The wrong side of the bridge

di brooklynbaby_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Park Slope ***
Capitolo 3: *** Park Avenue ***
Capitolo 4: *** Good Vibes ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


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Justin

Era il 1969, quasi l'alba di un nuovo decennio. Eppure la mia vita sapeva di novità quanto la zuppa domenicale della nonna: puntuale, ineluttabile, una vera tortura. Chaz Coley, senza neanche voltarsi, spinse verso di me il sacchetto di White Castle. Afferrai alla cieca un panino e lo addentai, avevo un gran fame. Il mio stomaco insofferente continuava a mandare orribili borbottii. 
"Mangi come un maiale" Chaz mi guardò disgustato. 
Con la bocca ancora piena gli feci un sorrisetto menefreghista e le briciole del panino finirono sulla mia t-shirt slavata e poi sui suoi sedili. 
"E stai un po' attento!" sbottò. "Se non riporto l'auto a mio fratello come l'ha lasciata, mi sega" borbottò.
"Va al diavolo" urlai di rimando, alleggerendo un po' la tensione che avevo nella testa. 
Quella Dodge Challenger nera non era nostra, nè io nè Chaz avremmo potuto permetterci un quarto di dollaro delle sue rifiniture in argento. Ma il mio amico sapeva quanto fosse importante per me quell'appuntamento, così aveva fregato quella macchina all'autofficina di suo fratello, prima che lui potesse accorgersene.
Ma, ahimè, se avevo sperato di fare bella figura con quel gioiellino, mi ero sbagliato di grosso. La nostra non era che una delle tante macchine di lusso che sfilavano lungo le vie di Manhattan, tutte tirate a lucido. Inoltre avevamo dovuto parcheggiare in seconda fila, così che entro un paio di minuti eravamo stati stanati dai portierti degli eleganti palazzi ai lati della strada, dovevano averci già bollato come intrusi non desiderati.  
Quella mattina, però, nulla mi avrebbe fermato, quindi continuai a sorvegliare il numero 240 della Settantaquattresima Strada, la mia Mecca: la sede della Sony Music. Fu così che lo vidi: Douglas Conan, responsabile del dipartimento 'Nuove Stelle', e anche la mia ultima speranza di chiudere un contratto entro l'anno. Non potevo lasciare che scappasse. Mi precipitai fuori dall'auto, rovesciando sull'asfalto quel che restava del mio pranzo. 
"Signor Conan!" mi sbracciavo, cercando di attirare la sua attenzione mentre gli correvo incontro. 
"Signor Con- Oh porca vacca!" esclamai, poco prima che una Aston Martin, grigio metalizzato, inchiodasse a qualche centimetro da me. C'era mancato poco che mi mettesse sotto. Quanto meno questo aveva attirato l'attenzione del signor Conan su di me.
"Ma è matto?" mi guardò tanto d'occhi. Accorciai la distanza tra me e lui, e gli tesi la mano sudata. 
"Signor Conan, io sono.."
"Figlio di puttana!" la voce del mio potenziale assassino coprì la mia. 
"Non è esattamente questo il mio nome" dissi, con un sorriso imbarazzato. "Sono Justin, Justin Bieber, si ricorda di me?" chiesi speranzoso.
non poteva non ricordare, gli avevo inviato una decina di lettere. Avevo prosiugato il mio ultimo stipendio per incidere quella demo da spedirgli. 
"Bieber, Bieber..." si pettinava la barba bianca con una mano. "Sinceramente no" sentenziò.
"Vuoi scusarmi ragazzo? adesso sono molto impegnato" si voltò per varcare la soglia. 
"Signor Conan sono un artista emergente, le chiedo solo pochi minuti del suo tempo..."  usai un tono quasi supplichevole. 
"Scusa davvero, Jason" disse distrattamente. "Oh e stai attento la prossima volta" si raccomandò indicando la strada, dove un grosso autobus seguiva il declino della Settantaquattresima. Avrei fatto meglio a buttarmici sotto. Avevo anche sprecato i 10 cents dei panini. 



 
Lana

"Quel tipo era una ragazzaccio, chissà da quale quartiere malfamato proviene" borbottò mio padre. "Te lo dico io" continuò con aria saputa. "Si divertono, quelli lì, a fare bravate del genere. Fingono che tu li abbia investiti, si fanno pagare un capitale dalla polizza e vivono solo di truffe. Dei mascalzoni, ecco cosa sono" 
"Sì, papà..." risposi distrattamente ravvivandomi i capelli nello specchietto laterale. Odiavo i miei capelli, il modo in cui ricadevano in molli pieghe sulle spalle, insipidi. Li cotonavo all'ultimo grido, ma non riuscivo mai ad ottenere il volume che volevo. Avrei tanto voluto avere una di quelle chiome afro, alla Gloria Gaynor. 
"Non voglio mai vederti al fianco di uno di quei ragazzi, chiaro?" il tono severo di mio padre richiamò la mia attenzione. Assentii.
Ce ne restammo entrabbi zitti, mentre la radio suonava la Die Fledermaus Overture di Strauss. Le mie mani pizzicavano il cruscotto come dita sui tasti di un pianoforte. A guardarle meglio, mi accorsi che erano pallide ed emaciate, non avevano conosciuto neppure un giorno del torrido sole di quella primavera del 1969. Pensai alle mie amiche con una punta di malinconia e un pizzico d'invidia: proprio quella mattina avevano fatto una sortita alla spiagga di Coney Island. Quanto a me, il duro lavoro per l'ammissione alla Juilliard non avrebbe lasciato posto alla spensieratezza. 

"Avanti Pauline, non tenermi sulle spine" la pregai, morendo di curiosità.
"Sei seduta? Farai meglio a farlo" squittì all'altro capo del telefono la mia amica. 
"Sì, sono seduta" chiarì seccata ed impaziente. 
"Lana, non è una spiaggia come tutte le altre! Le ragazze indossano tutte dei costumi talmente striminziti da lasciare poco e nulla all'immaginazione. Per non parlare dei ragazzi, non sono degli stoccafissi come tutti i nostri amici. Sono così divertenti e non ascoltano altro che rock!" 
Mentre Pauline si profondeva nella descrizione di quella sua insolita mattinata in spiaggia, io sognavo ad occhi aperti e rimpiangevo di essermene restata ad ammuffire nel vecchio salotto della signora Isabelle, accerchiata dalle piume dei suoi uccellacci imbalsamati. Ma l'audacia non era mai stata il mio forte, trasgredire le regole nella famiglia Wooldridge non era ammesso. E la trasgressione veniva pagata oltre che con la reclusione nella propria camera, con la scottante delusione che si poteva leggere negli occhi dei miei genitori senza troppo sforzo. 
"Pensa che ho perfino parlato con uno di loro.." quelle parole di Pauline mi misero sull'attenti. 
"Mi ha squadrata e poi, con un fare tutto suo, mi ha urlato 'ehi bimba, vieni a fare il bagno con noi?" 
"E tu cosa gli hai risposto?" le chiesi, mentre arrossivo al solo pensiero di trovarmi nei suoi panni.
"Che non avevo il costume, ovvio. E indovina lui? Mi ha detto che era sicuro che la mia biancheria doveva essere altrettanto alla moda dei bikini delle altre" sghignazzò Pauline. 
"Ma sei fuori come un balcone? Non posso credere che trovi divertente tanta insolenza!" 
"Oh, andiamo, non fare la barbosa, sarebbe piaciuto anche a te!" avrei voluto obiettare, ma sentii il passo nervoso di mia madre avvicinarsi. 
"Devo lasciarti adesso, Pauline.." le dissi laconica.
"British?"
"British"
British era il nome in codice in uso tra me e Pauline, da usare solo in casi di emergenza, ovvero quando mia madre dava di matto. Lei era dello Yorkshire, con una passione sfegatata per tutto quello che fosse inglese. E odiava che tenessimo il telefono occupato per delle ore. 

Mia madre irruppre nella mia stanza e con tono spazientito quasi urlò: "quante volte ti ho detto di non tenere occupato il telefono così a lungo? Scommetto che era di nuovo Pauline. 
Delutii silenzionsamente, restando in silenzio. 
"Lana, tesoro, ti ho detto mille volte che non mi piace quella ragazza. E' sempre in giro a combinare chissà che con chissà chi, non voglio che ti distragga dai tuoi obiettivi" mi guardò con una punta d'orgoglio negli occhi, specchio del futuro che lei immaginava per me radioso. 
Mi carezzò una guancia, e mi lasciò sola e piuttosto impensierita. A volte mi sembrava che il mio futuro fosse stato già scritto per me da qualcun altro. Non avevo una personalità, ma soltanto una decisione interiore tanto ampia e vacillante come l'oceano. 





Intanto il mio fratellino ne approfittò per sgusciare all’interno della stanza.
«Lana!» si aggrappò ad una delle mie gambe, stringendola così forte che temevo m’avrebbe bloccato il sangue.
«Joshua, così mi farai male» mi lamentai, ma non potei non sorridere a quell’affetto che mio fratello mi riservava. Sapeva essere davvero dolce, se voleva, ma sapevo che era anche abbastanza furbo da non lasciarsi scappare l’occasione di fare moine solo per ottenere ciò che voleva.
«Vuoi vedere cosa ho imparato?» con un sorriso tenero balzò in piedi sul mio letto, stropicciando tutte le coperte. Aprì la bocca per rimproverarlo, ma lui fu più veloce.
«Eenie, meenie, miney, moe, catch a tiger by the toe. If he hollers, let him go. My mother said to pick the very best one and you are not it» smise di recitare a ritmo quella canzone e aspettò fiero che dicessi qualcosa.
«Sei stato bravissimo!» battei i palmi, applaudendo forte come a un attore sulla scena.
«La fermo sentire a papà» il suo sorriso sfumò e d’un tratto mise su il broncio.
«Ehi, cosa c’è piccoletto?» mi sedei accanto a lui sul letto.
«Papà ha dimenticato di nuovo i biglietti della partita, domani saranno finiti » mugolò, stringendo le braccia al petto e riuscendo a risultare buffissimo.
«Papà è molto impegnato, lo sai…» provai a consolarlo, ma spiegate ad uno gnomo imbronciato che i grandi sono troppo occupati per ricordarsi della partita Yankees contro Mets. Teneva così tanto a quel match. I biglietti erano in vendita al Washington Park di Brooklyn. Fissai il viso triste di Joshua e un’idea insana accallappiò la mia mente. Dovevo andarci, quella era l’unica occasione di attraversare il ponte. Raccolsi il briciolo di coraggio che mi ritrovavo e dissi: «Andrò io a prendere i tuoi biglietti, ma tu non devi dire a nessuno che sono andata a Brooklyn, chiaro?» mi abbassai alla sua altezza, per guardarlo diritto negli occhi. Gli tesi la mano e lui la strinse, scuotendola forte.
«Sei la sorella migliore del mondo, Lana» si strusciò sul mio viso, stringendo le braccia attorno alla mia pancia.​
«Mamma sarà fuori tutto il pomeriggio, tu di’ a Dorothy che sto poco bene e voglio restare a letto» gli spiegai ogni cosa, in modo che non potesse far saltare il mio piano. Mio fratello era davvero intelligente, per essere un bimbo di sette anni, sapevo di potermi fidare.
«Puoi mettere dei cuscini sotto le coperte, così sembrerà che stai dormendo» suggerì.
«Bravo piccoletto»
«L’ho visto fare nei film» si vantò.
 
 
 
 
Dei grossi nuvoloni minacciavano Manhattan, ma il lato di Brooklyn, dall’altra parte del ponte, sembrava libero. Presi un golf crema dall’armadio e lo cacciai nella borsa di stoffa, insieme ai miei ultimi risparmi. Avrei sbancato, ma avevo un’irrefrenabile voglia di trasgredire e scoprire cosa c’era dall’altra parte, il “lato sbagliato del ponte”, così lo chiamava mio nonno, di Manhattan da generazioni. ​Dalla finestra osservavo l’esistenza ordinata dell’Upper East Side, gente che portava a spasso il cane, ragazzi che, vestiti come uomini d’affari, si avviavano verso i bar alla moda, fattorini delle consegne, taxi che sfrecciavano. Sarebbe stato facile trovarne uno che mi portasse fino al Washington Park. Potevo farcela, inspirai.  
 
 
                                                                                    Justin
 
«Questo non puoi proprio perdertelo!» era mezz’ora che cercavo di convincere quella vecchia talpa di James ad acquistare l’ultima copia del nuovo cd dei Pink Floyd. Se fossi riuscito a venderle tutte entro fine sera, Larry, il mio datore di lavoro, mi avrebbe anticipato la paga. Non pagava mai il venerdì, come tutti gli altri in città, diceva che non mi sarebbe rimasto nulla in tasca dopo il week-end. Aveva dannatamente ragione, ma quei soldi mi servivano per comprarci il biglietto dei Mets, in vendita fino al week-end, e avevo promesso di disfarmi di tutte le copie, in cambio dei verdoni.
«Mhh» mormorò James, annusando il vinile.
«Non è una figa James, non deve avere un buon odore» esclamai spazientito. Conoscevo la filosofia di James sui vinili, diceva che era il vinile a scegliere te e non tu a scegliere il vinile. Ma stasera avevo poca pazienza per quel suo disturbo ossessivo-compulsivo.
«Shh, mi sta parlando» m’intimò lui, i capelli a formare un cespuglio sulla sua testa. Troppe anfetamine, era proprio fritto quello lì.
«Lo prendo» si decise, finalmente. Gli sorrisi cordiale, ma dentro al petto il mio cuore ballava la cucaracha. Sfilai il vinile dalle sue mani, che mi guardò un po’ male, per portarlo a cassa e saldare il conto.
«Fammi sapere se miagola» gli feci un occhiolino, ridandoglielo. Aveva bisogno di una donna, avrebbe smesso di credere che i vinili potessero fargli le fusa.
«Lo farò, amico, lo farò» rispose, tutto serio e andò via, lasciandomi da solo nel vecchio Good Vibes. Un negozio di musica, come ce ne sono tanti a Brooklyn, ma avevamo la nostra clientela affezionata e James era uno di questi.
 
«Com’è andata, ragazzino?» Larry continuava ad apostrofarmi in quel modo, anche se da quando mi aveva assunto, tre anni prima, ero cresciuto di dieci centimetri ed ero visibilmente più alto di lui, ora.
«Ho venduto anche l’ultima copia» sorrisi soddisfatto, sfregandomi le mani.
«Te li sei meritati, ma vedi di non finire sul lastrico» cacciò controvoglia l’incasso e ne prese il giusto per la mia paga. Strabuzzai gli occhi quando mi trovai di fronte quei venticinque dollari. Di solito me ne toccavano solo venti, e anche se non era un grande aumento, erano comunque cinque bigliettoni in più.
«Larry…» stavo scioccamente per farglielo notare.
«Dovrai pur comprarla una Coca Cola, a questa maledetta partita…» mi precedette.
«Non capisco perché ti ostini ad andarci, tanto i Mets perderanno anche quest’anno» scosse la testa, scettico.
I Mets invece andavano alla grande. Erano riusciti ad arrivare in finale, con 99 vittorie, 62 sconfitte e avrebbero disputato la finale contro gli Yankees. So a cosa starete pensando, nessuno avrebbe scommesso un penny che i Mets avrebbero sconfitto gli imbattuti Yankees del Bronx, ma provate a privare uno di Brooklyn di un sogno…
 
 
Montai sul mio Gilera rosso e giallo, perennemente a secco e diedi qualche pedalata. Avvertivo il cigolio della catena male oliata, mentre procedevo in direzione di Park Slope. Era quasi il crepuscolo le strade di Brooklyn pullulavano di coetanei che andavano a gettarsi in qualche disco, giù a Bay Bridge e vecchi padri di famiglia che rientravano nel caldo accogliente delle loro Brownstones. Avrei fatto meglio a sbrigarmi, o non avrei trovato più i biglietti. Giù per la Quindicesima Strada, poi a sinistra, costeggiando a ovest il Prospect Park. Risalendo lungo la Terza e la Quarta Strada per raggiunge il Washington Park. Il borbottio stanco del mio Gilera, non fece voltare nessuno, semplicemente perché non c’era più nessuno in fila al botteghino. Vuoti sacchetti, una volta pieni di cibo d’asporto, e altre cartacce lasciavano una scia. Doveva esserci stata parecchia calca, sperai che non ci fosse stato il sold out.  Al botteghino riuscivo a scorgere solo una figura femminile, che doveva star litigando col venditore, a giudicare da come si sbracciava. Mi feci più vicino, fino a sentire quello che stava dicendo.
«Guardi» avvicinò al faccione di quell’uomo, con un berretto dei Mets sulla testa, una pagina di un quotidiano sportivo «C’è chiaramente scritto che per i bambini al di sotto dei dieci anni il prezzo è ridotto» disse in tono esasperato. Evidentemente doveva star ripetendo quell’informazione da molto prima che io arrivassi.
«Signorina, per la centunesima volta…» masticava annoiato il suo chewingum quell’uomo «Non so cosa scrivano sui giornali, non faccio il giornalista, io gestisco il botteghino e qui» indicò il listino dei prezzi «C’è scritto chiaramente venti dollari, o ce li ha o niente biglietto.» Mi avvicinai ancora un po’ e sentii chiaramente quella ragazza dai capelli ramati sbuffare.
«E’ una questione di principio» protestò.
«Sia buona, compri l’ultimo biglietto e mi faccia andare a casa» sghignazzò l’uomo del botteghino, fregandosene delle sue “questioni principio” almeno quanto me ne stavo fregando io in quel momento, cioè poco e niente. Era l’ultimo biglietto, non potevo permettere che lo avesse lei.
«Dia a me quel biglietto» risolsi, avvicinandomi mentre tiravo fuori i dollari spiegazzati dalla tasca. Quando d’un tratto la giovane ragazza, che finora non si era neppure accorta di me, si voltò, fissandomi come se fossi l’unica persona rimasta sulla faccia della terra. E come se questo le provocasse un lancinante fastidio.

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Capitolo 2
*** Park Slope ***


Capitolo 1- Park Slope
 
Lana

Mi girai indispettita a quel tono così sbrigativo e trovai a fissarmi due occhi nocciola, che non nascondevano l'ansia che mi togliessi dai piedi. 
"Scusa?" una punta d'irritabilità nella mia voce. Lui fece spallucce, nella sua felpa grigio slavato, e continuò a indirizzarmi uno sguarvo vacuo e annoiato. 
"Sono in fila da ore per questo biglietto" sottolineai in maniera così nervosa che potei avvertire tutti i muscoli della faccia contrarsi. Non sapevo neppure perchè mi stessi rivolgendo tanto sgarbatamente a uno sconosciuto, forse perchè non avrei ottenuto nulla di più da quel cavernicolo al botteghino. 
"E allora? Io sono in fila per un contratto da una vita..." ribattè maleducatamente. 
Mi ribolivvano le tempie dal nervoso. Avevo davvero passato delle ore in fila. Appena arrivata lo stile di Brooklyn mi aveva colpito come una ventata di aria fresca da una finestra lasciata distrattamente aperta. Era sicuramente un quartiere diverso da Manhattan: niente stile liberty, ma una calda trama di mattoni. Meticci che scorazzavano nei prati, nient'affato costretti al guinzaglio dal loro prezioso pedigree. Una volta raggiunto il Washington Park, con l'aiuto di qualche passante, non mi era stato difficile individuare il botteghino. Una fiumana di persone, tutte accalcate, non lasciava dubbi. Avevo cercato di mimetizzarmi al meglio, in quella folla di padri e figli, ma ci ero riuscita molto poco. Ero, del resto, la sola donna in coda. Più di un'occhiata indiscrita al mio abbigliamento, mi diceva che fosse evidente la mia estraneità.  
Persa nei miei pensieri, non mi ero accorta che il mio contendente mi aveva sorpassato senza difficoltà. Se ne stava appogiato con gli avambracci al botteghino, sventolando tra l'indice e il medio le sue banconote. 
"L'ultimo biglietto per i Mets" disse. Mi parve di notare un sorriso sotto i baffi, mentra calcava la voce su 'ultimo'. Era di me che stava ridendo? Persi del tutto le staffe. Non avevo mai alzato la voce, neppure contro quel rompiscatole patentato di mio padre, ma non mi trattenni.
"Forse non ti è chiaro" conquistai col mio tono la sua attenzione, facendolo voltare. "Se volevi il biglietto potevi fare la fila" incrociai le braccia al petto, accigliandomi. Lui si guardò intorno, come se cercasse qualcuno, poi riportò il suo sguardo annoiato su di me. 
«Ci siamo solo io e te in fila, a quanto vedo…» inarcò un sopracciglio. «E mi era parso di capire che non volessi quel biglietto, per cui» fece spallucce e si voltò ancora verso l’omaccione, che fischiava un motivetto, come se si stesse divertendo a guardare quella scenetta, meglio anche del Dick Cavett Show.
«Mi dia quel biglietto» parlai senza neppure pensare, facendomi spazio al botteghino e quasi spintonando quel ragazzo. Avevo già due biglietti, per mio padre e Joshua, avrei potuto rinunciare al terzo, mio fratello maggiore non si sarebbe disperato, ma il mio orgoglio m’impediva di mollare l’osso. Per cavarmi dall’imbarazzo che provavo, abbassai lo sguardo sul portafogli e ne estrassi quei maledetti venti dollari.
«Ecco a lei» li allungavo sul bancone, quando sentì qualcosa di caldo posarsi sul dorso della mia mano. Era la sua, la mano di quel biondo, che adesso mi rivolgeva uno sguardo minaccioso. La ritrassi, come se stessi fuggendo dalla scossa di una presa elettrica.
«Senti, ti do cinque dollari se ti togli dalle scatole» esordì, sbuffando. Poi mi diede un’occhiata, si soffermò poco sul mio viso, che doveva essere cremisi per l’imbarazzo, e spulciò con attenzione i miei vestiti, uno Chanel verde pastello e scarpe italiane. Il mio abbigliamento, forse, gli suggerì che non poteva comprarmi con cinque dollari, perché perse la pazienza.
«Insomma, io devo avere quel biglietto, si tratta della finale della National League» si disperava. Doveva essere un tifoso sfegatato, anche più del mio fratellino Joshua.
«Problemi tuoi, potevi pensarci prima» sbottai, ormai fuori di me. Non tolleravo l’arroganza di quel ragazzo, che adesso si stava torturando le punte dei suoi capelli biondi, sul davanti tirati indietro in un ciuffo, come la moda degli anni comandava. Aveva un paio di jeans tutti stracciati ai bordi e delle Chuck Taylor con i lacci ormai grigi e il contorno delle suole in brandelli.
 
«Piantatela voi due, ho qui un altro biglietto» quell’uomo con la pettorina dei Mets, fece capolino da sotto il bancone, sventolando quello che doveva essere, e stavolta per davvero, l’ultimo biglietto per la partita. Il ragazzo al mio fianco si fiondò su quel rettangolino di carta, come se fosse un pezzo da cento, batté forte i suoi dollari sul legno e andò via, senza degnarmi di uno sguardo. Forse non avrei dovuto volere che mi parlasse: a giudicare da quanto era nero, non sarebbe stato piacevole. Però m’infastidiva come mi aveva piantato in asso, senza neppure scusarsi. Pagai in fretta i miei biglietti e corsi per raggiungerlo.
«Ehi tu!» gli urlai, mentre era ancora di spalle e camminava in maniera dinoccolata fuori da Washington Park.
 
 
 
Justin
 
Sentii quella voce stridula chiamare e mi voltai per accertarmi che stesse davvero chiamando me. Chi volevo prendere in giro? C’eravamo solo io e lei a quell’ora di sera nel Washington Park. Mi sorprendeva che qualcuno avesse lasciato andare in giro una verginella come lei, tutta da sola.
«Parlo con te» chiarì, attaccandosi a me, che avevo ripreso a camminare. Mi voltai di sbieco, fermandomi. Aveva dei capelli ramati, che scendevano ordinatamente sul viso, lunghissimi. Se non avesse avuto quella voce insopportabile e l’aria risentita, sarebbe stata anche carina. Mi diedi una scossa, pensando che dovevo liberarmi in fretta di quella piattola.
«Sei stato molto scortese, prima» esclamò, incrociando le braccia al petto e quasi mettendo il broncio. La squadrai, avrà avuto la mia età, su per giù, perché si stava comportando come una mocciosetta davvero non lo capivo. E soprattutto, perché lo stava facendo con me? La ignorai del tutto e ripresi a camminare verso il mio Gilera.
«Potevi almeno scusarti» mi urlò e la voce mi arrivò un po’ lontana: non doveva più starmi seguendo, benedissi. Mi frizionai un po’ le mani e afferrai il manubrio, montando su. Quando mi girai la vidi ancora lì, a qualche metro di distanza, che si stringeva nel suo golf e si guardava intorno come un pesce fuor d’acqua. Aspettava qualcuno? Beh, non vedevo perché dovesse interessarmi, così diedi qualche pedalata e cominciai a muovermi nella sua direzione, per raggiungere l’ingresso del Washington Park. Le passai di fianco e mi rivolse un’occhiata nera. Era buffissima ed io non avevo poi così fretta, così fui tentato di fermarmi.
 
«Hai intenzione di tenermi il broncio ancora per molto?» risi. Per tutta risposta lei si voltò dall’altra parte e i suoi capelli la seguirono, subito dopo, frusciando sulla sua schiena. Voleva giocare a fare la dura, adesso. Non potei trattenermi dal ridere.
«Si può sapere cos'hai da ridere?» tornò a guardarmi, accigliata.
«Mi chiedevo cosa ci facesse una come te a quest’ora nel parco» dissi piano, ancora ridendo.
«N-non sono affari tuoi» balbettò. Cercava di darsi un tono e riusciva solo ad essere più buffa. E poi chi l’aveva vestita, sua nonna? Un vestito verde vomito la copriva fino alle ginocchia.
«Hai ragione…» mormorai e la vidi distogliere lo sguardo, quando si fu accorta che le fissavo le gambe. Temevo che sarebbe andata in iperventilazione, a giudicare dal suo viso rosso come un peperone.
«Beh, io ti saluto» feci per andarmene.
«Dov’è la fermata dei taxi in questo dannato posto?» a quelle sue parole mi bloccai e la fissai incredulo.
«Credi davvero di trovare un taxi a quest’ora nello Slope?» le dissi scettico, ma lei non rispose, piuttosto strabuzzò gli occhi. Non doveva sapere nemmeno dove fosse.
 
 
 
Lana
 
Di cosa parlava quel tipo? Uno ‘slope’? Io volevo solo un taxi che mi riportasse a Manhattan. Non avevo realizzato che si fosse fatto così tardi. Guardai il buio che era calato attorno a noi e tirai su i bordi del golf per controllare l’orologio: le otto di sera, i miei erano tornati a casa da un pezzo. Boccheggiai, non riuscendo a credere di essere stata così sbadata. Ero scettica sul fatto che Joshua se la fosse cavata così bene, da convincere i miei a non chiamarmi per la cena. Avrei dovuto telefonare, inventare una scusa. Stavo per chiedere a quel ragazzo se ci fosse un telefono nelle vicinanze, ma notai che fissava con gli occhi i fuori dalle orbite il mio orologio svizzero. In un baleno mi nascosi i polsi dietro la schiena.
 
«Tranquilla, non sono un ladro» esclamò offeso, spostando il suo sguardo da me al suo… Un ciclomotore, cribbio. Non ne avevo visto uno prima, se non in pubblicità. A Manhattan tutti si spostavano in auto e per la maggior parte, scarrozzati dall’autista. Era raro anche che qualcuno prendesse la metropolitana. “Non sono un ladro”, aveva detto. “Tranquilla”, aveva detto. E come potevo esserlo? Non si raccontavano belle storie su Brooklyn, dalle mie parti. Cominciai a tremare come una foglia, per la paura che fosse un serial killer, che mi avrebbe ucciso per poi gettare il mio corpo nel laghetto del Washington Park. Immaginavo già le testate dei giornali: ‘giovane ragazza di Manhattan trovata uccisa nel centro di Brooklyn’ e, sotto, ‘voleva solo provare il brivido della trasgressione’. Ad ogni modo, se non mi avesse ucciso lui, lo avrebbero di sicuro fatto i miei genitori, una volta a casa.
 
«Ti conviene spostarti da qui, comunque» si guardò intorno, nella penombra di quel parco, rischiarato solo da qualche lampione «non è un bel posto dello Slope in cui farsi trovare di sera» spiegò. Anche il botteghino aveva ormai chiuso e non sentivo alcuna voce in quello spiazzo deserto. Presi a guardarmi intorno, terrorizzata all’idea che qualcuno potesse tendermi un agguato. Lo sentii ridere.
«Slope?» decisi di chiedere.
«Lo Slope, Park Slope, è il quartiere in cui sei» mi rispose, con fare ovvio. Dovevo proprio avere una faccia inebetita, perché spalancò le braccia mentre diceva: «Andiamo, lo Slope! Se non pende non è lo Slope» ammiccò, ma ben presto assunse un’aria sconsolata, perché capì che non avevo idea di che cosa stesse parlando. «Non sei di queste parti, eh?»

 
«E io come torno a casa adesso?» piagnucolai, in preda alla disperazione. Sentivo il cuore nel petto battere all’impazzata, le gambe mi erano diventate molli dalla paura e le mie ginocchia tremavano.
«Problemi tuoi» mi scimmiottò. Aveva davvero una faccia da schiaffi, gli avrei suonato quattro sberle, se non fosse stato più alto di me e decisamente più grosso.
«Guarda che è soltanto colpa tua» inveii.
«Mia?» mi fissò, ridendo forte, tanto doveva trovare stupido quello che gli avevo detto.
«Sì, tua. Se non mi avessi fatto perdere tempo con i biglietti»  
«Saresti ancora a bisticciare al botteghino» m’interruppe, sogghignando. «Per venti dollari, poi..» aggiunse con un tono più basso, scuotendo piano la testa, mentre se ne stava ancora seduto sul suo ciclomotore, con un piede piantato a terra per reggersi.  Che triviale. Lo guardai accigliata, col solo risultato di suscitare in lui un’altra risata.
 
«Beh adesso devo proprio andare, buona fortuna…» corrugò la fronte, come se stesse davvero cercando di ricordare il mio nome, quando in realtà non ci eravamo mai presentati.
«Sono Lana» gli tesi la mano, che lui lasciò penzolare nel vuoto.
«Sei di Manhattan, vero?» fece correre uno sguardo sprezzante lungo la mia sagoma. Continuava a fissarmi con quel ghigno stampato in faccia e, quando capii che non avrebbe stretto la mia mano, la ritirai, imbarazzata. Quel tipo mi dava ai nervi.
«Sì» risposi seccata. Per tutta riposta lui annuì, come se stesse seguendo il filo di un discorso interiore e senza altre parole se ne andò, lasciandomi lì. Potevo sentire il cigolare delle sue ruote sul ciottolato e lo seguii con la coda dell’occhio, fino a vederlo sparire dietro il muro di cinta. Quando realizzai di essere rimasta da sola in quel parco deserto, sentii il gelo paralizzarmi gli arti. Provai a muovere un passo verso destra, ma mi scontrai contro una pietra più grande delle altre e le dita dei miei piedi mandarono un lancinante dolore.
«Dannazione» imprecai a bassa voce. Mossi alcuni passi in avanti e fui felice di non trovare alcun ostacolo lungo il percorso.
 
«Aaaaah» strillai quando sentii qualcosa di viscido strisciare lungo il mio piede. Scalciai con forza, dando piccoli saltelli. Sarei morta giovane, me lo sentivo. Giurai di aver udito una risata, ma dovevo avere le allucinazioni, perché non c’era nessuno oltre me. Beh, me e qualsiasi cosa fosse stato quel viscidume che mi si era attaccato sul piede.
«Dovrebbero falciarlo il prato» borbottai, rabbrividendo al pensiero di quanti esserini microscopici dovessero star strisciando sotto le mie suole in quel momento.
«Non siamo mica a Central Park qui» esclamò d’un tratto una voce che aveva nel tono una saccenza non sconosciuta. Mi voltai a destra e poi a sinistra, tremando convulsamente, e non riuscendo a vedere nessuno. Avrei giurato che fosse ancora quel ragazzo, ma adesso stavo morendo dalla paura perché non riuscivo a capire chi avesse parlato. Il sangue mi si gelò nelle vene.
«Yuhuu, quassù» mi urlò la stessa voce di prima. Spostai istintivamente gli occhi al muro di cinta e fu così che, illuminato dalla luce dei lampioni d’intorno, lo vidi. Era il biondo di poco prima e se ne stava appollaiato sul cornicione, con le gambe incrociate e fumare una sigaretta, cacciando nuvolette e sorridendo. Anzi, ridendo e di me, chiaramente. Doveva aver assistito a tutta la scena ed evidentemente se la stava spassando, rinunciando a levare le tende, come aveva promesso.
«Credevo avessi fretta» cercai di suonare dura. Lui continuò a sfumacchiare, così m’incamminai verso l’uscita. Sentivo i suoi occhi addosso, per cui accelerai un po’ il passo per averlo di spalle. Non volevo essere costretta a guardare oltre quel suo ghigno irridente. Quando fui fuori, le luci dei lampioni erano meno rade e riuscivo a scorgere chiaramente quello che mi stava davanti, cioè niente, il nulla più assoluto, all’infuori delle auto parcheggiate e delle case senza tende, da cui riuscivo a scorgere allegre famigliole, riunite attorno ai tavoli. Dalla finestra di un secondo piano seguii i fotogrammi del Dick Cavett Show: quanto avrei pagato per poter essere a casa, sul mio comodo divano, col profumo della cena dalla cucina e le battute di Dick a far ridere mio padre. Invece ero sul marciapiede a fissare luna strada vuota. 
«Potresti fare l’autostop» parlò ancora con quella sua voce insopportabile.
«Potresti farti gli affari tuoi» rilanciai acida.Se anche avessi avuto il coraggio di farlo, probabilmente sarebbero passate delle ore, prima che qualcuno avesse scorto il mio pollice in su. I miei avrebbero di sicuro già chiamato la polizia, l’FBI e anche l’esercito, a quel punto. Probabilmente lo avevano già fatto, del resto.
 Con un balzo si calò giù dal muro di cinta, attutendo il colpo sui suoi polpacci. Ahimè, non s’era spiaccicato al suolo.
«Hai ragione, potrei…» disse, mentre risaliva sul suo ciclomotore. Mi rivolse un’ultima occhiata divertita e poi cominciò a pedalare nella direzione opposta alla mia, ma molto lentamente e fischiettando. Ora che non dovevo più preoccuparmi di quello scocciatore, avrei dovuto, ad ogni costo, trovare il modo di tornare a casa e farlo alla svelta, anche. Mi frizionai un po’ le braccia, continuando a dare scatti a destra e manca, per la paura. Magari se avessi camminato, tra qualche isolato avrei potuto incrociare l’ingresso della metropolitana. Deglutii forte, al solo pensiero e per un secondo setacciai la strada: il biondo, con il suo sgangherato ciclomotore, si stava avvicinando all’angolo. Ingoiai il mio groppo in gola ed  infilai le dita alla cieca nel portamonete, ne perlustrai il fondo a tentoni: vuoto, neppure un penny m’era rimasto per comprare il biglietto. Maledissi quel lapidario del botteghino che non aveva voluto applicare la riduzione al biglietto.
 
 
Strinsi gli occhi, respirando profondamente e convincendomi che era una buona idea, se non altra l’unica che mi fosse rimasta. Corsi verso di lui e quando fui a qualche palmo di distanza dissi: «Mi daresti un passaggio?»

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Capitolo 3
*** Park Avenue ***


Capitolo 2- Park Avenue
 
Justin
 
Mi voltai sbigottito e la vidi inerme, con le braccia penzoloni lungo i fianchi. Si mordeva il labbro, tuttavia. Quella arrendevolezza doveva starle costando caro e questo mi divertì anche di più.
«Come, scusa?» sillabai con tono malizioso.
«Mi chiedevo, ecco io..» teneva gli occhi bassi, mentre si torturava la punta delle dita. «Non mi è rimasto neppure un soldo per prendere la metropolitana» si giustificò.
«Credevo che i soldi fossero l’ultimo dei tuoi problemi» chiosai velenosamente. D’un tratto vidi lo sguardo rabbonito che aveva avuto negli ultimi minuti, lasciare il posto ad uno accigliato, con un guizzo d’orgoglio.
«Ci ho ripensato, seguirò il tuo consiglio e farò l’autostop!» sbuffò senza più nascondere l’antipatia che nutriva per me. Girò i tacchi e si incamminò con fare sicuro, tenendo sollevato il pollice. Mentre la guardavo scrutare a destra e a manca, con gli occhi lucidi di paura, sentii un rombo seguito da una frenata brusca. Strabuzzò gli occhi ed io insieme a lei, quando, nella macchina che le aveva inchiodato proprio di fronte, vidi un portoricano con lunghi baffi neri.
«Ehi bocconcino bianco, dove vuoi che ti porti?» biascicò lascivamente.
La vidi sussultare, squittendo per la paura, e mentre ancora teneva una mano sul petto annaspò nel tentativo di rispondere qualcosa, ma non emise un fiato.
Mi stavo rammaricando di aver indugiato tanto a lungo in quella storia: una tipa come lei in un posto del genere era una calamita per i guai. Guai in cui adesso mi trovavo invischiato fino al collo, perché al portoricano non era sfuggito lo sguardo supplichevole con cui mi stava chiedendo aiuto in silenzio.
«E quello chi è? Il tuo ragazzo, bellezza?» ghignò, lanciandomi un’occhiataccia dallo specchietto della sua Riveira.
«Esatto, e farai meglio a girare a largo se non vuoi il mio pugno nella tua bocca» dissi, riuscendo a spacciare l’audacia per coraggio. Ma quando avvertii il ‘clic’ della sua portiera, d’un tratto il mio talento per la recitazione si dileguò. Aveva già messo un piede fuori dalla macchina, quando una sirena della polizia echeggiò a pochi isolati di distanza. Dovevo essermi avanzato un briciolo di provvidenza, quella sera, perché l’energumeno rientrò in auto in men che non si dica e ripartì tanto velocemente da lasciare un polverone dietro di lui. Quando la nebbia si fu diradata guardai in direzione di quella ragazza e sospirai «Fiuu, c’è mancato poco!»
Lei però non sembrava granchè sollevata, tremava come una foglia e giurai che era sul punto di mettersi a piangere. Grandioso, pensai, se c’è una cosa che proprio non sopporto è veder frignare una ragazza.
Mi avvicinai a lei col mio Gilera «Monta su, ragazzina, ho avuto già abbastanza guai stasera per colpa tua» le feci cenno col capo di salire dietro di me. Ma lei restò immobile, guardandomi con tanto d’occhi. I capelli le si erano increspati alla radice, non avrei saputo dire se per l’umidità o la paura, e aveva la pelle d’oca.
«Avanti, non abbiamo tutta la notte prima che arrivi un altro portoricano e non è detto che la pula ci salvi il culo ancora» scherzai, provando a rassicurarla. Le feci spazio sulla sella e lei vi salì, tentando goffamente di abbassarsi il vestito sulle gambe che si scoprirono un po’. Mi soffermai sulla sua pelle diafana, ma dall’aspetto molto morbido, prima di notare che era diventata rossa per l’imbarazzo.
«ti conviene reggerti» suggerii.
Portò incerta le mani attorno al mio busto, intrecciando timidamente le dita. Disse solo «Park Avenue, 7»
 
 
 
 
 
 
 
Lana
 
Avevo ormai a rinunciato a tenere al loro posto le pieghe del mio vestito. Il vento continuava a gonfiarle e lanciava sferzate contro le mie gambe. Mi sarei di certo beccata un raffreddore. Soltanto le mani erano ancora calde, o meglio ribollivano a contatto con quel corpo sconosciuto, sebbene ci separassero strati di maglia.
Tenevo gli occhi ridotti a due fessure, per via del vento che mi faceva lacrimare, così non avrei saputo dire dove eravamo adesso. Mi sembrava fossimo ormai in corsa da ore.
D’un tratto il borbottio stramazzò e sentii il cigolio dei freni più distinto.
«Se hai intenzione di passare così tutta la notte, sarà meglio cambiare posizione, non trovi?»
la sua voce mi riportò alla realtà. Aprii cautamente gli occhi e riconobbi i marciapiedi familiari, le utilitarie parcheggiate con cura. sperai di non riconoscere nessuno che conoscessi tra i padri di famiglia che portavano a spasso i loro cani. In quel momento, soprattutto, desideravo ritardare più a lungo possibile l’incontro con mio padre.
«Elizabeth Woolridge» proprio in quell’istante la sua voce tuonò come un castigo dall’alto del portone del nostro palazzo. Mia madre se ne stava un po’ nascosta, nella sua vestaglia di seta italiana, dietro la figura tornita e irata di mio padre, che si stava avvicinando a grandi falcate verso di noi.
«Caro, cerca di mantenere la calma, i vicini ci guardano..» lo supplicò mia madre.
«M’importa un fico dei vicini» tuonò quando fummo a una spanna di distanza. «Come hai potuto disobbedire in questo mondo? Stavamo per telefonare alla polizia. Hai idea di cosa significa non trovare la propria figlia nella sua stanza e non sapere dove sia e soprattutto con chi…» si arrestò un attimo guardando oltre la mia spalla. Solo allora mi ricordai del ragazzo che mi aveva accompagnata a casa e non potei fare a meno di pensare quanto lo stesse divertendo assistere a quella sonora ramanzina.
«Oh, lasci che le spieghi signor Woolridge» la sua voce gonfia di sarcasmo prometteva di far innervosire mio padre anche di più e le sue spiegazioni non mi avrebbero ridotto la pena.
«Io non volevo riaccompagnare sua figlia a casa, ma si dà il caso che non le fosse rimasto altro rimedio, perché vede..» lo interruppi, prima che potesse cacciarmi in guai più grossi.
«Ti spiegherò tutto una volta a casa papà, ti prego andiamo..» posai delicatamente una mano sul suo braccio.
«Grazie per l’aiuto!» ringhiai con un filo di voce contro il biondino. La sua faccia si rabbuiò e mi ricambiò un’occhiata truce.
«Avrei dovuto darti in pasto al portoricano.. » sputò.
Senza degnarmi di uno sguardo, accese il suo motore e lo guardai sparire oltre la collina. Quando mi voltai a guardare i miei genitori, il rombo del suo ciclomotore non si sentiva neanche più, ma era palpabile la tensione.
 
 
 
 
«e puoi anche scordarti il ballo di fine anno» fu quella lo conclusione del discorso di mio padre, che mi tenne inchiodata per quasi un’ora al divano, ripetendo quanto fossi stata incosciente ad avventurarmi in una zona sconosciuta e così pericolosa della città. Anche se apprezzava la mia generosità nei confronti di Joshua, non poteva lasciare impunita la mia sortita. Niente telefono per un mese e non avrei messo piede fuori casa se non per recarmi a scuola.
Quando finalmente si decisero a mandarmi a letto, ero stremata. Andai di filato in camera mia.
«L’hai fatta davvero grossa!» ridacchiò mia sorella.
«Sta zitta, Daisy» sbuffai. Tirai fuori la mia camicia di lino da un cassetto e mi trascinai in bagno, seguita da mia sorella che sgambettava dietro di me.
«Avanti Lana, racconta, com’è Brooklyn? E’ davvero un postaccio come dicono?» era trepidante di curiosità.
«Non ti dirò proprio niente, Daisy. Sono stanca morta e voglio solo andare a dormire» usai un tono che non ammetteva repliche, ma Daisy era un osso duro.
«Oh andiamo, che vantaggio c’è ad avere una sorella maggiore se poi non ti racconta niente?» piagnucolò sull’uscio del bagno.
«Facciamo così, se tu prometti di coprirmi con mamma e papà quando vorrò usare il telefono, io domani ti racconterò tutto» le proposi.
«Puoi contare su di me, sorella!» mi fece un occhiolino strambo e finalmente potei infilarmi in bagno.
 
 
 
La doccia calda aveva mandato via parte della mia frustrazione, ma quando poggiai la testa sul cuscino fresco di pulito, ci misi un po’ ad addormentarmi. La mia mente era un vortice di pensieri, strozzati sul nascere dal nervoso. E pensare che era tutta colpa di quell’arrogante, di quel triviale, di.. solo allora mi resi conto di non sapere neppure il suo nome.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
  
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 4
*** Good Vibes ***


Capitolo 4- Good Vibes
 
Justin
 
«Questa è Radio Caroline in 199, la stazione musicale della vostra musica tutto il giorno»
La voce gracchiante di Johnnie Walke mi svegliò. Ficcai la testa sotto al cuscino, reticente più del solito a lasciare il letto. Mi crogiolai tra le veglia e il sonno per qualche minuto, prima che i Rolling Stones iniziassero a sintonizzare la mia giornata sul ritmo giusto.  
 
You can't always get what you want
You can't always get what you want
You can't always get what you want
But if you try sometimes well you might find
You get what you need
 
Un’esplosine di suoni mi accompagnò giù di branda, fino al bagno. Picchetai contro la porta e la risposta di mia sorella Jazmyn arrivò un po’ sommessa «Smamma, Jay! Sono arrivata prima io stamattina» brontolò impertinente.
«Avanti Jazzy, farò tardi al lavoro» bussai più veementemente alla porta e per tutta risposta quell’arpia mi fece scivolare lo spazzolino da denti sotto l’uscio. Sconfitto, ciabattai al piano di sotto.
«’Giorno ma’» biascicai con la bocca arsa dalla notte. Mio fratello Jaxon se la stava spassando a guardare i suoi cereali galleggiare nella tazza, aspettando che andassero a picco per poi esclamare «ne abbiamo perso un altro, roger!»
Gli arruffai i capelli con la mano, prima di farmi spazio al tinello.
«Jaxon piantala di giocare col cibo e Jay, per amor del cielo, cosa stai facendo?» mia madre mi rivolgeva uno sguardo a metà strada tra il basito e il disperato, mentre mi guardava lavarmi i denti dove poco prima stava lo stufato.
«E’ con tua figlia che devi lamentarti di questo» mugolai con la bocca piena di pasta dentifricia.
«Accompagni tuo fratello a scuola, oggi? Io ho… un impegno» cacciò furtivamente un post-it con un indirizzo nella sua borsa. Quella punta vaga nel suo tono di voce mi confuse, ma annui senza farmi troppe domande, perché di primo mattino il cervello era come un motore ancora freddo. La musica era il mio solo carburante.
«Justin potresti piantarla di mettere la radio così alta tutte le sante mattine?» mio padre non celò neppure stavolta il suo disappunto. Odiava la musica che ascoltavo, odiava il mio lavoro e che avessi scelto di non continuare gli studi.
Ma quello che mio padre non sapeva era che non sempre si può avere quello che si vuole, ma se avesse dato retta ai Rolling Stones, quella mattina, forse avrebbe trovato quello che cercava.
 
 
Lana
 
Qualosa di ruvido e rasposo mi leccava la faccia, quando aprii gli occhi quella mattina.
«Beethoven!» sorrisi, con le palpebre ancora socchiuse, al nostro San Bernardo.
«Su Lana, in piedi, altrimenti ci perderemo la trasmissione della mattina» Daisy fece capolino ai piedi del mio letto, nella sua camicia da notte rosa. I suoi occhi verdi, così simili ai miei, erano più che arzilli, mentre i miei dovevano essere lividi e violacei, per quanto poco avevo dormito.
«Fa’ piano Daisy, a mamma e papà manca solo di scoprire che ti faccio ascoltare una radio pirata per convincerli a spedirmi in collegio»
Abbandonai il letto per raggiungere la radio. Regolai il volume al minimo, prima di sintonizzarmi su Radio Caroline. Si udì un gracchiare indistinto e poi uno degli ultimi pezzi dei Rolling Stones cominciò a suonare.
Da quando Pauline mi aveva spifferato la frequenza, io e Daisy ci preparavamo tutte le mattine alla colazione con quella musica proibita, la musica del diavolo, come la chiamava mio padre. Ogni volta che ascoltavo quelle note, arrangiate in melodie del tutto nuove e così audaci, un brivido mi saliva lungo la schiena. Lasciai andare la testa all’indietro, mentre infilavo la mia gonna scozzese. Mi ero fatta insegnare qualche passo di danza da Pauline e cercavo di imitarli mentre chiudevo i bottoni della mia camicia fino all’ultimo. Il fiocco, d’un blu sciapo, completò la mia divisa.
«Signorine, vostra madre vi sta aspettando per la colazione» la voce di Dorothy ci fece sussultare entrambe. Daisy si affrettò a spegnere la radio, mentre io racimolavo alcuni dei miei libri per le lezioni.
 
Più tardi, mentre andavo mogia giù per le scale, continuavo a ripensare allo sguardo deluso che mio padre mi aveva rivolto per tutta la colazione, spalleggiato dal tono scostante di mia madre. I miei genitori avevano il potere di farmi sentire un verme. Avevano riposto le loro più grandi aspettative su di me, da quando mio fratello Nate aveva deciso di non frequentare Yale, come generazioni di maschi in casa Woolridge, ma darsi piuttosto alla giornalismo. Si era trasferito nel Queens, dopo una brusca litigata con mio padre, in cui lo aveva minacciato di diseredarlo se non avesse seguito ‘la tradizione di famiglia’. Non lo vedevo ormai da settimane, ma speravo che invitarlo alla partita insieme a mio padre, a loro insaputa, avrebbe potuto riavvicinarli.  
Quando finalmente fui in strada, presi un profondo respiro e l’aria fresca sul viso mi fece sentire un po’ meglio.
«Ehi bellezza» una voce camuffatamene roca mi fece sussultare e prima che potessi voltarmi, Pauline mi aveva preso sotto braccio sghignazzando.
«Mi hai fatto prendere un colpo!» piagnucolai.
«Dove ti eri cacciata ieri? Ho provato a telefonarti tutto il pomeriggio»
«Pauline, ho fatto la cosa più stupida che potessi pensare» mi morsi le labbra, contrita.
«Non dirmi che tuo padre ha scoperto la mia copia di Bob Dylan sotto al letto e te l’ha sequestrata» le labbra sottili di Pauline quasi sibilarono.
«No, molto, molto peggio…» così presi a raccontarle di come ero arrivata fino a Brooklyn, di quello che mi era successo al botteghino, ma esitai quando fu il momento di raccontarle il mio insolito incontro.
«Beh, allora? Stavi per prendere il biglietto quando? Cosa è successo?» m’incalzò, del tutto rapita dalla mia storia e scommetto anche un po’ invidiosa.
«Insomma, si è avvicinato questo ragazzo.. Avresti dovuto vederlo, Pauline, un arrogante e un prepotente» sciorinai tutta la mia frustrazione, mentre ci recavamo a scuola. Pauline m’interrompeva di tanto per farmi domande sul colore dei suoi capelli, sul suo aspetto e i suoi vestiti. Stavo quasi per lamentarmi a viso aperto del fatto che prestasse più importanza a quel malfattore che a me, quando mi scontrai contro un petto alto e largo.
Christopher Bale, la mia cotta sin dai primi anni di scuola. Frequentava la St.Jude School, la scuola maschile che era proprio accanto alla nostra.
«Scusami, non ti ho vista» mi sorrise distrattamente, ma prima che trovassi il coraggio di racimolare un paio di sillabe con cui ricambiare, lo vidi sporgersi oltre la mia spalla, come se cercasse qualcuno.
«Andiamo via» Pauline quasi mi strattonò, ma non potè impedirmi di vedere con la coda dell’occhio Charlotte Palmer, mentre sorrideva a Chris, in tutta la sua radiosa figura.
Pauline mi prese per mano e mi sorrise, facendo spallucce, e io fui grata, se non di possedere quelle cosce lunghe e due occhi da cerbiatta, almeno la migliore amica che potessi desiderare.
«Non è poi un peccato che tu ti perda il ballo, in fondo non voglio andarci neppure io»
Pauline aveva sempre detestato la formalità della nostra scuola, la Constance, il fiore all’occhiello delle scuole femminili dell’Upper East Side. Credo che questa fosse l’ingrediente del suo carattere che preferivo, la sua assoluta autenticità. Era sempre alla ricerca di esperienze nuove, di emozioni vere e non si accontentava di quelli che lei definiva “surrogati di ormoni”, i nostri compagni di scuola.
Io invece non ero mai stata né carne né pesce. L’inesplorato mi attirava come una calamita, ma avevo troppa paura di tradire il mondo che conoscevo e nel quale avevo imparato a nuotare, in un modo o nell’altro, per poter seguire Pauline nelle sue avventure senza riserve.  
 
 
 
 
 
Justin
 
«Siamo arrivati Jaxo, comportati bene e non farti mettere i piedi in testa da quelli più grandi» mi raccomandai, lasciando scivolare la sua mano dalla mia.
«Agli ordini!» mimò un “attenti” e lo vidi sparire tra la folla di ragazzi.
Proseguivo verso il Good Vibes, sbadigliando, quando incontrai Chaz.
«Amico, che fine hai fatto ieri sera? Ti aspettavamo tutti al Fifty-five» mi affiancò col suo Gilera giallo.
«Dammi uno strappo al negozio, che te lo raconto»
 
Gli dissi di quella borghesotta inviperita, che mi aveva incastrato e di quel rottinculo di suo padre, che le aveva piantato una scenata per essersi allontanata dal suo recinto.
«Doveva essere una vera suora!» sghignazzò Chaz.
«Puoi dirlo, amico!»
 
La grande insegna Good Vibes cadeva a pezzi, ma nonostante il suo aspetto il nostro negozio era una vera chicca. Potevi trovarci qualsiasi cosa e mi facevo sempre in quattro perché avessimo l’esclusiva sulle nuove uscite. Tirai su la saracinesca e l’odore dei vinili mi diede il suo bentornato.
«L’importante è che tu sia riuscito a procurarti il biglietto per la finale, sarà la partita della storia!» Chaz era un tifoso sfegatato almeno quanto me.
«Cosa ci fa questo fannullone nel mio negozio?» Larry, con un caffè in una mano e uno in un’altra, sorrise a me e a Chaz.
«Ha ragione, amico, faresti meglio ad andare in officina. Tuo fratello non deve essere stato troppo contento che tu gli abbia fregato un auto, io non peggiorerei le cose» mi presi gioco di lui. Chaz sbuffò e ci guardò in malo modo, poi allungò una mano a prendere il caffè e se ne andò ghignando.
«Quel tipo è un vero un parassita» Larry scosse la testa. Risi sotto i baffi e misi su l’ultimo dei Beach Boys. Tra poco sarebbero arrivati i primi clienti.
 
 
 
 
Lana
 
Erano trascorsi i giorni dal mio colpo di testa e la tensione in casa si era alleggerita. Seduta alla mia scrivania, cercavo di mandare a memoria la trigonometria. Dopo aver aperto una parentesi tonda, non troppo sicura di cosa ci avessi messo dentro, la chiusi e accesi la radio.
Don't you want somebody to love
Don't you need somebody to love
Wouldn't you love somebody to love
You better find somebody to love, love

 
Il telefono squillò.
«Non devi forse dirmi qualcosa?» la voce di Pauline era una campana in festa.
«No, non mi pare..» la punzecchiai. «Buon compleanno, scema! Allora, come vuoi festeggiare?»
L’ultimo compleanno di Pauline lo avevamo festeggiato a Central Park, un picnic insieme a tutte le nostre compagne di scuola.
«Non ho nessuna intenzione di passare anche questo compleanno con quelle ringalluzzite delle nostre compagne» precisò Pauline. «Che ne dici di andare sulla Settima a comprare l’ultimo LP dei Jefferson Airplane?»
«Sono in punizione, ricordi?» era già una pena ricordarlo a me stessa.
«Non puoi chiedere ai tuoi di fare un’eccezione?» mi pregò.
«Vedo cosa posso fare..» riagganciai. Adoravo andare al negozio di dischi con Pauline, anche se non potevo acquistarne. Racimolai tutto il mio coraggio e raggiunsi mia madre, che sorseggiava il suo tè in salotto. Cercai di studiare la sua espressione, mentre se ne stava assorta nella lettura di Cime Tempestose, per capire se avesse o meno avuto una buona giornata. Il suo oroscopo, quella mattina, parlava di presagi astrali favorevoli. Decisi di tentare. «Mamma, so di essere in punizione, ma ecco, vedi.. Oggi è il compleanno di Pauline e mi chiedevo se potessi andare a dormire a casa sua.» chiusi gli occhi in attesa di una risposta.
«Lana, sai bene che Pauline non è una compagna che fa per te..»
«Ma è anche l’unica che ho!» obiettai.
«Beh, facciamo così, dato che devi allargare la tua cerchia, oggi potrai andare da Pauline se domani prometti di chiamare il nipote della signora Isabelle» mia madre sferrò il suo colpo. Sapeva essere una vera manipolatrice, governava benissimo l’arte del compromesso. La signora Isabelle era la mia insegnante di piano e canto, da tempo immemore. Una zitella, il cui unico obiettivo era ormai quello di combinare in matrimonio quel buon partito di suo nipote, studente di legge alla Yale, con qualcuna delle sue allieve.
Tentennai un po’, prima di accettare. La voglia di tuffare il naso tra i vinili e ascoltare a tutto volume la musica ebbe la meglio.
 
 
 
Io e Pauline seguimmo il declino della Quinta Strada e svoltammo un paio di volte fino a raggiungere la Settima e il Rockadilly, l’unico negozio di musica rock di tutta Manhattan.
La porta tintinnò al nostro ingresso e un branco di ragazzi, chini come talpe sugli scaffali, sollevò lo sguardo ispezionandoci. Eravamo abituate a quegli sguardi increduli, con molta probabilità io e la mia amica eravamo le uniche ragazze del quartiere a fare acquisti in quel posto.
«Avete l’ultimo dei Jefferson Airplane?» mentre mi godevo del buon folk che passava dagli altoparlanti, Pauline si era data da fare.
«Scherzi? Quel vinile è ancora introvabile!» il commesso guardò Pauline con derisione. Lei per tutta risposta gli voltò le spalle impettita e mi guardò con una punta di delusione negli occhi.
«Coff coff..» un ragazzo dai boccoli stretti e folti si schiarì la voce, annunciando di aver qualcosa da dire.
«In realtà ci sarebbe un posto dove potete trovare quel vinile, ma è un po’ lontano da qui» precisò.
«Quanto lontano?» chiese Pauline, contro ogni mia aspettativa.
«A Brooklyn, il Good Vibes» Pauline sembrò deglutire un rospo. Si girò lentamente dalla mia parte, guardandomi negli occhi con fare supplichevole.
«No, no, no e ancora no.» cominciai perentoria, mentre quel ragazzo ci guardava stranito. «Non se ne parla Pauline, devo forse ricordarti perché sono finita in punizione?» dovevo sembrare sul punto di dare di matto.
«Potrei accompagnarvi, non ci vuole molto..» quel ragazzo non aveva intenzione di aiutarmi.
«Abbiamo anche trovato un accompagnatore» sorrise maliziosamente Pauline. Si stava comportando da vera sconsiderata, quel tipo avrebbe potuto essere un malintenzionato e lei voleva dargli fiducia su due piedi.
«E se i miei genitori chiamassero a casa tua?» ero convinta di averla messa di fronte a un problema a cui non poteva aver soluzione.
«Ho già detto a Marie che saremmo andate in chiesa per una raccolta di beneficenza» ammiccò.
Quella ragazza sarebbe finita all’inferno.
Raggiugemmo insieme a James, quello era il suo nome, l’ingresso più vicino della metropolitana. Mi guardavo circospetta da ogni cosa. La metropolitana era un posto affollatissimo. Quella era la prima volta che ci viaggiavo, mentre Pauline l’aveva già presa per raggiungere Coney Island. James ci indicò quali biglietti comprare e quale ingresso imboccare.
Temevo di finire travolta da quell’orda di ventiquattrore e zaini da spalla, ma riuscimmo a raggiungere il binario con faciltà. Dopo qualche minuto arrivò il nostro treno, salimmo nel vagone meno affollato, su consiglio di James, che non faceva che parlare di musica.
«Secondo me i Beatles sono molto sopravvalutati, i Pink Floyd, loro sono la vera rivoluzione della musica, sono la nostra terra promessa, capite?» e giù di lì.
 
 
 
 
«Uah, siamo a Brooklyn!» squittì Pauline. Già, pensai, eccomi di nuovo qui. Due effrazioni in meno di una settimana, bel lavoro Lana!
«Facciamo quel che dobbiamo fare e torniamo a casa» la pregai, imbronciata. Ce l’avevo a morte con Pauline per avermi coinvolta in quella sua pazzia.
«Ecco il Good Vibes, vi saluto ragazze!»
«Ciao James e grazie!» Pauline sfoderò il suo miglior sorriso, poi mi afferrò la mano e disse «andiamo» eccitata come una bambina.
 
Quel posto era il paradiso, non era molto grande ma era stipato fino al soffitto di vinili. Ragazzi e ragazze parlavano tra di loro dei generi più svariati, delle interviste a qualche cantante famoso o dell’ultimo concerto a cui erano stati.
 
 
I can walk down the street, there's no one there
Though the pavements are one huge crowd
I can drive down the road; my eyes don't see
Though my mind wants to cry out loud

I, I, I, I feel free
I feel free
I feel free

 
Era esattamente così che mi stavo sentendo in quel momento. Respiravo il profumo di libertà misto a quello dei vinili, era un paradiso in terra. La punta graffiava sul pezzo, l’aria sembrava sorridere.
 
 
«Posso aiutarvi?» mi voltai e… il sorriso appassì in una smorfia.
«Cosa ci fai tu qui?» quel tono caustico lo conoscevo. SPAZIO AUTRICE Se c'è qualcuno, battete un colpo! Altrimenti smetto di parlare da sola :(
 

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