{ Falling In Love Is Wrong }

di _Ellie_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Especially With Him. ***
Capitolo 2: *** Thinking, Tasting, Touching. ***
Capitolo 3: *** Wer Bin Ich? ***
Capitolo 4: *** Hysteria ***
Capitolo 5: *** Niemand Hört Dich ***
Capitolo 6: *** Nothing Else Matter ***
Capitolo 7: *** Our Farewell ***
Capitolo 8: *** Nacht Dir Kommt Nichts ***
Capitolo 9: *** See Who I Am ***
Capitolo 10: *** Falling in Love is Wrong... ***
Capitolo 11: *** Let it be Wonderful ***



Capitolo 1
*** Especially With Him. ***


1

1.Especially With Him.



Sì, perchè tra sonno ed incubo, ci sono i tuoi occhi.
Non ti chiedo troppo.

Non credo.
Forse solo un poco d’affetto.

Ma quello l’ho già...?
Non so.

Dio, sei così... impenetrabile.
No.
Immoto.
Si, sei immoto. Un poco estraniato.
Distratto, tranquillo.

Sarcastico, diplomatico.
Serio, malizioso.
Solo Schäfer, senza troppi casini.

Ed io sono solo il tuo tecnico del suono, Dorcas Shröder.

L’eterna idiota, il tipico personaggio delle favole che s’inciufola del principe azzurro, sapendo benissimo che non è stato, non è e non sarà possibile.
Il masochismo esiste, gente. Il solo fatto di bramare “l’ama e sii amato” è da considerare il primo passo verso la pazzia, la frustrazione, le risate per cavolate, le uscite con altri uomini fallite per il solo fatto che loro non sono lui.

Mi aggiusto la gonna con un movimento secco della mano. Sbuffo, attorcigliando una ciocca dei miei capelli sull’indice.
Sono nervosa.
Tanto.
Odio quando gioca con me.
Quando distrattamente osserva l’ondeggiare della gonna, tutto tulle e cotone, sui miei fianchi. Odio quando i suoi occhi intoppano con i miei, e nella mia testa parte “Don’t Stop Me Now” dei Queen.

Poco fa, in corridoio, non aveva maglietta.
Colpo al cuore numero uno.
Mi ha fatto ridere anche quando non volevo.
Si può odiare chi si desidera?
Ha sfiorato le mie dita, ha toccato i miei capelli.

Si è impossessato della mia testa con solo uno sguardo ilare.
Come possono, quei semplici occhi castani, bloccare il mio raziocinio per cinque duri secondi?

.-.-.-.-

Oh, merda.

Ci rinuncio.

-non devi battere cosi forte! Non si sente la chitarra!

Sospirai.

-e non mi guardare con quella faccia! Non è colpa mia se oggi non ci sei!

Cerco disperatamente di ucciderla con lo sguardo, ma i miei poteri soprannaturali devono essersi andati a farsi fottere, oggi.
L'osservo con la coda dell'occhio, una mano a strofinarmi la tempia, mentre con l'altra poggio distrattamente le baccchette sul tamburo.

-e mi vuoi rispondere, Cristo Santo?!

Secondo sospiro nell'arco di due minuti scarsi. Mi fotterò i polmoni, continuando così.
Ultima occhiata disperata a Dorcas.
No, non è scomparsa in una nuvoletta di fumo, come grazie divina vorrebbe.

-io non capisco cosa ti stia succedendo oggi, Gustav. Sei assolutamente...

Bla, bla, bla.
E poi altro bla. Ma come non sapevi che bla? E certo, blaaaaaaaaaaaaa!

Si può odiare e conseguentemente uccidere il proprio tecnico del suono?

-Dorcas, grazie per frantumarmi le orecchie per il ragguardevole record di...- diedi un'occhiata distratta all'orologio - cinque minuti di puro monologo.

Alzai lo sguardo, giusto in tempo per vedere gli occhi in gloria di Dodò ed il suo successivo sbuffo.
La ragazza la prese con spirito, come sempre.
Si limitò a girarsi ed andarse, il passo pesante di un katerpillar e la gonna in vero stile hippy spumeggiante sui suoi fianchi.

Tanto lo sapevo che stava sorridendo.

Mi alzai dallo sgabello, seguendola.

-guarda che ho finito di farti la ramanzina.

I suoi occhi mi gelano con un'occhiataccia, mentre schioccò la lingua sardonica.
Incarcai il sopracciglio, sorridendole di rimando.

-tu non finisci mai, è dalla prima sessione di prove che non molli l'osso.

Persevero. Tanto lo so, che riesco a farla ridere dopo pochi minuti.
Conto sulle dita.

-il che è successo ben tre anni fà, piattola.

Mi squadra un instante, indispettita.
E poi si limita a osservare il corridio davanti a sè per due lunghi minuti.

Ed adesso si morderà il labbro per non ridere.

Come volevasi dimostrare, lo stà facendo.
Stà stuzzicandosi il piercing con la punta della lingua, un guizzo rapido, come la lingua di un gatto. Si morde l'interno della guancia, per non darmela vinta.

-ma ormai mi dai fastidio da troppo tempo... mi annoierei senza i tuoi perenni bla-bla.

Chiusi le dita della mano sinistra a becco, portandomele poi al viso.

-vero, Dodette?

Apro e chiudo le dita della mano, imitando il tono di voce squillante di Dodò.

-non puoi non parlargli, caVa. Ormai mi ha anche ribattezzato Dodette! Sono solo una povera mano. Quando non ci sei tu, ci sono io. Ti rendi conto del lavoraccio che mi dai?

Annuisce senza guardarci. Ripensandoci, forse non vuole avere la visione di me a petto nudo per colpa dell'afa berlinese?

-Gustav, Dodette, lieta di fare la vostra conoscenza. E, Dodette... continua così, vai forte piccola.

Sorrido, dirigendo la mano verso di lei e cercando di pizzicarle il naso.
Dodò prova a sfuggirmi, agitando la sua mano e scacciando la mia. Per poi girarsi, intercettando il mio sguardo.
Un paio di occhi d'un cupo blu che scintillano, forse, d'ilarità.
{O forse no.}
Un colpo al cuore, nonostante il mio sorriso rimanga imperturbabile.
E poi un lieve ed impercettibile sorriso obliquo, che si trasforma in una risata quando riesco ad afferrarle una ciocca di capelli decorata con perline di tutti i colori, molto stile afro.
Gridolino di vittoria da parte di Dodette. Risata cristallina da parte della Dodò.
Prova a liberarsi, ma non ci riesce.
Il contatto con le sue dita lisce e fredde, mi dà un lieve senso di calore alla bocca dello stomaco.
Forse è per questo che la mia amica Dodette non mollarà questa ciocca di capelli, ne andasse della sua stessa vita.

La risata di prima si diluisce in un gran sorriso che le circumnaviga la faccia. Distoglie gli occhi dai miei, incrocia le braccia al petto dandomi l'impressione che non sappia proprio dove metterle.
Mi sembra quasi imbarazzata.

Ma forse era solo un'illusione ottica.
Per me l'importante è che l'abbia fatta ridere.

Modestamente sono gustav schäfer, nome in codice: buon samaritano. Che sia volente o nolente non importa: tutti si affidano a me ciecamente, con la scusa che sembro un beato in processo di canonizzione.
E sono profondamente convinto di esserlo, dato che sono circondato da tre schizzati e ancora non sono stato internato in un manicomio.

Tre schizzati più un manager stressato.
Più un bodyguard-mastino.
Piú una crew di deliranti e oppressi omucoli/e che *col cacchio* vivono una placida vita al seguito dei Tokio Hotel.

Che, come detto prima, sono una manica di pazzi furiosi.

Più lei.
Lei.

Il mio tecnico del suono.

Pignola.
Esagitata.
Acida.
Dolce. Espansiva, affettuosa, anticonformista, originale. Anti-fan.
Amorale, maliziosa al limite del volgare.
E con un linguaggio da scaricatrice di porto.

Anomala.

Magra, alta un metro ed uno sputo, una bassotta {perfino più di me, il che è un toccasana per il mio ego virile}, una cascata di riccioli bianchi e ciocche di perline e rasta. Occhi blu-violaceo, pelle olivastra ed una spuzzata di lentiggini sul naso.

E quelle labbra rosee, con incastonati due piercing. Uno nel centro del labbro inferiore, l'altro sul lato sinistro del primo.

L'arrivo in corridoio, e la conseguente stoppata ad opera del braccio di Dodò, mi distrae da pensieri poco casti sulle sue gambe.
{E come mi sono ritrovato a pensare al suo fisico...?}

Ebbene sì, perchè il corridoio da sul salone.

E come ogni abituée della casa-studio Kaulizt, Listing&Schäfer sà, nel salone si concentrano le virtù e le torpitudini di questa casa.

Ovvero, rispettivamente, io e poi loro.
Loro.

-TU!

Tono furioso di Tom, occhiata indifferente di Georg.

-sei seduto sul mio capellino dei SOX della Chicago-1967-AtalantaMatch-Edition!

cCredo che l'occhiata indifferente di Georg sia dettata dal fatto che abbia tra le braccia Christa. E quando Georg { Dolcemente soprannominato dalla ragazza "Rapunzel" } è con Christa, stacca la spina.

Sempre che si ricordi di attaccarla, ma quello è un'altro paio di maniche.

Osservo con la coda dell'occhio come Dodò si caccia la mano in bocca per non ridere.
Ovviamente, Christa è amica sua. E, ovviamente, e mi sempre di ridondare persino troppo, in questa ridondante frase, Dorcas è la calma e pacifica tra le due.
Afferrate gli annessi e connessi?

-Tom.

La voce particolarmente rauca { i baci alla Georg fanno questo effetto, e, prima che me lo chiediate, non ho avuto la "fortuna" di sperimentare } appartiene a quel paio di braccia cariche di anelli e bracciali che si afferrano alle spalle del nostro bassista.
strano che non siano in altri posti.

-ma io ti vengo a rompere con i miei ciondoli, quando non ne trovo più perchè sono, casualmente, divenuti regalo-ricordo last-minute delle tue notti di passione?

Tom inizia a fischiettare, girandosi i pollici e saltellando da un piede all'altro con aria assolutamente distratta.

-e non cercare di svicolare, Kaulitz.

Sospiro da parte di Georg che, ovviamente, non stacca gli occhi dalla faccia assolutamente sconvolta, rossa e scazzata di Christa, che a sua volta cerca di fulminare Tom con lo sguardo.
Inutile cara, oggi i poteri soprannaturali fanno cilecca.

{o forse dipende da chi ti è affianco?}

Dopo un gioco di sguardi con Dodò, decidiamo sganasciarci dalle risate silenziosamente, solo per non disturbare quello storico incontro tra cervelli a livello mononeuronale.

Ed ecco che Georg dimostra di avere una voce.
Che in quel momento è sullo stile i-wanna-you-to-do-something-that-is-currently-censured-mode-on.
Tanto lo sò che ci arrivate anche voi.

-Come riesci ancora ad articolare un'acidità coerente?

Sguardo interrogativo da parte della ragazza, fissa da ben {udite udite} due mesi e mezzo!

-apro la bocca, parlo, penso e prendo ossigeno?

A parte il fatto che ormai Dorcas è appogiata alla parte per non cadere a terra, è che i suoi occhi { come fari } sono strizzati per impedire a delle lacrime d'ilarità di scendere, che la sua bocca è spalancata in una risata muta è che il fatto di poggiarsi al muro e contemporaneamente scivolare per terra le stà alzando pericolosamente la gonna { su, verso la grande incognita della mia vita }, vorrei sottolinerare l'ordine con cui Christa ha esposto gli atti.

Ragazzi, è il riassunto della sua personalità.

L'espressione di Georg si rabbuia.

-questo non và affatto bene, i mie poteri staranno perdendo efficacia..?

Il suo tono seCsi ovviamente fulminò la povera ragazza, che non avendo occhi che per lui, non face caso a Tom che cercava di suicidarsi con l'orlo della sua felpa per la melensaggine che fluttuava nell'aria.

-ah, di quello non ti devi preoccupare.
Pigolò, la voce debole. Un giorno o l'altro, MisterOcchiVerdi farà venire un'infarto a quella povera ragazza.
-la testa me l'hai già fatta perdere.

Tom tornò alla riscossa, spuntando oltre la spalliera del divano sul quale i due stavano l'uno nelle braccia dell'altro.

-oserei suggerire, lovers, di perdervi nelle braccia della passione nella camera del nostro, ormai cerebralmente deceduto, bassista.

I due non gli fecero caso. Al che io ebbi pietà di Tom e dissi le paroline magiche utili per far sloggiare quei due conigli.

-Saki ha comprato tre casse di durex in più, tutte in camera di Tom, Georg.

Neanche gli avessi pubblicizzato il nuovo basso della Sandberg, il ragazzo ha afferrato Christa come una qualsiasiasi ragazza vuole che il suo principe azzurro la prenda, ossia scarrozzandosela in braccio, cosa che ovviamente Christa ODIA, per scomparire sù, verso il piano di sopra.

Tom li guarda andarsene, crucciato.

Sà che la sua camera è la prima porta del corridoio.
E sà che è insonorizzata.
E sà che, invariabilmente, Georg ha sequestrato camera sua per le prossime tre ore.
ebbene sì, noi Tokio Hotel, per le cose sconce, utilizziamo la camera di Tom.
Non tanto perchè lì, con tutto il materiale che ci gira, ci siano sempre nuovi spunti.
Ok, l'ammetto, anche per quello.

Ma, soprattutto, perchè camera sua è l'unica con il letto a tre piazze.
Però è una cosa complicata, utilizzare la camera di tom.

Prima di tutto, per trovare il letto in tutto quel casino.
Secondo: sempre che ci sia ancora un letto a qualche parte.
Mica lo si vede a prima vista.

Ma tutto fà brodo. anche il gioco "alla ricerca del letto perduto".

Mi avvicino al povero, sconsolato Tom che, oltre avedersi sbattuto fuori dalla sua camera, ha ritrovato quello che ne restava del suo capellino.

Con una pacca solidale sulle sue gracili e svettanti spalle lo faccio tossire per mezzo minuto. Poi mi dirigo in cucina, mentre lui cerca di uccidere me e Georg a forza di imprecazioni.

Dodò mi segue liberando una fragorosa risata. Mi giro verso di lei, osservando come si tiene pancia con le mani, il viso distorto in un'espressione di pura ilarità.
I suoi capelli bianchi sono come una nuvola vaporosa che la sovrasta, mentre le spalle sono scosse da sghignazzate poco signorili.

È così comico il modo in cui ride, che mi ritrovo a ridere con lei.

Tom ci osserva con un'espressione trà il malizioso ed il vispo.
{ Mi chiedo perchè. }
Poi, alle spalle di Dodò, mi sillaba silenziosamente un "datti una mossa."

"Però con che?" sillabo io di rimando. Lui non risponde, sbuffando spazentito.
Lascio passare una singhiozzante Dodò in cucina, per poi chiudere la porta e rimanere solo con Tom.
Capendo l'antifona, si avvicina con passo saltellante, i rasta come tanti serpentelli, osservandomi con uno scintillio malizioso.

-Gugu, quando ti darai una mossa?

Inarco il sopracciglio.

-mossa con che, scusa?

Adesso tocca a lui inarcare il sopracciglio.

-Ma con quella là!
-là?

Indica spazientito la porta alle mie spalle.

-ma si, lei!
-lei.
-lei!
-lei?

Tom sbuffa, sconsolato.

 

 

 

 

.-.-.-.-

 

 

Disclaimer: I Tokio Hotel non mi appartengono, no scopo lucro, riferimenti a cose/fatti/persone puramente casuali.

Allora, una semplice storia corta su Gustav Schäfer ed un'altro personaggio, ovvero il suo tecnico del suono, alias backliner, alias un sacco di cose.
Che, in questa storia, è una ragazza. XD
Prevedo che sarà cortina, sui due-tre chap ed ovviamente adorerei ricevere commenti, critiche, etc.
Comunque, vi lascio in balia di Dorcas, a voi il giudizio. <3<3<3

Per leggere l’originale su THFF (in cui l’ho pubblicata con il nick di _Ellis_), qui.

 

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Capitolo 2
*** Thinking, Tasting, Touching. ***




Secondo Chap, People! Commenti al finale. XD Sempre se sopravviverete.

2. Thinking. Tasting. Touching.

-lei?
Tom sospira, rassegnato.



-no, senti, non ci pensare minimamente.

Le labbra di Tom si curvano in un sorriso obliquo che è tutto un programma.

-e chi pensa cosa, scusa?

La sua lingua passa distrattamente sul piercing, mentre il suo sorriso sadico e con una punta di sincero sadomasochismo, che farebbe invidia a It di Stephen King, sta facendomi sentire come un’eretico alle prese con l’inquisitore Torquemada.

-io dico solo in base a quello che avverto nell’etere...

La sua regale mano si degna di indicare tutto l’ambiente circostante. Seguo attentamente il suo sguardo, cercando di non fargli notare che il suo tutto si riferisce ad un televisore al plasma momentaneamente ricoperto di panna, ad un divano in pelle nera visibilmente chiazzato di maionese ( giustamente abbinato ad un parquet reso scivoloso dal ketchup e dal quadro post moderno che sono le smaltate nere di Bill sulla parete ) e ad un paio di Vans distrutte che sospetto siano il tanto amato etere di Tom.

In quel caso, si spiegherebbe tutto. La classe non è acqua, e un paio di scarpe di Bill non sono sicuramente all’odore di colonia.

Sbuffo scettico incrociando le braccia, mentre il qui presente Casanova sembra essere pronto a farmi un corso di “attracco” accellerato. Glielo dico o non glielo dico, che quella francesina aveva concluso la serata in bellezza con il sottoscritto, a discapito del sorriso sghembo del soggetto in questone?

Naaa. È una di quelle cose da sbattere in faccia situazioni estreme: in punto di morte o quando ci si è già pienamente suicidati a livello sociale.
Stile colpo di grazia, causa embolo.

Comunque, tralasciando i miei alquanto improbabili trip, decido tornare al presente con un quanto mai appropriato colpo di tosse.

E voi credevate che Mr. Elettroshock fosse l’unico che distruggesse i timpani con i suoi attacchi di logorrea acuta?
Tzs.
Illusi. I due sono gemelli, nel bene (poco) e nel male (parecchio).

Tom s’interrompe nella sua dotta spiegazione sul piacere di avere una vasta collezione di tanga per guardarmi dall’alto del suo metro e fruscia ( qual tanto che basta per farmi sentire più tappo della norma ), vagamente infastidito del mio disinteresse per la sua regale persona.
Sospiro. Ancora.
Poveri, poveri i miei polmoni...

-quante volte ti ho detto che i tuoi sensori sono fuori parametro, Tom?
-Tante volte quante gliel’ho detto io, Gustav. Ma si ostina a non darmi retta. Finchè tutte quelle ragazze continueranno a svasarglieli...

Io e Tom veniamo sorpresi (sarebbe meglio dire che rischiamo un colpo al cuore) dalla silenziosa presenza di Bill, che ci sorride enigmaticamente dalla porta del salotto.

Si avvicina a passi leggeri, corpo sdutto di un ballerino di samba, occhi cerchiati pesantemente di khol nero, una (incredibilmente) semplice coda e un cappellino dal modello militare con tanto di visiera quadrata.

Il suo sopracciglio, decorato dall’onnipresente anellino argentato, è sul punto di sconfinare oltre il bordo del cappellino, tanto è inarcato causa sorriso obliquo quantomai minaccioso.
I suoi occhi scintillano di una ilarità a stento repressa e io so, me lo sento in queste robuste ossa teutoniche, che è profondamente incuriosito.

E si accanirà finché non riuscirà a ottenere quello che vuole, a costo di usare il sorriso più infingardo e l’aria più falsamente innocente che si sia mai vista.
Che, tra parentesi, su di lui ha questa apparenza di sincerità che solo Dorcas riesce a simulare con alrettanto successo.

( tutte le strade portano a Dorcas, no? )

-lei chi, Gustav?

Scuoto la testa sconsolato, fermamente deciso a fare in modo che gli affaracci miei rimangano tali.

Gli occhi di Bill scattano da Tom a me. E da me a Tom.

E mentre il gemello con i rasta che pensano per lui (no, non mi dite che credevate seriamente che lui ce l’avesse sul serio, un cervello!) ha un ghigno saputello che se non fosse per le orecchie gli farebbe il giro della faccia, il sorriso di Bill si allarga ( si, é possibile ) e, con un agile movimento ampliamente collaudato, si appoggia alla spalla di suo fratello.

L’attacco congiunto dei due gemellini Kaulitz-Kakatua no, per favore.

Portandomi una mano agli occhi, cerco con molta nonchalance di compiere una la prima smaterializzazione umana e sparire dal raggio d’azione di Bill.

Tom ridacchia sonoramente, mentre imita lo stesso battere il piedino del fratello { calato in un paio di scomodissime cult } sul parquet.

Credo che il mio scuotere forsennatamente la testa per impedirgli di dire alcunchè sia inutile.
Ma forse la minaccia di morte lo fermerà?

{ Ragazzo, se non vuoi morire, non lo fare.
Non parlare. Ficcati ciò che resta del tuo cappellino in bocca e tappati. }

-bhè, allora?

Tom incrocia le braccia sul petto, osservandomi con la coda dell’occhio, mentre un Bill dall’inquietante sorriso sornione si fà spazio nella mia top ten di possibili incubi notturni.

Voglio morire, Tom e il mio segreto con me!

-avanti, svelamelo: hai appena consigliato a Gustav di approfondito il contatto con Dodò? La sua tecnica del suono?

Terra inghiottimi.
No, meglio, inghiottisci loro.

Dato che non ho assolutamente voglia di sopportare un interrogatorio in piena regola, mi giro verso il mio porto sicuro: la cucina.
Ho già la mano sulla porta, quando la voce di Bill, con un tono dolcemente accattivante,
mi richiama.

-comunque, non credo che Dorcas sarebbe poi cosí male.

Argomento imbarazzante, bollente, patatoso e patatero. Che, ma guarda un pò, non ho assolutamente voglia di affrontare in un simpatico tète-à-tète con quelle lingue lunghe.
Vorrei tanto fulminarli con lo sguardo, ma ottengo solo l’ennesimo sorriso smagliante da 100 watt, che riesco a spegnere solo richiudendo la porta dietro di me e fuggendo nel “Remoto reame della Pizza Congelata”, dove, guarda caso, in qualità di improbabile donzella in difficoltà, c’è Dorcas.

( Tutte le strade portano a Dorcas, no? )

.-.-.-

Non credo che Dorcas possa essere definita come tranquilla, pacifica, o altri aggettivi di carattere tipicamente sedentario.

Dorcas è adrenalinica, è l’antitesi del pantofolaio e la nemica del sonno, la ragazza che ho dovuto portare a braccia dai divani di svariate hall su cui si era buttata “per solo cinque minuti, Boss” nelle camere di altrettanti alberghi, il tutto perchè la sua giornata lavorativa era stata di ventitre ore.

Voglio dire, dovrebbe inquietarmi tutto questo. Non c’é niente di fisso in lei, niente di anche solo vagamente longevo: forse solo i suoi tatuaggi se la scampano.
Eppure lei è una di delle poche persone che mi strappa dalla bolla in cui mi sembra di vivere per tutta la durata di queste rutinose turnée, che sembra cancellare e resettare la lista delle mie priorità, fino a far arrivare al primo posto il “farla ridere prima di colazione.”

Perfino quando legge, ha tutta una mimica particolare che le permette stare ferma e contemporaneamente non dare l’impressione di staticità.
Come ora.

Quando entro in cucina, sorprendo una crucciata Dorcas leggere il dorso del cartone del latte. Con il dito medio tormenta una ciocca di capelli bianchi sfuggita alla fascia, mentre le gambe tornite spuntano da un fitto tripudio di strati di tulle e cotone multicolor della gonna. I piedi minuti, calzati in stivaletti di pelle morbida, penzolano liberi dal ripiano della cucina dove è seduta.
É inutile domandarle di sedersi. Per lei non esistono sedie, sono troppo ferme, troppo fisse nello spazio relativo di un quanto mi breve attimo della sua quanto mai rapida vita.

Quando legge, i suoi occhi sono socchiusi nel tentativo di supplire al piccolo carattere delle scritte, mentre con la lingua si tortura l’anellino del labbro.

L’osservo scuotere la testa rassegnata, con conseguente smottamento di tutta la sua abnorme massa di capelli, per poi allontanare da sè il cartone del latte con una smorfia.

Per poi riavvicinarlo ancora. Rilegge meglio, storce le labbra con tanto di piercing, inarca un sopracciglio. Sospira, chiude gli occhi rassegnata, mentre le sue labbra sussurano un silenzioso gemito.
Sarà latte guasto, come sempre.

Rendendosi conto di essere osservata, alza gli occhi.

{ Chi è riuscito a regalargli un paio di calamite al posto degli occhi? }

Mi sorride, allegra.

-ehi, Gugu!

Inarco il sopracciglio, mentre a fatica districo il mio sguardo dalle sue ciglia.

-Gugu?

Sghignazza divertita, senza coprirsi la bocca con la mano e facendosi sentire, agitando le gambe avanti e indietro forsennatamente, quasi fosse la bambina che sembra essere.
Ma è una iena. È volutamente maleducata. È lei stessa. Ammirabile.

-assolutamente. Io mi becco Dodò, e tu Gugù. Così facciamo pendant.

Ridacchio divertito, mentre lei fà definitivamente volare il pacco di latte nella spazzatura con un lancio preciso e una smorfia di disgusto.

Decido di rivolgere la mia attenzione al contenuto del frigo, che, come al solito, è desolante.

Il Ritter di Tom, la panna di Georg, i pasticcini di Bill...
E poi si chiedono come possiamo avere ancora tutti i brufoli, a ventidue anni suonati!

-ehi.- la voce di Dorcas mi sorprende. – ma quelle non sono fragole?

Osservo meglio il terzo cassetto. Eh, già. Il peccato di gola preferito della nostra piccola Dodette.
Mi siedo al suo fianco sul ripiano della cucina, dopo aver opportunamente sciacquato le suddette fragole.

Lei mi sorride allegra, prima di mordere un piccolo pezzo di frutto rosso.
Mentre io posso solo mordere le mie, di labbra.

{ Perchè, quali labbra vorresti provare adesso? }

.-.-.-.


Fragole. Adoro le fragole. Quelle senza niente, una botta d’acqua e via, solo lavate e senza foglie. Le prendo delicatamente con due dita, le osservo attenta e le mangio a piccoli morsi, socchiudendo gli occhi e gustandomi fino in fondo quel sapore di selvatico, di vagamente asprigno.
Quel sapore che l’eccesso di zucchero elimina.
Forse è per questo che odio il prototipo della fragola dolce: è il più banale degli steriotipi, e in più fa pure venire la carie.

Esattamente come me, se non mi prendessi a piccoli e misurati morsi. Se non decidessi le mie prioritá e i miei problemi con tatto e delicatezza.
Se non mi criticassi con un poco di limone e non mi adorassi con un pizzo di zucchero, certo, ma a velo, quel tipo di zucchero, insomma, che non impiccia e solo allevia.

Se mi avessero shakerato con panna e zurro di canna, come si aveva intenzione di fare, come hanno fatto, imbottendomi di schifezze e tirandomi su a forza d’illusioni, probabilmente avrei fatto indigestione di me stessa fino al rifiuto piú totale.
Se mi fossi abituata a digerire tutto senza masticare, probabilmente sarei già precipitata oltre il sottile confine della droga, lo so.

E invece sono qua, a metaforizzare fragole e vite passate di una persona che, stento a crederlo, fossi io.

Un deglutire rumoroso e forzato mi distrae. Apro gli occhi di scatto, lasciando perdere filosofeggiamenti vari per lui, girandomi verso un Gus quanto mai rosso.

Osservo critica come, anche oggi, il ragazzo sembra gridare ai quattro venti un concetto tutto personale di “stuprabile”.
Perchè, perchè sembra avere un’allergia alle magliette?
Grido che il mio cuore raccoglierebbe con immensa gioia, se non fosse che quel monaco del mio cervello mi ripete come un mantra l’odiosa parola “amicizia”.
Insomma, siamo prosaiche. Non è affatto possibile. Tre anni passati dietro a lui e alla sua batteria, tre anni passati a girare l’Europa, tre anni in cui ho salutato un fidanzato, mollato amici vari e costretto una famiglia a vedermi solo per le vacanze obbligate.

Anni in cui, da brava beota, ho fatto esattamente quello che mi ero vietata: prendermi la sbandata per lui. Quante, quante volte ti ripeti che cose del genere nella tua vita non accadranno mai, per il semplice fatto che tu sei troppo forte per lasciarle accadere?

Tante volte quanto è grande l’errore.
E così, abbiamo potuto dare un tacito inizio al mio incubo personale: una brutta dipendenza da quel dopobarba dal nome impronunciabile, oltre che del proprietario del suddetto.

E tanti saluti all’equilibrio interiore. Il mio. Perchè il suo lo ha tranquillamente conservato.

Perchè tutto in lui è tranquillità, come se ogni movimento che facesse, lo facesse in piena stasi temporale. Puoi definirlo placido, tranquillone o distratto: di lui mi attira quella sensazione di pacificità che non ho mai provato prima in me stessa.
É calma pura, e io adoro la calma. Forse perchè, prima di lui e di questo incarico, i miei pochi punti fissi sono andati a farsi fottere con una velocità vertiginosa.

-no, non ti preoccupare.

Altro piccolo attacco di tosse. L’osservo dubbiosa.
E se non fosse per il fatto che lo conosco, potrei quasi chiedermi perché sia così imbarazzato per un semplice boccone di traverso.
Sbuffo dandomi mentalmente ella paranoica, l’osservo con la coda dell’occhio, intoppandomi con il suo sguardo.

Merda.

Abbasso gli occhi, li dirigo in fretta la parete di fronte a me e con molta noncuranza inizio a leccarmi il resto del succo di fragola dalle dita.

“Tanto” mi ritrovo a pensare incazzata “questo qua mi vede come la sorellina innocente. Solo perchè ho l’aspetto di una diciottenne non significa che non abbia ventitre anni, e che diamine!”

Altro colpo di tosse rumoroso. Mi giro indispettita verso Gustav.

-ma ‘sto kaiser di tosse, Gugu, perchè non te la curi...?

L’osservo scettica, mentre lui, mano educatamente sulla bocca, è in preda ad un attacco di tosse che lo ha reso quantomai simile ad un gambero.
Sospiro, occhi al cielo. Oddio. Non è che mi ritrovo il batterista dei Tokio Hotel fulminato a ventitre anni scarsi?
Rabbrividisco al solo pensiero i cosa potrebbero farmi le fans, se sapessero che è morto sotto gli occhi stupidi della sottoscritta.

Poi, con un tatto che stupisce anche me, poggio delicatamente una mano sulle sue spalle.

{ Ignoro deliberatamente la scossa che mi stà dando, forte abbastanza da farmi venire in mente improbabili piani per narcotizzarlo e farne quello che voglio.
Ma… Ignorare, Dorcas, ignorare è la parola d’ordine. }

La sua pelle liscia è rovente, e la schiena abbronzata è scossa da quella strana tosse.
Vedendo che la tosse non accenna a diminuire passo a metodi più energici, battendo sulle sue spalle per cercare di tranquillizzarlo.
Mi sporgo verso di lui, che sembra annegare nel suo stesso attacco,

-Oh Cristo, ma non avrai la febbre...?

Il dubbio mi assale. Mordendomi il labbro per la preoccupazione, poggio l’altra mano sulla sua fronte.

Oh, Dio.

È accaldatissimo, e lo sguardo vacuo che mi rivolge non fa che confermare i miei sospetti.

Decido d’agire d’urgenza, se non altro per farlo smettere di tossire: una mano sul petto, a sostenerlo perchè non cada in avanti, mentre l’altra a sollevare il meno per guardare in alto.

-guarda su, Gustav.

Ordine superfluo, visto che sembra aver capito al volo le mie intenzioni e cerca di assecondarmi, nonostante la mancanza di ossigeno gli stia sconquassando il petto.

-ma tu stai male.

Dinieghi e ancora più coff-coff a parte sua, povero.
Smettila, smettila di costringermi a sostenerti…

Sto qui a pensare al fatto che la sua pelle è bollente, quando l’unica cosa di cui dovrei preoccuparmi è che non mi vomiti sul pavimento!

Sono una fottuta egoista, ecco.
Non ci bastava essere frustrata, no.

Con un sospiro di sollievo da parte mia, sento la tosse diminuire. Si passa la mano sulla bocca, implorando con una voce d’oltretomba un bicchiere d’acqua.
Salto giù dal ripiano, per poi rifilare a Gustav una tazza colma fino all’orlo.
L’osservo bere imbambolata, dandomi mentalmente della cretina.
Eppure no, non ci riesco a staccare gli occhi da quelle labbra sottili.
Giusto in tempo per fare la figuraccia del giorno, dato che rialzando lo guardo dalla tazza s’intoppa con la mia espressione ebete, del tutto concentrata sulle sue labbra.

Arrossisco, mi do mentalmente dell’arrapata e decido darmi cinque minuti di tempo, prima di uscire da questa stanza in piena crisi di dipendenza.
Se non fosse che la sua voce, al momento pericolosamente roca, m’incatena al mio posto.

-Dorcas, perchè hai le mani fredde...?

Me le osservo stupidamente, arrossendo come un peperone e pregando un qualsiasi santo in paradiso che non si sia accorto di nulla. Lo sento ridacchiare, lui, il colpevole di tutto il mio imbarazzo, l’abominevole essere che mi fa pendere dalla sue labbra.

-io... scusa.

Guardo il pavimento per non scavarmi una fossa.
Perché, perché mi sono inutilmente scusata?

Dorcas, hai appena perso la tua dignitá.

(oddio, non dovrebbe essere plausibile essere cosí felici di perderla, no?)

No. Significherebbe l’inizio della fine.

-oh, no. Mi piace che siano fredde. Io ho così tanto caldo...

L’osservo con la coda dell’occhio. Mi sorride, pacifico, con l’espressione ancora affaticata per aver tossito troppo. Mi mordicchio il labbro, nervosa.

Ha le labbra gonfie e le guance arrosate. Gli occhi sono socchiusi, mentre il capelli sono più lunghi del solito e arricciati per il sudore.
La pelle el petto è lucida, e posso distinguere ancora la sagome della mia mano sulla pelle della sua gola.

Sembra...

Ah, Dodò, stoppa qua. Non puoi. Non puoi immaginartelo in quella situazione. Non di fronte a lui.
Distolgo gli occhi imbarazzata.

{ Cretina, come se lui potesse vedere il trip mentale vietato ai ventiquatrenni che ti stai facendo. }

Con un gesto quasi timido, poggio delicatamente la mia mano sulla sua fronte, provocando un sospiro di sollievo da parte sua. Socchiude gli occhi con un appagato in faccia.

( ma quello, non é un sorriso malizioso? )

 

 

 

.-.-.-.-.-

 

Oh, scusatemi veramente tanto per gli orrori gramaticali e/o incomprenibili accenti, ma qui la tastiera sembra aver deciso di fare di testa sua con i segni ortografici, accenti inclusi.

Inoltre, il capitolo non mi convince niente.

 

É piatto, e le descrizioni si raggrumano in nodi di difficile lettura.

Oh, sono affranta. É la terza volta che lo riscrivo, e se son spine, pungeranno.

 

Intanto, sarei entusiasta per il semplice ricevere critiche severe.

A proposito di commenti...

 

_Princess_, simmyListing, EtErNaL DrEaMeR, Lady Vibeke.

 

G r a z i e.

Danke.

Gracias.

Merci.

 

Per parole che non mi ero aspettata di ricevere, per complimenti che non credo di meritare e per farmi notare errori a cui ho cercato, inutilmente credo, di porvi rimedio.

Per avermi incoraggiato, criticato e per quella deliziosa battutina su Georg e sulla CO2, sui cui mi ritrovo perfettamente d’accordo.

Decisamente sono le piú belle recensioni che un writer potesse mai ricevere.

 

Spero di leggervi ancora, e scusate questa penositá. XD

 

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Capitolo 3
*** Wer Bin Ich? ***


{ LaFee, Wer Bin Ich

{ LaFee, Wer Bin Ich? }

 

 

 

3. Wer bin ich?


Vorrei che tutto fosse facile. Bramerei il poter staccare il cervello per cinque, eterni minuti. Cosa impossibile, dato che se lo facessi, significherebbe un collasso.
Ogni parte della mia giornata tipica è un susseguirsi di attacchi e prove, tutte cose che io devo superare con l’autostima intatta, un sorriso sulle labbra e l’aria di chi è perfettamente ok.
La gente non chiede altro che avere punti di riferimento che non crollano mai, non chiede che l’eterno, fiducioso e persistente protrarsi nel tempo di un’oggetto, persona o sensazione.

Non ammettono e non concedono debolezze: il tuo sorriso è oro, la tua apparente fermezza è la loro fermezza. Dai tuoi gesti dipendono conseguenze che poco hanno a che vedere con te, eppure sai che potresti provocarle con un schioccare di vita.

Ma la gente inizia a dubitare di te, quando scopre che sei umano anche tu.
E niente è più pericoloso che un massiccio processo di dismitificazione, per crollare con il, mi si passi l’espressione, culo per terra.

Il domani.
Quando mi fermo, tra una turnée e l’altra, mi viene da chiedermi se ce l’avrò, un domani.
Per poi ricordarmi che il mio domani è già qua.
Preme, incita e mette ansia, è come fare un’eterna corsa inseguiti da una muta di mastini.
Un domani che ti è ricordato costantemente dal tuo manager, dai tuoi amici/colleghi, da una famiglia che ti vede si e no a natale, pascua e d’estate.
È quando arrivi in quelle situazioni in cui tutti sembrano gridare un assordante “muoviti!”, che poi scopri che ti sbagliavi.
Che non saresti vissuto per sempre in quella bolla dorata, che non tutto nella tua vita futura serebbe stato una corsa contro il tempo.
Che non tutti ti avrebbero sospinto con forza verso un quantomai evanescentte “futuro”.

Non l’avrebbero fatto e non l’hanno fatto.
C’è stato qualcuno che mi fermato, in tutto questo. Che mi ha incatenato ad un momento preciso, che mi ha chiesto se, per favore, potessi un momento dimenticarmi di tutto quello che stesse vorticando intorno a me. Per poi prendermi la mano, e condurmi in un posto nuovo.



Avverto che il letto cigolando si abbassa un poco, mentre qualcuno si siede accanto a me.
Cancello con un gesto distratto un minuscolo errore d’ortografia, mentre aspetto in silenzio una sua domanda.

-che scrivi?

Appunto.
Il suo tono è curioso, mentre la sua mano calda si poggia dolcemente sulla mia spalla. Nel mio campo visivo entra una mano sommersa dalla manica di una felpa troppo lunga per lei, mentre l’indice, che spunta dal bordo, indica il foglio su cui scrivo.
Distolgo lo sguardo dall’ultima parola che ho scritto. Sorrido divertito, mentre mi giro verso di lei. Gli occhi scuri candidamente spalancati e le labbra socchiuse, è il ritratto della curiosità.
E io mi ritrovo a pensare che non lo dimostra affatto, il suo essere maliziosissima.
Ha occhi neri che sono fatti per guadare innocentemente, non per ghiacciarti con un battito di ciglia. Ha labbra rosse che dovrebbero palpitare per il troppo sorridere, non stringersi in una linea severa.
Ha una grazia tutta particolare, che dovrebbe ingentilirla, e non renderla un vortice su due gambe.
E, come sempre, mi viene voglia di baciarla per questo.

Sciocco la lingua, osservando la sua espressione interrogativa.

-niente, le mie memorie per quando mi vorrò ritirare.

Ridacchio.
Lei inarca un sopracciglio divertita, mentre le labbra carnose si stiracchiano in un sorrisetto che niente ha a che fare con l’espressione innocente di prima. L’ho già detto, che le leggi della anatomologia con lei non ci azzeccano proprio?

-metti le mani un poco avanti, non trovi? E... no, non rispondere.

Mi poggia l’indice sulle labbra, troncando una piccola risatina da parte mia. Mi guarda con un un sorriso obliquo e l’osservo frugare un poco nell’enorme felpa che, ovviamente, è del sottoscritto. Lei viene in studio appena finisce di lavorare, non ha tempo di cambiarsi. Quindi, ancora non ho capito come, riesce sempre a fregarmi gli abiti.
Cosa che non mi dispiace poi troppo, devo dire.
Sembra cercare in tutte le tasche che credevo non potesse avere una felpa, lingua tra le labbra e rifunfugnando imprecazioni contro una felpa che so che ama.

{ È lei, la mitica, la “SC 85” bordeaux* del mio primo photoshoot fotografico. Che, ovvio, a lei sta grande il doppio. O triplo.}

-trovata!

Mi osserva trionfante, mentre dalla tasca centrale della felpa rossa riesce finalmente, e non senza un buon numero di sbuffi contrariati, ad estrarre una bottiglia di thè freddo che mi porge con un sorrisone divertito.
L’osservo un momento, sinceramente stupito, rifiutandomi di credere che mi abbia fatto quella piccolissima sorpresa.
Poi scoppio a ridere.
Lei s’imbroncia un poco.

-ehi! Non è colpa mia se tra tutti questi metri di stoffa non riesco a trovar neppure me stessa!

Scolla le spalle, gli occhioni neri spalancati e l’espressione più comica che le abbia mai visto.
Sempre ridacchiando, le arruffo i capelli scuri a mò di premio, mentre con l’altra ho già afferrato la bottiglia.
Sbuffa contrariata, cercando inutilmente di fermarmi e imprecando alla grande.

-Georg, Cristo Santo, ti ho detto mille volte che io con questi capelli mi ci guadagno lo stipendio!
-e io ti ho detto mille volte di non nominare tuo fratello invano!

Replico, mentro mi sto già portando la bottiglia alle labbra. L’osservo tentare di sistemarsi i capelli con movimenti impacciati per colpa della felpa, mentre biascica altri insulti di natura poco elegante all’indirizzo delle mia persona, il tutto inframmezzato da sospiri contriti. Ci rinuncia con un “maledizione!” finale, per poi guardarmi di sbieco e prendere il blocco su cui stavo scrivendo.

-si è mai visto Georg Listing scrivere manualmente? Da quant’è che non lo facevi, dall’Abitur*?

Scrollo le spalle, guardando per un momento il tetto.
Quando ritorno a guardarla, è assorta nella lettura. Inclino leggermente la testa per bere più thè, osservando come il capelli, ancora bagnati per la doccia, siano raccolto in uno chignon che lascia più ciuffi fuori posto di quanti non ne rimetta in ordine.
Sorrido contro l’orlo della bottiglia, quando la vedo spalancare gli occhi.

Distoglie lo sguardo dal blocco inerte nelle sue mani. Guarda la parete di fronte a sè per vari secondi, prima di tornare a me. Gli occhi sono ancora spalancati, mentre il suo dito indice picchietta insistentemente contro l’ultima frase del testo.

-non puoi averlo fatto!

Smetto di bere.

-cosa non avrei dovuto fare, Christa?
-citarmi!

Sospiro, gli occhi in gloria. Poggio la bottiglietta per terra, insieme con il bloc-notes che le ho preso dalle mani. Guando torno a guardarla, l’espressione scandalizzata non accenna a cancelarsi dalla sua faccia.
Prendo il suo viso tra le mani, avvicinandolo a me.

-Christa, stiamo o non stiamo insieme?

Sbuffa, ma un sorriso enorme le distende comunque le labbra.

-egocentrico deutschlover di un bassista...
-siamo migliorati dallo “stronzo” dell’ultima volta!

Ridacchia, per poi buttarsi a peso morto su di me.
Ovviamente finiamo lunghi distesi sul letto, situazione che potrebbe rendere inutile la doccia di Christa di poco fà.

-lo so cosa stai pensando, cerdo. Ed è un no!

Scoppio in una risata, mentre la stringo per i fianchi.

-chi non vorrebbe una ragazza che ti insulta in cinque lingue differenti?!

La sua mano percorre la pelle sotto la maglietta, ma solo per piantarmici le unghie a fondo, strappandomi un lamento di dolore.

-così impari.

L’osservo crucciato, mentre tocca a lei adesso sbellicarsi dalle risate.
Si passa un’ultima volta la mano sul viso per scacciare le ultime lacrime d’ilarità. Piange sempre, quando ride troppo.

Ci accoccoliamo meglio nel mio letto a due piazze, ancora sfatto da prima.
{ e per fortuna che non c’era Bill, al piano di sopra, sennò sicuro che un cazziatone per il troppo rumore non me lo toglieva nessuno. }
Poggia distrattamente la testa sul mio petto, mentre la sua mano fà su e giù per il mio fianco. Nonostante abbia indosso i jeans, avverto come la sua pelle è caldissima in confronto con la mia. Questa ragazza è una stufa, rende inutili i piumoni.
Afferro la sua mano, quella che andava sue e giù, per giocherellarci. Osservo divertito il medio, nella cui falange vi è tatuato, a forma di anello, un “freiheit” in caratteri corsivi. Sollevare quel medio rende l’affanculo più volgare un raffinato gesto nobiliare.
Ridacchio al mio stesso paragone, mentre avverto come muove la bocca per parlare e come la sua voce vibra nella mia cassa toracica.

-non trovi che stiano bene insieme?
-stiano?

Credo di intuire dove voglia andare a pare.

-si, insomma... sono abbinati, fanno contrasto. Prima di tutto sono entrambi bassotti, e questo è un’ottimo punto di partenza.

Ridacchio.

-non credo che gli farebbe molto piacere sentirlo, non trovi?

Lei solleva la testa dal mio petto, guardandomi per un momento dubbiosa.

-ma si muoiono dietro, non mi dirai di no!

Scuoto la testa, mentre con una mano sciolgo il suo arroffato chignon.

-niente da obbiettare. Ma finchè non cambieranno priorità, c’è poco da ricamarci sopra.

Sbuffa, delusa. Le ho appena sfatato un mito.

-lei e il suo braccio...
-lui e il suo rinchiudersi nella musica.

Replico.
Scioglie la stretta delle nostre mani, per passarsele sulla faccia con un sospiro stanco.

-sono così rinchiusi in se stessi, che mi chiedo come facciano a riconoscere tutto quello che li circonda.

Le scosto le mani dal viso.

-non sono chiusi, sono ciechi. Non vedono come spesso si feriscono a vicenda. Si limitano a testare le reazioni l’uno dell’altro. Giocano.

Mi guarda affranta.

-eppure sono così complici... quando sono sola con loro mi sembra di essere tagliata fuori da un rapporto molto simile a quello di Tom e Bill.

Le accarezzo una guancia.

-infatti quando Tom e Bill litigano, Dio ce ne scampi e liberi.

Un mezzo sorriso le illumina il viso.

-e poi ammetilo. Adesso che tu sei felice, vorresti che tutti fossero felici.

Replico io, sinceramente divertito.
Mi guarda, un sorriso malizioso e un sopracciglio inarcato preannunciano una battutina.

-oh davvero, Mr Listing?
-assolutamente, Wedding Planner.

Poi inizio a farle il sollettico, cosa che soffre a livelli impressionanti.
Nella baraonda che ne segue, riesco a invertire le posizioni ritrovandomi così a sovrastarla.
Vorrei baciarla, ma la sua mano mi blocca.

-e così, vorresti che tutto fosse facile?

Inclino la testa per da un lato.

-non sarebbe tutto più semplice?

Sorride, con l’indice percorre la linea della mia mascella.

-può non essere facile, ma può essere bellissimo.

Ridacchio.

-conosco una certa persona di cui potrei dire lo stesso.

L’osservo arrossire, per poi impedirle di respirare per due minuti buoni.

.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.

-credi che dovremmo iniziare a prepare gli smoking, Tomi?

Mio fratello mi guarda con un sopracciglio talmente inarcato che potrebbe fare concorrenza al mio, mentre la sua bocca spalancata mi fà capire che stesse digrumando avidamente pop-corn, prima della mia salutistica interruzione. Sbuffo, gli occhi al cielo, mentre decido salvare la milza di mio fratello, la parte porca della coppia, finendo i pop-corn al posto suo.

Prevenendo una sua posibile rappresaglia verbale, cosa che inonderebbe tutto il salotto di poco igenici frammenti di pop-corn masticati, lo distraggo.

-ma si, sai, tanto tra Christa e Georg...

Appoggiato al bracciolo del divano come sono, potrei essere facile preda del mio fratellino maggiore, nonchè due centimentri più basso di me, se non fosse che l’argomento credo interessi anche a lui.
Altrimenti nel suo sguardo non brillerebbe quella scintilla d’intelligenza che, stento ancora a crederlo, mi dimostra che anche lui, a volte, ha un cervello.
Gli avrò traferito un pò di neuroni per osmosi?

Sghignazza sonoramente.

-contento del fidanzamento, Bill?

Lo guardo sdegnato, mentre con un gesto indifferente butto il sacchetto di pop-corn ormai vuoto dietro di me.
Occhio non vede, cuore non duole. Ovviamente l’occhio della donne delle pulizie vedrà e il suo cuore duolerà parecchio, visto il cazziatone che mi ha rifilato l’ultima volta, quella sottospecie di Signora Rottermayer troppo secca.

-assolutamente si. Mentre il tuo allegro compagno di bravate sembra essere del tutto intenzionato a mettere la testa a posto. Contento, Tomi?

Il suo sorriso si dimezza, mentre continua a ignorare la partita di calcio alla tv.
Tanto l’Hannover ha perso e il BayerMonaco è in finale, già si prevedeva.

-mi mancherà, lo ammetto. Ma tu sei un bugiardo, tu a Christa non la sopportavi...

Decido di osservare dignitosamente la mia french nera, piuttosto che rimirare in tutto il suo splendore il ghigno del gemello malizioso.

-solo gli stupidi non cambiano idea. Ecco perchè sei ancora fermamente convinto che finirai a letto con le Olsen, prima o poi.
-parla il monaco benedettino... dov’è Leonart, Bill, dov’è? Eh?

È incredibile come il mio gemello riesca ricordarmi cose del genere. Tento di glissare, ma i suoi continui “eh? eh?” sono servanti.

-se proprio vuoi saperlo, buzzurro, adessò sono con Katrine.

Scoppia a ridere, ironizzando sopra la mia capacità di “digerire” tutto.
Per vendetta, decido di fregare anche la sua poco salutare coca-cola al fratello con la milza in pericolo.
È incredibile come sono fulmino e perfido. Oh, come mi amo...
Lui mi guarda contriato un momento, prima di sospirare affranto e rivolgermi un’alzata di dito medio che sa tanto di consumato.

-comunque, a che ci serve comprare uno smoking permanente se sono solo quei due quelli che staranno insieme? A chi altro vuoi fare da testimone, Billino?

L’osservo un momento, sinceramente stupito che sia veramente così cecato.
Si, quell’espressione perplessa sembra essere assolutamente veritiera. L’ho detto e lo ripeto, lui l’intelligenza l’ha acquisita da me. Per l’intuito non c’è stato niente da fare, mi spiace.

-e Dorcas e Gustav dove me li metti, scusa?

La sua risposta è un tremebondo rutto.
La mia mano si strofina la tempia, mentre sono grato al fatto che le sue fan { ne ha, incredibile! } non l’abbiano sentito.
La classe non è acqua, ma sicuramente per Tom è birra!

-e dopo questa quantomai rispettosa e sagace risposta, di cui vorrei sottolineare l’intelligenza intriseca, posso dirmi ragionevolmente soddisfatto riguardo al mio dubbio: tu non fai il cretino, tu lo sei!

Si stravacca ancora di più sul divano spalmando il suo metro e ottantadue, chioma fossilizzata inclusa, di statura per poi osservarmi curioso.

-io non li metto, semplicemente. Che facciano loro.

Sono scandalizzato.

-ma trasudano storia d’amore tormentata da tutte le parti! Dico, ma li vedi? Sono fatti per stare insieme!

L’occhiata scettica di mio fratello mi colpisce nel profondo. Troppo melodrammatico, forse?

-io non so per che cosa sono fatti, per di sicuro so che si fanno: il loro secondo nome è “lavoro”!

Fa svolazzare la sua mano destra in giro, indicando vagamente la direzione dello studio.

-mi hanno fatto rifare le prove cinque volte, Santissimo! Cinque! C i n ...
-Tomi, non è che se me lo sillabi lo capisca meglio. Sei tu quello che ha bisogno che gli si ripetano le frasi svariate volte!

Mi imita contrariato, dando alla mia voce un sonoro e acuto accento da donna, facendo cadere con un movimento inconsulto del piede un pacco di lettere appoggiato al tavolino del salotto.
Con un sonoro sbuffo, si inginocchia per raccogliere la rassegna stampa che anche oggi Saki ha portato nella nostra casa studio.

Nel mentre, avvisto e conseguentemente rapisco quella povera vaschetta di gelato che si scioglieva, la negletta, abbandonata per terra.

-tomi, non ti offendi se ti frego il gelato, vero...?

Mi interrompo a metà di una scucchiaiata, dato che la mancanza di risposta di mio fratello mi costringe a girarmi verso di lui per guardarlo. Non sia mai che si stia preparando per vendicarsi di tutte le mie “attenzioni” di oggi e mi voglia pestare.

Ma non credo che sia questa la sua intenzione, a meno che non decida di tagliarmi le vene con la lettera che in mano.

La sua espressione è di puro sbigottimento. Si limita a stringere tra le mani una carta ai toni ufficiali, che come destinatario riporta il nome della sopraccitata Dorcas. Il resto delle lettere non raccolte si limita a giacere per terra, totalmente dimenticato da Tom, che sembra essere alla seconda rilettura della carta.

Incredibile, qualcosa che susciti l’amore per la lettura in mio fratello! Qualcosa che non sia un playboy!
Curioso, sono curioooso! Ciò che interessa a mio fratello mi repelle, ma ciò che lo sciocca è il giusto per me. Quindi mi sporgo, e leggo da sopra la sua spalla.

Esimia Fraulein Schröder,
siamo lieti di informarLa che si prospetta un’importante opportunità per lei. Dati i nostri progressi della medicina nel campo della chirurgia di precisione, ci sentiremo onorati se Lei volesse sottoporsi all’operazione, probabilmente la definitiva, che potrebbe restiturLe un uso pressocchè ottimale el suo polso e avanbraccio sinistro, uso perduto dopo lo spiacevole avvenimento di cui conosciamo l’iter.
Naturalmente, visto le singolari probabilità di recuperazione, la Universal si farà carico del costo dell’operazione e relativa riabilitazione a lungo termine, come concordato da contratto precedente all’attuale.
Nel foglio successivo, vi saranno tutte le informazioni del caso.
Esimi saluti,
Reparto Risorse Umane “Universal Deutschland”.

-che caspio è questa storia, Tomi?

Tom richiude la busta e la ripone silenziosamentre tra le altre sparse sul tavolino.

-Dorcas, operata...?

Lo guardo con la coda dell’occhio, mentre la sua espressione sbigottita non accenma a scomparire.

-e per una causa grave, che sembra le avesse inabilitato il braccio! Il sinistro, poi...
-... quello tutto tatuato.

Ci scambiamo uno sguardo complice carico di significati, mentre ognuno inizia a dare voce alle domande dell’altro.

-una parte del passato di Dorcas oscura?
-contratto precendete con la Universal?
-ma lei non è stata sempre un tecnico del suono?
-incidente?
-operazione definitiva?

Tacciamo per un momento. Mi rialzo dal bracciolo con un piccolo saltello, lasciando la vaschetta di gelato, anche lei ormai vuota, per terra.
Tom mi osserva dal basso, mentre io, manisui fianchi e marcia rapida, inizio a girare intorno al divano.

-e se...

Tom si strofina la tempia con una mano, lasciandomi il tempo di completare la domanda.

-Dorcas avesse...

Il mio tono è dubbioso, come quello di mio fratello.

-...un passato?

Tom mi cerca con lo sguardo, osservandomi esistante. Lo rassicuro con un cenno del capo.

-di cui non siamo a conoscenza?

Completo finalmente io.
Fermo la mia marcia, mentre Tom smette di schiocarsi le dita per il nervosismo.

-e se fosse solo una stupida lettera di una stupida operazione, Bill?

Ma non ne è convinto neppure lui. Infatti lo vedo scuotere la testa, contrariato.
Sospiro, mentre mi sistemo con le mani il cappellino sugli occhi.

-il suo braccio sinistro, il tatuato.
-non ha spesso spasmi, in quel braccio?

L’osservo con la coda dell’occhio.

-spasmi?
-si, sai... a volte le trema, non può portare troppi pesi... difatti, l’attrezzatura di Gustav se la carica in spalla, no?

Rimugino, contrariato.

-ma non le succede quasi mai...
-e non ci ha mai detto perchè...

Nervosi, pestiamo entrambi un piede per terra. Poi ci guardiamo, giusto per sincronizzarci.

-e se fossimo solo paranoici, Tom?

Scuote i rasta furiosamente. Mentre si sfrega le mani in un gesto nervoso.

-non lo so. Ma non mi quadra.

Mi siedo sul tavolino, di fronte a lui. E mentre ci osserviamo, occhi nocciola contro occhi nocciola, sentiamo un urlo furioso che sembra venire dallo studio. Sobbalziamo, spaventati.

-vaffanculo, Gustav!



.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-

*bordeaux: “rossa” nella prima stesura.

*Abitur: esame di maturità tedesco.


Dum-da-dum... e così, terzo chap fuori! <3<3<3

Lo dico e lo ripeto: sono un’emerita novellina in fatto di narrazione, quindi non so se questo chap è più o meno leggibile.
La tastiera si è riaggiustata per merito del GranMarionettista, ossia miracolosamente. Ho cercato di correggere più errori possibile, ma, probabilissimo, queste potrebbero essere le ultime parole famose prima di scoprire l’orrore del secolo. T.T

Questo capitolo, comunque, mi piace: non credo di averli resi molto bene, questi TH, ma mi è piaciuto troppo immaginarmeli così.
Ho deciso di mostrare Dodò e Gus come non li avevamo mai visti, ovvero da parte degli altri abitanti dello studio.
Lo ammetto, prevedevo un capitolo differente, ma si è praticamente scritto da solo. Il mio pezzo preferito è l’intro e il dialogo dei gemelli, ma voi mi direte.
Inoltre spero di aver messo la pulce nell’orecchio a tutte riguardo il passato di Dorcas. E trattatemi bene Christa!

Ovviamente i capitoli non possono essere più tre, e non so se stò facendo bene a tirare in ballo il passato di Dorcas, che mi hanno riferito, è “piuttosto improbabile ma non impossibile.” Ma è importante per capirla un pochettino di più.
Senza il suo passato potrebbe essere una MS qualsiasi, ma mi stà venendo il dubbio che potrebbe esserlo ancora di più raccontandolo. Uff, scriverlo o non scriverlo? { xD Shakespeare si starà rivoltando nelle tomba.}

Comunque...

 

simmyListing, _Princess_ e Lady Vibeke

 

D a n k e , merci, gracias, grazie.

 

Ancora una volta le vostre recensioni mi hanno convinto a postare il caos che è questo capitolo.

Lady, credo che non arriverò mai al tuo livello ma ti posso assicurare che sto diperatamente cercando di migliorare. Inoltre, leggendo e rileggendo la tua FF sono arrivata alla ferma convinzione che “come te, non c’è nessuuunooo...” insomma, sei sicura di non essere un’intima dei FabFour? x3

_Princess_, carissima: non sei certo l’unica che ci muore, dietro alle ossa del soggetto teutonico in questione e che sicuramente la mia Dodò è troppo legale, ma mi sono sentita decisamente in paradiso, quando ho letto che tutto ciò ti fà ridere. Il mio umorismo non è esattamente comico... XD e poi... il mondo è proprio piccolo! Tu, la francesina misteriosa? Ecco dove ti avevo già visto!

simmyListing: piccIola! *-* vero, che è tutto uno spettacolo il nostro batterista preferito, o h n e T-shirt? Comunque, in questo chap poca scena per i due e molta per gi altri: già mi dirai, se per caso covi istinti omicidi o no per Christa! XD

 

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Capitolo 4
*** Hysteria ***


4

4. Going Out Of Mind.

 

 

Quando i Tokio Hotel non scorrazzano per il globo {cosa alquanto rara, per quei quattro}, normalmente risiedono ad Amburgo.

Sempre che David non gli organizzi qualche concerto non previsto e ovviamente ai quatto angoli della Germania. Il post-tour come un periodo di riposo? Scordatevelo.

La Universal, per motivi di comodità {la sua, perchè è sempre meglio avere vicino i crucchi dagli incassi d’oro}, gli ha meso a disposizione non un solo studio, bensì un’intera casa.
Casa è solo un poco eufemisticamente riduttivo, dato che è grande come un duplex, ma questi sono dettagli da svariati milioni di euro.

Ma non dimentichiamo che qui gli inquilini non sono solo quattro. Ingenui voi se lo credevate. Se hai un reddito annuo superiore ai 72.000 euro annui, accadono due cose: primo, il governo federale ti ringrazia per aver rimpinguato le casse dello stato centrale; secondo, se sei un umile lavoratore della universal, se la fama ti perseguita e sei più famoso della stessa Angela Merker, allora non hai più privacy.
Scordatela, a partire dalla tua prima apparizione a VIVA.

Insomma, casa loro è la zona di ritrovo più o meno affollata di tutta la crew. Ovviamente questa convivenza forzata è tutt’altro che tranquilla: alle otto di mattina, i tecnici di studio che discutono con il tecnico capo, all’una il manager che tartassa la segretaria, alle undici di notte i musicisti che implorano pace.

In parole povere, un caos.

È per questo, che nella casa-studio dei Tokio Hotel ognuno ha un suo particolare angolo, un posto privilegiato dove stare in santa pace, un posto dove ritagliarsi i propri spazi e tempi.
Deve avercelo, sennò come farebbe a non finire sull’orlo di una crisi di nervi nel primo mese? Invece così possono tirare avanti fino all’anno intero, ma-pensa-tu-che-fortuna.

Normalmente il salotto, dai lunghissimi divani in pelle nera e televisore al plasma di svariate decine di pollici, è una zona neutrale, anche se dall’ordine -o forse dalla sua assenza- non si direbbe.
La cucina, tutta rossa e acciaio inox, è conosciuta dagli inquilini come “il deposito” { Solitamente di Pizze } tranne quando Gustav o Christa si mettono ai fornelli: allora assume la vaghe apparenze di una gastronomia, dato che tutte le superfici disponibili traboccano di cibi appena preparati.
Ovvio: se qualcuno si ricorda di riempire il frigo.
Ovvio, ma non scontato.

I corridoi di legno chiaro sono le zone di passaggio, e, a seconda dell’umore e del posto a cui è diretto il soggetto, possono aumentare esponenzialmente la rabbia o farla scemare con altrettanta rapidità.

Sono le stanze, quelle che sembrano essere fatte ad personam.

Se cercate Bill, probabilmente lo troverete nella sua torre-studio, in cui canta e prova da solo svariate ore al giorno. A seconda del momento, i suoi occhi castani cerchiati di kol potrebbero fulminarvi o indurvi irrazionalmente a sorridere, mentre le cuffie enormi e il capellino in stile mililtare lo rendono stranamente simile a un qualsiasi diciottenne mingherlino.

Se invece avete bisogno di Tom, potreste trovarlo buttato sul kilometrico divano della sala di registrazione, con in mano una delle sue venticinque gibson, tutto preso a strimpellare cover o nuovi pezzi. Se lo si interpella tende a rispondere a monosillabi, finchè non si riesce a riscuotere del tutto la sua attenzione.

Georg normalmente è quello che meno si rintana in siti particolari: nonostante ciò, la sua camera è il suo santuario. A seconda di chi siete, potrebbe spegnere la musica del suo impianto stereo e smettere di provare “Stop crying your heart out” per farvi caso, mandarvi a quel paese o, nel caso di Christa, sorridervi.

Gustav è l’orso, invece. Controllate di avere un buon motivo per disturbarlo, perchè se sta provando un pezzo con la batteria nella grandissima “sala strumenti”, odia che gli si chieda di distrarsi per problemi stupidi. Siate gentili quando lo beccate in questi momenti. Il solo fatto che risponda con uno sbuffo ai tentativi della madre { essere riverito e glorificato da Gustav } di trovarlo, vi può dimostrare sopra chi è disposto a passare pur di continuare a suonare.

Ma tutti, e sottolineo il tutti, senza eccezione, hanno come centro, punto di riferimento e perno della casa, lo studio di registrazione vero e proprio.

Quella stanza di cui tre pareti sono pitturate di bianco e insonorizzate al meglio, la quarta un’enorme vetrata rettangolare che dà sulla sala comandi dove, sul famoso divano di pelle, si trova spesso Tom.

Ogni singolo cavo della fredda e tecnologica sala prove è attorcigliato su almeno altri quattro. Ogni singolo cavo è lungo minimo un metro e mezzo e massimo quattro.

E ogni singolo cavo è collegato a lei.

La consolle. Quell’aggeggio grigio metallo, un’ammasso squadrato di tre metri e mezzo di larghezza per uno e trenta centimetri di profondità e uno e venti d’altezza.
Un’ammasso fatto di tasti, levette e spie dai più svariati colori, illuminato dalla luce azzurrognola emanata dai due schermi per pc che sovrastano il complesso.

Ma il complesso non si gestisce da solo, e, checchè ne dica Tom, non saprebbe neppure che levette sollevare per accenderlo. Potrebbe tranquillamene confondere il tasto del HSQ con quello dell’auto-distruzione.
E state pur certi che ogni consolle ne ha uno.

La consolle, regina tra la tecnologia di quella casa, era a sua volta gestita dalla più imprevedibile delle personalità.

Dorcas.

Laureata in scienze delle comunicazioni, master in tecnico del suono per concerti e per studio, quindici anni di studio della batteria alle spalle e una precisione chirurgica per quanto riguarda il perfetto montaggio e assemblaggio della stessa.

Una delirante hippy dalle stranissime influenze neumetal e post-reggae, che in quel momento, capelli bianchi raccolti in un chignon abnorme, occhi blu cupo strizzati per leggere meglio nella penombra e bocca dalle piccole labbra rosee serrata in un’espressione scazzata, sta facendo di tutto per non mettersi a gridare dall’isterismo.

-ma...

Il povero tasto del bass-out si vide pigiato con violenza non usuale nella scricciola.

-che...

La levetta del SPS venne regolata ad altezza cinque con uno scatto rapido dell’indice.

-scheisse...

Il lampeggiare dello schermo attirò lo sguardo della tecnico, che si strinse la lingua tra i denti per non gridare come un’ossessa.

-è questo?!

Ecco fatto. L’acuto con cui era stata pronunciata la ultima sillaba sarebbe bastato per richimare una mandria di bufali. Che sarebbero subito fuggiti vedendo il colorito livido sul viso della ragazza.
Con un’immane forza di volontà, cercò di tranquillizzarsi seguendo delle improbabili lezioni di yoga.
Che, da che mondo è mondo, non hanno mai funzionato in caso di necessità.

Passandosi insistentemente la mano sugli occhi, Dorcas cercò di non piangere lacrime amare all’idea di quello che sarebbe successo tra poco.
Perchè Gustav aveva suonato da schifo.
E già solo questo le faceva abbondantemente girare a un musicista rilassato, figuratevi a uno che l’ultime parole che gli avevano sentito dire quella sera erano “a quello che mi disturba lo squarto” prima di rinchiudersi nella sala strumenti.
E lei avrebbe dovuto chiamarlo per ingiungergli di riprovare per l’ennesima volta quel pezzo che proprio non ne voleva sapere di farsi suonare.

Con un sospiro stanco si appoggiò alla consolle, decidendo dargli cinque minuti. Era rinchiuso là da appena due ore, se lo avesse disturbato adesso lo avrebbe messo di malumore.

Si morse le labbra, osservando come il parquet chiaro dello studio contrastasse con i suoi stivaletti larghi e sformati di nero cuoio. Incrociò le braccia, osservando come il banco della sua pelle bianca facesse a pugni con la superficie tatuata.
Le sue braccia erano simmetriche, eppure, come gemelle, erano l’una l’opposto dell’altra.
Una, il ricordo del furore che possedeva.
L’altra, il lento passare di giorni perfettamente nella norma senza lasciare alcun segno sulla sua pelle pallida.

Stava temporeggiando. E autocommiserandosi.

Ma non aveva voglia di vederlo, neppure per quello. Da un paio di giorni era intrattabile, quando stava nella sua stessa stanza.

Dall’incidente delle fragole, vorrai dire.

Oh, no. Adesso, Dodò, non inizierai a farti pippe mantali.

Non avrei dovuto stargli così vicina. No, no, e no.
Avrei dovuto fare l’indifferente, come al solito.
Come se la sua vicinanza non mi toccasse minimamente.


Si girò sospirando affranta. Osservò per un momento l’intera consolle, concedendole uno sguardo affettuoso. Un sorriso distese le sue labbra, mentre con un gesto rapido dette al play.
A uno dei molteplici tasti play, pardon.

Osservò come il grafico della canzone segnalava come picchi della batteria erano sospetti e assolutamente discordanti rispetto al basso, alla chitarra e al vocalist.
Si arrotolò una ciocca sull’indice, mordendosi le labbra disperata. Chiamarlo o non chiamarlo?

-ehi, ma che ti prende?!

Volse la testa di scatto, giusto in tempo per vedere la porta del bagno, posta di fronte a quella dello studio, sbattere.
Trishta {una delle tante truccatrici di Bill che sempre gironzolano per casa} la osservava scandalizzata mentre, mani ai fianchi ed enorme trusse nera dondolando nella mano destra, urlava contro la persona che era appena entrata.

-Gustav, bastava chiedere!

Nessun rumore da oltre la porta. Trishta si limitò a girare i tacchi ed andarsene, non prima di averla guardata e scrollato le rispalle in risposta allo sguardo interrogativo della tecnica.
Si rimise le cuffie cercando di salvare il salvabile e sperando che, forse, Gustav sia più malleabile quando esca da quel bagno.

È per quello che non avvertì un “cazzooo!” gridato con un sentimento che rasentava il dolore più puro e che, per fortuna, non risuonò abbastanza da distrarre i gemelli nel salone che beatamente guardavano la tivù.

.-.-.-.-.-.-.-.

Potrei anche lasciar perdere tutto. Che so, smettere di pensare.

Mi strofino gli occhi stanchi con le dita fasciate dalle protezione, avvertendo il ruvido contatto tra le strisce protettive e la mia pelle.
Sospiro mentre, mani sulle ginocchia, osservo torvo la batteria di fronte a me.

Oh, ma non mentiamoci.

Smettere di pensarci.
Smettere di pensarla.
Smettere... Di vivere?


Con un verso di rabbia mi alzo di scatto, facendo quasi cadere lo gabello. Mi allontano a piccoli passi dalla batteria, arrivo alla parete, ove tutte le gibson di Tom giacciono, e mi ci appoggio pesantemente di spalle. Osservo torvo il riflesso della luce bianca nel legno lucidato della grancassa, mentre la pelle accaldata della schiena sembra aver ritrovato un minimo di pace nel freddo contatto con la parete. L’aria condizionata non sembra avere effetto, qui a a Hamburg. Non nella gigantesca sala degli strumenti, per lo meno.
Non quando penso a lei.

-devo chiuderla qui.

Pesto un piede per terra, producendo un rumore secco con la suola, e trovando un minimo di soddisfazone del dolore sordo che si ripercuote tutta la mia gamba.

{ Perchè, è mai iniziata? }

E dopo questo brillante intervento, credo che si possa definire il mio nervosismo come una grande, immensa ed inutile pippa.
Sospiro ancora, chiudendo gli occhi. Un mal di testa mi sta martellando le tempie, e l’unica cosa che posso fare sembra pensare, pensare. Pensare talmente tanto da sentirmi irrequieto e pregare che tutto questo finisca o per lo meno sbocchi in qualcosa.

Vorrei cercare di capire come è iniziato tutto.

-non credere di imbaccuccarmi, sottospecie di yoghi.
Era così bassa che perfino io le staccavo cinque centimetri. Ma in fatto di lingua lunga, poteva fare tranquillamente a gara con Bill.
Di fatti la vinse, quella gara. Riuscì a fare in modo da prendersi quasi una sedia in testa. Ovviamente lei non rimase con le mani in mano: Bill rischiò di diventare davvero una ragazza, quel giorno.


E una smorfia nasce spontanea, al ricordo. È così tipico nel suo carattere. Essere così... destabilizzante.
Con quell’enorme tatuaggio sul braccio, quel groviglio di spine, tantissime spine, e fiori dai colori vividi. Dal polso alla spalla, senza risparmiare un centimetro di pelle, incastrando perfino parole e simboli, tra quelle foglie.
Non portò scompiglio. Lei era lo scompiglio, punto e basta. Uno dei migliori tecnici che potessimo trovare, preparata e determinata, diretta e capace.
Ma con una vena di puro auto-lesionismo.

-Dodò, ti devi svegliare tra tre ore. Hai già fatto tutto il possibile, perchè non dormi?
-lascia pedere. Non ho ottimizzato le basi di “1000 meere”. Noti? Si sente un fruscio nell’ultimo minuto.
E quelle occhiaie violacee sotto gli occhi, le labbra pallide per il poco sonno e i muscoli contratti per l’adrenalina.


Pretendeva che tutti fossero più felici di lei. Faceva in modo che lo fossero. A costo di caricarsi del loro lavoro.

-sei proprio sicuro? Perchè non ti prendi cinque minuti?
Poggio le bacchette sul divano, mi alzo dallo sgabello.
Sono distrutto, e Dar Letzte Tag non ne vuol proprio sapere di seguire il mio ritmo.
-perchè David mi uccide.
La osservo sorridere un secondo. Volgo gli occhi disperato alla batteria, e mi scopro assolutamente esausto alla sola idea di suonarla ancora.
-ti copro io.
L’osservo scettico. Un semplice occhiolino mi fa capire che lo farebbe sul serio. Mi alzo, recupero una felpa, le passo affianco salutando la batteria con un ultimo bacio aereo.
-allora... dov’è il batterista?
Si limita ad osservare la parete di fronte a se, ma un sorriso obliquo le distende le labbra.
-quale batterista?


Mi strofino le tempie con un gesto nervoso, mentre un gemito esce dalle mie labbra. Non è possibile. Non è possibile che tra mille di ragazze, sia lei quella che mi faccia impazzire.
Di rabbia, ovvio.

Da quando in qua, in generale, Dorcas ti fa impazzire?

E con un gemito sconsolato, mi rendo conto che non potrei vederla, non adesso, senza evitare di mangiarmela con gli occhi.
Non sopporterei la vista della sua gonna ondeggiante, dai mille pizzi e Dio-sa-solo-quanti strati di tessuto, che, con un ritmo a me del tutto segreto, ballano sui suoi fianchi.
Mi mordo le labbra, irrequieto. E spaventato.
Parecchio.
Perchè non mi era mai successo prima. Non con lei. Non per lei.

Testa tra le ginocchia, fonoschiena per terra e il cuore pompando sangue a mille.
Non so se darmi per primo dell’imbecille, dell’invasato o dell’illuso.

{ammettilo} sghignazza perversa la mia coscienza {la vuoi. Adesso. Perchè dopo quelle fragole ti sei sentito sconvolgere. E ti sei chiesto perchè non l’avessi mai notata prima.}

Stringo forte i denti e inizio a combattere una dura guerra con il mio autocontrollo.

{e ti fai paura. Perchè tutto confuso, e a te la confusione non è mai piaciuta. Vuoi le cose al suo posto, le pretendi sempre in ordine. Non chiedi troppo. Solo il controllo assoluto della tua vita.} sento la mia coscienza ridere, aggirarsi indifferente tra le mie emozioni e le mie paure. {Gustav, ti ha fregato. Rinunciaci, il tempo dell’equilibrio è finito.}

Oh, merda. Sento uno strano ibrido di rabbia, paura, emozione ed eccitazione montarmi dentro. Vorrei soffocarlo come si fa con un’incendio. Ma mi rendo conto che mi farebbe più male che lasciarlo libero di devastarmi il karma interno, come quel bastardo sta facendo.
Però non posso neppure andare di là e affogare, bocca, corpo e tutto il resto, nell’asprigno sapore di lacrime di quella ragazza.
Non si può ripulire con un braccio un’immaginaria scrivania di relazioni passate, un trauma che l’ha fatta finita con il suo polso sinistro, un’amicizia che va avanti da tre anni, per poi sbattercela sopra con l’altro ed amarla, e che cacchio.

Ridacchio all’idea, per poi mordermi le labbra con forza. Perchè non mi fa affatto bene immaginarmela con quel sorrisino saputello e infingardo, mentre gli occhi blu cupo lanciano devastanti sguardi di pura ilarità.

Mi rialzo di scatto, rendendomi conto che la situazione richiede un freno.

{molti freni, vorrai dire.}

Abbandono la stanza a grandi falcate, sbatto la porta insonorizzata quando la chiudo dietro di me, breve puntata al frigo della cucina per recuperare una vaschetta di ghiaccio e poi destinazione finale, bagno. E ringrazio che sia a pochi passi dallo studio, perchè vedere Dorcas arrotolarsi una ciocca di capelli sul dito mentre osservava qualcosa allo schermo pc della consolle, mi ha dato il colpo definitivo.

Sbatto la porta in faccia ad un scioccata truccatrice {una delle tante al perenne seguito di Bill} con tanto di trusse in mano, chiudo a chiave rapidamente e mi accascio, distrutto, sulla superficie lignea.
Sospiro per farmi coraggio, perchè so che mi duolerà parecchio.

{ricordati quella labbra appena carnose, quel contrasto con i piercing argentati. Il fatto che il tatuaggio sul braccio le copra parte del seno sinistro, ed il fatto che tu, per puro errore e per la mania di Dorcas di cambiarsi a porte socchiuse, l’abbia visto in tutto il suo splendore. Pensa, Gustav, pensa.}

Slaccio il bottone dei pantaloni con una mano, mentre nell’altra ho pronti vari cubetti di ghiaccio. Sospiro.

Cristo santo, che dolore.

.-.-.-.-.-.-.

Guardo distratamente lo schermo del pc di fronte a me le cuffie in mano e il cuore diviso tra una solenne incazzatura per il fatto che dovrò risuonare quel pezzo e uno smisurato senso di colpa per quello che mi ha costretto a fare poco fa in bagno.
Quel ghiaccio è molto più doloroso di un silicio io-so-dove.
Avverto la sua irrequieta presenza al mio fianco, e vorrei che sparisse. Ho sempre fatto il bravo bambino, mai che una volta succedesse una grazia.

-Sai che cosa avresti potuto fare?

Sbuffo, falsamente scocciato. In realtà ho il fottuto timore che lei mi legga nel pensiero. Mi giro verso di lei e l’osservo, lei che è così vicina, lei che oggi sembra voler giocare a tutti i costi con i suoi piercing. Socchiudo gli occhi, quasi ad attutire l’effetto che la sua vicinanza ha su di me.
Dodò inarca un sopracciglio arrabbiata, mentre noto che le sue nocche sbiancano, tanto è la forza con cui stringe le cuffie.
Le sue labbra sono esageratamente rosse e sottili, oggi. E la piega dura che mi riserva da due giorni a questa parte non aiuta. Non adesso, che sono appena uscito da quel maledetto bagno.
Ancora mi fa male, figurarsi.
Anzi, meglio non figurarselo affatto.

-avresti-potuto-chiamarmi, gran pezzo d’orgoglioso quale sei.

La guardo fisso negli occhi {per non guardare da nessun’altra parte}, corrugo le sopracciglia, schiocco la lingua. Lei con un gesto secco si poggia le mani sui fianchi, mentre il filo delle cuffie sbatacchia contro la sua gamba. La mia attenzione viene irrimediabilmente attirata dal fatto che se qual cavo ha sbatacchiato su una superfice che ha potuto permettere il diffondersi di un suono secco, obbligatoriamente oggi deve portare una gonna più corta del solito. Il cavo non è una liana, eh.
Inconscentemente, osservo che gonna porta oggi. Rossa e blu, tutta tulle e sfumature violette. Che lasciano intravedere le gambe fin dove decenza permette. Ovviamente gli stivaletti di pelle nera, per mia immensa distrazione, lasciano all’aria i polpacci, decorati con tanto di tatuaggio tribale.

Risalgo lentamente con lo sguardo fino ad incontrare i suoi occhi, che non sembrano essersi spostati di un millimetro dai miei. Arrossisco, innervosito dal fatto che non ho potuto controllarmi. Una piccola fitta di rabbia allo stomaco mi indica che la pazienza è agli sgoccioli, mentre la parte cretina del mio cevello prende il sopravvento.
I suoi occhi mi stanno scrutando dentro, e di fronte a lei mi sento leggermente malissimo.
Schifoso.
La sento intromettersi nel mio spazio privato, anche se forse non se ne rende conto. Stringo le labbra in una linea severa, decidendo giocare d’attacco. Finisco l’esame sfacciatamente, sollevando un sopracciglio dubbioso con tutta l’aria di volerle sbattere in accia un bel “si, guardavo. Problemi?”. Cristo santo, sembro un adolescente idiota. Ovviamente lei, flemmatica e scrutatrice in una maniera odiosa, si limita ad appoggiarsi alla consolle ed a incrocire le braccia.

-Gustav, ti vedo distratto...

Non sorride, e tutto mi sembra meno che disposta per uno scherzo. Non sembra avere voglia di giocare, strano. Lei che sempre provoca, oggi non ne ha voglia?
Mi sento ferito, ecco. Nel mio più cazzoso ego virile.
Ormai oscilliamo tra un attacco di coglionaggine infantile e uno di coglionaggine adolescenziale, e se non mi sbrigo inizierò a farle pernacchie. Me lo sento, la mia età mentale regrede di pari passo con il scemarsi del mio autocontrollo.
Georg e Bill li abbiamo superati, sto per contendermi la palma d’oro con Tom.

Scuote una manina inanellata di fronte ai miei occhi distratti mentre, sopracciglio inarcato, sembra determinata a farmi tornare alla realtà a suon di gesti equivoci.

-che ne dici di tornare a provare, eh?

Lancio praticamente le cuffie sul piano di manovre della consolle, mentre sbuffo nervoso.
Mi osserva stupita, e io mi sento ancora più stupido.

-non ne ho voglia.
-cosa?

Mi osserva sinceramente stupita.
Incrocio le braccia.

-hai bisogno che te lo ripeta più lentamente...? che so, vuoi che applichi lo stesso metodo di insegnamento riservato per Bill?

Imita il suono di una risata, mentre storce il naso in un’espressione scocciata.

-Ah. Ah. Ah. Ma che simpatici siamo oggi.

Ricalco pesantemente il suo tono ironico.

-ma davvero? Lo stesso penso io.

Incrocia le braccia sua volta, mentre indica la batteria dall’altro lato del vetro con la testa.

-ok, Gustav, sei di malumore. Quindi non rompere e vai a ripetere quel pezzo.

Fingo platealmente di pensarci, per poi rispondere con un secco rifiuto.
Mi osserva con il sopracciglio inarcato e la bocca piegata in una smorfia di disgusto, gesticolando furiosa.

-senti, belloccio. Non ho molta voglia di stare qui a discutere: la mia giornata finirà tra un’eterno quarto d’ora e in quel lasso di tempo il singolo dev’essere pronto. Non rompere, manchi solo tu.

Decido di disconnettere la parte saggia della mi testa, mentre la bocca dello stomaco esulta all’idea di tutta la bile che sfogherò in questa discussione.

-è un’indiretta per dirmi che non sopporti più la mia compagnia, Dorcas?

Si strofina la tempia con una mano, mentre con l’altra appoggia delicatamente le cuffie sul pc.

-tanto indiretta non mi sembra, Schäfer.

Raddrizzo le spalle, stringo ancora piu forte le braccia.

-e allora perchè continui a sopportarmi, Schröder?

Mi osserva un poco dubbiosa, nemmeno fossi vestito di giallo canarino.

-uhm... punto primo- li elenca con le dita, come se li stesse spiegndo ad un bambino idiota. –mi pagano oscenamente bene. Punto secondo, sai anche tu perchè. Non c’è ragione di spiegartelo ancora.

Inarco un sopracciglio, platealmente sorpreso.

-quindi rimani solo per denaro, Schröder?

Boccheggia un momento, scolla le spalle.

-ma certo che no! C’è tanto altro...

Le sue guance si tingono un momento di rosa. Sospetterei che c’è sotto qualcosa. E vorrei sapere cosa, dato che sta facendo arrossire Dorcas Schröder, l’invincibile e intoccabile.

-che cosa?

Il colore sparisce tanto rapidamente come è venuto, mentre la braccia tornano a incrociarsi sopra il suo petto in posizione difensiva. Osservo come solleva di nuovo la guardia, osservandomi con aria truce.

-cazzi che non ti riguardano, Schäfer. Perchè non vai di lì e suoni quella benedetta batteria, così la facciamo finita?

L’osservo ancora, e la parte più infantile di me decide che la vuole vedere esplodere. Che non avrà soddisfazione finchè non si sarà vendicata.

{ti devi vendicare di cosa, esattamente?}
Non lo so, pero lo devo fare.
{quante volte ti sei dato del coglione, negli ultimi cinque minuti?}
Troppe.
{ok, aggiungine un’altra, a questa interminabile lista.}


-e perchè non lo fai tu, Dorcas...?

Mi osserva ancora più truce, gli occhi socchiusi e le mani sui fianchi.

-lo sai, il perchè.

Sorrido obliquo. Cattivo. Sto per diventare molto, ma molto cattivo.
Assolutamente stronzo. E decido, con un giubilo inaspettato da parte della mia frustrazione, di staccare il filtro tra la bocca e il cervello, disconnettere il cervello stesso e, soprattutto, dare libero sfogo alla mia vena cinica. Che degrada nell’acido più puro.

-ah, giusto, scusa. Mi dimentico che parlo con una che si è distrutta il braccio per il troppo provare.

Spalanca gli occhi, colpita.
Ma non affondata, a giudicare di quelle sopracciglia crucciate.

-non parlare di cose di cui non sai un cazzo, Gustav.

Altro sorrisino condiscendente da parte mia.

-oh, ma almeno non sono io quello che non può più suonare, tra noi due.

Scioglie le braccia per tenderle lungo i fianchi, mentre le mani si stringono in pugni e le nocche sbiancano.

-non sono io quella che vive una vita di plastica, per lo meno.

Ok, l’ammetterò: questa non me l’aspettavo. È pronta a dare battaglia? Meglio, più pepato il gioco.

-io non sono quello che non sa fare il proprio lavoro. Perchè ti assicuro- indico distratto la consolle –che io la batteria l’ho suonata perfettamente. Sicura di aver controllato i cavi, cara?

Naturalmente mento. Lei è una dea della teconlogia, mette in scacco i grandi del dipartimento federale di scienze delle comunicazioni con un pentium ’99.

Pesta un piede per terra, mentre con la mano elenca i cavi e il loro controlli.

-DSL? C’era. TSL? C’era. SSL? C’era. GSD? C’era. Non rompermi il cazzo, Gustav. Tu hai sbagliato e non devi sfogare su di me la tua frustrazione se qualcuna non te l’ha data.

Stringo le labbra in una linea priva di colore, mentre il mare di rabbia che mi sta montando dentro assume una nuova sfumatura.
Il sadismo.

-così perfettina da avere un quasi esaurimento nervoso? Così tesa da fotterti un polso –il sinistro-? Così distratta da non renderti conto di stare facendo la mia stessa vita? Così odiosa da rendermi la vita impossibile? Cristo, come te nessuno mai.

Si avvicina a me di un passo, mentre con un’occhiata gelida cerca di fulminarmi. Indica il mio petto con un indice guerrigliero, mentre la bocca è contratta in un’espressione furiosa. Sento il sangue pomparmi nelle vene ad una velocità assurda, mentre l’adrenalina e l’eccitazione mi strappano brividi dal fondo dello stomaco. Ascolto come musica l’affannarsi del suo respiro.

-se non ti piaccio, non m’interessa. Se non sai farti cazzi tuoi, neppure. Ma ti ripeto per l’ultima volta: n o n d i r e c o s e d i c u i n o n s a i u n CAZZO!

All’ultima parola mi spinge indietro, cercando di allontanarmi da se stessa.

Per poi scoppiare, definitivamente.

-VAFFANCULO, GUSTAV!

Riesco a non cadere perchè mi appoggio alla consolle, mentre il suo grido sembra risucchiare per un momento tutta l’aria presente nella stanza, e forse dell’intera casa, per poi farla scoppiare ad ogni signola sillaba di quelle due parole.
Osservo come le mani sono serrate a pugno, e credo che si sta trattenedo dal tirarmene uno in pieno naso.

Avverto distrattamente uno scalpiccio di passi nel corridoio, che sembrano avere tutta l’intenzione di dirigersi verso di noi. Non bado al fatto che le teste di Bill e Tom si sono affacciate dalla porta, per osservare la sfuriata di Dorcas.
Ogni parola rasenta il disprezzo più puro, intridendo di rabbia gelida ogni singola sillaba pronunciata con una voce che, pur essendo bassa, si potrebbe udire in tutta la casa.

-vaffanculo, Schäfer. Sono io tra noi due, che si è fatta un fottutissimo abitur in scienze pure, sono io quella che si è passata quattro fottuttissimi anni d’università in ingenieria delle telecomunicazioni, sono io quella che sa come smontare e rimontare una batteria a occhi chiusi, sistemare i microfoni come se fossero banali posate.- prende un momento fiato, mentre i suoi occhi blu sono socchiusi e i suoi capelli sono in piena tempesta elettrica. -Sono io il cazzo di tecnico del suono qua, e tu, batterista dei Tokio Hotel dalle uova d’oro, non ti devi permettere di criticare il cazzo di lavoro per il quale IO mi rompo il culo!
-e allora perchè continui a trattarmi con condiscendenza?

Bill e Tom si guardano allucinati, mentre noto che anche Georg e Christa sembrano essersi aggiunti alla platea.

La vedo sospirare, tremante di rabbia, del tutto ignara del pubblico che l’osserva con stupito. Stringe spasmodicamente le dita della mano sinistra, impiegando tutto il suo auto controllo per non picchiarmi o non gridare.

-io ti tratto come và trattata una star orgogliosa di ventun’anni che non ha capito un fottuttissimo cazzo della vita, come ha appena dimostrato con il suo abnorme tatto. Una star che vuole fare i capricci, per giunta!

Stringo gli occhi, incrocio per l’ennesima volta le braccia, inclino la testa verso sinistra e batto un piede per terra.

{sei il più gran esempio di perfetto coglione insensibile che si trovi sulla faccia della terra.}
Grazie.


-suono una batteria da diciannove anni, Dorcas!

Emette un gemito strozzato, dà un’altro passo verso di me, scuote la testa e inizia a indicarsi con il suo stesso indice mentre, parola dopo parola, racconta il suo “grande segreto”.

-e io sono quella che ci ha perduto l’uso del polso sinistro per un manager coglione, io mi ci sono laureata e ci ha sudato sangue ogni santo giorno di lunghi anni, e ho fatto cose che tu non hai mai fatto, Schäfer, conservando, apri bene le orecchie, la mia vita sociale!

Tace, ansima. Non sa più cosa dire, mente io si. Ho in mano la carta vincente e, quella parte ancora intelligente e adesso ignorata del mio cervello mi grida, prima di cessare del tutto ad opera del mio Mr.Hide personale, di non farlo. Di non tradirla, non dirlo, non di fronte a quel pubblico improvvisato di cui lei ignora l’esistenza. Quasi mi vine il rimorso.
Ma con un ultimo ruggito da parte del mio stomaco, la sputo, con il tono più acido che mi vengo a disposizione. L’ultima verità, il segreto segretissimo che neppure lei sapeva che sapessi. Il modo perfetto per fottere un’amicizia di tre anni, distruggere la sua fiducia per me, allontanarla e ferirla. Forse per sempre.

Mi avvicino di un passo a lei, molleggiato. Le labbra contratte in una linea severa, le braccia incrociate sul petto.

-tanto da tentare il suicidio ai tredici, ovvio.

Sento tre bocche trattenere il respiro. Due non lo fanno.
Una di quelle è Christa, che ci osserva con occhi tristi e una smorfia amara sulle labbra. Già sapeva. L’altra è Dorcas, ma solo perchè boccheggia. E ad ogni boccata d’aria la rabbia più pura sembra sostituirsi allo stupore.
Mi osserva per un lungo minuto, quasi a chiedersi se fossi veramente io, quello che le ha detto questo. Lo stesso che rideva con lei quattro giorni fà. Osservo la sua bocca chiudersi e aprirsi un paio di volte, senza emettere alcun suono. Poi, il cambio repentino.
Socchiude gli occhi, stringe le labbra in una linea sottile in cui gli unici tocchi di colore sono i due piercing. Aspira aria col naso, contrae la mascella.

E senza rendermene conto, è un pugno ad opera del suo braccio sinistro, quello che mi fà voltare la faccia di centosessanta gradi.

Mi sento la guancia intorpidita. La tocco cautamente con la punta delle dita, osservando che tra poco inizierà a pulsarmi, e che mi farà un male cane.
E sulla punta delle dita, avverto il calore appiccicoso del sangue. Il mio.

Giro lentamente la testa. E mentre osservo come si stia tenendo il polso con la mano destra, realizzo, inorridito, che tutto quello l’ho causato io. Sui suoi anelli riluccica un poco del mio sangue, mentre quel luccicare negli occhi sono lacrime represse.
E come un’ondata travolgente, la mia parte logica riprende possesso della situazione tramortendomi e allo stesso tempo chiarendomi la situazione.

{Gustav, sei un’infimo bastardo. Della peggior specie, soprattutto.}

Lascio perdere la mia guancia, mentre tendo le mani di fronte a me. Sto per iniziare a chiedere precipitosamente scusa, se non fosse per l’immutarsi della sua smorfia e il bloccare la mia fiumana di parole con un gesto secco della sua mano. Osservo come il polso sinistro trema. Gli sforzi eccessivi presupongono un’attacco, sempre.

-non una parola in più. Il mio turno è finito.

Mi scocca un’ultima occhiata di disgusto, mentre supera con passo di marcia e indifferenza gli altri assiepati al uscio della porta.
La vedo correrre lungo il corridoio, e se non fosse per il fatto che è impossibile, quell’ultimo rumore lo riterrei un singhiozzo.
Christa non la segue. Si limita a volgere lo sguardo e ad osservarmi con un’aria di compatimento. Con un verso di rabbia, esco anch’io della sala di registrazione a passo di marcia.

E dopo quattro ore rinchiuso nella sala strumenti a suonare con la mia batteria, posso assicurare che il dolore alle spalle non è niente paragonato a quello un poco più a nord e a sinistra del centro del petto.
E posso affirmare anche che adesso, in sala prove, c’è bisogno di una batteria nuova.

{Coglione.}

 


.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.

Quarto chap, fuori! *_______*

Ho adorato scriverlo, lo ammetto. Ho sghignazzato come una sadica nel pezzo di Gustav, e poer chi non l’avesse capito, esiste l’off topic.

In più ho scoperto la mia allarmante tendenza a rimuginare per giorni e giorni, e in una notte, nell’arco di poche ore, a buttar giù il copione. Mi faccio paura. XD di fatti, approfitterò e studierò, dopo aver postato.

In enorme ritardo, tra l’altro. Lo so, e chiedo venia. Ma questo chap doveva essere il punto di partenza per un chiaro evolversi della ff, in parole povere, non doveva sembrare un’harmony o una versione tokiohotellosa di “bìutifùll”. Insomma: voi non immaginate a quanta gente ho rotto i così-detti per avere aiuto.

Quindi dedichiamo un sonoro grazie a Lales e Marty (on forum), a cui va tutta la grande dedica di questa ff. {come se fosse chissà che.}

On EFP...

D a n k e !

Gracias.

Merci.

Grazie a...

 

 _Princess_, LadyVibeke, simmyListing, EtErNaL_dReAmEr, Kiki Daikiri.

 

Siete delle sante e delle potenziali sadomasochiste, a leggere una boiata come la mia ff. Ma “de gustibus non est disputandum.”

Grazie di tutto cuore, Lovers mie.

 

Os quiero y adoro.

<3<3<3

 



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Capitolo 5
*** Niemand Hört Dich ***


{Niemand Hört Dich – Pan

{Niemand Hört Dich – Pan!k}

 

 

5. Niemand Hört Dich.

Lo Conosci?
Si vive un sogno
Ed un giorno ci si sveglia
così facilmente…


Salgo le scale che portano alla terrazza paronamica a due a due. Non vedo neppure che ho ormai finito i gradini, tanto sono furiosa. Infatti spicco un salto che mi fà capitombolare per terra con un gemito strozzato.
Di rabbia. Sento un peso di tonnellati pesarmi nella bocca dello stomaco, e l’unica cosa che vorrei sarebbe poter picchiare qualcuno.
Ma è troppo tardi. Le lacrime che erano intrappolate dalle ciglia, per il contraccolpo cadono. Mi tiro sù di botto, del tutto incurante che mi sono sbucciata il ginocchio e che le mani mi bruciano da impazzire. Le strofino ossessivamente, mentre con passi pesanti mi avvicino al parapetto.
Non singhiozzerò, io. Non io, non io che mi ero ripromessa non farlo mai più.
È una cosa che non sopporto.

-io non sono debole. Io non cedo ...MAI!

Mi aggrappo alla ringhiera del parapetto, stringendo forte fino a sentire il metallo compenetrarmi i palmi, farmi male, un dolore che mi riporta in vita. Voglio morire, ma cerco di tenermi viva con le unghie e con i denti.

Non provarci neppure. Non cedo, o lo farò troppo velocemente perchè tu mi possa vedere.

Abbasso la voce, e la mia gola brucia, dopo aver gridato. Ma non brucia tanto come il ricordo. Perchè se così fosse griderei fino a non poter più parlare, fino a non sentire. Fino a non poter staccare più la spina. Le lacrime scendono, portandosi via la matita, il mascara, il dolore. Cadono come macchie di colore sulla ringhiera di metallo un pò scrostata del terrazzo.

Stringo forte i denti. E qualcosa un poco più a nord dei polmoni raddoppia i suoi dolori. Mi sento morire, morire...
O forse sono già morta.
Forse sono morta tanto tempo fà.

{Nessuno ti sente! nessuno ti vede!}

-prendi quella medicina, Dorcas.
-non voglio, Manager.
Un tapettino di appena dodici anni, in deragliamento contro l’adolescenza e un visibilissimo caschetto di capelli neri e ricci, aveva appena pestato i piedi.
Le sue labbra rosse prive di qualsivoglia piercing erano strette in un’espressione a metà tra lo stizzito e l’annoiato.
-Dorcas, smettila di fare i capricci. Il medico ha detto che hai bisogno di prendere questa aspirina. Hai la febbre, e non ti ci vogliamo alla première del gruppo con la febbre.
Un paio di irridenti occhi blu lo squadrarono.
-chi è che mi ha consigliato di provare otto ore al giorno?


-chi, chi, CHI?

La tecnica del gridare forse funziona. Mi sento gemere. Di dolore. Sono io questa? Ero io?

Singhiozzo. Finalmente lo faccio, e anche se non allevia, libera. Non so neppure da cosa. Ma mi sento ogni volta più distrutta. Così non potrò fare danni a nessuno, neppure a me stessa. Mi appoggio alla ringhiera di spalle, lasciandomi scivolare lentamente per terra, incurante di come il tetto scotti, sotto i raggi del sole ormai morente. Agosto a Berlino non è uno scherzo.

{Senza protezione,
Stesa nel suo letto piange}
 
-non è uno scherzo, hai già in tasca la metà dei profitti della band!
-lo so che è stata fondata solo perchè c’ero io a suonare, ma...
-niente ma. Te li meriti.
Decido di starmi zitta. Non gli dirò mai che oggi Klein ha dato della stronza a mia madre, per essersi messa in tasca i miei diritti. In fondo lui solo è il cantante per la sua bella faccia.


Cantante per la sua bella faccia. A lui non chiedevano di provare, no.
Lui non aveva dei genitori assenti e una zia con una voglia matta di essere ricca. Lui non aveva...

-problemi, problemi.

Ripeto ossessivamente l’eco dei miei pensieri, perchè adesso in me non c’è spazio in nient’altro. Mi sento inutile. Inutile, vuota, sola. Ho l’eco di immenso dolore in ogni singolo nervo del mio corpo. E solo voglio gridare. E ansimare. Non voglio ricordare, voglio farmi a pezzi per non sentire gli strascichi di ricordi che hanno provocato i miei sbagli.
Mi prendo la testa tra le braccia, cercando di fuggire.

 {Troppa pressione da tutte le parti, i genitori litigano e nessuno mette fine al gioco,
Il mondo si ferma e loro diventano freddi.
Ha paura di fallire, non può sopportare più tutti gli sguardi dei suoi compagni [...]}

-Dorcas, non mi starai montando questa sceneggiata solo perchè oggi hai provato
Nove ore! A tredici anni si può anche fare di più.
Osservo l’espressione seria del mio manager, mentre scuoto la testa. Da brava bambina quale sono gli mostro il polso sinistro, gonfio. E che, soprattutto, mi duole un casino.
-uhm... se fai da brava, potremmo provare a portarti da un medico. Ma devi provare ancora un poco, dai. Facciamo fino alle dieci.
-ma non può! Boss, non vedi in che condizioni è?!
Mi giro di scatto verso una figura che si affaccia alla porta dello studio. Alta, affatto carina. Troppo spigolosa e simile a un sacco di ossa, per poter sembrare qualcosa di più di una goffa ragazzina dai capelli neri e crespi.
-Christa, nessuno ti ha detto di mollare quel basso! Torna a suonare, adesso! Dorcas, anche tu.
-ma...
Faccio per rispondere io.
-tu niente. O devo riferire a tua zia?


E vaffanculo a chi si approfitta di te, chi ti tende trappole psicologiche. Vaffanculo zia, vaffanculo famiglia cara. Perchè non c’eravate, non mi avete fermato. Ero piccola e cretina, per me il successo era la chiave per farmi amare da qualcuno che non foste voi. Mia zia, delle fan.
Qualcuno che si ricordasse chi fossi io, e che non mi confrontasse con dei fratelli morti. Vaffanculo, vaffanculo.
Perchè c’ero e non mi vedevate, perchè gridavo e non mi sentivate. Battevo forte sopra una batteria, ma piuttosto che aiutarmi, mi davate ancora più ragioni per suonarla.
Era sfogarmi su una batteria per non piangere, era amare dei piatti perchè quel suono così metallico era così simile i miei sogni che si schiantavano contro la vostra indifferenza, da farmi piangere. Era pestare forte su una grancassa perchè il suo risuonare sembrava avere più effetto su di voi che le mie continue urla. Era picchiare dei tamburi perchè voi non c’eravate, e passavate indifferenti al mio fianco.
Era elemosinare un poco d’affetto attraverso l’amore che tutti voi, stronzi adulti che mi circondavate, nutrivate per il mio talento e non per me. Ho passato dodici anni della mia vita dietro ad una batteria, ma nessuno lo sapeva. Nessuno doveva saperlo, perchè ero la stella di lancio della Universal. Ancora prima dei Tokio Hotel, ancora prima dei quattro di Magdeburg, c’era il gruppo costruito in sala di registrazione a partire da una anonima batterista di Düsseldorf. Che con la batteria ci faceva cose che voi comuni mortali non avreste neppure potuto immaginare.

Mi passo le mani sulla faccia, strofinandomela forte. Non importa che siano macchiate di sangue, che brucino. L’importante è spandere queste lacrime che ho sul viso in maniera uniforme, che si trasformino patina opaca, che mi facciano da scudo e cortina dietro cui nascondere quel che resta di me, per l’ennesima volta.
Ma provo dolore, perchè sono lacrime ci saranno sempre, come i cocci taglienti di un sogno infranto.
Lacrime che ci saranno sempre, mi difenderanno e mi faranno male, una maschera che mi aiuterà a conservare la lucidità.
Come dopo la diagnosi, come dopo l’operazione, come dopo la fallita riabilitazione.

{Nella tempesta di ghiaccio si perde il tuo grido d'aiuto
nessuno ti sente
Nessuno ti vede
Nella tempesta di ghiaccio tu lotti tutta sola
Tutti si congelano qui
Tutti si perdono qui...}

-avete fatto male a portarla così tardi. Questo è proprio un caso da tunnel carpale.
-che cos’è?
Chiesi io, dal lettino sul quale ero sdraiata. Il dottore non sorrise e i suoi baffi alla Bismarck mi facevano paura. Non mi rispose, ovviamente. Ma io avevo paura. A dodici anni e con un polso sinistro gonfio come una salsiccia putrida, avevo paura.
-è proprio così grave?
Il mio manager girava in circolo al centro della sala.
-dipende. Con un’operazione tempestiva e un periodo di riabilitazione...
-che cos’è un tunnel carpale?
-quanto intende, per un periodo di riabilitazione?
-CHE CAZZO Ê UN TUNNEL CARPALE?
Ero seduta sul lettino, adesso. E ansimavo. Perchè ero ignorata ancora una volta, ma se ci andava di mezzo me e la mia batteria, già non era più un fatto della Universal.
Finalmente il dottore mi degnò di uno sguardo. Indifferente, ma di quelli ero abituata a riceverne.
-La Sindrome del Tunnel Carpale è dovuta alla compressione del nervo mediano al polso nel suo passaggio attraverso il tunnel carpale. Il tunnel è un canale nel polso formato dalle ossa carpali sulle quali è teso il legamento traverso del carpo, un nastro fibroso che costituisce il tetto del tunnel stesso. La patogenesi occupazionale sembra essere la causa più frequente per lo sviluppo. E' stata dimostrata un' associazione con i lavori ripetitivi, sia in presenza che in assenza di applicazione di forza elevata. Nelle fasi iniziali della patologia la Sindrome si manifesta con formicolii, sensazione di intorpidimento o gonfiore alla mano, prevalenti alle prime tre dita della mano e in parte al quarto dito soprattutto al mattino e/o durante la notte; successivamente compare dolore irradiatesi anche all'avambraccio, sintomi definiti "irritativi". Se la patologia si aggrava compaiono perdita di sensibilità alle dita, perdita di forza della mano, atrofia.- si gira verso il manager.
-si può curare con un’intervento tempestivo e tre mesi di terapia.

Tre mesi?


E non era che l’inizio. Cosa puoi fare, quando di mettono spalle al muro e nessuno che abbia in mano il potere ti può aiutare?

{Non parla più
Poiché nessuno la capisce
La sua speranza muore
Perché l'inverno non va più…}

-no, Dorcas, non lo fare.
-Christa, tu non capisci! Zia ha detto che mi viene a vedere, alle prossime prove!
-ma tre mesi non sono passati! Non puoi, il Doc lo ha proibito!
-me ne frego. È passato un mese e mi sento perfetta. A poi me lo ha chiesto zia.
-quella stronza che i mette in tasca più della metà dei tuoi profitti? Quella che ti fa un pat-pat solo perchè suoni come una pazza o ti dice un “non ti voglio più bene” perchè ti sei fottuta un polso? Eh, eh?
Mi trema il labbro.
-non dire cazzate, tu sei solo invidiosa! Zitta!
-ti prego, io...
-ZITTA!


-Dorcas, caVa?

Spalanco gli occhi spaventata, perchè la voce infantile della Christa dei miei ricordi si è sovrapposta per un momento a quella adulta della Christa presente, che, accovacciata di fronte a me, mi porge una felpa.

-che ne dici di coprirti, cara? Fa un poco di freddo.

La vedo osservarmi inclinando la testa, sorridendomi placida come solo lo è con me. Non mi muovo, non parlo. La osservo attraverso uno spesso strato di lacrime che non ne vogliono sapere di cadere. Sospira triste, mentre mi poggia la felpa sulle spalle. Sbatto gli occhi, e altre lacrime non possono fare altro che cadere, in una forsennata corsa con il tempo per misurare chi arriva prima.
Non preoccupatevi, c’è spazio per tutte.

Poggio la testa sulle ginocchia, mentre avverto la felpa riscaldarmi un pò. Sempre a labbra chiuse, la sento trafficare un poco. Poi un bruciore forte al ginocchio. Sollevo la testa di scatto, spaventata.

-ehi, tVamPfillaH.

Cosa? Ha una scatoletta di cerotti che le pende dall’angolo del labbra e, a tradimento, la bastarda, mi ha appena disinfettato la ferita al ginocchio di poco fa. Sembra quasi vedere il mio sopracciglio inarcato, perchè sputa la scatola per terra e si ripete, mentre mi sistema il cerotto con gesti calmi e dolci.

-tranquilla, piccola.

Allontana anche l’acool da se. Poi mi si avvicina un pò e apre le braccia.
La guardo dubbiosa, tirando su col naso. Sono patetica. Mi sento patetica, come una bambina stupida.

-vuoi distruggere la mia reputazione da vera dura?

La vedo sbuffare, occhi al cielo. Ma non accenna a chiudere le braccia. Sospiro.
Poi l’abbraccio anch’io di rimando, affogando nel suo fisico così femminile, formoso, solido e stabile. Le ho sempre detto che avrebbe potuto fare la scaricatrice di porto o la ballerina di can-can, con quel fisico tutto curve che si ritrovava. E lei mi ha sempre risposto che, con la fortuna che si ritrovava, sarebbe stata moglie del dio denaro. Perchè quando una possiede una bellezza commerciale e atipica come la sua, tutti ti vogliono per ciò che indossi.
Sospiro ancora, mentre la sento stringermi più forte. La felpa scivola via, e il suo profumo di pulito mi avvolge, come un gas narcotizzante. Mi lascio andare mollemente contro di lei, trovando un minimo di pace. Il ricordo di poco fa non smette di bruciare, ma è tutto più facile quando c’è qualcuno di cui ti fidi al tuo fianco.
E con Christa è come se mi sentssi tornare a casa. Come se ce l’avessi, una vera casa. Una casa che non sia un tourbus con una crew di un’ottantina di persone e quattro musicisti viziati e pazzi furiosi.
E non dimentichiamoci che del quarto sono innamorata, e ma va...

Non piango più, ma ho bisogno di ricordare. Per esorcizzare tutto quello che è passato. Ma che continua a vivermi dentro.

-ti ricordi dopo quelle prove, Christa?

La sento sospirare nei miei capelli. Lo prendo per un si.

-avevamo appena litigato, eppure tu mi avevi inizato a consolare lo stesso. Il polso mi pulsava in una maniera assurda, e non lo sentivo quasi più. Mi doleva come se me lo stessero tranciando, e quello che era peggio, è che mia zia non era neppure venuta. E il manager mi guardava scuotendo il capo.
-e il giorno dopo...
-era finita.

Mi avevano spezzato le ali. Contratto concluso, causa all’universal da parte di mia zia.
Io operata d’urgenza, mandata a riabilitarmi a Khöln. E se non avessi potuto più suonare, sarei morta. Perchè non me ne fregava niente del resto, se non avevo una batteria sua cui picchiare forte. Non mi potevo più sfogare, il mio polso non mi rispondeva. Non c’era.
Operazione di merda, fatta ancora peggio.
E riabilitata malissimo.


{Dieci anni prima, München.}

{Tutti si congelano qui
Tutti si perdono qui

nessuno ti sente
Nessuno ti vede.}


Mi sentivo soffocare.
Letteralmente, mi mancava l’aria.
Ero sdriata su un lettino duro, e una maschera scomoda e pesante mi oppimeva naso e bocca.
Ricordo perfettamente quella sensazione d’angoscia che mi stava lentamente macerando il cuore, rendendolo ogni giorno più pesante.
Quelle luci così forti, quei neon tremendamente freddi, privi di vita.
Lo ricordo come se fosse ieri. E quel che è peggio, è che ogni ieri è il rivivere di quell’agonia.
Quell’attesa spasmodica, assolutamente al limite tra crisi isterica e crisi di rabbia che mi faceva scatare come una molla al minimo tocco.
Assottigliai le labbra ancora di più di quanto non lo fossero già, come una linea rosata nell’immensa pallidezza del mio viso. Respirai forte dal naso, socchiudendo gli occhi, tremante.
Merda, tremavo.
E avrei voluto potermi fare coraggio, avrei voluto potermi strappare tutti quei cavi di dosso, avrei voluto Christa vicino e un’abbraccio stretto.
Avrei voluto poter avere in mano il telecomando della mia vita, dare al stop, rewind, e rincominciare daccapo, scansando tutto.

Perchè se non mi avesse ucciso l’operazione, lo avrebbe fatto il panico, da lì a poco.
Su quel lettino d’ospedale, in una sala di operazioni e con un’anestesia in corso.


La sonnolenza indotta da quel fiato meccanico dal vago sapore dolciastro mi sapeva ad ipocrita, tanto quanto gli incoraggiamenti fattimi, senza guardarmi negli occhi, dai medici che mi avevano seguito fino a quell’operazione. L’operazione che loro consideravano definitiva.
La definitiva, si: “Dorcas potrà mai tornare a suonare?”

Tra la soglia del sonno e della veglia, resa labile per colpa del sonnifero, mi resi conto che ormai era fatta.
Avevo giocato la mia carta, ma avevo perso.

E da quel momento, non ne sarebbe potuto venire niente di buono.

.-.-.-.-.

{Non parla più
Poiché nessuno la capisce
La sua speranza muore
Perché l'inverno non va più…}

La luce entrava a fiotti dalle enormi vetrate dello studio del prestigioso medico Olufses. Socchiusi gli occhi, cercando di infocare la figura dall’altro lato della prestigiosa scrivania in noce, pensando, nel mentre, a quanto avrei voluto con me un paio di occhiali da sole.
Strizzando gli occhi, cercai di dare un volto a quella che fino ad adesso era stata solo sagoma scure, ma mi scoprii del tutto incapace di farlo: non trovavo umano conservare una placidità assoluta nel dire una notizia del genere.
Non concepisco che la gente possa essere così indifferente, o flemmatica.
Abbassai gli occhi verso le mie all-star consumate, convinta che quel medico da strapazzo non avrebbe più proferito verbo dopo avermi fatto pomposamente accomodare una sedia dallo schienale rigido, del medesimo stile della scrivania.
Incredibile come la punta delle mie scarpe fosse ormai di un uniforme beige per lo sporco.
Sporche.

Come tutto quello che mi circondava.
C’era un qualcosa di profondamente malsano, in tutto questo. lo sentivo suppurare in profondità, conquistando ogni giorno una parte di piu della mia fetta di vita, fino a quel momento immota, per trasformarla in un coktail pericoloso di cinismo e rabbia. Un qualcosa che mi stava procurando una crisi di rigetto incredibile.

Deglutii, socchiusi gli occhi per colpa dei riflessi del fermacarte di metallo sulla scrivania, e mi rassegnai ad aspettare.

Le labbra bruciate dalla mia stessa aciditá, un polso sfibrato per la mia cocciutaggine, tredici anni e solo terra bruciata intorno a me. Mi potevo quasi vedere attraverso l’ottica indifferente di quel chirurgho troppo pagato, troppo famoso e troppo indifferente al sogno infranto di una dei suoi tanti pazienti.

Piccola, magra e smunta, con abiti informi e dai colori scuri che rivelavano che i chili erano stati persi troppo in fretta per poter comprarne di nuovi.
Era una ragazzina fragile, una bambina con ancora le guance umide e gli occhi torbidi di rabbia, le labbra gonfie, rosse per le troppe volte che sono state morse e per un piercing argentato al centro esatto del labbro inferiore, di cui ancora si intravedeva l’alone rossastro tipico delle prime settimane.
Pallida, dal passo incerto di chi non ha ancora preso possessione del suo nuovo corpo e dai corti e ricci capelli, prima neri, adesso dalla ricrescita bianca.

Ma te, a te professionista di successo, tutto questo non fà paura.
Solo, non riesci ad incontrare quello sguardo blu cupo, torbido e vivido come il tramonto delle notti d’inverno, elettrico, crepitante d’ira e lamenti repressi.
E il suo sguardo da bambina è la condanna alla tua inerzia.

Perchè quando l’hai vista arrivare con quel polso, hai capito che era solo questione di tempo.
Perchè, ti sei chiesto, Dio dà il talento a gente che non ha la capacità di svilupparlo?
Aveva polsi deboli.
Assurdamente fragili. Eppure l’avevi sentita, una delle poche volte che eri andato a visitarla direttamente in studio, dato che non aveva neppure tempo per venire in studio.
L’avevi sentita e l’avevi vista, e, per un solo momento della tua vita scandita dall’ovvio tran-tran quotidiano, ti eri sentito vivo nella schiacciante cosapevolezza che lei non avrebbe mai potuto aprire le ali.
Perchè lei, Ed era solo questione di tempo, non avrebbe mai potuto aprire le ali.

-no, non si è ripresa.

Non, negazione. Due piccole lettere che presuppongono la negazione assoluta ed inappellabile di un concetto. Un concetto che per me era l’equivalene del parlare.
Basico.

Sollevai di colpo sguardo, mentre la bocca si inaridiva e smettevo di torturarmi le mani.

-ho potuto fermare il processo degenerativo del polsi, ma, adesso come adesso, non si è potuto permetterle di recuperare un’uso ottimale polso, non si dispone delle tecniche sufficienti.

Il sole, come ad un tacito ordine, era appena stato coperto da una nuovola grigia e carica di pioggia.
Distolsi lo sguardo dalla faccia placida del medico, dal suo taglio di barba curato e calvizie incipiente, occhiali dalla montatura d’oro e camice immacolato.

Sospirai, tremante. Deglutii sonoramente.
Continuando ad ossevare il grigio pavimento di marmo, espirai, lentamente, cercando di non cadere pezzi. Non subito, per lo meno.

Chiudo gli occhi, e cerco di parlare.
Una volta.
E un’altra.
Sento gli occhi bruciarmi e avverto un forte retrosgusto ferroso in bocca. Credo di essermi morsa le labbra a sangue.

{wer bin ich?}

-si riguardi.

Cerco di non rispondere. Cerco di non dare di matto, non adesso.
Non subito. Perchè l’isteria che mi sta pulsando nelle vene, questo scattare con vulso della mia mano destra, so che sarebbe capace di fare qualsiasi cosa.
Per esempio, prendere quel cazzo di fermacarte in argento, fedele riproduzione dell’arco di brandeburgo di Berlino, e tirarlo fuori dalla finestra.
Ma se dobbiamo iniziare una vita all’insegna della frustrazione, beh, meglio iniziare ad accumulare punti.

-si riservi.

Apro gli occhi e, miracolosamente, quella lacrima traditrice mi fa il santo favore di non cadere. Distolgo lo sguardo dalle affollate librerie in cupo legno color noce, che ricoprono tre pareti dell’enorme studio, e li centro nel medico.
Che scopro ad evitare il mio sguardo. Afferro con un gesto violento la mia bistrattata sacca adidas ai miei piedi, per poi alzarmi.

Mi avvicino alla suddetta scrivania, isola lignea in un oceano di fredo marmo, l’aria resa pesante dal suo imbarazzo, dal mio furore e da un temporale che ha tutta l’aria di voler iniziare ad imperversare adesso, sui tetti di una cupa München.
Mi appoggio con un gesto a stento controllato sul bordo della scrivania, inclinandomi verso un medico un poco perplesso. La mia smorfia sembra dire tutto, ma MrProfessionalità sembra lo stesso stupito di ritrovarsi una giovane paziente che gli sta ringhiando a venti centrimetri dalla giugulare.
Ed è quindi con un tono aspro, basso e tagliente, che inauguro il mio nuovo motto.

-vada un pò a farsi fottere, signore.

.-.-.-.-.-.

Era finita.

Con tutto.

Sarei andata in un collegio privato, avrei perso tutti i contatti con Christa, per lunghi anni. Avrei sopravvissuto sei mesi senza la mia batteria, in piena fase di autodistruzione: se le avessi tentate tutte mi avrebbero ucciso per logoramento? O per crisi? Non mi sarei potuta esprimere, non avevo più con che cosa gridare al mondo che ci fossi.
Ero sola. E sola sarei voluta rimanere.


.-.-.-.-.-

{Dieci anni fà, Stuttgart. Collegio privato St.G.}

Osservai distratta il mio riflesso indifferente nello specchio sopra il cassettone della mia camera.
Una ragazzina troppo magra e troppo bassa per avere tredici anni e dieci mesi mi ricambiò con una smorfia sofferente, due piercing che sbrilluccicavano al labbro inferiore e una inquietante chioma bianca tagliata in un caschetto disordinato.
Distolsi lo sguardo, posai la spazzola sul ripano.

Avevo sempre avuto paura del dolore. Aveo un sacrosanto panico, all’idea di un dolore lancinante in una qualsiasi parte del mio corpo.
Temevo il bisturi, le relazioni serie, temevo tutto.

Ma quella che temevo di più, era me stessa e la mia capacità di alienazione.

Mi ero dimenticata cosa volesse dire avere qualcuno che conoscesse qualcosa di me, all’infuori di uno stupido nome.
Mi ero quasi dimenticata cosa volesse dire l’affannarsi per ottenere qualcosa.
Non ricordavo cosa significasse potersi sfogare con qualcosa che non fossero pugni alle pareti.
Sciovolavo insorabilmente nell’apatia più nera, canticchiando stralci di Requiem di Mozart e procurandomi il necessario per finirla.
Mi ero voluta isolare, e ci ero riuscita maledettamente bene.
Nessuno si era preoccupato.
Perchè tutto era più importante.

Mi avvicinai con passo leggero al tavolo della mia stanza, osservando come la luce che entrasse dalla finestra fosse calda e cristallina.
Tutto il contrario del vortice di sentimenti inconfessabili che avevo visto turbinare nel mio sguardo di poco fà.

E facciamola breve.

Sospirai, alzando inl mento in una sorta di gesto sprezzante verso tutto quelo che mi circondava.
Ero riuscita a raccattare quel tanto di coraggio che bastava per programmare tutto nei minimi particolari.
Lezioni di anatomia, incursioni nell’ambulatorio della scuola

Con un gesto sicuro afferrai l’anestetizzante locale in spray, comprendo con la mano la dicitura “efficace in tre minuti”.
Lo agitai, come raccomandato dalle istruzioni, per poi poggiarlo un momento sul tavolo di fronte a me. Mi distrassi un momento nell’osservare il grande ciliegio che dal giardino della scuola arrivava fino alla finestra di camera mia, osservando come fosse disgustoso il fatto che facesse una splendida primavera, esattamente nel momento in cui mi trovavo così. Con un verso di noia rivolsi la mia attenzione alla scrivania: ricapitolai tutto il necessario, sistemai gli stumenti il più vicino possibile a me in maiera tale da poterli utilizzare con il minore spreco di tempo possibile, per poi avvicinarmi alla porta e chiuderla a chiave.

Dopo essermi spruzzata un denso strato di anestetizzante su entrambi i polsi, attesi un minuto esatto dei tre previsti prima che iniziasse a fare effetto.
Poi presi il coltello dalla lama seghettata e con un gesto preciso incisi il polso in più profondità possibile. Osservai come il sangue scarlatto colasse rapidamente sul pavimento e come il dolore mi avesse fatto mordere la lingua.
Sempre ad occhi socchiusi ed espressione immutabile, riuscii a passarmi il coltello nell’altra mano.
Evidentemente non avevo inciso troppo in profondità il muscolo, limitandomi a beccare la vena giusta.
Mi complimentai silenziosamente con me stessa per come avessi assimilato bene le lezioni di anatomia.
Altro taglio, fatto con violenza, forza e precisione.
Giusto in tempo, perchè sentivo le mani sempre più pesanti e meno sensibili.
Sospirai. Poi, con un gesto deciso del braccio, ripulii la scrivania di tutto. Ridacchiai al rumore di tutti i ninnoli che si infrangevano sul pavimento. Il dolore lancinante del polso si attutiva ogni secondi di più, e questo mi portava un enorme sollievo.
Poi mi sedetti pesantemente sulla sedia, appoggiando la testa sulle braccia Ed osservando distratta fuori dalla finestra.
Con piacere, sentii i miei occhi abbassarsi per qualcosa di inquietantemente simile al sonno. Sbadigliai, mentre con un tono assolutamente melodrammatico pensavo a quanto fossi cambiata.

{Ne ha abbastanza del gioco eterno
Lei ne ha abbastanza di sentire loro il loro odio
Lei fugge, corre fuori.
Inciampa nella neve, oh no!
Lei grida a Dio:" puoi perdonarmi?!" }


-.-.-.-.-.

Mi riaggrappai a Christa in un abbraccio che sapeva di disperazione, rincominciando a singhiozzare.
La strinsi forte, fortissima, come se lei Ed i suoi diciassette centimetri in più di statura potessero essere la mia unica ancora di salvezza. La sentivo ricambiare l’abbraccio con quasi altrettanta forza. E mi resi conto che Christa era l0unica persona che potesse dire veramente di conoscermi, l’unica che vedesse la reale differenza tra Dodò e Dorcas, l’unica che capisse realmente la mia debolezza, forse perchè c’era sempre stata, nel bene e nel male, anche quando l’avevo evitata e l’unica cosa che le avevo detto dopo anni di lontananza fosse stata un freddo “ciao”.
Chiusi gli occhi, affogando in quella felpa bordeaux che non era evidentemente sua, eppure che era impregnata del suo profumo così femminile e dolce.

Le mia lacrime le stavano inzuppando la felpa, rendendola umida e scomoda. Per me.
Ma euelle non erano lacrime mie.
Erano lacrime della Dodò paurosa, repressa, quella che si fa le pippe mentali, che non segue l'istinto e che ha paura di sbagliare e di dare voci ai suoi sentimenti.
Erano lacrime che sapevano di nostalgia e autocompatimento, lacrime lievi e sempre presenti.
Ma c’erano anche lacrime che costava orgoglio piangere, che profumavano di rinnovata sicurezza e una determinazione assurda. Era Dorcas, la pazza esotica e manegreghista, quella parte di me che sà smonta la batteria ad occhi chiusi e che vorrebbe tornare a dare tempo al mondo tramite il suono scandito della sua batteria.
C’erano lacrime di entrambe nella felpa bordeaux, che sapeva un pò di Christa e un pò di Georg, di amore e amicizia, Tokio Hotel e ricordi di un sogno infranto.
C’erano le due parti separate da un braccio sinistro tatuato dal polso fino al seno, in ricordo di un passato fragile e di un futuro incerto, c’erano Dodò e Dorcas, unite da uno stesso corpo e dagli stessi sogni, c’era tutto.

In quel momento, stretta a Christa, piangendo lacrime che sapevano di ricordi sgradevoli, con Gustav tre piani più sotto e la mia vita sbattuta in faccia con un precisione chirurgica e crudele, mi resi conto che non sarebbe potuta continuare così per sempre.
Avrei dovuto rendermene conto prima, che mi serviva staccare.

{Ne ha abbastanza del gioco eterno
Lei ne ha abbastanza di sentire loro il loro odio
Lei fugge, corre fuori. }



 

.-.-.-.-.-.

 

Testo tradotto preso da Pan!kItalianForum. Testo originale, here.



No, dico, ce l’abbiamo fatta! *___________________*
Innanzitutto, grazie per avermi sostenuto con questi fantastici commenti, a tutte quelle che l’hanno fatto.
È stato bellissimo vedersi così apprezzata, anche se, ovvio, da insicura cronica quale sono, io mi chieda se state sul serio parlando di me o non mi abbiate confuso con qualcun’altro.

Mi rendo conto che questo è un capitolo un po’ strano, a momenti piatto come l’encefalogramma di un morto, altre volte un poco melò.
Oh, mamma mia, sento di non averci messo tutto quello che potevo. Nonostante creda che si recuperi un pochettino con il finale, credo che avrei potuto fare di meglio.

Mah, se son spine, pungeranno.

Comunque sarebbe fantastico cercare di capire quanto vi ho realmente trasmesso di tutto ciò, attraverso i vostri commenti. Non chiedo papiri, ovvio, ma anche il solo fatto che mi facciate una seria critica sul come mi sia saltato in testa di scrivere una cavolata del genere sarebbe un gran bel passo avanti. <3<3<3

 

Comunque i Danke! Sono doverosamente vostri, ovvio. *-*

 

D a n k e!

Gracias.

Grazie.

Merci.

Thanks.

 

 _Princess_, simmyListing.

 

 Perchè continuano ad essere presenti, e non mi fanno mai mancare appoggio.

La  _Princess_, poi, si becca il nobel della pazienza per il solo fatto di sopportarmi in msn, me e i miei svarioni da Teen. <3

 

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Capitolo 6
*** Nothing Else Matter ***


Capitolo Extra-lungo, occhio

Capitolo Extra-lungo, occhio. Riuscirete a sopravvivere?

 

 

6. Nothing Else Matter.




Christa mi sussurò un ultimo “coraggio”, prima di scostarsi da me. Sorridendomi comprensiva, mi passò un fazzoletto, magicamente comparso dalla tasca dell’enorme felpa bordeaux, con cui mi asciugai le lacrime.

Chiusi gli occhi, appoggiandomi di spalle alla ringhiera del terrazzo, sospirando spossata.
Mi bruciavano le mani per la caduta di poco fa, le lacrime avevano reso umido ed appiccicaticcio il mio viso e, come se non bastasse, dovevo avere gli occhi gonfi e rossi come quelli di una rana.

-caVa, mi vuoi spiegare perchè ti bistratti così?

Apro gli occhi, inquadrando Christa che mi guarda mesta.
Ridacchio.

-ho sempre avuto un’inclinazione per il masochismo, Chrì.

Mi accoccolo meglio sulle mie gambe, rimettendomi la felpa sulle spalle. Nel tentativo di fuggire allo sguardo di Christa carico di rimprovero, mi dedico ad osservare distrattamente il cielo.

Sono felice che sia così premurosa con me, eppure, a volte, sento una lieve sensazione di soffocamento.
È da una vita, tre mesi che sono come anni, che cerca di convincermi a cercare di curami, sia fisicamente, sia con serie sedute da uno psicologo.
Ma io non ne ho voglia. O meglio, ne ho paura.

Perchè nessuno mi conferma che potrei guarire senza problemi. Potrebbero esserci complicazioni. O forse è un danno irreparabile.

E se non si potesse più fare niente? Anche le illusioni fanno male, non solo i ricordi.

Sospiro, perdendomi un momento nell’azzurro cupo del cielo tardo-estivo di Amburgo.
Non voglio neppure darmi una possibilità.

È settembre, periodo in cui tutto ciò che è nuovo inizia e tutto ciò che è vecchio muore in un’ultimo guizzo del suo antico splendore. Peccato che io non riesca mai a cambiare.
È settembre, tempo in cui Amburgo si inizia a ripopolare dei vacanzieri e si svuota di turisti. Un’altro anno se ne va.
È settembre, tempo in cui le foglie cadono e il tourbus dei Tokio Hotel viene tirato a lucido per un nuovo tour. E io sarò là.

Sento Christa trafficare rumorosamente con la felpa, per poi porgermi finalmente una lettera tutta stropicciata.
L’osservo attentamente, adesso incuriosita. Noto come, in alto a destra, campeggi, nero su bianco, il logo della universal.
Osservo attentamente il mittente e il destinatario, scoprendo che è proprio a me che il “reparto risorse umane universal” ha mandato una lettera.
O, almeno, questo è quello che pomposamente recita il dorso.

Scocco uno sguardo incredulo a Christa, mentre constato, dai bordi sfrangiati, che la lettera è già stata aperta. Lei fa spallucce, negando silenziosamente di sapere chi l’avesse aperta prima.

-l’ho trovata sul pavimento del salotto, quando sono vanuta quassù.

Spiega.
Dopo avermi rigirato la lettera tra le mani un altro po’, decido aprirla.
Ne tiro fuori due fogli: il primo stropicciato e macchiato d’unto (sale e burro? Pop-corn?), il secondo ancora integro. Dopo un’ultima occhiata dubbiosa all’indirizzo (si, è proprio indirizzara a me), mi accingo a leggere.

Esimia Fraulein Schröder,
siamo lieti di informarLa che si prospetta un’importante opportunità per lei.(...)


Leggo, e la mia prima impressione è pura incredulità.
Rileggo una seconda volta, deglutendo sonoramente.
Una terza volta, mentre una rabbia violenta mi monta rapidamente nello stomaco.
Una quarta volta, poi la lettera viene appallottolata con un gesto secco.
Ad un suo sguardo sorpreso, la incito a leggere con un gesto secco della testa, mentre cerco con lo sguardo il secondo foglio.

Lo prendo, lo apro con foga e lo leggo, a metà tra l’incredulo e il disgustato.
E scopro quanto siano ironiche le vie attraverso cui il passato irrompe silenziosamente, ma implacabilmente, nella tua vita.
Nella vita che credevi immutabile e rutinaria, presente e, semplicemente, incompatibile con ciò che eri.
Mi appoggio alle sbarre della ringhiera, tramortita dalla novità.
Poi cerco lo sguardo di Christa.
E l’unica cosa che noto di tutta la sua espressione, è la silenziosa speranza che aleggia nei sui occhi color caffè.
Speranza che io mi faccia operare secondo le ultime tecnologie.
Speranza che io mi riprenda, che possa tornare a sfiorare una batteria per suonarla, e non per aggiustarne solo i microfoni ed i cavi.
Speranza di una minima riconciliazione con ciò che ero e ciò che sono, con me e gli altri, con il mio talento e la mia capacità.

Stiro le labbra in un mezzo sorriso mentre Christa afferra la mia mano rimasta abbandonata sul ginocchio. La stringe e, con solo con quella presa asciutta e calda, mi fà capire che forse speranza c’è ancora.

Ho paura. Perchè non è detto che vada bene. Ho paura di rimettermi in gioco per l’ennesima volta, perchè potrei solamento illudermi.
E le illusioni fanno tanto male.

Prendo fiato, apro la bocca per cercare una scusa per non farmi operare. Ma la richiudo, senza trovare parole.
Sollevo lo sguardo sul cupo cielo di Amburgo, in cui le stelle sono poche e poco visibili. Eppure, brillano ancora.
In questa fresca sera di settembre, speranza c’è ancora.

È settembre, tempo di cambiare.

.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.

Mi stropicciai gli occhi con una mano, mentre con l’altra reggevo una bottiglietta d’acqua. Sospirai distrutto, mascherando la mia stanchezza con il mio sorriso più accattivante rivolti all’ennesimo giornalista dell’ennesima conferenza stampa, tipica dell’ennesima settimana pre-tour.

Maledetti ritmi serrati. Tra prove che si concludevano inevitabilmente in gemiti di dolore di noi musicisti e voce di qualche ottava più bassa del nostro vocalist, assurde conferenze stampa, ripetitive interviste e snervanti photoshoot in cui collezionavo figuracce a non finire {non me lo avrei mai fatto, un servizio con una magliettina di rete nera. Checchè ne dicesse Bill, io, stile stallone similpelle sadomasochista, non mi sarei mai vestito. Lascio volentieri questa parte a Georg e Bill, che sembrano fare a gara a chi più assomilglia ad un outlet del cuoio o una ferramenta su due stecchi.} si stava avvicinando a passi da gigante l’agoniato {ma anche no} “ritorno al tourbus”. Una maniera affettuosa di denominare la nostra casa su ruote. Lo so già che mi mancherà parecchio il letto ortopedico del mio duplex, qui ad Hamburg.
Eppure tutti noi fremiamo all’idea di rimetterci in marcia, di rincominciare i live. Ci siamo stancati di falciare premi come grano, è decisamente più appagante tornare a battere il tempo dei tre pazzi furiosi {armati di strumenti musicali e senza timore a suonarli} che si sarebbero scatenati sul palco.

Sorrido all’idea del nuovo, frenetico, tour, che da lì a poco mi avrebbe scosso questa fastidiosa patina di frustrazione di dosso.

Ma non solo frustrazione: anche rabbia, una scomoda pizzica di desiderio e una caterva di insulti a me stesso.

Già, perchè lei, dopo il litigio, non sembra solo irraggiungibile. No, è addirittura impenetrabile.
Il sorriso viene spazzato via dalla mia faccia, al ricordo dell’espressione delusa di Christa.
Ma quel che è peggio, non è la delusione della sua migliore amica. No, è la delusione di Dorcas.
Poggio le labbra sul collo della bottiglia, torturando la plastica con i denti. Sono perso nel ricordo di quegli occhi blu cupo che sembravano sprizzare lampi, furia e tempesta, in quello studio che adesso, ogni volta che ci metto piede, mi appare assurdamente claustrofobico.
Smetto di mordicchiare la plastica, al ricordo di dove sono: nel pieno di una conferenza stampa.

Sbuffo, allontantanando da me la bottiglia cautamente per non farla cadere.

Ho seriamente paura di perderla, lo ammetto.
Ho seriamente, fottutamente, paura di non vedere mai più un suo sorriso indirizzato a me.

Spazio distrattamente sull’oceano di teste che affollano la sala di conferenze della sede della UniversalDeutschland-Hamburg. Niente, niente di assolutamente interessante in vista.
Sbuffo, concentrandomi sulle mie mani.

{chi ti aspettavi di vedere?} maledetta. Ancora quella vocetta petulante della mia coscienza.
E comunque, non mi aspettavo nessuno.
{nessuno?} nessuno.
{quel nessuno ha degli assurdi capelli bianchi in cui vorresti passare le dita? Ha uno sguardo sotto il quale ti senti inevitabilmente allo scoperto? Ha un tatuaggio che passeresti giorni a decifrare?}
Un sorriso mesto si disegna sulle mie labbra. Mi posso arrendere, almeno con me stesso?
Ho il coraggio di farlo?

Con un tempismo perfetto, la conferenza stampa è finita.
Mi alzo allo stesso dei miei compagni, saluto con un cenno silenzioso della mano.
Sorrido a labbra chiuse come tanto piace a fotografi e fan, e, mani in tasca e testa bassa, mi avvio verso la salita.
Socchiudo gli occhi per il sole accecante, ma non faccio in tempo ad abituarmi alla luce che già siamo entrati in macchina.
Destinazione? VIVA Studios. Per l’ennesima intervista, credo.
Non m’interessa affatto saperlo.

Mi butto con un sospiro stanco sul sedile posteriore del Suv nero a vetri polarizzati. Bill mi segue a ruota, con tanto di capelli neri scoppiati, unghie fresche di manicure e un’espressione di scazzo palese. Tom e Georg si siedono davanti a noi, uno desideroso di schiacciare un pisolino sulla prima superficie morbida e non illuminata da flash che gli si presenti sotto il fondoschiena, mentre l’altro pronto il cellulare in mano. Segno che, anche oggi, Christa non si sveglierà senza un “guten morgen” firmato Listing.
No, e poi dicono che Bill è romantico e io sono placido.

Sospiro distogliendo lo sguardo da uno scocciato Bill, per centrarlo nella porzione di cielo azzurro che si vede aldilà del finestrino.

Probabilmente è un’errore.
Un sovrano errore dal fatto che lei sia l’unica donna che abbia vissuto con me, noi, per tre lunghi anni, senza lasciarsi influenzare dal mito Tokio Hotel.
Probabilmente provo qualcosa per lei perchè è l’unico esponente di sesso femminile che mi abbia velatamente minacciato di morte in svariati casi, piuttosto che svenirmi sulle scarpe.

Mi prendo la faccia tra le mani.

Non è da me farmi tante pippe mentali, lo ammetto.
Probabilmente la mia vita, organizzata, precisa, scandita da ritmi regolari e dannatamene inumani, non riesce a rendersi conto di aver tagliato fuori una cosa importante.
Una cosa che, me lo sento, provocherà un crollo strutturale.
Le emozioni.

Ridacchio sconsolato. Ma stiamo parlando di me, o di un palazzo?

Torno con gli occhi agli altri.
Tom dorme, placidamente ronfante sul finestrino. Bill lo ha seguito nel mondo dei sogni, ma lui ha imparato a dormire stando seduto. A dove lo porterà, la sua mania per la perfezione?
Ma Georg osserva me, occhi attenti e labbra chiuse, pensieroso.

Inarco un sopracciglio.
Lui si riscuote.

-sai, mi chiedevo quando te ne saresti reso conto.

L’osservo meglio, sorpreso. E lui, divertito, sorride.

-che non sei autosufficente, Gusti. Non sei Ironman.

Schiocco la lingua, scocciato.

-Gusti? Senti, Hobbit, non iniziare.

Lui ridacchia, deliziato. Non si arrabbia perchè sa di aver centrato il punto debole, per continuare con l’allegra metafora edilizia, dell’intera casa. Lo odio, sinceramente: lui e la sua ferma pacatezza nel tirare fuori la verità a chiunque.
Non. Lo. Sopporto.
Ma non riesco a non sorridere. A labbra chiuse, per non dargliela vinta. Ma sorrido.

-se stai iniziando a rompere con una tua romantica metafora del mio cuore che cerca l’altra metà, puoi tenertela.

Scuote la testa leggermente.

-no, affatto. Solo, mi chiedevo come è sentirsi dei solenni coglioni per aver fatto piangere una delle persone a cui tieni di più. Sai, a me è successo varie volte, vorrei fare un gran bel confronto di esperienze.

Un suo sorriso sghembo mi fà capire che, anche lui, ovvio, è dalla parte di Dorcas. Vedendo la mia espressione, sospira, affranto, facendo roteare gli occhi.

-e non sono dalla parte di nessuno, Gustav. Chiamalo scambio di opinioni. In fondo vi serviva. Le serviva. Un modo crudele di rinfacciarle la realtà, lo ammetto, ma prima o poi ci sareste arrivati.

Lo squadro, a metà tra lo scocciato ed il curioso. Sono così trasparente che chiunque riesce a leggermi dentro, o è perchè si sta parlando di Georg-Psicologo all’occasione-Listing?
Sospiro, sconfitto. Torno con lo sguardo fuori dal finestrino, sistemandomi la visiera del cappellino.

-Mi sento ufficialmente uno stronzo. Enorme, gigantesco bastardo. Ti rendi conto che per una cosa così stupida come un mio momento di frustrazione, mi sono sfogato con lei?

Lo osservo con la coda dell’occhio.
Georg inclina la testa, osservandomi serio. Distolgo gli occhi, centro la mia attenzione nelle strada che scorre veloce. Dopo un momento di pausa, riprendo a parlare.

-ero nervoso per i fattacci miei e lei era il primo obbiettivo disponibile. Ovviamente io non ho aspettato due minuti per decidere di comportarmi da giudice.

Glisso sul fatto che i fattacci miei riguardasso una sfilza di pensieri non proprio casti su Dorcas.
Mi stronfino con forza le mani, osservando attentamente il tappetino del suv.

-cosa avresti fatto al suo posto, vedendo che un musicista che può suonare, ancora, non lo fa per pura noia? Come ti sentiresti, se vedessi del talento sprecato sapendo che tu non potrai mai tornare a suonare? Quando c’è una passione come la nostra, la sua, già non è più un semplice fatto di voglia di suonare. Lo sai anche tu, come me, che non è solo questo. non so dirti cosa, ma non è solo questo.

-immagino che sia un semplice problema di sviste.

Sorpreso, rialzo gli occhi su di lui.
Mi osserva con un sorriso sornione, l’infingardo.

-sai... mi stupisco del fatto che tu e Dorcas vi guardiate negli occhi e non vi capiate.

Il mio sopracciglio inarcato e la bocca aperta lo spingono a continuare. Ignoriamo tacitamente Tom che si agita sul sedile.

-vi sfiorate e non capite cosa provate l’uno nell’altra. Vi osservate a distanza, giocate a chi è più impenetrabile, fate fronte comune contro il mondo, eppure non riuscite a stare insieme senza discutere. Siete così...
-idioti.

Tom interviene, sistemandosi la visiera del cappellino con un tocco secco. Evidentemente l’abbiamo svegliato.

-incommensurabilmente idioti. Perchè siete fottutamente innamorati l’uno dell’altra. E la cosa divertente, ma anche no, è che non lo ammettete.
-bounjour finesse, Tom.

Bill, sopracciglio inarcato e mani tra i capelli per sistemarsi assurdi ciuffi ribelli, sbuffa.
Incrocia le gambe, si volta verso di me.
E io che credevo di stare tenendo una conversazione privata.

-Gustav, sono anni che cerchiamo di scommettere su una vostra possibile svegliata. Assolutamente stupefacente che ti sia reso conto di essere cotto di lei prima che s’innamorasse di un altro con meno prosciutto sugli occhi di te.

Deglutisco, osservando a turno prima Georg, poi Tom, ed infine Bill.
A metà tra vergogna e rabbia, tra piacere per aver capito e fastidio perchè hanno dovuto farmelo capire, mi rendo conto che c’è qualcos’altro.

E...
Oh, cribbio.

-ragazzi, siamo arrivati a VIVA studios. Scendete.

Osservo Saki e la sua espressione distratta come si fa con un marziano. Torno a guardare i ragazzi, le loro espressioni scettiche, scazzate, confuse.
Scendo come un’automa dalla macchina, strofinandomi forte gli occhi con le dita. Inspiro forte.

Avanzo tra i cordoni di sicurezza, seguito dagli altri, fino ad arrivare sulla porta dell’edificio. Mi guardo riflesso in una delle claustrofobiche pareti a specchio dell’ingresso secondario, chiedendomi se quell’espressoione alienata fosse dipinta sulla mia faccia.

Una mano mi batte forte sulla spalla, per poi rimanere lì, rassicurante.
Mi giro, e mi ritrovo un Georg particolarmente sogghignante che mi osserva dall’alto del suo metro e settantacinque.

-è normale che ti senta come se un tir ti sia passato sullo stomaco. È sempre così, quando scopri di essere innamorato.

Spalanco la bocca, stupito.
Georg ridacchia, mentre Tom, passando accanto a me con la camminata resa goffa dalle troppe taglie, me la richiude con un gesto secco.

Merda.

.-.-.-.-.-.-.-.-.

-e così hai deciso.

Distolgo gli occhi dall’orchidea in chains tatuata mio polso sinistro, per centrarli in quelli del uomo seduto dietro all’enorme scrivania di legno. Accavallo le gambe con un lieve fruscio della gonna, per poi annuire.

-David, come cacchio la troviamo un’altra come lei per quattro lunghi mesi?

Sorrido, occhi in gloria, mentre una specie di stangone biondo – allegramente appolaiato sulla suddetta scrivania - dai capelli vagamente retrò si rivolge con un’espressione lacrimosa a David Jost, il manager dei TH.

-troverete, troverete. E poi, non è per quattro mesi, Benjamin.

Ebel, ovvero il manager sul campo dei Tokio Hotel, si volta stupito verso di me.
Congiunge le mani, mentre un sorrisino sorpreso si disegna sulle sue labbra sottili.

-torni prima?

David e io ci guardiamo negli occhi, ma non sorridiamo. Sappiamo cosa stiamo per dirci, sappiamo che lo stiamo facendo ognuno per il proprio bene. E anche Benjamin lo sa, anche se non lo vuole ammettere.

-no, Ebel, non torno affatto.

È molto semplice. Il nostro caro batterista mi è entrato dentro fino al midollo e devo iniziare un proceso di disintossicazione. Non sopporto l’idea di essere così dipendete da lui. Non sopporto il fatto che permea costantemente i miei pensieri.
Sono innamorata di lui, ok, lo ametto, lo confesso a me stessa.

Mi aspetto un crollo epocale della mia persona, li, in quello studio, di fronte ai manager dei Tokio Hotel, ma non succede niente di tutto ció.

Perchè in fondo lo sapevo già: essere innamorati non significa amare. Incredibile come queste due paroline siano così inquietantemente simili.
Eppure non lo sono.

Osservo David e Benjamin confabulare tra loro, lanciarsi occhiatine complici.

Cos’è essere innamorati? Innanzitutto, è essere drogati dell’altro, profondamente insicuri del suo amore, distratto da ogni suo passo.
È puro caos, l’essere innamorati: rende poco lucidi, confonde e opprime ogni forma di ragionamento logico in favore degli impulsi passionali.

Non posso essere annientata da uno sguardo incazzato, non posso ritrovarmi indifesa per colpa di una sfuriata della quale non avevo neppure colpa.

Quando arrivi al punto tale da renderti conto che stai annientandoti per un’altra persona, allora è arrivato il momento di staccare la spina.
Perchè l’amore è altro. Non so esattamente cosa, ma mi rifiuto di credere che sia questa delirante esaltazione del desiderio.

E poi, e che cacchio, qui si sta parlando del mio braccio. Con tutti gli annessi e connessi.
Torno con lo sguardo ai due manager, osservando come il battibecco sembra concludersi a favore di David.
Con un gran sventolio di gambe, Benjamin sbuffa, mentre Jost si congiunge le mani sulle labbra, pensoso.
Mi sistemo con un gesto distratto la gonna, mentre cerco di non incontrare lo sguardo di nessuno dei due uomini.

-lo so, non è normale per essere tanto malinconico ma... ti ricordi quando sei arrivata, Dorcas?

Li guardo, prima uno e poi l’altro. E il mio lieve sorriso si trasforma in una roboante risata.


-ma chi ti credi di essere, per dirci come dobbiamo trasportare una batteria?

Dorcas calò gli avvolgenti occhiali da sole sul naso per guardare sfacciatamente negli occhi a David Jost e Benjamin Ebel, entrambi con blackberry in mano e sguardo assassino incluso. Sorrise compunta.

-il tecnico del suono di Mr. Schäfer dei Tokio Hotel. Quindi, se permettete, io farei il mio lavoro.

Rimette gli occhiali al suo posto, mentre con passo cadenzato e silenzioso si avvicina alle casse metalliche contrassegnate dalla fredda scritta “Tokio Hotel UP”, a cui qualche simpaticone ha aggiunto in pennarello bianco un “is!”.

Ha capelli bianchi che risplendono per i raggi di sole che entrano dai lucernai dell’enorme magazzino dove è depositata tutto il materiale per concerti dei Tokio Hotel.
Sono bianchi come la neve che una volta all’anno ricopre Berlino, ricci come onde imbizzarrite, dai vaghi riflessi dorati. I Rayban avvolgenti sembrano enormi in contrasto con il pallido visino dai tratti minuti, adesso concentrato e chino sul contenitore della grancassa. Inquietante ed assurda, è vestita con una corta gonna dai mille pizzi e colori, gonfia come se fosse tenuta su grazie a una rigida crinolina. Mille sottovesti fanno capolino dall’orlo delle infinite pieghe, mentre un paio di grossi stivali in pelle e la maglietta di un rosa antico – quasi stinto - strappata in più punti contrastano con l’immagine di bambolina pallida che avrebbe potuto dare il suo sorrisino a labbra chiuse.
E poi, il tatuaggio, quasi a smentire ogni minima possibilità di tranquillità da parte di quel piccolo essere fastidioso che aveva osato avere da ridire sull’allestimento dei vari scenari per i concerti, che che si era impergolata in una discussione di tre ore con il loro batterista sul significato della batteria del “Dio”, Lars Ulrïch per i comuni mortali, nel pezzo “Kill ‘em All” dei Metallica, e che aveva zittito con uno sguardo assassino un gruppo di fans che, a suo dire, “rompevano un casino”.

-quando finisce il suo contratto, Dave?

Benjamin era doverosamente scosso, lui e l’onnipresente sorriso ottimista che adesso stantava ad affacciarsi sul suo viso da modello.
I due manger se lo sentivano, quella donna, piercingata e tatuata, avrebbe mandato a monte la strategia commerciale “Bill, Tom Gustav e Georg come peluches formato maxi” portata avanti per molti gloriosi anni, se avesse continuato a far venire nevrosi e scatti di rabbia a tutti i membri dei Tokio Hotel, così come faceva ora.

Con un “ehi, tu”imperioso chiamò un povero tecnico che passava di lì per caso, facendo un’elenco di non si sa quanto oggetti imprescindibili per il corretto trasporto della batteria. Si muoveva a scatti, era irrispettosa, chiaccherone ed inopportuna, insofferente e tremendamente capace.
Vedendo che una buona parte dai presenti non staccava gli occhi dalle sue labbra sfiziosamente decorate da piercing, si rialzò in piedi.
Sfilandosi gli occhiali e sorridendo come un gatto col topo, annunciò, con un tono assolutamente divertito, quello che in futuro sarebbe stato il suo mantra.

-finchè morte non ci separi.

David la guardò con il fedele sopracciglio inarcato.

-la tua?

Sorrise angelicamente, lei, i suoi piercing e un paio di formidabili canini candidi.

-Jost, lo sanno tutti che l’erba gramigna non muore mai.


-oddio, non mi ci far pensare.

David si scioglie in una risatina complice, mentre Benjamin ridacchia allegro.
Io smetto di ridere con le lacrime agli occhi e un gigantesco peso sul cuore.

-adesso non resta che dirlo ai ragazzi.

Alla fine ce l’hai fatta a fuggire, coda di paglia.

.-.-.-.-.-.-.-.-.-.

Osservo con un pizzico di stupore come la presentatrice del nostro ennesimo live VIVA stia riuscendo a flirtare con tutti i componenti Tokio Hotel alla volta.
Muove i morbidi capelli ricci per attirare l’attenzione di Georg, ride felice con Bill, mi pianta il microfono sotto bocca ogni due per tre, mentre scambia equivoche battutine con Tom.
Insomma, credo che parlare di colori che “influiscono nel profondo del nostro animo” secondo Tom sia qualcosa di un poco meno elevato della cromoterapía: dieci a zero che si stava velatamente riferendo al colore delle mutandine delle sue conquiste.

Ecco perchè ha risposto che adora l’effetto caleidoscopio. Con tutte quelle che gli passando davanti in un’ora, anch’io avrei un poco di capogiro.

Sbuffo, osservando come la ragazza, di cui non ricordo neppure il nome nonostante l’esordio “i miei cari ed assidui Tokio Hotel”, arruffa le metaforiche penne per l’ennesima volta. Se voleva far concorrenza a Bill per quanto riguardava la scena, ci avrebbe potuto avvertire: sarei rimasto a casa.

Un po’ meno metaforico è il mio giramento di cosiddetti. Sono piantato come un’idiota nel bel mezzo di uno studio, con una diretta in corso e un innamoramento che mi attanaglia lo stomaco. Georg si sistema il ciuffo per l’ennesima volta, Bill sorride come se avesse una paralisi facciale, Tom riepiloga tutto il suo vasto assortimento di chitarre alla ricerca di quella gibson che, ha già rotto a tutti con questa sua nuova fissa, è proprio quella.
Parole testuali del nostro chitarrista preferito, che credo abbia un serio bisogno di trapianto di un dizionario per via sottocutanea.

Ed io?

Sto qui a mangiarmi le mani fino ai gomiti all’idea che tra poco meno di tre ore sarò di ritorno in studio. Ossia, una sola parola: Dorcas.
Mi strofino lentamente la bocca con la mano in un gesto automatico, ripensando alle sue, di labbra. Come sarebbe stato provare il metallo freddo sulle labbra umide? E mi scopro a sorridere. Georg mi lancia un’occhiatina complice, mentre un sorriso sornione, che strappa un “ich liebe diiich!” dalla folla, gli si disegna sulle labbra. Scuoto la testa, lui torna a bearsi con l’adorazione che una sostanziosa fetta della presenza feminile in sala gli sta rivolgendo. Ho il netto sospetto che Christa sia un “pelino” più interessante di tutte queste sedicenni arrapate, per il semplice fatto MrListing non si è ancora degnato di rispondere a nessuna avance di donne... notabili, ecco.

E tu, a chi è che non perdi di vista?
Lei.
Quella pazza furiosa della mia tecnica del suono.

Prima ancora di te stesso?

Io ci sono, se lei non c’è?
È molto semplice: dopo tre anni passati a cercarci con lo sguardo, ci siamo incontrati nel posto giusto al momento sbagliato.

-Gustav, cosa potresti dirci riguardo alla tua fantastica passione per la batteria?

Calma e sangue freddo. Sollevo gli occhi dal pavimento – interessantissimo connubio di bianco e nero – per centrarlo negli occhi scuri della nostra presentatrice. Cribbio, che palla al piede.

Mi avvicino al microfono, mentre gli altri mi guardano curiosi.

-che è una fantastica passione. Ci conosci così bene che non hai più bisogno di farci domande!

Sorrido forzatamente, mentre un coro di risate si solleva dalle ragazzine sotto al palco.
Il microfono torna per un momento verso la presentatrice, solo il tempo di sparare l’ennesima domanda.

-allora, domanda Jolly: si sa che la batteria è uno stumento complesso, come fai a montarlo?

Sorriso storto da parte mia.

-abbiamo una crew di un’ottantina di persone a tournèe. C’è sempre chi mi aiuta.

La vedo ridacchiare, lei e i suoi sbrillucichii.

-e hai un tuo tecnico personale, no?

Smetto di sorridere. Dove vuole andare a parare?

-e...

La vedo allungare fastidiosamente questa “e”, e la situazione smette di divertirmi.

-è una donna, no?

Boato di disapprovazione da parte di tutta la popolazione femminile presente.
Bill, perchè non parli quando servi?
Lo vedo riscuotersi come da un sogno, mentre un sorrisetto di circostanza si disegna sulle sue labbra.

-oh, certo. Ma è troppo vecchia per tutti noi, sai, cara?

Tutti i Tokio Hotel hanno i loro sguardi puntati su di lui, nella speranza che la presentatrice non si impicci troppo. Non era affatto previsto dal copione, e che cavolo.
Dai, MrLogorrea, salvaci il culo dagli imbarazzanti commenti sulla nostra vita privata per l’ennesima volta.

-ma certo che non lo è. E comunque, volevo chiederti, Gustav, se tu ti fidassi completamente di lei, sai, per una cosa così importante come l’assemblaggio della tua batteria?

Sorrido forzatamente, mentre vorrei che la qui presente brutta copia di LaFee sparisse tra atroci tormenti.

-ovvio che mi fidi. So perfettamente che lei ci sarà sempre.

Dai forsennati gesti del tecnico dei cameramen, presumo che sia scoccato il tempo della pubblicità. La ragazza desiste dai suoi intenti di torchiarmi in quanto le luci passano dal rosso di “ON” al verde di “OFF”. Sospiro generale di sollievo da parte di tutti, ma soprattutto da parte mia.

Perchè, mi rendo conto con un sorrisino timido, che l’ultima frase che ho detto è assolutamente vera.

Dorcas ci sarà sempre, nei miei prossimi tour, nelle prossime registrazioni.
C’è stata per tre fantastici anni, e ci sarà per altrettanti, ha un contratto a tempo indefinito e i passaporti a posto.

Perchè con le sue risate e i suoi dolori al braccio, le sue gare di birra e gonne assurde, passi felpati e sguardi crucciati, è sempre stata la prima persona che cercassi con lo sguardo ai tavoli della colazione. Lei e i suoi ventimila cd’s, discussioni spiantate e magliette dai contrasti inquietanti.

Tiro un respiro di sollievo all’idea che quando tornerò in studio lei sarà lí. Forse riuscirò persino a fare la pace con lei, questa stessa sera. E poi...
Vedremo.

Mi sento ancora in colpa per come l’ho trattata, eppure, mi sento ok.
Perchè lei è Dorcas, io sono definitivamente dipendente da lei, e lei ci sarà sempre.

.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.

Merda. Sono qui, di fronte ad una porta di stupido legno, chiedendomi che ci faccio ancora qui a chiedermi perchè non sono già dentro invece di stare qui a chiedermi perchè non sto attraversando questa porta. Questa sì che è coerenza, gente.

Sospiro, raccogliendo il mio coraggio a quattro mani...
Salvo poi fermarmi stupita, perchè, per prima cosa, non ho quattro mani. E perchè, seconda cosa, non ho coraggio.
Non adesso, non qui. Neppure un grammo. Non un’infinitesimale. Non che mi sia sprecata molto per trovarne, ma è il pensiero che conta, no?

Sospiro, affranta.
Non posso fuggire lontano da qui?
Non posso evitare di affrontare i ragazzi al gran completo?

Ecco, dunque, le penose domande che mi trattengono dal fuggire da qui a gambe levate. Sono di fronte alla porta che da sul salotto della casa-studio dei Tokio Hotel, indecisa non solo sull’entrare o meno, dall’andarmene o no.
Riavvicino il pugno alla porta chiusa, sentendo urla e risate provenire dall’altra parte.
Lo poggio senza fare rumore, decidendo che me ne sarei andata. Rialzo gli occhi dal lucido parquet, mordendomi le labbra.
Osservo con aria truce la lucida maniglia di ottone. Con un ultimo sospiro giro sui tacchi, rifugiandomi nella penombra del corridoio.
Dò definitivamente le spalle a un gruppo di persone che sono state la mia famiglia per tre lunghi anni, chi mi hanno odiata e sopportata, consolata e aiutata.
Mi mancheranno i battibecchi con te, Bill.
Mi mancheranno le lunghissime discussioni che avevamo sulla musica, Tom.
Mi mancheranno le nostre eterne chiaccherate, Georg.

Diamine, come odio gli addii. Soprattutto quelli dolorosi, quelli che segnano un punto di non ritorno.

Ripercorro con passi silenziosi i labirintici corridoi dell’appartamento, fino ad arrivare alla fatidica sala strumenti.

Quante ore ci hai passato dentro?
Quante volte ti sono venuta a cercare, sapendo che ti eri rintanato nell’unica zona della casa in cui nessuno aveva il diritto di venirti a disturbare?

Sfiorando le pareti con gesti cauti e cercando di imprimere a fuoco nella memoria tutti quegli avvenimenti di cui ero stata protagonista, arrivo finalmente all’ennesima porta di legno chiaro. Ne seguo i contorni con gli occhi, mi ricordo delle mille situazioni in cui ho dovuto controllare la spia del “on air” per vedere se fosse accesa, girare la maniglia ed affaccirmi oltre l’orlo della porta.

Per rimanere ferma lì, immobile fino a che tu ti saresti accorto che qualcuno stava guardando. Avresti smesso di suonare, mi avresti squadrato un momento, per poi tornare a sorridere capendo che ero io.

Mi appoggio con la fronte alla porta, sentendo il freddo contatto della superfice contro la mia pelle.
Ti ricordo come sei e come sarai, perchè il nostro prossimo incontro, semplicemente, non esisterà. Spalanco gli occhi di scatto, cercando di scacciare il ricordo della tua voce.

Con un gesto azzardato, apro la porta. Non ci sei, esattamente come la spia indica. Cerco con gli occhi la tua batteria, trovandola. Imponente e beffarda, nell’esatto centro della stanza. Tutto un luccichio di cromo e plastica, grancassa sintetica, sistema ultramoderno per preservare la risonanza, perfettamento montata e predisposta per essere usata. Mi avvicino a lei con cautela, come si fa con un malato o con un evanescente sogno. Sfioro il freddo metallo dei piatti, ticchetto con le unghie sui tam-tam, producendo un rumore sordo. Mi lascio inebriare dalla sensazione di potenza che tutto l’apparato, lo stumento musicale, la batteria, ispira. Sorrido, sovrappensiero, pensando a quando è bello vederti suonare.

A quanto era, pardon.

Le giro intorno con passi misurati, scandendo il tempo con il metronomo della mia testa. Lo cerco fisicamente con gli occhi, trovandolo fermo sul pianoforte dall’altro capo della sala.

Ma non importa.
Con le palme della mano e gli occhi socchiusi, inizio io a battere il tempo, ripercorrendo sentieri che non non mi ero sentita di prendere fino a quel momento.

Tic.

Lo ami, idiota.

Mi rifiuto di crederlo. È solo un innamoramento passeggero, per quanto fottutamente doloroso possa essere.
Che è durato tre anni?
Potrebbe durarne altrettanti, questo non mi impedirà di andarmene.
Ah, questo no di certo. Ti aspetta un volo per Neumünster domani, no?
Esatto. La clinica si trova lá.
Quindi andrai.
Si.
E non tornerai.
Mai più.
Perchè vuoi curarti il braccio, o non puoi più sopportare il fatto che lui possa suonare e tu no?
Cosa?
Sai come lo chiamano? “Il senso di colpa”. I mutilati si sentono inabili per fare qualcosa, allora iniziano a rifuggere tutti coloro che possono compierle. Tu, per esempio. Non puoi più suonare.
E non ti ricordi con quanta costanza odiavi Gustav, prima?


Apro gli occhi, continuando a batter il tempo, come ipnotizzata. Mi sarei aspettata di tutto, non questo.
Io non covo odio verso nessuno.
Ne sei sicura?

Come posso odiarlo? È profondamente passionale, eppure cerca costantemente di controllarsi. Soffre di scatti rabbia repentini, ma si morde la lingua pur di non dare di matto. Si nasconde dietro un viso da ragazzino e un’aureola da santo, stringe gli occhi se dubbioso o stanco, sbuffa se disturbato. Non smette di batter il tempo con un paio di mani così grandi in confronto alle mie, callose per le lunghe ore di prove. Eppure continua a saper stringere delicatamente, se necessario. Ha occhi liquidi, di un’idefinito castano chiaro, che mi fanno pericolosamente venire in mente lo champagne.
Sono alcolici. Mi soggiogano, tengono incatenata a se. Sono chiari, eppure turbinano di pensieri indefiniti, vaghi, profondi. Ha labbra sottili, temibili se strette in un’espressione infuriata, bellissime se sorridenti, calde sulla pelle per un bacio sulla guancia passeggero.

Sono arriva di fronte al metronomo meccanico, quello vero. Devo essermi avvicinata senza rendermene conto.

Con un gesto automatico lo posiziono sull’intensitá più lenta, i 40 bpm.
Il suono risuona inquietantemente tutta la sala, sonoro e regolare.

Ha mani che hanno stretto tante volte la tua.Toc.
Quante volte hai sentito il suo sguardo su di te?
Tac.
Ti ricordi quando l’accompagnavi con la voce in assurdi duetti sullo stile “Gustav-Dorcas, due cuori e una chitarra”? Georg si uccideva metaforcamente con la cinghia del suo basso, ogni volta.
Toc.
Perchè gli hai permesso di diventare la norma nel tuo tran-tra quotidiano?
Tac.
Hai mai perso il sonno, per una sua parola buttata lì per caso?
Toc.
C’eri, ci sei stata.
Tac.

Ed adesso te ne vai.

L’amore chiarifica, l’essere innamorati affusca la ragione e da briglia sciolta ai sentimenti.

E tu ci stai vedendo ogni minuto più chiaro.

{So close, no matter how far

Couldn't be much more from the heart
Forever trusting who we are
and nothing else matters…}


Sobbalzo, spaventata.
Ho sentito degli accordi di chitarra provenire da qui vicino. Mi guardo intorno, in panico all’idea di trovare Gustav.

Hai detto il suo nome e il cuore ti è rimbalzato in petto. Perchè?

Mi affaccio cautamente dalla porta della sala, non trovando nessuno in corrido. Deglutisco sonoramente, imprecando contro tutto e tutti. Perchè se il misterioso chitarrista è lui, ho appena mandato all’aria la mia strategica fuga.

{Never opened myself this way
Life is ours, we live it our way
All these words I don't just say
and nothing else matters...}


Seguo le note che pigramente si diffondono per il corridoio come potrei farlo con le tracce di una persona, riconoscendo il lento battere del plettro sulle corde, sorridendo all’idea della sua faccia china sulla chitarra acustica, una delle molte “prese in prestito” a Tom. Esegue con flemma ogni accordo, esegue attentamente ogni nota della melodia.

{Trust I seek and I find in you
Every day for us something new
Open mind for a different view
and nothing else matters…}


A passi leggeri arrivo fino allo studio di registrazione, il posto che avevo deciso salutare per ultimo.
La mia consolle, il lungo divano di pelle dove tante volte Tom ha voluto registrare. La parete di vetro dalla quale li ho osservati suonare, i mille ed uno tasti che ho premuto per permettergli di registrare.
E lo vedo.

Felpa grigia, senza l’onnipresente cappellino, bermuda adidas e capelli biondi e corti. Il classico Gustav, insomma. Solo, con un lieve sorriso a metà tra il malinconico ed l’imbarazzato. Dolce, forse.
Mi appoggio cautamente allo stipite della porta, solo per guardarlo un’altro po’, per poi, magari, girare le spalle e sparire.
Suona amaro, suona melodrammatico. Eppure suona fottutamente vero.

{Never cared for what they do
never cared for what they know
but I know. }


-hey.

Sobbalzo, spaventata, sollevando lo sguardo dal parquet ai suoi occhi dalle sfumature etiliche. Non mi ero resa conto del fatto che si fosse interrotto.

Deglutisco, imbarazzata. Lui ricambia con un sorriso placido, che quasi mi mozza il fiato in gola. Ma il dolore lo sento un poco più al sud della spalla sinistra.

-non dire a Tom che ho rubato per l’ennessima volta una della sue “bimbe”. S’incazzerà di nuovo e noi non vogliamo questo, no?

Ridacchia conplice, mentre io ricambio con un risolino stentato che credo sia più una smorfia. Vorrei fuggire, ma le sue labbra mi tengono incatenata qui, appoggiata allo stipite della porta come se ne andasse della mia stessa vita.
Sto cadendo in picchiata, maledizione.

-Dorcas, ti senti bene?

Il suo sopracciglio inarcato è tutto un programma. Ma ho un’espressione così dolorante?

-io... no, non ti preoccupare. Eh... no, niente.

Surrurro io, inciampando sulle mie stesse parole. Arrossisco un poco, guardo per terra. Poi torno con lo sguardo sul suo sorriso a metà tra l’allegro ed il comprensivo, la testa leggermente inclinata sulla spalla sinistra.

-mi sei mancata oggi, allo studio televisivo. E alla conferenza, ad al photoshoot...
-gli ennesimi di una stagione pre-tour, no?

Ridacchiamo, nel vago tentativo di accorciare le distanze. E pensare che non era neppure una battuta.

-uhm-uh. Gustav, io ti volevo... eh.

Mi osserva non più sorridente, tre metri a dividerci ed il suo sopracciglio inarcato. E adesso come glielo dico che sto spudoratamente fuggendo?
E lui non mi aiuta, no. Rimane zitto, osservandomi con un’espressione imperscrutabile.

-che ho finito il turno, ecco. Che passavo di qui per salutare e... non sapevo ci fossi tu.
-hai finito il turno di oggi?

Deglutisco, ancora una volta.

-non propriamente, io...
-Gustav!

Sobbalzo per lo spavento, lanciando un grido di terrore. Odio che la gente mi sorprenda di spalle, ecco.
Tom si affaccia dalla soglia della porta, osservando alternativamente Gustav e la chitarra acustica poggiata distrattamente sul divano.

-che cacchio ci fai tu qui, Tom?!

Con un sguardo stupito, vedo sopraggiungere anche un furioso Bill Kaulitz. Che prende per la collottola il fratello, pronto a trascinarlo via.

-non avevamo parlato di atmosfera?
-con una mia chiatarra? Che lo faccia con un basso di Mr. Listing, piuttosto!
-ma sei un granitico insensibile, allora! Hai prosciutto negli occhi o ti devo fare l’animazione tridimensionale della faccenda?
-che faccenda?

Bill si strofina molto teatralmente la guancia, fulminando il gemello sotto la mia occhiata stupita e quella parecchio scocciata di Gustav.

-oh, cribbio. Andiamocene, pezzo d’asino!

Sospiro, attirando l’attenzione dei tre ragazzi.

-no, non preoccupatevi. Me ne andavo io.
-ma no, resta!

Mi giro sorpresa verso Gustav, ma decisa comunque a farla finita qui.
Baci, abbracci ed addii non fanno per me.

-no. Ho finito il turno, io stacco. E ci si vede in giro.

Lo sguardo di Gustav è smarrito.

-perchè ho come la lieve impressione che tu non stia parlando in termini reali?

Sorrido amaramente a Tom, mentre Bill scocca a Gustav un’occhiata dubbiosa.

-perchè è così. Ragazzi, ripasso domani.

Passando sotto al braccio di Tom appoggiato allo stipite, incontro gli occhi di Gustav. Sono spalancati per il dubbio, sono atterrati all’idea che io svolti l’angolo del corridoio e sparisca per sempre.
Lo guardo triste, sentendo gli occhi riscaldarsi per lacrime in arrivo.
Lo guardo, e so già che domani tornerò solo per salutarlo, solo per fare più male ad entrambi ed allungare i tempi della nostra agonia.

Sussurro con le labbra, unicamente diretta a lui.

-ripasso... forse.



.-.-.-.-.-.-.-.-.-.

Questo capitolo fa
schifo, punto.

È di pura transizione, ho spiegato per bocca dei personaggi una serie di cazzate {altrimenti conosciute come valori} romantici e stupidi, in una maniera che me li ha resi antipatici pure a me.

Ringraziamo la Lales per avermi corretto giusto in tempo perchè, ebbene si, l’edizione del precedente capitolo era ancora peggiore.

Insomma, sono 18 pagine di pure se**e mentali, oltre che lacrime melodrammatiche e descrizioni che hanno contribuito a rendere questo schifo ancora più vicino ad un harmony.

Gran parte del prosimo capitolo è già scritta, ma di certo non è migliore di questa. Preparatevi a melassa, decisioni prive di un’apparente senso logico e parecchio scazzo.

Io ci volevo tirare fuori di meglio, lo giuro. Ma ci rinuncio, non resta che sperare nella revisione che farò a ff ultimata.

Chi vivrà {visti i miei ritmi di postaggio} vedrà.

Comunque, un grande Danke! a:

 

_Princess_, simmyListing, Lady Vibeke.

 

 Perchè continuano ad essere presenti, e non mi fanno mai mancare appoggio.

Le mie tre carissime fedeli, che oggi, con questo chap, avrò sicuramente deluso.

Scusate le quattro righe, ma oggi proprio non connetto.

 

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Capitolo 7
*** Our Farewell ***


Se il precedente era un capitolo extra-lungo, questo è Enciclopedico

Se il precedente era un capitolo extra-lungo, questo è Enciclopedico. Riuscirete a connettere quel tanto da lasciarmi una recensione, a fine lettura? XD


7. Our farewell.


-mi venga a prendere tra due ore, per favore.


Saluto il tassista con un tono freddo ed una banconota da cinquanta euro sbattuta con malagrazia nella sua mano secca, per poi scendere dalla macchina ed avviarmi mestamente verso l’ingresso del palazzo della Universal che si vede dall’altro lato della strada rispetto a dove è parcheggiato il taxi. Palazzo dove i ragazzi risiedono.

Sono le otto di mattina di una fredda giornata settembrina, piovosa e grigia. Il vento spazza i marciapedi deserti, mentre il biglietto aereo per Neumünster riposa tranquillamente sul fondo del vecchio zaino che pende sconsolato dalla mia spalla.

Deglutisco, la gola improvvisamente secca.
Tra due ore ho un’aereo da prendere, ma questo non toglie che la mia vena sadomasochista non mi porti a volerlo rivedere un’ultima volta. Giusto perchè non ci siamo fatti male abbastanza.

Insomma, Mister Occhi Alcolici (dalla pericolosa sfumatura color champagne), al secolo Gustav Schäfer, mi ha praticamente costretta, con quei sui giochetti subdoli, a venire qui un’ultima volta.
Sbuffo, scocciata.
Per colpa di quella sua espressione smarrita, supplicante, che mi smuove qualcosa dentro. Sempre, ogni volta che vedo quello sguardo.
Lo odio, odio come si può odiare il proprio oggetto dei desideri. Come odio lui, insomma. Grazie di dannarmi la vita, Gustav. Come se non fosse già abbastanza complicata.

Arrivando ormai sul marciapiede antistante l’edificio della Universal, una raffica di vento freddo improvvisamente mi avvolge, congelando sistematicamente tutti i miei *pochi* centimetri di pelle lasciati scoperti dell’enorme giaccone. Battendo i denti per il freddo e maledicendo tutto e tutti, attraverso la soglia del palazzo accompagnata dall’aprirsi trionfale e silenzioso delle porte scorrevoli di lucido cristallo nero.

Un ingresso elegantissimo, tutto marmo nero, pitture surrealiste inguardabili e tinte con una vasta gamma di colori che va dal grigio-acciaio al grigio-fumo-di-Londra, mi accoglie con la sua rassicurante atmosfera da ospedale psichiatrico.
L’arredatore che ha inventato tutto questo doveva essere in crisi depressiva quel giorno, diamine.

Saluto con un gesto secco il guardiano grassoccio che mi osserva malevolo da dietro il bancone della reception: ha occhi porcini di un azzurro slavato e prova un odio consumato per i miei tatuaggi, ma credo che gli sopravviverò, come ho sempre fatto.
Lui sarà una delle poche cose che non mi mancherà di questo posto.
Gli mostro la tessera di riconoscimento con un gesto automatico, senza neppure fermarmi a salutarlo (dato che non l’ho mai fatto) mentre a passo di marcia mi dirigo verso l’ascensore all’altro capo dell’ingresso.

Attraverso la soglia della cabina accompagnata dal flebile dlìn-dlón delle porte che si chiudono dietro di me.
Dopo aver cercato a tentoni il tasto al piano corrispondente al loro studio, mi mordicchio leggermente il labbro, osservando allo specchio la mia faccia ancora più pallida del solito.
La figurina smunta che ricambia il mio sguardo non è propriamente il ritratto della felicità: Mani in tasca, sguardo basso, vestita di un strano connubio tra seta grigia e cotone blu, infagottata in un vecchio giaccone dalla fantasia scozzese.

Wow, adesso si che sembro una hippy depressa. Farei felice Bill e il suo schizzinoso senso estetico, vestita così.

Sospiro stancamente, appoggiandomi ad occhi chiusi contro la fredda parete d’acciaio della cabina. Sono atterrata alla sola idea che questo sarà un’addio generale a... loro.
I Tokio Hotel.
E lui.
Gustav Schäfer, il batterista del quale ho dovuto prendermi cura per tre lunghi anni.

Chi l’avrebbe mai detto che da fidata tecnico del suono mi sarei trasformata in confidente, ed innamorata frustrata, del quarto membro dei Tokio Hotel?

Fottuto destino.


Certo io non brillo d’intelligenza, comportandomi anche oggi come se fosse una rutinaria giornata di lavoro. Ne ho iniziate tante, di giornate del genere. Magari conclusesi poi con una litigata, oppure con una cena di fronte alla tv, o magari con una semplice chiaccherata.
Tra esattamenti cinque secondi si apriranno le porte d’acciaio, io attraverserò il corridoio deserto ed entrerò in studio.
Come da copione, ho attraversato l’androne silenzioso ed ho aperto la porta di casa con la mia copia delle chiavi.
Attraverso l’ingresso deserto con passi felpati, affacciandomi poi sulla soglia del salotto. Nel quale sembre essersi scatenato un terremoto di magnitudo 11, tanto è disordinato.
Mi appoggio stancamente allo stipite della porta guardandomi intorno, cercando di ricordare il perchè tutto questo caos mi sia così caro.

Quelle smaltate nere sulla parte le abbiamo fatte io e Bill, è vero. Oddio, sembra un quadro impressionista: non si capisce da che parte va guardato.
E se la memoria non m’inganna, quei solchi nel pavimento li ha fatti Georg. Non so come, ma li ha fatti lui.

Una spessa atmosfera di silenzio sonnolento grava su tutta la casa, interrotto solamente dal vago ronzio del frigo che proviene dalla cucina, segno che i ragazzi ancora dormono. Socondo il copione dovrei svegliarli da un momento all’altro, ma non mi muovo: oggi non tocca a me buttarli giù dal letto.

Sorrido leggermente nel ricordarmeli spaparanzanti sui loro enormi letti nelle loro posizioni preferite. Per esempio, Bill si espande per tutto lo spazio disponibile stile stella marina, splancando braccia e gambe. Tom si raggomitola su un fianco come un gatto, stringendosi le ginocchia con le mani. Georg, a pancia in giù, abbraccia il cuscino a gambe divaricate, placidamente sommerso da strati e strati di coperte. Mentre Gustav dorme a pancia in su, le mani mollemente abbandonate ai due lati del viso, come un bambino.

Per un momento li invidio, lo invidio. Perchè possono fare quello per cui tutti, in realtà, siamo nati. Suonare.
È una cosa che la gente spesso non capisce.
Suonare non è divertimento, è essere. Perdersi nelle infinite possibilità di accordi, dominare le sfumature dello strumento, farsi manipolare dalla sua sonorità.

È essere presente e rimanere incoscenti allo stesso tempo, lasciarsi sommergere da emozioni troppo grandi per un’anima sola. Ti senti scoppiare, vorresti piangere dalla felicità e gridare a tutto il mondo che sei qui, che ti esprimi.

Tutto è riduttivo, se si tratta di rappresentare una passione troppo grande per essere espressa in poche parole.

La musica, per un musicista, è amore.

È onnipresente, costante, è il sustrato che permette capirlo.
Nessuno, donna o uomo che sia, può possedere un musicista, o un’artista, appieno. Tutto ciò che non sia musica viene dopo, anche se strettamente ralazionato.

E io tremo al solo pensiero che lui, Gustav, sia arrivato ad occupare, nella piccola sfera dei miei affetti, uno spazio tanto grande come quello che riservo alla musica.
Stanno entrambi sullo stesso gradino, spartendosi le due metà del mio cuore, intoccabili ed irraggiungibili.
Fa male, vedere e non potere, sfiorare ma non sentire, bramare e frustrarsi per non potere.

Mi prendono le vertigini al solo pensiero di tutto l’ascendente che ha su di me.
La lontananza lo indebolirà? Lo dimenticherò, finalmente?


-ehi, Dorcas. Come mai qui così presto?

Mi giro giro di scatto, spaventata. Per poi riconoscere il suo sorriso tranquillo, gli occhi ancora socchiusi per il sonno, i capelli corti e scarmigliati.
E anche se non dovrei e non vorrei, sorrido, improvvisamente rasserenata dalla sua presenza. Eppure distrutta dalla cosapevolezza che questa sarà definitivamente l’ultima volta in cui potrò vederlo così, appena sveglio ed incredibilmente... tenero.

Sorrido leggermente quindi, ricambiando l’improvviso ingrandirsi del suo sorriso.

-ehi, Gus.

Parliamo entrambi a voce bassa, quasi a non voler rompere l’atmosfera irreale che sembra essersi creata.

Si avvicina a passi cauti verso di me, come avesse paura di farmi scappare con un solo movimento brusco.
Il collo della maglietta grigia che usa per dormire è ancora umido di sudore, segno che non ha avuto sogni tranquilli, questa notte. I suoi passi sono silenziosi, dato che cammina a piedi scalzi, i piedi sommersi dagli enormi pantaloni di una tuta nera che ho il vago sospetto abbia fregato a Tom.

Continuamo a guardarci negli occhi senza segno apparente di imbarazzo da nessuno dei due.
Potrei svanirci, in quegli occhi dal’inquietante sfumatura color miele.
Potrei svanirci e, visto che ci sono, dimenticarmi perchè cacchio sono venuta qui a farmi del male.

Poi Gustav indica con un dito la porta della cucina, sorridendo.

-ti va un caffè?

Annuisco lentamente.
Precedendomi di due passi mi fa quindi strada verso la cucina, stiracchiandosi con un mugolio soddisfatto (ed assolutamente osceno) ed uno scrocchiare di spalle tale che, se non avesse il fisico che ha, crederei che si sia spezzato un paio di vertebre nel farlo.
E poi dicono che Tom è l’esibizionista.

Occhi al cielo, lo seguo, ricambiando il suo sorriso sornione con una linguaccia dispettosa.
Eppure un macigno mi opprime quel qualcosa conosciuto come cuore (anch’io ne ho uno, per quanto poco voi stentiate a crederci) nel vederlo così tranquillo, felice del semplice fatto che io sia lì.
Cercando di deglutire il groppo che ho in gola, provo a non pensare all’immediato futuro, questo adesso che mi fiata sul collo, perchè credo di conoscere già il programma: gli dirò che devo partire, che non ci vedremo mai più. Magari litigheremo, non ci saluteremo. E gli altri Tokio Hotel rimarranno senza neppure un piccolo addio.

Ma quel che è peggio è la consapevolezza di dover ferire. Non so se quel sorriso di ieri fosse dovuto a un sentimento che avrebbe fatto meglio a non vedere la luce, non so se quel sentimento fosse rivolto precisamente a me. Però so che, sia il sentimento che sia, ciò che ci unisce, e che io devo rompere, farà male.
A me lo sta già facendo.


Attraverso la soglia della cucina con un’espressione plumbea in viso, mentre con un gesto noncurante lancio il cappotto sulla prima sedia che mi capita sottomano. Mi avvio all’ormai storico posto della pazza Dodò: il grande ripiano di marmo tra il lavandino e la finestra che illumina l’intera cucina e dalla quale oggi si può vedere lo spettacolo del lento picchiettare delle gocce di pioggia sul vetro. Mi siedo con un un balzo dettato dall’abitudine, osservando l’entrata di Gustav in cucina, dopo di me come un cavaliere galante, come sempre, la sua camminata tranquilla, eppure inarrestabile, il suo continuare a stiracchiarsi come un gatto troppo cresciuto, con tanto di sorrisetto compiaciuto sulle labbra.

Ci guardiamo, ridacchiando l’uno dell’altra.

Lo osservo poi prendere il sacchetto dello zucchero, ed altri strumenti vari per preparare la macchina da caffè, strano e supertecnologico aggeggio che solo lui sa mettere in funzione senza esplosioni di sorta che possano mettere a dura prova le coronarie della donna delle pulizie e di Jost, quando si vede comparire Bill macchiato di pappa al profumo di caffè in più punti e trova la cucina macchiata da caffè persino sul soffitto.

Ridacchio al ricordo, mentre Gustav mi osserva di soppiatto con la coda dell’occhio.
Scuoto la testa, mettendolo a parte dei miei pensieri.

-ricordavo quando Bill ha tentato di farsi un caffè da solo.

Lo osservo fare memoria dell’accaduto, e facendolo un luminoso sorriso si disegna sulle sue labbra. Strizza poi gli occhi, ridendo fragorosamente.

Lo osservo sorridendo come una stupida, eppure mi pento che l’abbia fatto. Perchè so che il suono allegro e cristallino, di questa risata mi perseguiterà per lungo tempo.

Vorrò riascoltarlo in tutti gli uomini che incontrerò, sarà il mio sinonimo di felicità. Felicità mancata.

Smettiamo di ridere entrambi, osservandoci un’ultima volta e scuotendo lo testa. Lui ritorna ad armeggiare con palette e secchielli vari, ed io m’incanto ad osservare come prepari la macchina con gesti consumati, e mi sorprendo trovando, nonostante tutto, un ritmo segreto persino nei suoi movimenti.
Si, lo so che i melodrammi mi trasformano in una filosofa da strapazzo.
Eppure non posso fare a meno di identificare in ogni suo movimento una lieve e ritmata armonia che solo posso attribuire al suo contatto prolungato con la musica.
Ed anche ad un mio fatale innamoramento, maledizione.

Mi distraggo ad osservare le mille sfumature che l’alba di questa giornata grigia conferisce alla sua pelle abbronzata, tingendo i suoi capelli di un colore caldo simile all’oro vecchio. È appoggiato al ripiano in una forma tale che mi da l’impressione che sia come un grande felino, adesso placidamente tranquillo, eppure capace di avere scatti di furore che voi umani non potreste neppure immaginare.
Osserva la macchina attentamente, forse per non guardare me, forse per regalarmi una di quelle immagini che so che mi porterò dentro finchè la morte non mi separerà da questo mondo.

Il ticchettare delle poche gocce di pioggia che sembrano ancora cadere accompagna il battere delle sue dita sul ripiano, suonando un ritmo che mi suona molto familiare.

E non mi sbaglio, infatti. Perche è il ritmo di Fade to Black.

Affascinata dal fatto che sia proprio questa canzone a scandire i miei ultimi momenti con lui, inizio a cantarla. Poche parole, non so neppure se intonate o meno, e anche lui attacca a cantare. Lo facciamo distrattamente, senza fare veramente caso a quale parte della canzone stiamo cantando, perchè l’unica cosa che mi importa, che sembra importarci, è che le nostre voci, insieme, suonano bene.

Dannatamente bene. La mia, acuta e femminile da mezzo soprano, viene bilanciata dalla sua, decisamente più bassa e profonda.
Eppure vibrante, quasi più vissuta.

No one but me can save myself
But it's too late
Now I can't think, think why
I should even try…*


Non stiamo dando un concerto, ci limitiamo a canticchiare. Ed è odiosa la consapevolezza di come adesso io mi senta dannatamente bene per questo.
Non ho neppure bisogno di guardarlo, perchè lo sento vicino, tremendamente vicino.

Grazie, Gustav, perchè adesso non potrò neppure ascoltare i Metallica senza poter evitare di pensare a te.

Ci interrompiamo perchè, diffondendo il suo solito aroma penetrante, il caffè esce spumeggiando dal beccuccio cadendo, cupo ed amaro, nelle tazzine trasparenti. Gustav le toglie dal ripiano metallico, aggiungendo rapidamente qualche cucchiaino di latte in polvere per lui, mentre per me ben tre cucchiaini di zucchero.

Lo guardo negli occhi, sorpresa dal fatto che sappia come beva il caffè. E lui mi risponde con un sorriso a labbra chiuse, indicando la mia tazzina con un cenno della testa, mentre è impegnato a raffreddare la sua soffiandovi sopra.

Si interrompe, vedendo che non accenno a prenderla.

-Perchè ti stupisci, Dodò? Sono tre anni che vedo prepararti il caffè così. Ho occhi per vedere, no?

Lo osservo stupita dall’amplio significato dell’ultima frase.

Ha occhi per vedere ed è notevolmente sveglio. In ritardo, ma alle cose sembra arrivarci.
{ a giudicare da come ti sta sorridendo, direi di sì, Dorcas. }


Sorrido leggermente. Per poi sporgermi verso la tazzina, prendendola. Osservandolo prendere una sedia dal tavolo per sistemarla all’altezza del lavandino, e quindi vicino a me, inizio a soffiare sul caffè che, caldo e profumato, vorrei potesse essere l’elisir per risolvere i miei problemi.
O per rendere pietra il mio cuore, a scelta.

Sedendosi, inizia a bere il suo caffè, perdendosi con lo sguardo fuori dalla finestra.
E mi ritrovo astupirmi di come, con lui vicino, anche quel panorama così plumbeo dall’altra parte della sottile lastra di vetro sembri così accogliente.

Sento un calore che non c’entra nulla con il caffè diffondersi all’altezza del petto, e un freddo gelido, che dubito c’entri poco con la temperatura tiepida della cucina, che si impossessa di me all’altezza dei polmoni e della gola.

E l’unica cosa che posso fare per non mettermi a piangere per il dolore che mi sta lentamente, ma implacabilmente, soffocando, è distogliere lo sguardo da lui, centrandolo nel panorama che si vede fuori dalla finestra.
Perturbato dal suo riflesso, come tutto ciò su cui poso lo sguardo.

.-.-.-.-.-.-.-.

Mi limito ad amarla. Adesso, così com’è.

Non ha bisogno di mascherarsi, o di essere costantemente un ruolo. Non è un topico di se stessa. Non è una maschera amichevole.
È più un’essere misterioso, una donna dai sentimenti impenetrabili.

È seduta sul ripiano della cucina, vicino a me, guardando fuori alla finestra la pioggia che cade su tutta Amburgo. Una ciocca di capelli bianchi e ricci viene distrattamente arrotolata dal suo dito nervoso, mentre, in preda a non si sa quali brutti pensieri, si mordicchia leggermente il labbro.

Ha bevuto in fretta il suo caffè, lasciando abbandonata la tazzina ancora fumante nel lavandino vicino a lei. L’ho osservata soffiare forte sul caffè, provarne il calore con un guizzo rapido della lingua da gatta, per poi berlo tutto d’un fiato. Non è mai stata una tipa da teporeggiamenti, preferendo tagliare la testa al toro da subito.

Per questo so che adesso c’è qualcosa che non va.
Semplicemente, temporeggia troppo per essere Dorcas.

Ha lo sguardo assente, ed il trucco scuro che si abbina perfettamente al cielo grigio che osserva con tanta attenzione fuori dalla finestra. Respira piano, a labbra socchiuse, mentre il petto si abbassa e si alza lentamente.

Mi sistemo meglio sulla sedia per continuare ad osservarla in silenzio.

In silenzio, come sembra che questo amore strano sia nato.
In silenzio, come ho ormai capito che si comunica meglio. Lei, comunica meglio. Il suo corpo lancia piccoli segnali che ho imparato a riconoscere, mentre le parole che lei crede mantenere nascoste si leggono sul suo viso come un libro aperto.

Sorrido, godendomi questo silenzio.

Ci siamo sempre stati noi due, dietro a tutto questo gran casino. Tra le mille pieghe della nostra altalenante relazione, tra i suoi silenzi ed i miei, tra i nostri eterni giochi di sguardi e le parole sussurrate a mezza voce dietro un back stage o urlate da un’estremo all’altro di un’arena. Socchiudo gli occhi, sfocando leggermente la sua figura, donandole un’aura quasi magica, che ben si accorda ai raggi di un’alba pallida e incerta che sembra affacciarsi dalla finestra, dopo che il temporale le ha concesso un breve armistizio.

Una fata dall’improbabile braccio tatuato che è mollemente abbandonato in grembo, che crea uno stridente contrasto tra la seta grigia della gonna e la maglietta blu di cotone. Muove avanti ed indietro le gambe ad intervalli regolari, come se stesse battendo il tempo di una musica che solo lei può sentire.

Sospiro, ma lo faccio piano perchè non se ne accorga. La sua mano destra scosta una ciocca ribelle dall’occhio. La folta chioma riccia di capelli candidi si limita a seguire la forma delle sue spalle gracili, ingobbite come se portassero un peso immane.

Che sia quello a farla sentire tanto a disagio?

Oggi è particolarmente pallida, distratta e malinconica. Avvolta dai suoi pensieri come potrebbe esserlo con una coperta, sembra essere isolata da tutto ciò che la circonda, separata da un’invisibile vetrata di cristallo.

E tutto questo mi preoccupa. Perchè Dorcas non ha mai avuto i segni di questa sofferenza interiore così visibili come adesso.

Le palpebre fremono, prima di sollevarsi del tutto e osservare in un punto determinato del panorama. Sospira silenziosa, poi si mordicchia l’interno di una guancia. Le labbra rosse si sporgono per un momento, facendole assumere una smorfia contrita.

Ma tutto questo non importa.
Sorrido ancora di più, incantato dal suo semplice essere presente.

La amo.
Amo, amo, amo. Amo come si può fare in silenzio.
Mi porto dentro un’immagine sua che non parla, seduta su un’anomimo ripiano di cucina mentre legge il cartone del latte, eppure non posso fare a meno di sorridere al ricordo della sua risata cristallina che scoppia nei momenti più impensati ed inopportuni.
Sento il mio mondo cambiare in fretta, perchè non ci ha messo poi molto a definirla come l’asse attorno alla quale far girare ogni giorno.

Ma la cosa che più di tutte mi strappa brividi di pura vertigine è la consapevolezza che, lo vedo, adesso per me è così palese, questo sentimento è ricambiato.

Perchè io sono ricambiato, vero?

Schiude le labbra, incerta, pur continuando a guardare fuori.

-Gustav, io...

La osservo chiudere gli occhi, per poi voltarsi verso di me. Il frusciare delle mille sottovesti della gonna accompagna ogni suo movimento, scoprendo il tatuaggio di una orchidea blu sul polpaccio sinistro.

Riapre gli occhi, li centra nei miei. Sfugge lo sguardo, sospira, osserva il pavimento. E poi di nuovo, cerca il mio sguardo per poi sfuggirlo.

La fermo con un gesto della mano, prevenendo il sospiro che verrà dopo aver osservato il pavimento, cercando di salvare i suoi polmoni e tranquillizzarla un poco.
Sembra prendere fiato un’ultima, definitiva, volta, trovare in se stessa qualcosa che fino a pochi minuti fa non aveva potuto trovare.

La forza della disperazione?

Scuoto la testa, cercando di scacciare questa fastidiosa idea.
Eppure disperazione è un’aggettivo calzante, per la smania che le leggo in volto.

-ecco, io sono venuta anche oggi per... salutare. E anche perchè tu me l’hai chiesto.

Inarco un sopracciglio, stupito.

-chiesto?

Sospira, perdendosi un momento in contemplazione del freddo pavimento di marmo della cucina.

-dopo tre anni, ho occhi per vedere.

Sottolinea quest’ultima frase con un tono freddo, restituendomi l’imbeccata che io le avevo fatto prima.

Salutare. Venuta per... salutare.

Deglutisco, sentendo fastidioso questo groppo in gola. E poco rassicurante la sua espressione mesta.
La osservo a lungo, sostenendo il suo sguardo imperscrutabile. E rabbrividisco.
Perchè dietro quegli occhi blu, balugina qualcosa che non m’ispira niente di buono.
Prendo fiato, quindi, cercando di mostrarmi indifferente al suo evidente disagio.

-e dove vai di bello?
-via.

Non perde neppure tempo a pensarsi una risposta.
Un momento. Come via?

Deglutisco, più o meno sonoramente, prospettandomi il peggio.
Poggio la tazzina ormai vuota sul ripiano, allontanandola da me con cautela per non romperla.

-perchè, Dorcas?

La vedo prendere fiato, aprire la bocca... e non dire una parola.
Socchiude gli occhi, sbuffando. Mi osserva furente per un istante, quasi io avessi la colpa di qualcosa, per poi tormare a guardare fuori dalla finestra.
Sbuffa ancora, stringendo poi le labbra in una smorfia.

-me ne vado perchè voglio e perchè devo.

Inarco un sopracciglio, stupito dal suo tono acido. Distolgo un momento lo sguardo da lei per spaziare per tuta la cucina, osservando il tavolo, le sedie, l’enorme frigo a doppia anta, il resto della cucina, persino il soffitto, immoti nella loro permanente staticità.

Tutto per non dover osservare l’espressione della sua faccia, quando continuerà a darmi spiegazioni che lei crede sia in obbligo di fornirmi.
Potrei non sopportare la piega indifferente della sua bocca e l’espressione di amarezza che impregna quelle specie di calamite blu cupo che ha per occhi.

-mi hanno offerto la possibilità di operarmi il polso, pagandomi addirittura la degenza e la riabilitazione in una clinica specializzata. E non penso rifiutare l’offerta.

Ritorno a guardarla, richiamato dal tono di apparente sicurezza con cui ha pronunciato l’ultima frase. Lei non mi guarda, anzi, il suo sguardo rimane invariabilmente puntato in un quacosa adilà del vetro della finestra. E capisco che l’unica cosa che sta facendo è evitando disperatamente i miei occhi.

Mi sento la bocca secca e qualcosa di molto simile alla paura mi sta facendo rabbrividire. Eppure, c’è qualcosa che m’interessa di più di tutto quello che mi ha detto fino ad adesso, qualcosa che non riesco a dare per scontato, perchè il suo atteggiamento sembra presupporre l’esatto contrario.

-Dorcas...

La richiamo, con un tono calmo. Lei non volta il capo verso di me, continuando a guardare con espressione impassibile fuori dalla finestra.

-pensi di tornare?

Mi cede la voce nel dirlo. Si abbassa lentamente di due ottave, rendendo la mia domanda un lamento roco che si strozza con un’ultimo rantolo finale che è la parola “tornare”.
Perchè lo vedo riflesso nei suoi occhi, quegli occhi in cui non mi permette di affogare, ciò che cerca di nascondermi.

Un enorme senso di colpa.

Deglutisce rumorosamente, distogliendo finalmente gli occhi da quella dannatissima finestra per centrarli nei miei. Come una scossa elettrica che colpisce entrambi, non possiamo far altro che continuare ad osservarci attentamente per minuti che sembrano secoli. Anche se volessimo staccare gli occhi, rompere quel fragile contatto visivo, non potremmo. Perchè l’unica cosa che riesco a pensare, tra paura, incertezza e la consapevolezza che il mio cuore sta perdendo battiti, è il riuscire a trattenerla ancora qui.
Ma nei suoi occhi passa un lampo di dolore, e la vedo vacillare un momento, soffrire per istanti che sembrano eterni.
Schiude le labbra, e io so già cosa sta per dire. Lo so e non lo voglio sentire.

Distolgo gli occhi rapidamente, centrandoli nella parete bianca alla mia destra. Non dire, non parlare, non condannarmi così.

Ma è con un flebile sussurro che risponde.

-no.

Chiudo gli occhi per un momento, sovrastato da un dolore lancinante. E non riesco a far niente se non aspettare altre parole, altre lame, altre condanne a morte, da parte sua.

-non penso di tornare affatto.

Ripete, ed è come se quella frase si facesse strada nel mio petto come un dolorosissimo proiettile che mi si piantasse decisamente più a nord e a sinistra dello stomaco.
Brucia, brucia e sento distintamente che mi manca l’aria. Ma devo parlare, trattenerla, chiarire, convincere, spiegare.
Riapro gli occhi, continuando a non guardarla.

-perchè?

La sento prendere fiato, eppure non risponde.
Deglutisco ancora una volta, cercando poi il suo sguardo. E mi sorprendo a ripetere la domanda con un tono a metà tra l’implorante e l’imperioso.

-perchè, Dorcas?

Mi osserva, sbigottita e dolorante. Ma mai quanto me. Perchè non me l’ha detto, ma lo sapeva. Era quindi tutto questo il problema?
Potrei dire che non c’è più niente da dire, ma mentirei.
Perchè se devo soffrire, voglio sapere tutto fino in fondo.

-io... non penso di doverti una spiegazione. In fondo tu non c’entri niente.

Continua ad apprezzare il connubio di marmo nero e marmo bianco che è il pavimento della cucina di casa mia, dato che non schioda gli occhi dalla fuga delle mattonelle neppure per sbaglio.
Stringo le sopracciglia in un’espressione crucciata, uno dei tanti segnali di rabbia che sento il mio corpo emanare.

-perchè sei venuta a salutarmi, Dorcas?

Il suo sguardo scatta rapidamente ai miei occhi, ancora, per poi boccheggiare, in cerca di parole giuste, più che di fiato.

Eppure scuote la testa, arrendendosi. Non sembra aver trovato con che esprimere quel qualcosa che sta provocandomi un’infarto.

Cerco di inumidirmi le labbra secche, sentendo sulla lingua il sapore amaro del caffellatte di prima.

-cerca di spiegarmi perchè sei venuta a salutarmi con i Tokio Hotel ancora nel mondo dei sogni. Se non fosse per il fatto che sei tu- sottilineo l’ultima palabra con un vigore in cui cerco di assimilare il vastissimo concetto di Dorcas- crederei che sia venuta alle sette di mattina per cercare di non doverci salutare.

Stupito dal fatto che sono riuscito a mettere in fila più di frasi di senso compiuto, quasi non mi curerei del silenzio colpevole che segue le mie parole.
E dico quasi perchè lo faccio, eccome.

Non risponde.

Sospiro, distrutto. Vorrei addormentarmi, adesso, e svegliarmi una settimana e mezzo fa. Fragole e litigi in sala strumenti tutto da vivere, magari facendo un po’ di errori in meno.

-Dorcas, dimmi che non è vero. Ti prego. Non è vero.

Vorrei non dover vedere il suo cercarmi furtivo con gli occhi, seguito da un suo piccolo cenno di assenso.
Eppure lo vedo, ed è un gemito strozzato di qualcosa a metà tra rabbia e dolore quello che mi sconquassa il petto per il tempo un battito di ciglia.
Non credevo che esistessero gemiti del genere, ma, evidentemente, sottovaluto l’essere umano.

Mi alzo in piedi, appoggiandomi con tutto il mio peso al bordo del lavandino. Mi sento debole, e so che potrei cadere.

-non è per il tuo braccio che te ne vai, quindi.

Prevengo una sua possibile fiumana di scuse sconclusionate ed inventante sul momento per ingentilire la situazione, per indorarmi la pillola, con un gesto lento della mano libera.

-non solo per quello, almeno.

Siamo incatenati, costretti dalla nostra stessa attrazione a guardarci negli occhi mentre ci feriamo così a fondo. Adesso so che è il dolore mentale è come il fisico, solo molto più... totale.

-perchè tu stai fuggendo da me.

Silenzio. Permeato da mille e una sfumatura. Attonito, confuso, triste, doloroso, agonizzante, sofferto, palpitante, bruciante, vivo.
Vivo del nostro dolore, delle nostre consapevolezze, dei segreti, adesso così chiari, che hanno scandito i tre anni della nostra conoscenza.
È un me che mi ha fatto male dire, un male così profondo...

Perchè la persona verso cui aprire le braccia senza timori, la persona che stringerei nella speranza di essere stretto a mia volta, la speranza incarnata di non dover più riempire i vuoti lasciati dall’incomprensione di altri con mille spettri delle mia stessa persona, beh, quella cacchio di persona che io speravo di poter finalmente amare senza freni di sorta, non solo non mi vuole, ma addirittura mi rifugge.

È dare un colpetto con due dita e ricevere in cambio un pugno in pieno stomaco, rimanere momenti interi senza fiato e tentare di soffocare il dolore con le ceneri di qualcosa che fino a pochi attimi prima ritenevi reale, possibile.

Sto morendo. Sto morendo e nessuno mi ha detto cosa mi dovevo aspettare.

Eppure lei continua a non guardarmi, continua a preferire guardare fuori da quella finestra per non dover vedere fino a che punto mi ha ridotto.

O forse anche lei sta soffrendo con te?
{ Ci si innamora in uno, si ama in due. }

È amore?


Potrei giurare che non lo è, che è troppo assoluto e troppo sofferto per essere l’amore di cui ho letto e visto tante rappresentazioni, più o meno veritiere.

È lampante. Fin dove arriveresti per tutto questo?

La osservo fermarsi, paralizzata, per poi girarsi verso di me e porgermi la mano, la sinistra, quella di cui bacerei ogni centimentro di pelle tatuata solo per vedere se ogni centimetro ha un sapore diverso dal precedente.

Non è una mano porsa per aiutare ad alleviare il mio dolore, piuttosto per condividere quello di antrambi.

Perchè la sento gemere, lo so. Mi avvicino a passi cauti, per paura che, arrivando a lei, scompaia come un raggio di sole. Afferro forte il suo braccio, e lei fa altrettanto con il mio. Deglutisco forte, cercando di distinguere qualcosa in quel vortice di pensieri che avverto dietro ai suoi occhi dalle sfumature cupe, adesso di un blu così assoluto da farmi temere che quello sia solo un’oceano di disperazione. Eppure, avverto che sono un fedele ritratto di come i miei debbano essere in questo momento. Stringe la bocca in una sforfia amara, il trucco nero che evidenzia ogni piega di sofferenza intorno ai suoi occhi, la pelle pallida.

Come se avessi la bocca piena di mastice ed una palla di pece mi ostruisse la gola, a malapena riesco a schiudere le labbra per trovare fiato.
La mia stessa voce mi sorprende, perchè è gravata da un qualcosa di così grande che a malapena posso avvertirla io stesso. È bassa, sofferta e rauca, come se avessi appena urlato per troppo tempo, come se avessi appena sfogato questo sentimento che mi sta soverchiando, strillando per il solo gusto di sentire la mia gola bruciare come quel qualcosa che mi sta sconquassando il petto.

-ti amo.

Ho sempre avuto una fottuttisimma paura di anche solo articolarle od immaginarle, queste due paroline. Perchè sono qualcosa di così assoluto, brutale e responsabilizzante che uno non dovrebbe mai correre il rischio di giocare con loro. Ci si brucia, ci si fa male. Solo un semplice mezzo per mandare al paradiso o all’inferno, o ad entrambi in un colpo solo. E senza biglietto di ritorno.

Ma adesso lo sento, mi premevano sulle labbra, mi scottavano sulla lingua.

Dovevo, sentivo, volevo dirglielo.

Perchè lei, in questo momento, con la sua espressione sofferente ed il mugolio che ha emesso nel sentirmelo dire, i suoi occhi lucidi e spalancati da un sentimento che sembra uno strano ibrido tra dolore, felicità e stupore, le labbra socchiuse in un ultimo sospiro senza fiato, è tutto. È qualcosa di così assoluto, che mi rendo ti stare piangendo.

Ed io non sono fatto per piangere. L’ultima volta era stato l’ennesimo pianto di rabbia per le pesanti prese in giro dei miei ex-compagni di classe, pianto singhiozzato sulla spalla prontamente offerta da quel mastodonte, all’epoca, troppo grasso, a detta delle sue compagne di classe, di Georg Listing. Allora si era conclusa con una solenne ubriacatura, ma adesso?

Adesso che qualcosa di tanto incandescende come quello che mi sento ribollire nel petto mi sta scendendo lentamente per la guancia, catturando l’attenzione di Dorcas e sbigottendomi, adesso che vedo la sua bocca prendere fiato per infierirmi l’ultima mazzata finale, non sono affatto certo di come andrà a finire.

-non avrebbe mai avuto un futuro.

Nei suoi occhi c’è un’incertezza così grande che è palese come anche lei stia cercando di convincersi di quello che dice.

Stringo gli occhi, mentalmente spossato da quel flusso continuo di emozioni che mi sta portando inesorabilmente al collasso.

-solamente perchè tu hai deciso che non avrebbe mai potuto averne uno.

Smette di stringere il mio braccio, e io, senza forze, lo lascio libero di caderle in grembo.

E mi perfora con lo sguardo. Letteralmente.

Mi scava dentro, trapassa ogni mia barriera, permeando tutto ciò che trova con una sua traccia, un qualcosa di suo.

Poggia delicatamente la mano sulla mia guancia, guardandomi come se fossi l’unica cosa che contassi, che esistessi, in questa stanza, in questa casa, in questa manciata di centimetri che ci separano. Con il pollice asciuga la scia bagnata dell’unica lacrima solitaria che abbia pianto da molti, troppi, anni, riconfortandomi semplicemente con la delicatezza con cui sembra compiere questo gesto.
È c’è un’affetto, una passione, una compresione così totale, in quello sguardo, che per un momento sento di essere veramente svanito nei suoi occhi, occhi che adesso mi ricordano solo il nero, nero cupo della disperazione.

Sono inghiottito dal nero. Posso vedere tutta se stessa, la sua intera attenzione concentrata in quello sguardo. E non riesco a piangere perchè rimango semplicemente impietrito. Sto annaspando, annaspando nell’incertezza di non potermi aprire come lei sta facendo adesso con me.

Quasi potendo leggere il mio dubbio, un angolo della bocca si stira in un sorriso comprensivo, mentre lievemente un suo dito sfiora le mie labbra.

-ho paura.

Affogo nelle mie stesse parole, alla ricerca di una forma di espressione che non sia così desabilizzante. Voglio dare voce ai mille pensieri che mi agitano da dentro, voglio placare la paura, quella che mi sta attanagliando il cuore, adesso.

Socchiude gli occhi ed inclina leggermente la testa, mentre sulle sue labbra non smette di aleggiare il fantasma di un sorriso. E mi guarda teneramente, cercando di rassicurarmi un po’, di trasmettermi una minima parte di quella sua fragile, eppure adesso robusta, determinazione.

Inghiottisco a vuoto, lasciandomi avvolgere da quello sguardo caldo che, per un solo e fragile momento, mi fa dimenticare cosa si stia abbatendo su di noi.

Eppure non devo dimenticare che sta fuggendo da me.
{ O dal suo passato. O da se stessa. O da entrambi. }


-ti prego, perdonami.

Parla a voce bassa, soffocata da quella che sembra commozione pura. Mi soverchia, m’ipnotizza.
Cerca conferma nei miei occhi, cerca qualcosa se non so che sono in grado di darle, adesso.

-perchè io sento di non poterti amare.

Chiudo gli occhi, lasciando fuori quei due fuochi azzurri che mi uccidono con la loro sconcertante sincerità. Mi appoggio pesantemente al ripiano di marmo con entrambe le mani, così vicino a lei ma non vedendola, non volendola vedere.

Eppure non demorde. Sembra essere finito il tempo in cui si può fare retromarcia semplicemente evitando di rispondere ad un gioco di sguardi, non è più possibile far finta di niente, per nessuno di noi due.

Eppure fa così male, avvertire il tocco caldo e morbido di entrambe le sue mani sulle mie guance, che mi convince, soavemente, passivamente, a riaprire gli occhi.
E la prima cosa che vedo è il suo viso, improvvisamente sgombro di tutte le emozioni di prima se non per una ferrea determinazione ed un sorriso di pura emozione.

-non ti posso amare incompleta, Gustav.

Pronuncia il mio nome come si farebbe con quello di una persona emotivamente importante, come una caramella gustosa, un reliquiario sacro.*

Il suo sorriso si allarga, tra pieghe di sofferenza e sostenuto da uno sguardo così deciso da farmi paura.

-e io sono profondamente incompleta, adesso. Non senza il mio polso, non senza la mia musica. Perchè anche avendo te, non potrei offrirti altro che un pallido riflesso di me stessa.

Il suo tono è basso, caldo, avvolgente. Risuona di una nuova forza, come se avesse trovato la risposta che stembrava stesse cercando, solamente in questa eterna discussione. Il suo sorriso non è più lo stesso che ho visto molte volte sul volto di Dodò, allegro e spensierato, o quello cinico e sarcastico sul volto di una Dorcas che adesso non riesco a ricollegare con la donna che mi sta di fronte.
È il sorriso più bello che abbia mai visto. Perchè totale, assoluto, la illumina dentro nonostante le lacrime che, mi accorgo, scorrono silenziose agli angoli degli occhi.

Adesso è consapevole di qualcosa che aveva perduto e che sembra abbia trovato. Ne è sicura, certa. Ed io sto assistendo a qualcosa d’incredibile: perchè questo sorriso, questo tutto, lo sto provocando io.

Il suo amore per me.

Eppure continua a parlare, sempre rinconfortandomi con il suono della sua voce, così familiare eppure adesso così diversa, forte della determinazione che impregna ogni parola che sceglie e scandisce con cura, avvolgendomi nella rassicurante sensazione che adesso sappia cosa fare.

-Dimenticami, se ti fa troppo male.

Nego forsennatamente la testa, pur continuando a tenere le sue mani appoggiate sulle mie guance.
Nego, e so di non mentire. Perchè non riuscirò mai più ad erradicarmi tutto questo dal centro del petto. Perchè è troppo amplio, totale, ramificato e, soprattuto, così compreso nel mio essere.

Non è essere se stessi e il sentimento. È essere il sentimento.

Mi rassicura con una carezza sulla guancia, non staccando gli occhi dai mei.
E ormai non mi stupisco neppure più del fatto che sembrano brillare di luce propria per la gioia, la sicurezza ed il dolore che sembrano intridere ogni sfumatura.

-aspettami, se sarai capace di farlo. Ma, ti prego, non rinnegare mai niente di tutto questo. perchè se non sarà con me, sarà con un’altra.

Scuoto la testa ancora una volta, poggiando la mia mano sulla sua. La stringo forte, e, pur con la gola riarsa, riesco a parlare. Devo, perchè sono parole che mi premono sulle labbra, ed è tempo di parlare chiaro anche per me.

-vedi di far vedere a tutti di cosa è capace la vera Dorcas, allora. Perchè se scopro che dopo tutto questo non sei tornata la te stessa che tanto vai cercando, giuro che ti ritroverò, dovunque tu sia. E non ti piacerà il seguito.

Mi interrompo spesso tra una frase e l’altra, incespico su due o tre parole che proprio non ne volevano sapere di pronunciarsi correttamente però, respirando forte e sussurrando a voce bassa e roca, riesco a concludere la frase.

E vedo una lieve risatina sbocciare, por trasformarsi in una risata cristallina, bassa, allegra, viva, piena di un’allegria così pura che mi chiedo perchè mi stia scavando dentro così profondamente.

Conclude dolcemente così com’è iniziata, con il sorriso, sofferto, di Dorcas che stride visibilmente con le scie delle lacrime che ancora brillano, umide.

-è un modo per dirmi che non mi dimenticherai?

Sono distratto dal luccicore delle scie di lacrime, incuriosito dalla loro parvenza di liquidità.
Con un gesto timido, quasi infantile, le asciugo lentamente con il pollice e l’indice. Sento la sua pelle umida e morbida scivolare sotto il mio tocco, mentre le mie dita asciugano con pochi gesti anche quei segni di dolore.

Sposto lo sguardo verso il suo, centrando i miei occhi nei suoi per l’ennesima volta, eppure provando, come se fosse la prima volta, il brivido di ciò che quei giochi di sguardi significava.

E, in quegli specchi dalle inquietanti sfumature blu, posso quasi scorgerci una scintilla di segreta ilarità.
Le sue labbra esprimono in un solo sorriso ciò che difficilmente, e poche volte, una persona riesce a contenere dentro di se.
Il dolore, l’amore, la sicurezza e determinazione.
Ed adesso, una specie di scintilla d’allegria, di puro pepe, di sfida, sembrava ricordarmi in un modo impressionante una giocosa Dodò, che adesso sapevo appartenere al passato, per una volta senza veli di tristezza che offuscassero quella sua vivida voglia di vivere.

Un brillo di pepe che sembrava riflettersi persino nel modo in cui i suoi due piercing brillassero sotto i raggi di quel sole pallido che, incurante che al mondo ci fossero un Gustav e una Dorcas qualsiasi, continuava a risplendere tra nuvole cariche di pioggia, nel freddo di una mattinata dei primi di settembre.

Quei piercing che mi stavano attraendo come una calamita irresistibile. Rendendomi conto di stare osservando troppo fissamente la bocca di Dorcas, sollevai gli occhi di scatto. Incontrando che ormai non sorrideva più e che, anzi, tutto il suo viso e il ritratto del dubbio, dell’incertezza.

Titubande, eppure certo di doverlo fare, poggio delicatamente una mano sulla sua guancia. L’accarezzo lentamente, sentendo sotto i polpastrelli la morbidezza della sua pelle. Percorro la linea della mascella, seguendo poi il profilo el mento e risalendo fino alle labbra. Le sfioro delicatamente, ritraendo il dito istanti dopo, come se fossi stato quasi scottato. Per tutto il tempo in cui esploro con il tatto delle mie dita il suo viso non oso guardarla negli occhi.

Ed adesso, per uno scatto del tutto irrazionale, lo sto facendo. La guardo.

E l’unica cosa che sembra esserci scritta a caratteri cubitali sul suo viso è un “sì”.
Non so bene a cosa, ma è un sì.

Esito, un momento. Ma grazie a Dio sono un ragazzo sveglio e, quando vedo Dorcas mordicchiarsi un momento le labbra, porre gli occhi in gloria come in silenziosa preghiera per poi tornare a guardarmi con un ghigno assolutamente bollente e uno sguardo che per essere più letterale avrebbe solamente bisogno dell’uso della parola, capisco che mi sono dimenticato di qualcosa.

Qualcosa che sembra premere ad entrambi parecchio, al momento.

Affondo le dita nei suoi capelli che, come nei miei sogni migliori, sono una nuvola di ricci dal vago odore a cannella, mentre la sua mani mi stringe possessivamente il collo.
I centimetri, fra noi, non sono mai stati particolarmente abbondanti. Ma questa, infinitesimale, distanza, batte tutti i record.

{ Per un solo secondo il suo respiro si mescola con il mio, facendo chiudere gli occhi occhi ad entrambi per la paura di stare vivendo solamente un sogno. Chiudo le labbra, cercando al buio le sue.

Una vampa di calore mi incendia gola e guancie, quando mi rendo conto di stare appoggiando le mie labbra sulle sue. Le ha morbide e calde, forse solo un po’ screpolate per il freddo di questi giorni. Sorrido, sentendo l’inebriante contatto con i piercing gelati, che mi stanno trasmettendo inquietanti brivi per la schiena.

Senza rendermene conto, lascio i suoi polsi per cercare con le dita il suo viso. E mi ritrovo sommerso da mille crepitanti, soffici, calde, morbide, sensazioni.

Delicatamente, esploro ogni centimetro del suo viso, passando dalle guance coperte pulria infantile, agli zigomi decorati da tre nei. Sotto le mie dita posso avvertire le sue palpebre, ed il loro fremere rapido. La fronte, la mascella poco marcata, la gola.

A sua volta, sento il tocco leggero e titubante delle sue dita sul mio viso e rabbrividisco di pura eccitazione, mentre il mio cuore si scioglie in una pozza di tenerezza.

Il suo respiro sa di caffè e zucchero, permeato da quel sapore così particolare, così suo. È inebriante, alcolico.

E mi rendo conto di volerne di più. Come comandati da una sola mente, entrambi approfondiamo il bacio.
Con un gesto improvvisamente possessivo, le mie dita si immergono nei suoi capelli ricci, dalla consistenza soffice e morbida. pressiono leggermente la nuca per avvicinarla, mentre schiudo le labbra per far crollare ormai ogni distanza tra noi. Dorcas inclina la testa, facendo presa sulle mie spalle ed avvicinandomi a lei.

Schiude le labbra, e qualcosa di molto simile al nirvana mi manda definitivamente in paradiso.

È un bacio umido, passionale, eppure profondamente tenero.
Cerco di dirle tutto quello che non sono capace di esprimere a parole, cerco di farglielo capire, che lei è tutto, adesso.

Giochiamo, ci cerchiamo, ci troviamo. Bacio i suoi piercing, mentre lei mi tortura con i guizzi di quella lingua di gatto.
Ad una sua carezza sulle spalla rispondo affondando ancora di più in lei.
Mi sento affogare in qualcosa che è fin troppo complesso da spiegare, adesso come adesso.
E mi sento morire, e volare, e, Dio, se questo è amare...
Il resto non merita niente.

.-.-.-.-.-.-.-

Esco dal palazzo dell’universal quasi correndo per raggiungere il taxi che mi sta aspettando, paziente, all’altro lato della strada.

Non provo neppure a proteggermi dalla pioggia che, da leggera e persistente, si è trasformata in un vero e proprio acquazzone.
È così che entro nel taxi bagnata come un pulcino, mentre ordino con voce roca al tassista la direzione dell’aereoporto, scali nazionali.

Con ancora il fiatone per aver fatto tutta la strada di corsa, starnutisco, inaugurando il mio tipico raffreddore d’inizio inverno che puntualmente mi ha complicato la vita dalla tenerà età di otto anni.

Con uno sbuffo scocciato ripesco da sotto il sedile lo zainetto ormai fradicio, frugandoci dentro alla ricerca dei fazzoletti. Ma trovo qualcos’altro.

Un costoso orologio di foggia maschile riposa nel palmo della mia mano, brillando in un trionfo di acciaio e quadranti color indaco.

-dannazione, devo correre o perdo l’aereo!

Dorcas cercò il suo cellulare per guardare l’ora, ma nel marasma del suo zaino sembrava introvabile. Pestò un piede per terra, sotto l’occhio sconsolato di tutti i Tokio Hotel al gran completo, in meravigliosa (e ridicola) tenuta da nanna.

Tom sorrise sornione, gli occhi in cielo ed i rasta raccolti dalla mitica bandana verde, invece della solita fascia elastica e cappellino. Si era sicuramente appena svegliato,perfettamente a proprio agio a petto nudo, mentre sembrava essersi buttato addosso un paio di pantaloni enormi dei suoi per puro rispetto a Dorcas.

Bill, capelli scarmigliatissimi e vestito di un’improbabile pigiama arancione butano, tra strilli isterici e nevrotici, iniziò a cercare freneticamente un qualsiasi orologio in un qualsiasi posto dell’ingresso. Anche se Dorcas dubitava che ce ne fosse mai stato uno nel ombrelliera.
Georg stava per riaddormentarsi per l’ennesima volta sulla cornice della porta, splendido perchè vestito solamente di un paio di boxer neri, mentre Gustav aveva appena preso la porta della sala strumenti. Avrebbe distrutto anche la nuova batteria per la frustrazione, Dorcas se lo sentiva.

Improvvisamente, in mezzo alla confusione provocata dalle urla isteriche di Bill e gli sbadigli di Georg, Tom si slacciò il grosso orologio dal polso per poi porgerlo ad una stupita Dorcas.

-non ti ho comprato un regalo d’addio, piattola. Quindi, questo è per te.

Si scambiarono un’occhiata complice, il chitarrista e la tecnica del suono, sentendosi vicini come non mai.

-bella maniera per liberarti di me, Kaulitz. Gratis et amore, soprattutto.

Tom le sorrise sornione, prima di stritolarla in un’abbraccio incredibilmente affettuoso. Che la sollevò da terra di ben dieci centimetri, perchè Tom è una stanga da un metro e ottantacinque, e, ovviamente, i suoi non posso essere abbracci normali.


Sorrido malinconica al ricordo, ributtando l’orologio nel caos della borsa.

Continuo la ricerca, scoprendo che questo zaino, vecchio e glorioso e, soprattutto usatissimo, contiene più carabattole che oggetti utili.

Ho addirittura un fermaglio per capelli di Chanel, diamine. Costerà più di tutto il mio guardaroba invernale.

-ci hai provato a partire senza salutarmi, eh?

Un profumo suadente e femminile, un’abbraccio caloroso ed affettuoso.
Un sorriso melanconico solcava il viso di Christa, mentre la osservava un’ultima volta sul pianerottolo dell’ingresso.

Con un’ultima carezza sulla guancia, Christa si allontanò da Dorcas.

-non mi chiedi il numero di cellulare, Chrì?

La ragazza scosse la testa, ridacchiando.

-se non me l’hai dato, significa che non vuoi essere trovata. Ma sappi che mi mancherai.

Con un’ultimo bacio sulla fronte, Christa la salutò con un cenno della mano.
Dorcas si avviò verso l’ascensore camminando all’indietro per continuare ad osservare negli occhi la sua migliore amica.

-ah, quasi dimenticavo!

La vide sopraggiungere correndo, porgendogli un fermaglio smaltato di nero, con un semplicissimo logo di Chanel in argento.

-per te ed i tuoi capelli selvaggi, piccola. So che lo perderai, ma, tant’e...


Ridacchio, ripensando a come fosse profondo, nella fredda luce del pianerottolo, il nero dei suoi occhi.

Trovo finalmente i fazzoletti, e non solo quelli. Soffiandomi il naso recupero il micro-ombrellino extra-lusso, che più che proteggere della pioggia sembrava pronto per rompersi al primo alito di vento.

-Dorcas, piove! Quindi non rompere e portatelo!

Delle mani dalle dita sottili e nervose dalla vistosa french nera, si agitavano come farfalle impazzite davanti ai suoi occhi, mentre Dorcas respirava a pieni polmoni il dolce profumo di lacca che Bill emanava, anche quando i suoi capelli non sembravano essere esplosi.

Con un ultimo sbuffo scocciato, la ragazza fermò il principio d’infarto del Kaulitz minore con un gesto secco della mano.

-perchè invece non mi abbracci decentemente, Diva?

E un sorriso smagliante sembrò illuminare tutto l’ingresso.


Sbuffo nel constare che questo ombrellino che D&G mi servirà a un piffero, vista la tormenta che sembra scatenarsi lì fuori.

Eppure non posso fare a meno di sorridere come un’idiota.

Georg Listing profuma sempre di qualcosa. Non è mai un’odore neutro o banale, non è un’odore che uno riesca dimenticarsi così facilmente. Perchè, sostanzialmente, lo classifichi come profumo di buono.

-prenditi cura di te, tappo.

Stringe forte, eppure delicatamente, quasi avesse paura di romperti se ti stritolasse troppo tra quelle sue braccia da palestrato. È rassicurante come pochi, imponente, per una come me, e, soprattutto, affettuoso. Io so perchè tante ragazze vengano falciate da quei suoi occhi troppo verdi: perchè sembra fatto per farti sentire al sicuro, a salvo.

E una persona mi ha detto che questo è uno dei tanti motivi per cui lo ama.

-e tu cerca di sopravvivere a questa manica d’invasati, Georg.
-vedendo come mi hai ridotto Gustav, sarà piuttosto difficile.

Sorride, dolcemente e (falsamente) ingenuo come solo lui sa essere.

-ma ho chi mi può aiutare.


Ridacchio al ricordo di quell’occhiolino passeggero che ci eravamo scambiati, lui statuario vestito di soli boxer neri ed io con il naso rosso e il giaccone sformato, potendo quasi sentire quel suo odore confortante intridere la mia giacca.
Ma è un sorriso che dura poco, e torno a gemere, per questo dolore assurdo che mi sta sconquassando il petto.

Ho sempre pensato che gli addi sono troppo corti.
Spesso umiliantemente corti.

-l’aereo, Dorcas.
-io...
-l’aereo, Dorcas. Addio?
-non è finita qua, Schäfer.


E non mi resta che cullarmi nei ricordi di qualcosa che avrebbe potuto essere il mio racconto di fiabe perfetto, con tanto di principe azzurro.
Ma il mostro, in questo caso, è il mio passato.

Il cinquanta percento di me stessa.

.-.-.-.-.-.

Non credo che importi il modo in cui ti amo.
Lo faccio e basta, con gesti che non ho mai riservato a nessuno, con pensieri che non avevo mai dedicato a niente se non, forse, a me stessa.

Mi sento stringere il cuore al solo pensarci, mi sento piangere per la felicità, ridere per il dolore di ogni piccolo screzio. Non m’importa di quello che sarà, perchè so che con te vicino non conta più niente. Stringimi forte, ok?
Non mi lasciare andare. Voglio essere partecipe, per un’ultima volta, del battito forte del tuo cuore, voglio sentire per una volta ancora il tuo respiro ed il mio fondersi in una nuvoletta di vapore. Non m’importa non esserci un domani, se l’oggi è stato degno di viverlo con te.

Per una volta, anche se te lo chiedo, non lasciarmi andare. Stringi forte la mia mano, non darmi il permesso di dimenticarti. Infierisci un momento sul dolore delle partenza, perchè so che se mi lascierai andare non avrò più la forza di risollevarmi in piedi.
È così triste essere decisi a bruciare il germoglio di un sentimento meraviglioso.

Lo faccio per me, il mio braccio, forse per te, e per la tua pace, oppure per la mia incapacità di accettare qualcosa di così grande come sentire ogni tuo gesto riflesso dentro di me. Ho un vuoto nella mia anima che ricalca perfettamente la tua e brucia, brucia, come se generasse acido al solo contatto.

Sei un sentimento meraviglioso e scomodo, Gustav, non mi lasci andare, mi ustioni dentro e fuori.
So che non tornerò più la stessa. Ma sai una cosa?
Non voglio tornare ad esserlo.
Mi limito a tenerti stretto a me, perchè mi rendi viva.
Il tuo ricordo non lo posso cancellare, lo sento bruciarmi la pelle, facendomi bene e male allo stesso tempo.

Ti stringo, mi stringi, ci stringiamo. Forte come non mai, come se fossimo l’una l’ago dell’equilibrio dell’altro.

Ho definitivamente rotto il mio cuore in due, ed una parte l’ho sepolta nel tuo.
Perfetto, adesso i Dorcas possono anche vantarsi di avere l’ennesimo cuore distrutto tra i loro regali cool.

Ma non m’importa. Non adesso.
Ci ho marciato così tante volte, sopra questi brandelli di carne rossa e palpitante, che non so se ne vale veramente la pena regalarteli.

Riuscirò a dimenticarti? Non lo so.

Mento. Non ci riuscirò mai.
Me lo avverte un buchetto sul fondo del mio essere, un buco nero che sta risucchiando tutti i nostri momenti insieme per montarne una pellicola che mi sfilera davanti agli occhi nei momenti meno oppurtuni. Mi puoi cancellare la memoria, ti prego?
Puoi farmi dimenticare il tuo profumo, o la sagoma delle tue spalle?
Non importa se mi perderò, dopo questo processo.

Andrò, mi perderò. Vivirò nella struggente malinconia dell’averti perso. Non ti cercherò, anche se so che tu mi accoglieresti a braccia aperte.
Perchè...

Io non posso stare con te. Me lo vieto.

Mi stai facendo male. Mi tieni incatenata a te, sei parte vivente del mio essere.
Sento di stare cambiando per trasformarmi in una Dorcas che non mi piacerà.

Vorrei tanto che tu potessi amarmi senza confondermi così tanto le idee.
Eppure non ci riesci, non ci riesco. Mi sento viva di vita altrui, gemo per il dolore di un’essere estraneo, eppure così legato al mio.

Quando passerà il primo mese, il dolore sarà sordo.
Dopo il secondo, ci sarà un enorme rimpianto.
Dopo il terzo, ci saranno le memorie ossessive legate ad ogni piccolo particolare.
Dopo il quarto, cercherai di dimenticarmi.
E dopo il quinto, sarò una delle tue più dolorose cicatrici.

Tutta me stessa in una cicatrice?

È possibile, credo.

Eppure, te lo giuro, che ti amo.
E che sto patendo le pene dell’inferno, ma qui la decisione si gioca tra due fuochi che ustionano alla stessa maniera: essere per te, o tornare ad essere me, con tutti gli organi al loro posto.

Mi senti? Mi sto afferrando alla tua maglietta, nascondo il viso nell’incavo del tuo collo, mentre circondo la tua vita con le mie gambe.
Posso essere un momento il tuo koala personale?
La tua maglietta grigia asciuga le mie lacrime silenziose. Dimmi che mi ricorderò ogni giorno il tuo profumo penetrante, un misto tra deodorante e dopo barba, respiro e profumo di bambino.

Assurdo, non puoi continuare ad essere colui che mi fa sentire irrimediabilmente bene.

Sentirò ancora le tue braccia afferrarmi come stai facendo adesso? Potrò sentire le tue mani premere sui miei fianchi per avvicinarmi al tuo petto?

Non lo so, e se lo intuisco non voglio affrontarlo.

Non voglio sapere.
Che il buio mi avvolga, il dolore mi renda insensibile ed il passato che ritorna mi allontani da tutti e tutto.

Addio.*


.-.-.-.-.-.

Our Farewell – Il Nostro Addio
Nelle mie mani
Un’eredità di ricordi
Posso sentirti chiamare il mio nome
Posso quasi vedere il tuo sorriso
Sentire il calore del tuo abbraccio
Ma non c’è nient’altro che il silenzio ora
Attorno a colui che amo
È questo il nostro addio?

Mio caro ti preoccupi troppo, bambino mio
Vedo la tristezza nei tuoi occhi
Non sei solo nella vita
Per quanto tu possa pensare di esserlo

Non ho mai pensato
Che questo giorno sarebbe arrivato così presto
Non abbiamo avuto il tempo di dirci addio
Come può il mondo semplicemente andare avanti?
Mi sento così persa quando tu non sei vicino a me
Ma non c’è nient’altro che silenzio ora
Attorno a colui che amo
È questo il nostro addio?

Così dispiaciuta che il tuo mondo stia crollando
Ti osserverò attraverso queste notti
Riposa la testa e vai a dormire
Perchè bambino mio, questo non è il nostro addio.
Questo non è il nostro addio.
(c)Within Temptation





.-.-.-.-.-.-.

*Fade To Black: Metallica.

*Our Farewell: Whitin Temptation

*Il linkback della parola sacro è Heilig, dei Tokio Hotel.


E così finì anche questo capitolo. Il primo capitolo cho so di aver scritto dando il meglio di me stessa.
Non potrei scriverne uno migliore, soprattutto il dialogo tra Gustav e Dorcas. Ci sono poche parole, eppure mi ha intrigato il fatto che ci sia così tanto in mezzo da renderle poche e, forse, pure inutili.

Non mi azzardo a definire questo capitolo come buono o cattivo, non saprei, sul serio. Magari ho fatto un’immane cavolata e non lo so, confermatemi voi.

È un tocciazzo da venti e fruscia pagine, scritto in poco più di cinque giorni, sudato e vissuto. Ho avuto una smania di scriverlo che non ne avete idea: l’ho quasi odiato, quando ho finito anche la seconda stesura.

E adesso voglio la Ola più grande che possiate fare, il grazie più grande che possiate dire, rivolti a quella santa *santissima* donna della Lales, la mia fida beta-reader.
Perchè mi ha ripescato in tempo, mi ha detto chiaro e tondo cosa non c’era che non andasse, mi ha dato dei solidi indizi su come riscriverlo.
E la ringrazio, perchè se alla prima stesura questo capitolo mi faceva discretamente schifo (che novità, direte voi) adesso lo amo, per come sono riuscita a tirare fuori il meglio di me. Mi ha ripigliato per la collottola un sacco di volte prima che io postassi strani aborti letterari, mi ha bastonato a dovere nei miei eccessi di impeto e, soprattutto, continua a sopportarmi, fatto non meno importante. XD e a ripetermi che sono romantica e dolce anch’io e che lo devo accettare mio malgrado.
Quindi potete iniziare un culto in suo onore: perchè se lei non da il via libera, qui si aspetta tutte.

La faccio corta: scritto in una notte dalle due e mezza di notte fino alle sei del mattino stesso, è questo il capitolo che vi aspettavate da secoli. Siete arrivati vivi al finale? Vi è piaciuto? Riuscirete a commentarmi, se ancora connettete dita-cervello? XD

 

D a n k e!
Gracias.
Merci.
Grazie.
a…

_Princess_, Lady Vibeke, valux91, simmyListing.

 

_Princess_: lo sai che mi faro morire, si? Dal ridere o dalla gioia non lo so, insomma, queste battuttine a doppio senso su Georg stalloni che *oddio!* potrebbero trasformarsi { se non lo sono già } nel sogno erotico di milioni di donne e ragazze! Ovviamente a Bill era riferito l’epito di “ferramenta su due stecchi” non so se ti può piacere, ma secondo me calza. *_* io ammiro il collo di Bill per resistere a tutto ciò di cui il ragazzo lo sovraccarica. E si, hai proprio ragione: la definizione di amore dello scorso capitolo era molto, ma molto eufemistica. A te il verdetto riguardo a questa nuova definizione! *_* sopportabile o meno, mia critica? Quanto a spagnolismi vari, io ci sto perdendo la testa. XD non so più che mi prende, ma credo che troverai un “palabra” perso tra qualche riga che non sono riuscita a correggere. Bacchettami a dovere nel caso qualche costruzione grammaticale non sia giusta e/o appropriata: sai come adori imparare dai miei errori, quindi dammene la possibilità! Ovviamente grazie tantissimo per avermi fatto scoprire i Within Temptation {Il capitolo glielo devo, praticamente} e gli Apocalyptica, che vedremo presto {tempo un capitolo} su questi schermi per una breve apparizione. Ti assicuro che scrivere con “Forsake” in sottofondo è adrenalinico, te lo assicuro. XD Grazie per ripetermi con una costanza incrolabile come ti piaccia il mio stile di scrittura: io non posso che farmi sbrilluccicare gli occhietti dalla contentezza e commozione, sperando non averti deluso in questo capitolo. E occhio, perchè a questo ci tengo particolarmente: vedi di essere critica come sempre adoro che tu sia! <3

 

Lady Vibeke: oh santa donna {Pao, sono finalmente riuscita a sapere il tuo soprannome per vie traverse! (la Prì, per intenderci XD)} ma non ti preoccupare, insomma! XD lo intuisco che tu sia viva, per il solo fatto che, puntuale come una svizzera, tu recensisci me e la Prì, continuando ad onorarmi con una costanza che giudico ammirevole, visti i tuoi {evidentemente} numerosissimi impegni da donna di mondo che ti tengono lontana dal pc quel tanto da impedirci di farci sognare con il tuo Gustav e Suometar {che ho avuto l’ardire di chiamare Suometal, prontamente bacchettata dalla Prì. A mia discolpa posso solo dire che la prima parte del nome l’ho azzeccata, per lo meno. XD} Grazie per i tuoi sempre apprezzatissimi, anche se una punta ingiustificati, insinuerei, complimenti al mio stile.  Mi becco una bastonata da qualche parte se dico che non saprei scrivere in altro modo? XD E poi non sei l’unica ad amare le seghe mentali, a quanto pare. Si, perchè sti due, Gustav e Dorcas, non accennano a volersi semplificare la vita! Quindi tu tranquilla che, se è questo lo stile che apprezzi, di soffrimento e cose varie ne vedrai ancora un’altro po’, prima di concludere in bellezza! XD E grazie per sostenere anche tu la causa del “meno FF, però più qualità!” anche se parla la stessa autrice che mi ha definitivamente convinta a crearla, questa ff. Sono una tua devota lettrice e, dopo una doverosa lettura di Rette Mich e Memories, mi dico assolutamente affranta dal fatto che sembri ormai scomparsa. Ma aspetterò con pazienza, che tanto di recensioni te ne devo!

 

Valux91: Una new entry! <3 Ma benvenutissima cara, e leggi pure con calma e commenta quando vuoi, che tanto questa ff non scappa. Povero tuo padre { o forse no? } insomma, magari voleva solamente pensare al tuo bene... e te lo sta dicendo una che li ha fatti dannare i suoi, pur di leggere ff a ore impossibili della notte. Faccio finta di essere dalla parte di tuo padre, ma poi sono la prima ad urlare “RIOT!” in faccia a chiunque. XºD Quindi calma, ok? XºD e, ehi, grazie! *_* mi ci lucido gli occhietti, con il tuo commentino. È decisamente appagante capire che non solo ci si capisce qualcosa da questa delirante successione di avvenimenti ma che, addirittura, li si apprezza! Gongolo! Per quanto riguarda la decisione su Gustav... è che lo amo, che ci vuoi fare? Amo lui e Georg, mentre il mio spreferito è Bill. Che comunque nella mia ff ci fa la figura di Diva, quindi ok, niente di nuovo sotto il cielo. E poi, Nothing Else Matter... consideralo stupido, ma lo devo a Herr Schäfer la decisione di iniziare ad ascoltarli.io non pensavo di essere tipa da metal {lo conosco, si, ma a livello e teorico e di gruppi e stili, non di musiche in se stesse} e invece mi trovi qui con Metallica, Apocalyptica e Within Temptation nell’mp3. Oltre ai System Of A Down, il mio grande, ed antico, amore. XD Spero di ricevere una tua nuova recensione, Küss!

 

SimmyListing: ma cara, grazie! Entusiasta che il capitolo ti piaccia, nonostante tutto. E anche a me dispiace far tribolare Dorcas... mento, in realta mi ci diverto un casino. Amo vedere i miei personaggi soffrire, che ci vuoi fare? E non è ancora detto niente, caVa, quindi mettiti comoda e aspetta, che certamente la storia non finisce qui! *_______* 

 

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Capitolo 8
*** Nacht Dir Kommt Nichts ***


{Neumunster, i postumi dell’operazione}

Non c’è neppure bisogno di essere ironici: sono 30 pagine.

Escluse le dediche.

 

Ma sono ancora viva. XD

 

 

 

 

8. Nach dir kommt nichts.

 

 

{Neumunster, i postumi dell’operazione}

 

Sento freddo. Eppure non riesco a rabbrividire. Tutto ció che mi circonda è nero, o sono io che non riesco ad aprire gli occhi?

 

Sono terrorizzata.

E paralizzata.

 

Perché tutto ciò che penso di intravedere in queste tenebre non ha mai dei contorni rassicuranti?

Ho paura. E se potessi, strizzerei gli occhi. Non vedo, eppure so di essere vigile.

 

Non voglio ammetterlo, ma tutto ciò che vedo è proprio lo stesso buio. Non è che non vedo: è che vedo nero.

 

Non so da quanto tempo sono qui, non so per quanto ci resterò. Tutto è così monotono, da qualche ora a questa parte. O sono giorni?

Ci sono brevi momenti in cui avverto di essere a qualche passo da avvicinarmi ad una parete, nera come tutto il resto, eppure attraverso la quale ciò che è rimasto circoscritto fuori dal mio piccolo abisso riesce a raggiungermi.

E non sono sicura di volerlo.

 

Sono ferma o mi sto muovendo?

Il nero non ha forme né riflessi, ombre o sbavature. Il nero è perfetto, nella sua non-esistenza.

 

Se mi stessi muovendo, fluttuando distratta tra veglia e sonno, potrei dire che mi sto fermando. Fermando e appoggiandomi alle tenebre stesse, chiudendo gli occhi dietro i miei occhi giá chiusi, lasciandomi assorbire da un altro tipo di nero.

 

Un sonno più nervoso, forse.

Eppure tutto questo non-essere, non fa che intimidirmi.

Sono stanca. Dannatamente stanca. Ehi, mi sentite?

Voglio farla finita. Qui ed ora.

Sento ancora il sapore dolciastro e mellifuo dell’etere dell’anestesia in quella che, fino a qualche tempo fa, avrei creduto la mia bocca.

Ma adesso, sospesa tra me stessa e il mio corpo, mi trovo in una posizione privilegiata: posso vedere tutti i miei errori, tutti i difetti del mio corpo.

 

Avverto come lame il ricordo delle conseguenze dei miei mille errori e, nel nero, non sento niente. Sono solo un’ingombrante massa di ricordi, piú o meno spiacevoli, che vorrei cancellare con un colpo di spugna.

 

Tu-tum. Tu-tum.

 

Ah, ma allora mi sto muovendo. Vero un nero lievemente piú palpitante, forse. Fa caldo, qui. Ma un caldo umido ed appiccicoso, un caldo di cui non mi dispiacerebbe liberarmi.

 

Tu-tum. Tu-tum.

 

Non suona deliziosamente debole, questo dolce tamburo? Forse il musicista si è dimenticato di tendere la pelle, perchè suona smorzato. Come quando io mi dimenticavo di revisionare l’attrezzatura.

 

È un ricordo nebuloso, distratto. Graffiato dall’usura, riarso dei giudizi a posteriore.

Eppure c’è. Si districa a fatica da tutto questo nero, e si ripresenta in una qualche parte della mia testa sbrogliandosi in una serie di risate confuse.

Chissà chi era. Chissà chi erano.

 

Sento che adesso non ha più importanza.

 

Tu-tum.

 

Spegniti, consumati. Vuoi lasciarmi in pace?

 

 Si, perchè tra sonno ed incubo, ci sono i tuoi occhi.

 

Che pensiero fastidioso. Chi è?

 

Tu-tum.

 

Palpiti sempre piú lento, ed è questo che voglio.

 

Tra sonno ed incubo.

 

Tra me ed il mio corpo, intendete? Tra la realtà a le mie frustrazioni?

 

Tu-tum. Sono stanca. Sono definitivamente stanca di sentire in bocca il sapore della cenere, sono sfibrata dall’affannarmi a rimettere insieme i pezzi di un qualcosa che ho finto di chiamare vita.

 

Ci sono.

 

Oh-oh, che ambiguità. Io non sono presente a me stessa, adesso. Eppure il pungolo fastidioso di questo pensiero mi smuove dalla mia tranquillità.

 

Tu-tum. Tu-tum.

 

No, si stava fermando! Smettila, smettila! Non m’infastidire più, non vedi che me ne sto andando? Lasciami!

 

Ho detto di lasciarmi.

Adesso! E non si servirà tirare, non ti servirà scuotermi. Qui, nel profondo della mia incoscienza, non ti do il permesso di entrare.

Lasciami!

 

Tu-tum. Tu-tum. Tu.tum.

 

Basta! Non riesco a sopportarlo, mi ero anche abituata al nero, ci volevo rimanere per sempre.

Non farmi arrabbiare, restituiscimi all’apatia!

 

I tuoi occhi.

 

Non li ho mai visti, i tuoi ipotetici occhi. E stai sicuro, chiunque tu sia, che appena li vedo gli sputo sopra.

 

Oddio.

 

Il fiatone. Percepisco distintamente di avere il fiatone. Ma io qua sotto non potrei percepire niente!

 

Tu-tum. Tu-tum. Tu-tum. Tu-tum.

 

Nessuno ha mai detto che fosse facile.

 

Ma io voglio che lo sia. Voglio solo staccare la spina.

 

Devi salire, per poter scendere.

 

Io non voglio proprio muovermi. Mollatemi qui, io per voi non esisto.

Quindi, cuore smetti di battere, realtà smetti di fare pressione per riprendere possesso di me e, sopratutto cervello: resettati.

 

Tu-tum. Tu-tum. Tu-tum. Tu-tum.

 

-Sveglia! Sveglia!

 

Il fiato sembra uscirmi rovente dalle labbra, bruciandomi gola e lingua. Percepisco un dolore sordo in tutto il corpo, un intorpidimento generale.

Eppure è ancora tutto nero.

 

Se proprio mi rivolete indietro, siate gentili, maledizione.

 

Tu-tum. Tu-tum. Tu-tum. Tu-tum.

 

Tra sonno ed incubo.

Tra realtà e sogno?

Tra pazzia e lucidità?

 

Tra me e te?

 

Ci sono i tuoi occhi.

 

È come cadere in una piscina. Una piscina riempita di liquido leggero come aria.

Ehi, forse è veramente aria.

 

Sento la realtà intridermi, insieme a mille rumori confusi ed ovattati.

Ho infranto me stessa?

Vedo nero, ma solo perchè avverto di avere palpebre troppo pesanti.

 

-Cristo Santo, ma si sta svegliando.

 

Morte. La morte mi da rabbia. Mi da rabbia continuare ad essere qui e patire, cadere per rialzarmi, spaccarmi la pelle per vedere sangue, e sentirlo bruciare come le lacrime della sconfitta sulle mie guance.

Ma ciò che mi fa incazzare di più, è che lo sto facendo in una maniera pietosa. Se devo cadere, voglio farlo a testa alta.

 

Si, perchè tra sonno ed incubo, ci sono i tuoi occhi.

 

Tu-tum. Tu-tum. Tu-tum. Tu-tum.

 

Basta, è finita. Se apro gli occhi, sarò accecata dalle luci basse della mia stanza d’ospedale.

Li stringo, e il fatto che il nero venga raschiato dalle mie palpebre come con uno strato di tintura vecchia, mi spaventa.

Ecco perchè mi tiro a sedere, gridando e piangendo.

 

Perchè quegli occhi non ci sono mica.

 

 

{Quattro mesi dopo... }

 

 

-E comunque, se veramente mi fosse interessato, avrei chiesto una corona extra.

 

Sollevo gli occhi dalla macchi di liquido lattiginoso non meglio identificato che sembra imitare la forma di un pesce.

Li centro in quelli più profondi e scuri di Tom.

Non mi ero mai accorto che potessero essere così... intriganti. Suggerenti, maliziosi. Impudici, ecco la parola.

 

Con il dito traccio cerchi intorno alla macchia, senza arrivare a toccarla con il dito. Anche se gli scossoni del tourbus non la rendono un’operazione facile.

 

-Sei sicuro, Gus?

 

Sospiro, scuotendo la testa.

 

-Si, Tommino. Sicurissimo.

 

E di nuovo, lo guardo dritto negli occhi.

È cambiato qualcosa.

 

In me.

Nella mia vita.

 

In realtà in ogni momento tutto cambia, ma qui sembra aver dato un giro di trecentossessanta gradi. E io mi sento ancora lo stomaco in gola per il contraccolpo.

 

Schiocco la lingua, accorgendomi di avere la bocca secca. Bere, bere, ho bisogno di bere.

Mi giro vero il sedile affianco al mio, pescando l’ennesima bottiglia di birra dalla confezione. La apro con il coltello sporco di maionese che riposava sul tavolo, per poi passarla a Tom. Faccio la stessa cosa con un’altra bottiglia, iniziando poi a bere avidamente io stesso. E giù, giù per la mia gola come l’elisir di lunga vita, scende il liquido paglierino.

Con un verso di soddisfazione appoggio la bottiglia su tavolo, esattamente di fronte alla macchia, che adesso sembra avere la forma di un cerchio bitorzoluto. Un uguale verso di soddisfazione fa seguito al mio, mentre Tom sbatte letteralmente la sua bottiglia sul tavolo.

 

Vi avevo detto che le cose erano cambiate. Essendo Georg il bravo ragazzo fidanzato, adesso quello che Tom preferisce avere come suo pari nelle baldorie, sono io. E vi dirò, la cosa non dispiace a nessuno dei due.

 

-Non è stato affatto male, ieri. Anche se ti ho visto sparire per un po’, poi sei tornato. Gustav, non mi sarei mai aspettavo tutta questa joie de vivre da te.

 

Sollevo gli occhi, osservando i cerchi lenti che, tenendo la bottiglia per il lungo collo, fa fare al liquido residuo sul fondo. Piccoli cerchi concentrici, che turbinano come la mia testa in questo momento. Distolgo gli occhi leggermente nauseato per il movimento, centrandoli quindi nel sorrisino obliquo del gemello bello-e-dannato.

E mi ritrovo a rispondere, ma con un sorriso stanco.

 

-Ci sono tante cose che non sai di me, Tom...

 

Ci sono addirittura cosa che io non so di me stesso. Sento il mio sorriso scomparire come neve al sole, i muscoli irrigidirsi. Perchè ho scoperto che la vocetta della mia coscienza non sembra starsi mai zitta. E questa mattina è fermamente decisa a farmi impazzire.

 

Ed è con la nausea del dolore che ti ricorderai di me, ed è con il sangue in bocca che ti avventerai contro i miei ricordi...

Io mordo profondo, non cercare di sfuggirmi, ti ho fatto male e ti sono entrato dentro. Sono il retrogusto al fiele che ti fa affondare le mani in altri divertimenti, ma, non lo vedi? Diventano cenere nelle tue mani dannate.

 

E grida, perchè sarà l’unica cosa che ti procurerà un’emozione più viva delle altre, fosse anche odio.

 

-Oh-oh, Gusti. Cosa macina il tuo cervellino?

 

Mi stropiccio gli occhi con una mano, stremato per la consapevolezza dell’amara verità. Dio, che stile pomposo che utilizzo per parlare con me stesso.

 

-Tom, è tornata.

-Chi?

 

Sfuggo il suo sguardo, concentrandomi in un qualsiasi cosa che non sia i suoi occhi indagatori. Il panorama fuori dal finestrino scorre fin troppo veloce, come se il tourbus avesse inserito i centoventi all’ora.

Lo sento sospirare, stanco.

 

-Chi, Gustav?

-Lo sai chi, Tom.

 

Un gemito di disperazione mi fa ritornare con lo sguardo ai suoi occhi.

Ha delle occhiaie lunghe due chilometri, le labbra incredibilmente rosse e, come se non bastasse, la maglietta è al contrario e i rasta sono in caduta libera sulle spalle. Chissà chi è stata la fortunata che ha vinto fascia e cappellino, stanotte? O magari era una vincita di gruppo?

 

-Non può essere. Non dopo tutto questo tempo. Gustav, non avevi detto che volevi lasciartela indietro?

 

Prendo la bottiglia di birra in mano con un gesto distratto. L’osservo meglio, la soppeso. Ci rifletto su. Per poi farle fare un volo diretto verso la spazzatura. Sospiro, al limite della disperazione.

 

-Non ce la faccio. Non ce la posso fare.

 

Basta fuggire con lo sguardo, basta fuggire in generale. M’impongo di sostenere un’occhiata per più di un minuto.

 

-Non l’ho dimenticata, e la cosa peggiore è che mi fa schifo il modo in cui ho cercato di farlo. Perchè mi sento come se non avessi più dignità?

 

Tom guarda alternativamente la spazzatura, da dove spunta il collo della bottiglia, me e le sue mani. Per poi sospirare stancamente.

 

-Non ti posso mentire. Non c’è dignità nell’ubriacarsi, andare a letto con le prime gambe da cinque chilometri che sì, te la daranno e no, non c’è proprio nessuna gloria, nello svegliarsi fatti e stanchi tra le braccia di qualcun’altro. Però, cristo santo! Non puoi continuare a pensare a Dorcas, Gustav. Basta.

 

Al suo nome spalanco gli occhi come se fossi stato colpito e, anche se non lo ammetterò mai, il mio cuore perde svariati battiti.

 

Non so se mi senti, ma sono qui, in fondo a te. Ehi, bambino capriccioso, come va? Perchè mi sembra di vederti sperduto? Sì, sono risate sadiche quelle che ascolti. Perchè non hai il coraggio nè di affrontarla nè di affrontarti. Mi senti? Sei rimasto fermo a quella mattina di settembre, ci sei dentro fino al collo.

Codardo!

 

-Io ho cercato di... aiutarti, alla mia maniera. Io faccio così perchè non ho niente da perdere, non ho bisogno di coraggio. E la cosa buffa, e che tu non hai mai voluto condurre realmente la vita che stai facendo al mio fianco. Mi senti?

 

Mi senti?

 

Scuote la testa, mentre un sorrisino distratto si fa spazio sul suo volto stanco, eppure quella che c’è nei suoi occhi è consapevolezza. E anche se è un aggettivo che con Tom ha poco da spartirci, mi sembra quasi saggio.

 

-Non avrei mai creduto che sarei arrivato a dirtelo, ma smettila di fare cazzate.

 

Non hai mai ceduto, semplicemente perchè non c’era niente da cedere. Osservando tutti dall’alto della tua presunta santità, ti sei mai reso conto di etichettare come un perfetto magazziniere anche cose che non avresti dovuto toccare?

Adesso cosa pensi di chi, come te, ha fatto errori come questi?

 

Osservo Tom ridacchiare, gli occhi resi opachi per la stanchezza e la voce spessa per l’alcool.

 

-Io, Tom Kaulitz, il coglione patentato del gruppo, che si ritrova a sgridare l’angelo del palco, Gustav Schäfer! La cosa ha del ridicolo, sul serio.

 

Mi prendo la faccia tra la mani, mentre la mia vita precipita in caduta libera nel grande baratro della mia coscienza, troppo a lungo dimenticata o scavalcata. Tom sembra dare voce a tutto ciò che non ho osato chiedermi negli ultimi quattro mesi.

 

{La serata precedente}

 

La osservo sorridere e scherzare.

E mi ritrovo ad apprezzare questa risata cristallina. Muove con un gesto meccanico i lisci capelli biondi, e lo fa sapendo di essere molto seducente. Dopo aver scoccato un’occhiata curiosa a Christa e Georg, aversi fatto le dovute foto con Bill e Tom, sembra volermi dedicare la mia fetta di attenzione. E lo sta facendo decisamente bene.

 

Mette in mostra i suoi trucchi femminili, trucchi che mi sono sempre ritrovato ad apprezzare in chi li mostrasse. Li usa con cautela, mai sguaiatamente. S’inumidisce le labbra con lo champagne oppure con la punta della lingua, si sventola il viso con un foglietto e mi sorride. I suoi grandi orecchini evidenziano il lungo collo e sfiorano le guance abbronzate, mentre i suoi occhi castani cercano costantemente i miei.

 

Non è affatto male. Come direbbe Tom: ha due bocce da far paura. Non che il ragazzo sia superficiale. No, semplicemente, come anche prima faceva Georg, vive alla giornata. Cosa che non fa poi troppo male, come mi è stato dimostrato.

 

In parole povere: non si corre il rischio di finire come il sottoscritto.

 

-... E poi apro la confezione del vostro ultimo cd e che ne esce? Un golden pass! E così eccomi qui, con voi...

 

Ascolto distrattamente il discorso, mentre lei, con aria suadente, poggia la flûte, ormai vuota, di champagne sul tavolo. Si sporge verso il centro del tavolo per prenderne un’altra, dandomi così occasione di contemplare le sue grazie.

 

E mi ritrovo ad essere d’accordo con Tom. Non è affatto male. Ma la cosa divertente, è che sembra puntare direttamente al sottoscritto.

 

Sorrido, corrisposto da un suo eguale stiramento di labbra.

 

Labbra rosse.

 

Metallo. Di cosa sa il metallo? Pochi lo sanno, a meno che non abbiano baciato una lastra di acciaio. Ebbene, l’acciaio ha un sapore ferroso. Asprigno, quasi di acqua. E cloro. Acqua e cloro, sì. È un sapore molto incerto da descrivere, perchè non ci si ricorda troppo bene dei particolari, bensì delle impressioni generali.

 

E le impressioni generali sono tutte concordanti su questo punto: baciare metallo è baciare qualcosa di esotico. Il caldo delle labbra contrasta con il freddo dei piercing, che, non troppo assurdamente, finiscono per diventare veri ferri roventi.

Secondo molti, e mi trovo leggermente d’accordo, baciare metallo è baciare in una maniera assolutamente erotica.

 

Eppure sulle sue labbra rosse non vedo traccia di piercing. Scuoto la testa, infastidito.

Perchè si deve ripresentare tutto questo dopo quattro mesi? È stato un sogno evanescente fino ad adesso, e come tale deve morire. Od essere dimenticato.

 

Mi schiarisco la gola, sorridendo leggermente. La ragazza volta la testa verso di me con un gesto repentino, seguendo attentamente ogni mio sguardo.

 

-Che ne dici i prenderci una boccata d’aria, eh...?

-Katrine.

 

Fa lei, tranquilla e assolutamente noncurante del fatto che non sappia neppure il suo nome.

 

-Sì, ecco.

 

Sorride della mia gaffe, per poi finire in una sorsata ciò che resta del liquido paglierino e rivolgermi un sorriso che non può non essere descritto con un “illuminante”. Non luminoso, no.

 

Illuminante. Come una lampadina poco prima di fulminarsi. 

 

Si alza decisa con un frusciare di stoffa ed un ticchettio secco, strappandomi alle mie osservazioni.

 

Aspetta che mi alzi anch’io e, quasi sentendo la sua domanda silenziosa, le porgo il braccio. Lei si appoggia dolcemente, mentre avanziamo tranquilli verso l’enorme terrazza che circonda interamente il piano dove si sta svolgendo la festa.

 

Sì, decisamente i padroni di casa si trattano bene.

 

Procediamo distratti, fendendo la folla sudata e ansante in virtù della mia bella faccia. Qua e là i miei occhi cadono su scene che dubito mi dimenticherò così facilmente: in un angolo una famosa sportiva prende una pastiglia dall’aspetto molto colorato, mentre in un privè, con un buffo sventolio di gambe, due giovani e famosi si danno da fare.

In ogni parte tutti sembrano vedere tutto rosa, o, se la situazione lo richiede, non  vedono e sorridono. In fondo, perchè preoccuparsi?

È il mondo dello spettacolo. Un mondo che conosco fin troppo bene. Eppure non sono mai stato tipo da party. Non fino a questo periodo.

 

-Mi piacciono queste feste, sai, Gustav?

 

Mi giro verso Katrina con il sorriso cortese di chi è stato distratto dai suoi pensieri ma che comunque ascolta.

 

-Mi ha sempre fatto schifo tutto questo, e lo sai. Gustav, ne ho viste troppe di feste del genere. Non riuscirai a portarmici.

 

Sbuffo, scocciato. Mentre lei inizia a sghignazzare, tutta felice. Lì, appollaiata sul ripiano della cucina, mi sembra quasi una bambina. E forse il sorriso allegro che mi rivolge è la quint’essenza dell’infanzia. L’infanzia vissuta e saggia, sperimentata eppure resistente a tutte le schifezze di questo mondo. Un’innocenza che mi mette sempre di buon’umore.

 

-Oh, beh. Io ci ho provato.

 

Incrocia le gambe, la gonna rossa e verde in velluto e panno che copre tutto ciò che va coperto.

 

-Tu ci hai sempre provato, e a me ha sempre fatto schifo. Per fortuna che almeno in quanto a batterie andiamo d’accordo, perchè sennò non potremmo neppure stare nella stessa stanza.

 

La osservo, mentre butta giù una mora con un verso di giubilo. E mi ritrovo a ridere. Perchè è troppo pazza per essere vera.

 

-Sì, insomma, mi piace la fama. E non mi vergogno ad ammetterlo.

 

Katrina mi sorride sfrontata, avvolgendosi con il suo spolverino di pelliccia come una regina. Lei, che così vestita sembra un’inaccessibile modella, mi sorride e lancia occhiolino di pura simpatia. Anche se non penso di essere propriamente il suo compagno di giochi innocenti.

 

Le sorrido, sempre leggermente estraniato. Poi mi giro verso le luci della città che brillano sotto di noi come un moderno arcobaleno di sfumature psichedeliche ed allucinanti, abbacinandoci e facendo scomparire le stelle e la luna per l’inquinamento luminoso. Ecco quindi il cielo in terra, e la terra in cielo.

 

E mi fa schifo. Ma non per questo è meno affascinante. Eccomi quindi in contemplazione, perso nel loro luccicare.

 

Sento freddo. Ma non faccio niente per coprirmi, perchè ci sono abituato. È un bel freddo che mi rende insensibile e distaccato, perfetto, insomma, per sopravvivere.

 

Dopo quattro e fruscia mesi, è ciò che mi serve per seppellire tutto sotto un’abbondante strato di ghiaccio.

 

Una mano si poggia delicatamente sul mio petto, richiamando la mia attenzione. Gioca con i bottoni della mia camicia nera, mentre i suoi occhi cercano i miei. Lei prende il mio silenzio come un tacito invito e si alza sulle punte, per cercare di arrivare meglio a me. Quasi a metà strada, le nostre labbra si incontrano, ed inizia un gioco parecchio divertente.

Una specie di gara a chi stuzzica di più chi. Mi sfiora con brevi tocchi di labbra, eppure tutto sembra cercare meno che un bacio romantico. Intuendo che vuole essere fermata, poggio le mani sui fianchi e l’attiro più vicino a me. Com’è sempre stato, e com’è giusto che sia, approfondisco il bacio e le mie mani scendono pericolosamente verso il basso di diversi centimetri. Ha un corpo caldo, e dubito che quel gemito strozzato che le sia sfuggito dalle labbra sia scena. Sorrido.

Sorrido perchè mi piace e mi è sempre piaciuto.

 

-Sai cosa non sopporterei di un uomo, Gustav?

 

Smetto di bere, mentre osservo Dorcas appoggiata al muro. Siamo fuori dallo stadio in cui si dovrebbe svolgere il nostro ennesimo concerto, mentre io mi rilasso e lei chiacchera. Da sola.

Monologa, insomma.

Ma è un accordo silenzioso che diverte entrambi e, fino a prova contraria, non mi è mai dispiaciuto. Quindi eccoci qui: io ascolto, e lei parla.

 

-Non sopporterei che dovesse tradire la mia memoria.

-Tradire la memoria?

 

Chiedo io, un po’ perso. A volte Dorcas sembra pensarsele la notte, queste uscite assurde.

Si volta verso di me, osservandomi seria.

 

-Sì, insomma: anche se non stessimo più insieme, vorrei che rispettasse la mia memoria.

 

Inarco un sopracciglio, sorridendo.

 

-E che vuoi fare, lo incateni? Un maleficio per...ehm?

 

Lei inizia a ridere, e mi pianta un pugno scherzoso nella spalla.

 

-Ma no! Solo vorrei che, dopo di me, venisse una a cui tenesse tanto o più di me. Sai, niente avventure “chiodo scaccia chiodo”.

 

Medito sulle sue parole, trovandoci una certa logica. Schiocco la lingua, tornando ad osservarla.

 

-Ehi, mica male come concetto.

 

Lei fa finta di porgermi la mano piena di anelli da baciare con un gesto regale e un’espressione di sufficienza.

 

-Schäfer, dovresti saperlo: io ho sempre ragione.

 

La osservo fisso per qualche istante, per poi svuotarle con un gesto noncurante la bottiglietta d’acqua in testa.

Con i due gradi che fanno qua fuori, a Bruxelles, nell’inverno belga.

 

-Ma tu sei uno stronzo!

 

Sorrido inconsciamente contro le labbra calde e soffici di Katrina, sentendo come qualcosa di bollente si stia facendo spazio nel mio petto.

 

E non è l’eccitazione.

 

Con un lieve ruotare del collo, concludo il bacio passionale con un tocco dolce, giusto per non staccarla da me con un gesto violento. Perchè lei, Katrina, non se lo merita. Lei non ha avuto che la sfiga d’incontrarmi qualche mese troppo tardi. Ha solo cercato di sedurmi, ma io gliel’ho lasciato fare. Quindi tocca a me comportarmi bene.

 

Al viso crucciato e stupefatto di Katrina si sovrappone quello scazzato e divertito di Dorcas, in quella famosa serata in Belgio. E capisco, con una punta di panico eppure tanto calore, che non è finita qui.

 

-E Gustav è definitivamente partito per uno dei suoi mitici viaggetti nella memoria...

 

Tom mi osserva, la testa poggiata sulle braccia incrociate, a sua volta poggiate sul tavolino. Scuoto la testa incredulo, precipitando di nuovo nella realtà del primo piano del tourbus, che si dirige veloce nell’alba grigia norvegese alla prossima città per il prossimo concerto. Sopra, Georg e Bill dormono placidamente, mentre qua sotto io e Tom ci stiamo facendo le ultime birre prima di andare a dormire anche noi. Appena tornati dall’ennesima festa assurda e senza scopo, destinata ad essere cestinata dalla mia memoria come avviene ad ogni festa di società.

 

Se non fosse che i ricordi dolorosi che hanno a che fare con Dorcas non sembrano essere stati sepolti dall’alcool e compagnia peccatrice.

 

Purtroppo, sono duri a morire.

 

Tom sventola una mano di fronte al mio viso, richiamando la mia attenzione.

 

-Immagino di aver avuto, con il tuo caso, l’ennesima conferma che il mio lifestyle solo riesco a sopportarlo io. Sono più invincibile di Gustav Schäfer, il che è tutto dire.

 

Ride, scuotendo la testa. Per poi tornare improvvisamente serio.

 

-Ehi, mi ha fatto piacere chi tu mi abbia accompagnato in tutte le cazzate che abbiamo fatto negli ultimi tempi ma, consiglio spassionato, smettila. Non sei il tipo da fare queste cose, e io sono amico di Gustav Schäfer l’angelico, non del gran cazzeggiatore, alias Gustav von Tokio Hotel.

 

 Ci guardiamo negli occhi, io cercando di capire e lui cercando di diffidarmi dal protestare. Poi abbasso lo sguardo, stanco. Stanco e sconfitto.

 

Dai suoi ricordi, dalla consapevolezza di aver agito in maniera stupida per dimenticare, e dal fatto che lo stesso Tom, colui che ha fatto del menefreghismo un’opinione, mi consigli, mi faccia capire, di smetterla di seguire il suo esempio, che tanto non funzionerà, non mi dimenticherò di te, non smetterai di essere lo spettro che aleggia sopra ogni cosa.

 

E sento qualcosa rompersi.

Il guscio di ghiaccio che mi ero faticosamente costruito attorno al mio cuore si spezza definitivamente, s’incrina in un milione di piccole crepe e cede. Un pezzo dopo l’altro, lentamente, cadono e s’infrangono da qualche parte, un luogo in cui non avevo mai avuto realmente il coraggio di metterci piede.

 

Ti sento, ti sento.

 

Sento perfettamente il fatto che sono ancora qua, che mi ammazzo pur non risolvere i conti con me stesso e con te. Gran bello sfoggio di maturità, quella mattina di settembre. È come se tu avessi messo il cartellino “occupato” su me stesso, te ne sei andata piangendo e dicendomi di provarci con un’altra, ma mi hai fatto capire che no, non dovevo smettere di pensare a te.

 

Magari non l’hai fatto volontariamente, magari non te ne sei neppure accorta e non ti farebbe piacere scoprirlo, ma mi stai tenendo bloccato. Sono in stand-by.

 

E devo trovare la maniera di resettarmi, in bene o in male che sia.

 

Da qualche parte ci sei tu, e non ho il coraggio di ammettere che ci potrebbe essere anche un noi. Ed io, per un momento che è durato giorni, ho voluto fare finta di nulla e degradarmi. Quindi, nonostante tutto e contro il mio volere, grazie per impregnarmi ancora così a fondo la memoria. Perchè è fottutamente doloroso convivere con il tuo ricordo, eppure mi rendo conto che, prima d’allora, non avevo mai veramente vissuto.

 

Ti brucio dentro come acido, sono il tuo incubo personale. Mio odi e mi ami e io, che non sono la reale me stessa, non posso che tormentarti. Cercami, trovami.

 

Qui, per rimanere dove si è, occorre correre. E per cambiare posto, occorre correre ancora più veloce.*

 

 

 { Los Angeles, California, USA }

 

 

-Dorcas, adesso mi spieghi perchè non hai ancora analizzato i progetti per il palco che ti ho mandato ieri sera.

 

Sospiro stancamente, per dare un’impressione di veridicità alla balla che sto per raccontare. Eppure qualcosa mi pesa sul cuore, all’idea di dover mentire a Michelle. In fondo, lei e quel suo odioso accento del Nord Carolina non hanno nessuna colpa.

Aspettate solo che gliene trovi una.

 

-Senti, Elle, ti ho già detto che qui mi tengono molto occupata con il negozio. Non puoi pretendere che mi occupi anche di cose che in teoria spettano a te!

 

Poggio i gomiti sul bancone del negozio di cui sono la cassiera, pronta a sorbirmi  una ramanzina in piena regola.

 

-Dorcas, dovevamo elaborare il progetto per il maledettissimo palco che, se avesse vinto, avrebbe dovuto essere quello allestito per la “Monsters Of Rock 48h’s Edition”! Ti rendi conto di cosa abbiamo perso?

 

Mi mordicchio le labbra, neppure troppo in colpa.

 

-Elle, non avremmo vinto. Primo, perchè c’erano mostri del suono in gara e, due, perchè io solo ti dovevo fare da consulente. Io non figuro nelle iscrizioni, sono solo la tua tutor di fisica e elettronica al college!

 

Sentii come la sua rabbia acuta e nevrastenica montava rapidamente. Non può farmi nulla. O meglio può, ma spero proprio che l’unico modo per piegarmi ai suoi voleri non le venga in mente. Perchè a Miss Sono-ricca-brava-e-conquisterò-il-mondo, ragazzina viziata che sogna in grande e ha schiere di persone che lavorano per fare le cose al posto suo, non ho proprio voglia di fare nessun lavoretto.

 

-Dorcas, non te lo ripeterò. Adesso tu vai, presentando un qualsiasi progetto di palco che ti venga in mente. E sarebbe meglio che facessi lavorare quelle tue geniali celluline grigie da super-tecnico-del-suono-made-in-Germany per tirare fuori il miglior progetto che tu abbia mai pensato. Perchè se non lo farai...

 

Un silenzio minaccioso dall’altra parte della cornetta evidenziò l’importanza del discorsetto da gradassa plurimiliardaria.

 

-La polizia potrebbe essere anche rendersi conto che non sei più una personalità gradita entro il confine degli Stati Uniti d’America.

 

Strinsi i denti per evitare di ricoprire d’improperi Michelle VanHoeyer, in diretta per voi in tutta la sua stronzaggine dall’altra parte del filo del telefono.

Mi massaggiai la fronte nervosamente, già pensando a come avrei potuto fare per fare figurare il progetto, se non nelle prime posizioni (sicuramente occupate dai tecnici del suono delle grandi Tour Menagement Companies) almeno nel centro della classifica.

 

Chiusi la comunicazione con un sacco di minacce e raccomandazioni a carico della sottoscritta e svariate e dolorose e silenziose maledizioni a carico di Michelle. La odiavo di tutto cuore, e, per l’ennesima volta, mi chiesi perchè cavolo avevo cercato come secondo lavoro quello di essere tutor di una ragazzina viziata e dannatamente ricca che stava cercando di laurearsi (con taaanto aiuto da parte degli amici del padre) alla UCLA, sezione cinema e mass media.

 

Ma i borbottii del mio stomaco mi ricordarono che, con quello che mi pagava lei, non solo avevo potuto ottenere un allungamento del permesso da tre a oltre sei mesi in quanto lavoratrice attiva in suolo americano, ma mi ci ero pagata l’affitto per due mesi.

Il fatto che con quello che mi pagava Michelle ci portassi il pane a casa non significava per forza che non mi facesse venire la gastrite nervosa al solo pensare ai suoi profumi costosi e soffocanti, oltre che al ticchettio, acuto e fastidioso quanto la sua voce, dei suoi tacchi da dodici.

 

Poggiai la fronte sul pannello di vetro che ricopriva l’enorme bancone, cercandovi un minimo di pace e ristoro dopo quella telefonata devastante.

 

Dio, che mal di testa.

 

La mia unica fortuna in quel momento sembra essere il silenzio assoluto che regnava nel negozio di musica in cui stavo lavorando.

Ebbene sì, gente, anche la grande tecnica del suono Dorcas Schröder,  ex-FOH dei Tokio Hotel, si era ritrovata a lavorare con dei comuni mortali, che l’unica cosa che sembravano avere in comune con la sua vecchia vita era la più che discreta conoscenza del mondo musicale e la voglia di parlarne costantemente.

 

Sopirai forte, ancora con gli occhi chiusi e la fronte rinfrescata dal contatto con il vetro trasparente.

In quel momento il bagno mi si palesò come un’alternativa utile allo svenire sul chilometrico bancone della MMW, rinomato negozio di musica di Los Angeles, quarto piano, sezione batterie. Reggendomi la fronte con una mano, sparii dietro la parte divisoria oltre cui solo io e gli altri dipendenti potevamo passare. Mi rifugiai in bagno, appena in tempo perchè la prima crisi di vertigine mi prendesse seduta sul water.

 

Stavo dannatamente male. Ma dire male, era dire poco.

 

In quei giorni, tutto sembrava congiurare contro di me. Quel maledetto concorso, il lavoro, che brillava per la sua precarietà e, ultimo ma non meno importante, quella sensazione di angoscia che mi pesava dentro quasi fosse decisa a farmi schiantare il cuore per passiva.

 

Ogni cosa mi sapeva di cenere, in quei giorni, niente mi rendeva felice. Mi sentivo in sospeso, eppure ero in caduta libera. Da fuori, nessuno avrebbe potuto dire niente: avevo due lavori, una casa, zero problemi e forse qualche conoscente in più.

 

Eppure, il mio braccio sinistro non esitava a ricordarmi tutto ciò che avevo lasciato in sospeso, in attesa dell’arrivo del coraggio per affrontare tutto e chiudere una volta per tutte. E invece no. Mi trascinavo con determinazione incrollabile verso il nulla, crogiolandomi nel senso di colpa e intridendomi di grigiore allo stato puro.

 

Mi sembrava di vivere in un sogno, un sogno che aveva sbarre robuste e dorate. In fondo perchè il destino dovrebbe tormentarmi con problemi nel presente, se basta e avanza il mio passato?

 

Strinsi gli occhi, mentre mi sciacquavo la faccia con l’acqua gelata del lavandino. Non m’importava il fatto che il trucco si sarebbe sciolto e avrebbe colato, per il semplice fatto che in quel momento non m’importava nulla, men che meno del mio aspetto esteriore.

 

Anzi, mi sfregai gli occhi con sapone e acqua fino a far colare via il nero della matita, fino a farmi male. Mi risciacquai poi un’ultima volta con le mani intorpidite per il freddo.

Non mi guardai allo specchio fino a che non ebbi asciugato perfettamente le mani con una salviettina usa-e-getta e non l’ebbi tirata nel cestino.

 

Se qualche mese fa mi avessero detto che cosa mi avrebbe squadrato di rimando dall’altro lato di quello specchio, non ci avrei creduto. Innanzitutto le mie spalle, tutta la mia esile corporatura sembrava essere più gracile per l’assenza dei miei selvaggi e sovrabbondanti capelli bianchi. Adesso erano corti e fini, e ricrescevano in ricci piccoli e disordinati. Non sembravano capelli, ma un’aureola evanescente che, accompagnata alla mia pelle pallida, mi facevano sembrare ancora più piccola e malaticcia.

I piercing brillavano in una maniera quasi dolorosa sotto la luce fredda del neon, in aperto contrasto con le mie labbra, rosse come sangue. Ma quello era perchè le avevo morse fin troppo nell’ultimo periodo: erano praticamente spaccate, e quando sorridevo mi facevano un male cane. Fortuna che non sorridevo troppo spesso.

 

Gli occhi erano rossi per averli sfregati troppo, rossi di un pianto che non aveva versato lacrime. Non questa volta.

 

Deglutii dolorosamente mentre, in un gesto calmo, mi sollevavo le maniche dal maglione nero quasi fin sopra i gomiti. Lo specchio rifletteva il dorso delle mani e degli avambracci, rendendo quasi più vivo, più doloroso, il confronto tra la pelle bianca di uno e la miriade di disegni dell’altro, che come veleno nero, sembravano impregnarmi e bruciarmi la pelle come il primo giorno che l’avevo finito.

 

{Quattro mesi fà, Neumunster, Germania}

 

Era un ufficio molto accogliente. I libri si affollavano disordinatamente negli scaffali, mentre le poltroncine di velluto verde leggermente sbiadito erano buffamente bitorzolute e molto comode.

 

L’omino barbuto ed incartapecorito che sedeva dietro la scrivania, sembrava riflettere in tutto e per tutto il suo studio vecchio e vissuto.

 

-E se non funzionasse?

-Ho fiducia nella medicina, signorina.

 

Lo guardo attenta, seguendo con gli occhi ogni suo minimo gesto alla ricerca di un minimo segno di sfiducia riguardo all’esito dell’operazione.

Di quella piccola operazione che solo riguarda il mio polso.

Solo quello.

 

Un groppo in gola mi impedisce di spiccicare parola. Chiudo gli occhi che mi bruciano come se vi fosse pepe, per poi testare con un sospiro tremante le mie corde vocali. Dopo un breve cedimento, sembrano essere tornate in funzione.

Con difficoltà, ma forse ci sono.

 

-Inoltre non c’è niente che non lasci presupporre una pronta guarigione.

 

Il suo sguardo gentile è quanto di più possa farmi bene e male allo stesso tempo.

Ha una voce carezzevole e parla pacatamente, come se stesse rassicurando un bambino. Forse mi dovrei arrabbiare perchè tutto questo lascia supporre che sente pietà nei miei confronti, eppure, dal brillo complice che c’è nei suoi occhi verdi, vividi dietro lo spesso vetro di un paio di occhiali dalla montatura in osso, capisco che non è pietà.

 

Non so esattamente cosa mi stia offrendo. Ma non è pietà.

 

-Signorina... Schröder?

 

Agito la mano in un gesto di noncuranza.

 

-Mi chiami pure Dorcas. E mi dia del tu, per favore.

 

Sorrido, impacciata. Mi fa quasi male, come se avessi i muscoli facciali intorpiditi per il troppo poco esercizio.

Perchè forse è da troppo tempo che non sorrido veramente.

 

Un giorno. È solo un giorno.

È passato solo un giorno. E dietro di me, posso ancora essere capace di percepire la tua ombra.

 

-Dorcas.

 

Se lo fa scivolare sulle labbra, socchiudendo gli occhi e le labbra in un’espressione rilassata. Pronuncia attentamente ogni lettera, e alla R si ferma per pronunciarla con cura, una R secca e non grassa come andrebbe pronunciata in tedesco.

 

-Bellissimo nome, devo dire. Molto esotico, molto caldo. Latinoamericano?

 

Annuisco, sorpresa.

 

-L’ho scelto quando sono stata in Messico.

 

Riapre gli occhi lentamente, quasi si fosse dimenticato che siamo nel suo ufficio, in una clinica privata sul confine danese, a discutere del mio polso di cui non so esattamente la percentuale di riuscita dell’intera riabilitazione.

 

-Ah, è stata anche in Messico? Bel posto. Ma io preferisco l’Argentina, gente cordiale ed ottima carne. Lei no?

 

Stiracchio le labbra in un mezzo sorriso, incerta se stia giocando a distrarmi o si sia dimenticato veramente del motivo della mia visita. Scuoto la testa, per poi mettere mano al portafoglio.

E tirarne fuori il passaporto, consunto e vecchio come ogni cosa che abbia vissuto anche solo sei mesi con me. E il passaporto era così già dopo solo due mesi mesi che era in mano mia.

 

Lo porgo al direttore medico, che mi osserva curioso e attento, con quel suo onnipresente sorriso rugoso, il camice bianco e gli occhialetti rotondi.

 

-Cuba, Argentina, Messico, Paraguay... Perù! Bel posto, il Perù. Svizzera? Buffo. Russia? Turchia. E Norvegia.

 

Mi osserva da sopra il bordo del documento, profondamente divertito.

 

-Dorcas, quanti anni hai?

 

Ed è passato finalmente al tu.

 

-Ventitrè.

 

Mi porge nuovamente il documento, neppure lontanamente sorpreso.

 

-Sai, anch’io ho viaggiato tanto a quell’età. Poi ho conosciuto Margareta, mi sono fatto rimettere in sesto da un buon psichiatra ed adesso sono qui.

 

Inarco un sopracciglio, sorpresa. Perchè mi sta raccontando la sua vita per tappe?

Che voglia insinuare che siamo fin troppo simili?

 

Si alza dalla poltrona, seguito immediatamente da me. Mi si avvicina a passettini misurati e calmi, quasi volesse testare la mia pazienza nello stare in piedi ad aspettare una sua parola. E quasi a confermare una sua domanda silenziosa, inizio a stropicciarmi le mani.

 

-Dorcas, cara, io adesso devo fare il giro dei miei pazienti. Ma mi farebbe piacere discutere con te di come hai passato la Cordigliera delle Ande quando sei stata in Perù. Che ne dici di un bel the, più tardi?

 

Annuisco con un cenno del capo, attenta ad ogni sua minima inflessione della voce.

E sono tranquilla. Me ne rendo conto lentamente, quasi dolcemente, che adesso l’unica cosa che m’interessa è girare un po’ l’edificio, trovare la mia stanza ed aspettare questo the.

Sono tranquilla. E non perchè sono rassegnata, non perchè cerco di autoconvincermi di non avere paura.

Sorprendo me stessa con la calma con cui accetto l‘invito e la punta di felicità che c’è nella mia voce.

E sono ok. Perchè l’operazione incombe, la paura mi accerchia, l’insicurezza minaccia. E dopo la riabilitazione non avrò mica più un lavoro. Eh, no.

 

Se me ne sono andata dalla troupe dei Tokio Hotel è per non tornare. Mai più. Non tornare, basta.

 

Chiudo gli occhi, carica di emozioni come sono.

 

Eppure tutti questi sentimenti vengono scacciati dal tocco caldo di una mano che si posa dolcemente sul mio polso. Il polso che il maglione di troppe taglie in più copre con sovrabbondanza di pieghe.

Una mano secca e rugosa, resa coriacea dal tempo e dalle mille vicissitudini. Una mano calda, che, buffo, sembra tanto carezzevole quanto la voce stessa del suo proprietario.

 

Riapro gli occhi, incontrando il suo sguardo vivace.

 

-Perchè tu ci sei stata in Perù, vero?

 

E mi ritrovo a sorridere. Il dottore mi fa un occhiolino complice, per poi lasciarmi il polso e dirigersi verso la porta.

Solo, quando gli passo davanti per uscire, posso distinguere un suo basso sussurro.

 

-Per adesso può bastare.

 

E l’unica cosa che mi viene da dire, sarebbe un grazie. Perchè lui in teoria non mi ha consolato ne rassicurato. Lui, in teoria, mi ha solamente fatto ricordare dei miei anni da vagabonda.

E ha fatto decisamente bene.

Perchè non mi si piega e non mi si spezza, non accetto pietà e rifiuto la compassione. Ma mai una buona battuta di spirito.

 

Take me away from here.

 

Con un sospiro sconfitto tornai a me e al mio riflesso nello specchio, scacciando quasi con rabbia quel vecchio ricordo.

Era finita. Il mio eterno dubbio, la mia onnipresente paura, si era risolta in una maniera quasi mediocre e stupida.

Era finita, sì.

In bene.

 

{Tre mesi fa, Neumunster, Germania}

 

-Non serve preoccuparsi, sono abituata al dolore.

 

Dorcas alzò uno sguardo freddo sulla piccola folla che sembrava pendere dalle sue labbra.

Anche se più che freddo, poteva definirsi uno sguardo indifferente.

Immoto.

 

Come se il fatto che il polso sinistro, operato da poco piú di un mese e in teorica fase di guarigione, non facesse parte di lei. Come se questo improvviso riacutizzarsi del dolore, non lo provasse sulla sua stessa pelle.

 

Il dottor Schwartzkopf si avvicinó con passo calmo e tranquillo, i suoi rotondi occhialetti brillando nella fredda luce al neon della camera, mentre il suo sorriso compare come a metter pace a tutta questa cagnara.

 

-Oh, ma noi lo sappiamo che sei abituata al dolore. E la cosa bella è che è un segno positivo, Dorcas cara.

 

La ragazza lo guardò sorpresa, quasi non credendo alle sue orecchie.

 

-Significa che stai attraversando il miglior momento di guarigione. Da domani, o al più tardi tra tre giorni, non dovresti sentire più nulla. E da lì alla riabilitazione, manca poco.

 

Ovviamente mancava poco, mancava pochissimo.

Tanto poco che poi sono guarita.

 

Sono viva.

 

Sempre senza staccare gli occhi dal mio riflesso, giro i polsi verso l’esterno, li osservo rispecchiati perfettamente in quella lastra di vetro. Una cicatrice biancastra, pulita e in rilevo, è l’unico ricordo materiale che rimane dell’operazione. Non mi fa più male, adesso. Adesso è quella cosa che pompa sangue e disperazione in alto a sinistra è ciò che mi brucia il doppio di quanto facesse il braccio all’epoca. Dio, quanto fa male.

 

Eppure il mio viso allo specchio non fa una piega. Rimane immoto, immobile, e, se non fossi stata me stessa, avrei detto quasi annoiata.

Sono viva, ormai. Libera. Sono guarita, ho vinto contro tutto e tutti.

 

Ma come si può vivere se si è morti dentro?

 

Mi sento così vuota, ma ormai ho smesso di avercela a morte con me stessa. Che mediocre, stupida, ingrata. Cosa avevo, sotto le mani?

Qualcosa che mi faceva sentire incredibilmente bene, il mio antidoto contro la disperazione, qualcuno che, una volta tanto, mi aveva fatto sentire per vie traverse quanto fossi importante per lui.

Se prima i suoi ricordi erano importanti, adesso sono sacri.

 

Mi osservo un ultimo momento negli occhi, quasi volessi bruciarmeli una volta per tutte. Ma ciò che ci leggo, in fondo a quei pozzi blu, è pentimento. Disperazione.

 

Non avrebbe mai potuto funzionare, neppure se lui mi avesse trattenuto, perchè io stessa me l’avevo proibito. E non si ottiene mai ciò che ci si rifiuta di sentire.

 

 

{Allo stesso tempo, in Europa…  }

 

 

Nero. Vedo nero. Dietro le mie palpebre ostinatamente chiuse, voglio vedere solo nero. E mi sento bene, avvertendo l’ordine con cui il nero ricopre la mia realtà, rendendola omogenea e definitiva.

Non più mezze misure, fuori i ricordi e che si fottano i rimpianti.

 

Ho un cartello appeso al collo, e quello dice a caratteri cubitali: “non ci sono”.

 

È molto semplice, lasciatemi fuori.

 

In testa non risuona nient’altro che l’eco del mio mp3 e frasi sconnesse che si accavallano confuse, senza nè logica nè utilità apparente.

Ma sempre meglio queste che i ricordi che potrebbero ripresentarsi da un momento all’altro. Ospiti sgraditi cui non m’interessa prendere in considerazione nulla. Non dopo mesi, non dopo tutti i rimpianti.

 

Perchè, alla fin fine, ciò che resta sono rimpianti. I ricordi della peggior specie, che ti fanno rimanere imbambolato là come un pupazzo di pezza, a prenderle di santa ragione dai ricordi stessi, in primis, e dai “sarebbe potuto essere se...?” in secundis.

Quindi basta.

Tiro la pelle del tamburo come un bravo batterista fa se questa si affloscia, tiro di piú per ottenere un suono vivido e secco. Tiro tutto ciò che resta di me, tiro sullo schema della mia vita, certo di non rompermi.

 

So di essere pazzo.

Ecco perchè adesso le cuffie integrali del mio mp3 sono le mie uniche amiche. Mi avvolgono le orecchie, tengono fuori il rumore. Perchè ci sono abbastanza persone che fanno casino dentro di me, senza bisogno di dover aggiungere anche gli starnazzi di chiunque mi pretenda, lì fuori, in quel mondo freddo.

Freddo perchè lei non c’è.

 

Sono arrabbiato. E frustrato. E stanco. E malinconico.

 

E fottutamente cotto.

 

Strizzo gli occhi, riaprendoli per un breve momento. Mi concedo cinque minuti di osservazione catatonica del soffitto, per poi decidere di richiuderli. Perchè il soffitto è troppo bianco, troppo piatto.

 

Affondo ancora di più nel divano, sentendo aderire la pelle nera alla mia schiena. Ma è fin troppo scoperto, un nascondiglio troppo fragile. Quindi mi giro su un fianco e mi faccio schermo con un braccio. E ancora, come un pensiero ossessivo, vorrei tenere i ricordi lontano da me, depennare i desideri mai realizzati da un’ipotetica lista, e annullare, semplicemente, una buona parte del mio dolore.

 

Se potessi sentirmi, forse ti urlerei contro.

Se potessi rispondermi ti pregherei di dirmi che ti ricordi ancora di tutto.

Se potessi, non ti lascerei andare.

 

Molto romantico, quasi stupido, poco virile forse, molto combattuto certamente, assolutamente irrazionale, doloroso e costante.

 

Mi bruciano gli occhi, e non ho ancora capito se per il caldo che fa, tra la spalliera del divano e le mie braccia, annegato nel mio stesso respiro, o perchè semplicemente bruciano per la frustrazione.

 

Non si riesce a comprendere quanto si è soli, se non dopo essere stati profondamente uniti con un’altra persona. E per uniti, non in tendo in fatto strettamente fisico.

 

È stato bello. No, meglio: soverchiante. Perchè capirsi così a fondo, ritrovarsi a non fare più uso delle parole perchè tutto è già espressione...

 

È qualcosa che pochi provano, tutti vogliono, e nessuno dimentica.

 

E io ho una fottuta crisi di dipendenza, in questo momento.

 

Una mano fredda si poggia sulla mia spalla, facendomi sobbalzare. Ma, guardando su, scopro che è solamente Georg. Sorridendo si indica le orecchie, suggerendomi a gesti di spegnere tutto e starlo a sentire. Poi, si butta sul divano affianco a me senza che io gli abbia fatto nessun’accenno d’invito. Praticamente mi ritrovo il suo fondoschiena all’altezza del naso. Mi tolgo le cuffie per fulminarlo e maledirlo con comodo, ma lui mi previene con un “shh!” molto imperativo.

 

-Allora, abbiamo un problema: gran casino in America con il nostro arrivo, lo sai, le fan hanno già scoperto dove alloggeremo e che faremo, notizione bomba, tutto internet ne parla...

 

Chi è la romanticona che si è inventata su due piedi che Georg non parla e, se lo fa, è tranquillo e pacato? In questo momento mi sta sommergendo con una parlantina rapida ed eccitata, assolutamente indifferente al mio scazzo, cosa che mi urta parecchio, e gesticola rapidamente allo stesso tempo che continua a parlarmi imperterrito.

 

-Quindi c’è David, Benjamin e Tobi che sono in pieni crisi per rimescolare le tappe del tour e disorientare le fan che sono già organizzate per rapirci ed eventualmente, violentarci con comodo.

 

Approfitto dell’unico momento in cui si ferma per prendere fiato per esprimere il mio commento all’intera faccenda.

 

-Georg, come la prenderesti se ti dicessi che non me frega un emerito piffero?

 

Non fa neppure finta di offendersi. Continua imperterrito per la sua strada, con una nonchalance che mi urta parecchio.

 

-Il gran problema è che, da questo rimescolamento, dobbiamo fare fuori una data. Dove andare, Los Angeles o Las Vegas? Ovviamente Bill e Tom se le sono già date abbondantemente di santa ragione per aggiudicarsi il primo Los Angeles e il secondo Las Vegas. C’è David con un principio di nervi, Benjamin che cerca di dividerli, io neutrale e tu che hai l’onore e l’onere di decidere per tutti.

 

È così impegnato, nel cercare di farmi sorridere, con non posso non premiarlo con un piccolo stiramento di labbra, a cui lui risponde con uno di quei sorrisoni a trecentosessanta gradi.

 

Non mi resta che rimuginarci su. Osservo il soffitto, mentre Georg non smette di squadrarmi per bene.

 

Las Vegas lo varrebbe anche, ma...

Sorrido. Mi fa quasi male, tanto poco sono abituato a sorridere in questo periodo.

A Los Angeles c’è gente a cui tengo. Voglio andarci, per comportarmi una buona volta da fan di qualcun’altro.

Sospiro.

 

 -Los Angeles.

 

Dico poi, girandomi di nuovo su un fianco e dando le spalle a Georg. Con un ok, adesso notevolmente più tranquillo, si alza dal divano rifilandomi un’ultima pacca sulla spalla. Pacca che mi sembra quasi affettuosa, devo dire.

 

Sento i suoi passi dirigersi verso la porta per poi spalancarla. Ma non l’attraversa. Attendo in silenzio che finisca di parlarmi.

 

-Gustav, perchè Los Angeles?

 

Mi giro di nuovo sulla schiena, osservando la sua espressione divertita. E sorrido, miracolo, per la seconda volta in tre giorni.

 

-Perchè i Metallica sono di Los Angeles, ovvio.

 

Lui scuote la testa, ma il sorriso con cui chiude la porta lo smentisce. Sapeva. Sapeva cosa avrei scelto e perchè. E immagino che anche gli altri fossero d’accordo. Solo, voleva farmi ridere.

Il mio sguardo ritorna al soffitto, mentre il sorriso svanisce lentamente.

 

E sono di nuovo solo, solo con quella parte di me che vorrebbe vedere solo nero.

 

 

.-.-.-.-.-.-.-.-

 

-Lei è?

-Dorcas Schröder, vengo in rappresentanza della candidatura 240576.

 

La signora grassottella non schioda gli occhi dal computer neppure per errore, mentre mi parla. Si limita a ripetere per l’ennesima volta le stesse identiche domande all’ennesima persona che le chiede il suo numeretto per fare la fila qui, al Music Dome di L.A., enorme centro musicale della città in cui si terranno i colloqui per la presentazione del progetto del palco, concorso aperto a chiunque abbia un diploma da architetto e se ne intenda di fisica ed elettronica. A me mancava la laurea, ma alla mia tiranna no. Quindi, dovevo fare addirittura la fila per lei. Maledicendo in svariate lingue tutti i figli di papà che esistessero a questo mondo.

 

-Lei però non è Michelle VonHoeyer.

 

Era un’affermazione, non una domanda.

Non ebbi il coraggio di smentire. Perchè aveva spostato il suo sguardo dallo schermo del pc ai miei occhi, e mi stava squadrando con un paio di occhi neri da inquisizione spagnola.

 

-No, non credo. A meno che non sia bionda, alta un metro e ottanta, con una plastica al naso e tacchi Jimmy Choo da svariati bigliettoni.

 

Mi osservai meglio, per poi tornare con lo sguardo alla signora.

 

-Ma non corrispondo all’identik, non credo almeno. E lei?

 

Lei, per tutta risposta, sorrise. Semplicemente la incuriosivo, ero un animaletto che suscitava la sua blanda curiosità.

 

-Mi faccia capire. Lei è la sfacchinatrice che sta svolgendo le commissioni della sua Miss.

 

Altra affermazione, e alle affermazioni non si risponde. Si annuisce.

 

Mi sorrise un’ultima volta, prima d’indicarmi distrattamente il terzo corridoio da destra dell’enorme sala.

 

-Il suo biglietto e il suo pass da visitatrice. Prego...

 

Presi tutto e feci per ringraziarla, se non fosse che lei era già tornata con lo guardo al suo pc.

 

...

 

La sala si svuota a velocità sorprendente, e la fila si accorcia sempre più. Quella porta bianca, oltre cui presumo aspetti la commissione esaminatrice, è inquietantemente chiusa. Nessuno esce più da quella porta, una volta finito il colloquio. Stile horror, insomma.

Potrei fare una descrizione del nervosismo che aleggia da queste parti, come una coltre di adrenalina che soffoca tutti quanti, qui, che si guardano con sospetto, sfiducia, sfida. Potrei parlare di come ho salutato due o tre del settore che conoscevo di vista e per aver letto articoli sulla loro fama. Potrei soffermarmi sul fatto che non me ne frega niente. Ma mentirei alla grande, in quest’ultimo caso. O meglio: se me l’aveste chiesto all’entrata del dome, non vi avrei mentito. Non me ne fregava nulla. Ma dopo aver scoperto per chi era destinato il progetto, chi aveva finanziato il concorso, mi è presa una santa scossa elettrica su per la spina dorsale. I metallica.

 

Non un gruppo più o meno famoso, vecchio e rockettaro.

No.

I Metallica. Che è come dire “gli dei”.

 

Kirk Hammett, James Hatfield, Trujillo e, ultimo ma semplicemente immortale, Lars Ulrich. Io sono cresciuta a pane e Lars Ulrich, insomma!

 

È bastato questo per farmi crollare sulla sedia e rimpiangere di non aver letto bene il bando del concorso che Michelle mi aveva mandato per e-mail.

 

Ma niente da fare, fregata. Era troppo tardi per darmi da fare. E così, l’opportunità di fare qualcosa con loro era definitivamente sfumata.

 

...

-Miss Screder?

-No, Schröder.

 

Era il mio turno. Ero stata chiamata e, con cuore pesante e santa rassegnazione, avevo attraversato la soglia della porta bianca e mi ero seduta di fronte alla “commissione esaminatrice”: tre uomini di varia età e vario fisico, oltre che a diversi livelli d’isteria.

 

Il più robusto, un bisonte dalle spalle il doppio di Tobi, mi osservava ora con espressione rassegnata. Di quanto cognomi assurdi aveva dovuto subire lo spelling, quel giorno?

 

Sorrisi tranquilla, cercando di buttarla sul ridere. Sarebbe stato corto ed indolore, su.

 

-Mi chiami Dodo e basta. Non vorrei che avesse difficoltà anche con il mio nome di battesimo.

 

Un sospiro stanco si levò da Mr. Rasta Biondi: un trentenne che sembrava Bob Marley in versione Nordica, lui, i suoi rasta e uno stile trasandatissimo rigorosamente nero.

Era il più schizzinoso e il più stanco, a quanto pareva. Guardava insistentemente l’orologio, poi tornava a me, poi osservava di nuovo l’orologio.

 

-Allora, questo progetto? Animazione 3d, piantina o plastico?

 

Sospirai, già imbarazzata per quello che avrei dovuto dire.

 

 No, non ho quel dannatissimo progetto. E anche se ce l’avessi avuto, non ve l’avrei mostrato. Perchè io ne so fare di migliori, rispetto a quella montata della mia datrice di lavoro. Avrei fatto un progetto da dio e l’avrei regalato, non l’avrei neppure voluto avere il premio, ma...

 

-Ho avuto un problema. Il computer ha sfortunatamente cancellato tutti i dati tutto.

 

Alt, stop, ferma. Che cavolo stavo facendo?

 

-Ma posso sempre esporlo su quella lavagna bianca che ho visto dietro di me.

 

Sorrido, assolutamente consapevole di stare facendo una cazzata.

 

-Qualcuno ha un pennarello?

 

...

 

Dio, che colloquio assurdo. Ma è meglio non parlarne. Sono praticamente fuggita via senza neppure salutare, tanto ero in imbarazzo. Che cazzate che faceva Dorcas Schröder, quando decideva che no, non si poteva dire la semplice verità. Meglio abbellirla con figuracce da faccia di bronzo all’ennesima potenza.

 

Baaasta.

 

Girai le chiavi nella serratura del mio appartamento lì a L.A., aprendo la porta con uno spintone e richiudendola con un calcio.

Non si può proprio dire che quell’appartamento fosse nuovo di zecca. Ma era a meno di dieci minuti da mare e questo contava. 

Mi buttai sul divano sbuffando, sprofondandoci per una buona metà. Perchè mi scordavo sempre che era sfondato?

 

Mi limitai ad osservare catatonica il soffitto del monolocale.

 

Per poi sorridere, come una pazza furiosa. Perchè quello scossone di adrenalina che era preso nell’illustrare il progetto alla commissione era stata una piacevole variazione nel grigiore degli ultimi giorni. Avrei custodito con cura questo momento di pura pazzia in quei giorni che andavano fin troppo lisci. Volevo tornare a lavorare. Ma non come commessa, non come professoressa. Ero fatta per il palco, per vivere raminga e non avere una casa fissa per più di due mesi, ameno che non si trattava di registrazioni studio.

 

Mi permisi il lusso di una risatina. Avrei dovuto rispolverare il curriculum ed inviarlo a mezzo mondo.

 

-I scream in the night for you, don’t make it true…

 

Ok, devo cambiare suoneria del cellulare, punto.

 

Lo prendo al volo, prima dell’ultimo squillo.

 

-Pronto?

-Miss... eh... Dodo?

 

Stupefatta, spalanco gli occhi.

 

-Chi chiama?

-Quel tipo che oggi non riusciva a pronunciare il tuo nome.

-Oddio.

-No, veramente mi chiamo Thomas, ma grazie del complimento.

 

Risatina imbarazzata da parte mia. Terra inghiottimi...

 

-Senti, ti abbiamo chiamato...

 

Abbiamo?

 

-...Perchè ci è piaciuto la tua esposizione di oggi. Intendiamoci, di architettura non ne sai un piffero, ma quello che si nota è che di palchi, montaggi e acustica te ne intendi.

 

Deglutisco.

 

-Lavoravo in una crew, prima...

-Ah, sì? Meglio: ti andrebbe di lavorare per noi?

 

Oddio. Oddio, oddio, oddio.

 

-Un tecnico in più ci serve, per questa manifestazione... sai, ha dell’incredibile: venti gruppi, più i Metallica come punta di diamante, gruppi giovani e vecchi, tutti del ramo rock. Che poi, con ramo rock si fa in fretta a dirlo ma poi mica è chiaro...

-Thomas Dubster, non perderti in chiacchere!

 

Mr. Rasta Biondi?

 

-Oh sì, scusa, stavo straparlando. Beh, si insomma, lunedì mattina all’ingresso del Dome, mi raccomando puntuale! E porta un curriculum per le formalità, eh!

 

Il telefonino, cadendo, rimbalzò una o due volte sul divano molle.

Ma la mia mano rimase immobile, e così il sorriso che mi faceva il giro della faccia.

 

 

.-.-.-.-.-.-.-.-

 

 

-Tu dici che gli piacerà?

 

Scostai una ciocca di capelli neri dal suo viso, mentre lei continuava a guardarmi preoccupata.

 

-Sì, insomma Georg, potrebbe anche non volerci andare...

 

Sbuffai un momento, gli occhi al cielo, per poi sistemarla meglio in grembo a me.

 

-Perchè preoccuparsi tanto? Christa, stanne certa: sono i Metallica in concerto, è ovvio che ci verrà. Vedrai, come minimo ti bacia.

 

Lei ridacchia, ma io non ho mica finito.

 

-E io ne sarò geloso...

 

Avvicino il mio viso al suo, mentre i suo occhi grigi brillano divertiti. Stira le labbra rosse in un sorriso, mentre socchiude gli occhi.

 

-Geloso?

 

Mi sfida lei, avvicinandosi un momento al mio viso per poi tornare in dietro, per quanto il mio braccio che la tiene per le spalle glielo permette.

 

Scuoto leggermente la testa, apparentemente serio.

 

-Gelosissimo.

 

Inarca il sopracciglio, ma non a lungo. Non mentre io la bacio con tre giorni di voglia di coccole arretrate.

 

Lei mi disfa la coda, mentre io arrivo alla conclusione che sì, in quella stanza fa troppo caldo per continuare a tenere i maglioni addosso.

 

-Ragazzi, che spettacolo edificante.

 

Mi stacco da Christa con un sospiro, mentre lei osserva sorniona l’espressione crucciata di Bill e quella noncurante di Gustav. Si concede un lieve sorriso indirizzato a me, prima di sollevarsi e rimettersi in piedi.

Ehi, fa freddo senza la sua pelle sotto.

 

Bill si butta sul divano sbuffando, mentre Gustav si dirige al tavolino dove è poggiato il suo apple.

 

Christa si riaggiusta i capelli sconvolti e il maglione sollevato come fosse la cosa più normale del mondo.

Scocca un occhiolino a Bill, che si limita a scuotere la testa per poi immergersi di nuovo nell’interessantissima lettura di Vogue. Batte il piede sul pavimento, cercando di attirare la sua attenzione, mentre un Gustav sempre più nervoso clicca insistentemente sul suo piccì. Ma la diva è così brillante che ha bisogno di essere richiamato varie volte da Christa e, quando finalmente alza gli occhi dalla sua rivista, non capisce cosa lei gli voglia dire. Io mi limito a ridermela dal divano.

 

Il dialogo silenzioso di Christa e Bill potrebbe passare alla storia come più inconcludente ed idiota della storia. Perchè Kaulitz Jr. non sembra capirci una benemerita mazza e, per di più, arruffa le penne per l’incazzatura di non capire.

 

E Gustav si direbbe sempre più crucciato e nervoso.

 

Alla fine, dopo molteplici tentativi di leggere il reciproco labbiale, Christa afferra un blocco di fogli e una penna ed inizia a scrivere.

A quel punto sì che Bill sembra finalmente capire. Assentisce come un forsennato e fugge dalla stanza in un turbinio di chiome, profumo di lacca e ninnoli di metallo.

 

Per poi tornare pochi minuti dopo tirando per una manica dell’enorme felpa lo stupefattissimo Tom che, vestiario sconvolto ed espressione sbigottita, non può che cercare smarrito lo sguardo di Christa (illuso lui, che la crede esempio di sanità mentale) e tentare di capire perchè, di grazia, suo fratello l’abbia svegliato, scaraventato dal letto e trascinato fin nella stanza dei trucchi, con ancora la cuffia informe di lana in testa per tenere a bada i rasta e gli auricolari dell’mp3 addosso. Adesso sì che faccio fatica a trattenermi dal ridere fragorosamente. Ma non dobbiamo insospettire Gustav, ovvio.

 

Anche se chi non s’insospettirebbe, con noi come organizzatori? A David viene il mal di testa al solo vederci più eccitati o chiaccheroni del solito.

Diciamoci la verità: tra noi e lui, è lui che rischia la nevrosi cronica.

 

Ecco quindi che Tom rischia di perdere la testa, tra le spiegazioni congiunte di Christa e Bill, rese ancora più caotiche dall’abbondante gesticolio e assoluta assenza di un senso logico. Poi sembrano capirsi, quindi girarsi verso di me e richiamarmi.

 

Christa ci osserva sorridendo, gongolante all’idea di come sarà la reazione di Gustav. Se c’è una cosa che ho imparato ad amare di lei, è come le piaccia fare regali. Non nel senso materiale del termine, ma è molto premurosa. Immagino che crescere con una come Dorcas ti faccia prendere l’abitudine, ma, quello che conta, è che Christa pensa sempre a come può fare più felici. Magari è distratta, magari ha paura e non lo fa con tutti per questo, ma è lei che ha avuto la brillante idea di regalare i biglietti della mega manifestazione prodotta dai Metallica, con loro come dulcis in fundo, a Gustav.

Tira fuori un mazzo di biglietti dalla tasca posteriore dei jeans, porgendocene quindi uno. Lo mette in mano a Tom, per poi mandarci avanti con un piccolo spintone.

Io, Bill e Tom ci guardiamo intensamente per qualche secondo.

 

-Schaisse, non è possibile!

 

La voce di Gustav è incredibilmente tremula e, se non fosse che lo conosco, direi che è disperato. Anche se lo sembra, almeno un pochetto. Fissa lo schermo del piccì come se fosse un mostro, mentre, bocca spalancata e mani sul viso, sembra imitare Munch in una sua personalissima versione del grido silenzioso.

 

-Non può essere...

 

Dio, adesso anche i lucciconi agli occhi. Meglio andare a salvarlo.

 

-Oh, Gusti-Gusti, cosa c’è?

 

Bill praticamente assale Gustav, piantandosi di fronte al suo viso smarrito. Gustav lo guarda come se fosse un alieno venuto da Marte, chiedendosi se magari lo sta realmente vedendo. Un po’ lo compatisco, dai.

 

-Oh, sì, GusGus, cosa c’è?

 

Non c’è uno senza l’altro, è proprio il caso di dirlo. Tom si piazza nella sedia rimasta libera all’altro fianco di Gustav, stendendo le labbra in un sorriso sornione e facendo il verso al fratellino. Che gli risponde con una pernacchia. Tom rilancia fregandogli il biglietto dalle mani.

 

Sì, Gustav, gli incubi non vengono mai da soli. Non se si chiamano Kaulitz e sono due. Quindi ecco che vengo a salvarti io.

 

Chiudo il piccì sotto lo sguardo addolorato del nostro caro batterista che, oltre a perdere Dorcas, è stato addirittura privato della gioia di andare a un concerto della sua band del cuore nel suo unico giorno libero. Se non fossi che sono colui che lo salverà, mi verrebbe da piangere all’idea.

 

Mi siedo di fronte a lui, con in mano il biglietto fregato a Tom.

 

 -Georg!

 

Fanno in coro i due.

 

-Su, bambini, non litigate che dopo vi compro il gelato.

 

Cerco d’imbonirmeli io. Sbuffano, ma stanno zitti. Lo sapevo, lo sapevo: non puoi pretendere che un bambino non abbocchi ad un’offerta del genere.

 

-Allora, Gustav. Cosa c’intristisce così?

 

Fa tenerezza: è sconvolto, spaventato, stanco e disperato. Se non fosse che è un ragazzo, particolare non trascurabile, l’adotterei. Con quei suoi occhioni spalancati, a Bambi gli fa un baffo.

 

-I Metallica. In concerto. Ed io non posso andarci.

 

Bill gli si attacca al collo con l’idea di cullarlo, ma sembra piuttosto sbatacchiarlo da una parte all’altra. Ringrazio di non essere lui, in questo momento.

 

-Perchè non hai i biglietti, Gusti-Gusti?

 

Gustav osserva Bill stremato, senza neppure la forza per osservarlo inorridito. Si limita ad annuire. E a sobbalzare, quando la mano di Tom cala sulla sua spalla.

 

-Sicuro?

 

Bill annuisce, a sua volta.

 

-Sicuro, sicuro?

 

Il povero batterista li osserva rassegnato per qualche minuto. Per poi guardare me e sfiatare un rassegnatissimo:

 

-Sicuro.

 

E qui ci tocca sorridere. A me, che Gustav osserva scioccato. A Bill, che è semplicemente estasiato. E a Tom, che gongola.

 

Osservo un’ultima volta il foglietto che ho in mano. Poi lo poggio sul tavolo e lo allungo ad un Gustav attentissimo.

 

-Allora non hai visto questo.

 

L’urlo belluino di pura gioia fece il giro del corridoio, spettinò un po’ di gente in sala e fece prendere un colpo a Benjamin.

Mentre io mi sbagliavo: non si baciò Christa, ma a momenti si baciava me.

 

.-.-.-.-.-.-.

 

 

La tristezza non era l’unica cosa che li accumunava in quel momento.

La stessa identica frustrazione montava dentro graffiante e penetrante, come una slavina di rabbia.

Il rimpianto, il dolore, facevano bruciare tutte le vecchie cicatrici chiamando all’appello tutti i ricordi, buoni o brutti che fossero, perchè ferissero Dorcas e Gustav, perchè ne marchiassero a fuoco, ancora più affondo, la pelle.

E, in questi casi, non serve l’antibiotico o una fasciatura.

 

Andando a letto, quella notte come molte altre passate e tante altre future, avrebbero stretto i denti e trattenuto i gemiti, come se fossero stati presi a botte.  Perchè le botte, i calci, i colpi, che il destino ti rifila, sono subdoli e sfrigolano sulla pelle a lungo, filtrando poi come olio velenoso e bollente al di sotto di essa, bruciando tutto ciò che avessero potuto.

 

Ci sono cose che non si dimenticano mai, si può provare a crescere, a cambiarsi e a cambiare. Eppure restano, ti tormentano finchè non ci fai i conti o non li sostituisci con ricordi ancora più cattivi.

 

Fino a quel momento, Gustav non si era realmente reso conto di cosa significasse tutto ciò. Per lui era andato tutto liscio, quelle tre o quattro figuracce che, dio, sperava di non rifare mai più, ma niente di tropo grave. Dorcas, invece, aveva scoperto come fare i conti con il suo braccio avesse con un costo di margine, come, nonostante avesse risolto un problema, ne avesse creato uno peggiore.

 

Non c’è mai limite al peggio. Perchè una volta che tocchi il fondo, puoi sempre continuare a scavare.

 

Erano separati da due continenti, facevano due lavori totalmente diversi, cercavano di annullarsi a modo loro, s’illudevano e tentavano di riempire il vuoto con mille e una cosa di cui non gliene fregava realmente nulla.

 

Eppure, e questo non l’avrebbero ammesso mai con anima viva, il poter sapere che l’uno sentiva la stessa disperazione di fondo dell’altra, che l’una rimpiangeva ciò che era andato perduto esattamente come l’altro, li avrebbe probabilmente resi felici. Li avrebbe confortati.

Perchè, semplicemente, non sarebbero sentiti soli a fronteggiare una realtà che gli faceva un discreto schifo.

 

Ci s’innamora in uno, si ama in due.

Ma la fiducia, che brilla per la sua assenza, è quella che li fa veramente temere ed osservarsi ansiosamente nello specchio ogni mattina.

 

Perchè gli si accappona la pelle al solo pensiero, quando la stanchezza con cui cercano di stremarsi gli fa abbassare le difese quel tanto da interrogarsi al riguardo, alla sola idea che uno dei due potesse aver dimenticato.

 

Si erano tacitamente proibiti di avere altre persone. Si erano bloccati ad una mattinata di settembre di parecchio tempo fa.  E questa situazione aveva solo due uscite:

prendere o lasciarsi.

 

 

 

 

 

 

.-.-.-.-.-.

 

A Lales, la Boss con cui ci abbiamo sputato sangue e continuerò (continueremo) a sputarlo. Aprimi la mente, capa. u.u

A Ladynotorius, che a forza di battutine ha risvegliato l’ingegno. E ha svegliato anche me, quella mattinata in cui (non si sa perchè) sognava la mia FF. <3

E a tutte quelle anime pie (non le cito tutte perché non vorrei dimenticare nessuna T.T) che mi hanno incoraggiato, sostenuto, letto, commentato, le quali ho stordito a furia di logorrea e che per tutto questo tempo semplicemente c’erano.

 

Io non so se vi merito, ma una cosa è certa: grazie di esistere. Solo questo.

 

---

 

*= è una celebre frase tratta dal libro Alice nel Paese Delle Meraviglie, perché trovavo potesse essere adatta al capitolo.

Le canzoni sono © dei Tokio Hotel, sia Nach Dir Kommt Nicht sia Heilig.

 

 

Orbene, gente, parliamone: sono viva. XD

E non smetto di aggiornare per la vostra felicità (ma anche no, I belive). Ci ho messo tempo, lo so. Ci ho pensato un casino, subissato tutti facendo leggere le parti che secondo me zoppicavano, ma soprattutto meditandomelo come non ho mai fatto. Decine di repliche di questo capitolo sono passate nel mio cervellino, prima che finalmente venisse scritto.

 

E non sono affatto certa del finale. Una cosa è certa, però: al prossimo capitolo, ci sarà una svolta.

Ergo, cercate di sopravvivere fino ad allora. XD

 

Detto questo, ringraziamenti personali! *__*

 

_Princess_: caVa, parliamone. Ma quanto ti voglio bene? *_* grazie per avermi sostenuto per tutto questo tempo e, no, non ti rassicurerò riguardo al finale. Grazie per la pazienza, le foto, le battutine (quelle su Gustav sono impresse a fuoco nella mia testa XD), e, soprattutto, per non avermi ucciso non vedendo più le mie recensioni. T.T Che diventano sempre più difficili da scrivere. <3 Detto questo, mi manchi. T.T Dove sei?

 

Lilylemon: oh-oh, new entry! A meno che tu non ti sia rassegnata, spero che leggerai  commenterai. XD perché poi ti capisco, anch’io non ti ho mai recensito. Peccato, perché la tua ff era una delle poche su Bill che abbia mai veramente apprezzato. Quindi, danke!

 

Valux91: oh, chi non muore si rivede! *_* allora, sta incomprensione… spero averla adeguatamente risolta attraverso Dorcas, in questo capitolo. Nel caso rimangano dubbi, tu chiedi e io spiego! <3 Trà l’altro, grazie per i mille complimenti che non sono affatto sicura di meritare. E poi è ovvio che non sia finita qua… non anticipo nulla, ma non sono certo una così cattiva da lasciare un finale così! XD

 

Schrei: due righe, ma son sempre due righe. *__* grazie per i commenti e sappi che se ti è venuto il “mal di stomaco” significa che hai provato che io speravo di aver suscitato. Quindi grazie, e alla prossima!

 

Tourniquet: ecco un’altra delle nuove… <3 willkommen! Grazie per i complimenti, ed mi fai solo felice se mi dici che hai apprezzato il dialogo: ci ho sudato sangue sopra, mentre lo scrivevo. XD sappi che noooo, la FF non è finita. Tutt’altro. XD

 

Simmylisting: sono cattiva, eh? Oh, sì: cattiva, cattiva, cattiva. XD E mi piace esserlo! Spero che sia riuscita a sopravvivere al capitolo quel tanto da leggere i miei ringraziamenti, oh fedele. E che abbia abbastanza forze per scriverne di nuovi! *___*

 

Lady Vibeke: eccone un’altra, di quelle donne a cui farei una statua affianco al mio altare dei TH. Scusami se sbaglio, ma tu non avevi una ff in sospeso? Ricordati di me, quando la posterai: devo sapere come continua! Ricorda che i tuoi incoraggiamenti sono stati per me preziosi (perché mi ricorda tanto una frase di Heilig, ciò che ho scritto? Che retorrica alla BK! xD) e continueranno a esserlo. Una domanda: vuoi sposarmi? Solo il fatto di adorare entrambe quel Dio di Gustav Schaefer deve avere un che di divino, dai. Spero che riuscirai a sopravvivere egregiamente ai tuoi impegni, donna di mondo! <3

 

Laphy: oh, Laphy, Laphy! Tu mi farai morire di gioia! XD recensione apprezzatissima, molto toccante, anche se parecchio concentrata. Grazie per i complimenti, e continuo a sperare che tu senta i sentimenti che ho descritto in questo capitolo come i sentimenti che hai sentito negli altri. Attendo risposta, e danke!

 

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Capitolo 9
*** See Who I Am ***


Bill Kaulitz è universalmente noto per la sua acconciatura anti-gravità, che sembra voler smentire la celebre tesi di newton in ogni suo punto

28 pagine. Acci, per stavolta non ho battuto il record. XD

 

...

 

 

9. See Who I Am.

 

 

Bill Kaulitz è universalmente noto per la sua acconciatura anti-gravità, che sembra voler smentire la celebre tesi di newton in ogni suo punto. Inoltre, Bill Kaulitz è universalmente famoso per la sua puntigliosità. È un inquietante binomio tra una bestia da palcoscenico e un professionista della retorica. Anzi, a voler essere sinceri, lui è esattamente questo: ha fatto del montare fino all’isteria una folla urlante una professione, con i suoi trucchetti e assiomi in materia.

 

“Mescolare a fuoco lento, lentissimo. Affamare il soggetto mostrandosi in pubblico allegro, ma poco estroverso. Somministrare una buona dose di sorrisini, autografi, essere simpatico ed ovvio nelle interviste e stupire, stupire sempre con capi d’abbigliamento che, oltre a costare il doppio di un mutuo medio europeo, sono un palese oltraggio al buon gusto. Per poi fare sul palco tutto quello che bramano da voi: sollevare magliette che lasciano scoperti tatuaggi in zone strategiche; dare voce alla folla facendola cantare; saltare e agitare ogni singola parte del corpo come se si fosse stati morsi da una tarantola; gridare, incitare, a turno scambiare occhiate maliziose con il tuo bassista ed il tuo chitarrista.

Non far girare di coglioni il batterista, perchè se lui perde la concentrazione, tutti perdono il ritmo. E conseguentemente la testa, perchè i produttori ti falciano.”

 

Ma non dilunghiamoci ancora: Bill Kaulitz è tutto questo e anche di più.

E, come ogni bravo professionista, odia l’incompetenza. Soprattutto se veste i panni della sua truccatrice più fidata, Natalie.

 

-ovvio che sia incazzato! Perchè, e chiedo il perchè, sembravo truccato come se mi avessero preso a pugni? Non avevo gli occhi dalla forma lievemente a mandorla elegantemente sottolineati con matita e rimmel, avevo due palline da tennis cerchiate con ombretto e khol!

 

Calcandosi il cappello di foggia militare sui capelli neri legati in una coda, Bill percorse a grandi falcate il corridoio del lussuosissimo Hilton di Los Angeles. Il tutto continuando a intervallare borbottii minacciosi ad acuti annichilenti, assordando e distruggendo il poco che restava della capacità auditiva delle quattro sagome che lo seguivano.

O meglio, arrancavano dietro di lui.

 

-senti Bill, non è che se continui a smadonnare all’indirizzo di Natalie, che tra l’altro non è presente, cancellerai quelle foto! Il photoshoot è fatto, mettiti il cuore in pace!

 

Con un tono lievemente esasperato, Tom Kaulitz cercava disperatamente non di consolare il fratello, che non sembrava aver bisogno di piangere sulla spalla di nessuno, piuttosto cercava di preservare l’udito dei poveri cristi che lo seguivano.

Ovvero: un Georg che cercava di sbarazzarsi di una crosta di lacca che sembrava impedire ai suoi capelli di legarsi in una coda, un Gustav che aveva una faccia così seria che non sembrava sapere neppure dove il sorriso stesse di casa ed una Christa profondamente indifferente. Indifferente perchè era anche lei tutta intenta nel compito di augurare i più atroci tormenti a Jost, uomo che le aveva sganciato una mezza dozzina di discorsi da tradurre in non si sa quante lingue.

 

Tom schioccò la lingua allo spettacolo di tutte quelle facce più o meno scazzate, dalla traduttrice al bassista, passando per il batterista. E, in gradevole sottofondo (ma anche no) gli improperi del gemello.

Kaulitz senior non capiva cosa sembrava essere successo, ma una cosa era certa: sembrava l’unico a non essersi svegliato con il piede sinistro, quella mattina.

Preoccupante, seriamente preoccupante.

 

-senti, parliamone. Non è un argomento poi tanto importante, no?

 

Negando con una mano ed aprendo la porta della sua suite con l’altra, Bill non sembrava essere dello stesso parere di Tom.

Spalancò la porta, e, mentre il gemello si ritrovava ad attraversare l’uscio, gliela sbatté in faccia, proprio sul suo povero naso.

 

-Bill! Ma allora sei coglione!

 

Gridò massaggiandosi la parte offesa. Bill spalancò la porta, squadrando il fratello con un’espressione che preannunciava tempesta.

Con un sospiro rassegnato, Georg si mise in mezzo ai due fratelli prima ancora che potessero iniziare a darsele di santa ragione.

 

-smettetela.

 

Stoico. Il ragazzo era puro stoicismo, in quel momento.

 

-ma se non abbiamo neppure iniziato?!

 

Fu la risposta corale dei gemelli, già in posizione d’attacco.

Con un tono che non ammetteva repliche, e che avrebbe rimesso al suo posto un Jost in piena crisi isterica, Georg freddò immediatamente i bollenti spiriti.

 

-e non inizierete, infatti.

 

A sorpresa, lo sbuffo scocciato venne da qualcuno alle spalle di Georg, Gustav.

 

-sentite, comari, litigate quanto volete. Bill, sto andando a farmi la doccia nel tuo bagno. La mia suite ha problemi.

 

La voce grondava di sarcasmo, e, se non fosse stato per il fatto che era Gustav, sarebbe scoppiata la terza guerra mondiale alla parola “comari”. Invece, con una semplice occhiatina dubbiosa, Bill fece spazio e Gustav passò. Non senza essere seguito dagli sguardi preoccupati di Tom, Georg e Christa, che, cercandosi, confermarono i loro sospetti: era una bomba pronta ad esplodere. Il problema era sapere quando.

 

Con un tentativo particolarmente impacciato di rallegrare l’atmosfera, Tom bofonchiò a mezza voce:

 

-propongo TV e popcorn. Chi si appunta?

 

Alla risposta affermativa di tutti, fu il primo a varcare la soglia, evitare con lo sguardo la porta del bagno che era esattamente nella parete fronte all’ingresso e a percorrere il corridoio che sboccava in un salotto arioso, il cui divano dava le spalle all’imboccatura del corridoio.

 

Come se il sospiro stanco di Christa appena appollaiatasi su uno dei braccioli in pelle nera fosse stato un segnale, Bill si fece sfuggire una risatina nervosa mentre si buttava a peso morto esattamene nel centro del divano, Tom sbuffò quando afferrò il telecomando e Georg, sant’uomo, si sedette invece solo dopo aver recuperato una busta da svariati kili i pop-corn. Si appoggiò con la testa al fianco sinistro della traduttrice, per poi fare praticamente le fusa quando la mano di lei iniziò a massaggiargli dolcemente il cuoio capelluto.

...

 

Basta. Non siamo distrutti, siamo stremati. Siamo negli USA, Los Angeles finalmente. Una delle ultime tappe prima della pace, del ritorno in Germania. Però, nonostante questo, non siamo tranquilli. C’è qualcosa che, sotto sotto, rode tutti, e io so che cos’è.

 

Gustav. Gustav e Dorcas.

 

Non so se alla gente normale, quella che non guadagna milioni per un sorriso e non si fa venire il callo alle dita solo firmando gli autografi, accada mai di contemplare la caduta di una persona. Una persona che prima non aveva mai dato segni di cedimento, che si credeva di conoscere. E che è precipitata in caduta libera, che si è persa.

 

Ebbene, a me è successo. A noi è successo. Perchè Gustav non ha solamente sofferto, pianto due lacrimucce, non si è ingozzato di dolci e non ha guardato film sdolcinati. Come farei io, per inciso.

Ha...

Ha sofferto. In silenzio. Ma anche no.

Sono venuto a sapere più cose di lui in questi ultimi mesi che negli ultimi quattro anni.

Cose non dette, semplicemente osservate dal sottoscritto.

 

Con un sospiro stanco, mi accoccolo meglio tra Tom e Georg, al centro del divano. Siamo concentrati in due posti quando questo divano ne ha dodici. Ma nessuno si lamenta. Perchè, ammettiamolo, abbiamo paura, paura di quello che è successo a lui capiti a noi.

 

È caduto in basso, e lo sa. Ma noi non glielo diremo. Saremo solo sempre affianco a lui. Nel frattempo, però, preferiamo stare tutti insieme.

 

 Gustav non si è mai distrutto così per qualcosa. E quando dico mai, è perchè so che non c’è mai stato niente che ne valesse la pena.

Non ce ne siamo accorti subito, devo ammettere. Suona egoista, ma è così. Nei primi due mesi era solo leggermente più taciturno del solito, più serio e perennemente attaccato alla batteria, o all’mp3 in mancanza della prima. È stato dal terzo mese in poi che le cose sono precipitate.

 

Mi sono accorto che Gustav stava male perchè sorrideva.

E lo faceva in una maniera cattiva. Non so se mi spiego: sembrava guardare tutto dall’alto di una nuova certezza, di una nuova posizione.

Tom se n’è accorto per primo, di che cos’era.

Disillusione.

 Non uno stadio molto avanzato, ma già abbastanza serio. Tom è sempre stato più ricettivo per queste cose, non so perchè: io sono dolce e affettuoso, ma lui è quello che ha l’intuito per i problemi di fondo, l’importante è che non siano i suoi.

 

-non so che cos’è, ma c’è qualcosa che non va in lui.

 

Ammetto che è stata una di quelle occasioni in cui mi ha messo paura, quella sera piovosa a Manchester.

 

Stavamo parlando di non so che cosa fino ad un momento prima, quando mi accorsi che non sembrava più ascoltarmi. Aveva girato la testa verso Gustav che, in piena intervista telefonica, sorrideva al telefono.

 

-cosa?

 

Mi aspettavo una risposta banale e che lui volgesse il viso verso di me per continuare quindi a parlare. Ma mi stupì continuando a guardare fissamente Gustav che rideva con l’intervistatrice.

 

-Bill, da quant’è che non facciamo più caso a Gustav?

 

Ora che ci penso meglio, quello non era un sorriso. Era un ghigno.

Ed era anche piuttosto cattivo.

 

-Bill, pop-corn?

 

Osservo stolidamente la confezione che Tom mi sta scuotendo davanti per alcuni secondi, prima di rispondere con un cenno di diniego. Stupito dal mio sguardo assente, mi rivolge un cenno interrogativo che liquido con un gesto noncurante della mano. Mi stringo ancora di più tra mio fratello e Georg, ricevendo una leggera carezza tra i capelli da parte di Christa, che probabilmente nota la mia inquietudine.

 

Ma quella di Gustav non è già più inquietudine, è smania. Di autodistruggersi.

E qui, se Gustav non è riuscito ad annullarsi, lo dobbiamo a Tom e Georg. Non so come abbiano fatto, non so perchè l’abbiano fatto. Ma, dandogli l’illusione di essere il primo felice di portarselo a feste da delirio ed il secondo troppo impegnato con la ragazza, l’hanno tenuto sotto controllo.

Posso semplicemente ammirare, perchè io non avrei saputo mentire in questa maniera: era dedizione, quella con cui Tom ha fatto finta di cedere a tutte le richieste di Gustav, richieste invece già previste, incanalando la sua attenzione solo in cose che non superassero mai il limite del consentito.

Guardo il profilo del mio gemello attentamente, mentre un suo sbadiglio sottolinea come sia interessante il programma che sta guardando.

 

-Gustav è una mina pronta ad esplodere. Non so se l’avete mai provato, ma non c’è via di fuga in questi casi. Insomma, le ha tentate tutte, non sono servite a niente, quindi se non lo tengo sotto controllo, noi possiamo dire addio al nostro caro, vecchio Gustav.

 

Gli ha fatto praticamente da baby-sitter. E, ripeto, io non ce l’avrei fatta.

Mi giro adesso verso Georg, che è prossimo ormai al sonno, visto che i suoi occhi sono socchiusi e la mano abbandonata in grembo a Christa. Entrambi hanno il viso rivolto verso la tivù, senza in realtà vederla: Christa si limita a far vagare la mano tra i lunghi capelli del nostro bassista, mentre lui fa praticamente le fusa, tanto è rilassato.

 

Ha fatto finta di allontanarsi da Tom.

 

Cercate di capire: Tom e Gustav sono agli antipodi del carattere. Teoricamente, non c’entrano un beneamato piffero l’uno con l’altro. Il saggio della montagna e il biscazziere, il santo picchiatore e colui che ci fa sesso, con la sua chitarra. Normalmente, è Georg che viene considerato come termine medio: accomodante in entrambe le direzioni, playboy ma discreto, sensuale ma non plateale. Quindi era ovvio che Georg avrebbe dovuto impersonare il santo della situazione per sollevare indirettamente Gustav del ruolo di bravo ragazzo. Gustav, secondo il piano, sarebbe dovuto diventare la nuova via di mezzo, e bisognava fare in modo che non si accorgesse di niente.

Ma Georg ce l’ha fatta: bisognava diminuire il bere, far finta di non condividere più le vecchie opinioni “alla Tom” per fare in modo che Gustav si sentisse autorizzato a condividerle. Pur intendendosi perfettamente con Tom per la buona riuscita del piano, spingeva il batterista a prendere la “cattiva strada”. E devo dire che Christa ha contribuito decisamente a donare un’aura di veridicità al tutto.

 

-ah, io non posso venire.

 

Georg sorrideva tranquillo dalla poltrona in cui era stravaccato, mentre continuava a strimpellare il suo basso.

Gustav lo guardò basito per un istante, chiedendosi se ci sentisse realmente bene.

 

-Georg, è la festa degli Echo! E tu hai sempre amato la festa degli echo!

 

Georg sollevò lo sguardo fino ad incrociarlo con il suo, senza perdere il sorriso.

 

-esatto: amato. Quindi questa volta non verrò. L’indomani è giorno libero sia mio che di Christa, e voglio evitare di passarmelo con la doposbornia, grazie.

 

Sbigottito dal discorso che suonava parecchio come il commiato di un playboy al mondo, Gustav si passò una mano tra i corti capelli biondi, cercando con lo sguardo Tom.

 

-e tu? Neanche tu andrai? Mi annuncerai che passerai una piacevole serata in compagnia di un paio di ferri ed un gomitolo di lana?

 

Tom lo fulminò con un’occhiataccia.

 

-spero per te che non sia serio, Gustav. Sono ancora affamato come prima, nonostante questo qua- disse, indicando con un cenno della testa Georg che si mise a ridacchiare per la battuta. –si sia ormai accasato.

 

E nessuno di noi seppe  mai definire in seguito se la risata che fece eco alla battuta di Tom fosse inquietante o semplicemente angosciante.

 

 Sospiro.

 

-ehi, ragazzi, guardate qua.

 

Christa, i capelli neri e lunghi acconciati in uno chignon alto, ancora appollaiata su un bracciolo con la testa di Georg in grembo, indica il programma televisivo odierno stampato sulla guida Sky dell’hotel.

 

Io e Tom ci giriamo, mentre Georg si limita ad aprire leggermente gli occhi e a drizzare le orecchie.

Lei continua a leggere.

 

-C’è uno speciale sul concerto dei metallica di domani su MTV, inizia praticamente adesso. Lo guardiamo?

 

Chiede poi, guardandoci con aria interrogativa. Annuisco, mentre mio fratello si limita a digitare la sequenza di numeri giusta. Poggia meglio la schiena contro il mio fianco sinistro, allungando le gambe sulla parte di divano vuoto. Io mi limito ad accavallare le mie su quelle di Georg, a sua volta decisamente abbarbicato a Christa, mentre quest’ultima svetta su tutti noi. Che quadretto caloroso, sul serio.

Mi fanno bene le cose di questo genere.

 

...

 

Ho sempre pensato che questa ragazza fosse una stufa. E adesso ne ho la conferma.

Essendo indissolubilmente appiccicato a lei, sento come attraverso la stoffa della maglietta la sua pelle sia calda. Dolcemente calda.

Mentre sullo schermo al plasma esplode una delle tante pubblicità “originali” di MTV, io mi distraggo osservandola dal basso, continuando a tenere appoggiata la mia testa sul suo fianco.

 

Sembra una sfinge: l’espressione seria, immota, le labbra rosse sono lievemente socchiuse, mentre i suoi occhi grigi osservano attentamente lo schermo.

 

Cannella. Oggi profuma leggermente di cannella. Respiro profondamente fino a riempirmi i polmoni di quest’odore dolcemente penetrante, nella speranza che me ne resti traccia sulla maglietta, anche quando scioglierò quest’abbraccio.

Non so perchè, ma mi rassicura. Quest’odore, voglio dire. In un’atmosfera inquietantemente placida come questa con i due Kaulitz, miracolosamente silenziosi, buttati su un divano, con la perenne incazzatura di Gustav che aleggia nell’aria e un disagio profondo, troppo tranquilla per non essere altro che la quiete prima della tempesta, beh, io mi sento protetto. Magari sono solo egoisticamente tranquillo, perchè io non sto sputando l’anima dietro a nessuno. L’ho già fatto in passato, ed è inquietante il fatto che ormai io e Christa stiamo assieme, forse perchè mi ricordo ancora com’era senza lei.

 

Tra i rumori di sottofondo delle tivù, il frusciare degli abiti di chi cambia posizione, il sospirare stanco di qualcuno, io credo di poter distinguere il suo respiro.

Accarezzo il bordo della camicia, sollevandolo quel tanto da lasciare un lembo di pelle allo scoperto.

Con un gesto furtivo, lo bacio delicatamente, sentendo il suo calore dolce sulle labbra. La guardo, cosa che invece non fa lei. Ma noto come si morda le labbra per non sorridere.

 

-oddio.

 

Un dolore sordo mi artiglia il braccio sinistro, mentre la voce allarmata di Bill fa girare di scatto la testa a tutti quanti, compreso Tom che sonnecchiava distratto sulla spalla del gemello.

Bill ci osserva a turno per pochi secondi, bocca spalancata ed espressione scioccata, indicando ripetutamente lo schermo al plasma che troneggia di fronte a noi.

 

-oh... oddiio. Oddio, oddio, oddio.

 

Si afferra le mani, stritolandosele. Deglutisce a vuoto, continuando ad indicare con cenni del capo lo schermo. Io cerco di tranquillizzarlo poggiandogli la mano su una spalla, ma non sembra farmi caso.

 

-Migliaglia di persone in fila, prenotazioni fin dall’anno scorso. E c’è addirittura chi sta già aspettando fuori dallo stadio in attesa dell’inizio del concerto, che solo avrà inizio alle sette di domani sera...

 

Mi concentro sullo schermo, pur senza smettere di tenere la mano sulla spalla di Bill, più per farlo rimanere seduto che per tranquillizzarlo.

 

-L’ho vista.

 

Sentii distintamente Tom schiarirsi la gola, pur senza guardarlo. La trasmissione era in differita su TRL live, e per adesso era ancora agli inizi. Una voce fuori capo si limitava ad inneggiare a seguire la trasmissione, citando entusiasticamente dati su dati. Allo stesso tempo, immagini di repertorio scorrevano senza posa.

 

Una biglietteria che espone il cartello “sold out”.

La pianta dell’enorme “the Hall”, l’enorme concerto di LA in cui si sarebbe tenuto il concerto.

File di fan.

Gente che salutava la videocamera.

I Metallica che provavano un soundcheck.

Il montaggio di casse dell’audio semplicemente mastodontiche.

 

-chi, Bill? Chi hai visto?

 

Se non fossi stato troppo distratto dalle immagini veramente spettacolari, dalla rapida successione di urla, voci, motti e risa, forse avrei fatto caso al tono inquieto di Tom. Come se non volesse credere ad una cosa che reputava impossibile.

 

Facce di gruppi più o meno conosciute.

 

(I Within Temptation che scherzavano con i Körn)

 

Tecnici che si gridavano dai lati opposti di un palco enorme.

 

(Come piccole formiche che salivano e scendevano in cerca di non si sa cosa)

 

Ultima veduta dagli spalti dell’enorme stadio.

 

E poi, come un’apparizione, direttamente dal regno dei ricordi, dinamica come una scintilla di rabbia, decisa come un uldozer e pallida come un lenzuolo, troppo piccola per quel megafono che tiene tra le mani, troppo frenetica per non rischiare un collasso, lei.

 

-ok, gente, voglio quella cassa a destra e, Derek, le chitarre non sono ancora state sistemate e io non so cosa voi della squadra stiate aspettando. Muoversi no, eh?

 

Come un pugno in pieno stomaco, Dorcas.

 

Lo schermo l’ha inquadrata per brevi istanti, ma io continuo a vederla di fronte a me, come se la sua immagine mi si fosse impressa a fuoco nella retina e non se ne volesse andare.

 

In piedi su una cassa, come una regina su un trono, i capelli bianchi troppo corti per non rendere i suoi tratti, normalmente delicati, affilati come coltelli. Gli occhi azzurri sono coperti da un paio di Ray-Ban classici, quasi a volere eliminare ogni segno di umanità. L’altezza non è cambiata, però perchè mi ricorda terribilmente la Dorcas dei primi tempi, quella venuta da poco a lavorare per i Tokio Hotel?

 

La mano di Christa afferra forte la mia stringendola. Adesso sullo schermo scorrono le immagini tipiche di uno speciale, a cui mi sento improvvisamente indifferente.

Mi giro quindi verso di lei, cercando il suo sguardo.

 

Ed ha un’espressione che mi fa stringere il cuore.

 

Perchè è triste e malinconica, perchè conferma i miei sospetti: Dorcas non era semplicemente immersa nel lavoro, in quel breve momento.

 

Dorcas ci si era annullata dentro.

 

-sai che sei una ragazza strana?

 

Sembrò non farmi caso. Si limitò a continuare ad armeggiare con le manopole della consolle, sempre con le cuffie al collo, gli occhi di un blu cupo socchiusi per la concentrazione, la pelle pallida come un lenzuolo e la bocca stretta in un’espressione severa.

 

La nostra nuova tecnica del suono non sembrava aver simpatia per nessuno dei suoi datori di lavoro, ma la sua indifferenza nei confronti dei Tokio Hotel, di cui registrava i pezzi e con cui condivideva almeno nove ore al giorno, era imbattibile.

 

Fin dall’inizio aveva snobbato Tom, demolito Bill in una memorabile gara d’insulti spiattellati con voce atona ed indifferente, aveva degnato Gustav di un saluto quanto mai secco e, in quanto a me, mi rivolgeva la parola solo per comunicarmi informazioni basiche ed prive di qualsiasi traccia di emozioni.

 

“Georg, tocca a te registrare” o “Georg, bisogna rifare” erano tra le frasi più lunghe che mi avesse mai dedicato.

Non si poteva certo dire che la ragazza fosse il ritratto del calore umano.

  Ecco perchè mi ero impuntata nel farle comparire su quel visino freddo e immoto una qualsivoglia traccia di emozione. Volevo stuzzicarla.

Magari poi scoprivo che non aveva mai sorriso in vita sua.

 

-sai che sei una ragazza strana?

 

Mi aspettavo di ricevere lo stesso silenzio di prima come unica risposta, ma, stupefacente, le sue labbra decorate da piercing scintillanti ed aggressivi come la loro padrona si aprirono. Giusto per fulminarmi un’altra volta.

 

-lo hai già detto.

 

Ma io non mi arrendo mica.

 

-e se lo ripetessi?

 

Sempre continuando ad armeggiare con mille ed un tasto, ma con un ritmo meno sostenuto, Sua Maestà Miss Professionalità si degnò di rispondermi.

 

-io ti ripeterei che hai già ripetuto una domanda.

 

Non le diedi il tempo neppure di chiudere le labbra, che ribattei per mantenere il “ritmo serrato della conversazione”.

 

-e che cos’è, una sciarada?

 

E poi, come un miracolo, mi resi conto di aver innescato qualcosa. Innanzitutto, smise di battere sui tasti. Poggiò con calma la mano sulla superficie di metallo della consolle, stendendo le dita cariche di anelli.

Sollevò lo sguardo dallo schermo, girando lentamente la testa verso di me. Cercò il mio sguardo e vi centrò il suo.

 

Statica. Tutta la sua posizione era statica: inginocchiata sulla poltrona in pelle dello studio, i lunghi ricci bianchi immobili sulle spalle. Le labbra non fremevano, e a malapena mi accorsi che respirava. Perchè, se la sua espressione era immota, non così i suoi occhi.

Sembravano leggermente velati da qualcosa che li rendeva più opachi di quello che in realtà erano, che ne nascondeva il furore. Un furore che non sembrava rabbia, ma qualcosa di più profondo. Mi sarei azzardato a definirla come disperazione, chissà.

 

-Georg Listing, intuisco di non essere simpatica a molti, in questa casa.

 

Con un gesto della mano indicò l’intero ambiente, per poi distendere le labbra in un qualcosa che poteva essere un vago ghigno ironico.

 

-però mi piacerebbe lavorare in pace, sai, guadagnare uno stipendio in maniera onesta e senza persone che cerchino di tracciare un profilo psicologico della mia persona nel frattempo.

 

Dio, stavamo battendo tutti i record di durata di una conversazione. E di acidità. Il tono con cui parlava non era cattivo, era determinato. Capii perchè quella strana ragazza non sembrava voler filare nessuno: è perchè non ci vedeva neppure. C’era più affetto nello sguardo che rivolgeva ai nostri strumenti piuttosto che in quello che rivolgeva ai proprietari dei tali.

 

La guardai, e mi sentii male. Perchè, a parte quella fiamma sacra di dedizione al lavoro, non sembrava esserci nient’altro in quello sguardo febbrile. Era innaturale la costanza con cui s’impegnasse, era innaturale questo suo isolarsi da tutto e tutti. Era dannatamente sola, e l’unica cosa che sentii fu commiserazione.

 

-Listing, se stai provando a commiserarmi non sai a cosa vai incontro.

-posso aiutare?

 

L’avevo presa in contropiede. Si era fermata, mi aveva guardato, mi aveva finalmente squadrato. Si era accorta che io esistevo.

 

-tu, con me, non c’entri nulla.

 

Annuii, suscitando un’inarcata di sopracciglio da parte sua.

 

-ma io intendevo con la consolle. Come fai ad utilizzare questo bisonte?

 

Mi guardava, sempre con il sopracciglio inarcato. Poi strizzò gli occhi, si mise una mano di fronte alla bocca ed iniziò a scuotere le spalle.

 

E a ridere, ridere con una risata sottile, come se avesse paura di farsi male per il troppo riso.

 

-mi stai dicendo- con gli occhi che finalmente sprizzavano scintille di vita- che vuoi imparare ad utilizzare questa?

 

Indico la consolle con un gesto del capo, facendo ondeggiare la chioma immensa e disordinata di capelli bianchi.

Scossi la testa, sorridendole.

 

-beh, visto che a te manca il libretto d’istruzioni, magari ci arrivo attraverso l’oggetto del tuo amore.

 

A quanto pareva, Dorcas si era di nuovo isolata, annullata. Diretta, decisa, determinata. Costi quel che costi, quella ragazza era di nuovo nel backstage di un concerto. Ma, dentro di se, era ritornata a parecchi anni fa.

 

-L’avete vista?

 

Tom, Tom. Come si fa a non vederla? È piccola, ma sa dove piantarsi per farsi vedere più che bene.

 

-mi ha fatto paura.

 

La voce di Bill è più calma, ma c’è una punta di rimpianto, adesso.

 

-mi ha fatto seriamente paura. Non era così diversa, prima.

-si è tagliata i capelli.

 

Faccio notare io.

Ci guardiamo, io, Tom, Bill e Christa. Ci guardiamo e io mi sento leggermente male.

È passata così tanta acqua sotto i ponti da allora? Sono solo sei mesi, ma perchè per Gustav e Dorcas sembrano passati sei anni?

 

-Dorcas!

 

Ci giriamo di scatto, di nuovo verso lo schermo delle meraviglie, di nuovo verso l’unica fonte d’informazione sulla nostra amica.

 

-ehilà, Sharon.

 

Risponde lei, un sorrisino distratto e una pila di fogli in mano. Hanno inquadrato la scena per mostrare come vanno le cose dietro un palco, come, intorno a un lunghissimo tavolo di noce, si sia riunito il fior fiore della musica Rock, Metal e Gotica degli ultimi anni.

 

Avanza decisa, i jeans aderenti e le All-Star consumate, una felpa il doppio di lei con la sigla STAFF sul retro e FOH sul petto, un abbigliamento serio e professionale che non ricordo averle mai visto addosso.

E così Dorcas ha fatto anche carriera.

 

Sicura di se stessa, determinata e lucida, Dorcas sorride alla platea.

 Uno dei sorrisi più freddi che le abbia mai visto.

 

-allora, questa è la lista del soundcheck e, come vedete, per ultimo verranno i gruppi che hanno bisogno dell’accompagnamento dell’orchestra di LA.

-ma come, mi costringi a finire così tardi?

 

Ad aver parlato è un ragazzo giovane, sui venticinque. Capelli neri e ricci, occhi castani e corporatura esile.

 

Dorcas sbuffa al tono confidenziale del ragazzo, indicandolo poi al resto dei musicisti.

 

-come vedete, il direttore d’orchestra che accompagnerà sia Tarja Turunen e sia i Whitin Temptation, è il tipo che vedete al mio fianco.

 

E qui, io come gli altri, decidiamo che il tipo ci da definitivamente sui nervi. Perchè il sorrisino con cui risponde alla battuta di Dorcas, non ha nome.

 

-eh, magari.

 

Dorcas lo fulmina con un’occhiataccia, ma non ribatte.

 

Non ribatte.

 

-non ribatte.

 

Conferma atono Bill.

Sento la mano di Christa afferrarmi convulsamente una spalla, guardando lo schermo con aria terrorizzata.

 

-prega Dio che Gustav non veda tutto questo.

 

Silenzio. Poi, tutta una spiacevole serie di eventi.

Un colpo che risuona nell’imbottitura del divano ci fa sobbalzare tutti quanti, un colpo che sembrava avere tutte le caratteristiche di un pugno scagliato contro la schiena del sofà. Poi passi frettolosi, una porta spalancata.

 

-Gustav!

 

Grida Tom, guardando verso l’ingresso.

 

La porta sbatte, così forte da far vibrare la parete. E, come un fiocco di neve fuori stagione, osserviamo un pezzettino d’intonaco cadere al suolo. Il silenzio quando cade a terra è tale possiamo udirne distintamente il rumore.

 

La televisione continua a vomitare parole senza sosta quando, come riscuotendoci da un sogno, scavalchiamo il divano ed iniziamo a correre per fermare Gustav e la sua rabbia che è finalmente scoppiata come un palloncino bucato, che può causare danni a se stesso e che può fargli fare di tutto.

 

Lo ammetterò. Ho paura.

Perchè Gustav, da quando è lontano da Dorcas, ha perso ogni senso di logica e ragione.

E io non voglio credere di aver perso un amico.

 

...

 

-che cosa ho io che non va?

 

Il fiato che esce bruciante dalla mia bocca, il sangue che sento scorrere caldo nelle mie vene.

Tremo.

 

Ma di rabbia.

 

-perchè? Perchè io non andavo bene? Cosa le impediva di rimanere?

 

La bacchetta che stringo possessivamente tra le dita non è altro che un pezzo di legno, un pezzo di legno che mi si sta imprimendo a fuoco nel palmo della mano.

 

-perchè non è più qua?

 

Il tono sale, sale per scoppiare in un urlo.

 

-PERCHÈ?!

 

Ed è venuto il momento di gridare, e di lanciare quelle maledette bacchette. Lanciare qualsiasi cosa lontano da me, anche me stesso, se necessario.

 

Le lacrime mi gonfiano le palpebre, mentre un qualcosa di ustionante mi possiede dentro. Sento qualcosa rompersi, sento un rumore di specchi infranti. E mi fa piacere. Anche se questo risuonare cristallino di qualcosa rotto non sarà mai pari a quello che mi risuona dentro, almeno ne traggo soddisfazione. Mi brucia. Mi brucia di rabbia, vergogna, indignazione.

 

Perchè lei non è qui.

 

E me ne fotto di tutto, perchè mi sento rifiutato. Voglio morire e gridare e, se non altro, uno dei due lo sto facendo.

 

Sarò rauco per stasera, ma il fatto che ci sia qualcos’altro a bruciarmi, oltre al petto, è già di sollievo.

 

Non vedo, ormai. Le lacrime si limitano a scorrere distratte, dimenticate, mentre le mani vanno in automatico.

 

Un’altro specchio, per poi una sedia. Che forse in origine poteva anche essere una bella sedia di chissà quale stile. Ma che adesso, l’unica cosa che le è successo di notevole, è che sia finita di volata oltre la vetrata del terrazzo per atterrare con uno schianto poco rassicurante sulle stesse mattonelle.

 

Mi passo la mano sul viso, mischiando sudore e lacrime in un tutt’uno appiccicaticcio e salato. Un salato così ferocemente amaro, che inizio singhiozzare. Perchè mi sento il cuore stretto in una morsa fredda, lo sento fatto a pezzi da tutti quelli che mi circondano, lo sento diviso e triste.

 

E brucia. Tutto brucia, anche la mia pelle febbricitante.

 

In uno scatto di lucidità, avverto distintamente il risuonare di numerosi passi nel corridoio. Mi avvento contro la maniglia di ottone della suite, quindi, tenendola stretta e chiudendola a chiave in uno scatto secco.

 

Giusto in tempo, perchè la porta inizia a essere percossa da una violenta scarica di colpi.

 

-Gustav! Gustav! Crista santo, ma che succede?!

 

Non rispondo, allontanandomi dalla porta in stato di catalessi.

Se volessi potrei riconoscere la voce di Saki, ma non ho nessuna voglia di riconoscere nessuno.

 

-...in pace.

-cosa?

 

Non ho riconosciuto neppure io la mia voce. Perchè è atona. Piatta. Rauca. E fredda. Dannatamente gelata.

 

Mi sono perso in te e adesso non riesco più ad uscirne fuori, sei contenta?

Due mesi. Ricordalo bene, perchè sono due mesi. E mi stai bruciando l’anima. Non ne resta più niente per nessuno, come una droga potente. Perchè ti voglio, ti voglio e da solo non ci so stare.

 

Torna.

 

-Gustav! Apri quella dannatissima porta!!

-Tom, basta!

-ma non lo vedi cosa sta facendo, la dentro? Distrugge tutto! Bill, Georg, non possiamo lasciarlo là! È solo!

-oh, zitto tu!

 

Voci soffocate aldilà della porta, voci che stanno bene lì dove stanno. Fuori. Da me e da tutto.

 

-Gustav, so che sei là. Se puoi, rispondimi.

 

Vorrei gridare, ed allontanarmi ancora di più da quella porta. Vorrei arrivare fino al terrazzo ed al bagno, e continuare da dov’ero rimasto. Perchè ci sono ancora lenzuola da lacerare e quadri da rompere. E tante, tante belle vetrate.

 

 Ma non lo faccio. Non adesso. Mi avvicino a passi cauti alla porta, quasi temendo che si apra. Ma non lo farà. Perchè nessuno la tempesta più di colpi, e il chiavistello è tirato.

 

Poggio la fronte, provocando un lieve colpo sordo contro il legno della porta.

 

E credo che l’abbiano sentito, perchè si sente un “sssh!” silenzioso, e la voce di Bill è quasi un sussurro, adesso.

 

-Gustav, vieni fuori.

-No.

 

Silenzio. Perchè è un no secco, e tutti conoscono i miei no.

Non aprirò questa fottutissima porta.

O forse Bill sussurra perchè la mia voce è assurdamente inumana?

Ha paura di me?

 

-Gustav, vogliamo aiutarti. Ti prego, apri.

-No.

 

Questo era Tom.

 

-Gustav...

-NO, NO, E NO! CHE CAZZO NON CAPITE DI UN FOTTUTTISIMO NO?

 

Silenzio.

Tiro un pugno alla porta, che risuona potente e forte, lasciando impresso il segno delle mie nocche nella vernice bianca.

 

-non potete fare un cazzo, lo capite? Perchè voi non siete lei, e io non sostituisco mai. Quindi fuori.

 

Non parlano.

 

Sono ormai senza voce, e mi allontano dalla porta, inorridito da tutto.

 

Dal fatto che mi sto riducendo così per un ricordo ossessivo, dal fatto che so che sarà così finche non mi dimenticherò di lei, dal fatto che la consapevolezza totale della sua mancanza si sta spalancando sotto ai miei piedi come un baratro.

 

E ho paura.

 

E piango, e gemo. Perchè nessuno potrà fare niente per questo, perchè nessuno di quelli a cui io voglio bene potrà mai fare quello che lei faceva per me. Perchè lei era unica e tossica e come la cocaina s’impossessa e rende ingordi. Si, ingordi di lei e del suo odore, della sua presenza e delle sue battute acide. E so di avere un qualcosa che batte di ricordi e dolore, di frustrazione e rabbia, al posto del cuore. Ed e solo a distanza di due mesi.

 

E l’unica cosa che posso fare, e distruggere tutto ciò che mi sembra vuoto, alla disperata ricerca di una vaga sensazione lasciata da lei da qualche parte. Perchè se stai così, l’amicizia non serve e la famiglia è solo un peso.

 

Mi avvento quindi conto tutti gli oggetti che sembrano comporre questa stanza, che sembrano renderla claustrofobica e scialba, lussuosa e assurda, vuota e oppressa da troppi ninnoli.

 

Strappo ogni singolo lenzuolo del letto matrimoniale con minuzia, mentre le lampade si accatastano senza posa sul pavimento del terrazzo. Forse qualche frammento di vetro o metallo mi ferisce lo zigomo e il naso, perchè a un certo punto sento la sensazione calda e appiccicosa del sangue sulle labbra. Mi osservo alienato in un frammento del grande specchio centrale, ora crepato dal lancio di un telefono.

Mi osservo allucinato e noto che il nuovo taglio allo zigomo è appena sotto alla cicatrice che Dorcas mi fece a suo tempo durante l’ultima litigata.

 

La litigata che probabilmente l’allontanò definitivamente da me.

 

Mi trascino con passi stanchi nel salottino della stanza, sussurrando tra me e me parole senza senso. Evito gli specchi infranti, i comodini rovesciati.

 

E sorrido. Un sorriso doloroso e pazzo, affaticato ed allucinato. Ma pur sempre un sorriso.

 

Per la prima volta dopo tanto tempo, mi sento bene. Perchè il casino che c’è qui riflette esattamente quello che io sento ribollirmi fin nella più piccola vena dal mio corpo.

 

Arrivo finalmente al letto, adesso un ammasso informe di tessuto ed imbottitura. Lo osservo e, non ostante tutto, mi sembra sempre troppo ordinato.

Mi accascio quindi per terra, stremato.

 

Mi giro su un fianco, raggomitolandomi su me stesso.

Sospiro, mentre l’ultimo singhiozzo sfugge dalle mie labbra e si confonde, come un suono qualsiasi, con il traffico che entra sottile dalle finestre rotte.

 

Là, tra cocci e lampade, tavolini rovesciati e bibite sparse per terra, tra il mio dolore e il mondo indifferente che mi circonda, adesso finalmente scosso dal mio passaggio, mi sento bene.

 

-perchè non sei qui con me?

 

Non so se l’ho sussurrato, gridato, detto, gemuto o singhiozzato. Ma l’ho esternato. E, nel mio dolore, mi sento bene. Perchè per te provo rabbia, rabbia e frustrazione.

 

Perchè sono consapevole di non averti saputo dare interamente quello che stavi cercando, nonostante io potessi dartelo. E me ne pento. E mi frustro.

 

E vorrei poter rimediare. Datemi un’altra opportunità. Solo una. Solo mia.

 

Giusto quando penso di essere arrivato ormai al confine tra notte e veglia, sento il lento scattare della serratura. La porta si apre leggermente, lasciando entrare una lama di luce che sembra tagliare il nero caos della stanza.

 

Chiudo gli occhi, rendendomi conto di come allo scattare della porta la luce del corridoio è stata spenta. Non sorrido, limitandomi a rimanere immobile così come sono, raggomitolato su un fianco.

 

Anche se non posso fare a meno di non sentirmi più solo. Perchè nonostante avessero il pass magnetico fin dall’inizio di questa allucinante serata, i ragazzi non hanno aperto la porta. Sono rimasti fuori, in corridoio, per quelle che presuppongo fossero delle ore. Hanno saputo rispettare la voglia che avevo di stare solo. E questa gliela devo.

 

-tu pensi che stia dormendo?

-ovvio, Bill. Sennò non ci avrebbe fatti entrare.

 

Senti i passi felpati delle Nike Air di Tom risuonare sulla moquette della suite. Girano intorno alla mia sagoma, disegnando dei cerchi via via più vaghi.

 

-oh mio Dio.

-Tom, smettila. Le nostre camere erano in condizioni peggiori, dopo che ci diedero la notizia del divorzio.

 

I passi di Bill, evidenziati dal lieve ticchettio dei suoi tacchi, si avvicinano a me. Un silenzio, una loro pausa, mi fanno capire che si è inginocchiato a guardarmi. Il suo dito leggero e asciutto passa sopra la ferita dello zigomo, facendomela dolere.

Ma è la mano calda e grande di Georg, quella che si posa sul mio collo.

 

-respira ancora, se proprio lo volete sapere.

-ma certo che deve respirare. È un toro, non lo stronca mica la distruzione di una suite.

 

Li sento battibeccare sopra di me, sussurrando per non svegliarmi e circondandomi con la loro presenza. E anche se non sono lei, mi rendo conto, sono sempre i miei amici.

 

Quelli con cui ho viaggiato il mondo e visto di tutto, altri tre sognatori come me con cui, alla fin fine, quel mitico sogno di cui tanto favoleggiavamo ai dodici anni si è fatto realtà.

 

-oh, sentite. Continuiamo in adorazione di questo qua o viene a dormire con noi?

-camera tua, Bill. Tu hai il letto a tre piazze, stavolta.

-certo, Georg. E tu vorresti portarcelo in braccio, magari?

-oh, maledizione. Georg, Bill, silenzio.

 

Una mano fredda e nervosa si poggia sulla mia spalla, scuotendola leggermente.

Ma io non ho poi tanta voglia di muovermi. Affatto.

Quindi mi raggomitolo ancora di più, prendendomi la testa con le mani.

 

-Georg, tu a destra. Io, sinistra. Bill, i piedi.

 

E senza neanche riprovare a svegliarmi, quei tre pazzi furiosi mi prendono per le braccia  ed i piedi, e, prima anche solo che io posso fare finta di svegliarmi, stanno attraversando la porta.

 

-cosa stareste facendo?

 

Tom mi scocca un’occhiata complice, mentre Georg sorride. Bill è di spalle di fronte a me, quindi non gli posso vedere il viso.

 

-niente. Un pigiama party.

 

Arriviamo alla suite Bill e, senza tanti complimenti mi rimettono in piedi. Appena i miei piedi toccano terra, sento le mie gambe cedere. Ma Georg e Tom continuano a sostenermi, anche se credo gli costi. Li guardo con espressione alienata.

 

-che cazzo stareste facendo?

 

Tom mi mostra la lingua, con un finto broncio.

 

-ma se vuoi ti mollo pure, eh!

-non ci provare! Non me lo vorrai mollare tutto, questo macigno qua!

 

Tom sogghigna in direzione di Georg, che lo guarda terrorizzato all’idea di dover reggermi tutto da solo. Stiracchio le labbra, stupito dalla loro idiozia. Perchè sono idioti, oh, sì.

 

-basta!

 

Bill mi si pianta davanti con tanto di ditino sollevato, indicandomi.

 

-tu, a letto. Tu -indica Georg- pure, e tu -disse indicando Tom- vai in cerca di cerotti.

 

Eccomi quindi qui, buttato in un letto enorme a luce spenta e con questi tre che mi dormono addosso, Georg sulla mia pancia, Tom raggomitolato sul mio fianco e Bill appoggiato alla mia spalla.

Mi accerchiano.

E tutto questo senza che io abbia detto una parola.

 

Con un gesto stanco mi passo la mano fasciata (evidentemente mi sono fatto male con i vetri senza essermene reso conto) sullo zigomo, sentendo sotto le dita la plastica del cerotto. Sospiro. E starei anche per addormentarmi, se non fosse che un Bill pressoché nel mondo dei sogni e con un pigiama arancione e viola di Tigro decide di spiattellarmi l’ultima battuta del giorno. 

 

-ah, Gustav, ti ammiro. Se dovessi distruggere come te tutte le camere di alberghi che non mi piacciono, non ne rimarrebbe una in piedi!

 

 

We will fight our battles,

We will wage our wars, settle the scores whit honor and blood,

We will wear our scars like medals of hope.

 

.-.-.-.-.-.-.-.

 

Caldo.

Fa un fottutissimo caldo.

 

Mi rigiro su di un fianco, inquieta.

Strizzo gli occhi, pur senza aprirli.

 

Non ho voglia di risvegliarmi del tutto, non adesso.

Abbraccio con più forza il cuscino, mentre con una gamba scalcio la coperta scoprendomi un po’ di più.

Ma continuo a sentirmi il colletto della maglietta bollente per il sudore.

Con un grugnito soffocato dal cuscino, mi libero definitivamente del piumone, rimanendo totalmente scoperta. Ma il fatto di essermi mossa aumenta esponenzialmente la sensazione di soffocamento.

 

Con un lampo di lucidità, capisco che è finita. Sono sveglia.

Maledizione.

 

Da qualche parte ho letto che il corpo umano si raffredda quando si dorme e si riscalda con una vampata di calore al risveglio. Incredibile, ma questa regola non è mai venuta meno.

 

Con un sbuffo di pura disperazione mi giro verso il lato del comodino, mettendo a fuoco a fatica i numeri luminosi della sveglia.

Le sei meno cinque.

 

Beh, se non altro oggi non mi sono svegliata alle cinque. Richiudo gli occhi, restia ad alzarmi.

Li riapro di nuovo, lentamente, e la sensazione di essere diventata il würstel nel panino che è il mio letto non accenna a diminuire.

 

Sopra di me, solo il bianco del soffitto. Dentro di me, una sensazione aspra di stanchezza e confusione, una noia solidificata al centro del petto, lasciata macerare con tanta, sana tensione.

 

Alzi la mano chi, essendo il Front Of House di un concerto che si preannuncia come il più mastodontico ed aspettato degli ultimi anni, non ha mai sofferto d’insonnia.

Mentre il mio pensiero vola alle giornate passate montando il palco, sistemando l’impianto audio, alle mille casse ed altrettante prove, sospiro stancamente.

Dimenticandomi che sospirare, di questi tempi, per me significa sentirmi il petto oppresso da un macigno mastodontico, come se mi fossi permessa il lusso di cedere, seppure un istante.

 

Mi copro gli occhi con il braccio, tastando cautamente la mia pancia. La mia pelle brucia come se avessi la febbre, ma, in uno stridente contrasto, mi sento tremare dal freddo. Il freddo che mi porto dentro.

 

E mi odio, perchè continuo a sfiancarmi così su questo,  su un qualcosa che, passati ormai sei mesi, dovrei aver dimenticato e rimosso. Sono stanca di pensarci, sono stufa di sentire questa sensazione di smania ed impotenza possedermi quando mi ritrovo per caso a sfogliare i ricordi. Perchè quello che brucia, ancora di più delle lacrime e della rabbia, è la sensazione che non mi sto godendo tutto ciò che di bello mi sta succedendo.

 

Dorcas, non dovresti arrovellarti sul fatto che avresti potuto essere più accondiscendente e meno testarda con lui, dovresti essere semplicemente entusiasta di questo balzo in avanti della tua carriera.

Pensi continuamente a quel sporadico bacetto, perchè tu vuoi credere che sia solo e soltanto un bacetto, e non ti concentri invece su come potresti far fruttare questa tua collaborazione con i Metallica per ottenere lavori altrettanto prestigiosi in altri tour.

 

Bacetto.

 

Mi mordo le labbra in un riflesso automatico, pentendomene quasi subito. I ricordi prendono di nuovo vita e no, non ho voglia di sentire ancora quel dolore sordo in fondo alla gola, non ho voglia di essere qua, con tutte le difese abbassate perchè sono stanca, nervosa, insonne e disperata.

 

E parliamone, di questo bacetto. Visto che ormai hai messo sotto chiave tutto, dal tuo cuore alla sua sensibilità, vediamo di colpire profondo.

Quel bacetto, come ti piacerebbe chiamarlo e che invece è quel qualcosa che ti ha mantenuto sveglia parecchie notti, beh, ti ha fregato. Smettila di negare con tanto fervore il fatto che ti ha cambiata, che ha fatto fallire i tuoi piani.

Che consistevano in un saluto, qualche grido e un po’ di lacrime. Ma che Gustav, lui e quella sua confessione senza previo avviso, lui e quelle sue maledettissime lacrime, ha mandato a monte con quel tocco finale che è stato baciarti.

 

E se tu credevi di fargli un favore, beh, mi sa che ti ha fatto capire che gli stavi facendo l’esatto contrario.

 

Mi giro su di un fianco, osservando la parete bianca di fronte a me.

Bianco, vedo tutto bianco. Ma non è sinonimo di sollievo, in questo caso.

 

Riesci ancora a dormire dopo tutto questo?

 

Basta. Basta, basta, basta.

 

Stringo con forza le mani a pugno, tirandomi a sedere e soffocando anche per oggi l’urlo fastidioso della mia coscienza.

 

Lui mi ha dimenticato. Io per lui non esisto più. Perchè ho letto di lui nei rotocalchi, nelle riviste, e so, l’ho letto, che non sembra sentire affatto la mia mancanza.

Va a feste con Tom, ci si ubriaca pure. E ci sono su di lui mille ed una voce a cui non vorrei credere, come invece faccio, perchè in fondo è esattamente ciò che mi aspettavo.

 

È troppo ricco e famoso per avere sentimenti a lungo termine.

 

Taccio per un momento, ascoltando con una punta di panico il silenzio che regna sovrano, sia nella stanza sia dentro me. Il mio sospiro tremante risuona come un boato in questo vuoto, ma la coscienza non sembra voler più infierire.

Mi alzo, più stanca di quando sono andata a dormire.

 

Nella stanza del mio bilocale non c’è spazio per nulla, a momenti neppure per me. Quindi cercate d’immaginarvi il gran casino che feci per arrivare al bugigattolo che era il mio armadio. Armadio, che parolone.

Sbuffando, aprii le ante e lasciai crollare a terra una valanga di abiti, senza curarmi neppure di riordinarla. Afferrai una maglietta nera, jeans aderenti e all-stars dal mucchio informe, osservandoli un momento con aria critica.

 

Perchè non mi erano mai parsi così mediocri.

 

Li lanciai con un gesto stizzito verso la porta del bagno, senza neppure osservarli cadere. Mi inchinai ancora una volta, incuriosita dal lembo di qualcosa tremendamente allegro, che sembrava affogato in un cumulo di magliette dai colori scuri.

 

Lo tirai su con la punta delle dita, quasi potessi essere contagiata dall’allegria dei motivi di una delle mie gonne multicolore. Gonne che non mi sentivo più di indossare. In particolare questa era un trionfo di blu e bianco, rosso e verde. Sembravano brillare di luce propria i motivi, i colori ed i mille ed uno strati di pizzo e falpalà.

 

Brava, demonizzalo pure, rendilo sgradito e pieno di difetti, elimina ogni parte di umanità dai tuoi ricordi di lui. Annullalo, rinnega il suo nome e il suo odore, e tenta di togliere peso a quelle carezze, a quelle parole.

Rinnegalo come hai fatto sempre con qualsiasi dei tuoi errori.

E credici alle tue stesse menzogne, credici con fervore e costanza.

Isolati, vivisezionati, soffocati sotto mantelli di recriminazione e fiumi di rabbia.

 

Tu pensi che sia il rimpianto, ciò che ti tiene sveglia. Ma chiediti, e fallo per una buona volta, chi sei tu per distinguere tra rassegnazione bruciante ed amore mal celato?

 

Ed è esplosa di nuovo nella mia testa, ancora una volta a tradimento, la voce indemoniata della mia coscienza.

 

E so che non posso scappare, non da me stessa, ma scaravento comunque la gonna sopra il cumulo di abiti come se lei avesse la colpa di tutto. La nascondo sul fondo dell’armadio con rabbia, fino a non vedere neppure un lembo spuntare da sotto gli abiti scuri.

 

Mi rifugio quindi in bagno sentendo lacrime di sconfitta iniziare a cadere, cercando non pensare a tutte le possibili interpretazioni che questo mio gesto potrebbe avere.

 

E che in effetti ha.

 

...

 

-Dorcas, venti minuti.

 

Annuisco decisa, mentre Thomas mi fa un Ok con la mano dall’altra parte del palco.

 

Prendo il walkie-talkie che ogni singolo membro dello staff ha in dotazione, richiamando all’attenzione tutti quanti i tecnici del suono.

 

Sono in piedi su una delle enormi casse audio che sono parte integrante dell’apocalittico palco, da cui posso osservare qualsiasi parte dello stadio. L’Hollywood Bowl è un bestione da diciottomila posti a sedere, un’arena tra le più importanti della città, e l’unica con le strutture audio adatte per supportare un concerto che non sarebbe stato come tutti gli altri.

 

Vista la partecipazione degli Apocalyptica, Whitin Temptation, dei Metallica stessi e (non si sa come si era riuscita a convincerla) di Tarja Turunen, si era fatta impellente la necessità di una struttura abbastanza grande da poter ospitare tutta la Los Angeles Philharmonic, orchestra tra le più famose, senza la quale nessuno dei precedentemente citati avrebbe suonato.

 

Io, insieme al responsabile del palco ed ai capo tecnici delle luci e dell’impalcatura, c’eravamo dovuti rompere più volte la testa per organizzare un palco che non fosse stato troppo ingombrante, carico o mal distribuito.

 

Osservai quindi con uno sguardo affettuoso quell’enorme palco composto da tre gradoni: il primo, quello più in alto, era destinato al coro. Nel mezzano, invece, avrebbe preso posto l’orchestra. Mentre il terzo, quello più in basso, era il palco vero e proprio sul quale si sarebbero esibiti a breve i primi artisti.

 

Deglutii a vuoto, mentre mi lasciavo pervadere dall’adrenalina. Perchè lì, cupa, fremente e carica, ai piedi di un palco che poteva quasi gemere sotto il carico di tutti quegli sguardi ansiosi, c’era la folla.

 

Una massa che, impazzita e frenetica, aveva varcato i cancelli alle cinque, due ore prima del concerto, e che urlante si era precipitata, chi sulle gradinate, chi nel fosso. Io, abituata da tre anni ormai a un pubblico maggiormente femminile (che l’unica cosa che sembrava volere era la carne di certi quattro, piuttosto che le loro performances musicali) ero rimasta leggermente sbigottita da quella folla borchiata e dai vestiti cupi, da certi mastodonti tutti americani che spuntavano dalla folla e dalle loro urla cupe e cariche di sentimento.

 

E tutte queste persone, accorpate in un tutt’uno caldo e fremente, sembravano solo aspettare un via del Grande Capo, ovvero Mr. Rasta Biondi, che avevo scoperto chiamarsi Volkan, islandese di nascita e americano d’adozione.

 

Chiusi gli occhi, avvertendo come un enorme vuoto si facesse spazio dentro di me, in un posto dove, fino a pochi istanti fa, c’era solo paura.

 

Bum. Bum. Bum-bum.

 

Ci sono momenti il cuore non batte più, semplicemente esplode ad ogni respiro. Momenti in cui quello che hai per le vene non è più sangue, ma solo eccitazione.

 

Non solo gli artisti, non solo la folla. Tutti quelli che sentono musica sono trascinati in questo vortice inebriante.

 

Bum. Bum. Bum-bum.

 

E forse per la prima volta dopo tanto tempo sento le mie labbra distendersi in un sorriso. Enorme, largo sorriso.

 

L’aria crepita di tensione, ormai.

 

Poi, come in un sogno, la voce di Volkan nell’auricolare.

 

-blackout.

 

I fari si spengono uno dopo l’altro, mentre la folla reagisce con urla che salgono sempre più in alto verso il cielo di un blu cupo.

 

Apro gli occhi, trovandomi di fronte un’enorme lago di oscurità.

Tutto è buio, tutto e nero.

 

Poi, come in un sogno, i primi accordi dell’orchestra, i gorgheggi di preparazione del coro.

Osservo meglio il palco, sapendo già dove guardare.

 

Le piccole sagome che camminano sul tavolato di legno chiaro del palco prendono posizione, chi alle chitarre, chi alla batteria.

 

Ma niente sembra muoversi, nonostante gli urli entusiastici e bramosi della folla che vuole che questo concerto inizi.

E poi, nel silenzio più totale, osservo come un faro si accenda ad illuminare con una luce bianca e fredda la sagoma di una donna.

 

Una donna che canta con una voce che ti scuote dentro, fin nel profondo. E che io ho avuto l’onore di conoscere.

 

È  capo chino, ma i capelli sono acconciati in un trionfo tutto gotico.

L’abito è invece di raso cangiante tra rosso e viola, e la luce bianca gli dona una brillantezza cupa, fredda.

 

È piccola, minuscola in confronto al palco e apparentemente troppo fragile per reggere le urla che si sollevano come un’ovazione perpetua in suo onore.

 

Con un ultimo movimento della gonna arriva a pochi passi dal bordo del palco, e mi viene quasi il timore, irrazionale, che da un momento all’altro possa mettersi  piangere per la troppa tensione.

 

Ma è proprio in questo momento che una sua mano si solleva in un gesto imperioso, acquietando la folla. Si alza per riabbassarsi subito dopo, mentre l’orchestra inizia a suonare come se fosse stata appena sciolta da un incantesimo d’immobilità. Le voci che si sollevano dal coro rendono l’aria satura di aspettativa, e sembrano pronte a spaccare l’aria stessa, tanto sono potenti.

Ma, tanto forte come hanno iniziato, tacciono per una pausa.

 

Ed è allora che, come una nenia magica, la voce di Sharon risuona per tutto L’Hollywood Bowl, attirando suadente le emozioni di tutti i presenti, cancellandole, suscitandone di nuove.

 

Is it true what they say?
Are we too blind to find a way?
Fear of the unknown clouds our hearts today
Come into my world
See through my eyes
Try to understand
Don´t want to lose what we have

 

Non sento neppure la mia voce parlare con gli altri tecnici, non percepisco nient’altro all’infuori della musica che viene esplosa dalle casse con la forza di mille di decibel. Nonostante la protezione per le orecchie, nonostante sia nel backstage, tutto ciò che si sente è vibrazioni sorde che dalla pianta dei piedi serpeggiano sulle gambe fino a fondersi nello stomaco. La gola, perchè serve? Perchè cantare?

Ciò che si è diventati è una cassa di risonanza umana. Era da troppo che non provavo una sensazione del genere, era da troppo che non mi sentivo così viva.

 

Esplodimi dentro, mi verrebbe da dire.

 

Vorrei essere tutto e niente, in questo momento. Non vorrei pensare in un nulla, solo, semplicemente, solamente, sentire.

 

.-.-.-.

 

Tutto ciò che sento è ritmo, è musica. Non so come, ma sembra che il mio stomaco sia diventato la cassa dove risuonando batteria e basso, mentre le note della chitarra mi fascia le orecchie.

Ho perso la nozione del tempo da quando sono qui dentro, da quando sono pressato dalla folla e sento la musica impregnarmi la pelle come sudore.

Mi sono annullato dentro questo bagno di folla, decidendo staccare la spina per un po’ e vivermi questa valanga di sensazioni in santa pace.

 

E sono felice.

 

Qui, tra le ultime file, le più lontane dal palco, mi sento bene. Ogni tanto mi giro a controllare la situazione dietro di me, ridendo spudoratamente dell’immagine di Bill seduto sulle spalle di Tobi, eccitato e decisamente sconvolto. Tom, per l’occasione completamente in nero, si è appollaiato sulle transenne di fronte all’uscita. Ma la sua passione per il metal non è così viscerale dall’impedirgli di provarci alla grande con due dark che se lo filano interessate. Come a dire, Mr. Kaulitz non si arrende mai.

 

 Georg e Christa sembrano spariti, ma li ho visti andare più avanti un po’ di tempo fa. Tra i due, quella che va pazza per la voce di Tarja Turunen è Christa.

 

Mi giro un’ultima volta verso il palco, lontanissimo da dove siamo noi, una specie di nebulosa di luci psichedeliche e potenti, una scalata verso il cielo da cui la musica viene pompata nella folla, come in un’unica arteria composta da milioni di vene. Adrenalina alle stelle e orecchie in frantumi, mentre quest’overdose di doppie casse e decibel mi sta lentamente facendo tornare vivo.

 

Ma, incredibile a dirsi, anche quei mostri del rock che stanno calcando il palco da svariate ore sono umani. Quindi, io come tutta la folla, accogliamo con un boato di fischi l’inizio della pausa.

 

La musica tace, ed io mi sento improvvisamente svuotato, stanco.

Non in pace, solo spossato.

 

Poggiando la mano sul petto, sento il cuore battere i mille al minuto, mentre un respiro profondo mi fa capire che ho bisogno di aria.

Aria.

 

Do quindi le spalle al palco deserto e alla folla ancora urlante per cercare con gli occhi l’uscita.

Faccio quindi un gesto a Tobi, cercando di fargli capire senza l’ausilio della voce, che è morta dopo i primi venti minuti, visto quanto ho urlato, che sto uscendo.

Annuisce con un gesto stanco della testa, mentre Bill non smette di parlare un minuto, nonostante il gran casino.

Sorrido, stanco ma ancora eccitato, e riesco a districarmi dalla folla quel tanto da poter finalmente muovere le braccia senza rischiare di ritrovarmele rotte per la pressa.

 

Mentre percorro a passi rapidi il corridoio che porta verso l’esterno, cerco nella tasca dei pantaloni il pacchetto di sigarette. Saluto distrattamente la security fuori dall’ingresso, mostrando il mio biglietto.

 

Ed è solo silenzio.

Di fronte allo stadio sono state sgomberate le transenne che hanno tenuto a bada la fila, e per terra non restano che i residui degli accampamenti. La live brezza che viene dal nord muove distrattamente un pacchetto di patatine passeggero, che mi onora con una giravolta prima di sparire nelle zone d’ombra che i fari dello stadio creano, non riuscendo ad illuminare totalmente l’intorno. Come un gioco particolarmente divertente, mi piazzo all’esatto centro di un cono di luce, osservando quindi il cielo di un lattiginoso nero per colpa dell’inquinamento luminoso della città.

 

Ho le orecchie ancora abituate al frastuono del concerto, quindi è come se mi avessero riempito la testa di ovatta e avessero mischiato il tutto con colla. Ancora con il naso per aria a tentare di trovare qualche stella sperduta, afferro il pacchetto e l’accendino. L’osservo per alcuni secondi, prima di decidere di fare un gioco particolarmente stupido che facciamo sempre con Georg: tirare l’accendino dietro di se, e indovinare solamente dal rumore dove può essere caduto e a che distanza.

 

Sorrido quindi, e chiudo gli occhi. Poi, tiro. Cerco di sentire i rimbalzi sul cemento, nonostante mi arrivino attutiti per colpa delle orecchie ancora tappate.

 

Uno, due, tre.

 

Lontano, esattamente dietro di me, magari leggermente spostato a sinistra.

 

Strizzo gli occhi, per poi voltarmi ed aprirli.

 

E il blu (cobalto, cupo, scintillante, spesso) mi avvolge.

L’aria (carica, nervosa, satura, pesante) scompare, il mio cervello deraglia con un rumore di lamiere piegate che solo io posso sentire.

 

Le mie illusioni si infrangono sul pavimento di cemento, le mie difese, così scialbe e deboli, sono spazzate via dal primo alito di tempesta, che sento arrivare, pronto a farmi cadere, ancora e ancora. 

 

E, come un pugno dritto nello stomaco, Dorcas è di fronte a me.

 

.-.-.-.

 

Spossata. Questo concerto mi ha distrutta. Ergo, adesso che c’è la pausa di mezz’ora, chiedo il cambio e vado a respirare un po’ di aria buona. Credo che tutta questa anidride carbonica mi stia dando alla testa. E poi, non so perchè, una live sensazione di claustrofobia mi sta opprimendo il petto. Voglio uscire, adesso.

 

Sospiro, massaggiandomi gli occhi con una mano.

 

-Volkan, ti prego, lasciami andare via.

 

Una mano sottile e nervosa cala sulla spalla, quasi a rassicurarmi.

 

-Dorcas, sei sicura di stare bene?

 

Riapro gli occhi, cercando di rassicurare il Grande Capo con un sorrisino stracchiato, che sembra invece sortire l’effetto contrario.

Agito la mano in un gesto noncurante, cercando di sembrare sicura di me stessa nonostante l’inarcata del biondissimo sopracciglio e dello sguardo inquisitivo che sarebbero capaci di mettere in soggezione chiunque.

 

-Dorcas, allora che ti è sembrato?

 

Mi giro stancamente verso un ragazzo piuttosto giovane, ingessato in un abito di gala che lo fa sembrare più grande, effetto però smentito dalla scintilla di malizia nei suoi occhi castani. I capelli neri sono ricci per il suore dei riflettori e non mi piace affatto il sorrisino con cui mi guarda.

 

-molto bravo, Simon. Bravo, bravo, bravo. Sei o non sei il più giovane direttore d’orchestra della LA Philharmonic?

 

A valanga di complimenti è annullata dal mio tono ironico, ma lui non sembra essere minimamente toccato. Solo alla fine si accorge dell’espressione preoccupata di Volkan e della mia aria stanca.

 

-ma stai bene?

 

Inarco un sopracciglio, mentre mi tolgo l’auricolare dall’orecchio.

 

 

-sprizzo salute da tutti i pori, non vedi? Volkan, torno appena mi sento meglio.

 

Mi allontano quindi dai due, non senza prima essere importunata un’ultima volta da Simon.

 

-sicura di non volere compagnia, lì fuori?

 

Mi giro, senza smettere di camminare.

 

-ma chi vuoi che ci sia, Simon?

 

Gustav, ecco chi c’era.

 

È la prima cosa che vedo appena metto il piede fuori dall’uscita. Lì, piantato esattamente nel mezzo del cono di luce proiettato da un lampione, a gambe leggermente divaricate, mani in tasta e naso per aria.

Mi appoggio improvvisamente senza forza allo stipite del cancello, cercando di respirare il più piano possibile.

 

 

Senza fare rumore, girati e vai via, non guardarti indietro e reputati soddisfatta di averlo potuto vedere un’ultima volta. In silenzio, nell’ombra, scompari.

 

Come se lui fosse una calamita e io l’ago attirato inesorabilmente verso di lui, non posso che seguire con gli occhi ogni suo minimo movimento.

Cerca qualcosa nelle tasche, qualcosa che scopro essere accendino e pacchetto di sigarette. China la testa per probabilmente osservarli, facendo scintillare i capelli biondi, umidi di sudore per il concerto, alla luce giallastra dei fari che sovrastano l’entrata.

 

E poi, in un gesto che ho visto fare parecchie volte sia a lui sia Georg, lo fa saltare due volte nel palmo della mano e lo tira dietro di se.

 

E, come un crudele scherzo del destino, rimbalza una, due, tre volte fino a cadere ad un metro dai miei piedi.

 

E allora, so cosa fare. Respiro profondamente mentre le mie gambe vanno in automatico, avanzano, si chinano a raccogliere un accendino rosso, per poi stringerlo possessivamente nel palmo e continuare ad avanzare nella luce, verso il centro, verso lui.

 

Al rallentatore, lo vedo girarsi, fermarsi, respirare.

Respirare, strizzare gli occhi, aprirli.

Aprirli, guardare, realizzare.

 

-Georg è ancora più bravo di te con queste cose?

 

Pigolo io, con un tono che voleva essere ironico, ma che a me sembra odiosamente melodrammatico.

 

Lo osservo boccheggiare, realizzare.

 

E poi, con una gesto cauto, stendere il braccio, la mano, fino a toccare la mia, tesa a porgergli l’accendino.

 

Prese la mia mano, stringendola forte.

Come una scossa elettrica, la tensione che mi trasmetteva quella stretta mi fece contrarre i muscoli della mascella, stringere i denti e mi squassò il cuore con una forza che neppure dopo sei mesi di lontananza si era assopita. Era sempre lui, Dorcas, ma i suoi occhi sembravano essere stati sostituiti con due pozzi scuri. Stessi occhi, sguardo molto diverso.

 

Disilluso. Scrutatore.

Ma io cosa potevo avere di diverso da lui? Cosa ci vedi nel mio sguardo, nello sguardo inaridito dal rimpianto di Dorcas?

Ormai sei mesi più diverso. Sei mesi più tormentato. Eppure, eppure. Ti sei trovato? Hai toccato il fondo, per poi risalire definitivamente? Non c’è gloria ad essere buoni e bravi senza prima non aver sputato sangue.
Cicatrici sul viso, capelli lunghi e scarmigliati, forse fisico ancora più grosso e asciutto. E quegli occhi, sei mesi più vecchi.

Eppure, tra sogno ed incubo, ci sono ancora i tuoi occhi.

 

 

 

.-.-.-.-.-.-.

 

 

 

Nella mia testa

C’è sempre stata una stanza vuota per te

Quante volte ci ho portato dei fiori

Quante volte l’ho difesa dai mostri

 

Adesso che ci abito io

I mostri sono entrati con me

 

© Michele Mari – Cento poesie d’amore a Lady Hawke

 

 

 

.-.-.-.-.-.-

 

La citazione della canzone cantata da Sharon sono © dei Within Temptation, See Who I Am.

 

 

Sentite, parliamone. Tutto questo non è normale. Io che aggiorno due volte in due settimane? E che cos’e, un miracolo?

Non lo so, comunque, ho aggiornato. Ho fatto in fretta, e, maledizione, tutto per colpa delle maledizioni congiunte di Gustav e Lady notorius.

Il primo perchè mi ha fatto svegliare alle nove e mezza e non sono più riuscita a dormire, la seconda perchè voleva il capitolo e mi ha minacciato per questo. T.T

Che poi, mi sono fregata lo stesso: mi piccherà comunque. E il perchè, lo sappiamo solo noi due. XDXDXD

E sappiatelo, popolo: la scena di rabbia l’ha pretesa lei, quindi a lei gli onori e le eventuali smadonnate.

 

Detto questo, lodi a plausi alle mie tre, ben tre, beta-reader: Lales, la Boss, Lady notorius, la Crudele (XD) e (new!) Lady Vibeke, che a momenti mi prendeva a testate telefoniche perchè non mi aveva potuto betare prima.

 

Sappiatelo, io vi amo. *____________________*

 

Per il resto, una dedica va anche a _Princess_: sappilo, se ho scritto più in fretta e postato prima è stato anche per rallegrare le tue di giornate. XD

 

Ma io non amo solo loro: voi che mi avete tra preferiti, grazie.

Voi che solo mi leggete, grazie.

 

E sappiatelo, avete tempo due capitoli (Chap finale + eventuale epilogo) per farvi vivi. XD

 

Danke

Grazie

Gracias

Merci

 

NeraLuna: sappi che io ti AMO. Incondizionatamente, senza riserve. È un commento bellissimo quello che mi hai scritto, mi hai scaldato il cuore. <3 Non so veramente come poter esprimere la mia felicità, perchè non solo ti piace, ma apprezzi, addirittura di più, il fatto che sia atipica per trattare di Schäfer, piuttosto che di uno dei K’s. A me mancano parole, ma mi fareve un’enorme piacere parlare di più con te ** ergo, se vuoi, il mio msn è: ellie-bd@hotmail.it

Grazie di tutto di nuovo. *___*

 

_Princess_: sappi che senza la tua ff non mi sarei mai riavvicinata ai TH. Non mi sarei mai appasionata a loro, non avrei mai iniziatato ad amare i G’s überalles e non avrei iniziato a scrivere. Ergo, tutto ciò che posso fare per te lo faccio di tutto cuore, anche postare mooolto prima. <3

 

Lady Vibeke: con te ne parliamo dopo, solo questo. Perchè io e te ci dobbiamo sposare, se non te ne sei dimenticata. XD o somma sacerdotessa el gustavesimo, non puoi infarcirmi di complimenti così, non voglio illudermi, insomma! Però, resta un danke grande quanto una casa. XD

 

simmyListing: grazie, grazie, grazie, mi fedele. Per essere rimasta, per continuare a dedicarrmi sempre parte del tuo tempo. <3 e scusa se non so dire altro, ma è veramente l’unica cosa che mi sovviene in questo momento. XD

 

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Capitolo 10
*** Falling in Love is Wrong... ***


E fu un instante così eterno, che mi chiesi se fosse mai possibile che ogni santa volta quegli occhi troppo scuri, troppo caldi, al cui interno turbinavano emozioni così difficili da interpretare da non essere interpretate affatto, mi dovessero annientar

Warnings:

·         29 pagine di capitolo.

·         Occhio alla sottile linea rossa, caVe. Se l’ho messa è perché HOT is better. XD

 

 

 

10. Falling in Love  Wrong…

 

 

 

Mi  concedi un posto nel tuo cuore

Ma non nella tua vita.

 

Allora ti avverto che dentro

Farò un tale casino

Che il cuore rivelatore di Poe

Sarà al confronto

Un cuore silenzioso.

 

© Michele Mari – Cento poesie d’amore a Lady Hawke

 

 

 

 

E fu un instante così eterno, che mi chiesi se fosse mai possibile che ogni santa volta quegli occhi troppo scuri, troppo caldi, al cui interno turbinavano emozioni così difficili da interpretare da non essere interpretate affatto, mi dovessero annientare così.

 

Ci sono sguardi complici, sguardi infuriati, maliziosi, indifferenti.

 

Ma quello non era uno sguardo.

      Quello era un esame in piena regola.

 

Erano due specchi neri, dove la luce non sembrava entrare. E l’unica cosa che potevo fare era sentirmi frugare fino in fondo all’anima da due occhi che sembravano averne perso una.

Quello era il caos, e io dovevo riuscire a non dissolvermici dentro.

 

 

Era una sfida a mantenere gi occhi al suo stesso livello, mi sfidava tacitamente ad obbiettare alla durezza con cui mi frugavano dentro.

 

E io, per l’ennesima volta in quei giorni, mi sentii priva di corrazza, della mia accogliente e graffiata corrazza fatta di bugie e lacrime.

 

Ero indifesa, ancora una volta.

Ancora per colpa sua.

Ancora, e ancora, e ancora.

Sarebbe dovuto essere sempre così?

 

Sempre costretta alla battaglia, sempre stanata dal proprio rifugio, perennemente perseguitata ed eternamente oggetto di delusione?

 

Non ho chiesto io di nascere.

Non l’ho mai fatto.

 

Però sono pronta a dare battaglia, nel caso si oltrepassi di troppo la linea di demarcazione.

E lui, Gustav, l’ha oltrepassata da un pezzo.

 

Chiusi gli occhi, respirando piano.

E sciolsi la stretta delle nostra mani con un breve strattone, più che sufficiente data la poca forza con cui lui stringeva.

Cercai di ordinare al cuore di pompare meno sangue, ma non ci fu verso.

 

Come le vertigini che in un crescendo d’intensità accompagnano la caduta da un punto in alto, troppo in alto per non farsi male cadendo, così la mia mano stava per iniziare la tremare.

Serrai le labbra, contraendo i muscoli della mascella.

 

Per poi riaprire gli occhi, rilassare il viso in un’espressione vuota ed indifferente, mentre la mia voce, atona, sembrò spandersi come olio nell’aria rarefatta tra noi due.

 

-E tu che ci fai qui?

 

E mi sentii invincibile. Per un’eterno secondo, ero io quella che, tra i due, ne stava uscendo vincitrice. Lo scrutavo con occhi vuoti, privi di qualsiasi cosa che non fosse un desolante fastidio.

E noia.

 

Sono sempre stata geniale, con le maschere.

Ma quelle dell’indifferente, impermeabile ai graffi degli altri ed alle mie stesse urla, quella maschera che aveva ceduto in pochissime occasioni, beh, quella era il mio unico vero vanto ed orgoglio.

 

 

...

 

 

Ed è come se un fiammifero desse fuoco a una pozza di benzina.

 

Il suo gesto di scuotersi di dosso la mia mano, il mio sguardo, la mia intera presenza, scrollando semplicemente le spalle e stringendo stringendo le palpebre in un’espressione diffidente, mi fa ammattire.

La vedo così chiaramente allontanarsi da me che a malapena posso trattenermi dall’allungare una mano ed afferrarla di nuovo, per impedirle di dileguarsi.

 

Si allontana da me di un passo, chiude la sua mente in un compatto cofanetto blindato, cerca di mettere terra tra noi due.

Cerca ancora di buttare acqua su quello che io so che proviamo. Il solo fatto di creare così poco scompiglio apparente nella sua “nuova vita” significa che, forse, non ho mai smesso di farne veramente parte.

 

Se sei mesi non mi hanno annientato, se sei mesi non mi hanno pesato come sei anni, se sei mesi non sono stati l’inferno in terra, allora io finirò definitivamente annientato da quest’occhiata indifferente con cui mi viviseziona, accompagnata da un cipiglio deciso, la bocca stretta in un’unica linea sottile priva di colore le cui labbra si schiudono per un breve, terrorizzante, attimo .

 

-Che ci fai tu qui?

 

Che ci fai tu qui?

 

Ogni singola lettera è come lava nel sangue e fuoco sulla pelle: dolore allo stato puro. Ho ancora un cuore, da qualche parte?

Penso che me l’abbia appena strappato.

 

Abbasso la mano che l’ha stretta, sentendo come la pelle che l’ha sfiorata piange perchè non ne sente più il calore. E anch’io, dentro, vorrei piangere.

 

Piangere su quest’immagine di lei con i capelli assurdamente corti, abiti troppo larghi e niente trucco per ingentilire il pallore cadaverico delle sue labbra, della sua pelle.

Vorrei piangere sul fatto che siamo uno di fronte all’altra e la sento lontana come non mai, vorrei piangere su ciò che sembra essere tipico dei nostri incontri: il dolore.

 

Perchè sono stato buttato qui? Perchè sono ancora vivo, perchè continuo ancora a sentire così distintamente come tutto, tutto, tra noi sia rabbia e vuoto e disperazione?

 

Chiudo gli occhi, cercando di trovare un patetico riparo nel mio buio personale, l’unica cosa che sembra rimanere immutata in questo vortice di tensione che è come palpabile tra di noi.

Chiudo gli occhi perchè i suoi occhi bruciano, ghiaccio senza alcuna pietà premuto con forza sopra pelle dolorante e rossa.

 

-Come hai fatto a trovarmi?

 

Però il suo tono è freddo, inquisitorio. È soverchiante, passa come acido tra le mie palpebre e le spalanca ancora una volta, solo perchè io possa di nuovo vedere la sua figura mingherlina e la sua espressione granitica.

 

-Trovarti?

 

Il mio tono è attonito.

Ripeto l’ultima parola, come chi non ha capito bene.

Perchè io non voglio capire.

 

Scuote la testa con un verso scocciato, incrociando le braccia.

 

-Come possiamo esserci rincontrati dopo che io sono venuta qua in America? Come puoi aver saputo che io ero qua?

 

Sciolgo i pugni, sollevo le mani di fronte a me. Un gesto sia per fermarla, sia per difendermi.

 

-Qua?

 

I suoi occhi azzurri, come lava gelida che scorre turbolenta, mi fulminano. Di nuovo. Spalanca le braccia in un gesto scocciato, eppure così simile ad un grottesco abbraccio. Abbraccia il nulla, il nulla dove vorrei trovarmi io adesso.

 

-Gustav, smettila di ripetere come un cretino!

 

Come una frustata nell’aria immobile, il suo tono colpisce duro, cattivo.

 

-Cosa. Ci. Fai. Qui?

 

Scandisce ogni parola con cura, la voce grossa, tutta la ragione dalla sua parte. Secondo lei.

 

-Io seguirti?

 

Mi colpisco il petto con una mano, parlando piano.

Lei però sobbalza, come se le avessi urlato contro.

E cosa succederà quando lo farò?

 

Fuggirà via come ha sempre fatto, forse. Perchè Dorcas fugge, non affronta, ferisce e lascia gli altri a leccarsi le ferite, piange e non si fa consolare, piangendoti in faccia solo per farti sentire peggio.

 

E come lacrime che puzzano di gas, come lacrime al vetriolo che cadono sopra la nostra pelle, così il dolore si moltiplica per ogni momento di silenzio, ed è stillicidio di dolore, agonia di quel poco che resta di me.

 

Alzo la voce. Mi avvicino di un passo.

 

-Io seguirti?

 

Lei indietreggia di un passo, pur non cambiando espressione. Guardinga, sull’attenti, pronta a mordere se io scatto.

 

Spalanco le braccia in un gesto di rabbia, stirando l’angolo della bocca in un sogghigno.

 

-Ti credi così importante?

 

Deglutisce vistosamente.

 

-Cosa fai allora qui?

 

Occhi al cielo da parte mia.

 

-E’ che non posso più guardare un concerto dei Metallica in santa pace?

-Non quando io sono il tecnico del suono, Gustav.

 

Ritrorno a cercare i suoi occhi, occhi che devo fulminare, devo vedere spalancarsi in un’espressione terrorizzata. È benzina quella che mi scorre nelle vene, adrenalina che mi pulsa nel cervello, facendomi sfiorare il confine della pazzia. Ancora una volta, ancora per colpa sua.

Lei mi farà morire!

 

-Perchè dovrebbe fregarmene qualcosa, se tu ci sei o no?

 

Sussulta, spalanca gli occhi, ma si ricompone.

Ma non mi basta, non è mai abbastanza.

Io conosco Dorcas, intuisco meglio degli altri cosa prova e cosa no. E adesso l’unica cosa che ci separa è ciò che abbiamo lasciato in sospeso, ciò che non abbiamo affrontato prima per paura di farci del male.

 

-Ti ho solo visto in tv, Dorcas. Su una cassa a dare ordini, poi a scherzare con il tuo direttore d’orchestra. Perchè avrei dovuto preoccuparmi del fatto che tu non saresti stata dietro il palco, mentre io andavo a prendere una boccata d’aria?

 

Piega la testa su una spalla, continuando a scrutarmi sospettosa.

 

Ma tutto questo deve finire. Sono stanco, sono sfibrato dall’attesa, logorato dai dubbi, e mi sono lasciato prendere troppe volte per il culo dalla sua paura di affrontare il dolore. Ha la maschera più resistente che abbia mai visto, ha un bagaglio di ricordi che non la lascia vivere.

Perchè lei non vuole realmente vivere. Lei ne ha paura!

 

-Allora mi sono sbagliata.

 

Gira la testa da un’altra parte, incrociando di nuovo le braccia.

 

In questo sei bravissima, vero, Dorcas?

Gira la faccia da un’altra parte! Lavatene le mani ancora, e ancora, e ancora!

 

Ma c’è ironia in tutto questo, no?

 

E allora stiro le labbra in un ghigno. E rido, rido con il dolore che mi balla in petto, e lei a pochi metri, ma anni luce, da me.

 

Dorcas si gira di scatto, osservandomi con la coda dell’occhio.

 

-“Allora mi sono sbagliata”?

 

Scuoto la testa, disperato.

Mi passo la mano sul volto.

 

Sono stanco!

 

Stanco di tutto, stanco di stare impazzendo e soffrendo e...

 

-Su cosa, esattamente?

 

Chiedo io, improvvisamente serio.

 

Mi guarda negli occhi, adesso.

E cosa ci vedi nei miei occhi, Dorcas? O meglio, cosa non ci vedi?

Tutto ciò che mi hai portato via? Il vuoto che hai creato dentro di me è l’abisso più scuro con cui mi sia mai dovuto confrontare, e non ne vedo il fondo, non lo vedo perchè è un’abisso che ti contiene tutta e tu, semplicemente, non hai fine.

Sei ciò che mi fa andare avanti, nel bene e nel male.

 

Nel bene e nel male.

 

Si stringe le spalle, ora.

Povera, povera piccola...

Che qualcuno ti debba aiutare a togliere la maschera?

 

Stringo la bocca e i pugni, avanzo verso di lei fino ad rendere nullo il poco spazio che ci separa.

 

-Su cosa, esattamente...?

 

Ripeto la frase più lentamente, scandendo tutte le parole e respirando la sua stessa aria.

L’ossigeno si rarefà di colpo, la tensione si taglia a fette.

E in tutto questo, lei.

Piccolo esserino infagottato in abiti troppo larghi.

E i suoi occhi spalancati, in cui turbinano sentimenti in rapida successione, tale da farmi venire il capogiro.

Eppure io sento che in lei c’è ancora qualcosa, lo sento, perchè è come se i suoi occhi, anche nella sofferenza, brillassero più dei miei, provassero di più, potessero comunicare di più.

E io lo so cosa cosa può essere, come può avere di più di me.

 

Cederle il potere di fare di me quel che vuole non è forse cedere la propria anima a qualcun’altro?

 

-Dorcas...

-Non lo so.

 

Rimango fermo là, di fronte a lei e alla sue espressione combattuta, i suoi occhi che improvvisamente sono scattati dal mio viso al pavimento ai miei piedi.

 

-Cosa non sai?

-Cosa credevo prima. Mi sono solo sbagliata. Su tutto.

 

La sua voce cede, cade, crolla di due ottave in sotto. S’incrina e si spezza come vetro troppo fragile, eppure non è abbastanza.

 

Non sarà mai abbastanza finche tutto questo non finirà.

 

-Suoi tuoi sospetti del perchè io fossi qui? Su di me, sui tuoi sentimenti, sul fatto che per l’ennesima volte hai fatto la cazzata di sparire?

 

Ad ogni domanda un sussulto, ad ogni sussulto nuovo dolore.

 

-Su cosa esattamente, Dorcas?

 

Si stringe ossessivamente tra le braccia, non mi guarda. Eppure la piega della sua bocca esprime rabbia. È pronta a difendersi, credo.

Di fatti si gira e mi squadra, occhi lucidi e tremito di dolore all’angolo della bocca.

 

-Su cosa? Lo vuoi veramente sapere?

-Entro domattina, magari.

 

Prende un respiro più grosso, sempre continuando a frugare dentro di me, mettendomi perennemente a soccquadro.

 

-Ho sbagliato ad essere ancora qui, a fuggire, a baciarti, ad interessarmi a te, lavorare per i Tokio Hotel... a non morire quando era tempo di farlo.

 

Forse non è stata la risposta migliore che potesse dare. Non a me, non in queste condizioni, non adesso.

 

-No, Dorcas. Se vuoi pentirti fino in fondo devi pentirti di essere nata, di essere umana, devi pentirti del fatto che Dio ci ha fatto in grado di soffrire per le fottute nevrastenie di qualcun’altro, nevrastenie che mi faranno impazzire, lo so.

 

La mia voce bassa sibila e colpisce come uno schiaffo a tradimento, ringhia in contrapposizione alla sua voce flebile.

 

E vederla socchiudere gli occhi ancora una volta, stringersi più forte tra le sue stesse braccia, rincantucciarsi in se stessa come un cane ferito dal cattivone di turno mi fa impazzire ancora una volta.

Si spera che sia l’ultima.

 

-Cazzo, Dorcas, SCUOTITI! Smettila di comportarti come se tutto il mondo ce l’avesse con TE!

 

Lei spalanca gli occhi come se l’avessi aggredita fisicamente.

Brucio dalla voglia di prenderla per le spalle e scuoterla, scuoterla finchè non la smetterà di comportarsi come se il mondo le volesse male!

 

Come se lei non ce le avesse le palle per mangiarseli tutti a colazione!

 

-Tu non sai di cosa parli.

 

Scuote la testa, spalanca la braccia. E qualcosa si accende dietro a quei due vuoti specchi azzurri.

Finalmente.

 

-Sì che lo so, Dorcas...

- non lo sai, smettila!

-E INVECE LO SO, PERCHÈ IN QUESTI SEI MESI NON È STATO ALTRO CHE L’INFERNO IN TERRA PER ME, E MI SONO STANCATO DI SENTIRTI DIRE CHE NESSUNO TI PUÒ CAPIRE, DORCAS!

 

Smetto di gridare, ansimando perchè non ho più fiato. L’ha bruciato l’incendio senza fiamme che sembra essere divampato qui, nei pochi centimetri che ci separano.

 

Ma lei, come sempre, non riesce ad affrontare la mia vicinanza, non riesce ad esplodere.

 

Quindi, cerca di spingermi via. Fa pressione con le sue manine sul mio petto, cerca di spintonarmi via con una forza che non credevo avesse, i tratti del viso contratti e fiato corto.

Ma non stavolta, non più.

Quindi le afferro i polsi, tenendoli fermi quando cerca di strapparli dalla mia presa.

Ma io non la lascerò andare, basta.

 

Quindi strattono, facendo cessare ogni movimento da parte sua.

Movimento fisico, s’intende.

Il suo fiato brucia e gela la pelle, e gli occhi sprizzano scintille.

 

-E così mi credi solo una vittimista? Credi che io non sappia come vanno a finire questa cose?

-Quali cose?

-...Dolore, angoscia, e illusioni, illusioni su illusioni come una droga che costa poco!

-QUALI COSE?

 

Stringe gli occhi, contraendo la mascella.

 

-Quelle in cui tu ti ostini a credere, Gustav! Tu t’illudi che ci sia futuro, che per me c’è una possibilità, ma io lo so, lo so che non ci potrà mai essere perchè io ogni volta rovinerò tutto...

-Non è vero!

 

Non tace, continua a parlare e quando capisce che cerco di zittirla, solleva la voce fino a farmi entrare in testa ciò che lei sta dicendo.

 

-E’ vero, perchè io rovino sempre tutto, Gustav! Solo troppo disillusa per credere in qualcosa come questo, non marcerebbe mai come tu t’illudi che farebbe!

-NON È VERO!

 

Ma stavolta tocca a lei scuotermi.

 

-SAI L’UNICA COSA VERA, IN TUTTO QUESTO? È CHE INNAMORARMI DI TE È STATO SBAGLIATO!

 

E stavolta non si deve neanche agitare per liberarsi, perchè sono io che la lascio andare. Perchè un colpo in pieno stomaco, un colpo in pieno petto, non so se riuscirò ad assorbirlo.

 

Ed è sangue, il sapore di quello che mi sento in bocca, è dolore quello che mi esplode in petto.

Ogni singola fibra del mio corpo sta gridando, ma nulla sta gridando come l’eco della voce di Dorcas nella mia testa. E mi chiedo, attonito, come posso essere ancora vivo, ancora in piedi, dopo tutto questo.

 

Boccheggio.

 

Cosa si può dire, quando non ci si ricorda neppure come si fa a respirare?

 È il rifiuto più nero quello che mi sconquassa da dentro, quello che distrugge quel poco che rimaneva in me. E sempre attonito, mi chiedo come faccia a essere ancora integro, come il mondo non si accorga che sto vivendo, respirando, con un mostro in petto e il mio cuore conservato in un barattolo pieno di formalina tra le braccia di Dorcas.

 

Dio, mi manca l’aria!

È troppo compatta per essere respirata, è pesante come piombo, mi sta dilaniando i polmoni ad ogni nuova boccata.

Dio, Dio, Dio!

Perchè sono ancora vivo?

 

Lei abbassa gli occhi, le spalle cedono.

Ed è dolore, quello che le contrae i lineamenti.

E capisco che anche questa volta ha vinto lei. Che ha una maschera talmente dura, talmente abbarbicata alla Dorcas che non viene mai allo scoperto da essere disposta ad annientare chiunque cerchi di tirarla in superficie. Eppure, se devo morire come sto facendo, non lo farò con questo peso sulla coscienza.

 

Quindi sbatto gli occhi, come se mi stessi svegliando da un largo sogno. Un eterno incubo. Prendo fiato e parlo.

Parlo.

 

-Tutto è sbagliato, allora. Mi sono sbagliato io, su tutto. Mi sono sbagliato sul fatto che tu avessi le palle per affrontare tutto ciò, come hai sempre affrontato tutto il resto. Mi sono sbagliato a credere in te, ancora una volta.

 

Tono basso, monocorde. E non voglio più vedere, per favore. Così, chiudo gli occhi. E continuo questo mio sconclusionato discorso.

 

-Ho sbagliato a ridere di ogni tua battuta, a tenderti la mano per salire dal palco, mi sono sbagliato a farmi fasciare le dita da te, mi sono sbagliato ad osservarti una mattina e trovarti così piccola e bella da farmi venire le vertigini. Mi sono sbagliato a continuare a credere in ogni tua parola, ho sbagliato a baciarti ed a illudermi, ho sbagliato a continuare a credere.

 

Solo, non voglio piangere. Solo, dopo questo io voglio solo morire.

Guardandola negli occhi. Quindi li riapro e cerco i suoi.

 

-Mi sono sbagliato a soffrire per te, a lottare per un “noi”. Ho sbagliato e continuo a sbagliare, e un altro sbaglio è il fatto che io sia orgoglioso di tutto questo.

 

Come pozze di ghiaccio bollente, la tempesta di dolore che si avvicina galoppando, così nei suoi occhi si può distinguere un intero universo.

 

-Ed è proprio sbagliato ripeterti, anche qua, anche adesso, che io ti amo. E non m’importa se è sbagliato, non m’importa se tu dici che non si può.

 

La guardo dall’alto, l’osservo un’ultima volta.

 

-Non si può o non vuoi che si possa?

 

 

...

 

 

Ed è sempre così.

E sarà sempre così.

 

Ogni dannata volta, Gustav, ritorneremo al punto di partenza, a quel nodo che ci tiene indissolubilmente legati e che ci fa dannare, quella nostra catena che ci strozza, che c’impedisce di viverci come dovremmo fare.

 

È quel dannato problema che non abbiano mai risolto, il problema che non ha nome volto, che è fatto da tutto e da nulla. Perchè quel problema, semplicemente, siamo noi.

 

Ed ogni volta cadremo, e ci piangeremo addosso e c’illuderemo che l’abbiamo superato, che ce l’abbiamo fatta, che quello è il nostro traguardo, l’equilibrio definitivo.

 

E adesso che ho la gola in fiamme, i polmoni che risucchiano aria per mantermi viva, lo stomaco che sembra essere un tutt’uno bollente con il mio cuore, mi ritrovo a guardarti così, senza parole.

 

E mi va bene così.

 

Riesco a capire solo vagamente cosa posso averti riversato addosso in questi ultimi minuti, eternità brevissime che saranno una svolta da cui ripartire per costruire tutto.

Era tempo di gridare, per me.

Era tempo di farmi scoppiare il cuore, di disotterrarlo con la forza della disperazione, di tirarlo fuori e districarlo e strapparlo dalle catene delle bugie che mi ero raccontata.

È stato doloroso, sai?

Così doloroso che ho dovuto gridare, e farmi del male, e raschiarmi la gola e cercare un disperato motivo che ti facesse crollare.

 

Perchè io voglio ancora che tu crolli.

Io ci sanguino, a vedere le mie menzogne spazzate via. Percepisco distintamente il livido che si sta formando dentro di me, le vene che si rompono, i graffi che mi sono fatta nella speranza di trattenere ancora per un po’ quelle illusioni nocive dentro di me. Anche se fanno male.

Ho i palmi segnati dalle mie stesse unghie, ho il fuoco del tuo sguardo che m’impazza dentro, e lo sento covare nella cenere di qualcosa che ho creduto, sperato, fino all’ultimo di essere io.

 

Crolla, ti prego.

Dimostrami di non essere così determinato, dimostrami di non essere così deciso a salvarci.

Puoi salvarti, Gustav Schäfer?

Puoi salvarmi?

 

Puoi...

 

Manca il fiato, mi brucia la gola, lacrime agli occhi e i muscoli delle labbra che fanno male.

E sento le mie spalle abbassarsi, rilassarsi contro il mio ordine, le mani scendere, aprirsi doloranti e con difficoltà per i crampi di quanto le ho strette. E abbasso gli occhi, ma li dovrei rialzare.

E dovrei asciugarmi quelle lacrime tradicitrici.

 

-Puoi salvarci?

 

Non so se l’ho sussurrato o gridato, ma la sua reazione è un sobbalzo.

La mia voce è irriconoscibile, rauca... trepidante, sottile, impaurita e assurdamente speranzosa.

 

Non ci devo credere, non ci devo credere.

Per me non c’è futuro.

 

Perchè ti sento così assurdamente vicino?

Smettila di guardarmi così.

 

Mi perdo ancora, ancora una volta, nella forza del tuo sguardo, nel fatto che cambia ogni giorno, ogni momento, ogni secondo. Hai occhi castani che sono un pugno nello stomaco, e sono così assurdamente chiari, quasi trasparenti per me, che mi stupisco anche che non siano realmente scritti, quei pensieri che vi vedo vorticare dentro.

 

E le mie mani tornano a rialzarsi, solo per stringersi attorno alle mie braccia, solo per cercare conforto in un gesto che fa capire quanto sia fragile, in questo momento. Sono sull’orlo di un burrone, adesso.

E sul fondo ci sei tu.

 

E sull’orlo, dietro di me, impazza il fuoco.

 

Lo stesso fuoco che vedo riflesso in te.

Tutto è sbagliato, adesso.

Tutto sta andando a puttane.

 

È solo rabbia ciò che sono destinata ad incontrare?

È solo rabbia, ciò che vivo?

È solo rabbia ciò che suscito?

 

È solo rabbia?

 

Sono stanca.

 

Sono sfinita. Sfibrata, assetata, afflita, distrutta, rattopata come una vecchia bambola di pezza troppo usata.

Cos’altro volete da me?

Cosa cercate in Dorcas?

Sono solo un fottuto essere umano che non avrebbe mai voluto nascere.

Mi sentite?

 

-Io non volevo tutto questo.

 

Perchè la mia bocca non sembra essere più in grado di produrre saliva?

 

Strofino le mani sulle braccia, cercando un calore che so di non poter trovare.

Schiocco la lingua, mentre sento i miei occhi infiammarsi, le sopracciglia contrarsi.

 

E se mi guardo intorno, vedo solo macerie. Sono ancora al limite, al bordo, a braccia aperte. E non ho più nulla da far sbattacchiare dal vento, non gonne dei troppi strati, non capelli ricci lacci di corsetti.

Non ho nulla.

 

Solo inchiostro, e tutto ciò che mi è sempre rimasto da ogni distruzione.

Continui a guardarmi così fissamente, e io so che tu stai vedendo ciò che realmente sono. Sei lì, ad aspettarmi al varco.

“O me, o il fuoco”, sembri dire.

Illuso.

Non vedi come io sono già stata ustionata?

Sono la sposa dell’incendio, e mi sento viva solo quando il mio cuore è un ammasso di cenere grigiastra.

 

-E non c’è più nulla da fare.

 

Quanto vale per te quella cenere?

 

E come un fiume in piena, come se non fossero semplici lacrime ma sale liquido, come se tutto l’alcool del mondo mi stesse disinfettando ferite che non sospetavo essere così profonde ed infette, sento le guance ardere come lava.

 

Quanto vale per te quella cenere umida di lacrime?

 

E l’unica cosa che vorrei fare è nascondermi, e scomparire, e saltarlo sul serio quell’orlo, ma per finire in un abisso nero che non sia rischiarato dalla tua esistenza.

Voglio ritornare nel mio buco umido e solitario, senza che nessuno mi ricordi quanto è bello il sole.

 

E chiudo gli occhi, sentendo l’ennesima coppia di lacrime gemelle scendere, intridersi dello sporco della mia faccia e cadere a terra con un plic! umido.

E chiudo gli occhi, sentendo la tua presenza farsi vicina ed inquietante, troppo presente, immediata, che esige risposte istantanee perchè mi ha lasciato fin troppo tempo per pensare, un tempo che ho utilizzato male preparando delle scuse piuttosto che delle certezze, delle affermazioni.

 

-Tu non puoi fare nulla.

 

Ed un singhiozzo mi sconquassa il petto senza che io gliene abbia dato il permesso, e mi fa star male, e contrarre il cuore.

Era un tono così definitivo, certo.

Un giudizio inappellabile.

 

Se anche chi mi vuole salvare mi reputa inadatta alla salvazione, come potrò mai...?

 

-Non se non me lo permetti.

 

E dal calore che mi ustiona il viso, posso capire che sei troppo vicino a me perchè ti possa ricacciare indietro negli abissi della mia coscienza per l’ennesima volta.

Non c’è più scampo, via di fuga.

 

La tua voce mi raspa dentro come carta vetrata, fa scintille contro i cocci del mio scudo, rende polvere la vecchia vernice nera.

Ed improvvisamente, mi rendo conto che essere messi di fronte a se stessi è una cosa terribile.

E vedo tutti i miei sbagli, tutte le mie vittorie, con la chiave con cui le avrei sempre dovute giudicare.

Polvere alla polvere.

Mi sono intossicata di bugie finchè c’è stato scampo, mi sono annullata quando ero agli sgoccioli. Tutto un enorme percorso per arrivare a questo?

 

Perchè devo provare il dolore di capire che ho le ginocchia sbucciate per le troppe volte che sono caduta e le pieghe delle mani sporche di una terra che non va mai via per tutte le volte che mi sono dovuta rialzare?

 

Sento i miei nervi sensibili al minimo spostamento d’aria, tutto il mio corpo adesso sente, ipersensibile perchè esausto.

E mi manca la terra sotto i piedi, ed è ciò che si sta facendo spazio a gomitate dentro di me, quello che mi sta facendo abbassare le spalle, ancora, e riaprire gli occhi, appena una fessura.

 

-Ti prego, fammi capire che sei ancora viva.

 

Non sembra essere una battuta.

Non per quel tono basso, pentrante, vibrante.

 

Mi risuona dentro, come quando il tamburo non suona negli amplificatori, ma nel tuo stomaco.

Mi sento le orecchie a pezzi, la fronte rossa, gli occhi bruciare.

 

Scuoto la testa in una maniera goffa, come se mi fossi dimenticata come ci si fa a muoversi.

 

Sono gonfia.

Satura.

 

Una supernova che solo vuole esplodere, per lasciare il nulla dietro di .

 

Un singhiozzo. Un’altro.

E un altro ancora.

 

Ed è oscillare senza equilibrio per alcuni secondi, prima indietro, poi in avanti.

Ed è trovare qualcosa di solido, di caldo, di pulsante, su cui appoggiarsi.

 

L’unica cosa che resta, per cadere con malagrazia e farla finita con uno schianto rumoroso contro il fondo del burrone, è appoggiare la fronte, poi le mani.

Aggrapparsi al tessuto di cotone ed esplodere.

 

Esplodere in mille scintille esauste, sentire le ultime piume di due alette rachitiche cadere in terra con un fruscio smorto.

Capitoli, cedi.

Muori.

 

Lasciando il nulla dietro di te.

 

Ma non sembra essere finita qua.

Io ho smesso di esistere, ma qualcosa batte ancora.

Posso sentire il suo respiro pronfondo. Un respiro che trova un eco nel mio.

 

Ho trovato un appiglio, forse.

Ma non l’ho trovato io.

Non l’io che ero fino a poco fa.

Non l’io che hanno conosciuto in tanti.

 

Continuamo ad aderire l’uno all’altro. So che se in questo momento mi scostassi, cadrebbe.

Cadremmo.

 

E sarebbe definitivo.

 

Ma non lo sarà.

Perchè non me l’aspettavo, ma quel nulla che mi porto dentro da un’eterno istante, ha una voce.

Una voce molto familiare.

Cristallina, limpida.

 

Quella limpidezza che non ricordavo avesse mai posseduto.

 

Lavato ciò che è scampato all’incendio, cosa resta?

Il tuo fiume d’inchiostro non è stato un caso. Il tuo fiume d’inchiostro è l’unica cosa che abbia mai contato.

Mi senti?

Mi stai sentendo?

Tutto ciò che hai cercato di credere su te stessa, tutto ciò che eri, non lo sei in realtà mai stata.

Tu sei nata con un braccio destinato ad essere diverso dall’altro.

Tu sei nata per avere inchiostro in svariate zone del tuo corpo.

 

Tu sei nata prima come disegno, poi come persona.

 

Tu non sei nulla che si possa spiegare a parole, tu sei tutto ciò che nessuno ha mai potuto descrivere.

Nessuno è ciò che dice di essere, tanto meno tu.

 

È come diamante puro, non più cristallo, lo scudo che sembra formarsi attorno al mio neonato Io. È come acqua gelida che passa via senza lasciare nulla se non me stessa.

Me stessa, e ciò che mi fa sentire viva.

 

E improvviamente capisco che quel nulla che mi è rimasto dentro non è tanto soverchiante come io avevo paura che fosse. Non è nero, è semplicemente incolore. Non è vuoto, è semplicemente pieno.

Di nulla.

 

Le lacrime scompaiono alla stessa maniera di come sono venute: gli occhi smettono di pizzicare, le scie si seccano con sorprendente rapidità. Riprendo a respirare lentamente, ogni boccata d’aria come se fosse la prima.

E non ha bisogno di essere identificato con un’odore particolare, adesso.

Semplicemente, respiro lui. La sua stessa aria. L’odore caldo della sua pelle.

 

E mi sento dannatamente bene.

 

Smetto di stringere la stoffa della sua maglietta, stendendo le palme delle mani sul suo petto.

Forse è un ordine silenzioso, forse è semplicemente che non ha più bisogno di parole per leggermi dentro.

 

Sento diventare bollente la pelle dei fianchi, sotto il suo tocco. Lentamente, quasi volesse essere sicuro di ciò che sta realmente succedendo, avvolge i fianchi prima con una mano, poi con l’altra.

E risale, lento come se avesse paura di vedermi scomparire da un momento all’altro.

Il suo tocco via via più profondo mi strappa un brivido inconsapevole, facendo scattare il mio viso all’insù.

 

I miei occhi prima si spalancano, per poi tornare a socchiudersi, tranquilli.

 

Sento di stare affogando in quel castano alcolico, so di non essere più in me, ma negli occhi di un’altra persona.

E mi vedo riflessa per la prima volta, come in uno specchio dai contorni rotondi e dal cistallo venato in oro.

Ed è così strano, vedersi rinascere negli occhi di qualcun’altro.

 

Con un’ultimo sospiro, tremante come se fosse il primo ed incerto passo verso qualcosa che so che sarà diverso da tutto ciò che ho provato prima, chiudo gli occhi.

Senza strizzarli, senza fretta.

Senza paura.

 

A braccia aperte verso un destino che non comprendo, verso un futuro che non mi va ancora d’immaginare.

Come un regalo di natale troppo aspettato, che non si vuole ancora scartare.

Perchè i giochi di luce sulla carta sono troppo affascinanti per voler porre fine all’attesa.

 

Ed è un come aria, come un tornado che mi prende e mi porta via. Un terremoto che scuote tutto, un’onda di qualcosa così potente e nascosto, che se fosse una manifestazione di un’entità reale mi girerebbe la pelle come un guanto.

 

Come alcool puro sulle mie labbra, il sapore di lacrime ormai secche che posso sentire nella sua bocca è diventato quasi mio, è quel fuoco che ho sempre pregato che mi bruciasse.

Dapprima lento, come se ancora ci fossero scrupoli da parte di uno dei due, l’unica cosa che riesco a distinguere è un calore bollente che quasi incendia i miei piercing.

Parte da là, torturandoli con morsi delicati, eppure con un senso d’urgenza dapprima trattenuto.

Allargo le dita sul suo petto, facendo risalire le mani, fino a fermarsi alla base del collo. Lo ruota leggermente, ed il sapore del ferro e delle sue labbra si fa più forte, quasi mi stordisce.

Pianto le unghie nella pelle, facendogli socchiudere le labbra per un gemito soffocato.

Quindi con un movimento della mascella quasi sincronico, ci troviamo a combaciare perfettamente l’uno nell’altra, ed una nuova vampata di calore mi fa sentire a pochi passi dall’inferno.

 

Ogni suo muscolo guizzia sotto pelle come un filo che si tende, quando una mano si poggia imperiosamente sulla mia schiena, mentre l’altra continua scendere, giù, giù.

 

Come un liquido che mi sta dando alla testa, non posso che continuare a cercare in lui quello che sembra manchi a me.

Ci baciamo con disperazione, come se fosse l’ultima volta, graffiandoci, facendoci male perchè è troppa la foga con cui ci stiamo baciando e perchè stiamo capendo cosa non siamo mai riusciti ad imbastire a parole.

 

Il fiato manca, lo respiriamo uno dalla bocca dell’altro, e quando c’è, è gelato in confronto alle ustioni che ci stiamo procurando. È droga, è la droga da cui sono in crisi d’astinenza dal primo giorno che l’ho visto, è l’ossatura di ciò che mi manterrà in piedi fino a quando sarà possibile.

 

E l’unica cosa che serve sapere è se la sua pelle è veramente calda come attraverso la stoffa della maglietta, e altrettanto liscia.

E mentre le sue dita risalgono il solco della mia schiena con una lentezza esasperante, io mi aggrappo al suo collo e mi rassegno, mi rassegno al fatto che il nulla che porto dentro è il tutto a cui non ho mai dato ascolto.

 

.-.-.-.-

 

È il sapore di limone che ho sempre immaginato che le sue labbra avessero. È sempre la stessa consistenza morbida e cedevole che ho baciato troppo tempo fa.

Come il gatto che è, le sue dita sottili tra i miei capelli ed aggrappate al mio collo, come cera morbida tra le mie dita, la sento riflettere tutto me stesso con la forza di uno specchio.

E non mi basta, non mi basta sentire la stoffa della sua maglietta troppo larga sotto le mie dita, il ferro dei suoi piercing sotto le mie labbra.

 

Con vera fame, perchè lei è l’unica cosa che sembra non bruciare tra le fiamme che mi porto dietro, concludo il bacio con tocco della lingua, per poi sfiorare la pelle, sentirla morbida sotto le mie labbra, e calda, calda come se il calore potesse essere olio che mi ustiona tutto, dalla bocca al petto. La mano solleva il bordo della maglietta, esplorando con cauta circospezione il bordo dei jans, le borchie delle tasche, gli anelli della cintura.

E passare le dita, e poi il palmo, e poi la mano sulla sua pelle setosa cercando di prenderne il più possibile, cercando di trovare la sazietà per questa maledettissima fame di lei che mi ha fatto impazzire per troppo tempo nel buio della solitudine.

 

 Ed è uno scemare lento, una pace che viene con il fatto che ormai siamo rassicurati dal fatto che non spariremo dopo tutto ciò, e che neppure ci importerebbe troppo, se sparissimo insieme.

 

Tra le braccia stringo qualcosa d’incredibilmente piccolo, goffo, umido di lacrime ormai secche.

Ed è come se mi avessero aperto il petto ed allargato i polmoni, respiro di più, respiro più a fondo, più di quanto abbia mai respirato in vita mia.

Muove le mani sottili con la delicatezza di farfalle timide, respira contro il mio petto come se lo avesse fatto da sempre, com’è giusto che sia, com’è ingiusto che non sia stato prima.

 

Mi scoppia il cuore come faceva solo quando lei non c’era, eppure adesso non è più saturo di disperazione.

Perchè di quell’ombra che sempre ci ha tenuto lontani, che fosse nei miei o nei suoi occhi, sembra essere sparita via.

E l’unica cosa che vale la pena dire è che è giusto così, che niente poteva andare diversamente, che se non ci avesse preceduto il dolore, questo sarebbe stato solo un sentimento scontato.

 

La sua voce è talmente sottile e soffocata dal mio abbraccio, che la prima volta quasi non la sento.

 

-Cosa?

 

Ho la gola secca e le labbra gonfie, che pulsano come se il cuore si fosse messo a pompare direttamente da là.

 

La sua mano si muove leggermente, spostandosi sul mio petto.

 

-Ti amo.

 

Un pugno che arriva attutito dalla profondità del pozzo che sono i suoi occhi.

Era previsto, sì, forse in un futuro incerto ed evanescente che non ci azzardavamo di sognare.

Perchè non ho mai avevo il coraggio di credere che da qualche parte, ancora, un “noi” ci avesse atteso con pazienza, tranquillo e senza fretta perchè a conoscenza di cose che neppure noi sapevamo.

 

E la tranquillità con cui sorride, la tranquillità con cui lo dice, ma fanno quasi vacillare.

Perchè il modo in cui lo dice è qualcosa che sembra provenire da un’altro mondo. Un mondo in cui lei sembra essere finalmente padrona di se stessa, e non schiava della sua disperazione.

 

E mi ritrovo a rispondere al suo sorriso, come se non avessi altro scopo nella vita.

E non sono piu sicuro di avere altri scopi a parte questo, adesso.

 

Nascondo il viso nell’incavo del suo collo, limitandomi a respirare quel nero leggero, quel lieve odore di folla e borotalco, quella sensazione di pace e stanchezza diffusa.

Pur continuando a sentire qualcosa rigirarsi nel profondo, pur avvertendo una vaga sensazione d’adrenali repressa, non voglio comunque muovermi.

Ho affrontato ciò che dovevo, ho fatto una salita trascinandomi sulle mie stesse mani, e adesso non ho ancora voglia di ritrovarmi faccia a faccia con ciò che implica essere sulla vetta.

 

Voglio godermi ogni momento di pace che ancora ci è concessa, perchè so fin troppo bene che tutto questo è così bello perchè dure in eterno.

 

Mi accarezza la schiena con un movimento lento, circolare. Attraverso il cotone della maglietta, posso sentire il calore dei suoi palmi, e posso percepirlo talmente ditintamente, quasi da vederlo, quando passa sulle spalle, accarezzando un paio di ali inivisibili ad occhio nudo.

 

-Non c’è bisogno di stringere così forte, Gustav. Non scappo mica.

 

Sento le sue labbra sorridere contro la mia guancia, il fiato leggero che mi solletica il collo.

Scandisce con calma ogni parola, con quella tranquillità tipica di chi è arrivato al limite e l’ha superato.

E non ha più bisogno di correre.

 

Allento leggermente la stretta, pur senza togliere le mani dalla sua vita.

Allontano il mio viso dal suo quel tanto a non poterle più contare le pieghe delle labbra, da non distinguere null’altro in quegli occhi se non blu, blu cobalto, blu cupo.

Soffio sul suo viso, facendo ondeggiare un ciuffo particolarmente lungo dei suoi capelli bianchi.

 

Quasi distrattamente, vi passo la mano.

È buffo distinguere nettamente l’ovale del viso, la curva della nuca, non più nascosti dalla capigliatura rasta.

Mi sembra di sfiorare un tipo particolarmente setoso di cotone, mentre i suoi ricci arruffati scivolano tra le mie dita.

 

-Erano antigenici per l’operazione, se proprio te lo stai chiedendo.

 

Sorrido a labbra chiuse, cercando i suoi occhi ed il suo sorriso obliquo che, ovviamente, non mancherà.

Ed accoli, eccoli comparire e schiudersi su quel viso adesso reso troppo fragile per l’assenza dei mille ricci e boccoli.

 

-Gustav, dimmi che sai ancora parlare.

 

Ridacchio, riuscendo a schiarire la gola con difficoltà.

E poi, rauca e spezzata, riesce finalmente a farsi sentire.

 

-A fatica, però.

 

Il sorriso si allarga ancora di più accompagnato da un lampo ironico negli occhi.

 

-Sono così tossica?

 

Appoggio la fronte contro la sua, dato che una ondata di stanchezza mi ha appena fatto tremare leggermente le gambe.

 

-Peggio, se proprio lo vuoi sapere.

 

Chiudo gli occhi, rilassato.

 

-Sei tutta la droga che non ho mai preso in vita mia. Sei un concentrato alto un metro e uno sputo di puri casini mentali per il quale mi sono lievemente roso il fegato.

 

Riapro gli occhi, ironico.

 

-Giusto per utilizzare un indiretta.

 

Un’indiretta che cade nel vuoto, nel silenzio più assoluto. Perchè come un’esimio cretino, un folle, pazzoide innamorato, non posso che farmi incantare dal sorrisino che le distende le labbra.

 

E vorrei continuare a parlare, ma il respiro tende a mozzarsi, in queste situazioni. L’aria diventa troppo satura di emozione per essere respirata in tutta tranquillità, e dall’aria sembr colare un liquido insivibile certo, trasparente ed incolore, ma dal vago sentore speziato, un liquido che ti prende alla bocca dello stomaco e t’infuoca, voluttuoso e sibillino.

 

Socchiudo gli occhi, mentre dal petto parte una vampa di strane fiamme piacevoli e calde, talmente pericolose, eccitanti, da farmi schiudere le labbra per cercare più aria, per prendere più fiato, cercando di calmare quel battito di troppo e di tenere a bada quella struggente sensazione che t’invoglia a volerne di più.

 

 

E tutto che si concentra in quegli occhi, occhi grandi, leggermente a mandorla, ciglia lunghe scure e un vortice di desideri cifrati in una lingua che mi suona vagamente familiare, turbina dietro a due spicchi di cielo cupo. Come acqua che fredda e dolorosa scorre sulla pelle, il suo sguardo non sembra schiodarsi dal mio viso, mentre le mani riposano sulle miei spalle, bruciando quasi la pelle.

 

Allora, tirando un grosso respiro, non posso che chiudere i miei, di occhi, e abbandonarmi al contatto tra le nostre due fronti.

 

-Cosa c’è?

 

Le sue dita scorrono tra i miei capelli, gesto innocente che mi fa venire la pelle d’oca.

Domanda dalla risposta troppo complicata, a cui rispondo con un verso di una poesia che ho letto non so dove e non so quando, chissà di chi.

 

-E i tuoi occhi sono lo scintillare azzurro dei fanali che abbagliano il guidatore prima di un frontale.

 

Fame.

Fame che non cessa, fame che non trova sazietà, fame che mi costringe a cercare la pelle sotto le mie labbra, in una scia di baci voluttuosi che a me mi stanno portanto al punto di non ritorno, mentre lei affonda il viso nell’incavo del mio collo.

 

-Du wirst für mich immer heilig sein...

 

Soffoca un’imprecazione contro la mia pelle, prima di afferrare il cellulare e portarselo all’orecchio, con espressione scazzata già prontamente stampata in faccia.

 

-Hallo?

-Dorcas, hai dieci minuti prima che i Metallica salgano sul palco. Si può sapere dove cazzo sei?

-Scheisse.

-Grazie ma no, preferisco andora essere chiamato solo Volkan.

-Ok, dammi tre minuti.

 

Chiude lo sportellino del cellulare senza schiodarmi occhi di dosso, forse perchè le mie mani non si rassegnano ancora a staccarsi dai suoi fianchi. Che discole.

 

Inclina la testa da un lato, mentre la sua mano passa ancora una volta tra i miei capelli.

 

-Dovrei andare.

 

Scorre lenta sulla tempia, per arrivare allo zigomo. E al cerotto.

 

-Non puoi certo mancare al concerto del secolo, Boss.

 

Biascico io a fatica, gola più rauca del normale e un sentimento che pulsa dappertutto, anche in zone non desiderabili.

 

-No, non posso.

 

Sussurra lei, scuotendo la testa e staccandosi dolcemente da me.

 

-Però tu sai che non è ancora finita.

 

Rialzo gli occhi dalle sue mani per cercare di nuovo il suo sguardo. Uno guardo che sembra brillare di vita propria, tanto è ilare. Un’ilarità che contrasta in maniera stridente con gli occhi rossi e le scie di lacrime sulle sue guance.

 

Ed adesso tocca a me sorridere, alzando le mani in segno di resa.

Ok, mi arrendo. C’è fin troppo da chiarire, ancora, per poter dire che ce l’abbiamo fatta. Non che importi granchè, ma è come un’icognita che, fastidiosa, pungola il silenzio pacifico che si è venuto a stabilire tra di noi.

 

-Non è neppure cominciata, Dorcas.

-Ah, il gusto dell’incognita.

 

E con in sottofondo il suo cellulare che torna a squillare ed una mia risata stanca, si gira ed inizia a correre, senza guardare indietro.

Perchè Dorcas non si volta mai indietro.

 

.-.-.-.-

 

Gente. C’è fin troppa gente in questo stramaledettissimo ingresso secondario. Urla di tecnici, spintoni di fans e ruggiti bassi da parti di quegli armadi quattro stagioni della security americana che, osservando bene, sono più tatuati e borchiati della stragrande maggioranza dei metallari che si affanano a sfondare il cordone di sicurezza. Qui sono tutti pazzi. Me compreso.

 

-Gustav, tu non stai bene!

 

La mano di Bill mi trattiene a stento dal buttarmi in mezzo alla mischia per cercare di passare. E non per certo per vedere i Metallica.

 

Dove cacchio stai, Dorcas?

 

-Gustav, smettila di smaniare! Si può sapere che hai?

 

La mano di Tom si posa prepotentemente sulla mia spalla, cercando di trascinarmi lontano. Ma io mi libero con una scrollata di spalle, degnandolo a malapena di una risposta.

 

-Sto aspettando una persona.

-Sì, ok, ma chi?

 

Georg, più furbo degli altri due, m’interroga con tono soave e trattiene Bill dal placcarmi un’altra volta.

 

Dov’è, dov’è, dov’è?

 

Purtroppo per lui però, io non lo degno di risposta. Ho il cervello in subbuglio, tanta di quella adrenlina in circolo da sembrare un eroinomane in crisi d’astinenza ed il cuore che batte i centottanta al secondo.

 

-Gustav Klaus Wolfgang Schäfer! Vuoi stare fermo un dannatissimo minuto?!

 

Come risvegliandomi da un sogno, o da un’incubo a seconda dei punti di vista, mi giro di scatto verso Tobi che, al limite della sua proverbiale, e pressocchè eterna, pazienza ha sovrastato per un momento tutto quel casino di voci che mi sta portando sul limite di una crisi isterica.

 

Non ti basta la camera, Schäfer?

 

E, come una botta dietro la nuca, la stanchezza di un concerto di quattro ore mi crolla sulle spalle, stordendomi di colpo. Adesso non sono più così sicuro da poter reggere l’intera situazione con solo la mia forza di volontà.

Sono dannatamente stanco.

 

-Sì, certo.

 

E ho ancora la voce dannatamente rauca da prima. Sembra che butti giù granita di vetro ogni volta che deglutisco, maledizione.

 

-Ehi, siamo tutti stanchi qui. Diamoci un momento di pausa, che ne dite?

 

È Christa a parlare, adesso. Solleva le mani, fermando con la sola forza del suo sangue freddo ed un’occhiata assassina qualsiasi protesta. Ed così che Bill richiude la bocca di scatto, preferendo incrociare le braccia, mentre Tom si accovaccioa sui talloni con un sospiro. Georg si stropiccia gli occhi con un verso stanco, Tobi lancia occhiate minacciose a chiunque ci fissi con troppa insistenza. E Christa mi squadra incuriosita.

 

-No, non è permesso a nessuno dei non adetti ai lavori accedere al backstage! Gli artisti sono distrutti, e la signinsession è prevista per domani e non verrà anticipata in nessun modo ad oggi!

 

Il gracchiare di un megafono ci riscuote a tutti quanti, facendoci voltare di scatto. Un tizio dello staff vestito interamente di nero, con pass rosso appuntato al petto, si sbraccia verso la fossa.

 

La cosa assurda è che è praticamente arrampicato sul cancello.

Ma non è l’unico.

 

Dorcas, quando s’incorporò allo staff dei Tokio Hotel, venne presto soprannominata Cita. Ma non perchè avesse un’aspetto scimmiesco, piuttosto perchè era l’unica capace d’arrampicarsi sulle impalcature del palco con l’agilità di un’atleta. Anche se poi toccava al medico fasciarle più strettamente le bende elastiche che stringevano il polso sinistro.

 

Ma, in questo preciso istante, sembra tutto meno che impedita dal polso.

 

Sotto lo sguardo stupito di quel centinaio di fans sfegatti che cercano passare contro tutto e tutti, lei scavalca la cancellata aguzza, si lascia dondola un po’ e si butta dall’altro lato.

E io mi ritrovo a sorridere. Perchè Dorcas è una dannatissima esibizionista. Un difetto che allunga la lista comprendente cinica, caustica, testarda, pesante e, soprattutto, adorabile.

La gente è piena di difetti, che volete farci?

 

Scambia alcune parole con l’uomo, parole inudibili visto il casino che sembra essersi moltiplicato dopo lo spettacolo offerto da Dorcas, adesso invisibile tra la folla.

Sto per lanciarmi alla sua ricerca, quando la mano di Tobi, decisamente più corpulenta di quella gracilina di Bill, m’impedisce di muovermi.

 

Mi giro per cercare di liberarmi, cercando di non ridere delle espressioni stupefatte dei ragazzi.

 

-Cosa?

 

Il biascicare di Tom da voce a la domanda inespressa di tutti quanti.

 

-E’ Dorcas!

 

Esclama Bill, portandosi immediatamente le mani alla bocca e guardandomi, in panico.

 

-Oh. Mio. Dio.

 

Scandisce Christa. Il suo imperturbabile aplomb si è perturbato, a quanto pare.

 

-Oh, beh. Chi non muore si rivede.

 

Ridacchia Georg, un mezzo sorriso a distendergli le labbra.

Li guardo uno per uno, la stretta di Tobi che si allenta sulla mia spalla secondo dopo secondo. Adesso sembra toccare a lui dire qualcosa, per uno strano gioco di parti.

 

-Scricciolo.

 

Mormora, pacato come sempre.

 

Ed in risposta, con un tono a metà tra lo scocciato ed il sommamente divertito, la voce di Dorcas.

Che mancava un po’ a tutti, sorriso obliquo compreso.

 

-Sempre a ricordarmi la mia miserabile altezza, Tobi?

 

E mi sembra quasi di sentire il clack sottomesso di un pezzo di mosaico che torna finalmente al suo posto.

 

.-.-.-.-.

 

-Probabilmente ho fatto venire un’infarto alla Diva.

-Per adesso lo hai solo fatto venire a me.

-Così tanto?

 

Il suo sguardo blu cobalto mi squadra, il sopracciglio inarcato in un’espressione sospettosa.

Le restituisco l’occhiata, sorpreso della sua stessa domanda.

 

-Il fatto che mi dimentico di respirare un momento sì e l’altro pure non ti sembra abbastanza?

 

Lei affonda di più mani nelle tasche della felpa oversize, arrossendo imbarazzata.

Dorcas che arrossisce?

 

-Ecco, io... non mi sembrava di avere così tanto ascendente su di te.

 

Camminiamo affiancati sul marciapiede che costeggia l’enorme spiaggia di Santa Monica, quasi totalmente sommersa per l’alta marea. Una brezza fredda che ci sommerge al ritmto dei cavalloni che s’infrangono sulla sabbia, si diverte a giocare con i capelli di Dorcas, scompigliandoglieli.

 

-E da cosa “non ti sembrava di evere tanto ascendente” su di me?

 

Si schiarisce la gola, eppure rimane in silenzio. Il suo viso oscilla tra oscurità e luce, mentre la sucessione pressocchè infinita di lampioni ci avvolge nella loro luce di un giallo malaticcio, prima di lasciarci alla mercè degli intervalli bui che si alternano con cadenza regolare ai coni di luce. Le luci e le ombre cambiano ad ogni passo sul suo viso, che non sembra decidersi del tutto su che espressione adottare.

 

-Io...

 

Sussurra, lo sguardo perso nell’intrico geometrico delle mattonelle del marciapiede.

 

-Tu?

 

Chiedo io, più attento a come le sue labbra si stirino in un’espressione tesa, per poi essere mordicchiate dal suo impietoso imbarazzo.

È in difficoltà, al momento.

E le sue labbra si fanno più rosse ogni momento che passa.

 

La palle pallida che diventa viola vicino agli occhi, segno che è da tempo che non dorme in una maniera decente. Lentiggini chiarissime che si fanno più fitte sul naso.

L’acciaio dei piercing che brilla di mille riflessi duri sulle labbra.

 

Forse non è giusto perdermi così tanto nell’osservare ogni suo movimento. Forse dovrei prestare più attenzione ad ogni parola non detta che si stampa a caratteri sul fuoco sul fondo dei suoi occhi fin troppo profondi. Forse dovrei tagliare con un coltello il suo spesso imbarazzo e dare voce a quel sentimento di disagio, sottile eppure presente, che serpeggia nel profondo dei miei pensieri, che si attorciglia sul ricordo di quella parole scambiate da Dorcas e quell’uomo dello staff, che si fanno quasi più vive e dolorose al ricordare l’espressione di dubbio e profonda confusione che era passata, veloce come un soffio, sul viso di Dorcas.

 

Dovrei smettere di fantasticare su cosa copre il tessuto della felpa quando mille pieghe si formano sulle spalle e sui fianchi, mentre spianandosi invece sul petto. Forse non è giusto mettere a tacere il proprio raziocinio con un ringhiare sordo, perché troppo impegnato ad osservare come i jeans aderiscano perfettamente alle sue gambe snelle, come mai potrebbero fare le gonne millestrati che è solita mettersi.

 

Era inquietante come stessi ignorando la mia coscienza ed il suo allarme nel capire che Dorcas in realtà aveva compreso ben poco dei sei mesi che avevo passato al limite tra disperazione e follia senza di lei.

Perchè con quell’espressione imbarazzata che le faceva mordere le labbra ed arrossire in quella maniera così suggerente, avrei potuto dimenticarmi anche della fine del mondo.

 

Eppure non trovavo il coraggio di toccarla, fermarla, guardarla spalancare gli occhi mentre mi avvicinavo, richiuderli poi mentre sentivo finalmente il freddo dei suoi piercing stridere con quel calore che mi bruciava le labbra ogni volta che mi avvicinavo a lei, non prima però di aver colto un lampo di puro languore che stuzzicava le mie fantasie più recondite.

Non sembrava essere mai il momento giusto, prima adesso, per colmare una distanza che andava aldilà del fisico, del tangibile.

 

-Io non lo so. Ci sono tante cose che non so, Gustav, e questa è solo una tra le tante.

 

Bofonchiò lei, incrociando le braccia e scuotendo la testa, come per arrendersi.

Eh, Magari.

 

.-.-.-

 

Imbarazzo. Un dannatissimo imbarazzo come mai prima d’allora mi stava incendiando le guance ogni tre per due, attirandosi gli sguardi imperscrutabili di Mister Aplomb.

Tutti parlano del sangue freddo britannico, ma anche Gustav Schäfer, che pure britannico non è, si sta dimostrando un ottimo elemento. Dobbiamo forse iniziare a parlare di puro sangue freddo teutonico?

 

-Come sarebbe a dire, tante cose che non sai?

 

Volgendo gli occhi in gloria per un breve istante, arrossisco ancora di più.

Dio, starò scottando.

 

Mi volto verso di lui, pronta a fargli una seria ramanzina su questa sua fastidiosa abitudine di ripetere l’ultimo moncone di frase che mi tocca biscicare a fatica per calmare queste sue curiosità da inquisitore.

Ma quando lo vedo fissarmi con la coda dell’occhio, uno sguardo imperscrutabile come padrone assoluto, tutte le frasi che avevo abilmente intrecciato dentro la mia testolina per far sì che filassero in un’acussa degna di tutto rispetto, si sfilacciano in mille parole senza senso.

E mi ritrovo di nuovo ad annegare nell’ambra, nel maledettissimo castano chiaro di quegli occhi che, senza previo avviso, diventano lo specchio della sua anima. Un’anima che non riesco più a comprendere come prima, di cui non riesco a capire il dolore.

 

Perchè se io in questi sei mesi sembro aver staccato la spina ed aver dimenticato come si pensa, lui sembra ricordarsi perfettamente cosa sia stato il nostro addio e, soprattutto cosa sia successo dopo.

 

“E invece lo so.”

Cosa sai, Gustav?

Perchè in questi sei mesi non sono stati altro che l’inferno in terra, per me.”

Un’inferno di cui io non so nulla, e di cui ho quasi paura di sapere

 “E mi sono stancato di sentirti dire che nessuno ti può capire, Dorcas.”

 

Echi nella mia testa, come un disco graffiato che continua a ripetere la stessa canzone.

 

“Nessuno ti può capire.”

 

Era vero? Avevo arrancato da sola nell’indifferenza di chiunque la circondasse? Avevo ricevuto abbracci e sorrisi per sanare un dolore di cui nessuno voleva seriamente farsi carico?

 

“Nessuno ti può capire.”

 

È così claustrofobica la consapevolezza del fatto che anche lui è stato solo, completamente da solo, di fronte a tutto il dolore che vedo serpeggiare di tanto in tanto dietro quegli occhi stanchi.

 

“Nessuno ti può capire.”

 

A parte te, forse.

Forse perchè....

Perchè?

Ha sofferto tanto quanto te.

Oh.

O forse di più.

Di più?

 

Ma ciò che più è assurdo, è come tutto questo, adesso come adesso, non conti.

 

C’è qualcosa che, acquattato nell’ombra, attende solo il momento propizio per creare più danno possibile. Sento come si rafforza ai confini della mia coscenza, come si faccia via via più preoccupante ogni parola che io mi ostino a non dire.

 

Distolgo a fatica lo sguardo dal suo, solo per osservare come, inesorabilmente, la sagoma del complesso dove vivo si sia fatto ormai imponente.

Siamo a casa mia.

 

Ed è in quel momento che, al posto di venire assalita da dubbi e ripensamenti, vengo quasi stordita da uno strano senso di pace.

E capisco, con una calma che non mi appartiene, che entrambi siamo troppo stanchi di qualsiasi cosa che ci riguardi, per continuare il discorso lasciato a metà.

Non è tempo di parlare, non adesso.

Non stanotte.

 

Mi giro verso di lui, trovandolo a contemplare con il sopracciglio inarcato la facciata del complesso.

A cosa starà pensando quella tua testolina sovraccarica, Gustav?

 

Cerco il mazzo di chiavi disperso in uno dei mille tasconi della felpa, e, quando l’ho trovato, lo faccio tintinnare tra le mie mani più di quanto sia necessario.

Cosa può significare, adesso, l’allegro suono metallico di più chiavi che tintinnano al scontarsi fra di loro?

 

-Non hai risposto alla mia domanda.

 

Saliamo le scale che portano al terzo piano in un silenzio interrotto solo dallo scalpiccio dei nostri passi.

 

-Forse perchè non ho risposte, Gustav. O forse perchè la domanda, e di conseguenza la risposta, è troppo complessa da risolvere in così poco tempo.

 

Mormoro io, voltandomi e continuando a camminare all’indietro tastando le pareti del corridoio, certa di non cadere perchè conosco il pianerottolo come le mie tasche.

Così posso osservare la sua espressione dubbiosa, il suo avvicinarsi a passi cadenzati e decisi verso di me.

Mi mordo le labbra un’ultima volta prima di girarmi in direzione della porta ed infilare le chiavi nella serratura, che scatta con un clack sommesso.

Eppure non apro la porta, stupita come sono da un’ombra che improvvisamente oscura la luce del corridoio.

 

Ombra che scopro essere lo stesso corpo di Gustav, che si puntella poggiando le mani ai due lati del mio viso.

E non posso certo dire di essere sorpresa.

 

Piuttosto, quando mi giro verso di lui, perferisco sorridere leggermente.

E lasciar parlare la stessa tensione che aleggia tra di noi.

 

-O la domanda è troppo complessa, o tu sei troppo pigra per darle una risposta.

 

Inarco un sopracciglio, dubbiosa, appoggiandomi alla porta.

 

-Hai veramente così tanta voglia di parlare?

 

Piego la testa di lato, osservandolo con espressione interrogativa. Non prima di aver calcato la mano su quel “parlare”, caricandolo di tutti i significati che possono suscitare un sussuro a mezzavoce e la consapevolezza di essere ad una distanza fin troppo ravvicinata da poter essere ignorata.

 

Lui distoglie lo sguardo, facendosi sfuggire un sospiro stanco.

Decido di farlo capitolare.

 

-Come ti sei fatto quelle cicatrici sul viso, Gustav?

 

Lui spalanca gli occhi, sorpreso. Boccheggia, senza trovare risposta.

Apre la bocca senza riuscire a proferire parola, per poi richiuderla, mentre un lampo di dolore passa per un momento nei suoi occhi.

 

Annuisco lentamente, staccandomi dalla porta.

 

-Forse non è il momento adatto, non trovi?

 

Gli accarezzo delicatamente la guancia, sentendo sotto le dita l’asperità della cicatrice sullo zigomo. Traccio il contorno del suo viso con entrambe le mani, seguendo la linea della mascella, il naso, cercando di non dimenticare l’effetto inebriante della sua pelle incredibilmente morbida sotto le mie dita. Lo accarezzo lentamente, come si fa con un bambino o un disperato, fino a fargli chiudere gli occhi e rilassare la piega dura della sua bocca.

 

Solo allora il mio indice si avventura a sfiorarne le labbra, leggermente screpolate, sottili e rosse, rosse di un rosso così invitante da farmi perdere quasi la concezione della realtà. Cosa c’è che importi più di lui, adesso?

 

Mi alzo sulla punta dei piedi, facendo leva sulle sue spalle che, gonfie e tese, sono ancora impegnate nello sfrorzo di puntellarsi contro la parete.

 

-Forse è il momento di smettere di pensare per un po’, Gustav.

 

Mi aggrappo più forte a lui, perchè il mondo sembra aver iniziato a turbinare intorno ai suoi occhi, adesso che li ha spalancati, carichi di qualcosa che potrebbe essere la mia fine.

Un qualcosa che, bollente, surriscalda ogni singolo centimetro della mia pelle.

 

-Solo per un po’.

 

_______________________________________

 

 

Trovo la forza di sussurrare tra le sue labbra, improvvisamente possessive, mentre il buio, avvolgente e carico di promesse sussurrate da occhiate indiscrete e voglie malcelate, mi esplode dentro, risucchiando qualsiasi cosa che non sia lui e la consapevolezza che sue le mani che si sono poggiate sulla vita, provocandomi un altro giramento.

 

Ed è l’eco di un desiderio soffocato per tanto, troppo tempo, che si era beato di ogni suo gesto ed aveva risposto con ogni tipo di fantasia, quello che m’induce a lasciar perdere le sue spalle, coperte da fastidiosissimo cotone, e a scendere, scendere passando per il petto, lo stomaco, la vita , fino ad afferrare i lembi della maglietta e scivolare al di sotto di essa.

 

Beandomi nel sentire ogni guizzo di quei muscoli in tensione, lo feci dannare ogni singolo secondo in cui mi dedicai ad accarezzare la sua pelle, avida, dannatamente avida di ogni singola sensazione che serpeggiava dalle mie dita fino ad esplodere nella mia testa.

Gemetti quando, dalle mie labbra, passò alla pelle del collo. Dimostrandomi che no, non era affatto il santo che si diceva che fosse.

Mille sensazioni che affondavano le loro radici in qualcosa che non era un semplice desiderio, ma, come stavo scoprendo, sembrava piuttosto un territorio sconosciuto, in cui ogni gesto assumeva più significati di quanti potesse averne nel solo campo del sesso.

 

Ed io ero avida ogni singola parte di lui, in quel momento.

 

Volevo di più, sempre di più.

 

Dalle sue spalle scesi per tutta la schiena, mentre lui risaliva con una scia di baci infuocati su per il mio collo, fino a seguire il profilo della mascella. Ma si fermò con un brivido quando, con la punta delle dita, sfiorai quella stretta stiscia di pelle sensibile al di sotto dello stomaco. Giocai maliziosamente con ogni suo brivido, creandone di nuovi ad ogni mia carezza, sovraccaricandolo, facendolo impazzire al sfiorare, una volta di più, quella pelle chiara più morbida, ultimo confine oltre la quale, in teoria, non si poteva andare.

 

Smise di baciarmi, staccandosi leggermente da me, i suoi occhi castani incandescenti, tanto era il desiderio di cui brillavano.

Ansimava e mi guardava in una maniera tale che, neppure sforzandomi, avrei potuto trovare qualcosa di simile nello sguardo di nessuno degli uomini, fidanzati o storie che fossero, con cui ero stata.

Mi bramava, mi bramava con una forza tale da farmi venire quasi i brivi di paura, perchè, se in quel momento avessi potuto sentire ciò che i suoi occhi cercavano di dirmi, allora avrei potuto comprendere l’inferno che si era portato dentro per tutto questo tempo.

Ma me ne dimenticai non appena lui portò le mani ai lembi della maglietta, sollevandola in un gonfiarsi di muscoli delle spalle e tendersi di quelli del bacino, togliendosela del tutto e lasciandola cadere indifferente ai suoi piedi.

 

Sorrisi quando tornai a baciarlo sulle labbra, appiattita con il suo corpo da una stretta possessiva, la pelle che bruciava come in preda alla febbre,.

Sorridevo ancora quando, finalmente, girai la maniglia alle mie spalle con la mano libera.

 

Quando la porta dell’appartamento si spalancò verso l’interno, l’oscurità dell’appartamento ci inghiottì famelica.

 

Quasi più famelica di noi.

   

 

 

.-.-.-.-.-.

 

 

Oh, oh, oh. Della serie “chi non muore si rivede”!

Per chi se lo aspettava, per chi no.

Occhio: il capitolo non è CONCLUSIVO.

Non ancora. Purtroppo.

 

Vado di corsa, sono in punizione without PC per una settimana, editerò, nel caso, in futuro.

 Ma non abbastanza di corsa per dimenticarmi di dedicare questo chap a quella mente perversa  di LadyNotorius. Sei una maledetta schiavista, ma ti voglio bene.

 

Comunque sia…

Danke

Grazie

Gracias

Merci

A:

 

Ladynotorius

Laphy

kiki91

Lady Vibeke

_Princess_

simmyListing

NeraLuna

VivienneWest

 

Prometto solennemente di rieditare per lo meno i ringraziamenti. Figurarsi quando mi commenterete il chap!

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Capitolo 11
*** Let it be Wonderful ***


La prima cosa di cui si rese conto l’indomani mattina, fu di come il tessuto delle lenzuola si fosse pigramente avviluppato attorno alle sue gambe ed al suo bacino, strusciando sulla pelle ad ogni suo minimo movimento con la stessa lentezza di un serpent

 

Edit: Perchè è una brava ragazza, perchè è una brava ragazza, perchè è una brava ragazzaaa... Nessuno lo può negar!

Capitolo dedicato a Lady Vibeke per un compleanno che sto festeggiando in ritardo.

AUGURI LIEBE! *_*

Che il pantheon sia con te! XD

 

 

 

 

 

È corto. È romantico. È un capitolo incentrato solamente su Gustav e Dorcas. E non è l’ultimo.

 

 

11. Let it be wonderful.    

 

  

Say “I am wonderful
Cause we are all miracles
wrapped up in chemicals
We are incredible
Don’t take it for granted, no
We are all miracles

Gary Go - Wonderful

 

 

 

 

La prima cosa di cui mi resi conto l’indomani mattina, fu come il tessuto delle lenzuola si fosse pigramente avviluppato attorno alle mie gambe ed al bacino, strusciando sulla pelle ad ogni minimo movimento con la stessa lentezza di un serpente dalla pelle fresca e liscia al tatto, che più che riscaldare, serviva a proteggere dalle occhiate indiscrete di chiunque passasse di lì.

 

Ma chi poteva passare di fronte ad una finestra al quinto piano di un complesso residenziale di Santa Monica? A meno che ad un Aladdin, che passasse di là in compagnia del suo fido tappeto magico, non venisse una forte tentazione di sbirciare dentro la mia camera da letto, per altro in condizioni disastrose, nessuno avrebbe saputo nulla.

 

A parte forse il cardiologo di David Jost, che avrebbe borbottato tra i denti una lunga sfilza d’imprecazioni dopo essere stato al capezzale di un manager con l’ennesimo attacco d’isteria, vista la quantità innumerevole di volte che aveva chiamato, a vuoto, al telefono di Gustav.

 

“Dio benedica la modalità silenziosa”, mi ritrovai a pensare, mentre stiracchiavo le labbra in un sorrisetto divertito.

  

Stesa sulla schiena, ancora ad occhi chiusi, sospirai lievemente, restia ad uscire dal dormiveglia ed ancora piacevolmente avvolta da quel senso di placida sonnolenza che mi faceva sentire stranamente calma e rilassata, come forse non ero mai stata in vita mia.

 

Sospirai più forte, mentre sottili raggi di luce mi pizzicavano fastidiosi le palpebre. Girandomi di fianco, cercai di sfuggire alla consapevolezza che ormai era tarda mattinata e, sicuramente, mi sarei dovuta svegliare. Ma prima ancora di capire quello che stesse succedendo, un accavallarsi di sensazioni a metà tra il dolore e sibillino piacere mi tolse il fiato per qualche secondo. L’essere scossa di una fitta di dolore in corrispondenza del bacino, sommata allo scorrere quasi languido delle lenzuola fresche sulla mia pelle, mi fece strizzare gli occhi per la sorpresa ed emettere un lieve gemito.

Definitivamente, ero sveglia.

 

Eppure non ero del tutto sicura di ricordarmi perchè mi sentissi la metà inferiore del corpo così stranamente intorpidita. Era da tempo, sei mesi a dirla tutta, che non riuscivo a dormire decentemente, dato che tutte le mattine mi ritrovavo tutta sudata e nervosa, come se, al posto di dormire, il mio cervello non avesse fatto altro che borbottare tra sè e sè.

Ma allora perchè adesso l’unica cosa che sentivo era una strana calma diffusa per tutto il corpo, come se non fosse solo uno stato mentale, ma anche fisico?

 

Fu solo quando i ricordi di ieri sera mi precipitarono addosso con la forza di un pugno, che mi ricordai chi, come, e perchè.

Una scarica di adrenalina mi serpeggiò lungo la schiena quando aprii gli occhi e mi resi conto di chi avesse casualmente poggiato un braccio sul mio petto, quasi a coprirmi il seno.

 

Il sole si rifletteva sui suoi capelli come avrebbe potuto farlo su un fascio di metallo puro. Strani riflessi iridati che assumevano tutte le tonalità dell’oro, in contrasto stridente con la pelle chiara del collo, diventata di un bianco abbacinante per la luce del sole. Il raggi illuminavano la linea forte della mascella, seguendo poi la curva morbida con cui s’univa al collo, mentre il petto glabro si abbassava e rialzava al ritmo del suo respiro regolare, una leggera e calda carezza che arrivava a sfiorare la mia mano, abbandonata per caso vicino alla sua guancia. Le labbra socchiuse erano rosse, ancora tumide e leggermente gonfie da tutte le volte che le aveva premute, che fosse per un bacio o per qualcosa di più, sulla mia pelle.

 

Rendendomene conto solo adesso, mi leccai le labbra con la punta della lingua, sentendo ancora una volta il sapore lievemente ferroso e salino che mi era rimasto dalla notte precedente.

 

Che non era l’unico ricordo che, imperiosamente, chiedeva di essere preso in considerazione. Socchiusi gli occhi, per paura di cedere a quella valanga di sensazioni miste a ricordi, rubati in brevi e sporadici attimi di lucidità, ricordi che, come bollicine effervescenti, risalivano con estenuante lentezza dai recessi più reconditi del mio corpo fino a scoppiare in piccoli brividi, su, nella mia testa.

 

Chiudendo gli occhi, mi ordinai imperiosamente di non muovermi.

Forse è tutto un sogno, mi sorpresi a temere.

Forse non è lui.

Forse non è qui.

 

Forse il mio incubo non è ancora finito. Pensai mentre mi coprii il viso con una mano.

 

Un piccolo abisso inghiottì il mio stomaco, lasciandomi in preda ad un forte senso di vertigine. Probabilmente, se non fossi stata coricata, sarei potuta cadere.

 

Forse non è stato che un sogno, un lungo e bellissimo sogno in cui sono tornate a galla, dopo anni di seria repressione, le mille ed una voglia su cui ti eri ritrovata a fantasticare nei momenti meno opportuni. Le sue braccia aperte, le sue labbra screpolate e dal vago retrogusto asprigno, la pelle cedevole sotto le tue mani...

Tutta un’illusione?

Tutto un dannatissimo sogno che, se non altro lui, ti ha messo con le spalle al muro e fatto capire cosa realmente stavi cercando per tutto questo tempo?

 

Serrai la bocca e aggrottai le sopracciglia in un’espressione di dolore, pronta a vedermi portare via anche quell’illusione, quella come tante altre prima di lei.

 

E mi ritroverei di nuovo in preda alla disperazione, se non fosse che il suo braccio, dal petto, scivola lentamente fino alla vita, lasciando dietro di sè una scia di calore che imbeve ogni singolo centimetro di pelle su cui passa.

Poi, quasi non credendoci, sento un lieve fruscio di lenzuola smosse, che termina nel momento in cui sento il respiro di Gustav farsi più forte sul mio viso.

 

Ed è temendo ogni singolo istante in cui questo miraggio potrebbe dissolversi, soffiato lontano dal vento del destino, che sposto la mano dagli occhi e li riapro, lentamente, con cautela.

E la prima cosa che sento, dopo il silenzio spesso ed ovattato che mi ha avvolto fin dal risveglio, è il suono di una risatina sommessa, leggermente divertita.

 

E adesso so che Dio esiste e mi sta guardando dritto negli occhi.

 

.-.-.-.-.

 

Quando percepisco che la luce sta sfilacciando lentamente il velo nero del sonno, decido di non muovermi. Gradualmente, come se tornassi a galla dopo aver battuto il record in apnea, centinaia di piccole sensazioni mi pulsano delicatamente nella testa, fino a divenire pressanti e poi dissolversi, lasciandomi sveglio però restio ad aprire gli occhi.

 

Il fruscio delle lenzuola spiegazzate, il calore dei raggi di sole sulla mia pelle, il dolore di mille ed una punzecchiatura sulle spalle, il calore di un corpo che non è il mio sotto il braccio.

 

Semplicemente, mi lascio trascinare dalla lenta deriva delle sensazioni, lasciando che si accavallino e si confondano senza nessun criterio logico, uno strano guazzabuglio di emozioni, ricordi, parole che si limita a vagare senza direzione alcuna nella mia testa, sprofondando a tratti in uno strano dormiveglia da cui, puntualmente, vengo strappato da un movimento involontario del corpo che riposa vicino al mio.

 

Nessuno si è mai reso conto di quanto siano potenti e penetranti, certi tipi di ricordi?

Nessuno ha mai provato a descrivere a parole la consapevolezza stordente dell’avere sotto di sé il corpo, l’intero essere, della persona di cui si è disperatamente cercato il contatto?

 

In pieno contrasto con il fresco delle coperte, la cosa che meglio ricordo, adesso, è il sapore bruciante della sua pelle sotto le mie labbra. Quel vago sapore polveroso, dolce, eccitante.

Pelle che non finiva, pelle di cui avevo imparato a memoria ogni più piccolo centimetro, cicatrice, increspatura che fosse.

Pelle colorata, tatuata, pelle del polso, del collo, pelle più morbida di quanto già non fosse intorno all’ombelico... e ancora più giù.

 

Mi mordo le labbra prima di poter dare il via ad un’altra ondata di ricordi nè casti nè puri, di cui non racconterei niente a nessuno per paura di rovinare la mia reputazione di bravo ragazzo.

 

È colpa mia se lei tira fuori il peggio di me?

 

Più per un gesto involontario che per reale voglia, socchiudo gli occhi per osservarla di sottecchi. E mi sorprende il trovarla raggomitolata su se stessa, una mano a coprire gli occhi, l’altra ancora abbandonata vicino al mio viso.

 

Sospiro al vedere la piega dura delle sue labbra, stranamente prive di piercing. Un pulsare sordo al collo mi ricorda perché non li abbia indosso.

Devo avere un livido grosso quanto una fragola vicino alla mascella. E non solo là.

 

Posso sentire il suo respiro affannato, segno che c’è qualcosa che non va. Per tranquillizzarla, cerco di attirarla verso di me per il bacino, sentendo come un sorrisetto soddisfatto stira le mie labbra al vederla rilassarsi.

Poi, puntellandomi sui gomiti, mi ritrovo a farle ombra con il mio corpo. E andiamo, non si può non ridacchiare dell’espressione a metà tra l’incredulo ed il sorpreso che le compare quando, finalmente riesco ad incontrare i suoi occhi.

 

Dio, che occhi.

 

Socchiusi, sonnacchiosi, increduli, dannatamente splendenti, brillanti come di vita propria, come se non avessero realmente bisogno del sole, per essere due fari. Due fari che sono profondi quanto un oceano, di un blu che cambia colore ad ogni cambio d’espressione, che stordisce con la stessa potenza di un cavallone di mare in pieno petto.

 

Occhi che guardano me, solo e soltanto me. Ma non il mio corpo con un’espressione intrigata, oppure che mi squadrano con sfiducia o addirittura fastidio. Non sono occhi in cui trovo solo sincero affetto, ma neppure occhi che si soffermino solo al mio aspetto fisico, qualunque esso possa essere.

C’è fuoco, là dentro. C’è la potenza della rabbia, la determinazione, la disperazione di una donna che pur facendosi continuamente male, si sforza di affrontare tutto e tutti con lo stesso sorriso ironico di sempre.

 

C’è passione, dietro quello specchio di cristallo blu. C’è una passione per la quale i muscoli gementi della mia schiena ringraziano, c’è un vivere di sentimenti così al limite del possibile che l’unica cosa che ho potuto fare è volerne ancora, e ancora, sempre di più di lei, fino a scoppiare, fino a capire che no, non esistono parole per descriverla e l’unica cosa che puoi fare è gridare, gridare fino a farti scoppiare i polmoni.

 

E al diavolo l’inquilina del secondo piano.

 

-Ehi.

 

Soffio contro il suo viso, così vicino al mio da poterle contare tutte le piccole lentiggini sul naso.

 

-Questo sì che è un discorso profondo ed introspettivo, non trovi?

 

Credo che volesse fare dell’ironia, lei ed il suo sorriso storto, con tanto di sopracciglio inarcato al seguito. Ma la voce di tre ottave più bassa la tradisce. E io so perché è di tre ottave più bassa.

Tocca a me sorridere, adesso.

 

-Volevi forse l’enunciazione del primo principio di libero commercio tra Stati membri dell’Unione Europea?

 

Espressione incredula da parte sua.

 

-Ma tu sei sempre così, a letto?

 

Ah, questa se l’è voluta: distrattamente, faccio scorrere il mio dito per tutta la lunghezza del suo collo con un’esasperante lentezza.

 

-No- rispondo ridacchiando- sono meglio. È che ieri mi hai preso in contropiede.

-Oh. In contropiede. E se eri preparato cosa tutto sarebbe successo?

 

Schiocco la lingua, non rispondendole subito. Senza smettere di guardarla mi abbasso lentamente fino a sentire la pelle morbida del collo sotto le labbra. Un bacio così, di sfuggita.

 

-Bum.

 

Rispondo finalmente io, tornando a all’altezza del suo sguardo.

Quel sopracciglio non sembra voler accennare ad abbassarsi, eh?

 

-Ma dopo sì che eri preparato.

 

Mi sventola la sua manina di fronte al viso, quattro dita di cinque alzate.

 

-Quattro volte, Gustav. Quattro volte.

-Cos’è, un numero per la lotteria?

 

Cerco di fingermi stupito io.

 

-Oh, certo.-sbuffa lei- Tatuatelo anche sul polso, visto che ci sei. In gotico, magari.

-Non darmi idee pericolose, Dorcas.

 

Inquietante sentire il calore della sua pelle direttamente a contatto con la mia. Dannatamente eccitante, tanto per cambiare.

 

-Jost non ne sarebbe contento.

Mi squadra ironica lei, mordicchiandosi poi le labbra.

 

-Quando mai Jost è contento?

 

Chiedo, intontito dal suo muovere le labbra. Cercando di distrarmi, seguo la linea delle spalle, fino ad intopparmi con l’inizio del tatuaggio che le avvolge per intero il braccio sinistro. Cerco di definire con esattezza il confine tra pelle pallida ed inchiostro, ma l’unica cosa che posso fare è perdermi in un groviglio di rovi che, impietoso, prosegue oltre la spalla, circondando il seno all’altezza del cuore.

Che batte veloce sotto la mia mano, batte sempre veloce. Per lo meno il cuore di Dorcas.

 

-Mi piacerebbe sentire ancora una volta La Lunga Storia del Tatuaggio di Dorcas, sai?

 

Lo sento persino io, che in questo momento sono tutto meno che lucido. Trasognato, sarebbe più esatto. Ma più che trasognato sono distratto, abbindolato, in trance ed in apnea, perchè la sua presenza, vicinanza, tatto, tende a monopolizzare così a fondo la mia attenzione da farmi dubitare di riuscire a svolgere funzioni vitali quali respirare, vivere.

Chissà se il suo cuore batte abbastanza per tutt’e due?

 

-Ma come, l’hai sentita tante di quelle volte...

 

Riesco a sollevare gli occhi dalla sua pelle quel tanto da incontrare i suoi, socchiusi e scettici. Ed è buffo come ormai non mi preoccupi neanche più di quello che possano leggermi dentro.

 

Sorrido, mentre torno a percorrere con le labbra una scritta in gotico sulla spalla particolarmente complicata.

 

-E tu raccontala lo stesso.

 

Non vedo il mezzo sorrisino che sicuramente le sta stirando le labbra, eppure posso sentirlo, come un bacio dell’aria sulla pelle.

 

-Allora...- inizia lei, lentamente –la lunga storia del tatuaggio di Dorcas è nata una lontana notte di taaanti anni fa- la squadro sogghignando, ma lei non può che tapparmi la bocca con la mano -E non diremo quanti perchè sennò mi si notano di più le rughe- ribatte divertita lei, mentre io le afferro la mano, accarezzandole il dorso –ed avevo deciso che se il polso mi faceva così male, e sembrava non si potesse fare nulla per anestetizzarlo, allora forse si trattava di un qualcosa che non obbediva alle leggi della medicina. Dai, ero una piccola seducenne con due piercing ancora rossi sul labbro inferiore, che si sentiva in dovere di mostrare al mondo quanto dentro di lei ci fosse di ributtante e malsano.

 

Sospira, chiudendo gli occhi.

 

-Ma in te non c’è nulla di ributtante, Dorcas. Non c’è e non c’è mai stato.

 

Riapre gli occhi, ma solo per guardarmi noncurante.

 

-Chi può dirlo, Gustav?

-Perchè allora anch’io sono molto peggio di qualsiasi psicolabile che si vede in giro.

 

Ribatto io stancamente, certo che adesso risponderà con il suo solito tono polemico.

 

-Ti offendi se ti dico che è possibile?

 

Eccolo, infatti. Mi prendo la testa tra le mani, consapevole che forse si sta preparando un casino. Ma ci vorrà ancora un po’ di miccia, prima che scoppi.

 

-No, perchè lo so. Ne ho avuto... la prova, se così possiamo dire.

 

 Dorcas non può che squadrarmi basita, aspettando altre parole da parte mia, parole che non vengono. La situazione si limita a rimanere sospesa così, con noi due che ci guardiamo negli occhi, quasi sfidandoci a trovarne un fondo.

Saremmo più sicuri se lo trovassimo?

 

Mi rivolge un’ultima occhiata che mi fa capire che la discussione in merito al mio lato pericoloso è solo rinviata, prima di continuare a raccontare.

 

-Un qualcosa di ributtante che sembrava incendiarmi il polso, e da lì l’avanbraccio, il gomito, la spalla... centimetro dopo centimetro, si stava divorando una parte di me senza la quale non avrei pensato di vivere. Eppure sono ancora qua, viva.

 

Distratto per un momento dai suoi capelli, mi riscuoto in tempo per seguire il suo dito che indica uno per uno tutti i tatuaggi più vistosi.

 

-Una rosa che va dal polso al gomito, frasi intrecciate all’orchidea sul braccio, piccole stelle... e spine, spine, spine.

 

Mi guarda fisso negli occhi, ripetendolo come una strana cantilena.

 

-Spine, spine, spine.

 

Eppure, seguendo il suo dito, mi accorgo che lì non ci sono solo rovi e fiori esotici.

 

-Cè anche una G, qui.

-Potrebbe essere.

-Come sarebbe a dire, potrebbe essere?

 

Mi squadra intensamente per un momento, dubbiosa sul parlare o meno. Si decide infine con un sospiro.

 

-Tre “G” per tre anni.Tre anni guardandoti da lontano, vedendoti ridere una volta abituato alla mia presenza, ma diffidente quando ancora non ci conoscevamo. Tre anni facendomi assillare controvoglia da quel tuo maledettissimo sguardo imperscrutabile anche nei giorni di ferie, dando il massimo in tour, consolando in sala prove, standoti vicina senza mai toccarti, maledizione, perchè tu mi vedevi, ma non mi guardavi.

 

La guardo stupito, eppure trovandomi d’accordo con lei ad ogni singolo ricordo evocato. Quante volte è stata Dorcas l’amica, Dorcas dalle gonne buffe, Dorcas “che ne ferisce più la lingua che la spada”, quella da trattare come un partner di lavoro particolarmente affiatato?

 

Chiude gli occhi, improvvisamente lucidi.

 

-Sai quanto faceva dannatamente male vederti preoccupato per il fatto che non riuscissi ad uscire con nessuno, quando, se ero particolarmente fortunata, ti sentivo soltanto parlare con... come si chiamava? Karola? Kathleen? Figurarsi quando mi toccava vedervi insieme.

 

Si protegge il viso con il braccio, ora, mentre l’altra mano risale a coprire il petto.

 

-Oppure quando altro, Gustav? Quando tua madre ti faceva quelle indirette direttissime indicandomi scherzosamente con il dito, ammiccando e noi non potevamo che ridere? Oppure quando Bill mi prese da parte e mi disse che avevi iniziato a metterti la maglietta anche durante i soundcheck solo perchè gliel’avevano chiesto sia lui che Tom e Georg, pur di non vedermi più così distratta?

 

Ridacchiò, ma la sua voce grondava amarezza. Poi, come se avesse ricevuto l’illuminazione, tolse il braccio dal viso e riaprì gli occhi, fulminandomi.

 

-Oppure quando non volevi suonare quella dannatissima batteria perchè eri “stanco”? e poi te la prendevi con me, se anche solo ti ricordavo che avevamo tutti quanti delle scadenze e che la tua era, puntualmente, l’ultima?

 

Adesso tocca a me corrugare le sopracciglia, preso in contropiede.

 

-Ehi, ehi, ehi.

-Ehi un corno, Gustav Klaus Wolfgang Schäfer.

 

Inarco il sopracciglio, mettendomi di colpo a sedere, tirando il lenzuolo per avvolgermici meglio.

 

-Le uniche persone che mi chiamano così quando sono incazzate sono Tobi, mia madre e tu.

 

Anche lei si tira a sedere, la bocca stretta in una linea sottile, gli occhi che promettono fuoco e fiamme.

 

-Oh, beh, se non altro te ne sei reso conto.

-Del fatto che sei incazzata?

-Del fatto che io sia giustamente incazzata, Schäfer!

 

Alza leggermente la voce lei, spalancando le braccia e scrollando le spalle, infastidita. Non mi piace affatto come abbia calcato la mano su quel “giustamente”, affatto. Mi sento attaccato a viso aperto, esattamente quando non me l’aspettavo. Quindi piego la testa su una spalla, osservandola critico. Ma lei, decisamente, non ha perso il potere di farmi vacillare sotto quel suo sguardo infuocato.

 

-Cosa significa per te puntare ad un obbiettivo, dedicargli ogni tuo sforzo, renderlo parte integrante del tuo modo di pensare e del tuo tran tran quotidiano, per poi vedertelo strappato dalle mani a forza, nonostante tu abbia lottato, invano, contro tutto e tutti pur di non permettere che si tramutasse in cenere e ti sfuggisse dalle dita al minimo alito di vento?

 

Vive le emozioni al limite, senza fermarsi a chiedersi se siano giuste o no, se sia meglio nasconderle o sbatterle in faccia a chiunque. Non esistono freni, se lei decide che non ce ne devono essere. E allo stesso modo con cui lei ti scruta fin nel profondo, così elimina anche ogni tentativo di difesa.

Come si può ribattere a chi non si limita a dirti la verità, ma addirittura a sbattertela in faccia con la forza di uno schiaffo?

 

-Non so per te –scuote furiosamente la testa- ma per me ha significato qualcosa di peggio che “cambiare i piani”.

 

Spossata, chiude gli occhi, coprendosi il viso con le mani per un breve momento, quasi annegasse nei ricordi. E mi si stringe il cuore con un ansito strozzato, quando la vedo scrollare debolmente le spalle, lasciandosi sfuggire un lamento doloroso.

 

 -Sai cosa ho pensato quando sono salita sul taxi che mi avrebbe portato all’aereoporto?

 

La sua voce, soffocata dalle mani, mi fa accapponare la pelle. Non ha bisogno di specificare che taxi, né tantomeno quando tutto questo sia avvenuto.

Sei mesi.

 

-Che mi aspettavano mesi di pura follia.

 

Lascia cadere le mani in grembo, le spalle ingobbite e gli occhi privi di espressione. E io non posso far altro che trattenere il respiro, perchè so che quella sensazione che percepivo come sfondo di ogni nostro gesto o parola di ieri, si è avverata, si è mostrata per quello che è: ricordi.

E ciò che andrebbe detto adesso, ciò che entrambi stiamo solo aspettando di sentire risuonare in quest’aria viziata , è la conferma che, pur non avendo vissuto l’uno la vita dell’altro, abbiamo una vaga idea di quello che è successo.

 

Un’idea che dobbiamo mettere in chiaro, prima d’illuderci che tutto è sistemato e che sì, saremo una perfetta coppia modello con alle spalle un passato facile da dimenticare.

 

Perchè il passato è ciò che rende possibile il domani, pur quanto duro possa essere. Il passato e ciò che ti da’ materiale per poter affrontare l’oggi, il passato è quello con cui ti ritrovi a fare i conti nei momenti meno opportuni, esattamente quando speravi di tutto cuore che fosse finalmente tutto finito, la pagina girata ed il capitolo concluso.

 

Eppure no, noi non saremmo stati certamente ortodossi, né giusti nel rinfacciarci cosa avevamo perso l’uno dell’altro. Ma se c’era una cosa che ci aveva già separato, in passato, era stata l’incapacità di comprendere l’enorme mole di ricordi che ci portavamo dietro, chi più grande, chi più piccola.

 

E forse il futuro ci avrebbe diviso e l’oggi ci stava sicuramente facendo la vita più difficile, ma almeno non saremmo più caduti nella trappola del passato.

 

-Sei mesi.

 

Dobbiamo raccontarci questi sei mesi.

Per quanto sia difficile da accettare.

Per quanto suoni edulcorato, se raccontato a voce.

Per quanto sia leggero, per chiunque non l’abbia vissuto.

 

Fu così che giunsi le mani in grembo, cercando con lo sguardo gli occhi di Dorcas, il suo muto assenso nel completare la frase.

Con una voce a metà tra disperato ed atono, vissuto eppure ancora bruciante.

 

-Sei mesi. D’inferno.

 

Bruciava la lingua anche il solo ammetterlo.

 

.-.-.-.

 

Perchè questo non è un racconto di favole, il principe azzurro era vestito di nero da capo a piedi, era biondo sì, ma con due occhi più neri che castani per il turbine di sentimenti che lo faceva sembrare una bomba pronta esplodere al minimo tocco. Il mio principe azzurro, nero a questo punto, aveva una cicatrice sullo zigomo ed una sulla fronte, mentre le occhiaie viola sotto gli occhi gli invecchiavano lo sguardo, velandolo di quella sottile disperazione che, pruriginosa e snervante, portava poi al collasso.

 

E, soprattutto, il mio principe non-in-azzurro mi aveva portato a letto prima di sconfiggere la strega cattiva.

Spiacevole spiazzarvi così, con poca classe e romanticismo, ma il fatto che i nostri abiti siano dappertutto tranne che ad una distanza ragionevole dal nostro letto mi fa seriamente dubitare di esserci proprio arrivati, al letto. Non in un primo momento, almeno.

 

Comunque sia, il mio principe nero si è reso conto di come tutto questo non sia una favola, a partire dal fatto che il mostro crudele, l’Orco Divora Principesse, è proprio quello che ci si lascia alle spalle ogni giorno.

C’è chi la chiama ombra, chi lo chiama più poeticamente “passato”.

 

Io mi limito a non chiamarlo affatto. Mi basta sfiorare il mio polso sinistro, lavare sotto la doccia l’intera estensione del mio tatuaggio, per rivivere tutto il vortice di ricordi che non accenna a sparire neppure nei momenti più felici.

 

-D’inferno, già.

 

Continuai a guardarlo fissamente negli occhi, rendendomi conto di come, in realtà, c’era ben più di semplici ricordi, a dannarci l’esistenza. C’era il fatto che lui era un batterista.

 

Ed io no.

 

Ma tu sai perchè non riesci più ad impugnare un paio di bacchette. E sai benissimo che non è più per colpa del polso che, pace all’anima sua, adesso sembra in grado di sostenere qualsiasi cosa.

No, il problema è un’altro.

 

Con una fitta di dolore, mi resi conti di aver strizzato gli occhi, quasi volessi mettere a fuoco ogni singolo particolare di lui, come se volessi veramente capire.

Capire l’incomprensibile.

 

-Ed il peggio di quei mesi, è che sono stati pressocchè inutili.

 

Il problema è un altro.

 

Appagante l’espressione di stupore sul suo volto. Sì, decisamente appagante. Corrugo le sopracciglia, quasi ponderassi con somma attenzione cosa tirare fuori, ed in quale ordine.

 

Il problema è sempre un altro, risolto il primo ci creiamo il prossimo.

 

-Vediamo, da dove iniziare?- dissi grattandomi ironicamente una tempia. –dalla maledettissima speranza che tu non vuoi ti nasca nel petto? Dalla sensazione di soffocamento che ti da una maschera da anestesia premuta sul naso?  Dal fatto che ho dovuto sopportare mesi, fottuttissimi mesi, cercando di eseguire alla lettera ogni singola fase di una riabilitazione angosciante?

 

Un misto di orgoglio calpestato, illusioni senza scopo, superbia mal bastonata e uno sprezzante senso di superiorità appena celato.

 

Ad ogni domanda la mia voce si affievolisce una volta di più, ad ogni ricordo che scorre veloce nella mia testa segue una puntura dolorosa nel cuore. Ad ogni punto interrogativo che aleggia senza un reale perchè nella mia testa sembra che un nuovo cumulo di certezze, frasi, frammenti praticamente polverizzati di speranze calpestate più e più volte, mi crolla sulle spalle, mi grava sulla lingua.

 

Perchè tu non hai paura del dolore, delle ripercussioni sulla tua carne.

Di quello te n’è fregato sempre ben poco, piccola incosciente.

 

E lui non può che sussultare, continuando a guardarmi da lontano, stringendo gli occhi e trattenendo lacrime, che, forse, sono dedicate a me.

 

-Eppure nulla è peggio della paura, sai?

 

Paura, sì.

 

La mia voce si fa improvvisamente leggera, quasi inesistente. Si affievolisce fino a spegnersi su quell’ultimo “sai?” banale, retorico. Inutile.

 

Paura di non saper più suonare come prima, non di non saper suonare.

Vero, piccola perfezionista frustrata?

 

-Paura?

 

La sua voce mi arriva lontana, attutita dalla massa di pensieri che continuano a turbinarmi dietro occhi chiusi.

 

-Paura, sì.

-Di cosa?

 

Ed è riaprire gli occhi, guardarlo e capire che, nonostante lo ami, perchè sì, è strano ammetterlo dopo troppo tempo passato in un incubo claustrofobico di cui avevo immaginato una fine diversa, lui certe cose non le può capire.

 

-Di suonare, Gustav. Di riprendere in mano un paio di bacchette...

 

E forse è vero, forse a certe cose non c’è fondo e non c’è fine: i suoi occhi, il dolore con cui a volte ti tocca fare i conti.

Eh, beh.

 

L’unica cosa che hanno in comune entrambi è che dopo averli fissati a troppo a lungo ti ci perdi, non sai come uscirne.

E rischi di rimanere svuotata da loro.

 

-Ho paura di prendere in mano un paio di bacchette e non riuscire più a suonare come facevo prima. E non potrei resistere di nuovo a quella delusione.

 

Deglutisco un groppo amaro, saliva che sembra acido sulla lingua. Occhieggio distratta alla mia camera in affitto, cornice poco consona all’uragano di sentimenti che si sta scatenando tra queste quattro mura. Pareti di un bianco polveroso, enormi finestre e spesse tende, moquette nera e un armadietto regurgitante una valanga di abiti dai colori deprimenti.

Carte, scarpe sparse, abiti buttati a casaccio come buffa aureola da santo per un letto dalle lenzuola sfatte e spiegazzate, e due persone che ancora hanno tanto da dirsi nel mezzo.

Troppo intime per aver bisogno di coprirsi, troppo estranee per parlare senza mezzi termini.

 

Mi prendo la testa tra le mani, sospirando stancamente. Pensieri ovattati si fanno ingombranti nella mia testa, mentre mi accorgo con un tentennare goffo che la mia coscienza sta cautamente ammettendo nuove possibilità per una vita vecchia, la mia. Possibilità che la Dorcas dal sorriso sarcastico e consumato, quella che morde la mano che le sta vicina, non prenderebbe neppure in considerazione.

 

E poi, le sue mani tese entrano nel mio ristrettro campo visivo. Osservo senza reagire per un’istante, prima di sollevare lo sguardo lungo le sue braccia, collo, bocca sorridente.

 

-Vieni qui, prima.

 

Tende ancora di piu le braccia verso di me, come se fossi una bambina piccola che ha bisogno di vedere un paio di braccia spalancate per accennare i primi impacciati passi.

Mi stringo nelle spalle, cercando di trovare un vero, valido motivo per il quale, effettivamente, siamo uno di fronte all’altra, piuttosto che uno affianco all’altra. Vicini.

 

-Ma dobbiamo parlare.

 

Protesto debolmente io, perchè non si puo resistere molto al suo sorriso.

Scuote la testa, continuando a sorridere in quella maniera così spensierata, come io credo di non aver mai fatto.

 

-Cosa ti impedisce di farlo qui?

 

Chiede lui, sicuro di sè. Lo guardo di sottecchi, diffidente.

 

-Basta che non mi abbracci. Non riesco ad essere obbiettiva, quando mi abbracci.

 

Il suo sopracciglio s’inarca, pericolosamente ridanciano.

 

-Solo? Tu mi fai effetto se sei nel raggio di tre metri, ed io solo se ti tocco?

 

Scuoto la testa, occhi al cielo.

 

-Dipende da come lo fai, Gustav.

 

Solo troppo tardi mi rendo conto di tutti i doppi sensi di cui si può caricare la frase, se interpretata male. Esattamente come la sta interpretando Gustav in questo momento, visto il sorrisetto malizioso e la bocca atteggiata in un’espressione di muta sorpresa.

 

-Oh-oh!

-Scemo!

-No, semplicemente sei stata sincera.

 

Ridacchia lui, mentre si becca una cuscinata in faccia da parte della sottoscritta, leggermente rossa.

 

Le piume volano, fiocchi di neve improvvisati che ballano nell’aria che ancora crepita di elettricità e domande a cui non si è data risposta.

 

-Sì, ma tu vieni qua lo stesso.

 

Ribatte lui, afferrandomi per la vita e abbracciandomi da dietro, mentre poggia con molta nonchalance la testa nell’incavo del mio collo.

 

-Quando ho lacerato la fodera del cuscino più grande che c’era nella suite, le piume volavano via più leggere di queste.

 

Respira piano sulla mia pelle pallida, io che lo ascolto attenta, raggelata dalla frase pronunciata così pacatamente.

 

-E più ne volavano, più ne volevo veder volare. Mentre il telefono non era volato, si era semplicemente schiantato contro lo specchio tre metri per due. Era stato bello vedere i frammenti dello specchio frantumarsi al suolo, anche se uno mi ha procurato un taglio sulla fronte che ha sanguinato un bel po’.

 

Sussurra lui, voce roca e tono sognante, mentre mi da un bacio dietro l’orecchio.

 

-Mentre credo di essermi fatto il taglio al naso quando un pezzo di cornice dorata è rimbalzato dal pavimento su cui si era schiantato. Forse è stata la sua vendetta personale.

 

Tace, mentre io trattengo il fiato.

 

-Ho distrutto quella suite, Dorcas. Fino all’ultimo mobile. Gli altri erano in corridoio e sentivano rumori agghiaccianti, i danni sono stati un conto esorbitante da pagare e ho girato con i cerotti e mi facevano male le mani. Ma io, in quel momento, non ci stavo affatto pensando. Mi chiedevo solo, ogni minuto, ogni istante, “perchè non sei qui con me?”.

 

Poggia la testa sulla mia spalla, e con la coda dell’occhio vedo il suo sguardo assente.

 

-“Perchè non sei qui con me?”

 

Ripete lui, catatonico, senza più parlare. I secondi scorrono lenti, fino a quando non capisco che tocca a me riempirli dei miei ricordi.

Gli accarezzo lentamente la testa, alla cieca, affidandomi solo al tatto e ai suoi capelli corti che scorrono lenti sotto le mie dita.

 

-Quando il dottore che si prendeva cura di me alla clinica di riabilitazione mi disse che il mio polso era perfettamente guarito ed io potevo andare, mi regalò un paio di bacchette. Mi tremavano talmente tanto le mani, quando le presi, che mi cadde la custodia.

 

Chiusi gli occhi, lasciandomi stringere più forte, le sue labbra sul collo, la mia mano che stuzzica l’orecchio.

 

-Sono ancora là, da qualche parte sul pavimento. Non le ho mai provate.

 

Silenzio.

 

-Non ho mai avuto la forza di provarle.

 

Mormoro io, più all’aria che a lui, consapevole però che sentirà tutto, ad una distanza così ridotta. Poi, svogliando distrattamente tra i miei ricordi sgualciti, ne trovo uno che mi fa sorridere. È un sorriso amaro, ma pur sempre sorriso è.

 

-E che dire di quando Simon, il direttore della LA Philarmonic, ha accennato gli accordi di “Nothing else matter” solo perchè sapeva quanto ci tenessi ed io ho cambiato stanza?

 

Sorride contro la mia pelle. Ma è anche vero che i ricordi felici sono pochi, e scivolano via dalla memoria come acqua tra le mani, mentre i cattivi grattano ancora, sabbia su vetro, dolore nuovo scaccia dolore vecchio. Ecco perchè il mio sorriso scivola via.

 

-E ho chiuso tutte le mie gonne colorate in una scatola che devo aver buttato da qualche parte in salotto.

-Peccato, mi mancano.

 

Un sussurro leggero come il tocco delle sue dita sulle spalle, che scivolano senza fermarsi in un punto preciso, ruvide per i calli da batterista.

 Cerco la sua mano e la trovo là, vicino a me. Non posso fare altro che stringerla forte, per poi lasciarmi andare contro il suo petto e via, quello che dev’essere sia. Il suo cuore mi risuona forte in petto mentre guardo dritta davanti a me il sole accecante fuori dalla finestra, la sua pelle contro la mia e la consapevolezza, dolce quanto un bacio di zucchero, che non se ne sarebbe andato da un momento all’altro.

 

Guardo in sù, verso di lui. E, affatto stranamente, trovo che anche lui cerchi il mio sguardo.

 

-Mi manchi tu.

 

Lo dice tranquillaente, però con un tono così spesso e basso che mi fa socchiudere gli occhi per la devastante tranquillità con cui mi fa sprofondare il cuore nello stomaco, una voce calda e spessa dalla quale faccio fatica a districarmi.

 

-Ma io sono qui, ora.

 

Stringe gli occhi, improvvisamente stanco.

 

-Ma non mi dire che resterai per sempre.

 

Scuoto la testa, distratta dal castano alcolico, il cuore una goccia bruciante di cera e il battito accellerato.

 

-Non l’avrei detto comunque.

 

Sciolgo l’abbraccio, allontanandomi leggermente, girandomi verso di lui. L’osservo fissamente per un istante, cercando di non dimenticare la maniera in cui i raggi di sole gli fanno socchiudere gli occhi, il tatuaggio sul braccio che risalta come sangue sulle sua pelle bianca, le spalle curve come se portassero un peso immane, le mani abbandonate in grembo, scure contro il lenzuolo bianco. È una foto fatta d’ombre, dove le sue labbra sono rosse, screpolate ed ancora hanno la forma della mia bocca, dove gli occhi sono incognite conosciute, lividi dalla forma di dita premute con forza e frammenti di specchio che sfioriscono in cicatrici, e via, giù, nel profondo del suo sguardo senza prendere fiato.

 

-Ti amo.

 

Sussurro io, mai realmente certa del suono di queste parole, del pronome personale e del verbo che ha lo stesso valore di vivere, per me. Sfioro delicatamente la guancia con le dita, una carezza goffa dal valore incerto.

 

E lui sorride.

 

-Tornerai a suonare una batteria, sappilo.

 

Mi prende il mento, ridacchiando, ed io non posso che sorridere.

 

-So che lo farai. In fondo sei Dorcas, no?

 

 È un bacio diverso dagli altri, questo. È a fior di labbra, solo per sentire che ancora siamo vivi, la sua bocca continua ad avere lo stesso sapore delle lacrime e la mia quello aspro della polvere mangiata, il tutto misto a rabbia, sangue, una base di fiducia ed il minimo di amore sindacale. Un bacio lento, ad occhi chiusi, che non si approfondisce rimanendo a fir di labbra, stranamente innocente, così difficile da gestire per chi non ha mai avuto tempo per prendere le cose con calma.

 

E continuo a tenere gli occhi chiusi anche mentre le sue labbra si allontanano un istante, per prendere fiato e farmi scoppiare il cuore, ancora una volta. Giusto perchè tutto ciò che è venuto prima non dev’essergli bastato.

 

-Avrei paura, se non sapessi che ci sei tu.

 

E via, di nuovo ad occhi serrati e labbra socchiuse, mani indiscrete e bisogno di vicinanza. Senza bisogno di spiegarsi esattamente cosa tutto questo voglia dire.

 

 

 

 

 

 

 

 

.-.-.-.-.-.-.

 

Falling è di nuovo qui, signori e signore. Con molti cambi e crisi, incazzature e sfoghi, magicamente e per intercessione di non so quale entità divina, vi posto il qui presente aborto di una mente malata, consapevole del vostro incazzo, del fatto che non è l’ultimo capitolo e del fatto che diffetta totalmente di una trama plausibile.

È pieno di errori, minimo, e nell’ultima parte mi è costato l’ira stessa di Dio.

 

Prendetene atto e consideratelo all’ora di commentare, danke. ^^

 

Ah, piccolo annuncio: non è l’ultimo captolo che verrà ivi postato.

Il prossimo (il 12º, e che qualcuno lassù preghi per noi) sarà un epilogo di quelli belli complicati, succosi, con tanti sbalzi temporali e mille una novità, che si spera spieghino il perchè di tutta una storia, lenta come un’agonia.

Vi direi che sono di maturità, quest’estate, ma tanto non smetterete di smadonnarmi dietro solo per questo. vero?

 

Una storia lunga un anno e fruscia, e che ancora non è finita, per vostro dispiacere! *__*

Ma i commenti strappalacrime li riinvio al prossimo ed ultimo capitolo. E fatemi il favore di non tirare fuori fazzoletti!

 

Grazie mille a...:

 

Lady Notorious: perchè tu non manchi mai, anzi. Il tempo passa, i silenzi ci sono stati, ma spero non durino mai troppo. Grazie, schiavista. Lo sai che ti voglio bene!

Lady Vibeke: io ti direi di continuare a non sperarci, ma con un postaggio come queto diverrebbe un ossimoro. Cara, donna di mondo, sono semplicemente entusiasta di tutto, dai cmmenti alle lavate di capo che mi fai per Falling. Mi mancano le chiaccherate, ma in quelche modo recupereremo. Stessa dedica che per la Lady, che ti aspettavi? (Edit: Scusami ancora! E ancora... AUGURI! *__________* )

_Princess_: l’epilogo, l’epilogo... intanto pensa a fare a pezzi questo mini capitolo, poi vediamo. Donna del mistero, mi mancano le chiaccherate su MSN, e non solo quelle. Riusciremo a sopravvivere indenni a Giugno? Lo sapremo all’epilogo, visti i tempi di postaggio. XD

NeraLuna: cara, troppo buona. ^^ Sarai ancora viva dopo tutto questo tempo per farti ancora sentire? Grazie di tutto e baci!

SimmyListing: cerca di trovarle le parole, invece! Mi serve il tuo commento, è uno dei fedelissimi e non intendo rinunciarvi. Sempre che tu sia ancora in attessa di un aggiornamento di Falling, cosa di cui dubito. Grazie mille, caVa. *__*

Black_DownTH: beh, grazie. ^_^ ci sono cose che semplicemente mi fanno felice, e la tua recensione è una di quelle. Grazie!

VivienneWest: invece quella che ha voglia di sorridere come una demente per la felicità sono io, sappilo. Grazie delle parole, delle emozioni che hai provato, grazie di esserti immedesimata nelle mie parole, di aver vissuto le mie fantasie per un po’. Sono sicura che non possono che essere state felici di ciò. Io tuoi commenti sono tra quelli più attesi, quelli che mi fanno sentire come le mie schifezzuole possano piacere agli altri, pur non piacendo a me. Grazie, e non saprei come altro ringraziare.

_Princess_: doppio commento? Doppio ringraziamento! Grazie della pazienza e dei continui incoraggiamenti, grazie-grazie-grazie. Non vedo l’ora di trovare cinque minuti per disqusire su The Truth, ho una recensione in sospeso! **

 

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