Feel me

di mars_gold
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un'ora ***
Capitolo 2: *** Niente stereotipi qui ***
Capitolo 3: *** Non solo rose ***



Capitolo 1
*** Un'ora ***


~~Ancor prima di aprire gli occhi decisi che quel giorno avrei fatto di tutto per apparire e sembrare una persona normale, volevo proprio vedere quanto sarebbe durato.

Mi strofinai gli occhi e mi rigirai nel letto, poco dopo la sveglia suonò puntualissima le 7.15.

Si comincia. Pensai. Sbuffando mi alzai a sedere, tirai via la coperta e lasciai che la tiepida aria di Settembre mi investisse, come al solito avevo dimenticato di chiudere la finestra prima di addormentarmi.

Mi alzai, raccolsi il libro che stavo leggendo la sera prima, doveva essermi caduto per terra quando mi ero addormenta, e lo appoggiai sul comodino sopra una pila di altri libri, prima o poi avrei dovuto sistemarli nella libreria al piano di sotto. Mi strinsi nel pigiama leggero e mi diressi verso la finestra dall’altro lato della stanza. Il sole era già alto, lo osservai lasciando che la sua luce mi inondasse, sapevo che da lì a poche settimane le giornate si sarebbero accorciate sempre di più, meglio approfittare della luce finché c’era.

Fuori il mondo si era già svegliato comunque, nonostante abitassi vicino ad un parco riuscivo a sentire benissimo il rumore del traffico nelle strade vicine: macchine che correvano sulle strade ancora umide, clacson che suonavano, persone che gridavano. Mi chiesi se ci fosse mai un momento in cui in quella città ci fosse un po’ di pace, di notte si spegneva mai? O continuava sempre, ininterrottamente ad essere brulicante di persone e rumori? La gente non si stancava?

Io lo trovavo stancante la maggior parte delle volte, c’era qualcosa di terribilmente bello nel silenzio, io lo sapevo bene.

Stranamente però quel giorno il rumore del traffico servì a rilassarmi, per molte persone quella era una semplice giornata come tutte le altre, dovevo solo comportarmi come se lo fosse anche per me e tutto sarebbe andato bene.

Sentii mia madre chiamarmi dal piano di sotto, l’ennesima voce aggiunta a tutte le altre provenienti da fuori, alzai gli occhi al cielo ma mi allontanai comunque dalla finestra e mi diressi verso il bagno per iniziare a prepararmi.

Finché me ne stavo per conto mio era facile essere una persona come le altre, i problemi iniziavano quando ero con altre persone, appena si rendevano conto di quanto fosse difficile per me stare al passo con tutte le cose che dicevano i loro sguardi si riempivano sempre di tenerezza (che non era poi così fastidiosa) e compassione (che invece odiavo).

Finché ero da sola l’unica cosa a cui dovevo rispondere era la mia mente e per quella non avevo bisogno delle parole, mi bastavano i miei pensieri.
Circa dieci minuti dopo ero già pronta per uscire, avevo deciso cosa indossare quel giorno settimane prima, dovevo solo riguardarmi allo specchio per essere sicura che tutto fosse come lo avevo immaginato.

Avevo deciso di lasciare i capelli sciolti, mi scendevano sotto le spalle in morbide onde color nocciola creando contrasto con la maglietta nera che avevo deciso di mettere abbinata al mio paio di jeans preferito, chiari e stretti. L’ombretto che avevo sugli occhi era dello stesso colore, mia madre diceva che sottolineava le sfumature azzurre dell’iride. Per le scarpe poi avevo deciso di prendere gli stivaletti leggeri, con quelli almeno sarei sembrata un po’ più alta.

Nel complesso sembravo una normale studente liceale, con lo zaino in spalla e il giubbino slacciato, esattamente quello che volevo.
Sorrisi persino. Forse quel giorno non sarebbe stato poi così male. Forse sarebbe andato tutto bene.

Controllai di avere tutto poi mi diressi verso il piano di sotto dove mia madre e mio padre mi aspettavano, avevamo deciso di andare a fare colazione al bar tutti insieme quel giorno.

Mia madre era una signora ben curata, quel giorno aveva una giacca abbinata ad una gonna blu scuro e i capelli castani sollevati in un morbido chignon sulla nuca. Mi sorrise sistemandomi i capelli dietro l’orecchio.

-Nervosa?  – Mi chiese. Ed ecco il mio tentativo di normalità andato completamente a puttane.

Grazie mille mamma, davvero, non mi fai mai domande dirette a meno che non ci sia da rispondere sì o no e oggi, proprio oggi, quando volevo cercare di essere come tutti gli altri tu te ne esci così. Fantastico.

Mio padre, forse intuendo i mei pensieri, diede una leggera gomitata alla mamma.
-Ovvio che sia nervosa, ma scommetto che andrà tutto benissimo. –

Mentalmente lo ringraziai. Aveva la stessa espressione della mamma sul viso, un misto di apprensione e gioia. Anche lui era stranamente elegante, invece del solito paio di jeans portava dei pantaloni beige.

Quel giorno era un nuovo inizio anche per lui, aveva finalmente ricevuto l’incarico che aspettava da tutta una vita: essere un professore di storia dell’arte.

Era stata una vera fortuna per entrambi, visto che avrebbe lavorato in una scuola pubblica avevo ricevuto il permesso di frequentarla anch’io, dopo 18 anni passati con l’insegnante privato avrei frequentato l’ultimo anno in una vera scuola.

Ero nervosa? Sì, assolutamente. Spaventata? Un po’, forse. Felice? Da morire.

I miei genitori stavano iniziando ad allentare un po’ la cinghia che mi teneva legata a loro (sinceramente era anche ora, non che non gli volessi bene ma... andiamo, quale adolescente che si rispetti vuole passare tutta la sua vita in compagnia dei genitori?), non vedevo l’ora di buttarmi in quel mondo fatto di libri, armadietti, aule, mense e laboratori.

Uscimmo di casa e ci dirigemmo verso l’auto. Mia madre e mio padre non dissero nulla per tutto il tragitto, sapevano che odiavo quando mi si parlava finché ero in macchina, la maggior parte delle volte non riuscivo a rispondergli che eravamo già arrivati, che senso aveva commentare con me il paesaggio che si vedeva dal finestrino se tanto non potevo esprimere la mia opinione in tempo?
Mentalmente li ringraziai di nuovo, visti dall’esterno saremmo sembrati una normale famiglia con una figlia taciturna, era passata una mezz’ora da quando mi ero svegliata e non avevo ancora tirato fuori il cellulare o il block-notes per scrivere qualcosa. Un vero miracolo.

Papà parcheggiò davanti all’entrata di un bar all’angolo (non quello della scuola per fortuna, che figura avrei fatto ad entrare il primo giorno di scuola accompagnata da entrambi i miei genitori?). Nonostante fosse piuttosto piccolo comunque gli interni erano carini, le pareti erano rosse fuoco con decorazioni in legno scuro e davano una sensazione di calore all’ambiente.

Ci sedemmo in uno dei tavolini, papà andò subito a ordinare sapevo già cosa volevamo, sulla colazione io e la mia famiglia non ammettevamo errori: brioches con cappuccino per tutti e tre.
Così mi evitai di nuovo di dover rispondere a qualcuno. Quella giornata era iniziata davvero con il piede giusto!

Mentre aspettavamo mamma non fece altro che ripetermi tutte le sue raccomandazioni (che mi aveva già detto la sera prima, la mattina prima, la settimana prima quando papà aveva saputo di aver ottenuto l’incarico e... ah sì! Due mesi prima quando avevo provato a proporre l’idea di fare l’ultimo anno in Inghilterra). Inutile dire che annuii senza ascoltarla.

Quando papà tornò non ci mettemmo molto a spazzolare via la colazione, non eravamo tipi che se la prendevano comoda.
Uscimmo, mia madre ringraziò la barista e poi si mise lei al volante, dopo aver accompagnato me e papà a scuola sarebbe andata in ufficio in centro, dove lavorava.
Passammo per un paio di vie alberate e più la macchina andava avanti e più diventavo nervosa.

Quando infine parcheggiammo trattenevo il fiato. Scesi dall’auto molto lentamente, Dio, mi sentivo come un uccellino quando esce per la prima volta dal nido.
La scuola non era male, aveva un ampio parcheggio e dal bar lì vicino usciva un dolce odore di brioches appena sfornate. L’edificio scolastico di per sé era enorme, color crema con mattoni rossi a vista, finestre rettangolari coperte da tende bianche.
Non era Hogwarts ma come sostituta poteva andarmi bene.

La cosa più bella comunque era la folla di studenti, non avevo mai visto così tanti ragazzi e ragazze tutti insieme nello stesso luogo, il rumore del loro chiacchiericcio e delle loro risate mi scaldò il cuore.
Avrei potuto essere come loro.

Salutai la mamma frettolosamente, non volevo che ricominciasse a farmi la predica e persi di vista papà dopo aver varcato il cancello. Che gentile, non voleva farmi sentire come una bimbetta delle elementari accompagnata dai genitori.

Feci un respiro profondo e mi diressi verso la porta d’entrata. Avevo visto tanti film e serie tv basati sulla “vita alle superiori” ma un conto era vederla sullo schermo, un altro viverla per davvero. I miei occhi non facevano che osservare e catturare tutto ciò che vedevano, gli studenti, i loro visi, i loro modi di gesticolare, gli abbracci, le pacche sulle spalle, le biciclette, le automobili, gli zaini lanciati in aria... Sapevo che per la maggior parte di loro tornare a scuola era un incubo ma a vederli così mi facevano rimpiangere di non essermi iscritta alla scuola pubblica qualche anno prima.

La campanella suonò nel momento in cui aprii la porta. Mi incamminai subito verso i corridoi cercando la mia aula, grazie a papà sapevo già in quale dovevo andare, alla prima ora avevo lezione di letteratura con la professoressa White.

Il soffitto dei corridoi era piuttosto alto, le pareti erano dello stesso color crema dell’esterno interrotto solo dal metallo degli armadietti e il marrone chiaro delle bacheche.
Provai a svoltare a destra e tadaaan... avevo trovato l’aula.

Entrai senza esitazione, un paio di ragazze erano già sedute nei banchi della prima fila, parlottavano a bassa voce avvolte nelle loro felpe leggere con i capelli raccolti come quelli di mia madre, sembravano gemelle.
Non mi salutarono, troppo prese nei loro discorsi, meglio così.

Mi sedetti una fila più indietro vicina al muro, qualcosa mi diceva che se mi fossi appropriata di un posto nell’ultima fila avrei fatto incazzare qualcuno, meglio evitare.

In pochi minuti l’aula si riempì, in totale dovevamo essere una ventina di alunni, alcuni posti rimasero vuoti (tipo quello vicino al mio ma non ne feci una tragedia, era chiaro che tutti lì dentro avevano già i propri amici). Cercai di osservare i miei compagni nel modo meno sfacciato possibile, eravamo dodici femmine e otto maschi, alle due gemelle in prima fila se n’era aggiunta un’altra (sempre con quella stessa capigliatura), immaginai che dovessero essere le perfettine della classe ma non mi andava di giudicarle così in fretta. Tutti gli altri erano ognuno diverso dall’altro, chi era vestito con colori sgargianti, chi completamente di nero, chi portava occhiali da sole, chi da vista, ragazzi con i jeans strappati, una ragazza con i codini alti... Quel miscuglio di persone e preferenze mi piaceva.

La professoressa entrò, era una signora che doveva avere circa l’età di mia madre, aveva dei capelli corti biondi e un dolce sorriso in volto. Sulla sua borsa era stampata la scritta “Una casa senza libri è come un uomo senza anima”.
Inutile dire che mi stava già simpatica.

Cominciò a fare l’appello leggendo i nomi sulla lista, quando arrivò al mio disse:
-Come vedete abbiamo una nuova compagna di classe, Alexandra che ne dici di venire qui e presentarti? –

Oh, no. Sentii gli sguardi di tutti addosso, alcuni erano curiosi, altri interessati, altri ancora dolci, altri menefreghisti.
La professoressa mi sorrise e ciao ciao al mio tempo da persona normale.
Grandioso.
Mi alzai in piedi e mi diressi verso la cattedra, guardai l’orologio sul polso, erano le 8.15.
Un’ora.
Ero riuscita a durare un’ora.

La professoressa si posizionò dietro la cattedra per lasciarmi spazio, vidi una leggera sorpresa nei suoi occhi mentre, invece che girarmi verso la classe, mi diressi verso la scatola dei gessi.
Incominciai a scrivere sulla lavagna.
Sentivo gli occhi di tutti alle mie spalle, sentivo la loro curiosità crescere mentre io mi impegnavo a scrivere più lentamente possibile.

Perché quel momento era già arrivato?

Quando terminai mi spostai in modo che tutti potessero leggere, abbassai leggermente lo sguardo mentre tornavo al mio posto, non volevo vedere che espressione avevano sul loro volto.

Mi ero impegnata così tanto perché quel giorno fosse perfetto, certo sapevo che prima o poi lo avrebbero scoperto o capito, ma speravo di poter tenere il mio segreto ancora per un po’.

Quando mi sedetti al mio banco alzai lo sguardo sulla lavagna, la mia calligrafia era piuttosto minuta ma ero riuscita a scrivere senza andare storto, almeno quello.
Bianco su nero sulla lavagna spiccavano le mie parole:

“Mi chiamo Alexandra Smith, ho sempre avuto un insegnante privato e questa è la prima volta che frequento una vera scuola, questo perché sono muta dalla nascita.”

 

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Capitolo 2
*** Niente stereotipi qui ***


~~36 secondi di silenzio e sguardi, li contai tutti mentalmente.

L’insegnante mi sorrise in modo imbarazzato dalla cattedra. Dio, quella classe sembrava enorme adesso.

Passarono un altro paio di secondi, non sapevo cosa fare, come comportarmi, in cuor mio speravo che qualcuno dicesse qualcosa, mi ero già preparata i fogli con su scritto:
“Sì, dalla nascita.”
“No, non ci sono cure.”
“Conosco il linguaggio dei segni ma di solito uso fogli, lavagnette, tablet o il cellulare. Sono diventata molto brava a scrivere veloce e in questo modo posso essere compresa da tutti.”
“Sono muta ma non sorda.”
Aspettavo solo che facessero le domande per quelle risposte, tutte le persone che avevo incontrato nella mia vita mi avevano fatto quelle domande.

La ragazza con i codini alti si voltò verso di me porgendomi la mano. Tra tutti non avrei mai pensato sarebbe stata lei la prima a parlarmi, avevo puntato su una delle tre gemelle in prima fila, giusto perché dovevano sembrare educate agli occhi dei professori.

-Piacere di conoscerti, io sono Lily, benvenuta nella scuola più strana di tutto il Paese. – Disse con un tono di voce allegro e gentile. Mi sorrise, in un modo più convinto rispetto a quello della professoressa, aveva gli occhi scuri, dolci, come quelli di un orsetto.

Diciamo pure che mi spiazzò un po’.

Ma ciò che mi stupì veramente fu ciò che accadde dopo: ancor prima di riuscire a stringere la mano che mi stava ponendo, tutti iniziarono a parlarmi in contemporanea.
Mi dissero come si chiamavano, mi chiesero da dove venivo, da quale zona della città, mi spiegarono un po’ come era la scuola e come erano i professori (nota bene: diffida sempre da quelli di lingua straniera), mi domandarono come era stato avere un insegnante privato, cosa ne pensavo della scuola, se ero venuta in macchina o in bus, qual era il mio colore preferito, mi illustrarono come erano suddivisi gli studenti, le compagnie da evitare, quelle affidabili, le cheerleaders da non far arrabbiare, una ragazza mi fece i complimenti per i miei capelli e la mia scelta di vestiti (qualcuno ci aveva fatto caso siiiiiii), mi domandarono quali materie avessi studiato, se praticavo qualche sport...

Ad un certo punto, non ricordo nemmeno a quale domanda, mi alzai in piedi e ritornai alla lavagna per poter rispondere e commentare tutto quello che avevano detto e stavano dicendo.

Le loro parole erano un’onda quasi incomprensibile ma mi piaceva e non avevo assolutamente intenzione di fermarli, non volevo rompere la magia.
Mentre scrivevo scoccai un’occhiata alla professoressa: sorrideva in modo raggiante e avevo la sensazione che un sorriso molto simile al suo mi si fosse formato sulle labbra.

Nessuno mi aveva mai trattata così, nemmeno nelle mie più rosee aspettative pensavo di ricevere un’accoglienza così calorosa.

Credevo che nessuno mi avrebbe rivolto la parola. Credevo che sarei stata oggetto di prese in giro. Credevo che tutti mi avrebbero evitato come la peste.
Per poco non mi commossi. Mi sentivo come la sorella perduta di ognuno di loro.

Amavo già quella classe.

Scrissi velocissima con il gesso bianco in mano, quella era un’altra cosa nuova per me: avevo sempre lavorato con tablet e computer, avere una vera lavagna nera davanti era incredibile.

Probabilmente ero l’unica studentessa in tutto il mondo occidentale che si emozionava per essere a scuola davanti a una lavagna.
Beh, ero sempre stata una persona un po’ fuori dagli schemi.

Riuscii a rispondere praticamente a tutto occupando gran parte della lavagna.

Scrissi che ero nata in un paesino di campagna ma per problemi di lavoro mia madre aveva deciso di trasferirsi in città (per mia fortuna!) e che mio padre comunque amava la natura per cui abitavamo in un appartamento vicino al parco, sì quel parco, quello più grande, non il giardinetto striminzito vicino a Madison Avenue. Scrissi che ero venuta a scuola in macchina e che no, non avevo la patente e che sì, i miei genitori erano parecchio apprensivi ma lo erano per paura che mi succedesse qualcosa, essendo muta non potevo di certo telefonare o chiamare aiuto in caso di bisogno.  

Scrissi che il mio colore preferito era il grigio. Perché il grigio? Semplice: non ero una di quelle persone che vedeva o tutto bianco o tutto nero, in ogni cosa c’erano infinite sfumature, infinite interpretazioni e no, non era un riferimento al romanzo Cinquanta sfumature di grigio. Con i genitori che mi ritrovavo poi figuriamoci.

Scrissi che avere un insegnante privato non era male ma vedere la stessa faccia per sei ore al giorno dopo un po’ diventava pesante, soprattutto perché mi faceva sempre fare un sacco di esercizi.

Scrissi che conoscevo lo spagnolo ma dovevo migliorare il mio francese (alcuni a quel punto si offrirono già di aiutarmi, che carini) e che no, non praticavo nessuno sport in particolare ma avevo qualche attrezzo da palestra a casa.

Dopo un po’ i miei compagni finirono le domande, o meglio la professoressa li zittì per iniziare la lezione. Aveva ancora il sorriso sul volto ma mi mandò al posto e cancellò la mia fantastica grafia alla lavagna.

Quando mi accomodai e tirai fuori il quaderno e l’astuccio mi resi conto che Lily si era spostata occupando il posto vicino al mio.
-Così se la prof fa qualche domanda e vuoi rispondere scrivi la risposta su un foglio e parlo io al posto tuo. – Mi sussurrò facendomi un occhiolino.
Non sapevo cosa avessi fatto per infonderle una tale simpatia ma gliene fui molto grata.

La professoressa iniziò a parlare di ciò che avremmo studiato durante l’anno, nominò qualche autore che già conoscevo e altri che non avevo mai sentito nominare, ciò mi incuriosì parecchio, ero sempre felice di trovare libri nuovi da leggere.

Ad un certo punto si fermò chiedendoci cosa ne pensavamo del programma.
Sollevai lo sguardo dal foglio in cui avevo annotato i nomi degli autori che non conoscevo e mi resi conto che quasi nessuno aveva prestato attenzione, molti dei miei compagni stavano continuando ad osservarmi, non con un sentimento di pena o compassione ma piuttosto di... curiosità.

Grandioso. Ora avevo due opzioni: o alzavo la mano, scrivevo la mia risposta e davo prova della mia conoscenza nell’ambito della letteratura mostrando così subito a tutti quanto fossi studiosa e nerd; o lasciavo che fosse una delle tre gemelle davanti a rispondere.
Optai per la seconda, avevo attirato l’attenzione già abbastanza.

Rispose la ragazza più a destra del trio, aveva una voce profonda e fin troppo sexy per il modo in cui si atteggiava ma non ci badai più di tanto.
La professoressa continuò a spiegarci in modo più dettagliato il programma, evitai di prendere appunti, scommettevo che prima o poi tutte quelle cose le avrebbe senz’altro ripetute.

 Quando suonò la campanella alcuni ragazzi mi fecero ancora qualche domanda ma io ne avevo una per loro.
“Perché è la scuola più strana di tutto il Paese?” Scrissi su un foglio. Lily lesse ad alta voce.

-Diciamo che siamo una scuola anti-ideale o anti-pregiudizi. – Mi rispose Jackson, uno dei ragazzi dell’ultima fila. Aveva i capelli rossi e uno sguardo furbo.
“Che intendi?” Fu Lily a rispondermi:

-Hai presente i classici film ambientati in una scuola superiore? La classica divisione tra fighi, giocatori di football, cheerleaders e sfigati, nerd, topi da biblioteca, emo e quant’altro? Bene, qui non esiste. O meglio, qui nessuno è stereotipato. –
Ancora non capivo bene. Dovettero intuirlo dalla mia espressione.

Jackson sogghignò allungando le sue lunghe gambe sotto il banco, poi indicò sé stesso con l’indice e disse:
-Ciò che sembro: ragazzo da ultima fila, svogliato, irrispettoso, strafottente. Ciò che sono: campione regionale delle Olimpiadi della matematica. – Spostò la mano e indicò Mary, una ragazza vestita completamente con vestiti di pelle neri, capelli fuxia e percing al naso. –Ciò che sembra: una rocker psicopatica. Ciò che è: un membro dell’orchestra della scuola, suona il violino. – Continuò Jackson, Mary sorrise in modo orgoglioso al suono delle sue parole.

Lily prese di nuovo parola:
-Ciò che sembro: una tredicenne coi codini. Ciò che sono: un’egocentrica, espansiva, modella delle sfilate dei negozi in centro. – Mentre lo disse alzò in alto il mento e sbatté velocemente le palpebre scure in modo sensuale. In molti scoppiarono a ridere.
Okay, stavo iniziando a comprendere cosa intendevano, ognuno di noi era più di una facciata, ma era così ovunque, ancora non capivo cosa centrasse questo con la scuola.

Stella, una ragazza alta e bionda della terza fila sembrò intuire i miei pensieri.
-In questa scuola tutte le attività e i corsi cercano di tirare fuori ogni lato di noi, facendoci evitare di giudicare ed emarginare gli altri; poi è ovvio che ci sia chi ti sta più simpatico e chi meno e come in ogni scuola ci sono i bulli, le cattive compagnie e le persone che non hanno proprio buone intenzioni, però in linea di massima evitiamo di “etichettare”, per quanto a volte sia difficile. – Spiegò parlando quasi a bassa voce.

Ecco, lei a una prima occhiata mi sarebbe sembrata la tipica troia bionda ma il modo in cui aveva parlato... sembrava essere quasi più timida di me. E io ero muta, avevo dei complessi di timidezza da far paura.

Mi illuminai.

Ora capivo perché i miei genitori avevano acconsentito ad iscrivermi qui.
Ora capivo perché tutti anziché guardarmi con compassione mi stessero osservo con curiosità.
Okay, non amavo quella classe, adoravo quella classe.

“Perciò il più figo della scuola cos’è? Un fan di Charles Dickens?” Scrissi. Lily rise un po’ prima di riuscire a leggere ad alta voce.
-No ahahahahah, ma Ryan Blueblood non è comunque il tipico ragazzo figo: non è il capitano della squadra di football, non è snob, né donnaiolo, né cascamorto... insomma, dovresti conoserlo per capire. – Mi rispose continuando a sorridere.

Beh, con un nome del genere avrei pensato tutto il contrario. Quella era davvero la scuola più strana di tutto il Paese. Pensai sorridendo a mia volta.
 

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Capitolo 3
*** Non solo rose ***


~~Le ore passarono veloci, dopo anni e anni di solitudine e libri finalmente ero immersa tra le persone: tra le loro parole, le loro azioni, le loro abitudini, i loro vestiti... Era come se mi avessero svegliato da un incubo e mi avessero detto “Vedi tutto questo? Questa è la vita vera”, e, in un certo senso, lo era. Mi sentivo rinata.
Verso le 10 della mattina scoprii di avere un’ora buca, così chiesi a una dei tutor di farmi fare il giro della scuola. L’interno, come l’esterno d'altronde, era veramente ma veramente incredibile: c’erano un sacco di aule, laboratori scientifici e linguistici, ampie sale conferenze, sale computer, una specie di teatro, una palestra enorme, la piscina interna e, ovviamente, la biblioteca: non era grandissima ma gli scaffali erano disposti in modo da ottimizzare tutto lo spazio disponibile, inoltre c’erano mezza dozzina di tavoli in cui poter comodamente sfogliare i libri.
Appena ci misi piede cosi subito a farmi la tessera (avevo la tessera di tutte le biblioteche della città, farmi mancare quella della mia scuola era un sacrilegio). Il tutor parlò al mio posto alla bibliotecaria, una cara signora di mezza età dai capelli color carota, la quale mi disse che la biblioteca era aperta tutte le ore scolastiche, sia mattutine che pomeridiane. Magnifico.
Qualcosa mi diceva che avrei passato lì dentro la maggior parte del mio tempo.
L’ora successiva la passai in classe alle lezione di matematica.
Gli insegnanti mi piacevano quasi tutti (forse perché essendo nuova e muta mi trattavano tutti con estrema gentilezza. Forse, ma proprio forse, eh), la mia preferita rimaneva quella di Letteratura ma anche gli altri non erano male, quello di matematica però non riuscii a sopportarlo... aveva una particolare predilezione per lo stridio orribile che facevano a volte i gessi sulla lavagna.
Secondo lui era “affascinante” e “aiutava a mantenere alta la concentrazione”. Roba da non credere.
“Con questo biglietto io dichiaro che sono muta ma non sorda e che ci terrei ad avere buoni l’udito e la vista ancora per un bel po’ di anni.”  Scrissi su un foglio che passai a Lily, la quale si sforzò di non ridere cercando di nascondersi la bocca con le mani.
-Domani porto via i tappi per le orecchie, avevo dimenticato quanto il professor Marty adorasse quel rumore. – Mi sussurro continuando a trattenersi dal ridere.
Il problema fu che così facendo fece ridere me. E quindi lei scoppiò definitivamente.
Il professore si infuriò come un matto, facendo scattare il suo magnifico gesso per riportare l’attenzione. E noi scoppiammo a ridere di nuovo facendoci regalare una nota sul registro... cose che capitano.
Durante la mattinata, comunque, scoprii che la maggior parte dei miei compagni della classe di Letteratura avevano i miei stessi corsi: in pratica Lily, Jackson e un altro paio di ragazzi mi seguirono per tutto il tempo facendo a turno a chi mi stava dietro.
Sembravano la versione in miniatura dei miei genitori, anche se qualcosa mi diceva che avessero paura che mi perdessi o una cosa del genere (e il fatto che fossi finita in uno sgabuzzino più di un paio di volte non aveva assolutamente nulla a che fare con questo, ovviamente).
Lily poi oltre a rimanermi vicina non fece altro che aiutarmi e parlarmi, chissà come ero riuscita a starle simpatica fin da subito.
Mi disse che l’aveva colpita il modo in cui mi ero diretta alla lavagna per presentarmi, forse avrei dovuto iniziare a prestare più attenzione al modo in cui camminavo, a quanto pareva avevo una dote nascosta.
In realtà ero abbastanza convinta che le fossi stata simpatica dal modo in cui avevo risposto a tutte le domande che mi avevano fatto, l’avevo vista: l’avevo fatta morire dalle risate. A quanto pareva ero pure brava a far ridere le persone.
(Sì, in quel giorno la mia autostima era salita parecchio.)
In ogni caso quelle prime ore non sarebbero state così belle se non ci fosse stata lei e, anche se era un po’ prematuro, in cuor mio già speravo che nel tempo potessimo riuscire a diventare grandi amiche; lei aveva una personalità unica ed era stata così gentile e disponibile che a stento riuscivo a crederci.
Non avevo mai avuto una “migliore amica”, le uniche persone che potevano avvicinarsi a quel ruolo erano i personaggi dei libri, ma, come diceva il mio più grande mentore Albus Silente: <>.
Avevo intenzione di prendere quella frase alla lettera.
Basta sogni, basta illusioni, volevo la vita vera.
Dopo aver preso la nota, Lily e Jackson decisero che era inutile prestare attenzione alla lezione e quindi iniziato un giro di scommesse per tutta la classe su quale fosse il mio “lato nascosto”: c’era chi puntava sul fatto che magari fossi un asso negli sport (ahahahah poveri illusi, l’unico sport in cui ero brava era il salto sul divano), altri pensavano che di notte scappassi nei casinò per giocare a poker (non era poi una cattiva idea), altri ancora che potessi nascondere un amore per il metal (uhm... anche no).
In verità ero piuttosto convinta di non avere un “lato nascosto”, vivevo una vita tranquilla, senza eccessi né talenti particolari, l’unica mia peculiarità era che fossi muta, cos’ è, avrei potuto essere un mimo infallibile? Campionessa di “perde chi parla per primo”?
Comunque mi divertii davvero un sacco a vederli sulle spine, e a sentire le cavolate che sparavano, sarebbe stato un vero peccato distruggere i loro sogni.
Così tra risate e ramanzine arrivò in fretta l’ora di pranzo e ci dirigemmo tutti verso la mensa.
Nella calca degli studenti affamati persi di vista Lily e Jackson ma non me ne preoccupai troppo, ormai ero abbastanza sicura di sapermi orientare.
Presi il corridoio a destra, gli studenti attorno a me spintonavano e mi pestavano i piedi.
E io non potevo parlare.
Merda.
Un ragazzo grande e grosso mi fece quasi inciampare, andai a sbattere lo zigomo contro un portachiavi di uno zaino.
Ahia. Cercai di ritrovare l’equilibrio.
Qualcuno dietro di me mi spinse di nuovo.
Ma che avevano? Non mangiavano da due giorni? Perché così tanta fretta?
Sentii una ragazza bionda alla mia destra urlare:
“Muoviti Philip, o ci rubano tutta la pizza, sai che ne fanno pochissima!”
Incominciò anche lei a spintonare.
Ecco il motivo! Beh, ora li capivo meglio, la pizza era la pizza, insomma!
Comunque stava iniziando a mancarmi l’aria lì in mezzo, non volevo spingere nessuno o dare fastidio, non mi erano mai andate a genio quel genere di cose; così cercai di allontanarmi e dirigermi verso l’altro corridoio. Non avevo molte pretese per il cibo, per il momento mi bastava solo mettere qualcosa sotto i denti.
Lo stesso ragazzo di poco prima, quello grande e grosso, mi spinse di nuovo.
Questa volta persi completamente l’equilibrio, cercai di aggrapparmi a qualcosa, qualsiasi cosa.
Ma caddi a terra. E gli studenti non si fermarono.
Alcuni mi scavalcarono, altri mi pestarono le mani. E io non potevo dire una parola.
Digrignai i denti per il dolore. Cazzo, alzati! Alzati! Alzati! Mi dissi velocemente.
Ci provai, la mano mi faceva un male cane. Avevo le lacrime agli occhi. Sbattei velocemente le palpebre.
-Hey, tutto bene? – Disse qualcuno sopra di me. Come cazzo facevo a rispondergli?
Qualcun altro mi pestò di nuovo la mano.
Aprii la bocca in automatico per urlare ma ovviamente non produssi alcun suono.
Vaffanculo.
-Hey gente! Questa tipa se gli fai male non dice niente! – Esclamò la stessa voce di prima.
ODDIO. Panico.
Mi era già capitata un’esperienza simile e no, grazie, gentilissimi, ma non ci tenevo a ripeterla.
Vidi alcuni che si voltarono verso di me. Mi imposi di alzarmi mentre il mio cuore iniziò a battere più velocemente.
Riuscii a mettermi a sedere ma qualcuno mi pestò il piede destro, volontariamente.
Alzai di scatto la testa. Era un ragazzo moro con gli occhiali quadrati e una camicetta bianca e blu.
Oh, se gli sguardi potessero uccidere sarebbe morto sul colpo.
Cercai di togliere il suo piede dalla mia caviglia con le mani. Il ragazzo cominciò a ridere.
-Perché non parli? Deve fare male, perché non parli? – Continuai a cercare di togliere il suo cavolo di piede.
Dio, le mani mi facevano così male.
Era una fortuna che fossi muta, perché se avessi potuto dal voce ai miei pensieri i Santi sarebbero caduti ad uno ad uno
Mi guardai attorno il cerca di aiuto. Il mio zaino era distante da me, così come il mio telefono e il ragazzo continuava a ridere e ridere e ridere e ridere e ridere.
Scoppiai a piangere. Più per il fastidio e l’impotenza che altro.
Era il mio primo giorno a scuola e già stavo piangendo. Volevo urlare. Volevo che questo ragazzo sparisse. Volevo che tutti la smettessero di fissarmi a metà tra lo stupito e il divertito.
Li odiavo. E odiavo me perché stavo piangendo.
-Blake. – Il ragazzo moro voltò la testa verso destra. Seguii la direzione del suo sguardo.
Un altro ragazzo con il mio stesso colore di capelli (wow) si stava avvicinando. Era abbastanza alto e il suo fisico asciutto era avvolto da un giubbino di pelle nera con sotto una maglietta di un grigio scuro. Adoravo quella tonalità di grigio.
Avrei sicuramente sorriso se non fosse stata per quella situazione.
Il ragazzo prese il tipo moro, Blake, per la spalla e lo scostò con un sorriso forzato sul viso.
Liberò il mio piede e persi completamente l’interesse per i due ragazzi, persi l’interesse per qualunque cosa.
Mi strinsi subito la caviglia tra le mani. O.Mio.Dio. Il dolore.
Sentii i ragazzi parlare ma non ci badai, mi asciugai velocemente le lacrime. Dovevo alzarmi da terra, subito.
Il ragazzo con la maglietta grigia si chinò verso di me, non me ne resi conto finché non mi ritrovai un paio di occhi dello stesso colore della maglietta davanti al viso.
Smisi di respirare. E mi dimenticai del dolore alla caviglia.
Erano così...belli. Come le giornate di pioggia in primavera, come le copertine dei libri coperti dalla polvere, come le perle nelle conchiglie, come le ali delle tortore, come....
-Stai bene? – Mi chiese.
Ripresi a respirare.
Annuii. Alzai lo sguardo e mi resi conto che gli altri studenti erano spariti. Quando avevano parlato li aveva fatti andare via.
-Non mi sembra che tu stia bene. – Scossi la testa e mi asciugai di nuovo le lacrime dal viso.
Che figura di merda. Mi sentivo una bambina.
Il ragazzo mi porse una mano e mi aiutò ad alzarmi. Una volta in piedi saggiai il piede destro, il dolore tornò, faceva male ma non così tanto come pensavo.
Mi voltai verso il ragazzo. Mi sorrise, un sorriso sincero, non falso come quello che aveva rivolto a Blake.
Sorrisi a mia volta, con il cuore che batteva ancora a una velocità un po’ troppo elevata.
Non sapevo cosa dire, o meglio, cosa fare. Avrei dovuto ringraziarlo, avrei voluto ringraziarlo. Potevo prendere il cellulare, dovevo solo dirigermi verso lo zaino ma non volevo spostarmi. E non per il piede.
-Alexandra! – Mi voltai di scatto. Vidi un paio di codini scuri corrermi incontro.
Per il sollievo quasi mi misi a piangere di nuovo.
-Che è successo qui? Tutto bene? – Lily aveva quasi gli occhi fuori dalle orbite mentre mi osservava scupolosamente.
Risi e ridere eliminò tutta la tensione accumulata prima. Sembrava solo un incubo successo a qualcun altro.
Annuii e le lanciai un’occhiata da “dopo ti racconto”.
Il ragazzo prese il mio zaino e me lo porse. Gli sorrisi di nuovo e sillabai un “grazie”.
Sorrise anche lui.
-Blake. – Disse a Lily a mo’ di risposta. Il suo sguardo si rabbuiò subito.
-Qualsiasi cosa abbia fatto la pagherà. – Fu il suo commento.
Okay, se i miei sguardi avrebbero dovuto uccidere, i suoi avrebbero dovuto incenerire qualsiasi cosa in un secondo per l’intensità che avevano i suoi occhi.
-Contaci. – Approvò il ragazzo. Mi lanciò un’occhiata, come ad assicurarsi che stessi bene, poi si allontanò dirigendosi verso la porta da cui era uscita Lily.
-Ora mi scrivi quello che è successo? – Mi chiese, c’era ancora una nota di preoccupazione nella sua voce.
Presi in mano il cellulare ma prima di spiegarle tutto c’era una domanda che dovevo farle:
“Chi era quel ragazzo?” Scrissi. Lily scoppiò a ridere e scosse la testa facendo andare avanti e indietro i suoi codini.
-Quello... quello era Ryan Blueblood. – Mi rispose continuando a ridere.
Ah. Magnifico.
Il ragazzo più figo della scuola mi aveva appena vista piangere.
Davvero Grandioso.

 

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