Il canto della spada

di afep
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - City of stone ***
Capitolo 2: *** The cold nights of Windelhm ***
Capitolo 3: *** Scales and new beginnings ***
Capitolo 4: *** Strangers and old shadows ***
Capitolo 5: *** Talos' shrine ***
Capitolo 6: *** Conspirancies ***
Capitolo 7: *** Neverending winter ***
Capitolo 8: *** Crown of shadows ***
Capitolo 9: *** The price of honour ***
Capitolo 10: *** Family affairs ***



Capitolo 1
*** Prologo - City of stone ***


Windhelm è fredda. Più fredda di quanto avessi immaginato.
Fu questo il mio primo pensiero, mentre mi avvicinavo alle mura di quella città avvolta da un manto di neve. In sella alla mia giumenta grigia avevo viaggiato per mesi nella gelida terra di Skyrim, e presto sarei giunta a destinazione.
Disposti in formazione intorno a me, gli uomini della mia scorta avanzavano a testa alta, sopportando il freddo con stoico coraggio. Li ammiravo molto. Se fossi stata una Bretone di sangue puro come loro, probabilmente mi sarei limitata a battere i denti con le mani infilate sotto le ascelle.
Marciavamo in silenzio, accompagnati solo dallo scricchiolio della neve sotto i nostri passi e dal cigolio delle ruote del carretto su cui erano caricati i miei bauli. Di tanto in tanto uno dei cavalli sbuffava e scrollava il capo, facendo tintinnare le briglie, mentre gli uomini continuavano a tirare su con il naso e a pulirsi il moccio sugli orli dei mantelli.
Solo io, la mia balia e quattro soldati, che costituivano il mio corpo di guardia personale sin da quand’ero bambina, viaggiavamo in sella. Gli altri membri della mia scorta avanzavano a piedi, e la maggior parte di loro era raffreddata o febbricitante, a causa di quel clima terribile a cui nessuno di noi era abituato.
Sollevando una mano guantata mi sistemai il cappuccio orlato di pelliccia che mi circondava il viso. Ancora pochi minuti, e saremmo arrivati alle porte della città. Non mi sentivo pronta per affrontare quella nuova vita a Windhelm, e morivo dalla voglia di girare il cavallo e spingerlo al galoppo il più lontano possibile.
“Tutto bene, Lirael?”
Voltando il capo, incontrai lo sguardo indagatore di Mirala. La sua chioma pallida e le orecchie puntute erano nascoste sotto un cappuccio simile al mio, ma la fattura delle vesti ed i finimenti della sua cavalcatura erano notevolmente più semplici.
“Sto bene, Mira. Non devi preoccuparti per me.” Mi sforzai di rivolgerle un sorriso rassicurante, ma con un pessimo risultato. Gli occhi neri e lucenti della mia balia si strinsero, ed il suo viso tutto angoli acuti assunse per un attimo un’espressione sospettosa; ma poi i suoi tratti si distesero, tornando ad esprimere solo rassegnazione.
“Starai bene qui, tesoro mio.” Mi disse, volgendo lo sguardo verso le mura sempre più vicine di Windhelm. “Sono certa che starai bene.” Ripeté, quasi volesse convincere anche sé stessa delle proprie parole.
Sospirai, incapace di ribattere. Per la prima volta da quando ero nata non ero d’accordo con Mirala.
Quel viaggio terribilmente lungo da High Rock a Skyrim doveva portarmi dall’uomo che, troppi anni prima, mi aveva presa in sposa.
Il nostro era stato un matrimonio di convenienza, come capita spesso tra nobili, e come tutte le unioni dello stesso genere aveva come unico scopo l’accrescimento di due patrimoni e la creazione di un legame tra le nostre famiglie. Gli accordi erano stati presi per lettera, e dopo un anno di carteggi mi fu finalmente annunciato che non solo ero stata fidanzata, ma che presto sarei divenuta una sposa.
Ai tempi avevo appena dieci anni, mentre lui era già un uomo fatto. Ricordavo molto poco sul suo conto: un viso barbuto, una corazza incrostata di sangue e terra, due spalle ampie e la mano ruvida e callosa che stringeva le mie dita di bimba, mentre mi conduceva all’interno del tempio dei Divini.
Non consumammo le nozze. Quella notte dormimmo in camere separate, e la mattina successiva lui ripartì alla volta di Skyrim.
In condizioni normali avrei dovuto raggiungerlo da lì a tre o quattro anni, non appena avessi compiuto l’età giusta; ma mio marito non sembrava avere fretta di prendermi con sé, ed in seguito venni a sapere che aveva stretto un patto con il cagionevole Conte Wulfbert, fratello di mia madre e mio tutore dopo la morte dei miei genitori. Secondo gli accordi presi, sarei potuta rimanere ad High Rock fino alla morte del mio caro zio.
Vale a dire, fino a cinque mesi fa.
“Fermi. Chi va là?”
Io e Mirala arrestammo i cavalli, mentre un uomo della mia scorta smontava per andare a parlare con le sentinelle che presidiavano le porte della città.
Dall’alto della mia cavalcatura vidi Moran, il capo del mio corpo di guardia, gesticolare animatamente nel tentativo di convincere il soldato a cederci il passo. Sentivo su di me gli occhi curiosi ed inquisitori dei guerrieri Nord che sorvegliavano l’ingresso di Windhelm, e Mirala spostò il cavallo, parandosi tra me ed i loro sguardi insistenti.
Nessuna delle guardie della città sembrava sapere chi fossi, né parevano riconoscere i vessilli che portavo con me. Era piuttosto irritante.
Forse avrei dovuto mandare un messaggero per avvisare del mio arrivo.
Mentre aspettavo, sollevai lo sguardo lungo le alte porte in legno, ferro e bronzo, e notai un’enorme, spaventosa testa d’aquila in pietra, con il becco ricurvo spalancato in un urlo bellicoso. Faceva venire i brividi, ed istintivamente mi strinsi nel mantello e distolsi gli occhi da quell’animale mostruoso.
Era snervante dover rimanere lì, in mezzo alla neve, ad attendere che quegli stupidi soldati si decidessero o meno a farci passare. Lanciando un’occhiata ai miei uomini li vidi tremare di freddo, e provai una fitta di collera. Stavo per spronare il cavallo e raggiungere Moran, quando lo vidi stringere la mano alla guardia e tornare indietro a passo di corsa.
“Possiamo entrare, Milady.” Mi annunciò, prima di fare un cenno agli uomini del mio seguito.
Le porte vennero spalancate, ed io mi ritrovai all’interno delle solide mura innevate della città di Windhelm.
Appena entrati il mio fido Moran prese le briglie del mio cavallo, conducendolo al passo.
“Da questa parte, Milady. Le guardie mi hanno spiegato la strada.” Disse, ma io non lo stavo ascoltando.
Tutta la mia attenzione era per la città che mi si parava davanti. Ovunque guardassi, non vedevo altro che pietra grigia e neve candida.
Le strade all’interno delle mura erano completamente lastricate con la stessa pietra plumbea con cui erano state costruite le case ed i palazzi. In alcuni punti il gelo aveva sgretolato la roccia, lasciando piccoli cumuli di macerie che nessuno si era curato di far sgombrare.
Ero in una città grigia, sotto un cielo grigio.
Raramente ero stata in un luogo più caparbio e deprimente.
“Schiena dritta, Lirael. Ricorda perché sei qui.” Mirala mi fissò con  suoi begli occhi neri da Elfa, spingendomi a raddrizzare le spalle.
“Non potrei mai scordarlo.” Mormorai. Presi un gran respiro, e senza volerlo inspirai un fiocco di neve che mi fece starnutire. Mi sentivo in trappola.
Mentre avanzavamo, non potei fare a meno di chiedermi come sarebbe stato mio marito. Sapevo che aveva una ventina d’anni più di me, che veniva da una buona famiglia, e che mi aveva accettata solo perché avevo portato in dote duemila libbre di monete d’oro e seicento d’argento, oltre a tutti i gioielli ed i possedimenti del mio casato.
Guidati da Moran, io, Mirala e la mia scorta aggirammo una gran costruzione che portava l’insegna di una locanda e risalimmo lungo una scalinata dissestata, illuminata da grandi bracieri.
Davanti a noi si innalzava una seconda muraglia, grigia ed innevata come il resto della città. Notai che vi erano delle iscrizioni, ma erano così antiche e rovinate dalle intemperie che faticai solo a leggere le prime parole.
Passammo sotto l’arco di pietra che si apriva nel muro e fu allora che vidi, per la prima volta, il Palazzo dei Re.
Squadrato e severo, il castello si innalzava dal suolo come una roccaforte inespugnabile. Le doppie porte in ferro e legno erano meravigliosamente lavorate, ed erano di dimensioni impressionanti, come tutto il resto della struttura.
Smontai da cavallo, mentre Moran si rivolgeva agli uomini di guardia. Bastarono poche parole, ed una delle porte venne aperta, in modo che io ed il mio seguito potessimo entrare.
Mentre varcavo la soglia, preceduta dal mio caposcorta e da una guardia, e circondata dai miei soldati, non potei fare a meno di abbassare il cappuccio e sollevare gli occhi per osservare il soffitto. Era sempre di una deprimente pietra grigiastra, ma splendidamente intarsiato.
Un colpetto sulla schiena da parte di Mirala mi fece riportare lo sguardo sulla sala che si apriva davanti a me, ampia ed arredata unicamente da un lungo tavolo imbandito e da un trono di pietra che si stagliava sulla parete di fondo.
Stendardi azzurri pendevano dalle pareti, ondeggiando lievemente in risposta agli spifferi gelidi che entravano dagli schermi delle finestre, ed ovunque corni di bue riempiti di grasso spandevano una calda luce che si rifletteva sui piatti, sulle suppellettili d’argento, sulle pareti e sui pavimenti resi lucidi dai molti piedi che li avevano calpestati nel corso dei secoli.
Avrei voluto potermi soffermare più a lungo nella contemplazione della sala del trono, ma in quel momento la guardia parlò, portando la mia attenzione sui quattro uomini che avevo scorto in fondo alla stanza.
“Signore, Lady Lirael De Braose, da Daggerfall.” Annunciò, raddrizzando le spalle e sollevando lo scudo di legno che portava il vessillo della città.
La mia scorta si aprì ad ala intorno a me, ed io avanzai fino a metà sala, osservando gli uomini che mi fissavano con aria perplessa, cercando di indovinare chi, tra loro, fosse il mio sposo.
Uno di loro era troppo vecchio, uno troppo giovane, un altro aveva un aspetto troppo dimesso, ma il quarto… il quarto era sicuramente lui.
Mi fermai a circa una decina di metri da loro, aprii il mantello e mi inchinai il più profondamente possibile, cercando di tenere la testa alta e la schiena diritta.
“Salute, Marito.” Dissi, sperando di sembrare meno nervosa di quanto non fossi.
L’uomo che avevo davanti mi osservò con severo cipiglio, squadrandomi dall’alto in basso. Non sembrava molto contento di vedermi.
Anzi, aveva un’aria decisamente contrariata.
Ma per quanto la mia presenza lo seccasse, fece lo stesso un passo avanti, e mi rivolse un lieve inchino con il capo.
“Salute a te, Moglie.”
 
                                                                                                          ******
 
La donna avanzò con eleganza sull’antico pavimento di pietra. Aveva il cappuccio abbassato sulle spalle, e la luce delle candele e dei lumi  si rifletteva sui suoi capelli, intrecciati e raccolti in cima al capo in un’acconciatura elaborata.
“Salute, Marito.”
Quando si inchinò con rigida grazia, il mantello di velluto rosso bordato di volpe si aprì, svelando un corpo sinuoso fasciato da uno splendido abito di broccato blu. Era alta e di aspetto gradevole, e lui non l’avrebbe mai riconosciuta, se la guardia non l’avesse annunciata.
Distrattamente si chiese quanti anni dovessero essere passati. Aveva sposato una bambina, ed ecco che ora gli si presentava una giovane donna.
La verità era che non la aspettava così presto; la sua presenza lì era l’ultima cosa che lui potesse desiderare, ma fece ugualmente buon viso a cattivo gioco.
Così avanzò con aria impassibile, la scrutò ancora una volta e chinò brevemente la testa .
“Salute a te, Moglie.” Disse Ulfric Manto della Tempesta.


 





 


Rieccomi qui, con una versione tutta mia della guerra civile. Per la prima volta mi cimento con uno stile “doppio” (testo in prima e terza persona nello stesso racconto) e con una protagonista femminile che non combatte e non indossa armature.
La storia, come dirò nei prossimi capitoli, ha inizio più o meno sette anni prima dello scoppio effettivo della rivolta, perché voglio sviluppare bene la trama.
Cercherò di non essere troppo di parte, dal momento che tratterò la guerra osservandola da ambo i fronti. Se notate qualcosa che non quadra, non esitate a farmelo sapere.

Un'ultima cosa: in questa storia cercherò di rappresentare una versione di Skyrim più realistica (per quanto possibile con un videogioco fantasy) e, soprattutto, medievaleggiante. Per questo motivo potreste trovarvi di fronte ad un ruolo della donna meno attivo e una società Nord un po' più maschilista. Ho volutamente reso Ulfric più burbero e intollerante che nel videogioco, per cui non aspettatevi di vedere uno Jarl piacevole e gentile. Infine la protagonista femminile potrà sembrare anche piatta all'inizio, ma avendo sempre scritto di donne forti volevo per una volta cimentarmi con un personaggio che crescesse con il susseguirsi dei capitoli, formandone il carattere mano a mano che si procede con il racconto. Insomma, non sarà sempre così monocorde.

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Capitolo 2
*** The cold nights of Windelhm ***


Era passato molto tempo dall’ultima volta che avevo consumato una cena degna di questo nome.
Seduta alla destra di mio marito, che presiedeva il banchetto da uno scranno posto a capotavola, gustavo minuscoli bocconi del saporito arrosto di cervo, cercando di tanto in tanto di lanciargli un’occhiata.
Ero estremamente curiosa sul suo conto. Il suo viso dai lineamenti duri e fieri mi era totalmente sconosciuto, così come l’espressione dei suoi occhi ed il suono della sua voce.
L’uomo che mi aveva sposata era un individuo alto, con le spalle ampie ed il fisico solido e robusto tipico dei guerrieri; il suo volto severo, dalla larga mascella squadrata, sarebbe anche potuto risultare gradevole se non fosse stato per il suo grosso naso aquilino, che sembrava essere stato rotto più volte, e per due vecchie cicatrici che gli sfregiavano la guancia sinistra, e che si estendevano dallo zigomo fin quasi alle labbra imbronciate e circondate da una corta barba bionda.
Quando parlava lo faceva in tono fermo e deciso, ricordandomi il modo in cui Moran impartiva ordini alla mia scorta, anche se per tutta la sera non mi rivolse più di una manciata di parole. Pareva fingere che io non fossi presente, e prestò molta più attenzione ai cinque segugi che gironzolavano attorno al tavolo, mangiando dalle mani dei commensali, che a me.
Durante quella prima cena imparai i nomi dei tre uomini che avevo visto in sua compagnia al mio arrivo. Il più anziano rispondeva al nome di Galmar Pugno Roccioso, un uomo così imponente da sembrare una sorta di gigante, più prestante di molti giovanotti che mi era capitato di vedere e con piccoli occhi chiari, acuti e sardonici, che continuavano a dardeggiare nella mia direzione; era il braccio destro di mio marito e, da quanto capii, il suo più vecchio e fidato amico.
L’uomo giovane, con una folta capigliatura bruna che gli circondava il viso dai tratti decisi, si chiamava Yrsarald, e come scoprii in seguito era uno dei migliori condottieri al servizio del mio sposo.  Il terzo individuo, Jorleif, era invece il Sovrintendente del palazzo, e continuò per tutta la sera ad infilarsi pezzi di cibo sotto i folti baffi bruni che gli scendevano fino al mento.
Era strano essere lì, tra tanti uomini sconosciuti, senza la rassicurante presenza di Mirala; la mia cara balia stava probabilmente cenando nell’ala riservata alla servitù, insieme alla mia scorta.
“Ti piace l’arrosto?”
Presa alla sprovvista da quella domanda sollevai lo sguardo, incontrando gli occhi duri e freddi di mio marito.
“Si, Signore.” Risposi, incapace di dire altro. Galmar, seduto di fronte a me alla sinistra del mio consorte, soffocò una risatina nel pugno.
“Non c’è che dire, Ulfric. La tua sposa è la quintessenza della cortesia.” Disse, con un tono di scherno così evidente che mi chiesi se per caso non mi stesse insultando. “Forse dovresti prendere esempio da lei.”
“Chiudi quella fogna, Galmar.” La voce di mio marito era severa e brusca, e rispecchiava perfettamente la sua persona.
“Ah, qualcuno è nervoso, stasera. Spero che tu domattina sia un po’ più rilassato.” Ribatté Galmar in tono allusivo battendogli una mano sulla spalla, ed io arrossii violentemente.
Con mia grande sorpresa, mio marito non rispose. Si limitò a fulminare il suo secondo con lo sguardo e tornò a dedicarsi al proprio pasto.
Stringendo i denti abbassai il capo, imbarazzata e confusa.
Mentre l’arrosto si raffreddava nel mio piatto, pensai alla corte di Daggerfall, dove ero cresciuta in mezzo alla grazia e all’armonia. Pensai ai cieli azzurri, ai giardini pieni di fiori ed alla mia famiglia, esiliata ma sempre fiera.
Confrontai i miei ricordi con quanto avevo visto di Windhelm, e sentii gli occhi inumidirsi.
Ma dove ero capitata?
 
 

******


“Questa è la mia stanza. Laggiù puoi mettere le tue cose.” Ulfric Manto della Tempesta indicò un punto della propria camera da letto, quindi si voltò a studiare la giovane sconosciuta.
Lirael De Braose si guardava intorno intimidita, torcendosi le mani giunte in grembo.
“Io dormo da questo lato del letto.” Le comunicò con fermezza, e senza aspettare una risposta le voltò le spalle e cominciò a togliersi la cappa di pelle d’orso che portava indosso. “Dietro di te dovrebbe esserci un paravento, se vuoi cambiarti.”
Alle proprie spalle udì il fruscio delle gonne della ragazza ed il tonfo leggero delle sue sottili scarpine di raso, e represse uno sbuffo di impazienza quando, con la coda dell’occhio, la vide avvicinarsi al camino per scaldarsi un po’ prima di rifugiarsi dietro al paravento di legno. Quella ragazzina avrebbe imparato presto che gli abiti e le calzature che aveva portato da High Rock erano inadeguate al clima di Windhelm.
Grugnendo per l’irritazione, Ulfric si sfilò la veste, i calzoni e la casacca con gesti secchi e bruschi, che tradivano il suo disappunto. Quello non era un buon momento per accogliere una donna a corte; sulla sua città spiravano venti bellicosi, ed ogni giorno alle porte del Palazzo dei Re si presentavano uomini e donne che desideravano unirsi alle sue truppe. I guerrieri accorrevano sempre a frotte quando credevano che ci sarebbe stato da arricchirsi, e mettersi al servizio di uno Jarl, un sovrano, era uno dei metodi più sicuri per fare fortuna.
Con quei cupi pensieri che gli vorticavano nella mente, Ulfric gettò i propri vestiti su una panca con noncuranza, calciò lontano i lunghi mutandoni di lana e si infilò sotto le coperte. Ci avrebbe pensato una delle serve a sistemare il tutto, la mattina seguente.
Dovette aspettare diversi minuti prima che Lirael facesse la sua comparsa da dietro il paravento, cercando di tenere chiusi con le braccia i lembi di una lunga vestaglia bianca. La ragazza era visibilmente nervosa, ed Ulfric trattenne a stento un moto di impazienza. Era stata una giornata lunga e stancante, e tutto quello che desiderava era fare ciò che doveva con la sua nuova moglie ed andare a dormire.
Ma la ragazza sembrava voler ritardare quel momento il più possibile.
Scostò le coperte con una lentezza esasperante, e si sedette sul materasso dandogli le spalle. Lo Jarl osservò la folta chioma che le scendeva fin alla vita, increspata dalle leggere onde create dalle trecce. Alla luce del fuoco che ardeva nel camino, quei lunghissimi capelli che richiamavano i colori di un bosco autunnale sembravano animarsi, mandando caldi riflessi dorati.
Con estrema cautela, la ragazza sollevò un lembo delle pesanti coltri che ricoprivano il letto; quindi, cercando di tenere chiusa la vestaglia, raccolse le gambe e le infilò sotto le lenzuola, sdraiandosi rigidamente al suo fianco.
Con un grugnito di frustrazione, Ulfric si passò una mano sul viso. Chiaramente sua moglie non aveva mai giaciuto con nessun uomo, prima di allora. Gli sarebbe toccato fare tutto da solo.
Voltandosi verso di lei osservò ancora una volta il suo viso, un pallido ovale che conservava vaghe tracce delle rotondità dell’adolescenza. Aveva avuto donne decisamente più belle, dame in grado di infiammargli i lombi con un solo sguardo, dai corpi più procaci ed invitanti; ma aveva anche avuto bisogno del denaro e delle terre che sua moglie portava in dote, ed ora che lei lo aveva raggiunto, non poteva più evitare di consumare quel loro disgraziato matrimonio.
La sentì trattenere il respiro quando le scostò i lembi della vestaglia che le coprivano il petto, ma la ignorò. Voleva vedere quello che la necessità lo aveva costretto ad accettare anni prima.
“Rilassati.” Le ordinò bruscamente, sentendola irrigidirsi al suo tocco. “Non ti farò male.”
Le sue parole parvero allarmarla ancora di più, ma Lirael non fiatò, né in quel momento, né quando le aprì completamente le vesti, né quando si unì a lei. Per tutto il tempo la giovane rimase in silenzio, stringendo tra i pugni i lembi del lenzuolo e fissando l’alto soffitto di pietra sopra le loro teste.
Quando ebbe finito, Ulfric si staccò dal suo corpo e lasciò che la ragazza si sistemasse le coltri di pelliccia tutt’intorno, per coprirsi il più possibile.
Mentre si rigirava, Lirael tirò la coperta lasciandolo esposto all’aria gelida della stanza, ma lo Jarl preferì non farglielo notare. Aveva tutta la vita per insegnarle cosa gli piaceva o meno, e per quella sera lui era troppo stanco, e lei troppo scossa per affrontare la questione.
Ci sarebbe stato il tempo per ogni cosa, pensò, mentre si voltava dandole le spalle.
Ci sarebbe stato il tempo per ogni cosa.
Persino per abituarsi all’idea che, da quella sera, aveva una moglie.
 
 
 
 
 
 

 

 
Chiedo scusa per i nomi arzigogolati degli uomini incontrati da Lirael durante la sua prima cena a Windhelm, ma purtroppo non sono stata io a sceglierli, ma la Bethesda.
Giuro giurissimo che, non appena Lirael si sarà abituata alla vita di corte, le sue interminabili descrizioni si ridurranno a qualcosa di più umano. Fino ad allora dovrete sorbirvi le sue tiritere (più nel prossimo capitolo che in questo, a dire la verità, ma anche qui non scherza).
Ringrazio tantissimo Ulvinne per avermi suggerito il titolo, visto che ero completamente nel pallone (grazie dear ^^).
 

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Capitolo 3
*** Scales and new beginnings ***


Stava nevicando.
Mio marito aveva detto che avrei dovuto imparare a farci l’abitudine. Aveva tolto lo schermo che chiudeva il vano della finestra perché potessi guardare all’esterno, ma io non volevo alzarmi dal letto, e per due ragioni più che valide: perché ero nuda, e perché la stanza era gelida ed io tremavo persino avvolta nelle coltri di pelliccia.
“Dovrai farti fare degli abiti nuovi.” Mi disse il mio sposo in tono sbrigativo, mentre attraversava la camera incurante del freddo ed apriva una cassapanca per estrarne i suoi vestiti. “I tuoi sono troppo leggeri. Non vanno bene.”
Io annuii e mi strinsi nelle spalle, cercando di coprire le punte gelate delle orecchie con il bordo ruvido di una coperta. Mentre sprofondavo negli strati di lana e pelli d’orso, gli lancia un’occhiata furtiva, incuriosita. Non avevo mai visto un uomo nudo, prima di allora, e quando lui si era unito a me non avevo potuto vedere altro che il suo viso e la parte superiore del suo petto.
Ora che avevo la possibilità di guardarlo meglio, rimasi stupita dalla gran quantità di cicatrici che gli ricoprivano il corpo. Spesse e sottili, grandi e piccole, costellavano la sua pelle come le stelle il cielo.
La maggior parte sembravano essere state causate da ferite da taglio, ma ve ne erano anche altre, più larghe e lucide, simili a delle ustioni; la pelle della sua ampia schiena, invece, era corrugata da una miriade di terribili, sottili strisce biancastre, frutto di una serie di staffilate.
Nel vederle, rimasi sconvolta. Una volta, mentre mi trovavo ancora a Daggerfall, avevo assistito ad una fustigazione pubblica; l’uomo a cui era stata inferta, un ladro recidivo che portava già il marchio dei suoi crimini impresso a fuoco sulla fronte, aveva perso i sensi alla trentesima frustata, ed allora noi dame di corte eravamo state subito allontanate perché non venissimo turbate dalla sua morte imminente.
I segni sulla schiena di mio marito, invece, era tante e tali da far pensare che il suo fustigatore fosse stato un uomo estremamente sadico e paziente: non avrebbe mai potuto infliggerli tutte quelle frustate in un’unica volta senza ucciderlo, per cui doveva aver atteso ore, forse addirittura giorni, tra una serie di staffilate e l’altra, in modo che le ferite più vecchie si richiudessero e prolungando quella tortura chissà quanto a lungo.
Mentre osservavo la sua schiena ricoperta da quelle sottili cicatrici, mi tornarono alla mente gli schiocchi della frusta e le urla dell’uomo che avevo visto, e venni scossa da un brivido.
Chi poteva essere stato tanto crudele da imporre al mio sposo un simile trattamento? E cosa aveva mai fatto, lui, per meritarselo?
“Tu non ti vesti?” Mi chiese bruscamente, voltandosi a guardarmi.
“Ho bisogno di aiuto con i lacci del vestito.” Dissi, abbracciandomi sotto le coperte. Lui non commentò e si infilò dalla testa una spessa casacca di lana, tornando a pensare ai propri affari.
Senza degnarmi di un altro sguardo mio marito terminò di vestirsi, si avvicinò a gran passi alla porta e l’aprì. Sobbalzai quando vidi, oltre le sue spalle, la testa di una cameriera che attendeva nel corridoio. Da quanto tempo era lì, quella donna, e quanto aveva sentito?
“Aiuta mia moglie a vestirsi.” Sbottò il mio sposo mentre le passava davanti. Odiai il modo sprezzante in cui lo disse. Mia moglie. Come se fossi stata il suo cane, o peggio.
“Buongiorno, Signora.” Mi salutò la cameriera, entrando e chiudendosi la porta alle spalle. Io le risposi con un cenno del capo e finalmente decisi di alzarmi dal letto, tirandomi dietro le coperte, e feci la prima brutta scoperta della giornata.
Il pavimento era gelato.
“Dov’è la donna che ho portato con me?” Chiesi, salendo su un lembo del lenzuolo per non raffreddarmi i piedi. “Sa che ho bisogno di aiuto per vestirmi.”
La cameriera cominciò a rassettare gli abiti che mio marito aveva gettato in un canto la sera prima, volgendo su di me uno sguardo vacuo. Era una donnetta robusta con viso largo ed inespressivo, circondato da ciocche di un colore smorto. Aveva le guance rubizze per il freddo ma, al contrario di me, lei non sembrava risentirne.
Stavo per ripetere la mia domanda quando udii dei colpi leggeri all’uscio, e riconobbi la bussata di Mirala.
“Eccoti qui, mia cara.” Esclamò la mia balia, facendo capolino nella stanza. Era coperta da uno spesso mantello di lana, e sembrava patire il freddo di Windhelm tanto quanto me. Mentre mi abbracciava vidi la cameriera lanciare un’occhiata sospettosa alle sue orecchie puntute, che sbucavano dai suoi folti capelli chiari. Da come la guardava si sarebbe detto che non avesse mai visto un Altmer.
“Come stai, Lirael?” Mi chiese Mirala posandomi una mano sulla guancia, ed io feci una smorfia. Ero infreddolita e provavo un certo fastidio tra le gambe, perché mio marito aveva voluto unirsi a me anche quella mattina, ma nel complesso stavo bene, così la rassicurai.
Avrei voluto raccontarle ogni particolare di quella notte e chiederle un’infinità di cose per chiarire i miei dubbi, ma non osavo farlo con la cameriera che ancora gironzolava per la stanza.
“Questo è suo, Signora?” Mi chiese quella scialba donna, raccogliendo da terra la mia bella vestaglia ricamata, ora impolverata e stropicciata come se fosse stata uno straccio.
“Dallo a me.” Si intromise Mirala. Era abituata a dirigere la servitù e nonostante fosse esile, la sua statura era tale da incutere un certo timore, quando si chinava dall’alto per fulminarti con i suoi occhi neri. “Vai, ora. Ci penso io a Lady Lirael.”
“Ma…”
“Vai!” Ripeté la mia balia con decisione, e la donna raccolse tra le braccia gli abiti di mio marito e si affrettò fuori dalla porta.
Finalmente sole, potei parlare a Mirala di tutto ciò che mi premeva in petto. Le raccontai di mio marito e di ciò che era accaduto durante quelle ore in cui eravamo state separate, ed arrossii quando ricordai per lei i momenti in cui avevo giaciuto con quell’uomo ancora sconosciuto.
La mia balia mi ascoltò tranquillamente senza fare mai commenti, lasciandomi sfogare. Fu solo alla fine, quando avevo ormai esaurito gli argomenti, che prese la parola.
“Il Conte Wulfbert sapeva ciò che faceva, quando ti ha concessa in sposa.” Mi disse mentre, in piedi alle mie spalle, terminava di acconciarmi i capelli. “Non devi dubitare della sua scelta.”
“Mio zio voleva solo che le truppe di Windhelm espugnassero il forte che gli era stato tolto.” Ribattei con voce atona, volgendo lo sguardo verso le finestra da cui entravano pallidi fiocchi di neve. La famiglia di mia madre era stata esiliata da Skyrim quando la mia nonna materna era ancora una ragazzina con il ventre gonfio per la prima gravidanza. I miei parenti esuli si erano rifugiati in territorio Bretone, ma erano rimasti padroni di un piccolo regno nella loro terra di origine, un fertile lembo di terra stretto tra le montagne ed il fiume, in mezzo al quale sorgeva Castel Amol, la residenza della mia famiglia.
Non conoscevo i dettagli di ciò che era avvenuto in seguito, ma sapevo che, quando ero bambina, le terre che mi spettavano di diritto erano state conquistate. Per riprendersele mio zio aveva inviato lettere all’unico feudo confinante che all’epoca disponeva di un discreto esercito; l’Eastmarch aveva risposto al suo grido di aiuto, e nel giro di un anno le truppe di Windhelm avevano espugnato il forte ed io ero stata promessa allo Jarl locale.
Irritata per quella situazione, sbuffai, strusciando i piedi per terra.
“Schiena dritta.” Mi riprese Mirala. “E non sbuffare: comportati da signora.”
Per tutta risposta emisi un sospiro esasperato, e la mia balia mi dette un piccolo colpo in mezzo alle scapole per farmi raddrizzare le spalle.
“Sii buona, e non farmi fare brutte figure.” Mi disse. “Se gli Dei ti hanno voluta qui, c’è un motivo.”
“Gli Dei non c’entrano niente. L’unico motivo era che a mio marito serviva del denaro, e tutto ciò che mio zio poteva offrirgli era legato a me come dote.” Esclamai, ben consapevole di quello che dicevo, perché avevo letto di nascosto le missive in cui era stato combinato il mio matrimonio. Mentre parlavo, il peso di quella verità mi crollò addosso all’improvviso, simile ad un macigno, e mi lasciai sfuggire un sospiro rassegnato. “Sono come… come la botte che conteneva il vino, una volta svuotata: insignificante.”
“Sarai anche insignificante.” Disse Mirala in tono fermo, facendomi alzare. “Ma ora sei la moglie di uno Jarl, la Signora dell’Eastmarch e la padrona di Castel Amol e delle sue terre.”
La mia balia mi guardò pensierosa e mi posò le mani sulle spalle, mentre io cercavo in tutti i modi di sembrare meno abbattuta di quanto non fossi in realtà.
“Coraggio, tesoro mio.” Mi disse in tono più dolce, schiudendo le labbra in un sorriso che però non le raggiunse gli occhi, carichi di preoccupazione. “I Divini hanno intessuto il filo della tua vita in foglia d’oro, ed il fato ti sorride.”
Avrei tanto voluto darle ragione, ma non trovai la forza di farlo. La mia esistenza era stata completamente stravolta da un giorno all’altro, ed avevo come l’impressione di camminare di notte su un terreno paludoso: ogni passo era un azzardo, che avrebbe potuto condurmi in salvo su sponde più sicure, o farmi sprofondare inesorabilmente nell’acquitrino.
“Credo che mi stiano aspettando.” Dissi, sollevando il mento e raddrizzando le spalle. Mio marito doveva già essere seduto sul suo scranno, posto a capotavola nella grande sala del tono, in attesa che gli venisse servito il primo pasto della giornata. Con ogni probabilità avrei persino rivisto gli stessi uomini della sera prima.
“Allora non farli attendere.” Mirala mi sorrise e si chinò a baciarmi sulla fronte. “Ti raggiungerò più tardi, mia cara.”
Io annuii e mi voltai, diretta verso la porta. La mia balia aveva ragione. Ora ero la padrona, la signora del castello.
Eppure, per quanto lo sapessi, non riuscivo ancora a sentirmi tale.

 
******
 
“Come sarebbe ce ne sono altri tre?” Lo Jarl di Windhelm squadrò il suo secondo con occhi di fuoco, ma come sempre Galmar non fece una piega.
“È quello che ho detto. Sono arrivati altri tre Argoniani in città, questa notte. Si sono stabiliti giù al porto.” Dondolandosi sulle gambe posteriori della sedia, il vecchio guerriero controllò il filo della sua ascia con il pollice e passò di nuovo la cote.
“Al porto?” Ruggì Ulfric furibondo, ed i due segugi sdraiati ai piedi del trono guairono, sollevando le orecchie. “Avevo detto chiaramente che non c’era più spazio in città. Ed il porto fa parte della città, se qualcuno non l’avesse notato.”
Per nulla impressionato, Galmar sollevò un sopracciglio e strofinò la cote su una tacca che segnava la lama, nel tentativo di farla scomparire.
“Si sono infilati in un magazzino abbandonato. Non c’è nessuno che possa rivendicarne il possesso.” Commentò, sollevando l’ascia vicino al viso e soffiando delicatamente per eliminare la polvere metallica.
“E non hai pensato ad avvisarmi?” Gli chiese Ulfric con un tono così minaccioso che Yrsarald, in piedi accanto ad un braciere, si avvicinò furtivamente alla porta.
Sul vecchio volto indurito di Galmar comparve un sorriso malizioso.
“Avvisarti? Credevo che questa notte fossi in dolce compagnia.” Insinuò, e Jorleif, il Sovrintendente, imitò l’esempio di Yrsarald portandosi il più vicino possibile all’uscita. Meglio tenersi pronti, nel caso le cose avessero cominciato a volgere al peggio.
Ulfric si adombrò in viso e si alzò dallo scranno da cui presiedeva la tavola. Aveva appena aperto bocca quando vide Galmar sollevarsi di scatto a sua volta, con gli occhi rivolti a qualcuno che sopraggiungeva alla sua destra.
“Buongiorno, Signora.” Salutò il vecchio guerriero in tono canzonatorio ed esibendosi nella parodia di un inchino, ancora brandendo in mano la sua temibile ascia.
Lo Jarl digrignò i denti, seccato. Ci mancava solo lei.
“Buongiorno.” Rispose educatamente la giovane Lirael, con voce titubante.
Ulfric non si voltò a guardarla né si prese il disturbo di salutarla. Quella ragazzina era un maledetto imprevisto che gli era capitato tra capo e collo.
Anche se doveva ammettere che la sua compagnia non fosse del tutto da disprezzare.
Era stato piacevole svegliarsi con quel suo giovane corpo al fianco e giacere con lei, nonostante continuasse ad essere rigida come una tavola di legno.
“Siediti.” Sibilò rabbiosamente a Galmar. Sapeva che le sceneggiate del suo vecchio amico erano rivolte a lui, e non a sua moglie. Il guerriero si era sempre divertito a punzecchiarlo sulle sue donne, sin dai tempi in cui era un ragazzo.
Sentì Lirael avvicinarsi in un fruscio di sottane e sedersi alla sua destra, e le lanciò una rapida occhiata. Era graziosa, quella mattina.
Tanto meglio. Una donna attraente accanto sarebbe stata più sopportabile di una scialba.
“Voi due. Tornate indietro.” Ordinò ai due uomini che avevano cercato di defilarsi durante la sua sfuriata. Se ne era accorto, ma era stato tanto furioso con Galmar da non prestar loro attenzione.
“Quanti sono, adesso, in quel magazzino?” Chiese poi al suo secondo.
“Cinque, ma presto ce ne saranno altri. Una delle loro navi si è arenata lungo la costa, ed ora stanno arrivando alla spicciolata.” Rispose l’anziano guerriero, lanciando un’occhiata incuriosita alla giovane donna seduta di fronte a lui. “Vuoi che mandi qualcuno a sloggiarli?”
Lo Jarl si sedette di nuovo sul suo scranno a capotavola e si accigliò, riflettendo sulle parole di Galmar. La gente di Windhelm non amava gli Argoniani, e ben pochi avrebbero avuto da ridire su un loro allontanamento forzato; ma era anche vero che gli abitanti di Black Marsh erano abili lavoratori, ed al porto serviva della buona manodopera a basso costo.
“No, lasciali dove sono.” Sbottò. “Ma da ora in avanti voglio che nessun Argoniano possa vivere all’interno delle mura.”
“Perché no?”
I quattro uomini nella sala gelarono all’istante. Attorno al tavolo calò un silenzio di piombo, mentre Ulfric si voltava lentamente verso Lirael. Nessuno aveva mai osato interrompere uno Jarl.
Ma la giovane donna sembrava non essersi resa conto di aver infranto uno dei pilastri della cultura Nord.  Con il capo leggermente inclinato, lo fissava innocentemente con i suoi grandi occhi nocciola screziati di verde, in attesa di una risposta.
“Se non impedisco agli Argoniani di stabilirsi a Windhelm, presto avremo le strade invase di accattoni. Lo spazio entro le mura è limitato, e non voglio che la mia città venga invasa da un’orda di senzatetto.” Dichiarò con voce stentorea.
“Perché allora non costruisci per loro un villaggio fuori dalle mura?” Chiese ancora Lirael, e gli uomini inorridirono.
Lo Jarl emise un sordo brontolio minaccioso, come un orso che vede disturbato il suo letargo.
“Niente villaggi. E niente Argoniani.” Decretò severamente, con voce imperiosa. “Jorleif, appena mia moglie finisce di mangiare, portala a vedere i registri.”
“Certo, Signore.” Mormorò il Sovrintendente, chinando il capo.
Nel silenzio costernato che seguì, Ulfric si dedicò esclusivamente al proprio pasto. Con la coda dell’occhio notò che la giovane al suo fianco sollevava di tanto in tanto lo sguardo verso di lui, quasi a volerlo studiare. Dopo averla vista compiere quel gesto per la quarta volta, lo Jarl appoggiò ostentatamente il coltello sul bordo del piatto, e quando Lirael sollevò su di lui uno sguardo perplesso, la rimbeccò puntualmente.
“C’è qualche problema, Moglie?” Le chiese, e subito la ragazza sollevò le sopracciglia confusa.
“Problema? Io… no. No, Signore.”
“Allora smettila di guardarmi come se avessi due teste.”
La giovane Lirael sobbalzò, davanti all’asprezza del suo tono, ma non disse una parola. Soddisfatto da quel silenzio, Ulfric si voltò di nuovo verso Galmar, che era impegnato a togliersi della carne che gli si era infilata tra i denti con l’unghia del mignolo.
“Parlami di quegli Argoniani.” Ordinò. “Dove erano diretti, con la loro nave, e che mestiere svolgevano a Black Marsh?”
Il vecchio guerriero voltò il capo e sputò per terra il pezzetto di carne incriminato, e subito uno dei segugi accorse per mangiarlo.
“Ancora non lo so, Ulfric. Non eri il solo ad essere impegnato, quando sono arrivati.” Galmar allungò un braccio e dette una bonaria pacca sul groppone del cane, che si voltò scodinzolando. “Posso mandare degli uomini al porto, se preferisci.”
Ulfric si versò del vino e scrutò nel calice, pensieroso. L’odore tannico della bevanda gli fece pizzicare le narici e lui lo aspirò a pieni polmoni, lasciando che l’aroma acre gli risalisse lungo il naso.
“Manda degli uomini.” Acconsentì con durezza. “Voglio che raccolgano tutte le informazioni possibili su quegli Argoniani, e che li informino sulle mie leggi.”
“Come desideri.” Galmar strappò un pezzo di grasso dalla carne fredda che aveva nel piatto e lo lanciò verso il trono, dove i due segugi presero a litigarselo ringhiando e guaendo. “C’è altro?”
Forse disturbata dal baccano dei cani, o forse dall’indifferenza del marito, Lirael si alzò, dichiarando di aver finito la colazione. Ulfric fece un brusco cenno del capo per congedarla e tornò a rivolgersi al suo secondo.
“Fa in modo che sappiano che non accetto errori, nella mia città. Al primo sgarro, verranno imprigionati. Al secondo…”
“La morte?” Suggerì Yrsarald, che era tornato silenziosamente al suo posto. Lo Jarl spostò su di lui il suo sguardo implacabile, lo stesso che un tempo volgeva lungo campo di battaglia.
“Allontanamento dall’Eastmarch. O morte, se il crimine è sufficientemente grave.” Decretò. Era un peccato che Jorleif fosse andato ad accompagnare sua moglie a vedere i registri contabili del castello. Il Sovrintendente era un uomo dalla memoria infallibile, in grado di rendere legge il volere di Ulfric con un semplice svolazzo del calamo; ma ora era al seguito di quella piccola palla al piede dai vestiti troppo leggeri ed eleganti, e lui avrebbe dovuto scomodarsi a ricordare tutto ciò che aveva appena decretato, per poi comunicarglielo in seguito.
I due cani alle sue spalle cominciarono ad abbaiare, ringhiandosi addosso, e lui dovette vociare per zittirli.
“Yrsarald, finisci di mangiare e poi portali fuori.” Ordinò. “Oggi non possono stare nella sala del trono.” Il suo sottoposto annuì, prese un ultimo sorso dal suo boccale e si alzò. Ogni primo Sundas del mese, Ulfric apriva le porte del palazzo ai suoi cittadini e prestava la funzione di giudice nelle piccole e grandi dispute che coinvolgevano la gente dell’Eastmarch. Di lì a breve l’ampia sala del trono sarebbe stata invasa da uomini e donne, che avrebbero atteso in piedi o seduti sulla dura pietra del pavimento, in attesa di venire presentati al cospetto dello Jarl.
“Ho saputo che i Mare Crudele hanno avuto ancora problemi con Hlaalu.” Esclamò Galmar, stiracchiandosi e seguendo con gli occhi una delle serve, che camminava rapidamente diretta alle camere dei livelli inferiori, con un cesto di biancheria pulita appoggiato contro un fianco.
“Torsten e l’Elfo hanno sempre problemi.” Borbottò Ulfric, lanciando a sua volta un’occhiata alla donna. “Probabilmente una delle loro capre avrà sconfinato di nuovo nel terreno dell’altro, o uno dei due avrà spostato ancora una delle pietre del confine.”
La giovane serva sparì dietro una porta, ed i due uomini si scambiarono un’occhiata. Sapevano entrambi apprezzare una bella donna, quando ne vedevano una.
“Chiama Sifnar e fagli sparecchiare la tavola.” Disse Ulfric, alzandosi e pulendosi le mani con un lembo della tovaglia.
“Come vuoi.” Sbuffando e soffocando un rutto nel pugno, Galmar si alzò a sua volta e si allontanò con passo baldanzoso verso le cucine. C’erano almeno un paio di fantesche, laggiù, su cui aveva messo gli occhi; Ulfric lo sapeva, ma fingeva di ignorarlo.
Perché essere lo Jarl significava essere sempre un passo avanti a tutti.
Persino degli amici.
 
******

 
Lo studio del Sovrintendente era una stanza di pietra piccola e spoglia, illuminata da tre sottili feritoie che si aprivano direttamente sull’esterno, e terribilmente fredda nonostante il flebile fuoco che bruciava nel camino.
Incrociando strettamente le braccia al petto per cercare un po’ di calore, mi avvicinai al tavolo di solida quercia su cui erano posati gli strumenti necessari a tenere la contabilità del palazzo: boccette d’inchiostro, calami, abachi, e rotoli su rotoli di pergamena. Al centro di quella grossa scrivania campeggiava il pesante libro su cui venivano registrati tutti i movimenti monetari del castello. Fino ad allora se ne era occupato Jorleif, ma in qualità di Signora di Windhelm, da quel giorno in avanti tale compito sarebbe toccato a me.
“Ho annotato tutto quello che può esservi utile, Milady.” Disse la voce del Sovrintendente alle mie spalle. “Chiedo scusa per la mia scrittura.” Soggiunse, quando mi chinai per osservare meglio le pagine di pergamena ricoperte da una grafia minuta ed ordinata.
“Dove sono i vecchi registri?” Chiesi, come se non lo avessi sentito. Avevo bisogno di confrontare i bilanci passati con i nuovi dati contenuti nel libro contabile, se volevo farmi un’idea delle risorse del regno.
Oltre, ovviamente, per capire cosa ne fosse stato dell’oro e dell’argento che avevo portato in dote.
Con passo pesante, Jorleif si diresse verso un armadio addossato alla parete, talmente vecchio che il legno era ingrigito fin quasi ad assumere la stessa tinta dei muri.
Mentre il Sovrintendente sbuffava, sollevando una pila di pesanti tomi impolverati, presi posto dietro alla scrivania, sul sedile di legno imbottito dall’alto e severo schienale intagliato. Dopo aver lanciato un’ultima occhiata al registro più recente, lo chiusi e lo spostai in un angolo del tavolo, in modo che Jorleif avesse spazio per depositare la gran quantità di libri contabili che aveva estratto dal mobile.
“Al vostro servizio, Signora.” Mi rispose quando lo ringraziai. Gli rivolsi un rapido cenno del capo, rimboccai fino ai gomiti le ampie maniche della sopravveste perché non si impolverassero e presi il primo dei pesanti tomi disordinatamente impilati l’uno sull’altro.
Alcuni erano veramente molto antichi, vergati in caratteri ampi e fluidi da una mano femminile.
“Chi era Lady Alfdìs?” Chiesi, sfiorando con la punta delle dita la superficie ruvida della pergamena, nel punto in cui quella donna sconosciuta aveva scritto il proprio nome.
“Era la giovane moglie di Jarl Ulrich.” Rispose prontamente Jorleif. Poi, vedendomi aggrottare le sopracciglia, mi venne in aiuto. “Il predecessore di Lord Ulfric. Signora. Suo padre.”
“Era una buona padrona?” Domandai ancora, decisa a sapere con chi sarei stata confrontata da parte di servitori e popolo.
“Io non l’ho conosciuta, Milady. Ero troppo giovane.” Il Sovrintendente sollevò una mano e si arricciò un baffo sulla punta del dito. “Ma mio padre, Jormund, ne parlava molto bene. Tutti, a Windhelm, la amavano, e quando morì l’intera città portò il lutto per un anno, in suo ricordo.”
“Oh.” Mormorai, tornando a posare lo sguardo sulle vecchie pagine ricoperte d’inchiostro sbiadito.
Alfdìs, madre di mio marito e Regina di Windhelm, la donna che aveva regnato prima di me su quelle lande di ghiaccio e neve. Metteva quasi soggezione l’idea di venire confrontata con lei.
“Questi registri sono troppo vecchi.” Decretai, chiudendo il grosso libro con un tonfo che fece sollevare una piccola nuvola di polvere. “Voglio vedere solo i volumi da dieci anni a questa parte.”
Avevo parlato con più durezza del solito ma Jorleif parve non farci caso, e dopo essersi sistemato il berretto di pelo in cima alla testa sollevò i tomi più vecchi e li riportò nell’armadio.
Mentre trafficava con i libri contabili, voltai il capo verso le tre sottili feritoie che si aprivano nel muro, da cui entravano folate di aria gelida e sporadici fiocchi di neve.
Correva l’anno 193 della quarta era, e non avevo più di diciotto anni. Ma  in quel preciso istante, mentre osservavo il cielo grigio gravare su quella città grigia, ebbi come l’impressione che qualcosa dentro di me fosse mutato, anche se non riuscii a capire esattamente di cosa si trattasse.
Fu solo quando Jorleif mi pose una pila di registri, più piccola e meno impolverata, e mi rivolse un profondo inchino che capii, e provai un improvviso moto d’orgoglio.
In quel mese di Crepuscolo, nel giro di una notte, la mia vita era cambiata radicalmente.
Non ero più la figlia di poco conto di un nobile Bretone e di una Nord esiliata, una ragazzina che non avrebbe mai potuto integrarsi del tutto nelle corti di High Rock.
Ora ero a pieno titolo la moglie di uno Jarl.
Ed ero la Regina di Windhelm.
 
 




 

 


E con questo capitolo posso dire di aver chiuso la parte introduttiva della storia.
Mi sono presa la licenza poetica di usare il termine “regina” per indicare la consorte di un sovrano, benché non sia proprio corretto dal momento che il titolo di Jarl, di origini scandinave, corrisponda più o meno a quello di “conte” (titolo peraltro che anticamente non toccava la sposa, che continuava ad essere chiamata, semplicemente, “Signora”).
Altro piccolo appunto per quanto riguarda Lirael che si occupa della contabilità: nel medioevo le castellane si occupavano della conduzione, anche economica, delle loro proprietà quando il marito era assente. Perciò, per tenere occupata la mia protagonista, ho pensato di darle questo incarico a tempo pieno.
 
 

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Capitolo 4
*** Strangers and old shadows ***


 
La mia nuova vita a Windhelm prese presto un ritmo ben preciso.
Ogni mattina mi svegliavo ed attendevo che Mirala venisse a vestirmi e a pettinarmi, consumavo una rapida colazione nella sala del trono, ed amministravo le attività del palazzo; era infatti mio compito assicurarmi che ogni cosa funzionasse senza intoppi: soprintendevo a tutte le questioni economiche e pratiche che riguardavano la vita del castello, dal compenso di un servitore alla decisione del cibo da preparare a pranzo.
Ovviamente il del Palazzo dei Re non aveva bisogno della mia presenza, per continuare a funzionare come aveva sempre fatto. Fino ad allora era stato Jorleif ad occuparsi di quelle faccende, e lo aveva fatto egregiamente. Ma ora che io ero arrivata, tutti si aspettavano che occupassi il posto che mi spettava, che fosse necessario o meno.
Vedevo poco mio marito, sempre impegnato da qualche parte con i suoi uomini. Mentre io correvo su e giù lungo i corridoi di pietra del palazzo, lui si allenava con i soldati nell’arte della guerra, presiedeva serissimi consigli con i suoi migliori guerrieri o andava a caccia sulle gelide alture che circondavano la città. A volte capitava che saltasse un pasto, ed allora dovevo preoccuparmi di scoprire dove fosse ed inviargli un servitore con dei vassoi, in modo che potesse mangiare. Altre volte, invece, quando mi ritiravo per la notte trovavo il letto vuoto, perché il mio sposo era chiuso in qualche gelida stanza a sbottare ordini e a ringhiare come un animale contro suoi sottoposti.
Dopo la prima notte in cui avevamo consumato il nostro matrimonio mi ero aspettata che giacesse con me per tutte le sere seguenti, ed invece spesso tornava da quelle riunioni troppo stanco persino per togliersi gli stivali. Solo di tanto in tanto mi scrollava per una spalla, per svegliarmi o per assicurarsi che io non stessi già dormendo, ed allora le sue mani mi percorrevano il corpo come avevano già fatto una volta.
Non amavo quei momenti, eppure li attendevo con ansia ogni sera. Continuavo a considerarli un dovere nei suoi confronti, ma era in quell’unico frangente che mio marito si sforzava di essere meno insopportabile, riuscendo persino ad essere gentile. In quei brevi attimi, mentre giaceva su di me, avevo la vaga impressione di essere amata e riuscivo quasi ad illudermi che mi si fosse affezionato.
Perché lui, mi fu subito chiaro, non era né gentile né affettuoso.
Sopportava a fatica la mia presenza, mi rivolgeva a malapena la parola e si comportava come se non fossi altro che una fastidiosa intrusione nella sua vita.
Per anni avevo letto poemi cavallereschi che parlavano d’amore e corteggiamenti, e mi ero illusa di trovare quello stesso calore nella mia nuova casa.
Ma mi sbagliavo. Ero stata una sciocca a credere che le cose sarebbero potute cambiare.
Alla corte di Daggerfall ero stata la figlia di poco conto di un nobile Bretone.
Alla corte di Windhelm, ero la moglie di poco conto dello Jarl.
Ero una Regina senza corona su un trono grigio, in una città grigia.

 

 ******  
 

“Su gli scudi, escrementi di donnola. In alto. In alto, ho detto!”
Nel cortile interno del Palazzo dei Re, una cinquantina di reclute sollevò gli scudi, obbedendo agli ordini dello Jarl che urlava loro contro. Si erano disposti in cinque file da dieci uomini, e cercavano goffamente di formare la barriera di lance, spade e legno di tiglio su cui, durante una battaglia, avrebbe dovuto infrangersi la carica della prima linea nemica.
“Più vicini.” Ruggì Ulfric. “Il bordo sinistro del vostro scudo deve sovrapporsi al bordo destro dello scudo del vostro compagno.”
Gli uomini cercarono di fare come ordinato, e l’aria si riempì del tonfo sordo degli scudi di legno che sbattevano tra loro e dello stridio dei bordi di metallo che si scorrevano gli uni sugli altri alla rinfusa.
“Avete forse fango, nelle orecchie?” Irritato lo Jarl fece un passo avanti, afferrò un giovane soldato per un braccio e lo fece uscire dalle fila. “Dovete stare più compatti, maledizione. Così.”
A dimostrazione di quanto stava dicendo, imbracciò lui stesso lo scudo, infilandosi tra i ranghi. Ringhiando ordini riuscì a far disporre gli uomini come voleva, e quando dette la voce, i soldati mossero un passo avanti come se fossero una cosa sola.
“Ecco, questo è un muro di scudi.” Esclamò, a voce abbastanza alta perché lo sentissero fino in fondo alla fila. “Dovete esercitarvi finché non vi sembrerà naturale come urinare o accoppiarvi con la vostra donna. È chiaro?”
L’arrivo di Galmar salvò le giovani reclute dal dover rispondere. Il guerriero si avvicinò allo Jarl con sicurezza, accompagnato da in un tintinnio di cinghie e piastre metalliche; indossava l’uniforme tipica dei condottieri di Windhelm, una corazza di cuoio, maglie d’acciaio e pelli di animale ornata da denti di cinghiale e di lupo.
Sulle ampie spalle portava una pelle d’orso così spessa che da sola bastava a fermare la maggior parte dei colpi inferti con una spada. Certo, sempre che il suo avversario avesse avuto il coraggio di avvicinarsi: come tutti i condottieri di maggiore importanza di Windhelm, Galmar indossava la testa dell’orso, ancora attaccata alla pelliccia, come copricapo, ed usava la pelle che ricopriva le zampe per legarsi la cappa sotto al mento come se fossero i lacci di un mantello. Così abbigliato appariva ancora più massiccio e spaventoso, ed erano in pochi gli uomini che in battaglia osavano affrontarlo.
“È giunto un messaggero per te. Sta aspettando nella guardiola.” Disse il vecchio guerriero, lisciandosi la barba grigio cenere.
“E cosa sta aspettando?” Chiese Ulfric in tono brusco. “Fatti consegnare il messaggio e mandalo via. Non ho intenzione di perdere tempo con lui.”
Galmar lanciò un’occhiata alle fila di giovani soldati, che ciondolavano in attesa dell’ordine di rompere le riga. Lo Jarl seguì il suo sguardo e si lasciò sfuggire un grugnito esasperato. Nel breve istante in cui si era distratto, almeno tre delle reclute in prima fila avevano abbassato gli scudi, poggiandoseli sulle punte degli stivali.
“È meglio se vieni con me.” Ribatté Galmar, facendo un cenno di saluto ad una giovane donna in armatura che marciava attraverso il cortile. “Ha ricevuto l’ordine di consegnare il messaggio direttamente nelle tue mani, e si rifiuta di affidarlo ad altri.”
Sbuffando irritato, Ulfric acconsentì a seguire il suo secondo nella guardiola, ma non prima di aver affidato il branco di reclute ad uno degli uomini della sua scorta personale.
“Asbjorn, occupati di questi incapaci.” Gli disse. “ E cerca di trarne qualcosa che non sia carne da macello.” Asbjorn borbottò un assenso da dietro la folta barba e prese il posto dello Jarl, cominciando a rimbrottare i giovani soldati.
“Sarà meglio che questo messaggero rechi notizie importanti.” Sbottò Ulfric, mentre al fianco di Galmar attraversava il cortile. L’anziano guerriero sospirò e sollevò il capo, seguendo con gli occhi il volo di un’aquila.
“Lo sono. Ho visto il sigillo di Markarth sull’astuccio della pergamena. Da quando in qua ti occupi delle reclute?” Chiese cambiando repentinamente argomento, ed Ulfric si accigliò.
“Mi stavo annoiando, quando ho visto quegli incapaci ed ho pensato di occuparmene personalmente. Il sigillo di Markarth, hai detto?”
Galmar scrollò le enormi spalle, sollevando una mano per grattarsi la testa sotto il cranio dell’orso. Lo Jarl fece un cenno con il capo ad alcuni servitori che si erano scansati al suo passaggio e lanciò un’occhiata in tralice al suo secondo, in attesa di una risposta.
“Ebbene, se ti annoi, amico mio, hai la soluzione a portata di mano.” Esclamò in tono gioviale il guerriero, ignorando la sua domanda. “Se non sbaglio hai una moglie, e pure piuttosto graziosa.”
“Bah.”
“Cosa c’è, forse non ti piace?” Galmar rise, battendogli una mano sulla spalla. In tutta Windhelm, l’enorme guerriero era l’unico che potesse trattarlo con tanta confidenza; Ulfric lo conosceva sin dall’infanzia, e lo considerava alla stregua di un fratello.
“Lei è…” Lo Jarl aggrottò la fronte, cercando un termine che descrivesse la sua giovanissima moglie. “Irritante.” Disse infine, e davanti allo sguardo perplesso dell’amico aggiunse, “Mi ruba le coperte.”
La sua confessione strappò all’anziano guerriero una grassa risata, che rimbalzò sui muri di pietra grigia del cortile. Un piccolo gruppo di arcieri voltò il capo nella loro direzione, disturbati dal baccano, ma non appena riconobbero il loro sovrano tornarono a rivolgere la loro attenzione sui bersagli di paglia irti di frecce.
Ulfric storse la bocca in una smorfia contrariata. Non sapeva perché avesse detto una simile idiozia, e se ne era pentito nell’istante esatto in cui la frase gli era sfuggita dalle labbra.
In realtà, quella sua piccola moglie mezza Nord era irritante per una gran varietà motivi: per la sua fresca giovinezza prima di tutto, che la rendeva oggetto di sguardi più o meno lascivi, di cui lei si accorgeva a malapena o che addirittura incoraggiava involontariamente, girovagando per il palazzo con i suoi svolazzanti abiti di fattura bretone; per il modo insistente con cui cercava di fare conversazione, sempre e solo nei momenti in cui lui era maggiormente concentrato, distraendolo per delle sciocchezze; o ancora, per la sua aria di aristocratica superiorità che sfoggiava ogni volta che le si presentava una scena che, evidentemente, nella sua preziosissima corte di Daggerfall era giudicata inadatta ad una dama, come una cuoca che tirava il collo ad un pollo o un soldato che tirava una pacca sul fondoschiena di una serva.
La sua giovane moglie era una ragazzina viziata, cresciuta nella bambagia e svezzata a miele e burro di sola panna, ed Ulfric, che era un guerriero prima che un sovrano, trovava la cosa altamente irritante.
“Fossi in te, mi dimostrerei più grato per ciò che i Divini mi hanno dato.” Galmar, che aveva finalmente smesso di sghignazzare, lanciò al suo amico un’occhiata divertita.
“Se i Divini avessero voluto la mia gratitudine, mi avrebbero mandato una decina di buoni guerrieri, invece che una moglie.” Esclamò Ulfric, mentre raggiungevano la guardiola di pietra. Fu solo quando mise la mano sul maniglione di ferro che si rese conto che Galmar, con quelle futili chiacchiere, era riuscito abilmente a sviarlo dal pensiero del sigillo di Markarth.
Aprendo la porta si ritrovò all’interno della piccola costruzione di pietra, un’unica stanza circolare il cui solo arredo era costituito da rastrelliere per armi ed un piccolo tavolo squadrato posto al centro. Lì accanto, sorvegliato da due guardie che portavano lo stemma di Windhelm sugli scudi ed i mantelli, c’era un ometto smilzo e dal lungo naso arrossato dal gelo, che si tolse precipitosamente il berretto di feltro non appena vide lo Jarl fare il suo ingresso nella guardiola.
“Lord Ulfric, Signore.” Squittì ossequiosamente, mentre gli rivolgeva un secco inchino.
“Mi è stato detto che hai un messaggio per me.” Lo apostrofò Ulfric, senza troppe cerimonie. “Spero che sia importante, perché ho molto da fare e non mi piace perdere tempo.”
“Certo, Signore.” Borbottò l’ometto, mentre cominciava a frugare nella scarsella che portava appesa alla cintura. Dopo aver rovistato per qualche istante, ne estrasse un piccolo cilindretto di cuoio che serviva a proteggere la pergamena durante il trasporto, chiuso da un fermaglio d’argento che recava lo stemma di Markarth, un teschio d’ariete con le voluminose corna arricciolate. “Jarl Igmund vi manda i suoi ossequi e…”
“Sì, sì, va bene.” Lo zittì Ulfric, togliendogli dalle mani la custodia ed aprendo la piccola spilla che la serrava. Inclinandola fece scivolare fuori il rotolo di cartapecora, chiusa con ben tre sigilli di ceralacca. Vedendoli, sbuffò sonoramente e scrollò il capo.
“Igmund farebbe bene a sprecare la pergamena per scrivere alla sua amante, e non a me.” Sbottò, facendo saltare la cera con la punta di un pugnale e srotolando il messaggio. Sapeva già cosa vi avrebbe trovato scritto, e l’idea di perdere tempo per certe sciocchezze lo irritava.
Diciassette inverni prima, Igmund, signore della città di Markarth, si era trovato a dover fronteggiare una massiccia invasione da parte di una popolazione che dichiarava di essere la legittima proprietaria delle terre del Reach. Negli anni precedenti, la Grande Guerra tra Impero e Dominio Aldmeri aveva decimato i soldati a difesa della città, ed i Rinnegati, come si facevano chiamare, ne avevano approfittato mettendo a ferro e fuoco quella che consideravano la loro patria.
Quella stagione di terrore, razzie ed omicidi aveva quasi piegato la gente del Reach quando, in preda alla disperazione, Jarl Igmund non aveva inviato una richiesta di aiuto agli altri feudi. In cambio, offriva argento ed, ancora più preziosa, la libertà del culto di Talos, che era stato bandito durante i trattati di pace tra Imperiali ed Altmer.
Ai tempi Ulfric era ancora un giovanotto con poco più che ventenne, ma aveva già avuto modo di farsi un nome come guerriero combattendo nella Grande Guerra, che si era conclusa solo un anno prima, ed in numerosi scontri minori. La sua fama nascente ed il denaro di suo padre avevano richiamato al suo fianco un nutrito numero di uomini pronti ad imbracciare le armi. Così, il giovane Ulfric era partito da Windhelm in testa ad un esercito di quattrocento uomini, e si era unito alle truppe inviate da altri Jarl. La loro milizia aveva marciato su Markarth, e dopo un’aspra battaglia si era ripresa la città e le terre circostanti, scacciando i Rinnegati.
In quello scontro Ulfric aveva avuto modo di emergere, e nonostante la giovane età aveva strappato il comando delle truppe a guerrieri più anziani ed esperti, guadagnandosi la fama di condottiero. Tutto stava andando per il meglio, quando improvvisamente il governo Altmer non si era accorto che nella città di Markarth era stato ristabilito il culto di Talos, contravvenendo al trattato. Subito l’Impero era intervenuto, Ulfric era stato catturato con l’accusa di aver mosso guerra al Reach ed Igmund si era rimangiato le sue offerte.
Da anni ormai Ulfric riceveva lettere dal vecchio alleato che chiedeva oro ed argento per riparare i presunti danni della sua città, e da anni lui si rifiutava di versare anche una sola moneta di rame. Una volta, per puro sfizio, aveva sprecato un pezzo di pergamena per scrivere ad Igmund, invitandolo ad andarsi a prendere personalmente il denaro di cui aveva bisogno; quindi aveva rinforzato i ranghi delle truppe che pattugliavano i confini del suo feudo ma, come aveva immaginato, il Signore del Reach non aveva lasciato la sua fortezza.
“Cosa dice, stavolta?” Gli chiese Galmar, incombendo da sopra la sua spalla e bloccando la luce con la sua enorme mole.
“Igmund mi invita a risarcire i danni che le truppe di Windhelm hanno provocato alla sua città.” Rispose Ulfric in tono sprezzante. “E mi informa che, se non lo farò per tempo, ne parlerà con Jarl Istlod.”
“E questa sarebbe una minaccia?” Esclamò divertito ed incredulo il vecchio guerriero.
“Evidentemente.” Sibilò Ulfric a denti stretti, stringendo la pergamena nel pugno. Istlod era l’attuale Re dei Re di Skyrim, l’uomo incaricato di portare pace tra i bellicosi Jarl del nord e di amministrare i rapporti che incorrevano tra loro. In origine, quello era un titolo che spettava al più giusto e meritevole dei sovrani, ma da diverse generazioni pareva che la nomina fosse divenuta ereditaria. Grugnendo, Ulfric fece una smorfia e lanciò la pergamena appallottolata nel braciere. In mano a certi incapaci, Skyrim stava andando in rovina.
“Dì a quell’invertebrato di Igmund che pagherò ciò che non ho fatto quando l’Oblivion gelerà.” Esclamò, rivolto al messaggero. Al che si volse verso le due guardie, in attesa di ordini. “Levatemelo da davanti agli occhi ed assicuratevi che torni subito nel Reach.”
I due soldati fecero un lieve inchino, si disposero ai lati dell’ometto e lo sollevarono di peso per le ascelle, portandolo fuori dalla guardiola.
“Non potete farmi questo!” Strillò il messaggero, mulinando le sue gambette secche per aria mentre veniva trasportato via. “Io parlo per Jarl Igmund. Io…”
La porta si richiuse con un tonfo sordo, troncando le sue proteste e riducendole a flebili stridii, simili al grido dei gabbiani.
Con passo pesante Ulfric si avvicinò al braciere e, tenendo le mani allacciate dietro la schiena, osservò cupamente la pergamena bruciare sui carboni ardenti.
“Igmund sta diventando troppo insistente.” Cominciò Galmar, appoggiandosi con una spalla alla parete di pietra ed incrociando le braccia sul suo ampio petto.
Lo Jarl rispose con un grugnito, continuando a fissare le braci. Se nella questione si fosse intromesso il Re dei Re, sarebbe stato obbligato a versare una gran quantità di oro ed argento, e non poteva permettersi di sperperare le proprie ricchezze con simili idiozie, quando aveva al suo servizio tanti guerrieri; ognuno di quegli uomini si aspettava armi, cotte di maglia, e ricompense in denaro o gioielli, e se non ne avessero ricevute avrebbero lasciato Windhelm, alla ricerca di un Signore più generoso.
“Se vuoi, posso andare a dirgli due paroline di persona.” Sghignazzò il vecchio guerriero, grattandosi l’inguine. “Dammi solo un paio di uomini ben armati ed una mezza dozzina di fiasche d’idromele per il viaggio.”
Ulfric sollevò un sopracciglio, ma prima che potesse rispondergli si udì un tonfo contro la porta di legno, seguito da un borbottio seccato. Pochi istanti dopo il battente si aprì, facendo entrare una folata d’aria gelida ed un uomo anziano, che camminava all’indietro spingendo il portone di legno con la schiena. Era impegnato a reggere con entrambe le braccia un pesante vassoio d’argento carico di stoviglie, ed era probabilmente quel carico a renderlo di così cattivo umore.
Quando fu finalmente all’interno della guardiola richiuse il battente con un piede e si voltò verso i due uomini all’interno.
“Lady Lirael vi manda il pranzo, Signore.” Disse, storpiando le parole poiché da anni non gli erano rimasti che due soli denti. Appoggiò con cura il vassoio sul tozzo tavolo al centro della stanza e si raddrizzò, tenendo le mani sui lombi e gemendo per i dolori che lo tormentavano.
“Sei troppo vecchio per portare questi pesi, Sifnar.” Commentò Galmar avvicinandosi con aria interessata alle pietanze.
“Ho solo otto anni più di te, inutile gradasso.” Rispose il vecchio sputacchiando ed agitando un dito, ed il guerriero ridacchiò, alzando un coperchio sbirciando all’interno. Ormai si avvicinava alla cinquantina, ma il mestiere del soldato lo aveva mantenuto forte e prestante come un trentenne, mentre Sifnar, con la folta chioma bianca spettinata e la bocca sdentata, avrebbe potuto passare per suo padre.
“Il pranzo è per me, razza di ingordo.” Sbottò Ulfric, avvicinandosi e dandogli una manata sulla spalla per allontanarlo. Con la fronte aggrottata scoperchiò le zuppiere e sollevò i coperchi, giudicando il pasto che sua moglie gli aveva mandato.
Sul vassoio portato da Sifnar vi erano due pagnotte ancora tiepide, una brocca con del caldo vino speziato, una sostanziosa zuppa di cavolo, cipolle e carne di cinghiale, un fumante arrosto di cervo contornato da cipolle lessate e due grosse patate poste su un piatto, arrostite e ricoperte di burro. Vedendo quella gran quantità di cibo, non poté trattenere una smorfia soddisfatta. Quella ragazzina poteva anche essere irritante quanto una foglia d’ortica nei calzoni, ma di sicuro aveva un’ottima influenza sulle cucine: Ulfric non aveva mai mangiato così bene come da quando era entrata nella sua vita.
“Non ti darò uomini, né tantomeno idromele.” Sbottò, in risposta alla proposta di Galmar. “Mi servi qui, con il resto delle truppe. Mi sono giunte voci secondo cui il Dominio Aldmeri sta inviando a Skyrim delle spie Thalmor.” Nel pronunciare quell’ultima parola strinse gli occhi, disgustato. I Thalmor non erano altro che gli Altmer posti al vertice del Dominio Aldmeri.
Quegli Elfi spocchiosi pensavano di essere migliori delle altre razze, e come se non fosse stato abbastanza bandire il culto di Talos, ora mandavano persino i loro Giudici per scovare e giustiziare tutti gli adoratori di quel dio Nord. Ulfric non nutriva alcun dubbio che quegli inviati fossero spie, mandate dal loro governo per individuare una falla nel sistema che reggeva gli equilibri di Skyrim.
“I Thalmor non entreranno a Windhelm.” Lo rassicurò Galmar, estraendo il pugnale ed infilzando una delle patate ricoperte di burro. “Non finché ci sarai tu a reggere la città.”
“Non entreranno, su questo possiamo star sicuri… hai finito di mangiare a sbafo il mio pranzo?”
“No.” Bofonchiò il guerriero, con le guance gonfie di cibo, ed  Ulfric trasse un lento sospiro esasperato, versandosi del vino.
“Immagino dunque che sarò costretto a offrirti qualcosa.”
Galmar scoppiò a ridere, pulendosi con la manica un rivolo di burro che gli colava sulla barba.
“Così si parla, vecchio mio.” Esclamò calorosamente, dandogli una manata sulla spalla.
Ulfric grugnì e si spostò di lato per fargli posto, cominciando a riempirsi una ciotola di zuppa. Si era improvvisamente accorto di essere affamato, e l’aroma emanato dalle pietanze faceva venire l’acquolina in bocca.
Devo ricordarmi di ringraziarla, prima o poi.” Si disse, pensando alla giovane Lirael chiusa nel Palazzo dei Re. Di tanto in tanto gli veniva in mente di farlo, ma se ne scordava puntualmente ogni volta che si trovava in sua compagnia.
Magari posso farlo più tardi. O domani. Tanto la ragazza non scappa di certo.” Sospirò, scrutando nella ciotola un pezzo di carne sommerso dal brodo.
No, la ragazza non sarebbe certa scappata. Sarebbe rimasta lì, al suo fianco, per tutti i giorni a venire.
Fino a che gli Dei non gli avessero concesso di raggiungere Sovngarde.


 
******

 

Finalmente aveva smesso di nevicare.
Dopo essermi assicurata che Sifnar avesse portato il pranzo a mio marito, avevo lasciato a Jorleif il compito di amministrare la servitù al posto mio ed ero uscita dalle grigie mura del palazzo per far visita alla città.
Non era la prima volta che mi ritrovavo a camminare per quelle gelide vie, perché il mio sposo si era assicurato sin dal primo istante che io conoscessi Windhelm; il giorno successivo al mio arrivo si era ritagliato qualche ora dai suoi impegni e mi aveva accompagnata a vedere le vecchie case di pietra, i palazzi dei nobili thanes, le botteghe dei mercanti e la piccola piazza del mercato. Da allora, due volte a settimana mi porgeva il braccio e mi conduceva fino al tempio di Talos, a cui era molto devoto. Laggiù, attorniato da due dozzine di uomini di scorta, in ginocchio sulla dura pietra, si chinava e pregava silenziosamente il suo Dio nordico, mentre io sedevo su un piccolo sedile imbottito cercando di non morire per il freddo che regnava in quel tempio, ancora più terribile e pungente di quello esterno.
Eppure, nonostante quelle uscite, non avevo visto che una piccola parte della città. Quando avevo chiesto a mio marito spiegazioni in proposito, lui si era limitato a scrollare le spalle e a lanciarmi un’occhiata infastidita.
“Hai visto quanto dovevi. La zona ad est della città non è adatta a te, e non voglio che tu ci vada.” Aveva detto con un tono che non ammetteva repliche ed io mi ero zittita, ripromettendomi che, alla prima occasione, sarei andata a vedere con i miei stessi occhi quelle zone che mi erano precluse.
Così quel giorno mi ero liberata dai miei impegni, mi ero munita di mantello ed, in compagnia di Mirala, ero uscita dal palazzo.
Ed ora, mentre gironzolavo nella piazza del mercato, mi sentivo felice e fiera di aver avuto il coraggio di sfidare così apertamente il divieto di mio marito.
“Lirael, non allontanarti da me.”
Richiamata dalla voce della mia balia, mi voltai e la raggiunsi davanti alla fucina del fabbro, da cui si levavano scintille e fumi dall’odore tanto penetrante da far lacrimare gli occhi.
“Oh Mira, smettila di preoccuparti. Non corro alcun pericolo, e lo sai.” Sospirai scuotendo il capo, leggermente divertita dalla sua ansia. Poi volsi gli occhi tutt’intorno, osservando i banchi e le ceste traboccanti di merci. Il mercato di Windhelm era proprio come il resto della città: grigio, severo, austero e terribilmente freddo.
Stringendomi nel mio mantello di lana azzurra, mossi qualche passo verso il banco più vicino, facendo attenzione a dove mettevo i piedi; nonostante fosse già pomeriggio inoltrato, nelle zone in ombra resistevano le lastre di ghiaccio che si erano formate durante la notte, mentre in altri punti la neve sciolta e calpestata da centinaia di piedi aveva formato una fanghiglia disgustosa che imbrattava gli orli delle mie gonne.
Era tutto così diverso dal colorato, allegro e vario mercato di Daggerfall!
A Windhelm i banchi dei mercanti esponevano solo armi ed armature, ceste ricolme di cavoli, carote e cipolle, rotoli di cotone grezzo e lino spesso e ruvido, e tranci di carne sanguinolenti esposti con estrema naturalezza. Nessuno vendeva spezie di paesi lontani, tessuti eleganti, sete e velluti pregiati o ninnoli preziosi.
“Mira, vai a chiedere il prezzo delle trecce d’aglio. Ho il sospetto che la cuoca menta sui costi e si intaschi l’oro di mio marito.” Dissi alla mia balia, e lei, dopo avermi intimato di non allontanarmi troppo, andò a parlare con la donna dietro al banco.
Mentre Mirala era impegnata, mi soffermai ad osservare i tranci di carne al banco del macellaio, appesi con grossi ganci di ferro perché tutti potessero vederli. Era uno spettacolo abbastanza disgustoso, e mi chiesi come fosse possibile che qualcosa dall’aspetto così orribile avesse un sapore così buono dopo essere stato cotto.
“E’ una proboscide di mammut.” Disse una voce roca a poca distanza da me.
Sorpresa, sollevai gli occhi dallo strano trancio di carne ricoperto da una corta e fitta pelliccia bruna, e mi ritrovai ad osservare il viso cinereo di un Dunmer che mi osservava con ostile diffidenza.
“Prego?” Dissi, sbattendo gli occhi per lo stupore.
“Proboscide di mammut… Milady.” L’uomo fece una smorfia e tirò su con il naso, sputando poi un grumo di catarro e saliva sull’acciottolato.  “Un cibo che raramente vedrete sulle vostre tavole imbandite.” La sua voce era tagliente come una lama, ogni parola pari ad uno schiaffo; morivo dalla voglia di fuggire dall’ostilità di quell’individuo, ma poi mi feci coraggio, e stringendo i pugni tra le pieghe della veste rimasi al mio posto, a testa alta. Dopotutto, ero la Signora di Windhelm.
“No, infatti.” Replicai, sollevando il mento. “Ma ditemi... credevo che in città vivessero solo Nord. Abitate per caso fuori dalle mura?”
Il Dunmer mi rivolse uno sguardo carico d’astio da sotto il suo berretto di pelliccia, ed il suo viso già ostile assunse un’espressione di puro astio e disgusto.
“Noi viviamo nel Quartiere Grigio.” Mi sibilò con voce velenosa, poi sputò di nuovo in segno di disprezzo e mi voltò le spalle, andando a parlare con una donna che si era fermata al suo banco.
“Il Quartiere Grigio?” Gli feci eco, troppo confusa da quella reazione per rendermi conto di cosa mi fosse sfuggito dalle labbra. Stavo ancora boccheggiando incerta sul da farsi, quando sentii una voce gentile al mio fianco.
“Non è un bel posto, Milady.” Girandomi vidi un uomo sorridente, leggermente stempiato, che si stringeva nel mantello per ripararsi dal gelo. “Il Quartiere Grigio è una zona in via di degrado. Una bella dama come voi dovrebbe stare ben distante da simili luoghi.” Sorrisi, rinfrancata dalla sua cortesia. Avrei voluto chiedergli come si chiamasse, quando lui mi precedette con un inchino. “Il mio nome è Calixto, Milady. Calixto Corrium.”
 
 

******

 

Ulfric varcò le porte dell’ala nord del palazzo con aria decisa, incedendo maestosamente nei freddi corridoio di pietra che nemmeno i candelabri e le torce riuscivano a scaldare.
Aveva terminato di massacrare le giovani reclute del suo esercito, ed aveva deciso di inserire nella propria guardia personale tre giovanotti che parevano più promettenti di altri. Ciò significava vestirli ed armarli in maniera adeguata, e quindi spendere del denaro non previsto; la sua giovane moglie si sarebbe presto ritrovata davanti ai resoconti di quelle spese, ed Ulfric voleva avvisarla di persona, in modo da essere certo che il suo oro venisse usato nella maniera corretta.
Una volta davanti alla porta della stanza con i libri contabili spalancò il battente senza tante cerimonie, e subito si bloccò sulla soglia.
Jorleif, il suo soprintendente, era seduto dietro la scrivania, intento a far scricchiolare il calamo sulle pagine di pergamena di un grosso registro alla luce di due candele di sego.
“Dov’è mia moglie?” Domandò severamente prima che l’altro avesse il tempo di aprire bocca, ed a quelle parole lo vide sbiancare.
“Voi… voi non lo sapete, Signore?” Balbettò Jorleif, atterrito. “Io… Mio Jarl, credevo che voi lo sapeste…”
“Sapere cosa?” Sbottò, e subito ripeté la sua domanda, alzando la voce. “Dov’è mia moglie?”
Il soprintendente si alzò e si tolse il suo berretto rotondo, cominciando a tormentarlo tra le mani.
“Sire, Lady Lirael è uscita.”
“Uscita?” Ulfric sentì un brivido freddo corrergli lungo la schiena, ma presto alla preoccupazione subentrò la rabbia. “Da sola?” Chiese, ben sapendo che era così, perché aveva visto con i suoi occhi i Bretoni della scorta di sua moglie allenarsi nel cortile solo pochi minuti prima.
“Credo che abbia con sé la sua cameriera.” Mormorò Jorleif cercando con gli occhi un modo per fuggire nel caso in cui l’ira del suo sovrano si fosse scatenata.
Ma Ulfric aveva smesso di ascoltarlo. Voltandosi con un fruscio della cappa d’orso che portava sulle spalle, cominciò a precorrere il corridoio a gran passi, chiamando a gran voce il nome di uno dei suoi uomini.
“Yrsarald.” Tuonò, mentre i servitori si scansavano al suo passaggio. “Yrsarald, prendi i tuoi uomini e vai in città. Trova mia moglie.” Gli ordinò, quando il giovane soldato fece la sua comparsa.
“Trovala. E poi portala da me.”
 
 

******

 

Calixto si rivelò essere un uomo davvero gentile ed interessante.
Come appresi in quegli ultimi minuti, era uno dei pochi Imperiali che avevano scelto di vivere a Windhelm, e possedeva una piccola collezione di curiosità provenienti da tutta Skyrim.
“Sarei curiosa di vederla.” Gli dissi, quando la nominò. “Potrei convincere mio marito a passare da voi, la prossima volta che visiteremo la città.”
L’uomo mi rivolse un sorriso cordiale ed abbassò umilmente il capo. “Ne sarei onorato, Milady.”
Ci eravamo spostati dalla piazza del mercato in un punto più discosto, in modo da poter chiacchierare senza essere disturbati dalla calca. Era stato Calixto a condurmici, indicandomi di volta in volta le lastre di ghiaccio e le pozze di fango perché io non ci finissi sopra per sbaglio, ed ora ci trovavamo all’imbocco di una via traversa, uno stretto viottolo ricavato tra due muri di pietra, tanto alti che il sole vi penetrava appena e le pareti erano ancora ricoperte da un sottile strato ghiacciato.
“Lasciatemi dire, mia Signora, che sono onorato delle vostre attenzioni.” Mi disse Calixto, con un sorriso lezioso. “Lord Ulfric non si è mai intrattenuto a parlare con questo suo umile cittadino.”
“Mio marito è un uomo impegnato.” Dissi incerta, ricordando il poco tempo che dedicava persino a me.
“Oh, temo allora che non vi vedrò mai sull’uscio della mia casa, Milady.” L’Imperiale sospirò affranto ed abbassò il capo. “Mi sarebbe tanto piaciuto potervi ospitare… la mia adorata sposa sarebbe stata così felice, Signora, di sapere che una donna della vostra levatura era entrata nella sua piccola dimora… oh, mia povera cara.” Borbottò, con un tono così triste da far pietà.
“Vostra moglie è…”
“Morta, Milady. Ma se fosse ancora in vita avrebbe adorato la sua giovane Signora, così graziosa ed elegante… uhm… scusate la mia audacia.”
Calixto chinò il capo e rimase in silenzio, torcendosi le mani mentre io riflettevo su quanto avevo appena scoperto. In fondo, mio marito non avrebbe mai accettato di deviare dal suo solito percorso per andare da quel pover’uomo, e se una mia visita poteva renderlo felice ed alleviare il suo dolore per la moglie morta, perché non accontentarlo?
“Mio marito è un uomo impegnato.” Ripetei, rivolgendo un sorriso all’uomo davanti a me. “Ma io al momento non lo sono. Posso venire a visitare la vostra casa anche ora, se preferite.”
Gli occhi scuri di Calixto si illuminarono improvvisamente di una luce febbrile, e saettarono rapidi da un alto e dall’altro prima di puntarsi di nuovo su di me.
“Ne sarei così onorato, Milady. Da questa parte.”
Improvvisamente animato, l’Imperiale mi indicò lo stretto vicolo alle mie spalle, e non appena mi voltai mi dette una leggera spinta per invitarmi a proseguire. Non pensai un solo istante a quanto quel gesto fosse diverso dal comportamento umile e servile che aveva tenuto fino a poco prima.
Fiduciosa mossi i primi passi, salvo poi fermarmi all’improvviso.
“La mia cameriera…” Cominciai mentre mi giravo verso Calixto, ricordandomi di Mirala.
“Non è importante.” Mi disse l’uomo con una smorfia, mentre le sue braccia si muovevano sotto il mantello. Stavo per ribadire che non potevo muovermi senza la mia balia, quando sentii qualcuno fare il mio nome e mi voltai.
In fondo al vicolo erano comparsi quattro soldati, in testa ai quali marciava Yrsarald, vestito con la divisa di cuoio e pelliccia dei capitani.
“Lady Lirael.” Mi chiamò il giovane uomo, rivolgendomi un brusco cenno del capo. “Dovete venire con noi, per ordine dello Jarl.”
Prima che potessi anche solo aprir bocca, Yrsarald mi afferrò per le spalle e mi spinse nel quadrato formato dai suoi uomini. In un istante mi ritrovai stretta in una morsa fatta di cotte di maglia e cuoio, immersa nell’odore penetrante di sudore, acciaio e pelle mal conciata. Non appena il loro capitano dette l’ordine i quattro soldati cominciarono ad avanzare, sospingendomi lungo lo stretto cunicolo nella stessa direzione indicatami da Calixto.
Passammo attraverso un gelido cimitero, con le lapidi di pietra ricoperte da merletti di ghiaccio e brina, per poi sbucare dietro la locanda, dove ci ricongiungemmo con un altro piccolo gruppo di soldati che attorniava Mirala. Rimasi impressionata dalla mia balia; alta e diritta, con l’aria fiera ed altera della sua razza, sembrava una regina attorniata dai suoi sudditi. Non appena mi vide sorpassò gli uomini e mi si mise accanto, scrutandomi con aria apprensiva mentre marciavamo verso il palazzo.
“Ti avevo detto di non allontanarti da me.” Mi sgridò a bassa voce, scrutandomi con quei suoi occhiacci neri che sapevano sempre come farmi sentire in colpa.
“Mi spiace.” Le sussurrai contrita, e senza aggiungere altro mi incamminai verso il Palazzo dei Re, seguendo i guerrieri che mio marito aveva mandato a prendermi.
 
 
Folate d’aria gelida entravano dalle finestre, facendo vibrare le fiamme delle candele e smorzando il fuoco che bruciava nel camino di pietra, eppure nessuno si preoccupava di chiuderle con schermi di carta cerata o teli imbevuti d’olio.
Stretta nel mio mantello tremavo, e non solo per il freddo. Non appena avevo messo piede in quella stanza, mio marito si era alzato di scatto dal sedile di legno accanto al fuoco ed aveva mosso qualche passo in avanti, fissandomi con occhi cupi e severi. Yrsarald gli era andato subito incontro, come per bloccarlo, ed insieme avevano parlottato per qualche istante, senza che mai lo sguardo del mio sposo mi abbandonasse.
Il mio sposo dovette congedare più volte il giovane capitano che, così come i sui uomini, sembrava restio ad andarsene lasciandomi sola con lui. Ma alla fine Yrsarald dovette cedere; lo vidi chinare il capo con un gesto secco e battersi il pugno sul petto, per poi voltarsi e passarmi accanto senza degnarmi di uno sguardo, come se fossi invisibile. In meno di un istante il capitano ed i suoi soldati erano svaniti oltre la porta insieme a Mirala, ed io ero rimasta lì, senza altra compagnia se non quella di mio marito.
Per un attimo nella stanza calò un silenzio assordante, simile alla calma prima della tempesta, ed io strinsi i pugni e sollevai il mento, cercando di apparire meno nervosa di quanto non fossi.
“Come ti è venuto in mente di andartene a zonzo per la città?” Mi domandò mio marito all’improvviso, in tono rabbioso.
“Io…”
“Tu non hai idea di cosa hai fatto.” Tuonò lui. “Come hai potuto pensare di poter andare in giro senza una scorta adeguata?”
“Questa è la mia città e…”
“Questa è la mia città. Tu non conosci i pericoli che corri, e d’ora in avanti non metterai il naso fuori da queste mura a meno che…”
“Tu non hai il diritto di darmi ordini!”
Quella mia uscita stupì mio marito tanto da zittirlo per un istante. Quanto a me, rimasi così spiazzata dalla mia stessa audacia da restare senza parole; non mi accorsi nemmeno di esser passata dal cerimonioso ‘voi’, che avevo usato fino ad allora, al più familiare ‘tu’.
“Cosa…” Cominciò lui, aggrottando la fronte, ma io lo interruppi di nuovo, spinta dal desiderio di sperimentare di nuovo quella forza in grado di ammutolirlo.
“Se io desidero andare in città, lo farò, con o senza scorta.” Dissi, cercando di sembrare abbastanza convinta.
“Vuoi farti sbudellare, forse?” Ribatté mio marito con rabbia, ed in risposta al mio sguardo allarmato continuò. “C’è un assassino che uccide le giovani donne sole. Vuoi essere la sua prossima vittima?”
“Questa è la cosa più sciocca che abbia mai sentito.” Esclamai, certa che lo stesse dicendo solo per spaventarmi.
Quel commento parve essere davvero troppo per la sua limitata pazienza, e per tutta risposta fece un brusco cenno con la mano, indicandomi la porta.
“Vattene.” Mi intimò con un ringhio. “Levati di torno.”
Ma io rimasi ferma dov’ero, senza muovere un solo muscolo. Mi sentivo euforica per essere riuscita a rispondergli, almeno per una volta, senza abbassare lo sguardo, ma ero ancora troppo intimorita per voltargli le spalle come se nulla fosse. Se me lo avesse ordinato di nuovo, di certo mi sarei allontanata di corsa per poi gettarmi tra le rassicuranti braccia di Mirala, ma mio marito sembrava non essere intenzionato a restare un solo istante di più in mia compagnia; con l’aria di chi avrebbe volentieri preso a pugni il primo che gli capitava a tiro, mi sorpassò a gran passi ed uscì dalla stanza, sbattendosi la porta alle spalle con tanta forza da farla vibrare sui cardini.
Fu solo allora che ripresi a tremare, con tanta violenza che mi dovetti inginocchiare sul pavimento di pietra gelida per non cadere. Non mi ero resa conto di aver smesso.
Abbracciandomi sotto il mantello cercai di far cessare i tremiti, ed all’improvviso scoppiai in una risatina nervosa, ma dal chiaro tono esultante.
Per la prima volta ero riuscita a tener testa a quel bruto di mio marito.
Ed in quel momento, mi ripromisi che non sarebbe stata l’ultima.
 
 
 
 

 

 
Molti tra quelli che hanno giocato a Skyrim, ed in particolare la quest “Sangue con Ghiaccio”, si ricorderanno di certo di Calixto, anche se io l’ho reso più lezioso e strampalato che nel gioco (così come Sifnar il servitore, che è diventato un vecchietto nervoso e petulante). La storia di mezzo, che parla del cosiddetto "Incidente di Markarth", può risultare un pò noiosa e pesante, ma spero di essere stata abbastanza esaustiva nello spiegare la situazione.
 

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Capitolo 5
*** Talos' shrine ***


La luce che entra dalle ampie finestre ad arco si posa morbidamente sul pavimento della stanza, sui mobili in legno di rosa e sulle suppellettili argentate, disegnando elaborati ricami d’ombre laddove passa attraverso le trine delle tende.
Nella languida penombra una bambina solleva le mani minute e, con estrema cura, sfila le forcine dall’elaborata acconciatura. In piedi davanti ad un’alta specchiera dalla cornice dorata, appoggia i pettini d’argento ed i fermagli di perle sul ripiano della cassettiera alla sua destra, usando un’estrema cura.
Le sue dita agili sciolgono le volute e le trecce create dalla sua balia, liberando una folta capigliatura dai caldi riflessi dorati che le ricade morbidamente fino alla piccola vita, che ancora non ha cominciato ad assottigliarsi.

Soddisfatta ed orgogliosa, scruta la propria immagine nello specchio d’argento lucidato, mettendosi di profilo. Il suo petto continua ad essere piatto e senza alcun accenno di rigonfiamento, ma nel giro di uno o due anni comincerà a crescere, trasformandola in una giovane donna. Quando arriverà quel momento potrà finalmente partecipare alle feste danzanti, ed allora volteggerà nei suoi begli abiti eleganti e si lascerà corteggiare dai giovanotti, ma senza prestare attenzione ad alcuno di loro perché sa che nelle sue condizioni sarebbe sconveniente.
Persa nelle proprie fantasticherie ondeggia lentamente, canticchiando a bocca chiusa un motivetto lento e sognante, immaginando di muoversi nelle grandi sale del palazzo di Daggerfall illuminate a festa da centinaia di candele.
“Lirael?”
La bambina si zittisce all’improvviso, afferrando convulsamente i fermagli e le forcine ed appiattendosi contro il mobile. Trattiene il respiro, sperando di passare inosservata, ma non ha fatto i conti con la cassettiera, che scricchiola non appena lei vi si appoggia. Quasi all’istante, in  un confuso fruscio di gonne un’Altmer dal profilo affilato fa capolino dalla porta, e scrutando nella stanza scorge la piccola intrusa.
“Lirael, cosa ci fai… Oh, per Azura!” Sbotta la donna, non appena scorge i lunghi capelli sciolti della ragazzina.
“Mi spiace, Mira.” Esclama la bimba, ma l’Elfa si rimbocca le maniche con un sospiro esasperato e prende uno sgabello, battendo una mano sulla seduta di raso imbottito.
“Siediti. Quante volte ti ho detto di non scioglierti i capelli?” La rimprovera, mentre la piccola si arrampica sullo sgabello e prende posto. Da una tasca del largo grembiule la donna estrae una spazzola con il manico di madreperla, atteggiando le labbra sottili in una smorfia contrariata. “Le donne sposate portano i capelli raccolti.” Recita, ricordando una delle tante regole che scandiscono la vita della sua minuta protetta.
“Ma io non sono una donna. Sono una bambina!”
“Una bambina disobbediente.” La rimbecca la balia, cominciando a pettinarle la lunga chioma.
La piccola Lirael rimane in silenzio per un attimo, torcendosi le mani in grembo ed accompagnando i colpi di spazzola di Mirala con dei piccoli movimenti del capo.
“Mio zio dice che a Skyrim le donne sposate non sono obbligate a raccogliersi i capelli.” Dichiara, un po’ incerta.
“Quando sarai a Skyrim, seguirai le regole delle corti di Skyrim.” La rimbecca prontamente. “Ma finché resterai a Daggerfall, seguirai le regole di Daggerfall.”
La bimba borbotta qualcosa, contrita, e subito la sua balia la richiama all’ordine.
“Non fare il broncio, Lirael." Sospirando esasperata ripone la spazzola, e con le dita comincia a ravviarle all’indietro le ciocche sulla fronte e sulle tempie. “Devi imparare a comportarti come una signora, tesoro mio.”
“Sì, Mira.” Mormora Lirael, e Mirala si china rapidamente a baciarle la sommità della testa.
“Ecco, questa è la mia bambina.” Dice dolcemente in tono soddisfatto, e Lirael sospira, rassegnata.
Nella sua vita non sono ancora trascorsi undici inverni, eppure il suo destino pare già scritto.
 
 
Con le dita intirizzite sfiorai la superficie ruvida della pergamena, storcendo la bocca. Qualcosa non quadrava.
Appollaiata sul bordo di un sedile di legno, accanto al camino in cui brillavano flebilissime fiamme sul punto di spegnersi, tenevo un vecchio registro polveroso sulle ginocchia osservando nomi e cifre stilati dalla scrittura precisa e regolare di Jorleif.
Mi trovavo, come capitava ormai spesso, nello studiolo del soprintendente. Passavo tanto tempo in  quella stanzetta grigia, spoglia e costantemente fredda, che era divenuta per me un luogo familiare.
All’esterno stava nevicando, ancora e per l’ennesima volta da quando ero arrivata a Windhelm. Pareva che in quella città non esistessero altri colori che il grigio della pietra, il bianco della neve ed il pallore del ghiaccio.
Con un sospiro sollevai gli occhi dal registro e li posai sulle sottili feritoie da cui entravano folate d’aria gelida. Negli angoli, su alti candelabri di ferro, vi erano alcune candele di sego, ma non erano in numero sufficiente a scaldare l’ambiente ed il vento le aveva ormai spente quasi tutte, facendole smoccolare per terra.
Ogni giorno che passava, sentivo sempre più forte la nostalgia per le terre di High Rock. Mi mancavano le sue alte coste rocciose, le distese di prati verdi costellati da mulini, i giardini fioriti della corte in cui ero cresciuta e la sua gente raffinata ed elegante, così diversa dai Nord dai modi bruschi e rozzi che abitavano Windhelm ed il Palazzo dei Re.
Un leggero bussare alla porta mi distrasse dai miei pensieri, riscuotendomi dal torpore dei ricordi.
“Avanti.” Feci, con voce forse un po’ troppo squillante, ed un ragazzo che doveva avere circa uno o due anni meno di me entrò nella stanza, portando tra le braccia un carico di ciocchi di legna.
Mi rivolse solo un lieve inchino con il capo, prima di voltarsi verso il camino e cominciare a riattizzare il fuoco ed alimentarlo con il suo carico. Aveva, come la maggior parte dei Nord, lunghi capelli biondi e dritti, che gli scendevano sulle spalle in ciocce sporche ed arruffate. Era alto e magro, eppure pareva eccezionalmente forte. Mentre lo osservavo armeggiare con l’attizzatoio muscoli e tendini danzavano sotto la pelle delle sue braccia, come se fosse abituato a svolgere lavori di fatica, e le sue larghe mani arrossate dal freddo erano già nodose come quelle di un uomo. Doveva essere probabilmente uno dei giovani taglialegna impiegati da mio marito nei boschi che circondavano Windhelm; avevo trovato i loro nomi nei registri di Jorleif, affiancati ordinatamente alle cifre promesse ad ognuno per il lavoro che svolgevano.
Attesi che il giovane terminasse di ravvivare il fuoco ed uscisse, quindi tornai a rivolgere la mia attenzione alle parole vergate con precisione sulle pagine del libro contabile che tenevo sulle ginocchia.
Da quando avevo assunto il ruolo che il mio rango comportava, soprintendendo all’economia del castello, avevo sempre cercato di essere attenta e corretta, ma quella mattina mi ero imbattuta in un’autentica stranezza.
Tra i molti alloggi che il palazzo metteva a disposizione dei suoi servitori, ve n’era uno occupato da un carrettiere che non lavorava, né aveva mai lavorato, al servizio di mio marito. Normalmente quest’uomo avrebbe dovuto pagare una piccola somma per riscattare le stanze in cui viveva, eppure in quel caso non solo non veniva chiesto un solo Septim, ma spesso gli erano stati fatti dei doni quali vino, vivande, abiti e legna, benché il suo stipendio da carrettiere gli permettesse di comprare tutto ciò di cui aveva bisogno.
Ancora più curioso, il suo nome non era affiancato da alcun patronimico o appellativo familiare.
Avrei tanto voluto chiedere spiegazioni a Jorleif, ma il soprintendente era partito il giorno prima per Castel Amol, la vecchia dimora dei miei avi ormai divenuta una fortezza presidiata dai soldati dell’Eastmarch.
Con un sospiro osservai ancora una volta il nome sulla pergamena, in modo da imprimermelo bene a mente, e mi alzai dalla sedia, abbandonando il piacevole tepore delle fiamme che ora ardevano nel camino.
Lasciai il volume sul ripiano della scrivania, accanto agli abachi, ed uscii dallo studiolo chiudendo la porta dietro di me. Non appena mi vide, Mirala scattò in piedi; si era seduta su un minuscolo sgabello a tre gambe, un semplice panchetto da mungitrice, appena fuori dall’uscio, in modo da non disturbarmi con la sua presenza ed essere nello stesso momento a portata di voce nel caso avessi avuto bisogno di lei.
“Ti serve qualcosa, cara?” Mi chiese infatti la mia balia, stringendo delicatamente in mano il ricamo di pizzo che stava confezionando, e che sarebbe andato ad ornare uno dei miei mantelli.
“No, Mira. Ho solo bisogno di andare a parlare con mio marito.”
A quelle parole Mirala aggrottò la fronte, confusa. Sapeva che il mio sposo sopportava a malapena la mia presenza, ed erano passati solo pochi giorni da quando si era infuriato con me per essere uscita senza scorta. Ma la mia curiosità era grande, ed il desiderio di scoprire qualcosa in più su quel misterioso carrettiere era superiore alla mia prudenza.
Così, seguita prontamente dalla mia balia, attraversai corridoi e scesi scalinate di pietra resa liscia da centinaia di piedi, fino a che non mi ritrovai nella sala del trono.
Mi aspettavo di trovare lì mio marito, intento come suo solito a disquisire su temi bellici con i suoi sottoposti. Invece, ad esclusione di un’anziana servitrice che spazzava in terra, non vidi nessuno.
Il lungo tavolo davanti al trono era come sempre perfettamente apparecchiato con suppellettili d’argento, e la luce delle torce e dei lumi di corno si riflettevano sulle loro superfici lucidate a specchio. In un angolo, la donna continuava a manovrare la ramazza; ad ogni suo movimento sollevava una piccola nuvola di polvere, producendo un rumore raschiante ogni qualvolta che le setole di saggina strusciavano sulla pietra.
Mi fermai in mezzo alla sala, sorpresa di trovarla così vuota, e dopo un primo istante di stupore mossi qualche passo fino allo scranno di mio marito, posto a capotavola. Passai le dita sugli intagli dell’alto schienale, domandandomi dove mai potesse essere, ed in quell’istante percepii un lieve brusio che pareva provenire da una delle stanze adiacenti alla sala del trono.
Ancora un po’ incerta cominciai a muovermi in quella direzione, e dopo pochi passi riconobbi il timbro di voce del mio sposo, anche se ancora non riuscivo a distinguere cosa stesse dicendo.
Dopo essermi lanciata uno sguardo alle spalle per accertarmi che Mirala fosse ancora nei paraggi e che restasse dov’era, mi affrettai a raggiungere la stanza da cui provenivano le voci, conosciuta in tutto il palazzo con il nome di sala tattica nonostante non fosse altro che una ampia anticamera davanti alle scale che conducevano agli appartamenti reali.
Attraversai così l’ultimo tratto del salone principale e passai sotto il lungo passaggio ad arco che si apriva nella parete di pietra, giungendo infine nella sala tattica. Avevo mosso solo qualche passo in quella stanza apparentemente vuota, osservando perplessa il tavolo di solido legno su cui erano stati appoggiati lance, spade, scudi e guanti di maglia, come se fosse il ripiano di un’armeria, quando un ringhio minaccioso mi gelò sul posto.
Da dietro il tavolaccio di legno emerse all’improvviso un gigantesco segugio, dal pelo nero ed ispido e le zanne snudate. Notai la catena che gli cingeva mollemente il collo, quasi invisibile sotto il pelame, ma non ebbi il tempo di chiedermi perché quell’animale che avrebbe dovuto essere relegato in cortile fosse all’interno del palazzo, perché in quel momento cominciò a muoversi lentamente verso di me, tenendosi basso come se intendesse attaccarmi.
“Talos!” Vociò qualcuno nella stanza ed il cane reagì all’istante, abbassando le labbra sulle zanne e riducendo il ringhio ad un brontolio di avvertimento.
“Hai bisogno di qualcosa?” Mi apostrofò la stessa voce, ed allora lanciai una rapida occhiata sopra la mia spalla sinistra, capendo il motivo per cui, entrando, non avevo visto nessuno.
Mio marito sedeva accanto ad un piccolo tavolo rotondo dal ripiano grezzo e rovinato, posto in un angolo. Galmar aveva preso posto su uno sgabello di fronte a lui, ed entrambi brandivano un boccale di peltro.
“Allora?” Mi incalzò il mio sposo. Poi, vedendo che non accennavo a muovermi, ancora troppo spaventata dall’animale che seguitava a brontolarmi contro, schioccò la lingua per richiamarlo. Il segugio mi lanciò un’ultima occhiataccia e trotterellò guardingo verso il suo padrone, accucciandosi accanto alla sua sedia  con aria protettiva.
Titubante mi avvicinai di qualche passo ai due uomini seduti al tavolo, ma mi fermai prontamente non appena sentii Talos emettere un soffocato latrato di avvertimento.
“Devo parlarti riguardo ai registri contabili, Marito.” Dissi incerta, giungendo le mani in grembo e cercando di ignorare l’animale che continuava a guardarmi come se non desiderasse altro che saltarmi alla gola. Dopo la sfuriata di qualche giorno prima, quando mi ero allontanata da palazzo senza scorta, avevo deciso che mi sarei sforzata di rivolgermi al mio sposo in seconda persona, ma ancora mi suonava strano dargli del tu.
Alle mie parole lui mi lanciò un’occhiata infastidita e prese un sorso dal suo boccale, asciugandosi poi barba e baffi sul dorso della mano.
“Va bene, ma fai in fretta. Ho parecchio da fare.” Sbottò, appoggiandosi con un gomito sul tavolo e puntandomi in viso due occhi duri e severi.
“Io…” Cominciai titubante, ma poi decisi di farmi coraggio e ripresi, con più sicurezza. “Stavo controllando i registri, quando mi sono imbattuta in una stranezza. Dal momento che non posso rivolgermi a Jorleif, credevo che tu potessi chiarire i miei dubbi.” Spiegai, cominciando a torcermi le mani. Il modo in cui mi guardava ogni volta che gli rivolgevo la parola mi rendeva nervosa; era come se non aspettasse altro che un mio errore per aggredirmi verbalmente.
“Vai avanti. Non ho tutta la giornata.” Mi disse spazientito, stringendo gli occhi fino a ridurli a due fessure del colore dei ghiacci perenni. Irrequieta mi morsi l’interno della guancia e continuai, cercando di apparire più sicura di quanto non fossi e di non incrociare lo sguardo malevolo del segugio.
“Secondo quanto è stato registrato vi è un uomo, un certo Halfdan, che occupa gli alloggi dei servitori, ma non lavora al nostro servizio.” Gli riferii in fretta. “E spesso si appropria, o gli viene data, parte dei viveri e del legname che servono al castell… oh!”
Alle mie parole mio marito scattò improvvisamente in piedi, fissandomi con uno sguardo così bruciante da farmi arretrare involontariamente di un passo.
“Ulfric.” Lo richiamò Galmar in tono di avvertimento, alzandosi a sua volta con fare circospetto mentre Talos, riprendeva a ringhiare minaccioso.
“Questi non sono affari che ti riguardano.” Tuonò il mio sposo, stringendo i pugni. “So chi vive nel mio castello, e non ho alcun bisogno che tu me lo ricordi.”
La sua reazione così improvvisa ed aggressiva mi ammutolì per un istante, dandogli il tempo di continuare.
“Lascia che sia Jorleif ad occuparsi di queste cose.” Mi disse perentorio.
“Jorleif non è a palazzo…” Cominciai, ma mio marito mi interruppe con uno sbuffo rabbioso, abbassando una mano per affondarla nel vello ispido di Talos per calmarlo.
“Credi che non lo sappia?” Chiese, spazientito. “Sono stato io a mandarlo a Forte Amol. Pensi davvero che possa dimenticarmelo?”
“No, ma…”
“Allora evita di irritarmi parlando a vanvera.”
Con quelle ultime parole tornò a sedersi, tirandosi Talos tra le ginocchia per tenerlo fermo e facendo un brusco cenno a Galmar perché si sedesse a sua volta.
Per anni Mirala mi aveva educata perché sapessi sempre reagire come una vera signora, ma in quel momento mi parve di aver dimenticato ogni suo insegnamento.
Non sapevo come comportarmi, perché nessuno mi aveva mai parlato con durezza ed io ancora non mi ero abituata ai modi di mio marito. Eppure, anche in quell’attimo di confusione, non riuscivo a sopportare che lui potesse avere l’ultima parola, così strinsi i pugni tra le pieghe della veste e levai il mento.
“Io non parlo a vanvera.” Ribattei petulante. “Ero qui solo per avvisarti, ma chiaramente non ti importa che qualcuno possa approfittare delle tue proprietà ed appropriarsi dei tuoi averi.”
L’occhiata che il mio sposo mi rivolse sarebbe bastata da sola a fermare un’armata. Il segugio si agitò sotto la sua presa lasciandosi sfuggire un basso ringhio, e lui serrò le dita sulla catena che cingeva il collo della bestia.
“Se  tenere i conti ti agita tanto,” Mi disse con voce ringhiante. “Allora non dovresti occupartene. Ora va’ nelle cucine e fammi portare un’altra brocca di birra.”
“Non sono una serva.” Sbottai prima di rendermene conto. A quella risposta vidi gli occhi di mio marito ridursi a sottili fessure e compresi di aver parlato troppo, a dispetto di tutti gli insegnamenti della mia balia.
Fu Galmar ad impedire che scoppiasse. Si alzò in piedi con un sospiro più rumoroso di quanto non fosse necessario e batté le mani tra loro, strofinandole con un sorriso soddisfatto come se non fosse accaduto nulla di rilevante.
“Sono lieto che ci abbiate fatto visita, Milady, ma non voglio trattenervi.” Disse il vecchio guerriero con un sorriso bonario, raggiungendomi e prendendomi gentilmente per una spalla. “Vi lascio tornare alle vostre occupazioni.”
Con quelle parole mi pilotò con delicata fermezza verso l’uscio, e quando mi lasciò andare rimase a bloccare il vano della porta con la sua mole, accertandosi che io mi allontanassi.
Mirala, che era rimasta obbedientemente ad attendermi, mi venne subito incontro con gli occhi che lanciavano fiamme. Non doveva esserle piaciuto restare nella sala del trono mentre io parlavo con mio marito, ma non avrebbe mai infranto un mio ordine davanti ad un altro servitore, per non correre il rischio che la mia già debole autorità venisse messa in dubbio.
“Cosa è successo?” Mi chiese a bassa voce, in tono pressante. Probabilmente aveva sentito il grosso segugio ringhiare, o forse la voce tonante del mio sposo.
Cercai di rassicurarla con un sorriso tirato e cominciai ad incamminarmi automaticamente verso le cucine. Avevo ormai oltrepassato il maestoso trono di pietra che torreggiava nella sala quando mi bloccai improvvisamente.
Ero tanto abituata a fare ciò che mi veniva detto da agire senza pensare, ma fortunatamente me ne resi conto in tempo. Avevo detto a mio marito che non ero una serva, dunque non mi sarei comportata come tale.
Mi volsi allora verso la donna che avevo visto spazzare il pavimento al mio arrivo. La individuai nello stesso posto in cui l’avevo intravista la prima volta, intenta a muovere la scopa facendole sfiorare appena terra, in modo da non creare rumore e da poter ascoltare meglio le nostre parole.
La richiamai con il tono più imperioso di cui ero capace, cercando di imitare quello di mio marito, e quella si avvicinò perplessa.
“Signora?” Mi disse, fermandosi a debita distanza e scrutandomi con finta soggezione. In quel castello pareva che nessuno mi prendesse sul serio, nemmeno quando facevo la voce grossa.
“Mio marito ha bisogno di mandare un ordine alle cucine. Vai da lui e fai ciò che ti chiede.”
La donna mi guardò come se le avessi chiesto di pulire le stalle a mani nude, un misto di sconcerto e ribrezzo insieme.
“Io sono una domestica, Signora, non una cameriera.” Mi fece notare in tono pungente, sollevando leggermente la scopa per sottolineare il concetto.
Sapevo che la servitù aveva una sua sorta di scala gerarchica, in cui ognuno aveva un compito ben preciso, ma in quel momento ero tropo irritata per badarvi. Non avrei mandato Mirala nelle cucine né vi sarei andata di persona, ma mi sarei comunque comportata da signora e gli avrei inviato un servitore a cui avrebbe potuto ordinare ciò che preferiva.
“Non ti sto chiedendo di fargli da cameriera. Vai da mio marito, ascolta ciò che chiede e poi riferiscilo alle cuoche. Al resto penseranno loro.” Dissi, infastidita dalle sue rimostranze.
Vidi la donna aprire la bocca per lamentarsi nuovamente, ma quando sollevò gli occhi sulla mia balia la serrò nuovamente e borbottò un assenso, affrettandosi poi verso la sala tattica.
“Devi imparare ad importi, Lirael, o non ti ascolteranno mai.” Mi disse Mirala mentre la domestica si allontanava, volgendo il suo bel profilo affilato verso di me.
“Non voglio che mi odino.”
“Vuoi forse che ti calpestino?” Mi domandò lei con un sopracciglio levato, posandomi una mano sulla guancia. “Sei la loro signora e come tale ti dovrai comportare, mia cara. Rammenti quello che ti ho insegnato, vero?”
“Sì, Mira.” Sospirai, e la mia balia si chinò a posarmi un bacio sulla fronte.
“Ecco, questa è la mia bambina.” Mi disse dolcemente in tono soddisfatto, ed io mi lascia sfuggire un altro sospiro.
Nella mia vita erano ormai trascorse diciotto estati, eppure il mio destino scritto da altri pareva non essere mutato.

 

******
 

 
Le notizie che giungevano da sud erano sempre peggiori.
Con un grugnito infastidito Ulfric fissò per l’ultima volta il dispaccio portato da un messaggero, la pergamena resa ondulata dall’umidità e spiegazzata per essere stata tanto a lungo sotto una giubba.
Secondo quanto riportato diversi Thalmor avevano varcato il passo dei monti Jerall, la catena montuosa che divideva Skyrim da Cyrodiil, durante l’ultima luna del mese di Stella della Sera.
Avevano alloggiato brevemente a Falkreath, la città più vicina al confine, e Jarl Dengeir si era affrettato ad inviare missive ai sovrani di tutti quei feudi che, come lui, non avevano mai approvato gli accordi di pace tra quegli insulsi Altmer e l’Impero.
Secondo quella lettera rovinata, il gruppo di Thalmor si era poi diretto a Whiterun, uno dei maggiori snodi commerciali della regione; laggiù due di loro avevano preso la strada che portava a Solitude, mentre gli altri avevano ripreso il cammino per raggiungere la sede della loro ambasciata, situata più a nord.
Se i due elfi che si erano staccati dal gruppo erano davvero diretti nella capitale di Skyrim, allora la situazione era peggiore di quanto Ulfric avesse immaginato. Il Re dei Re Istlod avrebbe concesso loro udienza, poiché non c’era altra ragione per cui avessero dovuto raggiungere Solitude, e quei viscidi Orecchie a Punta lo avrebbero convinto della necessità di insediare dei giudici Thalmor in ogni corte della regione.
Nessun adoratore di Talos, nessun vero Nord, sarebbe più stato al sicuro dopo quel passo. Ulfric aveva sempre pensato che concedere loro un’ambasciata a Skyrim fosse un azzardo, pari all’aprire le porte al nemico, ed ora pareva che presto ci sarebbero dovuti pure finire a letto, per usare la stessa metafora.
Accigliato, lo Jarl ripiegò la lettera fino a ridurla ad un piccolo riquadro, che posò sul ripiano della tavola imbandita. Quel giorno era seduto su una delle panche intento a godersi un buon boccale colmo di vino quando il messaggero era arrivato, ed ora che aveva letto le notizie che portava non aveva più alcuna voglia di tornare a bere.
Non aveva mai amato i Thalmor. Loro erano stati la causa di alcuni dei momenti più cupi della sua esistenza, della guerra che aveva decimato la sua gente, persino della messa al bando del suo dio.
Se fosse dipeso da lui nessuno di quegli elfi, men che meno le loro spie travestite da funzionari, avrebbero passato il confine. Avrebbe fatto pattugliare i passi montani, e rimandato indietro le navi che battevano le bandiere del Dominio Aldmeri.
Ma per quanto durante gli anni avesse esposto le proprie idee  nei consigli e nelle riunioni con gli altri Jarl, alla fine era sempre stato Istlod, il Re dei Re, ad avere l’ultima parola.
Ulfric sollevò una mano, grattandosi pensosamente il mento barbuto. Vi erano ben quattro sovrani che condividevano la sua antipatia per gli elfi; se fossero riusciti a fare fronte comune, rifiutandosi di accogliere i Giudici – le spie – Thalmor nelle loro corti, avrebbero potuto mandare un messaggio forte all’Impero ed a tutti i cittadini di Skyrim.
Era possibile sovvertire gli scomodi accordi siglati dietro la promessa di denaro, mettere fine a quella silenziosa invasione di Altmer nella loro bella terra.
Se fossero riusciti a far sollevare buona parte della popolazione, Istlod non avrebbe potuto ignorare la loro voce, a meno che non decidesse di soffocarla nel sangue. Ma tutti sapeva che il vecchio Jarl di Solitude, pur essendo stato un discreto combattente da giovane, non aveva alcuna intenzione di impugnare le armi, per cui quella possibilità era tanto lontana quanto lo erano le lune da Tamriel.
Annuendo soddisfatto tra sé e sé, Ulfric tornò a riprendere il calice di vino che aveva lasciato appoggiato sulla tavola. Avrebbe atteso il mese di Stella del Mattino ed avrebbe celebrato i dovuti riti in onore del dio Talos, quindi si sarebbe diretto a nord, nel feudo di Winterhold, ed avrebbe esposto la sua idea allo Jarl locale. Era sicuro di trovare in lui un solido appoggio, anche in virtù
dei flebili legami famigliari che li univano.
Forse avrebbe dovuto portarsi dietro quella sua piccola moglie, in modo da far sembrare il viaggio una semplice visita di cortesia. Era meglio non dare troppo nell’occhio, almeno fino a che il suo progetto non avesse preso forma.
Doveva ricordarsi di avvisare la giovane Lirael di farsi preparare i bauli dalla sua cameriera, e di procurarsi dei mantelli e degli abiti in grado di tenere lontano il freddo. Quella ragazzina era tanto freddolosa che a volte Ulfric dubitava che avesse davvero sangue Nord nelle vene.
Nel pensare alla moglie, lo Jarl aggrottò di nuovo le sopracciglia. Nell’ultimo mese, da quando l’aveva rimproverata per essere uscita senza scorta, quella ragazzina sembrava aver deciso di rendergli la cose più difficili. Ora ribatteva a qualunque cosa le dicesse, irritandolo più del dovuto e rendendosi a volte quasi insopportabile.
A volte, quando riusciva a mandarlo fuori dai gangheri, gli capitava di maledire la sorte che lo aveva costretto a cercare denaro e ricchezze con un contratto matrimoniale. Si era preparato a dover accogliere nella propria dimora una ragazzetta Bretone, ma non aveva considerato come sarebbe potuta davvero essere Lirael.
Lirael.
Che razza di nome, poi.
Come poteva un uomo chiamare sua figlia Lirael? Una donna aveva bisogno di un nome femminile e forte, qualcosa come Inga, Gudrun o Waltraud, e non di un appellativo ridicolo, che ricordasse una ragazzetta piagnucolosa.
Di certo lui non avrebbe permesso che le sue figlie avessero nomi da damine senza spina dorsale; li avrebbe scelti personalmente, quando sarebbe venuto il momento.
Sempre che la ragazza si fosse decisa a rimanere incinta. Parte fondamentale dei matrimoni combinati, oltre all’unione di due ricchezze, era la procreazione degli eredi, ma nel loro caso sembrava che qualcosa non funzionasse. Andavano a letto insieme ormai da diverso tempo, ed ancora non era riuscito ad ingravidarla.
“Sei pensieroso. Brutto segno.” Esclamò Galmar, comparendo all’improvviso e sedendosi sulla panca al suo fianco. “A cosa pensi?”
“A mettere incinta mia moglie.” Rispose Ulfric distrattamente, ed il vecchio guerriero ridacchiò, battendosi una mano sulla gamba.
“Ah, pensieri felici, allora.” Esclamò con aria di scherno. “Devo lasciarti da solo, o posso restare per farmi almeno una birra?”
Ulfric sollevò sul suo amico uno sguardo irritato e scrollò le spalle. In fondo alla sala del trono una porta si aprì e sua moglie fece capolino, seguita dalla sua cameriera Altmer. Nonostante i loro incontri notturni, quel suo ventre continuava a rimanere perfettamente piatto.
Dannata ragazzina!
“Se continui a ringhiare così, dovremo legarti alla catena di Talos.” Osservò Galmar, prendendo il boccale che una serva gli offriva e ringraziandola facendole l’occhiolino. “Qual è il problema?”
“Non c’è nessun problema.” Sibilò Ulfric a denti stretti, fissando la giovane Lirael veleggiare con le sue belle gonne verso l’ala ovest del palazzo. Quella maledetta Altmer le stava sempre appresso come un cagnolino. Forse non era solo una cameriera. Forse era una spia dei Thalmor.
“Ho trovato un paio di ragazzi che potrebbero tornarci utili.” Riprese Galmar, dopo aver preso tre lunghi sorsi dal suo boccale. “Arcieri. Uno dei due maneggia un arco alto quasi quanto me.”
“Sono bravi?” Accortasi degli sguardi insistenti del marito, Lirael si affrettò a distogliere gli occhi. La sua Elfa invece lo osservò con sufficienza. Forse era quella cagna dalle orecchie a punta ad impedirle di rimanere incinta. Lo sapevano tutti che quelli della sua razza trafficavano con pozioni ed incantesimi.
“Più che bravi. Non sarei venuto a parlartene, altrimenti.” Il vecchio guerriero sollevò una mano, asciugandosi la schiuma della birra da barba e  baffi.
“Li esaminerò più tardi.” Borbottò Ulfric, lo sguardo ancora fisso sull’imboccatura del corridoio in cui erano sparite Lirael e la sua balia. “So che Jorleif è tornato da Forte Amol. Vai a cercarlo e digli che deve scrivere una lettera a Ioreth perché torni a Windhelm.”
“Ioreth?” Gli fece eco Galmar, affatto stupito da quel repentino cambio di argomento. Abbassando lo sguardo sul cuoio che gli copriva l’ampio petto, cominciò a grattare con l’unghia del pollice uno schizzo di fango secco. “Non si trova a Solitude, ora, alle dipendenze della nuora di Istlod?”
“Esattamente.”
A quella conferma il vecchio guerriero ridacchiò e si lasciò sfuggire un rutto senza curarsi di coprirsi la bocca.
“Hai intenzione di infastidire il Re dei Re rubandogli servitori?” Chiese in tono spensierato. “Non credo che la bella Elisif voglia rinunciare a Ioreth.”
“I figli dell’Eastmarch tornano sempre a casa.” Decretò Ulfric con severo cipiglio. “Istlod dovrà rassegnarsi, e quella viziata della moglie di suo figlio può anche andare nell’Oblivion, per quanto mi riguarda.”
Galmar allungò le gambe muscolose, osservando i propri stivali di cuoio e pelliccia sporchi a causa della neve mista a fango che ingombrava il cortile e le strade di Windhelm. Le calzature, rinforzate internamente da piastre di ferro in modo da parare eventuali colpi e legate strettamente con una stringa, lo ricoprivano fino ai polpacci
“Dubito che Ioreth voglia lasciare la corte di Solitude.”
“Lo farà, se sarò io a chiederlo.” Decretò Ulfric, quindi si portò il calice alle labbra e scolò il vino all’interno, facendo infine schioccare le labbra. “Voglio mandare quella lettera prima che faccia buio. Quando Jorleif ha finito digli di venire da me, così che io possa apporre la mia firma ed il mio sigillo.” Detto questo posò le mani sulle ginocchia e si alzò con un grugnito, dirigendosi verso il corridoio imboccato poco prima dalla moglie.
“Come desideri.” Esclamò Galmar, appoggiando un gomito sul tavolo e guardandolo con un sopracciglio levato. “Posso chiederti dove stai andando? Il cortile è dall’altra parte.” Gli fece notare ironicamente, indicando la direzione con un cenno del capo.
“Devo procurarmi un erede.” Borbottò lo Jarl, e con queste ultime parole lasciò la sala del trono.
 
 

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I giorni passarono, ed il mese di Stella della Sera lasciò il posto a Stella del Mattino.
Era trascorso diverso tempo da quando avevo raggiunto Windhelm, ma a dispetto di quanto avevo sperato non ero ancora riuscita ad abituarmi a quel clima gelato.
Il ritorno di Jorleif da Castel Amol segnò l’inizio di una fitta corrispondenza tra mio marito ed i feudi confinanti. Non riuscii mai a mettere le mani su una di quelle missive, perché il sovrintendente le costudiva gelosamente in un armadio di cui solo lui ed il suo signore possedevano la chiave.
Avrei tanto voluto avere il tempo necessario per cercare di forzare quell’armadietto. Non avevo le abilità necessarie, e probabilmente il mio tentativo sarebbe andato a vuoto, ma il solo fatto di averci provato avrebbe quantomeno placato la mia curiosità.
Avevo inoltre il sospetto che mio marito avesse ordinato a Jorleif di far sparire ogni documento in cui era nominato Halfdan il Carrettiere. Dopo il ritorno del sovrintendente avevo cercato i registri in modo da chiedergli spiegazioni, ma senza trovarli, e quando avevo nominato quel misterioso uomo mi aveva detto di non averlo mai sentito nominare, nonostante fosse stata la sua mano a vergarne il nome sui libri contabili.
Il nuovo mese portò con sé un’inaspettata novità quando il mio sposo, una mattina, mi chiese di rimanergli al fianco mentre svolgeva il ruolo di giudice davanti alla cittadinanza.
“Devi imparare a conoscere i tuoi cittadini. E loro devono vederti.” Mi aveva detto, mentre dei servitori ponevano a sinistra del suo trono di pietra grigia un piccolo sedile di legno, poco più di uno sgabello dall’alto schienale, ma meravigliosamente intarsiato con motivi tipicamente Nord.
La lunga tavola venne sparecchiata, il pavimento spazzato e cosparso di paglia, ed i segugi di mio marito che erano soliti girovagare per le sale furono cacciati in cortile. Infine vennero aperte le porte, dando inizio a quella mattinata di udienze.
Mi ero aspettata che la gente arrivasse alla spicciolata, ma scoprii che davanti all’entrata del palazzo si era già radunata una nutrita folla, che subito si riversò nella sala del trono come acqua da una cascata, uomini e donne appartenenti ad ogni ceto sociale, dal contadino più umile al nobile Thane.
Entrando portarono con sé la neve e lo sporco delle strade, ed improvvisamente capii il motivo per cui era stata sparsa della paglia sul pavimento.
Mi stupì il numero di Dunmer presenti; si tenevano discosti dagli altri cittadini Nord, a volte lanciando loro occhiate cariche d’astio. Per contro i nativi di Windhelm li osservavano con evidente diffidenza, ed era chiaro che tra le due razze non corresse buon sangue.
Le persone presero posto non appena entrate nella sala del trono, chi inginocchiandosi in terra, chi occupando le panche attorno al tavolo. Ognuno si era portato appresso testimoni per far valere la propria opinione, bambini di ogni età ed, in alcuni casi, persino degli animali da cortile, e tutti parlottavano nel proprio idioma natale, così che nell’ampia sala regnava un forte brusio.
Ascoltai molti diverbi quella mattina, che andavano dall’accusa di furto alla discussione su chi dovesse macellare un certo capo di bestiame nato dall’accoppiamento di bestie con padroni differenti. Ogni volta mio marito ascoltava, aggrottava la fronte e disponeva che la ragione fosse di uno o dell’altro contendente, mentre Jorleif, aiutato da due giovani scrivani, annotava il tutto.
Non sempre mi trovai d’accordo con le sue decisioni, trovando che troppo spesso tendeva a favorire i cittadini Nord a discapito dei Dunmer, ma quel giorno il mio compito non era di decidere, bensì di stare silenziosamente al suo fianco lasciando che i cittadini mi vedessero ed imparassero a riconoscere il mio viso.
Fu una mattinata estenuante, e quando si concluse fui solo grata del permesso di ritirarmi per potermi riposare. Ma avevo appena messo piede nelle stanze reali che alcune donne armate di stoffa e spilli irruppero nella camera che dividevo con mio marito, cianciando di mantelli ed abiti.
Fui così costretta a restare in piedi su un basso sgabello, tremante di freddo nella mia sottile camiciola ricamata, mentre quelle sarte misuravano e appuntavano. Un paio di volte cercai di intavolare una conversazione, nel tentativo di scoprire qualcosa di più sul conto del misterioso carrettiere e su un certo Quartiere Grigio che avevo sentito nominare a più riprese durante la mattinata, ma tutto quello che riuscii ad ottenere furono delle risposte secche e definitive, che mi fecero capire due cose: del primo argomento non potevano parlarne, mentre del secondo preferivano non farlo.
“È stato mio marito, ad ordinarvi di non parlare?” Chiesi loro. Alla mia domanda al più anziana del gruppo sollevò fieramente il capo, fissandomi in viso con due schietti occhi del colore del ghiaccio.
“No, Signora. È stato Lord Ulrich a farlo.” Mi disse con aria solenne, ed io sentii un brivido corrermi lungo la schiena.
Perché nella fredda città di Windhelm, l’ordine di un Re morto condizionava l’esistenza dei vivi.
 
 

******
 

 
Stella del Mattino aveva portato con sé i consueti venti gelidi che spiravano dal Mare dei Fantasmi, smuovendo la neve fresca e facendo vorticare i pallidi e radi fiocchi che scendevano dal cielo.
Accigliato, Ulfric osservò il paesaggio innevato della sua città dall’alto della sua stanza, illuminato dalle ultime stelle che precedevano l’alba. Era ormai giunto il decimo giorno del mese, e da lì a breve lui e la sua scorta avrebbero sellato i cavalli per raggiungere la corte di Winterhold, più a nord, ma il viaggio si sarebbe rivelato difficoltoso se le strade non fossero state sufficientemente sgombre.
Con un grugnito scrollò le possenti spalle, già coperte da una spessa cappa d’orso appuntata con grosse fibule in ferro, ed attraversò la stanza fino al proprio letto, dove ancora giaceva la sua giovane moglie raggomitolata tra le coperte.
“Svegliati.” Le ripeté per l’ennesima volta quella mattina, e la ragazza mugolò qualcosa nel dormiveglia, avvolgendosi ancora più strettamente tra le coltri.
“Maledizione.” Sbottò Ulfric, e con un braccio scostò un lembo delle coperte, scoprendo una spalla nuda della giovane. “Alzati. Oggi non è il giorno adatto per poltrire.” Le ingiunse.
Lirael si rigirò tra le lenzuola, lanciò un’occhiata assonnata verso la finestra e subito spostò su di lui uno sguardo addolorato.
“Non è ancora l’alba.” Disse in tono petulante sporgendo il labbro inferiore e lo Jarl soffocò un ringhio di frustrazione. Ci mancava anche che quella ragazzina si mettesse a fare i capricci.
“Alzati.” Le ripeté perentorio, in tono che non ammetteva repliche. “Ti ricordo che hai dei doveri nei confronti del mio popolo.”
La sua giovane moglie rispose con un pigolio di protesta, che ebbe il solo effetto di irritarlo ancora di più. Con un movimento brusco le strappò di dosso le coperte e la ragazza si affrettò a coprirsi con le braccia, cercando di celare il proprio corpo nudo.
“Oggi celebriamo Talos, per cui mi aspetto che tu faccia ciò che devi e che ti presenti in orario. Alzati e vestiti, o giuro che ti trascinerò fuori da qui così come sei.” Le disse in tono deciso, e la giovane si mise seduta sul letto, tremando visibilmente con le braccia incrociate sul petto.
“Ho bisogno della mia camerier…”
“Posso vestirti anche io, l’importante è che tu ti spicci.” La rimbrottò, e davanti al suo sguardo stralunato continuò. “Se sono in grado di toglierti i vestiti posso anche rimetterteli. Forza, ora. Non amo ripetermi, sappilo.” Avrebbe fatto qualunque cosa, qualunque, purché si sbrigasse.
Con il capo chino per l’imbarazzo la ragazza si alzò dal letto e si rifugiò dietro il paravento, cominciando a trafficare con camiciole e sottane. Prima di seguirla Ulfric fece scorrere i chiavistelli che chiudevano la porta, la aprì e vociò lungo il corridoio, certo che da qualche parte vi fossero dei servitori che avrebbero provveduto a chiamare la balia della giovane.
Come aveva previsto l’Altmer arrivò, impeccabile ed altera come sempre, mentre lui era impegnato ad osservare la giovane in biancheria svolazzante che entrava nell’abito che le aveva scelto.
“Perdonate l’attesa.” Disse al donna, con quel suo marcato accento elfico sporcato dalle inflessioni Bretoni. “Andate pure, Signore. Penserò io ad assistere Lady Lirael.”
“Vestila in fretta.” Le intimò Ulfric lasciandole il posto dietro al paravento. Lanciò un’ultima occhiata alla schiena rivestita di seta della moglie, quindi uscì a gran passi dalla stanza ed si incamminò lungo il corridoio di pietra.
Durante la sua marcia incrociò una gran quantità di servitori, intenti a correre a destra e a manca per terminare le loro incombenze prima dell’inizio delle celebrazioni di Talos. Era maledettamente tardi, e lo Jarl trattenne un brontolio di frustrazione mentre varcava la soglia che dava sulla sala tattica, attraversandola con passo deciso fino all’adiacente sala del trono.
Laggiù trovò riuniti gli uomini della sua guardia personale, capitanati dal cupo e taciturno Asbjorn, ed Yrsarald e Galmar, impegnati a parlottare tra loro a bassa voce; erano tutti tirati a lucido, con capelli e barbe ben pettinati e divise senza l’ombra di fango o sangue. Poco distante vi erano invece i Bretoni di sua moglie riuniti in formazione, in attesa degli ordini del loro piccolo ed energico capitano.
“Ce ne hai messo, di tempo.” Esclamò Galmar non appena lo vide comparire. “Quella ragazzina deve piacerti davvero parecchio, se ti trattiene a letto persino in una giornata come questa.”
“Si è trattenuta lei sola, benché l’avessi avvisata giorni fa.” Brontolò Ulfric raggiungendo il suo vecchio amico ed il giovane capitano delle sue truppe. “Gli Dei soli sanno perché quella donna è sempre così stanca… Yrsarald, hai fatto accendere i fuochi?”
“Sì, Signore.” Rispose l’uomo con voce profonda, sollevando una mano per grattarsi il mento coperto da una corta barba bruna. “La popolazione si è già riunita, e sono tutti ansiosi di cominciare la processione. Temono che l’alba possa arrivare prima di essere riusciti a terminare le celebrazioni.” Le parole morirono sulle labbra dell’uomo, mentre i suoi occhi saettavano oltre le spalle del suo Jarl. Nello stesso momento Galmar piegò il capo in un accenno d’inchino, ed Ulfric comprese all’istante chi fosse sopraggiunto.
La giovane Lirael comparve, come sempre accompagnata da quella sua altezzosa balia Altmer, miracolosamente vestita e pettinata, ben avvolta in un mantello di lana tinto di blu ed ornato da ricami argentei sui bordi.
“Sono pronta, Marito.” Disse la ragazza, leggermente trafelata, non appena giunse abbastanza vicina. Nel vederla, i Bretoni della sua scorta personale si fecero avanti preceduti da Moran, il robusto ometto dall’aspetto coriaceo che li capitanava.
“Milady.” La salutò l’uomo con un inchino, e Lirael gli rispose con un sorriso affettuoso.
Era decisamente graziosa quando sorrideva così, pensò Ulfric mentre le porgeva il braccio per condurla all’esterno. Se solo non fosse stata tanto irritante, la sua compagnia non sarebbe stata affatto spiacevole.
Attraversarono insieme la sala del trono, e quando uscirono dalle porte vennero accolti da una ventata gelida e dalla luce delle torce rette dagli abitanti di Windhelm. Lo Jarl fece scorrere rapidamente lo sguardo sui volti dei suoi cittadini, riuniti davanti all’ingresso del Palazzo dei Re e nella piazza centrale della città, che osservavano la coppia reale con sollievo misto a preoccupazione. Un ritardo nelle celebrazioni avrebbe potuto portare ad accendere il Grande Fuoco dopo l’alba, il che era noto a tutti come un auspicio nefasto per il nuovo anno.
“Mio Jarl.”
Dalla gelida oscurità della notte emerse un’ombra incappucciata, seguita a breve distanza da un’altra figura, leggermente più alta.
“Jora, Lortheim.” Li salutò Ulfric, riconoscendo la sacerdotessa del Tempio di Talos e suo marito, anche lui funzionario presso il Dio. “Spero sia tutto pronto.”
“Lo è, Sire.” Acconsentì Jora, tirando su con il naso. Il gelo di quella mattina era a malapena sopportabile persino per i Nord, ed i radi, sottilissimi fiocchi bianchi simili a pulviscolo non aiutavano di certo a dare una parvenza di calore.
Ulfric espirò lentamente, e la sua vista fu per un attimo ostacolata da una spessa nuvola di vapore fuoriuscita dalle sue narici.
“Bene, dunque. Procedi. Non è il caso di perdere altro tempo.” Le ordinò con voce bassa e ferma. La sacerdotessa annuì, traendo un largo tamburo piatto da sotto il mantello. Suo marito le porse una bacchetta lunga quanto l’avambraccio di un uomo, con cui la donna cominciò a percuotere la pelle tesa dello strumento dando così inizio alle celebrazioni.
Jora batteva un ritmo lento e costante, simile al battito di un cuore, e dopo una decina di colpi si incamminò tra la folla, che si aprì ad ala al suo passaggio. Suo marito la seguiva a ruota, un passo avanti alla coppia reale ed alle loro scorte armate, e subito dietro ai soldati si mise in moto la popolazione, accodandosi con passi dapprima incerti, e poi sempre più decisi.
Non appena si misero in marcia, Lortheim prese a salmodiare con voce stentorea le preghiere a Talos, a cui i presenti rispondevano secondo delle formule ben stabilite durante i secoli. Ulfric le conosceva sin dall’infanzia, e seguendo il sacerdote le mormorava a mezza voce, ignorando le raffiche gelate che gli schiaffeggiavano il volto.
“Dobbiamo affrettare il passo.” Disse piano alla giovane moglie approfittando di una pausa tra un’invocazione e l’altra, mentre a testa alta incedeva lungo la scalinata dissestata che scendeva nella piazza. I due sacerdoti davanti a loro camminavano rapidi, palesemente ansiosi di precedere l’alba.
“Ma se vado più in fretta rischio di scivolare sul ghiaccio.” Protestò la ragazza in tono petulante, strappandogli uno sbuffo esasperato.
Ignorando le sue lamentele serrò il robusto braccio su quello più sottile di Lirael e prese a marciare di buon passo verso le porte della città, seguito dalla sua scorta e dalla folla di Nord muniti di torce.
Con la coda dell’occhio poteva vedere alla propria sinistra le compatte figure dei guerrieri Bretoni procedere nella neve ammucchiata ai lati della piazza, evidentemente nell’intento di mantenere l’andatura senza scivolare sulle lastre di ghiaccio né perdere di vista la loro protetta.
Dietro di sé riusciva a sentire il borbottio di Galmar, intento a raccontare qualcosa ad Yrsarald ed Arnbjorn, il caposcorta, che rispondeva a monosillabi e grugniti. Tutti e tre si erano muniti di torce non appena erano usciti dal palazzo, ed ora le tenevano alte perché la strada davanti allo Jarl fosse ben illuminata.
Quando si avvicinarono alle mura le guardie cittadine, ben avvolte nei mantelli che recavano il vessillo dell’Eastmarch, salutarono il loro Signore chinando il capo e senza indugio spalancarono le porte cigolanti, lasciando che i seguaci di Talos potessero continuare la loro marcia.
Non appena mise piede all’esterno Ulfric trattenne a stento una smorfia soddisfatta nel vedere fuochi brillare lungo tutto il passaggio in pietra che conduceva alla città e sulla strada, ai margini del percorso che avrebbe dovuto seguire per raggiungere il santuario di Talos.
In realtà non si trattava di un santuario vero e proprio, quanto di una statua di ragguardevoli dimensioni posta su un promontorio, rivolta verso la città, ai cui piedi vi era un piccolo altare consacrato al Dio.
Procedendo nella neve, abbastanza alta da farli affondare fin oltre la caviglia ma non tanto da arrestarne il passo, i fedeli di Windhelm giunsero fino ai piedi della piccola altura su cui sorgeva l’effige della divinità, radunandosi davanti ad una catasta di legna, fascine di paglia ed erba secca che era stata posta esattamente al disotto di quella figura di pietra.
I due sacerdoti invece, seguiti da una manciata di soldati scelti e dallo Jarl e la sua sposa, proseguirono il cammino, aggirando il promontorio fino ad uno stretto sentiero che vi si inerpicava, portando alla cima.
Continuando a tenere la giovane moglie sottobraccio, Ulfric cominciò a salire lungo il pendio innevato, seguito a breve distanza dai suoi tre guerrieri più fidati e da Moran, che a differenza degli altri Bretoni sembrava tutto intenzionato a seguire la sua Signora ovunque andasse.
Era certo che da qualche parte ci fosse anche quell’algida Altmer, ma al momento non riusciva a vederla. Di sicuro non poteva essere rimasta laggiù, accanto alla catasta, insieme a quella folla di Nord intenti ad adorare un Dio che la sua razza aveva cercato di cancellare.
Ma quello non era il momento adatto per preoccuparsi di quell’elfa. Jora aveva cominciato a battere un ritmo più rapido, ed allora Ulfric si fece avanti. Tolse dall’altare ai piedi della statua tutte le offerte dell’anno precedente, posandovi poi quelle nuove: un martello da guerra ed una spada in acciaio lucente, perché la città fosse protetta; una pozione del vigore, per garantire forza e nerbo alle genti di quella terra; un libro che raccoglieva le leggende di Skyrim, perché gli abitanti di Windhelm non scordassero le proprie origini; una piccola sacca con alcune monete d’oro, per propiziarsi ricchezza e benessere.
Ognuno di quegli oggetti era stato portato sul luogo al tramonto del giorno prima e posto in terra, accanto all’altare, di modo che Ulfric avesse solo da sollevarli verso la statua e poi posarli sul liscio pianale di pietra grigia.
Terminata la presentazione delle offerte, lo Jarl mise una mano sulla spalla della sua giovanissima sposa.
“Inginocchiati, ora.” Le disse a mezza voce, perché quello era quanto ci si aspettasse da lei ora.
“Nella neve?” Domandò allibita la ragazza, occhieggiando la coltre candida che giaceva ai suoi piedi.
“Non farmelo ripetere.” Le sibilò Ulfric in risposta, e premendo sulla sua spalla la spinse a piegarsi in ginocchio davanti all’altare, mentre lui faceva lo stesso.
La neve scricchiolò sotto il suo peso,  mentre il suo gelo lo raggiungeva attraverso il tessuto dei calzoni. Al suo fianco sentiva la giovane Lirael tremare convulsamente, e per un attimo si chiese perché mai avesse accettato di prendere in moglie una donna il cui sangue non le permetteva di sopportare il freddo. Come avrebbe potuto generare dei veri Figli di Skyrim, se non era nemmeno in grado di far fronte ad un po’ di neve?
Con un sospiro sollevò gli occhi chiari su una tozza spada dalla larga lama intagliata nella pietra, il simbolo di Talos, cuore pulsante dell’altare che rendeva quel promontorio degno di figurare come santuario. Allungata una mano la posò sulla gelida superficie del simulacro, invitando la giovinetta al suo fianco a fare lo stesso.
“Prega.” Le disse, chinando il capo. Jora la sacerdotessa continuava a battere rapidamente sul suo largo tamburo, mentre alle sue spalle i tre guerrieri dell’Eastmarch ed il soldato Bretone tenevano alte le torce. Lame di luce guizzavano sulla neve e si facevano strada tra le ombre che precedevano l’alba, facendo splendere su quella coltre candida una miriade di cristalli di ghiaccio.
Sembravano tutti in attesa di qualcosa. Il popolo attendeva ai piedi del promontorio davanti alla catasta spenta, i due sacerdoti battevano e salmodiavano sempre più rapidamente, e la tensione che aleggiava nell’aria era quasi palpabile.
Lentamente, sotto le dita di Ulfric, la pietra cominciò ad assumere calde sfumature rosate, mentre dalla base del simulacro presero a levarsi delicate scie luminose, che cominciarono ad avvolgersi su sé stesse ed intorno alla tozza spada di roccia. Al suo fianco, la giovane Lirael emise una bassa esclamazione di sorpresa e cercò si allontanarsi.
“No.” Le sibilò lo Jarl. “Resta dove sei e continua a pregare. Talos ci sta ascoltando.”
Titubante, la ragazza fece come le era stato detto, e rimase a fissare allarmata e rapita la calda luce che pulsava dal santuario, sempre più intensa, e che si avvolgeva in spire sempre più ampie ed eleganti mentre Jora batteva un ritmo quasi forsennato sul suo tamburo.
Per un istante Ulfric si ritrovò avvolto in quelle spire luminose, e gli parve che la roccia sotto le sue dita fosse diventata insopportabilmente calda. E poi, rapida come era arrivata, ogni sensazione svanì; la luce venne riassorbita dalle tenebre, la pietra si raffreddò nuovamente, il gelo dell’inverno tornò a mordergli la carne sotto le vesti ed i battiti della sacerdotessa si arrestarono.
Con un grugnito dato dallo sforzo si risollevò, porgendo poi il braccio ad una tremante Lirael perché facesse lo stesso.
“Cosa è accaduto?” Gli chiese la giovane, mentre cercava conforto e calore nel proprio mantello. Aveva un’aria terribilmente infreddolita, ed Ulfric si chiese per un attimo se non era il caso di metterle indosso qualcosa di più pesante, salvo poi ripensarci subito. A breve avrebbero acceso i fuochi, e la ragazza avrebbe potuto scaldarsi tranquillamente davanti ad un braciere.
“Talos ha ascoltato le nostre preghiere e le ha accettate.” Le spiegò. “E per un altro anno l’Eastmarch potrà godere della sua protezione e…” Il resto della sua frase venne inghiottito dal rumoreggiare della folla, che vedendo la luce svanire dalla sommità del promontorio e non udendo più alcun rullo di tamburo, aveva appiccato fuoco alla catasta di legna ed ora urlava festante. Ancora una volta, gli abitanti di Windhelm avevano preceduto l’alba.
“Un’ottima cerimonia, come sempre.” Dichiarò una voce bassa e roca alla sua sinistra, e quando Ulfric si voltò si ritrovò a fissare il viso emaciato di un uomo alto e segaligno, con un ampio cappuccio scuro che gli copriva gran parte del volto. Indossava una semplice tunica da mago che un tempo era stata tinta di nero, ma ora era vecchia, slavata e sdrucita in più punti. Una barba di un bruno grigiastro gli scendeva sul petto, aggrovigliata e sporca, incrostata di qualcosa che alla debole luce delle torce avrebbe potuto passare indistintamente per fango o sangue.
“Wuunferth. Non credevo che fossi nel corteo.” Disse lo Jarl, ricevendo in risposta un grugnito seccato.
“Io sono sempre ovunque, Ulfric. Dovresti saperlo.” L’uomo emise un graffiante rumore di gola e sputò in terra, quindi levò una pallida mano simile ad un artiglio per grattarsi una guancia scavata. “Questa chi è?” Gracchiò, voltando il capo verso Lirael. Da sotto l’orlo rovinato del cappuccio lampeggiarono due occhi acuti, sottolineati da profonde occhiaie scure. La ragazza sobbalzò nel sentirsi apostrofare con tanta asprezza, ed Ulfric sentì due piccole mani stringersi istintivamente attorno al suo braccio.
“Io…” Cominciò la giovane, ma lui subito la interruppe.
“È mia moglie.” Tagliò corto, facendo poi un cenno con il mento verso l’uomo emaciato per presentarlo alla sua piccola sposa. “Wuunferth il Non-Morto. È un guaritore ed il mio mago di corte.”
Nell’udire l’appellativo dello stregone la ragazza si irrigidì e si tirò istintivamente indietro, rischiando di inciampare in un cumulo di neve. Con un sospiro esasperato Ulfric la trattenne, evitandole la caduta.
Aveva visto spesso reazioni simili. Wuunferth era un uomo spettrale e cupo, dalle strane manie, e tanto era bastato a fare di lui un individuo sospetto, un negromante, un uomo che trafficava con la morte; quelle sue stranezze gli avevano fatto guadagnare uno scomodo soprannome, che suscitava diffidenza e timore in quanti non lo conoscevano. Lui stesso, da giovane, aveva cercato di evitarlo per quello stesso motivo. Fino a che, durante la battaglia nel Reach in cui si era distinto come condottiero, lo stregone non gli aveva salvato la vita, curandogli una ferita altrimenti mortale.
A distanza di anni l’unico ricordo di quel fatale squarcio era una brutta cicatrice posta appena sotto il costato, ed una volta divenuto Jarl, Ulfric aveva pensato di ringraziare il mago donandogli un posto a corte. La nuova posizione di prestigio non aveva impedito alla gente di mormorare, ma almeno ora nessuno lo accusava più pubblicamente di negromanzia.
“Guarda un po’ cosa è strisciato fuori dal deretano della notte.” Emergendo dalle ombre con una torcia fiammeggiante in pugno Galmar si affiancò allo stregone, dandogli una vigorosa pacca sulla schiena che, incredibilmente, parve non aver alcun effetto sulla sua figura spigolosa ed emaciata.
“Un giorno o l’altro, stupido horker, manderò una delle mie creature a farti visita.” Gracchiò Wuunferth, fissando il vecchio guerriero con quei suoi pallidi occhi spettrali. Non c’era rabbia nella sua voce ma solo una terribile calma, come se si stesse limitando ad esporre un dato di fatto, ma Galmar non parve colpito; scrollando le enormi spalle si voltò invece verso Ulfric, facendo un gesto verso il grande falò con la mano che reggeva la torcia.
“Ci siamo riusciti anche quest’anno, amico mio.” Disse con un sorriso che brillò per un istante in mezzo alla sua barba grigia. “Quando intendi partire?”
“Selleremo i cavalli al terzo giorno a partire da oggi.” Rispose lo Jarl con sicurezza. “Ora che non dobbiamo più attendere le celebrazioni, possiamo cominciare a pensare alla partenza. Manderò un messo a precederci, per annunciare il nostro arrivo. A tal proposito, Moglie.” Disse, voltandosi verso la giovane Lirael che si era tenuta fuori dal discorso fino a quel momento. “Dì alla tua cameriera di preparare un baule con i tuoi abiti più caldi. Verrai con me a Winterhold.”
“Non posso.”
La risposta della ragazza lo stupì al punto da lasciarlo a bocca aperta per un istante. Se ne accorse solo dopo qualche attimo, ed allora si ricompose e la fissò con sguardo penetrante, stringendo i muscoli della mascella.
“Come sarebbe a dire che non puoi?” La interrogò in tono severo, squadrandola dall’alto in basso. Il vento che spirava dal Mare dei Fantasmi si era fatto più insistente, tanto da morder loro la carne, e sollevata la neve fresca la faceva danzare nell’aria, mescolandola al candido pulviscolo gelato che turbinava scendendo dal cielo. Lirael era terribilmente pallida, con le guance ed il naso arrossati dal freddo, mentre i suoi capelli ed il suo mantello erano costellati dei minuscoli cristalli di ghiaccio sospinti dal vento.
“Non posso viaggiare in questo periodo.” Ripeté la ragazza, arrossendo violentemente.
“Sciocchezze. Verrai con me, e se temi il freddo ti farò fare un nuovo mantello.” Ribatté Ulfric. Era necessario che la giovane lo seguisse, e non avrebbe accettato alcun capriccio.
“Mi dispiace.” Lirael scosse il capo. “Mi spiace, ma non potrò venire con te, Marito.” Ed abbassando lo sguardo si posò le mani sul ventre in un gesto protettivo.
“Che io sia dannato!” Esclamò Galmar sorpreso, ma Ulfric non riuscì ad udirlo.
Tutta la sua attenzione era per la sottile figura davanti a lui, che con gli occhi bassi gli stava dando una delle notizie migliori che potesse desiderare.
A quanto pareva, Talos aveva ascoltato le sue richieste.
E le aveva esaudite.
 
 
 
 
 
  

 
Se sembra che questa storia stia andando a rilento con gli avvenimenti è perché voglio dare il tempo a tutti, anche a chi non ha mai giocato a Skyrim, di assimilare i nomi, l’ambientazione e le dinamiche pseudo-politiche della regione più a nord di Tamriel. Se troverete quindi descrizioni prolisse – soprattutto nella parte dal punto di vista di Ulfric – fate finta di niente, perché mi servono per spiegare le dinamiche che portano alla guerra civile. Il capitolo può essere un pò lungo, ma spero che la divisione in paragrafi vi faciliti un poco la lettura.
Ah, un’ultima cosa: la reazione di Ulfric sulla questione del carrettiere non è affatto spropositata, e più avanti nella storia scoprirete il perché
 

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Capitolo 6
*** Conspirancies ***


Al mio annuncio, mio marito parve gelarsi sul posto.
Rimase a lungo a fissarmi, mentre tutt’intorno a noi folate d’aria gelida facevano turbinare neve e ghiaccio. Ad occhi bassi continuai a tenermi la mani sul ventre, incapace di spostarle. Quel debole contatto mi dava sicurezza, mi garantiva che avrei mantenuto un posto a corte senza più il terrore di venire ripudiata per la mancanza di figli. E mi assicurava, forse, che da quel momento avrei goduto di una più alta considerazione da parte dell’uomo che mi aveva sposata.
Mi morsi l’interno di una guancia, imbarazzata. All’improvviso era calato un silenzio opprimente, riempito solo dall’ululare del vento e dal crepitare del grande falò ai piedi del promontorio e della torcia retta da Galmar.
Sapevo che il mio sposo, il suo secondo e l’inquietante mago di corte mi stavano fissando, ma io non riuscivo a sollevare lo sguardo. Sentivo i cristalli ghiacciati sollevati dal vento schiaffeggiarmi il viso ed avvertivo il peso della neve, rimasta attaccata alla mia veste quando mi ero inginocchiata, e che ora si scioglieva lentamente bagnando gli stati di tessuto delle mie gonne.
Un primo raggio di luce fece capolino tra le tenebre notturne, e sotto al promontorio la folla esplose in un secondo ululato di gioia. A quel rumore mio marito parve riscuotersi, e mosso un passo in avanti mi afferrò con fermezza poco sopra il gomito.
“Fuori dai piedi.” Ordinò a Galmar e Wuunferth, ed attese che i due si ritirassero, osservandoli da sopra la propria spalla con quei suoi occhi di ghiaccio.
Fu solo quando furono ad una distanza sufficiente, lasciandoci nella penombra di quella grigia alba senza il conforto delle torce, che tornò a rivolgersi a me.
“Sei incinta?” Mi chiese a bruciapelo, in tono sommesso, e quando annuii sbuffò con forza dal naso. “E cosa diamine aspettavi a dirmelo?”
“Attendevo il momento migliore.”
“E farlo davanti a tutti era il momento migliore?” Sbottò lui stizzito, lasciando la presa sul mio braccio.
In realtà c’erano stati decine di momenti migliori di quello, ma io avevo sempre esitato. Un po’ perché non sapevo come dargli la notizia, un po’ perché temevo di essermi sbagliata, nonostante Mirala ne fosse assolutamente certa.
Aprii la bocca per ribattere, ma poi la richiusi, non sapendo cosa dire. Sollevando lo sguardo notai che mio marito mi stava fissando con aria assorta, come se non sapesse esattamente come comportarsi
“Da quanto tempo lo sai?” Mi chiese, con voce burbera, ma meno ostile.
“L’ho scoperto da poco. Mirala se ne è accorta per prima.” Abbassai gli occhi, spostandoli sul suo ampio petto coperto di lana e cotone finemente intessuti. Una delle fibule in ferro che gli fissava la cappa di pelle d’orso alle spalle sembrava starsi arrugginendo. Avrei dovuto ordinare a qualche servitore di eliminare la ruggine con la rena e di fregare il metallo con la lanolina.
“Non verrai con me a Winterhold.” Disse mio marito, questa volta con un tono tranquillo e definitivo che non gli avevo mai sentito.
“No.”
“Non puoi viaggiare nelle tue condizioni.” Continuò lui, e quando sollevai di nuovo lo sguardo scorsi per un brevissimo istante un lampo d’orgoglio nei suoi occhi.
Fu probabilmente in quel momento che si accorse di quanto stessi tremando, e lo vidi aggrottare la fronte mentre mi scrutava con maggior attenzione. Con un gesto abile sganciò le fibule di che chiudevano la cappa d’orso che indossava e mi avvolse nella pelliccia. Non mi aspettavo che l’indumento fosse così pesante, e sentii le mie ginocchia cedere per la sorpresa di quel peso improvviso.
“Copriti. Devi stare al caldo.” Mi ingiunse con voce meno severa del solito, posandomi le mani sulle spalle. “E devi sederti e mangiare qualcosa. Yrsarald!” Vociò, voltando il capo per scrutare dietro di sé. “Torna in città e fai sellare il cavallo di mia moglie.”
“Non è necessario.” Mormorai imbarazzata, ma mio marito mi fece cenno di tacere con una mano e continuò a rivolgersi al suo aitante Capitano.
“Va, e torna alla svelta. Ed assicurati che i servi le facciano trovare di che mangiare al suo arrivo a palazzo.”
Yrsarald chinò bruscamente il capo e si batté il pugno destro sul petto, quindi si voltò e si diresse a passo svelto giù per il crinale, lungo il percorso che avevamo tracciato poco prima nella neve risalendo il promontorio. Il mio sposo rimase a fissarlo fino a che la testa d’orso che portava sul capo non fu più visibile, ed infine tornò a voltarsi verso di me. Con uno sguardo indecifrabile mi lasciò le spalle e mi porse il braccio, spostandosi alla mia sinistra per non intralciarmi la strada.
“Scendiamo.” Mi ingiunse con fermezza. “Vicino ai fuochi starai più al caldo, e potrai sederti su qualche roccia in attesa che Ysrarald torni con la tua giumenta.”
Sapendo che ogni mia replica sarebbe andata a vuoto infilai il mio braccio sotto al suo, cercando con la mano libera di non far scivolare in terra la cappa di pelliccia che mi aveva  messo sulle spalle. Non mi detti la pena di oppormi, perché avevo freddo e tutto quello che desideravo era tornare a palazzo, lontana dal gelo, dall’umidità di quell’alba grigia e dal vento terribile che mordeva le carni attraverso gli abiti.
Voltandomi colsi gli sguardi di Galmar e Wuunferth, il primo divertito ed ironico, il secondo disinteressato e sprezzante. Passando loro accanto abbassai lo sguardo, e sentii il guerriero sghignazzare.
“Scendi a goderti la festa, amico?”
“Taci.” Brontolò mio marito, facendogli un brusco cenno perché ci precedesse lungo il sentiero in modo che la sua torcia illuminasse il nostro cammino.
Mentre Galmar passava avanti notai con la coda dell’occhio una seconda luce farsi avanti alla mia destra, e voltandomi leggermente in quella direzione notai Moran, il capitano del mio corpo di guardia, che reggeva una seconda torcia fiammeggiante. Al suo fianco, alta e splendida come sempre, Mirala incedeva lentamente, dal momento che un suo passo corrispondeva a due del mio guerriero Bretone.
Mi chiesi, osservandoli, dove fosse stata la mia balia durante tutta la cerimonia, ma preferii non chiederglielo; il suo volto affilato era un’altera maschera di sdegno, segno che non aveva gradito affatto che quei Nord continuassero ad adorare Talos in chiara opposizione a quanto era stato deciso anni prima alla fine della Grande Guerra.
Aggrappata al braccio di mio marito ridiscesi il promontorio innevato, stando bene attenta a dove mettevo i piedi. Scivolai un paio di volte, ma per mia fortuna il mio sposo era saldo come un’antica quercia ed ogni volta riuscii ad evitare un rovinosa caduta.
Insieme al nostro piccolo seguito giungemmo ai piedi del promontorio, accolti dai sorrisi festanti della folla che, nella livida luce di quell’alba gelida, rideva e chiacchierava riunita a capannelli attorno alla grande pira fiammeggiante.
“Mettiti al caldo.” Bofonchiò mio marito a mezza voce, sospingendomi con gentile fermezza verso il fuoco più vicino, che ardeva sul ciglio della strada. Era uno dei piccoli falò accesi dagli uomini di Yrsarald per illuminare la via e sciogliere neve e ghiaccio lungo il percorso del corteo, ed intorno vi erano circa una ventina di persone che, a giudicare dai loro volti e dal modo in cui si rivolgevano l’un l’altro, appartenevano ad un unico grande clan familiare Nord.
Quando ci videro avvicinare, le donne si affrettarono ad allontanare i bambini che si rincorrevano tutt’intorno perché non ci dessero fastidio, mentre gli uomini spazzarono via la neve da un masso perché venisse usato come sedile ed  accolsero  mio marito nel loro gruppo chinando il capo in segno di rispetto.
Venni sistemata sulla cima della piccola roccia, bene avvolta nella pelliccia d’orso del mio sposo.
Le donne più anziane del clan mi scrutarono dall’alto in basso e cominciarono a lanciarsi occhiate eloquenti tra di loro, mentre le più giovani rimasero ad osservarmi a distanza, fissando con malcelata ammirazione le mie vesti e la mia acconciatura, adorna solo di un filo di perle.
Passarono molti minuti prima che Yrsarald facesse ritorno a cavallo portando la mia giumenta per le briglie, ed allora il sole aveva percorso ancora qualche passo nel cielo, rischiarando l’intera vallata in una pallida luce lattiginosa. Verso ovest era ancora visibile la cupa volta notturna, ma ormai l’alba era giunta, e presto avrebbe scacciato il buio.
Il giovane Capitano si fece largo in quella fredda mattina di fine inverno cercandoci con lo sguardo, e mio marito lo agevolò facendo un passo avanti, levando un braccio ed emettendo un fischio acuto per richiamarlo.
“Sire.” Lo salutò Yrsarald, mentre si fermava davanti a noi ed affidava le redini della giumenta ad uno degli uomini del clan, prima di smontare dal cavallo bruno. Mio marito gli rivolse un cenno e mi si avvicinò, prendendomi gentilmente per un braccio perché mi alzassi dalla roccia.
Notai che era stata affibbiata una sella per cavalcare in arcione come un uomo, e quando anche lui se ne accorse sentii tutto il disappunto del mio sposo attraverso la mano che mi stringeva il braccio.
“Dov’è la sua sella? Ti pare che posa sollevarsi le gonne davanti a tutti?” Ringhiò verso Yrsarald, che non fece una piega e ne sostenne lo sguardo ghiacciato.
“Gli stallieri non sono riusciti a trovarla, dovendo sellarla in tutta fretta.” Si giustificò, levando contro il vento gelido il mento barbuto. Io invece chinai il capo, cercando di coprirmi il più possibile la nuca nuda alle fredde spire di quell’aria terribilmente fredda, ed infilai il piede nella staffa cercando di non pensare che i miei bei stivaletti di velluto erano irrimediabilmente rovinati.
Con qualche difficoltà e parecchio aiuto da parte di mio marito riuscii infine a montare in sella, con le gonne raccolte fin sopra il polpaccio che mostravano le mie calze candide e sottili, inadatte a quel clima.
Non appena io fui sistemata Yrsarald gli porse le redini del cavallo bruno, ma il mio sposo le rifiutò levando una mano con il palmo rivolto verso il Capitano.
“Vai tu con lei.” Gli ordinò, tirando l’orlo di una delle mie sottane perché mi coprisse le gambe lasciate scoperte agli sguardi degli astanti. “Assicurati che non le accada nulla. Io qui ho degli affari da discutere.”
Yrsarald annuì e montò a cavallo con agilità, accompagnato dal tintinnio delle cinghie dell’armatura e delle briglie.
“Milady.” Mi disse, invitandomi con un cenno ad avanzare. Io lo fissai per un istante e spostai lo sguardo su mio marito, aspettando da lui una saluto, una rassicurazione o anche solo un parola, ma lo scoprii già intento a discutere con il più anziano degli uomini del clan, un individuo dalle guance rubizze, la testa pelata e la barba così lunga che la portava infilata nella cintura.
“Milady.” Mi chiamò ancora Yrsarald, e quasi sobbalzai quando sentii il suo tocco ruvido sul dorso della mia mano, mentre cercava di togliermi le briglie.
Protestai, ma il Capitano obbediva solo a mio marito e senza ascoltarmi afferrò i finimenti per cominciare la marcia verso il palazzo.
E così mi ritrovai a procedere al passo, guidata come una bambina, diretta verso una città grigia in un’alba grigia.
 

******

 
La partenza era ormai prossima.
Passandosi un panno umido sul braccio, Ulfric aggrottò la fronte. Erano trascorsi due giorni dalle celebrazioni di Talos, e da allora non aveva più nevicato.
Poteva sembrare una buona cosa per il viaggio, ma lui sapeva che il pallido sole ed il gelo notturno avevano trasformato i cumuli di neve in montagnole di ghiaccio, e temeva che i cavalli potessero avere difficoltà ad avanzare così a nord, fino a Winterhold.
Sbuffando gettò il panno nell’acqua, creando una gran quantità di spruzzi. Si trovava nella stanza da bagno, una piccola sala illuminata da alcune feritoie che si aprivano direttamente sull’esterno, immerso fino al petto nell’acqua tiepida contenuta in una grossa tinozza. Sulla superficie galleggiavano erbe ed aghi di pino, gettate in infusione dai servitori perché donassero un aroma gradevole al bagno del loro signore, ma il loro profumo si era disperso rapidamente insieme al calore dell’acqua.
L’improvviso cigolio dei cardini lo distolse dai suoi pensieri, e poco dopo una voce gentile si levò alle sue spalle.
“Mi ha fatta chiamare?”
Ulfric la riconobbe, e senza voltarsi Ulfric recuperò il panno e lo strizzò, torcendolo tra le larghe mani rovinate.
“Vieni dentro e chiudi la porta. Stai facendo entrare il freddo.” Sbottò, passandosi una mano umida sul mento ispido. Avrebbe dovuto regolarsi la barba prima di partire, ma gli Dei soli sapevano dove sarebbe riuscito a trovare il tempo per farlo.
Alle sue spalle giunse un lieve rumore di passi ed il fruscio degli abiti, e lanciandosi un’occhiata dietro la spalla fece un cenno con la mano che reggeva lo straccio, guardando la giovane moglie in piedi dietro di lui
“Avvicinati e lavami la schiena, mentre ti parlo.” Le ingiunse perentorio, allungando verso l’esterno un braccio per porgerle il panno inumidito. “Non ho il tempo per convocarti in un altro momento, quindi cerca di renderti utile.” La ragazza esitò per un istante, ma poi raccolse le gonne e si inginocchiò poco dietro di lui.
“Domattina partiremo per Winterhold, alla seconda ora dall’alba.” Cominciò Ulfric, sentendo l’acqua smuoversi nel punto in cui Lirael aveva immerso un angolo del panno, tra la sua schiena ed il bordo della tinozza. “Galmar verrà con me, e così Wuunferth. Ho già ordinato che una guaritrice venga messa al tuo servizio se mai dovessi averne bisogno.”
La ragazza mormorò un assenso, cominciando a passargli il panno sulle spalle con fare incerto. “Lascerò qui Yrsarald come tuo Huskarlo. Sarà la tua guardia personale durante la mia assenza, e spero che tu non gli dia modo di esercitare… strofina, maledizione! Se avessi voluto le tue carezze, te lo avrei detto.”
Ulfric voltò il capo per lanciarsi un’occhiata dietro la spalla, ed i suoi occhi chiari incontrarono quelli più scuri e perplessi della sua sposa. Non la vedeva da quando si era alzato dal letto quella mattina, lasciandola a languire tra le coperte, e come allora cercò segni su di lei che ne annunciassero la gravidanza. Aveva spesso sentito raccontare di come alcune vecchie sapessero accorgersi dello stato interessante di un’altra donna solo guardandone il volto ed i movimenti; eppure, anche se con una certa attenzione fosse possibile rintracciare una curva appena accennata sul ventre nudo di sua moglie, così vestita ed acconciata non gli pareva affatto gravida.
“Strofina più forte.” Le ingiunse, lanciandole un’altra occhiata prima di tornare a guardare davanti a sé. Con le mani a coppa raccolse un po’ d’acqua e se la portò al viso, frizionando la pelle con le dita raggrinzite per la prolungata permanenza nella tinozza. Quello sarebbe stato l’ultimo bagno prima di un lungo viaggio, e l’unico momento di tranquillità prima di riprendere a coordinare i frenetici preparativi per la partenza.
“Sarò assente per un mese o poco più, per cui ho disposto che Jorleif ti assista nella conduzione del regno durante la mia assenza: conosce l’Eastmarch e la gente di Windhelm come le sue tasche, e sarà un aiuto prezioso. Rivolgiti a lui, se ti trovassi nel dubbio.” Lo Jarl abbassò lo sguardo sul proprio petto, allontanando alcune erbe aromatiche che gli erano rimaste addosso con un passata della mano. “Porterò i tuoi saluti a Jarl Korir e gli dirò che sei indisposta a viaggiare. I miei bauli sono già pronti?” Domandò, cambiando repentinamente discorso.
“Sono stati chiusi questa mattina, e Mirala li ha già fatti portare sul carro.” Gli assicurò la giovane, strofinando con rinnovata perizia la sua schiena segnata dalle cicatrici. Soddisfatto, Ulfric annuì ed afferrò i bordi della tinozza, tirandosi in piedi e provocando uno scroscio d’acqua sul pavimento.
Sentì la ragazza emettere un’esclamazione sorpresa, seguito poco dopo da un frusciare di stoffa. Con un grugnito lo Jarl scavalcò gli alti bordi di legno del tino, appoggiando i piedi sulla fredda pietra nuda del pavimento resa scivolosa dall’acqua; quando si voltò vide che la sua giovane moglie si era alzata in piedi, e strofinava piano un lembo inumidito delle sue gonne tenendo il capo basso, le gote in fiamme per l’imbarazzo.
“Solleva la testa, Moglie. Non ho niente di cui tu debba vergognarti.” La rimbeccò secco, ravviandosi i lunghi capelli biondi all’indietro con i palmi callosi delle mani. “Ed ora passami un panno in cui possa asciugarmi. Non voglio dover rimandare il viaggio per un malanno.”
Tenendo il capo chino la giovane si avvicinò ad una panca, recuperando un ampio panno di cotone grezzo e ruvido in cui Ulfric si avvolse frettolosamente, strofinandosi per asciugarsi. L’ultima lettera dello Jarl di Winterhold parlava dell’arrivo di due sovrani da due differenti feudi, entrambi poco amanti del governo Thalmor. Anche volendo, non avrebbe mai potuto mancare a quell’incontro.
Presto i loro regni riuniti avrebbero alzato la testa sotto il giogo imposto dai trattati di pace.
E gli Altmer avrebbero finalmente capito chi erano davvero i Figli di Skyrim.
 

******

 
Il giorno della partenza era infine giunto.
Avvolta nel mio mantello di lontra scesi cautamente i gradini di pietra sconnessa che dal palazzo portavano ad uno dei cortili interni. Laggiù, sul lastricato ghiacciato e coperto di neve, mio marito rimbrottava Yrsarald, istruendolo con le ultime indicazioni prima di mettersi in viaggio.
Terminata la mia discesa mi fermai accanto ad uno dei bracieri posti ai piedi della scalinata, un po’ perché non volevo intralciare i mozzi di stalla e gli uomini della scorta che correvano avanti e indietro come formiche impazzite, un po’ perché ero restia ad allontanarmi troppo dal calore delle braci.
“Questa non è la stagione giusta per sellare i cavalli.” Disse con disapprovazione Mirala, che ritta al mio fianco, un passo dietro di me, osservava i preparativi.  “È una fortuna che tu non debba unirti a questo viaggio scellerato.”
“Mira!” La ripresi sottovoce, lanciando un’occhiata a mio marito per accertarmi che non l’avesse udita. Stando al suo fianco avevo imparato che non amava gli elfi e che aveva un’antipatia tutta particolare per gli Altmer, ma in quel momento lui era troppo impegnato a sbottare contro i suoi uomini per badare a noi, le uniche due donne presenti nel cortile in quella pallida e gelida mattina invernale. Vidi una coppia di soldati portare un grosso cane nero legato ad una corda, e tirai un sospiro di sollievo. A quanto pareva, Talos avrebbe seguito il suo padrone.
Dietro di me udii uno scalpiccio, e poco dopo due donne mi si affiancarono, in attesa; l’una portava una coppa d’argento cesellato, mentre l’altra una grossa brocca dal cui becco fuoriusciva un filo di vapore, segno che all’interno vi era del liquido caldo.
Quando finalmente ogni cosa fu al proprio posto, i cavalli tutti sellati e ferrati e gli uomini pronti a partire, mio marito si volse verso di me per salutarmi come era previsto dall’etichetta.
“Bada alla nostra casa e al nostro regno, Moglie.” Mi disse in tono burbero, fermandosi a pochi passi da me. Quella mattina indossava una cotta di maglia sotto al mantello di pelliccia, ed alla cintola portava ascia, spada ed elmo, quest’ultimo appeso con una cinghia di cuoio che poteva essere facilmente slacciata in caso di bisogno. Aveva tutto l’aspetto di un uomo che si appresta ad uno scontro, eppure mi aveva assicurato che le strade per Winterhold erano sgombre e ben pattugliate. Solo con il tempo avrei capito che quello era il modo in cui i Signori Nord annunciavano il proprio rango ed il proprio potere: non solo sovrani, ma anche uomini d’arme e valenti guerrieri.
Ad un mio cenno, la donna che reggeva la brocca la inclinò, riempiendo di caldo vino speziato il calice che l’altra reggeva con estrema cautela. Quando fu pieno fino a metà me lo porsero ed io lo tenni per qualche istante, mentre il calore del vino passava dal metallo ai miei palmi.
“Fai un buon viaggio, Marito.” Gli augurai, porgendogli la coppa con entrambe le mani. Mirala mi aveva istruito a lungo in quel genere di commiati, e spesso mi ero chiesta come potesse conoscere tanto bene le usanze Nord.
Il mio sposo annuì soddisfatto senza aggiungere una parola, e coperte le mie mani con le sue si portò la coppa alle labbra per berne tre sorsi.
“Ti ringrazio.” Mi disse solamente, e per un istante fece saettare lo sguardo verse il mio ventre coperto dagli strati degli abiti. Non era ancora possibile vedere alcunché, ma la semplice consapevolezza che portavo in grembo un figlio era sufficiente per rasserenarci entrambi.
Dopo avermi rivolto un’ultima occhiata ed aver stretto un poco la presa sulle mie mani che ancora avvolgevano la coppa, mio marito si staccò da me, e raggiunto il proprio cavallo vi montò in sella. Alla testa della sua scorta notai Galmar, che svettava sopra gli altri uomini, imponente come sempre nella sua corazza da condottiero dell’Eastmarch; sulla schiena portava affibbiata un’ascia bipenne dalla lucida lama ricurva, e la testa d’orso che portava sul capo, attaccata alla pelle gli copriva le spalle, gli dava un’aria selvaggia e temibile. Quando incrociò il mio sguardo chinò il capo in un accenno di inchino, quindi si voltò e tirò uno scappellotto ad un giovane soldato.
A poca distanza da lui, il cupo e segaligno Wuunferth era già assiso su un ronzino magro ed emaciato quasi quanto lui. Il suo cavallo non portava sella né finimenti, segno che il Mago di corte era un ottimo cavaliere oppure uno stregone abile nel controllare le menti altrui.
Alla luce del giorno le sue vesti apparivano ancora più malandate e sudicie, e gli uomini parevano fare a gara per stargli alla larga.
All’improvviso mio marito vociò un ordine, e chi della sua scorta era ancora appiedato montò subito in sella.
“Andiamo.” Ordinò con voce tonante, e l’intero corteo si mise in marcia.
Le mogli e le amanti dei soldati uscirono per salutare ancora una volta i loro uomini accompagnandoli per un breve tratto fino alle porte del cortile, ed io stessa levai un braccio in segno di saluto, sebbene mio marito non si voltò mai dalla mia parte.
Fu allora che mi accorsi di una figura appoggiata ad una parete, sotto l’arco che gli uomini avrebbero dovuto attraversare per uscire dal piccolo cortile lastricato; dalla sua figura e dal portamento pareva un uomo, ma era incappucciato e non era possibile distinguere altro che il suo mento sbarbato ed alcune ciocche bionde che gli scendevano sulle spalle, così che immaginai che dovesse essere abbastanza giovane.
Quando il corteo gli sfilò davanti lo vidi storcere la bocca in un moto di stizza, ed al passaggio di mio marito sputò in terra in segno di disprezzo. Uno degli uomini della scorta spronò il cavallo verso di lui, allontanandolo col manico di una lancia, e l’incappucciato si rintanò nell’ombra.
“Chi è quell’uomo?” Domandai alla donna a me più vicina, la servitrice che reggeva la brocca.
“Non posso parlarne, Milady.” Rispose quella in tono di scusa, chinando il capo e ritirandosi con la sua compagna lungo la scalinata.
Sorpresa da quella risposta mi volsi per scrutare il punto in cui l’incappucciato si era rintanato per sfuggire ai colpi della guardia, e con mia grande sorpresa vidi che era rivolto verso l’interno del cortile, e pareva fissare nella mia direzione.
“Dovremmo rientrare. Stai rabbrividendo, mia cara.” Mirala mi si avvicinò, posandomi una mano sulla spalla per farmi voltare. “Ti farò preparare qualcosa di caldo.”
“Non ho sete.” Protestai debolmente, facendomi istintivamente più vicina a lei. Qualcosa, nell’uomo incappucciato, mi disturbava. La sua presenza mi pareva fuori luogo, ed il suo comportamento irrispettoso ed, in qualche modo, minaccioso.
Ero così impegnata a fissarlo di rimando che mi accorsi a malapena di Yrsarald, che salutati i suoi compagni d’arme era tornato da me.
Senza una parola il giovane Capitano mi si avvicinò, frapponendosi tra me e l’inquietante sconosciuto, e mi porse il braccio.
“Milady.” Brontolò con voce arrochita da un recente mal di gola, ed io posi una mano sul bracciale di cuoio borchiato che gli ricopriva il robusto avambraccio.
Con la mano libera sollevai leggermente le gonne, e con estrema cautela presi a salire la scalinata, lasciandomi condurre dall’uomo che, nel mese a venire, si sarebbe occupato della mia sicurezza. Dietro di me sentivo lo scalpiccio di Mirala, che risaliva i gradini senza aiuto e senza perdermi di vista.
Giunti in cima, davanti alle porte del palazzo, lasciai il braccio di Yrsarald per voltarmi e controllare se lo strano incappucciato era ancora nel cortile, ma non riuscii a vederlo da nessuna parte.
“Non preoccupatevene, Signora.” Mi disse piano il Capitano al mio fianco, e quando mi volsi di nuovo verso di lui incrociai il suo sguardo limpido come un cielo estivo.
“Tu conosci…” Cominciai stupita, ma lui mi interruppe con un grugnito.
“Entriamo.” Mi disse solamente. Senza darmi tempo di replicare posò la propria mano su quella che ancora tenevo posata sul suo braccio perché non potessi allontanarmi, e varcò le soglie del palazzo costringendomi così a seguirlo.
Solo quando le porte si furono richiuse mi lasciò andare, allontanandosi perché il suo posto potesse venir preso dalla mia balia. Sollevando lo sguardo incontrai i suoi lucidi occhi neri, che come sempre brillavano di una luce altera, e per un istante mi ritrovai di nuovo nella mia infanzia, quando Mirala era tutto il mio mondo e la sua parola era legge.
La sentii prendermi sottobraccio, e senza oppormi mi lascia condurre lungo i corridoi di pietra.
 

*******

 
La neve scricchiolava sotto gli zoccoli dei cavalli, che sbuffavano emettendo dense nuvole di condensa. Il loro avanzare era accompagnato dal tintinnio dei finimenti e delle cotte di maglia dei cavalieri, dal cigolio delle ruote del carro su cui erano caricati i bauli dello Jarl e dagli sporadici borbottii degli uomini a cavallo.
Erano trascorsi quasi sei giorni da quando i soldati dell’Eastmarch ed il loro signore avevano lasciato la città di Windhelm, e da due erano entrati nei territori del feudo confinante.
Mano a mano che si avvicinavano a Winterhold la neve sulla strada si faceva più rada, e comparivano i percorsi tracciati dai piedi degli abitanti. A qualche centinaio di metri dal centro abitato, che si ergeva al termine di una leggera salita sulla cima di una roccia a strapiombo sul mare, cominciarono ad essere visibili i tetti di cannicci coperti di neve delle case.
In testa ai suoi uomini, Ulfric lasciò che il suo cavallo mantenesse un’andatura al passo, perché il suo arrivo non risultasse improvviso. Sotto gli spessi guanti di cuoio aveva le dita intirizzite, perché anche i Nord risentivano del freddo dopo tanti giorni passati al gelo, eppure continuava a reggere le redini come se non sentisse alcun bisogno di scaldarsi.
“Spero che Korir abbia preparato per noi un buon banchetto e fiumi di vino ed idromele.” Spronando il proprio cavallo, Galmar gli si accostò con un ampio sorriso sul volto indurito dal sole e dal vento inclemente del nord. La sua barba era punteggiata di neve, e così i folti baffi che gli incorniciavano le labbra. “Il mio stomaco richiede soddisfazione, e la mia gola anche.” Dichiarò con esuberanza.
Ulfric sbuffò, senza dargli risposta. Jarl Korir sapeva bene del loro arrivo, perché da quando erano entrati nel feudo il loro cammino era stato accompagnato dagli sguardi vigili delle sentinelle, che comparivano di tanto in tanto tra gli alberi o che li osservavano a distanza, in sella ai loro cavalli.
Eppure, non avrebbe scommesso sulla presenza di alcun banchetto; Winterhold era ormai l’ombra della città che era stata, e le numerose casupole in rovina ne erano la prova. Decine di  anni prima il feudo era stato scosso da un violento terremoto, che aveva fatto crollare buona parte della roccia su cui si ergeva la cittadina e fatto precipitare abitazioni ed abitanti giù da un alto strapiombo, dritto nel gelido Mare dei Fantasmi
Molti avevano dato la colpa di quella disgrazia ai maghi che occupavano la prestigiosa Accademia che sorgeva a poca distanza dalla città. Miracolosamente, quella robusta costruzione non era stata interessata dal crollo, ed ora si ergeva un solitario pinnacolo di roccia raggiungibile solo attraverso un sottile ponte di pietra.
Dopo il Grande Collasso la città si era impoverita, e solo il passaggio dei visitatori che salivano all’Accademia le permetteva di sopravvivere.
“A quanto pare Korir ha chiamato l’intera città a darci il benvenuto.” Ghignò Galmar, battendogli un’enorme mano su una spalla.
Sollevando lo sguardo Ulfric vide un folto gruppo di persone, alcuni in abiti civili ed altri in armatura, in piedi davanti alla grande Aula che costituiva la dimora dello Jarl. Parevano in attesa, e non era difficile comprendere cosa stessero aspettando.
Quando la delegazione dell’Eastmarch fece il suo ingresso in città e fermò i cavalli un uomo dai lunghi capelli bruni si fece largo tra la folla, le braccia levate in segno di benvenuto; indossava abiti eleganti, ed un pesante mantello di lana rosso cupo dai bordi riccamente decorati con ricami in filo d’oro. Due grosse fibule adorne di pietre gli fissavano la bella cappa sanguigna sulle spalle, ed un medaglione appeso ad una pesante catena dorata gli pendeva dal collo fin sull’ampio petto.
“Ulfric!” Tuonò allegramente, fermandosi davanti alla scorta. “Ben arrivato, cugino. Attendevo il tuo arrivo.”
“E vorrei ben vedere.” Sbottò Ulfric, smontando da cavallo con un grugnito. “Non ho certo mandato quel messo ad annunciarmi perché tu potessi farci quattro chiacchiere.”
Korir ridacchiò e si fece avanti, attendendo che lo Jarl di Windhelm affidasse le redini ad uno dei suoi uomini prima di tendergli il braccio destro.
“Gli anni passano, ma il tuo carattere non migliora affatto.” Osservò, afferrando l’avambraccio di Ulfric e ricambiando la sua vigorosa stretta. “Hai fatto buon viaggio?”
“Mi sono gelato le chiappe su una sella. Tu cosa dici?”
Il signore di Winterhold rise di gusto, e messa una mano sulla sua spalla lo guidò verso la propria Aula. Avvicinandosi alla costruzione Ulfric vi gettò solo un’occhiata, preferendo invece osservare lo stato dell’armamentario delle guardie di Korir. Aveva già visto altre volte quell’imponente costruzione tipicamente Nord fatta di legno e pietre, ed era più interessato a controllare in che stato versassero le forze armate amiche.
Notò che la maggior parte degli uomini poteva contare su giubbe di cuoio robuste, e che asce e picche parevano ben tenute. Solo un paio di loro potevano vantare delle vere cotte di maglia, mentre le guardie cittadine indossavano la stessa lunga tunica rivestita di piastrine metalliche che era in dotazione anche ai guardiani di Windhelm. Erano ben attrezzati per respingere un eventuale attacco, ed Ulfric ne fu soddisfatto; degli alleati militarmente capaci erano una garanzia, per ciò che si apprestavano a fare.
Vi era una corta scalinata che portava all’ingresso dell’Aula di Korir, niente più che delle assi di legno scricchiolante poste orizzontalmente su dei sostegni, che i due uomini risalirono facendo attenzione a non calpestare le sottili lastre di ghiaccio. Erano ormai giunti davanti alle porte, quando dei pesanti tonfi alle loro spalle li avvisarono dell’arrivo di Galmar. L’ombra dell’imponente guerriero si proiettò sui battenti di legno lavorato un attimo prima che le guardie li aprissero davanti al loro signore, proprio mentre Korir si voltava per lanciargli un’occhiata da sopra la spalla.
“Vedo che nessuno è ancora riuscito ad abbattere la tua guardia del corpo.” Commentò, grattandosi la corta barba bruna che gli copriva la mascella squadrata.
“Sei libero di provarci tu stesso, cugino.” Ribatté Ulfric in tono sbrigativo, enfatizzando quell’ultima parola. Le loro madri erano state figlie di due sorelle; il loro era un flebile legame che non aveva mai avuto molto peso, ma quando Korir era stato scelto per prendere il posto dell’anziano Jarl di Winterhold, quella parentela si era rivelata insospettabilmente preziosa.
“Tengo troppo alla mia testa, per separarmene.” Borbottò il signore del feudo, facendo strada agli uomini dell’Eastmarch all’interno della propria Aula.
La sala che si aprì davanti ai loro occhi non era dissimile dalle altre dimore nobili di fattura Nord. L’alto soffitto era costituito dalle imponenti travi che sorreggevano il tetto, intagliate con maestria secoli addietro con scene epiche ed ora scurite dal fumo dei fuochi. Due scalinate gemelle salivano addossate alle pareti laterali per condurre all’unico piano superiore, e sul fondo della sala vi era una piattaforma rialzata, su cui si ergeva lo scranno di legno dello Jarl.
Korir fece strada ad Ulfric e Galmar fino ad una stanza che si apriva lateralmente al salone principale; somigliava in tutto e per tutto alla Sala Tattica del palazzo di Windhelm, salvo che le pareti erano di legno invece che di pietra grigia e fredda, e che l’aria che entrava dai vani delle finestre era un poco più gelida.
Al tavolo al centro della stanza erano state avvicinate delle sedie per lo Jarl ed i suoi ospiti, e avvicinandosi Ulfric notò diverse tacche che incidevano il legno, segno che generalmente quel ripiano non era adibito a compiti di rappresentanza. Un servitore vi aveva lasciato una brocca e tre calici con la base d’argento ricolmi di idromele, e l’odore tenue e dolciastro della bevanda infuse nuove energie negli animi degli ospiti.
“Dunque, cugino.” Cominciò Korir, raggiungendo tranquillamente il tavolo e prendere due dei boccali e porgerli agli uomini di Windhelm. “Ancora non vedo la mia sorpresa.”
“Che sorpresa?” Borbottò Ulfric, aggrottando la fronte. Con gesti secchi e precisi si tolse gli spessi guanti di cuoi che indossava e se li infilò nella cintura prima di tendere un braccio per prendere la propria coppa. Nel sentire la sua risposta Korir tirò su con il naso, facendo un cenno con il capo verso Galmar.
“Nella tua lettera avevi parlato di una sposa, eppure qui io vedo soltanto il tuo Huskarlo.” L’uomo fece una pausa, incrociando le braccia sull’ampio petto coperto di lana finemente intessuta.
“È rimasta a Windhelm.” Tagliò corto Ulfric, sollevando la propria coppa per prendere un sorso. L’idromele era pungente e dolciastro al punto giusto, e lo Jarl se lo fece ristagnare sulla lingua per qualche attimo prima di ingollarlo, godendosi quel sapore che difficilmente veniva apprezzato, fuori da Skyrim.
“E così non potrò vedere che genere di donna è riuscita a farti capitolare.” Sul largo volto barbuto di Korir comparve un ghigno sardonico, che scoprì un buco nella sua dentatura. “La conosco?”
“Non sono qui per parlare della mia vita privata.” Sbottò Ulfric, con una punta di fastidio.
“Questo è un peccato, perché è davvero interessante. A tal proposito, come sta Hal…”
“Taci!” Il ringhio di Ulfric gelò il sorriso sul volto di Korir e fece scattare sull’attenti Galmar, che si avvicinò al proprio sovrano pronto ad arginare l’impeto della sua ira. Due guardie discretamente impettite accanto all’ingresso della stanza si fecero avanti, ma il Signore di Winterhold fece loro cenno di non intervenire.
“Devo ricordarti, cugino, che ora sei mio ospite.” Disse Korir in tono grave, rammentandogli la sua condizione. “Quindi ti prego di moderare i toni fino a che ti intratterrai nella mia città.”
“Non voglio nemmeno sentirlo nominare.” Sibilò lo Jarl di Windhelm fingendo di non averlo udito, mentre nella sua mente compariva il fugace ricordo di un paio d’occhi gelidi nell’ombra, carichi di disprezzo e di rancore. Scrollando il capo si riscosse, e reclinata indietro la testa vuotò in un unico sorso il contenuto del proprio calice.
“Dove sono Laila e Skald?” Chiese in tono brusco, cambiando repentinamente discorso. “Ricordo che nella tua lettera dicevi che ci avrebbero raggiunti.”
Vedendo che il pericolo di esplosione era stato scongiurato, Galmar emise un sospiro di sollievo e Korir annuì seccamente, facendo un vago cenno con il mento verso una delle finestre da cui si scorgeva il paesaggio innevato.
“Jarl Laila è partita pochi giorni prima di te, e credo che a quest’ora stia attraversando le tue terre.” Lo informò, sul conto della sovrana della regione del Rift posizionata subito sotto le lande di Windhelm. “Skald invece è a pochi giorni di cammino. Ieri sera è giunto uno dei suoi uomini ad annunciarlo.”
Ulfric accolse quell’ultima notizia con una certa soddisfazione. Jarl Skald L’Anziano era un uomo coriaceo dai modi sbrigativi e bruschi, ma aveva la forza d’animo del guerriero che era stato un tempo, ed essendo la sua città uno dei tre maggiori porti di Skyrim permetteva alla loro protesta di essere ancor più incisiva.
“Allora attenderemo il loro arrivo, prima di cominciare a discutere del problema.” Disse, sollevando la brocca colma di idromele per riempire il calice che Korir reggeva in mano. Il signore di Winterhold annuì, sorbendo lunghi sorsi mentre il suo sguardo si posava assorto sul paesaggio innevato visibile dal vano di una finestra; dal Mare dei Fantasmi era salita una brezza insistente, che sollevava la neve più fresca spazzando la cittadina con quelle sue gelide folate.
“Li attenderemo.” Convenne, abbassando il calice ed asciugandosi labbra e baffi sulla manica della tunica di lana. “E nel frattempo, tu ed i tuoi uomini avrete birra, cibo e donne.”
L’ospitalità era sacra tra i Nord, ed Ulfric chinò impercettibilmente il capo in segno di ringraziamento.
“Faremo onore alla tua tavola e ai tuoi giacigli, cugino.” Gli assicurò, siglando così una piccola tregua dopo l’infelice episodio di poco prima.
Soddisfatto Korir gli fece un cenno d’assenso, e levando il calice chiamò un servitore perché portasse loro del cibo.

******

 
Il mese di Alba portò con sé venti freddi e tormente ghiacciate, che si abbattevano su Windhelm quasi ogni giorno. Ci stavamo avvicinando al mese che segnava l’inizio della primavera, ma il clima di Skyrim non accennava a scaldarsi.
Approfittando dell’assenza di mio marito avevo ordinato che gli schermi alle finestre degli alloggi reali non venissero mai rimossi, e che nei camini il fuoco ardesse a tutte le ore. Ogni notte mi accoccolavo al caldo, tra le coltri di pelliccia nel mio ampio letto, e mi posavo le mani sul ventre ricercando qualche traccia della vita che cresceva dentro di me.
Obbedendo a Mirala ero stata attenta a non affaticarmi, a mangiare in quantità adeguate alla mia nuova condizione e ad evitare tutti quei comportamenti considerati di malaugurio per il figlio che portavo in grembo; quando mi coricavo, pregavo che nascesse un maschio.
Non che non desiderassi una figlia, ma le femmine si sposano presto, e per quanto le si ami, sono destinate a lasciare la casa paterna. Un maschio avrebbe invece seguito le orme di mio marito, sarebbe rimasto al mio fianco e si sarebbe preso cura di me durante la vecchiaia.
Ogni giorno, dopo aver svolto le mie mansioni a palazzo, mi avvolgevo in un ampio mantello di lontra ed andavo a visitare la città. In realtà non potevo visitare molto: Yrsarald controllava con attenzione ogni mio passo, bene attento che non mi avventurassi  fuori dai confini stabiliti da mio marito, per cui ogni mia uscita si riduceva ad una breve passeggiata sui viottoli ghiacciati in mezzo alle abitazioni più sontuose e terminava nella piccola piazza del mercato.
Per quanto il compito di badare a me potesse essere noioso in confronto alle sue normali mansioni, il giovane Capitano non si lamentò mai. Ogni mattina lo trovavo ad attendermi dietro la porta della mia stanza, e da quel momento mi restava accanto sino alla fine della giornata. Inizialmente mi rivolgeva a malapena la parola, limitandosi a controllare ogni mio gesto con i suoi imperscrutabili occhi chiari, ma con il passare dei giorni cominciai di tanto in tanto a rivolgergli delle domande sulla città, per lenire il disagio di dover stare per tutta la giornata con qualcuno tanto silenzioso.
Dapprima si dimostrò riluttante, ma con il passare dei giorni si fece sempre meno riservato; Yrsarald era un uomo dai modi rozzi e sbrigativi, un autentico soldato Nord, ma era dotato di una mente svelta e di un salace senso dell’umorismo che lo rendevano una compagnia interessante.
Non gli piaceva Mirala, e quando la mia balia mi stava accanto lui assumeva un’aria contrariata e si posizionava sul lato opposto al suo, come se la sua semplice presenza lo infastidisse.
Il suo era un odio silenzioso, ricambiato vivamente dalla mia altezzosa Altmer.
“Non stargli vicina. È sporco.” Mi diceva spesso, ed a ragione, dal momento che come molti altri soldati di Windhelm Yrsarald si lavava frizionandosi manciate di neve sul corpo, pratica che a mio avviso difficilmente li rendeva più puliti o gli impediva di odorare come un branco di stallieri dopo un mese di lavoro.
Durante le mie visite al mercato, però, il suo odore passava inosservato. L’acre fumo che si levava dalla fucina del fabbro copriva quasi ogni cosa, e quando non era il puzzo del carbone, il mio naso era distratto dall’aroma speziato che usciva dalla bottega dell’alchimista, dall’olezzo di sangue della carne sul banco del macellaio e dal sempre onnipresente odore di pelli conciate e cuoio inumidito.
Quelle uscite erano per me un momento di festa. Nonostante avessi cercato di mantenere il riserbo, la notizia della mia gravidanza era strisciata fuori dalle mura del palazzo fin dentro le case di Windhelm, e durante le mie visite al mercato venivo attorniata da frotte di donne che avevano già superato il pericoloso momento del parto, vecchie madri che ormai badavano ai figli dei loro figli e semplici dame curiose che si sbirciavano discretamente per controllare che non fosse già possibile distinguere la curva del mio ventre.
Molte mi avvicinavano per darmi consigli velati sui mesi a venire, altre per mostrarmi una nuova pezza di stoffa o un animale particolarmente ben pasciuto, ma la maggior parte di loro mi attorniavano per presentarmi i loro figli. Che fossero giovanotti ormai quindicenni o pargoli di pochi giorni poco importava, perché la speranza delle madri era che io potessi intercedere per loro presso mio marito e procurargli, un giorno, un lavoro a corte.
“Che sfacciataggine.” Sbottò un giorno Mirala, dopo aver assistito ad una di quelle presentazioni.
Ci trovavamo nella piazza del mercato, accanto al basso muro di pietra che delimitava l’area davanti alla fucina del fabbro. Era una giornata terribilmente ventosa, e l’aria fredda si insinuava sotto ai mantelli e faceva vorticare il fumo nero che fuoriusciva dalla fucina, così che a tratti venivo investita dall’odore acre del carbone e del ferro rovente.
La mia balia stazionava alla mia destra, fulminando con i suoi occhiacci neri chiunque osasse avvicinarsi troppo, mentre Yrsarald si trovava alla mia sinistra, a qualche passo di distanza, con le robuste braccia incrociate al petto ed un’aria infastidita dovuta alla presenza della mia Altmer.
“Da che pulpito.” Grugnì il giovane Capitano, tirando su con il naso e voltando il capo per sputare lontano dalle mie vesti.
Per tutta risposta Mirala levò il mento, lanciandogli un’occhiata che sarebbe stata in grado di far tremare le ginocchia di chiunque, a Daggerfall, ma che lì a Windhelm ebbe solo il potere di irritare Yrsarald ancora di più.
“Milady?”
Una voce sommessa mi distrasse dai battibecchi tra i miei due accompagnatori, e voltandomi vidi una donna avvolta in un ampio mantello, con il capo abbassato per evitare che il vento le scalzasse il cappuccio dalla testa. Era vestita con abiti semplici, dagli evidenti rammendi, e tendeva verso di me una ciotola di legno levigato colma di latte.
“Con l’aiuto di Lord Ulfric mio marito ha ottenuto la proprietà della nostra capra.” Mi disse, e dalle sue parole immaginai che il suo sposo fosse stato uno degli uomini che una volta al mese affollavano la sala del trono per rimettersi al giudizio di mio marito. “Ciò che avete fatto conta molto, per noi.”
“Non avete bisogno, di ringraziarci.” La rassicurai, allungando le mani per posarle sulle sue, ma la donna scosse il capo.
“Ma io devo ringraziarvi in qualche modo, Milady.” Esclamò con ardore, sollevando un poco la scodella che reggeva. “Questo è il latte della nostra capra. Non ho altro da offrirvi. Accettatelo, vi prego.”
Imbarazzata, abbassai lo sguardo sulla ciotola di legno dai bordi sbeccati. L’appetitoso profumo del latte mi raggiungeva ad ondate intermittenti, a volte coperto dal puzzo della fucina, e ricordandomi quanto fossero orgogliosi i Nord e quanto fosse facile offenderli mi dissi che non c’era nulla di male ad accettare la sua offerta.
Così la ringraziai, e presa la ciotola me la portai alle labbra. Al primo sorso feci una smorfia, perché il latte era insopportabilmente dolce; quella donna doveva averci sciolto del miele, prima di porgermelo, e nel dubbio aveva evidentemente abbondato con le quantità.
Nonostante tutto ne persi tre lunghi sorsi, lasciando nella scodella poco più che un goccio di latte.
“Cosa stai bevendo?” Distratta dal suo battibeccare con Yrsarald Mirala non si era accorta subito della donna, ma ora che era riuscita ad averla vinta era tornata a prendere in mano la situazione.
“È solo latte, Mira.” Le risposi, tendendole la ciotola. La mia balia me la prese di mano e se la accostò al viso, facendo fremere le sottili narici per fiutare l’eventuale traccia di alcool. Non trovandone, la restituì alla donna, che allontanò poi con un cenno imperioso della mano.
La nostra visita al mercato si protrasse a lungo, ed anche quando decisi di tronare a palazzo il mio cammino fu interrotto a più riprese dalle esponenti dei due clan più benestanti di Windhelm. I Frantumascudo e i Mare-Crudele erano famiglie che potevano vantare una nutrita schiera di condottieri e nobili, tra i loro avi, e spesso presenziavano alla tavola di mio marito, vivacizzando i pasti che sarebbero altrimenti stati silenziosi o imbarazzanti.
Passarono diverse ore prima che le donne dei due clan terminassero di stordirmi con chiacchiere e pettegolezzi sulla città, e quando finalmente varcai di nuovo le porte del palazzo il sole era ormai tramontato, ed un vento tagliente si abbatteva sulla città.
Non appena entrai mandai Mirala a prendermi dell’acqua, mentre Yrsarald continuò a seguirmi con un cane fedele. Indolenzita mi trascinai fino ai miei alloggi, e lì mi lasciai cadere seduta su una piccola panca di legno intagliato mentre il guerriero si fermava al di là delle porte. Da diverse ore sentivo dei crampi all’altezza del ventre, che andavano via via intensificandosi, e temevo di essermi affaticata troppo. Sospirando chiusi gli occhi e reclinai il capo, appoggiandolo alla parete di gelida pietra. Non mi importava di schiacciare o rovinare l’acconciatura; ero troppo stanca per scendere nella sala del trono, ed avevo tutte le intenzioni di chiedere a Mirala che mi portasse la cena direttamente nella mia stanza.
Rimasi in quella posizione per diversi minuti, con una mano sul ventre, cercando di ignorare le fitte e di pensare a cose piacevoli. Mancavano ancora tre o quattro settimane, prima del ritorno del mio sposo, ed io volevo ancora visitare Castel Amol, la roccaforte che un tempo era appartenuta alla mia famiglia; mi ci sarebbero voluti non più di quattro o cinque giorni per andare e tornare con un carro, e volevo vedere la casa dei miei avi prima che mio marito tornasse a Windhelm.
“Diamine.” Sbottai, digrignando i denti. Cominciavo ad essere preoccupata, perché nonostante fossi a riposo i dolori non cessavano.
Facendomi coraggio presi un profondo respiro e mi alzai dalla panca, avviandomi verso la porta. Dovevo trovare Mirala. E magari anche la guaritrice.
“Yrsarald.” Chiamai, uscendo dalla stanza. “Aiutami, devo trovare la mia cameriera.”
Vidi il giovane guerriero affrettarsi verso di me, e non attesi che mi porgesse il braccio per aggrapparmici. I crampi erano tali da non permettermi di camminare agevolmente, ed avevo bisogno del suo supporto.
Scesi con difficoltà le scale che conducevano dal piano degli alloggi a quello della sala del trono. Ero circa a metà scalinata quando vidi la mia balia venirmi incontro, seguita da una ragazzetta che portava un vassoio con una brocca ed un calice d’argento.
“Stavo proprio per venirti a chiamare.” Esclamò Mirala non appena mi vide. “Raddrizza la schiena e seguimi.”
“Mira, io non…”
“Non c’è tempo per stare male.” Mi interruppe la mia balia, lanciando una rapida occhiata al mio volto pallido contratto in una smorfia. “È appena giunto un carro da Solitude. Alcuni uomini stanno scaricando i bauli davanti alle porte del palazzo.”
Un’ulteriore fitta mi impedì di dar voce alla mia sorpresa. Solitude era considerata la capitale della vasta terra di Skyrim, la sede della corte in cui viveva il Re dei Re, la città più conosciuta fuori dai confini di quelle lande del nord. Chiunque fosse giunto doveva essere terribilmente importante perché nessun carro era ammesso all’interno delle mura di Windhelm, né tantomeno gli era concesso di fermarsi davanti alle porte del palazzo.
Stringendo il robusto braccio di Yrsarald mi feci forza e ripresi a scendere la scalinata. Sotto le dita riuscivo a sentire il cuoio dei suoi bracciali, le dure e fredde borchie metalliche ed i muscoli che si muovevano sotto la pelle.
A passo incerto avanzai fino al passaggio ad arco che collegava la piccola Sala Tattica alla maestosa Sala del Trono, cercando di non piegare le ginocchia che minacciavano di cedere. Mirala mi precedeva a passo svelto, e subito dietro di lei procedeva la ragazza con il vassoio, confusa per il fatto che nessuno si fosse occupato di darle istruzioni ora che la situazione era cambiata.
Non appena misi piede nell’ampio salone dove stazionava il trono notai che tutto sembrava essere sottosopra. La lunga tavola solitamente imbandita e disseminata di brocche e calici era apparecchiata per metà, i segugi che erano soliti sonnecchiare ai piedi dello scranno di pietra, accanto ai bracieri, correvano tutt’intorno abbaiando e guaendo, ed una gran massa di persone si era radunata davanti all’ingresso del palazzo. Le pesanti porte erano aperte ed il vento vi si faceva largo con forza, invadendo la sala ed ululando tra i lumi di corno appesi al soffitto.
A malincuore mi staccai dal braccio di Yrsarald e raddrizzai le spalle, mordendomi l’interno delle guance per soffocare il dolore terribile che mi attanagliava il ventre. Sollevato il mento cominciai a muovere i primi passi da sola verso il fondo della sala, chiedendomi chi potesse mai provocare tanto scompiglio, e proprio in quell’istante una fitta più violenta delle precedenti mi costrinse a piegarmi su me stessa, e con orrore sentii qualcosa di caldo scorrermi lungo la gamba, sotto la veste.
“Mira.” Esclamai allarmata, la voce resa stridula dall’ansia. “Mira!”
La mia balia udì il mio tono spaventato e si voltò con uno svolazzo della gonna, tornando rapidamente verso di me. La giovane che la accompagnava venne quasi travolta, e quando si rese conto che qualcosa non andava cominciò a chiamare aiuto a gran voce. Si creò un enorme scompiglio, ed in breve tempo i servitori che stazionavano sulla porta si raggrupparono intorno a me.
Ma io quasi non me ne accorsi. Tra le braccia di Mirala mi ero lasciata scivolare in terra, ed ora giacevo seduta sul pavimento, con le gambe raccolte di lato e le mani ad artigliarmi il ventre che pareva preda delle fauci di qualche bestia da incubo.
Fu allora che udii una voce levarsi sopra tutte le altre, impartendo duri ordini con fermezza.
“Fuori dai piedi. Via, ho detto. Tornate alle vostre occupazioni e lasciatela respirare.” La piccola folla che mi circondava si diradò, permettendo a chiunque stesse dando quegli ordini di avvicinarsi. “Tu, ragazzo. Sollevala. Non possiamo lasciarla per terra. E tu, con quelle orecchie a punta. Fammi strada. Dobbiamo portarla nelle sue stanze.”
Yrsarald si inginocchiò accanto a me e mi circondò con le braccia, pronto a raccogliermi dal pavimento. Con la mente appannata dal dolore e dalla confusione sollevai lo sguardo, e mi ritrovai ad osservare un paio di occhi verdi come gli smeraldi e duri come la pietra, contornati da un reticolo di rughe.
E fu così che vidi Ioreth, per la prima volta.
 

******

 
Violente folate d’aria ghiaccia salivano dal Mare dei Fantasmi, spazzando le strade di deserte di Winterhold ed ululando tra le rovine degli edifici vittime del grande crollo.
Pallidi fiocchi vorticavano sospinti dalle raffiche, e le guardie costrette al turno di notte, rintanate sotto gli spioventi delle abitazioni e dietro agli angoli, scrutavano di tanto in tanto il cielo che gravava minacciosamente sopra di loro, preannunciando una tormenta.
Malgrado il clima inclemente che martoriava la città, all’interno della Casa Lunga dello Jarl l’atmosfera era nettamente diversa.
Il grande Salone era illuminato da numerose candele e de corni riempiti di grasso, montati su strutture di ferro brunito distribuite lungo tutto il perimetro della stanza. Spifferi gelidi si insinuavano all’interno, fischiando minacciosi, ma grandi bracieri di forma circolare erano stati disposti in tutta la sala, per tenere lontano il freddo di quella notte di tempesta.
Seduti attorno alla tavola imbandita, su cui ancora giacevano i resti del lauto pasto, i quattro Jarl tacevano, meditando sulla questione che li aveva riuniti. Nei giorni precedenti la minaccia dei Thalmor era stata ampiamente discussa, ma ancora non erano giunti ad un accordo.
Ulfric insisteva perché opponessero un netto rifiuto all’Impero e al Dominio Aldmeri, impedendo ai loro tanto temuti Giudici di stanziarsi nelle loro città, e Skald di Dawnstar lo spalleggiava con tutta la violenta irruenza del vecchio guerriero che era.
Per contro, Laila di Riften non condivideva appieno le loro ragioni, e Korir ancora non si pronunciava.
“Quello che sto dicendo.” Brontolò Ulfric, posando il calice colmo di vino sul tavolo e pulendosi le labbra sull’orlo della tovaglia. “È  che non possiamo permettere a quegli Altmer di prendere il controllo delle nostre terre.”
Con una smorfia contrariata, l’unica donna presente al tavolo fece un gesto con la mano come se volesse spazzar via le sue parole.
“Quello che sto dicendo io, invece.” Proruppe. “ È che non possiamo correre il rischio di schierarci contro di loro finché non sappiamo il motivo per cui quella delegazione è giunta a Skyrim.”
Ulfric le lanciò l’occhiata più minacciosa di cui era capace, ma la sovrana del Rift non lo vide, troppo impegnata a versarsi del vino speziato. Jarl Laila era una donna alta, longilinea, con fini capelli fulvi che le incorniciavano il volto allungato e dagli zigomi pronunciati. Da quando era salita al trono si era distinta dai suoi predecessori per la dura lotta che aveva ingaggiato con i membri della Gilda dei Ladri che infestavano la sua città, nel tentativo di rendere Riften un luogo libero dalla corruzione e dalla depravazione dilaganti. Dopo anni ancora non era riuscita nel suo intento, ma la popolazione le aveva comunque affibbiato l’appellativo di Dona Legge in omaggio al suo incessante impegno.
“Tutte queste chiacchiere sono inutili.” Sbottò Skald, signore della gelida e lontana Dawnstar. “Sai bene quanto me che la ragione per cui quei maldetti Altmer si sono diretti a Solitude è solo per ottenere da Istlod il permesso di invadere le nostre corti.”
“Skald.” Seduto a capotavola sul suo scranno Korir si sporse in avanti, facendo un cenno conciliante al vecchio Jarl.
“Anche Degneir di Falkreath è con noi, Laila.” Intervenne Ulfric, seduto alla destra del cugino. “Insieme potremmo fare fronte comune e convincere Istlod a tenere i Thalmor lontani da Skyrim.”
Laila aggrottò la fronte. Nemmeno lei aveva simpatia per il Dominio Aldmeri, e la prospettiva di avere un esponente del governo degli Altmer a corte era esattamente ciò che l’aveva spinta a compiere il viaggio fino a Winterhold nel cuore dell’inverno.
“Se dovessi accettare…”Cominciò, ma una violenta folata la interruppe, spazzando la tavola e facendo spegnere la maggior parte delle candele.
I quattro sovrani si voltarono verso le porte della sala, che si erano improvvisamente aperte permettendo al vento di entrare. Solla soglia, tra turbini di neve e ghiaccio, erano comparsi due uomini con le spalle e la sommità dei cappucci coperti da una coltre candida.
Riconoscendo le insegne della propria città sulle vesti di uno di loro, Korir si alzò in piedi, attendendo che gli spiegassero il motivo di quell’interruzione. Il secondo uomo vestiva abiti stazzonati, ed aveva l’aria di essere reduce da un viaggio sfiancante.
“Signore!”
Mentre i servitori richiudevano le porte, lasciando la bufera di neve all’esterno, l’uomo sconosciuto individuò Ulfric tra i presenti e gli si avvicinò, frugando con una mano nella giubba di cuoio imbottita che portava sotto al mantello scuro.
“Porto un messaggio da Windhelm, Signore.” Gli disse, estraendo un foglio di pergamena sgualcito e tendendolo al suo Jarl, rivolgendo solo un breve cenno rispettoso agli altri tre sovrani.
Perplesso ed infastidito, Ulfric tese la mano ed afferrò il messaggio, spiegandolo e lisciando le pieghe con le dita ruvide. I suoi occhi corsero lungo il testo più volte, mentre rileggeva sempre più incredulo il contenuto della lettera ed il suo sguardo si induriva.
“Devo tornare a Windhelm.” Annunciò seccamente, alzandosi mentre ripiegava il foglio e lo stringeva in pugno. “Galmar, fai preparare il mio cavallo.”
Seduto in un angolo Galmar sollevò un sopracciglio, bloccandosi nell’atto di infilarsi in bocca un enorme pezzo di carne grondante di grasso. “Adesso?” Domandò semplicemente.
“Ora è in corso una tempesta, Ulfric.” Si intromise Korir, allungando un braccio per stringere la spalla del cugino. “Tu e i tuoi uomini non andreste molto lontani, sempre che riusciate a sopravvivere alla bufera.”
Con un grugnito lo Jarl di Windhelm si liberò dalla sua presa, rivolgendogli un’occhiata irritata.
“Io devo tornare.” Ribadì, spingendo indietro il sedile di legno intagliato. Sospirando, Galmar si alzò a sua volta e lo raggiunse, pulendosi le mani unte di grasso sui calzoni.
“Qual è il problema, sono forse crollate le mura della città?” Domandò con fare ironico ed un lieve sorriso beffardo, prendendo il messaggio dalle mani di Ulfric. Il suo tono cambiò quando lesse il breve contenuto della lettera, e sul suo viso comparve un’espressione dispiaciuta. “Oh.” Borbottò, scuotendo il capo.
“Qualunque sia il problema, può sicuramente attendere la fine della bufera di neve.” Commentò duramente Skald, ricevendo in cambio da Ulfric un’occhiata omicida.
“È  meglio attendere.” Confermò Galmar, accostandosi poi al suo vecchio amico per continuare, in tono sommesso. “Non ha senso mettersi in viaggio adesso. Non puoi più fare niente, oramai.”
Lo Jarl di Windhelm strinse con forza i muscoli della mascella, mentre una rabbia impotente lo pervadeva. Per quanto odiasse ammetterlo avevano ragione, tutti loro.
“Attenderò che la tempesta si calmi.” Concesse alla fine. “Ed attenderò nei miei alloggi.”
E senza guardarsi indietro né dare spiegazioni si avviò verso la stanza che Korir gli aveva messo a disposizione. Sarebbero passate molte ore, e le avrebbe trascorse tutte a rodersi nell’attesa.
 
 
 
 
 
 

 
 
 
Per questa storia ho attribuito una parentela a Korir ed Ulfric, che non viene menzionata nel gioco. Questo perché, visto che entrambi i personaggi sono ossessionati da qualcosa (i Thalmor l’uno, i maghi dell’Accademia l’altro), mi piaceva l’idea di rendere questa piccola follia come una caratteristica “di famiglia”.
 

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Capitolo 7
*** Neverending winter ***


Era un’altra gelida giornata nella città di Windhelm.
Il vento che aveva spirato sull’Eastmarch negli ultimi tempi, quel giorno era ridotto ad una lieve brezza dal pungente odore salmastro, e per la prima volta da quando ero giunta in quella fredda terra il cielo era limpido e terso, del colore esatto del ghiaccio. Un pallidissimo sole brillava sopra la città di pietra, e sebbene i suoi raggi non riuscissero a vincere la morsa del gelo, la sua sola presenza era sufficiente per riscaldare un poco gli animi.
Dall’alto di una delle balconate che si affacciavano verso i cortili interni osservavo i soldati impegnati in estenuanti allenamenti; il clangore delle loro armi ed il loro vociare si spandeva nell’aria, arrivando attutito fino alle mie orecchie. Sapevo che laggiù, da qualche parte, mio marito era impegnato a sbraitare contro i suoi uomini, ma a quella distanza non riuscivo a scorgerlo.
Non che avessi voluto, naturalmente.
Con un breve sbuffo spazientito sollevai lo sguardo dal cortile affollato di soldati e lo puntai davanti a me, sulle impervie, vicinissime catene montuose che circondavano tutto il lato nord-ovest della città in un abbraccio granitico. Grazie a quelle montagne ed alle sue alte mura, Windhelm era quasi inespugnabile: nessuno poteva entrare, nessuno poteva attraversare l’ampio ponte di pietra che conduceva alle porte cittadine, senza essere individuato. Ed allo stesso modo, nessuno poteva uscirne.
A quel pensiero mi strinsi nel mio mantello foderato di volpe e rabbrividii. Negli ultimi tempi avevo meditato spesso di allontanarmi dal palazzo, di raggiungere Castel Amol o addirittura di tornare per un breve periodo a Daggerfall. Non volevo restare un attimo di più nel gelido regno di mio marito, dove ogni cosa pareva ghiacciarsi e assopirsi in attesa di una primavera che non sarebbe mai arrivata.
Stirando le labbra mossi una mano sotto al mantello, posandomi una mano sul ventre. Ecco, altro vuoto ed altro gelo.
Artigliai il tessuto morbido del mio vestito, sentendo sotto le unghie i rilievi dei ricami dorati che ornavano il corpetto della sopravveste verde cupo. Per un attimo ringraziai la brezza pungente, perché con la scusa del vento potevo mascherare la vera ragione per cui gli occhi mi si erano riempiti di lacrime.
Mio figlio non c’era più.
Era quella la cruda verità. Il mio corpo non era riuscito a trattenere dentro di sé la vita che portava, e tutti i miei sforzi durante le notti passate con mio marito erano stati vani.
Dopo avermi vista accasciare nella Sala del Trono, Yrsarald mi aveva sollevata senza fatica e mi aveva ricondotta nelle mie stanze, depositandomi sull’ampio talamo nuziale. E lì ero rimasta, per tutta la notte e per tutti i giorni successivi, mentre Mirala attizzava il fuoco, rassettava le coperte e mi costringeva a mangiare, attendendo che il mio corpo si riprendesse dal duro colpo che aveva subito.
Nella mia mente i ricordi di quel periodo erano confusi, come se fossi stata preda di una febbre. Eppure, anche nel momento di minor lucidità non avevo potuto ignorare che qualcosa pareva essere cambiato: non era più la mia balia ad impartire ordini e a far correre i servi come lepri inseguite dal cacciatore, ma Ioreth.
Inclinai il capo, spostando lo sguardo verso un punto indefinito delle montagne di roccia e neve che si stagliavano davanti a me. Non avevo bisogno di voltarmi per sapere che Ioreth era dietro di me e mi stava guardando, immota e granitica come quelle rocce.
In un primo momento non avevo capito subito chi fosse o cosa ci facesse al mio capezzale. Tutto quello che riuscivo a vedere era una donna anziana tra i cinquanta e i sessant’anni, dai capelli candidi come neve e gli occhi verdi, vivi ed acuti come quelli di una ragazza. Era poco più bassa delle altre donne Nord ed il suo viso era segnato da poche, profonde rughe dovute alla vecchiaia, ma sotto gli abiti si indovinava un corpo forte, tutto nervi, e si muoveva con gesti energici e scattanti. Tra i servitori nessuno metteva in dubbio la sua parola, e tutti sembravano ansiosi di soddisfarla.
Solo in seguito, quando fui in grado di sollevare la testa senza che mi girasse e guardare quella donna negli occhi, riuscii a scoprire chi fosse e perché era giunta a palazzo. Mio marito l’aveva richiamata da Solitude, dove svolgeva il suo lavoro presso la corte dello Jarl locale, perché divenisse la mia cameriera personale e soppiantasse Mirala.
Fu lei a scrivere la lettera.
Il giorno seguente al mio malore, mentre ero ancora a letto, entrò nella mia stanza ed annunciò che avrebbe scritto a mio marito. Lui doveva sapere, mi disse, ed io non potevo che essere d’accordo; non provavo alcun affetto per lui e non sopportavo il suo pessimo carattere, ma in qualche modo mi ero persuasa che avrebbe saputo cosa fare in un simile momento, che quella disgrazia avrebbe potuto renderlo un po’ più umano ed un po’ meno simile alla pietra gelida del suo palazzo.
Lasciai che Ioreth prendesse il calamo e scrivesse un breve messaggio conciso, che mi fece leggere prima di affidarlo ad un uomo perché lo portasse a Winterhold.
Ero convinta che, una volta ricevuta la lettera, mio marito si precipitasse da me. Ci volevano giorni per coprire la distanza che separava le due città, per cui calcolai che ci sarebbe voluta quasi una settimana e mezza perché il messo lo raggiungesse e lui tornasse a Windhelm.
Ma i giorni passavano, e la delegazione partita per Winterhold non si faceva vedere.
“La neve li starà rallentando.” Mi diceva Mirala per placare la mia impazienza. Ma altro tempo trascorse, ed ancora nessuno stendardo blu aveva fatto la sua comparsa alle porte della città.
“Le bufere avranno loro impedito il cammino.” Ripeteva allora la mia balia, ma anche lei cominciava ad avere qualche dubbio sul pronto rientro di mio marito dal suo viaggio.
Fu solo dopo molti giorni che il mio sposo fece finalmente ritorno. Un garzone entrò di corsa nello studio del Sovrintendente per avvisarmi del suo arrivo, ma io lo scacciai con un cenno della mano senza dar segno di volermi muovere.
Lui mi aveva fatto aspettare tanto, al punto da farmi credere che di me e del figlio che avevo perduto non gli interessasse alcunché. E vista la sua mancanza di interesse nei miei confronti, decisi che non sarei scesa nel cortile interno per accoglierlo.
Ioreth aveva protestato con aria contrariata, e persino Mirala aveva cercato di persuadermi, ma io ero rimasta sorda alle loro richieste, ed avevo continuato a ricopiare sul libro mastro le cifre ed i nomi che Jorleif aveva appuntato su un foglio di pergamena. Ero ben decisa a dimostrarmi dura come pietra quando lo avessi incontrato, quella sera, ma non avevo previsto quanto era accaduto in seguito.
Mio marito aveva fatto irruzione nello studio come una folata improvvisa, aveva cacciato le due donne che mi tenevano compagnia e chiuso la porta alle loro spalle. Gli avevo lanciato appena un’occhiata, e subito mi ero ritrovata a stringere i denti con forza.
Il mio sposo aveva gli abiti stazzonati, i capelli aggrovigliati e la barba più lunga del solito. Vi erano tracce di neve sulle sue spalle, sui calzoni e sugli stivali, ed il suo viso dalle pelle tirata e screpolata dal freddo era una maschera impenetrabile.
“Le bufere mi hanno rallentato.” Aveva detto con voce arrochita dal gelo dopo un lungo attimo di silenzio, senza nemmeno disturbarsi a rivolgermi un saluto. Imperterrita avevo continuato a far scricchiolare il calamo sui ruvidi fogli di pergamena, annuendo una sola volta. Ero nervosa, sebbene non volessi darlo a vedere, ed il suo aspetto di certo non aiutava a rendermi più tranquilla: pareva più un bandito, che uno Jarl.
Temevo che volesse rimproverarmi per la mia mancata accoglienza, o che volesse esprimere qualche giudizio con i suoi soliti modi duri ed irrispettosi; ma invece che scagliarsi contro di me, rimase semplicemente fermo sulla soglia, osservandomi mentre il suo petto si alzava ed abbassava sotto il mantello di pelliccia, a causa della gran corsa che doveva aver fatto lungo le scalinate che ci separavano.
Era rimasto immobile per un lungo minuto e poi, all’improvviso, mio marito aveva attraversato la stanza e fatto il giro della pesante scrivania alla quale sedevo. Con la coda dell'occhio lo avevo visto sollevare una mano, e subito mi ero irrigidita temendo che volesse colpirmi.
Ma non lo aveva fatto. Contro ogni aspettativa avevo sentito invece una carezza impacciata sulla sommità della testa, insieme ad una zaffata di sudore e cuoio umido.
“Mi spiace non essere arrivato prima.” Aveva detto in tono incerto, come se non fosse abituato a scusarsi, ed io ero rimasta immobile, troppo stupita per ribattere in qualche modo.
Si era soffermato ad accarezzarmi goffamente i capelli per qualche istante, infine mi aveva fatto scivolare la mano sulla spalla e mi aveva dato una leggera stretta, come se fossi stata uno dei suoi commilitoni. “Ti lascio alle tue occupazioni.” Aveva detto sommessamente, ed a passo lento si era allontanato.
Dopo quell’episodio mi sarei anche detta pronta a perdonarlo, se solo pochi giorni dopo non avesse ufficialmente tolto a Mirala l’incarico di starmi accanto per darlo a Ioreth.
“Ormai sei una donna sposata, ed io non permetterò che mia moglie venga seguita da una balia.” Aveva decretato con decisione, dopo avermi mandata a chiamare. “La tua Altmer potrà farti da dama di compagnia, se proprio desideri. Ma non voglio più vederla correre dietro alle tue gonne.” E con quello aveva chiuso l’argomento senza lasciarmi possibilità di ribattere.
Ne ero rimasta tanto indispettita che nei giorni seguenti decisi di dimostrargli tutto il mio disappunto, ma ottenni ben pochi risultati; secondo mio marito stavo solo facendo i capricci, come una ragazzina viziata, e vi dette poco peso. Avevo allora pensato di irritarlo negandomi a lui in occasione dei nostri rapporti matrimoniali, ma le sere successive il mio sposo si intrattenne a lungo a discutere nella Sala Tattica con i suoi Capitani, e quando mi raggiungeva desiderava solo dormire senza che lo disturbassi, così che anche quel mio piccolo piano era fallito miseramente.
“Dovreste rientrare, Signora.” La voce di Ioreth interruppe i miei pensieri, facendomi distogliere lo sguardo dalle pareti di roccia davanti a me. Nonostante le parole rispettose il suo tono era autoritario, e non ammetteva repliche. Nel cortile sotto di me vidi un gruppo di uomini cessare gli allenamenti , mentre un individuo si faceva largo tra loro a forza per tornare a palazzo.
“Mi piace stare qui.” Mentii senza voltarmi. Non volevo indispettire Ioreth, ma nemmeno desideravo dargliela vinta e lasciare che mi comandasse a bacchetta.
“Dovreste rientrare.” Ribadì sbrigativamente la donna. “Alcuni ospiti sono appena giunti nella Sala del Trono.”
Con estrema lentezza mi allontanai dal parapetto di pietra, voltandomi per fronteggiare Ioreth. La vecchia era in piedi sotto l’arco che conduceva alla balconata, nella stessa posizione che aveva assunto quando mi aveva accompagnata fin lì diversi minuti prima, ma ora al suo fianco era comparsa una giovinetta vestita semplicemente, con il grembiule di cotone grezzo e la cuffia di lino delle fantesche. Doveva essere stata lei a portare la notizia.
Sapevo che accogliere gli ospiti faceva parte dei miei compiti, così mi lasciai alle spalle la balconata e sorpassai Ioreth, imboccando con sicurezza uno dei corridoi che si dipanavano all’interno del palazzo. Mi ci vollero diversi minuti prima di raggiungere la Sala del Trono, e quando vi misi piede mi stupii dei volti tesi e cupi dei servitori, che riuniti in piccoli gruppi sotto gli archi di pietra dei corridoi si affacciavano per guardare verso le porte del palazzo con disappunto.
L’oggetto dei loro sguardi erano due figure alte e sottili, ferme a pochi passi dalla soglia, che le guardie continuavano a tener d’occhio nervosamente, come se temessero un attacco.
Eppure ai miei occhi i due visitatori sembravano tutto fuorché minacciosi. Entrambi avvolti in lunghi mantelli di un grigio bluastro, che li coprivano dal collo fino alle punte degli stivali, parevano due colonne in un tempio. La loro pelle chiara riluceva d’oro pallido, ed un paio di orecchie puntute spuntavano dalle chiome lunghe e lisce, che scendevano ordinatamente lungo le loro schiene diritte.
Il loro aspetto era tanto simile a quello di Mirala, con quel portamento eretto e quegli occhi oblunghi, da non lasciarmi alcun dubbio sul fatto che si trattasse di Altmer, probabilmente provenienti da Alinor, a giudicare dalla fattura dei loro mantelli.
Al mio ingresso i loro sguardi si puntarono su di me, pigri ed indolenti come se stessero osservando un muro di mattoni o un oggetto di scarso interesse.
Mi avvicinai, ma ero giunta appena a metà strada che una delle porte che conducevano all’ala est del palazzo si spalancò, e mio marito fece irruzione nella sala con la violenza di una tempesta improvvisa.
Era reduce dagli allenamenti che lo avevano tenuto impegnato nei cortili affollati di guardie, ed indossava ancora la cotta di maglia e gli alti stivali rinforzati da lamine di ferro. I capelli erano scarmigliati, appiccicati a ciocche madide attorno al suo volto sudato, e nella mano destra stringeva una spada dalla lama tozza e dall’aspetto brutale, come se non avesse avuto il tempo di rinfoderarla.
Dietro di lui avanzavano a breve distanza Galmar ed Yrsarald, entrambi con lo stesso aspetto disordinato, portandosi dietro un acre sentore di sudore e cuoio inumidito.
“Lord Ulfric.” Lo salutò uno degli Altmer con voce pacata, quasi non si fosse accorto di essere stato accolto con una lama sguainata.
“Fuori dalla mia città.” Ringhiò mio marito per tutta risposta, fermandosi davanti ai due elfi. La differenza tra il suo aspetto selvaggio e l’ordinata dignità degli Altmer lo faceva apparire come un bruto, e me ne vergognai.
“Temo non sia possibile.” L’Altmer inarcò un sopracciglio, e dai lembi del suo mantello sbucò una pallida mano dorata. “Siamo qui in veste di messi per la corte di Solitude, e sarebbe una scortesia nei confronti di Jarl Istlod allontanarci di mal garbo, non credete?” Domandò retorico, stringendo una sottile custodia cilindrica di cuoio rosso tra le lunghe dita affusolate.
Riconobbi tre sigilli argentati, ma non ero abbastanza vicina da scorgere che simboli recassero. Allora spostai lo sguardo dalla custodia della pergamena, alternandolo tra l’Altmer e mio marito.
C’era una vena pulsante sulla tempia del mio sposo, e la mano che non reggeva la spada era stretta a pugno. Il tono serafico dell’elfo doveva averlo punto sul vivo.
“Siete qui per insidiare il mio regno, invece.” Ringhiò, sollevando la lama verso la porta alle loro spalle. “Lasciate il messaggio ed andate fuori dai piedi. Non tollererò la presenza di voi serpi dalle orecchie a punta un solo istante di più.”
“No?” Gli fece eco l’Altmer che fungeva da portavoce, facendo scivolare il suo sguardo d’onice lontano da mio marito. Seguii la direzione dei suoi occhi, e poco distante da noi vidi Mirala, appena giunta dalle cucine, che osservava la scena mantenendosi defilata. Il volto della mia balia era una maschera di perfetta alterigia, con un solo accenno di velato stupore davanti la comparsa di due esponenti della sua razza.
I due Altmer messaggeri chinarono impercettibilmente il capo nella sua direzione, facendo fremere per un brevissimo istante le chiome lucide e pallide che si poggiavano sulle loro spalle ammantate.
Mentre le facevano quel breve inchino, uno dei due elfi le rivolse poche parole nella loro lingua; non conoscevo bene l'idioma di Alinor, ma da quel poco che potevo comprendere riconobbi una lunga e formale formula di saluto.
Mio marito non doveva aver invece compreso alcunché, perché mosse un passo avanti e li interruppe bruscamente, levando una mano nella loro direzione.
I due Altmer tornarono a rivolgere a lui la loro attenzione, e dopo aver affidato il messaggio ad un servitore gli assicurarono in tono lezioso che Jarl Istlod sarebbe stato lieto della sua calorosa accoglienza. L'irritazione del mio sposo era sempre più evidente, ma prima che lui potesse buttarli personalmente fuori dal Palazzo dei Re salutarono Mirala con un leggero inchino e si congedarono; e quando si voltarono per uscire dalla Sala del Trono fu come vedere due lucide colonne di fumo nero scivolare sul liscio pavimento di pietra.
Le porte si chiusero alle loro spalle con un tonfo deciso, ed io sentii i passi affrettati della servitù che tornava ai propri compiti, insieme al fruscio delle gonne di Ioreth.
“Signora?” Mi richiamò, pronta a scortarmi lontana dalla Sala, ma io finsi di non udirla. Per una volta condividevo l'irritazione di mio marito; io ero la Signora di Windhelm, la moglie dello Jarl, eppure ero stata ignorata alla stregua di un soprammobile di poco conto. Al contrario di Mirala, che invece era stata salutata con tutti gli onori; per quanto amassi la mia balia, fremevo di indignazione: ero io quella che doveva essere riverita.
Ripensando a quei tempi, mi stupisco di quanto fossi giovane e viziata. Ero abituata ad essere trattata con i guanti, posta sempre al centro dell'attenzione, e la permanenza al fianco di mio marito non aveva ancora scalfito quella mia presunzione, inculcatami in anni di impeccabile istruzione.
Ero troppo impegnata a sentirmi offesa per rendermi conto che il mio sposo si era accorto della mia presenza, così che sobbalzai quando lo sentii rivolgersi a me intimandomi di tornare a qualunque cosa stessi facendo.
Fui sul punto di ribattere con la stessa durezza, ma poi lo sguardo mi scivolò sulla spada ancora sguainata che teneva in pugno, ed allora mi limitai a voltargli le spalle ed affrettarmi verso i nostri alloggi nel modo più decoroso che mi fosse possibile. Ero quasi sicura che non avrebbe osato levare le armi, specialmente contro di me; ma ancora non conoscevo a fondo il suo carattere, e quasi non era una piena certezza.
Mentre mi allontanavo lo sentii ringhiare qualcosa a Galmar ed agli uomini che lo avevano seguito nel cortile, ma ero troppo indignata con i due Altmer e troppo impegnata a mostrarmi arrabbiata con lui per dargli ascolto.
“Fammi preparare la tinozza nella stanza da bagno.” Ordinai a Ioreth, mentre avanzavo lungo i corridoi di pietra. Non mi voltai per accertarmi della sua presenza, perché riuscivo a sentire dietro di me il rumore dei suoi passi che mi seguivano incessantemente.
“Farò in modo che sia pronta.” Replicò la mia cameriera, senza scomporsi.
Annuii ed afferrai un lembo delle gonne, sollevandolo per risalire una delle scalinate che portava ai livelli superiori.
“Non voglio essere disturbata.” Aggiunsi con la voce un po' affatica perché, sebbene ormai vivessi da diverso tempo nel palazzo di mio marito, non mi ero ancora abituata alle sue numerosissime rampe di scale.
“Come desiderate.” Mi rispose la voce perentoria e secca di Ioreth.
E con la pallida speranza di potermi liberare della sua sorveglianza almeno per qualche minuto, mi affrettai lungo la scalinata con la mia cameriera al seguito.
 

******



Ulfric fissava il paesaggio gelato che si apriva oltre il vano della finestra con aria corrucciata.
Aveva le mani allacciate dietro la schiena, la pergamena giunta da Solitude stretta in pugno, e di tanto in tanto emetteva un suono simile ad un basso ringhio. La fronte era aggrottata al punto che gli occhi erano quasi scomparsi sotto le folte sopracciglia, facendolo somigliare ad un grosso orso furente che fosse stato svegliato dal letargo prima del tempo.
“Dunque, andrai?” Appoggiato al bordo del tavolaccio di legno che campeggiava in mezzo alla Sala Tattica, Galmar incrociò le possenti braccia al petto e sollevò lo sguardo sul suo sovrano.
Lo Jarl si lasciò sfuggire un lungo brontolio, voltandosi lentamente per rivolgersi al suo secondo.
“Non posso evitarlo.” Grugnì controvoglia, e preso da un moto di stizza appallottolò la pergamena che teneva tra le dita e la lanciò con disprezzo sul tavolo, mancando Galmar per un pelo.
La missiva giunta da Solitude era scritta niente meno che da Jarl Istlod, il Re dei Re in persona.
A quanto pareva, quell'invertebrato di Igmund aveva tenuto fede alle sue minacce; quando mesi prima il suo messo era tornato a Markarth senza risposta e, soprattutto, senza il denaro che pretendeva da Ulfric, aveva scritto all'unico in grado di porre rimedio a quella situazione.
Ed ora Istold scriveva a lui, pregandolo di raggiungerlo a Solitude per discutere di quella scomoda faccenda di Markarth, come la chiamava nella sua lettera. Ulfric non aveva alcun dubbio che il suo modo per sistemare gli screzi sarebbe stato obbligarlo a pagare le cifre ridicolmente alte che Igmund richiedeva.
Quello era un altro problema che si aggiungeva a quelli che già gravavano sulle sue spalle. Come se non fosse sufficiente aver perso il primo figlio di quel suo malaugurato matrimonio, dover sopportare ogni giorno i capricci ed i bronci di sua moglie e, nel frattempo, reggere un regno mentre quei famelici lupi dalle orecchie a punta premevano sui suoi confini.
Il pagamento delle somme chieste da quel verme di Igmund sarebbe stato un duro colpo per le casse dell'Eastmarch, e quella volta non c'era alcuna piccola mezza Bretone con un cospicuo patrimonio alla quale avrebbe potuto aggrapparsi.
“Ci sono notizie da Yrsarald?” Domandò all'improvviso avvicinandosi ad un secondo tavolo addossato ad una parete, sul quale erano appoggiate con cura due faretre dall'impennaggio tinto del blu dell'Eastmarch. “Ha scoperto chi ha fatto entrare i due Altmer senza che lo venissi a sapere?”
“Non ancora.” Galmar scrollò le robuste spalle e si strofinò il naso sul polso rivestito di cuoio. “Ma ci sta lavorando.”
Ulfric annuì ed estrasse una delle frecce dalla faretra. L'asta di legno di pino, che avrebbe dovuto essere perfettamente diritta, presentava una leggera curva verso destra, rendendo il dardo impreciso. Non era inaccettabile.
Lo avrebbe fatto presente ai responsabili dell'armeria, non appena ne avesse avuto il tempo.
Sbuffando sistemò la freccia incriminata accanto alla faretra, in modo che la sua curvatura saltasse all'occhio, e le voltò le spalle. Ecco un altro compito che si aggiungeva alla sua lista; avrebbe potuto lasciare che se ne occupassero altri, certo, ma chi gli assicurava che lo avrebbero fatto come lui desiderava?
“Scusa se interrompo le tue elucubrazioni.” Esclamò la voce di Galmar, con la sua consueta punta di sarcasmo. “Ma hai l'aria esausta, amico mio.”
Ulfric gli lanciò un'occhiata accigliata e rispose con un grugnito indisponente, tornando accanto alla finestra per scrutare all'esterno.
“Questo non è propriamente un complimento.”
“Se avessi voluto farti un complimento, avrei mentito.” Galmar lo raggiunse, facendo cigolare le cinghie di cuoi della corazza contro il metallo delle fibbie, e gli posò una mano larga quanto una vanga sulla spalla. “Lascia che sia io ad occuparmi della faccenda degli Elfi.”
“Non è unicamente quello, a preoccuparmi.” Lo Jarl socchiuse gli occhi quando un alito di vento gelido gli accarezzò il volto, ed accolse quella carezza gelata sollevando il mento. “Temo che Istlod mi obbligherà a pagare un prezzo esorbitante.”
Ach! Igmund ha già avuto il sangue ed il sudore dell'Eastmarch...”
“Ed ora vuole il nostro oro.”
“E allora può anche baciarmi le chiappe, quel viscido figlio di una...”
“Bada alle tue parole, soldato.”
I due uomini si voltarono all'unisono verso l'arco di pietra che collegava la Sala Tattica alle scale per i piani superiori. In piedi sulla soglia, con le mani giunte in grembo e l'aria severa, Ioreth li fissava con i suoi acuti occhi verdi simili a quelli di una volpe.
Davanti al suo volto solenne Galmar borbottò una scusa e chinò il capo, battendosi il pugno sul petto nel tipico saluto dei soldati di Windhelm.
Con un'espressione vagamente seccata la vecchia cameriera mosse alcuni passi all'interno della stanza, fermandosi a debita distanza davanti ad Ulfric. Nemmeno una ciocca dei suoi candidi capelli sfuggiva dalla crocchia, ed una smorfia di vaga disapprovazione le tendeva le labbra evidenziando le rughe che le solcavano il volto.
“Ioreth.” La salutò Ulfric, con una vaga sorpresa. “Non dovresti essere con mia moglie?”
“Lady Lirael si sta lavando nella stanza da bagno.”
“E l'hai lasciata sola?” Lo Jarl Tornò ad accigliarsi di nuovo. Al suo ritorno da Winterhold aveva convocato la vecchia servitrice ed aveva posto delle condizioni sul suo servizio; non avrebbe mai dovuto lasciare il fianco della sua Signora, ed in nessun caso permetterle di restare sola, esposta ai rischi. Gli occhi rancorosi dell'incappucciato che lo fissavano dall'ombra lo avevano tormentato a lungo, durante il suo viaggio al nord, ed alla fine era giunto alla conclusione che non era lui, ma la sua piccola sposa quella che più aveva bisogno di protezione.
Era sul punto di abbandonare la sala ed andare lui stesso a raggiungere la giovane moglie, quando la donna sollevò una mano, assicurandogli di averle messo accanto una cameriera con l'ordine di non far avvicinare nessuno.
“La tua mancanza di fiducia è insultante.” Dichiarò Ioreth senza curarsi di rivolgerglisi formalmente o con il rispetto dovuto alla sua posizione. “Ma non è di questo che devo parlarti.”
“Dunque?” La incoraggiò Ulfric, senza curarsi di quell’infrazione all’etichetta. C'era qualcosa, nella vecchia, che rendeva superflua ogni formalità.
La donna levò un sopracciglio ingrigito e si rassettò il grembiule di tela che le copriva le gonne. A differenza della maggior parte delle fantesche vestiva abiti di un tessuto meno grezzo, e di fattura più accurata; era la cameriera della Signora del castello, e tutto in lei, dalla stoffa del vestito fino al mento levato, denotava la sua importanza all'interno della piccola scala gerarchica della servitù.
“Credo che a tua moglie sia stata somministrata una pozione abortiva.” Disse senza tanti preamboli, lasciando che la gravità della notizia lo colpisse in pieno.
Al suo fianco Galmar si lasciò scappare un'imprecazione e mosse qualche passo nervoso nella stanza, ed Ulfric prese un profondo respiro per evitare di imprecare come il suo secondo.
“Ne sei certa?” Chiese invece a Ioreth, cercando di ignorare le domande che avevano cominciato ad affollarsi nella sua mente.
“Ho avuto dei colloqui con Yrsarald e con l'Altmer di tua moglie.” Cominciò la donna, facendo un cenno con la mano. “Ho parlato con la guaritrice che l'ha soccorsa, ed alla fine mi sono consultata con Wuunferth. Nessuno l'ha mai persa di vista, e pare che non abbia bevuto o mangiato nulla che non provenisse dalle cucine al di fuori di una scodella di latte che le è stata offerta nella piazza del mercato. La pozione doveva essere altamente concentrata, vista la rapidità con cui pare abbia sortito il suo effetto.”
Sul volto dello Jarl si dipinse un'aria minacciosa, ed a gran passi raggiunse l'anziana servitrice. Sentiva la rabbia montare, ma era una collera rivolta unicamente a sé stesso. Se avesse portato la ragazza con sé a Winterhold invece che permetterle di restare a palazzo, forse il suo primo e legittimo erede sarebbe stato ancora al sicuro nel suo ventre. L'affaticamento che le avrebbe causato il viaggio sembrava ora un prezzo irrisorio, di fronte alla perdita che aveva subito.
“Ne sei certa?” Domandò a Ioreth in tono imperioso.
“Tutte le voci che ho raccolto...”
“Io non voglio voci, voglio certezze, maledizione!”
“Tutte le voci che ho raccolto...” Riprese Ioreth severamente, alzando la voce. “... indicano che la pozione potrebbe esserle stata somministrata da Sigrid Sorensdottir.”
“Non l'ho mai sentita nominare.” Grugnì lo Jarl, spostandosi con aria cupa verso il braciere di metallo che spandeva calore da un angolo della stanza.
“Dovresti.” L'anziana cameriera si voltò lentamente verso di lui, ed in quel momento Galmar bofonchiò qualcosa tra i denti.
Quando Ulfric gli chiese di ripetere, il robusto guerriero si schiarì rumorosamente la voce, grattandosi il mento sotto la folta barba grigia prima di ripetere l'ultimo nome che lo Jarl avrebbe voluto sentire.
“Halfdan.” Ripeté l'uomo, agganciando una mano alla larga cintura d'arme che gli stringeva la vita asciutta e muscolosa. “Sigrid Sorensdottir è la sua donna.”


Negli attimi successivi alla rivelazione di Galmar si scatenò un gran trambusto.
Ulfric cominciò a sbraitare improperi e minacce di morte, tuonando con tutta la sua furia; il suo secondo gli si avvicinò alla svelta ed alzò la voce per cercare di sovrastarlo e di farlo ragionare, ed inavvertitamente colpì il braciere, che sbatté rumorosamente contro la parete. Le urla ed il baccano richiamarono alcune guardie, che accorsero con un gran fracasso di armature, e Ioreth fu costretta a scacciarli in tono severo; l'arrivo dei soldati attirò però l'attenzione dei domestici presenti nelle vicinanze, che si accalcarono sull'ingresso impedendo agli uomini armati di tornare sui propri passi, suscitando le loro vive proteste. Fu solo dopo lunghi minuti, quando Ioreth riuscì a scacciare i curiosi e Galmar a calmare il suo Jarl, che venne il momento di decidere il da farsi.
“Lascia che parli io al ragazzo.” Disse il vecchio guerriero, posando una mano sulla spalla di Ulfric.
“E' un uomo, oramai, e come tale dovrà rispondere. Dopo che avrà lasciato la casa che io gli permetto di occupare.” Era stata la rabbiosa risposta. “Per colpa sua, mia moglie poteva morire.”
“Ora non esagerare.” Ioreth si allontanò dal varco d'ingresso alla stanza, dove si era appostata come deterrente per i servitori più curiosi, e si voltò verso di loro lisciandosi il grembiule. “Lascia che sia Galmar a parlarci. Otterrà più di quanto potresti ottenere tu, in ogni caso.”
A quelle parole Galmar rivolse al suo vecchio amico uno sguardo rassicurante, annuendo profondamente.
“Ci penserò io.” Gli assicurò ancora, e dopo aver ricevuto un assenso seccato dal suo Jarl si batté il pugno sul petto si allontanò con passo deciso.
Ulfric si lasciò sfuggire un brontolio rabbioso. Quando lo sguardo gli cadde sulla missiva appallottolata sul tavolo fu colto da un moto di irritazione, ed agendo d'impeto la afferrò e la lanciò nel braciere.
“Quella lettera da Solitude.” Proruppe la voce di Ioreth, ricordandogli che si trovava ancora in sua presenza.
“Sì?”
“Mi menzionava?”
Lentamente si voltò a guardarla. La donna era ancora in mezzo alla stanza, decorosa e granitica come le mura della città.
“Menzionarti? E perché mai?” Grugnì lo Jarl, muovendo qualche passo sul pavimento di pietra per frenare il proprio malumore. “Istlod è il dannatissimo Re dei Re. Ha altro da fare, che non occuparsi dei miei servitori.”
“E' anche molto affezionato alla moglie di suo figlio.” Lo rimbeccò Ioreth. “E Lady Elisif non ha gradito che io l'abbia abbandonata per tornare al servizio di questa corte.”
“Quello che gradisce Elisif non mi riguarda.”
“Dovrebbe. Le malelingue trovano curioso che tu abbia voluto per tua moglie la stessa cameriera che assisteva tua madre.”
Ulfric sbuffò e si voltò di nuovo verso la finestra, appoggiando i pugni sul davanzale di pietra. L'aria fredda gli fece pizzicare gli occhi, riempiendoli di lacrime, e lo Jarl dovette abbassare per un attimo lo sguardo per abituarsi al gelo esterno.
“Le malelingue non mi preoccupano. E' solo gente senza spina dorsale, codardi che non avrebbero mai il coraggio di ripetere le loro stesse parole guardandomi in faccia.” Decretò aspramente, aprendo le mani per far aderire i palmi alle asperità della roccia levigata dal tempo. “Valgono meno dei vermi che strisciano nella terra, per quel che mi riguarda.”
Ioreth rimase a lungo in silenzio, ed alla fine esalò un lento sospiro.
“Un tempo credevo che saresti cresciuto con il cuore di tua madre.” Disse rivolta alla sua schiena, con una lievissima punta di rimpianto. “Eppure ora vedo che non sei diverso da tuo padre.”
“Fuori di qui!” Sbraitò improvvisamente Ulfric al colmo della rabbia, voltandosi di colpo. “Allontanati dalla mia vista!”
L'anziana servitrice si esibì in una riverenza appena accennata, senza dar segno di scomporsi.
“Come desideri.” Replicò seccamente, prima di allontanarsi in tutta calma accompagnata dal fruscio delle proprie gonne.
Lo Jarl attese di vederla scomparire oltre l'arco di pietra, quindi si avvicinò a gran passi al tavolo addossato alla parete ed agguantò la freccia che aveva appoggiato accanto alla faretra. Sarebbe andato immediatamente dall'armaiolo, senza perdere altro tempo, e dopo si sarebbe diretto di nuovo nel cortile dove si allenavano i suoi guerrieri.
Doveva approntare tutto il necessario per il proprio viaggio, ma contava dentro di sé di avere ancora il tempo sufficiente per sfogare la propria irritazione con uno scontro in armi degno di questo nome.
 

******



Stava ancora nevicando.
Con un sospiro sistemai lo schermo della finestra nel suo alloggiamento, richiudendo lo spiraglio che avevo aperto per guardare all'esterno.
Una neve sottile, fine come pulviscolo, si adagiava sui tetti e le strade già imbiancate di Windhelm, come se volesse cancellare i pochi effetti del pallido sole che avevo visto risplendere quella mattina.
Mi allontanai dalla finestra, abbracciandomi sotto la pesante coltre di pelliccia che mi ero gettata sulle spalle, e ripresi a camminare per la stanza.
Mio marito si era trattenuto tra i suoi uomini durante entrambi i pasti della giornata, e quando, al termine della cena, avevo realizzato che non si sarebbe presentato, avevo fatto in modo che gli venisse consegnato un vassoio e mi ero ritirata nella camera che dividevo con lui.
Avevo lasciato che Ioreth mi aiutasse a vestirmi e mi sciogliesse i capelli, e dopo averla congedata avevo chiamato Mirala al mio fianco.
L'irritazione che avevo provato nei suoi confronti durante la visita dei due Altmer era ormai un ricordo, svanita molte ore prima mentre mi attardavo nella stanza da bagno.
Ora che era divenuta la mia dama di compagnia non mi era possibile averla accanto spesso come accadeva un tempo, e mentre io me ne rammaricavo, con mia grande sorpresa Mirala si era detta favorevole al cambiamento.
“Non sei più una bambina.” Mi aveva detto. “Ora che hai raggiunto Windhelm, è giusto che tu ti comporti secondo il tuo rango e che abbia servitori adeguati.”
Me lo aveva ripetuto anche quella sera, mentre finiva di passarmi tra i capelli un grazioso pettinino di legno ed avorio con cesellature d'argento, che faceva parte dei piccoli tesori della mia famiglia.
“Ioreth conosce meglio di me le usanze di queste corti.” Mi aveva detto, cercando di districare un nodo con dei leggeri colpi di pettine. “Ed ha l'esperienza per guidarti, sempre che tu le presti ascolto. Ed ora smettila di mostrarti irritata: fare il broncio non ti aiuterà a cambiare le cose, né a farti benvolere.”
“Perché dovrei essere più tollerante?” Avevo risposto in un borbottio.“Lui non si è mai sforzato di essere piacevole con me.” Mi ero lamentata. Non avevo avuto bisogno di specificare chi fosse Lui, perché entrambe sapevamo che mi riferivo al mio brusco sposo.
“E' tuo marito, non il tuo amante.” Era stata la severa risposta di Mirala, mentre terminava di pettinarmi i capelli. “Non è tenuto ad essere piacevole. Hai scordato quello che ti ho insegnato, forse?”
“No, Mira.” Avevo sospirato. L'avevo sentita muoversi dietro di me, mentre riponeva il pettinino nella sua scatola di palissandro, ed io ero rimasta ad attendere che mi raggiungesse di nuovo, lisciandomi distrattamente le pieghe della camicia da notte sulle cosce.
Dopo pochi istanti la mia balia era tornata dame e mi si posta davanti, prendendomi per le mani per farmi alzare. Mi aveva osservato pensosa per un lungo attimo, scrutandomi dall'alto con i suoi obliqui occhi neri, ed alla fine si era chinata per darmi un bacio sulla fronte.
“Devi sforzarti di essere felice, bambina mia. Se saprai mostrarti serena, vedrai che le cose cambieranno.”
“E se non riuscissi ad essere felice?”
“Allora dovrai fingere fino a crederci.”
E con quel terribile consiglio Mirala si era congedata.
Avevo passato l'ora successiva riflettendo sulle sue parole, e solo negli ultimi minuti avevo deciso di alzarmi dalla panca ai piedi del letto e di passeggiare per la stanza, per combattere il gelo che sentivo penetrarmi nelle ossa.
Con aria sconsolata osservai il camino, in cui brillavano debolmente le ultime braci. Dal ritorno di mio marito il fuoco era stato acceso raramente, ed io ero tornata a patire il freddo come prima della sua partenza.
Incrociai le braccia, stringendomi nella mia sottile camicia da notte sotto la pesante coltre di pelliccia. Avevo il naso gelato, e se sollevavo il volto e soffiavo lentamente potevo vedere la condensa del mio respiro.
Come potevo sforzarmi di essere felice, quando ero circondata da un simile gelo?
Un rumore di voci lungo il corridoio mi distrasse dalle mie cupe riflessioni, ed io mi voltai istintivamente in direzione della pesante porta di legno.
La stanza che occupavo con mio marito si trovava in cima ad una ripida scalinata, al termine di lungo passaggio che piegava ad angolo retto; su entrambi i lati si aprivano le porte di numerose camere spaziose, probabilmente riservate ai figli od ai congiunti del sovrano. Per la maggior parte erano vuote, ma al momento alcune erano occupate dagli uomini più fidati di mio marito.
Immaginai che le voci appartenessero a loro, per cui non vi detti subito peso.
Probabilmente il consiglio che aveva impegnato il mio sposo era terminato prima del previsto, o forse qualche capitano aveva ottenuto di potersi allontanare prima della fine.
Notando che le voci non accennavano a smettere, dopo un attimo di tentennamento mi avvicinai alla porta, inclinando il capo verso il battente per carpire qualche parola. Sapevo che non era un comportamento adatto ad una Signora, ma al momento non c'erano né Ioreth né Mirala pronte a disapprovarmi, così decisi che non sarebbe stato poi tanto scorretto se nessuno mi avesse vista.
Gli uomini in fondo al corridoio dovevano essere in due, perché non udivo altre voci, ed uno di loro doveva essere Galmar. Potevo riconoscerne il tono sicuro, mentre il suo compagno di limitava a qualche borbottio di assenso.
Mi accostai ancora di più alla porta, posando una mano sul battente rinforzato in ferro e rabbrividendo quando entrai in contatto con il metallo gelido.
“... Nessuna parola... molto contrariato.” Stava dicendo Galmar, ed immaginai che si stesse riferendo al mio sposo.
Il vecchio guerriero ed il suo compagno avanzarono ancora un po' lungo il corridoio, e mentre si avvicinavano mi accorsi di riuscire a distinguere meglio i loro discorsi.
“... innocente. Non ha nulla a che fare con quella... incresciosa.”
“Idiozie.”
A quella replica mi staccai di colpo dalla porta e feci un balzo indietro, premendomi le dita sulle labbra. Avevo riconosciuto quella voce brusca. L'interlocutore di Galmar non era altri che mio marito.
Fissai per un attimo il pesante battente di legno, incerta sul da farsi, ma poi li sentii tornare a discutere, e vinta dalla curiosità mi accostai di nuovo alla porta. Sentivo le venature del legno sotto le dita, e mentre cercavo di percepire qualche parola in più cominciai a seguire quei rilievi sinuosi coi polpastrelli.
“Ho parlato con il ragazzo.” Stava dicendo Galmar. “Era molto sorpreso.”
“Non si aspettava che arrivassimo a lui.”
“Ti sbagli. Ha detto che lui non si sarebbe sporcato le mani in quella maniera, ma che avrebbe offerto da bere al responsabile se solo avesse saputo chi fosse.”
“Che cosa?” Ruggì mio marito. “Quel maledetto, inutile...”
“Aspetta. Lasciami finire.” Le voci erano ormai chiare, ed immaginai che si fossero fermati nel punto in cui il corridoi piegava verso la scalinata, lì dove si apriva la porta per la stanza di Galmar. “Quando ho parlato della donna non ha voluto credermi, e l'ha mandata a chiamare. Ho dovuto interrogarla a lungo, ma alla fine lei ha confessato: dice di aver agito di nascosto, e di averlo fatto per compiacerlo.”
“Compiacerlo?” Il ruggito di mio marito mi avrebbe raggiunto anche se non avessi avuto l'orecchio premuto contro la porta. Era un ringhio carico di rabbia, che mi fece sobbalzare per la sua violenza. “Quella baldracca ha avvelenato mia moglie solo per compiacerlo?”
Sentirlo parlare di me mi colse di sorpresa, quasi più dell'accenno all'avvelenamento.
Un istante dopo però il vero significato delle sue parole mi sopraffece, e mi premetti le dita sulle labbra per soffocare un singulto. Qualcuno doveva avermi somministrato del veleno a mia insaputa, e la rabbia di mio marito, unita alla recente perdita del nostro primo figlio, mi raggelò.
Forse era una risoluzione azzardata, ma era l'unica a cui riuscissi a pensare e la sola idea mi atterriva. Chi poteva essere tanto crudele da concepire un gesto così orribile?
Volevo saperne di più, ed istintivamente mi appoggiai maggiormente contro la porta. Vedevo il mio respiro appannare le fasce di metallo battuto che percorrevano la porta, ed i peli della pelliccia che portavo sulle spalle tremare ogni volta che espiravo.
Dall'altra parte del battente, mio marito imprecava e lanciava maledizioni.
“Anche il ragazzo non è stato felice di saperlo.” Commentò la voce di Galmar. Sentii un rumore tintinnante, ed immaginai che avesse appoggiato alla parete un'imponente spalla rivestita di cotta metallica. “Credo che l'avrebbe battuta, se io non fossi stato presente. Avremmo dovuto vigilare meglio su di lui. Se tu gli avessi concesso di diventare uno dei tuoi guerrieri, avrei potuto inculcargli la giusta disciplina.”
“E dargli gli strumenti per nuocermi e prendersi il mio regno?” La voce di mio marito vibrava di collera, persino più di quando mi aveva rimproverata per essere uscita da sola dal palazzo. “Voglio che la donna sia condotta immediatamente alle prigioni. Me ne occuperò non appena farò ritorno da Solitude.”
La novità del viaggio a Solitude mi lasciò per un attimo interdetta. Era un cambio repentino di argomento, a cui non ero preparata. Senza contare che non ne avevo mai sentito parlare.
“Ho già provveduto ad arrestarla e a portarla in una delle celle libere.”
“Bene. E fai tenere d'occhio il ragazzo. Non mi fido di lui.”
“Darò disposizioni.” Gli assicurò Galmar. “Allora, quando partiamo?”
“Partirò io soltanto. Tu non andrai da nessuna parte.” Grugnì mio marito. “Ti voglio qui, per tenere sotto controllo la situazione.”
Sentii un rumore raschiante, segno che probabilmente il vecchio guerriero si era spostato o aveva cambiato posizione.
“Hai intenzione di andare senza nessuno che ti guardi le spalle?” Domandò, e dal suo tono indovinai che non era affatto felice di quella soluzione.
“Porterò Asbjorn con me.” Fu la replica di mio marito. “Ma preferisco che tu resti a Windhelm e che ti occupi di mia moglie. Yrsarald ha già fallito, permettendo che venisse avvicinata. Mi aspetto che tu non commetta un simile errore.”
“Preferirei accompagnarti in quel covo di vipere.” La voce di Galmar si era fatta più dura, e le note aspre dell'Eastmarch resero le sue parole meno comprensibili per le mie orecchie. “Ma se è il tuo volere, resterò qui. ”
“E' il mio volere.” Dichiarò mio marito in tono risoluto. “Non dovrai mai perderla di vista.”
“Cosa c'è di meglio che avere la tua approvazione?” Ridacchiò il vecchio guerriero, e dietro la porta feci una smorfia seccata. Mi ero abituata alla compagnia di Yrsarald, che nonostante i suoi modi rozzi aveva sempre cercato di essere rispettoso; al contrario, quella di Galmar prometteva di essere altamente molesta e fastidiosa.
“Bada a quello che fai. Non è una delle sguattere a cui sollevi le gonne.”
“Non l'ho mai pensato, vecchio mio.”
“E sarà bene che continui a farlo.”
Con tali parole si concluse il loro discorso, e non appena sentii rumore di passi lungo la scalinata che portava alla mia camera mi allontanai repentinamente dalla porta, e tenendo sollevato il lembo della camicia da notte corsi a sedermi accanto al camino sempre più freddo.
Avevo appena preso posto su un rigido sedile di legno quando sentii la porta aprirsi, e con uno sbuffo irato mio marito fece il suo ingresso nella stanza.
“Sei sveglia.” Sbottò non appena si accorse di me, riuscendo quasi a far passare quelle poche parole come un'accusa. C'era una lieve sfumatura nella sua voce, eppure non avrei saputo dire se fosse fastidio o sorpresa.
Mi alzai, tenendo la cappa che mi gravava sulle spalle con una mano per evitare che mi scivolasse; Avevo le dita intirizzite e mi era difficile mantenere bene la presa, così strinsi il pugno tra le pieghe della pelliccia e sollevai le spalle, per tenerla ferma il più possibile.
“Avevo freddo, e non riuscivo a prendere sonno.”
“E perché non hai preso un'altra coperta, invece che andartene a zonzo con il mio mantello?”
Alla durezza delle sue parole strinsi le labbra ed abbassai un poco il capo, incapace di trovare una risposta pronta davanti a quel tono d'accusa.
Mio marito borbottò qualcosa tra i denti e si voltò, ed io rimasi ad osservarlo chiudere pesantemente la porta e far scivolare i chiavistelli nelle loro sedi, immobile e dritta accanto al camino.
Desideravo sapere qualcosa in più sul mio presunto avvelenamento, e chiedergli del viaggio di cui avevo sentito parlare; ma sapevo che il modo in cui ne ero venuta a conoscenza non era affatto nobile, così come conoscevo bene l'irritazione che gli causavano sempre le mie domande, soprattutto quando era di cattivo umore.
Con mia grande sorpresa, scoprii di sentirmi meno indisposta nei suoi confronti di quanto non avrei voluto essere; persino in quel momento, mentre si aggirava per la nostra stanza come un orso in gabbia, non riuscivo a provare la stessa rabbia in cui mi crogiolavo sin dal suo ritorno.
Poteva anche essere rigido e freddo come le pietre del suo palazzo, ma le parole che aveva rivolto a Galmar mi confermavano che, in qualche suo strano modo che non comprendevo pienamente, si preoccupava per me e per la mia incolumità.
Stavo cominciando a considerarlo con un po' più di tenerezza, quando un suo grugnito mi distrasse dai miei pensieri.
“Dal momento che sei ancora in piedi, vedi di renderti utile.” Mi ingiunse bruscamente, rovistando in un armadio ed estraendone una bracciata di lunghi mutandoni di lana. “Apri quel cassettone e prendimi due casacche pulite.”
Ripetendomi che la sua rabbia non era rivolta a me sollevai l'orlo della veste da camera con una mano, e stringendomi addosso la pelliccia con l'altra mi avvicinai ad una bassa cassapanca. Le cerniere mandarono un cigolio di protesta quando sollevai il pesante coperchio di legno, e dal momento che mi era impossibile tenerlo in quella posizione senza sostenerlo con la mano, lasciai per un attimo la presa sulla cappa d'orso ed allungai un braccio verso le casacche all'interno.
Quasi istantaneamente la pelliccia scivolò a terra, ed io venni investita da un'ondata gelida che trapassò senza alcun impedimento la mia sottile camicia da notte. D'istinto cercai di agguantarla al volo, e per farlo lasciai cadere le casacche sul pavimento e mollai la presa sul coperchio della cassapanca, che si richiuse con un tonfo tale da farmi sobbalzare.
A quella vista mio marito, che aveva seguito l'intera scena dall'altra parte della stanza, esalò un sospiro ringhiante e mi voltò lentamente le spalle in palese esasperazione.
Con fare impacciato raccolsi la pelle d'orso e le casacche che mi aveva chiesto, e cercando di mantenere una certa grazia lo raggiunsi.
“Se hai tanto freddo, forse dovresti metterti sotto le coperte.” Brontolò lui, occhieggiandomi il petto senza troppi riguardi. Imbarazzata cercai allora di coprirmi come meglio potevo, ma ero troppo impacciata da quello che portavo.
Allungando una mano mio marito mi tolse gli abiti e la pelliccia che stringevo sottobraccio, e con il capo mi fece un cenno verso il letto che torreggiava al centro della stanza.
“Vai, e la prossima volta lascia stare i miei mantelli.” Mi disse in tono seccato, ammucchiando le casacche insieme ad altri abiti che aveva estratto dagli armadi. Quando gli parve di averne accumulati abbastanza cominciò a spingerli in una sacca, muovendosi con gesti che tradivano la rabbia che covava in petto.
Non mi era più così facile formulare pensieri gentili nei suoi confronti, e stringendomi tra le braccia mi affrettai ad infilarmi sotto le coperte.
Mi lasciai scivolare sotto le lenzuola fredde, sperando che presto il calore del mio corpo le rendesse di una temperatura quantomeno accettabile, e stesa su un fianco rimasi ad osservare mio marito affannarsi per i preparativi di quel viaggio di cui non avrei dovuto essere a conoscenza.
Stavo cercando un modo per porgli delle domande senza farlo infuriare troppo, quando lui mi precedette.
“Per quanto dovrò aspettare, ancora?” Mi domandò a bruciapelo, e sollevando gli occhi dalle pesanti coltri che mi stavo drappeggiando addosso, vidi che il suo sguardo era puntato all'altezza del mio ventre.
“La guaritrice dice che ci vorranno ancora tre settimane almeno, perché il mio corpo si riprenda appieno.” Dissi, sentendo le guance avvampare.
“Bene. Domattina devo partire per Solitude, e non mi sarebbe piaciuto sprecare del tempo prezioso.” Dichiarò seccamente, chiudendo con una cinghia la sacca piena di abiti e cominciando ad allentarsi la cintura.
“Perché devi andare?” Esclamai all'improvviso.
Le parole che mi uscirono dalle labbra avevano un tono meno sicuro di quanto avrei voluto, ma decisi di non darmi per vinta e mi schiarii la voce, cercando di continuare con un po' più di fermezza. “E' per via della lettera giunta questa mattina? Cosa c'era scritto?”
“Perché non stai ancora dormendo, tormento d'una donna che non sei altro?” Sbottò mio marito, fulminandomi con il suo sguardo ghiacciato prima di sfilarsi la casacca di tela e gettarla in un canto. “Le mie ragioni non devono interessarti.”
Indispettita mi sollevai su un gomito ed aggrottai la fronte, osservandolo mentre si sfilava i calzoni.
“Sono la Signora di Windhelm...”
“Ed io sono lo Jarl.” Mi interruppe lui, avvicinandosi al candelabro di ferro che illuminava debolmente la stanza e cominciando a spegnere le candele, stringendone lo stoppino tra le dita.“E mi pare che questo valga più di ogni altro titolo, Moglie.”
Mi allungai sulle lenzuola ruvide, strizzando gli occhi per scorgere la sua figura massiccia nella penombra crescente. Altri due lumi si spensero, ed io scossi il capo in silenziosa irritazione.
“Ad ogni modo.” Lo sentii continuare in tono meno ostile, mentre anche l'ultima fiammella spirava in un filo di fumo. “Ho assegnato a Galmar il compito di farti da Huskarlo durante la mia assenza. Spero che si dimostri più affidabile di Yrsarald, e che tu ti comporti con un po' più di criterio.”
“Non mi sono mai comportata...”
“Prima di dire sciocchezze...” Mi interruppe ancora, accostandosi al letto. “... pensaci bene.”
Strinsi le labbra, troppo seccata per aggiungere altro. Vedevo la sua sagoma stagliarsi accanto al materasso, un'ombra pallida che si muoveva su uno sfondo di ombre grigie. Anche senza riuscire a distinguerli potevo percepire i suoi occhi scrutarmi dall'alto, con la stessa calma ferina con cui un animale selvatico osserva il suo territorio.
“E' un vero peccato che si debba ancora aspettare.” Mormorò quasi parlando a sé stesso, in un tono più conciliante che prima di allora avevo udito solo nei momenti in cui si univa a me. “Ma non mi tratterrò lontano troppo a lungo.”
Lo sentii sospirare nell'oscurità, e la coperta si scostò bruscamente. “Spostati più in là. Sei sul mio posto.” Mi disse, ed io scivolai sul mio lato del letto un attimo prima di venir schiacciata dalla sua mole.
Lo sentii muoversi sotto le coperte, in cerca di una posizione più comoda, e dopo qualche grugnito finalmente smise di agitarsi. Rimasi per lunghi minuti in attesa che mi rivolgesse ancora la parola, spiegandomi tutte quelle cose che erano rimaste in sospeso o non dette, ma invano.
Quando mi accorsi che il suo respiro si era fatto più regolare compresi che non mi avrebbe più aggiunto nulla, almeno per quella sera.
Allora sospirai e mi accoccolai come meglio potevo sotto le coltri del nostro letto, voltata verso l'ampia schiena che mi rivolgeva.
Mi sfiorai il ventre con una mano, ricordando la leggerissima curva che fino a poco tempo prima ornava il mio profilo, e mi raggomitolai più strettamente su me stessa.
Secondo Mirala dovevo sforzarmi di essere felice.
Ci avrei provato, di certo per amor suo; ma più tempo passavo a Windhelm, più mi pareva che la felicità si allontanasse da me.
 

******



La nave rollava dolcemente sul mare ghiacciato.
Onde cupe si infrangevano sulla chiglia levigata, sollevando spruzzi di gelida acqua salmastra che venivano catturati dal vento inclemente. Di tanto in tanto dalla distesa verde cupo dell'oceano sbucava una irta cresta bianca, un pezzo di ghiaccio frastagliato che galleggiava solitario o che ornava la sommità di una roccia affiorante.
Era pericoloso navigare in quelle acque, ma i marinai di Windhelm conoscevano bene quel tratto di mare, e le loro navi mercantili difficilmente andavano alla deriva.
Avanzando con andatura ciondolante per assecondare il dondolio dell'imbarcazione, Asbjorn, il capitano della scorta reale, raggiunse il suo Jarl a prua, intento a scrutare le onde appoggiato alla murata.
“Gli uomini cominciano ad innervosirsi, sire.” Disse, con la voce arrochita dai gelidi venti marini.
Ulfric grugnì e voltò il capo, sputando verso le acque limacciose. I capelli gli sferzavano il viso ed il collo, divisi in ciocche arruffate ed irrigidite dalla salsedine, e l'aria fredda che spirava incessantemente da nord, dalla lontana Atmora, aveva aggredito e spaccato la pelle esposta; le sue nocche erano ricoperte da minuscoli tagli che non si rimarginavano, e quando parlava le labbra screpolate si imperlavano di gocce di sangue.
“La traversata non durerà ancora a lungo.” Decretò lo Jarl, facendo un brusco cenno davanti a loro. “La luce che vedi guizzare laggiù è il faro di Dawnstar. Secondo il capitano della nave, se il tempo si mantiene stabile ci vorrà poco più di una settimana.”
“Bene.” Borbottò Asbjorn, stringendo gli occhi contro le folate sferzanti. Si voltò leggermente, in modo da offrire la robusta spalla ai primi assalti del vento, ed un ghigno sardonico si dipinse sul suo cupo volto solcato dalle cicatrici. “Gunnar sta vomitando l'anima. Avanti di questo passo comincerà a rigettare anche i propri visceri.
“Speriamo che questo non richiami qualche bestia marina.” Ribatté lo Jarl salace, strappando una roca risata al suo sottoposto.
Era stato Asbjorn a trovare la nave. La traversata via mare dimezzava il tempo necessario a raggiungere Solitude, e non appena aveva ricevuto l'incarico di organizzare il viaggio con solo poche ore di preavviso, si era diretto ai moli.
La Vigdis, il mercantile che li stava trasportando in mezzo ai ghiacci, aveva in programma un viaggio proprio verso la capitale dell'Haafingar, ed al capitano della guardia reale era bastato poco per combinare l'affare. La mattina successiva, due ore prima dell'alba, si era ripresentato accompagnato dallo Jarl e da cinque dei suoi uomini migliori.
La nave si sarebbe fermata a Solitude per soli cinque giorni, ma Ulfric contava di riuscire a sbrigare i propri affari ben prima di allora.
Aveva ben altro a cui pensare entro i propri confini, senza il bisogno che ci si mettesse anche Istlod a complicare le cose.
“Credo che quell'idiota abbia finito di dar da mangiare ai pesci.” Commentò Asbjorn, osservando uno dei suoi uomini che, chino in avanti ed appoggiato alla murata con un braccio, si puliva la bocca con il dorso di una mano. Un suo compagno d'arme gli stava accanto, battendogli scherzose pacche sulla schiena e prendendolo bonariamente in giro; o almeno così pareva, perché il vento trascinava via le sue parole non appena gli uscivano dalle labbra, e tutto quel che restava era un ghigno sarcastico sul volto barbuto.
“Porta Gunnar sottocoperta.” Ordinò lo Jarl al suo sottoposto, alzando la voce per sovrastare un gemito dello scafo di legno.
Asbjorn chinò impercettibilmente il capo e partì alla volta dei due soldati, senza aggiungere altro. Probabilmente decretava di aver già detto troppo. Era sempre stato un uomo di poche parole.
Rimasto solo, Ulfric tornò ad osservare il mare limaccioso che si stendeva davanti a lui.
Sin da quando aveva posato piede sul ponte scricchiolante della Vigdis, era stato assalito dal dubbio di aver portato troppi pochi uomini. Conosceva bene il valore della propria guardia personale, e non dubitava del giudizio di Asbjorn; eppure temeva che, se le cose fossero volte al peggio, il loro numero sarebbe stato fin troppo esiguo.
La vera incognita era il colloquio con Istlod. Lo Jarl di Solitude era un uomo bonario, che desiderava solo godersi la vecchiaia senza dover imbracciare ancora le armi.
Ma era anche un sovrano che conosceva i modi migliori per ottenere i propri scopi, ed Ulfric temeva che, davanti al netto rifiuto che avrebbe opposto ad una richiesta di pagamento, Istlod decidesse di imprigionarlo; ed il riscatto richiesto per la sua liberazione sarebbe stato naturalmente l'intero importo della somma chiesta da Markarth.
Di certo, in una simile situazione, la sua giovane moglie avrebbe messo mano alle casse del regno, prosciugandole solo perché le veniva chiesto di farlo. Era una fortuna che avesse lasciato Galmar con lei; il suo secondo avrebbe invece temporeggiato, ed in segreto avrebbe organizzato un modo per tirarlo fuori dalle segrete di Solitude.
Lo scricchiolio secco delle cime intrise di sale lo distrasse per un istante dai suoi pensieri, ed Ulfric sollevò lo sguardo sopra la propria testa. Il vento tendeva le vele e spingeva la nave lungo la sua rotta, promettendo di portarli a destinazione nel tempo prefissato.
A suo avviso la convocazione di Istlod non poteva giungere in un momento peggiore, ma sapeva che rinviare quel viaggio inaspettato avrebbe portato a conseguenze peggiori.
Meglio togliersi subito il fastidio, quale che fosse l'esito, e cercare di tornare a Windhelm il prima possibile.
Perché, come se non fosse abbastanza doversi preoccupare dei Thalmor che complottavano ed insidiavano i suoi confini, ora si era risvegliata una minaccia interna, che fino ad allora aveva ignorato. Mai avrebbe pensato che Halfdan si sarebbe potuto spingere tanto oltre.
Halfdan.
Anche solo pensare quel nome lo riempiva di irritazione.
Quella sua donna poteva anche aver dichiarato di avere agito da sola, ma Ulfric sapeva cosa stava succedendo. Il ragazzo serbava rancore verso di lui, e da sempre cercava un modo per salire al trono; quell'attacco alla sua giovane sposa non era altro che un tentativo di eliminare dei legittimi concorrenti.
Quel piccolo bastardo si stava spianando la strada verso la corona.
Un'onda si infranse contro lo scafo, investendolo con una sventagliata di pungenti gocce ghiacciate.
Avrebbe dovuto affogarlo quando era venuto al mondo, come aveva suggerito Galmar al tempo, o lasciare che suo padre, l'Orso di Windhelm, al colmo dell'ira lo schiacciasse sotto il tacco dei propri stivali, o lo lanciasse dalla sommità del Palazzo dei Re. Ma ai tempi Ulfric non aveva avuto intenzione di sporcarsi le mani con il sangue di un innocente, ed aveva fatto in modo che crescesse entro le mura, con il beneficio di un tetto sopra la testa e di qualche regalo di viveri o legna di tanto in tanto.
“E questo è stato il ringraziamento.” Ringhiò tra sé, stringendo gli occhi gelidi contro le folate di vento ghiacciato.
Irritato si staccò dalla murata, ed avanzando con tutta la fermezza che gli consentiva il ponte ondeggiante si diresse verso il castello di poppa. I suoi uomini si trovavano sottocoperta, probabilmente intenti a bere o raccontarsi storiacce da caserma per dimenticare il mare gelato che covava sotto di loro.
Se ancora non l'avevano finita, avrebbe potuto recuperare un po' della loro birra, ed ascoltare qualcuna delle loro pessime storie.
Nei giorni precedenti ne aveva già avuto abbastanza, sia dell'una che delle altre, ma aveva un dannato bisogno di distrarsi.


 

 

 

 

 

 

 


Questo è un piccolo capitolo di passaggio, come si è visto. Ancora non ci sono combattimenti e scontri armati, ma andando avanti con i capitoli cominceranno ad apparire, perché non posso fare una storia sulla guerra civile senza guerra.
Le mezze informazioni che si trovano in questo capitolo sono volutamente incomplete – la comparsa degli Altmer, l'identità di Halfdan ecc. - e verranno svelate nei capitoli successivi.

Come ho spesso ripetuto nelle mie precedenti note, questa storia non ricalca totalmente l'atmosfera di Skyrim. Ho cercato di renderla il più realistica e medievale possibile senza stravolgere l'ambientazione, e la durezza di alcune affermazioni dei miei personaggi è data solo dal mio desiderio di attenermi a questa premessa.

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Capitolo 8
*** Crown of shadows ***


 
La Sala del Trono brulicava di gente.
Un confuso brusio si levava dalla folla di uomini e donne, nel quale spiccava di tanto in tanto un belato acuto o il latrato di un cane. Era giunto nuovamente il primo Sundas del mese, e le porte del Palazzo dei Re si erano aperte per accogliere i cittadini che desideravano discutere le loro contese.
Sedevo in cima alla pedana accanto al trono vuoto, sulla mia minuscola seggiolina di legno dall'alto schienale. In assenza di mio marito ero tenuta a presenziare a quei piccoli processi pubblici, ma non ero io a decretare i verdetti.
Dall'altro lato del trono rispetto a me, ritto in piedi appena un gradino più sotto, Jorleif ascoltava le dispute sventolando un calamo ornato da una penna d'aquila. Accanto a lui stazionava un giovane apprendista, dai lunghi capelli paglierini ed il naso cosparso di lentiggini, che reggeva tra le braccia magre un pesante libro mastro.
Facendo svolazzare la penna d'aquila, il Sovrintendente vi annotava con dovizia tutti i casi che gli si presentavano, i nomi di coloro che vi erano coinvolti e la decisione presa, così che il mio sposo potesse avere una precisa relazione di quanto era accaduto nel regno in sua assenza.
Fino ad allora era stata una mattinata estenuante.
Avevo ascoltato per quasi un'ora una donna Nord che lavorava al mercato lamentarsi dell'indisponenza del Dunmer che lavorava al banco accanto al suo; subito dopo era stato il turno di un'anziana che aveva denunciato la scomparsa della figlia, e che era stata trascinata via dalle guardie quando si era rifiutata di lasciare il proprio posto a chi attendeva dietro di lei.
I casi successivi erano stati una sequela di litigi e semplici lamentele, tanto che avevo dovuto lottare con tutta me stessa per mantenere viva l'attenzione e non assopirmi per la noia.
In quel momento stava parlando una contadina dai capelli fulvi, con una grassa chioccia sottobraccio, che accusava la vicina di rubarle sempre un uovo dalle covate della sua gallina. Non le prendeva tutte, ma una soltanto, e questo per lei equivaleva ad un furto imperdonabile.
Non aveva alcuna prova ad eccezione della propria convinzione, e sebbene l'accusata si professasse innocente quella continuava a chiedere giustizia a gran voce.
“Signore, silenzio.” Sospirò Jorleif per l'ennesima volta, stringendosi la radice del naso tra pollice ed indice e chiudendo gli occhi per un istante.
“Non resterò in silenzio mentre questa ladra bugiarda continua a mentire.”
“Non sono una ladra, sei tu che sei ammattita. Che bisogno avrei di rubare le tue uova, quando ho delle galline mie?”
“Lo sanno tutti che le mie uova sono più grandi delle tue.”
“Questo è ridicolo! Signore, voglio denunciare questa donna per calunnia.”
“Cosa? Come osi? Sono io che sto denunciando te!”
Con un sospiro voltai il capo, lasciando le due donne alla loro diatriba e spaziando con lo sguardo sulla folla.
Vi erano molti Dunmer, proprio come l'ultima volta che avevo assistito a quel genere di udienze, e sebbene indossassero quelli che erano chiaramente i loro abiti buoni, parevano comunque vestiti di stracci cenciosi e sbiaditi dal tempo.
Molti di loro di tanto in tanto occhieggiavano nella mia direzione, facendo baluginare i loro grandi occhi neri o vermigli alla luce delle torce; mi inquietavano, ma con ogni probabilità la vera causa dei loro sguardi era Galmar, armato ed abbigliato con la sua spaventosa corazza di metallo e cuoio, che sedeva ai miei piedi come un cane fedele.
Sin dal giorno della partenza di mio marito, quell'imponente guerriero aveva dimostrato di aver preso alla lettera il compito che gli era stato assegnato.
Ogni mattina lo trovavo ad aspettarmi subito fuori dalla mia porta, e da quel momento mi stava accanto per tutta la giornata fino a sera, quando mi accompagnava di nuovo nella mia stanza, e non si allontanava prima di avermi sentita serrare la porta con i chiavistelli.
Quella mattina, invece di stazionare in piedi ai due lati del trono insieme ad Yrsarald ed agli uomini della mia scorta personale così come faceva quando era presente mio marito, aveva deciso di prendere posto sui gradini della pedana su cui si ergevano lo scranno vuoto ed il mio piccolo sedile intagliato.
Sospirai, lisciando distrattamente il velluto blu che mi copriva le cosce con la punta delle dita. Quel giorno Ioreth aveva insistito perché indossassi uno degli abiti che mio marito mi aveva fatto confezionare, di squisita fattura e dalle linee diritte e tipicamente Nord, e con una gran testa d'orso ruggente ricamata in argento sulle gonne. A suo dire dovevo dimostrare al popolo che ora appartenevo a quelle terre, ma non ero certa che quello fosse il modo migliore.
Fortunatamente era un abito confezionato con un tessuto spesso e pesante, che insieme al braciere posto dietro di me mi impediva di sentire eccessivamente freddo, nonostante l'aria pungente che entrava dalle porte spalancate.
Stavo ancora osservando la folla, cercando di evitare gli sguardi astiosi dei Dunmer, quando scorsi uno strano uomo accanto ad un piccolo gruppo di Nord, tra i cittadini giunti solo per ascoltare le sentenze.
Indossava un vecchio mantello di lana con un ampio cappuccio abbassato sulla fronte, sebbene fosse chiaro che non lo portava per ripararsi dal freddo dal momento che aveva arrotolato le maniche della casacca, lasciando nudi i robusti avambracci coperti da una folta peluria bionda.
Il suo volto aveva un'aria vagamente familiare, ma coperto ed ombreggiato com'era dal cappuccio mi era difficile scorgerne con precisione i tratti; quello di cui ero certa, era che mi stava osservando.
Era voltato nella mia direzione, e persino quando le due litiganti davanti a Jorleif cominciarono a strepitare, rendendo necessario l'intervento di due guardie ed attirando l'attenzione di tutti i presenti, lui non voltò il capo. La sua fissità mi dava i brividi ed ero sul punto di richiamare l'attenzione di Galmar, quando anche il vecchio guerriero parve accorgersene.
“Maledetto bastardo.” Lo sentii imprecare, in un sussurro appena udibile. Con un grugnito spostò le natiche sul gradino di gelida pietra, come a ricercare una posizione più comoda, e la grossa testa d'orso che indossava sul capo dondolò sotto i miei occhi; mentre si muoveva venni raggiunta da una calda zaffata che ricordava l'odore dell'animale ancora in vita.
“Yrsarald.” Chiamò a bassa voce per non destare troppo l'attenzione, facendogli un cenno quasi impercettibile col capo.
Non ebbe bisogno di aggiungere altro; il giovane Capitano si staccò silenzioso dal gruppo di guerrieri che stazionavano ai due lati del trono, e subito scomparve tra la folla.
Avevo appena visto la sua ampia schiena svanire dietro a due cacciatori, dalle barbe aggrovigliate e vestiti interamente delle pellicce degli animali uccisi, che colsi un movimento con la coda dell'occhio. Voltandomi riuscii a notare l'uomo con il mantello rivolgermi un candido ghigno da sotto il cappuccio prima di ritirasi in fretta, senza correre per non dare troppo nell'occhio.
Dalla mia posizione sulla pedana rialzata riuscivo a vedere Yrsarald affrettarsi dietro di lui, fendendo la folla. Non sapevo chi fosse, ma capivo che doveva essere un uomo poco gradito alle guardie. Ed ora era poco gradito anche me, dopo lo strano modo in cui mi aveva fissata.
Tornai a rivolgere la mia attenzione alle udienze, solo per vedere farsi avanti due uomini dall'aria contrariata. Portavano entrambi abiti consunti e semplici, e da sotto l'orlo dei loro mantelli sbucavano solo le gambe avvolte in pezze di panno scuro.
“Torsten. Belyn.” Li salutò Jorleif con aria esausta, chiamandoli per nome. “Qual è il problema, questa volta?”
Il modo in cui si era rivolto loro diceva che non erano del tutto nuovi a quel genere di dibattiti, per cui mi umettai le labbra e cercai di interessarmi maggiormente.
“Questo grosso idiota ha spostato di nuovo la pietra di confine.” Esclamò stizzosamente uno dei due uomini, un Dunmer dai tratti insolitamente affilati, indicando l'altro con una mano. Portava una cuffia di cuoio sul capo, e ciocche corvine gli sfuggivano sulla fronte; la sua voce era bassa e profonda e risuonava stranamente, in un modo che mi ricordava il fruscio delle foglie secche.
“L'ho fatto perché l'avevi spostata tu per primo.” Lo rimbeccò il suo compagno, un Nord alto e robusto dai folti baffi biondi, con un accento così marcato che ci misi qualche attimo per capire le sue parole.
“Solo per rimetterla nella sua posizione originaria dopo che tu l'avevi spinta nella mia proprietà.” Ribatté il Dunmer, e le sue parole provocarono un confuso mormorio da parte della folla.
“Ne avevamo già parlato il mese scorso.” Jorleif sollevò il suo calamo, agitandolo come se stesse rimbrottando due monelli. “La proprietà di Torsten va dal boschetto di larici alla pietra, e la tua, Belyn, dalla pietra sino al sentiero.”
“Ma lui la sposta, la dannatissima pietra.”
“La sposto solo perché lo fa lui.”
Se il loro battibecco non fosse stato su un argomento così serio come la proprietà dei terreni, sarebbe risultato quasi comico, con quel piccolo e scattante Dunmer tutto nervi che inveiva contro un robusto Nord, capace di mandarlo lungo disteso con un solo manrovescio.
Ma i due non sembravano decisi a venire alle mani. Al contrario, continuavano ad accusarsi a vicenda ed a sostenere le loro ragioni come se provassero gusto a farlo.
Ricordavo vagamente un battibecco simile l'ultima volta che avevo presenziato a quelle udienze in compagnia di mio marito. In quell'occasione lui era rimasto ad ascoltarli a lungo, tamburellando con le dita sul bracciolo di pietra del suo trono, ed alla fine aveva chiuso la bocca ad entrambi dando ragione ad una delle parti. Non rammentavo chi dei due si fosse aggiudicato il verdetto, ma da quello che si stavano urlando in quel momento ero quasi certa che si trattasse del Nord.
“Se tu non l'avessi spostata...”
“Ma ho dovuto! La mia proprietà misura trentacinque passi dal recinto delle capre...”
“Tu non hai capre.”
“Le avrei, se tu non continuassi a rubarmi terreno spostando la pietra di confine.”
Chi ha rubato? Ripetilo, se hai il coraggio.”
“Basta, basta!” Berciò Jorleif, cercando di sovrastare le invettive dei due litiganti ed il rumoreggiare della folla, che commentava a gran voce e parteggiava per l'una o l'altra parte come se si trattasse di un torneo. “Il confine rimarrà così come è adesso, e questo è quanto.”
“E se invece si potesse modificare?” Domandai, e con mia grande costernazione il rumore nella sala si affievolì.
Avevo parlato cercando di mantenere un tono basso, rivolgendomi solo a Jorleif, ma a quanto pareva dovevo essere stata udita anche dai cittadini più vicini alla pedana del trono.
Molti visi si voltarono nella mia direzione, e persino Galmar si mosse sul gradino e si girò a guardarmi perplesso, con un sopracciglio tanto inarcato da svanire sotto le fauci della sua testa d'orso.
Tutti gli occhi erano puntati su di me.
All'improvviso mi resi conto che molta di quella gente non aveva mai nemmeno sentito la mia voce, e la cosa mi atterrì ancora di più. Non avevo mai parlato davanti a tanta gente. Perché diamine avevo aperto bocca?
“Signora?” La voce di Jorleif richiamò gentilmente la mia attenzione, in una cortese richiesta a ripetermi.
Lo guardai spaesata, cercando  qualcosa a cui aggrapparmi per sviare l'attenzione da me.
Ma non c'era nulla che potesse salvarmi dal discorso imminente.
Il Sovrintendente mi osservava in paziente attesa, Torsten e Belyn si erano miracolosamente zittiti, ed io mi sentivo come se tutto il sangue mi fosse stato sostituito con le acque gelide dell'Eastmarch.
Mi passai furtivamente i palmi sulle gonne, tormentato nervosamente uno dei ricami argentati che ornavano il pesante velluto delle mie vesti.
“Ecco.” La voce mi uscì simile ad un pigolio, e dovetti fermarmi e schiarirmi la gola prima di continuare, seppur con un tono più esitante di quanto avrei voluto. “Mi chiedevo se non fosse possibile modificare i confini. Forse. Sempre che non sia un problema.”
Jorleif mi fissò con aria indecifrabile, ed io mi torsi le dita in grembo. Da quando la Sala si era fatta così silenziosa? Pareva quasi che ogni singolo cittadino presente avesse smesso di parlare, solo per sentire le mie parole.
“In che modo vorreste cambiare i confini, esattamente?” Mi domandò lentamente il Sovrintendente,  con lo stesso tono cauto con cui a volte i domestici tentavano di ammansire Talos, il terribile cane di mio marito.
Strinsi le labbra, mordendomi l'interno di una guancia per il nervosismo. Poco prima pareva tutto così chiaro e limpido, nella mia mente, ed ora sembrava che ogni pensiero coerente fosse svanito come fumo nel vento.
“Potremmo lasciare la pietra dov'è ora.” Dissi titubante. “Ed ampliare l'altra proprietà sul lato opposto, così ognuno avrebbe il terreno della grandezza che ritiene giusto e non ci sarebbe più bisogno di litigare.” Mi fermai per prendere respiro, accorgendomi solo in quel momento di aver parlato tutto d'un fiato. Mentre parlavo avevo abbassato lo sguardo, ma quando lo sollevai di nuovo su Jorleif vidi con sorpresa che non mi osservava contrariato come avevo temuto.
Piuttosto, aveva un'aria pensierosa come se stesse soppesando la mia proposta, arrotolando tra le dita la punta di uno dei suoi baffi. Mi lasciò sulle spine per un breve istante, ma alla fine chinò la testa e mi rivolse un leggero inchino.
“Se questo è il volere di Milady.” Disse solamente, accettando la mia soluzione alla sentenza.  Poi si voltò verso i due litiganti in attesa, che ancora mi lanciavano degli sguardi sottecchi. “Nel giorno di Tirdas verranno inviati dei messi, per regolare la questione dei confini come deciso da Lady Lirael. Vedete di farvi trovare nella seconda ora dopo l'alba, o decideremo senza di voi. E adesso andate. Il prossimo!”
I due uomini borbottarono qualcosa, ciascuno annuendo tra sé, e si ritirarono. Il Nord mi rivolse una riverenza sgraziata ed un po' goffa, come se non fosse abituato a compiere quel gesto tanto spesso; il Dunmer invece si tolse la cuffia di cuoio e si inchinò profondamente davanti a me, ritirandosi subito dopo dietro al suo compare di discussioni.
Il loro posto venne presto preso da un piccolo gruppo di questuanti, e vedendo che l'attenzione si spostava da me a loro tornai a rilassarmi sulla mia minuscola sedia.
Fu solo mentre mi rassettavo nervosamente le gonne che mi accorsi di Galmar, ancora voltato verso di me, con un sopracciglio inarcato ed un occhio socchiuso in un'espressione quasi comica nella sua intensità.
“Oh, a lui non piacerà affatto.” Commentò quasi tra sé, facendomi raggelare con quel vago accenno a mio marito; subito dopo mi rivolse un ampio sorriso divertito, come se si trattasse tutto di uno scherzo. “Voi giocate col fuoco, mia Signora.” Mi disse in un brontolio compiaciuto, prima di tornare a voltarsi verso la folla.
Rimasi lì seduta per il resto della mattinata, ascoltando distrattamente quello che accadeva intorno a me. L'esperienza della mia prima sentenza mi aveva lasciata come stordita, con una vaga ansietà mista ad un senso d'orgoglio.
Certo, forse non si era trattato dell'esordio migliore che potessi fare, ma era un inizio.
Mio marito poteva anche essere lo Jarl ma io ero la Signora di Windhelm, e durante quella sua assenza lo avrei dimostrato, a lui ed all'intero Eastmarch.
Ma, soprattutto, lo avrei mostrato a me stessa.
 
 

******

 

L'aria di Solitude aveva un vago sentore salmastro.
Ulfric inspirò profondamente, accogliendo quell'odore di sale che conosceva sin troppo bene e che nel corso delle ultime settimane gli aveva invaso giornalmente le narici.
Gli ricordava vagamente Windhelm, la sua casa di ghiaccio e pietra stretta tra la sponda e la montagna, ma quella era a suo avviso l'unica cosa che le due città avessero in comune.
Solitude sorgeva su un promontorio a picco sul mare, mentre la sua corte si innalzava su un alto sperone dalla base corrosa dalle acque, al centro della baia; ad unire la città così divisa vi era un grande arco roccioso, che le leggende dicevano essere stato scavato dai Giganti in tempi immemorabili. Lassù, tra gli anfratti del ponte roccioso, nidificavano gli uccelli marini dalle voci stridenti, e la brezza che spirava spirava dolcemente risalendo la scogliera non era gelida quanto quella di Windhelm, ed il clima era meno rigido persino in inverno.
Sotto la cappa d'orso indurita dalla salsedine Ulfric sudava copiosamente, complici il sole che brillava sopra la sua testa e la lunga scarpinata che dal molo aveva condotto lui ed i suoi lungo il crinale fino alle porte della città.
Le guardie si erano mostrate sorprese nel vederlo comparire così, appiedato, con una scorta esigua e senza essere annunciato. L'aspetto selvaggio dei guerrieri di Windhelm, coperti di pelli di orso e di lupo grigio, con le asce appese alla cintola e le spade al fianco, era sufficiente per far sbarrare loro il passo. Ma erano guidati da uno Jarl che poteva esibire la convocazione del loro Signore Istlod, e dopo aver inviato un ragazzo al Palazzo Blu avevano ceduto loro il passo.
“Solitude è come una vecchia baldracca, sire.” Gli aveva detto Asbjorn in un sussurro, mentre sorpassavano il drappello all'ingresso. “Non cambia mai, e le sue porte sono sempre aperte.”
Ulfric aveva risposto con un commento altrettanto salace ed un ghigno, mentre sfilavano davanti alla locanda dello Skeever Ammiccante fingendo di ignorare gli sguardi dei cittadini.
La notizia del loro arrivo si era diffusa a macchia d'olio, sin da quando avevano messo piede in città. Passando accanto alle prime botteghe lo Jarl di Windhelm vide uomini e donne allungare il collo, sbirciando lui ed il suo seguito con allarmata sorpresa.
Tutti loro sapevano che ogni due anni Istlod, in qualità di Re dei Re, radunava nel suo palazzo i sovrani dei feudi di Skyrim per mantenere e rinnovare i buoni rapporti e discutere della politica delle regioni; il fatto che Ulfric si fosse presentato con più di dodici mesi di anticipo poteva far presagire il peggio, e la preoccupazione era ben visibile sui loro volti.    
Si aspettano qualche problema.” Si disse lo Jarl, mentre osservava una donna spingere le due giovani figlie in casa per sottrarle agli sguardi cupidi degli uomini di Windhelm.
“Credono che il nostro arrivo sia un cattivo presagio, sire.” Gli sussurrò in quello stesso momento Frèca, uno dei capitani che Asbjorn aveva scelto per far parte della scorta.
Ulfric inclinò il capo, quel tanto che gli bastava per inquadrare con la coda dell'occhio la barba fulva e la chioma rosseggiante del suo guerriero dalla cappa d'orso.
“Lascia che pensino quello che vogliono.” Sbottò di rimando, ma sollevò comunque una mano per stringere l'amuleto in ferro che portava sotto la casacca, e vide Frèca fare altrettanto.
La sera prima, mentre erano ancora in balia dei flutti nel ventre della Vigdis, Ulfric aveva radunato gli uomini intorno a sé ed aveva parlato del rischio della propria cattura.
Voleva che sapessero a cosa andavano incontro, e quando li aveva congedati perché andassero a riposarsi Asbjorn gli era rimasto accanto, accarezzato il fodero della spada che gli pendeva al fianco.
“Dovremo combattere.” Aveva affermato in tono sommesso, quasi come se lo desiderasse.
“Spero non si renda necessario. Ma se dovesse accadere, saremmo noi sette contro l'intera Solitude.”
“Soltanto?” Un ghigno da lupo si era aperto sul cupo volto del suo capo scorta, dandogli un aspetto vagamente sinistro. “Se ci attaccano, noi risponderemo. Ma se dovete indispettire il Re dei Re, sire, preferirei che lo faceste l'ultimo giorno di attracco. Non sarebbe consigliabile continuare a gironzolare per Solitude in attesa di salpare, con quei cani addosso.”
“Per questo ho portato te.” Aveva risposto Ulfric, lanciandogli un'occhiata inequivocabile. “Hai ancora il tuo tocco magico con le porte delle stalle?”
Per tutta risposta il suo capitano era scoppiato in una risata secca, simile ad un latrato, che aveva richiamato l'attenzione allarmata dei guerrieri di Windhelm sdraiati nei loro cantucci.
Asbjorn era stato un ladro di cavalli, a suo tempo.
Aveva saccheggiato le scuderie del regno per anni, prima che le guardie dell'Eastmarch riuscissero a catturarlo. La pena, per la recidività e la crudeltà con cui uccideva chi si opponeva alla sua fuga, era stata la morte; ma proprio mentre lo conducevano al patibolo era riuscito a liberarsi, e strappato un coltello dalla cintura del suo carceriere aveva seminato lo scompiglio tra i guerrieri di Windhelm. In un attimo, quel cupo ladro di cavalli dall'aria poco rassicurante si era trasformato in un lupo famelico.
Nella mischia di soldati aveva iniziato una danza di morte, che non aveva avuto gravi conseguenze solo grazie al pronto intervento di Galmar.
Quella stessa sera Ulfric lo aveva graziato, vincolandolo a sé con un giuramento di fedeltà; la sua feroce scaltrezza in combattimento sopperiva la tecnica rozza ed indisciplinata di cui aveva dato prova, ed al tempo lui era proprio alla ricerca di uomini con una simile foga.
Ed ora, a distanza di anni, Asbjorn era divenuto uno dei suoi uomini più fidati. Il cupo ladro condannato al ceppo si era trasformato nel pericoloso capitano della sua scorta armata, simile un lupo dominante alla testa di un branco affamato.
Portarlo con sé a Solitude era senza dubbio una delle decisioni migliori che avesse potuto prendere.
Soddisfatto della propria previdenza Ulfric sollevò lo sguardo sulle abitazioni di legno di Solitude, dalle robuste pareti di assi di pino e quercia che si ergevano su basamenti di pietrame; ogni cosa pareva immutata dalla sua ultima visita, dai tetti di cannicci sino alle insegne cigolanti delle botteghe.
Con il suo drappello passò sotto l'ombra di Castel Dour, la roccaforte di pietra che si ergeva sulla cima più alta del promontorio entro le mura, e che si opponeva all'antico Palazzo Blu dello Jarl assiso sul suo picco.
Le due dimore si guardavano dai due capi opposti del ponte di pietra; da un lato il borioso Impero nella sua roccaforte, dall'altro il caposaldo delle tradizioni Nord nella sua secolare dimora.
A quella considerazione, Ulfric grugnì con una certa soddisfazione.
Per quanto a volte potesse trovarsi in contrasto con l'attuale Re dei Re, non poteva negare che fosse un uomo degno del suo rispetto.
Pur trovandosi in posizione subordinata rispetto all'Impero lo Jarl locale sapeva bene come mantenere gli equilibri, e sulla cima di Castel Dour, l'imponente dimora di pietra che ospitava l'Imperatore durante i suoi soggiorni nelle lande di Skyrim, accanto alla bandiera Imperiale sventolava il rosso vessillo con la testa di lupo di Istlod.
Anni prima era giunta la richiesta di aumentare le truppe di Legionari a guardia del castello. il Re dei Re aveva ribattuto che gli uomini presenti erano sufficienti per fare la guardia ad un bastione vuoto nel cuore di una città amica; ma se l'Imperatore giudicava i guerrieri di Solitude incapaci di difenderlo, allora sarebbe stato ben lieto di dimostrare la loro bravura ai Legionari che intendeva inviare.
Mesi dopo una nave era giunta da Cyrodiil, ma invece che uomini in arme aveva portato casse di vino ardente e l'annuncio che l'Impero onorava i suoi valorosi difensori del nord. Per quanto Skyrim potesse a volte essere dimenticata, la sua popolazione ed i suoi Jarl rappresentavano un'alleanza che nessuno, oltre le cime dei monti Jerall, avrebbe voluto perdere.
“Avremmo dovuto giungere a cavallo.” Borbottò all'improvviso Frèca, che continuava a camminargli accanto. Ogni suo passo era sottolineato dal tintinnio dei rinforzi si maglia contro l'ascia che portava alla cintura, e dal tonfo degli alti stivali di pelliccia e cuoio che gli risalivano la gamba fin quasi al ginocchio.
“Asbjorn ce li procurerà, se dovessimo averne bisogno.”
“Non è questo che intendevo, mio Jarl.” Il fulvo Capitano voltò il capo e sputò in terra, guadagnandosi le occhiate di ribrezzo di due Guardie Imperiali di ronda. “Qui ci guardano come se fossimo degli assassini, o peggio. Se fossimo giunti a cavallo, avrebbero avuto il giusto rispetto.”
Frèca non aveva tutti i torti. Giungere appiedato non era certo l'impressione migliore che Ulfric potesse fare alla gente di Solitude, che già non lo apprezzava. Il suo arrivo così poco sfarzoso poteva far pensare che fosse caduto in disgrazia presso Istlod, oppure che il suo regno versasse nella povertà.
L'unica consolazione era che il viaggio in nave gli aveva permesso di dimezzare i tempi, e che l'impressione che stava dando sarebbe stata presto cancellata, quando si sarebbe ripresentato l'anno successivo per il Consiglio degli Jarl con i suoi abiti più sfarzosi e la giovane moglie ingioiellata aggrappata al braccio.
“Non ci rispettano per colpa tua.” Si intromise Gunnar da dietro le loro spalle, dando un leggero colpo sulla schiena di Frèca. Ora che non era più preda del mal di mare, aveva ripreso il suo solito buon umore. “Sembri un selvaggio che abita nei boschi, e sei fin troppo brutto per passare inosservato.”
“Non abbastanza brutto per la sorella di tua moglie.”
“Mildrith doveva essere mezza cieca ed ottenebrata dall'idromele, quando ti ha condotto nella foresta durante la Notte dei Fuochi.”
“Sire, vi chiedo il permesso prendere a pugni questo sbruffone.”
“Vi prenderò a pugni entrambi.” Ringhiò Asbjorn aspramente mentre marciava in testa, lanciando loro un'occhiata dietro la spalla. “Se non la smetterete di blaterare come due ragazzine pettegole.”
Il richiamo del capo scorta fu sufficiente a far acquietare i due commilitoni, ed Ulfric schioccò la lingua soddisfatto. Non avrebbe davvero potuto scegliere un uomo migliore, per quel viaggio.
“Per quanto mi riguarda potete azzuffarvi tutti e tre.” Disse sbrigativamente lo Jarl. “Purché vi tratteniate fino a che non sarete alle caserme. Siamo quasi arrivati.”
Con un cenno della mano mostrò loro il Palazzo Blu, che si ergeva alla fine di una lunga strada lastricata sul punto più alto dello sperone roccioso. Era circondata da un'alta cinta muraria, ma l'arco che si apriva nella roccia non aveva porte. La reggia di Solitude era stata costruita in tempo di pace.
E se anche venisse attaccata.” Pensò Ulfric,  percorrendo la strada che piegava in una leggera salita verso il palazzo. “La sua posizione e le sue prime linee la renderebbero facile da difendere.”
Mentre si avvicinavano alle mura del palazzo i suoi uomini divennero sempre più silenziosi e cupi, e quando giunsero sotto l'arco di pietra non parevano diversi da Asbjorn, che con aria truce faceva strada tenendo una mano sull'impugnatura della spada.
Oltre la cinta muraria, la strada procedeva in mezzo ad un giardino non dissimile dal territorio dell'Haafingar; ovunque Ulfric volgesse lo sguardo poteva vedere sottili betulle e rigogliosi sempreverdi, cespugli di felci e minuscoli fiori di montagna.
“Fermi.” Ingiunse una voce, e lo Jarl di Windhelm fu costretto a fermarsi con il suo seguito davanti a quelle che erano le vere e proprie porte del palazzo.
Una guardia si fece avanti e discusse brevemente con Asbjorn, come era di consuetudine quando si presentava un visitatore non atteso, e dopo qualche attimo concesse loro di varcare la soglia del palazzo Blu.
Il primo atrio che si parò loro davanti parve insopportabilmente scuro dopo aver passato tanto tempo all'esterno, ma presto i loro occhi si abituarono ed allora poterono scorgere meglio i lustri pavimenti dagli eleganti intarsi di marmo, le colonne dai capitelli scolpiti a guisa di animali e gli arazzi dai colori vivaci appesi alle pareti di pietra.
Una guardia all'interno fece loro depositare le armi, come era dovuto nel palazzo di uno Jarl, ed un servitore si fece premurosamente avanti per precederli.
Abbandonato l'ingresso vennero introdotti in un androne dall'alto soffitto; sui due lati si aprivano ampie gallerie separate da eleganti colonnati, mentre di fronte a loro si ergevano due imponenti scalinate ricurve, che si congiungevano in una balconata semicircolare.
“Lord Ulfric!”
Lo Jarl sollevò il capo, giusto in tempo per vedere il bel volto sorridente di un giovane uomo accoglierlo dall'alto della terrazza. Le sue guance erano perfettamente rasate, come era d'uso tra gli Imperiali, ed i lunghi capelli bruni che un tempo gli ricadevano sulle spalle erano stati lisciati e pettinati all'indietro, legati sulla nuca da un laccio come era di moda nelle corti dell'Impero.
Non appena vide che era stato individuato, il giovanotto si staccò dal parapetto di pietra e cominciò a scendere baldanzoso una delle due scale ricurve, senza mai smettere di sorridere.
“Torygg.” Lo salutò Ulfric di rimando in tono burbero.
“Giungo in ambasceria per conto di mia moglie, che è terribilmente in collera con voi.” Declamò allegramente il principe di Solitude, accompagnando quelle parole con un ampio sorriso. Giunto al termine della scalinata saltò gli ultimi due gradini con un balzo, ed allargando le braccia in segno di accoglienza lo raggiunse con passo elastico. “Rivuole indietro la cameriera che le avete tolto, e minaccia di non mostrarsi e di togliervi il beneficio della sua presenza se non acconsentirete.”
“Non vedo la minaccia.” Ribatté lo Jarl di Windhelm, squadrandolo dall'alto in basso e stringendo la mano che gli porgeva. Torygg era un giovane dal bel portamento e di corporatura robusta, accentuata dal un elegante farsetto trapuntato con ricami in filo d'argento, e da calzoni di velluto così attillati sulle cosce che Ulfric si trattenne a stento dallo schioccare la lingua con disapprovazione. Pareva un damerino, più che il figlio di un uomo come Istlod.
Il giovane sbottò in una breve risata, stringendogli calorosamente la mano e battendogli quella libera sulla spalla. L'erede di Solitude aveva ormai ventisei anni, e mentre Ulfric alla stessa età già sedeva sul trono e si considerava un uomo fatto, reduce com'era da numerose battaglie, il ragazzo divagava ancora tra libri e duelli ingaggiati per divertimento.
“Sempre tutto d'un pezzo, vedo.” Disse allegramente Torygg, posandosi le mani sui fianchi e squadrandolo divertito. “Immagino dal vostro odore che non ci sia bisogno di far portare i vostri cavalli in stalla. Se avessimo saputo che sareste arrivati via mare, avremmo mandato una delegazione ai porti per accogliervi.”
“È stata una decisione improvvisa.” Brontolò Ulfric, muovendo qualche passo verso la scalinata più vicina e guardandosi intorno. “Sono qui per parlare con tuo padre. E mi aspetto di essere ricevuto, dal momento che è stato lui a convocarmi. Dove si trova?”
Torygg sospirò e sollevò lo sguardo verso l'alto, là dove si affacciava la piccola balconata semicircolare.
“Mio padre adesso è da qualche parte all'interno palazzo, ma ignoro dove. In realtà non lo vedo dal momento del pranzo, ed io stavo tenendo compagnia ad Elisif quando ho avuto notizia del vostro arrivo.” Con quelle parole si lanciò un'occhiata da sopra la spalla e squadrò per qualche attimo i sei guerrieri di Windhelm, che parevano decisi a non perdere di vista il loro Jarl. “Ma adesso non pensiamoci. Gli affari posso aspettare, Lord Ulfric. Seguitemi.” Aggiunse, prima di superarlo e cominciare a risalire con fare scattante una delle due scalinate. “Il viaggio non deve essere stato piacevole. Vi offrirò il nostro miglior idromele e la carne più succulenta mentre aspettiamo che vi vengano preparate delle stanze. Mio padre ci raggiungerà presto, non appena saprà che siete arrivato.”
Ulfric emise un grugnito soddisfatto, e prima di avviarsi dietro a Torygg fece un cenno ad Asbjorn, perché lo seguisse lungo la scala ricurva.
Il capitano della sua scorta non emise un suono, ma non appena lo Jarl posò un piede sul primo scalino i guerrieri di Windhelm si mossero come un sol uomo, accodandosi al loro sovrano in un confuso sferragliare di armature.
 
 

******

 
 
Non riuscivo a credere di esserci riuscita.
Avvolta nel mio mantello bordato di pelliccia di volpe, in piedi sulla cima della scalinata che dava su uno dei cortili interni, ero in attesa che i mozzi di stalla portassero il mio cavallo, sellato e pronto per la cavalcata.
Il cielo era simile ad una lastra di ghiaccio, ed il mondo sottostante pareva avvolto nella grigia luce soffusa che si dipanava dalle nubi, riflettendosi sulla neve ammucchiata in ogni canto.
L'aria era immobile e gelida, ma sapevo che una volta uscita dalle mura sarei stata accolta dal consueto alito di vento che spirava incessante dal Mare dei Fantasmi.
Levai il viso, cercando invano il disco pallido del sole. La prima ora dall'alba era passata, ma senza alcun riferimento mi era difficile capire da quanto.
Quella era la mattina designata da Jorleif per la rettifica del confine che separava la proprietà di Torsten Mare Crudele dalla terra di Belyn Hlaalu. Era stato detto loro di attendere i messi durante la seconda ora, ed io non intendevo tardare.
Al termine delle udienze, due giorni prima, il Sovrintendente mi aveva avvicinata chiedendomi come intendessi realmente gestire la questione tra il Nord ed il Dunmer.
Era chiaro che la mia decisione di prendere la parola, per non parlare della soluzione vera e propria, non gli fossero affatto piaciuti; davanti all'assemblea della popolazione non aveva però potuto ignorare le mie parole, perché ero pur sempre la moglie dello Jarl, ed in sua assenza ero io a farne le veci.
La quiete dello studio dove ci eravamo ritirati e la relativa confidenza nei suoi confronti mi avevano permesso di spiegarmi con maggiore eloquenza, senza il timore e la timidezza che mi avevano sopraffatta quando mi ero ritrovata a parlare inaspettatamente davanti alla popolazione.
Gli avevo illustrato la mia idea, che consideravo piuttosto buona. Sapendo quanto fosse importante l'estensione della proprietà, intendevo ampliare una delle due aree, in modo da raggiungere la superficie dovuta.
Secondo Jorleif sarebbe stato più saggio farsi mostrare dai due litiganti dove credevano fosse il limite della loro proprietà, e tracciare il nuovo confine tra i punti indicati. Mentre mi esponeva la sua idea non potei fare a meno di riconoscere, con un certo imbarazzo, che era senza dubbio la cosa migliore da fare; lui conosceva l'Eastmarch ed i suoi abitanti meglio di me, e mi sarei dovuta affidare al suo giudizio.
Eppure non avevo intenzione di cambiare le carte in tavola. Non volevo dare l'impressione di una donna in grado di mutare idea con la facilità con cui una foglia si fa sospingere dalla corrente di un fiume.
Quando il Sovrintendente aveva compreso che non intendevo cambiare opinione, assunse un'aria terribilmente cupa e preoccupata e se ne andò torcendosi le mani.
Non mi era difficile immaginare che fosse la reazione di mio marito ad angustiarlo, perché inquietava anche me; come aveva detto Galmar, la questione non gli sarebbe affatto piaciuta.
Ma ero convinta che qualunque cosa avessi detto o fatto lo avrebbe comunque irritato, per cui preferii andare avanti con lo scopo che mi ero prefissata.
Sorrisi dietro il bordo di pelliccia che orlava il mio mantello, guardando Jorleif che impartiva le ultime istruzioni ai due messi che quella mattina lo avrebbero sostituito nella nostra piccola spedizione. Uno di loro reggeva alcune vecchie custodie di cuoio in cui erano conservate delle pergamene, mentre l'altro stringeva sottobraccio un grosso abaco che aveva l'aria di essere piuttosto pesante.
“Siete davvero certa di voler andare?” Mi interrogò la voce di Ioreth, da dietro la mia spalla.
Mi poneva quella domanda da quando aveva appreso la mia decisione, e da allora non aveva smesso un solo istante di mostrarsene contrariata.
“È così che ho deciso.” Le risposi fermamente, come mi aveva detto di fare Mirala. Secondo la mia vecchia balia dovevo imparare a mostrarmi più decisa, e durante quell'assenza di mio marito mi stava incoraggiando a non lasciarmi intimorire dalla mia nuova, severissima cameriera.
Ioreth brontolò qualcosa sulla correttezza e sul decoro, e stringendo le labbra io finsi di interessarmi ai preparativi, per non doverle prestare attenzione.
Gli uomini che mi avrebbero fatto da scorta si erano già riuniti ai piedi della scalinata, e le teste brune dei miei guerrieri Bretoni guidati da Moran si mescolavano a quelle bionde e svettanti dei soldati Nord, che Galmar aveva insistito per portare.
Ma insistito non era forse un termine esatto. La verità era che il vecchio guerriero me li aveva imposti, e con la stessa fermezza che avrebbe usato mio marito, seppure in modo più gentile e rispettoso.
“Lord Ulfric esigerebbe la mia testa, se vi lasciassi andare senza una scorta adeguata.” Aveva detto con un sorriso di scusa.
“Ho già una scorta adeguata.” Avevo ribattuto, ma lui non si era scomposto e mi aveva rivolto un ampio sorriso.
“Vi troverò degli uomini adatti.” Era stata la sua risposta, e dal suo tono avevo capito che non avrebbe ammesso repliche.
Se prima di allora mi ero chiesta come potesse un uomo all'apparenza così gioviale andare d'accordo con mio marito, ora non avevo più dubbi. Per quanto Galmar si mostrasse alla mano, in realtà non era affatto diverso da lui.
“È tutto pronto, Signora.” Quasi lo avessi evocato con il mio pensiero, il vecchio guerriero emerse ciondolando dal gruppo di soldati e mi raggiunse sulla cima della scalinata, imprecando solo di tanto in tanto quando metteva il piede su una lastra di ghiaccio.
Nel cortile alcuni mozzi di stalla stavano conducendo i cavalli, e tra loro scorsi Yrsarald che conduceva la mia giumenta per le briglie.
Dal giorno delle udienze gli era comparso un grosso livido sotto l'occhio sinistro, che quella mattina aveva assunto una brutta sfumatura violacea. Chiunque fosse l'uomo che aveva inseguito fuori dalla Sala del Trono, il loro confronto non doveva essere stato affatto pacifico.
“Yrsarald!” Vociò Galmar dall'alto, mentre mi porgeva un braccio colossale per aiutarmi a scendere i gradini ghiacciati. “Sembri ogni giorno di più una brutta rapa, ragazzo mio.”
Il giovane Capitano gli rispose con un'occhiata sardonica, fermando il mio cavallo ai piedi della scalinata.
“Almeno io so ancora incassare.” Disse, guadagnandosi la risata del vecchio guerriero.
Sentendo il loro scambio di battute cercai Moran con lo sguardo. Sapevo che il mio comandante Bretone non approvava quella familiarità tra superiori e sottoposti, e difatti notai che passava in rassegna i suoi uomini con aria vagamente infastidita.
Nel vederlo nascosi un sorriso dietro il bordo del mantello, ed abbassai lo sguardo sui gradini gelati sotto i miei piedi per evitare di scivolare. Il braccio di Galmar era saldo come pietra sotto la mia mano, ed anche attraverso il bracciale di cuoio e pelliccia riuscivo a sentire i muscoli tendersi ed allentarsi mentre stringeva distrattamente il pugno.
“Ora devo chiedervi un saltello, Milady.” Mi disse cortesemente il vecchio guerriero quando giungemmo davanti all'ultimo scalino, coperto da uno spesso strato di ghiaccio.
Galmar lo scavalcò con le sue lunghe gambe senza alcuno sforzo, quindi si voltò e tese le braccia per aiutarmi. Mi sentivo come una bambina, ma gli affidai ugualmente le mie mani e scavalcai la lastra di pietra ghiacciata.
“Uno splendido salto, Signora.” Tenendo la mia giumenta per le briglie Yrsarald mi venne incontro, ed il suo sorriso era tanto caloroso che non potei fare a meno di ricambiarlo. Il livido sul volto poteva anche dargli un'aria più brutale, ma quando mi porse la mano aveva lo sguardo più gentile che gli avessi mai visto.
“Venite. Vi aiuto a montare in sella.” Si offrì, ma avevo appena posato le mie dita sulle sue che Galmar si fece avanti, dandogli una cameratesca pacca sul petto per allontanarlo.
“Ci penso io a Lady Lirael.” Decretò spiccio, frapponendosi tra lui e me e passando una larga mano sulla groppa della mia giumenta grigia. “Tu va' ad  aiutare Ioreth.”
Yrsarald schiuse le labbra screpolate per protestare, ma si limitò a lanciarmi una sola occhiata insondabile prima di affrettarsi verso la mia cameriera, che attendeva impettita sul penultimo scalino in attesa di qualcuno che la facesse scendere.
Con l'assistenza del vecchio guerriero montai in sella, e quando fui ben sistemata lo sentii assicurarsi che avessi il piede ben infilato nella staffa. Sentendo il mio peso, il cavallo sbuffò e scosse la bella criniera scura, ed io allungai una mano guantata per accarezzargli il collo. Portavo dei morbidi guanti di capretto bordati di pelliccia candida sui polsi, indispensabili perché non mi rovinassi le mani con le briglie, ma mi mancava la sensazione del pelo raso della mia giumenta sotto il palmo.
Alle mie carezze l'animale voltò il capo e mi fissò di sbieco con un grande, dolce occhio marrone, ed io gli rivolsi un sorriso e gli mormorai un complimento, come ero solita fare sin da quando avevo cominciato a cavalcarlo, nelle lontane terre di High Rock.
“Avete le labbra livide.” Decretò all'improvviso l'aspra voce di Ioreth, mentre la vecchia faceva capolino al mio fianco. L'avevano sistemata sulla groppa di un vecchio mulo mansueto, che in quel momento stava ruminando rumorosamente una mela, perdendo pezzetti di frutta misti a saliva dalla bocca.
“Sto bene.” La contraddissi, nonostante sentissi già i primi brividi di freddo. Levai il mento, cercando di assumere l'aria più sicura di cui ero capace, e strinsi le redini tra le dita guantate.
La vecchia puntò su di me i suoi vividi occhi pieni di riprovazione, ma non fece in tempo a farmi alcuna rimostranza perché in quel momento Galmar dette la voce, e finalmente partimmo.
Ioreth procedeva al mio fianco su un vecchio mulo malandato, Yrsarald cavalcava avanti a me, ed il secondo di mio marito incedeva invece alle mie spalle su una bestia colossale, probabilmente l'unica cavalcatura in grado di sopportare la sua stazza.
I soldati Nord procedevano a piedi davanti a noi, aprendoci la strada già sgombra, e quando uscimmo dal cortile potei ammirare per la prima volta la città che si svegliava.
Regnava una strana calma sospesa, piena dell'attesa del giorno appena iniziato, e mentre attraversavamo le strade lastricate di pietra e ghiaccio vidi i mercanti che aprivano le botteghe, le donne che uscivano di casa con il cesto al braccio e le guardie di ritorno dalla ronda notturna.
Al nostro passaggio i cittadini che incrociavamo si fermavano per rivolgermi un cenno rispettoso e, più spesso, per scambiare un allegro saluto con i biondi soldati della mia scorta.
Quando giungemmo sulla piazza principale scorsi Jora, la sacerdotessa di Talos che aveva guidato la processione solo il mese prima, una coppia di monelli vestiti di stracci che corsero via al nostro passaggio ed un piccolo gruppo di uomini radunati davanti all'ingresso sul retro della locanda.
Riconobbi a prima vista l'oste, che avevo già incontrato alcune volte quando accompagnavo mio marito al Tempio di Talos. In piedi sull'uscio, con le braccia incrociate al petto, era intento a discutere con un Dunmer ed un Nord appoggiati ad un carretto e rivolti verso di lui, così sollevai una mano e gli feci un cenno di saluto.
Il proprietario della locanda rispose al mio sorriso con un leggero inchino, che spinse i suo due interlocutori a voltarsi per osservare l'arrivo del mio drappello.
Il Dunmer lanciò un'occhiataccia ostile al mio seguito e mi fece solo un brusco cenno col capo, ma il suo compagno sbottò qualcosa di ingiurioso e sputò in terra quando vide Yrsarald cavalcare tra i guerrieri appiedati.
“Sei fortunato che non abbia tempo per te.” Gli sibilò il Capitano di mio marito. L'uomo sollevò il viso e gli rivolse un'occhiata sprezzante, e quando potei vederlo meglio in viso sobbalzai sulla sella.
Era giovane, notai, con forse solo qualche anno più di me, ed i tratti del suo volto erano tanto simili a quelli del mio sposo che in un primo momento non mi accorsi del grosso livido violaceo che gli contornava l'occhio gonfio.
“Sei un cane che ulula fingendosi lupo.” Ribatté lo sconosciuto con voce dura. “E ti batti peggio di una femmina.” Continuò indicandosi l'occhio nero.
Yrsarald spronò all'improvviso il cavallo, e non appena lo raggiunse sfilò un piede dalla staffa e cercò di sferrargli un calcio. Nonostante la stazza robusta però l'uomo era svelto, e si scostò rapidamente usando il carretto come barriera.
“Figlio di una cagna ingrata.” Ringhiò il Capitano dell'Eastmarch, tornando tra i ranghi.
A quella scena abbassai il capo, turbata, e spostai lo sguardo sul collo della mia giumenta. Mi ero abituata a vivere attorniata dai soldati di mio marito, e spesso scordavo che dietro alle loro maniere gentili si nascondevano uomini avvezzi alla violenza.
La scorta aveva rallentato per vedere quel battibecco, ed al mio fianco Ioreth mormorò qualcosa sul decoro scuotendo la testa candida. La sentii rivolgersi a Galmar, e subito il vecchio guerriero si intromise, sfilandomi davanti.
“Avanti con la marcia.” Ordinò, fermandosi poi davanti allo sconosciuto e guardandolo dall'alto della sua cavalcatura. “Torna alle tue occupazioni, ragazzo. Se vuoi batterti con Yrsarald sai dove trovarlo, ma non è questo il tempo né il luogo.”
“Che l'Oblivion ti porti, vecchio bastardo.” Borbottò lo sconosciuto tra i denti, voltando il capo per sfuggire al suo sguardo come un ragazzino che viene colto in fallo.
Mentre si girava rivolse la sua attenzione su di me, e vidi un muscolo sotto il suo occhio sano contrarsi vistosamente.
“Salute, Signora.” Mi disse con fare velenoso. “Quando vedete lo Jarl, ricordategli che sto ancora aspettando che liberi la mia donna.”
Disturbata dal suo tono raddrizzai le spalle, cercando disperatamente un modo per ribattere, ma Galmar mi salvò dall'impiccio imponendogli di tacere e vociando perché il mio drappello allungasse il passo.
Yrsarald si mise al mio fianco, sul lato opposto a quello occupato da Ioreth, e mi tolse gentilmente le redini dalle mani senza dire una parola. Lo lasciai fare, tenendomi al pomolo della sella al quale ero già aggrappata con la gamba ripiegata, nella posa tipica imposta dalle selle femminili.
Per tutto il tempo, mentre ci allontanavamo, sentii lo sguardo astioso dello sconosciuto fisso sulla mia schiena, e fu solo quando raggiungemmo le porte della città che mi arrischiai a domandare chi fosse.
“Nessuno di cui dobbiate preoccuparvi.” Mi rispose il giovane Capitano di mio marito, con la fronte aggrottata per l'irritazione dell'incontro.
Mi voltai a guardarlo, osservando il livido scuro sul suo zigomo. Sotto la pallida luce che filtrava tra le nubi i suoi tratti parevano ancora più marcati, facendo risaltare curiosamente alcune piccole cicatrici pallide di cui non mi ero mai resa conto.
“Chi è la donna di cui parlava?” Gli chiesi ancora, ma Yrsarald non rispose e fece solo una smorfia disgustata prima di voltarsi verso di me, trafiggendomi con i suoi occhi del colore dell'acciaio temprato.
“Non vale la pena parlarne.” Si intromise Ioreth severamente. “Entrambi hanno arrecato un'offesa imperdonabile allo Jarl, e ne pagheranno le conseguenze. Non meritano la vostra attenzione.”
Mi morsi un labbro, posando lo sguardo sul ponte lastricato che si stendeva davanti a me e che rappresentava l'unico ingresso di Windhelm. Desideravo saperne di più, ma non era facile insistere davanti al mutismo di Yrsarald ed ai duri giudizi della mia cameriera.
Stavo per riprovare a porre le mie timide domande, quando la risata tonante di Galmar catturò la mia attenzione e quella dei miei interlocutori.
“Un'aquila!” Esclamò, allungando un braccio verso l'alto. “Vedete lassù, Milady? Le aquile portano bene, qui a Windhelm.”
Sollevai svogliatamente lo sguardo, osservando il cielo fino a che non individuai un punto distante che ondeggiava contro lo sfondo diafano delle nubi.
“Erano il simbolo della città, fino a che regnò la prole di Ysgramor. Poi adottammo l'orso. Conoscete la storia di Ysgramor, mia Signora?”
“Un po'.” Ammisi con voce atona. “L'ho imparata sulle pergamene che mio marito portò per me a Daggerfall.”
“Allora lasciate che ve la canti come la conosciamo nell'Eastmarch.” Sorrise Galmar, e sotto la gelida lastra del cielo cominciò a declamare un vecchio poema a gran voce.
Inizialmente provai ad approfittare delle sue pause per rivolgermi a Ioreth o Yrsarald, ma il vecchio guerriero berciava senza mai interrompersi, e presto mi fu chiaro che non mi avrebbe concesso di riprendere la parola.
Irritata e dispiaciuta recuperai le mie redini e mi dedicai a condurre il cavallo, ormai incapace di godermi la cavalcata.
Come potevo essere la Dama di Windhelm, quando chi avevo intorno continuava a tenermi all'oscuro di quanto accadeva nel mio regno?
Ma non sono del tutto all'oscuro.” Mi dissi, stringendo le redini tra le dita e sollevando il mento. “Conosco quello che ho origliato alle porte della mia stanza.”
C'era una donna, rinchiusa nelle prigioni del palazzo. Una donna che, stando a quanto detto da mio marito, aveva cercato di avvelenarmi.
Ed io avevo intenzione di trovarla e parlarle, prima che il mio sposo tornasse ed imponesse il silenzio anche a lei.
 
 

******

 
 
A dispetto delle parole del giovane Torygg, Jarl Istlod non si mostrò né presenziò alla cena.
Attorno alla tavola imbandita Ulfric si era seduto in compagnia dei thanes e del Principe di Solitude, ma lo scranno del sovrano era rimasto desolatamente vuoto per tutto il pasto.
Si era ritirato poco dopo il termine della cena, in parte perché non sopportava i discorsi dei suoi commensali, ed in parte perché voleva assicurarsi che i suoi uomini fossero stati sistemati adeguatamente.
Con l'aiuto di un domestico aveva percorso le belle gallerie del palazzo fino ad un'ala predisposta per le sale della servitù, e lì aveva trovato i suoi guerrieri stipati in un unico stanzone, intenti a bere vino e giocare ai dadi.
“Sire!” Lo accolse allegramente Frèca, sollevando un corno nella sua direzione quando lo vide entrare. “Venite, bevete con noi.”
Lo Jarl lanciò un'occhiata al suo robusto soldato, e notò che sotto la barba le sue gote erano rosse quasi più dei suoi capelli.
“Non credi di aver già bevuto fin troppo?” Lo redarguì in tono burbero, cercando con lo sguardo il suo Capitano.
Asbjorn sedeva sul letto che aveva reclamato per sé, nell'angolo più buio della stanza, con la schiena contro la parete e le lunghe gambe stese sulle coperte di lana. Tra le mani reggeva un corno di vacca, bordato da una lamella di rame cesellato, ed osservava i suoi sottoposti bere e scherzare con solo un luccichio nello sguardo che animava il suo volto cupo.
“Dovresti dargli un freno.” Gli disse severamente Ulfric, raggiungendolo e sedendosi sul bordo di legno del letto. “Li voglio vigili.”
“Domattina lo saranno.” Ribatté Asbjorn, tendendogli il corno che reggeva tra le mani. Dall'interno cavo giunse lo sciaguattio di un liquido, e quando lo Jarl lo portò vicino al viso avvertì, misto al tipico odore muschiato di corno bovino, un pungente aroma di vino.
“Vino Ardente.” Gli spiegò il suo cupo Capitano. “Frèca e Torkild hanno affascinato due domestiche, per procurarselo.”
“Non sarà stato un grande sacrificio per loro. Lo avete tolto ad Istlod?” Indagò Ulfric con sospetto, inspirando l'aroma che esalava dall'imboccatura cerchiata di rame.
“Nessuno si accorgerà di un paio di bottiglie, Sire.” Asbjorn dondolò uno stivale di cuoio con fare indifferente, grattandosi distrattamente un fianco attraverso la casacca di tela. Ora che potevano rilassarsi, gli uomini di Windhelm avevano smesso le armature e le solenni pellicce d'orso per godere della libertà di calzoni e camicie ruvide.
Scrollando le spalle, Ulfric si portò il corno alle labbra e prese un solo sorso di vino, gustandone il sapore dolce e speziato solo vagamente alterato dall'aroma del corno. Asciugandosi i baffi sul dorso della mano lo restituì ad Asbjorn, facendogli un cenno per mostrargli di averlo gradito.
Trascorse tra i suoi uomini ancora qualche minuto, ascoltando le loro chiacchiere ed osservandoli scommettere ai dadi denaro che non possedevano, e prima che fosse passata la terza ora dal tramonto lì lasciò, dirigendosi verso la stanza che gli era stata riservata.
La pesante porta di legno e ferro era munita di chiavistelli, proprio come la sua camera nel Palazzo dei Re,  ed Ulfric li fece scivolare nelle loro sedi non appena si chiuse il battente alle spalle.
Un ampio letto dalle forme squadrate troneggiava al centro, l'alta testata di pino intagliato appoggiata contro la parete di pietra, ed un grosso braciere dalle gambe in ferro battuto era  stato posizionato proprio di fronte. Non c'era un camino, e qualcuno doveva aver pensato di dargli un minimo di conforto e scaldargli la stanza.
Con una mano si slacciò le fibule metalliche che gli fissavano la cappa d'orso sulle spalle, poggiandole sul ripiano lucidato di un piccolo mobile d'aspetto elegante.
Davanti a lui si apriva un ampio arco diviso da una sottile colonna di pietra, ed attraverso i vetri piombati era possibile scorgere il riflesso di una delle due lune.
Per un breve istante considerò l'idea di mandare a chiamare Eanfled, la fanciulla da cui si faceva tenere compagnia durante i suoi soggiorni a Solitude, ma presto accantonò quel pensiero. L'anno successivo avrebbe dovuto presentarsi in quella stessa corte con la sua giovanissima moglie al braccio; lui non si curava delle malelingue, ma riconosceva che era sempre meglio non alimentarle.
Con un sospiro appoggiò la cappa d'orso su una cassa ai piedi del letto, e con lo sguardo fisso sul tenue bagliore della luna che penetrava attraverso i vetri cominciò a slacciarsi la cintura.
Si era già sfilato la casacca e gli stivali, quando fu interrotto da un leggero bussare alla porta. La raggiunse a grandi passi, sperando che fosse qualche cameriera che gli annunciava che Istlod era pronto a riceverlo, nonostante l'ora tarda, ma quando la schiuse si ritrovò a fissare il volto grazioso di una giovane donna, vestita solo dei suoi capelli infuocati e con un mantello di lana drappeggiato sulle spalle.
“Vi siete scordato di farmi chiamare, Signore.” Gli disse Eanfled con un sorrisetto provocante, scivolando nello spiraglio della porta aperta. “Vergognatevi, dovrei davvero sentirmi offesa. Ma sono disposta a perdonarvi, per questa volta.” E con un gesto aprì un lembo del mantello, mostrando la candida pelle delle sue membra. Nell'incavo del seno brillava una grossa gemma montata su una catena di poco conto, che stonava con la semplicità del manto di lana: il pagamento di un sovrano per i favori concessi.
Ulfric sospirò lentamente e cosse la testa, sentendo crescere l'irritazione.
“Copriti.” Le ingiunse, volgendo il capo e recuperando la scarsella che aveva appoggiato sulla cassa, accanto alla cintura.“Non ho tempo per te, questa notte.”
“Non ditemi che avete chiamato qualcun'altra.” La ragazza assunse un'espressione di finta indignazione e scrollò i capelli ricciuti. “Ecco, ora sono offesa, e pure gelosa.” 
“Finiscila di comportarti come un'idiota.” La rimproverò Ulfric, frugando nella sua piccola borsa di cuoio. “Non ho tempo per te. Ma se scendi la scalinata troverai i miei uomini in una delle stanze della servitù. Il loro capo si chiama Asbjorn. Lui avrà tempo da dedicarti.”
Eanfled aggrottò le sopracciglia sottili, stringendo per un istante gli occhi verdi come la gemma che portava al collo.
“Spero che quest'uomo sia in grado di ringraziarmi per i miei servigi, Signore.” Replicò in tono pragmatico, senza più traccia dell'aria stucchevole di poco prima. La giovane era una delle donne che vendevano le loro grazie allo Skeever Ammiccante, e per raggiungerlo aveva rinunciato ad una intera notte di guadagni.
“Vai.” Le ingiunse lo Jarl, mettendole nel minuscolo palmo una grossa moneta d'oro. “E la prossima volta che sarò a Solitude dovrai cercare lui, e non me.”
La ragazza storse la bocca, fissandolo con aria pensierosa per un breve attimo, poi richiuse il mantello e si inchinò profondamente; la bella chioma fiammeggiante le scivolò davanti al volto, ma Ulfric riuscì comunque a vederla mordere la moneta per accertarsi della qualità dell'oro.
“Come desiderate.” Esclamò raddrizzandosi, nuovamente allegra, e con uno scatto del capo si gettò la massa di capelli dietro una spalla. “È sempre un piacere avere a che fare con voi, mio Signore.” Con un sorriso soddisfatto la ragazza si voltò ed uscì dalla stanza, richiudendo la porta dietro di sé.
Non appena se ne fu andata Ulfric fece scorrere di nuovo i chiavistelli e tornò accanto al letto vuoto,  osservando sovrappensiero le coltri di ruvida lana.
Si chiese oziosamente se non avesse forse sbagliato ad allontanare Eanfled; il viaggio in nave era stato lungo e stancante, quasi quanto la marcia che aveva affrontato al ritorno da Winterhold, ed era passato molto tempo da quando si era unito alla sua sposa.
Ma forse, si disse mentre si sfilava i calzoni e si stendeva sotto le coperte, non era stata una cattiva idea. Mandando la ragazza da Asbjorn si era dimostrato generoso con i suoi sottoposti, e si era liberato dal peso di nuove maldicenze.
Ora non gli restava altro che far volgere il colloquio con Istlod a proprio favore, e presto sarebbe potuto tornare nelle sue terre.
E da sua moglie.
Al solo pensiero fece una smorfia al soffitto di pietra, grugnendo di irritazione; ma poi gli tornò in mente la sua giovane sposa così come era l'ultima volta che l'aveva vista, quando aveva lasciato la loro stanza all'alba per imbarcarsi sulla Vigdis: i capelli arruffati e sciolti, gli occhi lucidi ed ancora gonfi di sonno e la bella vestaglia sottile leggermente aperta sul petto, in un modo che lasciava indovinare la curva del suo seno minuto e che lo aveva quasi spinto a tornare sui propri passi.
Al ricordo Ulfric si lasciò sfuggire uno sbuffo soddisfatto.
Il periodo di riposo che le aveva imposto la guaritrice era quasi terminato, ed al proprio ritorno nulla avrebbe potuto trattenerlo dal cercare il ristoro che gli era dovuto all'interno del talamo nuziale.
Una cosa alla volta.” Si impose, scacciando dalla mente le immagini allettanti del corpo nudo di sua moglie. “prima il dovere, e poi...”
Lo Jarl di Windhelm aggrottò la fronte nell'oscurità, girandosi sul fianco.
Prima il dovere.
E poi tutto il resto.

 ******

 
 
Nel corridoio di pietra gravava un pesante silenzio.
Con il cuore in gola appoggiai una mano contro la fredda parte grigia e cercai di regolarizzare il respiro. Intorno a me non si udiva altro che il lontano russare delle guardie addormentate ed il lieve crepitio delle torce.
Mossi cautamente un passo avanti, ed un refolo d'aria gelida si insinuò sotto la mia vestaglia e mi risalì lungo le gambe, facendomi rabbrividire.
Non avrei mai dovuto trovarmi lì, nell'ala delle prigioni, e men che meno a notte inoltrata.
Con una mano sollevai l'orlo della mia veste da camera e cercai di avanzare silenziosamente lungo il corridoio. Temevo che qualcuno potesse scoprirmi, e nonostante continuassi a ripetermi che avevo tutti i diritti di camminare per il mio palazzo, sapevo che la realtà era ben diversa.
Da qualche parte nell'oscurità giunse un fruscio ed io mi bloccai all'istante, pronta a tornare sui miei passi; subito dopo però udii un grugnito assonnato, e compresi che doveva essere stata una delle guardie che riposavano nel dormitorio che si apriva poco più avanti.
Ancora una volta maledissi la mia decisione avventata.
Dopo la spedizione per la rettifica dei confini, avevo rimuginato a lungo sulla mia decisione, cercando il modo migliore per parlare con la prigioniera prima che tornasse mio marito.
Sapevo che dovevo innanzi tutto scoprire dove fosse rinchiusa, e che solo successivamente avrei potuto dedicarmi ad escogitare un modo per sfuggire ai controlli serrati di Galmar e Ioreth.
Pur avendo vissuto a Daggerfall ed assistito ad alcuni intrighi di corte , avevo pochissima esperienza con tutto quello che comportava segretezza ed astuzia.
Ed a tal proposito, Mirala si era rivelata una risorsa preziosa ed indispensabile.
A Galmar poteva essere stato ordinato di tenermi sempre d'occhio, ma nemmeno lui aveva il permesso di osservarmi quando mi ritiravo per la notte.
Nella riservatezza della mia stanza avevo parlato alla mia vecchia balia, spiegandole in che modo intendevo aggirare i divieti di mio marito
All'inizio Mirala si era rifiutata di prendere parte alla mia follia; secondo lei quelle bravate erano una cosa da fanciulli, ed una donna sposata non avrebbe mai dovuto nemmeno pensare a simili sciocchezze.
“Come posso adempiere al mio ruolo, quando vengo tenuta all'oscuro di quello che accade nella mia città?” Le dicevo ogni volta che mi capitava di parlarle da sola, ed alla fine la mia vecchia balia aveva acconsentito, seppur controvoglia.
Era stata lei a procurarmi dell'olio Cyrodiilico per non far cigolare i cardini ed i chiavistelli della mia porta, e sempre lei aveva scoperto per me il braccio dove era rinchiusa la donna che aveva cercato di avvelenarmi.
In qualche modo che si era rifiutata di rivelare, era riuscita a corrompere l'uomo che montava la guardia notturna alle celle, e mi aveva istruita a lungo sul percorso che avrei dovuto seguire per raggiungerle.
E così, dopo molti attimi di indecisione e tentennamenti, avevo approfittato dell'unico istante in cui mi ero sentita un po' più coraggiosa ed avevo lasciato la mia stanza alla quarta ora dopo il tramonto.
Avevo abbandonato l'ala degli appartamenti reali temendo di poter sentire improvvisamente il passo pesante do Galmar alle mie spalle, ed avevo attraversato il Palazzo dei Re evitando quei corridoi che passavano davanti alle stanze dove dormivano i servitori, o dove pensavo avrei potuto trovare qualcuno ancora sveglio.
Ad ogni passo, ogni angolo ed ogni svolta sentivo aumentare l'inquietudine ed il timore di venire scoperta. Non mi ero mai avventurata in quella parte del palazzo ad eccezione di un'unica volta, poco dopo il mio arrivo a Windhelm, quando mio marito mi aveva scortata laggiù perché porgessi i miei saluti alle guardie delle prigioni.
Ma allora ero vestita, e non in camicia da notte.
Sgattaiolai silenziosamente davanti alla porta socchiusa delle camerate, trattenendo il respiro mentre il cuore mi martellava nel petto, con tanta forza da farmi temere che qualcuno potesse udirlo e scoprirmi.
Cautamente mi avvicinai alla scalinata che portava alle prigioni, chiedendomi distrattamente se Mirala non avesse pagato anche i servitori per tenerli distanti, dal momento che non avevo incontrato nessuno sul mio cammino.
Con una mano sollevai l'orlo delle gonne e scesi i gradini di pietra, bene attenta a non emettere suono, ed al primo passo una delle mie caviglie emise un piccolo schiocco che mi raggelò sul posto
Mi immobilizzai per un istante, stringendo spasmodicamente lo scialle con una mano e tendendo le orecchie, ma dietro di me non giunse alcun rumore, e così decisi di continuare.
Oramai ero vicina, e non potevo certo tirarmi indietro, sebbene la parte più prudente di me non faceva che suggerirmelo sin dal momento in cui avevo messo piede fuori dalla stanza.
E se proprio dovevo compiere una simile sciocchezza, perché diamine non avevo pensato a vestirmi, per gli Dei?
Scrollai il capo per allontanare le mie titubanze, e quando raggiunsi il fondo della scalinata mi lasciai sfuggire un sospiro di sollievo, posando una mano sulla porta di ferro e legno che mi si parava davanti.
Le vecchie strisce di metallo erano leggermente arrugginite sui bordi, ed alla luce incerta delle torce le grosse teste tondeggianti dei chiodi che le fissavano al legno massello parevano piccoli occhi bulbosi, che mi osservavano con riprovazione.
Feci scorrere le dita sul battente, fino a che non trovai un grosso anello di ferro che fungeva da maniglia. Il metallo era gelido, ma io lo afferrai comunque e tirai con tutte le mie forze; Mirala mi aveva detto di essersi accordata perché la porta restasse aperta. Non mi aveva avvisata, però, che la porta sarebbe stata tanto pesante.
Con un certo sforzo riuscii ad aprire uno spiraglio, e non appena lo giudicai abbastanza largo scivolai all'interno.
La prima cosa di cui mi accorsi fu la ventata di freddo umido che mi accolse, una carezza che sapeva di luoghi chiusi e muffa, come se respirassi all'interno di una grotta sotterranea, con una nota dolciastra e sgradevole che non riuscii ad identificare.
Subito dopo venne una luce tremante ed un'ombra imponente, ed un uomo con la divisa delle guardie emerse da un angolo buio.
Colta di sorpresa sobbalzai e mi strinsi lo scialle addosso, ma il soldato non fece una piega e levò meglio la torcia che reggeva in mano, per scrutarmi in viso.
“Toh. L'Altmer aveva ragione, allora.” Borbottò, ed io sentii una calda ondata di sollievo pervadermi il corpo. Doveva essere l'uomo di cui mi aveva parlato Mirala. “Siete qui per la figlia di Soren?”
“Sono qui per vedere una prigioniera. Credevo che la mia cameriera...”
“Mi ha detto tutto.” Mi interruppe sgarbatamente la guardia, facendomi un cenno verso l'arco di pietra che si apriva alle sue spalle. “Volevo solo esserne certo. Da questa parte.”
Senza curarsi di vedere se lo seguivo o meno, il soldato mi voltò le spalle e cominciò a marciare lungo i cunicoli delle prigioni.
Il pavimento di pietra era irregolare, come se fosse stato appena ricavato dalla roccia e nessuno avesse avuto intenzione di appianarlo. Ogni cinquanta passi si trovava un corno di bue riempito di grasso, infilato in un sostegno di metallo fissato al muro, che spandeva una debole luce e produceva un filo di fumo nero, che macchiava a chiazze il soffitto.
Quei deboli lumi mi permettevano di scorgere le celle che si aprivano sui due lati del nostro passaggio, simili a bocche mostruose irte di denti di metallo. Alcune erano occupate, ma molte di quelle che vidi erano vuote o ingombre di mucchi di paglia, secchi maleodoranti e nugoli di piccole bestie dagli occhi luminosi che si contorcevano nel buio.
“Sono solo topi, Signora.” Mi disse l'uomo, quando uno di quegli animali mi passò squittendo su un piede, facendomi sobbalzare. “Infestano tutte le prigioni. Nei livelli inferiori abbiamo anche degli Skeever, ma non salgono mai quassù.”
Rabbrividendo di disgusto mi feci più vicina alla guardia, sollevando leggermente l'orlo della vestaglia per evitare che strusciasse in terra. Intorno a noi si sentiva solo lo squittio dei topi ed il russare dei prigionieri; da qualche parte in lontananza c'era dell'acqua che stillava, una goccia dopo l'altra, in un modo che alla lunga non poteva che risultare snervante.
“Ho spostato la Sorensdottir in una cella lontana dalle altre, così che possiate fare quello che desiderate.” Mi disse all'improvviso la guardia, in un mormorio ruvido che superava di poco i rumori della prigione. Si era fermato davanti ad un arco di pietra, e mi tendeva la torcia che fiammeggiava nella sua mano.“È più avanti, lungo questo corridoio. Io mi fermo qui, ma se doveste avere bisogno non dovete fare altro che chiamarmi.”
Presi la fiaccola dalle sue mani, e dopo avergli assicurato che lo avrei chiamato nelle peggiori evenienze mi avventurai nel passaggio scavato nella viva roccia.
Era un cunicolo diverso dagli altri, perché procedeva per un buon tratto senza avere celle sui due lati, ma solo pareti irregolari e ganci metallici da cui pendevano catene e corregge di cuoio. Sul fondo, subito dopo un grosso corno dalla fiammella danzante, si aprivano due sole cavità, l'una di fronte all'altra, chiuse da delle grate.
Una era vuota, e la porta era spalancata, ma l'altra era serrata ed occupata da qualcuno che sedeva raggomitolato su un mucchio di paglia.
Dovetti battere leggermente sulle sbarre ed alzare un poco la voce, ma dopo qualche attimo il prigioniero sollevò il capo, ed alla luce delle torce vidi che era una donna dai lunghi capelli aggrovigliati.
Mi fissò per qualche istante, come se fosse confusa dalla mia presenza, ma alla fine mi rivolse un sorriso di scherno e si mise a sedere in mezzo alla paglia.
“Milady. Quale onore.” Disse in tono tagliente, ghignando in modo orribile. “Siete venuta qui per gongolare davanti ad una prigioniera?”
Strinsi le labbra, levando un poco la torcia che reggevo in una mano. La donna aveva un aspetto lurido ed un'espressione sfacciata, e pareva più giovane di quanto avessi immaginato; non dimostrava che una manciata di anni più di me.
“Non sono qui per gongolare.” Ribattei, cercando di assumere il tono più duro di cui ero capace. “Dicono che mi hai avvelenata. È vero?”
La donna inclinò il capo e mi rivolse un sorriso di superiorità, grattandosi impudicamente un seno sotto gli stracci che indossava.
“Non vi ho avvelenata. Vi ho solo dato una pozione abortiva. Nulla che una donna con un po' di sale in zucca non sappia preparare.” La vidi fare una smorfia ed agitare improvvisamente una mano, e qualcosa nell'angolo della sua cella fuggì squittendo.
Sentii un brivido corrermi lungo la schiena, insieme ad un preoccupante pizzicore agli occhi.
Una pozione abortiva. Dunque non era stato il mio corpo ad esser troppo debole per la gravidanza.
“Perché?” Le domandai, incapace d aggiungere altro, e nell'oscurità la donna si levò con un grugnito.
“Siete davvero così stupida?” Mi sibilò con astio, raggiungendo le sbarre ed appoggiandovisi di peso. “O forse siete solo ignorante?”
“Non osare...”
“Cosa, parlarvi così?” La donna sbottò un una amara risata, che le scosse le spalle magre. “Io sono già condannata. Credete che un insulto in più o in meno possa cambiare la mia situazione? Lo Jarl mi ucciderà comunque.”
Strinsi le labbra, non sapendo cosa dire. Ero indignata, infuriata con lei per quello che mi aveva detto e per il tono che aveva usato. In quel momento pensai che, se mio marito l'avesse davvero uccisa, non mi sarei sentita per nulla afflitta dalla sua morte.
“Perché lo hai fatto?” Le domandai ancora, stringendo lo scialle nel pugno.
“Allora siete davvero idiota.” Sbottò la donna, rivolgendomi un ghigno sprezzante. “L'ho fatto per il mio uomo. Per Halfdan.”
Sentii una vaga inquietudine al suo di quel nome, e dopo qualche attimo mi ricordai dove lo avevo già sentito. Era così che si chiamava il carrettiere che riceveva regali dalle scorte del Palazzo dei Re, e di cui nessuno voleva parlare.
“Chi è Halfdan?” Chiesi, sentendo con irritazione un tremore nella mia voce. Non potevo davvero permettermi di cedere in quel momento.
“Mi state dicendo che lo Jarl non vi ha parlato di lui?” La donna sbottò in un'altra risata, scuotendo il capo e facendo frullare le luride ciocche che le pendevano sulle spalle. “E scommetto allora che non vi ha detto nulla nemmeno degli altri. Ah, davvero un grand'uomo, il nostro Signore!”
“Chi è Halfdan?” Ripetei con maggior enfasi, agitando la fiaccola e facendo fuggire le ombre davanti a me. “E cosa ha a che fare con mio marito?”
“Provo quasi pena per voi, sapete?” La donna sospirò e mi guardò con finto dispiacere. “Mia povera cara. Cosa ha a che fare il mio uomo con vostro marito? Provate ad usare la vostra bella testina.” Si batté l'indice sulla sommità della testa, sorridendo con aria di scherno, ed io sentii montare l'irritazione.
“Chi...” Ripresi, ma la donna mi precedette, gelandomi sul posto.
“È suo figlio.” Esclamò con una smorfia, fissandomi con determinazione attraverso le sbarre. “Il suo primo figlio maschio. Ed ora lasciatemi dormire. Sono stanca delle vostre domande.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 


Finalmente sono riuscita  a finire il capitolo!
Non è stato facile, perché Lirael sta crescendo lentamente, e mentre Ulfric ha già dei modi ben definiti, il suo carattere si deve ancora formare.
Mi sarebbe piaciuto dilungarmi sulla sua piccola spedizione fuori dalla città, ma mi sono resa conto che sarebbe stato un inutile dilungarsi, che non avrebbe aggiunto molto alla storia, così magari ne parlerò brevemente nel prossimo capitolo.
La sua visita alle prigioni sa un po' di bravata adolescenziale, ma Lirael è una ragazzina, ed a diciotto anni si ha quel coraggio un po' idiota che porta a fare delle sciocchezze.
Ho voluto andarci piano con i personaggi di Solitude, perché so che gettare tanta carne al fuoco li avrebbe fatti scordare tutti nel giro di poco tempo. Così, per adesso avete incontrato solo Torygg; ho volutamente cercato di renderlo sin dall'inizio più “Imperiale”, meno tradizionalista di Ulfric e sicuramente più giovane, in accordo con quei dialoghi del videogioco in cui i personaggi si riferiscono a lui come a “il ragazzo”. Più avanti farò comparire anche la bella Elisif e l'attuale Re dei Re, ma un poco per volta.

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Capitolo 9
*** The price of honour ***


Il primo pasto mattutino alla tavola di Istlod era da tempo terminato, ma dalla sala con il lungo tavolo imbandito giungevano ancora le chiacchiere dei thane ed il tintinnio delle stoviglie.
Ulfric poteva sentirle persino dal punto in cui si trovava, al termine di una lunga galleria colonnata che conduceva ad una piccola terrazza affacciata sul porto sottostante.
Le mattine di Solitude erano fin troppo tranquille, per i suoi gusti, ma perlomeno i pasti erano abbondanti e gustosi. Istlod non si era ancora fatto vedere, e l'unica nota positiva era che la moglie di Torygg lo aveva imitato, mantenendo la parola data e togliendogli il saluto.
Ulfric sperava che si attenesse a quella decisione almeno fino al termine del suo soggiorno. Tra lui ed Elisif pendeva da anni una vecchia disputa mai appianata, e nessuno dei due sopportava la vista dell'altro.
“Jarl Ulfric.”
La voce di un servitore lo riscosse dai suoi pensieri, facendolo voltare proprio sotto l'arco che conduceva alla terrazza. L'uomo che lo aveva fermato era un Imperiale basso e stempiato, con un ampio camiciotto stretto in vita da una cintura che passava sotto il ventre prominente.
“Signore.” Lo salutò con un inchino frettoloso. “Jarl Istlod vi chiede di raggiungerlo nel suo studio, nell'ala nord.”
Ulfric storse la bocca, infastidito dall'idea di dover attraversare l'intero palazzo, ma ringraziò il servitore e lo congedò con un cenno della mano. Il Re dei Re si era finalmente degnato di riceverlo, perlomeno.
Lasciandosi sfuggire uno sbuffo seccato tornò sui propri passi, procedendo ad ampie falcate. Non aveva bisogno che gli venisse indicata la strada, perché durante i Concili che si erano tenuti nel corso degli anni aveva ormai imparato a muoversi nel Palazzo Blu quasi altrettanto bene che nel suo castello di Windhelm.
Ripercorse l'intera galleria colonnata, passò di nuovo davanti alla sala in cui i thane di Solitude stavano ancora consumando la colazione e scese due rampe di scale, solo per risalirne altrettante quattro stanze più in là.
Mentre raggiungeva lo studio di Istlod, cercò di richiamare alla mente i punti salienti che sospettava sarebbero stati toccati. Il Re dei Re avrebbe probabilmente puntato sulla solidità dei feudi uniti, per spingerlo a pagare; a suo avviso la solidità di Skyrim dipendeva dalla capacità degli Jarl di cooperare tra loro, ed Ulfric si trovava abbastanza d'accordo pur essendo, per usare le parole dello stesso Istlod, poco entusiasta di due tra loro.
Il Signore di Solitude aveva la rara capacità di sminuire la realtà delle cose a suo piacimento.
Poco entusiasta mal si adattava a descrivere una antipatia fortemente ricambiata.
Per accorciare la strada che lo separava dall'ala nord scese fino al primo livello del palazzo, per poter attraversare uno dei cortili interni. In particolare aveva scelto quello di maggiori dimensioni, situato accanto alle armerie ed usato solitamente dalle guardie per trascorrere il tempo libero tra i turni di ronda o addestrarsi all'arte della guerra.
Non fu affatto stupito quindi, nel vedere che i suoi guerrieri si erano ritirati in quello spiazzo per consumare il primo pasto della giornata. Coperti di pelli d'orso e di lupo e vestiti di maglia metallica e cuoio, gli uomini di Windhelm non passavano certo inosservati in mezzo ai soldati di Solitude.
Passandogli davanti Ulfric rivolse loro un cenno, ed i guerrieri risposero chinando rispettosamente il capo o salutandolo battendosi il pugno sul petto prima di tornare alle proprie occupazioni.
L'unico ad abbandonare la sua colazione di vino e pane nero fu Asbjorn, che con il passo lesto e silenzioso di un lupo della tundra si staccò dai suoi compagni e seguì il suo Jarl.
“Sire.” Lo chiamò per attirarne l'attenzione. Il Signore di Windhelm inclinò il capo, la fronte aggrottata, e mentre imboccava un nuovo corridoio che lo avrebbe riportato all'interno del palazzo rallentò il passo, per permettergli di raggiungerlo.
“Signore.” Esclamò il suo cupo Capitano quando lo ebbe raggiunto, ed affiancandoglisi continuò, in tono sommesso. “Voglio ringraziarvi per il dono che mi avete inviato la scorsa notte.”
Ulfric grugnì un assenso e volse leggermente il capo nella sua direzione, continuando a camminare.
“Spero ti abbia soddisfatto.” Commentò levando un sopracciglio. Sperava soprattutto che Eanfled non lo avesse ingannato, intascandosi l'oro e mostrandosi meno generosa di quanto avrebbe dovuto, ma Asbjorn annuì profondamente, fugando ogni dubbio.
“Molto, sire.” Il capo della sua scorta raddrizzò le spalle, storcendo la bocca per nascondere un sorriso compiaciuto. “Voi siete un uomo generoso.”
“Te lo sei meritato.”
“Grazie, Signore.”
“Adesso vai.” Gli ingiunse, facendo un cenno brusco con la mano. “Tieni gli uomini pronti: Istlod mi ha concesso udienza. Non temo conseguenze, ma preferisco che siano preparati.”
“Come ordinate.” Il suo cupo Capitano gli rivolse un brusco cenno con il capo e si allontanò a gran passi, facendo risuonare il tonfo dei suoi stivali di cuoio e pelliccia lungo tutto il corridoio.
Certo che Asbjorn avrebbe fatto quello che gli aveva chiesto, Ulfric riprese la sua marcia a passo sostenuto, e dopo aver superato numerose porte e gallerie ed essere salito di altri due piani, finalmente giunse alla sua destinazione.
Fermandosi davanti al battente di legno massello dello studio di Istlod, lo Jarl di Windhelm prese tempo per rassettarsi il lembo della casacca che sbucava da sotto la cintura e per ascoltare i rumori della stanza davanti a lui.
Attese qualche istante, e non sentendo nulla che gli facesse presagire una sortita armata sollevò il pugno e lo batté sulla porta.
Dall'altra parte giunse il soffocato invito a farsi avanti, ed Ulfric abbassò la maniglia e spinse il batte, entrando finalmente nello studio di Istlod.
La stanza era esattamente come l'aveva vista durante l'ultimo Concilio, con una grande scrivania al centro ed alle pareti scaffalature curve sotto il peso dei registri e delle suppellettili d'argento. Come tutti gli ambienti del Palazzo Blu conservava un'aura di eleganza, sottolineata dagli archi delle finestre e dalle linee fluide degli arredi, di chiara fattura Imperiale.
Lo Jarl di Windhelm fece scorrere lo sguardo lungo una cassapanca dall'aspetto esotico addossata alla parete, sotto una delle finestre, ed infine sollevò il capo per dedicarsi all'unico altro individuo presente nello studio.
L'uomo seduto dietro la scrivania aveva ancora le spalle ampie e la corporatura robusta del guerriero che era stato un tempo, sebbene avesse smesso ormai da tempo le vesti del combattente.
Rivestito di velluto e panni di lana finemente intessuti, il sovrano del fiorente feudo dello Haafingar aspettava il suo ospite con un ampio sorriso sul volto; entrambi i polsi erano cinti da bracciali in oro ed argento, ed attorno al collo robusto portava una pesante torque dorata spessa tanto quanto un pollice, ornata da due ruggenti teste di lupo.
Le guance ed il mento erano coperti da una folta barba che gli scendeva fin sul petto, ed i capelli ingrigiti, un tempo scuri come quelli di Torygg, gli ricadevano sulle spalle come un manto canuto.
“Ah, Ulfric!” Esclamò Jarl Istlod quando lo vide entrare, accarezzandosi la lunga barba intrecciata con cura. “Vieni avanti, siediti. Perdonami se non mi alzo, ma quest'oggi le mie gambe non vogliono collaborare."
Ulfric si fece avanti senza fare commenti, ed a gran passi girò intorno al tavolo che troneggiava in mezzo alla stanza per andare a stringere la mano al suo ospite.
“Istlod.” Lo salutò solamente, fingendo di non notare la coperta che copriva le gambe del sovrano ed il bastone con l'impugnatura di corno appoggiato allo scranno.
Lo Jarl di Solitude era da anni afflitto da un male oscuro, che talvolta gli causava acuti dolori agli arti inferiori e gli impediva di camminare agevolmente. La situazione e le sue condizioni di salute erano note in tutta Skyrim, e spesso si era sussurrato che non gli mancasse ancora molto da vivere. Ma contro ogni aspettativa, Istlod si era sempre ripreso dai suoi attacchi doloranti, e reggeva ancora il proprio feudo con la fermezza che lo aveva sempre contraddistinto.
“Accomodati, amico mio. Prego.” Con un sorriso il vecchio Jarl gli indicò uno degli scranni posti di fronte a sé, ed Ulfric prese posto sbuffando. “Vuoi del vino? Le spezie sono arrivate solo il mese scorso da Elseweyr.” Propose, e prima di ricevere risposta allungò un braccio e sollevò una brocca in argento cesellato, versando in un boccale una generosa dose di vino speziato.
“Ti ringrazio.” Ulfric annuì una sola volta in segno di ringraziamento, prendendo il calice dalle mani di Istlod. Quando se lo avvicinò al viso l'aroma pungente della bevanda gli fece pizzicare le narici, penetrandogli fino in gola.
“Bevi pure, Ulfric. La brocca è piena, e non ho paura di vuotarla.” Lo incoraggiò il vecchio Jarl. Ridacchiando tra sé si puntellò con le mani sui braccioli del suo scranno, spostandosi di peso con la sola forza delle braccia, in modo da assumere una posizione più comoda. “Sono stato sorpreso quando ho saputo del tuo arrivo. Non ti aspettavo così presto.”
“Ho preferito affrettare il viaggio.” Borbottò il sovrano di Windhelm, affondando il naso nel calice.
Il vino era ottimo, caldo e speziato al punto giusto, e mentre lo sorseggiava si godette la sensazione piacevole della bevanda che gli scorreva in gola.
Con la coda dell'occhio vide Istlod annuire e versare da bere anche per sé, appoggiandosi poi allo schienale con un sospiro sofferente.
“Non ho nulla in contrario, mio buon amico, ed io sono felice di averti qui. A tal proposito, ti trovo davvero bene.” Tra la folta barba del Signore di Solitude comparve un sorriso d'intesa, e nei suoi occhi brillò una luce divertita. “Deve essere l'effetto di quella giovane fanciulla che ti ha raggiunto a Windhelm. Dimmi, è la tua amante o la tua sposa?”
Ulfric abbassò lentamente il calice, asciugandosi i baffi con la nocca dell'indice. Aggrottò pericolosamente la fronte, chiedendosi se i due Altmer messaggeri non lo avessero preceduto e si fossero preparati a giocargli qualche brutto tiro per l'accoglienza che gli aveva riservato.
“Entrambe le cose. È mia moglie davanti ai Nove, ed è la mia amante tra le coltri del mio letto.” Rispose bruscamente, appoggiando il boccale sul ripiano della scrivania e spingendolo lontano dal bordo. “Non l'ho ancora presentata all'esterno del feudo. Come hai saputo di lei?”
Istlod doveva aver colto la punta di sospetto nella sua voce, perché raddrizzò le spalle infastidito e posò a propria volta il calice accanto alla brocca d'argento.
“Non ho spie entro i tuoi confini, se è questo che credi.” Disse, senza troppi giri di parole. “Ma una nave salpata da High Rock è approdata ai miei porti alcuni mesi fa, scaricando uomini, bauli e cavalli. Quando i miei marinai hanno domandato quali fossero i loro affari a Skyrim, è stato risposto che portavano la loro Dama nella sua nuova casa, a Windhelm, dall'uomo che poteva vantare i propri diritti. Ho subito pensato che fossi tu: sei l'unico tanto egocentrico da scegliersi una donna all'estero, invece che accontentarsi delle nostre bellezze Nord.”
La motivazione pareva reggersi a malapena, ma Ulfric decise di ignorarlo ed emise un basso grugnito.
“Hai visto bene.” Annuì, storcendo la bocca in una smorfia irritata. “Ma non sono qui per parlare del mio matrimonio.”
“Se non desideravi parlarne avresti dovuto portarla. Perché non è qui?”
“È indisposta. I guaritori le hanno comandato un periodo di riposo.”
“Oh!” A quella notizia Istlod si aprì in un ampio sorriso, e recuperato il calice lo sollevò nella sua direzione. “Le mie più vive congratulazioni, amico mio!”
“Non è incinta.”Tagliò corto lo Jarl di Windhelm, infastidito. “È solo indisposta. La vedrai il prossimo anno, durante il Concilio.”
Il sovrano di Solitude levò le sopracciglia ed abbassò il boccale, visibilmente stupito di essere incorso in un simile errore. Presto però scrollò le spalle robuste, battendo una mano sul piano di legno della sua scrivania.
“Attenderò con ansia quel momento, allora. Per averti spinto tanto lontano da Skyrim deve trattarsi di un autentico fiore.” Decretò con un sorriso bonario, riparando al proprio errore con quel galante complimento. “Ma ora torniamo a noi.”
In silenzio Ulfric lo osservò mentre allungava un braccio, sfilando un foglio di pergamena da sotto una piccola pila di carte che ingombravano la scrivania. Lo Jarl di Solitude prese tempo, lisciando la superficie ruvida con la punta delle dita; con estrema lentezza fece scorrere i suoi vecchi occhi chiari sulle parole vergate in inchiostro nero, aggrottò la fronte ed alla fine sollevò lo sguardo, scuotendo il capo.
“Ulfric.” Cominciò stancamente, come un padre che rimprovera il figlio per l'ennesima marachella. “Cosa diamine combini, per gli Dei?”
Il sovrano di Windhelm rimase in silenzio, stringendo i muscoli della mascella, ed Istlod esalò un sospiro esasperato.
“Comincio ad essere stanco delle tue dispute con Igmund.” Lo avvisò, stendendo la pergamena sul tavolo e posandovi sopra il palmo. “Non ho mai voluto intromettermi, perché pensavo aveste ancora un minimo di buonsenso per mettervi d'accordo. Ma all'inizio dello scorso mese ho ricevuto questa.” Il vecchio Jarl batté la mano sulla missiva, con tanta forza da far sobbalzare il suo calice. “Hai qualcosa da dirmi?”
“Ho molto da dire, ma nessuna parola è lusinghiera.” Sbottò Ulfric, cambiando posizione sul suo scranno.
“Allora è meglio se resti in silenzio.” Istlod sollevò nuovamente la pergamena tra le dita, rileggendo ostentatamente quello che vi era scritto. “Igmund chiede che tu ripaghi i danni che hai causato durante l'attacco a Markarth.”
“So cosa chiede, quel codardo.” Lo Jarl di Windhelm strinse i pugni sui braccioli dello scranno, raddrizzando le ampie spalle per l'indignazione. “Ma non ho intenzione di pagare. Non combatterono solo gli uomini dell'Eastmarch, e non intendo farmi carico di quello che non ho fatto.”
“Credi che non lo sappia? Anche l'Haafingar inviò i suoi soldati.” Gli ricordò Istlod; Ulfric annuì, rammentando gli stendardi del Lupo sventolare davanti alle porte di Markarth.
Il Re dei Re non aveva potuto restare insensibile alla richiesta di un sovrano di Skyrim, ma aveva inviato solo cinquanta uomini riluttanti, perché non intendeva scendere davvero in battaglia.
In accordo con i suoi desideri, i Capitani di Solitude si erano inizialmente rifiutati di combattere, prendendo tempo durante i consigli di guerra e procrastinando le decisioni da prendere; dopo giorni di stallo, incapace di attendere oltre, Ulfric aveva comandato l'attacco. Era ancora giovane, ma sapeva come parlare agli uomini per accendere in loro il fuoco dello scontro, e la sua fama di eroe di guerra aveva spinto i guerrieri sul campo a seguirlo. Erano stati pochi coloro che si erano rifiutati, ma anche senza il loro aiuto le truppe avevano ripreso la città, come richiesto dal Signore di Markarth.
E dopo tutta la fatica ed il sangue versato, dunque era quello era il ringraziamento: farsi rimbrottare come un ragazzo da uno Jarl che era responsabile almeno quanto lui.
Quel verme di Igmund gliela avrebbe pagata, in qualche modo.
“Ho riflettuto a lungo sulla questione, Ulfric.” Sospirò Istlod, posando di nuovo la pergamena e piegandola con misurata attenzione. “Credo che tu debba risarcire Igmund per i danni che provocasti...”
“Non fui io, a provocarli!” Protestò lo Jarl di Windhelm, alzando la voce. “Eravamo in guerra. Non si richiede un intervento armato, se non si possono sopportarne le conseguenze.”
“Una guerra non giustifica le carneficine.” Replicò freddamente Istlod, facendogli montare la rabbia.
“È troppo facile addossarmi ogni colpa!” Spinto da un impeto rabbioso Ulfric si alzò in piedi, torreggiando sul suo ospite. “Per quanto mi riguarda ho già pagato. Ho passato mesi nelle sue luride prigioni, a spaccare pietre e farmi vessare come un qualunque prigioniero. Quel verme ha già avuto il mio sudore ed il mio sangue, e non avrà altro.”
“Ora siediti e modera i toni.” Lo redarguì Istlod in tono autoritario, levando una mano. “Sei nella mia casa, Ulfric. Non scordarlo.”
Soffocando un basso ringhio rabbioso il Signore dell'Eastmarch si sedette di nuovo, digrignando i denti come un animale. Era una fortuna che Igmund non fosse presente, o nulla avrebbe potuto impedirgli di dargli quel che si meritava.
“Tu sai che ho il potere di costringerti a pagare.” Continuò il vecchio Jarl, puntandogli in viso i suoi taglienti occhi chiari. “Potrei prenderti come ostaggio. Come mi hai confermato, ora hai una moglie, a Windhelm, e sono certo che lei pagherebbe per riaverti indietro.”
Ulfric grugnì infastidito ed aggrottò la fronte, senza replicare. Si era immaginato quel genere di soluzione, ed era pronto ad affrontarla. Ma non necessariamente ad accettarla.
“Tuttavia,” Riprese Istlod. “ Io ho un... vecchio debito d'onore con l'Eastmarch, se così possiamo chiamarlo, e credo che le lamentele di Igmund siano fin troppo fantasiose.” Il vecchio Jarl sollevò una mano per lisciarsi la grigia barba intrecciata, guardandolo con aria imperscrutabile. “Dice che hai scardinato le porte di Markarth con un solo grido. È vero?”
“Fu l'ariete a sfondare le porte. E comunque non le scardinammo: i perni dei cardini sono più saldi della montagna su cui sorge la città.” Rispose Ulfric, mantenendo un tono brusco e teso. “Di cosa mi accusa, ancora? Di aver spuntato gli spilli delle sue donne? Di aver bevuto l'acqua dei suoi fiumi ed aver respirato l'aria del Reach?”
A quelle parole Istlod sospirò stancamente, levando una mano. La sua fronte si spianò, facendo scomparire l'aria di vaga minaccia che aveva aleggiato sul suo volto, ed il suo sguardo tornò pacato ed amichevole.
“Non hai bisogno di usare questi toni con me. Sono girate molte voci sul tuo conto dopo quella brutta faccenda, ma credo che non tutte siano veritiere. Immaginavo che questa fosse una qualche sua fantasia.” Commentò, appoggiandosi allo schienale del suo scranno. “Igmund ha ragione a chiedere un risarcimento. Ma...” Esclamò, bloccando Ulfric che aveva schiuso le labbra per replicare. “... le sue richieste sono eccessive. Ho chiesto a mio figlio di recuperare i vecchi rapporti dei Capitani che parteciparono alla presa di Markarth, per confrontarli con la lettera di Igmund. Trovo che l'entità dei danni che professa sia esagerata.”
Ulfric faticò non poco a nascondere la sorpresa per quella svolta inaspettata. Aveva immaginato che sarebbe stato costretto a scontrarsi con Istlod, certo non che gli venisse data ragione, almeno in parte.
Di questo doveva senza dubbio ringraziare il fato, che diciassette anni prima aveva voluto i riluttanti Capitani di Solitude lontani dal cuore dell'azione, ed ignari della maggior parte dei fatti che erano accaduti durante la presa della città. Di sicuro avevano visto l'ariete portato a braccia dai soldati di Dawnstar, con la Stella argentata che campeggiava sui loro stendardi gialli, ma non sapevano cosa ne era stato, né come erano state forzate le porte.
Era anche una fortuna che i due altri sovrani che avevano risposto all'appello di Igmund fossero imparentati con lui o legati da giuramenti di fedeltà ed amicizia. Nè suo cugino Korir né Skald l'Anziano, il Signore della Stella, avrebbero mai osato togliergli il loro sostegno nella faccenda. E fortunatamente, parevano non essere stati interpellati.
Al suo ritorno a Windhelm avrebbe sicuramente dedicato un'offerta a Talos, in segno di ringraziamento.
“Cosa suggerisci, allora?” Domandò ad Istlod, appoggiando gli avambracci sui braccioli di legno del suo scranno e sporgendosi in avanti. “Immagino mi sia impedito di sfidare quell'inutile verme a duello, anche se lo meriterebbe.”
Il vecchio Jarl non rispose subito, ma lo scrutò a lungo con fare assorto. Per prendere tempo afferrò di nuovo il proprio calice, sorseggiando lentamente il vino speziato che andava raffreddandosi; tra le sue sopracciglia grigie erano comparse rughe profonde, ed Ulfric lo interpretò come un brutto segno. Qualcosa gli suggeriva che le notizie che stava per ricevere non lo avrebbero per niente soddisfatto.
“Preferirei che evitassi una simile idiozia.” Disse infine Istlod, sospirando stancamente e posando il calice davanti a sé. “Igmund non impugna un'arma da troppo tempo, e vorrei risolvere simili questioni senza inutili spargimenti di sangue. Tu pagherai il Reach...”
“Mi rifiuto di farlo!”
“... per la metà di quanto ti viene richiesto.” Il vecchio Jarl fu costretto ad alzare la voce per sovrastare le sue proteste, afferrando i braccioli del suo scranno e sporgendosi in avanti. “Le casse dell'Haafingar copriranno la metà restante.” Concluse, facendogli un cenno conciliante con la mano.
Il sovrano dell'Eastmarch strinse gli occhi, pallidi come i ghiacci delle sue terre, rivolgendo al Re dei Re uno sguardo assorto. Le implicazioni taciute di un simile prestito non gli piacevano affatto.
“Non pagherò ciò che non ho...”
“Ti consiglio di accettare la mia proposta.” Lo interruppe Istlod, con il tono d'avviso di un padre che si rivolge al figlio recalcitrante. “Perché questo è quanto intendo offrirti, e non mi spingerò oltre. Igmund va risarcito, e le tue truppe sono quelle che hanno causato i danni più ingenti. Ma anche l'Haafingar era presente, ed intendo fare la mia parte.”
“Ed io non intendo asservire il mio regno ad un altro feudo!” proruppe Ulfric, alzandosi in piedi in uno scatto d'ira. Acconsentire avrebbe significato porre l'Eastmarch in debito con l'Haafingar di Istlod, e lui non poteva accettare di sottomettersi ad un altro Jarl.
“Vedila come preferisci.” Ribatté il vecchio re, aggrottando pericolosamente la fronte ed assumendo il suo stesso tono alterato. “Ma questo non toglie che la mia sia una proposta generosa. Sei uno sciocco se la rifiuti, e doppiamente sciocco se non comprendi il suo reale significato.” Con un gesto iroso l'anziano sovrano puntò i palmi contro il solido piano della sua ampia scrivania, e con un terribile sforzo si issò in piedi, sostenendosi sulle braccia cinte d'oro ed argento. “Tu custodisci qualcosa di mio, Ulfric Ulrichsson.” Dichiarò con voce vibrante.
Nessuno aveva più usato il suo patronimico dopo la morte del vecchio Orso di Windhelm, e tanto bastò perché Ulfric, che al colmo della rabbia si era voltato per lasciare la stanza, stringesse i pugni e si voltasse di nuovo verso il suo ospite.
“Non lo custodisco.” Ribatté, con aria grave. “Non è un monile di cristallo.”
“No, certo.” Gli acuti occhi chiari di Istlod si velarono per un istante, e le braccia su cui si sosteneva tremarono brevemente. “Ma tu lo hai preso con te, rendendomi il più grande dei favori. Permettimi di coprire parte della somma, e ripagare così il mio debito nei tuoi confronti.”
Ulfric emise un brontolio frustrato, lanciando al vecchio sovrano un'occhiata carica di risentimento. Istlod desiderava passare i suoi ultimi anni senza imbarcarsi in altri conflitti. Così, invece di prenderlo in ostaggio per spingerlo a pagare, aveva fatto leva sull'unica cosa che aveva potere di convincerlo.
Non aveva alcuna intenzione di cedere alla richiesta del vecchio Jarl; quel debito d'onore mai saldato era un vantaggio a cui non era ancora disposto a rinunciare, e sprecarlo per Igmund gli pareva quasi un insulto. Ma allo stesso tempo, non poteva nemmeno rifiutare ad Istlod la possibilità di riscattarsi.
“Mi chiedi molto.” Gli disse gravemente, scegliendo con cura le parole.
Il signore di Solitude annuì, e con cautela si sedette nuovamente sul proprio scranno, sospirando per lo sforzo che gli era costato doversi alzare in quel modo.
“Me ne rendo conto. Per questo motivo non ti chiedo una risposta immediata.” Istlod fece una pausa, chinandosi oltre il bordo della sua scrivania per recuperare la coperta di lana che gli era scivolata dalle gambe. “Sei libero di pensarci quanto desideri. Ma ovviamente, questo non ti autorizza a procrastinare la decisione. Preferirei poter avere una risposta prima della tua partenza, amico mio.”
“Se vuoi una risposta per Igmund, potrei averla già pronta.”
“Ed io potrei non volerla sentire. Sai che non amo le volgarità.” Lo avvisò il vecchio sovrano, rassettando le pieghe della coperta che aveva nuovamente steso sugli arti inermi. “Pensaci, e fammi sapere cosa hai deciso prima di tornare a Windhelm.”
Grugnendo un assenso, Ulfric gli rivolse un brusco cenno con il capo e gli voltò le spalle, dirigendosi verso la porta. Ma aveva appena fatto in tempo ad attraversare la stanza, posando la mano sulla maniglia di ferro lavorato, che Istlod lo richiamò indietro.
“Perdonami se ti trattengo ancora, amico mio.” Esclamò con un sorriso di scusa, aprendo un grosso libro rilegato in pelle e cominciando a sfogliarne le spesse pagine di pergamena. “Ma ho ancora una piccola domanda da porti, puramente personale.”
Ulfric tornò sui propri passi, fermandosi ad una certa distanza dalla scrivania. Mentre il Re dei Re voltava i fogli scricchiolanti, riconobbe fugacemente le riproduzioni in inchiostro di alcuni vessilli di diversa provenienza.
“Sai quanto io mi interessi di araldica. Credevo che entro i miei confini non avrei mai visto uno stemma che mi fosse sconosciuto, ma poi è approdata la nave della tua fanciulla.” Sul volto del vecchio Jarl comparve un sorriso amichevole, ma nei suoi occhi brillava una luce scaltra. “Ho riconosciuto la Triquetra d'argento del Fljotmarch.” Disse, battendo un dito su un triplice simbolo argentato in campo azzurro, il vessillo delle terre portate in dote dalla sua giovane moglie. “Ma non riesco a riconoscere questa testa di verro in campo rosso.”
Ulfric posò lo sguardo sullo stemma indicato da Istlod, composto da una stilizzata testa di cinghiale su sfondo sanguigno, e che aveva tutta l'aria di essere stato riprodotto di recente.
“È il vessillo dei De Braose di Daggerfall.” Rispose in tono brusco, ricordando i drappi che avevano coperto i bauli della sua sposa quando era giunta a Windhelm.
“De Braose di Daggerfall.” Ripeté Istlod con un sorriso indecifrabile, mentre vergava quel nome sotto il nuovo stemma. Con il pollice della mano libera sfregò velocemente un appunto, segnato con il carboncino accanto alla riproduzione araldica, ma prima che lo cancellasse Ulfric riuscì a coglierne abbastanza per indovinare cosa vi fosse scritto.
High Rock.
Dunque, il vecchio re non aveva indovinato la destinazione di Lirael solo in base all'ego che gli attribuiva.
Aveva riconosciuto l'insegna azzurra e argento del piccolo regno che lei aveva portato in dote, e sapeva bene, come tutti i sovrani di Skyrim, che la famiglia che aveva regnato per secoli su quel minuscolo feudo chiamato Fljotmarch si era rifugiata in territorio Bretone in seguito all'esilio.
Non doveva averci messo molto, a quel punto, a ricordare che quelle terre erano state inglobate nei territori dell'Eastmarch dopo un'azione militare, e che da oltre dieci anni Ulfric aveva fatto dell'antico castello signorile un forte per le sue guarnigioni.
“Ti sei spinto ben lontano, per conquistare una manciata di campi e qualche fiume.” Commentò Istlod in tono distratto, stappando una minuscola boccetta d'inchiostro per intingervi il calamo. “Ma forse non erano soltanto quelli, l'oggetto della conquista. Gira voce che la fanciulla della nave fosse estremamente graziosa.”
“I campi del Fljotmarch sono sempre stati i più fertili, ed i loro fiumi i più ricchi di pesce.” Rispose Ulfric bruscamente, cercando di chiudere il discorso il prima possibile. Ignorò a bella posta la domanda implicita sull'aspetto della sua giovanissima moglie; se Istlod voleva sentirlo ridicolizzarsi lodando un bel viso, allora avrebbe atteso fino alla fine dei tempi.
Il vecchio Jarl terminò di vergare il nome dei De Braose con un elaborato svolazzo del calamo, ed alla fine tornò a sollevare lo sguardo su di lui con aria divertita.
“Vai pure, Ulfric.” Gli disse con fare bonario, lasciando che si voltasse e si allontanasse di nuovo verso l'uscio. “Sei sempre stato un uomo impaziente, ed immagino che tu ora abbia il desiderio di andare a sfogarti sul campo di allenamento. Non posso certo darti torto, sapendo che la scorsa notte hai rifiutato che una fanciulla alleviasse la tua tensione.”
Il sovrano di Windhelm aggrottò la fronte, lanciando al suo ospite un'occhiata diffidente da sopra la spalla.
“C'è altro che sai, sul mio conto?” Grugnì con fare seccato , allungando una mano per aprire la porta.
Istlod scoppiò in una breve risata allegra, allargando le braccia con fare teatrale.
“Io so tutto quello che accade sotto al mio tetto.” Dichiarò con un sorriso bonario, ed al colmo dell'irritazione Ulfric uscì dalla stanza sbattendosi la porta alle spalle.

 

******



La primavera si avvicinava, la morsa del gelo non accennava ad allentarsi, e la mia irritazione cresceva.
Dopo aver scoperto l'identità di Halfdan nelle umide gallerie delle prigioni, ero tornata nelle mie stanze quasi senza accorgermene. La notizia mi aveva colta così alla sprovvista che non avevo saputo come ribattere; davanti a quella rivelazione la mia mente si era svuotata, lasciandomi incapace di proferire una sola parola, ed in silenzio mi ero ritirata, camminando come in sogno.
Da quando ero giunta a Windhelm, vi erano state diverse occasioni in cui avevo creduto che non mi sarebbe stato possibile sentirmi più umiliata ed infastidita, ma in quel momento mi resi conto di quanto avessi sbagliato.
Nei giorni seguenti ero ricorsa nuovamente a Mirala, perché scoprisse il più possibile sui figli di mio marito. Io stessa avevo cercato le loro tracce nei registri contabili, sperando di trovare strani doni immotivati o indizi che mi illuminassero sulle loro identità, proprio come era accaduto per il misterioso carrettiere che si era rivelato il suo primogenito.
Sospettavo infatti che ce ne fossero altri, perché le parole della donna prigioniera mi avevano suggerito che Halfdan non fosse il solo.
Sapevo che non avrei dovuto stupirmi della loro esistenza.
Il mio sposo poteva considerarsi già un uomo quando io ero ancora nel grembo di mia madre, e non potevo certo pretendere che si preservasse per una donna di cui ancora ignorava l'esistenza.
Inoltre ero cresciuta a Daggerfall, dove Lord giovani ed anziani generavano figli illegittimi senza farne mistero, mandandoli poi come vassalli a servire in corti lontane, presso famiglie in cui venivano apprezzati per i loro valori.
Avevo visto dame presentarsi a testa alta accanto ai mariti fedifraghi, e durante i ricevimenti e le feste danzanti avevo scosso il capo al loro passaggio, insieme alle mie coetanee.
Eppure non avevo mai immaginato che, un giorno, mi sarei trovata al loro posto.
La mia prima reazione sdegnata era stata quella di farmi preparare i bauli ed allontanarmi da Windhelm, se non altro per il fatto di essere stata tenuta all'oscuro per tanto tempo.
Ma non avevo dove andare, e Mirala mi aveva discretamente ricordato le regole matrimoniali che vigevano a Skyrim.
Nessuno avrebbe avuto da ridire se avessi lasciato mio marito in seguito a una violenza o ad un palese tradimento, ma abbandonare il tetto coniugale senza quello che era ritenuto un valido motivo mi avrebbe chiuso le porte di ogni corte. Nessuno avrebbe voluto accogliere una donna che aveva rigettato i suoi doveri dando prova di codardia.
“Un figlio illegittimo è pur sempre tradimento.” Avevo cercato di difendermi una mattina, mentre la mia vecchia balia terminava di acconciarmi i capelli.
“Non se concepito prima del matrimonio.” Mi aveva ricordato Mirala, fissandomi una ciocca sopra la tempia con una forcina d'osso. “E tra i Nord, un'unione è legittima solo dopo la consumazione delle nozze.”
Per diversi giorni i nostri discorsi non furono che varianti di quello stesso tema, ed una sera, dopo aver congedato Galmar, ero sbottata con tutta l'amarezza che sentivo in petto.
“È ridicolo.” Mi ero sfogata, allargando le braccia per permettere alla mia balia di svestirmi. “Tanto sarebbe valso organizzare una farsa con dei figuranti, invece che mandarmi all'altare in fretta e furia. Ho passato otto anni a comportarmi come una donna sposata...”
“E continuerai a farlo.” Era stata la risposta lapidaria di Mirala, che con un ultimo strattone aveva sciolto i lacci del mio vestito. “A Daggerfall eri tenuta a seguire le regole di Daggerfall. Ora che sei a Skyrim, devi seguire le regole di Skyrim.”
“Anche se mi rendono infelice?”
“L'infelicità, Lirael, è ben altra cosa.” Mirala mi aveva fatto scivolare l'abito dalle spalle, e quando mi ero voltata avevo capito, dal modo in cui stirava le labbra in una linea sottile, che non avrebbe più acconsentito a riprendere quell'argomento.
Era frustrante dover accettare una simile situazione, e per giorni mi aggirai per il Palazzo dei Re in preda alla più grande irritazione che avessi mai provato.
Stranamente, per quanto fosse spiacevole vivere nel costante malumore, provavo un malsano piacere a crogiolarmi nel mio sconforto.
Ero sempre stata accondiscendente e pronta ad accettare il fato che altri mi avevano imposto, e quella era la prima volta in cui cercavo di ribellarmi.
In gran segreto dentro di me, avevo deciso che avrei affrontato mio marito al suo ritorno. Dopotutto era mio diritto sapere cosa accadeva all'interno del regno, e dei figli illegittimi potevano costituire una minaccia per quelli che io avrei dovuto partorire.
Forte di quella decisione, mi ci aggrappai con tutte le mie forze. Dovevo solo attendere che il mio sposo tornasse.
E speravo che lo facesse presto.
Prima che io perdessi il coraggio di affrontarlo.

 

******

 

L'ascia descrisse un ampio arco nell'aria.
Per un istante, al culmine della sua parabola di morte, la lama ricurva scintillò al sole, cogliendo la luce di quella mattina inoltrata.
Poi continuò la sua corsa, sibilando minacciosa, e si schiantò con un tonfo sonoro contro lo scudo levato prontamente. L'acciaio affilato penetrò per una buona misura nel legno di tiglio, segnando una profonda spaccatura sul bordo.
Con un grugnito la lama venne liberata, e da dietro lo scudo rotondo comparve un volto allarmato.
“Quella poteva essere la mia testa!”
“Allora coprila meglio.”
Ulfric si allontanò di un passo dal suo avversario, girando in cerchio a gran passi per tirare il fiato, ma senza mai distogliere gli occhi. Con l'ascia in una mano e lo scudo al braccio, il volto arrossato e lo sguardo indurito dallo scontro, aveva l'aspetto del guerriero esperto e temuto che era divenuto nel corso degli anni.
Ampie macchie scure si allargavano sotto le sue braccia, sulla casacca di tela grezza, ed i capelli erano appiccicati al volto ed alla fronte in ciocche sudate.
Aveva il respiro pesante, eppure non si sentiva stanco. Non era mai stato agile e scattante, ma sapeva di essere resistente e forte; i suoi polmoni potevano tradirlo mozzandogli il fiato, ma i suoi muscoli non lo avrebbero mai abbandonato.
“Solleva la guardia.” Ringhiò al suo avversario. “Alto lo scudo. Non devi spingermi a colpirti la testa.”
“Non sarebbe un problema, se voi non cercaste di staccarmela.” Ribatté il giovane Principe di Solitude con voce affaticata. Il suo petto si alzava ed abbassava ritmicamente, e la giubba di cuoio imbottito era impolverata come se fosse caduto più volte.
“Faccio solo quello che è giusto... Alza la maledetta guardia!”
Con un balzo lo Jarl di Windhelm fu nuovamente di fronte al suo avversario, ma invece che brandire l'ascia vibrò un potente colpo con lo scudo, urtando quello di Torygg e spingendo con forza.
Dapprima il giovane incespicò, colto di sorpresa dall'attacco, e cercò di opporre resistenza. Ma era troppo sbilanciato per contrastare quell'urto, ed una seconda, poderosa spallata, gli fece perdere l'equilibrio gettandolo nuovamente nella polvere.
“Alzati.”
“Almeno aspettate che abbia finito di rotolare.” Ribatté Torygg, facendo una smorfia e ruotando cautamente una spalla. Il suo consueto buonumore cominciava ad essere scalfito da quel trattamento, e ad ogni colpo ricevuto l'aria bonaria svaniva gradualmente dai suoi tratti, lasciando spazio ad un'espressione determinata che lo rendeva più simile al padre.
“Se resti in terra sei morto. Alzati.”
“Per Talos! Lasciatemi il tempo di riprendere fiato.” Il giovane si alzò con un sospiro esausto, ravviandosi all'indietro le ciocche sudate che gli pendevano davanti al viso. C'era un nuovo segno rosso sul suo zigomo, la cui linea arcuata richiamava il bordo curvo dello scudo.
Nel notarlo Ulfric emise un breve sbuffo esasperato. Conosceva bene quel tipo di contraccolpo, perché era quello accusato più di frequente dai giovani che cominciavano ad essere addestrati all'uso delle armi. Un allenamento costante avrebbe irrobustito il braccio di Torygg e gli avrebbe insegnato ad evitare il rimbalzo del suo stesso scudo.
Ma il ragazzo viveva tra gli agi di Solitude, e probabilmente era abituato a duelli di ben altra entità.
“In battaglia nessuno aspetta i tuoi comodi.” Ulfric strisciò un piede in terra, saggiando la presa della suola sul terreno asciutto. “Fai qualcosa. Attaccami!”
Il giovane Principe per tutta risposta fece una smorfia e sputò in terra la polvere che aveva mangiato durante la caduta. Non sembrava affatto propenso ad attaccare.
Aveva bisogno di un incentivo.
“Il cucciolo di Lupo morde, ma non ha i denti.” Ringhiò, lasciando che la sua aspra cadenza dell'Eastmarch risuonasse in ogni parola. “Forse dovresti tornare a sederti con le donne, e lasciare le armi agli uomini.”
“Sento l'Orso ringhiare, ma ha troppa paura dei Lupi per uscire dalla foresta.” Ribatté Torygg, rispondendogli come era previsto che facesse.
Perlomeno il ragazzo sapeva come replicare ad un insulto formale, ma le chiacchiere non sempre appianavano le dispute.
Un'ascia, invece, poteva farlo egregiamente.
Ulfric mosse un passo avanti e sollevò lo scudo, nascondendo il corpo e l'arma che reggeva nella mano destra. Il figlio di Istlod poteva anche essere più giovane e lesto nei movimenti, ma non aveva alcuna reale esperienza di combattimento, e tutto ciò che sapeva sull'arte bellica era dovuto ai suoi precettori.
Quello che gli mancava, si disse lo Jarl di Windhelm mentre lo osservava oltre il bordo rotondo di legno di tiglio, era quella particolare malizia che poteva essere imparata solo sul campo di battaglia.
Nel vederlo tornare in posizione, Torygg lo imitò prontamente ed assunse una posa difensiva; questa volta si ricordò di tenere lo scudo alto, pronto a ripararsi la testa in caso di attacco. Perlomeno imparava in fretta.
Vedendolo prepararsi, Ulfric abbassò le spalle e cominciò ad avanzare lentamente verso il suo giovane avversario, un cauto passo alla volta. Se il ragazzo fosse stato abbastanza sveglio, avrebbe potuto approfittare di quell'attimo per studiarlo e prepararsi ad un contrattacco, oppure per coglierlo di sorpresa caricandolo per primo.
Ma Torygg non si mosse e rimase a l suo posto, così che, quando Ulfric roteò la sua ascia al di sotto del bordo dello scudo, se ne accorse a malapena.
Prima di vibrare il colpo lo Jarl dell'Eastmarch si era assicurato di ruotare l'arma nel palmo, in modo da colpire il suo giovane avversario con la costa rivestita di metallo del manico, invece che con la lama. Il suo accorgimento si rivelò provvidenziale, perché il Principe di Solitude si accorse del colpo in arrivo solo quando lo sentì andare violentemente a segno, poche dita sopra il ginocchio.
Colto di sorpresa si lasciò sfuggire un'imprecazione ed indietreggiò, proteggendosi dietro lo scudo e zoppicando leggermente con la gamba appena colpita.
"Non pensare solo alla testa.” Lo istruì Ulfric in tono brusco, ruotando il manico di legno dell'arma nel palmo per poterla impugnare nuovamente nel verso giusto. “In un muro di scudi il colpo peggiore è quello che ti morde le caviglie.”
“Quella era una coscia, per la precisione.” Grugnì Torygg, con una smorfia dolorante dipinta in volto. “O forse per voi vale come caviglia alta?”
Lo Jarl ringhiò e non rispose, irritato dalla propensione del ragazzo a distrarsi e chiacchierare nei momenti meno opportuni. Vagheggiare in quel modo poteva anche essere piacevole, nei salotti di Solitude, ma in battaglia poteva portare a morte certa.
“Concentrati.” Lo rimproverò aspramente, sentendo una goccia di sudore scivolargli lungo il collo. Era consapevole della casacca umida che gli aderiva alla pelle, dei calzoni bagnati attaccati alle cosce e del fiato che gli sfuggiva in brevi ansiti dalle labbra dischiuse; eppure continuava a tenere lo sguardo fisso sul suo avversario, pur sapendo che difficilmente gli avrebbe mosso un attacco.
Ulfric stava considerando il modo migliore per costringere Torygg a non abbassare la guardia, quando il giovane Principe, con uno scatto repentino, non gli si avventò addosso.
La sua ascia descrisse un breve arco sibilante, dall'alto verso il basso, e lo Jarl sollevò istintivamente lo scudo per ripararsi il capo.
La lama si schiantò contro il legno di tiglio, scalfendone la superficie e facendone schizzare via una grossa scheggia; Ulfric avvertì la forza del colpo riverberare attraverso il braccio che reggeva lo scudo, e si lasciò sfuggire un grugnito soddisfatto. Finalmente il ragazzo cominciava a fare sul serio.
Sentì Torygg ritirare l'ascia dal legno, pronto per indietreggiare, ed allora ne approfittò per sferrare il proprio contrattacco, contraendo i muscoli e vibrando un colpo all'altezza del fianco prima che il giovane potesse portarsi fuori portata.
Il Principe di Solitude colse il suo movimento troppo in ritardo, e sollevò d'istinto il braccio dello scudo nell'estremo tentativo di parare la lama affilata del suo avversario. L'arma cozzò contro il legno, strappando ad Ulfric uno sbuffo d'impazienza.
“State diventando vecchio.” Lo canzonò Torygg, con il fiato corto e la voce affaticata per lo sforzo.
Lo Jarl non si curò di ribattere, ed approfittando della relativa vicinanza caricò il suo giovane avversario con tutto l'impeto di cui era capace, spingendo con la spalla e facendo cozzare i due scudi.
Nel momento dello scontro sentì il fiato mozzo del giovane, ed il suo grugnito mentre cercava di opporre resistenza con tutto il proprio peso.
Ulfric spinse di rimando, senza cedere di un passo e bilanciandosi sulla gamba sinistra che fungeva da appoggio. Dette un'altra spallata allo scudo, assicurandosi di tenere sotto pressione il suo giovane avversario, ed all'improvviso mosse il piede destro, alleggerito in precedenza dal peso, e ruotò il corpo con un unico movimento fluido.
Senza più lo Jarl a contenerlo Torygg si ritrovò sbilanciato in avanti; troppo, perché potesse mantenere l'equilibrio, ed ancora una volta si ritrovò a dover allungare le mani nel tentativo di non crollare rovinosamente in terra.
“Presta attenzione. Non ti distrarre.” Lo rimbrottò Ulfric aspramente, osservandolo mentre evitava di rotolare nella polvere puntellandosi con il bordo dello scudo.
“Io ho...”
“Non ti distrarre!” Ruggì l'uomo di Windhelm, e con un calcio ben assestato spazzò l'appoggio del giovane Principe, che ebbe solo il tempo di allungare una mano per evitare una caduta ben più rovinosa.
Fermi!
Distratti dal loro duello, i due uomini sollevarono il capo, tornando improvvisamente consapevoli dello spiazzo d'armi in cui si trovavano; i guerrieri raccolti in capannelli per osservare il loro scontro si dispersero nervosamente, e solo le urla dell'addestratore degli arcieri, che risuonavano accanto all'alta cinta muraria, non si abbassarono di tono.
Torygg ed Ulfric si voltarono all'unisono verso la fonte di quel grido accorato, e lo Jarl di Windhelm represse una smorfia di fastidio.
Sull'ampia terrazza lastricata che si affacciava sul cortile era comparsa una donna, avvolta in raffinate stoffe e veli color zaffiro. Al suo fianco, imponente ed imperscrutabile come una vecchia statua intagliata nel legno di quercia, Jarl Istlod si ergeva appoggiato al suo bastone in rigoroso silenzio.
Non appena li vide abbassare le armi, la dama afferrò un lembo delle gonne e si affrettò con aria allarmata lungo la scalinata di pietra bianca, che conduceva dalla balconata al cortile sottostante.
“Torygg!” Chiamò in tono preoccupato, mentre si avvicinava a passo abbastanza svelto da esternare la sua agitazione, ma non tanto rapido da farle perdere quella sua particolare grazia nei movimenti. Nel vederla Ulfric voltò il capo e sputò in terra, cercando di nascondere il suo disgusto.
La donna, che già appariva affascinante dall'alto della terrazza, rivelava la sua bellezza sfolgorante mano a mano che si avvicinava.
La sua figura elegante, che ondeggiava ad ogni passo, sarebbe stata sufficiente a far voltare un uomo anche senza la presenza di quella pelle alabastrina e del bel collo cinto d'oro.
I capelli biondi, intrecciati con cura sotto al velo candido, rivaleggiavano in splendore con i suoi gioielli, e nel volto cesellato brillavano due occhi celesti limpidi come acqua sorgiva.
“Elisif, amor mio!” Declamò il giovane Principe, sollevandosi da terra e cercando di allontanare la brutalità dello scontro dai propri tratti per accogliere la moglie. “Sei arrivata giusto in tempo per vedermi dare il colpo di grazia a Lord Ulfric.”
A quelle parole Ulfric lanciò un'occhiata perplessa al Principe, ed il ragazzo rispose ammiccando nella sua direzione.
“Suvvia, datemi ragione.” Gli disse in un bisbiglio perfettamente udibile, e lo Jarl non poté fare a meno di emettere uno sbuffo esasperato. Se aveva ancora voglia di scherzare dopo il combattimento, significava che usato una mano troppo leggera; la volta successiva avrebbe usato le maniere forti.
Elisif si avvicinò di gran carriera per raggiungere il marito, e quando scorse il segno che lo scudo aveva lasciato sul suo zigomo emise un'esclamazione soffocata. Tese le dita inanellate, ma non appena fu sufficientemente vicina venne investita dal puzzo di sudore emanato dai due uomini, ed allora arricciò il naso e tirò indietro il capo, ritirando la mano.
“È messo così male?” Rise Torygg, tastandosi cautamente sotto l'occhio. “Lord Ulfric pensava che fossi un po' troppo affascinante, ed ha preferito ridimensionarmi.”
La donna si voltò verso lo Jarl di Windhelm con tutto lo sdegno permesso dai suoi splendidi tratti, socchiudendo gli occhi in una smorfia che era più adorabile che spaventosa.
“Siete un animale.” Gli sibilò con disgusto, lanciandogli un'occhiata carica di astio.
“Nemmeno io sono felice di vedervi.” Ribatté lui bruscamente, ed il bel volto di Elisif si colorì per l'indignazione.
“Pace!” Intervenne la voce di Istlod dietro di loro, e voltandosi Ulfric vide che il vecchio Jarl era riuscito a scendere indenne i gradini, ed ora si avvicinava zoppicando leggermente, aiutandosi con il suo bastone. “Non voglio litigi nella mia casa, e di certo non davanti a me.”
Elisif strinse le labbra fino a farle sbiancare, ma non replicò e gli rivolse una leggera riverenza.
“Torygg.” Continuò il Signore di Solitude fissando lo sguardo sul figlio, ed un ampio sorriso comparve in mezzo alla sua barba grigia. “Temo di doverti privare del tuo avversario. Ho bisogno di un accompagnatore per la mia passeggiata, ed ora che Elisif ti ha visto in questo stato, sono certo che preferirà occuparsi di te piuttosto che dar retta ad un inutile vecchio.”
“Non dite queste cose, Padre.” Rispose la donna con automatica cortesia, ma senza fare alcuno sforzo per negare le parole dello Jarl.
“Pensi che io non sappia cosa passa nella testa di voi giovani?” La disse bonariamente Istlod, appoggiandosi con entrambe le larghe mani sul pomolo dorato del suo bastone. “Torygg, ragazzo mio,dovresti migliorare la tua guardia. Ah, se solo avessi ancora le gambe buone per poter combattere!” Sospirò, ed il giovane Principe si affrettò a scuotere la testa.
“Mi daresti del filo da torcere, padre. E mi tratteresti peggio di Lord Ulfric.” Esclamò con un sorriso irresistibile, strappando una risata all'anziano genitore.
Il vecchio Jarl mosse qualche passo zoppicante ed allungò una mano, posando l'ampio palmo sul capo bruno del figlio in un gesto affettuoso.
“Lo farei sicuramente, se tu continuassi a muoverti in quel modo disastroso. Ma ne riparleremo più tardi. Andate pure, adesso.”
Congedato, Torygg raccolse ascia e scudo da terra e si avviò con la moglie verso l'armeria, lasciando Ulfric da solo con il vecchio Jarl.
Istlod attese di vederli scomparire sotto uno degli eleganti archi di pietra del palazzo, e dopo aver esalato un lento sospiro si voltò verso il Signore di Windhelm, che portava ancora lo scudo al braccio e stringeva l'arma in pugno.
“Spero non ti dispiaccia interromperti per qualche minuto. Vieni.” Disse con gentile fermezza, cominciando a muoversi lentamente verso il margine esterno del cortile. Dietro di lui, Ulfric chiamò con un cenno silenzioso uno dei soldati che ancora stazionavano nei paraggi e gli consegnò ascia e legno di tiglio prima di accodarsi al vecchio Jarl.
Cinque giorni erano troppo pochi per abituarsi al più mite clima di Solitude, ed ora che aveva smesso di combattere sentiva le gocce di sudore scorrergli fastidiosamente sul viso e lungo la schiena, sotto la casacca.
“Ti ringrazio per aver accettato di allenare Torygg, in questi giorni di permanenza.” Gli disse Istlod, quando il Signore dell'Eastmarch gli si affiancò. “Il tuo aiuto gli è molto utile.”
“Lo spero.” Borbottò Ulfric, sollevando un lembo ruvido del suo camiciotto per asciugarsi il volto. “Anche se avrebbe bisogno di un esercizio costante.”
“Mi sarebbe piaciuto poterlo inviare a Windhelm, una volta raggiunta la maggiore età. Ma come tu ben sai, non sarebbe stato saggio.”
L'Orso dell'Est annuì seccamente, senza aggiungere altro, limitandosi a seguire il vecchio Lupo zoppicante lungo uno dei sentieri lastricati che costeggiavano le mura ed i cortili del Palazzo Blu.
“Ho saputo che hai intenzione di partire domani.” Commentò ancora l'anziano sovrano, sollevando una mano per accarezzarsi la barba grigia. “Hai riflettuto sulle mie proposte?”
“Ho riflettuto.” Acconsentì Ulfric. “Ma non a sufficienza.”
“Non ho intenzione di svegliarmi all'alba per darti udienza. Se devo avere una risposta...”
“L'avrai stasera.” Lo interruppe lo Jarl di Windhelm, voltando il capo e fingendosi interessato ai tre soldati di ronda che procedevano in direzione opposta alla loro.
I due uomini procedettero in silenzio per un lungo tratto, fino a che non giunsero in prossimità di un piccolo spiazzo, fiancheggiato da un solido muro. Tra le pietre si apriva un cancello di ferro, ed Istlod piegò in quella direzione, sollevando la lunga chiave di ferro che portava legata alla cintura con una corda di seta.
Dietro quella porta anonima si aprivano i giardini privati del Signore di Solitude, un piccolo angolo di bosco in mezzo alla città, abitato da famiglie di scoiattoli e quaglie.
Ulfric li conosceva bene, poiché sin dal suo primo soggiorno a Palazzo, quando era ancora poco più che un ragazzo, aveva preso l'abitudine di entrare di straforo scavalcando la murata in un punto nascosto alla vista, per allontanarsi dalla confusione che si creava durante i Concili con i sovrani degli altri feudi.
Normalmente i giardini sarebbero stati destinati alla moglie dell'attuale Jarl, per permetterle di svagarsi passeggiando con le ancelle e le dame di compagnia, ma da quando era salito al trono, era stato Istlod ad utilizzarli. Isarma, la defunta madre di Torygg, aveva odiato con tutte le sue forze dover abbandonare le mura del palazzo, anche solo per uscire su una delle molte terrazze, e la sua avversione per gli spazi aperti era ben nota a chiunque. Non era stato un segreto che la Signora di Solitude preferisse la compagnia dei suoi libri e delle sue pergamene a quella di chiunque altro, ed infine si era creato un fragile equilibrio che permetteva ai due coniugi di convivere senza interferire l'uno con l'altra: Istlod all'esterno, ad occuparsi del regno e a passeggiare nei giardini fioriti per sfuggire al tagliente giudizio della moglie, ed Isarma all'interno, seppellita nelle austere profondità delle sue biblioteche.
Ulfric aveva avuto poche occasioni di parlare con la donna ma, forse complice la giovane età in cui l'aveva conosciuta, ne conservava il ricordo con una sorta di timore riverenziale. La sposa dello Jarl era stata una donna intelligente ed acuta, con uno spiccato cinismo che rendeva ogni sua parola simile ad una stilettata.
Se solo la sua giovanissima Lirael avesse avuto un pizzico della tempra di Isarma, la vita al suo fianco sarebbe stata estremamente più interessante.
“Vieni, Ulfric.” Lo invitò Istlod, inserendo la chiave nella vecchia serratura arrugginita e facendola girare con un sonoro clangore. “Uno dei miei giardinieri ha detto di aver avvistato alcuni scoiattoli grigi di Solstheim, insieme a quelli rossi che abitano qui. Devi aiutarmi a scovarli, perché io ancora non sono riuscito a vederli.”
Il cancello di ferro si aprì con un lamento acuto, ed il vecchio Jarl si assicurò di richiuderlo alle loro spalle prima di imboccare l'unico sentiero di terra battuta che si apriva tra i cespugli.
“Ho saputo che anche quest'anno l'Eastmarch non si è risparmiato, durante le celebrazioni di Talos.” Commentò il vecchio Jarl, volgendo il capo verso l'alto per osservare le fronde che si intrecciavano parecchi metri sopra la sua testa. “Non vorrei doverti raccomandare nuovamente di mantenere un basso profilo, amico mio.”
“Lo stai già facendo.” Brontolò Ulfric, strappando furtivamente la cima di uno stelo che sporgeva sul sentiero.
Su entrambi i lati, sotto i rami nodosi, crescevano rigogliosi cespugli e piccoli arbusti cosparsi di bacche tardive, alternati di tanto in tanto a piccole aree di terra brulla e scura, da cui spuntavano piccoli butti di un verde brillante. Con l'arrivo della primavera, quelle zone avrebbero rivelato una variegata quantità di corolle e petali di ogni colore.
“Lo faccio per il tuo interesse.” Istold si fermò davanti ad un cespuglio irto di spine e si chinò per osservarlo meglio. “Alcuni mesi fa ho ricevuto la visita di due portavoce del nuovo Ambasciatore Thalmor...”
“Quelle serpi che mi hanno portato il tuo messaggio?” Ringhiò Ulfric, stringendo i pugni.
“Furono loro ad insistere per farlo, e non avevo ragione di impedirglielo. Ti pare che questo biancospino possa dare qualche frutto, il prossimo anno? Sembra già pieno di boccioli.”
Spiazzato ed irritato per il cambio di argomento, lo Jarl di Windhelm rispose con un basso ringhio e staccò una foglia lucida da un rigoglioso albero agrifoglio.
“Ti prego di non rovinare il mio giardino. Mi ci sono voluti anni per eliminare la traccia delle padrone precedenti.”Lo rimbrottò Istlod in tono bonario, e dopo aver sfiorato con delicata premura le gemme appena spuntate, raddrizzò cautamente la schiena e riprese la sua passeggiata.
“Vorrei solo, Ulfric, amico mio,” Continuò dopo qualche istante, esalando un sospiro stanco. “Che tu agissi con più lungimiranza. Non è saggio adorare Talos così apertamente, di questi tempi.”
“Dovrei impedire alla mia gente di adorare il proprio dio, solo perché è il volere di una manciata di serpenti con le orecchie a punta?” Ringhiò Ulfric di rimando. “Noi non siamo ai loro ordini. Io non sono ai loro ordini.”
“Ma non siamo stati noi, a vincere la Guerra.” Gli ricordò il vecchio Jarl. “E di questi tempi ci sono cose che andrebbero celate ad occhi estranei.” Così dicendo inclinò il capo nella sua direzione e si batté leggermente una mano sul petto. Il Signore di Windhelm abbassò lo sguardo su di sé, e notò che l'amuleto di Talos che portava sempre al collo era scivolato fuori dallo scollo della casacca.
Doveva essere successo durante lo scontro con Torygg, si disse mentre lo sistemava di nuovo sotto al tessuto, accogliendo il tocco familiare del ferro contro la pelle.

“Non lascerò che siano i Thalmor a dettare legge nella mia terra.” Disse severamente.
“Ed io non ti lascerò sollevare un conflitto con loro, almeno finché sarò in vita.” Istlod cominciò a marciare ad un'andatura insospettabilmente spedita per un uomo costretto ad appoggiarsi a un bastone, ed Ulfric dovette allungare il passo per stargli dietro. “Perché è questo che accadrà, se continuerai ad attirare l'attenzione con fuochi e cerimonie pubbliche. Vuoi vedere i Giudici Thalmor battere le tue terre?”
“Che vengano!” Replicò Ulfric, alzando rabbiosamente i toni. “Troveranno i miei uomini ad attenderli.”
“Questo è esattamente quello che non deve accadere.” Istlod si fermò di botto, massaggiandosi un punto all'altezza dell'anca. La sua chioma grigia, sotto la luce che filtrava tra i rami, aveva assunto le stesse sfumature argentee dei ricami che ornavano i suoi indumenti. “Io non ho alcun potere sui Giudici. Se dovessero ritenere di arrestare uno qualunque dei tuoi cittadini, non potrei oppormi. E tu neppure.”
Ulfric strinse i pugni e digrignò i denti, cercando di contenere la rabbia che sentiva montare. Nel frattempo il Re dei Re si era voltato, osservando distrattamente un roseto spoglio per prendere tempo; i rami verdi, dalle lucide spine scure, sembravano lunghe dita sgraziate che si levavano dal terreno.
“Noi non avremo vinto la Guerra.” Disse il Signore dell'Eastmarch con un basso ringhio. “Ma Skyrim resta la nostra terra, e le nostre radici...”
“Non ti sto chiedendo di rinunciare alla tua fede, amico mio.” Lo interruppe Istlod in un tono accondiscendente, levando una mano per invitare alla calma. “Ti domando solo di preservare le apparenze, e di non dare motivo ai Thalmor di attaccare la nostra gente. L'Eastmarch non è l'unica terra a seguire le antiche vie.” E con tali parole fece scivolare una mano sotto lo scollo del suo elegante abito, estraendone un prezioso amuleto di Talos appeso ad una elaborata catena d'oro.
Ulfric non replicò e strinse i muscoli della mascella, incrociando le braccia al petto. Il ruvido tessuto della casacca gli grattò la pelle, ed il movimento permise ad un refolo d'aria fredda di insinuarsi sotto l'orlo dell'indumento e risalirgli lungo la schiena sudata.
Stava faticando non poco a trattenere i commenti che sentiva salirgli alle labbra, e cominciava a pentirsi di non aver portato con sé Galmar, o perlomeno di non aver chiamato Asbjorn prima di allontanarsi nei giardini, quando il Re dei Re gli rivolse un cenno con la mano e lo invitò ad avvicinarsi.
“Suvvia, ora non mettermi il broncio. Quella è una specialità della mia adorabile nuora... ah, ma guarda: pare che quest'anno le mia erica sia particolarmente rigogliosa. Accompagnami, voglio osservarla più da vicino.” Con quell'ordine mascherato da richiesta, Istlod si avviò zoppicando verso i colorati cespugli d'erica, e ad Ulfric non rimase che seguirlo.
Si sentiva di pessimo umore, ma il suo soggiorno volgeva al termine, e presto non avrebbe più dovuto sopportare le bizze del vecchio Jarl.
La Vigdis era già in porto, pronta a salpare.
E lui sarebbe tornato a Windhelm, a qualunque costo.

 

******

 

La temperatura era calata ancora, quasi come se l'inverno si rifiutasse di allentare la sua morsa, e la neve accumulata ai lati delle strade aveva sviluppato una spessa crosta di ghiaccio.
Le pietre che lastricavano le vie della città erano invece ricoperte da una fanghiglia scivolosa, prodotta dal continuo passaggio dei cittadini, che si attaccava agli orli delle gonne e rovinava irreparabilmente il tessuto delle calzature.
“Da questa parte, Signora.”
Ignorando la voce di Galmar continuai imperterrita a camminare cautamente sulle pietre sdrucciolevoli, stringendomi nel mantello foderato di volpe per far fronte al freddo che sentivo penetrarmi fin nelle ossa.
“Signora.” Sentii i passi del guerriero alle mie spalle, e poco dopo la sua mano si serrò con gentile fermezza poco sopra il mio gomito, obbligandomi a cambiare strada.
Con un sospiro lo lasciai guidare i miei passi lontano dalla scalinata sconnessa che scendeva un livello più sotto, verso la zona della città che ancora non ero stata in grado di visitare.
Lanciai un'ultima occhiata contrita al piccolo scorcio che potevo intravedere dall'alto della scala, con le finestre serrate e gli stendardi scoloriti e stracciati dalle intemperie, e tornai a voltarmi verso il capannello di guardie che mi attendeva a pochi passi di distanza.
“La neve deve avervi confusa. Stavate per sbagliare strada.” Proclamò allegramente la forte voce di Galmar, mentre mi sistemava di nuovo tra Yrsarald e Ioreth.
Mormorai un assenso, stringendo le labbra. Il quartiere abitato dai Dunmer mi era interdetto, ma avevo sperato di poter fuggire alla vigilanza del vecchio guerriero, quel tanto che mi bastava per poterlo visitare.
Il piccolo gruppo che mi accompagnava si volse come un unico uomo verso il palazzo, decretando così terminata la mia passeggiata pomeridiana. Da poco più di una settimana avevo preso l'abitudine di visitare la città, adducendo la scusa il desiderio di conoscere la mia gente.
Il mio intento era in realtà scrutare i volti dei ragazzi e dei fanciulli, cercando tratti che si avvicinassero a quelli di mio marito. Lo studio dei registri non mi aveva affatto aiutato ad individuare i suoi figli illegittimi, ma speravo che almeno uno di loro gli somigliasse quanto Halfdan, in modo da avere le prove di quanto aveva insinuato la prigioniera.
Non avevo ancora abbandonato l'idea di affrontarlo, sebbene col passare dei giorni stesse diventando più una gradevole fantasia, che un reale intento.
Mentre procedevamo verso il palazzo Yrsarald mi offrì il braccio, per aiutarmi a camminare sulle pietre scivolose, ed io lo accettai di buon grado.
Il giovane Capitano di mio marito pareva essere l'unico, oltre a Mirala, ad essersi accorto del mio malumore, eppure non mi aveva mai chiesto nulla. Si era limitato a parlare ancora meno, a ridurre le sue battute salaci ed a mostrarsi più solerte.
“Appoggiatevi a me, Milady.” Mi disse all'improvviso in tono confidenziale, indicandomi con la mano libera una lastra di ghiaccio, prima di afferrare le dita che avevo appoggiato sul suo braccio.
Mi lasciai guidare fiduciosa, sentendo il suo ampio palmo posarsi all'altezza dei miei lombi mentre mi guidava con attenzione per evitare che scivolassi.
Dietro di me Ioreth emise un basso mormorio di disapprovazione, e non appena ebbi superato la lastra si insinuò tra me ed il Capitano, allontanandolo e prendendomi a braccetto come se fosse la mia dama di compagnia.
“Siete fredda anche attraverso gli abiti.” Mi rimbrottò la mia cameriera in tono secco. “Volete che faccia portare altra legna nelle vostre stanze?”
“Oh, sì!” Esclamai, forse con un po' troppa enfasi. A Windhelm avevo imparato che la legna era un bene inestimabile durante il lungo inverno, e mio marito mi aveva già rimbrottata per averne usata troppa, durante la sua ultima assenza.
Mi schiarii la voce, a causa del leggero mal di gola che mi affliggeva in quei giorni, e cercai di esprimermi in modo più aggraziato, come mi aveva insegnato Mirala.
Alle mie spalle sentivo Galmar e Yrsarald parlottare tra loro, a voce così bassa da essermi impossibile distinguere le parole. Pareva che il vecchio guerriero fosse contrariato da qualcosa, ed immaginai che stessero discutendo del mio piccolo tentativo di fuga verso il quartiere abitato dai Dunmer.
Oh, non importa.” Mi dissi, mentre risalivo la scala di pietra che conduceva al Palazzo dei Re. “Domattina proverò a convincerlo a lasciarmi passeggiare con Mirala. Lei non mi dirà di no, se le chiederò di accompagnarmi...
Ero ancora immersa nelle mie fantasticherie, quando una folata di vento non mi portò le parole dei due uomini dietro di me, insieme allo scricchiolio degli stivali della scorta.
“Mani a posto, soldato.” Stava borbottando la voce di Galmar, in tono di avvertimento.
“Conosco quel che mi è proibito.” Mormorò di rimando Yrsarald, e la risposta che seguì mi fece per un istante balzare il cuore in gola.
“Lo spero, ragazzo mio. Non vorrei essere costretto a staccarti la testa.”



La Sala del Trono risplendeva come un gioiello grezzo.
Le luci delle candele guizzavano sulle pareti di pietra rese lustre dal tempo, e le fiamme che bruciavano nei corni riempiti di grasso si riflettevano sulle suppellettili d'argento, che adornavano la tavola imbandita.
L'intero salone risuonava del brusio di voci dei commensali, intervallato dal tintinnio delle posate e dall'uggiolio dei cani.
Mi infilai tra le labbra un boccone di arrosto, facendo scorrere distrattamente lo sguardo sugli uomini e le donne seduti sulle panche, ai due lati del lungo tavolo di legno. Come accadeva quasi ogni sera, stavo dividendo la mia cena con gli uomini ed i thane di mio marito, insieme alle famiglie più influenti della città.
Al cospetto dello scranno vuoto del mio sposo avevo radunato i Mare-Crudele ed i Frantuma Scudi, che costituivano la maggior parte dei miei commensali, e le loro allegre chiacchiere e le dispute urlate tra un boccone e l'altro mi aiutavano a distrarmi, sebbene fossero ben lontane dalle discussioni pacate ed eleganti che avevo conosciuto alle tavole della corte di Daggerfall.
Strappai con le dita un pezzo di pane scuro, infilandolo sui rebbi della forchetta per poter assorbire il sugo di cottura dell'arrosto. Un colpetto all'altezza del ginocchio mi fece abbassare gli occhi, e con un certo imbarazzo allontanai il muso di uno dei segugi di mio marito. Non mi ero ancora abituata alla presenza dei cani durante i pasti, ma pareva che nessuno vi facesse caso; anzi, uomini e donne sembravano considerare la loro presenza assolutamente naturale, e spesso lanciavano pezzi di cibo in terra, o lasciavano che gli animali leccassero il grasso della carne dalle loro mani.
Avevo passato diversi mesi a Windhelm, eppure faticavo ancora ad abituarmici.
“Altra zuppa di cavolo, Milady?” Mi domandò la voce biascicante di Sifnar, il vecchio servitore dai capelli candidi, porgendo verso di me una pesante pentola di ghisa da cui spuntava il manico di un mestolo. Rifiutai con un cenno della mano, ma accanto a me Jorleif si fece servire una seconda porzione.
Sifnar si chinò, rimestando nel suo paiolo, e versò una mestolata di sostanziosa zuppa nella scodella che gli era stata porta. Mentre si allontanava, zoppicando a causa del peso della pentola, notai con la coda dell'occhio il Sovrintendente togliere dalla propria ciotola un grosso pezzo di cotenna di maiale, usata per insaporire la sostanziosa zuppa, e passarla ad uno dei cani appostato sotto al tavolo. Con un sospiro mi infilai in bocca il mio pezzetto di pane, con cui avevo ormai raccolto tutto il sugo rimasto all'interno del mio piatto.
“Che brutta smorfia, Milady.” Rise Galmar, seduto di fronte a me, quando mi vide storcere il naso nel sentire sotto i denti qualcosa di duro. “Il nostro pane non è più di vostro gradimento?”
Tenendo una mano davanti al viso mi tolsi di bocca una scheggia di pietra, che doveva essersi staccata dalla macina, e mi affrettai ad assicurargli che non era mai stato più buono.
Yrsarald, al fianco del vecchio guerriero, sollevò appena lo sguardo dallo stinco di maiale che reggeva con entrambe le mani; lo stava spolpandolo direttamente con i denti, e dal bordo del tavolo sbucavano i musi ansimanti di due segugi, che uggiolavano mentre lui li ignorava e seguitava a mangiare. Aveva il volto lucido di grasso, e la barba era costellata di frammenti di carne.
Alla mia destra il Sovrintendente cominciò a discutere con una Frantuma Scudi della primavera incombente, ed io mi ritrovai ad ascoltarli distrattamente, mentre cercavo di richiamare alla mente le cene ben più eleganti a cui avevo partecipato alla corte di Daggerfall, o ancora nella tenuta dei De Braose, che avevo potuto visitare una sola volta nella mia vita.
Ero così immersa nelle mie reminiscenze che quasi sobbalzai, quando sentii la voce di una guardia richiamare la mia attenzione. Mi voltai, cercando di mantenere un certo contegno, e notai che l'uomo era affiancato da un ragazzino che aveva tutta l'aria del monello di strada; i suoi abiti cenciosi erano sdruciti in più punti, e da sotto il berretto di panno sbucavano luride ciocche di capelli biondi.
“Signora.” Mi salutò, con una voce roca che faceva uno strano effetto su un ragazzo così giovane. Mi rivolse un inchino appena accennato, e i suoi occhi vispi saettarono rapidamente lungo la tavola imbandita con fare smanioso.
Cercando di mostrarmi degna del mio ruolo gli risposi con un cenno del capo, invitandolo a parlare, e per tutta risposta lui si soffiò il naso nelle dita.
“La Vigdis è appena arrivata in porto.” Mi comunicò, strofinandosi la mano sporca sulla giubba rovinata. “Jarl Ulfric mi ha detto che vi devo avvisare che lui è tornato, e che ci ha fame.” Disse, con una scelta di parole tanto rozza che avrebbe fatto impallidire i miei vecchi precettori.
A quella notizia sentii il mio cuore saltare un battito, e per un istante mi parve che la mia mente si fosse svuotata di ogni pensiero, ad eccezione di uno soltanto.
Mio marito era tornato.
E presto sarebbe giunto a palazzo.
Mi lascia sfuggire un'esclamazione soffocata. Non poteva essere già di ritorno.
Non ero stata avvisata, avevo la gonna macchiata dai nasi umidi dei suoi cani, non avevo fatto preparare alcun cibo particolare e, prima di ogni altra cosa, non mi sentivo affatto pronta ad affrontarlo.
“Sifnar?” Chiamai, con una voce così sottile da sembrare quella di una bambina spaventata. Mi schiarii la voce, e cercando di mantenere la calma mi imposi di fare un lungo respiro. “Fai portare altri piatti. E delle brocche di vino.” Chiesi al vecchio servitore, quando lo vidi avvicinarsi con la sua pentola di ghisa al braccio ed il mestolo levato che sgocciolava in terra.
“Vorranno birra ed idromele.” Si intromise Ioreth, che per tutta la durata del pasto era rimasta ai margini della sala, silenziosa e quasi invisibile, pronta ad intervenire nel caso la sua presenza fosse stata necessaria. “Avviserò le cucine di mettere qualcosa sul fuoco.” Decretò con fermezza, allontanandosi rapidamente.
Avevo sperato a lungo di potermi liberare di lei per qualche attimo, eppure quando finalmente accadde mi sentii cogliere dal panico.
Mio marito sarebbe arrivato a minuti, la mia cameriera era scomparsa nelle cucine, Mirala era da qualche parte nel palazzo ed io non sapevo cosa fare.
Cercai di concentrarmi su un compito alla volta, per evitare di mostrare la mia confusione agli ospiti seduti nella Sala del Trono.
Inviai il giovane messaggero a rifocillarsi alla tavola della servitù, mi affrettai attorno alle cameriere che disponevano dei nuovi piatti tentando di indovinare quanti uomini avessero accompagnato il mio sposo, mi rassettai la gonna, allontanai i cani ed ebbi appena il tempo di sollevare lo sguardo che, con mia somma costernazione, vidi le porte in fondo al salone aprirsi per far passare lo Jarl.
I soldati al suo seguito erano molti meno di quello che avevo immaginato, ma né io né le ragazze inviate dalle cucine ci saremmo più azzardate a togliere anche solo una posata dal tavolo, ora che lui era presente.
Mio marito procedeva in testa al suo piccolo drappello, e la forza della sua presenza era tale da farmi apparire l'ampia sala dagli alti soffitti improvvisamente più piccola e soffocante.
Il viaggio via mare aveva indurito i suoi tratti e scurito la sua pelle, al punto che ora le cicatrici sulla guancia spiccavano più evidenti di prima, simili a due pallide tracce della violenza che aveva affrontato in passato. I capelli già biondi si erano invece schiariti ulteriormente, e numerose ciocche avevano assunto un colore paglierino che pareva quasi sfumare nel bianco.
I suoi vestiti erano stazzonati, rigidi per la salsedine, ed il mantello in disordine. Nel notarlo, per un istante mi chiesi come dovessi invece apparirgli io, con le trecce avvolte intorno al capo che non venivano ravviate dall'ora di pranzo e la gonna che recava le tracce della bava dei suoi segugi.
Gli invitati alla sua tavola si alzarono in piedi per rendergli omaggio, e proprio in quel momento Ioreth mi si accostò con un vassoio d'argento tra le braccia, porgendomi una pesante brocca ricolma di idromele ed un largo calice lavorato.
Obbedendo alle usanze in cui ero stata istruita, attesi che si avvicinasse e versai una buona dose della bevanda nel prezioso boccale, porgendoglielo poi con entrambe le mani.
“Bentornato, Marito.” Lo salutai, così come era previsto e come non avevo fatto per il suo ritorno da Winterhold.
Il mio sposo afferrò la coppa, posando le sue mani sulle mie e portandosela alle labbra. Sentii il tocco ruvido dei suoi palmi graffiarmi la pelle, e quando si chinò per prendere i tre sorsi cerimoniali venni investita da un acre puzzo di sudore e salsedine.
“Ti ringrazio, Moglie.” Rispose mio marito con una voce più roca di quanto non ricordassi, forse a causa del freddo e del vento che aveva dovuto patire, e mentre abbassavo le braccia, voltandomi per appoggiare il calice sul vassoio retto da Ioreth, colsi il suo sguardo seguire i miei movimenti e rabbrividii.
Conoscevo quel genere di occhiate, e sapevo cosa avrebbe preteso da me una volta che ci fossimo ritrovati da soli nella nostra stanza. Mentre gli indicavo il suo scranno e gli versavo da bere, cercai di aggrapparmi alla rivelazione ricevuta dalla donna prigioniera, e lentamente sentii l'indignazione che mi aveva colta durante i giorni precedenti tornare a far capolino.
Mio marito parve non accorgersi del modo secco in cui riappoggiai la brocca sul tavolo, e dopo aver preso posto sullo scranno a capotavola con un sospiro esausto levò una mano.
“Seduti.” Ordinò, e tanto i suoi thane quanto i segugi che erano tornati nella sala obbedirono al suo comando, sedendosi all'unisono o prendendo nuovamente posto al tavolo.
Per tutta la durata della cena non disse altro, limitandosi a grugnire di tanto in tanto in risposta alle chiacchiere di Galmar. Dal fondo del tavolo giungevano le risate dei guerrieri che lo avevano accompagnato, e presto la Sala del Trono tornò a risuonare del chiacchiericcio dei commensali.
Strinsi le labbra, cercando di comportarmi con sussiego ed evitando il più possibile di voltarmi nella direzione di mio marito, aggrappandomi alla mia vecchia rabbia e cercando sicurezza nelle mie decisioni ribelli.
Ora che era tornato, era giunto per me il momento di affrontarlo.
Dovevo solo ritrovare il coraggio che mi aveva fatto prendere quella folle decisione.

 

******

 

“Allora?”
Ulfric sollevò lo sguardo, smettendo per un attimo di massaggiarsi le guance barbute con la mano.
“Allora cosa?” Rispose bruscamente verso Galmar, che appoggiato al banco addossato alla parete lo osservava, in attesa.
Al termine della cena, lui ed il suo secondo si erano spostati nella Sala Tattica, seguiti presto da Yrsarald e dal Sovrintendente. Lì lo Jarl aveva preso del tempo per discutere di alcune piccolezze, dando disposizioni sulla ricompensa che spettava ad Asbjorn e agli uomini che avevano costituito la sua scorta, al mercante proprietario della Vigdis, e persino al giovane mozzo che aveva interrotto il proprio lavoro al molo per correre a dare la notizia del suo arrivo.
Jorleif aveva preso mentalmente nota di tutto, sfruttando la sua proverbiale memoria, e con ogni probabilità avrebbe trascritto le sue istruzioni solo al termine della serata.
“Allora, come è andato il tuo incontro con Istlod?” Lo incalzò Galmar, incrociando le braccia al petto e flettendo i muscoli poderosi
“L'Eastmarch pagherà metà della somma richiesta da quel verme di Igmund.” Rispose Ulfric, scoprendo i denti in una smorfia disgustata. “La metà restante sarà saldata dall'Haafingar.”
“Stai scherzando!” Esclamò il vecchio guerriero, aggrottando le folte sopracciglia e sobbalzando per la sorpresa.
“Questo gli farà credere di avere ragione.” Commentò invece Yrsarald nel medesimo istante, scrollando il capo.
Lo Jarl emise un brontolio irritato, e prese tempo affondando il naso in un boccale colmo di birra.
“Istlod mi ha chiesto di saldare un vecchio debito d'onore.” Disse aspramente, rivolto al suo giovane Capitano. “Non potevo negarglielo, anche se avrei preferito farlo. Jorleif, voglio le casse con l'oro del riscatto in viaggio verso il Reach il prima possibile. Non ho intenzione di tirare ancora per le lunghe questa situazione.”
“Come desiderate, Sire.” Il Sovrintendente accennò ad un inchino, mentre Yrsarald annuiva impercettibilmente e si trincerava dietro un cupo silenzio.
“Galmar.” Continuò lo Jarl, voltandosi verso il suo secondo. “C'è qualcosa che devo sapere, prima di ritirarmi?”
Alle sue parole, sulla piccola sala calò un velo di muto imbarazzo, mentre i suoi tre sottoposti si scambiavano occhiate incerte. Nessuno di loro pareva intenzionato a parlare, ed Ulfric trattenne a stento un moto di impazienza. Se proprio doveva perdere tempo, preferiva farlo nel proprio letto in compagnia di quella sua ragazzina altezzosa; ormai il periodo di riposo ordinato dai guaritori era terminato, e lui bramava l'attimo in cui avrebbe potuto abbracciarla nuovamente sotto le coltri del talamo.
“Allora?” Ringhiò irritato, sbattendo il boccale sul ripiano del tavolo. “Parlate. Non ho intenzione di perdere tempo.”
I tre uomini si scambiarono delle occhiate incerte, ed alla fine Jorleif mosse un passo avanti.
“In realtà, Signore, qualcosa ci sarebbe.” Cominciò, togliendosi dal capo il suo berretto rotondo orlato di pelliccia. “Lady Lirael ha sedato la disputa del confine tra Torsten, dei Mare Crudele, e Belyn Hlaalu.”
“Sul serio?” Ulfric inarcò le sopracciglia, stupito. Non pensava che la ragazza potesse rivelarsi utile fino a quel punto. “Come?”
Il Sovrintendente storse le labbra e si lanciò in un breve resoconto a suo beneficio, descrivendogli con un certo tentennamento come la giovane avesse ordinato lo spostamento di uno dei confini più esterni, per adeguare l'area dei due fondi alle descrizioni dei proprietari.
“Ha fatto cosa?” Grugnì lo Jarl, sentendo la soluzione adottata a discapito dei territori dell'Eastmarch, ma prima che potesse esplodere Galmar si staccò dal tavolo al quale era appoggiato, raggiungendolo con una mano levata.
“Oh, coraggio. Non è il momento di discutere della terra, mi pare.” Con un cenno indicò la porta a Jorleif ed Yrsarald, ed i due uomini furono ben felici di allontanarsi in silenzio. “Siamo tutti stanchi, e la ragazza se l'è cavata bene. Hai fatto un buon viaggio?”
“Non vedo come un viaggio fatto per colpa di Igmund possa essere buono. Quanto terreno ha regalato a Torsten?”
“Meno di quanto immagini.”
“Devo vedere i registri. Non posso permettermi di perdere del denaro proprio ora che devo pagare il Reach.” Ribatté Ulfric bruscamente. Preso da un moto di stizza afferrò di nuovo il boccale, ma dopo averci scrutato all'interno lo lasciò cadere di nuovo sul ripiano del tavolo con fare irritato.
“Li vedrai domani.” Lo rassicurò Galmar, parlando in tono pacato. “Sei troppo stanco ed irritabile per pensarci ora. Hai dormito, almeno, su quella barca?”
Lo Jarl fulminò il suo secondo con lo sguardo, e quello scoppiò in una risata roboante.
“Non a sufficienza, a quanto pare.” Ghignò cercando di ricomporsi, e dopo averlo raggiunto gli passò un braccio sulle spalle in modo cameratesco. “Adesso, amico mio, ecco cosa devi fare.” Gli disse in tono confidenziale. “Dimenticati degli affari del regno e vai dalla tua ragazzina. Cerca di essere gentile, falle un complimento... dille qualcosa di carino e cerca di passare un bel momento, se capisci cosa intendo. Ma prima, fatti un bel bagno e regolati la barba.”
“A che scopo?” Sbottò Ulfric, vagamente innervosito da quell'intrusione nella sua vita più privata.
“A che scopo?” Ripeté ridendo il suo vecchio il suo vecchio amico. “Puzzi come un caprone che è stato a mollo nell'acqua di mare, ed hai il coraggio di chiedermelo? Le dame hanno un nasino sensibile, vecchio mio. Inoltre, non vorrai rovinare quel bel musino che si ritrova la tua sposa con quella specie di groviglio di rovi che ti spunta dalle guance.”
“Non ne vedo l'utilità. Io non ho mai baciato mia moglie.” Ribatté Ulfric, cogliendo solo l'ultima parte di quel discorso dai toni irriverenti.
“Ed è un vero peccato. Quella ragazzina ha un gran bisogno di essere baciata, credimi.”
“Ti stai offrendo volontario, per caso?”
“Nemmeno per sogno. Ci tengo ai miei attributi, io.” Ghignò ancora il vecchio guerriero. “Ma non puoi pensare che quella bambina possa girare per il palazzo senza che gli uomini fantastichino un po' su di lei. Quindi...” Concluse, battendogli la mano libera sullo stomaco con fare cameratesco. “... datti da fare. Lavati, va' da lei, e cerca di far attecchire il tuo seme nel suo ventre.”
Ulfric brontolò tra i denti, sciogliendosi dall'abbraccio amichevole del suo secondo.
“So cosa fare, senza bisogno che tu me lo dica.” Replicò scontrosamente, rassettandosi la casacca ed allontanandosi. "Fammi preparare la tinozza.” Gli ingiunse, una volta sulla soglia. “E guai a te se fai altri commenti.”

 

******

 

“... Silenziosa e accorta sia di un capo la schiatta, e audace in battaglia...”
“Spalle dritte, Lirael.”
Ripresa da Mirala interruppi la mia lettura e raddrizzai la schiena, levando il mento. Seduta su un poggiapiedi imbottito, la mia vecchia balia annuì soddisfatta e chinò di nuovo il capo verso il merletto che stava aggiustando, alla calda luce del fuoco.
“... Lieto e sorridente sia ciascun uomo, finché non verrà ucciso...” Ripresi a leggere ad alta voce, in piedi accanto al camino. Il vecchio volume che reggevo tra le mani odorava di polvere, e le pagine di vecchia pergamena ingiallita scricchiolavano ogni volta che venivano voltate. La rilegatura in pelle era divenuta lucida e scura col passare degli anni, ed aveva una strana e piacevole consistenza sotto le dita.
“... L'uomo vile crede che vivrà per sempre, se evita le battaglie...” Continuai, inclinando leggermente il libro verso la luce delle fiamme. Una ciocca mi scivolò sulla spalla e si adagiò sulle pagine, ed io la allontanai gettandomela di nuovo dietro la schiena. “... ma la vecchiaia non porta a lui nessuna pace, anche se gliela portano le armi...”
Un gran trambusto dietro la porta interruppe nuovamente la mia lettura. Sollevai il capo giusto in tempo per vedere l'uscio spalancarsi, e mio marito fare il suo ingresso nella stanza.
Sapevo che aveva richiesto che gli venisse scaldata l'acqua per la tinozza, per cui non mi stupii quando notai che si era cambiato d'abito e che i suoi capelli erano ancora inumiditi.
Il suo sguardo mi scivolò addosso, passando rapidamente in rassegna la mia veste da notte ed i miei capelli sciolti prima di abbassarsi su Mirala.
“Fuori.” Le ordinò seccamente, tenendo aperta la porta. La mia balia si alzò silenziosa, ci rivolse una riverenza e si allontanò tenendo il merletto da riparare sotto il braccio.
Immobile accanto al camino, rimasi a guardare mentre mio marito le chiudeva la porta alle spalle e si voltava ancora verso di me. Non sopportavo di sentirmi il suo sguardo addosso, così tornai a prestare la mia attenzione al vecchio tomo che reggevo e ripresi a seguire silenziosamente le antiche parole vergate su pergamena.
“Quale libro stai leggendo?” Mi domandò, dopo qualche istante.
“I Discorsi del Saggio.” Ribattei, cercando di mantenere un tono neutro. Non si era mai interessato dei miei passatempi, ed il fatto che lo facesse ora non me lo rendeva certo più gradito. Non dopo quello che avevo scoperto.
Sentii il frusciare della sua cappa di pelliccia ed il tintinnio delle spille che gliela fissavano alle spalle, seguiti poco dopo dal tonfo della pelle d'orso che veniva appoggiata su uno dei cassettoni.
“Ti stanno bene i capelli, in quella maniera.” Riprese mio marito, in tono incerto.
Quel commento impacciato ebbe la forza di farmi sollevare sospettosamente gli occhi. Non mi aveva mai fatto complimenti, prima di allora.
“Sono semplicemente sciolti. Li porto sempre così, quando intendo andare a dormire.”
Lo sentii grugnire in risposta, e con la coda dell'occhio lo vidi avanzare lentamente verso il letto.
“Posa il tuo libro. Potrai leggerlo ancora domani.” Mi suggerì, cercando di apparire meno scontroso. “Vieni. È stato un viaggio lungo, e voglio godere della tua compagnia.”
“No.”
La mia risposta lo lasciò interdetto, bloccandolo nell'atto di slacciarsi i calzoni. Anche senza vederlo sapevo che la sua fronte si era aggrottata pericolosamente, e mi costrinsi a fissare le pagine del libro.
“È forse il periodo sbagliato della luna?”
“Quel periodo è giunto e svanito durante la tua assenza.” Replicai, voltando con affettazione una pagina senza averla letta.
“Dunque non vedo il motivo per cui tu debba rifiutarti.” Fece lui, e dal lento respiro che lo sentii esalare capii che stava cominciando ad innervosirsi. “Lascia il tuo libro e raggiungimi. Riesco a vederti tremare anche da qui. Sotto le coperte starai più al caldo.”
“Preferisco restare accanto al fuoco.”
“Moglie, posa quel maledetto libro e fai quello che ti dico. Non amo ripetermi.”
“No.”
Il basso ringhio che giunse dalla sua direzione non aveva nulla di rassicurante, e mi chiesi fino a che punto sarei riuscita a negarmi. Strinsi il libro tra le mani, serrando la mascella. Sentivo la sua rabbia montare, e non mi piaceva affatto.
“Dannatissima donna.” Sbottò mio marito con impazienza. “Vieni qui immediatamente.”
“No.” Ripetei per la terza volta, chiudendo il libro di scatto. “E chiedermelo ancora non sortirà risposte diverse.”
Trovai il coraggio di sollevare lo sguardo, e strinsi con forza il vecchio volume tra le dita quando incrociai i suoi occhi severi, chiari come i cieli ghiacciati delle sue terre.
Era giunto il momento di affrontarlo, e mi sentivo molto meno decisa di quanto avrei voluto. Ma non avevo alcuna intenzione di mostrargli la mia insicurezza, ed allo stesso modo ero ben risoluta a non concedermi, almeno per quella sera.
Rinunciare agli obblighi coniugali era, in fondo, la giusta punizione per un uomo che aveva generato dei figli tenendoli nascosti alla legittima sposa.
“Moglie...” Riprese, in un tono basso e per niente rassicurante, ma io non gli detti il tempo di continuare.
“No! Non intendo giacere con te, questa sera.” Dissi, accorgendomi troppo tardi di aver alzato la voce.
“Che tu sia dannata. Ti ricordo che hai degli obblighi, nei miei confronti!” Tuonò mio marito, esplodendo in un eccesso di collera ed ergendosi in tutta la sua statura.
“Ti sei già preso il mio denaro e le mie terre.” Esclamai indispettita, ormai certa che nulla di quello che avrei potuto dire avrebbe migliorato la situazione. “Che altro pretendi, da me?”
“Mi devi un erede.” Mi ricordò lui. “E che io sia dannato, se non l’avrò.”
Quel commento mi fece andare fuori dai gangheri, e piantandomi i pugni sui fianchi gli lanciai l’occhiata più altezzosa di cui ero capace, levando il mento.
“Perché non legittimi uno dei tuoi bastardi, allora?” Dissi malignamente, cogliendo di sorpresa persino me stessa. “Gli Dei sanno se non ne hai a sufficienza per garantirti la discendenza che desideri.”
Le mie parole lo lasciarono interdetto. Lo vidi gonfiare il petto e serrare le labbra, ma fu solo per un istante, perché tornò subito all'attacco.
“Potrei farlo.” Disse, con una voce pericolosamente calma e profonda che mi fece rabbrividire. “E potrei anche ripudiarti. È questo che vuoi?”
Quella nuova prospettiva mi raggelò.
Se lui mi avesse ripudiata sarei stata rinchiusa a Forte Amol, o in qualunque altra tenuta dell'Eastmarch abbastanza decorosa per una donna del mio lignaggio; laggiù avrei condotto una vita casta e ritirata, in compagnia della vergogna di essere stata giudicata inadeguata al mio compito, mentre il mio sposo avrebbe potuto tranquillamente riprendere moglie ed andare avanti con la sua vita.
Mentre io contemplavo atterrita quella possibilità, mio marito mi raggiunse con due ampie falcate e mi afferrò per un braccio, tirandomi a sé. Emisi un'esclamazione soffocata, ed il libro che stringevo tra le mani mi sfuggì e cadde in terra.
Non gli ero mai stata tanto vicina al di fuori del talamo, e quando si chinò su di me, sfiorando quasi il mio naso con il suo, non nascondo che provai un certo timore. I suoi occhi erano duri e freddi come i ghiacci perenni di Atmora, e mandavano lampi di collera. Pensai che fosse sul punto di colpirmi, e presi un profondo respiro in attesa del colpo.
E poi, senza alcun preavviso, mi baciò.
Mai prima di allora un uomo aveva osato tanto. Nel corso degli anni Mirala aveva vegliato attentamente su di me, facendo attenzione che nessun giovanotto mi si avvicinasse mai a sufficienza, e da quando vivevo con mio marito le sue labbra non mi avevano mai sfiorata.
Ma ora era tutto cambiato.
La sua lingua si insinuò nella mia bocca con violenza, mentre la sua barba mi graffiava il viso; per la foga mi morse un labbro, facendo sbattere i suoi denti contro i miei, e lo sentii stringere la presa sul mio braccio.
Ed improvvisamente come aveva iniziato si staccò da me, restando ad un soffio dal mio viso, lasciandomi senza fiato per la sorpresa.
“Tu non vuoi che io ti ripudi.” Commentò con voce vibrante, scandendo con forza ogni parola, e dopo avermi lanciato un'ultima occhiata di fuoco mi lasciò andare, voltandomi le spalle.
“Sei un animale!” Gli sibilai rabbiosa, stringendo i pugni tra le pieghe delle gonna per trattenere le lacrime che sentivo incombere.
“Meno di quanto credi.” Ribatté amaramente il mio sposo, abbassando il capo.
Lo osservai raccogliere la sua cappa di pelliccia dal cassettone su cui l’aveva lasciata e mettersela sulle spalle, come se si preparasse ad uscire.
“Dove vai?” Gli domandai, irritata. Non aveva alcun diritto di lasciarmi così, come se niente fosse.
“Questi sono affari miei, Moglie.” Disse lui, infastidito. Con gesti misurati raccolse dal ripiano del tavolo le spille di ferro che usava per fermare la cappa, fissandosele nuovamente sulle spalle; si muoveva come se l'intera discussione lo avesse lasciato esausto, ed ogni gesto era accompagnato da uno sbuffo o da un sospiro.
Lo vidi ravviarsi i capelli ancora umidi con le dita, e fu allora che mi colse un terribile dubbio.
“Non starai andando da una di quelle… donnacce da taverna, spero.” Dissi, stringendo le labbra.
Il mio commento gli fece solo sollevare un sopracciglio, rendendomi ancora più furiosa e disgustata. Con quale coraggio avrebbe osato tornare da me, dopo essersi rivolto ad una sgualdrina per soddisfare le proprie voglie?
“Se è quello che intendi fare.” Cominciai, con il tono meno minaccioso . “Non ti permetterò più toccarmi, dopo che avrai posato le mani su una di quelle donne.”
Non so se fu la rabbia nella mia voce, o semplicemente il fatto che, per la prima volta, mettevo il naso nei suoi affari, ma avevo appena finito di pronunciare quelle parole che mio marito si volse verso di me, osservandomi con occhio critico.
“Tu sei gelosa.” Decretò con voce piatta, ed io arrossii.
“Non dire assurdità.” Lo rimbeccai, ma lui scosse la testa, riducendo i suoi occhi chiari in due strette fessure.
“Non di me, ma della tua posizione.” Specificò. Con passo lento tornò ad avvicinarsi, e quando mi afferrò di nuovo per un braccio temetti che avesse ancora intenzione di baciarmi. Ma non lo fece, e si limitò a fissarmi in volto con aria amareggiata.
“Tu hai paura che io possa trovarmi un’altra donna e che ti rinchiuda in qualche torre. Non è così?”
Sì, in parte era proprio così.
Non volevo trascorrere il resto della mia vita segregata in una fortezza, né volevo perdere i privilegi che avevo acquisito con il mio matrimonio.
Ma volevo ancora meno dargli la soddisfazione di aver indovinato le mie paure, così serrai le labbra e ricambiai il suo sguardo, senza dire una parola e pregando che non cercasse di baciarmi di nuovo.
“Sei una tale bambina!” Sospirò mio marito all’improvviso, lasciandomi andare ed avviandosi verso la porta.
“Dove stai andando?” Gli chiesi di nuovo, tornando conscia del calore emanato dal fuoco che mi accarezzava la schiena.
“Dove vado sono affari miei, Moglie. E dal momento che hai deciso di negarmi quel che è mio di diritto, non ho motivo di trattenermi oltre quando ho altro da fare.” Mi rispose lui, degnandomi appena di uno sguardo. Rimase per qualche istante in silenzio, bloccato con una mano sulla maniglia di ferro come se fosse stato colto da un pensiero improvviso, ed infine voltò il capo verso di me, lanciandomi un'occhiata da sopra la spalla. “Non ho intenzione di andare da nessuna donna, se è questo che temi.” Aggiunse, in tono meno burbero.
Non sapevo cosa rispondere, così rimasi ad osservarlo varcare la porta e chiudersi il battente alle spalle. La sua rassicurazione, se questo aveva voluto essere quell'ultima frase, non mi aiutava certo a considerarlo diverso dall'animale di cui indossava le pelli.
Il rumore dei suoi passi rimbombò su ogni singolo gradino della scalina che dalla nostra camera scendeva nel corridoio sottostante, e poco dopo udii tre pesanti colpi risuonare, simili a tuoni, lungo i passaggi di pietra.
Ancora risentita mi strinsi nella mia vestaglia, e con cautela mi avvicinai all’uscio per origliare quanto stava accadendo.
Sentii un cigolio di cardini, a cui si aggiunse poco dopo un gridolino femminile e la roboante voce di Galmar, che rimbombò con chiarezza fino a me.
“Che diamine ci fai in giro a quest’ora?” Tuonò il vecchio guerriero. “Cos'è che non è chiaro, nelle istruzioni che ti ho dato?”
“Smettila di dire idiozie. Vestiti e renditi presentabile.” Gli rispose con irritazione la voce di mio marito. “Ho bisogno di parlarti. Ti aspetto nella Sala Tattica.”
Galmar protestò, ma non avrebbe mai osato disobbedire al suo Jarl; dopo pochi minuti udii difatti i suoi passi allontanarsi lungo il corridoio di pietra, accompagnati dal tintinnio delle cinghie allentate dei suoi abiti.
Rimasi con l'orecchio premuto contro la porta, fino a che non sentii svanire anche l'ultima eco dei loro passi, e fu solo quando l'intera ala del palazzo piombo nel suo consueto silenzio notturno che mi accorsi di star tremando per il nervosismo.
Scossa, attraversai di nuovo la stanza e raccolsi il libro che mi era caduto di mano. Una pagina si era piegata malamente, e cercai di spianare la piega con le dita.
Avevo perso il punto in cui avevo interrotto la lettura. Sfogliai distrattamente il volume, ma il mio sguardo vagava sulle parole senza riuscire a soffermarsi, ed allora lo chiusi e mi sedetti accanto al fuoco, tenendolo sulle ginocchia.
Sentivo il cuore battermi in petto tanto con tanta forza che vi posai sopra una mano, cercando di riprendere il controllo.
Fu solo molto dopo, quando ero ormai riuscita a calmarmi e mi stavo apprestando ad infilarmi sotto le coperte, che mi resi conto che mio marito era riuscito ad evitare di discutere dei propri figli.
E che non mi aveva chiesto come ne fossi venuta a conoscenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Finalmente sono riuscita a terminare il capitolo.

Rispetto ai precedenti,questo è stato particolarmente complicato. Per prima cosa perché è principalmente un episodio quasi totalmente Ulfric-centrico. Lo Jarl di Windhelm è un personaggio difficile da gestire, ed ho faticato per riuscire ad inserirlo in un contesto per lui snervante senza il conforto di una spalla come Galmar.
Ho poi dovuto dare vita a Torygg, che nel videogioco conosciamo solo grazie alle chiacchiere dei personaggi e ad una sua comparsata a Sovngarde, anche se la prova più dura è stata far vivere Istlod; ho cercato di renderlo un degno Re dei Re, un uomo che Ulfric potesse comunque rispettare nonostante la sua apertura verso l'Impero e la sua tolleranza nei confronti dei Thalmor e del Trattato Oro Bianco.
Ho dovuto inventare infine un nome per il minuscolo regno della famiglia di Lirael; le ho attribuito la proprietà di quello che nel videogioco conosciamo come Forte Amol, che appare circondato da fiumi, e proprio per quei corsi d'acqua ho deciso di chiamarlo Fljotmarch, dove Fljòth indica “fiume” in lingua norrena.
Ho solo accennato ad Elisif, perché le darò più spazio più avanti, ed ho azzardato ad inventarmi persino la defunta madre di Torygg.
Passando a Lirael, i brani letti in questo capitolo sono passi dell'Hàvàmal, che ho voluto inserire poiché trovo sia una composizione adatta all'ambientazione di Skyrim.
 

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Capitolo 10
*** Family affairs ***


Udite, abitanti dell'Eastmarch e cittadini di Windhelm! Udite, Dame e Signori delle Terre dell'Est...”
La voce tonante del messo si levava nell'aria con una fastidiosa cadenza cantilenante, accompagnata dal ritmico battito di un tamburo e dal brusio della folla riunita.
“Udite! In questo giorno di Mano della Pioggia siete convocati per volere dello Jarl Ulfric Manto della Tempesta, Sovrano dell'Eastmarch, Orso di Windhelm, Signore delle Tundre Gelate...”
All'elenco dei titoli di mio marito chiusi brevemente gli occhi, facendomi sfuggire un leggero sospiro. Il mio fiato scaldò l'orlo di pelliccia del mio mantello, donandomi per un istante una tiepida carezza prima che il freddo tornasse a pungermi le guance.
Al mio fianco sentii il mio sposo muoversi nervosamente sul suo scranno, emettendo un basso grugnito di impazienza.
Anche senza voltarmi sapevo che il suo sguardo era puntato sulle nubi scure che ci sovrastavano, e che il vento di quella neonata stagione primaverile stava ammassando troppo rapidamente sopra la città
Lo avevo sentito lamentarsene per tutta la mattinata con Galmar, e sebbene non mi piacesse ammetterlo, mi trovavo d'accordo con la sua speranza che il tempo reggesse.
“Udite! Siete chiamati ad assistere all'esecuzione della sentenza pronunciata dal nostro Sire.” Il messo fece una pausa ad effetto, ed il tamburino ne approfittò per battere vigorosamente sul suo strumento.
Storcendo il naso per il fastidio spostai lo sguardo sugli uomini e le donne che si stavano radunando attirati dal richiamo del banditore, accalcandosi attorno al palco rialzato che mio marito aveva ordinato di allestire quella stessa mattina, all'esterno del palazzo.
Abbassando leggermente il capo affondai il mento nell'orlo di pelliccia del mantello, e sospirai nuovamente.
Quello era il giorno designato dal mio sposo per un'esecuzione, e per quanto cercassi di non pensarci, il ceppo posto al centro del palco continuava a ricordarmelo con la sua sola presenza.
Dietro di me sentii uno dei Capitani brontolare a mezza voce, ma le sue parole vennero soffocate dal rullo del tamburo che, in quel momento, aveva preso un ritmo più incalzante.
Dai cittadini si levò improvvisamente un sonoro brusio, e l'intera folla venne percorsa da un brivido di eccitazione.
Mi voltai, seguendo con lo sguardo la direzione verso cui si era rivolta la maggior parte dei presenti, ed in quel momento il banditore riprese la sua cantilena, con un urlo che mi fece sobbalzare per la sorpresa.
Mio marito, percepito il mio sussulto, inclinò li capo per lanciarmi un'unica occhiata di sbieco prima di riportare la propria attenzione oltre il nostro palco; là, nel punto dove la folla fremeva maggiormente, erano comparse le divise di cuoio dei soldati, che si facevano strada in formazione compatta.
Gli uomini, non più di una decina, scortavano tra loro una figura sporca, con il capo scuro chino ed arruffato; pur conoscendone l'identità feci molta fatica a riconoscere in quella sagoma smunta la donna spavalda con cui avevo parlato nelle prigioni. Se allora mi era parsa provata, ma ancora abbastanza in forze ed in salute, ora pareva una pallida ombra, dal passo malfermo e lo sguardo vuoto. Mentre il drappello che la scortava avanzava verso il palco, lei ondeggiava paurosamente, tanto che due soldati le si erano posti accanto e la sorreggevano a braccia, a tratti trascinando quel corpo quasi inerte in mezzo alla calca.
Ero confusa da quel cambiamento tanto repentino, ma quando la scorta della condannata si fece più vicina scorsi Wuunferth il Non-Morto, che simile ad un presagio di sventura si teneva alle spalle dei soldati di coda, seguendoli a breve distanza. La testa coperta dal cappuccio pareva fissa sulla figura della donna, e sospettai avesse chiesto di venire drogata prima dell'esecuzione.
Il drappello raggiunse il palco facendosi largo tra gli sguardi curiosi della gente, e quando fu il momento di issare la condannata sull'impiantito di legno, dalla folla si levarono fischi di scherno.
Aggrottai la fronte, puntando lo sguardo su mio marito, ma la sua attenzione pareva concentrata unicamente sul gruppo che si era appena avvicinato al ceppo, ed appariva del tutto indifferente alle reazioni dei cittadini. Si limitava a restare seduto, avvolto nelle sue pellicce, con un gomito piantato sul bracciolo dello scranno e la guancia appoggiata al pugno serrato, in una fissità troppo perfetta per non essere studiata.
Mi ignorava, così come ignorava i fischi, le grida e gli sberleffi che si erano da poco aggiunti, e tanto mi bastò per tornare ad osservare la scena che si svolgeva accanto al ceppo, senza cercare di attirare oltre la sua attenzione.
Il tamburino si era defilato, rintanandosi fin quasi dietro ai nostri scranni, mentre il banditore si era disposto all'altro capo del palco, accanto al gruppo si soldati.
La condannata ondeggiava sorretta dai suoi carcerieri, e volgeva intorno lo sguardo appannato come istupidita. Notai solo allora che aveva le mani legate dietro la schiena, e che una inutile precauzione aveva spinto le guardie a stringerle le caviglie con un pezzo di corda non eccessivamente lungo, per impedirle di correre in caso di fuga.
Ma era chiaro che non sarebbe andata da nessuna parte. La donna sembrava non capire nemmeno dove si trovasse, e quando il banditore le si avvicinò impettito non parve accorgersi della sua presenza.
“Sigrid Sorensdottir.” Esordì il messo a gran voce, e subito dovette zittirsi per non soccombere sotto le urla della folla. Con aria spazientita attese che il tamburino mettesse nuovamente tutti a tacere, battendo con vigore sul suo strumento, e quando il vociare si abbassò di tono riprese il proprio discorso.
“Sigrid Sorensdottir, oggi davanti a voi, si è resa colpevole di molti odiosi crimini.” L'uomo fece una brevissima pausa, fulminando con gli occhi la folla in procinto di riprendere a vociare, e continuò. “Le vengono imputati l'offesa gravissima arrecata al nostro Sire, Lord Ulfric Manto della Tempesta, l'omicidio crudele del futuro erede al trono, ed il tentato omicidio nei confronti della nostra Signora, Lady Lirael del Fljotmarch.”
Pur aspettandomelo, provai un senso di disagio nel sentire il mio nome così scandito davanti alla folla, e fu solo in un secondo momento che mi resi conto che il banditore aveva omesso il nome dei De Braose di Daggerfall, sostituendolo con il feudo posseduto dai miei antichi parenti Nord.
“Per questo, e per la sua mancanza di pentimento, viene scelta la pena maggiore. Che venga decapitata!” Annunciò il banditore, ed a quelle parole la gente riunita tornò a vociare con foga.
Le guardie che avevano accompagnato la condannata indietreggiarono, schierandosi ordinatamente sul fondo del palco, mentre i due che la sorreggevano la sistemarono accanto al ceppo e la costrinsero ad inginocchiarsi. Non incontrarono alcuna resistenza, ed io sentii un moto di angoscia pesarmi sul petto. Sapevo che sarebbe accaduto, ma ora che ero sul punto di assistere realmente all'esecuzione non riuscivo a capacitarmene: stavano per uccidere una donna davanti a tutti, e nessuno pareva scomporsi.
“Marito.” Chiamai con un filo di voce, premendomi una mano sul petto. Sul palco era salito un ultimo uomo, seguito dal lugubre mago di corte; portava una poderosa ascia dal lungo manico posata su una spalla, e l'unica lama era opaca e segnata dall'usura.
“Marito?” Provai ancora, e mentre il boia armato d'ascia si avvicinava al ceppo il mio sposo decise di concedermi la sua attenzione.
“Non osare sentirti male proprio adesso.” Mormorò con voce tesa, dopo avermi lanciato un'occhiata. Dovevo essere pallida, perché allungò una mano e mi strinse un braccio attraverso il mantello. “Se ti disturba pensa a qualcos'altro, ma vedi di non svenire davanti a tutti come una donnetta.”
Avrei voluto rispondere che io ero una donna, e che a Daggerfall non sarei stata nemmeno obbligata ad assistere ad una simile barbarie, ma tenni ogni pensiero per me e strinsi le labbra. Cercando di arrestare i primi tremiti volsi lo sguardo sulla folla, che altalenava lo sguardo tra il ceppo e di nostri scranni. Agli occhi dei cittadini il gesto di mio marito doveva sembrare certamente una delicata attenzione; nessuno di loro poteva indovinare quanto fosse ferma la stretta che avvertivo poco sotto al gomito.
Udii un vocio diverso levarsi a poca distanza da me, e sollevando il capo mi accorsi che la condannata era stata obbligata ad appoggiare il capo sul ceppo. Il gesto doveva averla scossa un poco dal suo torpore, perché aveva cominciato a lamentarsi debolmente ed a muovere stizzosamente le spalle per allontanare le due guardie.
Il boia li osservava distrattamente con la coda dell'occhio, mentre in silenzio attendeva dal mio sposo il permesso di procedere. Carezzava lentamente la vecchia lama, ed il suo sguardo era immoto e distante come se gli importasse ben poco della donna che era in procinto di uccidere.
Gli sguardi della folla erano ora diretti unicamente allo scranno su cui sedeva mio marito, che ancora mi tratteneva per un braccio. Eravamo tutti in attesa di un suo gesto.
In quel momento, ogni nostra emozione dipendeva da lui.
E poi accadde.
Il mio sposo si raddrizzò contro lo schienale e fece un cenno con due dita, le guardie si allontanarono dal ceppo, ed il boia si fece avanti brandendo la sua arma.
La folla emise un rumoroso sospiro di eccitazione collettiva, simile allo scroscio di un'onda che si infrange sulla spiaggia, ed io chiusi le labbra in cerca d'aria, mentre il mio respiro accelerava.
Irrigidendo i muscoli cercai di tenere a bada il fremito che mi percuoteva le membra, mentre un fastidioso ronzio cominciava a riempirmi le orecchie.
Il boia puntò la lama verso il basso, afferrando il lungo manico con entrambe le mani, ed allargò leggermente i piedi per cercare equilibrio. Quando sollevò le braccia, la folla emise un'esclamazione soffocata e trattenne il fiato.
La prima volta che abbassò l'ascia, lo fece lentamente. Sentii uno vago senso di sollievo quando lo vidi fermare la lama a poca distanza dalla donna, ma poi il boia la sollevò di nuovo, ed un nuovo tremito, più violento, mi percorse il corpo. Stava solo aggiustando la mira.
Al secondo tentativo mi parve che il cuore volesse esplodermi nel petto, ma anche quella volta non venne sferrato alcun colpo. Qualcuno in mezzo alla folla si lamentò di quel tentennamento, invocando l'esecuzione, ma io lo udii appena perché il rombo che mi pervadeva le orecchie era diventato simile al ruggito di un fiume in piena, scandito dal rapido ritmo dei miei battiti.
Il boia sputò sull'assito, strusciò le suole suole degli stivali per cercare una migliore aderenza e levò per la terza volta la sua ascia.
Troppo in ritardo mi accorsi della velocità con cui la lama ricadeva verso la propria vittima. Qualcosa dentro di me intuì l'esito e mi affrettai a distogliere lo sguardo, ma non fui abbastanza svelta.
La condannata fu scossa da un sobbalzo, mentre il rumore sordo del colpo si accompagnava allo schiocco secco delle ossa che si spezzavano.
Avvertii allora un'improvvisa debolezza, e mentre macchie scure cominciavano a danzarmi davanti agli occhi, i suoni si fecero ovattati fino a diventare un ronzio indistinto.
Sapevo di essere sull'orlo di un mancamento. Gli svenimenti erano d'uso tra le fanciulle, a Daggerfall, ma ora mi trovavo a Skyrim ed io non volevo mostrare le mie debolezze davanti all'intera città.
Lottai per mantenere la mia coscienza a galla, ma difficilmente ci sarei riuscita se non ci fosse stato il mio sposo, che continuava a stringermi come una morsa e mi teneva stretta, ancorata a quel terribile momento.
Cercando di riprendere la padronanza di me mi concentrai sulla folla, cercando di metterla a fuoco e scacciare quel senso di intorpidimento. Nella mia confusione mi parve di sentire nuovamente i tonfi della lama che si abbatteva sul ceppo, ed allora mi concentrai maggiormente.
C'era un uomo che mi osservava fissamente, ed io gli rivolsi un mesto sorriso di gratitudine. Finalmente avevo trovato un'anima buona, che come me aveva distolto lo sguardo dall'esecuzione ed ora osservava la mia debolezza.
Scossi un poco la testa, e la vista cominciò a schiarirsi. Alla seconda occhiata che lanciai all'uomo in mezzo alla folla provai un senso di disagio, ed allora aggrottai la fronte, cercando di scorgerlo meglio.
E mentre riuscivo lentamente a metterlo a fuoco ed io tornavo padrona di me, mi trovai a riconoscere quei tratti che già conoscevo su un altro viso: la mascella squadrata, la fronte alta, il grosso naso aquilino.
Davanti a me, infischiandosene delle guardie e della morte della sua donna, il figlio di mio marito mi fissava a braccia incrociate, con lo stesso sorriso che avrebbe potuto avere un lupo nello scorgere una preda ferita.
Nell'attimo in cui lo riconobbi la folla esplose in un ruggito trionfante, e con la coda dell'occhio vidi il boia esporre a braccia tese il capo mozzo della sua vittima; a quella vista il mio sposo allentò la presa sul mio braccio, esalando un sospiro di soddisfazione, e suo figlio mi rivolse un'occhiata di scherno.
Nessuno due pareva preoccuparsi della donna che avevano mandato a morire, ed io mi sentii percorrere da un brivido.
Che razza di mostro aveva generato, mio marito?
E che razza di mostro era lui stesso?



******



L'aria che entra dalle feritoie nelle pareti è ancor più gelida di quella di Windhelm.
All'esterno la neve scende fitta, e solitari fiocchi si spingono arditamente fin dentro le grandi stanze di pietra, volteggiando silenziosi e posandosi negli angoli, dove si ammucchiano lentamente.
All'interno di quelle sale gelate il mondo sembra avvolto in un silenzio ovattato, interrotto solo dallo scricchiolare del calamo sulla pergamena e dal lieve rumore sibilante del respiro del vecchio seduto al tavolo.
La sua tunica grigia è lisa dal tempo, la lunga barba bianca costellata di brina, e le dita coperte di pelle traslucida appaiono ritorte per gli effetti dell'età e del gelo; eppure non cessa di scrivere, annotando lunghe parole in un'antica lingua sulla pergamena che tiene aperta davanti a sé.
Di tanto in tanto si interrompe per posare gli occhi cisposi sul bambino seduto al suo fianco, che tra le dita arrossate dal freddo regge uno stilo di legno con cui ricopia le parole del maestro su una tavoletta incerata.
I capelli biondi del ragazzino sono lunghi ed indisciplinati quasi quanto la barba del vecchio, e gli ricadono in un ammasso arruffato sulle spalle coperte da un'identica tunica grigia. Calza dei sandali, proprio come il suo mentore, ma sebbene il suo carattere sia stato plasmato perché ignori il freddo, non si può dire altrettanto per i suoi piedi, coperti da dolorosi geloni rossi e gonfi.
Uno scalpiccio proveniente da qualche parte oltre il corridoio fa sollevare la testa del bambino, ma con un gesto leggero il maestro gli indica silenziosamente di continuare con il suo compito di copista. C'è molto da imparare, e le distrazioni non sono compatibili con la conoscenza.
Continuano a lungo, l'uno scrivendo, l'altro copiando, sempre senza dire una parola. Lassù, oltre i confini del cielo, nel monastero sulla cima della Gola del Mondo, il silenzio non è solo una scelta di vita, ma ne è la parte fondamentale.
Solo dopo molti minuti la calma monotona all'interno della stanza viene interrotta.
Un secondo uomo si fa silenziosamente avanti, ignorando i fiocchi candidi che dalle finestre si impigliano tra la sua capigliatura color ferro e si posano sulla sua lunga tunica rovinata.
Non emette parola, come è di consuetudine nel monastero, ma si avvicina ai due scrivani e posa una mano sulla spalla dell'allievo con aria insolitamente grave.
Il bambino, che non dimostra più di una decina d'anni, scivola muto ed obbediente dalla panca di legno, ed appoggia con cautela i suoi strumenti di copiatura, per non provocare rumori molesti; dopo essersi congedato con un cenno rispettoso dal suo maestro, segue il messaggero fuori dall'ampia sala fin nel corridoio di pietra, costellato da effigi di creature da tempo dimenticate. Quietamente si lascia condurre attraverso gli spogli dormitori, fino ad una stanza con un largo tavolo ad anello, scavato nella nuda roccia e circondato da sedili di pietra levigati da secoli d'usura.
Lì, accanto ad uno degli scranni, sosta in attesa un giovane uomo il cui aspetto stona violentemente con la pacata sobrietà del monastero; il suo ampio torace è coperto da un'armatura di cuoio e metallo, le braccia sono talmente muscolose che paiono in grado di estirpare il tavolo di pietra senza sforzo, e sulla larga schiena porta affibbiata una maestosa ascia dalla lama bipenne. Un drappo azzurro gli attraversa diagonalmente il petto poderoso, fissato ad una spalla ed infilato nella cintura d'arme, ed una ruggente testa d'orso decora il lembo che da sotto la cinta gli giunge fino al ginocchio.
Alla vista bambino, il guerriero gli rivolge un ampio sorriso bonario, facendogli un cenno di saluto con la mano già rovinata dall'uso delle armi.
“Galmar” Gracchia il ragazzino con voce ruvida, come se non la esercitasse da molto tempo.
“Ciao, ragazzo.” Sul volto del giovane soldato compare un sorriso mesto, un po' goffo, e dopo una breve pausa impacciata, riprende “Sei cresciuto parecchio, dall'ultima volta.”

Il bambino non ribatte subito; lancia dapprima un'occhiata all'uomo in tunica grigia che gli è rimasto accanto, ed è solo dopo un incoraggiante cenno d'assenso che si decide a rispondere a Galmar.
“È passato un anno.” Borbotta, cercando di schiarirsi la voce. “Dov'è mio padre?”
Il guerriero abbassa lo sguardo con aria colpevole, sospirando, e con un fruscio dei sandali il monaco dalla chioma grigia si allontana silenzioso, lasciandoli soli.
“È rimasto a Windhelm.” Le dita callose del giovane in armi si muovono sotto il drappo, in cerca della scarsella. “Mi dispiace, ragazzo.” Conclude, estraendo la piccola custodia cilindrica di una pergamena.
Il bambino la prende tra le mani intirizzite, rompe il sigillo con l'orso ruggente e legge avidamente le brevi, concise parole che vi sono state vergate con durezza. Mentre scorre il testo non ha alcuna reazione oltre che un leggero tremore del mento, ma quando solleva lo sguardo sul guerriero i suoi occhi sono lucidi e colmi di lacrime.
“Jarl Ulrich mi manda a dire che Lady Alfdìs è giunta tra i suoi padri con il sorriso.” Borbotta Galmar, in tono impacciato. “Ma che non è necessario che tu torni. Devi pensare al tuo addestramento.”
“Perchè non mi ha detto nulla?” Si lamenta il bambino, la voce roca già pericolosamente vicina al pianto. “Voglio mia madre.”
“Mi dispiace, ragazzo.”
“Voglio mia madre!” Ribadisce il ragazzino, scoppiando in lacrime. Il rumore dei suoi singhiozzi rimbalza sulle pareti e sui soffitti di pietra, diffondendosi nelle aule di quel tempio abituato al silenzio, ed il giovane guerriero gli si avvicina goffamente, posandogli una mano sui capelli biondi.
“Mi dispiace.” Dice piano, cingendo le piccole spalle con il suo braccio poderoso. “Mi dispiace davvero, Ulfric.”


Il cigolio dei cardini fu appena udibile oltre il rumore della pioggia.
Normalmente sarebbe passato inosservato, ma il basso ringhio e le imprecazioni che si levarono quasi all'istante erano impossibili da ignorare.
Con un sospiro irritato lo Jarl di Windhelm si staccò dalla finestra, dalla quale osservava il cielo uggioso e lo scorrere delle gocce d'acqua, e si voltò verso il suo secondo. Ben piantato sulle robuste gambe, Galmar sostava sull'uscio, sbraitando contro un enorme cane nero che, nel riconoscerlo, aveva solo abbassato il tono dei propri brontolii.
“Che gli Dei ti fulminino, stupida bestia.” Tuonava il vecchio guerriero, mentre l'animale lo scrutava con lo stesso sguardo astioso e diffidente che riservava a chiunque non fosse il suo padrone.
“Talos.” Lo richiamò Ulfric in tono secco.
Al suo comando l'animale abbassò il muso, obbediente, e dopo aver lanciato a Galmar un'ultima occhiata ostile si ritirò guardingo dietro le gambe dello Jarl.
“Qual è il suo problema, oggi?” Brontolò il vecchio guerriero, guardando in tralice il grosso cane color della pece e facendo finalmente il proprio ingresso nella stanza. “Non mi ha riconosciuto?”
Ti ha riconosciuto. Altrimenti ti avrebbe attaccato.” Sbottò Ulfric con fare infastidito. “Perché sei qui? Avevo detto che non volevo essere disturbato.”
Lo Jarl incrociò le braccia al petto, in attesa di una risposta. Dietro di sé sentiva il ticchettio insistente della pioggia, che precipitando verso il suolo gelava e formava strati di ghiaccio sulle strade lastricate, ed il rumoroso sbuffare di Talos, che fiutava e brontolava, attento e nervoso come tutti i cani da guerra.
“Ho un messaggio per te. Arriva da Markarth.” Esordì Galmar, frugando nella scarsella che portava alla cintura. “In realtà lo stava portando Sifnar, ma poi ho creduto che le scale lo avrebbero ucciso, ed allora ho preferito farlo io.” Concluse con un ghigno, senza riuscire a trattenersi dallo sbeffeggiare il vecchio servitore; con un unico gesto estrasse un piccolo rotolo e glielo porse, mettendo bene in vista il sigillo di ceralacca che recava il sigillo del Reach.
Ulfric glielo tolse di mano, rigirandoselo tra le dita con la fronte aggrottata per qualche attimo. Non vedeva nulla di buono in una nuova lettera di Igmund, ma non aveva senso tergiversare.
Con l'unghia ruppe il sigillo, lasciando cadere in terra i frammenti di cera, e preparandosi al peggio srotolò la pergamena.
“Brutte notizie?” Si informò Galmar, agganciando le mani alla cintura.
“Tu sei sempre foriero di brutte notizie.” Lo rimbeccò Ulfric, lanciandogli un'occhiata in tralice prima di dedicarsi al messaggio. Lo scorse rapidamente con lo sguardo, e quando fu giunto alla fine appallottolò il messaggio e lo lanciò in un angolo della stanza.
Con un frenetico scatto Talos si lanciò all'inseguimento della pergamena, agguantandola prima che finisse la sua corsa. Emise un ringhio sommesso mentre la stringeva tra le fauci, ben piantato sulle robuste zampe come se avesse appena catturato una preda importante.
Ma poi percepì il sapore dell'inchiostro e della cartapecora, e perplesso la lasciò andare; la fiutò con attenzione, e dopo averne strappato un angolo con i denti tornò verso il suo padrone facendo schioccare rumorosamente le mascelle.
Lo Jarl gli passò distrattamente le dita in mezzo all'ispido pelame del dorso, lanciando un'occhiata alla pergamena stropicciata e coperta di bava, ormai irrecuperabile. Sentiva su di sé lo sguardo di Galmar, che lo fissava in attesa di una risposta, e stanco di sentirsi osservato scrollò le spalle con irritazione.
“Igmund avvisa che il nostro oro è arrivato, e che ha pareggiato i conti con la somma inviata da Solitude.” Gli spiegò laconico, abbandonando il cane con una bonaria pacca sulla groppa e tornando a fissare accigliato fuori dalla finestra. “Adesso che si è arricchito alle mie spalle, quel verme osa persino burlarsi di me mandandomi i suoi ringraziamenti.”
“Quantomeno, Istlod ha mantenuto la sue promessa” Osservò Galmar, battendosi una larga mano sulla coscia per richiamare l'attenzione di Talos.
“Non poteva fare altrimenti. Ha un debito, con me.” Ulfric storse le labbra, appoggiandosi al bordo di pietra della finestra. Sotto le palme poteva sentire il freddo degli antichi blocchi di roccia, levigati dal tempo e dalle migliaia di mani che vi si erano posate nel corso dei secoli. Attraverso quel piccolo affaccio situato nell'ala sud del suo palazzo, lo Jarl poteva osservare un breve scorcio della sua città; tra le case grige, coi caratteristici tetti di cannicci e scandole di legno ricoperti di neve, si aggiravano i suoi cittadini, impegnati nelle faccende quotidiane.
Seguì con lo sguardo due donne con le ceste appese al braccio, una guardia intenta nel suo giro di ronda e due ragazzini che attraversarono correndo il suo campo visivo, ma alla comparsa di una figura maschile che trainava un carretto a mano distolse lo sguardo.
“Hai altro da dirmi?” Proruppe bruscamente, voltando il capo verso Galmar. A quel tono il suo secondo inarcò le sopracciglia, e dopo aver lanciato un'occhiata circospetta alla bestia nera che si era accucciata in mezzo alla stanza gli si avvicinò.
“Nulla di rilevante. Non più di quello che tu dovresti dire a me.” Esclamò, rivolgendogli un ampio sorriso scanzonato. “L'ultima volta che ti ho visto così di cattivo umore, un'aquila aveva attaccato il tuo falcone da caccia.” Lo prese in giro, andando ad appoggiarsi con una spalla contro la parete di roccia ed incrociando le braccia sull'ampio petto. “Cosa succede? La tua fanciulla continua a rifiutarti? L'arrosto non era abbastanza cotto? Talos è troppo brutto?”
Al suo del proprio nome il cane emise un basso mugolio, e lo Jarl schioccò la lingua, irritato.
“Quante idiozie.” Sbottò, staccandosi di scatto dalla finestra e muovendo tre grandi passi verso la porta. Giunto a poca distanza dal battente ci ripensò, e con uno sbuffo che somigliava terribilmente ai ringhi del suo animale tornò indietro, cominciando a passeggiare nervosamente per la stanza.
Con le sopracciglia aggrottate e l'aria sempre più irritata, lo Jarl sbuffava e camminava, cercando il modo migliore per esprimere quello che gli covava nel petto. Passò un intero minuto a borbottare sempre più rabbiosamente, mentre sentiva l'ira montare, ed alla fine dette sfogo al proprio nervosismo.
“E' il ragazzo.” Sbottò con veemenza stringendo una mano a pugno, incapace di pronunciare il nome di quel suo figlio ormai adulto. “Avevi ragione. Avrei dovuto ucciderlo quando ne avevo la possibilità!”
“No, non lo avresti fatto.” Commentò pigramente Galmar, accomodandosi meglio contro la parete.
“Per troppo tempo ho lasciato che prosperasse alle mie spalle. Non gli ho forse concesso di vivere? Non gli ho forse dato tutto quello di cui aveva bisogno? Non è la mia legna, quella che gli scalda la casa d'inverno?” Continuò Ulfric, ignorando il suo secondo ed alzando la voce, mentre la rabbia cresceva. “Casa che io gli ho dato, senza che gli spettasse. Senza chiedergli di lavorare alle mie dipendenze. E dopo tutto quello che ho fatto per lui, sono questi gli affronti che devo sopportare?”
Galmar emise un lento sospiro, e staccandosi dalla parete sollevò entrambe le mani in un gesto di conciliazione.
“Capisco.” Gli disse cautamente. “Ma non posso aiutarti se non so cosa è successo. Siediti: chiamerò qualcuno per farci portare del vino.” Lo invitò, ma lo Jarl spazzò via quel tentativo di riportare la calma con un gesto della mano.
“Non voglio bere. E non voglio il tuo aiuto.” Ringhiò, riprendendo a camminare per la stanza. Allarmato dall'andirivieni del suo padrone, Talos si alzò ed andò ad accucciarsi in un angolo, posando il capo sulle possenti zampe anteriori.
“Questa mattina ho mandato un uomo da lui, perché liberasse la casa che gli permetto di occupare.” Continuò Ulfric dopo qualche attimo. La voce continuava ad essere tesa e rabbiosa, e da ogni parola trasudava il suo sforzo per contenersi. “Non gli serve un alloggio così grande, se vive da solo. E certo non intendo lasciare impunito il suo affronto.”
“Hai già condannato a morte la sua donna.”
“Era la sua marionetta.” Sbottò rabbiosamente Ulfric. “Ha preferito andare a bere alla locanda, piuttosto che partecipare alla tumulazione. E non ha mostrato il minimo rimorso durante l'esecuzione.” A questa constatazione Galmar preferì restare in silenzio, e lo Jarl continuò “Nessuno può osare un simile affronto alla mia persona senza restare impunito, nemmeno i miei... nemmeno lui.” Si corresse scrollando il capo con fare infastidito.
“E per questo volevi metterlo in strada?”
“Non dire idiozie.” Ribatté Ulfric, fulminandolo con lo sguardo. “Non lo avrei mai messo in strada. Intendo spostarlo in una casa più piccola. Avrà meno legna, perché non gliene servirà quanta ne usa ora. E voglio che le sue continue incursioni nelle mie cucine vengano regolate. Non ha bisogno di tutto quel vino e quella selvaggina, ed io non intendo continuare a farlo gozzovigliare a mie spese mentre complotta alle mie spalle.”
Lo sfogo sembrava aver sortito il suo effetto. L'ira era svanita dalla voce dello Jarl, e nonostante i toni fossero ancora duri sembrava aver perso la voglia di sbraitare. Approfittando del momento, Galmar gli si avvicinò e gli mise una mano sulla spalla.
“Bene. Allora ragazzo verrà sloggiato, tu non avrai altri fastidi, e tutti saranno felici.” Esclamò. “ora finiscila di lamentarti e vieni con me. Stavo andando a vedere le armature per le nuove guardie.”
“Cosa vuoi che mi importi delle armature, in questo momento?” Rispose amaramente lo Jarl. “Questa mattina ho mandato un uomo da lui, per farlo spostare nella nuova casa.” Ricominciò. “E lui si è rifiutato.”
Ulfric aggrottò maggiormente la fronte, ed il suo secondo scosse il capo in silenzio.
“Ha detto che lascerà la sua abitazione solo se gli concederò udienza.” Brontolò lo Jarl. “Di qualunque abbia intenzione di parlarmi, non sarà certo nulla di buono.”
“Se gli hai già tagliato i viveri, vorrà lamentarsene.” Commentò il vecchio guerriero, tirandosi leggermente la barba. “Non ha fatto lo stesso, quella volta che...”
“Non ricordarmi quello che ha già fatto!” Inveì Ulfric, voltandosi di scatto per tornare accanto alla finestra. “Ancora una volta ha dimostrato di prendersi gioco della mia autorità. Sono stanco dei suoi affronti.” Nuovamente riscaldato dall'ira, con un gesto rabbioso si strappò di dosso una delle sue cappe d'orso e la lanciò in un angolo. “Lasciami solo. Ho bisogno di riflettere.” Concluse, dandogli la schiena.
Con un gran sospiro Galmar chinò il capo e prese congedo ma sulla porta Ulfric lo richiamò indietro.
“Mentre vai, chiamami Jorleif. Ho delle istruzioni per lui.” Gli chiese, tormentando distrattamente il davanzale di pietra là dove la roccia stava cedendo all'azione degli elementi. “E trova un uomo valido da mettere accanto a mia moglie.”
“Intendi sostituire Yrsarald?” Domandò il vecchio guerriero, cercando di non far trapelare dalla voce il cauto nervosismo che lo aveva colto; ma lo Jarl era troppo occupato da altri pensieri per accorgersi di quella nota nella sua voce.
“E' stato lui a chiedermelo.” Fu la risposta, ed un lampo di sollievo passò segretamente nei piccoli occhi chiari di Galmar. “Mettile vicino qualcuno in grado di tenerla d'occhio e lontana dai pericoli. Non posso permettere che mi colpiscano ancora attraverso di lei.”
“Ci penserò oggi stesso.” Gli assicurò il suo secondo, avviandosi una seconda volta, ma giunto sull'uscio ebbe un attimo di esitazione, e voltandosi emise un profondo sospiro. “Mi dispiace, amico mio.” Gli disse in tono comprensivo.
Ulfric esalò uno sbuffo esausto e scosse solamente la testa, ed allora il vecchio guerriero si defilò dalla stanza, lasciando il Signore di Windhelm immerso nei suoi più cupi pensieri.

 
******



Durante quel primo inverno a Skyrim avevo creduto che non mi sarei sentita più felice di quando la neve avesse smesso di cadere
Ma poi era venuta la primavera, con le sue piogge e le lunghe mattine gelate, ed improvvisamente mi ero ritrovata a rimpiangerla.
I primi giorni di Mano della Pioggia avevano portato dall'entroterra un vento capriccioso e violento, che spazzava implacabilmente il cielo e le terre dell'Eastmarch; le folate avevano scacciato le nuvole grigie e gonfie di neve, ma al loro posto aveva sospinto nuove nubi ad oscurare il cielo.
Fu allora che assistetti ad un fenomeno che non credevo potesse esistere in quelle lande, perché nonostante il freddo intenso non fu la neve a cadere, ma l'acqua.
La mia prima pioggia a Windhelm mi colse una mattina, mentre scivolavo fuori dal letto alle spalle di mio marito, ancora avvolta nelle coperte. Avevo appena posato i piedi sul pavimento di pietra, quando un insolito ticchettio proveniente dall'esterno aveva attirato la mia attenzione.
Mi ero subito voltata verso la piccola finestra, che il mio sposo aveva già privato dello schermo di legno per far entrare nuova aria nella stanza; lui sostava lì accanto, intento ad allentare i lacci di una casacca prima di infilarsela, e cogliendo il mio movimento aveva scrollato le spalle.
“Sta piovendo.” Mi aveva annunciato solamente, riprendendo a vestirsi. Io mi ero allora avvicinata al camino, sedendomi sull'ampio gradino di pietra ancora tiepido per le braci, in attesa dell'arrivo di Ioreth.
Sprofondata nelle coperte di lana, avevo osservato mio marito mentre si infilava i suoi calzoni migliori e gli stivali imbottiti, la cintura preziosa e la veste blu con l'orlo ricamato in argento che gli lambiva il ginocchio. Erano i suoi abiti migliori, e proprio mentre si infilava ai polsi i pesanti bracciali di argento cesellato e cercava le spille per il mantello era tornato a rivolgersi a me.
“Le strade saranno scivolose, questa mattina” Mi aveva detto. “Se preferisci, oggi puoi anche non accompagnarmi al Tempio.”
“Credo di poter camminare sulle strade bagnate.” Avevo ribattuto con fare pungente. Mio marito mi aveva lanciato un'occhiataccia per il mio tono, ma invece di aggredirmi con parole dure si era limitato ad afferrare il mantello di pelle d'orso.
“Fai come vuoi.” Aveva sbottato di malagrazia, abbandonando la nostra stanza. Al momento avevo creduto di aver ottenuto una piccola vittoria, ma poche ore più tardi, quando mi ero ritrovata all'esterno, avevo compreso che era stata una sconfitta per entrambi.
La pioggia, che cadeva liquida dal cielo, diveniva ghiaccio non appena toccava terra, e gelandosi sulle pietre e sulla neve non ancora sciolta rendeva difficile muovere anche solo un passo. Gli uomini di Windhelm, con mio marito in testa, avevano proceduto spediti grazie all'esperienza ed alle suole rinforzate da chiodi metallici, mentre io ed il mio piccolo drappello di Bretoni ci eravamo potuti allontanare solo di pochi passi dal Palazzo, prima i rifugiarci nuovamente all'interno.
“E' tutto così terribile e ingiusto.” Sospirai sommessamente al ricordo di quel momento, e dall'altro capo della stanza Jorleif sollevò lo sguardo dal libro contabile che stava compilando.
“Mi avete chiamato, Signora?” Domandò con premura, ma io gli fece un cenno di diniego e lui tornò ai suoi registri.
In silenzio ripresi a passeggiare per la stanza, aggiungendo il fruscio della mia veste al ticchettio della pioggia ed il leggero scricchiolare del calamo sulla pergamena.
Erano trascorse due settimane dal giorno dell'esecuzione, ma il ricordo tornava ogni tanto a tormentare le mie notti, e la mattina seguente mi trovavo troppo stanca e confusa per pensare ai conti del Palazzo; così Jorleif prendeva il mio posto, ed io passavo il mio tempo passeggiando per la stanza, leggendo, oppure rendendomi utile ordinando i registri più vecchi.
Dal terribile giorno in cui avevo assistito alla morte di quella donna, avevo notato diversi piccoli cambiamenti.
Primo tra tutti, credevo di essere di nuovo incinta.
Mi posai fugacemente una mano sul ventre, cercando di capire ancora una volta se per caso non era la mia immaginazione.
Nonostante i miei primi rifiuti, non avevo potuto tenere mio marito lontano troppo a lungo. Lui non aveva mai insistito, ma io avevo dovuto subire l'attacco di Ioreth e Mirala, che peroravano la sua causa. Il contratto matrimoniale prevedeva la nascita di almeno un figlio, mi ricordavano, e come madre la mia posizione si sarebbe consolidata.
Per la prima volta si erano trovate d'accordo su qualcosa che mi riguardava, e dopo un assedio estenuante io non avevo potuto che cedere.
Nonostante il ritorno alle nostre unioni coniugali, però, l'umore del mio sposo era improvvisamente peggiorato.
Questo era accaduto in modo repentino, a tal punto da lasciare stupefatti molti dei suoi servitori.
La notte del giorno dell'esecuzione mi aveva raggiunto tra le coperte al colmo della soddisfazione per la giornata trascorsa; il pomeriggio successivo era già all'apice della collera.
Ero certa di non essere io la causa della sua rabbia, per cui cercavo di non farmi opprimere dal suo malumore. Quasi ogni mattina si recava al Tempio di Talos, ma malgrado mi ripetesse che pregava per avere un altro figlio, sospettavo che ci andasse per poter riflettere senza essere disturbato dall'andirivieni di guardie e servitori che si trovavano a palazzo.
Stavo riflettendo proprio su quel punto, tormentandomi distrattamente un nastro del corpetto, quando uno scalpiccio lungo il corridoio non confermò il mio pensiero.
Al suono di quei passi la mia nuova guardia si alzò dalla sua sedia, e senza una parola si avvicinò alla porta.
Due giorni dopo l'esecuzione mio marito mi aveva assegnato uno dei suoi soldati, perché sostituisse Yrsarald al mio fianco.
Mi mancavano la premura ed il rozzo acume del mio vecchio amico, ma quella era l'unica cosa di cui mi sarei potuta lamentare. Il mio nuovo guardiano era altrettanto silenzioso e decisamente più solerte, tanto che il minimo rumore sapeva metterlo in allarme.
“Cosa succede?” Gli domandai, vedendolo aggrottare la fronte, ma lui evitò accuratamente di rispondermi. Stavo per ripetere la domanda quando sentii battere sullo stipite, ed il mio guardiano schiuse piano la porta coprendo lo spiraglio con la sua mole.
“Spostati, ragazzo.” Ingiunse una voce secca che ben conoscevo, e quando il soldato si fece da parte vidi Ioreth ritta sull'uscio. La mia cameriera mi rivolse solo una rapida riverenza, rivolgendo subito la propria attenzione all'uomo seduto dietro alla scrivania. “Jorleif, c'è bisogno di te ai piani inferiori. Sifnar ti aspetta ai piedi delle scale per farti strada.”
Il Sovrintendente mi lanciò un'occhiata di scusa prima di riporre il calamo, e dopo essersi arricciato i folti baffi si alzò dalla scrivania senza commentare; nell'ultimo periodo mio marito aveva domandato la sua presenza ogni singolo giorno.
“Jorleif sta già aiutando me.” Mi intromisi, ed al suono della mia voce vidi l'uomo fermarsi con aria perplessa. “Lo manderò da Sifnar quando avremo finito.”
“E' Lord Ulfric che richiede la sua presenza, Signora.” La mia coriacea cameriera spostò lo sguardo immoto su di me, tenendo le mani giunte in grembo. “E' bene non farlo aspettare.”
Davanti ad una simile richiesta Jorleif non poteva trattenersi oltre. Mi rivolse allora un inchino frettoloso, borbottò una scusa a mezza voce e si affrettò fuori dalla porta, svanendo alla mia vista.
Speravo che dopo quell'interruzione avrei potuto essere lasciata nuovamente in pace, sola ad esclusione della silenziosa presenza del mio guardiano e dei miei pensieri; ma Ioreth doveva aver deciso che un soldato a tenermi d'occhio non fosse sufficiente, e così si sistemò su uno sgabello con le mani in grembo; avevo l'impressione che la sua sorveglianza si fosse fatta ancor più serrata dal giorno dell'esecuzione, e la sensazione di essere sempre tenuta d'occhio non contribuiva certo a rendermi la sua presenza più piacevole.
Sospirando stancamente mi diressi verso la scrivania e presi il posto del Sovrintendente, pronta ad affrontare i libri contabili; non volevo che mi si vedesse stare con le mani in mano, ma in breve mi fu chiaro che non mi sarebbe stato facile trovare il punto del suo lavoro interrotto: Jorleif era dotato di una memoria prodigiosa e rimandava a mente tutto quello che gli era possibile, così che i calcoli e le cifre appuntate confusamente con un pezzo di carboncino sulla costa dei registri risultavano incompleti.
Mi sforzai per qualche minuto di far ordine, facendo scorrere con le dita le perle di legno dell'abaco, ma alla fine mi ritrovai costretta a desistere. Fintanto che il Sovrintendente era impegnato con mio marito, dovevo trovarmi un'altra occupazione.
“Vorrei uscire a passeggiare.” Esordii, posando il calamo accanto al registro contabile.
“Sta piovendo.” I verdissimi occhi di Ioreth saettarono con disapprovazione verso la finestra, e poi tornarono su di me. “Se volete camminare, potete farlo nei corridoi.”
“Io non voglio...”
“I corridoi vanno bene.” Interloquì il mio guardiano, appostandosi vicino alla porta come se si preparasse a scortarmi.
Li osservai incredula, mentre Ioreth si alzava a sua volta e lo raggiungeva, appostandosi sul lato opposto dell'uscio. Parevano due carcerieri pronti a scortare la loro detenuta.
La sensazione di essere in trappola mi assalì all'improvviso, ma inaspettatamente, dopo il senso di oppressione, nel mio animo sentii nascere un barlume di ribellione e mi affrettai ad afferrarlo prima che svanisse.
“Almeno non darò loro soddisfazione.” Pensai, sollevandomi e rassettandomi le gonne con ostentazione.
Che decidessero pure dove portarmi.
Io potevo ancora scegliere in che modo muovermi.

 

******




Il cortile interno destinato all'allenamento dei soldati era un pantano gelato.
Attraverso la porta aperta della guardiola, Ulfric osservava l'allenamento dei soldati che si azzuffavano nel fango, sotto la pioggia che tintinnava sopra gli elmi e le cotte di maglia, e che rendeva scivolose le impugnature delle armi. Da lontano giungeva invece la voce del Capitano degli Arcieri, che con grida secche comandava il suo esiguo corpo di guerrieri; ad ogni urlo seguiva il ronzio ed il tonfo attutito delle frecce, che si piantavano o rimbalzavano contro i bersagli di paglia fradicia ed annerita.
Nonostante il maltempo, l'addestramento e l'allenamento di uomini e reclute non aveva subito rallentamenti; destreggiarsi in condizioni avverse poteva rappresentare un vantaggio in battaglia, e per tenere lontani i raffreddori e le febbri gli uomini di Windhelm potevano contare sulla tempra della propria razza e sulle pozioni rinvigorenti fornite dal mago di corte.
In tutta Skyrim erano pochi i feudi che potevano disporre di un simile esercito, ed Ulfric riteneva che solo lo Haafingar di Istlod ed il regno di Whiterun potessero eguagliarlo.
Ma se fossimo costretti a difenderci dai Thalmor, non basterebbero tre schieramenti” Rimuginò tra sé, aggrottando la fronte.
Pochi giorni prima era giunto un cavaliere da Winterhold, con un messaggio di suo cugino Korir: un Altmer vestito alla maniera degli Aldmeri si era sistemato tra i maghi dell'Accademia.
La notizia poteva apparire irrilevante, ma Ulfric non era dello stesso avviso.
Secondo la sua esperienza, quando i Thalmor si muovevano non era mai per ragioni di poca importanza.
“Wuunferth.” Sbottò all'improvviso senza voltarsi, rompendo il silenzio che regnava nella guardiola. “Ho bisogno che tu vada a Winterhold. Appena hai finito manderò qualcuno a farti sellare un cavallo. ”
“Ci sono appena stato, a Winterhold.” Ribatté la voce secca e graffiante del mago di corte. “Tornare ora con questo tempo è un suicidio. Vuoi uccidermi?”
“Tanto sei già morto.” Interloquì pigramente Galmar, da qualche parte dietro le spalle dello Jarl.
“Certo, ed è una condizione interessante. Intendi provare?” Il tono minacciosamente pungente del Non-Morto non era mai facile da interpretare, e tanto bastò a spingere lo Jarl a voltarsi, per evitare ulteriori battibecchi.
Tu taci, una buona volta.” Ingiunse al proprio secondo puntandogli contro un dito, prima di rivolgersi al mago. “E tu andrai a Winterhold. Questo è quanto.”
Wuunferth strinse le labbra esangui. Da sotto l'orlo del cappuccio scuro i suoi occhi brillarono di una luce indispettita, ma accettò l'ordine diretto senza opporsi e tornò silenziosamente ad occuparsi di Yrsarald.
Seduto su uno sgabello ai piedi del mago, il giovane Capitano osservava la scena con muta sopportazione; aveva interrotto l'allenamento da pochi minuti, a causa di una ferita che il bordo di uno scudo gli aveva aperto sulla fronte, ed attorno ai suoi stivali si stavano lentamente formando delle piccole pozze d'acqua mentre attendeva che gli venisse ricucita.
“Il vento sta spingendo da Est.” Fece notare il giovane, stringendo i denti quando Wuunferth gli tirò indietro i capelli umidi di pioggia per scoprire lo squarcio vicino all'attaccatura. “Tra qualche giorno si potrà viaggiare agevolmen ...”
“Sta' zitto e non ti muovere.” Gracchiò Wuunferth, posandogli una mano scheletrica sulla fronte per riaccostare i lembi della ferita. E non appena l'ago per la sutura che reggeva tra le dita sfiorò la cute, Yrsarald si irrigidì e contrasse la mascella, zittendosi.
“Manderò degli uomini a battere i sentieri.” Disse Ulfric, osservando con approvazione il modo in cui il suo giovane Capitano resisteva al dolore della medicazione. “Così sapremo se il passo di Forte Kastav è ancora praticabile. Dirò loro di rompere il ghiaccio che troveranno sulla strada”
“Non è necessario.” Brontolò Wuunferth, con quella sua voce gracchiante che pareva arrivare dritta dall'oltretomba. “Andrò a Winterhold, ma non mi muoverò prima della luna nuova. Allora le piogge saranno cessate e tutti i passi saranno praticabili.”
Ulfric sbuffò e gli rivolse un cenno d'assenso. Sapeva che dal mago di corte non avrebbe ottenuto altro, e tralasciò di chiedergli da cosa derivasse la sua certezza sulla fine del maltempo; il Non-Morto era un alchimista, un abilissimo guaritore ed un incantatore, ma per quanto lo si potesse conoscere c'era una parte di lui che sfuggiva ad ogni comprensione. Wuunferth sapeva predire con largo anticipo l'entità dei raccolti prima ancora che iniziasse la stagione, era in grado di indicare l'esito di molte imprese prima che avessero luogo, e conosceva diversi segreti senza che gli fossero stati svelati. Forse era solo perspicace, o forse, pensò lo Jarl, la gente non aveva tutti i torti quando affermava che avesse a che fare con potenze occulte.
Un movimento di Galmar lo strappò alle sue riflessioni, e seguendo la direzione del suo sguardo scorse attraverso il vano della porta la figura di Jorleif, che attraversava il cortile con la testa china sotto la pioggia.
“Guarda un po' chi è arrivato!” Lo accolse il vecchio guerriero, quando il Sovrintendente fu sull'uscio con i baffi gocciolanti.
“Sire.” Disse accennando un inchino, e quando entrò nella guardiola le suole di cuoio dei suoi stivali scricchiolarono sul pavimento di pietra.
“Vieni avanti e chiudi la porta.” Gli ingiunse Ulfric seccamente, e quando il battente fu richiuso aggrottò la fronte, muovendosi nervosamente verso il braciere posto in un angolo. “Hai novità dal Rift?”
“No, Signore.”
“Dal Pale?”
“Nessuna notizia, Sire.”
“Bene.” Borbottò Ulfric, allacciando le mani dietro la schiena.
La comparsa dell'Altmer a Winterhold, proprio nella città dove si era riunito insieme ad altri Jarl per discutere sulla presenza dei Thalmor, gli aveva fatto temere che gli Elfi fossero venuti a conoscenza di quella riunione.
Ma l'assenza di lettere da parte di Laila e Skald gli suggeriva che i loro feudi non avevano ricevuto visite simili; se era in atto qualcosa, perlomeno non era imminente: aveva ancora tempo per contattare gli Jarl più recalcitranti, ed al prossimo Consiglio Istlod non avrebbe potuto ignorare la voce di tanti sovrani, che chiedevano insieme l'allontanamento dei Giudici Thalmor da Skyrim.
“Voglio che invii una lettera a Jarl Dengeir, di Falkreath.” Continuò, osservando la cresta incandescente delle braci che faceva capolino sotto la cenere. “Informati sulla salute del suo regno ed inviagli una cassa del nostro migliore idromele. Fa in modo che si rassicuri sull'amicizia dell'Eastmarch.” E che si ricordi che il Cervo e l'Orso sono vecchi alleati, aggiunse tra sé.
Decenni prima, Dengeir aveva stretto rapporti con Skald ed il vecchio Jarl di Windhelm, ma era ormai anziano, ed il suo trono era insediato da un nipote tanto sconsiderato quanto arrogante, che non si curava degli antichi giuramenti; meglio rammentare loro le alleanze passate: con parole per l'uno e vino per l'altro li avrebbe rabboniti entrambi, assicurandosi il loro appoggio.
“Credi che i Thalmor siano arrivati fino a Falkreath?” Gli domandò Galmar, ma lo Jarl scosse la testa.
“No. Il popolo di Dengeir adora Arkay, mentre quelle faine dalle orecchie a punta cercano di soffocare Talos.” Grugnì Ulfric, stringendo la mascella in un moto d'irritazione.
Dedicò alle braci un'ultima occhiata di fuoco prima di voltarsi di nuovo verso i propri sottoposti, ma il suo sguardo non fece certo più benevolo.
“Altro?” Domandò, raddrizzando le spalle con fare marziale. “Non è giunto nulla dallo Hjaalmarch? Dallo Haafingar?”
“Nessuna nuova, Sire.” Replicò pacatamente Jorleif. Si era tolto dal capo il suo berretto di pelo, ed ora strizzava l'acqua in eccesso torcendolo tra le mani.
Lo Jarl lanciò un'occhiata al mago di corte, ancora chino sulla figura del giovane Capitano. L'ago che reggeva mandava bagliori rossastri, e le sue pallide dita artigliate tiravano lentamente il filo nero con cui stava ricucendo la ferita. Dal canto suo, Yrsarald sopportava quel trattamento in stoico silenzio. Teneva i pugni serrati sulle ginocchia ed il volto era contratto in una smorfia, ma dalle labbra serrate non usciva un solo lamento.
Nel vederlo, Ulfric provò un moto di orgoglio. Quello era un vero soldato, un vero guerriero dell'Orso: un uomo i cui padri potevano andare fieri.
Non come certe serpi, che si insidiavano subdolamente in ogni anfratto e guastavano tutto con il loro fiele...
“Parlami dei conti.” Ringhiò lo Jarl, strappandosi con irritazione dai propri pensieri.
Mentre Jorleif elencava le ultime economie del castello, Ulfric si diresse verso le rastrelliere addossate ad una parete; il suo sguardo passò con disinteresse sopra i legni ricurvi degli archi, con le loro corde incerate mollemente avvolte attorno ad una delle estremità, in attesa che uno degli arcieri le tendesse.
La voce del Sovrintendente divenne presto un rumore di fondo mentre lo Jarl, dopo avergli prestato attenzione per pochi istanti, tornava immergersi nei propri pensieri. Non aveva chiamato Jorleif per discutere di conti e di corrispondenze, ma aveva bisogno di qualcosa che lo tenesse occupato finché la guardiola non si fosse liberata da orecchie indiscrete.
Mentre rimuginava, divenendo di umore sempre più cupo, teneva d'occhio l'operato di Wuunferth. Il mago di corte era fidato, ma vi erano affari che era meglio non discutere troppo apertamente.
E così, non gli restava che attendere.
Negli ultimi giorni, la sua intera esistenza sembrava dipendere dalle attese.
Di tanto in tanto la voce di Jorleif faceva breccia nel suo muro di pensieri, portandogli parole slegate tra loro. Un paio di volte gli parve persino di sentirlo pronunciare il nome di sua moglie, ma Ulfric non vi dette peso. La ragazza era al sicuro: le aveva messo accanto uno degli uomini di Asbjorn, e si era assicurato personalmente che Ioreth la sorvegliasse più strettamente.
Non c'era motivo di preoccuparsene.
“Hai finito?” Sbottò all'improvviso, interrompendo bruscamente le chiacchiere del Sovrintendente per rivolgersi a Wuunferth.
Il mago sollevò lentamente il capo, puntandogli addosso quegli occhi che parevano l'unica cosa viva nel suo volto incavato.
“Quasi.” Gracchiò, ruotando il polso per fissare lentamente un altro punto. Lo Jarl corrugò la fronte, osservando impaziente il modo in cui l'ago attraversava la pelle del suo sottoposto, seguito dal filo nero della sutura.
“Non c'è bisogno che tu lo torturi ancora con i tuoi attrezzi.” Gli disse. “Fascialo o dagli qualcuno dei tuoi intrugli, e poi torna a palazzo.”
Il mago levò un sopracciglio, e con cinica indolenza abbassò nuovamente la mano pallida sulla fronte di Yrsarald.
“Preferisco non rischiare.” Commentò, con una tale sfrontata indifferenza che Ulfric, già irritato dalla piega degli eventi, sentì la il barlume della rabbia riaccendersi nel suo animo.
“Se ti piace tanto ricamare” Ringhiò “Dirò a mia moglie che le ho trovato una nuova dama di compagnia.”
Wuunferth gli rivolse una rapida occhiata da sotto le folte sopracciglia, e con una mossa abile del polso fissò con un piccolo nodo il filo della sutura, recidendolo poi sbrigativamente con una lama spuntata. Dalla scarsella di cuoio che portava alla cintura estrasse una scatoletta di legno odoroso non più grande del suo palmo, e dopo aver fatto ruotare il coperchio sui suoi perni vi tuffò due dita, estraendo una grossa noce di unguento dall'odore intenso, tanto pungente da far venire le lacrime agli occhi.
“Puoi tornare alle tue occupazioni, se proprio devi.” Gracchiò con fare indisponente verso Yrsarald, spalmandogli la generosa dose di pomata sulla ferita irregolare e fasciandogli il capo con fare sommario. “Questa sera ti manderò nelle caserme una pozione e delle bende pulite.”
Il giovane Capitano borbottò un ringraziamento a denti stretti, ancora indolenzito dalla medicazione, e quando il mago fece un passo indietro si rialzò cautamente.
Ulfric attese con impazienza crescente che la guardiola venisse liberata, e solo quando si fu assicurato di non essere udito da altri che da Galmar e Jorleif si rivolse a quest'ultimo.
“Parlami del ragazzo.” Esordì bruscamente, andando finalmente a toccar l'argomento che più gli premeva. Erano passati giorni da quando aveva recapitato al suo primogenito un messaggio ufficioso, con il quale accettava la sua richiesta di udienza e gli dava piena disponibilità; il giovane Halfdan però non gli aveva più fatto pervenire risposta, rifiutandosi di fissare una data.
Jorleif annuì come se non si aspettasse altro che quella domanda, ed allacciò le mani dietro la schiena.
“Ancora nessuna nuova, Sire.”
“Impossibile.” Sbottò Ulfric, scuotendo il capo. “Lui non ha mai perso l'occasione per farsi sentire, quando voleva ottenere qualcosa.”
“Te l'ho detto.” Interloquì Galmar, spostando con indolenza la sua possente mole attraverso la piccola stanza circolare. “Vorrà solo lamentarsi. E ti sta tenendo sulle spine perché sa quanto ti infastidisce.”
A quella considerazione lo Jarl si incupì, fissando lo sguardo su un punto imprecisato della parete di pietra. Rimuginò per lunghi istanti, ed alla fine raddrizzò le spalle.
“Convocalo.” Ordinò a Jorleif. “Inviagli una convocazione ufficiale per il terzo giorno a partire da oggi, alla seconda ora dall'alba. Non ho intenzione di aspettare oltre.”
“Sì, Sire.”
“E sottolinea che la data è improrogabile. Che sappia che, se intende accampare qualche scusa, non otterrà altre occasioni.”
“Certamente, Sire.”
“Ed assicurati che mia moglie quel giorno sia occupata in un'altra ala del palazzo. Non voglio dargli spunto per colpirmi nuovamente attraverso di lei.”
“Sarà fatto.” Assicurò ancora una volta il Sovrintendente, congedandosi con un rapido inchino quando Ulfric gli fece cenno di andare.
Rimasto solo con il suo secondo, lo Jarl di Windhelm tornò ad occupare il vano della porta, incrociando le braccia al petto con fare meditabondo; alle sue spalle Galmar prese a fischiettare il motivo di una canzonetta da taverna, accompagnando i rumori che venivano dall'esterno.
“Credi che verrà?” Domandò Ulfric dopo un lungo silenzio, con un tono così casuale che chiunque non lo conoscesse a fondo avrebbe potuto pensare alla sua totale estraneità al problema.
“Hai paura che non si presenti?” Commentò Galmar con una nota bonaria nella voce. “Verrà.” Aggiunse in fretta, prima che lo Jarl potesse dire altro. “Quel tuo ragazzo sarà anche uno spiantato senza un briciolo di senno, ma sa fino a che punto tirare la corda. In fondo, non è molto diverso da t...”
Non una parola!” Scandì Ulfric, ed il suo ruggito si perse nel rumore della pioggia, insieme alla risata di Galmar.

 

******




L'ampia sala del sotterraneo odorava di muffa, polvere e cuoio bagnato.
Trattenendo il respiro con timore reverenziale feci scorrere le dita sulle coste dei volumi e dei codici stipati ordinatamente sugli scaffali di legno. Alcune rilegature avevano i colori vividi del cuoio appena lavorato, ed erano morbide ed elastiche al tatto, altre erano viscide di muffa, e molte apparivano secche, decrepite, e minacciavano di sfaldarsi al mio tocco.
Mi trovavo nella Biblioteca del Palazzo dei Re.
Avevo scoperto quel luogo esattamente tre giorni prima, quando Jorleif mi aveva abbandonata in balia di Ioreth e della mia Guardia, ed io avevo cercato sollievo con una triste passeggiata nei corridoi. In realtà non era stata propriamente una scoperta: sapevo dell'esistenza di un simile luogo all'interno del castello, ma ancora non ero mai riuscita a visitarlo, né conoscevo la sua posizione.
Era stata la mia cameriera a portarmici.
Quando avevo abbandonato l'ufficio del Sovrintendente mi ero promessa di muovermi a mio piacimento e di far rimpiangere ai miei due guardiani l'idea di seguirmi, e così avevo fatto.
Avevo passeggiato per i corridoi lentamente, muovendo un solo passo ogni minuto, dando un'attenzione esagerata ai corni o ai candelabri che illuminavano il percorso, o ai disegni delle venature della pietra sulle pareti; a tratti avevo marciato quasi a passo di corsa, obbligando Ioreth a sollevare le gonne per starmi dietro, e mi ero fermata spesso di punto in bianco, cambiando direzione o tornando sui miei passi.
Il mio divertimento era durato poco più che mezz'ora, perché presto, con gli occhi brillanti di irritazione, la mia cameriera mi aveva suggerito di visitare la Biblioteca. Ed io avevo acconsentito.
Sollevai lo sguardo verso l'alto, strizzando gli occhi per cercar di decifrare i titoli dei tomi in antiche lettere scrostate. Quella sala non aveva nulla a che vedere con la bella Biblioteca della corte di Daggerfall.
Laggiù vi erano ampie stanze ariose, dai soffitti alti ed illuminate da ampie vetrate; negli angoli più luminosi erano disposte piccole panche foderate di velluto blu e rosso, dove noi fanciulle della corte potevamo sederci insieme e passare il tempo leggendo poesie o romanze d'amore, stando attente a non alzare troppo la voce per non disturbare i vecchi studiosi dalle lunghe barbe, che invece preferivano austere seggiole di legno dalle gambe ricurve.
I miei ricordi formavano un contrasto violento con quella che era la realtà di Windhelm. Qui la luce era offerta da piccoli fuochi di origine magica, che non emettevano calore ed ardevano senza consumare la loro candela, e da numerosi cristalli grandi quanto la mia mano, che spandevano un bagliore azzurro o di un pallido violetto montati su semplici candelabri.
I soffitti erano bassi, poiché ci trovavamo sotto il livello del suolo, e tutti i volumi erano ammassati su solide librerie affiancate, che correvano da un lato all'altro della lunghissima sala formando passaggi sufficienti ad ospitare non più di tre persone.
Abbandonai il volume illeggibile, incapace di decifrarne il titolo rovinato, e passai oltre.
Avevo avuto poco tempo per familiarizzare con le varie sezioni, e sebbene dalla mia scoperta fossi tornata alla Biblioteca ogni giorno, in ogni istante disponibile, avevo potuto individuare solo a grandi linee i settori in cui erano suddivise le opere, in modo appena sufficiente per orientarmi.
Per mia fortuna gli argomenti trattati non erano molti; a differenza della corte in cui ero cresciuta, a Windhelm si trovavano prevalentemente manuali di guerra e strategia, registri secolari che raccontavano gli avvenimenti nei territori dell'Eastmarch, mappe rilegate, raccolte di opere epiche e trascrizioni di canzoni degli scaldi.
Lasciai sullo scaffale “Annali di Windhelm: 3E403 – 3E433” e “Pietra di Shor ed i suoi territori”, e proseguii finché finalmente non scorsi quello che cercavo.
Afferrai il volume con cautela, inclinandolo un poco verso il basso per smuoverlo dalla sua posizione; nel corso degli anni il cuoio con cui era rivestito aveva aderito ai due libri adiacenti, e quando lo smossi produsse un leggero scricchiolio; mentre lo facevo scivolare fuori dalla sua sede una polvere scura e sottile mi piovve sulle maniche dell'abito.
“Ouff.” Sbuffai, facendo un rapido passo indietro sotto il peso improvviso. Il volume era più pesante di quanto avessi immaginato, ed a giudicare dal modo in cui sentivo muoversi le parti che lo costituivano, i punti della rilegatura dovevano essere sul punto di cedere.
Ad intervalli regolari, parzialmente incassate nelle librerie, erano state ricavate piccole nicchie fornite di un leggio; non erano niente più che brevi tratti sgombri di mensole e delimitati da austere cornici squadrate, ma permettevano di appoggiare un volume e consultarlo senza doverlo reggere tra le braccia.
Fu in una di quelle nicchie che portai il mio tomo scricchiolante, posandolo con cautela sul leggio. Non c'erano panche né sgabelli: i volumi andavano consultati in piedi, o prelevati e portati nelle stanze superiori.
Avrei letto in piedi.
Aprii cautamente il libro accompagnata dal crepitio della rilegatura, ed un penetrante sentore di polvere e cartapecora mi invase le narici. Cominciai a voltare le vecchie pagine di pergamena, ed alla vista del contenuto sorrisi trionfante.
Davanti ai miei occhi avevo l'intera città di Windhelm.
Vecchie linee di inchiostro si inseguivano sulla pergamena tracciando i contorni di vie, abitazioni, palazzi, mentre tratti più brillanti e recenti caratterizzavano le aggiunte e le correzioni che si erano susseguite nel corso dei secoli. Tra le mani reggevo le mappe della città.
Sfogliando le pagine mi saltavano agli occhi nomi più o meno conosciuti, talvolta vergati accanto ad una scritta cancellata; dove ora sorgeva la casa dei Frantuma-Scudi, in apparenza un tempo vi era l'abitazione, più piccola, di un certo "Rod Acquaforte", e la bottega dello speziale era stata un alloggio per soldati ed un magazzino, prima di ottenere la destinazione attuale. Era tutto così affascinante!
L'idea di cercare le mappe mi era venuta il giorno prima, quando avevo sorpreso mio marito e Galmar impegnati in una discussione che sembrava preoccuparli entrambi.
“E dove lo vorresti mandare?” Stava dicendo il vecchio soldato. “Nel Quartiere Grigio?”
“Non dire assurdità.” Mio marito era sembrato quasi offeso dalla prospettiva, ed aveva scosso il capo. “Nella zona commerciale. O nel quartiere del porto. In un posto dove possa essere tenuto d'occhio.”
“Capisco. Lo vedi domani, quindi?”
“Domani.”
Non avevo potuto scoprire chi o cosa mio marito avesse intenzione di vedere, perché in quel momento mi aveva scorta sulla porta e mi aveva chiesto di mandargli del vino e delle fette di pane con fette di lardo.
Quel breve scambio di battute mi aveva fatto però sorgere la curiosità di scoprire quel quartiere di cui avevo già sentito parlare e che ancora non avevo mai visto, ed avevo deciso che l'avrei cercato sulle mappe della biblioteca. Non temevo di essere interrotta: mio marito aveva il suo misterioso impegno, mentre Ioreth e la mia guardia preferivano aspettarmi all'entrata della sala, dove era sempre acceso un bel fuoco in quello che somigliava più ad un buco nella roccia che un camino.
Passai la mano sulla pagina che avevo davanti, sentendo i rilievi d'inchiostro sotto le punta delle dita. Accanto ad un'abitazione qualcuno aveva cancellato il vecchio nome dei proprietari, ed una grafia che mi era vagamente familiare aveva tracciato la parola “Hjerim”. Sotto la cancellatura si indovinavano ancora alcune lettere; “Ma..t..” Lessi in un sussurro.
Ero quasi certa che stesse per “manto”, perché era una delle parole che più di frequente componevano i nomi di famiglia tra i Nord. Solo la sera prima, per esempio, alla nostra tavola si erano seduti due Mantogrigio ed un Biancomanto venuti da una città oltre le montagne.
Voltai ancora alcune pagine, osservando scorrere santuari, magazzini divenuti case di famiglie numerose, bettole e botteghe, finché non trovai quello che cercavo.
Sulla pergamena era stata tracciata un'unica strada, che piegava leggermente verso Sud.
Vi si aprivano diverse porte, e sembrava una via che in passato avesse visto molti cambiamenti; i nomi accanto alle botteghe erano stati corretti diverse volte, eppure qualunque cosa vi fosse scritta le ultime parole ormai visibili non erano di origine Nord, ma avevano un sentore esotico, straniero, diverso. Al centro della via un'unica, impeccabile linea dritta sbarrava l'elegante indicazione “Quartiere della Neve”; il nuovo nome campeggiava a lettere dure e nette, come uno sfregio in mezzo ad un bel disegno.
Non è poi così distante dal palazzo.” Pensai, guardando la mappa. “E' più vicino di quanto pensassi. Potrei arrivarci anche a piedi.
Mi lasciai sfuggire uno sbuffo divertito, e scrollai la testa di fronte all'assurdità della mia considerazione.
Andarci a piedi. Certo.
Come se io non avessi due guardiani disposti a seguire ogni mio singolo passo.

 

******




Infine, il giorno era arrivato.
Ulfric si sedette al tavolo, ma quasi all'istante si rialzò e mosse qualche passo nella stanza.
Aveva scelto di incontrare Halfdan in una delle sale smesse del palazzo, situate in una zona un po' discosta nei pressi dei locali usati come magazzini. Quella in particolare era stata sgombrata quasi completamente dal vecchio Sifnar nei giorni precedenti, ed ora non restavano altro che due vecchi tavoli imbarcati, segnati da così tante tacche che sembravano essere stati usati come bersaglio dai soldati durante le esercitazioni, qualche sgabello zoppo, alcuni polverosi e pesanti rotoli di stoffa ed un paio di bauli troppo voluminosi per essere svuotati e spostati.
Con aria tesa lo Jarl si avvicinò alla catasta di tessuti, ciascuno avvolto con cura attorno ad un bastone di legno di quercia fino a formare un rullo spesso quanto il torace di un uomo. Allungò una mano, saggiando tra le dita la qualità di un lembo di stoffa dall'aria elaborata, ed esalò uno sbuffo. Dall'ammontare di polvere e dalla foggia dei ricami, dovevano essere lì dai tempi di sua madre.
Avrebbe ordinato a qualcuno di toglierli da quel magazzino, ripulirli e portarli a sua moglie.
Lei certamente avrebbe saputo utilizzarli in qualche modo.
Si spolverò le dita sull'orlo della casacca e fece qualche nervoso passo nella stanza. Era il ragazzo ad essere in ritardo, o era lui ad essere arrivato in anticipo? Avrebbe dovuto scegliere una stanza dotata di finestre, così avrebbe potuto rendersi conto del passare del tempo.
Sovrappensiero si massaggiò le guance ispide, soffermandosi coi polpastrelli sulle cicatrici che gli sfregiavano il lato sinistro del volto. Un vecchio ricordo minacciò di affiorargli alla mente, ma Ulfric si affrettò ad aggrapparsi al pensiero dell'imminente colloquio, e quella sua vecchia memoria tornò ad assopirsi.
L'attesa era la rivalsa preferita di Halfdan; di fatto, una delle poche che ancora lui non gli aveva tolto.
Il fruscio di un passo dietro l'uscio lo fece voltare di scatto, e per un brevissimo attimo, in cui vide la porta aprirsi ed una sagoma ancora in ombra delinearsi dietro il battente, pensò si trattasse di un servitore che veniva a comunicargli qualcosa di catastrofico - gli Altmer avevano attaccato l'Eastmarch, sua moglie aveva perso un altro figlio, Halfdan si era rifiutato di venire all'appuntamento.
Ma poi la figura fece un passo avanti ed Ulfric riconobbe quel viso dai tratti duri e spigolosi, il naso aquilino come era stato il suo prima che si rompesse contro il bordo metallico di uno scudo, la mascella squadrata coperta da una simile peluria bionda, e gli occhi chiari di un colore un poco più intenso dei suoi.
“Ragazzo.” Lo salutò, sentendo la voce indurirsi più di quanto avrebbe voluto.
Il nuovo arrivato prese tutto il tempo necessario per richiudersi la porta alle spalle, e dopo avergli lanciato un'occhiata sprezzante si inchinò profondamente, esibendosi nella caricatura di una riverenza con un sorriso arrogante.
“Salute a voi, Padre.”







 


Siamo in un momento di passaggio: il clima a Windhelm sta cambiando, Lirael si sta facendo un poco più intraprendente, ed un poco alla volta le varie tessere del puzzle della guerra civile si inseriscono al proprio posto (qualcuno avrà sicuramente colto l'accenno ad Ancano ed ai Compagni di Whiterun).
Troverete un piccolo estratto dal passato di Ulfric, così come ho fatto qualche capitolo fa per Lirael; solitamente l’uso dei flashback è utile per raccontare il trascorso dei personaggi, ma nel mio caso ho voluto inserirli come episodi legati ad un avvenimento presente (il “brava bambina” detto da Mirala, per esempio, o il povero Galmar sempre portatore di brutte notizie), e conto di inserirne altri più avanti.
 

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