Bisogna cambiare la Storia

di Daleko
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***



Capitolo 1
*** 1 ***



Bisogna cambiare la Storia

1.
 
I loro occhi ambrati m'inquietavano un po', non promettendo niente di buono. Per un terribile momento pensai di trovarmi alla presenza di zombie veri e propri, zombie di quelli che una volta erano i miei genitori e che ora, nel pieno della loro vita, ciondolavano per casa con pelle ingrigita e pagliuzze dorate nelle iridi. Non ero molto propenso a rivolgere loro la parola e qualcosa mi suggeriva fosse meglio uscire dall'abitazione; in fondo perché rischiare una reazione sgradita? Non avrei voluto dover uccidere i miei parenti e sono sempre stato poco incline al ripulire le macchie di sangue. Uscii di casa richiudendo piano la porta dietro di me, poi trotterellai giù per le scale infilando la giacca a vento che stringevo nella mancina.
Abitando al sesto piano di un appartamento di periferia sono abituato a camminare parecchio per arrivare all'aperto; spesso mi perdevo nei pensieri dimenticando il piano a cui mi trovavo scoprendomi così prima del previsto (o molto dopo) a destinazione. Quel giorno in cui cambiò la Storia mi ritrovai più a disagio di quanto immaginassi. Giacca a vento chiusa, sneakers leggere sulle scale sudicie, continuavo ad agitare la mano destra nei capelli non pettinati. Ho sempre adorato il moro della mia chioma ribelle, se così si può chiamare un taglio di media lunghezza; non riuscivo però a compiacermene su quella scalinata apparentemente infinita mentre, infossando sempre più la testa nelle spalle, tentavo di non attirare l'attenzione delle persone intorno a me. Sembrava che gli appartamenti fossero stati svuotati dai loro inquilini, accorsi a ciondolare sui ballatoi con i medesimi occhi ambrati e la stessa pelle cinerea. Non mi sembrò vero di giungere finalmente in strada: uscii nella speranza di trovare aiuto e mi ritrovai invece nel pieno della Fine del Mondo1.
Il cielo era azzurro, gli uccelli volavano felici e nell'aria si diffondeva il profumo dei fiori trasportato dal vento. L'estate volgeva al termine e la brezza rendeva necessaria una giacca come la mia. Sembrava una tranquilla giornata di fine agosto e sarebbe anche potuto esserla, non fosse stato per gli zombie confusi che si muovevano senza meta per la strada. Rimasi interdetto; il mio primo impulso fu quello di ritornare a casa, ma rientrare in quel bordello infernale mi sembrò un tentativo troppo sfacciato di sfidare la sorte. Ripresi la mia postura ingobbita per rimpicciolire il mio svettante metro e ottanta di statura e m'incamminai, maledicendo la mia stirpe per l'altezza e poi ringraziandola per le gambe lunghe, nel caso avessi avuto bisogno di fuggire.
Mi dirigevo verso il centro nella speranza di capirne di più e dapprima non riconobbi la giovane Rei. In realtà si chiamava Angelina Mariarachele, ma il suo nome le provocava istinti omicidi e nessuno poteva darle torto, così tutti la chiamavano Rei. Diciott'anni appena, un metro e poco più, bella presenza, corto caschetto rosso naturale ben tenuto, sboccata come un camionista veneto appena licenziato. La vidi di spalle e anche se la sua andatura sembrava appena più rapida del movimento zombie-style 2, preferii un prudente giro di ricognizione per osservarla da avanti. La pelle era biancastra come al solito, il che non aiutava la risoluzione dei miei dubbi, ma gli occhi erano rimasti azzurri e in più erano gonfi e arrossati dal pianto. Ottimo segno, considerata la situazione in cui ci trovavamo. «Yo» le dissi semplicemente avvicinandomi, alzando una mano in segno di saluto e tenendo la voce a un tono abbastanza basso e rilassato. Il pomo d'adamo prominente che mi ritrovo non fece in tempo a riabbassarsi che Rei, terrorizzata, era già saltata all'indietro con sguardo spaventato. Sfilai anche l'altra mano da tasca, tenendole entrambe davanti al petto mentre lei scoppiava di nuovo a piangere con un terribile verso acuto. Si fiondò su di me e mi abbracciò tremante. «Ale, in che cazzo di situazione di merda siamo?» singhiozzò fra le mie braccia. Sì: era proprio Rei. Le accarezzai i capelli. «Non lo so, sto andando in centro a vedere se riesco a capirci qualcosa. Vieni con me?» le chiesi con tono vagamente soffocato; la sua testa nel mio stomaco mi stava bloccando il respiro. Si spostò e mi osservò con occhi pieni di lacrime. «Andiamo con la metro? Con tutti questi fottuti mostri?» domandò in tono flebile. Le sorrisi. «Chi vuoi che la guidi, la metro? No, andiamo a piedi. Dài, forza» la incoraggiai a camminare con me. Ci volle più di un'ora per raggiungere il punto che mi ero prefissato; per fortuna non ci fu nessuno scontro, e per ancor più fortuna Rei non mi chiese cosa stessimo andando a fare. Non ne avevo in realtà la più pallida idea.


 
1 Forse "Fine del Mondo" è un'esagerazione, ma non capita di certo tutti i giorni di poter scrivere di avvenimenti di questo tipo. Cercate di capirmi.
Licenza poetica.
 

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Capitolo 2
*** 2 ***



Bisogna cambiare la Storia

2.

 
Inaspettatamente, Vins era rannicchiato sotto la scalinata del museo. Assomigliava più a un senzatetto disperato che a un laureando forse troppo borghese; lo indicai a Rei e mi avvicinai al mio collega senza infierire troppo. «Duro lo sfratto, eh?» lo presi in giro con leggerezza; forse infierii abbastanza, perché credo fosse sul punto di avere un infarto. Alzò la testa di scatto, impallidendo improvvisamente, poi si portò le mani al viso e cominciò a piangere con il medesimo verso fatto da Rei un'oretta prima. La ragazza gli si avvicinò, sentendo un qualche tipo di feeling tra loro due, e cominciò a dargli brevi colpetti di solidarietà sulla spalla. «Beh, mi pare di capire che siamo almeno in tre» sentenziai con entrambe le mani nelle tasche dei jeans. Vins balbettava in preda al panico. «Non c'è più l'internet... Non c'è più campo per chiamare... Il cellulare non serve più a niente...» biascicava. Stavo per rispondergli di infilarsi l'ultimo iPhone nel suo posticino speciale, ma preferii voltarmi intorno a esaminare il paesaggio. C'era stato qualche incidente d'auto e le vetture, aperte e vuote, giacevano per le vie senza un padrone. Probabilmente erano usciti a pattugliare le strade, o qualunque altra cosa stessero facendo quei raccapriccianti subumani. «Speravo di dover tornare in zona universitaria per motivi diversi da un'invasione zombie, ma ormai è fatta. Andiamo?» chiesi ai due ragazzi ancora accovacciati davanti a me. Cominciavo a sentirmi a disagio e diedi un lieve colpo a Rei con un lato della scarpa. I due mi fissavano inebetiti. «Dove vorresti andare?» trovò finalmente la forza di domandarmi Vins. La ragazza annuì e io scrollai le spalle. «Qui è molto più tranquillo del solito. Chi vuoi che sia nel museo? Entriamo a dare un'occhiata» m'imposi con una convinzione che in realtà non avevo nemmeno lontanamente. Voltai loro le spalle, aggirando le scale e cominciando a salirle con determinazione; sorrisi nel sentirli accorrere dietro di me. Ero il gallo del pollaio, adesso, e dovevo difendere i miei poll... I miei amici.
L'ingresso non era sorvegliato, ovviamente. Bisognava però superare la biglietteria e mi accorsi con timore che un giovane uomo zombizzato1 era ancora al suo posto di lavoro. Ci avvicinammo titubanti, non del tutto sicuri di cosa sarebbe accaduto, e stavo giusto pentendomi di non aver portato nessun'arma con me quando lo sentii parlare. «Tre persone, dodici euro» comunicò con voce atona e senza alcun tipo di flessione. Sarebbe potuto essere stato un computer. Stranamente il tutto m'inquietò più di un eventuale attacco ti-mangio-le-cervella, e impiegai un attimo a estrarre il portafogli con la paghetta del sabato scorso. «Tre persone, dodici euro» ripeté lo zombie mentre gli poggiavo dodici euro esatti nella vaschetta; non sapevo come avrebbe potuto elaborare il resto e non intendevo scoprirlo. Possiamo dire che nessuno di noi aveva intenzione di toccare qualcosa di già toccato da quegli ex esseri umani, e già il respirare la loro stessa aria ci procurava una gran dose di ansia.
Il tornello scattò e lo zombie ci fece passare senza dire un'altra parola. Noi imitammo il suo silenzio ed entrammo in fila indiana – Io, Rei e Vins – per ritrovarci in una sala effettivamente vuota. «È stata un'ottima idea, Ale» si congratulò con me la ragazza del gruppo. Stavo per ringraziarla, ma poi aggiunse: «Anche se in un fottuto supermercato avremmo avuto almeno del cazzo di cibo». Richiusi la bocca. Vins annuiva vigorosamente alle parole di Rei e avevo voglia di prenderlo a ginocchiate nelle palle, ma mi trattenni e cominciai la mia esplorazione.

Tutte le sale sembravano essere vuote. Dopo circa dieci minuti di vagabondaggio decidemmo di dividerci i compiti essenziali: Rei avrebbe cercato di connettersi a una rete wifi, di trovare l'ufficio con le registrazioni di sicurezza per capire quando e cosa fosse successo, e di non farsi uccidere. Vins avrebbe girovagato per il museo alla ricerca di altri superstiti come noi, avrebbe cercato di reperire delle provviste e avrebbe provato a non farsi uccidere. Io... Io beh, dovevo ispezionare la biblioteca del museo –guadagnando punti in più se non fossi morto, ovviamente. Cercavo di vedere il tutto come il meraviglioso inizio di Ken il guerriero, una versione dal lieto fine de L'alba dei morti viventi oppure, ancora meglio, provavo a convincermi di veder saltare fuori una telecamera da esperimento sociale in dieci o venti minuti. La speranza è l'ultima a morire, così mi incamminai verso la biblioteca con fare dinoccolato e provai a ignorare la mia macabra fantasia in cui Rei veniva divorata da una guardia zombie senza un occhio. Scacciai quella visione dalla mia mente.
La sala della biblioteca era anch'essa vuota. Mi diressi automaticamente in fondo, verso i libri del mistero (che noi d'ingegneria chiamavamo "la sezione dei ritardati2")  e posai gli occhi per la prima volta su libri denigrati fino a quel momento. Scelsi un tomo a caso, lo aprii e lo richiusi di scatto. Un serpente gigante entrava nella vagina di una donna nuda uscendole dalla bocca mentre, in alto a destra, una navicella spaziale in pieno stile anni '20 li illuminava. Finalmente consapevole di quale fosse il padre di tutti gli hentai, posai il libro passando subito al successivo.
Il tempo scorreva molto lentamente.

 
1 Adoro i neologismi.
2 Forse è tardi per dirvelo, ma in queste pagine il politicamente corretto non c'è.

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Capitolo 3
*** 3 ***



Bisogna cambiare la Storia

3.
 
«È così difficile gestire voi integri et casti animi» scandì una voce maschile poco lontana. Inizialmente fui colpito dalla presenza di una voce a me sconosciuta, poi mi chiesi chi avrebbe mai potuto parlare latino nella vita reale. Alzai lo sguardo. 

Alto. Quando dico "alto" significa "più alto di me", quindi davvero alto, almeno un metro e novanta. Spavaldo; la spalla sinistra era poggiata a una delle librerie, la gamba sinistra sovrapposta lateralmente all'altra e le  braccia incrociate. Capelli corti e biondi, molto biondi, di quel perfetto biondo scandinavo che ti vien voglia di colorare per riportare i capelli a un colore umano¹. Fisico asciutto, pelle chiara, labbra rosee e bocca larga, quel tipo di bocca inquietante che dona fossette perenni alle guance. Anche gli abiti sembravano essergli stati cuciti addosso, in un tradizionale mocassini scuri-jeans classico-camicia bianca. Finora potrebbe sembrare il nuovo testimonial del barbiere di fiducia (il mascellone era anche sbarbato, ovviamente), ma c'era giusto un piccolo particolare che mi faceva dubitare di una simile eventualità: aveva dei fottuti occhi ambrati... E con le pupille da gatto. 
Una nuova mutazione tra gli zombie? Il Capo degli zombie? Mr. Zombie? 

Mi sorrise e finalmente mi resi conto di starlo fissando con la bocca aperta. La richiusi. «Sei... Sei Big Daddy?» balbettai con tono stupido. Mi ci sentivo. «Chi?» domandò divertito lo sconosciuto, un sopracciglio alzato e un sorrisetto a muovergli le labbra. Deglutii. «Big Daddy. La Terra dei morti viventi, Romero, duemilacinque» spiegai ascoltando il mio stesso eco. L'altro alzò anche il secondo sopracciglio. «C'è Asia Argento che fa finta di recitare», puntualizzai. Il biondo lanciò un'occhiata al libro che avevo davanti. «Perché stai leggendo "I figli di Asshur"?» domandò incuriosito senza rispondere al mio dubbio. Aprii la bocca per chiedere come facesse a leggere le pagine davanti a me, trovandosi ad almeno quattro metri di distanza², ma la richiusi subito dopo; fuori c'era un'invasione zombie e il nuovo arrivato aveva gli o-o-o-occhi di gatto³, quindi quel piccolo particolare mi sembrava momentaneamente trascurabile. Abbassai gli occhi sul libro. «Beh, parla di zombie e... Questa biblioteca è aggiornata al secolo scorso, così...» rialzai lo sguardo. «Woah!» esclamai spaventato; feci un passo indietro. Big Daddy era davanti a me, dall'altro lato della scrivania. Avrebbe potuto toccarmi e l'idea non mi affascinava particolarmente, così indietreggiai fino a colpire la libreria con la schiena. «Lontano, Big Daddy! Ho visto The Walking Dead, sai!» lo ammonii con tono più spaventato che minaccioso; come risposta ottenni una risata. «Perché tutti questi riferimenti ai non-morti?» chiese dopo qualche momento. Gli occhi gli brillavano divertiti e io mi sentii ancora più stupido. «Beh, perché...» sventolai una mano in direzione dell'ingresso «sono fuori, insomma» spiegai. Lui si voltò verso la porta, poi tornò a guardarmi. «In strada?» chiese con il pollice a indicare dietro di sé, al di sopra della spalla destra. Annuii vigorosamente. «Oh, quelli! Ma quelli non sono zombie» spiegò con calma; fu il mio turno di accigliarmi. «Ah no?» «No». 
Lo guardai ancora più confuso. «Okay, allora... Cosa sono?» mi decisi a chiedere. Il ragazzo era impegnato a controllarsi le unghie. «Sono lamìe» rispose annoiato. Ci misi un po' per collegare. «Lamie? Come in Supernatural?» chiesi ancora; alzò lo sguardo su di me. «Come in che cosa?» rispose confuso. «Supernatural, uh, una serie... Che... Ehm...» la sua espressione mi convinse a desistere. Feci spallucce. «Lascia perdere» tagliai corto. Lui sorrise, sospirò e mi voltò le spalle, allontanandosi di qualche passo. «Oh, ma...» lo richiamai. Quando tornò a voltarsi, dedicandomi incuriosito la sua attenzione, arrossii. Ero ormai lanciato in un'escalation di stupidità. «Quindi... Se non sei il Big Daddy allora chi sei?» volli sapere; il ragazzo, improvvisamente inorgoglito, assunse una postura rigida e fiera. «Di nomi ne ho da dimenticarsene. Sono Ahreman, Ba'al ma anche Saturno, Seth, Shayṭān, o Azazel. Sono Azizo e Luce di Venere, Principe delle Tenebre, portatore della scientia boni et mali. Ho tanti titoli quanti nomi, ma fate sempre troppa confusione e qualcuno di essi non mi appartiene, mentre altri mi sono stati ingiustamente tolti» ammise con rammarico. Tornò a guardarsi le unghie, lasciandomi più confuso di prima. «Va bene, quindi... Come devo chiamarti?» chiesi ancora nella speranza di capirci qualcosa; lui sospirò, poi alzò lo sguardo al soffitto. «Lo dimentico sempre, com'è che mi chiamate qui adesso?» fece una pausa, cominciando a mormorare. Alla fine schioccò le dita, soddisfatto, e tornò ad ammirarsi la mano destra. «Ah, sì! Credo che tu mi conosca come Lucifero». 

 

¹ Il che, in questo caso, è tutto un dire.
² O forse dieci. Le unità di misura non sono il mio forte.
³ Non sono riuscito a trattenermi, scusate, se ora volete parteggiare per la mia morte posso capire, davvero. 


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Capitolo 4
*** 4 ***


Bisogna cambiare la Storia

4.
 
«...Lucifero?» domandai confuso. «Nel senso come... Il diavolo?» insistei sentendomi stupido. L'altro scoppiò a ridere. «Sì, puoi chiamarmi così anche se non lo preferisco. Ha un'accezione troppo negativa per i miei gusti» mi rispose stringendosi nelle spalle. Calò un silenzio imbarazzante su di noi: separati da un tavolo da lettura, lui dando le spalle alle porte e io con le mie contro la libreria. Davanti a me era ancora aperto quello stupido libro, troppo lontano perché potessi richiuderlo, e non riuscivo a distogliere lo sguardo da quel bell'uomo (uomo?) davanti a me. Mi riusciva difficile credere agli zo... alle lamie all'esterno, ma che avessero tutti qualcosa di strano potevo ancora verificarlo con i miei occhi. Quale prova avevo, invece, che quell'uomo (ma era proprio un uomo?) si trattasse davvero di quello che diceva di essere?
«Provamelo!»
«Come, scusa?»
«Provami di essere Lucifero» insistei. Lui sorrise beffardo. «Vuoi che faccia una corda di sabbia di mare o qualcosa del genere?» propose divertito. Battei le palpebre più volte. «Eh?» riuscii solo a emettere, con un suono non troppo convinto. L'altro si accigliò, guardandosi intorno. «Non siamo in Irlanda, vero?» mi domandò con tono incuriosito. Mi sentii un po' preso in giro. «No. Siamo in Italia» calcai la risposta, lievemente offeso. L'uomo schioccò le dita della mano destra, un sorriso ampio sul volto e tornando con gli occhi su di me. «Ah, vero! Che graziosa isoletta!» commentò. Aprii bocca per ribattere, ma non feci in tempo.

«Chi cazzo è questo qui?» borbottò a mezza voce Rei sulla soglia della porta. La sua voce rimbombò nella sala, arrivando alle nostre orecchie; ci voltammo entrambi a guardarla. «Oh, Angelina!» esclamò lo sconosciuto con un allegro battito di mani. La ragazza impallidì e sembrò anche lei sul punto di dire qualcosa, ma fu raggiunta da Vins con le braccia colme di snack. «E Vincenzo. Ciao ragazzi!» continuò a salutare il biondo. Rei era impallidita. «Come mi conosci? E chi cazzo sei?» ringhiò. Sembrava un gattino dal pelo arruffato e mi faceva tenerezza; non spaventava me, figurarsi l'altro tipo. Rei e Vins, anche lui sospettoso, si avvicinarono lentamente e provando a tenersi lontani da questo bizzarro figuro, aggirando il centro della stanza per raggiungermi raso al muro. Nessuno di noi staccava gli occhi di dosso al tipo, e lui seguiva il tutto con uno sguardo divertito. Alla fine Rei finalmente si voltò a guardarmi mentre Vins, ancora con le braccia piene, restava a fissarlo inebetito. «Lo conosci?» mi chiese lei in un sussurro. Riuscii solo a scuotere debolmente la testa. Rei tornò quindi a guardarlo, trasalendo e afferrandomi un braccio; la mano libera corse alla bocca. «Oddio! È uno di quei fottuti mostri!» esclamò improvvisamente. Cominciò a scuotermi, mormorando: «I suoi occhi! Guardate gli occhi!» come una nenia. Lui in tutta risposta sbuffò, contorcendo il viso in una smorfia per poi sedersi di sbieco su di uno spigolo del tavolo. Continuava a guardarci. «Angelina, Angelina... Non crederai mica che quel simpaticone di Dio ti stia ascoltando davvero, vero?» la rimproverò bonariamente. Ren si accigliò, e nonostante la paura non riuscì a frenare la lingua. «Eh?» sbottò. Ebbi un déjà vu. «Parlavi di un mio vecchio amico. Cioè, in realtà... Ma sì, un vecchio amico» concluse con un sorriso inquietante. Ci scambiavamo sguardi perplessi, ora, convinti di trovarci in presenza di un pazzo. «Di... Di chi sta parlando, scusi?» domandò gentilmente Vins. L'altro emise un verso seccato. «Dyáuh, Zeus, Šiu, Guth, Eloah, Ilum, Alāhā, Dingir, Ahura... Come volete chiamarlo?» rispose con le belle labbra all'ingiù, in un'infantile espressione di tristezza. Colsi l'occasione. «Come si chiama?» domandai a bruciapelo. Lucifero, ormai cominciavo a credergli, si rivolse verso di me puntandomi i suoi occhi gialli dritti nelle pupille. Mi sentii non solo a disagio: ero come spogliato da ogni mia veste, sentivo la mia mente violata nell'intimo. Avvampai e la sua bocca ghignò di divertimento malsano. «Non fare il furbetto con me. Il suo nome non è intellegibile per voi, così come non lo sarebbe il mio. La pronuncia migliore del suo nome, quella più vicina a qualunque cosa possiate pronunciare, è El» spiegò. Vins mi guardò accigliato, poi tornò con lo sguardo su di lui. «Nel senso che... Dio in realtà si chiama El? Tutto qui?» domandò ottusamente. Lucifero tornò a guardarlo. «Sì, certo. Perché, che ti aspettavi? Cinquantadue sillabe? Il mio è Bahel» concluse con un'alzata di spalle. Vins sembrava imbarazzato. «Sì, ok, ma quindi tu chi cazzo sei?» sbottò di nuovo Rei. L'altro scoppiò a ridere, lasciando a me l'onore di rispondere. «È il Diavolo», risposi a mezza voce. A Vins cadde uno snack.


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