La Famiglia Del Diavolo

di Luxanne A Blackheart
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Capitolo uno. Lucille. ***
Capitolo 3: *** Capitolo due. William. ***
Capitolo 4: *** James ***
Capitolo 5: *** Jean. ***
Capitolo 6: *** La Famiglia in festa, parte prima. ***
Capitolo 7: *** La Famiglia in festa, parte seconda. ***
Capitolo 8: *** Amore che non si è saputo dare. ***
Capitolo 9: *** Tempo e eternità. ***
Capitolo 10: *** Chiodo arrugginito. ***
Capitolo 11: *** Sfortuna maledetta. ***
Capitolo 12: *** Tradizioni e licantropi. ***
Capitolo 13: *** Gioventù mortale e peccati eterni. ***
Capitolo 14: *** Margherita appassita ***
Capitolo 15: *** Il giorno in cui Tennynson morì. ***
Capitolo 16: *** Pesci fuor d'acqua. ***
Capitolo 17: *** La fine di un'era ***
Capitolo 18: *** Epilogo. ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


PROLOGO.






I frutti avvizziscono, l'bacio muore e il tempo scorre;
Tu ti nutri di un perpetuo alito,
E vivi dopo infiniti cambiamenti,
Ed esci fresca dai baci della morte;
Di languori riaccesi e rianimati,
Di delizie sterili e impure,
Di cose mostruose e infeconde sei la pallida
E velenosa regina.”
Algernon Charles Swinburne, Dolores.



 
Parigi, 1787.




L'uomo dagli occhi chiari scese dalla carrozza, guardandosi intorno. Si trovava in uno dei quartieri più malfamati e poveri di Parigi.
Egli arricciò il naso quando un odore di piscio e feci umane e animali colpì il suo olfatto; l'ambiente era sporco e l'afa e l'umidità non aiutava di certo a rendere la situazione migliore.
I poveracci erano riuniti nelle locande a brindare e gridare come cani; le risate stridule delle donnacce e quelle grasse e malaticce degli uomini si udivano da un miglio di distanza. Degli uomini di ricco ceto sociale si aggiravano per le buie stradine, affiancandosi a ragazzini di sedici anni dai visi effeminati, apparentemente per parlare. Mani furtive strisciavano come serpenti e toccavano pelli, occhi esaminavano le carni ancora tenere, pure, apparentemente senza peccato.
Le puttane tutte sudate, dalle labbra rosse e gli occhi da cerbiatte, offrivano la loro mercanzia, sbottonandosi i bottoni dei vestiti semplici.
La luna, splendida nella sua bellezza opaca, brillava nel cielo, corteggiata dal luccichio delle stelle.
Il terreno era fangoso e appiccicaticcio, tant'è che i pesanti stivali del bell'uomo si attaccavano, producendo uno sgradevole rumore.
Si guardò intorno, ma nessuno sembrò notarlo. Erano tutti occupati nel fare qualcosa: chi si ubriacava, chi si accompagnava con gentildonne e gentiluomini, chi si lasciava andare nelle fumerie d'oppio, abbandonando per un momento il lume della ragione e rifugiandosi in un mondo irreale, inesistente e per questo meravigliosamente perfetto.
L'uomo svoltò sulla sinistra, notando dei bambini dai visi sporchi di nero, giocare con una carcassa di un topo, mentre la madre cercava di mendicare. Si aggrappò al suo lacero mantello, supplicandolo in francese.
“Vi prego, signore, datemi qualcosa. Io e i miei figli stiamo morendo di fame...”
“Non ho niente, donna.”
La madre venne spinta violentemente al suolo ed egli continuò per la sua strada.
Aveva bisogno di qualcosa da mangiare, qualcosa da mettere sotto i denti, ma notando le critiche condizioni nelle quali Parigi era messa, questo suo desiderio cominciava a scemare poco a poco.
La amava, quella città. Ma odiava quella lingua e odiava anche i francesi. Credevano di essere al di sopra degli altri, con la loro lingua musicale e la loro bella regina austriaca, che in realtà li avrebbe portati tutti alla rovina.
Le donne sono tutte così, pensò Vlad, affamato e stanco, ti succhiano via la vita e poi versano lacrime di coccodrillo alla tua morte.
Un prete versava dell'acqua santa su delle puttane, che ridevano di lui e gli mostravano il seno, per ripicca.
Vlad rise, accennando un sorriso a quelle meravigliose creature, proseguendo per la loro strada.
Quella era Parigi.
La gente di giorno era religiosa, lavoratrice e gentile con i malcapitati, ma non appena l'oscurità inghiottiva il giorno, mangiandoselo con i suoi aguzzi denti da demone, le stesse persone cambiavano completamente. Urlavano, sbraitavano, si ubriacavano, si drogavano e pagavano donne e ragazzini per ricevere del piacere, del sesso a poco prezzo, si vendevano al diavolo e banchettavano con lui, quando alla luce del giorno lo proclamavano come unica piaga del mondo.
Gli Umani sono tutti uguali. Incoerenti e sempre alla ricerca di qualcosa che spezzi la loro noiosa routine, sempre alla ricerca del divertimento, dell'amore che le loro stupide religioni cercano loro di insegnare. Gli umani sono gusci mezzi vuoti, se non fosse per la loro anima, sarebbero solamente pezzi di carne che camminano, sacche contenenti il suo nutrimento essenziale. Sono sempre pronti a dare la colpa a qualcun altro per le loro azioni, sono essere mostruosi ed egoisti, non guardano mai in faccia a nessuno per raggiungere il loro scopo. Cercano tanto di essere buoni, ma sanno benissimo che saranno sempre destinati a fare del male, è nella loro stupida natura, pensò Vlad, disgustato.
Nell'aria si disperse un odore che l'uomo conosceva molto bene, caldo, denso dal retrogusto metallico. Chiuse i suoi occhi verdi, annusando l'aria e facendosi guidare dal meraviglioso e paradisiaco profumo, dalla sua unica linfa vitale, dall'unica cosa in grado di sottometterlo.
Svoltò un ennesimo vicolo, ritrovandosi in uno dei quartieri abbandonati, poiché le case erano troppo vecchie per abitarci, cadevano letteralmente a pezzi e i topi ormai le avevano ufficialmente fatte loro dimora.
Vlad si tolse il cappuccio del mantello, gettandolo di lato. I suoi capelli rossi scintillarono quando i raggi lunari li colpirono.
Si udirono dei lamenti umani soffocati e l'odore del sangue si faceva sempre più persistente, impregnando tutta l'aria.
Ed eccoli che li vide, in una angolo, in un piccolo vicolo senza uscita, c'erano una donna e quello che sembrava un ragazzino, uno di quelli che aveva notato al suo arrivo.
La donna gli dava le spalle, Vlad poteva notare solamente i capelli biondi, da sembrare quasi bianchi, nella semioscurità. Il viso del giovane era dolorante, mente la donna lo schiacciava contro la parete, le mani chiuse intorno alle braccia della sua vittima per tenerlo fermo. Vlad sentiva e vedeva la vita fluire dal corpo del giovane, interamente per opera di quella meravigliosa creatura, che Vladimir conosceva alla perfezione.
“Camille, pensavo fossi più gentile di così. Non me ne offri un po'?”
La donna si staccò dal povero malcapitato, girandosi ad una velocità sopranaturale. La sua bella bocca da bambola di porcellana scintillava di rosso sotto il chiarore lunare, mentre essa si apriva in un sorriso affascinante. I canini appuntiti le bucavano il labbro inferiore, due gocce di sangue caddero sulla scollatura del suo vestito, macchiandole la pelle candida e priva di imperfezioni.
“Vlad! Mon amour, cosa ci fai a Parigi? Pensavo fossi ancora rinchiuso in quella maledetta prigione in Romania...”
“Be', sono fuggito, cosa che hai fatto anche tu, da quello che vedo.”, Vlad ghignò, raggiungendo la donna, per baciarla sulla guancia. Camille battè le mani, entusiasta. Sembrava ancora una bambina per i modi di fare, ma di aspetto dimostrava all'incirca vent'anni.
“Ma, aspetta, oggi non è il tuo compleanno?”
“Esattamente e sono venuto a trovarti proprio per questo motivo, Camille. Dove sono i nostri bambini?”
Gli occhi della donna luccicarono, quando l'uomo la strinse per la vita, sbattendola violentemente contro la parete del vicolo. Ormai il giovane era morto e il suo sangue se l'era bevuto tutto Camille. Vlad avvicinò il viso al collo della donna, dissetandosi direttamente da lei, che gemette.
“Oh, quanto mi eri mancato.”, sospirò la donna, mentre accarezzava i capelli scuri del suo amante. “I bambini sono in giro per il mondo. Non so dove, perché?”
“Siamo pur sempre una famiglia, Camille. Voglio che ritorniamo ad esserlo e la Londra della regina Vittoria mi sembra un'ottima città dove poter crescere i nostri bambini, che cosa ne dici?”
“Oh, sì, mi sembra un'idea bellissima!”, Camille lo bacio sulle labbra, mordendogli il labbro inferiore. “Vedo già Londra bruciare per opera nostra!”
“E che Londra sia allora, mia regina. Chiama i bambini, la Famiglia del Diavolo sta per riunirsi!”




**** ****
Salve a tutti!
Bentrovati per chi mi dovesse già conoscere e benvenuti per chi è appena giunto per la prima volta!
Mi chiamo Luxanne Andrea (non è il mio nome reale, lol) e questa è la mia nuova storia.
Spero che questo prologo vi abbia intrigato e vi sia piaciuto e che continuate a restare con me e i miei personaggi in questo percorso. So che è presto per esprimere dei pensieri riguardo alla storia, ma mi piacerebbe avere un pensiero da voi per vedere cosa vi ho lasciato e se c'è qualcosa su cui volete correggermi, fate pure, basta che in quello che dite ci sia educazione.
Non sono Camille, non vi mangio!
Considerato che sto scrivendo un'altra long e che mancano ancora un po' di capitoli per terminarla, spero di poter aggiornare settimanalmente, impegni e vita sociale permettendo.
Mi sono dilungata fin troppo xD
Grazie per aver letto e al prossimo capitolo in cui avrete modo di conoscere tutta la Famiglia del Diavolo!



-Luxanne.

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Capitolo 2
*** Capitolo uno. Lucille. ***


CAPITOLO UNO.
Lucille.




 
Ora ti brucerò a mia volta,
ti brucerò tutto.
Fossi pure dannato per questo,
noi due giaceremo
E bruceremo.”
Charlotte Mew, Nel cimitero di Nunhead.


 
Londra, Estate 1878.


Londra aveva avuto sempre uno strano odore. Non era come le altre città che nel corso degli anni mantenevano sempre il loro solito profumo, non cambiandolo mai.
Londra era strana. Ogni volta che ci metteva piede la ragazza veniva invasa da sensazioni sempre diverse. Quell'anno, quell'estate del 1878, la città profumava di sale, sangue e fumo.
Quando Lucille e Camille sbarcarono, trovarono due carrozze di famiglia ad aspettarle. Due grandi veicoli neri sui cui lati erano stati disegnati due urobori, un serpente che si mangia la coda, al cui interno c'era scritto il nome della famiglia: Nottern. L'animale aveva due grandi occhi rossi, di rubino, che scintillavano in modo inquietante e sembravano seguirti con lo sguardo. La pelle del serpente era verde con striature nere e ogni volta che la carrozza si muoveva, sembrava che l'animale si stesse inghiottendo la coda.
Lucille non si sarebbe mai abituata del tutto a quel simbolo; esso identificava la famiglia. Loro erano come i serpenti: belli, letali, velenosi e mortali.
La ragazza sorrise quando li vide; i suoi quatto uomini. Vestiti come perfetti gentiluomini, bellissimi ed elegantissimi. Erano posizionati uno accanto all'altro, davanti ai veicoli e le aspettavano sorridenti e con le braccia dietro la schiena.
Vladimir con il suo metro e novanta d'altezza, il capofamiglia dagli occhi verdi e i capelli rossi nascosti dal cilindro.
Roman, il primogenito, molto più alto del padre. Sembrava un vichingo con i lunghi capelli biondi e mossi, la barba bionda che gli incorniciava i lineamenti e gli occhi di ghiaccio, quasi bianchi. Era enorme. Un meraviglioso sorriso gli illuminava il viso, rendendolo più bello di quanto non fosse già.
Jean, secondogenito, dai lineamenti leggermente orientali e effeminati. Era magro come una scopa e il più pallido fra tutti. Aveva capelli riccissimi neri e occhi scuri, quasi color ebano.
E c'erano anche William e James, gli inseparabili fratelli, sembravano gemelli, ma non lo erano.
William le sorrideva come al solito in modo malizioso; gli occhi azzurri scintillavano nel buio della notte e capelli d'oro morbidi come seta e lunghi fino alla mascella, gli incorniciavano il volto. Era il bambino dispettoso, la pecora nera.
E infine, James dal viso gentile. Capelli talmente biondi da risultare bianchi e occhi di un verde prato innaturale. Sembrava un angelo, ma era dispettoso quanto il fratello preferito. Alcune ciocche di capelli erano fuoriuscite dal cilindro, creando un forte contrasto con la tonalità scura del cappello.
“Ecco le nostre donne.”, disse Roman con la sua voce possente, correndo ad abbracciare la madre e la sorella minore. Entrambe, minute di corporatura, gli arrivavano a stento al petto. Roman abbracciò la madre e la sorella, sollevandole da terra.
Camille ridacchiò, baciando il figlio su una guancia: - Mio piccolo Erculee, quanto sei cresciuto! -
Vladimir si avvicinò lentamente alle donne, prendendo le mani della figlia fra le sue e lasciandovi un bacio sopra i guanti. C'era qualcosa di innaturale negli occhi del padre, pensò Lucille, e nel modo in cui camminava. Era come se il peso di tutti i secoli e il tempo si fosse fermato su un'unica persona. Vladimir era sempre così composto, così serio, così Vlad... Non lo aveva mai visto ridere, al massimo ghignava, ma non rideva mai. Se non lo avesse visto con i propri occhi, Lucie avrebbe pensato che Camille e loro fossero solo un passatempo. Ma sapeva che non era così; sentiva ancora le urla di quella notte...
“Sei bellissima, mia piccola Lucille.”
“Anche voi, mio caro padre, non siete affatto invecchiato o cambiato.”
Vlad le schiacciò l'occhio in modo talmente sfacciato che la lasciò di stucco, per poi passare a salutare la moglie.
Lei e Camille si somigliavano molto, ma non di aspetto, di carattere. Sembravano entrambe ancora delle bambine che avevano voglia di scoprire il mondo, nonostante l'età.
Quella sera l'aveva aiutata a prepararsi nella stiva della nave. Le aveva raccolto i lunghi capelli biondissimi sul capo e vi aveva sistemato sopra un cappello tutto fiori, così grande da nasconderla. Era bellissima e dallo sguardo di Vlad, Lucie capì che egli approvava. Quando i due si baciarono, la più piccola dei figli distolse lo sguardo, andando a salutare gli alti fratelli.
“Oh, Jean, mio compatriota!”, urlò Lucie, correndo verso il fratello per abbracciarlo. Rabbrividì, quando sentì le ossa attraverso il tessuto pesante del cappotto.
“Sei così magro, Jean. Che cosa succede? Non mangi abbastanza?”, chiese Lucille allarmata, era preoccupata per la saluta del fratello. Jean sembrava imbarazzato, se avesse potuto, sarebbe arrossito. “Non preoccuparti, ho portati due succubi solo per te.”
“Cosa farei senza di te, mia bella francesina!”, Jean le strizzò una guancia con fare fraterno. Stava per dirle qualcosa, ma venne interrotta da qualcuno.
William.
“Sorellina!”, Will aprì le braccia, aspettandosi che ella vi si sarebbe tuffata, ma Lucille lo ignorò beatamente, passando a salutare James che stava ridacchiando per la faccia delusa e ferita di Will. Il biondo le baciò una guancia e lei sorrise, beata.
Era sempre stata la più piccola di quattro fratelli e veniva sempre coccolata da tutti quanti, tranne da William, che le faceva sempre i dispetti. Non lo sopportava più.
“Oh, Lucille, come hai potuto ignorarmi così? Sai che il mio ego ha bisogno di costanti attenzioni. E poi, pensavo ti fosse passata!”
“Jamie, senti qualcuno parlare? Perché io non odo nemmeno una mosca volare.” Lucille alzò un sopracciglio, guardando William che si era poggiato sul fianco della carrozza.
Jamie la prese per mano, ridendo. Aveva una risata genuina, potevi ascoltarla per ore. “Ci sarà da divertirsi con voi due.”
“E' successo più di ottant'anni fa, Illa. Non puoi ancora essere arrabbiata!” , cercava in tutti i modi di attirare l'attenzione della sorella, che lo ignorava continuando a parlare con Jean e Roman.
“Dove sono i succubi? Ho fame.”, brontolò Jean, affamato.
“Alfred, Buford venite!”, li chiamò a gran voce Lucille.
“Spero che siano più gustosi dei loro nomi.”, borbottò William, facendo ridere James.
Lucille gli lanciò una occhiataccia, continuando quando i due pallidi uomini, si avvicinarono: “Prendete i miei bagagli e quelli di Madame Nottern e sistemateli attentamente nelle rispettive carrozze. Fate attenzione, sono oggetti delicati.”
I due uomini, vestiti con abiti bucati e sporchi, annuirono. Erano pallidi e avevano una espressione di tristezza in volto. Afferrarono i bauli sistemandoli velocemente all'interno delle carrozze. Quando afferrarono una casa di bambole tutta rosa, Lucie li seguì con lo sguardo per tutto il tragitto.
La minore dei Nottern sembrava una bambina la maggior parte del tempo; era minuta e magra, portava lunghi capelli castani sempre acconciati in modi differenti e i suoi occhi erano grandi e castani con ciglia lunghe e sopracciglia scure. C'era una spruzzata di lentiggini sul naso alla francese.
Era talmente bella e piccola da sembrare una delle bambole di porcellana che le piaceva tanto collezionare.
“Salite sulle carrozze adesso, stiamo dando spettacolo.”, disse Vlad, interrompendo le chiacchiere. Camille gli era aggrappata al braccio e lo guardava con adorazione.
Vlad, Camille e Roman sederono sulla prima carrozza, mente gli alti, Jean, Will, Jamie e Lucie, sull'altra. I due succubi invece, fecero loro da cocchieri, facendo nitrire i cavalli neri.
La fortezza dei Norten si trovava fuori Londra, in una tranquilla campagna. Era un vero e proprio castello in stile gotico, enorme e massiccio, talmente alto che sembrava sfiorare il cielo.
I londinesi guardavano con curiosità le due carrozze muoversi con velocità per le strade. Si vociferava che un lontano cugino della regina Vittoria fosse giunto dalle Indie assieme alla famiglia e da quello che vedevano, sembrava fosse la verità. I Nottern erano giunti a Londra e la gente trepidava per poterli vedere fare il loro ingresso in società.
Lucille sedeva tra Jean e James, mente William le era seduto davanti, scrutandola con il suo solito sorriso malizioso. Si era tolto il cilindro, posandolo sul sedile vuoto al suo fianco e i suoi capelli erano disordinati in ciocche più scure e più chiare.
“Dove sei stata, Illa cara?”
Lucie serrò la mascella, irritata. Illa era il soprannome che le dava quando voleva darle fastidio e lo sapeva. Per giunta aveva interrotto James che gli lanciò una occhiataccia.
“Sono stata in Italia e ho vissuto a Roma per qualche anno. Mi sono sposata con un pastore e ho vissuto in campagna fino alla sua morte. Poi sono andata nel Nuovo Mondo e infine in India, dove ho incontrato mamma e papà. Quei due se la stavano spassando alla grande!”
“Come al solito.”, rise Jean, scuotendo la testa, divertito. I riccioli si mossero assieme a lui.
Nessuno tranne Will sembrò indignato da quella notizia. Lucille la conosceva bene quella espressione. Occhi socchiusi e labbro fra i denti. Era la faccia di quando cercava di nascondere la sua gelosia.
“Non mi dire! La nostra Lucille si sta trasformando in Camille! E' stato il primo o ce ne sono stati altri? E lui adesso dov'è? Te lo sei mangiato, non è vero?”
“Will, non fare l'idiota.”, lo avvertì Jean, guardandolo serio. Aveva stretto la mano della sorella con fare protettivo.
“E' morto di vecchiaia, William. Era un brav'uomo e si era innamorato di me. Infondo cosa sono pochi anni per noi.”
“Come sei altruista, dovrebbero farti una medaglia.”
“Ti odio, William, ti odio. Non rivolgermi la parola!”, era riuscito a ferirla. Infatti aveva gli occhi lucidi.
“Sei la solita bambina”, sbuffò Will, gli occhi chiari scintillarono. Stette zitto per la maggior parte del tragitto.
“E voi?”, chiese la ragazza, guardando prima Jean e poi James.
“Sono stato in Cina e in Giappone per continuare i miei studi ed esercitarmi maggiormente con il violino. Sono diventato davvero bravo.”
“Sempre il solito secchione!”, risero tutti e tre, tranne Will che sbuffò.
“Io sono stato in Norvegia e Islanda. Ma sono dovuto tornare da Will, qui in Inghilterra. Odia viaggiare e quando non ci sono io, si annoia.”
“Volevo farmi un bagno nudo nel Tamigi e per poco non mi hanno arrestato! Se fossi venuto anche tu con me, le cose sarebbero state diverse, James.”
“Nessuna conoscenza particolare?”, chiese Lucille, guardando un ragazzo in particolare.
“Oh, sì, mi sono sposato con una puttana, ma l'ho lasciata dopo un giorno. Sospetto mi tradisse con mezza Londra, mai fidarsi delle donne!”
“Lieto di sapere che frequenti ancora bordelli, Will.”, disse schifato Jean. “Voi inglesi siete così libertini.”
“Detto da un francese è più che un complimento. Voi siete la terra del libertinaggio!”, replicò il biondo, lieto di aver difeso la patria. Si infossò nel sedile, tant'è che le sue gambe lunghe, sfiorarono quelle di Lucille, nascoste dietro le gonne. La ragazza cercò di ignorare quel particolare.
La carrozza finalmente si fermò. Si udì il cancello nero aprirsi e cigolare per consentire il passaggio dei veicoli, mentre i cavalli sbuffavano rumorosamente.
Non vivevano in quella casa dai tempi di Shakeaspeare , o meglio, da quando William donava le sue opere ad un vecchio e fallimentare attore, facendogli prendere tutti i meriti. Ricordò anche i brevi flirt di James con le dame da compagnia della regina e di come lo trattassero come un re.
“Lucie e dammelo un bacetto!”, fece finta di piangere Will quando Alfred aprì lo sportello per farli scendere.
“No.”
“Voi due siete davvero insopportabili.”, borbottò Jean guardandosi le mani delicate e curate. Will disse davvero qualcosa di osceno e Jean di rimando gli fece un gestaccio.
Camille urlò indignata.
“Insomma, ma che maniere da barbari sono queste? Dove siete stati in tutti questi anni?”
“In America.”, disse Will, sapendo della profonda avversione della donna nei confronti del Nuovo Mondo.
“Adesso capisco molte cose!”
Vlad ghignò , afferrando figlio maggiore e moglie per un braccio e sparendo nel nulla. Jean era scomparso a sua volta e nessuno l'aveva sentito andare via.
Lucille, James e William erano rimasti soli.




Quando Lucille varcò l'uscio di casa, notò con suo grande dispiacere che non fosse esattamente rimasta come ricordava. Era stata arredata come i costumi dell'epoca, con grossi lampadari e tende provenienti dall'India. Ciò che ricordava il 1600 era rimasto ben poco.
All'ingresso ad aspettarli c'erano un vecchio maggiordomo tutto gobba e tremolii con occhi stanchi e profonde rughe a solcargli la pelle e una donna anziana, una cameriera, con abiti vecchi e scuri e una retina per capelli bianca sul capo; anche la signora era molto vecchia e rugosa, ma a differenza del marito, sembrava più in salute.
Chissà da quanti anni si prendevano cura di quella casa, aspettando il loro ritorno. Faceva strano, pensò la ragazza, guardare quelle rughe sui loro volti, i segni lasciati dal tempo... Lei non li avrebbe mai avuti, sarebbe stata per sempre una bellissima e giovane diciottenne. E questo valeva anche per gli altri.
Lucille si voltò per guardarli e i due gentiluomini la osservarono interrogativi.
L'atrio della casa era enorme e si apriva in due scalinate che portavano ai piani superiori, dove erano situate tutte le centocinquanta camere da letto. Sul soffitto Jamie aveva disegnato alcune scene tratte dall'Apocalisse e dall'Inferno di Dante. Corpi nudi che si contorcevano, demoni dagli occhi rossi che si dissetavano dal sangue umano, segugi infernali e altre creature demoniache; fra tutte quelle figure aveva inserito anche loro, la Famiglia del Diavolo. Vladimir era seduto su un trono fatto di teschi umani su uno sfondo nero; aveva gli occhi rossi e due zanne appuntite gli bucavano il labbro inferiore, mentre del sangue gli macchiava i vestiti. Un sorriso appena accennato gli incorniciava le labbra. Sulle ginocchia gli era seduta Camille che guardava adorante il marito, indossava un bellissimo vestito insanguinato e i capelli biondi sfioravano il suolo; anche lei aveva gli occhi rossi e delle zanne che le bucavano le labbra.
Sembravano Lucifero e Lilith, i sovrani degli inferi, spietati e malvagi.
Dietro il trono di ossa, quasi nella penombra, c'erano Roman e Jean, anche loro con le stesse caratteristiche dei genitori. Poggiavano una mano sulla spalla del padre, mentre guardavano un punto indefinito davanti a loro, mentre William, James e Lucille sedevano ai piedi del padre e ridevano delle povere anime torturate dai demoni. James e William guardavano la sorella, mentre ella indicava con un gran sorriso qualcosa.
“Ha uno spiccato senso dell'umorismo, James, non trovi?”, le domandò Will, avvicinando le labbra vicino all'orecchio della sorella. La voce roca e dal perfetto accento inglese del fratello la fece rabbrividire. Lucie non rispose, guardandosi intorno, anche Jamie era sparito. Will le offrì il braccio. “Vieni, ti accompagno in camera, non vorrei che qualcuno approfittasse della tua virtù, mia bella.”
“L'unico che potrebbe approfittarsene sei tu, mio caro Willy.”, il biondo ridacchiò, passandosi una mano fra i capelli setosi.
Sulle pareti delle scalinate, erano stati posizionati quadri raffiguranti la famiglia Nottern durante i secoli.
C'erano circa centocinquanta camere, ma solo sette erano realmente occupate; inoltre c'erano due stanze della musica con qualsiasi strumento esistente, due enormi librerie costantemente in fase di aggiornamento, due salotti nei quali poter ricevere gli ospiti e altre stanze vuote e inutilizzate, nelle quali probabilmente c'erano tutti i vestiti di Camille.
In soffitta William si rintanava la maggior parte del tempo, lì aveva tutta la calma e tranquillità per poter comporre poesie e scrivere i suoi romanzi. Mentre a James era dedicata tutta un'ala della casa, dove poteva dipingere ed esporre i suoi quadri e sculture.
Nei sotterranei, invece, c'era il laboratorio scientifico di Roman, dove si impegnava nel creare nuovi oggetti, che la maggior parte delle volte finivano per ferire quasi tutti i componenti della casa. C'era anche una serra nello sconfinato e immenso giardino, dove Camille e Vladimir si prendevano cure di brutte e strane piante.
William, James e Lucille scelsero il quarto piano. Come al solito quei tre erano inseparabili, nonostante i continui bisticci fra Will e Lucie.
I due fratelli dormivano in camere diverse, ma comunicanti l'una con l'altra attraverso un tunnel che avevano costruito in un giorno di noia, mentre Lucille dormiva sola, ma la sua camera si trovava di fronte a quella dei ragazzi.
“Ed eccoci qua, siamo arrivati, mia indifesa donzella. Adesso merito un bacio per questo mio atto eroico.”, sorrise maliziosamente, avvicinando il viso a quello della ragazza, che si scostò velocemente, entrando nella stanza.
La camera di Lucille era spaziosa, una tra le più grandi di tutta la casa. Il rosa era il suo colore preferito e si notava perfettamente, poiché tutto, coperte, tende e tappeti, era sulla tonalità di quel colore. Persino la casetta delle bambole, poggiata accuratamente al centro del tappeto.
La ragazza si tolse guanti e capello, liberando la chioma castana da quella fastidiosa acconciatura, che le cadde lungo la spalla fino a sfiorarle la schiena; la pelle pallida e priva di imperfezioni scintillava sotto la luce fioca delle candele. Si sentì un fruscio, come quando c'è del vento in estate, e le candele tremolarono.
Lucie si girò, notando Will steso sul suo letto con le gambe una sopra l'altra e le braccia incrociate dietro la testa bionda. I capelli d'oro erano arricciati sulle tempie e sembravano umidi; si era cambiato ed indossava un paio di pantaloni neri e una semplice camicia bianca che non aveva allacciato bene, poiché si intravedeva la peluria bionda sul petto e la sua collana dorata. La portava ancora, notò sorpresa.
“Basta con questa recita, Lucille. Dimmi cos'hai, puoi parlare liberamente. Gli altri non ritorneranno prima dell'alba.”
Lo guardò, notando le brutte occhiaie nere che albergavano sotto i suoi bei occhi azzurri. Sembrava stanco, quando in realtà non avrebbe dovuto esserlo. Da quando non mangiavano lui e Jean?
William era bello, ma aveva uno strano tipo di bellezza. Non lo era come Roman o James, loro attiravano sempre l'attenzione per strada o quando c'era un gran numero di signore. No, Will aveva una bellezza particolare, non la si notava subito. Era molto magro, ma forte e molto alto, anche se non quanto Roman. Aveva belle mani da musicista, con dita lunghe e affusolate, perfette per suonare il piano.
Bellezza maledetta, l'aveva soprannominata un giorno James.
“E dove, di grazia?”
“Di qua, di là. Sai come siamo. Cerchiamo di essere una famiglia solo per dieci minuti e poi torniamo ad essere degli sconosciuti che vivono nella stessa casa.”
Un triste sorriso dipinse i bei e delicati lineamenti della ragazza.
“Che cosa sei venuto a fare allora? Potevi rifiutarti e non venire come hai già fatto in passato.”
“Mi annoiavo e poi vivevo già qui.”, William si alzò dal letto, andandole incontro. Scrollò le spalle, sorridendole: “E poi volevo vederti, non scherzavo quando ho detto che mi sei mancata, mon amour.”
Se lei avesse avuto un cuore che batteva ancora nel petto, esso avrebbe saltato un battito. Ma, Ahimè, se ne era rimasto anche solo un briciolo, esso non funzionava più.
“Non chiamarmi così. Ne hai perso il diritto molto tempo fa.”
“Ancora con questa storia? E' stato solo un gioco...”
“Per me no, mi hai ferita. E ho tutta l'eternità per portarti rancore, William.”
“Non riesci a farlo. Non siamo fatti per restare lontani, Illa.”, il ragazzo sorrise maliziosamente, stringendo la sorella per la vita ed avvicinandosela al petto. Lucille sbuffò, spingendolo via; Will cadde per terra, ma non si arrese e velocemente le corse incontro, afferrandola e buttandola sul letto con lui sopra di lei che le teneva ferme le braccia sopra la testa. I capelli di lei avevano creato una sorta di cuscino intorno al suo capo, mentre quelli di lui erano disordinati, alcune ciocche gli erano scese davanti agli occhi.
Laisse- moi, William!”, quando Lucille si arrabbiava cominciava a parlare in francese e questa era esattamente una di quelle situazioni.
“No, ho fame e il tuo collo sembra così invitante.”, gli occhi di Will cambiarono colore, diventando di un rosso scuro quando affondò i denti nella tenera e morbida carne della ragazza. Lucie gemette, inarcando la schiena e chiudendo gli occhi, mentre egli si nutriva da lei. La lasciò andare, facendo scorrere le mani sotto le sue gonne, mentre quelle della ragazza stingevano le ciocche bionde dei suoi capelli.
“Oh, Will...”
“Il tuo sposo umano riusciva a farti una cosa del genere?”, chiese Will guardandola con le labbra sporche di sangue. Era talmente bello da sembrare un angelo, un angelo caduto. Lucille sorrise, ribaltando le situazioni: adesso Will era sotto di lei e lei era sopra di lui.
“William, non cadrò nei tuoi giochetti. Queste non sono cose che si fanno tra fratelli!”
“In Norvegia siamo sposati.”, disse Will, sorridendole innocente.
“In Islanda.”
“Fa lo stesso.”
Will sollevò una mano, accarezzandole una guancia. Le dita erano talmente fredde da sembrare di ghiaccio .
“Ma visto che che tu lo hai fatto a me, io lo farò a te.”, Lucille sorrise maliziosamente. I suoi occhi diventarono rossi e William la guardò rapito. Si chinò su di lui, leccandogli le labbra, sporche di sangue e affondando i denti nel suo collo. Will emise un ringhio poco umano, mentre le mani di lui le strapparono via tutti quegli inutili vestiti che portava addosso.
“Oh, per il David di Donatello, voi due fate le cose sconce e non mi invitate?”, James scosse il capo, disapprovando. Lucie si alzò di scatto, colpendo rabbiosamente William sulla spalla, che ridacchiò. Le aveva rovinato il vestito. “Potrei farvi un quadro e lo intitolerei La Puttana e Lo Scrittore Depresso.”
“Jamie, non fare l'offeso.”, borbottò Will, seguendo con lo sguardo Lucille che abbandonava tutta quella stoffa, rimanendo nuda sotto lo sguardo dei ragazzi. Solo James ebbe la decenza di voltarsi.
“Non fatevi trovare in certi comportamenti da Vladimir e Camille, non vorrei scoppiasse un'altra guerra dei cent'anni.”
“Certo, fratellone, non preoccuparti.”, disse Lucille con un sorriso, adesso che si era messa una vestaglia rosa addosso. James la baciò su una guancia e subito dopo scomparve, così come era venuto.
Will si alzò dal letto, raggiungendo la ragazza che si era chinata per esaminare le condizioni del suo bel vestito blu. Aveva lo stesso sguardo di un leopardo prima di attaccare.
“Non ci pensare neanche, William. Abbiamo giocato abbastanza per oggi. Vattene e lasciami dormire, è quasi l'alba.”
“Ma volevo un po' di coccole.”
“Fuori!”
“Tiranna!”, William le mandò un bacio volante che Lucille non afferrò. Il ragazzo deluso uscì dalla camera, chiudendosi la porta alle spalle.
Ormai rimasta sola, la ragazza si buttò sul letto, ormai sporco di sangue, guardando il soffitto. Con sua grande disapprovazione si sentiva bruciare e non provava emozioni del genere da quella volta in Islanda con Will.









 

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Capitolo 3
*** Capitolo due. William. ***


CAPITOLO DUE.
William.




 
Devo solo distrarmi. La distrazione. La massima invenzione dell'essere umano per continuare a tirare avanti. Per fingere di essere quello che non siamo.
Adatti al mondo.
Paolo Sorrentino - “Hanno tutti ragione.”








William si diresse nell'unico posto nel quale avrebbe potuto essere se stesso: la soffitta. L'unico posto nel quale poteva sentirsi al sicuro, oltre al mondo immaginario dei libri, nel quale poteva esprimersi ed essere pienamente capito. Lì, circondato dal buio e dal dolce odore della carta, da quello aspro dell'inchiostro e da quello dolciastro dell'assenzio, poteva giocare ad essere Dio. Attraverso la sua penna egli creava, uccideva, decideva delle vite degli altri, si sfogava. Non aveva bisogno di maschere, perché lì tra quelle strette e buie mura decadenti, era veramente William, un uomo che non si nascondeva dietro battute squallide, comportamenti osceni e menefreghisti.
Rispetto a tutta l'enorme casa, la soffitta era il posto più piccolo, ma anche il più isolato e freddo. C'erano spifferi da cui il vento si infiltrava come un amante nelle coperte della propria donna, accarezzandogli i capelli biondi con soffi delicati e gelidi. I topi squittivano nella semioscurità della stanza, mangiucchiando vecchi pezzi di carta, macchiati di inchiostro e sangue, che Will aveva buttato perché non lo soddisfacevano. Sulla scrivania c'era di tutto, cominciando da fogli, penne spezzate, inchiostri rovesciati, piume, pergamene, libri lasciati aperti su pagine pieni di polvere, bottiglie di alcolici e altri oggetti non identificati.
William si sentiva svuotato, vecchio e stanco. Nonostante la sua età, ne dimostrava venticinque nel suo aspetto esteriore, ma quello reale superava quella cifra di molto. Ovviamente non aveva gli anni, o i secoli, di Vladimir e Camille e di quel passo dubitava ci sarebbe mai arrivato. Non c'era niente per cui valesse davvero la pena andare avanti. I secoli si somigliavano tutti e la storia non faceva altro che ripetersi, per quanto tutti gli storici sostenessero il contrario. Gli esseri umani, le persone di quel mondo marcio, più si evolvevano, più si trasformavano in mostri. Erano uno più stupido dell'altro, uno più ridicolo dell'altro.
L'alba era in procinto di sorgere e William udì i suoi fratelli e i suoi genitori rientrare in casa, producendo un forte rumore fra porte che sbattevano e risa.
Il biondo si sedette sulla sua sedia, che scricchiolò, quando si mosse per intingere la penna nell'inchiostro. Afferrò un foglio bianco, quasi ingiallito dal tempo, poggiandovi sopra la punta.
“Avanti, William, sei stato capace di creare capolavori e di far sognare, soffrire, gioire e piangere generazioni su generazioni. Non puoi rinunciare così!”, si disse, chiudendo gli occhi e muovendo la penna sul foglio, finché esso formò delle parole e subito dopo delle frasi. Lasciò che il testo fluisse dalla sua mente e si riversasse, attraverso la penna, sul foglio. Diventò succube delle parole, loro servo e lasciò che esse prendessero il controllo su di lui.
Negli ultimi decenni aveva composto solamente cose orribili, talmente depresse che chiunque le avesse lette, avrebbe immaginato che quei testi e quelle poesie fossero lettere di addio di un suicida. Pensieri oscuri e torbidi alimentavano la sua mente e nessuno avrebbe mai capito come si sentiva.
Aveva un'eternità davanti agli occhi, anni e anni, secoli forse, e lui non sapeva come sfruttarli. Gli sembrava di star gettando via la sua vita, l'unica cosa alla quale riusciva a pensare era il suo senso di essere una nullità, un uomo senza palle, infelice, un pallida copia di ciò che era stato. Scrittore depresso, lo aveva chiamato James per prenderlo in giro. Beh, forse lo era o forse era semplicemente stato maledetto.
Cercava delle distrazioni così da non pensare alla sua vita, al suo essere e quando James gli aveva detto che ci sarebbe stato anche lei, la sua Lucille, non aveva esitato a dire di sì. Lei e Jamie erano le uniche persone per le quali avrebbe continuato a vivere.
James sbucò all'improvviso, sostando nella penombra, poggiato sullo stipite della porta. Aveva uno sguardo preoccupato in volto e la sua preoccupazione era solo lui.
“William, perché non vieni a dormire?”, domandò il fratello, guardandolo. Non si era accorto di aver assunto la sua vera forma, poiché si accorse solo in quel momento che gli occhi gli erano diventati rossi e i canini, affilati come coltelli, gli avevano bucato il labbro inferiore, facendogli perdere del sangue che gli aveva macchiato la camicia bianca. Il ragazzo sorrise al fratello, mostrandosi in tutta la sua pericolosità.
“Quando hai queste crisi, non è mai un bene per l'umanità.”
“Si fotta l'umanità assieme alla regina Vittoria! E poi sai benissimo che ho accettato la mia identità e il mio modo di essere da molti anni ormai, non sono come te. Andare in Chiesa e domandare perdono al tuo Dio non servirà a nulla, ne sei consapevole? Sarai il primo a finire all'inferno.”
“Lo so, William Nottern, sono consapevole che sei e rimarrai una testa di cazzo. Puoi frequentare tutti i bordelli e le fumerie d'oppio che preferisci, ma non mettere in mezzo Lucille nei tuoi sporchi giochetti.”, James lo guardava con la mascella irrigidita. Lo aveva ferito.
“Faccio ciò che mi pare, sopratutto delle persone di cui non mi importa nulla.” , il ragazzo chiuse gli occhi, ritornando al suo aspetto umano.
“Certo e io sono Camille.”
Will ghignò, notando il leggero sorriso sulle labbra rosse di James: “Beh, i capelli li hai.”
“Dormi, Will e non autocommiserarti inutilmente.”, detto questo, scomparve.
Il ragazzo sbuffò, notando che aveva scritto quasi una pagina che non controllò, poiché non aveva la pazienza e non era pronto per leggere frasi scollegate e senza senso. Si guardò le mani, notando di averle macchiate di inchiostro nero, che ci avrebbe impiegato del tempo prima di scomparire.
Si alzò, barcollando verso la stanza di Lucille. Entrò silenziosamente per non svegliarla, avvicinandosi al letto. Lei dormiva; il petto non si sollevava ed era talmente bella, nel pallore e nella perfezione dell'epidermide, nella linea del collo delicata, negli occhi chiusi dalle lunghe ciglia e le lentiggini spruzzate sul nasino, nelle labbra rosse, nei capelli lunghi e mori. Bellissima, meravigliosa creatura, perfetta Lucille. Era un fiore appena sbocciato, mentre lui era appassito e brutto, senza vita.
Lei sarebbe stata un cadavere bellissimo; la creatura più bella che la morte avrebbe baciato su quelle labbra sottili e rosse.
Tu chiedi un bacio alle mie labbra fredde di terra, ma dalla mia bocca di polvere è il fiato e se un bacio avrai dalle mie labbra fredde di terra, presto il tuo tempo sarà terminato.”, citò, accarezzandole la pelle delicata del viso.
“William...”, borbottò Lucille, dandogli le spalle. Egli sorrise, chinandosi su di lei per lasciarle un bacio sulla guancia.
Lei era il suo grande peccato.








Il salotto era semivuoto, composto solamente da alcuni divanetti e un tavolino posto al centro di essi. Era pomeriggio e il sole stava per cedere il posto alla luna e la famiglia si era riunita lì con le pesanti tende nere a rintanarsi dalla luce.
I Nottern erano tutti lì, seduti uno vicino all'altra a conversare, solo Camille era scomparsa nel nulla. Le candele illuminavano loro le pelli pallide, disegnando ombre inquietanti sotto gli occhi e intorno alle labbra rosse. Sembravano i personaggi di quei racconti di basso costo e qualità, i Penny Dreadfull, che William comperava di tanto in tanto per ridere dell'immaginazione umana. Pensavano di essere tanto coraggiosi nello scrivere di pericolose creature della morte e della notte, quando nella realtà ne erano terrorizzati e solo nel sentirne parlare, sbiancavano per la paura.
La famiglia stava pranzando. Uno dei succubi di Lucille, Alfred, era morto, stramazzato per terra con gli occhi vitrei e l'espressione stanca. Roman e Vladimir lo avevano prosciugato.
“Buonasera.”, borbottò Will, sedendosi accanto a Lucille e James. La ragazza distolse lo sguardo, sembrava a disagio. Lucie era bellissima; indossava un abito dalle gonne di tulle blu, che si intonava perfettamente con la sua pelle, i capelli castani erano legati in spesse trecce sul capo, mentre degli orecchini di diamanti erano appesi ai suoi lobi. I guanti erano lunghi, andavano oltre il gomito e bianchi. Il viso privo di ogni traccia di trucco.
“Finalmente ti sei degnato di onorarci della tua presenza, William.”, disse Vladimir, vestito come un ricco Lord, mentre sorseggiava da un bicchiere di cristallo del liquido rosso, denso e dal sapore metallico. Lui e Camille erano gli unici a sapersi controllare, il loro aspetto non cambiava mai, quando si nutrivano e se succedeva, capitava di rado.
Lucille e James stavano conversando di un quadro di un tale pittore, mentre Roman e Jean discutevano su un particolare apparecchio che il primo aveva creato.
“Mi sono addormentato tardi, chiedo scusa.” , borbottò il ragazzo, chiamando poi l'unico succubo rimasto, Buford. Non era certo il suo preferito, poiché era veramente brutto. L'umano gli porse il braccio e Will senza troppe cerimonie, affondò i denti in esso, nutrendosi. Doveva dimostrare un certo autocontrollo, quindi bevve lo stretto necessario, ma tuttavia non fu sufficiente. Vlad sollevò gli occhi, disgustato.
William sapeva di non essere il suo preferito, anzi sapeva che lo detestava. Il ragazzo si era imbattuto nella sua ira dopo aver avuto una piccola relazione con Camille da umano. Era rimasto attratto dalla bellezza irreale della donna che pazzamente innamorata di lui, aveva deciso di trasformarlo per starci insieme per sempre. Ma l'amore di Camille era volubile e non appena Vladimir si era presentato alla sua porta assieme a Roman e Jean, Wiliam aveva smesso di essere il suo amate ed era automaticamente diventato uno dei suoi figli. Lei avrebbe sempre scelto Vlad.
Sembrava essere successo una vita fa e in un certo senso lo era.
“Oggi voglio uscire. James, vieni con me? E tu, Lucille, che ne dici?”, disse ,pulendosi il lato della bocca con il pollice. “Andiamo a terrorizzare i poveracci.”
“William, non lasciare sopravvissuti. Siamo appena giunti a Londra e non voglio lasciarla prima di dieci anni per i tuoi capricci da bambino viziato.”, disse duro Vladimir, mentre con un aggeggio appuntito, bucava il braccio di Buford, il cui sangue si versava nel bicchiere.
“Come vuoi, paparino.”
“Ed eccoli qua!”, urlò Camille, sventolando dei cartoncini spessi che aveva fra le mani. Quella sera vestiva completamente di rosso, dall'abito agli accessori. I capelli biondi erano legati in una acconciatura simile a quella di Lucille, infondo dimostravano quasi la stessa età.
“Che cosa sono quelli, madre?”, chiese Lucie, la voce le tremava e sembrava più alta di un'ottava. Will ghignò, avendo capito che era lui il motivo.
“Gli inviti del ballo che organizzeremo domani sera!”, disse entusiasta la donna, battendo le mani; corse verso l'unica figlia, mostrandole i cartoncini bianchi.
“Oh, meraviglioso! Non vedo l'ora che vecchie e grasse signore mi invitino a prendere il tè delle cinque nelle loro brutte case per conoscere le loro altrettanto brutte figlie con cui vorranno farmi maritare!”, replicò con finto entusiasmo Will. Jean fece un verso di disgusto, sembrava sul punto di vomitare, mentre Roman e James si limitarono a rabbrividire.
“Non sarebbe una cattiva idea accrescere il patrimonio di famiglia, William. E cosa sono pochi anni della tua eternità per una dolce fanciulla umana dalla ricca dote?”, disse James, ghignando.
“Non sarò io il vostro martire, avvoltoi! Ho dei principi!”
“Questa sì che è una battuta, William.”, rise Roman, alzandosi dalla divano e indossando una specie di camice nero. Salutò e sparì nei suoi sotterranei.
“Sacrifichereste il vostro figlio più bello per arricchirvi, siete proprio senza cuore!”, disse con fare melodrammatico William, puntando il dito sui fratelli e su Camille.
“William, smettila di fare l'idiota.”, rise Jamie, alzandosi e prendendo per mano la sorella. “Noi andiamo a cambiarci. Ci aspetti fuori?”
“Sbrigatevi, altrimenti vi lascio qui! E cara famiglia, ci vediamo all'alba.”, si chinò su Camille che adesso sedeva lì dove prima erano seduti Lucille e James, baciandole una guancia. “Sei bellissima oggi, Camille.”
“Oh, William, sei un furfante!”, la donna lo schiaffeggiò sul braccio, non riuscendo a smettere di ridacchiare. Adorava essere adulata.
Fece un sorriso innocente a Vladimir che ringhiò, frantumando il calice vuoto che stringeva fra le dita. Nel frattempo anche Buford era morto e guardava Camille con il suo sguardo vitreo.
“Vi auguro una bella serata, famigliola!”, disse uscendo e raggiungendo l'atrio.
Non aveva indossato i suoi abiti migliori, ma quelli che aveva rubato ad una famiglia di contadini qualche tempo prima. Lì dove si stavano dirigendo dovevano mimetizzarsi e non sembrare ricchi, non ce n'era il bisogno.
“James...”, si girò il ragazzo, notando i fratelli, vestiti da poveracci, dietro di lui. Il fratello indossava una camicia bianca e un paio di vecchi pantaloni con scarpe logore, proprio come lui, mentre Lucille sembrava una cameriera. Anche se quel vestito le stava troppo stesso sul petto, notò compiaciuto William. “Da quanto tempo non facciamo una gara?”
“Non siamo più bambini, Will!”, si lamentò James. Lo faceva solo perché, tra i tre, era il più lento. “E poi voi due barate!”
“Chi arriva per ultimo, paga tutta la serata!”
I tre si guardarono ghignando per qualche secondo prima di scattare. Corsero per tutto il tragitto, nascondendosi fra gli alberi fitti e bui del bosco, accelerando quando l'altro era in vantaggio e superandolo. William sorrideva, aprendo le braccia; gli sembrava di volare, con il vento che si intrufolava tra i vestiti, gli baciava la pelle e accarezzava i capelli. Urlò, facendo svolazzare alcuni animali notturni quando superò James che lo insultò; inaspettatamente però Lucille lo superò con i lunghi capelli completamente sciolti dalla acconciatura che svolazzavano come pipistrelli. La ragazza stava ridendo, quando Will allungò le mani per afferrarla, ma aumentò la corsa all'improvviso, facendolo quasi cadere al suolo.
Quando si fermarono in un vicolo buio, Lucille aveva vinto e James, come suo solito, perso. William la guardò, aveva i capelli gonfi e disordinati.
“Vi odio, maledetti. Prendete questi e andatevene via!”, disse James, pettinandosi con le dita i capelli quasi bianchi. Lanciò un sacchetto rosso a William che lo afferrò, mettendoselo nelle tasche dei pantaloni. “Fai attenzione a Lucille e se c'è qualche problema, sai dove trovarmi.”
“Dove vai, Jamie?”
“Di qua, di là. Non fate cose sconce!”
“I capelli sono sfuggiti dall'acconciatura, Illa. Vieni qui.”, Will le si avvicinò, approfittandone dell'altezza per sbirciarle nella scollatura. La afferrò per le spalle, girandola in modo tale da averla di spalle e con mani esperte cominciò ad intrecciarle le ciocche scure per formarle una semplice acconciatura, che fissò con forcine e fermagli, rimastele ancora in testa dopo la corsa. Quando ebbe finito indugiò leggermente, sfiorandole la pelle invitante del collo. “Ecco fatto.”
“Beh, Will, neanche i tuoi capelli stanno messi tanto bene!”, Lucille gli sorrise, sbattendo le ciglia con fare innocente. Allungò le mani per aggiustargli la chioma d'oro e William non smise mai di osservarla negli occhi.
“Smettila di guardarmi nella scollatura, William.”
“Mi è impossibile farlo, il tuo seno mi è stato praticamente messo in faccia e mi sta urlando di toccarlo.”
“Provaci e ti spezzo le ossa.”, lo minacciò Lucie, allontanandosi. “Adesso andiamo.”
Si trovavano in uno dei quartieri più poveri e malfamati di Londra, nel quale regnavano come sovrani indiscussi bordelli, fumerie d'oppio e altri locali di malcostume. Will fece finta di riempirsi i polmoni d'aria, dicendo: “Oh, mia bella e corrotta Londra! Facci ubriacare nelle tue sporche locande, facci sognare nelle tue piccole fumerie d'oppio e facci godere con le tue deliziose puttane!”
“Sei disgustoso, lo sai?”, borbottò Lucille, afferrando il braccio del fratello. Ogni tanto faceva qualche smorfia di dolore. “Questo vestito è talmente stretto adesso che devo far finta di respirare...”
“Dovresti indossarlo più spesso e respirare più spesso, mi stai ipnotizzando.”, disse il ragazzo, notando come il suo pallido petto si sollevasse e abbassasse.
“Sei disgustoso e depravato! Per voi uomini è tutto facile! Non dovete usare corsetti e tutte queste gonne!”, si lamentò la ragazza, strabuzzando gli occhi in modo buffo quando un uomo le fece un gesto poco carino.
“Per me, cara Lucille, potresti anche passeggiare nuda e con i capelli al vento. Non mi faccio problemi!”, disse Will, guardandola con una sincerità e serietà tale da farla ridere.
Le strade erano illuminate da pali a gas. L'uomo aveva fatto enormi passi da gigante, inventando nel corso degli anni aggeggi sempre più utili e funzionali alla vita di ogni giorno.
Le abitazioni sembravano sul punto di cadere per terra, sarebbe bastato un semplice soffio di vento. I numerosi bordelli e locande erano le uniche costruzioni che avevano avuto una piccola ristrutturazione negli ultimi tempi. Le puttane, con i capelli slegati e senza corsetti, salutavano William con sguardi lascivi e mostrando le gambe attraverso gli abiti quasi trasparenti. Mentre altre lo chiamavano addirittura per nome, come fosse un amico di vecchia data, cosa che in realtà era. C'erano donne di tutte l'età, dalle più giovani, sedicenni, alle più vecchie, sessantenni.
Le locande erano piene di ubriaconi che discutevano a gran voce di problemi sociali, insultavano la regina Vittoria o semplicemente cantavano vecchie canzoni popolari.
Le fumerie d'oppio non erano molto frequentate dagli inglesi, ma soprattutto da uomini orientali e donne lavoratrici dalle facce stanche, che cercavano medicine, a base di oppio e assenzio, per non far piangere i bambini.
C'erano anche altri negozi nel quale si vendeva pane, frutta, legumi e verdura; altri in cui uomini dai vestiti di seta pregiata entravano in compagnia di altri uomini; altri dai quali provenivano urla terrorizzate di uomini e donne, medium e maghi che venivano pagati per rilevare spiriti e condurre una seduta; ospedali militari nei quali le puttane che avevano contratto sifilide e gonorrea erano costrette a sostarvi per tre mesi. Nei vicoli bui della città si notavano gruppi di donne riunite in cerchio che bisbigliavano per la paura di essere sentite, denunciando la loro oppressione e pretendendo la parità e gli stessi diritti degli uomini.
Quella era la Londra dell'età vittoriana: sesso, droga, superstizione e povertà, molta povertà e soprattutto oppressione della figura femminile, benché la regina era una donna forte e che non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno. La Londra vittoriana era incoerente. Vigeva lo squallore e la mentalità arretrata, ma si promuoveva l'innovazione e una mentalità più aperta verso altre culture.
“Da quando Londra è diventata Parigi, Will?”, chiese Lucie, terrorizzata da tutto quello squallore.
“Da quando è stata creata. Finché ci saranno persone disposte a pagare per questo genere di divertimenti, essi esisteranno.”
“Compreso tu, scommetto.”, disse Lucille, sorridendo in modo triste. Si fermò, guardandolo negli occhi. Era così piccola e minuta, pensò William, ma in quel momento, con quello sguardo accusatore, sembrava più alta di lui. “Sei cosciente dei rischi che corri?”
“Non ho la sifilide se è questo di cui ti stai preoccupando. Non siamo umani, Lucille, non ci è possibile contrarre malattie che ci porteranno alla morte.”
“Will, non siamo immortali, ma possiamo essere uccisi. Devi stare attento, non voglio che tu muoia per uno stupido desiderio sessuale.”, sussurrò Lucie, guardandosi intorno. Sapeva che se l'avessero sentita parlare di cose del genere, la gente avrebbe cominciato a sparlare. Le donne non dovevano sapere cos'era il sesso prima di aver preso marito e anche in quell'istante a loro non era possibile goderne.
“Che cosa ti cambia se muoio o meno?”, William la guardò, gli occhi erano diventati più chiari.
“Perché sei uno stupido e non capisci? Tengo a te e non voglio perderti per le tue idiozie.”, disse Lucille, accarezzandogli la guancia. William neanche lo sentì quel tocco così famigliare, poiché i suoi occhi si rabbuiarono da pensieri oscuri.
Lo sapeva bene, William, che non poteva morire e invidiava gli umani per questo. Un po' di veleno, un pugnale infilato nella carne, un taglio ad una delle vene più importanti... Quanti sonetti aveva scritto sul suicidio e quanti l'umanità ne avrebbe composti? Ci si poteva ispirare a secoli di congiure, assassinii, suicidi; ne esistevano così tanti, alcuni dolorosi e altri un po' meno, ma l'intento era quello di arrivare allo stesso unico scopo.
La bella, fredda, perfetta e meravigliosa morte.
L'unica via d'uscita da ciò che egli provava, da quello stato di tristezza e finta felicità che dava a vedere. Vagava nell'oscurità e ne aveva fatta una sua amica fidata, aveva salutato la malinconia e adesso guardava la tristezza come guardava Lucille.
“Will?”
“Sì, vieni.”, borbottò, stordito, aggrottando le sopracciglia. La prese per mano, fregandosene delle buone maniere e svoltando l'angolo. L'aveva portata da James, al circo. Si trovava in una enorme piazza ed esso era un enorme capannone colorato e tutto illuminato. All'esterno c'era una piccola orchestra che suonava musichette allegre.
Gli occhi di Lucille si illuminarono di gioia, quando vide in lontananza una delle giraffe in gabbia.
“Wiiill! Mi hai portata al circo!”, la ragazza lo abbracciò, saltellando e baciandolo sulla guancia.
La sua Lucille, che spruzzava gioia da tutti i pori, la donna che non avrebbe mai avuto, l'unica che non meritava. Che cosa stava facendo lì? Lui non era il tipo di ragazzo che porta la ragazza che ama a divertirsi, lui piuttosto era il tipo che rubava la virtù di una ragazza dopo averle morso il cuore, che poi buttava sotto una carrozza.
“Sì, che felicità. Ma purtroppo non posso venire con te perché mi sono ricordato di avere un conto in sospeso con una giovane signora. Quindi devo andare.”, disse, sorridendo maliziosamente.
“Cosa? Will, non azzardarti ad abbandonarmi!”, urlò Lucille, afferrandolo per un braccio.
“Vai sul retro di quella costruzione, troverai James. Ti sta aspettando.”
Si ficcò le mani in tasca e poi sparì, lasciando una Lucille parecchio arrabbiata e delusa.
Ovviamente le aveva mentito, non c'era nessun conto in sospeso, nessuna donna, non c'era niente se non la sua malattia mentale e le sue dipendenze. L'oppio e l'assenzio.
Se quelli come lui non riuscivano ad ubriacarsi, anzi riuscivano solamente a diventare brilli, aveva scoperto che con le droghe non avveniva lo stesso, poiché esse amplificavano le sensazioni. L'unica cosa che aveva in comune con gli umani, ma che comunque non lo avrebbe mai ucciso.
Bussò alla porta e una bella donna vestita di rosso gli aprì. L'abitacolo era basso e stretto, perciò quelli alti come lui non potevano stare in piedi senza toccare il soffitto. C'erano dei piccoli letti su cui i clienti si stendevano, assumendo la sostanza. Si sentivano brusii, voci soffocate, nomi sospirati, incubi, mentre gli uomini tenevano gli occhi chiusi.
Erano patetici, lui lo era.
“Quanta ne vuoi, Will?”, il ragazzo le sorrise, baciandola sulle labbra. “Non avrai uno sconto per questo, lo sai?”
“Certo che lo so, zuccherino. Dammene così tanta da farmi dimenticare chi sono.”


*** ****
Salve a tutti! 
come va? Qui in Puglia fa un freddo tale da gelare le ossa, ma siamo tutti felici perchè c'è la neve!
Ed eccoci qui con il capitolo due sotto il punto di vista di William. Stiamo conoscendo poco alla volta i componenti della famiglia Nottern, che bene o male nascondono segreti. Cosa ne pensate di William e Lucille? Lasciatemi un parere!
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e se ci sono domande, fatemele pure. Ho cercato e cercherò come posso di spiegare la mentalità dell'epoca e tutto ciò che accadeva nella società.
Adesso vado che quella santa donna della De Filippi ha invitato quel gran fustacchione di Richard Madden e da grande fan del trono di spade, non posso non fangirlare!
Alla prossima,
Luxanne xx

 

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Capitolo 4
*** James ***


CAPITOLO TRE.
JAMES.


“Nessuno ci fa del male. Siamo noi che ci facciamo del male perché facciamo cattivo uso del grande potere che abbiamo, il potere di scegliere.” (J. Martin Kohe.)





Quando James abbandonò William e Lucille in quel vicolo, si diresse direttamente nell'unico posto dove sapeva di poter essere al sicuro, la chiesa. Poteva sembrare strano, inusuale che uno come lui, un mostro, un essere dimenticato da Dio, un assassino che per sopravvivere è in grado di uccidere, si recasse in chiesa e pregasse, chiedendo perdono per tutte le cose che aveva combinato durante i secoli.
La chiesa dei poveri, così come l'aveva soprannominata Will, non era una bella costruzione, anzi a guardarla sembrava una vecchia casa abbandonata più che un luogo di culto, ma a James piaceva così.
Osservandosi intorno, notò che nessuno lo stesse guardando e quindi bussò alla pesante porta in legno, non quella principale, ma quella sul retro, e qualcuno gli aprì, afferrandolo per la mano e tirandolo dentro.
“Pensavo che non venissi più. Dove sei stato?”, una voce femminile lo aggredì nel buio, mentre delle mani delicate, ma rovinate dal lavoro, gli strattonavano i vestiti. “Per te non esistono lettere, non è vero? Avevo paura che ti fosse successo qualcosa!”
“Cosa vuoi che mi succeda, Esmeralda? Sono più al sicuro io che tutta l'umanità.”, James sorrise, afferrando per la vita la donna. Nell'oscurità il ragazzo poteva solo scorgere i suoi bei occhi verdi scintillare. “Vieni qui, fatti vedere sotto la luce delle candele.”
I due si spostarono e James poté osservarla meglio. Due occhi verdi come il nome che portava, capelli corvini, labbra grandi e pelle color caramello. La sua Esmeralda.
“Upir, bada a come mi tratti o potrai ritrovarti senza sopracciglia un giorno di questi.”, lo minacciò la donna, sospirando quando le braccia fredde del ragazzo la strinsero. Dopo tutti quegli anni non si era ancora abituata al tocco gelido delle sue mani, pensò amareggiato il biondo.
“Hai avuto molti clienti oggi?”, le domandò, percorrendo la navata centrale e sedendosi ad uno dei banchi in legno del mezzo. Non c'era messa, era troppo tardi per essere celebrata. La chiesa di Saint August veniva frequentata principalmente da vecchi e donne di modeste origini, popolani che soffrivano la fame e che cercavano le risposte di questo loro vivere nella miseria in un Dio misericordioso, ma crudele che spesso voltava loro le spalle.
L'ambiente odorava di incenso, fiori di garofano e c'era quella freddezza tipica delle chiese e quel silenzio soprannaturale che facevano arricciare i peli delle gambe agli esseri come lui. I quadri di Cristo e della Vergine sembravano guardarlo, giudicarlo in malo modo, accusarlo di non essere degno di calpestare un suolo così sacro, puro e privo di peccato. Lui, che era la creatura più immonda, orribile e diabolica che esistesse al mondo.
“No, ma va meglio così. Non sono in vena di false sedute spiritiche. Le persone vengono da me e mi pagano anche profumatamente solo per sentirsi dire bugie, ma tu non hai idea delle cose che gli spiriti mi raccontano.”, le belle labbra di Esmeralda si arricciarono in un ghigno divertito, mentre le dita di James le tracciavano il contorno della mascella delicatamente. Quel calore, quel vago odore di sudore che emanava la sua pelle, quel sapore caratteristico, un misto tra sangue e vita, che lui non aveva mai avuto... Quello era uno dei motivi per cui l'amava: era viva, era umana, respirava. “Come sta William?”
Il viso di James si oscurò, rattristandosi, mentre Esmeralda gli poggiò il capo sulla spalla, afferrandogli la mano.
“Sono preoccupato per lui, Es. Si sta rovinando. Non si nutre e quando lo fa perde completamente il controllo. Si sta auto-distruggendo poco alla volta.”
“La gente comincia a mormorare, Jamie. Pensano si tratti di un serial killer e sono terrorizzati. Trova un modo prima che intervenga la Congrega.”
“Ormai lo conosci da un bel pezzo, Esmeralda. E' cocciuto come un mulo e temo che questa sia più che una fase. Temo che se non farò qualcosa subito, lo perderò.”
“Ma non avevi detto che Lucille avrebbe potuto aiutarlo?”, Esmeralda sollevò il capo all'improvviso, guardandolo preoccupata. Com'era bella...
“Se lei non ci riuscirà, allora non vedo altra via d'uscita.”
“E' una creatura troppo bella per morire.”, disse la zingara, sospirando.
“Lo siamo tutti, ma questo è quello che ci rende più pericolosi.”, James la baciò sulle labbra, sorridendole. “Ho solo paura per la sua anima, di questo passo non ne rimarrà più nulla.”
“Ognuno è artefice del proprio destino. Se William sta buttando via la sua vita così, vuol dire che non gli importa granché della sua anima. Ma tu, mio bel James, non devi dubitare mai della tua. Sei buono e non è di certo colpa tua se sei nato così.”
“Cosa farei senza di te?”, James la baciò ancora una volta, beandosi del suo amore e che per una volta qualcuno si preoccupasse di lui. “Sposami.”
“Sposarti? Non dire sciocchezze. Sarebbe solo una condanna a morte.”
“Perché no?”
“Perché siamo creature troppo diverse e le persone che ci circondano si odiano. Non funzionerebbe e arrecheremmo solo dolore alle persone che amiamo.”
“A William piaci e anche a Lucille piaceresti.”
Esmeralda sbuffò, divertita: “No.”
“Ma ci amiamo!”, protestò il ragazzo, sapendo che non l'avrebbe mai convinta.
“L'amore non è mai abbastanza, Jamie e tu lo sai bene.”




Quando dovette lasciare Esmeralda, Jamie incontrò Lucille, o meglio ci andò letteralmente a sbattere contro. Le loro teste cozzarono dolorosamente l'una contro l'altra. Lucille scoprì i denti appuntiti per il dolore, come un cane rabbioso, ma quando si accorse chi fosse il suo avversario, sorrise imbarazzata.
“Lucille, che cosa succede? Dov'è andato Will?”
“Il tuo fratellino idiota, vorrai dire...”, borbottò, incrociando le braccia al seno. Era furiosa, pericolosa come un coltello affilato e non voleva certamente essere in Will quando la furia della piccolina si sarebbe imbattuta su di lui. “Non ho idea di dove si sia andato a cacciare. Mi ha lasciato qui, urlandomi di venire a cercarti, perché lui aveva da fare nei bordelli. Quel maledetto depravato!”
“Non è nei bordelli che aveva da fare, piccola mia. Andiamo, ti faccio strada.”, Jamie sospirò, porgendole il braccio che la ragazza afferrò. Ripercorsero la strada al contrario, fino a fermarsi davanti ad una casa di tre piani, vecchia, che sembrava star per cedere da un momento all'altro e buia. Il rumore delle acque del Tamigi, in confronto a quello caotico e disorganizzato della città, era una vera pace per i sensi e l'udito. La porta della abitazione era in legno pesante, sembrava quasi nuova di zecca, sulla quale c'era una insegna, che recitava: “Da Lu Chang”
“Oh per tutti i diavoli dell'Inferno, non dirmi che abusa di queste sostanze!”, Lucille si era portata la mano piccola e delicata alla bocca, schifata e inorridita.
“Esatto, Lucie. Ormai ne è diventato uno schiavo, dipende da essa e da parecchi anni.”
“Cosa? E tu non glielo hai mai proibito? Dovevi fare qualcosa per impedirgli di buttare così la sua vita!”, Lucille si era alterata e adesso stava urlando, gesticolando animatamente.
“Non sono sua madre e pensi che non ci abbia provato?!”
“Ma sai com'è fatto William. E' uno zuccone che crede di essere in grado di sapere come va il mondo, ma in realtà non è in grado di prendersi cura di se stesso. Sarà un bambino in eterno!”
“Sai perfettamente che non è facile prendersi cura di Will, Lucille! E ho anche una vita, sai? Non posso star sempre a pensare a parargli il culo quando si mette nei guai!”, James sospirò, cercando di riacquistare la calma. Non voleva parlare così a sua sorella, ma era stata la preoccupazione e l'arrabbiatura per William e il rifiuto di Esmeralda a parlare. Lucille sbuffò, portandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio, che era sfuggita dalla acconciatura e cercando di sistemarsi il vestito. Lo odia, pensò James addolcendosi. “Senti, tu resta qui ed entro io a prelevarlo. E perdonami per il modo in cui ti ho risposto...”
“Non pensarci neanche. Tu gli faresti solo le carezze e ciò di cui lui ha bisogno in questo momento è qualcuno che massacri di schiaffi la sua cocciuta testa bionda.”
Lucille alzò il capo in modo altezzoso e bussò alla porta, ma essa si aprì non appena vi poggiò le nocche e un forte odore di sangue e puzzo di morte inondò l'aria.
“Oh, madre de Dios...”, sussurrò James, entrando assieme a Lucille nel angusto e basso abitacolo . William era steso su uno dei piccoli e malridotti lettini presenti e aveva lo sguardo perso nel vuoto. I capelli biondi  diventati scuri, poiché completamente sporchi di sangue, erano attaccati alla nuca, mentre i vestiti erano ridotti a stracci e quasi non lo coprivano più. I denti affilati gli avevano bucato il labbro, che poco alla volta stava cominciando a rimarginarsi, mentre la pelle del viso appariva più pallida, quasi blu. Gli occhi azzurri, si erano trasformati in rosso vivo. Aveva l'Inferno con le sue fiamme bollenti e le urla dei dannati nello sguardo. L'espressione del viso apatica, senza sentimenti, vuota. Abbandonato completamente al suo destino, al suo dolore o a qualsiasi cosa lo rendesse talmente disperato a far ricorso a quel genere di sostanze. Maledetto, depresso, sfortunato William.
James e Lucille si guardarono intorno, reprimendo quell'istinto primitivo che l'odore di sangue accendeva in loro. C'erano cadaveri ovunque, corpi senza vita a cui mancavano arti, teste, organi buttati per terra e cuori che non pulsavano più linfa vitale. Muri e lenzuola erano pieni di liquido, di sangue, di organi, di orrore, di disperazione, di droga, di William.
Sembrava che degli animali ci avessero banchettato sopra, leoni e lupi feroci, ma in realtà era stato solo una persona, la stessa che adesso era stesa su quel lettino troppo piccolo per lui ad osservare il vuoto, come in trance. 
La situazione era peggiore di quanto James avesse mai creduto e si diede la colpa per averlo lasciato solo. Sua sorella aveva torto. William non era un bambino, William era un uomo tormentato che non aveva bisogno di una balia... L'unica cosa di cui lui necessitava era la morte e non importava quanto lui gli dimostrasse il suo amore, il suo sostegno o lo incoraggiasse ad essere una persona migliore, l'amore non è mai abbastanza.
“E' stato lui a fare questo? Tutto da solo?”, domandò Lucille, tremando. Mantenere il controllo si stava rivelando più difficile di quanto pensassero.
“Vedi qualcuno? Oltre a tutte queste morti inutili?”
Lucille scosse il capo, sospirando. “Portiamolo via da qui, prima che venga qualcuno e lo veda.”
I due fratelli si avvicinarono al lettino e lo afferrarono per le braccia, trascinandolo via. Quando l'aria fresca della notte e l'ipnotico frusciare del Tamigi colpirono i loro sensi, liberandoli di quel soffocante odore di morte e sangue, William alzò il capo, guardando prima James e poi Lucille.
“Oh, ecco la mia adorata famiglia. I miei salvatori, i miei eroi, i miei assassini.”


“Suvvia, non potete incatenarmi per sempre! Sono maggiorenne e ho il diritto di voto! Non potete privare l'Inghilterra di me, la Madre Patria ha bisogno di me! La regina Vittoria ha bisogno di me!”, sbraitava William, cercando di liberarsi dalle catene. Lucille e James lo avevano incatenato nei sotterranei e lo avrebbero lasciato lì fino al ballo che si sarebbe tenuto la sera successiva. Vladimir e gli altri non erano stati informati di quella decisione, altrimenti il capofamiglia lo avrebbe certamente impalato contro il muro e lasciato morire. “James, ti prego, non mi lasciare qui. I sotterranei mi fanno diventare brutto e la mia bellezza è tutto per me!”
“Non aggrapparti a futili scuse, William Nottern. L'Inghilterra, la regina e la tua bellezza faranno a meno di te oggi. Devi essere presentabile per domani sera o Vlad ti ucciderà, questa è la volta buona.”, James gli strofinò via l'ultima macchia di sangue, rischiando di venire morso. “Dormi bene, fratellino.”
“Tu quoque, Brute, fili mi!”, urlò William, dando sfoggio di tutte le sue migliori doti artistiche e recitative.
James roteò gli occhi, chiudendo la pesante porta della cella. In un attimo salì tutte le rampe di scale, piombando dritta nella sua.
La sua era una camera semplice, spaziosa ma disordinata. C'era un enorme letto a baldacchino con lenzuola bianche, spesso sporche di pittura,  vestiti buttati per terra, uno scrittoio messo in un lato della stanza, un piccolo armadio che conteneva i vestiti di quell'epoca e un baule, posto ai piedi del letto. Alle pareti erano stati appesi solo quadri realizzati personalmente da lui, che raffiguravano scene di vario genere.
Era un artista da quando ne aveva memoria ed era nato in Italia, nel Rinascimento, dopo una delle tante riappacificazioni tra Camille e Vladimir. Quello era stato uno dei periodi che James più amava della storia dell'umanità. L'arte era ovunque. Era viva, respirava, si viveva di essa e James aveva avuto l'onore di conoscere mostri sacri dell'arte visiva, della pittura, della scultura, come Michelangelo, Leonardo e Raffaello. Aveva vissuto a Firenze e a Roma, due città di cui si era profondamente innamorato e che spesso erano temi centrali dei suoi dipinti. O almeno lo erano prima di incontrare Esmeralda.
In quel periodo l'arte stava perdendo il suo valore, nessuno la guardava, nessuno la apprezzava, veniva reputata inutile e gli artisti, i veri artisti quelli rivoluzionari, quelli che avevano qualcosa da esprimere, quelli che non si piegavano al conformismo della società, quelli, facevano la fame pur di essere felici. Il loro animo costantemente incompreso, le loro mani costantemente sporche di pittura o di inchiostro, la loro mente costantemente su un altro pianeta li rendevano motivo di riso dalla gente, incompresi, soli.
La gente non sapeva distinguere più la vera bellezza, ma era attaccata a beni terreni inutili, non a qualcosa che sarebbe rimasto sempre immortale come la Gioconda, bellissima, perfetta e regina di tutti i quadri mai dipinti, anche se di così piccole dimensioni, o La Pietà, altrettanto meravigliosa e unica in ogni suo piccolo dettaglio, angolo, centimetro.
E per lui, figlio del Rinascimento, era un enorme colpo basso essere consapevole di ciò.
Si avvicinò ad uno dei quadri che stava dipingendo e lo guardò. Aveva utilizzato prevalentemente colori scuri e chiusi per dare risalto al candore dei capelli e alla lucentezza della pelle. Il dipinto raffigurava William, in quella epoca. Era vestito tutto di nero, elegante, con il bastone e i guanti bianchi alle mani, proprio come un vero gentiluomo. I capelli biondi gli incorniciavano il viso pallido, dalle labbra rosse e gli occhi azzurri. Non era un azzurro chiaro, perfetto come quello del cielo, ma scuro, torbido, quasi mescolato al nero, per indicare il suo tormento interiore, la sua tristezza, la sua espressione, il suo desiderio costante di morte, il suo orrore. Lo aveva dipinto proprio com'era in quella epoca, senza veli e senza censure. Pazzo, letale e mostruoso. Aveva dipinto il Will che non avrebbe mai voluto conoscere, il Will oscuro e manipolatore, il Will cattivo e diabolico, il Will che sarebbe finito all'Inferno e che si sarebbe mangiato la sua anima di quel passo.
E James, per quanto il suo lato da buon samaritano, da eroe, da persona gentile, da fratello, cercasse di spronarlo a fare sempre di più, a salvarlo da se stesso, da un mondo che lo masticava e lo sputava perché non lo comprendeva, da un qualcosa che neanche lui capiva, non avrebbe potuto fare nulla, niente di niente. Sapeva che le parole della sua Esmeralda erano giuste, veritiere e che la sua saggezza non sbagliava mai.
L'amore, che sia fraterno, passionale, vero, carnale, divino, non è mai abbastanza per impedire il corso degli eventi. Non è mai la certezza a cui aggrapparsi nel momento del bisogno, anzi è proprio lui che strappiamo, uccidiamo, violentiamo con le parole e con i gesti. Siamo esseri autodistruttivi, tutti, e l'unica cosa che è in grado di liberarci dai nostri tormenti violenti, dai nostri più oscuri pensieri, dal nostro masochismo è proprio la morte, non l'amore. L'amore non basta mai, ne ora, ne sempre.


*** ***
Ed eccoci qui! Dopo un mese di assenza torno a pubblicare questa storia, questa volta sotto il punto di vista di James.
Cosa ne pensate? Fatemi sapere con un parere, non fanno mai male.
Nel prossimo, spero di riuscire a pubblicarlo presto, avremo modo di conoscere un altro personaggio: Jean, a cui sono particolarmente affezionata.
Bene, vi lascio e scusate per il ritardo!
Alla prossima!

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Capitolo 5
*** Jean. ***


CAPITOLO QUATTRO.
JEAN.



 
“Non scusarti per quello che senti. Nessuno può controllare i propri sentimenti.
Il sole non si scusa per essere il sole. La pioggia non si scusa quando cade.
I sentimenti, semplicemente, accadono.”
Iain S. Thomas.




Jean era seduto sul marciapiede di una delle vie più buie della città. Passando di lì aveva notato William e Lucille bisticciare come bambini su futili argomenti, come loro solito, mentre James era già sparito. Lo faceva spesso ed era un atteggiamento abbastanza strano, che non avrebbe portato a niente di buono.
A differenza di tutta la famiglia lui e Roman erano i componenti più normali, ecco perché andavano straordinariamente d'accordo. Certo, così come James e William, anche loro avevano piccoli e grandi segreti che nascondevano da una eternità a Camille e Vladimir, soprattutto. Non si era una famiglia se non si avevano segreti, bugie e azioni da nascondere all'altro e di cui non si parlava. E forse quello di Jean, del normale Jean, era il peggiore di tutti... Il più brutto, il più immorale, quello per cui gli avrebbero certamente dato del mostro, se solo lo avessero scoperto.
C'era una gran puzza di piscio e feci animali, ma almeno si poteva stare tranquilli. Odiava stare a contatto con le persone; erano troppo chiacchierone, superficiali e non riusciva a capirle e farsi capire. Jean era un tipo molto solitario, preferiva uscire e starsene al sicuro, al buio e da solo, piuttosto che gironzolare per bordelli come facevano James e William. Era più forte di lui.
Amava la sensazione del silenzio, la pace e la quiete, fattori che combaciavano meravigliosamente con il lavoro che faceva.
Non era solo. C'erano altri uomini e giovanotti con lui, seduti a qualche metro di distanza, che aspettavano nella semioscurità, parlottando a bassa voce tra di loro. Jean sbuffò, guardandosi le belle mani da musicista bianche come avorio e da cui si potevano scorgere le vene bluastre. Era davvero una serata fiacca e stava per perdere la speranza, quando udì dei passi. Le scarpe pestavano il suolo bagnato lentamente e quando si fermarono davanti a lui, scarpe nere di bella fattura e costose, Jean alzò lo sguardo, rimanendo stupito.
“Buonasera, mi scuso per il ritardo.”
“Oh, salve, non credevo sareste più arrivato, avevo perso la speranza.”, Jean si alzò, ma stranamente non era a disagio come accadeva tutte le volte che aspettava qualcuno. L'uomo sorrise, abbassando lo sguardo per terra, quasi imbarazzato. Jean poteva notare il rossore che gli imporporavano le guance, nonostante l'oscurità della notte. “Stavo per andarmene.”
“Sono felice che non lo abbiate fatto, Jean.”
“Come fate a sapere il mio nome?”
“So molte cose di voi, potrei addirittura saperne più di voi. Vogliamo andare ora? Il tempo è denaro.”
Jean abbastanza stupito, scioccato e impaurito seguì l'uomo di cui non conosceva ancora l'identità nella casa, che agli occhi del mondo sembrava abbandonata, ma a quelli che sapevano guardare bene non lo era. Salirono lentamente le alte scale, fino a giungere al primo piano e fermandosi alla prima porta rossa chiusa.
“Almeno posso sapere il vostro nome? Me lo dovete.”, Jean lo toccò sulla spalla per farlo fermare.
“Ve lo dirò, è una promessa. Adesso entrate, ve ne prego.”
Lo sconosciuto entrò, tirandolo per la manica dentro la camera. Jean si guardò intorno, storcendo il naso disgustato. Odiava quel maledetto posto. C'era solamente un materasso malandato all'interno della stanza e due comodini su cui erano posate delle candele, ormai talmente consumate che erano sul punto di spegnersi.
Jean si prese un momento per osservarlo sotto la luce delle fioche candele. Era ricco, questo lo si poteva notare dalla fattura dei suoi vestiti, dalle sue scarpe e dall'orologio da taschino d'oro che aveva estratto dal panciotto.
“Credo che due ore possano bastarci, no?”
Era straniero, anche se parlava perfettamente l'inglese, il suo accento lo tradiva. Era americano. Se Will lo avesse visto in quel momento, avrebbe urlato al tradimento, pensò divertito.
“Sono più che sufficienti.”, borbottò Jean distratto. Era attraente, molto attraente e molto alto anche; gli arrivava a stento al petto. Moro, il viso dai lineamenti marcati e belli, naso leggermente storto, labbra sottili con il labbro inferiore leggermente più pieno di quello superiore e due occhi di un meraviglioso verde smeraldo. Dell'esatto colore che gli facevano perdere la testa, quella unica sfumatura che assume il mare ad una certa profondità.
“Devo fare da solo o mi aiuterete?”, aveva persino una voce profonda, da far accapponare la pelle per il piacere.
“Oh, scusatemi, mi ero... distratto un attimo.”, Jean tossicchiò imbarazzato, correndo verso l'uomo. Si sentiva goffo, cosa che non era mai stato e alle prime armi, come se fosse stata la prima volta. Cosa gli stava capitando?
Con mani tremanti, ma abili Jean cominciò a slacciare i bottoni del panciotto verde di lui silenziosamente.
“Siete straniero?”
“Sì e no. Sono inglese di famiglia, ma americano di nascita. Ci siete mai stato, Jean?”, domandò l'uomo, guardandolo intensamente, mentre con le dita lunghe gli accarezzava l'angolo della bocca.
“Qualche volta, tanti anni fa. Ma non mi ha mai entusiasmato. Preferisco l'Europa.”
“La Francia, soprattutto. Vi capisco, sapete? E' un Paese che è impossibile non amare. Parigi, così come Londra, ti risucchiano. Vieni completamente assorbito e più tempo ne passi, più tempo cominci ad amarle, a desiderare di scoprirla. Sono come delle belle donne. Potranno passare gli anni, i secoli, potrà finire il mondo, ma rimarranno sempre lì, bellissime anche nonostante tutti i loro anni. La bellezza è immortale.”
“Pensavo di essere l'unico a pensarla così...”, ammise Jean, slacciando anche l'ultimo bottone del panciotto e i lacci della camicia, che buttò per terra. Non aveva mai parlato così tanto con gli uomini con cui aveva trattenuto quel tipo di relazione. Gli altri si limitavano solamente alla parte fisica, lo trattavano come un oggetto. Perché lui si comportava in modo così ambiguo?
“Volete tutto o solo...?”
“Tutto, Jean, voglio tutto ciò che riuscirete a darmi.”
E senza aggiungere altro il moro si fiondò sul ragazzo, baciandolo con trasporto.





“Charles.”
“Come, scusate?”
“Mi chiamo Charles.”, Jean sorrise, ripetendo il nome a bassa voce, mentre l'uomo gli dava le spalle e si appisolava. Guardò la sua schiena abbronzata e muscolosa, mordendosi il labbro.
“Charles...”
Quella sera Jean aveva fatto tre volte l'amore con quell'uomo sconosciuto. La prima con i suoi meravigliosi occhi verdi; ci era cascato dentro, perso nella loro intensità e aveva faticato a trovarvi una via d'uscita. La seconda quando le sue mani lo hanno toccato ovunque, plasmandolo come si fa con la creta, a proprio piacimento, accarezzandolo delicatamente come un fiore delicato, baciandolo con passione, come se ne valesse della sua vita, mordendolo, graffiandolo, sussurrandogli parole che lo hanno fatto impazzire fino a farlo scoppiare in mille pezzi, a perdersi e a non riconoscersi più. E la terza... la terza quando aveva sussurrato il suo nome. Charles era un nome talmente musicale e dolce, che scivolava sulla lingua come il migliore dei champagne di Luigi XIV ed era impossibile non rimanerne estasiati; gli calzava  a pennello quel nome, era veramente appropriato.
Jean si girò e lo osservò dormire. Lui era ancora lì e non se ne era andato, il suo respiro, il suo sapore, il suo alito, il suo corpo, i suoi occhi.
Quella da una giornata alquanto deprimente si era trasformata in una molto interessante.
“Sapete che mi accorgo quando mi guardate?”
“E' una vostra dote, Charles?”
“Esattamente. E' una delle mie tante doti, Jean.”
L'uomo si stiracchiò, scalciando via le coperte per alzarsi e rivestirsi. Jean lo osservò spudoratamente per il tutto il tempo e Charles si lasciò guardare, rivestendosi lentamente. Quando anche l'ultimo particolare fu al suo posto, guardò il suo orologio d'oro, cosa abbastanza insolita, e nella semioscurità della stanza i suoi occhi sembrarono scintillare.
“Voglio rivedervi.”, Charles gli si sedette accanto, guardandolo. Era serio. “Voglio conoscervi.”
“A me? Non avete una moglie da cui ritornare in America? Non sono solito uscire nell'alta società e mi sono appena trasferito.”
“So tutto di voi, Jean Nottern. E credo proprio che mia moglie, che per la cronaca è inesistente, non ci darà fastidio.”
“Charles, non capisco quali siano le vostre intenzioni e mi state mettendo a disagio.”
“Cosa c'è di più semplice? Voglio conoscervi, voglio vedervi e voglio stare con voi, non solo come un amico.”
“Non credo sia possibile, mi dispiace. Non posso darvi di più di ciò che avete avuto questa sera. Quelli come noi... Dovreste saperlo che siamo sbagliati. Non potremmo mai pensare di essere o essere considerati come gli altri.”
“Balle. Non siamo sbagliati, ma siamo come quelli a cui piacciono le donne. E ce ne sono altri come noi che ce l'hanno fatta.”
“Ma li hanno scoperti. E sapete cosa fanno a quelli così in prigione?”
“Potrei sposarmi e voi verreste con me, vi conoscerebbero come un mio caro amico che...”
“Smettetela, Charles, non fate lo sciocco. Siamo due gentiluomini di alta società, non semplice gente di basso estratto sociale. Non potremmo mai stare insieme in quel senso... E poi perché correte così tanto? Io non provo le... Insomma, da dove siete spuntato così all'improvviso?!”
Jean si alzò di scatto del letto per rivestirsi. Si sentiva particolarmente confuso, Charles, che ora ridacchiava divertito, lo confondeva.
“Smettetela di prendervi gioco di me!”
“Vi sembrerà strano il mio comportamento, me ne rendo conto. Ma vi spiegherò tutto solo se voi mi permetterete di vedervi e di approfondire la nostra conoscenza.”
Jean sospirò, riabbottonandosi il panciotto velocemente; si voltò e guardò Charles che  aveva uno sguardo supplicante. Quegli occhi...
“E va bene, ma solo come amici, niente di più.”, un enorme sorriso addolcì i lineamenti di Charles, rendendolo ancora più attraente di quanto non fosse. Era più bello, pensò Jean, quando sorrideva, perché gli occhi verdi gli si illuminavano. “Se proprio ci tenete... Domani sera ci sarà una sorta di ballo che mia... madre Camille ha organizzato. Ecco, se non avete nient'altro da fare, siete... il benvenuto.”
Jean era sul punto di uccidersi. Si sarebbe buttato da qualche altura o si sarebbe piantato un paletto direttamente nel cuore. Veloce e indolore.
Era forse impazzito per fargli una richiesta del genere?
“Certamente, ci sarò senz'altro, Jean.”
“Oh, bene, ma so già che me ne pentirò.”, borbottò aggrottando le sopracciglia. Vladimir lo avrebbe ucciso, massacrato all'istante non appena avesse visto Charles entrare in casa sua. Suo padre non era certo uno stupido. “Davanti a tutta la mia famiglia!”
“Farò il bravo e non avrò nessun comportamento ambiguo. A domani!”, e dopo averlo salutato con un veloce bacio sulla guancia, andò via. I soldi di quelle poche ore abbandonati sul letto.
“Oh, per tutte le corna di Lucifero! In quale guaio mi sono cacciato?”, urlò sprofondando nella disperazione.




Jean ritornò a casa, sconvolto. Charles, nonostante il carisma e il bell'aspetto, era un tipo strano che non lo convinceva del tutto. Il suo comportamento era alquanto ambiguo e fin troppo frettoloso. Jean, dal canto suo, non aveva mai avuto esperienze di quel genere, poiché questa consapevolezza gli era giunta da poco e faticava ancora a fare pace con se stesso dopo secoli di bugie. Aveva continuato a mentire a se stesso, nascondendo in continuazione il suo vero orientamento per arrivare fino a quel momento, nel quale si sentiva profondamente diverso e non era in pace con il suo essere.
Quindi non poteva buttarsi subito tra le braccia di questo sconosciuto solo perché aveva dimostrato dell'interesse nei suoi confronti, doveva prima capire se lui gli piacesse veramente e poi agire di conseguenza,  e il ballo che aveva organizzato sua madre era un ottimo pretesto per farlo.
Nell'entrare vide James e Lucille trascinare con la forza William giù per le scale che portavano nelle segrete. Il biondo era tutto insanguinato e ubriaco.
“Jean, Jean, ti prego aiutami! Ti compro un violino nuovo! Queste serpi stanno cercando di uccidermi!”, sbraitò teatralmente come suo solito. Jean lo salutò con un cenno della mano.
“Fattela una bella dormita, Willy!”
“Traditore!”
Jean ridacchiò divertito, mentre scendeva verso i laboratori di Roman. Lui era lì, come suo solito, con indosso una camicia bianca e un paio di pantaloni in pelle neri, a lavorare su qualche nuova diabolica invenzione. Questa volta stava mischiando in dei contenitori dei liquidi di colore giallastro e viola che puzzavano parecchio. Jean sperava solamente che non fossero esplosivi.
“Ciao, fratellino!”, lo salutò il vichingo con un grande sorriso.
“Ciao, Roman. Ho bisogno di parlare con te di qualcosa di veramente serio e so che sei l'unico che potrà capirmi veramente. E' qualcosa di molto serio e non vorrei che Vladimir e gli altri non lo sapessero.”
Roman, sentendo il tono serio del fratello, lasciò perdere i suoi intrugli, facendolo sedere su una delle sedie. Accese una specie di fornello per simulare rumore.
“Dimmi, ti ascolto.”
Jean prese un forte respiro e dopo aver contato fino a dieci , lo disse. Lo disse per la prima volta ad alta voce, lo disse per la prima volta a qualcuno a cui voleva bene, sapendo di compromettere il loro rapporto. Lo disse, e questo era l'importante.
“Roman, sono omosessuale.”

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Capitolo 6
*** La Famiglia in festa, parte prima. ***


Capitolo cinque.
La Famiglia in festa.
 

"Tu sei mia sorella - disse Jace alla fine - mia sorella, il mio sangue, la mia famiglia. Dovrei sentire il desiderio di proteggerti." Rise in silenzio e senza umorismo. "Proteggerti da tutti i ragazzi che vorrebbero fare con te esattamente quell che vorrei fare io."


("Shadowhunters - Città di vetro" di C. Clare)





Per non destare sospetti Camille aveva acquistato una delle villette in uno dei quartieri dell'alta società più in voga dell'epoca, considerato che l'enorme tenuta dei Nottern appariva fin troppo grottesca e fuori luogo per dare un ricevimento, nel quale tutte le signore e signori avrebbero finalmente avuto modo di conoscerli e soprattutto avrebbero avuto modo di scatenare i più viscidi pettegolezzi.
Ma un signora come Camille, che aveva alle spalle secoli di vita, sapeva bene come funzionavano le menti della gente, soprattutto quelle dell'alta società. Si abbigliavano come meringhe al cioccolato, nascondevano i visi coloriti dietro i loro ventagli dai colori accessi e commentavano con minuzia ogni piccolo particolare fuori luogo.
Doveva cercare solamente di apparire perfetta la prima sera e poi sarebbe stato un gioco da fanciulli inserirsi nella società civile ed integrarsi, nonostante il loro essere. E proprio lì era il divertimento... Farsi ammirare, conquistare la loro amicizia, farsi amare e poi ferirli nel peggiore dei modi.
La padrona di casa aveva riunito la famiglia in un'unica carrozza, l'unica che avevano avuto modo di comperare dal loro arrivo che corrispondeva alla moda del secolo; le altre erano ancora troppo vecchie. Si stavano ufficialmente recando nella nuova casa con tanto di bagagli nuovi.
La gente aveva già cominciato a guardare e sussurrare, osservandoli con curiosità e con occhi che scintillavano per l'appagamento. A guardarli, erano uno più bello dell'altra ed era un vero e proprio piacere osservarli. Attraenti e giovani, ciò per cui il mondo andava matto e di cui non si sarebbe mai stancato. La droga delle masse e l'ossessione dei generi.
Uno dei servitori, un mulatto dagli occhi azzurri e i capelli ricci, scese dalla carrozza, aprendo la portella e successivamente quella di casa ai padroni.
Era pomeriggio inoltrato e l'ultimo raggio di sole andava morendo, affogato tremendamente dalle dolci braccia delle tenebre. Camille, vestita di blu, scese elegantemente dalla carrozza, mostrando le scarpe eleganti e di fattura pregiata, aggrappandosi alla mano del marito e sorridendo dolcemente. William, dietro Vladimir, con le mani in tasca e senza cappello e soprabito, roteò gli occhi, sbuffando, mentre James, al suo fianco, ridacchiava.
“La solita primadonna. Fra lei e Vladimir non saprei chi scegliere.”, Will sorrise innocentemente, quando il padre di famiglia lo fulminò con lo sguardo, ma la sua espressione cambiò immediatamente quando Lucille scese a sua volta, con egual eleganza, aggrappandosi alle mani di Roman e Jean.
Il biondo la osservò scendere lentamente e gli sembrò bellissima, nel suo semplice abito rosa fiorito e il suo cappellino bianco e piumato. Sorrise dolcemente a Roman, che le schiacciò l'occhio, e si lisciò l'abito, perfetto e senza pieghe.
“Pianeta Terra chiama William, ma William non risponde.”, Jamie ridacchiò, osservando l'espressione stralunata del fratello. “Cerca di cambiare espressione, fratellino, le persone ti guardano e sei ci farai fare brutte figure, Camille ti sguinzaglia dietro Vladimir.”
“Non ho nessuna espressione. Stavo solo notando che quel cappellino con quell'abito è orribile e le sta male.”
Senza degnare di un solo sguardo Lucille che li aveva raggiunti, si girò ed entrò in casa. La ragazza sorrise tristemente, aggrappandosi al braccio di James.
“Non farci caso. E' solo geloso, vorrebbe tanto essere bello come lo sei tu questa sera.”
“Sai cosa mi importa di William.”
“Beh, tutto ciò che ho da dirti allora è solo una cosa.”, James le accarezzò l'esile mano, nascosta dai guanti bianchi. “Non metterti il vestito che Camille ti ha comprato per questa sera, altrimenti gli farai venire un infarto. Ci è mancato poco prima e ti aveva già esaminata in carrozza.”
Lucille lo guardò, scuotendo il capo. Ma un sorrisetto divertito e furbo non riuscì a nasconderlo.




La casa era posizionata su tre piani; ovviamente era molto più piccola della enorme tenuta che avevano appena fuori Londra, ma ugualmente degna dei Nottern. Vladimir non aveva voluto strafare, comprando qualcosa di non eccezionalmente grande e si era accontentato di quella piccola casetta, dove avrebbero potuto viverci circa tre famiglie.
Il tema che aveva utilizzato Camille era il bianco. Infatti in tutta la casa, tra fiori e decorazioni, c'era qualcosa che richiamava quel colore.
All'entrata gli ospiti venivano intrattenuti da camerieri, vestiti di nero, che prendevano loro i soprabiti, mentre un altro serviva loro un bicchiere di champagne e i scortava verso il salotto, dove avvenivano le danze.
L'atrio era spazioso. Al soffitto c'era un lampadario in cristallo, enorme e pesante, che poteva illuminare tutta Londra. Una scala a chiocciola in legno portava ai piani superiori, dove c'erano le camere, la libreria e la sala da musica, cosa che agli ospiti non interessava, poiché Camille aveva fatto in modo che la festa si vivesse al piano terra, nei due enormi saloni, dai quali vi si accedeva attraverso una porta indaco, che due servitori aprivano.
Nel salone di sinistra c'erano uomini e donne maritati o vedovi, quelli a cui non importava nulla del divertimento e dei balli, quanto il bere, la chiacchiera facile e il pettegolezzo.
Era enorme. C'erano grandi finestre nascoste e oscurate da pesanti tende scure, divanetti sui quali le donne potevano riposare i loro piedini fin troppo stretti nelle scomode ma bellissime scarpe, servitori che facevano avanti e indietro con i vassoi sempre pieni e colmi di cibo da sgranocchiare e bicchieri con vino bianco e champagne, una piccola orchestra di archi suonava le comuni canzoni da ballo. Ritmate e allegre.
L'altro salone aveva le stesse caratteristiche del primo, ma era prettamente per i giovincelli e le fanciulle, desiderose di divertimento e ancora troppo spensierati per chiacchiere futili e ancora convinti dell'esistenza del vero amore. Erano alla ricerca di un bel rampollo o una bella ereditiera con cui maritarsi. Anche lì musica e divertimento non mancavano. I due saloni comunicavano attraverso porte rigorosamente aperte, in modo tale da tenere sempre sotto controllo i più giovani.
William guardava Camille con la punta dell'occhio, dall'altro lato della sala, conversare amabilmente da gran signora con le altre donne, mentre lo guardavano sorridendo. Era vestito, come il resto della famiglia, tutto di bianco. Era un colore che il ragazzo detestava perché in un certo senso era come se Camille volesse ostentare un candore, una innocenza, un essere insignificante e come tutti gli altri, che in realtà lui non era... Pensandoci bene, non era solo una ipotesi quella di sua madre, era una vera e propria certezza. Come era una certezza che in quel momento le signore stessero analizzando tutti i suoi particolari, persino il modo in cui respirava, per adattarlo ad una possibile figlia, nipote, sorella, parente.
Se solo avesse potuto, avrebbe vomitato all'istante.
Sollevò il bicchiere, sorridendo alle signora e dileguandosi l'attimo seguente prima che la situazione degenerasse e lui fosse costretto a parlare con quella gente, col cibo.
James e Jean lo raggiunsero, particolarmente sottotono e stanchi, mentre di Roman e Vladimir si era persa traccia. Un attimo dopo giunse anche Lucille, che meravigliosa nel suo abito bianco, tanto da sembrare una sposa, si aggrappò alle braccia di Jamie.
“Venite a ballare! Non state qui impalati, fate amicizia!”
“Non si gioca con il cibo, Lucie, dovresti averlo capito ormai... O forse no, visto che ti sei persino sposata con uno di loro.”, Will tracannò tutto il bicchiere di champagne, poggiandolo da qualche parte lì vicino, mentre osservava il viso della sorella cambiare espressione e diventare deluso. Provò un certo senso di godimento, poiché c'era troppa gente che si stava interessando a lei, soprattutto maschi.
“Will!”, lo rimproverarono all'unisono Jean e James.
“Cerca di comportarti bene e non trattare male Lucille.”
“O dovremmo di nuovo rinchiuderti nelle segrete.”
“Andate sinceramente a farvi...”
“Signorina Nottern, potete farmi l'onore di concedermi i prossimi due balli. Sempre se i vostri fratelli me lo concedano.”, un uomo comparve all'improvviso. Doveva avere circa trent'anni; era di bell'aspetto, ricco (notando i capi d'abbigliamento) e sembrava molto gentile. Aveva dei morbidi capelli castani con sfumature bionde, due occhi nocciola con sfumature di miele e lunghe ciglia castane, labbra sottili e naso leggermente storto.
“Ma certamente, sarei onorata di ballare con voi.”
“Ne sono felice.”
L'orchestra attaccò un'altro ballo e a quel punto l'uomo porse una mano a Lucille che accettò, aprendosi in un enorme sorriso che lasciò tutti a bocca aperta. “Allora è meglio che ci muoviamo, prima che questo ballo finisca, mia signora.”
Lucie si girò verso i fratelli, schiacciando loro l'occhio e correndo dietro l'uomo che non smetteva di sorridere. Tutti si girarono verso di lei e cominciarono a mormorare, sopratutto d'invidia. Quello era Dorian Grey, cugino di secondo grado della regina Vittoria e quarto nella linea di successione al trono. William li guardò volteggiare per tutta la stanza e conversare mentre ballavano. Lei rideva e lui la faceva ridere.
Patetici.
James e Jean si girarono verso William, ghignando.
“Che cosa volete?”
“Non ringhiare, potrebbero sentirti.”, Jean rise, sussultando quando qualcuno a lui molto familiare oltrepassò la porta, raggiungendolo. Pronunciò il suo nome molto prima che se ne accorgesse e riuscisse a fermarsi, attirando l'attenzione dei suoi due fratelli. “Charles!”
“Buonasera.”
“Siete venuto, vedo. Credevo non sareste venuto più...”
“Non potevo non venire.”, Charles sorrise e Jean si schiarì la voce, sperando di non sembrare strano agli occhi dei fratelli, soprattutto a quelli di Will. James poteva essere gestito e ci si poteva parlare, ma Will, Will era imprevedibile. “Comunque vi presento mia sorella Theresa.”
Jean si rese conto solo in quel momento della ragazza che Chaeles portava sotto braccio, poco più grande di Lucille. Era molto bella, angelica, dai lineamenti delicati e dolci su una pelle pallida del viso, nel quale le lentiggini spruzzate sul naso erano state maldestramente nascoste dal trucco. Aveva grandi occhi color nocciola incorniciati da lunghe e folte ciglia nere, capelli castani con sfumature color miele, accuratamente acconciati in alto. Aveva un sorriso troppo largo, forse a causa delle labbra, poiché troppo carnose e grandi. Ma ciò non alterava la sua bellezza. Era alta, forse qualche centimetro in più di Jean.
Non somigliava per niente al fratello, pensò Jean, guardandoli. Erano diversi.
“Piacere di conoscervi, Theresa. Io sono Jean; questi sono due dei miei quattro fratelli, James e William. Vi introdurrò agli altri quando avrò modo di incrociarli.”, Jean sorrise, imbarazzato, cercando di ignorare il peso dello sguardo di Charles che gravava su di lui come un pesantissimo masso che ti schiaccia il braccio.
Theresa sorrise, arrossendo leggermente. “Vi ringrazio per l'invito Jean e piacere di conoscervi. Fare la vostra conoscenza è un privilegio.”
Nonostante si fosse rivolto al più grande fra i tre, gli occhi della giovane erano rivolti verso William, che la osservava a sua volta. Jean si trattenne dall'esprimere parole poco consone al contesto. Come avrebbe potuto dire a quella povera creatura di lasciar completamente perdere quel drogato, stronzo, figlio di buona donna di William? L'avrebbe solamente usata, portato via la sua virtù e successivamente gettata in un angolo buio. E a causa di ciò, lui e Charles avrebbero troncato i loro rapporti per sempre e non si sarebbero più visti, nonostante il volere di entrambi, ma lui doveva pensare a sua sorella e al suo onore e non poteva di certo continuare a frequentare il fratello di colui che...
“Jean, perché stai cercando di strozzare con lo sguardo William?”, lo colpì James, facendolo ritornare alla realtà. Per fortuna nessuno si era accorto della scena.
“Mi ero semplicemente incantato.”, Jean forzò un sorriso, quando vide William afferrare per mano Theresa e dirigersi verso la pista da ballo, sotto lo sguardo attento di James e Lucille. “Spero solo che non si metta nei guai...”
“Cosa alquanto impossibile per uno come lui, fratellone. Ci si vede. Charles, è stato un piacere.”, James abbozzò un sorriso e dopo averli guardati un'ultima volta sparì tra la folla di persone che aveva accerchiato Dorian, Theresa, Lucille e William.
“Vedo che i vostri fratelli siano di poche parole.”, Charles si avvicinò a lui, teneva le mani incrociate dietro la schiena. “Che ne dite di farmi vedere la vostra grande biblioteca?”
Jean tossicchiò, guardandosi intorno, sperando vivamente di non aver tirato l'attenzione. Era ansioso e nervoso, credeva che da un momento all'altro qualcuno avrebbe puntato loro il dito e urlato di sapere cosa avevano fatto. Li avrebbero uccisi senz'altro. Ma invece di dirgli di andarsene e che ci aveva ripensato e si era pentito, disse solamente: “Certamente, seguitemi al piano di sopra.”




Theresa seguiva Will come un'ombra e pendeva letteralmente dalle sue labbra. Era talmente bella, quanto insignificante e di poche parole. Nonostante ciò tutti li guardavano conversare, passeggiare e ballare per le due sale, compresa Lucille, con gran soddisfazione di William. Le era piaciuto farsi ammirare con quel biondo slavato di Dorian Grey, adesso doveva guardarlo rubarle la scena.
“William, sarebbe così gentile da accompagnarmi fuori? Avrei bisogno di un po' d'aria e mio fratello non è presente al momento.”, poteva essere una domanda legittima, sentendo il tono della sua voce, ma i suoi occhi... i suoi occhi si erano accesi di una malizia che fino a quel momento, in presenza del fratello, non aveva mai manifestato. Gli aveva sfiorato il braccio con le punta delle dita e lo guardava in quel modo strano e provocante, tant'è che Will, tentato e desideroso di scoprire cosa aveva in mente, accettò di accompagnarla.
“Chi sono io per negare un simile desiderio ad una dolce fanciulla come voi?”, lei aveva ridacchiato nascondendosi la bocca con la mano dalle dita affusolate e curate. Una volta usciti dall'appartamento, vennero investiti dall'aria fresca notturna e per il biondo fu come tornare a respirare. La ragazza si guardò intorno sorridendo, mentre camminavano lentamente nel buio della sera;gli unici rumori che provenivano erano dall'appartamento. Si udivano risa e musiche di vario genere.
Theresa afferrò la mano di William e senza aggiungere altro cominciarono a correre, velocemente, fino a girare l'angolo e nascondersi in un vicolo cieco e buio. La luna illuminava debolmente i lineamenti del volto della ragazza. Era tutta angoli bui e pelle pallida, inquietante tanto da sembrare un demone.
“Non reggevo più tutta quella gente Non riesco a fingere per più di un'ora. Spero che vi siate portati i fiammiferi.”, disse la mora, mentre si metteva le mani nella innocente scollatura del vestito, cercandovi qualcosa all'interno. Tirò fuori un aggeggio che sembrava fatto di argento, lo aprì e prese due sigarette. Una per sé e l'altra per William.
“Potrei trovare altre sorprese lì dentro, Theresa?”
“Non lo so, basta cercarle, William.”
I due si sorrisero e ciò fece divertire tanto il biondo, che non perse tempo e afferrò la ragazza per la vita, facendo aderire i loro bacini, nonostante le ingombranti stoffe della ragazza. Ella si avvicinò, schiacciandolo contro il muro e cominciando a baciarli prima il collo, poi la mascella, fino ad arrivare all'angolo della bocca per poi arrestarsi.
“Non vedevo l'ora di mordervi questo bel visino dalla prima volta che vi ho messo gli occhi addosso.”
“E io che pensavo foste noiosa.”
“Celo molte sorprese dentro di me, William, sta a voi scoprile una ad una.”
Will sorrise e la baciò senza indugiare, mentre lei sorrideva e le sigarette caddero per terra. Avevano trovato un passatempo migliore.
Quella serata, da noiosa, era diventata interessante e soprattutto divertente.






Chiedo scusa per il ritardo, ma ho avuto un po' di problemi tra stage a Dublino, scuola, interrogazioni e blocco dello scrittore. Soltanto oggi ho avuto il tempo di sedermi al computer e dedicare del tempo a questa storia.
Spero vi sia piaciuto e ci vediamo presto con la seconda parte!












 

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Capitolo 7
*** La Famiglia in festa, parte seconda. ***


CAPITOLO SEI.
LA FAMIGLIA IN FESTA.


“E cos'altro puo' essere l'amore se non una
segreta pazzia, una opprimente amarezza

e una benefica dolcezza. “ Shakespeare.





Jean e Charles riuscirono a dileguarsi dalla festa senza attirare l'attenzione di nessuno, passando inosservati. Erano scomparsi da un bel po' e nessuno era ancora venuto a cercarli e questo significava che il ballo stava piacendo a tutti ed erano troppo occupati a ballare, a bere o chiacchierare.
Meglio per loro, meno probabilità di essere scoperti.
Si trovavano in quella che era la sua stanza, di modeste dimensioni, non enorme come quella che aveva nell'altra tenuta. C'erano strumenti appesi sulle pareti, dai più antichi ai più nuovi, il suo violino poggiato sul letto assieme ai suoi libri di musica. Alcuni fogli, spartiti con pentagrammi spogli di note nere, erano poggiati sulla scrivania. Componeva nel tempo libero, quando aveva voglia di distrarsi, ma non riusciva mai a completare niente.
“Suonate? L'avevo pensato, la prima volta che vi ho visto. Avete le mani da musicista.”
“Ho le mani da donna.”
“A me le vostre mani piacciono.”
Jean lo guardò, sospirando. Voleva dire qualcosa, lo voleva con tutto se stesso, ma era come se fosse bloccato... C'era qualcosa che gli impediva di essere come lui, come Charles. E lui come diavolo faceva ad essere così? Non aveva paura, non era costantemente terrorizzato dalle cose che faceva, da come si muoveva, da come parlava, non soppesava bene le parole come faceva lui, non controllava mai il tono della voce per la paura che risultasse troppo femminile o effeminato. No, lui era semplicemente se stesso con tutti e sembrava essere in pace con se stesso, nonostante fosse diverso, nonostante ci fosse qualcosa di non naturale in lui, qualcosa che andava contro natura.
“In ogni caso gli uomini dovrebbero dedicarsi ad altri passatempi, non alla musica. La musica è per le donne.”, Jean lo guardò,incrociando le braccia al petto. Non avevano parlato per quasi un'ora, si erano semplicemente guardati o scambiati due parole di cortesia fino a quel momento. Era un grosso passo in avanti. “E poi io non mi reputo un musicista. Non so fare musica.”
“Io non direi. Ne avete tutta l'aria...”, Charles si avvicinò alla scrivania, prese uno degli spartiti di Jean e ne lesse il nome, sorridendo. “A me piace la vostra musica. Avete fantasia persino per i nomi che date.”
“Come fate a dirlo, se non mi avete mai sentito suonare?”
“A me piacete voi, quindi sono certo che la vostra musica mi piacerà. Comunque è davvero un nome originale... La Famiglia Del Diavolo, intendo, come vi è venuta l'ispirazione?”
“Smettetela, non fate così!”, sbottò Jean, afferrando lo spartito e poggiandolo con forza sul tavolo.
“Così come?”
“Non fatemi apprezzamenti come se fossi una bella donna da corteggiare. Mi mettete a disagio e vi ho detto che posso darvi solo la mia amicizia.”
“E io l'ho capito. Ma non era mia intenzione corteggiarvi, sono solo semplici apprezzamenti da amico.”
“Non li fate, mi mettete a disagio.”, Jean sospirò, sembrava esausto. “Perché volevate parlarmi in privato?”
“Perché avevate un'aria da pazzo suicida, vi stavate per strozzare. Se vi faccio questo effetto, allora perché mi avete invitato a questo ballo?”, Charles perse il suo sorriso. Guardava Jean con aria triste, sembrava sinceramente ferito da come aveva reagito.
“Non lo so, Charles, non lo so. Voi mi confondete e quando mi siete vicino mi sento veramente strano. Non mi sono mai sentito così con nessuno...”
“A me fate lo stesso effetto, Jean.”, Charles si avvicinò e Jean indietreggiò. “Mi rendete ansioso, dico cose stupide solo per farvi ridere, o almeno per cercare di farvi ridere. Quando vi sono vicino non capisco più niente e il respiro accelera. Mi mettete ansia.”
“Charles...”, lo supplicò il moro. Non poteva dirgli quelle cose, non poteva.
“Non c'è niente di male, Jean, quante volte lo dovrò spiegare? Non c'è niente di male in quello che proviamo.”, Charles gli accarezzò la guancia con la punta delle dita. “A tutti è concesso amare.”
“L'amore non è abbastanza nella nostra situazione. Adesso vi prego, andatevene.”
“Jean...”
“Non siete più il benvenuto qui, andatevene!”, lo spinse via, andando alla porta e aprendola per farlo andare via. “Non voglio più vedervi.”
“Io non mollerò. Sono un osso duro.”
“Provateci quanto volete, ma io non mi farò mai convincere.”
Charles sorrise e prima di uscire dall'uscio della porta, disse: “Dicono tutti così, anche io lo dicevo. Ma eccomi qua a corteggiare un uomo che seppur prova i miei stessi sentimenti, mi allontana con tutte le sue forze. Buona serata, Jean Nottern.”






Quando Theresa e Charles se ne furono andati, William fu travolto dalla noia. Non c'era niente e nessuno che riuscissero a sollevargli il morale, facendolo divertire, oltre all'ottimo champagne che i camerieri offrivano nei calici di cristallo.
Camille sapeva come si organizzava una festa, sapeva come ingraziarsi l'alta società di tutte le epoche, Camille sapeva come ci si doveva comportare per vivere. Dopo tutti quei secoli, dopo tutti quegli anni, avevano imparato che le persone non cambiavano, cambiava solo il contesto, i monumenti e gli avvenimenti storici. La loro mentalità rimaneva la stessa, con il loro desiderio del lusso, del pettegolezzo e del bere. Ecco perché Camille riusciva sempre a farsi rispettare nell'alta società, perché in qualsiasi paese ed epoca, essa rimaneva la stessa. Niente sarebbe mai cambiato. Invece di progredire, l'umanità tendeva a regredire e nel modo peggiore.
William aveva deciso di ubriacarsi quella sera, nonostante avesse promesso a Vlad di fare il bravo. Era l'una di notte passata e l'alcol stava circolando dalle otto di sera circa, perciò signore, signori, fanciulle e fanciulli ormai erano tutti ubriachi, in preda a buffi balli e risate senza senso. Nessuno avrebbe notato se lui, uno dei tanti, avesse alzato il gomito; a meno che non avesse fatto qualcosa di così tanto eclatante, come strappare la faccia a quel Grey con le zanne, tanto da rimanere impresso nella mente ubriaca di tutti.
Sua sorella e quel cuginetto della regina non facevano altro che danzare da tutta la sera e parlottare come se fossero stati due giovani innamorati, vicini al matrimonio.
Disgustoso. Voleva solamente approfittarsi di Lucille e portarsela a letto. Li conosceva quelli come lui, perché era esattamente ciò che aveva fatto con Theresa poco fa, a differenza che per loro non aveva significato niente, ma per Lucille avrebbe significato qualcosa.
La stava guardando da un po', ad essere sinceri, guardava solo lei nel suo bell'abito bianco, sorseggiare dal bicchiere, mentre ascoltava Dorian e una ragazza dai capelli rossi.
I loro sguardi si incontrarono all'improvviso e si osservarono per pochi secondi, il tempo necessario che William fosse colpito da un ricordo, un ricordo che la sua mente pazza e malata aveva quasi del tutto cancellato. Lucille fu la prima a guardare altrove, perdendo il dolce sorriso che fino a quel momento le stava addolcendo i lineamenti e gli occhi. Osservò Dorian chinarsi su sua sorella e sussurrarle qualcosa nell'orecchio, lei annuì e sorrise, per poi prenderlo sottobraccio ed uscire dalla stanza. Proprio come avevano fatto lui e Theresa.
“Non pensarci neanche, maledetto.”, Will bevve tutto lo champagne d'un fiato e successivamente seguì i due nel corridoio, nascondendosi nell'ombra per non farsi vedere, pronto ad intervenire. Lucille gli dava le spalle, mentre Dorian gli era proprio di fronte, poteva vedere qualsiasi cosa di lui. Era un bell'uomo, suo malgrado.
“Sono stato davvero bene questa sera. Mi sono divertito così tanto, soprattutto grazie alla vostra presenza. Siete stata una sorta di faro che mi ha illuminato con la vostra bellezza, la vostra simpatia e la vostra dolcezza. Mi avete stregato, Miss Nottern.”
William trattenne a stento le risate. Povero buffone, lui usava quelle frasi da prima che nascesse, anzi, ne usava di meglio. Suvvia, aveva fatto innamorare, e continuava a farlo, centinaia e migliaia di donne con i suoi sonetti, con Giulietta e Romeo e con tutto ciò che aveva composto.
“Be', signor Grey io davvero non so che cosa dire... Così mi mettete in imbarazzo.”, l'uomo l'afferrò per mano, baciandola delicatamente.
“Non dite niente, lasciate solo che io vi possa rivedere ancora una volta. Lasciate che io vi corteggi. Siete la prima donna che mi abbia fatto questo effetto, la prima donna che ho veramente voglia di conoscere, di ascoltare, di scoprire...”
“Così mi lusingare, signor Grey e mi fate arrossire.”, Lucille fece una pausa e poi riprese. “E va bene, vi rivedrò. Anche voi mi avete fatto lo stesso effetto, devo ammetterlo e...”
Ma prima che la fanciulla potesse anche solo pensare di terminare la frase, quel polpo umano si attaccò alle sue labbra, soffocandola letteralmente con la bocca.
William si piegò in due per le risate e fece accidentalmente cadere qualcosa che produsse un rumore metallico, che fece sobbalzare i due dallo spavento. La piovra si staccò dalle labbra di sua sorella e dopo averla salutata, se ne andò via.
“William, è inutile che resti ancora nascosto. Ti ho sentito arrivare da un bel pezzo ormai.”, Lucille si girò verso il fratello, aggiustandosi alcune ciocche liberatasi dall'acconciatura. “Non voglio sentire nessun tipo di commento da parte tua, sciocco.”
“Non mi impedirai di esprimere una mia opinione! Soprattutto se ti fai sbaciucchiare da uno come quello! E' una maledetta piovra, la sua lingua ha toccato anche me. Non so come tu non ti senta violata.”
“Dopo aver sperimentato te, qualsiasi cosa sembra il paradiso. E per la cronaca è un ragazzo d'oro.”
“Quanto le sue miniere in America?”, William sorrise, avvicinandosi alla sorella, che fece un verso esasperato.
“Ti odio.”
“E' sempre un piacere sentirtelo dire.”
“Continua a fare il cretino, io vado a divertirmi. Ciao, sbruffone.”
“Ciao, Lucy.”, la salutò con la mano, mentre ritornava nel salone per lamentarsi del suo comportamento con qualcuno della famiglia, James sicuramente. Quei due avevano in mente di ucciderlo sicuramente e occultare il suo bellissimo cadavere.






Per quanto dentro di se moriva dalla voglia di trascinarla in una camera qualsiasi e fare con lei uno dei loro sadici giochetti, gli fu inevitabile ripensare a come si erano conosciuti. Se ne stava lì come un imbecille, la guardava e gli sembrava di vederla per la prima volta, tanto tempo prima, quando era ancora un tenero upiretto non ancora del tutto trasformato. Era vecchio, molto più di quanto gli piacesse ammettere e dopo tutto quel tempo, dopo tutta quella esistenza, gli era difficile scindere un reale ricordo dal semplice frutto della sua immaginazione.
Ricordava di averla incontrata per la prima volta sulla riva di un importante fiume europeo, in un tempo troppo lontani per quei mortali, ma illustrato nei libri di storia. In Inghilterra stava avvenendo chissà quale guerra tra famiglie, una delle solite per acquisire potere. Aveva deciso di fuggire in Francia, non altrettanto stabile, ma meno caotica della sua madre patria e lì aveva incontrato Camille. Avevano intrattenuto una breve relazione sessuale, prima che Vladimir comparisse all'improvviso con Roman e James. Ma per lui a quel punto era troppo tardi, poiché Camille ne aveva reso un essere maledetto molto tempo prima ed era ormai alla fine della sua trasformazione. Faceva parte della famiglia, per sua grande fortuna.
Camille si era dimenticato all'instante di lui, dopo l'arrivo di Vlad e lui, be', lui lo guardava come si guarda uno schifoso topo di fogna.
Parigi quell'anno era particolarmente calda e le signore e i signori amavano sostare vicino alla Senna, al lato ovest, dove c'erano teneri alberelli nei quali potersi rifugiare dall'afa insopportabile.
Ricordava perfettamente quanto fosse piacevole la sua visione; gli sembrava di aver finalmente trovato la sua donna angelo, colei di cui Dante cantava le lodi in ogni suo sonetto, in ogni suo capolavoro. Aveva trovato la sua Beatrice, l'unica donna per cui effettivamente avrebbe continuato a perdere la testa ogni secolo. L'aveva trovata ma non sapeva chi era, perché se l'avesse saputo, probabilmente le cose sarebbero andate diversamente e lui non sarebbe stato l'uomo problematico, depresso e maledetto che era adesso. Sarebbe stato solamente depresso.
Lei era seduta su una panchina a leggersi un bel libro rilegato dall'aria molto costosa, le sue dame erano qualche passo più dietro di lei e conversavano su qualche argomento frivolo e privo di senso. Il vestito che indossava era di un candido rosa e le metteva in risalto gli occhi color nocciola, la pelle pallida e liscia e la bella bocca rosea. La guardò allungo prima che lei si accorgesse di lui, poggiato su un albero e con le mani in tasca.
Quando i loro occhi si incontrarono, la prima cosa che fece lei fu chiudere il libro con un colpo secco e sorriderli in modo malizioso, incurante delle altre persone.
“Finalmente ti ho trovato, Will. Vieni con noi, gli ospiti se ne stanno andando.”, Camille spuntò all'improvviso e lo afferrò per un braccio, costringendolo ad abbandonare tutte le sue nostalgie e fantasie.
“Non toccarmi, mammina, Vladimir potrebbe ingelosirsi.”
Camille gli rifilò un'occhiataccia, dicendogli di mettersi fra Lucille e James. La ragazza non lo degnò di uno sguardo, ma continuava a parlare con un Jean molto nervoso.
“Jean, comunque io so tutto.”, si ricordò in quel momento, notando che sia lui che Roman si girarono di scatto verso di lui e lo guardarono con un misto di shock e terrore.
William ghignò, afferrando la mano di una dama e baciandola elegantemente come segno di saluto. Adesso si doveva divertire.


 

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Capitolo 8
*** Amore che non si è saputo dare. ***


CAPITOLO OTTO.
Amore che non si è saputo dare.
 

"Lo spreco della vita si trova nell'amore che non si è saputo dare, nel potere che non si è saputo utilizzare, nell'egoistica prudenza che ci ha impedito di rischiare e che, evitandoci un dispiacere, ci ha fatto mancare la felicità.







Dopo quella che sembrò un'eternità, William smise di sorridere come uno psicopatico e diventò serio all'improvviso. Guardò suo fratello Jean e successivamente James e Lucille; se Roman avesse potuto sudare l'avrebbe fatto, mentre Jean sarebbe morto sul colpo per un infarto.
Tutti stavano aspettando una riposta, mentre i camerieri sgomberavano i rifiuti e ripulivano il tutto, aguzzando le orecchie per captare qualsiasi pettegolezzo, qualcosa di nuovo sulla nuova famiglia.
“Ti ho visto esagerare con lo champagne, fratello caro. Madre, punitelo, non sono cose che si fanno, avrebbe potuto rovinare la vostra festa!”
“Sei sempre il solito burlone, William. Andate nelle vostre stanze ora e fatevi una bella dormita. E' molto tardi.”, Camille li spinse tutti quanti verso le scale, afferrando Vladimir per il braccio, che continuava a mandare occhiatacce a William. Il solito, insomma.
Jean e Roman si guardarono per un momento, sollevati, mentre assieme agli altri fratelli salivano le scale. Lucille e James al capo della fila, Will ultimo e dietro tutti. Quando giunsero al piano di sopra, nel pianerottolo che divideva le varie camere da letto, tutti si fermarono, girandosi verso William che li aveva chiamati.
Appariva serio, mortalmente serio, come quando lo assaliva uno dei suoi momenti particolari di depressione e obbligo di far del male a se stesso. Tutti sapevano e conoscevano le manie di William e tutti si preoccupavano per lui, tranne Vladimir che lo odiava, perché erano una vera e propria famiglia dopo tutti quei secoli passati assieme. Quel legame era tutto ciò che avevano, tutto ciò che gli era rimasto, anche quando i ricordi apparivano non del tutto chiari.
“Io so tutto, tutto, Jean.”
“Che cosa sapresti, Will?!”, la voce di Jean appariva stridula e ansiosa. James e Lucille si guardarono negli occhi confusi e preoccupati.
“William, non mi sembra questo il momento di...”, Roman cercò di mettersi in mezzo per difendere il fratello, ma l'altro lo interruppe alzando una mano. C'era una strana luce nei suoi occhi, una luce che lo fece zittire e stare al suo posto, mentre Jean lo implorava di fare qualcosa, di placarlo in qualche modo, perché in quella casa c'erano troppe persone che avrebbero potuto sentire, in primis Vladimir e Camille.
“E sono deluso da te, Jean. Pensavo che... che nonostante tutto, tu ti fidassi di noi tre, che ci reputassi tuoi fratello e che ci amassi. Ne abbiamo passate così tante e a te non passa neanche per la mente di darci una simile notizia?”
“Will, ti prego, non è quello..”
“Abbiamo vissuto tanto tempo, Jean, credi che non ci siamo mai accorti del tuo modo di essere per quanto tu cercassi di nasconderlo? Tutti noi lo sapevamo, sapevamo tu fossi omosessuale da prima che tu te ne accorgessi e non ce n'è mai fregato niente! Sei una persona, una dannata persona, e quello è semplicemente un orientamento sessuale. Ti piacciono gli uomini? E allora? Non devi odiarti per questo, sei solo diverso dalla massa, ma sei un essere umano, sei nostro fratello e sei il solito Jean. E' vero che per questa società e questo secolo è una cosa improponibile, ma del resto tutto ciò che è diverso ha sempre spaventato l'uomo, soprattutto una cosa che va contro la morale religiosa e contro il loro stupido Dio, scusami James...”, fece una pausa solo per scusarsi con il biondo, facendo un sorriso imbarazzato. “Non dovresti odiarti, perché certamente noi non lo faremmo mai. E credimi, te lo dice un esperto, che ci sono ben altri modi per cui odiare se stessi, ma come si vive la sessualità non è uno di questi. Ti vogliamo bene, ti voglio bene e per te e tutte queste teste di cazzo farei qualsiasi cosa, persino uccidere la regina, se ne dovesse valere la vostra vita.”
“Will, tu sì che sai come stupire, sai? Era proprio di te, in realtà, che avevo paura. Tu sei così... instabile e nessuno sa mai come tu possa reagire ad una determinata situazione.”
Il biondo sorrise maliziosamente, il solito sbruffone era ritornato. “Sono pazzo, non instabile. E poi, se vogliamo dirla tutta, miei cari, anche io ho avuto le mie esperienze con lo stesso sesso.”
“Oh, ti prego, non ricominciare!”, Roman sbuffò, mentre James, Jean e William ridevano. La sola che non alzò un dito fu Lucille, che era rimasta come pietrificata a fissare il pazzo instabile che raccontava di quella famosa volta nella quale, talmente ubriaco e drogato, si sarebbe fatto convincere dalle avance di un famoso scrittore.
“Hai anche insinuato di essere entrato nelle grazie della regina Elisabetta, quando ella neanche ti salutava quando vi incontravate a palazzo!”, affermò James, sbottonandosi il primo bottone della camicia.
“Ero un dannato upir e il suo dannato amante, quando lei aveva chiaramente detto all'umanità di essere vergine e di non volersi maritare; inoltre tutti sapevano che non amasse quelli come noi, i succhia sangue. Sapete, non è stato facile, ma questo è il motivo per cui sono ricco.”
“Il motivo per cui tu sei ricco è perché Camille ti vuole troppo bene e fa qualsiasi cosa tu le chieda; se fosse stato per nostro padre, tu adesso saresti sotto dieci metri di terra e ti saresti già decomposto!”
“E forse sarebbe stata la cosa migliore per tutti quanti.”
All'improvviso tutti tacquero e si girarono verso Lucille che lo stava guardando. Aveva pronunciato quelle parole senza pensarci, le aveva semplicemente lasciate andare, senza mettersi un freno. Tutti la guardarono scioccati, mentre lei fissava Will, che semplicemente continuava a sorridere, quel solito ghigno irritante che faceva quando stava per dire una delle sue solite stupidaggini.
“Non siate così scioccati, fratelli cari, la nostra Lucille è semplicemente irritata dal fatto che io le abbia boicottato il primo bacio con quel pavone ricchissimo dalle piume d'oro.”
“Tu non capirai mai e non cambierai mai. Jean, domani noi due dobbiamo parlare. E a voi tutti, buonanotte.”




Quando Lucille varcò la soglia di camera sua c'era qualcosa di diverso; non nel modo in cui erano ordinati i mobili o le lenzuola, no quello era esattamente rimasto uguale, ma c'era un odore metallico, un odore che conosceva benissimo. Se aguzzava le orecchie poteva anche sentire un fiato. Umano. Un umano nascosto in camera sua, nella sua tana, nell'unico posto nel quale poteva essere se stessa.
La upir spalancò lo sguardo, rendendosi conto dell'enorme guaio nel quale si trovavano. La camera più vicina al pianerottolo, nel quale avevano discusso, era la sua... E se quell'essere avesse ascoltato tutta la loro conversazione, avvenuta non in toni contenuti, e spargesse la voce in giro? No, non voleva neanche pensare alla fine che avrebbero fatto, soprattutto cosa avrebbero fatto a Jean solo per il suo orientamento.
“Fatti avanti, umano, prima che ti trovi io e ti faccia veramente male. Noi upir odiamo quando la nostra tana viene occupata da un estraneo. Teniamo alla nostra privacy.”
Non se lo fece ripetere due volte che una ragazzina di circa sedici anni uscì da sotto il suo enorme letto a baldacchino. Tremava come una foglia, mentre Lucille la guardava con un sopracciglio sollevato e le braccia conserte al seno.
“Chi sei? E che cosa ci facevi nascosta sotto il mio letto, ragazzina?”
“Io... Avevo perso mia madre, signorina Nottern e la stavo cercando. Ma non l'ho trovata da nessuna parte e vi ho sentiti giungere allora...”
“Allora hai pensato di nasconderti, non è vero?”
“Sì, signora, scusatemi... Non volevo.”
“Ti sei nascosta nonostante mia madre, colei che vi ha generosamente pagati per il vostro servizio patetico, ti abbia espressamente detto che queste camere erano proibite per chiunque, persino per gli ospiti, figuriamoci per una pezzente come te!”
La ragazzina continuava a tremare e assieme a lei il suo labbro, che veniva ripetutamente morso per il nervosismo. Era ingenua, una ragazzetta inutile che non valeva le sue parole, ma poteva aver sentito tutto e non poteva certamente lasciarla andare così. Doveva farla fuori immediatamente e in quel momento ne aveva bisogno. Voleva liberare la bestia che era in lei.
“Che cosa hai udito della nostra conversazione?”
“Niente e anche se fosse non direi niente a nessuno!”
“Dimmi che cosa hai sentito, ragazzetta!”, Lucille le fu addosso in un momento, la spinse facendola cadere per terra.
“Niente, signorina, niente!”, la ragazzina cominciò a piangere, cercando di proteggersi con le mani dagli schiaffi della donna. Ma in quel momento entrarono nella stanza il resto dei Nottern, con indosso le vestaglie da notte, e guardarono la scena scioccati.
“Lucille, che succede?”
“Questa ragazzina ha sentito tutto! Dobbiamo ucciderla, non possiamo rischiare che apra la bocca con tutti!”
James le fu subito addosso, allontanandola dalla serva, prima che potesse fare qualcosa di avventato. “Lasciami stare, non mi toccare. Devo salvare Jean e devo salvare la famiglia!”
“Guardala, Lucille, guardala! Non c'è bisogno di arrivare a tanto. E' troppo spaventata, non parlerà.”
“Le persone come lei lo fanno, questa ragazzina per una dannata torta parlerà. Sarebbe capace di uccidere suo padre pur di mangiare!”, Lucille urlò, cercando ancora una volta di afferrare l'umana. Non bastarono le mani di Jean e James a fermarla. “Dobbiamo ucciderla, uccidiamola. William, dimmi che almeno tu la pensi come me!”
Will guardò prima sua sorella, poi la ragazzina rannicchiata in se stessa che piangeva, cercando di non guardare i brutti mostri che erano. Era minuta, aveva una bellezza elfica, con lineamenti delicati, pelle pallida e lentiggini sulle guance, che la rendevano indifesa come un cucciolo. A peggiorare il tutto erano le sue trecce color ebano, dalle quali erano sfuggite delle ciocche. Era una bambina spaventata, niente di più.
Lucille invece sembrava una pazza, un animale rabbioso pronto ad uccidere, desideroso di sangue, di vendetta, di qualcosa che certamente non l'avrebbe liberata. Non sarebbe servito a niente uccidere quella bambina.
Perciò prima che riuscisse a liberarsi, Will l'afferrò per le spalle, facendola girare verso di se e le spezzò il collo con un unico colpo. La bambina emanò un urlo, notando l'apparente cadavere della donna non toccare il suolo, ma venire afferrato dal suo stesso assassino e adagiata con una delicatezza tale nel suo enorme letto da sembrare un gesto troppo intimo da guardare.
“Vieni, ragazzina, mia sorella non ti farà più del male. Adesso sei sotto la mia responsabilità.”
“Will, ma cosa fai?”
La bambina non se lo fece ripetere due volte e raggiunse il bel ragazzo, afferrandogli la mano, stritolandola per la paura quasi. Preferiva il male minore.




Quando Lucille si risvegliò, era giorno; i raggi del solo filtravano attraverso le pesanti tende rosa e le toccavano il viso, producendole un leggero solletico sulla pelle. Aprì gli occhi, completamente rossi per la fame, e si guardò intorno tutta stordita e dolorante. Le faceva malissimo il collo, sentiva dolore, come se qualcuno glielo avesse spezzato violentemente; cosa che effettivamente era accaduta.
“Finalmente sei sveglia, Lucie. E' passato un certo Dorian Grey, avevate un appuntamento. Gli ho detto che avevi un pesante mal di testa, colpa del troppo champagne.”, James abbozzò un sorriso, ma non c'era la generosità e la dolcezza che di solito era sempre presente nel suo sguardo. Nascondeva qualcosa, un segreto che lo logorava dall'interno e che non lo lasciava mai senza pensieri nell'ultimo periodo. Non le aveva accennato mai di nulla, forse l'unico con cui si sfogava davvero era William, perché sapeva che nel suo stato attuale non poteva realmente sentirlo. Tutti custodivano segreti in quella famiglia e nessuno osava confidarsi con l'altro, tranne lei. “Che diavolo ti è preso ieri?”
“Nulla, che cosa prende a te piuttosto?”
“Nulla.”, James sospirò, sistemandosi la sua imbarazzante vestaglia celeste lucido. “Non reagisci mai in quel modo, soprattutto quando riguarda povere vite innocenti. Non è stato da te, quindi cosa c'è? Qualche problema con Will?”
Lucille sbuffò, afferrando la sua vestaglia rosa e indossandola. Si sedette sulla toeletta e afferrando la spazzola, cominciò a pettinarsi i bei e lunghi capelli senza nodi, perfetti. Qualcuno, sperava non William, le aveva tolto l'abito e fatto indossare la vestaglia. “Ci deve essere per forza qualcosa per farmi comportare così? C'è un motivo se ci chiamano Famiglia del Diavolo, James. ”
“Non sei più quella persona. Nessuno di noi lo è.”
“No, non tutti. William è esattamente com'era. E poi non capisco perché dobbiamo sempre renderlo presente nei nostri discorsi!”
“William finge. Tu non sai mentire.”
“Smettetela, dannazione, smettetela!”, sbottò all'improvviso, sbattendo la spazzola contro il pavimento con tanta forza che si spezzò in piccoli pezzetti. “Smettetela di dipingermi come una ragazzina innocente che ha bisogno di protezione. Il mio aspetto potrà anche trarre in inganno, ma non sono debole, non sono innocente e non necessito di essere protetta. Sono letale come lo siete tutti voi, anche Camille lo è. E la cosa divertente è che l'unico che l'ha capito è proprio Will.”
“Lo so, mi ricordo di cosa siete capaci voi due, ma non vedo questo cosa c'entri...”
“C'entra perché voi avete segreti e non mi dite mai niente, mi vedete ancora come una bambina innocente, ma sono una donna ora, una donna da molto tempo ormai. So affrontare le situazioni. Jean non mi dice niente, Roman se ne sta sempre in quel dannato laboratorio, Will mi odia e tu sei sempre lì a dipingere! Quindi te lo richiedo, dimmi qual è il vostro dannato problema!”
James sorrise, alzandosi dalla poltrona su cui era seduto e afferrando la sorella per le spalle, mentre si guardavano attraverso lo specchio. Tutta quella situazione le faceva rabbia e odiava tutti in quel momento, situazione aggravata dalla fame.
“Ti ho vista nascere e crescere, per me sarai sempre la mia sorellina indifesa e bisognosa di protezione ma...”
“Se devi dirmi una delle tue solite cose dolci, puoi anche andartene e...”
Ma la interruppe prima che lei avesse un'altra delle sue sfuriate, dicendole: “Ho chiesto alla mia fidanzata di sposarmi, ma lei ha rifiutato perché l'amore non è mai abbastanza.”
“Che cosa hai fatto? Che cosa ha detto?”, gli occhi rossi di Lucille scomparvero. I suoi bei occhi castani scintillavano ora per l'incredulità. “Dimmi chi è, raccontami tutto. Posso conoscerla?”
“No, Lucie, non puoi. E' fra i nostri nemici più grandi, appartiene alla Confraternita.”
La ragazza fu come se si fosse paralizzata per un momento, guardava il fratello attraverso lo specchio, senza azzardarsi a proferire parola.
“Ma ti sei completamente fuso il cervello? Dimmi, Will ti ha passato qualche sua droga?!”, urlò alla fine, girandosi e picchiandolo con sonori schiaffi.


Erano circa le undici del mattino, quando Charles ricevette il messaggio da parte di uno dei servitori dei Nottern. Era un semplice messaggio scritto a mano da parte di Jean, nel quale gli si chiedeva di raggiungere Hyde Park per fare una passeggiata all'aperto. E così, abbandonando sua sorella nel bel mezzo della colazione, si vestì di tutta fretta e afferrando il cilindro e il bastone, uscì di casa, correndo quasi ad Hyde Park.
Lo stava aspettando da circa dieci minuti e non faceva altro che controllare l'orologio da taschino circa ogni due secondi. Quando stava perdendo ormai tutte le speranze, lo vide camminare con passo molto incerto verso di lui.
Si rese conto di averlo sempre guardato di sera, al buio o semplicemente sotto le candele smorte, non l'aveva mai osservato sotto il sole, illuminato dalla vera luce divina e non aveva mai compreso a pieno la sua bellezza fino a quel momento. Era terribilmente pallido, anemico, fin troppo magro e freddo, tant'è che quando lo aveva stretto tra le braccia gli era parso di abbracciare uno scheletro. Ma in quel momento con i raggi del sole che sembravano baciare la sua pelle perfetta e i ricci d'ebano, non poté evitare di sentirsi turbato, a disagio, senza parole, confuso e profondamente innamorato di quell'essere perfetto e meraviglioso.
Era tutto ciò che desiderava in una persona e avrebbe potuto stare con lui per l'eternità; si fregava dei suoi complessi, della società, del lavoro e della moralità. Era convinto delle sue idee, era convinto di voler stare con quel ragazzo perché sapeva di rappresentare la sua felicità. Era apparso all'improvviso, si erano incontrati nel momento perfetto, anche se le circostanze erano delle peggiori, considerato che aveva dovuto pagarlo come una delle peggiori puttane per averlo. Era convinto, voleva conquistarlo, anche se ci sarebbero voluti settimane, mesi e anni, per Jean valeva la pena.
Si rendeva conto di essere molto precipitoso, frettoloso, che c'era la possibilità che Jean non lo volesse... Ma non gliene importava; il vero amore gli era letteralmente piombato davanti i piedi e lui non avrebbe sprecato la sua vita per senso del pudore.
“Buongiorno, Charles.”
“Buongiorno, Jean. Mi avete chiamato e io sono qui; ditemi cosa vi serve da me e cercherò di esaudire ogni vostro desiderio.”
“Mi volevo solamente scusare per il comportamento scortese che ho avuto ieri con voi... Non avrei dovuto trattarvi in modo talmente meschino.”
“Non preoccupatevi, da voi mi farei trattare peggio, se questo vi rende felice.”, Jean lo guardò, sospirando. “Scusatemi.”
“Ci ho pensato per tutta la notte, soprattutto dopo una chiacchierata con una persona di cui mi fido. Vorrei darvi una possibilità.”
“Per cosa?”
“Per... corteggiarmi.”, disse, così a bassa voce da sembrargli di non averlo udito. Charles sorrise come se gli avessero dato una delle notizie più liete e gli strinse la mano, scuotendola più volte.
“Aspettatevi un invito molto presto allora, singor Nottern.”
“Facciamo questa sera?”
“Dite sul serio?”
“Sì, sono serio come la morte.”
Charles gli regalò un altro sorriso e disse: “Manderò una carrozza a casa vostra alle otto, vestitevi elegante.”


Gli uomini erano chiusi nella vecchia fabbrica abbandonata, seduti intorno ad un lungo tavolo rotondo. Battevano i pugni contro il legno, mentre con voci gravi inneggiavano la Confraternita e il suo potere durato nei vari secoli. Erano tutti vestiti con mantelli neri che coprivano viso e gran parte del corpo.
Colui che si trovava a capo tavola si alzò e disse: “Cari fratelli, care sorelle, cari amici, la Famiglia del Diavolo è tornata. Londra sta per bruciare e se non facciamo qualcosa l'apocalisse sta per scoppiare. Dobbiamo eliminarli una volta per tutte quei maledetti diavoli.”

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Capitolo 9
*** Tempo e eternità. ***


CAPITOLO OTTO.

Tempo ed Eternità.

 

 

“Il tempo un pazzo che sparpaglia della polvere. E la vita, una Furia che butta fiamme.”

 

 

“Che cosa facciamo oggi, Charles?”, domandò Katherine, allacciandosi la vestaglia. Era molto magra e quando la stringeva a sé Charles poteva sentire le ossa attraverso la pelle, era come abbracciare uno scheletro. I capelli, ribelli e sciolti sulle spalle, erano tutti arruffati per il sonno, o almeno il fratello sperava fosse quella la motivazione.

“Io proprio niente. Ho un appuntamento con Jean Nottern questa sera. Lo porto a vedere una rappresentazione teatrale su Romeo e Giulietta.”, con mani abili si allacciò la camicia, guardando la sorella attraverso lo specchio della sua grande camera. Avevano prenotato un appartamento per un mese, tuttavia considerato la piega che avevano preso gli eventi, pensava di prolungare la sua permanenza in Inghilterra. Sorrise, pensandoci.

“Dici sul serio? Tu e il signor Nottern? Ci sei davvero riuscito e così facilmente?”, Katherine sembrava sinceramente stupida dall'intraprendenza del fratello; gli aveva più volte detto che non ce l'avrebbe fatta e invece...

“Mai sottovalutare la mia bellezza e i miei begli occhioni. Sarei capace anche di convincere William Nottern, cosa che tu evidentemente non sei riuscita a fare, sorellina cara.”

“E' proprio qui che ti sbagli di grosso, Char. William si è particolarmente interessato alle mie grazie, che lo hanno lasciato particolarmente soddisfatto.”, Katherine sorrise, raggiungendo il fratello per allacciargli il panciotto. “Allora possiamo riferirlo al Lupus Dei? Direi che la nostra parte sia stata rispettata.”

“No, non ancora. Jean ha accettato di uscire con me, questo è vero, ma è particolarmente insicuro e potrebbe cambiare idea da un momento all'altro. Non possiamo permetterci di deludere la confraternita.”

“Charles...”

“No, Katherine, ne vale della nostra vita. Non posso...”, Charles si passò le mani fra i capelli, cercando di pettinarseli alla meglio, considerato che avevano perso i loro pettini durante il viaggio.

“Rimandare ciò che va fatto non renderà la cosa migliore, fratellone. Lui non è Patrick, nessuno lo sarà mai.”

“Sì, lo so. Lui non è Patrick, nessuno lo sarà mai. È solo un succhia sangue, fa parte delle famiglie più potenti e pericolose di succhia sangue. Non li hanno soprannominati Famiglia del Diavolo per nulla, Katherine, dobbiamo stare molto attenti e soprattutto saper giocare le nostre carte. Non possiamo permetterci un altro sbaglio, soprattutto non io, ne vale della nostra vita e di quella della nostra famiglia.”

“Spero tu sappia ciò che fai, fratello, lo spero soprattutto per il tuo cuore facilmente manipolabile.”, la sorella gli sorrise, aggiustandogli il colletto della giacca e baciandogli teneramente una guancia, prima di tornare al suo posto e continuare con un argomento più leggero e frivolo. Tuttavia il cambio d'argomento non fu d'aiuto a Charles, poiché l'unica cosa a cui riusciva a pensare in quel momento era a Jean e a Patrick. Due facce della stessa medaglia, così differenti per certi aspetti, ma simili per altri.

 

 

Lucille aveva un appuntamento con il signor Grey, l'avrebbe portata a fare un giro in carrozza e successivamente a guardare un'allegra e leggera rappresentazione teatrale. Si era dimenticata la borsetta in camera sua, perciò risalì lentamente le scale, avendo cura del suo vestito viola, il più bello che aveva, perché Dorian era davvero un ragazzo delizioso e ci teneva a fare colpo e magari sistemarsi con lui.

Sorrise, ripensando a tutte le cose carine che le aveva detto l'altra notte, mentre le accarezzava con delicatezza la mano, proteggendola da occhi indiscreti. Un vero gentiluomo.

“Non sorridere troppo, Lucie, o ti cadranno le labbra.”

La ragazza si arrestò, sbuffando sonoramente dopo aver riconosciuto la fastidiosa ma sensuale voce. William il traditore che spezzava colli guardandoti negli occhi.

“E se tu continui a sparare cazzate, ti si scioglierà la lingua, Willy.”

“No, la mia lingua è preziosa. Non hai idea di quante donzelle ucciderebbero per averla.”

“Quante puttane, vorrai dire.”, nel tono della minore dei Nottern c'era disgusto. William le si era avvicinato all'improvviso e ora la guardava con un accenno di sorriso, mentre lei evitava accuratamente ogni contatto visivo.

“Come te. Non parlare con così tanto disgusto delle tue simili. Non rinnegare così il tuo passato, mia cara.”

“Io non rinnego il mio passato. So quello che sono e sono consapevole di quello che sono stata, non c'è bisogno che tu me lo ricorda sempre. Ero una puttana, ma lo facevo per dare da mangiare ai miei dannati figli, prima che Camille mi trasformasse e mi rendesse questo dannato upir che sono, prima che ammazzassi i miei dannati figli e il mio maledetto marito perché troppo affamata. In quello stesso istante ho smesso di essere una dannata puttana e diventata un dannato mostro che uccide, si nutre di sangue, un essere immondo. E poi ho imparato ad essere una dannata signora, perché Camille è sempre stata troppo occupata per prendersi cura di me. E quando finalmente tutto ciò che avevo fatto stava cominciando a diventare dannatamente lontano, quando finalmente stavo cominciando a dimenticare e adattarmi a diventare una dannata signora come si deve, sei arrivato tu, maledetto uomo pazzo, tu che con i tuoi maledetti libri, le stramaledettissime parole e i dannati baci innocenti sul dorso della mano; hai tirato fuori il mostro che per troppo tempo avevo cercato di nascondere. Sono stata tua moglie per un dannato anno, uno!, prima che tu mi facessi quasi uccidere da una stramaledetta congrega di streghe per puro divertimento. Tu e la tua dannata mente malata. So esattamente chi sono, William Nottern e non rimpiango assolutamente nulla di ciò che ero e di ciò che sono diventata, non rimpiango persino l'averti osato amare, perché so che dopo averti sperimentato una volta, mi è bastato per sempre e non commetterò mai più lo stesso errore, mai più. Tu sei pazzo, sei folle, sei squilibrato, non sei sano per me.”

“Diamo sempre la colpa a William perché è più facile. E' sempre stato questo il tuo stramaledetto motto, Lucille.”, il biondo era stato zitto per tutto il discorso della sorella, ascoltando pazientemente senza mai cercare di interromperla e soprattutto assumendo una espressione neutra. “Non vuoi semplicemente accettare il fatto di essere stata felice con me, con un pazzo squilibrato, che ti capiva, nonostante la sua pazzia, e riusciva a tirar fuori il tuo lato migliore, il tuo lato animalesco, il tuo lato fragile che solo lui riusciva ad amare, che ti amava con tutto se stesso, ma aveva capito che il suo amore non era sano per te. Così ha organizzato tutto quella farsa per farsi odiare, per allontanarsi, per salvarti, per cercare di donarti un futuro migliore rispetto a quello che avresti avuto con lui, molto vicino al suicidio, all'autodistruzione.”

“Che cosa... che cosa dici, Will?”

“Niente, volevo solo scusarmi con te per averti spezzato il collo e per aver salvato quella inutile ragazzina. Ti auguro buona giornata con quel tuo Dorian Grey.”, Will le sorrise, più che altro fu un accenno di sorriso, per poi andarsene, veloce come il vento per chissà dove. Lucille sbuffò, poggiandosi le mani all'altezza dello stomaco, cercando di alleviare quel disagio che provava, nonostante non respirasse da tempo. Era un meccanismo incondizionato che si portava dietro dai tempi passati e che mai si sarebbe del tutto tolta. All'improvviso suonò il campanello, ma chi c'era dall'altro lato aveva completamente perso il suo significato.

Come poteva competere una dolce margherita bianca con una potente, bellissima, spinosa e pericolosa rosa rossa?

 

 

 

 

 

Dorian Grey era un gentiluomo, un uomo bellissimo, acculturato e sapeva usare le parole per provocare del bene, non per ferire, come spesso faceva William.

Durante tutta la rappresentazione teatrale alla quale avevano assistito, le aveva tenuto la mano, accarezzandola gentilmente e sussurrandole qualcosa all'orecchio, qualche battuta, nei momenti morti, ricevendo diversi rimproveri dagli altri per le loro risate eccessivamente elevate.

“Sapete, mia cara Lucille, siete ogni giorno una piacevole scoperta. Vorrei conoscervi a fondo, ogni giorno, ogni ora, ogni secondo e comprendere l'essere straordinariamente complicato e stupendo che siete.”

Erano seduti sulla sua lussuosa carrozza, stretti l'uno vicina all'altra, mentre il veicolo percorreva velocemente le strade di Londra.

“Siete il primo uomo che me lo dice. Tutti gli uomini che hanno provato dell'interesse nei miei confronti fino ad ora, erano egoisti e pensavano solamente a loro stessi. Il loro amore era tossico e nessuno di loro ha mai voluto conoscermi realmente, tranne voi. Sento che con voi l'amore assumerà un'altra sfumatura, una dolce sfumatura, simile al miele dei vostri occhi.”

Dorian le sorrise, baciandole la mano piccola, nascosta dai guanti bianchi. Lui era vestito in modo molto semplice, notò Lucie, con abiti neri e panciotto rosso, al quale aveva coordinato il bastone dalla testa di rubino. Lei, invece, aveva optato per un vestito viola di varie sfumature, dalla scollatura non troppo provocante.

La carrozza di fermò davanti casa Nottern, illuminata per metà. Dorian si girò verso la ragazza, avvicinando il suo viso a quello della donzella. Si scambiarono un dolce bacio, quasi casto, prima che lui le dicesse: “So che cosa siete, voi e la vostra famiglia, signorina Lucille. Se mi farete l'onore di pranzare a casa mia domani, vi farò vedere ciò che sono io. Sono deciso a conquistarvi, signorina, e non mi importa quante sfide dovrò affrontare, perché due esseri come noi, simili su molti aspetti, non dovrebbero passare l'eternità da soli o in balia di un amore non corrisposto.”

“Che cosa significa tutto ciò, Dorian?”

“Vi verrà spiegato tutto domani, Lucille.”, il bell'uomo sorrise, rivelando una dentatura perfetta, mentre gli occhi scintillarono nel buio della notte. Il giovane uomo scese dalla carrozza, aiutando la sua bella accompagnatrice a fare lo stesso. La guardò, aggiustandole una ciocca sfuggita dalla acconciatura. “Fate sogni d'oro e sappiate che chiunque egli sia, non vi merita.”

 

 

 

“James, uccidimi!”, William era in preda alla collera più buia. Una delle ennesime crisi di pazzia lo aveva assalito dopo aver svuotato quasi tutta la collezione segreta di Vladimir in poche ore, si parlava di centocinquanta vini prelibati che aveva pagato un occhio della testa. Si era rifugiato nel salone dell'appartamento nuovo dei Nottern, quello in cui avevano dato la festa, dopo la litigata con Lucille e andava avanti così da ore. Non voleva vedere nessuno, solo James e ogni tanto borbottava un nome tra i vari sorseggi di assenzio, tra le altre cose.

Era completamente fuori di se e sembrava perso in un mondo parallelo, fatto di dolore, depressione, urla, fuoco e fiamme. Un posto che solo le persone maledette come lui conoscevano benissimo. Aveva preso la penna e un foglio bianco dopo tanto tempo e aveva scritto qualcosa, qualcosa privo di senso che continuava a leggere, avendo capito di essere completamente irrecuperabile e che non c'era nient'altro da fare per lui, maledetto essere vivente, piaga dell'umanità, essere senza amore, autodistruttivo e disastrato com'era.

“James, uccidimi, ti prego, se mi vuoi veramente bene, metti fine alle mie sofferenze.”, glielo aveva gridato innumerevoli volte quella sera, mentre lo guardava, in preda alle lacrime ed alle allucinazioni terribili. La vedeva dappertutto, era ovunque, anche quando non c'era, e gli diceva cose terribili, cose che sapeva di meritarsi, ma che non voleva ascoltare. Adesso, dopo ore passate a piangere e urlare, mentre suo fratello, il suo buono e fiducioso fratello, cercava di farlo calmare, abbracciandolo e parlandogli, ma non facendo l'unica cosa che doveva, si sentiva svuotato, senza energie, apatico nei momenti di felicità e depresso in tutti gli altri. Aveva cercato per troppo tempo di sconfiggere quel mostro che lo divorava dall'interno, cercando di far ridere gli altri, di essere allegro, spensierato e divertente, ma l'unica cosa che aveva ricevuto in cambio era un pungente sarcasmo che infastidiva continuamente la gente, anche chi lo conosceva ormai da secoli. Era questo il motivo per il quale lui era così e cercava di affogare quel maledetto mostro con l'alcol, l'oppio e ogni altro tipo di droga presente sulla terra, ma non era servito a nulla, anzi, aveva aumentato l'appetito del mostro, facendolo crescere a dismisura e facendolo potenziare. Il suo bisogno impellente di fare del male al mostro, o per lo meno, di farlo zittire, si era trasformato in bisogno viscerale di ferire se stesso. Era lui ad aver qualcosa di sbagliato nella testa, non c'era un mostro dentro di lui. Era pazzo, fuori di testa, diverso dalla gente e tutti se ne accorgevano. Qualsiasi cosa combinasse era diversa, inusuale, anticonformista nel modo sbagliato, le sue idee, il suo modo di parlare, di muoversi, di respirare.

Si odiava, oh se si odiava per questo. Spesso si domandava il perché fosse nato così, con questa passione per i libri, di sporcarsi le dita di inchiostro a causa della penna, per la sua voglia di vomitare parole su carta bianca, perché erano solo loro a capirlo realmente.

Le parole capivano, capivano sempre, ma erano le persone che sapevano usarle nel modo peggiore. La gente, quanto odiava la gente? Con la loro fretta, il loro giudicare, il loro essere maledettamente falsi e con il loro maledetto Dio. Dov'era? Che cosa faceva? Perché non interveniva, se sosteneva di essere così buono, nell'aiutare loro povero gregge sperduto? Perché gli aveva sempre voltato le spalle e perché lo aveva reso così?

“Will, ti prego, non fare così...”, nella voce di James c'era il terrore. Non sapeva come comportarsi, come prenderlo quando aveva queste brutte crisi.

“Voglio lei, voglio Lucille...”

“Sai che non potete stare insieme, Will.”, James gli si avvicinò, gettandogli le braccia al collo e abbracciandolo stretto, trasmettendogli tutto il suo amore, tutto ciò che poteva dargli in quel momento.

“La voglio adesso. Posso amarla io per entrambi, ma mi basta che lei sia qui, al mio fianco e tutto il dolore passerà. Lucille e James sono la mia medicina.”

“Sono James, fratello, sono io. Non mi riconosci?”

James provò a guardarlo, ma non era in lui. Aveva perso quella poca lucidità che fino a quel momento lo aveva fatto urlare. Lo fece stendere sul divano, accarezzandogli i capelli biondi.

“Sapete, signore, sono le uniche persone dalle quali mi sono fatto amare e che mi accettano per quello che sono. Non hanno fatto domande, mai, mi hanno solamente amato e io ho un gran bisogno di amore adesso. Potrà sembrare patetico, ma è l'unica cosa di cui gli esseri di questa terra sono capaci. Voglio la mia Lucille, la mia Lucille che ho perso per salvarla da me stesso, e James, il mio fratellone che non mi odierà mai, che mi seguirebbe in capo al mondo. Portatemeli, vi prego, fatemeli vedere un'ultima volta e potrò morire in pace.”

“Oh, Will...”, James sospirò, trattenendo le lacrime. Gli faceva terribilmente male vederlo così.

“Bene, se proprio vuoi morire, ti ucciderò io con piacere, William.”, Vladimir e gli altri dei Nottern erano comparsi all'improvviso. Il capo famiglia aveva un'aria parecchio incazzata.

 

 

 

ED ECCOCI QUI!

Cosa pensate di questo capitolo? Vi è piaciuto, avete pareri, dubbi da esprimere su Dorian e Charles? Cosa credete che succederà con Will? Il mio povero cuore si strugge d'amore per lui.

Fatemi sapere e nel frattempo, in attesa di un prossimo aggiornamento, andate a guardare il book trailer della storia che ho realizzato! Vi lascio il link: https://www.youtube.com/watch?v=txbYV7j1gNc

Alla prossima belli!

 

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Capitolo 10
*** Chiodo arrugginito. ***


CAPITOLO NOVE.
Chiodo arrugginito.

 

Io lo amo più di me stessa, Ellen; e lo so da questo: tutte le sere io prego di potergli sopravvivere, perché preferirei essere infelice io, piuttosto che saperlo infelice. È la prova che l'amo più di me stessa.”
(Tratto da Cime Tempestose.)



Vladimir non esitò ad agire. Considerato che era il più vecchio e il più potente fra tutti i presenti, a nessuno fu possibile fermarlo prima che impalasse letteralmente al muro il povero ed ubriaco William. Per la potenza dell'impatto caddero tutti i quadri appesi alla parete e si formò una crepa abbastanza profonda, il ragazzo era praticamente incastrato tra Vladimir e il muro e non gli era possibile muoversi in alcun modo.
Il padre di famiglia aveva staccato la gamba del pianoforte a coda nero, presente nel salone e gliela aveva direttamente conficcata nell'addome, poco sotto il cuore. Se un caso o volontario, solo lui lo sapeva.
William vomitava sangue, scosso dalle risa e dalla leggerezza che le droghe e l'ubriacatura gli stavano provocando. I bei vestiti di alta sartoria italiana si erano definitivamente macchiati di sangue, il quale poco alla volta e con il suo odore metallico aveva risvegliato i sensi del resto della famiglia, troppo scioccati per reagire, per anche solo pensare di fermarli. Nessuno aveva mai realmente pensato che quei due arrivassero a quel punto; certo Vladimir gli aveva dato la caccia per un bel po' di secoli, dopo aver scoperto della relazione tra lui e Lucille, ma non era mai arrivato ad impalarlo, mai davanti a Camille e Lucille.
Camille piangeva sangue, nascondendosi dietro Roman che la stringeva a sé, come per proteggerla, ma la paura dai suoi occhi era lampante, nonostante stesse cercando di fare l'uomo forte e nella stessa identica situazione erano Jean e James. L'unica a non provare niente era Lucille, che se ne stava lì, a guardare con un accenno di sorriso.
“Dai, padre, uccidimi. Fallo, so che non aspetti altro. Uccidimi! Perché se non lo fai oggi, lo farò io e toglierò tutto il gusto di vedermi morire lentamente e agonizzante.”
“Smettila di fare lo sbruffone, William Nottern e smettila di prendermi per il culo. Tu non vuoi realmente morire e questi sono solo vaneggiamenti di uno stupido ubriaco, drogato di poesia da quattro soldi.”
“Mio caro Vlad, quella che assumo non è di certo poesia, ma ha diversi nomi. Se vuoi ti faccio provare, ti aiuterà ad essere più rilassato e magari riuscirai a soddisfare Camille, non deve essere facile vivere così a lungo. Non ha delle ripercussioni sul tuo Vladirino?”, Will ghignò, mostrando le zanne, sapendo che bastava un nonnulla per farlo alterare. Infatti, l'uomo ringhiò, spingendo ancora più in profondità il pezzo di pianoforte, inclinandolo leggermente all'insù. Will sentì la punta toccare la parte inferiore del cuore e questo servì a farlo gridare e vomitare altro sangue.
“Fermati, papà, fermati! Non è il caso che tu lo faccia adesso. È completamente fatto, non capisce ciò che dice e non ha il controllo delle proprie azioni. Aspetta, aspetta ancora un po' e potrai ucciderlo o ferirlo quando potrà difendersi. Adesso non c'è gusto, non trovi?”, disse Lucille, sedendosi sul divanetto da dove era stato prelevato William. Afferrò una delle bottiglie semivuote e portandosela alla bocca, nascose un ghigno crudele.
“Non la ascoltare. Lei prova ancora qualcosa per me e vuole difendermi! Le donne pensano con il cuore e non con la mente, sai che sono il sesso debole e...”, ma prima che avesse il tempo di terminare la frase e vomitare altro sangue, Lucille gli fu addosso e gli spezzò il collo in un unico e secco colpo. Vladimir estrasse il paletto di pianoforte, buttandolo per terra e si girò verso la unica figlia, guardandola con orgoglio.
“E' solo un idiota, papà, non vale la pena sprecare il proprio fiato con lui.”
“La prossima volta lo faccio secco.”, borbottò il padre, pulendosi di tutto il sangue sulla giacca e dirigendosi verso la moglie, che lo guardava con disapprovazione e si rifiutava di parlargli. “Andiamo, Camille, stavamo solo giocando. Sai che non farei mai del male a William.”
“E voi quello lo chiamate giocare? E' quasi morto, Vladimir, è quasi morto davanti ai miei occhi. Tu non hai idea di che cosa voglia dire perdere un figlio! Non lo fare mai più, mai più!”, Camille gesticolava animatamente, colpendo il marito sul petto, quando cercava di avvicinarsi. I due uscirono dalla stanza per discutere e rimasero solamente un Roman e un Jean sconvolti, un James deluso, una Lucille triste e un William con il collo spezzato e dissanguato.
“Lucille, che cosa ti è preso?”, chiese Roman, cercando di dirigersi dal fratello in condizioni pessime abbandonato al suolo, solo, depresso e senza nessuno in grado di difenderlo.
“Non muovetevi. Me la vedo io, andatevene e lasciatemi sola con lui. Non devo spiegazioni a nessuno, soprattutto a voi due. Lo porto io nella sua camera.”
“Ma...”, azzardò Jean.
“Andatevene!”, Lucille mostrò le zanne, facendo intuire ai suoi fratelli di essere arrabbiata e quelli, senza indugiare ancora un attimo, uscirono. Il primo fu James.
La ragazza si sedette per terra, scalciando le scarpe col tacco per essere più libera e prese in grembo il corpo tutto sanguinante del fratello, di William.
Lo guardò, spostandogli i lunghi capelli dal viso e carezzandogli delicatamente le guance. “Cosa non farei per te, William? Mi tratti sempre male e io sono sempre lì a cercare di salvarti quella maledetta testa malata e pazza. Dorian ha ragione, tu non mi meriti, come potresti? Tu non meriti nessuno. Eppure, nonostante io ne sia consapevole, nonostante io sappia che cosa è meglio per te, continuo a fremere ogni volta che mi parli, ogni volta che mi tocchi, ogni volta che mi sfiori, come se fosse la prima volta. Che cosa dovrei fare? Andarmene e lasciarti per sempre, non ritornare più? Non riuscirei a farlo, perché noi due siamo stati legati da un filo invisibile che se troppo teso, ci riporterà sempre l'uno dall'altra. Non si spezzerà mai. Persino litigare con te mi dà gioia, mi fa sentire me stessa.”, Lucille sospirò, baciandogli le belle labbra rosse per il sangue e sporcandosi anch'ella. “Se questo è amore, la vera pazzia cosa sarà mai? Dimmi, mio amore, quando proverai qualcosa di vero per me? Quando sarai pronto ad amarmi come ti amo io? Mai, non è vero? Beh, fai come ti pare, io andrò avanti e cercherò di essere felice con Dorian, lui saprà valorizzarmi e certamente non mi tradirà con la prima che capita. ”
Ma ella non ricevette risposta, solo il cupo ed soprannaturale silenzio della casa.


“Contento che voi siate venuta, signorina. Siete meravigliosa come sempre. Mi stupisco come voi possiate esserlo ogni giorno di più.”, Dorian le prese la mano, baciandogliela leggermente dopo che l'aveva aiutata a scendere. Come promesso una carrozza era venuta a prenderla puntuale e portarla all'appuntamento, ovvero a casa di Dorian. Un enorme palazzo vittoriano scuro e cupo, ma con un fascino particolare. All'entrata erano stati posizionati due vasi di rose rosse, di un colore quasi innaturale e dalle spine letali.
La fece accomodare, aiutandola a sedersi sulla sedia. Il grande salone era spoglio, se non fosse stato per l'enorme tavolo apparecchiato per due con un sacco di prelibatezze, che lei non avrebbe potuto mangiare. Stranamente lei e la sua famiglia odiavano consumare cibo normale, oltre a quello di cui avevano bisogno per sopravvivere. Solamente l'alcol sembrava essere gradito al loro organismo, quasi fosse uno strano scherzo del destino. I due ragazzi sedevano troppo lontani l'uno dall'altra e la conversazione, in quel momento, non era così semplice come lo era stato le volte precedenti. C'era qualcosa che la bloccava, probabilmente la rivelazione che lui le aveva fatto, il comportamento di William... Era troppo doloroso vederlo ridotto così ogni volta, le doleva il cuore, ma era troppo egoista per ucciderlo, per fare ciò che chiedeva. Come avrebbe fatto a vivere senza di lui, una parte del suo cuore, una parte della sua anima, una parte di lei, se lui se ne fosse andato? Era fatta di William per metà. Solo il pensiero le faceva così male da piegarla in due dal dolore. Così come a pensare di vivere anche solo un giorno senza James. Sarebbe morta, si sarebbe uccisa lei piuttosto.
“Che cosa volete da me, Dorian?”
“Sposarvi.”
“Come, prego?”
“Ci conosciamo da poco, non mi sento pronta a sposarvi.”
“Vorreste per caso sposare un brutto uomo più grande di voi di dieci anni e passare una infelice vita con lui solamente perché, in questo modo, fareste felice la vostra famiglia?”
“Certo che no, che orrore! La mia famiglia non farebbe mai una cosa del genere.”
“Allora forse state ancora sperando che quell'uomo a cui avete dato il cuore e a cui pensate tutt'ora vi possa chiedere la mano?”, Dorian sorrise, portandosi il bicchiere alla bocca.
“Non c'è nessun ragazzo, Dorian.”
“Allora siete libera di sposarmi.”
“Dovete chiederlo alla mia famiglia, a mio padre...”
“O a vostro fratello?”
“Come, scusate?”, Lucille lo guardò, non sapendo che cosa dire. Non poteva sapere di Will.
“Sì, insomma, siete la più piccola della famiglia. E' normale che i vostri fratelli si preoccupino per voi. Siete una donna e come tale andate protetta.”
Lucille alzò un sopracciglio, guardandolo contrariata e infastidita. “Protetta? Non sono un bestiame che deve essere protetto dai lupi. Mio fratello non mi protegge perché sono perfettamente in grado di proteggermi da sola.”
“Non sarete una di quelle ridicole donne che creano disordini, indossano vestiti maschili e chiedono stessi diritti di noi uomini?”
“Non lo so, potrei? E anche se fosse, uomini e donne non sono diversi.”
“Certo che lo sono. Voi siete il sesso debole, dovete pensare alle cose frivole. A noi la politica e il comandare il paese.”
“Basta così, Dorian! Non intendo ascoltare oltre. Quando vi sarete calmato, allora potrete cercare di riacquistare la mia stima. Altrimenti per me voi avete smesso di esistere.”
“Ma Lucille...”
“Non una parola!”, la ragazza si alzò dal tavolo e senza aggiungere altro, raccolse le gonne e uscì dalla casa, ignorando la voce di Dorian, che le sembrava solamente fastidiosa.






Era molto arrabbiata perciò si recò dall'unica persona in grado di calmarla. Roman si trovava nel suo laboratorio, che occupava tutto il sotterraneo della vecchia e macabra tenuta dei Nottern; lavorava a qualche diavoleria che solo lui riusciva a comprendere, mentre la ragazzina che aveva trovato ad origliare nella sua stanza era seduta al suo fianco e lo guardava lavorare con ammirazione, non perdendosi neanche una mossa.
Adesso nei suoi confronti provava solamente indifferenza e non le interessava minimamente, era semplicemente un insignificante insetto che suo fratello aveva preso sotto la sua protezione, stranamente. Roman era sempre stato un po' strambo, a dire il vero, ma era un ottimo ascoltatore e con la sua voce profonda e l'aspetto da vichingo possente riusciva sempre a metterla a suo agio.
“Ciao, fratellone. Cosa fai?”, Lucille gli andò incontro abbracciandoselo stretto, sotto lo sguardo impaurito della ragazzina che si torturava le mani, in preda al panico. La upir la guardò, squadrandola da capo a piedi. “Da quanto tempo indossi lo stesso abito?”
“Una... una settimana signora...”
“Lucie, non la spaventare. E' mia amica.”, la rimproverò Roman, dandole un bacio sulla fronte.
“Sono calma e disponibile. Le stavo per offrire due dei miei abiti, considerato che resterà per molto tempo con noi e visto che tu non me la vuoi regalare.”
“E' solo una bambina.”
“Lo siamo stati tutti. Ad ogni modo, ti piacerebbero o no?!”
La ragazzina annuì, deglutendo. “Sì, vi ringrazio.”
“Bene, vai nelle mie stanze, che conosci alla perfezione, cerca e prendi quello che vuoi nel baule rosso sotto il letto. Se vuoi prendilo tutto, sono abiti che non indosso più.”, vedendo che la ragazza non si muoveva, alzò il sopracciglio, facendo un cenno infastidito con la mano. “Corri, prima che cambi idea!”
Guardò i due, prima di ricevere l'approvazione di Roman e correre via, diretta al piano di sopra. Chiunque avesse incontrato non le avrebbe fatto niente, sapevano fosse sotto protezione di Roman.
Lucille si sedette al posto della ragazzina, poggiando i gomiti sul tavolo e prendendosi il viso fra le mani. Guardò il fratello lavorare con quegli oggetti, fatti di fili e oggetti metallici. Non chiese di cosa si trattasse, non le interessava e comunque non avrebbe capito. La tecnologia non era tra i suoi passatempi preferiti.
“Che cosa succede, Lucille? Non vieni mai a trovarmi qua giù se non per parlarmi. E devo supporre che sia lo stesso motivo che affligge Will. Siete sempre l'uno il tormento dell'altra.”
Nel sentir pronunciare il suo nome, la donna ebbe un colpo al cuore, come se qualcuno le avesse fatto penetrare un vecchio chiodo arrugginito più in profondità. Era questa la metafora più adatta a descrivere cosa erano e com'era il loro rapporto. Erano l'uno il chiodo arrugginito dell'altra e qualunque cosa facessero, qualsiasi parola detta, uno sguardo apparentemente casuale, lo sfiorarsi nello spazio angusto della carrozza, facevano sì che questo chiodo penetrasse sempre più in profondità, aumentando il dolore e il loro amore. Binomio onnipresente nel loro rapporto.
Erano l'uno l'anima dell'altra, come Catherine e Heathcliff di Cime Tempestose, e senza anima non si poteva vivere, la vita non aveva senso, anche se tormentata e senza la possibilità di amarsi.
“Che cosa voleva?”
“Parlare...”
“E non puoi dirmi di che cosa?”
Roman scosse la testa abbozzando un sorriso. “Venite da me e io mantengo i vostri segreti. E' la regola. Di che cosa vuoi parlarmi, Lucille?”
“Di lui, di William.”
“Che cosa ti ha fatto, questa volta?”
“Niente, lui non ha fatto niente. E' questo il problema. Lui si culla nella sua tristezza e nel desiderio di morire, è infelice e io non posso far niente per tirarlo su. L'amo più di me stessa e non so come io abbia fatto a non urlare e uccidere nostro padre all'istante questa sera. Vederlo infelice, rende me infelice. Siamo collegati, Roman. E io lo amo più di me stessa, lo amerò sempre più di me stessa.”
“Allora perché non vai da lui e glielo dici? Perché non ti apri con lui e gli dici quello che provi?”
“Perché tutto è contro di noi. Il mondo, Vladimir, la sua pazzia e lui. Mi ha fatto quasi uccidere per puro divertimento. Non è facile amare William Nottern, Roman. Lui ti consuma, ti porta a livelli che neanche immagini; un attimo prima tocchi il paradiso e quello dopo sei all'inferno a bruciare tra le fiamme. L'amore di Will è tossico, è pazzia.”, Lucille sbuffò, non riuscendo a fermarsi dal pensare a quel breve periodo in cui erano stati felici, sposati e normali. Le sue carezze, le sue lettere, il suo amore, i suoi baci.
“E allora smetti semplicemente di amarlo, fuggi, sposati con quel Dorian Grey e non ritornare più.”
“E' un idiota.”
“Non è Will.”, disse Roman, ridacchiando.
“Non è Will. Cosa posso fare allora?”
“Vattene e non ritornare più o amalo e fatti consumare.”
“Non posso andarmene. Non sopporterei di venire a scoprire della sua morte. L'unico motivo per il quale è ancora vivo sono io.”
Aveva tanta voglia di piangere, tanta voglia, ma non poteva permetterselo.
“Io credo che con te, dopo questa brutta depressione e infelicità, diversa da tutte le altre, lui riuscirebbe ad uscirne e ad essere felice. Sarete felici un giorno, dovete solo trovare il coraggio di amarvi e di eliminare questa paura di ferirvi. Comincia con piccoli passi, va da lui e stagli affianco. Ha bisogno di te, James poveretto non ce la fa più.”
Lucille ci pensò su seriamente, cercando di immaginare un'altra possibilità, una vita assieme a lui. Vide loro, rintanati in una piccola isola sperduta nell'oceano, vestiti di bianco e felici ogni giorno della loro vita, senza mai litigare, senza mai essere l'uno il tormento dell'altra... Ma quanto poteva durare questa loro felicità? Un secolo massimo e poi cosa? Chi si sarebbe ucciso prima, chi sarebbe stato consumato dalla fiamma del loro amore fuori di testa?
“Ho deciso cosa fare.”




Bussò alla porta scura, aspettando qualche attimo prima che il proprietario venisse ad aprirle. Dorian era in vestaglia e fu sorpreso di vederla lì, dopo la sfuriata che aveva avuto. Se si fosse trovata in un'altra circostanza, probabilmente lo sarebbe stata anche lei.
“Lucille, mi dovete scusare per prima e...”
“Fate parlare me ora, Dorian.”, Lucille lo zittì, poggiandogli la mano sulle labbra. “Io odio le persone che pensano che le donne siano semplice merce, semplici trofei, il sesso debole, come lei ci ha definite. Siamo in grado, e abbiamo dimostrato ampiamente, di essere all'altezza di voi uomini in tutto e per tutto. Se vorrete avere la mia mano, l'avrete, ma a costo che io non vi senta parlare così in mia presenza, altrimenti renderò la vostra vita impossibile. Siamo d'accordo?”
“Sì, cercherò di rispettare il vostro volere, Lucille.”, Dorian sorrise, facendosi da parte e facendola entrare. “Entrate, prego.”
La ragazza gli afferrò il viso, stampandogli un bacio sulle labbra, prima di seguirlo nella sua futura casa.

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Capitolo 11
*** Sfortuna maledetta. ***


CAPITOLO DIECI.
Sfortuna maldetta.
 



“E' ora di ubriacarsi! Per non essere gli schiavi martirizzati del Tempo, ubriacatevi, ubriacatevi sempre! Di vino, di poesia o di virtù, come vi pare.”

Charles Baudelaire.








Udiva le rumorose campane dell'abbazia di Westminster suonare, attirando l'attenzione della gente. Non si era badato a spese per realizzare il matrimonio della piccola di famiglia, l'unica donna, tra i figli, e la più coccolata. Non si faceva altro che vociferare chi sarebbe stato invitato, come sarebbe stato il suo abito da sposa e il perché di un matrimonio così improvviso; si pensava addirittura ad una imprevista gravidanza della piccola Nottern ed ecco spiegato il motivo di quel matrimonio, ma quelle erano solo malelingue invidiose e gelose del rampollo che Lucille era riuscita ad accalappiare. Dorian Grey, fra gli uomini più belli e ricchi dell'Inghilterra. Questo era il matrimonio del secolo al quale, ovviamente nel ruolo di parente stretta dei Nottern, anche la regina Vittoria in persona avrebbe partecipato.

L'abbazia era stata adeguatamente decorata con tappeti rossi che accompagnavano gli ospiti fino alle carrozze, fiori, colombe bianche e nastrini decorativi. Tutti gli invitati erano arrivati in gran anticipo e tra di loro erano presenti anche giornalisti che avrebbero dovuto documentare il tutto nei minimi dettagli per chi non era stato invitato; tutti quanti erano sistemati nei posti assegnati e la regina, ovviamente, in prima fila accanto a Vladimir e Camille, la quale sembrava molto affiatata con sua maestà e non faceva altro che farla ridere e gran voce.

Lo sposo, invece, era sistemato davanti l'altare e continuava a guardare l'orologio da taschino nascosto nel panciotto celeste chiaro, che lo faceva risultare un angelo sceso dal cielo, mentre i fratelli, vestiti tutti di bianco, erano uno più mozzafiato dell'altro e parlottavano tra di loro. C'era persino una ragazzina che avevano accolto in casa loro, vestita di tutto punto, e seduta vicino a Roman. Jean conversava con un amico gentiluomo americano, anche se ad occhi più esperti si trattava di qualcosa di più, dal modo in cui si osservavano, si sfioravano e si sorridevano. James guardava fisso davanti a sé, sembrava stesse pregando per quanto era serio e concentrato; del suo gemello non c'era traccia, ma a nessuno importava di lui ora, considerato che tutti aspettavano l'arrivo della bellissima Lucille.

Per quanto riguarda l'abito era di ottima sartoria francese color panna, stretto in vita e con una gonna grande e in pizzo, decorata con fiorellini.




William bussò alla porta dietro la quale avevano nascosto la sposa, prima della sua entrata trionfale. Udì un flebile segno d'assenso ed entrò nella stanza, trovandovi suo padre Vladimir che guardava la figlia con un mezzo sorriso d'orgoglio. Era sempre meraviglioso vederla sposare in qualsiasi epoca, sapeva essere bellissima con qualsiasi pezzo di stoffa addosso.

Lucille si stava specchiando quando lui entrò. I loro sguardi si incontrarono per un momento brevissimo ma intenso, poiché Vladimir grugnì sonoramente, facendo distogliere loro l'attenzione l'una dall'altro. Lucille fece finta di sistemarsi le pieghe invisibili dell'enorme gonna bianca in pizzo, mentre William si rivolse al padre.

“La regina ti cercava. Voleva parlare con te prima della cerimonia, mi ha detto di venire a chiamarti, poiché è importante. Riguarda questioni di vita o di morte.”

Vladimir sbuffò, guardando prima lui e poi la figlia, non volendo lasciarli da soli. “Torno subito. Non farla piangere William, altrimenti assaggerai un mio pugno sonoro che ti deturperà quel bel faccino per qualche secolo.”

Uscì senza aggiungere altro e il silenzio calò nella stanza. Lucille aveva smesso di muoversi e guardava Will attraverso lo specchio, sembrava avesse gli occhi lucidi.

“Sei bellissima. Togli il fiato.”

“Grazie, Will.”

La studiò per un po', non riuscendosi a dissetare della sua presenza. Era come dargli del sangue quando era arrabbiato o depresso, non ne aveva mai abbastanza a costo di prosciugare tutta l'umanità.

“Come ti senti?”, continuava a restare dietro di lei, a pochi millimetri di distanza. Sentiva i suoi capelli solleticargli il volto, il suo profumo lo drogava... Tutto la mandava fuori di testa, voleva solo cedere a quell'istinto animalesco, afferrarla per le spalle, girarla e tenerla stretta fra le braccia, abbracciarla e bearsi di lei fino alla fine del mondo, dell'universo, fino a scomparire, fino alla morte.

“Come dovrei sentirmi?”

“Stai per sposarti.”

“L'ho già fatto altre volte. E' un giorno importante per lui, non per me. Si tratta di uno dei tanti per me.”

“Lo ami?”

“Ha importanza?”

“Ne dipende il mondo dalla tua risposta.”

“Come dovrei rispondere allora?”

“Con la verità.”

“La verità fa male.”

“Le bugie fanno male, la verità ti squarcia il cuore teneramente. Ma io voglio saperla.”, Will la guardò e i suoi occhi non erano mai stati più azzurri di quel momento. Una lacrima cadde sulla guancia di Lucille, la lasciò scivolare lentamente sulla pelle pallida. “Perché piangi?”

“Le spose piangono, è normale.”

“Quindi sei felice?”

“Lo sarò, prima o poi.”

Will abbassò lo sguardo, ma non azzardò a dire ciò che stava pensando. Lucille si voltò, quando un'altra lacrima le cadde sulla guancia. Lo guardava, ma lui non voleva farlo.

“Non lo sposare, Lucille. Sei ancora in tempo.”

“E' un buon partito.”

“Ne troveremo un altro. Un altro che amerai e che ti amerà.”

“Non esiste un altro che amerò, William. Tu sei stato l'ultimo.”

“Tu sei stata l'unica e lo sarai sempre.”, Will le accarezzò una guancia con la punta delle dita e lei chiuse gli occhi, versando altre lacrime. Sentiva il cuore esplodergli di tristezza e d'amore. Due sentimenti che lo accompagnavano da troppo tempo e che lo avrebbero gettato direttamente fra le braccia della morte.

“Arrivi sempre troppo tardi.”

“Sono uno stronzo ritardatario, dovresti saperlo.”, Will sorrise, liberandosi di quel peso e affermando apertamente ciò che gli frullava per la testa dal primo giorno in cui l'aveva vista tanti secoli prima. “Sono uno stronzo che ti ama e che ti amerà sempre, qualsiasi cosa accada e qualsiasi cosa ti dirò io o farò, ti amerò sempre di più. Ma tu, mia bellissima e dolce Lucille, non puoi stare con me, perché ti distruggerei come hai già detto.”

Lei piangeva e si lasciava accarezzare dalle sue mani gentili e fredde e dalle sue parole dolci e sincere.

“Non ti dirò di lasciarlo per me. Non lo farai, perché hai scelto lui per fuggire dai tuoi sentimenti e hai fatto la cosa migliore. L'amore non è mai abbastanza per un Nottern, non risolve le cose, non ci sono finali felici.”

“No, direi proprio che non ci siano.”, Lucille sorrise, asciugandosi le lacrime e guardandolo con gli occhi rossi per il pianto. “Baciami per l'ultima volta e dimmi addio William Nottern.”

“Non sarò mai pronto per dirti addio. Non quando sei così bella davanti ai miei occhi e mi dici di baciarti così apertamente.”

“Non sono mai stata timida con te, Will.”, lei si alzò sulle punta dei piedi, gli mise le mani intorno al collo, mentre lui la strinse per il bacino; si guardarono, ma le loro labbra si sfiorarono prima che qualcuno bussasse alla porta e gli interrompesse. Era uno dei chierichetti, dovevano dare inizio. Infatti si udiva l'organo suonare e inondare tutta la chiesa.

Si guardarono e sospirarono, lasciandosi andare quando Vladimir li raggiunse. Will afferrò il velo e glielo poggiò sul capo, delicatamente, ma prima di abbassarlo la baciò velocemente sulla guancia. Bastò quel gesto per incendiargli le labbra e mandarlo fuori di testa. La sua tristezza venne sparpagliata per tutto il suo essere e all'improvviso non vi rimase più nulla. Un inutile ammasso di carne, ossa, maledizione e pazzia.

“Ci vediamo di là, Lucille.”, le disse gentilmente. Lei annuì, afferrò il braccio di Vlad e uscì dalla stanza a testa alta e leggermente emozionata. Non si girò e lui sperò che non lo facesse.

William la guardò arrivare fino all'altare, venire baciata sia dal padre che dal futuro marito e inginocchiarsi davanti al Signore.

Decise di andarsene, non restava mai alla cerimonia. Preferiva una bella bugia, ad una verità che ora gli stava squarciando il cuore lentamente.







Camminò a lungo, non concentrandosi sui suoi passi e lasciando che la sua mente pensasse liberamente. Alla bocca aveva una pipa con del tabacco scadente al suo interno che gli bruciava la gola in modo delizioso. Prima di essersene reso conto si era ritrovato nella vecchia tenuta dei Nottern, immensa e spaventosa al tempo stesso, che sembrava raschiare il cielo con le sue enormi e tetre torrette. Entrò, non avevano bisogno della chiave, e vi trovò cinque corpi in stato di decomposizione, tutti dissanguati. Riconobbe il suo profumo anche in mezzo a quella puzza pestilenziale e provò invidia per quei corpi senz'anima, priva di vita, con gli occhi che venivano mangiati da scarafaggi e vermi, pallidi come solo un corpo morto sapeva essere, un cadavere che una volta era stato qualcuno ma che ora era solo nessuno.

Li guardò e si guardò e provò invidia per loro, perché lui non poteva morire, poteva solo vivere e soffrire per l'eternità. Sì, era stato bello per due secoli, ma ormai era diventata una inutile routine. Gli uomini erano stupidi con le loro guerre, i loro soldi, la loro malvagità e la loro avarizia, uccidevano i loro simili per sport, per terre che non appartenevano a nessuno, terre che erano di tutti... Gli uomini erano monotoni, tutti uguali e più andavano avanti più si uniformavano. La storia continuava a ripetersi, in circostanze diverse, ma si ripeteva e si sarebbe sempre ripetuta perché l'uomo è stupido e non imparerà mai dai suoi errori.

Si stese sopra quei cadaveri, guardando il soffitto e continuando a pensare. Si alzò solo per andare a prendere un foglio ed una penna. Non si sentiva così da tempo e non vedeva l'ora di poter scrivere qualcosa di nuovo.

La morte era sempre stata un'ispirazione e aspirazione per William Nottern.

Si voltò verso quella che doveva essere stata una domestica e le sorrise sinceramente. La tenuta era in completo silenzio, persino gli infissi non cigolavano più; si udiva solo la penna scribacchiare contro il foglio bianco.

Ripensava a ciò che era stato in tutti quei secoli, ripensava a ciò che era diventato, ripensava a ciò che avrebbe voluto essere, un cadavere putrefatto, ripensò a Lucille, e scriveva, scriveva, scriveva. Non si rese conto di quanto tempo trascorse, doveva tornare per i festeggiamenti, ma non aveva voglia. Così, con il cuore in gola e le mani sporche di inchiostro nero, lesse ciò che aveva scritto.

“Maledetta o semplicemente sfortunata? Qual è la differenza in fin dei conti? Cosa è meglio essere? E se veramente esiste una differenza, si può essere entrambe le cose?

Maledetta. Ti hanno definita in molti così, non è vero? La Sorte è stata la prima e a lei si sono aggiunti tutti gli altri. Ti ha guardata quella sera quando gli zombie ti hanno abbandonata per andare a caccia di cervelli. Nella gelida oscurità tu danzavi con i capelli scuri e disordinati davanti al viso, in mano una bottiglia di liquido bianco e nell'altra una sigaretta fumante. Eri splendida nella tua innocenza con la bocca che profumava ancora di latte materno e gli occhi colmi di possibilità e di sogni.

Oh povera te, che cosa potevi saperne? La Sorte, bellezza glaciale e meravigliosa, ha guardato il suo compagno Destino e ti ha indicata. Eri la preda perfetta. Tu con le tue idee rivoluzionarie, i tuoi pensieri tormentati, le tue risate silenziose e i silenzi chiassosi. Tu con la tua colazione costituita da cereali, sogni, parole ed inchiostro nero.

Tu che credi di poter fare grandi cose, solo perché nelle tue vene scorre il potere della parola scritta. Ma non lo sai ancora, come potresti?

La Sorte si avvicinerà a te e da abile puttana ti accarezzerà con gesti melliflui e gentili, spogliandoti di tutte le tue difese. Rimarrai nuda sotto il suo sguardo e quello del Destino, mentre le loro lunghe mani dagli artigli mortali ti faranno godere per pochi istanti, istanti che ti sembreranno interminabili, meravigliosi, appaganti, ma non faranno altro che strapparti via il cuore.

Diventerai la loro puttana, pronta a concederti perché dipendente da ciò che possono darti, desiderosa di un bacio dalla Fortuna che ti guarda impaurita dal buco della serratura.

L'unica a desiderarti veramente sarà la Sfortuna, che ti inneggerà come sua unica dea, non lasciandoti mai sola. E tu comincerai a sentirti maledetta, ma non lo saprai del tutto. La puttana maledetta della Sorte, del Destino e della Sfortuna.

Ma non sarai mai bella e maledetta come una poesia di Baudelaire, sei solo maledetta e profondamente triste, persa nel sesso dell'oscurità nel quale la Sfortuna ogni notte ti conduce.

E mentre Lei è persa fra le tue gambe e tu ansimi contro la sua schiena, diventati ormai un'unica cosa, le tiri i capelli biondi alla ricerca di qualcosa in più, di ugualmente potente come essere la sua puttana, perché tu la ami ormai, hai imparato a farlo, hai imparato ad essere come Lei vuole e ti piace maledettamente.

Ormai l'oscurità ti piace, la adori, sei diventata maledetta.

E mentre tu e la Sfortuna siete perse, la Fortuna ti guarda e si ritrae spaventata dal mostro che sei diventata.

Urli, gridi, graffi, chiedendo sempre di più, sempre di più, non sei mai sazia finché non esplodi in mille pezzi invisibili nello spazio; ti disintegri e l'unica disposta a raccoglierti è la Morte.

Meravigliosa Morte che ti accoglierà sempre fra le sue braccia di rose.

Con Lei non sei maledetta, con lei sei finalmente libera.”







Quando ebbe finito e fu abbastanza soddisfatto di ciò che aveva prodotto decise di andare via, per vedere i festeggiamenti, o meglio bere, ubriacarsi fino a dimenticare il suo nome.

Notò con piacere che ormai si era fatta sera e sentiva la brezza serale sfiorargli la pelle delicatamente, anche se puzzava di morto in maniera molto fastidiosa. Teneva ancora stretto nella mano destra il foglio su cui aveva appena finito di scrivere.

Sorrise, ma quel sorriso si spense immediatamente perché una figura incappucciata lo prese alla sprovvista, pugnalandolo con forza al cuore. Il suo petto di riempì di sangue, il foglio volò via e William cadde rumorosamente per terra.










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Capitolo 12
*** Tradizioni e licantropi. ***


Capitolo undici.
Tradizioni e licantropi.

“Abbiamo condannato il lupo non per quello che è, ma per quello che abbiamo deliberatamente ed erroneamente percepito che fosse – l’immagine mitizzata di uno spietato assassino selvaggio -. Che, in realtà, non è altro che l’immagine riflessa di noi stessi.”
(Farley Mowat)





Tanti secoli addietro, prima della scoperta dell'America e quando esistevano ancora i vichinghi, i vecchi dei stavano lentamente scomparendo a favore di un unico Dio, quando c'erano le tradizioni, quando l'uomo credeva a tutte le leggende e a tutte le storie che le vecchie vedove cantavano al fuoco, Vladimir e Camille, allora conosciuta come Mina, si erano appena incontrati.
Lui era un signore di una certa importanza, mentre lei una semplice contadina, ma molto ribelle e disobbediente. Si erano incontrati per caso durante il giorno del raccolto e fu amore a prima vista per entrambi.
Vlad e Mina cominciarono così una relazione segreta, incontrandosi nei boschi di notte e andandosene sulle prime luci dell'alba; consumavano il loro amore fra gli alberi, l'aria fredda notturna e sotto gli sguardi degli dei. Erano felici solo quando stavano insieme e nessuno avrebbe potuto fermarli, almeno fino al giorno in cui Vlad avrebbe sposato, per volere della famiglia, una ricca vedova e Mina un brutto e vecchio fabbro.
Ma non era abbastanza per loro. A nessuno dei due bastavano quei momenti; volevano vivere assieme alla luce del giorno, sposarsi, crearsi una famiglia e vivere per sempre assieme, perché il loro amore sarebbe durato per secoli.
Così, quando Mina rimase incinta di Roman e lo disse a Vlad, decisero di fuggire dal loro piccolo villaggio e rifugiarsi nell'unico posto in cui potevano essere se stessi: nei boschi; anche se ciò significava perdere tutte le ricchezze e un futuro sicuro e duraturo, ma infelice e l'una lontana dall'altro.
Si rifugiarono in una caverna dopo giorni di cavalcata stancante, senza cibo, né acqua, ove trovarono una sorgente dall'acqua fresca, ma di un blu talmente scuro e magnetico, da non sembrare reale. Essa era situata in una caverna, nascosta da decine di alberi ed era quasi impossibile trovarla.
Assetati e affamati, si dissetarono dalla sorgente, bevendo avidamente e sentendo la freschezza di quell'acqua rigenerarli da capo a piedi. Talmente era invitante che decisero di immergersi nella piccola piscina naturale, presente accanto alla sorgente.
“Sono convinto che noi due staremo insieme per sempre e se c'è un tempo dopo di esso, amore mio, staremo insieme anche in quel tempo. Solo io e te.”
Dalla sorgente cominciò a sgorgare un liquido rosso, diverso per odore e consistenza dall'acqua.
Sangue. Sangue bollente, infernale, malvagio, che circondò i due amanti e li bruciò fino alle ossa, fino all'anima, non lasciando altro che pelle bruciata e urla insopportabili.
La grotta si illuminò all'improvviso di una luce ugualmente potente e bollente, che fece esplodere loro gli occhi.
Una voce sensuale, un mix tra quella maschile e femminile, sussurrava un'unica frase in tutte le lingue del mondo.
“Siete stati scelti e adesso vivrete per il resto dell'eternità insieme ai vostri figli.”
Questo fu tutto ciò che successe prima che Vlad e Mina perdessero i sensi, completamente carbonizzati e senza occhi.
Si risvegliarono qualche giorno dopo, in forma, più in forze di prima e con tutti i sensi amplificati. Potevano sentire tutto e di tutto dieci volte meglio.
Sembravano essere ritornati alla normalità, se non fosse stato per due fattori. Il pancione di Mina era aumentato all'improvviso, arrivando dal terzo mese di gravidanza al nono ed entrambi avevano una intensa voglia di sangue. Questa loro sete era tale che decimarono tutti gli animali presenti nel bosco, partendo dai roditori arrivando fino ai volatili.
Si sentivano come un dio, forti, potenti, invincibili, ma allo stesso tempo schiavi della loro sete.
Decisero, soprattutto dopo la nascita di Roman, nato perfettamente sano e con le stesse abilità e debolezze dei genitori, di spostarsi e ritornare al loro villaggio. Tutti sarebbero caduti ai loro piedi.
E fu proprio in quell'istante che le bestie che avevano per troppo tempo celato, riemersero. Tutto l'odio, l'egoismo, la vendetta verso quella gente si riversarono nella sete di sangue. In poche ore il villaggio, compresi i loro stessi parenti, vennero decimati e rasi al suolo dalla loro malvagità.
E più passavano i secoli, man mano che i membri si aggiungevano, le tradizioni cambiavano, gli dei diventavano un unico Dio e le leggende venivano dimenticate dagli umani, più i 'Nottern' si creavano nemici in tutto il mondo.
Vennero soprannominati la Famiglia del Diavolo, perché i pochi che riuscivano ad avvicinarsi o a scampare alla loro sete omicida, vedevano cos'erano in realtà e cosa riuscivano a fare.
La nascita della Confraternita, formata da lupi mannari e streghe bianche, fu un effetto collaterale del caos che creavano ogni secolo. In quanto protettori della natura e dell'umanità, la Confraternita aveva il compito di fermarli e rendere la loro anima di nuovo bianca, pura, eliminando tutto quel marciume. Ma anche essa con il passare dei secoli, diventò marcia, compiendo cose indicibili, quanto quella dei Nottern, pur di raggiungere il loro obbiettivo.
Nessuno nasce completamente puro di cuore, tutti possediamo della malvagità dentro di noi.




Jean e Charles, approfittando della confusione data dai ricevimenti, si appartarono in una delle camere che Dorian, odioso e pompato cognato del primo, aveva messo a disposizione per gli ospiti. Quell'uomo possedeva quasi mezzo quartiere, se non fosse stato ricco più di lui, Jean lo avrebbe ammirato e invidiato al tempo stesso.
Era Charles ad andare avanti, mentre salivano le scale, e lo teneva per mano. Jean sorrideva, quasi senza accorgersene, e lo udiva parlare, raccontare ciò che era successo in quelle ore nelle quali non si erano visti. Stranamente a Charles succedeva sempre qualcosa che valeva la pena raccontare.
Jean lo guardava e lo ascoltava mentre raccontava di quella volta che aveva visto una giraffa e della cultura che c'era in Africa; ma il perché fosse passato a quell'argomento, non lo sapeva.
Gli piaceva solamente sentire il suono della sua voce e nel concertarsi solamente in essa, perdeva molto spesso ciò che gli veniva detto.
“Adesso basta parlare, Charles. Sei diventato un insopportabile chiacchierone.”
Quando arrivarono sul pianerottolo, che portava alle camere degli ospiti, Jean lo afferrò per la giacca e lo baciò con foga. Sentì Charles sorridere e le sue mani gentili accarezzargli la schiena gentilmente.
“Non avevi detto di voler fare le cose con calma, secondo le tue regole, e che dovevamo essere solo amici?”
“Sta' zitto, prima che cambi idea e ci lasci in bianco.”
Charles sorrise, spingendolo contro una delle porte lasciate aperte, che venne richiusa subito dopo con un tonfo.
Ricominciarono a baciarsi e nella foga, nella passione, preso dal momento e dal sentimento che nutriva verso Charles, Jean mutò forma e con i canini affilati bucò il labbro del suo amante.
Charles sobbalzò, guardandolo sorpreso, mentre si tamponava la bocca ferita e piena di sangue e Jean, resosi conto di ciò che aveva fatto, si affrettò a girarsi per riprendere il controllo.
“Cazzo, cazzo, cazzo! Scusami, Charles, non volevo ferirti. E' meglio che vada...”
“Non osare varcare quella porta!”, Charles lo rincorse, afferrandolo per la manica della giacca e costringendolo così a voltarsi. Aveva ancora gli occhi rossi, occhi da predatore, da demone... cosa che lui era in realtà, ma che il suo Charles non avrebbe dovuto scoprire, non in quel modo almeno.
Sarebbe fuggito da un momento all'altro, si disse Jean, lo avrebbe perso per sempre, sarebbe ritornato ad essere solo e probabilmente sarebbe impazzito come Will.
Ma lui non scappava. Charles lo guardava, ancora con la mano stretta intorno alla sua manica.
“Perché non scappi?”
“Perché so che cosa sei, Jean e non mi importa.”, gli si avvicinò, baciandolo su una guancia e facendolo accomodare sul letto dalle lenzuola nere. “Adesso ti mostrerò una cosa, ma tu non dovrai scappare da me o almeno non mi lasciare per sempre.”
“Cosa c'è di peggio del mio essere un essere maledetto dal Signore?”
“Adesso lo vedrai.”, Charles lo baciò velocemente sulle labbra e gli sorrise in modo angelico. “Per portarmi fortuna.”
Jean annuì, guardandolo attentamente.
In pochi secondi i suoi occhi si tinsero di un rosso innaturale, la sua faccia divenne pelosa e dai tratti canini, la sua bocca si riempì di denti affilati, lunghi, tutti uguali e le sue mani lasciarono il posto a zampe che terminavano con artigli affilatissimi.
“Licantropo.”, Jean boccheggiò, allontanandosi. “Sei un dannato licantropo! Il mio acerrimo nemico, l'unico morso che è in grado di uccidermi. E come se non bastasse sei un dannato licantropo che lavora per quella dannata Confraternita!”
Gli unici uomini lupo ad avere occhi rossi e denti talmente appuntiti erano quelli della Confraternita e Jean poteva riconoscerli ovunque, poiché erano stati loro a crearsi i loro stessi nemici.
I licantropi della Confraternita sono 'puri', ciò vuol dire che nessuno di loro è mai stato trasformato senza la loro volontà. Tutti, prendendo spunto dalle leggende popolari, hanno bevuto da una pozzanghera a forma di zampa di lupo con la luna piena, vestiti con pelliccia di lupo, la quale è stata a sua volta cosparsa di belladonna. In questo modo hanno trasmesso a loro stessi e a tutti i loro discendenti il gene del lupo mannaro, che può essere attivato solo nel momento in cui, trasformatosi sempre per loro volontà, con la luna piena, uccidano una creatura.
“Jean, calmati... Posso spiegarti tutto.”
“Che cosa dovrei fare ora? Ucciderti per amor mio e della mia famiglia o far finta di niente per amor nostro?”, Jean si alzò, gironzolando per la stanza, nervoso. “Sono stato io ad avvicinarti a loro! E tu non hai idea di che cosa ci avete fatto passare!”
“Lo so, sono uno di loro, Jean. Ma non voglio farti del male, non potrei mai! Non dopo tutto questo tempo passato assieme.”
“Era il 1679 quanto Lucille, la mia dolce sorellina, Francisco ed io siamo stati rinchiusi in una chiesa, con dei bambini e delle donne e ci è stato messo fuoco, Charles. Francisco, il nostro fratello più piccolo, perché aveva solo sedici anni quando è accaduto, è morto per colpa vostra. Non aveva preso ancora nessuna anima.”, Jean fece una pausa. Ricordare quel momento era sempre doloroso. “Sentiamo ancora le sue urla nelle orecchie la notte e quelle dei bambini e delle donne. Sento ancora il fuoco bruciarmi il corpo, la voce disperata dei miei fratelli, di William soprattutto, che cercava in tutti i modi di aprire una porta sigillata con la magia per salvare la sua dannata famiglia. Si spezzò tutte le ossa della spalla e delle braccia quella sera, per salvarci, e ci impiegarono una settimana per rimettersi apposto... Come posso far finta di niente, sapendo che la tua gente, che crede di essere tanto buona, che dovrebbe riportarci verso la luce, compie cose talmente orribili?”
“Io non ero nato, Jean. Io, ti giuro su Dio, che non ti farei mai una cosa del genere perché ti amo. Ti amo come non ho mai amato nessun altro. Dal primo momento in cui ti ho visto, ho capito che non avrei in alcun modo potuto ferirti, anche se significava fare del male alla mia stessa Confraternita.”
Jean sorrise, lasciandosi abbracciare dal ragazzo. Potevano semplicemente restare stretti così per sempre? Chiedeva troppo?
“Hai detto di amarmi e il mio cuore ha ricominciato a battere per pochi istanti.”, ammise Jean, sorridendo imbarazzato. “Se mi hai mentito, giuro che ti stacco la giugulare a morsi.”
“Non potrei mai.”, Charles si avvicinò, ormai tornato normale, e lo baciò dolcemente, trasmettendogli attraverso il suo calore tutto l'amore che provava nei suoi confronti. “Riprenderemo l'argomento, ma adesso ritorniamo a ciò che stavamo facendo.”
“Mh, buona idea.”
Sarebbero ritornati sull'argomento più tardi e ne avrebbero parlato seriamente, ma Jean sapeva che avrebbe fatto finta di non sapere nulla, perché, suo malgrado, amava quel dannato licantropo.
















 

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Capitolo 13
*** Gioventù mortale e peccati eterni. ***


Capitolo dodici.
Gioventù mortale e peccati eterni.
 

“Ho condotto una ben dura esistenza, dal giorno che ho cessato di udir la tua voce. Ma tu devi perdonarmi perché ho lottato solo per te.”
(cime tempestose.)



Will si svegliò di soprassalto, quando qualcuno lo colpì con un oggetto duro e freddo in viso. Sanguinò dalla bocca, sputando liquido rosso e aprì gli occhi, mettendoci qualche attimo prima di riuscire a focalizzare chi lo aveva colpito, chi aveva rovinato il suo momento di riappacificazione con la scrittura.
“Voi bastardi, non capite che la faccia, soprattutto se così bella come la mia, non va mai toccata.”
Si sforzò di ricordarsi l'ultima cosa che aveva fatto, dov'era stato, prima di venire colpito, rapito, legato su una sedia come un animale.
Lucille gli venne subito in mente, bellissima, unica, meravigliosa nel suo abito da sposa e le lacrime che avevano versato, il loro bacio mancato e poi tutta la sua disperazione nel vederla sposata con qualcun altro, il suo dolore, il suo strazio. Poi c'era stata lei, la sua vecchia amica, l'ispirazione, che era venuta a trovarlo in un momento del genere, tra ossa, carne putrefatta, sangue e disperazione più profonda.
“Be', mi dispiace tanto, caro William Nottern, o qualsiasi sia il vostro vero nome, ma è proprio il vostro bel visino che desidero colpire con ardore.”, Katherine si abbassò il cappuccio che le nascondeva il viso, sorridendo. Aveva gli occhi di un rosso surreale, le zanne affilate e insalivate, la faccia ricoperta da peli scuri. Era un dannato licantropo, un dannato licantropo della Confraternita.
“Salve, zuccherino. Siete arrabbiata per non avervi fatto da cavaliere al matrimonio di mia sorella?”, Will le sorrise, cercando di risultare affascinante il più possibile, nonostante la corda intrisa di acqua santa che gli bruciava la pelle in modo terribile e la fama che cominciava a farsi sentire.
“Certo, caro signor Nottern, una donna come me ci tiene a questo genere di cose. Venire rifiutata dal suo cavaliere per un'altra donna, soprattutto se ella è la sorella, fa venire un certo malessere.”, Katherine lo colpì con un sonoro pugno, che gli ruppe il naso. William rise, divertito dal tentativo di quella puttana. Pensava veramente che picchiandolo avrebbe avuto qualcosa da lui? Il dolore era il suo amico più fidato, sia quello fisico che quello psicologico.
“Allora, cosa volete fare? Uccidermi, mettere fine alla mia patetica vita da assassino, immorale, incestuoso? Fatevi avanti, mi farete solo un favore.”
“Lo so benissimo, questo. Siete solamente un poveraccio e vi si legge in faccia il vostro desiderio di morte; ma non vi darò questo, sarebbe troppo facile. Voglio prima di tutto farvi soffrire in maniera indicibile, voglio che vi pentiate per tutto ciò che avete fatto, voglio la mia vendetta. Colpendo voi colpisco i vostri fratelli. Voi Nottern, stranamente, siete molto fedeli verso la famiglia.”, il suo accento americano, prima appena udibile, adesso si fece sempre più marcato.
Katherine gli afferrò il viso con un mano, scoprendogli la gola; si avvicinò al suo collo, ignorando i suoi movimenti di protesta e lo morse. Will gemette, ma non urlò, nonostante bruciasse come l'inferno.
Il veleno delle zanne dei licantropi, mortale per quelli come i Nottern, cominciò a fare effetto da subito e il biondo cominciò a sudare freddo, nonostante lui non sudasse più da anni, e a tremare come preso da convulsioni; il sangue prese ad uscirgli da occhi, narici, orecchie e bocca e Will sembrò affogare nel suo stesso sangue.
Ma quello era solo la punta di tutto ciò che avrebbe subito di lì, fino alla sua morte. Un processo lungo, lento e doloroso.
Katherine, infatti, rise di gusto, afferrando il biondo per i capelli e costringendolo a guardarlo. “Adesso capirete come mi sono sentita, quando i vostri genitori, hanno dissanguato i miei e la mia sorellina di appena un anno. Adesso finirete all'Inferno e brucerete per l'eternità per tutti i peccati commessi da voi e dalla vostra famiglia. Vi ucciderò tutti, uno ad uno.”




“Finalmente soli, mia cara.”, Dorian l'afferrò per la vita e le diede un lungo bacio sulle labbra. Tutti gli ospiti se n'erano finalmente andati via e avevano lasciato gli sposini a cominciare una nuova vita.
Lucille forzò un sorriso, quando suo marito le accarezzò la guancia delicatamente, afferrandola poi per la mano e dirigendosi verso i corridoi che precedevano le cucine. Lì, Dorian spinse un piccolo bottone, situato dietro un vaso, facendo aprire una piccola porta, dove prima c'era una perfetta parete.
I due novelli sposi vi entrarono, notando una piccola stanza, tutta impolverata e illuminata da poche candele. In mezzo a essa c'era un quadro enorme, il più grande che avesse mai visto, che rappresentava Dorian, ma non il Dorian che conosceva, perfetto, in saluta e bellissimo; no, quello era una sua versione distorta, vecchia, ridotto in brandelli dalla malattia e con gli occhi rossi, da demone, che sorrideva in modo diabolico, come se sapesse qualcosa che Lucille, dopo tutti quei secoli, ignorava. Sembrava così vivo, magnetico, da farle venire i brividi.
“Che cosa ne pensi?”
“Orribile.”, Lucille gli sorrise, questa volta sinceramente. Lo trovava interessante finalmente, degno del suo avversario. “Ma nel senso buono.”
“Ti ringrazio. Ma non mi chiedi il perché della mia scelta?”, Dorian le prese la mano, baciandogliela. “Non mi chiedi perché ti abbia chiesta in sposa, nonostante la tua bellezza e la tua perfezione?”
“Perché hai bisogno di qualcuno di altrettanto orribile con la quale condividere tutto ciò che hai fatto. Hai ucciso, hai strafatto, hai vissuto in modo sregolato e immorale, hai fatto cose che nessuno potrebbe neanche immaginare, figuriamoci comprendere. Hai bisogno di una come me, con secoli di cattiveria e assassinii alle spalle, per convivere col fatto di aver venduto la tua anima al Diavolo per una sciocchezza. Cosa hai chiesto in cambio?”
“La gioventù eterna.”
“Un classico di voi umani.”, Lucille scosse il capo, sospirando. Guardò per terra e notò un corpo, un cadavere che ormai era ridotto allo scheletro. Tutti i suoi abiti erano rovinati dal tempo e il pugnale con il quale Dorian lo aveva ucciso era ancora fermo sul suo petto. Lucille dopo tanto tempo aveva smesso di fare caso agli odori, anche perché non aveva bisogno di respirare. Solo quando si rese conto del corpo, si accorse della puzza pestilenziale che vi abitava in quella stanza. “Lui sarebbe?”
“Il pittore. E' stata colpa sua se ho fatto quel dannato patto.”
Lucille scosse il capo, sorridendo. “Si meritava una degna sepoltura, Dorian. La colpa delle nostre scelte va attribuita soltanto a noi stessi, non agli altri. E' stata colpa tua se adesso sei immortale, se sei solo come un cane e hai dovuto sposare me, la figlia del diavolo in persona, per sentirti a tuo agio con il tuo senso di colpa.”, Lucille gli sorrise, accarezzandogli la guancia. “Ti aspetto in camera nostra, tesoro.”
Uscì velocemente dalla stanza, portandosi una mano sul petto. Il dolore era tale da farla cadere sulle ginocchia, alla ricerca di un appiglio su cui mantenersi, per cercare di fermare le lacrime e tutto il male. Si trattava di Will, era in pericolo.
Cercò di alzarsi per andare da lui, correre da James e gli altri e salvarlo dovunque si fosse cacciato. Ma non appena fece una piccola mossa, una terribile fitta al cervello, dolorosa come quando ti vengono strappati i denti con una pinza uno ad uno, la fece cadere svenuta in un colpo solo.






Le allucinazioni cominciarono qualche ora dopo, passata a soffocare nel sangue e nel vomito. E furono le peggiori.
Vide Lucille, per prima, vestita di bianco e circondata da una luce surreale, divina, sembrava un angelo. Aveva i piedi scalzi, si librava nell'aria al posto di camminare.
Continuava a sorridere, quando gli si avvicinò, sedendosi sulle sue ginocchia. Lo abbracciò, baciandolo sulle guance e togliendoli i capelli sudati e sporchi di sangue dal viso.
“Hai sempre portato i capelli troppo lunghi, William.”, Lucille gli sorrise, accarezzandogli il viso, seguendo la linea della sua mascella e poi quella del collo. “Vattene da qui, Lucie, vattene via prima che ritorni quella stronza e ti faccia del male. Non voglio che ti accada nulla.”
“Non vuoi che mi accada nulla, eh? Eppure tutte le mie sfortune dipendono da te, mio caro William! Ho sofferto per colpa tua, ho pianto talmente tanto! Ho passato secoli a piangermi addosso, a non sentirmi all'altezza, a sentirmi pazza, inadeguata. Ma eri tu il pazzo, eri tu quello che non mi amava abbastanza, che non lo ha mai fatto. Hai preferito le puttane a me, le droghe, l'alcol e il sangue, ad una vita semplice, felice, ma regolata!”
“No, non dire così, Lucille. Non dire così, io ti amo. Ti ho trattata in quel modo per non trascinarti nell'abisso con me.”
“Io ti ho amato più della mia stessa vita, Will, più di qualunque cosa, anche di me stessa, soprattutto di me stessa! Ho rinunciato a tutto, a tutto! Sono dovuta scappare dalla furia di nostro padre, al mio ruolo, a tutto! E ti odio così tanto, ti odio, ti odio, ti odio!”
“No, Lucille, non dire così, ti prego, no, ti prego! Non mi odiare, non mi odiare anche tu, mio bellissimo angelo, mio unico amore! Non puoi odiarmi anche tu, sopratutto tu. Ci sono io che lo faccio per tutti e due...”, William spalancò gli occhi, cercando abbracciarla, ma le corde impregnate di acqua santa glielo impedivano, bruciandogli la carne fino all'osso. Ma non gli importava del dolore, voleva solo Lucille, che adesso giaceva in una enorme pozza di sangue ai suoi piedi.
“Sei stato tu ad uccidermi, il tuo amore malato e manipolatore. Sei stato tu con la tua pazzia e la tua non volontà a curarti! E adesso sto morendo per colpa tua, moriremo tutti per colpa tua!”, Lucille diventava sempre più pallida ad ogni parola che pronunciava, man mano che affogava nel suo stesso sangue. Le avevano tagliato la gola e lei stava morendo.
William chiuse gli occhi, disperandosi, urlando, piangendo, imprecando e ululando come un lupo ferito alla luna. Si dimenava come un matto, ma le corde si stringevano sempre più attorno al suo corpo e si mangiavano ancora più porzioni di pelle.
Vedeva l'amore della sua vita morire davanti ai suoi occhi e non poteva nemmeno correre da lei, per abbracciarla, per stringerla, per cercare di salvarla.
“Ti prego, Lucille, ti prego, non morire. Fallo per me, Lucille, fallo per me. Ti giuro che cercherò di farmi curare, ma tu non morire.”
Ma fu troppo tardi. Lucille emise un orribile suono con la bocca, si contorse, macchiandosi tutta di sangue e morì. Con lei morì anche un ulteriore pezzo della sanità mentale di William.






James si recò nella grande tenuta dei Nottern, alla ricerca di Will. Era scomparso da due giorni e nessuno sapeva dove diavolo si era cacciato. Lucille aveva sentito un grande dolore al petto, causa della loro straordinaria e terrorizzante connessione, per la quale se uno dei due era in pericolo o in fin di vita, l'altra lo sentiva fin nelle ossa. Lucille gli aveva detto che il dolore era stato tale, da farla svenire per un giorno intero.
Adesso stava meglio, ma era ugualmente debole; perciò aveva mandato James alla tenuta per vedere se riusciva a trovare qualche indizio. Il prossimo passo sarebbe stato andare da Esmeralda, fare un incantesimo di localizzazione, ma andare da lei, significava metterla in grave pericolo e James era l'ultima cosa che voleva.
Corse velocemente per tutta la casa, non trovando nulla, se non fogli pieni di testi scritti recentemente. Si sedette, cercando di ignorare quella spiacevole e brutta sensazione che gli opprimeva il petto. Non poteva essergli capitato nulla, doveva stare bene. Lo avrebbero trovato in qualche bordello o in qualche casa dell'oppio a sballarsi. Era da Will; lui si comportava sempre in maniera sconsiderata.
Afferrò il foglio, leggendo ciò che aveva scritto. James era un suo grande fan, amava tutto ciò che lui scriveva, anche se molto spesso non lo condivideva. Will aveva una visione distorta, pessimistica della vita, anche a causa del suo animo molto sensibile che lo aveva portato alla pazzia.
Questo era il segreto per diventare grandi scrittori; si doveva essere sensibili, pazzi, autodistruttivi, malati d'amore e maledettamente tristi. E lui lo era. La pazzia, auto distruttività, le pene d'amore e la tristezza, erano tutte cose che aveva inventato lui.
Quello scritto portava il nome di “Tristezza”. Jamie sospirò, si sedette e cominciò a leggere.
“La tristezza è poesia.
La tristezza è poesia perché permette al poeta di trasformare la cosa più banale in arte meravigliosa ed unica.
Quando essa viene a fargli compagnia, il poeta si sente libero di far viaggiare la mente.
Guarda per terra, dove le cicche delle sigarette vengono trasportate dal vento fresco di fine agosto e si chiede se egli avrà una sorte del genere.
Cosa ne sarà di lui nel buio e freddo futuro? Come diventerà e quali saranno i cambiamenti che irrimediabilmente muteranno il suo essere più profondo?
Anche lui verrà trasportato dal vento in modo così leggiadro dalle sue scelte future o resterà ancora inesorabilmente ancorato ai pezzi del suo io interiore, che in pochi conoscono, ma che nonostante ciò non sono in grado di capire, comprendere, analizzare fino in fondo.
La tristezza è amica perché capisce. Capisce ciò che il poeta prova, comprendere il suo stato d'animo e sa che egli non sarà mai come quella sigaretta, leggiadra, consumata, ma felice e senza pensieri.
No, ella sa che il poeta potrà aspirare ad essere un fiore morto. Magari una margherita, una volta semplice, perfetta, bellissima, ma che col tempo per cause esterne è dovuta appassire, diventando brutta e lasciandosi morire poco alla volta.
La tristezza si manifesta in molti modi ed essendogli amica sa che cosa il poeta desideri maggiormente, ovvero la solitudine assoluta e il silenzio tombale di una morte felice.
La tristezza sa quali sono gli antidoti, che rendono meno dolorosi i pezzi del suo animo, del suo cuore, dei suoi sentimenti.
La tristezza è amica della morte perché entrambe sono la via di fuga migliore per il poeta. Una le permette di estraniarsi da un mondo che non sente suo, che lo rende infelice; l'altra per cancellarlo definitivamente da quel posto che lo rende talmente infelice da appassire e rinsecchire.
La tristezza è poesia.
La morte è liberazione e felicità.
Il poeta è solo un burattino nelle mani di un dio sadico e spietato.
E la sua penna? Che cosa è la penna per un poeta?
Semplice anima di inchiostro nero.”



 

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Capitolo 14
*** Margherita appassita ***


Capitolo tredici
MARGHERITA APPASSITA.


 

“Vita e morte non sono due estremi lontani l’uno dall’altro. Sono come due gambe che camminano insieme, ed entrambe ti appartengono. In questo stesso istante stai vivendo e morendo allo stesso tempo. Qualcosa in te muore a ogni istante. Nell’arco di settant’anni la morte arriverà a compimento. In ogni istante continui a morire, e alla fine morirai davvero.”
(Osho)



Il prossimo fu James. Era vestito interamente di bianco, i capelli biondissimi gli ricadevano sugli occhi, i quali erano fissi in un punto preciso. Lo guardavano, lo scrutavano, lo fissavano come mai avevano fatto prima di allora. Non c'era traccia di amore, preoccupazione, gioia e anche tristezza nel suo sguardo; non c'era nulla che gli facesse credere di star effettivamente parlando con suo fratello, il suo migliore amico, l'unica ancora di salvezza.
-James... - Sussurrò William con la voce resa roca dal pianto e dalle urla. Aveva passato così tanto tempo ad urlare, a dimenarsi, ad invocare il nome di Lucille, che era diventato una specie di mantra. Il fratello aveva le mani sporche di sangue fresco, poteva riconoscerne l'odore a miglia di distanza. - Che cosa hai fatto? -
-Io? Nulla. Sei stato tu, William. -
-Che cosa avrei fatto? -
-Mi hai reso ciò che sono, un assassino. Un mostro orrendo e immondo. La società non mi accetterà mai per ciò che sono, neanche il mio Dio lo farà. Andrò all'Inferno, brucerò tra mille tormenti e dolori. Ho ucciso per te, innocenti, solo per sfamare la tua voglia irrefrenabile di sangue. Ho ucciso per te, perché ti amavo come un vero fratello, nonostante tutti i tuoi casini. Ho ucciso per te, sono andato contro tutti i miei principi morali e tu hai mai fatto qualcosa per ricompensarmi? No, hai fatto sempre peggio. Ti sei comportato da stupido bambino viziato, combinandone sempre peggio. E chi ha dovuto sempre rimediare ai tuoi dannati casini, chi ha dovuto sempre ripulire le tue tracce? Io! Sei stato il mio tormento e credo che lo sarai per l'eternità. Spero tu muoia presto e mi lasci vivere in pace. -
-Mi dispiace, Jamie, mi dispiace. -
-Cazzate! Spari solo cazzate, William. Solo bugie! - James lo schiaffeggiò, macchiandogli la guancia di sangue fresco, caldo, denso. I denti di William si allungarono, nonostante tutta quella situazione. - Ecco cosa sei, un mostro pazzo. -
-Non ho mai voluto far ricadere la mia pazzia su di te o su di Lucille. -
-Eppure lo hai fatto. Ma adesso ci siamo stancati di te e delle tue bravate. Sei diventato un peso, una palla al piede. -
-Lo so. Mi dispiace. Lo ripeterò all'infinito se dovesse servire a qualcosa. So che cosa avete passato, me ne rendo conto, e cercherò di non ferirvi mai più. Siete le uniche persone che amo alla follia e per le quali morirei. - Will sospirò, versando lacrime silenziose, che si fecero strada sul sangue che il biondo aveva in viso. Piccole striature pallide in un mare rosso.
-C'è qualcosa che tu potresti fare, caro fratello. - James fece una pausa, nella quale si strofinava le mani, un sorriso diabolico gli incorniciava i bei lineamenti soprannaturali. - Morire. -
Tutto quell'odio, quel disprezzo e quel dolore bastarono a sfinirlo, bastarono ad ucciderlo. In quel momento moriva l'anima di William Nottern, tanto amato, ma soprattutto odiato.
Il veleno sembrò agire molto più velocemente e il biondo si sentì in trappola, incatenato contro un destino al quale non avrebbe potuto rinunciare. La morte, la sua amata, la sua tanto desiderata, stava venendo finalmente a prenderlo, ad abbracciarlo, a baciarlo sulle labbra sporche di sangue e lui, che tanto l'aveva aspettata, le avrebbe detto di no. Non poteva andarsene così, non poteva abbandonare il mondo, Lucille e James, e tutta la sua famiglia, lasciandoli nelle mani di quei maledetti figli di puttana.
“Will...”, udì una voce, nel retro della sua mente pazza e annebbiata dal veleno. La vista era sfocata, non riusciva a guardare, non riusciva a scorgere la figura tutta tessuto e dolcezza che le stava davanti, che gli accarezzava gli zigomi e gli baciava la fronte. Altre mani, invece, gli toccavano le braccia, dita di ghiaccio che slegavano le corde intrise di acqua santa.
Cosa era reale, cosa era finzione? A chi credere, chi uccidere? Sarebbe morto in ogni caso, che cambiava?
“Will...”, tante voci gli sfondarono i timpani, tutti di egual intensità, tutti lo chiamavo, gli urlavano di svegliarsi. Le conosceva, quelle voci, sapeva a chi appartenessero. Voleva bene, a quelle voci, perché erano dei suoi fratelli. Lucille, James, Jean e Roman. Tutti loro, nella sua fantasia, nella realtà alternativa che la morte gli aveva concesso, erano venuti a salvarlo, a portarlo in salvo, perché, in qualche modo, tenevano a lui.
Era solo un romantico, un folle, al quale piaceva illudersi! Chiuse gli occhi, versando lacrime e lasciandosi invadere da quelle sensazioni, da quell'amore che aveva sempre rifiutato perché non all'altezza di loro, del mondo, di tutto.
William il pazzo, che moriva per delle allucinazioni. Potevano farci un'opera scadente a teatro!
Che esistenza misera e senza gioia era stata la sua? Che uomo piccolo e senza coraggio era stato? E adesso moriva, tra mille tormenti e dolori, fra le braccia dei suoi cari. Affogava nel suo stesso sangue, nelle sue stesse illusioni maledette, nella sua stessa pazzia. La dolce morte lo stava abbracciando, lo stava cullando e lui si lasciò persuadere, si lasciò amare, come mai aveva fatto. Era lei, l'unica alla quale avrebbe fatto vedere il suo Io interiore, il fragile e stupido Will.
“Sapevo sareste stati la mia morte, cari fratelli. Vi ho amati, è giusto che voi lo sappiate, nonostante siate solo visioni mandate dalla dolce morte. Vi ho amati infinitamente, come nessuno, vi considero la mia vera famiglia. Ma siete stati la mia rovina. E' per voi che oggi io muoio, è per voi che io oggi affondo.”, Will sorrise, immaginandosi i volti dei suoi fratelli. “Lucille, ti ho sempre amata. Spero tu abbia una vita felice, adesso che non ci sarò più. Il tuo più grande dolore ti abbandona.”




Roman la raggiunse all'enorme serra, provvista di qualsiasi tipo di fiore esistente in natura, dal più esotico. Lucille guardava le margherite, accarezzandone i petali con l'indice. La fede e l'anello di fidanzamento brillavano minacciosi sull'anulare sinistro.
Il gigante le cinse le spalle con le braccia, stringendola forte a sé. Le baciò la guancia e stette con lei in silenzio per qualche secondo, prima di parlare. C'era così tanto di cui discutere, così tanto da piangere, che non sarebbe bastata una vita.
Sua sorella era distrutta dal dolore; non l'aveva mai vista così.
“Come ti senti, Lucille?”
La ragazza scosse il capo. Portava i capelli slegati, erano talmente lunghi che le superavano le natiche. Poteva nascondersi con essi, poteva scomparire per quanto era piccola. Aveva pianto, tutti avevano pianto, come si poteva non piangere?
“Una parte di me, Roman. Sto perdendo una parte di me. Tu non hai idea di cosa si provi, nel perdere un pezzo del tuo cuore e della tua anima. E' talmente doloroso che preferirei morire, piuttosto che andare avanti così.”, Lucille scoppiò in lacrime, facendosi ancora più piccola. Non le nascondeva più, non davanti a lui. Piangeva e accarezzava il fiore stretto tra le dita sottili e pallide. “E' stata la margherita, con questa cercò di corteggiarmi la prima volta. Poteva scegliere le rose, molto più belle, ma no, ha scelto loro.”
“Quel bastardo sa cavarsela, devo ammetterlo. Con voi donne, queste cose funzionano.”, Roman sorrise tristemente, lasciando che la donna gli si appoggiasse sulla spalla.
“Non voglio che mi lasci, Rom. Non voglio che se ne vada via, non voglio che mi abbandoni. Sarebbe da egoista!”, Lucille si pulì il viso dalle lacrime, tirando su con il naso. “Io lo amo.”
“Lo so, Lucie, lo so. Nessuno vuole che se ne vada. Ma dipende tutto da lui, adesso. Deve avere la forza di lottare, di tornare da noi. Charles ha avuto la gentilezza di darci il suo sangue per l'antidoto, ma è passato troppo tempo. E' un miracolo che sia ancora vivo.”
“Quanti segreti questa famiglia! Prima non eravamo così, Roman, che ci è successo? Perché ci mentiamo a vicenda? Jean e James stanno con due membri della Confraternita e la Confraternita ha reso il mio Will una margherita sul punto di morire. L'hanno fatto appassire, quando si reggeva a malapena in piedi.”
“Non sono come i loro simili.”
“Le persone mentono.”
“Le persone mentono, ma non i loro occhi. Charles ama Jean e anche Esmeralda ama James. Altrimenti non ci avrebbero aiutati, altrimenti William, il più importante pezzo di te, sarebbe morto.”, Roman fece una pausa, accarezzando i capelli della sorella. Aveva sempre cercato di proteggerla, ma invano. Tutti siamo soggetti al dolore, tutti soffriamo, chi più chi meno. E' questa la più grande verità della vita, il dolore. “Perché non vai da lui? Lo aiuterebbe sentire il tuo tocco e la tua voce.”
“Devo tornare da mio marito.”
“Basta bugie, Lucille. Basta opportunità sprecate, dobbiamo tutti darci una mossa. Siamo immortali, ma possiamo morire tra un giorno e l'altro. Vai da William, salvalo e così potremmo riprendere la nostra vendetta. Quei maledetti figli di puttana verranno decimati uno per uno.”






Lucille corse nelle stanze di William e lo trovò steso, da solo, al buio, con le candele che andavano morendo lentamente. Lui aveva le mani poggiate sul ventre, era terribilmente pallido, insanguinato, puzzava di vomito, sporco, ma ai suoi occhi era bellissimo. Il più bel cadavere, la più bella margherita appassita, la sua metà cattiva, ma senza la quale sarebbe morta.
Si fermò, poggiandosi alla porta. Guardò la mano sinistra, vedendo brillare gli anelli , il ricordo del tradimento, il ricordo del loro bacio mancato, l'ultimo ricordo di un Will distrutto, ma vivo.
Se li sfilò, lasciandoli cadere al suolo; essi rotolarono, andando a sbattere contro il muro e cadendo senza produrre alcun suono.
Lucille a quel punto, si sentì pronta e poté andare da lui, stendersi al suo fianco e poggiare il capo sul suo petto. Non batteva nessun cuore, non sentiva il fiato di lui sulla sua pelle. Era morto, ma lo era già da un pezzo. Come facevano a dire che fosse ancora vivo? E se ne fosse già andato? No, impossibile, lei l'avrebbe sentito.
“Non lasciarmi, Will.”, Lucille gli prese la mano, intrecciando le loro dita. La sua mano, ancora sporca di inchiostro nero, era terribilmente pallida, così come quella di lei. Erano uguali solamente in una cosa.
Pianse, ma non urlò, nonostante il dolore la stesse mangiando dall'interno. Piccole larve che si nutrivano di metà del suo cuore, strappandolo e inghiottendone sempre più. “Sai, qualche tempo fa, quando ci eravamo appena messi insieme, per l'ennesima volta, e tu dormivi al mio fianco, bello, pallido e perfetto, mi sono alzata dal nostro letto, messa sul tuo scrittoio e ho iniziato a scrivere. Mi sentivo talmente amata da te, Will, che non riuscivo più a fermarmi e non avrei potuto immaginare un mondo senza di te e continuo a non farlo. Tutto quello che voglio dirti, è semplicemente di non morire. Sei tu quello bravo con le parole, non io. Io sono brava ad ascoltarle. Non morire, ritorna da me, così potrò ascoltarti per altri infiniti secoli.”
Chiuse gli occhi, tornando indietro nel tempo, molto tempo prima, molti secoli addietro, alla prima volta nella quale si erano incontrati. L'aveva capito subito chi aveva davanti; aveva sentito quella loro meravigliosa connessione che la spingeva da lui, le urlava di sprofondare fra le sue braccia e di farsi amare dalla sua pazzia.
L'aveva guardata nell'intensità di quell'alba d'estate. L'aveva guardata per la prima volta e nei suoi occhi aveva visto i fiochi raggi del sole, che si nascondevano timidi dietro le nubi minacciose.
L'aveva guardata per la prima volta e avevano smesso di essere estranei. L'aveva guardata altre volte, di nascosto, mentre pensava che lei fosse distratta con quell'aria triste e da bravo ragazzo.
L'aveva guardata, quando voleva essere ammirata, mentre parlava animatamente con Camille, perché lui sapeva lei fosse stata un pochino egocentrica.
Le aveva parlato, sotto gli alberi d'ulivo, facendola ridere per la prima volta, mentre azzurro, caramello e verde diventavano un unico colore.
L'aveva sfiorata, facendola rabbrividire.
L'aveva fatta sorridere, arrabbiare, l'aveva fatta andare a fuoco, l'aveva fatta sua.
E adesso?
Adesso non c'era più. Era sparito nel nulla e le mancava come una dolorosa boccata d'aria fresca. L'aveva distrutta con la sua tenebrosa tristezza, quando bastava poco per farlo. L'aveva amata e disprezzata con le sue parole.
L'aveva uccisa, seppellendola nell'alba dei suoi occhi.
L'aveva cambiata, quando aveva sostenuto davanti a tutti che non sarebbe accaduto.
L'aveva lasciata sola.
Ma l'importante era che lui l'avesse guardata dal primo istante di quell'alba fredda, perché l'aveva guardato anche lei, e sin da quel momento aveva capito di essere stata solo sua.
Apparteneva a lui.
E lui poteva fare di lei tutto quello che voleva.
Tranne lasciarsi morire.




Tutti i fratelli erano riuniti in un cerchio silenzioso intorno alla porta di Will, tutti tranne Lucille, che si era chiusa con lui nella sua camera e non ne voleva sapere di uscire. Grazie al loro udito riuscivano ad udire la sorella piangere, probabilmente cercava di soffocare le lacrime conto la maglietta sporca dell'amato, ma senza molti successi.
Erano tutti a pezzi, e si affidavano a loro stessi e alle persone da loro amate. Jean aveva Charles, James aveva Esmeralda e Roman, per quanto tutti si fossero stupiti, aveva la ragazzina, che di nome faceva Theresa. Ma Lucille, lei aveva solo Will... Era giusto che lasciassero più spazio a lei.
James terribilmente pallido, sfinito, ridotto a nulla, si era accasciato per terra e aveva stretto l'amata strega, che li aveva aiutati a trovarlo, fra le braccia. Era stata una sorpresa per tutti, vederli insieme e talmente uniti. Jean, dopo tutto quel tempo, immaginava James come una parte di Lucille e una parte di William, per quel motivo non si sarebbe mai immaginato che lui avesse intrapreso una relazione con una donna, specialmente se questa era una strega, una della Confraternita.
“Questa attesa mi distrugge. Dovremmo andare a vendicarci. Devo, devo fare qualcosa per Will...”, fu James a parlare dopo tutto quel tempo. Gli altri lo guardarono, annuendo. Tutti volevano vendetta. Avevano perso Francisco per opera di quei maledetti, non potevano perderne anche un altro. Erano una famiglia, anche se non andavano quasi mai d'amore e d'accordo, e dovevano difendersi, restare uniti nel bene e nel male. “Dove sono Vladimir e Camille? Uno dei loro figli sta rischiando di morire, dove cazzo sono?”
“Jamie, calmati, amore mio. William si riprenderà. Alle volte ci vuole tempo per far funzionare un antidoto.”
“Ce la siamo cavati sempre da soli, James, ce la faremo anche questa volta. Non abbiamo bisogno di nessuno.”, Roman si sedette, poggiando la schiena al muro e chiuse gli occhi. Aveva i capelli arruffati per essersi messo in continuazione le dita fra di essi dal nervoso. Theresa gli si sedette accanto, intrecciando le dita nelle sue e baciandogli il palmo della mano. Roman la guardò e le sorrise, Jean sorrise a sua volta, cercando di gioire per la felicità del fratello maggiore.
Non lo vedeva così innamorato da tempo, era felice, tutti lo erano chi per un motivo e chi per un altro e adesso c'era tutto quel dolore e disperazione. La morte aleggiava nell'aria, Jean la sentiva, era un suo vecchio amico, dopo secoli di assassini alle spalle. Doveva mandarla via.
Non osava guardare Charles, che si era messo in un angolo, lontano da Roman e James. Non poteva guardarlo e pensare che la colpa era tutta sua, che se non si fosse messo con Charles, se non lo avesse mai incontrato, probabilmente Will non si sarebbe trovato in quelle condizioni.
L'unica cosa da fare era mandarlo via, restare con suo fratello e vendicarsi. Erano nemici, la loro storia non poteva funzionare. Grazie a lui stava cominciando ad accettare il suo essere, ciò che era davvero e stava cominciando a rispettarsi, ma non potevano andare avanti. Doveva lasciarlo andare, per quanto facesse male.
La situazione di James era diversa, considerato che la sorella di Esmeralda non aveva quasi ucciso uno dei suoi fratelli. Una strega non può vivere senza la sua Congrega di streghe e un lupo non può vivere senza il suo branco. Non avrebbe mai chiesto a Charles di lasciare la Confraternita, quella che era la sua famiglia, diventare un omega e vivere sempre con la paura di essere attaccato, vivere debole. Un lupo senza il suo branco è più vulnerabile, è nulla.
“Charles, dobbiamo parlare.”, il ragazzo, che aveva pianto, lo seguì senza una parola. Jean osservò il modo nel quale James lo guardò e sospirò. Era tutta colpa sua.
Si allontanarono qualche metro, tanto sapevano che li avrebbero uditi comunque.
“Devi andartene.”
“Che cosa? Voglio stare al tuo fianco.”, Charles scosse animatamente il capo, cercando di abbracciare il ragazzo, che lo spinse via.
“Non puoi. E' la mia famiglia e tu devi pensare alla tua. Tua sorella verrà perseguitata da tutti i miei fratelli. James e Lucille non si daranno pace prima di vedere ridotti in brandelli ogni singolo lupo mannaro di Londra e fidati di me, se ti dico che è meglio che tu scappi via. Ritorna in America, sposati e vivi lontano da questa vita. La Confraternita è perduta, ma voglio che tu stia al sicuro.”
“Ma io voglio stare con te, Jean. Non puoi chiedermi di andare, di dimenticarti, di lasciarti... Non adesso che stava andando tutto bene.”
“E' mio fratello, Charles. Cosa vuoi che faccia? Non riesco a guardarti negli occhi senza darmi la colpa. Sono stato io ad avvicinarla a mio fratello. Io! E per cosa? Per questo desiderio egoistico di essere amato.”, Jean stava piangendo, singhiozzando come un bambino, davanti ad un Charles distrutto dal dolore.
“Io ti amo! Non te lo lascerò fare, Jean.”
“Se mi ami veramente, dovrai farlo. Ti prego, non rendere tutto più difficile, ti scongiuro, Charles!”, Jean lo abbracciò, poggiando le mani sul suo viso e unendo le loro fronti. Le lacrime bagnavano i volti di entrambi i ragazzi. Dolore, solo dolore e sofferenza nelle loro vite. Non poteva guardarlo negli occhi senza vedere William quasi morto e non poteva neanche vivere senza di lui. Doveva scegliere e avrebbe scelto la famiglia, ma faceva ugualmente male e faceva soprattutto schifo.
“Non doveva andare così, Jean.”
“Lo so, avremmo dovuto vivere tanti anni felici; ce ne saremmo andati di qui, avremmo vissuto lontano dalla civiltà, dalla società che non ci accetta per ciò che siamo.”, Jean sorrise, chiudendo gli occhi. Rimasero per tutto il tempo in quella posizione, l'uno appoggiato sull'altro, scambiandosi qualche bacio di tanto in tanto. Non c'era vergogna, solo dolore, solo addii. Amava il suo nemico, che cliché!
“E se dovessero farti del male, amore mio? Io non posso... Non posso permettere loro che questo accada. Avevano mandato me, avevano mandato me per fare il lavoro che Katherine avrebbe dovuto fare e io ho trovato l'amore della mia vita. Mi sono innamorato di te, ho imparato ad amarti e sopportare tutte le tue insicurezze e i tuoi dubbi, quando io, dal primo momento che ti ho visto, con i tuoi occhi leggermente a mandorla e i capelli d'ebano, sapevo che ci saremmo appartenuti.”, Charles singhiozzava e tremava. Jean lo strinse a sé e poi decise di lasciarlo andare via. “Se tu dovessi morire, io morirei. Siamo collegati da un filo invisibile, ma che mi punge dolorosamente il cuore ogni volta che tu sei lontano.”
“Non è il nostro secolo, semplicemente, Charlie. Arriverà il momento e io sarò qui ad aspettarti.”, Jean sbuffò, cercando di smettere di piangere. Si stavano comportando da stupide femminucce! E stavano rendendo tutto più difficile.
“Non farti uccidere, d'accordo?”
Jean annuì, prendendogli la mano. “ E tu scappa, mettiti al sicuro.”
“Dovrò portare Katherine con me. E' mia sorella...”
“Cosa non si farebbe per la famiglia?”, Jean e Charles si guardarono un'ultima volta, studiandosi, imprimendo un'ultima volta il viso dell'altro nella memoria. Amanti sfortunati dal primo momenti nel quale si erano incontrati. La felicità li aveva accompagnati per un piccolo periodo, ma adesso li aveva abbandonati.
Avrebbe vissuto, si ripeteva Jean, guardandolo andare via e poi scomparire mentre scendeva le scale. Avrebbe vissuto e lui l'avrebbe aspettato, perché prima o poi il filo li avrebbe fatti tornare insieme. Ma, in quel momento, il suo cuore sanguinava.








Jean scomparve per le prossime due ore e si udì solamente il suono triste e armonioso del violino, suonare per tutta la tenuta dei Nottern. Gli altri erano in continua attesa. Lucille e James si scambiavano il turno ogni mezz'ora, non lasciando entrare nessun altro. Tutto taceva, nessuno parlava, c'era solo l'attesa che incombeva su di loro.
Theresa guardava quegli esseri, quei succhia sangue che l'avevano accolta in casa loro, che la trattavano come se non esistesse, quando una di loro, tanto tempo prima, aveva cercato di ucciderla, solo perché aveva osato nascondersi nella sua camera e invadere la sua privacy.
L'avevano dimenticata nell'esatto istante nel quale William aveva spezzato il collo alla sua amante/sorella. Doveva ammettere che ancora non capiva cosa ci fosse tra quei due, era tutto molto confuso.
Roman era stato l'unico, probabilmente il meno incasinato di tutti, ad accoglierla e trattarla da essere umano. Era il più grande, il più forte, il più saggio, quello che aveva vissuto di più, quello che ne sapeva di più di tutti loro. Era stato trasformato direttamente quando era nell'utero, era qualcosa di mai visto prima. Potente, solo come Vladimir e Camille.
Theresa, standogli vicino, non udiva tutto quello. Certo, nel primo istante c'era stata della soggezione, ma era sparita nel momento esatto nel quale lui le aveva sorriso. Era bello, anzi molto bello, con quei capelli dorati e gli occhi azzurri, mentre lei era troppo sciatta, con i suoi lunghi e nerissimi capelli che la facevano somigliare ad un morto, causa anche la pelle pallidissima. Aveva visto in lui, inizialmente, una sorta di figura paterna, un fratello maggiore che l'avrebbe protetta dai brutti mostri dentro l'armadio, mostri ai quali aveva smesso di credere all'età di dieci anni, ma che effettivamente erano veri. Roman l'aveva accolta sotto la sua ala protettiva, perché le faceva pena e le dispiaceva per lei. Era un mostro, ma uno di quelli gentili. L'aveva aiutato nei suoi esperimenti e lui le aveva comprato del cibo di nascosto e dei vestiti. Non le aveva mai fatto mancare nulla.
E ben presto, si era innamorata di lui e lui di lei. Nessuno si era accorto di loro, poiché sapevano nascondere la cosa; Roman diceva sempre che suo padre non avrebbe approvato e non voleva essere motivo di delusione per lui.
Ma proprio quando avevano deciso di venire allo scoperto, fregandosene del parere degli altri, William rischiava la vita. Theresa si portò le mani sul ventre, accarezzandolo. Si erano sposati, in gran segreto, due settimane prima. L'anello scintillava sul dito, mentre il figlio che portava in grembo necessitava di venire protetto da tutta quella situazione.
Erano rimasti soltanto loro, lei e Roman, davanti a quella porta scura. Seduti per terra, l'uno nelle braccia dell'altra.
“Comincerà una guerra, Roman. E tu avrai un figlio. Devi scegliere cosa vuoi. So che non è il momento di parlarne, so che tuo fratello sta lottando contro la morte, ma tu devi decidere adesso, perché che lui viva o muoia, voi andrete a scontrarvi in modo soprannaturale contro questa Confraternita e io non posso restare a casa ad aspettarti, pregando che tu non muoia. Dio non mi ascolterebbe, poiché porto in grembo la creatura del diavolo, nonostante io ti ami con tutta me stessa.”, Theresa lo guardò, occhi blu contro occhi di ghiaccio. Roman le accarezzò la guancia, baciandole la fronte dolcemente, mentre con l'altra mano le accarezzava il ventre leggermente gonfio.
“Sono la mia famiglia, non posso comportarmi da codardo. Jean ha addirittura detto addio a Charles e James farà lo stesso.”
“Esmeralda e Charles non aspettano un figlio, Rom! Credi forse che sapendo come stavano le cose, Jean avrebbe lasciato andare Charles, se fosse stato una donna?”, Theresa si agitò, le guance arrossate per la rabbia. “No! Perché quando aspetti un figlio e hai una moglie, quella è la tua nuova famiglia, per quella devi lottare e quella devi proteggere. Tutto il resto non conta. Non posso crescere un figlio da sola, Roman, soprattutto se avrà preso questa cosa da te. Sono ancora umana! E se dovessi morire di parto? Partorire è una cosa pericolosa. Per quanto io possa sembrare più piccola, ho diciotto anni, ma comunque non bastano per crescere un figlio. Avrà bisogno di te, Rom, di suo padre.”
“Ho una grande fortuna da parte, conservata proprio per queste evenienze, mia stella. Tu e il piccolo vivrete una vita più che agiata. Camille non vi lascerà da soli.”
“Io non voglio Camille, voglio te!”, Theresa si alzò. Aveva le lacrime agli occhi. “Parlane con i tuoi fratelli, Roman, ti chiedo solo questo. Discutine con loro e quando avrai scelto, se me o loro, potrai ritornare nel letto con me. Altrimenti, puoi anche andare a farti fottere!”
“Theresa!”, Roman la chiamò, ma non ci fu niente da fare, cocciuta com'era, non si sarebbe girata indietro. “Maledette donne!”






AN//
Salve a tutti!
Rieccomi con questo capitolo molto più lungo del solito e ricco di avvenimenti.
Come vi sembra? Ci ho messo particolarmente il cuore per questo capitolo, anche perché ci stiamo avvicinando alla fine di tutto.
Will riuscirà a vivere? Vladimir e Camille che fine hanno fatto? E' vero che non sono genitori responsabili, ma non si sarebbero mai comportati in questo modo. E Charles e Katherine? La confraternita? Nel prossimo capitolo avremo alcune delle risposte, non tutte!
Commentate, facendomi sapere cosa ne pensate e come andrà a finire secondo voi!
Al prossimo capitolo! xx

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Capitolo 15
*** Il giorno in cui Tennynson morì. ***


CAPITOLO QUATTORDICI.
IL GIORNO IN CUI TENNYSON MORI'.


 

“Tutte le tragedie finiscono con la morte, tutte le commedie con un matrimonio.”

-Lord George Byron.




Lucille si svegliò; qualcuno le stava accarezzando la guancia. Dita fredde contro pelle fredda. Aprì gli occhi, provando del leggero fastidio per i forti raggi del sole. Era giorno.
“Buongiorno, principessa. Non vorrei sembrarti deluso, perché non lo sono mai nel svegliarmi e trovarti nel mio letto. Ma che cosa ci fai qui?”, la voce di Will, assonnata e roca, la fece sorridere.
“Will...”, sussurrò, non credendo ai suoi occhi. Se quello era un sogno, era meglio che nessuno la svegliasse per il suo bene. Lo abbracciò, sentendo il suo profumo di pulito e neve, strinse quel corpo magro e freddo, felice e sollevata. “Grazie al cielo stai bene. Stavo morendo di paura, pensavo veramente che ti avrei perso. Un attimo prima eri con me e quello dopo non c'eri più. Oh, Will, il mio William, il mio amore.”
“Dovrei rischiare di morire più spesso allora.”, Will le sorrise, ma le sembrò diverso. Nei suoi occhi non c'era più tristezza, dolore, sofferenza. Solo felicità, pace, quiete. Un Will così non l'aveva mai visto, non pensava neanche che esistesse un William così.
“Non scherzare su queste cose, ti prego.”, Lucille lo strinse maggiormente a sé. Se avesse avuto un cuore funzionante in quel momento, era sicura che sarebbe uscito dal petto per battere con quello di William, del suo poeta maledetto preferito.
“Sto bene, Lucie, sto bene ora, non c'è più niente di cui preoccuparsi. Starò bene, staremo bene. Tutta questa situazione è servita per farmi rendere conto della situazione della quale ero prigioniero, della mia depressione. Mi farò aiutare, diventerò migliore per te e per James e per tutta la nostra famiglia e quando sarò guarito perfettamente potremmo stare insieme, vivremo tutta l'eternità felici.”, Will le sorrise, baciandole il piccolo palmo della mano. Le si riempiva il cuore di gioia nel sentirlo parlare così, nel vederlo muoversi, nel vederlo sorridere.
Non avrebbe mai amato nessuno in quel modo, nemmeno se stessa. La sua parte cattiva, la sua parte preferita.
“Adesso che sei qui, ha tutto più senso.”, Lucille lo baciò, assaporando il sapore delle sue labbra e liberandosi di tutte le preoccupazioni, delle lacrime e del dolore che aveva versato per tutti quei secoli e quella notte.
Era vivo e nient'altro contava.
Il suo William era tornato da lei e sarebbe rimasto.
“Arriverà il nostro momento, Lucille, ricordalo. Vivi la tua vita con Dorian e quando io tornerò da te, guarito e in forma, non ti lascerò andare mai più.”
Non poteva dire cose più giusta di quella.






Le urla di Lucille si sentirono per tutta la tenuta. Roman, che era rimasto per tutta la notte ad aspettare, corse ad aprire la porta della stanza, con James e Jean dietro di lui. I tre fratelli rimasero impietriti sull'uscio, guardando la sorella in lacrime e gridante, accasciata sul corpo immobile e già in putrefazione di William.
“No, non può essere.”, fu tutto quello che disse James, talmente piano che a Roman sembrò esserselo sognato. Lucille era come impazzita. Si dimenava, colpiva il corpo dell'amante, cercava di farlo rinvenire, urlava, gridava il suo nome, piangeva. Jean corse da lei, la abbracciò da dietro, cercando di staccarla dal corpo morto di Will, mentre Lucille si dimenava invano e allungava le braccia verso il cadavere.
“Il mio Will! Il mio Will! Me l'hanno portato via, no vi prego, no!”, urlava, cercando di liberarsi in tutti i modi. Colpiva Jean, dandogli del bastardo, di lasciarla andare, che la sua vita era finita, che avrebbe anche potuto bruciare la Londra intera, il dannato mondo, ma senza di lui, la vita, l'esistenza non aveva senso.
“Ti prego, Lucille, ti prego.”, Jean, dal canto suo, piangeva. Aveva la faccia bagnata da lacrime che non avrebbero mai finito di scorrere e che rendevano il suo incarnato ancora più pallido. Morti che camminavano, lo erano tutti.
“James...”, Roman, la voce roca per il pianto trattenuto, fermo tutto in gola, si girò per accertarsi della incolumità mentale del fratello. Ma lui era sparito, svanito completamente nel nulla. “Cazzo.”
L'enorme ragazzone avanzò nella stanza, ignorando le urla di Lucille e Jean, che apparivano ovattate nelle sue orecchie e si avvicinò, sentendo solo il rumore dei suoi passi che calpestavano il pavimento impolverato.
William Nottern, amato fratello, giaceva immobile, pallido e in decomposizione sul letto pregiato dalle lenzuola rosse. Le mani ferme ai lati del corpo e un mezzo sorriso sulle labbra, il solito sorriso malizioso e da furbastro, gli occhi chiusi e le ciglia che gli sfioravano le guance. Poteva essere uno dei suoi soliti scherzi, probabilmente stava dormendo, probabilmente ci voleva ancora un altro po'.
Ma in cuor suo, sapeva qual era la verità, per quanto difficile e bastarda fosse da accettare. William, amato fratello, era morto. Tutti quel giorno avevano perso qualcuno. I Nottern un figlio, Lucille un pezzo di anima, di cuore e il senno, James il suo migliore amico e la sua metà, Roman e Jean un fratello, il mondo uno scrittore dall'animo tormentato e Londra, Londra stava per perdere tutti i suoi abitanti.
Roman avrebbe fatto di tutto, pur di vendicarsi, così come il resto della sua famiglia. Tutti, avrebbero visto di che cosa era capace la progenie del diavolo, tutti avrebbero visto la loro furia.
Non si tocca la famiglia del diavolo senza essere responsabili delle conseguenze.
“Ti vendicherò, fratello, puoi stare tranquillo su questo.”






Jean, aiutato da Roman, ripose il corpo di Will, vestito di nero e con una margherita bianca nella tasca del panciotto, nella bara, situata nell'enorme mausoleo della tenuta. Roman vi aveva inciso una frase di Shakespeare, il principe delle tenebre è un gentiluomo. Accanto a lui riposava Francisco, l'altro caduto per colpa di quei bastardi.
Avevano in mente di agire, non appena avessero trovato James e Lucille si fosse ripresa un po' dalle sue crisi isteriche di pianto e ira fuori controllo.
Jean era convinto che non le sarebbe mai passato, non passa mai, ma non potevano portarsela con loro in quelle condizioni; avevano avuto abbastanza morti.
“Spero proprio che quello zuccone di nostro fratello James, non abbia fatto qualcosa di avventato.”, borbottò Roman, afferrando la piccola mano di Theresa, che si accarezzava il ventre guardando la lapide di William. “Theresa, va' a mangiare qualcosa, io ti raggiungo subito. Voglio restare da solo con Jean, non ti avvicinare a Lucille.”
La mora annuì, forzando un sorriso. Guardò Jean e poi abbassò la testa, correndo via. Roman la seguì con lo sguardo, finché non varcò la porta di casa.
“Mia moglie è incinta, Jean, ecco di che cosa volevo parlarti, prima di tutto questo caos.”
“Lo so, Rom, lo so. Anche un cieco lo saprebbe.”, Jean forzò un sorriso, quando voleva solamente piangere. Prima Charles e poi William, era troppo anche per un essere secolare come lui da digerire. Era felice per suo fratello, ma lo sarebbe stato di più se tutta quella situazione non fosse accaduta. “Che cosa vuoi fare? Se non vuoi prendere parte a questo suicidio per pensare a Theresa e al piccolo, non ti preoccupare. Sia io, James e Lucille capiremmo. Devi pensare a loro.”
“No, non era quello che intendevo.”, Roman scosse il capo, grattandosi il lato della bocca. “Verrò con voi. E Theresa andrà con Esmeralda e Camille in un posto sicuro. Esmeralda mi ha mandato una lettera, dicendomi che aveva scelto James, che sarebbe rimasta con lui e che avrebbe protetto la nostra famiglia come meglio poteva.”
“Non puoi dire sul serio! Loro hanno bisogno di te. Non puoi mandarle via così! Camille non sa neanche combattere e solo la magia di Esmeralda non basterà a contrastare possibili attacchi da lupi mannari o streghe. La magia ha un limite di tempo, prima poi si esaurisce!”
“E' la mia decisione. Theresa non sa il mio piano, pensa che la raggiungerò dopo in Scozia, al rifugio, ma non sarà così. Rimarrò qui con voi, ad aiutarvi. Lo faccio per loro, per mio figlio. Credi che quelli della Confraternita la lasceranno in pace, quando verranno a sapere che aspetta un figlio da un upir? Mio figlio è qualcosa di mai visto in natura e non sappiamo come questi maledetti figli di puttana possano reagire alla notizia. Hanno ucciso per molto meno.”
Jean sospirò, sapendo quanto fosse cocciuto il fratello e che qualsiasi motivazione lui gli desse, non avrebbe funzionano dal principio. “Ad ogni modo, Camille e Vladimir dove sono? Non li vediamo da giorni. Non è normale neanche per loro tutto questo distacco.”
“Non ne ho idea e questo mi preoccupa, perché se non avremo nostro padre al nostro fianco, il più potente tra tutti noi, siamo fottuti.”
“Bene.”, Jean annuì, passandosi le mani sulla faccia. Era distrutto. E l'unico pensiero che aveva in quel momento nella mente, era la faccia di Charles e la sua incolumità e l'unica cosa che aveva nel cuore, era la morte di William.
Si sarebbero battuti, perché un Nottern non si tira mai indietro, ma le possibilità di perdere erano alle stelle.








L'enorme palazzo in stile vittoriano era situato nel centro londinese; un perfetto luogo nel quale ci si poteva camuffare per non attirare l'attenzione, soprattutto dei Nottern. Era in corso una riunione. I membri della Confraternita erano riuniti attorno ad un enorme tavolo ovale, vestiti di nero e incappucciati e con enormi anelli d'oro alle dita, i quali riportavano la faccia di un lupo per i licantropi e delle scintille per le streghe della grande Congrega. A capo tavola c'era colui che dirigeva, colui che aveva inventato la Confraternita tempo addietro, il più spietato e malvagio di tutti, Vladimir Nottern.
Lui, con la sua perfezione e freddezza unica, guardava i suoi sottomessi parlare e quando proferiva parola, nessuno si azzardava ad aprir bocca, c'era un silenzio tombale. Tutti lo guardavano con ammirazione e timore, poiché i suoi grandi occhi verdi e i suoi capelli rossi come il fuoco dell'Inferno, mettevano soggezione. Era un essere secolare, il primo di tutti, il più malvagio, il Diavolo era il suo soprannome. Lo chiamavano così perché grazie alle sue capacità oratorie, sapeva convincere anche il più testardo e la sua cattiveria, la sua malvagità, il suo essere spietato e manipolatore non potevano essere eguagliate da nessuno. Alcuni dicevano che fosse Lucifero stesso in persona, altri che fosse il suo degno erede.
Vladimir aveva fatto e aveva fatto fare cose orribili, impensabili. In Romania, secoli addietro, aveva ucciso un intero esercito di ottomani, strappando loro la testa dal collo e poi impalandoli uno ad uno sul terreno; aveva sterminato famiglie, villaggi, bruciato città intere, ma l'aveva fatto sempre per la famiglia, per amor loro, per proteggerli, perché anche se non erano figli suoi, li amava esattamente come amava Roman. Ma poi si era stancato. Erano uno più ingestibile dell'altra. Roman, James e Camille non sapevano controllarsi, avrebbero potuto mangiarsi l'intera popolazione umana in un mese. William era un pazzo, un fuori di testa, un depresso senza via di fuga e sfogava quel suo malessere nelle droghe e poi nel sangue. Jean era un invertito, un sodomita, che cercava di nascondere il suo vero essere, ma l'avevano capito tutti. E Lucille, probabilmente, era l'unica che aveva meno colpe di tutti, dopo Francisco. Probabilmente la sua unica pecca era stata il suo debole per sangue di bambini appena nati, che di notte rubava dalle culle.
Vladimir non poteva continuare a rimediare ai loro casini, nascondere le loro tracce per sempre. Era un segreto che dovevano mantenere, per non finire ammazzati, per l'eternità. Aveva sempre ucciso per loro e poco dopo l'amore si era trasformato in odio. Era quello il motivo per il quale aveva ucciso il capo della Confraternita, un licantropo, e se ne era messo a capo. Doveva uccidere ogni singolo componente della sua famiglia, estirpare l'erba cattiva.
Subito dopo essersi fatto accettare, aveva preso e cominciato a cercare Camille. Si era recato con la prima nave a Parigi e lì aveva cercato sua moglie, che avrebbe dovuto dare inizio al suo piano. Ci avevano messo un secolo, ma erano riusciti a riunirsi a Londra, sede della sua Confraternita. E il suo piano stava finalmente per compiersi.
Era stato lui a mandare Katherine da William, Charles da Jean e Dorian da Lucille. Sapeva che avrebbero attirato la loro attenzione, conoscendoli, e sapeva che il suo piano sarebbe andato a gonfie vele. Di James, Roman e Camille se ne sarebbe occupato personalmente.
Credevano tutti di avergliela fatta sotto il naso, pensavano di avere i loro oscuri segreti, ma lui sapeva, sapeva tutto e aveva sempre saputo.
Vladimir si accarezzò la mascella, guardando il corpo senza vita sull'enorme tavolo. L'anello dorato sui quali aveva fatto incidere dei canini appuntiti, brillava sotto la luce debole. Osservò tutti i membri dell'alta società alzarsi dal tavolo, togliendosi i cappucci, tra di loro c'erano visi importanti, tra cui la regina Victoria, vedova da tempo, che impassibile e dal volto serio, ascoltava Katherine parlare della missione. Vladimir accennò un sorriso, guardandoli. Aveva cinquant'anni e lui ricordava quando appena diciottenne aveva preso il potere. Aveva visto morire il suo più grande amore, il principe Albert e il suo amico più fidato, Lord Melbourne. Adesso era sola e con nove figli che presto se ne sarebbero andati per la loro strada, si sarebbero sposati e avrebbero avuto una famiglia tutta loro.
Come si sarebbe sentito lui, quando tutto quello sarebbe finito?
William era morto e Vladimir, per il collegamento che aveva con tutti i suoi figli, poteva confermarlo. Non lo sentiva più. Era una parte di lui che moriva, ma non la più importante. Quando se ne sarebbero andati anche Roman e Lucille, che avrebbe provato?
Quando la ragazza ebbe finito, sparì nell'ombra e Vladimir annuì, in segno di complimento. “Per quanto riguarda Jean, Charles dovrebbe finirlo a momenti. Con la perdita di mio figlio, gli altri sono tutti deboli e distrutti dal dolore. Dovremmo colpire al più presto, Dorian siete d'accordo?”
“Sì, signore. Per me non ci sono problemi. Sono pronto a qualsiasi ordine voi mi darete.”
“Bene, potete ritornare alle vostre faccende, signori e signore.”
Tutti se ne andarono, ma rimase solamente la regina d'Inghilterra. Si alzò, raggiungendolo con eleganza e classe. L'aveva sempre ammirata per quello; era la regina migliore che l'Inghilterra avesse avuto.
“Non so come voi ci riusciate Vladimir.”
Il capo famiglia osservò il cadavere sul tavolo. Vestiti pregiati, pelle pallida e bianchissima, capelli di un biondo innaturale, belle labbra e occhi grandi. La sua Camille.
“Lei doveva essere la prima, Victoria. Avreste ucciso per vostro marito e io è esattamente ciò che ho fatto per lei, per secoli, non mi sono piegato al mio dovere da marito e al mio 'per sempre'. L'amavo e l'amo ancora, nonostante tutto, ma ci sono amori e relazioni che si dovrebbero sacrificare per il bene comune. La mia famiglia è un agglomerato di mostri senza controllo. L'umanità ha dovuto sopportare troppo a lungo omicidi da questi mostri.”
“E voi riuscirete a vivere con il senso di colpa e il dolore?”
“Non è forse ciò che accomuna uomini e mostri, il dolore e il senso di colpa?”
“Vi auguro buona fortuna, Vladimir.”
La regina sparì nell'ombra, così come tutti gli altri e Vlad si alzò, sollevandolo il corpo morto e privo di vita della moglie. La strinse tra le braccia, baciandola un'ultima volta.
“Mi dispiace, Mina, mio amore. Spero mi perdonerai. Ma è una cosa che ho dovuto fare. Ci vederemo presto e allora potremmo vivere per l'eternità, qualsiasi posto ci spetti.”

 

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Capitolo 16
*** Pesci fuor d'acqua. ***


CAPITOLO QUINDICI.
Pesci fuor d'acqua.


“Voi che per amare contrattate domande e risposte. Da dove vieni, cosa fai, chi sei, cosa ti piace, cosa non ti piace? Parole, questo lo chiamate amore? Amore e morte hanno solo due lettere di differenza, soltanto due, per questo Frattaglia lo amò subito. A prima vista. Senza chiedere – non poteva rispondere. Senza domandare – non poteva udire. Si amavano: uno da vivo e l'altro da morto. La loro unione era perfetta.”
- Vodka&Inferno: la morte fidanzata. (Penelope Delle Colonne.)











Il bisogno è qualcosa a cui tutti ci affidiamo e abbandoniamo prima o poi. Ma ci sono due tipi di bisogni: quelli di cui non possiamo fare a meno per la nostra salute fisica e quelli di cui necessitiamo per quella mentale.
La mattina abbiamo bisogno di un caffè, di una sigaretta; a mezzogiorno di un pasto caldo per continuare al meglio; la sera di una tisana per spegnere il cervello e cercare di dormire sonni tranquilli e profondi. Viviamo in un asfissiante, noiosa e subdola routine e il sonno è importante.
Ce ne sono altri, di desideri, di bisogni, più profondi, cupi e oscuri senza i quali l'uomo non viene differenziato da un oggetto. Non possono essere strettamente collegati l'uno con l'altro, ma hanno qualcosa che li accomuna e li rende importanti.
L'amore è quello più importante, più oscuro, più pauroso di cui si parla sempre perché necessario anche solo produrne il suono con la lingua. Senza di esso l'uomo sarebbe perduto, ma con esso è pazzo e cattivo.
L'amore rende schiavi e gli uomini necessitano la libertà.
L'uomo ha bisogno di farsi del male, poiché è l'unico essere tremendamente, tragicamente e felicemente masochista. Si fa del male, scegliendo l'amore; si fa del male, fumando; si fa del male, pensando.
L'uomo ha bisogno di farsi del male, poiché il dolore è la cosa che conosce meglio, prima dell'amore. Gli uomini soffrivano prima di scoprirlo l'amore, e i neonati, esseri più saggi del mondo, questo lo sanno, ecco perché quando vengono al mondo, piangono.
L'uomo soffre quando nasce, soffre quando vive, soffre quando ama, soffre fino all'attimo prima della Morte.
La Morte è l'unica libertà reale che l'uomo riesce a sperimentare. Essa è l'unica amica.
Il bisogno più grande.






Lucille quando era piccola amava andare a pesca con suo padre. Sostava per ore su una piccola barchetta in legno che traballava ad ogni piccolo movimento. Amava la calma, la pace, il silenzio che circondava il piccolo laghetto, ma ricco di pesci, del suo piccolo paesino natio.
Suo padre indossava sempre un cappellino di paglia, che lei aveva realizzato a tre anni con la sua defunta madre e tutte le volte rischiava di cadergli in acqua, quando i pesci abboccavano all'amo.
Lei aiutava suo padre a buttarli sulla barchetta e li osservava, mentre si contorcevano come pazzi nel loro stesso sangue, il terrore e la consapevolezza di star per morire. Annaspavano, soffocavano, soffrivano e infine morivano tra atroci sofferenze. Lucille li osservava e sperava, tutte le volte, di non morire in quel modo. Privata della cosa più essenziale, della sua acqua, del suo ossigeno. Il terrore nei loro occhi e la vita che li abbandonava, poco alla volta, mentre loro si contorcevano, contorcevano, contorcevano...
Ma adesso si sentiva esattamente come un pesce fuor d'acqua. Il pescatore l'aveva catturata
e lei si contorceva come una pazza alla ricerca del suo ossigeno, si appigliava con tutte le forze a qualcosa che non c'era più e che non avrebbe mai più rivisto.
Will, il suo amato Will, il suo cuore, la sua anima, la sua parte malata.
Aveva perso il senno, poteva sentirlo abbandonarla poco alla volta. Infondo, non sarebbe stata la prima a impazzire in seguito la morte di un amato; era molto poetica la cosa, anzi.
Era tornata a casa sua, da suo marito, dopo due giorni nel quale aveva quasi interamente distrutto la tenuta dei Nottern. Dorian era venuta a prenderla, dopo che Roman e Jean gli avevano scritto una lettera.
E adesso era chiusa in camera sua, nell'enorme letto matrimoniale, a piangere. Non pensava che il suo corpo avesse così tante lacrime, eppure per quanto ne versasse, non finivano. La camera era diventata un cimitero con corpi sventrati, senza testa, arti, occhi. Sangue e orrore ovunque.
Lo vedeva ovunque, nei suoi sogni e negli angoli bui della camera. Lo sentiva sulla sua pelle, nelle sue orecchie, nella vista, nel sangue. William era dappertutto, era parte di tutto il mondo, ma allo stesso tempo ne era svanito.
L'aveva sempre avuto accanto, anche nei momenti nei quali si erano odiati. Non c'era secolo in cui, lei e lui, non si fossero incontrati anche solo per cinque minuti. I loro destini erano incrociati e il filo che li univa, quello che adesso le aveva lacerato il cuore spezzandosi, una volta tirato troppo a lungo, li riportava uno fra le braccia dell'altra.
“Devi smetterla, Lucille.”
“Di fare cosa?”, la ragazza alzò il capo con i lunghi capelli che le solleticavano le braccia nude. La camicia da notte che si era incastrata fra le gambe in un groviglio confuso e stropicciato. Sorrise, notandolo steso al suo fianco sul letto. Era vestito di bianco e emanava una strana luce bianca. I capelli biondi scintillavano e la invitavano a venire toccati e gli occhi chiari la guardavano come a rimproverarla. Poggiava la testa sulla mano e la osservava, mentre le dita, straordinariamente calde, le accarezzavano il viso.
“Di fare la cretina. Non diventare come me, non ne hai motivo.”
“Tu non ci sei più.”
“Hai un marito.”
“Amo te, non lui.”
“Provaci. Dimenticami. Vivi.”
“Solo se ritorni da me.”
“Non posso ritornare da te. Sono morto.”
“Ti vendicherò. Ammazzerò tutti loro, ogni abitante di Londra e verserò tutto il loro sangue sulla tua tomba.”
“Non farti consumare dal dolore. Non deve essere tuo amico, ma tuo nemico. La morte non è la soluzione ai tuoi problemi, non lo è mai.”
“Per i tuoi lo è stata. L'hai desiderata così a lungo, amore mio, che Lei ti è venuta a prendere. Come stai adesso? Sei felice?”
“Eternamente lo sarò, ma non voglio che a te capiti lo stesso.”, Will le accarezzò l'incavo del collo, sorridendole. “Io ero spacciato, per te c'è ancora una piccola speranza.”
“La speranza è la prima a morire.”
William rise, alzandosi dal letto e guardandola un'ultima volta. “Non credo fosse così il detto, sai.”
Lucille si alzò, gattonando sul letto e afferrando un lembo di maglietta di William, che si fermò dall'andarsene.
“Ho bisogno di te, ti prego con mi abbandonare.”
“L'unica persona di cui hai bisogno è te stessa. Arrivederci, Lucille. Ci vederemo prima o poi.”
William scomparve all'improvviso e la mano di Lucille ricadde sul letto. Dalla gola della ragazza fuoriuscì un urlo disumano e la sua vera essenza venne fuori. Con i capelli arruffati, la camicia da notte sporca di sangue e gli occhi da demone, scese dal letto e uscì dalla camera. Urlò il nome di una delle serve, che accorse subito da lei. La guardò, terrorizzata e indietreggiò, impaurita.
“Rebekkah cara, ti andrebbe di giocare al gatto e al topo?”, Lucille rise, leccandosi i denti appuntiti. “Io faccio il gatto e tu il topo, ovviamente.”
“No, signora, ve ne prego, ho un figlio da crescere! Non ha un padre!”
“Io avevo un'anima, ma me l'hanno portata via, me l'hanno strappata dal petto e sanguinerà per sempre. Ci tolgono sempre il nostro più grande desiderio, il nostro più grande bisogno. Tu sei quello di tuo figlio, William era il mio.”, una lacrima scese sulla sua guancia, andandosi a mischiare con il resto. “Adesso corri, topino, che il gatto ti sta per mangiare.”






Dorian entrò in casa, dopo la riunione con la Confraternita. L'anello brillava ancora sul suo dito, splendente e minaccioso, mentre un pugnale in frassino affilato e letale, era stretto nella sua mano.
La prima cosa che sentì, non appena varcò la soglia della porta di casa, fu il tanfo di morte che vi regnava. Poi li vide: sangue sui muri, arti staccati malamente giacevano per terra, cadaveri, morte nella sua distruzione più totale.
Lucille, la sua odiata moglie, sedeva su una pila di cadaveri e guardava fisso davanti a sé, come una di quelle vecchie imperatrici, padrona del mondo e della morte.
Il suo sguardo era come spiritato, pazzo, vuoto. Un essere senza anima e senza volontà, schiava della fame, dei capricci e del diavolo.
Dorian si fece il segno della croce, avanzando lentamente verso la ragazza. Le scarpe di fattura pregiata, italiane, facevano rumore. Il pavimento era appiccicoso per tutto quel materiale umano e man mano che ci si avvicinava, lo scempio era peggiore. Cercò di evitare una mano, sulla quale era rimasta ben poca carne e pestò un bulbo oculare.
“Bentornato, marito caro, com'era Londra quest'oggi?”, Lucille gli sorrise, buttando alle sue spalle uno dei servitori, come se fosse stato un oggetto senza vita, un niente. Sedeva nella penombra del corridoio d'entrata, tutta sporca di sangue, mezza nuda, con i capelli slegati e sporchi, nella sua essenza naturale, come il mostro che era.
“Ipocrita, mia cara.”, Dorian le sorrise, facendo cenno, subito dopo, a tutto quello schifo. “Vedo che ti sei divertita parecchio, questa mattina, Lucille.”
“E tu anche tu.”, la upir fece cenno al pugnale che aveva cercato di nascondere nella manica della giacca, non appena l'aveva vista. Dorian scrollò le spalle, facendoselo scivolare in mano.
“Non vorrei diventare il tuo prossimo spuntino.”
“Mi dispiace, Dorian, ma non mi piacciono gli stronzi narcisisti.”, Lucille scese dal suo trono, pestando con i suoi piccoli e bianchissimi piedi tutte le sue vittime e raggiungendo il marito. Talmente tanta era la grazia che accomunava gli esseri come lei, che quando camminavano, sembravano vibrarsi nell'aria. Non producevano rumore. “Che cosa vorresti fare, uccidermi?”
“Quando lo sai, perché chiedere?”
“Per fare un po' di conversazione. Siamo sposati da poco tempo, mio caro, stai già cercando di ammazzarmi?”
“Non sarebbe un matrimonio come si deve, se non lo facessi.”, Lucille sorrise, riacquistando il suo aspetto da povera ed indifesa donzella. Persino in tutto quel peccato, risplendeva come la più bella delle stelle. Poggiò le mani sul petto dell'uomo, alzando il capo e sorridendogli, raggiante. Dorian le cinse la vita, accarezzandole la schiena ghiacciata. Le passò la punta del pugnale sul viso, delicatamente, mentre lei gli accarezzava il viso con le dita.
“Adesso stai cominciando ad essere più interessante, mi dispiacerebbe doverti lasciare.”
“Quasi dimenticavo il tuo amore per gli psicopatici, Lucille.”
“Mhh, vuoi dire di esserlo?”
“Forse sì o forse no, questo non lo scoprirai mai.”
“Sai che ti uccideranno, quando avrai finito con me? Non c'è posto per le persone come noi, in questo mondo. Ce n'è a malapena per gli umani.”
“Non mi importa.”
“Allora uccidimi, non ti impedirò di farlo. Voglio andare da lui.”
“Non prenderla sul personale.”
Lucille scrollò le spalle, chiudendo gli occhi e alzandosi sulla punta dei piedi per baciare il marito sulla guancia liscia e perfetta, le mani poggiate sulle spalle.
In un attimo la testa di Dorian fu staccata dal corpo e il suo sangue caldo le macchiò il viso e tutto l'ambiente circostante. Il suo corpo, che spruzzava ancora il liquido caldo, cadde per terra in un tonfo. L'anello e il pugnale ancora sulla mano.
Lucille rise, pettinando i capelli della testa del suo ormai ex marito. Aveva ancora un espressione felice e vittoriosa in volto.
La signora Gray cominciò a ballare con la testa del marito, volteggiando leggiadramente, mentre canticchiava un motivetto allegro. Afferrò uno dei candelabri e vi infilzò la testa, poggiandola sul suo trono fatto di cadaveri, disperazione, morte e sogni perduti.
Dopodiché, andò al piano di sopra per sistemarsi ed uscire; doveva andare da James.






Fu una settimana di inferno, quella, tra piani per vendicare la morte del loro fratello e Vladmir e Camille che sembravano risucchiati dal nulla assoluto. Roman aveva portato Esmeralda e Theresa al sicuro, in Scozia, nella loro piccola tenuta. Lucille era tornata, ma sembrava la versione femminile di Will e peggiore, se si poteva. Aveva sempre lo sguardo perso nel vuoto, parlava da sola o non parlava mai e sembrava che a stento ti capisse, quando le parlavi. L'avevano trovata assieme a James a vagare per le strade di Londra, come due vecchi amici, tranquilli e in pace col mondo.
James, invece, si era chiuso in se stesso e non parlava con nessuno. Aveva incendiato tutti i quadri che aveva realizzato di Will, buttato tutte le sue Bibbie e i crocifissi. Si chiudeva nella sua camera e consumava droghe.
William era morto, ma era come se non se ne fosse mai andato. Dietro di sé aveva lasciato due fantasmi, due specchi di sé.
Jean aveva mollato per un giorno, un soleggiato sabato, uno dei pochi nei quali Londra era completamente esposta al sole e non al suo clima bipolare.
Sapeva di trovarlo lì, in quel parco, da solo, alle dieci e mezza. Era uno dei pochi momenti nei quali poteva passare del tempo da solo e riflettere. Charles camminava, con le braccia dietro la schiena, vestito di bianco, bello come il sole, mentre osservava i bambini giocare e rincorrere le farfalle.
Decise di raggiungerlo e parlargli. Aveva bisogno di sentire la sua voce, di sapere come stava, se l'aveva dimenticato, se mai pensava a lui, di notte, la mattina, la sera... Aveva bisogno di sapere se gli mancava come l'aria, come il sangue, come il cuore, come la vita.
Prima che potesse fermarsi e cambiare, l'aveva raggiunto. Le sue gambe avevano deciso per lui. L'aveva raggiunto alle spalle, quando si era fermato davanti ad un laghetto, sul quale le anatre nuotavano indisturbate.
“Ciao.”
Charles sussultò, girandosi verso Jean e guardandolo con gli occhi lucidi. “Pensavo di aver avuto una allucinazione. Sei veramente tu, allora.”
“Sì, sono io.”
“E' successo qualcosa?”, Jean vedeva che stava cercando in tutti i modi di trattenere le lacrime e che vederlo gli causava dolore. Era felice, in un certo senso, di sapere che ciò che provava lui, era ricambiato. Charles lo amava, non aveva mentito e stargli lontano era come ricevere tante pugnalate al petto. Il cuore, nel non stargli vicino, gli faceva male ed era un sentimento tanto doloroso e orribile che nessuno doveva mai sopportare.
Avevano bisogno l'uno nella vita dell'altro, così come Lucille e James avevano bisogno di William.
Nascere, crescere, amare, scegliere, annaspare e morire tra atroci dolori e sofferenze, questa era la vita?
“No, niente. Il solito. Mi manchi.”, disse Jean talmente velocemente da non riuscirsi a fermare.
“Sei tu che l'hai voluto.”
“Ho fatto il meglio per te, ho cercato di proteggerti.”
Charles annuì, distogliendo lo sguardo da quello dell'amore della sua vita, dal suo ragazzo.
“Lo so, ma questo fa ugualmente male.”
“Non voglio finire come Lucille, Charles. Voglio te, voglio la mia famiglia e la mia vendetta. Non voglio impazzire, ma voglio farlo amandoti e standoti accanto, perché tu sarai anche un dannato licantropo, ma sei il mio Charles, l'uomo che mi ha fatto scoprire chi sono dopo secoli di bugie.”, Jean lo guardò, non riuscendosi a fermare. Parlava talmente veloce che a stento riusciva a capirsi. Charles piangeva. “Credevo di venire da te, chiederti come stavi e andarmene. Ma sono debole, sono egoista e ti voglio nella mia vita. Voglio tutto, tutto te, tutta la vita che potremmo vivere assieme. Fanculo la società, fanculo tutto perché io ti amo, anche se sei americano.”








SPAZIO AUTRICE!
Eccoci qui, mancano pochi capitoli alla fine, precisamente due, compreso l'epilogo. Preparatevi perché finalmente nel prossimo tutti i nodi si scioglieranno!
Lasciatemi un parere e alla prossima!




 

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Capitolo 17
*** La fine di un'era ***


CAPITOLO SEDICI.
La fine di un'era.



Tutto è possibile in un mondo senza Dio.”
Fëdor Michajlovic Dostoevskij



Era scoppiato un incendio. Londra stava soffocando tra le fiamme della sua ipocrisia, del suo degrado, della sua sporcizia, della sua cattiveria. Il cielo si era colorato di rosso e di nero e gli uomini morivano, non riuscendo a respirare, le donne reggevano i figli morti per strada, invocando il nome di Dio, che si era voltato dall'altra parte.
Sembrava fosse scoppiata l'apocalisse e i quattro cavalieri cavalcavano per le strade della grande città, uccidendo, dissanguando, ridendo. Roman, Jean, James e Lucille, i figli del Diavolo in persona, i lupi travestiti da agnelli, avevano svelato la loro maschera. Denti affilati, occhi rossi, pazzia, sete di sangue e di vendetta.
Londra era spacciata, la vendetta si era abbattuta su di loro.
I quattro fratelli camminavano lentamente, leggiadramente, sembrando fluttuare nell'aria, mentre i vari fumi intossicavano gli innocenti.
Lucille rideva, applaudendo e felice del suo operato, cibandosi di tanto in tanto di qualche povero malcapitato.
Si trovavano di fronte alla base della Confraternita. Lupi e streghe, i sacrificabili, si erano posizionati davanti l'enorme portone, spietati e ugualmente diabolici come loro. I quattro figli si fermarono, guardandoli uno ad uno.
I più raccapriccianti erano Lucille e James, dallo sguardo spiritato, pazzo, demoniaco. Occhi rossi, denti letali. Mostri pronti a mettere fine a qualsiasi vita e a ballare sopra le tombe delle vittime, a sputare la loro saliva velenosa.
“Esigo parlare con i vostri capi. Non intendo torcere neanche un capello a voi esseri ripugnanti, se loro acconsentiranno di scontrarsi con noi in un duello all'ultimo sangue. Tutte queste morti finiranno, non appena gli incendi verranno spenti, e questo ci consentirà di vedercela fra di noi senza essere disturbati.”, proruppe Roman, il leader del gruppo, quello abbastanza sano di mente da essere in grado di ragionare e abbastanza forte e non legato sentimentalmente alla Confraternita.
Passarono alcuni minuti e i bravi soldatini si fecero da parte, quando l'enorme porta si aprì. Vladimir, Charles, Katherine e una strega di nome Marie Catherine Leveau si fecero avanti. Il padre dei Nottern aveva fra le braccia una donna dai capelli biondissimi, quasi del tutto putrefatta e che puzzava di morte, era la povera Camille, amata e disattenta madre. Charles con gli occhi bassi e agitato, Katherine vestita da uomo e trasformata per metà. Marie Catherine Leveau una strega che avrebbe dovuto essere morta, ma che effettivamente non lo era; aveva semplicemente lasciato la Lousiana.
“Padre?”, fu Jean a parlare, aggrottando le sopracciglia.
“Salve, figlioli, scusatemi per l'assenza, ma ho dovuto organizzare la vostra morte.”, Vladimir sorrise, avanzando verso i quattro figli, che si erano trasformati nei mostri quali erano e che lui stesso aveva generato. Poggiò il corpo della moglie per terra, accarezzandole il capo con una espressione nostalgica sul volto. “Ma bando alle ciance, sì, sono stato io a uccidere vostra madre e sì, c'ero io dietro l'attacco a William e ci sono stato io dietro tutti gli altri attacchi degli ultimi due secoli. E da ciò che posso vedere, Dorian è morto. Un mostro in meno da ammazzare, meglio così!”, Vladimir ghignò, scrollando le spalle. I suoi occhi si tinsero di rosso, un rosso molto più acceso e demoniaco di quello dei figli. “Vorrei iniziare subito questa cosa, sapete ho degli impegni.”
Roman e Jean guardavano il corpo morto della madre con aria rassegnata e triste. Un altro membro della loro famiglia ucciso senza pietà. Per tutto quel tempo c'era stato lui dietro, loro padre, quello che li ha sempre protetti in tutti quei secoli, quello su cui avevano riposto tutta la loro fiducia e lealtà. L'uomo che avevano preso come modello, come ispirazione.
“Perché fate così, padre? Ci avete sempre protetto, eravamo una famiglia, una cosa sola.”
“Niente dura per sempre. Ero stufo delle vostre bravate, dei vostri omicidi. Noi siamo stati scelti, Roman, avevamo un dono da usare con saggezza e voi lo avete usato per prostituirvi, compiere oscenità e depravazioni.”
“E voi lo chiamate dono, questo? Noi uccidiamo le persone, le cacciamo e ci nutriamo di loro! E' la nostra natura e siamo mostri!”
“Certo che ne sono consapevole, ma ciò non vuol dire uccidere gente solo per il gusto di farlo. Non sapete controllarvi, è un dono che deve rimanere segreto e voi non fate altro che metterlo in pericolo!”
“Un dono che nessuno di noi ha chiesto, soprattutto io!”, urlò Roman, infuriato. “Sono nato così, non sono stato trasformato! E adesso, per colpa vostra, anche mio figlio nascerà così!”
I soldatini sacrificabili dietro di Vladimir si fecero tutti quanti il segno della croce, spaventati, terrorizzati per la nascita di un nuovo essere, dell'anticristo.
“Stai dicendo che... diventerò nonno?”, azzardò Vladimir con gli occhi lucidi. I capelli rossi che si muovevano a causa del vento.
“Sì, padre, ma non vivrete abbastanza per vederlo nascere.”






In Scozia nella piccola, ma ugualmente fin troppo grande tenuta dei Nottern, Theresa stava per partorire.
Era passata una settimana nella quale si era cibata principalmente di sangue animale per nutrire il bambino, poiché la stava praticamente dissanguando. Esmeralda l'aveva aiutata in tutto e per tutto, uccidendo gli animali per lei e mettendo una protezione attorno alla tenuta estiva dei Nottern per far in modo che nessun essere soprannaturale, che siano stati Upir, licantropi o streghe, potessero attraversarla.
Roman le aveva mentito e in quel momento era chissà dove a combattere contro quei tipi della Confraternita e solo Dio sapeva se fosse ancora vivo.
Le doglie erano iniziate all'improvviso, mentre stava assumendo un'altra dose massiccia di sangue. Theresa si era piegata in due ed Esmeralda era scattata in piedi, aiutandola a stendersi. Era stata una levatrice, in una vita precedente, e sapeva ciò che faceva. Ma se la sarebbe comunque cavata con un parto di un essere soprannaturale, mai visto prima?
“Respirate, Theresa, respirate.”
“No, Esmeralda, non può nascere adesso, non ora. E se Roman venisse ucciso, mio figlio crescerebbe senza padre e saremmo emarginati dalla società, nonostante tutti i soldi che Roman ci ha lasciato. Non può nascere ora, ritarda la sua nascita, Esmeralda, vi prego!”
“Non posso farlo, Theresa, siete già dilatata. Il bambino vuole nascere adesso ed è quello che dobbiamo fare, aspettarlo.”
“No, non posso!”, Theresa cominciò a piangere, mentre il sudore si mischiava alle lacrime. Con un gesto Esmeralda la liberò di tutti i vestiti superflui, facendola rimanere solo con la sottoveste, sarebbero state più libere di lavorare.
“Mi dispiace, ma dovete, mia cara. Adesso prendete due grossi respiri e spingete, spingete più forte che potete.”
Theresa inspirò due volte profondamente, prima di spingere e urlare. Le vene del collo si ingrossarono in una maniera preoccupante e tutte le luci della tenuta si spensero, il cielo si oscurò e cominciò a piovere.






La battaglia era cominciata. Vladimir stava combattendo contro Jean e Roman, Lucille e James contro la strega, mentre Charles e Katherine stavano discutendo, dietro i soldati sacrificabili.
“Io me ne tiro fuori, Katherine. Abbiamo già causato fin troppo dolore a questa famiglia, lascia che se la vedano da soli.”
“Sei solo un vigliacco, un codardo, Charles. Quello che indossa la gonnella sei tu, non io!”
“Io lo amo, Kath, non posso combattere contro di lui, perché lo amo.”
“L'amore non è abbastanza, l'odio e la vendetta sì.”, Katherine lo guardò, scuotendo la testa, delusa. “Tu resta pure qui, a guardare il tuo amore morire sotto i miei denti come suo fratello. Io vado in battaglia.”
Quando Lucille notò che quella cagna aveva finalmente avuto il coraggio di venire ed affrontarli, lasciò James ad occuparsi della strega che combatteva abilmente con un pugnale di frassino, nonostante l'età.
“Ehi, cagna, per di qua!”, la chiamò Lucille, facendola girare verso di lei. Katherine si trasformò, mostrando le zanne colanti di saliva e gli occhi rossi quanto i suoi.
“La puttana alla quale ho ucciso il fidanzatino pazzo. Come va la vedovanza?”
Le due ragazze si buttarono una sull'altra, mostrando i denti letali e gli artigli. Katherine riuscì a graffiare il petto di Lucille, mostrando il corsetto attillato e il petto d'avorio, ma questo servì solamente a liberarla da un peso inutile.
“Era il mio vestito preferito.”
“Era orribile, te ne comprerò un altro.”
Lucille emise un ringhio sovrumano, andandole subito addosso e le morse il collo, staccandole un pezzo, tant'è che cominciò a sanguinare copiosamente. Lucille stava per morderla ancora una volta e mettere fine alla sua patetica vita, quando Charles si trasformò, intervenendo, e spingendo la ragazza lontano, senza ferirla.
Ma questo non fu d'aiuto, poiché Lucille aveva perso la ragione ed era talmente accecata dalla vendetta e dal sangue e dal desiderio di morire, che fu subito addosso a Charles.
“Lucille, no!”, Jean lasciò Roman a combattere da solo con Vladimir e corse incontro alla sorella, spingendola via. Lucille ringhiò, guardandolo male, ritornando da Katherine, che era riuscita a rialzarsi, traballante e sanguinante. La ragazza tirò fuori una pistola, puntandola contro la ragazza e sparandole, Lucille riuscì ad evitare il primo colpo, ma non il secondo, che la colpì dritta al petto. Cadde per terra in un tonfo.
I tre fratelli rimasti, ringhiarono e si diedero da fare al meglio delle loro possibilità per sconfiggere i loro avversari. Jean lasciò perdere Charles, urlandogli di andarsene e andò direttamente contro Katherine che rideva, malefica.






La bambina era nata, Charlotte Nottern, era venuta alla luce tra sangue, disperazione, vendetta e morte. Era un piccolo concentrato di tenerezza, soprannaturale a causa dei suoi occhi rossi e bellezza.
Probabilmente la bambina più bella che il mondo avesse mai visto per il suo essere completamente rosa e la sua aura di potere.
A Theresa i bambini erano sempre sembrate delle patate senza forma che piangevano in continuazione, mentre lei, la sua piccola Charlotte, era silenziosa e bellissima.
La prese tra le braccia, stremata e stanchissima dopo aver perso tantissimo sangue, e la guardò. La bambina sorrise e aprì i suoi grandi occhi rossi, avendola riconosciuta.
“Ciao, piccolina, sono la mamma.”, Theresa le accarezzò la guancetta paffuta, le baciò la fronte che odorava di buono e le accarezzò la testolina sulla quale c'era una piccola peluria nera. Charlotte chiuse gli occhi e li riaprì due secondi dopo, erano diventati azzurro ghiaccio, proprio come quelli di suo padre, di Roman. “Hai gli occhi di tuo padre, piccola mia.”
Theresa la guardò sorridere e scoppiò in lacrime.






Jean evitò i colpi di pistola di Katherine, che a malapena si reggeva in piedi, decidendo di disarmarla e di procedere con un attacco corpo a corpo.
Katherine allora sfoderò i denti e decise di attaccarlo, mordendogli il braccio. Jean urlò e Charles accorse da lui, cominciando a lottare contro la sorella.
L'aveva morso, non poteva crederci!
“Charles, no!”, ulrò Jean, correndogli incontro. Ci furono movimenti confusi, i tre si azzuffarono, Charles e Jean che si proteggevano a vicenda e Katherine e Charles che facevano lo stesso. Era diventato un tutti contro tutti, ma soprattutto un 'proteggiamo Charles a tutti i costi'.
Katherine sfoderò un pugnale, colpì Charles facendolo cadere per terra e corse contro Jean, cercando di colpirlo in tutti i modi. La schiena di Jean arrivò a toccare il muro e Katherine continuò a colpirlo, cercando di trovare il modo di ferirlo, di ucciderlo.
Charles, ormai in piedi, andò dalla sorella, cercando di allontanarla da Jean. Ma lei non ragionava più, era come Lucille, impazzita, desiderosa della vendetta. Pensando che fosse James, Katherine tranciò di netto la gola del fratello con il coltello.
“Kath...”, pronunciò Charles, con gli occhi sgranati. Il sangue uscì a spruzzi dalla ferita del fratello, bagnandole il viso. Il pugnale le cadde di mano e lei si inginocchiò davanti al corpo del fratello, che stava collassando poco alla volta.
Jean urlò di dolore e si fiondò subito sulla donna, mordendole il collo, e cibandosi del suo sangue fino all'ultima goccia. Lei lo colpì, ma non ci fu niente da fare, poiché si accasciò subito per terra, accanto al corpo senza via del fratello.
Jean cadde in ginocchio, prendendo tra le braccia il corpo morto dell'amato e baciando ogni lato del suo viso.
In quel esatto istante, Lucille si risvegliò, inserendo le dita lì dove il proiettile si era fermato ed estraendolo. Si guardò intorno e trovò Charles e Katherine morti, con Jean che si disperava sul corpo del licantropo ed emanava urla sovrumane. James che con un colpo veloce riuscì a staccare il corpo della strega e Roman che stava per collassare sotto i colpi di Vladimir, il quale gli stava per staccare la testa dal corpo.
“Roman!”, urlò Lucille, attirando l'attenzione di tutti i suoi fratelli che in un attimo si fiondarono ad aiutarlo.
“Non credete sia ingiusto combattere quattro contro uno?”
“Non credete sia ingiusto allearsi contro i nostri più grandi nemici per ucciderci?”, fece eco Lucille, graffiandoli il viso. Vlad ringhiò, spingendola e facendola volare dall'altra parte.
“Per colpa vostra, per il vostro egoismo, abbiamo perso tutti una persona amata! Tutti!”, urlò Jean, prendendo a pugni il padre, che riusciva per la maggior parte delle mosse a tenergli testa, nonostante Jean fosse ormai nel pieno delle sue forze, dopo essersi cibato di Katherine.
“Vi ho allenati io, pensate veramente di riuscirmi a battere?”
“Singolarmente no, padre!”, urlò James, affiancando il fratello e cominciando a colpirlo. “Ma insieme sicuramente.”
Roman gli fu subito alle spalle, abbracciandolo da dietro e fermandogli le braccia e il corpo. Jean e James avevano il compito di distrarlo, Roman di immobilizzarlo, mentre Lucille doveva mettere fine alla sua vita.
“Sapete, padre, ci siamo allenati insieme ed escogitato questa mossa. Abbiamo capito che singolarmente non potevamo nulla contro di voi, mentre insieme siamo imbattibili. James sapeva tutto di voi; vi ha sempre tenuto d'occhio quando uscivate e sparivate per ore nell'ultima settimana.”, gli sussurrò Roman, mentre Lucille prendeva la rincorsa, saltava sulle braccia di James e Jean che la spinsero in alto. La ragazza atterrò sulle spalle del padre, sedendosi e bloccandogli la testa con le gambe. Si chinò, guardandolo negli occhi rossi.
“Questo è per William e per la vita che non ci hai lasciato vivere.”
Con un colpo, la più piccola dei Nottern staccò la testa al padre, mentre Roman lo pugnalava al cuore con un pezzo di frassino.
Vladimir urlò, dimenandosi quando i figli lo lasciarono andare e prese fuoco quando il pugnale gli toccò e perforò il cuore.
Il Diavolo morì, ucciso dai suoi stessi figli.
Solo, bruciato dalle fiamme, col cuore perforato.

 

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Capitolo 18
*** Epilogo. ***


EPILOGO.




Se al principio non mi trovi, insisti,
se non sono in un posto, cerca in un altro,
io mi fermo da qualche parte ad aspettarti.”
-Walt Whitman, Canto di me stesso.







1997, Inghilterra, Londra.


Le urla cominciarono all'improvviso, il piccolo dai capelli biondi e i grandi occhi azzurri, abbracciò più stretto il pupazzo, il suo unico amico e consigliere fidato. La sua cameretta era buia, illuminata soltanto dalla lieve luce che proveniva dal corridoio, un piccolo spiraglio.
La mamma e il papà urlavano sempre, litigavano sempre, soprattutto quando il papà tornava presto da lavoro, tutto ubriaco. La mamma gli urlava di andare a rintanarsi in camera sua, di non muoversi e tapparsi le orecchie, di non sentire, perché la mamma e il papà dovevano parlare.
William però sapeva cosa succedeva.
Una sera li aveva visti.
Il papà che colpiva la mamma con pugni forti sulle braccia, sul corpo, sulla faccia; la mamma che gridava, che lo insultava e che si lasciava picchiare tra le lacrime, mentre incrociava gli occhi azzurri di Will, che stringeva tra le braccia il suo amichetto, che aveva chiamato James. Vedeva che lo implorava con lo sguardo di andarsene via, ma non poteva aprire la bocca, altrimenti lui, il suo piccolo amore, avrebbe fatto la stessa brutta fine.
“Sei stata tu, Camille, è sempre stata colpa tua se la mia vita è un totale fallimento. Tua e di quel bastardo di tuo figlio!”, le urlava contro suo padre, mentre la picchiava a sangue, violentemente e senza sosta.
“Allora vattene, Vladimir, vattene via!”
E Vladimir, suo padre, prendeva a picchiarla più forte, dicendole di stare zitta, zitta, zitta. E William guardava, soffriva, piangeva, veniva segnato, imparava a capire cosa volesse dire odiare qualcuno con tutto se stesso, imparava cosa volesse dire amare qualcuno con tutto se stesso, imparava ad uccidere ed essere ucciso.
Quella sera aveva deciso di dire basta.
Si alzò dal letto, silenziosamente, lasciando James a riposare sul letto, il quale gli urlava di tornare indietro, di non fare ciò che aveva in mente di fare, poiché ci sarebbero state gravi conseguenze.
Si recò nello studio di suo padre, dove passava la maggior parte del tempo a leggere libri di vario genere. Aprì il primo cassetto della scrivania e prese la piccola pistola che Vladimir aveva comprato illegalmente da un tizio poco raccomandabile.
Corse in cucina, stando attento a non farsi sentire e vide i suoi genitori per terra. Il papà sopra la mamma che si muoveva in modo strano e ansimava, la mamma che faceva lo stesso, ma sporca del suo stesso sangue, tumefatta.
Will puntò la pistola contro il padre e senza pensarci oltre, gli sparò in testa.
Camille urlò, spinse via il marito e guardò il figlio con la canna della pistola ancora fumante tra le mani. Le cervella dell'uomo si erano sparse per tutta la cucina e sulla faccia della donna, sotto shock e senza vestiti.
Il bambino corse dalla madre, abbracciandola forte. La madre non ricambiò.
“Che cosa hai fatto, Will? Che cosa ci hai fatto?”
“Ci ho salvato, mamma, adesso potremmo stare insieme per sempre e Vladimir non potrà farci nulla.”
William sorrise, afferrando il viso della madre con le manine. Camille gli sorrise, baciandolo sulle labbra, non come si farebbe con un figlio, ma in una maniera più intima e sporca, in una maniera che non si dovrebbe fare.
William ricambiò, sorridendo.
Era sua, solo sua, di nessun altro. Vladimir non l'avrebbe più toccata in quel modo, l'avrebbe fatto solo lui.
In quell'istante esatto si varcarono confini che non si dovrebbero varcare, in quell'istante esatto William diventò adulto, diventò malato, diventò il mostro che tutti teniamo.




Autunno, 2017, ospedale psichiatrico, Newham.




I libri di Dickens, di Charlotte ed Emily Bronte, di Baudlaire, di Wilde e Stoker erano disposti in una pila sul pavimento, accanto al letto bianco.
Il dottor Roman entrò nella stanza, guardandosi intorno come ogni volta. La camera era piena di libri di ogni genere e ogni epoca, che il paziente si era guadagnato durante quei dieci anni per la cura che stava seguendo, disturbo borderline della personalità.
Questa volta il paziente stava leggendo 'Delitto e Castigo' di Fëdor Michajlovic Dostoevskij. Il dottore sorrise, sedendosi sulla sedia nera, posizionata accanto al letto.
“Buongiorno, William. Come andiamo oggi?”, il dottore, uno psichiatra di successo e anche molto giovane, gli sorrise. Era un bell'uomo, per quanto potesse capirne di bellezza maschile. Alto, possente, capelli biondi e lunghi fino alla mandibola, occhi di ghiaccio, comportamenti gentili, scapolo. Era un bravo medico e l'aveva aiutato per tutti quei lunghi e interminabili dieci anni, quando l'avevano catturato in America, dove viveva con Camille, che avevano arrestato per l'omicidio di suo padre. Si era suicidata in prigione, qualche anno dopo e lui era rimasto con James e i suoi amici.
William adesso se ne rendeva conto della patologia che l'aveva afflitto per tutto quel tempo. Sapeva che cosa gli aveva fatto Camille, sapeva cosa avevano fatto a Vladimir e sapeva dove la sua mente malata, contraffatta, si era rintanata per tutto quel tempo, a chi si era affidato. Si era nascosto per dieci anni sotto James, Lucille, Roman, Jean, Camille, Vladimir e William Nottern, ma adesso loro non c'erano più. C'era solo lui, William Norman, un orfano, un ex malato mentale.
“Molto bene, grazie.”, William posò il libro, mettendosi a sedere sul ciglio del letto. Sorrise allo psichiatra, passandosi una mano tra i capelli biondi. “E lei, come sta?”
“Benissimo, William, grazie. C'è qualcosa di cui vorresti parlarmi oggi? Non ci vediamo da un po'!”, il dottore si sistemò sulla sedia, incrociò le gambe e aprì il quaderno, tenendo la penna ferma tra l'indice e il pollice della mano sinistra.
“Ho paura, dottore.”
“Di che cosa?”
“Di ritornare, di perdermi nella mia mente, di non essere normale, o almeno somigliare alla normalità. Ho paura di fare del male a qualcuno, non voglio.”
“Stai bene, adesso, William. La tua paura è normale, ma è ora che tu viva una vita sana. Hai venticinque anni, una passione per i libri e la scrittura. E poi ci vedremo due volte a settimana, continuerai a prendere i tuoi farmaci, sarai sotto stretto controllo. Non permetterò che Lucille, Jean, James o chi per loro, tornino a disturbarti. Te lo prometto.”, Roman gli sorrise, offrendogli una sigaretta, che William rifiutò. “Come sta andando il tuo libro, ad ogni modo?”
“Bene, ho finito di scrivere l'epilogo stanotte, dottore.”
“Ne sei soddisfatto?”
“Sì, Vladimir è stato ucciso dai suoi stessi figli.”
“E dopo che cosa è successo?”
“Si sono divisi. Roman e Theresa hanno avuto altri due figli, James ed Esmeralda si sono sposati e hanno avuto una vita felice, Jean se n'è andato in Oriente a ritrovare se stesso, mentre Lucille è rimasta a Londra, accanto a William. Dopo due secoli si sono rincontrati e hanno ricordato i bei tempi passati.”
“E' un bel finale, molto allegro.”
William annuì, sorridendo. “Ne sono abbastanza soddisfatto.”
Roman si alzò, sorridendo al paziente. “Sono molto fiero di te, ragazzo. Domani verrai dimesso e quando pubblicherai il tuo libro, vorrò avere il tuo autografo personalizzato.”




William si svegliò di soprassalto, in un bagno di sudore. Si alzò, andando a sbirciare dalla finestra. Era notte inoltrata, mancavano sette ore al suo rilascio e finalmente si sentiva al sicuro. Si passò le dita tra i capelli, sospirando. Non aveva più tanta paura, era felice adesso. Poteva essere libero, lontano da tutto e tutti.
Ritornò a letto, andando a stendersi. Chiuse gli occhi, mettendosi il braccio sinistro sopra.
Ma non c'era niente da fare, non riusciva a prendere sonno.
Sbuffò e quando aprì gli occhi, gridò.
“Ciao, William, pensavi di esserti liberato di noi?!”
Su di lui c'era Lucille, vestita con abiti ottocenteschi, gli occhi rossi e le zanne sporche di sangue.
“Tu non sei reale, non sei reale!”
“Invece lo sono, amore mio, più di quanto tu possa immaginare.”, Lucille gli accarezzò la testa, baciandogli l'incavo del collo.
William cominciò a piangere, non riuscendo ad evitare e nascondere il piacere che quella donna immaginaria gli faceva provare. Dopo tutto, l'amava profondamente.
“Ti prego, vattene, ti prego!”
“Noi resteremo sempre con te, siamo parte di te, siamo un tutt'uno, non riuscirai mai a mandarci via!”
Si baciarono lentamente, come poche volte avevano fatto, tra lacrime, pazzia e disperazione.
“Sei una parte di me, sei una parte di me, sei una parte di me.”
Lucille sorrise, annuendo. “Se tu muori, io muoio.”
“Se io muoio, tu muori.”
William sorrise, afferrò la penna e se la piantò nel collo, suicidandosi.
Il giorno dopo lo avrebbero trovato morto sul letto, accanto a lui, una ragazza che si era intrufolata di nascosto nella sua camera, la Lucille di cui si era innamorato realmente, ma che aveva problemi peggiori dei suoi, era una di quelle pazienti che non si potevano recuperare.
Sul muro, con il sangue dell'amato, aveva scritto: “Se lui rimane, io rimango. Se lui se ne va, io me ne vado. Se lui muore, io muoio.”
E così era stato, poiché si era piantata nel collo la stessa penna con la quale William si era suicidato.
Roman, guardando quella scena, sospirò, affranto. I due sfortunati amanti, i due sfortunati pazzi, giacevano l'uno tra le braccia dell'altra, felici e finalmente liberi.
“La Morte era la tua unica liberazione, la Vita la tua più grande punizione, l'Amore il tuo più grande dolore.”








RINGRAZIAMENTI.

Eccoci finalmente alla fine di questa breve storia. Non c'è data migliore per concluderla che il 31 ottobre, no? Probabilmente qualcuno di voi starà prendendo in considerazione di mettere fine alla mia vita, come io ho fatto con quella di William per ben due volte!
Vorrei ringraziare tutti quelli che mi hanno seguito, sia in silenzio che esprimendo un parere per messaggio personale.
Ringrazio specialmente Francesca e Chiara, che continuano a paragonarmi a William quando non ci somigliamo per niente e che mi hanno costantemente rinfacciato di essere una persona orribile, un'assassina sadica che prova piacere nell'ammazzare le sue stesse creature. Le ringrazio soprattutto per aver sempre letto i capitoli in anteprima e per aver sclerato con me.
Ringrazio tutti voi, ovviamente, per avermi seguito.
Ringrazio Abel Korzeniowski per avermi tenuta compagnia durante tutti i capitoli.
E ringrazio Will, Jean, Lucie, Jamie, Camille, Vlad e Roman per avermi fatto compagnia in questi dieci mesi e mi scuso per avervi reso la vita impossibile e infelice; siete parte di me, ma è meglio se non ci vediamo per un po', Will dico soprattutto a te! Sapete, siete particolarmente difficili da gestire nella mia testa fin troppo problematica.


Bene, scleri a parte, siamo veramente alla fine di questa avventura. Lasciatemi un commento e ditemi come vi è sembrata nel complesso e che cosa vi ha lasciato, se vi ha lasciato qualcosa.
Alla prossima!

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