The lost planet

di Elsker
(/viewuser.php?uid=204498)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 0. Prefazione #1 ***
Capitolo 2: *** 0. Prefazione #2 ***
Capitolo 3: *** Prologo - Kai, Luhan, Tao e Chen ***
Capitolo 4: *** 0. Prologo - Sehun, Lay, Xiumin e D.O ***
Capitolo 5: *** Prologo - Baekhyun, Suho, Kris e Chanyeol ***



Capitolo 1
*** 0. Prefazione #1 ***


http://orig09.deviantart.net/610a/f/2012/147/8/f/exo_k_chanyeol_fire_by_kpop2pm-d5197ph.jpg

Prefazione #1


 

Questa storia è nata grazie a un ragazzo, il cui nome mi è stato rivelato solo nel bel mezzo del viaggio che ho intrapreso con lui e che voi scoprirete presto. Penso che, come me, lo apprezzerete per la limpidezza del suo cuore e i suoi modi gentili.

Non dimenticherò mai i suoi occhi, che sembravano cogliere tutto con uno sguardo. Quegli occhi che parevano scavarti dentro, ma che allo stesso tempo rivelavano un'anima così ingenua ed innocua.

Non so di preciso come sia accaduto e, a pensarci bene, fino al momento in cui ho iniziato a scrivere questa storia ero convinta che si trattasse di un sogno, ma le sensazioni che quel viaggio mi ha lasciato dopo il risveglio sono rimaste troppo vivide perché in questi anni possa aver dimenticato quel ragazzo, il mondo che mi ha mostrato e la storia che mi ha narrato.

Una notte, come spesso accadeva, mi ero addormentata sulla scrivania della mia camera con il viso appoggiato al mio blocco di appunti, in una mano una biro e nell'altra una stecca degli occhiali.

Mi ero svegliata in una grotta con la schiena appoggiata alla parete e con gli oggetti ancora stretti nei pugni. Mi alzai con cautela, tutta indolenzita. Da sempre sono abituata ai dolori causati dalle superfici e dalle posizioni in cui mi addormento, ma quella volta stavo anche peggio: un suolo roccioso non era esattamente morbido come una sedia da scrivania. Iniziai ad osservare quel luogo sconosciuto: quella grotta non era affatto buia o umida, anzi. L'atmosfera era come quella del soggiorno di casa mia quando, in pieno inverno, il camino era acceso: illuminata e accogliente, calda e intima. La luce proveniva da un fuoco acceso nel mezzo di quell'area circolare, perciò andai a sedermi su una pietra adagiata vicino a quella fonte di calore. Appoggiai le mie cose accanto a me e allungai un braccio verso quelle fiamme che guizzavano tranquille e allegre, beandomi di quel tepore ad occhi chiusi. Pensai che per essere un sogno sembrava tutto molto reale: sentivo ogni crepitio del fuoco e il silenzio che circondava il resto della grotta, per non parlare delle carezze irresistibili del fuoco sulla mia pelle, di quelle che invitano ad avvicinarsi sussurrando la falsa promessa di farti sentire ancora meglio.

«Ah, ti sei svegliata.»

Una voce profonda e gentile mi fece riaprire gli occhi con uno scatto e per poco non caddi da dove ero seduta. Un ragazzo alto e dalla figura slanciata stava davanti ad un tunnel che doveva sicuramente portare all'uscita. Senza aggiungere altro, venne a sedersi con passi misurati di fronte a me e si mise a fissare anche lui il piccolo falò. I riflessi di luce danzavano sulla sua pelle chiara e sul suo viso ovale, dai lineamenti molto morbidi ma ben delineati. La sua altezza e la sua voce profonda contrastavano con la sua faccia da bambino. Cominciai a seguire con gli occhi il movimento delle sue dita sul fuoco, che danzavano come se stessero orchestrando quelle lingue per comporre una dolce armonia, e per poco non mandai un urlo quando vidi che alcune fiamme cominciavano a seguire il movimento da lui disegnato in aria.

«Che meraviglia! Posso farlo anch'io?» mi domandai, rapita da quello spettacolo, cercando di concentrarmi su una fiamma e di farla alzare un po' spostando leggermente l'indice con cui l'avevo puntata.

Il ragazzo di fronte a me scoppiò a ridere. Fui molto colpita dalla sua risata: così genuina e divertita, dolce e spensierata, assomigliava molto a quella innocente di un bambino, che non credevo potesse essere emanata da un'espressione così… non era triste, né afflitta, direi... sembrava più che altro provata da un mucchio di eventi, come se fosse davvero stanco di tutto ciò che aveva passato e che rimpiangesse il tempo che gli era stato rubato.

Notai anche che gli si era formata una fossetta sulla guancia sinistra. Senza pensarci, la indicai e gli dissi: «Ce l'ho anche io, ma dall'altra parte: sembro il tuo specchio!» Sorrisi per mostrargliela e lui mi sorrise a sua volta, come per comunicarmi che apprezzava il fatto che avessi notato quel dettaglio.

«Comunque non è giusto! Perché neanche nei propri sogni si possono avere dei poteri?» commentai, più che altro lamentandomi con me stessa, continuando a fissare ostinata il fuoco.

«Questo non è un sogno.»

Portai lo sguardo sul suo viso e notai che si era fatto immediatamente serio, forse anche con un'ombra di tristezza e di rammarico. Guardando in quei profondi pozzi che erano i suoi occhi, mi venne da chiedermi quanti anni avesse: se l'avessi visto così fin da subito non avrei neanche pensato di paragonarlo ad un bambino. Dal suo volto, dimostrava di averne passate molte, e sofferte altrettante.

«Questo è un viaggio onirico. Il tuo vero corpo è ancora nel posto in cui ti sei addormentata, ma il tuo spirito è uscito da esso ed è arrivato fin qui. Infatti, fra poco scoprirai di sentirti più leggera, perché non più limitata dalla carne o qualcosa di simile...» cominciò a spiegarmi, con voce incerta e malferma, senza mai alzare lo sguardo che manteneva fisso davanti a sé.

«Davvero?!» gli chiesi meravigliata, con il cuore che si gonfiava di un'inaspettata gioia.

«Sì, ma se dovessi tornare troppo tardi potresti... ecco... non ritornare in vita, perché il tuo corpo ora è come una scatola vuota che tende a deteriorarsi se non torna ad essere riempita in un certo periodo. E l'unico modo per tornare indietro è compiere la missione a cui sei stata destinata.»

«Wow!» dissi, fingendo di non essere per nulla impressionata. Mi piaceva l'idea di essere speciale, di essere per una volta così fortunata da compiere un viaggio simile, anche se già piangevo al solo immaginarmi il dolore che avrei provato una volta svegliata sulla sedia.

«E il tempo che passa qui equivale a quello dal pianeta da cui provengo?»

«Non lo so» ammise lui, abbassando il capo come se si sentisse un po' colpa.

«Come “non lo sai”?! Non sei, tipo, la mia guida, quello che sa tutto e che mi dice cosa devo fare?» avevo una brutta sensazione... l'entusiasmo che avevo provato svanì tutto d'un tratto.

«Non sono nulla di tutto questo. O meglio, sì, ma l'ho scoperto da poco, cioè da quando tu sei apparsa magicamente qui facendomi prendere uno spavento! Quel poco che so te l'ho già spiegato e anche io devo ancora metabolizzare la tua presenza. Non credere che sia facile per me» mi comunicò, con un tono lamentoso ed una strana espressione che era un misto di dispiacere e accusa nei miei confronti.

«Oh, bene! Allora partiamo subito! Visto che non abbiamo nulla da fare!» esclamai per dare la carica più a me stessa che a lui, alzandomi e prendendo le mie cose. «Qual è la mia missione?» gli chiesi speranzosa. Non mi aspettavo nulla di che, ma ero terribilmente curiosa.

«Non lo so» rispose in tono secco, sempre con quell'ombra stanca sul viso.

«Eh?» mi appoggiai alla parete e cominciai a dare delle leggere testate per l'esasperazione, ma mi accorsi ben presto che la roccia era molto più dura e ruvida del legno anche in un viaggio onirico.

«In compenso, posso iniziare a mostrarti questo mondo: seguimi» si alzò e cominciò ad avviarsi verso il tunnel da cui era entrato. Mi affrettai subito dietro di lui, anche perché aveva spento il fuoco nell'area circolare, facendo comparire delle piccole fiamme su entrambe le pareti che mostravano la via d'uscita. Seguendolo a pochi passi di distanza, mi resi conto di quanto fosse alto o, come al solito, di quanto fossi bassa io, e pensai che se non fosse stato per la sua figura estremamente slanciata, per quel viso angelico e quella voce così gentile, probabilmente mi sarei presa un bello spavento. Continuai a guardare con meraviglia quelle piccole e graziose fiamme disseminate lungo le pareti che scomparivano man mano che le superavamo.

«È strano che tu non mi abbia ancora chiesto dove siamo o roba del genere, Nix mi ha detto che dovevo prepararmi a rispondere in modo esauriente alle tue domande su questo mondo...» esordì lui, come per spezzare il silenzio rotto solo dai nostri passi e dal nostro respiro.

«Non sono abituata alle domande. In genere mi piace osservare, oppure capire le cose da sola...» ammisi, anche se sapevo che avrei dovuto domandargli chi era esattamente questo o questa Nix, che doveva saperne più di lui.

«Allora, ti dirò le cose che mi sono già preparato. Siamo su Exo, un pianeta che, stando a quanto dice Nix, si trova in una dimensione differente dalla tua. Non so molto sulla teoria delle dimensioni parallele, ma si può desumere che tu venga dal pianeta alternativo del tuo universo. Insomma, se fossimo nell'universo da cui tu provieni, questo sarebbe esattamente il tuo pianeta, visto per come ci assomigliamo fisicamente. Qui, in questo ultimo trentennio, sono accadute moltissime cose che...»

«Quanti anni hai?» lo interruppi, senza neanche rendermene conto: era la prima volta che non riuscivo a stimare l'età di una persona studiando i suoi occhi, e di certo il suo aspetto fisico e i lineamenti del suo volto non facevano altro che confondermi.

«Non devi fare domande su di me...» rispose, dopo essersi ripreso dalla sorpresa.

«Dovrò pur passare del tempo con te, no? È una domanda come un'altra.»

«Non ti piacerebbe scoprirlo da te? Non si vede dal mio aspetto?» e si indicò il viso con una mano.

Mi portai al suo fianco e lo osservai, ma, accorgendomi che avrei potuto metterlo a disagio – io lo sarei stata al suo posto – abbassai lo sguardo quasi subito. «Beh, potete essere immortali, o avere un sistema differente per misurare gli anni, oppure rimanere per sempre giovani... che ne so! Non sono mica sul mio pianeta...» sussurrai, stizzita per il fatto che non me lo dicesse.

«Tu quanti ne hai?» domandò lui con fare pensieroso, facendosi scuro in volto. Distolsi subito gli occhi da quell'espressione sofferente.

«Millequattrocentoottanta...» come al solito non ero riuscita a frenare la mia lingua, che rispondeva sempre prima che la mente potesse formulare qualcosa di sensato.

«Siete molto più longevi di noi! E tu mi sembri ancora giovane! Ti avrei addirittura dato qualche anno in meno di me...» esclamò, con gli occhi spalancati per la sorpresa e fissandomi insistentemente. Solo in quel momento mi resi conto di esser vestita ancora con la tuta da casa e ringraziai il fatto di non essermi cambiata prima di addormentarmi.

«Nix ha detto che di solito ci si arriva con le mani vuote, nei viaggi onirici, ma tu ti sei portata dietro gli occhiali e una biro...» lasciò la frase in sospeso, come se volesse chiedermi il perché, ma rendendosi conto che io di certo non potevo saperlo.

«Mi sono addormentata con questi oggetti in mano e ce li ho forse perché ritengo siano strumenti indispensabili per la mia vita» gli suggerii qualcosa, giusto perché lui pensava che io non lo potessi sapere, ma in quel preciso istante mi ricordai anche il motivo per cui mi ero addormentata sulla scrivania. «Fra tre giorni ho un esame! Ecco cosa stavo facendo! Stavo ripassando e non ho ancora finito! Dobbiamo sbrigarci!» gridai, mettendomi la mano davanti alla bocca. Poiché lui non si affrettava affatto, per la disperazione mi misi a spingerlo dietro la schiena con tutte le mie forze.

Quando arrivammo in fondo al tunnel, mi accorsi che eravamo su di una montagna e che non c'era una strada per discendere da quel luogo, se non una parete rocciosa che sembrava parecchio pericolosa, il cui fondo non si vedeva affatto da quell'altezza.

Lui, intercettando il mio sguardo terrorizzato, mi tranquillizzò e mi comunicò che Nix ci avrebbe accompagnati fino alla valle. Dopo avermi mostrato alcune mappe che aveva disegnato lui stesso in tutti in quegli anni, di cui cercherò di riportare un'idea approssimativa il più fedelmente possibile, partimmo.

Le mappe sono una delle prime cose che mi sono rimaste impresse, perché erano disegnate esattamente come le avrei fatte io: anche se evidentemente lui come me non aveva il dono del disegno, si vedeva che si era impegnato tantissimo.

«Quindi questo è il grande continente su cui abitate? Dove siamo adesso?» gli chiesi, scorrendo con le dita il contorno dei tratti neri che rappresentavano le coste.

Lui, invece di rispondermi, mi prese per le spalle, costringendomi a guardarlo negli occhi, nei quali si era accesa una luce speranzosa che sicuramente nessuno dotato di buon senso avrebbe cercato di spegnere: una persona è sicuramente felice quando le sue iridi luccicano in quel modo.

«Penso che tu ti sia impegnato davvero molto e che la carta che mi stai mostrando sarà la millesima versione che hai cercato di migliorare. Io avrei disegnato nel tuo stesso modo le montagne, le colline e i boschi, e sto prendendo mentalmente degli appunti per questo grande fiume che attraversa il confine tra queste due terre...» prima che potessi finire, lui strinse le mie mani tra le sue, con gli occhi lucidi.

«Prima di te solo Baekhyun ha saputo leggere le mie mappe senza lamentarsi neanche un attimo, mica come quegli ingrati di Lay e Tao, seguiti poi anche da tutti gli altri!» brontolò con me, come se potessi capirlo e condividessi la sua disapprovazione. Io sapevo solo di essere la peggior disegnatrice di mappe che conoscevo e che in quel momento avevo trovato qualcuno al mio stesso livello che però, a differenza mia, si era sempre impegnato duramente.

Sarebbe stato imbarazzante continuare a parlare con le mani legate alle sue, ma grazie al cielo era arrivata Nix, illuminando di colpo l'aria scura che ci stava circondando: il ragazzo, per l'agitazione, aveva spento tutti i fuocherelli che ci giravano attorno. Grazie a quel piccolo scambio di parole, ero sicura che saremmo partiti con il piede giusto: insomma, prima di conoscerci per nome avevamo già trovato qualcosa in comune, il che per lui non era poco!

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 0. Prefazione #2 ***


Prefazione #2

 

Non so per quanto tempo volammo su quelle terre – alcune bellissime e altre devastate da calamità naturali –, conoscendoci sempre meglio giorno dopo giorno. Lui mi narrò di un albero della vita, di dodici ragazzi, di un pianeta da salvare, di loro stessi da salvare dalle proprie paure; con l'aiuto del fuoco nel quale, a volte, il mio sguardo si perdeva così intensamente che mi pareva mi accadesse davanti tutto ciò che raccontava, con la stessa nitidezza e chiarezza di un film visto al cinema.

Fu una notte in cui ci stavamo riposando in un bosco che mi accorsi di aver perso il conto dei giorni in cui ero stata lì, e che ormai, oltre a guardare le stranezze che accadevano intorno a me, la mia attenzione era completamente focalizzata su di lui, sul suo viso candido, sulla sua voce profonda, sulle sue lunghe dita affusolate che seguitavano sempre a muoversi come se orchestrasse il fuoco per trovare la musica che più gli piaceva, e mi resi conto che non volevo affatto dirgli addio, mai e poi mai. Anche se non ero affatto stanca, dopo il tramonto ci accampavamo sempre, perché lui doveva dormire e asseriva che pure io avrei dovuto riposarmi, poiché anche uno spirito si nutre e si rilassa. In effetti, ben presto scoprii che era vero, ma quella notte la passai completamente in bianco a osservare la sua figura che si alzava e si abbassava costantemente seguendo il ritmo dei suoi respiri, trattenendo a stento le lacrime.

«Devo tornare per forza tornare a casa?» gli chiesi una decina di minuti dopo il suo risveglio.

Il suo corpo sussultò e si girò lentamente a guardarmi. «Non capisco... non volevi ritornare a casa il prima possibile? Ormai siamo alla fine del viaggio e del racconto. Nix ha detto che probabilmente basta che tu compia questo viaggio, sarebbe questo il motivo per cui sei stata mandata qui.»

«E se io volessi rimanere qua per sempre? Non mi basterebbe non ascoltare il resto della tua storia o non finire di visitare gli ultimi luoghi?»

«No, è pericoloso. Tu non sei di questo mondo, qui sei solo spirito, non sei materia... e se passa troppo tempo, sia il tuo spirito che il tuo corpo si distruggeranno e tu questo dovresti saperlo molto bene.»

Certo che lo sapevo. Anche se il mio corpo funzionava normalmente e riuscivo a percepire bene con tutti e cinque i sensi, Nix - prima di partire e di lasciarci soli per visitare gli ultimi posti a piedi - aveva messo bene in chiaro che il mio spirito, prima o poi, sarebbe stato consumato da quell'aria che per me era nociva, come se avesse presagito che potesse venirmi un mente un'idea del genere. Per una volta volevo illudermi, volevo rimanere, non importava per quanto tempo.

«Posso portarmi via qualcosa da qui, per ricordare questo posto?» “E per ricordare te?” pensai; ero sicura che una volta svegliatami avrei pensato che tutto quello fosse stato solo un meraviglioso sogno e che io avevo dormito troppo.

«Visto che ti sei portata qualcosa dietro, non vedo alcun impedimento... cosa ti piacerebbe?»

Invece di rispondergli, mi alzai e sistemai la mia sacca a pelo nello zaino, e lui fece lo stesso. Cercai la mia biro e corsi di fronte a lui che nel frattempo si era caricato lo zaino in spalla.

«Se ti do la mia biro, tu mi dai qualcosa di tuo da portare via?»

Lui guardò con gli occhi ardenti di desiderio la mia biro a cristallo, che era assolutamente la mia preferita.

«Non te l'ho detto, ma questa biro non la uso quasi mai... la tengo accanto a me quando scrivo, come se mi desse ispirazione... a volte, dopo lo studio, o anche prima e durante, prendo un blocco note e comincio a immaginare personaggi e vicende, e le parole cominciano a prendere vita, ma non sempre ho l'ispirazione e la tengo come portafortuna. La sera prima di arrivare qui, invece di studiare, stavo disegnando un nuovo mondo e ne stavo delineando i dettagli prima che mi addormentassi. Infatti, all'inizio, pensavo fosse stato il karma a punirmi e a togliermi gli ultimi giorni di studio. Ora però voglio regalarti ciò che per me è più importante, sperando che tu possa ricordarti di me...» gli dissi, sentendo le guance andare in fiamme, così come le orecchie, per l'imbarazzo.

«Ehm, io, per me è troppo» borbottò, probabilmente con un'espressione piuttosto sorpresa che io non potevo vedere, perché stavo fissando le mie scarpe.

«Senti, prendila e fine della discussione!» gliela infilai frettolosamente nella tasca della giacca nera, andando a recuperare lo zaino e mettendomi in cammino.

«Ehi» mi chiamò lui dopo una decina di passi. Mi voltai con il cuore che scoppiava dalla gioia, sperando che avesse capito.

«Hai sbagliato strada: stai andando verso la direzione da cui siamo arrivati!» mi battei la fronte con la mano, cercando di rimanere calma e maledicendo il mio senso d'orientamento sempre così affidabile, e mi voltai.

Una volta, quando gli avevo chiesto perché riuscissimo a comunicare in maniera così trasparente, lui mi aveva risposto che era come se stessimo parlando nel linguaggio dello spirito, che non stavamo usando né la sua né la mia lingua. Un po' come quando ci si capisce con gli occhi, ma in quel momento lui non stava capendo proprio nulla. Perché dovevo essere solo io quella che stava male, che si affezionava? Quella che si rivelava sempre con uno stupido gesto che significava anche troppo?

Per il resto della giornata non aprii bocca, perché sapevo che avrei solo pronunciato parole scontrose se non mi fossi limitata a rispondere con dei cenni alle sue domande e non avessi ascoltato silenziosamente il resto della storia, oltre ad accettare il cibo che mi offriva senza neanche ringraziare. Cercai di guardare sempre diritto davanti a me e di non incrociare mai il suo sguardo, o semplicemente di non vedere il suo viso, perché sapevo che mi sarei sciolta miserabilmente e mi sarei dimenticata di essere offesa. Per fortuna, quel giorno lui mi aiutò molto parlando di un ragazzo che si chiamava Lay, che per molti anni era stato nei boschi in cui ci trovavamo in quel momento.

«Senti...» mi disse, quando ci fummo accampati per la notte ed ognuno era nel proprio sacco a pelo, ad osservare il cielo stellato sopra di sé. Pregai che non mi chiedesse se fossi triste perché mi ero privata della mia biro, o sarei potuta diventare davvero molto violenta e non avrei più risposto delle mie azioni.

«Perché adesso vuoi rimanere qui?» ecco, questo forse era addirittura peggio. Mi girai su di un fianco per guardarlo male e anche lui si girò verso di me, fissandomi dritta negli occhi e lasciandomi senza respiro. Continuai a sostenere il suo sguardo, senza profferire parola. Sarei anche potuta rimanere un'altra notte in bianco a osservare i tratti del suo viso che riposavano, semplicemente per imprimere bene la sua figura nella mia memoria in modo da non dimenticarlo.

«È perché ti piace molto questo pianeta o...» a quel punto distolse lo sguardo e notai che perfino lui arrossiva alle punte delle orecchie a sventola, e non riuscii a non sorridere.

«... ti sei affezionata a Nix?» concluse tutto d'un fiato.

Se fossi stata in piedi, sarei certamente caduta a terra per l'assurdità di quell'affermazione, che era stata fatta solo per perdere altro tempo e magari spingermi a parlare. Mi ostinai di nuovo a non rispondergli, sperando che prima o poi ci arrivasse o che si esponesse finalmente anche lui.

«... oppure a me?» chiese finalmente, volgendo di nuovo il suo sguardo verso di me, come per accertarsi che non stessi ridendo di lui, per poi girarsi di nuovo verso un punto indefinito del bosco.

Mi sdraiai di nuovo supina, sentendomi più leggera, e presi a collegare le stelle tra di loro per tracciare una figura. «Ci voleva davvero un'intera giornata per capirlo?» gli chiesi, una volta accortami che si era alzato per sistemare il suo sacco a pelo accanto al mio per poi rientrarvi immediatamente, azzerando il metro e mezzo di distanza che era solito porre tra noi due durante la notte.

«Non tutto è scontato. Adesso quanti anni senti di avere?» non capii quale collegamento avesse fatto, ma in effetti, dopo aver visto quelle cose e soprattutto ascoltato la sua storia, mi sembrava essere invecchiata di parecchi anni in quel breve periodo.

«Avevi ragione» gli sussurrai soltanto. «E comunque ho meno di mille anni» gli dissi, e quella notte per la prima volta fui io a parlare, come se avessi colto implicitamente la sua curiosità: parlai della mia vita, che rispetto alla sua era sicuramente noiosa, e della mia carriera universitaria. Senza rendermene conto, cominciai a parlare anche dei miei sogni più segreti. Alla fine del mio racconto, lui mi incoraggiò a inseguire il mio sogno, a impegnarmi, a fare come aveva fatto lui... e alla fine mi disse di dargli la mano destra. Mi pareva strana come richiesta, ma lo feci comunque. Lui mi infilò all'anulare il suo anello con disegnate delle fiamme sopra, anche se chiaramente per quel dito era troppo grande; proprio l’anello che all'inizio del viaggio avevo tentato di prendere con tutte le mie forze, poiché ero convinta che i suoi poteri derivassero da lì.

«Ora posso far bruciare i tuoi capelli» scherzai, ridendo della mia convinzione di secoli prima. «Lo sai che da noi ci si scambiano gli anelli quando ci si promette amore eterno?» ritornai seria, osservando il disegno alla luce notturna.

«Quando ero piccolo, e non riuscivo a controllare il mio potere, l'anello mi aiutava tantissimo, perché vi focalizzavo tutte le mie energie e in un certo senso è stato grazie ad esso che ho imparato a controllare il fuoco, quindi non ti eri neanche sbagliata di tanto» mi spiegò. Rimasi con il fiato sospeso: non parlava quasi mai di sé, se non quando doveva farlo per forza. Sperai vivamente che continuasse. «E anche da noi ci si scambiano gli anelli» sussurrò, quasi impercettibilmente e facendosi ancora più vicino, di modo che le nostre teste si sfiorassero.

Dopo quella notte, purtroppo ne rimasero poche. Mentre di giorno continuava imperterrito la storia del suo mondo e a farmi da guida nei luoghi selvaggi della Terra della Luce, la notte mi raccontava sempre più cose di se stesso e finivamo sempre per addormentarci con le teste che si sfioravano e le mani strette tra di loro.

 

 

 

***

 

 

 

Anche se mi ero promessa di essere forte, di non lasciarmi tentare dal desiderio di rimanere, piansi molto la notte in cui mi resi conto che la storia era ormai completa e che lui mi teneva avvolta tra le sue braccia in un abbraccio ancor più stretto.

Sono molto delusa da me stessa, perché avrei potuto creare ancora altri ricordi di quegli istanti, invece che mettermi a piangere precocemente per ciò che di lì a breve mi avrebbe separato da lui.

Mi addormentai la notte tra le sue calde braccia e mi svegliai sulla mia sedia quando era appena giorno, con la sensazione di essere nel posto sbagliato; il vuoto che provai dentro fu infinitamente peggiore del semplice dolore che provavo alla schiena e alla gambe. Non trovai mai più la mia biro, ma non avevo neanche con me l'anello da lui donato. Da quel momento in poi, la mia vita fu come un continuo slittare verso la discesa... era come mi fossi dimenticata chi ero, le cose che amavo e i miei sogni, come se avessi lasciato tutta me stessa da lui. Mi concentrai solo sull'università e sulle cose da studiare, laureandomi con il massimo dei voti, sognando ogni notte di essere di nuovo su quel pianeta insieme a lui e sperando, nei pochi momenti in cui non mi distruggevo con lo studio, di ritornarci veramente.

Fu quando dovetti traslocare per il mio primo lavoro, trovando il suo anello in fondo a un cassetto della scrivania, incastrato nella parte scorrevole, che mi resi conto di ciò che dovevo fare, di come la mia missione non fosse affatto finita. Mi misi al collo il suo anello come ciondolo, esattamente davanti al cuore, e iniziai a scrivere questa storia.

La sua storia, la loro storia, la loro lotta contro se stessi e contro l'oscurità che si cela dentro ad ognuno di noi.

“Forse devi comunicare in qualche modo al tuo popolo ciò che è successo da noi, affinché semplicemente sappiano o possano imparare dai nostri errori” all'inizio avevo riso per l'assurdità della sua affermazione. Avevo pensato di non avere alcuna possibilità di comunicare qualcosa del genere, ma ora mi tocca ridere di me stessa, per il fatto di esserci arrivata solo così tanti anni dopo.

Non starò lì a torturarmi domandandomi se ce la farò o no, o se sarò mai all'altezza di questo compito, ma so che mi sono impegnata perché lui ne sarebbe stato fiero, come egli stesso fece con le sue mappe disegnate dopo molte notti insonni.

Non so perché sia stata io la fortunata – oppure sfortunata – che ha avuto il compito di vivere quell'intenso viaggio e perché fosse dovuto essere proprio lui a narrarmi tutto, ma non è questo l'importante: questa è la loro storia.

L'ho scritta come ho potuto, con tutta me stessa.

Le sue mappe disegnate, non seguendo esattamente le regole della cartografia, hanno salvato la vita ai suoi compagni e mi hanno permesso di capire in un attimo la morfologia di quel mondo. Grazie a ciò nutro una piccola speranza: che qualcuno possa apprezzare il mio lavoro, per quanto io non sia un'artista, e che possa essere in qualche modo utile, anche se non per il motivo per il quale è stato concepito.

Ultima nota: l'importante in tutto ciò che mi è stato raccontato è il contenuto, non la forma. Ciò che devo trasmettere e non il modo in cui lo trasmetto. Non sono sicura che usassero alcuni termini come i nostri per lamentarsi o imprecare, ma quello è solo un nome per denotare qualcosa che avrà sempre lo stesso significato in ogni lingua possibile. Così come la vita è comunque vita, così come il dolore rimane il dolore in qualunque contesto, con qualunque suono sia stato connotato.

Anche se quando ero lì mi sembrava di parlare davvero in un'altra lingua, ora nei miei ricordi, che sono ritornati più vividi che mai durante la stesura del racconto, tutto si è tradotto automaticamente nella mia lingua madre; perciò, non sorprendetevi se i protagonisti di questa storia parleranno in un modo che vi suonerà molto comune.



Angolino dell'autrice
Avevo già pubblicato questa prefazione su EFP prima; ma per alcuni motivi (di correzione della storia) ho dovuto cancellarla. Ora ho messo a posto queste cose, quindi la storia rimarrà qui.
Se volete commentare la storia, anche solo per dirmi due righe o per segnalarmi qualche errore, potete scrivermi anche attaverso il messaggio privato.
Gli EXO sono il mio ultimate group: mi impegnerò nella scrittura di questa storia! Vorrei in qualche modo dimostrare (anche solo a me stessa) quanto tengo a loro  e quanto sono felice di averli conosciuti e che, pensando a loro, posso impegnarmi anche io molto!
Okay, il discorso sta diventando strano, perciò...

 

http://www.asianjunkie.com/wp-content/uploads/2015/12/KaiDerp3.png


 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Prologo - Kai, Luhan, Tao e Chen ***







 

 

Prologo

 

Terra dorata
 

Un ragazzo, ben avvolto in un mantello lungo e scuro, correva tra le rovine di quella che più di un decennio fa doveva essere stata una città molto fiorente. Doveva scappare, doveva essere svelto: nessuno doveva raggiungerlo, nessuno.

“Veloce. Veloce.”

Sfiorava appena con lo sguardo il paesaggio che lo circondava e la strada invisibile che stava percorrendo: l'unica cosa che gli importava era andare avanti.

Solo dopo aver corso per un tempo che gli era parso infinito si fermò, ansante e madido di sudore. Si passò una mano sulla fronte e si guardò intorno: doveva essere arrivato ormai nel cuore della città abbandonata, dove nessuno lo avrebbe potuto vedere o anche solo percepire.

Si sedette su di una roccia per riprendersi, prese la borraccia che era legata alla sua cintura e bevve avidamente dando sollievo alla bocca secca e alla gola arsa. Trasse lentamente da una sacca, che teneva saldamente sotto braccio una pagnotta e prese a mangiarla voracemente.

Attorno a lui non vi era altro che desolazione: il cielo terso di quella giornata si estendeva al di sopra di una terra arida e priva di vegetazione, disseminata di cumuli di pezzi di vetro, di mattoni e altro materiale non ben definito. Gli unici spettatori del suo rapido pasto. A quest'idea il ragazzo si rallegrò e per un momento si sentì addirittura lieto. Chiuse gli occhi, beandosi di quel silenzio che gli infondeva pace e tranquillità, ed emise un sospiro di sollievo.

«Jongin?»

Quel solo, lieve sussurro di una voce estranea, seppur dal tono apparentemente innocuo e per nulla minaccioso, fece sì che il ragazzo si ridestasse da quella sensazione di beatitudine per trovarsi di nuovo in quel brutto incubo che era la sua vita. Una vita in cui doveva continuamente scappare, in cui non poteva essere al sicuro in nessun posto, in cui non poteva fermarsi neanche per un attimo. Non poteva far altro che correre, sempre e ovunque. Non importava dove, quando e come.

Prima che l'uomo potesse aggiungere qualcos'altro, quella scura ombra che prima si riposava tranquillamente era sparita, lasciando come traccia del suo passaggio solo delle briciole di pane che presto sarebbero state portate via dal vento.

“Perché è così maledettamente difficile?” si chiese, sedendosi dove prima stava il ragazzo; come se anche lui dopo un po' potesse sparire magicamente da quel posto dimenticato da tutti.

 

 

 

***

 

 

Terra degli oggetti volanti
 

Il ragazzo sospirò di sollievo: finalmente era arrivato in un posto dove nemmeno un filo di pensiero poteva raggiungerlo. Si guardò un po' intorno, non osando muoversi neanche di un passo, come se un suo minimo scatto potesse avvicinarlo a qualcosa da cui desiderava ardentemente tenersi lontano.

“Sono stato uno stupido: potevo avvicinarmi di più per riuscire a consegnargli la lettera, prima che sparisse...”.

Lo sfregamento di vestiti che le sue orecchie ipersensibili – da sempre le sue più grandi aiutanti nelle fughe – avevano percepito era lieve, lontano, troppo lontano; chi si muoveva in quel luogo isolato non poteva averlo già scorto in un bosco così fitto. Preso dal panico, si arrampicò senza alcuna fatica su un albero dal tronco alquanto ruvido e, in silenzio, attese che quella presenza si facesse man mano più vicina. Solo dopo aver visto sparire quell'ombra incappucciata dalla testa ai piedi tirò un sospiro di sollievo, e si appoggiò esausto al tronco dell'albero come se si fosse temporaneamente dimenticato di respirare.

Si chiese curiosamente il motivo per cui, nonostante quella figura si fosse avvicinata così tanto, non avesse sentito nessun altro pensiero... ma aveva ormai imparato fin troppo bene che la curiosità non portava ad alcun bene. Senza contare che era davvero stufo marcio di sentire tutte quelle voci per mettersi a discorrere con una persona sul perché i suoi pensieri non gli giungessero limpidi e fastidiosi come quelli di tutte le altre.

Si maledisse quando guardò il suolo, chiedendosi perché non ci avesse pensato due volte prima di arrampicarsi così in alto, quando giù c'erano altri rami che avrebbero potuto reggere il suo peso e nasconderlo alla vista di chi camminava al suolo.

 

 

 

***

 

 

 

Terra della Luce
 

Zero. Uno. Due. Tre. Ancora altri sei passi e avrebbe dovuto svoltare a sinistra per evitare uno scontro frontale con il muro, come accadeva spesso ai primi tempi; ma ormai, dopo tanti anni, aveva imparato che il suo pianto disperato non avrebbe fatto accorrere nessuno, che era da solo in quel luogo e che doveva arrangiarsi. Gli pareva di vedere, anche nel buio più fitto, il tragitto che doveva compiere dalla cucina alla sua camera da letto.

Di notte vi era solo il nero a circondarlo, mentre di giorno la roccia bianca, di cui l'intero edificio era costituito, sembrava brillare di luce propria e in certe ore era addirittura accecante.

Il ragazzo si sdraiò sul materasso di pietra e, chiudendo gli occhi, provò per l'ennesima volta a immaginare come potesse essere lo scorrere del tempo non regolato solo dal bianco e dal nero, dalla luce e dal buio, dal vederci troppo bene e dal non vedere niente, come se in un momento le cose ci fossero e nel momento dopo sparissero. Spento e acceso. Zero e uno. Gli pareva di aver trascorso una vita intera tra questi due numeri e si chiedeva se mai avrebbe potuto arrivare al due. Aveva preso l'abitudine di contare dallo zero perché in effetti quello era l'unico numero che lo accompagnava, era solo. Lo zero è come una presenza muta accanto a qualunque numero, che assume un'importanza notevole soltanto in un universo in cui esiste soltanto insieme al numero uno.*

Lieve, lontano, indecifrabile, quasi venisse da un altro mondo, come quello dei sogni, era il suono che arrivava all'udito di una persona abituata a percepire solo i rumori prodotti da sé in un luogo che pareva una prigione. Nel suo cuore, quel ritmo suonava come la libertà, e nelle ultime notti lo aveva aiutato a scivolare nel sonno con una dolce espressione di speranza sul volto.

 

*Si riferisce alla notazione binaria.

 

***

 

 

 

Terra dei fulmini

 

«Esco!» gridò il ragazzo, mentre si chinava a mettersi le scarpe che aveva preso dalla scarpiera.

«Sì, ma stai attento!» fu la risposta, altrettanto urlata, da parte di sua madre che stava cucinando. «E ritorna in tempo per la cena!»

“Sì, certo, come se questi fulmini potessero farmi qualcosa...” pensò, chiudendosi la porta alle spalle.

Spalancò le braccia per la felicità e iniziò a correre verso il posto che più amava, un luogo piuttosto esterno alla città, isolato e soprattutto molto pericoloso, perché era lì che venivano raccolti tutti i fulmini per produrre energia. Adorava e non si stancava mai di vedere quel fenomeno naturale che durava fin troppo poco.

Un lampo di luce blu.

Altro lampo di luce blu.

Erano tutti eventi che duravano un attimo, ma che in quell’attimo si espandevano ovunque, tanto da avvolgere tutto ciò che il suo sguardo perso nella volta celeste poteva abbracciare. Proprio a quell'ora, il cielo cominciava a farsi più blu, prendendo lo spazio del solito grigio cupo che governava le ore diurne, e le scariche elettriche tre le nuvole sottili e scure, che illuminavano per un istante tutto ciò che lo circondava, erano uno spettacolo davvero sublime. Seguiva poi un rombo ritardato, che a volte gli pareva arrabbiato, a volte sommesso, a volte così debole... era come se qualcuno stesse tentando di comunicare qualcosa con i tuoni. Quel giorno lo sentiva arreso, flebile, come se si fosse dato quasi per vinto, come se avesse perso ogni speranza; perciò il ragazzo urlò come un pazzo parole di incitamento, finché non gli parve che i tuoni fossero divenuti un po' meno cupi, ridendo a crepapelle per il successo. Ne era sicuro: i fulmini lo capivano.

Stette lì fino a quando l'atmosfera non divenne completamente buia e, ricordando solo in quel momento che gli era stato detto di non fare tardi, iniziò a correre.

Entrò in casa, silenzioso, con la viva speranza che sua madre potesse pensare che era in casa già da tanto tempo, e si diresse di soppiatto in cucina.

Lieve e supplichevole fu il sospiro con cui lo accolse sua madre, seduta davanti a un piccolo tavolo rotondo con i piatti ancora colmi e ormai freddi.

«Lo sai che non devi aspettarmi...» esordì cauto il ragazzo, arrancando verso il solito posto e prendendo il cucchiaio per mangiare la zuppa.

«C'era una lettera indirizzata a te...» disse, mettendo davanti a lui una busta fatta di carta pregiata.

Il ragazzo stava per dirle che l'avrebbe letta più tardi, quando si accorse che era già aperta. «Perché?» domandò, piuttosto sorpreso per quella violazione di privacy, a cui non era per nulla abituato.

«Figliolo, ho visto che hai ricevuto parecchie lettere dallo stesso destinatario e che le hai sempre gettate nel pattume senza neanche leggere il contenuto. Hai vinto una borsa di studio» la donna cercava di parlare tranquillamente, celando a malapena una nota di rimprovero. Solo a quel punto il ragazzo si accorse di quanto lei fosse stanca e invecchiata: il volto illuminato dalla luce della lampada aveva parecchie rughe profonde e due borse molto visibili sotto gli occhi, nate dopo molte notti insonni passate a riflettere sempre sulle stesse angosce. «MAMA è il luogo più sicuro del mondo: se tu fossi là, io sarei tranquilla.»

«Ormai sto finendo la scuola qui, e non mi va di trasferirmi...» borbottò a mo' di giustificazione, alzando le spalle, mentre fingeva di avere l'attenzione completamente focalizzata sulla sua cena. Non voleva incontrare i suoi occhi un'altra volta o avrebbe finito per cedere.

«Lì starai al sicuro!»

«Ma io amo questo luogo!» gridò rabbiosamente, alzandosi dal tavolo e lasciando sua madre in singhiozzi per andare a chiudersi nel buio della sua stanza.

“Perché non mi capisce? Perché non prova minimamente a mettersi nei miei panni? A pensare a ciò che desidero?” si chiese, appoggiato alla porta, cercando di trattenere le lacrime di rabbia. Poi pensò a com'era dolce sua madre e a come l'aveva cresciuto e amato, e provò un forte senso di repulsione nei confronti di se stesso. “Perché sono un figlio così degenere? Lei pensa solo al mio bene ed io la ferisco continuamente, ma non posso assolutamente lasciare questo luogo... non potrei vivere altrove... gli altri posti mi annienterebbero: ho bisogno di questo cielo e di questi fulmini.”

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** 0. Prologo - Sehun, Lay, Xiumin e D.O ***


 


 

Terra delle paludi
 
Il ragazzo si buttò sul letto, permettendo al corpo stressato di riposarsi: anche per quel giorno aveva finalmente terminato di studiare ciò che si era prefissato.
“Ora cosa faccio?”
Meditò a lungo, osservando il soffitto completamente bianco come se potesse trovarvi la risposta.
Alla fine optò per andare a giocare con suo fratello: tanto, sicuramente, non lo avrebbe disturbato visto che non studiava mai se non sotto costrizione del loro padre, che comunque era molto impegnato e non poteva tenerli sotto controllo. Uscendo dalla stanza e passando accanto a quella di sua sorella, si chiese se fosse il caso di chiamare anche lei, ma si disse che probabilmente lo avrebbe cacciato via come al solito, asserendo di aver molto da fare a differenza di loro due fannulloni.
Con la coda nell'occhio vide, fuori dalla finestra, una farfalla dai colori molto vivaci che volava attorno all'edificio; spalancò la finestra e allungò una mano, sperando che si avvicinasse, e per un momento gli parve che quella piccola creatura volesse posarvisi. Essa, però, si ritrasse quando era a pochi centimetri di distanza, lasciando il ragazzo di sasso.
«Che stronza» disse, senza pensarci. “Poteva anche non darmi una falsa speranza”. Si sentì di nuovo come una volta, quando da bambino, nel bosco, aveva incitato un coniglietto ad avvicinarsi a lui. Teneva le braccia spalancante in attesa di prenderlo al volo, immaginando che gli saltasse addosso, ma alla fine abbracciò solo l'aria, perché l'animale l'aveva superato all'ultimo momento ed era andato da suo fratello. Era una sensazione di rifiuto davvero incomunicabile.
 
 
 
***


 
Terra delle punte
 
Il ragazzo legò saldamente la corda attorno ad un tronco, tirandola per verificare la resistenza del nodo. Arrotolò l'altra estremità attorno al proprio corpo, sempre controllando di essersi issato per bene.
Si avvicinò al bordo del burrone e deglutì: era più in basso di quanto avesse previsto, ma non poteva lasciare lì quell'enorme fungo bianco, che pareva soffice come la neve alla vista. Era la prima volta che ne vedeva uno e conosceva bene i suoi leggendari poteri curativi. Si calò lentamente dal bordo del burrone, studiando attentamente il terreno prima di sfiorarlo.
Aveva l'abitudine di abbassare prima la mano sinistra, cercare con essa un punto d'appoggio di venti o trenta centimetri più in basso, sfiorare la roccia per verificarne la resistenza per poi alla fine appoggiare il braccio. Per seconda veniva la mano destra, che tastava in cerca di un punto d'appoggio vicino alla sinistra, seguita subito dal piede sinistro e infine dal destro. Si era reso conto che probabilmente non era il modo migliore per scendere, ma aveva visto moltissime volte suo nonno fare così e lui non si era mai fatto male.
Era ormai vicinissimo al fungo, quando notò qualcosa di strano luccicare vicino ad esso. Sembrava essere il corno di un qualche animale in miniatura ed era appoggiato lì, come se fosse incollato alla roccia da uno strano incantesimo, ma appena allungò la mano per sfiorarlo riuscì a prenderlo con facilità. Senza perdere tempo, lo mise in una tasca e protese il braccio verso il basso per raccogliere il fungo, accorgendosi di essere ancora troppo in alto. Cercò di scendere ancora di qualche centimetro, ma ben presto si rese conto che aveva già raggiunto la lunghezza massima della fune. Abbassò ancora un braccio, tentando disperatamente di arrivarci. Ponderò l'idea di rifare il nodo attorno alla vita per avere più corda, ma gli parve fin troppo rischioso, così decise che era meglio risalire e tornare a casa per prendere una fune più lunga; mancavano ancora un paio di ore al tramonto e stimava di farcela tranquillamente in tempo.
Cominciò a scalare lentamente con estrema attenzione per ritornare sulla superficie piatta. Avrebbe voluto fermarsi per un attimo di riposo, ma era ormai vicinissimo al traguardo.
“Dai, manca ancora poco... ancora un piccolo sforzo.” «Dammelo.»
Un ordine secco, asciutto, perentorio.
Un tono che non ammetteva di essere disubbidito proveniva da una piccola figura completamente incappucciata, a pochi metri dal precipizio.
Il ragazzo quasi perse l'equilibrio nel vedere che l'altra estremità della corda, prima ben ancorata al tronco, era tra le dita di quella misteriosa ombra e cercò di non scomporsi. Fingendo di non aver notato di avere la vita nelle sue mani e di non avere paura, rispose tranquillamente che non era riuscito a prendere il fungo e che era ancora lì sotto, mentre con un braccio si appoggiava all'orlo del precipizio.
«Tu menti: ti ho visto metterlo in tasca!» dal tono, quella persona pareva parecchio alterata, come se non sopportasse bugie di alcun genere.
Sulle prime, il ragazzo rimase sorpreso, ma poi, mettendo anche l'altra mano sull'orlo, si ricordò del corno.
«Ah, si riferisce a quello strano oggetto. Appena salgo glielo passo subito.»
«No, lo voglio adesso» ringhiò minacciosamente quell'uomo, avvicinandosi a lui e protendendo un palmo in attesa che gli venisse consegnato ciò che desiderava. Non c'era bisogno di parole minacciose per comunicargli che non stava affatto scherzando e che non gli avrebbe mai più permesso di toccare il suolo se non gli avesse consegnato il corno in quell'esatto istante.
Con l'avambraccio destro completamente appoggiato all'orlo, cercò con la mano sinistra l'oggetto nella tasca, ma sfortunatamente esso scivolò fuori e, prima che potesse anche solo rendersene conto, l'ombra si era già lanciata giù per recuperarlo, trascinando anche lui con sé per via della corda che ancora impugnava. Non era nemmeno riuscito a formulare in tempo l'idea di liberarsi dalla fune che si ritrovò a cadere nel freddo vuoto, il quale sembrava aspettare da tempo immemore di inghiottirlo.


 
***


 
Terra del ghiaccio
 
Cantava, mentre pattinava spensieratamente da solo sul lago. Ogni anno era sempre lui il primo a sperimentare la pista di pattinaggio dei suoi genitori. Non perché dovesse verificare lo spessore del ghiaccio – tutti sapevano che lì l'inverno era perenne e non vi era perciò alcun pericolo –, ma per il rispetto della tradizione: così accadeva da secoli, perché non continuare?
Ad un certo punto scivolò e cadde pesantemente di schiena, cosa che non gli era mai successa, neanche quando aveva appena imparato a muoversi in equilibrio su quelle sottili lamine. Quando girò su se stesso per rialzarsi, si accorse che sul ghiaccio si erano formate delle crepe, perciò non esitò un secondo ad alzarsi cautamente e uscire dalla pista.
Per un istante, prima di cadere, aveva avuto un bruttissimo presentimento che continuava a persistere e sentiva gli organi interni ancora scombussolati... Per un momento aveva pensato che quella sensazione fosse dovuta alla caduta e all'impatto, ma era qualcosa di più, qualcosa che gli faceva battere più velocemente il cuore e che lo spaventava fin dentro l'anima. Avvertiva la perdita di qualcosa... qualcosa troppo importante per la sua vita.
Quando si girò per dare un'ultima occhiata alla pista, vide come proiettata su di essa l'immagine di una persona con una corda legata attorno alla vita che veniva inghiottita dal buio più nero che avesse mai visto.
Reprimendo a fatica un grido d'allarme, lanciò da una parte i pattini e cominciò a correre verso casa, ordinando inutilmente alle calde lacrime di non scorrere fitte sulle sue guance ghiacciate e dimenticandosi di mettere le racchette da neve.
Cadde moltissime volte, ma non gli importava: voleva solo correre da lui per sentire la sua voce, per vederlo sorridere come sempre.
Quella visione non poteva essere vera.
Quella persona riflessa nel ghiaccio non poteva essere lui.
Quella persona non poteva assolutamente essere in pericolo.
Quella persona era il suo migliore amico.
Desiderava solo che stesse bene, al sicuro e al caldo in casa.


 
 
***
 
 
 
Terra dorata
 
«Allora?» le chiese la ragazza, mentre asciugava la pila di piatti che l'altro aveva appena lavato.
«Allora cosa?» le domandò lui senza celare il fastidio, sperando che lasciasse cadere il discorso: sapeva di cosa volesse parlare sua sorella e non voleva discuterne ancora.
«Hai deciso per il tuo futuro?» ritentò, ancora più ostinata, mentre appoggiava il panno sui piatti appena asciugati, girandosi verso di lui con le braccia incrociate al petto: segno che voleva parlare ad ogni costo.
«Senti... sono stanco» il ragazzo provò a uscire dalla cucina per rifugiarsi nella sua camera.
«No, oggi ne parliamo una volta per tutte!» gridò lei, parandosi tra lui e la porta con le braccia spalancante.
Lui la guardò: era vero che era proprio piccola nei suoi centoquarantotto centimetri per quaranta chili, ma quando era ostinata sembrava essere alta il doppio e pesare il triplo, e i suoi occhi mandavano lampi furenti capaci di atterrire chiunque.
«Va bene...» sospirò mentre si lasciava cadere pesantemente su uno sgabello e abbassava le palpebre per riposarsi.
Decidere il proprio futuro non era esattamente una cosa da farsi nel giro di pochi giorni, soprattutto se avevi ricevuto una borsa di studio per MAMA, la scuola più prestigiosa e sicura al mondo: andare lì avrebbe significato anni di apprendimento in un luogo tranquillo e privo di alcun pericolo, e un futuro certo in qualunque posto del pianeta... ma andare via avrebbe significato lasciare dei rimorsi nella propria coscienza. All'inizio aveva pensato che fosse qualcosa del tipo tra scegliere se stesso o gli altri, tra rimpianto o rimorso, che fosse tutta una questione di egoismo. Ci aveva rimuginato a lungo, ma quella sera aveva trovato la risposta ed esitava a riferirgliela, perché sapeva che non avrebbe approvato: lei gli aveva sempre voluto genuinamente bene, aveva sempre pensato prima a lui che a se stessa.
Quella sera lei gli aveva chiesto di aiutarla a lavare i piatti, come se avesse potuto intuire che in quella schiuma e nello scorrere dell'acqua avrebbe trovato una risposta definitiva. Aveva capito che non era una questione di rimorso o rimpianto. Il rimorso è quando devi qualcosa a qualcuno, il rimpianto è quando devi qualcosa a te stesso: questo non era il suo caso.
«Ho deciso di non partire» le riferì stancamente, senza aprire gli occhi, per evitare di vedere la sua espressione. La sentì muoversi lentamente verso il lavandino e si lasciò cullare dolcemente dal suono ritmico dei piatti che venivano man mano appoggiati su delle pile già asciutte. Sapeva che era ferita, che si sentiva come se qualcuno le avesse mollato un pugno, lasciandola sofferente a terra.
Sapeva bene che gli anni dell'adolescenza non tornano indietro e che quella era un'occasione unica, ma era anche perfettamente consapevole del fatto che quando si è anziani rimangono pochi anni da vivere, e non avrebbe mai voluto mancare a condividere le gioie e la fatica con la sua amata famiglia. Era una decisione che aveva preso per se stesso, non per lei. Non voleva provare il rimpianto di non essere stato con lei fino all'ultimo e di aver scelto una strada sbagliata, lontana dai suoi affetti.
Inoltre, aveva capito cosa voleva fare quando sarebbe stato più grande: essere come la nonna. Fare del bene e dare amore e rifugio ai bambini smarriti, sapeva che questa sarebbe stata l'unica cosa a renderlo davvero felice.
 
 
 
 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Prologo - Baekhyun, Suho, Kris e Chanyeol ***


 
 



Terra delle paludi

 

«Shhh» il ragazzo intimava al fratello accanto a lui di zittirsi, poiché si era accorto che la loro sorella si era addormenta.

«Com’è buffa su quell'amaca...» commentò l'altro, osservando una figura snella completamente abbandonata in quella rete con un braccio a penzoloni, poco sopra un libro che probabilmente stava leggendo prima di addormentarsi.

«Potremmo farle uno scherzo...» proponendo ciò, il ragazzo non poté far a meno di sghignazzare al solo pensiero.

«Di che genere?»

«Prova a immaginare... siamo in un cortile, è ormai tardi e fra poco farà completamente buio.»

«Legarle i lacci delle scarpe?» propose il fratello minore, entusiasmato dall'idea.

«Troppo classico!»

«Nasconderle il libro?»

«E tu lo consideri uno scherzo?» domandò incredulo, guardando perplesso quel ragazzo che non poteva credere così ingenuo e privo di originalità.

«Mi illumini, grande maestro dei scherzi» sussurrò l'altro con fare solenne, arrendendosi.

Sorteggiarono, perché nessuno dei due voleva travestirsi e fare la parte del lavoro sporco, e alla fine l'ideatore fu costretto a mascherarsi, con tutto il suo disappunto e le sue proteste.

Dubitava molto sulle capacità di recitazione di suo fratello minore, ma non poteva far altro che fidarsi se voleva la sua collaborazione.

«Ehi! Ehi! Svegliati!» il ragazzo, nascosto dietro a un tronco, osservò suo fratello scrollare con forza la sorella come se fosse veramente nel panico e avesse una terribile fretta. «Presto! C'è un mostro! Ha già preso Baekhyun! Se non andiamo via in tempo prenderà anche noi!» doveva ricordarsi di fargli i complimenti più tardi, perché anche il tono della voce era modulato davvero bene. La sorella, però, sembrava capire davvero poco o non credergli affatto, ma alla fine, seppur lentamente, si alzò in seguito a delle parole sussurrate nelle orecchie dal persuasore.

Okay, doveva solo comparire al momento giusto... lui era uno zombie che era stato infettato, il cui obbiettivo era di contagiare anche loro due. Quando vide che ormai si era avvicinata abbastanza, saltò fuori dal suo nascondiglio e si avvicinò a lei con fare minaccioso, emettendo ringhi degni di un vero mostro.

La ragazza ebbe un sussulto quando vide comparire all'improvviso un'ombra avanti a sé, e non poté far a meno di emettere un urlo quando vide in che stato era messo quello che sembrava un cadavere... aveva tutta la pelle verdastra, che sembrava continuamente cadere a pezzi, e puzzava proprio di marcio, senza contare che non aveva neanche più le pupille e il naso era completamente storto. Come primo impulso, gli lanciò il libro in testa per tranciargli il collo, in modo che la smettesse di oscillare da destra a sinistra e da sinistra a destra in quel modo così inquietante. Sentendolo emettere un grido di dolore, riprese il libro per usarlo come arma per picchiarlo, schifata da tutta quella melma verdastra di cui si stava imbrattando.

«Ahia, ahia, smettila! Sono tuo fratello!» implorò debolmente lui, mentre cercava di proteggere la faccia con le braccia.

Dovette subire molte altre librate prima che lei si riprendesse dallo shock e la smettesse di picchiarlo, mentre l'altro si spanciava dalle risate.

«Davvero originale come scherzo: farci rimettere di più l'ideatore» sentì commentare alla fine dal fratello, una volta che l'assassina se ne fu andata. Dopo avergli dato un ultimo colpo per ripicca, pestando pesantemente i piedi, sua sorella si era chiusa con forza la porta alle spalle in un chiaro segno di non volerlo tra i piedi per, come minimo, il resto della vita.

«Sta' zitto, tu! Almeno gli spettatori avrebbero riso!» protestò, inchinandosi più volte dinanzi a un pubblico invisibile, nonostante il dolore pulsante alla spalla.

 

 

 

***

 

 

 

Terra delle paludi

 

“Devo studiare, devo impegnarmi: non voglio assolutamente deludere i miei genitori e non voglio pentirmi per poi avere dei rimpianti e avere ancora più cose da fare.”

«Devo studiare!» ripeté più volte a voce alta, come se dirlo lo avrebbe effettivamente fatto impegnare. Guardò la pila di libri che aveva davanti a sé e subito si rassegnò, sospirando profondamente. Lui era sempre stato uno di quelli a cui la vita aveva sorriso fin troppo, e si sentiva un po' in colpa per questo... perciò cercava di impegnarsi il più possibile in tutto ciò che faceva, come per meritarsi ciò che avrebbe ottenuto. Se uno si allenava per un'ora, lui lo faceva il doppio o il triplo per un'abitudine che aveva fin da quando era piccolo. Non sapendo come impiegare il tanto tempo libero che aveva, continuava ad esercitarsi in una cosa fino a diventare bravissimo. Non perché avesse la mania della perfezione, almeno questo si ripeteva spesso, per poi aggiungere poco dopo che un po' effettivamente l’aveva.

Anche se era il primo della classe, per rimanere a MAMA doveva continuare a studiare, perché avevano criteri davvero molto alti: non bastavano i soldi e lui voleva assolutamente rimanere lì, perché tra quelle mura, in qualche modo, si sentiva veramente bene. Non perché non avesse un buon rapporto con i suoi genitori o non gli piacesse la sua terra natia, dove pioveva praticamente ogni giorno, ma lì si sentiva a casa, anche se in quegli anni non aveva legato in modo particolare con nessuno. Forse lì c'era qualcosa che lo teneva saldamente ancorato alla scuola. Forse gli piaceva l'alternarsi delle stagioni: crescita, fioritura, appassimento e sepoltura... quattro periodi dell'anno in cui bisognava vestirsi in quattro modi diversi, in cui il numero di ore di luce di una giornata variava; oppure quell'aria fresca e frizzante che sentiva solo lì...

“Chissà cos'è che mi spinge a impegnarmi tanto per rimanere qua...” si chiese, prima di addormentarsi con il viso appoggiato sul libro di storia su cui prima stava ripassando le ultime cose.

 

 

 

***

 

 

 

Terra delle paludi

 

Guardò fuori dalla finestra. Non si era affatto sbagliato: stava nevicando come aveva previsto già dal giorno prima.

Si alzò dalla scrivania, poggiando la biro sul testo di un quadernino ancora completamente immacolato che aveva l'aria di essere destinato a qualcosa di molto importante. Gli piacevano molto l'inverno e i fiocchi di neve, che sembravano apparire all'improvviso dal nulla, danzando armoniosamente nell'aria prima di posarsi su qualcosa di solido. Se il fiocco era uno dei primi ad arrivare, cioè un esploratore, era molto probabile che venisse annientato, che si trasformasse in acqua. La sua metamorfosi non era affatto una fine, ma un sacrificio, perché quando un suo fratello arrivava nel suo stesso punto aveva più possibilità di mantenere il suo stato solido. Per quelli che arrivavano dopo la situazione era ancora migliore, perché si adagiavano delicatamente su un morbido tappeto bianco. Impiegavano molto tempo: erano in molti, e a volte erano anche molto lenti, ma alla fine riuscivano sempre a creare quello spettacolo mozzafiato, a cambiare completamente il paesaggio, a renderlo monocromatico e incantevole.

“Mi piacerebbe essere come voi, mi piacerebbe essere come un fiocco di neve che danza allegramente nel cielo senza alcun pensiero, volare di qua e volare di là... osservare un po' ovunque dall'alto, avere una visione del tutto e decidere alla fine dove andare a poggiarsi...”

Si chiese se doveva essere penoso per un fiocco rimanere intrappolato tra i suoi fratelli, o se era anche una bella fine... Per lui, la parte più bella era certamente il librarsi in cielo, prima di toccare terra, prima di dover per forza entrare in contatto con qualcosa di diverso da sé, o anche uguale, per rimanervi intrappolato sino alla fine.

L'inverno gli era sempre piaciuto moltissimo. Fuori era freddo, era del tutto inospitale per chiunque, e il clima induceva a cercare o comunque a tornare in quel piccolo luogo che avrebbe riscaldato sempre... e quel luogo, fisicamente parlando, era piccolo rispetto al resto del mondo, ma comunque significativo... una casa tutta ricoperta di neve sembra fredda da fuori, ma dentro, nel tuo cuore, sai che, se provi a bussare o ad entrare, potrebbe essere il luogo ideale in cui rifugiarti.

 

 

 

***

 

 

 

Terra dei fulmini

 

“Forse è una stupidata” pensò il ragazzo, guardando il fondo che era troppo in basso rispetto a lui per poi arretrare istintivamente di un passo.

Ogni volta che poteva essere stato minimamente in pericolo lei era sempre accorsa, ma ora che certezza poteva avere, visto che non aveva scorto neanche la sua ombra durante quella lunga scalata sulla cima di quella torre di ferro? Sapeva che questa volta si era arrabbiata sul serio e che aveva l'orgoglio ferito, sapeva di essere solo un stupido ragazzino e che avrebbe dovuto ascoltarla, evitando così di mettere in pericolo la vita di tutti e due. Sapeva che quel che diceva era sempre giusto e che faceva tutto per il suo bene… allora perché l'aveva ferita?

“Perché non ho capito prima che lei è il mio tutto e che io sono il suo tutto? Perché ho sempre cercato calore altrove, quando lei mi ha sempre protetto con le sue ali, dandomi tutto ciò di cui ho bisogno?”

Poteva davvero rischiare la propria vita, sperando che lei tornasse? Buttarsi era davvero l'unico modo? E se fosse finito tutto con un tonfo al suolo? E se lei in quel momento fosse stata da tutt'altra parte?

“Su, forza, basta chiudere gli occhi e fare un passo avanti” si disse ancora una volta. “Sarà finito prima che tu te ne accorga...” si rese conto proprio in quell'istante di aver sempre avuto paura di agire, e che forse era una cosa scontata per tutti, non solo per lui. Sono l'attesa e l'incertezza che fanno paura: spesso, una volta compiuto il passo, non si avrà neanche il tempo di avere ripensamenti o pentimenti.

Nella sua vita c'era stata sempre e solo lei... se l'avesse davvero abbandonato, che senso aveva continuare ad andare avanti? E per quale motivo non rischiare? Dal momento in cui aveva iniziato a scalare la torre aveva già deciso di lasciare la decisione completamente a lei, e il fatto che fosse lì a vegliarlo oppure no, anche in quell'istante, era già una risposta parziale. Anche se aveva imparato a padroneggiare meglio i suoi poteri, anche se la nuova tecnica che stava imparando in quel periodo avrebbe potuto forse salvarlo anche nell'ultimo istante, decise che non gli importava, che non l'avrebbe usata.

Aveva scelto il punto più alto della città, per darsi il maggior tempo possibile di decidere e di arrivare quando sarebbe stato ancora salvabile, e perché ne aveva bisogno un poco per prepararsi mentalmente a ciò che avrebbe dovuto fare, ma adesso il panorama desolato che vedeva davanti a sé lo intristiva ancora di più. Le poche abitazioni isolate che c'erano in quel luogo assomigliavano a delle ombre fantasma alla ricerca di qualcosa, in quella debole luce notturna. Lui altro non era che una di quelle ombre solitarie che cercava di trovare qualcuno sulla propria strada: un compagno di viaggio, un amico, un maestro e un confidente e tutte queste figure si identificavano in una sola creatura. Doveva solo sperare che la sua metà tornasse indietro.

«Ah!» gridò, mettendosi le mani fra i capelli scompigliandoli.

“Che cos'ho da rimuginare, ancora?!”.

Un passo in avanti.

Le palpebre abbassate.

Uno leggero slancio e poi giù, con le braccia strette al corpo.

Il vuoto.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3643689