Altrove

di Aroldo di Poe
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sublime ***
Capitolo 2: *** Umano, non più Umano ***
Capitolo 3: *** Il Totem ***
Capitolo 4: *** Ritorno all'Altrove ***



Capitolo 1
*** Sublime ***


L'Altrove



1.
Il mare rivelava la vera essenza del cielo. Le onde che si infrangevano contro le pareti rocciose di quella scogliera erano le grida dei morti nei secoli. Le urla che si insediano nell'anima, quando domina quell'angoscia che rivela la realtà e che soffoca ogni scintilla di vita, si potevano tastare negli schizzi, in ogni singola particella di acqua. Le orme sulla sabbia – lasciate da chi, poi, in quale tempo e chissà se era una giornata di primavera, o se la tempesta era già scoppiata – si prolungavano fin dove l'occhio si perdeva e il cielo si congiungeva alla terra, per uno strano miracolo della natura, lì dove la prospettiva si perdeva e cominciava la landa dei giganti. Gli abissi del cielo risucchiavano qualsiasi luce, cosicché, per quel giorno, la terra veniva privata della luce e le tenebre si stagliavano sui mortali, su quella distesa dimenticata da Dio. Lo splendore dell'oscurità ammantava ogni forma di essere e gli uccelli avevano smesso di cantare: il silenzio che regnava su quella quieta terra di pace era il mite ricordo dell'attimo della creazione, quando il tempo cominciò a scorrere per percorrere l'essenza ineffabile dell'esistenza. Ed ecco nell'angolo della visione due esseri, vicini l'un l'altro, impegnati a dirsi qualcosa, a nascondere qualcosa o semplicemente a guardarsi. Con passo lento sembrava che si stessero avvicinando al mare, completamente dimentichi di essere vivi, in questo mondo, mentre con gli occhi cercavano l'immenso che il cielo prometteva di rigurgitare in quello stesso istante. Essi cercavano l'Altrove. Quell'Altrove che sentiamo in ogni attimo della nostra permanenza in questa vita e che ci aspettiamo dalla morte. Lo stesso che pensiamo quando vediamo gli occhi dell'altro, immaginando di essere in un altro luogo, in un altro tempo. Lo stesso Altrove che appare nella nostra camera, quando a notte, alla luce di un lume di fortuna, leggiamo quelle parole che aspettavamo da una vita e che mai avremmo formato con così tanta eleganza e così tanta passione; che nessuno ci ha mai rivolto, convinto che fossero troppe ardite per essere pronunciate ad alta voce e in una volta sola. L'Altrove che permane nelle nostre mani, quando stringiamo speranzosi e tristi, appassionati e tramortiti il passaporto che ci ammette in un'altra nazione, in un'altra città. Che abbiamo già visitato, una donna che ci offre i suoi migliori servigi per l'ennesima volta, priva di fantasia e vecchia di spirito. Oppure una nuova, una vergine che si appresta ad andare all'altare con il suo vestito bianco, sporco per i troppi pensieri maliziosi e mai provati, magari ascoltati ma mai così vividi come nel momento dell'atto. Questo Altrove persiste nella nostra coscienza. Anche essa lo è, si rivolge a ciò che abbiamo fatto, al passato che non è più e al futuro che non è ancora. Si lascia andare a un tempo che non è mai esistito, a quelle azioni che segretamente avremmo voluto ostentare con tanto orgoglio, quasi violentemente ma che nella vera vita abbiamo gettato nei meandri della nostra fantasia. Esso ci avvelena. Ci inquieta, ma è sempre lì, nascosto nella manifestatezza del visibile, nelle pieghe delle cose e alla fine del giorno. Intorno alla scogliera non vi era nulla. Oltre al mare e alle nude rocce, nient'altro, nessun'altra forma di vita. La coppia che si trovava lì in quel momento fuggiva evidentemente dalla città. Lui, occhi come la pece, come il mare la notte e più profondi di un vuoto di montagna, dove gli spiriti dannati cantano il requiem per calmare la loro dannazione eterna. I capelli erano incollati al viso, la salsedine e l'umidità li avevano resi uniti e ricci, emanavano riflessi chiari sebbene fossero vero legno di castagno, lunghi e morbidi. Portava una leggera barba, segno di un'età ancora giovane e non ancora corrotta dalla bellezza degli averi e piena di ideologie, destinate ad essere spazzate via. Un certo vigore veniva emanato dalla sua figura snella, che si stagliava contro le tenebre del giorno. Con un gesto accarezzò la mano di lei, che con un movimento noncurante ricambiò la tenerezza. Il viso dolce e fiero guardava, ora, avanti verso quel muro di incertezza che il mare sa creare quando è in aria di tempesta e rischia di travolgere le nostre vite per un semplice capriccio del dio. Negli occhi ambra la leggerezza della sua età e la pesantezza delle donne, che le contraddistingue sin da giovani, quando ogni fantasia cozza con la realtà e le forma, le prepara al dolore dell'esistenza e le chiama alla più nobile delicatezza. Il cielo diventava sempre più scuro, il sole calava ma la sua presenza era difficilmente pensabile, come se una notte egoista e smaniosa di apparire si fosse presa tutto il palcoscenico per mostrare, come un pavone mostra la coda, che il ruolo di primo attore non possa essere che suo. I due continuavano la loro passeggiata, e le loro orme si sovrapponevano ad altre orme, passi eterni della storia che qualsiasi uomo avrebbe potuto imprimere. La fredda sabbia accarezzava i loro piedi, che si immergevano quasi provassero il tenero piacere di affondare per poi emergere. Il vento mugghiava, scuoteva, passava, portava vita e rischiarava le giovani menti dai loro pensieri, ancora inconsistenti in gioventù. Esso passava alto sopra le scogliere, che erano lì forse già da quando Mosè divise le acque o quando Alessandro conquistò la Persia. La natura non si esprime e parla il linguaggio dell'azione ripetuta. La si poteva solo ammirare e contemplare, forse anche interrogare, per un certo gusto umano alla filosofia. Ma non ci sarebbe stata alcuna risposta. Le scogliere calavano a picco sul mare, la roccia bruna non forniva appigli per una possibile scalata. Ciuffi di erba umida, eterna brina, spuntavano dalle pareti e magari qualche insetto aveva posto lì il suo nido. Gli schizzi arrivavano soltanto a un' altezza irrisoria, se confrontata con la vertigine che provocava la vista dalla cima della barriera. Difficilmente gli uccelli si posavano, quasi avessero paura di risvegliare qualche forza arcaica, anche in loro vi era la paura primordiale della natura, sebbene per noi uomini anche loro ne fanno parte. Con la natura abbiamo sempre avuto un rapporto filiale, tormentato, inespresso. Ne siamo stati per molto tempo affascinati, forse romanticamente pensiamo ancora che essa ci possa riservare qualche nuova sorpresa. Addirittura lo speriamo, come bambini che smontano un giocattolo con la fede di scoprire un nuovo pulsante che cambi la sua forma, magari che lo renda vivo. La natura ci ha stupito, ci ha creato meraviglia, abbiamo cercato di indagarla. L'abbiamo osservata da lontano, prima, e poi sempre più d vicino, quasi che ci sfuggisse un piccolo pezzetto per completare un puzzle che abbiamo creato noi stessi. Ma a ogni passo che compievamo essa ha truccato le carte, ha barato o semplicemente non abbiamo davvero mai capito l'impossibilità di conoscere fino in fondo qualcosa. Il mondo entro cui siamo immersi non è altro che la sintesi di questo quadretto descritto: le forze della natura, che insondabili fino in fondo ci guidano attraverso le nostre avventure, con migliaia di passi al nostro fianco o dietro a noi. Un'altra persona, un altro esemplare della nostra stessa specie per non rischiare di impazzire e condividere il nostro stesso essere. Ma tutto questo i nostri non lo sapevano o facevano finta di non saperlo e continuavano a camminare. Ora la notte era definitivamente scesa, l'ora dei miracoli e dei lupi obbligava quei due a trovare un modo di sopravvivere alla lunga notte. Trovarono dei legni, forse lasciati lì da un precedente passaggio umano oppure il vento aveva sradicato un'effimera forma di vita. D'altronde la natura è al servizio degli uomini e non ci sarebbe mondo senza uomini. Perciò accesero un fuoco, eternità in movimento, tempo che si divora e spettacolo primitivo della bellezza incatenante del mondo. Si scaldarono con il suo calore, condivisero il corpo per potersi dimenticare di essere fragili e rimasero accoccolati a sentire le onde, il fuoco, la terra e il cielo.

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Capitolo 2
*** Umano, non più Umano ***


2. Friedrich distolse gli occhi da quel quadro che stava osservando da parecchio ormai. Quel mare così agitato, con quelle scogliere e due uomini sulla cornice, lo aveva portato in un'altra realtà. Quasi che quella fosse stata la sua storia. Ne aveva immaginato gli odori, i suoni e anche le voci, i pensieri e i dialoghi. Forse non sarebbe sopravvissuto su quell'isola senza alcuna traccia di modernità. Rifletté che forse il sublime non faceva per lui. La natura, per quanto grande ed enormemente affascinante, non avrebbe mai potuto sostituire la magnificenza di certe invenzioni e comodità moderne. Tuttavia, fermarsi sognante di fronte quel quadro e cercare di dare una forma alle immagini, quella era una sensazione inappagabile. Nella fantasia, per Friedrich, l'uomo non era altro che se stesso, quel connubio di possibilità e finito, di luce e tenebra. Era la perfetta contraddizione dell'essere, era il domandarsi instancabile di Amleto e, allo stesso tempo, la certezza salda di Macbeth. L'uomo era tutte le tragedie di Shakespeare ma anche un fedele martire della rigorosità e della certezza, una dimostrazione matematica. Per questo motivo aveva cominciato a raffigurarsi il proseguo di ciò ce vedeva. Non gli piaceva che le immagini rimanessero ferme, la stasi lo intristiva, rendeva la vita irreale. Il dinamismo era la vera essenza della vita. Essa non era altro che un lento divenire, non progresso, ma processo e libertà di azione. “Si chiude! “. L'alto parlante aveva annunciato la chiusura del museo in cui quel quadro era custodito. La stanza non lasciava quasi trasparire alcuna sorta di luce, eccezion fatta per quei piccoli fari che illuminavano a giorno il solo quadro esposto. Quella stanza non aveva altra funzione che custodire quell'oggetto, quasi fosse una cornice della cornice, come un teatro che racchiude in sé il palco su cui andrà in scena lo spettacolo. Friedrich era l'unico visitatore ancora presente nel museo, così si avviò all'uscita. Fuori, in quella fresca giornata primaverile, il sole non era ancora calato. Le scale del palazzo davano su di un marciapiede affollato, dove centinaia di individui si lasciavano sedurre dai loro stessi pensieri, senza davvero guardare cosa li circondasse. Il sole rosso spadroneggiava su un cielo terso, sgombro da qualsiasi pensiero e turbamento, totalmente sottomesso al gioco di colori che solo una mente superiore avrebbe potuto immaginare. I sonnolenti uccelli imitavano il lento traffico che a quell'ora del giorno permetteva di vedere da un lato all'altro del marciapiede. Inoltre, esso non disturbava neanche la chiarezza dei suoni che circolavano per quella strada. Le grida dei bambini, che giocavano come greggi, ignari e dimentichi di ogni loro azione; le mamme che con lieta aria si scambiavano informazioni sulle loro case, i mariti e quale piatto avrebbero deposto in tavola quella domenica. Sulle panchine, che davano sulla strada, gli anziani vedevano morire il giorno negli occhi degli altri, non si voltavano a mirare quello spettacolo della natura, per loro anche troppo usuale. D'altronde, a che cosa serve vivere una vita intera se non si ha neanche la possibilità di ignorare ciò che ferisce? Perché quel tramonto era uno schiaffo alla morte, al rispetto per i vecchi, che non potevano mirare così tanta bellezza senza lamentare un dolore all'altezza del cuore. Quello stato decadente della vita prevedeva solo giornate di pioggia, quasi a ricordare il sole e poter dire “ ai miei tempi il sole non tramontava mai, anzi era più caldo. Oggi non fa che piovere solamente”. Friedrich decise di coronare quella giornata mangiando del gelato. Così si incamminò verso la prima gelateria, in via F., dove recentemente aveva appreso che erano state commesse alcune rapine ai danni dei residenti. Neanche le ultime tecniche per ridurre il crimine sembravano aver effetto. Da qualche tempo, la polizia aveva utilizzato un metodo informatico per poter prevedere dove si sarebbe compiuto il prossimo crimine: un computer analizzava i vari misfatti accaduti nella città e tramite dei calcoli di un algoritmo, esso avrebbe selezionato l'area d tenere sotto controllo. Tramite un'altra analisi incrociata poteva anche descrivere che tipo di uomo sarebbe stato quello che avrebbe commesso il reato. Ma, stranamente, i crimini invece di diminuire erano aumentati, quasi che i criminali fossero attratti dalla prospettiva di dover sfidare un computer, reputato un essere infallibile. Friedrich, a tal proposito sembrava quasi tentato dallo sfidare la macchina. Quale brivido restava ormai alla razza umana se non quello di sfidare le macchine? Da quando i robot avevano sostituito tutte le mansioni umane che richiedevano l'applicazione di una semplice procedura, come la coltivazione della terra, il lavoro nelle super fabbriche o i vari lavori domestici, l'uomo non poteva far altro che darsi ai lavori creativi, dove restava ancora insuperato. L'industria era sul punto di creare anche umanoidi, con sembianze totalmente umane ma con un cervello elettronico che si basava su quello umano, potenziato grazie all'infinita velocità di calcolo degli androidi. Se questo avrebbe aperto una nuova era per la popolazione umana, ciò che sembrava poter porre fine alla sua supremazia era l'applicazione di un codice all'interno dei robot, il quale regolava le loro azioni. Sebbene in passato molti racconti avessero auspicato un robot al servizio dell'uomo, ora, nella realtà, si sarebbero rovesciate le gerarchie. L'uomo avrebbe perso la supremazia sulla terra, cioè avrebbe dovuto adattare il suo comportamento al codice imposto dai robot. Questo perché si pensava che l'uomo fino a quel momento non fosse mai stato in grado di poter creare un mondo giusto, un mondo dove la pace fosse l'unica alternativa possibile. Quel libero arbitrio che aveva guidato la civiltà fino a quel momento, non era stato ritenuto più perseguibile. L'uomo, che non aveva mai visto camminare tra sé un dio, avrebbe presto conosciuto una nuova razza. Quella Androide, che integrava in sé ogni possibile attributo che l'uomo stesso aveva trasferito nel dio. Questo è ciò che si preparava ad essere.

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Capitolo 3
*** Il Totem ***


3. Mario chiuse il libro. Quello scenario distopico lo aveva tremendamente inquietato e non se la sentiva di andare avanti nel leggere. Inoltre, erano le due di notte e dal resto della casa non giungeva alcuna voce. Ma, si sa che, nell'ora delle tenebre, ogni rumore può diventare qualcosa d'altro, far nascere delle trame infinite nella immaginazione dei ragazzi. E proprio in quel momento, Mario, stava immaginando come sarebbe stato avere quello che nel libro si chiamava computer. Accese la luce, perché gli piaceva leggere con le candele, specialmente i libri di fantascienza o quelli che lo portavano in un altro mondo, presente o passato che fosse. Vide sopra di sé un enorme poster di un famoso giocatore di calcio,vestito con i colori della sua squadra preferita, catturato nel momento di un'azione, forse quella decisiva di una partita. Sicuramente, pensava Mario, avrà fatto gol. Era il più forte. Diresse lo sguardo verso il suo comodino e, oltre alla pila ordinata di romanzi e fumetti che custodiva gelosamente, vide una radiolina: era con quella che la domenica seguiva le partite di calcio e quando era possibile anche il ciclismo. Tra poche ore si sarebbe dovuto alzare per andare a scuola. Dopo aver sorseggiato un poco d'acqua dalla bottiglia accanto al letto, provò a chiudere gli occhi. Si addormentò. Il telegiornale annunciava gli ennesimi scontri di piazza, con la voce monocorde del suo speaker, il quale sembrava assolutamente distante da quegli eventi. Le immagini trasmettevano, in bianco e nero, un palazzo preso d'assalto dalle forze di polizia: “ Le vicende degli ultimi giorni hanno portato a questo scontro violento, tra le forze di polizia e gli studenti occupanti. È stata ingaggiata battaglia tra le due forze, con il risultato di molti feriti e diversi arresti. Intanto i partiti provano a distendere il clima con l'annuncio di un possibile dialogo tra il parlamento e i capi di queste sollevazioni...”. Il padre spense la tv. Lo sguardo fiero, le mani lisce e la camicia stretta da una cravatta, davano di lui l'idea di un uomo di successo, di potere. Quel tipo di uomo che non ha mai impugnato alcun attrezzo e che non sa cosa sia la fatica fisica. Ma sapeva come farsi obbedire senza alzare la voce, con il tono fermo di chi sa di poter ordinare a Dio di mostrarsi alla sua presenza. Con lo stesso tono si rivolse ai suoi figli: “Sappiate che chiunque tenterà di dare alcun tipo di aiuto a questi banditi, a questi comunistelli, sarà cacciato da questa casa. Non voglio che i miei figli siano accomunati a certa gentaglia”. Sbatté un pugno sul tavolo, i suoi occhi dietro a spesse lenti, non esprimevano altro che il suo discorso non avesse già detto, quasi che non ce ne fosse bisogno. Intanto, i restanti membri della famiglia, si guardavano tra loro stupefatti, a nessuno saltò in mente l'idea di provare a replicare a quell'ordine perentorio del babbo. Solo Gianluca, da sotto il tavolo, tirò un calcio a Mario, che subì in silenzio senza però cambiare espressione. “Carlo, sai che nessuno qui parteggia per quei capelloni”. Marta provò in questo modo a calmare il marito furioso. Lei raramente si intrometteva nelle questioni di famiglia, anche perché con quell'uomo era assai difficile discutere e un solo sguardo bastava a ridurla al silenzio. “So che non c'è nessuna probabilità”, Carlo guardò sua moglie, pensando che nonostante tutto era ancora bella, specialmente quando lo guardava con quell'aria sottomessa. Quella sua timidezza e incertezza nell'espressione lo aveva sempre attirato e incuriosito. Nei quasi trent'anni di matrimonio che li univano, non l'aveva mai sentita lamentarsi, mai alzare la voce. Neanche quando lui rientrava tardi la sera, spettinato con poca voglia di parlare. Lei era sempre lì, che lo aspettava, senza mai voler saper sapere dove fosse stato e con chi: anche se avesse avuto dei dubbi non li avrebbe mai esposti, tanta era la soggezione e la devozione che aveva per il marito. “ Ma voglio che sia chiaro che questa famiglia è composta da persone rispettabili, un nome, il nostro, che è conosciuto da tutti qui grazie al mio lavoro e alle mie azioni, che vi hanno garantito un'istruzione e una posizione dignitosa”, Carlo ci teneva a sottolineare quel punto. Guardò diritto i suoi figli, specialmente Mario, il quale non abbassò lo sguardo di fronte a quello del padre. Gianluca, il più grande, invece annuiva vigorosamente alle parole del padre, il suo era un tentativo di dimostrargli la sua completa accondiscendenza, ben consapevole che suo fratello non poteva goderne, vista la sua passione per i rossi. Mario non aveva alcuna voglia di abbassare lo sguardo, men che meno ora che il padre lo stava fissando, convinto che lui avesse qualcosa a che fare con i comunisti. Quei sospetti derivavano da alcune amicizie di Mario all'università, oltreché al suo interesse particolare per l'economia e lo storicismo, in particolar modo quello di stampo marxista. I suoi libri, forse, mostravano troppo della sua persona: Marcuse, Gramsci, le poesie di Pasolini. Ma, davvero, lui non aveva niente a che fare con quelli là. Si alzò da tavola, stanco di quelle occhiate gelide che il padre da qualche tempo gli mandava; prese il giubbotto e uscì, verso la città che nelle ore tarde sembrava un altro luogo. Il portone di casa sbatté alle sue spalle, finalmente poteva fumare. Se ne accese una e aspirò con tutto il suo copro, sentiva perdersi nel suo fumo. Le sigarette non erano altro che un modo per concentrarsi, per poter dirigere i suoi pensieri verso un punto fisso. Aspirava lentamente in contrasto con la sua mente che turbinava, i pensieri vorticavano e non avevano una forma ben precisa. Si riscoprì a desiderare di evadere, di andare oltre quella città così stretta, cucita quasi su misura. Sognava di essere altrove, di vivere altrove. Ora, immaginava di essere un lord inglese, possessore di terre e cavalli, chiamato a difendere la sua terra e la sua donna dall'assalto di truppe straniere, ostili ma formidabili e celebri, che terrorizzavano ogni uomo che si fosse messo sulla loro strada. Poteva quasi toccare le pietre del suo castello, sentire il profumo della sua lady e ascoltare il fruscio delle messi, quando tutto intorno tace e la pioggia dona un po' di sollievo a questa terra.

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Capitolo 4
*** Ritorno all'Altrove ***


4. La candela emanava una luce assai fioca, illuminava l' ombre che quella sera si lasciava andare sulla profonda poltrona, che beveva vino da una coppa. Le dita asserragliate attorno al corto stelo, impreziosito da pietre, che brillavano nella lugubre serata autunnale, si muovevano frettolosamente, al ritmo di un inesistente tamburo. Non c'era alcun rumore nella stanza. Persino il silenzio taceva, da fuori la pioggia livellava le umane genti, rendeva ogni cosa grigia e desolata. Il muro, che l'acqua scrosciante formava, non lasciava intravedere neanche il riflesso di chi si fosse avvicinato per vedere il mondo e sé. Il vetro ha questa dote particolare, per cui ci tiene lontani e ci avvicina, evitando il contatto. Non contamina, non sporca, ci lascia lì: sospesi, inermi di fronte l'altro. Possiamo vedere, farci vedere ma siamo alienati, siamo intrappolati nella nostra immagine e in quella dell'altro. Il vino dalla coppa scorreva piano nella gola dell'uomo seduto nella poltrona. I gesti lenti e meccanici lasciavano intendere lo stato contemplativo in cui era assorto; gli occhi chiusi erano accompagnati da una espressione corrucciata. D'un tratto il vino esplose contro il muro e la coppa rotolò lontano, facendo un baccano che forse svegliò l'intero castello. L'uomo era ancora seduto. Gli occhi blu trafiggevano l'aria, ora che erano aperti: persino il cielo espresse il suo timore con un tuono, proveniente da nord-est. I muscoli stavolta erano tesi, pronti all'azione; le mani serrarono i braccioli per darsi la spinta e alzarsi. Con uno slancio l'uomo si erse e prese a camminare per la stanza. Intanto, un leggero bussare si udiva dal fondo della stanza, lì dove c'era la porta. Pian piano essa si aprì e da dietro spuntò un nobile viso, incorniciato da una treccia ramata che ricadeva lungo un vestito color alba, che lasciava scoperto il petto, quel poco che bastava per far impazzire i più prodi giovani del Paese. La donna si avvicinò lentamente al cavaliere, che con la sua imponente figura, vestita di una semplice tunica, che lasciava intravedere la gigantesca spada stretta in vita, non si dava tregua e continuava a correr dietro ai suoi pensieri. “ Signore, scusate l'intrusione, ma ho sentito un rumore così assordante che non ho potuto ignorarlo. State bene?”, la voce lasciava trasparire quella profonda delicatezza che le donne non acquisiscono con gli anni, ma che risulta una dote innata. Questa può solo elevarsi fino a farsi sentimento di protezione per i propri figli oppure, se non soddisfatta, diventa rancore e inacidisce, come i frutti nella calura di agosto. L'uomo udendo quella voce, sebbene turbato, non poté non fermarsi e con voce sepolcrale, dovuta al vino e alla mancanza di attività oratoria, rispose: “ Dormite anche sonni tranquilli, mia signora. Neanche il demonio in persona può sorprendermi nelle mie mura, a meno che io non glielo permetta.”. Quel tono così pacato e quella voce chiara infondevano nella giovane un sentimento di inspiegabile protezione, avrebbe creduto a qualsiasi parola pronunciata da quelle labbra e da quella voce. Il signore continuò: “ Tempi duri imperversano sul nostro regno” e guardandola, riprese:” vede la pioggia che senza sosta sbatte alle finestre? Questa diluvio senza fine pensa di potermi infiacchire, di rinchiudermi in questi palazzi. Ma non è ciò che mi preoccupa. I venti, le piogge e la siccità passano e passano gli uomini. Neanche gli uomini mi incutono timore, non la loro spada ma le loro volontà molli e le nature morte. In questi tempi grami per il nostro regno, non basta la mia presenza a garantire la pace. Loro vogliono di più”. Per un attimo distolse lo sguardo, chiuse gli occhi e sguainò la spada. Il metallo rifletteva il vetro, la pioggia. Sotto lo sguardo dell'uomo, essa sembrava prendere vita, rianimarsi, accendersi. Quella spada possedeva lo spirito dei morti, il sangue dei vinti e le lacrime dei sopravvissuti. L'uomo se la portò al volto, la annusò. Nonostante le numerose volte che era stata lavata dopo una battaglia, quell'odore di vita spezzata non abbandonava quell'involucro micidiale. Aprì gli occhi, ripose l'arma nel fodero e stavolta penetrò lo sguardo della fanciulla. Quell'abisso la travolse, la inghiottì: sentiva la pelle fremere, i brividi che non l'avevano scossa neanche quella notte passata nella foresta. Ricordava l'umidità che era in circolo nell'aria, e anche quel giorno vi era pioggia, un fuoco acceso di fortuna e intorno solo la notte. Le stelle, come grilli, come cicale non smettevano di pulsare, di trasmettere quell'armonia primordiale, che anche il primo uomo aveva senza dubbio sentito nelle sue notti passate appostato, in cerca di un pasto per soddisfare l'istinto primitivo della fame. La ragazza non aveva nessuna intenzione di distogliere i propri occhi innocenti e determinati da quelli inchiodanti e disarmanti di lui. Poi risuonò un fragore nella stanza. Un fulmine era precipitato direttamente su un albero mandandolo in mille pezzi e bruciando tutto ciò che era attorno. Ora l'incendio divampava, dalle proprie tane piccoli gruppi di uomini si avvicinavano al luogo dello scoppio. La pioggia scendeva fitta e aveva quasi spento ogni residuo di fiamma, ma quella folla istupidita continuava a restare sotto la pioggia, inerti e inermi, come spaventapasseri giacciono privi di vita in una calda giornata di fine estate. I loro spiriti infiacchiti dall'inedia che si abbatte sull'uomo nei giorni di inattività, ora sembravano essere sospinti verso quello spettacolo della natura. Il signore solo a fatica volse il suo sguardo verso altro, si diresse presso la finestra e guardò con manifesto disprezzo prima la folla e poi il cielo. Aprì la finestra, la pioggia gli schizzò sulla tunica e sul viso, la folta barba si impregnò di quell'odore tipico della pioggia, unico e incontestabile. Ora i capelli fradici premevano contro il suo volto, fornendo al cielo una visione davvero spaventosa. Proruppe in una risata e poi in un urlo che dovette far rabbrividire il diavolo in persona. Il signore si volse al Signore: “ Tutta qui la tua millenaria rabbia? Solo questo misero giochino hai da offrirmi miserabile? Anche un mio stupido giullare potrebbe dar fuoco a un albero e incendiare i campi. Mi disonori. Non tollero neanche da Te un tale comportamento, non sono nato per essere annoiato ma per essere conquistato da ciò che non può essere conquistato. Non sprecarti a mandare la tua fedele suddita la Morte, siamo vecchi compagni di armi, mi deve molto e le rendo grazia a ogni banchetto. Le messi si sono inchinate alla mia falce e ho offerto i frutti a Lei, quante non ne avesse mai viste. Ho sacrificato i miei figli a Lei e non passa giorno che il Ricordo non mi perseguiti, ma ho battuto la mia strada di teschi e i morti mi sono fedeli. Nessun giochetto del genere può fermarmi. Sterminerò la Tua prole! Ah! Se solo Potessi fermarmi, se solo Fossi capace di bandirmi dalla mia esistenza, non desidero altro!”. Chinò la testa, da dietro avvertì un leggero fruscio e una mano si posò sulla sua spalla. La afferrò e se la portò al viso. La odorò. Quella vita così fresca, non aveva mai sentito nulla di simile. Eppure fino a quel giorno in cui era entrata di soppiatto nella sua stanza non l'aveva mai vista. La pioggia smise di battere sulla terra degli uomini, il vento si placò e un singolo raggio di sole, timidamente, cercò la propria strada attraverso banchi di nubi fitte. Le parole dell'uomo, ora completamente zuppo, dovevano aver ferito qualcuno lassù, oppure erano riuscite a commuovere tanto la Natura da farle mandare un segno di pace, di vicinanza all'uomo sofferente. La mano era ancora lì, vicino al suo occhio. Mentre il respiro tornava ai sui ritmi usuali, qualcosa nel cortile lo colpì. La folla era rimasta attonita, di fronte alla manifestazione del demonio in persona. Quell'essere non poteva far parte del regno umano, i suoi occhi di bragia, il volto bagnato, la pioggia che cadeva sul suo corpo, delineando le forme più nascoste del signore. Nessuno osava muoversi, tutti profondamente intrisi di acqua, con tanto lavoro ancora da fare per arrivare a fine giornata, erano come intontiti per l'accaduto. I bambini più piccoli piangevano, si rifugiavano tra le vesti delle madri; le donne guardavano il loro sovrano con un misto di riverenza e disprezzo, paura, ma allo stesso tempo, erano affascinate da un comportamento tanto empio quanto virile. Si sa che il diavolo è il più grande tentatore. Gli uomini tacevano. Neanche coloro che avevano servito nell'esercito avevano mai assistito a nulla del genere. Neppure quel momento prima di trovarsi trafitti da una lama era così raggelante, neanche la notte prima della battaglia, o l'attimo subito prima della chiamata all'avanzare. La morte e lo spavento avevano tutt'altro sapore, tutt'altro impatto sulla loro anima. Niente li aveva mai fatti sentire così vicini all'Orco e allo stesso tempo capaci di sfidare il cielo, come insetti stufi della loro vita. Quando la freccia trafisse il petto di uno degli astanti, ancora la folla stette. Lentamente il corpo crollò su se stesso, il fiotto di sangue che usciva dalla bocca si spargeva copioso sul corpo. La gola era trapassata da parta a parte, per l'uomo non c'era nulla da fare. La morte gli aveva già offerto le sue labbra di grano, che sapevano di miele. Fu dopo qualche secondo che la massa cominciò a gridare, a girare intorno come formiche disperse, lontane dalle loro tane, senza capo e senza destinazione. Dall'alto il signore, che adesso rimetteva al suo posto l'arco, sorrideva compiaciuto della sua azione. L'odore della giovane fanciulla gli aveva ricordato quanto disprezzasse il suo popolo. Loro non meritavano nulla che non fosse letame, che non provenisse dalle viscere della terra, erano l'orrore del mondo. E quella donna, lì, eterea, così nobile nei lineamenti sconosciuti, aveva ricordato a un essere così solo che forse qualcosa di diverso era possibile. Intanto, lei non capiva perché il suo signore odiasse così tanto ogni cosa. Perché così tanta putredine era penetrata all'interno del suo animo? Eppure aveva tutto: un bel palazzo, un fuoco la sera, dei servi che lo accudivano. Un esercito forte e vigoroso, maschi che crescevano come grano a giugno, donne graziose come cigni, in un giorno di primavera. Che cosa lo aveva reso così folle? Folle di cosa, poi? Con chi divideva, la notte, il suo letto? Forse con concubine, con donnacce che lo avevano avvelenato. Sicuramente aveva bisogno di qualcuno per mettere al sicuro i suoi segreti, le sue colpe, le condanne a se stesso. Ma perché, infine, lei era lì? Si ricordava solo di aver bussato e di essere entrata, aveva bofonchiato qualcosa su di un rumore. Davvero non ricordava nulla, sapeva soltanto che quell'uomo così estraneo alla vita la attraeva, come possono farlo solo i grandi mali. La stanza, ora illuminata debolmente, permetteva a un qualsiasi spettatore di assistere a quell'orribile spettacolo: al fondo, vicino al muro, vi era la coppa di vino scagliata poco prima; sulle varie sedie sparse erano accumulati mucchi di panni sporchi, incrostati, infine, vicino all'enorme camino, a terra, c'erano quelli che sembravano resti di cibo. Era la tana di un animale selvatico, non di un dominus. Era rimasta di sasso quando aveva visto scagliare la freccia, poco prima quelle stesse mani avevano accarezzato le sue. “ Mio signore, ma perché? Erano solo venuti a vedere il fuoco prodotto da quel fulmine, erano solo curiosi”. “ Perché? Tu osi chiedere perché? Non vedi come strisciano di fronte la vita? Non senti anche tu il loro alito fetido e marcio, di chi scambierebbe l'onore per un soldo in più? Dov'è la dignità che ha reso grande Achille? Dove, l'audacia di Alessandro? E dove, l'amore di Ulisse? Non vedo che gabbie vuote nei loro occhi. La loro anima si è dissolta nel momento in cui sono venuti al mondo. Non meritano la mia pace”. Così dicendo, il signore ignorò la fanciulla e si mise a sedere, di nuovo, sulla sua sedia. Ora gli occhi erano chiusi, come se niente fosse accaduto, come se tutto fosse in perfetto stato. Niente sembrava mai essere esistito. Poiché l'uomo non aveva più dato segnali di vita, la fanciulla lentamente uscì da quella fetida stanza, sebbene l'interesse per quell'uomo così solo, così vulnerabile accendeva in lei qualcosa che non aveva ma percepito. Tuttavia, un tarlo continuava a minare la sua mente: chi era lei? Aveva capito di esistere solo nel momento in cui era entrata nella stanza, come se fosse apparsa in quel momento sulla scena. Un'attrice e nient'altro. Tornò alla sua stanza, perché aveva una stanza, e lentamente si spogliò. Il vestito color alba le scese lungo i fianchi, il seno, ora libero, poteva divincolarsi dal fastidio busto: la pelle tornava a respirare. Un inquieto sonno l'aveva accompagnata durate la notte, e quella mattina era decisa a vedere di nuovo il principe. Però, qualcosa le diceva che quel giorno aveva altro da fare, così ,dopo essersi vestita, andò senza una meta per il castello. Finì per ritrovarsi in chiesa. Aveva tre navate, all'interno un pavimento di marmo scintillava e d'attorno poteva notare quadri di uomini illustri. Non c'era quasi nessuno a quell'ora, una voglia immensa di salire sul pulpito la possedette, quasi che volesse emulare le gesta del suo signore del giorno appena trascorso. Mentre fantasticava di ripetere quel toccante discorso, dall'ombra di una delle tante statue, emerse un individuo ammantato di nero, impossibile da riconoscere in viso, che le disse: “ Fuggi, nulla è fatto per te qui. Non sei nulla, non sei viva, non sei morta. Esisti ma non respiri, ti muovi ma il vento non emana alcun alito quando passi per queste vie. Destati.” . Queste parole oscure turbarono la giovane, che proprio in quel momento vide cadere dal fondo della navata tre croci, mentre un coro si alzava chissà dove, intonando oscure parole. Scappò. Corse alla cieca, su e giù per il castello, quando sentì un rumore, come di una tazza infranta: corse su per le scale, arrivando fino a una massiccia porta di legno. Senza bussare, entrò delicatamente e subito due occhi blu la fissarono. Corse via. Ma l'uomo restò impietrito alla vista di quel fantasma, gli sembrava di averlo già visto. Trascorse un altro giorno, questa volta la ragazza decise di non muoversi dal letto. Niente l'avrebbe fatta muovere da lì, quelle oscure parole e la vista dell'uomo dagli occhi di ghiaccio l'avevano abbastanza impressionata, da farle giurare di non alzarsi finché non avesse trovato una spiegazione a ciò che stava succedendo. Eppure, non ricordava altro che il principe. Non riusciva a ricordare cosa avesse fatto prima. Dove fosse stata. La sua vita dava l'impressione di essere iniziata in quel momento. La pioggia batteva alla finestra, ella girò il suo sguardo verso l'esterno d vide un albero bruciare, una folla che guardava stupita il rogo e una freccia che si stava dirigendo, lo vedeva quasi potesse fermare il tempo, verso uno dei presenti. Allora si alzò, improvvisamente, dal letto e corse alla massiccia porta di legno, non sapeva come aveva fatto a ritrovarla. Non bussò, aprì impercettibilmente la porta: un uomo stava mettendo in un angolo un grande arco. Non seppe cosa fare, guardò l'uomo. E l'arco. La folla. Il bicchiere. L'oscura presenza. L'uomo la scrutò, volse poi lo sguardo verso il cielo e capì in un attimo che era arrivato il momento. La donna si mosse verso di lui, il quale estrasse la spada e con un rapido gesto mosse un fendente alla giovane. Ella esalò l'ultimo respiro, la vita fuggiva, come in un grande racconto greco sentì la sua anima evadere. L'uomo, solo allora, si inchinò alla vita e alla morte. Solo allora fu libero di poter essere altrove. La donna si svegliò di soprassalto, il cuore le batteva forte, quasi fosse il principio di un infarto. Accese la luce. Si volse verso il comodino, prese un libro. Cominciò a leggere: “Il mare rivelava la vera essenza del cielo”.

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