Reconfigurations

di Ias
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima di Lah’mu ***
Capitolo 2: *** Dopo Lah’mu ***



Capitolo 1
*** Prima di Lah’mu ***


Note della traduttrice (Hiraeth): mi ero detta “mai più long!” e invece. Sigh. Maledizione alla Galennic per essere una ship così meravigliosa. T__T
 Questa raccolta è una traduzione dei prompt fill di Ias pubblicati sul suo blog su Tumblr. Le singole storie sono tecnicamente slegate tra loro, ma con il consenso dell’autrice (che è un tesoro ♥) le pubblico in ordine cronologico, in modo tale da essere più o meno lette come se fossero un unico grande racconto; solo non stupitevi se tra una flashfic e l’altra ci sono cambi di stile o di tempo verbale.
 Non è necessario aver letto Catalyst per approcciarsi a questa fanfiction, anche se ovviamente consiglio caldamente di farlo per capire meglio le dinamiche tra Galen e Orson, il modo con cui sono passati dalle rose e fiori di quando erano migliori amici all’angst degli eventi di Rogue One. Ah, ne approfitto per invitarvi a firmare questa petizione promossa da Star Wars Libri & Comics: sostenete la pubblicazione dei romanzi canon di Star Wars in Italia!
 Detto questo, vi auguro buona lettura. Spero vi piaccia!











Reconfigurations
di Ias






I


La prima volta che posò gli occhi su Galen Erso, Orson Krennic si accorse a malapena della sua esistenza. Lui era capace di riconoscere chiunque esercitasse una certa influenza – o meglio, chiunque avesse genitori da cui in futuro avrebbe ereditato tale influenza – dal tessuto della camicia che indossava, dal modo con cui sollevava il mento e, naturalmente, dall’impeccabile accento dei Mondi Centrali. Galen Erso non possedeva nessuna di queste caratteristiche e, cosa peggiore, non mostrava alcun interesse nell’acquisirle. Orson desiderava il potere e rispettava l’ambizione. Quando gli fu chiaro che Galen Erso non provava alcun interesse per entrambe, tracciò mentalmente una linea sul nome del compagno di scuola dalla lista delle persone degne della sua attenzione. Per anni Orson avrebbe sorriso al ricordo di come avesse del tutto sottovalutato l’amico.

 La prima volta che vide la mente di Galen in azione fu durante un progetto di ingegneria. Era uno dei primi esami pratici che affrontavano e l’istruttore l’aveva reso impossibile per impartire loro una lezione. Con a disposizione solamente le informazioni alla lavagna e dei cavi, era stato loro richiesto di creare un dispositivo in grado di intercettare le trasmissioni non protette sull’HoloNet e di riprodurne una copia audio. Orson aveva saputo sin dal principio che quella era un’impresa per stupidi, ovvero impossibile in sostanza. Era molto più istruttivo osservare come reagivano i suoi compagni di classe, identificare coloro che avevano compreso subito che il compito non era fattibile e coloro che ci provavano comunque. Orson capiva chi era inutile in base al livello di sincero impegno che uno impiegava nel farcela. Studiando gli altri, un sorriso compiaciuto gli curvò le labbra.

 Ma ci fu uno studente che, anziché tuffarsi direttamente a capofitto nel metallo e nei fili, con calma prese in mano una penna e iniziò a scrivere. L’attenzione di Orson si indirizzò a lui, i movimenti ininterrotti e pensosi della mano lungo lo schermo del proprio datapad. Nonostante il limite di tempo, Galen non parve aver fretta. Dopo cinque minuti smise di scrivere, si voltò verso le sue parti e cominciò ad assemblarle.

 Finì di montare quel maledetto aggeggio esattamente un minuto prima che l’istruttore annunciasse la scadenza. Funzionava perfettamente. Quando udì le voci metalliche e tremolanti diffondersi nell’aria tesa della classe, Orson Krennic si rese conto di aver commesso un errore. Non gli capitava spesso che una consapevolezza simile lo eccitasse tanto profondamente.

 Il giorno dopo trovò Galen nella caffetteria, seduto da solo con un libro sollevato davanti a sé. Senza tante cerimonie, Orson si buttò e occupò il posto di fronte a Galen, e lo fissò fino a quando l'altro non notò la sua presenza.

 Galen batté le palpebre come se si fosse appena risvegliato da una trance. Abbassò leggermente il libro retto tra le dita. «Ti conosco?»

 Non c’era bisogno di sprecarsi in carinerie sociali con questo qui. A Orson la cosa non dispiacque. «Mi chiamo Orson Krennic» si presentò, un largo sorriso che si estese sulle sue labbra. «Sono un grande ammiratore del tuo lavoro».

 «Il mio lavoro..?» Galen batté nuovamente le palpebre. Un tic adorabile. «Ti sbagli. Sono solo uno studente, proprio come te».

 «Non mi sbaglio». Orson si protese in avanti, un sorriso cospiratorio sulle labbra. Per sua grande gioia, anche Galen inconsciamente si avvicinò. «Vedi, io vanto l’abilità di leggere le persone» proseguì Orson. «Più precisamente, io leggo il potenziale. E dopo quello che hai conseguito ieri al laboratorio, be’». Allungò una mano oltre il tavolo. «Diciamo che sono un ammiratore del lavoro che realizzerai».

 Per un momento Galen esitò, scrutando la mano di Orson come la linea punteggiata di un contratto che aveva scorto a stento. Ma poi la strinse. Il suo palmo era caldo e leggermente incallito. E tutt’a un tratto, Galen era di Orson.






II


«Posso badare a me stesso, Orson. Non c’è bisogno che tu balzi in mia difesa tutte le volte che qualcuno fa commenti sul mio accento».

 «Quelli lì avevano parecchio da ridire anche sul mio». Una fitta di dolore alle costole lo fece incespicare di nuovo. Senza esitare, Galen allungò un braccio e glielo avvolse intorno al busto. A Orson non pesò ingoiare il suo orgoglio e permettere a Galen di aiutarlo.

 «Non far finta di importartene di quello che pensano gli altri di te» ribatté Galen. «Una parte di te se la gode».

 «Qualcuno li deve rimettere al loro posto».

 Nell’approssimarsi alla porta, Galen scosse la testa con un sospiro. «Scoprirai che lo studio comporta maggiori vantaggi rispetto ai tuoi tentativi di scalare la gerarchia sociale a forza di scazzottate».

 Orson sbuffò. «Il prestigio non è l’unica cosa che mi interessa. Dovresti saperlo». Galen mollò la presa sull’amico per agitare la mano davanti ai sensori della porta, e Orson entrò nella stanza senza perdere il filo dei suoi pensieri. «L’intelligenza non conta nulla se non hai potere» continuò, dirigendosi verso il divano di Galen e sdraiandovisi sopra. Non appena si mise in una posizione appena appena orizzontale, i suoi muscoli ricominciarono a pulsare.

 Per qualche secondo Galen si aggirò per gli armadietti dei farmaci, la voce soffocata. «Così come il potere è inutile senza la conoscenza». Quando raddrizzò la schiena e si girò, Orson vide che teneva in mano un pacchetto di batuffoli di cotone e il tubetto di un qualche medicinale.

 Lo occhieggiò aspramente. «Sul serio, Galen?»

 «Non lamentartene» lo rimbeccò severamente l’altro. «La tua faccia sembra una pietanza che servirebbero per cena».

 Ruotare gli occhi gli procurò una seconda fitta di dolore e Galen si sistemò accanto a Orson sul divano. «La tua è preoccupazione per il mio benessere? O forse mi vuoi qui con te perché sono un bel vedere?»

 «Ho sempre amato una causa persa».






III


«Allora, Galen» lo approcciò uno dei tanti esponenti dell’alta società venuti alla festa. Notando l’improvviso entusiasmo nel suo tono di voce, Galen si preparò mentalmente. «Dati i risultati promettenti che ha ottenuto con il suo lavoro sulla sintesi dei cristalli, uno non può fare a meno di domandarsi se lei al suo fianco abbia qualcuno con cui condividere il successo».

 «Abbiamo discorso circa le possibilità che il nostro genio elusivo si fosse trovato… come dire, un partner di laboratorio» rincarò qualcun altro volgendogli un sordido sorriso.

 Galen si costrinse a ritornarglielo e tentò di guadagnare tempo bevendo un lungo sorso del suo drink. Non riusciva a ricordare come avesse conosciuto le persone che lo attorniavano; teoricamente erano state suoi compagni di classe ai tempi del Programma Futuro della Repubblica, anche se quella poteva benissimo trattarsi di una bugia. Lo osservavano con occhi avidi, attendendo che facesse parola. Con un intorpidito senso di rassegnazione, Galen si chiese chi di loro avesse una sorella o un fratello o un collega che, ne erano certi, lui sarebbe stato lieto di frequentare, una volta scoperto se Galen fosse single o meno.

 Inghiottendo rigidamente il drink, elaborò la sua risposta.

 «Ah, Galen. Eccoti». Il suono della voce di Orson fu allo stesso tempo un sollievo e un ulteriore supplizio: nel momento in cui avrebbe capito l’argomento della conversazione, Galen sarebbe stato destinato a essere preso in giro per settimane. Tuttavia, quando l’altro si unì al gruppo, lui si accorse di essere cinto al busto da una mano ferma e decisamente non amichevole. Prima che potesse registrare quello che stava succedendo, avvertì le labbra di Orson sfiorargli la guancia.

 Fissò in preda a uno stato di shock assoluto l’amico, troppo stupefatto per ritrarsi o interrogarlo sulle sue intenzioni. Orson lo aveva baciato. Ancora percepiva la sensazione latente delle sue labbra sulla pelle, che sempre più si infiammava. Quello era Orson, giusto? Non uno strano doppelganger con un evidente desiderio di tenerlo risolutamente accanto a sé? Ma riconobbe negli occhi dell’ingegnere un familiare luccichio malizioso.

 «Orson?» disse, completamente sconcertato. «Che stai…»

 «Ti ho cercato dappertutto» si lamentò Orson. Con il pollice tracciò piccoli cerchi massaggiandogli il fianco, un minuscolo punto di unione talmente distraente da costringere Galen a limitarsi a scrutare irrazionalmente l’uomo nelle iridi. Il leggero colorito in faccia suggeriva che Orson era leggermente brillo, ma era improbabile che il suo comportamento fosse dovuto all’ebbrezza. Già più e più volte aveva visto Orson più ubriaco di così. E non era mai diventato tanto affettuoso.

 Orson notò le espressioni di sgranata sorpresa e di delizia lasciva attorno a se stesso e Galen, e sollevò un sopracciglio. «Non mi presenti ai tuoi amici?»

 Quando finalmente riuscirono a districarsi dall’interrogatorio collettivo, Galen cominciò a mettere in discussione il suo contatto con la realtà. Orson si era lanciato nella descrizione dell’elaborata storia del loro primo incontro, con abbastanza verità intersecate nel resoconto da far dubitare a Galen dei suoi stessi ricordi. Da quanto tempo stavano insieme? Lui non era nemmeno capace di inventarsi una bugia plausibile. Eppure Orson aveva ribattuto a ogni perplessità senz’alcuna esitazione, snocciolando una serie di aneddoti avvincenti e permettendo all’altro di intervenire il giusto numero di volte necessarie per evitare di apparire una statua inanimata. E quello non era stato tutto fumo: la mano poggiata sulla vita di Galen aveva vagato e gli aveva carezzato la nuca, giocato con i suoi capelli, ed era scivolata nuovamente in basso per tenerlo stretto a sé. A volte Orson si era avvicinato per bisbigliargli qualche sciocchezza nell’orecchio, in bella mostra e perché tutti li udissero.

 Mentre Orson prometteva a più di qualcuno di rivedersi per un tè e, allo stesso tempo, guidava con cortesia loro due via dalla folla, Galen aveva l’impressione che il suo cervello fosse stato strapazzato da un tagliacristalli.

 «Avvolgimi le spalle con un braccio» gli sussurrò nell’orecchio Orson intanto che camminavano, ancora avvinghiati l’uno all’altro. Galen deglutì con la gola secca. Ormai non aveva senso diffidare delle motivazioni dell’amico. Fece come gli venne chiesto, circondò con un braccio le spalle e posò il palmo sul fianco dell’altro. «Bene» dichiarò Orson. «Non serve dirmi grazie».

 «Grazie?»

 «Oh, prego» replicò Orson con un sorriso ironico. «Origliando ho capito che ti stavano di nuovo assillando con quelle stancanti domande. Ho pensato di risparmiarti l’onta dei loro progetti di accoppiamento».

 «È… gentile da parte tua» osservò Galen, incerto. Ancora avvertiva un bruciore nella zona della guancia dove era stato baciato, che ardeva come se fosse stata marchiata a fuoco.

 Si fermarono ai margini della sala, al che Orson lo lasciò andare. «Per il resto della notte non ti dovrai preoccupare di rifiutare appuntamenti con i parenti lontani altrui» constatò, acchiappando al volo un paio di drink da un vassoio che passava e porgendone uno a Galen. «Naturalmente, il prezzo da pagare è alto. Per qualche ora sarai costretto a fingere di non detestarmi».

 «Io non ti detesto» rispose Galen, prima di vuotare il contenuto del bicchiere nello stomaco. Con il piacevole brivido dell’alcool nelle vene, la situazione pareva molto più gestibile. Persino ridicola. L’indomani lui e Orson si sarebbero fatti due risate sulle pagliacciate combinate. Inconsciamente si toccò la guancia con le dita, come per strofinare via qualcosa che vi era rimasto attaccato.

 Il sommesso verso di disgusto che Orson emise lo riscosse dalle sue fantasticherie. «Hanno pescato l’ennesimo invitato da presentarci. Svelto, circondami il collo con le braccia».

 Questa volta non esitò. La pelle che spuntava dal colletto dell’abito di Orson era calda e leggermente sudata a causa della temperatura della stanza. Sui fianchi di Galen poggiavano le mani dell’amico. Senza che gli fosse suggerito, lui si protese in avanti, in modo da sfiorare l’orecchio di Orson con il naso. «Che stupido metodo per evitare di socializzare» commentò a bassa voce.

 Sul collo sentì il respiro della risata di Orson. «Ma non trovi che così sia più divertente?»

 Galen scorse con la coda dell’occhio i socialiti incombenti cambiare idea per non disturbarli. Malgrado il dietrofront, Orson lo cinse ulteriormente a sé, le mani strette sui fianchi. Per un po’ lui si fece pervadere dall’odore dell’acqua di colonia dell’altro, godette del calore che irradiava quel collo contro la sua guancia. «La gente continuerà a parlare» mormorò.

 Orson questa volta non rise. Alzò il mento per accostare la bocca all’orecchio di Galen, un calore morbido e vulnerabile.

 «Permettiglielo».






IV


Erano in un silenzio amichevole sul balcone. Galen sembrava perso tra i suoi pensieri mentre fissava la massa brulicante delle aerovie di Coruscant; Krennic fissava Galen. Dopo un po’, Krennic tese una mano in direzione dello spago intorno al collo di Galen che faceva capolino dal colletto, tirandolo gentilmente finché un pendente cadde dalla camicia di Galen. Krennic si rigirò il cristallo tra le dita, un sorrisino sulle labbra. «L’hai tenuto, sono commosso».

 Galen scrutò Krennic con la stessa attenzione che aveva riservato al profilo della città. Ancora non si era mosso di un passo per ritrarsi dal filo che li collegava, che gli attorniava il collo e che era in mano a Krennic. «Per me è importante».

 «Non credevo fossi sentimentale».

 «Non lo sono. Ma anch’io provo sentimenti, per quanto sconvolgente possa sembrare».

 Krennic lo squadrò, soppesando le parole. «Ti…» Si interruppe, scosse la testa, si morse la lingua in un angolo della bocca. «Ti trovo davvero impossibile».

 Galen sorrise e circondò con la mano il cristallo e le dita di Krennic che lo stringevano. «Lo so».






V


«Fa lo stesso» prosegue Krennic in tono piatto. Agita il bicchiere che ha in mano e guarda il liquore inarcarsi contro il vetro. «Sei giunto a questa scelta troppo precipitosamente».

 Seduto dall’altro lato del divano, Galen sorride. «Orson, la conosco da un anno».

 «Naturale. Un anno è più che sufficiente per stabilire come vuoi passare il resto della tua vita». Krennic beve un sorso per nascondere la curva sgradevole delle sue labbra. Galen ha dato via gli alcolici migliori che ha per annunciarglielo; tuttavia il loro sapore gli brucia la lingua come un veleno.

 Galen non nota la sua irritabilità. Si limita a scrollare le spalle, fissa il proprio drink con un sorriso sulle labbra. «È difficile spiegare perché sono tanto sicuro. Ma lo sono».

 «Eri sicuro che aumentare la temperatura dei cristalli avrebbe eliminato i problemi di risonanza».

 «L’amore non è una formula, Orson».

 «Oh, Galen, fammi il favore». Krennic si alza. Non riesce a resistere l’impulso di camminare su e giù. Si concede due passi in direzione della finestra e si blocca sul posto, puntando gli occhi sul tramonto artificiale riflesso sulle superfici dei palazzi di Coruscant. «Questa non è una decisione da prendere basandosi unicamente sulle emozioni. Ragionarci sopra è essenziale». È più facile parlare in maniera generale piuttosto che dire quello che pensa veramente. Ragiona. Non è questo che desideri.

 Una lunga pausa alle sue spalle. «Credevo che avresti gioito per me». La voce di Galen non è abbastanza sommessa da celare il senso di delusione che prova.

 Le dita di Krennic si serrano attorno al vetro. Una parte di sé si chiede se finirà per rompere il bicchiere; a un’altra, di minori dimensioni, piacerebbe frantumarlo. «Infatti sono felice» si costringe a ribattere. Il bagliore degli edifici lo acceca. Lui si lascia accecare. «Ma mi preoccupo per te».

 Sente Galen alzarsi e avvicinarglisi. Una mano calda si poggia sulla spalla di Krennic, la stringe. «Non ti allarmare» lo rassicura Galen. «Sarà una cosa meravigliosa. Per tutti noi».

 «Tutti noi» gli fa eco Krennic. Galen si allunga in avanti per fare un brindisi. È l’unica scusa di cui Krennic ha bisogno per vuotare il bicchiere.






VI


La notte trascorre lentamente e si consuma. Il divertimento di Galen a una festa è inversamente proporzionale al tempo che lui deve trascorrere alla suddetta festa. Lyra ancora lo prende in giro per essersi rifugiato nella relativa solitudine delle cucine durante il loro matrimonio. Ma ha sempre capito che gli obblighi sociali – e la gente in particolare – non sono il forte di suo marito. Gli amici di Lyra, in compenso, non sono altrettanto accomodanti.

 Adesso parlano tutti fitto fitto, conversano e ridono e bevono i loro drink mentre Galen prova a fare lo stesso. Qualche minuto fa Orson è sgattaiolato via nella folla per qualche missione clandestina, lasciando Galen a valutare i pro e i contro dell’imitarlo nella sua fuga.

 Dietro gli occhi, il suo mal di testa si intensifica. È tutto troppo illuminato, troppo rumoroso. Il suo drink si è ridotto ormai da tempo a una fanghiglia di ghiaccio mezzo sciolto e zucchero. Quando Orson ricompare al suo fianco con un cocktail fresco e una curva caustica sulle labbra, Galen gli restituisce il sorriso e inghiottisce in un sol sorso l’alcool.

 «Oh, amo questa canzone!» urla una delle amiche di Lyra – Paro, se non si sbaglia. È un segnale che gli è familiare. A Galen viene meno il cuore mentre si volta verso Lyra, pronto a patire l’ennesimo ballo. Ma Paro trascina sua moglie nel vortice rotante della pista da ballo, ridendo e facendo segno al resto del gruppo di seguirle. Galen si fa trasportare dalla massa.

 Mille facce gli mulinano accanto, sia quelle ignote che quelle conosciute, e lui prova a sua volta a sorridere a tutti loro quando gli prendono la mano o gli toccano il busto, volteggiando e volteggiando come le lame di un motore a turbina fino a sembrare una macchia indistinta di movimenti. Galen intravede Lyra che ride, tuttavia è strappata di nuovo via dalla moltitudine di silhouette. Il cuore gli batte forte nel petto mentre tenta di raggiungerla, ma lei è andata, fuori dal suo campo visivo. Avanza un passo nella sua direzione, goffo e fuori tempo. Viene spinto via da qualcuno. Incespica all’indietro sino a che non avverte una mano ferma che lo afferra.

 «Non sei granché in questo genere di situazioni».

 Agli occhi di Galen occorre un attimo per fissarsi sul viso che gli è di fronte: si attaccano a esso come ad un’ancora di salvezza, un punto di stabilità. «Orson» esclama, battendo le palpebre per scacciare via la confusione con scarso successo.

 Orson gli poggia le dita sul fianco. È solo dopo qualche secondo che Galen realizza che stanno danzando. O meglio, che Orson sta danzando con lui. Galen si limita a farsi condurre e cercare di non pestare tutti i piedi nelle sue vicinanze.

 «Avevi l’aria di uno che aveva bisogno di essere salvato» spiega Orson manovrando Galen e se stesso via dal punto più gremito della sala.

 «Era tanto ovvio?» Qui la calca è meno opprimente: Galen inizia a respirare con più facilità. È solo allora che si rende conto della stranezza, che Orson lo sta guidando attraverso tutto il salone: non con l’intento di scappare, ma di muoversi semplicemente al ritmo della musica, piano e senz’alcuna fretta.

 Non sono affatto la coppia più stravagante sulla pista: con tutta la moltitudine di colori e strutture e protuberanze aliene attorno a loro, il viso di Orson gli è familiare in maniera confortante. Eppure è in qualche modo bizzarro avere la mano stretta da Orson, la pressione delle dita intorno alla vita. Questa notte ha ballato con talmente tanti estranei da perdere il conto, ciononostante non è mai stato così nervoso come adesso, sebbene più di una volta si sia sentito uno stupido per esserlo. La faccia di Orson gli è più vicina di quanto è normalmente abituato. Può persino esaminare gli anelli più scuri che circondano le iridi di Orson, un muro costruito per contenere il blu acceso.

 È buffo riflettere su come Galen abbia visto quel volto cambiare. Ha osservato per anni la comparsa crescente di rughe. Lo sguardo di Orson è immobile – forse anche lui sta tratteggiando l’età sul viso di Galen.

 «È buona educazione chiacchierare con il proprio partner» rimarca Orson.

 Stavolta Galen non forza se stesso a sorridere. «Non è mai stata la mia specialità».

 «Ho notato». Il palmo di Orson è caldo e saldo. «Il tuo problema» prosegue, «è che conversando dai per scontato che sei tu quello a un passo indietro».

 «Se proprio dobbiamo parlare, insisto perché l’argomento riguardi tutto fuorché me» ribatte seccamente Galen.

 Le labbra di Orson si contraggono in un sorriso. «La gente vuole parlarti, Galen. Sei un uomo affascinante, a dispetto degli sforzi che compi per nasconderlo».

 Galen ride. «Hai mai considerato l’idea che, a differenza tua, non tutti mi trovino affascinante?»

 «Sai, no, in realtà». Il sorriso permane sulla bocca di Orson, ma Galen si accorge di un fremito – che quasi sparisce. Quando guarda Orson negli occhi non è sicuro di capire cos’ha davanti. Il blu opaco che lo scruta con un interrogativo che lui non riesce a comprendere, men che meno rispondere.

 La canzone finisce. Lui e Orson si separano.

 C’è qualcosa di curiosamente formale nei gesti di Orson adesso che si gira per squadrare il resto degli invitati. «Allora, dov’è Lyra?» domanda, apparentemente tra sé e sé, data la nota ironica nella sua voce che Galen non sa come classificare.

 La mano di Galen è ancora calda per la pressione delle dita di Orson. Fissa la folla e ignora l’impulso di toccarsi il palmo.

 «Andiamo a cercarla» suggerisce sommessamente Galen, e si immerge nuovamente nella massa.






VII


C’è sempre una festa a Coruscant. Questa volta la presenza degli Erso è tassativa.

 Il posto è decadente come Lyra si aspettava, con pavimenti scintillanti e colonne di pietra importata. Cammina al fianco di Galen e subito distingue dal contegno chi tra gli invitati è un pezzo grosso. Per la maggior parte degli ospiti, loro due sono un ingegnere e una geologa, entrambi brillanti e prevedibilmente noiosi. Coloro che li squadrano di sfuggita non hanno mai sentito parlare della Cellula di Consulta Strategica o del Gruppo per lo Sviluppo di Armi Speciali della Repubblica. Lyra ne è quasi gelosa.

 Guarda suo marito con la coda dell’occhio e lui le offre un sorriso ironico. «Dovremmo socializzare» dice, per cui si fanno strada tra la folla.

 A Lyra non sono mai piaciute le infinite chiacchierate e i convenevoli di questo genere di occasioni, e oggi lei è particolarmente a disagio. La rotondità del ventre sporgente la fa sentire aliena persino quando passano davanti a degli umanoidi con le facce del colore del tramonto inquinato o i tentacoli che arrivano fino ai fianchi. La sua mano vaga sulla pancia come per comprimerla e farla tornare alle sue normali dimensioni, come per schiacciare un sacchetto affinché l’aria esca. Galen non lo nota. Sta scandagliando con gli occhi la folla intorno a loro.

 Non molto tempo dopo Lyra è intrappolata a discorrere con un sarto di Coruscant sulle diverse tendenze di moda in voga tra i politici quando si riuniscono al Senato e quando sono sui loro pianeti d’origine e, nel momento in cui commette l’errore di fare una domanda, si rende conto che suo marito è scomparso. L’irritazione che prova è seguita da una fitta di ansia che trova spazio nelle profondità dello stomaco. Allunga il collo e prova a rintracciarlo, ma il suo interlocutore si è lanciato in un sermone sulle implicazioni politiche della lavorazione di perle su Naboo, e trascorrono parecchi minuti prima che con grazia le sia concesso di fuggire.

 Evitando ulteriori conversazioni, Lyra vagabonda nella tempesta di colori e suoni. Un sordo colpo echeggia all’interno del suo grembo – un calcio che si ripete e si ripete, un rimbombo non sincronizzato con il battito del suo cuore. Lei si volta, scrutando oltre i vestiti confezionati e gonfi che occupano il suo campo visivo, e poi lo vede.

 Si tiene appartato in un angolo del salone e non è solo. Anche se non lo avesse riconosciuto, le sarebbe bastata l’uniforme candida e pulita per identificare il suo proprietario. Krennic è poggiato al muro al fianco di Galen; mentre gli occhi di Galen sondano la festa, Krennic ha gli occhi solo per suo marito. Nessuno si avvicina per attirarli in una discussione, nonostante i benefici che potrebbe accordare la confidenza di un astro nascente come Krennic. Sono rinchiusi nella loro bolla di pubblica intimità, e nessuno cerca di violarla.

 Nemmeno Lyra. Non appena accortasi dei due con l’intenzione di affrettarsi a soccorrere suo marito dall’uomo che, per qualche ragione, considera suo amico, ha avanzato un passo in avanti. Ma il primo è anche l’unico. Galen ride per qualche battuta di Krennic, e lei scorge la curva delle labbra di quest’ultimo quando si china per sussurrare piano nell’orecchio di Galen. È solo allora che suo marito alza lo sguardo, che si blocca su quello di Lyra come se lei avesse urlato il suo nome. Sulle labbra di Galen persiste la letizia causata dalla battuta di Krennic, ma lei nota una differenza nella sua espressione, nel suo viso. Il senso di colpa. O forse la vergogna.

 È allora che Lyra realizza che Galen la sta tradendo. Non fisicamente – non lo farebbe mai, non adesso –, ma in tutti gli altri modi che contano.

 Non prova rabbia. Aveva compreso sin dall’inizio la natura del loro legame, quando aveva incontrato l’amico più intimo di suo marito e si era chiesta perché Galen avesse permesso che le proprie spalle venissero drappeggiate da una serpe, e aveva capito che la sua influenza su Galen sarebbe stata sempre in competizione con quella di Krennic. Fino ad adesso ha commesso l’errore di credere che il potere fosse l’unica cosa che l’uomo bramasse. Un errore di valutazione che Lyra può leggere con facilità nella maniera con cui Krennic inclina il capo, gli occhi socchiusi. Non è interessato unicamente alla mente e al lavoro di Galen. Lui vuole l’anima di suo marito. Forse la vuole con la stessa intensità con cui la desidera Lyra.

 Costringe se stessa a indossare un sorriso e muovere i piedi, una mano sul pancione e lo sguardo fisso su quello di suo marito, un decennio di pratica passato a fare conversazioni spicciole con gente che detesta. Krennic la avvista e si ritrae: ha praticamente ammesso la propria colpevolezza. Non c’è alcuna traccia di essa sul suo volto, però. Krennic la osserva e le sorride. Lyra discerne la sfida. È suo dovere contrattaccare.

 Si alza in punta di piedi per stampare un bacio sulla guancia di Galen; il peso dello stomaco le fa quasi perdere l’equilibrio, per cui Galen le circonda le spalle con un braccio. Una presenza salda. Lei alza la mano per intrecciare le dita con suo marito.

 Quando incrocia nuovamente gli occhi di Krennic, lui non le sorride. Lei piega la testa da un lato. Accetto.






VIII


«E come sta…» Una breve pausa mentre Krennic pondera le sue parole. «…Il membro più basso della tua famiglia?» Lo dice in un modo che potrebbe quasi passare per un soprannome vezzeggiativo.

 Galen batte le palpebre. «Bene».

 «Ah. D’accordo».

 «Sono piuttosto curioso» continua Galen, «di scoprire come la chiamerai quando eventualmente supererà sua madre in altezza».

 Beccato. Krennic simula un sorriso sardonico. «Il membro più giovane della tua famiglia».

 Un tremore attraversa la guancia di Galen, che lotta per contenere una risata. «Ti ho già avvisato che non ti avrei ricordato il suo nome una seconda volta, Orson. Sono certo che prima o poi ti verrà in mente».

 Krennic decide di etichettarla come “la bambina” da adesso in poi.






IX


Krennic ricorda raramente i motivi per cui litigano. Le uniche cose che gli restano successivamente sono le conseguenze: la gola dolorante per le troppe parole vomitate tutte in una volta a un livello troppo alto di decibel; la collera residua, tumefatta come il rhydonium nelle sue vene, che attende solo una scintilla per prendere fuoco; i mobili d’arredamento leggermente disallineati – una sedia rovesciata, un datapad rotto ai piedi della parete opposta contro cui Krennic l’ha scagliato.

 Di quando in quando Krennic rovista tra i detriti che Galen emotivamente si lascia dietro di sé, alla ricerca di una spiegazione. Dopo ogni litigio è sempre la stessa storia: una risoluzione assente. Ormai è trascorso talmente tanto di quel tempo da quando si sono conosciuti che hanno esaurito le motivazioni per discutere, ma ciò non li frena. Non si sprecano in riconciliazioni. Litigano, e occasionalmente non lo fanno. Non c’è nulla nel mezzo.

 Galen non si sofferma a dare una mano con il processo di ricostruzione: si limita ad allontanarsi, si tuffa nel lavoro e nei calcoli sicché non rimangono parti di sé che Krennic possa raggiungere. Per cui Krennic è colto di sorpresa quando, due giorni dopo la loro ultima lite, si ritrova in ufficio Galen che lo aspetta con le mani congiunte dietro la schiena.

 L’andamento della camminata di Krennic da frenetico si fa lento, circospetto. Istintivamente agita la mano perché la porta si chiuda alle sue spalle. Galen ha un aspetto stanco: Krennic immagina le lunghe nottate che Galen ha passato al laboratorio senza che nessuno lo esortasse ad andare a riposarsi. Le amenità sulla punta della sua lingua di cui farebbe normalmente uso per chiacchierare vengono soffocate e represse. «Cos’è successo?»

 A sorpresa, un sorriso strattona verso l’alto uno degli angoli della bocca di Galen. «Dev’essere per forza avvenuta una catastrofe se desidero parlarti?»

 «Certo che no. Ma ho notato il nesso ricorrente».

 Krennic è tentato di dirigersi verso la sua scrivania e accomodarsi sulla sedia, una barriera tra se stesso e qualunque cosa stia per accadere. Ipotizza che si tratti di qualcosa di negativo. La collera generata durante l’ultima litigata gli ronza sotto la superficie della pelle. C’è la possibilità che finiscano nuovamente per urlarsi addosso, a prescindere dalle ragioni con cui Galen è armato.

 «Ti ho portato un regalo». Galen elimina la distanza tra loro due e gli porge una scatoletta, minuta e marrone e impacchettata con cura, non più grande del palmo della sua mano.

 Krennic studia il viso di Galen e accetta il dono. «Cos’è?» Non riceve risposta. Per un breve e malato istante, pondera la possibilità che contenga dell’esplosivo. Strappa senza alcun riguardo la confezione per fare un dispetto alla paranoia e scopre al suo interno un piccolo cristallo blu, appuntito come la scheggia di un vetro rotto.

 «L’ho ultimata» mormora piano Galen. «La varietà finale di kyber sintetizzato, capace di incanalare il novantotto per cento in più di energia rispetto al suo campione originale».

 Krennic alterna lo sguardo tra Galen e il frammento sul suo palmo. Galen fruga nella propria tasca mentre avanza un passo: rimuove il cristallo dal guanto nero di Krennic e lo attacca a una cordicella sottile color ebano. Krennic osserva le dita dell’amico legare insieme le due estremità con precisione ed efficienza. Quando incontra gli occhi di Galen, l’altro gli circonda gentilmente il collo con il ciondolo. L’aria si increspa come se stessero vivendo un miraggio. Per un attimo il viso di Galen è di qualche decennio più giovane, e Krennic rivede se stesso premere un cristallo sul palmo di Galen, un cristallo di vero kyber, a simbolo di tutto ciò che Krennic prometteva di offrire a Galen.

 Quando batte le palpebre Galen è vecchio e stanco e non sorride, ma c’è una certa delicatezza sulle sue labbra, il luccichio di qualcosa di lontano nei suoi occhi.

 «Non dovevi» dice Krennic.

 «Consideralo come le mie scuse».

 Una fitta si insedia nel centro del petto di Krennic, pesante e doloroso. «Per cosa?»

 Galen si limita a scrollare le spalle. La morbidezza nei suoi lineamenti scompare. «Non abbiamo già abbastanza di cui scusarci?» Allunga un braccio per toccare il cristallo che pende dal collo di Krennic, poi cambia idea a metà strada. «Volevo informarti che ho fatto come mi hai domandato. Non osar sostenere che ho ciondolato».

 È dopo che Galen se ne va, mentre Krennic siede e studia le sfaccettature del cristallo così somigliante a una daga posatagli sul cuore da Galen, che lui riflette che è la prima volta che uno dei due ha chiesto scusa all’altro.

 È solo parecchio tempo dopo che si rende conto che è anche l’ultima.

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Capitolo 2
*** Dopo Lah’mu ***


X


Il vino blu fluisce nel bicchiere. Krennic lo versa generosamente, e lo versa per due persone.

 «Bevi ancora Toniray». Non è una domanda. Krennic gli porge il calice con un’allegria che si estende solo sulle labbra. Quando Galen non lo accetta, Krennic inclina la testa da un lato.

 «Andiamo, Galen. In onore dei vecchi tempi».

 Krennic mantiene fermo lo sguardo. Le sue dita reggono lo stelo con leggerezza, ma lui si tradisce con una contrazione nel muscolo della mandibola. Galen si chiede tra sé e sé cosa succederebbe se rifiutasse. Ormai la speranza è un’emozione troppo delicata per applicarla a Krennic, ma la tensione che gli si legge nell’espressione ne ha una vaga somiglianza. Galen la vuole vedere frantumata.

 Forse è solo per abitudine se prende il bicchiere. L’allegria sulle labbra di Krennic arriva per un attimo a sfiorargli gli occhi, come il guizzo della lingua di un serpente. Un momento di trionfo, o probabilmente solo sollievo.

 «Allora» dice Krennic, appoggiandosi allo schienale della sedia e portandosi il calice al sorriso fremente. «Parlami dei tuoi recenti progressi».

 Il vino è aspro nella bocca di Galen, ma lui lo inghiotte del tutto.






XI


Krennic lo trova in laboratorio: è la prima stanza che va a controllare. Ormai per loro è una costante.

 Le luci sono per la maggior parte spente, e Krennic si disinteressa dall’accenderle. Sul piano di lavoro c’è una bottiglia di liquore, mentre sotto il bancone rinviene Galen accasciato; quando alza la bottiglia, scopre che è praticamente vuota. L’odore di alcool nell’aria è talmente forte da farlo lacrimare. Con la punta di uno stivale dà una spintarella a Galen e viene premiato con un mormorio di protesta. Oggi la situazione è peggiore del solito. Krennic è perennemente ignaro del perché.

 In passato avrebbe fatto visita ai quartieri di Galen con una bottiglia di vino per discutere di lavoro, lasciando scorrere con lentezza le lunghe ore della giornata. Adesso Galen beve solo per raggiungere un unico scopo, un atto di violenza contro la propria mente.

 Krennic dovrebbe chiamare qualcuno – una squadra medica, forse, o giusto un paio di guardie per ricondurre Galen in camera sua. È quello che fa di solito. Stasera, invece, afferra la bottiglia sul bancone e si siede per terra accanto a Galen. Porta l’imboccatura alle labbra, sorseggia, e quasi sputa.

 «È whisky Dodbri?» domanda suo malgrado. Galen non è nelle condizioni di rispondere. «È da quando eravamo entrambi nel Programma Futuro che non ne bevo. Questa roba dovrebbe essere illegale». Krennic parla sia tra sé e sé che con Galen, riempiendo l’aria finora cadenzata solo dal respiro ansante dello scienziato.

 «Quelli sì che erano bei tempi» commenta ancora, e tracanna nuovamente il liquore.

 Quando guarda al suo fianco, incrocia gli occhi aperti di Galen che lo osservano. Aveva dato per scontato che l’altro non si sarebbe ridestato fino a tarda mattinata. Galen si allunga per agguantare la bottiglia e, scrutando lo sguardo che ha davanti, Krennic è mezzo tentato a passargliela. Quando invece si ritrae, le sopracciglia di Galen si aggrottano.

 «Per favore» biascica.

 «Ne hai avuto abbastanza». È una constatazione così ovvia che Krennic nel pronunciarla si sente uno stupido. Improvvisamente si rende conto che si tratta della prima volta dopo parecchio tempo che Galen gli chiede qualcosa. Hanno smesso di fare favori all’altro; non dopo che Galen se n’è andato, non dopo tutte le conseguenze provocate dalla sua decisione.

 Galen si affanna a raddrizzare la schiena contro la base del bancone. Adocchia la bottiglia tra le mani di Krennic, ma non compie ulteriori sforzi per prenderla. «Mi piace ricordare» asserisce. La sua voce è una soffice poltiglia di consonanti farfugliate e vocali protratte. «Ero… felice. All’epoca».

 Krennic ride, a dispetto della fitta tagliente come una costola incarnita che avverte nel petto. «Non avevi mai l’aria di esserlo» replica. «Eri serio, come del resto chiunque a scuola. Ti comportavi da adulto ed eri ossessionato dal tuo lavoro sin dal giorno in cui ti ho conosciuto».

 «Mi piaceva il lavoro» commenta Galen con un sospiro.

 «Ma adesso non lo sei più?» Oh, Krennic è consapevole di quanto sia ingiusto. Lui è sobrio; Galen è a malapena lucido, e la sua capacità di mentire non è mai stata tanto esigua. Krennic ha un netto margine di vantaggio e non può fare a meno di trarne profitto. «Potresti tornare a essere felice, in qualche modo?»

 La testa di Galen cade all’indietro appoggiandosi contro il bancone, ma lui persiste a tenere le palpebre sollevate. Fissa il vuoto con un’espressione assente. «Sono solo» bisbiglia. È poco più che un sussurro. Krennic è obbligato a piegarsi in avanti per coglierlo, e una volta avvicinatosi non riesce a costringersi ad allontanarsi.

 «Tu hai me». Dice quelle parole con tutta la gentilezza di cui è capace. Lentamente, come se Galen fosse un animale selvatico che lui rischia di spaventare, Krennic posa una mano sulla spalla dell’uomo.

 Galen si volge a squadrarlo. Le sue iridi sono due luci splendenti nell’oscurità. «No, non è vero» ribatte. «Non più».

 Dopodiché Krennic chiama le guardie. Quelle scortano Galen fuori dalla stanza e devono praticamente portarlo in braccio. Krennic rimane indietro ancora per un po’ a ispezionare ogni armadietto e ogni cassetto, fino a quando non raduna insieme tutto l’alcool presente nel laboratorio. Ha intenzione di versarlo nel tubo di scarico, ma una bottiglia gli sfugge di mano e va in frantumi contro il muro, e presto la imitano le seguenti. Lascia a Galen il compito di ripulire il disordine la mattina dopo.

 Nessuno dei due fa alcun cenno al riguardo. È un favore reciproco.






XII


Galen sedeva sul lato sbagliato della scrivania e fissava il muro alla sinistra dell’orecchio di Krennic. Quest’ultimo aveva lo sguardo indirizzato verso il datapad in fronte a sé ma, a giudicare dall’insolita immobilità del suo volto, stava in realtà esaminando una pagina vuota. Galen sapeva che lo faceva solo per lasciarlo in attesa. Krennic si abbassava costantemente a capricci del genere. In effetti ormai erano uno dei tratti che lo caratterizzavano.

 Sebbene fosse un abile bugiardo, Krennic tradiva fin troppo palesemente le proprie emozioni. Un lieve tic sotto l’occhio. Le dita che tamburellavano sulla scrivania. Le labbra che si contraevano involontariamente, per poi appianarsi con rapidità. Krennic aspettava che Galen si spazientisse, parlasse per primo e perdesse il suo vantaggio. Lui però si rifiutava di concedergli tale soddisfazione, non quando stava per dargliene una maggiore. Per la prima volta dopo parecchio tempo, Galen aveva bisogno di un favore. Stringeva le mani a pugni alla sola idea. Si costrinse a rilassarle. Era da un pezzo che non entrava in quella stanza e vedeva Krennic dal vivo e non attraverso un olovideo. Per quanto riguardava il lavoro, normalmente doveva compilare una serie di moduli d’ordine impersonali e spedirla al dipartimento di Krennic senza la necessità di conversare con il direttore. Krennic interveniva solo se i materiali su cui Galen operava erano incredibilmente rari o costosi. Ma stavolta… stavolta era diverso. E Galen non poteva più attendere.

 «Allora» iniziò Krennic, spegnendo il datapad e posandolo finalmente via. Si appoggiò allo schienale della sedia e inclinò la testa da un lato. «Come posso aiutarti, Galen?»

 Galen aveva scelto le sue parole con cura quando si era reso conto di cos’avrebbe domandato a Krennic. Quelle gli riposavano sulla lingua come una cucchiaiata di trementina. Prima era stato facile promettere a se stesso che non avrebbe mai più chiesto niente all’altro. Ma a seguito degli sforzi instancabili di Krennic, com’era rapidamente sfumato il suo giuramento!

 «La prossima settimana saranno trascorsi tre anni dal funerale di Lyra» spiegò Galen. «Voglio andare a farle visita».

 Un breve attimo di stasi assoluta calò sul viso di Krennic. Da una parte sorrise e girò il capo come per constatare l’assurdità della proposta di Galen, dall’altra i suoi occhi rimasero freddi dalla rabbia. «Non dirai sul serio».

 L’espressione di Galen non cambiò. Krennic si ritrasse ulteriormente e lo inchiodò con una faccia incredula che tuttavia non riusciva a nascondere l’amareggiato sussulto della sua bocca. «Siamo a un punto cruciale nello sviluppo delle nuove strutture di cristalli. Non posso fare a meno di te».

 «Puoi» ribatté Galen, «e lo farai».

 Un rischio calcolato, inimicarsi Krennic in quella maniera. Quest’ultimo deglutì e distolse lo sguardo, tirandosi nervosamente i bordi dei guanti. Il suo malcontento si manifestava attraverso una catena di azioni interconnesse tra loro, che danzavano lungo i nervi della parte superiore del suo corpo, muovendolo come una marionetta.

 «Avresti dovuto compilare una richiesta di…»

 «Tu l’avresti respinta» replicò Galen.

 Krennic non lo contraddisse. Invece si alzò dalla sedia e si diresse verso la finestra, le stelle incorniciate da un rettangolo metallico. Fuori si vedeva la prua bellica di un caccia stellare che si faceva strada nello spazio esterno. Krennic unì le mani davanti a sé, il volto fuori dal campo visivo di Galen. In momenti come questi, Galen non era in grado di indovinare i pensieri di Krennic.

 «Permettimi di venire con te, Galen». Non si volse quando annunciò la sua decisione. «Non dovresti affrontare tutto questo da solo».

 C’era una nota pungente nell’offerta di Krennic, così inquieta da parer quasi derisoria. Obbligare Galen a supplicarlo perché gli fosse elargita la possibilità di visitare la tomba di sua moglie non era abbastanza. Nemmeno strappargliela via era stato abbastanza. Pur di fargli un dispetto, Krennic voleva addirittura intrufolarsi nello struggimento di Galen; come se potesse cancellare l’esistenza di sua moglie negandogli l’opportunità di stare in compagnia del suo ricordo.

 Eppure era questo il prezzo da pagare.

 Quando Krennic si girò nuovamente, Galen annuì.




Faceva freddo a Coruscant. Per questo la sua ferita alla spalla aveva cominciato a pulsare. Doveva costringere di continuo le sue dita a fermarsi a metà strada pur di non toccarla, un impulso infantile che lo spingeva a stuzzicare la sorgente del male che provava. Ogni qualvolta che sorprendeva se stesso a farlo, si sforzava di abbassare le mani e di ricongiungerle mollemente, mentre aspettava che Galen finisse di studiare la lapide di sua moglie. Non aveva previsto che sarebbero rimasti tanto a lungo al cimitero, ma avrebbe accordato a Galen tutto il tempo che gli serviva: gli doveva quella gentilezza.

 Quando Galen alla fine si ingobbì e si allontanò dalla tomba nera, non incrociò lo sguardo di Krennic. Sembrava pronto a passargli davanti senza rivolgergli una parola, tuttavia all’ultimo si fermò al suo fianco. Krennic incontrò gli occhi accanto a sé e serrò le labbra alla vista del dolore nell’espressione di Galen.

 «Grazie».

 La gratitudine di Galen era rigida e senza sentimento, ma fornì a Krennic una scusa per stendere il braccio e stringergli la spalla. Non allentò la presa finché non misero abbastanza distanza tra loro e la lapide di Lyra, silenziosa e incapace di fermarli.






XIII


«Sei furioso. Rispetto le tue ragioni».

 Krennic non è avvezzo a simulare la solidarietà. Malgrado abbia tentato ripetutamente di essere gentile con lui, l’insofferenza nella sua voce è per Galen come veleno versato in gola: se la sente fluire dentro di sé come dita che strisciano in direzione delle sue viscere.

 Fissa i guanti di Krennic, anziché rischiare di rivelare le sue carte scrutando l’altro negli occhi. Krennic è seduto sullo spigolo della scrivania, mentre davanti a essa è accomodato Galen su una poltrona; con le mani si riaggiusta l’orlo dei guanti come se la pelle aderisse male al suo scheletro. Non ottenendo una risposta, Krennic sospira. «Non c’è bisogno di fare il broncio. Se fosse di peso a me, ti concederei tutto il tempo che ti occorre. Ho le mie disposizioni, però, così come tu hai le tue. Capirai di certo».

 Galen si morde la lingua e protrae il silenzio. «Quello che comprendo» ribatte alla fine, «è che mi chiedi di fare i tuoi comodi sacrificando le due settimane che mi servono per i test di sicurezza».

 Nel pronunciare quelle parole, alza il mento. Krennic sporge il busto in avanti, il gomito posato sulla coscia per esaminare l’espressione di Galen. Con la luce penetrante dell’ufficio, le rughe intorno alla bocca e le zampe da gallina gli intagliano il volto come molteplici cicatrici.

 «Bene». Le iridi di Krennic sono vuote. «Allora sai cosa devi fare».

 Galen serra le mani. Il suo gesto non sfugge all’attenzione di Krennic. Le labbra del direttore si distorcono e si arricciano e assomigliano a un sottile filo di fumo. «Sei in collera, Galen?» Si piega ulteriormente in avanti – la sua voce si fa bassa e da essa scaturisce una compassione artificiosa. «Sono stato indulgente con te. Non hai mai imparato a seguire davvero gli ordini, e guarda dove ti ha condotto questo tuo difetto».

 «Indulgente?» Galen si alza in piedi prima ancora di realizzarlo, la sedia spinta indietro che cade per terra. «È così che descriveresti il trattamento che mi hai riservato?»

 Krennic, a proprio onore, non sussulta nemmeno. È solo quando corregge la sua postura che Galen si rende conto di quanto gli è vicino, delle sue inesistenti speranze di potersi ritrarre.

 «Sì» replica piano Krennic. «Ho cercato di accontentarti in tutti i modi, Galen, che ti piaccia ammetterlo o no. Ti ho dato tutto: il tuo laboratorio, la tua squadra, i tuoi libri, il tuo appartamento. Non c’è niente che io non ti abbia dato senza badare a spese». Krennic inclina la testa da un lato, il viso falsamente afflitto. «L’unica cosa che ti domando è di ricevere qualcosa in cambio».

 «Io non ho voluto niente di tutto questo» prorompe Galen. Ai suoi fianchi ha le mani strette a pugno, ma questa volta Krennic non lo nota. «Prima che ti decidessi a essere una persona generosa, mi hai tolto tutto».

 L’esasperazione invade lentamente i tratti della faccia di Krennic, fremente mentre la mascella si irrigidisce. Non c’è alcun cenno di benevolenza nel suo sguardo, solo il disprezzo. Galen vorrebbe afferrargli i bulbi oculari e strapparglieli dalle orbite. «Oh, Galen, non dirmi che per te la felicità è grattare la terra su quell’ammasso di roccia che chiamavi casa. Ti ho salvato da quella vita, e il minimo che potresti fare è dimostrarmi la tua gratitudine…»

 Il pugno di Galen lo colpisce con una forza tale da farlo voltare. Le dita di Krennic si reggono gravi alla superficie della scrivania, urtando e rompendo sul pavimento un datapad. A Galen la mano inizia quasi subito a pulsare. Lui a stento la riconosce come sua. Nella stanza regna il silenzio, salvo i respiri ansanti di entrambi.

 Osserva Krennic che raddrizza la schiena sfiorandosi la gota, la bocca schiusa per lo shock o per il male che prova o ambedue, il rosso che sboccia dal suo labbro nel punto in cui la pelle si è spaccata a causa dei suoi denti e del pugno di Galen. L’ira brucia nei suoi occhi: il suo volto ne è ricolmo. Tuttavia, mentre Krennic si scioglie in un sorriso insanguinato, dietro a esso qualcosa viene giù come una valanga, che si muove e si avvicina sempre più.

 «Ebbene» dice, strofinandosi con le dita inguantate la bocca e tracciando un segno rosso sulla guancia, «se è così che vuoi procedere».

 Krennic lo ghermisce per l’uniforme. Galen è in attesa di essere colpito a sua volta; Krennic lo strattona a sé e lo bacia.

 Si sente travolto da troppe sensazioni al contempo. La stretta di corpi e denti, il sapore del ferro e il calore delle labbra di Krennic – per un attimo Galen è solo capace di immobilizzarsi, i pensieri che si innalzano verso il caos e che paiono una schiera di storni che oscura il cielo. E in quel momento Krennic gli si preme addosso maggiormente, gli inclina la testa all’indietro, gli offre la carezza della sua lingua. Galen si apre a Krennic senza riflettere, aspettando di ritornare in sé, aspettando che il suo senso del disgusto e della rabbia si concretizzi in azioni, consapevole di dover mettere freno alla situazione, farla finita immediatamente – ma i suoi denti graffiano il labbro spaccato di Krennic, e Galen li affonda con più insistenza dopo che l’altro caccia un lieve gemito di dolore proveniente dalla gola. Quando poggia le mani sulle spalle di Krennic, c’è un istante in cui non sa come proseguire. Alla fine, però, trionfa il suo istinto moralista. Urta Krennic con l’intenzione di spintonarlo via; tuttavia, le dita di Krennic gli si aggrappano salde all’uniforme, e la sua ritirata di pochi centimetri subisce una battuta d’arresto.

 Per qualche secondo si limitano a fissarsi a vicenda. Lo sguardo di Krennic luccica dall’eccitazione, le labbra gonfie, tuttora insanguinate; Galen lecca impulsivamente le sue, e assapora il rame. Quando Krennic si avvicina a lui una seconda volta, lo fa lentamente, deliberatamente, così da dare a Galen la scelta di allontanarsi. Galen non ci riesce, così come non riesce a districarsi dalla presa di Krennic sulla sua divisa.

 «Ti accordo una settimana per eseguire i tuoi test» sussurra Krennic, la bocca che si unisce piano a quella di Galen nell’annunciare il compromesso, un mezzo bacio amaro.

 Galen si rende a lui malleabile senza pensarci, la mente che è un turbinio di gusti e calore e suoni. Tra pochi minuti le cose riprenderanno a essere come prima. Sarà allora che potrà odiare se stesso con tutto il cuore. Per ora, però, «Una settimana e mezzo».

 Krennic ride delicatamente contro il suo respiro, unendo le loro fronti. «Una settimana, Galen. Nulla di più». L’ultimo bacio sulle labbra di Galen è a stampo ma nient’affatto casto. Poi Krennic rilascia l’uniforme di Galen e indietreggia, la mano alla bocca come per strofinarsi via il resto del sangue, o forse per assaporarlo. Volge le spalle a Galen mentre si dirige verso l’altro lato della scrivania.

 «Se mi colpisci nuovamente, ne subirai le conseguenze». E all’improvviso Galen è congedato.

 Galen è lì lì per chiedere quali saranno le conseguenze. Bloccato sul posto, per un momento è tentato a farlo. Ma per farsi un’idea, gli bastano il tremore che ha alle gambe e l’umidità sulle sue labbra.

 Si gira e se ne va senza aggiungere una parola, prima che ceda alla tentazione e scopra le ragioni esatte per cui le sue mani strette a pugno si struggono tanto per tornare da Krennic.






XIV


«Non è niente, Galen, smetti di starmi addosso…»

 «Eri a un metro di distanza dal trasmettitore di cristalli quando è esploso. Non è una cosa da poco». Galen pronuncia queste parole con il tono più monotono del suo repertorio; come se, tenendo ferma la voce, potesse mascherare il modo con cui le sue dita continuano a serrarsi attorno al braccio di Krennic.

 Al reparto medico sono già stati portati due tecnici con ferite causate dai frammenti surriscaldati, ma Krennic, naturalmente, ha sbraitato contro chiunque avesse suggerito l’idea che anche lui avesse bisogno delle attenzioni di un dottore. Rimanendo al laboratorio per il lasso di tempo necessario per assicurarsi che l’operazione di smaltimento dei materiali procedesse, la sua uniforme si è striata di bruciature e di linee vermiglie. Adesso, nell’intimità del suo ufficio, Krennic sembra solo esausto. Le tracce di rosso risaltano sul bianco della divisa. Lui sostiene che il sangue è di qualcun altro.

 Galen comincia a dubitarlo.

 «Quel sangue è tuo» constata. Non è una domanda e Krennic non lo nega. Invece si scuote di dosso il braccio di Galen e affonda nella sedia, i movimenti giusto un po’ troppo cauti, un po’ troppo sofferenti.

 «I calcoli del sifone di calore e dei sistemi di raffreddamento non erano errati» dice tra i denti. Allunga il braccio sinistro per prendere il suo datapad, fa una smorfia, e poi lo afferra con la mano destra. «Li ho controllati io stesso. Può darsi che si sia trattato di un difetto delle sostanze adoperate. Forse abbiamo sbagliato a usare i pilastri in trirame, se sottoposti a vampate intense diventano friabili…»

 «Non era il metallo il problema. Il cristallo non ha retto al consumo energetico». Galen si dirige verso il pannello di comunicazione sulla parete. «Richiamo la squadra medica».

 Krennic ride. La sua allegria apparirebbe caustica e disinvolta, se non fosse per il successivo colpo di tosse. «Mi sottoporrò alle loro cure non appena scopriamo cosa è andato storto».

 Galen esita con il dito posato sul pulsante di collegamento. «Hai un kit medico nel tuo ufficio?»

 «Il cassetto più in basso».

 Galen si allontana dal quadro di controllo per pescare il kit dalla scrivania di Krennic. «Ricontrolla i miei calcoli. Mi accerterò che tu non muoia dissanguato».

 Le sue parole sono affilate. Probabilmente è perché suonano troppo vere. È trascorso diverso tempo dall’ultima volta che Galen ha permesso a se stesso di provare alcunché per Krennic. Dopo settimane di furia, mesi di odio e anni di fredda cooperazione, la preoccupazione che prova per la salute dell’altro gli pesa sul petto come un macigno. Eppure è come se fosse quello il suo posto.

 Apre la fibbia sinistra del mantello di Krennic e fruga nel kit per trovare qualcosa che gli consenta di tagliare via la parte rovinata della divisa. Recidendo la stoffa dalla spalla al collo, Galen denuda la pelle sporca di fuliggine e del color rosso; c’è un taglio profondo grande quanto una nocca che gronda ancora di sangue. È meglio di quanto avesse sperato. Ma i suoi occhi sono attratti da un groviglio di tessuto cicatrizzato a pochi centimetri più in là, una vecchia ferita fatta guarire velocemente, non in modo naturale. Lui riconosce il segno del colpo di un blaster. Non si chiede come Krennic se lo sia procurato: ha assistito alla scena. Vedere la testimonianza di quel giorno su Lah’mu è come avere di fronte a sé un fantasma, e Galen si sente agghiacciato.

 «I tuoi calcoli sono giusti» sentenzia Krennic, lanciando il datapad sulla scrivania. «Dev’essere stata la struttura del cristallo. Dovremmo sperimentare altre tecniche per tagliare…»

 Krennic sibila tra i denti mentre Galen gli fascia la spalla. La benda ricopre sia la nuova che la vecchia lesione. Per un attimo due uomini coesistono nello stesso corpo: l’assassino e il visionario, il mostro e l’amico. Quando Galen solleva lo sguardo, però, l’unica cosa che vede è Krennic, che racchiude in sé tutte quelle etichette. L’amore e l’odio sono due emozioni spaventosamente simili.

 «Ci penseremo più avanti» risponde piano Galen.

 Si alza per chiamare la squadra medica. Dalle sue dita cola il sangue di Krennic.






XV


Non aveva senso andarci. Lo sapeva; già ne era consapevole all’incrocio nel corridoio mentre svoltava nella direzione opposta alle sue abitazioni, per poi bussare alla porta ed entrare senza invito. Avviandosi verso la camera da letto, i suoi sospetti furono subito confermati.

 Galen scoccò un’occhiata all’uomo e sospirò. «Va’ in infermeria».

 Krennic lo fissò con occhi malevoli e contornati di rosso. «No» gracchiò.

 «No, non devi, oppure no, non vuoi? Se è la prima posso offrirti una lista di ragioni per cui hai torto, e la seconda può essere risolta inviando una veloce comunicazione a un dottore».

 Krennic si limitò a lanciargli uno sguardo truce, il cui effetto era però un po’ rovinato dall’aspetto patetico del suo proprietario. Probabilmente era persino troppo stanco per litigare.

 Galen lo aveva visto di rado trasandato a tal punto: aveva i capelli appiccicati alla fronte in volute umide, le borse sotto gli occhi tese come ombre al tramonto. La pelle luccicava di sudore freddo. Era difficile credere che qualche ora prima fosse in piedi a sbraitare comandi. Galen gli aveva praticamente ordinato di riposarsi un po’, ma Krennic lo aveva sbeffeggiato e si era precipitato fuori alla ricerca di qualcun altro su cui sfogare la propria frustrazione. Era realistico presumere che, prima di collassare a letto, avesse diffuso il suo virus in mezza stazione.

 Galen non riusciva a spiegarsi il motivo che lo aveva condotto negli appartamenti di Krennic. Lui non era preoccupato. Anche in laboratorio gli era stato lampante l’imminente crollo fisico di Krennic. Se Krennic fosse morto di febbre e testardaggine, il compito di Galen si sarebbe reso solo più difficile. Qualunque supervisore imparziale avrebbe ormai da tempo notato il suo complotto. Lui contava sull’affetto e sulla cecità dell’altro per non venire scoperto. Krennic gli serviva vivo.

 Si sedette sul bordo del letto; l’altro fece una smorfia, come se trovasse dolorosa ogni impercettibile scossa del materasso. Prima che potesse opporsi, Galen si protese in avanti e premette il palmo sulla fronte dell’uomo. Proprio come ipotizzato, la pelle di Krennic ardeva di calore.

 «Mi terranno in infermeria per una settimana» lamentò il malato con voce roca. «Il progetto non può aspettare tanto a lungo».

 «Sopravvaluti la tua importanza. Il lavoro può proseguire senza di te… per almeno una settimana».

 La mascella di Krennic si contrasse. «Se sei qui per dirmi che sono superfluo allo sviluppo…»

 «Orson. Sta’ zitto».

 Come previsto, quella piccola informalità troncò le proteste di Krennic, i cui occhi erano appannati, e Galen finì per scostargli i capelli dalla fronte sudata, protraendo il contatto.

 «Se ti porto dell’acqua, la berrai?» Krennic annuì. Galen tornò subito dopo con un bicchiere pieno e un panno fresco da poggiargli sulla fronte. Nel posarlo, un mormorio penoso sfuggì dalle labbra dell’altro.

 «Ho solo bisogno di dormire» borbottò. Le sue palpebre si abbassarono. Forse si era già addormentato. Tuttavia, quando Galen ritrasse la mano, Krennic allungò le dita per toccargli il polso. Con i polpastrelli vagò sulla pelle di Galen e lui, per un momento, glielo permise.






XVI


La navetta è pronta a partire. Atterra sulla piattaforma come un enorme uccello nero, le ali ripiegate, il tettuccio di vetro vuoto. Una vista nauseante. Krennic preferisce fissarla, piuttosto che rivolgere lo sguardo verso l’uomo che gli è di fronte; Galen Erso è paziente come sempre e attende il suo inevitabile congedo.

 Krennic non ha ragioni per non salutare Galen strada facendo. Non può nemmeno affermare di star cercando di rimandare la partenza: è ciò che sta facendo da settimane, sin dal giorno in cui Galen gli ha detto che aveva intenzione di supervisionare personalmente la raffineria di cristalli a tempo indeterminato. Ha già fatto tutto quanto era in suo potere per ritardare questo momento. Adesso ciò che gli rimane è quel minuto scarso che può raschiare rifiutandosi di aprire bocca. A quel pensiero gli angoli delle sue labbra hanno un tic, sorridendo con amarezza. Raramente permette a se stesso di essere petulante. È una novità che lo allieta.

 «Ne sei sicuro?» È una domanda opinabile e Krennic gliela pone senza guardarlo. Se Galen non lo fosse, loro non sarebbero lì.

 «Sì, sono sicuro».

 Krennic congiunge le mani davanti a sé e inclina la testa da un lato, la faccia che si contorce in un’espressione simile a una risata o a un ringhio. «Bene».

 Finalmente Krennic incontra gli occhi di Galen. Non ha idea di cosa si aspetti di vedere; sa solo che non ottiene tale cosa. Tutte le notti che ha trascorso camminando su e giù nella stanza centrale dei quartieri di Galen lungo il corso delle scorse settimane – discutendo e poi litigando e poi ancora urlando – aleggiano nell’aria. Forse Galen vorrebbe aggiungere altro. Ma qui hanno un pubblico: i tecnici navali, le guardie, gli ingegneri che Galen ha scelto per accompagnarlo. Occhi e orecchie vaganti dappertutto. A loro due rimane solo il tempo necessario per scambiare i propri saluti. Krennic è quasi tentato di negare il suo a Galen.

 Gli tende rigidamente la mano. «Mi aspetto un resoconto via HoloNet entro una settimana dal tuo arrivo». Nessuna cordialità tra lui e Galen. Non più.

 Galen accetta la stretta. «Lo riceverai».

 Krennic prova a discernere l’esistenza di una specie di scusa seppellita sotto quelle due parole. Riesce quasi a convincere se stesso di sì, prima di lasciar scivolare via le dita di Galen dal suo palmo.

 Aveva in mente di avviarsi non appena Galen si fosse girato, ma invece si ritrova a scrutare l’uomo mentre sale sulla rampa della navetta e scompare. Si trattiene nell’hangar anche quando i motori vengono accesi, le ali affilate color carbone si dispiegano e la navetta decolla, dirigendosi nello spazio nero oltre il meraviglioso mondo di metallo che lui e Galen hanno costruito insieme. Krennic la osserva fino a quando non sparisce nell’oscurità.






XVII


Ai pannelli negli appartamenti personali di Galen sembrava soddisfacente la prospettiva di assomigliare a delle finestre, anziché esserle per davvero. Il vetro era sottile, ma comunque abbastanza robusto da sopravvivere al martellio dei diluvi più feroci, regalando allo spettatore solo una visuale offuscata del paesaggio di Eadu. In ogni caso, fuori non c’era niente da osservare.

 «Qui non smette mai di piovere?»

 Le lenzuola gli frusciarono dietro. «Ancora aspetto che succeda».

 Krennic allungò un dito e tracciò sagome nel vapore condensato sulle lastre traslucide. «Ti sei esiliato in un mondo commiserevole».

 «Sono venuto qui per il bene del nostro lavoro, Krennic. Non sono in esilio».

 «Allora torna».

 Krennic si voltò. Dalle finestre giungeva l’unica fonte di luce nella stanza, la quale, sfocata dalle nuvole e dall’acqua e dal vetro resistente agli urti, era poco più che una sfumatura blu scuro in mezzo alle ombre. Galen si sedette sul letto, le mani sulle cosce; aveva un’aria stanca, confusa, il petto nudo che si alzava e si abbassava e che faceva intuire che stava mentalmente tenendo il conto di ogni suo respiro.

 «Qui hanno bisogno di me» rispose sommessamente.

 «No, non è vero» sbottò Krennic, incapace di reprimere l’irritazione nella sua voce. «Sei troppo qualificato per un compito del genere e lo sai bene. C’è bisogno di te dove la tua mente può essere usata al pieno delle sue potenzialità. Con me».

 «Mi auguro che non ti stia facendo intralciare dai tuoi sentimenti».

 Una risata amara sgorgò dalla gola di Krennic e si tenne in equilibrio sulla sua lingua, contorcendogli silenziosamente le labbra. «Ricordo di averti detto qualcosa di simile diversi anni fa. Eppure hai abbandonato tutto quello che avevamo creato assieme».

 Il lato del viso di Galen contenuto nel suo campo visivo era inespressivo. Gli era sempre stato così difficile capire cosa provava? Krennic avanzò un passo, ma guardando le ombre, quelle si limitarono a inscurirsi ulteriormente. «Sono di nuovo qui a tua disposizione».

 Se ci fosse stata una nota di disgusto nel tono di Galen, forse lui lo avrebbe sfidato. La voce di Galen era mite, però, dissimilmente dalle implicazioni che le sue parole contenevano. Krennic si sistemò sul bordo del letto con un sospiro. Non ricordava più l’ultima volta che lui e Galen avevano potuto godere della catarsi di un litigio. Persino quello che facevano a letto era solo un sollievo temporaneo, il sostituto della liberazione che entrambi cercavano ma non trovavano.

 «Resta pure per tutto il tempo che ritieni opportuno» capitolò Krennic. «Non mi impiccerò».

 La pioggia tempestava contro il vetro spesso delle finestre come il suono dei disturbi elettronici in un canale di comunicazione. «Rifletterò sulla tua proposta» replicò Galen, con un tocco del vigore necessario affinché ambedue potessero far finta che lui parlasse sul serio.

 Krennic si protese in avanti per premere le sue labbra sulla guancia di Galen, sfiorando la barba corta e l’odore di sapone economico. Tuttavia Galen girò il capo per incontrare la bocca di Krennic con la propria, e in quell’istante Krennic gli credette completamente: che Galen un giorno avrebbe scacciato via i fantasmi che lo seguivano in qualunque stanza entrava Krennic, che si sarebbe ricordato di tutte le imprese che avevano compiuto assieme, che sarebbe tornato. Lasciò che il bacio si protraesse per un po’, caldo e lento. Una specie di promessa. Una che era stata stretta senza parole.

 Quando Krennic si ritrasse, gli occhi di Galen si ridussero a due punti luminosi nell’oscurità, e gli fu facile convincersi che il baluginio di colpa che vi scorse non era altro che uno scherzo della luce dovuto al temporale.

 In un secondo momento Krennic si rese conto che Galen gli aveva dato un bacio d’addio. Successivamente, e fin troppo tardi.






XVIII


Sulla navetta che si allontanava da Eadu, Krennic ripensò all’ultima volta che aveva visto il suo capolavoro. Eclissata dall’ombra di Jedha, la Morte Nera era caratterizzata dall’assenza piuttosto che dalla presenza – un buco scavato tra le stelle, circondato unicamente da un anello grigio, la luce accecante sui suoi contorni che suggeriva l’esistenza di una massa fisica. Krennic l’aveva guardata rimpicciolirsi fino a diventare così minuscola da poterla nascondere con il pollice, e si era girato prima che la stazione scomparisse del tutto.

 Dopodiché: la piattaforma. Il fumo acre dello sparo di un blaster e poi il bagliore dell’esplosione. La pioggia flagellante e le mani che lo avevano trascinato al sicuro. Le sagome spiegazzate distese per terra dietro di sé. Già fuori dalla sua portata.

 Adesso che era seduto nella navetta e si toglieva i guanti con mani tremanti, mentalmente si aggrappava, come se ce l’avesse davanti, a quel fantasma della Morte Nera. La poteva esaminare, mentre sondava con le dita nude i punti dove la sua uniforme era stata bruciata e strappata, i lividi che avevano già cominciato a formarsi quando il suo corpo era stato gettato al suolo. I corridoi disposti sotto la superficie come vene, i canali di energia che si avvolgevano attorno al loro nucleo, il cuspide scintillante nel cratere principale: ripercorrere i dettagli lo aiutava a non provare sofferenza. In quel momento fu talmente conscio della sua perfezione che nel petto si sentì gravare un peso doloroso.

 Galen era morto. Era morto da traditore, e aveva vissuto come tale per qualche istante prima del suo decesso. Krennic non riusciva a ignorare quelle considerazioni, tuttavia era quasi in grado di sopportarle se immaginava la sua bellissima Morte Nera sospesa a mezz’aria. Lentamente, mestamente, si sfilò di dosso l’uniforme rovinata per sostituirla con degli abiti puliti.

Meriti molto più di… questo.

 Nelle sue orecchie suonò il ricordo della voce di Galen, che lo attraversò con la fitta improvvisa e la limpidezza di un colpo di blaster. La visione della Morte Nera tremò. Qualcos’altro la rimpiazzò: lampi del viso di Galen, e poi una memoria così offuscata che Krennic stentò a capire che gli apparteneva.

 L’immagine sospesa nella sua testa era in sfumature baluginanti color blu e tracciava una lenta orbita: un complesso studiato nei minimi dettagli, le camere per la sincronizzazione dei cristalli e i nodi per la raccolta dell’energia. Krennic era tornato nel suo ufficio assolato su Coruscant nel quartier generale del Corpo degli Ingegneri, un giovane Galen che sedeva sul lato opposto della scrivania e che gli chiedeva senza malizia alcuna di abbandonare tutto ciò su cui aveva lavorato per scappare con lui e realizzare insieme un progetto folle che gli stava a cuore. Una nuova risorsa nel campo della produzione dell’energia, un’opera senza precedenti a quell’epoca.

 Il candore con cui Galen gli aveva domandato – no, si era aspettato – di lasciarsi tutto alle spalle! Certo, non era al corrente dei piani a cui Krennic avrebbe rinunciato. Ma se avesse saputo, di sicuro avrebbe insistito ulteriormente. Krennic si era reso conto che Galen era stato posseduto dalla dissennata convinzione di doverlo salvare, anche se Krennic non aveva mai compreso da cosa dovesse essere salvato.

 Adesso iniziava a farlo.

 Malgrado gli anni trascorsi, Krennic poteva figurarsi ogni singolo particolare della struttura che lui e Galen avrebbero costruito. La scienza di Galen avrebbe provveduto all’energia, ma la struttura architettonica sarebbe stata disegnata da Krennic stesso. I corridoi sarebbero stati molto più ampi rispetto a quelli della Morte Nera, e le pareti più leggere, più ariose, disseminate di finestre per lasciar entrare la luce di un vero sole planetario. Sarebbe stato meraviglioso; Krennic lo avrebbe reso meraviglioso. E Galen lo avrebbe fatto funzionare.

 Per quanto insensata come proposta, c’era stata una parte di Krennic che avrebbe voluto accettare. Che avrebbe accolto Galen a braccia aperte e che avrebbe lasciato andare tutte le sue ambizioni. Sarebbe stato facile. Ma non era quella la scelta che aveva compiuto.

Vorrei che ci fosse un modo per persuaderti che hai altre alternative per contribuire alla pace. Allora Krennic aveva bollato quella risposta come il frutto dell’idealismo ingenuo di Galen. Ora non gli era più gravoso rivivere gli anni trascorsi, guardare di sbieco la foschia dei ricordi e chiedersi se Galen avesse avuto ragione.

 Krennic sognò a occhi aperti un altro po’, perlustrando quei corridoi che esistevano soltanto nella sua fantasia, spalancando soglie che conducevano a stanze destinate a non essere mai edificate. Immaginò Galen che gli veniva incontro senza il fardello visibile delle perdite subite e del lutto e delle bugie. Avrebbero avuto una vita semplice, tranquilla, avrebbero passato le giornate a litigare sulle minuzie progettuali e a partecipare a riunioni stancanti, ad addormentarsi sugli schemi e a bere caf in un silenzio confortevole. Krennic avrebbe usato la sua influenza per distribuire la tecnologia di Galen in tutta la galassia: loro due l’avrebbero presentata ai Separatisti come un’offerta di pace, per porre fine alla guerra senza dover versare una goccia di sangue.

 In un mondo del genere, non avrebbero avuto bisogno di mentirsi a vicenda. Non ci sarebbe stata Eadu. Non ci sarebbe stato alcun cadavere steso a terra e abbandonato alla pioggia. Il dolore gli invase nuovamente il corpo, come se quel futuro diverso stesse cercando di sottrargli qualcosa, una porta argentata che, aprendola, aveva risvegliato in lui un’agonia brutale e terribile.

 Quando Krennic riaprì gli occhi, ripiombò nella fredda e dura realtà dell’area passeggeri. Gli palpitava il corpo, l’uniforme pulita era accanto a sé sulla panca di metallo, e Galen Erso era morto. La porta si chiuse. Lui non provò alcun sollievo.

 Mentre finiva di vestirsi, Krennic cercò di rievocare l’immagine della Morte Nera. Non ci riuscì. La stazione si deformò e vorticò nella sua testa come un riflesso nell’acqua. Quando diede alla paratia un pugno così forte da fargli tremare i denti, il dolore si dissolse completamente.

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