My darling companion, set out for the distant skies

di La Chiave di Do
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Quoting Sappho, in the original Greek ***
Capitolo 2: *** Can you hear what I hear, babe? ***
Capitolo 3: *** He was a big Bad Wolf ***



Capitolo 1
*** Quoting Sappho, in the original Greek ***


Quoting Sappho, in the original Greek
(The Christmas invasion)

 

 

You said:“Hey, nature boy, are you looking at me          
with some unrighteous intention?”          
My knees went weak,          
I couldn't speak, I was having thoughts          
that were not in my best interests to mention.          

 

La vestaglia gli scivolò via dalle spalle e cadde con un fruscio pesante ai suoi piedi. Sgranchì per un momento entrambe le mani, osservandone prima i tendini flettersi sui metacarpi, poi le linee che gli solcavano i palmi in un mosaico di superstizioni, e vi scoprì almeno un paio di sentieri nuovi rispetto al suo corpo precedente: sorrise, chiedendosi quali giustificazioni avrebbero partorito i chiromanti per un fenomeno tanto insolito. Chiuse la sinistra e scoprì il proprio pollice posarsi d'istinto sul resto del pugno, frontalmente, e ricordò la vecchia abitudine di rinchiudercelo dentro. Quante cose nuove, in una semplice mano.

Con calma le sue nuove dita raggiunsero il petto, tastando alla cieca alla ricerca del primo bottone del pigiama e scivolando lungo la cucitura della bottoniera per trovare i successivi. La camicia raggiunse la vestaglia a terra, posandosi senza suono, e la sensazione nuova dell'aria nuda sulla pelle gli irradiò un tremito dalla seconda vertebra lombare in su. Slacciò il nodo dei pantaloni, allargando coi pollici i passanti per lasciarli scivolare da soli lungo i fianchi: non trovarono quasi nessuna resistenza.

Si scoprì nudo, al di sotto. Improvvisamente il pensiero delle mani di Rose -perché era stata Rose a cambiarlo, aveva già ammesso la sua colpevolezza- che gli scivolavano addosso mentre cercavano di liberarlo da vestiti diventati troppo larghi, dei suoi occhi che studiavano il nuovo modo in cui la pelle gli si posava addosso, che forse fingevano vergogna nel constatare che nessuna mostruosa differenza poteva più farle sperare di distinguerlo dagli uomini che aveva conosciuto fino a quel momento, lo trafissero in un brivido caldo e in una punta di rimpianto per il fatto di essere stato incosciente, in quel momento… oh Rasillon, ma che cosa mi prende. Non poteva scoprirsi a invidiare sé stesso per essere stato sfiorato da dita timide, a ruggire nel profondo delle viscere all'idea di fare lo stesso. A chiedersi se ciò che aveva visto l'aveva delusa o soddisfatta. Sapeva solo di essere maschio, bianco, magro, alto più o meno come al solito, bruno.

Calciò con un piede nudo il cumulo di vestiti, strinse gli occhi come se stesse osservando Sirio a distanza ravvicinata e si voltò. Aprì gli occhi.

Al di là del vetro c'era un uomo incredibilmente magro, più magro di quanto avesse valutato, di un bianchiccio anonimo, le con gambe lunghe e gli zigomi alti, scolpiti come se qualcuno ci si dovesse tagliare sopra le vene. Una massa di capelli noiosamente castani che sembravano avere vita propria, due occhi enormi, bruni, naso a punta spruzzato di tenue efelidi. Tentò un mezzo sorriso.

“Ti prenderei a schiaffi, davvero” lo disse ad alta voce.

Era una faccia arrogante, compiaciuta. Una faccia che non poteva avere più di trentacinque anni umani. Si chiese se fossero troppi, per Rose. Coglione, con qualsiasi faccia avrai sempre ottocentottanta anni in più di lei. Si disse. Mi piace il tuo modo di ragionare. Grazie. Stai parlando da solo. Lo so. Smettila. Scusa. Ma in fondo cosa te ne frega se parlo da solo. Ma fai un po' come cazzo ti pare.

Mi sto già sulle palle. Nuovo record interplanetario.

Percorse con lo sguardo la propria immagine nello specchio, scivolandolo con distratta curiosità su quella scarsità di carne, come un gatto che litiga da solo per al prima volta. Si misurò la linea linea della mascella fra il pollice e il medio, si studiò il pomo d'Adamo con l'indice, testò la profondità dell'incavo della clavicola, contò le costole a malapena fasciate dai muscoli. Piegò lo sguardo con circospezione fra le proprie gambe.

Ti è andata bene, schifoso.

Non che fosse mai stato un dettaglio particolarmente rilevante, semplice vanità virile, forse un tratto connaturato dei maschi di qualunque specie umanoide. In almeno un paio di casi anche delle femmine. In almeno una dozzina anche dei non umanoidi. Stai divagando, pensa che potevi non averlo. Pensa che Rose l'ha visto prima di te. Pensa, magari non funziona neppure.

Dannazione, non si era mai neppure posto il problema del suo funzionamento, non era mai stata una questione importante. Era bastato pensare al nome di Rose per innescare la paranoia. Era bastato pensare al suo sorriso per sentirsi intimamente in colpa, per trovarla una cosa sbagliata. Pensa al polpettone di Jackie. Pensa alla soluzione del teorema di Galois inverso. Pensa a uno Zygon.

Non era mai stata una questione importante, nulla di cui farsi un cruccio. Non che in novecento anni di esistenza uno non abbia occasione di pensarci, ma si trattava solo di un vezzo, un qualcosa in cui ci si può imbattere o meno, una curiosità di cui è bene essere a conoscenza per interesse accademico, di cui essere ferrati per capire i comportamenti e le relazioni fra persone e le battute alle feste. In fondo, quando la tua adolescenza dura un secolo si ha tutto il tempo per quei giochi più o meno innocenti che i fanciulli di ogni specie capace di formulare un qualche concetto di erotismo sperimentano; sorrise all'idea di sé stesso ragazzino, di ingenui sospiri e sussurri esalati nell'ombra, alla piacevole inutilità di certi esperimenti in una terra dove la riproduzione è affidata da tempo immemore alla tecnica e l'affezione è quasi un segreto scabroso. In un luogo come Gallifrey quei giochi vengono presto a vergogna, a disgusto, a noia, e quei tiasi si scioglievano spontaneamente come spontaneamente erano nati. E si dimentica.

Da allora aveva molto amato, in ogni modo in cui una persona potesse amare. Aveva amato Sarah Jane più di ogni altro e aveva amato Grace in un modo diverso da ogni altro. Aveva baciato Grace, aveva toccato Grace, ma in quel modo paziente e ossequioso che hanno certi eroi romantici.

E poi aveva amato e baciato Rose, sapeva come amarla, era abituato ad amarla in quel modo puro e bruciante che gli faceva desiderare di essere il suo scudo contro il mondo e la sua spada contro il fallimento, che la voleva libera e serena come una giornata di sole. Improvvisamente si ritrovava a dovere imparare da zero, ad amarla con una nuova mente e con un nuovo corpo che lo forzavano su percorsi e memorie mai immaginati: un nuovo modo di amarla, di guardarla, di pensarla.

Il suo nome soltanto gli bastava a partorire una pletora di immagini in un luogo così intimo della sua mente che era impossibile insignirlo di una qualsiasi forma di razionalità, pensieri così vividamente grafici da fargli maledire per nome tutti gli androgeni che stava producendo. Per precauzione maledì l'evoluzione stessa e tutti gli ormoni. Come se questo potesse impedirgli di pensare al suo sorriso senza vedere le sue labbra piene e la sua lingua irrequieta che faceva capolino dalla chiostra dei denti; di pensare ai loro abbracci senza sentire il suo seno contro il petto e le sue cosce contro le proprie attraverso la costrizione dei vestiti, le sue dita premute sulle vertebre nel sogno proibito di sentirle scavare in un appiglio disperato...

Lo sguardo perso nel nulla ritrovò la concentrazione per mettere a fuoco nello stesso punto dove lo aveva abbandonato nella tacita risposta al quesito iniziale: funziona.

 

And she floats upon the smoke,          
she moves among the shadows,          
she moves me with just one little look.          


 


 

Sono giorni che ascolto in loop Abattoir Blues/The lyre of Orpheus. Nature boy non ha una vera aderenza al testo (anche se riesco a trovarci un'affinità di qualche tipo), ma l'ho scelta comunque per l'incredibile capacità di Nick Cave di riassumere in unico contesto atmosfere cupe e drammatiche e toni altamente erotici. Ho provato disperatamente a trovare un brano più adatto ma finivo sempre a ritrovare l'umore giusto solo in questo, che si è incollato di prepotenza al disegno che avevo in mente. Anche il titolo della storia è un prestito di Nick Cave (Distant sky), ma in quel caso i rimandi sono praticamente istantanei.
Come sempre, apprezzo qualsiasi tipo di commento ragionato, a maggior ragione in un fandom che è mio da tempo ma nel quale non ho mai scritto. La storia continuerà e il rating si alzerà, anche se gli impegni mi suggeriscono che scriverò a rilento. Dal momento che si considera vista la seconda stagione da parte di chi legge (tratterò esclusivamente di missing moment), esiste la possibilità che i capitoli non siano scritti e pubblicati in ordine cronologico, ma che proseguirò in ordine sparso per poi eventualmente tappare buchi.

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Capitolo 2
*** Can you hear what I hear, babe? ***


Can you hear what I hear, babe?
(La vendetta di Cassandra)


 

The air grows heavy. I listen to your breath,      
entwined together in this culture of death.      
Do you see what I see, dear?      

 

Prigioniera di una bolla in un campo di spilli, Rose era viva.

Riusciva a registrare quegli impulsi senza processarli, come un neonato cullato dalle rime di una litania senza essere in grado di capirne le parole. Si sentiva come un'adolescente in punizione, rinchiusa in camera dopo essere stata sorpresa a fumare, raggiunta dal vago vociare della televisione accesa al piano di sotto senza potersi figurare i volti degli attori, dal litigio dei genitori senza distinguerne l'argomento, dal profumo della cena sul fuoco senza poterne ipotizzare il gusto.

Suggestioni senza alcun filo logico la attraversavano nel luogo remoto e profondo in cui era confinata, e la palpitante tortura di quella rapida successione era quanto di più intenso e animalesco avesse mai provato: Cassandra pensava alla vendetta e Rose provava insieme bruciante rimorso e brillante compiacenza. Cassandra parlava e Rose soppesava la eco delle sue parole. Cassandra percepiva e Rose vibrava alla luce di quel bombardamento di stimoli. Cassandra capiva e Rose sentiva.

E ciò che Rose sentiva era come se lo sentisse l'intero universo, perché tutto ciò che era era sentimento e istinto. Quello che era il suo istinto e lei insieme le suggeriva che se lei poteva sentire Cassandra, Cassandra poteva pensare lei. Doveva solo pulsare al di fuori del suo microscopico regno e invadere la sua ragione violata di distruzione e terrore e sangue e sogni bagnati e scopare e…

Dottore.

I suoi occhi che erano gli occhi di Cassandra le inoltravano un'immagine fumosa del Dottore, e si scopriva a ordinare loro di farsi affamati in un istantaneo dilatarsi di pupille. Priva di memoria, non poteva rendersi conto di quanto tempo fosse passato dall'istante in cui quel parassita le si era insinuato nel pensiero razionale, se un minuto o cento anni prima, ma quell'immagine, come la fotocopia della fotocopia di un sogno, e quella voce, come la eco di una eco di un incantesimo, le sentiva come proprie, le intuiva con immediatezza.

Intuiva con incoerente chiarezza mani strette nervosamente a torturarsi il palmo con le unghie. Intuiva un balbettio confuso. Intuiva uno sguardo ansante sul suo seno che Cassandra aveva liberato un poco dalla morsa degli abiti.

E più intuiva e più voleva. Voleva che quelle mani si sciogliessero a toccarla, voleva che quel balbettio si spegnesse in un sospiro, voleva essere guardata, eternamente guardata con occhi incerti e anelanti. Completamente, totalmente, assolutamente voleva ed era lei stessa puro volere.

E quel volere esplodeva irradiandosi come sangue che sgorga da una ferita, annebbiando la mente di Cassandra, scivolandole fra le mani e sulla bocca, e si slanciava verso altre mani e un'altra bocca. A un tratto, per un momento, Rose si scopriva ad avvertire il proprio corpo, avvertiva le proprie mani insinuarsi fra i capelli del Dottore, avvertiva le proprie labbra schiantarsi come un aereo in picchiata su quelle del Dottore, pretendendo immediato accesso con la lingua, cercando i suoi denti e il suo palato, e la sua bocca era bagnata, e lei era bagnata, e avvertiva i muscoli irrigidirsi, e la mascella danzare, e la spina dorsale incendiarsi di brividi, e una tempesta elettrica le accendeva le sinapsi in un orgasmo cerebrale facendola urlare in preda a spasmi invisibili, e urlava sono viva, e urlava io esisto, e urlava scopami, e urlava uccidimi, e urlava ti prego Cassandra, non capire, lasciami, non lasciarlo, condividimi, condivilo, non dividerti…

L'onda d'urto dei pensieri di Cassandra, di nuovo consapevole, di nuovo padrona della mente di Rose la gettò ancora una volta nella sua cella, dolorante. Eppure quel corpo che non percepiva più lo sentiva caldo e umido: Cassandra era eccitata della sua eccitazione, era attratta della sua attrazione, infatuata della sua infatuazione. Rose tentava di collezionare con foga quelle fotografie distanti della realtà, del suo Dottore, e le appendeva senza ordine sulle pareti di quella stanza sempre più claustrofobica, e le pareti collassavano, si strappavano cancellando lo strato precedente di volta in volta. Io esisto. Io esisto. Io non penso, dunque sono. Ancora. Per poco.

Istanti o eoni più tardi, quando in un alito di vapore quella sanguisuga l'aveva abbandonata e la sua esistenza si era gonfiata come l'universo in espansione attraverso neuroni, carne e sangue, si era sentita come annacquata. Abituatasi alla confortevole ipersensibilità del suo cantuccio irrazionale, tornare in sé stessa l'aveva gettata in un limbo di abulica concretezza mentre il fascio di sensazioni che era diventata si diluiva nella molteplicità dei pensieri, delle percezioni, delle inutili masturbazioni cerebrali.

La prima cosa che aveva pensato era stata che di certo il Dottore sapeva: sapeva dove si va a nascondere l'identità quando è schiacciata dal possesso di un'altra creatura e deve trovarsi un angoletto sicuro dove andare a morire. Di certo la sapeva ancora capace di scoppiare all'interno di sé stessa, di perdere il controllo per prendere il controllo. Sapeva che era Cassandra a baciarlo, ma che non era Cassandra ad averlo deciso.
 

***

 

La stanza che la TARDIS aveva generato per lei, era delimitata come ogni altro spazio all'interno della macchina da tre linee, una che seguiva sei dei trentasei pannelli esterni della TARDIS, le altre due che tentavano invano di formare un angolo retto verso il centro della struttura, spuntato per sfociare in una passerella sul vuoto. Solo nella sua stanza, quella del Dottore e i bagni queste ultime si ergevano in pareti, con l'unica porta proprio su quel vertiginoso corridoio che era costretta a percorrere ogni mattina e ogni sera in un ansiogeno angolo retto proprio sotto la console, ansante sopra la sua testa; scesi dalla scala a chiocciola fino al piano sotto la sala controlli, Rose e il Dottore ne percorrevano insieme il primo tratto per separarsi al centro, dove si snodava in un bivio a T: lei svoltava a destra, lui a sinistra,e si lanciavano un sorriso dai lati opposti del passatoio prima di richiudersi la porta alle spalle.

Le radici profonde della TARDIS le avvolgevano il letto in un abbraccio di conforto mentre di nuovo padrona dei suoi ricordi appaiava con cura immagini e didascalie emotive, come un'archivista che fa ordine fra documenti importanti.

Quasi supplicò sé stessa di riuscire a sincronizzare i propri respiri a quelli della macchina, che sentiva pulsare, viva, oltre la cupola del soffitto.

Tentò, una mano al petto, di placarsi la tachicardia mentre dal calderone delle memorie emergeva quel bacio lascivo col quale aveva sfregiato il suo Dottore.

Ma ora, al sicuro, a Rose era come concesso di tornare a quello stato ferino di cui era stata schiava per quelle poche ore che le erano parse senza tempo o spazio.

La mano scivolò languida sotto la camicia da notte di seta rosa, superando in punta di dita le creste ossee dei fianchi e la linea dell'inguine. Sorrise trionfante al buio che la circondava.

Lui sa, si disse con svergognata malizia, come sussurrando un segreto attraverso il buco della serratura. Chiuse gli occhi.

E allora pensò, fortissimamente e coscientemente pensò al suo Dottore.

 

I kissed you once. I kissed you again:      
my heart it tumbled like the stock exchange.      
Do you feel what I feel, dear?      

 


 

“Posseduta” da Cassandra, Rose non è incosciente, ma schiacciata (ci rivela il Dottore) nel profondo della sua mente. Mi piace pensare che il luogo in cui i “posseduti” vanno a rifugiarsi sia quello più intimo, sconosciuto e confortevole, nonché quello fisicamente “schiacciato” sotto il resto del cervello: il sistema limbico, responsabile delle emozioni, dell'umore, dell'autocoscienza, e che ha un collegamento privilegiato col cervelletto, responsabile del piacere e della paura, o, per semplificare, delle reazioni istintive. Per dirla con meno biologia e più psicologia, freudianamente parlando, ho voluto in qualche modo privarli del Superio per abbandonarli a un Es senza freni, e quindi lasciarli in balia dei loro istinti di vita e di morte: scopamimandingotiammazzostronzo, in breve.
Per fare questo e slegare totalmente la loro condizione da qualsiasi forma di pensiero razionale o di accesso alla memoria a lungo termine (e quindi al senso del tempo) nel parlare del periodo di “possessione” ho voluto usare esclusivamente tempi verbali iterativi (anche qualora non era immediatamente logico farlo) per non attribuire nessuna connotazione temporale, ho favorito la paratassi e, a tratti, accenni di flusso di coscienza. Può piacere o non piacere, ma in questo caso è una scelta voluta, mirata a dare un movimento illogico e quasi frenetico alla scena.
Per quanto riguarda la descrizione delle stanze, ho tentato di inventare il meno possibile e seguire il più possibile il canon per costruirle in modo analogo: se faticate a immaginare cosa intendessi vi rimando a questa immagine per orientarvi.
Restiamo su Nick Cave, stavolta con Abattoir Blues.

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Capitolo 3
*** He was a big Bad Wolf ***


He was a big Bad Wolf
(L'impero del lupo)

 

 

Watch him rising, see him howling!
And he sucked her and sucked her dry.

(…)

Owooooo!

 

“Oh mio Dio, sono lupi mannari!”

Era a malapena riuscito ad abbassare la leva per decollare prima che Rose lanciasse la testa all'indietro e lanciasse un grido stridulo e modulato contro la cupola della TARDIS, facendolo riecheggiare in diverse tonalità mentre pavimento iniziava a ondeggiare. Si era ripromesso di non darle corda al riguardo, ma vederla così genuinamente divertita fece crollare le sue difese istantaneamente. Le lanciò uno sguardo di sottesa complicità dal lato opposto della console, con contorno di quel sorrisetto obliquo che sembrava piacerle. E ululò. Il collo allungato verso l'alto, le labbra protese, le mani a coppa attorno alla bocca per amplificare il suono, ululò a piena voce come un bambino che gioca e come una bestia che piange. Rose rise, e fra le risate ululava ancora, come sfidandolo a fare di meglio.

La TARDIS, rotolando nello spazio-tempo, s'imbizzarrì senza preavviso: Rose trovò un appiglio, il Dottore, pur ben più abituato di lei a quei capricci, crollò miseramente a terra, evitando per un soffio di sfregiarsi sulle grate sostenendosi con le braccia. Come il lupo che stavano imitando, si ritrovò a quattro zampe. Ringhiò di frustrazione in risposta all'urto che probabilmente gli avrebbe provocato un paio di ematomi sulle ginocchia e di escoriazioni sui palmi.

Rose accorse, preoccupata; lui la fermò immediatamente, il capo ancora chinato a guardare il pavimento e la mano protesa.

“Dottore, stai bene? Ti sei fatto male?”

Il Dottore costruì un nuovo ringhio, sordo e crescente dal fondo della gola, e mentre il ringhio montava alzò lo sguardo verso di lei, uno sguardo nero e famelico, uno sguardo da lupo. Rose fissò quello sguardo con reverenziale curiosità, incerta se spaventarsi o stare al gioco. Lui avanzò carponi di due passi, lei in piedi indietreggiò di altrettanti. Il ringhio si gonfiò di fiato e gli uscì dalle labbra come un fumo minaccioso. Poi, finalmente, alzò la testa al cielo e vi lanciò un ultimo, glorioso ululato.

Rose sentì un brivido scorrerle da una vertebra all'altra, dall'alto verso il basso, in un'ondata simile al movimento dei cani che scrollano di dosso la pioggia. In quel brivido la percorsero sentimenti avversi, del tutto involontari; li mascherò alzando un sopracciglio, fingendosi scettica, e accennando un sorriso asimmetrico.

Si avvolse una ciocca di capelli biondi fra l'indice e il pollice, arrotolandoceli nervosamente mentre tentava di mantenere il contatto visivo, come se potesse strizzarci fuori le immagini che le si accumulavano senza logica in testa e lasciarle gocciolare via. Il medio si unì alla danza di intrecci e nodi. Iniziò a fantasticare sconnessamente, ricordando distintamente il tracciato della lingua del Dottore sul legno liscio della parete della biblioteca e costruendo al riguardo svergognate ipotesi. Immaginò per qualche motivo che il Dottore stesso fosse un lupo mannaro o una qualche bestia selvatica impossibile da addomesticare; improvvisamente si pensò regina, non una regina come Vittoria, una regina di certe fiabe, vestita di diamanti e ricami dorati sul corpetto, capace di incantare gli uomini col solo sguardo e di parlare agli animali della foresta; si pensò con in mano la spada che la Regina aveva usato per nominarlo Cavaliere, ma al posto di posargliela sulla spalla gliela puntava sotto il collo, costringendolo ad alzare la testa, a deglutire nervosamente e ad ammansirsi spontaneamente sotto il suo controllo.

Quel che non sapeva era che al contempo il Dottore stava a sua volta tremando nel tentativo di non spezzare il filo che legava il suo sguardo al proprio: su quel filo correvano immagini analoghe e opposte a quelle, immagini che si era abituato ad associare a lei, ma che ancora lo turbavano come un piacere proibito, come un biscotto rubato da un bambino direttamente dal vaso di vetro che la mamma ha nascosto sul fondo della credenza. Le immagini non erano fantasie costruite sul palcoscenico della realtà, ma veri e propri ricordi recenti: una fotografia di Rose nella penombra, le labbra schiuse nell'affanno e nella paura e la fronte imperlata di sudore per lo sforzo di divellere la catena dalla parete; e dannazione, in quella fotografia Rose portava le catene ai polsi e lo giudicava con occhi di fuoco per la sua esitazione a liberarla subito, per volere godere di quell'immagine conturbante ancora un momento. Ricordava distintamente il suo grido di terrore quando il lupo aveva tentato di gettarsi su di lei, e quel grido gli aveva spremuto nel corpo ogni goccia di adrenalina che potesse reggere: sentiva che ancora non aveva finito di scorrere via, che di lì a un paio d'ore sarebbe morto di fame e di sonno per quella sbronza chimica.

Rose. Dama Rose del Powell Estate: una nomina per la quale una larga fetta di sé rideva di gusto e che un'altra ancor più grossa trovava vagamente intrigante. Il Dottore tentò di ripescare dai ricordi di una vita precedente l'immagine di Rose in abiti vittoriani, e gli sovvenne un vestito di seta e velluto rosso e pizzi neri che, pure lungo fino alle caviglie di certo la Regina Vittoria avrebbe profondamente disapprovato per la scollatura squisitamente ampia e le braccia nude dal gomito in giù. No, non sarebbe stato un vestito adatto a una dama, ma quanto volentieri l'avrebbe rivista così agghindata, con tanto di acconciatura piumata...

Rose allungò lentamente una mano, prima raccolta in un accenno di pugno, poi, per fasi, schiusa come un incerto fiore ai primi caldi; gliela posò sulla testa, senza peso, immergendola nei riflessi di quel castano incostante. Non la mosse neppure in un accenno di carezza, semplicemente gli toccò la testa come in una tacita benedizione.

Il Dottore sbuffò. “Non è divertente se non hai almeno un po' di paura” si lamentò mettendosi in ginocchio, una mano a torturarsi la nuca.

“Ma io ho paura” rispose Rose con un sorriso. Poi gli abbandonò l'ombra di un bacio sulla scriminatura dei capelli. E aveva paura, davvero.

 

I'm looking down below,
see a lupine child.


 



Questo capitolo è stato un vero parto. Un po' perché forse inizialmente volevo saltare questa puntata, un po' perché è la prima volta che si vedono i personaggi interagire e temevo che creare un'interazione e stroncarla con l'introspezione risultasse pesante e rallentasse troppo la narrazione. Infine ho il sospetto di essere fint* un filino OOC, ma sarete voi a confermarlo o a negarlo. Mi scuso per l'attesa ma ho avuto serie difficoltà con la parte centrale, che pure era quella da cui ero partit*. In conclusione non ne sono troppo convint*.

Ho una notiziola che forse vi farà piacere: il caro Nick Cave, che ci sta accompagnando ancora con un brano dei Grinderman, Mickey Mouse and the Goodbye Man (che forse presagisce proprio l'arrivo di Mickey nella prossima puntata, chissà), mi darà l'onore di officiare la messa il 7 novembre ad Assago, e io ho prenotato l'inginocchiatoio. Eurini ben spesi.

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