I'm coming home to you

di Elisa Stewart
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue ***
Capitolo 2: *** Chapter 1 ***
Capitolo 3: *** Chapter 2 ***



Capitolo 1
*** Prologue ***


 

Prologue

 

 

 

 

Non avrebbe dovuto.

Sarebbe dovuta rimanere dove cazzo era e lasciar perdere, cominciare una nuova vita, dimenticare tutto. Sarebbe stato da codardi, ma almeno non si sarebbe trovata in quella situazione ora.

Rimpiangeva tutto, il giorno in cui aveva deciso di tornare al teatro, quando aveva visto la scritta sul muro, quando aveva preso a camminare verso la nuova meta.

Stupida, come aveva potuto credere di essere in grado di affrontare un simile viaggio? A piedi, con solo uno stupido tubo di ferro e solo un pacchetto di patatine da sgranocchiare. Niente acqua, niente medicazioni, nessuna scorta. Debole e dolorante.

Era stato un gesto da idioti, avventato, dettato dalla speranza di rivederle vive. Se solo avesse ragionato, se solo si fosse fermata un attimo per pensare e comprendere che era una missione suicida. Ora sarebbe ancora in quella maledettissima cantina, al riparo da tutto e tutti.

Ma che ne sarebbe stato della sua integrità mentale? Il senso di colpa e impotenza l’avrebbero divorata dall’interno, trascinandola in un oblio buio e senza fine. Specialmente sapendo che c’era anche solo una piccola possibilità che quattro delle persone che più le stavano a cuore potessero essere ancora vive.

Avrebbe perso il senno, ne era certa. Perché sapeva che razza di persona era, e di certo non sarebbe stato da lei arrendersi senza nemmeno provare a ritrovare le altre.

Ma a quest’ora non sarebbe bloccata lì, sul tetto di quell’autobus, con un braccio sanguinante e un’orda di vaganti affamati intorno al veicolo.

Che cosa sarebbe stato peggiore? Oh, quella sì che era un’ardua scelta. Il suicidio o la morte per mano di centinaia di morti viventi? Meglio impiccata o dilaniata? Sarebbe stato uguale comunque. Perché anche se non fosse stata lei a mettere fine alla sua insignificante vita, era sempre stata sua la scelta di partire così, allo sbaraglio.

Era stata incosciente e infantile. Aveva trascurato la prima regola che lei stessa si era imposta sin dal primo giorno: fare di tutto per sopravvivere. Aveva mandato tutto a fanculo, siglando così la sua condanna a morte.

Ben fatto, Lauren. Davvero. Per un momento ero arrivata a credere che saresti durata a lungo, che ad ucciderti magari sarebbe stata la vecchiaia.

Stronzate.

La verità è che lo sapeva meglio di chiunque altro che quel tentativo disperato di non essere più sola l’avrebbe portata alla fine. E nonostante questo si era buttata senza paracadute.

Ora che, per la prima volta nella sua vita, i pensieri sovrastavano i rumori che la circondavano e che guardava il cielo, riusciva a vedere nelle stelle i profili delle sue migliori amiche. Loro le sorridevano, le parlavano e la salutavano con la mano.

Era così patetica.

Avrebbe dovuto piangere, lottare per rimanere viva ma tutto ciò che riusciva a fare era osservare i loro visi, sentendo la gioia cominciare a pervaderle il petto.

 Sorrise, Lauren, consapevole che tutto il sangue che aveva perso e la stanchezza cominciavano a darle alla testa. Però era felice così, perché se fosse morta, l’avrebbe fatto con Normani, Dinah, Ally e Camila che cantavano per lei e le stavano vicino.

Sapeva che non erano reali. Quanto avrebbe dato purché tutto quello fosse vero. Avrebbe finto per un attimo, però, di aver perso completamente il senno e si sarebbe abbandonata ai ricordi felici che le rimanevano di loro.

Rise quando le tornarono in mente i litigi di Normani e Dinah e i tentativi di Ally di metterle a tacere.

Rise ancora più forte richiamando le stupide battute che faceva Camila e come, puntualmente, lei era l’unica a ridere. Ancora ora era l’unica a trovarle divertenti. Le altre sottolineavano sempre, quando la più piccola era presente, come Lauren ridacchiasse in maniera civettuola alle sue freddure. Solo per il gusto di metterla in imbarazzo.

Ma Camila era così innocente che non se ne rendeva nemmeno conto e prendeva le loro parole come un insulto al suo senso dell’umorismo.

Era così ovvio, Camz. Perché non te ne sei mai accorta?

Rise ancora, stavolta con un pizzico di amarezza. Quella scritta al teatro riportava la sua firma. Era stato quel piccolo dettaglio a farle perdere completamente la testa, a spingerla a mandare tutto a fanculo.

Quante stupide cose aveva fatto per lei. Quella era la più cazzata di tutte. Ma ne era valsa la pena, giusto? Lei ci aveva provato, aveva cercato di tornare da loro, di tornare da lei. Dalla sua Camz. Era stato tutto inutile ma ora che le vedeva splendere nel cielo come tante stelle attorno alla luna si sentiva meglio. La circondavano, la abbracciavano.

Perché lei si rivedeva nella luna. E Ally, Dinah e Normani erano le sue stelle. E Camila... Camila era il suo sole, il suo drago.

Si abbandonò alla stanchezza con un largo sorriso stampato sulle labbra screpolate. E chiuse gli occhi, lasciando che le lacrime le rigassero il volto per l’ultima volta.

Era così ovvio, Camz.
   

 

 

N.d.A

Questo prologo è una sorta di esperimento. L'ho scritto di getto un paio di giorni fa dopo aver visto l'ultima puntata della seconda stagione di Fear The Walking Dead. Non ho mai scritto roba di questo genere, e questa è la seconda fanfiction che scrivo in questo fandom, quindi non sono sicura che io riesca a realizzare ciò che ho in mente per la storia. Però non sarà lunghissima, 4 o 5 capitoli massimo. Ma se andrà bene magari scriverò un sequel un po' più lungo. E' ancora tutto da vedersi.
Per quanto riguarda il capitolo, qui si intravede un po' la situazione della nostra Lauren ma ho optato per tenervi ancora allo scuro dei dettagli più importanti. Giusto per tenervi un po' sulle spine. Spero vi sia piaciuta. Ovviamente, se volete, lasciate una recensione per farmi sapere che ne pensate, se dovrei continuare, se è un'idea pessima e dovrei lasciar perdere. Fate voi, accetto di tutto!

A presto,
Elisa.

 

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Capitolo 2
*** Chapter 1 ***


Chapter 1

 

 

 


Tornare in quel posto, dopo tutto, era stata una sua scelta.

 Insomma, avrebbe benissimo potuto tirarsi indietro e starsene al campo con Ally, lasciare che Normani andasse al posto suo.

Eppure non se l’era sentita. In qualche modo, lo doveva a Lauren. Perché in realtà il vero scopo della missione, per lei, era cercare delle tracce che la conducessero dall’amica, che le dicessero che era ancora viva.

Dopo tutto quel tempo.

Non aveva mai perso la speranza fino ad allora, ma sentiva il bisogno di accertarsi che non si trattasse solo di un’illusione.

E se l’avessero dovuta trovare morta oppure trasformata in una di quelle cose, voleva vederla con i suoi occhi; voleva essere lei a mettere fine alle sue sofferenze. Perché glielo doveva. Non avrebbe sopportato di venirlo a sapere da una delle ragazze. C’era in ballo la sua fermezza mentale, che in un momento come quello era fondamentale per sopravvivere.

E poi era colpa sua, lei l’aveva persa di vista quel giorno, l’aveva lasciata indietro quando era il momento di scappare. Era a causa sua se ora Lauren era dispersa.

Se lo rimproverava ogni mattina, quando si apriva gli occhi e realizzava che l’incubo che l’aveva svegliata rispecchiava la realtà. Quando capiva che lei non era con loro e che non sarebbe bastata una preghierina prima di andare a letto per riportarla indietro.

A volte, invece, le capitava di sognarla lì vicino, sdraiata al suo fianco, che la intimava a tornare a dormire con la sua voce roca e assonnata. Poi apriva gli occhi e il senso di colpa e la malinconia cominciavano a opprimerle il petto, rendendole impossibile di tornare nei suoi sogni dove lei c’era e dove tutto era perfettamente felice.

Era quasi arrivata a odiarsi, a non sopportare il fatto di essere ancora in vita.

Ally diceva sempre che era troppo dura con se stessa, che non era colpa sua, che se Lauren l’avesse sentita parlare così l’avrebbe presa a ceffoni.

C’era una parte di lei che voleva crederle. Ed era proprio quel piccolo pezzo di lucidità che la tratteneva dal rassegnarsi, che continuava ad alimentare le sue speranze.  Le stesse che l’avrebbero comunque distrutta, ma che le avrebbero dato l’effimera sensazione di essere viva ancora per un breve periodo.

E, inutile mentire, quella piccola parte che ancora aspettava di vedere Lauren spuntare nel loro accampamento con il suo solito sorriso stampato in faccia, quella era tutto ciò che rimaneva di Camila Cabello. L’apocalisse l’aveva cambiata radicalmente, così come aveva fatto con tutte le persone che la vivevano.

E più cercava di rimanere integra e innocente come un tempo, più perdeva se stessa nei numerosi fiotti di sangue che l’avevano macchiata, nei visi inespressivi dei morti viventi, nella coscienza che si andava ad appesantire giorno dopo giorno.

E nei suoi stessi occhi. Soprattutto in quelli. Ormai irriconoscibili, privi della luce che li caratterizzava al tempo di X-Factor, delle Fifth Harmony, del Reflection Tour e del 7/27 Tour.

Cos’era cambiato?

Tutto ciò a cui avevano lavorato così duramente, le notti insonni passate a scrivere e registrare canzoni, le giornate intere chiuse in sala prove si erano rivelate inutili. Perché saper twerkare o cantare non ti aiuta a non farti sbranare o a non morire di fame.

Ma ciò che più le mancava, era lei.

Lauren.

La sua luna, la sua luce. La sua ancora di salvezza.

Aveva realizzato di amarla solo dopo averla persa.

Che cosa stupida.

E ora che lei non era lì, vivere non poteva più essere definito tale.

Svegliarsi la mattina e addormentarsi la notte sola, le immagini di quel maledetto giorno ancora a tormentarla. Il senso di impotenza che le opprimeva il petto ogni volta che cercava di immaginarsela, dispersa da qualche parte là fuori. Impaurita, infreddolita, spaesata, ma viva.

Sperava di mettere fine a questa tortura recandosi al teatro insieme a Dinah. Lì la loro vita era finita, ed era cominciato l’inferno. Lì aveva perso un grosso pezzo di sé che non era certa di riuscire a ritrovare.

E poi, molte delle loro cose- vestiti e foto- si trovavano ancora lì, così come uno degli autobus, che doveva essere nel parcheggio. All’interno avrebbero dovuto recuperare del cibo e altra roba utile. Sempre se non fosse già stato saccheggiato.

E magari, chi lo sa, Lauren era tornata lì dopo l’attacco, avrebbero trovato la sua valigia completamente vuota, così come l’autobus. Era soprattutto questa speranza a spingere le ragazze a proseguire.

Non era stato difficile raggiungere l’entrata dell’edificio: i cancelli che un tempo le tenevano separati dai loro fans ora erano spalancati, così come erano stati lasciati quella notte, quando ognuno aveva preso a scappare terrorizzato.

Camila riusciva ancora a vedere le sagome di ragazzi e ragazze attraversare la strada, come fantasmi. Li vedeva correre, spingersi l’un l’altro, cadere a terra, calpestare e venire calpestati. Vedeva anche i primi non morti che mordevano, placcavano e sbranavano persone. I loro visi pallidi, le bocche piene di sangue, gli occhi bianchi, le mani macchiate di rosso, lembi di pelle strappati e dilaniati.

Lei era lì in mezzo, stava scappando con le altre e per poco non veniva investita dal conducente di uno dei due autobus. Ricordava di averlo preso a parole per averle lasciate là, in mezzo all’inferno. Ricordava di aver pianto, gridato e corso come mai aveva fatto prima.

Era terrorizzata, confusa, distrutta. Si era lasciata tutto e tutti alle spalle per mettersi al riparo. Aveva perso Lauren e non era certa che lei fosse ancora viva.

In qualche modo, dopo diversi giorni di cammino, erano riuscite a lasciare la città e si erano trovate a percorrere quella che avevano riconosciuto come la San Fernando Free Way di Los Angeles, in base ai vari cartelli che erano state in grado di trovare.

Si erano dovute fermare diverse volte per riposare, cercare roba da mangiare o da bere. Stavano tutte bene, anche se un po’ ammaccate.

Ma erano esauste, consumate dagli incubi e dal terrore. Dal senso di vuoto che attanagliava tutte loro lo stomaco in un costante promemoria di ciò che avevano perso. I loro genitori, i loro fratelli e sorelle, le loro vecchie vite. Era tutto andato, bruciato.

Alla fine avevano deciso di lasciare l’autostrada e prendere una stradina minore immersa nei boschi.

E ben presto erano state in grado di sistemarsi in una piccola foresta in altura. Gran bel posto: ben protetto dagli alberi ma in grado di offrire un’ottima visuale della vallata.

Sembrava tutto perfetto, ma le ragazze erano oppresse dal peso di ciò che incombeva sulle loro teste e non erano state in grado di dormire sogni tranquilli.

Almeno all’inizio.

In qualche modo erano riuscite a cavarsela per mesi.

Avevano imparato a cacciare, a cucinare. Avevano appreso come combattere e difendersi dai non morti. Erano diventate un vero e proprio gruppo di amazzoni.  

Camila non poteva che essere fiera. Si erano adattate velocemente, lasciandosi alle spalle la loro adolescenza. Erano diventate donne nel giro di un paio di mesi, prendendosi cura l’una dell’altra e combattendo per sopravvivere.

 

Come previsto, l’autobus era ancora nel parcheggio e da fuori sembrava essere nello stesso stato in cui l’avevano lasciato. Le ragazze ci si avvicinarono con passo felpato, scandagliando l’intero spazio con gli occhi e tendendo le orecchie.

Sembravano esserci solo loro, ma come avevano imparato negli ultimi mesi, non si era mai abbastanza prudenti. I non morti erano rapidi a invadere un posto e in alcuni casi si spostavano in branchi, attirati dal rumore.

La portiera principale dell’autobus sembrava essere chiusa dall’interno. Camila provò a forzare la maniglia con il piede di porco che si erano portate dall’accampamento, ma dopo diversi tentativi la ragazza si arrese.

“Qualche idea?” chiese rivolta alla polinesiana, che nel frattempo aveva preso a girare intorno al mezzo, ispezionandolo con gli occhi.

“Nada.” Rispose Dinah alzando le spalle. Camila sorrise e prese a guardare a terra.

“Dovrei continuare a darti lezioni di spagnolo. Sarebbe un ottimo modo per passare il tempo.” Si chinò a raccogliere una pietra e la osservò, lanciandola in aria e riacciuffandola un paio di volte. Si allontanò dall’autobus e invitò la compagna a fare lo stesso. Con un gesto veloce, tirò la pietra contro la prima finestra che le capitò a tiro.

Dinah osservò il vetro infrangersi all’impatto e spezzettarsi un po’ alla volta.

Non aveva fatto molto chiasso, ma la paura di aver attirato uno di quei cosi le spinse entrambe a guardarsi intorno ancora una volta, facendo vagare le iridi da un angolo all’altro del parcheggio. Il silenzio tornò a opprimerle qualche secondo dopo.

Dinah appoggiò la schiena all’autobus, unendo le mani in modo da fare da scaletta a Camila e permetterle di entrare e aiutarla in seguito a fare lo stesso. E nel giro di pochi minuti, e non con poche difficoltà, entrambe furono dentro.

All’interno dell’autobus, tutto era come lo ricordavano: i divanetti, la cucina, le cuccette. Quanti momenti avevano condiviso lì, quante emozioni, soddisfazioni, delusioni. Avevano passato gli ultimi anni della loro vita lì dentro, gomito a gomito, sempre insieme.

Non avrebbero mai potuto prevedere come tutto sarebbe terminato, da un minuto all’altro; come avrebbero perso tutto a causa di un’epidemia che fino ad allora avevano visto solo nei film. Non ci avrebbero mai creduto se non avessero visto con i propri occhi.

Oh, come avevano desiderato che fosse solo un incubo, un sogno, una fantasia.

 

“Da questa parte, Mila.” Si era incantata a fissare il suolo, come spesso le capitava in quel periodo. Dinah la prese per un braccio, trascinandola verso l’entrata. Avevano preso tutto ciò che avevano potuto dall’autobus ed erano uscite, con la voglia di tornare dalle altre che cresceva ad ogni passo.

Era tutto lì, i cereali, il pane ormai stantio, il latte. Nessuno aveva messo piede lì dentro da quella notte.

Era stato un brutto colpo per le due, che ancora speravano di trovare qualche traccia di Lauren. Avevano setacciato l’intero mezzo in rigoroso silenzio, infilando negli zaini cibo, coperte e anche qualche peluche, immerse in pensieri devastanti che avevano come protagonista la loro amica.

“Tutto ok?” tentò la polinesiana, vedendola leggermente scossa. Camila nascose i suoi sentimenti, come si era abituata a fare negli ultimi mesi e annuì.

Aveva appreso che l’unico modo per ingannare le altre era convincere persino se stessa che andava tutto bene, che non stava cadendo a pezzi, che Camila Cabello era ancora lì.

E anche se titubanti, la ragazze le avevano lasciato il suo spazio.

Loro sapevano. L’avevano sempre saputo, dal modo in cui Camila guardava Lauren durante le interviste. Dall’improvvisa necessità di mordersi il labbro che assaliva la più giovane ogni volta che lei ricambiava lo sguardo e sorrideva.

Era così ovvio, Camila. Perché non te ne sei accorta? Come hai fatto a non renderti conto dei sentimenti che provavi?

Il dietro le quinte del teatro era un enorme labirinto di corridoi e scale. Camila giurò di aver girato lo stesso angolo e sceso le stesse identiche fottute scale almeno sette volte.

Ricordava che era stato così anche quando erano arrivate lì quella sera. Solo che allora era divertente.

Avevano girato in tondo per una decina di minuti buona, ritrovandosi ad attraversare il palco due volte di seguito. Avevano incontrato anche un paio di non morti, che però non avevano rappresentato un grande pericolo. Uno di loro era una ragazza dai capelli scuri che assomigliava dannatamente a Lauren.

Avevano avuto un attimo di esitazione, vedendola arrivare. Quando poi erano state in grado di riconoscere i tratti del viso troppo duri per essere i suoi, si erano rilassate e Dinah aveva piantato il suo coltello nella testa dello zombie.

A quel punto Camila era stata in grado di comprendere quanto non fosse pronta per una cosa del genere. Non avrebbe mai potuto e voluto esserlo. Si era fermata ad osservare la chioma corvina, chiedendosi cosa avesse fatto se si fosse trattato effettivamente di lei.

Avrebbe pianto? Avrebbe messo fine alla sua esistenza a sangue freddo?

No, sarebbe rimasta pietrificata, come le era capitato appena prima. L’avrebbe guardata avvicinarsi e staccarle il braccio a morsi senza riuscire a muovere un muscolo.

E avrebbe pensato che fosse giusto così, perché era stata colpa sua. Solo e soltanto colpa sua. L’aveva abbandonata. E Lauren avrebbe avuto tutto il diritto di essere incazzata, delusa.

Camila l’avrebbe capita.

Si riscosse dai suoi pensieri solo quando, per la seconda volta in un’ora, Dinah l’aveva afferrata per un braccio e l’aveva indotta a riprendere la ricerca. Stavolta, però, la polinesiana si era limitata a quello, scossa anche lei da ciò che era appena accaduto.

Trovare i camerini dove si erano sistemate allora fu difficile, quasi impossibile. Avevano sfondato diverse porte, attraversato vari saloni e corridoi.

Alla fine, però, ce l’avevano fatta.

Sembrava esserci tutto, le loro borse, i loro vestiti. Anche le cose di Lauren c’erano ancora.

Camila rimase a guardare la valigia ancora chiusa, le braccia penzolanti, la delusione che cominciava a penetrare in lei. Dinah era al suo fianco. La stessa identica espressione in viso, la stessa identica sensazione di vuoto nel petto.

Lauren non era stata lì.

Cosa poteva significare? Non avevano uno straccio di indizio, niente che le desse la certezza che era ancora viva, persa là fuori ad aspettare di essere trovata.

Non potevano arrendersi, non dovevano perdere la speranza. Il fatto che non fosse stata lì non significava nulla, lei non era morta. Non poteva esserlo, non se lo sarebbero mai perdonate.

Specie Camila. Lei che quella maledetta notte aveva guardato la sua mano scivolare fra le sue dita e aveva visto il suo viso sparire tra quelli terrorizzati degli sconosciuti che scappavano.

Se solo si fosse fermata, l’avesse cercata, l’avesse trascinata con se. Era colpa sua. Se lo rimproverava sempre, ogni giorno.

E si odiava per non aver accettato ciò che provava per lei, perché non ne era consapevole.

Ma era così ovvio, Camila.

Continuare a fissare quella valigia stava cominciando a diventare sempre più doloroso con ogni respiro. E anche le unghie conficcate nei palmi facevano male. E i denti nel labbro, e il buco che continuava ad ingrandirsi nello stomaco.

Non poteva restare lì, sarebbe crollata. Non era il momento di lasciarsi andare, non davanti a Dinah, non in quel fottuto posto.

Prese una grossa boccata d’aria, il respiro che tremava. Si diresse alla sua valigia e senza dire una parola la aprì, svuotandola del suo contenuto e gettando tutte all’interno dello zaino.

Dinah rimase a fissarla, confusa, triste, delusa. Sapeva che soffriva anche più di lei e che faceva di tutto per nasconderlo.

Per questo si assicurava di starle vicino, essere sempre presente. Così che, quando le sue difese sarebbero state abbattute, lei sarebbe stata lì a consolarla e aiutarla a rialzarsi.

L’unione fa la forza, Mani lo diceva sempre. E in un certo senso era diventato il loro motto, perché da sole non avrebbero potuto arrivare fin lì.

Si avvicinò lentamente a Camila e le accarezzò gentilmente un braccio, interrompendo i suoi bruschi movimenti. Era a un passo dallo scoppiare a piangere, poteva vederlo dai suoi occhi rossi.

“Lei sta bene. E’ forte.” Sussurrò in un vano tentativo di convincersi delle sue stesse parole.

“Ha solo bisogno di un aiuto per tornare a casa. Ci troverà, vedrai.” Strinse il suo braccio, rivolgendole un piccolo sorriso. Camila non osò incrociare i suoi occhi e tornò a riempire lo zaino con tutto ciò che le capitava a tiro.

Dinah sospirò rassegnata e la imitò, dirigendosi dall’altro lato della stanza. Svuotò la sua valigia e quelle di Normani e Ally, fermandosi una volta arrivata di fronte a quella di Lauren.

Che avrebbe dovuto fare? Sarebbe stato giusto svuotarla? E se fosse stata ancora viva e le fossero serviti dei vestiti? E se invece non fosse più tornata? Sarebbe stato bello avere delle cose che le erano appartenute. Un modo per non scordarsi mai di lei, per tenerla vicina.

Le altre ne sarebbero state felici, ma Camila? Portarsi a casa quelle cose stava a significare che avevano perso la speranza di ritrovarla. Quella era l’ultima cosa che serviva alla cubana per non cadere a pezzi.

Si voltò a guardarla, ancora intenta a prendere roba a caso, lo sguardo basso, gli occhi tristi. Non se lo meritava. Nessuna di loro meritava tutto quello.

Che schifo.

Dinah sospirò, sorpassando il bagaglio rosa e chinandosi per controllare sotto i tavoli. Qualcosa di colorato attirò la sua attenzione sotto uno dei divani.

Sembrava una scatoletta di cibo di colore rosso. Ma cosa ci faceva una cosa del genere lì?

Si allungò per recuperarla e quando le sue dita vennero a contatto con il metallo freddo, si ritrasse, tirandola a sé. E allora realizzò di aver appena trovato un’inutile bomboletta spray colorata.

“Guarda qua.” Mormorò rialzandosi e voltandosi verso Camila, che nel frattempo aveva esaurito tutto lo spazio a sua disposizione nello zaino. La cubana osservò l’oggetto incuriosita.

“Una bomboletta spray. Qui?”

“Era sotto il divano. Possibile che fosse qui da tempo?”

Camila strappò l’oggetto di mano alla polinesiana, rivoltandolo e osservando qualcosa alla sua base.

“Qui c’è scritto 2013. Credo sia qui da un bel po’.” Costatò scuotendola e stappandola. Spruzzò un paio di volte verso terra e osservò come il colore macchiò la moquette color sabbia.

“Ops.” Mormorò, gli occhi fissi sul cerchio nero che si era formato ai suoi piedi. Sembrava quasi un’indicazione che invitava a scavare proprio in quel punto.

Un indizio. Un aiuto.

Camila sgranò gli occhi e schiuse di poco le labbra. Dinah aveva detto che Lauren aveva bisogno di un aiuto per tornare a casa.

Ma certo.

 Quando prese a guardarsi attorno freneticamente, la polinesiana credette di averla persa del tutto. La seguì fuori dalla stanza, nel corridoio, cercando di acciuffarla per un braccio. E quasi le piombò addosso quando lei si bloccò proprio di fronte al muro bianco.

“Che stai facendo?! Mi hai fatto spaventare!” mormorò a denti stretti, girando la testa prima a destra e poi a sinistra. C’erano solo loro.

“Sto aiutando Lauren.” Rispose la cubana, semplicemente. Ignorò la fitta che le attraversò il petto nel momento in cui il suo nome aveva lasciato le sue labbra e alzò un braccio, spruzzando la vernice direttamente sulle piastrelle bianche del muro.

Dinah la osservò disegnare linee e cerchi, fino a formare una piccola frase. E quando il murale fu terminato, comprese cosa intendeva Camila.

E sorrise, per la prima volta dopo tanto tempo.

La speranza era davvero l’ultima a morire.

 

 

N.d.A.

Eccomi tornataaa!
Penso abbiate già capito che la puntualità non fa per me. Mi scuso per questo, ma purtroppo non sono stata in grado di terminare il capitolo in tempo, malgrado gran parte fosse già pronta.
Comunque eccolo qui.
Cominciamo a capire cosa è successo, dove sono le altre, perché Lauren si è spinta a compiere quel viaggio disperato.
Se non aveste capito, questo è una sorta di flashback, che ci aiuta a mettere insieme i pezzi. Vi annuncio che la vera storia comincia dal prossimo capitolo, quindi spero di non avervi annoiato troppo.
Restate con me per aggiornamenti!

A presto,
Elisa.

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Capitolo 3
*** Chapter 2 ***


Chapter 2

 

 

 

Correre sotto la pioggia non era per niente stata una grande idea.

Probabilmente la cosa più stupida che avesse mai fatto. Non era più una bambina. Per l’amor di Dio, aveva 20 anni. Eppure, sul momento era sembrato divertente. Soprattutto quando a chiederglielo era stata una certa cubana dagli occhi color nocciola.

Lauren ci vedeva l’infinito in quelle iridi. Amava perdercisi dentro, annegare in quel mare di cioccolato. L’avrebbe fatto tutto il giorno, ma i suoi sguardi erano già parecchio imbarazzanti e noti, nonostante durassero pochi secondi. O minuti.

E poi a lei non piaceva nemmeno il cioccolato.

Dettagli.

Comunque si erano divertite quel pomeriggio. A ballare e a scherzare sotto le gocce di acqua fredda che penetravano nelle magliette, causando loro dei piccoli brividi di freddo. O di qualcos’altro, dipende dai punti di vista.

Perché lei non aveva sentito per niente freddo, tutto il contrario. Specialmente quando le braccia della più piccola l’avevano stretta e le sue gambe si erano avvinghiate attorno al suo bacino.

Camila lo faceva sempre, lo chiamava l’abbraccio koala. Era una cosa innocente, per lei, dettata puramente dall’affetto. Di nuovo, dipende dai punti di vista.

Infatti le altre avevano preso a sghignazzare, sbeffeggiandosi di lei e delle sue gote rosse. E Lauren si era vergognata immensamente e aveva pregato perché Camila non si accorgesse di nulla e continuasse ad abbracciarla. Perché è ciò che fanno le amiche.

Bugia.

Morale della favola: ora Lauren se ne stava nella sua cuccetta, appallottolata tra le coperte, febbricitante. Sentiva costantemente freddo, nonostante fosse sotterrata sotto due o tre strati di plaid.

Aveva messo il termometro una decina di minuti prima, ma ancora non suonava. Bel malanno, in mezzo a un tour. L’ideale.

Fortunatamente la voce era ancora lì, roca ma presente. Con un po’ di fortuna e riposo magari si sarebbe ripresa abbastanza da poter cantare al prossimo spettacolo.

Ciò dipendeva anche da quanta zuppa della nonna avesse ingerito in quel lasso di tempo.

A questo proposito, Camila spuntò nel corridoio senza che lei se ne rendesse conto. Se ne stava in piedi di fronte alla sua cuccetta, teneva in mano una ciotola piena della suddetta pietanza e sorrideva, intenerita da quel fagotto di coperte tutto tremante.

“Come va?” Lauren trasalì, rotolando sulla schiena per potersi girare e per poco non cadde dal bordo del letto nel farlo. Sorrise incerta quando incrociò lo sguardo della più piccola.

Male, malissimo. Ho freddo, mal di testa, mal di gola ed è tutta colpa tua e dei tuoi occhioni da cucciolo.

“Bene! Ora anche meglio.” Disse mettendo a tacere la versione più piccola di se stessa che sbraitava nella sua testa e scalciava per farsi sentire dalla diretta interessata.

Altra bugia. 

“Per la zuppa. Sto meglio perché mi hai portato la  zuppa. Voglio dire, mi piace. La zuppa.” si corresse arrancando subito dopo, notando lo sguardo eloquente che le aveva rivolto Dinah dalla sua cuccetta. Mordendosi la lingua, cercò di mettersi a sedere, per quanto lo spazio a sua disposizione glielo permettesse.

Tre bugie. Complimenti Lauren.

Camila sorrise e le passò la ciotola, consigliandole di fare attenzione a non bruciarsi. Poi la invitò a farle un po’ di posto e si sedette al suo fianco.

“La prossima volta che ti propongo di fare le pazze sotto la pioggia, sei libera di darmi un pugno in faccia.” Lauren, che faticava a non affogarsi con il brodo a causa della vicinanza della più piccola, le lanciò uno sguardo e accennò un sorriso imbarazzato. Come se avesse mai potuto farlo.

“Ricevuto.” Rispose prendendo un’altra cucchiaiata tutta tremante dalla ciotola.

E siamo a quattro. Nel giro di dieci minuti.

Ma la se in miniatura che abitava nel suo cervello non avrebbe dovuto comunque stupirsi più di tanto: nella sua vita mentiva continuamente.

Ai suoi parenti quando le chiedevano se avesse trovato il fidanzato; nelle interviste quando domandavano a tutte le loro celebrity crush ; ai fans, ai quali rispondeva a tono quando loro facevano girare su tumblr post sulla sua presunta bisessualità e/o omosessualità; anche a quei poveretti che avevano avuto la sfiga di stare con lei in passato. Solo ad uno di loro aveva detto la verità, e lui ci aveva scritto una canzone.

Questo l’aveva spinta a pensare fosse stato un errore e a maledire Brad: “dimmi perché mi sono innamorato di quegli occhi”? Più esplicito di così si muore, specie se il brano esce dopo una rottura poco chiara.

Sentiva però il disperato bisogno di parlare sinceramente a qualcuno, per una volta. Qualcuno disposto ad ascoltare e basta, senza giudicare, consigliare o rispondere. Necessitava di una buon’anima che si mettesse seduta e la lasciasse riversare tutti i suoi problemi su di se.

Ci aveva provato con Dinah, Ally o Normani, ma loro le rispondevano sempre allo stesso modo: “parlale, dille la verità. Tentare non costa nulla.”

Era questo però che non la convinceva, quell’ultima frase. Tentare, nel suo caso, poteva significare perdere tutto. Dire addio a Camila, al loro rapporto. Ma cosa sarebbe successo se fosse stato al contrario?

Avrebbe trovato il coraggio di confessare se avesse significato averla al suo fianco per un altro po’?

Assolutamente no.

C’era già cascata in passato e si era beccata una strigliata dai loro managers e il conseguente allontanamento della più piccola. Lei aveva dato inizio alla fine con uno stupido tweet di risposta.

E anche se adesso sembrava essere tornato tutto alla normalità, tra loro c’era quasi sempre un’aria di imbarazzo e tensione, che traspariva soprattutto durante le interviste, quando erano costrette a stare lontane l’una dall’altra.

Lauren si colpevolizzava spesso per la loro situazione e più volte aveva cercato di mettere fine alle speculazioni nei loro confronti. Ma del resto, anche lei un tempo aveva fatto parte della schiera di fans e sapeva benissimo che tutto quel negare era altro pane per i denti degli amanti del “drama”.

Aveva cercato di farsi perdonare e non aveva fatto altro che peggiorare la situazione. Ma Camz, la sua Camz, non sembrava darci molto peso. Non davanti a lei almeno.

Anche se agli occhi del mondo interno le loro interazioni erano quasi assenti, la piccola cubana aveva continuato a regalarle le stesse attenzioni, prendendosi cura di lei nei momenti peggiori e ridendo insieme in quelli migliori.

Proprio come ora, che Lauren aveva terminato la sua minestra e Camila si era offerta di riportare la ciotola in cucina per lei. E mentre Dinah faceva battute sui pomodori, alludendo alla colorazione che il suo viso aveva assunto, la ragazza dagli occhi smeraldo sorrise.

Le stava bene così.

Rabbrividire ad ogni suo tocco, trattenersi dal guardarla troppo a lungo o in casi più estremi dal baciarla, ascoltare i suoi problemi di cuore offrendole una spalla su cui piangere. Le bastava esserle amica perché sapeva che non sarebbe mai andata oltre.

La Friend-zone era diventata la sua casa e non aveva intenzione di lasciarla molto presto, non con Camila almeno.

La piccola cubana aveva ripreso il suo posto al fianco di Lauren dopo essere tornata dalla cucina, armata del suo libro preferito. Probabilmente l’aveva riletto così tante volte che lo conosceva a memoria, ma sosteneva fosse una lettura rilassante, specie se la consumava in tutta tranquillità con qualcuno che amava al suo fianco.

Era toccato a tutte averla lì, in un angolino della cuccetta, silenziosa e immersa nella lettura. Eppure quando era il suo turno, si sentiva sempre lusingata. E Dinah se la rideva ogni volta nel bunker di fronte.

A volte Lauren si pentiva di averle detto la verità.

Quando finalmente il termometro si decise a suonare, Camila si allungò verso di lei per controllare la temperatura e si morse il labbro nel costatare che non era delle migliori.

“Maledizione a me e alle mie stupide idee.” Borbottò abbandonando l’aggeggino in uno spiraglio tra i loro fianchi. Lauren sorrise, stringendosi nelle coperte.

“Tranquilla, mi riprenderò prima del previsto.”

“Lo so. Tu sei forte, vero Lolo?” E con un ennesimo scambio di sguardi e di sorrisi, Lauren avvertì e mise a tacere il desiderio di far coincidere le loro labbra. Ci aveva fatto l’abitudine.

Se non fosse per  quegli impulsi improvvisi da anticipare e trattenere, i momenti passati insieme a lei avrebbero potuto sfiorare la perfezione. E se magari quell’improvviso chiasso non sovrastasse le voci di Dinah e Camila, allora sarebbe stato anche meglio.

Lauren riemerse dalle coperte, guardandosi attorno mentre i dettagli della cuccetta, del viso di Camila, dell’autobus cominciavano a sfocare e a sparire. Ora il volto delle ragazze era sparito, le coperte, il suo telefono, la tenda del bunker. Tutto si era fatto scuro.

E il buio era stato sostituito da una luce fastidiosa.

 

 

 

Quando ti addormenti con la convinzione di stare per morire e poi riapri gli occhi e scopri che la tua ora non è ancora arrivata, inizi a percepire tutto in modo diverso. Così fu anche per Lauren.

No, non intendo che cominciò ad essere ottimista riguardo la sua posizione piuttosto scomoda. Respirava sdraiata sulla schiena, ancora sul tetto di quello stramaledetto camper. Inspirava e avvertiva dolore. Cercava di muovere la testa, espirava e si sentiva morire.  E si convinceva così che il cielo che ora la sovrastava era reale, che l’azzurro sbiadito che aveva inondato i suoi occhi, quello non era il paradiso. Non era ciò che veniva dopo.

Lei era ancora viva. Incredibile ma fottutamente reale.

Non credeva si trattasse di un miracolo, ci aveva pensato a lungo mentre ascoltava i versi dei mostri che ancora circondavano la vettura. Non era di certo fortuna.

Voi penserete e non avreste nemmeno torto nel dire che effettivamente essere ancora in vita nonostante l’ammontare di sangue perso è proprio sfiga (cogliere la nota di sarcasmo).

Il punto però, è che Lauren aveva creduto di essere spacciata. E questo aveva mutato radicalmente il suo punto di vista: forse chiunque stava lassù, Dio, il karma, Budda, gli alieni... Forse loro avevano deciso che poteva ancora farcela, che aveva altro da fare e che non era il momento giusto di richiamarla lassù.

Perché magari c’era ancora qualcuno che aveva bisogno di lei, che le voleva bene. E l’avevano ributtata giù, sulla strada difficile e tortuosa, perché passare per la via facile non faceva al caso suo. E morire era sin troppo semplice durante un’invasione di zombie.

Ma Lauren non poteva protestare, le andava più che bene. Avrebbe accettato la sfida, avrebbe combattuto ancora un po’ e magari avrebbe trovato quel qualcuno che la aspettava. Poi sarebbe salita in cielo a ridere in faccia ai superiori. Il tutto dopo essere scesa da quella trappola mortale, ovviamente. Più facile a dirsi che a farsi.

Purtroppo la via difficile riservava inconvenienti: la sua debolezza dovuta ad assenza di cibo, acqua e perdita di sangue ne era un palese esempio. Per non contare il numero di non-morti che avrebbe dovuto “uccidere” con solo un tubo di ferro.

Gran bella presa per il culo, quella di lasciarmi viva.

Sbatté le palpebre più volte e cercò di tirarsi a sedere. Non fu semplice: compiere uno sforzo più grande del respirare (che già era abbastanza complicato) la stremava e il braccio le faceva un male cane. Nel peggiore dei casi la ferita si era infettata.

Cercò di riprendere fiato e barcollando si tirò in piedi. Le risultò piuttosto difficile restare in equilibrio senza cadere di sotto ma alla fine riuscì a sporgersi per valutare la situazione. I non-morti erano diminuiti ma provare ad affrontarli rimaneva un suicidio.

Ciò di cui aveva bisogno era una strategia. O meglio ancora, qualcosa che le consentisse di distrarli per un lasso di tempo sufficiente a premetterle la fuga.

Nello zaino non aveva nulla, a parte un pacchetto di patatine mezzo vuoto e l’unica cosa che poteva fare abbastanza rumore era il suo tubo di ferro. Ma una volta gettato, come si sarebbe difesa?

Le venne quasi da ridere: un tempo, guardando una serie Tv sugli zombie insieme alle altre pensava fosse semplice voltarsi e scappare da quei mostri. Erano lenti, stupidi, facilmente aggirabili, piuttosto prevedibili. Si ritrovava a inveire contro i personaggi, etichettandoli come idioti per le scelte compiute.

Ora però capiva che in situazioni del genere era difficile pensare lucidamente e anche voltarsi e darsela a gambe diventava un’azione difficile. La paura ti paralizzava e rimanevi lì, pietrificata ad aspettare che i primi non morti ti piombassero addosso. E adesso che anche lei si trovava a un bivio cominciava a scusarsi mentalmente con tutti i tizi di quella serie tv, sebbene non reali.

Sospirò pesantemente e si passò una mano tra i capelli. Si rimise a sedere, esausta dopo quei pochi secondi trascorsi in piedi e si allungò verso lo zaino per estrarne il pacchetto di patatine. Se avesse dovuto morire lassù almeno lo avrebbe fatto con la pancia mezza piena.

 

Il sole cominciava a spuntare all’orizzonte e, con il suo lento e pigro avanzare, inondava di luce e calore il cielo e tutto ciò che era in grado di raggiungere con i suoi raggi.

Lauren osservò come l’azzurro chiaro che prima aveva accolto i suoi occhi si tramutava nelle vicinanze della stella, in un colorito prima violaceo e poi aranciastro. Aveva sempre sostenuto che alba e tramonto erano di una bellezza disarmante ma solo in quel momento riuscì, forse per la prima volta, ad apprezzarla a pieno. Ora che tutto ciò che un tempo aveva creduto di massima priorità aveva lasciato il posto alla sopravvivenza, passando in secondo piano, riusciva osservare anche le cose più ovvie e scontate con occhi diversi, come se fosse la prima volta.

Il mondo era cambiato parecchio negli ultimi mesi e forse vedere il sole alto nel cielo non era più scontato come si pensava in passato. Del resto, anche l’impossibilità di un’epidemia zombie lo era –perché “è tutta finzione, non devi spaventarti”-, eppure eccola lì, abbandonata a se stessa, ferita, debole, impegnata a cercare un modo per non morire. Era tutto ciò su cui si basava la sua intera esistenza, ormai. Lo era sempre stato, sin dalla nascita. Allora era diverso però: si aggiungevano fattori secondari e superflui, mirati a rendere piacevole il poco tempo che ogni essere umano aveva a disposizione sulla Terra.   

Socchiuse gli occhi quando un raggio di sole la colpì in pieno volto ma non distolse lo sguardo. Perché farlo se le restavano pochi spettacoli del genere da essere ammirati? Non voleva avere rimpianti quando sarebbe arrivata la sua ora. Motivo per quale doveva trovarla. Le avrebbe anche urlato da lontano i suoi sentimenti, se fosse stato necessario, ma le avrebbe confessato tutto. E sarebbe morta con la soddisfazione di averlo fatto e l’incantevole supposizione di cosa sarebbe potuto nascere impressa nella mente. L’aveva promesso a se stessa, alla Lauren Jauregui delle Fifth Harmony, quella che era brava con le parole, che cantava “but my heart is growing strong” in una delle loro più famose canzoni. Quella che aveva perso nel corso dei giorni, che non era più stata in grado di ritrovare e che quasi sicuramente non sarebbe più tornata.

Aveva fatto cose terribili in quei mesi, atti che non avrebbe mai immaginato di essere in grado di compiere. Non ne andava fiera ma cominciava a pensare che quegli scenari avessero tirato fuori una parte di se sconosciuta. Una versione di Lauren legata più strettamente ai suoi antenati, la cui unica regola di vita era sopravvivere. Doveva essere stato così per chiunque, e chi era rimasto fedele a ciò che c’era prima dell’apocalisse probabilmente a quel punto era morto. Magari alcuni dei vaganti che la sera prima l’avevano attaccata si erano trasformati in mostri proprio per quel motivo: forse non erano stati in grado di tradire se stessi e abbandonare la vita da homo sapiens. Lei avrebbe preferito farsi investire da un camion piuttosto che trasformarsi in uno di quei cosi.

 

Il tempo sembra passare più velocemente quando si è bloccati in cima ad un camper, in procinto di morire. Il sole era ormai alto e più saliva, più Lauren si sentiva debole, più la voglia di stendersi e lasciarsi andare cresceva. Non vedeva vie d’uscita o soluzioni al suo problema e in diversi momenti di poca lucidità aveva seriamente pensato di mettere radici lassù. Magari costruirsi un riparo con assi di legno inesistenti, e dare vita alla prima casa sul camper che l’uomo avesse mai visto. Sembrava quasi divertente: una casa su una casa sulle ruote, roba da barzellette. O da battute squallide di Camila.

Mentre si perdeva ad esplorare il vasto repertorio di freddure poco efficaci messe in campo dall’amata durante le interviste, qualcosa la colpì in pieno viso. Un luccichio che le investì gli occhi, costringendola ad alzare il braccio per ripararsi. Imprecò a bassa voce quando una scarica di dolore le percorse il suddetto arto, maledicendosi per la poca attenzione. Ma la consapevolezza che qualcosa stava accadendo le fece scordare tutto: c’era un luccichio, proveniente da un cespuglio sul ciglio della strada. La sua intermittenza le fece comprendere che non era accidentale: qualcuno le stava mandando dei segnali.

Trattenne il fiato, considerando due possibilità: A- stava per morire con una bella pallottola in fronte, B- stava per morire dopo essere stata violentata e picchiata da una banda di maniaci ciccioni. Entrambe le ipotesi mettevano un punto al suo soggiorno nel resort tettuccio di camper. Si tirò in piedi a fatica, alzando il braccio buono e agitandolo, per comunicare a chiunque fosse nascosto in quel cespuglio di aver recepito il messaggio: “sono qui e ti sto prendendo per il culo con questa luce del cazzo.”

Prima che potesse fare altro, qualcosa si abbatté su uno dei finestrini di una macchina rossa più in la del camper. Un tonfo, un altro, poi un altro. Una serie di oggetti, che Lauren identificò come pietre, stavano fracassando l’auto rossa, producendo un rumore infernale che non tardò ad attirare i non-morti. A poco a poco, il branco si voltò, identificando la fonte del rumore e se ne andò barcollando. Sebbene alcuni non si fossero fatti ingannare, ora erano pochi quelli che persistevano ma ancora abbastanza mortali.

Era il momento giusto per scendere, cercando di evitare i morti rimasti e allontanarsi da lì. Si voltò e strisciò verso il suo zaino e se lo mise in spalla –quella sana-, recuperando poi il tubo di ferro poco più in la. Era salita tramite una scaletta nel retro del camper e sarebbe scesa allo stesso modo. L’unico problema era lo zombie che se ne stava proprio lì di fronte, mugugnando come un’imbecille. Cercò di pensare più in fretta possibile, considerando l’opzione di farsi aiutare ancora dall’amico cespuglio, prima di accorgersi che il suddetto aveva smesso di scagliare pietre e sembrava aver abbandonato la sua postazione. Nessun segnale di luce a siglare la sua uscita di scena, niente di niente.

Doveva fare da sola. Prese un grosso respiro e si calò per la scala, fermandosi a qualche pirolo più giù. Scagliò un calcio alle spalle del non-morto, abbastanza forte da farlo barcollare e cadere in avanti ma allo stesso tempo da far riemergere quella sensazione di malessere che poco prima si era impadronita di lei. Aveva bisogno di cibo, acqua, riposo, medicinali. Urgentemente.

Una volta messi i piedi a terra –quasi si inginocchiò a baciare l’asfalto- la ragazza lanciò un’ultima occhiata al non-morto mugugnante, ancora riverso in terra, prima di allontanarsi e girare l’angolo del camper. Solo per ritrovarsi una freccia puntata dritta in mezzo agli occhi. Lasciò cadere il tubo, e alzò istintivamente le mani. Dietro l’arco un giovane dalla carnagione chiara la guardava in cagnesco e una ragazza molto simile a lui che si guardava attorno. I due si scambiarono qualche parola in una lingua a Lauren sconosciuta. Dovevano essere stranieri e lei era fottuta. Come spiegargli che non aveva cattive intenzioni? Che tutto ciò che voleva era andarsene?

Prese un piccolo respiro e cominciò a spostare lo sguardo tra i due sconosciuti, sentendo il nervosismo attanagliargli lo stomaco già dolente.

“Capite l’inglese?” parlò il più lentamente possibile, sperando in cuor suo che così intuissero almeno cosa volesse dire. I due ragazzi si scambiarono un’occhiata e tornarono a fissarla con espressioni indecifrabili. Lauren colse l’attimo per osservarli meglio: erano entrambi magri e più alti di lei. I loro vestiti erano tutti strappati e sgualciti e le uniche armi che sembravano possedere erano quell’arco e un coltello stretto saldamente tra le dita della ragazza, che portava dietro la schiena una faretra con poche frecce.

“Sentite, io voglio solo andarmene di qui. –continuò senza aspettare un loro cenno- Sono stata tutta la notte lassù e sono riuscita a scendere grazie a qualcuno che ha attirato gli zombie... Non ho cattive intenzioni, potete fidarv...” improvvisamente il ragazzo tese maggiormente l’arco e per una frazione di secondo Lauren pensò di stare per morire. Beh, è stato bello finché è durato. Pensò, nella testa ancora le immagini del sogno.

Poi la freccia partì e manco di qualche centimetro l’orecchio destro dell’ex cantante, facendola sobbalzare per lo spostamento d’aria. Si voltò solo per vedere il non-morto di poco prima cadere a terra, l’occhio trafitto dalla freccia. Lauren rimase senza fiato, voltandosi immediatamente per osservare il ragazzo passarle accanto e recuperare la freccia dalla testa del mostro. Proferì un paio di parole in lingua straniera, facendo cenno all’altra di avvicinarsi e ripose la freccia nella faretra, insieme alle altre.

“Siamo stati noi ad aiutarti.” Disse lei con un accento marcato. Le sorrise appena, riponendo il coltello nella cintura dei pantaloni e lanciando uno sguardo all’altro. Lui annuì e incrociò le braccia con sguardo severo. Lauren era ancora troppo sconcertata per rispondere o ringraziare, si limitò a far passare lo sguardo da lui a lei, allo zombi appena ucciso. C’era sangue tutto intorno alla sua testa e per qualche frazione di secondo, l’ex cantante immaginò il suo volto al posto di quello smunto e in stato di decomposizione.

“Che ci facevi lassù?” Stavolta a parlare fu una voce più profonda e roca, che a suo avviso arrivava dal ragazzo, ancora a braccia conserte. Si girò nuovamente e boccheggiò, cercando di ricordar come si componeva una frase di senso compiuto.
“Io... Ehm... Sono salita lì ieri sera, ero inseguita da un mucchio di quei...” indicò con una mano il corpo riverso per terra alle sue spalle.

Il giovane alzò un sopracciglio, socchiudendo le labbra e lasciando pendere le braccia lungo i fianchi. Dai suoi movimenti, Lauren poté dedurre il suo scetticismo. In passato, persone del genere le avrebbero dato sui nervi, spingendola a mandarli a quel paese e dichiarando la sua indifferenza nei loro confronti a viso aperto. Ma in una situazione come quella, in cui lei era debole, affamata, assetata e loro avevano le armi, beh in quel caso tenne la bocca chiusa. Si poggiò al camper, stanca per essere rimasta troppo tempo in piedi, senza mai staccare gli occhi dai due: non aveva ancora capito se poteva fidarsi di loro. L’avevano salvata, vero, ma non sembravano troppo disponibili, almeno il ragazzo.  

“Perché sei qui?” il ragazzo tornò alla carica, dopo aver dato un rapido sguardo al branco di non-morti che ancora bazzicavano attorno all’auto rossa più in là.

“Te l’ho detto, sono rimasta bloccata...”

“Non è quello che intendevo. Sei con qualcuno? Perché hai passato la notte qui se a pochi chilometri c’è la città?” Lauren aggrottò la fronte.

“Non ti pare di voler sapere un po’ troppe cose?” Come dicevo prima, avrebbe tenuto la bocca chiusa in quel caso, ma solo per poco.

“Ti abbiamo appena salvato il culo, dirci chi sei è il minimo che potresti fare.”

“Beh, vi ringrazio ma quello che faccio sono cazzi miei.” Lauren scivolò fino a sedersi per terra, esausta. Si sentiva già meglio, dopo aver messo qualcosa sotto i denti, ma la ferita al braccio continuava a perdere sangue e lei si indeboliva sempre di più. Di quel passo non avrebbe fatto molti metri prima di stramazzare per terra. Aveva bisogno di cure, ma non aveva nulla per bendarsi. Anche se avesse strappato un lembo di maglietta avrebbe rischiato una bella infezione: non era propriamente appena uscita dalla lavatrice.

Li sentì discutere tra loro nella loro lingua, che cominciava ad intuire fosse tedesco o qualcosa del genere. Si passò una mano tra i capelli, con l’intenzione di toglierseli da davanti agli occhi. Magari stavano decidendo se ucciderla e mettere fine alla sua pietosa esistenza, ma arrivata a quel punto poco le importava. Tanto non sarebbe comunque andata lontano in quelle condizioni.

“Nathanael!” sbottò la ragazza, attirando l’attenzione di Lauren. Quello doveva essere il nome del ragazzo, perché lui sbuffò e alzò le mani in segno di resa. Lei gli rivolse un ultimo sguardo severo prima di spostare gli occhi su quelli altrettanto chiari di Lauren. Le si avvicinò con fare premuroso e le si inginocchiò accanto.

“Tutto bene?” chiese, quasi mal pronunciando la prima parola. L’ex cantante annuì guardandola diffidente mentre frugava nel suo zaino. Che avessero deciso di risparmiarla?

“Dovremmo andarcene di qui e trovare un posto sicuro dove potrai riposare.” Continuò la giovane dai capelli biondi, tirando fuori dalla sacca delle bende arrotolate e un flacone bianco. Lauren aggrottò la fronte, non capendo bene dove voleva arrivare. La osservò silenziosa mentre stappava la piccola bottiglia e le prendeva delicatamente il braccio.

“Questo brucerà un po’.”  Mormorò, versando poi una buona dose di quella che doveva essere acqua ossigenata sulla sua ferita. Un po’ non era esattamente la quantità di pizzicore che invase tutto il braccio della mora, che si ritrovò a mordersi il labbro inferiore per impedire alla sua bocca di produrre un qualsiasi suono. Prese fiato dal naso, cercando di ignorare il bruciore.

“Perché mi stai aiutando ancora?” La biondina alzò le spalle, tamponando il taglio con un lembo di benda.

“Tranquilla, non vogliamo nulla in cambio.” Si intromise aspramente Nathanael, che ancora se ne stava più in là, a braccia conserte. La ragazza gli rivolse ancora una volta uno sguardo di rimprovero, prima di tornare a medicare l’ex cantante.

“Non siamo il tipo di persone che ignora chi è in difficoltà.” Mormorò dopo, fissando gli occhi cerulei su quelli verdi di lei. Lauren non riuscì a leggerci nessuna malizia, se non sincero altruismo. Ma poteva davvero essere tutto lì? Bontà d’animo, in un mondo in cui ormai ognuno pensava a se stesso? Quasi si vergognò a pensare che lei non sarebbe stata altrettanto buona e gentile: avrebbe tirato dritto, concentrata solo su ciò che era il suo obbiettivo.

“Mi dispiace interrompervi, ma dovremmo seriamente andare ora. I tuoi amici decomposti stanno tornando.” Mormorò Nathanael, indicando Lauren con un cenno della testa, imbracciando l’arco e tirando via la faretra dalla spalla della ragazza. Lei finì di fasciare il braccio dell’ex cantante e ripose tutto frettolosa, allungando poi una mano verso di lei per aiutarla ad alzarsi.

“Appoggiati a me.” Le disse, passando poi un braccio attorno alla sua vita. Lauren fece quanto detto, un po’ confusa e stordita dalla situazione, e aiutata dalla giovane, seguì Nathanael lungò la strada. Se avrebbe dovuto pentirsene, lo avrebbe saputo solo in seguito.

 

 

 

 

 

“No, Dinah, non è quello che intendevo.” Si lamentò Camila per l’ennesima volta, frustrata per l’ostinazione della polinesiana. Era bastata una battuta per scatenare l’inferno tra i fan e tra loro, per l’ennesima volta. Lauren sapeva già cosa sarebbe successo: lei avrebbe cominciato a comportarsi in modo strano in sua presenza, l’avrebbe quasi evitata per un po’ e poi si sarebbe riavvicinata, come era solita fare dopo disastri del genere.

“Lo so, ma dovresti fare più attenzione.” Replicò la leonessa, lanciando uno sguardo anche alla mora dagli occhi verdi, cosa che a lei non sfuggì. Lei sapeva che in situazioni del genere tendeva a rabbuiarsi. Solo che non era per il motivo che tutti pensavano: no, a lei non fregava niente del fatto che i fans avrebbe cominciato a fare supposizioni su supposizioni in base  ciò che aveva detto. Il punto era che tutto ciò che erano riuscite a recuperare con Camila, sarebbe svanito nel nulla, pronto ad essere rimpiazzato presto da altre frazioni di secondo e altri momenti.

In genere non si arrabbiava mai con la piccola Cubana, ma con il mondo intero. Questa volta, però, l’aveva combinata davvero grossa e lei gliel’aveva fatto notare anche durante l’intervista. La giornalista aveva chiesto chi era la madre del gruppo e tutte l’avevano indicata. E poi Camila se n’era uscita con un “io sono il padre” particolarmente equivoco e lei era anche rimasta piuttosto sorpresa in senso piacevole dell’affermazione, finché non aveva visto la faccia della donna davanti a loro. E allora era andata in panico. Si era voltata verso la compagna, l’aveva guardata, battendo le mani nervosamente e buttandola sul ridere. E la più piccola si era affrettata a spiegare ciò che intendeva, gesticolando come una pazza.

Ora Camila la guardava, come tutte le altre, aspettando il solito gesto non curante che le avrebbe dato la certezza di poter sistemare tutto con un altro periodo di assenza quasi totale. Ma stavolta, tutto ciò che ricevette, fu uno sguardo gelido da parte degli occhi verdi che un tempo aveva detto di adorare.

“Lauren, non l’ho fatto apposta, volevo fare una battu...” aveva tentato la piccola Cubana, ma lei l’aveva zittita con un gesto della mano e si era voltata dall’altra parte, lasciando immediatamente la stanza. Aveva il vizio di rovinare tutto e ormai accadeva troppo spesso. Credeva che Lauren fosse forte, gliel’aveva detto tante volte. Non pteva essere più in torto di così.

La latina sparì tutta la giornata, nascosta in un angolo del suo camerino, solo per farsi rivedere la sera, all’ora del concerto. Dinah, Normani e Ally avevano cercato di convincerla ad aprire e parlarne, ma Lauren si era rifiutata, isolandosi dal mondo con i suoi auricolari. Aveva bisogno di pensare, da sola.

Dio solo sapeva quanto male potesse farle essere arrabbiata con lei, ma in quel momento era l’unica cosa che riusciva a provare: la collera nei suoi confronti, la frustrazione di non poter fare nulla se non guardarla allontanarsi, scivolarle via dalle dita. Doveva sempre fare quei pasticci nei momenti meno indicati, proprio quando tutto pareva andare per il verso giusto.  A rimetterci in ogni caso era Lauren.

Quel pomeriggio sembrò non terminare più, chiusa in quel camerino non aveva molto da fare se non starsene seduta sul divano a rimuginare sull’accaduto e su ciò che era in procinto di perdere. Poi qualcuno bussò alla porta e Lauren sbuffò, stanca dei tentativi delle compagne. Stava quasi per mettersi ad urlare di lasciarla andare quando la voce di Camila attraversò la porta, arrivando alle sue orecchie leggermente ovattata. E allora si pietrificò in quella posizione e le sembrò quasi di smettere di respirare. Che voleva?

“Lauren... Per favore, aprimi.” Mormorò la piccola Cubana, dall’altra parte della porta. La mora si alzò molto lentamente dal divano e con passi incerti si avvicinò all’ingresso, poggiando una mano sulla maniglia. Qualcosa dentro di lei però la bloccò, spingendola a far scivolare via le dita. Non avrebbe ceduto stavolta.

Altri colpi di nocca arrivarono dall’altra parte, insieme a un pesante sospiro.

“Lo so che ci sei, le altre mi hanno detto che non esci da qui da tutto il pomeriggio.”

E tu ti preoccupi di venirmi a cercare solo ora, che manca poco al make up? Credi di farti salvare dalla campanella?

Lauren mise a tacere la solita versione di se in miniatura, come era ormai abituata a fare e poggiò la schiena al muro, proprio di fianco all’ingresso.

“Va sempre a finire così.” Mormorò la piccola Cubana.

Solo che ogni volta la passi liscia.

“Perché te la sei presa? Lasciami capire... In genere non ti importa.”

Sei una stupida, Camila. Non capirai mai.

“Ti prego, aprimi.” La giovane Cubana bussò ancora, stavolta più forte, facendo sussultare Lauren, che nel frattempo si era accovacciata a terra, con lo sguardo fissò sulla moquette. La sentì sospirare ancora dopo qualche secondo di silenzio.

“Mi dispiace, non sai quanto.” Il silenzio dei minuti seguenti le fecero comprendere che la giovane se n’era andata. Probabilmente avrebbe anche avvertito i suoi passi se non fosse stata così impegnata a cercare di decifrare quelle ultime parole. Era una semplice scusa, ma il suo tono di voce, sembrava celasse qualcos’altro. Ma forse era solo la sua mente, che si sforzava di vedere cose che non esistevano nemmeno.

 

 

 

 

 

N.D.A.

Non credetemi mai quando vi dico che cercherò di essere puntuale. Mi scuso per il ritardo colossale, ma ribadisco, la puntualità non fa per me e ho avuto tante gatte da pelare in questi due mesi (DUE MESI) di assenza. Non preoccupatevi, nessun animale è stato maltrattato. Giuro.
Comunque spero che il capitolo vi piaccia e –non- vi prometto che la prossima volta sarò più puntuale! Al solito, fatemi sapere che ne pensate nelle recensioni! Va bene anche una sola frase della genere: “Fa schifo, ritirati.”
Vi ringrazio per essere arrivati fino alla fine del capitolo,
A presto, Elisa.

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