Les amis de la Saint-Denis - Libro primo - My name is Marius Pontmercy

di Christine Enjolras
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Primo giorno alla Saint-Denis - Marius ***
Capitolo 2: *** Primo giorno alla Saint-Denis - Grantaire ***
Capitolo 3: *** Primo giorno alla Saint-Denis - Joly ***
Capitolo 4: *** Primo giorno alla Saint-Denis - Marius (2) ***
Capitolo 5: *** Primo giorno alla Saint-Denis - Bahorel ***
Capitolo 6: *** Primo giorno alla Saint-Denis - Combeferre ***
Capitolo 7: *** Primo giorno alla Saint-Denis - Eponine ***
Capitolo 8: *** Primo giorno alla Saint-Denis - Marius (3) ***
Capitolo 9: *** Primo giorno alla Saint-Denis - Enjolras ***
Capitolo 10: *** Attenti allo squalo! - Enjolras ***
Capitolo 11: *** Attenti allo squalo! - Jehan ***
Capitolo 12: *** Attenti allo squalo! - Marius ***
Capitolo 13: *** Attenti allo squalo! - Enjolras (2) ***
Capitolo 14: *** Attenti allo squalo! - Bossuet ***
Capitolo 15: *** Attenti allo squalo! - Grantaire ***
Capitolo 16: *** Attenti allo squalo! - Marius (2) ***
Capitolo 17: *** Attenti allo squalo! - Courfeyrac ***
Capitolo 18: *** Dov'è Enjolras? - Feuilly ***
Capitolo 19: *** Dov'è Enjolras? - Marius ***
Capitolo 20: *** Dov'è Enjolras? - Enjolras ***
Capitolo 21: *** Dov'è Enjolras? - Bahorel ***
Capitolo 22: *** Dov'è Enjolras? - Combeferre ***
Capitolo 23: *** Dov'è Enjolras? - Marius (2) ***
Capitolo 24: *** Dov'è Enjolras? - Courfeyrac ***
Capitolo 25: *** Dov'è Enjolras? - Éponine ***
Capitolo 26: *** Io vado al parco! - Bossuet ***
Capitolo 27: *** Io vado al parco! - Marius ***
Capitolo 28: *** Io vado al parco! - Combeferre ***
Capitolo 29: *** Io vado al parco! - Joly ***
Capitolo 30: *** Io vado al parco! - Grantaire ***
Capitolo 31: *** Io vado al parco! - Feuilly ***
Capitolo 32: *** Io vado al parco! - Enjolras ***
Capitolo 33: *** Io vado al parco! - Marius (2) ***



Capitolo 1
*** Primo giorno alla Saint-Denis - Marius ***


Marius

Anche se era ancora seduto in macchina, il cuore gli batteva all’impazzata nel petto: le mani tremolanti stringevano nervosamente quel poco di stoffa che si poteva afferrare dei pantaloni attillati che indossava e una gocciolina di sudore iniziò a scendergli sul viso costellato di lentiggini.  E come biasimare il giovane Marius? Orfano di madre, Marius aveva vissuto sempre con il padre come un ragazzo comune, andando ad una scuola pubblica come tanti ragazzi. Ora invece, dopo che il padre lo aveva lasciato a causa dell’AIDS, viveva con il nonno, Monsieur Gillenormand, il quale aveva deciso di iscrivere Marius alla scuola privata Saint Denis de Paris, in modo che suo nipote potesse godere della migliore istruzione possibile.

Marius sentì il nonno farfugliare qualcosa, ma non diede nessuna risposta: era troppo concentrato a non rimanere senza fiato per il nervoso per rendersi conto che qualcuno gli stesse rivolgendo la parola. “Marius… Marius!”

A quel punto, scostò lo sguardo assente dal panorama, come si fosse svegliato da un sogno all’improvviso “Eh? Come? S-scusami nonno… hai detto qualcosa?”.

Marius sapeva che Monsieur Gillenormand non era proprio più abituato ad avere a che fare con i giovani, e non poteva biasimarlo, visto che aveva perso contatto con le figlie da anni: la maggiore, sua zia, Marius non la aveva ancora conosciuta, mentre la minore, sua madre, era venuta a mancare il giorno stesso del parto, o così gli era stato detto. Ma con suo nipote era diverso: nonostante si arrabbiasse spesso con lui, ogni volta lo guardava negli occhi e non poteva fare a meno di lasciarsi intenerire. Quindi, faceva un respiro profondo e si calmava, Marius l’aveva capito. Anche in questo caso, fu così: fissò il ragazzo negli occhi, per qualche istante, poi sprofondò nel sedile che dava le spalle all’autista, chiuse gli occhi, respirò profondamente e una volta che fu calmo disse: “Ti chiedevo cosa avessi. Mi sembri molto nervoso.”

Marius si sentiva sempre in colpa quando vedeva il nonno reagire così, forse perché non lo conosceva bene e non sapeva spiegarsi cosa avesse sbagliato; rendendosi conto che stava sudando nei vestiti nuovi che il nonno gli aveva comprato, si asciugò tremolante la fronte e sorrise, rispondendo “Beh forse un po’… per me tutto questo è nuovo… diverso… non so cosa aspettarmi da questa scuola…”

“Andrà tutto bene, Marius: è una scuola come le altre, non diversa da quella dove andavi prima.”

“Con la differenza che in questa ci studiano ragazzi ricchi e figli di papà che, quasi sicuramente, avranno la puzza sotto il naso!” disse Marius con un filo di voce, guardando fuori dal finestrino: finse di non volersi far sentire, anche se in realtà le parole gli erano uscite dalla bocca proprio perché voleva che il nonno fosse a conoscenza del suo stato di disagio. E infatti il nonno lo sentì: “Avrei dovuto immaginarlo: ti mancano i tuoi vecchi compagni di scuola, vero?”

Nonostante fosse quello che voleva, Marius rimase sorpreso che il nonno lo avesse davvero ascoltato e ancor di più fu meravigliato che quell’anziano uomo che lui aveva giudicato burbero e severo ora lo guardasse con uno sguardo tanto dolce e pieno di dispiacere.

“Suppongo che tu abbia giudicato… crudele, da parte mia, forzarti a cambiare scuola così, di punto in bianco. Spero che tu capisca che l’ho fatto solo per te, perché ci tengo che tu abbia una buona istruzione. Non pensare a me come al nonno ricco e malvagio che ti porta via dai tuoi amici perché non ritiene adeguato per il suo buon nome che suo nipote frequenti una volgare scuola pubblica qualsiasi. Lo faccio solo per il tuo futuro, devi credermi: la scuola privata di Saint-Denis è una delle migliori scuole della nazione, può aprirti molte porte per il futuro.” Il vecchio Gillenormand doveva aver capito che suo nipote non si era convinto, perché dopo qualche secondo di silenzio aggiunse: “Adesso non la pensi così perché sei dispiaciuto e spaventato all’idea di ricominciare tutto da capo, ma vedrai: ti troverai bene qui, te lo posso assicurare!”

Trascorsero il resto del viaggio senza rivolgersi nemmeno una parola: monsieur Gillenormand conversava del più e del meno con l’autista per passare il tempo durante il lungo tragitto che separava la loro residenza a sud di Parigi dal comune di Saint-Denis, posto a nord della città; anche se quest’ultimo ogni tanto cercasse di coinvolgere Marius nella conversazione, il ragazzo non disse nulla: i suoi grandi occhi verdi sembravano guardare il meraviglioso paesaggio parigino sulla Senna, ma in realtà erano persi in chissà quali pensieri. Improvvisamente, però, Marius sembrò destarsi dalle sue riflessioni quando vide un’altissima chiesa in pietra chiara, che lui riconobbe essere quella di Saint Denis. “Ah. Eccoci arrivati, ragazzo.”

La scuola doveva essere il grande edificio di fronte al complesso abbaziale: dal finestrino, Marius poté vedere molte persone, tra studenti, professori e uomini di chiesa, attraversare un cancello tra la chiesa e il maestoso e sicuramente antico edificio che, volente o nolente, anche lui avrebbe frequentato per i prossimi tre anni. La limousine del nonno si fermò nel parcheggio adiacente al piazzale, dove un anziano e basso signore, in abito talare, sembrava attendere proprio il loro arrivo. L’autista scese dalla vettura e aprì la portiera posteriore, per far scendere nonno e nipote.

“Buongiorno, monsieur Gillenormand. Mi chiedevo quando sarebbe arrivato. E immagino che questo giovanotto sia suo nipote, il nostro nuovo studente. Monsieur Marius Pontmercy, ricordo bene?”

“Buongiorno anche a lei, monseigneur Myriel. Sono spiacente per l’attesa: abbiamo trovato molto traffico venendo qui. Sì, lui è mio nipote Marius.”

“Buongiorno monseigneur.” Marius non capiva: perché un vecchio vescovo, probabilmente in pensione, era lì ad attenderli?

“Eh mio caro ragazzo: per te da oggi sarò il signor preside!” Aveva un bel sorriso rassicurante e accogliente, monseigneur Myriel, circondato da due basettoni bianchi come la neve. Eppure Marius non poteva crederci: stava per frequentare una scuola privata piena di figli di papà ed era pure gestita da un vescovo! Ora cos’altro avrebbe scoperto?! Che religione era una materia obbligatoria anche per lui che studiava legge, in questo collegio?! Dentro di sé la disperazione per essere finito in un luogo del genere crebbe esponenzialmente!

“Non fare quella faccia figliolo” disse monseigneur Myriel, prendendo Marius per le spalle. “Che ne dici se ti faccio fare un giro all’interno del nostro istituto? Le lezioni cominceranno a breve e ci sono molte cose che devo mostrarti. Monsieur, con permesso noi andremmo.”

“Non si preoccupi, monseigneur: noi ci avvieremo verso casa.” Il vecchio nonno prese un attimo Marius da parte. “Porto i tuoi bagagli alla residenza dove starai, d’accordo? Stando lì avrai la possibilità di farti nuovi amici e non dovrai percorrere l’intera città per arrivare qui tutti i giorni.” Marius glielo aveva già sentito dire, ma al momento era troppo triste per ripetere al nonno che l’aveva capito. Monsieur Gillenormand lo guardò nuovamente dritto negli occhi, si toccò la folta barba bianca come stesse pensando a cosa dire; poi mise le mani sulle spalle del ragazzo, che era quasi una testa più alto di lui, e disse “Cerca di stare sereno: vedrai che alla fine starai bene qui.”

Marius capì che il nonno non se ne sarebbe andato lasciandolo in quello stato: in quel piccolo gesto di apprensione, il ragazzo vide che, anche se a modo suo, il nonno gli voleva bene e questo gli diede la forza di sorridere. Mise le sue mani su quelle del nonno e gli disse “Forse hai ragione: mi serve solo un po’ di tempo per abituarmici. Non ti preoccupare per me.” A quelle parole, monsieur Gillenormand si rassicurò e salutò il giovanissimo nipote, sapendo che tanto da lì a sette settimane si sarebbero rivisti.

 

L’interno del college era spettacolare: l’edificio doveva essere gotico, a giudicare dalle vecchie pareti in pietra e dai lunghi corridoi del cortile centrale, magistralmente suddivisi in campate da alte colonne chiare e volte a crociera, mentre le aule avevano caldi soffitti in legno, a cassettoni. Un ampio scalone monumentale situato all’originario ingresso, che Marius pensò essere di epoca più tarda, conduceva al piano superiore, dove si trovavano la maggior parte delle aule e la presidenza. Per raggiungere quest’ultima, il vecchio vescovo fece percorrere a Marius uno dei corridoi che affacciano sulla chiesa. Dalle finestre, il ragazzo vide un gran via vai di studenti: sembravano felici e per nulla snob. Forse suo nonno aveva ragione: tutto sommato quegli studenti sembravano ragazzi normali, semplici, come ne aveva conosciuti nella sua vecchia scuola. Monseigneur Myriel lo vide sorridere timidamente e sembrò rasserenarsi.

“Dunque Marius: ti ho fatto vedere tutte le aule e tutti i laboratori della scuola, ma perdona la mia memoria: non ricordo quale corso seguirai qui da noi.”

“Scienze politiche, signor preside.” C’era qualcosa nel tono del vescovo che faceva capire che era sinceramente interessato ai suoi studenti, e questo a Marius piacque molto.

“Ah, ottima scelta! Pensi di apprendere una base sul diritto per poi diventare un carabiniere come tuo padre?”

“Mi perdoni, monseigneur: ma lei come fa a sapere di mio padre?”

“Beh, caro ragazzo… ah prego: accomodati pure.” Mentre parlavano erano entrati nel vasto ufficio. Era l’unica stanza vista da Marius ad essere completamente in legno, dalle pareti al soffitto: solo il pavimento era in pietra chiara, come il resto della scuola. Si sedettero alla scrivania posta davanti ad una colorata vetrata, ritraente una qualche scena religiosa che al momento a Marius sfuggiva e monseigneur Myriel riprese il discorso: “Vedi, Marius: sembrerò un vecchio ficcanaso, ma a me piace sapere quanto più mi è possibile dei miei studenti, senza entrare negli affari esclusivamente intimi, ovviamente: per quello potrei chiamarli in confessionale. Trovo che conoscere i miei ragazzi faciliti il mio lavoro.”

Anche se si sentiva profondamente a disagio e invadente a chiederlo, Marius disse al suo nuovo preside: “Posso chiederle… come mai? Insomma… a cosa le serve conoscere la vita degli studenti?”

Monseigneur Myriel sembrò sorpreso di una simile domanda. Si alzò leggermente dalla sedia, si protese in avanti verso Marius e gli disse sorridendo: “Ma per poterli aiutare con maggior facilità, ovviamente.” Marius parve ancora più sorpreso di quanto non lo fosse prima il vescovo. Aiutare gli studenti? Il suo vecchio preside non usciva mai dal suo ufficio se non quando c’era troppa confusione nei corridoi per fare lezione: non tocca agli psicologi scolastici aiutare gli studenti coi loro problemi personali?

“Ti faccio un esempio” riprese monseigneur Myriel, leggendo la confusione negli occhi di Marius. “Come potrei aiutarti ad ambientarti qui se non sapessi che fino all’inizio di questa estate vivevi con tuo padre e che dopo la sua morte l’unico tutore legale era tuo nonno e quindi ora vivi con lui? Come potrei aiutarti se non sapessi che probabilmente ti senti a disagio a venire qui costretto da tuo nonno? Senza contare che probabilmente sei ancora scosso per tuo padre: Dio abbia cura della sua anima, pover’uomo. Io desidero che i miei studenti sappiano che io per loro non sono una minaccia, un superiore da temere e che deve incutere timore. Nella mia scuola non voglio che i ragazzi studino per essere i migliori nel lavoro che andranno a fare: io desidero che i miei ragazzi crescano nella conoscenza e nell’anima, per poter essere un giorno uomini onesti, saggi e misericordiosi verso il prossimo.” Nell’udire queste parole, Marius sembrò rincuorato: monseigneur Myriel era sincero, lui poteva percepirlo.

“Starai bene qui, Marius: te lo prometto!”

Con queste parole, il vescovo congedò il suo nuovo studente, augurandogli buona fortuna per il suo primo giorno.

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Capitolo 2
*** Primo giorno alla Saint-Denis - Grantaire ***


Grantaire

Ormai erano le 9.00 del mattino e nel piazzale di fronte all’ingresso della scuola non c’era già più nessuno studente: tutti erano entrati, puntuali per l’inizio delle lezioni. Solo un ragazzo dal fisico asciutto stava correndo nella grande piazza, sperando di arrivare prima che il custode Pére Fauchelevent chiudesse il cancello d’ingresso. Grantaire passò accanto alla facciata dell’abbazia di Saint-Denis, svoltò l’angolo e finalmente riuscì a vedere il cancello d’ingresso della sua scuola. Stava ancora correndo più veloce che poteva quando vide il giovane apprendista del custode, Feuilly, appoggiato alle mura della cattedrale mentre discuteva con colui che gli stava insegnando il mestiere: non riusciva a sentire cosa si stessero dicendo, ma capì che Feuilly lo stava aspettando.

Quando fu a metà del passaggio tra la chiesa e la scuola, Feuilly lo riconobbe. “Accidenti a te, Grantaire! Ma anche il primo giorno fai tardi?!”

“Lo so… mi-mi spiace!” Grantaire non aveva più fiato e la sua fronte era coperta dai riccioli neri bagnati dal sudore.

“Non mi dirai che sei in ritardo perché hai bevuto anche ieri sera! Pensavo che avremmo raggiunto questo punto dopo settimane, non il primo giorno!”

“No no…*anf… non è…*uff… come pensi tu!”

“E allora cosa diavolo ti è successo?”

Nessuna risposta: l’unica cosa che Feuilly ottenne con quella domanda fu un’espressione distratta dello studente, seguita da un sorrisetto dolce dovuto ai suoi pensieri. Feuilly stette a guardarlo per un po’, probabilmente per capire a cosa stesse pensando, ma ci rinunciò presto: “D’accordo, non hai intenzione di dirmelo. Vai va’, prima che arrivi il vicepreside!” Questa frase fece risvegliare Grantaire dai suoi pensieri: il ragazzo passò il grande cancello salutando e ringraziando l’amico e, mentre costeggiava il giardino per raggiungere il monumentale portone, ritornò ai suoi ricordi.

È vero: non era in ritardo perché si era ubriacato la sera prima, anzi! Era stato troppo eccitato dall’attesa di quel giorno per riuscire a fare qualsiasi cosa. Nemmeno aveva dormito! Era partito di buon’ora da casa, bagagli in mano, una fetta di pane e nutella al volo e si era diretto subito alla residenza per studenti dove avrebbe vissuto anche quest’anno scolastico, come gli scorsi. Era così eccitato all’idea che si sarebbero rivisti, che per tutto il tragitto non aveva pensato ad altro, saltellando per le strade e danzando con chiunque incontrasse sul suo cammino: chi lo incrociava, non poteva fare a meno di sorridere. Forse è proprio per queste manifestazioni di gioia che quando arrivò alla residenza in Rue Denfert Rochereau i suoi amici già non erano più lì. Ci rimase un po’ male, ma non si fece abbattere: recuperò le chiavi della sua solita stanza, corse subito su per le scale accanto all’ingresso, gettò i bagagli sul pavimento senza curarsi di tenere in ordine la stanza e corse di nuovo nella hall per andare a scuola in tempo e parlarci un po’ prima dell’inizio delle lezioni. Se solo la proprietaria della residenza non lo avesse fermato! Forse ce l’avrebbe fatta ad arrivare, anche solo per stare in sua compagnia un minuto!

“Si può sapere perché tutte le volte che ci sei tu in questo posto regna il caos?!”

“Chiedo perdono, madame! È che sono in ritardo e così ho gettato le cose come capitano!”

“Sì! E mi hai anche riempito il pavimento di fango!”

“Ah…” Grantaire si guardò le scarpe: effettivamente erano in uno stato pietoso, ma era stato troppo sovrappensiero per notarlo da solo. “Sono passato nel parco venendo qui. Suppongo sia possibile che la pioggia di ieri abbia lasciato il terreno… un pochino fangoso…”

“Un pochino?! Vuoi prendermi in giro?! Pulirai tu ogni centimetro in cui hai camminato con quelle scarpe di merda, chiaro?! O ti sbatterò fuori di qui!”

“Come il sole, madame… ma io sono in ritardo…”

“CHIARO?!” Grantaire era sicuro di non averla mai vista così arrabbiata, quindi non se la sentì di controbattere.

“Chiarissimo, madame Thénardier!” distolse il suo sguardo dalla donna, consapevole che lei ancora lo stava fissando con due occhi che sembravano quelli del demonio in persona.

Ed ecco il motivo per cui il giovane Grantaire fece tardi, quella mattina.

Pensando al momento in cui finalmente quella sera si sarebbero rivisti, Grantaire salì la scala di servizio vicino alla biblioteca per arrivare prima al laboratorio d’arte, dimenticandosi però che in cima, proprio di fronte all’ultimo gradino, si trovava anche la vicepresidenza. Se ne rese conto solo quando incrociò a metà gradinata il suo ex professore di filosofia, il quale, vedendolo in giro dopo l’inizio delle lezioni, lo afferrò per un braccio e lo trascinò giù, verso il piano terra.

“Tu devi essere impazzito, ragazzo mio: ti è bastato un mese per dimenticarti quanto orrendo sia il vicepreside quando si arrabbia?”

“Assolutamente no, professor Valjean. Credo semplicemente di essere… un po’ distratto, stamattina.”

“Beh, qualsiasi cosa ti distragga, cerca di stare concentrato fino al tuo arrivo in aula: far arrabbiare il professor Javert il primo giorno è davvero una pessima idea!”

“Ci proverò. Beh… grazie per avermi salvato la pellaccia, prof. Come sempre, del resto!”

Il professor Valjean era il salvatore di tutti gli studenti. I ragazzi potevano sempre contare su di lui se avevano dei problemi, di qualsiasi tipo. Era costantemente a disposizione di chiunque avesse bisogno di parlargli ed ogni volta aveva un buon consiglio per tutto: non sbagliava mai, ma nessuno sapeva come facesse ad avere una soluzione appropriata ad ogni problema.

“Da domani cerca di essere puntuale, o quanto meno di non farti vedere da quel cane da caccia: ha deciso di tenere il conto dei ritardi quest’anno!” consigliò Valjean a Grantaire, mettendogli una mano sulla spalla.

Grantaire non poteva credere a ciò che aveva appena udito. “Non ha niente di meglio da fare, quell’uomo?”

“A quanto pare no” disse quasi ridendo Valjean: era un risolino in cui si poteva percepire una certa paziente esasperazione. “Avvisa anche i tuoi amici, questa sera alla residenza.”

“Certo. Ancora grazie prof!”

Mentre si dirigeva in laboratorio, cercando di rimanere concentrato su quello che stava facendo, Grantaire passò davanti ad un’aula con la porta socchiusa. D’istinto buttò lo sguardo all’interno della stanza: il cuore iniziò a battergli nel petto senza sosta e non riuscì a trattenere il sorriso che gli spuntò sulle labbra. Era lì, come sempre vicino alla finestra con la mente che vagava in chissà quali pensieri, il viso e gli stupendi capelli biondi illuminati dal sole che entrava dai vetri. Quel momento idilliaco non durò molto, perché il professor Mabeuf si accorse di aver lasciato la porta aperta e, senza distogliere lo sguardo dal libro che stava leggendo, la chiuse.

Grantaire rimase seduto sorridente sul fresco pavimento qualche secondo prima di rialzarsi e dirigersi sognante verso la sua aula.

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Capitolo 3
*** Primo giorno alla Saint-Denis - Joly ***


Joly

‘Umh… sembra che la lingua abbia un colore normale… non vedo particolari macchie, né placche in gola… ottimo. E il battito cardiaco? Non vorrei mai che un infarto mi cogliesse di sorpresa!’ constatò tra sé Joly, posando lo specchietto che aveva sempre in tasca e mettendosi due dita sul polso. Non stava seguendo minimamente la lezione: era troppo preso a controllare di non avere una qualche malattia mortale per prestare attenzione al professore e al suo interessantissimo discorso introduttivo su cosa avrebbero imparato quell’anno. Per sua fortuna il laboratorio di scienze era enorme e lì in fondo, dietro a immensi contenitori di vetro contenenti diverse sostanze chimiche che Joly era sicuro avrebbero potuto intossicarlo in qualche maniera se li avesse fatti cadere, nessuno si sarebbe mai accorto di lui. Del resto era un tipo piuttosto tranquillo, non esattamente uno di quei ragazzi a cui si fa attenzione, eppure sempre molto allegro e gentile con tutti.

Fu mentre contava i battiti del suo cuore che sentì dietro di sé la porta aprirsi leggermente.

“Bossuet! Mi hai fatto perdere il conto! Ora devo ricominciare tutto da capo!” sussurrò ad alta voce Joly, stoppando il timer del suo cellulare che aveva impostato per essere sicuro di prendere i battiti giusti.

Bossuet, come lo chiamavano i suoi amici, rimase lì a guardarlo con un’espressione sorpresa e incredula assieme. “Oh buongiorno anche a te, Joly! Sì, io sto bene e in vacanza tutto okay, grazie per avermelo chiesto. Ovvio che anche tu mi sei mancato moltissimo!”

“Stavo contando i miei battiti al minuto e, come ti dicevo, ho perso il conto! Ma che ci fai qui?”

“Come cosa ci faccio qui?! Non riuscivo ad aspettare stasera prima di vederti, ecco che ci faccio qui!” A quel punto, Joly recuperò in fretta il telefono che aveva lasciato sull’immenso bancone di mattonelle bianche e uscì di soppiatto insieme a Bossuet: il suo professore era troppo impegnato a decantare le meraviglie dell’apparato digerente per accorgersi di tutto quello che stava accadendo, così i due ragazzi chiusero la porta dietro di loro.

“Non ci siamo visti neanche un giorno in questo mese e mezzo! Mi sei mancato da morire!” disse Bossuet, appoggiandogli una mano sulla spalla.

Joly si guardò attorno. Bene: nessuno stava passando.

“Anche tu mi sei mancato moltissimo!” Detto questo, Joly si buttò tra le braccia di Bossuet e si strinse a lui: a vederli, si capiva benissimo che tra loro c’era più di un’amicizia, ma in una scuola gestita da un vescovo non è esattamente consigliabile ostentare questo tipo di rapporto.  Ancora abbracciato al suo ragazzo, Joly proseguì: “I miei genitori hanno voluto che passassi le vacanze a casa di mia nonna…”

Bossuet doveva aver sentito l’indecisione nella sua voce, tipica di chi sta dicendo una mezza verità, perché disse: “Sei tu che hai voluto rimanere là il più possibile, vero?”

A quel punto Joly si staccò dal suo petto, ma rimase comunque aggrappato alle sue braccia robuste, guardò lo sguardo quasi accusatore di Bossuet e si sentì costretto a dargli spiegazioni: “Beh… l’aria di mare fa molto bene alla tiroide e quindi…”

“E quindi hai preferito piantarmi in asso per la tua malattia immaginaria alla tiroide, giusto?”

“Beh non si può mai sapere… la salute prima di tutto…” si guardarono in silenzio: Bossuet sembrava essersi indignato dopo aver sentito questa frase. “Ce l’hai con me?”

Joly aveva due tali occhietti da cucciolo che Bossuet non poté fare altro che sospirare, spostare quel suo caratteristico ciuffo castano, tirarlo a sé con la mano sulla sua guancia sinistra e baciarlo sull’altra dicendogli: “Mi dici come faccio a prendermela con te, io?”

Stettero ancora un po’ a guardarsi negli occhi in silenzio: un mese e mezzo era davvero tantissimo tempo per loro.

“E tu? Che hai combinato quest’estate?” riprese Joly come se nulla fosse successo.

“Beh sono stato a Marsiglia qualche giorno coi miei genitori. C’era un sole che spaccava le pietre!”

“Ti sei ricordato di portare il cappello tutti i giorni, quest’anno? Mi ricordo ancora quando l’anno scorso ti sei completamente bruciato la testa studiando al parco per le ultime verifiche!” Come dare torto alle preoccupazioni di Joly? Bossuet era completamente calvo, ma di quella condizione sembrava quasi andarne fiero: girava tranquillamente con la sua pelata ben esposta ed erano poche le occasioni in cui indossava il cappello o la bandana.

“Eh eh… no. Mi sono scottato il primo giorno e ho passato gli altri a letto a causa dell’insolazione che mi sono preso: 39 di febbre. Tornato a casa mi sono slogato una caviglia mentre passeggiavo per Montmartre con i miei, e sono rimasto a letto un’altra settimana. Ma la buona notizia è che cammino ancora sulle mie gambe!” Ecco: questo era Bossuet. Sfortunato come pochi al mondo, Bossuet aveva imparato a ridere di tutto: riusciva sempre a vedere il lato positivo anche quando le cose tendevano al drammatico.

Quei due erano praticamente complementari: se in un temporale che li coglieva all’improvviso Joly vedeva la possibilità di prendersi una broncopolmonite, Bossuet trovava un’opportunità per rinfrescarsi un po’ e godere della meravigliosa vista dell’arcobaleno. Nonostante fossero molto diversi, non potevano essere più affiatati: ormai erano quasi due anni che si frequentavano ed erano rimasti uniti come il primo giorno.

“Io non capisco come tu possa essere ancora vivo, sai?” disse Joly, guardando Bossuet leggermente sconvolto.

“Che ti posso dire? Si vede che nella mia sfiga sono molto fortunato!” gli rispose, scoppiando in una sonora risata; Joly gli tappò la bocca prima che qualcuno potesse sentirlo e sembrò che solo in quel momento Bossuet realizzò di essere a scuola.

“Ti ricordi che dovremmo essere a lezione e non qui fuori, sì?”

“Ora sì” confermò le supposizioni del suo ragazzo Bossuet. “Oh, a proposito! Ho incrociato Grantaire nei corridoi, venendo qui. Non mi ha neanche notato: secondo te è possibile che sia in balia dei postumi di una sbornia?”

“Dipende: era vicino alla classe del professor Mabeuf?” A Joly veniva da sorridere: con Grantaire erano amici da due anni circa e vivevano nella stessa residenza per studenti, quindi, vedendosi ogni giorno, oramai si conoscevano bene.

“Beh sì, ma che cosa c’entra con…” Solo mentre parlava, Bossuet sembrò realizzare a cosa stesse pensando Joly: “Aaaaaaaah è verooooo! Ora mi spiego perché non mi ha visto passare! Era troppo distratto, il nostro amico!”

Scoppiarono entrambi a ridere, cercando di tenere basso il volume della voce.

“Ma, ora che ci penso: c’è qualcun altro in classe, o siete tutti in giro?” disse Joly, asciugandosi le lacrime che gli erano uscite mentre cercava di soffocare la risata.

“Non saprei. Beh quel secchione di Combeferre sicuro! Volevo passare a salutarlo, ma non credo che uscirebbe dall’aula solo per vedermi!” gli rispose Bossuet, mentre sulla sua faccia appariva un’espressione che a prima vista si sarebbe giudicata indignata e offesa, ma Joly sapeva che in realtà nascondeva molto affetto.

“Ma tu cosa ci fai in giro, ora che ci penso? Non hai lezione?”

“No. Il professor Javert sta sistemando le ultime pratiche col preside e quindi non è ancora arrivato a lezione. C’è un nuovo studente, lo sapevi?”

Joly non rispose. Guardava il suo ragazzo con uno sguardo preoccupato quando gli disse: “Cioè… tu hai avuto il fegato di uscire durante la lezione di Javert?”

Bossuet fece spallucce, non capendo cosa ci fosse di preoccupante, e disse: “Non durante la sua lezione: lui non era in classe!”

“Ma ti sei forse bevuto il cervello?! E se arrivasse mentre tu sei qui a parlare con me?! Hai idea di quanti guai potresti passare?!” Joly sembrava arrabbiato mentre pronunciava queste parole, ma in realtà era solo preoccupato: considerando quanto era sfortunato il povero Bossuet, come minimo avrebbe dovuto trascorrere un mese ad aiutare Feuilly nelle pulizie, dopo le lezioni.

Bossuet lo fissò per qualche secondo con gli occhi spalancati, immobile come fosse stato appena pietrificato dall’avvertimento del suo ragazzo. Riprese vita improvvisamente: afferrò Joly per le spalle e lo tirò a sé per baciarlo, e prima di correre via come una scheggia gli sussurrò dolcemente “Ci vediamo alla fine delle lezioni, piccolo!”

Nonostante Joly fosse preoccupato che qualcosa potesse andare storto, era stato molto felice della sorpresa che gli aveva fatto Bossuet: in fin dei conti, anche se era occupato a controllare di non essere malato, tra un controllo e l’altro guardava l’orologio del suo telefono, contando i minuti che mancavano alla fine della giornata.

Con il sorriso stampato sulle labbra, Joly tornò in classe e si rimise a contare i suoi battiti cardiaci, che ora, grazie all’incontro con Bossuet, poteva sentire molto più nitidamente.

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Capitolo 4
*** Primo giorno alla Saint-Denis - Marius (2) ***


Marius

Era seduto fuori dall’aula di filosofia da circa quaranta minuti, il giovane Marius, dopo la conversazione col preside Myriel: aveva provato ad andare alla sua aula, ma una volta arrivato non se l’era sentita di entrare nel bel mezzo della lezione di letteratura, così si era recato direttamente all’aula in cui avrebbe avuto lezione alla seconda ora. La sua mente era invasa da una moltitudine di pensieri contrastanti: tutti gli avevano detto che si sarebbe trovato bene, che doveva stare tranquillo e a guardare gli altri studenti si era convinto che avevano ragione, eppure non riusciva a togliersi dalla testa l’idea che lui in quel posto non c’entrasse nulla! Si sentiva così confuso, agitato e le mani avevano ripreso a tremargli quando si accorse che mancavano circa cinque minuti al suono della campanella che avrebbe segnato l’inizio della sua prima lezione. D’un tratto si sentì il cuore pulsare nel petto all’impazzata e si sentiva come se dovesse vomitare. Vomitare cosa poi, che quella mattina non era riuscito a buttare giù nemmeno un sorso di tè, talmente il suo stomaco era sottosopra?! Si stava giusto alzando per andare alla ricerca di un bagno quando la porta dell’aula si spalancò e ne uscì un uomo poco più alto di lui, con dei folti capelli ricci brizzolati e dei profondi occhi color verde scuro.

“Oh… buongiorno, ragazzo” esclamò costui nel vederlo. Marius si rese conto che doveva avere un aspetto ridicolo, perché quell’uomo aveva un sorriso strano sul volto, quasi volesse ridere ma fosse troppo cortese per farlo.

 “E tu chi sei? Non ricordo di aver già fatto la tua conoscenza” Marius non rispose: era troppo imbarazzato per farlo. Forse l’uomo lo intuì perché ruppe il silenzio: “Io sono il professor Valjean, insegno filosofia.”

Quel professore, ora, aveva un sorriso rassicurante mentre gli tendeva la mano per fare le presentazioni come si deve e Marius si sentì leggermente più a suo agio.

“Marius Pontmercy, è il mio primo giorno qui…” disse con un sorriso timido, mentre gli stringeva la mano.

“Pontmercy, hai detto?”

“Sì, professore…”

“Non mi è nuovo questo nome...” Valjean distolse lo sguardo pensoso e si avviò verso l’interno dell’aula; forse si rese conto che Marius non lo stava seguendo, perché il ragazzo lo vide voltarsi e fargli cenno di entrare: “Entra pure e accomodati: non essere timido! Siediti qui accanto a me!”

Marius accettò l’invito e, anche se un po’ a disagio, afferrò una sedia dai banchi ordinati e si sedette accanto al professore, che nel frattempo stava sfogliando un registro cartaceo.

“Ah eccoti qui! Marius Pontmercy: a quanto pare sarai nella mia classe la prossima ora. Beh.” Il professor Valjean consultò l’orologio appeso al muro dietro di lui, ma diede anche un’occhiata al suo orologio da polso, quasi come volesse essere sicuro che l’orario fosse corretto.

“Direi che non ha senso dirti di andare a farti un giro. Manca così poco al cambio d’ora!”

Nel sentire quella frase, Marius ricominciò a sentire quell’opprimente senso di nausea.

“Beh, emh… ma-magari aspetto fuori…” si stava già alzando dalla sedia per uscire in cerca di un bagno, quando venne interrotto dal professore: “Ma no, non preoccuparti! Resta pure comodo! Facciamo due chiacchiere, così posso conoscerti un po’ meglio!”

Come dire di no a un uomo con un sorriso gentile e rassicurante come il professor Valjean? Marius tornò a sedersi, anche se non riusciva ancora a stare tranquillo.

“Allora, Marius: come mai eri lì fuori anziché a lezione?”

“Oh beh… ho provato ad andare in aula… ma la lezione era già cominciata e non… me la sono sentita di entrare, ecco…”

“Ah capisco. Sei in preda al tipico disagio del primo giorno, giusto?”

Non rispose. Marius si sentiva davvero troppo agitato per riuscire a dire qualsiasi cosa. Non riusciva nemmeno a guardare Valjean in faccia. Teneva prevalentemente lo sguardo verso il pavimento, tranne alcuni istanti in cui guardava le lancette del grande orologio correre veloci verso l’ora in cui avrebbe dovuto affrontare la realtà dei fatti. Marius alzò lo sguardo giusto per un secondo e vide che Valjean lo guardava con lo stesso sguardo con cui un padre guarda suo figlio.

“Allora: come mai hai scelto proprio scienze politiche?” Valjean sembrava riuscire ad immaginare come dovesse sentirsi Marius in quel momento e il ragazzo capì che cercava un modo per distrarlo, così da farlo sentire più tranquillo. Ma ancora una volta, Marius non riuscì a rispondere.

“Sai: in questi anni mi sono arrivate diverse risposte dai ragazzi. Chi vuole fare l’avvocato, chi vuole entrare in politica, chi invece preferisce avere una base solida per poi andare alla scuola di polizia… e puntualmente quando domando il perché di questa scelta molti mi dicono ‘beh per la grana, prof’.” Nel raccontare questo aneddoto, il professore iniziò a sorridere guardando dritto negli occhi Marius, che finalmente si era deciso a voltarsi verso di lui.

“Oh no no! Io non pensavo ai soldi. Mi piacerebbe diventare giudice.”

“Ah davvero? Come mai non un avvocato?”

“Beh… ad un avvocato vengono assegnati dei casi indipendentemente da se l’imputato sia o meno colpevole. Certo: può rifiutarsi di difendere un cliente se è convinto che sia colpevole, ma uno come può saperlo, in fin dei conti? Si potrebbe accettare di difendere un criminale solo per avere dei soldi in più e nessuno lo saprebbe mai. Invece un giudice si trova direttamente davanti all’ovvietà dei fatti: non deve difendere nessuno, ma solo giudicare la colpevolezza o l’innocenza di chi ha di fronte. È più facile fare la cosa giusta in questa posizione… ed è questo che davvero mi interessa: fare la cosa giusta.”

Il professor Valjean sembrava ascoltarlo affascinato mentre parlava e, quando lo notò, Marius si rese conto che le parole gli erano uscite spontanee, senza che le avesse misurate o pensate prima.

“È davvero un proposito molto nobile. Ci vorrebbero più persone come te.” Mentre Valjean pronunciava queste parole, la campanella suonò per segnare il cambio dell’ora e questo gli fece venire in mente una cosa. “Ora che ci penso: nella tua classe troverai un ragazzo che la pensa esattamente come te. Chissà che non vi troviate bene assieme.”

Marius era sinceramente ben impressionato da quel professore: nelle sue parole e nei suoi modi di fare si poteva leggere una bontà che raramente aveva visto in un uomo.

“Ah! Ecco che arrivano! Bene: rimetti a posto la sedia e aspetta pure qui, così ti presento alla classe.”

Marius seguì le direttive: era il momento della verità. Ormai non poteva più scappare per non affrontare questo primo giorno. Aveva conosciuto due persone che gli avevano fatto un’ottima impressione, perché doveva sentirsi ancora così maledettamente agitato?! Adesso che il momento era così vicino, si sentiva mancare il fiato, ma fece di tutto per non farlo notare. Cercava in tutti i modi di calmarsi mentre gli altri studenti ancora non erano arrivati. A proposito: chissà quanto ci avrebbero messo ad arrivare in aula.

“Buongiorno ragazzi miei! Passate delle buone vacanze?”

Evidentemente non molto. Mentre tutti entravano, Marius si sentì molto stupido a restare lì in piedi di fianco alla cattedra e gli sembrò di essere fissato da tutti quelli che passavano, ma fece finta di nulla, o quanto meno ci provò. Ogni tanto alzava lo sguardo verso la porta per guardare che aspetto avessero i suoi compagni, ma non appena incrociava lo sguardo con qualcuno, tornava a fissare il pavimento. In quella che gli sembrò una classe prevalentemente composta da membri maschili, solo uno studente attirò la sua attenzione: lo aveva sentito fermarsi sulla porta a parlare col professore e fu lì che lo notò. Era diverso dagli altri ragazzi: dava l’impressione di una persona decisa, con una volontà d’acciaio, ma in quei suoi occhi azzurri Marius riusciva a leggere anche una certa bontà d’animo. C’era qualcosa in lui che lo attirava, ma non riusciva a capire esattamente che cosa fosse. Che fosse lui lo studente di cui gli aveva parlato il professor Valjean?

Quando i loro occhi si incrociarono, nessuno dei due distolse lo sguardo, anzi: quello studente dall’aria così decisa abbozzò un cenno di saluto accompagnato da un sorriso sincero, che Marius riuscì a ricambiare con tranquillità.

Quando tutti furono entrati, il professor Valjean chiuse la porta, assicurandosi che non ci fosse più nessuno fuori.

“Buongiorno a tutti, ragazzi. Ci sono diverse cose di cui voglio parlarvi, prima di cominciare la lezione. Innanzitutto, bentornati: spero che abbiate passato delle buone vacanze e che siate pronti ad affrontare quest’anno scolastico.” Marius notò il sorriso raggiante con cui Valjean accoglieva i suoi studenti mentre si avvicinava a lui per mettergli una mano sulla spalla.

“Poi voglio presentarvi Marius Pontmercy: è il suo primo anno qui, ma confido che lo accoglierete nel gruppo classe come si deve. E a te, benvenuto al collège Saint-Denis. Prego, siediti pure.”

C’era un posto libero vicino alla finestra, proprio davanti al ragazzo con gli occhi azzurri, e Marius non ebbe il minimo problema a sedersi lì.

“Per quelli che l’anno scorso avevano il mio collega, io sono il professor Jean Valjean e, come immagino avrete capito, insegno filosofia. Molti si chiederanno perché voi, che avete scelto scienze politiche come corso, siate costretti a studiare filosofia. Beh, ragazzi miei: voi dovrete diventare uomini di legge e di politica, severi e rispettosi delle leggi della nostra costituzione, certo, ma anche giusti e misericordiosi quando le circostanze lo richiedano. La giustizia non è solo questione di far applicare le giuste leggi e di punire con le giuste punizioni i trasgressori, ma è anche una questione di rispetto delle persone che si affideranno a voi perché giustizia sia fatta; e per fare ciò, io cercherò di insegnarvi la giusta morale.” Marius notò che alcuni ragazzi parlottavano tra di loro quasi sorpresi dalle parole del professore. Lui invece era profondamente colpito: aveva davanti un uomo che vedeva le cose esattamente come le vedeva lui.

Valjean guardò gli occhi increduli dei suoi studenti, sempre sorridente, e poi riprese: “Bene. Ora passerò ad illustrarvi il programma di quest’anno e a farvi l’elenco dei libri di testo, dopo di che faremo un rapido giro di presentazioni.” Detto ciò, si sedette alla cattedra e cominciò a leggere un elenco dei filosofi che avrebbero studiato durante l’anno.

Marius si tranquillizzò e gli venne l’impulso di ridere di sé stesso per essersi agitato così tanto: poteva vedere davanti a sé quello che prometteva di essere un anno grandioso.

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Capitolo 5
*** Primo giorno alla Saint-Denis - Bahorel ***


Bahorel

La giornata scorreva veloce nella grande scuola e prima che gli studenti se ne potessero rendere conto era già suonata la terza e, per questo primo giorno, anche ultima ora della giornata. Regnava il silenzio nei corridoi del magnifico edificio: a parte una sorta di mormorio che usciva timidamente dalle aule chiuse, si poteva sentire solo l’echeggiare dei passi di qualche studente o professore che si trovava momentaneamente fuori dalle classi. Tuttavia questo silenzio fu presto rotto da un delicato suono di chitarra. Bahorel si trovava seduto sull’ultimo gradino della bassa scala che porta al cortile anteriore e stava suonando lo strumento che i suoi amici avevano voluto regalargli lo scorso natale. Certo non si sarebbero mai aspettati di sentirgli suonare quella splendida chitarra acustica in legno rossiccio proprio a scuola, anche se avrebbero potuto immaginarlo: Bahorel non era mai a scuola e questo gli era costato la promozione per ben due volte. Per il nuovo anno scolastico si era ripromesso che avrebbe cercato di andare a lezione i giorni minimi necessari per riuscire a passare l’anno e a diplomarsi, finalmente.

Dei buoni propositi che andarono a farsi benedire già il primo giorno, visto che non si era presentato a lezione. La sera prima, i suoi amici sul loro gruppo su Whatsapp gli avevano fatto raccomandazioni fino ad intasare di messaggi la chat e lui aveva promesso che sarebbe andato a scuola. ‘Beh: a scuola ci sono venuto!’ Così diceva tra sé e sé ridendo di come fosse riuscito ad aggirare le pressioni dei suoi amici. Sapeva che non appena si fossero incontrati tutti a pranzo probabilmente si sarebbero arrabbiati, quindi forse era meglio non dirgli che, una volta arrivato davanti al cancello, era tornato indietro e aveva passato tutta la mattina nel piccolo bar in Place Victor Hugo, di fronte all’abbazia di Saint-Denis. No no: avrebbe fatto finta di niente, per questo era andato a scuola, così li avrebbe aspettati lì e nessuno si sarebbe insospettito. Forse Feuilly lo avrebbe smascherato qualora fossero usciti una sera tutti assieme, ma in quel caso sarebbe passato troppo tempo perché gli altri si potessero arrabbiare sul serio. E poi i suoi amici erano tutti più piccoli di lui, di età e anche di corporatura: che diamine potevano volergli insegnare, quei piccoletti?

Doveva ammettere, però, che quei nanerottoli gli erano mancati durante le vacanze: in fin dei conti, erano più simili ad una famiglia che ad un semplice gruppo di amici. Il pensiero di quei folli lo fece strimpellare e canticchiare sulle note di ‘Friends will be friends’ dei Queen. Stava giusto per terminare il ritornello quando vide proprio uno dei suoi amici in mezzo al grande giardino fiorito: un ragazzino minuto, con degli spettinati capelli rossicci tenuti piuttosto lunghi e vestito con abiti così larghi che persino Bahorel avrebbe potuto indossarli, anche se talmente brutti e mal abbinati che non li avrebbe mai portati per davvero. Bahorel non poteva sbagliarsi: quale altro adolescente maschio si sarebbe messo a raccogliere fiori in pieno giorno rischiando di essere visto da tutti?

“Jehan cosa ci fai qui fuori? Non hai lezione?” Capì solo dopo che era stata un’idiozia raggiungerlo; chissà che scusa si sarebbe dovuto inventare ora per giustificarsi di non essere a lezione!

“Oh Bahorel! Che bello rivederti! No il mio professore di inglese non è ancora stato confermato, così adesso abbiamo un’ora buca: non riuscivo proprio a starmene chiuso in aula con una giornata così bella!” Quella era sicuramente la frase più lunga che Bahorel gli avesse mai sentito dire.

Tanto timido quanto era minuto, Jean Prouvaire era uno dei più piccoli del loro gruppo ed aveva appena cominciato il corso di letteratura: aveva una passione per le opere letterarie, di qualsiasi epoca, ma soprattutto per quelle del Medioevo, per questo i suoi amici lo chiamavano Jehan.[1]

“E tu? Come mai non sei a lezione?” Per un attimo, Bahorel aveva sperato che Jehan non glielo chiedesse, ma ormai non aveva altra scelta se non inventarsi una scusa credibile. Purtroppo gli immensi occhi azzurri del suo amico che lo guardavano fisso attendendo la sua risposta gli stavano mettendo troppa fretta.

“Il professor Javert è presissimo questa mattina, quindi siamo anche noi nel bel mezzo di un’ora buca. Lui e i suoi doveri da vicepreside…” Bahorel non ricordava nemmeno se avrebbe davvero avuto Javert in quell’ora, ma era la prima cosa che gli era venuta in mente e ormai la aveva detta.

“Ah capisco.” Jehan abbozzò un sorriso timido, ma dolcissimo come solo lui era in grado di fare e poi tornò ai suoi fiori.

Bahorel si abbassò verso il suo amico e lo osservò per qualche istante; poi disse: “Che stai combinando con quei fiori?”

“Ah… ecco io…” Completamente rosso in viso, Jehan cercava le parole per proseguire il discorso: “Sto facendo… sto facendo delle ghirlande per voi…”

“Davvero?” Bahorel non avrebbe mai indossato una ghirlanda di fiori, ma non aveva il coraggio di dirglielo apertamente: “Q-qual è la mia?”

“Oh… emh… p-pensavo che non l’avresti voluta così… così non l’ho fatta…”

Era ufficiale: Bahorel non sapeva più cosa fare. Non era esattamente nel suo carattere essere dolce e buono e davanti a quelle che per lui erano delle imprevedibili risposte di una persona sensibile quale era Jean Prouvaire non sapeva proprio come comportarsi.

“Ma come? Mi togli la gioia di distruggertela in faccia?” Lo disse scherzando, ma probabilmente Jehan non l’aveva capito perché sembrava quasi stesse per mettersi a piangere.

“Ehi ehi ehi! Scherzavo! Scherzavo! Non fare quella faccia! Non volevo mica offenderti, credimi! Era solo uno scherzo!” Era decisamente in panico mentre cercava in qualche modo di evitare quello che sarebbe stato un crollo totale di nervi. Non aveva nulla contro Jehan, ma proprio non sapeva come parlare con quel ragazzino così diverso da lui.

“Ah… per un attimo mi avevi fatto paura…” Crisi scampata. Jehan guardò alle spalle di Bahorel ed esclamò: “Ehi! Ma quella è la chitarra che ti abbiamo regalato noi!”

“Sì è proprio lei. Non me ne separo quasi mai.”

“Ma allora eri tu che suonavi prima!”

“Beh sì. Credo che nessun altro si metterebbe a suonare per i corridoi di questa scuola.” Rendendosi conto che stava per cadere di nuovo in fallo rischiando di far sentire Jehan uno stupido, Bahorel cambiò discorso: “Che ne dici se suono qualcosa mentre finisci le tue ghirlande?”

“Va… va bene!”

“Qualche richiesta?” disse Bahorel prendendo la chitarra dalle sue spalle.

Jehan rimase a pensarci un attimo, poi disse: “Pu-puoi suonarmi ‘Halleluja’ di Jeff Buckley… per favore?”

“Tutto quello che vuoi.”

Bahorel aveva trovato un buon modo per restare con Jehan senza che si dovessero parlare: cantando non avrebbe certo potuto rischiare di ferirlo in qualche modo e si sarebbero fatti compagnia finché gli altri non avessero finito di far lezione. Si era creata davvero una bella atmosfera: il cielo era di un azzurro brillante, con grosse nuvole bianche all’orizzonte e la dolce musica si diffondeva delicatamente in tutto il giardino. Bahorel aveva una voce piuttosto profonda e bassa, ma sulle note di ‘Hallelujah’ risultava meravigliosamente dolce e rilassante e Jehan si sentiva ancora più in pace con quella meravigliosa giornata: Bahorel se ne accorse.

Quando ebbe finito di suonare, Bahorel si rese conto che Jehan era a naso in su, assorto a guardare qualcosa in cielo.

“Che cosa guardi?” gli chiese, cercando di capire cosa stesse osservando.

“Guarda quella nuvola!” disse Jehan, indicando un punto nel cielo.

“Quale?”

“Quella lì, esattamente al centro sopra di noi.” Bahorel gli posò una mano sopra il braccio e cercò di indirizzare il suo sguardo verso il punto in cui stava indicando il suo amico.

“Ah quella! Che ha di speciale, scusami?” A Bahorel sembrava una nuvola comunissima, un ammasso bianco informe.

“Sembra un grandissimo macinacaffè: è davvero bizzarra!”

Un macinacaffè? Quale persona poteva vedere in una nuvola un macinacaffè? Bahorel non riusciva proprio a capacitarsene: non ci vedeva un accidente in quella nuvola, ma era curioso di capire se Jehan fosse solo molto fantasioso oppure se fosse il caso di mandarlo da uno psicologo.

“Scusa, ma… dove diamine lo vedi un macinacaffè?”

“Massì, guarda!” Jehan gli prese il braccio e cercò di usarlo per indicargli dove stavano i diversi elementi di questo fantomatico macinacaffè. “Lì c’è il contenitore per i chicchi di caffè, poi sotto il manico per macinarli…” Continuava a descrivere indicando con il braccio di Bahorel, ma lui proprio non riusciva a vederlo.

Fece comunque finta di nulla: “Ah sì! Ora lo vedo, ecco!” Fortuna che “faccia di Tolla” era il suo secondo nome!

Jehan lasciò il muscoloso braccio dell’amico, gli sorrise e poi riprese a guardare il cielo. Jehan adorava guardare il cielo: gli piaceva lasciare che il suo sguardo si perdesse nell’infinità dell’arcata celeste sia di giorno che di notte, affascinato sia dalla forma delle nuvole che dalla luce delle stelle, tant’è che era facile trovarlo col naso rivolto verso l’alto, con il pensiero perso in mondi lontani e gli occhi pieni di meraviglia.

“Vuoi che ti suoni qualcos’altro mentre aspettiamo gli altri?” chiese Bahorel, afferrando la chitarra.

“Posso chiederti ‘Somewhere over the rainbow’?”

Quante canzoni dolci che stava suonando quella mattina! Bahorel non era abituato a tutta quella tranquillità, ma la cosa non gli dispiaceva: era stranamente bello fare qualcosa di diverso, per una volta. Continuarono così, tra canzoni rilassanti e nuvole assurde che Bahorel non riusciva a vedere, finché non suonò la campanella che segnò la fine delle lezioni.

 


[1] Riferimento al romanzo: nella sua descrizione, Victor Hugo dice che “[…] si chiamava Jehan per quel piccolo capriccio del momento che si mescolava al possente movimento da cui uscì lo studio tanto necessario del Medioevo.”

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Capitolo 6
*** Primo giorno alla Saint-Denis - Combeferre ***


Combeferre

La campanella era già suonata da diversi minuti, ma Combeferre, munito dei suoi occhiali da lettura, era ancora seduto al bancone del laboratorio di scienze a ricopiare gli appunti presi. Restare lì da solo non lo disturbava: in mezzo al silenzio di quell’aula riusciva a rimanere concentrato su quello che stava studiando. Combeferre era un ragazzo molto tranquillo e studioso, con diversi interessi: non c’era una domanda a cui non sapesse rispondere, mai una volta in cui non fosse in grado di prendere parte ad un discorso. Era ormai al secondo anno del corso scientifico per eccellenza: era curioso e voleva sapere come funzionavano i meccanismi che governano l’universo. Ma aveva anche una vera e propria vocazione: la medicina. Per lui aiutare la gente era essenziale e non si sentiva adatto a fare nient’altro.

Stava ricopiando gli appunti di anatomia in tutta tranquillità, quando la porta si aprì alle sue spalle.

“Uè secchione! Sei ancora chiuso nel tuo cubicolo? Ti aspettavamo nel chiostro, ma poi io ho detto agli altri: ‘Vedrete che Combeferre è ancora nel laboratorio!’, e infatti eccoti qui!”

Combeferre sospirò lentamente: fine della sua tranquillità. Chiuse il quaderno con una calma e un’eleganza che solo lui possedeva, senza pronunciare neanche una parola, ma sul volto era apparsa quella sua caratteristica espressione di rassegnata pazienza che i suoi amici conoscevano bene.

“Ebbene sì: ero qui a ricopiare gli appunti, visto che sono certo che non me ne darete il tempo, stasera.” Non si voltò: sapeva benissimo chi aveva alle spalle.

“Con questo vuoi dire che non ti siamo mancati?!” Chi parlava ora era proprio dietro di lui, in piedi, e lo guardava mentre metteva via le sue cose.

“Con questo voglio dire che voglio stare in pari col programma fin dal primo giorno.”

“Secchione!”

“Continuerai per molto?” Il ragazzo lo abbracciò amichevolmente da dietro e finalmente si guardarono in faccia.

“Scherzo, dai! Lo sai come sono fatto!” E infatti Combeferre non era arrabbiato, non perché lo aveva chiamato secchione, almeno. Courfeyrac si era dimostrato un burlone fin da quando si erano incontrati tre anni prima: Combeferre si ricordava bene di come Courfeyrac lo avesse imbrattato di tempera verde il primo giorno di scuola, ma dopo che lui, per farsi perdonare di avergli rovinato tutti i vestiti, gli aveva prestato i suoi andando in giro in biancheria intima, i due ragazzi erano diventati ottimi amici e non si erano più separati.

“Sai che non capisco come fai a voler rimanere qui dopo il suono della campana?” Mentre diceva ciò, Courfeyrac si alzò e andò verso la parete opposta alle piccole finestre. “È buio qui dentro ed è tutto così… serioso! Così bianco e sterile… è troppo pulito!”

“È un laboratorio di scienze. Qui dentro si insegnano anche chimica e anatomia: DEVE essere pulito.”

“Ma è triste qui dentro! Sai una cosa?” disse Courfeyrac pensoso. Combeferre si preoccupò: non succedeva mai nulla di buono quando Courfeyrac iniziava una frase con quelle parole! Tuttavia lo lasciò continuare per vedere dove volesse andare a parare: “Ci vorrebbe un po’ di colore!”

“NON rovescerai qualche sostanza solo per dare un tocco di colore: lo hai già fatto in seconda e siamo finiti entrambi nei guai!” Combeferre aveva un’espressione allarmata sul viso, al ricordo di ciò che il professor Javert aveva fatto passare loro, mentre Courfeyrac sembrava divertito.

“Ahahahah! È stato forte!”

Courfeyrac era così: sembrava non conoscere il cattivo umore e aveva sempre un sorriso e una battuta per tutti. Era una persona molto vivace, anche un po’ ingenua, e questo alle volte lo faceva sembrare uno stupidone, ma nelle sue battute c’erano una genialità e una spigliatezza che si potevano trovare solo nelle persone davvero intelligenti. Andava d’accordo con tutti e sapeva sempre come alleggerire i momenti difficili.

“Ah eccovi qui! Courfeyrac ci aveva detto che saresti stato qui, ma io ho sperato fino all’ultimo che non fosse così” Grantaire entrò nel vecchio laboratorio, seguito a ruota da Joly, Bossuet, Bahorel e Jehan.

“Grantaire! Ma che fine avevi fatto? Anche voi due!” disse Combeferre sorridendo, mentre indicava Bahorel e Bossuet. “Volevamo aspettarvi stamattina ma non arrivavate più!”

Grantaire entrò nel laboratorio dando modo anche agli amici alle sue spalle di avanzare e mentre si stava sedendo sul bancone di fianco alla borsa di Combeferre disse: “Oh beh… le strade erano incredibilmente trafficate stamattina… e poi ho avuto un po’ di problemi con madame Thénardier, quindi sono arrivato molto tardi.”

Bahorel lo seguì dentro la stanza, sorpassando Bossuet e Joly, mise la chitarra a terra e si appoggiò alla parete a sinistra dei suoi amici. Si mise le mani in tasca e disse: “Io ho dovuto subire mille mila raccomandazioni dai miei a casa, quindi ho tardato anch’io.” Combeferre non riusciva a credere a nessuna delle parole dette da Bahorel, ma per il momento non disse nulla.

“E tu Bossuet?”

“Oh. Io sono inciampato mentre andavo alla residenza: ho dovuto zoppicare per un po’ quindi suppongo che questo mi abbia rallentato. Ma sono arrivato giusto giusto per il suono della campanella.” Bossuet stava vicino alla porta assieme a Joly e gli teneva un braccio attorno alle spalle, mentre il suo ragazzo poggiava la testa sulla sua spalla.

“Non so se essere sorpreso che tu sia sempre così allegro o che tu sia ancora vivo, visto tutto quello che ti capita!” disse Bahorel con un’espressione tra il sorpreso e lo sconcertato dipinta sul volto.

“Me lo dicono tutti.”

“Chissà mai perché!” Grantaire sembrava sorpreso quanto Bahorel, ma gli venne da ridere nel pensare a quanto sfortunato fosse Bossuet.

“Woooooooo! Ragazzi guardate qui!” Nel sentirlo dire queste parole, tutti si girarono a guardare Courfeyrac che avanzava verso di loro spingendo uno scheletro usato dagli studenti di anatomia. “Lo zio Yorick è ancora qui! Ed è ancora come lo abbiamo lasciato l’anno scorso!”

Quel povero scheletro ne aveva passate di tutti i colori: durante una punizione passata in laboratorio per aver fatto esplodere una soluzione chimica, Bossuet, Bahorel, Courfeyrac e Grantaire si erano messi ad usare il vecchio complesso d’ossa come scopa, come compagno di ballo, come modello di camici da laboratorio e come ballerino di robot dance. Come avessero fatto ad usarlo come scopa a Combeferre non era ancora chiaro nonostante quel giorno fosse presente anche lui. Restava comunque convinto del fatto che quel povero scheletro ne avesse passate talmente tante che se fosse stato vivo avrebbe ringraziato di non avere gli occhi così da non poter vedere tutto quello che gli veniva fatto. Al momento, lo zio Yorick, come Jehan aveva voluto chiamarlo in omaggio a Shakespeare, aveva macchie su tutte le ossa e una mascherina trasparente usata dagli studenti di chimica in testa, precisamente davanti alle cavità degli occhi.

“Ahahahah! Quanti bei ricordi, accidenti!” Bossuet guardava il povero scheletro quasi con tenerezza.

“Bei ricordi? Passammo tutto il pomeriggio a strofinare le piastrelle dei banconi” disse Joly in disaccordo.

“Può darsi, ma ci divertimmo un sacco!”

“Quoto Joly” disse Combeferre con un risolino rassegnato al ricordo di quel pomeriggio.

“Andiamo, che ridevi pure tu!” gli disse Courfeyrac con il braccio sulla spalla dello zio Yorick e puntando la sua mano scheletrica verso il ragazzo. “E poi eravamo tutti assieme!”

“Oh sì! Me lo ricordo bene!” Jehan si mosse leggermente verso i suoi amici, spostandosi dallo stipite della porta al quale era appoggiato. “Fu la prima volta in cui ci ritrovammo tutti assieme: abbiamo legato moltissimo in quell’occasione.”

Al solito, la dolcezza con cui Jehan esordì facendo questa osservazione scaldò i cuori a tutto il gruppetto di ragazzi: Combeferre se ne rese conto quando iniziarono a sorridersi a vicenda.

“A proposito: ma dov’è il nostro paladino della libertà?” chiese Combeferre, guardando oltre la porta spalancata come se il loro amico dovesse sbucare da un momento all’altro.

“Ah l’ho incrociato io: ha detto che sarebbe passato da Feuilly, di non stare ad aspettarlo” gli rispose Courfeyrac indicando la porta con un cenno della testa, quasi come il ragazzo si trovasse lì.

“Beh immagino che lo vedremo a pranzo tanto. Iniziamo ad avviarci?” disse Grantaire scendendo dal bancone, preso da una certa foga.

“Ah no, Grantaire. Visto che stamattina non si è fatto vedere, gli ho scritto prima: mi ha risposto che è molto occupato e che si sarebbe fermato giusto un attimo per salutarci, ma che poi sarebbe andato subito alla residenza” gli disse Combeferre chiudendo la borsa. “Immagino che, se non è nemmeno passato di qui, ormai sarà già andato via.”

“Ah…” Grantaire per un attimo sembrò un po’ deluso, ma gli passò subito: “Beh immagino che stasera si degnerà di farsi vivo! Noi che facciamo? Andiamo a mangiare qualcosa lo stesso giù al bar?”

Bahorel sembrò allarmarsi. Andò verso Grantaire, gli mise un braccio attorno al collo e disse: “Ma perché per oggi non proviamo qualcosa di nuovo, eh? Così: per cambiare un po’!”

I sospetti di Combeferre stavano aumentando: perché non voleva andare al solito bar in Place Victor Hugo? Cosa stava cercando di nascondere? Ma ancora una volta, Combeferre non disse nulla.

“Ma sì, dai! Conosco un bel posticino dove fanno una zuppa di cipolle fantastica, tra le migliori delle città!” esclamò Grantaire.

Courfeyrac appoggiò l’idea: “Beh non mi dispiacerebbe provare qualcosa di nuovo, in effetti. Voi che ne dite?”

“Per me si può fare!” disse Bossuet. “Combeferre?”

“Tu che ne dici, Jehan?”

“Per me va bene se a voi va bene, lo sapete” gli rispose col sorriso sulle labbra.

“Beh democraticamente ha vinto la maggioranza: e sia!” Combeferre si alzò dallo sgabello, afferrò la sua borsa e si diresse verso la porta. “Courfeyrac, metti a posto lo zio Yorick.”

Dopo che lo scheletro fu rimesso accanto all’armadio e che Courfeyrac gli ebbe fatto tutte le raccomandazioni del caso, il gruppo di amici si diresse verso l’uscita.

“Ma Grantaire… Quanto lo ha valutato l’ufficio di igiene questo locale?”

“Joly, per favore!”

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Capitolo 7
*** Primo giorno alla Saint-Denis - Eponine ***


Éponine

 “Sono tornata!” esclamò Éponine chiudendo la porta della residenza per studenti in cui lavoravano i suoi, il Musain[1].

“Éponine ti stavamo aspettando! Vieni ad aiutarmi a sistemare le camere prima che arrivino i ragazzi!”

“Ma mamma avevi promesso che come avessi cominciato il collège non mi avresti più fatta lavorare qui con voi!”

“Mica avrai già cose da fare?! È solo il primo giorno! Su sbrigati!”

Nonostante non avesse ancora mangiato, a Éponine non rimase altra scelta che salire la scala dell’ingresso per andare al primo piano, attaccare la presa dell’aspirapolvere alla corrente e aiutare i suoi genitori a pulire tutte le stanze. I Thénardier, i genitori della ragazza, erano quel tipo di persone che definirle spilorce voleva dire far loro un complimento: dopo che avevano perso la loro ultima cameriera, rigorosamente sottopagata, sette anni prima, non avevano più voluto assumere nessuno e avevano tenuto tutti i loro affari esclusivamente in famiglia, in modo da non dover pagare lo stipendio al personale. Perciò non c’è da stupirsi se ogni tanto capitava di vedere la giovane figlia maggiore con in una mano l’aspirapolvere e nell’altra un libro di scuola: a parte sua sorella Azelma, che aveva due anni meno di lei, gli altri suoi fratellini, tutti e tre maschi, erano troppo piccoli per lavorare assieme a loro. Éponine aveva chiesto ai suoi genitori di esonerarla dai lavori quando avesse cominciato il primo anno al collège, perché voleva concentrarsi sugli studi, ma come al solito i suoi genitori le avevano detto di sì per poi fare comunque quello che volevano loro. Quando lei e Azelma erano piccole, i Thénardier le avevano viziate molto, ma poi qualcosa era andato storto coi loro affari, o così le avevano detto, e si erano ritrovati improvvisamente al verde, quindi lei aveva iniziato ad aiutarli nel lavoro alla residenza e poi la stessa sorte era toccata anche alla sorellina.

Ad un certo punto, mentre stava pulendo una camera al primo piano, vicino alla sala comune, guardò le due grosse valigie arancioni sul letto a sinistra e le venne un’illuminazione. “MAMMA, MA QUALCUNOÉ ANDATOA PRENDERE GAVROCHE A SCUOLA?” urlò verso il piano superiore, infilando la testa nella tromba delle scale.

“NON DOVEVI ANDARE TU???” le urlò in risposta sua madre dal secondo piano.

“NO, DOVEVA ANDARE A PRENDERLO PAPÀ!”

“IO?! MA NO, CARA! IO STAMATTINA SON DOVUTO RESTARE A CONTARE I SOLDI INCASSATI DAL PAGAMENTO DEI NOSTRI OSPITI!” fu l’urlo che le arrivò da suo padre dal terzo piano.

Ecco, c’era da aspettarselo: oltre che da cameriera avrebbe dovuto fare anche da babysitter a quella peste di suo fratello! Fortunatamente le mancava poco per terminare di pulire le stanze: una volta terminato il suo piano, scese in cucina, tagliò un panino a metà, ci mise dentro una fetta di prosciutto e una di formaggio, recuperò dal bancone della reception la sua borsa e corse fuori per andare a prendere il maggiore dei suoi fratellini.

Il quartiere moderno era affollato come al solito, con automobili che sfrecciavano sulla strada in vista della pausa pranzo e moltissime persone lungo i marciapiedi che si dirigevano nelle loro abitazioni o in bar e ristoranti. Insomma, non proprio la situazione ideale per permettere a un bambino di otto anni di muoversi da solo in città: Éponine sapeva che se nessuno si fosse presentato entro massimo quindici minuti dal suono della campanella, Gavroche sarebbe tornato a casa da solo. Guardò l’orologio del suo telefono cellulare e si accorse che era già tardi: Gavroche era uscito da scuola circa una ventina di minuti, quindi si ritrovò a sperare che non avesse ancora preso l’autobus. Accelerò il passo, cercando di passare tra la gente che camminava sul marciapiede contro il suo senso di marcia: perché tutte le volte che aveva fretta sembrava che l’umanità intera andasse nel verso opposto al suo? Non poteva proprio sopportarlo! Si ritrovò costretta a spintonare la gente perché la lasciasse passare e maledisse che i suoi genitori fossero sempre troppo occupati a pensare ai loro affari per rendersi conto di aver messo al mondo ben cinque figli!

Éponine non somigliava per niente ai suoi: lavorare fin da quando era piccola l’aveva resa responsabile, matura e indipendente; i Thénardier invece erano sempre occupati a fare soldi, che fosse in maniera onesta o illegale a loro non importava un granché: erano talmente bravi a ripulire le tasche dei loro ospiti che essi non si accorgevano di essere stati derubati finché non rientravano nelle loro abitazioni e si ritrovavano a pensare di aver perso tutti quei soldi e quegli oggetti preziosi che si intascavano i due padroni di casa durante il viaggio. Presi com’erano dal rimpinguare le loro casse dopo questo misterioso affare fallito, era Èponine a doversi occupare di tutto: fortunatamente c’era anche Azelma con lei!

Quando arrivò alla fermata dell’autobus, il mezzo era già arrivato: era proprio il numero 3, quello che avrebbe dovuto prendere lei per raggiungere la scuola di Gavroche, quindi Éponine dovette fare uno scatto di corsa per non perderlo. Salì sull’autobus, si sedette sul sedile in fondo vicino al finestrino, pronta per venti minuti di viaggio in cui finalmente avrebbe ripreso fiato. Stava addentando il suo pranzo improvvisato, quando sentì il suono di ‘Rain and tears’ degli Aphrodites Child[2]: solo dopo ricordò che era la suoneria del suo cellulare e, prendendo il telefono in mano, vide che chi la stava chiamando erano i suoi genitori.

“Mamma che cosa c’è?” Erano proprio le ultime persone che avrebbe voluto sentire in quell’istante.

“Éponine dove sei finita?!” si sentì dire da una voce maschile all’altro capo della linea. Éponine si sorprese nel riconoscere la voce di suo padre: “Papà? Perché chiami col telefono di mamma?”

“Non avevo voglia di spendere soldi per nulla: lei ha le chiamate gratis verso il tuo numero, quindi… ma non è questo il punto!” le rispose lui cercando di non sviare troppo dal discorso.

“Sono sull’autobus: sto andando a prendere Gavroche a scuola.”

“Come stai andando a prendere Gavroche a scuola?! Qui c’è bisogno di te alla reception: gli studenti sono arrivati!” Nella mente di Éponine ci fu un attimo di confusione: fece mente locale per essere certa di ricordare bene la successione degli eventi e poi si disse che suo padre doveva essersi bevuto il cervello.

“Ma papà mi ha detto tu di andare a prendere Gavroche!” Nella voce di Èponine si poteva cogliere una certa impazienza, quasi come si stesse arrabbiando.

“Ci sta andando Azelma: tu torna subito qui!”

“Ma papà…”

“SUBITO!” Quello era il suo ultimatum: Èponine lo capì. Sospirò e decise che sarebbe scesa alla prossima fermata per poi camminare molto velocemente verso casa.

“Ok sto tornando!” disse con tono scocciato, chiudendo la chiamata.

Dopo pochi minuti l’autobus arrivò alla fermata successiva e Éponine poté finalmente scendere e ricominciare a camminare spedita, cercando di non farsi travolgere dalla gente e, allo stesso tempo, di mangiare il suo panino. Quando arrivò alla residenza, vide un mare di ragazzi accalcati davanti al bancone che attendevano solo lei per poter salire nelle loro stanze. Éponine fece un respiro profondo, gettò la borsa sull’unica poltrona libera accanto all’ingresso e si fece largo nella folla.

“Okay eccomi! Da chi comincio?” disse appena arrivata dietro il bancone, raccogliendo i lunghi capelli scuri in una coda di cavallo.

“Éponine! Ti trovo bene!” Courfeyrac era raggiante e precedeva tutti i membri del suo gruppo.

“Ragazzi! Bentornati! Passato delle belle vacanze?”

Il primo a risponderle fu Bahorel: “Al solito: sono tornato dai miei e poi siamo andati alla nostra casa in montagna: ho passato il mese ad allenarmi e a suonare!”

Lo seguì Joly, alzando il braccio per richiamare l’attenzione della ragazza: “Io sono andato al mare da mia nonna! Un toccasana per la mia tiroide! ”

“E mi ha abbandonato qui!” precisò Bossuet. Poi proseguì: “Io sono andato a Marsiglia: ho passato la settimana a letto a causa di un’insolazione; tornato a casa sono stato di nuovo a letto per via di una slogatura alla caviglia, ma mi sono riposato tantissimo!” Éponine conosceva Bossuet da quattro anni, ormai: non poteva aspettarsi nulla di diverso da lui.

Poi fu il turno di Grantaire: “Ah, io sono stato a Lione con i miei: mia madre e mia sorella hanno guardato la città, io ho accompagnato il mio vecchio a provare tutti i locali del posto!”

“Io sono stato a Londra con i miei zii” esordì con grazia Combeferre. “È stata una vacanza molto bella ed interessante.” Poi si avvicinò al bancone, scostando delicatamente Courfeyrac mettendogli una mano sulla spalla e disse ad Éponine: “Lui ha passato le vacanze qui, vero?”

Éponine poteva leggere un velo di preoccupazione e di tristezza sul suo volto; fece segno di sì con la testa e poi disse: “È già di sopra che ti aspetta. Stanza 008, la stessa dell’anno scorso.” Gli protese la seconda chiave della stanza: Combeferre la ringraziò con un cenno della testa e un sorriso di cortesia, salutò i suoi amici mentre recuperava il borsone e poi si diresse a passo spedito al primo piano, quasi come avesse fretta di raggiungere il suo compagno di stanza.

Per un attimo tutti rimasero in silenzio, guardandosi tra di loro confusi; poi Courfeyrac, che Èponine sapeva essere a conoscenza della situazione, cercò di distogliere l’attenzione da quanto accaduto: “Io sono stato nella villa di campagna dei miei, questo mese! Non ci ero mai stato perché mia madre non ci è mai voluta andare, ma mio padre ha detto ‘Fanculo! Possiamo andare anche senza di lei!’, e quindi ci siamo andati! È stato davvero forte!”

Sembrava che la tattica di Courfeyrac avesse funzionato, perché Jehan sbucò da dietro le larghe spalle di Bahorel e disse a bassa voce: “I-io sono riuscito ad andare a Firenze con i miei genitori… è stato indimenticabile! E… e tu, Éponine?”

“Io sono rimasta qui a lavorare con i miei… come al solito!” Quella dei Thénardier non era solo una residenza per studenti: il terzo e il quarto piano erano dedicati a vere e proprie camere d’albergo per i turisti. Ad essere sinceri somigliava più ad un bordello piuttosto che ad un albergo, ma Èponine sapeva che era così che suo padre voleva.

Sarebbero rimasti lì a parlare ancora, ma c’erano molti altri studenti che attendevano le chiavi delle loro stanze, quindi la ragazza consegnò ad ognuno la propria e li salutò.

“Ah Courfeyrac! Feuilly è andato a vivere con il custode della vostra scuola, quindi avrai la stanza tutta per te” disse lei al ragazzo mentre gli consegnava una copia delle chiavi della sua stanza.

“Uooooo! Grande!” fu la risposta esaltata con la quale Courfeyrac si congedò.

Dopo circa un quarto d’ora di consegna di chiavi, Éponine notò che c’era un ragazzo che non aveva mai visto ancora seduto su una poltroncina. Sembrava quasi perso: si guardava intorno nervoso, curioso, agitato, preoccupato, eccitato… confuso, insomma.

L’unica cosa di cui Éponine poté essere certa fu che quel ragazzo era molto carino e che quel suo sguardo strano pieno di tante emozioni differenti lo faceva sembrare impacciato e molto dolce.

“Posso aiutarti?” si sentì dire la quattordicenne.

Il ragazzo sembrò ripiombare nel mondo reale al sentire quella frase e i suoi dolcissimi occhi verdi si posarono su Éponine pieni di sorpresa.

“Ah… ciao! S-sono Marius Pontmercy… mio nonno dovrebbe essere passato stamattina a portare le mie cose…”

Éponine rimase molto sorpresa da quella notizia: “Aspetta… passerai l’anno qui?”

“Beh, emh… sì…”

Ci fu un attimo di silenzio in cui i due si guardarono negli occhi, entrambi confusi: Èponine era perplessa, Marius, invece, sembrava un po’ a disagio. Alla fine la ragazza prese i registri e vide che in effetti un certo Pontmercy era segnato e, inoltre, il pagamento era già stato effettuato da un tale Monsieur Gillenormand.

“Cazzo! Si può sapere perché nessuno mi ha informato che ci sarebbe stato un nuovo studente?!” disse Èponine.

La ragazza era imbarazzata e mortificata. Marius le sorrise in modo molto dolce e le disse: “Dai non è successo nulla. Davvero! Può capitare a tutti!”

Se la sua intenzione era farla stare più tranquilla, il sorriso aveva funzionato: Éponine alzò lo sguardo dai registri, guardò Marius con uno sguardo sorpreso, gli sorrise tranquilla, prendendo sicurezza, e poi riprese: “Marius Pontmercy, camera 002, al primo piano. Ah… bene conoscerai subito il tuo compagno di stanza. Vieni con me: ti faccio strada. Credo che i tuoi bagagli siano nel guardaroba.”

La ragazza andò verso il guardaroba e sentì che Marius, timidamente, la seguiva con lo sguardo. Quando Éponine cercò di sollevare due grosse valige, lui corse subito da lei per aiutarla. Le prese dalle mani i due bagagli, lasciando a terra solo un borsone di modeste dimensioni.

“Oh no non devi! Tu sei un ospite qui!” gli disse lei, un po’ in imbarazzo.

“Non farei mai portare dei pesi così ad una signora” le rispose lui, con un sorriso dolce e galante allo stesso tempo. Éponine rimase positivamente impressionata da quel nuovo ospite: dovette ammettere qualcosa di lui le piaceva molto.

 


[1] Musain è il nome dato da Victor Hugo al bar dove si ritrovano i rivoluzionari, il café Musain.

[2] Piccolo tributo al musical a cui ad Éponine è associata spesso l’immagine della pioggia.

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Capitolo 8
*** Primo giorno alla Saint-Denis - Marius (3) ***


Marius

Marius notò che la ragazza gli sorrise, poi la vide sollevare il suo borsone e dirigersi verso la scala, facendogli strada. Una volta in cima alle scale, svoltarono in un corridoio a destra, lasciandosi alle spalle una grande sala vetrata con tavoli in legno scuro e divanetti rossi. Non dovettero fare molta strada per arrivare alla stanza, solo pochi metri attraverso il corridoio ricoperto di carta da parati verdognola.

“Ecco: è questa qui” disse la ragazza appoggiando il borsone a terra per aprire la porta. Proprio mentre stava per tirare in giù la maniglia, sentì che dal piano inferiore la stavano chiamando: “ÉPONIIIIINE! VIENI SUBITO GIÙ!!!” Era la voce di sua madre che echeggiava nella tromba delle scale.

“Oh accidenti a loro! Oggi non vogliono proprio darmi pace!” disse mortificata e arrabbiata insieme.

A Marius venne da sorriderle: “Vai pure se devi: posso portare dentro tutto io.”

“Ne sei sicuro? Se anche tardo di pochi minuti, mia madre non morirà di certo…” gli rispose mentre lui già spostava le sue valigie per lasciarla passare.

“Sì certo. Ormai sono qui, non mi serve altro aiuto. Vai pure e grazie mille.”

“O… ok… e grazie a te!” lei rispose al suo sorriso, lo guardò per qualche secondo e poi si avviò verso le scale, mentre Marius recuperava il borsone e lo appoggiava sul trolley per poter portare in camera tutti i bagagli in una volta sola. Il ragazzo stava per aprire la porta quando la sentì urlare: “Marius!”

Lui si girò verso di lei di scatto, tenendo la mano sulla maniglia: Éponine stava per scendere il primo gradino. Lei gli sorrise e gli disse: “Benvenuto nella nostra residenza!”

Marius rispose al sorriso, la ringraziò e la guardò andare via. Poi abbassò cautamente la maniglia, preparandosi a salutare il suo nuovo compagno di stanza.

Quando Marius aprì la porta, dalla stanza uscì un frastuono assordante: dentro la camera un ragazzo con dei folti riccioli castani molto scuri stava danzando senza maglietta sulle note di ‘Last night’ dei Good Charlot e il volume della musica era talmente alto che Marius si chiese se quel ragazzo avesse ancora i timpani intatti. Tutt’attorno a lui regnava il caos: due grosse valigie arancioni erano aperte e ribaltate sul letto a destra della finestra che stava di fronte a Marius e sul pavimento erano sparse disordinatamente molte magliette e felpe con fantasie bizzarre, maglioni e pantaloni colorati, calzini spaiati e anche diverse paia di mutande buffe, con disegni infantili e di colori vivaci. C’era davvero di tutto sul pavimento: un ciclone avrebbe fatto meno danni.

“S-scusami…” Cercava in ogni modo di attirare la sua attenzione, così da poter evitare quella situazione imbarazzante, ma il suo nuovo compagno di stanza proprio non lo sentiva e, sicuramente, il fatto che la voce gli si spezzasse in gola per la timidezza non aiutava. Quando l’altro ragazzo cominciò addirittura a cantare, Marius non ebbe altra scelta che urlare più forte in modo da farsi sentire. “SCUSAMI!”

Quando lo sentì, il ragazzo si fermò improvvisamente in piedi sul letto alla sinistra di Marius, con le braccia alzate, esattamente nella posizione in cui si trovava nell’istante in cui aveva urlato. Girò solo la testa per vedere chi era stato ad interromperlo e sul suo viso, il nuovo arrivato notò un profondo imbarazzo.

“Emh… CIAO!” Marius, a disagio per quel loro bizzarro primo incontro, alzò cautamente la mano come cenno di saluto.

L’altro ragazzo rimase a guardarlo con gli occhi sgranati per qualche secondo, senza muoversi da quella ridicola posizione, mentre la musica ancora invadeva la stanza. Poi si voltò abbassando le braccia, lo guardò da capo a piedi, sbirciò dietro di lui come se volesse vedere se ci fosse qualcun altro e poi gridò: “E TU CHI SEI? COME SEI ENTRATO?”

A Marius scocciava gridare, ma non poté fare nient’altro: “MI CHIAMO MARIUS! SARÒ IL TUO COMPAGNO DI STANZA!”

Il ragazzo allora lo guardò fisso ancora per un po’, poi fece un sorriso ampissimo e saltò giù dal letto, andando incontro allo studente sulla porta.

“UOOOOO! ÉPONINE MI AVEVA DETTO CHE SAREI STATO DA SOLO QUEST’ANNO QUINDI NON MI ASPETTAVO PROPRIO CHE IN REALTÀ SAREBBE ARRIVATO QUALCUNO!” Strinse la mano di Marius con una stretta molto forte e la agitò vigorosamente dicendo: “PIACERE DI CONOSCERTI MARIUS! IO SONO COURFEYRAC! O MEGLIO! È IL MIO COGNOME MA I MIEI AMICI MI CHIAMANO COSÌ!”

Vedendo che Marius era un po’ a disagio a parlare urlando, Courfeyrac capì che forse era meglio abbassare il volume delle casse collegate al suo i-pod.

“Meglio così?” gli disse sorridente: quel buffo ragazzo dalle orecchie a sventola aveva un’aria solare e amichevole che a Marius ispirava molta fiducia.

Marius, più a suo agio nel silenzio, riuscì a ricambiare il sorriso: “Sì… grazie.”

“Oh, emh… scusami il disordine… non mi aspettavo visite.” Courfeyrac prese la montagnetta di vestiti che si trovavano sul letto destinato a Marius e il buttò a casaccio in una valigia.

“Allora, Marius!” continuò prendendo una maglietta con un simpatico alieno viola dal mucchio sparso a terra. “Da dove arrivi? Ah, scusami: ti aiuto a portare dentro le tue cose.” Indossò velocemente la maglietta, si avvicinò a Marius e prese una delle due valigie dalle sue mani.

“Oh, grazie. Beh… io sono di Parigi. Ho sempre studiato alla scuola pubblica vicina al quartiere dove vivevo, ad est della città. È il mio primo giorno qui a Saint-Denis: ho iniziato oggi il corso di scienze politiche” disse appoggiando la valigia sul suo letto.

“Ah! Ma quindi sei tu il nuovo studente! Sei in classe con un mio amico, sai?” gli disse Courfeyrac come se Marius gli avesse dato la notizia del secolo, ma anche lui dovette ammettere di essere sorpreso: era davvero una coincidenza insolita. “Dopo te lo presento… ammesso che si decida a farsi vivo: l’ho visto giusto di sfuggita, oggi.” C’era un velo di tristezza nei piccoli occhi scuri di Courfeyrac, ma fece in modo di nasconderla immediatamente. Courfeyrac lasciò che Marius iniziasse a disfare i suoi bagagli e tornò a sistemare il disordine che aveva lasciato nella camera. “Scienze politiche è tosta: sarai anche tu in balìa del temutissimo ‘La-legge-sono-io’ Javert! Il soprannome non è un granché: ci stiamo lavorando.”

“E chi è?” chiese Marius guardando il suo nuovo compagno di stanza, smettendo di spostare i vestiti perfettamente piegati dalla valigia al letto.

Courfeyrac non fece in tempo a rispondere, perché proprio mentre stava per parlare a Marius del perfido professore di diritto qualcuno bussò sulla porta: due colpi lenti, una breve pausa, e poi altri cinque battiti veloci. Sembrava quasi una parola d’ordine. “Gavroche! È aperto, piccolo uomo! Entra!” gli disse ad alta voce Courfeyrac.

Dalla porta sbucò un bambino ricciolino, biondo, con uno sguardo davvero furbo: Marius non gli dava più di dieci anni e gli venne da chiedersi come fosse possibile che ci fosse un bambino in una residenza per studenti. Come vide Courfeyrac, il ragazzino corse verso di lui e gli saltò letteralmente al collo: “Courfeyrac! Mi sei mancato tantissimo!”[1]

Il ragazzo lo prese al volo e lo strinse, facendo qualche giravolta che fece alzare le gambe di Gavroche all’aria e dicendogli: “Anche tu mi sei mancato, nanetto!”

Quando Courfeyrac si fermò, il ragazzino piegò le gambe per restare attaccato al suo corpo, mise le mani sulle sue spalle, si spinse indietro per poterlo guardare in faccia e disse: “Se è vero che ti sono mancato perché mi hai lasciato qui da solo con quegli idioti che ho per genitori e quelle cretine che devo chiamare sorelle?!” Lo disse molto in fretta e a voce molto alta, senza esitare: Marius era sicuro di non aver mai sentito un bambino parlare così.

“Hai anche dei fratellini: non è esatto dire che ti ho lasciato solo con loro” si difese Courfeyrac “E poi Éponine e Azelma non sono stupide, dai!”

Gavroche sgranò gli occhioni azzurri e fissò dritto in faccia Courfeyrac, dicendo: “Ah no?! Sono tutti talmente intelligenti nella mia famiglia che si sono scordati di venirmi a prendere al campo estivo! Mi ha accompagnato qui una suora: è stato imbarazzantissimo!”

“Immagino la faccia di quella poverina quando ha scoperto che vivi in una topaia del genere...” Courfeyrac sembrava sinceramente mortificato mentre lo disse.

Gavroche batté un pugno sulla spalla di Courfeyrac e riprese: “Avresti dovuto restare qui, così mi venivi a prendere tu! Invece non c’eri!”

“Mi spiace, Gavroche: avevo un impegno con mio padre!” disse mentre rimetteva il bambino a terra. Poggiò le mani sulle sue spalle, inginocchiandosi a terra, e disse: “Ma adesso resterò qui con te fino al primo novembre. Anzi, farò di più: se vorrai potrai venire da me per le vacanze, eh? Che ne dici?”

Gavroche sembrava rassicurato e tranquillo ora: stette in silenzio qualche secondo, poi sorrise e rispose contento: “Sì, perché no?”

Marius stava sistemando i vestiti nell’armadio di fronte al suo letto quando si sentì osservato. Si girò e vide che Gavroche lo stava fissando: il ragazzo si fermò all’improvviso e lo guardò a sua volta. Dagli occhi sgranati che aveva, a Marius parve che quel ragazzino si fosse accorto solo in quel momento che nella stanza ci fosse anche lui.

“E lui chi è?” chiese Gavroche, indicando il nuovo ospite con il dito.

“Lui è Marius. È arrivato oggi e sarà il mio compagno di stanza, quindi trattalo bene!” gli rispose Courfeyrac fissando il ragazzino da dietro, con le mani sui fianchi.

Gavroche si girò a guardare il suo amico e gli fece un sorrisetto furbo, prima di andare verso Marius con la mano tesa e presentarsi: “Io sono Gavroche Thénardier, il terzogenito dei proprietari.”

Il nuovo studente strinse la mano e gli sorrise un po’ a disagio: quel sorrisetto furbo era stranamente disarmante. Gavroche guardò di nuovo verso Courfeyrac, poi saltò sul letto di Marius e continuò a saltellare freneticamente sul materasso, producendo un rugginoso rumore di molle.

“Hai un sacco di lentiggini: ti fanno la faccia buffa. Da dove arrivi?” chiese a Marius continuando a saltare.

“Emh…” A Marius non andava troppo bene che saltasse sul suo letto: quel rumore di molle era decisamente molto poco rassicurante, ma cercò di portare pazienza e rispose: “Sono di Parigi… solo che andavo a scuola vicino al mio quartiere… dall’altra parte della città…”

“E perché adesso sei venuto qui?”

Domanda decisamente scomoda: Marius riprese a riporre i suoi vestiti nell’armadio, sperando di sentirsi meno a disagio. “P-perché ora il mio tutore è mio nonno… e lui ha voluto che venissi qui a studiare… s-solo che casa sua è a sud di Parigi, quindi…”

“E perché il tuo tutore è lui? Dove sono i tuoi genitori?”

Quella era una domanda ancora più scomoda. Courfeyrac si era spostato e ora stava appoggiato alla scrivania davanti alla finestra a guardare la scena: Marius, dopo aver scambiato un’occhiata con lui, pensò che il ragazzo doveva aver notato il suo disagio perché intervenne: “Cambia discorso, Gavroche.”

“Perché?” Smise si saltare quando vide la faccia seria del suo finto fratellone.

“Cambia discorso!” gli ripeté con una leggera impazienza.

Gavroche fece un balzo e cadde seduto sul letto: “Ce l’hai una ragazza?”

“Che… che cosa?” disse Marius guardando il ragazzino, imbarazzato.

“Una ragazza, una fidanzata, una morosa, una tipa… chiamala come ti pare.” Gavroche lo guardava fisso, con due occhi pieni di curiosità. “Ce l’hai?”

“Emh… no, io non… non ho una ragazza.”

“E perché no?” Gavroche seguiva ogni movimento di Marius con lo sguardo, senza perderlo di vista.

“Beh, emh…”

“Ma ne hai avuta una prima di adesso, no?” riprese Gavroche senza farlo finire. Poi si mise in ginocchio sul letto e si mise a sbirciare tra i vestiti di Marius e tra quei pochi oggetti rimasti in valigia.

“Una specie, ma non si può esattamente dire che fosse la mia ragazz…” Ancora una volta, Gavroche non gli dette tempo di finire e iniziò a guardare alcune delle sue magliette, gettandole poi in valigia in maniera disordinata, stropicciandole.

“Che cosa fai?” gli chiese Marius, confuso dal gesto di Gavroche: possibile che non sapesse starsene un attimo fermo quel ragazzino?

“Se metti queste cose non mi meraviglia che tu sia solo, amico!” disse Gavroche. A Courfeyrac venne da ridere e Marius lo guardò con occhi increduli: non perché lui stesse ridendo, ma perché di bambini come Gavroche non ne aveva mai incontrati! Courfeyrac non disse nulla: fece spallucce sorridendo e Marius si girò verso il bambino, che intanto continuava a mettere in disordine.  

“E questi?!” Gavroche tirò fuori un paio di boxer rossi, con un buffo disegno di Babbo Natale sulla destra e con scritto in bianco 'Merry Christmas' sul retro.

Marius divenne rosso per l’imbarazzo e non riuscì a rispondere: non li metteva mai, cosa gli era venuto in mente quando li aveva infilati in valigia?

“Te li ha regalati la tua pseudo ex ragazza per Natale, neh?” disse Gavroche con un sorriso divertito.

Si vedeva che Courfeyrac avrebbe voluto ridere, ma si limitò a scambiare uno sguardo con Marius e a dire: “Dai Gavroche: direi che l’hai imbarazzato abbastanza. Per oggi può bastare, non credi?”

Gavroche guardò storto Courfeyrac, sbuffò e gettando i boxer nella valigia disse: “E va bene!” Poi si alzò e andò verso la porta: “Andrò a mangiare qualcosa.” Gavroche aprì la porta e uscì dalla stanza, ma prima di chiudere si girò verso Marius, gli sorrise e gli disse: “Comunque mi sei simpatico!”

Marius rimase un attimo sorpreso. Quante cose bizzarre dovevano ancora capitare in quella giornata?

“Ci farai l’abitudine, credimi!” gli disse Courfeyrac, mettendogli una mano sulla spalla.

Rimasero in camera tutto il pomeriggio a disfare i bagagli e a chiacchierare: Courfeyrac era un tipo molto estroverso e Marius si trovò presto a suo agio con lui. Gli raccontò tutto dei suoi genitori e di suo nonno e Courfeyrac fece altrettanto. Non si accorsero nemmeno che si era già fatta sera.

“Accidenti! Guarda che ore sono!” disse Courfeyrac guardando l’orologio del suo telefono. Poi afferrò una felpa gialla che aveva lasciato sul letto e aggiunse: “Gli altri ci staranno aspettando!”

Marius stava seduto alla scrivania a scrivere qualcosa su un piccolo diario: alzò lo sguardo confuso verso il suo compagno di stanza e disse: “Ci stanno aspettando? A noi?”

“Certo. Tu vieni con me!”

“Oh… emh… no grazie.” Detto questo, Marius ritornò a scrivere.

“Ma come?” La testa di Courfeyrac sbucava per metà dal buco della felpa, quasi si fosse incastrato.

“Non è per cattiveria, credimi. È… è solo che sono successe tante cose oggi e sono un po’ stanco…”

Courfeyrac riuscì a infilarsi la felpa, si avvicinò a Marius e gli disse: “Non serve essere al massimo della forma: gli altri sono tutti ragazzi molto alla mano. Dai! Vedrai che ti piaceranno!”

Marius alzò lo sguardo verso la finestra, sorridendo, poi si girò verso l’altro ragazzo, appoggiando il braccio allo schienale della sedia, e guardandolo disse: “Ti sei accorto che hai messo la felpa al contrario, vero?” Effettivamente il cappuccio della felpa si trovava sul petto di Courfeyrac, invece che sulla schiena.

“Ah già! Ahah! Sono il solito distratto!” disse mentre si sistemava. “Dai vieni di là con me! Lascia almeno che ti presenti!”

Marius rimase a fissarlo per un po’, poi fece un sorriso rassegnato e annuì.

La sala comune del piano si trovava appena in cima alle scale dell’ingresso: era una grande stanza a pianta trapezoidale, con finestre a tutta altezza lungo tutte le pareti. I muri erano dipinti con un caldo color ocra, leggermente aranciato, mentre delle lampade intervallavano le finestre e illuminavano la stanza con luce soffusa.

Quando Marius e Courfeyrac entrarono nella sala c’erano tantissimi studenti di diverse età, tutti occupati a raccontarsi delle loro vacanze estive e di come era andato il primo giorno. Courfeyrac passò in mezzo ad alcuni di loro, salutandoli con la mano, puntando al tavolo all’angolo destro del lato corto della stanza, al quale stavano seduti alcuni ragazzi.

“Combeferre!” gridò tirando Marius per un braccio.

Un ragazzo dai capelli biondo rame alzò lo sguardo dal libro che stava leggendo e si girò verso i due ragazzi. “Ah eccoti!” disse costui togliendosi gli occhiali con esile montatura rossa che portava.

Seduti al tavolo con lui stavano un ragazzino con degli spettinati capelli rossi, un robusto ragazzo completamente pelato con una barba nera lasciata piuttosto lunga e un altro ragazzo più esile con dei folti capelli castani. Essi alzarono lo sguardo contemporaneamente quando il ragazzo che Courfeyrac aveva chiamato Combeferre chiuse il volume per alzarsi e presentarsi al nuovo arrivato.

“Ehi, chi c’è con te?” chiese il ragazzino dai capelli rossi, gli occhi azzurri spalancati dalla curiosità.

“Ragazzi, vi presento il mio nuovo compagno di stanza: Marius Pontmercy” lo annunciò Courfeyrac mettendogli una mano sulla spalla, mentre Marius alzava la mano impacciato come segno di saluto. “Allora, Marius: il sapone col libro è Combeferre; il mingherlino con abiti improponibili è Jean Prouvaire, per gli amici Jehan; il pelato è Lesgle, ma noi lo chiamiamo Bossuet; mentre il finto malaticcio di fianco a lui è Joly” aggiunse Courfeyrac indicando i suoi amici col dito uno per uno.

“S-sapone?” disse Marius confuso, mentre stringeva la mano a Combeferre.

“Sì: Courfeyrac mi chiama così per dire che sono una persona eclettica. Il tuo compagno di stanza ha un vocabolario piuttosto limitato, Marius: te ne renderai conto” disse Combeferre quasi ridendo.

“Ehi non è mica vero! È che sapone è più simpatico!” rispose Courfeyrac in sua difesa. “Se volessi ti chiamerei secchione o sapientone!”

“Ti renderai conto di molte cose stando con noi” disse Bossuet avvicinandosi e passando un braccio attorno alla spalla di Marius, “come del fatto che Joly crede di avere ogni malattia esistente e non esistente al mondo…”

“…o che Bossuet è costantemente a letto per un osso rotto o perché è il primo a prendere l’influenza durante le epidemie” concluse per lui Joly. A Marius veniva da ridere: non si era mai sentito così a suo agio con persone che aveva appena incontrato.

“Ehi! Courfeyrac ha portato a casa un nuovo animaletto?” disse una voce profonda alle sue spalle. Un alto e muscoloso ragazzo, con i capelli castani dal taglio asimmetrico e un grande tatuaggio maori su tutto il braccio destro, arrivò al tavolo assieme ad un altro ragazzo più basso di lui, dai ricci neri e il fisico asciutto: portavano con loro alcuni pacchi di patatine e salatini e qualche bottiglia di birra. “Io sono Bahorel, lui è Grantaire, l’ubriacone del villaggio” si presentò porgendogli la mano.

“Marius Pontmercy, piacere” disse stringendola.

“Non ti offendere per quello che ha detto Bahorel” disse Grantaire stringendo la mano di Marius a sua volta “È solo che Courfeyrac conosce sempre nuova gente con la stessa facilità con cui un bambino si porta a casa un cagnolino o un gattino.”

Courfeyrac mise le mani sulle spalle a Marius, si nascose dietro di lui e disse a Bahorel, facendo la voce da bambino e gli occhi dolci: “Posshiamo tenerlo, paparinooooooo?”

“Ma piantala di fare l’idiota!” disse Bahorel ridendo.

“Bahorel, Joly, Combeferre… perché vi chiamate per cognome?” chiese Marius sorpreso.

“Oh… beh è una storia piuttosto lunga” gli rispose Bossuet.

“Per ora diciamo che è stata tutta un’idea di Courfeyrac” aggiunse Joly.

“Sì, ma non ci ho pensato tutto da solo” disse Courfeyrac a Marius, quasi non volesse prendersi tutto il merito. “La palla mi è stata lanciata!”

“Ecco: a proposito!” Grantaire si guardò attorno, poi si girò verso Combeferre e gli chiese: “E il nostro biondino dov’è?”

“Ha detto che voleva farsi una doccia prima di venire: ormai starà arrivando” gli rispose tirando indietro una sedie due posti più a sinistra di dove stava seduto lui all’inizio, proprio a sinistra di Joly. “Siediti, Marius: raccontaci qualcosa di te. Se ti va, ovviamente.”

 

Era da un po’ che Marius parlava del più e del meno con quel simpatico gruppetto di ragazzi, quando, dalla sala, sentirono alzarsi voci allegre che salutavano qualcuno.

“Ehi che bello rivederti! Come hai passato le vacanze?”

“Non c’è male, dai.”

Nel sentire la sua voce, Combeferre alzò lo sguardo e disse tranquillamente: “Ah! Eccolo!”

Marius guardò Combeferre, poi vide Grantaire sgranare gli occhi e alzarsi in piedi: sembrava quasi emozionato. In realtà tutti, eccezione fatta per Combeferre, sembravano emozionati e felici, mentre Courfeyrac alzò la mano per far segno a qualcuno che si trovavano seduti a quel tavolo.

Marius si girò a guardare chi stesse arrivando e vide un ragazzo con una maglia bianca coperta da un ampio cardigan rosso e dei jeans larghi. Aveva dei lunghi capelli mossi, biondi, raccolti in una coda bassa e dei bellissimi occhi azzurri. Marius si rese conto solo quando fu più vicino che lui quel ragazzo lo aveva già incontrato.

“Ehi, ragazzi!” esclamò il ragazzo biondo.

“Enjolras! Finalmente!” disse Bahorel.

“Che bello rivederti!” aggiunse Jehan, correndo verso di lui per abbracciarlo.

Enjolras sembrò lasciare che Jehan lo abbracciasse, poi disse: “Anch’io sono felice di rivedervi.”

Courfeyrac si alzò dalla sua sedia, facendo alzare anche Marius, e disse: “Tu già conosci Marius Pontmercy, giusto?”

Enjolras e Marius si guardarono negli occhi e si riconobbero. Enjolras sembrava sorpreso, sorrise e disse: “Ma certo: tu sei il ragazzo che è arrivato oggi! Finalmente ci presentiamo. Piacere: Enjolras.” Detto ciò, gli tese la mano e Marius la strinse, ricambiando il sorriso.

Marius rimase a guardarlo per qualche secondo. Aveva sempre detto di non essere in grado di giudicare la bellezza maschile, ma in quel caso, osservandolo meglio, non ebbe dubbi: Enjolras era davvero il ragazzo più bello che gli fosse mai capitato di incontrare.

 


[1] Piccolo tributo al film di Tom Hooper (2012), in cui Courfeyrac si comporta come un fratello maggiore nei confronti di Gavroche.

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Capitolo 9
*** Primo giorno alla Saint-Denis - Enjolras ***


Enjolras

Mentre parlavano, Bossuet aveva recuperato una sedia dal tavolo vicino, in modo che anche Enjolras potesse sedersi assieme a loro.

“Ti sei fatto attendere tutta la giornata. Da quando fai il prezioso, biondino?” disse Bahorel mentre sorseggiava la sua birra direttamente dalla bottiglia.

“Non è che ho voluto fare il prezioso: avevo diverse cosa da fare, quindi sono andato un po’ di corsa, tutto qui” gli rispose Enjolras mentre si sedeva tra Combeferre e Courfeyrac: oramai erano quasi due anni che quello era il suo posto a sedere.

“Ma come mai non sei venuto da noi subito? Non ci vuoi più bene?” Jehan, seduto dall’altra parte di Combeferre, lo guardava con due occhioni da cucciolo bastonato: lui e Jehan erano stati in classe assieme per due anni, e si può dire che in classe fosse stato il suo unico vero amico, quindi il minuto ragazzino si era affezionato a lui particolarmente, Enjolras lo sapeva.

“No, ma che dici?” esclamò subito Enjolras. “Sai che questo non è vero! Semplicemente avevo un sacco di cose da fare e sapendo che tanto ci saremmo visti stasera ho dato priorità al resto.”    Enjolras non era un ragazzo sentimentale, ma sapeva benissimo che con Jehan doveva tirare fuori tutta la dolcezza che aveva. Si accorse che gli altri volevano sapere cosa avesse combinato per tutto il giorno chiuso nella sua stanza, ma non volle dire nulla. Non era una novità: Enjolras era particolarmente riservato, specialmente riguardo al suo passato: nessuno sapeva nulla di lui tranne che fosse l’unico figlio di una famiglia molto prestigiosa. Non parlava mai né dei suoi genitori né di cosa facesse prima di conoscere gli altri: solo Combeferre e in parte Courfeyrac sapevano cosa si nascondesse dietro a quegli occhi sempre assorti in mille pensieri.

Enjolras guardò Combeferre per qualche secondo, tentando di fargli capire solo con uno sguardo che questa curiosità da parte degli altri lo stava facendo agitare: non voleva trattare l’argomento. Combeferre era un po’ il suo braccio destro: Enjolras sapeva che avrebbe capito e che non avrebbe fatto domande. Come volevasi dimostrare, Combeferre annuì e arrivò in suo aiuto, cambiando discorso con una prontezza degna della sua intelligenza: “Se sei in classe con Enjolras, significa che anche tu studi scienze politiche, Marius.”

Marius, evidentemente confuso da ciò che era appena successo, sembrò cadere dalle nuvole quando Combeferre gli rivolse la parola: “Eh? Ah sì… sì proprio così.”

Enjolras recuperò una delle lattine di Coca cola che Grantaire e Bahorel avevano portato apposta per lui, visto che l’esile ragazzo si rifiutava di bere alcool, e mentre la apriva guardò Marius e gli chiese: “Come mai hai scelto scienze politiche?”

Marius rimase un momento in silenzio prima di rispondere: “Perché mi capita spesso di sentir parlare di innocenti accusati ingiustamente e di criminali assolti davanti all’ovvietà dei fatti… mi piacerebbe poter diventare giudice così da poter limitare queste ingiustizie. Non potrò cambiare il mondo, ma voglio fare la mia parte.”

Tutti quanti lo guardarono ammutoliti, poi spostarono lo sguardo su Enjolras, che era sinceramente compiaciuto da quanto aveva appena sentito. Il ragazzo scambiò un’occhiata con Combeferre e Courfeyrac, che risposero al suo sorriso, poi guardò Marius e disse: “Se davvero la pensi così, pare che andremo d’accordo!”

“Attenzione! Freedom paladin mode on!” annunciò Courfeyrac a Marius con qualche strano gesto delle mani, come ad indicare un interruttore che si alza.

Enjolras lo fissò in silenzio, senza parole, poi gli disse: “Non avevo intenzione di dire niente, Courfeyrac!”

“Beh siamo onesti: quando si parla di giustizia, pace e libertà scatti subito come una molla!” gli fece notare Bahorel. “Hai presente quei pupazzi orrendi che si caricano e spuntano fuori dalla scatola chiusa? Ecco: direi che rendono bene l’idea!”

Ad Enjolras parve di sentire Grantaire sussurrare: “Degno figlio della Francia!” Il biondo ragazzo spostò lo sguardo da Bahorel a Grantaire, seduto di fronte a lui, e lo vide sorridere mentre fissava la sua seconda bottiglia di birra già vuota per metà.

Non era sicuro di quello che aveva sentito, ma decise di non farsi distrarre, quindi rispose: “Ho scelto scienze politiche proprio perché credo in questi valori e perché sono sicuro che sia possibile metterli in pratica: bisognerebbe solo imparare ad essere più altruisti. Se tutti lo fossero, il mondo sarebbe un posto migliore!”

“Quindi tu…” prese parte al discorso un po’ titubante Marius. “Tu hai scelto scienze politiche… proprio per entrare in politica?”

“Uh… pessimo errore… ora comincia il sermone!” disse a bassa voce Bossuet, appoggiando la testa sulla mano per la disperazione, anche se Enjolras lo vide essere sul punto di ridere.

“Io direi che ho scelto scienze politiche per riuscire a fare la differenza: troppe cose andrebbero cambiate, ma nessuno muove un dito per farlo, lassù ai piani alti. Si sono adagiati sulla loro bella poltroncina e quindi ignorano che il governo così non funziona. Altri invece si lamentano tanto e poi non fanno nulla di concreto per migliorare la situazione!”

“Che ti dicevo? Eccolo qui il nostro paladino della libertà!” disse sorridendo Courfeyrac a Marius, mettendo una mano sulla spalla ad Enjolras.

“D’accordo, d’accordo! Non parlerò più!” disse Enjolras alzando le mani come in segno di resa.

“No, Enjolras! Non ti offendere…” aveva iniziato a dire Jehan, ma non fece in tempo a finire che Courfeyrac lo interruppe

“Aaaaaaah! Questa sì che è fortuna per le nostre orecchie!” disse il ragazzo dalle orecchie a sventola alzando le braccia come segno di libertà, per prendere in giro Enjolras e smorzare così la tensione.

Capendo la provocazione, Enjolras rispose: “Tsè! Senti chi parla! Pagheremmo tutti oro colato per non sentire la tua voce ogni secondo della giornata!”

“Ma che dici? Io non parlo mica così tanto!” cercò di difendersi Courfeyrac.

“Tu credi?!” disse ironico Bahorel. “Ti sentiamo parlare persino di notte! Io non capisco come tu faccia a non perdere mai la voce!”

“Ah-ah! La simpatia fatta persona! Dobbiamo parlare di te mister ‘russamento molesto’?” disse Courfeyrac puntandolo con un dito accusatorio, ma sempre con fare da buffone.

Enjolras sembrava essersi calmato quando si accorse di essere osservato: d’istinto alzò lo sguardo verso Grantaire che, forse facendo finta di nulla, distolse lo sguardo da lui e prese parte al discorso. “Effettivamente russi da spavento, Bahorel” gli disse il ragazzo dai riccioli neri appoggiandosi allo schienale della sedia e prendendo un altro sorso dalla sua bottiglia di birra. “Dividiamo la stanza solo da quattro anni, e direi che sono sufficienti per realizzare quanto russi forte!”

“Non che tu sia esattamente silenzioso, R!” lo accusò Bahorel, arruffandogli i capelli. “E poi un uomo che non russa che razza di uomo è?”

“Oh… allora non posso definirmi un uomo?” chiese Jehan stringendo la sua lattina di Coca cola con due mani. Bahorel, seduto accanto a lui, lo scrutò attentamente. Enjolras sapeva a cosa stesse pensando Bahorel: Jehan aveva sedici anni, sembrava una ragazzina e non aveva nemmeno cambiato la voce, ancora, come poteva pensare di essere un uomo?

“Non stare ad ascoltarlo: parla perché ha la bocca” disse Enjolras, andando in aiuto a Bahorel. Lui e Combeferre li conoscevano tutti come le loro stesse tasche e ormai riuscivano a capire e prevedere tutte le loro reazioni. Sapeva che a Bahorel parlare con lui veniva più semplice rispetto che a Jehan, nonostante i due ragazzi avessero la stessa età.

“Dici così solo perché nemmeno tu russi, biondino! Ho forse ragione?” disse Bahorel indicandolo con la bottiglia.

“Forse sì, forse no. In ogni caso non lo saprai mai!” fu la risposta di Enjolras.

“Combefeeeeeerre!” Bahorel si rivolse cantilenante al compagno di stanza del ragazzo, sperando in una risposta.

“Non ti è dato saperlo” gli rispose prendendo una delle patatine che Bahorel e Grantaire avevano recuperato prima dalla cucina.

“Accidenti che noioso!” Bahorel mise un finto broncio e incrociò le braccia. “Almeno cambia formulazione! Non puoi rispondere ‘non vi è dato saperlo’ ogni volta che vuoi uscire da una situazione scomoda!”

“Non funzionerà” lo avvisò Combeferre. “Io non lo tradirò”

“Re Artù e il suo fedele cavaliere Lancillotto!” esclamò Courfeyrac, alzandosi in piedi e tirando avanti il braccio come se stesse reggendo una lunga spada.

Gli altri sembrarono tutti confusi, poi Enjolras prese la parola: “Che cosa… stai dicendo?”

“Ma sì, guardaci!” iniziò a spiegarsi Courfeyrac. “Tutti qui seduti attorno a questo tavolo rotondo, lui che dice che non ti tradirà… fa molto ‘Re Artù e i cavalieri della tavola rotonda’!”

“Tu sai che alla fine Lancillotto diventa l’amante della regina Ginevra e getta Artù nella disperazione, facendo così crollare l’intera Camelot, vero?” disse Combeferre guardandolo storto.

Courfeyrac restò immobile e in silenzio per qualche secondo, quasi non lo sapesse, e poi guardò Combeferre e gli disse: “Ma mica Lancillotto si sacrifica per impedirgli di morire?”

“Courfeyrac… l’abbiamo già fatto questo discorso…” iniziò Combeferre, sospirando. “La serie tv ‘Merlin’ non è la storia originale di Re Artù, chiaro?”

“Ah… peccato, mi piaceva la parte di Merlino per me!” disse quasi deluso Courfeyrac.

“Oh no! Combeferre è molto più adatto come Merlino di te!” disse Jehan, tutto esaltato che si stesse parlando di qualcosa che conosceva bene. “Lui è saggio e sa tante cose, tu non sei per niente così… senza offesa!”  

“Certo… e chi si offende!” disse Courfeyrac, anche se si vedeva che la cosa un po’ lo aveva ferito.

“Enjolras è perfetto come Artù!” proseguì Jehan. “Lui è il nostro leader, in fondo, e anche lui, come Artù, è affezionato al valore dell’uguaglianza! Tu però, Courfeyrac, saresti Lancillotto, che effettivamente era il più fedele dei cavalieri di Artù, salvo lo sgambetto finale, certo…”

“Nah! Con Enjolras non ci sarebbe rischio! Lui non si è mai innamorato!” lo prese in giro Bossuet, mentre metteva un braccio attorno a Joly e lo guardava. Effettivamente Enjolras sembrava non comprendere quale senso potesse avere il romanticismo e a volte pareva quasi che ne fosse addirittura allergico, ma guardando Joly e Bossuet scambiarsi tenerezze in quel momento, stranamente gli venne da sorridere: sapeva quanto si erano mancati e non li avrebbe fermati.

“Oh merda!” esclamò Joly quando gli cadde lo sguardo sull’orologio che Bossuet aveva al polso. Gli prese il braccio sinistro, che il ragazzo pelato teneva appoggiato sul tavolo, in modo da avvicinarlo a sè, si tirò leggermente verso il viso del suo ragazzo per leggere meglio l’ora e poi disse: “È già passata l’ora di cena!”

“Ma come? Di già?” disse Courfeyrac. A tutti venne istintivo guardare l’orologio, chi sul telefono e chi quello che aveva al polso.

“Umh… bene… chi cucina?” disse Enjolras guardando uno ad uno i suoi amici negli occhi. Nessuno rispose: lo scorso anno scolastico c’era stato Feuilly ad occuparsi di questo genere di cose; ora che lui non viveva più lì, Enjolras stava già pensando che avrebbe dovuto preparare dei turni anche per cucinare oltre a quelli fatti in precedenza per chi doveva lavare piatti e pentole.

“Possiamo sempre uscire” propose Grantaire.

“A quest’ora trovare un posto in zona diventa difficile” disse Joly, guardando di nuovo l’orologio di Bossuet. “Non conviene nemmeno andare lontano perché rischiamo di rimanere a piedi: sono già le nove, in fin dei conti.”

“Ma scusate…” provò a proporre Marius “…giù c’è il ristorante dell’albergo… non si potrebbe scendere lì?” Ai ragazzi scappò una risata, ma senza cattiveria.

“Si vede che sei nuovo e che non hai ancora provato la cucina di madame Thénardier!” gli disse con tranquillità Enjolras. “Stasera servirà il polpettone e non lo consiglierei nemmeno al mio peggior nemico, credimi!”

“Perché? È davvero così orribile?” chiese Marius.

“Oh no, anzi! A mangiarlo sembra saporito e gustoso!” gli spiegò Courfeyrac appoggiandosi con il gomito alla sua spalla. “Ma una volta, un paio d’anni fa, io e Enjolras stavamo inseguendo il gatto di Gavroche e siamo finiti in cucina, proprio la sera del polpettone. Siamo inciampati dietro al bancone accanto alla porta di servizio, quindi lei non ci ha notati…” La voce di Courfeyrac si fece cupa, quasi come dovesse raccontare una storia di fantasmi, e proseguì: “Ma noi da lì la vedevamo fin troppo bene. È impossibile descrivere quello che vedemmo: in quel polpettone c’è qualsiasi cosa!”

Enjolras sentì l’impulso di sorridere ad osservare Marius che guardava Courfeyrac con due occhi sconvolti.

“C… cosa c’è lì dentro?” chiese il nuovo arrivato senza staccare gli occhi dal volto tetro di Courfeyrac.

“Beh” riprese l’altro, “nessuno lo sa. Ma ti dico solo una cosa: dopo aver visto quella poltiglia uscire dal tritacarne, abbiamo trovato il gatto… e gli mancava la coda! [1]” Gli occhi di Marius si spalancarono per lo stupore, poi Courfeyrac riprese: “Io e Enjolras non abbiamo toccato cibo per due giorni, dopo quell’avventura.”

“E dopo che ce l’hanno raccontato non siamo più scesi a quel ristorante” concluse Joly. “Coda di gatto nel cibo… oltre ad essere disgustoso non è neppure igienico!”

Bossuet si sporse oltre Joly, guardò gli occhioni verdi di Marius spalancati per lo shock e prese in mano la situazione per cambiare discorso, nonostante stesse praticamente soffocando pur di sforzarsi a non ridere: “Allora che ne dite di ordinare una pizza?”

“Potrebbe essere un’idea” appoggiò Enjolras. Poi si alzò in piedi e disse agli altri: “Quelli a favore?” Una volta visto che il voto era unanime, Enjolras si allontanò per prendere un blocchetto e una penna per scrivere e un elenco telefonico; poi, dando blocco e penna a Combeferre, disse: “Bene: Combeferre, per favore, prendi nota di quali pizze vogliono gli altri.” Tese l’elenco a Grantaire e gli disse: “Grantaire, tu invece guarda se c’è qualche pizzeria che conosci a cui potresti strappare un buon prezzo. Io vado ad apparecchiare di là.”

Tutti si avventarono su Combeferre per dirgli che pizza volevano, tranne Grantaire che continuò a sfogliare l’elenco e Marius che aspettava timidamente il suo turno.

“Fatemi respirare, accidenti! Allora, vediamo: Courfeyrac la solita con peperoni, Bahorel salsiccia e cipolla e Bossuet e Joly con prosciutto.”

“Vengo ad aiutarti!” disse Jehan, alzandosi per andare con Enjolras in cucina. Si fermò davanti a Combeferre, gli sorrise dolcemente e gli disse: “Per me una con le verdure, per favore!”

“Subito. Per te cosa, Enjolras?” urlò Combeferre verso la cucina.

“Pomodoro e mozzarella liscia, tranquillo!” fu l’urlo che gli arrivò in risposta: Enjolras dalla cucina poteva sentire ancora piuttosto nitidamente le voci degli altri.

“Per te cosa, Marius?”

“Anche per me una margherita, grazie mille.”

“Marius sembra simpatico, non credi?” Quando sentì che qualcuno gli stava parlando, Enjolras si girò di scatto e vide Jehan entrare in cucina.

“Sì. Sembra un bravo ragazzo.” Gli rispose Enjolras, tornando a cercare una tovaglia pulita nel vecchio cassetto del bancone vicino al forno. Una volta trovata la tovaglia, il biondo leader la stese sul tavolo e si fece passare le posate da Jehan, in silenzio: si riusciva a sentire Grantaire che cercava di convincere il dipendente di una certa ‘Pizzeria Rialto’ a fargli un buon prezzo.

Poi Jehan riprese: “Pe-pensavo…”

“Cosa?” disse Enjolras ruvidamente, senza voltarsi.

Jehan deglutì e poi continuò, completamente rosso dalla timidezza: “P-pensavo che potremmo inserirlo nel gruppo… insomma, è in classe con te e dorme in stanza con Courfeyrac… in questo modo non ci vorrà molto ora che… emh… si ambienti …”

“Mi sembra una buona idea” lo interruppe l’altro continuando ad apparecchiare. “Dopo glielo dirò: penso a tutto io, non preoccuparti.”

Jehan ora era più tranquillo: rimase in silenzio a guardare Enjolras, poi sorrise ed esclamò felice: “Fantastico!” dopodiché ripiombò di nuovo il silenzio. Jehan restò ancora a fissarlo, quasi fosse preoccupato. “Enjolras?”

“Sì?”

“Q-qualcosa non va? Sei triste?” A sentire queste parole, Enjolras si bloccò. Sì, era triste, ma non gli andava di parlarne, soprattutto non con Jehan: lo avrebbe rattristato troppo, probabilmente.

Cercò in tutti i modi di abbozzare un sorriso il più possibile sincero e si girò per rassicurare il suo amico: “No. Va tutto bene, davvero!”

 

La serata trascorse tra risate e aneddoti passati, grazie ai quali il gruppo ebbe modo di iniziare a conoscere Marius e viceversa. Prima che se ne accorgessero, si era già fatta l’ora di andare a dormire. I primi a ritirarsi furono Joly e Bossuet, che corsero in camera subito perché Joly non poteva assolutamente rischiare di perdere le sue preziose otto ore di sonno, e Jehan, che andò nella sua stanzetta a leggere un po’. Gli altri rimasero ancora a parlare diversi minuti, finché non notarono che era già quasi mezzanotte, quindi si avviarono anche loro verso le loro stanze. La camera di Bahorel e Grantaire era di fianco a quella di Marius e Courfeyrac, proprio all’inizio del corridoio, invece Combeferre e Enjolras avevano la stanza più in fondo, quindi si salutarono lì.

Combeferre entrò per secondo e chiuse la porta che Enjolras era già senza maglietta, pronto ad infilarsene una larga e lunga che usava come pigiama. Anche Combeferre aveva iniziato a cambiarsi. Come ogni sera, Éponine aveva già acceso le abat-jour dei due comodini e nella stanza c’era una luce soffusa che illuminava appena i loro volti.

 “C’è qualcosa che non mi hai detto, vero?” gli chiese Combeferre mentre si sbottonava la camicia.

“Che vuoi dire?” chiese in risposta Enjolras togliendosi i jeans sotto la lunga maglietta blu scuro.

“Andiamo, Enjolras! Ho imparato a conoscerti troppo bene per non capire che mi stai nascondendo qualcosa. Mi basta un’occhiata ormai!” Combeferre rimase lì, in piedi a fissarlo con la camicia sbottonata per metà.

Enjolras lo fissò dritto negli occhi per qualche secondo, poi sospirò, si sedette sul suo letto e mentre si toglieva le calze disse: “Detesto essere un libro aperto per te!”

Enjolras gettò le calze a terra e serrò i pugni sulle ginocchia abbassando la testa, sapendo che Combeferre lo stava guardando. Enjolras davanti agli altri era sempre sicuro e fiero: girava a testa alta e mai si mostrava in difficoltà. Ma quando lui e Combeferre rimanevano soli, quell’aura sovrumana che lo circondava in ogni istante della giornata sembrava abbandonarlo sotto il peso della stanchezza e lui tornava ad essere umano, mostrando tutte le sue fragilità nascoste.

Combeferre si avvicinò, si mise in ginocchio davanti al biondino, in modo da poterlo vedere in viso, poggiò le mani sulle sue spalle e gli disse, sorridendogli dolcemente: “Vuoi parlarne?” Enjolras sapeva che Combeferre conosceva già la risposta, ma d’altro canto immaginava che glielo avrebbe chiesto ugualmente.

Si limitò a sorridergli a sua volta e a dirgli: “Adesso è tardi: conviene andare a letto… magari domani.”

Combeferre rimase a guardarlo dubbioso, quasi triste: quel ‘magari domani’ voleva dire che non glielo avrebbe detto per davvero e Enjolras era sicuro che Combeferre lo sapesse molto bene. Notò che era sinceramente preoccupato, quindi prese le mani di lui tra le sue, gli sorrise sinceramente e gli disse: “Tu sei il mio migliore amico: credimi quando ti dico che se avrò bisogno di parlartene lo farò. Con me sei sempre molto dolce e paziente… e lo apprezzo, credimi... ma per ora non me la sento: ti chiedo solo di rispettare la mia decisione e di portare ancora un po’ di pazienza, ti prego…” Per Enjolras stare lì, con le mani su quelle dell’amico, era molto strano: il biondino non amava il contatto fisico e stare troppo vicino ad una persona lo imbarazzava, spesso lo metteva seriamente in difficoltà. Ma con Combeferre era diverso: il ragazzo dai capelli biondo rame non nascondeva i suoi sentimenti come faceva lui, quindi Enjolras si era abituato alle sue dimostrazioni d’affetto, tanto che il biondino, a volte, si lasciava andare con lui.

Combeferre continuò a guardarlo per qualche istante, poi sospirò, abbassò le mani, scosse il capo e disse: “Va bene: non voglio forzarti a dirmi nulla se non ti va, non ne ho il diritto. Però sai come la penso.”

“Sì, lo so: ogni tanto dovrei sfogarmi perché a furia di tenermi tutto dentro finirò con l’esplodere” disse Enjolras quasi cantilenando: Combeferre glielo aveva detto almeno un milione di volte.

“Non fare così, lo dico per il tuo bene!”

Enjolras non riuscì a trattenersi dal sorridere al vedere che Combeferre gli voleva tanto bene da discutere con lui. Gli mise una mano sulla spalla, con l’altra spostò indietro il ciuffo di capelli biondo rame che aveva sulla fronte e vi pose sopra un bacio. “Lo so bene e ti ringrazio per questo” gli disse poi. “Ma sto bene, davvero. Va’ a dormire e non preoccuparti per me.”

Combeferre si alzò e riprese a spogliarsi così da poter mettere il pigiama. Enjolras si infilò sotto il lenzuolo e si tolse l’elastico, in modo da sciogliersi i lunghi capelli. Quando ebbe finito, anche Combeferre si mise sotto le lenzuola nel suo letto e spense subito la luce. Poi guardò Enjolras e gli disse: “Non riuscirò a dormire per colpa della tua testardaggine! Mi farai stare in pena tutta notte!”

Enjolras si stava scompigliando un po’ i capelli per togliere gli eventuali nodi, poi si girò verso Combeferre e quasi ridendo gli disse: “Io non credo che sarà così!”

Combeferre lo guardò storto, poi si appoggiò al cuscino, coricato su un lato, rivolto verso il centro della stanza. Non appena la sua testa toccò il cuscino, Enjolras recuperò la sveglia che aveva sul comodino e sussurrò: “Tre… due… uno…” Alzò lo sguardo e chiamò: “Combeferre? Mi senti?”

Nessuna risposta arrivò: come si aspettava, Combeferre era già sprofondato nel mondo dei sogni. “Puntuale come un orologio svizzero: lo dicevo io che non saresti stato sveglio!” disse posando la sveglia. Poi si alzò e uscì piano dalla stanza; andò verso la stanza 005 e aprì cautamente la porta: come si aspettava, Jehan, che aveva chiesto di poter avere una stanza singola perché era abituato a dormire da solo a casa sua, si era addormentato tutto rannicchiato su un lato mentre leggeva.

Enjolras, pazientemente, gli sollevò la testa e sfilò il libro, facendo attenzione a non chiuderlo prima di aver infilato il segnalibro; poi gli sollevò le gambe e lo coprì con le lenzuola, quindi recuperò l’orsetto di peluche di Jehan e glielo mise tra le braccia, infine si alzò e spense la luce. Ormai lo faceva tutte le notti da quando aveva scoperto che Jehan si addormentava leggendo, ma la cosa non gli dava fastidio. Tornò a letto, sperando di riuscire a dormire un po’: Enjolras era sempre l’ultimo ad addormentarsi tra i suoi amici e capitava, a volte, che rimanesse anche ore sveglio nel letto, immobile a riflettere.

Quella notte non fu una di quelle: rivolto verso il muro, con una mano sotto al cuscino, stette diversi minuti immerso nei suoi pensieri che tanto lo rattristivano. Poi pensò che i suoi amici, coloro che per lui erano una famiglia, erano lì con lui e riuscì ad addormentarsi sereno, pensando che il domani poteva solo essere migliore.

 

 

 

– Fine capitolo 1 –

 


[1] Riferimento al musical, in cui i Thénardier, durante “Master of the house”, cantano: “Food beyond compare - Food beyond belief - Mix it in a mincer - And pretend it's beef - Kidney of a horse - Liver of a cat - Filling up the sausages - With this and that.” Nell’edizione cinematografica, i due locandieri mettono realmente ogni cosa in un tritacarne.

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Capitolo 10
*** Attenti allo squalo! - Enjolras ***


Enjolras

La prima cosa che Enjolras sentì quella mattina fu il suono della sua sveglia.

I raise my flags, don my clothes, It's a revolution, I suppose, We'll paint it red to fit right iiiiiin, whoooooa

Come sentì il suo cellulare suonare, ancora un po’ intontito, si girò sull’altro fianco e cercò di spegnere la sveglia poggiandosi sul braccio destro e allungando quello sinistro.

I'm waking up, I feel it in my boooones. Love to make my systems gooo. Welcome to the new age, to the new age. Welcome to the new age, to the n

Finalmente spento. Poi guardò la vecchia sveglia sul comodino, quasi volesse essere sicuro dell’orario nonostante sapesse perfettamente che erano le sette e mezza. Quel vecchio orologio spaccava il secondo, dato che Éponine lo controllava spesso perché fosse sempre funzionante; Enjolras, però, si era rifiutato di usarlo come sveglia: ci aveva provato solo una volta e l’insopportabile frastuono prodotto dallo sbattere del martelletto sulle due campanelle arrugginite aveva reso il risveglio di quella mattina il peggiore che il ragazzo avesse mai avuto nella sua vita. La cosa che più lo aveva sorpreso quella volta fu che Combeferre non si fosse accorto di nulla: solo poi aveva imparato che effettivamente nemmeno un cannone lo avrebbe svegliato.

Come volevasi dimostrare, neanche quella mattina Combeferre aveva sentito la sveglia e stava ancora dormendo nella stessa identica posizione in cui Enjolras ricordava di averlo visto addormentarsi. Le prime volte, ad Enjolras era anche venuto il terrore che Combeferre fosse morto nel sonno, ma oramai ci aveva fatto l’abitudine. Si sedette sul letto, si stiracchiò e si strofinò gli occhi. Rimase per qualche istante a guardare verso la finestra: la luce che filtrava dalle fessure delle persiane ancora chiuse gli scaldava il viso, procurandogli una sensazione davvero piacevole. Diede un’altra occhiata all’orologio: erano già passati cinque minuti, quindi si alzò e si diresse subito in bagno per sistemarsi.

Una volta che si fu legato i capelli nella sua solita coda bassa, uscì e guardò Combeferre: era proprio ora di svegliarlo. Si rimboccò le maniche e si preparò all’azione: chissà quanto ci avrebbe messo a svegliarlo, stavolta!

Per prima cosa, Enjolras aprì le persiane, in modo che il sole alto ad est entrasse prepotente nella stanza, ma Combeferre non si mosse. Poi decise di provare a scuoterlo: “Combeferre? Combeferre! Dai, che si fa tardi! Ti prego, svegliati!”. Ancora nulla. Provò anche a mettere un po’ di musica, ad alzare il volume della voce, a togliergli le lenzuola, a fare rumore spostando oggetti e sbattendo le ante dell’armadio: niente, nemmeno un grugnito. Alla fine, Enjolras si decise ad usare i metodi drastici: prese il bicchiere contenente spazzolini e dentifricio, lo vuotò, lo riempì d’acqua gelata, andò verso Combeferre, si sedette affianco a lui e *SPLASH*: gli buttò tutta l’acqua dritta in faccia.

“AH! CHE CAZZO, ENJOLRAS!” Finalmente Combeferre era sveglio. “Era gelata! Che ti è saltato in mente?”

“Non volevo essere così drastico, ma tu non ti svegliavi!” disse Enjolras giustificandosi.

“Ho capito, ma c’era bisogno di arrivare a tirarmi l’acqua in faccia?!”

“Ho cercato di svegliarti per quindici minuti, non sapevo più che cosa inventarmi.”

“Quindici minuti! Non esagerare, dai!” rispose stordito Combeferre, mentre si asciugava la faccia e i capelli biondo rame con le lenzuola. Enjolras non disse nulla: si limitò a guardare l’altro con occhi increduli, ad alzarsi e a porgergli la sveglia per mostrargli l’orario. Combeferre si girò verso di lui e poi guardò il vecchio orologio; cercò di leggere l’ora, strizzando gli occhi per vedere meglio, e quando ci fu riuscito sembrò imbarazzato, quasi si sentisse in colpa. “Ah… beh. Emh… visto che tu alle sette e mezza sei sempre in piedi… direi che puoi averci messo un quarto d’ora per davvero” disse ridandogli la sveglia “Ma questo non ti giustifica! Ci sono metodi molto meno barbari!”

“Beh!” iniziò Enjolras riportando la sveglia al suo posto. “Il lato positivo è che non ti devi lavare la faccia! Questo ti fa risparmiare un po’ di tempo!” concluse sorridendogli.

Combeferre rimase a guardarlo senza parole per il nervoso per diversi secondi, quasi volesse strangolarlo, ma a guardare l’amico sorridere gli venne da ridere: “Effettivamente non fa una piega!”

Enjolras aveva iniziato a vestirsi quando si girò a guardare Combeferre e lo vide che si stava per riappoggiare al cuscino. “Guai a te se ti stendi di nuovo!” gli disse subito con tono arrabbiato.

“Va bene, va bene. Mi alzo.” Detto questo, Combeferre si alzò e andò verso il bagno sotto lo sguardo severo e allarmato di Enjolras, che stava immobile a fissarlo. “Finisci di cambiarti e vai pure di là a fare colazione. Se non arrivo sei autorizzato a lasciarmi qui.”

Senza togliergli gli occhi di dosso, Enjolras gli rispose: “Tu sai che non riuscirei a lasciarti qui, sapendo che per te è importante andare a lezione!”

“Sì, certo che lo so: ti conosco bene! Ma vedrai che non mi rimetterò a letto!” si sentì dire dal bagno. Non udendo risposta, Combeferre mise la testa fuori dal bagno, guardò Enjolras sorridendo e aggiunse: “Te lo prometto!” Enjolras decise di fidarsi: sapeva bene che Combeferre mai aveva né mai avrebbe tradito una promessa fatta. Si abbottonò i pantaloni rossi, recuperò una maglia grigia e uscì dalla stanza. Il profumo di caffè si diffondeva attraverso i corridoi del primo piano mentre Enjolras si avviava verso la cucina. Gli altri erano già tutti seduti al solito tavolo all’angolo a gustare la colazione.

“Ah! Buongiorno, biondo leader!” esclamò Courfeyrac come lo vide entrare nella sala; tutti si girarono a salutarlo, chi con un allegro ‘buongiorno’ e chi semplicemente con un cenno. “È stata dura svegliare il sapone, oggi, eh?” aggiunse battendo leggermente la mano sulla sedia vuota accanto a lui, come segno ad Enjolras di sedersi.

“Oggi è stato infernale… ogni volta è sempre peggio, come se il suo organismo sviluppasse degli anticorpi contro i miei metodi di risveglio…” rispose Enjolras esasperato mentre si sedeva. Non erano ancora le otto e lui si sentiva già distrutto.

Marius si tirò in avanti, sbucando da dietro Courfeyrac per guardare Enjolras e gli chiese: “Hai dormito male? Mi sembri stanco…”

Enjolras si sorprese dalla domanda, ma gli fece piacere che Marius si fosse preoccupato per lui. “Non più del solito. Mi serve solo qualche minuto per svegliarmi del tutto, non preoccuparti!” rispose sorridendogli.

“In effetti però la tua faccia è parecchio stravolta rispetto al solito” gli fece notare Bahorel, con un braccio poggiato allo schienale della sedia e nell’altra mano la sua solita tazza di caffè. Courfeyrac guardò fisso Bahorel per un istante, poi si girò verso Enjolras, che nel frattempo stava riempiendo la sua tazza rossa con un po’ d’acqua calda, e si avvicinò al suo volto, fissandolo da molto vicino per qualche secondo, come stesse cercando qualcosa di molto piccolo.

“Che… che fai?” venne da chiedere ad Enjolras che smise improvvisamente di versare l’acqua, messo completamente a disagio dalla vicinanza del volto del suo amico: non aveva nessun tipo di problema con Courfeyrac, ma essere fissato da così vicino lo metteva in imbarazzo.

“Umh…” fu l’unica cosa che disse Courfeyrac; stette in silenzio per qualche istante e poi aggiunse: “A me sembra che abbia la solita faccia stanca di tutte le mattine, Bahorel! Niente di nuovo!”

Enjolras, incredulo, ci mise un po’ a trovar le parole: “E ti serviva venire così vicino per accertartene?” Poi sentì Bossuet ridacchiare e si girò verso di lui: lo vide tirato indietro sulla sedia, con il braccio destro posto sullo schienale di quella di Joly. “Che cosa c’è?” fu tutto ciò che gli venne da chiedergli.

“Nulla! Mi diverte vedere come ti imbarazzi con poco!” gli rispose continuando a ridacchiare. “Non è successo niente, in fin dei conti!” Poi prese un sorso di caffè bollente, ma fu breve e seguito da un leggero gemito a bocca chiusa.

“Non ti sarai mica scottato ancora la lingua?!” disse Joly girando la testa verso di lui mentre stava con i gomiti appoggiati sul tavolo, reggendo con entrambe le mani la sua tazza di Doctor Who, sulla quale era dipinta la scritta ‘Trust me, I’m a doctor!’

“A-ah! Fa un po’ male!” gli rispose indicandosi la lingua.

“Ti succede tutte le mattine in cui bevi il caffè: non puoi aspettare che si raffreddi?” Mentre pronunciava queste parole, Joly versò pazientemente un po’ della spremuta d’arancia nel bicchiere del suo ragazzo: si capiva ad occhio che era ancora fresca.

“Ma il caffè a me piace caldo…” disse Bossuet guardando Joly come un cagnolino che viene sgridato dai suoi padroni. Mentre gli porgeva il bicchiere, Joly lo guardava con occhi severi, quasi esasperati, ma non ci volle molto tempo prima che gli venne da sorridere.

Per un attimo, Enjolras si sentì come osservato e la sua attenzione, d’istinto, si spostò dalla coppietta a Grantaire, seduto tra loro e Bahorel. Gli parve di vederlo spostare lo sguardo sulla fetta di pane sopra la quale stava spalmando un po’ di Nutella: gli sembrava un po’ distratto quella mattina, ma aveva un sorriso dolce sul viso, quindi pensò non ci fosse da preoccuparsene… o forse sì?

Non fece in tempo a chiedergli nulla che Grantaire guardò verso Jehan, dall’altra parte di Bahorel, e gli disse: “Jehan, non stai esagerando con lo zucchero nel tè?” Enjolras notò che era già il terzo cucchiaio colmo di zucchero che il minuto ragazzo versava nella sua bassa tazza in porcellana, dipinta con fiorellini rosa.

“Non ci posso fare nulla… a me piace dolce!” gli rispose Jehan, con un sorriso innocente

“Cerca di non esagerare: non ti fa bene troppo zucchero” diede man forte Combeferre a Grantaire con tutta la dolcezza di cui era capace, mettendo una mano sulla spalla a Jehan; gli altri lo salutarono e lui andò a sedersi dall’altra parte di Enjolras, come accadeva la maggior parte delle volte.

Enjolras tentò di nuovo di parlare con Grantaire, ma la sua attenzione venne attirata da Courfeyrac, che proprio in quell’istante stava allungando il braccio davanti al suo naso per prendere quello che sembrava essere il suo quarto panetto di burro, a giudicare dalle piccole cartine aperte accanto alla sua tazza dipinta con buffi alieni, riempita fino all’orlo di latte e Nesquik. “Ah, ciao sapone!”

“Non c’è un po’ troppo cioccolato nel tuo latte?” gli fece notare Combeferre recuperando la scatola di fiocchi d’avena al centro del tavolo mentre guardava dritto nella tazza di Courfeyrac.

“Io direi che la vera domanda è: come accidenti fai a mangiare tutto quel burro?! Rischi di star male!” gli disse Joly inorridito, mentre puliva la maglietta che Bossuet aveva avuto cura di macchiarsi col caffè bollente.

“Ma lascialo fare! Si agita talmente tanto che lo smaltisce subito!” disse in sua difesa Bahorel, indicandolo con la tazza in mano.

“Tu, però, non hai la scusa che ti agiti…” fece notare Joly, fissando il piatto colmo di brioches e fette di pane e burro accanto al braccio di Bahorel. “Come mi giustifichi tutta quella… montagna di zuccheri e grassi che hai nel piatto?”

Bahorel gettò un’occhiata alla sua colazione, poi tornò a guardare Joly, fece spallucce e disse, piuttosto compiaciuto: “Io posso!”

Enjolras fu quasi sicuro di aver visto con la coda dell’occhio Marius fare un’espressione strana con la faccia mentre i suoi occhi scrutavano Bahorel, come a dire ‘beh non ha torto’. Joly lo guardò stupefatto e gli rispose: “Ma è come un suicidio in diretta! Esploderai a mangiare tutta quella roba!”

“Ma figurati! Io posso mangiare tutta questa roba esattamente come Jehan può bere tè allo zucchero!”

Joly, a quel punto, spostò gli occhi su Jehan, intento ancora a riempire la sua tazza di tè con cucchiaiate ricche di zucchero. Poi tornò a guardare Bahorel. “Gli farà male: non devi viziarlo!”

“Ma che viziarlo e viziarlo?!” disse Bahorel quasi ridendo. “Il mio ragionamento è semplice: se non ci si può nemmeno godere la colazione in santa pace allora siamo alla frutta!”

“Beh non fa una piega!” disse Courfeyrac addentando la sua fetta di pane piena di burro. Enjolras notò che durante la discussione, Courfeyrac ci aveva aggiunto della marmellata di fragola… molta marmellata di fragola.

“Onestamente sono preoccupato anch’io per il vostro fegato, ma direi che è un problema vostro, non mio.” Detto ciò, Combeferre riprese a mangiare lentamente i suoi fiocchi d’avena.

“Ma ascidenti come shiete noioshi voi futuri medisci!” disse Courfeyrac con la bocca piena. Poi deglutì faticosamente e aggiunse: “Tu che ne pensi, Enjolras?”

Enjolras rimase sorpreso che Courfeyrac avesse rivolto a lui quella domanda. Perché lo stava chiedendo proprio a lui? Era già un miracolo che quella mattina stesse riuscendo a finire il suo tè mangiando un paio di biscotti: come poteva dargli ragione? “Non mettermi in mezzo” si limitò a dire, tornando a sorseggiare il suo tè. “Non è un discorso che mi interessa.”

“Ma difensore della libertà del popolo! Non puoi abbandonarmi così!” Enjolras pensò che Courfeyrac doveva aver capito che per lui non era esattamente una buona giornata, perché non insistette oltre. I due ragazzi erano molto amici: ormai entrambi sapevano capire con una semplice occhiata che cosa stava passando l’altro. A quel punto, dopo che si furono guardati negli occhi per pochi secondi, Courfeyrac si rivolse a Marius: “Tu invece che ne pensi?”

Enjolras notò che Marius era parecchio sovrappensiero, perché continuava a girare il cucchiaio in senso orario nella ciotola piena di latte e non si accorse nemmeno che Courfeyrac stava parlando con lui. Lanciò un’occhiata a Combeferre e si rese conto che anche lui si era accorto che qualcosa non andava. Come sempre, non gli servì dire nulla: fecero entrambi un cenno con la testa all’altro e Combeferre guardò il suo orologio da polso, probabilmente pensando ad un modo per interrompere il discorso. Poi si rese conto dell’ora ed esclamò: “Accidenti che ora si è fatta!”

Enjolras gli prese il braccio e guardò l’ora: erano già le otto e un quarto. “Merda! Dobbiamo muoverci o faremo tardi!” disse alzandosi in piedi. Come si alzò, tutti lo seguirono e si diressero nelle loro stanze per recuperare borse e zaini per affrontare la giornata di scuola. Fu allora che Marius parve destarsi dal suo stato di trance e si guardò attorno confuso; Enjolras gli arrivò dietro e gli mise una mano sulla spalla, poi gli passò di fianco e gli sorrise. “Vieni?”

 

Il sole batteva forte in quella giornata di settembre e c’era molta vita nel piccolo comune a nord di Parigi: gli uccelli cinguettavano e si rincorrevano tra gli alberi dei giardini e molte persone affollavano marciapiedi e riempivano le strade con le loro auto, dirette al lavoro o a scuola.

Mentre camminavano verso scuola, Enjolras rimase a chiudere la fila assieme a Jehan e Marius. Dal fondo della fila riusciva a vedere Bossuet e Joly camminare mano nella mano, Bahorel e Grantaire parlare animatamente di qualcosa che non riusciva a sentire e Courfeyrac strattonare Combeferre, come se gli stesse chiedendo qualcosa; ogni tanto correva anche dagli altri, ma il biondo leader del gruppo non riusciva a capirne bene il motivo. Enjolras guardò Jehan camminare felice e osservare ora le poche nuvole bianche che correvano nel cielo ora le piante che spuntavano dai recinti; poi spostò lo sguardo su Marius e lo vide ancora distratto: non riusciva a capire se fosse semplice stanchezza oppure se ci fosse qualcosa che non andava.

“Allora Marius:” cominciò camminandogli accanto, “come hai passato la tua prima notte alla residenza?”

Marius si girò verso di lui e lo guardò con un’espressione tipica di chi non sa se ridere o piangere; Enjolras capì che non sapeva cosa rispondere; pensò che probabilmente fosse ancora un pochino a disagio con lui e non poteva certo biasimarlo: dopotutto si erano conosciuti solo la sera prima. Per cercare di farlo stare più tranquillo aggiunse, sorridendo: “Rispondi sinceramente! Nessuno si offende se dici che è andata male!”

Sembrò funzionare, perché poi Marius gli rispose: “Beh, emh… io pensavo che tu scherzassi quando ieri sera dicevi che Courfeyrac parla ogni minuto della giornata…”

Enjolras non ne era affatto sorpreso: iniziò già a ridacchiare, senza tuttavia nascondere un certo dispiacere per il povero Marius, e poi aggiunse: “Cos’ha fatto stavolta?”

Marius raccontò ad Enjolras e a Jehan che quella notte si era addormentato sereno nel silenzio della stanza, ma poi, nel cuore della notte, all’improvviso, si era svegliato di colpo perché aveva sentito Courfeyrac parlare: “Io non sono un Frankenstein… sono un Frankenstin!” Raccontò di essersi girato per vedere se stesse dormendo o se stesse semplicemente delirando o qualcosa del genere e, dopo qualche istante di silenzio, aveva sentito il suo compagno di stanza riprendere a voce più alta: “Non dite balle! Non ho mai creduto nel destino! Il destino… il destino!” Marius ricordava anche che mentre diceva queste parole Courfeyrac aveva iniziato ad agitarsi finché, all’improvviso, non aveva cominciato a sbattere il cuscino da una parte e dall’altra e a gridare: “IL DESTINO È QUEL CHE È! NON C’È SCAMPO PIÙ PER ME!!!” e poi *SBAM!*: Marius aveva sentito un fortissimo colpo secco dalla stanza comunicante col muro a cui si trovava poggiato il letto di Courfeyrac, e poi più nulla. Ammise, infine, di aver fatto fatica a riaddormentarsi, infatti quella mattina si sentiva un po’ assonnato.

“Ahahahahah! Non cambierà mai!” scoppiò a ridere Enjolras. “Mi spiace: avrei dovuto avvertirti!”

“Ah… non è qualcosa che capita occasionalmente, quindi…” disse Marius quasi sorridendo, come fosse stato contagiato dalla risata di Enjolras.

“Purtroppo capita tutte le notti… ci farai l’abitudine anche tu come ha fatto Feuilly!” lo dovette avvertire Enjolras. “Ma comunque non preoccuparti. La botta che hai sentito era sicuramente Bahorel: generalmente lo zittisce lui!”

“LUMACHEEEEEEE! SE NON VI MUOVETE DICO A FEUILLY DI CHIUDERE IL CANCELLOOOOO!!!” gridò Courfeyrac che era già nel giardino dietro alle inferiate dell’ingresso.

“E non gridare! Stiamo arrivando!” disse ad alta voce Enjolras. Una volta passato il portone, il biondo ragazzo disse: “Qui allora ci dividiamo: noi siamo al primo piano a quest’ora, Marius.”

“Ci vediamo a pranzo, ragazzi?” chiese arrossendo Jehan.

“Certamente!” rispose Enjolras salutandolo con la mano mentre lui e Marius salivano per la scala di servizio.

Arrivarono velocemente nell’aula della professoressa di matematica e si misero nella coppia di banchi in fondo alla classe, vicino alla finestra. Enjolras appoggiò lo zaino sul banco e tirò fuori il suo telefono per togliere la suoneria. “Giusto! Marius!” lo chiamò, girandosi verso di lui. Marius, intento a recuperare quaderno e astuccio dallo zaino che aveva poggiato sul pavimento, si tirò su e guardò Enjolras con occhi quasi interrogativi. “Dammi il tuo numero di telefono.”

Marius non se lo fece ripetere due volte e, dopo che si furono scambiati i rispettivi numeri, Enjolras iniziò a trafficare velocemente con il suo iPhone, prima che la professoressa di matematica entrasse in aula. Quando ebbe finito, il telefono di Marius suonò e quando il ragazzo guardò chi gli avesse scritto, Enjolras lo vide sorridere.

-Enjolras ti ha aggiunto al gruppo “Les Amis de la Saint-Denis[1] ”-: ecco quale scritta apparve sulla nuova chat che era stata aperta su Whatsapp nel telefono di Marius.

Enjolras sorrise nel vedere che Marius sembrava contento; poi, con la coda dell’occhio, vide il suo cellulare illuminarsi e aprì anche lui l’applicazione.

- Les Amis de la Saint-Denis  -:

- « 3 messaggi non letti »

-Grantaire: “We ke succede?”-

-Feuilly: “Ehi! Di chi è il nuovo numero, Enjolras?”-

-Jehan: “Sì! Hai aggiunto Marius! Che bello: così ci siamo tutti!”-

-Courfeyrac: “Mitico biondooooooooooooo! Ehilà Marius! Sn Courfeyrac!”-

-Feuilly: “Ah ma abbiamo un nuovo membro, quindi! Benvenuto, Marius. Io sono Feuilly! Presentarsi così non è il massimo: spero di poter fare le presentazioni di persona più tardi! ”-

-Marius: “Grazie mille! Lo spero anch’io! ”-

Continuavano ad arrivare notifiche dal gruppo dell’applicazione che condividevano con gli altri ragazzi: erano tutti entusiasti e davano il loro benvenuto a Marius.

“Io… io non so cosa dire…” confessò Marius ad Enjolras, senza smettere di sorridere.

Enjolras distolse un attimo lo sguardo da lui, rimase a pensare qualche secondo e poi gli disse:  “Beh… consideralo come una condanna a sopportarci!”

“Buongiorno, ragazzi.” L’insegnante di matematica entrò nella stanza e tutti gli alunni si alzarono in piedi. “Comodi, comodi. Iniziamo subito con l’appello che abbiamo molte cosa di cui parlare.”

Mentre la giovane professoressa chiamava a voce alta gli studenti uno per uno, Enjolras notò lo schermo del suo telefono illuminarsi di nuovo e, dopo aver confermato la sua presenza, aprì la chat, incuriosito dal messaggio che aveva letto prima nella tendina apertasi con Whatsapp.

- Les Amis de la Saint-Denis  -:

- « 5 messaggi non letti »

-Courfeyrac: “NOOOOOOOOOOOOOOOOO!!!!!!!!!!!!!!”

                     - “RAGAZZI!!!!!!!”

                     - “SE NON CI DOVESSIMO PIÙ VEDERE”

                     - “RICORDATEVI”

                     - “CHE VI HO VOLUTO BENE!!!!!!!!!!!!!!”



[1] Ovvio riferimento al nome dei rivoluzionari nel romanzo, “Les amis de l’ABC”.

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Capitolo 11
*** Attenti allo squalo! - Jehan ***


Jehan

La campanella suonò alle undici e mezza decretando la fine delle lezioni del mattino: Jehan iniziò a mettere via quaderno e astuccio, pensando a cosa avrebbe potuto fare nelle due ore di pausa che c‘erano prima delle lezioni pomeridiane. Si chiese che cosa avrebbero fatto gli altri, ma non se la sentiva di scrivere sul gruppo: magari sarebbe andato in biblioteca a leggere fino all’ora di pranzo. Pensò anche a Courfeyrac: per tutta la mattina si era chiesto preoccupato cosa potesse essere successo per fargli scrivere quei messaggi; tutti se l’erano chiesto, ma lui non aveva più scritto nulla.

Passando davanti alla cattedra, venne fermato dal professore di letteratura. “Ah! Monsieur Prouvaire, aspetti!” gli disse il professor Mabeuf, infilando il braccio nella sua vecchia borsa in pelle di camoscio. “Ho qui… i libri che mi aveva chiesto ieri. Le copertine sono un po’ rovinate, ma dentro sono ancora in perfetto stato.” Quei libri sembravano davvero vecchi: il minuto professore doveva averli comprati molti anni prima. Jehan era affascinato dal loro aspetto così consunto, quasi avesse davanti un tesoro inestimabile.

“Oh non si preoccupi! Mi affascinano i libri vecchi!” disse in risposta Jehan, felice che il professore gli avesse portato i volumi che desiderava dopo un solo giorno. Aveva quasi timore a prenderli in mano: chissà quanto ci teneva il professore! “Ma lei è sicuro che vuole darmeli?” si sentì dire “Sembrano davvero molto vecchi… non vorrei rovinarglieli…”

“Stia tranquillo! Sono sicuro di lasciarli in buone mani!” disse il professore mettendogli i tre piccoli volumi tra le mani. “Lei è un mio studente dal primo anno: so con quanto amore e quanta cura tratta… praticamente ogni essere vivente e ogni oggetto. Sono certo che avrà cura anche dei miei libri. Ah, qui ho anche una rivista di botanica che può esserle utile per le sue piante” aggiunse porgendogli un giornale pieno di orecchie sulle pagine.

“La ringrazio moltissimo professore!” Jehan era davvero contento di poter portare a casa quei preziosi tesori: finalmente avrebbe potuto leggere delle traduzioni attendibili della Divina Commedia. Conosceva un po’ l’italiano, ma leggere la cantica del Paradiso gli riusciva davvero difficile. Voleva mettere i libri nello zaino, ma, ripensandoci, forse era meglio tenerli in mano, quindi ritirò solo la rivista di botanica. “Glieli riporterò il prima possibile!”

“Non si preoccupi: non le metterò fretta. Li tenga pure per tutto il tempo che le serve! Certe opere vanno contemplate con calma e attenzione!” disse il professor Mabeuf, sistemandosi gli occhiali e togliendosi la giacca di velluto beige: ora che tutti gli studenti erano usciti dall’aula poteva permettersi di avere una presenza un po’ più sciatta, anche se, effettivamente, quella vecchia giacca rattoppata sui gomiti non gli conferiva un aspetto particolarmente elegante e curato.

“Ancora grazie, professor Mabeuf! Buona giornata!” disse felice Jehan, avviandosi verso l’uscita.

“Monsieur Prouvaire!” lo fermò il professore. Jehan si voltò e guardò il professore dritto nei suoi occhietti scuri. “Mi raccomando: non permetta alla lettura di quel capolavoro di distrarla dallo studio!” Jehan fece un cenno con la testa, sorridendo, e uscì dall’aula, dirigendosi verso la biblioteca.

C’erano tantissimi ragazzi in giro sparsi per il corridoio del primo piano e Jehan ci passò in mezzo a testa bassa, per non guardare negli occhi nessuno: non lo faceva per cattiveria, ma solo per timidezza. Gli anni precedenti era sempre rimasto con Enjolras e non aveva sentito il bisogno di interagire con altri ragazzi se non gli amici della residenza. Quest’anno, però, lui aveva scelto di frequentare il corso letterario e linguistico, mentre Enjolras quello di scienze politiche, quindi si era ritrovato da solo. Tuttavia non ne faceva un dramma: sapeva che a pranzo si sarebbe trovato con i suoi amici. Stava scendendo per la scala di servizio quando incrociò Bossuet.

“Bossuet. Dove te ne vai?” gli chiese Jehan, sorpreso di averlo incontrato.

“Ehi! Ciao Jehan!” disse, scompigliandogli i capelli. Poi indicò con l’indice la fine delle scale e aggiunse: “Stavo andando a prendere Joly per raggiungere gli altri. Enjolras ha scritto se ci andava di trovarci subito per il pranzo.”

“Ah davvero?” Jehan prese il telefono dalla grossa tasca che aveva sulla felpa e guardò: era talmente felice di aver avuto le tre cantiche della Divina Commedia che non aveva controllato il telefono. “Oh già… beh, suppongo che non ci sia nulla di male se mangiamo prima!”

“Vieni da Joly con me?” disse Bossuet sorridendo mentre lo sorpassava per raggiungere l’aula di storia.

“Ma sì, perché no?”

 

Quando arrivarono, Joly era ancora seduto al suo banco, concentrato nel fare qualcosa che a Jehan non era chiara; però Bossuet doveva aver capito perché sospirò in modo strano, rassegnato e divertito allo stesso tempo, e andò alle spalle del suo ragazzo con le braccia alzate, avendo cura di non farsi sentire. Era chiaro che voleva spaventarlo, ma non andò tutto secondo i suoi piani: a pochi passi da Joly, Bossuet inciampò nelle stringhe delle sue scarpe e gli cadde addosso; beh… se non altro il risultato fu lo stesso.

“Bossuet accidenti a te! Mi è venuto un infarto!” disse Joly accarezzandosi la gamba sulla quale era caduto.

“Beh adesso sentirai benissimo i tuoi battiti, no? Il cuore ti starà battendo a tremila al minuto!” disse Bossuet alzandosi in piedi.

“Certo: perché la tachicardia è una cosa positiva!” disse Joly guardando male Bossuet.

“O ti viene un infarto o hai la tachicardia: da ciò che ricordo non puoi averli entrambi! Che poi… se avessi davvero avuto un infarto non dovresti essere privo di conoscenza?” gli rispose, porgendogli la mano per tirarlo su. Joly lo guardò anche peggio di quanto già non stesse facendo, al che Bossuet aggiunse, sorridendo: “Avanti, tirati su: sei sano come un pesce, tesoro mio!”

Jehan guardò il sorriso di Bossuet e si convinse che era impossibile prendersela con lui quando aveva quell’espressione sul volto: anche Joly doveva pensarla così perché il suo broncio divenne subito un sorriso e si lasciò aiutare a rialzarsi. Quando furono entrambi in silenzio, Jehan smise di pensare a quanto fosse bello vederli ancora così innamorati e si ricordò improvvisamente che erano caduti a terra entrambi: “Non vi siete fatti male, vero?” chiese preoccupato.

Joly si girò di scatto, quasi fosse stato colto di sorpresa: “Ah ciao Jehan! Beh la gamba mi fa un po’ male e in realtà anche il mio posteriore non è che…”

“Nah stiamo benissimo! Ho avuto cadute peggiori!” lo interruppe Bossuet.

“Parla per te!” disse Joly, girandosi verso il suo ragazzo con occhi indignati. “Domattina avrò di sicuro un grosso livido…”

“Sì! Come se non ti fossi mai risvegliato con dei lividi sulle gambe e dolore al posteriore!” fu la risposta che diede Bossuet. “E non mi è mai sembrato che la cosa ti dispiacesse…” Mentre pronunciava queste parole, passò un braccio attorno alle spalle di Joly lanciandogli uno sguardo d’intesa. Jehan era confuso da questa frase, mentre Joly gli sembrò imbarazzato e lo vide spintonare leggermente Bossuet, quasi come non avesse dovuto dire una cosa del genere.

Si girò poi verso Jehan e disse: “Eh eh… che… che ne dite di raggiungere gli altri, eh?”

Fu così che si avviarono verso la mensa. C’erano già diversi studenti nella grande sala e Jehan non riusciva a vedere nessuno dei loro amici. Ad un certo punto, in mezzo alla fila, scorse la testa di Bahorel. “Ah eccoli!” disse agli altri due ragazzi e poi si avviò verso di lui. Avvicinandosi vide che stava vicino a Marius; poi, quando fu ancora più vicino, vide accanto a quest’ultimo prima Enjolras e poi Grantaire, ma non riusciva a sentire di cosa stessero parlando.

“Enjolras!” lo chiamò alzando la mano timidamente, a voce bassa. Enjolras però doveva averlo sentito perché si girò velocemente, interrompendo il discorso, e, vedendo i tre ragazzi, alzò la mano per salutarli.

Quando arrivarono in coda con gli altri quattro ragazzi, Jehan notò che mancavano ancora Combeferre e Courfeyrac. Dove si trovasse il primo lo poteva immaginare, ma il secondo? “Ehi ma…” iniziò a dire, “dov’è Courfeyrac?”

“Nessuno lo sa” gli rispose Grantaire, passando un vassoio ad Enjolras.

“Ah, grazie” disse a Grantaire. Poi tornò a rivolgersi a Jehan: “Non si è fatto sentire tutta la mattina.”

“Non gli sarà mica successo qualcosa, vero?” Tutto ciò che era successo alla fine delle lezioni gli aveva fatto scordare la sua preoccupazione per i messaggi di Courfeyrac, ma il non trovarlo assieme agli altri gli aveva fatto tornare alla mente tutto quanto.

“No vedrai che starà bene: è solo melodrammatico. Non appena lo rivedremo ci faremo spiegare, magari è con…” Enjolras non finì la frase perché la sua attenzione era stata attirata verso la porta d’ingresso. Guardò per qualche istante, come volesse essere sicuro di ciò che aveva visto, poi alzò velocemente la mano: Combeferre era entrato nella mensa.

“Accendo il telefono e mi ritrovo cento messaggi vostri: non seguite mai le lezioni, voi?” disse con un tono abbastanza scherzoso. “Dov’è Courfeyrac?”

“Pensavamo che fosse con te” gli disse Grantaire, sbucando da dietro Enjolras.

“No, non l’ho sentito per tutta la mattina.”

“Che strano…” disse Bahorel. “Di solito scassa le palle tutto il giorno: cosa può aver combinato?”

“Oh beh: arriverà, dai! Se fosse successo qualcosa di grave lo sapremmo!” disse Bossuet al resto del gruppo.

Una volta preso da mangiare andarono a sedersi a un grande tavolo rettangolare non troppo lontano dall’ingresso, in modo che se Courfeyrac fosse arrivato li avrebbe trovati subito.

Ad un certo punto Jehan vide entrare dalla porta un ragazzo alto, con degli scuri capelli ricci: riconobbe subito che si trattava di Feuilly e lo chiamò alzando il braccio.

“Eccovi qua! Il gruppo al completo!” disse Feuilly con un enorme sorriso stampato in volto. Poi guardò i ragazzi seduti al tavolo uno ad uno e aggiunse: “Beh no… non al completo.”

“Tu non hai visto Courfeyrac, per caso?” gli chiese subito Enjolras.

“No mi spiace!” Detto questo passò a salutare gli altri: eccezione fatta per Enjolras, il giorno prima non aveva avuto abbastanza tempo per salutarli come si deve. “Bahorel! Oggi sei venuto! Mi sembra un miracolo!”

“Oggi?! Cioè tu ieri non eri qui?!” Enjolras e Combeferre già stavano guardando Bahorel con occhi severi.

“Ma che dite?!” disse subito Bahorel. “Combeferre! Tu mi hai visto! E anche voi!” Enjolras continuava a guardarlo impassibile: a Jehan quello sguardo fece raggelare il sangue nelle vene.

“Beh, non credermi!” disse Bahorel: non sembrava per niente intimidito dagli occhi glaciali del leader del gruppo.

“Enjolras…” Jehan gli mise una mano sulla spalla e lui si girò. “Per favore… smettila di fare quello sguardo… mi fa paura…” Enjolras parve per un attimo sorpreso nel sentire quelle parole, ma comunque decise di accontentare la richiesta.

Prima, però, lanciò un’ultima occhiataccia a Bahorel e gli disse “Dopo ne parliamo!”

Feuilly guardò alla destra di Bahorel e vide Marius. “Ah! Tu devi essere Marius!” disse avvicinandosi a lui. Marius si alzò per stringergli la mano e fecero le presentazioni come si deve.

“Sei in pausa? Ti fermi qui con noi?” gli chiese Combeferre.

“Sì ma non per molto. Tra tre quarti d’ora devo essere in orfanotrofio per il turno” gli rispose Feuilly, sedendosi accanto a lui.

Stettero a parlare per diversi minuti, confrontandosi sulle vacanze, sui primi giorni dell’anno scolastico e diedero a Marius qualche dritta per sopravvivere a scuola e nella residenza. Jehan li osservava: anche se era passato solo un mese e mezzo, i suoi amici gli erano mancati moltissimo. Erano tutti così diversi, eppure non potevano essere più uniti e lui, in quel preciso istante, riusciva a sentire quanto fosse forte il loro legame. Essere di nuovo lì tutti insieme gli riempiva il cuore di una gioia indescrivibile. In più aveva un nuovo amico ora e questo lo rendeva ancora più felice. Quel giorno gli parve proprio che l’anno scolastico non potesse cominciare meglio. Cosa mai avrebbe potuto andare storto?

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Capitolo 12
*** Attenti allo squalo! - Marius ***


Marius

La giornata di Marius stava procedendo nel migliore dei modi: lui e Enjolras avevano parlato molto quella mattina, sia durante le lezioni che tra l’una e l’altra, e a pranzo riusciva a intervenire nei discorsi senza dubbi o esitazioni. Tutte quelle piccole cose che lo avevano preoccupato il giorno prima sembravano delle sciocchezze in quel momento. I ragazzi lo avevano accolto nel loro gruppo come si fa con un vecchio amico che torna da un lungo viaggio e non lo avevano fatto sentire ‘quello nuovo’. Marius non riusciva a smettere di pensarci e continuava a ripetersi che era stato davvero fortunato ad incontrare dei ragazzi così simpatici e amichevoli: nessun altro ragazzo che aveva conosciuto lì a scuola era come loro, questo gli parve evidente. Prima di arrivare aveva pensato che avrebbe trovato degli spocchiosi figli di papà, invece aveva trovato un gruppo di ragazzi alla mano, umili, divertenti, semplici… dei ragazzi che, già solo dopo due giorni, gli avevano fatto provare una bella sensazione, quasi come fosse quello il posto in cui doveva stare: quasi quella fosse casa sua.

Quel giorno in mensa avevano preparato le omelette. Ogni studente poteva scegliere un ripieno a suo piacere e le cuoche lo riscaldavano sul momento: queste mense da ricchi! Marius stava per addentare l’ultimo boccone della sua omelette con prosciutto e formaggio quando una specie di uragano umano si avventò sul loro tavolo.

“RAGAZZI!” gridò Courfeyrac, sbattendo lo zaino sull’unico angolo libero del tavolo, accanto a Bossuet. Marius si sporse in avanti e riuscì a vederlo dall’altra parte di Joly e Bossuet, ansimante, come avesse corso.

“Se non ti dispiace io la sto ancora mangiando quell’omelette” disse Combeferre con tutta la calma di cui era capace, lasciandosi sfuggire tuttavia una nota di disapprovazione: per poco Courfeyrac non aveva colpito il suo vassoio e quello di Feuilly.

“Ma guarda chi si fa vivo!” esclamò Joly, non appena si fu ripreso dallo spavento. “Ma dov’eri finito?”

“Già!” sembrò dargli ragione Bossuet, mentre Joly gli ripuliva il maglioncino azzurro da tante piccole macchie di sugo. “Non ti sei fatto sentire tutta mattina!”

Courfeyrac si sedette sull’estremità della panca, accanto a Bossuet, spostò lo zaino a terra e disse: “Eh non potevo!” Poi afferrò la forchetta di Feuilly, seduto di fronte a lui, e diede un morso alla sua omelette al tonno.

“No ma fai pure: tanto non avevo fame!” disse il giovane custode, sarcastico. Marius pensò che Courfeyrac non avesse sentito la punta di sarcasmo nella sua voce perché lo vide prendere il piatto ancora mezzo pieno e mangiare come se non mangiasse da mesi mentre mormorava qualcosa a Feuilly con la bocca piena. Poi vide Enjolras, seduto di fronte a lui, allungare pazientemente quello che rimaneva della sua omelette con verdure a Feuilly: Marius aveva già intuito quella stessa mattina che Enjolras non doveva essere una di quelle persone che mangiano molto e anche l’esile fisico del ragazzo confermava la sua teoria. 

“Ehi, morto di fame!” Marius sentì la voce di Bahorel alzarsi da dietro la sua testa. “Vuoi dirci che cosa ti è successo o dobbiamo tirare ad indovinare?”

“Ci hai fatto preoccupare…” aggiunse Jehan “Perché hai scritto quelle cose?”

Courfeyrac notò che tutti lo stavano fissando, quindi inghiottì l’ultimo pezzo di omelette al tonno, si alzò in piedi, con la testa bassa e un’espressione cupa in volto. Stette in silenzio con gli occhi chiusi qualche secondo, poi allargò le braccia davanti a sé e fissando un punto imprecisato disse: “Momento flashbaaack!”

Raccontò che quella mattina era arrivato in classe e si era seduto in fondo, vicino al muro, in modo da nascondersi il più possibile dall’insegnante. Poi aveva visto le notifiche dal gruppo su Whatsapp e si era distratto, preso dall’entusiasmo che Marius fosse stato aggiunto. Mentre stava scrivendo a manetta, aveva sentito il professore aprire la porta e lo era riuscito a vedere entrare oltre la testa della ragazza che aveva davanti.

“Buongiorno, ragazzi.” Il temibile e severissimo ‘la-legge-sono-io’ Javert aveva fatto il suo ingresso in aula e tutti gli studenti si erano alzati in piedi per salutarlo, tranne Courfeyrac, ma gli era sembrato che il professore non se ne fosse accorto. Courfeyrac raccontò poi che per scherzo aveva fatto partire la ‘Toccata e fuga in Re minore’ di Bach dal lettore mp3 del suo iPhone, accompagnando l’ingresso del professor Javert con un cupo suono d’organo – TANANAAAAA! TANANANAAANAAAAAAA! – Courfeyrac proseguì il racconto della sua traumatica esperienza, dicendo di aver sentito i suoi compagni ridacchiare e di aver visto Javert alzare lo sguardo dall’elenco verso di lui e chiudere il registro.

Dopodiché lo aveva sentito dire, sospirando: “Monsieur De Courfeyrac. Noto che anche quest’anno ha deciso di mettersi al centro dell’attenzione fin dalla prima lezione.” Poi si era alzato in piedi e aveva ripreso: “Anch’io, allora, recupererò fin da oggi le abitudini dell’anno scorso: mi dia immediatamente quel telefono cellulare.”

E detto ciò aveva iniziato a camminare con passo lento e deciso verso Courfeyrac, con la schiena perfettamente dritta e le mani poste elegantemente dietro essa. Il ragazzo aveva fatto giusto in tempo a scrivere quegli ultimi quattro messaggi che i suoi amici ricordavano prima di vedersi portar via il telefono.

 

“Mi dicono che hai fatto una cosa molto furba…” disse Enjolras quando Courfeyrac ebbe terminato il suo racconto. “Come ti è venuto in mente di usare il telefono durante l’ora di Javert, scusa?!”

“Effettivamente… neanch’io avrei fatto una cosa così stupida, nemmeno da ubriaco!” disse Grantaire recuperando la bottiglietta d’acqua che aveva sul vassoio.

Bahorel scoppiò in una sonora e profonda risata e poi disse, ancora senza fiato: “Avrei voluto essere lì solo per vedere la faccia di quel mastino mentre sentiva la tua colonna sonora!”

A sentire questo scambio di opinioni, a Marius venne da chiedersi fino a che punto potesse essere terribile questo professor Javert... La cosa gli metteva una certa ansia, ma non lo diede a vedere: si limitò ad ascoltare e a cercare di immaginarselo. Per un attimo la figura elegante e curata che si era formata nella sua testa si sovrappose a quella di Lord Voldemort… o forse nemmeno lui era abbastanza terribile?

“E dopo che è successo? Dove sei stato fino ad ora?” aveva ripreso Enjolras, con lo stesso sguardo esasperato con cui una mamma guarda suo figlio rientrare a casa pieno di graffi.

“Sono andato a fare un sopralluogo” raccontò Courfeyrac prima di emettere un sonoro rutto. “Ops… scusate!”

“Oh oh! Questo sì che era un rutto come si deve!” aveva esclamato stupefatto Bossuet, “Schiaffami un cinque, amico!”

“Aaah ma dai! Che cosa… disgustosa!” aveva invece affermato Joly, tappandosi il naso per l’odore di tonno che si era diffuso a causa dell’alito di Courfeyrac. “Almeno potevi coprirti la bocca!”

“Ma che dici? È stato uno dei migliori rutti che abbia mai sentito!” gli fece notare Bossuet.

“Può darsi, ma non batterà mai il campione di rutto in carica!” disse allora Bahorel: Marius capì che si stava riferendo a sé stesso, e pure con un certo orgoglio!

“Sono perfettamente d’accordo. Nessuno può battere te: il volume dei tuoi suoni corporei supera i decibel consentiti dalla legge!” lo prese in giro Grantaire. Marius lo vide girarsi verso la sua sinistra: Enjolras lo stava guardando con uno sguardo severissimo, quasi terrificante. Non aveva mai visto uno sguardo simile in tutta la sua vita: era persino peggiore di quello che aveva lanciato a Bahorel poco dopo l’arrivo di Feuilly. Grantaire sembrava a disagio per via di quello sguardo, ma non smise comunque di guardare il biondo leader del gruppo.

“Possiamo non sviare il discorso?!” li riprese tutti quanti Enjolras. “Un sopralluogo dove? Per fare cosa?” Courfeyrac lo fissò in silenzio, poi passò una rapida occhiata a tutti gli altri.

“Voi mi dovete aiutare!” disse sbattendo la mano sul tavolo. Si poteva percepire la preoccupazione dei ragazzi riempire l’atmosfera.

“Perché qualcosa mi dice che ci metterai tutti nei guai?” disse Combeferre, che già stava per affondare la testa nelle mani, disperato.

“Devo riavere il mio telefono! Mi è stato tolto ingiustamente!” A questa affermazione di Courfeyrac, l’intero gruppo rimase in silenzio, quasi fossero sconvolti ed esasperati insieme.

Enjolras fu il primo a rompere il silenzio: “Io non credo proprio che tu possa parlare di ingiustizia.”

“Non puoi portare pazienza?” disse Marius, non capendo perché Courfeyrac avesse tanta fretta.

“Marius ha ragione!” lo sostenne Combeferre. “Te lo ridarà alla fine della settimana, in fondo.”

“Ma cosa faccio una settimana senza telefono?!” chiese Courfeyrac con lo stesso sdegno che Joly aveva mostrato prima riguardo al rutto.

“Si possono fare tante cose senza telefono!” gli disse Jehan, a bassa voce; Marius quasi non lo sentì, coperto dalle voci che riempivano la mensa. “Potresti trovare un nuovo hobby, come il disegno, la lettura o la scrittura!”

Marius pensò che Courfeyrac ci stesse riflettendo davvero, perché lo vide rimanere in fissa su Jehan in silenzio, con lo sguardo pensieroso posato sulla larga felpa marroncina del ragazzo coi capelli rossi. “Ma io lo rivoglio subito, il mio telefono!” Come non detto: Courfeyrac si ridestò dalla sua fissa e sbatté violentemente la mano sul tavolo… di nuovo.

“La vuoi piantare di martoriare questo povero tavolo?!” lo sgridò Feuilly.

“Ho bisogno di te!” gli disse Courfeyrac, indicandolo. Feuilly si stava pentendo di aver parlato: glielo si poteva chiaramente leggere in faccia. Courfeyrac riprese quasi immediatamente: “Mi serve che tu mi porti una piantina dell’edificio!”

“P-perché?” Si vedeva che Feuilly aveva paura di sentire la risposta che gli sarebbe stata data.

“Questo è un edificio vecchio! Ci saranno sicuramente dei passaggi segreti che conducono all’ufficio di Javert!” Courfeyrac sembrava davvero convinto mentre spiegava la sua tesi. Gli altri ragazzi del gruppo si limitarono a guardarsi allibiti, senza trovare le parole per descrivere la sua pensata.

Marius prese la parola: “Tu sai che questo non è un film giallo, vero?”

“Courfeyrac” iniziò Combeferre, “questo è un palazzo medioevale: forse puoi trovare una via di fuga sotterranea verso l’esterno, ma passaggi segreti ne dubito, specialmente al piano superiore. Il primo piano era quello dedicato agli appartamenti del padrone!”

“E anche se ci fossero non ho a portata di mano piantine abbastanza vecchie da riportarli!” aggiunse Feuilly. “Ci vorrebbero quelle originarie e non credo che siano nella scuola.”

“Grantaire, tu conosci ogni luogo in città!” tentò testardamente Courfeyrac. “Non sai come posso infiltrarmi nell’ufficio di Javert?”

“Ah mi spiace Courfeyrac: questo è l’unico posto in cui non ho agganci!” gli rispose Grantaire, sorridendo divertito, ma alzando le mani in segno di resa, quasi volesse starne fuori.

“Tanto il problema non si pone” disse Enjolras, interrompendo la discussione, “perché tu non ti infiltrerai nell’ufficio di Javert, Courfeyrac: discorso chiuso.”

Quello fu l’ultimatum del leader del gruppo: nessuno controbatté. Feuilly dovette correre verso l’orfanotrofio e gli altri lo accompagnarono all’ingresso per salutarlo. Rimasero nel chiostro a parlare ancora un po’ prima della ripresa delle lezioni, mentre Courfeyrac cercava nuovamente di convincere il gruppo ad aiutarlo a recuperare il suo telefono di nascosto. Enjolras e Combeferre tentavano in tutti i modi di dissuaderlo da quest’idea, ma sembrava non ci fosse nulla da fare. Anche Marius provò a farlo ragionare, ma niente: più i ragazzi cercavano di fargli cambiare idea, più Courfeyrac insisteva.

Persero tempo a discutere e si fece ora di tornare in classe per le lezioni del pomeriggio. Joly e Bossuet furono i primi ad andare via: Joly non voleva fare tardi a lezione e si tirò dietro il suo ragazzo. Gli altri ragazzi scortarono Bahorel in aula per essere sicuri che ci andasse e poi salirono tutti insieme per lo scalone monumentale diretti al primo piano, dove si trovavano le aule in cui avrebbero avuto lezione. Courfeyrac fu l’ultimo a rimanere assieme a Marius e ad Enjolras finché non arrivarono davanti alla sua aula.

“Ho tre ore per elaborare un piano perfetto. Ce la farò a riprendermi il telefono!” Queste furono le ultime parole che Marius e Enjolras sentirono pronunciare a Courfeyrac prima che richiudesse la porta dell’aula dietro di sé. Marius rimase a fissare la porta quasi sconvolto, poi si girò verso Enjolras e lo vide alzare gli occhi al cielo; infine si diressero verso l’aula di storia, passando accanto alla scala di servizio. Mentre percorrevano il corridoio che si affaccia sulla piazza principale, incrociarono un uomo alto, robusto, con i capelli corti già ingrigiti e la barba lasciata leggermente lunga, ma molto curata. Aveva un portamento elegante e composto, indossava un raffinato completo scuro e sotto la giacca portava una camicia azzurro chiaro: pur non avendo la cravatta, il suo abbigliamento risultava molto distinto. Quando fu abbastanza vicino a loro, Marius riuscì a notare che quell’uomo doveva essere circa sulla cinquantina e riuscì a vedere da vicino i suoi luminosi occhi verdi, tanto gentili quanto severi.

“Ah! Buongiorno, monsieur Enjolras!” disse cortesemente l’uomo.

Enjolras fece un cenno di saluto con la testa e rispose al saluto: “Buongiorno professor Javert.” Quello era Javert?! Era completamente diverso da come se lo era immaginato Marius… non sembrava per niente così terribile come dicevano gli altri ragazzi.

“Ho avuto modo di constatare che quest’anno sarà nella mia nuova classe in scienze politiche” riprese il professore, senza levare gli occhi da quelli di Enjolras. La sua voce aveva un tono molto basso e il suo modo di parlare era gentile, quasi rassicurante. “Si prepari: dai miei studenti chiedo il meglio!” Poi spostò lo sguardo verso Marius, lo guardò dalla testa ai piedi quasi incuriosito per qualche istante: davanti all’eleganza del vicepreside, Marius si sentì quasi in soggezione vestito con la sua vecchia camicia blu a maniche corte aperta sulla maglietta bianca e i jeans un po’ sciupati. Ma poi il professor Javert gli sorrise e l’imbarazzo si affievolì. “Non ricordo di aver già fatto la sua conoscenza, monsieur …?”

“Lui è Pontmercy” disse Enjolras capendo il disagio di Marius. “È appena arrivato, professore.”

“Ah ma certo! Marius Pontmercy! È anche lei nella mia classe del terzo anno!” Javert tese la mano a Marius e si presentò: “Io sono il professor Javert, insegnate di diritto e vicepreside di questo istituto: sarò il suo professore per i prossimi tre anni.”

Marius rispose al sorriso cortese del professore e gli strinse la mano, dicendo: “È un piacere conoscerla, professor Javert.”

“Purtroppo non riuscirò a venire in classe vostra, questa settimana: sono occupato a terminare le pratiche dei nuovi assunti. Ora vi lascio andare: non vorrei faceste tardi.” Detto ciò, fece un cenno di saluto accompagnato da un sorriso per congedarsi e lasciò passare i due ragazzi, in modo che potessero dirigersi velocemente in aula.

A Marius il professor Javert aveva fatto un’ottima impressione: non sembrava per niente così terribile e severo, tutt’altro! Iniziò a pensare che forse Courfeyrac aveva esagerato, che forse era stato melodrammatico nel suo racconto… o forse no? Non riusciva a spiegarsi il perché di quelle descrizioni così poco lusinghiere: a lui era sembrato cortese e, a prima vista, anche molto competente. Inutile pensarci in quel momento: lo avrebbe scoperto presto.

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Capitolo 13
*** Attenti allo squalo! - Enjolras (2) ***


Enjolras

Il pomeriggio trascorse ordinariamente: i professori cercarono di conoscere i loro nuovi studenti, illustrarono il programma dell’anno, diedero l’elenco dei libri e iniziarono a introdurre i primi argomenti, come tutti gli anni. Enjolras e Marius, quando potevano, parlavano di tutt’altro, tra dritte su come comportarsi con gli insegnanti e aneddoti degli anni passati. Quando la campanella suonò per indicare la fine della giornata scolastica, i due ragazzi rimasero un attimo ancora in aula, in modo da lasciar andar via la maggioranza degli studenti e poter così evitare la calca prodotta dalla fine delle lezioni. Uscirono per ultimi, persino dopo l’insegnante, e notarono che Courfeyrac era di fronte alla porta dell’aula e fissava distrattamente il cielo fuori dalla finestra.

“Courfeyrac, come mai sei qui?” disse Marius avvicinandosi al ragazzo, mentre Enjolras rimaneva immobile sulla porta.

Courfeyrac lo sentì e si girò di scatto, quasi Marius avesse interrotto un pensiero profondo. “Ah, eccovi qui!” disse. Poi recuperò lo zaino dal pavimento e avanzò verso di loro, aggiungendo: “Vi aspettavo.”

“Come ci aspettavi? Hai finito prima?” gli chiese Marius.

“Non hanno ancora confermato l’insegnante d’inglese, quindi hanno aperto la gabbia” fu la risposta di Courfeyrac.

“La gabbia?” fu l’unica cosa che venne da chiedere ad Enjolras, che intanto si era appoggiato allo stipite della porta. “Il solito melodrammatico!” Forse avrebbe fatto meglio a non dire nulla, perché di colpo l’attenzione di Courfeyrac si spostò da Marius a lui. Il ragazzo ricciolino passò oltre Marius, si avvicinò ad Enjolras e si mise a guardarlo dritto negli occhi per qualche istante senza dire nulla. Ad Enjolras corse un brivido lungo la schiena: gli occhi spalancati del suo amico non promettevano nulla di buono. Capì cosa stava per chiedergli, quindi lo anticipò: “Non ho intenzione di aiutarti a intrufolarti nell’ufficio di Javert!”

“Ma perché no?! Lui è da Myriel: non se ne accorgerà nemmeno! È il momento migliore!” disse Courfeyrac, prendendo il biondo ragazzo per le spalle e scuotendolo.

Enjolras si dimenò e riuscì a togliersi dalla presa di Courfeyrac. “Perché non sarebbe giusto!” disse poi, mentre si tirava leggermente indietro.

“Non credi che non trovando più il tuo telefono si insospettirà?” provò a chiedere Marius, probabilmente tentando di farlo ragionare.

“Non se ne accorgerà nemmeno!” gli rispose Courfeyrac, che sembrava iniziare a spazientirsi. “Probabilmente non ricorda già più di avermelo sequestrato!”

“Chi?! Javert?!” disse incredulo Enjolras, riportando così l’attenzione di Courfeyrac su di sé. “Quello che fino alla fine dell’anno scorso mi ha rinfacciato di aver fatto un’assenza ingiustificata al primo anno?! Courfeyrac: quell’uomo ha una memoria di ferro!”

“Il tuo è un caso su mille, Enjolras!” provò a dire Courfeyrac: si capiva che cercava una scusa per non dargli ragione.

“Ma se si ricorda persino quante volte ti ha punito per gli scherzi che hai fatto a lui o ad altri professori!” puntualizzò Enjolras, sperando di convincerlo una volta per tutte.

Courfeyrac aggrottò la fronte, incrociò le braccia, puntò i piedi e disse: “Non è vero! Non ricorda tutte le volte che ho fatto scherzi ai professori!”

“Solo perché quelle uniche due volte in cui hai provato a fare uno scherzo a Valjean è stato lui stesso a coprirti da Javert!” gli ricordò Enjolras, puntandogli un minaccioso indice in faccia, quasi lo stesse sgridando. Forse i rimproveri avevano funzionato perché Courfeyrac rimase lì a fissare il dito di Enjolras senza dire nulla per diversi istanti.  Enjolras abbassò la mano, ma Courfeyrac rimase a fissare il pavimento ancora per un po’, in silenzio: sembrò riprendersi solo quando sentirono una voce provenire dal corridoio che dava sul piazzale.

 “Allora? Hai escogitato un piano?” Grantaire si stava avvicinando ai tre ragazzi: Courfeyrac gli sorrise, mentre Enjolras lo guardava sconcertato, provando una sensazione simile a un misto di sdegno e rimprovero.

“Seriamente, Grantaire?” gli disse senza muoversi, mentre Courfeyrac già gli correva incontro. “Dopo tutto quello che abbiamo detto a pranzo davvero stai dalla sua parte?”

Grantaire fece spallucce, gli sorrise e gli disse: “Che importanza vuoi che abbia? Siamo finiti nei guai per cose peggiori.” Forse aveva capito che non era stato convincente, perché sospirò alzando gli occhi al cielo e poi proseguì: “Metti da parte il tuo senso di giustizia, Enjolras: non ti stiamo chiedendo di rubarlo, il telefono. Si tratta solo di riprenderlo.”

“Non è questione di giustizia, ma di correttezza!” lo riprese Enjolras. “Sai anche tu che Javert aveva tutte le ragioni per ritirarglielo! Andiamo, Grantaire: sii serio!”

A Grantaire sfuggì un risolino mentre scuoteva il capo a occhi chiusi; poi guardò Enjolras e gli rispose: “Tu, invece, dovresti lasciarti andare un po’ di più, piccolo mio.”

Ancora una volta, lui e Grantaire erano in disaccordo: Enjolras avrebbe voluto continuare il dibattito poiché mai avrebbe abbandonato la sua posizione, ma non era quello il momento adatto. Tutte le volte in cui lui e Grantaire erano in contrasto su qualcosa, qualsiasi fosse l’argomento, finivano per litigare: erano entrambi molto testardi, di questo Enjolras era consapevole. Non gli sembrò il caso di intavolare una discussione proprio lì, con Marius che li guardava, perché era solo il secondo giorno che stava con loro e non voleva rischiare di metterlo a disagio. Dentro di sé, però, sentiva crescere una certa rabbia e la tentazione di reagire era opprimente. Quello che provava doveva proprio vedersi sul suo viso, perché Marius si avvicinò a lui e gli pose una mano sulla spalla, quasi capisse cosa stava pensando e volesse consolarlo: Enjolras lo guardò senza cambiare espressione per un attimo, poi sospirò rassegnato, fece un cenno con la testa a Marius ed entrambi raggiunsero Grantaire e Courfeyrac, che già confabulavano.

“Ti sei convinto, biondo leader?” gli disse Courfeyrac, ancora felice di avere un alleato.

“No” rispose seccamente Enjolras. “Non sono convinto proprio per niente… ma voglio seguirvi per assicurarmi che non finiate nei guai.” Enjolras avrebbe voluto lasciarli perdere e, una volta che le cose fossero andate male, avrebbe tanto voluto poter dire ‘Ve lo avevo detto!’, ma il suo istinto di protezione nei loro confronti ebbe la meglio: se non poteva impedire loro di commettere una sciocchezza avrebbe cercato comunque di limitare i danni. Grantaire rimase a fissare Enjolras con un sorriso strano: sembrava quasi compiaciuto da questa rassegnazione, ma nei suoi occhi c’era anche qualcos’altro, qualcosa che Enjolras non riusciva a decifrare. Il biondo ragazzo se ne accorse e avrebbe voluto dirgli di levarsi quel sorriso dalla faccia, ma ancora una volta si costrinse a stare in silenzio, limitandosi a sorpassarlo per raggiungere Courfeyrac, guardandolo però con occhi severi.

 

Una volta arrivati davanti all’ufficio di Javert, i quattro ragazzi trovarono ad attenderli Bossuet e Joly, seduti sul pavimento appoggiati al muro di fronte alla vicepresidenza, e Bahorel, che era intento a battere il tallone sulla vecchia porta di legno. Bossuet fu il primo a vederli arrivare e alzò la mano per salutarli.

“Che ci fate voi qui?!” chiese subito Enjolras; non riusciva a credere che fossero lì fuori: non voleva crederci! La sua reazione doveva aver spaventato Bossuet perché il ragazzo abbassò subito la mano, quasi si sentisse in colpa.

“È chiusa a chiave!” disse Bahorel ignorando del tutto la domanda. “Spero tu abbia pensato a qualcos’altro, Courfeyrac.”

“No, merda!” disse Courfeyrac, schioccando le dita come se gli avessero appena rovinato un piano infallibile.

“Aspetta…” iniziò Marius, guardandolo incredulo. “Il tuo piano era di aprire la porta ed entrare semplicemente nell’ufficio? Credevo avessi pensato a qualcosa di davvero geniale.”

“Eh, quando ho scoperto che Javert sarebbe andato da Myriel pensavo sarebbe bastato!” si giustificò Courfeyrac. “Dovrò pensare a qualcos’altro.”

Mentre rifletteva sul da farsi dalla scala di servizio salirono Combeferre, Jehan e Feuilly. “Vi avevo detto che li avremmo trovati qui” disse Combeferre agli altri due. “E immaginavo anche che avrei trovato pure te, Enjolras. Anche se, per un attimo, ho pensato che avresti lasciato perdere.”

“Infatti avrei voluto evitare tutto questo, ma è stato inutile. Immagino che siamo qui per lo stesso motivo, dico bene?” gli disse Enjolras mentre Combeferre avanzava fino ad arrivare alla sua sinistra.

“Controllarlo perché non finisca in guai seri? Sì, suppongo di sì.”

“Ragazzi, ci faremo beccare!” disse Joly, iniziando ad agitarsi: dal modo in cui Bahorel alzò gli occhi al cielo sbuffando, si poteva intuire che non era la prima volta che lo diceva. “Smettila di cercare di entrare in quell’ufficio, Courfeyrac! Torniamocene a casa e lasciamo perdere, prima di finire tutti nei guai!”

“Rilassati, bimbo!” cercò di calmarlo Bossuet, passandogli una mano tra i capelli. “Non c’è praticamente più nessuno a scuola e uno dei due custodi è nostro alleato: cosa vuoi che possa andare storto?”

“Io non ho mai detto che vi avrei coperti!” disse subito Feuilly, facendo capire che fosse per lui non sarebbe neanche salito a controllare la situazione.

“TROVATO!” urlò Courfeyrac. Come lo sentirono urlare, tutti gli altri ragazzi cercarono di zittirlo con un sonoro ‘SHHHHHHHHHHHHT!’, allarmati che qualcuno potesse sentirlo.

“Ma sei impazzito?!” lo rimproverò quasi bisbigliando Grantaire. “Questa è la prima cosa da non fare se non vuoi farci scoprire!”

“Ma… ma perché non lasci stare e basta?” disse Jehan: il volume della sua voce era talmente basso che non gli serviva sussurrare. “Non succede nulla se aspetti una settimana… no?”

“No! È una questione di principio!” disse Courfeyrac sbattendo un pugno sull’altra mano. “Venite con me!” Svoltarono l’angolo e Courfeyrac indicò loro una finestrella stretta in alto. “Credo che porti nel bagno dell’ufficio!”

“Non è troppo stretta per te?” disse Enjolras, capendo che Courfeyrac stava suggerendo di entrare da lì.

Courfeyrac si girò verso di lui con uno strano ghigno sul volto. “Sì… per me sì…” disse guardandolo dalla testa ai piedi.

Enjolras lanciò un’occhiata perplessa al ragazzo, scrutò sé stesso per vedere se ci fosse qualcosa che non andava in lui, poi guardò la finestra un’altra volta e gli si accese la lampadina. “Oh no! Scordatelo!” disse subito Enjolras, indietreggiando di un passo.

“Solo tu ci passi! Dai ti prego! Guardami: ti sto pregando!” disse Courfeyrac mettendosi in ginocchio con le mani giunte.

“Smettila! Ho detto che sarei venuto, non che ti avrei aiutato!” disse Enjolras cercando di far alzare Courfeyrac.

“Beh lui non è l’unico che potrebbe passare di lì…” disse Grantaire, quasi volesse difenderlo. Enjolras rimase confuso da questa reazione: fino a pochi minuti prima aveva spalleggiato Courfeyrac, perché adesso sembrava quasi proteggerlo? Mentre lo fissava, Enjolras vide Grantaire gettare un’occhiata al resto del gruppo.

“Lui non ce lo manderete lì dentro!” disse Bossuet spostando indietro Joly con un braccio. “Ci manca soltanto che gli viene un attacco di panico! Dovresti dire addio al tuo telefono e a lui!”

“Io… io non ci voglio entrare nell’ufficio di Javert… scusa, Courfeyrac, ma non voglio…” disse Jehan, nascondendosi dietro a Feuilly.

A queste reazioni, Courfeyrac si girò di nuovo verso Enjolras e lo guardò con due occhioni da cucciolo bastonato. “Tipregotipregotipregotiprego!” gli disse tutto d’un fiato, tornando in ginocchio davanti a lui.

“Ti ho detto di no: smettila di fare così!” rispose Enjolras. Courfeyrac insistette andando verso di lui sulle ginocchia, quindi Enjolras indietreggiò: nel fare ciò, finì addosso a Bahorel, in pieno petto. L’improvviso colpo fece sì che Enjolras guardasse negli occhi tutti i suoi compagni: lesse sguardi di incoraggiamento e altri di disapprovazione. Poi tornò a guardare gli occhi supplichevoli di Courfeyrac e la sua bontà prese il sopravvento: chiuse le palpebre, alzò la testa verso il soffitto, emettendo un sospiro molto profondo, e si arrese: “E va bene!”

“Davvero?!” Courfeyrac balzò subito in piedi, felice come un bambino a Natale.

“Ma” Enjolras fermò subito il suo entusiasmo, “se non ci sarà modo di uscire senza aspettare che Javert apra quella porta non se ne farà nulla, chiaro?! Non voglio rischiare di finire nei guai per una cosa così sciocca!”

“Accordato!” disse Courfeyrac prendendogli la mano perché la stringesse, come avessero fatto un accordo di quelli seri.

“Enjolras, no… lascia stare!” gli disse subito Combeferre, mettendogli una mano sulla spalla.

Enjolras si girò verso di lui e gli disse: “Non è detto che io lo debba fare. Ma nel caso, conto su di te come palo…”

“Puoi usare il cesso per risalire fino alla finestra: è proprio qui sotto!” disse Courfeyrac. Nel girarsi verso Combeferre, Enjolras non si era accorto che dietro di lui Courfeyrac era salito sulle spalle di Bahorel e stava scrutando dentro il bagno.

Bahorel appoggiò a terra Courfeyrac, poi protese la mano a Enjolras e disse: “È il tuo turno, biondino.”

Perché aveva detto che lo avrebbe fatto? Perché?! Se ne stava già pentendo… ma ormai era tardi per fare marcia indietro. Diede il suo zaino a Marius, si fece aiutare da Bahorel a salire sulle sue spalle e cercò di passare dall’altra parte, tentando di atterrare di piedi sul water, che, per fortuna, era chiuso: non capì nemmeno lui grazie a quale strana dote da contorsionista riuscì ad arrivare dall’altra parte in piedi, ma non era quello il momento per pensarci. Aprì la porta del bagno cautamente, quasi temesse che ci fosse qualcuno dall’altra parte, ed uscì nell’ufficio. Enjolras era già entrato in vicepresidenza e notò che nulla era cambiato dall’ultima volta che ci era stato: l’antico scrittoio in legno scuro si trovava sempre al centro della stanza, maniacalmente in ordine come al solito; gli scaffali, dello stesso legno erano ancora appoggiati alla parete di fronte a lui, straripanti di libri e la grande sedia girevole bianca dava le spalle alla finestra, ordinatamente riposta sotto alla scrivania. La stanza era piuttosto buia perché il professor Javert aveva avuto cura di abbassare le tapparelle uscendo: forse non aveva intenzione di ritornare.

Enjolras entrò di soppiatto nella stanza e andò dritto verso la scrivania: c’erano più cassetti di quanti avesse mai immaginato. Cominciò ad aprirli in ordine, partendo da quello più in alto, sul lato sinistro: fortunatamente anche i cassetti erano in perfetto ordine, quindi Enjolras non ci stava mettendo troppo tempo ad esaminarne il contenuto. Improvvisamente sentì vibrare il suo iPhone dalla tasca posteriore dei pantaloni. Lo estrasse e trovò un nuovo messaggio su whatsapp:

 

- Combeferre:

  “Javert sta arrivando! Nasconditi!”

Fece in tempo ad aprire un ultimo cassetto e, per non si sa quale grazia ricevuta, trovò l’iPhone di Courfeyrac. Lo prese e corse subito verso il bagno, mentre già sentiva il professor Javert girare la chiave nella porta. Si chiuse nel bagno e sentì il professore entrare nell’ufficio: l’aveva scampata per un pelo, ma non si sentì ancora del tutto al sicuro. Cercando di fare meno rumore possibile, andò verso il water, ci salì, si arrampicò in fretta per raggiungere la finestra, tirandosi su con le braccia e arrampicandosi lungo la parete in mattonelle bianche con i piedi, e la attraversò, facendo passare per prima la testa: la distanza tra l’apertura e il water era troppa perché riuscisse ad uscire di piedi. Per sua fortuna, dall’altra parte Bahorel e Feuilly erano appostati sotto la finestra, pronti a prenderlo per le braccia e a tirarlo giù senza che si facesse nulla.

“Grazie, ragazzi” disse Enjolras riprendendo fiato. Continuava a reggersi a Feuilly mentre faceva respiri profondi, più per calmarsi che per la fatica.

“Stai bene? È tutto a posto?” gli chiese preoccupato Feuilly. Enjolras alzò lo sguardo verso di lui, poi vide che tutti sembravano abbastanza agitati per quanto era appena successo.

“Sì, non ti preoccupare” disse Enjolras raddrizzando la schiena. Tirò un ultimo sospiro, guardò Courfeyrac e gli tese il telefono: “Mi devi un enorme favore, sappilo!”

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Capitolo 14
*** Attenti allo squalo! - Bossuet ***


Bossuet

Il sole che filtrava attraverso le fessure delle tapparelle svegliò dolcemente Bossuet: nel weekend Joly non impostava la sveglia, quindi i due si alzavano sempre con tutta calma. Quando fu abbastanza sveglio da essere capace di intendere e di volere, si rese conto di essere sdraiato a terra, avvolto nel lenzuolo in qualche modo strano. Capitava spesso che Bossuet cadesse dal letto: da sempre aveva l’abitudine di dormire sul bordo, così, se durante il sonno si girava, *SBAM*: si ritrovava a terra. Molte volte la caduta era tale da farlo svegliare, quindi o ritornava a letto oppure svegliava Joly perché gli era passato il sonno; altre volte, invece, le coperte attutivano la sua caduta e lui continuava a dormire. Quella notte doveva essere andata così, oppure era talmente stanco per quei primi quattro giorni di scuola che se anche si fosse fatto male non se ne sarebbe accorto.

Bossuet cercò di liberarsi dal lenzuolo e, quando ci fu riuscito, si alzò e lo appallottolò sul letto, senza curarsi di metterlo in ordine. Stava giusto per recarsi in bagno per darsi una sistemata prima di andare a fare colazione, ma si girò verso Joly: il ragazzo stava ancora dormendo come un bambino, nella sua solita posizione, una che aveva trovato su un chissà quale libro, il quale consigliava una serie di metodi per favorire un buon sonno. Era lì, col letto da lui spostato perché fosse orientato verso nord, steso sulla schiena, con le mani appoggiate sulla pancia e le gambe incrociate: Bossuet non capiva tutte queste sue fisse, ma diamine se era carino sdraiato a quel modo! Si avvicinò piano, si mise in ginocchio di fianco al suo letto, gli sfiorò i capelli e gli diede un bacio sulla guancia. Continuò ad accarezzare la folta chioma castana mentre guardava Joly aprire lentamente gli occhi.

“Buongiorno, amore mio.” Bossuet lo guardava con uno sguardo dolcissimo, come se stesse guardando la cosa più preziosa che aveva.

“Buongiorno” rispose Joly con voce ancora stanca, ricambiando lo sguardo per quanto i suoi occhi ancora addormentati glielo permettessero. “Che ore sono?”

“Non ne ho idea!” rispose allegramente Bossuet.

“Allora perché mi hai svegliato?” chiese Joly, girandosi su un lato, verso Bossuet, lasciando che il ragazzo andasse avanti a coccolarlo dolcemente.

Bossuet guardò quei piccoli occhi verdi e il suo sguardo si intenerì ancora di più. Dopo qualche secondo di silenzio, rispose: “In realtà non avevo intenzione di svegliarti. Volevo solo di darti un bacio, ma visto che sei sveglio…”

“No… adesso no…” lo interruppe Joly, come se immaginasse di aver capito a cosa il suo ragazzo alludesse. “È troppo presto: non mi va…”

“Ahahah! Ma cos’hai capito? No, non volevo dire quello, tranquillo!” disse Bossuet, sapendo esattamente a cosa aveva pensato Joly. A lui non era nemmeno venuto in mente, in verità… o quanto meno fino a quel momento. “Ma magari stanotte sì…”

“Umh…” Joly non sembrava convinto della proposta. “Non so… meglio se ne riparliamo dopo.”

Bossuet cercò di convincerlo: “Dai! È passato tanto dall’ultima volta… è stato prima delle vacanze. Da quando siamo tornati non l’abbiamo ancora fatto.”

“Adesso non mi va di pensarci” gli disse tranquillamente Joly, tirandosi verso di lui. “Spiegami, piuttosto, che cosa volevi dire prima.”

Bossuet ci rimase un po’ male che Joly non gli avesse dato una risposta. “Sei irritabile di prima mattina, eh?” disse scherzando, scompigliandogli il ciuffo. “Volevo solo proporti di venire a far colazione con me, almeno non rischio di andarci da solo.”

Bossuet vide Joly guardare la sveglia che aveva sul comodino alle sue spalle e, di riflesso, si girò anche lui: segnava le nove. Joly non poteva lamentarsi di essere stato svegliato perché le sue otto ore di sonno le aveva fatte.

“D’accordo” disse mentre si tirava su per appoggiare la schiena alla testata in ottone del letto. Si stiracchiò, si piegò in avanti leggermente e poi disse: “Dammi solo qualche minuto.” Bossuet lo guardò sfregarsi gli occhi, poi si alzò e si sedette sul letto accanto a lui; lo prese per le spalle e lo spinse dolcemente contro la testiera, spostò la mano sulla sua guancia e lo baciò.

Fu un bacio piuttosto lungo, al termine del quale i due si guardarono per un po’. Fu Joly a rompere il silenzio: guardando con un sorriso perplesso il suo ragazzo disse: “Sicuro che non avessi ragione? Possibile che tu abbia sviato il discorso dopo il mio rifiuto?”

“Adesso non posso nemmeno più baciarti?” gli disse quasi ridendo Bossuet, mentre con il pollice gli carezzava la guancia. “Non ho sempre un secondo fine, sai?” Detto ciò si avvicinò e lo baciò di nuovo. Poi si alzò e andò in bagno per sistemarsi un attimo.

 

Quando la coppia arrivò nella sala principale, Bossuet vide che al tavolo c’era solamente Enjolras, intento a leggere un grosso tomo: chi glielo faceva fare di leggere un libro del genere di prima mattina? Di sabato, oltretutto!

“Enjolras che fai?” gli chiese Joly, probabilmente sorpreso quanto Bossuet di vederlo studiare così di buon’ora.

Enjolras si destò dalla sua lettura e alzò lo sguardo dal volume: “Ah… buongiorno ragazzi.”

Joly gli andò dietro e appoggiò una mano sul tavolo rotondo e l’altra sullo schienale della sedia di Enjolras. Poi scrutò il tomo e chiese: “Che cosa stai leggendo così presto?”

“Sto facendo una ricerca approfondita sul diritto internazionale” rispose il biondo ragazzo prima che gli scappasse uno sbadiglio: cercò di contenerlo il più possibile, quasi sbadigliare fosse maleducato.

“Perché?” gli chiese Joly sorpreso. Bossuet capiva il perché del suo stupore: gli aveva parlato del diritto internazionale l’anno passato raccontandogli una delle sue giornate scolastiche. Anche a lui venne da chiedersi perché Enjolras stesse facendo una ricerca su un argomento del quarto anno quando lui aveva appena cominciato il terzo.

“È la mia punizione per aver aiutato Courfeyrac a riprendersi il telefono” disse Enjolras, scrocchiandosi il collo. “Quando Javert lo ha scoperto ho dovuto confessare di averlo aiutato. Non abbiamo fatto i vostri nomi, tranquilli: ci siamo presi io e lui tutta la responsabilità.”

Joly e Bossuet si lanciarono un’occhiata, quasi si sentissero in colpa. “E la fai a quest’ora?” disse Bossuet avvicinandosi ai due ragazzi.

“Veramente è tutta notte che ci lavoro” spiegò Enjolras, recuperando la penna e scrivendo qualcosa sul quaderno che aveva lì di fianco: sembrava quasi che li stesse ascoltando e lavorando allo stesso tempo.

“Potevi chiedere a me e a Bahorel” gli disse poi Bossuet. “Noi lo abbiamo fatto l’anno scorso: non sarebbe stato un problema aiutarti.”

Enjolras fece spallucce senza staccare gli occhi dal libro e poi disse: “Non mi andava di disturbarvi per una sciocchezza simile.”

“Beh ma…” riprese Bossuet, sentendo ancora di più il rimorso per tutto quello che era successo, “c’eravamo anche noi mercoledì: in più che non avete fatto i nostri nomi, aiutarvi sarebbe stato il minimo.”

“Tranquillo, Bossuet” Enjolras alzò lo sguardo e gli rispose con un sorriso rassicurante. “Tanto non avevo sonno, stanotte. E comunque ho finito. L’unica cosa di cui ho bisogno è un caffè” terminò lasciando cadere la penna e appoggiandosi allo schienale della sedia per stiracchiarsi un po’. Aveva uno sguardo stanchissimo: forse più che un caffè avrebbe avuto bisogno di andare a dormire. Appoggiò i gomiti sul tavolo e affondò la testa tra le mani chiudendo gli occhi, quasi si sentisse male.

“Va tutto bene?” gli chiese subito Joly preoccupato.

“Sì sì… solo un giramento di testa, tranquillo.”

“Vai a dormire un po’, dai…” gli disse Joly, abbassandosi per guardarlo in viso. “Devi recuperare le ore di sonno che hai perso o rischi di sentirti male…”

“Ha ragione” intervenne Bossuet prima che Enjolras potesse dire qualsiasi cosa: già si vedeva che avrebbe voluto controbattere. “Se non ti fermi un po’ un giorno finirai con il crollare.”

Enjolras li guardò sorridendo e disse: “Forse avete ragione!” Poi recuperò libro e quaderno, si alzò lentamente e si diresse verso la sua stanza; prima di uscire dalla grande sala comune si girò verso di loro, li ringraziò e se ne andò, incrociando Grantaire e Bahorel nel corridoio.

“Che gli è successo?” fu la prima cosa che chiese Bahorel quando vide Bossuet e Joly, indicando con il pollice verso Enjolras, dietro di sé.

Grantaire continuava a guardare Enjolras andarsene e il suo sguardo sembrava preoccupato. Una volta che il ragazzo non fu più visibile dalla stanza, si girò e disse: “Quando l’ho chiesto a lui mi ha risposto ‘Niente, tranquillo’, ma io so che non è vero.”

“È stato alzato tutta la notte a studiare” rispose loro Joly avvicinandosi a Bossuet.

“Niente che una dormita non possa risolvere, insomma” aggiunse Bossuet prendendo per mano Joly. “Fate colazione con noi?”

“Umh.” Bahorel stette a rifletterci un attimo, poi il suo stomaco si fece sentire. “Beh… dopo la corsetta che ci siamo fatti direi che può starci una seconda colazione.” Si mise una mano sulla pancia e si girò verso Grantaire: “Tu che ne dici, R[1]?” L’altro ragazzo sembrava distratto: continuava a guardare verso il corridoio e non si accorse nemmeno che Bahorel stava parlando con lui.  Notando che non lo aveva sentito, Bahorel gli diede una pacca sull’addome e gli disse: “R! Sei tra noi?”

“Ahia!” esclamò immediatamente Grantaire, portandosi la mano nel punto in cui Bahorel lo aveva colpito. “Ho capito che volevi che ti ascoltassi, ma era necessario colpirmi così forte?!”

“Fai colazione o che?” disse l’altro, senza degnarlo di una risposta.

“Magari giusto un caffè” disse Grantaire riportando la sua attenzione al corridoio. In quell’istante arrivò Combeferre: notò lo sguardo di Grantaire e si girò confuso, come volesse capire cosa stesse guardando. A Bossuet la scena fece sorridere e l’espressione straniata di Combeferre rese il tutto ancora più buffo.

“Problemi?” fu la prima cosa che chiese Combeferre entrando nella stanza. Bossuet notò che stava sorridendo: forse sapeva già cosa passava nella testa di Grantaire.

“N-no nessuno!” rispose subito il ragazzo quasi in imbarazzo. “A-andiamo a far colazione?”

Combeferre sembrò voler lasciar correre e i ragazzi si avviarono verso la cucina. Joly fermò Bossuet prendendogli il braccio e gli disse: “Ma è successo qualcosa a Grantaire, secondo te?”

Bossuet si girò a guardare Grantaire e poi si rigirò verso Joly e gli disse: “No… o comunque non è nulla di nuovo!”

 

La mattinata trascorse tranquilla: si fece pomeriggio e Enjolras ancora non si era alzato dal letto, nemmeno per pranzare. Gli altri ragazzi erano tutti insieme nella sala comune: Bossuet stava seduto sul pavimento a guardare un film sul suo portatile assieme a Joly, una cuffietta a uno e una all’altro; Bahorel, Grantaire e Marius stavano guardando una partita di calcio in televisione; Jehan, Combeferre e Courfeyrac, invece, stavano seduti al tavolo: Jehan stava leggendo, Combeferre ricopiava gli appunti e Courfeyrac avrebbe dovuto fare la ricerca datagli da Javert per punizione, ma sembrava assorto in altri pensieri.

Con l’orecchio libero, Bossuet credette di sentir dire qualcosa a Courfeyrac, ma non ne fu sicuro, quindi non si girò per non perdersi la scena del film: finalmente stava per scoprire come Alfred Borden riusciva a compiere il trucco del trasporto umano!

“Bossuet! Joly! Mi state ascoltando?” alzò la voce Courfeyrac per farsi sentire.

“Aspetta aspetta! Finalmente stiamo per capire come fa a fare il trasporto umano!” disse Joly sistemandosi la cuffietta.

“Cos’è, il film dei due illusionisti con Hugh Jackman[2]? Quello in cui uno dei due ha un gemello?” disse Bahorel dal divano, girando solo la testa.

Joly rimase a guardarlo sconvolto per un attimo poi disse: “Grazie per averci rovinato il finale!”

“Oh-oh! Allora avevo ragione!” disse entusiasta Bossuet mentre nello schermo vide che ciò che Bahorel aveva rivelato loro era vero. Poi passò un braccio attorno al collo di Joly, si girò verso di lui, lo tirò verso di sé e proseguì, sussurrandogli nell’orecchio: “Stasera riscuoto la vincita della scommessa, tesoro mio!”

Joly riuscì ad allontanarsi abbastanza per guardarlo in viso e gli disse: “Come se non lo avresti fatto lo stesso!”

“Ragazzi mi ascoltate, per favore?” disse Courfeyrac cercando di riportare l’attenzione su di sé. Si era alzato in piedi, appoggiando entrambe le mani sul tavolo e sporgendosi in avanti. Bossuet decise di mettere in pausa il film e lui e Joly si tolsero ognuno la propria cuffietta dall’orecchio in modo da fargli capire che lo stavano ascoltando. “Grazie” riprese Courfeyrac. Iniziò poi a camminare in giro per la sala comune con le mani dietro alla schiena. “Dunque: tutti voi ricorderete di avermi fatto una promessa prima della fine dell’anno…”

I ragazzi stettero a guardarsi l’un l’altro in silenzio: di quale promessa stava parlando Courfeyrac? Bossuet iniziò a pensare di essersi perso qualcosa perché non riusciva proprio a ricordarsi di alcuna promessa. Guardò verso Combeferre, dato che lui ricordava sempre tutto, però nemmeno lui sembrava capire a cosa pensasse Courfeyrac: lo guardava da sopra gli occhiali, con uno sguardo confuso e anche un po’ perplesso.

“Ma sì, dai ragazzi!” disse Courfeyrac capendo che i suoi amici non ricordavano. “Mi avevate promesso che saremmo andati in piscina tutti assieme prima della fine dell’estate!” Ah giusto! Ora Bossuet riusciva a ricordare: Courfeyrac lo scorso giugno aveva rotto talmente tanto l’anima per andare in piscina che Enjolras, esasperato, gli aveva detto che prima della chiusura della stagione estiva ci sarebbero andati insieme; in quei giorni avevano troppe verifiche e interrogazioni perciò avevano dovuto posticipare.

“È vero! Ora me lo ricordo anch’io!” esordì Jehan, alzando lo sguardo da un vecchio libro che Bossuet non aveva mai visto. “Mi ricordo che Enjolras mi aveva accompagnato a comprare un costume nuovo per andarci! Ricordi, Combeferre? C’eri anche tu con noi.”

“Sì, me lo ricordo, Jehan” disse dolcemente Combeferre, passandogli una mano sulla schiena. Poi si rivolse a Courfeyrac: “E quando vorresti andarci?”

“Che giorno è oggi?” chiese Courfeyrac cercando di capire se la piscina fosse ancora aperta.

Bossuet guardò verso lo schermo del computer e disse: “Il 6. La piscina in genere chiude a metà settembre.”

“Beh” cominciò a dire Bahorel, stiracchiandosi sul divano e alzando nuovamente il volume del televisore: per ascoltare Courfeyrac lo aveva abbassato. “Suppongo che chiuderà la prossima domenica: tra due lunedì sarà il 15. Possiamo organizzarci per sabato prossimo, se proprio ci tieni!”

Courfeyrac andò spedito verso di lui, gli strappò il telecomando dalle mani e spense il televisore. “Courfeyrac sei crudele!” disse Marius smettendo di stringere il cuscino del divano che teneva tra le braccia, seduto a terra davanti al televisore. “Volevo vedere se avrebbero segnato oppure no!”

“Andiamoci domani!” disse Courfeyrac a Bahorel, gettandosi in ginocchio vicino al suo viso. “Non voglio rischiare che la piscina chiuda questo weekend!”

“Ssssì…” gli disse Bahorel guardandolo impietrito, quasi fosse inquietato. “Inizia ad allontanarti dalla mia faccia, prima che io piazzi sulla tua un pugno!” Courfeyrac si spostò: le minacce di Bahorel facevano paura anche a lui.

“Dai, ragazzi! Non ci vuole una scienza ad organizzare una giornata in piscina!” riprese Courfeyrac per convincerli, alzandosi in piedi e guardandoli uno per uno. “Non vi sto chiedendo mica di andarci ora!”

“Onestamente io non mi sono portato dietro il costume…” disse Grantaire mentre sorseggiava la birra direttamente dalla bottiglia. “Non pensavo mi sarebbe servito adesso.”

“Possiamo andare a comprarli!” disse Courfeyrac, voltandosi di scatto verso di lui.

“Tu non devi mica fare la ricerca per Javert?” disse Combeferre gettando un’occhiata al libro di diritto che stava aperto sul tavolo. “Devo ricordarti che ve l’ha chiesta per lunedì? Se adesso devi andare a comprare il costume e domani vuoi andare in piscina, quando credi di farla?”

Courfeyrac corse immediatamente verso di lui, si gettò sul tavolo e lo implorò, a mani giunte: “La finisco quando torniamo, te lo prometto! Ma ti prego andiamoci!” Gli altri ragazzi si guardarono pensierosi, quasi stessero decidendo il da farsi solo con lo sguardo.

Fu Jehan il primo ad intervenire: “Beh… sarebbe carino passare una giornata diversa… considerando che la scuola è iniziata solo da una settimana, non abbiamo nemmeno un granché da fare.”

Bossuet si convinse: guardò verso Combeferre e gli disse: “Accontentiamolo, dai! Sarà divertente!”

Bossuet notò che sembravano tutti convinti di accettare la proposta, tranne Combeferre, che passò lo sguardo su ciascuno di loro per decidere il da farsi. “Voglio prima parlarne con Enjolras” disse infine alzandosi in piedi. “Soprattutto perché non mi fido del fatto che tu faccia davvero quella ricerca, se perdi due giornate in questo modo. Lui è stato categorico: questa punizione l’avresti scontata, visto che hai accorciato la prima riprendendoti l’iPhone! E io sono d’accordo con lui.”

“Vai a svegliarlo! Vai a svegliarlo!” Courfeyrac preso dall’entusiasmo gli stava strattonando il braccio. “Digli che gli prometto di fare la ricerca stasera e non dormirò finché non l’avrò finita!”

“No che non lo sveglio!” rispose secco Combeferre ritirando il braccio.

“Vado a svegliarlo io!” Courfeyrac stava già correndo verso la stanza di Enjolras, ma Combeferre lo fermò prendendolo per la maglietta.

“Lascialo riposare tranquillo!” disse. “Attenderai il tempo che c’è da attendere!”

“Guarda almeno se si è svegliato!” lo supplicò infine Courfeyrac. Esasperato, Combeferre acconsentì e andò verso la sua camera da letto. “Evvai!” esclamò il ragazzo dai riccioli neri. “Io chiamo Feuilly!”

“Cosa ti fa pensare che Enjolras dirà di sì?” gli disse Joly mentre lui stava già cercando il numero di Feuilly sul suo telefono.

“Non appena ricorderà di avermelo promesso dirà di sì: è fatto così!” disse Courfeyrac con un sorriso a trentadue denti stampato in volto. “Pronto Feuilly?” disse uscendo dalla stanza per sentire meglio.

 

Dovettero attendere circa trenta minuti prima che Enjolras e Combeferre arrivassero e dessero la loro approvazione all’iniziativa di Courfeyrac. Come Enjolras pronunciò le parole ‘Va bene’, Courfeyrac fece un balzo altissimo e gli saltò al collo, poi corse subito in stanza per prepararsi per uscire. Enjolras sospirò, probabilmente ancora stanco per essersi appena svegliato, e, dopo che Combeferre gli mise una mano sulla spalla come a incoraggiarlo, fece un cenno con la testa a tutti gli altri, come volesse suggerire di prepararsi ad uscire.

Tutti i ragazzi si incamminarono verso le rispettive stanze e nella sala comune rimasero solo Bossuet, che stava sistemando il suo portatile nella borsa, e Marius, ancora seduto a terra. Bossuet gli si avvicinò, gli mise una mano sulla spalla per richiamare la sua attenzione e gli disse: “Tu non vieni?”

Marius sembrò confuso: “I-io?”

“Certo!” disse immediatamente Bossuet, sorridendogli. “Guarda che sei invitato anche tu!”

Marius gli sembrò davvero felice nel sentirgli dire quelle parole. Bossuet lo aiutò ad alzarsi e i due si avviarono insieme nelle loro camere per prepararsi ad uscire.

 


[1] Diminutivo con cui lo chiamano gli altri ragazzi, da leggere “Er”.

Riferimento al romanzo: durante la descrizione di Grantaire, Hugo scrive: “[…] si chiamava Grantaire e di solito firmava con questo rebus: R. […]”. “Grantaire”, in francese, si pronuncia come “grande R”, quindi R maiuscola.

[2] Piccolo tributo: nella versione cinematografica, Hugh Jackman interpretò Jean Valjean.

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Capitolo 15
*** Attenti allo squalo! - Grantaire ***


Grantaire

“Siete tutti pronti? Non posso lasciare il pulmino qui fuori!” La voce di Feuilly salì lungo la stretta tromba delle scale arrivando fino al primo piano dove i ragazzi stavano terminando gli ultimi preparativi. Grantaire era nella sua stanza con la porta aperta e stava controllando che nel suo borsone ci fosse tutto: il ricambio c’era, l’asciugamano anche, la crema solare l’aveva presa, il costume lo aveva addosso…

“Grantaire?” Il ragazzo riconobbe subito la voce che lo stava chiamando e si voltò: Enjolras era sull’uscio della stanza e diede un colpetto alla porta come per bussare. Indossava dei jeans corti chiari e una maglietta rossa leggera che gli cadeva morbida sui fianchi: cazzo se stava bene vestito così! “Sei pronto? Dobbiamo andare.”

Vedere così all’improvviso Enjolras lo aveva fatto distrarre da ciò che stava facendo. Rimase un attimo a fissarlo, poi Enjolras lo chiamò ancora e lui si riprese… più o meno. “Eh? Ah, sì sì!” disse girandosi nuovamente verso il suo borsone. “Devo solo ricordarmi dove ho messo gli occhiali da sole… non li trovo.” Ci fu un attimo di silenzio nel quale Grantaire continuò a rovistare nel borsone in cerca degli occhiali. Dopo qualche istante, si accorse che Enjolras era di fianco a lui, tanto vicino quanto basta per far sì che il cuore cominciasse a battergli all’impazzata, persino più di prima. Poi si sentì come sfilare qualcosa da sopra i capelli.

“Li avevi in testa…” disse il biondo ragazzo con in mano gli occhiali che Grantaire stava cercando.

“Ah…” disse Grantaire sorpreso dal fatto che non se ne fosse accorto. “Oggi non so proprio dove ho la testa!” Ridacchiando riprese gli occhiali dalle mani di Enjolras e li infilò nel borsone, sapendo che gli occhi azzurri dell’altro ragazzo lo stavano ancora guardando.

“Dai, veloce: Feuilly deve spostare il pulmino.” Mentre pronunciava queste parole, Enjolras uscì dalla stanza per raggiungere gli altri al piano di sotto. Grantaire riprese a respirare facendo un lungo sospiro e si sedette un attimo sul suo letto: erano solo le nove e mezza e lui aveva già fatto una figuraccia con Enjolras! Accidenti a lui e alla sua imbranataggine! Ma non aveva il tempo di pensarci: doveva scendere immediatamente, se non altro per evitare che si arrabbiasse.

Scese e vide che Marius stava parlando con Éponine alla reception: li aveva visti parlare parecchio in quella settimana. Non riuscì a sentire cosa si stavano dicendo: solo mentre si avvicinava per chiamare Marius udì lui dirle: “Sei sicura di non voler venire? Feuilly dice che se vuoi ci stiamo…”

“No, Marius… non posso…” rispose lei dispiaciuta. “Devo restare qui ad aiutare i miei… se li sostituisco nel weekend, loro mi lasciano un po’ di tregua durante la settimana.”

“D’accordo… sarà per la prossima volta, allora.”

“Marius!” Enjolras lo stava chiamando da fuori. “Ci sei?”

“Arrivo!” gli urlò in risposta. Poi si girò verso Éponine e la salutò sorridendo: “A più tardi!”

Grantaire si avviò al pulmino salutando Éponine con la mano, quando sentì Enjolras chiedere: “Ma Grantaire è sceso?”

“Sono qui, sono qui!” Enjolras e Feuilly erano giù dal mezzo di trasporto e li stavano aspettando. Quando salì sul pulmino, Grantaire vide che gli altri ragazzi erano tutti lì: Bossuet e Joly si erano seduti nei due posti più avanti, visto che Joly soffriva il mal d’auto… o almeno così diceva lui; Jehan si era seduto accanto a Combeferre nei sedili dietro ai loro; immediatamente dietro, Marius si era seduto accanto a Courfeyrac e Bahorel stava seduto ad accordare la chitarra sul sedile singolo di fianco a loro, con in testa un vecchio cappellino da baseball. Grantaire si sedette nell’altro posto singolo davanti a Bahorel, poi vide Feuilly mettersi al posto di guida e iniziare ad avviare il motore, mentre Enjolras buttò un’occhiata veloce agli altri, come per assicurarsi che ci fossero tutti; poi fece un cenno a Feuilly e si sedette nel posto accanto a lui.

 

L’inizio del viaggio fu tranquillo: si sentivano i ragazzi chiacchierare tra loro e ogni tanto anche Bahorel pizzicare le corde della chitarra. Aveva dimenticato l’accordatore (c’era “scordato l’accordatore…”), ma non gli servì: Bahorel aveva un orecchio da far invidia anche ai professionisti, questo Grantaire l’aveva notato da tempo. Mentre lui chiacchierava con Bahorel, notò che Jehan stava mostrando le nuvole a Combeferre, che guardava pazientemente cercando di riconoscere anche lui le forme che vedeva il minuto ragazzino. Grantaire guardò poi davanti a sé, verso Enjolras: lo vide parlare con Feuilly, mentre si scambiavano sorrisi e sguardi, alle volte senza dirsi nulla, ma non riusciva a sentire di cosa stessero parlando. Solo Joly sembrava non essere tranquillo: probabilmente non si sentiva molto bene. Bossuet cercava di distrarlo, facendogli appoggiare la testa sulla sua spalla e facendolo pensare ad altro; ogni tanto, anche Enjolras si alzava per vedere come stava, tornando poi a parlare con Feuilly: chissà cosa si stavano dicendo, porca miseria!

“Cantiamo qualcosa!” urlò Courfeyrac, alzandosi in piedi.

“Siediti” disse svogliatamente Combeferre, senza nemmeno girarsi. Neanche a parlarne: Courfeyrac iniziò subito a urlare qualche canzone, ma era talmente stonato che nessuno capì cosa stesse cantando. Il povero Marius lo guardava senza parole: Grantaire pensò che avrebbe voluto avere dei tappi per le orecchie per non doverlo sentire e, in effetti, anche lui li stava desiderando! Non si definiva un esperto di musica, ma quand’era piccolo aveva preso qualche lezione e sentire delle note stonate gli dava un po’ di fastidio.

“MI LASCI ALMENO ACCORDARE LA CHITARRA?!” urlò Bahorel a Courfeyrac in modo da avere un volume di voce più alto del suo, cosa non difficile per uno con la sua potenza vocale.

“Sì ma muoviti!” disse Courfeyrac, spostandosi nel corridoio tra i sedili. “Siamo partiti da dieci minuti! Quanto ti ci vuole?!”

Leggermente piegato sulla chitarra per sentire il suono prodotto dalle corde, Bahorel disse: “Ci vuole il tempo che ci vuole! Senza accordatore non è facile trovare la nota perfetta! Se tu tacessi una volta nella vita, sicuramente la troverei prima!” Bahorel non era mai stato un perfezionista, ma quando si parlava di musica era diverso: non poteva sopportare i suoni stonati, si trattasse di una singola nota o di un accordo, neanche se il compositore aveva voluto così. Sembrava proprio soffrire fisicamente quando sentiva un suono che non gli piaceva, Grantaire oramai lo sapeva bene: finché non avesse sentito la nota corretta avrebbe continuato a sistemare quella corda.

“Trovata!” disse sentendo finalmente il suo MI. “Qualche richiesta?” Doveva essersi accorto che Grantaire era distratto perché si girò verso di lui e gli diede una manata sul braccio dicendo: “Perché non canti qualcosa tu, R?”

“Eh? I-io?” disse Grantaire girandosi di scatto verso di lui. “Non so…”

“Tu canti, Grantaire? Davvero?” disse Bossuet, sbucando da dietro Joly. “Non lo sapevo!”

“Beh… me la cavo, mettiamola così.”

“Canta canta canta!” gli urlò Courfeyrac entusiasta, andando verso di lui.

“Tu siediti!” disse Combeferre, che evidentemente cominciava a spazientirsi. Grantaire notò che si erano girati tutti verso di lui: a quanto pare solo Bahorel sapeva che lui sapeva cantare. Davvero non aveva mai cantato in presenza degli altri? Non lo riusciva proprio a ricordare.

“Ok. Emh…” disse Grantaire, riflettendo su quale canzone avrebbe potuto cantare. “Ti ricordi gli accordi di ‘I will follow you into the dark’ dei Death cub for cutie?[1]”

Bahorel lo guardò con uno sguardo perplesso, quasi non fosse convinto della scelta. “Certo, ma mi aspettavo una scelta più… allegra!” disse posizionandosi per iniziare a suonare. “Ma se piace a te…” Detto ciò, cominciò a suonare.

Grantaire si sentì gli sguardi degli altri ragazzi addosso: la cosa un po’ lo metteva a disagio e per un attimo non fu convinto di voler iniziare a cantare, ma quando sentì l’attacco di Bahorel iniziò. “Loove of mine - some daaay you will dieee. But I'll be a close behind. I'll follow youu into the daaark.”

Nel sentirsi cantare dopo tanto tempo, Grantaire sentì di avere una voce molto dolce, delicata e pulita nel cambiare nota, e questo gli fece prendere un po’ più di sicurezza: non cantava come si doveva da settimane, eppure gli sembrò di cavarsela piuttosto bene. Forse gli altri ragazzi non se lo aspettavano, pensò Grantaire, perché li vide guardarlo come fossero sorpresi che sapesse davvero cantare. Ad un certo punto, mentre cantava senza concentrarsi troppo, si voltò e incrociò l’unico sguardo che gli interessava: anche Enjolras si era girato verso di lui per ascoltarlo. Grantaire avrebbe voluto continuare a guardarlo, ma la sua timidezza prese la meglio e lo costrinse a volgersi altrove. “If heaven and hell deciiiide. That they both aaare satisfiiiiiiied. Illuminate the noo's on their vaaacancy siiiiiiiigns” Ogni tanto si voltava verso il biondo ragazzo, quasi volesse assicurarsi che lo stesse guardando ancora: gli piaceva sentire su di sé i suoi pensierosi occhi azzurri. Ad un certo punto, Enjolras mise le braccia sul sedile e vi appoggiò sopra la testa, chiudendo le palpebre, come volesse ascoltare meglio. Grantaire non riuscì più a levargli gli occhi di dosso e gli parve che tutto sparisse attorno a loro. “If there's no one beside youuuuu. When your soul embaaaaaaaaarks. Then I'll follow youuu into the dark. Then I'll follow youuuu intooo the daaaark.”

“Bravo, cazzo!” L’euforia con cui Courfeyrac aveva urlato al termine della canzone e gli applausi che seguirono ruppero la magia che si era creata nella testa di Grantaire: si guardò attorno, quasi non capisse cos’era appena accaduto. Quando realizzò di aver terminato la canzone, sorrise e ringraziò i suoi amici.

“Quando hai imparato a cantare così?” gli chiese Marius, che sembrava piacevolmente colpito dal talento di Grantaire.

“Quand’ero piccolo mia madre iscrisse me e mia sorella a una scuola di musica” gli spiegò Grantaire. “Ho imparato lì a cantare e a suonare il violoncello. Con lo strumento ho smesso, ma a cantare ogni tanto mi esercito ancora.”

“Chi lo avrebbe mai detto…” si lasciò sfuggire Feuilly, sorridendo sorpreso: Grantaire riusciva a vedere la sua espressione attraverso lo specchietto retrovisore.

Jehan sembrò illuminarsi e nei suoi occhi c’era quasi meraviglia. “Sei bravissimo!”

“Ha ragione” disse Enjolras. Nel sentirglielo dire, Grantaire si girò di scatto verso di lui: non se lo aspettava. Lo guardò per un attimo sorpreso, poi gli sorrise.

“Enjolras, mi diresti che strada devo prendere, per favore?” Stavolta fu Feuilly a interrompere il momento magico di Grantaire, richiamando l’attenzione di Enjolras: dannazione...

“Adesso canto io!” urlò Courfeyrac, riportando tutti gli sguardi su di sé.

“Scegli una canzone che possiamo fare tutti!” disse Bahorel, porgendogli un canzoniere. “Le mie orecchie non riusciranno a sopportare le tue note stonate un’altra volta: meglio cercare di coprirle con altre voci.”

 

Una volta arrivati, Feuilly li fece scendere, così che entrassero mentre lui andava a cercare un parcheggio abbastanza grande, e Enjolras si diresse in biglietteria con Combeferre e Courfeyrac per pagare l’ingresso. Quando tornarono tutti e quattro, i ragazzi andarono verso lo spogliatoio: vestiti negli zaini, cuffia e teli alla mano e poi via, dritti all’esterno. L’area all’aperto della piscina era molto grande e Grantaire notò che c’erano cinque vasche: due per bambini, una bassa e una con gli scivoli, un’altra con un macchinario per creare le onde, una quarta olimpionica e infine quella principale, ovvero una grandissima vasca a sfioro, con il pavimento a depressione. Guardandosi attorno, Grantaire vide anche un grande bar, un campetto da beach volley e un’area adibita a parco giochi affiancata da un’ampia zona sabbiosa. Enjolras pensò di approfittare della piscina olimpionica fintanto che era libera: tutte le famiglie si trovavano tra le altre vasche per far giocare i bambini, quindi era quella la vasca più tranquilla. A quel punto, Combeferre indicò alcune sdraio a bordo della vasca: le avevano prenotate apposta per loro quando avevano pagato l’ingresso. Grantaire notò che Feuilly e Marius sembravano come sbalorditi da questo fatto: era da quando erano entrati che avevano dipinte sul volto delle espressioni spiazzate e meravigliate assieme.

“Che succede?” chiese loro Grantaire.

“Nulla è solo che… questa piscina è gigantesca!” disse Feuilly senza smettere di guardarsi attorno.

“Inoltre…” iniziò ad aggiungere Marius. “Avete davvero prenotato le sdraio?! Io quando andavo in piscina mi sedevo sempre per terra, sugli asciugamani!”

“Troppo lusso per me: non ci sono abituato!” disse Feuilly, guardando verso Combeferre, che gli stava passando a fianco in quel momento.

“Pensavo che a venire in giro con noi per due anni ci avessi fatto l’abitudine” rispose Combeferre occupando la sdraio accanto ad Enjolras. “Ah, ora che ci penso. Ne abbiamo parlato e ti abbiamo pagato tutto noi.”

“Che cosa?” disse Feuilly. “No, ragazzi: non serve!”

“Non hai voluto che ci dividessimo i soldi per la benzina” disse Enjolras cercando qualcosa nel suo borsone. “Non avrai davvero creduto che ti avremmo lasciato pagare l’ingresso?”

Feuilly avanzò e si sedette accanto a lui, dicendogli: “Suppongo che se l’idea è stata tua io non abbia speranza di convincerti a lasciar perdere, vero?”

“Esattamente!” rispose Enjolras, senza distogliere lo sguardo dall’interno della tasca posteriore.

Grantaire avanzò assieme a Marius e si misero nelle due sdraio dopo quelle di Courfeyrac, dove il ragazzo li stava chiamando. Bahorel era seduto sul lettino accanto a Grantaire intento a coprire i capelli castani sotto alla cuffia.

Quando finì, notò che Jehan stava puntando la zona sabbiosa. “Che guardi?” gli chiese. “Non starai davvero pensando di andare laggiù?!”

“Perché no?” rispose immediatamente Jehan. “Ho voglia di fare un castello di sabbia!”

“Sul serio?!” disse Bahorel. Grantaire, intento a coprire con la crema solare il tatuaggio a forma di rosa dei venti che aveva sull’avanbraccio sinistro, facendo attenzione a ripassarne bene i riccioli che si estendevano verso la piega del gomito e il polso, si rese conto che egli avrebbe voluto ridere: quale adolescente si sarebbe davvero messo a giocare con la sabbia sotto gli occhi di tutti?

“Sì, che problema c’è?” I grandi occhi azzurri di Jehan si posarono su Bahorel, lasciandolo senza parole. Il robusto ragazzo si girò allibito verso Grantaire, come se chiedesse conferma di quanto aveva appena sentito.

Fu quando Grantaire gli fece spallucce che Bahorel si girò verso Jehan e gli disse: “Copriti almeno la testa, che se ti prendi un’insolazione Enjolras poi si incazza!” Prese il suo cappellino, che aveva lasciato sulla sdraio, e lo mise a Jehan, il quale si tastò la testa, sorrise e corse felice verso la zona sabbiosa.

“Grazie Bahorel!” aveva urlato correndo. Bahorel lo guardò allontanarsi, poi sospirò, fece cenno a Grantaire di seguirlo e si buttò direttamente in piscina.

Grantaire rimase per un attimo seduto mentre si toglieva la maglietta. Davanti a lui, Joly e Bossuet avevano recuperato un ombrellone, si erano stesi sulla stessa sdraio e si erano addormentati, abbracciati: forse quella notte non avevano dormito abbastanza. In ogni caso non li avrebbe disturbati. Si alzò, si tolse i pantaloni e andò a sedersi a bordo piscina: il sole era già alto e faceva piuttosto caldo, ma l’acqua era ancora fredda per la notte, quindi non si buttò subito.

“Dov’è Jehan?” sentì dire da Enjolras, dietro di lui. Grantaire si girò e vide che Feuilly si stava sistemando sulla sdraio e che Combeferre stava risolvendo qualche gioco enigmistico nel posto accanto a lui. Facendo scorrere lo sguardo ancora a sinistra, i suoi occhi trovarono Enjolras: era in piedi, con la crema solare in mano, e si era appena tolto la maglietta. Grantaire era rimasto lì a guardare Enjolras come imbambolato, senza alcuna reazione, quando Courfeyrac riuscì a trascinare Marius in piscina con lui, alzando così un grande schizzo d’acqua che gli arrivò addosso.

“È andato alla vasca con la sabbia” gli suggerì Grantaire, indicando la zona in cui si trovava Jehan con il dito: quello schizzo lo aveva riportato alla realtà.

Enjolras guardò verso quella direzione, sospirò profondamente e disse ad alta voce, cercando di non urlare: “Jehan vieni qui un attimo!” Mentre Jehan ritornava da loro, Grantaire, che ormai era già bagnato per colpa di Courfeyrac, si immerse in acqua, appoggiando i gomiti sul bordo per sostenersi e poter guardare cosa accadeva.

“Eccoti qui!” riprese Enjolras. “Mettiti almeno la crema o ti scotterai!” Fece sedere a terra Jehan e, inginocchiandosi a terra, iniziò a spalmargli la crema solare sulla schiena, mentre il minuto ragazzino raccoglieva i lunghi e disordinati capelli sotto al berretto che gli aveva dato Bahorel.

Courfeyrac riemerse assieme a Marius vicino ad Enjolras e gli disse: “Ma guardati! Ti comporti proprio da mammina premurosa!”

“Con la pelle così chiara non può stare al sole senza crema!” disse Enjolras senza girarsi.

Ad un certo punto, Courfeyrac si sporse in avanti verso di lui e iniziò a tirargli il costume e, imitando la voce di un bambino, iniziò a gridare: “MAMMA POSSO FARE IL BAGNOOOOOO?”

Enjolras, probabilmente in imbarazzo per ciò che stava succedendo, si girò di scatto verso di lui e gli disse, con un tono di voce alto, quasi arrabbiato: “C-ci sei già in acqua, Courfeyrac! Smettila di tirarmi il costume!”

“Certo che è corto però!” aggiunse poi Courfeyrac, senza smettere di tirare il costume rosso.

“Appunto, quindi piantala!” Enjolras sembrava essersi spazientito. Grantaire continuava ad osservare: per un attimo pensò che non gli dispiacesse l’idea che, continuando a tirare, il costume di Enjolras sarebbe potuto scendere un po’... solo un pochino per… no, ma cosa gli diceva la testa?! Si immerse completamente, come se l’acqua potesse togliergli dalla mente quel pensiero, e quando tornò in superficie vide che Courfeyrac si stava tenendo la mano, appoggiato al bordo.

“Papà! La mamma mi ha colpito la mano!” urlò sporgendosi nuovamente in avanti.

Forse Combeferre si era sentito chiamare in causa, perché alzò lo sguardo oltre gli occhiali da lettura e disse: “Ma stai davvero parlando con me?”

“Certo!” confermò Courfeyrac. “Di’ qualcosa alla mamma!”

Combeferre lo guardò allibito, poi sistemò il giornale sulle sue gambe e tornò ai suoi cruciverba dicendo: “Qualcosa, cara.” Grantaire notò che Marius sembrava confuso dalla naturalezza di quello scambio di battute, mentre Jehan ne era quasi divertito. Vide anche un’espressione disorientata sul viso di Enjolras: Combeferre lo aveva fatto rimanere senza parole.

“Uffa!” protestò Courfeyrac. “Zio Feuilly! Aiutami tu!”

“Zio?!” Feuilly alzò la testa dal libro che si era portato dietro e poi proseguì: “Ma come ti è venuta in mente una trovata del genere?!”

Courfeyrac fece spallucce, appoggiò un gomito sulla spalla di Marius e spiegò: “Voi tre siete i più responsabili del gruppo: sembrate un po’ dei genitori apprensivi a volte.” Nessuno seppe cosa rispondere: mentre i tre ragazzi si guardavano attoniti, Courfeyrac urlò velocemente alcune parole in modo confuso, qualcosa che somigliava a ‘ASSALTO A TRADIMENTO’, e spinse in giù il povero Marius, che tutto poteva aspettarsi meno di essere tirato così brutalmente sottacqua.

Grantaire decise di fare un paio di vasche per rimuovere ciò che era accaduto dalla testa: aveva bisogno di rilassarsi un attimo, di sbollire, e una nuotata era proprio quello che gli ci voleva. Continuava a guardare davanti a sé, immerso nei suoi pensieri, senza dar retta a niente e a nessuno. ‘Non sarei dovuto venire… che mi è saltato in mente?! Questo si chiama essere masochisti, Grantaire: bravo coglione che sei! Adesso dovrai cercare tutta la giornata di non guardarlo, cazzo! Ma come fare? Lui è così… così bello! E il suo corpo così proporzionato, perfetto! Aaah povero me…’ La sua testa era piena di pensieri, ma faceva di tutto per liberarsi da loro. ‘Non pensarci, non pensarci!’ continuava a dirsi. Come si sentì la mente libera riemerse e andò a sedersi sulla scaletta.

Si tolse la cuffia per rilassarsi un attimo: quel maledetto aggeggio di gomma gli tirava tutti i capelli! Quando alzò lo sguardo, si rese conto che tutto quello che aveva fatto era stato inutile: Enjolras era seduto a bordo piscina, proprio dritto davanti ai suoi occhi, e si stava spalmando un po’ di crema solare sulle braccia. Il sottile strato di quell’unguento faceva scintillare la sua pelle chiara sotto il sole, dando al ragazzo un aspetto quasi etereo: era meraviglioso vedere il suo corpo, i suoi capelli dorati e i suoi chiari occhi profondi brillare sotto il sole!

“R che ti prende oggi?” Bahorel si avvicinò a Grantaire, si alzò sulle braccia e si sedette accanto a lui, togliendosi occhialini e cuffia. Grantaire aveva sentito ogni parola, ma non rispose e non spostò nemmeno lo sguardo. Allora Bahorel si girò nella direzione in cui guardava e gli chiese: “Che stai guardando?”

“Eh?!” A quella domanda, Grantaire arrossì imbarazzato e si sentì costretto a rispondere, se non altro per cercare di non farsi scoprire. “Ah no, niente! Ero solo… ero solo immerso nei mie pensieri!”

Bahorel non sembrò convinto: continuò a guardare e, quando finalmente vide Enjolras a bordo piscina, esclamò: “Ah ma tu guarda! Allora avevo ragione…” Si girò verso Grantaire, con lo sguardo di chi vuole mettere in imbarazzo qualcuno, e terminò: “Lui ti piace!”

Grantaire si sentì con le spalle al muro, ma volle comunque provare a nascondere l’evidenza: “No ma che dici… n-non è come…” Lo sguardo di Bahorel lo mise alle strette definitivamente, quindi sospirò, rosso in viso quanto un pomodoro, e confessò: “E va bene… sì: lui… lui mi piace!”

“Oh-oooooh! Guarda come arrossisce il nostro R!” disse Bahorel, portandogli un braccio attorno al collo. “Lo sai…” riprese poggiando le mani indietro. “Non avrei mai pensato che stessi a metà strada tra la sponda etero e quella gaia!”

Grantaire rimase un attimo a fissarlo completamente a disagio, poi disse: “Ti prego, non dire niente a nessuno!”

“Ti dirò: una certa tentazione ce l’avrei!” disse Bahorel, forse scherzando, ma Grantaire non riuscì a capire. “Specie al biondino! Direi che sarebbe giusto metterlo a conoscenza di questo…”

“Ti prego… no…” si limitò a dire con un filo di voce.

“Beh allora diglielo tu, no?”

“Ma che sei impazzito?! NO!” Grantaire era talmente in imbarazzo che non si accorse nemmeno di aver alzato la voce. L’espressione sul volto dell’altro ragazzo mutò da divertita a pensierosa.

“Non ti facevo così timido, sai?” disse, tirandosi leggermente in avanti per guardarlo meglio in viso.

Grantaire si portò una mano al viso e si grattò lievemente la guancia, poi disse: “In… in genere infatti non lo sono… ma con lui è diverso… non so il perché…” Fece una breve pausa, alzando di nuovo lo sguardo verso Enjolras, poi sospirò, appoggiò i gomiti sulle ginocchia e proseguì: “… ma è sempre stato diverso con lui…”

“Cazzo…” disse Bahorel, quasi in contemplazione. “Deve piacerti proprio parecchio!” Grantaire non rispose: il lungo sospirò che fece gli parve una risposta più che sufficiente.

“D’accordo!” riprese Bahorel dopo un lungo silenzio. “In nome della nostra amicizia non dirò nulla a nessuno! Concedimi solo una domanda e poi non ne parlerò più finché non vorrai discuterne tu.” Grantaire si girò confuso e solo poi Bahorel concluse: “Ma da quanto va avanti questa storia?”

Il ragazzo tenne i suoi occhi azzurri posati su Bahorel qualche istante, poi si girò verso l’altra sponda della vasca e disse: “Ricordi il giorno in cui ci siamo conosciuti?”

“Certo: ormai sono praticamente passati due anni!”

“Ecco” fu l’unica risposta che diede Grantaire.

Sembrava che Bahorel volesse dire qualcosa, ma che le parole gli mancassero. Quando le trovò, l’unica cosa che riuscì a dire fu: “Wow!”

“… ‘Wow’?” chiese Grantaire, sorpreso che ci avesse messo tanto tempo per dire solo quello.

“Sì… non mi vengono altre parole, cioè… è davvero un sacco di tempo!”

“Non me ne parlare…” E detto questo, lo sguardo di Grantaire tornò su Enjolras. L’agitazione era passata e andava tutto bene in lui, finché non notò che Enjolras si stava stendendo la crema sul petto: c’era qualcosa di incredibilmente seducente nei suoi gesti, nel modo in cui la luce faceva brillare l’unguento su quel corpo così esile, così bello, proporzionato, così… perfetto! Nel guardarlo, Grantaire iniziò a provare una serie di sensazioni strane: i battiti del suo cuore cominciarono ad accelerare, il fiato iniziava a mancargli, era arrossito così tanto che gli parve di sentirsi scottare il viso e sentiva persino le vertigini… erano sensazioni psichiche, ma anche fisiche.

“R?” lo chiamò Bahorel, facendolo come risorgere dallo stato di trance in cui si trovava.

“Eh?” Grantaire si girò di scatto, più agitato e imbarazzato di quanto non lo fosse prima. Notò che Bahorel stava guardando verso il basso, quasi ridendo.

Indicò nella direzione in cui stava guardando, alzò i suoi occhi dorati verso Grantaire e disse: “Che ne dici di rimettere a cuccia il tuo amico?”

 


[1] Piccolo tributo: George Blagden, interprete di Grantaire nella versione cinematografica del musical, tra le sue cover caricate su You Tube, una volta ha suonato ‘I will follow you into the dark’ cambiando la seconda strofa per far sì che sembrasse che fosse Grantaire a cantarla ad Enjolras.

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Capitolo 16
*** Attenti allo squalo! - Marius (2) ***


Marius

Avevano da poco finito di mangiare e già Marius si sentiva stanchissimo: in quella mattinata era stato buttato sottacqua una decina di volte, portato alla piscina con le onde, convinto a giocare a beach volley ed era stato trascinato più volte sugli scivoli. Avrebbe solo voluto dormire un po’, ma sapeva che Courfeyrac non glielo avrebbe permesso.

“Stai bene?” Feuilly apparve dietro di lui e si sedette sulla sdraio al suo fianco.

“Sì… sono solo un po’ stanco” disse Marius, appoggiando la testa sulle mani.

Feuilly si tirò indietro, sostenendosi con le braccia, e gli chiese: “Courfeyrac ti ha fatto fare qualsiasi cosa, eh?”

“Non so dove la trovi tutta quell’energia…” Marius si voltò verso Courfeyrac e lo guardò mentre correva da una parte all’altra, cercando di convincere Combeferre a fare qualcosa di imprecisato.

“Me lo sono sempre chiesto anch’io. È stato il mio compagno di stanza per due anni eppure non ho mai capito il suo segreto!” ammise Feuilly, girandosi verso Courfeyrac a sua volta.

Il ragazzo lentigginoso si voltò sorpreso verso di lui e gli disse: “Davvero eri in camera con lui?”

Feuilly lo guardò sorridendo e gli fece segno di sì con la testa. “Era il mio primo anno di lavoro: mi serviva un posto che non costasse troppo! Sai, avendo un lavoro che mi permettesse di badare a me stesso non mi andava di restare in orfanotrofio: avrei fatto spendere loro soldi inutili!”

“Non me lo aveva detto!”

“Ahahah! Non mi sorprende!” disse Feuilly divertito. “Courfeyrac ha la concentrazione di un pesce rosso! Però è un bravo ragazzo ed è simpatico: non conosco nessuno che non lo sopporti!”

Marius si voltò nuovamente verso Courfeyrac e dietro di lui vide Bahorel. “Beh… Bahorel non mi sembra che ci vada molto d’accordo…”

“Bahorel è fatto a modo suo!” disse Feuilly, sorridendo. “Non è che non vanno d’accordo è solo che lui è un ragazzo che se ne sta sempre un po’ sulle sue… Courfeyrac, invece, è sempre entusiasta di tutto, esuberante, a volte un po’ invadente… è normale che uno come Bahorel si spazientisca.”

“Voi vi conoscete molto bene, vero?”

“Da due anni, ormai” spiegò Feuilly. “Il nostro è stato un incontro bizzarro!”

“Davvero?” L’affermazione di Feuilly lo aveva incuriosito. “Come vi siete conosciuti?” Il ragazzo ricciolino stava per iniziare il racconto, ma venne interrotto.

“RAGAZZIIIIIIIIII!” gridò Courfeyrac. Quando i due ragazzi si girarono verso di lui, videro che stava trascinando Enjolras per un braccio. “VENITE A GIOCARE A BEACH VOLLEY???”

“Smettila di gridare! Cerca di avere un po’ di contegno!” lo sgridò Enjolras, cercando di liberare il polso dalla presa del suo amico.

“Scusa!” disse tranquillamente Courfeyrac. Poi si girò nuovamente verso Marius e Feuilly e, alzando entrambe le braccia, e di conseguenza anche quello di Enjolras che ancora stringeva saldamente, urlò: “QUINDI?!”

A Marius parve di sentire Enjolras dire: “Come non detto, eh? Almeno mollami il braccio!”

“Per me va bene!” disse ad alta voce Feuilly a Courfeyrac, alzandosi. Prima di raggiungerlo, si voltò di nuovo verso Marius e gli disse: “Se sei stanco resta pure qui: mi invento io qualcosa!”

“Grazie, Feuilly.” Detto questo, Marius si stese sulla sdraio, recuperò il suo telefono, si mise le cuffie nelle orecchie e, accendendo la musica, chiuse gli occhi.

Sentiva ancora gli altri parlottare, ma aveva gli occhi pesanti e non riusciva ad aprirli per guardare cosa stesse succedendo. Il lettore mp3 del suo iPhone stava riproducendo ‘Everything I do’ di Bryan Adams e la delicatezza di quella canzone lo trascinò dolcemente verso un sonno profondo.

 

“Marius?” si sentì chiamare da una voce delicata e leggera. Quando aprì gli occhi, il ragazzo si ritrovò davanti Jehan che lo guardava con sguardo curioso. Marius era disorientato: non si era nemmeno reso conto di essersi addormentato e non sapeva dire quanto tempo era passato. La lieve scottatura che si ritrovò sulle ginocchia gli fece capire che doveva aver dormito un bel po’, quindi guardò l’orologio del suo telefono e vide che era passata circa un’ora e mezza. “Stai bene?” gli chiese Jehan.

“Sì… credo di essermi addormentato…” rispose Marius, stiracchiandosi. “Dimmi, Jehan. Che succede?”

“Ho bisogno di una mano a finire il mio castello” disse arrossendo Jehan. “Mi aiuteresti, per favore?” Marius si rese conto che ciò che Enjolras gli aveva detto qualche giorno prima era vero: era impossibile dire di no a Jehan. Si alzò e andò insieme al minuto ragazzino verso la zona sabbiosa. Vide che i ragazzi stavano ancora giocando, quattro contro quattro: dopo tutto quel tempo dovevano essere quasi a fine partita. Quando arrivarono a destinazione, Marius vide il castello di Jehan. Quello non era un castello di sabbia: era un’autentica scultura!

“L’hai fatto davvero tu?!” disse Marius, sorpreso della precisione con cui era realizzato il castello. Si avvicinò e si chinò di fianco per guardarlo meglio: inginocchiato lì vicino notò che era alto fino al suo mento e aveva le fattezze di una fortezza medioevale, con le mura di protezione, quattro torri di altezze diverse e un ponte d’ingresso, con degli archi sottostanti. Jehan aveva persino disegnato i segni dei mattoni e le finestre: era un’opera d’arte!

“Sì!” disse orgogliosamente Jehan. “Ci vuole molta pazienza per fare un castello di sabbia.” Detto questo, Jehan abbassò lo sguardo e scosse un po’ il suo costume, aggiungendo: “Dopo dovrò farmi una doccia perché ho il costume pieno di sabbia.” Marius non faticò a crederlo: quel costume in camouflage marrone e giallo fluorescente era come minimo di due taglie in più della sua, quindi normale che si fosse riempito di sabbia.

“Che cosa ti serve?” disse Marius, spostando il suo sguardo da Jehan alla scultura.

Jehan si avvicinò al suo castello e indicò una quinta torre che stava sorgendo dietro alle altre. “Mi dovresti aiutare con l’ultima torre” disse. “Devo farla più alta delle altre e avrei bisogno che tu sorregga la base: ho paura che cada…”

Marius si chiese se sarebbe stato in grado di non rovinare quella scultura. Girò attorno al castello di sabbia e raggiunse il punto il cui doveva innalzarsi la nuova torre. Fece attenzione a restare piuttosto lontano in modo da non rischiare di prenderlo dentro. “Dimmi tu che fare.”

Jehan, felice, corse a riempire una bottiglia con dell’acqua, tornò da Marius e insieme iniziarono a costruire l’ultima torre. Marius notò che il ragazzo aveva una precisione a dir poco maniacale: lavorava per strati, quasi la stesse costruendo con mattoni veri. Prima che ebbero finito, gli altri ragazzi fecero in tempo a terminare la partita. Mancava giusto la punta del tetto quando Bahorel arrivò per chiamarli.

“Questo sarebbe un castello di sabbia?!” disse sorpreso quando arrivò. “Me lo aspettavo molto più semplice quando hai detto che lo avresti voluto fare!”

“Ti piace?” disse Jehan, sembrando molto fiero del suo lavoro.

“Direi che è notevole!” ammise Bahorel, accovacciandosi tra lui e Jehan; da quella posizione, Marius riuscì a vedere perfettamente il suo tatuaggio: un lungo drago stilizzato realizzato sullo stile dell’enorme tatuaggio maori, leggermente frammentato, dal contorno nero, si allungava dalla spalla sinistra fino all’attaccatura del collo. Lo aveva notato non appena Bahorel si era tolto la maglietta, ma non era ancora riuscito a vederlo da vicino. Poi, Bahorel mise una mano sulla testa di Jehan e spinse verso terra, abbassando la visiera del cappellino da baseball. “Ottimo lavoro!”

Jehan tirò su la visiera, poi sorrise per ringraziare e corse via dicendo: “Voglio farlo vedere ad Enjolras!”

Jehan aveva detto che avrebbe chiamato Enjolras, ma tornò assieme a tutto il resto del gruppo. Rimasero tutti colpiti dall’opera in sabbia: possibile che nessuno sapesse di questo talento? Jehan trascinò Enjolras vicino al castello e gli mostrò ogni dettaglio della sua opera, mentre Joly consigliò a Bossuet di restare a distanza, prima che ci inciampasse sopra. Marius notò che Combeferre confabulava con Bahorel, ma sembrava contrariato, quasi volesse impedirgli di fare qualcosa. Alla fine Bahorel prese comunque la parola, spingendo indietro Combeferre: “Jehan sai che non puoi lasciarlo lì in eterno, vero?”

“Sì…” disse Jehan quasi triste. “Però mi spiace doverlo disfare di già…”

“Perché non ti fai fare una foto lì vicino?” propose Joly, avanzando verso di lui. “Non avrai più quello concreto ma ti resterà comunque un ricordo visibile.”

“Sì! Feuilly mi fai una foto qui vicino, per favore?” chiese Jehan entusiasta.

“Certamente” disse il ragazzo già con in mano il telefono. Gli altri ragazzi si spostarono lasciando Jehan con la sua opera di sabbia.

“Venite anche voi! Facciamone una tutti assieme!” propose il minuto ragazzino, facendo segno agli altri di unirsi a lui.

“Una foto tutti assieme!” disse felice Courfeyrac. “È passato un sacco di tempo dall’ultima!”

“Io me ne tiro fuori…” iniziò a dire Joly in imbarazzo. Non fece in tempo a proseguire che Bossuet lo prese in braccio e lo portò verso il castello. Anche Enjolras avrebbe preferito non apparire nella foto: disse che non gli piaceva farsi fotografare. Ma gli altri non accettarono il suo rifiuto, quindi Grantaire e Courfeyrac si alzarono, lo presero per i polsi e lo trascinarono al centro del gruppo.

“Feuilly e tu?” disse Jehan sbucando da dietro il castello.

“Se vuoi scatto io la foto” propose Marius a Feuilly: si sentiva un pochino di troppo a stare in mezzo al gruppo al suo posto.

“Ma scherzi? No, ci devi essere anche tu!” disse Feuilly prima di guardarsi attorno. Poi vide passare una ragazza, la fermò e le chiese se poteva scattare lei la foto, spiegandole cosa fare.

Marius era davvero felice che i ragazzi lo avessero voluto con loro. Questa era la prova che i ragazzi lo avevano integrato nel gruppo completamente: non era stata solo una sua impressione. Fecero fare diverse foto a quella povera ragazza, una più bizzarra dell’altra. Poi Enjolras pensò che fossero abbastanza e andò a recuperare il telefono di Feuilly dalle mani di lei, mostrando un certo imbarazzo. Marius li vide parlare, anche se il biondo ragazzo sembrava davvero a disagio nel risponderle. Poi lei gli chiese qualcosa alla quale lui rispose con un timido gesto con la testa e sembrò dirle ‘No, scusami’, senza perdere il sorriso di cortesia che aveva in volto. Lei sembrava un po’ dispiaciuta, ma non glielo fece pesare e lo salutò, raggiungendo le ragazze che l’aspettavano dietro di lei. Quando se ne fu andata, Enjolras si voltò, mise le mani sui fianchi e riprese fiato, come si fosse tolto un peso.

Marius lo raggiunse e, guardando il gruppo di ragazze allontanarsi, gli chiese: “Tutto a posto?”

Enjolras alzò lo sguardo verso di lui e Marius ebbe l’impressione che fosse ancora un po’ agitato. “Sì sì” rispose alla fine. “È solo che io con le ragazze non sono molto a mio agio.”

“ENJOLRAS, MARIUS!” li chiamò Courfeyrac dalla zona dove avevano le sdraio. “VENITE IN ACQUA?”

Allora lo raggiunsero e, quando arrivarono davanti alla sdraio su cui stava Bossuet, Marius si accorse che il suo cellulare stava squillando.

Marius corse verso la sua sdraio, recuperò il telefono dalla tasca dello zaino e rispose: “Pronto?”

“Marius! Ma dov’eri, ragazzo?” disse un’anziana voce dall’altro capo del telefono.

“Nonno!” Era la prima volta che monsieur Gillenormand e Marius si sentivano da quando il ragazzo aveva cominciato la scuola: non si aspettava che lo avrebbe chiamato.

“È tutto il giorno che provo a chiamarti.”

“Scusami, nonno. Sono stato un po’ impegnato, oggi” disse Marius, alzando lo sguardo verso gli altri ragazzi: fu così che vide Courfeyrac guardarlo e chiedergli muovendo solo le labbra ‘è tutto ok?’. Marius fece di sì con la testa e fece cenno a lui e ad Enjolras che si sarebbe allontanato un attimo.

“Hai già avuto compiti da fare?” riprese monsieur Gillenormand.

“No no” disse Marius avviandosi verso un grosso albero appena fuori dalla zona piastrellata della vasca. Da lì riusciva ancora a vedere e sentire gli altri ragazzi.

“È tutto a posto ragazzo?”

“Certo va tutto bene, grazie.” Si poteva percepire un po’ di imbarazzo in quella conversazione: Marius e il nonno non erano abituati a parlarsi.

“TUFFO A BOMBA!!!” urlò Courfeyrac lanciandosi in acqua, sfiorando Bahorel durante l’atterraggio.

“Ma figliolo dove ti trovi? Cos’è questo baccano?”

A Marius sfuggì una risata mentre guardava Bahorel inveire contro Courfeyrac. “Sono in piscina con altri ragazzi: quelli che senti sono loro.”

“Hai già trovato degli amici?!” Forse le parole di suo nonno sembravano di sorpresa, ma Marius riuscì a percepire una certa felicità nel tono con cui le pronunciò.

“Marius vieni!” lo aveva chiamato Bossuet da bordo piscina. Marius gli fece segno che sarebbe arrivato tra poco, poi vide Combeferre spiegargli che era al telefono, quindi di non disturbarlo.

“Sì… direi proprio di sì!” disse Marius, sorridendo.

“Ottimo, ragazzo!” disse contento monsieur Gillenormand. “Sono contendo per te, figliolo!”

“Avevi ragione tu, nonno… è stata dura all’inizio, ma ora va tutto bene…” mentre parlava, Marius vide Courfeyrac uscire dalla piscina e recuperare un grosso materassino gonfiabile.

Poi il ragazzo dalle orecchie a sventola prese una rincorsa e si gettò direttamente in piscina su di esso: sembrò sprofondare leggermente, ma il materasso era talmente grande da tenerlo a galla. “MARIUS, MUOVITI!” urlò una volta arrivato in acqua.

“Ma lo volete lasciare tranquillo per cinque minuti?!” lo difese Enjolras, ancora seduto sulla sdraio.

“Sono stato molto fortunato…” aggiunse Marius guardando la scena.

“Mi sembri felice, ragazzo mio.”

“Lo sono, credimi” disse Marius in tutta sincerità. Poi ci fu un attimo di silenzio e il ragazzo aggiunse: “Mi… mi dispiace di aver fatto tante storie a cambiare scuola…”

“Non importa: riesco a immaginare quanto sia stata dura per te” disse il nonno. “L’importante è che ora tu sia tranquillo.”

“Grazie, nonno.”

“Ma dimmi: come sono questi ragazzi?”

Marius rimase a riflettere qualche istante. “Come descriverteli?” Alzò lo sguardo e vide Joly discutere con Bossuet.

“Vieni in acqua, dai!” disse Bossuet, prendendo il suo ragazzo per un polso.

“No, per favore… sai come la penso…” disse Joly cercando di tirarsi indietro.

“Buttalo in acqua, Bossuet!” incitò ad alta voce Grantaire. Courfeyrac e Bahorel davano man forte alla sua idea e anche Feuilly e Jehan, in realtà, volevano che Joly li raggiungesse. Combeferre, invece, sembrava contrario a quest’iniziativa, sostenuto da Enjolras.

Bossuet alla fine si stancò di discutere: tirò di forza Joly verso di sé, facendolo arrivare contro il suo petto, lo afferrò con entrambe le braccia appena sopra lo stomaco e si diresse verso la vasca urlando: “UNO… DUE…” Prima che potesse dire ‘tre’, Bossuet inciampò nei suoi stessi piedi e i due ragazzi caddero insieme in acqua con un sonoro *SPLASH*. Joly riemerse in fretta e si aggrappò subito al bordo; dopo un po’ anche Bossuet uscì e lo raggiunse.

Dovevano davvero aver fatto parecchio rumore perché il bagnino apparve dall’altra parte della piscina e urlò: “RAGAZZI! DOVETE METTERE LA CUFFIA QUANDO ENTRATE IN ACQUA!” Bossuet si girò immediatamente e gli gridò in risposta le sue scuse.

A Marius venne da ridere e poi aggiunse: “Diciamo che sono completamente folli!”

Quando li guardò di nuovo, vide che Joly stava tremando come una foglia, attaccato al bordo terrorizzato. Bossuet gli mise subito un braccio attorno alle spalle e lo restò a guardarlo spaventato, al che anche Enjolras e Combeferre si alzarono e lo raggiunsero, inginocchiandosi accanto a loro.

“Ma sono dei bravissimi ragazzi… davvero!” concluse Marius guardando come anche gli altri membri del gruppo si strinsero attorno a loro.

“Ne sono felice.” Seguì un momento di silenzio: Marius era concentrato a capire cosa stesse accadendo. Monsieur Gillenormand doveva aver capito che qualcosa distraeva Marius, quindi aggiunse: “Ti lascio tornare da loro, Marius: ci sentiamo presto. Passate un buon pomeriggio!”

“Grazie, nonno… ti chiamerò io presto. Passate un buon pomeriggio anche lì a casa.” Detto ciò, Marius salutò di nuovo e chiuse la chiamata, recandosi accanto ad Enjolras per capire cosa stesse succedendo.

“Che ti succede, piccolo?” chiese Bossuet: si vedeva che era preoccupato, e non poco.

“P-per favore… tiratemi fuori di qui… vi prego…” disse Joly senza smettere di tremare: guardava dritto davanti a sé con due occhi pietrificati dal terrore.

Combeferre lo guardò allibito per un attimo, poi incrociò gli occhi allarmati di Bossuet e disse a Joly: “Guarda che è perfettamente igienico qui. È tutto pulito e controll…”

“No… n-non è… per quello…” lo interruppe il ragazzo, che sembrava in preda al panico. Gli altri rimasero in silenzio, senza capire cosa stesse accadendo. A quel punto, Joly proseguì, senza distogliere lo sguardo da davanti a sé: “È… è che…” Marius vide che era paralizzato, non capiva se per la paura o per la vergogna.

“Aspetta…” ruppe il silenzio Combeferre. “Non mi dirai che non sai nuotare.”

Joly non rispose: dal suo silenzio si poteva capire che la risposta sarebbe stata affermativa, se avesse detto qualcosa. Enjolras sembrava dispiaciuto per lui, ma lanciò una tale occhiata agli altri che fece capire che era arrabbiato per quello che avevano fatto: solo con Bossuet non riuscì ad arrabbiarsi, guardando i suoi occhi spaventati e mortificati. Poi guardò Joly con uno sguardo molto dolce e gli tese entrambe le mani, per aiutarlo a uscire. Bossuet si spinse sulle braccia per uscire e afferrò Joly per l’altro braccio e insieme ad Enjolras lo tirarono fuori dall’acqua. Combeferre diede un asciugamano a Bossuet e lui vi avvolse il suo ragazzo, facendolo poi sedere perché si calmasse.

Il ragazzo pelato si inginocchiò davanti a Joly, gli mise una mano sulla spalla, mentre con l’altra gli tirava indietro i capelli bagnati. “Perché non me l’hai mai detto?” gli chiese dolcemente.

Joly non rispose subito: era ancora troppo spaventato per farlo. “Non… non ce n’è mai stato bisogno…”

“Ce ne sarebbe stato bisogno ora” lo rimproverò Bossuet.

“Mi imbarazzava che veniste a saperlo…”

“Che sciocco!” Detto questo, Bossuet si sedette accanto a lui, lo fece girare e lo abbracciò.

“Non devi imbarazzarti per noi” disse Enjolras, inginocchiandosi accanto a lui e mettendogli una mano sulla spalla per consolarlo. “Siamo tuoi amici: non ti prenderemo mai in giro né per questo, né per altro.”

“Tutti abbiamo qualcosa che non abbiamo mai imparato a fare: non te ne devi vergognare!” lo sostenne Combeferre. Anche gli altri andarono da lui per scusarsi per quello che era successo. Joly riuscì a sorridere per ringraziarli, ma Marius notò che era ancora un po’ scosso.

Bossuet lo strinse al petto, gli diede un bacio sulla nuca e, appoggiando la sua testa su quella di Joly, gli disse: “Calmati, dai! È finito tutto! Sei al sicuro, adesso.”

Marius incrociò lo sguardo di Enjolras, quasi stesse chiedendo conferma a lui di ciò che aveva in mente di fare. Marius capì cosa passava per la testa del leader e annuì: incredibile quanto avevano imparato a conoscersi in una sola settimana.

“Vuoi che vi lasciamo un attimo soli?” disse Enjolras. “Magari tu riesci a farlo calmare un po’.”

“Sì, grazie Enjolras” disse Bossuet annuendo.

Allora gli altri ragazzi si allontanarono, ma Grantaire rimase un attimo ancora: mise una mano sulla spalla di Joly e gli disse: “Mi spiace per quello che è successo… va un po’ meglio?”

Joly lo guardò, abbozzò un sorriso e rispose: “Sì… grazie, Grantaire… non ti preoccupare…”

“Adesso gli passa, R” concluse Bossuet per lui. “Stai tranquillo. Del resto è colpa mia, non tua.”

 

Ci volle un po’ di tempo prima che Joly si riprendesse dallo shock e che l’atmosfera tornasse quella di prima. Marius, ancora un po’ stanco per la mattina, aveva appena finito di leggere un capitolo de “I pilastri della terra[1], quando Courfeyrac lo chiamò perché lo raggiungesse. Il ragazzo stava sdraiato sul suo materassino in mezzo alla piscina: era la prima volta in quella giornata che stava fermo da qualche parte. Il lentigginoso ragazzo mise il libro nello zaino, si infilò la cuffia e nuotò verso di lui.

“Che succede?” gli chiese Marius quando arrivò.

“Nulla: volevo solo fare due chiacchiere!” disse Courfeyrac. “Non mi piace starmene qui fermo da solo, ma gli altri hanno tutti da fare!” Marius si guardò attorno: Joly stava seduto con i piedi nell’acqua accanto ad Enjolras e parlavano di quello che era successo; Grantaire stava chiacchierando con Bossuet, appoggiati coi gomiti al bordo non lontano dagli altri due ragazzi; infine, Marius sapeva che Feuilly, Combeferre e Jehan avevano pensato di andare all’idromassaggio a rilassarsi un po’.

“Ma Bahorel dov’è?” chiese Marius, non vedendolo da nessuna parte. Courfeyrac provò a cercarlo con lo sguardo, ma non lo trovò: fece spallucce e iniziò a parlare d’altro.

Ad un certo punto, Marius, con la coda dell’occhio, vide spuntare qualcosa dietro al materassino: quando guardò meglio, notò che c’era qualcuno che teneva la testa fuori per metà gli occhi nascosti dietro a degli occhialini neri. Si spostò accanto al materassino e riconobbe che quella persona era Bahorel. Quando Courfeyrac si girò, Bahorel si immerse del tutto, lasciando fuori solo una mano come fosse la pinna di uno squalo.

“Abbiamo a che fare con uno squalo-mano, Marius” disse Courfeyrac in tono drammatico. “Guardati le spalle!”

Dopo che ebbe fatto qualche giro attorno a loro, Bahorel emerse di tutta la testa nel punto in cui si era mostrato prima, guardò Courfeyrac con un ghigno malefico e si immerse nuovamente, talmente in profondità che il ragazzo dal materassino non avrebbe potuto vederlo. Marius vide Bahorel passare sotto di lui prima di essere trascinato sottacqua e di essere portato verso il bordo. Quando riuscì a vedere di nuovo, Marius notò Courfeyrac sporgersi dal materassino alla ricerca di Bahorel: forse il fatto che avesse così brutalmente mandato via Marius lo aveva terrorizzato, perché sembrava decisamente più spaventato di prima.

“Ma… ma dov’è andato?” sentì dire da Courfeyrac. Prima che Marius o gli altri ragazzi potessero avvisarlo, Bahorel apparve da dietro e *SPLASH!*: ribaltò il materassino facendo cadere il ragazzo in acqua. L’atmosfera era decisamente ritornata quella che era stata prima dell’incidente.

 


[1] Piccolo tributo all’attore Eddie Redmayne, interprete di Marius nelle versione cinematografica e sulla cui fisionomia è ispirato Marius nella fan fiction. Eddie Redmayne recitò la parte di Jack nella mini serie de “I pilastri della terra”, prodotta da Ridley e Tony Scott e trasmessa nel 2010, tratta dall’omonimo romanzo di Kent Follen.

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Capitolo 17
*** Attenti allo squalo! - Courfeyrac ***


Courfeyrac

La giornata proseguì tranquilla, tra scherzi e risate. Courfeyrac non riusciva a togliersi dalla testa che prima di andarsene avrebbe dovuto fare almeno due cose: far entrare Enjolras in acqua, anche con la forza, e vendicarsi dello scherzo fattogli da Bahorel. L’occasione per la sua vendetta si presentò verso la fine del pomeriggio, quando i ragazzi stavano pensando di tornare a casa. Grantaire era ancora in acqua e Bahorel se ne stava in piedi a bordo piscina, parlando tranquillamente con lui. Courfeyrac prese una bella rincorsa e andò dritto contro Bahorel.

“ATTACCO A SORPRESA!” urlò dandogli una spallata che lo fece sbilanciare e cadere in acqua. Bahorel riemerse velocemente e lo sguardo con cui guardò Courfeyrac fu raggelante.

“LA CUFFIA, RAGAZZI!” gridò di nuovo il bagnino. Bahorel non si girò: uscì dall’acqua e andò subito da Courfeyrac, che intanto stava ridendo di gusto.

“Ti fa tanto ridere, Courfeyrac?” gli disse, senza cambiare la sua espressione. Ad un certo punto, entrambi sentirono la voce di Enjolras unirsi alle risate di Courfeyrac. “Ah! Vedo che anche tu lo trovi divertente!”

“Diciamo che penso solo che te lo sia meritato!” disse Enjolras riuscendo a smettere di ridere.

Courfeyrac andò da Enjolras e si diedero il cinque. A quel punto, l’espressione di Bahorel cambiò, trasformandosi in ghigno. “Ma bene, paladino della giustizia!” Bahorel andò verso l’esile ragazzo, lo sollevò e corse verso la piscina, dicendo: “Vediamo se adesso riderai ancora!”

“Aspetta! NO!” prima che Enjolras potesse aggiungere altro, Bahorel lo aveva già buttato in piscina. Fu così che prima di tornare a casa, Courfeyrac aveva visto realizzarsi i suoi due obiettivi in una volta sola.

Enjolras si appoggiò al bordo, i lunghi capelli completamente bagnati portati sulla spalla. “Ok: questo gesto lo posso capire e te lo concedo!” fu il suo unico commento.

“RAGAZZI, NON VE LO VOGLIO PIÙ RIPETERE!” urlò nuovamente il bagnino, esasperato. “DOVETE METTERVI LA CUFFIA PER STARE IN PISCINA!”

“MI SCUSI: NON SUCCEDERÀ PIÙ!” gli rispose Enjolras, leggermente in imbarazzo.

 Courfeyrac tornò alla sdraio e trovò Marius intento a sistemare il suo zaino.

“Courfeyrac” iniziò il ragazzo quando si accorse che lui era lì. “Posso chiederti una cosa?”

“Certo: tutto quello che vuoi.”

Marius si sedette sulla sdraio, poggiando il suo zaino accanto a sé, e proseguì: “Come vi siete conosciuti tutti voi?” Courfeyrac era sorpreso: quella era una domanda che di solito facevano i bambini ai loro genitori, non se l’aspettava. “Voglio dire…” continuò Marius, “voi siete tutti così diversi tra di voi e avete anche età differenti. Come vi siete trovati?”

Courfeyrac ripensò un attimo a quel giorno e si mise a ridacchiare. “Questa è una cosa che mi piace raccontare!” disse mentre si sedeva accanto a lui. “Ecco come sono andate le cose quel giorno di due anni fa…”

 

“Ti farai scoprire, François! Finiremo nei guai per colpa tua!” Combeferre e Courfeyrac stavano davanti al laboratorio di chimica, mentre il ragazzo ricciolino guardava all’interno dell’aula per assicurarsi che non ci fosse nessuno.

“Non fare il guastafeste, Michel!” lo zittì subito Courfeyrac. “La prof si merita una lezione! Lascio la bombetta puzzolente sotto il cuscino della sedia e me ne vado!”

“Si merita una lezione?!” chiese Combeferre, senza parole. “Ti ha messo in punizione perché hai distribuito a tutti quelle bombe gastronomiche che ti sei portato dietro!”

“Michel Combeferre! Era solo uno scherzo! E poi tu dovresti ringraziarmi per averti risparmiato!”

“Avevi glassato quelle ciambelle con la maionese volutamente, santo cielo! È stato un gesto ignobile da parte tua, François De Courfeyrac!”

“No, senti!” si irritò Courfeyrac. “Lo sai che detesto essere chiamato col mio cognome completo! Troppo pomposo!”

“Appartieni ad una delle poche famiglie nobili rimaste in Francia: mi sembra più che normale.”

Combeferre e Courfeyrac erano nella stessa classe, al tempo: fin dal primo giorno dell’anno precedente erano stati sempre insieme, praticamente inseparabili. Combeferre era sempre stato piuttosto timido, mentre Courfeyrac scivolava in mezzo alla gente come se fosse la cosa più semplice del mondo; allo stesso tempo, Courfeyrac riusciva a rimanere concentrato per non più di dieci minuti, mentre Combeferre si distraeva solo in casi eccezionali. I due ragazzi avevano tanto da imparare l’uno dall’altro e non potevano andare più d’accordo. Erano diversi anche fisicamente: Combeferre era un po’ più in carne di come sarebbe diventato poi e portava ancora gli occhiali da vista, mentre Courfeyrac era piuttosto magro.

“Io vado dentro!” insistette Courfeyrac. Poi lanciò lo zaino dritto tra le braccia di Combeferre, dicendo: “Tienimi lo zaino: almeno non mi pesa!”

“Scordatelo!” Combeferre gli passò indietro lo zaino colmo di libri. Tenendo la mano premuta sulla cartella di Courfeyrac, aggiunse: “Io non ci voglio entrare in questa storia!”

Quando Combeferre sembrò volersene andare, Courfeyrac lo fermò. “Dai tanto oramai sei qui! Non rovinare tutto!” rispose Courfeyrac, gettando nuovamente lo zaino al suo amico.

“NO!” Continuarono a lanciarsi quel povero zaino per un po’, mentre Combeferre si allontanava sempre di più da Courfeyrac cercando di andarsene.

Ad un certo punto, Courfeyrac sentì una voce molto profonda dire: “Ehi. Che succede qui?” Preso dal panico che un professore li avesse scoperti, si girò di scatto e lanciò lo zaino nella direzione dal quale proveniva quel suono. Sfortunatamente, la sacca finì in pieno stomaco ad un robusto e alto ragazzo, coi capelli castani tenuti lunghi sopra e rasati ai lati: passava di lì assieme ad un altro ragazzo dal fisico asciutto, un po’ più basso di lui, con dei folti ricci neri e gli occhi azzurri.

“Oh cazzo… mi spiace!” disse Courfeyrac quando vide quel ragazzo tastarsi l’addome con una mano.  “Mi hai spaventato e io…”

“Yvan stai bene?” disse il ragazzo più basso mettendo una mano sulla spalla al suo amico.

“Yvan?” chiese Combeferre scioccato, quasi lo conoscesse. “Yvan Bahorel?”

“Lo conosci?” gli chiese Courfeyrac, voltandosi verso di lui.

“Solo per sentito dire…” ammise Combeferre. “È piuttosto conosciuto qui a scuola per il fatto che è stato bocciato per due anni di fila…”

“Esatto!” confermò Bahorel, dando lo zaino in mano al suo compagno, senza voltarsi. Avanzando poi verso Courfeyrac, si scrocchiò le dita e aggiunse. “E, considerando che non sono stato cannato solo per i miei voti... direi che puoi preoccuparti di aver provocato la persona sbagliata!” Detto questo, prese Courfeyrac per la maglietta e lo sollevò. “Da dove vuoi che inizi?”

“Per… per favore, mettilo giù…” provò a dire Combeferre. “È stato un incidente!”

“Non metterti in mezzo, o dopo passerò a te!” disse Bahorel, senza togliere lo sguardo da Courfeyrac.

“Eh eh… non possiamo parlarne?” disse Courfeyrac cercando di togliersi dai guai.

“Direi di no!”

“Yvan, avanti…” L’altro ragazzo sembrava quasi voler aiutare Courfeyrac, ma restava un po’ sulle sue. “Cosa ti costa lasciar perdere, per una volta?”

“Non ti ci mettere pure tu, Georges!” Bahorel sembrava non voler sentir ragioni.

“EHI! METTILO SUBITO GIÙ!” Tutti e quattro i ragazzi si girarono quando sentirono queste parole pronunciate da una voce maschile ancora acuta. Davanti a loro, alle spalle di Bahorel, apparvero due ragazzini, uno davanti all’altro: nel vederli così minuti e ancora piuttosto bassini, Courfeyrac ebbe l’impressione che fossero più piccoli di lui e Combeferre, quindi dovevano essere del primo anno. Il ragazzino più indietro aveva degli spettinati capelli rossi e doveva essere davvero minuto per riuscire quasi a sparire dietro al suo compagno, che era leggermente più alto di lui, esile e con dei capelli biondi abbastanza lunghi da essere raccolti in un piccolo codino basso. A guardarli si capiva che era stato il ragazzino davanti ad urlare. Courfeyrac sentì un movimento, si girò e notò che Bahorel, che si era leggermente girato verso i due ragazzini, stava squadrando quello biondo da capo a piedi, mentre il suo amico dai riccioli neri guardava anche lui il ragazzino, ma con uno sguardo sorpreso e imbambolato insieme.

“Ce l’hai davvero con me, biondino?” disse Bahorel, guardando fisso quel ragazzino nei suoi grandi occhi azzurri.

“E con chi altro?!” rispose lui, avanzando con passo deciso. L’altro ragazzo rimase per un attimo indietro, poi corse subito alle spalle del suo amico, come per nascondersi di nuovo.

“N-no, aspetta…” iniziò a dire Combeferre al biondino. “Non devi finire tu nei guai per noi…”

“Lascialo fare, sapientino!” disse Bahorel, mettendo a terra Courfeyrac e avanzando a sua volta verso il ragazzino. “Evidentemente qualcuno qui ha voglia di fare l’eroe!”

Il ragazzo rimase a fissarlo dal basso, senza indietreggiare. Nel vederli così vicini, Courfeyrac notò che il ragazzino era davvero minuto; certo: Bahorel era talmente alto che Courfeyrac gli arrivava appena sotto le spalle, ma il biondo ragazzo gli arrivava giusto giusto alla bocca dello stomaco. Inoltre, Bahorel era molto robusto, mentre lui era esile come un giunco. Eppure, sembrava non avere la minima paura. “Solo perché sei più grande di me per età e corporatura, non significa che io debba avere paura di te!” Poi girò la testa verso il ragazzo che stava pietrificato dietro di lui e gli disse: “Jean, allontanati, per favore. Non voglio che tu rimanga coinvolto!” Combeferre appoggiò una mano sulla spalla di Jehan, come sarebbe stato soprannominato poi, e riuscì a farlo andare di fianco a lui. L’altro ragazzo guardò Combeferre sorpreso, poi fece un cenno con la testa come segno di gratitudine.

“Fa parte del tuo carattere essere così eroico, moccioso?” disse Bahorel sollevandolo per la camicia di jeans che indossava: il biondo ragazzino era talmente leggero che gli bastò una mano.

“Dai, Yvan… lascialo stare…” disse il ragazzo dai riccioli neri che stava con lui, mettendogli una mano sul braccio come volesse fermarlo. “Lui non c’entra con quello che è successo…” Cercava di convincerlo a lasciar perdere, quasi volesse proteggere il biondino, ma Bahorel non voleva sentir ragioni.

Fu allora che Courfeyrac pensò di creare un diversivo e lanciò la sua bombetta puzzolente all’interno del laboratorio di chimica. Doveva aver funzionato, perché tutti i presenti si tapparono di corsa il naso: nel fare ciò, Bahorel mollò la presa, e il biondino cadde a terra.

“Ti sei fatto male?!” disse Combeferre correndo da lui assieme a Jehan.

“No, sto bene…” disse il ragazzo, massaggiandosi il fondo schiena. “Accidenti… che cazzo di odore…”

Ad un certo punto, mentre Courfeyrac e Combeferre aiutavano il biondino ad alzarsi, dal laboratorio uscirono due ragazzi, tossendo. Quello che uscì per primo aveva i capelli neri coperti da una bandana blu e teneva per mano un ragazzo più magro e probabilmente più piccolo di lui, con dei folti capelli castani e dei piccoli occhi verdi.

“*Coff coff!* Da quando uno non può nemmeno restare in laboratorio in pace?!” disse il ragazzo con la bandana. “Tutto bene, Hervé?”

“*Coff!* Mica tanto… *coff coff coff!* Mi sento soffocare!” rispose cercando di riprendere fiato.

L’altro ragazzo gli passò un braccio attorno alle spalle e lo tirò su in posizione eretta, in modo che prendesse fiato più facilmente. Poi guardò gli altri e disse loro: “Che vi abbiamo fatto di male?!”

“Scusatemi! Io…” iniziò a dire Courfeyrac, sentendosi davvero in colpa. “Io non pensavo ci fosse qualcuno lì dentro!”

“Cos’è questo fetore insopportabile?!” I ragazzi si voltarono tutti nella direzione da cui proveniva quella profonda voce: il professor Javert, ventiquattrore in mano, stava passando di lì per tornare a casa e si era fermato a controllare cosa stesse accadendo, insospettito dalla puzza proveniente dall’aula. “Monsieur Bahorel! Dovevo immaginare che ci fosse lei dietro a tutto questo!”

“No, professore! Aspetti!” iniziò a dire Bahorel. “Io questa volta non…”

“Ah! Ma c’è anche monsieur De Courfeyrac!” lo interruppe Javert, notando il ragazzo ricciolino in mezzo al gruppo. “Sì… riconosco la sua inconfondibile impronta personale!” Poi passò lo sguardo su tutti gli altri ragazzi. “Poi chi abbiamo qui?”

Courfeyrac si sentì in colpa e quindi cercò di spiegare la situazione al vicepreside: “No, un momento professore. È stata una mia trovata: loro non…”

Ancora una volta, Javert prese la parola senza ascoltare fino alla fine: “Ecco anche monsieur Grantaire: a stare sempre dietro a monsieur Bahorel, lei finirà su un brutto binario. Pensavo che i suoi infiniti ritardi le bastassero.” Grantaire abbassò lo sguardo e Javert proseguì. “Stesso discorso vale per lei, monsieur Combeferre. È uno dei migliori studenti di questo istituto, perché deve cacciarsi nei guai?” Courfeyrac avrebbe voluto difendere il suo amico, ma Javert non gliene lasciò il tempo. “Monsieur Lesgle, monsieur Joly… voi due non mi avete mai dato problemi… ma si dice che ci sia sempre una prima volta!”

“No un secondo!” intervenne subito Lesgle, che più avanti sarebbe stato soprannominato Bossuet. “Noi non abbiamo fatto nulla! Eravamo solo…”

“Fermo, René!” gli sussurrò Joly. “Non avremmo dovuto stare lì oltre le lezioni: non peggiorare la situazione, te ne prego!”

Probabilmente Javert non li sentì, perché si voltò immediatamente verso Jehan: “Monsieur Prouvaire… non avrei mai pensato che uno studente come lei si facesse coinvolgere in atti di teppismo come questo… che peccato…” Jehan abbassò subito lo sguardo: sembrava stesse per piangere, ma non lo fece. “E lei, monsieur Enjolras.” Come si sentì chiamare, Enjolras alzò subito lo sguardo verso il professore e lo guardò dritto negli occhi, senza vergogna. “È appena arrivato e ho già dovuto riprenderla per un’assenza ingiustificata e ora anche per questo… non c’è male come primo giorno!” Courfeyrac notò che all’improvviso Enjolras si rabbuiò: possibile che un rimprovero potesse renderlo tanto triste?

Javert alzò lo sguardo dal gruppo di ragazzi e puntò al laboratorio: “E ora controlliamo i danni.”     Entrò nell’aula spalancando la porta: Courfeyrac riuscì a vedere delle enormi chiazze viola macchiare le bianchissime piastrelle dei banconi. Il ragazzo era riuscito ad inserire della vernice all’interno della bomba puzzolente. Combeferre sembrò scioccato e adirato quando vide il colore sparso ovunque.

“Bene, bene” disse Javert senza scomporsi. Proprio in quel momento passò un ragazzo con il carrello del bidello: aveva i capelli scuri, ricci, e indossava una pesante tuta da lavoro blu. Javert lo vide e disse: “Pare che questo mi suggerisca un’efficace punizione per voi. Monsieur Feuilly!”

Feuilly alzò lo sguardo dal pavimento che stava lavando e si diresse verso di loro, con sguardo sorpreso. “Buon pomeriggio, professor Javert. Ha bisogno di qualcosa?”

“Sì. Mi servirebbe un favore” gli disse il vicepreside. “Questi ragazzi rimarranno qui finché il laboratorio non sarà perfettamente pulito!”

Feuilly lanciò una rapida occhiata ai ragazzi e incrociò lo sguardo Courfeyrac. “François?”

Courfeyrac alzò timidamente la mano e disse con tono colpevole: “Ciao, Gabriel…”

“Lo conosci?” gli chiese Combeferre, sorpreso.

Courfeyrac non distolse lo sguardo imbarazzato da Feuilly e rispose: “Sì… è in stanza con me!”

Javert proseguì le spiegazioni: “Vorrei chiederle il favore di procurare loro gli strumenti necessari e anche quello di supervisionarli.”

Feuilly sembrava sconvolto dalla richiesta di Javert: “Scusi, come?”

 

I primi minuti in punizione passarono nel silenzio più totale: i ragazzi erano tutti troppo arrabbiati per rivolgersi la parola. Courfeyrac cercava un modo per smorzare la tensione, ma non sapeva che fare. Lanciò un’occhiata attorno a lui, guardando gli altri ragazzi lavorare silenziosi, ognuno nel suo cantuccio. Bahorel stava ripulendo il bancone più vicino alla porta insieme a Grantaire, il quale sembrava avere altri pensieri per la testa e ogni tanto alzava lo sguardo verso la finestra, ma Courfeyrac non sapeva dire con certezza cosa guardasse. Joly e Bossuet erano nel bancone di fianco e ogni tanto si parlavano a bassa voce: Courfeyrac ebbe l’impressione che il ragazzo con la bandana avesse un atteggiamento strano, quasi l’altro gli piacesse, ma non ne fu sicuro. Enjolras e Jehan, invece, stavano al bancone vicino alla finestra e capitava che parlassero: il ragazzino dai capelli rossi sembrava mortificato per quanto successo e il biondino cercava di tirarlo su, nonostante anche lui non sembrasse esattamente felice. Combeferre stava ripulendo il banco accanto insieme a Courfeyrac, in completo silenzio: il ricciolino capì che era ancora molto arrabbiato. Feuilly, invece, supervisionava scocciato il lavoro dei ragazzi, cercando tuttavia di aiutarli, in modo da poter finire più in fretta.

Analizzata la situazione, Courfeyrac pensò che per smorzare la tensione avrebbe dovuto agire prima su Combeferre. Recuperò il vecchio scheletro che stava accanto alla lavagna e andò da lui. “Micheeeeeel!”

Combeferre smise di sfregare la spugna sul bancone: a Courfeyrac bastò uno sguardo veloce per capire che era più arrabbiato di quanto si sarebbe aspettato. “Che vuoi?” disse seccato Combeferre, senza guardarlo.

“Ce l’hai con me così tanto?” Courfeyrac aveva preso entrambi i polsi ossuti dello scheletro e stava gesticolando davanti al suo amico, guardandolo attraverso la cassa toracica.

“Tu che dici?” Combeferre alzò lo sguardo. Qualsiasi cosa stesse per dire non venne mai fuori: la vista dello scheletro lo aveva lasciato senza parole. Ci volle qualche secondo perché riprendesse a parlare: “Che cosa stai facendo?”

“Cerco di tirarti su!” Courfeyrac continuava a far gesticolare il povero ammasso d’ossa.

Combeferre rimase a guardarlo per un attimo, poi aggiunse: “Sono finito in un pasticcio per colpa tua e l’anno è iniziato da appena una settimana! Tutto perché tu non ascolti né me né il tuo buonsenso! Come pensi di farmi star meglio, di grazia?”

Courfeyrac dovette pensarci su un secondo. Guardò lo scheletro e poi disse: “Guarda: lui sta messo molto peggio di te!” Courfeyrac notò che tutti gli altri si erano girati verso di loro nel sentire l’assurdità di quella conversazione. Combeferre non rispose, quindi il ragazzo ricciolino non si lasciò distrarre e proseguì: “Lui è tutto scheletrico, vecchio, macchiato e sta cadendo a pezzi! Senza contare che è capitato nelle mie mani e questo potrebbe causargli una scomparsa prematura! Tu stai decisamente messo meglio!”

A Combeferre venne quasi da ridere. Sorrise, scosse la testa e poi disse: “Beh… non sono scheletrico, vecchio e non sto cadendo a pezzi. Solo in questo sono messo meglio di lui!”

“Ho provato a macchiarti, ma non ti ho mai manovrato come un burattino!” disse Courfeyrac in sua difesa.

“Non ancora!” lo corresse Combeferre. Courfeyrac si sentiva sollevato da essere riuscito a far sorridere almeno Combeferre. Si guardò attorno per capire chi sarebbe stato il prossimo su cui lavorare e notò che Feuilly stava già ridendo. Anche il ragazzo con la bandana e il ricciolino con gli occhi azzurri sembravano divertiti, quindi pensò ad uno di loro due. Poi si accorse che non aveva attirato l’attenzione di tutti come aveva pensato in precedenza. Il ragazzino biondo aveva gli occhi puntati sulla sua spugna, ma non stava pulendo: si limitava a guardare distrattamente nella direzione della sua mano, con lo sguardo pieno di tristezza. Allora Courfeyrac pensò di puntare verso di lui: pur non conoscendolo, gli dispiaceva vedere quel viso ancora così da bambino e così bello tanto demoralizzato.

“E tu, biondino?” disse arrivandogli accanto con lo scheletro. Enjolras si girò e i suoi grandi occhi tristi si riempirono di sconcerto. “Su, non fare quel faccino triste!” Courfeyrac prese le mani dello scheletro e le mise sulle guance di Enjolras, vicino agli angoli della bocca. Prima che Enjolras dicesse qualcosa, Courfeyrac aggiunse: “Trasformiamo quel bruttissimo broncio in un meraviglioso… sorriso!”             Detto questo, spinse le mani scheletriche in su, tirando così verso l’alto i lati della bocca di Enjolras.

Il biondo ragazzino rimase a guardarlo con ancora più sconcerto per ciò che era appena accaduto, in mezzo al silenzio di tomba che era calato nel laboratorio. Ma poi guardò verso Courfeyrac e iniziò a sorridere: in qualche modo, il suo piano aveva funzionato.

“Ecco! Guarda che bel sorriso!” disse Courfeyrac togliendo le mani dal viso del ragazzo. Poi si girò e vide che tutti stavano sorridendo guardando in viso il biondino. “Visto? Hai un sorriso talmente carino che tutti stanno sorridendo!” Ad Enjolras sfuggì una risata quasi imbarazzata, e Courfeyrac cominciò a prestare la voce allo scheletro, dicendo idiozie di ogni genere, alleggerendo così la tensione: passò da tutti, cercando di farli ridere per rompere il ghiaccio. Il suo piano funzionò alla perfezione: persino Bahorel sembrava essersi lasciato andare a sorrisi e risate. Lui e Bossuet gli diedero corda e iniziarono a giocare con quel vecchio ammasso d’ossa, usandolo come compagno di ballo.

Poi Courfeyrac tornò verso Enjolras e tirò in avanti la mano dello scheletro, dicendo: “Io sono François Courfeyrac! E tu?”

“Vuoi davvero che stringa la mano allo scheletro?”

“No. È questo individuo tutt’ossa che è maleducato e mi precede!” disse Courfeyrac guardando male la carcassa dritta nelle fosse orbitali e mettendola da parte. Enjolras rise, mentre Courfeyrac gli tese la sua mano per fare le presentazioni come si deve. “Enjolras, giusto?”

“Sì, esattamente” disse Enjolras stringendogli la mano. “Ma il professore non ti aveva chiamato ‘De Courfeyrac’?”

“Sì… sarebbe quello il mio cognome, ma a me non piace… troppo nobile!”

“De Courfeyrac?” Courfeyrac si girò: Bahorel aveva preso la parola. “Quindi appartieni a una delle poche famiglie nobili rimaste in Francia!”

“Già!” ammise Courfeyrac, che non sapeva se andarne fiero o vergognarsene: non gli piaceva ostentare le sue origini nobili. “In genere preferisco che non si sappia, ma visto che lo sai…”

“Però…” disse Bossuet che ne sembrava entusiasta. “Abbiamo un sangue blu qui a scuola!”

Courfeyrac si imbarazzò, poi, visto che la tensione iniziale se n’era andata, disse: “E voi? Non fate parlare solo me!”

“Noi che cosa?” disse Bossuet, tornando a sedersi su uno degli sgabelli del laboratorio, accanto a Joly.

“Un giro di presentazioni sarebbe una cosa carina: tanto oramai siamo tutti qui e abbiamo appena finito di fare i cretini assieme!” disse Courfeyrac spostandosi sul bancone di fianco a quello che stavano pulendo Enjolras e Jehan, in modo da riuscire a vederli tutti in faccia. Nessuno prese la parola, quindi andò a recuperare Combeferre, si mise dietro di lui e, premendogli le guance, gli fece muovere la bocca dicendo, cercando di imitare la sua voce dolce: “Io sono Michel Combeferre, il più sapone di tutta la scuola! Io e François stiamo al secondo anno! È un piacere conoscervi!”

Con ancora la bocca un po’ schiacciata e il viso rosso per il disagio, Combeferre disse: “Lasceresti stare la mia faccia, per favore?”

“Anch’io sono del secondo anno!” esclamò una voce ancora acuta verso il fondo della classe. Joly aveva preso la parola senza accorgersene.

“Davvero?” esclamò sorpreso Courfeyrac. Joly annuì leggermente, messo in difficoltà dagli sguardi degli altri ragazzi.

Combeferre vide il suo imbarazzo e intervenne: “Ci sta che non ci siamo mai incontrati: ci sono così tante sezioni in questa scuola!”

“Come ti chiami?” disse Courfeyrac.

Joly non riusciva a rispondere, quindi toccò a Bossuet fare le presentazioni: “Lui è Hervé Joly. Io René Lesgle, primo anno in scienze politiche.”

“Tu studi scienze politiche?” disse Enjolras: la cosa doveva aver attirato la sua attenzione. Bossuet annuì in risposta.

“Anch’io ed è una tortura atroce!” disse Bahorel, appoggiandosi sul gomito. Seguì qualche secondo di silenzio, dal quale Bahorel doveva aver capito che gli altri stavano aspettando che si presentasse, perché aggiunse: “Yvan Bahorel, primo e, se mi bocciano di nuovo, anche ultimo anno di scienze politiche!”

“Non mi dire così! Io volevo iscrivermi a scienze politiche l’anno prossimo!” disse Courfeyrac, spaventato dai commenti di Bahorel.

“Io non lo trovo tanto male!” disse Bossuet, quasi volesse risollevare il morale a Courfeyrac.

“Perché hai appena iniziato! È la terza volta che ripeto questa fottutissima classe: credimi che lo so meglio di te!”

“La terza volta?!” si lasciò scappare Feuilly. “Pensavo avessi la mia stessa età, invece sei più grande di un anno!” Oramai aveva preso la parola, quindi gli toccava presentarsi: “Ah…emh… io sono Gabriel Feuilly: ho terminato a luglio il liceo professionale ed eccomi qui a lavorare.”

“E tu, rosso?” disse Courfeyrac a Jehan, avvicinandosi a lui. “Tu come ti chiami?” Jehan non rispose: doveva essere molto timido perché Courfeyrac non lo aveva ancora sentito parlare: non sapeva nemmeno che voce avesse. Jehan fece per nascondersi leggermente dietro ad Enjolras, ma il biondino lo incoraggiò dolcemente a venire fuori e a presentarsi. Tuttavia, a Courfeyrac arrivò solo un mugugno veloce e molto, molto debole.

“Come hai detto, scusa?” chiese Bossuet. Courfeyrac, allora, capì di non essere l’unico a non aver sentito neanche una parola di ciò che aveva detto quel timido ragazzino.

Jehan riuscì ad alzare leggermente la voce: “Jean Prouvaire… è il mio nome… s-sono al primo anno…”

“Manchi solo tu!” disse Courfeyrac rivolto a Grantaire, che però, seduto con la testa appoggiata sulla mano, sembrava osservare distratto qualcos’altro. Courfeyrac lo vedeva guardare circa nella direzione in cui stava lui, ma non capì cosa stesse fissando. Allora scosse le braccia a caso cercando di passare davanti al suo sguardo, rischiando di prendere dentro Enjolras, che dovette interrompere la conversazione con Jehan per accertarsi di non essere colpito. “Eeeeeeehiiiiiiiii?”

“Eh? Come?” risorse dal suo stato di trance Grantaire, alzando la testa. “Ah, scusate! Sono Georges Grantaire, primo anno del corso d’arte.”

Finito il giro di presentazioni, i ragazzi iniziarono a parlare tra di loro, a conoscersi mentre pulivano le macchie viola dall’aula. Ogni tanto, Courfeyrac tornava a rivolgersi allo scheletro e fu così che lui, Grantaire, Bahorel e Bossuet lo usarono anche come modello di camici da laboratorio e persino per pulire. Quel pomeriggio fece cambiare qualcosa in tutti loro, senza che se ne accorgessero. Stettero lì fino alle sei e mezza, ma a nessuno pesò. Quando fu ora di andare a casa, posero un paio di occhiali protettivi sul cranio della carcassa e Courfeyrac pensò che gli servisse un nome, perché era tutto merito suo se quel pomeriggio avevano legato. Con sorpresa di tutti, la proposta uscì da Jehan: grazie al suo amore per Shakespeare, lo chiamarono Yorick. Ritornando a casa, scoprirono che alloggiavano tutti alla stessa residenza e che Enjolras era il nuovo compagno di stanza di Combeferre.

Quella sera, Feuilly si offrì di preparare la cena per tutti. Erano seduti a mangiare nel tavolo rotondo all’angolo destro della sala comune, quando Grantaire, accanto ad Enjolras, alzò lo sguardo verso di lui e, appoggiandosi sul tavolo coi gomiti, si sporse in avanti e gli disse: “Qual è il tuo nome, biondino?”

Grantaire attirò l’attenzione di tutti. Enjolras li guardò, rimanendo spaesato per qualche istante, poi gli disse: “Ma mi sono già presentato a scuola…”

“Sì. Sappiamo che di cognome fai Enjolras, ma dovrai pur avere un nome, no?” disse Grantaire appoggiandosi allo schienale della sedia. Enjolras sembrava quasi non voler rispondere, poi disse qualcosa con un filo di voce. “Come scusa?” chiese Grantaire, avvicinandosi a lui leggermente: Courfeyrac guardò gli altri e capì che nessuno lo aveva sentito.

Enjolras se ne rese conto e disse: “Scusatemi… è che io non sopporto il mio nome di battesimo...” Si schiarì la voce e riprese: “Il mio nome è Alexandre Enjolras.”

“Alexandre…” disse Grantaire con uno strano sorriso. “A me sembra un bel nome. Che ha che non va?”

“Non lo so, ma… non mi è mai piaciuto. Preferirei quasi essere chiamato per cognome…”

“Ma certo! Che idea!” disse Courfeyrac, sbattendo una mano sul tavolo. Tutti si girarono a guardarlo perplessi, quindi il ragazzo si spiegò: “Potremmo chiamarci per cognome tra di noi. Sarebbe figo!”

“Perché?” chiese Combeferre.

“Perché no?” fu la risposta di Courfeyrac. Poi passò un braccio attorno al collo di Combeferre e gli disse: “Io e te a volte già lo facciamo… Combeferre!”

Anche io e Georges, effettivamente” ammise Bahorel, girandosi alla sua sinistra dove stava seduto Grantaire. 

“Sarebbe strano… Joly… dovrò farci l’abitudine, ma in effetti il tuo cognome mi piace molto…” disse Bossuet, girandosi alla sua destra, verso di lui. Courfeyrac li guardò, passando lo sguardo oltre Feuilly: ancora una volta gli sembrò che Bossuet provasse per Joly un sentimento più forte dell’amicizia.

 “Jolllly” sfuggì a Jehan.

Il minuto ragazzino era seduto tra Combeferre e Enjolras, ma Joly riuscì a sentirlo. “Come, scusa?”

“Jolllly… così puoi librarti su quattro ‘L’![1]” rispose Jehan con molto candore.

 “Ehi… mi piace!” disse Bossuet, poggiando un braccio sullo schienale della sedia di Joly.

“Tu, invece, Lesgle… non saprei…” disse Joly, girandosi verso di lui.

“Il tuo nome somiglia e L’Aigle[2]. Possiamo chiamarti così?!” disse Courfeyrac in preda ad un improvviso entusiasmo. Bossuet non sembrava convinto di farsi chiamare ‘L’aquila’.

“Non è mica l’aquila di Meaux![3]” disse Combeferre “Non serve un soprannome: lascia Lesgle, no?”

“Tu e tutte le tue robe storiche che nessuno sa!” disse Courfeyrac offeso che Combeferre avesse bocciato così brutalmente la sua idea.

“L’aquila di Meaux? Dici Jacques-Benigne Bossuet, il vescovo di Meaux?” chiese Feuilly a Combeferre, sporgendosi oltre Courfeyrac per guardarlo.

“Sì… esattamente” gli disse Combeferre, felice che ci fosse qualcun’altro a conoscenza di costui. Poi si girò verso Courfeyrac e disse: “Vedi che non sono il solo a saperlo?”

“Bossuet… Bossuet è carino!” disse Joly, distrattamente: sembrava che non avesse seguito il discorso.

Bossuet rimase a guardarlo per un attimo, poi disse. “Allora potete chiamarmi Bossuet! In fondo lui mi cercava un soprannome, a te chiamarmi Lesgle non convinceva… chiamatemi pure Bossuet e va bene!” Joly lo guardò straniato, dando a Courfeyrac la conferma che non stava ascoltando.

“Bene!” disse Courfeyrac. Si alzò in piedi e, puntando il dito verso Enjolras, disse “Quindi abbiamo…”  Si preparò a girare in senso antiorario per indicare tutti i membri del nuovo gruppo, e iniziò ad elencarli: “Enjolras, Grantaire, Bahorel, Bossuet, Joly, Feuilly, Courfeyrac, perché non voglio essere chiamato con il ‘De’ davanti, Combeferre e Prouvaire!”

“Oh no, per favore…” esordì Jehan. “È molto formale farsi chiamare per cognome… io preferirei essere chiamato per nome…”

“Beh se preferisci possiamo chiamarti Jean, non c’è problema” gli disse tranquillamente Enjolras.  “Non devi farti chiamare per forza per cognome, se non ti va.”

“Posso essere chiamato Jehan?” disse guardandolo.

Tutti rimasero in silenzio confusi per un attimo. Poi Bahorel prese la parola: “Perché Jehan?”

“Perché… il Medioevo è il mio periodo letterario preferito… e il mio nome si scriveva e pronunciava così in quel periodo…”

Ci fu ancora un attimo di silenzio, che Courfeyrac non capiva se fosse dovuto al fatto che nessuno capiva come facesse Jehan a saperlo o al suo bassissimo tono di voce. Enjolras li guardò e disse: “Non credo nessuno abbia nulla in contrario, se vuoi farti chiamare così.” Gli altri non ebbero da obiettare.


“E così ora sai come ci siamo conosciuti… e anche da dove arriva la storia dei cognomi.”

“Wow…” esclamò Marius senza parole. “Ma possibile che non vi siate accorti di vivere nello stesso posto?”

Courfeyrac rispose immediatamente: “Suppongo dipenda dal fatto che eravamo su piani differenti.”

“Però… Che coincidenza bizzarra…” aggiunse Marius. “E siete ancora così uniti…”

“Beh, quando abbiamo iniziato a conoscerci ci siamo resi conto che avevamo diversi interessi in comune” spiegò Courfeyrac. “Soprattutto crediamo tutti nelle idee di Enjolras. Per questo noi lo vediamo un po’ come un leader.” Fece una pausa, poi gli venne da ridere e terminò: “Poi c’è da considerare il suo carattere…”

“Courfeyrac! Marius! Andiamo?” li chiamò ad alta voce Enjolras, mentre lui e gli altri ragazzi già si avviavano verso gli spogliatoi.

“Che ti dicevo?”

 

Arrivarono negli spogliatoi: Enjolras recuperò il suo zaino e si infilò in una cabina. Courfeyrac aveva sentito che il suo amico non aveva bloccato la porta e si decise a fargli un ultimo scherzo prima di rientrare. Si accostò silenziosamente alla porta, fece cenno agli altri di stare zitti e iniziò a canticchiare sulle note di ‘You can leave your hat on’ di Joe Cocker: “Baby, take off your coat...” Poi, all’improvviso ‘SBAM’, aprì la porta velocemente. “Reeeeal slooow.”

Enjolras arrossì immediatamente e, dopo un attimo di sconcerto, chiuse la porta, sbattendola violentemente e urlando: “COURFEYRAC! CHE CAZZO!” Ci fu qualche istante di silenzio, in cui Courfeyrac non capì perché Enjolras avesse avuto una reazione tanto esagerata. Poi, sentì Enjolras mettere il gancio alla porta e dire: “Uno non può fidarsi nemmeno degli amici!”

“Ma perché? Che ho fatto?” Detto questo, si girò verso gli altri e notò che lo stavano guardando imbarazzati, con occhi sconvolti. “Che succede?”

Bahorel, sul punto di ridere di gusto, distolse lo sguardo da Grantaire, che stava impalato, senza fiato a fissare la porta rosso in volto, e indicò a Courfeyrac di guardare attraverso l’alta fessura sotto la porta. Courfeyrac seguì il consiglio e notò che il costume di Enjolras era a terra e che il ragazzo si stava infilando giusto in quel momento l’intimo.

“Ops…”

 

– Fine capitolo 2 –

 


[1] Riferimento al romanzo: durante la descrizione di Joly, Hugo scrive: “[…], e ne risultava un tipo eccentrico e simpatico che i compagni, prodighi di consonanti alate, chiamavano Jolllly. ‘Puoi librarti su quattro L’ gli diceva Jean Prouvaire”. “L”, in francese, si pronuncia “aile”, quindi “ala”: “quatre ailes”, quindi “quattro ali”, o, per pronuncia, “quattro L”.

[2] Riferimento al romanzo: durante la descrizione di Bossuet, Hugo scrive: “C’era in quel conclave di giovane teste un membro calvo. Il marchese d’Avaray, creato duca da Luigi XVIII, […] racconta che nel 1814, mentre il sovrano sbarcava…” [2]”…a Calais, di ritorno in Francia, un tale gli presentò una supplica. ‘Cosa chiedete?’ domandò il re.’Sire, un ufficio postale’ ‘Come vi chiamate?’ ‘L’Aigle’ […] ‘Sire’, riprese  il postulante ‘ho per antenato un guardacani, soprannominato Lesgueules: di qui il mio nome: mi chiamo Lesgueules, per contrazione Lesgle e per corruzione L’Aigle.’”. “Aigle”, in francese, vuol dire “Aquila”; “L’Aigle” ha la stessa pronuncia di Lesgle.

[3] Altro riferimento al romanzo. Hugo continua: “[…] Il re[…]più tardi assegnò a costui l’ufficio di Meaux, apposta o senza badarci. Il membro calvo del gruppo era figlio di questo Lesgle, o Légle e firmava Légle (di Meaux): i compagni, per brevità, lo chiamavano Bossuet.” È un riferimento al vescovo Jacques-Benigne Bossuet, che nel 1682 divenne vescovo di Meaux e venne chiamato “L’Aigle de Meaux”, ovvero “L’Aquila di Meaux”.

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Capitolo 18
*** Dov'è Enjolras? - Feuilly ***


Feuilly

Era un comunissimo lunedì mattina per Feuilly: si era alzato di buon’ora, aveva aiutato Fauchelevent ad aprire la scuola, alzato tutte le tapparelle delle aule e sorvegliato il cancello d’ingresso. Una volta chiuso l’inferriata, non gli restava altro da fare che un giro di ricognizione per i corridoi. Quello del custode non era un lavoro particolarmente eccitante, ma a Feuilly non dispiaceva perché aveva la giornata quasi tutta per sé. Certo: capitavano occasioni in cui i professori o il preside gli dessero qualche mansione da compiere per loro, ma il resto del giorno poteva gestirlo come meglio credeva; Fauchelevent gliene aveva dato il permesso a patto che fosse rintracciabile con facilità. C’era soprattutto una cosa che Feuilly amava del suo lavoro: quando non aveva compiti da svolgere, il giovane custode si rintanava in biblioteca. Adorava stare nel silenzio di quella grandissima sala, immerso nelle pagine dei libri a leggere di storia, scienze, arte, oppure romanzi, poemi, poesie… ma del resto Feuilly era sempre stato così. La maggior parte di quello che conosceva lo aveva imparato da solo. La scuola elementare l’aveva seguita all’orfanotrofio e anche quella media, quindi gli era stata fornita un’istruzione minima. Poi aveva passato quattro anni al liceo professionale, ripetendo ciò che già sapeva e imparando il mestiere di elettricista, cosa che tornava utile in certi casi nel vecchio edificio in cui lavorava. Fin da quando era piccolo, a Feuilly ciò che imparava a lezione non bastava mai: gli sembrava sempre che mancasse qualcosa, che fossero state tralasciate troppe cose importanti, troppi dettagli. Così aveva iniziato a studiare per conto suo. Leggeva tantissimo di svariati argomenti, dalla letteratura alla fisica: era sbalorditivo vedere quale bagaglio culturale si portava dietro quel giovane custode di diciannove anni. “La mancanza di soldi non giustifica l’ignoranza” diceva sempre a chi si sorprendeva della sua cultura: molti ragazzi che studiavano lì sapevano meno cose di lui. Ovunque andasse aveva sempre con sé almeno un libro e aveva un appuntamento fisso col telegiornale della sera, in modo da essere sempre aggiornato su ciò che accadeva nel mondo. Inizialmente non sempre riusciva a capire cosa accadesse nel panorama politico, ma Bossuet e Enjolras lo avevano aiutato a conoscere ogni meccanismo governativo quando viveva ancora nella residenza studentesca. Viveva con Fauchelevent da poco, ma già sentiva la mancanza degli scambi di opinione che aveva con Enjolras guardando il telegiornale o delle serate passate con Combeferre davanti ad un sano documentario.

Quella mattina riuscì a rintanarsi da solo in biblioteca. C’era qualche studente sparso qua e là seduto ai lunghi tavoli al centro della sala principale: quando mancava un insegnante non era strano vedere gli alunni in biblioteca a passare l’ora buca. Feuilly passò attraverso la grande sala e si infilò in una sala più piccola e appartata in fondo al locale. Era una piccolissima zona poco frequentata dove monseigneur Myriel aveva fatto riporre i libri più antichi posseduti dalla scuola: Jehan gli aveva detto che lì avrebbe trovato diverse buone edizioni de ‘Les fleurs du mal’ di Charles Baudelaire. “Se vuoi conoscere un po’ la letteratura devi iniziare da quella del tuo paese” gli aveva detto il minuto ragazzino consegnandoli una lunga lista di romanzi e poesie che avrebbe dovuto leggere. Feuilly chiese al vecchio bibliotecario se poteva prenderne una copia e, una volta consegnatagli, si sedette al tavolo lì davanti, come gli era stato chiesto: i libri di quella sezione della biblioteca non dovevano lasciare la sala, ordini del preside! Una volta che si fu seduto, prese dal suo zaino un quaderno con diversi appunti sulla vita di Baudelaire e sul XIX secolo. Volle tenerli accanto nonostante fosse quasi sicuro che non li avrebbe usati, perché Enjolras gli aveva riempito la testa con tutte le sue riflessioni su quel secolo e sulle sue rivoluzioni: quel ragazzo sembrava aver vissuto quel periodo in una vita precedente da quanto lo conosceva bene![1]

Aveva appena iniziato a leggere l’introduzione al lettore quando, alzando lo sguardo, vide un uomo anziano cercare di raggiungere uno scaffale evidentemente troppo in alto per la sua piccola statura. “Monseigneur! Posso aiutarla?” disse gentilmente quando lo ebbe riconosciuto.

Monseigneur Myriel si voltò verso di lui e gli sorrise. “Ah! Gabriel!” Poi si girò nuovamente verso il libro che voleva recuperare e lo chiamò con un gesto della mano, dicendogli: “Vieni, ragazzo!” Feuilly si alzò e andò verso di lui. “Tu che sei molto alto, figliolo, dovresti farmi la cortesia di prendermi quel librone lassù” gli disse l’ex vescovo indicando un grande tomo nero. “La mia eccellenza non arriva a quello scaffale[2]!”

Feuilly lo tirò giù delicatamente: lo sentiva al tatto che era molto vecchio. L’occhio gli cadde sulla copertina e lesse: ‘I promessi sposi di Alessandro Manzoni’.

“Ti incuriosisce, figliolo?” gli chiese Myriel: doveva aver capito che aveva letto il titolo. “È un romanzo piuttosto interessante, uno dei più importanti mai scritti in Italia.”

“Davvero?” chiese Feuilly porgendo il libro al vecchio preside: doveva ammettere di essere davvero incuriosito da quello scritto.  Se c’erano due stati che a Feuilly interessavano particolarmente, quelli erano la Polonia e l’Italia[3].

“Certo! L’Italia ha una storia curiosa: pensa che con questo romanzo, Manzoni si prefiggeva anche di creare un linguaggio che fosse comune a tutte le regioni. Un progetto notevole per un paese con diversi dialetti, non credi?” Il vecchio vescovo sembrava davvero entusiasta.

“Anche, signor preside?” chiese Feuilly. La curiosità con cui porse quella domanda gli fece brillare gli occhi e il vecchio vescovo sembrò notarlo.

“Vieni con me” gli disse avviandosi verso un vecchio tavolo. Si sedette per primo e, notando che Feuilly era rimasto in piedi accanto a lui, gli sorrise, tirò indietro la sedia di fianco e fece cenno al giovane custode di accomodarsi lì. Feuilly fu messo quasi a disagio dall’invito del preside: non gli era mai capitato di intrattenersi troppo tempo con l’anziano vescovo. Tuttavia il suo desiderio di sapere cosa volesse dirgli monseigneur Myriel fu più forte dell’imbarazzo iniziale, quindi si sedette.

“Vedi, ragazzo mio” iniziò Myriel, “questo romanzo è stato considerato il più importante del romanticismo italiano. Non è solo un eccellente romanzo storico, ma racconta anche di formazione e di emozioni umane. Avendo un narratore onnisciente, noi veniamo a sapere tutto dei personaggi, dal loro passato alle loro emozioni e possiamo quindi vedere la loro crescita personale. Inoltre, beh… direi che è uno dei miei romanzi preferiti per il suo profondo senso religioso…” Myriel fece una pausa pronunciando queste parole, poi gli venne da ridere, si girò nuovamente verso Feuilly e riprese: “Ma forse non ti interessano le mie considerazioni da vescovo!”

“No, per favore! Vada avanti!” Feuilly era pieno di interesse. Voleva sapere tutto di quel romanzo: la storia, i personaggi, le interpretazioni dei critici, tutto! Monseigneur Myriel iniziò a raccontare a Feuilly ogni dettaglio: si capiva che quel romanzo lo aveva letto tantissime volte. Gli riassunse le critiche che ricordava meglio, le interpretazioni più conosciute, cercò di riassumergli la storia e di spiegargli il lavoro fatto da Manzoni per scrivere il suo romanzo. Feuilly ascoltava ogni parola con molta attenzione: non voleva perdersi nessun dettaglio.

“Perché non lo porti a casa per leggerlo?” gli chiese Myriel: probabilmente aveva notato il profondo interesse del ragazzo.

Feuilly rimase sorpreso dalla proposta: quei libri non dovevano rimanere in biblioteca? “Ne è certo, signor preside?” gli chiese. “Insomma… so che questi libri…”

“Ti svelerò un segreto!” disse Myriel, sorridendogli. “Essere il preside ha i suoi enormi vantaggi!” Poi gli mise il libro tra le mani e gli disse: “Portalo a casa: penso a tutto io!” Detto questo si alzò, poggiò una mano sulla spalla di Feuilly, gli fece un occhiolino e se ne andò salutandolo con una carezza sulla nuca.

Feuilly rimase a fissare il tomo che gli aveva lasciato il preside per un po’: nonostante gli avesse detto che poteva prenderlo, aveva timore ad infilarlo davvero nel suo zaino e continuava ad alzare lo sguardo verso il bibliotecario quasi volesse aspettare che non guardasse. Alla fine decise che doveva fidarsi di Myriel e mise il libro in mezzo agli altri nel suo zaino. Avrebbe voluto tornare su Baudelaire, ma Fauchelevent lo chiamò, dicendogli di tornare in portineria per la pausa delle lezioni. Feuilly guardò l’orologio e vide che erano già le undici, quindi corse velocemente verso l’ingresso.

“Ah, ragazzo!” esclamò il vecchio custode quando vide arrivare Feuilly. “Dov’eri finito?”

“Mi scusi! Ero in biblioteca e il tempo mi è sfuggito di mano!” si scusò il ragazzo poggiando lo zaino sul bancone in legno della portineria. Monsieur Fauchelevent stava ancora seduto dall’altra parte a recuperare alcune chiavi dall’armadietto fissato alla parete, ma aveva già abbassato le sottili tendine appese ai vetri del gabbiotto in legno scuro.

“D’accordo, non fa niente. L’importante è che tu sia arrivato.” Detto questo, Fauchelevent si alzò, prese il carrello per pulire e si avviò verso il corridoio, dicendo: “Oggi vai al piano di sopra! Finito il giro delle aule considerati pure in pausa!”

“Grazie monsieur!”

Feuilly salì direttamente dalle scale di servizio, percorse il lungo corridoio della vicepresidenza e arrivò alla scrivania posta all’angolo, da cui poteva vedere entrambi gli anditi. Guardò nuovamente l’orologio da polso con cinturino in pelle regalatogli per i suoi diciott’anni dalla madre superiora che gestiva il suo orfanotrofio: segnava le undici e dieci. Questo voleva dire che aveva ancora del tempo prima di dover fare il giro delle aule per pulire: fortunatamente era stato abbastanza previdente da portarsi dietro il computer portatile.

Stava sistemando le fotografie fatte il giorno prima quando sentì una voce maschile dal suono gentile. “Che cosa stai facendo, Feuilly?” Il giovane custode conosceva molto bene quella voce e ancor prima di alzare lo sguardo sapeva chi si sarebbe trovato davanti.

“Enjolras!” esclamò sorpreso, alzando la testa. “Ah, ciao Marius: ci sei anche tu! Che ci fate qui?”

“Siamo appena usciti dalla classe di latino…” iniziò a spiegare Marius, “proprio qui dietro.”

“Perché siete usciti in anticipo?” chiese Feuilly, confuso.

“Ma come in anticipo?” chiese a sua volta Enjolras, ancora più perplesso del suo amico. “La campanella è appena suonata…”

“Davvero?” Feuilly gettò un occhio all’orologio del computer e poi a quello da polso: non si era accorto che fossero davvero passati venti minuti. “Accidenti… chissà dove ho la testa oggi!”

“Che facevi?” chiese Marius, incuriosito, sporgendo la testa dall’altra parte del computer per guardare lo schermo. Ad un certo punto si bloccò, tornò indietro e, arrossendo, aggiunse: “Emh… sempre… sempre che non siano questioni private… scusami…”

“Ma no, ahah! Non ti preoccupare! Guarda!” Feuilly gli sorrise e girò il computer verso di loro, mostrando un programma di montaggio video. Poi diede una cuffia a Marius e una ad Enjolras e premette play: sullo schermo apparve un video che ritraeva Marius gettato in acqua da Courfeyrac seguito da altri spezzoni della giornata passata in piscina.

“Ma… ma sono video di ieri!” disse Marius sorpreso: Feuilly non riusciva a capire se la sua espressione nascondesse imbarazzo o una certa allegria… ma forse le celava entrambe.

“Sì!” disse Feuilly. “Li sto montando insieme.”

“Ti accorgerai che Feuilly è un po’ il fotografo e cameraman del gruppo…” aggiunse Enjolras a Marius restituendo la cuffietta a Feuilly. “Non c’è stata una volta in cui non l’abbia visto riprendere!”

“Dai, tu sai come la penso!” disse sorridendo Feuilly. “Mi piace fissare dei ricordi!”

“Io la trovo una cosa carina…” disse Marius, restituendo a sua volta la cuffia: il video era finito.

“Lo vedi, biondino? Qualcuno mi apprezza!” Detto questo, Feuilly abbassò lo schermo del computer e lo ripose nella borsa.

“Non è che non ti apprezzi” iniziò a giustificarsi Enjolras. “È che mi imbarazza essere filmato o fotografato…” Mentre lo ascoltava, Feuilly si alzò e mise la borsa del computer nel cassetto della scrivania, chiudendolo a chiave. Quando alzò lo sguardo verso di lui, il biondino riprese a parlare: “Sai che so perché ci tieni a registrare, ma se solo mi riprendessi un po’ meno lo apprezzerei di più…”

“Enjolras” iniziò Feuilly avvicinandosi a lui. “Purtroppo per te sei un buon soggetto: vieni davvero bene sia in foto che in video. E poi ti coinvolgono sempre in qualche stramberia: mi dici come faccio a non filmarti?” Enjolras sembrò imbarazzarsi nel sentire le sue parole. “Cerca di capire: per me è importante…” Detto ciò, gli mise una mano sulla spalla e rimase a guardarlo in silenzio, aspettando che l’altro ragazzo dicesse qualcosa.

Enjolras alzò lo sguardo, incrociando gli occhi nocciola del suo amico, tirò un leggero sospiro e disse: “Sì, lo so bene…” A Feuilly non sembrò convinto, quindi rimase a guardarlo ancora un po’, anche se gli veniva da ridere. Nel vedere il sorriso bizzarro che si era formato sulla faccia di Feuilly, anche Enjolras sorrise. “E va bene, d’accordo! Ma non farmeli vedere tutti! Solo quando li avrai montati, così non saprò mai quanti ce ne sono!”

“Grazie!” disse Feuilly con stampato in faccia un sorriso a trentadue denti, pieno di soddisfazione. “Anche tu in video vieni molto bene, Marius!”

“Ah… davvero?” chiese il lentigginoso ragazzo con un certo imbarazzo.

“Certo, parola mia!” esclamò Feuilly. “Perciò preparati! Ti aspetta la stessa sorte sua!”

“Emh… io n-non credo che…”

“Rassegnati, Marius!” disse Enjolras immediatamente. “Non lo convincerai mai a non filmarti, è inutile…”

Marius rimase a guardarlo in silenzio per un attimo, poi si girò nuovamente verso Feuilly e gli chiese: “Potrei… potrei sapere almeno perché è tanto importante per te riprendere dei buoni soggetti? Se fosse solo per avere dei bei ricordi, ti basterebbe fare delle riprese di tutti noi in modo semplice, così come vengono, no?”

Enjolras e Feuilly si guardarono per qualche istante, finché il biondo ragazzo non disse: “Avanti: ha il diritto di sapere!”

“Beh…” iniziò Feuilly: parlarne lo imbarazzava un pochino. “Sto cercando di mettere via i soldi del lavoro per pagarmi la scuola di regia…” Dovette fare una piccola pausa per il disagio; poi guardò verso Enjolras e si convinse a finire la spiegazione: “A volte la scuola dove voglio andare lancia dei concorsi per aspiranti registi non frequentanti l’accademia, quindi cerco di accumulare più materiale possibile. Il montaggio migliore ottiene una borsa di studio: non voglio farmi trovare impreparato!”

Marius sorrise: doveva aver capito che quello era il sogno di Feuilly perché i suoi occhi verdi sembravano essersi inteneriti. “Beh… suppongo che potrei abituarmici…”

“Dici sul serio?” disse Feuilly sfoggiando un grandissimo sorriso: la cosa gli faceva molto piacere e non riusciva a nasconderlo.

“Beh sì…” gli rispose Marius. “Se è il tuo sogno, non posso certo ostacolarti solo per imbarazzo…”

Enjolras mise una mano sulla spalla di Marius e disse: “Adesso capisci perché non posso dirgli di no!”

“Nemmeno io riesco a dirti di no…” disse il ragazzo ricciolino, sorridendogli.

Seguì un attimo di silenzio, in cui nessuno seppe cosa dire. Enjolras controllò l’orologio del suo telefono e disse: “Si sta facendo tardi: forse è meglio se ti lasciamo andare a lavorare.”

“Eh sì… forse è il caso: prima finisco il giro, prima posso entrare in pausa.”

Feuilly recuperò il carrello dallo sgabuzzino dietro alla scrivania e si diresse verso il corridoio che dà su Place Victor Hugo, mentre Enjolras e Marius si avviarono verso la vicepresidenza. Dopo che si salutarono, a Feuilly venne in mente una cosa. Lasciò il carrello di fianco al muro e cercò di raggiungere i due ragazzi. “Enjolras!”

Sentendosi chiamare, il ragazzo si girò di scatto verso di lui. “Sì?”

“Senti… hai impegni importanti dopo pranzo?” gli chiese Feuilly.

“Proprio oggi?” disse Enjolras, leggermente dispiaciuto. “Non lo so… appena rientriamo pomeriggio abbiamo la prima lezione con Javert… se faccio tardi poi me lo rinfaccia tutto l’anno…”

“Ti prometto che non faremo tardi. All’una e mezza sarai in aula!”

Enjolras rimase in silenzio un minuto, probabilmente a pensare a cosa fare. “Non lo so…” ripeté rompendo il silenzio. “Sono nel suo corso… ci tengo e voglio dimostrargli fin dal primo giorno che faccio sul serio... DEVO dimostrarglielo o mi renderà la vita un inferno dopo gli anni scorsi!"

“Te lo prometto, Enjolras.” Feuilly non lo fece apposta, ma si rese conto di guardarlo con occhi supplichevoli.

Ancora silenzio: gli occhi di Enjolras facevano trasparire tutta la sua preoccupazione e la sua indecisione. Alla fine si decise: chiuse gli occhi, prese un respiro, quasi come l’indecisione l’avesse lasciato in apnea, e poi disse: “E va bene. A che ora?”

Feuilly rimase molto contento che Enjolras avesse accettato. Gli sorrise e poi gli propose: “Facciamo alle dodici davanti al portone d’ingresso?”

“D’accordo” esclamò il biondo ragazzo, sembrando leggermente più convinto della decisione presa. “Metto via i libri e ti aspetto lì.” Detto ciò, lui e Marius salutarono il giovane custode nuovamente e si allontanarono, lasciando che Feuilly tornasse al suo lavoro.

Il ragazzo recuperò il carrello e corse subito tra una classe e l’altra per svuotare i cestini e dare una leggere pulita ai pavimenti lasciati nelle condizioni peggiori. Per sua fortuna il laboratorio d’arte non sarebbe stato usato quel pomeriggio, quindi non dovette pulirlo subito.

Quando ebbe finito, ripose il carrello nello sgabuzzino, corse giù per le scale, depositò le chiavi, recuperò lo zaino e andò dritto da Enjolras, che già lo aspettava come promesso: il biondo ragazzo stava appoggiato allo stipite della porta con lo sguardo perso fisso sul giardino. Quando Feuilly si avvicinò, Enjolras si girò di scatto, quasi il suo amico avesse interrotto un pensiero profondo: rimase spaesato per un paio di secondi, ma poi gli sorrise e si alzò dalla sua posizione, andandogli incontro.

“Andiamo?”

 


[1] Riferimento al romanzo: nella descrizione di Enjolras, Hugo scrive: “Nell’osservare il pensieroso riflesso del suo sguardo, si sarebbe detto che in qualche esistenza precedente avesse già attraversato l’apocalisse rivoluzionaria.” È anche un tributo al romanzo in cui, come si sa, i personaggi di questa fan fiction fanno parte di un gruppo di rivoluzionari morti durante la sanguinaria rivoluzione del 5 e 6 giugno del 1832.

[2] Riferimento al romanzo: la prima parte del romanzo è dedicata al vescovo di Digne, appunto Monseigneur Myriel; durante uno dei paragrafi, Hugo scrive: “La signora Magloire lo chiamava volentieri Vostra Eccellenza: un giorno egli […] si accostò alla biblioteca per cercarvi un libro, che era su un palchetto in alto; ma, per la sua bassa statura, il vescovo non poté arrivarci. ‘Madame Magloire,’ disse ‘portatemi una sedia, la mia eccellenza non arriva fino a quel palchetto.’ ” In francese, Vostra Eccellenza si dice “votre grandeur”, ovvero “vostra grandezza”: da lì l’autoironia del vescovo.

[3] Riferimento al romanzo: nella descrizione di Feuilly, Hugo scrive: “Aveva imparato a bella posta la storia per indignarsi a ragion veduta. In quel giovane cenacolo di utopisti, occupati soprattutto della Francia, egli rappresentava l’estero, e sue specialità erano la Grecia, La Polonia, L’Ungheria, la Romania, l’Italia: le nominava a proposito e a sproposito con la cocciutaggine del diritto.” Chi scrive predilige Italia e Polonia per conoscenza personale, oltre che in quanto alleate storiche della Francia.

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Capitolo 19
*** Dov'è Enjolras? - Marius ***


Marius

Marius scese immediatamente in mensa, dopo aver salutato Enjolras. Il suo nuovo amico e compagno di classe lo aveva congedato con la promessa di arrivare puntuale per la lezione e con una raccomandazione: “Di’ agli altri che ci vedremo all’uscita da scuola.” Marius, trovati i ragazzi in coda per il pranzo, diede subito loro il messaggio, ma quando gli chiesero dove fosse andato il leader lui non seppe rispondere. Gli sembrarono tutti incuriositi e disorientati nell’apprendere la notizia.

“Come fai a non sapere dove sono andati?” gli chiese Courfeyrac, sedendosi a tavola accanto a lui.

“Non me lo hanno detto…” rispose Marius. “Quindi io non me la sono sentita di chiederlo loro…”

“Ma dai! Devi pur sapere qualcosina!”

“No, Courfeyrac: non mi hanno detto niente.”

“Lascialo in pace!” lo aveva ammonito subito Combeferre. “Avranno avuto qualcosa da fare!”

“È così sbagliato voler sapere che cosa stanno facendo?” gli disse Courfeyrac, girandosi verso di lui.

“Sì, se non sono affari tuoi” disse Combeferre prima di bere un sorso d’acqua. Courfeyrac si allungò verso destra, avvicinandosi al suo viso. Marius, seduto alla sinistra di Courfeyrac, non riusciva a vederlo in faccia, ma prima che si voltasse verso Combeferre era riuscito ad intravedere un’espressione che lo aveva fatto allarmare. “Che c’è?”

Dopo un breve silenzio, Courfeyrac aggiunse: “Tu sei il suo compagno di stanza.”

“Da quando è arrivato in questa scuola, sì.”

“E sei un sapone.”

“Sssì…” disse Combeferre con poca convinzione. “Così dici tu… ma voglio vedere dove andrà a finire questo discorso, perciò prosegui.”

Courfeyrac si sporse ancora verso Combeferre e, quando gli fu talmente vicino da impedire a Marius di vederli in viso entrambi, disse: “Io SO che tu sai dov’è andato!” Forse Courfeyrac aveva ragione. Ci fu un attimo di silenzio tra tutti i membri del gruppo, come attendessero la risposta di Combeferre. Courfeyrac si allontanò e Marius poté vedere Combeferre guardarsi attorno, incrociando gli sguardi degli altri.

“Sbagliato” disse con tranquillità Combeferre, chiudendo gli occhi e appoggiandosi allo schienale della panca. “Io non so niente di tutta questa faccenda.” Courfeyrac rimase deluso dalla risposta e sprofondò sulla panca.

“Da…” prese debolmente la parola Jehan, seduto accanto a Combeferre: sembrava quasi preoccupato. “Davvero non ti ha detto nulla in proposito?”

“No, mi spiace, Jehan” gli rispose Combeferre con molta dolcezza. “Non sapevo nemmeno io che sarebbe andato via con Feuilly.”

“MA IO VOGLIO SAPERE DOV’È!” urlò Courfeyrac battendo le mani sul tavolo.

“E datti una calmata!” gli disse Bahorel, colpendo una delle sue mani con un pugno.

Joly, sprofondato sulla panca, alzò lo sguardo dritto davanti a lui dove stava Courfeyrac e gli disse: “Se proprio ci tieni a saperlo perché non mandi un messaggio a Enjolras o a Feuilly, scusa?” Marius notò che non aveva per niente una bella cera: forse non si sentiva troppo bene.

Courfeyrac lo guardò in silenzio per un attimo, poi disse: “Non è per niente una cattiva idea!”

Il pranzo trascorse piuttosto tranquillo, anche se ci fu una piccola discussione per via di Bahorel: il ragazzo voleva tornare alla residenza e saltare il resto della giornata, approfittando della mancanza di Enjolras, ma Combeferre sembrò contrario. Nel guardarlo prendere posizione, Marius capì che, in mancanza di Enjolras, gli altri facevano riferimento a Combeferre, quasi fosse il braccio destro del leader. Combeferre era meno severo e più indulgente di Enjolras, Marius questo lo aveva notato mettendoli a confronto; tuttavia, sulla questione sollevata da Bahorel fu inamovibile tanto quanto lo sarebbe stato l’altro ragazzo.

I due ragazzi, seduti l’uno di fronte all’altro, stavano ancora discutendo, coinvolgendo anche Grantaire e Jehan, quando Marius notò Bossuet voltarsi verso Joly e parlargli con voce bassa, quasi inudibile: “Ehi, che ti prende, bimbo? Non hai quasi toccato cibo…”

“Non mi sento bene oggi… temo di aver preso freddo ieri.” Joly teneva lo sguardo basso, dritto davanti a sé.

“Che cosa ti senti?”

“Un po’ di nausea, mal di testa… forse dovrei farmi mandare a casa…” Dopo che Joly ebbe finito di parlare, Bossuet rimase per un attimo a guardarlo in silenzio, quasi stesse riflettendo sulle sue parole: Marius non sapeva se definirlo preoccupato o incuriosito.

“Naaaaaaah!” disse infine Bossuet alzando il volume della voce. Poi spostò il braccio che teneva sullo schienale sulle spalle di Joly, mise l’altra mano sulla sua guancia, gli sollevò dolcemente il viso, in modo che lo guardasse negli occhi, e gli disse: “Vedrai che non è nulla. Prova a resistere ancora un po’: se proprio non riesci a restare mi scrivi e ce ne torniamo a casa assieme, ok?” Joly gli sorrise e fece cenno di sì con la testa. Poi Bossuet cercò di stringere il suo ragazzo in un abbraccio consolatorio, ma Joly lo fermò.

“Amore, non qui…” gli sussurrò Joly. Allora Bossuet sembrò come risvegliarsi da uno stato di dormiveglia: spostò il braccio nuovamente sullo schienale e si guardò attorno, quasi volesse accertarsi che nessuno li avesse visti. Bossuet iniziò a parlargli sottovoce, quindi Marius decise di lasciar loro un po’ di intimità e si voltò d’istinto verso Courfeyrac: era in silenzio da troppo tempo. Continuava a torturare il suo I-phone, accendendo e spegnendo lo schermo ogni cinque secondi.

“Va tutto bene, Courfeyrac?” gli chiese Marius guardandolo accendere lo schermo per l’ennesima volta.

“No” rispose seccamente Courfeyrac.

“Che succede?” L’espressione di Courfeyrac era talmente seccata che Marius iniziò a preoccuparsi.

“Nessuno di quei due traditori mi risponde, cazzo!” disse Courfeyrac alzando la voce: le sue parole attirarono l’attenzione di tutto il gruppo.

“Courfeyrac…” iniziò Combeferre, “per favore: lasciali tranquilli!”

“Ma io voglio sapere cosa stanno combinando e soprattutto perché non ci hanno detto nulla!”

“E lasciali fare!” disse Bahorel, mettendo il braccio sinistro sullo schienale della panchina. “Dopotutto…” Nel dire queste parole gli scappò una leggera risata, la quale lasciò intendere che avrebbe detto qualcosa per prenderli in giro. “Bisogna lasciare un po’ di intimità alle coppiette!”

In quel momento, Grantaire sembrò quasi allarmarsi. Si voltò verso Bahorel e lo guardò con due occhi spalancati, pieni di stupore e anche di una certa preoccupazione.

“Ma che cosa stai dicendo?” disse Combeferre, guardandolo esasperato.

“Non lo hai notato? Si lanciano sguardi, parlano sottovoce… e adesso escono pure senza dire a nessuno dove se ne vanno!” Detto ciò, Bahorel si girò verso Grantaire: nel vedere il suo amico triste e con la testa bassa, il muscoloso ragazzo sembrò quasi pentirsi di quello che aveva detto.

“Io non ci ho mai fatto caso…” constatò Jehan, pensieroso. “Ma sinceramente non saprei.”

“Sarebbero una coppietta carina, non trovate?” disse Bossuet, probabilmente capendo lo scherzo.

“Dai, amore!” lo sgridò Joly, ad occhi chiusi. “Non è carino prenderli in giro!”

“Ma per favore!” disse Combeferre, seccato: Marius non lo aveva ancora visto arrabbiarsi, ma gli parve che questa volta ci fu molto vicino. “Sapete benissimo tutti come stanno le cose! Dovete smetterla di prenderli in giro!”

“Come stanno le cose?” disse Grantaire confuso. “Che cose? Che stai dicendo?”

“C-come… non lo sapete?” Combeferre si guardò attorno imbarazzato: gli altri lo stavano fissando, quasi volessero che andasse avanti. “I-io pensavo che…”

“Allora sai qualcosa che non sappiamo!” disse subito Bahorel, incuriosito. Poi batté la mano sul tavolo, si tirò in avanti verso di lui e gli ordinò: “Parla!” Combeferre non rispose: forse non voleva rischiare di tradirsi, peggiorando così la situazione.

“Merda…” sussurrò Courfeyrac. Si alzò in piedi e iniziò a urlare qualcosa di incomprensibile.

Joly spalancò immediatamente gli occhi, allarmato: “Che ti prende? Qualcosa non va?”

Marius vide Courfeyrac fare un’espressione bizzarra, quasi gli fosse venuta un’illuminazione. “Io…” disse infine quasi melodrammaticamente, “non mi sento per nulla bene!” Detto ciò, cadde a peso morto addosso a Marius, che rimase a guardarlo incredulo e confuso: che cosa stava facendo? Anche gli altri ragazzi si girarono a guardarlo e si alzarono per vedere come stesse, poi Combeferre si propose di portarlo in infermeria e chiese a Marius di aiutarlo. Bahorel disse che avrebbe potuto pensarci lui, ma Combeferre rifiutò. Disse anche che non aveva lezioni importanti, quindi sarebbe potuto restare tranquillamente con Courfeyrac in infermeria finché non si fosse svegliato. Nonostante Bahorel insistette, Combeferre non lo ascoltò: prese il braccio destro di Courfeyrac e se lo mise sulla spalla, reggendo l’amico per il busto. Marius lo imitò e, infine, i due ragazzi misero l’altro braccio sotto il ginocchio di Courfeyrac e lo sollevarono: mentre accadeva tutto ciò, Courfeyrac non si mosse.

“Sei un attore pessimo” disse Combeferre una volta che furono lontani dalla mensa.

“Se davvero le cose stanno così, perché gli altri mi hanno creduto?” Courfeyrac stava benissimo. Marius lo vide girarsi verso di lui, fargli prima un riso divertito e poi un occhiolino: doveva aver capito la sua confusione e il suo imbarazzo. “Dai, mettetemi pure giù: posso camminare da solo, ora!”

“A proposito: hai messo su qualche chiletto” disse Combeferre mentre lo poggiavano a terra.

“Dovresti ringraziarmi di averti salvato, invece di insultarmi!” gli disse Courfeyrac, quasi volesse arrabbiarsi, ma forse era solo allarmato. “Che ti è successo? Non è da te tradirti così!”

“Lo so, mi spiace. Ma non mi piace sentirli parlare a quel modo di Enjolras e Feuilly sapendo…” Combeferre si interruppe: aveva uno sguardo dispiaciuto, vicino alla tristezza.

“Neanche a me” disse Courfeyrac mettendogli entrambe le mani sulle spalle. “Ma non puoi perdere la calma così… questa cosa la sappiamo solo io e te.” Si guardarono per qualche secondo, finché Combeferre non sembrò più tranquillo. “Meglio?”

“Sì… grazie, Courfeyrac. Marius…” disse Combeferre girandosi verso il lentigginoso ragazzo. “Mi spiace di averti coinvolto in questo, ma non ho avuto molta scelta.”

“Non ti preoccupare” Marius avrebbe voluto chiedergli che cosa non poteva rivelare di Enjolras e Feuilly, specie dopo tutta la curiosità che gli avevano messo quei due ragazzi andando via senza spiegazioni, ma si disse che non erano affari suoi e non fece domande. “Non è un problema per me dare una mano.”

“Probabilmente…” disse Combeferre in evidente imbarazzo, “ti chiederai il perché di tutta questa scenata…”

Marius stava per rispondere e buttar fuori la verità, ma Courfeyrac lo precedette: “Naaaaaaaah! Marius non è così curioso!” Poi si avvicinò al suo compagno di stanza e gli passò un braccio attorno al collo, dicendo: “E sono anche certo che manterrà il segreto!”

“C-come? Tu…” iniziò Marius, ancora più spaesato di quanto già non fosse. “Tu sapevi che non avrei detto nulla agli altri?”

“Certo! Perché sei un bravo ragazzo!” disse tranquillamente Courfeyrac. “Sono certo che non ci tradirai: non mi sono buttato a peso morto su di te a caso!”

“Ovviamente…” disse Combeferre in tono serio. “Ad Enjolras dovremo dire tutto.”

Courfeyrac rimase a guardarlo in silenzio per un attimo prima di rispondere: “Sì, mi sembra il minimo.” Poi guardò l’orologio del suo iPhone e disse: “Cazzo! Ma è tardissimo! Dobbiamo andare!”

Courfeyrac e Marius andarono al primo piano, mentre Combeferre aveva lezione al piano terra, quindi si separarono davanti alla scala monumentale per non incontrare gli altri: sapevano che loro sarebbero saliti da quella di servizio. Quando furono davanti all’aula di diritto, Courfeyrac salutò Marius per dirigersi alla sua classe. “Courfeyrac…” lo fermò Marius.

“Sì?” disse il ricciolino al suo amico.

“S-so che non sono affari miei, ma riguarda Enjolras…” Marius abbassò lo sguardo verso il pavimento per l’imbarazzo, poi prese coraggio e si decise a parlare: “Non è nulla di grave ciò che vi ha detto in confidenza… vero?”

Courfeyrac spalancò i suoi piccoli occhi scuri. Doveva aver percepito la preoccupazione di Marius perché gli sorrise e gli rispose: “No, stai tranquillo! Vedrai che prima o poi ve lo dirà!” Detto questo si voltò e si diresse verso la sua aula. Allora Marius, anche se era ancora un po’ in pensiero per Enjolras, aprì la porta per entrare in classe.

“Marius” Courfeyrac lo fermò chiamandolo da metà corridoio. “Non preoccuparti per lui! Credimi quando ti dico che è la persona più tenace che io abbia mai incontrato. Non è facile abbatterlo!” Il sorriso con cui Courfeyrac aveva pronunciato queste parole era riuscito a rassicurare Marius, il quale fece un cenno di saluto all’amico e andò a prendere posto in aula.

Era da un po’ che era seduto al suo posto in fondo all’aula: mancavano pochi minuti al suono della campanella, eppure Enjolras non era ancora arrivato. Marius si decise a mandargli un messaggio per sapere dove fosse. La risposta del ragazzo arrivò dopo pochissimi istanti.

- Enjolras -:

  -“Abbiamo avuto un sacco di contrattempi, ma siamo quasi lì”

Stava per rispondergli, ma una voce profonda e autoritaria lo distrasse: “Buongiorno a tutti.” L’intera classe si alzò in piedi, quindi Marius si adeguò: il professor Javert era entrato in aula, elegante e posato, esattamente come il ragazzo lo ricordava. Il professore fece cenno ai suoi studenti di accomodarsi, mentre lui rimase in piedi davanti alla cattedra. “Per quelli di voi che non mi conoscono, io sono il professor Javert e, come immagino avrete capito, sarò il vostro professore di diritto per i prossimi tre anni…” Javert lanciò un’occhiata ai suoi nuovi studenti e, fissando il posto vuoto accanto a Marius, concluse: “… per chi di voi non ci metterà di più, ovviamente.” A Marius corse un brivido lungo la schiena nel sentire quell’ultima aggiunta. Javert si spostò dietro la cattedra con passo lento e, quando fu davanti alla sua sedia, riprese: “Spero mi scuserete se mi presento solo ora a voi, che siete la classe di cui, oltretutto, sono rappresentante. Ma oltre che gestire l’intero corso di scienze politiche mi occupo anche della vicepresidenza e la scorsa settimana ci sono stati differenti disordini per quanto riguarda le assunzioni e discreti problemi con le supplenze. Ci tengo a precisare, tuttavia, che farò quanto mi è possibile per non permettere alle questioni riguardanti l’amministrazione scolastica di farmi perdere altre ore di lezione con voi.” Detto ciò, Javert si sedette e iniziò a fissare l’elenco degli studenti scritto nel registro cartaceo della classe. “Vogliamo iniziare facendo conoscenza?” disse prima di iniziare l’appello.

 

“Manca monsieur Enjolras, dunque” disse il professore al termine dell’appello, senza togliere gli occhi dall’elenco: Marius pensò che stesse fissando il nome di Enjolras data l’impassibile severità che traspariva dai suoi occhi. “Male: brutto inizio.”

“M-mi scusi, professore…” disse Marius, alzando la mano con quanta più educazione poteva.

“Sì, monsieur Pontmercy?” gli chiese il professore senza cambiare espressione.

“Veramente… veramente Enjolras sta arrivando…” Marius vide tutti i suoi compagni fissarlo increduli e realizzò di non capire dove avesse trovato il coraggio di parlare. Ma oramai aveva iniziato e doveva terminare il discorso. “Ha avuto un impegno imprevisto e…”

“Che impegno?” lo interruppe freddamente Javert: Marius pensò che, forse, se non avesse titubato non sarebbe successo. La domanda che fece il professore, inoltre, lo fece temere di aver fatto una cosa piuttosto sciocca e incrementò il disagio che già provava.

“Non lo so, professore… non me lo ha detto…”

Javert sospirò, scosse la testa e, per un attimo, sembrò raddolcirsi lievemente quando disse: “Apprezzo e comprendo il suo gesto, monsieur Pontmercy. Ma l’appello è terminato, quindi per questa lezione, monsieur Enjolras sarà segnato assente.”

Eccolo qui: ora Marius riusciva a vedere il professor Javert che i suoi amici gli avevano descritto.

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Capitolo 20
*** Dov'è Enjolras? - Enjolras ***


Enjolras

“Non hai idea di quanto mi dispiaccia, accidenti!” disse Feuilly una volta che ebbero passato il portone d’ingresso. Mentre parlavano, i due ragazzi si stavano dirigendo velocemente al primo piano, dove Enjolras aveva l’armadietto.

“Non ti preoccupare, dai!” disse quasi ansimante Enjolras, recuperando i libri che avrebbe usato quel pomeriggio. “Non potevi immaginare che ci sarebbe stato un incidente a rallentarci proprio sulla strada del ritorno.”

“Lo so” disse Feuilly, reggendo i volumi mentre Enjolras recuperava il suo zaino rosso dal fondo dell’armadietto. “Ma non posso non sentirmi responsabile… adesso hai Javert, cazzo… e gli devi anche consegnare la ricerca…”

“Non ti preoccupare. Male che vada mi caccia fuori e non me la accetta.”

“Enjolras, ci hai lavorato una notte intera! E poi so che non è vero che non ti importa…” Colto sul vivo: Enjolras smise di mettere i libri nello zaino e rimase a guardare Feuilly fisso, capendo quanto fosse dispiaciuto.

Ripose l’ultimo tomo, mise lo zaino in spalla e, prendendogli la mano vicino al polso, gli sorrise dicendogli: “Grazie.” Poi si alzò sulle punte dei piedi, in modo da riuscire a dargli un bacio sulla fronte e riprese: “Ma non stare a preoccuparti per me: in qualche modo me la caverò.” Detto questo, rimase a guardare gli occhi sorpresi di Feuilly per qualche istante, poi corse via verso l’aula del professor Javert.

Quando arrivò davanti alla porta dell’aula, esitò un attimo prima di bussare. “Avanti” sentì dire da una voce autorevole, che riconobbe subito come quella di Javert. Prese un respiro profondo ed entrò senza indugio. Il suo sguardo aveva cercato subito il professore e lo aveva trovato accanto alla lavagna con un gessetto in mano, come avesse appena smesso di scrivere.

“Posso entrare, professore?” disse rimanendo sulla porta.

“Monsieur Enjolras” disse tranquillamente Javert quando lo vide, mettendo la mano libera dietro la schiena e riassumendo la sua solita posizione signorile. “Non direi…”

“Ho avuto un impegno imprevisto” gli tolse la parola Enjolras. Dopo i due anni passati, il ragazzo aveva capito che, nonostante non fosse per niente un gesto rispettoso, interrompere Javert era l’unico modo in cui si potesse parlargli.

Javert rimase a guardarlo quasi indignato per essere stato praticamente zittito da uno studente, ma poi, probabilmente cercando di non perdere la calma, rispose: “Sì: monsieur Pontmercy me lo ha detto.” Enjolras, incredulo, si girò a cercare Marius e quando lo vide seduto vicino alla finestra, imbarazzato per essere stato chiamato in causa, lo ringraziò con lo sguardo e dicendo ‘Grazie’ solo col labiale. Marius gli sorrise e sembrò volergli dire qualcosa, ma Javert non gliene diede il tempo.

“Tuttavia” riprese il professore, avanzando verso di lui, “non ha saputo dirmi che genere di impegno avesse.” Javert si fermò sul lato corto della cattedra, al quale si appoggiò, quasi sedendosi sullo scrittorio, con una mano in tasca, e continuò, gesticolando lievemente con il gessetto: “E lei sa bene che io non transigo sui ritardi dovuti ad impegni extrascolastici, salvo che non si tratti di questioni di salute o familiari.” Enjolras abbassò lo sguardo e subito il professore aggiunse: “E non transigo nemmeno sulle bugie.” Quando sentì il tono marcatamente severo con cui ‘la-legge-sono-io’ aveva pronunciato quelle parole, Enjolras alzò subito lo sguardo e lo guardò dritto negli occhi: dopo due anni, si aspettava che il suo professore sapesse che lui non era moralmente in grado di mentire.

Javert rimase a guardare gli occhi quasi di sfida di Enjolras in silenzio per un attimo, prima di iniziare l’interrogatorio con tono di superiorità: “È stato convocato da un mio collega, monsieur Enjolras?”

“No” rispose seccamente il biondo ragazzo.

“Ha forse qualche problema di salute che la costringe a correre via da scuola senza preavviso?”

“No.”

“C’è qualche problema con i suoi genitori?”

Enjolras esitò: prese un respiro per calmarsi e rispose: “No.”

Ci fu di nuovo un momento in cui i due si guardarono in completo silenzio. Ad un certo punto Javert incrociò le braccia e sospirò, distogliendo lo sguardo. “Beh,” iniziò tranquillamente prima di tornare a guardare Enjolras fisso negli occhi, “direi che per oggi lei resterà assente ingiustificato. Buona giornata.”

Il professore si avviò nuovamente verso la lavagna per riprendere la lezione, quando Enjolras provò ad obiettare: “Ma professore…”

Questa volta fu Javert ad interromperlo. “Ho detto” disse a voce alta prima di fare una pausa nel tentativo di calmarsi, “buona giornata.” Enjolras avrebbe voluto proseguire la discussione piuttosto che dargliela vinta, ma fece tutto ciò che poté per lasciar correre. “Ah, monsieur Enjolras” lo chiamò un’ultima volta il professore. Enjolras si fermò e, continuando a dargli le spalle, girò giusto la testa. “La ricerca sul diritto internazionale la faccia portare nel mio ufficio da monsieur Fauchelevent. O da monsieur Feuilly, se preferisce.”

Enjolras si voltò: non credeva alle sue orecchie. “Credevo non avrebbe voluto guardarla.”

Javert, in piedi accanto alla lavagna, disse tranquillamente: “Quella non riguarda ciò che è accaduto oggi, quindi non vedo perché non dovrei correggerla.”

 

“Ti è andata bene!” disse Bossuet.

“Bene?” gli rispose Enjolras. “Mi ha chiuso fuori la prima lezione, Bossuet! La prima!” Si sedette sull’armadietto della bidelleria, poggiando la schiena contro il muro: il biondo ragazzo era talmente esile e leggero che quell’affare non si sarebbe certo rotto sotto il suo peso. “Proprio il primo anno del suo corso, la prima lezione… proprio quando volevo dimostrargli che faccio sul serio…”             Detto questo, iniziò a battere leggermente la nuca contro la bianca parete della stanza.

“Guarda il lato positivo!” cercò di incoraggiarlo Bossuet.

“Perché? Ce n’è uno?”

“Certo! Ha accettato la tua ricerca!” Enjolras smise di battere la testa e guardò Bossuet. Il ragazzo era in piedi accanto al lettino per massaggi della bidelleria, sul quale era steso Joly. “Io l’ho letta: ho visto quanto l’hai fatta dettagliata! Se non basta quella a dimostrargli che fai sul serio allora non puoi convincerlo!”

Enjolras stette a fissarlo in silenzio qualche istante, poi sospirò e riprese a battere la testa contro il muro. “Sono spacciato!”

“Ma da quando ti lasci scoraggiare in questo modo?! Non ti riconosco quasi!” disse Bossuet incredulo.

“Se si parla di Javert ho poche speranze di fargli cambiare idea” rispose Enjolras senza smettere di picchiare la nuca. “Sono sempre andato bene nella sua materia, ma mi rimprovera di continuo anche quando me ne sto buono!”

“Ahahahah! Questa è bella!” Bossuet scoppiò in una sonora risata. “Quando mai te ne sei stato buono tu, oh leader e difensore del popolo?! Ah no, scusa: dei cittadini[1]!” aggiunse scherzando.

Enjolras non sapeva cosa rispondere: si limitò a fermarsi, guardare Bossuet dritto negli occhi e a dire: “Lo vedi?! Non ho speranze con lui!” Quindi riprese a battere la testa contro la parete. Il rumore prodotto dallo scontro tra il muro e la nuca del ragazzo era ritmico, quasi rilassante a dire la verità.

“Smettila di fare così…” disse debolmente Joly, aprendo leggermente gli occhi. “Ti farai male…”

“Tu come ti senti, a proposito?” disse Enjolras tirandosi in avanti e appoggiando i gomiti sulle ginocchia. “Avrei dovuto chiedertelo prima di parlare di Javert, mi spiace.”

Joly girò la testa verso Enjolras e rispose: “Non bene…”

“… ma passerà in men che non si dica!” concluse per lui Bossuet, appoggiandosi al letto e carezzandogli la testa, sorridendogli.

“Tu minimizzi sempre” gli disse Joly.

“Mentre tu esageri sempre” disse Bossuet ridendo. Poi si inginocchiò in modo da guardare il suo ragazzo negli occhi e disse, senza perdere il sorriso e la dolcezza: “Non dico che non stai male, ma vedrai che domani starai già meglio. Non fare un dramma per un banale mal di testa.”

Joly lo guardò dritto negli occhi e, nel vederlo, Enjolras capì che si stava lasciando intenerire dallo sguardo di Bossuet: il biondino non riusciva a vederlo in viso, ma gli bastò il tono della sua voce per immaginare con quanta tenerezza lo stesse osservando. “Potrebbe essere influenza…” disse Joly con un filo di voce.

Bossuet restò in silenzio per un attimo, poi gli chiese: “Che cosa ti dico sempre?”

Joly finalmente sorrise e rispose: “Non fasciare la testa prima di essertela rotta.”

“Bravo!”

Detto ciò, Bossuet si avvicinò per baciarlo, ma Joly lo fermò subito mettendogli una mano sulla bocca. “Con la sfiga che ti ritrovi va a finire che è davvero influenza e ti ammali pure tu!” Questa considerazione fece ridere sia Enjolras che Bossuet, quando rientrò Feuilly.

“Fatto: ho lasciato la tua ricerca sulla scrivania di Javert” disse riponendo le chiavi della vicepresidenza nell’armadietto appeso alla parete accanto alla porta. Si avvicinò ad Enjolras e gli disse, per l’ennesima volta: “Mi dispiace tantissimo, Enjolras…”

“Stai tranquillo” gli disse mettendogli una mano sulla spalla. “Quante volte ancora ti dovrai scusare? Non è stata colpa tua!”

“Ma ti ho convinto io a venire!” gli disse Feuilly. “Tu non te la sentivi! Se non avessi insistito…”

“Vorrà dire che devo imparare a dirti di no” lo interruppe Enjolras: non voleva essere cattivo, ma gli spiaceva vedere Feuilly così mortificato. “E poi non è che ho fatto tardi per una cosa inutile e stupida. Calmati, dai.” Enjolras voleva essere sicuro che Feuilly si tranquillizzasse almeno un pochino, quindi non distolse i suoi occhi da quelli dall’amico. Era abbastanza sicuro che il suo sguardo fosse eloquente: non se lo spiegava, ma aveva sempre funzionato con chiunque.

Ancora una volta, questa tecnica doveva aver funzionato, perché Feuilly chiuse gli occhi color nocciola, sospirò e gli disse: “Ci proverò. Ma solo se mi assicuri che tu sei tranquillo.”

“Sai che non so mentire…” dovette ammettere Enjolras. “Non sono tranquillo, ma non puoi prenderti la colpa di una cosa che non hai fatto.” Feuilly distolse lo sguardo sospirando: si vedeva che era tremendamente agitato per il rimorso, quindi Enjolras riprese quanto più in fretta poté, spostando la sua mano lungo il braccio: “Dai, per favore…”

Feuilly tornò a guardarlo in silenzio: si capiva che non riusciva a calmarsi. “Rimedierò a ciò che ho fatto in qualche modo, te lo prometto” disse infine. Dal tono con cui pronunciò quelle parole, Enjolras capì che non gli avrebbe lasciato scelta.

“Come?” chiese Enjolras tirandosi indietro e appoggiandosi sulle braccia.

“Beh, io so dov’eri” disse tranquillamente Feuilly. “Basterà che vada a giustificarti io.”

“Lascia stare, credimi: penserà che vuoi aiutarmi e finirai nei guai.”

“Mi spiace ammetterlo…” li interruppe Bossuet, continuando ad accarezzare Joly, “…ma Enjolras ha ragione. Quando quell’uomo pensa di essere nel giusto non cambia idea!” Feuilly tornò a guardare Enjolras un po’ sconsolato. “Ma io non mi preoccuperei. Se pensa di non poter cambiare opinione su di te vuol dire che potrai continuare a comportarti come l’anno scorso.”

“Credi che non lo avrei fatto lo stesso?” chiese Enjolras sorpreso dalle considerazioni di Bossuet.

“Beh, se lo avessi convinto a cambiare idea su di te, ti sarebbe stato difficile scatenare e guidare manifestazioni e rivolte” constatò Bossuet. “Se è deciso a non cambiare opinione, allora tu puoi benissimo non cambiare atteggiamento.” Fece un piccola pausa, poi si voltò verso il biondo ragazzo e riprese: “Perché tu lo farai ancora, vero?”

Enjolras rimase a guardarlo un attimo dubbioso, poi gli disse: “Devi chiedermi qualcosa, Bossuet?”

Bossuet stava per rispondere, quando un uomo fece irruzione nella bidelleria. “Allora, dove sta il malato?” I ragazzi si spaventarono e si irrigidirono nel sentire la sua voce e Enjolras saltò giù dall’armadietto in modo da farsi trovare in piedi. L’uomo che videro sulla porta fu il professor Valjean. “Oh, scusate ragazzi. Spero di non aver interrotto nulla, ma ho trovato aperto e non ho pensato che forse avrei dovuto bussare lo stesso” disse quando li vide rigidi e imbarazzanti davanti a lui.

“No, non si preoccupi, professore” disse Feuilly rilassandosi. “È solo che non ci aspettavamo arrivasse qualcuno.”

“Ah, meno male. Scusate l’irruzione così improvvisa!” Il professore gli sorrise cortesemente e abbassò lo sguardo verso colui che stava cercando. “Lesgle!” disse una volta che lo vide “Avevo capito che non ti sentivi bene! Che fai lì in ginocchio?”

Bossuet non rispose, allora Enjolras lo guardò e notò che stava tenendo ancora la mano di Joly. “Ecco… p-posso spiegarle, professore… i-io…”

“Non c’è bisogno che mi dici nulla” lo fermò subito Valjean: Enjolras pensò che avesse capito l’imbarazzo dei suoi due amici. “Mi sorprende solo che tu non mi abbia detto che venivi qui per Joly.”

“Pensavo avrebbe fatto domande a cui… beh…” Bossuet fece una pausa e guardò Joly negli occhi: si vedeva il loro disagio lontano un miglio. “…a cui evidentemente non avrei saputo come rispondere.”

Valjean rimase a guardarlo in silenzio, riflettendo: i suoi occhi verde scuro sembravano pieni di sorpresa. Poi sorrise e disse: “Non credevo che gli studenti mi trovassero tanto bigotto.” Quella frase fece rasserenare il gruppetto di ragazzi, Enjolras lo leggeva sui loro volti. Il professore si avvicinò a Joly, forse anche per vedere come stava, e poi riprese, rivolgendosi sia a lui che a Bossuet: “Non c’è nulla di male in quello che provate, anzi: è il sentimento più naturale del mondo e non bisogna nasconderlo. Oh, beh…” esitò per qualche istante, “magari qui a scuola prestateci un po’ più di attenzione: non tutti i docenti la pensano come me.”

“Quindi…” iniziò Bossuet, “diciamo che questa volta l’abbiamo scampata bella?”

Joly lo fulminò con lo sguardo e disse: “Non fare quel sorrisetto, René: abbiamo rischiato grosso!”

“Ma ci è andata bene, tesoro” lo rimbeccò sorridendo. “Guarda il lato positivo, qualche volta!”

“Ha ragione” disse tranquillamente Valjean. “Bisogna sempre gioire per la buona sorte, Joly: la vita ci dà anche occasione di essere positivi e ben disposti agli eventi.” Bossuet lanciò un tale sguardo a Joly che sembrò volesse dirgli ‘Visto?’, ma il professore lo notò e, prima che il ragazzo potesse parlare, aggiunse: “Ma non va bene neanche sperare sempre nella buona sorte e non curarsi di ciò che potrebbe accadere. Bisogna vivere con il giusto equilibrio: né troppa ansia, né troppa spensieratezza.” Come finì il discorso, il professor Valjean restò ad osservare i suoi due studenti, mentre i due ragazzi si guardavano. “Comunque ero sceso per comunicarvi che il preside ha detto che potete ritornare a casa. Feuilly: puoi accompagnarli tu, per favore?”

Feuilly fece un cenno con la testa e, mentre recuperava le chiavi della sua piccola Peugeot 107 bianca, disse: “Certamente, professore. Venite con me, ragazzi.” Mentre Bossuet e Valjean aiutavano Joly ad alzarsi, Feuilly si girò verso Enjolras e gli chiese: “Ci sentiamo più tardi?” Il biondo ragazzo gli sorrise e gli fece segno di sì con la testa, per poi salutare Feuilly con la mano.

“E tu, Enjolras?” gli chiese il professore mentre i tre ragazzi uscivano dalla bidelleria. “Tu che cosa ci fai qui? Stai male?”

“No, prof” disse Enjolras, scuotendo la testa. “È una lunga storia…”

“Puoi raccontarmela mentre mi accompagni in aula, che dici?”

Così fece. Ad Enjolras parlare col professor Valjean aveva sempre fatto bene. Lui era diverso dagli altri professori: quando accadeva qualcosa, sapeva ascoltare pazientemente la versione dei fatti degli studenti, senza mettersi a priori dalla parte dei docenti; stava a sentire fino alla fine del racconto, chiedeva chiarimenti per essere certo di avere capito, non importava quanto ci avrebbe messo, confrontava le versioni che conosceva nella sua testa e solo poi dava il suo punto di vista e i dovuti consigli. Questo suo modo di operare ad Enjolras e agli altri studenti piaceva molto: era una maniera per avere un confronto aperto e sincero, non una giustificazione da alunno a professore. C’era però una cosa di Valjean che Enjolras non era ancora riuscito a comprendere e questa era la continua faida tra lui e Javert. Ogni volta che succedeva qualcosa, i due insegnanti si trovavano in disaccordo completo e sembravano avere un rapporto ostile l’uno con l’altro: sui provvedimenti da prendere per una determinata punizione, sulla soluzione da adottare per un non specificato problema di attività extrascolastiche… su qualsiasi cosa accadesse, i due non erano mai d’accordo.

“E ti ha mandato fuori per questo?” chiese incredulo Valjean. “Quell’uomo è incorreggibile!” Come c’era da aspettarsi, anche questa volta era in disaccordo con Javert.

“Forse un po’ ha ragione...” si sentì costretto a difenderlo Enjolras. “Dopotutto io non gli ho detto dov’ero.”

“Ma ha torto a non averti lasciato la possibilità di spiegare” lo corresse Valjean. “Tutti possono sbagliare e tutti hanno il diritto di poter fornire una spiegazione. Solo dopo essere stato ad ascoltarti avrebbe dovuto decidere che cosa fare!” Stettero un po’ a camminare in silenzio, quasi come il professore stesse aspettando che Enjolras dicesse qualcosa, mentre il ragazzo stava attendendo che Valjean aggiungesse la sua riflessione sul comportamento avuto da lui. Alla fine, il commento arrivò: “Tu, però, non saresti dovuto uscire da scuola durante la pausa. Sei minorenne.”

“Il regolamento scolastico non dice nulla a riguardo” disse Enjolras: non aveva la pretesta di giustificarsi, ma quella risposta gli uscì spontanea.

“Vero, ma su autorizzazione della presidenza o della vicepresidenza.” Nel sentire il professore pronunciare queste parole, Enjolras iniziò a sentirsi in colpa. “Il preside Myriel ti aveva permesso di uscire, figliolo?”

“No, professore…” ammise Enjolras. Come poteva essersi scordato di guardare il regolamento? Come?

“Perciò diciamo che sei stato fortunato che il professor Javert sia così cocciuto e non ti abbia chiesto dove fossi.” Enjolras non riuscì a rispondere: aveva fatto una cosa davvero sciocca ad uscire così a cuor leggero.  

“Enjolras!” si sentì chiamare il ragazzo. Alzando la testa, vide Marius correre verso di lui: non si era reso conto che la campanella fosse suonata. Quando arrivò davanti a lui, Marius prese a parlare a macchinetta: “Enjolras, mi spiace! Avrei voluto aiutarti, ma non sapevo che cosa fare, che cosa dire… sono mortificato! Forse se avessi…”

“Pontmercy, per favore, prendi fiato!” lo interruppe ridendo Valjean. “Non vorrai certo finire in infermeria perché non dai tempo all’ossigeno di arrivare ai polmoni, vero? Calmati!”

Marius rimase senza parole, in preda all’imbarazzo per la reazione che aveva appena avuto. Così Enjolras, anche se avrebbe voluto ridere, si trattenne e, nel tentativo di farlo calmare, gli disse: “Marius, è tutto a posto. Non avresti potuto fare nulla in ogni caso.”

“Ha ragione: imparerai da te a conoscere il professor Javert. Avresti potuto peggiorare la situazione, intervenendo” disse Valjean mettendo una mano sulla spalla del suo nuovo studente. “Si sta facendo tardi: sarà meglio che corriamo tutti in aula. Ragazzi…” Valjean diede una pacca sulla spalla ad Enjolras con la mano che aveva libera e se ne andò, salutando i due ragazzi con un sorriso.

“Andiamo a lezione, prima che mi lascino fuori dall’aula anche quest’ora?”

 


[1] Riferimento al romanzo: Victor Hugo scrive che lui non usava dire “il popolo”, ma sempre “i cittadini”

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Capitolo 21
*** Dov'è Enjolras? - Bahorel ***


Bahorel

- Les Amis de la Saint-Denis  -:

- « 32 messaggi non letti »

- Ma come ti vesti: “Jolllly… come stai?”-

-Crapa pelata: “Adesso sta dormendo, Jehan.”-

-“Ma sta bene: nn preoccuparti per lui! ”-

-Marius: “Ne sei sicuro? Nn aveva una bella cera…”-

-Crapa pelata: “Tranquilli: è lui ke è ipocondriaco e pensa di avere ogni sorta di malattia! ”-

-Indovina-chi: “Il nostro perenne malatino. ”-

-So-tutto-io: “Bossuet: credo che ci penserà da solo, ma assicurati che prenda mezza bustina di tachipirina quando si sveglia.”-

-Crapa pelata: “Agli ordini doc! ”-

-Indovina-chi: “Wella!”-

-“Il sapone si è connesso durante le lezioni?!!”-

-“È un evento biblico! ”-

-“PREPARARSI ALL’APOCALISSEEEEEEEEEEE!!!! BOOOOOOM!”- -

-So-tutto-io: “Courfeyrac ho un’ora buca. Piantala con le idiozie!”-

-Indovina-chi: “Fiuuuuuu! Pericolo scampato! ”-

-Stachanovista: “Sarebbe stato un evento, Combeferre: lo devi ammettere. ”-

-Indovina-chi: “Guarda guarda ki si fa vivo dp ore!”-

-“Dov’è quell’altro, Feuilly?”-

-Biondino: “ “Quell’altro” sarei forse io?”-

-Indovina-chi: “Ovviamente, biondo leader!”-

-Biondino: “Risolvici tu una questione, che io e Marius da soli non ci arriviamo.”-

-“Ma tu non segui mai?!”-

-R: “Nessuno di noi sta davvero seguendo o lavorando, angioletto: lo sai benissimo. ”-

-So-tutto-io: “Non vi viene in mente che forse dovreste?”-

-Biondino: “Stavo per scrivere la stessa cosa.”-

-R: “Ma quante storie x nulla! XD”-

- Ma come ti vesti: “Dai non litigate…”-

-Indovina-chi: “BAHOREL, SOMMO DIO DELL’OZIO! VIENI IN NOSTRO SOCCORSO!!! ”-

-R: “Giusto!-

- “Santo Yvan da Parigi: INTERCEDI PER NOI!”-

-Biondino: “…”-

-R: “Esprimi il tuo sconcerto usando qualcosa di diverso dai tre puntini, ogni tanto! ”-

-Crapa pelata: “AHAHAHAHAAH!!! Mi state uccidendo! Non fatemi ridere che se no sveglio Joly! XD”-

Ecco, c’era d’aspettarselo: per colpa di Javert, Bahorel si era perso una bella conversazione in cui intervenire. Ne avrebbe scritte così tante, accidenti… Oh beh: lo avevano interpellato, quindi avrebbe detto la sua ora che le lezioni erano finite:

- Les Amis de la Saint-Denis  -:

“Ke cos’è tutto questo putiferio solo x un po’ di distrazione?”-

“Biondino, nn fare il leader rompi coglioni”-

“Relax!”-

Finito di scrivere si alzò e iniziò a riporre astuccio e quaderno nello zaino. Non aveva seguito, ovviamente: aveva scarabocchiato tutta l’ora con la penna sul quaderno, senza prestare ascolto neanche per un minuto. Già normalmente non era da lui stare a sentire l’insegnante, soprattuto se era Javert, ma quel giorno la sua concentrazione era stata tutta rivolta alla gaffe fatta a pranzo con Grantaire. Giusto il giorno prima il suo amico gli aveva confessato di avere una cotta paurosa per Enjolras: come gli era venuto in mente di fare quel commento su lui e Feuilly? Come?! Forse Grantaire non era tipo da rimanere male per uno scherzo del genere e anche leggendo la conversazione sul gruppo gli era sembrato che stesse meglio. Però lo sguardo triste che il ragazzo aveva sul volto quando Bahorel aveva iniziato a prendere in giro Feuilly e Enjolras non gli dava pace.

Lo aveva ancora stampato nella testa e non riusciva a capacitarsi di averlo potuto ferire così scioccamente. ‘Yvan, sei un idiota!’ continuava a ripetersi. Avrebbe voluto scusarsi, ma a pranzo non ne aveva avuto l’occasione e non gli sembrava il caso di farlo via messaggio. Riordinato il suo banco, andò fuori dall’aula di diritto a passo spedito e corse verso la classe di matematica dove avrebbe trovato Grantaire… perché Grantaire a quell’ora avrebbe finito la lezione di matematica, giusto? Non importa: se fosse stato lì meglio, altrimenti si sarebbe scusato una volta tornati alla residenza. Come sperava, si ricordò bene e vide Grantaire uscire dalla classe con lo sguardo fisso sul cellulare: Bahorel non riuscì a capire se fosse triste o meno.

“Grantaire!” lo chiamò alzando appena la mano. Il tono della sua voce era forte e lui era un ragazzo alto e robusto: non aveva dubbi che Grantiare lo avrebbe visto senza difficoltà.

Grantaire alzò distratto lo sguardo, ma nonostante ciò i suoi occhi trovarono subito chi lo stava chiamando. “Ciao, Bahorel!” disse sorpreso di vederlo. Mentre Bahorel si avvicinava, vide alcuni studenti salutare Grantaire uscendo dall’aula. “Che fai qui? Pensavo ci saremmo trovati giù con gli altri…” Quando Bahorel arrivò da lui, i due ragazzi si diedero la solita stretta di mano come saluto.

“L’idea doveva essere quella, infatti. Però dovevo vederti subito” disse Bahorel, un po’ nervoso.

“Perché?”

Il nervosismo crebbe: non era da lui chiedere scusa, ma questa volta era davvero necessario. “Perché…” iniziò incerto, “perché ti devo delle scuse.” Grantaire rimase a guardarlo in silenzio e Bahorel non riuscì a capire se fosse confuso o se volesse vedere dove andava a finire quel discorso. In ogni caso avrebbe dovuto proseguire con delle spiegazioni. “È stato davvero cretino da parte mia iniziare a prendere in giro Enjolras e Feuilly come coppietta proprio davanti a te. Dopo che ieri mi hai confessato che Enjolras ti piace, forse è stato addirittura imperdonabile. Mi spiace tantissimo.”

Grantaire aveva stampata in volto un’espressione sbalordita e divertita assieme. “Cioè…” disse abbassando lo sguardo, quasi nel pavimento potesse trovare le parole che gli mancavano. Si lasciò sfuggire un accenno di risata e poi sembrò trovare il resto del discorso: “Ti stai scusando? TU? Sul serio?” Fu quando scoppiò a ridere che Bahorel iniziò a sentirsi davvero in imbarazzo. Sì, stava chiedendo scusa per davvero: che c’era di strano? “Courfeyrac aveva ragione: dobbiamo prepararci per l’apocalisse!” rispose Grantaire, quasi gli avesse letto nel pensiero. Forse aveva ragione per davvero: che Bahorel si scusasse era un fatto più unico che raro, questo lo sapeva lui stesso.

“Concesso” disse Bahorel, alzando le mani come segno di resa. “Mi perdoni?”

“Certo che ti perdono!” disse Grantaire facendogli abbassare le braccia. “In fondo non è successo niente.”

“Pensavo di averti ferito…”

“Forse un pochino” disse Grantaire distogliendo lo sguardo. “Ma suppongo di dover semplicemente cercare di ingoiare il rospo un’altra volta.”

“Di che parli?” Non era la prima volta che Bahorel vedeva Grantaire così abbattuto, ma ora che sapeva la verità era diverso: ora poteva capire fino in fondo ciò che provava il suo amico. Grantaire non rispose subito: sembrava quasi non riuscirci. Restò semplicemente a fissare Bahorel per un attimo con occhi seri; poi prese un respiro profondo, guardando verso la finestra, e tirò un lungo sospiro.

Solo dopo qualche altro istante passato a guardare verso terra disse: “Non posso pretendere che nessuno gli giri attorno. È un ragazzo bellissimo… come potrei credere che non interessi a nessun altro?” Grantaire fece una pausa e lui e Bahorel si guardarono negli occhi. Grantaire doveva aver capito che Bahorel avrebbe aspettato che continuasse, perché riprese: “Se non faccio nulla non posso certo aspettarmi che sia mio… ma non so che cosa fare.”

“Non saprei come aiutarti…” dovette ammettere Bahorel. “Forse se tu parlassi con Combeferre…”

“No, no! Non se ne parla!” lo interruppe Grantaire. “Non lo dovresti sapere nemmeno tu, figurati se vado a dirlo a lui che, oltretutto, gli è così vicino. No, non ci penso nemmeno!”

“Se non vuoi chiedere una mano a chi può effettivamente aiutarti, allora non ti resta che parlarne direttamente con lui.” Grantaire sembrò quasi sconvolto da ciò che gli disse Bahorel, neanche gli avesse proposto di gettarsi dal belvedere di Monmartre. “Mi conosci: sai che per me la soluzione migliore è essere sempre diretti e non stare ad farsi mille menate!”

“Non lo so, Bahorel…” disse Grantaire: forse ci stava riflettendo sul serio. “Certe volte mi chiedo cos’è andato storto…”

“Che intendi?”

Grantaire restò a fissare Bahorel in silenzio. Quando sembrò che stesse per vuotare il sacco, ci ripensò. “Lascia stare. Preferisco non parlarne.”

“Ne sei sicuro?”

“Sì…” Il discorso si chiuse lì: Grantaire spostò lo sguardo e Bahorel ebbe l’impressione che fosse immerso in pensieri profondi. Ad un certo punto, Bahorel sentì uno strano rumore e vide l’altro ragazzo prendere in mano il telefono che teneva in tasca; il suono che aveva sentito doveva essere la vibrazione del cellulare. D’istinto, Bahorel tirò fuori il suo iPhone dalla tasca posteriore e vide che c’erano altri messaggi dal gruppo.

- Les Amis de la Saint-Denis  -:

- « 13 messaggi non letti »

-R: “Eccolo qua! Dov’eri finito?”-

-Indovina-chi: “Davvero, ragazzone! X 1 volta ke c’è bisogno di te! ”

-Stachanovista: “Tu davvero credi che avrebbe fatto differenza col grande capo? ”

-Indovina-chi: “Vabbè 1 c può sperare”

-Marius: “Enjolras dice di non farti illusioni, Courfeyrac. ”

-Indovina-chi: “Ah sì?”

-“VENGA A DIRMELO IN FACCIA! ”

-Marius: “Dovrai attendere poco: stiamo arrivando.”

-Indoviana-chi: “WAAAAAAAAAAAAAAAA”

-“NO IO SKERZAVOOOOOOOOOOOOOOOO!!!!”

-“ENJOLRAAAAAAAAAAS!!!”

-Ma come ti vesti: “Grantaire, Bahorel: dove siete? Va tutto bene?”

-R: “Adesso arriviamo”

“Dobbiamo andare” disse Grantaire mettendo via il telefono.

“Sì l’ho notato. Andiamo, allora.” Bahorel vide che Grantaire stava iniziando ad avviarsi verso le scale. Avrebbe voluto cercare di convincerlo a parlargli, per lasciare che si sfogasse, se non altro, ma aveva già fatto abbastanza danni per quella giornata: era colpa sua se Grantaire era giù di corda. Si limitò a seguirlo senza dire una parola. Quando gli fu di fianco si rese conto che la situazione era peggio di quanto pensasse.

“Eccovi, maledetti!” urlò Courfeyrac quando li vide arrivare. I ragazzi erano tutti davanti all’ingresso ad aspettare l’arrivo di Bahorel e Grantaire. “Siete arrivati persino dopo il sapone!”

“Aveva un’ora libera” disse Bahorel. “Normale che sia arrivato prima: avrà ricopiato gli appunti durante quell’ora, no?” Courfeyrac sembrò spiazzato dalla logica di quell’affermazione.

“NON È UN VALIDO ARGOMENTO!!!” urlò infine.

“Abbassa la voce! Siamo tutti qui, non serve che ci rendi sordi!” lo sgridò Enjolras.

“Vedo che ti sei ripreso in fretta…” disse Bahorel guardando Courfeyrac saltare da una parte all’altra.

“Eh eh…” Courfeyrac si fece sfuggire una risatina imbarazzata, quasi avesse fatto qualcosa da non fare.

“Perché? Sei stato male anche tu?” chiese Enjolras: evidentemente non gli avevano ancora spiegato nulla.

“Niente di grave” intervenne subito Combeferre, mettendosi tra Enjolras e Courfeyrac e mettendo loro una mano sulla spalla. “Solo un calo di pressione. Vero, Courfeyrac?”

“Eh già!” confermò Courfeyrac. “Mi sono sentito meglio praticamente subito dopo che Marius e Combeferre mi hanno accompagnato in infermeria…”

“Perché non mi hai detto nulla, Marius?” gli chiese Enjolras, voltandosi verso di lui. Bahorel lesse un profondo imbarazzo nel suo sguardo e capì che i tre ragazzi stavano nascondendo qualcosa. Probabilmente quella di Courfeyrac era stata una manovra evasiva in piena regola: Bahorel se ne intendeva. Ma non avrebbe cercato di approfondire lì, in quel momento, soprattutto con Grantaire presente.

Ancora una volta fu Combeferre a giungere in soccorso: “Non volevamo farti preoccupare, quindi gli abbiamo chiesto di non dirti nulla.” Il secchione era tornato in gran forma dopo la gaffe di quella mattina, questo Bahorel lo vedeva chiaramente. Combeferre era bravo ad uscire dai guai; tuttavia, Enjolras non parve convinto: lo guardò negli occhi un po’ confuso, ma dopo uno scambio di sguardi, il biondino annuì leggermente e si voltò. Si erano detti qualcosa con quelle occhiate, Bahorel ne era certo! Come minchia facevano a farlo?! Sembrava che fossero capaci di leggersi nel pensiero, quei due!

“Torniamo a casa?” disse Enjolras girandosi verso il portone e cominciando ad avviarsi all’uscita. Jehan fu il primo a correre verso di lui e iniziò a parlargli, ma Bahorel non riusciva a sentirli. Vide Combeferre scambiare un’occhiata con Marius e poi anche loro due si avviarono parlottando. Courfeyrac rimase indietro, ma prima che potesse raggiungere il resto del gruppo, Bahorel lo prese per il cappuccio della felpa verde smeraldo che indossava e lo tirò indietro verso di sé.

“Ehilà, maciste!” disse Couerfeyrac allegramente. “Posso fare qualcosa per te?” Bahorel alzò lo sguardo e vide Grantaire osservarlo confuso. In qualche modo, Bahorel riuscì a fargli capire di andare avanti, ma solo quando arrivò Enjolras a chiamarli, il ragazzo dai capelli neri si convinse a dargli ascolto ed uscì insieme al biondino dal portone, lasciando Courfeyrac e Bahorel da soli.

“Credi che non mi sia accorto della tua mossa evasiva?” gli chiese il ragazzone lasciando andare il cappuccio di Courfeyrac e avviandosi con lui verso il cancello. “Che ci state nascondendo tu e il secchione?”

“N-niete!” il disagio di Courfeyrac era evidente.

“Voglio la verità!”

Courfeyrac rimase a guardarlo in silenzio, i piccoli occhi neri spalancati che lo guardavano con uno sguardo indecifrabile. Alla fine, il ragazzo dalle orecchie a sventola si lasciò scappare un’espressione piena di amarezza e spostò lo sguardo sulla bianca pavimentazione a mattonelle larghe che ricopriva Place Victor Hugo. Stavano passando vicino alla fila di alberi tra la chiesa e l’edificio quando Courfeyrac sembrò decidersi a parlare: “Sì, è vero: qualcosa c’è.” Alzò lo sguardo e, guardando Enjolras camminare accanto a Grantaire davanti a loro, terminò: “Ma ho promesso di non parlarne.”

“Perché no?” chiese Bahorel. Dovette ammettere che i segreti lo incuriosivano sempre parecchio, ma nell’osservare le espressioni che avevano sempre Combeferre e Courfeyrac anche solo al nominare quel segreto, iniziò a pensare che forse stavolta era più la sua preoccupazione a farlo parlare.

“Conosci anche tu Enjolras:” gli fece notare Courfeyrac, “sai quant’è riservato.”

“Ma con voi si apre, giusto? Un pochino almeno” Nel sentire Bahorel pronunciare quelle parole, Courfeyrac lo fissò per un po’ senza dire nulla: sembrò sorpreso da quella considerazione, neanche Bahorel avesse bestemmiato davanti al preside, cosa che il ragazzone ricordava essere successa…  forse.

Mentre entravano in quello stretto passaggio tra gli edifici e le aiuole alberate che era l’inizio di Rue de la Boulangeri, Courfeyrac tornò di nuovo a fissare dritto davanti a sé prima di riprendere la parola: “Certe volte mi sembra che nemmeno io e Combeferre sappiamo tutto quello che lo preoccupa.”

“Ma è qualcosa di così grave?” chiese immediatamente Bahorel. “So che non sono affari miei e non voglio certo saperlo a tutti i costi, non fraintendermi. Ma alle volte vorrei poterlo aiutare per ripagarlo di tutto ciò che lui fa per me. Sai: per lo studio e tutto il resto.”

“È un bel pensiero, ma non me ne preoccuperei se fossi in te” gli rispose Courfeyrac senza distogliere lo sguardo da davanti a sè. Erano arrivati al primo incrocio al di fuori dell’area pedonale della piazza, quindi c’era da fare più attenzione: i rumori che si sollevavano dal traffico delle strade rendeva difficile ai due ragazzi parlare. Ad un certo punto, Bahorel e Courfeyrac rimasero bloccati da una fila di macchine mentre gli altri ragazzi stavano già dall’altra parte dell’incrocio. Bahorel vide Jehan girarsi verso di loro e gli fece cenno di proseguire, così il ragazzino, anche se titubante, raggiunse il resto del gruppo. Riuscì anche a scorgere Grantaire e Enjolras parlare di qualcosa, forse riguardo al nuovo tatuaggio del suo compagno di stanza, visto che egli si stava lasciando tastare il braccio dal biondino e, a giudicare dai loro sorrisi, per una volta non stavano litigando: fu sollevato nel vedere che Grantaire sembrava essersi rasserenato.

Arrivarono anche loro sull’altro marciapiede e si infilarono come di loro solito nello stretto tratto a senso unico di Rue de la Boulangeri. Quando si allontanarono dall’incrocio e il rumore si fu affievolito, Bahorel potè riprendere: “Perché non dovrei?”

“Ad Enjolras fa bene tenersi impegnato in mille questioni. Finché non ci pensa, lui sta bene. Lo vedi anche tu, no?”

“E Feuilly?” chise Bahorel. Il crollo di nervi che Combeferre aveva avuto a pranzo  gli aveva fatto pensare che si stesse riferendo ad entrambi, non solo ad Enjolras.

Courfeyrac parve rifletterci su qualche istante, poi scrollò la testa e disse: “Non ne so molto: credo che Enjolras e Combeferre ne sappiano di più di me a riguardo. Sinceramente rischierei di darti informazioni sbagliate, perciò preferisco non farne parola.”

“A lui niente promesse?” disse Bahorel.

“Beh…” iniziò incerto Courfeyrac. “Penso che mettervi a conoscenza dello stato delle cose possa aiutarlo… per quello che ne so io, quanto meno.”

“E la sua questione è grave?” chiese Bahorel, quasi senza rendersene conto. All’improvviso, Bahorel si accorse che, senza preavviso, Courfeyrac aveva smesso di camminare. Si voltò e vide che il ragazzo ricciolino lo stava fissando con espressione sorpresa. “Che ti prende?”

Il viso di Courfeyrac mutò da colpito a divertito e, ridacchiando, il ragazzo disse: “Ma tu guarda! Il nostro rabbioso Yvan Spaccatutto, bullo della situazione, si è trasformato in tenerone? Non lo avrei mai detto! Oggi è proprio un giorno straordinario!”

Bahorel si imbarazzò. Era vero: non era mai stato troppo da lui preoccuparsi degli altri e quel giorno si era interessato ai problemi di ben tre persone diverse. Forse Grantaire aveva ragione: doveva davvero arrivare l’apocalisse per causa sua! Tuttavia, con Courfeyrac negò l’evidenza. “Ma che vai blaterando?! Non dire stronzate!” disse riprendendo a camminare.

Courfeyrac lo seguì quasi subito e gli corse davanti. Camminando all’indietro in modo da guardarlo in faccia, disse: “Perché sei rosso come un peperone? Allora è vero! Ti stai preoccupando!”

“No.”

“Ma sei bordeux!”

“No.”

“E ti stai agitando!”

“No!...”

“Uh! Ora ti stai arrabbiando!”

“NO!”

“Che ti costa ammettere la verità?!”

“E VA BENE! QUANDO SI PARLA DI VOI PICCOLETTI IO MI AGITO!” Entrambi si fermarono: Courfeyrac rimase a guardarlo sconvolto, mentre Bahorel si mise una mano sugli occhi e sospirò. Pose entrambe le mani in vita e si voltò a guardare un punto imprecisato della strada: sentire i suoni della vita cittadina aveva uno strano potere calmante su di lui. Stette fermo a fissare quel punto per un po’, mentre un raggio di sole, che filtrava tra due edifici, illuminava i suoi occhi dorati. In tutto questo tempo, Courfeyrac non disse nemmeno una parola. Quando fu del tutto calmo, Bahorel sospirò nuovamente e poi riprese: “Il fatto è che per tutti quelli che conosco io sono sempre stato solo un caso irrecuperabile: nessuno ha mai voluto perdere tempo con me. Ma poi siete arrivati voi: mi avete compreso, aiutato, accettato… e quindi quando si tratta di voi io… io mi preoccupo, ecco...” Detto ciò, Bahorel ebbe bisogno di una piccola pausa prima di aggiungere: “Sei soddisfatto, adesso?”

Courfeyrac gli mise una mano sulla spalla, sorrise e il suo sguardo si addolcì.  “Direi proprio di sì!”

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Capitolo 22
*** Dov'è Enjolras? - Combeferre ***


Combeferre

Combeferre aveva ancora gli occhi chiusi quando percepì il debole calore del sole sul viso e sentì voci di ragazzi provenire dal corridoio. Aprendo le palpebre, la prima cosa che vide fu il soffitto e, una volta che fu cosciente del fatto di essere sveglio, gli parve di sentire nell’aria un leggero odore di umido; il suo sguardo corse subito verso la finestra: a giudicare dalla quantità di luce che entrava attraverso le fessure delle tapparelle, il sole doveva essere piuttosto alto in cielo. Si sedette lentamente sul letto e afferrò il suo cellulare per guardarne l’orologio: segnava le dieci e mezza. ‘Ma come? È già così tardi?’ pensò subito Combeferre.

“Enjolras! Perché non mi hai svegliato?” chiese d’istinto, voltandosi verso il suo compagno di stanza: Enjolras era ancora steso a letto e Combeferre, seduto contro la testiera, vedeva solo i lunghi capelli mossi lasciati sciolto che cadevano morbidi dal letto come una cascata dorata. “Enjolras?” provò a chiamarlo nuovamente Combeferre alzandosi per andare da lui. Questa volta ottenne un leggerissimo mugugno accompagnato da un’altrettanto lieve scrollata di spalle. Quando Combeferre arrivò davanti al letto di Enjolras, vide che il suo amico stava ancora dormendo profondamente, sdraiato un po’ scompostamente, quasi si fosse addormentato non appena toccato il materasso: era steso sulla schiena, con la testa rivolta verso il muro, un braccio lasciato a peso morto sul cuscino e l’altro sul torace, il che mostrava i lenti respiri che faceva il ragazzo. Quell’immagine di Enjolras fece comparire sul volto di Combeferre un’espressione molto dolce, e il giovane dai capelli biondo rame rimase a guardare il suo amico dormire per un attimo: era raro che si svegliasse lui per primo e osservare Enjolras addormentato gli faceva sempre un effetto strano. Nel vederlo dormire così serenamente, Combeferre si ritrovava davanti agli occhi tutte le fragilità di Enjolras che lui conosceva tanto bene; si sentiva come se avesse realizzato solo in quel momento che quel leader carismatico e forte che vedevano gli altri, in realtà, era il più piccolo del gruppo, con non meno problemi di loro. Alla fine, Combeferre decise di sistemare Enjolras nel sonno, per evitargli un torcicollo; quindi, delicatamente, fece in modo di girarlo su un lato, poi tirò la coperta fino alle spalle del biondino, così che non prendesse freddo. Fatto ciò, andò in bagno a darsi una sistemata, cercando di fare il meno rumore possibile. Quando tornò nella stanza, Combeferre vide che Enjolras stava ancora dormendo nella posizione in cui lo aveva lasciato, così indossò la sua vestaglia blu scuro ed uscì dalla camera, facendo attenzione a non fare rumore chiudendo la porta.

C’erano diversi studenti che andavano e venivano nello stretto corridoio e nell’aria ancora si potevano sentire i profumi della colazione: la domenica molti ragazzi se la prendevano comoda e, non scendendo al ristorante per la colazione, la cucina del piano veniva utilizzata a tutte le ore, diffondendo nei corridoi tutti gli aromi dei cibi preparati. Combeferre non sapeva se avrebbe trovato i suoi amici una volta arrivato nella sala comune: nel weekend non erano soliti imporsi orari in cui svegliarsi, quindi ognuno si organizzava come meglio credeva. Quella mattina, tuttavia, li ritrovò ancora seduti al solito tavolo intenti a fare colazione. Sembrava una mattina ordinaria: Bahorel e Grantaire stavano mettendo alla prova il loro fegato con una montagnetta di pancakes, Joly, avvolto nel suo plaid bianco a pois beige, era impegnato a curare una leggera scottatura che Bossuet si era procurato sul braccio, mentre Jehan affogava dei biscotti con gocce di cioccolato nel suo tè.

“Buongiorno a tutti” li salutò Combeferre.

“Ah!” esclamò Bahorel alzando lo sguardo. “Ecco che uno dei caponi si fa vivo!” Mentre disse questo, recuperò una piccola caraffa d’acciaio e iniziò a rovesciare dello sciroppo d’acero sui pancake. “E il bello addormentato?”

“Sta ancora dormendo, stranamente” ammise Combeferre andando verso la cucina. Prese la sua ciotola fuori azzurra e dentro rossa, la riempì di latte freddo e recuperò una confezione di Kellogg’s Extra al cioccolato fondente. “Non mi capita quasi mai di alzarmi prima di lui, quindi ho pensato fosse meglio lasciarlo dormire” disse tornando al tavolo. Mentre si sedeva accanto a Jehan, notò che il minuto ragazzino sembrava quasi sentirsi in colpa, anche se non riusciva a immaginarne il motivo.

“Magari ha dormito male anche lui a causa del temporale” propose Grantaire sfilando un pancake dal basso della montagnetta: evidentemente non amava lo sciroppo, perché una volta che mise la frittella nel piatto la cosparse di marmellata all’albicocca.

“Quale temporale?” chiese Combeferre rovesciando i cereali nella ciotola.

“Ma come?” chiese subito Joly girandosi verso di lui. “Non hai sentito nulla?”

“No… dormivo di sasso.”

“Allora Enjolras non esagera quando dice che non ti sveglierebbe neanche una cannonata!” disse Grantaire quasi ridendo.

“Beh, non posso negarlo: ho un sonno molto pesante.” Come finì di parlare, Combeferre sentì un sonoro ‘Quack quack quack’ avvicinarsi a loro al ritmo di un passo stanco. “Buongiorno Courfeyrac!” lo riconobbe subito: il rumore prodotto dalle sue babbucce a forma di papera era inconfondibile. Courfeyrac entrò nella stanza e rispose con un borbottio indecifrabile: indossava un pigiama arancio sgargiante e i suoi capelli erano più spettinati del solito. Arrivato al tavolo, si lasciò cadere nella sedia accanto a Combeferre e fece cascare la testa e le braccia davanti a sé.

“Buongiorno non è adatto…” disse Bossuet guardandolo. “Ti vedo sconvolto, Courfeyrac.”

“Ho fatto fatica a dormire per colpa dei tuoni…” disse Courfeyrac in un mugugno senza alzare la testa dal tavolo.

“Forse dovresti mangiare qualcosa. Ti darebbe un po’ di energia” gli propose Joly, allarmato.

“Forse sì” disse alzando giusto lo sguardo. Guardando davanti a sé, trovò Bahorel e disse: “Maciste, vai a riempire la mia tazza con latte e me la porti qui assieme al Nesquik, per favore?”

Bahorel lo guardò in silenzio per un attimo, poi appoggiò la sua tazza con un baloon con la scritta ‘F#!K’ al suo interno. “Certo” gli disse infine, iniziando a sollevarsi dalla sedia. Poi si sistemò, riprese in mano la tazza e, accingendosi a sorgeggiare il caffè aggiunse “Che no!”

“Ma sei cattivo!” disse Courfeyrac sbiascicando: se non avesse mugugnato già prima, Combeferre avrebbe giurato che stesse per piangere.

“Te la prendo io, ho capito” disse pazientemente Bossuet.

“Vedi di non farla cadere, amore!” gli disse Joly guardandolo andare in cucina.

“Oh suvvia!” disse Bossuet camminando all’indietro. “È successo solo una volta!”

“Sì, giusto: una volta sola sta settimana!” lo corresse Joly. “Courfeyrac dov’è Marius?” chiese poi stringendosi nella coperta.

A quella domanda, Courfeyrac sembrò risorgere. “Si è alzato presto per andare a messa!” disse a voce alta, quasi fosse indignato. “Ma ti sembra possibile?!”

“Perché no, scusa?” gli chiese Combeferre tirando su una cucchiaiata di cereali. “Solo perché tu non ci vai non significa che sia un sacrilegio essere credenti.” Nel frattempo, Bossuet riapparve con la tazza di Courfeyrac piena di latte e Nesquik fino all’orlo e la poggiò davanti al suo proprietario. Quando tornò al suo posto, guardò Joly soddisfatto, come un cagnolino che porta il bastone al suo padroncino, e Joly, per scherzare, gli accarezzò la testa dicendogli ‘Ma bravo il mio piccolino!’. Fu allora che Bossuet approfittò della breccia aperta nella coperta di Joly per infilarsi sotto al plaid con lui e iniziare a baciarlo sulla guancia e sul collo. Guardarli scambiarsi tenerezze a Combeferre riempiva sempre il cuore di dolcezza: li aveva aiutati nella loro relazione fin dall’inizio, quando erano andati a confessare la cosa a lui e ad Enjolras con gli occhi pieni di paura per le reazioni che avrebbero potuto avere gli altri, quindi vederli felici lo inteneriva particolarmente.

“Beh tu non ci vai” disse Courfeyrac a Combeferre, riportandolo alla realtà.

“Il rapporto che ho con la mia fede non è affar tuo, ne abbiamo già parlato” disse Combeferre tornando a mangiare la sua colazione. A Combeferre non andava di toccare quell’argomento e Courfeyrac lo sapeva bene.

“Hai ragione, scusami” disse Courfeyrac. “Sono solo un po’ stanco. Ma Enjolras?”

“Sta dormendo.”

“Ma come? Che ha combinato stanotte?” chiese Courfeyrac prendendo quattro fette di pane tostato dal piatto al centro del tavolo e diversi panetti di burro dal cestino accanto. “Non è da lui dormire fino a tardi!”

“Ah non lo so” disse Combeferre aggiungendo altri cereali nella ciotola. “Io non mi sono accorto di nulla: mi sono alzato che dormiva e non mi sembrava giusto svegliarlo.”

“Effettivamente è strano” disse Grantaire guardando pensieroso verso il corridoio. “Sarà stato alzato questa notte, altrimenti sarebbe sveglio…”

“È colpa mia!” ammise Jehan agitato. Lo disse ad alta voce e Combeferre fu sicuro che quello fosse il volume più alto che gli avesse mai sentito usare. Tutti si fermarono a guardarlo confusi.

“Colpa tua?” disse Combeferre dolcemente, mettendogli una mano sulla spalla. “Che vuoi dire?”

Jehan sembrava decisamente messo a disagio dagli sguardi degli altri, ma quando guardò Combeferre sorridergli parve trovare il coraggio per continuare. “B-beh…” iniziò incerto, “nel senso che era con me…”

Nel sentirlo, Grantaire sputò il latte nella sua tazza fuori bianca e dentro verde con scritto ‘I drink – you’re cute’: probabilmente si era ingozzato, perché iniziò a tossire come se si stesse strozzando. Alla fine, visto che la situazione non sembrava migliorare, Bahorel gli diede una forte botta sulla schiena e riuscì a liberargli la gola. Dopo che ebbe ripreso fiato, Grantaire disse, con la voce ancora un po’ strozzata: “Che hai detto, scusa?!”

“Che era con me…” riprese debolmente Jehan. Combeferre lo vide nascondersi nella larga felpa che indossava sopra al pigiama, quasi fosse una tartaruga che si ritira nel guscio. Riusciva a vedere lontano un miglio che Jehan era a disagio a parlarne, quindi pensò di prenderlo in disparte.

“Vieni con me un attimo” gli disse Combeferre alzandosi dal tavolo. Mentre Jehan si alzava, Combeferre guardò gli altri cercando di fargli capire che ci avrebbe pensato lui, ma forse solo Courfeyrac e Joly avevano decifraito il suo cenno; poi lui e Jehan andarono a sedersi sul divano.      “Te la senti di raccontarmi come sono andate le cose?”

Jehan fece segno di sì con la testa, ma gli servì un attimo per cominciare. Alla fine si decise a confidarsi con Combeferre: “Ieri notte è saltata la corrente e io… io mi sono svegliato nel cuore della notte che la luce non si accendeva…” Jehan fissò di nuovo Combeferre negli occhi imbarazzato e abbassò subito lo sguardo. Ma il ragazzo dai capelli biondo rame gli accarezzò delicatamente la schiena e lo esortò a continuare, quindi lui proseguì. “E-ero spaventato e così… così ho chiamato Enjolras e lui è venuto subito da me. M-mi ha promesso che sarebbe rimasto lì finchè non mi fossi addormentato... e così ha fatto… E-era davvero tardi quando ho chiuso gli occhi…”

Combeferre era confuso: perchè tanti problemi per dormire? Non capiva. Rimase per un attimo a riflettere in silenzio, poi pensò di aver capito e riprese: “Jehan…” Il minuto ragazzino si girò di scatto verso di lui, tirando nervosamente il cordino del cappuccio. “Enjolras mi ha detto che di notte viene a spegnerti la luce...” Nel guardare gli azzurri occhi spalancati di Jehan, Combeferre iniziò ad essere certo di aver centrato il punto. “Non è che per caso hai paura del buio?”

Jehan tornò con lo sguardo basso e, dall’espressione che aveva in viso, sembrava quasi che avrebbe voluto scomparire del tutto. Non riusciva nemmeno a parlare: si limitò a far segno di sì muovendo leggermente la testa. “E…” iniziò titubante, “Era una cosa che avevo detto solo ad Enjolras… mi aveva promesso di non dirlo a nessuno…”

“Non te ne devi vergognare, sai?” gli disse subito Combeferre. “È normale aver paura: tutti siamo spaventati da qualcosa.”

“È che…” riprese Jehan. “È che di solito sono i bambini che hanno paura del buio…”

“Sai: esiste l’auclofobia, ovvero la fobia del buio. Le fobie sono paure irrazionali contro le quali noi non possiamo fare nulla, perciò non devi vergognarti se hai una paura che sembra da bambini. Tantissime persone sono terrorizzate dal buio o dai tuoni, dai clown, dai cani… ci sono cose che sono fuori dalla nostra comprensione e che, forse, non ci passeranno mai.”

“Grazie, Combeferre” disse Jehan sorridendo. Poi il suo sguardo si rabbuiò di nuovo e sembrava sul punto di aggiungere qualcosa, quindi Combeferre attese in silenzio pazientemente, senza mettere a Jehan alcuna fretta. “Non lo dirai agli altri… vero?” disse infine il ragazzino dai capelli rossi con un filo di voce.

“Se non vuoi che io gliene parli, non lo farò, te lo prometto.” A Jehan quella promessa sembrò bastare: del resto, per Combeferre fare una promessa voleva dire la sua parola d’onore, lo sapevano tutti. Jehan lo ringraziò e tornarono al tavolo dagli altri.

Combeferre era consapevole che tutti sapevano di poter contare su di lui. Era una specie di confessore per tutti all’intero del gruppo: se qualcuno voleva liberarsi di un peso sulla coscienza o cercare di risolvere un problema all’apparenza senza soluzione, doveva recarsi da lui. Sapeva ascoltare pazientemente ogni storia, essere comprensivo e dolce, ma anche discretamente severo qualora fosse necessario, e dava sempre il consiglio migliore. Sapeva sempre come comportarsi davanti alle più svariate situazioni senza perdere mai la calma e la lucidità mentale. La maggior parte delle volte lui e Enjolras lavoravano in coppia e i ragazzi sapevano di poter contare sul loro appoggio e la loro discrezione: anche se Enjolras sapeva essere molto severo in certe situazioni, Combeferre riusciva sempre ad ammorbidire le sue soluzioni spesso troppo rigide. Tuttavia, c’erano occasioni in cui Combeferre preferiva occuparsi del resto del gruppo da solo: sapeva che Enjolras aveva molte cose di cui occuparsi e altri pensieri per la testa, quindi cercava di non dargli altre preoccupazioni, lasciandolo all’oscuro dei fatti che gli venivano raccontati. Ogni tanto, gli altri ragazzi tiravano dentro anche Courfeyrac come confessore e Combeferre divideva volentieri il peso di quel compito con lui qualora non potesse contare sulla presenza di Enjolras: Courfeyrac poteva sembrare distratto e un po’ bambino, ma tutti sapevano che, in fondo, anche lui era in grado di ascoltare e consigliare seriamente quando ce n’era bisogno, Combeferre se ne era reso conto. Era anche per questa loro qualità che i tre ragazzi venivano considerati da tutto il gruppo come delle figure di riferimento; dei capi, come li aveva definiti Bahorel una sera. Combeferre ricordava che all’inizio la cosa li aveva messi  parecchio a disagio, ma alla fine Grantaire e Bahorel erano riusciti a convincerli ad assumersi quel ruolo. Combeferre, dal canto suo, aveva preferito definirsi una guida, mentre Courfeyrac adorava pensare di essere il centro del gruppo, e non aveva poi tutti i torti: in fin dei conti, era lui che in qualche modo li aveva uniti tutti in un solo gruppo. Fu così che Combeferre e Courfeyrac cedettero volentieri ad Enjolras il ruolo del capo vero e proprio: nelle vene di quel biondo ragazzino scorreva il senso di giustizia e il suo cuore batteva al ritmo dei tamburi di rivolta; aveva la giusta severità e il dovuto polso per essere giudicato un leader a tutti gli effetti. Enjolras, ancora quattordicenne al tempo, non era convinto di assumersi un dovere del genere; tuttavia, in un modo o in un altro, continuare a prendersi cura del gruppo lo aveva reso un capo a tutti gli effetti.

L’essere eletti vertici massimi del gruppo, aveva provocato che l’entusiasmo di Courfeyrac crescesse esponenzialmente, fino a far sì che il ragazzo dalle orecchie a sventola iniziasse a definirli ‘Il magico trio’ o ‘Il triumvirato’, appellattivo che i tre ragazzi conservavano ancora dopo due anni.

Quando Jehan e Combeferre tornarono al tavolo, Courfeyrac stava divorando l’ultima fetta di pane. “Ehi! Tutto risholto?” chiese con la bocca ancora piena.

“Sì, è tutto a posto” disse Combeferre tranquillamente, tornando a sedersi. Nonostante non fosse stata una conversazione particolarmente lunga, i suoi cereali stavano già diventando una sorta di poltiglia. Combeferre allungò lo sguardo dall’altra parte del tavolo, dove era seduto Grantaire, e lo vide girare distrattamente il cucchiaio nella tazza. Poi spostò lo sguardo su Bahorel e lo vide parlargli sottovoce, senza sentire nemmeno una parola di ciò che gli stava dicendo. Era dall’inizio della settimana che Grantaire alternava momenti di allegria ad altri in cui sembrava stare poco bene: ma non era Joly il malato? “Qualcosa non va, Grantaire?” gli chiese immediatamente: non riusciva a fingersi tranquillo.

“Non è niente di che, tranquillo” rispose Grantaire alzando la testa. “È solo che ultimamente fatico a dormire bene, tutto qui.” Gli stava raccontando una bugia, Combeferre ne era convinto. Con Grantaire lui non era mai riuscito ad avere un legame particolarmente profondo, ma, del resto, Grantaire era più il tipo di ragazzo che se ne sta sulle sue: solo Bahorel e Enjolras sembravano avere un rapporto stretto con lui all’interno del loro gruppo. Combeferre pensò che non fosse il caso di insitere, quindi decise di non chiedergli più nulla a riguardo.

“Allora” disse Courfeyrac alzandosi in piedi, accompagnato da un sonoro ‘quack’. “Che cosa facciamo pomeriggio?”

“Pomeriggio?” chise Bahorel appoggiando il braccio sullo schienale della sedia. “Non possiamo rilassarci, per una volta?”

“Ma dai! Non fate i vecchi!” disse Courfeyrac camminando in giro. Combeferre non riusciva a prenderlo sul serio ascoltando il suono delle sue babucce... “Finchè non siamo sommersi di compiti approfittiamone per fare qualcosa assieme, no?”

Bossuet, che nel frattempo aveva preso in braccio Joly, tirò fuori la testa da sotto la coperta e, appoggiandosi al petto del suo ragazzo disse: “Veramente io e Joly avevamo altri programmi…”

“Oh, andiamo!” disse Courfeyrac facendo un balzo: il ‘quack’ che si sentì al suo atterraggio rese la scena troppo ridicola perché Combeferre riuscisse a trattenere un leggero risolino. “Potete rimandarlo a tutte le notti che vi pare! State un po’ con noi, no?!”

“Aspetta! Ma che hai capito?!” chiese subito Joly, evidentemente molto in imbarazzo. “N-non intendeva… No!”

“Pensavamo di fare una passeggiata, ecco… da soli…” disse Bossuet, stingendo a sè Joly, forse per tranquillizzarlo. “Ma niente di quello che pensi tu.”

“Ma siete stati da soli tutta la settimana perché lui non stava tanto bene! Adesso che sta meglio, facciamo qualcosa assieme, no?”

“Pensiamoci una volta che ci siamo tutti, ok?” propose Combeferre per mettere fine all’insistenza di Courfeyrac.

 

Terminata la colazione, Combeferre pensò di andare in camera a vestirsi. Iniziò a chiedersi se Enjolras fosse sveglio oppure dormisse ancora, quindi cercò di aprire la porta quanto più silenziosamente poteva. “Buongiorno…” disse Enjolras farfugliando. Era ancora sdraiato a letto.

“Ehi! Buongiorno!” lo salutò Combeferre pieno di sorpresa. Quando arrivò accanto al letto di Enjolras, vide il suo amico steso a pancia in giù, con la testa rivolta verso il centro della stanza, un braccio penzolante e l’altro sotto il cuscino, le gambe piegate in qualche modo sotto le coperte. “Credo che sia la posizione più scomposta che ti abbia mai visto assumere” disse Combeferre sorridendo mentre lo osservava dall’alto.

Enjolras alzò lo sguardo senza muoversi di un solo centimetro e sospirò, dicendo: “Non ce la posso fare stamattina…” La sua voce era un unico mugugno.

“Noto!” constatò Combeferre già sul punto di ridere. Combeferre pensò che fosse ora di alzare le tapparelle e, nel farlo, vide Enjolras chiudere di scatto gli occhi infastidito dal sole, emettendo un leggerissimo gemito, quasi inudibile. Poi Combeferre si sedette accanto a lui e rimase a guardarlo per un attimo: sembrava stesse per riaddormentarsi. “Nottataccia?”

“Decisamente” disse Enjolras senza aprire gli occhi. “Fortunatamente è domenica!” A Combeferre venne da mettergli una mano sulla schiena. Nel sentirlo, Enjolras aprì gli occhi di scatto e lo guardò.

“Vuoi qualcosa da mangiare?” chiese Combeferre. “Vado a prepararti qualcosa e te lo porto qui, se vuoi.”

“Grazie per il pensiero, ma non ho fame, davvero.” Combeferre continuò a guardare Enjolras pensieroso e il biondino alzò lo sguardo, sorridendo. “Sto bene, non preoccuparti per me.”

“So che eri da Jehan” confessò alla fine Combeferre. Nel sentirlo, l’esile ragazzo spalancò le palpebre e si girò sulla schiena per guardare dritto negli occhi Combeferre. “Da quanto lo sai?” chiese il ragazzo dagli occhi verdi quando Enjolras si fu sistemato per bene nel letto, con le gambe piegate e le mani sul ventre.

“Che si addormenta con la luce accesa lo so da un anno e mezzo: l’ho scoperto una notte mentre andavo in cucina a prendere un bicchiere di latte” iniziò a spiegare Enjolras, guardando fuori dalla finestra. “Che ha paura del buio dallo scorso inverno, quando siamo andati in settimana bianca con la classe: ero in camera con lui. Non riuscivo a dormire e l’ho sentito quasi… piagnucolare, così mi sono accorto che era terrorizzato. Mi sono alzato e sono andato da lui per sapere che cosa avesse.”

“E lui ti ha confessato tutto.”

“Esatto. Gli ho promesso che a voi non avrei detto nulla e così ho fatto.”

“Quindi ogni volta che c’è stato un temporale sei andato da lui…”

“Sì. Avrei voluto parlartene, ma non potevo… e poi non avrei comunque volutoo darti anche questa preoccupazione.” A Combeferre scappò una breve risata nel sentire quelle parole. Enjolras abbassò lo sguardo e lo fissò con occhi pieni di confusione. “Perché ridi?”

Combeferre guardò davanti a sé e disse: “Rido perché trovo davvero buffo che hai cercato di fare la stessa cosa che io tento di fare con te: non darti preoccupazioni.” Poi si girò verso Enjolras e gli sorrise. “Sei impossibile: non riesco a farti stare buono!”

Enjolras rispose al sorriso e chiese subito: “Tu davvero ancora ci provi? Non riesco a capire se sei più tenace o pazzo a tentare di farmi star tranquillo.”

“Probabilmente sono pazzo. Solo che mi spiace sapere che ti diamo altri pensieri.”

“A me fa bene essere impegnato, lo sai: non mi dà il tempo di riflettere” disse il ragazzo dagli occhi azzurri tirandosi su e mettendo le braccia sulle ginocchia. “Ma ammetto che oggi mi servirebbe una pausa…”

“Temo che non potrai riposarti…” disse Combeferre, allarmando leggermente Enjolras.

“P-perché?”

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Capitolo 23
*** Dov'è Enjolras? - Marius (2) ***


Marius

La messa era appena terminata e Marius cercava di farsi largo tra la folla di fedeli che stavano uscendo dalla grande abbazia di Saint-Denis: la strada per raggiungere Place Victor Hugo oramai la aveva imparata e non aveva avuto problemi, quella mattina, ad andarci da solo. Una volta staccatosi dal grosso del gruppo di fedeli, Marius riuscì ad accendere il suo cellulare, concentrandosi sui numeri da premere per il suo pin senza rischiare di scontrarsi con qualcuno. Quando guardò lo schermo, notò che c’era una chiamata persa del nonno. Gli fece molto piacere vedere che aveva provato a contattarlo: lo avrebbe sicuramente richiamato lui dopo pranzo. Marius avrebbe voluto arrivare prima a casa: quella notte non aveva dormito molto e si sentiva piuttosto stanco.

Stava per entrare nella stretta Rue de la Boulangeri quando sentì una voce provenire da dietro le sue spalle: “Marius!” Il ragazzo si girò subito e il suo sguardo si posò su una ragazzina più bassa di lui che teneva in alto una mano per farsi notare. Indossava una salopette in jeans chiaro con una maglia a maniche lunghe bianca e portava i lunghi capelli neri raccolti in una coda alta molto morbida, tanto che alcune ciocche corte cadevano sul suo viso tondo.

“Éponine!” la riconobbe Marius quando la sorridente ragazza gli fu più vicina. “Buon giorno!”

“Che cosa fai da queste parti?”

“Ero… ero a messa. Non conosco bene la zona, quindi vengo qui visto che ci so arrivare…”

Éponine sgranò i piccoli occhi scuri e Marius iniziò a chiedersi se la sua risposta l’avesse sorpresa. “Davvero tu vai a messa?” chiese la ragazza dissipandogli ogni dubbio.

“Beh… sì…” affermò lui timidamente. “Ci andavo ogni domenica con papà e per me è importante…” Éponine rimase a fissare il ragazzo per un po’ senza dire nulla. Marius si imbarazzò un pochino, distolse lo sguardo, indirizzandolo in un imprecisato punto della bianca pavimentazione del piazzale. “Immagino che la cosa ti sembri strana... forse un po’… all’antica…”

“Un po’ strana sì…” ammise la ragazza, “ma in senso buono.” Marius riportò lo sguardo su di lei e la vide protesa leggermente in avanti con stampato sul viso un sorriso molto dolce. “Sono pochi i ragazzi della nostra età che ancora ci vanno.”

“E tu non… non sei tra quelli?”

Éponine sembrò un po’ divertita dalla domanda di Marius. Senza perdere il sorriso, gli rispose: “I miei genitori credono solo nel dio denaro! Sono piuttosto materialisti e non credono nella metafisica, perciò non andiamo mai a messa, nonostante io e i miei fratelli abbiamo ricevuto i sacramenti.”

“Oh… quindi tu non sei credente…”

“Oh no, non è questo” affermò la ragazza guardando la grande cattedrale. “Credo che ci sia qualcosa oltre la morte, ma non sono il tipo di persona che va a messa tutte le domeniche. Forse perché non l’ho mai fatto e non lo ritengo necessario.”

Marius, che stava ammirando l’imponente edificio gotico a sua volta, d’un tratto si accorse di essere osservato e si voltò verso Éponine. La tenerezza con cui la ragazza lo stava guardando lo rassicurò: rispose al sorriso e proseguì: “Ma allora che ci fai da queste parti di domenica?”

Éponine alzò le sopracciglia facendo un’espressione molto strana, tra l’esasperato e il divertito: Marius la trovò adatta ad illustrare il modo di dire ‘Rido per non piangere’. Aprì la borsetta a tracolla in pelle marrone che portava con sé e ne tirò fuori una lunga lista. Mostrandola a Marius, disse: “Commissioni dell’ultimo secondo per i miei.” Detto ciò, mise a posto la lista e, mostrandogli un sacchetto di plastica, aggiunse: “Ho già risolto con il pane. Stavo andando al supermercato a recuperare tutto il resto.”

“Non è un po’ troppa roba da portare da sola?” chiese Marius ricordando la lunghezza della lista.

“I miei sono fatti così: non pensano quanto sia sciocca e irrealizzabile una loro idea finché non la provano sulla loro pelle.” Nella sua mente, Marius riusciva già ad immaginare quella ragazza alta poco più di un metro e sessanta sommersa da grosse buste della spesa: trasportare a piedi tutte quelle borse avrebbe potuto risultare impossibile.

“Potrei darti una mano io.”

“Scherzi, vero?” disse subito Éponine sconvolta. “No, non serve! E poi non devi farlo tu. Voglio dire… sei un ospite!”

“Ma non mi dà alcun fastidio, davvero” controbattè Marius sorridendole. “Non riesco ad immaginarti mentre porti tutte quelle borse da sola. Permettimi di aiutarti.”

Forse Éponine si rese conto che Marius aveva ragione, perché, dopo che ebbe fissato un punto imprecisato nel vuoto per qualche istante, sorrise, si girò nuovamente verso di lui e disse: “D’accordo. Accetto volentieri la tua offerta. In effetti farcela da sola sarebbe difficile!”

 

Marius non sapeva che dietro la sua scuola c’era un piccolo supermercato: era in quel comune da un paio di settimane e ancora non lo aveva girato a dovere. Mentre spingeva il carrello e aiutava Éponine a recuperare i prodotti dagli scaffali alti, i due ragazzi chiaccheravano tranquillamente del più e del meno, di esperienze passate e anche di argomenti un po’ più personali. Marius si trovava molto a suo agio con lei: in quelle due settimane passate alla residenza studentesca, i due ragazzi si erano sempre fermati a chiacchierare e avevano iniziato a legare così, tra un incontro fugace e l’altro. Quando ritornava da scuola, Marius la trovava sempre al bancone della reception e si fermava a parlare con lei; gli era capitato di restare assieme a lei più a lungo degli altri ragazzi, mentre Courfeyrac portava Gavroche lontano da sua sorella. D’altonde Éponine per lui aveva sempre un grande sorriso e una parola gentile e parlare con lei era sempre piacevole.

“Manca solo il riso, giusto?” disse Marius avvicinandosi ad Éponine e guardando la lista che la ragazza teneva in mano. “Eccolo lassù.” Andò allo scaffale e si alzò sulle punte per prendere i pacchi di riso, sentendosi addosso lo sguardo di Éponine.

“Non credevo che uno degli ospiti della nostra residenza sarebbe mai venuto con me a fare la spesa” disse lei, probabilmente ancora incredula, con stampato sulle labbra un grande sorriso.

“Che c’è di strano?” le chiese Marius tornando al carrello e appoggiando i numerosi pacchi di riso.

“Beh, la maggior parte dei ragazzi che alloggiano da noi sono figli di ricconi di Parigi: ragazzi che è già tanto se sanno com’è fatta una cucina. Tu sei diverso.”

Marius rimase a guardarla senza sapere esattamente cosa dire. “Non saprei. A me sembrano tutti molto gentili e disponibili…”

“Sicuramente più di altri che ho incontrato” disse la ragazza iniziando a spingere il carrello, ma non riuscì a spostarlo.

“Ferma ferma! Lascia fare a me!” la fermò Marius prendendo il suo posto. Quel carrello era talmente pieno da risultare troppo pesante anche per lui: era la prima volta che faceva la spesa per la cucina di un ristorante e non pensava sarebbe stato tanto faticoso. Cercò di spingerlo, ma lo spostò di poco, scivolando sul lucido pavimento del supermercato. Sia lui che Éponine scoppiarono a ridere per ciò che era appena successo. “E tu volevi venire qui da sola?”

“Oh beh! Se è questo l’aiuto che puoi darmi…” disse la ragazza dai capelli neri lasciandosi sfuggire una risata.

Capendo lo scherzo, Marius, senza perdere il sorriso, si rizzò sulla schiena e le disse: “Ah ma davvero? Tu neanche sei riuscita a muovere il carrello!”

“Effettivamente…”

“Ho un’idea. Magari se ci mettiamo in due ce la facciamo.” Detto ciò Marius si tirò un po’ verso la sua sinistra, in modo che anche Éponine potesse prendere il carrello della spesa e, insieme, riuscirono a muoverlo, anche se con fatica.

“Questi sono i momenti in cui Bahorel farebbe comodo!” disse Éponine affaticata.

“Ecco:” ragionò Marius, sorridendo, “Bahorel non ce lo vedo a darti una mano.” Seguì un breve istante di silenzio, in cui il ragazzo lentigginoso ripensò a ciò che aveva appena detto. Poi aggiunse: “Ma non li conosco abbastanza bene per permettermi di giudicarli.”

“Non sei troppo lontano dalla realtà. Bahorel è un tipo piuttosto rude…”

“Lo pensavo anch’io” le confessò Marius sorridendo, iniziando a cercare una cassa con poca fila. “Ma con me è stato gentile. Lo sono stati tutti.”

“Sei stato fortunato: loro sono davvero speciali” ammise Éponine. “Li conosco da un po’, ormai, e sono sempre stati carini. Per alcuni ragazzi, io sono solo quella che lavora alla loro residenza. Loro, invece, mi hanno sempre trattato bene, nonostante tutto.”

“Allora perché trovi così strano che io ti stia aiutando?” In quel momento, i due ragazzi individuarono una cassa con poca gente e si misero in coda.

“Beh nessuno di loro si è mai messo ad aiutarmi a fare i letti o a fare la spesa” disse Éponine alzando la lista della spesa. “Te l’ho detto: sono molto gentili, ma molti di loro non hanno mai fatto nulla in casa. Prendi Courfeyrac: il padre è discendente di una famiglia di baroni. Hanno una villa grande e diversi domestici. Lui non ha mai fatto nulla in casa. Lo stesso vale anche per gli altri: appartengono tutti a famiglie molto ricche. Anche tu appartieni ad una famiglia ricca, eppure sei qui con me, ogni tanto trovo il letto rifatto, in camera tieni sempre tutto in ordine… è strano.”

Marius distolse lo sguardo da lei, abbassando i grandi occhi verdi verso il carrello. “Sai io… io non sono sempre stato ricco.”

“Che vuoi dire?” chiese la ragazza dai capelli neri iniziando a vuotare il carrello. Marius, troppo lontano dal nastro della cassa, le passava gli articoli ordinatamente.

“Fino all’inizio di questa estate, io non vivevo con mio nonno” iniziò a raccontarle. “Ho sempre vissuto con mio padre: lui mi ha cresciuto da solo. Quando ero piccolo ha avuto problemi di droga, ha dovuto abbandonare l’arma dei carabinieri e ha trovato posto come operaio. Il salario non era il massimo, ma ce la siamo sempre cavata piuttosto bene. Però, quando ero già alle medie, ha iniziato a fare più ore di lavoro in modo da portare a casa più soldi, quindi io cercavo di fare qualche mestiere in casa e alcune commissioni al posto suo: sai… per aiutarlo.”

“E...” iniziò Éponine approfittando del silenzio di Marius: sembrava incerta di ciò che stava per dire. “E perché adesso vivi con tuo nonno? Dov’è tuo padre?” Marius si rabbuì: quella era una ferita molto recente. Éponine rimase a fissarlo in silenzio immobile, quasi fosse preoccupata. “Se non ti va di parlarne non sei costretto…”

Per un attimo, il ragazzo pensò che sarebbe stato in silenzio. Tuttavia quando in aula ne aveva parlato ad Enjolras gli aveva fatto bene sfogarsi un po’, quindi prese coraggio e finì la spiegazione. “Un giorno, verso la fine di maggio, mio nonno materno si presentò a casa nostra: era la prima volta che lo vedevo. Quando mio padre tornò, scoprii che era stato lui a chiamare mio nonno perché venisse a conoscermi, perché la sua malattia stava peggiorando e i medici non gli davano molto tempo ancora da vivere…” Marius esitò un attimo: gli serviva una pausa per riprendere fiato e non permettere al groppo che gli si stava formando in gola di portarlo fino al pianto. Deglutì, quasi volesse mandare giù il magone, prese un bel respiro profondo e continuò: “In realtà il nonno era in collera con papà per aver portato mamma via da casa sua, ma essendo morti entrambi i genitori di mio padre, lui era rimasto l’unico tutore legale possibile. Quindi mio padre mi disse che sarei stato affidato a lui quando… ecco… quando sarebbe arrivato il momento, insomma… Ed eccomi qui.”

Éponine non disse nulla: il silenzio tra i due ragazzi era riempito solo dai ‘bip’ prodotti dalla cassa al passaggio dei prodotti e dal vociare della gente in sottofondo. Marius non riusciva a guardarla: iniziava a sentire una sensazione strana agli occhi, quasi le lacrime stessero per scendere. Prese un altro respiro e riuscì a contenersi. “Mi…” ruppe il silenzio Éponine. “Mi dispiace per tuo padre… Io non… non immaginavo che…”

“Non importa, davvero” disse Marius. “Certe cose non dipendono da noi. Io ho passato sedici anni bellissimi con lui e questo mi basta.” I suoi grandi occhi verdi iniziarono a vagare nel vuoto, quasi stesse fissando uno schermo in cui venivano proiettati tutti i suoi ricordi. “Lui si faceva sempre in quattro per me. Lo vedevo tornare stanchissimo la sera per le tante ore di lavoro, ma aveva sempre il sorriso stampato sulle labbra. Ricordo che, quando tornava a casa, si sedeva a tavola con me e, sorridendo, mi chiedeva com’era stata la giornata. Stava lì seduto anche ore ad ascoltarmi, a parlare con me: avrebbe voluto dormire, ma la sera era l’unico momento che avevamo per stare assieme. Era una persona meravigliosa: ho dei bellissimi ricordi di lui.”

“Doveva essere un buon padre…” commentò Éponine sorridendo dolcemente.

“Lo era... faceva di tutto per non farmi mancare nulla, nonostante fosse a pezzi… era malato, eppure io non me ne resi conto finchè non me lo disse apertamente. Sono molto fiero di essere figlio suo.”

“È una cosa molto dolce.”

“Sono 357 €, ragazzi” li riportò al presente la grassa cassiera: aveva una tale espressione che si vedeva che non voleva finire il turno. Éponine tirò fuori il portafogli dalla borsa e ne estrasse una carta di credito, porgendola alla signora rugosa.

 

Marius non riuscì a capire come arrivarono alla residenza carichi di borse pesantissime, ma in qualche modo ci riuscirono. Éponine lo fece passare dalla porta di servizio sul retro, in modo da arrivare direttamente in cucina: costeggiarono il bianco muro dell’esterno, fino ad arrivare a un cancelletto in ferro battuto scuro, posto tra la parete dell’edificio e un muro in mattoni. Éponine aprì il cancelletto e i due camminarono nella stretta via tra i due edifici fino ad una grande porta in legno chiaro. Quello era l’ingresso da cui Courfeyrac e Enjolras avevano visto madame Thénardier tagliare la coda al gatto: il ricordo di quel racconto fece rabbrividire Marius. I banconi metallici appoggiati al pavimento in piastrelle scure rendevano davvero sinistro quel luogo… o forse era solo la sua suggestione sapendo cosa accadeva laggiù. Ad un certo punto, apparve un donnina bassa, con dei capelli ricci disordinati palesemente tinti di biondo, con un trucco pesante che circondava i grandi occhi neri.

“Éponine! Dov’eri finita?!” disse la donna ad alta voce.

“Stavo facendo la spesa, mamma” affermò Éponine seccata. “Dove diavolo credevi che fossi?”

“Ci hai messo delle ore! Almeno hai preso tutto?” disse madame Thénardier, scrutando il contenuto delle buste.

“Sì, tutto, mamma.”

Ad un certo punto, la donna alzò lo sguardò e i suoi occhi incontrono quelli di Marius. All’inizio sembrò sorpresa, poi lo squadrò da capo a piedi e fece un sorriso strano. “E tu chi sei?”

“M-Marius Pontmercy, madame" si presentò lo studente chinando leggermente la testa. “Alloggio al primo piano.”

Nel sentire quelle parole, la signora sembrò turbata. “Hai portato un ospite qui?!” gridò alla figlia.

“Mi ha solo aiutato con la spesa…” cercò di giustificarsi esasperata la ragazza.

“RIPORTALO SUBITO DI LÀ! NON DOVREBBE STARE QUI!” gridò madame Thénardier indicando la porta. Époinine sussurrò qualcosa di simile a ‘Non me lo faccio ripetere due volte’, afferrò Marius per il polso e lo portò fuori, facendolo rientrare dalla porta principale.

Nella piccola hall all’ingresso c’erano alcuni ragazzi che chiaccheravano tranquillamente, seduti sulle poltroncine rosse, mentre dalla porta del ristorante uscivano i primi profumi del pranzo. Marius, nel sentire quegli odori squisiti, sentì brontolare il suo stomaco e, d’istinto, lanciò un’occhiata veloce al grande orologio a pendolo in legno scuro che si trovava vicino alla reception: segnava l’una e un quarto. Pensò che gli altri ragazzi avessero già mangiato a quell’ora, ma la cosa non gli dispiacque: in fin dei conti, era lui che aveva fatto tardi.

“Non so ancora come ringraziarti per il tuo aiuto!” gli disse Éponine una volta arrivata dietro al bancone. “Se non ci fossi stato tu avrei dovuto chiamare mio padre per farmi venire a prendere. Sarebbe stato un cinema convincerlo!”

“L’ho fatto volentieri, davvero.” Marius non fece quasi in tempo a pronunciare queste parole che sentì uno starnazzamento leggermente elettronico avvicinarsi dal piano superiore ad un ritmo veloce. Quel rumore lo conosceva fin troppo bene e, ancora prima di girarsi verso le scale, Marius iniziò a ridere pensando a chi, da lì a pochi secondi, si sarebbe sporto dal corrimano.

“Sei arrivato, finalmente!” gli disse ad alta voce Courfeyrac: sbucava appena dal muro che copriva la parte alta della stretta scala in legno, proprio un paio di gradini sotto ai tre a ventaglio.

“Ciao Courfeyrac” lo salutò Marius, sorridente.

“Grantaire!” disse a voce alta Courfeyrac, alzando lo sguardo verso la fine della scala. Nessuno rispose. “GRANTAIRE!”

“CHE C’È?” sentì rispondere Marius: conosceva abbastanza la voce di Grantaire da essere sicuro che fosse lui.

“È TORNATO IL FIGLIOL PRODIGO! BUTTA LA PASTA!”

“E ENJOLRAS?”

“COMBEFERRE DICE CHE È AL TELEFONO: CONOSCENDOLO NON CREDO CI VORRÀ MOLTO!”

“A proposito, Courfeyrac” lo chiamò Éponine, recuperando qualcosa da un cassetto con scritto ‘002’: Marius si accorse solo in quel momento che c’era un’alta cassettiera affianco allo scaffale su cui erano tenute le chiavi delle stanze. “Tuo padre ieri è passato con un pacchetto per te, solo che tu non c’eri, quindi l’ha lasciato a me e non ho avuto modo di dartelo.”

“Ah, grazie Éponine!” disse Courfeyrac correndo giù felice. Quando arrivò davanti alla reception, il ragazzo ricciolino recuperò il pacco rettangolare ricoperto da carta da imballaggio dalle mani di Éponine e disse: “Deve essersi ricordato che mi serviva il suo libro di diritto penale.”

“COURFEYRAC!” tuonò la voce di Bahorel dal piano superiore.

“SÌÌÌÌÌÌÌÌÌÌÌÌÌÌ???”

“TOCCA A TE APPARECCHIARE OGGI! MUOVITI!”

“Ops… meglio che corro di sopra o quello mi apre il cranio in due” disse Courfeyrac salutando Éponine con la mano. Poi corse su per le scale con un sonoro starnazzare e disse a voce alta: “Sbrigati a salire, Marius!”

“Arrivo!” gli rispose il lentigginoso ragazzo quasi ridendo. Poi scosse la testa e, guardando verso la ragazza, le disse: “Beh… il dovere mi chiama. Magari ci vediamo dopo!”

“Mi trovi qui.”

 

Una volta che fu in cima alla scale, Marius pensò di passare in camera a darsi una rinfrescata. Buttò l’occhio nella sala trapezoidale e vide Courfeyrac trafficare con la tovaglia, quasi non ne avesse mai stesa una su un tavolo, mentre Joly, pazientemente, cercava di aiutarlo. Jehan e Combeferre leggevano in un angolo del divano accanto a Bahorel e Bossuet, intenti a seguire il telegiornale. Bossuet notò Marius e gli fece un cenno di saluto e un sorriso, al quale lui rispose, facendogli poi segno che sarebbe passato in camera prima di raggiungerli. Quando si voltò sentì la voce di Enjolras provenire dalla stanza 008: aveva un tono strano, quasi apatico, un po’ assente. Vide che la porta era aperta e, senza accorgersene, guardò dentro. Il biondo ragazzo era seduto sulla scrivania e, appoggiato alla finestra, guardava fuori; Marius vedeva nel riflesso sul vetro i suoi occhi persi nel vuoto. Aveva lo stesso sguardo che aveva quando, in aula, guardava verso l’esterno con la testa chissà dove.

“Sì, va tutto bene” sentì dire al suo amico con lo stesso tono di prima. Non si scompose nemmeno per un secondo: restava semplicemente immobile, ad ascoltare chi gli stava parlando dall’altra parte della cornetta, rispondendo giusto con un suono a bocca chiusa ogni tanto. Marius riusciva a sentire il suono di una voce femminile dall’altra parte della linea.

“Senti…” disse infine il ragazzo, ma non riuscì a proseguire. “Ascoltami un attimo, per favore” aggiunse poco dopo, leggermente spazientito. “Non credo di riuscire a venire per le vacanze… Sì, lo so da solo che la scuola è appena iniziata, ma… Fammi parlare!” Chiunque ci fosse dall’altra parte della linea, a Marius parve una donna piuttosto agitata, quasi irrequieta. Enjolras si voltò verso il muro, appoggiò la testa al vetro e, ad occhi chiusi, sospirò profondamente: sembrava sul punto dell’esasperazione nel restare ad ascoltare senza poter rispondere.

“Adesso ascoltami, per favore, ok?” disse prima di fare una breve pausa. “Ho dei professori che mi chiedono davvero molto, quest’anno. Preferisco restare qui a concentrarmi sui miei studi e… Sì… sì lo so che non ci vediamo praticamente da Pasqua, ma… Sì, sto bene, te l’ho già detto…” Marius era convinto di non aver mai visto Enjolras così esaurito da una conversazione: nemmeno Courfeyrac lo sfiniva a tal punto.

“Posso andarci per conto mio: c’è la fermata della metropolitana qui vicino…” riprese dopo una lunga pausa in cui parlò solo la donna al telefono. “Non è così grave se non ci ven… ma perché tanto loro verranno per te! A che serve che ci sia anche io?!” Ancora una pausa: Marius pensò che Enjolras stesse per esaurire la pazienza a giudicare da quanto era cambiato il tono della sua voce.

“Senti devo andare a mangiare… No, noi mangiamo sempre piuttosto tardi quando non siamo a scuola… Devi questionare anche questo adesso?!... Eh, ‘modera i toni’! Modera i toni un cazzo!” Seguì di nuovo un momento di silenzio, in cui Enjolras sospirò e si coprì gli occhi con la mano libera: sembrava sul punto di esplodere. Poi la spostò sulla guancia e rimase ad ascoltare ad occhi chiusi, spazientito. “Sì, lo so che non ti piace che io usi questo linguaggio, ma devo davvero andare… Sì, va bene, ne parlerò anche con lui… Ciao.” Enjolras allontanò il telefono dall’orecchio e, sospirando, chiuse la chiamata. Dopo di che, appoggiò il telefono accanto a sé, chiuse gli occhi e sul suo volto apparve una strana espressione, quasi stesse per piangere ma non volesse permetterselo. Marius non la vide troppo a lungo perché il biondo ragazzo tirò un ultimo sospiro e affondò la testa tra le braccia, tirandosi le ginocchia al petto; Marius non lo sentiva piangere, quindi immaginò che fosse riuscito a trattenersi e da quel poco che aveva imparato a conoscere di Enjolras, la cosa non lo sorprese minimamente. Vederlo in quello stato, però, lo sorprese: fino a quel momento Enjolras gli era sembrato sempre molto sicuro, forte, piuttosto sereno… La sua tristezza gli stava spezzando il cuore e sarebbe voluto entrare nella stanza per cercare di tirarlo su di morale.

“Non dovresti essere lì” sentì dire da una voce molto dolce dietro di sé. Marius si voltò e vide che Combeferre lo stava guardando con un’espressione severa stampata in volto.

Marius fu in imbarazzo: non si era nemmeno accorto di essere rimasto lì ad ascoltare e si sentiva tremendamente invadente. “Hai ragione… mi spiace…” fu l’unica cosa che gli venne da dire. Il ragazzo dai capelli biondo rame chiuse gli occhi e sospirò; poi guardò attraverso lo spiraglio aperto e la sua espressione mutò in uno sguardo triste e dolce assieme. Passò la mano dall’altra parte di Marius e chiuse la porta. Fatto ciò, fece cenno al ragazzo di dirigersi verso la sua stanza e i due vi entrarono. Marius si sedette sul suo letto mentre Combeferre guardò nel corridoio, come volesse essere certo che non ci fosse nessuno; dopo di che socchiuse la porta dietro di sé.

“Ti sarei molto grato se non dicessi a nessuno ciò che hai sentito” gli intimò Combeferre. “Lui non vorrebbe si sapesse.”

“Quindi tu sai tutto?” si sentì dire Marius.

“No, non tutto” confessò triste Combeferre. “Ma so con chi parlava, se era questo che volevi sapere.” Ammesso questo, abbassò lo sguardo e fece una piccola pausa prima di proseguire: “Non posso dirti ciò che succede. Ad Enjolras non diremo che hai ascoltato: credo che ne sarebbe furioso.”

Marius abbassò lo sguardo, chiedendosi come aveva potuto restare ad origliare per davvero. “Non so dirti quanto mi senta in colpa…”

“Lo immagino, non preoccuparti” disse Combeferre in tono dolce. “Ma non hai fatto nulla di grave, credimi. Solo che Enjolras è riservato: se venisse a sapere che per sbaglio hai sentito qualcosa, credo si chiuderebbe ancora di più in sé stesso... e non posso permetterlo. Noi due non diremo niente di quello che è appena successo a nessuno, ok? Ti chiedo solo di far finta di nulla… di nuovo.”

Marius guardò Combeferre per qualche istante: c’era qualcosa nel suo atteggiamento che lo portava a pensare che fosse preoccupato seriamente per Enjolras e che stesse cercando di proteggerlo in ogni modo da chissà cosa. Anche quel lunedì a scuola gli aveva dato quest’impressione. “Certo” disse sorridendo per rassicurarlo. “È il minimo che io possa fare. Puoi contare su di me… per tutto.”

Combeferre gli sorrise. Aprì la porta, uscì sul corridoio e, prima di andarsene, disse: “Grazie.”

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Capitolo 24
*** Dov'è Enjolras? - Courfeyrac ***


Courfeyrac

Si era fatta l’una e mezza e, finalmente, il pranzo era pronto per essere servito. Quando Courfeyrac si avviò verso il suo posto, all’appello mancavano ancora Grantaire, che stava sistemando le ultime cose in cucina, Marius, Combeferre e Enjolras. Il ragazzo dalle orecchie a sventola si sedette sulla sua solita sedia, vicino alla finestra, accanto a quella destinata ad Enjolras, e iniziò a chiedersi che fine avesse fatto il biondo capo: non si era ancora fatto vivo. Di fronte a lui, Bahorel era già seduto con gli occhi fissi su un quotidiano. Accanto al robusto ragazzone, Jehan si era fatto dare la pagina dei giochi e stava completando un cruciverba. Alla sinistra di Courfeyrac, oltre la sedia che ultimamente occupava Marius, Joly e Bossuet parlavano sottovoce: sembrava stessero quasi discutendo a giudicare dalle loro espressioni. Courfeyrac dovette ammettere di essere incuriosito: non capitava spesso che i due ragazzi litigassero; anche Bahorel, di tanto in tanto, alzava gli occhi dorati dalla pagina sportiva chiedendosi cosa stesse accadendo. Lui e Courfeyrac, qualche volta, si lanciavano occhiate perplesse per poi tornare a fissare la coppia, tentando di capire di cosa stessero parlando. Ad un certo punto, il volume della voce di Joly si alzò leggermente, facendo udire a Courfeyrac le sue parole. “Non cercare di sdrammatizzare la cosa!” disse il ragazzo dai piccoli occhi verdi. “Sai bene che per me è importante: perché devi sempre prendere sotto gamba le cose?!”

“Tesoro, non è la fine del mondo” disse Bossuet, col tono di chi cerca di far ragionare qualcuno. “Puoi aspettare ancora un po’: non stai morendo.”

“Una cosa ti ho chiesto di fare: una soltanto!” disse Joly facendo segno con l’indice. “E tu te ne sei dimenticato perché, come sempre, mi giudichi catastrofista!” Il volume della sua voce si alzava ad ogni parola che pronunciava.

“E questa cosa da dove salta fuori, adesso?” disse Bossuet scioccato. “Non ho mai detto che sei catastrofista!”

“Ah no?!”

“Assolutamente no! Che tendi ad esagerare su certe sciocchezze a volte l’ho detto, ma…”

“Lo vedi?!” lo interruppe Joly ad alta voce. Stavolta persino Jehan alzò lo sguardo, distogliendo l’attenzione dal suo cruciverba.

“La coppietta felice litiga?” disse Grantaire soprpreso, sbucando dalla porta della cucina: indossava un buffo grembiule a fiori e quell’immagine a Courfeyrac fece venir da ridere, ma vista la situazione non gli sembrò il caso di lasciarsi andare. Bahorel, continuando a leggere, gli fece segno di sì alzando il pollice con la mano in alto, senza modificare nemmeno di un soppracciglio l’espressione menefreghista che aveva. Grantaire guardò il muscoloso ragazzo con occhi pieni di stupore e Courfeyrac si trovò d’accordo con la sua meraviglia. Poi, Grantaire si lasciò sfuggire un risolino di incredulità e i suoi occhi si fissarono sulla coppietta; scosse la testa abbassando lo sguardo e, ritornando ai fornelli per ultimare il pranzo, disse sospirando: "Eeeeeeeh! Questa è la settimana degli eventi straordinari, è proprio il caso di ammetterlo!”

“Non dovrei forse pensare che sei esagerato?” disse Bossuet in modo strano: si vedeva che si stava arrabbiando, ma sembrava stesse cercando di mantenere la calma. “Guarda come stai reagendo adesso!”

“Non ti viene mai in mente che, forse, sei anche tu che minimizzi troppo?!” A giudicare dal tono della sua voce, sembrava che Joly stesse per mettersi ad urlare. Non era da loro litigare in pubblico: Courfeyrac iniziò a chiedersi se si fossero accorti della presenza del resto del gruppo.

Courfeyrac vide Jehan chiedere qualcosa a Bahorel preoccupato, mentre quest’ultimo, impassibile, continuava a fissare il giornale: Courfeyrac notò che era da un po’ che il ragazzone non si girava più verso la coppietta. “Nah! Vedrai che non durerà molto!” disse ad alta voce Bahorel, senza spostare gli occhi dall’articolo che stava leggendo.

“Joly, per favore: calmati!” disse Bossuet mettendogli una mano sulla spalla.

“No!” disse Joly, spingendo via violentemente la mano del suo ragazzo. “Sapevi che per me era importante, eppure hai preferito fare di testa tua! Hai pensato bene che fosse una visita inutile e quindi non hai chiamato!”

“Non farne una tragedia: puoi chiamare domani!”

“Sì, così la visita me la metteranno tra mesi!” si infervorò Joly: Courfeyrac non ricordava di averlo mai visto perdere la calma a quel modo. “Ti avevo chiesto di chiamare per confermare al posto mio, visto che ero occupato! Adesso chissà tra quanto mi daranno un appuntamento!” Quando Joly finì di parlare, ci fu una lunga pausa di silenzio, durante la quale, Marius entrò nella stanza.

“Scusate il ritardo!” disse un po’ affannato. “Mi sono dato una lavata e ho…” vedere la coppietta guardarsi con espressioni litigiose doveva averlo fatto rimanere senza parole. Il ragazzo lentigginoso andò a sedersi, guardando i due ragazzi confuso. “Che succede?” sussurrò a Courfeyrac.

“Litigano, ma non ho ben capito per cosa” disse Courfeyrac in un bisbiglio. “Pare che Bossuet si sia scordato di confermare una visita medica per Joly, o così credo.”

“Litigano da molto?”

“Un po’” confessò Courfeyrac. Poi si protese verso Marius e gli disse: “Ma secondo Bahorel non durerà molto, e io penso abbia ragione.”

Bossuet, probabilmente sorpreso e dispiaciuto insieme per essere stato respinto, si voltò verso gli altri ragazzi e li guardò uno ad uno senza parole. Quando incrociò lo sguardo di Courfeyrac, il ricciolino non seppe che dire e si limitò a fare spallucce al suo amico. Bossuet fissò per un attimo il vuoto, quasi stesse pensando al da farsi; poi si sporse verso il suo ragazzo e disse teneramente: “Dai non fare così…”

Joly si spostò verso la sua destra, lontano da lui, senza degnarlo di uno sguardo. “Stammi lontano: nel caso non lo avessi notato sono arrabbiato con te sul serio!”

“No, non è vero.”

Gli occhi di Joly si spalancarono per l’indignazione: il ragazzo si voltò di scatto verso Bossuet e, alzando la voce, disse: “Ah, bene! Adesso mi leggi pure nel pensiero?!”

“No” disse Bossuet scuotendo la testa. Poi lo guardò fisso per qualche secondo, iniziò a sorridere e proseguì: “Ma credo di conoscerti abbastanza bene per mettere fine a questo litigio.”

Joly rimase a fissarlo con occhi pieni di rabbia, ma non durò molto: Bossuet si avvicinò lentamente al suo viso e il ragazzo dai folti capelli castani non si spostò, dando l’impressione di voler vedere cosa avesse in mente il suo ragazzo. Tuttavia, il suo sguardo iniziava ad intenerirsi e, nel vedere Bossuet avvicinarsi, sembrava quasi essere rimasto senza fiato. Alla fine, Bossuet scostò la testa e iniziò a baciarlo sul collo. Joly rimase impassibile qualche secondo, poi disse: “Credi davvero di comprarmi così?” C’era una leggerissima esitazione nella sua voce: Courfeyrac riusciva a vedere che stava già iniziando a cedere. Si voltò verso Marius e lo guardò sorridendo, alzando le soppracciglia per dirgli ‘Ecco: guarda che fanno pace!’

“Ma io non voglio comprarti” disse Bossuet senza smettere di baciarlo e allungando una mano sulla gamba di Joly.

Joly ebbe un leggerissimo sussulto, poi disse: “E… e questo come lo chiami?”

Bossuet alzò lo sguardo dritto nei suoi occhi e lo baciò. “Lo chiamo offerta di pace” disse quando le loro labbra si staccarono. Poi passò la mano che teneva sulla sua gamba dietro la sua testa, la tirò a sé e gli disse: “Prendere o lasciare.” Bossuet lo baciò di nuovo, ma stavolta Joly parve rispondere al bacio, facendo capire a tutti che si era arreso. “Mi spiace di essermi scordato di chiamare” si scusò Bossuet, appoggiando la sua fronte a quella di Joly e accarezzandogli la nuca. “Mi perdoni?”

Joly alzò lo sguardo verso di lui, ma non rispose. Quando Bossuet gli sorrise, tuttavia, non riuscì a non lasciarsi andare e gli saltò al collo. Il ragazzo pelato lo tirò a sé e, nel fare ciò, lo portò a sedere sulle sue ginocchia, mentre avvolgeva le sue braccia robuste attorno all’esile corpo di Joly. Il ragazzo castano allontanò la testa, in modo da poterlo guardare negli occhi, e disse: “Non te la caverai per sempre così, però.”

Bossuet si lasciò scappare una risata e, avvicinando nuovamente il suo viso a quello di Joly, gli disse: “Questo lo dici tu, amore mio!”

“Buongiorno a tutti” disse una voce maschile dal suono gentile proveniente dal corridoio. Enjolras entrò nella sala comune assieme a Combeferre: finalmente si era fatto vivo!

“Ehi, bello addormentato!” disse Bahorel, guardandolo entrare e alzandosi in piedi per salutarlo. Poi tese la mano verso di lui e aggiunse: “Buongiorno!” Enjolras andò verso di lui e gli strinse la mano: Courfeyrac aveva imparato che se quel bestione salutava qualcuno a questo modo era segno che provava per questa persona una certa stima.

“Scusate se mi faccio vivo solo ora” disse il biondo leader, appoggiando l’altra mano sulla spalla di Bahorel. “È stata una notte un po’ inquieta… poi ho ricevuto una chiamata che mi ha trattenuto più del previsto.”

“Nah, vai tranquillo!” disse Courfeyrac, sapendo esattamente con chi aveva parlato al telefono. “L’importante è che sia tutto ok…” Courfeyrac lo sperava sinceramente, ma sapeva che la risposta che Enjolras stava per dargli poteva non essere quella che avrebbe voluto sentire.

“Sì, nessun problema.” Ecco. Come temeva, Enjolras voleva evitare il discorso: il ragazzo dalle orecchie a sventola poteva percepirlo dal tono della sua voce. Mentre il biondino prendeva posto a tavola, Courfeyrac lanciò un’occhiata a Combeferre e dallo sguardo che l’amico gli mandò in risposta capì che aveva ragione a dispiacersi.

“Mi sono perso qualcosa, stamattina?” disse Enjolras alzando lo sguardo verso gli altri.

“Dunque, vediamo…” iniziò a ragionare Courfeyrac, alzando lo sgardo verso il soffitto come se vi ci fosse scritto qualche suggerimento. “Jehan era un po’ inquieto, ma ci ha pensato Combeferre, Marius è andato a messa…” disse guardando storto il ragazzo lentigginoso, “… e Bossuet e Joly hanno appena finito di litigare.”

“Cosa? Perché?” chiese Combeferre voltandosi verso di loro. Si era appena sistemato sulla sedia quando aveva sentito questa notizia. Courfeyrac si girò a guardarlo e notò che anche Enjolras sembrava incuriosito, nonostante fosse più tranquillo del suo compagno di stanza.

“Nulla di grave, tranquillo” disse Bossuet con Joly ancora seduto sulle sue ginocchia. “Adesso è tutto risolto.”

“Ok, gentaglia!” disse ad alta voce Grantaire uscendo dalla cucina con una grossa pentola che teneva per i manici con due strofinacci da cucina. “Il pranzo all’italiana è pron…” si interruppe: la sua attenzione sembrava esser stata attirata da qualcos’altro. Sul suo viso apparvero prima due occhi sorpresi e poi un sorriso un po’ imbarazzato. “Ah… buongiorno, piccolo.”

“Ciao, Grantaire” Enjolras gli sorrise timidamente.

“Jehan ci ha detto che eri da lui stanotte… spero ti sia riposato abbastanza ora…” Il ragazzo dai capelli neri aveva stampata in volto quella sua tipica espressione tra la felicità e la timidezza che Courfeyrac gli aveva visto fare tante volte, ma che non aveva mai compreso.

“Sì, più o meno…” ammise Enjolras. “Ma non preoccuparti per me, davvero.”

Bahorel si girò verso Grantaire, sgranò gli occhi e scoppiò a ridere. “Mi dicono che sei proprio l’emblema della virilità con quello addosso!” disse ironico, quasi senza fiato per il troppo ridere. Grantaire sembrò come destarsi da un sogno e, allontanando il grande tegame da sé, si guardò. Sembrò realizzare solo in quel momento di aver ancora addosso quell’imbarazzante grembiule a fiori e parve anche sentirsi un pochino a disagio sotto gli sguardi del gruppo. Anche agli altri ragazzi scappò da ridere, allora Grantaire alzò i grandi occhi azzurri verso di loro, andò a poggiare la pentola in mezzo all’ampio tavolo rotondo e si mise in posa, quasi stesse sfilando in passerella.

“Non tutti portano bene la fantasia floreale come me!” disse partecipando al gioco mentre cambiava posa.

“Credevo che il floreale fosse una mia prerogativa!” disse Jehan ridendo: sembrava che questa volta avesse capito lo scherzo.

Grantaire lo guardò con uno sguardo un po’ vanitoso: si capiva che stava parodiando le top model. Fece uno strano movimento veloce con la testa, quasi dovesse dare un colpo di frusta coi capelli, e, guardando verso l’alto, disse melodrammaticamente: “Non più!” Poi fece una giravolta degna di una modella professionista, per farsi ammirare a trecentosessanta gradi, portò tutto il peso su un piede, poggiò una mano sull’anca e, portando l’altra dietro la testa, disse: “Il rosa mi dona in modo particolare!”

“Certo!” riprese Bahorel, che nel frattempo si era appoggiato con il braccio allo schienale della sua sedia in modo da tirarsi indietro e vedere meglio l’amico. “Vantati pure di questa cosa!”

“Tu sei solo gelòsso!” disse Grantaire sorridendo e passandogli una mano leggeremente a peso morto sul braccio, mantenendo una posa da donnicciola e lo sguardo effemminato.

“Sì, guarda! Rosico per l’invidia!” gli rispose Bahorel ironico. Courfeyrac notò che tutti stavano ridendo: persino Combeferre non riusciva più a trattenersi. Poi il suo sguardo si posò su Enjolras e lo vide limitarsi a sorridere nel guardare la scena: questo fece dispiacere ancora di più il ricciolino. Lui e Enjolras erano diventati ottimi amici: a loro bastava poco per comprendersi a vicenda, e in quel suo comportamento Courfeyrac riusciva a intravedere che qualcosa lo stava intristendo molto. Fin dal primo giorno aveva capito che qualcosa nella vita privata del biondino non andava, ma ammirava incredibilmente il modo in cui quel ragazzino sembrava tenersi dentro ogni dolore pur di non dare questo peso agli altri ragazzi. Era sempre pronto a prendersi addosso il peso del mondo senza mai volere che gli altri facessero lo stesso con lui, e Courfeyrac lo rispettava molto per questo. In più di un’occasione avrebbe tanto voluto chiedergli cos’era successo, ma sapeva benissimo che non avrebbe risolto nulla. Tuttavia, volle ricordargli che per qualsiasi cosa poteva contare su di lui, come sempre: alzò il braccio e mise la mano su quella del biondino, stringendola. Enjolras guardò verso la sua mano confuso, poi guardò verso il viso di Courfeyrac e, nel vederlo sorridergli, il suo sguardo si addolcì; sorrise in risposta e mise la mano destra su quella del suo amico, carezzandola leggermente. Courfeyrac sapeva che questo gesto era una risposta al suo messaggio: così facendo, Enjolras gli stava dicendo ‘Lo so che per me ci sei: grazie’, Courfeyrac ne era certo. Combeferre sembrò notarli e mise una mano sulla spalla di Enjolras, il quale si girò di scatto verso di lui. Courfeyrac lo intravide sorridere e passare la mano destra su quella di Combeferre.

Ricordava ancora il giorno in cui lui e Combeferre erano riusciti a entrare in confidenza con Enjolras: i due ragazzi, che al tempo avevano iniziato il secondo anno da un paio di mesi, stavano passando nel corridoio, quando avevano sentito il rumore di vetro rotto provenire dalla stanza di Combeferre. Il ragazzo dai capelli biondo rame, spaventato, aveva aperto di scatto la porta e i due avevano visto la finestra scheggiata; poco più sotto, Enjolras era piegato a terra in mezzo ad alcuni pezzi di vetro e si reggeva la mano destra in una stretta tremolante. Entrambi erano corsi da lui preoccupati, chiedendogli cosa fosse accaduto e come stesse, senza però ottenere alcuna risposta da lui. Combeferre aveva preso Enjolras per le spalle per tirarlo verso di sé: a Courfeyrac era sembrato che il tronco del ragazzo cadesse a peso morto sulle sue stesse gambe, quasi non avesse più forza per restare rigido. Nell’allontanare il suo busto dal resto del corpo, Courfeyrac e Combeferre avevano notato che la mano destra di Enjolras, lasciata a peso morto sulle gambe, era grondante di sangue e l’avevano subito fasciata come meglio riuscivano per portarlo in fretta al pronto soccorso. “Non dite niente agli altri, per favore!” era stata l’unica cosa che Enjolras aveva detto: così, i due ragazzi gli avevano fatto da scudo passando per il corridoio, dicendo a tutti ‘Non preoccupatevi, non è niente.’ Una volta arrivati in ospedale, Claude, il fratello maggiore di Combeferre, aveva estratto le schegge e curato i tagli, poi aveva fatto sdraiare Enjolras, visto che il ragazzo aveva avuto dei leggeri mancamenti per la perdita di sangue. Mentre gli stavano facendo compagnia, i due ragazzi si erano fatti spiegare cosa fosse successo, cosa lo avesse spinto a quel gesto: ad un certo punto del racconto, ad Enjolras la voce si era spezzata in gola e delle timide lacrime aveva iniziato a scendergli dai luminosi occhi azzurri lungo le guance, interrompendo lì la sua storia. Courfeyrac ricordava di essere rimasto a guardarlo senza sapere cosa dire, mentre Combeferre, evidentemente dispiaciuto, non era riuscito a trattenersi: si era seduto accanto a lui sul lettino e lo aveva avvolto in un grande abbraccio, portando la testa del biondo ragazzino al suo petto. Enjolras, davanti a quel gesto, era rimasto colpito, forse un po’ imbarazzato. Ma gli abbracci hanno lo strano potere di far uscire tutte le emozioni che una persona prova: così, alla fine, Enjolras aveva portato le sue braccia attorno all’addome di Combeferre ed era scoppiato a piangere, stringendosi a lui. Davanti a quella scena, Courfeyrac si era sentito in dovere di intervenire e, sedutosi dall’altra parte di Enjolras, gli aveva messo una mano sulla spalla e l’altra sul braccio, accarezzandoglielo dolcemente per consolarlo. Quella era stata la prima ed unica volta in cui Courfeyrac aveva visto Enjolras piangere.

“Vado di là per il cambio d’abito e torno!” disse Grantaire con la vocetta da trans che aveva usato anche prima, riportando il trio di amici alla realtà. “E tu non sbirciare, furbacchione!” disse Grantaire a Bahorel fingendo una certa riservatezza.

“Credimi: non ci tengo!” aveva risposto il ragazzone ridendo. Grantaire tornò in cucina sculettando per levarsi il grembiule di dosso. Quando tornò indietro, finalmente poterono pranzare.

 

Finito di lavare i piatti, Courfeyrac tornò nella sala comune e vide che ognuno si stava facendo gli affari propri: Enjolras, seduto sul davanzale della finestra, stava parlando con Feuilly, che, arrivato da pochi minuti, era in piedi davanti a lui; Bossuet e Joly erano usciti nel corridoio e stavano parlando al telefono con una ragazza; Combeferre e Jehan stavano guardando un documentario sul computer del primo; Bahorel, Grantaire e Marius, invece, stavano guardando la televisione e commentavano. Quella scena fece crescere in Courfeyrac un certo senso di noia e di tristezza insieme: avrebbe voluto passare il pomeriggio a fare qualcosa… ma cosa?

Intristito, guardò svogliatamente lo schermo della tv: i tre ragazzi stavano guardando una di quelle partite poco importanti che vengono mandate in onda su quei canali che danno solo sport. Questo gli diede un’idea.

“Andiamo al parco!” gridò al resto del gruppo Courfeyrac.

“Che?” disse Combeferre alzando lo sguardo dal computer.

“Ricordate che dicevo che sarebbe carino passare il pomeriggio tutti insieme?!” disse Courfeyrac correndo verso di lui e ribaltandosi dall’altra parte del divano. “Andiamo a giocare a pallone!”

“Quando hai proposto di fare qualcosa?” chiese Enjolras incuriosito. Sembrava quasi avesse l’impressione di essersi perso qualche passaggio durante il pranzo.

“Stamattina: tu ancora dormivi” gli rispose subito Courfeyrac. “Dai, ci andiamo? Ti prego! È pure spuntato il sole!”

“Non devi chiederlo solo a me. Se vuoi davvero giocare a calcio, devono essere d’accordo anche gli altri.”

“Hai detto calcio?!” disse una vocina acuta proveniente dal corridoio: Gavroche stava sulla porta e guardava Enjolras con occhi spalancati. Dietro di lui, Joly sembrava essersi accorto che nella sala i ragazzi stavano parlando di qualcosa. “Voglio venire anch’io!” urlò Gavroche gettandosi addosso a Courfeyrac.

“Grande, piccolo uomo!” disse contento il ragazzo dai riccioli scuri prendendo in braccio il piccolo Gavroche. Poi si sedette composto sul divano, mise Gavroche sulle sue ginocchia e disse: “Dai, andiamo?”

Combeferre lo guardò un po’ perplesso e disse: “Io non impazzisco per lo sport…”

“È solo una partita tra dilettanti: non puoi esattamente definirla sport. Jehan? Feuilly?”

“A me andrebbe di fare qualcosa tutti assieme…” disse Jehan, voltandosi verso Enjolras, quasi cercasse una conferma.

“Anche a me!” affermò sorridente Feuilly. “Vivendo da Fauchelevent, passo così poco tempo con voi, che l’idea non mi spiace.”

“Joly?”

“Non lo so, Courfeyrac…” disse Joly ancora più perplesso di quanto non lo fosse stato Combeferre. “Ci sarà il fango, l’erba sarà bagnata e l’aria è piuttosto fredda… contando che suderemmo, non sono esattamente delle buone condizioni in cui giocare…”

“Noi ci siamo!” disse Bossuet, avvolgendo le spalle del suo ragazzo con un braccio. “I nostri impegni sono ufficialmente saltati a causa del capo di Musichetta, quindi non vedo impedimenti!”

Joly sembrò scioccato nel sentire che Bossuet aveva deciso anche per lui. Courfeyrac, Bossuet e Gavroche restarono a fissarlo supplichevoli e Joly, sentendosi quegli sguardi pressanti addosso, li guardò uno per uno. Quando incrociò gli occhi di Bossuet rimase a guardarlo e disse, sospirando:    “E va bene, d’accordo!”

“Evvai!” urlò Courfeyrac emozionato. “E voi tre?” Bahorel, Grantaire e Marius erano troppo assorti nella partita per accorgersi che Courfeyrac stesse parlando con loro, quindi il ragazzo mise Gavroche sulle ginocchia di Combeferre, si alzò, e si mise davanti al televisore.

“Levati” si limitò a dirgli Bahorel, steso sul divano.

“No.”

“Scusami?”

I due ragazzi si stavano guardando negli occhi, fissi, senza cambiare espressione. “Ti serve qualcosa, Courfeyrac?” chiese Marius, attirando l’attenzione su di sé. “Scusaci: eravamo distratti.”

“Stavamo pensando di andare a giocare a pallone” gli rispose Courfeyrac sorridendo. “Venite anche voi?”

Grantaire fece spallucce e non si espresse. Marius sembrò per un attimo sovrappensiero, poi sorrise, alzò lo sguardo verso Courfeyrac e disse: “Io ci sto.”

A quel punto, gli sguardi di tutti si fissarono su Bahorel: il ragazzo dagli occhi dorati, sdraiato con le mani dietro la testa, non spostò lo sguardo dal pezzetto di televisore che riusciva a vedere dietro Courfeyrac, ma rispose: “Io la partita sto cercando di guardarla in TV.” Sembrava quasi che sapesse che tutti stavano guardando lui. Courfeyrac, senza lasciarsi minimamente spazientire, prese il telecomando dalle sua mani e spense il televisore. “EHI!” si ribellò Bahorel.

“Ora non più!” disse Courfeyrac nascondendo il telecomando dietro la sua schiena. “Dai, andiamo!”

“Ridammelo subito.” Il tono calmo che usò Bahorel fu terrificante: nemmeno quando si arrabbiava riusciva ad essere più spaventoso rispetto a quel momento.

Tuttavia Courfeyrac, nonostante fosse spaventato, non si permise di cedere. “NO” gli urlò deciso per non lasciar vedere che se la stava facendo sotto. “È una partita poco importante! Non hai bisogno di guardarla!” Bahorel sembrò irarsi: restò a guardare Courfeyrac con occhi indignati, pieni sia di rabbia che di sorpresa. Sembrava stesse per alzarsi per riprendersi il telecomando; invece chiuse gli occhi, si appoggiò al cuscino ridacchiando per il nervoso, quasi si stesse costringendo a restare calmo, e disse: “Come ti pare!”

“Davvero?” chiese Courfeyrac incredulo.

“Sì” ammise Bahorel. “Non mi va di stare a discutere: so che insisteresti anche se ti facessi un occhio nero e il labbro gonfio. Per cui accetto e finiamola subito.”

Courfeyrac non riusciva a crederci. “Evviva!” si lasciò scappare eccitato.

Grantaire si voltò verso Enjolras e gli disse: “La decisione finale spetta a te, biondo leader.”

Enjolras guardò i ragazzi uno a uno: a quanto pare, Courfeyrac era davvero riuscito a convincere tutti tranne Combeferre. Enjolras guardò dritto i suoi occhi verdi e Courfeyrac sapeva che lo stava interrogando, come se gli stesse dicendo ‘se tu non sei d’accordo, non andiamo.’ Combeferre doveva aver capito, perché sospirò, sprofondò nel divano, sorrise ad occhi chiusi e alzo le mani come segno si resa. Solo allora Enjolras si pronunciò: “E va bene: andiamo.”

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Capitolo 25
*** Dov'è Enjolras? - Éponine ***


Éponine

“Éponine! Proprio la donna che cercavo!” disse una voce maschile carica di entusiasmo proveniente dalla scala della hall. Éponine stava mettendo in ordine i registri della contabilità per suo padre quando alzò lo sguardo in quella direzione e vide Courfeyrac guardarla da metà della scalinata: portava dei calzoncini corti bianchi, una maglietta a maniche lunghe gialla e, ai piedi, delle scarpe chiodate dai colori sgargianti coprivano parte dei calzettoni giallo canarino con due righe blu in alto.

“Courfeyrac! Perché mi cercavi?” chiese subito la ragazza sorpresa. “Che poi ‘donna’… non esageriamo!”

Courfeyrac stava per scendere quando sembrò farsi trattenere da qualcosa che si trovava nascosto in cima alle scale. Éponine riusciva a sentire una vocina provenire dal piano superiore, ma non capiva cosa stesse dicendo. “Dai, non succede nulla se viene anche lei!” rispose alla voce Courfeyrac. Poi toccò di nuovo alla voce ad esprimersi: il suo tono si alzò, ma le parole furono ancora incomprensibili per Éponine. Tuttavia, la ragazza riuscì a riconoscerla.

“Gavroche qual è il problema?” gli chiese ad alta voce la ragazza. “Vieni giù a dirmelo in faccia!” Gavroche non se lo fece ripetere due volte e scese alcuni gradini della scala a passi pesanti, quasi pestasse a terra i piedi volutamente come farebbe un bambino capriccioso. Aveva una larghissima maglietta a maniche corte verde fluorescente, che copriva quasi del tutto una felpa blu scuro e i suoi piccoli jeans chiari: Éponine pensò che fosse di uno dei ragazzi del gruppo di Courfeyrac perché era troppo grande per il suo fratellino, ma non per un ragazzo della loro età.

Il bambino dai riccioli biondi si inginocchiò, prese tra le mani due pali della ringhiera e guardando la sorella disse a pieni polmoni: “Io non voglio che vieni anche tu con noi!” Éponine non riusciva a capire: andare dove? Per fare che cosa?

“Non fare il bambino! Ci serve che venga anche tua sorella!” disse dolcemente Courfeyrac arruffando i capelli di Gavroche con la mano.

“Ma io SONO un bambino, Courfeyrac!” disse deciso Gavroche spingendo via la mano del ragazzo. Courfeyrac sembrò confuso e un po’ imbarazzato ed Éponine non capì se ciò fosse dovuto al gesto di Gavroche o alla gaffe appena fatta. Poi il bambino puntò l’indice contro sua sorella e gridò: “IO NON CE LA VOGLIO QUELLA!”

 “Posso sapere di che accidenti state parlando voi due?” chiese la ragazza ancora più confusa. Mentre suo fratello e l’altro ragazzo ancora discutevano, Éponine sentì dei passi scendere dai gradini più alti della scala. Poco dopo, Marius apparve dietro al suo fratellino, sorpassando lui e Courfeyrac e guardandoli con un sorriso imbarazzato. Indossava dei pantaloni da tuta neri e una pesante felpa verde scuro con collo alto: nella sua semplicità, Éponine lo trovava molto carino.

“Ehi” la salutò timidamente il ragazzo lentigginoso.

“Ehi…” rispose lei, quasi senza fiato. “Che… che state combinando ora voi pazzi?” aggiunse sporgendosi in avanti sul bancone, coi gomiti appoggiati sul libro contabile.

“Stavamo andando al parco a giocare a calcetto” le spiegò Marius mostrandole la palla in cuoio che teneva sotto l’ascella. “Solo che ci servirebbe un arbritro e… avevamo pensato di chiederlo a te…”

“A me?”

“Sì… ti va?”

Éponine rimase spiazzata dalla proposta: avrebbe voluto dire di sì per passare il pomeriggio con Marius, ma lei di calcio non capiva pressoché nulla. Dentro di lei si sentiva combattuta e gli immensi occhi verdi di Marius che la fissavano speranzosi non l’aiutavano a scegliere oggettivamente. Ad un certo punto, la ragazza dai capelli scuri spostò lo sguardo verso la scala: Courfeyrac aveva sollevato Gavroche di peso, mettendo un braccio sotto le sue ascelle, e con una mano gli teneva tappata la bocca, in modo che il bambino non potesse esprimere il suo disappunto. Mentre i piccoli occhi scuri della ragazza si persero nel vuoto per riflettere sul da farsi, una voce si fece sentire dal piano di sopra: “Courfeyrac, Marius.” Éponine alzò lo sguardo e vide Enjolras e Feuilly scendere dalla scala. “Accompagno Feuilly a casa per cambiarsi. Ci troviamo direttamente al parco, d’accordo?”

“Certo, boss!” rispose Courfeyrac voltandosi verso di lui.

“Trovato un arbitro?” gli chiese Feuilly recuperando Gavroche dalle sue braccia per poi riportarlo dolcemente a terra. Gavroche gli sorrise, si prese un buffetto sulla testa dall’alto ragazzo dagli occhi nocciola e fece una linguaccia a Courfeyrac.

“Stiamo cercando di convincere Éponine, ma sembra inamovibile” gli rispose Courfeyrac mentre guardava male Gavroche.

“Se volete posso farlo io, ve l’ho detto” disse Combeferre scendendo al piano terra con un libro davanti agli occhi: Éponine aveva sempre pensato che quel ragazzo avesse migliori capacità di multitasking persino di una donna.

“Non ci provare! Ti ho detto che non puoi!” disse Courfeyrac voltandosi di scatto verso di lui. “Siamo cinque per squadra giusti! Non puoi ritirarti!” Éponine capì di essere la loro unica risorsa come arbitro, ma ancora una volta non sapeva se accettare o no: insomma, che figura ci avrebbe fatto davanti a Marius lei che di calcio capiva poco o niente?!

“Beh, prendete una decisione e avviatevi” disse Enjolras aprendo la porta; poi fece a Feuilly un cenno con la testa ed uscì. Enjolras era sempre stato piuttosto ruvido con Éponine, ma lei sapeva che si comportava così con tutte le ragazze: lo notava ogni volta che qualche studentessa della residenza cercava di rivorgergli la parola. Le sembrava quasi che fosse incapace di avere più di uno scambio di battute con qualsiasi ragazza o donna, nonostante cercasse di essere sempre cortese.

Éponine notò che Feuilly lo guardò uscire dalla residenza sorridendo, poi scosse il capo ad occhi chiusi, lasciandosi sfuggire una leggera risata, si girò verso di lei e le disse dolcemente: “Non farti mettere fretta da lui: hai tutto il tempo. E, ovviamente, sentiti tranquillamente libera di dire di no!” Poi si voltò salutando lei e gli altri ragazzi con un gesto della mano e raggiunse Enjolras tirando fuori dalla tasca le chiavi della sua auto. Quando i ragazzi nella hall sentirono la macchina partire, il suono del motore venne presto coperto dai passi del resto del gruppo che scendeva la scala.

“Siamo pronti?” disse Bahorel scendendo per primo.

“No, l’arbitro non ha ancora detto di sì!” disse Courfeyrac beccandosi una violenta scompigliata di capelli dal ragazzone.

“Beh, io…” disse Éponine guardandoli uno ad uno negli occhi. Adesso c’erano otto persone in quella stanza che attendevano una sua risposta fissandola con occhi sgranati: solo Combeferre sembrava non volerle mettere fretta e continuava a leggere il suo libro seduto su una delle poltroncine della hall. Gavroche continuava a fissarla come arrabbiato: forse avrebbe voluto fare lui l’arbitro, ma Courfeyrac doveva avergli detto di no.

“Per favoooooooreeeeeeeeeee!” aprì il coro di suppliche Courfeyrac sporgendosi a mani giunte dalla ringhiera: tutti, ora sembravano volerla convincere ed Éponine passò nuovamente i piccoli occhi scuri su ognuno di loro, finché non incrociò lo sguardo di Marius.

“Allora?” le chiese lui sorridendole. Perché doveva sorriderle, accidenti a lui? Quando la guardava a quel modo lei non riusciva a pensare! Continuava a guardare la dolcezza di quegli occhi e di quel sorriso e l’unica cosa a cui riusciva a pensare era ‘Digli di sì, Éponine, avanti!’.

“E va bene!” si lasciò scappare alla fine. Ancora una volta fu Courfeyrac ad aprire la serie di esultanze da parte di tutti i ragazzi, eccezione fatta per Gavroche che piantò i piedi a terra e mise il broncio, ma Éponine sapeva che prima o poi gli sarebbe passato. Guardò Courfeyrac passare un braccio attorno alle spalle del suo fratellino e stringerlo a sé, parlandogli sottovoce, ma subito il suo sguardo si spostò verso Marius e lo vide sorriderle ancora.

Il cuore le si sciolse immediatamente quando Marius, con una tenerezza che Éponine non aveva mai visto in nessun ragazzo, le disse semplicemente: “Grazie!”

Uscendo, Éponine aveva dovuto prendere la sua giacchetta di pelle marrone per ripararsi dal freddo portato dal temporale di quella notte. Durante il percorso aveva sentito particolarmente il freddo del vento che soffiava tra le vie della piccola cittadina francese. Arrivati al parco, Combeferre aveva suggerito di andare nel campetto circondato dagli alberi, in modo che questi limitassero almeno in parte il suo soffio: il campo era leggermente umido e c’era ancora qualche macchia di fango a terra. C’era una panchina in legno accanto al campetto, quindi Éponine e Gavroche vi ci sederono in attesa che i ragazzi fossero pronti per la partita. Bahorel appoggiò accanto a loro un borsone con diverse bottigliette d’acqua. Gavroche rimase lì a fissare le bottigliette, quasi avesse sete. Poco più in là, Bossuet era seduto su un’altra panchina con un braccio appoggiato dietro a Joly, mentre il ragazzo dai capelli castani era intento a imbottirsi con un paio di ginocchiere e uno di parastinchi.

“Non ti sembra… un po’ troppo?” chiese Bossuet con un po’ di indecisione nella voce: sembrava volesse evitare qualcosa, ma non riuscisse a trattenersi dal ridere.

“No” disse Joly chinato in avanti per sistemarsi la ginocchiera. “La sicurezza non è mai troppa.”

“Se lo dici tu…” cercò di non contraddirlo il suo ragazzo.

Grantaire arrivò alla panchina su cui erano seduti i due fratelli e, appoggiando un piede per allacciarsi bene una scarpa, vide Gavroche fissare le bottigliette d’acqua e iniziò: “Se avete sete, non fatevi problemi a prender…” Si interruppe lì e il suo sguardo si perse dietro di loro. “E-ehi! Eccovi…” disse sorridendo. Éponine si voltò e vide Enjolras e Feuilly avanzare verso di loro.

“Siamo pronti?” disse Enjolras avanzando verso il gruppo.

“Finalmente siete arrivati!” gli disse subito Courfeyrac alzando lo sguardo verso lui e Feuilly. Il biondino non fece in tempo a parlare che Courfeyrac corse verso di lui, lo prese per il braccio e lo tirò a centro campo urlando: “IO E ENJOLRAS FACCIAMO LE SQUADRE!”

“Perché proprio voi due?” chiese Bahorel passando dietro ai due ragazzi e coprendo violentemente la testa di Courfeyrac col cappuccio della felpa.

Couerfeyrac si tolse il cappuccio e si scompigliò i capelli per renderli meno piatti, poi rispose: “Io perché l’idea è stata mia; lui perché è il capo ed è giusto che sia così.” Detto ciò si voltò verso l’altro capitano e, allungando il pugno verso di lui, aggiunse: “Pari o dispari, capitano?”

“Vada per pari…” disse Enjolras con poca convinzione: difficile capire se fosse per il metodo infantile di fare le squadre o se per il fatto di dover essere il capitano. Una cosa Éponine l’aveva capita: quel pomeriggio Enjolras doveva essere molto stanco.

Dopo il ‘Bim bum bam’ del gioco, la ragazza non riuscì a vedere le mani dei due capitani, ma sentì chiaramente Courfeyrac urlare: “È DISPARI! EVVIVA! INIZIO IO E MI PRENDO FEUILLY!” Éponine fu d’accordo con lui: sapeva che Feuilly aveva giocato spesso all’orfanotrofio ed era diventato bravissimo a giocare a pallone. Enjolras accettò serenamente la scelta e si guardò attorno, finchè i suoi occhi non si posarono in un punto ben preciso del campo da gioco.

Non troppo distante da lui, Marius stava palleggiando con un’abilità che Éponine non era abituata a vedere: sembrava aver giocato a calcio per anni. “D’accordo: allora io prendo Marius!” disse il biondo ragazzo, sorridendo.

“E va bene…” disse Courfeyrac, chiaramente nervoso per essersi lasciato scappare Marius. “Grantaire! Sei con noi!” disse il ragazzo ricciolino ad alta voce.

“Io?” disse Grantaire: dal tono della sua voce, Éponine credette che fosse deluso. “Ma ne sei sicuro?”

“Certo!” rispose deciso Courfeyrac. “E adesso che mi sono preso l’atleta migliore, chi sceglierai, biondino? Eh? Allooooooora?”

Enjolras guardò Courfeyrac sorridendo, forse un po’ beffardo; poi si voltò a sinistra e chiamò: “Bahorel, vieni con noi?”

“Non mi perderei mai l’occasione di schiacciare quel pidocchio di Courfeyrac!” disse Bahorel avanzando verso il suo capitano.

“Al maciste non avevo pensato… ottima scelta.” Courfeyrac si guardò attorno e chiamò: “Bossuet, posso contare su di te?”

“Certo… se ne sei convinto…” disse quasi ridendo il ragazzo pelato alzandosi dalla panchina per andare da lui.

“Prendi anche Joly, non dividiamoli” disse Enjolras, facendo un cenno a Combeferre e Jehan di andare da lui. Éponine li guardò dividersi nelle due squadre stringendo il fischietto che Courfeyrac le aveva fatto tirare fuori dal cassetto del bancone. Cosa i suoi genitori se ne facessero di un fischietto non le era chiaro, ma non ne fece una questione di vita o di morte: le tornava utile, quindi non le interessava approfondire la questione. L’unica cosa a cui riusciva a pensare in quell’istante era che la partita sarebbe iniziata di lì a poco e lei non sapeva neanche come se la sarebbe cavata come arbitro. Se non altro la presenza di quel marmocchio di suo fratello, seduto con in mano due grossi pezzi di stoffa rossi che Courfeyrac gli aveva detto di usare al posto delle bandierine, tornava utile: lui, almeno, avrebbe potuto aiutarla. Tuttavia, la ragazza fu felicissima di aver accetato di uscire con il gruppo di ragazzi: lei li aveva sempre trovati molto simpatici e alla mano e le aveva fatto piacere che l’avessero coinvolta in una delle loro uscite; ma soprattutto era felicissima di essere lì a passare un intero pomeriggio con Marius. Éponine si era interessata al nuovo arrivato fin da subito, nel momento in cui lo aveva visto seduto sulla poltrona della hall: lo aveva trovato davvero carino e i suoi occhi erano talmente dolci che la ragazza non aveva potuto resistergli. Più ci parlava, più si sentiva attratta da quel ragazzo, perché era gentile, sincero, tenero, riflessivo, idealista e adorabilmente impacciato... praticamente il miglior ragazzo che Éponine avesse mai conosciuto in tutta la sua vita. Se la vedeva portare oggetti troppo pesanti per lei, Marius le correva incontro e la aiutava a portarli, si fermava sempre qualche minuto a parlare con lei, aveva sempre un sorriso gentile e una parola cordiale. Anche se lo conosceva da poco si sentiva incredibilmente a suo agio con quel ragazzo e iniziava a provare per lui un sentimento più forte della semplice amicizia.

La ragazza stava guardando Marius parlare con Enjolras, quando la sua attenzione venne attirata dall’arrivo di Bahorel che, mettendosi tra loro e poggiando le braccia sulle loro spalle, disse: “Allora: chi tra voi due resta a centro campo con me?”

“Un attimo, no!” obbiettò Courfeyrac distraendosi dalla riunione della sua squadra. “Lui mettilo in porta o ci fa a pezzi!” Bahorel sembrò quasi indignato dall’osservazione di Courfeyrac.

Enjolras si scostò leggermente alla sua destra e guardò verso sinistra, dove Bahorel ancora stava appoggiato a lui e a Marius; squadrò il robusto ragazzone da capo a piedi e disse: “E sia. Allora staremo io e Marius a centro campo.”

“Ma come?” chiese Bahorel.

“Beh, il lato positivo è che con la tua stazza in porta non entrerà neanche un pallone” disse il biondino mettendogli una mano sulla spalla.

Bahorel si girò verso Marius, che gli sorrise in risposta, poi il ragazzone guardò fisso a terra, sorrise malignamente quasi avesse avuto un lampo di genio, alzò gli occhi dorati verso Courfeyrac e disse: “Ti sei scavato da solo la fossa… ‘capitano’!” Detto ciò, si avviò alla porta fissando Courfeyrac negli occhi con sguardo malvagio. Il ragazzo dalle orecchie a sventola lo guardava allarmato, come avesse realizzato solo in quel momento la gravità del suo errore.

Tuttavia non si lasciò distrarre: si girò verso i suoi compagni di squadra e chiese: “Chi sta in porta, dunque?”

“Bossuet” disse Joly alzando il braccio del suo ragazzo. Bossuet lo fissò come se non capisse il motivo di quella proposta, quindi Joly lo fece girare e lo spinse verso la porta, aggiungendo: “Sei talmente imbranato che magari inciampando prendi qualche palla.”

“Grazie, tesoro” disse Bossuet sarcastico. “Ti amo anch’io!” Quando arrivarono alla loro porta, Bossuet si sporse verso Joly penzolando dal palo e il ragazzo dai capelli castani gli prese il viso tra le mani, sorrise e gli diede un bacio, prima di tornare al campo dagli altri. Bossuet appoggiò il polso al palo e rimase a fissare Joly in basso, sorridendo, ma Éponine non riusciva a capire cosa stesse guardando: poi, quando Joly si fermò poco più avanti, in linea con Grantaire, Bossuet si lasciò scappare un risolino e disse ad alta voce: “Il lato positivo è che la vista da qui è grandiosa, amore mio!” Joly si voltò verso di lui sospirando, ma il suo sorriso faceva capire che il commento non gli aveva dato fastidio come voleva far sembrare.

“Preparatevi a mangiare la polvere, biondino!” disse ad alta voce Courfeyrac. “Gavroche! La palla, per favore!” Il piccolo Gavroche si alzò tutto eccitato e portò il pallone in cuoio a centro campo, proprio ai piedi di Courfeyrac e Enjolras.

“Vediamo se ho capito” disse Gavroche prima di appoggiare la palla a terra. “I tuoi difensori sono il malaticcio e l’ubriacone, mentre tu e lo spilungone lavoratore siete gli attaccanti, Courfeyrac?”

“Esatto, piccolo uomo.”

“Mentre per la tua squadra, biondino, il secchione e il tipo dei fiori sono i difensori e tu e il tipo strano nuovo siete gli attaccanti, giusto?”

“Sì…” disse Enjolras un po’ confuso, probabilmente per i soprannomi usati dal bambino.

“Bene” concluse Gavroche poggiando il pallone. “Se vi sposterete senza avvisarmi dei cambi di ruolo ve la farò pagare!”

“Ehi!” disse Éponine al suo fratellino. “Sono io l’arbitro! Spetta a me dettare le regole! Tu sei il guardalinee, Gavroche!” Il bambino si girò e le fece la linguaccia: quel gesto voleva dire che non avrebbe rispettato i ruoli stabiliti, la ragazza ne era certa. “Smettila di fare il pestifero! Non è stato nemmeno carino da parte tua affibiare loro quei ridicoli soprannomi!”

“Dai, non darci peso: davvero!” le disse Marius sorridendo. “Quando sei pronta dacci pure il via!”

Il cuore le stava battendo a tremila battiti al minuto nel guardare quel sorriso, Éponine lo sentiva chiaramente. L’emozione la faceva tremare leggermente, ma cercò di calmarsi per non mostrarlo, prese il fischietto e lanciò il segnale d’inizio.

 

Per tutta la partita, Éponine non aveva capito quasi nulla di quello che avevano fatto i ragazzi: li aveva visti fare tantissimi passaggi, diversi voli a terra, alcune scivolate e un paio di calci di punizione segnalati da Gavroche. Tuttavia, la ragazza era sicura solo del fatto che la squadra di Enjolras stava conducendo la partita uno a zero. Bahorel stava assolvendo bene al suo compito di portiere: Feuilly era stato tante volte sul punto di mandare la palla in rete, ma il ragazzone non ne aveva mai fatta passare neanche una. Anche Bossuet, nella sua imbranataggine, era riuscito a evitare che Marius facesse tutti quei goal che aveva tentato, anche se con più fatica: la velocità di Grantaire rendeva molto buona la difesa della squadra Courfeyrac… o così le aveva detto Gavroche. Peccato si fosse distratto quando era stato Enjolras a tentare il tiro in rete, concedendo così alla squadra avversaria l’unico goal: Courfeyrac si era arrabbiato moltissimo. “Gli sei stato addosso tutta la partita! Proprio ora che fa goal dovevi distrarti?!” aveva urlato il ricciolino. Non passò molto tempo prima che Feuilly riuscì a infrangere la difesa di Bahorel e a segnare un goal di testa per la squadra Courfeyrac, portando così le due squadre in una situazione di perfetta parità.

Non ci furono interruzioni al gioco, finchè Courfeyrac, per sbaglio, non scivolò tra i piedi di Combeferre, facendolo cadere in avanti contro Marius. Éponine si spaventò e fermò il gioco, temendo che i ragazzi si fossero fatti male. “No, sto bene, tranquilla!” le rispose Marius mentre si puliva la guancia dalla terra, sorridendole; quando alzò lo sguardo verso Combeferre, il ragazzo dai capelli biondo rame le fece cenno di essere tutto intero. La ragazza segnalò il fallo e Gavroche si sentì costretto a concedere alla squadra Enjolras un calcio di punizione. Toccò a Combeferre tirare.

“Avanti tira!” gli disse Courfeyrac spazientito. “Sei lì da ore!”

“Lascialo fare!” rispose Enjolras da bordo campo, innervosito dall’impazienza di Courfeyrac.

Éponine, tuttavia, riusciva a capire la protesta di Courfeyrac: Combeferre era fermo davanti a quel pallone da diversi minuti, a calcolare con lo sguardo non si sapeva bene che; si era messo a cercare di capire persino quanto tirava il vento! Éponine aveva sempre saputo che Combeferre era un ragazzo analitico e molto intelligente, ma non avrebbe mai pensato di vederlo calcolare persino l’angolazione in cui tirare un pallone! Alla fine, Combeferre parve pronto per il tiro: indietreggiò leggermente per prendere una piccola rincorsa e tirò, segnando un punto per la sua squadra. Courfeyrac sembrò sconvolto dal fatto che Combeferre avesse davvero fatto goal: si girò verso Bossuet, dal quale ricevette un sorriso e un’alzatina di spalle serenamente rassegnata. Dopo delle brevi esultanze della squadra Enjolras, i ragazzi tornarono in posizione e il gioco riprese.

Mancavano ancora una ventina di minuti alla fine della partita e la situazione non era più cambiata dall’ultimo goal di Combeferre. Courfeyrac, ad un certo punto, riuscì a prendere il pallone e iniziò l’azione per fare goal… o così credette Éponine: insomma… stava correndo verso la porta… quella era l’azione, no? Comunque sia: mentre correva verso la porta avversaria, con Combeferre e Jehan pronti in difesa, Courfeyrac si fermò e urlò: “BUONA DOMENICA, PROFESSOR JAVERT!” Tutti quanti si girarono per vedere se il professore fosse lì e Courfeyrac approfittò della distrazione di Bahorel per segnare il loro secondo goal. “GO-GO-GO-GO-GO-GO-GOOOOALLLLLL!!!” gridò Courfeyrac correndo verso l’altro lato del campo con le braccia al vento.

“EHI!” urlò Bahorel quando vide il pallone ai suoi piedi. “MICA VALE COSÌ! ARBITRO!”

“Emh…” iniziò Éponine in difficoltà per essere stata interpellata, “…i-io non… non lo trovo corretto, certo…”

“Ma il regolamento non menziona l’annullamento di goal per distrazione del portiere!” disse ad alta voce Gavroche. “Quindi il goal è valido!”

“FERMO UN PO’, NANETTO!” urlò Bahorel imbestialito. “HA IMBROGLIATO!”

“Bahorel ha ragione: non è corretto!” gli diede man forte Enjolras.

“Courfeyrac! Questo è atteggiamento antisportivo!” lo riprese Combeferre. “Imbrogliare la squadra avversaria perché non accetti di essere in svantaggio è proprio un comportamento immaturo!”

“Infatti!” diede loro ragione Marius. “Così non è leale!”

“Ve la state prendendo solo perché avete subito un goal!” disse Courfeyrac a braccia conserte. “Prendete esempio da Jehan e accettate la cosa sportivamente!”

“Io… io veramente sono confuso… non ho ben capito cos’è successo…” disse Jehan continuando a girare la testa prima verso Courfeyrac, poi verso il pallone a terra e poi nella direzione in cui ci sarebbe dovuto essere il professore. Enjolras lo guardò incredulo, poi chiuse gli occhi ridendo e gli mise una mano sulla spalla; quando Jehan lo guardò, il biondino scosse la testa in modo strano, quasi gli stesse dicendo di lasciar perdere.

“Proprio tu parli di prendere la cosa sportivamente?” chiese Combeferre spazientito. “Hai ascoltato almeno una parola di quello che ti ho detto?”

“Éponine, tocca a te decidere!” lo ignorò completamente Courfeyrac.

“Courfeyrac” intervenne Feuilly dopo una breve riunione con gli altri, anche loro senza parole per quanto successo. “Non è stato un comportamento corretto… annulliamo e…”

“IL GOAL È VALIDO!” urlò Gavroche.

“La scelta spetta a me, nanerottolo!” disse subito Éponine al suo fratellino: aveva capito che Gavroche faceva il tifo per la squadra di Courfeyrac almeno tanto quanto lei tifava per la squadra di Enjolras. Per tutta la partita non aveva fatto altro che intervenire come secondo arbitro a favore della sua squadra, anche se avrebbe dovuto fare solo il guardalinee. “Non è stato un comportamento corretto!”

“Bahorel si è distratto e la palla è entrata!” disse il bambino impuntandosi sulla sua decisione. La ragazza restò a guardarlo allibita e arrabbiata insieme: avrebbe voluto prenderlo di peso e dargli una bella lezione.

“E sia: contaglielo come buono!” disse ad alta voce Enjolras dopo un po’ di silenzio. Courfeyrac iniziò a sorridere, ma tornò serio quando il biondino di avvicinò a lui, si protese in avanti verso il suo viso e disse guardandolo fisso negli occhi: “Prenditi pure questo vantaggio: ti servirà per non subire la pesante umiliazione della nostra vittoria schiacciante!” Éponine rimase sorpresa: non avrebbe mai pensato che Enjolras potesse essere tanto competitivo. Ad un certo punto, la ragazza sentì un leggero risolino a pochi passi da lei: Grantaire se lo era lasciato sfuggire guardando la reazione di Enjolras. Anche Courfeyrac doveva averlo sentito perché si voltò immediatamente versò di lui e lo fulminò con lo sguardo.

La partita riprese e ci furono tantissimi altri passaggi, diversi altri tentativi di segnare e molte cadute, durante una delle quali Jehan si sbucciò un ginocchio: Éponine vedeva il sangue attraverso il buco apertosi nei pantaloni e immaginò dovesse fargli davvero molto male, tant’è vero che il minuto ragazzino si sedette a terra a reggersi la gamba. Enjolras e Combeferre corsero subito da lui, per essere sicuri che tutto andasse bene; tuttavia, con sorpresa dell’intero gruppo, Jehan si alzò in piedi immediatamente, dicendo che stava benissimo e non dovevano preoccuparsi. Combeferre insistette per fargli almeno lavare il graffio e Jehan acconsentì senza obbiettare. Non ci volle molto e la partita potè riprendere in fretta. Non ci furono interruzioni finchè, a circa dieci minuti dalla fine, Enjolras non si accorse di avere le stringhe slacciate e dovette andare a bordo campo accanto a lei e piegarsi in avanti per allacciarle. Éponine notò che Grantaire stava per intercettare il pallone a Marius, quando, notando il biondino, era arrossito e aveva rallentato di colpo la corsa lasciando Joly da solo alla difesa. Poco prima che Marius tirasse in porta, Bossuet gridò: “TIME-OUT!”

Tutti si fermarono di colpo. Marius si voltò verso di lui un po’ deluso per non aver potuto fare il tiro. “E ADESSO CHE C’È?!” gridò Bahorel arrabbiato.

“IL VOSTRO CAPITANO DISTRAE UN NOSTRO GIOCATORE!!!” gridò Bossuet, quasi ridendo, indicando la direzione in cui si trovava Enjolras.

“E-eh? Che cosa?” chiese confuso Grantaire guardando verso Bossuet in totale imbarazzo: sembrava quasi si sentisse chiamato in causa.

“Che ho fatto?” disse Enjolras alzandosi e voltandosi verso Bossuet.

Il ragazzo pelato corse da lui, gli mise una mano sulla spalla, avvicinò il viso al suo orecchio e gli suggerì: “La prossima volta chinati invece di piegarti!” Quando finì, diede una veloce pacca sul viso di Enjolras, portando le dita sul collo e il palmo sulla guancia, e poi tornò in porta ridendo; Éponine si accorse che anche Joly stava ridendo sotto i baffi. Enjolras sembrò confuso per diversi istanti, guardando davanti a sè un punto imprecisato. Poi Feuilly si avvicinò a lui e gli agitò una mano davanti agli occhi: Enjolras sembrò tornare al mondo reale e guardò l’altro ragazzo dritto negli occhi color nocciola. Feuilly sfoderò un sorriso molto dolce, al quale il biondino rispose e la partita riprese.

Quando mancavano pochi minuti alla fine, Enjolras riuscì a intercettare la palla a Courfeyrac, ma Grantaire gli corse subito incontro per bloccarlo e il biondino fu costretto a fare a Marius un passaggio molto alto. Marius non esitò neanche per un secondo: prese la rincorsa verso il pallone e la mandò in rete con una rovesciata. Quel goal lasciò senza parole tutti quanti: dopo qualche istante di silenzio, Bahorel esultò e corse verso il ragazzo, sollevandolo sulle sue spalle trionfante; dopo di che anche gli altri componenti della squadra andarono verso di lui per complimentarsi. Persino i membri della squadra avversaria si avvicinarono per complimentarsi con lui del goal fatto.

Éponine lo guardava: era così felice portato in trionfo dai suoi nuovi amici, che il sorriso che gli si dipinse sul volto fu anche più dolce del solito. I grandi occhi verdi scintillavano per la gioia e per i pochi raggi di sole che iniziavano a farsi largo timidamente attraverso le nuvole: per la ragazza, Marius non era mai stato tanto carino quanto in quel momento.

 

 

– Fine capitolo 3 –

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Capitolo 26
*** Io vado al parco! - Bossuet ***


Bossuet

La giornata stava scorrendo lentamente per Bossuet: quella lezione di matematica sembrava non finire mai e le lancette dell’orologio giravano con una lentezza mai vista. Avrebbe voluto cercare di seguire, ma proprio non ci riusciva: era addirittura sicuro di essersi addormentato ad un certo punto, ma non ci diede peso perché tanto di matematica non ci capiva assolutamente nulla. Tutte quelle formule assurde, quei numeri lunghi e complicati, quei teoremi senza senso, dimostrazioni impossibili da ricordare, tutte quelle lettere… che poi: perché diavolo ci sono le lettere nella matematica? Insomma: bisogna fare dei calcoli oppure una gara di spelling? A cosa possono mai servire le lettere? Aveva tentato di capire qualcosa delle funzioni, ma ci aveva rinunciato presto: lo avrebbe chiesto a Joly quella sera a casa, visto che lui nelle materie scientifiche e logiche non aveva il minimo problema. Loro che frequentavano l’indirizzo scientifico erano più avanti di lui in matematica, quindi era sicuro che il suo ragazzo avrebbe saputo aiutarlo. Deciso a non far fumare il suo cervello più di quanto non avesse già fatto, Bossuet si gettò indietro sulla sedia e iniziò a pensare a quando quella sera avrebbe chiesto a Joly di spiegargli la lezione: si sarebbe sicuramente seccato, ma alla fine avrebbe accettato. A Bossuet non importava nulla della spiegazione: voleva solo restare un po’ da solo con il suo ragazzo. Paradossalmente, tra una trovata e l’altra di Courfeyrac, la scuola, la leggera influenza di Joly e le sue preziosissime otto ore di sonno, i due ragazzi non erano ancora riusciti a prendersi tanto tempo per stare da soli come si deve da quando erano tornati a Saint Denis dopo le vacanze, salvo la notte prima di andare in piscina… ma oramai erano passate quasi due settimane. A Bossuet la cosa dava parecchio fastidio: tra non molto si sarebbero trovati entrambi sommersi dallo studio e dai compiti, soprattutto lui che era all’ultimo anno.

Già… l’ultimo anno. Quel pensiero era l’unico che riusciva a demolirlo completamente: aveva solo nove mesi da passare ancora con il suo ragazzo e i suoi amici in quel piccolo comune a nord di Parigi, poi avrebbe dovuto rientrare nella capitale per frequentare l’università di legge. Cercava sempre di pensare a godersi ogni momento, ogni esperienza che avrebbe fatto assieme agli altri, eppure ogni tanto succedeva che quel pensiero fisso lo buttasse giù. Più volte, prima di dormire, Joly, segnando i giorni che passavano sul calendario come da sua abitudine, si era lasciato sconfortare da questo evento sempre più imminente e vicino. Prendeva in mano il pennarello nero e faceva una piccola croce sul numero del giorno appena finito, restava a fissare il calendario con la mano tremolante e si lasciava cadere sul letto con gli occhi pieni di tristezza. Davanti a questa situazione, Bossuet si sforzava ogni volta di restare di buon umore, cercando con tutte le forze di sorridere, poi si sedeva accanto a Joly, gli carezzava la nuca e lo avvolgeva in un grande abbraccio, ripetendogli che sarebbe andato tutto bene. Si conoscevano da tre anni, in cui erano stati assieme tutti i giorni, e da altrettanti condividevano la stessa stanza; lui era stato il primo con cui Joly si era sentito di essere sé stesso, ed erano quasi due anni che avevano una relazione: chiunque avrebbe capito lo stato d’animo di Joly nel vedere che quella storia che aveva cambiato la sua vita stava per finire come un sogno al mattino. Bossuet non si permetteva di buttarsi giù, ma questo non significava che per lui il pensiero non fosse doloroso: anche a lui l’incontro con Joly aveva cambiato completamente la vita per sempre. Non riusciva a pensare che quella fosse solo una storia tra adolescenti, di quelle che oggi si sta assieme e domani chissà: fin da subito avevano dato qualcosa l’uno all’altro, si erano aiutati a vicenda e si erano spinti oltre i loro limiti grazie al sostegno del compagno. No, la loro non era di certo una storia come tante: insieme erano migliori perché insieme stavano crescendo. Bossuet si era innamorato di quella tenera fragilità fin da subito: gli era impensabile lasciare andare via Joly così, solo perché non avrebbero più frequentato la stessa scuola e sarebbero stati in due città diverse. Qualcosa si sarebbe inventato, non avrebbe mai permesso alla distanza di portargli via ciò che sentiva di avere di più importante.

Al pensiero dell’abbandono di Joly, si collegò subito anche quello dell’abbandono dei suoi amici e questo gli fece tornare alla mente un ricordo: era più di una settimana che doveva parlare con Enjolras di una cosa importante. Come la campanella finalmente suonò, Bossuet recuperò le sue cose, si congedò dai suoi compagni di classe e corse giù per la scala di servizio verso la biblioteca: sapeva che Enjolras e Marius avrebbero avuto l’ultima ora libera, quindi era sicuro di trovarlo lì, secchione com’era quel ragazzino. Dovette farsi largo tra tutti gli studenti che riempivano il corridoio diretti alla mensa, ma alla fine arrivò nella grande sala ricca di scaffali. Cercò a lungo nell’ampio atrio centrale correndo tra un tavolo e l’altro, sfidando così le ire della bibliotecaria, ma non lo vide. Iniziò a chiedersi se non avesse sopravvalutato il suo impegno nello studio, poi un’idea lo folgorò: dove altro poteva essere quel fissato di Enjolras se non nella sezione della biblioteca dedicata ai libri di diritto? Bossuet vi corse subito e lo vide accanto allo scaffale dei libri sul diritto costituzionale, con la testa appoggiata alla mano e lo sguardo fisso su un grande tomo. Bossuet rimase a guardarlo per un po’, poi gli venne da ridere: il biondino era così concentrato sul libro che stava leggendo da non accorgersi nemmeno che un numeroso gruppetto di studentesse, passando alle sue spalle, lo aveva guardato e aveva iniziato a ridacchiare. Allora Bossuet decise di risollevarsi il morale facendogli uno scherzo: si avvicinò di soppiatto, accostò il viso all’orecchio del suo amico e disse ad alta voce: “Bu!”

Enjolras balzò sulla sedia e si girò di scatto verso di lui con un sussulto, i grandi occhi azzurri spalancati per lo spavento. “Bossuet!” disse il ragazzo riconoscendolo. “Mi hai spaventato a morte!”

“Eri così perso dentro a quella noia mortale che non potevo non approfittarne!” gli rispose ridendo.

“Noia mortale? Tu studi diritto! Come puoi trovarlo noioso?”

“Beh, ci sono cose più interessanti del diritto costituzionale” disse Bossuet sorridendo. “Nel caso del diritto, io trovo più interessante il diritto penale, mentre nella vita ci sono cose decisamente più affascinanti…” Poi sentì qualcuno ridacchiare alla loro destra, non lontano da loro, così si girò in quella direzione: il gruppetto di ragazze che aveva visto prima stava ancora osservando il ragazzo dai capelli dorati, ma lui parve non farci caso, anche se Bossuet era sicuro che non se ne fosse nemmeno accorto. Il ragazzo pelato si lasciò scappare un risolino e fece notare ad Enjolras, sussurrandogli nell’orecchio: “…quelle ragazze, per esempio, trovano più affascinante te rispetto a quello che stai leggendo!”

Enjolras sembrò imbarazzarsi: arrossì sgranando gli occhi, si voltò di scatto verso le ragazze, le quali aumentarono le risatine incrociando il suo sguardo, e tornò fulmineo a guardare il suo libro. “N-Non dire idiozie…” si lasciò sfuggire Enjolras irritato, ma ancora rosso in viso per il disagio.

Bossuet restò a guardarlo mentre cercava di ignorare il fatto di essere fissato da quelle studentesse, poi si lasciò scappare una risata e disse: “Mi spiace deluderti, ma non credo di aver detto stronzate!” Poi il suo sguardo si intenerì e, mentre si sedeva accanto a lui, pizzicandogli una guancia con l’indice e il medio aggiunse: “Non puoi farci nulla se la natura ti ha creato attraente: dovrai accettarlo!”

Una volta il biondo ragazzo si sarebbe irritato da questo gesto, Bossuet lo ricordava bene, ma in questo caso non ebbe alcuna reazione, se non un rassegnato risolino accompagnato da uno scuotimento di testa ad occhi chiusi: questo fece pensare a Bossuet che Enjolras avesse fatto l’abitudine ai suoi piccoli gesti affettuosi. Del resto, nonostante avesse un gran rispetto per Enjolras e il suo carattere forte, il ragazzo pelato aveva trovato una certa tenerezza in lui quando si erano conosciuti: Enjolras lo aveva sempre riempito di domande sul suo indirizzo di studi e su quello che sentivano al telegiornale della sera, almeno finché non ne aveva saputo più di lui sull’argomento, e poi il suo totale smarrimento davanti a quel mistero chiamato romanticismo lo aveva sempre incuriosito e intenerito assieme. Bossuet vedeva come ragazze e, qualche rara volta, anche ragazzi guardavano quel suo piccolo amico o gli parlavano con interesse, ma Enjolras sembrava non accorgersene mai: lo sguardo confuso che aveva ogni volta che i suoi amici lo prendevano in giro per aver rimorchiato qualcuno lo faceva sembrare così ingenuo e inesperto, che Bossuet lo vedeva come un fratellino a cui doveva insegnare ancora tantissime cose. Dopo due anni, ai suoi occhi Enjolras era cambiato e cresciuto molto, tanto da ammirarlo per la sua ferma decisione; ma quando vedeva i suoi occhi azzurri spalancarsi per la confusione o l’imbarazzo, rivedeva quel ragazzino spaesato che tanto lo aveva sempre intenerito e non poteva fare a meno di dargli un’arruffata di capelli o un buffetto sulla guancia, esattamente come faceva quando erano più piccoli.

“Sei venuto qui solo per parlarmi di madre natura o c’è qualcosa che devi dirmi?” disse Enjolras appoggiandosi allo schienale della sedia.

“Hai ragione, scusa” disse Bossuet, tornando serio. Poi appoggiò un gomito sul tavolo, mise una mano sullo schienale della sedia di Enjolras e si protese in avanti verso di lui. “Ricordi che la settimana scorsa dicevo di doverti parlare?”

Enjolras fissò per diversi secondi un punto imprecisato, quasi stesse facendo mente locale. “Cazzo!” esclamò sgranando gli occhi. Poi li chiuse con espressione dispiaciuta e tornò a guardare il suo amico, proseguendo: “Me ne ero completamente scordato, scusami!”

“Nah, non preoccuparti!” lo rassicurò Bossuet. “Io ero occupato a tenere d’occhio Joly; tu hai dovuto pensare alle sbronze di Grantaire, al problema di Jehan, alle follie di Courfeyrac, a far da paciere tra lui e Bahorel e mi hai aiutato con le paranoie di Joly, senza contare che vedo che hai pure in ballo qualcosa con Feuilly e che stai aiutando tu Marius ad inserirsi per bene. Non mi sorprende che ti sia dimenticato e non mi è sembrato giusto disturbarti: ci mancavo solo io a darti noie!”

“Ma che noie?” disse Enjolras leggermente sorpreso. “Non è un problema darvi una mano!”

“Beh, ma non potete fare tutto tu e Combeferre: se posso darti meno cose a cui pensare, lo faccio…” disse Bossuet, un po’ esitante. “Solo che stavolta ho davvero bisogno del tuo aiuto…”

Enjolras si fece molto serio: probabilmente aveva capito che c’era in ballo qualcosa di importante. Restò immobile in silenzio per qualche istante, con lo sguardo fisso su Bossuet; poi appoggiò i gomiti sul tavolo, incrociando le braccia, si tirò in avanti e disse: “Dimmi di che si tratta.”

 

“Enjolras, per favore, non correre!” Bossuet iniziò a pensare di aver creato un mostro: Enjolras avanzava spedito verso la scala monumentale, facendosi largo tra la folla di studenti che si stava recando alla mensa.

Per tutto il tempo in cui Bossuet gli aveva spiegato la situazione, il biondo ragazzo non si era nemmeno espresso: aveva ascoltato il racconto fino alla fine con attenzione, mantenendo lo sguardo serio, pieno di quel fervore tendente alla rabbia che da sempre lo caratterizzava. Alla fine del racconto, si era alzato dalla sedia, aveva recuperato le sue cose in silenzio e si era diretto verso l’uscita. Quando Bossuet, confuso dalla sua reazione, gli aveva chiesto dove stesse andando, lui gli aveva risposto lapidariamente: “Da Javert!” Bossuet aveva subito pensato che fosse una follia dirigersi dal professore proprio ora che c’era la pausa, che forse sarebbe stato meglio attendere la fine delle lezioni, ma, nonostante glielo avesse detto durante il tragitto, Enjolras sembrava non aver voluto sentir ragioni. A Bossuet parve che il suo amico avesse in mente solo la sua meta e questa era Javert. Il passo del biondo ragazzo era così spedito che, mentre scivolava tra i ragazzi con una facilità dovuta sicuramente al suo esile fisico, Bossuet temette di averlo perso di vista più volte. Fortuna che portava il solito zainetto rosso sulle spalle, così gli era facile riconoscerlo; inoltre, i suoi capelli erano resi talmente dorati dai raggi del sole che penetravano dal chiostro che gli fu impossibile non notarlo tra la folla. Mentre cercava di passare tra uno studente e l’altro nel tentativo di tenere il passo di Enjolras, Bossuet sentì vibrare il suo telefono dalla tasca del suo cardigan di lana. Lo estrasse e vide che a chiamarlo era Joly.

“Ehi, amore!” rispose sorpreso Bossuet. “Che succede?”

Come ‘che succede’? Dove sei?” chiese Joly preoccupato. “Mi avevi detto che saresti passato per la mia classe: pensavo ti fosse successo qualcosa! Stai bene?

Bossuet ricordò solo in quel momento la promessa che gli aveva fatto quando lo aveva lasciato davanti alla sua aula. “Hai ragione, scusami! È che dovevo parlare con Enjolras, quindi sono corso subito da lui finita la lezione.” Il ragazzo dovette interrompersi per far passare due ragazze che procedevano nel senso di marcia contrario al suo, ma poi riprese quasi subito, mentre cercava Enjolras con lo sguardo: “Me ne sono scordato, mi spiace tantissimo!”

“Non è per quello: mi hai fatto preoccupare!” lo riprese subito Joly. Bossuet si dispiacque di essersi scordato la promessa fatta, non perché ora Joly sembrava sgridarlo: lo conosceva benissimo e sapeva che quella del suo ragazzo non era rabbia, ma solo preoccupazione. Un po’ esagerata, forse, ma sapeva che il suo tono severo era dovuto al suo perenne stato di allarme.

“Lo so, piccolo: scusami!” disse con tono dispiaciuto Bossuet. Si zittì per diversi secondi: non riusciva a pensare a cosa dire a Joly e a seguire Enjolras contemporaneamente e non voleva perdere di vista il biondo ragazzo.

Fu Joly a spezzare il silenzio: “Ma Enjolras è lì con te?

“Davanti a me, per la precisione” spiegò Bossuet. “Stiamo andando da Javert.”

Grantaire sta cercando di contattarlo da un po’: lui sta bene?

“Professore!” Quando sentì la voce alta e furente di Enjolras, Bossuet riportò la sua attenzione a ciò che accadeva davanti ai suoi occhi castani. Finalmente lui e Enjolras avevano lasciato il corridoio del chiostro ed erano entrati nell’ampio atrio in cui saliva lo scalone monumentale. Bossuet vide il biondino accelerare verso i gradini con passo deciso, guardando verso l’alto. Il ragazzo pelato si fermò accanto al muro della piccola anticamera, vicino al punto in cui essa si apriva sull’atrio: da quella posizione vedeva chiaramente Enjolras e, più in alto, il professor Javert che saliva lentamente ed elegantemente l’enorme scalinata, i piccoli occhi chiari assorti in un plico di fogli. Appoggiatosi alla parete, Bossuet dovette prendere un respiro profondo. “Professor Javert!” chiamò nuovamente Enjolras, appoggiandosi all’imponente corrimano in marmo, con il piede destro già posto sul primo gradino, pronto ad inseguire l’insegnante: il tono della sua voce era talmente pervaso di intolleranza e di severità che Bossuet sarebbe potuto rabbrividire se non avesse conosciuto bene quel ragazzo. Del resto, tutti nel gruppo avevano imparato che dietro al visino da angelo di Enjolras si nascondeva un’inflessibilità indescrivibile: troppo spesso i suoi amici lo avevano definito come un bel ragazzo capace di essere terribile[1] e, in quel momento, Enjolras stava dimostrando di meritarsela proprio quella descrizione. Chi non avesse conosciuto questa sua caratteristica, nel sentirlo parlare a quel modo si sarebbe sentito raggelare il sangue nelle vene.

René?”

Bossuet lanciò un sospiro rassegnato, scuotendo la testa. Poi si lasciò scappare una leggera risata tra il compiacimento e l’esasperazione e disse a Joly: “Direi che il nostro difensore degli oppressi oggi è in gran forma!”

“Professore! Ha intenzione di ascoltarmi o no?!” Enjolras iniziava a spazientirsi e Bossuet sentiva che avrebbe dovuto cercare di calmarlo, se non altro per evitargli una punizione.

“Ti richiamo più tardi, piccolo…” disse preoccupato, chiudendo la chiamata. Stava per avanzare verso il suo amico, quando ad un tratto, alle spalle di Enjolras, Bossuet vide apparire un uomo, il quale mise una mano sulla spalla del biondino e gli fece cenno di restare lì: era il professor Valjean.

 


[1] Riferimento al romanzo: Enjolras, alla sua apparizione, viene definito “[…] un simpatico giovane, capace di essere terribile, bello d’una bellezza angelica […]”.

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Capitolo 27
*** Io vado al parco! - Marius ***


Marius

Marius e Jehan entrarono nell’ampio atrio che ospitava lo scalone monumentale a seguito del professor Valjean: Marius era stato a colloquio con l’insegnante durante l’ora buca, perché egli voleva sapere come procedeva il suo inserimento a scuola in queste prime settimane. Avevano parlato a lungo, finché, ad un certo punto, Jehan non era timidamente entrato nella classe del professore per mostrargli un foglio con un piccolo strappo circolare in alto, al centro: sembrava essere stato staccato da una bacheca. Valjean lo aveva letto silenziosamente, dopo di che aveva stretto il volantino nella mano fino a stropicciarlo, si era alzato ed era uscito a passo deciso dall’aula, dicendo ai due ragazzi di seguirlo.

“Javert!” chiamò a gran voce l’insegnante. Nonostante la sua voce fosse calma e pacata come sempre, questa volta tradiva una leggera punta di disappunto. Il professor Javert si arrestò immediatamente come sentì la voce del professor Valjean; Marius lo vide chiudere gli occhi, arrotolare il plico di fogli che teneva in mano e voltarsi verso Valjean, portando le braccia dietro la schiena ed alzando leggermente la testa con una certa fierezza.

“Valjean!” rispose con calma raggelante il professore. Marius non li aveva mai visti a confronto e per un attimo gli sembrò che i loro sguardi celassero una specie di inimicizia l’uno per l’altro: sembrava quasi che non si potessero assolutamente sopportare, ma che entrambi fossero troppo signori per prendersi a parole come avrebbero fatto due rivali qualsiasi. Nel modo in cui i due insegnanti si guardavano si poteva leggere tutta la loro ostilità e i loro occhi seri, carichi di questo sentimento poco nobile, fece correre un brivido lungo la schiena a Marius, che vedeva quei due uomini avvicinarsi lentamente l’uno all’altro, senza distogliere lo sguardo dal viso del rivale. Vederli su quell’immensa scala, in alto rispetto a dove stavano lui e i suoi amici, fece apparire agli occhi di Marius i due professori come dei giganti, come fossero elevati rispetto a qualsiasi altro essere umano. In quel loro scontro fatto solo e unicamente di sguardi silenziosi, c’era qualcosa di incredibile, di sovrannaturale, quasi di epico: il ragazzo lentigginoso osservava attentamente quei due uomini così fieri e combattivi, e non poteva fare a meno di pensare che loro si stessero già confrontando solamente guardandosi negli occhi.

Quando arrivarono a metà scala, i due uomini rimasero a fissarsi in silenzio ancora per qualche secondo. Fu Javert il primo a rompere quel silenzio raggelante: “Posso fare qualcosa?”

Valjean, senza scomporsi e continuando ad osservare l’altro professore dritto negli occhi, aprì il foglio che prima aveva piegato, lo distese per bene e lo pose al vicepreside con grande eleganza, chiedendo semplicemente: “Che significa?”

Javert prese il foglio in mano senza distogliere lo sguardo da Valjean. Dopo qualche istante, diede un’occhiata veloce al suo contenuto, sotto gli occhi vigili del suo collega, e, infine, riprese a guardare Valjean porgendogli indietro il volantino e disse, inespressivamente: “Quello che c’è scritto, Valjean.” Fu così che cadde di nuovo il silenzio.

Marius, concentrato sulla scena, sentì una mano appoggiarsi dolcemente sulla sua spalla e si girò di scatto alla sua destra da dove essa proveniva: Bossuet si era avvicinato a lui e gli faceva cenno di spostarsi da lì. Marius e Jehan si allontanarono dai gradini della scala, ma quando il ragazzo pelato andò a chiamare Enjolras, il ragazzo dagli occhi verdi vide che il suo compagno di classe non aveva intenzione di andarsene da lì: sembrava fosse troppo interessato alla faccenda per pensare di andare via e, nei suoi grandi occhi azzurri, Marius riuscì a riconoscere quel fervore che gli aveva visto solo una volta da quando lo aveva incontrato, ovvero la sera in cui lo aveva conosciuto.

Ad un certo punto, un rumore cartaceo riportò l’attenzione di Marius a ciò che stava accadendo sulla scalinata: Valjean aveva ripreso in mano il foglio portatogli da Jehan e si accingeva a leggerlo. “ ‘Si comunica che, a causa di problemi organizzativi, tutte le attività extrascolastiche di quest’anno scolastico saranno cancellate.’ ” citò il professore di filosofia dal volantino. “Problemi organizzativi? E di che genere?” chiese a Javert mettendo il volantino nella tasca dei pantaloni scuri.

Javert si lasciò scappare un leggerissimo riso, poi tornò a guardare Valjean negli occhi e disse: “Se si fosse presentato all’ultimo consiglio lo saprebbe.”

Marius lesse qualcosa di simile allo sdegno mischiato allo stupore negli occhi di Valjean, ma comunque il professore cercò in ogni modo di non scomporsi. “Mia figlia è stata male: dovevo portarla immediatamente dal medico” spiegò con una leggera punta di fastidio nella voce, “e lei lo sa benissimo.”

“Lei non è sua figlia” rispose immediatamente Javert, senza lasciar passare neanche un secondo tra le parole di Valjean e le sue.

“Non è una questione che dobbiamo discutere qui” fu la risposta che Valjean diede a Javert con la stessa velocità che il suo collega aveva avuto prima di lui. Marius notò che Javert sembrò esitante per un attimo.

Non passò molto tempo, tuttavia, prima che disse con eleganza, ma pur sempre con una certa rigidità: “Su questo ha ragione, riconosco il mio torto. Resta pur sempre il fatto che la sua presenza era richiesta.”

“Perché non me lo spiega ora e non la facciamo finita?” Il professor Valjean stava iniziando a spazientirsi, Marius lo vedeva chiaramente. Per tutte le volte in cui il ragazzo lo aveva incontrato, Javert aveva perso leggermente la calma soltanto parlando con Enjolras quando aveva fatto ritardo. Anche in questo caso, il professore di diritto non deluse le aspettative del giovane studente, il quale credeva di essersi fatto un’idea molto precisa di quell’individuo austero e severo. Il professor Valjean, invece, gli era sembrato molto più alla mano e più espansivo, ma mai si sarebbe aspettato di vederlo perdere il controllo, nemmeno di poco come aveva appena fatto.

Javert stette in silenzio ancora: il suo sguardo iniziava a caricarsi di impazienza, ma si vedeva che tentava in ogni modo di non perdere la calma. “Non ci sono abbastanza fondi per pagare il mantenimento di tutti i laboratori e gli esperti esterni all’istituto che dovrebbero tenerli” spiegò quanto più pazientemente poteva. “I soldi che abbiamo servono a rifornire la biblioteca con testi più adeguati e a restaurare alcune aule che necessitano di urgente manutenzione. Inoltre non abbiamo abbastanza personale che tenga aperta la scuola fino a quegli orari, perciò non si può fare altrimenti.” Seguì un’altra pausa, durante la quale a Valjean scappò un accenno di risata molto nervosa, che fece irritare Javert.

“Tutto questo è assurdo! Lei non…”

“Io devo fare ciò che è più giusto per questa scuola e i suoi studenti, Valjean!” lo interruppe bruscamente il vicepreside. “Se per fare questo devo cancellare delle attività inutili alla formazione degli studenti, ebbene sia!”

Valjean sembrò molto infastidito dall’essere stato interrotto. Tornò immediatamente serio e cercò di contenersi quanto più poteva, ciò era evidente anche a Marius, che lo conosceva ancora così poco. “Ma gli studenti hanno bisogno anche di crediti extrascolastici” spiegò Valjean. “Molti vengono da fuori e non hanno il tempo o la possibilità di spostarsi altrove per seguire altre attività.”

Ad un certo punto, Marius sentì dei passi avvicinarsi alla sua destra e, voltandosi, vide che il resto del gruppo, a seguito di Joly, stava entrando nell’atrio in cui si trovavano loro. Bossuet si voltò a guardare il suo ragazzo, il quale, mettendogli una mano sulla spalla, guardò subito a metà delle scale per capire cosa stesse accadendo. Dietro Bahorel, sbucò immediatamente Grantaire: il ragazzo dai capelli neri guardò prima i due professori e poi, vedendo Enjolras, sembrò volerlo raggiungere; tuttavia parve bloccarsi quando Combeferre si fece largo nel gruppo e raggiunse il suo compagno di stanza, seguito da Courfeyrac, che però si fermò a metà strada, poco più avanti di Marius.

“Io devo fare ciò che è più giusto per questo istituto” disse ad alta voce Javert, portando l’attenzione di tutti i ragazzi su di sé.

“I nostri ragazzi fanno parte di questo istituto, Javert!” gli fece notare Valjean. “Non ti importa ciò che è giusto per loro?”

“Pensa di poter far loro da portavoce con me?”

“Penso sia ridicolo che lei creda davvero di non poter trovare una soluzione a una cosa tanto stupida! Fauchelevent abita a pochi passi da questo edificio: cosa vuole che cambi per lui chiudere la scuola un po’ dopo?” Il professore di filosofia iniziava a mostrarsi chiaramente agitato e innervosito dalla discussione e gli ampi gesti che fece con le braccia ne furono la prova. Al contrario, il vicepreside rimase impassibile, composto e immobile come lo era all’inizio di quel confronto.

“Non posso assolutamente chiedere a monsieur Fauchelevent di tenere aperto per un suo capriccio, Valjean” disse Javert senza muoversi.

“Un mio capriccio?! AH!” si lasciò sfuggire il professor Valjean ironico e infastidito insieme. “Non è un mio capriccio, Javert! E se ne renderà conto quando gli studenti verranno a lamentarsi da lei personalmente!” aggiunse con serietà, puntando un indice minaccioso verso l’altro insegnante.

Javert non distolse lo sguardo. Si limitò ad un riso di sfida e a rispondere: “Crede sempre di essere dalla parte degli studenti, non è vero? Loro vengono a chiederle spiegazioni e lei si schiera immediatamente dalla loro parte senza conoscere del tutto le circostanze.” Detto ciò, Javert si avvicinò a Valjean, il quale sembrò sentirsi costretto ad abbassare l’indice, e poi proseguì: “Questa è la mia decisione, Valjean, e non è nella posizione di poterla modificare, perciò si dia pace!”

Come Javert finì di parlare, Valjean sembrò sentirsi inferiore a lui. Per prima cosa abbassò gli occhi, interrompendo per la prima volta durante quel confronto il loro contatto visivo, poi sul suo volto si dipinse un sorriso amaro e scese di un gradino, senza più guardare negli occhi il vicepreside, che dall’alto della sua posizione continuava a fissare Valjean a testa alta. Il professore di filosofia scese lentamente le scale, sotto lo sguardo vigile di Javert, e, quando i suoi occhi incrociarono quelli di Enjolras, gli mise nuovamente una mano sulla spalla e si allontanò. Marius lo vide uscire dall’atrio quasi abbattuto per non essere riuscito a far cambiare idea a Javert. Poi la sua attenzione venne richiamata nuovamente sul vicepreside dal suono della sua voce: “Andate pure in mensa, voi. Gradirei la vostra puntualità in aula, soprattutto quella dei miei studenti… monsieur Enjolras!”

Enjolras, che aveva osservato anche lui il professor Valjean abbandonare l’atrio, da quella frase sembrò ridestarsi. “Professore…” iniziò con educata decisione. Javert, tuttavia, si voltò e riprese a salire le scale. Marius vide l’espressione di Enjolras cambiare dal dispiacere alla rabbia più nera e, accanto a lui, il volto di Combeferre divenne preoccupato.

“Enjolras, no!” disse subito il ragazzo dai capelli biondo rame, prendendo il braccio del suo amico. Enjolras si liberò immediatamente da quella presa e corse su per le scale, mentre tutti gli altri ragazzi cercavano di fermarlo chiamandolo dal piano terra. Marius non riusciva a parlare: tra la discussione appena finita e gli occhi irati di Enjolras non sapeva più se credere a ciò che stava vedendo o no.

Il biondo ragazzo arrivò in cima alle scale, superando il professor Javert e sbarrandogli la strada. “Monsieur Enjolras” cominciò con calma Javert, “Mi sembrava di averle detto di…”

“No, finché non mi avrà ascoltato!” lo interruppe con violenza Enjolras.

Marius lo guardava con occhi pieni di paura e di stupore. Poi sentì arrivare qualcuno dietro di sé che gli mise una pesante mano sulla spalla: Bahorel si era avvicinato a lui e guardava Enjolras con espressione compiaciuta, forse anche un po’ divertita. Poi si voltò verso Marius e gli sussurrò: “Guardalo all’opera! Questo temperamento è ciò che stimo di più in quel marmocchio!”

“Non è giusto cancellare le attività extrascolastiche così!” disse Enjolras con grande decisione. “Dev’esserci un modo per evitarlo, il professor Valjean ha ragione!” Javert rimase a guardarlo in silenzio, ma Marius non capiva se con stupore, sdegno o solo curiosità: forse tutti e tre. Enjolras sembrò approfittare del silenzio per proseguire: “Non le permetterò di fare una cosa così ingiusta!”

“Cazzo…” si sentì scappare a Combeferre: Marius notò che doveva essere davvero preoccupato per la situazione orrenda in cui Enjolras si stava cacciando; nemmeno a lui doveva essere sfuggito lo sguardo glaciale e adirato con cui Javert aveva guardato il biondino.

Gli altri ragazzi, invece, sembravano tutti ammaliati ed entusiasti dell’iniziativa del loro leader e i loro sguardi erano pieni di ammirazione, eccezione fatta per Grantaire, che scuoteva la testa ad occhi chiusi assieme ad un sorriso amaro ed esasperato assieme.

“Lei non me lo permetterà?” chiese il vicepreside in preda all’ira. “Le dico io che cosa farà, monsieur Enjolras: lei andrà immediatamente in mensa assieme ai suoi compagni ed eviterà di toccare questo argomento fino alla fine dell’anno!”

“Altrimenti?” Nelle parole di Enjolras non c’era esitazione, né paura: il biondo ragazzo stava in cima alla scalinata, un gradino sopra Javert, e lo guardava dritto negli occhi con la stessa decisione che Valjean aveva avuto prima di lui.

“Altrimenti alla fine delle lezioni verrà in vicepresidenza e ricopierà per me alcune pagine di un manoscritto che devo riportare in digitale” illustrò severamente il professor Javert al suo studente. Enjolras non si scompose, allora Javert si avvicinò al suo viso e terminò: “E lo farà ogni pomeriggio finché non avrà ricopiato tutte le cinquecento pagine.”

Vedendo che Enjolras sembrava non demordere, Grantaire avanzò verso la scala e disse ad alta voce: “Ok, piccolo: basta così! Metti da parte il tuo orgoglio e salvati il culo!” Enjolras non distolse lo sguardo dal vicepreside neanche per un attimo, ma Marius era certo che avesse sentito la voce di Grantaire, perché per un attimo aveva girato leggermente la testa verso di lui, seppure senza muovere gli occhi. Grantaire insistette: “Rifletti: a cosa ti porta fare così? Smettila finché sei in tempo e vieni via!”

Il professor Javert, che in tutto ciò non aveva spostato neanche per un secondo gli occhi da Enjolras, disse al ragazzo: “Seppure non avrei usato gli stessi termini, forse monsieur Grantaire ha ragione, monsieur Enjolras: cerchi di evitare il peggio, finché è in tempo; non ho intenzione di continuare a lasciargliela passare liscia! Se continuerà con questa arroganza, potrebbe mettersi peggio per lei.”

A quel punto, vedendo che Enjolras non sembrava intenzionato a muoversi, Combeferre avanzò di qualche gradino ai piedi della scala e disse ad alta voce: “Enjolras! Lascia parlare il tuo buonsenso. Vieni… ti prego!” Al sentire la sua voce, Enjolras guardò verso di lui e poi passò uno ad uno gli sguardi di tutti gli altri: la minaccia di Javert li aveva messi tutti in uno stato di allarme, questo a Marius parve evidente. Era sicuro che se si fossero trovati al suo posto, nessuno di loro si sarebbe mosso; tuttavia, nel capire che stava finendo in guai seri, tutti loro furono d’accordo sul fatto che fosse meglio finirla lì: non volevano che si facesse punire per una tale stupidaggine. Questo pensiero fu chiaro a Marius quando Combeferre riprese la parola. “Enjolras” chiamò l’attenzione del biondino su di sé. “Restare lì adesso… a questo modo… non servirà!” I due si guardarono per un po’: Marius oramai aveva imparato che quando facevano così era perché in qualche modo si stavano dicendo qualcosa. Il marcare le parole ‘a questo modo’ di Combeferre lo aveva insospettito… che avesse in mente qualcosa? E che Enjolras lo avesse capito? Probabilmente sì, perché sospirò rassegnato, facendo segno di sì con la testa al suo compagno di stanza e, lanciando un’ultima occhiata glaciale a Javert, lo salutò con un cenno della testa, fingendo quanto più rispetto poteva, e scese le scale.      

Javert lo guardò scendere e poi, quando Enjolras fu accanto a Combeferre, gli disse: “Voglio comunque vederla in vicepresidenza al termine delle lezioni, monsieur Enjolras.”

Enjolras alzò lo sguardo immediatamente, un po’ sorpreso e un po’ irritato, stringendo nervosamente il pugno in uno morsa che doveva fare un male incredibile. Si costrinse a stare calmo e, preso un respiro profondo col naso, disse: “Quel che giusto è giusto.” Il professore se ne stava andando e Combeferre sembrò riprendere fiato: quella situazione doveva averlo stressato, sfinito. “Ma…” disse ad alta voce Enjolras, riportando tutti all’allerta e richiamando l’attenzione di Javert, “non mi pentirò di ciò che ho detto. Di averle mancato di rispetto sì, ma delle mie parole no: mai!” Il professor Javert non cambiò espressione: si limitò ad osservare il ragazzo in silenzio, fisso, per poi fare un cordiale cenno di saluto con la testa, quasi come avesse nobilmente preso atto dell’affermazione di Enjolras. Solo quando se ne fu andato, Combeferre riprese a respirare normalmente.

Ci fu un momento in cui Marius rimase scosso da quanto appena accaduto. Il suo sguardo era fisso sulla scala, poi, senza che se ne accorgesse, lo abbassò ad un punto imprecisato della sala. Sentiva le voci dei suoi amici, li aveva percepiti sorpassarlo per andare incontro ad Enjolras e Combeferre, ma non riusciva ad ascoltare le loro parole, né a rendersi effettivamente conto di dove si trovassero con esattezza. Il ragazzo dagli occhi verdi riusciva solo a pensare a quanto era appena accaduto: l’inaspettato confronto tra i due professori lo aveva lasciato come svuotato per la confusione. Quell’inspiegabile astio, tutta la carica d’ostilità nei loro sguardi, la nobiltà con cui si erano parlati… era stato lo scontro verbale più insolito e al tempo stesso più epico a cui aveva mai assistito. I due insegnanti gli avevano dato l’impressione di serbare rancore l’uno verso l’altro, un’inimicizia che probabilmente durava da molto tempo, celata sotto un’apparente cortesia. Come se non bastasse, non riusciva a smettere di pensare allo scontro verbale che il professor Javert aveva avuto con Enjolras: gli altri ragazzi del gruppo gli avevano descritto da subito quanto potesse infervorarsi il loro leader se punto sul vivo, ma mai avrebbe creduto che potesse arrivare fino a prendere posizione a quel modo contro Javert.

Ancora non riusciva a credere a ciò che era appena accaduto, quando qualcuno lo prese per le spalle e lo scosse, chiamando: “Marius, ehi!” Marius sgranò i grandi occhi verdi e vide Courfeyrac davanti a lui. Si guardò attorno confuso e vide che gli altri ragazzi, dietro Courfeyrac, lo stavano fissando un po’ preoccupati, tranne Grantaire e Enjolras, che, ai piedi della scala, sembravano discutere a bassa voce sotto lo sguardo vigile di Combeferre.

“Va tutto bene?” gli chiese Jehan un po’ esitante, avvicinandosi a lui.

“Sì… sì, credo…” disse Marius guardando il minuto ragazzino senza realizzare cosa stesse accadendo.

“Sembravi in trance, amico!” gli disse Bossuet avvicinandosi a lui con Joly aggrappatogli al braccio. “Sicuro che sia tutto a posto?”

“S-sì, è che… è che non mi aspettavo che…” iniziò Marius, riportando lo sguardo in cima delle scale. Gli altri ragazzi gli furono attorno e i loro sguardi mostravano tutta la loro comprensione.

“Ti capisco…” disse Jehan a voce bassa. “La prima volta che ho visto Enjolras reagire così avevo la stessa tua espressione…”

“Per non parlare di ‘la-legge-sono-io’ e il professor Valjean!” aggiunse Courfeyrac, facendo un cenno con la testa in direzione della scala. “Che io ricordi hanno sempre discusso, ma nessuno sa spiegarne il motivo. Divergenze ideologiche, forse.”

“Nessuno reagisce così solo per qualche differenza di opinione” disse Joly. “Dubito che derivi solo da lì il loro astio…”

“Perché non lo dovrei fare, secondo te?!” disse Enjolras ad alta voce, richiamando gli sguardi di tutto il gruppo involontariamente. Stava sul secondo gradino della scala, accanto a Combeferre. “Questa scelta non è giusta per nessuno! Crede sempre di essere dalla parte della ragione, ma la verità è che così facendo creerà il malcontento generale di tutti gli studenti! Dobbiamo approfittare di questo!”

“Enjolras, lascia stare!” gli rispose Grantaire, in piedi due gradini sotto di lui. “È una cosa che non dipende da te e da cui tu, tra l’altro, non guadagnerai nulla, se non una lunga punizione! O peggio! Potresti essere sospeso o addirittura espulso!”

Enjolras distolse lo sguardo da lui, sospirando, portando le mani sui fianchi. Guardò verso il soffitto per un attimo scuotendo la testa e poi riprese, tornando con gli occhi su Grantaire: “Correrò il rischio, ma non starò con le mani in mano! È la cosa più giusta da fare e la farò!”

“Di che state parlando, voi due?” chiese Bahorel. I due ragazzi, però, parvero non udirlo.

“Questa non è una guerra, Enjolras!” disse Grantaire, sporgendosi verso di lui. Non sembrava arrabbiato, ma piuttosto esasperato. “Non si tratta di ribellarsi a un regime totalitario o di scatenare una rivoluzione in favore degli oppressi! Sono solo delle stupide attività extrascolastiche a cui tu, oltretutto, non hai mai preso parte!”

“E con questo?!” gli rispose immediatamente Enjolras. Tanto Grantaire manteneva il controllo, quanto Enjolras si lasciava trasportare dal suo fervore: Marius non lo avrebbe definito arrabbiato… forse solo spazientito, un po’ infastidito. Non era la prima volta che Grantaire e Enjolras discutevano davanti a lui, ma quelle dispute tutte assieme lo stavano mettendo un po’ a disagio. Marius non era abituato a tutte queste arrabbiature: lui era sempre stato un ragazzo molto tranquillo e non riusciva a sopportare molto bene quell’ansia che queste continue discussioni gli stavano facendo venire. “Solo perché non mi riguarda da vicino, non significa che io debba starmene immobile!” riprese Enjolras. “Io porterò avanti le mie idee, dovessi farlo da solo!”

“Non ti incaponire! Questa cosa scatenerà sicuramente lamentele e dispiaceri all’inizio, ma cadrà nel dimenticatoio molto presto, vedrai!”

“Forse te ne scorderai tu, a cui non importa nulla di tutta questa storia, ma chiedi a Jehan se gli farà piacere, ogni martedì, rendersi conto che non si troverà con il gruppo di lettura dopo le lezioni. O chiedi a Courfeyrac se è contento di non poter più fare teatro! Grantaire: esci dal tuo ego e ragiona!”

Grantaire sembrò essere disarmato da questa frase e anche Marius lo fu: non aveva mai visto Enjolras lasciarsi trasportare fino al punto di essere tanto brusco e, dallo sguardo che aveva, Marius fu certo che non avesse ancora finito. “Non mi farò fermare da te, sapendo quanto poco ti importa di intervenire se i tuoi interessi non sono in ballo. Io credo che Combeferre abbia avuto una buona idea e la porterò avanti! Se sei con noi bene, altrimenti fatti da parte e lasciami lavorare!”

“Possiamo sapere di che parlate?” chiese Courfeyrac avvicinandosi a loro. Enjolras si voltò e passò gli occhi azzurri su tutti i suoi amici uno per volta, serio come sempre, ma più calmo rispetto a prima. Poi lanciò un’occhiata a Combeferre e il ragazzo dai capelli biondo rame gli sorrise e gli fece un cenno col braccio verso gli altri, come se gli avesse fatto segno di illustrare lui il piano d’azione.

Enjolras rispose al suo sorriso, poi si girò verso gli altri, salì di un altro gradino, e disse a voce alta: “Valjean ha ragione: questa scelta di Javert alzerà le lamentele di tutti gli studenti, non solo le nostre. Cogliamo la palla al balzo: facciamo sapere al resto della scuola quello che sta accadendo prima che si sparga la voce, cerchiamo di portare dalla nostra quanti più studenti possibile e andiamo contro Javert tutti assieme. Facciamogli capire quanto questo conta per la scuola! Facciamogli sentire le nostre voci!”

“Intendi dire…” prese la parola Bahorel, avanzando verso di lui già elettrizzato, “che scateneremo un bel casotto dei tuoi?” Un bel casotto dei suoi? Di che stava parlando Bahorel? Marius non riusciva a seguire più il filo del discorso. Attorno a lui, gli altri parvero sapere esattamente di cosa stava parlando e sembrarono entusiasmarsi. Enjolras aveva un sorriso convinto sul volto mentre guardava il compiacimento dipinto sul viso di Bahorel; poi passò nuovamente lo sguardo su tutti gli altri, Combeferre per ultimo, e, tornando a guardare Bahorel, fece un cenno di sì con la testa.

“Prepariamoci a una manifestazione in grande stile. Siete con me?”

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Capitolo 28
*** Io vado al parco! - Combeferre ***


Combeferre

“Conosco quella faccia: per cosa manifesteremo, stavolta?” Nemmeno avevano fatto a tempo a dirgli ‘Ciao’ che Feuilly, arrivando con il suo vassoio al tavolo a cui erano seduti gli altri ragazzi, aveva guardato Enjolras negli occhi, si era fermato immediatamente davanti a loro e aveva pronunciato queste parole. Combeferre se lo aspettava: lo sguardo del biondo leader era ancora così pieno di fervore che Feuilly non avrebbe potuto non percepirlo.

“Chi ti dice che abbia in programma una manifestazione?” gli chiese Enjolras guardando il ragazzo avvicinarsi. Joly spostò lo zaino e lasciò libero il posto che avevano tenuto apposta per Feuilly.

“Dunque, vediamo…” iniziò Feuilly alzando lo sguardo verso il soffitto e portandosi una mano al viso, caricaturando un pensatore. Si tastò il mento con le dita e poi constatò: “Eri sull’attenti come se stessi giusto aspettando il mio arrivo, torturando con la forchetta quella povera quiche; avete tenuto per me proprio il posto al centro davanti a te, nonostante sarebbe stato più comodo farmi sedere a lato…” Feuilly si interruppe, poi abbassò lo sguardo verso Enjolras, sorrise e indicandolo con l’indice, terminò: “…e conosco troppo bene quello sguardo per non capire che stai pianificando qualcosa.” Combeferre si voltò e vide che Enjolras stava rispondendo con un sorriso compiaciuto sul viso. “Quindi, ti ripongo la mia domanda:” riprese Feuilly sedendosi tra Joly e Bahorel, “per cosa vuoi manifestare questa volta?”

Enjolras gli porse il volantino contenente la notizia della cancellazione delle attività extrascolastiche: lui e Combeferre lo avevano trovato appeso alla bacheca del primo piano e lo avevano staccato perché gli altri studenti ancora non lo leggessero. Per lo stesso motivo, prima di trovarsi per pranzo, gli altri ragazzi erano corsi in giro per la scuola a cercare eventuali copie e le avevano rimosse tutte: l’unica copia che loro non avevano sequestrato era rimasta quella in mano al professor Valjean, ma Combeferre era sicuro che l’insegnante l’avrebbe gettata. Feuilly lesse il foglio, apparentemente con molta attenzione, e sembrò quasi rimanere senza parole.

“Dunque qual è il piano?” chiese Feuilly ad Enjolras, restituendogli il foglio.

“Come dicevo a Combeferre e Courfeyrac,” cominciò il giovane leader mettendosi in tasca il foglio, “stavo pensando che dovremmo fare un volantino sulla manifestazione e sul motivo per cui la faremo.”

“Aspetta un attimo!” lo interruppe confuso Bahorel. “Perché ci hai fatto togliere tutti i volantini, allora?”

“Perché dobbiamo fare in modo che gli studenti non vadano a lamentarsi con Javert o con il preside come abbiamo fatto noi” rispose tranquillamente Combeferre. “Se lo facessero non otterremmo l’effetto voluto.”

“L-l’effetto?” chiese Jehan ancora più confuso di quanto non fosse Bahorel prima di lui, voltandosi alla sua destra dov’era seduto Combeferre. “Che cosa intendi?”

Stavolta fu Courfeyrac a prendere la parola: “Pensaci: se gli studenti andassero da Javert a poco a poco lui farebbe in tempo a capire che qualcosa non va e a pensare a come calmare le acque.”

“Noi, invece, non dobbiamo dargli questa possibilità” proseguì Combeferre.

“Dobbiamo lasciare che pensi che vada tutto bene per poi coglierlo di sorpresa tutti assieme” terminò Enjolras. “Oggi gli abbiamo dato un avvertimento, ma la vera azione arriverà quando meno se lo aspetta.”

“Proprio come il rombo del tuono dopo il bagliore del fulmine!” disse Courfeyrac esaltato. Poi balzò in piedi e gridò, alzando le braccia: “BOOM!”

“Esatto: boom!” gli diede corda Enjolras. Combeferre notò che gli altri ragazzi sembravano sorpresi che Enjolras si fosse fatto trascinare da Courfeyrac, mentre lui se lo aspettava: il suo biondo amico doveva essere davvero su di giri, quindi non gli parve affatto strano che si lasciasse andare così.

“Mi sembra che abbia un senso” disse Bossuet appoggiandosi allo schienale e portando un braccio su quello della sedia di Joly. “Dopo come ci muoviamo?”

Enjolras si poggiò allo schienale e incrociò le braccia. “Del volantino che prepareremo dovremo fare solo poche copie e non le appenderemo in giro per la scuola. Dovremo usarle più come una specie di passaparola, da lasciare agli altri studenti in modo che se li passino di classe in classe. Se li appendessimo in giro, rischieremmo che Javert o gli altri professori li vedano.”

“Il nostro compito, quindi, è solo portarli alla nostra classe e lasciare che gli altri facciano il resto?” chiese Bahorel deluso. “Hai avuto idee più esaltanti!”

“Non ti preoccupare!” disse Enjolras. “Avrai tutto il tempo per far casino il giorno in cui ci apposteremo fuori da scuola a manifestare!” Combeferre guardò il viso di Bahorel: non gli parve che il ragazzone fosse convinto del tutto, ma forse un po’ più rassicurato rispetto a prima sì. “Inoltre cercheremo di venire la mattina presto, in modo da essere certi che tutti i ragazzi della scuola siano al corrente della nostra iniziativa e per renderci effettivamente conto su quanta gente possiamo contare.”

“Dobbiamo approfittare dei momenti in cui Javert non può riprenderci, giusto?” chiese Jehan sporgendosi in avanti sul tavolo per poter vedere Enjolras.

“Esatto, Jehan” gli rispose Enjolras con un sorriso. “E qui entri in gioco tu” disse a Feuilly, appoggiandosi coi gomiti al tavolo e indicandolo.

“Io?”

“Tu controlli sempre il portone d’ingresso” gli spiegò Enjolras tirandosi ancora più in avanti. “Dovresti farci da palo, informarci se arriva qualche professore o monsieur Fauchelevent in modo da non farci scoprire.” Feuilly sembrò esitante per un attimo, allora Enjolras allungò una mano sulla sua e aggiunse, guardandolo dritto negli occhi: “Non voglio mettere a rischio il tuo posto di lavoro, perciò sentiti pure libero di rifiutare.”

Feuilly restò a guardarlo per un po’, poi sorrise e disse: “Non ci saranno problemi… signore!”

Enjolras sorrise e si allontanò, rivolgendosi anche agli altri. “Voi che dite?” chiese guardandoli uno ad uno.

“Io ci sto!” disse per primo Jehan, senza esitazione. Nessuna sorpresa: quel minuto ragazzo possedeva più ardore e coraggio di quanto si potesse immaginare guardandolo, Combeferre lo sapeva bene, oramai.

“A me non devi neanche chiederlo!” disse Bahorel. “È ovvio che ci stia!”

“Ti ho seguito in guai peggiori” cominciò Bossuet. “Io ci sto!”

Joly sembrò rifletterci un attimo, poi abbassò lo sguardo e disse: “Bossuet ha ragione: abbiamo fatto di peggio. Conta pure su di me!”

“E tu che dici, Marius?” gli chiese Courfeyrac. Gli occhi verdi del ragazzo si spalancarono per lo stupore di essere stato interpellato. “Capisco che probabilmente non te lo aspettavi da noi, specie da quel finto angioletto biondo lì” disse indicando Enjolras, facendo sì che al biondino sfuggisse un risolino. “Ma noi siamo fatti così: se qualcosa non ci sta bene vogliamo farci sentire.”

“Non sei costretto a farlo” gli disse subito Combeferre sporgendosi in avanti per poterlo vedere. “È il tuo primo anno e sei nella classe di Javert: ti capiremo se non te la sentirai di partecipare.”

Marius distolse lo sguardo e sembrò riflettere. Dopo qualche istante, si sporse in avanti per guardare Enjolras oltre Courfeyrac e gli chiese: “Lo fai per fare la cosa giusta, non è vero?”

“Lo faccio per difendere delle attività che sono nostre di diritto” spiegò Enjolras.

Marius gli sorrise, fece cenno di sì con la testa e poi disse: “Allora sono dei vostri!”

Combeferre si girò istintivamente a guardare Grantaire: era l’unico a non essersi espresso e sembrava triste, stando lì seduto con sguardo mesto a tartassare la sua quiche con la forchetta. “E tu?” gli chiese Bahorel. “Ci abbandonerai anche stavolta?”

Grantaire non alzò nemmeno lo sguardo: fece spallucce, scosse leggermente la testa e disse: “Lo sai che per me questo genere di cose serve a poco: se uno ha le sue idee e non vuole ascoltare c’è poco da fare!”

“Perché non provarci, scusa?!” gli chiese subito Enjolras, visibilmente irritato dal suo cinismo. Combeferre si aspettava che reagisse così: non era la prima volta che lo faceva e certamente non sarebbe stata l’ultima. Da circa un anno Enjolras e Grantaire passavano molto tempo a discutere: c’era sempre qualcosa su cui erano in disaccordo, soprattutto su questioni ideologiche. A Combeferre dispiacque ammetterlo, ma oramai ci aveva fatto l’abitudine e non se ne sorprendeva più. “Arrendersi prima ancora di averci provato non ci porterà comunque da nessuna parte!” aggiunse il biondo leader del gruppo.

“Rischiare di farti cacciar via per niente è da sciocchi!” Questa volta, Grantaire aveva alzato gli occhi dal suo piatto e anche il tono della voce. “Ti farai espellere solo perché sei troppo testardo per accettare il fatto che è inutile!”

“È inutile solo se non ci provi!”

“Perché devi essere così dannatamente orgoglioso?!” disse Grantaire lanciando la forchetta nel piatto. “Perché non ammetti che puoi sbagliarti?! Che non puoi fare tutto?!”

Combeferre notò che attorno a loro, gli altri membri del gruppo sembravano leggermente imbarazzati dalla scena, e come biasimarli? C’era una tale tensione che si sarebbe potuta tagliare con un coltello. “Ragazzi…” tentò di fermarli il ragazzo dai capelli biondo rame. Sapeva già che non si sarebbero calmati, ma volle provarci comunque, se non altro per evitare che arrivassero al punto di dire cose di cui poi si sarebbero sicuramente pentiti. “Non mi sembra il caso di…”

“E tu perché devi essere sempre tanto cinico?!” disse Enjolras alzandosi in piedi e sbattendo le mani sul tavolo, appoggiandovisi. “Accidenti a te, Grantaire! Perché non provi a credere in qualcosa, ogni tanto, invece che cercare sempre di demolire le speranze altrui?!”

“Smettila di fare la parte dell’ingenuo, Enjolras!” controbatté Grantaire, alzandosi a sua volta e sporgendosi verso di lui. “Sei molto più sveglio di così! Apri gli occhi e piantala di sognare!”

“Non sono sogni: sono speranze!” ripeté Enjolras sottolineando la cosa. “Se sperare di poter far la differenza anche solo nelle piccole cose è un crimine, allora fammi sbattere in galera, perché non smetterò mai di farlo!” Combeferre sentì un leggero risolino e spostò subito lo sguardo verso il punto da cui lo aveva sentito: Bahorel aveva il braccio appoggiato allo schienale della sedia e stava guardando Enjolras con occhi orgogliosi. D’istinto, passò lo sguardo su tutti gli altri ragazzi e notò che anche loro sembravano compiaciuti di sentire il loro leader pronunciare quelle parole, anche se Marius sembrava ancora un po’ stordito da quella discussione: del resto, era la prima volta che Enjolras e Grantaire discutevano davanti a lui, senza contare che era già il terzo confronto a cui assisteva quel giorno. In cuor suo, anche Combeferre dovette ammettere di essere fiero dei nobili sentimenti di Enjolras, seppure un po’ preoccupato che si potesse cacciare in guai troppo seri: condivideva la causa, ma, non trattandosi di una questione di vita o di morte, pensava che fosse meglio agire comunque con una certa prudenza. Non poteva certo lamentarsi ora visto che l’idea di organizzare una manifestazione era stata sua: se avessero fallito, sicuramente Javert non avrebbe potuto espellere l’intera scuola, quindi con tutta probabilità la punizione sarebbe stata più lieve.

“Ti stai illudendo, Enjolras: è ben diversa la questione!” disse Grantaire scandendo bene le parole, riportando l’attenzione di Combeferre su di sé. Il ragazzo era sicuro di non avergli mai sentito usare un tono tanto severo: eppure c’era qualcosa di più che traspariva dalla sua voce, come se con quel discorso Grantaire stesse cercando si proteggere Enjolras, e questo al ragazzo dai capelli biondo rame non sfuggì. “Non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire! Chiamala tranquillamente frase fatta, se vuoi, e urlami pure in faccia che non so elaborare un pensiero mio! Ma è così! JAVERT è così… e tu lo sai: lo sai meglio di chiunque altro!”

Enjolras rimase a fissarlo in silenzio per qualche secondo e Combeferre per un attimo sperò… o meglio, si illuse che il suo amico stesse cercando di ragionare e di calmarsi. Il biondino, come si aspettava, deluse del tutto le sue illusioni. Si sporse ancora di più verso Grantaire, lo guardò con occhi pieni di glaciale severità e disse, abbassando il tono della voce: “Tu credi di sapere sempre tutto, vero? Credi di poter venire qui a dirmi cosa devo o non devo fare perché sei convinto di conoscermi alla perfezione. Beh, indovina, Grantaire: tu non mi conosci per niente. L’unico a illudersi qui sei tu, che pensi di essere in una posizione tale per me da potermi davvero fermare.” Seguì un breve silenzio, nel quale Combeferre appoggiò il viso sulle nocche della sua mano lasciandosi sfuggire un sospiro: come aveva previsto, eccoli arrivati al punto in cui si dicono cose di ci si pente. Quando Enjolras e Grantaire litigavano per qualcosa che per il biondino era importante arrivavano sempre a non ragionare più: era così ogni volta. Poi, Combeferre alzò subito lo sguardo verso Grantaire: sembrava che le parole di Enjolras non lo avessero nemmeno scalfito, ma si riusciva a percepire che, in realtà, quella frase lo aveva ferito parecchio. “Io andrò fino in fondo a questa storia” riprese Enjolras, recuperando il suo zaino, “che a te piaccia oppure no: me ne frego.” Pronunciate questo parole, il biondo ragazzo se ne andò senza aggiungere altro.

Tutti lo guardarono andare via, ma non Combeferre: lui rimase in silenzio ad occhi chiusi, quasi esasperato. Accidenti ad Enjolras e al suo orgoglio rivoluzionario! Combeferre si lasciò scappare un sospiro lungo e poi aprì gli occhi. Tutti lo stavano guardando senza parole tranne Grantaire. Combeferre guardò gli altri ragazzi e poi portò i suoi dolci occhi verdi sul ragazzo dai ricci neri: lo vide restare ancora lì immobile a fissare Enjolras allontanarsi tra la folla, gli occhi azzurri pieni di tristezza e rabbia, prima di sedersi lentamente e posare lo sguardo sul tavolo. Tutti si girarono a fissarlo e Combeferre fu certo di vedere Bahorel guardare il suo amico con un’espressione seriamente dispiaciuta. Il ragazzo allungò un braccio sulla spalla di Grantaire e gli disse, con una dolcezza che Combeferre non gli aveva mai sentito usare: “R… va tutto bene?” Grantaire non rispose: aggrottò la fronte, chiuse gli occhi, respinse il braccio di Bahorel, prese il suo borsone e si allontanò nella direzione opposta a quella dove si era diretto Enjolras prima di lui: sembrava sul punto di esplodere, forse anche di piangere.

Bahorel sembrò scioccato: aveva due occhi pieni di sorpresa. Tuttavia si riprese presto: mise in bocca quello che restava del suo pranzo, recuperò lo zaino e, alzandosi in piedi, disse a Combeferre: “Fammi sapere se Enjolras dà indicazioni sul da farsi!” Poi salutò tutti con un cenno della testa e corse dietro a Grantaire.

Seguì una lunga pausa di imbarazzato silenzio, durante la quale Courfeyrac e Combeferre si girarono a guardarsi: lessero il dispiacere l’uno dell’altro e Combeferre fu certo che Courfeyrac avesse capito che voleva che si recasse con lui da Enjolras. Si alzarono entrambi e, mentre Courfeyrac prendeva lo zaino, Combeferre disse ai membri del gruppo rimasti: “Mi spiace di avervi rovinato il pranzo: avrei preferito una riunione pacifica e non una guerra.” Combeferre si sentiva davvero in colpa: aveva suggerito lui ad Enjolras di fare una riunione organizzativa a pranzo ed ora questa scelta gli si era ritorta contro.

“Non è colpa tua” gli disse Joly dispiaciuto. “Non potevi prevederlo!”

“Invece sì” disse Combeferre. “Sapevo che Grantaire non ne avrebbe voluto sapere e che avrebbero discusso…”

“Esatto: discusso, non litigato!” gli fece notare Bossuet. “Nessuno di noi avrebbe potuto mai immaginare che perdessero la calma così... e mi riferisco ad entrambi.”

“Stai tranquillo, Combeferre” lo rassicurò Feuilly, assieme ad uno dei suoi sorrisi dolci e rasserenanti. “Anzi: se avrete bisogno una mano per calmare Enjolras, fatemi sapere.”

“Grazie ragazzi…” disse Combeferre ancora dispiaciuto. Sapeva che si sarebbe sentito tranquillo solo quando Enjolras avrebbe chiesto scusa, certo che quel momento sarebbe arrivato presto, ma sentire che i suoi amici lo sostenevano lo fece sentire un po’ meglio. “Ah… Marius…” disse Combeferre al loro nuovo amico voltandosi verso di lui: era ancora sconvolto, glielo si poteva leggere sul viso lentigginoso. “Mi dispiace moltissimo che tu abbia dovuto assistere a tutto ciò. Prima o poi sarebbe successo comunque, ne sono certo. Però speravo… speravo che sarebbe accaduto più avanti, ecco…”

“Non preoccuparti, davvero…” disse lui, sforzandosi di sorridere. “Ho più tempo per abituarmici!” Combeferre lesse il disagio nei suoi occhi, ma apprezzò molto lo sforzo e non poté fare a meno di sorridergli.

“E tu, Jehan?” chiese infine, voltandosi verso di lui. “Tutto a posto?”

“Sì…” disse esitante il minuto ragazzino. “Ci sono abituato, oramai. Ma non mi piace quando litigano… non mi piace veder nessuno di voi litigare. Siamo amici… non dovremmo farlo…” Combeferre lo guardò dritto negli occhi azzurri, lasciò che sul suo viso trasparissero tutta la tenerezza e la tristezza che quella frase gli aveva suscitato e gli passò una mano fra i capelli.

“Aggiusteremo tutto, vedrai” disse Courfeyrac avvicinandosi a lui.

“Sì, insomma…” gli diede man forte Bossuet. “Non è la prima volta che litigano e hanno sempre fatto pace: finché non volano coltelli io starei tranquillo! Il che è facile: dobbiamo solo tenerli lontani dalla cucina!” aggiunse poi ridendo. Fortuna che c’era lui: persino la cosa più stupida, detta dall’ottimismo di Bossuet, riusciva a risollevare il morale a tutti.

“Andiamo?” chiese Courfeyrac a Combeferre.

“Certo.”

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Capitolo 29
*** Io vado al parco! - Joly ***


Joly

La giornata era finita. La tensione rimasta dal pranzo era tale che nessuno dei ragazzi aveva tentato di scrivere qualcosa sul gruppo: Joly aveva pensato che magari Courfeyrac sarebbe intervenuto, ma forse nemmeno lui se l’era sentita questa volta, oppure qualcosa doveva averlo fermato. Lui e Bossuet si erano sentiti per tutto il pomeriggio, ma dagli altri poche notizie. Bossuet gli aveva scritto di aver provato a contattare direttamente Enjolras e Grantaire: dal primo aveva ricevuto qualche risposta rassicurante, del tipo “Tutto bene”, “Mi spiace per quanto è successo: adesso sono più tranquillo”; dal secondo nessun messaggio, ma da quanto sapevano nemmeno Bahorel era riuscito a parlare con lui. Joly aveva preferito contattare Combeferre per vedere se lui e Courfeyrac avessero risolto qualcosa, ma la sua risposta era stata piuttosto ambigua e Joly non sapeva fino a che punto avrebbe potuto chiedere chiarimenti: Combeferre non era tipo da farsi spazientire da domande insistenti o curiosità, ma quando si trattava di Enjolras restava spesso sul vago e gli altri ragazzi sapevano che questo era voluto. Del resto Joly lo capiva: aveva visto Bossuet fare la stessa cosa quando si trattava di tutelare la sua privacy, perciò sapeva che in qualche modo Combeferre stava proteggendo quella di Enjolras, il che Joly lo trovava più che giusto. Chi erano loro per invadere la privacy altrui? Anche Joly era un ragazzo molto riservato, quindi capiva fin troppo bene cosa voleva dire per Enjolras tenersi per sé ogni segreto e ogni ricordo, pur non conoscendone l’identità.

Al termine delle lezioni i ragazzi si ritrovarono nell’atrio d’ingresso. Quando anche Marius fu arrivato all’appello mancava solo Enjolras, ma il lentigginoso ragazzo dovette ricordare ai suoi compagni che il loro leader avrebbe dovuto recarsi da Javert alla fine delle lezioni, così Feuilly disse al resto del gruppo che lo avrebbe accompagnato a casa lui. Combeferre disse che lo avrebbe aspettato lì, così avrebbe avuto il tempo per occuparsi dei volantini per la manifestazione, proponendo a Feuilly di dargli una mano: l’apprendista custode accettò e i due si recarono assieme in biblioteca. Bahorel si guardò intorno e, non vedendo Grantaire, chiese agli altri se qualcuno lo avesse visto: Joly ricordò di averlo intravisto uscire dal portone poco prima che si riunissero tutti nell’atrio; il robusto ragazzone scosse il capo sospirando e si congedò, correndo fuori dalla scuola per raggiungere Grantaire. Rimasti in cinque nell’atrio, Courfeyrac propose di fare ritorno a casa e lasciare che ci pensassero Combeferre e Bahorel a far ragionare i due litigiosi ragazzi.

Arrivati alla residenza, Joly aveva notato Bahorel sdraiato sul divano del soggiorno, ma di Grantaire non c’era nemmeno l’ombra. Il ragazzo aveva acceso la televisione, ma sembrava non la stesse guardando: i suoi occhi dorati parevano fissare il vuoto, segno che Bahorel era parecchio sovrappensiero.

“Bahorel?” aveva cercato di attirare la sua attenzione Joly, avanzando nella sala comune tenendo per mano il suo ragazzo. Bahorel si era girato di scatto, come si fosse appena svegliato, e li aveva osservati avanzare verso di lui.

“Ehi” aveva detto con voce leggermente delusa, tornando a fissare il televisore e cambiando canale. Joly si girò confuso verso Bossuet: quell’accento di delusione nel tono della sua voce gli fece pensare che forse si aspettava di vedere qualcun altro. Bossuet sembrò non sapere cosa dirgli: avanzò portandosi in linea con lui e portò la mano che prima stringeva quella di Joly al fianco del suo ragazzo.

“Aspettavi qualcun altro?” intervenne Bossuet mentre tirava Joly dolcemente verso di sé.

Bahorel non si voltò e continuava a passare di canale in canale senza sosta quando disse: “Diciamo che lo speravo. Non perché siete voi due, non fraintendetemi… solo che speravo che QUALCUNO uscisse dal cubicolo…”

“Pa… parli di Grantaire?” gli chiese Joly tirandosi leggermente in avanti verso di lui.

“Bingo! Il signorino ha deciso di chiudersi in camera e di rimanere lì ad ubriacarsi in solitudine! Maledetto alcolizzato! Quando si butta giù così non lo sopporto proprio!”

Joly si girò nuovamente d’istinto verso Bossuet e notò che anche il suo ragazzo aveva fatto lo stesso: loro sapevano perché Grantaire era così abbattuto, ma Joly si chiese se Bahorel ne fosse al corrente oppure no. Bossuet probabilmente capì a cosa stava pensando e gli fece spallucce, quindi Joly pensò che fosse meglio non rischiare di rivelare la cotta di Grantaire: per quanto a lui e a Bossuet sembrasse ovvia, magari con gli altri ragazzi Grantaire stava riuscendo a mantenerla segreta, perciò non volle mettere a rischio il segreto e fu certo che Bossuet avrebbe fatto lo stesso.

“Abbiamo anche discusso” riprese Bahorel attirando nuovamente l’attenzione della coppia: la sua voce suonava quasi apatica. “Sapete come sono fatto: i metodi dolci non funzionano secondo me. Ho cercato di farlo ragionare a modo mio, ma lui non mi ascoltava. Ci siamo insultati per un po’, poi ha smesso di rispondermi e io mi sono spazientito. Volevo evitare di picchiarlo e me ne sono andato!” Come finì di spiegare, il ragazzo spense il televisore, lanciò il telecomando sul tavolino e si alzò in piedi sospirando, facendo uscire in quei piccoli gesti tutta la rabbia che si stava tenendo dentro. “Credo che mi farò una passeggiata, se non vi spiace.”

“Ci mancherebbe!” disse Bossuet lasciandolo passare.

I due ragazzi osservarono Bahorel recuperare la larga felpa verde bottiglia che aveva lasciato sullo schienale di una sedia, indossarla e scendere le scale, poi si guardarono negli occhi per qualche istante: Bossuet sfoderò un sorriso molto dolce, ma Joly non riuscì a ricambiarlo, quindi distolse lo sguardo. Percepiva ancora lo sguardo di Bossuet su di sé quando sentì la sua mano passargli lungo il braccio destro fino a prendere il suo polso; Joly alzò lo sguardo e vide che Bossuet lo stava osservando ancora con lo stesso sorriso di prima. “Che ti prende?” gli chiese fissandolo con quei due profondi occhi color cioccolato.

“Niente…”

“Conosco quello sguardo triste: so che c’è qualcosa.” Joly non rispose: non gli andava di parlarne. “Andiamo” aggiunse Bossuet carezzandogli una guancia e a Joly venne istintivo tornare a guardarlo negli occhi. “Che cosa c’è che non va?” gli chiese sorridendogli e addolcendo lo sguardo.

“Io…” iniziò Joly abbassando nuovamente lo sguardo: accidenti a Bossuet a e quegli occhi dolci! Quando lo guardava così poteva convincerlo a fare qualsiasi cosa! “Io non posso fare a meno di dispiacermi per Grantaire… io lo capisco!” Detto questo alzò lo sguardo e vide che Bossuet sembrava perplesso, quindi si spiegò: “Io non riuscirei mai a sopportare che tu mi parlassi così! Ci starei malissimo, esattamente come lui adesso!”

“Aspetta, aspetta!” lo fermò Bossuet facendogli gesto con la mano. “Punto primo: io non potrei mai parlarti così… quindi non pensarci nemmeno! Punto secondo: sai benissimo che se le sta cercando. Insomma… lui non litigava così tanto con Enjolras quando ci siamo conosciuti, ma da un anno ha iniziato a dargli contro per ogni minima cosa, così… dal nulla. Devi ammettere, tesoro, che è un comportamento strano.”

“Sì lo so e capisco che Enjolras si sia spazientito, ma arrivare a dirgli quelle cose…”

“Ehi, ehi…” gli disse Bossuet dolcemente, cercando di calmarlo: doveva aver capito che Joly si stava agitando, e anche parecchio. “Guarda che non lo voglio difendere. Sono d’accordo con te: ha usato delle parole molto dure. Ma io sono sicuro che non le pensasse davvero e che se ne sia già pentito… anzi: vedrai che come arriverà qui andrà a chiedergli scusa. Enjolras è impulsivo e se si arrabbia non riesce a trattenersi, ma non è ingiusto, lo conosci bene anche tu.”

Bossuet iniziò a carezzargli dolcemente il braccio sorridendogli e Joly rimase a guardare i suoi occhi rassicuranti per un po’ prima di tornare a fissare verso il basso. Dopo qualche istante di silenzio, Joly udì Bossuet sospirare e sentì una delle grandi mani passargli sulla nuca e tirarlo verso la spalla del suo ragazzo, da cui Joly riusciva a vedere appena il pavimento oltre il suo cardigan grigio, mentre l’altro braccio passò dietro la schiena e lo tirò verso il suo petto. Joly rimase immobile con gli occhi spalancati per qualche secondo prima di portare le sue mani lungo la schiena di Bossuet fino alle sue spalle e si strinse a lui, facendo sprofondare il viso nella larga spalla. Poi Bossuet iniziò a carezzargli la schiena, gli diede un bacio sulla testa e aggiunse: “Stai tranquillo: sistemeranno tutto!”

“A volte vorrei avere il tuo ottimismo…”

A Bossuet scappò una leggera risata, poi sollevò il viso dalla spalla di Joly e gli disse, gesticolando con la mano che prima teneva sulla sua nuca: “Ma se tu fossi positivo io a cosa servirei, scusami?” Joly si allontanò per poterlo guardare negli occhi, facendo sì che Bossuet portasse entrambe le braccia attorno alla sua vita, e lo vide sorridergli e alzargli un sopracciglio, a cui Joly rispose con un breve risolino: quello sguardo era troppo stupido per non ridergli in faccia. Poi abbassò lo sguardo, portò le mani sul suo petto, passando un dito nella leggera fessura tra i pettorali e infine passò nuovamente tutte le dita della mano destra sul suo petto, come faceva spesso. Bossuet era cresciuto in un’azienda agricola e aiutare i suoi genitori a fare i lavori più pesanti nella fattoria fin da quando era piccolo aveva sviluppato i suoi muscoli senza che facesse palestra: non erano particolarmente grossi e certamente non avevano niente a che vedere con quelli di Bahorel, ma a Joly piaceva sentire sotto le sue mani come scolpivano il corpo del suo ragazzo; insomma… finché a Bossuet non sembrava dispiacere, dove stava il problema?

Joly si intristì improvvisamente, ma si sforzò di continuare a sorridere. “Su… suppongo che farebbe comodo averne lo stesso per quando te ne andrai…” Joly avrebbe tanto voluto non pensarci, ma era più forte di lui: era da quando lui e Bossuet avevano preso assieme la pagella alla fine dell’anno precedente e il ragazzo pelato aveva pronunciato le parole ‘Finalmente ultimo anno!’ che non faceva altro che pensarci; del resto, Joly si era intristito subito, ma allora aveva fatto di tutto per non farglielo notare. Tornati a scuola non era riuscito più a trattenersi: Bossuet era l’unico con cui poteva sfogarsi per ogni cosa e l’unico che riuscisse a farlo stare bene, perciò non riusciva proprio a non parlarne con lui, nonostante sapesse che non era il caso.

Bossuet rimase a fissarlo in silenzio, quasi non sapesse cosa dire. Ad un certo punto si staccò da Joly con un profondo sospiro impaziente e, quando alzò lo sguardo, Joly lo vide osservarlo con occhi quasi severi mettendosi le mani sui fianchi. “Mi sono stancato!” disse sorpassandolo e andando verso il corridoio. Joly non riusciva a capire cosa stesse succedendo e si agitò parecchio nel vedere Bossuet camminare spedito verso la loro stanza. Non sapeva a cosa pensare: cosa poteva mai essergli preso? Vedendo il suo ragazzo sparire dietro alla porta del soggiorno, Joly gli corse subito dietro per cercare di capire che cosa avesse in mente e quando arrivò davanti alla porta della loro stanza la trovò socchiusa e vi sbirciò oltre: Bossuet era in piedi accanto all’armadio di Joly e aveva preso in mano il calendario che vi stava appeso. Joly entrò nella stanza mentre Bossuet ancora lo reggeva a due mani e lo sfogliava.

“Che cosa vuoi fare, René?” gli chiese Joly appoggiandosi allo stipite della porta della camera da letto. Bossuet non alzò neanche lo sguardo: distorse leggermente la bocca e abbassò le mani, portando gli occhi verso il basso, sotto alla scrivania che stava alle sue spalle, davanti alla finestra.

“Se è questo che ti fa stare tanto male,” cominciò Bossuet passando accanto al letto di Joly e sorpassandolo per andare verso la scrivania, “allora dobbiamo sbarazzarcene!” Come finì di parlare, strappò una per una le pagine del calendario, le accartocciò e le buttò nel cestino sotto lo scrittoio. Joly rimase a guardarlo mentre faceva a pezzi i fogli di carta e li gettava uno per uno, apparentemente noncurante della sua presenza. Joly stava ancora fissando il cestino con occhi pieni di confusione, quando davanti a sé vide Bossuet tendergli la mano e sorridergli. Joly esitò un attimo, ma alla fine la prese e Bossuet lo condusse leggermente dentro la stanza, gli mise entrambe le mani sulla schiena e gli disse: “Non ci devi pensare, bimbo: non ci devi pensare nemmeno per un istante. Quel giorno arriverà e non possiamo evitarlo, ma lo sapevamo fin dall’inizio. Non sarà un addio, perché non lo permetterò, mi sono spiegato? Non lascerò che basti la distanza a costringerci a lasciarci. Se tra noi dovrà finire non sarà perché non vivremo più nella stessa camera, chiaro? Sarà difficile abituarsi a non vivere più assieme tutti i giorni? Certo. Sarà triste? Ovviamente! Ma appunto perché faremo fatica, dobbiamo semplicemente goderci tutti i giorni che ci restano da passare assieme, senza tenere il conto di quanti siano. E quando arriveremo all’ultimo giorno ci penseremo sul momento. Ma non starci già male, ok? Non voglio vederti così!”

Joly restò a guardare Bossuet dritto negli occhi in silenzio, quasi sul punto di piangere per la commozione, e alla fine gli sorrise e lo abbracciò, lasciando che Bossuet lo stringesse al petto con quelle braccia robuste. Restarono abbracciati in silenzio per un bel po’, finché Joly non alzò la testa dal petto di Bossuet, gli passò la mano sulla nuca pelata e, posando le braccia sulle sue spalle, disse: “Goderci ogni giorno, eh?”

“Assolutamente sì!”

“E che cosa vorresti fare per goderti oggi?”

Bossuet lo guardò fisso per qualche secondo, poi abbassò lo sguardò verso il petto di Joly, lo strinse ancora di più a sé. “Beh,” cominciò portando le mani sotto la sua schiena, “io avrei dovuto chiederti di aiutarmi in matematica.” Poi portò gli occhi sul viso del suo ragazzo e gli disse: “Ma sappiamo entrambi che alla fine mi sarei distratto… e che avremmo fatto altro…”

Joly guardò quell’alzata di sopracciglia un po’ marcia e, sorridendo, gli disse: “Quindi mi stai proponendo di saltare le fasi?”

Bossuet non rispose subito: si limitò a sorridergli e ad avvicinarsi al suo collo. Quando vi fu abbastanza vicino che Joly poté sentire il suo respiro sulla pelle, Bossuet sembrò quasi esitare e disse: “Vuoi impedirmelo anche oggi?”

“No” rispose Joly senza incertezza. Bossuet tornò a fissarlo negli occhi, con uno sguardo tra l’incredulo e l’esaltato. Joly gli sorrise e aggiunse: “No, oggi non voglio impedirtelo.”

Bossuet rispose al sorriso e non perse altro tempo: iniziò subito a baciare Joly, portò le mani sotto al suo posteriore e lo sollevò, facendo sì che il ragazzo dai capelli castani dovesse aprire le gambe attorno al suo torace. Si guardarono per qualche secondo senza dirsi nemmeno una parola, finché Bossuet non riprese a baciarlo, girò lentamente su sé stesso e indietreggiò con cautela per chiudere la porta sbattendoci contro la schiena.

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Capitolo 30
*** Io vado al parco! - Grantaire ***


Grantaire

La camera da letto di Bahorel e Grantaire era in un disordine indescrivibile, anche peggio del solito: normalmente i due ragazzi non erano ordinati e si poteva sempre trovare qualche vestito sparso a terra accanto ad alcuni libri lasciati cadere come capitava e sulla scrivania vedere fogli sparpagliati e matite o penne, almeno finché Éponine o uno dei suoi genitori non passava a metterla a posto. Anche quel pomeriggio c’erano indumenti gettati a caso sul pavimento della stanza assieme a libri e quaderni, penne sotto o sulla scrivania e fogli sparsi ovunque, ma nell’aria si respirava un pesante odore di fumo e una discreta puzza d’alcool. Oramai era la terza bottiglia di birra che Grantaire lasciava cadere sul pavimento accanto al posacenere pieno di mozziconi di sigaretta: da quando era rientrato alla residenza, non aveva fatto altro che bere e fumare, entrambi vizi che aveva preso iniziando le scuole superiori. La finestra era aperta, ma questo non bastava né a far uscire l’aria viziata dalla camera, né a far passare il caldo che Grantaire iniziava a sentire per colpa dell’alcool in circolo. Le prime due bottiglie le aveva scolate seduto sul letto, ma a metà dell’ultima aveva avuto bisogno di stendersi e alla fine della bottiglia era ancora lì, sdraiato senza maglietta, la mano destra penzolante con una sigaretta ancora accesa tra le dita. La testa aveva iniziato a girargli, ma Grantaire era conscio del fatto di essere ancora lucido, quindi decise che non si sarebbe fermato: voleva assolutamente smettere di pensare alla discussione avuta a pranzo, dimenticarsene, se possibile. Mentre fissava il soffitto, con la testa sprofondata nel cuscino e i capelli riccioli sparsi su di esso, continuava a chiedersi perché ancora ci provasse con Enjolras: era quasi un anno che la maggior parte delle loro discussioni finiva in vere e proprio litigate, arrivando anche a parole pesanti e dure, senza contare che era sempre lui a prendersele da parte di Enjolras, poiché lui mai sarebbe riuscito ad insultarlo. Quel giorno, le parole di Enjolras lo avevano ferito più del solito e non riusciva a togliersele dalla testa: “L’unico a illudersi qui sei tu, che pensi di essere in una posizione tale per me da potermi davvero fermare” aveva detto; “Io andrò fino in fondo a questa storia, che a te piaccia oppure no: me ne frego” aveva aggiunto poi. ‘Che pensi di essere in una posizione tale per me da potermi fermare… me ne frego.’ Ogni volta che Grantaire ci pensava, le parole gli risuonavano nella testa e lo colpivano al cuore come delle pugnalate. ‘… che pensi di essere in una posizione tale per me… me ne frego… me ne frego.’ Basta! Ci stava già pensando troppo: gli venne da piangere, ma si costrinse a non farlo. Prese un respiro profondo, tremolante per lo sforzo di trattenere le lacrime, e recuperò l’apribottiglie con la mano sinistra, mentre cercava nervosamente una bottiglia di birra con quella destra. Non trovandola, si innervosì ulteriormente, alzò il busto dal letto in modo da riuscire a guardare a terra, recuperò una bottiglia e cercò di aprirla, arrabbiandosi perché le mani gli tremavano per la fatica di trattenere il pianto. Alla fine ci riuscì, scaraventò a terra il tappo con tutta la forza che l’ira gli aveva conferito e sprofondò nel cuscino, prendendo un lungo sorso di birra. In qualche modo aveva funzionato: non poteva dire che le lacrime non le sentisse più, ma sicuramente non più come prima. Pian piano si stava ubriacando, iniziava a sentirlo, ma sapeva che gli sarebbe mancato ancora tanto.

“R, sei ancora lì?” sentì dire da una voce fuori dalla stanza: era quella di Bahorel, Grantaire la riconobbe subito. Strano che tornasse in stanza dopo aver litigato: non sembrava una reazione da Bahorel.

“E dove, se no?” rispose Grantaire senza scomporsi, pensando che forse Bahorel si era calmato rispetto a prima. Si erano rinfacciati a vicenda vizi ed errori passati, alcuni dei quali solo loro sapevano l’uno dell’altro, e questo gli aveva fatto piuttosto male: aveva appena scoperto che Bahorel era l’unico vero amico che aveva lì dentro ed ecco che anche con lui si era preso a parole e quasi anche a pugni. Grantaire lo sentì girare la chiave nella serratura e aprire la porta lentamente, ma ancora una volta non si mosse. Quando non lo sentì avanzare, gli disse: “Dopo metto in ordine, ma ti prego basta discutere: direi che ho avuto abbastanza litigate per oggi. Anzi…” Grantaire dovette fare una pausa per riprendere fiato: sospirò, si passò una mano sopra gli occhi e, tirando su con il naso, aggiunse: “Scusami se ti ho rinfacciato di tutte le volte che ti sei fatto bocciare: non avrei dovuto sapendo quello che stai passando.”

“Non preoccuparti: non sono qui per questo…” disse Bahorel con un tono di voce che Grantaire gli aveva sentito raramente: sembrava triste, forse dispiaciuto, ma allo stesso tempo confuso e un po’ allarmato. Dopo una breve pausa, mentre Grantaire stava prendendo un altro sorso di birra, Bahorel aggiunse: “Ricomponiti… hai visite…”

Il ragazzo dal fisico asciutto non si mosse nemmeno questa volta: si limitò semplicemente a chiedere: “Ah, davvero? Chi?” In quel momento era talmente sconvolto che non gliene importò nulla di chi stesse per entrare: per lui poteva anche essere quella rompiscatole salutista di sua madre che tanto non si sarebbe sistemato lo stesso. Continuava a bere quando sentì Bahorel parlare a voce bassa con qualcuno e dirgli qualcosa di simile a ‘Vieni, ma vacci piano’. Poi sentì dei passi leggeri avanzare nella stanza: erano dei passi che lui conosceva bene e udirli lo fece fermare di colpo. Staccò la bocca dalla bottiglia, si sollevò sui gomiti, torse il busto, portando così tutto il peso sul gomito destro per potersi girare, e, nel vederlo, sgranò gli occhi: Enjolras stava entrando nella stanza, disordinato, visibilmente stanco, come si fosse precipitato subito da Grantaire non appena tornato alla residenza. Il biondo ragazzo si fermò vicino alla porta e diede una lenta occhiata alla stanza in disordine: quando notò tre bottiglie vuote ebbe un leggero sussulto e, quando vide la quarta in mano a Grantaire, sospirò con i grandi occhi azzurri pieni di severo dispiacere.

“Vi lascio soli” disse Bahorel guardando fisso Enjolras e tirando leggermente la porta verso di sé: Grantaire notò che aveva già la mano sulla maniglia: forse era lì da quando aveva aperto la porta.

“Sì…” gli rispose Enjolras voltandosi appena verso di lui di scatto, quasi si fosse appena risvegliato da uno stato di trance. Poi portò una mano alla fronte, chiudendo gli occhi, e concluse: “Sì, grazie Bahorel.” Il robusto ragazzo restò a fissare ancora il leader con occhi preoccupati, poi lanciò un’ultima occhiata a Grantaire e, abbassando lo sguardo, chiuse la porta dietro di sé, lasciando soli i suoi amici.

Ci fu un attimo di silenzio tra i due, durante il quale Grantaire fissò Enjolras guardarsi attorno con quella delusione nello sguardo che da tempo era abituato a vedere. Amava da impazzire i profondi occhi di Enjolras e vederli pieni di delusione lo feriva nel profondo: avrebbe tanto voluto alzarsi e scusarsi, magari cercare di rassicurarlo con una carezza sulla nuca… ma perché si stava dispiacendo, poi? Aveva deciso di farla finita con questa storia, quindi perché preoccuparsi delle sue opinioni? Del resto, il parere del biondino lo aveva già ferito a sufficienza, per quanto lo riguardava, quindi si decise di fregarsene: si sdraiò nuovamente e fece un tiro con la sigaretta. “Che ci fai qui?” chiese Grantaire prima di soffiare il fumo verso il soffitto: a quel gesto, con la coda dell’occhio vide Enjolras voltarsi di colpo.

“Pensavo avessi smesso di fumare” gli disse subito il ragazzo biondo con un tono e uno sguardo tipico di chi sembra sorpreso: a quella considerazione, Grantaire rispose con un altro tiro di sigaretta ed Enjolras restò a fissarlo, portando poi lo sguardo sulla bottiglia. “E speravo che stessi anche riuscendo a smettere di bere… sei ubriaco in questo momento?”

Grantaire si lasciò sfuggire un leggero risolino ironico e soffiò fuori il fumo. “Speravi, eh?” disse il ragazzo dai riccioli scuri lasciando cadere la cenere della sigaretta nel posacenere e portando la bottiglia vicino alla bocca. “E da quando te ne importa qualcosa?” chiese in seguito, prima di prendere un lungo sorso di birra. In tutto questo tempo, aveva parlato senza guardare Enjolras se non con la coda dell’occhio: fissava senza alcuna attenzione il paesaggio fuori dalla finestra, quelle fredde e grigie nuvole che minacciavano pioggia da un momento all’altro oltre gli edifici bianchi del quartiere moderno, facendo sì che gli abitanti del comune parigino fossero costretti a tenere accese le luci all’interno delle loro abitazioni.

“Sai che mi importa!” rispose impetuosamente Enjolras voltandosi verso di lui. Grantaire si girò a guardarlo: poteva vedere quella sincera convinzione che tanto adorava nei suoi occhi e questo lo fece tentennare.

Tuttavia non cedette: tornò a fissare il vuoto per qualche secondo, emettendo un altro risolino ironico e scuotendo la testa. Guardava ancora oltre la finestra quando disse: “Oggi a pranzo non sembrava importarti un granché di me.” Lo disse schiettamente prima di voltarsi a guardarlo nuovamente, quasi stesse cercando di sfidare Enjolras, o forse di allontanarlo da sé, Grantaire stesso non ne era sicuro: nella sua testa voleva sapere cosa Enjolras pensasse di lui, ma anche allontanarlo, se gli era possibile, in modo da far sì che la distanza affettiva dal ragazzo facesse passare la cotta che aveva per lui, cotta che si avvicinava sempre di più all’innamoramento, se ancora non c’era arrivata. Enjolras sembrò messo in difficoltà da quella considerazione: sussultò e abbassò lentamente lo sguardo, gli occhi azzurrissimi pieni di dispiacere e di senso di colpa, rendendoli dolcemente tristi. Quell’immagine fece quasi intenerire Grantaire: Enjolras aveva un tale carattere deciso e maturo da far scordare quanto il suo viso fosse dolce, delicato e quanto lo facesse sembrare più piccolo di quanto non fosse in realtà. Grantaire lo aveva davanti agli occhi tutti i giorni, ma appunto per questa sua abitudine di osservarlo con una certa frequenza in certe occasioni dava per scontato quanto delicato e bello fosse il viso di quel ragazzo. Tuttavia non volle abbandonare la sua posizione, nossignore: doveva finire lì, oramai era deciso.

“Mi dispiace” disse Enjolras arrossendo leggermente.

Grantaire alzò leggermente la testa e sgranò gli occhi celesti: non poteva credere alle sue orecchie, non ci voleva credere! “C-come?”

Enjolras alzò lo sguardo con fierezza, nonostante il rossore del viso, e ripeté con decisione: “Ho detto che mi dispiace.” Il ragazzo dai lunghi capelli biondi si avvicinò a Grantaire, facendo in modo, inconsciamente, che egli si sentisse costretto a gettare la sigaretta, appoggiare la bottiglia e sedersi a bordo del letto davanti a lui, gli occhi spalancati per la sorpresa. “Ero arrabbiato e ho detto cose che non pensavo per davvero… sono stato ingiusto con te, quindi mi scuso.” Seguì un lungo silenzio, durante il quale Enjolras spostò lo sguardo sempre più imbarazzato verso il pavimento e Grantaire restò a fissarlo con stupore per vedere dove volesse andare a finire con quel discorso: sapeva che Enjolras era molto orgoglioso, quindi non si aspettava certo delle scuse tanto umili. Dovette attendere ancora un po’ prima che il biondino parlasse: “Non è vero che per me non conti nulla…”

Grantaire non riusciva a credere a ciò che era appena successo e queste parole gli scaldarono il cuore, facendogli cambiare idea: non sarebbe mai riuscito a rinunciare ad Enjolras, nonostante le infinite discussioni che sicuramente avrebbero dovuto affrontare in futuro. Sorrise addolcendosi, abbassò lo sguardo sulle mani di Enjolras, ne prese una tra le sue e tornò a guardarlo in viso. Come si sentì prendere la mano, Enjolras sgranò gli occhi sussultando e si voltò verso Grantaire, il quale intenerì lo sguardo e lo fece sedere alla sua sinistra. “Anch’io ti devo le mie scuse” disse guardandolo negli occhi. “Suppongo di aver esagerato dandoti dell’ingenuo. Non posso dire di credere nella tua rivoluzione, ma mi spiace di averti dato dell’illuso, specialmente perché credo in te.”

“Perché lo fai?” chiese Enjolras con sguardo serio. “Se credi in me allora perché mi dai sempre contro?”

Grantaire abbassò lo sguardo ed esitò per qualche istante, non perché non sapesse la risposta, ma perché non se la sentiva di dire la verità. “Non lo so” rispose alla fine tornando a guardare il biondo ragazzo. “Forse perché credere nella tua causa o credere in te è una cosa diversa. Io ho fiducia nella tua intelligenza: vorrei solo che stessi lontano da guai che puoi evitare…”

“Come puoi essere tanto cinico da essere già certo che andrà male?!” Enjolras aveva un tono molto arrabbiato e Grantaire si tirò leggermente indietro con la schiena, dispiaciuto che stessero di nuovo per discutere. Da quella sua reazione, Enjolras restò immobile a guardarlo, poi sospirò brevemente strizzando gli occhi. In quel piccolo gesto, Grantaire riuscì a vedere tutto il suo dispiacere per essere caduto nuovamente in fallo. “L’ho fatto di nuovo, eh?” disse rilassando le palpebre, mentre le sue sopracciglia assunsero una piega rassegnata, quasi dispiaciuta. “Vengo qui a chiederti scusa per averti urlato addosso e lo faccio sgridandoti un’altra volta…” Girò il viso verso l’interno della stanza, aprì gli occhi e si lasciò scappare un risolino amaro, molto severo nei propri confronti. "Davvero una mossa intelligente e matura…”

“Ehi, ehi!” lo fermò subito Grantaire facendogli voltare il viso verso di sé prendendogli il mento. “Ehi…” Quando Enjolras spalancò gli occhi guardandolo, Grantaire passò l’indice sulla sua guancia, seguendo il suo dito con lo sguardo. “Non essere così severo con te stesso: hai solo sedici anni, piccolo. Non puoi certo pretendere di essere un uomo fatto e finito in piena adolescenza, non credi?”

Enjolras restò a guardarlo in silenzio per un po’, quasi non avesse fiato né parole per rispondergli, finché i suoi occhi non si fecero di nuovo tristi e si abbassarono sul copriletto color crema con fiori in tinta e Grantaire non si sentì come costretto ad abbassare la mano: forse quei suoi gesti lo stavano mettendo a disagio. “Perché continuiamo a litigare, io e te?” chiese alla fine il biondino senza alzare lo sguardo.

Grantaire rimase a guardarlo dispiaciuto; poi sospirò, si fece serio e gli rispose: “Non lo so.” A quella risposta Enjolras alzò lo sguardo verso di lui e i suoi occhi si riempirono di sorpresa nel vederlo tanto serio. “So solo che prima non era così tra me e te: te lo ricordi?” proseguì Grantaire mettendogli una mano sul polpaccio della gamba destra, che Enjolras teneva piegata sul letto sotto alla sinistra. “Quando ci siamo conosciuti andavamo d’accordo: ti ho insegnato a cucinare, ti aiutavo con i compiti di storia dell’arte, ti portavo in città, ti aspettavo alla fine delle lezioni… non so davvero dirti cosa sia successo poi…” La robusta mano di Grantaire passò dal polpaccio alla coscia e Enjolras sembrò guardarla senza più fiato; poi il ragazzo dai riccioli scuri avvicinò il suo viso a quello di Enjolras e il biondino tornò con lo sguardo fisso sui suoi occhi di scatto. “So solo che darei qualsiasi cosa per tornare a quei giorni…” Fu a quel punto che i suoi occhi caddero sulle labbra di Enjolras. Voleva baciarlo: stavolta ne era deciso. Non sapeva cosa sarebbe successo dopo che lo avesse fatto, ma non gli importava: non capiva nemmeno se fosse colpa dell’alcool se stava davvero per compiere una simile follia, ma a chi interessava? Voleva baciarlo e lo avrebbe fatto, soltanto questo contava. Grantaire continuava a passare lo sguardo dalle labbra agli occhi di Enjolras e iniziò ad avvicinarsi sempre di più al suo viso, notando che il ragazzo non si stava muovendo di lì.

Gli mancava poco per trovare le labbra leggermente carnose di Enjolras, quando oltre la porta si udì una voce. “ENJOLRAS! VIENI: HO BISOGNO DI TE!”

Nel sentire quella voce, il biondino parve ricominciare a respirare con un leggero sussultò e alzò lo sguardo verso la porta, facendo cadere inconsciamente la decisione di Grantaire, che tolse la mano dalla sua gamba e si allontanò. “Io… emh…” iniziò timidamente Enjolras passando gli occhi dalla porta a Grantaire continuamente, “…i-io devo andare…”

“Certo” disse Grantaire ruvidamente mentre Enjolras si alzava dal letto per dirigersi verso l’uscita. “Ovviamente devi andare: Courfeyrac ha chiamato.” Era deluso: c’era andato vicinissimo a baciarlo dopo due anni eppure non c’era riuscito! Non sapeva neanche come chiamarla questa misteriosa forza che lo teneva sempre lontano dalla riuscita delle sue imprese: sfortuna, karma, maleficio, destino… tanto più che lui non credeva in nessuno di essi!

“Grantaire?” lo chiamò Enjolras stando sull’uscio della stanza e tenendo la mano sinistra sulla maniglia e la destra sulla porta: per un attimo l’arrabbiatura sparì. “È tutto risolto ora tra noi?”

Grantaire addolcì lo sguardo, gli sorrise e gli rispose: “Certo, piccolo.” Enjolras rispose al suo sorriso ed uscì chiudendo la porta lentamente. Grantaire lo guardò andarsene con occhi pieni di affetto e, dopo alcuni istanti che la porta fu chiusa, prese in mano la bottiglia di birra che stava bevendo, la appoggiò a terra e si lasciò cadere di schiena sul letto, dicendo: “E come potrei portarti rancore?”

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Capitolo 31
*** Io vado al parco! - Feuilly ***


Feuilly

Era passata una settimana da quando i ragazzi avevano iniziato a progettare la manifestazione. L’idea di Combeferre e Enjolras si era rivelata ottima: nel giro di pochissimi giorni la maggior parte degli studenti aveva aderito all’iniziativa. Feuilly si era fermato più volte ad osservarli all’opera, orgoglioso di far parte di un gruppo di ragazzi così determinati e di buon cuore, e aveva notato che tutti si erano dati un gran da fare: ogni volta che lui alzava le tapparelle delle aule, li poteva vedere già sotto l’edificio ad aspettare gli altri studenti; mentre faceva da palo, ogni tanto si girava ad osservare come parlassero con questi ultimi della loro iniziativa e come cercassero di rassicurare i più incerti pur senza forzarli. Aveva constatato con molta gioia che anche Bahorel si era dato parecchio da fare per portare più gente possibile alla manifestazione: non si sarebbe mai aspettato di vederlo a scuola tanto presto e nemmeno di vederlo così operativo; Bahorel aveva avuto un approccio molto diretto, dicendo apertamente e senza mezzi termini come stavano le cose e come avevano intenzione di agire e aveva sempre cercato di convincere tutti, anche se più delicatamente del solito… ma del resto Combeferre, al primo passo falso, gli aveva suggerito un approccio più morbido. Anche Jehan aveva suscitato lo stupore di Feuilly: quel minuto ragazzino si accendeva sempre di un ardore indescrivibile quando si trattava di manifestare e, pur mantenendo i suoi modi dolci e delicati, sembrava aver del tutto accantonato la sua naturale timidezza. Bossuet aveva cercato di avere un approccio simpatico, occupandosi prevalentemente di quegli indecisi cronici che avevano voglia di partecipare, ma erano troppo spaventati dal possibile esito negativo per riuscire a decidersi: Feuilly aveva pensato che, essendo abituato a trattare con Joly, per lui doveva essere stata una passeggiata aiutare quei ragazzi. Tuttavia, Joly sembrava diverso in quella settimana: Feuilly lo aveva visto passare tranquillamente tra gli studenti e illustrare dettagliatamente il piano d’azione, senza mancare però di avvisare degli eventuali rischi; del resto, però, Joly aveva detto ad Enjolras che secondo lui era giusto che tutti fossero consapevoli di quello che poteva accadere e lui e Combeferre avevano compreso e appoggiato l’idea. Da Courfeyrac nessuna sorpresa: ogni giorno passava da una persona all’altra con il suo modo di fare simpatico e amichevole, tanto socievole e convincente che non aveva dovuto insistere quasi con nessuno. Anche Combeferre aveva mantenuto il suo solito stile, cercando l’approccio più analitico e dolce possibile: quando aveva dovuto trattare con gli incerti, aveva ascoltato con attenzione le ragioni dei dubbi che essi avevano a riguardo e aveva cercato di rassicurarli, invitandoli dolcemente a ragionarci con calma, pur lasciandoli liberissimi di dire di no. Tuttavia, l’attenzione di Feuilly era stata attirata maggiormente da Enjolras: il leader aveva pensato di agire assieme a Marius, in modo che il nuovo arrivato potesse capire come trattare con gli altri ragazzi in questi casi; a Feuilly era sembrato una specie di praticantato direttamente con il capo per istruire Marius alle loro abitudine rivoluzionarie, ma il lentigginoso ragazzo sembrava entusiasta di questa “nuova vita fuori dagli schemi del bravo ragazzo”, come l’aveva definita Courfeyrac la sera della prima riunione e, a Feuilly, Enjolras parve molto compiaciuto del suo entusiasmo. Inoltre, il biondino teneva le redini dell’iniziativa: si confrontava con gli altri membri del gruppo per controllare che fosse tutto in ordine, tutte le volte che essi portavano da lui i casi più indecisi egli riusciva a persuaderli senza fare pressioni, al termine delle lezioni si rendeva sempre disponibile per chi avesse bisogno di chiarimenti, passava personalmente da una classe all’altra prima che arrivassero gli insegnati per lasciare i volantini da distribuire e aveva anche tenuto un brevissimo discorso in biblioteca per dare a tutti gli studenti le ultime informazioni generali; Feuilly ricordava di aver visto gli altri ragazzi passare nelle aule ad avvisare del discorso generale alla fine della settimana passata. Si era anche offerto come capro espiatorio per Javert, proponendosi di assumersi la colpa delle iniziative più rumorose: aveva detto che non sarebbe cambiato nulla perché tanto era già nei guai per gli eventi precedenti. Combeferre, però, non aveva voluto sentire ragioni e aveva stretto un patto con gli altri ragazzi: se ci fossero stati guai, avrebbero fatto a turno ad assumersi la colpa di quanto accaduto, in modo da non rischiare l’espulsione per nessuno. Contro la maggioranza, leader o no, Enjolras aveva dovuto accettare, ma aveva confessato a Feuilly, una sera che lo aveva accompagnato a casa, che quel gesto gli aveva fatto davvero piacere, nonostante gli dispiacesse di non poter contare su Grantaire: non avevano più litigato dopo il giorno della prima riunione, ma non c’era comunque stato verso di fargli cambiare idea riguardo alla manifestazione. Tuttavia, Feuilly lo aveva sorpreso più volte a restare appoggiato al muro dietro al cancello d’ingresso ad osservare i suoi amici al lavoro, soprattutto Enjolras, quasi volesse essere certo che andasse tutto bene pur non condividendo la loro scelta.

Anche quella sera come quelle della settimana precedente, Feuilly si trovava nel parcheggio dietro alla scuola e aspettava che Enjolras uscisse dall’ufficio di Javert per accompagnarlo a casa in macchina: iniziava a far buio e non era consigliabile mandare in giro da solo un ragazzo giovane ed esile come Enjolras per le vie di Saint-Denis, le quali non erano sicuramente famose per la bella gente che vi girava dopo un certo orario. Finalmente, intorno alle sei di sera, Feuilly vide Enjolras uscire dal cancello secondario da cui l’apprendista del custode lo faceva passare quando lo accompagnava a casa: aveva un passo lento e sembrava davvero distrutto.

“Ehi…” disse dolcemente Feuilly quando il biondino aprì la portiera della sua Peugeot 107 e si sedette stanco sul sedile. “Ti ha massacrato oggi, eh?”

“No…” disse Enjolras debolmente chiudendo la portiera e appoggiandosi ad essa col gomito, in modo da potersi sostenere la testa con la mano. “No, è solo una leggerissima stanchezza per l’accumulo delle cose da fare.” Gli occhi nocciola di Feuilly si posarono sul viso di Enjolras: sembrava quasi sciupato tanto era segnato dalla stanchezza. Senza contare che come si era seduto, Enjolras aveva chiuso gli occhi, quasi stesse dormendo: Feuilly pensò che avesse bisogno di riposare gli occhi.

Feuilly immaginava già di conoscere la risposta, ma volle comunque provare a proporre ad Enjolras: “Forse dovresti prenderti una pausa…”

“No” disse Enjolras tirandosi su, quasi volesse dimostrare di essere in forma. “No, no: non mi serve.”

“Ne sei sicuro? A me sembri parecchio sconvolto…”

Enjolras si voltò verso di lui, si appoggiò al poggiatesta, gli sorrise e aggiunse: “Perché continuate a dirmi tutti che dovrei riposare? Non mi serve, davvero…” Feuilly non riuscì a rispondere al suo sorriso e restò a guardarlo serio, facendo così incupire anche Enjolras, il quale tornò a guardare davanti a sé. “E comunque non ho il tempo di riposare, quindi è fuori discussione che io lo faccia.”

“Non dovresti affaticarti.” Feuilly sentì Enjolras sospirare, quasi fosse stufo di sentirsi dire sempre le stesse cose. Poi si tirò in avanti verso di lui, portando la mano sul suo sedile e aggiunse, visibilmente agitato: “Non fare così: lo dico per te! Hai troppi impegni, Enjolras, tra la scuola, la manifestazione, con me, ora la punizione... Soffri anche di insonnia, accidenti! Se fatichi a dormire la notte, a maggior ragione…”

“Feuilly” lo interruppe Enjolras senza voltarsi. Seguì qualche istante di silenzio, durante il quale Enjolras si girò verso di lui di nuovo e disse: “Smettila anche tu di preoccuparti per me, ok? Io sto bene. Quando avremo fatto la manifestazione avrò meno da fare e riposerò un po’, dopodiché attenderò che finiscano anche i giorni di punizione con Javert per ricominciare tutto con i miei soliti ritmi. Ma adesso non posso fermarmi: è stata un’idea mia e devo seguirla fino in fondo… ok?”

Feuilly non sapeva cosa rispondere: avrebbe preferito continuare a dargli contro, ma il tono che Enjolras aveva usato, oltre a tradire la sua stanchezza, aveva anche fatto capire che Enjolras non avrebbe ammesso replica.

“Adesso andiamo a casa, per favore” disse Enjolras più dolcemente, quasi stesse cercando di calmarsi. “I ragazzi ci aspettano per fare il punto della situazione.” Il ragazzo dagli occhi nocciola non replicò: restò a fissare Enjolras preoccupato e irritato allo stesso tempo per non essere riuscito a farlo ragionare; poi portò lo sguardo sulla strada davanti a sé, emise un leggero sospiro rassegnato e avviò il motore della piccola vettura pronto a far rotta verso il Musain.

 

“Scusate il ritardo!” disse subito Enjolras avanzando verso il tavolo rotondo a cui stavano seduti gli altri membri del gruppo, mentre Feuilly restò indietro per appendere la giacca all’attaccapanni. Il biondino non era nemmeno passato dalla stanza a lasciare giù lo zaino o a darsi una sistemata: aveva salito le scale in fretta ed era corso immediatamente dagli altri ragazzi, lasciando cadere lo zaino accanto alla sua sedia e mettendo la giacca sullo schienale. “Dov’è Bossuet?” chiese sedendosi.

“A farsi una doccia” disse Joly tranquillamente. “Ha avuto la sua solita sfortuna.”

“Che è successo?” gli chiese Enjolras, guardandolo dritto negli occhi. Distolse lo sguardo dal ragazzo dai capelli castani solo per un attimo, quando sentì Feuilly sedersi al suo solito posto salutando Combeferre e Jehan.

“In pausa pranzo, mentre voi due non c’eravate,” iniziò Joly indicando lui e Feuilly, “siamo usciti in cortile per vedere se ancora non avevamo parlato con qualcuno. Solo che alcuni ragazzi hanno fatto un po’ di casino, quindi Javert è uscito e ci ha sorpresi: Bossuet si è offerto di prendersi la colpa…”

“… e la disdetta ha deciso che oggi Javert avrebbe preso provvedimenti più incisivi di una nota disciplinare, quindi sono finito a sistemare il magazzino pieno di polvere della biblioteca” terminò Bossuet, avvicinandosi al suo ragazzo da dietro e mettendogli entrambe le mani sulle spalle. “Ero pieno di polvere e Joly ha deciso che avrei dovuto farmi una doccia prima che tornassi o avrebbe sofferto delle sue finte allergie tutta la sera standomi accanto” aggiunse scherzando e dando a Joly un bacio sulla testa.

Joly alzò lo sguardo verso di lui, lo fulminò e disse: “Guarda che, allergico o no, non fa comunque bene respirare tutta quella polvere.”

“Ma tu dici di esserne allergico, no?” gli chiese il ragazzo pelato sedendosi.

“Certo, perché lo sono” disse Joly prendendo un sorso di tè dalla sua tazza. Feuilly notò che i ragazzi dovevano aver pensato di prendere un tè con biscotti durante la riunione, forse per scaldarsi un po’ in quella fredda giornata uggiosa. Bossuet si lasciò scappare un risolino leggero e scosse la testa rassegnato e divertito assieme, alzando poi lo sguardo verso la cucina. Feuilly si girò per vedere cosa avesse attirato la sua attenzione e vide Grantaire avanzare verso di loro con una tazza per lui e con quella rossa di Enjolras, portando loro anche le scatole dei vari tipi di tè che suo padre da anni gli portava regolarmente: era da quando si erano conosciuti che ogni tanto, nel tardo pomeriggio, Grantaire metteva a completa disposizione la selezione di tè di suo padre per l’orario della merenda, almeno finché per l’inverno non gli arrivavano anche le cioccolate.

“Ehi biondo” disse Grantaire con un grande sorriso, mettendo la tazza di fronte ad Enjolras.

“Non credevo avresti partecipato…” disse Enjolras con un’espressione strana in volto, forse un po’ confusa, quasi volesse sorridere ma non fosse sicuro che avrebbe dovuto farlo.

Grantaire fece spallucce, restò a guardarlo sorridendo e disse: “Sai che non voglio prendere parte alla manifestazione, ma non mi andava di chiudermi in camera e stare solo soletto.” Enjolras sembrò allarmarsi dalla risposta di Grantaire, quindi il ragazzo dai riccioli scuri lo rassicurò: “Tranquillo: non darò fastidio, hai la mia parola.” Poi mise una bustina di tè verde alla menta forte, il solito che prendeva Enjolras, nella sua tazza e vi versò dell’acqua calda. “Adesso pensa a scaldarti un po’: avrai preso freddo lì fuori.” Effettivamente la giornata era davvero gelida in quella sera di inizio ottobre, tanto che, mentre sceglieva un gusto per sé, Feuilly vide Enjolras mettere entrambi le mani sulla sua tazza per riscaldarle, mentre Combeferre gli chiedeva se voleva che gli andasse a prendere un maglione più pesante o una coperta in camera, ma il biondino rifiutò, ringraziandolo comunque per il pensiero. Combeferre chiese la stessa cosa a Feuilly, ma lui non sentiva particolarmente il freddo, quindi la sua risposta non fu differente da quella del leader.

“Dunque:” riprese Enjolras, “facciamo il punto della situazione. Combeferre…”

“Ho tutto segnato qui” disse Combeferre aprendo una piccola agenda con la copertina in cuoio marrone con la chiusura a bottone: quando l’aprì, Feuilly vide che all’interno aveva una seconda copertina con disegnata una cartina antica e alcune scritte in inglese, quindi pensò che fosse un piccolo souvenir che il ragazzo aveva preso a Londra.

“Allora: il volantino ha fatto il giro di tutte le classi?” chiese Enjolras guardando le pagine dell’agenda.

“Da quello che ho scritto io sì.”

“Adesioni?”

“Alcune le ho tenute io” disse Joly porgendogli un piccolo plico di fogli. “Ma mi sembrano poche per coprire tutte le classi dell’istituto… hai fatto un giro anche oggi, per caso?”

“Ah, le ultime le ho io” disse Feuilly recuperando un plico di fogli dalla borsa del suo computer che aveva appeso alla sedia. Poi, cercando nella borsa i fogli con le adesioni, precisò: “Sono passato oggi a terminare il giro delle classi che mi avevi detto seguendo l’orario.”  Quando finì di rovistare nella borsa porse i fogli ad Enjolras, il quale li prese e iniziò a guardarli assieme a Combeferre e Courfeyrac. “I ragazzi hanno fatto come avevi detto: hanno lasciato il foglio nel cassetto della scrivania al termine della lezione con scritto anno e sezione della classe.”

Enjolras studiò i fogli con molta attenzione confrontandosi con il solo sguardo con Combeferre e Courfeyrac. “A me sembrano degli ottimi numeri” disse Courfeyrac dando un’occhiata al plico di fogli direttamente dalle mani di Enjolras.

“Sono d’accordo” disse Combeferre prendendo in mano i fogli. “Vedo che la maggior parte dei rinunciatari sono i primini, ma non fatico a crederlo e, sinceramente, nemmeno li biasimo: in fin dei conti è giusto che non se la sentano tutti di rischiare durante i primi giorni.”

“Certo, certo: avevamo deciso di lasciare a tutti libera scelta, quindi è giusto così” disse Enjolras con lo sguardo fisso di fronte e sé, quasi stesse riflettendo. “Novità dal fronte esterno?”

“Oggi abbiamo raccolto alcune adesioni da parte di ragazzi che ci hanno detto di non aver firmato prima o perché erano assenti o perché volevano rifletterci” disse Bossuet passandogli alcuni fogli ed Enjolras si mise ad esaminare anche quelli.

“Inoltre” attirò la sua attenzione Courfeyrac, mentre Combeferre recuperava dalle mani di Enjolras tutti i fogli, “mentre ti aspettavamo abbiamo fatto un veloce calcolo di quanti avevano aderito sul totale degli studenti: occhio e croce, parteciperanno quasi tutti.”

“Adesso basta capire quando scenderemo nel piazzale no?” chiese Bahorel sporgendosi verso Enjolras: al solito sembrava impaziente di agire.

“Abbiamo un numero più preciso?” chiese Enjolras.

“Poco meno di quattro quinti, aggiungendo anche le firme raccolte oggi” disse Combeferre guardando la sua agendina prima di prendere un sorso di tè: Feuilly notò che mentre gli altri parlavano, Combeferre aveva calcolato il numero dei partecipanti aggiungendo ai vecchi dati quelli nuovi. “Mi sembra ottimo: si direbbe che Javert non stia simpatico a molti.”

“Oppure che negli anni la tua popolarità è aumentata, biondino!” disse con un sorriso compiaciuto Bahorel, alzando la tazza che aveva in mano quasi come segno di brindisi al leader.

 “Abbiamo solo centrato il bersaglio con un argomento che sta a cuore a molti” constatò Enjolras imbarazzato, quasi volesse cercare di farlo ragionare. “Ma comunque non è questo il punto.” Detto questo, si alzò in piedi e guardò uno ad uno gli altri ragazzi negli occhi. “Javert ha il giorno libero tra due giorni, quindi approfitteremo della sua assenza per fare un ultimo giro nelle aule e avvisare che la manifestazione sarà lunedì prossimo: entreremo in aula regolarmente e usciremo tutti fuori al suono della campanella della seconda ora.”

“Verrà fuori un bel putiferio, eh?” chiese Bahorel, visibilmente emozionato all’idea. “Sarà interessante!”

“Non sarebbe meglio farla prima dell’inizio delle lezioni?” provò a proporre Jehan. “Come organizzazione, se non altro…”

“Forse, ma non possiamo dare a Javert il tempo di scendere per cercare di riportarci in aula. Dobbiamo agire tempestivamente e in modo del tutto inaspettato” disse Combeferre con molta dolcezza: Feuilly capì che lui, Enjolras e Courfeyrac dovevano aver già parlato tra di loro sul da farsi.

“Marius” lo chiamò Enjolras. “Te la senti di arrivare fino in fondo?”

“Certo” rispose senza esitazione Marius, tenendo tra le mani la sua tazza. “Stiamo facendo la cosa giusta, quindi voglio essere dei vostri fino alla fine.”

“Feuilly” attirò la sua attenzione Enjolras. “Pensi di poter aprire il cancello senza essere visto? Sai che non voglio farti rischiare il lavoro…”

Feuilly guardò il biondino in silenzio per qualche secondo, gli sorrise dolcemente, annuì con la testa e finalmente rispose: “Non ti preoccupare per me: ci starò attento!”

Enjolras rispose subito al suo sorriso, guardò gli altri e disse: “Allora domani passeremo in tutte le aule ai cambi dell’ora per avvisare tutti del piano d’azione. Domani ci divideremo con calma i compiti quando avremo in mano l’orario. Per ora, la riunione è finita qui.”

 

Il lunedì successivo, la giornata iniziò come tutte la altre: Feuilly aveva aperto le porte delle aule, alzato tutte le tapparelle, aperto il cancello del parcheggio sul retro per l’arrivo dei professori e si era messo a sorvegliare il cancello d’ingresso. All’apparenza era tutto regolare, ma Feuilly sapeva che di lì ad un’ora sarebbe scoppiato un finimondo. La settimana prima, il giorno dopo la riunione, Feuilly aveva aspettato che Fauchelevent uscisse dalla bidelleria, preso la tabella degli orari appesa sull’armadio, la aveva fotocopiata e aveva consegnato la copia ad Enjolras, in modo che lui e gli altri ragazzi potessero fare il giro delle diverse classi sapendo esattamente dove trovare gli altri studenti. Mentre sorvegliava il cancello, vide arrivare il resto del gruppo: avanzavano normalmente, come se nulla fosse, passarono accanto a Feuilly salutandolo ed entrarono in aula; solo Enjolras e Marius si fermarono a parlare un attimo con lui, visto che il biondo leader doveva definire le ultime cose con Feuilly. Quando tutti gli studenti furono entrati, Feuilly chiuse il cancello e si avviò verso la bidelleria ad occuparsi delle solite faccende, ma sempre attento all’avvicinarsi dell’ora X.

Pochi minuti prima del suono della campanella, Feuilly si trovava in bidelleria a segnalare gli assenti per la segreteria basandosi sui fogli su cui i professori segnavano le assenze nella classe che avevano in custodia per quella lezione, quando sentì un passo leggero avanzare velocemente verso di lui. Alzò lo sguardo e vide arrivare verso di sé Enjolras: fingere di sentirsi male per avere il permesso di uscire doveva aver funzionato. Il suo arrivo voleva dire solo una cosa: era giunto il momento di entrare in azione. I due ragazzi si assicurarono che non passasse nessuno, quindi Feuilly prese le chiavi del cancello e le diede ad Enjolras, dopo di che si allontanò dalla bidelleria per portare i fogli in segreteria, come stabilito. ‘Dovrai allontanarti dalla bidelleria, così penseranno che le chiavi le abbia prese da solo’ gli aveva detto quella stessa mattina Enjolras. Quando arrivò al primo piano, anche se Enjolras gli aveva chiesto di non farlo, Feuilly guardò giù dalla finestra, per assicurarsi che tutto fosse a posto. Come immaginava, il piano del biondino era andato a buon fine: Enjolras andava e veniva indisturbato nella strada tra la scuola e la chiesa e stava portando fuori i manifesti e gli striscioni che il resto del gruppo aveva preparato e nascosto nel capanno del custode accanto all’ingresso. Poco dopo tempo, Feuilly vide arrivare Courfeyrac e Combeferre, i quali iniziarono subito ad aiutarlo a portar fuori tutto il necessario per la manifestazione.

Feuilly aveva appena lasciato i fogli in segreteria quando la sentì: la campanella che segnava l’inizio della seconda ora, nota in quel giorno come il segnale convenuto per l’inizio della rivolta! Non fece in tempo a smettere di suonare che subito al suo suono si aggiunsero gli schiamazzi e il rumore dei passi dei ragazzi che correvano fuori dalle loro aule. Feuilly vide correre nei corridoi tantissimi ragazzi, tutti diretti verso l’esterno: tra questi riconobbe Jehan, che correva verso l’esterno in testa ai suoi compagni di classe, e sentì distintamente la voce di Bahorel che incitava i ragazzi ad uscire. Quando il corridoio si fu liberato, alcuni insegnati uscirono dalle aule lentamente, confusi, con gli occhi persi nel corridoio che cercavano sguardi amici con cui confrontarsi, probabilmente sperando in una risposta, che comunque non arrivò. A Feuilly venne da ridere nel vedere la scena, ma si costrinse a fingersi altrettanto confuso, in modo da non destare sospetti, e ai professori che lo guardavano con occhi interrogatori, rispondeva con un’alzata di spalle e uno sguardo perso. Ad un certo punto, il professor Valjean passò davanti alla segreteria, probabilmente all’inseguimento dei suoi studenti, ma nel vedere Feuilly si fermò e avanzò verso di lui.

“I-io non capisco…” sentì dire al povero professor Mabeuf con un filo di voce confusa, appoggiandosi allo stipite della porta per non svenire.

“Feuilly!” richiamò subito la sua attenzione l’insegnante di filosofia. “Che cosa sta succedendo?”

Feuilly si sentì colto in fallo. “P-perché crede che io lo sappia… professor Valjean?”

“Perché ho visto chiaramente Bahorel correre fuori come un pazzo e dare direttive” gli spiegò Valjean indicando la direzione in cui erano corsi gli studenti. “Lui fa parte del tuo gruppo di amici e scommetto che tutto questo è stato organizzato da più persone. Feuilly: l’ho capito che sono stati loro, e so bene che sono tuoi amici: devono averti messo al corrente di tutto questo.”

Beccato: ora Feuilly avrebbe dovuto confessare e sperare che il professore non gli facesse perdere il posto di lavoro… o addio soldi per la scuola! “Vede… professore, io…”

“NON TOGLIETECI LE NOSTRE ATTIVITÀ!” si sentì una voce proveniente da fuori. Valjean e Feuilly si girarono d’istinto verso il corridoio che conduceva alla grande balconata occupante il centro della facciata che dava sulla strada: era la voce di Enjolras, Feuilly la riconobbe immediatamente. “NON TOGLIETECI LE NOSTRE ATTIVITÀ!” ripeté accompagnata da altre poche voci che Feuilly conosceva bene: ora c’erano anche i suoi amici ad incitare gli studenti insieme a lui. Non servì che lo urlassero un’altra volta prima che si aggiungessero anche le voci degli altri studenti, fino a creare un motto corale ritmico e ben scandito.

“Che sta succedendo qui?!” chiese una voce maschile profonda e furibonda: il professor Javert uscì arrabbiato nero dal suo ufficio, camminando spedito verso la balconata. Indossava dei pantaloni scuri e una camicia bianca, segno evidente che doveva essere uscito subito dopo essersi ripreso leggermente dallo shock dei rumori dei passi, dato che non aveva nemmeno preso la giacca. Non perse tempo e corse subito verso la balconata per osservare cosa stesse accadendo. Valjean incrociò lo sguardo di Feuilly e il ragazzo vide i suoi occhi allarmarsi.

“Salverò il salvabile!” disse Valjean mettendogli una mano sulla spalla, quasi volesse rassicurarlo. “Vieni con me!” L’apprendista custode e il professore di filosofia si avviarono velocemente verso la balconata, mentre fuori i motti dei ragazzi ancora rimbalzavano contro le pareti della cattedrale direttamente nell’istituto. Quando arrivarono a destinazione, Javert si trovava leggermente a destra rispetto al centro del balcone e stava appoggiato alla ringhiera in marmo, osservando verso il basso con occhi pieni di severa ira. Valjean andò immediatamente ad occupare il punto a sinistra rispetto al centro e si appoggiò alla ringhiera coi gomiti, osservò giù, dopodiché emise un leggero risolino divertito, ottenendo in risposta un sorriso compiaciuto di Feuilly, che però non vide, e uno sguardo fulminante da parte di Javert.

“Monsieur Feuilly!” disse Javert voltandosi verso di lui, facendo sussultare leggermente il ragazzo, che sentì il bisogno di deglutire la saliva. “Saprebbe spiegarmi tutto questo?!” chiese severamente il professore indicando con la mano ciò che stava accadendo sotto di loro. Feuilly prese coraggio e si avvicinò, sporgendosi dalla balconata alla destra di Javert. Da lì vide chiaramente che i ragazzi avevano usato alcune vecchie casse in legno per creare un podio su tre livelli: sul gradino più basso, Jehan e Marius stavano incitando la folla di studenti a scandire bene le parole del loro motto, ritmicamente accompagnati dal suono provocato da una percussione con cui Bahorel scandiva il ritmo, mentre Joly e Bossuet sollevavano uno striscione con scritto ‘NO ALLA CANCELLAZIONE DELLE ATTIVITÀ EXTRASCOLASTICHE’; immediatamente sopra, Courfeyrac e Combeferre agitavano in aria i pugni a tempo con il ritmo scandito da Bahorel e aiutavano gli altri ragazzi ad incitare i cori della manifestazione; in cima al podio improvvisato, Enjolras sventolava un’altrettanta improvvisata bandiera e urlava quanto più forte poteva il motto della loro causa. Feuilly vide anche il povero Fauchelevent che camminava accanto alla folla cercando di riportare gli studenti all’interno dell’edificio e Grantaire fermo accanto al cancello a godersi la scena con uno strano sorriso in volto. I ragazzi stavano anche attirando l’attenzione dei cittadini che passavano per il piazzale della cattedrale senza capire cosa accadesse.

“Non saprei dirle, professore…” disse timidamente Feuilly, cercando di nascondere il suo orgoglio nel vedere quanti ragazzi erano là sotto a sostegno dei suoi amici.

“Lui era in segreteria, Javert” lo difese Valjean con grande sorpresa di Feuilly. “Evidentemente qualcuno ha approfittato della sua assenza per prendere le chiavi, altrimenti non si spiega.”

L’attenzione dei tre uomini tornò sulla manifestazione, quando i cori diminuirono e sopra ad essi si alzò una sola voce. “IL VICEPRESIDE VUOLE TOGLIERCI LE ATTIVITÀ EXTRASCOLASTICHE!” urlò Enjolras appoggiando la bandiera, mentre altri ragazzi urlavano risposte in suo sostegno. “QUESTO VI SEMBRA GIUSTO PER NOI?!”

“NO!” rispose l’intera folla.

“GLI PERMETTEREMO DI FARCI QUESTO?!”

“NO!”

“NON TOGLIETECI LE NOSTRE ATTIVITÀ!”

“NON TOGLIETECI LE NOSTRE ATTIVITÀ! NON TOGLIETECI LE NOSTRE ATTIVITÀ!”

“MONSIEUR ENJOLRAS!” urlò irato Javert. “CHE COSA CREDE DI DIMOSTRARE?!”

Enjolras alzò lo sguardo verso il professore, consegnò la bandiera a Combeferre e gridò: “LEI HA DECISO DI CANCELLARE UNA COSA CHE ERA IMPORTANTE PER TUTTI NOI! LEI DEVE PENSARE AL BENE DELLA SCUOLA E DI TUTTI I SUOI STUDENTI, FINANZIANDO LE ATTIVITÀ CHE INTERESSANO LORO, NON È COSÌ?!” Enjolras fece una pausa nella quale Javert sembrò non sapere cosa rispondere. Allora Enjolras si lasciò sfuggire un sorriso di sfida: “BEH: SI GUARDI ATTORNO!” Indicò con le braccia tutta la folla attorno a sé, guardando tutti gli studenti, poi tornò a fissare il vicepreside e riprese: “NON PUÒ CANCELLARE QUALCOSA CHE È IMPORTANTE PER TUTTI QUESTI STUDENTI! NON TOGLIETECI LE NOSTRE ATTIVITÀ!” Ricominciarono così i cori che alimentarono ancora di più lo sdegno e l’ira di Javert.

“MONSIEUR ENJOLRAS!” Feuilly notò che Enjolras continuò ad urlare, mentre Combeferre si voltò a guardare il professore. “SE QUESTA STORIA NON FINISCE IMMEDIATAMENTE, PUÒ STAR PUR CERTO CHE VERRÀ SOSPESO O FORSE ANCHE ESPULSO, SONO STATO CHIARO?!” Combeferre sembrò trasalire e cercò di avvisare Enjolras, che sembrava non essersi accorto dell’avvertimento del vicepreside, anche se forse non se ne stava proprio curando. Feuilly avrebbe voluto chiamarlo e fermarlo, ma non ne ebbe il tempo.

“Che cos’è tutto questo baccano, professor Javert?!” disse ad alta voce qualcuno proveniente da dietro i tre uomini sulla balconata: il preside, monseigneur Myriel, avanzò con passo deciso verso di loro, fino a posizionarsi tra Valjean e Javert da dove guardò la scena assieme a loro. “Jean, si può sapere che cosa succede?” chiese il vecchio ex vescovo a Valjean.

“Una manifestazione, monseigneur!” rispose Valjean. “E anche in grande stile, oserei dire.”

“Signor preside, non possiamo tollerare un comportamento del genere!” suggerì irato Javert. “Monsieur Enjolras ha passato nettamente il limite con questa trovata!”

“Non perdiamo la calma!” consigliò sorridente il vecchio preside. “Ha detto monsieur Enjolras, professore?”

“Sì, signor preside.”

“ALEXANDRE!” chiamò Myriel. “ALEXANDRE, ASCOLTAMI!” Enjolras si voltò e restò a fissare il vescovo. “DIMMI, FIGLIOLO: CONTRO COSA TI STAI RIBELLANDO, QUESTA VOLTA?”

“VOLETE TOGLIERCI LE ATTIVITÀ EXTRASCOLASTICHE SENZA CERCARE UNA SOLUZIONE MIGLIORE PER NOI!” gridò Enjolras visibilmente arrabbiato. “SIAMO QUI PERCHÈ NON VOGLIAMO PERMETTERLO! RESTEREMO QUI SOTTO FINCHÈ NON SI CERCHERÀ UNA SOLUZIONE EFFICACE PER SALVARE I FONDI E LE NOSTRE ATTIVITÀ! SONO NOSTRE DI DIRITTO!”

“Capisco…” sembrò fermarsi a riflettere Myriel serio.

“Signor preside,” cominciò Javert con elegante impazienza e evidente rispetto, “lasci che me ne occupi io.”

“Non servirà, professore, ma la ringrazio” gli rispose Myriel con un dolce sorriso e un gesto della mano, come per tenerlo buono. “VIENI SU, CHE NE PARLIAMO DAVANTI AD UN BUON CAFFÈ!”

Enjolras si immobilizzò, impietrito dallo stupore, mentre Combeferre e Courfeyrac, aiutati dagli altri ragazzi cercavano di calmare la folla. Anche Javert sembrò sorprendersi: “Ma signor preside…”

“Niente ‘ma’, amico mio” lo fermò immediatamente il preside pur con una certa dolcezza. “Voglio sentire quello che ha da dire. Gabriel!” chiamò infine Myriel. Feuilly, tanto sorpreso quanto il professore, ma anche molto contento dell’iniziativa, si avvicinò silenzioso. “Assicurati che Alexandre Enjolras venga nel mio ufficio e che gli altri studenti tornino nelle loro aule.” Fu così che Feuilly si congedò dai tre professori, correndo entusiasta dai suoi amici.

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Capitolo 32
*** Io vado al parco! - Enjolras ***


Enjolras

“ENJOLRAS!” Il ragazzo guardava ancora verso la balconata quando sentì qualcuno chiamarlo. Si voltò verso il cancello e vide Feuilly uscire in strada e arrivare verso di lui facendosi largo tra gli studenti: fu allora che Enjolras realizzò di aver sentito bene le parole che il preside gli aveva urlato poco prima, ma volle comunque capire come erano andate le cose sulla balconata, quindi lasciò che Feuilly salisse sulla pila di casse e gli chiese cosa fosse successo. Mentre attorno a loro gli studenti ancora si agitavano, forse confusi da quanto accaduto, Combeferre e Courfeyrac si voltarono subito per ascoltare le parole di Feuilly, portandosi rispettivamente a destra e a sinistra di Enjolras per guardare l’apprendista custode in viso, e, dopo un po’ che il biondino non si fece più sentire, anche gli altri membri del loro gruppo si girarono ad ascoltare. Persino Grantaire si avvicinò incuriosito dall’arrivo di Feuilly e salì sul secondo gradino, tra Bahorel e Courfeyrac. Quando Feuilly finì il suo racconto, Enjolras si immobilizzò con gli occhi fissi su un punto imprecisato, sentendo addosso gli sguardi interrogativi di Combeferre e quelli incuriositi e allarmati degli altri ragazzi. Dopo diversi secondi di silenzio, in cui Enjolras rifletteva confuso su cosa potesse volere il vescovo da lui, arrivarono pareri contrastanti sul da farsi da parte dei ragazzi.

“Vacci!” suggerì immediatamente Bossuet.

“Come sarebbe ‘vacci’?!” fu il commento fulmineo di Bahorel. “Non se ne parla!”

“Potresti finire nei guai…” pensò ad alta voce Joly.

“State scherzando, vero?” sembrò quasi sgridarli Courfeyrac. “Stiamo parlando del preside: è il vecchietto più dolce della terra!”

“Se si fosse trattato di Valjean non avrei avuto dubbi,” sostenne la sua tesi Bahorel, “ma del preside come fai ad essere sicuro che puoi fidarti? Lui è pur sempre il centro del potere lì dentro: è lui che ha sempre l’ultima parola sui provvedimenti da prendere! Molte cose per cui abbiamo protestato gli anni scorsi ci sono state anche per colpa sua!”

“Ma Bahorel…” si fece sentire Jehan, “…lui è sempre stato dolce con tutti noi…”

“Anche a me è sembrato molto buono e disponibile a venire incontro agli studenti” esplicò il suo punto di vista Marius. “Non vedo tutto questo bisogno di allarmarsi.”

“Già!” li sostenne Courfeyrac.

“Era per farci sentire che è nato tutto questo casino, no?” chiese Bossuet a Bahorel. “Ce l’abbiamo fatta! ‘Il centro del potere’, come l’hai chiamato tu, è disposto ad ascoltarci!”

“Non lo puoi sapere con certezza!” provò a farlo ragionare Joly. “Non sappiamo cosa vuole…”

“Ah, quindi tu sei d’accordo con lui?” chiese Bossuet al suo ragazzo.

“Io vorrei solo evitare di far finire Enjolras nei guai facendo una mossa falsa dettata dalla fretta e dall’entusiasmo!” si difese Joly. “Il mio è solo un invito a rifletterci con calma! Ha già abbastanza casini con Javert: perché aggiungerne altri?!”

“Non c’è da rifletterci!” disse Courfeyrac. “Il nostro obbiettivo era parlare con i piani alti ed è quello che abbiamo ottenuto! O no, Michel?”

“Io sono d’accordo con voi, ma anche con Joly” constatò con calma Combeferre. “Sta di fatto…”

“Io sono d’accordo con te, Courf!” disse Bahorel ad alta voce. “Non c’è da riflettere: lui non può andarci! Se salirà là da solo e si addosserà la colpa verrà espulso!”

“Bahorel,” lo richiamò Feuilly, “tu non eri lassù: non hai visto la calma con cui ha parlato il preside! Non vuole espellerlo: vuole solo parlare!”

“Come fai ad averne la certezza?!” disse Bahorel.

Ad Enjolras tutti quegli schiamazzi sommati alle voci degli altri studenti iniziavano a confondere e a dar fastidio: per tutto il tempo aveva mantenuto gli occhi azzurri assorti nei suoi pensieri, fissi sullo stesso punto di prima. Riconosceva tutte le voci dei suoi amici: li conosceva da abbastanza tempo per riuscirci senza problemi. Chiuse gli occhi strizzandoli, come se tutto quel casino gli stesse facendo venire mal di testa, e alzò una mano come segno agli altri di calmarsi. “Ragazzi…”

“Beh, ma anche se non va in presidenza cosa cambia?” constatò Marius. “Non credo che restando qui sotto la situazione migliori.”

“Anzi! Potrebbe peggiorare se non si presenta!” gli diede ragione Jehan, agitandosi.

“Allora andremo tutti assieme!” disse Bahorel. “Ci siamo dentro tutti quanti!”

“Ragazzi!” riprovò a richiamare la loro attenzione Enjolras, alzando leggermente la voce.

“Che stai dicendo?!” lo fermò Courfeyrac. “Ha chiesto di parlare solo con lui!”

“Ma lo lasceresti da solo?! Davvero?!”

“Te lo ripeto: non vuole parlare con noi!” disse nuovamente Courfeyrac. “Che facciamo? Ci presentiamo mano nella mano come i bambini delle elementari che vanno al bagno a due a due?”

“Lo sai che vuol dire questo?” disse Bahorel con tono di sfida. “Vuol dire che sei vigliacco e sleale!”

“Che cazzo dici?!”

“Ehi, calma!” cercò di fermarli Combeferre.

“Mi hai sentito bene!” disse ad alta voce Bahorel. Dopo quel commento, Enjolras sentì le voci parlare tutte assieme, alzandosi progressivamente di volume per farsi sentire sopra le altre. Il leader non riusciva più a distinguerle e il rumore caotico che creavano era diventato insopportabile.

“RAGAZZI!” gridò alla fine, aprendo gli occhi. “ADESSO BASTA!” Come sentirono la sua voce, tutti si zittirono e si voltarono a guardarlo. Enjolras riprese fiato e li guardò uno ad uno, fulminandoli con lo sguardo. “Il preside ha chiesto di parlare con me, ok? Apprezzo i vostri consigli, ma non serve che litighiate. La scelta finale spetta a ME, chiaro?!”

Nessuno fiatò: i ragazzi abbassarono lo sguardo e iniziarono a guardarsi tra di loro, dispiaciuti, tutti tranne Combeferre e Grantaire, che guardarono per un po’ i ragazzi prima di tornare a guardare il biondino. Quando notò che tutti sembravano essersi calmati, Enjolras prese un altro respiro, sospirò e mise le mani in vita, tornando a riflettere. A qual punto sentì Grantaire avvicinarsi e si voltò verso di lui. “Che cosa vuoi fare, piccolo?” gli chiese dolcemente il ragazzo dai riccioli scuri. Enjolras restò a fissarlo in silenzio, poi scambiò un’occhiata prima con Combeferre e poi con Courfeyrac, si rizzò sulla schiena e rispose.

 

“Avanti!” rispose il preside da dentro l’ufficio dopo che Enjolras bussò alla porta.

Enjolras prese un profondo respiro, stringendo nervosamente la maniglia, e aprì la porta lentamente, fingendo di essere il ritratto della tranquillità. “Voleva parlarmi, signor preside?”

“Ah, Alexandre!” esclamò monseigneur Myriel alzando lo sguardo dai fogli che stava consultando. Poi li appoggiò alla cattedra, si tolse gli occhiali da lettura, si alzò in piedi per salutare il ragazzo degnamente e, sfoggiando un sorriso rasserenante, aggiunse: “Ti aspettavo! Entra pure, ragazzo!” Quel sorriso avrebbe dovuto rassicurarlo, ma Enjolras nel vederlo si sentì solo più nervoso: chiuse la porta dietro di sé e vi rimase davanti ad attendere, cercando di nascondere la tensione, anche se stare lì di fronte al preside lo metteva veramente a disagio. Non era più entrato nell’ufficio del preside dopo il giorno in cui era arrivato per la prima volta a scuola due anni prima: per ogni problema era sempre andato nell’ufficio di Javert e mai solo per parlare tranquillamente. Non era abituato a trattare amichevolmente con gli esponenti del potere: casomai aveva fatto l’abitudine a ingoiare il rospo e restare ad ascoltare i diversi richiami o a discutere col vicepreside. Cosa poteva volere il vescovo? “Non essere timido, figliolo!” lo ridestò dai suoi pensieri l’anziano ometto. “Accomodati pure: non ti mordo mica, sai?” Ancora una volta, monseigneur Myriel sorrise e lo invitò a sedersi su una delle due sedie poltrone di fronte a lui, spostandola indietro in modo che il ragazzo potesse accomodarsi. Enjolras ebbe un attimo di esitazione, ma non se la sentì di far ripetere all’ex vescovo di sedersi, quindi procedette lentamente verso la sedia poltrona, aspettò che monseigneur Myriel si accomodasse, ma l’anziano ometto dalle lunghe basette bianche gli fece capire che si sarebbe dovuto sedere prima lui, perciò lo fece. Dopodiché, l’ex vescovo si avviò ad un carrellino accanto ad una libreria in legno scuro come le pareti, a sinistra della scrivania.

“Avevo fatto portare su del caffè” disse il preside versando un po’ della bevanda in una tazza. Porgendola ad Enjolras, monseigneur Myriel aggiunse: “Spero che sia ancora abbastanza caldo!”        Il biondo ragazzo prese la tazza dalle sue mani, ringraziando: avrebbe preferito che l’anziano ometto non facesse scomodare le signore giù al bar solo per lui, ma oramai non se la sentì di rifiutare. Enjolras si voltò assorto verso la scrivania, passandosi la tazza da una mano all’altra nervosamente. “Lo sai:” riprese Myriel, probabilmente perché sentiva il ragazzo silenzioso, “credo che il caffè gratuito e portato direttamente qui sia uno dei vantaggi di essere il preside!” Stava finendo di pronunciare queste parole quando si sedette alla sua sedia poltrona, di fronte allo studente, e si lasciò scappare una piccola risatina, che però Enjolras non riuscì a condividere, non seppe dire se per la tensione o perché la cosa un po’ lo infastidisse: restò a fissare il preside impassibile e, nel vedere il suo sguardo tornare serio, si sentì male, quasi in colpa per averlo messo in imbarazzo.

“Mi scusi, signor preside…” si sentì dire con un filo di voce, prima che l’anziano ometto lo interrompesse.

“Immagino che tu ti sentiresti più a tuo agio se io arrivassi al punto, giusto?” gli sorrise Myriel: dal suo volto, Enjolras capì che probabilmente non era stato interrotto per disagio o per prepotenza, ma perché il tono della sua voce era stato troppo basso per essere stato udito dal vescovo.

“Sì… sì, per favore…” disse Enjolras tornando a fissare in basso, sempre mortificato, ma senz’altro più tranquillo.

Myriel restò ad osservare il ragazzo con una tale dolcezza negli occhi che Enjolras non riceveva da parte di un adulto da anni. “Dunque” iniziò monseigneur Myriel. Poi si tirò indietro sulla poltrona e recuperò i fogli che aveva appoggiato prima, mise gli occhiali e disse: “Stavo dando un’occhiata ai richiami che ti ha fatto il professor Javert in questi anni.” Enjolras ebbe un leggero trasalimento: quel discorso non prometteva bene. “Tralasciando quelli per ritardo o per alcuni… dispetti, se così possiamo chiamarli, in cui sei stato richiamato assieme ai tuoi compagni, vedo che la maggior parte dei richiami è dovuta a piccole manifestazioni e proteste che hai scatenato.”

“Sì… sì io…” iniziò Enjolras prima di schiarirsi la voce. Tutta la sua normale sicurezza davanti alla dolcezza del vescovo era come stata demolita all’improvviso. “Io non sono esattamente il tipo di persona che si lascia scivolare addosso ciò che non le va bene.”

“Lo vedo” confermò sorridendo teneramente Myriel. “Qui il vicepreside riporta: protesta per l’inagibilità della seconda palestra, presto risolta, se la memoria non mi inganna; manifestazione contro la cancellazione della giornata di autogestione, su cui il professor Javert, ricordo perfettamente, non accettò compromessi; poi… protesta per la mancanza di uscite didattiche, ci stiamo ancora lavorando… insomma…” Il preside fece una pausa e diede una rapida occhiata al resto dei fogli. “Direi che hai diversi precedenti prima di oggi.”

Enjolras non seppe cosa rispondere: si sentì persino troppo in soggezione per prendere un sorso di caffè. Il preside gli lanciò un’occhiata silenziosa, poi si appoggiò con i gomiti alla scrivania e si protese leggermente verso di lui, dicendo: “Dimmi: che cosa dovrei fare con te?” Eccoci al punto critico: forse Bahorel aveva ragione.

“Sarei un vigliacco a chiederle clemenza” ammise Enjolras con sicurezza guardandolo negli occhi. “Direi che ho tirato la corda a sufficienza, forse persino più di quanto mi aspettassi.”

“Clemenza?” chiese Myriel, sembrando quasi sorpreso dall’affermazione di Enjolras. “Hai ragione: purtroppo quella non posso concedertela. Hai scatenato parecchio putiferio, là fuori.”

Enjolras non si scompose: era pronto ad accettare l’espulsione. “Allora immagino che non serva farle perdere altro tempo” disse alzandosi dalla sedia. “Vado a prendere le mie cose e me ne vado.”

“Ma come?” gli chiese il preside guardandolo dal basso. “Hai già deciso di farti espellere? Che strano: e io che avevo pensato di lasciarti due scelte.”

“Che intende dire?” Stavolta fu Enjolras a sorprendersi: dove voleva arrivare il preside?

Myriel accentuò il suo sorrise e fece segno ad Enjolras di tornare a sedersi: solo quando il ragazzo si fu accomodato, rispose: “Prima soluzione: ti do la possibilità di uscire dal guaio in cui ti sei messo tornando a casa come stavi giusto per fare. Sarai espulso e non saremo più un tuo problema.” Myriel fece una pausa, durante la quale Enjolras abbassò lo sguardo, messo nuovamente a disagio dal silenzio. “Seconda soluzione: puoi mettere la tua energia e le tue idee al servizio della scuola e… ‘legalizzare’ le tue azioni, diciamo” terminò l’anziano ometto attirando di nuovo il suo sguardo.

Enjolras sospirò leggermente e si appoggiò allo schienale. “Come?” Fu dopo quella domanda del biondo studente che l’ex vescovo si mise a cercare qualcosa in un cassetto della sua scrivania. Poi ne tirò fuori un volantino e lo tese ad Enjolras: ‘Elezioni studentesche: pronti ad eleggere il nuovo rappresentante di istituto’, vi era scritto sopra. “Presidente di istituto, signor preside? Io?”

“Sì” rispose subito Myriel senza esitazione. Ci fu un attimo di silenzio, in cui Enjolras continuò a leggere il volantino confuso. “Vedi ragazzo,” cominciò Myriel alzandosi, “con queste manifestazioni hai dimostrato di tenere alla vita degli studenti in questa scuola.”

“Ma il professor Javert…”

“Il professore dica pure quello che vuole!” lo fermò Myriel con un gesto della mano. “Alexandre,” si appoggiò con il fianco alla scrivania, quasi sedendosi sopra essa, e riprese, anche con un certo sdegno “in questi anni ho visto di tutto: studenti che proponevano di inserire più vacanze, che promettevano meno compiti, altri che volevano addirittura inserire il ballo di fine anno in stile Grease, o sull’onda di quei filmetti americani! Ma tu…” L’anziano preside si protese in avanti verso Enjolras e lo guardò fisso negli occhi: il ragazzo ricambiò con uno sguardo sorpreso e confuso assieme. “Tu hai in mente dei grandi progetti per questa scuola! Difendi i diritti degli studenti e loro ti ammirano per questo! Ho visto tantissimi ragazzi là fuori con te e ciò significa che sono lieti di appoggiarti, perché tu li sproni a battersi per ciò che per loro è importante! Avresti la possibilità di parlare direttamente con il professor Javert e con tutti gli altri insegnanti e loro avrebbero il dovere di stare ad ascoltarti e di cercare di venire incontro alle tue richieste!”

Enjolras fu dubbioso: questa poteva essere un’ottima possibilità, eppure l’idea di diventare anche lui parte integrante del potere all’interno della scuola non lo entusiasmava per niente. “Signor preside, io… io non saprei…”

“Non devi rispondermi subito” cercò di tranquillizzarlo il preside. “Ma pensa al bene che potresti fare per tutti gli altri studenti se diventassi loro rappresentante! Non è questo che vuoi?” Enjolras portò di nuovo lo sguardo sul volantino e rimase a fissarlo per qualche istante. “Promettimi che ci rifletterai, ragazzo” gli chiese il preside. Enjolras alzò di nuovo lo sguardo su di lui e poi annuì. Myriel riprese a sorridere, tornò sulla sedia e gli disse: “Adesso mi tocca avvisarti che purtroppo per oggi devo mandarti a casa, figliolo: per quanto mi dispiaccia, non posso lasciare che quest’ennesima tua iniziativa… per così dire ‘illegale’ passi impunita.”

“Quel che è giusto è giusto, signor preside” ammise Enjolras senza troppa sorpresa. “Se non altro Jav… il professor Javert non avrà troppo di cui lamentarsi.”

Enjolras stava per alzarsi per uscire, ma il preside lo fermò con un gesto della mano. “Finisci pure il tuo caffè, ragazzo, dopodiché potrai congedarti.” Come finì di parlare, prese la cornetta del telefono interno che era sulla sua cattedra e, facendo un numero, disse: “Chiedo a Gabriel di portare le tue cose e di accompagnarti a casa, ok?”

 

Quando Feuilly arrivò nell’ufficio, Enjolras si alzò subito dalla sedia e lesse preoccupazione e dispiacere nei suoi occhi nocciola: quello sguardo lo fece intenerire e sorrise all’apprendista custode, se non altro per cercare di rassicurarlo. “Che è successo, Enjolras?”

“Feuilly…”

“Nulla di grave, Gabriel” lo rassicurò subito il preside, portandosi avanti e mettendo una mano sulla spalla di Enjolras. Il biondino si girò verso Myriel, il quale gli sorrise e gli diede una lenta carezza sulla nuca, dicendo: “Per oggi è giusto che vada così, ma non ti preoccupare: il tuo amico non subirà altre punizioni.”

“Ma allora… allora che cosa…” Feuilly sembrava davvero confuso, ma anche titubante a porre davvero delle domande per dei chiarimenti proprio al preside.

“Sono certo che il nostro Alexandre ti racconterà tutto” gli rispose l’ex vescovo cercando di calmarlo. “Ora credo che dovreste proprio andare. E tu pensa a ciò che ti ho detto, figliolo!”

Il preside salutò i due ragazzi e li congedò sorridente.

Salendo in macchina, Enjolras scoprì che Feuilly aveva detto tutto agli altri ragazzi. “Ma che cosa è successo, Enjolras? Perché ti ha tenuto là dentro così tanto se per oggi ti ha sospeso?” Enjolras, anche se innervosito dal vedere dalla tendina di Whatsapp sul suo I-phone che i ragazzi gli avevano già scritto tantissime domande, tirò fuori dalla tasca il volantino che gli aveva consegnato Myriel e lo tese a Feuilly perché lo guardasse.

“Mi ha proposto di candidarmi come presidente di istituto.”

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Capitolo 33
*** Io vado al parco! - Marius (2) ***


Marius

“Ma dov’è? DOV’È???” chiese Courfeyrac mettendo in disordine tutti i cassetti dell’armadio: il contenuto della libreria lo aveva già buttato a terra in precedenza. Marius, seduto alla scrivania a cercare di studiare per la verifica di diritto, lo guardava aprire i cassetti nervosamente e lo sentiva ripetere in continuazione ‘Dov’è?’. Marius ci stava provando a concentrarsi, con tutto stesso, ma sentire il baccano che Courfeyrac stava facendo lo disturbava incredibilmente: aveva persino provato a tapparsi le orecchie, ma non era servito a granché. Aveva tenuto le mani sulle orecchie finché Courfeyrac non era arrivato a disfare i cassetti della scrivania: a quel punto, il giovane studente dal viso lentigginoso si era girato togliendo le mani dalle orecchie lentamente, un po’ confuso e seccato assieme.

“Ma si può sapere che diamine stai cercando?” gli chiese con una voce che tradiva una rassegnata impazienza. Courfeyrac nemmeno si girò: continuò a vuotare il terzo cassetto della scrivania con la velocità che si addice ad un tifone.

“Il mio codice civile!” disse il ragazzo dalle orecchie a sventola guardando in fondo al cassetto come se vi fosse nascosto qualcosa. Poi alzò un braccio come se stesse maledicendo il mobile e si guardò attorno, prima di gettarsi in mezzo al disordine che aveva creato, quasi volesse essere certo di non averlo lasciato lì in mezzo per sbaglio. “Ero sicuro di averlo da qualche parte!”

“Sì…” disse Marius sedendosi di traverso sulla sedia e notando il disordine che c’era sul pavimento: c’erano libri, quaderni, vestiti, il caricatore del telefono di Courfeyrac… tutto sparso e lasciato cadere come era capitato. Dopo un attimo di silenzio in cui Marius stette ad osservare Courfeyrac guardarsi attorno in mezzo al suo stesso disordine, lo guardò negli occhi e terminò: “Lo hai prestato ad Enjolras settimana scorsa…”

Courfeyrac, che stava ancora cercando in mezzo al mucchio solo con lo sguardo, si immobilizzò, spalancò gli occhi guardando Marius scioccato e, dopo qualche istante, urlò: “HAI RAGIOOOONE!” Dopodiché corse fuori dalla camera da letto, lasciando la porta aperta e Marius da solo in mezzo al disordine. Il lentigginoso ragazzo stava per rimettersi a studiare, quando dal corridoio sentì Courfeyrac bussare forte alla porta di un’altra stanza e gridare: “ENJOLRAS APRIMI! ENJOLRAS!”

Continuava a bussare con insistenza e forza, tanto da attirare l’attenzione di tutti i ragazzi del corridoio, che Marius sentì uscire dalle loro stanze.

“Courfeyrac la pianti?” Era la voce di Joly: si sentiva che era irritato dal baccano e, del resto, come biasimarlo? Courfeyrac stava facendo un tale rumore che probabilmente lo si poteva sentire anche ai piani superiori.

“Che succede?” chiese Bahorel. Marius si voltò lasciandosi la scrivania alle spalle e lo vide di fronte a sé, fermo davanti alla loro porta, con una camicia di jeans chiaro leggermente sbottonata in alto e dei pantaloni marrone scuro: come facesse ad essere sempre così ben vestito a Marius sfuggiva. “PERCHÈ SBRAITI TANTO?!”

“Sta cercando Enjolras per riavere indietro la sua copia del codice civile” gli spiegò Marius con tono esasperato. Era appena un mese che lui e Courfeyrac dividevano la camera da letto, eppure la costante e inesauribile energia che il ragazzo ricciolino aveva sempre addosso era già diventata per il suo compagno di stanza fonte di occasionale fastidio. Non aveva nulla contro Courfeyrac, anzi: con lui era stato sempre molto disponibile e gentile; però sentirlo gridare ad ogni ora del giorno stava diventando piuttosto irritante, specie visto che Courfeyrac non taceva nemmeno la notte.

“E c’è bisogno di fare tutto sto casino?!” chiese Bahorel più seccato di Marius.

“ENJOLRAS!” gridò nuovamente Courfeyrac intensificando la frequenza e la forza dei suoi colpi alla porta.

Il rumore stava diventando talmente fastidioso che Marius sentì persino Bossuet uscire dalla stanza per farlo smettere: “Courfeyrac… pensi di averne ancora per molto?”

Marius vide arrivare anche Grantaire di fianco a Bahorel, quasi del tutto nascosto da una larga felpa rossa con cappuccio con scritto ‘Duff beer’, la stessa che aveva messo quella mattina per andare a scuola. Alla fine, Marius si decise ad alzarsi dalla sedia per provare a fermare Courfeyrac e, mentre si avviava verso il corridoio, sentì un’altra porta aprirsi e una voce far zittire tutte le altre. “Hai finito di fare chiasso?!” Marius la riconobbe subito: era la voce di Combeferre. Quando arrivò nel corridoio e si mise accanto alla parete opposta all’ingresso della sua camera, Marius vide Bossuet appoggiato allo stipite della porta col braccio e Joly subito davanti a lui, mentre Combeferre era sull’uscio della sua stanza, con i capelli bagnati e indosso un accappatoio blu cobalto e le sue pantofole in tessuto scozzese azzurre.

“Non aprivate più!” si giustificò Courfeyrac aprendo le braccia, quasi fosse convinto di aver ragione.

“Ero sotto la doccia, Courfeyrac!” gli disse Combeferre con il suo caratteristico tono di rassegnata pazienza: quante volte Marius glielo aveva sentito usare in quel mese! Stando con loro era riuscito a capire che lui e Enjolras erano un riferimento per tutti i membri del gruppo, persino l’uno per l’altro. Quando non c’era Enjolras era a lui che si rivolgevano tutti quanti e, nel conoscerlo meglio, Marius ne capiva benissimo il motivo.

“E come facevo a saperlo, secondo te?!” gli chiese Courfeyrac dopo qualche secondo di imbarazzato silenzio: si vedeva che non aveva voglia di ammettere di aver esagerato.

Marius vide Combeferre chiudere gli occhi verdi prendendo un respiro profondo, scuotere la testa sospirando e chiedere molto pazientemente: “Che cosa ti serve?”

“Enjolras non c’è?”

“È forse venuto ad aprirti lui mentre io ero in doccia?” Nella domanda retorica di Combeferre si poteva leggere tutta quell’esasperata irritazione che il suo tono rassegnato non lasciava trapelare.

“Mi stai dicendo che non c’è?” chiese Courfeyrac quasi deluso sbirciando nella stanza.

“No, Courfeyrac” rispose pazientemente. “Non c’è.”

“Tra quanto torna?”

“È uscito con Jehan, non lo so quando torna” rispose Combeferre massaggiandosi una tempia, quasi quel trambusto gli avesse fatto venire mal di testa. “Posso sapere che cosa ti serve?”

“Tu pensa!” sembrò prendersela Courfeyrac, incrociando le braccia imbronciato. “Non si è quasi fatto sentire, non l’ho ancora visto e ora se ne esce senza nemmeno farmi sapere che è successo con il preside! Ti sembra corretto?” Marius non lo aveva mai visto reagire così e, forse, neanche gli altri, perché nel vederlo piantare i piedi a terra, il lentigginoso ragazzo aveva notato che i suoi amici si erano scambiati tutti quanti un’occhiata confusa e, forse, anche un po’ preoccupata. Solo Combeferre sembrava conoscere quella reazione.

“François…” lo chiamò pazientemente Combeferre. “Ha detto che lo racconterà a tutti a cena, ok? Ora: posso aiutarti io o hai bisogno di lui?”

“Ha il mio codice civile: mi serve per studiare” disse più tranquillo Courfeyrac.

“Entra e cercalo.” Detto ciò, Combeferre si spostò per lasciar passare Courfeyrac e chiuse la porta dietro di sé.

 “Ma che gli è preso?” chiese con un filo di voce Joly a Bossuet, ottenendo una alzata di spalle da parte del suo ragazzo.

“Quindi…” iniziò Marius attirando l’attenzione di tutto il gruppo, “quindi non lo avete mai visto nemmeno voi reagire così…”

“No… non che io ricordi” gli rispose Grantaire scambiando uno sguardo con Bahorel. Si guardarono confusi per un attimo, poi Grantaire si voltò di nuovo verso Marius e terminò: “Ma immagino che persino lui non possa essere sempre così allegro come appare: sarebbe anche normale, no?”

“Non dico di no! Solo…” Marius iniziò a sentirsi leggermente in colpa: non voleva certo dire che Courfeyrac dovesse essere solare tutto il tempo… Abbassò gli occhi e non seppe come proseguire il discorso, tra il senso di colpa e la preoccupazione per Courfeyrac.

“Ehi, non sentirti mortificato!” intervenne Bossuet, mettendogli una mano sulla spalla e sorridendogli. “Non hai detto niente di male, Marius: davvero!”

“Assolutamente!” disse immediatamente Grantaire, probabilmente sentendosi in colpa a sua volta. “Non volevo certo metterti in difficoltà: era solo una costatazione, tranquillo!”

“Non preoccuparti per lui” disse Joly dolcemente. “Vedrai che Combeferre risolverà tutto.”

“Ma sì!” disse Bahorel avvicinandosi. “In fin dei conti Courfeyrac non è tipo da tenere il broncio per tanto tempo!” Poi diede una pacca sulla spalla di Marius e gli disse: “Adesso goditi la pausa di silenzio prima che ritorni Courfeyrac!”

 

Il giorno dopo, Enjolras non era andato a scuola. Marius aveva passato la giornata a chiedersi cosa fosse successo al suo amico, fissando spesso il banco vuoto accanto a sé. Non riusciva proprio a concentrarsi sulla lezione, tanto che quando la professoressa di matematica lo aveva chiamato per risolvere l’esercizio, lui non era riuscito a rispondere e aveva ricevuto un piccolo appunto di demerito sul registro. Quel pomeriggio, con Javert non era andata molto meglio: il professore gli aveva fatto qualche domanda a cui lui non era riuscito a rispondere per mancanza di concentrazione.

Quella sera a cena, Enjolras non aveva voluto raccontare niente, esattamente come la sera precedente, in cui, inoltre, non si era nemmeno presentato a tavola. Aveva un’espressione davvero strana e non parlava quasi, se non ogni tanto sottovoce con Combeferre. Quelle volte che qualcuno dei ragazzi cercava di tirarlo su, il biondino abbozzava un sorriso, ma di più non faceva: quando veniva interpellato sembrava cadere dalle nuvole, non prendeva parte ai discorsi, rispondeva svogliatamente e non riusciva neanche a mangiare. Marius aveva cercato di parlargli nel pomeriggio nel momento in cui gli aveva portato su una chiavetta le registrazioni fatte in aula: di appunti non ne aveva presi visto che era troppo distratto, quindi dalla seconda ora aveva registrato le lezioni con il suo telefono. Tuttavia non aveva ottenuto altro che qualche rassicurazione piuttosto evasiva da parte del leader, che aveva scaricato sul suo computer le registrazioni con poca convinzione. Però una cosa l’aveva notata: quand’era entrato, sullo schermo del computer del ragazzo c’era aperto un file con scritto ‘Domanda di trasferimento’. Per tutta la durata della cena, Marius non aveva fatto altro che pensare a quel pdf: che Enjolras pensasse di andarsene? E perché?

Jehan uscì dalla sua stanza che la cena era già finita, dicendo che aveva fatto tardi perché aveva letto troppo. Come arrivò nella sala da pranzo, il minuto ragazzino si sedette a tavola e si fiondò sulla rainbow cake che Grantaire aveva voluto provare a fare quel pomeriggio, sperando di tirare su di morale Enjolras. ‘Non mi aspetto che faccia i salti di gioia, ma un dolce potrebbe aiutare!’ aveva detto a Marius mentre stava preparando la torta. Enjolras, nel vederla, aveva abbozzato qualcosa di simile ad un sorriso, ma non era riuscito proprio a mangiarla. Grantaire era subito apparso dispiaciuto, ma del resto era dal giorno prima che sembrava triste e preoccupato per il biondino.

“Non sarebbe meglio che mangiassi la ratatouille invece che direttamente il dolce?” chiese Joly guardando l’enorme fetta di torta che Jehan aveva tagliato e messo nel suo piatto.

“No, non ho molta fame, grazie!” gli rispose Jehan sorridente, prendendo in mano la forchetta pronto ad addentare il suo dolce. “Il dolce mi basta! È una torta così colorata: sembra buonissima!”

Bahorel guardò la grandezza di quella fetta di torta mentre beveva il caffè. “A guardare le dimensioni di quella fetta non si direbbe che tu non abbia fame…”

Jehan guardò concentrato il suo piatto, analizzandone il contenuto per bene, poi si voltò verso di lui, sorrise, strinse la forchetta tra le mani e disse: “Ma io ho sempre spazio per il dolce!”

“Hai sentito, biondino?” gli disse Grantaire. “Prendi esempio!” Enjolras sembrò non sentirlo nemmeno: continuava a fissare il suo piatto ancora pieno di verdure, tartassandole con la forchetta. “Enjolras…” riprovò un po’ preoccupato.

“Eh?” alzò la testa il ragazzo un po’ confuso.

“Dai, piccolo! Dicci che ti prende!” provò a farlo confessare Grantaire. “Non ci piace vederti così: ci fai preoccupare!”

“Scusate, ragazzi. Io…” iniziò Enjolras, “io non me la sento di parlarvi per ora…”

“Beh” cominciò Courfeyrac, alzandosi in piedi, “visto che l’umore è a terra, ho un annuncio da fare che forse vi tirerà su di morale…” Poi si voltò verso Enjolras e gli puntò l’indice contro: “E tu ascoltami perché riguarda te!” Enjolras rimase a guardarlo disorientato e Marius si sentì di condividere la sua confusione: diede un’occhiata attorno e notò che anche gli altri ragazzi sembravano confusi e si guardavano l’un l’altro come se pensassero di trovare una risposta ognuno nel resto del gruppo. “Ieri,” riprese Courfeyrac estraendo un foglio piegato dalla tasca della sua felpa arancione, “ho trovato questo in camera tua.” Poi porse il foglio ad Enjolras, che lo aprì e, leggendolo sembrò sbiancare.

“Come l’hai preso questo?!” lo interruppe Enjolras mostrandogli il volantino aperto.

“Era nel tuo comodino!”

“Sì, so dov’era!” rispose Enjolras leggermente irritato. “Ma tu come l’hai preso?! Hai frugato nella mia stanza?!”

“Beh, sì…” ammise Courfeyrac. “Mi serviva il codice civile che ti avevo prestato, ma tu non c’eri. Combeferre mi ha aperto” aggiunse indicando il ragazzo dai capelli biondo rame.

“Combeferre!” lo chiamò ad alta voce Enjolras, quasi lo stesse sgridando.

“Pensavo avrebbe preso solo il libro” iniziò a giustificarsi Combeferre, guardando Enjolras mortificato. Poi spostò gli occhi severi su Courfeyrac e disse: “Pensavo che QUALCUNO avesse imparato a non ficcare il naso negli affari altrui!”

“Si va beh: non interrompetemi!” cercò di tirarsi fuori dai guai Courfeyrac zittendo i due amici con la mano. Si schiarì la voce e riprese: “Annuncio a tutti voi che, grazie a me, Enjolras è ufficialmente candidato alle elezioni per il presidente di istituto!” Come finì di parlare, in tutti i ragazzi si lesse un certo entusiasmo: Marius lo notò. Anche lui la trovò una fantastica notizia: Enjolras come rappresentante degli studenti avrebbe potuto fare tantissime buone cose e difendere le reali necessità degli studenti con la forza, l’ardore e la perseveranza di cui solo lui era capace. Si alzarono subito cori di voci compiaciute ed entusiaste, che si confrontavano l’una sovrapposta all’altra su quello che il loro leader avrebbe potuto fare come presidente di istituto e incoraggiavano Enjolras a cogliere l’opportunità e confermare l’indomani stesso la sua candidatura. Tra le varie frasi che riuscì a cogliere, Marius sentì chiaramente Bahorel e Bossuet complimentarsi con Courfeyrac per il colpo di testa. Solo Combeferre e Marius rimasero in silenzio, ad ascoltare tutto ciò che dicevano gli altri ragazzi. Tuttavia, Marius notò che Enjolras non sembrava per nulla felice e osservava Courfeyrac con occhi increduli. Poi chiuse gli occhi e Marius vide Combeferre voltarsi verso di lui e farsi serio; lo vide mettere una mano sulla spalla del biondino e dirgli qualcosa che però non udì.

“Chi ti ha detto di farlo?!” chiese subito il leader infastidito. La sua reazione zittì tutto il gruppo

“Ma come?” chiese Courfeyrac sorpreso. “Non ti piacerebbe?!”

“Rispondi prima alla mia domanda!” ritornò sul discorso Enjolras. “Non hai pensato che se avessi voluto farlo lo avrei fatto io stesso?!”

“Avresti scelto di provarci comunque!” disse Courfeyrac facendo un gesto di indifferenza con la mano. “Ho solo velocizzato la tua scelta, tutto qui!”

“Ho capito” disse Combeferre mettendosi gli occhiali e tirando fuori la sua agendina. “Dovrò iniziare a pensare ai poster elettorali.”

Enjolras si voltò verso di lui, mentre Combeferre scriveva qualcosa sul suo taccuino, e disse ad alta voce, più sconcertato di quanto già non fosse: “Ah, ma quindi tu sei in complotto con questo qui?!”

“Ehi!” urlò Courfeyrac. “Io non mi chiamo questo qui!”

“Tu taci!” disse Enjolras puntandogli un dito contro.

“Perché reagisci così?” chiese Joly sporgendosi in avanti verso il biondino. “Pensa a tutto quello che potrai fare di utile…”

“Già! Sarà fantastico!” si espresse Bossuet. “Quando rappresenterai tutti noi studenti avremo la certezza che ci sarà qualcuno a battersi per noi! Sei talmente testardo che non ho dubbi che lotterai fino all’ultimo per farti valere!”

“Avresti la vittoria facile!” disse Grantaire guardandolo con uno strano sorriso sulla faccia, quasi ridendo. “Guarda solo due giorni fa quanto casino hai fatto, con tutti gli studenti che ti hanno seguito! A scuola ti conoscono praticamente tutti e agli altri ragazzi piaci: sei piuttosto popolare!”

“Non diciamo fesserie!”

“No, ha ragione” lo sostenne Bossuet. “Ci sono tantissimi ragazzi che sanno chi sei, a scuola!”

“Perché non accetti?” provò a chiedergli Jehan. “Se proprio non ce la dovessi fare, almeno ci avrai provato, non credi?”

Enjolras rimase in silenzio qualche istante, quasi ci stesse pensando, ma poi scosse la testa abbassando lo sguardo e rispose: “No, ragazzi… non me la sento di avere a che fare con i professori in questo modo…”

“Disse il biondo sedicenne che vuole lavorare in campo politico…” commentò Combeferre. Tuttavia, Enjolras non rispose e anche gli altri si zittirono e si guardarono perplessi e dispiaciuti. Marius si girò prima verso Courfeyrac, che, dopo aver guardato fisso Enjolras per qualche attimo, ricambiò il suo sguardo e poi, entrambi, si voltarono istintivamente verso Combeferre, come se lui avesse potuto rispondere. Combeferre, dal canto suo, restò a guardare Enjolras pieno di dispiacere, mentre Marius notò che anche gli altri membri del gruppo avevano iniziato a guardare il ragazzo dai capelli biondo rame.

Fu Bahorel a rompere il silenzio, emettendo un lungo sospiro. “Senti, biondino!” lo chiamò il robusto ragazzone con impazienza, appoggiando i gomiti sul tavolo. “Neanche a me piace l’idea di agire nella legalità, ma hai la grandissima opportunità di far valere finalmente la nostra voce! Inoltre potresti dire tutto quello che pensi a la-legge-sono-io e lui dovrebbe stare a sentirti! Pensa che incredibile soddisfazione!”

“Non funziona esattamente così, Bahorel…” gli fece notare Combeferre, prima di essere interrotto da un sospiro di Enjolras.

“Non lo so… ragazzi con Javert non… non è la stessa cosa!” fece notare Enjolras. “Mi darebbe contro a priori e ci sarebbe poco da fare!”

Marius pensò che l’unico modo per convincerlo fosse giocare sporco, suo malgrado, e tirare fuori ciò che aveva scoperto. “La tua alternativa sarebbe andartene?” chiese a bassa voce Marius. Tutti quanti lo guardarono con gli occhi spalancati, poi portarono i loro sguardi su Enjolras: il biondo ragazzo restò a guardare Marius fisso, lo sguardo pieno di sorpresa e di dispiacere insieme. “Ho visto la domanda di trasferimento sullo schermo del tuo computer… mi dispiace…” Enjolras sospirò e lo guardò con occhi severi, prima di abbassare lo sguardo.

“È vero?” chiese Jehan attirando la sua attenzione. “Vuoi andartene?”

“No…” disse Enjolras dolcemente. “No, non voglio andarmene… ma il preside mi ha dato due alternative: o mi candido o mi espellerà…”

“E tu ci stai davvero pensando?!” chiese Joly sconvolto.

“Volevo solo evitare di mettermi fretta” rispose Enjolras. “Non voglio patteggiare direttamente con i piani alti della nostra scuola, ma non voglio nemmeno andarmene e tornare…” Lì si interruppe e non proseguì più, nemmeno dopo una pausa, niente.

“Avanti, Enjolras!” riprese Courfeyrac richiamando il suo sguardo. “Saresti grandioso, io lo so!”

Enjolras passò uno ad uno gli sguardi ansiosi degli altri, evidentemente pensando a cosa fare. Marius si chiese se quando era stato nominato leader del gruppo la scena fosse stata simile: vedere il sostegno degli altri, al nuovo arrivato diede l’idea che i ragazzi avessero per lui un profondo rispetto. “E sia!” si pronunciò alla fine Enjolras. “Se voi pensate che dovrei farlo, allora lo farò, ma ad una condizione!” terminò prima che potessero gioire: tutti rimasero a fissare il suo indice sollevato con il fiato sospeso per la curiosità. Solo Combeferre e Courfeyrac, con cui Enjolras scambiò un rapido sguardo d’intesa, sembrarono aver capito cosa avrebbe detto e sorrisero annuendo. “Io confermerò la mia candidatura solo se voi sarete i membri del mio consiglio. Non posso presentare la lista da solo e non vorrei nessun altro con me. Se non siete pronti a prendervi questa responsabilità, io non lo farò.”

Ci fu di nuovo un rapido giro di scambi di sguardi, ma subito si trasformarono in sorrisi di approvazione e di assenso. Fu così che i ragazzi terminarono la serata a delineare i primi punti della lista di cose da modificare.

Il giorno dopo, Enjolras tornò con i ragazzi a scuola e, come prima cosa, l’intero gruppo accompagnò il leader dal preside Myriel perché potesse presentare la lista del loro consiglio studentesco con grande orgoglio dell’anziano vescovo.

 

Quel giorno, finalmente Marius riuscì a ritrovare la concentrazione per mettersi a studiare: il problema con Enjolras era risolto e lui era decisamente più tranquillo a riavere il suo amico e compagno di banco a lezione. Enjolras sembrava essere tornato il solito ragazzo deciso e forte di sempre: girava con fierezza e a chi gli chiedeva cosa fosse accaduto con il preside rispondeva ‘È una lunga storia, ma va tutto bene’.  Una volta finite le lezioni, il gruppo di ragazzi tornò a casa e Enjolras e Marius si misero ad un tavolo della sala comune a studiare per la verifica di diritto: ormai mancava solo quel pomeriggio alla temuta verifica del professor Javert, quindi non c’era tempo da perdere. Tuttavia, attorno a loro iniziò ben presto a crearsi un certo trambusto: ragazzi che andavano e venivano, televisione accesa, Jehan che, seduto accanto a i due studenti di scienze politiche, leggeva ad alta voce la lezione di letteratura… In tutta quella confusione, Marius rivisse il problema di due giorni prima e cercò di tapparsi le orecchie per studiare, ma proprio la confusione lo disturbava. Enjolras, invece, sembrava perfettamente a suo agio a studiare in mezzo a tutto quel baccano.

“Come fai?” chiese Marius, sorpreso. Enjolras lo guardò con occhi confusi, quasi non capisse a cosa si riferisse, quindi Marius chiarì: “Come riesci a studiare con questo casino?”

Enjolras alzò le spalle e rispose: “Mi aiuta a concentrarmi, in realtà: mi costringe ad isolarmi dal resto e a focalizzarmi maggiormente su quello che sto facendo.”

“A me distrae…” disse Marius provando a concentrarsi di nuovo.

“Beh…” iniziò Enjolras richiamando il suo sguardo: Marius notò che gli stava sorridendo, “io devo restare qui nel caso qualcuno abbia bisogno di me, ma non sei costretto a studiare con me se non ci riesci, davvero.”

“Proverò giù, allora” disse Marius prendendo le sue cose. “Éponine mi dice sempre che non succede mai nulla!” Detto ciò, salutò Enjolras e si recò nella hall della residenza e la trovò deserta.

Nella hall c’era solo Éponine che leggeva un vecchio libro seduta alla reception. “Éponine?”

La ragazza dai lunghi capelli neri alzò lo sguardo e gli sorrise: “Marius!”  Sembrava davvero contenta di vederlo: stare con lei lo metteva sempre di buon umore. “Ti serve qualcosa?”

“Su c’è un po’ troppo chiasso” le spiegò il ragazzo. “Dici che do fastidio se mi metto a studiare qui?”

“Assolutamente no!” gli rispose Éponine indicandogli le poltroncine. “Accomodati pure: qui non dovrebbe disturbarti nessuno! Anch’io sto studiando, quindi non ti darò fastidio!”

“Grazie!” Marius si sedette sulle poltroncine e riprese la lettura del tomo di diritto. La pace di quel posto lo stava facendo concentrare appieno: gli unici rumori che si sentivano erano quelli provenienti dall’esterno, come le auto che passavano ogni tanto per le due strade che affiancavano la residenza Musain, gli schiamazzi dei bambini che tornavano da scuola e delle persone che parlavano per strada. Tutto ciò non lo riusciva a distrarre, anzi: lo aiutava a concentrarsi e Marius pensò che sarebbe riuscito a finire anche gli ultimi due capitoli che doveva preparare per la verifica. Ad un certo punto, però, la porta a due ante accanto alla scala si spalancò e dalla sala da pranzo uscì madame Thénardier con un grande aspirapolvere tra le braccia. Marius sollevò lo sguardo e sperò che l’elettrodomestico le serviva ai piani di sopra, ma le sue speranze furono presto deluse quando madame Thénardier lo accese accanto al bancone.

Éponine alzò lo sguardo dal suo libro e vide sua madre armeggiare con l’aspirapolvere, poi si voltò verso Marius e, mortificata, si rivolse alla madre: “MAMMA, DEVI PER FORZA PASSARE L’ASPIRAPOLVERE ORA?!”

“DOVREI LASCIARE TUTTA QUESTA POLVERE IN GIRO, SECONDO TE?!” chiese madame Thénardier con tono furioso.

“NO, MA NON PUOI PASSARLO DOPO?”

“NO!” Nell’udire il tono perentorio di sua madre, Éponine tornò a guardare Marius, il quale le fece capire che non c’era nessun problema: l’aspirapolvere sollevava moltissimo rumore, ma in fin dei conti non gli dava poi così tanto disturbo. Riuscì a concentrarsi ancora per un po’, quando arrivò anche monsieur Thénardier insieme al piccolo Gavroche.

“CIAO AMORE!” urlò l’alto uomo dai capelli rossi.

“MAMMA IO HO FAME!” gridò Gavroche tirandole lo sporco grembiule. “IN MENSA IL CIBO FACEVA SCHIFO, OGGI: NON HO MANGIATO NULLA!”

Madame Thénardier si voltò verso il figlio con occhi pieni di rabbia e disse: “NON VEDI CHE SONO OCCUPATA?! DOVRAI ASPETTARE!”

“MA UFFA! NEANCHE UN PANINO?!” chiese Gavroche mettendo il broncio.

“ADESSO NO!” disse perentoriamente la bassa donnina dai capelli tinti di biondo. Poi, madame Thénardier si avvicinò a Marius e gli disse: “ALZA I PIEDI!”

“TESORO!” la chiamò monsieur Thénardier. “DOBBIAMO COMPILARE IL REGISTRO CONTABILE!”

“INIZIA TU: IO TI RAGGIUNGO!” Ora Marius poteva sentire la donna urlargli nell’orecchio. I due andarono avanti a discutere perché l’alto uomo voleva che la moglie lo aiutasse con i registri, ma lei non voleva saperne. Il lentigginoso studente sentiva madame urlargli nell’orecchio e, d’istinto, si voltò verso Éponine e Gavroche, i quali lo guardarono a loro volta l’uno con sguardo irritato e l’altra con occhi mortificati. Marius sorrise e sospirò, si alzò in piedi prendendo libro e astuccio, diede un buffetto sulla testa a Gavroche e una carezza sulla spalla ad Éponine per rassicurarla e tornò al piano di sopra. Nella sala comune regnava ancora il caos, quindi Marius provò a tornare in camera sua, sperando che Courfeyrac avesse finito di guardare il documentario per la lezione di filosofia.

“Posso, Courfeyrac?” chiese Marius rientrando in camera: Courfeyrac stava seduto a gambe incrociate sul suo letto con gli occhi fissi sul suo computer portatile. “Hai finito?”

“No, ma ho ritrovato le cuffie!” gli disse lo studente dalle orecchie a sventola mostrandogli il suo paio di cuffie wireless giallo acceso. Poi Marius lo vide armeggiare con il computer e, all’improvviso, la voce monotono che stava parlando della filosofia di Schopenhauer si zittì. “Ecco fatto!” gli disse sorridendo Courfeyrac, indossando le grandi cuffie sulla testa. Marius rispose al sorriso e, nel silenzio della sua stanza, finalmente riuscì a sedersi alla scrivania e a mettersi a studiare in santa pace. Tuttavia, la sfortuna pareva avercela con lui quel giorno, perché, poco dopo, dalla parete a sud, quella dove stava appoggiato il suo letto, sentì provenire degli strani rumori.

“Li senti anche tu?” chiese a Courfeyrac leggermente inquietato. Il ragazzo dai riccioli neri non parve sentirlo, quindi Marius provò a chiamarlo: “Courfeyrac!”

“Sì?” chiese lui voltandosi verso Marius.

“Lo senti anche tu?” chiese nuovamente Marius indicando con un dito la parete sud. Courfeyrac fermò il video, si tolse le cuffie e si mise in ascolto. Anche Marius si concentrò su quei rumori molto più di prima: riuscì a sentire qualcosa che sbatteva contro il muro e come dei… sospiri.

Courfeyrac stette in ascolto ancora un po’, poi constatò: “Ah… direi che Bossuet e Joly si stanno dando da far…” Non fece in tempo a finire di parlare che a quei rumori si unirono anche dei leggeri gemiti femminili. Marius sentì un brivido corrergli lungo la schiena. “Umh,” si mise a ragionare Courfeyrac con stampata in volto un’espressione serena, quasi come per lui sentire quei rumori fosse all’ordine del giorno, “sembra che oggi ci sia anche Musichetta.”

Basta: era troppo. I rumori non erano poi così fastidiosi, ma il pensiero di ciò a cui erano dovuti non riusciva a far rimanere concentrato Marius, che si sentì leggermente schifato ed imbarazzato da quell’immagine. “Io vado a studiare al parco!” disse alzandosi e prendendo le sue cose per uscire.

 “Ma no!” lo fermò Courfeyrac mentre lo osservava riporre libro e astuccio nello zaino e indossare la giacca. “Vedrai che tra poco hanno finito!”

Marius lo guardò in silenzio per qualche istante con la mano ferma sulla maniglia, sconvolto dal suo tentativo di trattenerlo, sentì un altro gemito provenire dalla stanza accanto e, chiudendo gli occhi, se ne andò dicendo solo: “Ciao, Courfeyrac.”

 

Arrivato al parco si sedette in una panchina sotto ad un lampione: non era ancora buio, ma se si fosse dilungato nello studio se non altro avrebbe avuto la luce senza spostarsi. I suoni del parco erano quasi piacevoli: sentiva le grida dai bambini che giocavano, gli schiamazzi di alcuni ragazzi che giocavano a pallone nello stesso campo che lui e i ragazzi avevano usato qualche domenica prima, i latrati eccitati dei cani che inseguivano frisbee e bastoncini. L’atmosfera del parco non lo disturbava affatto: gli piaceva udire quei suoni distanti e vaghi, sentire il profumo della rugiada che bagnava l’erba e gli alberi e quel leggero odore di umido, dovuto alla pioggia del giorno prima, rendeva ancora più fresca e pulita l’aria che Marius respirava in quel tardo pomeriggio di ottobre. Sentiva un leggero freddo ma non gli dava fastidio.

Erano già circa trenta minuti che stava studiando quando un bambino lanciò per sbaglio una palla sotto ai suoi piedi. Marius la sentì toccargli la caviglia e distolse lo sguardo dal libro: quando vide il bambino fissarlo timido e imbarazzato per averlo colpito, Marius gli sorrise, si alzò e gli lanciò la palla con il piede, ottenendo un ‘Grazie, signore!’ da parte del ragazzino. Marius tornò a sedersi e d’istinto si guardò un po’ attorno, finché i suoi occhi non si posarono su una panchina poco più in là e il suo cuore iniziò a battere all’impazzata. Non seppe dire quando, ma mentre studiava su quella panchina si era seduta una ragazza davvero bellissima. Era una ragazza che, a prima vista, sembrava più piccola di lui: era minuta, esile come un giunco, con dei lunghi capelli biondi chiari, mossi, che le cadevano sulla spalla destra e circondavano un viso roseo, con un nasino piccolo e delicato, delle labbra carnose e dei grandi occhi verdi molto dolci. Marius non riuscì a fare a meno di guardarla: era così bella… La ragazza dovette sentirsi osservata, perché alzò lo sguardo dal libro che stava leggendo e si voltò verso di lui. Marius distolse lo sguardo imbarazzato, fingendo di studiare, ma poco dopo tornò a guardarla: non riusciva a toglierle gli occhi di dosso. La ragazza lo vide osservarla e tornò a leggere imbarazzata. Marius pensò che forse era meglio finirla lì, quando vide la ragazza guardarlo ancora. Si guardarono per un po’, dopodiché lei gli sorrise, diventando ancora più bella. Marius rispose al sorriso e il suo cuore batté più forte di quanto già non facesse.

Stava per alzarsi e andare a parlarle, quando sentì una voce femminile chiamare: “Tesoro, andiamo?” Dietro di loro, apparve una donna piuttosto minuta, molto magra, con dei corti capelli castani.

La ragazza si voltò verso di lei velocemente e disse ad alta voce: “Arrivo, mamma!” Poi mise il libro nella sua borsetta, e, salutando Marius con un sorriso, se ne andò. Marius rimase a guardarla allontanarsi deluso: avrebbe voluto dirle ‘Aspetta, non andare!’, ma la voce gli si fermò in gola. Poi vide che la ragazza aveva perso qualcosa sulla panchina e, chiudendo il libro, si avvicinò: c’era un fazzoletto in stoffa bianco con alcuni ricami sul bordo e una piccola ‘U’ in corsivo cucita su un angolo. L’avrebbe rivista, Marius ne era certo: prima o poi le avrebbe ridato il suo fazzoletto e sarebbe riuscito a parlarle.

 

 

 

 

– Fine capitolo 4 –

 

------------------------------------------- Fine primo libro -------------------------------------------

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