenziosamente e cercando di mischiarsi alla folla, passeggiò sulla via principale della zona mercantile. Alcuni banchetti erano già stati allestiti con stoffe, manufatti e soprattutto cibarie, anche se molte non emanavano un buon odore e l'aspetto non era dei migliori. Ma lei avrebbe comunque addentato volentieri una di quelle mele dal colore marroncino poco rassicurante. Ultimamente lei e Harvey riuscivano ad accaparrarsi ben poco ed erano costretti sempre più alla fuga. Le strade erano controllate più che mai, soprattutto vicino alla zona mercantile, dove fino a poco prima era stato invece più facile rubare qualcosa per l'abbondanza di possibilità. Ma la banda di Levi, proprio come aveva detto Harvey, aveva messo in allarme chiunque e aveva alzato fin troppo la guardia non solo della Gendarmeria (che poco si sprecava ad usare le proprie risorse per tre delinquenti tra delinquenti) ma di chiunque, mercanti compresi, che raramente giravano disarmati o senza qualche mercenario che proteggesse la propria roba in cambio di denaro.

Quando Mari passò di fronte a un banchetto su cui erano posate una quindicina di pere, un lieve sorriso la sorprese e fu costretta ad abbassare ancora di più il viso per nascondersi. Nonostante stesse soffrendo la fame e si fosse trovata più volte in pericolo per colpa della banda di Levi, non riusciva a recriminarlo nemmeno un po'. Loro potevano volare, era tutto ciò che riusciva a pensare. E tutte le volte che li vedeva volteggiare sopra le vie, non poteva che restare incantata da quei loro movimenti così sicuri e leggiadri, incuranti di tutto, come se quella terra non gli appartenesse. Li invidiava, li invidiava come nessun altro.

Ma sapeva che suo fratello aveva ragione, perciò badava bene a tenersene a distanza ed evitare di incrociare le strade con loro. Gente come quella non poteva che essere pericolosa. Si accostò a un banchetto dove il commerciante era impegnato a convincere una donna a comprare le sue merci, si finse interessata e infine si allontanò con tranquillità senza destare sospetti. Dopo qualche passo studiò ciò che era riuscita a infilare sotto il mantello: un vasetto di marmellata. Gli occhi le brillarono e si affrettò a nascondere la refurtiva, con una certa agitazione. Poco più avanti, infine, si infilò in un vicolo accertandosi di restare nell'ombra. Si accucciò vicino al muro e non attese oltre: l'aprì, ci infilò dentro due dita e si portò il contenuto alle labbra. Una dolcissima sensazione le si spandè dalle labbra fino giù in gola e allo stomaco, tanto dolce che non riuscì a trattenere una lacrima. Tremolante infilò nuovamente le dita nel vasetto e ne portò ancora in bocca, mangiando avidamente, dimenticandosi perfino di essere accucciata in un vicolo puzzolente di piscio.

Senza neanche rendersene conto, in pochi minuti, lo finì.

«Oh no» mormorò quando si rese conto. «Harvey mi ucciderà per non avergliene lasciato un po'.»

Si guardò le mani sporche e appiccicaticce, prima di pensare al da farsi. L'unica soluzione era riuscire a prenderne un altro e portarglielo. Era pericoloso, lo sapeva bene, non bisognava mai tornare due volte in breve tempo nello stesso posto o si rischiava di venir scoperti. Ma che altra soluzione poteva avere? Ormai il danno era fatto e ultimamente Harvey era sempre di pessimo umore per la fame, se l'avesse scoperta l'avrebbe picchiata. Si strofinò la mano sporca contro la maglia, pulendosela, e decise di fare quel disperato tentativo. Tanto nessuno aveva visto niente, nessuno si era allarmato, aveva alte probabilità di farcela.

Si avvicinò nuovamente al banchetto, guardandosi furtivamente attorno. Nessuno sembrava darle peso o averla notata e il mercante era ancora impegnato a discutere con la signora indecisa, che ora non sembrava più tanto indecisa visto che pian piano stava riempiendo il proprio cestino. Allungò una mano, parzialmente nascosta dal mantello, tenendo d'occhio il mercante.

Afferrò il vasetto e se lo infilò sotto al mantello. Col cuore martellante di paura, si voltò intenzionata ad andarsene prima che la fortuna decidesse di voltarle le spalle. Sentì in quell'istante un gran baccano provenire dalla via perpendicolare, duecento metri più indietro. Si voltò appena in tempo per vedere Levi e i suoi due compagni volare oltre i tetti delle case, sotto le urla delle persone che probabilmente avevano appena attaccato. Restò paralizzata qualche secondo, guardando con meraviglia come fossero capaci di librarsi tanto in alto senza nessuna difficoltà, mentre le persone sotto di loro provavano stupidamente a rincorrerli.

"Non li prenderete mai" pensò Mari con sicurezza. Come avrebbero potuto? Loro erano capaci di volare, come avrebbero potuto afferrarli?

Sentì uno scalpitio di passi alle sue spalle e si voltò appena in tempo per vedere un gruppo di soldati correre nella sua direzione, probabilmente intenzionati a mettersi all'inseguimento di Levi. Mari sbarrò gli occhi e imprecando tra i denti si diede alla fuga, infilandosi nel primo vicolo che riuscì a trovare. Si schiacciò contro il muro, riprendendo fiato, poi si sporse leggermente per riuscire a vedere i soldati della Gendarmeria passare oltre e far scattare le proprie attrezzature per rincorrere Levi e gli altri.

Stava cominciando a calmarsi, quando una mano ferrea le si posò sulla spalla e la trascinò, sbattendola contro il muro alle sue spalle.

«Che cazzo fai qui?» mormorò Harvey, guardandola furioso. In quei due anni si era alzato ancora, si era leggermente ingrossato di spalle e i lineamenti del viso avevano cominciato a indurirsi. Stava diventando un uomo, abbandonando il ragazzino che era stato fino ad allora.

«C'è il mercato» balbettò Mari, terrorizzata. Quanto odiava vederlo in quello stato, le metteva i brividi. Poche volte Harvey era stato violento nei suoi confronti, in genere si limita a lasciarla in balia dei guai che lei stessa creava come lezione di vita, ma negli ultimi tempi la fame e le difficoltà l'avevano inasprito. Non era raro che, preso dalla furia di qualche suo errore, l'avesse colpita.

«Lo so bene che c'è il mercato, ma qui dovevo venirci io, lo sai! Tu dovevi occuparti della zona est, per l'acqua!»

«Io avevo fame» piagnucolò Mari. «Volevo venire a mangiare qualcosa, non riesco a lavorare a stomaco vuoto.»

«No, tu non riesci a lavorare e basta! Ultimamente non hai fatto altro che portare a casa fallimenti su fallimenti! Non riesco a capire che ti prenda, sei la più veloce e la più agile dei due eppure non riesci a concludere niente. Non sei concentrata! Che ti passa per la testa? Si può sapere a che pensi?»

"Vorrei volare come Levi e la sua banda" no, questo non poteva dirglielo.

«Ho preso questo» balbettò allora, sperando di riuscire a calmarlo almeno un po', e gli mostrò il vasetto di marmellata. Harvey lo guardò a lungo, ammorbidendosi pian piano e alleggerendo anche la presa che aveva su di lei.

«Questo?» chiese con un filo di voce. «Hai idea di quanto valga? Potremmo rivenderlo e col ricavato comprarci del pane e forse anche della frutta.»

"Delle pere" pensò Mari, speranzosa. La gioia negli occhi di Harvey dapprima la allietarono, poi le fecero nascere la paura: come avrebbe reagito se avesse scoperto che ne aveva preso anche un altro, ma che l'aveva mangiato tutto?

«Oppure, potreste darlo a me e tornare a casa tutti interi» parlò una voce alla loro sinistra. Harvey scattò, ripassando il vasetto a Mari e spingendola alle sue spalle per proteggerla. Di fronte a loro un uomo nerboruto, dalla barba scura e le braccia talmente pelose da far venire il prurito solo a guardarle, li fissava con una mazza tra le mani.

«Credi che non ti abbia visto nessuno, ragazzina, mentre lo rubavi?» disse l'uomo, ma nessuno dei due fratelli rispose. Harvey digrignò i denti, prevedendo guai, e preparandosi mentalmente a un eventuale scontro.

«Andiamo, sei grosso quanto il mio braccio, cosa credi di fare?»

«Prova ad avvicinarti e lo vedrai» lo minacciò Harvey. Non era sicuro di riuscire a uscirne intero, era abbastanza sveglio da rendersi conto dello svantaggio in cui si trovava, ma questo non gli avrebbe impedito di difendere sua sorella e quel benedetto vasetto di marmellata con le unghie e coi denti.

«Non fare il duro con me, moccioso» disse l'uomo, che non sembrava proprio aver risentito di quella minaccia.

«Mari, corri» mormorò Harvey alla sorella un istante prima di lanciarsi coraggiosamente contro l'uomo. Mari lo guardò un po' preoccupata, chiedendosi come ne sarebbe uscito vivo, ma sapeva che la parola di suo fratello era legge perciò obbedì e scappò all'interno del vicolo, sapendo che avrebbe potuto usare qualsiasi aggancio per saltare sul tetto e sparire. Ma tutte le sue previsioni andarono in frantumi quando si scontrò contro un altro uomo, altrettanto terrificante come il primo, ma più sottile di corporatura. L'afferrò per il polsi e la bloccò, evitandole di fuggir via.

«Lasciala, pezzo di merda!» urlò Harvey, ora steso a terra per un colpo di mazza dritto sulla schiena.

«Prendile il vasetto» ordinò l'uomo con la mazza al compagno che teneva ben ferma Mari. Quest'ultimo non se lo fece ripetere due volte e le infilò una mano sotto al mantello, cercando di afferrare la refurtiva che la ragazza si ostinava a tenere stretta al petto.

«Per essere una ragazzina hai delle belle forme» ridacchiò, mentre senza farsi scrupoli sfruttava l'occasione per arrivare a toccare anche dove non doveva. Mari con uno scatto riuscì a divincolarsi, approfittando che l'uomo la stesse tenendo solo con una mano, impegnato a cercare. Rapidamente gli tirò una gomitata nello stomaco, riuscendo così a liberarsi del tutto e cercò di fuggire via, puntando a scivolare con velocità tra il muro e l'uomo che ancora colpiva Harvey con la sua mazza.

Ma l'uomo alle sue spalle, benché rantolante, allungò una mano nella sua direzione e le afferrò il cappuccio, tirandolo. Mari ancora una volta si dimenò e riuscì a sfilarselo, sfuggendo alla presa. Infine, mise in atto il piano, correndo verso l'unica via di fuga che aveva.

«Ferma dove sei bambolina o l'ammazzo questo topo di fogna!» minacciò l'uomo con la mazza, puntandola alla testa di Harvey.

«È bella pesante, due colpi ben assestati alla tempia e vedi come schizza fuori il cervello.» Mari si fermò, obbedendo, terrorizzata dall'idea di diventare la causa della morte di Harvey. Non poteva perderlo! Non aveva altri che lui, non conosceva niente di bello al mondo se non la sua vicinanza e il sostegno che riusciva a darle. Gli voleva bene e le permetteva di sopravvivere, queste erano certamente delle ottime ragioni per evitare che venisse ucciso.

«Guardami in faccia. Voltati!» ordinò ancora l'uomo con la mazza. E Mari, anche se riluttante e spaventata, obbedì volgendo a lui i suoi occhi azzurri. L'uomo la scrutò a lungo, prima di allungarsi e afferrarle una di quelle ciocche rosse tra le dita.

«Non toccarla!» strillò impanicato Harvey, ai suoi piedi, e tentò di rialzarsi per andare a proteggerla, ma venne schiacciata al suolo da un pesante colpo di stivale.

«Sta' tranquillo moccioso, non ho intenzione di farle del male» disse l'uomo, prima di chiedere a Mari, sempre strofinando tra due dita una delle sue ciocche: «Dì un po', ragazzina, quanti anni hai?»

Ma Mari non rispose, abbassando lo sguardo, tremolante.

«Ti ho fatto una domanda! Rispondi se non vuoi avere addosso brandelli di cervello!»

«Quattordici!» quasi urlò, spaventata.

«Quattordici, è interessante» mormorò l'uomo tra sè e sè, prima di voltarsi a guardare Harvey steso a terra. «Ragazzino, hai la più pallida idea di quale tesoro hai tra le mani?»

«Di che cazzo parli?» ringhiò Harvey,

«Dei capelli come questi non se ne vedono in giro, sono davvero particolari, attirano lo sguardo e sono difficili da dimenticare. E guarda inoltre che bel visino!»

«È di mia sorella che parli, sudicio cane! Non azzardarti!» ringhiò ancora Harvey, che ora cominciava a capire dove l'uomo volesse andare a parare.

«Prima ascolta quello che ho da dirti e dopo deciderai se provare ad ammazzarmi. Ho una proposta per te: lasciala a me e tu puoi tenerti il vasetto di marmellata. Non solo! Conosci il negozio di frutta e verdura qui all'angolo? Io e mio fratello ci lavoriamo assieme. Bene, ti consegnerò ogni mese ben due cassette del nostro raccolto.»

«Due? Sei pazzo?» l'ammonì il compagno.

«Sta' zitto! Coi soldi che ci farà fare questa qui ne riguadagniamo il triplo di quello che cediamo!» gli rispose a tono, prima di tornare ad Harvey, che ora lo fissava con gli occhi di chi sta per morire di fame. Tutto quel cibo senza impegno, senza più preoccuparsi, era sicuramente molto più di quello che Mari fosse mai riuscita a rubare. Ma a sconvolgerlo così non fu tanto la proposta di cibo, ma la frase appena detta. Una come lei poteva davvero guadagnare tanto? Avrebbe risolto ogni loro problema. Diceva sul serio?

«Allora? Che ne dici? Fornitura gratis a vita in cambio della ragazzina.»

Mari non riusciva ben a mettere a fuoco ciò che stesse succedendo, ma sentiva di essere in pericolo. Profondamente in pericolo, e questo la faceva tremare come un fuscello. Guardò suo fratello, speranzosa che lui l'avrebbe protetta e riportata a casa, ma gli occhi famelici di Harvey distrussero ogni sua aspettativa.

«Solo per oggi.» disse Harvey. «Te la vendo in cambio del vasetto. Puoi tenerla tutto il giorno, poi lei torna a casa.»

La gola di Mari si andò a chiudere: ciò che aveva appena sentito fu talmente inverosimile che per lo shock non riuscì neanche a pensare. Il vuoto più completo, assoluto, di fronte all'evidenza che suo fratello l'aveva appena data in cambio come fosse merce. Un qualsiasi oggetto esposto su un banchetto, sotto lo sguardo affamato di chi aveva intorno, incapace di sfuggirgli. Succube, intrappolata dov'era, arpionata a terra.

«Mi sta bene lo stesso» e quella fu la prima mano che mai l'avesse afferrata.

"Vorrei imparare a volare come Levi."



Now angel won't you come by me

angel hear my plea

take my hand lift me up

so that I can fly with thee



NDA


Chiedo scusa per il ritardo >.<

Comunque sono qua con questo nuovo capitolo e un altro lembo del passato di Mari. Un altro tassello importante: il giorno che Harvey ha cominciato a venderla, spinto dalla fame e dalla paura dell’uomo con la mazza. E il primo pensiero di Mari va a Levi, alla sua capacità di volare, all’invidia che prova verso quel suo dono che, se ne avesse avuto possesso anche lei, le avrebbe permesso di scappare. Possiamo quindi trovare una delle prime risposte alle nostre domande: dove arriva quel folle desiderio di Mari di volare che l’ha spinta a tentare di entrare nell’Armata Ricognitiva? Ecco qua a voi servita la risposta :)

La strofa di canzone alla fine è presa da “Waiting on an Angel” di Ben Harper.


Ora Angelo non verrai al mio fianco

Angelo ascolta la mia preghiera

Prendi la mia mano e sollevami

Così che io possa volare insieme a te…


Molto bella e significativa, vero? Sì, avete capito bene, l’”Angelo” è proprio Levi, perché alla fine si può dire che lei cominci a vederlo proprio in quel modo. Un angelo capace di volare, di sfuggire, e a cui rivolge la silenziosa preghiera di venirla a prendere.

Vaaaa bene mi sono dilungata troppo.

Vi mando un saluto e vi lascio appuntamento al prossimo Lunedì!

Cià cià


Tada Nobukatsu-kun


Anticipazione:

«Ma ora comincio a trovarlo seccante, soprattutto se devo essere pedinato e spiato.»

"È la fine"

«Stai esagerando.»

"Mio fratello sarà furioso perché me ne sono andata."

«Non...» provò a pronunciare Mari, approfittando di un momento di silenzio di Levi, ma la voce le morì in gola. Si strinse un polso con una mano, cercando di costringerlo a smettere di tremare.

"Non lasciami indietro."

Levi posò la tazza sulla scrivania, poi tornò a osservarla, incuriosito da quella mezza frase che aveva tentato di dire. Rimase in silenzio, permettendole di tentare di concludere.

«Non mi mandi via...» riuscì a pronunciare Mari con un filo di voce.


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Capitolo 10
*** Chi sei veramente ***


Chi sei veramente


Centro d'addestramento

Anno 846


Angelica si guardò attorno, china su se stessa, schiacciata contro il casolare in legno. Fece un paio di passi verso l'angolo, da cui poi si sporse leggermente. In giro non c'era nessuno, se non il capitano Levi diretto chissà dove.

"Spia Angy in azione!" pensò euforica, prima di voltare l'angolo e continuare a seguire di soppiatto il capitano. Era la prima volta che faceva qualcosa di tanto audace, per quanto fosse sempre stata una ragazza che si cacciava spesso nei guai questo era dovuto per la maggior parte delle volte solo a causa della sua bocca che non stava zitta. Mai si era beccata qualche rimprovero o punizioni a causa di guai veri e propri: alla fine era una brava ragazza. Ma forse proprio quell'essere brava ragazza l'aveva spinta a esagerare l'incarico di aiutare Mari, ritrovandosi addirittura a pedinare di nascosto un ufficiale dell'esercito. In fondo, la sua vita era sempre stata così noiosa che non appena era successo qualcosa di interessante, come poteva esserlo Mari e la sua missione, ci si era immersa completamente. Vide Levi sparire dal suo sguardo, camminando di fronte a quello stesso casolare, e silenziosa ne raggiunse l'estremo che dava sul cortile, camminando lungo il fianco. Si sporse, per controllare la posizione del capitano e capire dove fosse diretto, ma la vista non riuscì ad andare oltre il proprio naso, che si andò quasi a schiacciare contro la camicia di Levi, ora fermo, in piedi davanti a lei, che la fissava.

«Lo sai che potrei farti rinchiudere in cella d'isolamento per questo?» la minacciò Levi, seccato.

«Mi dispiace!» sobbalzò Angelica, ora verde in volto dalla paura. Chissà per quale motivo non aveva messo in conto il pericolo di poter essere scoperta.

«Che cosa vuoi?»

«Mari vuole tanto entrare nell'Armata Ricognitiva e mi ha mandato in avanscoperta per studiarla e capire come convincerla ad accettarla!» disse Angelica tutto d'un fiato. Levi spalancò appena gli occhi, stupito nel sentirla confessare con così tanta facilità.

«Complimenti per la capacità di mantenere un segreto. Ricordami di non coinvolgerti mai in qualche piano che ne preveda.»

«Chiedo scusa!» mugolò Angelica, abbassando la testa. Non poteva farci niente, lei era fatta così: la lingua andava sempre per conto proprio, non era capace di averne il controllo.

«Lei dov'è?» chiese Levi, cambiando tono e incrociando le braccia al petto.

«In questo momento è in esercitazione nel bosco con l'istruttore Keith.»

«Dille di passare da me quando avrà finito» e si voltò, intenzionato a non aggiungere altro.

«Le darà una possibilità?» chiese istintivamente Angelica, emozionata al pensiero che forse la sua amica avesse potuto avere una chance.

«No» rispose seccamente Levi, allontanandosi. «Ma riferisci il messaggio e non farti più vedere in giro, o la prossima volta potrei non essere di così buon umore.»

"Buon umore? Io l'avevo detto che gli avevano raccontato una barzelletta!" pensò Angelica, sorridendo divertita, prima di darsela a gambe. Corse senza fermarsi, diretta nella foresta dove in quel momento Mari era impegnata al suo addestramento. Ci mise un po' a trovarla, ma alla fine riuscì a distinguere la sua sagoma accovacciata su di un ramo. Era impegnata a guardarsi attorno, forse studiando la zona circostante, quando sentì la voce di Angelica arrivare come un uragano nella sua direzione pronunciando quasi senza prendere fiato: «Mari Mari Mari...»

Atterrò pesantemente al suo fianco, facendo traballare pericolosamente il ramo su cui si trovavano, tanto che Mari dovette artigliarlo per evitare di perdere l'equilibrio e cadere giù.

«Che c'è? Che succede?» chiese abbastanza contrariata per l'irruenza con cui l'aveva assalita.

«Grandi notizie!» disse Angelica, con le guance rosse per l'emozione e afferrando l'amica per le spalle le rivelò: «Ho scoperto qualcosa sul capitano Levi di molto interessante!»

«Sul serio? Tanto interessante da non poter aspettare stasera per dirmela? Lo sai che se Keith ci vedesse perdere tempo ci concerebbe per le feste?»

«Gli piace bere il tè!» disse repentinamente Angelica, ignorando i rimproveri di Mari. Ci fu un lungo silenzio in risposta a quella rivelazione, silenzio in cui Mari tentò in qualche modo di rendere quell'informazione qualcosa di utile ai suoi scopi, senza riuscirci pienamente. Come poteva una cosa simile aver esaltato tanto l'amica da farla correre da lei e rischiare di essere scoperta e ripresa dall'istruttore? Si corrucciò, mentre chiedeva ironica: «Mi vesto da maid e gli servo il tè?»

«Perverso!» esclamò Angelica, arrossendo mentre la mente partiva a immaginare scenari non troppo casti la cui protagonista era appunto Mari con su un costumino da Maid. «Ma geniale!»

«Mi rifiuto!» urlò Mari, pervasa da un profondo imbarazzo nel rendersi conto di cosa stesse cercando di suggerirle l'amica. Aveva già provato più volte la sensazione di dover compiacere gli uomini con cose del genere e l'aveva sempre trovato disgustoso, non avrebbe permesso a Levi di entrare a far parte di quei ricordi da cancellare. E poi quel tipo di attenzioni non erano quelle che cercava da parte sua!

«Non sei collaborativa» brontolò Angelica.

«Inventati qualcos'altro!»

«Il capitano Levi ha chiesto di te.»

Mari spalancò la bocca, pronta a brontolarla ancora, credendo che le avesse suggerito qualcos'altro di inutile e imbarazzante, ma si paralizzò quando cominciò a realizzare.

«Come, scusa?» chiese poi, inarcando un sopracciglio.

«Mi ha scoperto mentre lo pedinavo.»

«Lo stavi pedinando?» urlò Mari, sempre più sconvolta.

«E mi ha minacciato di chiudermi in isolamento.»

«Sei folle! Hai idea del rischio che hai corso?»

«Sì, è stato divertente!» ridacchiò Angelica.

«Ma che dici? Sei impazzita?»

«Comunque gli ho detto tutto.»

«Tutto? Tutto cosa?» cominciò a tremare Mari. Non che si vergognasse della sua missione di dimostrarsi forte per farsi accettare, ma la spaventava l'eventualità che Angelica avesse interpretato a modo suo le cose come a volte faceva su quella faccenda e quella che avesse rivelato fosse solo l'idea che si era fatta e non la realtà. Come avrebbe potuto guardarlo di nuovo in faccia, se gli avesse detto che lei stava cercando di "fare colpo" su di lui?

«Gli ho detto che stai cercando la sua approvazione per entrare nell'Armata Ricognitiva e per questo lo stavo seguendo» e Mari tirò un sospiro di sollievo. Aveva riferito le cose come stavano davvero, senza aggiungere niente di suo che avrebbero potuto creare fraintendimenti. A dir il vero, il fatto che lui avesse espressamente chiesto di vederla dopo aver scoperto Angelica che lo pedinava avrebbe dovuto solo farla preoccupare maggiormente, ma per il momento si godeva semplicemente il sollievo di non dover spiegare i fraintendimenti.

«Si batte la fiacca?» l'imperativa voce di Keith, arrivata improvvisamente, fece urlare entrambe per lo spavento.

«Vi toglierò dei punti per questo! Muovetevi! Non siamo in villeggiatura, femminucce!»

Mari e Angelica, prese dal panico per il rimprovero, fecero scattare immediatamente i propri dispositivi tridimensionali e volarono via, ognuna verso una direzione diversa.

«Comunque ti sta aspettando!» urlò Angelica, un attimo prima di sparire tra i rami della foresta.

«Asp...» balbettò Mari. Per lo spavento e la quantità di informazioni inutili con cui Angelica aveva condito il tutto, si era dimenticata di chiedere qualcosa di più su ciò che era veramente importante: Levi aveva chiesto di vederla. Dove? E soprattutto, perché?

«Angy!» provò a urlare, senza successo. «Maledizione!» sibilò tra i denti, prima di ruotare intorno a un albero e tornare indietro. Provò ad inseguirla, prendendo la sua stessa direzione, ma non ci mise molto a rendersi conto che l'aveva persa. Sospirò, sconsolata e decise di ricorrere al piano B: andare direttamente da Levi e scoprire sul momento dal diretto interessato quello che doveva sapere. Angelica non aveva la più pallida idea di dove fosse andata, ma sapeva invece dove trovare l'istruttore Keith e da lui si diresse.

«Capitano Keith!» gridò, raggiungendolo in volo.

«Stai ancora bighellonando? Non ti avevo ordinato di tornare al lavoro?» ringhiò Keith, fulminandola.

«Il capitano Levi ha espressamente richiesto la mia presenza» disse Mari, cercando di risultare formale e ignorando il rimprovero. Con lui era meglio andare subito al sodo, senza girarci troppo attorno, o ci avrebbe sicuramente perso e basta.

«Per quale motivo?» chiese Keith, poco convinto.

«Non ne ho la più pallida idea, Signore!» se solo Angelica glielo avesse detto, invece che parlare di quanto fosse stato divertente farsi quasi sbattere in isolamento.

Keith ringhiò qualcosa di incomprensibile, probabilmente insulti rivolti alla stessa Mari, ma poi esclamò: «Sei congedata, cadetta.»

«Grazie Signore!» esclamò Mari, portandosi il pugno al cuore in segno di saluto e sparì rapidamente, raggiungendo in pochi minuti il confine della foresta, dove aveva legato il proprio cavallo. Lo liberò, vi salì sopra e corse verso il centro di addestramento, sul lato opposto della collina.

Per tutto il tempo del tragitto non potè che chiedersi quale motivo avesse spinto Levi a chiedere di vederla. Non poteva far a meno di pensare che non gli andasse a genio il fatto che lei avesse cercato di fargli cambiare idea, forse desiderava smorzare la cosa, magari lo vedeva come un insulto alla sua superiorità. E forse l'arrivare addirittura a pedinarlo doveva essere stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso, per quanto lei non avesse mai chiesto ad Angelica di fare una cosa simile.

"Non avrei mai dovuto spingermi tanto oltre" pensò, mentre usciva dalla stalla dove aveva legato e sistemato il proprio cavallo. Si liberò dell'attrezzatura per il movimento tridimensionale e si affrettò a raggiungere il casolare destinato al capitano Levi. Entrò e salì le scale: la stanza di Levi doveva essere al piano superiore, visto che un paio di sere prima l'aveva visto sbucare da lì.

"Speriamo di indovinare" pensò mentre si avvicinava alla prima porta sulla sinistra. Alzò il pugno, pronta a bussare, e si scoprì in quel momento in tremenda agitazione. La mano non riusciva a non tremare e la gola raschiava da tanto era secca. Aveva paura, una paura folle! Levi era un tipo brusco e potente, poteva permettersi di fare qualsiasi cosa, persino cacciarla.

"E se mi rispedisse nella città sotterranea?" il pensiero le chiuse lo stomaco. Poteva farlo, poteva farlo eccome e poteva essere incazzato abbastanza da permetterselo. Si morse un labbro, mentre il fiato cominciava a mancarle.

"Non posso. Non voglio tornare là!" pensò, mentre in lei cominciava a farsi strada il desiderio di fuggire via. Era una ladra, scappare era sempre stata la sua specialità, se si fosse data alla fuga nessuno sarebbe più riuscito ad acchiapparla e Levi non avrebbe potuto ricacciarla là sotto. No, non era vero. Ovunque andasse, finché restava ancorata al suolo, le mani avrebbero sempre potuto raggiungerla. Solo chi volava era irraggiungibile e inafferrabile, e lei aveva sognato troppo a lungo.

Chiuse gli occhi, cominciando a pregare qualsiasi divinità fosse potuta esistere e alla fine bussò. L'attesa parve estenuante, poi finalmente una voce: «Avanti».

Femminile.

"Non è lui. Ho sbagliato?" si domandò deglutendo. "Qui va sempre peggio! Non riesco a combinarne una giusta!"

Aprì e si affacciò in quella che, scoprì allora, essere la stanza di Hanji Zoe.

«Chiedo scusa...» balbettò, mentre l'ufficiale la guardava curiosa. «Stavo cercando il capitano Levi, devo essermi sbagliata.»

«La stanza a fianco» sorrise Hanji, indicando la parete alla sua sinistra. Era sempre stata gentile con lei, nonostante fosse un suo Superiore. Sorrideva sempre, la sua compagnia era dolce e rilassante.

«Grazie. Scusi il disturbo» disse cordialmente e richiuse la porta.

"Sarebbe un gran peccato se non dovessi più riuscire a vederla" pensò e questo aumentò il senso di vuoto e dolore che le stava prendendo alla bocca dello stomaco.

Si voltò verso quella che era la porta di Levi e sobbalzò spaventata quando la trovò già aperta, con il capitano che l'osservava affacciato.

Il suo viso come al solito trasmetteva solo sdegno e serietà. Metteva una gran soggezione, nonostante tra tutti gli ufficiali fosse uno dei più piccoli di statura e stazza. La scrutò e Mari ebbe la sensazione di essere fatta a pezzi, smembrata e analizzata in ogni singola parte.

«Entra» disse infine Levi, prima di sparire dentro la propria stanza.

Mari abbassò la testa, puntando gli occhi ai piedi che ora sembravano così pesanti e difficili da gestire. Il rumore del proprio cuore, sempre più potente nei suoi rintocchi, l'assordava e la stordiva. Con fatica, decise di obbedire mentre ancora una volta sentì l'impulso di fuggire via.

«Chiudi la porta» ordinò ancora Levi, raggiungendo la sua scrivania. Si lasciò cadere su una sedia su quello stesso lato, dando le spalle a Mari, ma non rimase in quella posizione e roteando tornò a puntare gli occhi sulla ragazza. Mari ancora una volta obbedì meccanicamente, poi percorse un paio di passi dentro la stanza e vi ci si fermò in mezzo, dritta nella posizione che lo stesso Erwin le aveva insegnato. Non riusciva a pensare a niente, se non che aveva paura. Levi si allungò sulla scrivania, afferrò una teiera e si versò del tè in una tazza.

«Ne vuoi un po'?» chiese, impegnato in quell'azione.

Per quanto quella situazione le avesse fatto tornare alla mente il discorso maid affrontato con Angelica poco prima, e per quanto questo avesse potuto scuoterla un po', non ebbe minimamente l'effetto che avrebbe potuto.

«No, grazie Signore» rispose, sforzando la voce di risultare normale. Avrebbe avuto modo di rivederla ancora, Angelica? O quella sbrigativa chiacchierata sul ramo sarebbe stato l'ultimo ricordo che Mari si sarebbe portata dietro di loro due? Cercava di non pensarci, cercava di convincersi che Levi non le avrebbe mai fatto una cosa simile, cercava di rincuorarsi... ma più cercava conferma a quegli incoraggiamenti sul volto del capitano e più non ne trovava. Così severo, così nervoso, come poteva sperare nella sua magnanimità? Come ne sarebbe uscita da quella stanza?

«La tua amica mi seguiva per conto tuo» disse Levi, andando subito al sodo della questione. La gola di Mari si chiuse improvvisamente, mentre le sue paure cominciavano a prendere forma. Ora non sarebbe più riuscita a pronunciare neanche una sillaba, perfino con tutto lo sforzo del mondo. Era vero, tutte quelle paure erano vere e lui non l'avrebbe mai perdonata. Si era cacciata in un grosso guaio, ancora una volta. Ancora una volta, stava affondando, trascinata, mentre lui volava via dal suo campo visivo. Irraggiungibile.

"Non lasciarmi di nuovo indietro."

«All'inizio il tuo modo di fare lo trovavo divertente. Infantile, ma divertente, devo esser sincero.» e mentre Levi diceva questo lo sguardo di Mari prese a diventare sempre più vuoto, sempre più assente.

"Non voglio tornare lì sotto! Non voglio tornare... da loro" riusciva solo a pensare, mentre il dolore le attanagliava lo stomaco.

«Ma ora comincio a trovarlo seccante, soprattutto se devo essere pedinato e spiato.»

"È la fine"

«Stai esagerando.»

"Mio fratello sarà furioso perché me ne sono andata."

«Non...» provò a pronunciare Mari, approfittando di un momento di silenzio di Levi, ma la voce le morì in gola. Si strinse un polso con una mano, cercando di costringerlo a smettere di tremare.

"Non lasciami indietro."

Levi posò la tazza sulla scrivania, poi tornò a osservarla, incuriosito da quella mezza frase che aveva tentato di dire e rimase in silenzio, permettendole di tentare di concludere.

«Non mi mandi via...» riuscì a pronunciare Mari con un filo di voce.

"Non lasciarmi indietro."

«La prego, non mi rimandi là» ripetè, prima che una lacrima scappasse dai suoi occhi e le scendesse giù per la guancia. Mari sobbalzò, appena se ne accorse, e si portò velocemente una mano al viso, asciugandosi rapidamente. Ma un'altra lacrima scese giù dallo stesso percorso e un'altra la seguì ancora, una dopo l'altra, man mano che nella sua mente tornavano i ricordi di quegli ultimi tempi alla luce del sole, accanto a persone che cominciava ad apprezzare per la prima volta nella sua vita.

"Voglio volare come te."

«No, merda» si lasciò sfuggire, mentre cercava disperatamente di asciugarsi e impedire alle lacrime di sgorgare, schiacciando i polsi contro gli occhi. Levi cercava persone forti, Levi l'aveva allontanata perché non lo era abbastanza, perché si era messa a piangere due sere prima e ora lei stava commettendo lo stesso errore.

A occhi chiusi, impegnata com'era a lottare contro se stessa, non si era nemmeno resa conto che Levi si era alzato dalla sua sedia e le era andato incontro. L'afferrò per la fronte, immergendo le dita tra quei capelli color sangue e la costrinse a sollevare il viso. Mari alzò gli occhi completamente umidi e incrociò lo sguardo increspato di Levi, spaventandosene. Più correva disperata per raggiungerlo e più arrancava e inciampava. Proprio come quel giorno, sarebbe tornata a casa ricoperta di lividi mentre lui sarebbe sparito all'orizzonte. Quello sguardo furibondo non lasciava spazio ad alternative.

Con una spinta, Levi la fece cadere su una poltrona lì a fianco. Poggiò entrambe la mani sui braccioli e piegandosi in avanti raggiunse il viso di Mari, fermandosi a pochi centimetri di distanza, senza interrompere il contatto visivo. Ogni cosa, dallo sguardo ai movimenti, trasmetteva aggressività e questo le faceva paura, tanto che si ritrovò a schiacciarsi contro la poltrona su cui era stata spinta, quasi avesse speranza di affondarci dentro e sparire.

«Hai idea di chi sono io?» ringhiò Levi.

«Il capitano Levi, il soldato più forte dell'Umanità» mormorò Mari con un filo di voce, rispondendo meccanica come un robottino. Metteva soggezione, eccome se lo metteva! Aveva persino smesso di piangere, sopraffatta da quel suo modo di fare, arrivando persino a temere di essere malmenata se solo avesse accennato a riprendere.

«Sai chi sono veramente?» insisté lui, non smuovendosi di neanche un millimetro.

Mari esitò qualche secondo, per poi rivelare: «Era un delinquente della città sotterranea.»

«Esatto. Anche io sono nato in quella fogna! Mi credi davvero così bastardo da volerti rimandare là?» e detto questo, finalmente si alzò, abbandonando il contatto visivo con la ragazza che ora cominciava a vedere una luce di speranza. Tutto il dolore e la paura la lasciarono come una macchia che veniva finalmente pulita via e lei si ammorbidì su quella poltrona. Levi si allungò ad afferrare una sedia e la trascinò davanti a lei. Poi ci si lasciò cadere e tornò ad essere distaccato, incrociando le braccia al petto.

«Non sono in molti a conoscere la mia provenienza, non mi aspettavo tu la sapessi, anche se forse a pensarci non mi sarei dovuto stupire visto che vieni da lì anche tu. Avrai sentito qualche voce» osservò.

"Sono la bambina delle pere" pensò Mari e per un istante credette di averlo detto ad alta voce. Un malinconico sorriso le incurvò leggermente gli angoli della bocca, mentre realizzava: "Non può ricordarselo. Non mi vide neanche in faccia."

«Tutti la conoscono da quelle parti, al tempo faceva molto parlare di sè e quando è riuscito ad andarsene le voci sono andate aumentando» disse Mari con una certa emozione nella voce. Lei c'era, lei c'era sempre stata e aveva potuto vederlo. Non se lo sarebbe mai potuto dimenticare.

«Quindi mi conoscevi già» osservò Levi.

Mari arrossì un po', prima di ammettere: «Beh, sì.»

Il piede di Levi scattò con una tale rapidità che Mari ebbe appena il tempo di notarlo. Si schiacciò contro la poltrona nel vederlo arrivare nella sua direzione e chiuse gli occhi, trattenendo con fatica un urlo. La suola dello stivale di Levi arrivò a sfiorarle il naso, ma non si scontrò mai con esso, restando bloccato a mezz'aria.

«E nonostante tutto hai creduto davvero che fossi un tale bastardo?» ringhiò lui contrariato.

«Mi dispiace!» balbettò Mari osservando terrorizzata la suola a pochi millimetri dal suo viso.

«Stupida» disse Levi, come se avesse appena sputato il nocciolo di un'oliva e riportò il piede a terra. «Perché non l'hai fermato?»

«Come?» chiese confusa Mari.

«Ti avrei potuto fracassare il naso, perché non mi hai fermato?»

«Lei... è stato troppo veloce» mormorò Mari, ma Levi rispose repentinamente: «Stronzate! I riflessi non ti mancano, ti ho visto io stesso fermare il calcio di Keith senza neanche aprire gli occhi!»

«Io...» provò ancora a mormorare Mari, non sapendo che altra scusa andare a prendere. Aveva ragione, avrebbe potuto fermarlo, il braccio stesso si era irrigidito nell'istante in cui l'aveva visto arrivare e se glielo avesse permesso l'avrebbe bloccato senz'altro. Ma non aveva voluto farlo per colpa di un pensiero quasi incosciente, che era andato a ripescare le parole di Angelica della sera prima, quando aveva supposto che tutta quell'ira nei suoi confronti derivasse dal fatto che lei fosse riuscita ad atterrarlo. Doveva cercare la sua compiacenza, non farlo arrabbiare ulteriormente dimostrando ancora una volta che tutta quella superiorità che vantava poteva essere intralciata. Ma proprio come lei stessa aveva poi ipotizzato: Levi era troppo sveglio e si era accorto del suo volersi trattenere e la cosa lo stava facendo incazzare ancora di più.

«E se sei riuscita ad ammazzare quello scimmione di Gerwin Roff a mani nude allora vuol dire che non ti manca neanche la forza!» continuò Levi e bastò pronunciare di quel nome per far cambiare ancora una volta espressione alla ragazza, che ora sembrava essere caduta in un pozzo buio. In un misto tra lo spaventato e il sorpreso, il volto le si oscurò e smise improvvisamente di vedere ciò che la circondava.

«Perché non mi hai fermato?» chiese ancora Levi, scandendo bene le parole. Mari finalmente alzò gli occhi e, affilati, vitrei, li volse a lui, anche se per la meccanica con cui si mosse sembrò un gesto non intenzionale. Levi ebbe di nuovo quella terribile sensazione che aveva provato la prima volta, quando l'aveva stesa a terra e la stava per colpire. La sensazione spiazzante e quasi terrificanti di trovarsi un davanti un corpo apparentemente privo di anima, ma pronto a uccidere. Ricordava quasi lo sguardo dei Giganti, se non fosse stato per l'espressività delle labbra, incurvate verso il suolo. Che fosse quello il motivo per il quale Levi, allora, aveva sentito la necessità di allontanarsi con tale fretta?

«Credi che io non sia capace di farti del male come te l'ha fatto Roff?» continuò Levi, cercando di ingoiare quell'esitazione che per un attimo l'aveva stritolato. Avrebbe combattuto quegli occhi proprio come faceva con tutti gli altri Giganti: con forza, violenza e capacità tattiche.

«Rispondi quando un superiore ti parla!» urlò Levi, scattando nella sua direzione e afferrandola per il collo. Proprio come il loro primo combattimento, Mari si ostinava a tenere lo sguardo fisso nel suo, alla ricerca profonda di un punto debole. Ma a differenza di allora, si limitò a quello, rimanendo immobile, benché avesse ogni singolo muscolo teso e tirato.

«Credi non sia capace di farti quello che ti ha fatto lui?» insisté ancora Levi. Mari non era l'unica che cercava i punti deboli dell'avversario e lui stesso stava approfittando di quello scambio di sguardo, delle sue conoscenze, per colpirla laddove sapeva che fosse più debole. Laddove sapeva poi l'avrebbe fatta crollare a terra.

«Non cederò» sibilò Mari, sorprendendolo. «So bene cosa sta cercando di fare. Ma io non perderò il controllo.»

Provocazioni, solo provocazioni a cui lei avrebbe resistito a qualsiasi costo. Strinse i pugni sulla stoffa della poltrona sotto di sé, tanto che avrebbe potuto strapparla da un momento all'altro. Il corpo, il cuore, ogni cosa la portava a scattare, ad accecarla proprio come quella volta... ma la mente restava lucida e ben impiantata in quelle iridi che per anni aveva solo visto sparire oltre i profili delle case, arrendendosi all'evidenza che mai avrebbe potuto raggiungerle. Quello sguardo da brivido, che aveva dato inizio a tutto.

Non conosceva il motivo che spingesse Levi a colpirla tanto duramente, ma non gli avrebbe permesso ancora una volta di dimostrare che lei era debole e che non meritava l'entrata in Armata. Avrebbe resistito ad ogni costo, non avrebbe ceduto all'istinto come qualche sera prima, portandolo a confermare ciò che aveva decretato.

«Ne sei sicura?» il tono di voce di Levi le fece venire i brividi, riportandole alla mente il fatto che si trovasse di fronte all'uomo più iracondo, forte e violento che l'umanità conoscesse. Per un istante, ebbe paura.

Levi la tirò in avanti, spostandosi quel tanto che bastava per scaraventarla a terra. Il tonfo che produsse rese l'idea della forza che aveva impresso. I mugolii di Mari, doloranti, ne furono ulteriore conferma.

«Il soldato più forte dell'umanità, sei stata tu a dirlo» disse lui, torvo in viso, affiancandola e guardandola dall'alto al basso. Mari poggiò i palmi delle mani a terra e cercò di rialzarsi, ma Levi l'anticipò colpendola con un calcio nello stomaco che la ributtò a terra.

«Potrei ucciderti. Penso tu sappia che posso farlo» e continuò a colpirla sempre con più forza, sempre con più violenza, lasciando che i suoi gemiti di dolore riempissero la stanza. Mari, rannicchiata su se stessa, cercò di proteggersi come potè, avvolgendosi le mani intorno alla testa e provando a tenere fuori dalla portata di tiro del capitano almeno il viso.

"Non perderò il controllo! Non devo cedere!" continuava a ripetersi, ostinandosi a non reagire e lasciare che Levi sfogasse la sua ostilità contro il proprio corpo. Un calcio alla bocca dello stomaco, un altro alla spalla, poi al petto, al ginocchio e di nuovo allo stomaco. Uno, due, tre colpi. E la sua forza non sembrava diminuire nemmeno un po', ma anzi pareva quasi che andassero aumentando d'intensità botta dopo botta. Colpi come quelli nemmeno Harvey nelle sue sfuriate era mai riuscito a darle, la forza di Levi non era solo leggenda. Ma lei poteva resistere, poteva farlo, lo sentiva... doveva farlo.

«Tu sai chi sono io! Il soldato più forte dell'umanità. Criminale in passato. Ora capitano dell'Armata Ricognitiva! Lo sai bene, hai detto che mi conosci. Sai chi sono e sai che potrei ucciderti qui, senza neanche troppi rimorsi. Esattamente come tu hai fatto con Roff, solo che poi io me ne dimenticherei perché...» e si fermò, si inginocchiò e afferrandola per quegli odiosi capelli rossi la costrinse a sollevarsi e tornare a guardarlo negli occhi. Una scia di sangue partiva dalla sua fronte, confondendosi con il colore di alcune ciocche impiastricciate lì in mezzo e Levi si prese solo qualche istante per constatare con ribrezzo che sì, avevano lo stessa schifosa tonalità.

«Solo che poi io me ne dimenticherei perché tu invece sei solo una puttana» concluse e forse il ribrezzo provato per la colorazione sanguigna delle sue ciocche -a cui aveva appena trovato conferma- rese ancora più convincente il suo tono distaccato, freddo, quasi ripugnato. Lo stesso identico tono, la stessa identica espressione di tutti gli uomini che erano stati con lei durante quei terribili anni di costrizione. Il tono di chi ha di fronte a sè un oggetto di cui servirsi a piacimento, ma che poi, al di fuori del suo momento, lo rifugge come qualcosa di vergognoso, qualcosa che non merita che la morte nel più totale silenzio e solitudine. Un oggetto che ormai concluso il suo lavoro non ha altro destino che la discarica.

Perse anche quell'ultima parte di autocontrollo che tanto aveva lottato a trattenere, ormai incapace di trovare qualcosa a cui aggrapparsi. Il buio della disperazione e dell'ira annebbiò anche quell'ultima speranza che era sempre riuscita a darle forza, portandola a dimenticare per cosa avesse stretto i denti fino a quel momento. Quel nomignolo, quello sguardo, quel tono di voce... voleva spazzare via tutto.

«Non è così?» insistè Levi, soddisfatto di essere riuscito nel suo intento. Lo sguardo di Mari, lo stesso sguardo che probabilmente Roff si era portato nella tomba, finalmente si era riempito, abbandonando quell'inquientate somiglianza con gli occhi privi di anima dei Giganti. Ora traboccava odio e rabbia. Ora vivevano e in loro riusciva distintamente a cogliere la forza e il desiderio di chi avrebbe continuato a farlo ancora a lungo, a discapito di tutti e di tutto.

«Non è così?» gridò ancora, determinato a non mollare proprio ora che aveva sfondato quel muro, e alzando rapidamente la mano libera caricò un pugno in direzione del suo viso.

«No, non lo è!» urlò Mari con rabbia. Rapida, proprio come lo era stata il giorno del loro primo scontro, lanciò una mano in direzione del pugno di Levi e riuscì a farlo deviare. Era scattata, non avrebbe più subito in silenzio, non si sarebbe più sottomessa a quelle umiliazioni. Altrettanto rapidamente, poi, colpì il polso della mano di Levi che ancora teneva serrati i suoi capelli, riuscendo a liberarsi dalla presa, anche se non senza rinunciare a qualcuna delle sue carminie ciocche. Levi non si lasciò sopraffare e decise di contrattaccare con una testata, ma Mari lo schivò prontamente, allungò una mano verso di lui e slanciandosi in avanti lo spinse indietro, facendolo arrancare e indietreggiare, fintanto che non trovò la scrivania a bloccarlo. Levi portò istintivamente entrambe le mani dietro di sé, cercando un qualcosa a cui appigliarsi. Teiera, tazza e qualche penna caddero a terra, facendo un gran fracasso, mentre la stessa scrivania strofinava a terra, spinta da Mari che ancora non si era fermata.

Levi l'afferrò per le spalle e con forza la contrasto, spingendola via e cercando di allontanarsi dalla scrivania per uscire dall'angolo in cui era stato messo. Per quanto Mari fosse veloce e incazzata, lui restava comunque il più forte e riuscire a sbatterla contro il muro non fu un problema. Hanji nella stanza accanto sobbalzò nel sentire il tonfo contro la propria parete, ma si limitò a infastidirsi per il fracasso, senza preoccuparsene.

«E allora chi sei?» sibilò lui con aggressività, mentre lottava contro il suo divincolarsi per tenerla ben ferma, schiacciata alla parete.

«Io sono Mari!» gridò lei, prima di lanciare la testa in avanti e colpirlo con una testata. Levi barcollò per il colpo e Mari approfittò per spingerlo via un'altra volta, ma questa volta fu difficile mantenere l'equilibrio e Levi cadde a terra, sotto al peso di Mari che non smise di spingerlo con la chiara intenzione di sovrastarlo.

«Io sono Mari!» urlò lei ancora, colta da una strana voglia di farlo sapere al mondo intero. «Recluta del corpo militare, futuro soldato dell'Armata Ricognitiva!» concluse con tutto il fiato che aveva in corpo. Mai avrebbe immaginato che una cosa simile sarebbe potuta essere tanto liberatoria, che avesse potuto darle una simile eccitazione. La faceva stare bene, le faceva avere per la prima volta il pieno controllo di sé. L'aver ribadito con forza il suo diritto di essere ciò che desiderava e non ciò che gli altri volevano, l'averlo forse lei stessa accettato, ora le dava gioia, anche se ricoperta di sangue e lividi.

Prese fiato, mentre riapriva gli occhi, sorpresa per quanto fosse appena accaduto, ma stranamente priva di sensi di colpa.

La mano di Levi, che ancora si trovava steso sotto di lei, andò a posarsi aperta sulla sua testa. Mari d'istinto chiuse gli occhi e si irrigidì, aspettandosi un altro colpo, ma si stupì quando invece si rese conto che tutto ciò che stava facendo Levi era accarezzarle la cute come fosse stata un cagnolino, scompigliandole ulteriormente i capelli.

«Ben detto» le disse con un tono totalmente differente da quello utilizzato fino a quel momento, più pacato, quasi soddisfatto. Mari si diede il tempo di riprendersi e solo allora si rese conto del cuore che batteva nel petto impazzito. Forse per l'agitazione, forse per l'emozione, ma certo non sarebbe uscita da quella stanza nello stesso modo in cui vi era entrata.

Notò un rivolo di sangue uscire dal naso di Levi e cadergli lungo la guancia e solo allora ebbe la forza mentale per lasciarlo andare.

«Oh no...» mormorò, fissando il volto di Levi macchiato da quel suo danno. Aveva fatto di tutto per impedire al suo istinto di prevalere, per cercare di subire senza rispondere, e invece non solo alla fine aveva ceduto ma aveva addirittura ferito un capitano. Quel capitano.

«Non ci sei andata leggera» commentò lui, toccandosi la guancia sporca e osservando il liquido rosso sulla mano. Fece una smorfia di disgusto, prima di prendere un fazzoletto dalla tasca e pulirsi.

«Neanche Lei mi sembra che si sia trattenuto molto» mormorò Mari, mossa da un pizzicante senso di orgoglio che le impediva di abbassare totalmente la testa, visto quello che era stata costretta a subire. Lui alla fine se l'era cavata solo con un po' di sangue dal naso, lei invece aveva tutta la faccia appiccicaticcia, la testa che faceva male per alcune delle ciocche strappate e sicuramente addosso era cosparsa di lividi. Alla fine, Levi non aveva nessun diritto di lamentarsi.

«Ti sbagli» le rispose lui e questo la fece sussultare, improvvisamente impaurita: in che condizioni sarebbe stata ridotta allora se non si fosse trattenuto?

In quel momento la porta dello studio di Levi si spalancò con un tonfo, sotto il peso della rabbia di Hanji.

«Insomma, avete finito?» gridò furibonda. «Qua accanto c'è chi sta cercando di lavorare!» comunicò e neanche si stupì nel vedere la stanza messa a soqquadro e Mari seduta a terra piena di lividi e sangue.

«Ottimo tempismo» commentò Levi alzandosi in piedi. Afferrò Mari per il colletto, dietro la nuca, e cominciò a trascinarla, mentre lei arrancava e gattonava per riuscire a stargli dietro. La riportò alla poltrona e di nuovo la costrinse a sedercisi sopra.

«Penso abbia bisogno di una mano, vedi cosa riesci a fare, Hanji» disse lui, prima di allontanarsi e lasciarsi cadere sulla sua sedia, tenendosi ancora il fazzoletto premuto alla narice per bloccare il flusso di sangue.

Hanji sbuffò, ma senza brontolare ulteriormente si avvicinò alla ragazza e le diede un'occhiata prima di andar a prendere il kit del pronto soccorso e mettersi al lavoro.

«Guarda come l'hai ridotta!» brontolò, mentre tamponava il sangue che fuoriusciva da un taglio su uno zigomo. «Almeno è servito a qualcosa?»

«Lo vedremo» rispose vagamente Levi, alzando con ripugnanza uno dei fogli che aveva sulla scrivania, ora completamente bagnato di tè. La teiera nello scontro si era rovesciata e non c'era cosa che si fosse salvata.

«Ecco fatto» annunciò Hanji mettendo un cerotto sullo zigomo di Mari. «Come nuova»

«Grazie mille» disse Mari, che era rimasta per tutto il tempo in silenzio. Quel delicato tocco sulla pelle, la dolce sensazione di essere accudita e curata, le aveva riportato alla mente una leggera malinconia. Contrastante nel suo cuore, faceva a botte con la felicità di essersene andata, ma come dimenticarsi di Harvey e delle attenzioni che bene o male le aveva sempre rivolto? Quando non avevano altri che loro stessi, quando erano pronti a raccogliere l'altro dalla strada, a salvarlo dalla cattura, a portargli un pasto a casa. Quante volte Harvey si era ritrovato a fare ciò che Hanji stava facendo in quel momento, ad occuparsi dei suoi pasticci e rimettere in ordine i guai.

Chissà dov'era, in quel momento, suo fratello.

«Bene» si alzò Levi, catturando la sua attenzione. «E adesso...» ma non concluse la frase, andando a rovistare dentro un armadietto. Mari cominciò ad agitarsi chiedendosi cos'altro avesse in mente per lei. Prenderla a calci non era stato abbastanza? Cos'altro avrebbe dovuto subire?

La risposta furono stracci e spazzolone, che furono bruscamente lanciati sulle ginocchia della ragazza. «Diamo una ripulita» annunciò Levi. Hanji scoppiò a ridere così forte che Mari al suo fianco sobbalzò. Che cosa c'era di tanto divertente?

«Abituati» le disse la donna. «Se avrai a che fare con lui anche in futuro, assicurati che tutto sia sempre ordinato e tirato a lucido.» Poi, sussurrando al suo orecchio, aggiunse: «Deve avere una specie di disturbo ossessivo, o qualcosa del genere. Sfiora il patologico, fidati di me.»

Levi si voltò, fulminandola, e ringhiò: «Ti ho sentito!»

"È ossessionato dalla pulizia?" si chiese Mari, che ancora stringeva lo spazzolone tra le braccia come fosse un bambino appena nato. Era interessata ad avere informazioni sul suo conto, era vero, e certamente non aveva smesso di desiderarlo. Quella era sicuramente una delle rivelazioni del giorno, ma diamine, chi poteva aspettarsi un cosa simile? Il criminale che le aveva scompigliato l'infanzia, il soldato più forte dell'umanità, il capitano più temuto... era una casalinga a tutti gli effetti.

«Allora? Che fai ancora seduta? Le gambe non te le ho rotte» le disse Levi, portandosi le mani ai fianchi con fare minaccioso. A quel richiamo Mari scattò in piedi come un vero soldatino, pronta ad obbedire a qualsiasi assurda richiesta le avesse fatto. Dopo quella discussione -se discussione poteva chiamarsi- era più determinata che mai nella sua missione di compiacerlo, sentendosi più avanti di quanto lo fosse stata prima di entrare in quella stanza. Poteva farcela, poteva superare tutte le prove.

«Datti una mossa.»

«Signorsì!» rispose Mari correndo vicino alla scrivania per raccogliere da terra i cocci della teiera e della tazza, frantumati nella colluttazione.

«Io torno al mio lavoro, buon divertimento!» disse Hanji, prima di fuggire fuori, ora improvvisamente di fretta: fosse mai stato che a Levi gli fosse passato per la testa di chiedere anche a lei di mettersi a pulire la sua stanza.

"Beh, mi aspettavo qualcosa di diverso" pensò Mari, impegnata nel suo lavoro. "Ma se le pulizie possono essere un buon modo per avere il suo benestare, certo non mi faccio scappare l'occasione!" e una nuova luce si accese nei suoi occhi, mentre metteva più vigore nel braccio che passava il panno.

"Farò risplendere questo posto!" pensò sempre più infervorata all'idea di aver trovato una via facile e sicura per vincere quella sua piccola battaglia.

In neanche mezz'ora tutto era tornato come prima. Levi osservò il loro operato con le mani puntate ai fianchi e lo sguardo critico di chi cerca minuziosamente il pelo nell'uovo.

«Ho finito, Signore!» annunciò Mari, rizzandosi davati a lui. Lo spazzolone ancora ben stretto al petto, come fosse stata l'arma della vittoria, e un fazzoletto legato tra i capelli. Sorrideva, soddisfatta, ma non si sbilanciava troppo aspettando con ansia il verdetto. Levi si avvicinò a un mobile e si rese conto che perfino da lì era stata tolta la polvere, benché non c'entrasse niente col disordine appena fatto per colpa dello scontro.

Mari comparve al suo fianco, sorridente e luminosa, per osservare l'espressione del capitano e cercare di capire se fosse rimasto soddisfatto o meno. Era talmente solare e in trepidazione che pareva risplendere di luce propria. Levi la guardò sottecchi e di nuovo si trovò a provare quella sensazione di tenerezza che aveva provato qualche giorno addietro nel bosco, quando lei dopo aver salvato Angelica aveva cercato di accaparrarsi un suo complimento. E, come allora, le tolse un batuffolo di polvere da una ciocca e l'accontentò con un: «Sei stata brava.»

Il cuore di Mari parve scoppiare dalla felicità e si sarebbe messa a urlare, se non fosse stata trattenuta dal senso del pudore. Sentirselo dire era favoloso, sentirselo dire da lui rendeva il tutto ancora migliore. Il sorriso in viso si allargò smisuratamente e gli occhi tornarono a inumidirsi, ma per quella volta riuscì a trattenere le lacrime.

«Posso fare altro, Signore?» chiese, pronta a lanciarsi nella pulizia dell'intero centro d'addestramento se solo glielo avesse chiesto.

«Torna ai tuoi allenamenti» le disse Levi, prima di tornare a sedersi sulla sua scrivania, apparentemente disinteressato. Mari posò lo spazzolone al suo posto e togliendosi il fazzoletto dai capelli, si avviò verso l'uscita.

«Ah, Mari!» la fermò Levi e lei si voltò un attimo prima di uscire. «Dì alla tua amica che se me la vedo di nuovo gironzolare attorno vi faccio secche tutte e due.»

Mari rabbrividì alla minaccia, ben sapendo che non si trattavano solo di parole e che se avesse voluto avrebbe davvero potuto farle fuori con poco. «Certo! Sarà fatto!» balbettò e uscì.

Attese qualche secondo con ancora la maniglia stretta in mano, poi si voltò dando le spalle alla porta e tirò un lungo sospiro di sollievo, portandosi una mano al cuore martellante in petto.

Un sorriso, un sincero sorriso colmo di felicità e tornò dalle altre reclute.


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Capitolo 11
*** Desiderio e paura ***


Desiderio e Paura


Levi raggiunse l'ufficio dell'istruttore Keith ed entrò senza neanche bussare. Era stato convocato, come gli altri ufficiali presenti al centro addestramento per discutere delle faccende del giorno. In genere il tutto si limitava a decidere le esercitazioni per i cadetti e come presidiare, ma quel giorno ci sarebbero state delle novità.

«Come sappiamo, Erwin nel pomeriggio partirà per la capitale» disse Keith, ignorando il fatto che Levi fosse arrivato in quel momento e proseguendo da dove aveva lasciato. «E sarà via fino a domani sera per motivi personali, perciò non potrà esserci d'aiuto. Ci è stata inviata la richiesta da parte della Guarnigione affinchè gli mandiamo una decina di reclute per un supporto nel controllo e rinforzo del Wall Sina.»

«Posso andarci io» disse Ludwing, un ex comandante della legione di Guarnigione. «Raccolgo i cadetti necessari e mi dirigo immediatamente.»

«Ottimo, si tratterebbe comunque di una cosa di giornata. In serata dovreste già essere sulla via del ritorno.»

«Nessun problema» disse Ludwing.

«Infine, ho bisogno di qualcuno che scenda giù in città. Il carro con i nostri rifornimenti è fermo lì, pare sia stato seguito e importunato da dei banditi durante il tragitto e ora tema ad affrontare l'ultima tratta senza copertura.»

«Non dovrebbe occuparsene la Gendarmeria?» chiese Levi, scocciato.

«Dicono di essere troppo impegnati per stare dietro a un gruppo di mercanti terrorizzati. Quelle scorte ci servono e non ho intenzione di perdere un singolo giorno. Inoltre ho pensato che questo sarebbe potuto essere un buon addestramento per i cadetti.»

«Allora andrò io» disse Levi.

«Perfetto, prendi le reclute necessarie e recati lì dopo pranzo. Quindi per oggi al centro addestramento resteremo solo io, Hanji e Darius» disse Keith prima di sproloquare con riassunti e formalità varie. Fu sbrigativo, lui stesso detestava quel genere di situazioni e preferiva mettersi subito al lavoro, perciò non ci mise molto a sciogliere l'assemblea.

«Ludwing» e l'istruttore si bloccò nel sentire il proprio nome venir pronunciato dall'imperativa voce di Levi. Si voltò, chiedendosi cosa avesse portato il capitano a bloccarlo non appena messo piede fuori dall'ufficio di Keith.

«Oggi porta Mari con te» disse Levi, trasformando quella che doveva essere una richiesta in un ordine. Non che avesse voluto surclassare le cariche, ma chiedere per favore e dare giustificazioni non rientrava proprio nel suo modo di fare.

«Mari? La rossa?» chiese Ludwing poco convinto. L'incarico assegnatogli non era dei più complessi, semplice routine, una scocciatura per la maggiore, ma Mari non era ben vista dai compagni e mai avrebbe voluto avere a che fare con liti e disaccordi tra le sue file.

«Dice che vuole prendere parte all'Armata Ricognitiva, ma non ha mai visto un Gigante in vita sua. Vedere con i propri occhi la preparerà a ciò che troverà la fuori.»

«Allora non è vero che ti opporrai alla sua entrata nell'Armata Ricognitiva» sghignazzò Ludwing, prendendo a camminare al suo fianco.

«Le voci girano in fretta» osservò Levi, scocciato per il fatto che fosse al centro dei pettegolezzi.

«Il centro è più piccolo di quello che può sembrare, e ci si annoia molto.»

«Ho intenzione di oppormi... per il momento» rispose seccamente Levi.

«Allora perché tutto quel discorso sul prepararla?»

«Perché magari mi renderà il compito più semplice.»

Passarono davanti a una delle torri di vedetta, dietro al quale videro la diretta interessata intenta a un allenamento straordinario in singolo sul combattimento. Sferrava pugni e calci a nessuno in particolare, cercando semplicemente di correggere la postura e continuando imperterrita. Con addosso una semplice canotta per allenamento, Levi riuscì a scorgere un paio di brutti lividi all'altezza della spalla e capì che quelli dovevano essere gli effetti della loro chiacchierata di quella mattina.

«A me sembra determinata più che mai» commentò Ludwing guardandola mentre sferrava un gancio. «Ti darà filo da torcere» ridacchiò, battendo un paio di colpi sulla spalla del collega. Colpi che ricevettero in cambio una delle occhiatacce più infuocate del repertorio Levi, ma Ludwing lo ignorò e concluse con: «Ma va bene, la porterò con me oggi.»

Levi non lo ringraziò nemmeno e si allontanò, avvicinandosi a Mari. Ancora un altro paio di pugni, e nel voltarsi la ragazza si trovò il capitano davanti, proprio mentre stava sferrando un altro colpo. Levi la guardò con indifferenza, come se si fosse trovato lì per caso, ma poi disse: «Raddrizza la schiena.»

E Mari obbedì all'istante, tesa come poche volte si era sentita.

«Hai le gambe troppo divaricate» le comunicò ancora Levi, prendendo a girarle attorno per osservarla meglio, e lei di nuovo obbedì, sistemandosi rapidamente.

«Alza i pugni e stringi i gomiti» e ancora lei come una bambola che veniva messa nella posizione ideale, obbedì.

«Colpisci davanti a tè» e lei sferrò il primo pugno. «Va bene, ma cerca di accompagnare col resto del corpo» continuò lui e le si mise affianco, assumendo la sua stessa posizione.

«Così!» disse e diede dimostrazione.

«Ho capito» annuì Mari e provò a imitarlo.

«Non ci siamo, prova ancora» la sollecitò Levi, mostrandole ancora una volta come avrebbe dovuto muoversi. Mari riprovò, ancora e ancora, non togliendo lo sguardo da Levi al sul fianco e cercando di imitare i movimenti che faceva lui. Destro e sinistro, ginocchiata e calcio, andarono avanti ancora per un po'. Quando Erwin passò da lì insieme a Darius, Levi era ipegnato a mostrare a Mari come bloccare un avversario tramite una presa al braccio: la stessa che Sierk aveva usato con lei. Le spiegava e nel frattempo le dava dimostrazione, usandola come marionetta. Poi la liberò e permise anche a lei di fare altrettanto, facendosi usare come bambola d'addestramento. Mari provò a imitarlo, ma il risultato fu decisamente più scarso, tanto che pochi istanti dopo era a terra, rovesciata dallo stesso Levi che si era liberato facilmente. Le disse qualcosa, probabilmente degli ammonimenti per aver sbagliato, poi allungò la mano verso di lei e l'aiutò a rialzarsi.

Riprovarono e ancora Mari venne scaraventata a terra una, due, tre volte. Qualsiasi cosa facesse, Levi trovava sempre il modo di liberarsi con rapidità e ribaltarla. Probabilmente la cosa non le andò a genio, visto che all'ennesimo tentativo fallito in cui Levi l'aveva buttata a terra, quando lui le porse la mano per aiutarla, lei se lo tirò dietro con forza e lo fece cadere di faccia a terra. Levi si sollevò repentinamente, fulminandola e incrociando il suo sguardo infastidito e imbronciato. Per quell'azione sconsiderata, si beccò un colpo di nocca sulla testa e qualcosa che somigliava molto a uno «Stupida».

Si rialzarono, apparentemente indenni, anche se Mari non smise un attimo di massaggiarsi il punto in cui era stata colpita, continuando a brontolare, forse a piagnucolare. Levi la lasciò sfogare per un po', sembrando che la cosa non gli interessasse molto, ignorandola apparentemente, impegnato a sbattersi via la polvere dai vestiti. Ma poi le posò la mano sulla testa e le scompigliò i capelli tanto vigorosamente da lasciarla ancora più imbronciata. Dalla sua posizione fu difficile per Mari scorgere l'angolo della bocca di Levi leggermente tirato verso l'alto, in un accenno di sorriso. Il capitano ben si guardava nel dare esplicita dimostrazione di certi stati d'animo, ma lo stesso non si poteva dire per Erwin, che ora li osservava con un'aria vagamente soddifatta.

«Alla fine, Levi ha ceduto» sorrise Hanji, affiancando il comandante.

«E' ancora presto per parlare» disse Erwin, lasciando stare l'allenamento improvvisato dei due e tornando per la sua strada.

«Oh, andiamo. Conosci Levi, fa il duro e l'antipatico ma alla fine ha il cuore tenero. Insomma, guardalo come si diverte col nuovo animaletto che gli hai procurato» sghignazzò Hanji, camminando al fianco di Erwin. Benchè non si fosse voltata ad osservare la reazione del comandante, riuscì comunque a percepirlo su di sè il suo sguardo interrogativo, lievemente infastidito.

«Non credere che non l'abbia capito, conosco Levi tanto quanto conosco te e so bene che non l'avresti fatto venire fin quaggiù, tu stesso non ci saresti venuto, trascinandomi con te, se non avessi avuto un obiettivo ben preciso in mente.» Ed Erwin ridacchiò a quell'affermazione, senza però preoccuparsi di smentirla. «In fondo, Mari, l'hai raccolta tu, no?»

«Chissà, magari con l'età mi sto rammollendo» commentò Erwin, chiedendosi per la prima volta se fosse stata solo la forza della ragazza a convincerlo a portarla nell'esercito o se semplicemente non ci fosse stato altro nella sua storia ad averlo smosso. Magari proprio quella sua disperata ammirazione per Levi.

«Sei un vecchio romantico, anche se non l'ammetterai mai» lo stuzzicò Hanji, facendolo ridere ancora. «Però sento che quella ragazza, prima o poi, avrà il suo momento di gloria.»


«Ben arrivato, capitano!» saltò in piedi Mari, portandosi il pugno al petto. «Le sue attrezzature sono pulite a dovere e pronte all'uso!»

Levi la guardò un po' stupito, chiedendosi quando avesse avuto il tempo, dopo pranzo, di andare in officina e pulire e rassettare tutte le attrezzature. E soprattutto, perchè? «Io non te l'ho chiesto.»

«Sì, lo so bene!» si limitò a rispondere Mari,prima di aggiungere: «Stasera quando tornerà mi insegnerà quell'incredibile mossa che ha fatto oggi con i piedi?»

«Mossa con i piedi?» chiese Levi, inarcando un sopracciglio, divertito per l'ingenuità della ragazza. Afferrò il suo meccanismo per il movimento tridimensionale e gli diede un'occhiata accurata, mentre Mari al suo fianco si dimenava nel tentativo di tirare qualche calcio in aria, senza troppo successo, a dimostrazione di quale fosse la "mossa coi piedi" di cui stava parlando.

«Ah! Come le sembrano?» chiese poi, avvicinandosi a Levi e guardando con trepidazione l'attrezzatura. Ci aveva messo anima e corpo nel cercare di renderla splendente, andando a pulire perfino i meccanismi più complessi da raggiungere a mani nude.

«Non male» commentò lui, muovendo il manico da un lato a un altro per controllarlo da ogni angolatura.

«Sono stata brava?» chiese con uno strano scintillio negli occhi. Levi le aveva appena confermato che il suo era stato un buon lavoro, eppure sembrava trepidasse per ottenere un esplicito complimento nei suoi confronti. In particolare, sembrava ci tenesse particolarmente nel sentirsi dire che "era stata brava". Non si chiese nemmeno perché, sentendo che le risposte risiedevano sicuramente nelle sue lacrime e nelle preghiere che aveva fatto due sere addietro, quando aveva giurato ai fantasmi del suo passato che sarebbe stata buona e li aveva pregati di non farle del male. Chi era bravo non veniva picchiato e poteva continuare a sopravvivere: era questa la lezione che le era stata insegnata.

«Sì» rispose morbido nella voce, deciso ad accontentarla. «Sei stata brava.»

Il sorriso di Mari risplendè sul suo viso, facendola quasi brillare, mentre le guance assumevano una lieve colorazione rosata assolutamente in tinta con quei capelli che ora cominciavano a non irritarlo più così tanto. Erano sangugnei, l'aveva appurato, ma era un sangue che non macchiava e non sporcava. In un certo senso, era sangue vivo, come un prolungamento del suo sistema cardiaco, riceveva quella colorazione direttamente dal cuore con le sue incessanti pulsazioni. Ne poteva quasi sentire il calore e le vibrazioni, quando vi immergeva le dita.

«Oggi andrai con il capitano Ludwing» le annunciò, anche se probabilmente ne era già al corrente, visto che sarebbe partita da lì a pochi minuti.

«Sì, lo so» rispose lei.

«Sei pronta?»

«Sì, ho preparato tutto attentamente e minuziosamente!»

«No, intendevo... sei pronta a vederli?»

Mari esitò qualche secondo, prima di chiedere, cupa nella voce: «Parla dei Giganti, non è così?»

Levi non rispose, ma Mari sapeva bene che quella era un assenso. Fece un passo indietro e si lasciò cadere su uno sgabello, sedendosi in maniera scomposta. Quell'unico occhio che si riusciva a intravedere sul suo viso parzialmente nascosto dai capelli si era fatto più sottile, più affilato. Ora non sembrava affatto la bambina che Levi aveva lamentato somigliasse. Era consapevole e cosciente, non affatto sprovveduta. Mari era forte, più di quanto volesse far credere. Più di quanto, forse, lei stessa credesse.

«Una volta, all'età di otto anni, mentre cercavo qualcosa da mangiare tra i rifiuti di un fruttivendolo, nascosta in un vicolo insieme a tre dei gatti della colonia, vidi un uomo. Indossava la divisa della Gendarmeria, ma era rannichiato in un angolo buio in fondo alla strada, da solo, e piangeva. Provai ad avvicinarlo, chiedendomi preoccupata se non avesse avuto bisogno di aiuto ma la paura prevalse, anche perchè io ero una ladruncola e lui un militare, e alla fine decisi di restare nascosta dietro il cassonnetto fintanto che non decise di andarsene. Prima di farlo, però, preso da un moto di rabbia, stracciò un foglio di carta e lo lasciò lì. Non mi ci volle molto per rimettere insieme i pezzi e allora capii perché quell'uomo fosse tanto disperato: quella era una lettera ufficiale del corpo militare. Sopra c'era scritto "le riferiamo dolorosamente che sua sorella Clarice Price ha servito con onore il corpo militare e con altrettanto onore ha sacrificato la sua vita nella battaglia dell'umanità contro i Giganti". È stato così che sono venuta a conoscenza di questi esseri. Fino ad allora avevo creduto che la povertà fosse l'unico male dell'uomo. Non ho idea di che forma abbiano, o almeno non ne avevo fino a quando non ho letto i libri reperibili nella biblioteca ufficiale del corpo militare. Non sapevo cosa fossero, come fossero fatti, nè perché fossero tanto pericolosi per l'uomo. Eppure sapevo che là fuori delle persone stavano morendo per combatterli per noi. Cominciai a pensare che fosse tutta colpa loro, se noi eravamo costretti a vivere in quel modo, e cominciai a pensare che se i soldati fossero mai riusciti a sconfiggerli allora avremmo potuto vivere felici anche noi. Non so se avessi ragione o meno, ma ogni giorno mi svegliavo nella speranza che qualcuno cominciasse a gridare per le strade: "la guerra è finita, siamo liberi!"» e ridacchiò, come se avesse appena raccontato una barzelletta.

«Perché mi racconti tutto questo?» chiese Levi, che ancora osservava le lame della sua attrezzatura, benchè avesse già appurato che fossero splendenti. Un semplice gesto che serviva a piazzare un muro tra loro due, non lasciarsi coinvolgere da quel racconto.

«Perché per ogni topo esiste un gatto! È la natura, capitano Levi. Non possiamo governarla a nostro piacimento, possiamo solo adattarci e fare di tutto per cercare di far durare le nostre vite il più possibile. Per amor proprio, solo per puro egoismo, perché quando il gatto riuscirà ad artigliare e divorare quel topo l'ordine naturale delle cose, il mondo intero, non ne sarà destato minimamente. È così e non possiamo farci niente.»

«Ti stai arrendendo alla morte?» chiese Levi con riluttanza.

«Oh, no! Al contrario! Mi sto arrendendo alla vita. Non siamo onnipotenti, esisterà sempre un ordine superiore al nostro e Lei che vive la politica militare dovrebbe ben saperlo. Se ci ostiniamo a negare i nostri limiti, a non accettarli, il giorno che lasceremo questo mondo avremo la sensazione di aver sbagliato qualcosa, che sia stato colpa nostra. Al mondo abbiamo solo noi stessi, tutto il resto è un'illusione, e se alla fine perfino noi arriviamo a tradirci, a rinnegarci, cos'altro ci sarà rimasto?»

«Fai dei pensieri complessi per essere una ragazza dei sottoborghi» osservò Levi e Mari rispose alzando le spalle, come se fosse stata una cosa naturale e di poca importanza.

«Non ho mai avuto possibilità di proteggere il mio corpo, ho dovuto trovare un modo per sopravvivere. La morte spaventa perfino una gatta randagia come me.»

«Hai paura di morire, dunque?»

«Perché? Lei no?» chiese con stupore Mari. Esisteva qualcuno al mondo che non temesse la morte?

«Chi si arruola nell'Armata Ricognitiva prima o poi muore. Lo sai, vero?»

«Lei è ancora vivo.»

«Tu non sei me!» la fulminò Levi, prima di aggiungere. «E comunque non sappiamo ancora per quanto.»

«Il futuro è un mistero per chiunque, non esiste chi è più al sicuro e chi meno. Conosco persone che sono morte per uno starnuto.»

«Disgustoso» si lasciò sfuggire Levi.

«Dico sul serio!» si animò Mari. «Gli sono usciti gli occhi dalle orbite, metteva i brividi! Io non l'ho visto, per fortuna, ma c'è chi l'ha visto e lo racconta!»

«Insomma!» la interruppe Levi, predicendo l'arrivo di un'altra delle sue storie su quando era bambina e sulle strade che, sinceramente, lui non voleva far altro che dimenticare. «Predichi la difesa della vita, ammetti di temere la morte, ma poi sembra che ignori il vero significato della tua scelta. Sei contraddittoria! Perché vuoi arruolarti, rischiando di morire domani stesso, quando dici di voler sopravvivere e di voler evitare la morte? Non capisco cosa ti passi per la testa! È tanto divertente giocare a fare l'eroe coraggioso?»

«Io ero quel topo, capitano Levi» rispose seccamente Mari. «E lo sono ancora! C'è un gatto là fuori destinato a mangiarmi, questo lo so. Non mi prenda per sprovveduta. Ma i mangiatori di carne, che siano topi o umani, fanno più paura quando sono celati nell'oscurità e non sai cosa ti balzerà addosso e quando. Almeno ora saprò da cosa devo difendermi e posso imparare a farlo.»

«I Giganti, lì sotto, non sarebbero mai arrivati. Che cosa avevi da temere?»

«Ci sono esseri che divorano più di un Gigante, capitano. Esseri che divorano e non uccidono.» E gli occhi affilati di Mari si posarono su Levi, facendogli di nuovo venire i brividi. Quegli occhi erano porte spalancate su un mondo che non desiderava vedere. Un mondo di incubi e terrore, di ombre dalle orribili fattezze umane. Non mostri, non giganti, umani... e perciò raccapriccianti.

«Io ho paura della morte» disse Mari, alzandosi in piedi. «Ma a volte un sorriso, un desiderio, un battito di cuore, hanno più forza della paura. E se si chiude gli occhi, si riesce a percepire il soffio del vento sulla pelle, la melodia degli uccellini, la morbidezza al tatto di un prato, il profumo di un fiore... e il dolore sparisce come per magia.» La determinazione e la sicurezza con cui espresse quest'ultimo pensiero, fece intuire che fosse qualcosa che avesse fatto molto spesso. Un meccanismo di cui ne conosceva perfettamente il funzionamento. Chissà quante volte, stesa sotto qualche schifoso corpo sudato, avesse chiuso gli occhi e avesse fatto sparire il dolore "per magia".

«Sono ancora quel topo terrorizzato, ma sono un topo che vuole dare forma alle sue paure. Poter loro guardare negli occhi, capirne la grandezza, studiarlo e provare a imparare a sopravvivere davvero. E se la paura sarà troppa, allora non dovrò far altro che trovare un desiderio che sia più forte e riesca ad andare oltre.»

«Belle parole, non c'è che dire» disse Levi, che ora sembrava più irritato che mai. Non poteva far a meno di pensare che quella fosse solo una ragazza che sognasse di fare l'eroe, come quelli nei libri, e che non si rendesse conto della realtà. «Ma cosa saprai fare quando ti troverai davanti il tuo "gatto mangiatore di carne"? Avrai tempo e forza di soppesare paure e desideri?»

«Mi metta alla prova» lo provocò.

«No. Non lo farò. Non ho nessuna intenzione di portarmi appresso un cadavere che cammina» la fulminò, prima di allontanarsi a passi pesanti. Era riuscita a irritarlo, nonostante avesse da poco cominciato a tollerare la sua presenza, quasi ad apprezzarla. Si era dimostrata tenace, forte abbastanza da rivendicare il suo diritto di essere se stessa e lottare per sè. Ma adesso, dopo quella sfilza di stronzate sulla morte e sui desideri, era tornato a pensare che fosse solo una ragazzetta che doveva ancora crescere e imparare cosa fosse la realtà. Lo irritava, tutta quella sfilza di pensieri assurdi lo irritavano terribilmente. E stava di nuovo tornando sulla sua ferrea decisione di impedirle di arruolarsi.

L'unica cosa che ancora non riusciva a capire, però, era da dove arrivasse tutta quella riluttanza nel vederla nel corpo dell'Armata Ricognitiva. Perché l'idea che lei perdesse la vita lo mandava così in bestia? Eppure aveva sempre apprezzato chi si fosse dimostrato forte tanto da mettere a repentaglio la propria vita.

«Capitano Levi!» chiamò Mari, senza scomporsi, quasi imponendogli di fermarsi e ascoltarla. «La pensi pure come preferisce, mi prenda per sciocca, ma io le prometto che un giorno Lei comprenderà la mia forza. Anche se sarà troppo tardi.»

E con un verso di disappunto, Levi si allontanò definitivamente.

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Capitolo 12
*** Senza Anima ***


Senza anima


Il cigolio della carrucola era diventato quasi un rumore di sottofndo, mentre davanti ai suoi occhi non facevano che scorrere segni e crepe. I mattoni di quel muro erano davvero vecchi, corrosi dalle intemperie e dal tempo, non era certo difficile immaginare perché ci fosse bisogno di così tanta manutenzione. Quando il grigiore dei mattoni invecchiati lasciò spazio al primo azzurro del cielo, gli occhi d Mari andarono spalancandosi, chiedendosi quali meraviglie ci fossero al di sotto di esso. La delusione la colpì malamente quando vide un altro muro a coprire l'orizzonte: il Wall Maria. Solo case e alberi, lo stesso identico scenario ovunque guardasse. La stessa identica gabbia.
«Avanti! Seguitemi!» ordinò il capitano Ludwing al gruppo di reclute che con lui si sarebbe occupato di sostenere alcuni lavori di manutenzione del muro.
«Beh, fa il suo effetto, non c'è che dire» commentò Brown, uno dei cadetti scelti da Ludwing per quel noioso lavoro di routine ma che avrebbero dato un po' di esperienza in più a quelle mele acerbe.
«Già! Guarda che panorama» gli diede corda Annalise, una ragazza alta tanto quanto mascolina, perfino nel taglio di capelli.
«Si vede solo il muro» si intromise Mari, benchè certamente nessuno avesse chiesto il suo parere. Lo sguardo abbassato, le sopracciglia corrucciate e il tono di voce avvilito con cui aveva parlato non lasciava spazio a fraintendimenti: qualcosa la turbava.
«Cosa succede? Ti è morto il gatto?» la punzecchiò Paul. Un ragazzetto basso e dalla folta chioma scura, tanto ispida da sembrare un riccio.
«Paul! Razza di insensibile, non lo sai che lei ci è cresciuta in mezzo ai gatti?!» l'ammonì Annalise.
«Ah! Sul serio?» sobbalzò Paul, dimostrando che veramente non sapeva niente e la sua voleva solo essere un'ingenua battuta. «E quindi sai parlare il gattese? Dimmi! Che significa "miao miao miao"?»
«Sei idiota per caso?» chiese Brown, alzando un sopracciglio.
«Significa "sei un'idiota, l'hai solo fatto arrabbiare"» sospirò Mari, accelerando il passo e cercando di allontanarsi da quei tre.
Brown si fermò, chinando a testa da un lato e guardando la rossa con l'aria di chi ha appena visto passare un folle.
«Non diceva sul serio, vero?» chiese poi a Annalise, che aveva assunto la stessa identica espressione stralunata. «È così da quando siamo partiti. Chissà che le è successo» aggiunse poi.
«Non state lì impalati! Forza, abbiamo del lavoro da fare!» li richiamò Ludwing e questo li costrinse a rimettersi in cammino. Mari proseguì a testa bassa. Dalla mente non riusciva a togliersi le immagini della chiacchierata avvenuta quella mattina stessa con Levi, rammaricandosi e colpevolizzandosi di come fossero andate le cose. Il desiderio di ottenere una sua approvazione l'aveva spinta a impegnarsi tanto, poteva dire di aver trovato un motivo più forte al "desiderio di volare come lui" che la spingesse a inseguire l'Armata Ricognitiva con tanto affanno: lei voleva essere con lui. Ma erano bastati dieci minuti a distruggere tutto.
"Non ho nessuna intenzione di portarmi appresso un cadavere che cammina" aveva detto con tale astio e convinzione che pensare e sperare in un suo ripensamento era diventato sempre più difficile.
In un delicato gesto, le dita della mano destra andarono a chiudersi su se stesse, cercando il contatto con la stoffa di quel fazzoletto che si ostinava a portare legato alla mano benchè ormai la ferita fosse chiusa. Le dava sicurezza, averlo con sè. Era un dono a cui non avrebbe voluto mai rinunciare. Com'era stato gentile la sera che si era preoccupato di andarla a cercare, com'era stato gentile quando la prima volta, nel bosco, le aveva detto di essere stata brava, e quanto era stato gentile nel fermarsi a insegnarle qualche tecnica di combattimento. La sua schiena che si allontanava in volo, il suo sguardo di astio e disapprovazione, dopo averla urtata, stavano sfumando come gesso su una lavagna strofinata con insistenza. Sarebbe riuscita a riottenerli, quei gesti? O questa volta le avrebbe portato rancore per sempre?
Che persona complicata era Levi e quanto sapeva essere stupida lei!
Sospirò, portandosi la mano fasciata al petto, solo per poter avvicinare quel pezzo di stoffa al cuore. Avrebbe provato a chiedergli perdono, avrebbe provato a rimediare, ma era difficile accettare tutto quell'astio dopo che finalmente aveva ottenuto dei sorrisi da parte sua. Non le interessava più dimostrare che avesse ragione, non le interessava più costringerlo a comprenderla, ma desiderava solo... solo che le scompigliasse ancora i capelli. Il tocco apparentemente burbero, ma sorprendentemente delicato in verità, delle sue dita che le accarezzava la cute, infiltrandosi tra le sue ciocche. Un soffio di vento fece quello che aveva appena desiderato: là sopra il vento era più forte che altrove e spesso bisognava fare grande forza con le gambe per riuscire a contrastarlo.
"Se si chiude gli occhi, si riesce a percepire il soffio del vento sulla pelle, la melodia degli uccellini, la morbidezza al tatto di un prato, il profumo di un fiore... e il dolore sparisce come per magia."
Strinsele dita contro la stoffa della sua camicia e fece come lei stessa aveva detto: chiuse gli occhi. Il soffio del vento era pungente contro la sua pelle, non morbido come aveva sperato e sempre sognato. Sotto le sue mani, sotto i suoi piedi, c'era solo ruvida e fredda roccia. Non riusciva a percepirlo il tocco del prato. Ispirò l'aria, sperando in almeno i profumi, ma percepì solo l'odore della pietra e del metallo.
Perché non ci riusciva? Perché non riusciva più a farla quell'incredibile magia dove riusciva a eliminare tutto il dolore? Per anni era stato così semplice quando voleva scappare dalla fogna in cui viveva, quando voleva scappare dal tocco di quelle mani sudaticce e violente.
Fece un profondo respiro, cercando di calmare il cuore in petto che scoprì battere più forte del previsto. Ma niente, era come una maledizione. Il dolore non se ne andava neanche con la più potente delle immaginazioni.
Fu in quel momento che lo sentì: suoni gutturali, sembravano quasi urla, una sfida a chi imprimeva più forza nelle corde vocali. Provenivano da sotto le mura, versante esterno, tra le case di quella città che l'anno prima apparteneva agli uomini ma in cui ora invece primeggiavano solo Giganti.
Mari aprì gli occhi e senza pensarci oltre, corse verso l'estremità esterna del muro.
Doveva vederli, doveva vederli bene, scrutare loro negli occhi, coglierne i segreti e apprenderne come sopravvivere. Doveva farlo non per se stessa, ma per comprenderlo. Comprendere Levi e la sua ira.
«Mari!» richiamò Annalise, terrorizzata, quando la vide scattare verso il bordo.
«Si butta?» chiese Paul ingenuamente, curioso, forse inquietantemente speranzoso.
Ludwing si voltò ad osservare i cadetti che si era portato appresso per il lavoro, chiedendosi perché facessero tutto quel baccano, e vide appena in tempo Mari arrivare al bordo e inchiodare, fermandosi a guardare sotto di sè. Sobbalzò, spaventato all'idea che la ragazza avesse potuto per un attimo pensare al suicidio, ma poi si ricordò di Levi che gli aveva chiesto di portarsela per "mostrarle i giganti". Non ne aveva mai visto uno, e tutto ciò che desiderava fare era colmare quella lacuna.
Mari, dall'alto delle mura, osservò gli esseri che sotto di sè si dimenavano, arrancando sulla pietra scivolosa, e allungavano le braccia verso il cielo nella vana speranza di raggiungere le proprie prede. Come dicevano i libri, ce n'erano di alti e di bassi, dall'anatomia più o meno simile e lo sguardo assente. Il corpo di alcuni sembrava disgustosamente sproprzionato o disarticolato, ma alla fine non erano poi tanto diversi dagli esseri umani.
Si inginocchiò sul bordo, avvicinandosi un po' nella loro direzione e continuò ad osservarli. Il cuore in petto le batteva forte, mentre realizzava quanto fossero terrificanti e, soprattutto, reali. Niente ombre, niente mostri nell'oscurità, solo la pura verità.
«Chi siete, voi?» chiese lei, sovrappensiero.
E si buttò.
Le urla di Annalise partirono all'unisono di quelle di Brown e del capitano Ludwing, che invece chiamarono il suo nome, prima di correre verso di lei nella vana speranza di riuscire ad afferrarla e impedirle la caduta.
Mari si ammorbidì, lasciandosi trascinare giù dalla forza di gravità, premurandosi solo di mantenere sempre un contatto visivo con le creature che si facevano sempre più grosse sotto di sè. Cercava risposte, cercava qualcosa che neanche lei sapeva cos'era. Però il cuore ardeva.
"Ma cosa saprai fare quando ti troverai davanti il tuo "gatto mangiatore di carne"? Avrai tempo e forza di soppesare paure e desideri?"
Roteò rapidamente e fece scattare il suo meccanismo per il movimento tridimensionale. L'arpione si conficcò nel muro e presto il cavo bloccò la caduta della ragazza a pochi metri prima di raggiungere i mostri sotto di sè. Si voltò, tornando a guardarli, quasi con aria di sfida, mentre loro si allungavano e cercavano di afferrarla. A bocche aperte, come bestie, si affaccendavano... ma nei loro occhi primeggiava il vuoto.
«Siete terrificanti» commentò Mari.
Sopra di lei le voci dei suoi compagni la raggiunsero nell'eco della valle. La chiamavano, le dicevano di tornare su, il capitano la minacciò di punirla severamente per il colpo di testa. Ma Mari restava immobile, come se non percepisse e non vedesse altro che quelle bocche gigantesche che nell'aprirsi sembravano tanto dei sorrisi. Le mani, le enormi mani, che grattavano contro la roccia e cercavano di raggiungerla. Gli occhi vuoti, le cui palpebre neanche sbattevano. Un urlo gutturale la raggiunse, riuscendo a distogliere la sua attenzione e puntarla su un nuovo gigante. Aveva corso per raggiungerli e riuscì a notarlo appena in tempo per vederlo balzare nella sua direzione. Mari fece scattare il meccanismo, permettendogli di trascinarla su appena in tempo per non essere afferrata. Quando era arrivato? Se non l'avesse visto e non avesse reagito per tempo sarebbe stata presa e divorata. La sua sicurezza per la distanza ottimale che sentiva di avere era stata stracciata in un istante. Per quante altre persone doveva essere andata così? Quanti erano morti perché non erano riusciti a notarli o reagire per tempo? Quanti avevano abbandonato dolorosamente quel mondo pensando "è stata colpa mia"?
Il cavo si riavvolse rapidamente e Mari in pochi secondi fu di nuovo al sicuro sopra il muro, tra i suoi compagni. Le ginocchia si ammorbidirono e lei si accasciò, inginocchiandosi, improvvisamente indebolita, ma Ludwing le impedì di toccare terra. L'afferrò per il colletto e avvicinò il proprio viso al suo, urlando con gli occhi furiosi: «Hai idea del pericolo che hai corso? Ti è dato di volta il cervello?»
«Mi dispiace» bofonchiò lei, senza però esserne realmente turbata. Il suo sguardo ora sembrava vuoto proprio come quello dei giganti. «Ho capito.»
Una frase che forse non aveva niente a che vedere con quanto stava accadendo, ma che si riallacciava a quello stesso filo di pensiero che l'aveva spinta a buttarsi. Ma Ludwing, che non si trovava dentro quella testa, non poteva saperlo.
«Quando torneremo ci penserà l'istruttore Keith a darti una punizione esemplare! Questo tuo comportamento sconsiderato, se attuato in esterno, avrebbe potuto mettere in pericolo tutti noi! Ha ragione Levi! Ti manca la disciplina! Mandarti lì fuori sarebbe un rischio per tutti!»
A sentire quel nome Mari parve rianimarsi appena, ma tutto ciò che cambiò fu solo il suo sguardo, ora addolorato.
«Mi dispiace» mormorò.
«Sciocca sconsiderata!» ringhiò Ludwing lanciando via la ragazza, contro gli altri compagni. Brown, vedendosela arrancare contro, la bloccò per le spalle, impedendole di caderle addosso. «La prossima volta che hai questi colpi di testa assicurati di non sopravvivere, così da non complicare ulteriormente la vita a chi ti sta attorno! Non perdiamo altro tempo, abbiamo del lavoro da fare!» disse ancora il comandante e voltandosi tornò a procedere lungo il muro.
«Dimmi, sei pazza?» chiese Brown.
«Startene rinchiusa sottoterra con i gatti ti ha mandato in fumo il cervello ragazza mia» disse Annalise, contrariata per quanto appena successo. Odiava essere ripresa dai superiori e per quanto non fosse stata rivolta a lei il rimprovero, sapeva che ora il capitano Ludwing era di pessimo umore e qualsiasi sgarro sarebbe stato pagato caro. Brown lasciò andare Mari e la superò, seguendo il resto dei suoi compagni dietro al capitano. I sensi di colpa e il dispiacere per una tale situazione si fecero sentire nel petto di Mari, ma non si pentì di quanto successo. Lei doveva vedere, doveva capire. Era necessario e loro questo non l'avrebbero mai potuto comprendere.

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Capitolo 13
*** Comprensione ***


Comprensione


Il sole era in procinto di cadere a ovest e il cielo cominciava ad aranciarsi e ingiallirsi, perdendo gradualmente la sua colorazione azzurra. Mari ormai allo stremo continuava però a correre intorno al cortile, con sulle spalle uno zaino carico di mattoni. Una punizione simbolica per permetterle di comprendere il peso che portava sulle spalle, ma che al momento l'unica cosa che stava stremando era il fisico. Ludwing la guardava e si assicurava che eseguisse gli ordini, con ancora sul viso lo sguardo furibondo che aveva mantenuto tutto il pomeriggio. Se c'era una cosa al mondo che detestava era proprio chi si comportava stupidamente e Mari si era appena aggiudicata il podio nel suo libretto dei nomi da ricordare e detestare. I respiri affannosi avevano costretto Mari a tenere le fauci spalancate ormai da un po' e l'aria stava cominciando a seccare così tanto la sua gola da recarle dolore. Ogni muscolo bruciava e le spalle si sarebbero potute spezzare da un momento all'altro per il peso che trascinavano e sopportavano.

Ma non fiatava e obbediva. L'aveva sempre fatto, certo non avrebbe smesso in quel momento.

Alzò lo sguardo, osservando l'entrata al canyon dove era stato allestito il campo di addestramento e tenne gli occhi puntati ad essa, fintanto che il giro non la costrinse a voltargli le spalle. Arrivò in fondo al cortile e si voltò per cominciare un altro giro ancora. Nuovamente gli occhi andarono all'entrata e lì vi restarono fintanto che non fu costretta a voltarsi ancora una volta. Trascinò il piede destro in avanti, ma non riuscì a piantarsi a terra in tempo, troppo stanco ormai per star dietro al suo passo, e Mari cadde a terra. Il peso dei mattoni contro la sua schiena la fecero lamentare per il dolore e fu costretta a prendersi qualche secondo, per aspettare che se ne andasse e potesse provare a rialzarsi.

«In piedi!» ordinò Ludwing. Mari poggiò i palmi a terra e si sforzò di sollevare le ginocchia, alzandosi piano piano.

«In piedi!» gridò con più forza Ludwing e digrignando i denti Mari riuscì finalmente a rialzarsi. Fece due enormi respiri, riprendendo fiato, poi riprese a correre, o meglio: a trascinarsi. Altri giri, altri tentennamenti e stava ancora una volta per cadere a terra ormai stremata quando finalmente vide un carro scendere lungo l'entrata che portava al cortile. Davanti e dietro di esso Levi e tre reclute lo scortavano a piedi. Una di queste si reggeva una mano con un fazzoletto insanguinato, ma nessun altro sembrava aver riportato danni di nessun genere, tantomeno il carro.

Arrivati nel cortile, i cavalli con il carico si diressero verso il magazzino autonomamente e Levi si fermò invece a dare qualche disposizione ai ragazzi che l'avevano seguito. Il ragazzo con la mano ferita venne accompagnato in infermeria dai compagni e presto il capitano fu di nuovo solo. Mari si portò le mani alle bretelle dello zaino e cominciò a sfilarselo frettolosamente, mentre i piedi la stavano già portando da lui.

«Dove credi di andare?» urlò Ludwing con tale forza da far voltare perfino Levi, dall'altro lato del cortile. «Torna immediatamente a correre!»

Mari esitò, ma gli occhi erano ancora puntati su Levi, desiderosi di raggiungerlo, ignorando ogni sorta di impedimento. Doveva parlargli, aveva desiderato farlo per tutto il giorno e ora finalmente ce l'aveva davanti. Intercettò il suo sguardo severo, che parve indurirsi ancora di più non appena la vide. Era ovvio che fosse ancora furioso con lei e questo spingeva la ragazza a desiderare ancora di più un confronto.

"Ha ragione Levi! Non hai disciplina!" rimbombò la voce di Ludwing nella sua mente, ricordandosi della sgridata che aveva subito quel pomeriggio. Davvero il capitano Levi pensava questo di lei? Davvero la giudicava tanto male perché a volte faceva di testa sua? Strinse le spalline dello zaino tra le dita, abbassò lo sguardo corrucciandosi e infine riprese a correre. Levi la squadrò qualche secondo, indecifrabile nel volto, poi se ne andò, diretto al capanno di Keith per fare rapporto.

Ancora una volta lo vide passare poco dopo, diretto al suo casolare, probabilmente per rinfrescarsi e cambiarsi, e ancora una volta non poté raggiungerlo per colpa della punizione. Quando finalmente Ludwing decise che era abbastanza e la lasciò libera di riposarsi, il sole ormai era calato. Mari si liberò velocemente del peso sulle spalle, sentendo necessario prendersi qualche istante per godersi la bellissima sensazione di leggerezza e libertà. Le spalle facevano un male indicibile e le gambe non smettevano di tremare. Probabilmente ci avrebbe pensato due volte, la prossima occasione, prima di fare qualcosa di tanto folle davanti a un superiore. Era stato orribile e non ne voleva più sapere di mattoni per un bel po'.

Corse verso le mense, dove si stavano riunendo compagni e superiori per la cena. Entrò, guardandosi attorno freneticamente, in cerca di un volto specifico. Levi non era lì, ma arrivò pochi istanti dopo, accompagnato da Erwin e Hanji. Mari esitò di fronte a quell'espressione così dura: saperlo furibondo con lei le faceva così male.

Nell'istante in cui le passò davanti, senza degnarla di uno sguardo, capì che non poteva far altro che tentare di avvicinarlo. Allungò una mano nel vuoto, cercando di attirare l'attenzione e chiamò: «Capitano Levi!»

Il trio si fermò nel sentirla e sia Hanji che Erwin si voltarono a guardarla, ma non Levi che invece si ostinò a volgerle le spalle. Mari arrossì lievemente per l'imbarazzo di dover tentare di parlargli di fronte agli altri due ufficiali, che sembravano più interessati di quanto si fosse aspettata.

«Potrei parlarle un minuto?» balbettò, abbassando lo sguardo. Era così imbarazzante! Perché gli altri due si ostinavano a guardarla in quel modo?

«Non ora» rispose secco Levi e si allontanò. Hanji e Erwin esitarono un istante, prima di seguirlo, lasciando sola la ragazza con la sua delusione e il suo rammarico.

«La poveretta ce la sta davvero mettendo tutta per riuscire ad attirare la tua attenzione» ridacchiò Hanji, affiancando l'amico.

«Questa mattina era sveglia all'alba per fare esercizio» disse Erwin, lanciando uno sguardo divertito a Hanji.

«E subito dopo è andata a pulire le attrezzature» annuì Hanji. «Non sarai un po' troppo duro con lei?»

«Non mi pare che il nostro addestramento sia avvenuto in un clima gioviale e amichevole» rispose Levi, lanciando uno sguardo scocciato a Hanji. «E comunque non sono affari che ti riguardano» aggiunse, prima di sedersi al tavolo per mangiare.

Hanji volse automaticamente lo sguardo a Erwin, cercando risposte o forse conferma alle sue osservazioni. Ma il comandante al suo fianco non sembrò trasmetterle niente, benché il suo sguardo fosse vagamente divertito, forse soddisfatto. Come se capisse meglio la situazione di quanto in realtà lo facessero gli altri.

Per il resto della serata non venne più fatto cenno all'argomento Mari e gli ufficiali si limitarono a discutere di lavoro o di quanto quella sera la cena fosse particolarmente ricca, forse per le scorte appena arrivate con successo.

Dall'altra parte della sala, Mari era impegnata a giocherellare con una carota galleggiante nel suo brodo, pensierosa. A ogni respiro che faceva corrispondeva una fitta all'altezza delle spalle e del petto, ma dava loro la minima importanza.

Un paio di mani sottili si posarono su quelle spalle doloranti e fecero una leggera pressione, muovendo le dita in senso circolare, e al tocco Mari si irrigidì, mugolando di dolore.

«Ne sei uscita viva per miracolo» disse Angelica alle sue spalle, rivelando che fosse lei a tentare quel massaggio che in realtà non faceva che peggiorare la situazione. «Non ho mai visto l'istruttore Ludwing così furioso, si può sapere che hai combinato?»

«Mi sono buttata dalle mura per guardare i giganti da vicino» disse Mari con voce rotta dal dolore. Angelica scoppiò a ridere divertita, ma non disse altro, restando a guardare il volto di Mari.

Solo dopo pochi secondi di silenzio, strabuzzò gli occhi e chiese: «Aspetta! Non era una battuta?»

«No, l'ho fatto sul serio» disse Mari. La presa di Angelica sulle sue spalle si fece più stretta e questo per poco non la fece urlare.

«E non ti hanno divorata?» chiese rauca.

Mari restò inebetita a lungo, prima di dire con una strana serietà: «Sì, dalla vita in giù.»

«Sul serio?» strillò Angelica, lanciandosi sotto al tavolo per vedere personalmente il corpo sventrato di Mari. Si rialzò con una strana delusione nel volto, quando constatò che l'amica l'aveva solo presa in giro.

«Perché l'hai fatto?»

«Non lo so» sospirò Mari, allontanando il proprio piatto da sotto al naso e accasciandosi al suo posto, avvolgendo la testa tra le braccia. «Ma è stata la cosa giusta.»

«Che dici? Potevi morire!»

«Adesso lo comprendo meglio» sospirò Mari, sollevando la testa e poggiandola sulle braccia avvolte, così da non sentire direttamente sulla pelle il ruvido e il freddo del legno. Voltò la testa di lato, riuscendo a intravedere il capitano Levi attraverso le ciocche smosse dei suoi rossi capelli.

«Comprendere cosa?» chiese Angelica con curiosità, ma Mari decise questa volta di non rispondere.

«Stasera c'è la luna piena» mormorò tra sé e sé, socchiudendo gli occhi in un sospiro. Angelica non potè far a meno di farsi ancora più domande, ma a malincuore si rese conto che avrebbe dovuto aspettare per avere delle risposte. La sua amica sembrava essersi appisolata.


NDA.

Era da un po' che non ne scrivevo uno. Come avete potuto intuire dalla sporadica presenza che ho mostrato negli ultimi tempi, questo è stato un periodo particolarmente difficile per me e riuscire a pubblicare con puntualità non è stato semplice (tant'è che non sempre lo facevo...).

Volevo solo chiedere scusa per la semi assenza dimostrata ultimamente, rinnovare la speranza di riuscire a riprendermi presto e tornare attiva come sempre e ringraziare soprattutto chi ancora legge la storia di sta poveraccia di Mari xD

Il prossimo capitolo si intitolerà "Erwin Smith" e sarà un altro tuffo nel passato... A voi le supposizioni su ciò che accadrà :P. Io non accenno altro ehehe

Vi aspetto!

Cià cià!


Tada Nobukatsu-kun

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Capitolo 14
*** Erwin Smith ***


 Erwin Smith



Città Sotterranea

Anno 844





Il tonfo della porta di casa che andava chiudendosi fu come la scritta "fine" nei libri che Mari era riuscita a rubare in qualche casa. Le piaceva leggere, era un modo totalmente diverso, ma pur sempre efficace, di spiccare il volo e allontanarsi da tutto quello. Ultimamente però non riusciva a trovare libri che non avesse già letto e questo non aiutava i suoi tentativi di fuga. Si raggomitolò sotto quel sottile lenzuolo, tirandoselo fin sopra la testa, in un infantile tentativo di nascondersi da quello che la circondava. Isolarsi, restare finalmente sola, anche se faceva freddo. Il consumato materasso, messo direttamente a contatto con il pavimento, non isolava del tutto e certamente non bastava un misero lenzuolo stracciato a riscaldare il suo corpo nudo. Eppure, dopo aver sopportato per mezzora un calore sopra di sé per niente piacevole, ora anche il freddo della stanza sembrava quasi paradisiaco. La solitudine la rassenerava e pian piano tornava a respirare.

La porta della stanza si aprì alle sue spalle, ma lei non si voltò a guardare chi fosse entrato e restò immobile, a fissare la bizzarra angolatura che prendeva la strada fuori dalla sua finestra spalancata. Poteva vedere le crepe del muro di fronte articolarsi come un fiume, verso l'alto, aprirsi in una piccola voragine di muschio e erbacce e poi il vuoto. Oltre, ancora solo roccia, benché le ombre prodotte su quella crepa fossero quasi simpatiche.

L'ospite che era appena entrato nella sua stanza le si avvicinò a passi lenti, delicati, quasi che non avesse voluto disturbarla e si sedette alle sue spalle. Mari continuò a non volgergli l'attenzione, sperando che la scambiasse per addormentata, ma quando percepì il delicato tocco della sua mano contro i propri capelli, intenta ad accarezzarli, tutto il dolore parve sparire in un istante. Quel tocco era l'unico che riuscisse a tollerare, anzi, quasi ad apprezzare, soprattutto quando su di lei cadeva morbido, gentile e non violento e iracondo.

«Muller sembrava essere soddisfatto» le disse la delicata voce di Harvey. «Hai fatto un buon lavoro, sorellina. Ci ha pagati bene.»

La notizia avrebbe dovuto rincuorarla, forse addirittura renderla orgogliosa, ma non ebbe affatto l'effetto desiderato. Non provava che disgusto, dolore e rammarico. Sapere che le persone potevano trovare del piacere nel recarle quelle orribili sensazioni non la rincuorava per niente.

«Sai, è stato generoso. Con la promessa di tornare, ci ha lasciato una piccola mancia» insistè Harvey. «Dovremmo ringraziarlo, perciò assicurati di dargli lo stesso trattamento anche la prossima volta, intesi?»

L'idea che avrebbe presto rivisto quegli occhi viscidi, famelici, e avesse risentito quel terribile odore su di sé le fecero venire i conati di vomito. Harvey le afferrò una ciocca di capelli dal viso e gliela portò dietro l'orecchio, scoprendo così i suoi occhi umidi e pieni di lacrime. Li osservò per un paio di interminabili secondi, poi afferrandola per una spalla la costrinse a voltarsi. Se la tirò contro, facendole poggiare la testa sulle proprie gambe e avvolgendole le spalle con un braccio riprese ad accarezzarle i capelli. Era sempre così gentile dopo che i clienti uscivano da casa loro soddisfatti, e a volte bastava questo per convincere Mari a stringere i denti.

«Sai che ti dico? Con quei soldi in più ti compro un regalo!» e per la prima volta gli occhi di Mari sembrarono tornare vivi, spalancandosi leggermente. «Caspita, non credo di essere mai riuscito a fartelo un vero regalo, qualcosa che non fosse rubato. Non lo trovi magnifico? Questa vita, la tua grande qualità, ci sta donando una vera vita. Figurati che tra poco neanche ricordo più cosa voglia dire avere fame» ridacchiò, credendo divertente quella sua ultima battuta. «Sono così fiero di te, sorellina» disse, tornando dolce nel tono.

Sì, decisamente bastava quello a convincerla a stringere i denti e accettare un altro lavoro.

«Allora!» continuò a parlare lui, prima di allungarsi sul mobile a fianco e prendere una spazzola. «Fatti dare una sistemata» e la sollecitò a mettersi seduta. Mari obbedì, premurandosi di tenere ben stretto il lenzuolo contro il proprio seno, nascondendo il corpo ancora nudo, e lasciò che il fratello cominciasse a spazzolarle i capelli.

«Che regalo vuoi? Un vestito nuovo? Scarpe? O magari posso vedere di trovare qualche cosmetico che usano tanto le donne di un certo rango. Chiedi quello che vuoi e il tuo fratellino te lo porterà!»

«Libri» mormorò Mari con un filo di voce.

«Libri?» chiese conferma Harvey, inarcando un sopracciglio.

«Sì. Libri nuovi, che non ho mai letto.»

Harvey esitò un po', prima di rispondere: «Se è quello che desidera la mia principessa, allora l'avrà.»

Un timido sorriso fece capolino sul volto corrucciato di Mari, e pian piano dalla sua espressione eliminò il dolore lasciando spazio a una piacevole sensazione di benessere. Era sempre così bello, dopo.


Mari si sistemò meglio il cappuccio sopra la testa, sforzandosi di coprire il più possibile i suoi carmini capelli. Harvey le proibiva di tagliarli e più crescevano e più diventava difficile gestirli e nasconderli, anche se Harvey le diceva sempre di non farlo. Se si fosse mostrata in giro più uomini sarebbero venuti a conoscenza di quella caratteristica che incollava lo sguardo e loro avrebbero potuto avere più clienti. Proprio per quello stesso motivo lei, invece, si impegnava a nasconderli il più possibile. Sfilò da sotto la casacca una pera appena comprata -e non rubata, il che la rendeva ancora più gustosa- e ne tirò un morso. Il sapore dolciastro, leggermente contrassegnato dall'aspro del frutto non ancora maturo del tutto, le pervase la bocca. Il succo umido, unito alla croccantezza della buccia e la sua ruvidezza, in contrasto con la polpa morbida, rendeva diverso ogni morso. Mai si era goduta così un pasto e la libertà di poterlo fare alla luce del sole, in mezzo alle persone, senza nascondersi, era un delizioso premio a tutti quei sacrifici. Alla fine Harvey aveva ragione, lo sapeva che aveva ragione e lei avrebbe solo dovuto stringere i denti.

Si inoltrò nella zona mercantile, ora affollata per il mercato della mattina. I banchetti, come sempre, erano le zone dove più si concentravano le persone, anche se in pochi compravano e altrettanti si affaccendavano a rubare. Mari vi passeggiò attraverso, gustando la sua pera, senza una meta precisa, godendosi solo la tranquillità di un luogo ormai fin troppo familiare.

Passò davanti al banchetto con i vasetti di marmellata ed esitò qualche istante, osservandoli con riluttanza. I ricordi ad essi associati erano così terribili, la responsabilità legata a quella stupida sostanza zuccherina era così alta, che l'avrebbe ripudiata in eterno nonostante il magnifico sapore. Stava per rimettersi a passeggiare, quando casualmente intercettò una conversazione tra due mercanti.

«Ce n'è di tranquillità ultimamente, da queste parti» aveva detto il primo.

«Da quando Levi e i due deficienti che lo seguivano sono stati portati via sembra un'altra città» rispose il secondo, e fu proprio quel nome a convincere Mari a temporeggiare ancora un po' davanti a quel terribile banchetto della vergogna.

"Li hanno portati via?" si chiese, curiosa tanto quanto sconvolta. Erano riusciti a prenderli? Loro, che erano in grado di volare, irraggiungibili sopra i tetti, erano stati presi?

«Sono stati portati via? Finalmente la Gendarmeria ha avuto la meglio!»

"Non può essere!"

«E invece ho sentito che non è stata opera della Gendarmeria, lo sai?» disse il secondo, con un velo di orgoglio nella voce. L'orgoglio di chi ha un gustoso pettegolezzo nel taschino della giacca da sventolare, sapientemente, sul muso degli ignari.

«Ah no? E chi è stato? Rivali? Li hanno ammazzati? Non trovo difficile credere che gente come quella fosse pieno di nemici.»

«Niente di tutto questo, ma qualcosa di ancora più sconvolgente!»

«Sul serio? E chi li ha portati via, dimmelo!» certo quell'uomo non vantava di scarsa curiosità.

«Erwin Smith!» disse solennemente il compagno.

"Erwin Smith?" si chiese Mari, non riuscendo ad attribuire nessun viso a quel nome. Chi diavolo era quell'Erwin Smith? Quanto poteva essere forte, per essere riuscito ad acciuffare Levi e i suoi?

«Erwin Smith? Il comandante dell'Armata Ricognitiva?»

«Proprio lui!»

«Hanno smesso di dar la caccia ai Giganti e si son dati ai banditi? D'altro canto, con tutti quei fallimenti sulle spalle, chiunque avrebbe chiuso baracca.»

«No, no, no! Non riesci proprio a capire, citrullo? Li hanno arruolati!»

«Arruolati?» chiese sconvolto, allungando smisuratamente la parola.

«Sì! Quel folle, dev'esser proprio disperato per venire a raccattare delinquenti qua sotto» rise. «Eppure è così! Se ne parla un sacco tra le file della Gendarmeria, trovando sconvolgente tanto quanto vergognoso che siano venuti a prendere questi disgraziati di cui non ci si può fidare e che abbiano deciso di regalar loro soldi, un letto e del cibo senza che lo meritassero. La galera! In galera dovevano sbatterli! E invece... che storia! Fanno morir di fame i poveracci e regalano la bella vita ai bastardi!»

«Veramente una vergogna.»

«Signorina?» l'improvvisa voce del mercante, davanti a lei, la riscosse così bruscamente da farle venire il batticuore dallo spavento. «Signorina, desidera comprare qualcosa?»

Mari strabuzzò gli occhi, spaventata più che mai: quanto tempo era rimasta ferma a fissare quei dannati barattoli di marmellata? Negò rapidamente con la testa e senza spiccicare parola, scappò via, lasciandosi cadere dalle mani la pera divorata per metà.


Harvey afferrò la patata bollita e se la portò alle labbra, strappandone un pezzo a morsi. Buttò giù anche del pane e subito dopo una manciata di fagioli, aiutandosi nell'ingoiare con un lungo sorso d'acqua. Sembrava non mangiasse da mesi. Da quando il cibo sulla tavola era cominciato ad essere più abbondante, non faceva che abbuffarsi con ingordigia, come se con quel singolo pasto avesse colmato anni di digiuno.

Mari, seduta di fronte a lui, fissava il suo piatto silenziosa giocherellando con un fagiolo, facendolo roteare da una parte all'altra. Un guancia posata sul palmo della mano, il gomito ben piantato sul tavolo e lo sguardo più assorto che avesse mai avuto.

«Com'è andata la tua passeggiata?» chiese Harvey, notando come fosse strana.

«Bene» rispose senza troppo interesse.

«Hai comprato qualcosa?»

«Una pera.»

«Ancora pere? Devono piacerti proprio tanto!» la canzonò, sperando di riuscire a strapparle un sorriso, almeno uno sguardo, senza successo. «Sai, ho chiesto al mercante se riuscisse a procurarmi libri nuovi, magari qualcosa che viene dal nord. Ha detto che forse è in grado di recupare qualcosa di interessante.»

Mari esitò qualche istante, ancora immersa nel suo fagiolo che ormai si era percorso l'intero piatto rotolando, poi finalmente disse, decisa nel tono: «Harvey, tu sai chi è Erwin Smith?»

«Erwin Smith?» si corrucciò appena, Harvey. «Perchè vuoi saperlo?»

«Ecco...» arrossì appena, Mari. «Oggi ho sentito due uomini parlare di lui. Dicono sia un comandante dell'Armata Ricognitiva, ma non so cosa significhi.»

Harvey esitò, continuando a guardarla poco convinto. Sapeva benissimo chi era Erwin Smith, ciò che però non sapeva e che lo turbava era perché Mari improvvisamente fosse tanto interessata a lui e all'Armata. Ma decise di mettere da parte i suoi pregiudizi e rispondere alle curiosità di sua sorella, come sempre aveva fatto. Era meglio che certe cose venisse a saperle da lui che da qualche voce in giro che avrebbe potuto metterle in testa strane idee.

«Il corpo militare è diviso in tre legioni principali. La Gendarmeria, che è quella che si occupa dell'ordine delle strade. Poi c'è la Guarnigione, che si occupa invece delle Mura, quelle che proteggono gli umani dai Giganti» aveva già sentito parlare dei Giganti e delle Mura che tenevano imprigionati gli umani lì dentro, proprio come loro lo erano sottoterra, perciò non fu difficile per lei capire di cosa stesse parlando. «E infine c'è l'Armata Ricognitiva, che invece si occupa delle spedizioni in esterno. Vanno dritto in bocca ai Giganti, a contargli quanti denti hanno» disse con riluttanza. Aveva sperato di destare la stessa sensazione nella sorella, di infonderle timore per quegli idioti che andavano a morire, invece quando alzò lo sguardo su di lei lesse sul suo viso tutto tranne che la paura. Gli occhi sgranati, le labbra dischiuse, e lo sguardo di una bambina di fronte a un meraviglioso gioco. Che diavolo le passava per la testa?

«Non c'è niente di emozionante in quello che fanno! Vengono mandati a morire, trucidati e senza nessuno che possa dir loro a addio.»

«Ma escono fuori» balbettò Mari. «Dove non ci sono mura, né soffitti.»

«Non dire stronzate! Che valore ha un po' di visuale in più se dieci passi più avanti vieni sgranocchiato per bene?» rispose Harvey sempre più nervoso. Ci mancava solo che la sorella cominciasse a provare ammirazione verso quei bifolchi, e che magari le passasse per la testa di seguirli! Non le avrebbe mai permesso di andarsene, nemmeno per sogno.

«Tanto ai reietti come noi non è permesso nemmeno di annusarla quell'aria. Dimenticalo.»

«Non è vero!» disse Mari, ora improvvisamente emozionata. Si sollevò in piedi e sbatté il cucchiaio sul tavolo, continuando a dire sempre più focosamente: «Non è vero! Hanno portato lassù la banda di Levi! Sono venuti a prenderli, Erwin Smith è venuto a prenderli! Li ha portato fuori, ti rendi conto? Dove non ci sono mura né soffitti, a vedere il cielo e le nuvole! La Luna! A respirare la vera aria! Erwin Smith porta fuori quelli come noi! Non è vero che...» non terminò la frase che un pesante schiaffo da parte del fratello la fece tacere.

Il silenzio calò tra i due con una pesantezza tale da costringere Mari a tornare seduta. E tremolante, si portò una mano ad accarezzare la guancia colpita che ora bruciava da morire.

«Pensi ancora a quel Levi? Pensavo di essere stato chiaro!» Gridò severo, Harvey. «Lasciali perdere, sono sacchi di merda e per questo che il tuo eroe Erwin Smith è venuto a prenderli! Per lanciarli direttamente tra le fauci dei Giganti, perché nessuno piangerebbe la perdita di reietti come noi! Vuoi fare anche tu quella fine? Morire nel peggiore dei modi, sacrificata da chi non gliene frega un cazzo di te, da chi ti vede solo come carne da macello? Ci usano per ingrassarli, ecco la verità! Togliti dalla testa qualsiasi sciocchezza fiabesca, quell'Erwin Smith è la peggiore delle fecce ed è venuto qui a raccogliere qualcuno di altrettanto peggiore da sacrificare per i suoi luridi scopi! Mi stai ascoltando, cazzo?» gridò ancora, provando ancora più ira nel vedere il viso spento della sorella, come se non fosse lì. Con un colpo di mano colpì il suo piatto e lo lanciò a terra, frantumandolo. Mari sussultò al rumore e volse gli occhi, ora terrorizzati, ad Harvey.

«Non voglio più sentirti pronunciare quel nome, né tanto meno quello di Levi! E' chiaro?» e Mari continuò a guardarlo terrorizzata, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime. «E' chiaro?» urlò ancora più forte, ormai accecato dall'ira.

«Sì! Sì! Ho capito!» si affrettò a rispondere Mari e questo, miracolosamente, sembrò calmarlo in parte.

«Spero possa sentire distintamente le proprie ossa sbriciolarsi, quel Levi, prima di morire in bocca a quegli schifosi.»


Amore, amore, amore, amore, amore, amore

Cercami trovami fammi sentire il tuo odore

Rendimi libera dall’idea che io stessa ho di te

Salvami, salvami da me

Fa che la mia solitudine si dissolva nel vento con le lacrime


Portami via con te


(Missiva d’amore - Arisa)

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