Contaminati

di HarryJo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1, Missing Moment: Evan. ***
Capitolo 2: *** S. Valentino 1987: Incanto innevato. ***
Capitolo 3: *** San Valentino 2012: Amaro amore. ***
Capitolo 4: *** San Valentino 2022: Riguardo Roma. ***
Capitolo 5: *** San Valentino 2026: Sinistri silenzi. ***



Capitolo 1
*** 1, Missing Moment: Evan. ***


[Missing moment di Contaminati, thriller edito da Centauria Libri a nov. 2016. Qui la scheda del libro.]
 
Evan
(prima che tutto ciò ebbe inizio)



Ricordo come i miei genitori avessero cercato di prospettarmi un futuro scolastico roseo quando ero più piccolo. «Imparerai tante cose belle che ti serviranno nella vita» aveva promesso mio padre.
O loro mi stavano volutamente mentendo.
O loro stessi avevano creduto a certe idiozie.
Certo, per i primi anni forse era anche stato vero. Ma presto le cose erano cambiate, perché io non ero come il resto delle persone.
Una dimostrazione?
Prendiamo la giornata in cui tutta questa storia ebbe inizio, o per certi versi ricominciò: era mattina, e tra i soliti corridoi di scuola con la muffa agli angoli delle pareti gli studenti si muovevano a mandrie compatte.
Io ero immerso nella solita giungla di ripassi dell'ultimo minuto, brusii e risate mal celate. Quando entrai nell'aula di Psicologia, il chiacchiericcio dei corridoi fu sostituito da quello della piccola stanza, più sommesso a causa delle ristrettezze spaziali. Vlad mi camminava a fianco ragguagliandomi della sua ultima conquista del fine settimana.
Ci sedemmo ai nostri soliti posti in fondo all’aula e mentre Vlad terminava la sua storia, che verso la fine andava sfociando in un’iperbole narrativa di rara mascolinità adolescenziale, io rimasi a osservare il resto della classe. Ragazzi e ragazze si erano divisi con scioltezza in base al genere di appartenenza, e nei diversi gruppi si discuteva di scarpe o di hockey, di atteggiamenti poco corretti da parte dei giovani adolescenti russi, o del fisico delle compagne di classe. Qualcuno starnutiva in previsione di una brutta annata influenzale, e qualcun altro si sfregava gli occhi ancora assonnato, nonostante la mattinata scolastica stesse ormai terminando.
«Fatto le ore piccole ieri sera, Yana?» La ragazza in questione si voltò verso di me con le labbra distorte dalla fase finale di uno sbadiglio.
Alzò solo una spalla, forse per pigrizia, forse per altri motivi. «Ho studiato per la prova di Russo.»
«E com’è andata?» Vlad sorrise con il solito fare carismatico, sporgendosi dal banco verso Yana.
Avrei voluto dire a Vlad che non era necessario perdere tempo in queste domande inutili: Yana non era certo rimasta veramente sveglia a studiare ieri sera. Ma se lui voleva portare avanti quella farsa di conversazione a me stava bene.
Yana stava rispondendo con una qualche frase insipida, mentre qualcosa ai margini del mio campo visivo attirò la mia attenzione.
L'entrata della professora Toskanskaja? Forse sì. O forse no.
Guardai meglio, con più attenzione. No, non era quello.
La professora Toskanskaja ci salutò e riprese la spiegazione da dove si era interrotta la settimana precedente.
Inizialmente le lezioni di Psicologia mi avevano allettato, e per qualcosa come due settimane erano state quasi interessanti. Nonostante all'inizio parlassimo solo di concetti basilari, ero speranzoso che una volta partiti con il programma le cose sarebbero diventate più succose. Non era accaduto. E ora la Toskanskaja, per quanto ci mettesse la sua energia da professora alle prime armi, era solo una figura in più dentro quel grigiore che era divenuto il sistema scolastico, che tante cose avrebbe dovuto insegnarmi.
«Oh, già. Dimenticavo. Avete raccolto i soldi per la gita a Sochi?» Tutti si voltarono verso Katerina, la ragazza che due settimane prima si era assunta la responsabilità. Lei, leccandosi le labbra, si abbassò a prendere la borsa gettata sotto la sedia. Era stata lei ad attirare la mia attenzione, quando era entrata nella classe. Qualcosa, quella mattina, era diverso in Katerina.
Rovistò per qualche minuto prima di estrarre la busta. La consegnò alla Toskanskaja. Le due presero a contare i soldi, come ultima verifica. Lo fecero una prima volta e, al termine, lo sguardo rabbuiato della professora incontrò quello sorpreso di Katerina. Ma fu cosa di un secondo, subito le sopracciglia alzate della ragazza si piegarono in un'espressione concentrata che la professora imitò mentre le due tornavano a contare le varie banconote.
Non ero l'unico a essersi accorto della cosa, e qualche ragazzo seduto in prima fila aveva iniziato a mormorare. La scena si ripeté, e le due con sempre maggiore agitazione ricontarono, per la terza volta, i rubli.
«Qui mancano dei soldi, Katerina» disse la Toskanskaja voltandosi con sguardo indagatore verso la sua allieva. «Sicura che tutti te li abbiano dati?» Sicura di non essertene intascati qualcuno?
Non potei fare a meno di studiare la mia compagna di Psicologia, alla ricerca di quel qualcosa fuori posto, quel qualcosa in meno. E allora colsi quel particolare che nessun altro avrebbero notato: Katerina non indossava la collana di oro bianco regalatole anni prima da una nonna ormai deceduta. Lo trovai subito strano, e mentre riflettevo sulla cosa i miei occhi si fissarono a lungo su Katerina e sul suo collo nudo. Nel frattempo Katerina era arrossita e scuoteva la testa con un gesto netto «Giuro che c’erano tutti. Avrò controllato almeno una decina di volte stamattina» disse, con la voce strozzata. Ora il brusio nella stanza era un vivace scontrarsi di voci e suoni stupiti.
Mentre le due parlavano, io sovrappensiero avevo spostato lo sguardo altrove, tornando a studiare la classe e le persone all’interno.
«Qualcuno ha forse rubato i soldi?» domandò una voce dall'altro lato della classe.
«Andiamo, non facciamo scherzi!» E tutti iniziarono a dire la loro.
Continuai a guardarmi attorno, in silenzio. Lei mi osservò, le sorrisi. Ma non ricambiò, guardinga.
La lezione, ora, sembrava promettere qualcosa di divertente. Un ragazzo si volse verso di me, i suoi piccoli occhi mi osservarono accusatori: Yan Ivanov non era di certo uno dei miei più accaniti fan.
«Non vi preoccupate» disse infatti, «ora Evan farà uno dei suoi trucchetti.» Alzai gli occhi al cielo indignato, ma la classe ormai guardava me. Aspettava il mio show.
Mi sfiorai la cicatrice che portavo al sopracciglio, ricordo di una parte del mio passato decisamente macabra, e mi alzai dalla sedia. Nel farlo, il thriller che stavo leggendo scivolò contro il pavimento, richiudendosi. Poco male, era una trama parecchio prevedibile: nonostante fossi alle prime pagine ero già piuttosto certo di aver compreso chi avesse ucciso il vecchio marinaio durante la tempesta. L’anziana che gli era passata accanto durante la cena la seconda notte. Per quale motivo? Qualcosa connesso al loro passato, probabilmente. Per comprendere gli atti orribili commessi dalle persone bisogna sempre partire dal loro passato.
Feci scorrere lo sguardo lungo i vari banchi, studiando i miei compagni: li conoscevo bene abbastanza da sapere cosa cercare. Ivanov mi ringhiava contro, senza cercare di nascondere il disprezzo che provava nei miei confronti, risalente a un episodio a mio avviso di poco conto.
Il mio sguardo terminò contro il muro freddo e umido della classe. Ripercorsi nuovamente quei visi, una seconda volta. Era essenziale mantenere una certa suspense.
«Quindi?» domandò la professora.
«Lyudmila?» dissi, voltando il viso verso la ragazza. Lei mi rispose con preoccupazione.
«Sì?»
«Hai forse preso qualcosa che non ti apparteneva?» domandai con un tono innocuo, per nulla indagatore.
«No» disse, con un tono poco più alto rispetto a quello che normalmente utilizzava.
«Ah. Scusami, allora.» Sorrisi, voltandomi verso la ragazza sedutale davanti: Yana. «E tu, Yana?» Lei per un attimo distolse lo sguardo da me, spostandolo verso il pavimento e poi verso la classe.
«E io cosa?» Mi guardava con aria di sfida.
«Hai preso qualcosa che non ti apparteneva?»
«No, non ho preso qualcosa che non mi apparteneva.» Di nuovo, mosse lievemente la spalla.
«Quindi quei 36.780 rubli che hai, guarda caso, dentro il portafoglio, sono i soldi che normalmente ti porti a scuola?»
Yana si finse sdegnata, e si volse verso la Toskanskaja la quale si limitò a dirle: «Facci solo controllare.» Io già stavo prendendo lo zaino, guardando però Lyudmila di sottecchi. Mi ci vollero pochi secondi per trovare il portafoglio di Yana, ed estrarre la quantità di rubli sospetta.
«Sono miei» si affrettò a dire Yana.
Scossi la testa. «Lavori la notte, probabilmente in un qualche locale malfamato. Posso capire la necessità economica, e un’occasione è pur sempre un’occasione.» Poi, abbassando la voce, aggiunsi: «E poi Katerina è così ingenua...»
Yana era rossa: di imbarazzo, di rabbia, o di entrambi. La campanella suonò, e io fui legalmente libero di incamminarmi verso casa, lasciando Yana, Katerina e la professora a occuparsi degli aspetti tecnici. La sentii obiettare debolmente qualcosa, continuando con la versione che voleva quei soldi come suoi, poi proruppe con uno stridere di denti «È impossibile che lui...»
Fu la professora a dire quello che tutti quelli nella stanza stavano pensando: «Avanti, Yana, è Evan.»
«Ah, Lyudmila.» La fermai con un sussurro. Il corpo della ragazza raggelò. «Tu sei amica di Katerina, giusto?»
«Che vuoi?» ringhiò.
«Potresti darle questa?» Le allungai un ciondolo in oro bianco che Katerina portava spesso al collo, regalo di una nonna ormai defunta. «Sarebbe un peccato se la perdesse, o peggio... finisse nelle mani di qualche personaccia. Giusto?». Vidi la mano sinistra di Lyudmila chiudersi a pugno mentre l'altra si allungava in un gesto meccanico verso il gioiello.
«È una fortuna che quella ragazza abbia delle buone amiche, come te.»
«Ti credi tanto intelligente, non è così, Evan?»
Mi credevo molto più intelligenti di tutti loro, quello sicuramente, ma a lei non ero tenuto a dirlo.
Le sorrisi. Ma lei non ricambiò.

 

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Capitolo 2
*** S. Valentino 1987: Incanto innevato. ***


Incanto innevato.
Spin-off 1/4 di San Valentino



Mosca, San Valentino, 1987.
Aleksandr Rostov/Evelina Panova


Era bella. Guardandola riusciva a pensare solo a quello: era bella. I capelli biondi, chiarissimi, che fuoriuscivano da quel cappellino di lana, rilucevano nel cielo plumbeo, angelici, soprannaturali. La pelle, così pallida, normalmente bianca quasi come una luna nelle notti più scure, era diventata di un colorito rosato attorno agli zigomi, e il naso era completamente rosso. Aveva qualche lentiggine, ma era un dettaglio visibile solo a chi si avvicinava abbastanza al suo volto per poterlo notare. E lui lo faceva spesso, perché adorava l’idea di poter scorgere quei piccoli particolari che altri non notavano. Voleva possedere quanto più poteva di lei, quanto più non era concesso ad altri. Voleva amarla in tutto, anche per quelle lentiggini che conosceva solo lui.
Era bella. Piccola, indifesa, dolce, bella.
«Aleksandr.»
«Dimmi.»
«Allora, mi baci o no?»
Sorrideva. Le loro labbra erano a qualche centimetro, percepivano i respiri l’uno dell’altra contro il proprio viso, ma Aleksandr ancora non si era avvicinato, perso com’era a cogliere quei particolari. La voleva guardare. Ancora, e ancora.
«Sei impaziente, Evelina» le sussurrò piano, ma poi decise di sfiorare le sue labbra dolcemente. Non era un bacio, era un tocco lieve, sospeso. Gli bastava quello per sentirsi vivo, improvvisamente a casa. Poi si staccò, come bruciato, e si guardò intorno. «Sono talmente abituato a Volgograd che l’immensità di Mosca mi lascia sempre sorpreso.»
«Ti piace?» La sua voce, simile al suono di una dolce arpa, gli sussurrò piano nell’orecchio. Doveva essersi messa in punta di piedi. «Sono contenta di essere venuta qui. Grazie.»
«So che ci tenevi molto.»
Evelina gli aveva parlato spesso di quanto desiderasse vedere il Parco Sokolniki nel giorno di San Valentino; lui preferiva la festa dell’8 luglio, in memoria del Principe Petr di Murom e della sua sposa Fevronija, vissuti nel tredicesimo secolo: Petr aveva voluto sposare la giovane di umili origini che l’aveva guarito dalla lebbra, nonostante i notabili della città fossero contrari. La Russia festeggiava quel giorno per esaltare i valori dell’amore e della famiglia.
Mosca però per il giorno comunemente noto come quello di San Valentino si decorava di numerose iniziative e il Festival dei cuori sciolti all’interno del parco in ulitsa Sokolniki era sicuramente una delle attrazioni più rinomate nell’intero paese. L’ingresso era decorato con una scultura di cuori di ghiaccio, contornato di orsacchiotti di peluche, rose e fiori recisi. Il viale principale aveva preso temporaneamente il nome di “Viale degli innamorati”, che centinaia di coppie stavano attraversando in quel momento, chi a cavallo, chi fermandosi ogni tanto a rimirare i numerosi stagni che lo costituivano.
Ormai era quasi ora: a momenti sarebbe stato presentato il “cuore vivente”. Evelina sognava questo momento da anni e Aleksandr era enormemente felice di poterglielo regalare. Aveva anche insistito perché partecipassero alla gara del bacio più lungo: i fortunati vincitori avrebbero potuto ottenere una vacanza in Italia e una cena romantica. Lei, con quel suo cuore sempre pronto a riempirsi d’amore, non poteva far altro che sognare di conquistare il mondo tramite i suoi battiti.
«Aleksandr…» sospirò lei, mentre gli occhi le diventavano lucidi.
«Evelina, hai freddo?» Si preoccupò subito, vedendola tremare.
Ma lei scosse la testa. «Guarda.»
Improvvisamente apparve: eccolo lì, davanti a loro, il cuore vivente di ghiaccio più grande del mondo, con un’altezza di quattro metri. Se pensava di aver capito cosa avrebbe provato all’apparire di quell’immensa scultura, Aleksandr si sbagliava. Poteva percepire l’effetto del battito cardiaco. Sapeva che all’interno del cuore di ghiaccio era stato montato un pulsatore perché ne ricreasse l’effetto, ma non aveva immaginato quanto sarebbe stato vivo. Lui, che amava così tanto la vita, il cuore, che studiava gli organi con passione incontrollabile, ne rimase folgorato. I battiti di mani rimbombavano attorno a lui, le persone schiamazzavano e gridavano, altre si baciavano appassionatamente.
«È bellissimo» sussurrò, appena.
«Sì. Grazie, Aleksandr.»
Con uno sforzo immane, distolse gli occhi da quella scultura che aveva preso vita e riprese a guardare Evelina, con gli occhi ricolmi di lacrime di commozione. Non ci pensò due volte e la baciò, tenendola stretta a sé e affondando le sue mani tra quei capelli chiari. Amandola, come nessuno l’avrebbe amata mai. Come Petr aveva amato la sua Fevronija.
«Ti devo dire una cosa» gli sussurrò.
«Dimmi.»
«Io…» Si staccò da lui e abbassò lo sguardo, imbarazzata. «Stiamo insieme da molto tempo, ormai.»
«Sì.»
«Mi hai chiesto di sposarti.»
«E te lo chiederei altre cento volte.»
«Aleksandr» lo richiamò, e lui si mise nuovamente a contare le sue lentiggini, dimentico del mondo attorno a lui. «Vorrei ridarti la famiglia che hai perso, come tu mi hai dato tutto questo.»
«Tu sei la mia famiglia» le ricordò lui. «Finché ci sarai tu, potrò ancora vivere.»
«Finché ci saremo noi» sussurrò. «E nostro figlio. Vuoi un figlio, Aleksandr?»
Rimase in silenzio, ad assorbire quelle parole e tentando di non tremare. «Uno solo?»
Improvvisamente il volto di Evelina si rischiarò di gioia e sorrise, sorrise come poche volte aveva fatto nella vita, illuminando tutto ciò che le era intorno. Si mise quasi a saltellare, urtando inevitabilmente una coppia lì vicino e scusandosi con un po’ di dolce imbarazzo.
«Vieni» le sussurrò Aleksandr, prendendola a sé e baciandole lievemente il naso rosso. «Andiamo a ballare. Passeremo tutta la vita insieme, danzando, con il nostro amore.»

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Capitolo 3
*** San Valentino 2012: Amaro amore. ***


Amaro amore
Spin-off 2/4 di San Valentino
 

San Pietroburgo,
San Valentino, 2012
[Queen/Henryk - l’unico che mai amò]



 
 
 

«Mi posso voltare?» Il tono di voce di Henryk era evidentemente infastidito.
«Non ancora.»
Si trovavano all’interno di uno dei migliori cocktail bar di San Pietroburgo, il Pivorama. Queen lo adorava e non aveva potuto pensare ad altro posto per passare il suo San Valentino con Henryk. Anche se lui non sembrava molto contento della soluzione che lei aveva voluto tentare.
In effetti, all’interno del locale in quel momento, nonostante fosse ancora pomeriggio, c’erano numerose coppie ai tavolini singoli che si scambiavano effusioni e promesse d’amore che probabilmente sarebbero state dimenticate la sera stessa, dopo qualche goccio di troppo. Henryk si era dimostrato contrariato quando aveva dovuto sedersi al tavolino da solo, mentre lei si era seduta a quello esattamente dietro, in modo tale che si dessero le spalle. Era il loro primo appuntamento; Henryk non aveva idea di che volto avesse Queen, la ragazza che lo aveva contattato misteriosamente al telefono qualche mese prima ma non si era mai esposta. Temeva seriamente che fosse brutta, forse con un’orribile montatura di occhiali o con il volto sfigurato con l’acne: quale altro motivo avrebbe avuto per continuare quel giochetto?
«Queen, sono mesi che ci sentiamo. Sarebbe anche ora se ti guardassi negli occhi, no? È un’ora che sembriamo due scemi parlandoci di spalle, seduti a due tavoli diversi. È un comportamento infantile.»
«Devo capire se ti piaccio veramente» ripeté lei per quella che poteva essere la centesima volta.
«Magari se potessi vedere il tuo volto lo potrei capire anche io.»
«No!» quasi urlò, spaventata. «Se mi vedi, non lo capirò mai.»
«Credi che sia così stupido da valutare solo il tuo aspetto fisico?»
«Non è questo…»
«E allora cos’è!» Era esasperato.
«Okay, dimmi solo…» sussurrò lei, e dovette rischiararsi la voce per continuare a parlare. Si sentiva stupida, quasi umiliata, e non era abituata a quel tipo di sensazione. Lei era bellissima, austera. Ma aveva commesso un errore. Si era innamorata. «Sei innamorato di me, ora?»
«Che domande sono? Come posso essere innamorato di te se non ti ho nemmeno mai visto
«Henryk, se mi vedrai ti innamorerai.»
«Allora lascia che ti possa guardare.»
«No!»
Sentì dietro di sé il rumore di un pugno che sbatteva sul tavolo, lo stridio della sedia, e lei si spaventò. «Sai cosa ti dico?» La voce di Henryk quasi rimbombò per tutto il locale. «Sei solo immatura. No, non sono innamorato di te, e non potrei mai esserlo» quasi sibilò, «perché sei immatura. Viziata. Non fai altro che parlare del tuo ambiente agiato, di come tutti ti desiderino, ma io no. Eri solo l’ennesima conquista che volevo portarmi a casa, ma a tutto c’è un limite.»
E con queste parole, se ne andò, lasciando Queen seduta al suo tavolino, davanti al suo aperitivo. Le lacrime le premevano contro il viso. Aveva fallito. O meglio: il suo esperimento aveva funzionato. Lei si era innamorata, lei, che poteva avere tutti, si era innamorata. Un errore madornale, si era ripetuta, ma aveva voluto provare a giocare pulito per una volta, impedendo al ragazzo di vederla negli occhi. Dandogli l’occasione di innamorarsi di lei, di ricambiare i suoi sentimenti per davvero prima di farlo cadere in una trappola.
Ma prima che le lacrime avessero effettivamente il tempo di scorrerle lungo le guance, Queen si alzò e corse fuori dal locale, quasi ignorando i richiami in russo del barman che le chiedeva di ritornare.
Si voltò, con lo sguardo duro, e gli ordinò risoluta: «Offre la casa.»
Il suo tono non ammetteva repliche; l’uomo si era zittito e non aveva potuto fare altro che ripetere: «Offre la casa.» Non aveva avuto alternative. Nessun uomo che la guardava aveva mai alternative.
Queen aveva concesso l’alternativa solo a Henryk, e lui era stato così stupido da averla rifiutata.
Lo rincorse, fino a raggiungere il ciglio della strada dove si poteva intravedere il fiume Neva. Si era avvicinato al suo motorino, pronto per ritornare a casa. Queen sapeva che lo avrebbe trovato lì: lo aveva seguito sin da quando era arrivato, per evitare che potesse scorgere il suo viso prima del previsto.
«Henryk!» urlò, fermandolo. Lui si girò e lei sorrise.
Sul volto ancora corrucciato dal nervoso, improvvisamente si distese un’espressione di stupore che, a mano a mano che Queen si avvicinava, si confondeva con un intorpidimento dei muscoli. Lei lo riconosceva: erano anni che le capitava di generare quel tipo di reazione.
«Dove credi di andare?» gli sussurrò una volta arrivato davanti a lui.
«Qu-Queen» balbettò Henryk, incapace di muovere un muscolo e di togliere lo sguardo da quei maledetti occhi verdi. Lei si girò i capelli in un dito, si mordicchiò un labbro con fare languido e non sbatté gli occhi nemmeno una volta. Fece passare la sua unghia smaltata attorno al suo volto, accarezzandogli la leggera peluria che cominciava a contornare il suo mento. E sentendo quel pizzicore naturale sotto la sua pelle, percepiva lentamente anche il suo cuore che si spezzava.
Si era innamorata, e aveva sbagliato. Ma Queen non era capace di accettare di aver perso. Si sarebbe presa ciò che era suo senza che gli fosse concesso. Si sarebbe presa il cuore di Henryk. Non le era permesso di essere amata, ma avrebbe preteso di essere guardata anche da lui.
Percepiva brividi di eccitazione lungo il suo corpo: era l’effetto del suo potere che le scorreva, dandole elettricità lungo le vene. Poteva avere tutto, poteva avere chiunque. Avrebbe potuto fargli fare qualunque cosa, in quel momento, il mondo di Henryk e la sua esistenza erano nelle sue mani, pronti a modellarsi a suo piacere. Era euforica, e dimenticò completamente per un istante il dolore di essere stata rifiutata.
Queen non aveva bisogno dell’amore, ma di inebriarsi di quel potere.
«Sei innamorato di me?» gli richiese, con tono duro, avvicinandosi al suo corpo e soffiandogli lentamente sul collo.
«Follemente» mormorò, con la voce roca.
Una scarica di soddisfazione le attraversò il corpo. Per un secondo aveva temuto di aver perso, come qualunque altro essere umano innamorato. Sciocca: non poteva perdere.
Queen sorrise e lo baciò.
Aveva commesso un errore: si era innamorata e aveva permesso a Henryk di scegliere. Ma non sarebbe ricapitato più. Non avrebbe più permesso a qualcuno di scegliere se innamorarsi di lei o meno: si sarebbe fatta guardare, idolatrare, ammirare. Se non poteva essere amata senza essere guardata, avrebbe rubato tutti i cuori con la forza.
 

 

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Capitolo 4
*** San Valentino 2022: Riguardo Roma. ***


Riguardo Roma

Spin-off 3/4 di San Valentino

 

San Valentino, Roma, 2022.
[La specializzanda/Sasha Kowaski]

 

 

Il ragazzo al primo piano era passato inosservato, perché il suo era un viso simile a mille altri: con capelli castani e occhi altrettanto color corteccia. Era arrivato da poche ore, con una ferita lungo la guancia che ben si sposava con una vecchia cicatrice che gli tagliava il sopracciglio e lo faceva sembrare il cattivo di un film per bambini.
La specializzanda era arrivata da poco, la mattina era inaspettatamente calda nella capitale. Sembrava annoiata, ma dal volto inespressivo era difficile dirlo. Arrivò con gli occhi azzurri già incastrati tra una riga e l’altra del foglio che teneva tra le mani «Quindi lei è...» Sfogliò dei documenti con tono piatto. «Il signor Covasci?»

«Kowaski» la corresse lui e, nonostante la voce gioviale, qualcosa portò la specializzanda ad alzare gli occhi dai fogli. In un paese come Roma nessuno avrebbe potuto cogliere l’incongruenza fra un cognome polacco e una parlata dalla cadenza russa. E lui lo sa bene, era rimasto sempre il solito perfezionista che vagliava tutte le variabili.
La specializzanda non mosse un muscolo e lo stesso fece il signor Kowaski. «Sasha Kowaski.»
«È il diminutivo di qualcosa o si chiama davvero Sasha?» Lei, al contrario di lui, aveva sempre finto di essere qualcos'altro e, nonostante avesse detto di venire dalla Russia, da tempo il suo accento si era sciolto e la cadenza si era avvicinata molto a quella degli abitanti della città.
«Di Aleksandr, ma solo mia madre mi chiama così.» Sasha Kowaski strinse i pugni, nascosti dentro le tasche dei pantaloni, parlare di sua madre faceva sempre uno strano effetto. Anche pensare che era da una vita che non sentiva sua madre chiamarlo lo faceva sentire strano.
«Voi Russi usate sempre dei diminutivi così bizzarri.» La specializzanda si finse occupata a scrivere qualcosa sul foglio di raccolta dati.
Maschio.
Ventidue anni.
Ferite multiple – rissa tra ubriachi.
«Sono polacco» si affrettò a correggerla Sasha e la specializzanda annuì, ma poi alzò le spalle.
«Non è un po’ la stessa cosa?»
«Lo è?» domandò di rimando lui, e il tono usato riportò la giovane studentessa di medicina lontano nel tempo. Non provò nulla mentre alzava gli occhi su quel giovane dal viso sfigurato. Aveva cambiato taglio di capelli e portava ora degli occhiali da vista, molto probabilmente finti, ma dal taglio elegante.
No, non lo è, si rispose. Continuarono a parlare, mentre lui la studiava apertamente: con quegli occhi scuri sembrava prendere le misure di una gabbia per una bestia feroce. La specializzanda domandava, lui rispondeva. Era una partita a tennis piena di cose non dette.
«E come mai è finito in una rissa la sera di San Valentino?»
L’uomo che arrivava dalla Polonia ma parlava con accento russo emanò una risata gutturale. «La risposta è la più ovvia possibile...»
«Una donna?»
Degli uomini cercavano di uccidermi, pensò ma a voce alta disse invece: «Siamo diventati  romantici?»
E così il palco cadde, cadde il gobbo e tutto lo spettacolo così fluidamente costruito. Lei strinse la presa sul blocco, ma non voleva dire nulla. Spostò lo sguardo verso un angolo della stanza, ecco: questo era importante.
«Non essere ridicolo.»
Lui sorrise, lei no.
Passò un lungo momento prima che lui parlasse di nuovo «Il camice ti sta bene.»
«Anche la tua nuova cicatrice.»
Sasha Kowaski si sfiorò il taglio fresco di disinfettate e dei due punti che erano stati necessari a chiuderlo. «Dici che rimarrà il segno?»
La specializzanda avrebbe potuto rispondere semplicemente che un segno in più, per lui, non avrebbe fatto differenza. Avrebbe potuto continuare il suo giro, ma… non poteva. Quando il passato bussa in questo modo una persona può solo lasciarsi travolgere. Motivo per cui la specializzanda dopo aver osservato ancora per un attimo qualcosa di indefinito, fece qualche passo verso il signor Kowaski. Appoggiò appena la punta delle dita accanto alla ferita, e trovò la sua pelle calda mentre lei studiava con fare professionale quello squarcio rattoppato. «Io avrei fatto di meglio.»
«Non è quello che ho domandato.» E forse non era nemmeno quello che voleva sapere. Lei era lì, di fronte a lui. Il che era assurdo solo a pensarci. Indossava un camice e a Sasha Kowaski non era certo sfuggita la sicurezza con cui si muoveva in quel luogo di morte. Si era chiesto a lungo che ne fosse stato della ragazza dallo sguardo perso che aveva baciato quando era poco più che un ragazzo, quando l’intero universo aveva prima smesso di girare e poi ripreso, con regole completamente nuove.
La risposta a quel quesito ora era di fronte a lui, ma forse lo era stata sempre: persone come Lei sopravvivono, a ogni costo.
E forse questa era la peggiore delle maledizioni.
«Siamo diventati superficiali?»
«Sempre stati.» La specializzanda spostò lo sguardo da Kowaski, ma poi lo appoggiò nuovamente su quegli occhi, e li trovò diversi. Per la prima volta sentì la pesantezza degli anni passati. E del tempo passato assieme. «Quindi? Dovrò comprare una maschera e nascondermi sotto un affollato teatro come nel Fantasma dell’Opera?»
Lei si prese ancora un attimo per valutare la situazione poi scosse piano la testa, proprio quando lui si domandava se avesse percepito la forzatura nella sua voce, nel  tentare di essere leggero e divertente. Chissà se lei notava la difficoltà nel vivere con le emozioni. «No, ma ti consiglierei di tentare con ragazze con fidanzati meno possessivi.»
Sasha Kowaski non poté fare a meno di sorridere: la sua serata non avrebbe potuto essere stata più diversa di così. Si alzò dal lettino dove era rimasto nelle ultime ore. Per quanto quell’incontro fosse piacevole, lui non poteva proprio rimanere. Era un miracolo che non fossero ancora arrivati per finire il lavoro. Forse lo stavano aspettando all’uscita… sarebbe stato più saggio optare per quella di sicurezza. «Tra tutti i posti, non avrei mai pensato di incontrarti qui.» le disse, perché tanto… che importava?
«Non credevo che ci saremmo incontrati mai, in nessun luogo.»
È il destino, sussurrò una voce viscida dentro la testa di Kowaski, ma aveva imparato a ignorarla molti anni prima. Sorrise come se nulla fosse, mentre afferrava la sua giacca.
«Tranquilla, tutto questo resterà a Roma. Nessuno saprà mai chi sei.» E quella frase andava così oltre quel momento, quella giornata; quella frase toccava un nervo inesistente nell’anima della specializzanda perché lei sapeva che quel giovane uomo stava parlando della sua intera vita da ragazza insussistente.

Lei strinse le labbra, ma alla fine stese i muscoli delle spalle. Piccoli, microscopici movimenti che Kowaski raccolse, ma che da tempo aveva smesso di tentare di capire. Con difficoltà se li lasciò scorrere attorno.
«Stammi bene, Adela.»
«Non farti più vedere, Evan.»

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Capitolo 5
*** San Valentino 2026: Sinistri silenzi. ***


Sinistri Silenzi

Spin-off 4/4 di San Valentino



 
San Valentino, Roma, 2026.
[L'ombra di una donna/L'ombra di un uomo]


 

 
 
«Pronto?»
«Ciao, Adela.»
Aveva avuto quel nome, una volta. Strinse la presa sul telefono guardandosi attorno: era sola nello scarno appartamento, ma una delle sue ombre corse a nascondersi in un’altra stanza.
Ci fu un lungo silenzio e sembrò che nessuno avesse fretta di riempirlo. In verità la ragazza che una volta si era fatta chiamare Adela stava valutando se fosse più saggio riagganciare o meno.
Alla fine disse: «Questa sì che è una sorpresa.»
«Sono sempre stata una persona imprevedibile.»
«Sul fatto che tu sia davvero una persona ci sono degli studi discordanti.» La ragazza strinse la presa sul telefono, in attesa.
Dall’altra parte la voce inspirò infastidita: «Un “grazie per il pensiero” sarebbe gradito.»
«Grazie per avermi chiamato nel mezzo della notte?»
«Perdonami… il fuso orario.»
Non è nel Paese, era un’informazione non da poco. Quella voce poteva essere stata dietro di lei, in qualsiasi momento, con un viso che non gli  apparteneva davvero.
«Dove vi trovate?»
«Io e lui intendi?» La voce rise rivelando tutta la sua vena maligna «Vorresti saperlo non è così?»
«Io torno a dormire.» Stava per riagganciare ma la voce la fermò.
«Congratulazioni per la laurea in medicina, dottoressa.»
«Non avresti dovuto saperlo.» Le loro strade si erano separate molto tempo fa, e con quella parte della sua vita lei non voleva avere più nulla a che fare.
«Andiamo, tratti così male tutti i fantasmi del tuo passato?» La ragazza pensò a un altro San Valentino, a un altro incontro inaspettato e fu tentata di rispondere affermativamente.
«Adela … Andiamo, parla un po’ con me.» Non c’era niente di dolce in quella richiesta, anzi. Pareva il sibilo di un serpente. Un gatto che gioca con il cadavere di un topo. Una bestia che digrigna i denti.
«Non mi chiamo più così, e tu devi saperlo… se sei riuscito a rintracciarmi. Come fai a sapere che mi sono laureata?»
«Sono molto interessato a quello che combinate voi tre, lo sai bene: abbia un conto in sospeso.»
«Non credi sia arrivato il momento di andare avanti? La cosa ormai è chiusa.»
«Io sono morto!»
«Mi dispiace» disse, con voce atona. Si sedette su una sedia a osservare il traffico della capitale. Era una delle ultime sere in cui avrebbe potuto farlo: stava per partire, stava per seguire quello strano primario che tanto aveva insistito per averla con lui. Roma era una città accettabile, ma cambiare aria era la scelta più logica. Lo aveva imparato dai suoi genitori: bisognava sempre essere pronti a fuggire.
«Molto divertente, davvero.»
«Come se la passa Viper?» domandò lei, osservando un’ombra scura.
«Perché non chiedi come me la passo io?» La voce continuava a canzonarla, e lei ebbe voglia di chiudere la conversazione. Ma probabilmente questo non sarebbe stato sufficiente a fermarlo.
«Avevo sperato che foste morti entrambi in questi anni.»
«Pensavo che tra noi ci fosse chimica.»
«Pensavo tu volessi uccidermi.»
«Una cosa non esclude l’altra.»
«Beh, sai dove mi trovo. Perché non vieni?»
Di nuovo la voce rise, pregna di malignità. «Sarebbe bello non è così? Mi domando spesso come sarebbe toglierti la vita, cosa proverei io e cosa proveresti tu.»
«Dovresti prendermi, prima.»
«Sempre pronta a stuzzicare, non è così?»
«Vorrei parlare con Viper, pensi sia possibile?»
«Non sarebbe carino, cacciarmi dopo tutta la fatica che faccio per apparire. E poi per cosa mai vorresti parlare con lui? Per sentire della sua vita perfetta? Ammettiamolo: tra tutti voi è quello che meglio riesce a fingere.»
Avrebbe mentito se avesse detto che non aveva mai immaginato cosa ne fosse stato degli altri, perciò domandò: «Come se la passa Viper?»
«Ci sposiamo» rispose la voce dopo un attimo di esitazione.
«Tu e lui?»
«Noi e lei!» Passò nuovamente un lungo silenzio, ma poi la voce riprese. «Glielo ha chiesto poco fa, mentre pranzavano. Il giorno di San Valentino, non è romantico? Non vogliono farlo subito, no, aspetteranno ancora un po’, ma conosci Viper: è un tale ingenuo.»
«Fortuna che ci sei tu a proteggerlo.»
«È l’unica cosa che posso fare.»
«Potresti scomparire» consigliò lei con la solita voce inespressiva. Era come vedere la superficie ghiacciata di uno stagno: tutto rimaneva uguale.
«Vorrei essere lì, per stringerti le mani al collo.»
Era stata una lunga giornata: prima la discussione della tesi, poi le foto con i pochi compagni che si erano sentiti di andare ai festeggiamenti. Ora era a casa, a impacchettare quello che le sarebbe rimasto della sua vita. Guardò la tesi accuratamente rilegata, sopra in scritta oro risaltava la nuova lei: Anastasia Chanova.
Pensò a Evan e allo sfregio che lo aveva portato da lei quella notte, a Queen che non aveva mai più sentito. A volte aveva intravisto una ragazza gracile col viso da bambola e l’andatura sicura e aveva creduto, aveva pensato, “Eccola”. Ma non era lei, non era mai lei. Ovunque fossero finiti quei magnetici occhi verdi, non erano a portata di incontro.
«Dovresti permettere a Viper di godersi questa giornata, sembra importante.»
«Lo sai, non è così?»
«So molte cose.»
«Non vi ho mai abbandonati, nessuno dei tre. E un giorno il mio viso sarà l’ultima cosa che vedrete.»
«Il viso di Viper vorrai dire.»
Dall’altra parte della cornetta una figura muscolosa scosse la testa. La stanza era scura, anche se all’esterno il sole batteva come un fabbro. Il telefono continuava a squillare: Lei. Lei era preoccupata perché lui era sparito senza dire nulla, e ormai erano ore che non tornava a casa.
Non ti preoccupare, pensò la figura nascosta nella stanza, presto tornerà tutto come prima.
«Dovresti avere paura di me, Adela. Ma non ne hai: non ne puoi avere. Ti sono completamente indifferente? Oh, non credo. Scegliesti me, quel giorno. Mi chiamasti e io apparsi. C’è qualcosa che ci lega.»
A legarli era un passato difficile e un folle con idee rivoluzionarie che giocò a fare Dio. «Ho fatto ciò che serviva per sopravvivere.»
«È quello che fai sempre.»
Lei guardò le valigie impilate, e non poté fare altro che rimanere in silenzio. Lui fece lo stesso.
Rimasero così a lungo.

 

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