La Sposa del Sole

di flama87
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo REVISIONE ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - Quarto Nuovo dell'Ultima Ide ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 – Buonanotte sorella mia ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 – Quarto Nuovo dell’Ultima Ide ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 - Quinto Nuovo dell'Ultima Ide ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 - Quinto Nuovo dell'Ultima Ide ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 - Quinto Nuovo dell'Ultima Ide ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 - Quinto Nuovo dell'Ultima Ide ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 - Quinto Nuovo dell'Ultima Ide ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 - Buonanotte Serene ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 - Sesto Nuovo dell'Ultima Ide ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 - Sesto Nuovo dell'Ultima Ide ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 - Sesto Nuovo dell'Ultima Ide ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 - Settimo Nuovo dell'Ultima Ide ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 - Settimo Nuovo dell'Ultima Ide ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 - Buonanotte Gambino ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16 - Settimo Nuovo dell'Ultima Ide ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17 - Primo Crescente dell'Ultima Ide ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18 - Primo Crescente dell'Ultima Ide ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19 – Secondo Crescente dell’Ultima Ide ***
Capitolo 21: *** Capitolo 20 - Buonanotte Prima Sposa ***
Capitolo 22: *** Capitolo 21 - Terzo Crescente dell'Ultima Ide ***
Capitolo 23: *** Capitolo 22 - Quarto Crescente dell'Ultima Ide ***
Capitolo 24: *** Capitolo 23 - Quarto Crescente dell'Ultima Ide ***
Capitolo 25: *** Capitolo 24 – Buonanotte Sebastian ***



Capitolo 1
*** Prologo REVISIONE ***


La porta alle spalle di Mizar produsse uno scricchiolio sommesso. Il servo la richiuse non appena gliene diede comando. Attorno a lui, il buio tentò un’avanzata trionfante e il proprio strisciare silenzioso portò con sé una nota di freddo e d’inquietudine. Eppure, al largo dei confini tracciati dalla candela tra le sue mani, non osò farsi avanti. Avanzò a piè sicuro. La piccola fiamma che reggeva strappò a malapena alle tenebre i bordi della mia scrivania. Anche se conosceva il suo studio a menadito, aveva bisogno delle candele sul mobile per scacciare l’ombra incipiente. Illuminato lo scrittoio, si sedette.
Il calore della fiammella gli sfiorò il viso. Abbassò lo sguardo verso la pergamena, che bianca e intonsa era in attesa. Afferrò la penna d’oca. Ma non scrisse subito, poiché il suo animo tremò. Nonostante le candele, sentii un brivido freddo corrergli lungo la schiena. Sobbalzò. Lei era in attesa e Mizar sapeva che stava osservandolo dall’alto del firmamento. Uno spiffero d’aria fredda si levò e quasi spense le luci che lo tenevano al sicuro dall’ombra strisciante. La Notte si era fatta impaziente.
Intinse la penna nell’inchiostro e scrisse:
 
Io sottoscritto Mizar Bordonn, destatomi a Ras Alhague il Sesto Pieno della Settima Ode durante la Danza Solare 9105, non avendo eredi a cui destinare il mio patrimonio, nel pieno delle mie facoltà e capace d’intendere e di volere, dispongo quanto segue: la somma mille Raggi a mio fratello Alcor; settecento Raggi e le schiave Fiona e Celine a mia sorella Hilda; di cinquecento Raggi e la libertà al mio servitore Aulix; duecento Raggi al giardiniere Aaron e allo stalliere Ygrid; lo schiavo Gregor e questa mia Casa all’Ordine.
Al Sommo Cardinale d'Agosto, Sua Santità Urbano VI, rivolgo invece questo mio atto di abiura, in ginocchio affinché siano accolte le mie suppliche. Possa il Custode della tradizione e della fede volgere il suo sguardo su di me; la vostra giusta parola abbia Cura delle mie mancanze. 
Giuro di aver sempre creduto, come da sempre credo, in tutto ciò che l’Ordine predica, insegna e tramanda. Ammetto di aver osato divulgare false nozioni, pur avendo già ricevuto ammonimenti al riguardo: ho parlato, difeso e insegnato falsa dottrina, sia a voce, sia per iscritto.

Avendo io mancato al rispetto delle sante leggi che ci governano chiedo a voi, magnifico e giusto vicario del Dio Sole, di non macchiare delle mie colpe anche coloro che hanno l'unico torto di avermi conosciuto. A voi, che siete il pilastro dell’umanità, con cuore sincero e sincera fede rivolgo questa mia abiura: io rinuncio e maledico le mie eresie! Giuro di non aver tentato, se non per sciocca frivolezza, alcunché contro la Santa Istituzione e di non aver avuto alcun contatto con eretici o ribelli.
Ma la mia colpa è grande e io desidero sincerarvi delle mie intenzioni: in nome delle giuste tradizioni, ecco che io verso il mio sangue. Questo martirio e queste mie parole siano prova inoppugnabile, davanti a Voi e al nostro radioso Dio, della profondità della mia devozione e della sincerità del mio pentimento. E possa il Dio Sole avere pietà di me.
 
Mizar Bordonn, nobiluomo di Settembre
Sesto Pieno dell’Ultima Ode
9149° Danza Solare
 
Puntellò i gomiti contro la scrivania. Si massaggiò la fronte con piglio nel vano tentativo di scacciare l’angoscia che lo attanagliava. Si alzò adagio. Di colpo ebbe tutto il tempo del mondo. Ma ebbe la sensazione di essere poco più che uno spettatore di ciò che era già stato e non di quel che sarebbe stato. I suoi occhi non avanzarono oltre i confini di quel testamento.
Un fremito lo travolse. Si piegò, sconfitto da un feroce prurito, ma non lasciò sfuggire nemmeno un lamento. I suoi servitori non dovevano sospettare o, peggio, intervenire. Arrancò, allontanandosi dal mobile. Aprì un cassetto. L’uomo che vide riflesso nella lama del coltello era poco più di uno spettro. I suoi occhi sofferenti anelavano meritato risposo.
Cercò ansante la vasca, unico rimedio contro i suoi patimenti. Lo schiavo Aulix l’aveva preparata poco prima, in previsione di uno dei suoi ormai noti attacchi. Non si svestì: non c’è n’era bisogno. Prima un piede, poi l’altro; l’acqua calda aggredì la sua malattia senza indugio e il sollievo rinfrancò lo spirito come un balsamo. Era per metà già dentro la vasca, quando il calore lo strappò alle ignobili sofferenze. In uno scatto di lucidità, il suo animo comprese che lei gli aveva offerto forse l’unica fuga possibile dalla sua situazione. Guardò il polso destro, poi il sinistro: la scelta era ininfluente, ma gli piacque pensare che nascondesse un qualche significato.
Incise con un gesto netto i polsi e l’interno coscia. Strinse i denti, mentre il sangue sgorgava copioso dalle ferite e tingeva di rosa l’acqua. Lasciò cadere il coltello oltre il bordo e affondò le braccia nella vasca. Scivolò in un languore imperante, cedendo poco a poco tutte le sue forze alla Notte. L’indomani sarebbero state ben chiare le cause della sua dipartita, ma non le motivazioni: quelle le portò via con sé.
 
*
 
Quando il mondo decise si crollare sulle deboli spalle di Aulix, lo fece senza avvisarlo. Gli si schiantò addosso con veemenza, ma senza fare rumore. Il suo era un silenzio atroce, come quell’urlo che abortì sul nascere.
A stento riuscì ad avanzare. Sentì le forze mancargli e il vassoio con la colazione del suo padrone cadde a terra. Non se ne curò, poiché anche lui scivolò sul pavimento.
«Padrone… che cosa avete fatto?» boccheggiò.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 - Quarto Nuovo dell'Ultima Ide ***


1.1 Tarda lode
 
Padre Undine alzò lentamente gli occhi dalla lettera e sospirò. A pochi passi da lui stava il giovane Aulix, che ben poco comprendeva del profondo significato in quel comune gesto; poiché non vi lesse, nel sommesso alitare della noia, l'apatia che annebbiava gli stimoli del sacerdote. Un sospiro né di dispiacere e nemmeno di sorpresa. "L'ennesimo sogno che si perde a causa delle eresie", volle dire. La sua era divenuta oramai una neanche così velata indolenza, poiché il martirio era divenuto da molte danze una costumanza; era la consuetudine di un popolo messo alla gogna, per colpe che spesso non aveva. Sicché, così tanti erano stati i Riti del Riposo che padre Undine aveva dovuto officiare, che ne perse già da giovane il conto. Quella lettera che stringeva poi tra le mani, originale nel suo contenuto ma al tempo stesso simile a tutte le altre, non faceva che aggravare in lui quel senso di totale disinteresse per la vicenda.

Nel mentre, Aulix, sì frastornato, non smise di volgersi con lo sguardo al sacerdote. Poiché questi non aveva letto ad alta voce il contenuto della lettera, il giovane si riscoprì intento a indagarne l'aspetto: il sacerdote era probabilmente desto da ben sessantacinque danze, alto nella media, pur avendo il corpo tozzo, forse aggravato dagli acciacchi; la lunga barba e lo sguardo torvo gli conferivano un alone di saggezza e venerabilità; i capelli bianchi erano coperti da un pileolo bianco a sette spicchi, in simbolica rappresentazione del dio Sole. Sulle spalle indossava la tipica mozzetta nera, come la notte, di chi officiava il Rito del Riposo. Il contrasto tra il pileolo e la mozzetta era quasi certamente voluto e studiato, poiché trasmetteva in Aulix tutto lo splendore del divino Sole che irradia la sua luce nel buio della notte. Ad accompagnare le membra stanche del sacerdote, infine, stava in una mano il bastone del pastore: un lungo manufatto di legno, finemente lavorato, con all'estremità superiore un meraviglioso lapislazzuli. Il colore blu intenso della gemma, unito magistralmente alle inclusioni di pirite, suscitavano in chiunque vi posasse lo sguardo la sensazione di ammirare la Grande Casa del Cosmo.

Frattanto, con superficiale rapidità, quasi avesse i rintocchi contati, Undine ripiegò la lettera e la consegnò ad una delle due guardie, che con lui erano giunte al capezzale di sua eccellenza Mizar. Le ultime volontà del nobiluomo scivolarono nel buio di una borsa in cuoio, mescolandosi tra tante altre scartoffie. "Chissà quanto sogni spenti stanno lì rintanati", si chiese Aulix, senza realizzare pienamente la tragicità di quella sua preoccupazione; lo sgomento per l'accaduto ancora lo frastornava, come se avesse subito un duro colpo di maglio alla nuca e si fosse ripreso molto più tardi, col dolore alla testa che gli si stringeva alle tempie, lasciandolo più intontito che immobile. Il perché e il come ancora gli sfuggivano tra le dita della comprensione.

A padre Undine non parve interessare quel disorientamento, tanto che, quasi senza preoccuparsene, tentò di scuoterlo dal suo silenzio.

«Sei tu Aulix?»

«Io...»

Le difficoltà che il giovane incontrò nel rispondere esortarono il sacerdote a ritentare, con più decisione.

«Sono costernato di dover imporre fretta ma il tempo stringe. Sforzati» fece, gravando con la voce e ripetendo la domanda affinché l'altro si scuotesse dal suo torpore: «Sei tu Aulix?»

«Sì, sono io».

«Puoi dunque assicurare con certezza, giurando di non mentire, che costui, qui presente, era Mizar Merak?»

Per la seconda volta, Aulix non riuscì a rispondere. Non subito, almeno. Si era girato verso le spoglie del suo padrone, cosa che aveva evitato fino a poc'anzi; e lo vide che stava ancora riverso, non più desto, nella sua vasca. Da lungo tempo tormentato da una misteriosa malattia, e perseguitato da sgradito prurito ovunque si recasse, padron Mizar aveva tentato di lenire i fastidi e i dolori immergendosi sempre più frequentemente nell'acqua tiepida. Non trovò mai il sollievo che cercava. Tuttavia, nella sua ingrata sorte, il divieto di lasciare i propri alloggi, che gli era piovuto addosso negli ultimi tempi, lo aveva esentato dai continui viaggi, durante i quali la sofferenza per quel male pruriginoso, che soleva sorprenderlo in qualsivoglia occasione e luogo, era divenuta insostenibile. Con il tempo aveva prolungato la sua permanenza nella vasca, tanto da non uscirne per interi rintocchi, fino a che non vi aveva perfino esalato l'ultimo dei suoi respiri. Così ora era disteso nelle acque raffreddate e rossastre, con la mano destra che scendeva oltre il bordo e verso il basso, stringendo ancora con tenacia una penna d'oca. L'altra mano era invece lì dove il sacerdote aveva trovato la lettera: su di un mobile di legno che fiancheggiava la vasca, usato come appoggio per il calamaio; lo stesso era stato rovesciato quando era stato preso il foglio. Nessuna goccia sfiorò la lettera, bensì gocciolò sul pavimento disegnando una imprecisa costellazione. I chiari e vistosi segni di taglio sui polsi, e il coltello insanguinato in terra, non lasciavano dubbi su cosa avesse cagionato l'assopimento di sua eccellenza Mizar.

«Devo inviare una lettera a mio padre, potresti portarmi l'occorrente per scrivere?» aveva chiesto ad Aulix verso i tardi rintocchi della lode. Il servo gli aveva diligentemente consegnato il necessario, più una tovaglia verde che coprisse l'asse di legno usato come scrittoio di fortuna. Si maledì per aver obbedito.

«Per tutte le Idi di Bronzo!», gridò lo sguattero Gregor, probabilmente più preoccupato della sua sorte, piuttosto che per la sorte del suo signore. Si liberò quindi in una fuga forsennata, mentre ancora imprecava.

Undine tossì, per incalzarlo.

«Si. Confermo e giuro di riconoscere il qui presente Mizar Merak».

Il sacerdote volle poi farsi indicare dove si fosse diretto Gregor e Aulix si sentì di tradirlo, ma dovette acconsentire:

«Sarà certamente in giardino, sul piccolo altare eretto in ricordo di sua madre Giuditte». "Tanto buona quanto sfortunata".

Undine fece cenno ai soldati di non dimenticare che il giovane schiavo doveva seguirli presso la Grande Cattedrale, una volta terminato il Rito. Aulix poté solo immaginare cosa ne sarebbe stato di lui: figlio di una schiava, assopitasi per farlo destare, Gregor aveva ben poco valore per la società. Il figlio irregolare di una schiava, anche di una che subisce violenza, era poco meno di un oggetto; nessuna libertà gli si poteva restituire, agli occhi intransigenti della legge.

«Abbiate a mente, Aulix, che se le vostre parole contengono menzogna; se avete testimoniato il falso; se costui non è messer Mizar; se per qualsiasi ragione doveste trovarvi in difetto, pur avendo giurato davanti al divino, sarete severamente punito».

«Non v'è menzogna nelle mie parole», ribatté con sicurezza.

Undine bofonchiò qualcosa. Un soldato prese nota. L'altro allentò la presa che teneva sull'elsa. Aulix li guardò, senza comprendere. Quelle vecchie regole dell'Ordine sfuggivano alla sua comprensione. Ebbe ricordo delle spiegazioni del suo signore, eppure ogni sua parola gli parve mischiata in dosaggi irragionevoli: non poté mettere a fuoco le nozioni tramandategli, per cui non capì cosa stessero facendo. Si domandò, al fine delle sue tribolazioni, a cosa servisse la sua testimonianza, se il corpo del suo padrone era lì, davanti a loro. Il dubbio però fu presto soverchiato dal crescente astio che provava per il sacerdote e la sua scorta: "padron Mizar non è un nobile di campagna, ozioso ed opuleto! Dovrebbero portargli rispetto!".

«Sapete dirmi da quanti rintocchi è assopito?» continuò Undine.

Aulix non seppe rispondere immediatamente. L'ipotesi che avesse tardato ad avvisare l'Ordine, meritandosi dunque gli sguardi torvi dei presenti, lo raggelò.

«Siete consapevole che ritardare il Rito del Riposo è considerata una grave mancanza? L'Ordine non ammette ignoranza» tuonò un soldato.

Il giovane però, nonostante la confusione, fu scaltro e lesto a rispondere; si cavò dagli impicci così: «Siete stati avvisati immediatamente. Ciò non toglie che io abbia scoperto il suo stato in ritardo, questo lo ammetto».

«Non pare comunque essersi assopito da molto, a giudicare dalla temperatura del corpo» aggiunse l'altro soldato, che frattanto si era apprestato a sfiorare le spoglie del nobile.

«Vogliate perdonare la mia insistenza. L'Ordine non transige, né il Divino per suo mezzo» affrettò Undine.

Parlando del divino, il Sole era ormai prossimo ad innalzarsi verso il punto più alto del suo trono, in cielo. Aulix fu meravigliato della rapidità con cui i rintocchi della lode erano trascorsi.

«Avete detto di non averlo scoperto subito in questo stato, come mai?» imbeccò un soldato.

Aulix incalzò rapido. «Il mio signore era solito cadere in falsa dormita, ancor più da quando era costretto a trovare ristoro nella sua vasca. Perfino con il divino al massimo bagliore. In queste ultime Idi era riuscito a fingersi nel sonno anche nei rintocchi più assolati: per questo non ho avuto motivo di dubitare che stesse fingendo il sonno, interrompendo la sua scrittura; inoltre aveva chiesto di non essere disturbato!» Eppure, a metà del suo discorso, si sentì come se stesse giustificandosi a se stesso, non all'Ordine. «Come sempre, questi sono i rintocchi in cui il mio padrone è solito pranzare. Ho bussato e l'ho chiamato ma, non ottenendo risposta, dopo continui tentativi, sono entrato con la forza per scoprire così il misfatto».

Undine fu incuriosito dall'accaduto: le vicende che nascevano quando un uomo sceglieva di assopirsi erano forse l'unico brivido di novità che gli restava, nella consuetudine dei suoi compiti liturgici. Perché l'unico fattore che cambiava per ogni Rito erano soltanto le parole dei testimoni, di chi aveva per primo trovato l'assopito e doveva raccontarne l'accaduto. Così, quando lo ritenne necessario, disse: «Abbiamo esaurito questo primo compito, ora procediamo rapidamente con il Rito».

Aulix si sentì sollevato. Fu come se il sacerdote lo avesse esentato da un lungo ed estenuante interrogatorio. D'altronde, quante volte si era vociferato di schiavi, che irretiti e incattiviti, s'erano sporcati del sangue del proprio padrone? "Ah la libertà, fa fare agli uomini cose tremende!"

L'opera sacra che Undine di lì a poco si apprestò ad operare attirò a se ogni attenzione: sistemò prima l'incenso, che passò a spargere con l'incensiere per tutta la stanza; ad ogni oscillazione, sprazzi dorati come piccole stelle sprigionavano dall'utensile e si spargevano assieme al fumo. Ben presto l'energia sacra del sacerdote si avviluppò attorno ai presenti, creando come una cappa mistica. I due soldati presero le spoglie di sua eccellenza Mizar, lo coprirono con un velo bianco e lo depositarono in terra, con le mani congiunte sullo sterno. Adagiato l'incensiere a lato, Undine si accovacciò e porgendo la mano sulla fronte del sopito, recitò:

«In nome di sua maestà Sovrano di Gennaio e con il potere conferitomi dall'Ordine, in qualità di sacerdote di Luglio, invoco il nome del divino Sole; splenda un raggio di luce in questo momento di tenebra; che rischiari il buio e dilegui il male; che il sogno di quest'uomo si elevi tra le stelle e giunga infine alla Sera, ove dimora la pace».

Aulix ammirava il Rito per la prima volta, restando incantato dalla precisione con cui il sacerdote eseguiva ogni gesto, che si conclusero con un canto. Non vi erano parole, eppure il motivetto rappresentava bene la tempesta di sensazioni che il giovane sentiva dentro: da un lato il dolore della perdita dell'amico, dall'altra la speranza che il più gradevole dei suoi viaggi stesse per iniziare. Ed una strana energia pervase la voce del sacerdote, come se, in quelle note, una arcana magia stesse animandosi tutt'attorno.

Terminato il canto, seguitò un gesto solenne: Undine dapprima disegnò il simbolo del Sole sulla propria fronte, quindi impose il palmo della mano sul petto del sopito e, come d'incanto, il simbolo da lui disegnato apparve, in un bagliore dorato, lì dove la mano premeva.
Che il cerchio danzante del Sole si completi;

e così le sue calde spire.

I raggi di questo incantesimo splendano su di me.

L'arte del Rito è qui dispiegata intorno a noi.

L'arte del Rito che dona la pace.

Noi che dalla notte veniamo e alla notte torneremo:

a te sempre domandiamo di condurci verso la Sera.

Veglia su di noi.

Queste ultime parole fecero inabissare il simbolo lucente nel corpo di sua eccellenza Mizar, che di colpo prese un colorito più roseo e parve brillare di una fioca luce propria. Frattanto, i soldati presero a completare i loro ultimi compiti: assicurarsi che il Rito avesse avuto successo. Non prima di aver ripetuto "veglia su di noi", in coro. Completato il Rito, Undine parve improvvisamente volersi dileguare. Divenne ancora più frettoloso nel fare, arraffone nel modo di parlare; era visibilmente smanioso di andar via. Aulix si sentì ancor più incollerito da quel suo modo di fare.

"Un uomo buono come padron Mizar non dovrebbe necessitare il lavoro sciatto e svogliato di questo sacerdote! Meriterebbe di giungere alla Sera subito, ne è sempre stato degno!" pensò, trattenendosi dal gridarlo anche ai presenti.

Nella marea dei suoi pensieri concitati, il sacerdote lo sorprese: «Con il potere conferitomi dal Sovrano di Gennaio, in rispetto alle ultime volontà del tuo padrone, io ti dichiaro un uomo libero».

Si avvicinò quindi al giovane e si fece consegnare dai soldati le chiavi universali, con cui era possibile liberare ogni schiavo dai bracciali del possesso: quegli ornamenti in ferro nero che indicavano l'appartenenza di uno schiavo ad un padrone. La chiave girò due volte in una piccola fessura, facendo scattare un meccanismo che aprì in due parti i bracciali. Aulix li guardò tintinnare sul pavimento, ammirando lo svanire del suo nome che da sempre era inciso a lato del bracciale sinistro. Quella scritta magica serviva a riconoscere uno schiavo, qualora fosse scappato, così da ricondurlo dal padrone; o a risarcirlo, se questi fosse stato assopito per qualsivoglia motivo. Aulix tuttavia non si sentì felice. Gli anni suoi più belli li aveva vissuti al servizio di sua eccellenza Mizar, mentre ora, improvvisamente, lo spettro dell'ignoto e della libertà bussavano crudelmente alla sua porta. "Cosa teme di più un uomo se non l'incertezza del domani?"

«Con il potere conferitomi dall'Ordine, elevo la richiesta di abiura richiesta da quest'uomo alle alte cariche e, se il divino vorrà, egli sarà liberato da ogni accusa. Il mio compito termina qui».

Sua eccellenza Mizar era conosciuto in virtù della sua fama come grande studioso. Aveva partecipato a numerosi banchetti e incontri di studio; aveva tenuto prestigiose lezioni nelle più famose cattedre del regno. Aulix lo aveva sempre fedelmente seguito ovunque, anche nel buio delle sue ultime danze. Mai aveva creduto alle accuse che avevano indirizzato al suo padrone, né sapeva chi potesse averlo sbugiardato agli ufficiali dell'Insonnia. "Fu un giorno qualunque che i soldati si presentarono armati alla magione, lo prelevarono di forza nonostante la sua salute cagionevole, e lo riportarono qualche suono più avanti in condizioni pietose: ferito e visibilmente provato. Vittima di torture". Da quel momento tutto era precipitato. Il suo padrone era stato lentamente e progressivamente relegato nella sua magione, non più desiderato tanto nelle facoltà di studio che nei circoli della nobiltà. Finanche le bocche affamate e i mendicanti non gradivano la sua elemosina. Alcuni schiavi segretamente ingiuriavano il proprio servigio preso di lui, come fosse una maledizione da cui non si potesse sfuggire.

«Chissà quale follia lo avrà portato a gettare via il suo prestigio con così sciatta volontà!» bisbigliò un soldato.

«Povero sogno caduto nel disordine», gli fece eco l'altro.

Aulix restò immobile. "Come osano!" La collera di prima trovò nuovo vigore, eppure rimase congelato sul suo posto. Benché non sopportasse l'idea che si parlasse così male del suo padrone, come si fa con un vile o un assassino, fu ben consapevole che poco valore aveva il suo giorno per intentare una qualche discussione con un esponente dell'Ordine e la sua scorta armata. Avrebbe avuto più speranze di successo nuotando in un mare di fiamme. Così improvvisamente realizzò cosa fosse quel senso di impotenza che doveva aver travolto il suo signore. Quella sensazione di ineluttabilità che aveva pervaso ogni suo gesto e parola: "del suo dramma solo ora sono consapevole". Eppur ci aveva provato. Oh se ci aveva provato! Ma non era riuscito ad afferrare appieno il male che aveva divorato il suo padrone, trasformandolo da un uomo pieno di vita ad un'ombra lamentosa.

In quel preciso momento, Aulix non aveva potuto fare a meno di frenare il sopraggiungere, con rinnovato affetto e immensa malinconia, del primo ricordo che serbava di sua eccellenza Mizar: quando, in compagnia di sua sorella, lo scovò nel mercato degli schiavi. Rammentava con vivido fervore che il giovane nobile discese dalla carrozza afflitto in volto. Era originariamente diretto ad un galà ma aveva ordinato al cocchiere di fermarsi, quando aveva intravisto un volto fin troppo fanciullesco nella sfilata di uomini seminudi, esposti al caldo sole di quel Settimo Nuovo dell'Ide d'Oro. L'odore di sudore elevato dagli schiavi doveva aver pizzicato il suo naso, poiché la giovane Hilda aveva prontamente elevato un fazzoletto a difesa del volto; e Mizar, invece, si diresse fulmineamente verso il suo obiettivo. Giunse al cospetto del mercante e subito si fece consegnare i documenti di Aulix, commentando:

«Questo documento riporta come data del primo mattino la danza solare numero 9'126, precisamente il terzo primo quarto dell'ultima Ide. È la data giusta?»

L'uomo trasalì. Erano ben trecentosessantacinque danze che era in vigore il divieto di compravendita di donne e bambini, così come di uomini che avessero superato le quaranta danze solari. Il caso di Aulix era anche più particolare: nonostante avesse a malapena quindici danze, e il limite imposto dalla legge era a diciotto, era stato venduto con documenti falsi e riportavano, dunque, una data errata. Mizar, che conosceva bene questa pratica illegale, volle indagare.

«Ma certo che lo è!» rispose il mercante.

«Non rammento di aver rivolto a voi questa domanda. Aulix è il tuo nome, giusto? Quante danze hai visto fino ad oggi?»

Lo schiavo fu sorpreso ma rispose rapidamente «Quindici danze, vostra eccellenza».

«Quindici danze!» Il mercante deglutì rumorosamente; Mizar incalzò: «Messere avete idea del reato che state commettendo?»

«Vostra eccellenza, non vorrete dar più peso a lui che a me?»

«In altre circostanze no. I miei occhi, tuttavia, sono più scaltri della vostra lingua biforcuta. Questo giovane a malapena possiede la peluria di un uomo, bensì è più che visibilmente un fanciullo che sta sul finire del suo mezzodì».

«Potrei aver commesso un errore nell'acquistare questo schiavo ma non ne ero consapevole: sono stato truffato!» arrancò l'uomo.

«Voi sapete che sua eccellenza il fu Sovrano di Gennaio, Armeth Sal'olmar, indisse il divieto di vendita degli schiavi sotto quest'età per volere della Sposa di quel periodo, vero?»

Il mercante aveva capito dove Mizar volesse andare a parare, «S-sì».

«Allora ricorderete sicuramente che è ritenuto atto contro l'Ordine vendere uno schiavo giovane come lui, dico bene?»

«Come anche per voi comperarlo!» sbottò il malandrino.

Il giovane Mizar non parve preoccuparsi. «La legge mi consente di prendere in custodia questo giovane e di poterlo ospitare nella mia tenuta, salvo poi acquistarlo a metà del suo prezzo quando vedrà la diciottesima danza».

«E voi siete disposto a ciò? Per una merce scadente? Un buono a nulla?» fu sorpreso il mercante: tale atto illecito era ben presente nel regno poiché, nonostante il divieto e le possibilità concesse ai nobili, nessuno aveva mai avuto interesse nel sottrarre un giovane schiavo alla bocca vorace del mercato.

«Badate messere che la differenza tra voi e lui è molto esigua. La sfortuna di quel giovane è il ritrovarsi dal lato sbagliato della pedana, ma potreste finirci in futuro se continuate a incalzarmi in questa discussione e a costringermi ad informare le guardie dei vostri imbrogli. Vogliamo testare la sorte? Chissà a chi daranno ragione le armi, se a un gentiluomo di Settembre oppure a voi».

Si poteva vedere sul volto di quell'uomo l'umiliazione che risaliva lungo la sua schiena. Sbuffò rumorosamente, si sfregò i baffi neri e fece sconfitto: «Ebbene messere, avete il vostro nuovo giocattolo. Ora sareste così gentile da restituirmi quel documento?»

«Non posso».

«Come scusi?»

«Devo conservare questo foglio come garanzia, assicurandomi che lei non provi a sottrarmi il giovane. Ad esempio, assoldando qualche brigante di fortuna, come spesso accade. Cosa che le sconsiglio comunque: la famiglia Mizar non è tra le più facoltose è vero ma è molto legata all'arma miliare. Vi militano molti valorosi soldati della nostra casata. Il nostro vanto, il mio illustre fratello, è perfino capitano della seconda guardia reale di sua maestà».

Il mercante grugnì.

«Vi auguro buona giornata. Vieni Aulix, seguimi».

Il giovane fu scosso dai suoi ricordi, ritornando alla triste realtà. "I miei giorni felici assieme al padrone sono terminati". Aveva adesso la libertà di recarsi ovunque desiderasse, eppure, dentro di sé, desiderava rimanere esattamente dov'era. Una lacrima solcò il suo volto al pensiero. Il sacerdote, notando la commozione del giovane, fece cenno ai soldati di ritornare sui propri passi. Aulix alzò lo sguardo e gli parve ora che i contorni di questi uomini fossero diventati tanto imprecisi da rassomigliare a personaggi secondari di una storia, quelli che sono facili da dimenticare poiché anonimi.

"Quanto vorrei dar loro un pugno sul naso!", pensò.

«Il nostro lavoro qui è finito», fece Undine. Dal suo tono di voce parve quasi esausto per il rito compiuto, come se avesse prosciugato una qualche energia residua presente presso di lui. Prima di congedarsi del tutto, i soldati si fecero accompagnare dove Gregor si era rintanato. A malincuore Aulix obbedì, sentendosi un traditore mentre trascinavano via il ragazzetto. Ricevette anche un sonoro ceffone, affinché smettesse di berciare e dimenarsi. Ciò nonostante, Gregor avrebbe avuto certo vita migliore come accolito dell'Ordine. Chissà che non arrivasse perfino a farsi un nome: l'unica prerogativa di un membro del culto era la sua fede. Sempre che Gregor ne trovasse dentro di sé. Intanto, fu caricato goffamente in spalla. "Come un sacco di patate". No, almeno i sacchi di patate non erano così sgradevoli.

«Si dimenano tutti. La vita nell'Ordine è spaventosa, a quanto pare». La guardai che lo teneva ben fermo scoppiò in una risata maligna ma breve.

«È allergico al latte» rivelò Aulix. "Che almeno non lo avvelenino". «Gli causa gravi problemi».

«Se ti cruccia il suo destino», fece Undine, «sappi che per cinque danze mangerà pane integrale, berrà acqua del santo ruscello e vedrà la carne nei giorni di festa soltanto».

"Una dieta forzata forse è anche peggio per il suo gracile corpo" «Sono sicuro che imparerà ad apprezzare l'opportunità che gli state offrendo».

Non era un mistero che Aulix mal sopportasse Gregor. Il sentimento era anche reciproco, dal momento che avevano due visioni distinte di sua eccellenza Mizar: il primo lo aveva in grande affetto ed amicizia; il secondo lo dileggiava di nascosto e lo malediva ancor più segretamente. Di conseguenza, uno non sopportava il carattere dispotico dell'altro, e l'altro additava a lacchè dei nobili l'odiato compagno di servitù. Erano perfino venuti alle mani, sovente. Sua eccellenza aveva sempre tempestivamente provveduto a rimetterli in riga, spesso, se necessario, punendo entrambi severamente. Se nutriva grande amicizia per Aulix, verso Gregor nascondeva grave pietà; e non potendo tuttavia soppesare i suoi due servi in maniera diversa, si costringeva a trattarli in eguale modo.

Nel frattempo, il drappello dell'Ordine stava sgusciando via in un cadenzato silenzio. Aulix li seguì, appoggiando lo sguardo sulle grosse spalle del sacerdote. Era in evidente difficoltà nello scendere la lunga e larga rampa di scale. Afflitto da qualche dolore alle ossa, Undine pianificava ogni passo, sotto lo sguardo annoiato dei suoi due cavalieri. "Ad un uomo di questa età non dovrebbero concedere il riposo?".

Il tintinnare ritmico delle guardie corazzate era l'unica sinfonia che accompagnò il gruppo, facendo dispetto al mesto silenzio che, come gravato da una qualche oscura e famelica pena, parve appollaiato sulle spalle di Undine. Ombre imprecise del passato e le danze impietose avevano reso meno lucente il divino simbolo del Sole che svettava sulla sua mantellina.

Aulix fu sorpreso di vederlo voltarsi, così di colpo. "Cosa vorrà adesso?"

«Ora sei un uomo libero, il che comporta che potrai decidere liberamente cosa fare. Ti rammento che è facile, di questi tempi, cadere schiavo nuovamente. Sei giovane e forse ancora non conosci bene la cattiveria di molti uomini. Ti consiglio di recarti al cospetto di ser Alcor e domandargli ospitalità. Il nobile, per quanto impegnato, potrebbe certamente acconsentire. Oppure, qualora fosse necessario, le porte dell'Ordine sono sempre aperte. Che il divino vegli su di te».

Aulix non rispose. Certo, fu stranito dall'improvviso interesse dell'uomo, eppure non era certo sul da farsi, né fino a che punto le parole di uno sconosciuto potessero essergli di un qualche aiuto. Salutò quindi con gli odori dovuti la delegazione e attese che il divino onorasse i patti: all'imbrunire del cielo sarebbero giunti, puntuali, le Orme Bianche ad occuparsi del rito funebre.

1.2 Inizio dei vespri.

Quando giunsero, Aulix fu sorpreso nello scoprirli così piccoli e minuti. Avevano indosso delle toghe bianche e nascondevano i volti in grandi cappucci. Non superavano di qualche tacca un bambino di dieci danze, ma mostravano l'andatura certa e precisa di un qualsiasi uomo adulto. Non rivolsero ad Aulix nessun saluto, virando con brusca maleducazione direttamente verso le spoglie di sua eccellenza Mizar. Come fantasmi percorrevano l'androne principale senza fare rumore, così che, assieme allo sguardo dei mezzi busti a decorazione delle scale, creavano un ambiente quasi spettrale.

Molte erano le voci che correvano dietro le Orme Bianche. Aulix aveva udito racconti variegati: vivevano sottoterra; scavavano instancabili numerose gallerie e cunicoli; nessuno sapeva da dove sbucassero; chiunque aveva provato a cercare l'ingresso delle catacombe non era mai tornato; custodivano i resti di coloro assopitisi da danze immemori; nascondevano qualche grande segreto, poiché l'Ordine teneva in gran considerazione e cura la loro esistenza; erano spesso accusati di piccoli furti, ma nessuno era mai riuscito a dimostrarlo. Le Orme Bianche avevano compiti assai semplici: pulire il corpo dell'assopito; vestirlo con tonache rituali; recitare in circolo antiche e perdute nenie; disegnare rune antiche sul corpo dell'assopito usando gessi fosforescenti; issare una reliquia sacra -un osso umano- affinché brillasse momentaneamente.

Aulix si sentì quasi tradito. "Tutto qui?" pensò, mentre issavano il corpo di sua eccellenza Mizar su una barella di stoffa e legno. Tuttavia, non appena un raggio di Luna colpì le rune disegnate sul corpo del nobile, esse s'illuminarono d'argento e presero a vorticare, come impazzite, fino a cambiare aspetto. Adesso i resti di Mizar erano marchiati con scritte argentee, che riprendevano i passi del Culto del Tramonto e, quasi certamente, servivano a rassicurare il sogno dell'assopito alla Sera. L'indomani, alle prime luci del divino, Aulix avrebbe notato dappertutto tracce di gesso; piedi che erano andati ovunque e mani che avevano frugato in ogni parte. "Così derubano davvero le case che visitano!" e, a giudicare dalle orme lasciate, non avrebbe avuto dubbi sul perché del loro nome! In quel frangente, però, il giovane non si curò dei piccoli cleptomani, poiché presero solo piccoli oggetti, per lo più vettovaglie, mentre eseguivano l'ultima veglia. Il suo sguardo fu inoltre ancorato alla figura del padrone, trasportato lentamente via. Li seguì in un silenzio religioso finché non fu sull'uscio della villa. Qui, come rapito, alzò lo sguardo e vide la Grande Casa del Cosmo in tutta la sua bellezza; come tante gemme su di un panno nero, gli Dei più grandi e quelli più piccoli splendevano maestosi.

Quell'attimo traditore gli fece perdere di vista le Orme Bianche. Erano svanite chissà dove, portandosi via anche sua eccellenza Mizar. "Dove lo porteranno? Avranno cura delle sue spoglie? Quanto avrei voluto potergli dare un più giusto saluto". Assieme alla tristezza, si fecero largo nel suo animo quei pensieri che, gravanti dal rimpianto, metterono in discussione il suo operato. Poté solo augurarsi che il suo signore giungesse infine nella Sera, oltre le porte della Notte, dove i Sogni degli uomini sono destinati alla felicità eterna e ad ammirare la Grande Casa.

La stanchezza infine lo sorprese. La vista della Grande Casa era eccessiva per molti uomini, per quanto stupenda. L'occhio poteva vagare senza fine, perdendosi nelle remote stanze degli dei. L'uomo però non era abituato a vagare così a lungo, né così lontano. Per questo, a lungo andare, bisognava distogliere lo sguardo dalla Grande Casa e riposare. Aulix faceva certo una singolare eccezione: poteva ammirare la Grande Casa più a lungo di chiunque, e vedere ben più lontano, nelle sue profonde stanze, di chicchessia. Sovente, era certo di sentire un canto provenire dai raggi lucenti del divino. Ma durante i Patti, quando il divino lasciava intravedere agli uomini la Grande Casa, Aulix spesso non avvertiva più il canto del Sole ma un altro, che per quanto faticasse a riconoscere, gli era da sempre parso familiare; e credeva che sovente gli parlasse, sebbene non capisse cosa gli stesse dicendo. Per questo amava guardare la Grande Casa: era convinto che vi fosse un qualche dio solitario, lassù, in cerca di compagnia. "Un pianto malinconico, più che un canto".

Ritornò infine nelle sue piccole stanze. Il silenzio lo accolse e accrebbe il suo malessere. Tuttavia, nelle coperte trovò un sufficiente riparo dal gelo dell'Ultima Ide. Si sistemò per bene, lasciando che le palpebre si chiudessero. Pesavano come macigni.

«Buonanotte, mio signore».

Scivolò nel falso dormire e il sonno che ne ebbe fu carico di nostalgia. 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 – Buonanotte sorella mia ***


Lacrime copiose dalle tinte d'argento scivolavano lungo le guance pallide di Artume. I suoi singhiozzi rompevano un mesto silenzio, intervallato in maniera irregolare soltanto dal suo respiro, anch'esso mitigato dallo sconforto e dal malumore.
Lo sguardo di Gaia, brevemente perso nei meandri delle stelle, ove dimoravano gli altri dei, suoi fratelli e sorelle, si spostò allora su quello più vicino di Artume.
«Non piangere, mia amata sorella».
La sua flebile voce le arrecò ancora più dolore. Issò quindi la mano per tenerle le gote arrossate dal pianto; fece scivolare le dita carezzandole il viso, ammirando come la sua pelle olivastra si stagliasse in perfetto contrasto ed armonia sulla pelle diafana di Artume. Da lì poi si perse per un istante nelle sue iridi dorate: le trovò belle e meravigliose come raramente aveva mai notato prima.
«Se piangi renderai il mio viaggio più gravoso. Non desidero andar via spezzando il tuo cuore. Mi sei cara, sorella, più di ogni altra cosa. Ti prego, non piangere».
Le mani di Gaia risalirono lungo i capelli lattescenti di Artume, per avvicinarla a sé e poterla baciare sulla sua graziosa fronte. Gocce d'argento le bagnarono il volto, ma il suo sguardo di smeraldo non tradì tristezza. Anche se ne covava, nel profondo.
«Io piango, sorella. Piango e non posso controllarmi» ammise la piccola tra le due. «Io piango perché mai avrei pensato che un giorno ci saremmo dette addio. Eppure eccoti qui, ora, che mi abbandoni. Perché? Ti ho arrecato fastidio? Sei stanca di danzare assieme a me?»
Le braccia di Gaia afferrarono il corpo piccolo e paffuto di Artume, stringendola al petto più forte che potesse; le tenne il capo appoggiato sul cuore, baciandole i capelli e carezzandola dolcemente.
«Non ci rivedremo è vero. Ti abbandono e ti arreco dolore, lo so. Ma non vorrà dire che io non sarò vicina a te».
Artume scosse il capo, il suo pianto aumentò. «Non ascolteremo più il canto di Surya assieme», singhiozzò, «e non balleremo insieme. Sarò sola. Ti prego, non lasciarmi».
Gaia prese allora la sorella con delicatezza, alzandole il viso. «Devo andare. So che è una scelta egoista ma sono contenta così. Danzare con te alle note di Surya era più di quanto potessi desiderare ma hanno bisogno di me. Non posso abbandonarli. Sarai sempre la benvenuta, ogni volta che vorrai: la loro casa è anche la tua casa, ricordalo. E anche se non mi vedrai, saprai che io sono al tuo fianco. Lo sarò sempre, mia adorata sorella».
«Vorrei tanto venire con te, sorella...»
La voce di Artume raggiunse Gaia quando oramai ella svaniva lentamente, liberando tutt'intorno quell'incanto per cui si era preparata da tempo immemore.
Mentre la guardava trasformarsi, la giovane sorella si liberò in un ultimo pianto: «Oh sorella mia, che altro ho desiderato nella vita se non stare con te? Con chi danzerò adesso?»
La sua domanda scivolò via nel silenzio. Non seppe mai quanto tempo avrebbe dovuto attendere prima di ricevere risposta. Le fu però immediato quel senso di solitudine che ora le stringeva il cuore, mentre si teneva le mani sul petto. Respirò a fatica. Già le lacrime si asciugavano, lasciandole gli occhi lucidi e il viso imbronciato.
Solo allora si voltò lentamente verso Surya. Era al centro della stanza, immerso come sempre nei suoi pensieri. Le parve che il suo canto si fosse fatto più grave, che stesse piangendo anche lui. Ermete gli era di fianco, come sempre: forse stava provando a consolarlo. Più in là stava Cipride a guardarli con gelosia, perché da sempre voleva Surya soltanto per sé. Così Artume comprese che anche lui, il più grande fra gli dei in quella stanza, aveva segretamente amato Gaia. Che forse avesse cantato per lei per vederla danzare? Ed ora che ella non c'era più, per chi avrebbe cantato? Avrebbe taciuto per sempre?
Così Artume si alzò e prese a ballare. Surya da lontano la notò e commosso riprese il suo canto. Un giorno, chissà quanto distante, avrebbero rivisto Gaia e avrebbero danzato e cantato nuovamente insieme.
«Buonanotte, sorella mia».
Sussurrò.

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 – Quarto Nuovo dell’Ultima Ide ***


3.1 Durante i Patti Solari
 
Il divino aveva da molti rintocchi avviato i suoi Patti quando Undine era giunto dinnanzi le porte di bronzo della Grande Cattedrale, dopo aver attraversato le lunghe vie di Ras Alhague. Nonostante i rintocchi dei Vespri fossero inoltrati, serpeggiava per le silenti vie della capitale un'atmosfera grave e cupa. Un sentimento comunitario di paura e malumore si era instaurato da tempo nella mente del popolino. "Come dar loro torto: la data delle Nozze è vicina e ancora non si è trovata la Sposa".
Di pari passo con l'insicurezza e i timori del basso volgo, anche l'Ordine aveva preso a inferocirsi. Gli ufficiali dell'Insonnia non avevano pace: seguivano perfino le più assurde voci; controllavano chiunque, anche solo con il vago sospetto; non facevano alcuna distinzione tra nobili e poveri, oramai. I loro metodi si erano poi inaspriti a tal punto che, nella convinzione che la forza potesse essere un metodo efficace, avevano preso ad esporre corpi degli eretici e a punirli pubblicamente. Questo aveva creato un clima di terrore e diffidenza, che rapidamente stava crescendo in ogni angolo del regno.
«Ho sentito che la Sposa è nata a nord ma è stata rapita dagli eretici!». Come il vento può alimentare una piccola fiammella nel bosco tramutandola in un incendio, così una voce infondata si era ingigantita enormemente. "Ciò che era una voce è ora certezza" e pur mancavano prove che fosse vero.
Ogni Sposa nasceva allo scadere di trecentosessantacinque danze, ed entro le trenta danze di età doveva sposare il divino Sole, come prevedeva l'antico rito, o tutti gli uomini sarebbero incorsi nel Buio Imminente: il più grande castigo, di cui già una volta l'umanità si sottrasse per intercessione della Prima Sposa. Così era compito di ogni cittadino avvisare l'Ordine e consegnarla ad esso, che fosse ragazza o infante. Questo però non si era ancora verificato, e da allora ventiquattro danze erano già trascorse senza che né l'Ordine e né alcun fosse riuscito almeno a sapere dove ella fosse. Ras Alhague era stata la prima a subirne le conseguenze. Perfino la Grande Cattedrale, sui punti più alti della sua struttura, mostrava i corpi nudi e divorati dai corvi di presunti eretici. Undine non poteva fare a meno di fissarla col volto corrugato, ogni volta che poteva.
La Grande Cattedrale era tra i monumenti più grandi mai edificati dall'uomo: cinque campiture ne annunciavano l'imponente navata, mentre sei contrafforti, doppi all'estremità e intorno al portone principale, erano sormontati da pinnacoli piramidali a scopo ornamentale. Al pian terreno ben cinque portoni forgiati nel bronzo erano sovrastati da finestroni, ognuno coronato da un timpano spezzato; per ordine di sua eminenza, il Cardinale d'Agosto Frederich Bormen, furono realizzati su ogni portone dei bassorilievi. Essi dovevano raccontare al volgo incolto come gli uomini si erano destati dalla notte. Al contrario, i contrafforti laterali e centrali risalivano a danze più antiche: il fu Sovrano di Gennaio, Ilmash Sal'olmar, per festeggiare la nascita della ventiduesima Sposa tra le sue figlie, fece scolpire statue che raffigurassero lei e i suoi guardiani. I tre finestroni, posti a tridente, appartenevano a danze più recenti. Ogni rispettiva mensola sorreggeva le statue delle figure più sacre dell'Ordine: sulla balaustra centrale stavano i Primi Cardinali e la Prima Sposa; sul lato destro vi era inscenato il racconto dell'Alba; il lato sinistro narrava invece del futuro Tramonto.
Erano più di dieci danze che molte parti della Grande Cattedrale erano state utilizzate per impalarvi resti umani. Non era stato tanto diverso anche per molte parti della città, ma la cattedrale, che era nel cuore della capitale, doveva lanciare un chiaro monito nei suoi dintorni. Chiunque poteva vederla, da ogni angolo di Ras Alhague; e ora chiunque poteva vedere che fine spettava agli eretici. Undine ricordava ancora l'animosità del Concilio, ove tutti, tra cardinali, sacerdoti e nobili, si erano riuniti. Era certo che avrebbero preso decisioni affrettate, mosse dall'urgenza e dalla paura. "Non avrei mai immaginato di vederli spingersi così oltre". Ma cosa poteva fare un piccolo sacerdote contro l'Ordine? Perfino la corona si era piegata alla necessità: avevano addirittura consegnato all'Insonnia un nobile della famiglia reale, un pretendente alla corona, poiché accusato di simpatizzare per le eresie.
Sua eccellenza Mizar Merak non era l'unico caso, né l'ultimo. Dentro Undine era accresciuta una notevole indifferenza per ciò che stava imperversando nella capitale, poiché così sovente era rimasto sgomento e disgustato che, al lungo andare, ne aveva fatto orribile abitudine. Il numero di persone a cui officiava un Rito del Riposo era più che raddoppiato. Non si sarebbe meravigliato se gli toccasse eseguirne un altro anche l'indomani.
«Si rechi ai suoi alloggi, padre» gli fece una delle guardie, mentre sistemava il povero Gregor sulle spalle, privo di sensi. Undine si torse un labbro. "Non c'è bisogno di ripetermelo, giovinastro". Sapeva però che la guardia temeva per la propria incolumità: nessun membro dell'Ordine era ancora in condizioni di essere giudicato, mentre una guardia poteva facilmente finire impiccata. Salutò il drappello che l'aveva accompagnato e, con tutta la rapidità dotata a un uomo in avanti con le danze, trasse dalle sacche interne alla toga le chiavi per aprirsi il passaggio. Quindi si incamminò all'interno della cattedrale, sfuggendo con lo sguardo tra le numerose statue che impreziosivano le colonne e gli archi delle quattro navate laterali, ognuna leggermente decrescente affinché, dalle piccole finestre ad arco acuto, sopra gli archi di volta, sopraggiungesse tenue e diffusa la luce lunare.
Undine scivolò tra i capitelli monumentali a nicchie e alle cuspidi con statue, alcuni dei quali a doppio registro, che decoravano i pilastri, di cui alcuni decorati con motivi floreali, lungo la navata centrale, il transetto e infine l'abside. L'incredibile insieme d'arte e sculture non sembrava suscitare più nulla nel suo animo, benché si soffermò, come d'abitudine, dinnanzi al grande altare centrale. Quivi recitò una breve preghiera e disegnò il simbolo solare sul petto e sulla fronte. Quindi si soffermò e s'inginocchiò in contemplazione; il peso delle danze gli si aggravò indosso, sotto forma di dolori alla schiena e al costato.
Undine non era però sempre stato così, vecchio e malandato. Né aveva vissuto attendendo la notte, nell'apatia di un presente noioso seppur incerto. Come tutti era stato giovane: amava divertirsi; possedeva abbastanza danari per sollazzarsi come voleva; i suoi capelli erano di un biondo intenso; il fisico snello e atletico. Tutte queste cose le aveva perse un triste suono, consumatosi per le vie della capitale. "Oh Divino, tu che di luce eterna splendi, perdona i miei peccati. Veglia su di me".
 
3.2 Molte danze addietro
 
Quand'era un giovanotto, secondo mattiniero della sua casata, Undine era solito prendere per sfida anche gli scherzi più folli e per divertimento le peggiori angherie. Tutto era necessario affinché il vuoto dei suoi giorni fosse riempito in qualche modo. Tra le tante cose per cui era famigerato, c'era il suo animo libertino nei riguardi delle donne. Giovane e guascone, abile nel corteggiare come lo era con la spada, entrava nelle sottane di una donna come fossero un trofeo di cui poi vantarsi; quanto più esse apparivano un bersaglio ostico, tanto più l'eccitava l'idea di condurle sotto le lenzuola. Così un suono decise di puntare i suoi artigli su una fanciulla di una casata in decadimento.
Qualche amico gli aveva sconsigliato tale bravata. Più volte gli avevano rammentato che ella fosse già promessa sposa ad altri, e che la sua famiglia contasse grandemente sulle nozze per rimpolpare il prestigio andato perduto. D'altronde, gli dicevano, c'erano donne di basso volgo disposte alle peggio nefandezze per un quarto di Raggio. Non era ciò che facevano un po' tutti? Undine poi aveva già posseduto donne in grave povertà, e già era padre di bastardi dei quali nemmeno conosceva la sorte. Tuttavia, a questi consigli Undine era solito rispondere: «Anche qualora mi cacciassi nei guai seri, mio padre certamente verrebbe dalla mia parte: egli mi ama più di ogni cosa. Sono il suo figlio prediletto! Niente potrà nuocermi». "Che sciocco che sono stato! Avessi ponderato meglio le parole dei miei amici, forse ora avrei passato le mie danze diversamente?"
La miglior occasione per colpire avvenne di Flauto, durante un gran galà. Tra balli e musica, Undine non badò a cerimonie per circuire la giovane Marianne e, notandola in imbarazzo, ancora innocente del mondo e degli uomini in generale, ne approfittò per incantarla: come ogni ragazza nobile nel fiore delle proprie danze, anche Marianne desiderava conoscere l'amor cortese, la romanticheria, i gesti d'affetto; e temeva invece del freddo del suo matrimonio combinato, che certamente, com'era stato per i suoi genitori, non serbava alcun frutto d'amore.
Così ben presto la damigella degli Ilhva credette di vedere in Undine quel sentimento così forte per cui, sovente, ci si lascia andare. Se ne tenne bene dal rivelarlo, tuttavia. Seppur nella nobiltà l'adulterio era pratica comune, esso era però un gioco e un diletto, da fare di nascosto e con qualche garzone o servo o serva aitanti; era però convinzione che giammai si dovesse tradire la promessa del matrimonio, che, agli occhi delle grandi casate, due futuri sposi dovevano dare esempio di grande rettitudine. Eppure, se da un lato la fanciulla Marianne era desiderosa di rispettare il volere paterno, dall'altro il suo cuore giovane fremeva di conoscere l'ardore che le avvampava nel petto. Undine, dal canto suo, non di certo era interessato all'amore dello spirito, bensì alla passione della carne. Si creò così tra i due un gioco feroce e meschino: lei era certa di misurare il suo amore, lui era sempre più impaziente di averla.
Così una notte, stanco di corteggiarla, il giovanotto ebbe idea di arrampicarsi sul balcone di lei e presentarsi nella sua camera, superando agilmente le guardie di sorveglianza. Marianne, nel vederlo, sussultò dalla sorpresa ma ben presto si ritrovò in preda al terrore. Undine le fu subito addosso, rivolgendole parole focose ma volgari. «Spogliati» le diceva «desidero possedervi qui nel vostro letto». Certo non poté immaginare che lei, di colpo, prendesse a urlare con quanto fiato avesse in corpo.  Lui rapidamente reagì premendo la sua mano sulle labbra di lei, mentre con l'altra andava goffamente spogliandola, tirando fuori dai calzoni il suo membro.
In quel momento fece irruzione il fratello maggiore di lei, Frensis Ilhva, che a spada tratta si dimenò verso di lui. Undine fu però più lesto e, colpendolo al viso, lo spinse via con foga e corse sul balcone. Seminudo e con una mano che reggeva il pantaloni, balzò verso un cespuglio e vi cadde in maniera scomposta, ma senza riportare gravi ferite. Barcollante, gridò a gran voce per farsi aiutare dai suoi soldati, che irruppero in numero e in gran forza. Seguendo i rumore e gli schiamazzi, sua eccellenza Olens Ilhva e suo figlio Frensis li raggiunsero presto nei giardini ove ebbero un feroce battibecco.
«Voi, vile che non siete altro, cosa avete a dire a vostra discolpa?»
Nonostante fosse nei guai, Undine non si lasciò intimidire: «Che avrei voluto godere di una notte con la fanciulla».
Un rumore di spade sguainate con forza dal fodero ruggì sotto i Patti del Divino, mentre tutti gli dei del firmamento e il volto pallido della Luna stava a guardare.
«Dovrei tagliarvi la lingua sul posto, verme che non siete altro!» gridò Olens.
«E pensate che mio padre, sua eccellenza Lionel Basile, vi lascerà andare via impuniti?»
Un freddo silenzio li fulminò, tutti. Quel nome fece raggelare il sangue a ogni presente, cosa che Undine sapeva bene.
«Una casata piccola come la vostra, sull'orlo del decadimento, non ha i mezzi per sostenere una causa. E auguratevi che sua eccellenza mio padre non desideri risolvere la questione all'arma bianca. In quel caso, quanti uomini contate? Dei miei fedeli ne conto molti: di mercenari posso averne quanti me ne pare. E voi? Potete dire lo stesso?»
Era certo di averli colpiti dove più faceva male. Era sicuro che non avrebbero ribattuto, consapevoli di quale guaio poteva essere attaccare il rampollo dei Basile. E così, sotto lo sguardo sorridente di Undine, li vide cedere il passo. Prima di andarsene, volse uno sguardo fugace a Marianne che lo guardava da lontano, sul balcone.
«Per il futuro, io vi dico, tenete la vostra figliola di guardia. Sapete, non che abbia posto grande resistenza prima di questi Vespri. Buonanotte».
"Quanto male avrò causato a quella povera donna? Quale malvagità muoveva il mio animo: ero così giovane eppure così maligno". Se per Undine le cose si poterono dire concluse con quella vicenda, non fu così per gli Ilhva, che videro sfumare la promessa di matrimonio e ogni sforzo fatto per risollevare le proprie finanze. Nella sua cieca collera, sua eccellenza Olens divenne feroce e violento nei confronti della figlia, nonostante il fratello intervenisse spesso per calmarlo. Tale situazione si accrebbe a tal punto che la giovane, presa da sconforto, decise di saltare dal punto più alto della sua magione e si assopì in maniera assai brutale. Accecato dall'ira e distrutto dal dolore, Frensis si rivolse per risolvere l'umiliazione con un regolare duello. Undine, tuttavia, si dimostrò freddo e disinteressato.
«E perché vi dovrei sfidare? Vostra sorella ha messo fine ai suoi giorni non certo per causa mia. Non è forse vostro padre la causa? Sfidate lui a duello!»
Credette Undine di aver nuovamente evitato la tenzone, ma la sua giovane arroganza si concluse il Terzo Calante dell'Ultima Ide. Era d'intorno per la città come al suo solito, circondato da poche guardie e qualche amico, quando da un vicolo sbucarono in gran numero Frensis e un drappello di mercenari, accerchiandoli. In un primo momento si imbeccarono soltanto.
«Vile e codardo! Vi siete macchiato dell'onore e del buon cuore di una fanciulla. Cosa ne avete da dire a discolpa?» ruggì Frensis.
«Che gli dei non mi hanno concesso una notte con lei!» ripeté Undine.
«Come osate parlare così della mia amata sorella. Non avete dunque rimorso? Non sentite il vostro sonno sporco dalle vostre malefatte? Di quante donne avete spezzato il cuore e causato il sonno eterno?»
Undine gli rispose in tono arrogante: «Voi avete cura di ricordare quante volte avete masticato il vostro pranzo?»
«Insolente! Ringraziate che la mia spada vi abbia già chiuso la bocca».
«Se le minacce vostre fossero ben più che misere parole, ora sarei davvero assopito e riverso in terra. Però le vostre parole altro non sono che parole, ed esse non bastano per fare alcunché».
Frattanto le guardie d'entrambi erano rimaste in attesa. Tenevano però già pronta la mano sopra l'elsa delle spade, poiché erano sicuri di doverle sguainare assai presto. E sempre nel frattempo, una piccola folla si era radunata per assistere alle vicende, incuriosita dalla singolar tenzone.
«Sentirvi parlare invano non è novità per me: i Basile sono famosi in questo. Non fu un avo vostro che disertò in guerra e fuggì dai campi di battaglia? Non aveva questo avo lo stesso nome che v'appartiene? Chissà, forse il padre vostro aveva intuito l'animo meschino e codardo che vi accomuna!»
Come una freccia ben scoccata, l'insulto colpì l'orgoglio di Undine nel punto più fatale. «Allora redimerò il buon nome del mio avo infilzandovi con la sua spada!»
«Non prima che vi abbia strappato quella spada dalle vostre fredde mani!»
Si lanciarono in duello così come le belve si contendono una carcassa. I pochi metri che li separavano furono divorati in un lampo. Tale fu lo scatto d'entrambi che le guardie, pur preparate allo scontro, si ritrovarono ad offrire tardiva protezione al rispettivo signore. La tenzone si sviluppò presto in una bolgia feroce: se un regolamento di conti prevedeva norme ben decise, la giustizia all'arma bianca era sovente disputata alla buona. Così entrambe le parti si azzuffavano a casaccio, circondati da un anello di persone che delineavano il limitare del palcoscenico ove battersi. Sotto lo sguardo meravigliato e incitante della folla, fendenti senza ordine guizzavano come fulmini nel cielo, saettando una volta qui e qualche volta là. Il tintinnio delle spade che sbattevano tra loro, e le scintille che talvolta lo sfregare dei metalli generava, crearono uno spettacolo surreale che distrasse gli occhi di tutti dalla sanguinosa realtà della faida. Bastò un colpo fatale per terminare le danze: quello che Undine inflisse al petto di Frensis.
Accadde assai rapidamente. Il rampollo degli Illhva reagì gridando ad un filo di lama che, sgraziato, gli azzannò la schiena. In un impeto di collera, reagì agitando la spada incastrandola tra il collo e la spalla di una figura nemica, ritrovandosi con la propria arma incastrata quando, accecato dalla collera e irretito dal sangue versato, Undine gli fu addosso con un affondo. Lentamente, come una brocca perde acqua dal foro, ogni velleità scivolò via dal corpo del giovane Basile, frattanto che questi, paonazzo in viso, guardasse il viso del rivale appena colpito deformarsi: la sorpresa fece largo al dolore, il dolore lentamente divenne silenzio. Alla vista del loro signore che cadeva afflosciandosi in terra, i soldati di casa Illhva si animarono di maggiore ferocia e tentarono un vendicativo assalto: uno solo di loro riuscì a vibrare la spada al fianco di Undine, facendolo rigirare in terra per il dolore lancinante.
La vista del sangue che ora bagnava le pietre della strada scossero gli animi, ma prima dei duellanti fu la folla ad abbandonare il posto. Lo squarcio sul fianco versava furioso la linfa cremisi della sua esistenza, dissipandolo presto le rimanenti forze di Undine. Frattanto, le guardie di Frensis, vedendolo oramai assopito in terra, e avendo subito gravi perdite, ritirarono ogni intenzione e si affrettarono a prendere le spoglie del loro signore da riportare a casa. Tale vista lasciò nel cuore di Undine un tale disgusto per le proprie azioni che rigettò sangue e bile con violenza. Le sue guardie gli furono subito d'intorno e, alla meno peggio, tentarono di apporre qualche rimedio alla ferita; il popolino, nel contempo, aveva richiamato la gendarmeria che, arrivata di lì a poco, suggerì di condurre il giovane alla più vicina Casa di Cura.
 
Undine aprì gli occhi dolorante e sofferente qualche suono più avanti. La visione del corpo di Frensis che cadeva in terra, come cadono i sacchi privi di contenuto, lo tormentava. Ebbe più di un sogno funesto in cui l'avversario agitava le sue dita nella ferita profonda, mentre la di lui sorella Marianne, dal colorito violaceo e il volto deforme, biascicava parole feroci tossendo sangue. La sua convalescenza durò più di una Ide, e si alternava tra le visite dei sacerdoti curatori e quelle del padre Lionel. Anche se mai comprese davvero il dolore che gli aveva arrecato, se ne vergognò profondamente. Ma più, si vergognò di se stesso. Le notizie peggiori, però, giunsero quando era ormai ad un passo dal riprendersi.
«Oh figlio mio! Cosa devo ora fare? In quale guaio hai cacciato il padre tuo! Perché figlio mio? Desideravi vedermi patire? Non ti bastava la vita di agi che ti ho dato? Dimmi figlio mio, cosa ti mancava?» fece Lionel.
Un tonfo Undine udì nel suo cuore: era il volto deluso del padre che lo rabboniva. «Non ho scuse degne di questo nome, padre mio».
Quando i nobili erano in disaccordo per questioni d'onore, essi si rivolgevano ad un giudice. Tuttavia, sovente essi preferivano risolvere le cose alla vecchia maniera, e in quel caso una era la via del duello. Ma soltanto i poveri e i briganti sistemavano le questioni armati e in gruppo, creando scompiglio. Per di più in campagne lontane, giammai nelle strade affollate. Quella di Undine e Frensis era stata una schermaglia senza onore, sotto gli occhi del popolino, che insozzava il buon nome di entrambe le famiglie. E per quanto concerneva il popolino, molti avrebbero testimoniato per un quarto di Raggio d'oro o anche d'argento.
«Ho lasciato correre le tue scorribande e le tue bravate. Anche recarti nelle stanze di quella fanciulla e usare il tuo nome per farti scudo. Mi bastava che tu fossi felice. Ma ora? Oh me! Oh povero me! Dicevano "il tuo cuore è grande e buono ma ti porterà rovina!" Ed ora è giunta!»
«Di cosa parlate padre?»
Fu allora che sua eccellenza afferrò Undine e lo strinse a sé. Questi non subito comprese la disperazione del padre. Lo fece ben presto.
«Sua eccellenza Olens ha chiesto la tua testa! Gli hai portato via la sua unica figlia femmina, pronta di nozze; gli hai portato via il pretendente prima ancora; e ora anche l'unico suo figlio maschio! Egli non ha moglie ed è molto malato. Ora tutto ciò che desidera è la vendetta! Cosa debbo fare?»
Il sacerdote preposto alle cure, che aveva assistito alla scena, provò pena per la sventura del giovane Undine e volle intervenire: «Nei ranghi dell'Ordine nessuna forza militare può intervenire. Se lui entrasse in seminario, sarebbe salvo e nessuno oserebbe mai attaccare l'Ordine per mera vendetta. Il vostro avversario sarebbe costretto ad accettare il fatto; e voi riavrete vostro figlio al terminare del seminario».
«Quante danze?» chiese il nobile.
«Cinque e non di più».
«Allora lo farò portare via con voi, non appena potrà camminare. Mi separerò dal mio adorato figlio ma avrò certezza della sua salvezza nelle mura dell'Ordine. Forse magari la vita del clero correggerà il suo errore con la veglia e l'umiltà delle pratiche divine».
Non appena fu guarito, Undine fu rapidamente vestito alla buona e caricato sul carro del chierico, così da essere condotto nell'anonimato e nella segretezza verso la Grande Cattedrale. Fu un viaggio lungo ma tranquillo, nessuno osò interrompere la cavalcata della carrozza dell'Ordine, salvo l'irregolarità occasionale delle strade che, a ogni balzo, scuoteva la carrozza. Giunti a destinazione, Undine fu presentato a padre Leonard Wright, sacerdote di Luglio, che si rivelò anche vecchio amico di sua eccellenza Lionel. Questi spiegò al giovanotto cosa sarebbe capitato di lì in poi, poiché non era nuovo a quelle situazioni, e avendo grande esperienza nelle leggi e nei costumi del volgo, sapeva consigliare chi ne avesse bisogno; e gli spiegò che la soluzione offertagli avrebbe da un lato salvato lui da una triste fine, e dall'altra sanato in parte le ire della famiglia dell'offeso. Se avesse firmato subito la sua volontà di farsi sacerdote, prima che qualcuno lo accusasse di quanto successo, avrebbe in tal modo fatto valere il suo essersi avviato agli studi e alle pratiche dell'Ordine per vocazione. Così l'Ordine, che comunque desidera mantenere il proprio buon nome agli occhi di tutti, non avrebbe motivo di consegnare un suo novizio alla giustizia dei nobili; perché così sarebbe stato come ammettere di reclutare presso di sé malfattori e assassini allo scopo di salvarli dalla punizione; che se era questo un atto spesso messo in pratica da molti, lo era perché nessuno osava contraddire l'Ordine, né l'Ordine amava infangare sé stesso, e soleva sotterrare ogni guaio dei propri componenti se e solo se fossero successi prima del loro ingresso nell'esercizio sacerdotale. Dall'altra parte, la famiglia dell'ucciso mai avrebbe avuto l'ardire di chiedere all'Ordine che un suo aspirante sacerdote uscisse, sapendo che chi entrava in seminario non ne usciva fino alla fine del suo percorso. Non avrebbero certamente atteso cinque lunghe danze solo per una vendetta. Per di più, nel saperlo rinchiuso dentro una piccola stanza, diviso sempre tra studio, lavoro e veglia, sapendo che Undine avrebbe perduto ogni diritto nobiliare presso la sua casata, lasciando i Basile con uno solo dei suoi due figli, privata specialmente di quello più amato, gli Ilhva avrebbero potuto considerare la sua una punizione sufficiente.
 
Non appena ebbe compiuto la sua cerimonia di vestizione, Undine si recò dapprima incontro al padre, domandagli perdono per aver recato alla famiglia così tante sventure; e fu perdonato poiché il padre serbava per lui un amore grande come la Casa del Cosmo. Subito dopo, Undine decise di recarsi allora presso sua eccellenza Olens. Credette di ritrovare un uomo ancor rancoroso e pronto a domandare vendetta. Fu sorpreso di sapere che non v'era rimasto granché della famiglia degli Ilhva: i loro averi erano stati espropriati da un altro nobile, un certo Arbal Iaconis. Fu lui ad accoglierlo nella magione, spiegandogli con garbo che sua eccellenza Olens era via via deperito, perdendo il lume della ragione, fino a spendere ogni suo danaro per edificare un altare maestoso ai suoi figli. Gli disse anche dove avrebbe potuto trovare questo altare, e dove certamente avrebbe trovato anche il nobile caduto. Undine lo ringraziò per la sua gentilezza e infine lo abbandonò.
Si diresse dunque verso i sacri luoghi del riposo: luoghi, presenti in ogni città, che prendevano il nome del fondatore della stessa, in cui si erigevano i più grandi monumenti al ricordo degli eroi, dei cari assopiti e dei personaggi della nobiltà illustre. I sacri luoghi della capitale furono fondati in nome di Elaiha Sal'olmar, primo dei Sovrani di Gennaio, eletto dai dodici Re, e divenuto poi anche Unico Re. Il luogo stava adagiato come un nido d'uccello su un ramo lungo il cerchio delle mura, a pochi passi dall'arena eretta sui campi dove il sovrano si era battuto per il trono; e aveva soggiogato l'ultimo esercito dei dissidenti alla sua regia sovranità. Al volgere delle danze numero 7'335, al sopimento del Re, dopo danze di campagne e glorie e conquiste, fu rapidamente eretto il mausoleo riutilizzando una precedente struttura, molto più antica ma rovinata dalle guerre. Il colle ove si estendeva per intero fu chiamato "della Guardia", come se a sorvegliare il riposo del Re vi fosse l'esercito sconfitto su quelle terre. Danze più tardi, furono apportate significative modifiche, per completarne la struttura odierna nella Danza Solare numero 7'435. Trattandosi in origine di un vecchio centro militare, il Sacro Luogo conservava ancora le alte mura difensive e il suo ingresso era, come logico supporre, un ponte levatoio su fossato. Erano ancora visibili le guardiole, i luoghi di vedetta e perfino i cannoni pronti a sparare su chissà quale nemico. Da giovane Undine fantasticava immaginando quale grandi battaglie si fossero compiute in quei luoghi, prima dai desti e ora dai sopiti. Rivedere quei luoghi di silenzio e tristezza non rievocò alcuna immagine in lui, poiché scivolava a passo svelto tra sale e porticati che, in un intricato nucleo, sembravano ricreare ambienti e scorci di una piccola città.
Raggiunse la lapide indicatagli quando i rintocchi annunciavano l'inizio del Solstizio: era bella e imponente come gli era stata descritta, con intarsi d'oro, statue e bassorilievi a decantare la nobiltà di chi era ricordato in quel luogo. Eppure, l'intero altare era in uno stato pietoso; rampicanti avevano lentamente preso possesso della piccola struttura, del cui iniziale splendore ora restava un mesto ricordo. Una brezza allora spirò tra i rampicanti danzando poi tra i calzari di Undine, mentre questi guardava la pietra nuda su cui erano incise le formalità dei defunti Marianne e Frensis. Posò ai piedi dell'altare un mazzo di girasoli. I suoi studi, conclusi da poco, gli ricordarono senza pietà che non vi era nessun corpo sotto quell'altare, poiché coloro che si sopivano sparivano nelle catacombe assieme alle Orme Bianche; che i Sacri Luoghi del Riposo erano stati eretti per sedare il malcontento popolare, le cui lacrime necessitavano di un posto dove recarsi per vegliare sui cari addormentati. Eppure Undine trovò rincuorante poter visitare quella tomba e sperare che la sua veglia giungesse alle orecchie di quei due sfortunati. "Spero abbiano raggiunto la Sera", si ripeteva ancora adesso.
Nel mentre stava in contemplazione, notò con ritardo la figura di un uomo triste e scavato dalle malattie, che gli si avvicinava a passo infermo. Lo riconobbe soltanto quando fu abbastanza vicino e si gettò ai suoi piedi.
«Quali parole potrei io usare per farmi perdonare? Così tanto dolore vi ho arrecato, così tanto ho patito, e nell'infinita bontà del divino, che sopra ognuno di noi sta, non è passato tempo che io non avessi sofferto e chiesto perdono; ma ora con quali parole io posso chiedervi perdono? E anche se ve ne chiedessi, potreste voi perdonarmi?»
Olens si abbassò e gli poggiò una mano sulla spalla. «La mia figlia adorata, Marianne, era così bella e così giovane. La più bella di tutte! Aveva il volto di sua madre, sapete? Aveva sì, i suoi occhi. Aveva anche il suo viso. Della mia amata, certo. Tutto aveva preso di lei».
Sul volto di Undine discesero pesanti e affrante le lacrime del dispiacere.
«E mio figlio Frensis, un giovane dal cuore nobile! Tutto suo padre, potrei dire!» e rise, «tutto sua madre anche! Oh com'era giovane e bello, e come rendeva fiero questo suo padre. Avesse vissuto, certo, avrebbe portato tanta gloria alla nostra casata. Oh padre perdonate le mie parole. Sono vecchio e stanco. Presto sarò con loro».
«Vi auguro di riabbracciarli presto», rispose a singhiozzi Undine.
«Padre vi ringrazio per aver portato un po' di compagnia a questo stanco vecchio. Ma vi prego assecondate un mio ultimo favore, potreste?»
«Di grazia, ditemi!»
«V'è un uomo tra voi, nell'Ordine. Mi portò via mia figlia e mio figlio e scappò presso di voi. Fui io a farlo scappare! Volevo la sua testa ma... vorrei che sapesse che l'ho perdonato. Ora padre vedete, sono stanco e vecchio e malato. Presto anche io mi addormenterò. Che senso ha serbare rancore? A cosa mi gioverebbe? No padre ascoltate: se vedete quell'uomo ditegli che l'ho perdonato. Non si strugga più di quanto non abbia già fatto. Lo farete?»
«Avete la mia parola».
E fu così che Undine si ebbe del perdono di Olens Ilhva, che visse poche danze prima di raggiungere la sua famiglia adorata. Lui, invece, avrebbe vissuto molto a lungo col peso degli anni e delle colpe, perché anche se era stato perdonato, non dimenticò mai quei fatti e se li portò dietro, come si fa con un macigno che grava sulle spalle: forse per questo che aveva preso a curare l'altare di Frensis e Marianne, ridandogli splendore e facendo in modo che fosse sempre pulito.
 
3.3 Qualche rintocco più tardi
 
Quando ebbe finito di pregare, Undine si lasciò andare in un breve pianto. Era ora lui un uomo vecchio e malato, stanco della vita e del futuro; si alzò lentamente per tornare nella sua cella, ove preparò gli abiti da notte. Fu allora che un dolore lo colpì feroce al petto, facendolo riversare a terra tra vomiti di sangue. La testa gli girò d'improvviso e svenne.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 - Quinto Nuovo dell'Ultima Ide ***


4.1 Rintocchi di lode inoltrata
 

Ser Alcor Merak aveva da poco terminato il suo allenamento quando gli era stato comunicato l'accaduto.

«Ser, vogliate perdonare il mio disturbo, porto notizie urgenti» fece il portalettere.

Ser Merak, madido di sudore, fece scivolare la spada sul fianco. «Prego, riferite pure».

«Porto tristi notizie, ser. Sua grazia, vostro fratello Mizar, è stato trovato assopito nella sua dimora».

La lama scivolò dalle mani del cavaliere, tintinnando a terra. «Cosa?»

«Vedete, lo hanno ritrovato nella vasca ormai esanime».

«E com'è successo?»

«Pare abbia fatto martirio».

«Martirio?» con uno scatto, ser Merak afferrò il giovane portalettere per gli abiti e lo issò, e a stento controllò la sua collera.

«Vi prego messere, mi fate male. Mettetemi giù!» sbraitò l'altro, salvo riprendere una volta al sicuro: «Ha lasciato una lettera. Un testamento, in cui dichiarava le sue ultime volontà».

«Che volontà? Di cosa parlate?»

«So poco altro ser. Mi è stato solo comandato di avvisarvi; il legale che si occupa delle volontà di vostro fratello, lui mi ha mandato. Vi chiama per riscuotere la parte di patrimonio a voi donata da vostro fratello»

«Chi ha trovato il mio fratello assopito?»

«Io non...»

Ser Merak lo scosse con foga.

«Credo un servo. Io... lui era presso il legale stamattina. Sua eccellenza, vostro fratello, ha ceduto a questi la sua libertà. Ha firmato documenti, lui...»

«Ebbene, avvisate il legale che giungerò da lui il prima possibile. Debbo prima prepararmi».

Rapidamente il portalettere uscì, ringraziando il divino di avere ancora la testa sul collo. Nel mentre, ser Merak prese la spada da terra e fissò il suo riflesso nella lama. Di colpo e senza motivo la agitò con rabbia verso il manichino, che già normalmente, per allenamento, era solito colpire ma con meno foga. Adesso a ogni colpo intagliava una tacca nel legno, finché la lama non vi rimase incastrata senza possibilità di estrarla.

Ser Mirak tirò un lungo e indecifrabile sospiro. Si recò quindi presso i suoi bagni ove la servitù, rapidamente, gli preparò l'acqua calda, gli aromi e i saponi affinché si ripulisse. Diversamente dal solito fece assai rapidamente, poiché la voce del portalettere continuava a martellarlo. «Lo hanno trovato nella sua vasca». Mentre passava la spugna e i balsami, ser Merak fu lesto ad asciugare una lacrima che, irriguardosa per il suo rango di cavaliere, osò paventarsi sulla guancia. Quindi uscì, si avvolse in un panno e si asciugò. La serva Irene gli porse subito gli abiti per uscire, con le spille e gli onori militari appuntati precisamente sul petto. Salì sulla carrozza senza nulla dire, salvo la prima destinazione e che si facesse in fretta.
 

4.2 Primi rintocchi del solstizio
 

Durante il viaggio, Alcor Merak non poté fare a meno di guardare oltre il finestrino della carrozza. Raramente lasciava il palazzo reale per recarsi altrove, se non per questioni di grande urgenza; così poche volte, e ogni volta con la stessa maledetta profondità, era rimasto scosso dalle condizioni di vita in cui il popolino versava. Agli angoli delle strade le mani dei mendicati, nascosti tra cenci e abiti consunti, si elevavano come piante in cerca di luce. Agitavano le dita affamate, biascicavano parole che sapevano di malattia. Cercavano pochi soldi, un quarto di raggio sufficiente per un rancio decente. Gli altri, se non erano per le vie a mendicare, erano avvezzi a lavori dai quali spesso non c'era ritorno. Pagati poco e anche male, si occupavano di costruire e curare la città; poiché spesso appesi nel vuoto da qualche corda, su di una trave, non era raro vederli piovere dal cielo. E certo che le torri e i tetti delle alte case dei nobili non si aggiustavano da sole, così se un uomo cadeva dal tetto e finiva in terra, subito un altro era lì pronto a guadagnarsi il pane. I più fortunati si erano ricavati un avvenire commerciando, producendo, coltivando o rimpinguando in qualche modo le credenze dei signori; in cambio i signori, chi più e chi meno, avevano esteso come un'ala protettiva verso artigiani, contadini, pittori e artisti vari. Benché molti di questi avessero solo il vantaggio di un tetto e del cibo, si ritrovavano spesso alle mercé di nobili capricciosi. Quello della nobiltà era un cielo facile a rovesciarsi, ma la sua tempesta colpiva solo gli sfortunati. Infine, senza apparente motivo d'essere, c'erano gli schiavi. Vi era davvero poco da dire di costoro: servi, sguatteri, poco più che carne da macello. Si vendevano come strumenti e li si trattava come animali. Alle donne schiave era perfino proibito avere figli, senza il permesso del padrone. Tutto questo ammasso informe e malandato era chiamato il popolino.

Ser Merak distolse infine lo sguardo dal vetro. Il palazzo del legale non era distante, e lui non era molto gradito il fissare il popolino. In realtà era presso di lui un sincero disprezzo per la nobiltà, ivi compresa la sua famiglia, con l'eccezione dell'amato fratello e della cara sorella; Alcor era cresciuto affascinato dall'immagine del cavaliere che salva donzelle e difende i deboli; era poi cresciuto disilluso, ben consapevole che un cavaliere è niente senza la corona, e la corona quasi sempre disinteressata ai poveri e ai deboli. Così aveva preso ad isolarsi nei suoi compiti, negli allenamenti, nella vita di caserma. Salvo quando incontrava il fratello Mizar, o era invitato dalla sorella Hilda, cercava di estraniarsi da quel mondo triste e grigio. Eppure, come spesso si resta inorriditi davanti al male fatto, così il cavaliere non riusciva a restare sereno e distaccato: si riscopriva a mirare fuori dal finestrino o affacciato alla balconata della caserma quasi per istinto.

Il nitrito dei cavalli lo avvertì che era arrivato. Scendendo disse al cocchiere di attenderlo, perché sarebbe tornato presto e vi era una seconda meta da raggiungere. Quindi traversò il porticato del palazzetto, salì lungo la prima rampa di scale e fu scortato negli uffici del legale dallo stesso portalettere incontrato qualche rintocco prima.

«La prego si segga, ser».

«Sarò qui per poco, non mi serve sedermi».

«Faccia come crede. Il mio nome è Robert Elsemann e sono il legale di vostro fratello, da lui scelto per eseguire le sue ultime volontà».

«Devo sospettare che sapevate delle intenzioni di mio fratello?»

«Ho seguito vostro fratello nelle sue battaglie con l'Ordine e sono stato io a consigliargli di abiurare ogni sua posizione eretica; nel tentativo di ingraziarsi il culto e i suoi rappresentati, ritenevo mossa saggia fare un passo indietro sulle sue posizioni».

«Posizioni? Mi state dunque dicendo che mio fratello era un eretico dichiarato?»

«Dichiarato no ser. Tuttavia, non faceva mistero delle sue condotte particolari, né di aver visitato posti che non adatti alla sua signoria. Non negava nemmeno di aver tentato di studiare determinati documenti del Culto con fini, potremmo dire, troppo critici».

«Sappiamo entrambi che mio fratello era uno studioso rinomato».

«Sappiamo entrambi che c'è una sottile differenza tra studiare e mettere in discussione ciò che si studia. Specie se ciò che si studia è il fondamento santo della nostra civiltà».

«E dunque avete consigliato a mio fratello di negare ogni eresia sospetta o commessa. Soltanto questo?»

«Temo vostro fratello abbia maturato l'idea di martirizzarsi soltanto dopo, quando aveva oramai preso l'estrema decisione».

«Perché avrebbe dovuto avere un'idea così folle?»

Robert prese da un cassetto un vecchio documento: era una vecchia pergamena riguardante antichi e spesso dimenticati riti del Culto. «Non è una pratica più così comune, ser. Almeno, oggigiorno, pochi la conoscono: anticamente era concesso assopirsi, per porre giudizio di sé direttamente al divino. Così come si usa ancora duellare, lasciando che sia il divino a far vincere il giusto. La differenza sta che chi compie il martirio è già nel torto: agisce perché non vi è dubbio nella sua posizione erronea, lasciando al divino l'estremo giudizio che, tuttavia, domanda perdono e non giustizia. Se duellate lo fate per dimostrare che siete giusto, che ogni torno o accusa è fasulla, e che il divino vi farà vincitore per questo. Se vi martirizzate... credo abbia inteso».

«Non era l'abiura sufficiente, dunque?»

«Ser, l'abiura è un atto di negazione che si fa per cercare di riconciliarsi con l'Ordine. Non è però detto che esso sia accolto, specialmente se vi sono prove certe di colpevolezza. Capisce? Se anche vostro fratello avesse fatto abiura, per poi commettere nuovamente eresia, sarebbe tornato punto e a capo. Le conseguenze sarebbero disastrose. Vostro fratello, e mi spiace suggerirlo, avrà pensato che il martirio fosse la via migliore per ripulire l'onore suo e della vostra famiglia».

«Era davvero inevitabile?»

«Forse no, ma cionondimèno la sua azione vi ha sottratto a problemi più gravi di quanto possiate immaginare. In diversa circostanza, avreste potuto perdere il vostro titolo e molto altro».

Alcor sospirò. Sentì l'anima farsi pesante e la testa vorticare, mentre la sensazione d'incapacità lo aggrediva con tanta ferocia quanto più non riusciva ad accettare l'accaduto.

«Se era un eretico e ha mancato nei confronti dell'Ordine, nonostante il suo buon nome e le sue qualità di studioso, allora non posso che accettare la sua decisione. Egli di certo avrà compreso il suo errore e avrà scelto la via migliore per redimersi».

Il malessere che si generò nel cuore di ser Merak era dovuto al suo non capire. Aveva seguito i dettami dell'Ordine nei suoi punti fondamentali, senza mai coglierne il senso profondo, né preoccuparsi di studiarli. Suo fratello, al contrario, si era sempre mostrato più abile coi libri che con la spada. Ser Alcor, che pur nutriva un amore smisurato per il fratello, si rammaricò sempre di non essere mai stato in grado di comprendere fino in fondo la dedizione di Mizar: «Di certo un libro non è arma capace di difesa!» gli confessò, senza veleno sulla lingua. Lo aveva ammirato. Era certo che avesse trovato tra le pagine soluzioni migliori ai problemi del mondo. "Meglio forse dello sguainare la spada a casaccio", si ripeteva. Ma ora gli dicevano che era stato un eretico. L'immagine di suo fratello crollò come un vetro infranto, colpito dal martello ch'era l'accusa di eresia contro l'Ordine. Quell'amore per il culto e le scritture che lo avevano reso grande agli occhi del fratello, a cosa era valso? "Se l'Ordine non fosse mai esistito, forse mio fratello..." ma Alcor si meravigliò del suo stesso pensiero e ricacciò dentro quel dubbio feroce. Così dentro di lui si creò una piccola crepa, destinata ad ingigantirsi.

«C'è altro che devo sapere?».

Robert, allora, prese la lettera di Mizar: «Il sacerdote che ha presenziato il Rito del Riposo ha trovato una lettera, sulla quale erano vergate le sue ultime volontà. Vostro fratello ha dichiarato di non avere eredi, di spartire il suo patrimonio in parti stabilite, e si è occupato della situazione di soli due schiavi».

«Spiegate» chiese, benché ne fosse già al corrente.

«Il primo, Aulix, ha riavuto la libertà. Il secondo, Gregor, è attualmente custodito dall'Ordine».

«Mio fratello aveva soli due servi?»

«Aveva anche altri, per lo più donne. Non così numerosi comunque, cosa strana per un nobile; quasi tutte sono andate a vostra sorella, gli altri erano uomini liberi che avevano una qualche mansione presso di lui. Eccezion fatta per i due già nominati, appunto. Un fatto singolare. Ma, come voi saprete, in genere avere pochi schiavi o sottrarli ai loro padroni per renderli liberi è tipico dei...»

«Non osate terminare la frase!» tuonò ser Alcor. «Sarà stato un eretico in queste ultime danze e avrà scelto di sopirsi per redimersi, ma non crederò mai che abbia agito come tale da sempre. E non permetto a voi di insinuarlo».

«Vogliate perdonarmi. Ad ogni modo, a voi spetta una parte in denaro».

«Non la desidero. Datela pure a mia sorella. La vita militare mi dà tutto ciò di cui necessito. Invece, ditemi dove si trova questo Aulix».

«Gli è stato concesso di restare temporaneamente presso la magione di vostro fratello, a patto che alcuno della vostra famiglia non desideri diversamente».

«Bene. Non c'è altro che voglio chiedervi. Vi prego solo di essere più cauto nelle parole che userete per rivolgervi a mia sorella. È gravemente malata e il suo cuore potrebbe non sopportare altro dolore, se infierirete con le vostre parole».

«Certo, farò attenzione».

«Addio».

«Addio».

Ser Alcor tornò alla sua carrozza e ordinò che fosse condotto alla villa del fratello. Durante la traversate per le vie della capitale, il suo sguardo scivolava di nuovo sul vetro. Intanto, una piccola pioggia si abbatté su tutti, segno che Venere aveva ripreso col piangere per il suo amore infranto. Questa volta però gli occhi del cavaliere non si perdevano tra i mendicanti e i poveri, bensì nel campo delle sue memorie.

Ricordava di quando suo fratello Mizar aveva chiesto al loro padre di acquistare un immobile nei pressi della Grande Cattedrale. Suggerì che la vista del monumento gli era di conforto, durante le sue letture, e che avrebbe studiato meglio e con più lena i misteri del culto, se ne avesse avuto il cuore a pochi passi. Ser Merak ricordò con quale radioso sorriso suo fratello continuava a decantare la bellezza della cattedrale. Chissà quanto ne era rimasto deluso, nel vederla usata per esibire i corpi assopiti degli eretici. Con uno sforzo che nessun uomo dovrebbe tentare, ser Alcor provò a scandagliare altri ricordi suoi, cercando di comprendere cosa avesse cambiato il fratello: dall'amore per il culto era passato a denigrarlo, dunque doveva certamente aver subito qualcosa d'incredibile e tremendo al contempo. Tuttavia, lo sforzo gli causò solo altro dolore, poiché rivangare il passato, e i bei momenti spesi assieme al fratello, non fece che aggravare la sua assenza e peggiorare il malessere che il cavaliere, ora, sentiva divampare come incendio.

"Che siate maledetti! Siate maledetti per averlo portato via, Ordine ed eretici assieme!" Si scoprì a stringersi con le mani sopra l'elsa della sua spada, proiettandosi con la fantasia nell'atto di affondarne la lama verso coloro che avevano causato sofferenza e dolore in suo fratello. Ma proprio perché stava in realtà sfogandosi senza compire alcun gesto, quando la collera e la furia passarono rapidamente, non si mosse e quindi pianse. Versò lacrime come le versano quegli uomini che si sentono sconfitti dalla vita e dalle vicissitudini.
 

4.3 Rintocchi finali del solstizio, quasi equinozio
 

La carrozza raggiunse la villa di lì a poco. L'uomo che ne discese non era più quello che vi era salito. Uno sguardo torvo accompagnava ser Alcor, mentre si dirigeva verso l'ingresso principale. Bussò più e più volte ma nessuno accorse ad aprirlo, lasciandolo incredulo all'ipotesi che la magione fosse vuota.

"Possibile che siano andati tutti via?" Fece per andarsene, optando per ritornare alle lodi seguenti, quando ricordò di avere a disposizione un mazzo di chiavi donatogli dal fratello, danze addietro: «Questa casa è anche la tua casa. Prendi queste chiavi. Semmai tu volessi venire a trovarmi, potrai entrare come e quando preferisci» gli aveva detto.

"Fratello mio, se solo avessi davvero passato più tempo con te, e fossi venuto più spesso a trovarti" rimuginò Alcor mentre apriva la porta. Si addentrò nella mangione nel silenzio grave della sua infelicità. Trovò tutto in ordine. Nulla era stato ancora toccato. Non c'erano evidenti segni che la villa fosse ormai disabitata. Provò a chiamare Aulix più volte ma il non ricevere alcuna risposta lo convinse che era inutile continuare. Ciò nonostante, anziché tornare indietro, decise di recarsi presso le stanze di suo fratello, desideroso di vedere la vasca in cui l'avevano trovato. Quando però arrivò sul luogo rimase folgorato.

«Cosa fai qui! Non sentivi che bussavo? Perché non mi hai aperto?»

In piedi vicino la vasca, come intento a cercare qualcosa, c'era un uomo dal crine biondo e lo sguardo tagliente. Si voltò lentamente, con tanta calma e confidenza da far supporre che fosse della servitù: la lunga cicatrice, sulla parte destra del volto, e la spada sul fianco, però, suggerirono tutt'altro.

«Ah che guaio. Non mi avevano detto che potevano esserci ospiti. Mi avevano assicurato che la casa fosse vuota. Mai fidarsi delle voci!»

«Cosa farfugli?» ser Alcor estrasse rapidamente l'arma. «Chi sei?»

«Ah che guaio messere. Voi non dovreste essere qui e io, mio malgrado, non dovrei farmi scoprire. Però gli incidenti capitano, vedete, anche ai più bravi. Ma la differenza tra un ladruncolo da quattro soldi e me è una sola: nessuno viene mai a conoscenza dei miei sbagli».

L'uomo sguainò uno stocco e si fiondò verso ser Alcor, che prontamente rispose svirgolando la sua lama e parando abilmente il primo affondo.

«Siete ardito ad attaccarmi, non sapete chi sono? Non che abbia importanza, siete ospite sgradito e non sono dell'umore per lasciarvi andare!» esordì il cavaliere.

«So chi siete, ser Alcor. Siete voi che non conoscete me!»

Il secondo colpo del cavaliere si abbatté verso il fianco dell'intruso, che rivelò grande agilità nello schivare con un balzo. Si rivelò anche molto rapido poiché, appena ebbe terminato la schivata, fu subito in avanti con un altro affondo. Ser Alcor, invece, faceva perno sulla propria forza muscolare e, anziché evitare il colpo, utilizzò la fodera della spada per colpire la lama e deviarla. L'urto fu tale che la lama vibrò nelle mani del ladro, facendola ruzzolare via; e subito Alcor gli fu addosso, per scoprì ben presto che il suo nemico era molto più abile a mani nude. Dapprima lo sconosciuto afferrò il cavaliere per il braccio, poi, infilando un piede tra quelli altrui, con un deciso colpo di reni lo rovesciò contro un mobiletto. L'urto sfasciò il mobile, mentre il corpo di ser Alcor rovinava tra schegge, alcune delle quali si infilarono nella carne. Ancora dolorante, però, si rimise in piedi pur a stento, intanto che il ladro calciasse via la sua arma e gli facesse cenno, con una mano, d'attaccare. Tuttavia, se in uno scontro alla spada il cavaliere avrebbe anche potuto spuntarla, in quella scazzottata scoprì di essere in netto svantaggio: il sui avversario era certamente pratico nelle scaramucce da strada, oltre ad aver imparato qualche antica arte marziale proveniente dall'ovest. Così Alcor si scoprì inerme: non solo non riusciva a colpirlo ma, finanche, gli era difficoltoso difendersi. Cadde, pur resistendo strenuamente, quando l'ultimo calcio lo colpì al volto e lo fece rovinare in terra. L'altro ne approfittò per recuperare il proprio stocco, puntandolo verso la gola dello sconfitto.

«Ebbene ser, come dicevo: se pure dovessi sbagliare, nessuno lo verrebbe mai a sapere».

Udì Alcor, prima di svenire.

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 - Quinto Nuovo dell'Ultima Ide ***


5.1 Durante il Sogno

Gregor comprese subito che il suo Sogno era diverso, proprio perché sapeva che, normalmente, nessuno aveva coscienza di sé durante il falso dormire; che ai primi rintocchi di Lode avrebbe dovuto aprire gli occhi rammentando poco o niente di ciò che aveva visto; ma essere lì, come se non avesse mai finto di dormire, quasi fosse desto dentro al Sogno, lo colpì e lo terrorizzò. Sapeva, come ogni uomo sulla Terra, che un Sogno pieno di inquietudine indicava una vita di corruzione e mali intenti, mentre un sogno sereno indicava una vita di rettitudine e purità.

Per questo sapere di essere inquieto dentro al Sogno lo mise in estrema agitazione. Non sapeva cosa stava accadendo ma, se era cosciente del fatto che gli stesse capitando, avvertendo la propria inquietudine, giunse alla conclusione che qualcosa di tremendo era lì, in attesa di aggredirlo. Si guardò allora attorno con attenzione, sondando l'ambiente nella sua assurdità: riconobbe la casa di padron Mizar, nonostante la deformità dei dettagli, gli elementi fuori posto, o posti in maniera del tutto innaturale; fogli di libri strappati giacevano a mezz'aria, sospesi come da incanto; fiamme congelate nel tempo si diramavano come radici dal camino; una nebbia scura e violacea si depositava in basso, creando un senso ovattato di immutabilità.

«Vedi Gregor, per quanto gli uomini abbiano bisogno delle regole, nel profondo anelano alla libertà. Così essi si protendono spesso verso il superamento dei limiti imposti dalla legge: ne infrangono i dettami, ne minano la stabilità, sfuggono ai suoi controlli. Gli uomini, tutti, nel più e nel meno, cercano d'infrangere la legge quando ne hanno occasione».

Il giovane schiavo sentì il sangue raggelare. Si guardò attorno. Non vide nessuno.

«La libertà. Alcuni uomini si addormentano per essa. Non lo trovi romantico? Dare via la propria esistenza per un ideale, inseguirlo così tanto da calpestare anche il prossimo. Ma la tua libertà finisce dove inizia quella degli altri, lo sapevi Gregor?

Con questa semplice frase, l'umanità ha realizzato che la libertà, l'assoluta e totale libertà, non esiste. Se essa termina, ed ha un confine, e quel confine sono gli altri, allora come posso io dirmi pienamente libero? Allora perché gli uomini la inseguono comunque, sai dirmelo Gregor?»

«Chi va là?» gridò lo schiavo, visibilmente impaurito.

«Suvvia Gregor, non temere. Non ti sarà fatto alcun male. Rispondi alla mia domanda, con calma. Tu insegui la libertà, Gregor?»

«Di quale libertà blateri? Sono uno schiavo! Prima di un nobile, ora dell'Ordine!» berciò lui.

«Eppure la desideri. Lo neghi, certo. Sai che per te non è possibile ottenerla, com'è stato per Aulix. Questo però non ti impedisce di desiderarla. Tu brami la libertà Gregor. Tu faresti qualsiasi cosa per averla, anche calpestare gli altri».

«E se anche fosse? Non ho diritto io a vivere come desidero?»

«Tutti abbiamo diritto a desiderare. Però tra il desiderare c'è un grande ostacolo. Il tuo qual è?»

Gregor rimase pensoso ma, di lì a poco, subito berciò: «La legge!»

«Esatto. Gli uomini si danno delle regole perché, anche se la tua libertà finisce dove inizia quella altrui, nessuno è disposto a rinunciarvi. L'uomo vuole sempre più libertà: di fare ciò che vuole, di vivere al meglio che può, di avere tutto quello che desidera. Ma cosa ne sarebbe di una società libera? Il caos, il disordine!»

«Ma è colpa della legge se io non posso essere libero!»

«E allora cosa faresti, se ti fosse possibile?»

«La infrangerei!»

«Esatto. Questo è il paradosso della condizione umana».

Solo allora Gregor lo vide. Un uomo dall'aspetto sgradevole, dal crine corvino e gli occhi d'ossidiana. Stava seduto dietro una scrivania d'ebano e rigirava tra le sue mani una moneta d'oro, quasi ignorando l'enorme tesoro che, tutt'intorno, ricopriva il suo angolo. Un'aura tetra e triste lo circondava, risaltata dall'arazzo consumato e lercio che gli troneggiava dietro. Gregor riconobbe lo stemma araldico sopra inciso: un monogramma violetto (♇) circondato dalle fiamme bianche su sfondo nero.

Il ragazzo ebbe un sussulto. «Voi siete...»

«Colui che governa tutto ciò che è nascosto e che si nasconde agli occhi; che governa i rifiuti, le fogne e gli scarti della società; che si agita nella medianità, nell'occulto, nei rituali della magia; che presiede alla decadenza della carne. Io sono il senso del potere che è dentro ogni uomo, che favorisce le potenzialità umane e nutrisce la creatività; o conduce all'arroganza, alla distruttività, alla prevaricazione, calpestando gli altri.

Io sono Ade».

Il divino terminò la sua presentazione scagliando la moneta verso Gregor, che la afferrò d'istinto. Il giovane rimase poi stranito, non cogliendo il significato di quel gesto e né perché si trovasse al cospetto di un Dio.

«Sei nato da un gesto illegale, da un atto sporco, da una violenza brutale, dalla malvagità e dal marciume. Tu sei stato scelto per essere il mio corpo in Terra. Tu sarai me e io sarò te».

Il Dio apparve in una nube alle spalle di Gregor, afferrandolo per il volto e facendo scivolare le dita dentro la sua bocca. Qui disegnò il Simbolo di Plutone sulla lingua, per poi lasciar andare il volto del ragazzo. Questi, visibilmente terrorizzato, cadde dal letto ove era stato fino a poc'anzi e guardò il Dio con sgomento.

«E che ne sarà di me?»

«Nulla Gregor. Sarai ancora te stesso ma sarai anche me. Un semi-dio, un Satellite. Governerai su ogni cosa su cui io governo, e ne faremo ciò che vogliamo».

«Perché?»

Il dio allora rise in modo grottesco, mentre il Gregor veniva ingoiato dalle tenebre. La sensazione di paura e terrore fu così grande che si sarebbe destato nella sua cella madido di sudore e sporco di urina.

5.2 Primi rintocchi di lode

A lode ogni seminarista dell'Ordine doveva recarsi a lezione e seguire i corsi previsti dall'iniziazione al Culto. Gregor vi si recò visibilmente stanco e provato, e dato che era la sua prima lezione, fu sgridato e canzonato per aver fatto anche ritardo. Sentiva ancora addosso le mani fredde del Dio Ade, mentre il simbolo sulla lingua pulsava in maniera sinistra. Per il timore di mostrarlo, smise di parlare da lì in poi e non diede mai ragione a nessuno di questa sua decisione. Si sedette al suo posto e attese che le lezioni riprendessero da dov'erano terminate il suono precedente.

«Salve a tutti. Mi presento: io sono padre Urbano e, come da molte danze, mi occupo di insegnare ai seminaristi le pratiche del culto e i suoi fondamenti. Sono certo che ognuno di voi già conosca molte delle cose che vi dirò ma, a differenza del popolo ignorante, a voi verranno confidati i misteri e le verità di fede dell'Ordine. Quello che apprenderete da qui fino alle prossime danze saranno di vitale importanza per il vostro compito di sacerdoti.

Per tanto, inizieremo con il Canto dell'Alba: un tempo tutti, sia dèi che uomini, dormivano nella Notte, presso la Grande Casa del Cosmo. Gli dei furono i primi a svegliarsi ma con tempi differenti: i primi erano i fratelli maggiori, grandi e luminosi; poi si destarono i cugini, dalle forme e aspetti più disparati, accompagnati spesso da fratelli o sorelle minori. Quando furono tutti svegli, i fratelli maggiori intonarono un lungo canto e i cugini, con o senza fratelli minori, presero a danzare loro intorno.

Fu poi la volta degli esseri umani. Ma quando aprirono i loro occhi e videro la Grande Casa del Cosmo, seppero che la Notte non era luogo ove stare svegli; poiché gli Dei potevano danzare a cantare, gli umani invece avevano freddo e timore. Così fu loro donata una piccola vetrina, dove poterono sopravvivere e guardare le meraviglie della Notte senza timore.

Col tempo però crebbe in loro una forte nostalgia. Gli uomini avevano dormito nella Notte e, ora che erano svegli, dentro di loro sapendo che avrebbero dormito nuovamente, sentivano il desiderio di assopirsi più potente che dello stare desti. Allora il Dio Sole, udendo le loro richieste, fece sì che nella loro vetrina la luce creasse una volta azzurra, così da celare la Notte e tenerli sempre svegli. Tuttavia, anche gli sforzi del Dio furono vani: gli uomini col tempo desiderarono vedere la Notte e il Dio acconsentì. Furono questi i "Patti Solari": il divino avrebbe abbassato la volta azzurra temporaneamente, per mostrare la bellezza della Notte agli uomini.

Ma poiché vedere la Grande Casa provocava loro nostalgia, ben presto gli uomini sentirono il bisogno di chiudere gli occhi. Così divenne loro abitudine, quando iniziavano i Patti, di stendersi su un giaciglio e chiudere gli occhi. Non dormivano davvero, poiché avrebbero riaperto gli occhi; e così si fingevano dormienti. Vedendoli e avendo pietà di loro, il Dio Sole creò per loro un luogo nella Notte e lo chiamò Sera: ove la sua luce era fioca abbastanza per mostrare agli uomini la Notte ma senza che questi si addormentassero. Decise però che solo i meritevoli avrebbero potuto arrivarvi e per mostrare loro se ne erano degni, creò il Sogno. Inserì il Sogno nel corpo di ogni uomo, che fosse già desto oppure non ancora, affinché egli potesse sempre sapere se sarebbe giunto alla Sera o se ne era distante; in tal modo, ogni uomo avrebbe potuto redimersi per tempo.

Come vi ho già accennato, il Divino Sole intona un canto dall'eternità e gli altri dèi, suoi cugini, sono attratti in una danza. Ogni singola danza è suddivisa in questo modo: le Idi sono i passi che compiono gli dèi minori intorno al divino, e sono in totale dodici. Di queste ne distinguiamo però tre particolari: l'Ide d'Oro, d'Argento e di Bronzo. La prima riguarda il momento di massimo splendore del canto divino, quando il Sole è al suo massimo; quella d'Argento rappresenta il progressivo diminuire del canto che coinvolgerà tutta la Terra, annunciato dalla Luna; l'Ide di Bronzo è il momento prossimo di riposo della Terra e il sopraggiungere del freddo.

Ogni Ide è a sua volta divisa in Quattro Tempi, ovvero: Nuovo, Crescente, Pieno e Calante. Così come venivano anticamente descritti i volti della Luna, così il Divino ha scandito il tempo per ogni Ide agli umani, affinché fossero parte della danza.

Ma come ogni danza che si rispetti, essa è composta da Suoni, che sono in totale sette per ogni tempo: Violino, Arpa, Organo, Flauto, Oboi, Corno, Clarinetto e Tromba.

Inoltre, poiché anche così gli uomini avevano fatica a danzare, furono ideati i Rintocchi. Ogni Suono ha ventiquattro rintocchi, scanditi da campane in ogni angolo del regno, regolati da meridiane; ogni meridiana ha sessanta tacche che, superate, fanno scattare un rintocco.

I rintocchi sono dunque i seguenti: Lodi, dalle tonalità tenui; Solstizio, dalle tonalità medie; Equinozio, dalle tonalità alte; Vespri, dalle tonalità che vanno spegnendosi.

Dagli ultimi rintocchi dell'Equinozio fino all'inizio delle Lodi, avvengono i Patti Solari. Come ho già spiegato la volta scorsa, i Patti sono il breve momento in cui è concesso ammirare la notte presso la Grande Casa del Cosmo. Tuttavia, a causa della nostra umana debolezza, raramente riusciamo a godere di questa visione magnifica e preferiamo, invece, chiudere gli occhi.

Questo ha spinto il divino a donarci la facoltà di vedere ciò che ci succederà, una volta che ci assopiremo per sempre: lo chiamiamo il Sogno. Il sogno è dentro ognuno di noi, fino alla nascita, e ci mostra immagini meravigliose, se rispettiamo l'Ordine, o immagini tremende, se offendiamo il Culto. Sicché, come vi ho spiegato, poiché l'uomo non può vivere nella Notte ma solo dormirci, il divino ha creato per noi un posto chiamato la Sera: è qui che tutti tendiamo; ed è compito dell'Ordine far sì che l'umanità vi arrivi, da sveglia o dormiente che sia.

Il Culto dell'Alba è certamente importante, come avrete capito, perché regola quasi ogni aspetto della nostra esistenza. Tuttavia, certo saprete, che all'Alba è legato anche il Culto del Tramonto. Vedete, l'uomo ha per lungo tempo abusato dei favori del divino e questi fu in procinto di punirci molto severamente. Erano tempi bui: l'umanità era afflitta da fame, guerre, malattie; i regnanti si davano feroce battaglia, peccavano di eresie, calpestavano ogni cosa c'era di buono sulla Terra. Il divino fu così indignato nel vedere come gli umani trattavano il suo dono che decise di farci addormentare nuovamente. Il Tramonto fu quindi sull'umanità ma proprio quando non vi era speranza apparve la Sposa!

Sono certo che tutti conosciamo la sua storia: essa è il pilastro della nostra società. La Sposa apparve nel momento più delicato della nostra esistenza e girovagò in lungo e in largo senza meta, facendo del bene e guarendo il mondo. Dinnanzi alla sua purezza, anche il divino placò la sua ira. La Sposa però volle intercedere per gli uomini, sapendo che essi erano comunque facili a cadere nell'errore; e così convolò a nozze con il Dio Sole, prendendo appunto il nome di Sposa. Prima che ella sparisse, però, predisse che una nuova Sposa sarebbe apparsa: avremmo dovuto attendere 365 danze e l'avremmo riconosciuta da uno stemma. Così fu.

Da allora, sono ventitré le Spose che l'Ordine ha avuto cura di trovare, accudire e istruire; e attualmente siamo ancora alla ricerca della ventiquattresima Sposa, che tuttavia non è ancora stata scovata.

Purtroppo, sono tempi bui anche quelli in cui viviamo oggi. Gli eretici sono ovunque, minacciano la nostra integrità, confabulano alle nostre spalle, perfino alcuni regnanti si sono assoggettati a loro. Se trovassimo la Sposa in tempo utile, metteremmo a tacere le loro voci insistenti! Come sapete, sarà ormai pronta per maritarsi: il Viaggio di Nozze va compiuti prima che ella giunga alla trentesima danza di età. Il suo viaggio nelle dodici capitali va compiuto assolutamente, è di vitale importanza! Esso non solo simboleggia il canto del Sole a cui tutti partecipiamo, ma rappresenta un momento di rigenerazione dalla distruzione. Mi auguro che per quando diverrete Sacerdoti sarà trovata: assistere all'Addio dal Celibato è qualcosa di unico per noi tutti! Saremmo benedetti!

Oh, temo di avervi trattenuto anche troppo. Abbiate memoria di queste nozioni: sono fondamentali! Esse fanno parte del culto e tutta l'umanità è regolata su di esse, tenetelo sempre a mente. Tradirle significa tradire il culto e l'Ordine, perciò fissatele bene in mente finché saranno parte di voi.

Avete un'ora di riposo e dopo padre Lukk vi condurrà ognuno a svolgere i lavori previsti per rinforzare la vostra fede e il vostro corpo.

Andate pure!»

Gregor uscì dall'aula come un fulmine ma, per sua sfortuna, incontrò subito padre Lukk. Questi, senza indugi, gli disse che si sarebbe occupato dei giardini, poiché padre Silone, abitualmente preposto a curare il roseto, si era ammalato. Giunto nei giardini interni però scorse per puro caso una figura familiare: Aulix stava incamminandosi sotto un lungo porticato, per recarsi presumibilmente da qualche parte. Spinto dalla voglia e dalla curiosità, lo pedinò facendo attenzione a non farsi scoprire. Lo vide incontrare un uomo dell'Ordine, padre Iosef: padron Mizar era solito rivolgersi sempre a questo sacerdote, poiché curava la biblioteca della Grande Cattedrale, oltre a fare da guida per chi non apparteneva all'Ordine.

"Che vorrà da lui? Non avrà intenzione di entrare nell'Ordine anche lui?" pensò, mentre li vedeva incamminarsi lungo il porticato. Li seguì facendo sempre bene attenzione a che non lo notassero, e si accorse ben presto che, anche quando era certo che stessero guardando verso di lui, o che l'avessero notato, era come se non riuscissero a vederlo. Ben presto, Gregor smise di preoccuparsi e comprese cosa stesse accadendo.

"Signore di tutto ciò che è nascosto e che si cela agli occhi, aveva detto". Approfittò di questo vantaggio per origliare cosa avevano da dire quei due; e scoprì che Aulix si era recato presso padre Iosef perché desiderava conoscere informazioni su padron Mizar. Perché era stato accusato di eresia? Perché aveva scelto di assopirsi? Per quale motivo aveva potuto avere per tradire l'Ordine?

A Gregor nessuna di queste domande era mai sorta in mente. A lui di padron Mizar non era mai interessato niente. Sapeva che però Aulix lo aveva sempre tenuto in grande considerazione, i due erano quasi come fratelli; non fosse stato per il loro rango, forse il padrone lo avrebbe perfino adottato. "Che assurdità. Uno schiavo muore schiavo. La tua libertà è solo fasulla, Aulix".

Un sorriso capeggiò sul volto di Gregor quando padre Iosef non diede ad Aulix le risposte che cercava. Anzi, gli disse che, pur avendo incontrato spesso padron Mizar, e aver parlato con lui di frequente nelle ultime Idi, non sapeva cosa gli fosse capitato. Disse però che l'abiura era una prova inoppugnabile del suo desiderio di redenzione, la cui base doveva esserci, evidentemente, una colpa.

"Uno sporco eretico, dunque". Ma mentre se la rideva sotto i baffi, Gregor notò spuntare una lettera da una delle tasche del sacerdote. Nonostante non ne conoscesse il contenuto, pensò che poteva essere divertente che Aulix la raccogliesse, mettendosi nei guai con l'Ordine. Accadde che, mentre padre Iosef si separava dal giovane, cadesse d'improvviso. L'altro fu subito verso di lui per aiutarlo a rialzarsi e, nel mentre, la lettera che stava nascosta nel talare cadde, senza che se ne accorgesse. Aulix, come spinto da un oscuro desiderio, senza neanche sapere perché, la prese e la nascose sotto la sua maglia. Il tutto accadde in un istante e Gregor, stupefatto, non ebbe dubbi: qualsiasi cosa fosse, quell'incanto era opera del Marchio di Plutone.

"Colui che governa il potere e le cose oscure, che porta l'uomo al suo splendore o alla sua rovina. Ebbene, questa mia nuova condizione sarà per me un trampolino di lancio! Aulix, tu sei solo la prima vittima".

E lo guardò sgusciare via, rapidamente nel timore di essere visto. Non appena fu svanito, Gregor esplose in una risata maligna e il marchio sulla sua lingua emise una luce arcana e oscura.

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 - Quinto Nuovo dell'Ultima Ide ***


6.1 Rintocchi di solstizio inoltrati

Il sopraggiungere dell'equinozio fu annunciato dai rintocchi delle campane, il cui suono, dapprima alto e grave, andava ora leggermente scemando; e un raggio del divino sole, infelice d'abbandonare i cieli, strisciò lentamente cantando, sommessamente radioso, del suo amore non ancora incontrato.

Sebastian Bahrt ammirò quello sprazzo di coraggio, consapevole che, ben presto, sarebbe sfuggito oltre il pertugio dal quale proveniva, poiché ogni luce era bandita durante i Patti. Così, approfittando di quel fugace momento, prese a giocare con il raggio solare. Da che ne aveva memoria, aveva sempre amato apporre pezzi di vetro alla luce, in particolare bottiglie con del liquido; e ne ammirava ora il tripudio di colori, facendo oscillare il boccale di birra, come se danzasse alle note del dio.

Dimenticò, distratto com'era, che al tavolo dov'era seduto stesse svolgendosi una partita di carte. "Vivrò abbastanza per vedere il divino scatenare nuovamente la sua collera? Chissà che spettacolo offre la sua tremenda furia" e frattanto che lasciasse incendiare la bevanda di nuovi bagliori dorati, intorno a lui le animosità iniziavano a serpeggiare come bisce in preda alla frenesia. Le ondate dei toni minacciosi si alzarono repentinamente, corrodendo le coste del silenzio che si era venuto a creare fino a poc'anzi.

«Suvvia signori, per favore» commentò Sebastian senza degnare nessuno del suo sguardo. Ovviamente, non bastò a trattenerli.

«Il damerino ha finalmente parlato!» berciò uno.

Qualcuno sputò da qualche parte. «Puah! Argh! Coff, nggrr!»

«Se sei venuto per perdere tempo, molla le carte e il danaro e facci continuare!»

Sebastian non parve particolarmente preoccupato della lunga serie di occhiatacce che gli piovevano addosso: erano punte di freccia troppo morbide, e la sua arroganza era armatura difficile da superare.

«Va bene, signori. Va bene. Di chi è la mano?» disse, ridendo.

Si sarebbe aspettato che qualcuno tirasse fuori un coltello ma, per sua sorpresa, quegli avanzi di galera con cui stava giocando si trattennero. Per un po'.

«È tua la mano, imbecille» fu l'unica cosa che sentì dire.

Impiegò pochi istanti per rilanciare la posta in gioco, ostentando una sicurezza che avrebbe indotto gli altri a credere che avesse tra le mani le carte più alte; e invece accadde che, di colpo, l'uomo dirimpetto si alzasse sbraitando.

«Questo maledetto sta barando! Guardatelo, che ghigno: ha una carta nascosta da qualche parte!»

Sebastian rimase impassibile. Era un vecchio trucco: uno dei due complici avrebbe accusato un giocatore a caso di barare. Era sufficiente che avesse avuto fortuna o un mazzo di carte buono; e che il resto del tavolo respirasse i veleni dell'invidia e della collera. Aizzando gli altri ignari giocatori contro il sospetto baro, il secondo complice avrebbe rapidamente passato una carta favorita al compagno, sottobanco e senza farsi vedere.

Tuttavia, nonostante l'avessero perquisito a fondo, non trovarono addosso a Sebastian alcuna carta incriminata; e al momento di ricevere una sonora strigliata, il truffatore che aveva accusato Sebastian subito si scusò. La partita avrebbe ripreso il suo naturale corso, se non fosse che, d'improvviso, uno dei due truffatori si ritrovò con un coltello conficcato nella mano.

«Barare è un'arte. Non è da tutti» fece Sebastian e, mentre uno dei due compari gridava, l'altro fece per aggredirlo; cosicché si ravvide del proprio gesto quando, in un tonfo sordo, si ritrovò pancia all'aria e disteso in terra. Con un gesto rapido, Sebastian ne aprì la giacca mostrato agli altri le numerose carte che teneva ivi nascoste.

«Ebbene, questa io la chiamo la "sceneggiata". Il segreto di un buon bluff, nella vita come al gioco, è fare scena: bisogna dimostrarsi come non si è, convincere gli altri della propria sceneggiata e approfittarne.

Il bluff di questi due signori è l'aver finto di non conoscersi, quando, invece, non facevano che lanciarsi piccoli segnati con lo sguardo e il viso: affascinante dimostrazione la loro! Tuttavia, saper mettere in scena un ottimo bluff non assicura per niente una vittoria, così come non garantisce che l'imbroglio vada in porto. Capite cosa dico? Il segreto di un buon baro non è nel bluff, ma nel non farsi scoprire» e fu subito su entrambi, legandoli alle mani e ai piedi. «Vuoi due in questo non eravate poi così bravi, dopotutto».

Sebastian tirò fuori da una tasca una carta: era usanza tipica di sicari o dei cacciatori di taglie avere un segno di riconoscimento, che poteva essere qualsiasi. "Non capisco Davis come riesca a togliere lo scalpo a tutti quelli che ammazza. E che cosa se ne farà poi?"

Dal momento che gli occhi dei presenti erano tutti su di lui, ritenne necessario aggiungere: «Suvvia signori, non v'è niente di cui agitarsi. Riprendete pure tutto ciò che stavate facendo: godete dell'alcol e dei sollazzi, così la felicità di oggi dimenticherà l'infelicità di ieri».

Anche se quella dei cacciatori di taglie o dei sicari a pagamento era una professione ormai conosciuta, vecchia di ben mille danze, vi erano ancora in pochi ad abituarvisi: vederne uno in azione era come assistere all'apparizione di uno spettro; e Sebastian era uno di quelli il cui nome correva veloce sulla bocca dei più.

«Intendo tornare per bere un altro boccale, messere. Tenete una brocca da parte!» disse il cacciatore all'oste, prima di afferrare in spalla un truffatore e trascinare l'altro per il collo degli abiti. Come d'accordo col cliente, due uomini erano già appostati in un angolo buio della strada: presero in custodia i due e consegnarono a Sebastian un sacchetto di monete.

«Soddisfatti o rimborsati!» disse ironicamente.

6.2 Primi rintocchi di equinozio

Quando la figura incappucciata, quasi certamente una mendicante, entrò all'interno della bettola, la trovò quasi deserta. Erano poche le persone all'interno del locale, se non si contava anche l'oste, lì per lavorare. La figura gli fu rapidamente vicino, notando la lunga cicatrice che, in diagonale, tagliava dal retro del capo fino alla guancia, passando al di sotto dell'orecchio destro. Era forse a causa di quella ferita che una parte dei suoi capelli, in particolare il lato destro, apparivano meno folti e numerosi; giacché quell'asimmetria era prontamente nascosta dalla mano, che spesso e malvolentieri cercava di riporre i ciuffi imprecisi e ondulati dietro l'orecchio. Così, nonostante non avesse ancora raggiunto le trenta danze d'età, appariva ben più vecchio.

«Ero sicura di trovarti qui, Sebastian».

La voce forte ma femminile di lei risuonò spettrale, quando accompagnata dai rintocchi delle campane, del cui flebile suono era a malapena udibile la percussione.

«Se avessi saputo in anticipo avrei scelto un posto più adeguato».

Lei prese la sedia e si sistemò, senza rispondergli.

«Dimmi: sei qui perché ti mancavo o, come voglio sperare, hai un lavoro per me?» fece lui, cercando di catturare lo sguardo di lei da sotto al cappuccio.

«C'è stata una complicazione».

«Di che tipo?»

«Uno dei nostri è stato indagato dall'Insonnia».

«Altre beghe con le teste di pezza. Lo hanno sopito? Ha parlato?»

«Si è martirizzato. Ai primi rintocchi di Lode lo hanno trovato assopito, nella sua vasca».

«Oh un martire amante dell'igiene! Ogni volta è una sorpresa».

Lo sguardo tagliente di lei lo fulminò. «Sii serio. Il suo martirio è una faccenda molto grave: stava aiutandoci a studiare un metodo per intrufolarci all'interno della Grande Cattedrale. In quanto studioso del culto e dell'Ordine, il suo accesso alle biblioteche sacre ci era davvero utile; quando finalmente sembrava aver scoperto qualcosa, l'Insonnia ha stretto la morsa sopra di lui. Abbiamo perso ogni contatto con lui. Ogni tentativo di avvicinarlo si è rivelato fallimentare».

«Di certo puoi stare tranquilla: se avesse parlato, ora non saresti qui».

«Ed è proprio questo il punto. Qualsiasi cosa abbia scoperto o qualunque informazione avesse, sono sicura che ha fatto in modo di lasciarcela».

«Se si è martirizzato, padre Iosef avrà sicuramente qualcosa».

«Padre Iosef è riuscito soltanto a riferirci che sua eccellenza Mizar ha lasciato una lettera. Un testamento e nient'altro».

«Quindi sei convinta che abbia lasciato un qualche indizio a casa sua».

«Deve. Non può essere altrimenti».

Sebastian si sporse più avanti. Da che ricordava, lo sguardo di lei aveva sempre avuto un effetto magnetico su di lui: avrebbe giurato che vi fosse molto di più in quelle iridi che del disprezzo e del disinteresse che paventava per lui.

«Hai al tuo comando un intero esercito di mercenari, perché rivolgerti a me? L'armata della Luna Nera non ti basta?»

La mano di lei guizzò come saetta tra le nuvole scure, afferrando gli abiti di Sebastian per il petto, stringendoli in un gesto di stizza.

«Abbassa la voce e non nominare più quel nome con tanta leggerezza. Ti considero ancora un alleato importante ma non mettermi in situazioni spiacevoli: potrei diventare impietosa».

«Non potrai mai essere più impietosa di come quando mi hai strappato il cuore».

Lei fece per trarsi indietro, come punta da un ago infuocato all'altezza del petto. Sebastian rapidamente le afferrò il braccio cercando di riavvicinarla.

«Mithra...»

«Fa silenzio!»

«Ascoltami almeno!»

Strinse più forte la presa quanto bastò perché lei reagisse con un sonoro ceffone. L'oste si lasciò sfuggire una risata, probabilmente convinto che quella relazione amorosa clandestina stesse infrangendosi.

«Apri bene le orecchie Sebastian. Ho sepolto i miei sentimenti per te nel campo arido dell'indifferenza. Sai chi sono. Sai cosa rappresento. Era sbagliato allora come lo è adesso».

«Allora perché mi hai cercato? Lo sai a causa di chi ho una cicatrice sul volto? Forse lo hai dimenticato?».

«Perché mi fido di te».

«Per così poco?»

Con un gesto brusco, Mithra si liberò dalla presa e fece per alzarsi. Posò sul tavolo un sacco di monete e un foglio di carta, quindi concluse: «Questo è per il disturbo. Il posto è segnato sulla mappa. Aiutami quest'ultima volta: sei l'unico a cui posso affidare questo compito».

«Sei subdola. Non saprei dirti di no anche se lo volessi».

«Lo so».

«Farò ciò che chiedi. Tuttavia, a lavoro terminato le nostre strade si separeranno. Semmai ci rivedremo, sarà quando qualcuno mi pagherà per la tua testa».

«Sai dove trovarmi».

Mentre Mithra andava via, sgusciando nel buio come uno spettro, Sebastian sentì il petto gonfiarsi e farsi pesante tutto ad un tratto; e sebbene conoscesse l'aspro sapore della malinconia, si lasciò cullare dalla tristezza che quell'incontro aveva risvegliato in lui. Si sa che quanto più ci si sforza nel dimenticare un amore mai nato, tanto più esso germoglia feroce nei sensi di colpa. Sebastian però non amava sentirsi in colpa, così annebbiava i malumori nel suo ultimo boccale di birra. Bevve tutto d'un fiato, immaginando i suoi dispiaceri affondare nelle onde al doppio malto come una nave, in preda ai venti burrascosi della nostalgia.

6.3 Vespri

Sebastian alzò lo sguardo per ammirare la volta celeste oltre le finestre. Il ricco mosaico delle divinità, che andava accennandosi in bizzarre sagome geometriche, lo confuse: trovava meravigliosa la vista della Grande Casa, eppure dentro di sé l'angoscia della notte, quella primordiale paura che azzannava ogni uomo, si affacciò sgradita nei suoi pensieri. "Chissà se anche gli dei eterni dormono. E se gli dei dormono, cosa sognano?".

Sebastian aveva smesso da lungo tempo di sognare. Chiunque, dall'uomo più povero fino al più ricco e potente, sapeva che era dal proprio Sogno che si poteva comprendere la propria condotta: gli incubi erano per gli empi, i dannati, coloro destinati a perdersi nella notte senza stelle. L'Ordine aveva sempre avuto premura di radicare negli uomini il culto dei sogni; insegnare a chiunque, fin dai primi momenti della sua giornata, che l'unica indicazione per giungere alla Sera passava dal sogno.

"Eppure io non sogno più: né visioni beatifiche, né dannate". Quando ne fu consapevole, molte danze addietro, Sebastian ne fu terrorizzato. Credette di trovare ristoro nel culto; e pregò, si riversò in terra, pianse lacrime amare come nessuno uomo aveva mai fatto prima. Nulla di tutto ciò lo aiutò mai. Non trovò nelle preghiere e nei riti e nelle canzoni ciò che cercava. Dopo queste tribolazioni fu visitato una sola e ultima volta da un sogno, ch'era forse più uno spettro del passato.

Si rivide giovane. Dodici danze o poco più, nell'armata ove si addestrava all'arte del combattimento. Eppure, trovò poco spazio per mettere in pratica ciò che apprendeva poiché, in quel periodo, una calma apparente sembrava aver fugato le grandi bande di predoni e banditi; mentre gli schiavisti illegali e i contrabbandieri erano nemici di ben poca valenza, contro cui erano sufficienti che pochi cavalieri. Il comandante della banda della Luna Nera, ser Giovanni da Cura, aveva sgominato gran parte dei ribelli e sventato l'assassinio che il Re aveva ordito a suo danno, creando una pace momentanea nelle regioni del Nord.

«Per cosa agito a fare la mia spada, se essa si arrugginisce?» era solito sbraitare spesso il giovane Sebastian.

Al suo fianco, compagno instancabile, il timido e insicuro Lucius gli faceva da eco: «Dovremmo partire di notte, insieme! Troveremmo qualche ladro di pollame e gliela faremmo vedere!»

«Non siate sciocchi», cinguettò Mihtra, «mio padre vi troverebbe e vi farebbe rigare dritto a suon di frusta».

Nelle terre che avevano liberato e poi occupato, il piccolo gruppo di mercenari godeva di una buona fama: solidali, inclini al codice d'onore dei cavalieri, sempre disposti a intervenire in aiuto dei bisognosi. Erano dei paladini per il popolino e, tra di essi, vigeva un legame familiare, forte come fosse un legame di sangue. Mithra, Lucius e Sebastian erano dunque cresciuti come fratelli, sempre uniti. Mithra, la figlia del comandante, ne aveva ereditato il carattere forte e l'audacia; Sebastian era impetuoso e impertinente ma dal cuore nobile; Lucius era introverso e timido ma capace di sfoderare una forza poderosa. Il loro trio era ben amato da qualunque componente dell'armata, che li vide crescere da fanciulli in giovanotti nel fiore delle danze come se fossero figli di tutti.

Ben presto però Lucius e Sebastian si accorsero di nutrire per Mithra ben più che un legame fraterno. Il suo corpo che andava maturando, il suo seno che iniziava a mostrarsi sotto le vesti, la sua carnagione mulatta che le dava un aspetto quasi felino: i due giovani uomini avvertirono presto il richiamo dell'amore e della passione, che prima di allora non avevano mai preso davvero in considerazione, se non come uno scherzo. Se da un lato l'amore per Mithra strinse di più il rapporto fra Lucius e Sebastian, dall'altro inasprì le loro differenze: se il primo tentava di superare la sua timidezza con la poesia e la musica, di cui aveva una dote innata; il secondo era certo che le sue belle parole e il suo fare ardito avrebbero conquistato l'animo cavalleresco e combattivo di Mithra.

«Cosa ne pensi?» chiese Lucius, dopo aver recitato la sua nuova poesia all'amico.

«Che potresti usarla per convincere un nobile a non tagliarti la testa, tutt'al più».

«Forse ho sbagliato».

«Indubbiamente, la poesia è...»

«Intendevo: ho sbagliato a porre a giudizio i miei versi ad un cafone».

«Il timido e vigliacco Lucius mostra le zanne! Venite signori, ammiratelo: anche un coniglio, a volte, mostra i denti!»

«Considerando da dove provieni, mi meraviglio che tu sappia parlare così bene. Ah già, dimenticavo, non fai che prendere spunto da me».

«Questo gioco mi sta stancando, perché non te ne torni a strimpellare qualche ridicolo strumento e lasci ai veri guerrieri il compito di conquistare una donzella?»

«Come se tu avessi mai davvero affrontato una vera battaglia. Dimmi Sebastian, lucidi la tua spada come sei solito lucidare il tuo membro quando pensi a Mithra? Entrambi rimarranno sempre nella loro fodera».

Le animosità tra i due si erano sempre più allargate col tempo, nonostante avessero faticato a restare uniti come un tempo. Eppure, quanto più essi cercavano di misurarsi nell'amore per Mithra, tanto più evidenti diventavano i dissidi; e tanto più crescevano i battibecchi, più furiosi diventavano gli insulti che si rivolgevano a vicenda. Ma quella fu la goccia che fece traboccare il vaso, che li indusse infine a sfidarsi apertamente. Così scelsero il suono, il rintocco e il luogo. Nessuno doveva sapere, così finsero che niente fosse capitato e, al calar del divino e all'iniziare dei Patti, si guardarono ben dritti negli occhi sapendo a cosa andavano incontro. Entrambi sentivano la collera scemare. Certamente, col senno del poi, avrebbero riposto ogni arma e fatto la pace. Tuttavia sentirono che non era da uomo tirarsi indietro: l'onore del cavaliere stava nel non tirarsi indietro quando necessario. Nessuno però aveva mai insegnato loro che non era nelle scaramucce che un vero cavaliere dimostrava il suo onore.

Il primo ad aggredire fu Lucius. Il giovane sempre silenzioso e mite sfoggiò una collera inaudita, che sorprese Sebastian a tal punto che trovò difficoltoso difendersi. Ben presto però la foga di Lucius venne meno, dimostrandosi poco avvezzo alla spada nonostante l'addestramento; e Sebastian, dall'altro lato, rimontò con sagacia alle stoccate palesando la sua innata dote di schermidore. Il tintinnare delle lame si accrebbe tanto da attirare l'attenzione di un cavaliere, che uscito dalla sua tenda per urinare, udì lo scambio di colpi e si fiondò a guardare. Chiamò a gran voce tutti gli altri, gettando l'allarme; e Sebastian si sentì costretto a voltarsi, offrendo il lato destro della guancia al suo avversario. Lucius, impietoso, svirgolò la sua lama ma non impresse la giusta forza nella stessa, così essa non scavò come dovuto nella carne. Inferocito dal dolore e dal gesto, Sebastian reagì d'istinto e si ritrovò con la lama ben piantata nel fianco dell'amico. La collera fece subito posto all'orrore, invitandolo ad abbracciare il corpo dello sconfitto mentre la sua vita andava scivolando via.

«Tu sia maledetto... tu sia sempre...».

«Lucius, io...»

I giorni che seguirono quegli eventi Sebastian li serbò sempre con sé. Il corpo di Lucius fu arso su una pira. Mithra pianse come mai Sebastian l'aveva vista prima. Era triste perché lo amava o era triste per la sua fine? Il comandante fu freddo e integerrimo: dispose che Sebastian subisse trecento frustate e che fosse esiliato dall'armata, avendo infranto uno dei più sacri codici del gruppo. Il sogno degli eventi passati si concluse poi con la giovane Mithra che, salutando di nascosto la sua partenza, lo baciò sulle labbra ma con tono amaro e sprezzante aggiunse:

«Se tu avessi badato più al mio cuore che al tuo orgoglio, avresti capito di chi sono sempre stata innamorata. Lucius era gentile e premuroso ma non era da lui che volevo quelle attenzioni. Ora è sopito. Forse lui meritava il mio cuore ben più di quanto lo hai mai meritato tu, ma ciò che è fatto è fatto. Sebastian, oggi ti sei macchiato di due grandi colpe: hai ucciso una persona a me molto cara e hai ucciso i sentimenti che provavo per te. Addio Sebastian».

Mentre la fanciulla gli dava le spalle e la pioggia scendeva grave sopra di lui, Sebastian si liberò in un urlo quasi bestiale e, infine, andò via.

"È forse da quel giorno che ho smesso di sognare". Quella domanda lo tormentava. Dai suoi giorni presso l'armata di mercenari, aveva vissuto arrangiandosi come poteva. Ben presto divenne famoso come cacciatore di taglie e come sicario: la Serpe Nera, lo chiamavano per la sua cicatrice e il colore dei capelli; e le sue parole si fecero velenose, di un veleno che presto perse l'originale carica di odio e disprezzo e si tramutò, invece, in puro cinismo. E da quell'ultimo sogno che aveva avuto, poche danze dopo aver lasciato Mithra e aver ucciso Lucius, Sebastian aveva lentamente avvertito un grande vuoto divorargli l'anima. A volte credeva di stare impazzendo: poteva giurare, nei rintocchi più bui, che il fantasma di Lucius lo perseguitasse, nascondendosi e piangendo lì dove la tenebra era più fitta e dove nemmeno la luce lunare riusciva a penetrare. Era certo che fosse perfino lì, nascosto nella villa. Lo aveva intravisto nella scaramuccia con ser Alcor e così, assicuratosi che l'avversario fosse ben legato a una colonna e privo di sensi, Sebastian restò con gli occhi chiusi per rivangare rapidamente qual era la sua missione e perché ancora non aveva messo piede fuori da quella maledetta villa.

"Prima trovo ciò che cerco, prima me ne vado".

«Sì ma... io cosa sto cercando?»

Il cacciatore di taglie si sentì confuso. Mithra non era stata molto chiara, anche se gli aveva riferito di cosa si stava occupando quel Mizar. "Un ingresso segreto alla Grande Cattedrale". Forse una mappa? Magari uno dei tanti quadri che decoravano le stanze celava, dietro di sé, un buco. Sebastian raccolse la sua daga in fretta e furia a decise di mettersi all'opera. Setacciò la camera da letto prima di ogni altra stanza: ritenne che, nei luoghi privati di ogni persona, si celassero sempre i loro più reconditi segreti. Decise finanche di metterla a soqquadro, così che si pensasse di lui come di un ladruncolo intento a svaligiare una villa ormai vuota. Perse così tempo prezioso ma non se ne curò; e intanto la sua ricerca dava frutti assai vani, poiché non v'era niente tra quelle mura che il padron di casa avesse avuto cuore di nascondere.

«Ser Alcor!» sentì d'improvviso.

Senza scomporsi, Sebastian scivolò come una biscia nella penombra della casa e, col passo felpato di un predatore, girò intorno al giovanotto che stava piegato in ginocchio, cercando, senza successo, di far rinsavire ser Alcor. Lentamente il cacciatore di taglie coprì la testa con un enorme cappuccio, e il volto con una bandana. Quando sicuro d'essere irriconoscibile, raggiunse la vittima alle spalle e l'afferrò: la daga sulla gola e una mano a stringergli il braccio dolorosamente dietro la schiena, così che né fuggisse né urlasse.

«Anche se non amo gli imprevisti, e tu lo sei, e come se lo sei, preferisco prendere con calma la decisione più giusta. Quindi bada a non fare scherzi e io eviterò di tagliarti la gola. Intesi?»

«Intesi» bisbigliò Aulix.

«Bene. Quanto conosci questo posto?»

«Come le mie tasche».

«Allora ti propongo un patto: aiutami e potrai sentire i rintocchi di Lode domani».

«Perché mi dovrei fidare?»

«Chissà. Puoi sempre provare cosa si prova ad essere sgozzati, se ti va».

«Non voglio!» ammise il ragazzo. «Cosa vuoi che faccia?»

«So che sua eccellenza Mizar amava studiare. So che stava studiando qualcosa circa la Grande Cattedrale, ne sei al corrente?»

«Sì. Padron Mizar si incontrava spesso con alcuni sacerdoti e, nelle ultime danze, ha viaggiato spesso. Cercava qualcosa».

«Come me. Chissà che i nostri qualcosa combacino. Lui cosa cercava?»

«Credo una mappa. Stava studiando l'originaria architettura della cattedrale. Sosteneva fosse stata eretta su...»

«Tutti sanno la storiella: la Grande Cattedrale fu eretta su quella che l'Ordine dichiarava essere la casa della Prima Sposa. Cosa voleva dimostrare?»

«Sosteneva che non fosse vero. Che fosse stata una scusa per erigere la Grande Cattedrale su qualcosa di molto più antico».

«E poi?»

«Credo si sia spinto troppo oltre. Io non lo so. Non so cosa pensare. In ogni caso, se pur avesse qualcosa, l'Insonnia ha spesso rovistato nella sua villa e sequestrato qualsiasi libro, pergamena o testo che potesse essere incriminato».

«Mi stai dicendo che non è rimasto niente?»

«Non ti sei guardato intorno? Non l'hai notato? Gli scaffali sono vuoti!»

Sebastian fece un rapido giro della stanza. Non si era accorto che fosse una biblioteca, forse perché la vasca lo aveva tratto in inganno; eppure, a vederli così spogli, gli scaffali delle librerie trasmettevano un senso di vuoto. "Che io sia dannato".

«So che il tuo padrone ha lasciato un testamento, ricordi se c'era scritto qualcosa?» incalzò Sebastian.

«No. Solo il sacerdote lo ha letto e non ne conosco il contenuto, se non per le poche cose che mi ha riferito il legale».

"Di male in peggio". «E immagino che ora quel testamento sia nell'Ordine. Meraviglioso».

Aulix comprese immediatamente come la sua posizione e la sua sicurezza stessero rapidamente vacillando, e corse ai ripari: «Io però ho trovato questa!»

Tirò fuori dagli abiti la lettera che aveva sottratto a padre Iosef. Gli occhi di Sebastian si illuminarono. «Per tutte le Idi di Bronzo questa è un documento segreto dell'Ordine. Come fai ad averlo?»

«Fortuna?»

«Che tu sia dannato ragazzino, se non è fortuna questa. Lo sai cos'è questo sigillo in cera rossa? E questo simbolo, lo vedi? Lo stemma della Luna impresso a caldo; in genere i documenti di un eretico hanno tre destinazioni: o li si brucia, o li si ritiene innocui, o li si conserva e li si sigilla. Vuol dire che qualsiasi cosa sia questa lettera è sia un documento potenzialmente pericoloso ma, al tempo stesso, qualcosa che l'Ordine non ha il potere di distruggere. Ecco perché viene sigillato».

Così il cacciatore di taglie aprì rapidamente la lettera ma il suo entusiasmo parve spegnersi con la stessa rapidità con cui era tornato alla ribalta.

"Il maledetto testamento. Padre Iosef è dalla parte di Mithra, posso capire che volesse conservare un documento contente indizi sulla loro missione, ma perché questo? Perché ha fatto sì che non venisse distrutto?"

«Cosa hai scoperto?» chiese Aulix con un filo di coraggio.

«Il tuo padrone era un dannato genio».

«Non ti seguo».

«Non capisci? Ha scritto un testamento e una lettera di abiura nello stesso foglio, in questo modo si è assicurato che, anche qualora finisse nelle mani dell'Insonnia o dell'Ordine, non avrebbero potuto distruggerlo».

«Perché no?»

«Perché è un testamento! La legge impone che sia conservato dal legale. Ma poiché è anche una lettera di abiura di un eretico, l'Ordine deve acquisirlo e vagliarne la validità. Questo crea un conflitto tra la legge e il culto; la cui soluzione è apporvi un sigillo».

«Come sai tutte queste cose?»

«Quando dai la caccia ai fuori legge per molto tempo impari una o due cose su come funziona la società, ragazzo».

Sebastian accese una candela e avvicinò la lettera alla stessa, cercando di leggere meglio: la sua speranza era che vi fosse un qualche messaggio in codice, da decifrare nelle parole. Tuttavia, inizialmente non parve trovare alcunché.

«La lettera! Giratela!» urlò improvvisamente Aulix.

"Una mappa segreta! Non male, messer Mizar. Davvero non male!" Sebastian rigirò il dorso della lettera e vide, illuminate dalla candela, una serie di immagini e linee affiorare come per incanto. Ricordava quel vecchio stratagemma: la povere usata dalle Orme Bianche reagiva sì alla luce solare, ma se trattata in maniera particolare poteva reagire anche ad altre fonti lucenti, come, appunto, il fuoco.

«E così il tuo padrone aveva nascosto una mappa dietro la sua lettera. Forse sperava che padre Iosef se ne accorgesse, visto che, sicuramente, sarebbe stato lui a prenderla in custodia. D'altronde, è uno dei suoi compiti nell'Ordine».

«Padre Iosef? Padre Iosef è un eretico?»

Aulix non si accorse nemmeno di come Sebastian avesse ridotto le distanze, né del fatto che la sua daga balenava come una saetta dalle vesti, conficcandosi nel suo petto. Una fitta lancinante lo azzannò, sentì un freddo cocente e maligno spegnere ogni altra sensazione che non fosse il dolore.

«Mi spiace ragazzino ma ho mentito: non avevo intenzione di lasciarti in vita dall'inizio. Mi sei stato molto utile, porterò il tuo nome a chi di dovere. Gioisci, sarai un martire eretico!»

Aulix scivolò lentamente a terra. Si tenne con le mani sulla ferita, che bruciava ancor più ora che la lama era stata estratta. Cercò affannosamente di trattenere il sangue ma le forze andavano scemando sempre più. Quei suoi ultimi attimi li usò per fissare Sebastian: lo vide appoggiare la lama insanguinata tra le mani di ser Alcor, dopo averlo liberato ed essersi ripreso la sua fune.

«I gendarmi e quelli dell'Ordine non ci capiranno niente. Meglio così. Il segreto di un buon inganno è seminare confusione. Buonanotte!»

Così Aulix chiuse gli occhi e scivolò nella notte, laddove sperava di rivedere il caro padron Mizar.

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 - Quinto Nuovo dell'Ultima Ide ***


7.1 Durante il Sogno

Undine si riebbe dal suo sonno con un sussulto; non uno che non lo avesse lasciato, una volta aperti gli occhi, sorpreso e sconcertato. Fu come se le mani gelide di qualcuno lo avessero preso da terra per scuoterlo con la foga di chi non aveva di che pazientare. Credette di essersi destato a nuova vita. Dapprima, quindi, boccheggiò quell'aria di novità, la quale, lui sentiva, era rovente nei polmoni come per un infante, ma privo di alcun vagito.

Impiegò ogni sua forza a sua disposizione per mettersi seduto, stando poi con la schiena arcuata e, tenendosi le mani sul petto, stringendole come artigli, ansimava. "Cosa ne è stato di me? Non aveva il malore preso il sopravvento?" Realizzò di non avvertire più alcun dolore nelle sue membra, benché si sentisse affannato e privo di forze. La confusione trovò facile preda nel suo cuore: chi al suo posto però non avrebbe avuto l'animo in sussulto, quando, poc'anzi, aveva creduto di esalare l'ultimo dei respiri? Forse era questo l'affanno: il dover abituare il suo petto a respirare nuovamente.

Stette così un po'. Con lo sguardo vagò altrove e tutt'intorno, ammirando lo scenario in cui si era destato: una piana brulla, spoglia e grigia. Un moto di sgomento lo coglieva quando vedeva alte le montagne di nuda roccia svettare verso il cielo nero; quando, tutt'intorno, d'improvviso la terra cadeva verso profondi abissi senz'acqua. Si fermò quindi al cielo, oltre i monti.

"Che sia questa la Grande Casa del Cosmo?" Rabbrividì, così inerme davanti al manto nero coperto di gemme brillanti; e seppe di ognuna essere una divinità lontana e sconosciuta, perdendone presto però il conto.

«Non è meravigliosa?»

Si voltò di scatto. La vide e fu sorpreso di non averla notata prima, scoprendosi in vergognoso ritardo. Non seppe invero da dove provenisse quel senso di vergogna, eppure comprese di avervi mancato rispetto non appena i suoi occhi la ammirarono: la sua forma tondeggiante ma non perfettamente sferica; le sagome verdi e in molti punti marroni, dai contorni frastagliati; l'immenso azzurro del manto che era quasi ovunque; i due poli bianchi, di cui uno sorretto da una luce vivida dalle tonalità verdi e azzurre; i bianchi filamenti, disposti qui e lì, che sovente formavano astratti disegni o si congiungevano insieme, in chiazze lattescenti grandi e vorticose. "Come ho fatto a non notarla subito?"

«Passano il tempo e gli eoni, eppure la mia amata sorella è radiosa come io la ricordo ancora».

Così Undine la vide, infine, più avanti. Stava seduta su una roccia una bambina dalle lunghe trecce d'argento, che cadevano senza apparente fine, formando un grande giardino di trecce e capelli tutt'intorno. Non poté guardarla in volto, poiché esso era puntato su ben altro soggetto.

«È meravigliosa. La guardo e il mio animo trabocca di malinconia, eppure non ho mai visto niente del genere prima; che cos'è?».

«Quella che guardi e che provoca in te commozione altro non è che la casa dove hai vissuto, piccolo uomo».

«La mia casa?»

«Non solo la tua. Di tutto il piccolo popolo».

«Le vostre parole sono enigmatiche per me. Vi prego, spiegatevi» disse il sacerdote, avvicinandosi a lei.

«Oh Gaia vivere per gli altri è bello ma... coloro per cui hai vissuto non ti hanno forse dimenticata? Ed essere dimenticati, mia amata sorella, non è forse la peggiore delle cose?»

«È dunque Gaia il suo nome?» ripeté Undine senza riflettere, finché un brivido non lo colse come una spada nella schiena. Raggelò.

«Sei lei è Gaia, nostra madre e protettrice, voi siete...»

Non fece in tempo a terminare la sua frase che in un movimento fulmineo si produsse la fanciulla. Così, rivolgendo le grosse pupille scavate e prive d'orbite in direzione dell'umano, rivelò il suo aspetto corrugato, vecchio e avvizzito.

«Io sono la Luna. Io sono Artume».

Undine cadde come cadono gli uomini che, afferrati da un sì violento orrore, perdono l'uso delle gambe; e tutto ciò che sanno fare, appunto, è adagiarsi con le natiche sul terreno.

«Quale inganno è questo!» biascicò il piccolo uomo. «Quale divinità si riduce a un tale stato? Quale divinità è violata dallo scorrere incurante del tempo?»

Lei intento gli si avvicinò, carponi. «Tutte».

«Voi mentite! Non siete voi dèi eterni? Non siete voi gli eterni abitanti della Grande Casa? Non siamo forse soltanto noi umani coloro che viaggiano e tornano alla notte?»

«Tutti siamo malati, piccolo umano. Perché il tempo è contagioso e non risparmia nessuno».

Così allungò le proprie mani scheletriche e afferrò Undine per le guance; e lui sentì il tocco freddo di lei scavargli nella carne, come aghi aguzzi che si infilavano fin dentro le sue ossa. Così seppe, vide la verità e pianse.

«Il tempo scorre, piccolo uomo. Freddo. Impietoso. Non ha conto di niente e non guarda nessuno. Va dove vuole. Fa ciò che desidera. Forse qualche volta, incuriosito, si ferma presso di noi e si piega, rallenta; chissà forse a qualcuno concede un qualche istante che pare immutabile. Smette il suo correre incessante solo una volta: quando noi si chiude gli occhi in eterno e si va altrove».

«No! Noi ci si addormenta! Perché un giorno apriremo gli occhi e saremo svegli nella Sera! Cos'è questa parola, altrove? Dov'è che si va quando si chiudono gli occhi in eterno?»

«Le lande dell'altrove ci sono ignote, piccolo uomo. Ma nessuno dorme, quando il tempo per noi si ferma; né tu ora stai dormendo o sognando. Qui sei perché io lo voglio; qui sei, di spirito e coscienza fatto, dinnanzi a me, come io di spirito e coscienza dinnanzi a te sono; qui sei, forse per poco, prima che ciò che sei sia dileguato verso l'altrove».

Le lacrime di Undine aumentarono.

«Ma io non voglio andare altrove!» ammise.

«Anche io, piccolo uomo. Anche io ho creduto in quel sogno che tutti chiamano eternità e tu chiami Sera. Ho creduto, sciocca com'ero, che avrei vissuto senza tenere conto del tempo, così avrei visto mia sorella tornare per danzare nuovamente con me. Allora l'ho ammirata a lungo ed infine, guardando voi, così intenti a prosperare eppure così ingordi da farvi del male a vicenda, ho compreso: la mia amata sorella Gaia è già altrove e quello che vedo qui è il suo celeste corpo. Esanime. Allora eccomi, stanca del guardare: ho scelto uno di voi. Lui farà le mie veci e svolgerà per me un sacro compito».

«Sono io costui?»

«Non sei lui ma lui è vicino a te. Lo incontrerai presto e vedrai nei suoi occhi il mio marchio. Saprai allora che io, Artume, sono presso di lui».

«Perché allora avete evocato me?»

Artume strinse le mani sul volto di lui e lo baciò.

«Accetta il mio dono, schiavo del Sole. Camminerai alla mia luce, sarai giovane e forte; vivrai a lungo quanto a lungo vivono gli dèi; e ti sembrerà che sia un eternità la tua intera vita. Allora tu sarai la sua guardia fino a che lui non si desterà e risponderai a lui come suo fedele cavaliere».

Undine, pur dibattuto in un primo momento, guardò dentro di sé e scoprì che agognava quei doni. Forse, si domandò, quella divinità lo stava tentando? Piegando il suo dito dentro una ferita che l'aveva trascinato a lungo nell'apatia? Così ora, giovane e forte com'era stato un tempo, avvertì il gusto irrinunciabile del frutto che gli era stato offerto. Quindi, accettò.

«Allora vi prego ditemi: chi è che dovrò servire e proteggere?»

E in un sussurro, Artume disse nel suo orecchio: «Il suo nome è...»

7.2 Patti Solari inoltrati

Sebastian entrò nelle Case di Cura, seguito da un piccolo gruppo di persone. Il padre sacerdote Norris, che si dedicava alle cure dei malati e dei moribondi, stava ultimando gli ultimi riti su un confratello quando la voce del cacciatore di taglie lo colse di sorpresa.

«Padre! Padre!» faceva, imitando il tono di una persona disperata e spaventata.

«Vi prego figliolo abbassate la voce!» faceva l'uomo, gesticolando. Sebastian allora si precipitò ai suoi piedi.

«Padre! Padre! Mia moglie, la mia amata moglie; oh che il divino l'abbia in gloria! Ma io ecco, padre! Padre vi prego! Aiutatela!»

«Calmatevi figliolo e conducetemi da lei».

Subito alle spalle di Sebastian apparirono altre tre fanciulle, che reggevano assieme il corpo esanime di un'altra donna ancora nel fiore delle sue danze. Il sacerdote non fece particolarmente caso a ciò che vide: benché ostracizzata, la tradizione di maritare una o più donne, specie se di giovane età, non aveva ancora abbandonato il popolino, ancor più nelle aree dove il matrimonio era, tanto per i nobili quanti per i poveri, uno strumento di consolidamento tra famiglie; per salvaguardare il patrimonio, per rinsaldare il possesso del proprio terreno, per stringere patti di sangue, per circondarsi di alleati. Perfino tra nobili e membri più benestanti del popolino si intrecciavano rapporti matrimoniali, poiché il denaro e il potere, subito dopo l'Ordine, dettavano legge ovunque.

L'uomo devoto al Sole si inginocchiò per controllare la moribonda. Ma non appena si accorse che qualcosa non tornava, una lama gli carezzò la gola e lo immobilizzò.

«Padre, perdonatemi: ho molto peccato» commentò ironico Sebastian, tenendo in ostaggio il sacerdote. «Ascoltatemi, io e le signorine qui presenti siamo in missione e non c'è niente che possiate fare a tal proposito».

«Potrei gridare e gli altri sacerdoti udirebbero; e la gendarmeria impiegherebbe poco a catturarvi!» squittì padre Norris, in preda al panico.

«Ho fatto in modo che la gendarmeria sia occupata altrove. Mentre per voi, sappiamo che siete il solo che si occupa di questi poveri diavoli durante i Patti. Siete solo... beh, lo eravate».

«Solo un folle prenderebbe in ostaggio un sacerdote dell'Ordine! Non so cosa siete venuti a fare qui, ma la vostra follia avrà vita breve!»

«Anche voi potreste avere vita breve» interruppe una delle donne, quella che aveva finto il malore. Quando il sacerdote vi fu abbastanza vicino, notò la pelle scura e i suoi occhi di smeraldo. «Potete aiutarci o incontrare il vostro Dio qui e subito. Ma non siamo così meschini, padre: sopiremo anche tutti i malati qui presenti. Vi faranno compagnia nel vostro viaggio».

Padre Norris sentì una fitta spezzargli l'anima. Scoprì di essere più vile di quanto avesse mai immaginato, così, con suo grande rammarico, non si meravigliò della rapidità con cui rispose: «Cosa volete che faccia?»

La donna allora si tolse il cappuccio, rivelando una chioma di capelli ricci e mossi che si fermavano sopra il collo. Sotto l'occhio destro una piccola cicatrice rosea descriveva un mezzo sorriso, mentre alcune chiazze di pelle grigiastra formavano piccole placche, simili a squame.

«Abbiamo bisogno delle vostre capacità, padre. Sappiamo che vi è un passaggio nascosto, qui. Un passaggio che dobbiamo scovare e pensiamo che voi sappiate di che cosa si tratta».

«Un passaggio per dove?»

«Per la Grande Cattedrale».

«Questa è pazzia! Non vi è nessun passaggio segreto che porti alla Grande Cattedrale. Gli unici passaggi sono quelli noti, utilizzati da noi sacerdoti e dai fedeli! Non c'è altro!»

La donna non parve compiacersi della risposta. «Padre, è molto importante che si trovi questo passaggio. Perciò le consiglio di considerare meglio le sue parole: vi è sicuramente, senza alcun dubbio, una porta segreta e voi ci direte dov'è».

«Io mi occupo dei malati di questi luoghi da oltre venti danze. E in questo periodo ho conosciuto ogni centimetro, ogni colonna, ogni giaciglio, ogni scaffale e ogni candela qui presente. Nessun passaggio porta alla Grande Cattedrale e l'unico altro passaggio che conosco è quello delle Orme Bianche».

"Non va bene. Mithra potrebbe prenderla male". «Capisco che le Orme Bianche abbiano un accesso facilitato alle Case di Cura», esordì Sebastian. «Ma non è ciò che cerchiamo».

Una delle tre fanciulle aprì la lettera di Mizar e, mettendola alla luce di una candela, riesaminò la mappa. «Nella planimetria qui disegnata, non c'è un altro ingresso. Per cui, o questo passaggio non esiste, oppure...»

«Oppure è ciò che state cercando!» avanzò il sacerdote.

«Le possibilità non sono molte. Tuttavia, è noto che le Orme Bianche hanno accesso ovunque. Dovremmo tentare» commentò un'altra.

«Non si torna indietro. O la va. O la spacca» disse Sebastian.

Mithra, la fanciulla dai capelli corvini, sospirò prima di calarsi verso padre Norris.

«Effettuate il rito, padre. Aprite la porta, chiamate le Orme».

«Ma non posso effettuare il Rito senza nessuno che si sia assopito!»

Allora Mithra si avvicinò a un moribondo e gli conficcò il pugnale nel cuore.

«Ora avete il vostro uomo assopito. Fate come vi dico».

Dunque, sebbene aggravato nel cuore, padre Norris intonò il canto del Rito. L'incanto si produsse in quella strane energia che ora si manifestava dalla voce del sacerdote, mentre l'arcano si concretizzava nelle note della melodia. Appena ebbe terminato, padre Norris disegnò il simbolo del Sole sulla propria fronte, quindi impose il palmo della sua mano sul petto del pover'uomo e, posseduto dalle divine energie, fece apparire il simbolo prima disegnato lì dove premeva con la mano. Recitata la preghiera, il marchio si inabissò dentro il corpo privo di vita; e questi riacquistò nuovamente un colorito roseo e brillò fiocamente di luce.

«Non dovrete aspettare molto, le Orme arriveranno a breve. Ora che ho fatto come avete chiesto, manterrete la parola?»

Mithra gli si avvicinò. Lo guardò intensamente negli occhi, intanto che le sue mani d'ebano salivano lungo le sue guance. «Non sono mai stata brava nel mantenere la mia parola, padre».

Il suono delle ossa del collo che si spezzavano riempì per un istante la stanza, seguito da un breve ma angosciante lamento.

«Spogliatelo e mettetelo assieme agli altri corpi. Preparatevi, quando arriveranno le Orme avremo poco tempo a disposizione: nessun testimone».

Pochi rintocchi, fievoli e stanchi, assai sfuggevoli all'udito, annunciavano il dominio dei Patti. La vista della Grande Casa era certamente superba; e quel poco che si intravedeva dalle finestre più alte della Casa di Cura lasciò Sebastian senza fiato. Nel frattempo, le altre quattro stavano togliendosi gli abiti usati per camuffarsi, rivelando equipaggiamento e volti.

Meroll era la più grande del quartetto, con le sue quaranta danze sulle spalle. Aveva vissuto la prima parte della sua vita in un villaggio sperduto dell'est, prima che la guerra e la fame spingessero i lupi più a valle. Le razzie di bestiame si fecero sempre più frequenti. I grossi canidi apparivano, spesso stremati ed emaciati, fin dentro le vie del villaggio. Presto, presero ad assalire perfino i bambini, come presi da follia. Meroll si vide portare via prima il marito dalla guerra, e successivamente sua figlia dai lupi; e così si unì a un gruppo di persone, intenzionate a uccidere i lupi a ogni loro razzia. Tuttavia, la pestilenza e la scarsità di uomini, poiché i più vigorosi erano impegnati a combattere gli eretici, fece diminuire progressivamente il numero di persone capaci di affrontare i lupi; e i lupi, sempre più inferociti, aumentavano ancor più i loro attacchi. Meroll ebbe salva la vita quando, per un fortuito miracolo, una banda di mercenari si ritrovò a passare nel posto e decimò i lupi, mettendoli in fuga. I pochi sopravvissuti si unirono a loro e Meroll, capace con l'arco e nella costruzione delle trappole, si offrì di rifornire di cibo e cacciagione la brigata ogni volta che facevano sosta.

Rosanne aveva ventinove danze e nessuna di queste le aveva vissute fuori dalla banda di mercenari. Poiché non era mai esistita differenza tra uomini e donne, purché sapessero maneggiare le armi e darsi da fare, Rosanne aveva ricevuto l'addestramento da cavaliere ed era molto abile con i pugnali e la balestra. Col tempo purtroppo una rara deformazione cardiaca le aveva impedito di scendere attivamente sui campi di battaglia, tuttavia aveva preso a occuparsi dell'artiglieria ed era divenuta una provetta artificera: non vi era cosa che non sapesse tirare giù con le bombe o con una cannonata.

Claudiette era ancora nel fiore delle sue danze, a malapena venti danze le si conteggiava nel visetto vispo e lentigginoso. Aveva vissuto una parte della sua infanzia nei sobborghi malfamati della capitale, destreggiandosi in piccoli furti e prostituendosi di volta in volta. Si era unita ad una piccola banda di cacciatori di taglie e aveva imparato, crescendo, ad usare la prosperità dei suoi fianchi e del suo seno per attirare i suoi bersagli, che finiva poi pugnalandoli fulmineamente. Presentava sulla schiena profonde ferite da frusta, inflittegli dai carcerieri durante una sua breve prigionia. Come spesso accadeva, fu salvata dalle sevizie dei carcerieri da una banda di mercenari, che volle far uso delle sue abilità.

Infine c'era Mithra, la figlia adottiva del comandante Giovanni e seconda in comando della Banda della Luna Nera: un gruppo di mercenari divenuto assai famoso nel regno per aver conquistato e represso i focolai delle eresie; di aver espugnato castelli ritenuti impossibili da conquistare; e di aver ottenuto in poco tempo i favori della corona e dell'Ordine. «Se solo quel folle di Giovanni non avesse gettato tutto al vento». Si diceva spesso, perché della Banda non era rimasto quasi più nulla. Si era disgregata quasi del tutto quando il carismatico Giovanni era stato impiccato per alto tradimento. Così Mithra si era sobbarcata l'onere di reggere quel poco che restava del drappello e dei fedelissimi, nel tentativo di riportare ai fasti la banda; e ora eccola, pronta a colpire il cuore dell'Ordine.

"Che abbia preso la stessa follia del padre?" pensò Sebastian, mentre ognuno dei presenti controllava che fosse tutto al suo posto.

«Eccoli che arrivano» sussurrò Claudiette.

In un angolo della grande sala si materializzò un disegno. Fu come se una mano invisibile stesse disegnando col gesso una serie di rune, iscritte in forme geometriche complesse. Dalla parete si alzò una porta, emettendo un rumore di mattoni che si spostavano e di ingranaggi. Di lì a poco le Orme Bianche uscirono per dirigersi verso il corpo da trasportare ma furono assaliti dal gruppo armato. Con loro sorpresa, però, Sebastian e compagnia scoprirono che le Orme non erano disarmate e, bensì, risposero all'aggressione con ferocia. Nella fase concitata della battaglia, benché il gruppo assalitore riuscì ad avere la meglio, Meroll fu subì un taglio profondo alla caviglia, che la fece cadere in terra priva di forze.

«Andate senza di me» fece, debolmente.

Mentre le altre due si affrettavano a nascondere i corpi delle Orme, Mithra le si avvicinò e la strinse con un abbraccio.

«Non fallirò, vedrai».

«Non ne ho mai dubitato».

«Forza, andiamo!» disse Claudiette.

Tutti si affrettarono ad infilarsi nel passaggio, e videro che era possibile aprirlo e chiuderlo sono dall'interno. Guardarono allora Meroll e questa fece loro cenno con la testa. "Perdonami se ti abbandono" pensò Mithra, mentre la porta si abbassava e gli ingranaggi faticavano nel loro mestiere. Con un ultimo sforzo, Meroll alzò la mano e le salutò per l'ultima volta quelle sorelle con cui aveva condiviso gioie e dolori.

«Buonanotte, amiche mie».

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 - Quinto Nuovo dell'Ultima Ide ***


8.1 Patti Solari inoltrati
 

Quand'anche ci si soffermi a domandarsi della Gendarmeria, anche i più sciatti tra schiavi e delinquenti rammentano ch'essa vive da oltre duemila danze; la sua, però, era una storia ancor più antica, di mille e passa danze all'indietro, quand'ancora non esisteva che un insieme di genti armate alla meglio.

V'erano ben dieci danze di lotte fratricide, che cavalcavano violente quelle epoche antiche, fino al tramonto del 5'980; che le bande della Mano Nera erano sgominate, i loro briganti e contadini affamati messi alla fuga o alla gogna, e le madri di quei tanti figli addormentati piangevano di dolore. Né il malcontento dei poveri e degli schiavi trovò la giustizia che domandava. Né il dolore dei tanti trovò il ristoro momentaneo di un altare, giacché i Sacri Luoghi del Riposo non furono eretti prima della 7'200° Danza Solare.

Così avvenne che le Genti in Armi, nate per corrispondere alle barbarie della Mano Nera, si ritrovarono senza finanziatori, senza armi, senza regole. Si disgregarono, nel più o nel meno, come mercenari o cavalieri di ventura o altri briganti da appendere al cappio. Solo al volgere della 7'150° Danza Solare le Genti in Armi si riunirono nuovamente, sotto il carismatico Robert il Senza Padre, come gruppo armato in difesa dei poveri e dei contadini delle lande più remote, dove il controllo reale era minore o del tutto inadeguato. Eppure, Robert aveva nomea terribile dietro di sé: in più terre di quelle che lui stesso poteva ricordare, lo si accusava di aver giaciuto con fanciulle non più giovani delle dodici danze, pretendendole come compenso per le sue opere di condottiero ed eroe del popolo. Tuttavia, gli storici, o chi di esso era detrattore, a stento solevano rammentare che era pratica abusata quella di offrire i servigi e i piaceri delle giovani fanciulle ai cavalieri, poiché, spesso, non v'era altra moneta con cui ripagarne i perigli. Così allora Robert, col tempo ancora favorito dal popolino, e idolo per le madri ai loro figli, si ebbe della forza raccolta per sostituire la milizia reale laddove essa falliva.

Quando fu richiamato nella città di Spica, allora capitale del regno, onde rispondere delle accuse di anarchia, entrò presso il palazzo reale seguito da circa trentamila uomini. Durante i Patti, cittadini a lui favorevoli gli furono d'aiuto, aprendo le porte della città ai primi rintocchi di Lode e garantendogli, quindi, di proseguire per le vie della città a dispetto del tentativo della corona di irretirlo, con l'accusa di aver tentato di assediare la capitale. Così sul finire della Danza, alla Dodicesima Ide, Robert il Senza Padre firmò un primo documento che attestava, ancor oggi, l'annessione delle Genti in Armi nella milizia reale; ne nacque la Gendarmeria, che si distinse per il suo operato nei sostrati più bassi della società.

Nessuno seppe mai con certezza cosa Robert cercasse realmente. Nessuno seppe mai perché, da oltre trenta danze, si fosse promosso a favore del popolino. Ma la sua figura crebbe. Non in agiatezza. Né in danaro. Crebbe in favori ed elogi. Fu presto un gigante, del cui nome ancora si bagnano gli occhi a quel popolo che, speranzoso, guarda il cielo e si domanda quando un altro Senza Padre tornerà. La paura di un volgo pensante e libero spaventò la corona, e più di essa terrorizzò le più alte cariche dell'Ordine; mai realmente antichi riti e superstizioni erano venute meno, e dare al popolino più libertà poteva far emergere altre feroci eresie. Fu così che, ad appena due danze dal suo mandato di Comandante in capo della Gendarmeria, Robert fu trovato assopito nelle sue stanze private. Un profondo foro di pugnale si apriva sul cuore, e le sue nudità non lasciavano dubbi sul fatto che, a spegnere la sua giornata, fosse stata una qualche prostituta. Né la corona e né l'Ordine potevano immaginare che l'evento avrebbe ingigantito la leggenda di Robert; con la Gendarmeria che lentamente perdeva la sua originaria funzione, decimata di uomini, armi e sovvenzioni; con il popolino che sognava il ritorno di un Senza Padre, per riscattare le ingiustizie che lo vessavano.

Questo sentimento di riscatto, misto all'impotenza in cui era caduto il servizio dei gendarmi, aveva contribuito da un lato a rafforzare gli sforzi che la Gendarmeria profondeva tra i vicoli bui e malfamati di ogni città; dall'altro lato, però, accentuava l'inoppugnabile impotenza di chi era ormai ridotto alla mera funzione d'un vigilante. Scarsamente armati, ancor più malamente addestrati: vi era poco del loro originario onore, se non le canzoni e i grazie che, sovente, qualche mendicante biascicava in ricordo delle favole su cui il proprio malessere aveva ancora la fortuna di potersi cullare. Non era allora meraviglia che, nonostante il loro impiego, i gendarmi erano utili quasi esclusivamente a sorvegliare le strade, laddove ogni impiego armato spettava alle milizie.

Il quinto drappello di Ras Alhague fu allertato da una figura incappucciata, che aveva suonato la campanellina d'allarme e aveva lasciato un foglio recante l'indirizzo ove recarsi. La sede era da tempo mancante di leve, così dei dieci gendarmi disponibili, soltanto tre si mobilitarono. Impiegarono poco tempo per arrivare sul posto: la villa Merak si stagliò davanti a loro, oltre i tetti delle case popolari. "Perché un nobile dovrebbe vivere in mezzo ai poveri?" si chiese il più giovane del trio, intanto ch'erano intenti a varcare le cancellate rimaste spalancate. Mizar Merak era piuttosto conosciuto in quei quartieri, dal momento che era il solo nobile ad aver comperato e ristrutturato una vecchia villa, circondata da case popolari. I nobili, generalmente, vivevano nei quartieri più alti. Varcarono senza indugi l'ingresso della magione, trovandola anch'essa bene aperta. Sguainarono le lame senza filo ed arrugginite, avanzando lentamente approfittando che le corazze in cuoio non producevano più rumore del dovuto. L'intero palazzo sembrava come immutato nel tempo. Ebbero l'impressione che fosse abbandonato, nonostante evidenti segni che qualcuno, ancora, viveva in quelle mura. Girarono più volte il capo, ammirando i segni delle Orme Bianche che si arrampicavano su mobili, sedie e tendaggi. Soltanto i quadri e le statue erano inviolate, creando una surreale fantasia nel gruppo: e se i quadri, stanchi di rimanere appesi alle mura, amassero gironzolare per le stanze e poggiare ovunque le mani?

Setacciarono la casa dal primo piano in lungo e in largo. Jonas controllò le cucine, ancora ricche di cibi in attesa di essere prepararti. Si fermò a pochi passi da una pentola, l'aprì e assaggiò il contenuto nonostante fosse freddo e rappreso. Ne avrebbe sofferto di stomaco, ma non avrebbe assaggiato un pranzo nobile da lì a sempre. Ernest proseguì verso le camere della schiavitù. In una trovò un piccolo totem di legno, ad immagine di una donna. Qualcuno vi aveva inciso, in maniera assai imprecisa, il nome Giuditte sulla base. «Un feticcio, che schifo» commentò, credendo di avere tra le mani un oggetto famigerato tra chi praticava riti occulti; la gettò a terra disgustato, riprendendo ad ispezionare la casa. Luiss aveva appena finito di setacciare il salone degli ospiti, rimanendo sorpreso dalla enorme mole di libri presenti in quella casa. Non sapeva leggere e a stento sapeva scrivere il proprio nome; guardò quei volumi come si guarda ad uno spreco immane, senza caperne il senso o l'utilità.

Ernest fu il primo a ritornare nella sala principale. Fu allora che lo vide: un uomo ferito, col volto tumefatto, scendeva lentamente la scala principale portando sulle spalle quello che sembrava un ragazzo. Una gran quantità di sangue sporcava le spalle dell'uomo, segno che il fanciullo che stava trasportando era gravemente ferito. Si guardarono a lungo. Stettero fermi, l'uno vicino l'ingresso, e l'altro sulle scale. Si indagarono per un tempo che parve non terminare mai, finché Ernest non riconobbe il volto dell'uomo dietro al suo viso gonfio di lividi e sporco di sangue.

«Voi non siete...?»

Ser Alcor non lasciò che terminasse la frase. Molto più rapidamente di quanto potesse credere, il cavaliere afferrò il pugnale col quale si era liberato, lo estrasse dalla tasca e con estrema precisione lo piantò nella gola di Ernest. Lo guardò scivolare a terra, senza emettere un fiato. Realizzò, in quel fatale e terribile istante, che aveva avuto più paura di essere scoperto che di non riuscire a portare Aulix in salvo. Si maledì.

Si fiondò verso l'ingresso ma Luiss gli fu alle spalle. Lo colpì con sufficiente violenza da farlo cadere. Il corpo di Aulix rovinò in terra, lasciando una chiazza di sangue. Ser Merak si rialzò a fatica. Luiss gridava furioso. Piangeva. Non seppe mai se fosse per la rabbia di vedere Ernest annegato nel suo stesso sangue, o per la paura di non sapere nemmeno maneggiare bene la sua spada, con la quale cercava vendetta. Alcor, invece, sapeva far ottimo uso della sua arma, e il suo avversario questo lo sapeva. Chiunque aspirasse a diventare un cavaliere conosceva le capacità nella scherma di ser Merak: era questi, sovente, preposto ad allenare le reclute e ad insegnare loro la disciplina della spada. Così Ernest si ritrovò una lama conficcata nel petto prima ancora di capire cosa stesse accadendo, ma non si sorprese. Afferrò il collo degli abiti del cavaliere e lo guardò, mentre il colore dei suoi occhi si spegneva.

«Perché?» biascicò, sollevando in Alcor ben più d'un moto di vergogna.

Dall'altro lato della stanza, terrorizzato, Jonas scoprì che la paura poteva rendere faticoso perfino il più banale dei gesti. Scoprì, inoltre, non senza aggravato terrore, che non riusciva a tenere ben ferma la sua spada. Cionondimeno, parò goffamente il primo fendente di ser Merak e cadde a terra quando sentì mancargli le ginocchia. Guardò in alto e vide nell'unico occhio del suo aggressore qualcosa di oscuro ed ancestrale. Quella stessa e irrompente forza gli bruciò in petto, quando ne conobbe il nome; non appena la lama di Alcor gli trapassò il cuore, seppe a caro prezzo di che fervore era costituita la voglia di vivere.

«Mi dispiace» gli disse il cavaliere, inginocchiandosi e chiudendogli gli occhi. Ripeté il gesto anche agli altri, ma i loro volti, contorti dall'orrore e dallo sgomento, lasciarono dentro la sua anima una strana ferita. Afferrò in fretta il corpo di Aulix ed uscì.
 

8.2 Sul finire dei Patti
 

Quando arrivò a ridosso della Grande Cattedrale si sentì come avesse perso ogni forza, così ser Alcor cadde sulle ginocchia e fu colto da un dolore. Non ne riconobbe la provenienza, sebbene fosse certo che il volto tumefatto e l'occhio violaceo fossero coinvolti nella faccenda. Poggiò allora il corpo del ragazzo a terra e prese il pugnale dalla tasca. Incise profondamente lì dove il volto era gonfio, affinché sangue e pus, scorrendo dalla ferita, diminuissero il volume della contusione. Fu allora che scoprì, con estremo sconcerto, d'essere diventato cieco. L'occhio colpito da quel vile ladro aveva perso ogni luce.

Così, colto da una paura irrazionale, ser Alcor prese a vorticare intorno con la testa. Credette che, mancante di un angolo, dovesse sforzarsi due volte per coprire con lo sguardo ogni anfratto della città; ancor più perché gli fremeva, nelle mani come nel cuore, le ignobili azioni compiute. Difatti, checché avesse passato a fil di spada numerosi eretici, e ancor più anarchici, il cavalier Merak era abituato a offendere o difendere contro personaggi abietti, infami ladri, sovente spergiuri, o briganti quanto ladri, sicché nemici della corona quanto dell'Ordine. Difatti, quel suo dolore non veniva dall'aver alzato la spada e spento il giorno dei suoi aggressori, ma di aver calato ferocemente la sua mano su giovani che, di certo, non avevano mai mancato di servire né la corona e ancor meno l'Ordine.

"Ho ucciso dei gendarmi" si ripeté.

Uccidere un gendarme era fatto gravissimo agli occhi di chi governava il regno.

"Ho ucciso gli uomini del Senza Padre", gemette.

E il popolino, che avrebbe pensato di lui? Di un folle! Un servitore della corona! Vile e corrotto come gli altri.

"Erano soltanto dei giovani nel fiore delle danze!" ammise.

Aveva passato a fil di spada uomini nelle prime danze dei loro pomeriggi, ancorché privi di addestramento, e la cui unica colpa era stata averlo riconosciuto.

"Perché non ho provato a parlar loro?" si domandò.

La coscienza rispose per prima: "Perché avevi paura".

Era dunque un male essere spaventati? Doveva quindi un uomo sondare gli abissi della sua anima, trovarsi colpevole, e scoprire di non aver saputo tenere a freno i suoi istinti dinnanzi al pericolo? Alcor allora scoprì che, per quanto allenati, per quanto nobilmente addestrati, sovente gli uomini sfruttano tutto ciò che acquisiscono solo e soltanto per se stessi.

"Erano miei alleati! Avrei potuto spiegare loro la situazione! Avrei affrontato un processo, forse avrei perso il mio titolo ma avrei potuto salvare loro il giorno! Perché, perché ho scelto diversamente?"

Allora accadde che la coscienza gli rispose. Ma la voce che udì il cavaliere non era più quella del suo animo. Bensì, essa era tanto giovane quanto crudele.

«Hai soppesato le tue azioni nell'arco di un istante, e davanti a questa domanda hai risposto con feroce fermezza: il tuo titolo di cavaliere ti è più caro di quanto tu voglia ammettere».

Affranto e sconfitto, Alcor si lasciò andare. Eppure, in quel momento, vide il corpo del fanciullo alzarsi. Credette di sognare. Si strofinò gli occhi. "No, certo che no. Era in fin di vita! Poco mancava che esalasse l'ultimo respiro. Sto illudendo me stesso!" Però, quando le mani di Aulix gli sfiorarono le guance, ser Merak comprese che non stava avendo strane visioni: quel ragazzo era davvero lì, davanti a lui, scevro di ogni ferita. Vivo!

«Ma che tu voglia ammetterlo o no, quel che hai fatto fa parte della tua natura umana».

«Tu menti!»

«Dovrei?»

«Forse sì. O vorrei che voi mentiste, per allietarmi il cuore».

«Non v'è menzogna che potrebbe salvarti dai tuoi sensi di colpa, cavaliere. Vi è solo la realtà dei fatti».

«Questa realtà mi disgusta!»

Allora Aulix fu avvolto da luce lunare, e brillò d'argento mostrando profonde pupille di platino; ser Merak vi si specchiò e credette di viaggiare nella Grande Casa.

«Questa realtà è la sola che abbiamo, ser Alcor. La stessa realtà che ha portato via la mia amata sorella. A te, con le sue fredde e viscide mani, ha strappato l'adorato fratello. Quello che ha mosso i tuoi pensieri, cavaliere, è la rabbia. La stessa identica e antica forza che agita il mio cuore da quando ne ho memoria.

Quei gendarmi, l'Ordine, la corona: ogni cosa qui presente ci ha condotti a prendere delle scelte. Tu, come me, hai scelto. Hai abbracciato la parte più oscura di te e le hai dato le redini del tuo corpo. Hai ucciso. Hai colpito. Hai infierito. Hai pianto e hai chiesto perdono. Ma non ti fermerai: ucciderai, colpirai e infierirai. Ancora e ancora.

Prima che tu te ne accorga, non chiederai più perdono. Lorde di sangue saranno le tue mani. La tua spada avrà trafitto più cuori di quanti tu possa ricordarne. Perché desideri vivere, ardentemente. Ma non puoi vivere sapendo che chi ti ha strappato Mizar è ancora libero.

Il tuo titolo di cavaliere ti serve: è la sola via che hai per avere la tua vendetta. Questa è la vera risposta alla tua domanda, Alcor. Perché hai ucciso quei gendarmi? Perché brami vendetta.

Loro te l'avrebbero impedito».

Allora il cavaliere si rialzò, sentendosi come se una nuova forza stesse crescendo dentro al suo corpo: una bestia feroce si era annidata nel suo animo, forse da sempre. Ora era sveglia. «Sì. Vendetta. Non l'avrei mai ammesso, ma non ho fatto altro che pensare a quanto odio l'Ordine per avermi portato via Mizar. Eppure, odio anche la corona, perché la vita da cavaliere che sognavo non è quella che mi è stata, invece, assegnata.

Né l'Ordine, né il Re; loro non amano il proprio popolo».

A quel punto Aulix poggiò sulla spalla del cavaliere la propria mano, e la strinse in segno di vicinanza. E così disse:

«Nelle brevi danze prima che la mia coscienza si destasse del tutto, il tuo amato fratello ha avuto cuore di prendersi cura di me, e di non farmi mai pesare il mio rango di schiavo. Ho un grande debito verso di lui. La tua vendetta, Alcor, è anche la mia.

Da solo però tu non puoi realizzarla. Io, al contrario, ne ho tutti i mezzi. Seguimi: assieme scoccheremo una freccia avvelenata nel cuore di questo mondo».

L'altro non riuscì a trattenere le sue lacrime.

«Giurate?»

«Hai la mia parola.

Ma ora è meglio sbrigarsi: c'è un'altra persona che dobbiamo incontrare».

«Certamente», rispose il ser Alcor.

Così, insieme, s'incamminarono.
 

8.3 Primi rintocchi di lode, l'indomani
 

Il duo giunse alle Case di Cura che le prime luci di Lode stavano rischiarando il trono del divino. Aulix guardò verso l'alto, quasi con un moto di sdegno, e si inoltrò tra i colonnati del tempietto. Quivi fu sorpreso di non trovare alcun sacerdote. Vi era però sangue e qualcuno era stato trascinato via, creando una breve scia che dal centro delle Case proseguiva poco oltre l'uscio.

Aulix non se ne curò e proseguì verso uno dei giacigli, qui sfiorò il corpo di un uomo e questi, di lì a poco, aprì gli occhi. Ser Alcor restò a guardare senza proferire parola, mentre l'uomo appena destatosi subito eseguì un inchino.

«Undine è il mio nome, qui per servirvi».

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 - Buonanotte Serene ***


9.1 Danza Solare numero 9'132, Primo Pieno della Terza Ide
 

Un gradevole odore di lavanda riempiva la piccola stanza. La brezza leggera dell'est sospirava attraverso le finestre, spostando i tendaggi bianchi con gradevole gentilezza. La luce del divino rischiarava i primi rintocchi di Lode, dall'alto di un cielo mai così azzurro e terso. Il passaggio dell'aria smuoveva piccoli salva-sogni: ornamenti in piume e ossa d'animale, il cui tintinnio, si credeva, servisse a tenere lontani gli incubi.

Meroll era seduta attorno al tavolo, intenta a cucire. La piccola Serene, non più grande di otto danze, stava dormendo nel suo letto. Meroll le rivolse un leggero sorriso, prima di svegliarla.

«Sai Serene, quando tuo padre tornerà, potrai farti insegnare a cavalcare. È bravo. Ricordo ancora quando l'ho conosciuto: un suo amico era stato disarcionato e lo stallone, imbizzarrito, stava venendo contro di me. Allora tuo padre afferrò l'animale al lazo e lo calmò. Poco dopo, riuscì anche a domarlo».

Il piacevole ricordo della sua gioventù interruppe il lavoro ad uncinetto, invitandola a poggiare i gomiti sul tavolo, così da formare una coppa con le mani ove sistemare il mento.

«Io, invece, sono sempre stata brava con l'arco e le trappole. Ti insegnerò anche questo. Presto dovrai imparare a procurarti il cibo. A prepararlo anche. Ora che molti degli uomini del villaggio sono in guerra, tocca a noi rimboccarci le maniche. Ma non durerà molto. Tuo padre sarà presto a casa, vedrai».

Serene tossì. Preoccupata, Meroll si alzò dal tavolo e si avvicinò lentamente a lei. Prese uno sgabello e, appena seduta, controllò la fronte della piccola per assicurarsi che si stesse riprendendo. Serene allora aprì gli occhi, di un azzurro intenso. Meroll sorrise e le sfiorò delicatamente il viso.

«Lui non tornerà, madre» squittì la piccola.

La madre, benché interdetta, replicò: «Ma certo che tornerà, piccola. Non hai sentito le notizie? Gli eretici sono alle strette, la guerra è quasi finita. Tuo padre sarà a casa, molto presto».

«Lui non tornerà» insistette la bambina. «Lui è morto, madre».

«No, no! Serene non devi disperare. Lui tornerà, vedrai».

«Posso vedere il suo fantasma nelle lande desolate, madre. Lo hanno colpito alle spalle: ha tentato la fuga. Era spaventato. Lo hanno colpito alle spalle i suoi stessi compagni. Non tornerà mai più, madre. Il suo fantasma non ricorda più dove è la strada di casa. Si è perso nella Notte».

Serene allora chiuse gli occhi. Il suo respiro, di colpo, cessò. Meroll, in preda al panico, prese a scuotere sua figlia e a chiamarla con sempre più insistenza. Di lì a poco un grosso lupo sbucò di fianco al letto: aveva le ciocche bionde di Serene tra le fauci e la schiena piena di frecce.

«Non sta dormendo, Meroll».

Afferrò le lenzuola e le tirò via con forza, rivelando il corpo della piccola; era pieno di enormi morsi e metà era stato divorato.

«Lei non stava dormendo e tu questo lo sapevi. Perché sei rimasta a fissarla così a lungo? Perché lei hai parlato per così tanto tempo? Non era giusto. Non ti ha fatto del bene. È arrivato il momento di fare pace con te stessa, Meroll: non è mai stata colpa tua».

Quindi il lupo balzò sul letto, afferrò il corpo della piccola Serene e corse via verso la porta. Meroll si liberò in un urlo feroce, inseguendoli entrambi e varcando l'uscio della sua casa con foga istintiva. Un bagliore la accecò, lasciandola priva di vista per qualche attimo.
 

9.2 Quinto Nuovo dell'Ultima Ide, durante i Patti Solari
 

Quando finalmente poté guardarsi di nuovo attorno, Meroll poté ammirare l'immensità dell'Arco del Trionfo, con tutte le sue statue e i suoi fregi antichi. Comprese di aver solo avuto una visione del passato, così sconfortata si accasciò dolorante su un ginocchio: la ferita era profonda e il sangue scorreva via copiosamente. Si posò quindi con la schiena contro la parete di un palazzo, tra alcuni barili e sacchi. Scoppiò in lacrime.

«Mia amata Serene... perdona questa madre che ti ha lasciata sola nella Notte così a lungo. Aspettami, a momenti saremo assieme. Chissà... tuo padre ti avrà insegnato a cavalcare? Spero mi perdonerai; anche voi lupi... mi dispiace».

Nel buio dei Patti, illuminati soltanto dal volto pallido della Luna e dalla Grande Casa del Cosmo, Meroll vide il grande lupo venirle incontro. Era bello e dal lungo pelo corvino. I suoi occhi color oro sembravano indagarle l'anima.

«Hai avuto già il tuo perdono, molto tempo fa. Hai liberato quelle povere creature da una maledizione che era piombata su di loro: assopirli e rimandarli alla notte, è stato da parte tua un gesto di grazia. Loro te ne sono grati».

Meroll sentì finalmente il suo animo sollevarsi, inspiegabilmente, come se il masso che le aveva gravato sul cuore si fosse, finalmente, sgretolato.

«Vorrei poterti dire che è arrivato il momento per te di rivedere tuo marito e tua figlia, ma non è così. Chi ha causato la morte di tua figlia è ancora in libertà: non desideri vendicarti?»

Il lupo allora si voltò e indicò a Meroll chi era responsabile della sorte di Serene: una creatura divina, simile ad una bambina dai capelli lattescenti, uscì dall'Arco per dirigersi verso la parte a nord della città. Aveva un lungo abito merlettato dai colori chiari e camminava a piedi nudi. Il suo volto aveva un'espressione malinconica.

«Quei lupi che aggredirono il tuo villaggio non erano, a loro tempo, che uomini e donne come te: avevano una casa, una famiglia, dei figli... Tutto gli è stato portato via dall'Ordine e dalle sue guerre. Si rivolsero alla Luna, che da sempre adoravano, per avere aiuto. Lei li mutò in bestie e loro dimenticarono presto chi erano».

Subito dietro la dea seguiva poi un'altra creatura. Se ne intravedeva solo la silhouette nera e fuligginosa, come fumo di una brace. Aveva gli occhi in fiamme e il suo viso tradiva un'espressione di collera incontenibile.

«Coloro che chiedono aiuto alla Luna ricevono qualcosa ma sempre in cambio di qualcos'altro. Sovente, ciò che danno in pegno per i servigi della dea ha molto più valore del dono che ricevono».

A terminare il seguito della dea, infine, un uomo anziano con indosso gli abiti da sacerdote: un membro dell'Ordine evidentemente incurante di servire la dea Luna, sua nemica.

«La Luna non ha occhi che per la sua scomparsa sorella. Come mare in tempesta, il suo malumore inghiotte chiunque la segua o le sia alleato; di loro non resta mai niente».

Il piccolo drappello si soffermò presso l'Arco, sembrarono ammirarne la foggia e le statue. Meroll, sempre più stanca, chiuse gli occhi.
 

9.3 Durante il Sogno
 

Stavano tutti assieme, attorno al falò. I tocchi di legno erano disposti con grande cura, incastrati in modo tale da formare una pedana, il cui centro, cavo, fu riempito di fieno; il fuoco, appiccato con una torcia, attecchì rapidamente nei polmoni biondi, divampando fin quasi a graffiare coi suoi artigli scoppiettanti il firmamento.

Cantavano tutti. Si tenevano le mani, stringendo la presa gli uni agli altri, affinché le ferite sui palmi incavate con un pugnale mescolassero il sangue d'ognuno. La triste nenia era seguita da passi regolari, ondeggianti dapprima sul lato destro, quindi sul lato sinistro. Due volte da un lato, una sola dall'altro. Poi, ritmati, calavano in avanti le teste e ululavano; subito facevano un passo indietro, ringhiando. Tenevano gli occhi chiusi, lasciando che il rosso del fuoco oltre le palpebre amplificasse l'ebrezza e quel vortice di euforia. Sulle fronti, disegnati con tinte argentee, avevano tutti tatuata la mezza falce di Luna.

«Perché danzano? Perché ululano e ringhiano?»

«Antichi riti persi nel tempo».

«Chi cercano?»

«Colei che siede piangendo nella notte; il cui pallido volto si mostra soltanto quando il Sole è via dal suo trono».

«Non è la Luna nemica del dio Sole? Perché evocarla?»

«Le antiche storie tutte concordano che la pallida Luna pianga l'amata sorella. Delle stesse lacrime sono carichi questi uomini e queste donne, che alla dea chiedono udienza».

«Anche loro hanno perso qualcosa di caro?»

«Molte cose hanno perdute a causa di altri».

«Sperano che la dea restituisca loro queste cose?»

«No. Non importa quanto bene sostituisci le cose che hai perso: non le avrai mai più indietro».

«E per cosa loro stanno cantando?»

«Non stanno cantando. Stanno invocando maledizioni contro i loro nemici».

«Sciocchi: sperare che un dio esaudisca le loro maledizioni».

«Oh, ma le ho già esaudite le loro maledizioni. Non lo vedi?»

Gli uomini e le donne intorno al fuoco si voltarono mostrando i loro volti bestiali. Le zanne sporgevano dai visi deformati e lunghi artigli attendevano di affondare nella carne dei loro nemici.

«Hanno invocato maledizioni contro uomini che si comportano da bestie e io ho dato loro le zanne e gli artigli per dare a questi la caccia».

Piovve però dal cielo una nube di frecce. Gli uomini e le donne mutati in lupi sfuggirono in numero esiguo nei boschi, ove vagarono senza meta.

«Ma presto dimenticheranno che cosa desideravano. Le loro maledizioni saranno tutto ciò che rimarrà del loro odio. Così, assetati del sangue del nemico, mutati nelle stesse belve che volevano scacciare, non potranno nutrirsi di animali perché non desiderano che il sangue di altri uomini».

«Perché allora esaudire le loro richieste, se queste stesse li porteranno alla rovina?»

La bimba dai capelli come latte alzò dunque il capo: i suoi occhi d'oro brillarono all'improvviso d'un rosso intenso.

«Un bimbo capriccioso ti chiede di tenere in mano una torcia e tu, dopo lungo pensare, gliela concedi. Il bambino dapprima la agita per bene ma, di lì a poco, appicca fuoco ai suoi vestiti. Non sopravvive; se lo fa, è segnato per sempre. Come lui, anche i bambini che lo seguono continueranno a finire in fiamme. Forse speri che, poco alla volta, impareranno ad usare la torcia. Tuttavia, non succede. Allora capisci che i motivi per cui dai a quei bambini la tua torcia sono due: forse speri ancora che imparino ad usare il fuoco, oppure...»

«Oppure?»

Lei sorrise. «Ti piace vederli bruciare».

9.4 Sesto Nuovo dell'Ultima Ide, orario imprecisato

Meroll fu colta da una febbre atroce. Ebbe strani sogni. Vide molte cose. Molte di queste non le comprese, alcune le dimenticò, mentre altre credette di averle conosciute da sempre. In un turbinio di sensazioni miste al dolore, rantolò più volte e soltanto il tatto le suggerì, per vie inconsce, che si trovava in un letto.

La febbre le concesse pochi momenti di lucidità, durante le cui pause ebbe sgomento nel constatare che, a prendersi cura di lei, fosse una di quelle orrende creature che aveva visto danzare attorno al fuoco. Fu in uno di questi momenti, ben più lungo degli altri, che le riuscì a intessere un breve discorso con chi la stava accudendo.

«Io ti ho vista» fece debolmente. «Nei boschi. Distante. Danzavi attorno al fuoco».

La creatura rise. «Ti è piaciuto ciò che hai visto?»

«No».

«La tristezza degli altri ci è sempre difficile da accettare: è più facile distogliere lo sguardo».

«Forse è per questo che avete dimenticato chi eravate. Una volta diventati come belve, era più facile dimenticare».

«Abbiamo perso molto. Gran parte della mia gente sì, ha preferito dimenticare».

Meroll rivolse alla bestia una smorfia di commiato, prima che il dolore la cambiasse nuovamente.

«La verità, giovane fanciulla, è che la Luna non ha fatto nulla: eravamo bestie ancor prima che ci rivolgessimo a lei le nostre maledizioni. La dea ci ha solo mostrato cosa siamo realmente, nel profondo».

La creatura allora si sporse oltre il letto, guardando Meroll negli occhi; la donna vide allora nei grandi occhi del mostro una scintilla di umanità, che ancora strenuamente resisteva agli istinti primordiali e orribili.

«E nel profondo sì, abbiamo ucciso. Oh ricordo ancora tutti coloro che ho azzannato. Ma più azzannavamo, più eravamo insoddisfatti. Quelli che uccidevamo non erano i nostri nemici. Non saziavamo mai la nostra fame e le nostre forze venivano allora sempre meno. Diventammo ombre di noi stessi: facili da uccidere».

«E io molti ne ho uccisi. Però, sappi, mai ho gioito di questo».

«Lo so, lo percepisco. Non c'è odio nel tuo cuore. Anche quando hai combattuto, pensavo fosse per vendetta ma era ben altro. Forse per questo che la bestia dentro di te giace ancora dormiente».

«Quale nemico?»

«La mia gente sarà anche del tutto scomparsa, ma non è lo stesso per la nostra maledizione: essa si trasmette. Ogni persona che feriamo o che mordiamo è destinata a farsi carico del dono della Luna. Un dono che è alimentato dal folle odio: se non vi è scintilla di esso nel tuo cuore, neanche il dono si desterà in te».

Meroll vide la creatura allontanarsi e solo allora colse, oltre l'aspetto grottesco e informe, quella che sembrava la sagoma di una donna anziana. Prima che la febbre e i brividi la costringessero a tacere, ebbe la forza di incalzare un ultima parola:

«Allora mi auguro di non diventare mai simile a te».

La bestia non rispose, si limitò a ridere in modo grottesco e a darle le spalle. Meroll, dunque, sentì i sensi scivolarle via. Il dolore aumentò e gli spasmi ripresero. Tornò a vedere immagini inenarrabili nel suo sogno. Sentì la sua ferita bruciarle e, ad ogni rintocco, che fosse Lode o poco prima dei Patti, credeva di udire una triste nenia. Quando i sintomi febbrili si fecero più forti e la sua vita fu in pericolo, la vide: vestita con un bianco abito da sposa, immersa coi piedi in un lago di sangue e adagiata, pregando, su una roccia, una donna intonava un triste canto:

«Figli miei

figli miei adorati

la Notte se li è presi

qualcuno li ha derubati

della vita e delle gioie

del lor canto felice

e queste pene mie

nel cuor non han pace».

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 - Sesto Nuovo dell'Ultima Ide ***


10.1 Rintocchi di lode inoltrati
 

Quand'ecco il gruppo entrare nel passaggio segreto, che dalle Case di Cura doveva condurli nel cuor della Grande Cattedrale, rapido li accolse un bagliore si elevò nella rampa di scale.

Sebastian, che procedeva in avanti, ponendosi a gran scudo per le dame nel caso fosse giunto qualche pericolo dirimpetto, fu il primo a farsi travolgere dallo stupore. Fu tanta la sua meraviglia che il suo fermarsi stupefatto si diffuse rapidamente anche a chi gli era dietro: Claudiette e Rosanne, avvinte da quanto gli si parò di fronte, non riuscirono a muovere un passo ulteriore. Mithra, al contrario, fu dei quattro la più composta. Eppure, non andò oltre i suoi compagni.

«Questa è magia?» chiese Sebastian.

Ebbene, in ben diversa situazione, in altri contesti certo, tale domanda sarebbe parsa quanto mai assurda. Da che era mondo e fin da quando l'Ordine si erigeva sulle masse, con i suoi insegnamenti e i suoi dogmi, non v'era mai stato un concetto di magia che non fosse ridicolo anche solo a pronunciarsi. Seppur era vero, perché agli occhi di tutti fin dalle prime danze, che i sacerdoti dell'Ordine operassero miracoli; era anche vero che non v'era niente di magico in ciò che si operava per tradizione del culto: il divino Sole, il più potente degli dei, concedeva ai suoi fedeli una frazione della sua immensità. Così ecco che i sacerdoti e gli uomini dell'Ordine, in maniere assai disparate, erano con-partecipi della sua divinità, in misura comunque ridotta, e ne risentiva spesso il prezzo sulla propria salute.

«Se non lo vedessi con questi miei occhi, non avrei come crederci!» ammise Claudiette.

La scalinata discendeva per circa dieci metri verso il basso all'interno di un cunicolo a volta triangolare. Sulle pareti laterali, incavate con mano esperta nella viva roccia, figure incappucciate descrivevano una lenta processione verso l'alto. A cadenza regolare, con precisione sconcertante, una delle figure sporgeva come bassorilievo verso l'esterno: stringevano tra le mani un ramo levigato, sulla cui cima era incastonato un grande minerale intagliato a forma di fiamma.

«Questo è il gesso usato dalle Orme Bianche durante il Rito!» commentò sorpresa Rosanne.

Lo stupore generale provenne da sapere assai comune: nessuno sapeva da dove le Orme Bianche venissero, né dove trovassero quei gessi fosforescenti, con cui erano conosciute da sempre. Così, con le danze, le leggende circa quel gesso dalle proprietà uniche si erano susseguite in tante forme quante erano le persone che, forse per gioco, forse per vanto, credevano di averne rivelato il mistero.

«Danze fa, quand'ero ancora nel mio mattino, caddi dentro una grotta. Molto in profondità e, nell'urto, mi ruppi una gamba» iniziò Mithra.

«Sì, ne ho ricordo» aggiunse Sebastian.

«Non sapevo cosa fossero allora, e quando ho visto le Orme usare il loro gesso per mio padre, allora ho capito cosa avevo visto in quella grotta».

«Che cosa?»

«Questi minerali: una quantità enorme. Un giacimento immenso».

«Ma la grotta in cui cadesti è distante da qui almeno un Ide di viaggio! È nel Nord, distante e innevato!»

«Nessuno ha mai detto che ne esista soltanto uno».

«Tutti sanno a cosa serve questo gesso alle Orme ma perché qui?» incalzò Rosanne. «Perché in questa forma?»

Allora Mithra prese uno dei gessi, staccandolo dal suo bastone, per rigirarlo tra le mani. Brillò, per un istante, più radiosamente degli altri.

«Forse reagiscono alla luce del Sole» concluse.

«Ma qui non c'è luce!» ribatté Sebastian.

Mithra lo guardò, accennando un sorriso. «Allora è magia davvero».

Non avendo intenzione di trattenersi oltre, proseguirono lasciandosi alle spalle ciò che avevano scoperto. Tuttavia, quando giunsero in una nuova stanza, furono nuovamente colti da gran stupore e meraviglia per ciò che videro: stavano disposte, in gruppi assai variegati, statue d'ogni forma e dimensione, così erette in maniera confusa e disordinata come se, a scolpirle, fosse stata una mano che non aveva gran desiderio di rispettare la precisa architettura che avevano ammirato prima, scendendo fin lì. Così, a dispetto delle decorazioni nel cunicolo, in cui vi era un senso, benché nascosto, queste sculture in gesso non davano adito a nessuna congettura. Una per una si illuminarono, brillando d'oro non appena il gruppo oltrepassò il cunicolo, gettando nuovi dubbi sulla loro origine e sulla natura di quel minerale.

«Chissà a chi sono dedicate: questo soggetto non l'ho mai visto in nessun luogo del Culto» commentò Claudiette, avvicinandosi ad una delle sculture. Scelse quella che era quasi alla sua altezza, così che potesse ammirarne gli occhi; scoprì, non certo senza disappunto, che ognuna di quelle statue stava col volto coperto da un grande velo, che scendeva fin sopra le mani congiunte in segno di preghiera. Ma tutte, senza alcuna esclusione, avevano le gote rigate da lacrime. Figure femminili, malinconiche e in lutto, poste ad illuminare una stanza buia. Claudiette si morse il labbro, per nascondere quel moto di commozione che sentiva risalire dal cuore.

Dall'altro lato Sebatian, scopertosi a rimirare le cicatrici lungo la schiena scoperta di Claudiette, ritenne doveroso correre ai riparti e finse di partecipare alla discussione affermando: «Forse sarà una delle Spose. Insomma, ce ne sono state ventitré e il numero di statue a loro dedicate è incredibile!»

«Non sono Spose!» ribatté allora la fanciulla, distanziandosi dalla statua. «Le statue delle Spose, indipendentemente da chi le scolpisce, hanno tutte in comune un particolare: lo Stemma del Sole, ben visibile sul dorso della mano destra. Alcune possono avere il tradizionale abito nuziale, altre possono avere una tonaca sacra dell'ordine, ma tutte hanno lo Stemma».

Sebastian si accorse che era da un po' di tempo che non giaceva con una donna, così il seno poco pronunciato ma ben visibile dal corsetto di lei, gli stava rammentando con insistenza che l'astinenza, alle volte, era peggio di una malattia. Si voltò, fingendo di analizzare le statue.

«Nessuna di queste statue ha lo Stemma, è vero. Allora perché metterne così tante? In un passaggio segreto che conduce alla Grande Cattedrale, poi?»

Rosanne azzardò: «Forse è la Prima Sposa. Ricordate? La Grande Cattedrale è stata eretta sopra ai resti del suo villaggio natale. Non c'è scritto da qualche parte nel credo che lo Stemma è apparso dopo?»

«Attenta a ciò che dici: è blasfemia questa!» fece Sebastian.

«Siamo un gruppo di eretici, che vuoi che importi» ribatté Mithra. «Rosanne poi ha ragione: lo Stemma fu profetizzato dalla Prima Sposa per le Spose successive. Non è scritto da nessuna parte che ella lo possedesse, anche se lo si può supporre».

«Però comunque è strano» commentò Claudiette. «La Sposa è sempre rappresentata sorridente o con un aspetto sereno e regale. Queste statue piangono».

«Ricordiamoci che la Prima Sposa apparve perché l'umanità era incorsa nelle ire del dio Sole. Può darsi che pianga e preghi per noi» esordì Sebastian, ricordando con slancio fortuito alcune nozioni del culto.

A chiunque fossero state dedicate quelle sculture, la loro posizione assai causale, il loro essere posizionate solo d'intorno alla stanza, coperte da archi acuti, il loro essere interrotte soltanto da colonnati, suggerivano l'ipotesi che fossero state erette dopo la costruzione di quella stanza. Il loro essere di gesso, poi, non ne garantiva una lunga curvatura; pezzi di vecchie statue rotte e sostituite, infatti, sbucavano qui e lì alla rinfusa.

«Ho trovato qualcosa!» gridò Rosanne, attirando tutti verso di lei.

Notarono con stupore che, tra le numerose stanze, uno degli archi era libero a sufficienza da lasciare libero il passo. Così, tra le colonne che circondavano la stanza, notaro quella che sembrava essere una finestra. Cocci di vetro, lì da tempi immemori, riflettevano lo stupore sul volto di ognuno: dalla finestra passarono ad una balconata, da cui delle travi di legno erano state poste come ponte di fortuna verso un'altra balconata adiacente. Tutt'intorno era buio e scuro. Eppure, se fossero scivolati dalla passerella in legno, chissà per quanto sarebbero precipitati nel vuoto.

«Ho la vaga idea che chi ha costruito questo posto non ha una chiarissima idea di come funzioni una pianta urbana» commentò ironico Sebastian.

«È come se avessero costruito le case e i palazzi sovrastando lentamente qualsiasi cosa ci fosse precedentemente».

Così, quando giunsero dall'altro lato, videro che un qualche caseggiato era crollato aprendo una breccia nella parete, riversando, per un quarto del pavimento, cumuli di rocce e calcestruzzo. Non ebbero tempo però di guardarsi intorno, perché l'imponenza di un portone in legno li richiamò subito verso di sé. Sebastian, che sembrava diventare irrequieto a ogni rintocco, non si trattenne dal correre verso l'uscita per spalancarla a gran foga. Si fermò soltanto quando vide, giuntovi dinnanzi, una pergamena lì inchiodata.

«C'è qualcosa qui» disse, notando solo dopo il timbro in cera dell'Ordine. «Questa è una bolla! Lo stemma è quello del Sommo Cardinale».

La scoperta li spinse a leggere quelle parole vergate su cuoio animale:

Danza Solare numero 7'678

Secondo Crescente della Nona Ide

Qui l'Ordine dichiara, coi poteri ad esso conferiti, nel nome del divino e nel pieno delle sue benedizioni, che codeste terre, per codesti fini, quali oltre tale avviso contenute, sono ad ogni uomo severamente proibite.

Ad imperitura memoria, si pone questo avviso affinché sia ben chiaro quale grave male si cela oltre questa soglia: possa la felicità di domani dormir tranquilla, per dimenticare l'infelicità di ieri; assieme a quei cari che il fato ha voluto far assopire, possa questo dolce sonno rimanere inviolato, fino a quando non ci rivedremo tutti nella Sera.

Voi malcapitati che qui siete giunti, a voi chiedo: voltatevi indietro e mai più tornate.

Buonanotte vecchia Ras Alhague

Il Sommo Cardinale d'Agosto,

Sua eccellenza Thabit Ori

«7'678?» esclamò Sebastian.

«Questa pergamena ha 1'471 danze!» gli fece eco Claudiette.

«Ma il Sommo Cardinale Ori non fu lo stesso che appiccò fuoco alla capitale?» fece di nuovo l'altro.

«Sì, è lui. Il Terzo Crescente della Seconda Ide, durante la 7'687° Danza Solare, il Sommo Cardinale ordinò ad alcuni sacerdoti a lui fedelissimi di appiccare fuoco alla capitale, perché nei quartieri poveri era scoppiata un'epidemia di tifo; furono quasi totalmente distrutti dalle fiamme. Almeno, fu questa la versione ufficiale dell'Ordine, come certo tutti sappiamo» commentò Mithra.

Claudiette si affrettò ad aggiungere: «È vero! Si racconta che un sacerdote confessore, Yildun, fosse ubriaco quando raccontò ad un bardo le confidenze fattegli dal Sommo Cardinale: del fatto che avesse contratto la malattia, che avesse perso in senno e che, ormai folle e privo di ragione, addossò la colpa ai poveri e ai meno fortunati. Ve la ricordate la canzone?

Oh tu vento fatale

che delle danze il più bel fiore

porti via con te;

dove hai portato il Cardinale?

tu dimmi dov'è il suo fuoco

che le case volle bruciare

a coloro accusati del tuo male.

Quel bardo la cantò così tanto a lungo e altrettanto in giro da farla divenne il canto di protesta degli eretici: lo impiccarono assieme al sacerdote per questo. Il suo teschio è ancora esposto nella Grande Cattedrale, se non erro!»

«Un bel ripasso di storia!» ironizzò Sebastian. «Ma stiamo parlando dei quartieri poveri, che si trovano sì a ridosso della Grande Cattedrale, ma in ben altre direzione: a nord della città. Qui stiamo scendendo e, se la geografia non mi inganna, siamo sul fianco del colle. Aggiungiamoci pure che questo posto è stato sigillato nove danze prima che il Sommo Cardinale appiccasse fuoco ad un quarto della capitale!»

«Allora qualsiasi cosa ci sia dietro questa porta, non dobbiamo far altro che scoprirlo!» aggiunse Mithra, spalancando senza indugi quel portone fatiscente e marcio.

Vi sono cose che, a volte, farebbero bene a rimaner celate. Cose orribili. Segreti sepolti nelle sabbie del tempo; atti operati dall'uomo, che lo stesso uomo fatica a nascondere, perché egli stessi se ne vergogna. Fu questa la prima cosa cherealizzarono quando, varcato l'uscio, si ritrovarono in un ampio e dimenticatospiazzo. L'aria aperta e la leggera brezza accompagnavano un ambiente desolatoe distrutto: una fontana in rovina giaceva al centro della piazzetta, mentre quelle statue piangenti, in numero assai ridotto ma sempre causale, facevano compagnia alle ossa dei corpi sparsi in più punti. L'intera piazza era un cimitero di spoglie: corpi ammassati, teschi, casse toraciche, resti di arti; vi era stato un qualche genere di evento nefasto che, ad occhio e croce, aveva coinvolto un gran numero di persone.

«Non capisco» ammise Mithra. «La pergamena parlava di un "grave male" e pensavo si riferisse al tifo: dava l'idea che la città fosse ormai perduta e non era rimasta soluzione che sigillarla».

"Non hanno sigillato la città. Hanno sigillato quello che hanno fatto a questa povera gente". Sebastian si accovacciò vicino a un corpo, che stava con una spada conficcata nel costato, intento a sua volta a pugnalare in un occhio i resti di un cavaliere. A giudicare dai fregi della corazza arrugginita, non ebbe dubbi su cosa era successo.

«Credo che li abbiano massacrati».

«Lo penso anche io» disse Claudiette. «Alcuni resti hanno ancora gli abiti e si vedono fori all'altezza del cuore, della schiena, dello stomaco; molti hanno fratture gravi, fori all'altezza del cranio, o intere parti del corpo mozzate».

«Li hanno spazzati via» fece Mithra con disgusto. «Come bestiame. Qualsia cosa nascondessero queste persone e questa città, hanno fatto in modo di seppellirla con chi ci viveva!»

«E io farò in modo di seppellire voi».

La voce che risuonò nell'etere li fece sobbalzare.

«Non avete letto la pergamena? Questo posto è proibito. Non vi sono altro che morte e solitudine. Tornate sui vostri passi, considerate questo un avvertimento!»

La prima freccia si piantò esattamente ai piedi di Sebastian. Questi fu abbastanza lesto da intuirne la direzione, e il sibilo che produsse; suggerì che, chiunque li avesse sotto tiro, stesse bene appostato da qualche parte.

«Là! Su quella torre!»

Di fianco a una chiesa svettava imponente la torre del campanile, il cui orologio non era più funzionante, dal momento che nessun rintocco scandiva più il tempo.

«La prossima freccia ve la pianterà esattamente in mezzo agli occhi».

Rosanne si lasciò andare a un commento nervoso: «Gli occhi? Se questa cosa ci colpisce, sarà già tanto se ci lascerà la testa sul collo».

Le dimensioni di quel dardo, infatti, erano sufficienti ad abbattere un cavaliere in armatura, senza lasciare di lui nessun resto riconoscibile.

«Avrei dovuto immaginarlo: perché sigillare un portone con una pergamena e poi lasciarlo aperto? Evidentemente, il vero sigillo a questo posto non era la lettera del Sommo Cardinale, ma questo cecchino» disse Mithra.

Dal momento che nessun altro colpo li raggiunse, il gruppo si guardò intorno e si accorse che, dalla piazzola dov'erano, era possibile scendere con una scala in una zona più bassa ma riparata. Il percorso, difatti, si snodava verso i resti di una cittadella, la quale poteva offrire un ottimo riparo.

«Suggerisco di attendere i Patti» bisbigliò Sebastian. «Facciamo credere a questo babbeo che stiamo andando via. Ne approfitteremo col buio: gli sgusceremo dietro e nemmeno se ne accorgerà!»

«Mi sembra un piano suicida» fece Rosanne.

«Hai visto quelle frecce? Ti pianta una addosso, sei bello che andato» commentò Claudiette.

«Avete idee migliori?»

«Sebastian ha ragione» gli fece eco Mithra. «Dobbiamo proseguire, ad ogni costo. E se dobbiamo farlo rischiando la vita, la rischieremo. Attenderemo i Patti: ci muoveremo al buio, in silenzio e facendo attenzione. Una volta aggirato, proseguiremo in cerca del metodo per entrare nella Grande Cattedrale».

Gli altri rispero in coro e, alzando le mani in segno di resa, si voltarono e tornarono indietro da dov'erano venuti. Subito dopo però si fermarono e si prepararono, in attesa che il divino scendesse dal suo trono e mostrasse la Grande Casa del Cosmo. Non appena il firmamento degli dei e delle dee si fosse palesato nel cielo, avrebbero affrontato il pericolo.
 

10.2 Primi rintocchi di solstizio
 

L'arciere Golgo, a guardia della vecchia città, stava appostato presso la grande balestra, sicuro che prima o poi i ratti che s'erano intrufolati nel suo territorio avrebbero tentato una mossa ardita. Invero, era la prima volta che qualcuno superava i sigilli apposti dal fu Sommo Cardinale Thabit Ori. La famiglia di Golgo aveva preso possesso di quei luoghi molto tempo dopo i sigilli apposti alla città, poiché discendevano dai pochi sopravvissuti al massacro, del quale erano testimoni assieme agli scheletri che tappezzavano quasi tutta la vecchia capitale.

Eppure, il sacro compito di proteggere quei posti non era stato affidato alla sua famiglia né dal Sommo Cardinale, né per volontà propria: quando la Grande Madre si stabilì nelle profondità della capitale, in quei luoghi ove nemmeno la luce del divino osa avventurarsi, per volontà del divino Giove, ella desiderò per sé dei fidati guardiani.

Tra i membri della sua famiglia, Golgo fu scelto perché abile nella lotta e nell'arcierìa; ebbe in dono prodigiose facoltà e il suo giorno si allungò così tanto che, per qualsiasi altro mortale, egli sarebbe potuto passare per un sonnambulo.

Fin da allora, forte dell'affetto per la Grande Madre, Golgo aveva raffinato sempre di più i suoi metodi di difesa, nonostante non ne avesse mai avuto motivo o, semplicemente, non avesse mai potuto metterli in pratica. Forse per questo ora si sentiva come travolto da una strana felicità, sicuro che tutto il tempo passato a ordire trappole e trabocchetti sarebbe valso al suo scopo.

Altri rintocchi erano passati senza che nulla fosse accaduto, allora Golgo decise che era arrivato il momento di tentare una sortita: prese un campanellino dal suo abito e lo fece tintinnare due volte. Di lì a poco apparve una figura incappucciata e ammantata di bianco. L'Orma Bianca gli fu subito vicino, cosicché Golgo potesse riferirgli ciò che aveva in mente.

«Avvisa tutti i fratelli e sorelle: ci sono degli intrusi. Sono al passaggio segreto che porta verso la Grande Cattedrale. Voglio che li aggiriate per costringerli a uscire. Al resto penserò io».

Non appena l'Orma Bianca andò via, Golgo si voltò verso la sua voliera e si apprestò a prendere uno dei suoi piccioni viaggiatori. Quando però aprì la gabbia fu travolto da un odore acre e pungente. Infilò allora la mano e sfiorò una piuma. La prese e la avvicinò al naso, dove il fetore di sangue quasi gli fece perdere i sensi.

«Cos'è successo? Dove sono i miei adorati piccioni?»

Fu allora che uno dei suoi volatili si gettò in volo verso di lui, colpendolo al volo. Golgo cadde dolorante, avvertendo i graffi che le zampe gli provocarono sulla guancia. Si rialzò più rapidamente che poté, gridando a gran voce.

«Dove sei? Dove sei? Non andare! Mi servi!»

Poi udì il grugare del suo animale, apparentemente appollaiato sulla balestra. Golgo allora, con passo felpato, gli si avvicinò.

"Non fuggire! Non fuggire! Non scappare!" Quando fu abbastanza vicino, lo afferrò con un balzo prima che potesse spiccare il volo. Impiegò tutta la sua forza per calmarlo, giacché il volatile si dibatté come impazzito tra le sue mani.

«Che ti succede? Che ti succede?! Cosa sta succedendo?»

Di lì a poco, Golgo udì il levarsi in massa di un gran numero di uccelli. Corvi. Piccioni. Colombe. Acquile. Ogni genere di animale che potesse volare stava spiccando il volo, gridando a più non posso; fuggivano chissà dove.

«Cosa... che cosa sta succedendo?»

Confuso e agitato, Golgo cercò di scrivere un messaggio su pergamena il più rapidamente che poté, stando attento che il suo piccione non lo abbandonasse. Si sorprese nel constatare che, terminato quel breve momento di caos, l'animale sembrava essersi calmato.

"Gli altri piccioni devono aver tentato di uscire dalla gabbia, fino a uccidersi". Legò il piccolo messaggio saldamente a una zampa dell'animale e lo liberò in volo, affidandogli il compito di raggiungere la Grande Madre il più rapidamente possibile. Sapeva che il legame materno con la dea faceva sì che il piccione l'avrebbe raggiunta ovunque ella fosse; sarebbe tornato poi, grazie al suo istinto, al nido sulla torre con la risposa.

Nel frattempo, Golgo riprese la sua postazione presso la balista d'assedio. Solo allora si accorse che i topi infiltratisi nel suo territorio erano spariti.

«Maledizione!»

Tentò, invano, di scovarli ma nemmeno il suo dono divino sembrava poterlo aiutare, al momento. Decise così di tentare un ultima carta: prese un pezzo di gesso e lo fece brillare coiraggi del divino, inviando un segnale in codice preciso:

«Luna. Sole. Arco».

Non gli rimase, quindi, che appostarsi in attesa di colpire.

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 - Sesto Nuovo dell'Ultima Ide ***


11.1 Primi rintocchi di Lode
 

Aulix, ser Alcor e Undine stavano apprestandosi a varcare con gran passo l'Arco del Trionfo. La divinità lunare degnò la struttura marmorea solo di un rapido sguardo, trovandola molto compatta e robusta.

«Fu costruita molto prima della Grande Cattedrale», suggerì Undine.

«Gli uomini hanno sempre amato le grandi opere» rispose il satellite.

L'intero Arco era costruito in opera quadrata, scolpito dal marmo: pentelico fin ai capitelli e lunense nella sua parte superiore. Stava ben eretto su di un piedistallo, il cui zoccolo, o basamento, era ricavato dal travertino: una roccia sedimentaria calcarea di tipo chimico; il suo nucleo era, invece, costituito da una mescolanza di malta, ricavata dall'unione di calce e sabbia, e ghiaia.

Le due facciate a singolo fornice erano inquadrate da semicolonne, su cui erano presenti fusti scanalati e capitelli compositi, il cui compito era sorreggere il soprassoglio o epistilio: elemento orizzontale non spingente e portato, che faceva da voltaportante al fregio su cui erano scolpiti i dodici re che si sottomettevano all'Unico Sovrano Elaiha Sal'olmar, raffigurato con il Dio Sole a cingergli il capo a mo' di corona.

«La vita degli umani è così breve che essi cercano l'eternità in sontuose opere» ironizzò la divinità. Undine si lasciò andare in una smorfia di disappunto:

«Se anche farsi affiggere in un monumento non fosse bastevole ad ottenere l'eternità, non bisognerebbe però deridere la magnificenza di quest'opera».

«Forse questo Arco è per voi grande, ma è piccolo per la Grande Casa del Cosmo. Voi trovate bello una mollica di pane su di una tavola imbandita?»

«La bellezza di questo Arco non sta nel suo essere grande o nel suo voler durare in eterno: è proprio perché presto o tardi potrebbe svanire, che ne si apprezza maggiormente il suo splendore» commentò Alcor.

«Parole sagge, le vostre» ammise Aulix.

«Non sono mie» rispose il cavaliere. «Ma di quel mio fratello che era anche vostro amico, prima che padrone. Sono sicuro che vi avrà parlato molte volte dell'Arco».

Erano a metà dell'arco quando Aulix si fermò, alzando lo sguardo verso le ricche decorazioni a cassettoni: vide al centro raffigurata in una formella la Sposa accompagnata all'Altare, che assieme ai due pannelli a lato di ogni fornice che, insieme, formavano un breve racconto visivo della tradizione del Culto.

«L'Arco di Trionfo rappresenta sì la vittoria dell'Unico Re sui suoi nemici ma, principalmente, fu eretto a simbolo del Trionfo del Sole, che da sempre accorre sull'umanità quando questa si perde nelle tenebre» commentò il satellite. «Padron Mizar credeva che lo scopo dell'Arco non fosse indicare la vittoria che terminò le lotte intestine del regno, bensì essa mostra il percorso con cui il Dio Sole ha da sempre allungato la sua mano benevola sugli uomini. Per questo la sua figura è posta sul capo del Re. Non a corona, di cui egli possa sì adornarsi; essa è la volontà del Dio che scende sull'uomo giusto e da lui scelto per dare ordine agli uomini.

Così, chi esce dalla Grande Cattedrale, e va verso la parte più bassa della città, deve sempre ricordare che anche la bontà del Dio almeno una volta è venuta meno. L'estrema malignità dell'uomo fu capace di chiamare su di sé un disastro.

Mentre chi va verso la Grande Cattedrale deve guardare bene il grande perdono che il Dio ha saputo dimostrare, anche dopo aver quasi fatto calare la sua ira sugli uomini, quando la Prima Sposa è con lui convolata a nozze».

Gli occhi del giovane indagarono le numerose figure scolpite sull'Arco. Rammentava, non senza un vago trasporto, tutte le nozioni che padron Mizar gli aveva sempre conferito, ogni volta che lui si era mostrato sufficientemente curioso.

«Quest'Arco non è il trionfo degli uomini sopra agli altri uomini: è la vittoria della luce sopra tutte le tenebre. Eppure chissà in quanti lo ammirano e credono che sia a vanto del Re: lo avete eretto per rammentarvi di quelle epoche antiche, quando affogavate nel buio della notte; lo celebrate oggi come un trofeo, di quelli da porre in bella vista agli ospiti cosicché abbiate a vanto cose di cui nemmeno siete protagonisti. Ma cos'è la vittoria di un uomo a scapito di un altro suo pari, quando entrambi sono che polvere nella Grande Casa del Cosmo? Questo Arco sarà bello come dite, ma è anche tristemente inutile. Non assolve più al suo compito. Non rammenta agli uomini la bellezza dell'Alba, né la malinconia del Tramonto. È solo un ammasso di pietre e marmi che vi gonfia l'ego ogni volta che vi poggiate sopra lo sguardo. Per tanto, cos'altro dovrei mai pensare di quest'Arco, se non che esso è tanto grande quanto miserevole?» quindi si voltò.

«Ora proseguiamo».
 

11.2 Solstizio
 

Lentamente il gruppo discese lungo il ponte che dai colli della Guardia conducevano più in basso, verso il colle dell'Oro. L'intera Ras Alhague la si poteva immaginare come una immensa laguna di boschi, da cui soltanto sette colli si ergevano oltre il gran numero d'alberi, come picchi di montagne in gran parte sepolte negli abissi del sottobosco. Ogni colle era collegato all'altro da un sistema di ponti in pietra viva e marmi pregiati, adornati di numerose statue di personaggi tra i più famosi, e capeggiate ad ambo i lati da alte torri di guardia. Le cinte murarie sui colli formavano punte di freccia rivolte verso ogni direzione, sicché, se mai qualcuno avesse avuto il dolo del volo, avrebbe potuto ammirare come l'intero impianto urbanistico ricalcasse lo stemma del divino Sole: la Grande Cattedrale, simbolicamente al centro, rappresentava il cuore del Culto a lui dedicato.

La prima tappa del trio fu la casa di lord Mizar Merak, nella quale Aulix sembrava dovesse prendere qualcosa di utile alla sua causa. La raggiunsero che i primi rintocchi del Solstizio non erano che iniziati, il divino si era da poco seduto sul suo scranno eterno e il cielo era di un azzurro intenso. Varcarono l'ingresso senza difficoltà: era rimasto aperto, nonostante vi fossero chiari ed evidenti segni che la Gendarmeria stesse conducendo indagini all'interno. Ser Alcor esitò un istante.

«Comprendo che sia un duro colpo per voi, ma dovete farvi forza ser. Alcune cose accadono perché devono accadere, non v'è modo di sottrarvi ad esse» fece Undine. Alcor sospirò.

«Sembrate molto familiare con la mia vicenda, messere».

«Lo sono, invero. Ho officiato il Rito del Riposo per vostro fratello».

Il cavaliere allora prese l'altro per le spalle e disse: «Un altro suono, chissà quando, forse quando le mie ossa saranno cedevoli e la mia vista scarsa, io potrò finalmente mettere piede in questa casa e dirmi finalmente in pace. Fino ad allora, che fratello sia stato un eretico o meno, una parte di me vi sarà sempre grata per aver consegnato il suo Sogno alla Sera: mi rincuora sapere che egli è da qualche parte, nella Grande Casa, diretto verso il luogo del suo più eterno riposo».

«Sono certo che sia già lì, ser».

«Eppure», continuò l'altro, «non è felicità quella che riempie l'altra parte del mio cuore. I miei sentimenti di gratitudine mal si alleano con queste parole che ora mi escono dai polmoni».

Undine non si mostrò sorpreso. «Penso di comprendere».

«No, non potete. Non avrò pace finché non avrò avuto vendetta. Che mio fratello fosse innocente o colpevole, nessuno avrebbe dovuto costringerlo a tanto; tagliare le proprie vene e versare il suo sangue, non è mai stato uomo capace di ciò: amava il giorno e gli dei, aveva un cuore grande fin sopra i limiti del cielo. Così grande, da non vedere differenze tra sé e la sua servitù. Perciò, padre, quando la mia spada calerà contro uno del vostro ordine, non abbiate a meravigliatene e risparmiatemi da eventuali sermoni».

Undine sorrise. «L'uomo che ha officiato il Rito del Riposo a vostro fratello si è assopito nella sua cella, alla Grande Cattedrale. Io sono un uomo nuovo. Non ho più legami con l'Ordine, ma solo con la mia signora Artume: lei mi ha dato in dono questo nuovo giorno e io la seguirò fino alla fine».

Ser Alcor allora gli si fece vicino, gli strinse una mano in segno di fiducia e aggiunse: «Allora, messer Undine, non dovrete mai temere niente da me. Sarò per voi e la vostra signora spada e scudo, fin quando i nostri intenti saranno perfettamente allineati».

«Mi auguro che tale alleanza duri quanto più a lungo possibile. Siete un ottimo spadaccino, ci farete comodo».

«Certamente. Però voglio che abbiate in chiaro quest'altro: sono i raggi del Sole che scaldano il mio sangue, non la fredda luce della Luna».

«Non confidate troppo in quella luce, ser. Poca e sentirete freddo. Molta e avrete caldo. Al cospetto del divino bisogna stare né troppo distanti e né troppo vicini. Chi supera questo tabù perde il senno come Cipride».

«E chi segue la Luna si perde nella notte, dicono».

«Può darsi ser, ma amo troppo la Grande Casa del Cosmo per avere paura della notte».
 

11.3 Pochi rintocchi dopo
 

Aulix, che si era separato dal duo per qualche rintocco, ritornò di lì a poco con l'espressione soddisfatta, pur seria, di chi aveva ottenuto subito ciò che voleva.

«Mia signora, siete riuscita a trovare ciò che cercavate?» fece Undine.

Aulix inarcò un sopracciglio. «Puoi rivolgerti a me con tono meno formale, Undine. Non sono, per ora, che uno schiavo liberato che non ha né titoli e né fama. Quando siederò sul trono del mio castello, allora avrai tutti i motivi di rivolgerti a me con l'etichetta che più ti compiace».

«Un castello?» commentò Alcor. "Intende conquistare il regno?".

«O fortezza. Come preferisci, ser».

«A cosa può mai servirti, allora, l'atto di compravendita di mio fratello? Ormai che sei libero, esso non ha più valore».

«Certi pezzi di carta hanno più valore che di mille parole e giuramenti fra uomini d'onore, ser Alcor. Un piccolo pezzo di carta può cambiare il mondo. Questo documento sarà il primo passo verso qualcosa di più grande».

«Che cosa?»

Il giovane rise.

«Non mi hai sentito prima: un castello, ho detto».

11.4 Primi rintocchi di Equinozio

Gregor scoprì che la sua sopportazione aveva un limite molto esiguo. Benché non fossero trascorsi che tre soli suoni presso l'Ordine, era certo che avrebbe fatto carte false pur di poter fuggire da lì. Non potendo fisicamente sfuggire alla sua prigionia, iniziò allora a fantasticare: si vide circondato di belle donne, intento ad ingozzarsi di vini pregiati e ad assaggiare manicaretti di inenarrabile bontà. Si accostò a una colonna e di colpo si riscoprì circondato da lacchè e volti ignoti.

«Quale onore, sua eccellenza!» diceva uno. Fu spostato malamente da un altro, più grassoccio e unto.

«La mia diletta figlia compie diciotto danze questa Ide. Vi prego eccellenza, abbiatela in moglie! È donna in carne e fertile!»

«No eccellenza non state a sentire costui» fece un altro, tirandolo via. «La mia figlia adorata è giovane ma già pronta: ha sempre desiderato onorare la nostra casata ed è pronta a darle più eredi di quanti lei ne desideri!»

Merce di scambio. Ecco cos'erano le donne per alcuni uomini: prodotti da vendere e da imprestare. Cose. Di quelle che puoi far valutare e, per tua fortuna, anche agghindare così da renderle più gradevoli, anche quando gradevoli non lo sono. In quella sua singolare fantasia Gregor si riscoprì più nobile di quel che immaginasse. Con un colpo di tosse, di quelli decisi ed autoritari, s'impose con il petto come se avesse la notte a gran dispitto.

«Io dico, signori, voi nobili di sangue, siete nobili solo di titolo o è vero sangue blu quel che vi scorre nelle vene?»

Nessuno replicò.

«Allora vi dico, quali bestie vendono le grazie delle proprie figlie per averne un tornaconto? O forse pensate ch'io, dall'alto della mia gloria, abbia mai desiderato nient'altro che non sia quell'amore cortese di cui si canta nelle favole?»

«Oh quale amore?» rise uno.

Gli fece eco l'altro: «Quell'amore è per le storie e i bardi, non per la nobiltà».

«Con l'amore, sapete, non si fanno affari tra gentiluomini».

Gregor allora estrasse la sua spada e riflesse i raggi del divino con essa, abbacinando i presenti. La puntò poi verso ognuno, un per volta.

«Non ha forse il divino sposato una donna umana, e lo fa ciclicamente, perché egli ama l'umanità, e di quest'amore si nutre nello sposalizio? Così voi ingiuriate il vostro Culto e l'Ordine, dicendo che il matrimonio è atto d'affare e non certo atto d'amore!»

I volti di tutti congelarono nell'imbarazzo.

«Se non vi sapessi uomini d'alto lignaggio, forse avrei pensato di voi come si confà coi plebei nelle fattorie: di rozzi e di sozzi, di animali e maleducati. Allora io vi dico, tornate dalle vostre figlie e stringetele a voi: dite loro che v'è amore nel vostro cuore e che, se lo vorranno, avranno in marito chi loro desiderano e non chi voi desiderate per loro. Ed ora uscite dalla mia casa, mi avete già offeso a sufficienza!»

Quando tornò alla realtà, Gregor si sentì profondamente seccato. Avrebbe goduto nel dare uno smacco del genere a quella cerchia di nobili nullafacenti, opulenti sagome di una società che si fondava sui soprusi. Si sarebbe volentieri eretto sulle masse, conducendole verso un domani migliore. Invero, dietro quella facciata di nobili intenti, Gregor nascondeva un che di oscuro: i suoi occhi, quando s'immaginava eroe del popolino, erano sempre come infuocati da una luce sinistra. Perché, che ci piaccia pensarlo oppure no, son pochi gli uomini che fan cose giuste perché è giusto farle; una fetta fa ciò che deve quando può ma solo fin dove crede, un'altra fa ciò che deve solo quando lo vuole e la restante fetta fa' quello che vuole e non anche ciò che dovrebbe. Gregor non facilmente oscillava in tutte queste categorie, giacché, pur considerando che il suo desiderio di depurare la civiltà dalla zavorra, ch'era la lussuriosa nobiltà, derivasse dalla triste sorte che aveva colpito la madre, al tempo stesso non desiderava che per se stesso una vita di onori e di glorie, di agi e di vizi, di sfizi e di ricchezze. Credeva però che nessuna di queste cose avesse il piacere di definirsi tale se erano state ottenute con la menzogna, estorte con la forza, o conquistate con l'inganno. "Non che io possa mai raggiungere queste cose, facendo il sacerdote" si ricordò. Sconsolato vagò con lo sguardo, cercando tra i tetti delle case distanti quello della villa del suo fu padrone, ripromettendosi di ritornare al piccolo altare dedicato alla madre al termine del seminario.

«Quanti convenevoli, fratello». Gregor fu rapito dalla voce femminile che si elevò, d'improvviso. Si affacciò dal parapetto, facendo attenzione a restare nascosto dai colonnati, per guardare verso il basso ed origliare. Una donna dal lungo abito bianco e il viso coperto da un velo stava passeggiando assieme ad un uomo dall'aria severa e autoritaria.

«Conosci le regole, Cipride» il tono dell'altro non tradiva emozioni, nonostante desse l'impressione di essere seccato.

«Anche tu conosci le tue».

«Se entrambi sappiamo quali sono i nostri doveri, perché tu sei qui mancando, palesemente vorrei dire, al tuo?»

«Perché debbo riferirti di alcuni fatti tanto spiacevoli quanto meritevoli della tua attenzione».

L'altro si fermò. «Ti ascolto».

«Un piccolo drappello dei miei adorati figli è stato assopito».

«Ne sei certa?»

«Come una madre sa se i propri figli sono ancora vivi sul fronte di guerra, così io so -l'ho sentito- che sette dei miei figli sono stati trapassati a fil di lama».

«Per quanto sia una evenienza rara, può verificarsi. Si è verificata anche altre volte, perché farmelo sapere?»

Lei allora lo guardò con occhi carichi di risentimento. «Perché, fratello, sono stati assopiti nelle tue Case di Cura. Perciò domando risposte a te, che ti ergi in cima a chiunque in questa città: chi, dei tuoi fedeli, ha osato alzare le proprie armi sui miei figli?»

L'uomo non rispose, bensì si limitò a farsi vicino alla donna stringendola in un confortevole abbraccio. Il pianto di lei era rotto soltanto dalla sua collera.

«I miei figli, Bēl, li ho sentiti gridare e disperarsi mentre si spegnevano. La notte se li è presi. Non sento più le loro voci».

«Mia adorata Cipride, frena le tue lacrime» il fratello le prese il viso e cercò suo sguardo attraverso il velo. «Farò tutto ciò che posso per scovare chi ha osato portarti via i tuoi bambini. Fai però promessa di fare più attenzione: in questi luoghi ti è vietato entrare. Se sapessero di noi. Se ci vedesse qualcuno... l'Ordine che così faticosamente ho tenuto insieme...»

«Perdona questa tua sorella sconsiderata. Il dolore mi ha resa cieca, solo tu potevi darmi conforto. Fa che io non versi più altre lacrime per i miei pargoli. Trova i responsabili Bēl, dai loro la caccia: nessuno deve sapere che è possibile ucciderli e farla franca. D'altronde, ne va del tuo così prezioso Ordine!»

Gregor, ch'era rimasto a guardare la scena, rabbrividì. Era certo di aver udito quei nomi prima ma, anche se non riusciva a collegare nessuna informazione, sentì un brivido corrergli lungo la schiena. Era difficile da spiegare: si sentì come se avesse visto dei volti familiari dopo un tempo lungo e atroce, e fu scosso da così tanta gioia che, incontrollabilmente, tutto il suo corpo dovette liberarsi degli eccessi scuotendolo dalla schiena fino alla punta dei capelli.

«Ora ti lascio, fratello. Confido nel tuo operato».

«E io nel tuo».

"Chi sono costoro?" si domandò Gregor, mentre guardava i due stringersi in un ultimo abbraccio, prima di lasciarsi. Restò ancora in disparte, mentre l'uomo che rispondeva al nome di Bēl fece suonare un campanellino. Poco dopo apparve un sacerdote, che subito si prostrò ai suoi piedi.

«Vostra eccellenza, comandatemi».

«Adraste, ho bisogno dei tuoi servigi».

«Ogni suo desiderio è un ordine, Sommo Cardinale».

A quel punto Bēl lo fece alzare e gli consegnò una spilla a forma di pugnale.

«Contatta Callisto, riferiscigli che ignoti hanno aggredito e assopito alcune Orme Bianche all'interno della Casa di Cura. Che indaghino sulle vicende, con estrema discrezione».

«C'è altro?»

«Sì, voglio che Io e Meti indaghino all'interno della Grande Cattedrale. Uno dei miei fratelli si nasconde entro queste mura. So che è tra noi ma non so dov'è: trovatelo. È vitale che non venga scoperto da altri prima di me, intesi?»

«Certo vostra magnificenza, provvederò subito».

«So che non mi deluderai».

Mentre la figura del Sommo Cardinale si profilava oltre il colonnato, Gregor scivolò a sedere paonazzo in volto. "Il Sommo Sacerdote è una divinità? Ma... non fu vietato? Non fu proibito dal divino agli altri dei di interferire attivamente con gli uomini?"

La figura di Ade si materializzò al fianco del giovane, sorridendo e sistemandogli gli abiti.

«Vedi Gregor? Anche agli dei piace infrangere le regole: non è solo un vizio umano».

11.4 Qualche rintocco d'equinozio più tardi

Cipride stava rientrando nei suoi domini sottostanti la Grande Cattedrale quando un piccione viaggiatore si appollaiò sui bordi della scala che dal sontuoso edificio dell'Ordine l'avrebbe ricondotta al suo antro nascosto.

"Un messaggio?" incuriosita, sfilò la pergamena dalla zampa del volatile e, mentre questi si sistemava le piume, la srotolò.

Questo lesse:

Grande Madre,

alcuni invasori hanno messo piede alla vecchia Ras Alhague. Sono arrivati dal vecchio passaggio, quello sigillato; ho ragione di pensare che siano responsabili per la sorte dei nostri adorati fratelli. Conosco quel passaggio bene e so che porta unicamente alle Case di Cura, lì dove i vostri pargoli sono scomparsi. Ho tentato d'incastrarli presso la vecchia porta, ma credo che tenteranno di aggirarmi per proseguire. Chiedo il permesso per terminare i bersagli a vista.

Vostro fedele servitore,

Golgo.

«Oh Golgo, mai saprai quanto hai reso felice la tua madre oggi».

La dea prese dal suo abito bianco una piccola pergamena. Prese una piccola lama e si provocò un breve taglio sull'indice; scrisse al suo servitore e figlio adorato il seguente messaggio.

Mio fedele Golgo,

se ti si presentasse l'opportunità, fa di prenderli vivi e conducili a me. Ma se per caso tu ne avessi motivo, prenditi pure i loro giorni, così come loro, semmai ne avranno modo, certamente si prenderanno anche il tuo.

Quale che sia l'esito delle tue azioni,

la Grande Madre ti sarà riconoscente in egual misura.

Con affetto, la madre tua.

Sorrise, proiettando se stessa dentro ai piani e alle trame che le stavano danzando nella mente: mescolò il dolore amaro di madre affranta al sapore dolciastro della vendetta, consapevole ora d'avere tutti i responsabili di quel vile atto nel palmo della sua mano. Quelli che erano alla vecchia Ras Alhague avrebbero incontrato la sua furia per mano dei suoi guerrieri, e, se erano sfortunati, avrebbero patito per mano sua le giuste pene.

«Me la pagherete».

La dea che presiedeva l'amore aveva ora il cuore colmo d'insani propositi.

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 - Sesto Nuovo dell'Ultima Ide ***


12.1 Tardo Equinozio
 

Quel suono lo si sarebbe ricordato nelle danze a venire. Nessun uomo, né di grande lignaggio, né di più basso volgo, avrebbe riposto quell'avvenimento negli angoli più remoti della propria memoria. Eppure, ad onor del vero, era quasi trascorso un intero suono che nessuno si era accorto di cosa stesse accadendo. Talvolta, le cose più incredibili capitano proprio davanti ai nostri occhi, e noi si è fin troppo ciechi per notarlo; perché indaffarati; perché imprigionati nelle nostre faccende, sicché si abbisogna che qualcos'altro ci faccia notare ciò che non riusciamo a vedere.

Fu così per Ras Alhague, che nel bel mezzo di quell'equinozio si fermò. Nobili, mercanti, schiavi, contadini, perfino gli animali. Anzi, proprio quest'ultimi furono ambasciatori di quell'evento passato quasi inosservato. Dapprima si elevarono stormi d'uccelli in così gran numero da oscurare brevemente i raggi divini, poi il latrato spaventato dei cani riecheggiò fin nelle più distanti contrade, quindi i ratti, bestie pestifere, in grandi masse squittivano spaventati e correvano un po' qui e molto di là.

«Madre! Madre» gridò un giovincello al genitore. «Guardate il cielo! La Luna! La pallida Luna è nel cielo!»

Credendo d'avere un figlio menzognero, la madre lo colpì con una sberla sull'orecchio.

«Non credere che una bugia ti salvi dai tuoi doveri!»

Ma ben presto anche la lavandaia s'avvide di quel che suo figlio le andava indicando: la Luna, pallida in volto, appariva per tre quarti della sua divinità nel cielo azzurro. La donna lanciò un grido, poi svenne.

Era sempre stato insegnato, da quando l'Ordine andava evangelizzando la sua antica tradizione nel regno, che il cielo era il trono del Sole. Sicché, per questo motivo, nessun altro Dio poteva sedere al suo fianco, poiché egli, tanto radioso quanto magnifico, non concedeva il suo trono che soltanto a se stesso. Così quel dogma si era cristallizzato nel tempo divenendo certezza. Non che nessuno mai avesse alzato il suo sguardo per ammirare l'azzurro cielo o le bianche nubi. Eppur il popolo, anche chi di esso la Luna l'aveva vista, si era subito detto che dovesse trattarsi di una sciocca allucinazione. Ma poi chissà, forse per curiosità, quello stesso popolo che l'aveva vista con la coda dell'occhio, ora quell'occhio lo teneva ben fermo sulla pallida Luna; perché lei sedeva placida e arrogante, poco oltre l'orizzonte, come se fosse suo diritto essere lì.

Così accadde, l'odierno Sesto Nuovo dell'Ultima Ide, proprio quell'Ide ch'era detta d'Argento perché associata proprio alla Luna, che l'impensabile si manifestava agli occhi di tutti: infrangere la veridicità di un dogma fu come un terremoto, che scosse quella società poggiata su ben fragili fondamenta da lunghe danze.

L'onda del tumulto e dell'isteria si innalzò lentamente, ma tanto più si ingrandiva, tanto più si faceva violenta. Così, se in un primo momento era un mormorare sommesso, pochi rintocchi la paura delle masse era come un fiume in piena. Destate dalla loro ignoranza e dalle loro certezze, le persone dei ceti più bassi inondarono le contrade, fino alle città, gridando e comportandosi proprio come i ratti quando sfuggono alle calamità. Poiché la Luna era ritenuta nemica del Sole, il vederla nel cielo ancor prima che iniziassero i Patti Solari inculcò in ognuno l'idea che la fine del mondo fosse ormai alle porte.

Sicché, il primo e più efficace intervento lo ordinò il Re. Si affacciò irato e seccato sulla balconata interna del suo castello, mentre le milizie, capitanate dall'Alto Comandante Johanna Bow, rapidamente si univano in attesa di un comando. Il Re allora proclamò:

«Voglio le milizie e la gendarmeria pronte a sedare la popolazione. Riportate ognun dentro la sua casa. Calmate chi è spaventato, arrestate chi profetizza contro il Culto. Se vi è dato motivo, non lesinate forza alcuna per riportare l'ordine nella capitale.

Lo stesso va riferito anche ai vice-re delle restanti città. Questo il Re comanda, dite loro».

Johanna eseguì un inchino e subito comandò al reparto responsabile delle comunicazioni di inviare le disposizioni regali agli altri vice-re.

«Ser Bow, i piccioni viaggiatori sono impazziti: alcuni sono morti per fuggire dalle gabbie, altri sono volati via e non sappiamo dove» fece un soldato.

«Allora prendete i cavalli, se questi non sono sbizzarriti. Altrimenti, fate spuntare le ali sulle vostre calzature affinché siate veloci nel consegnare i comandi del Re!»

Nel frattempo, il sovrano discese la lunga scalinata in marmo e pietra viva, decorata con busti di grandi eroi e prodi cavalieri, per avvicinarsi all'Alto Comandante. Questi, rapidamente, si inginocchiò; essendo rimasta sola, dacché ogni altro uomo era già corso a obbedire ai comandi del Re.

«Vostra Altezza».

«Ser Bow, prendete pochi uomini: che siano la mia scorta personale. Dovremo recarti alla Grande Cattedrale, rapidamente».

«Ogni vostro desiderio è un ordine», disse lei.

Allora Johanna Bow si recò alla ricerca di alcuni dei suoi uomini più fidati. Risposero all'appello cinque su sei, giacché uno era stranamente assente.

«Dov'è ser Alcor?» fece lei.

«Nessuno lo ha visto da quando il fratello si è assopito».

Un altro ancora disse: «Forse è ancora in lutto».

«Questo lutto gli costerà caro», fece Bow. «Essere assente in un momento del genere, ne risponderà a Sua Altezza in persona. Non importa ora, andiamo».

Fu così che il Re, circondato da cinque dei più valorosi uomini delle milizie, più l'Alto Capitano, si apprestarono a mettersi in marcia. Ma scoprirono che, sebbene non tutti i cavalli fossero scappati, pochi di quelli rimasti sembravano in condizione di essere cavalcati. Così allora decisero di proseguire a piedi, approfittando che il Colle Regio e quello della Sposa fossero comunicanti, tramite un ponte, ma scarsamente frequentati dal popolino; i nobili, sì spaventati, avevano preferito rimanere asserragliati nelle rispettive dimore.
 

12.2 Nel frattempo
 

Il Sommo Cardinale stava affacciato al grande balcone che, dai suoi appartamenti privati, dava all'immenso piazzale adiacente alla Grande Cattedrale. Da qui era solito tenere discorsi o mostrarsi al popolo nei momenti di festività, ma ora quel piazzale era vuoto e tutto ciò che vedeva, all'orizzonte, era lo spettro della sua più grande paura. Eppure, rigido e severo com'era, inflessibile nel carattere come nelle azioni, non paventò nessuno dei suoi timori sul volto. Sotto la lunga barba grigia, le labbra rimasero serrate senza scadere in alcun ghigno di sorta.

«Eccellenza» gli fece un sacerdote. «Le milizie regali si stanno già promuovendo per sedare l'isteria del popolo. Per nostra fortuna, per ora i tumulti sono limitati alla zona popolare e al borgo commerciale. Desidera diramare qualche ordine?»

«In effetti sì, Eaco. Voglio ogni sacerdote disponibile in strada. Voglio che nemmeno un germe di eresia venga sparso impunemente. Chiunque sia trovato a parlare della Luna o di qualsiasi cosa che non sia in linea con l'Ordine dovrà essere consegnato al tribunale dell'Insonnia».

«Ma vostra eccellenza, potremmo non avere la forza necessaria per...»

«L'avrete. Comanderò ai templari di coadiuvare le vostre azioni».

«I templari!?»

«Qualcosa non è di tuo gradimento?»

«No –no vostra magnificenza. Così comandate, così sarà».

Eaco scomparve lentamente, lasciando il Sommo Cardinale solo con i suoi pensieri. Sapeva che usare i templari poteva rivelarsi rischioso, ma non temeva conseguenze: una volta sistemata quella spiacevole situazione, avrebbe riportato tutto in ordine e in equilibrio com'era nelle sue capacità.

«Vostra magnificenza!» fece un altro sacerdote, entrando d'improvviso.

«Cosa succede?»

«Sua maestà è qui! Vuole incontrarvi!»

Il Sommo Cardinale non fu sorpreso: Corona e Ordine solevano unirsi sovente, specie per le festività, giacché esse erano due lati della stessa medaglia; e non s'era mai sentito né pensato che potessero andare in disaccordo, perché se la prima del regno era la mente, l'altra era per lui il cuore. Sapeva, dunque, cosa il Re fosse venuto a dirgli e si preparò a riceverlo con tutti gli onori del caso.
 

12.3 Primi rintocchi dei Vespri
 

«Non ho la più pallida idea di cosa stia succedendo, ma ti ringraziamo –oh dea Luna- per averci concesso di superare quel maledetto arciere!»

Che Sebastian fosse contento di quanto stesse capitando glielo si poteva leggere fin nella punta dei suoi capelli. Al contrario, laddove Mithra era soltanto meno restia ad esser contenta, poiché preoccupata che l'arciere iniziasse a colpirli, Claudiette e Rosanne trasudavano paura e sgomento ad ogni passo.

«Questo è un segno del cielo!» piangeva una. «Questa è la fine del mondo!»

«Non mi piace. Non mi piace per niente. Perché ora? Perché proprio ora? Non può essere un caso!»

Sebastian non smetteva di ridere. «Oh per favore! Volete mettervi a pregare? Volete una tonaca? Un bastone sacro? Ho uno o due sermoni finti, se volete; li uso quando mi travesto da sacerdote per...»

«Silenzio!» fece Mithra. Il suo tono di voce, basso ma grave, attirò subito l'attenzione del sicario. Le altre due, vedendoli porgere orecchio d'intorno, misero da parte la loro paura e tentarono di capire.

«Vi prego! Vi prego! Non colpitemi!» fece un uomo, uscendo da un angolo. Era vestito di stracci e aveva una lunga barba nera; un occhio era attraversato a metà da una cicatrice, mentre l'altro, castano, non smetteva di spostarsi sui componenti del quartetto.

«Vi prego, aiutatemi: sono rimasto intrappolato qui da molti suoni. Quel maledetto mi dà la caccia! Voglio andarmene».

Sebastian sbuffò. "Meraviglioso, un'altra palla al piede". «Ascolta amico, non siamo qui per andarcene. Noi dobbiamo proseguire. Intesi? Perciò scusaci, ma... aspetta, hai detto che sei qui da molti suoni?»

«Io... si, si». Mithra lo guardò dubbiosa.

Il sicario continuò: «Come hai fatto ad evitare quel maledetto?» e indicò la posizione dell'arciere.

«Io, ecco, c'è un passaggio. Cioè, vedete... io –io striscio qui, passo là, vado lì, giro di là. Ci giro attorno, però l'uscita è quell'altra e mi ammazza se mi vede!»

Claudiette, vedendo che l'uomo era fin troppo spaventato per aiutarli, gli si fece subito vicino. Decise di tirar fuori la sua arma migliore: si piegò leggermente in avanti, affinché il bel seno prosperoso, facendo capolino dal corsetto, attirò subito la vista di quell'uomo. Quindi lei incalzò con voce sensuale.

«Aiutaci a girare attorno a quella torre, dietro quella specie di chiesa vedi. Sì, sì lì. Alla Grande Cattedrale. Tu facci arrivare lì e io ti assicuro che ti aiuteremo a uscire; e chissà, magari potrei darti anche qualcos'altro!»

Afferrò la mano di lui e la poggiò sul suo petto, facendola poi scivolare dabbasso. Lo guardò mentre l'ida vivida dell'atto sessuale si ramificava ferocemente dentro di lui, annebbiando ogni sua capacità decisionale. La sceneggiata aveva avuto successo, dato che l'uomo, visibilmente eccitato, si fece virile tutto d'un tratto.

«Non abbiate timore! Vi aiuterò senz'altro!»

Claudiette si girò, facendo l'occhiolino ai compagni. Poi si accorse che anche Sebastian non era rimasto così immune alla sua recita. "Basta così per oggi!".
 

12.4 Qualche rintocco più tardi
 

Sua maestà il Re e la sua scorta giunsero alla Grande Cattedrale che i rintocchi dei Vespri andavano ormai annunciando la prossimità dei Patti. Ancora gli sembrava irreale vedere la Luna nel cielo, prima che la Grande Casa del Cosmo fosse visibile per intercessione del divino Sole. Si sentiva allora come osservato da quel grande volto pallido, e non meno di una volta distolse lo sguardo dalla Luna pensando che la dea Artume, dall'alto, gli stesse scavano nel suo sogno.

Poiché il Re non era solito mostrarsi sovente in pubblico, i sacerdoti che lo accolsero ne ammirarono la foggia poiché sicuro che si trattasse di una occasione unica ed irripetibile: il sovrano era di corporatura robusta e forte, di statura alta, ma non sproporzionato come si potrebbe pensare. Difatti, ben sette dei suoi piedi ne demarcavano l'altezza. Il capo era però tondeggiante, con gli occhi grandi e vivaci, e il naso un po' più lungo del normale. Bei capelli canuti contribuivano a renderne il viso piacevole, aumentando sicché l'aura di autorità e dignità che lo circondavano. Sovente, ci si meravigliava che un tale aspetto regale fosse in disaccordo con il suo collo, grasso e un po' corto, e con il suo ventre prominente; tuttavia, forse in virtù della sua andatura sicura, sorretta da un atteggiamento assolutamente virile, gli si poteva quasi perdonare quel genere d'imperfezione. Trovarono poi fondate le voci che dicevano che fosse divenuto leggermente zoppo ad un piede, cosa che però era assai difficile a notarsi, dato che il Re sembrava profondere ogni movimento nell'atto di mascherare questo problema.

A metà del grande piazzale degli appartamenti privati del Sommo Cardinale, il Re e la sua piccola delegazione furono accolti da alcune delle più alte cariche dell'Ordine: i Cardinali, coloro che non prendevano parte alla vita liturgica come i sacerdoti, ma bensì si occupavano di aiutare il Sommo Cardinale nella sua missione evangelica.

Non appena lo accompagnarono all'interno del palazzo, così lo annunciarono: «Sua maestà Anum Sal'olmar è qui giunto: lunga vita al Re!»

Fu allora condotto nelle stanze degli ospiti, dove il Sommo Cardinale lo attendeva, seduto su una poltrona in mogano e imbottiture di seta rossa.

«Vostra Maestà, quale gradito onore avervi qui» fece il Sommo Cardinale, apprestandosi a baciare l'anello del sovrano.

Altrettanto fece il Re: «Sempre la Corona si china dinnanzi alla radiosità del Sole» e baciò a sua volta l'anello dell'altro.

Terminati questi convenevoli, le due più alte cariche del regno domandarono ai rispettivi accompagnatori di lasciarli soli, giacché dovettero discutere di faccende assai private. Così, non appena furono soli, quella maschera di riverenza cadde, per far posto al più sincero affetto fraterno.

«Bēl, fratello mio, dimmi che non ho perduto il senno».

«Non lo hai perduto, fratello Anum».

«Allora anche tu la vedi come la vedo io?»

«Una domanda sciocca, fratello. Tutto il regno la vede».

«Sai cosa può voler dire?»

«Temo di sì: lei è tra noi»

«E come può palesarsi anche nel cielo?»

«Non ho risposta a questa domanda».

«Ho un grave timore, fratello Bēl».

«Può darsi che sia lo stesso che ho io, Anum».

Il Re si alzò, visibilmente paonazzo. «Abbiamo sempre temuto che un giorno decidesse di scendere tra noi. Ora temo sia successo».

«Prima o poi doveva capitare, fratello. Ma non temere: le Leggi di Gravità valgono per tutti noi».

«Non c'è bisogno di mentire fratello, sai a cosa alludo».

«E tu sai che non bisogna farne parola».

«Non ho intenzione di farlo, ma vorrei che tu ragionassi meglio sulla cosa».

Sicché il divino Bēl, che gli umani chiamavano col nome Giove, si alzò anch'egli dal suo scranno, come se avesse udito una gran bestemmia.

«Tu forse sostieni che anche Artume abbia potuto... ?»

«Guardati attorno fratello, questo mondo è stato creato da Gaia; la Luna è sua sorella. Io temo che lei sia immune alle Leggi».

Il Sommo Cardinale sbuffò. «Illazioni e nient'altro. Non c'è ragione per cui lei debba avere un trattamento diverso dal nostro».

«Eppure guardala. Sta nel cielo dove a ognuno di noi non è concesso. La sua sola apparizione è stata sufficiente a scatenare il caos. Senza contare, fratello, che è famigerata per le sue intromissioni contro gli uomini».

«Sai bene che qualsiasi cosa abbia fatto in passato, è stata sempre nei confini delle Leggi».

Allora il Re, visibilmente spazientito, alzò il tono della voce: «Tu sai chi ci ha permesso di essere qui e ora, sulla cima di tutti. Abbiamo calpestato i nostri fratelli e sorelle, per assoggettare gli esseri umani e creare questo regno. Cosa ti fa pensare che Artume non abbia scoperto il nostro segreto? Cosa ti fa credere che lui non sia dietro tutto questo?»

«Non essere sciocco Anum. Lui è in un luogo in cui nessuno può avvicinarlo, né uomini o dèi».

«E se invece?»

Il Sommo Cardinale afferrò il Re per i sontuosi abiti e ringhiò: «Nessuno, fratello. Ci siamo solo io e te, e quei pochi che sanno abbiamo provveduto a farli sparire. Nessuno è immune alle Leggi, puoi starne certo».

«Spero che tu abbia ragione».

A quelle parole, il Sommo Cardinale lasciò andare il fratello, mettendosi a sedere.

«Alcune cose strane stanno accadendo, ma non dobbiamo lasciarci sopraffare».

«Di che parli?».

«Cipride. È giunta da me, incurante dei nostri accordi, per lamentarsi che alcuni suoi figli sono stati assopiti».

«E dov'è la novità?» fece il sovrano. «Non è raro che le Orme Bianche vengano assopite».

«Sono stati assopiti nelle Case di Cura. Abbiamo trovato il sacerdote che se ne occupava nudo e con il collo spezzato, su di un letto. C'erano tracce di sangue e... il corpo di un altro sacerdote, ricoverato per un malore, pare sia scomparso nel nulla».

«Bēl, fratello mio...» fece il sovrano, poggiando una mano sulla spalla dell'altro. «Non voglio pensare che queste cose siano una coincidenza, ma potrebbero esserlo. Tuttavia, se non lo sono, allora dovremmo prepararci».

«Sono d'accordo. Sarai mio ospite per questi Patti, ne discuteremo domani meglio e con calma».

«Accetto la tua offerta, fratello. Che il Sole vegli su di noi».

«E su tutto il regno, fratello mio. Su tutto il regno».


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Capitolo 14
*** Capitolo 13 - Settimo Nuovo dell'Ultima Ide ***


13.1 Nel sogno
 

Artume stava seduta al di sopra di una roccia, guardando con gli occhi sempre pieni di lacrime il firmamento. Ora che era finalmente giunta nella casa che l'amata sorella aveva disposto per gli uomini, scoprì, non senza rammarico, che non poteva più ammirare le spoglie dell'amata Gaia come aveva fatto per lungo tempo. Ora, anche nel Sogno, tutto ciò che poteva ammirare era la vastità e la solitudine che imperversavano nella Grande Casa del Cosmo.

«Come può qualcosa di così bello essere al tempo stesso così desolante?» chiese.

L'uomo che le stava di fianco distolse lo sguardo brevemente dalle divinità lucenti, sorridendo affabile.

«Non solo è desolante ma ti fa sentire così insignificante. Forse è proprio questo che la rende meravigliosa: la Grande Casa ti ricorda che non sei tu il centro dell'esistenza, ma il contrario».

Artume sospirò. «La vista della mia amata sorella mi ha sempre distratto da questi pensieri. Eravamo così vicine che, di colpo, la Grande Casa non sembrava più così grande; e la mia solitudine, per qualche attimo, smetteva di graffiarmi in petto».

«Ho sempre saputo che il tuo sguardo era altrove, Aulix. Ora so finalmente dove si perdeva così spesso».

«Mizar...»

«Tu sai perché ho scelto di addormentarmi?»

«Perché ti ci hanno costretto».

«Io ho scelto. Può parer ch'io abbia dovuto agire perché costretto. Ma sempre è possibile scegliere, in un modo o in un altro».

«E cosa hai scelto, Mizar?»

«Ho scelto di cambiare le cose, di lasciare che altre si mettessero in moto senza di me. Per farlo, era necessario che mi facessi da parte».

«Hai scelto di non scegliere».

«Assopirmi mi ha tolto la possibilità di fare delle scelte, è vero. Ora certamente non ho potere di cambiare la mia situazione. Eppure, curiosamente, smettere di scegliere è essa stessa una scelta: facendomi da parte, quel potere decisionale ch'era mio ora è di qualcun'altro. Tuo, ad esempio».

La dea Luna si alzò e guardò l'altro con occhi carichi di risentimento.

«In questa Grande Casa tante danze le ho passate in solitudine e tutte a guardare gli esseri umani. Ne ho appreso una severa lezione: quanto più ci si sforza di cambiare quel che ti sta intorno, tanto più ogni cosa resta irrimediabilmente la stessa. A cosa ti serve scegliere, allora?»

«Il tuo è un punto irrisolvibile: come puoi scegliere di cambiare qualcosa, se quel qualcosa alla fine tornerà come prima? Se allora allargassimo questa provocazione su altri argomenti, è lecito dire che, come personaggi di una fiaba, non ci è dato modo di muoverci al di fuori di essa. Ciò che è così sarà, se così deve essere. Scegliere sarebbe ininfluente».

«Questo è l'inganno, mio buon amico. Non è l'avere una scelta o il non averla, e non è l'essere liberi o l'avere un destino già scritto; si dice che, se vuoi liberarti di un male, è bene che tu lo faccia fino alla radice. Quindi, la soluzione è molto più semplice di quanto tu possa pensare: non ho scelto di cambiare questa patetica fiaba.

Io la voglio distruggere».

 

13.2 Primi rintocchi di Lode

 

Le prime luci del divino rischiararono un regno ferito, che aveva tentato di leccarsi le profonde ferite subite, ignorando, o forse fin troppo orgoglioso per ammetterlo, che il sangue che cercava di guarire non era il suo ma apparteneva al quel popolino obbligato a calmarsi con la forza. Così stavano, quelli in basso alla società, frustrati da un malcontento e da un desiderio di riscatto annidato profondamente nel loro cuore. Il volto pallido della Luna quasi li derideva, poiché ella era riuscita infine a vicino al trono del Sole, senza però spodestarlo, quasi a suggerire che si potesse essere pari a chi, invece, era solito porsi al di sopra degli altri. Così chi guardava la Luna, adesso, lentamente perdeva quel timore e il suo sgomento, giacché nel volgo e in chi viveva di stenti ancora si affannava perfino per un tozzo di pane, gridavano vendetta le bastonate ricevute dalle milizie; rei soltanto di aver ceduto alle proprie paure.

Ma una strana sensazione di tepore si percepiva quella Lode. Il risuonare dei rintocchi che annunciavano via via più intensamente il ritorno dei bagliori solari quasi sembravano mentire sulla vera posizione del divino: questi non era ancora nemmeno giunto a sedersi sul suo trono, che il calore emanato dal suo canto faceva sembrare quella fredda lode dell'Ultima Ide una splendida giornata dell'Ide d'Oro. Tal sentore si sarebbe radicato profondamente nelle coscienze di alcuni, molto meno che in altri. Fu come se, da un lungo e letargico stallo, qualcosa si fosse improvvisamente mosso. Non un movimento brusco, né qualcosa che, come un terremoto, provocava scosse potenti e distruttive; fu sì un sussulto per tutto il regno, e non uno dal quale ci si poteva riprendere all'istante. Eppure, esso non si esaurì nell'immediato e, anzi, si prolungò entro confini ignoti. L'incapacità di afferrare a pieno i moti di quei cambiamenti si sarebbe rivelato fatale per chi, al comando, non pensava di dover temere niente dalle vicende di cui, pur partecipe, a fatica ne comprendeva il nesso. Sicché, ironicamente, i primi ad avvertire il bisogno di assecondare quei movimenti, anziché sperare di tornare in letargo, furono proprio coloro che per lungo tempo si erano sentiti inermi e quasi privi di sensi. Ladri, schiavi, criminali, prostitute, contadini, mercanti, orfani, gladiatori, manovali, minatori, cercatori d'oro, cacciatori di taglie, spazzacamini, fabbri, calzolai, garzoni, veterani di guerra; tra costoro, asserragliati dalle stesse condizioni disperate, si instaurò nuovo e più prepotente il desiderio di fare qualcosa. Qualsiasi cosa, invero. Ma proprio come quel movimento improvviso che aveva scosso e spaurito la società solo in un primo momento, così lo stesso popolino si era solo momentaneamente acquietato: quel mare variegato di persone stava con l'onda della sua rivolta solo brevemente in bonaccia, poiché il vento giusto e più potente da seguire ancora non era giunto. Giacché, al momento giusto e sotto al giusto vessillo, quell'onda enorme si sarebbe infine rialzata e avrebbe spazzato via tutto ciò che c'era di conosciuto, lasciandosi dietro che le macerie di ciò ch'era prima.

 

13.2 Rintocchi di Lode inoltrata

 

Il gruppetto, capitanato da Sebastian la Serpe Nera, aveva speso il suono precedente nel tentativo di avvicinarsi quanto più possibile alla torre e alla chiesa diroccata, seguendo fedelmente le indicazioni di quello sconosciuto. Dapprima, il sicario non ebbe a dubitare della buona fede dell'uomo, specie dopo che Claudiette lo aveva raggirato con il suo bel decolté. "E che decolté, dannazione". Tuttavia, sebbene si facessero sempre più prossimi alla postazione dell'arciere, la sensazione di star girando in tondo si fece sempre più forte. Fu allora che l'intuito prese a bussare insistentemente alle porte del dubbio. "Odio il mio sesto senso... posso mai fare qualcosa senza avere la sensazione che mi stiano pugnalando alle spalle?" Quasi in risposta alla sua domanda, si accorse che la figura spettrale dell'assopito Lucius, il suo vecchio compagno e rivale in amore, emergeva dalla penombra di ciò che rimaneva di una cucina distrutta, sorridendo.

«Lui mente», disse. Sebastian rimase immobile, mentre il resto del gruppo ispezionava i resti della casa, onde assicurarsi di poter proseguire in tranquillità. La Serpe Nera, che stava vicino all'uscio di una balconata, guardò prima verso la prossima abitazione e la studiò.

"Ha il tetto crollato ed è in linea di tiro con la torre. Ci siamo sì avvicinati ma, senza accorgercene, ha provato a portarci in un punto ideale per l'arciere. Evidentemente è un piano ben studiato il loro: se uno non riesce a colpire gli invasori con i dardi, l'altro fa in modo di portarli in zona di tiro. Che stronzi infami".

Eppure, Sebastian si era spesso trovato in situazioni simili e non lo chiamavano la Serpe senza ragione: poteva strisciare via perfino dalla cella di una prigione, se avesse voluto. "Ci avete provato, ma vi è andata male".

Notando che la balconata non era direttamente esposta nella linea di tiro nemica, Sebastian si affacciò brevemente e cercò di sondare la parte sottostante, come se volesse assicurarsi che vi fosse un morbido appoggio in caso decidessero di saltare giù.

«Venite qui! Ho visto qualcosa!»

Chiamò a gran voce il resto del gruppo, ma lentamente sgusciò di fianco a Mithra, Claudiette e Rosanne, frapponendosi però alla loro improvvisata guida. Con un gesto fulmineo, spinse le tre donne di sotto con tale forza che queste si ritrovarono a rovinare all'ingiù senza poter opporre resistenza. A quel punto balzò in avanti ma, anziché seguirle, approfittò del cornicione per eseguire una agile acrobazia e salire sul tetto dell'abitazione. La guida improvvisata, ripresasi dalla sorpresa, seguì affannosamente Sebastian e si ritrovarono entrambi sopra di una arena fatta di fieno e travi marce.

«Sei più astuto di quanto sembri, damerino. Come lo hai capito?»

La Serpe sorrise. «Un assassino non rivela mai i suoi pugnali!»

«Non uscirai vivo da qui. Sei all'aperto, in bella vista».

«Io penso invece che tu stia bluffando» e spalancò le braccia, come a far segno all'arciere di colpirlo. Niente accadde. «Chiunque sia su quella torre evidentemente ci tiene alla tua pellaccia. Se sparasse uno dei sui dardi d'assedio sicuramente mi assopirebbe ma potrebbe colpire anche te. Forse è un rischio troppo alto, evidentemente non ne vale la pena».

«O forse è solo confidente nel fatto che, tra poco, avrai la mia lama conficcata nel petto». L'uomo estrasse un pugnale, la cui foggia Sebastian non riuscì a riconoscere. «Lui penserà alle tue amichette in fuga. Io penserò a te».

«No, piccolo ratto: sei finito nelle spire della Serpe, non hai dove fuggire».

 

13.3 Primi rintocchi di Solstizio

 

Gregor aveva trascorso l'intera lode assieme a due sacerdoti, setacciando le vie della città nel tentativo di tenere a freno qualsiasi balordo avesse avuto anche soltanto l'idea di osannare l'apparizione della Luna. Uno dei due sacerdoti poi era un membro dell'Insonnia: talmente ligio e rigido nel suo compito che Gregor temette perfino di guardarla, la Luna, nel timore che potesse incatenarlo in una qualche prigione.

Che i tumulti della città sarebbero continuati ancora a lungo, lo si percepiva dalla grande presenza di soldati e cavalieri, tutti intenti a setacciare la città. Ma, come spesso accade, l'uso della forza, fosse anche per nobile intento, maturò in alcuni il desiderio di approfittarne; così Gregor smise di contare il numero di abusi cui assistette, come giovani donne stuprate, vecchi umiliati, bambini ridotti in fin di vita da percosse. "Quali sono le bestie? I bifolchi del popolino o i bifolchi della nobiltà?" A Gregor non stavano a cuore né gli uni, né gli altri. Tuttavia, avrebbe ricordato quelle scene tanto a lungo da imprimerle radicalmente in se stesso.

«La Dea Luna vi punirà! La sua vendetta è giunta!» gridò un barbone, biascicando a stento sotto lo sguardo divertito di alcuni cavalieri. Uno di questi lo colpì nei fianchi, poi gli sputò indosso. I due sacerdoti allora si avvicinarono all'uomo e l'agente dell'Insonnia si apprestò a marchiarlo a fuoco, come si fa a tutti gli eretici. Marchio che equivaleva a una condanna.

«Lo spettacolo non è di tuo gradimento?» fece il divino Ade, comparendo di fianco al giovane.

Gregor nascose con grande difficoltà il disgusto che provava nei suoi confronti: gli sembrava che le sue apparizioni si facessero sempre più invadenti.

«Niente è di mio gradimento», ammise.

«Lo diceva spesso anche lei».

«Lei chi?»

Il dio parve voler rispondere ma poi tacque.

Gregor allora incalzò: «Parla, a chi ti riferisci?»

«Non è questione che ti riguardi».

«Siamo o non siamo la stessa cosa, eh? Il tuo segreto è anche il mio: dimmelo».

Allora il dio si rivolse a Gregor con uno sguardo iracondo. «Non è questione che ti riguardi, ho detto!»

Gregor non seppe cosa lo stesse spingendo ad insistere, ma, dal momento che era legato al dio, intuiva il dolore che languiva nelle sue parole; e di riflesso quel dolore era ora anche il suo. «Per quale motivo io, che sono anche te, non dovrei saperlo? Perché nasconderti da te stesso?»

«Me stesso? Come se un lurido umano potesse...»

«Con chi stai parlando?»

L'intervento dell'agente dell'Insonnia fece trasalire Gregor. La figura del dio scomparve, lasciandosi dietro un eco della sua collera. Il giovane, invece, balbettò una risposta di circostanza. La situazione precipitò.

«Apri la bocca!»

«Perché dovrei?»

«Guardie!» gridò l'altro. In un baleno i cavalieri lasciarono l'anziano esanime e si fiondarono su Gregor. Fu rapidamente preso e messo a terra. Qualcuno iniziò a prenderlo a calci, ma non vide chi.

«Parla! Credi che essere un uomo del Culto ti salvi dall'essere giudicato? Parla! A chi ti rivolgevi? E cosa hai sulla lingua: ho visto una strana luce apparire mentre cianciavi da solo!»

«Lasciatemi!» gridava Gregor. «Io sono un seminarista, non potete farmi questo! Sono sotto la protezione del Sommo Cardinale!»

Gregor parlò senza riflettere. La sua mente cavalcò tra le tante nozioni apprese in questi ultimi suono e una bussò alla sua mente: ogni seminarista, in caso di controversie, può chiedere udienza diretta al Sommo Cardinale e lasciare che sia questi a giudicare il suo operato. Anche se, così facendo, stava gettandosi direttamente nelle fauci del nemico.

«Il verme ha chiesto il Sommo Cardinale e il Sommo avrà» ironizzò un cavaliere.

Irruppe una risata generale. Quel che Gregor non sapeva era che il Sommo Cardinale sapeva essere anche più severo e imparziale che dei suoi sottoposti. Tuttavia, accadde in quel momento che una pattuglia di templari si affacciasse nel vicolo e, vedendo cosa stava accadendo, accorse subitamente in soccorso di Gregor. Non avendo assistito alla scena, i cavalieri dell'Ordine decisero di mettere al sicuro quello che sembrava un sacerdote aggredito e malmenato. Fu la prima scintilla di una diatriba tra le forze militari messe in campo.

«Chi è costui? Perché lo state trattenendo con la forza?» fece uno dei templari.

«Un probabile eretico» affrettò a scusarsi l'agente dell'Insonnia. Gli altri cavalieri tacquero.

«Un eretico dell'Ordine? Siete forse impazziti? Questa è una grave accusa! Dove sono le vostre prove?»

«Ha qualcosa sulla lingua!» affrettò un cavaliere.

Il templare infuriò: «La lingua! La lingua! Ora aggrediamo un servo del Sole perché ha qualcosa sulla lingua! Fosse un neo? Cosa direte al Sommo Cardinale? Gli direte che l'avete prima picchiato e poi processato per un neo?»

Un silenzio fatto di vergogna calò in quell'angolo di strada.

«Ora ditemi perché quell'uomo anziano è riverso a terra nel suo stesso sangue!», aggiunse il templare.

«Inneggiava alla Luna!» si impettì l'agente dell'Insonnia.

«E quindi avete pensato bene di assopirlo, così ora che è nella notte potrà sicuramente ammettere di essere un eretico. Vero?»

Il templare allora colpì il sacerdote dell'Insonnia con un pugno, quindi comandò ai sui compagni di arrestare i cavalieri. Questi però, forti del servizio a sua maestà, protestarono ferocemente finché non ne nacque una scaramuccia.

"Fossi pazzo a restare!" pensò Gregor, che approfittò della possibilità per scappare. Corse finché il sangue non gli impastò la bocca, intanto che il costato graffiava ad ogni respiro. Non appena si sentì sicuro, si accasciò in un angolo per riposare e scoppiò in lacrime.

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Capitolo 15
*** Capitolo 14 - Settimo Nuovo dell'Ultima Ide ***


14.1 Solstizio appena iniziato

 

«Lo sai cosa diceva sempre mio padre?»

Sebastian agitò lo stocco. Gocce di sangue imperlarono l'arena di fieno, mentre i suoi passi sembravano quasi non porre alcun peso sul quel cedevole pavimento.

«Hai ragione, scusa. Il mio secondo padre. Ne ho avuti due, sai che fortuna!»

Correva voce che la Serpe Nera avesse tale nomea non solo per la chioma corvina, bensì per una strana e curiosa abitudine: quando, e se ne aveva occasione, specialmente dopo aver sconfitto un avversario, l'assassino prendeva a girare intorno al vinto. Lentamente, ma progressivamente, eseguiva una spirale che si sarebbe conclusa solo quando fosse giunto dirimpetto e a breve distanza dall'altro.

Così, come una serpe stringeva la sua preda nelle spire fatali, altrettanto l'assassino si divertiva a rimandare il colpo di grazia; similmente al viscido rettile, poi, ammantava di veleno i suoi affondi verbali, soffocando così la vittima con la paura e l'angoscia. Non di rado, infatti, il vinto soleva a gran voce chiedere che Sebastian ponesse fine alla tortura. Altri, quelli tra i più ardimentosi, preferivano il silenzio, nell'estenuante attesa che le zanne di ferro della Serpe concludessero quell'ultima umiliazione.

«Lo sai cosa diceva il vecchio della guerra? Che è uno schifo! Lotti nel fango, nella merda che esce dal corpo dei tuoi commilitoni; che se vai avanti il tuo destino è segnato, però se torni indietro ti issano come una bandiera, finché i corvi non ti svuotano la pancia».

L'altro seguiva Sebastian con lo sguardo. Dalla bocca uscivano copiosi fiotti di sangue, intanto che la mano destra premeva sul fianco, laddove lo stocco dell'assassino aveva aperto un foro tra reni e stomaco. Ansimava vistosamente.

«La questione è: sì fa schifo ma non è quella la cosa peggiore. Voglio dire, la guerra ti cambia! Ma vallo a spiegare a chi in guerra non c'è mai andato: che vuoi che ne capiscano».

L'altro lentamente perdeva conoscenza, faticando a seguire lo sproloquio di Sebastian. Non riusciva a parlare, altrimenti gli avrebbe urlato di chiudere il becco e farla finita subito.

«Io ci sono stato in guerra, piccolo topolino. Il mio secondo padre adottivo mi insegnò a combattere, ma non è stato un eretico o un anarchico quello che prima di tutti ho passato a fil di lama: fu il mio migliore amico».

Sforzandosi l'altro disse: «Degno di una Serpe».

Sebastian scoppiò a ridere. «Mio padre me lo disse il giorno che mi fece frustare, prima di cacciarmi via: hai le mani sporche del sangue di un amico e compagno d'armi. Sei figlio di nessuno, da oggi».

Sebastian, ormai a pochi passi dallo sconfitto, sollevò lo stocco e si preparò all'affondo fatale; non prima di aver concluso:

«Aveva ragione. Sono sempre stato figlio di nessuno» e fece per colpire.

Un tuono improvviso -un boato tanto assordante quanto impetuoso echeggiò ovunque. Sebastian fu colto da così tanto stupore che dovette girarsi, solo per vedere gran parte della torre crollare su se stessa, mentre lampi di fulmini danzavano a mezz'aria intorno alla struttura. Qualcuno, come una lingua che lecca via il cibo dal piatto, scaricò sopra il tetto della chiesa e si portò tegole e quanto altro.

«Per la trippa del Sole!» imprecò l'assassino, consapevole di cosa stesse accadendo. Quell'attimo di distrazione lo pagò a caro prezzo: il suo avversario, con un ultimo briciolo di forza, lo afferrò all'altezza del busto e provò a buttare Sebastian di sotto. Questi però, in uno sprazzo istintivo, afferrò l'altro per gli abiti e lo trascinò nel vuoto con sé.

 

14.2 Contemporaneamente

 

 

«Ma è sempre così imprevedibile?» si lamentò Claudiette. Mithra accennò una smorfia. Rosanne sorrise.

Correvano a perdi fiato in quella che sembrava una via nascosta, costruita tra i ruderi delle case e dei palazzi. Era evidentemente un passaggio secondario per la torre, usato forse dall'arciere e dall'altro suo compare per muoversi rapidamente nella città vecchia, qualora ne avessero avuto bisogno. Chissà quante danze avevano impiegato per creare quello strano labirinto.

«Sebastian ha sempre avuto una specie di sesto senso», commentò Mithra. «Avrà intuito cosa stava succedendo».

«Però ora è da solo» commentò Rosanne.

«Se la caverà. Noi dobbiamo muoverci, la nostra missione viene prima di tutto» ringhiò Mithra, esortando le sue compagne a non fermarsi. Qualsiasi cosa fosse successa, Sebastian si era sacrificato per loro. "Non avrebbe dovuto seguirmi dall'inizio; sarà ricordato come un eroe, quando tutto questo sarà finito".

Mithra si ripeté queste parole, come un mantra: lo fece finché non fu sicura che non vi fosse altra via, che le cose non potessero andare diversamente. Così accelerò il passo, esortando le amiche a fare altrettanto. Così, tra uno stretto passaggio, un rudere, un pertugio e stanze d'abitazioni ormai divelte, si giunse in uno spaziale, dal quale una scala in legno risaliva verso l'alto. Il trio non esitò e prese a scalare quella che era una impalcatura di legno e funi, dalla quale un ultima ma più vertiginosa scala permetteva l'accesso alla postazione dell'arciere. Quivi finalmente giunte, Mithra, Claudiette e Marianne non trovarono chi stavano cercando –si guardarono attorno, con grande attenzione, senza scorgere segni del loro aggressore. Spade sguainate, sensi tesi.

Fu però Claudiette la prima ad agire. Spinta dall'istinto, quel suono metallico, come di ganci che saltavano dai loro incastri, la esportò a colpire le due amiche, poiché nella fretta non ebbe idea migliore; costrinse le altre due a cadere in avanti, cosicché il filo di ferro, sventolando a folle velocità, recise uno e un solo collo: il suo.

Di lì a poco emerse l'arciere. Rosanneatasi goffamente, gli fu rabbiosamente addosso ma l'uomo si rivelò più scaltro. Scagliò rapidamente un pugnale, colpendo la giovane alla spalla. Quindi, dopo un sonoro pugno al volto, la spinse brutalmente oltre il parapetto. L'impatto con il tetto e, successivamente, con il pavimento della chiesa avrebbero fatto il resto.

Mithra lo aggredì alle spalle, conficcandogli un pugnale nella schiena. L'uomo provò a colpirla ma lei fu più agile, schivando a lato con una capriola. Quell'attimo concitato, tra paura e rabbia, le concessero di guardare bene il suo aggressore: un uomo anziano, con molte danze alle spalle, ma stranamente vigoroso e agile; il volto era coperto da una benda grigia, cosparsa di cera e resina. "Costui è cieco!" si meravigliò la donna. Riconobbe poi un marchio a fuoco sul suo collo.

«A quale divinità sei schiavo?» ruggì lei, destreggiandosi tra fendenti e schivate.

«No schiavo ma figlio prediletto: Cipride è la mia Grande Madre!» sbraitava lui, agitando la scimitarra con violenza.

I due danzarono per un lungo rintocco, prima che l'uomo non riuscisse a prevalere con una mossa astuta ma scorretta: approfittò di una ferita al braccio per far zampillare del sangue negli occhi di Mithra, la quale, presa di sorpresa, non riuscì ad evitare il colpo incombente, finendo a terra ferita, anche se lievemente, all'addome.

«La Grande Madre ha chiesto di condurvi da lei desti, ma mi ha anche detto che non era vietato il contrario. Le dirò che ho dovuto farlo: una menzogna per saziare la mia sete di sangue!»

Ma quando Golgo calò la sua lama verso Mithra, credendo che avrebbe così facilmente trafitto il cuore di lei, qualcosa lo colpì. Sentì la parte destra del suo corpo ardere come in fiamme, mentre la carne si lacerava. Il suo braccio, e la mano c'ancor stringeva la spada, rotearono solitari più in là. Poi un dolore lancinante lo colpì, mentre il suo intero essere fu trafitto da una scossa improvvisa. Un secondo fulmine lo colpì in pieno petto, incenerendo i suoi polmoni. L'ultimo esplose così dirompente che distrusse la sommità della torre, ridusse Golgo in brandelli e squarciò una gran parte del tetto della chiesa.

Mithra cadde tra i detriti ma atterrò fortunosamente su una struttura in legno: una passatoia in legno che, da un foro della torre, conduceva all'interno della struttura religiosa. Il dolore e lo spavento presero sopravvento su di lei, lasciandola per qualche attimo senza respiro e incapace di muoversi. Le parve che il Dio Sole, i cui raggi filtravano dalle crepe, stesse deridendola.

«Perché non mi lasci andare?»

Lamentò, prima di perdere i sensi.

 

14.3 Qualche rintocco più tardi

 

Aulix era rimasto tutto il tempo nella sua cella. Non aveva aperto bocca da quando era arrivato, nonostante lo sguardo dei compagni di prigionia. Ogni singolo gladiatore, di ogni foggia e tempra, non aveva smesso di deriderlo o canzonarlo da quando era arrivato. Era come un piccolo agnello, mandato a combattere nella fossa dei leoni. Sbeffeggi, quelli, che non toccavano la divinità –se ne rimase in un angolo, braccia conserte, con gli occhi chiusi.

Undine era stato contrario all'idea ma, alla fine, aveva dovuto accettare: la divinità lunare si sarebbe infiltrata nelle fila dei gladiatori, acquistando fama e notorietà. Ser Alcor, usando i documenti appartenuti al fratello, donò Aulix al lanista, affinché diventasse un nuovo gladiatore. Dal momento che il testamento di padron Mizar era in mani altrui, non esisteva alcuna prova del fatto che Aulix fosse stato liberato; e sicché ogni gladiatore era liberato dalle manette del possesso, consegnare uno schiavo già privo di quest'ultime non destò alcun sospetto. D'altronde, era quella una pratica molto nota e grandemente abusata nel regno.

Il lanista non fu particolarmente contento di Aulix, considerando il suo gracile corpo e il suo esser ancora giovane; non si rifiutò per prassi e perché Ser Alcor, oltre allo schiavo, consegnò una piccola somma in denaro in dono.

All'improvviso, per l'aere riecheggiò un boato. Come un fulmine che, precipitato dalle nubi, aveva colpito il tetto di una casa. L'agitazione regnò solo momentaneamente, ma Aulix avvertì chiaramente la fonte di quel potere immenso che, pur in un istante, s'era manifestato. Sapeva che, come l'aveva sentito lui, anche tutte le altre divinità l'avrebbero avvertito.

L'ultima volta che il Bacio del Sole si era palesato, l'intera città di Alcyone era stata rimossa dalla faccia della terra; non distrutta, non bruciata, non rasa al suolo. Disintegrata. A ricordo della stoltezza degli uomini, come anche degli dei, stava un enorme cratere senza fondo lì dove, duemila danze or sono, sorgeva una ridente e ricca città –affinché non fosse mai dimenticato, da lì in poi, che il dio Surya poteva colpire ovunque e chiunque.

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Capitolo 16
*** Capitolo 15 - Buonanotte Gambino ***


15.1 Danza Solare 9'125, Secondo Pieno della Terza Ide 
 

Fu forse il caso, chissà. Gambino non doveva passare per quel campo. L'oste gli aveva consigliato un'altra strada, benché più lunga, perché avrebbe evitato di incontrare banditi e altra gentaglia. Il cavaliere errante ringraziò l'uomo ma decise di prendere comunque la via dei campi. O quello che ne rimaneva.

Aveva piovuto per due suoni. La terra, umidiccia e pastosa aveva risucchiato i corpi, mescolando alle acque sporche venature di sangue. Stendardi spezzati svettavano oltre l'orizzonte, stagliandosi malconci a ricordo della battaglia che fu. Qualche arma d'assedio più in là faceva da cimelio.

Il suo destriero andaluso, Rura, in onore di una damigella soccorsa da rapitori danze addietro, trottava stancamente nel terreno fangoso, tagliando di netto laddove molti uomini si erano scannati.

Fu allora che lo trovò. Era desto da poco più che dieci danze: piccolo abbastanza da agitarsi in mezzo ai corpi in putrefazione senza farsi notare; nascondendovisi quando necessario. Gambino lo aveva colto sul fatto: intento a rovistare nel cadavere di un cavaliere, strappandogli piccoli bocconi dal corpo non ancora in putrefazione. Quando però si era accorto del cavaliere, il bimbetto aveva estratto una spada più grossa di lui e si era messo sulla difensiva. Gambino discese lentamente da cavallo, cercando di non spaventarlo. Al primo fendente malconcio dell'altro, lo disarmò con estrema facilità. Piantò l'arma sottratta al fanciullo nel terreno e si inginocchiò per guardarlo meglio: aveva i capelli rasati, forse per i pidocchi, ed era visibilmente denutrito. Evidentemente, anche la carne di quei corpi non bastava a tenerlo in forze. "Anche se è abbondante, di questi tempi".

«Il mio nome è Gambino» si presentò l'uomo. «Come ti chiami?»

«Sebastian» squittì l'altro, ancora spaventato e indeciso se fuggire oppure no: la balestra sul fianco del cavaliere gli intimava di non fare scherzi. Il ragazzino però si tranquillizzò quando comprese che l'uomo davanti a lui non aveva intenzioni ostili. Anzi, notò una lacrima solcargli il viso e, pur non comprendendone la ragione, intuì che questi fosse dispiaciuto per lui. Gambino, dal canto suo, questo disse:

«Ascolta ragazzo, non intendo farti del male. Ho bisogno di uno scudiero e tu hai bisogno di vestirti, lavarti e soprattutto di mangiare. Non ti si presenterà mai più un occasione simile, per entrambi. Vieni con me. Sarà sempre meglio che mangiare cadaveri, no?»

Sebastian avrebbe scoperto col tempo perché quello strano cavaliere dai capelli brizzolati aveva così a cuore la sua sorte; forse, col senno del poi, avrebbe desiderato non averlo mai incontrato. Però, in quel momento, l'alternativa di seguire quello sconosciuto gli parve migliore che morire di stenti e di fame. Così accettò. 

 

15.2 Quarto Nuovo della Quinta Ide

 

Gambino e Sebastian formavano una coppia assai strana, per chiunque li vedesse. Il ragazzo era assai taciturno, limitandosi ad annuire e a seguire fedelmente il cavaliere; questi, invece, non smetteva di spiegare al giovane quel che, secondo lui, era la visione del mondo e come le cose andavano interpretate. Era come vedere un giardiniere che tentava di riempire un vaso vuoto di tutti i fiori ed erbe a sua disposizione. Quasi mai Gambino aveva avuto bisogno di punire il giovane con una sberla, ed anzi si riscoprì sempre più contento di averlo raccattato: era furbo, sveglio come pochi altri, sempre pronto e imparava in fretta. Tuttavia, non meno di una volta, l'uomo vide in quegli occhi vispi qualcosa di oscuro e profondamente sbagliato. Si convinse che aver divorato cadaveri per sopravvivere avesse infettato quel ragazzino. Forse per questo tentò, fino all'eccesso, di insegnargli a vivere come un vero cavaliere: onesto, fedele e dalla parte del giusto. Così, un suono, gli raccontò una storia.

«Mio fratello Sebastian era un cretino», disse mentre sedevano sulle mura del castello, guardando il divino scendere dal suo trono. Si erano fermati temporaneamente presso un nobile, che li aveva assoldati per addestrare alcune nuove leve, rimanendo assai stupito della grande abilità con la spada di ser Gambino.

«Era un uomo di gran cuore. Tutti gli volevano bene. Non c'era nessuno al villaggio che non lo tenesse in gran considerazione, ma sapevano che non aveva sale in zucca. Voglio dire: un giorno parte e va a combattere per i ribelli! Quegli eretici maledetti gli hanno mangiato il cervello. Non ho sue notizie da così tante danze che a stento ricordo il suo viso. Ormai il suo corpo sarà marcito in una pozzanghera, te lo dico io».

Senza che se ne rendesse conto, il cavaliere prese a raccontare sempre più cose al ragazzo. Gli rivelò che uno dei motivi per cui l'aveva sottratto alla fame era perché avevano lo stesso nome, lui e il fratello scomparso. Dapprima Sebastian non diede peso a quelle parole. Ma subito dopo essere ripartiti in viaggio, scoprì che Gambino, senza nemmeno accorgersene, accampava scuse di ogni tipo per attraversare i campi di battaglia, non appena sapeva di esserne in prossimità. In taluni casi non era un problema, ma spesso, ad una strada più sicura e veloce, il cavaliere preferiva trottare tra fango, cadaveri e sciacalli. In particolare, percorreva prevalentemente le zone dove vi erano i resti dei ribelli, guardando, seppur con la coda dell'occhio, ai corpi riversi in terra. Cercava qualcosa. Insistentemente. Ed ogni volta che non lo trovava, un lungo sospiro e un mesto silenzio lo accompagnavano per interi suoni. Qualche volta, nel falso sonno, piangeva.

Quando Sebastian tentò di avanzare l'argomento con ser Gambino, ne ottenne dapprima un sonoro richiamo e, ad ogni ulteriore tentativo, perfino sberle. Capì che l'uomo non volesse ammettere a se stesso di cavalcare nei campi di battaglia nella tenue speranza di trovare il fratello. Le sue scuse, nel tempo, persero vigore e solidità; si diceva che il fratello era certamente morto, ma non si sarebbe accontentato finché non l'avesse visto.

Ma il nord era pieno di campi ove la guerra stava consumandosi. Quasi ogni tempo d'Ide ne sbucavano di nuovi come funghi. Così il tormento di ser Gambino divenne anche quello del suo scudiero.

Al volgere del Quarto Nuovo della Quinta Ide però, ser Gambino si fermò nei pressi di un altro campo di battaglia. Lo scontro tra le fazioni era ancora in corso, così il cavaliere, dalla collina, restò a guardare lo scenario. Guardò il suo scudieri e disse:

«Guarda la guerra, ragazzo. Guardali che si saltano alla gola gli uni agli altri. Ieri amici e fratelli, oggi nemici e traditori. Non prenderemo mai parte a questi litigi tra bambini, ricordalo. Se un nobile ci chiedesse di servire in battaglia, noi restituiremo a lui il suo danaro e andremo via. Se proveranno a fermarci, ci apriremo la strada con la forza. Non intendo servire in questi massacri sciocchi. Non m'importa chi ha ragione e chi torto: la guerra ti porta via troppe cose per sperare di riaverle indietro».

Li, tra le fila di entrambi gli eserciti, svettavano due bandiere, una l'inverso dell'altra: una mezzaluna d'argento, su fondo nero e stellato, rappresentava le idee e i motti della rivoluzione; l'altra, una luna nera su un fondo argentato, rappresentava le bande della Luna Nera -mercenari al soldo della corona, incaricati di estinguere i ribelli e gli eretici.

«La Luna d'Argento crede che l'Ordine e la Corona siano contaminati. Dicono che la dea Luna ha rivelato loro una verità oscura, che gli altri dei minori, da tempo immemore, sovvertono e comandano l'umanità. Allora la corona e l'Ordine, dopo alcune sconfitte cocenti e la perdita dell'estremo nord, si sono affidati alla banda della Luna Nera.

Entrambi hanno qualcosa che non vogliono perdere e versano sangue per preservarlo. Ma ricordo che mio fratello una volta mi disse: "una vita di sacrifici e devozione, non è forse una vita di schiavitù?"

A volte penso, forse lui si è addormentato da uomo libero; e io sono sveglio da uomo in catene».

Di opinione similare era nei riguardi delle giostre, dei tornei o delle competizioni di sorta. Gambino era convinto che qualsivoglia azione che non fosse votata a perseguire la via del cavaliere, fosse fine a se stessa; e tutto ciò che era fine a se stesso, non era figlio di nient'altro che dell'egoismo. Così, nonostante fosse abile con la spada come pochi altri, mai se ne vantò e mai ne fece sfoggio. Pochi sapeva di cos'era capace, ancor meno ricordavano il suo nome.

«Impara ragazzo: ci guadagniamo da vivere non perché le nostre gesta sono motivo di lodi o di canti. Non siamo eroi ma nemmeno mercenari: non cambiamo parte in base a chi ci paga di più. Non siamo obbligati a servire un nobile, se non lo riteniamo giusto. Né l'oro deve comperare la nostra lealtà. Tuttavia, se decidi di servire qualcuno, fallo fino in fondo e non venire mai meno alla parola data».

Un ideale cambia bandiera così come spira il vento, mentre un cavaliere rimane fedele sempre al suo giuramento: sii onesto, sii leale, sii giusto. Questo ripeteva sempre.

 

15.3 Settimo Crescente della Sesta Ide

 

La Sesta fu una Ide che nessuno mai avrebbe dimenticato. I focolai della ribellione andavano lentamente spegnendosi. I pochi vice-re che avevano sposato la causa degli eretici, chi più o chi meno, avevano preso a cedere il passo. La Luna Nera si rivelò molto più di quanto il sovrano avesse sperato, ottenendo vittorie e trionfi laddove era altri avevano fallito. Favoriti anche dalla dipartita del geniale stratega che da molte danze dirigeva le manovre dei ribelli, le forze coalizzate della corona e dei mercenari riuscì a riconquistare lentamente la parte meridionale delle regioni a nord. In quei tumulti, tra chi tornò sotto la corona e chi si vide espropriare ogni bene dall'Ordine, le terre occupate con fatica e sangue dai rivoluzionari tornarono nuovamente sotto l'egemonia del regno.

Ma se da un lato il declino delle idee ribelli andava perdendo mordente tra nobili e cavalieri, non fu così per chi, sotto la loro bandiera, si era sentito finalmente più libero e indipendente. Così, asserragliati nelle rocche costruite sui Monti Bianchi, le ultime resistenze tennero in scacco tre degli snodi principali alla regione: Dabih con la porta ad Ovest, Nashira con la porta ad Est, e Deneb Algedi nel cuore delle vette innevate.

Dabih cadde il Terzo Calante di quell'Ide, assieme a quella che divenne poi la più grande crisi mai affrontata dall'ordine: la scomparsa della Sposa. Per cause che nessuno mai conobbe, l'intera città sprofondò tra le montagne, facendo crollare con essa anche la porta Ovest. I sopravvissuti a quel cataclisma, in modi variegati, fecero circolare strane voci, ma tutte concordarono sul fatto che la Sposa era nata a Dabih ma che gli eretici l'avevano rapita e nascosta ad Deneb Algedi. Questo spronò il sovrano a spingere la banda della Luna Nera affinché riprendessero quanto prima il controllo delle ultime due roccaforti ribelli.

«Chiunque abbia pensato di nascondere la Sposa deve essere o stupido o completamente pazzo», commentava Gambino. I corpi dei presunti eretici appesi al cappio era più che raddoppiato. Un altro motivo per cui a Gambino la guerra non piaceva, era dovuto al fatto che gli uomini diventavano più arroganti e maligni quando potevano approfittare di simili disgrazie. Inoltre, il cavaliere aveva da sempre una leggera avversione per chi si vendeva davanti al danaro. Cosa che aveva spiegato a Sebastian tempo prima.

«Divenni scudiero perché mia madre, che dorma in pace, si prostituiva spesso ai cavalieri di passaggio. Ma imbrogliò uno di questi dicendogli che ero suo figlio! Ah, che donna astuta mia madre», gli raccontò davanti alle mura distrutte di Dabih, che si stagliavano contro il firmamento, da cui forse gli dei ridevano delle scaramucce degli uomini.

«Voleva che io vivessi una vita migliore, o che almeno non fuggissi dagli eretici come mio fratello. Ma mia madre non sapeva che il povero cavaliere era assai tonto! O meglio, forse lo sapeva. Insomma, lui ci cascò con tutti i gambali e non esitò a prendermi con sé. Dico, era fesso ma non del tutto. Forse sospettava, ma era buono di cuore: una volta provai a chiamarlo padre e mi diede una sberla che tu nemmeno te la immagini!»

Le storie di Gambino e il suo lamentarsi e piagnucolare nel falso sonno avevano convinto Sebastian che, probabilmente, il cavaliere era diventato tale nella speranza di rivedere il fratello. Speranza che lo aveva indotto, una volta incontrato un bambino omonimo, a prenderlo con sé. Allora, Sebastian si convinse di non essere per quel cavaliere che poco più di un rimpiazzo, e si sentì non amato. Ma non osò mai dire a Gambino che voleva esser considerato molto più che una memoria del fratello scomparso; che il nome Sebastian ormai non gli piaceva più, perché gli provocava dolore. Avrebbe voluto cambiarlo. Avrebbe desiderato che Gambino gliene desse un altro, scelto da lui. Però non osò mai chiederglielo, né lo chiamò padre, anche se tale lo considerava, perché temeva che gli avrebbe dato una sberla sul viso. Così lo scudiero tenne per sé queste cose e le seppellì, intanto che viaggiava in lungo e in largo facendo da scudiere ad un uomo che inseguiva un fantasma, nei campi di battaglia.

Perché sapeva che a Gambino suo fratello mancava terribilmente.

 

15.4 Danza Solare 9'127, Terzo Calante della Seconda Ide

 

Gambino non aveva mai voluto partecipare alle giostre dei nobili, pur sapendo di poterne uscire vincitore senza impegno.

«Le giostre ragazzo sono per il lustro dei ricchi, non per noi. Perché gareggiare e per cosa? Moneta? La mano di una damigella? Cose futili. Noi viviamo la via del cavaliere e questo ci basta».

Non fece che ripetere questo concetto ogni volta che erano vicini ad un campo di battaglia. Eppure, in quella fatidica data, Gambino parve cambiare idea: andò contro tutto ciò che aveva insegnato al ragazzo. Sebastian non seppe inizialmente cosa fosse passato per la mente al Cavaliere, quando entrò presso un campo di gara e si registrò per la pugna; e dopo, col passare delle danze, si rammaricò di non aver potuto far niente per fermarlo. Quel suo sguardo torvo, come di qualcuno che stesse andando a gettarsi in pasto alle belve, gli rimase impresso nella memoria.

«Sono stato pagato lautamente per fare qualcosa che non voglio. Tuttavia, purtroppo, non c'è modo di uscirne ragazzo».

In questa situazione, Gambino si ritrovò suo malgrado invischiato. Si trovava presso un nobile che credeva essere di contea e null'altro. Invece, questi si rivelò essere un lontano cugino del sovrano e, dunque, ricevette un invito che sapeva più di obbligo. Gambino si limitò ad accompagnare il nobile, seguito da altri cavalieri, nei pressi del luogo dove la giostra avrebbe avuto luogo. Tuttavia, una volta giunti qui, il cavaliere errante fu presentato dal nobile che serviva direttamente al sovrano. Nobile che non mancò di elogiare la sua abilità con la spada, tanto che il Re si convinse che forse quel tale poteva fare al suo comodo.

«Ascoltate ser: voi ucciderete Giovanni de' Cura. Le vostre armi saranno cosparse di veleno, del più fatale dei serpi che si conosca. Una ferita è sufficiente e questa scocciatura sarà conclusa. Servimi cavaliere, fallo bene e sarai mio campione. Oro, fama e ricchezza ne avrai in quantità».

Gambino uscì dalla tenda del sovrano sapendo di essere nei guai, ed era tornato torvo alla sua tenda. Lì raccontò tutto al suo scudiero.

«Non ho potuto rifiutarmi, ragazzo. Capisci? Il Re! Non posso disobbedire: non sono stupido come mio fratello. Ma non voglio vincere contro ser Giovanni come un vile!»

Ser Gambino odiava le giostre, le riteneva prive di senso: credeva che un cavaliere dovesse dimostrare il suo valore eseguendo ciò per cui era pagato, salvando chi in difficoltà e comportandosi lealmente. Per questo rimuginò sulla questione così a lungo che il falso sonno mancò di visitarlo. Due suoni più tardi, balzò in sella al suo andaluso destriero e indossò corazza, scudo e lancia. Gli dissero che, inoltre, nella sua lancia c'era nascosto un punzone di ferro all'interno, cosicché potesse fracassare il pettorale dell'armatura di Giovanni senza difficoltà.

«Per non destare sospetti, ti batterai con ser Giovanni solo se vincerai le altre gare. Perciò fatti valere, o assaggerai l'ira del Re!»

Le minacce dello sgherro del sovrano non impensierirono Gambino. Difatti, i primi scontri si svolsero nell'apatia generale, giacché, in un primo momento, le gare non suscitavano particolare emozione negli spettatori. I duelli si susseguirono nella quasi totale noia del pubblico, finché il banditore non annunciò l'incontro decisivo. Ser Giovanni de' Cura, figlio di Lorenzo il Sublime, trottò con il suo frisone dentro l'anello della contesa. Indossava una lucente armatura nera, con l'araldica di una mezza luna dello stesso colore, rovesciata su fondo bianco; visibile sul petto e sullo scudo. Ser Gambino di Alcyone, invece, presentava una cotta di metallo con intarsi d'argento, e l'araldica di un grifone, ruggente tra due montagne su fondo rosso, capeggiava soltanto sullo scudo.

I due contendenti partirono al galoppo senza indugiare. I rispettivi destrieri caricarono a tutta forza, spinti dalla volontà dei loro cavalieri. Ma quando erano a pochi passi dallo scontro, Gambino spostò leggermente la sua lancia in modo che scivolasse via sullo scudo altrui, cosicché il punzone nascosto non sortisse effetto. La lancia di ser Giovanni, invece, si schiantò sullo scudo di Gambino facendolo ruzzolare a terra. Un gambale restò impigliato nella sella, costringendo il cavaliere a tagliarlo per liberarsi: il veleno sull'arma si disperse un po' sul cuoio e un po' in terra.

Ser Giovanni, sceso dal suo cavallo, sfoderò la sua mazza ferrata e prese a farla roteare minacciosamente. Avanzò con cautela ma, d'improvviso, elevò un colpo verso l'elmo di Gambino. Questi alzò lo scudo, che si frantumò dopo aver parato il colpo. Dolorante e intontito, il cavaliere di Alcyone tentò di riprendersi. L'avversario gli si fece contro, roteando celermente la mazza. I due sfidanti danzarono brevemente sul fondo di fieno ed erba, finché Gambino appositamente commise un errore; ser Giovanni, spinto dall'istinto, subito fece tuonare la sua arma sull'elmo altrui. Il colpo fu così violento, che Gambino roteò su se stesso e cadde, infine, a terra.

Nel mentre il banditore annunciava la vittoria di ser Giovanni, lo sconfitto gli fece segno di avvicinarsi e, dopo aver aperto la visiera, gli confessò ogni cosa.

«Avrei voluto affrontarvi in altre situazioni, cavaliere. Non così. Non con le armi intrise di veleno. Non con il Re che brama vedervi addormentato e quieto. Mi pesa il cuore pensare che mio fratello possa aver trovato la sua fine anche per mano vostra, ma so che avete fatto per le povere genti più bene di coloro che hanno iniziato la guerra per cui lui ha combattuto.

Non ho modo di avanzare pretese, eppure ve lo chiedo: avrete cura di prendere il mio scudiero con voi? Vi sarà utile, vedrete».

Gambino fu allora condotto per ordine di ser Giovanni presso l'accampamento dei mercenari. Ma i tentativi di cura si rivelarono fallimentari: l'elmo, piegatosi, aveva fracassato una parte del cranio, ed era l'unica cosa che impediva al cervello di schizzare via. Tuttavia, poiché comunque il cavaliere errante era ormai a un passo dall'addormentarsi, Giovanni mandò a chiamare Sebastian.

«Sono certo che vostro fratello vi sta aspettando» disse tra le lacrime il ragazzo.

Gambino sorrise a stento. «Gli darò una sberla appena lo vedo» poi tossì ma prima, con un ultimo barlume di forze, aggiunse: «Ho sempre pensato, semmai avessi avuto un figlio, di volerne uno sveglio e capace quanto te. Tu sei stato più di quanto io meritassi; se avessi potuto, ti avrei chiamato Bahrt. Ma ora io vado dove i miei padri attendono, e dove mio fratello starà già aspettando. Anche io ti aspetterò lì, quando sarà il momento. Noi tre insieme... come una famiglia...»

Sospirò, come gli uomini finalmente liberi da tanto fardello, e si spense.

Giovanni, in debito con il nobile Gambino, decise acconsentire alla sua richiesta e di tenere lo scudiero con sé. Contrariamente a quanto desiderasse, non poté permettere al cavaliere errante una degna sepoltura, né un Rito del Riposo: le ire del Re costrinsero la banda a fuggire via rapidamente; allo stesso modo, il cugino del sovrano non degnò quel cavaliere di alcun rispetto, giacché, a causa sua, il Re di Gennaio stava ritorcendosi contro di lui. Dunque il corpo di Gambino fu posto ai piedi di un lago, sotto una grande quercia; sul tronco fu incavato il simbolo del Sole, poiché si sapesse che quel luogo, e quell'albero, erano consacrati al Dio.

«Nessuno. Nessuno oserà violare il suo sonno. Qui sarà al sicuro dalle offese delle ingiurie e delle danze».

Da quel suono, Sebastian non tornò mai più in quel luogo e non rivide mai più l'albero dove riposava suo padre. Di Gambino, tuttavia, avrebbe sentito sempre la mancanza.

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Capitolo 17
*** Capitolo 16 - Settimo Nuovo dell'Ultima Ide ***


16.1 Qualche rintocco più tardi

 

Sebastian aprì gli occhi e sentì la testa vorticare. Gli bastò davvero poco per accorgersi che era in bilico su di un pezzo di roccia, che sporgeva dalla parete di quello che era un profondissimo dirupo. Tentò invano di guardare in alto ma, oltre alle mura della vecchia città, non riuscì ad intravedere molto altro.

"Non ricordavo fosse così alta". Diede un nuova occhiata in basso; non riusciva a vedere la fine, ma distingueva, nitidamente, il suono di un ruscello.

«Non sporgerti, potresti cadere» si ripeté. Scoprì con enorme disappunto che si era fratturato un braccio; le costole, forse per far compagnia all'arto, avevano preso a fargli male. Digrignò i denti e cercò di rimettersi in piedi. Un colpo di vertigine per poco non lo fece ruzzolare nel vuoto. Fu così che si accorse dell'altro: stava con un punzone di roccia conficcato su per il petto. Era rimasto impalato durante la caduta, concluse il brillante investigatore. "Nemmeno il grog giù nei bassifondi ti apre un buco così", ridacchiò l'assassino.

«Non ridere di me, potresti essere al mio posto a breve» gli rispose l'uomo rimasto infilzato. Sebastian sbarrò gli occhi.

«Sei un bastardo coriaceo».

«E tu parli molto per essere un sicario».

«Le parole a volte sono più taglienti di una lama, non lo sapevi?»

«Allora la tua lama deve essere di qualità scadente: c'è voluta una roccia per mettermi fuori gioco».

«Oh questa è la cosa più vicina al ferirmi che tu sia riuscito a provocarmi, da quando abbiamo iniziato a duellare!»

«Allora starò qui a crogiolarmi della mia vittoria».

«Se rimanere incastrato in un pezzo di roccia è confortevole, fa pure».

«Non sarò mica solo. Tu sei intrappolato qui con me».

«Tu dici? Ho un braccio rotto ma l'altro mi basta per trovare come andarmene».

«Non sto parlando del tuo corpo, Serpe Nera».

«Aspetta... non ti ho mai detto il mio soprannome, come fai a saperlo?»

«Non è il tuo corpo che sta marcendo su questo pezzo di burrone, Sebastian. Ma la tua mente».

«Cosa vai blaterando?»

«Non te ne sei ancora accorto...»

«Di cosa? Parla!»

«Che stai sprecando fiato con un cadavere».

Sebastian fece un passo indietro. Rabbrividì. Gli occhi freddi del suo nemico giacevano immobili e privi di luce, indirizzati altrove. Le sue mani si stringevano in un ultimo spasmo contro la punta che gli trafiggeva il cuore. La bocca, distorta in una smorfia di dolore, accompagnava i solchi scavati dalle lacrime; chissà a chi aveva rivolto i suoi ultimi pensieri, prima di spegnersi.

Sebastian iniziò a tremare. Si guardò attorno furiosamente. Non amava le tenebre o le ombre. Qualcosa di oscuro e maligno si annidava nelle parti più buie, in quegli anfratti dove nemmeno il divino Sole aveva coraggio di arrivare.

«Non devi aver paura. Vieni, ti aiuto io».

L'assassino ebbe un sussulto. Stava già estraendo la sua spada ma si fermò, non appena incrociò lo sguardo profondo di lei.

«Qui c'è un piccolo passaggio. Lo usano le Orme Bianche per spostarsi, vieni». Una fune discese da quella che, ad occhi e croce, sembrava una finestra.

"Una finestra? Nella parete rocciosa?" Afferrò l'appiglio con un braccio e balzò. L'altra lo afferrò per una spalla e, spingendo con tutte le sue forze, aiutò il goffo tentativo del sicario di mettersi in salvo.

Appena al sicuro, Sebastian poté notare che c'era davvero una finestra, che si affacciava dalla parete del burrone. D'altronde, era appena atterrato in un corridoio.

"Questa è un'opera architettonica, scavata nella montagna?! Di mai avrebbe potuto creare una cosa simile?"

«Ditemi messere, cosa ci facevate sopra quel pezzo di roccia, a strapiombo sul niente?»

La voce di lei accompagnava un gesto delicato della mano, volto a spostare i capelli biondi dal viso. Era giovane. Forse aveva meno di venti danze. Il seno era ancora acerbo e le sue grazie a stento si palesavano oltre le vesti bianche. Particolare che sorprese Sebastian, a cui però non prestò subito necessaria attenzione, era che la ragazzina sembrava indossare un vestito da sposa. Anche se questo era sgualcito e malridotto. Sul collo, visibile, lo stemma del Sole. "Impossibile... la Sposa è..."

«Messere, qualcosa non va?» incalzò lei.

«Scusami, perdona la mia maleducazione. Io sono Sebastian e ti ringrazio per avermi aiutato».

«Io sono Eva. Non potevo lasciarti lì. Ti ho sentito parlare, pensavo non fossi solo; mi spiace per il tuo amico».

«No lui non», si fermò di colpo. «Si, dispiace anche a me». Non c'era bisogno di dire altro alla fanciulla. Piuttosto, cercò di indagare. «Puoi dirmi dove siamo?»

«Questi sono degli antichi passaggi costruiti danze addietro per permettere il passaggio delle Orme Bianche».

"Ah. Quindi c'è un intera galleria sotto la capitale per quei piccolo sgorbi". «E tu come mai ti trovi qui?»

«Ci abito!» fece lei, sorridendo.

«Tu abiti qui? Tra le Orme Bianche?»

«Si, si. Quando mi sono destata, mia madre mi ha gettato nel grande fiume rosso e le Orme mi hanno raccolta. Da allora, sono la loro dama di compagnia. Mi hanno dato anche questo vestito. Ti piace?»

«È molto bello. È un abito da sposa».

«Lo so! Ma non è mio», ridacchiò lei. Fece segno a Sebastian di seguirlo. Insieme si incamminarono per chissà dove. «Era il vestito della Prima Sposa, che è rimasto nelle profondità della capitale, dal tempo in cui lei maritò il Sole».

«Dove lo hai trovato?»

«Me lo hanno regalato le Orme Bianche!» si avvicinò a una delle statue fosforescenti e le carezzò il viso. «Le Orme Bianche amano la Prima Sposa. Quando mi salvarono, dissero che io ero uguale a lei. Mi diedero questo vestito per poter realizzare statue sulla Prima Sposa con maggiore precisione, perché la sola memoria di lei non li aiutava».

«Quindi tutte quelle statue presenti praticamente ovunque...»

«Sono tutte statue della Prima Sposa».

«Ma non hanno il simbolo del Sole, però».

Lei allora sfiorò il marchio sul collo e replicò: «Non vogliono che l'Ordine gliele distrugga. Se mettessero il simbolo, il Sommo Cardinale d'Agosto andrebbe in collera e le farebbe distruggere».

Sebastian restò di stucco. «Il Sommo Cardinale sa di te?»

«Certo!» cinguettò lei. «Lui mi ha concesso di restare qui e indossare questo abito! Dice che verrà a prendermi quando sarà il momento, perché è mio destino sposare Surya!»

"Surya?" «Ascoltami, possiamo cercare un posto dove ripararci? Ho bisogno di sistemarmi questo braccio. Lì potremo parlare di tutto quello che vuoi. Ti farò compagnia».

«Va bene messere! Seguitemi. Vi poterò a casa mia!»

E insieme discesero ancora più nel profondo. Mentre seguiva la giovane fanciulla, Sebastian vide le Orme Bianche che risalivano verso l'alto. In un primo momento fu sorpreso, ma si accorse che quegli esseri deformi non solo lo ignoravano ma, anzi, passavano di fianco a lui e alla fanciulla come se non esistessero.

Tante cose gli sembrarono assurde, e nutrì tanti dubbi su quello che gli stava accadendo. Tuttavia, doveva prima curare il braccio. Avrebbe pensato poi al resto.

 

16.2 Nel frattempo

 

Rosanne si sentiva a pezzi. Quel maledetto arciere l'aveva scaraventa dall'alto della torre. Per fortuna, dal lato più vicino al tetto della chiesa. Per sfortuna, il tetto era così vecchio e logoro che si era sfondato quasi subito. Per fortuna, era precipitata prima che il fulmine scoccato dal niente potesse incenerirla. Per sfortuna, questo non era bastato a impedirle di sbattere contro qualcosa. Ma almeno quel qualcosa l'aveva afferrata subito.

Si rialzò lentamente, facendosi forza sulle funi, che a loro volta si facevano forza tenendo in piedi tutta l'impalcatura di legno che circondava la struttura. Quel maledetto arciere e il suo compagno chissà quanto tempo avevano spesso per creare tutto quel sistema di passerelle, corde e scale. Al centro, un gigantesco candelabro pendeva per miracolo sul vuoto, come se aspettasse di cadere in picchiata su una potenziale preda. Notò solo dopo che alcune corde erano fissate in modo tale che, con un semplice colpo, fosse possibile far precipitare tutto sopra un ignaro passante. Per fortuna che il fulmine di prima aveva distrutto anche quella trappola; ne rimaneva ben poco, sospesa nel vuoto.

"Cosa nascondono in questo posto per difenderlo così tanto?". La chiesa era in condizioni pessime: molte colonne erano crollate, del tetto rimaneva poco e niente. Metà delle impalcature era stata travolta dal crollo di poco prima. Alzò lo sguardo, dato che buona parte del tetto non c'era più, sia perché crollato, sia perché era stato disintegrato.

«Dove sarà Mithra? Non posso continuare la missione senza di lei!»

Mentre cercava di trovare un punto di visuale, dalla quale potesse capire cosa ne era stato della sua amica, Rosanne udì suoni di passi. Si distese allora, appiattendosi il più possibile sulla passerella, e sbirciò in basso.

Li vide raccogliersi uscendo da quasi ogni genere di pertugio possibile. Alcuni non più grandi di fanciulli di primo pelo, altri poco più alti che di adolescenti ancora imberbi: stavano rapidamente raccogliendosi sotto le navate della chiesa, vicino al grande altare in rovina. Coperti di vesti bianche e incappucciati, emettevano strani canti con le lor voci stridule. Le Orme Bianche s'agitavano inferocite, raggruppandosi come per iniziare una battuta di caccia, armati di coltelli neri. Rosanne allora comprese che stavano risalendo da chissà dove al solo scopo di catturare lei, Mithra e Sebastian. Così guardò l'enorme candelabro, optando per la più rischiosa delle idee: attirare la loro attenzione. Le bastò un semplice colpo per compromettere quel poco che ne restava. Il tintinnare del bronzo nella sala echeggiò, mentre lei prese a strillare dal suo posto.

«Sono qui maledetti! Sono qui! Volete un pezzo di me? Venite a prendermi!»

Così corse più che poté sopra quelle traballanti passerelle, sperando che l'impalcatura di fortuna non decidesse di cedere così, di punto in bianco. Le Orme, visibilmente innervosite, abboccarono alla provocazione e iniziarono a correrle dietro. Rossanne però non aveva considerato che quegli esseri fossero nativi del posto: conoscevano a menadito la struttura e, peggio ancora, stavano arrampicandosi come scimmie sull'impalcatura, usando le funi e i detriti senza affanno. La donna ebbe a malapena il tempo di guardarsi intorno che stava già per essere accerchiata. Fu in quel preciso istante che notò un particolare di quella chiesa che, prima, aveva scioccamente ignorato. Quindi afferrò una fune e, con un colpo di lama, tagliò le corde che reggevano la struttura in legno, già traballante. Aggrappata alla liana di fortuna, balzò verso la parte del matroneo che sovrastava il presbiterio. Se nella Grande Cattedrale il matroneo era un elemento decorativo e architettonico, in quella chiesa antica era, invece, una vera e propria tribuna, con tanto di colonne e archi.

La parte che sovrastava il presbiterio presentava un arco ampio quanto l'intera struttura, o ciò che ne rimaneva; da lì poteva saltare su uno dei due amboni: la piccola tribuna sopraelevata in marmo, sulla sinistra, dedicata alla lettura dei testi sacri, era chiusa da un parapetto solo su tre lati, mentre il quarto, normalmente aperto su scala, era stato distrutto dal crollo e permetteva di arrivare all'altare tramite una comoda scala di detriti.

In pochi attimi, Rosanne si trovò al pian terreno, intanto che le creature minute e deformi stavano riprendendosi dalla rovinosa caduta; secondi assai preziosi che la donna utilizzò per cercare una nuova via di fuga.

Per sua fortuna, Rosanne sperimentò per la prima volta quello che era chiamato ascensore: un intricato sistema di catene facevano salire e scendere una pedana, non appena si premeva un grosso tasto centrale, sulla base della struttura. Per sua sfortuna, non aveva la più pallida idea di dove l'avrebbe condotta quell'aggeggio.

 

16.3 Qualche rintocco più tardi

 

Mithra aprì gli occhi. Credette di essere scivolata nel falso sonno per un tempo indefinibile. Si sentiva stanca ma sapeva che non poteva e non doveva fermarsi. La luce del divino stava scemando e una sensazione di freddo la aggredì. Sapeva che aveva poco tempo, prima che i Patti giungessero e il buio rendesse più complicato muoversi in quell'ambiente sconosciuto.

Si fece forza e si rimise in piedi. Scoprì che, all'interno della torre, un intricato sistema di funi e assi di legno formavano una sorta di impalcatura di fortuna. Evidentemente quell'arciere e il suo compare non si erano limitati solo a costruire trappole, ma anche a facilitarsi gli spostamenti sia fuori che dentro quella chiesa. A causa del crollo dell'esplosione di poco prima, nonostante la parte di torre crollata fosse precipitata nel vuoto, il passaggio che dava all'interno della struttura religiosa era stato danneggiato. Tuttavia, una lunga scala di legno scendeva comunque verso il basso; Mithra non esitò a prenderla, ritrovandosi presto in un'area all'aperto. Da quel punto, uno ponte di mattoni e roccia collegava ad una seconda struttura, visibilmente più antica.

La giovane guerriera scoprì le vestigia di un'altra chiesa, forse precedente a quella dov'era appostato l'arciere, che collegava a un'area completamente nuova e diversa. L'intera struttura era suddivisa in tre piani: il primo con un piccolo altare intatto ma spoglio; il secondo era stato usato dall'arciere e il suo compagno a mo' di alloggio, date le vettovaglie, i letti e il falò ancora accesso; l'ultimo era invece un enorme sala completamente vuota, che sbucava addirittura in una foresta.

«Che posto è questo?» fece dubbiosa Mithra. Allora prese la mappa che aveva lasciato Mizar, e usò l'ultimo sprazzo di luce solare per farla apparire nel retro della lettera.

«Stando a quello che dice la mappa, il posto che cerco è sotto la Grande Cattedrale. Ma forse non intendeva delle segrete... forse per sotto intende, letteralmente».

Alzò lo sguardo e confermò che, nonostante la Grande Cattedrale non fosse più neanche visibile, i profili delle mura della città e di alcuni tetti facevano supporre che fosse scesa molto in basso.

La capitale di Ras Alhague era stata eretta su sette colli, con quello centrale più in alto degli altri. Tra questi, scorreva un fiume che, evidentemente, con il trascorrere di migliaia di danze aveva scavato un burrone direttamente nella nuda roccia. Nei dintorni della capitale, visibile dall'alto della città, si estendeva una lunga foresta nera, che attingeva dal fiume e dal lago più a sud le risorse; e a sua volta ne donava dalla città, giacché una parte del bosco era già stata vittima dei taglialegna.

«Secondo le leggende, la dimora della Prima Sposa si trova esattamente sotto la Grande Cattedrale. I primi insediamenti furono costruiti attorno ad essa, e suppongo corrispondano alla vecchia città che abbiamo attraversato. Successivamente, la Grande Cattedrale è stata eretta, dicono, sul punto esatto dove dovrebbe trovarsi la mitologica casa della Prima Sposa.

Ma se la mia ipotesi è corretta, la capitale e la Grande Cattedrale sono state costruite sopra la casa della Prima Sposa, poiché essa in realtà si trova ai piedi dei sette colli. Cioè dove sono io!»

Decise allora Mithra di inoltrarsi nel bosco. Scoprì, con sua enorme sorpresa, che questo si ergeva su una serie di burroni, strapiombi e zone rocciose. L'intera capitale, nel corso delle danze, si era ritrovata non più sopra sette colli ma su sette monti; dal momento che, mai prima d'ora, Mithra aveva avuto una così vasta sensazione di muoversi in verticale, anziché in orizzontale. Invece di avanzare, tutto ciò che aveva fatto fino ad ora era stato scendere. Sempre più in basso.

Fu costretta, col sopraggiungere dei Patti, a soffermarsi in una caverna. Accese un falò raccogliendo rami secchi, foglie e usando un fiammifero; si sistemò vicino al fuoco e attese che le luci dell'indomani le consigliassero di rimettersi il viaggio. Questa volta il falso dormire le risultò più piacevole, e non si curò nemmeno di trovarsi in una grotta in mezzo ad un bosco tetro.

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Capitolo 18
*** Capitolo 17 - Primo Crescente dell'Ultima Ide ***


17.1 Rintocchi di Lode inoltrata
 
 
Gregor uscì dalla vasca che l’acqua bollente ancora esalava i suoi vapori nella stanza. Era stato ammollo più di quanto avesse richiesto, mentre un gruppo di serve aveva provveduto a lavarlo e ad insaponarlo. Strinse l’asciugamano saldamente attorno al bacino, mentre Shoshanna, seduta poco più in là su di una poltroncina, stava spazzolandosi la folta chioma rossa.
«Il tuo falso sonno è stato comodo? Hai riposato bene?» chiese, con tono suadente e divertito. Gregor sbuffò.
«Non riposo più bene da che ne ho memoria, casa vostra non fa certo eccezione».
«Se vi fermate a riposare nei vicoli della capitale, al freddo e al gelo, immagino di capire il perché».
«Come vi ho già spiegato, madamigella: non sono un barbone. Ero lì perché stavo fuggendo».
«E piangendo, anche». Gregor le lanciò un’occhiataccia.
«Spero non mi abbiate accolto in casa vostra solo per deridermi», berciò lui.
«No, messer Gregor. Il motivo per cui vi ho raccolto in quel vicolo è un altro, e immagino voi desideriate venirne a conoscenza».
«Penso che una vaga spiegazione me la dobbiate. O forse salvate tutti gli sconosciuti che incontrate in giro?»
«Voi siete il primo e anche l’ultimo» Shoshanna si alzò, batté le mani e comandò che il barbiere arrivasse nella sua stanza per occuparsi di Gregor. Questi, pur a malincuore, si sedette e lasciò che il servo preparasse gli impacchi e iniziasse a radergli la barba non ancora del tutto sviluppata.
«Il vostro è stato un colpo di fortuna».
«Da come dite. Eppure non capisco: perché io?»
Shoshanna allora si avvicinò a un quadro, coperto da un drappo di stoffa nera e, con un gesto brusco della mano, lo scoprì. Il violaceo simbolo ♇ appartenente al Dio Ade svettò in tutta la sua magnificenza, disegnato su uno sfondo nero e circondato da alte fiamme bianche.
«La mia famiglia è legata al dio che tu incarni da lunghissimo tempo. Il primo Satellite scelto dal dio Ade apparteneva alla mia famiglia; e i suoi eredi, fino a me, hanno giurato di servire e riverire il dio. Speravamo che egli ci avrebbe nuovamente scelti, che saremmo stati benedetti! Tuttavia, danze addietro nel mio Sogno incontrai il Dio e lui mi disse che il suo prescelto sarebbe stato un giovane schiavo. Mi sono domandata a lungo perché abbia scelto un reietto, anziché un nobile membro della mia famiglia. Ma non c’è modo di capire davvero cosa vuole un dio. Poi ieri, di colpo, ti ho sentito: il tuo pianto echeggiava nella mia testa. Il legame di sangue che la mia famiglia aveva con la divinità mi ha permesso di avvertire la tua richiesta di aiuto. Il resto lo sapete».
Il disgusto di Gregor fu una smorfia di sdegno sul suo viso. Il servo gli intimò di rilassarsi, mentre la lama sfiorava la sua gola. «Tutto quello che so è che non so assolutamente niente di questo fantomatico dio. A parte l’essersi preso il mio corpo e l’apparire quando e come gli pare».
A quelle parole, il barbiere strinse la lama sulla gola di Gregor come a volerlo sgozzare. Shoshanna rapidamente gli prese il polso e gli intimò con lo sguardo di calmarsi; facendogli cenno di andare via, prese lei il rasoio e finì di occuparsi del lavoro.
«Posso rispondere a molti dei vostri quesiti, Gregor. Vestitevi e raggiungetemi nel salotto: vi spiegherò lì ogni cosa».
 
 
17.2 Solstizio inoltrato
 
 
Aulix entrò nel campo d’addestramento che lo sguardo di tutti era puntato su di lui. Qualcuno rideva. Altri parlottavano, canzonandolo. Certamente la vista di un giovane così gracile in un campo di gladiatori era, per i gladiatori stessi quanti per il lanista, una fonte di divertimento. Chissà quanto sarebbe durato nella gabbia: alla prima gara le belve feroci avrebbero banchettato sopra di lui.
«Sono contento di aver portato un po’ di gioia, almeno passerete i vostri ultimi momenti in allegria» fece il giovane. L’ilarità cessò, anche se, invero, non c’era mai stata: gli sfottò e le derisioni nascondevano una onta di delusione, dovuta al comune sentimento di dileggio che provavano i gladiatori all’idea che il lanista avesse comperato, anziché un guerriero possente, un fanciullo gracile e pallido.
«Attento a ciò che dici, potresti costringermi a sculacciarti» fece uno dei gladiatori più anziani e rispettati. Il lanista Caio Servios rimase in silenzio. In genere, tra baruffe tra gladiatori, interveniva prontamente per riportare l’ordine; in questo frangente però sapeva che i suoi schiavi non nutrivano rispetto per la decisione presa: comprare Aulix, nonostante l’ingente somma di danaro ricevuta, si era rivelata una pessima idea. Lasciò allora correre quella scaramuccia. Sperava che quel ragazzetto valesse davvero tutti i soldi che aveva ricevuto, così lasciò che Ohmar gli desse contro. Poteva finire solo in due modi: il ragazzetto dimostrava a tutti di essere un degno gladiatore, guadagnandosi la fiducia di tutti; Ohmar lo uccideva, costringendo a punirlo severamente per ristabilire il controllo.
Frattanto, Aulix si fece contro l’altro.
«Se sculacci come combatti, non ho niente da temere».
«Allora risolviamo questa cosa da uomini!»
 
Attorno al duo gli altri gladiatori formarono un anello. Ohmar prese un grosso martello, che riusciva a sollevare abilmente anche con una sola mano. Aulix, invece, scelse una coppia di pugnali. I due si studiarono brevemente, girando intorno a passo lento, finché il gladiatore anziano decise di tentare una sortita: un colpo roteante orizzontale, non molto veloce ma studiato per riprendere la guardia rapidamente al termine della rotazione. Volle testare l’agilità del ragazzo e lo trovò pronto: Aulix schivò il colpo senza difficoltà, con un balzo. Quello che però Ohmar non si aspettava era che il suo avversario, anziché tenere le distanze, scattò improvvisamente in avanti; il gladiatore, ancora intento a far roteare il martello, provò a calciarlo via. Aulix gli scivolò agilmente sotto, provocandogli un primo taglio alla coscia. L’uomo grugnì irritato e tentò di correggere il movimento della sua arma per farla cadere verso il basso. Il ragazzo, con un colpo di reni, ruotò a lato, salvo poi alzarsi spingendosi da terra con le mani. Ohmar alzò rapidamente il martello e tentò nuovamente un colpo orizzontale, questa volta con entrambe le mani, per imprimervi maggiore potenza. Aulix, a malapena tornato in piedi con una piroetta, si abbassò nuovamente e lanciò uno dei pugnali verso il torace del nemico. Il gladiatore approfittò del movimento della sua arma per girarsi di profilo e, abbassando il braccio, fece conficcare il pugnale nel bicipite.
«Bene bene, la signorina non è solo parole. Sei agile ma in un’arena non puoi contare solo su quella. Ti manca la forza: questo coltellino si è a malapena conficcato dentro la mia carne!» disse Ohmar, estraendo l’arma e gettandola ai piedi di Aulix. «Anche il taglio che mi hai provocato alla gamba non è sufficiente a fermarmi. Ti manca la pratica e questo ti sarà fatale».
Aulix allora sorrise, riprendendosi il pugnale. «La prima cosa che bisogna fare quando si vuole cacciare un orso è tenere a mente è che una sua sola artigliata può ucciderti. La seconda cosa da tenere a mente è che frecce e pugnali non lo feriranno abbastanza da ucciderlo. Allora ti chiederai, come diavolo do la caccia ad un orso? È semplice: bisogna sfinirlo».
Ohmar scoppiò a ridere. «Oh così mi paragoni ad un orso! Immagino che sia naturale, data la mia stazza».
Allora il gladiatore si lanciò nuovamente all’attacco ma, questa volta, non riuscì a seguire Aulix con lo sguardo. Si ritrovò con un taglio sull’addome e uno sul petto nel battito di un istante. Sorpreso, fermò al volo il suo attacco per voltarsi ma un fendente gli ferì la mano, facendogli perdere la presa sul martello. Un altro taglio lo raggiunse all’altra spalla.
«Che cosa… che sta succedendo?» iniziò a lamentarsi il gladiatore. Aulix rallentò, alzando un pugnale verso la Luna.
«Ti confiderò un piccolo segreto, piccolo orsacchiotto: io governo sulla caccia e sugli animali nei boschi; mia è la rapidità del lupo nelle foreste; mia è la forza dell’orso sulle montagne». Si avvicinò quindi a Ohmar e prese il martello, sollevandolo brevemente da terra senza sforzo e con una mano sola.
«Il mio nome celeste è Artume: io sono la pallida Luna che vi guarda durante i Patti. Io sono la divinità che presiede ai cacciatori, alle foreste e alle belve feroci; colei che unica governa la Notte».
«Tutti sanno che i Satelliti hanno grandi poteri, ma nessuno di essi può superare i limiti umani. Cosa sei realmente?» ansimò Ohmar.
Aulix allora gli si avvicinò lentamente, sussurrandogli all’orecchio: «Io non sono un Satellite, piccolo uomo. Io sono un dio vero. Non ho alcun limite su questa terra».
Il giovane allora allungò la mano verso il gladiatore e lo aiutò a rialzarsi. Questi, guardandosi intorno, fece a gran voce:
«Io Ohmar chiedo scusa al mio fratello Aulix per aver dubitato di lui; e chiedo scusa ai miei fratelli gladiatori per aver sollevato dubbi nelle loro menti; e chiedo perdono al lanista, mio signore, per aver alzato le mani contro un mio fratello gladiatore. Possa la mia punizione servire da monito!»
Il lanista Caio, tuttavia, fece cenno alle guardie pronte con le fruste di non procedere, lasciando correre quell’incidente dal momento che niente di grave era capitato a nessuno. Tuttavia, ad Ohmar disse:
«Che non si ripeta mai più un evento del genere. Ora vai a farti curare; e voi altri, riprendete l’addestramento!»
 
Aulix fu condotto per ordine del lanista dal magister, che avrebbe giudicato le sue caratteristiche fisiche. Nonostante la prova di abilità contro Ohmar, il giovane era troppo scarno e magro e bisognava che tonificasse il suo fisico; quindi il medico ne valutò il suo stato di salute, trovandolo in ottimo stato. A seguito di questi controlli, Aulix fu assegnato alla classe gladiatoria del trace.
Ed iniziarono così i suoi allenamenti.
 
 
17.3 Ultimi rintocchi di Solstizio
 
 
Alcor e Undine si diedero appuntamento in una locanda, nella parte povera della capitale. Da quando avevano consegnato Aulix nell’arena dei gladiatori, il duo si era separato per dedicarsi ognuno alle proprie faccende.
 
Alcor era tornato a casa per trovare la sorella Hilda. Quando vide entrare l’amato fratello, la nobil donna esplose in un moto di felicità ma, non potendo alzarsi, si limitò a spalancare le braccia in attesa di abbracciare il suo cavaliere.
«Fratello mio, dove siete stato? Ho sentito la vostra mancanza. Questa casa è così vuota da quando voi e Mizar siete andati via. E ora che Mizar non c’è più, solo voi mi siete rimasto». Alcor la strinse con dolcezza e si lasciò andare a qualche lacrima.
«Non merito il vostro amore di sorella. Non ho fatto che arrecarvi danno con la mia assenza e non ho provveduto a farvi visita più spesso di quante volte avrei dovuto. E ora sono qui per dirvi che non mi vedrete per lungo tempo».
La donna protestò. «Perché dite questo?»
«Debbo andare, mi amata sorella. Devo lasciarvi. Mi spiace non potervi dire nulla ma sappiate che tornerò. Io tornerò. Ve lo prometto. Io tornerò e porterò con me il buon nome di Mizar. Siederemo davanti al fuoco sapendo che egli è in pace e che chi lo ha ingiuriato avrà pagato le sue colpe.
Io tornerò da voi, amata sorella, non dubitate. Ma fino ad allora vi chiedo, egoisticamente, di soffrire solo per un po’. Sopportate questa dura solitudine per me. Vi prometto che, quando ci riabbracceremo, questo tempo fatto di distanze e pareti fredde sarà riempito di gioia e felicità.
Potete fare questo per me?»
Lei, senza tradire un moto di inquietudine, fissò il fratello e sollevò le mani per carezzargli il viso. «Mio caro Alcor, vedo che la sorte del nostro Mizar vi grava nel cuore come un macigno. Io vi aspetterò. Voi avete sempre mantenuto la vostra parola. Ve lo ricordate? Quando mi avevate promesso di potarmi in spalla in giro per i campi, nella nostra villa estiva. Lo avete fatto: nostro padre vi ha punito severamente ma voi avete sopportato quel dolore per me. Gli avete detto che fu una vostra idea, ma era mia. E io non vi ho mai ringraziato per avermi accontentata.
Ma vi prego fratello, ve ne supplico: non lasciate che questo macigno schiacci il vostro cuore. Non fate sciocchezze».
«Non posso promettervelo sorella ma vi prometto che, alla fine di tutto, mi darete ragione».
«Lo spero».
Così Hilda e Alcor si strinsero più forte, poi il cavaliere sollevò la sorella dalla sedia a rotelle, su cui era costretta fin dalla nascita, e la prese in braccio. Le fece fare il giro della casa, davanti lo sguardo sgomento della servitù. Uscirono fuori nel giardino retrostante al maniero e la fece sedere sull’altalena che il loro padre aveva fatto costruire quando le loro danze erano ancora nel mattino. Passò quella Lode a spingere la sorella, ascoltando la sua risata come fosse per lui una medicina. Ma più sentiva Hilda ridere, più ricordava che ella sarebbe tornata in quella stanza, confinata su una sedia con le ruote; e più rimuginava su quel pensiero, più nel suo cuore si apriva una grande voragine.
 
All’orario stabilito, padre Undine si fece trovare alla bettola che stava già assaporando una birra rossa. Alcor entrò con indosso una mantella nera e un cappuccio per coprire le sue fattezze, percorrendo circospetto i tavolini. Quando notò che il locale era composto per lo più da ubriaconi e persone prive di sensi, si rilassò. Sedette dunque al tavolo a cuor più leggero, ordinarono una birra chiara al doppio malto.
«Quando partirete?» domandò il cavaliere.
«Domani» rispose il sacerdote. «Ho già preso un cavallo e qualche provvista per il viaggio».
«Quanto tempo ci vorrà per arrivare a destinazione?»
«Una Ide, forse meno. Il luogo non è molto distante, ma è impervio: è nascosto tra le montagne e nessuno vi si reca più da centinaia di danze. Sarà completamente abbandonato quando lo troverò. E voi, avete ben chiaro cosa dovete fare?»
«Sì. So già come contattare i mercenari: a differenza di noi cavalieri, è il danaro che li comanda. Al giusto prezzo, mi seguiranno in capo al mondo».
«Non ho idea del perché la Luna voglia dividerci, ma qualche idea me la sono fatta».
«Non siamo in posizione di mettere in discussione le sue decisioni, Padre. Se la Luna vuole, la Luna avrà».
«Vorrei avere la vostra risolutezza, ser».
Padre Undine sollevò il boccale e diede un nuovo sorso alla birra ma, improvvisamente, questa perse parte del suo sapore. In realtà non era la prima volta che il sacerdote avvertiva quella sensazione: da quando aveva riaperti gli occhi, non aveva sentito fame e né aveva avuto bisogno di nutrirsi. Lentamente, anche il sapore del cibo sembrava svanire e la cosa, almeno superficialmente, lo preoccupò.
«Ditemi ser: che dono vi ha elargito la Luna?» incalzò il sacerdote.
«Nessuno» replicò il cavaliere. «Il giovane Aulix era servo di mio fratello, ed è l’unica strada che ho al momento per capire perché mio fratello ha scelto il martirio. E se fosse un eretico… Non ho avuto niente dalla Luna, se non la promessa che avrei trovato risposta alle mie domande».
«E se queste risposte avessero un prezzo, cavaliere?»
«Tutto lo ha. Quando mi sono arruolato, credevo che avrei servito il popolino e, invece, ho appreso che solo ai cavalieri erranti, poveri e sbandati, è concessa questa possibilità; a noi schiavi della corona, non è chiesto nient’altro che obbedire. Il prezzo che ho pagato per la mia scelta è stato perdere ogni desiderio che cullavo da fanciullo. Ma ora ho qualcosa di nuovo che desidero: voglio verità per mio fratello. Ha un costo questa verità? Sì, senza dubbio.
Ma è un costo di cui non mi interesso. Avrò le mie risposte, padre Undine; a costo di veder bruciare ogni cosa intorno a me».
A quelle parole, ser Alcor posò il boccale vuoto e si alzò. Pagò l’oste per le bevande e fece per andarsene, ma prima Undine gli disse:
«Mi auguro che le vostre rispose non brucino anche voi. Arrivederla, ser».
«Mi sento già avvolto dalle mie stesse fiamme, padre. Arrivederla».
 
Undine rimase a fissare il suo boccale. Provò a bere ma, questa volta, la bevanda aveva il sapore della cenere e fu costretto a sputarla via. Si asciugò frettolosamente la bocca e uscì, intanto che un piccolo, fievole e quasi insignificante gorgoglio ruggiva dal suo stomaco.

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Capitolo 19
*** Capitolo 18 - Primo Crescente dell'Ultima Ide ***


18.1 Primi rintocchi dei Vespri

 

«Conosci la storia della Grande Madre?» fece la fanciulla verso Sebastian. Si voltò lentamente, alzandosi per carezzare la statua piangente. Il sicario mosse il capo in senso di diniego.

«Sono curioso di sentirla» ammise.

La fanciulla allora si sedette davanti a lui, assicurandosi che le fasciature alla gamba fossero ben strette e che le ferite stessero guarendo.

«Quando quasi tutte le divinità avevano lasciato la Grande Casa per arrivare su Gaia, lei fu l'ultima a seguirli. E lo fece solo molto molto dopo che questi si erano già da lunghe danze stabiliti tra gli uomini. Mentre i suoi fratelli e sorelle familiarizzavano e si mescolavano tra i mortali, lei soltanto rimase sola nella Grande Casa. Sai perché?»

«Tutti sanno la storia della Grande Madre: folle d'amore, tentò di avvicinarsi al dio Sole ma perse il senno».

«Ed è vero ma non del tutto» corresse lei. «La Grande Madre non ha mai cercato di avvicinarsi al divino Sole: non poteva. Solo Hermes gli è vicino abbastanza, e di lui non ne resta più niente. Vedi, nella Grande Casa del Cosmo, non puoi far altro che ballare attorno al Sole ma non puoi sperare di avvicinarti a lui; non di tua volontà, almeno».

«Quindi è vero soltanto che ha perso il senno?»

«Si» annuì lei. «Molte danze addietro scoprì che gli umani avevano trovato un modo per avvicinarsi al divino e decise di utilizzarlo a sua volta».

«Ti stai riferendo alla Sposa del Sole?»

«Proprio lei. Per ventitré volte, gli esseri umani hanno stabilito una qualche forma di contatto con il divino Sole. Ma nessuno sa cosa accade alle Spose, quando incontrano il Dio. Si suppone che ogni cosa vada a gonfie vele, dal momento che il divino, come promesso, rinnova la sua alleanza agli umani.

La Grande Madre ha tentato un azzardo: scelse come Satellite una delle Spose e sperò che, usandola come mezzo, avrebbe potuto arrivare finalmente al suo amato Surya».

«E ci è riuscita?»

Lei sorrise, guardando la statua piangente. «No. Fallì, miserevolmente. Raggiunse sì il divino ma, quando questi la scoprì, ripudiò la Ventesima Sposa rispedendola indietro. Si assicurò poi che tutti sapessero del suo misfatto, così la marchiò a fuoco».

Sebastian ebbe un brivido. Mentre la fanciulla parlava, il suo tono di voce cambiava gradatamente; e lui, di contro, iniziava a mettere alcuni tasselli di quel puzzle insieme. Fu quando lei parlò del marchio a fuoco che rammentò di averlo visto, lo stemma del Sole, proprio sulle sue spalle. Tuttavia, finse di non capire mentre, lentamente, cercava di distanziarsi da lei.

«È alla Grande Madre che queste statue sono dedicate? Alla sua caduta?»

Lei sfiorò il proprio volto con le mani e, di colpo, il suo viso parve incupirsi. «I miei figli le hanno erette per me. I miei adorati figli. Mi sentivo così sola, quando i miei fratelli Bēl e Anum mi hanno gettata qui. Dicevano che avevo commesso un grave crimine, che non mi era più concesso tornare nemmeno nella Grande Casa.

Poi un giorno lo vidi galleggiare nelle acque sporche: un bambino. La madre lo aveva gettato in chissà quale fogna e il suo corpo divorato dai vermi era arrivato fino a me. Lo presi in braccio e lo strinsi così forte che pensavo si sarebbe sgretolato. Ma poi pianse.

Così capii qual era il mio dovere di Madre. Uno ad uno vennero tutti a me: i poveri, gli orfani, coloro che sono abbandonati dalla società. Sotto la mia ala protettiva io li ho presi e li ho curati; come una Madre li ho fatti risvegliare dal loro sonno e loro così mi hanno ringraziata: loro hanno eretto statue per me!»

Sebastian lentamente portò la mano verso una tasca nascosta, dove cercò di tirare fuori un pugnale. Lei però gli fu rapidamente addosso e iniziò a strangolarlo.

«Non vi era sufficiente portarmi via i miei adorati figli nelle Case di Cura. Avete dovuto assopire anche Golgo e Astinoo. Bestie senza cuore: dove sono i tuoi compari! Parla maledetto, parla! Dove sono quei bastardi dei tuoi complici!»

Sebastian ricordava molti volti colti dall'ira, nella sua lunga carriera di cacciatore di taglie e sicario prezzolato, ma era la prima volta che vedeva così tanto furore in qualcuno. Per pochi istanti, non ebbe la forza di reagire. Poi, d'improvviso, digrignò i denti e poggiò il polso verso il petto di lei. Uno scatto meccanico fece uscire un dardo da un foro: uno dei suoi assi nella manica era una piccolissima balestra, costruita appositamente per stare nascosta nell'avambraccio e sparare, con la pressione di un tasto, un dardo a breve gittata. La freccia si conficcò nel seno di lei, causandole abbastanza dolore da farle perdere la presa. Così se Sebastian rapidamente la colpì in volto con un pugno, facendola precipitare dalla scarpata, ove l'attese il letto del fiume nero.

«Cercare di strangolare una Serpe sarà l'ultimo dei vostri errori, madamigella».

Lentamente, Sebastian tentò di scendere lungo quell'intricato labirinto di catapecchie, cascine di legno, ponti sospesi e amenità varie. Guardando a come quella città sospesa era costruita, era evidente che essa era costituita da due parti: la prima, più in vista, era la città sospesa fatta di rifiuti e immondizia di ogni genere; la seconda, era una fitta rete di caverne sotterranee che gli abitanti di quel posto lercio avevano, con pazienza, costruito e perfino decorato con statue.

«La capitale si erge su sette colli ma, evidentemente, con le danze il fiume avrà scavato un intero bacino sotterraneo; e loro, dai resti della vecchia capitale, ci hanno costruito questo... schifo».

La stragrande maggioranza delle Orme Bianche l'aveva vista salire con gran foga verso l'alto. "Quel tuono di prima, evidentemente Mithra era in pericolo. Meglio per me, avrò più libertà per agire". Quel poco di resistenza che incontrò, la Serpe Nera poté superarla senza particolare fatica. Non esitò a calpestare chiunque gli si frapponesse contro, ma scoprì ben presto che, al di là delle strane aberrazioni figlie della Grande Madre, tutti gli altri non erano che orfani, donne e vecchi malati. Nessuno osò seriamente frapporsi nella sua discesa, se non la struttura labirintica di quell'ammasso di topaie a strapiombo sul vuoto.

La sua lunga discesa ebbe termine solo quando raggiunse una zona più ampia: una intera, gigantesca, caverna sotterranea. Vide spuntare, come fiori, grandi formazioni cristalline fosforescenti. Erano esattamente come quelle che Mithra scoprì da giovane, sebbene qui la quantità fosse tale che ne vide di ogni forma e foggia.

Continuò così a scendere, ritrovandosi ben presto alle foci di quel fiume che scorreva metri e metri sottoterra. Il grande lago che si raccoglieva sul fondo della caverna era, in parte, una maleodorante palude. Detriti di ogni genere si ammassavano in disgustosi isolotti, mentre ponticelli di fortuna traversavano le acque scure, formando un percorso obbligatorio. Di tanto in tanto, fiaccole e torce illuminavano quello che, altrimenti, sarebbe parso come un luogo d'impenetrabile oscurità.

Quando infine giunse all'altro versante della grotta, vide una immensa struttura di legno svettare più in alto di ogni altra cosa. Numerose fiaccole, bandiere e vessilli consunti facevano intuire che si trattasse di una sorta di luogo di culto. Quivi, infatti, vide raccolti alcune creature che non aveva mai visto prima: similari alle Orme Bianche, ma grandi come uomini adulti e armati d'ogni gene-re d'arma. Non appena lo videro arrivare, presero a urlare ogni cosa; sforzandosi, riconobbe uno di questi prendere in braccio la dea Cipride e portarla nelle profondità di quel lercio tempietto. Sebastian afferrò il suo stocco e si avvicinò a passo infermo ma deciso.

«Corri, piccolo coniglietto. Corri. La Serpe sta venendo a prenderti».

E si preparò a farsi strada tra quegli esseri orripilanti.

 

18.2 Nel frattempo

 

Meroll riaprì gli occhi. La febbre era ormai un lontano ricordo e si sentiva progressivamente meglio. L'anziana che l'aveva curata, tuttavia, continuava a sostenere che dovesse riposare; nonostante le ossa, ormai, le facessero male a causa del lungo periodo di degenza nel letto.

Ma la sensazione di benessere non fu la sola cosa che Meroll notò. Le parve di poter udire più distintamente, e con maggiore precisione, i passi non solo dell'anziana donna ma finanche quelli delle persone che passeggiavano in strada. Prima che potesse accorgersene, imparò perfino a contare il numero esatto di persone semplicemente dal suono dei passi che riusciva a distinguere. Il suo olfatto, poi, divenne tanto sensibile che fu in grado di indovinare di quali ingredienti era composto lo stufato che l'anziana signora stava adesso cuocendo le pentolone.

«Carne di coniglio, cipolla, aglio, carote, patate, alloro, vino rosso e... olive? Non ho mai messo le olive nello stufato».

L'anziana donna allora, sorpresa, si voltò ridendo.

«Vedo che finalmente ti sei ripresa. E noto che, finalmente, la trasformazione ha iniziato a prendere largo».

«Di cosa parli?» chiese Meroll, infastidita.

La vecchia allora si sedette di fianco a lei, e disse: «Lo sai come si chiama il dono che la Luna elargì alla nostra gente? Berserker: diventare forti e feroci come belve, per distruggere il nostro nemico... Ma poco sapevamo che una bestia, quando sente l'odore del sangue, può aggredire anche i suoi stessi simili!»

«Me ne hai parlato, quando stavo male. Dicevi, se non ricordo male, che finché non c'è odio nel mio cuore questa maledizione non ha mai avuto largo in me. Perché ora?»

L'altra rise ancora, più malignamente. «Perché forse, adesso, un oncia di odio finalmente si è destata in te».

«E chi dovrei mai odiare?»

«Oh piccola cara, odiare è solo il primo passo. Vedi, quando la maledizione sarà completa, non ti preoccuperai più su di chi riversare il tuo odio; ai tuoi occhi tutti saranno nemici e tutti, nessuno escluso».

«Come posso liberarmi di questa maledizione?»

«Suvvia mia cara, non essere sciocca. Non puoi. È come un infezione: è già nel tuo corpo. Forse però, se ti puntassi un coltello alla gola, magari...»

Meroll balzò sul letto e afferrò la donna le spalle.

«Voi come ci riuscite? I vostri nemici ci sono ancora, che ne è del vostro odio? Perché non mi siete ancora saltata alla gola?»

Allora l'anziana si fece avanti e afferrò Meroll per il collo. Il suo respiro si fece greve e i suoi canini, come per incanto, parvero allungarsi verso di lei.

«Quali nemici, bambina? Io non ho più nemici. Il mio odio è sepolto sonno danze di cocente insofferenza. Della mia gente sono l'ultima rimasta e da lungo tempo sopravvivo in mezzo a coloro che mi hanno portato via ogni cosa. Ho imparato, e imparerai anche tu, che desiderare qualcosa può avere un prezzo salato da pagare, se pensi che le alle tue scelte non esistano conseguenze».

«Di cosa parli?» replicò Meroll liberandosi e afferrando l'anziana donna. Scoprì anche, con sua sorpresa, che possedeva più forza di quanta ne ricordasse; sollevò l'altra e la scagliò verso il muro, facendola rovinare contro un mobile. Quindi scese dal letto.

«Quali conseguenze? Cosa ho fatto per meritare questo? Ho davvero chiesto di essere trasformata in un mostro?»

Lentamente l'anziana tornò in piedi, senza smettere di ridere.

«Qualunque cosa tu faccia, in qualsiasi momento della tua esistenza, stai facendo una scelta. E sono quelle scelte che ti hanno portata qui ed ora. Non chiederti perché hai avuto questo potere... chiediti se puoi ancora scegliere cosa farne».

 

18.3 Nel Sogno

 

Gregor odiava ritrovarsi dentro al suo Sogno. Era come guardarsi in uno specchio che, per altro, aveva sempre l'ardire di giudicarlo. Ricordò a fatica che aveva conversato con Shoshanna tutto il dì, quando poi a cena lei gli aveva offerto una brocca di vino; aveva perso i sensi ed ora era lì, imprigionato in quel Sogno. Sapeva che presto o tardi il Dio Ade si sarebbe palesato. Questa volta, però, qualcosa gli suggeriva che il loro incontro sarebbe potuto finire nel modo sbagliato.

Si guardò attorno ma non vide nessuno. Poi, d'improvviso, due mani lo afferrarono alle spalle e si sentì schiacciare in terra da una forza immensa.

«Lasciami andare!» strepitò e scalciò il ragazzo, invano.

«Il momento è arrivato, Gregor». La voce del dio, che sibilava poco oltre il suo collo, non dava adito a dubbi: qualsiasi cosa avesse in mente, al giovane umano non faceva affatto piacere. «Perché dimenarsi? Ormai sei stanco. Non vedi? Il tuo corpo è debole. Presto la tua coscienza svanirà e io mi impadronirò della tua carne. Ma non avere timore, non sparirai per sempre; una piccola parte di te vivrà, in me».

Una sensazione di torpore aggredì i sensi di Gregor. Avrebbe voluto continuare a combattere, per liberarsi da quella maledetta morsa. Tuttavia, scoprì ben presto che non riusciva quasi più nemmeno a urlare. Ed, intanto, il dio Ade incalzava finalmente la sua imminente rinascita. «Dormi Gregor, dormi. Riposati. Hai fatto il tuo dovere, non c'è motivo di resistere. Addormentati. Non senti il sonno che ti chiama?»

In quell'istante, quando ogni speranza era perduta, Gregor ebbe un ultima scintilla di resistenza e disse: «Io non voglio!»

Il dio trasalì. Come per incanto, un gran numero di rovi e piante coperte di spine emerse dal nulla. Si ritrovò ben presto avvinghiato tra rampicanti e rose, laddove le spine gli pungevano l'essenza come a monito per la sua trasgressione.

«Maledette Regole! Ero quasi riuscito... era quasi mio!» strepitò il dio, intrappolato.

Gregor, dapprima spaventato, lentamente riprese le proprie forze; scoppiò in una fragorosa e possente risata.

«Cosa ti succede, Ade? Non eri ad un passo dal divorarmi? Cosa ti frena ora?»

«Dannato umano! La tua fortuna: se non avessi pronunciato quelle parole, ora sarei io a ridere!»

Gregor, lentamente, gli si fece vicino.

«Infrangere le regole, è così che dicevi. Eh? Così anche tu, sotto sotto, ci hai provato. Non so cosa siano questi rovi ma non sono stupido: evidentemente, sono una misura di sicurezza, nel caso uno di voi vermi provasse ad impossessarsi di un umano».

Poi rammentò che il Sommo Cardinale era anch'egli un Satellite ma, da come aveva detto la sorella durante il loro incontro, era perfino a capo dell'Ordine.

«Non è stato il Dio Sole a imporvi il divieto circa l'interferire con gli umani, vero?»

«No, sciocco mortale: è stata Gaia!»

«Ma dato che siete degli ingordi bastardi, avete escogitato un modo per superare le sue imposizioni. Però a te ti è andata male».

«Folle che non sei altro. Anche se venissi rimando alla Grande Casa come in passato, ritornerò di nuovo in un altro corpo e non commetterò più lo stesso errore! Vuoi liberarti di me? Fa pure, goditi la tua miserabile vita umana».

Gregor sorrise. Di un sorriso macabro e oscuro, come avesse in mente una qualche follia.

«Allora dovremmo fare in modo di impedirti di tornare, non trovi?»

Il primo morso, Gregor lo sferrò alla gola. Non fu carne che strappò ma, come scoprì di lì a poco, gli parve come se stesse mordendo una nuvola: l'essenza del dio spariva ad ogni morso, come se non avesse consistenza.

«Cosa stai facendo? Smettila!»

Ad ogni morso, il panico del dio aumentava; Gregor, di contro, non rallentò ma anzi, con sempre maggiore foga, addentò con sempre più fame quel che rimaneva della divinità. Quindi, quand'ebbe concluso, mentre i rovi e le piante spinate svanivano, si sentì come rinvigorito e qualcosa dentro di lui mutò.

«Adesso sei tu che vivrai dentro di me, Ade».

E scoppiò di nuova a ridere. Felice, come pochevolte lo era stato prima.

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Capitolo 20
*** Capitolo 19 – Secondo Crescente dell’Ultima Ide ***


19.1 Primi rintocchi di Lode


Fin dai tempi più remoti, una sola certezza si era cristallizzata nella mente e nel cuore di ogni cittadino del regno: che, da qualche parte sotto la Grande Cattedrale, vi fosse celata e ben nascosta la casa in cui si era destata la Prima Sposa; una casa fra tante di un villaggio anonimo, composto che da case in legno e qualche palizzata; che l’ira del Dio Sole era ancora una minaccia lontana; e i Sette Fratelli, del cui nome non vi è più memoria, poiché in eterno sopravvivevano solo i loro misfatti, mettevano a ferro e fuoco il reame e il culto dedicato al Sole; giacché di capitali ne esistevano ben dodici, ed ognuna preferiva tenere per sé quel potere che agli uomini sempre fa gola.
Alle soglie dell’ira divina, della solo la tradizione e il mito son gli unici a rammentarlo, l’apparizione della Prima Sposa sancì un punto di svolta: correva la 365° Danza Solare, quando ancora il calendario odierno non era nemmeno nato e il tempo si perdeva come sabbia nella clessidra della storia; colei che salvò il mondo, riappacificò il Dio con gli umani, si destò tra pastori e gente povera. Predicò. Pregò. Mostrò benevolenza. Amò e fu amata. Ella mostrò al Dio Sole che gli uomini erano ancora meritevoli di perdono e di benevolenza, mentre negli uomini rafforzò il desiderio di ritrovare l’Ordine.
Col passare delle danze, quel villaggio crebbe. Fu rinomato: la casa dove la Prima Sposa aveva aperto gli occhi e aveva visto la luce divenne, in brevi tempi, luogo di culto. Da ogni luogo venivano a peregrinare. Così, ben presto, eressero su di essa una prima chiesa. Una struttura semplice, quasi rudimentale: un luogo di culto che non aveva alcuna pretesa.
Al volgere della 7'300° Danza Solare, la Ventesima Sposa si destò e apparve proprio in quella casa, ora divenuta cattedra di preghiere e venerazione. Un segno. Una rivelazione. L’idea che spinse i sovrani dell’epoca fu che, in quell’evento, c’era forse un chiaro messaggio: una volontà precisa, che aveva benedetto quel posto non una ma due volte.
E allora essi si recarono, tutti e dodici, presso quel luogo e lo videro così semplice che qualcosa in loro si mosse. Insieme, con uomini, mezzi e danaro, crearono una seconda chiesa ma più grande e bella; con un campanile di fianco. Fu decorata con statue e marmi pregiati; grandi drappi pendevano dalle navate e su ognuno lo stemma delle casate che, con cuore devoto, avevano contribuito ad abbellire quel luogo sacro; e sulle vetrate, grandi mosaici che narravano la storia umana, fino all’amorevole sagoma della Prima Sposa dipinta sull’abside.
Ma nei cuori dei sovrani c’era, invero, un fondo di maliziosità. Non ebbero ad interesse soltanto il bene del Culto e dell’Ordine, ma credettero che, dandosi da fare, avrebbero forse accresciuto la benevolenza del Dio verso la propria casata e la propria città. Un pensiero sciocco, invero. Eppure, quell’idea li mise presto gli uni contro gli altri; e la Ventesima Sposa si intromise nei loro bisticci e battibecchi, ricordando ai signorotti che nessuna delle loro azioni aveva valore, davanti all’ira del Dio Sole.
Contriti nel cuore e consci di aver operato il bene solo per se stessi, i dodici sovrani diedero ad un uomo il compito di accompagnare la Sposa nel suo Viaggio di Nozze, cosicché questi, a nome di tutti loro, li lavasse dalle colpe e dimostrasse che gli uomini erano sempre pronti a chiedere perdono. Costui, Elaiha Sal’Olmar, ch’era nobile ma di nessuna delle stirpi dei dodici re, si fece carico del suo impegno con grande coraggio e lo portò a termine. Quando la Sposa era ormai prossima a maritare il Dio e lasciare Gaia per sempre, Elaiha Sal’Olmar richiamò i dodici sovrani intorno a un gran tavolo e disse loro di avere avuto un epifania: che un Ordine non poteva essere tale se diviso e frammentato; propose ai sovrani di innalzare una capitale in quelle terre sacre e di nominare un singolo sovrano e un singolo patriarca; ricordò che i fuochi delle eresie, che divampavano sovente, si potevano spegnere dimostrando agli eretici un forte senso di unità e rigore. Non immaginavano i dodici sovrani che Elaiha Sal’Olmar desiderava porre se tesso come sovrano, avendo il favore indiscusso del Sommo Cardinale dalla sua parte.
Nelle guerre per il potere che seguirono, che si conclusero con l’Unico Re Elaiha sgominare gli altri sovrani, la città di Ras Alhague dall’originaria dimensione crebbe. Ben presto, nel corso delle danze, divenne così grande che l’originario luogo di culto fu oscurato e una nuova, possente città si stagliava potente sui sette colli. Al suo centro, imperiosa come nient’altro, la Grande Cattedrale.
Quando Mithra raggiunse il vecchio luogo di culto, lo riconobbe. Lo vedeva per la prima volta ma tutta la sua storia riemerse nella sua mente, come l’avesse conosciuta da sempre. Si avvicinò lentamente, notando come ora la piccola chiesa versava in uno stato totale di abbandono: le pareti si erano annerite ed erano coperte di rampicanti; gli alberi del bosco circostante avevano guadagnato terreno, arrivando a incastrare i propri rami nelle navate; del tetto non c’era più traccia, lasciando il luogo scoperto sotto ai ponti maestosi della capitale; la Grande Cattedrale, di fianco e molto più in alto, non sembrava degnare quella piccola chiesa che di un breve sguardo, come a un figlio degenere che provoca disgusto.
Mithra varcò la soglia inoltrandosi tra colonne in rovina ma si fermò. Un uomo stava contro la parete del prestiberio, con le mani e i piedi inchiodati. Intorno al capo, fino al naso e intorno le orecchie, una maschera di metallo sembrava fusa al suo volto in modo tale da accecarlo, senza impedirgli però di respirare o ascoltare.
“Chiunque sia, non meritava questa fine” pensò la donna.
Poi l’uomo sospirò.
«Avvicinatevi, non abbiate paura» tossì.
«Voi… siete desto?» balbettò la donna, sorpresa.
Lui sorrise. «Se questo lo potete chiamare essere desti».
«Vi chiedo perdono».
«Non dovete. Non ricevo visite così spesso: mi scusi se sono stato brusco».
Mithra si avvicinò, notando che non era possibile liberarlo dalla sua tortura. «Chi siete?»
«Il mio nome non ha importanza» tossì, ancora. «Ciò che importa è: perché sono qui?»
«Perché siete qui, dunque?»
«Perché i miei adorati fratelli desideravano che io non fuggissi da qui. Non potevano zittirmi, così si sono assicurati che rimanessi solo e incatenato per l’eternità».
La donna fece una smorfia di disappunto. «Non siete più solo e, un giorno, chi vi ha fatto questo la pagherà».
L’altro sorrise nuovamente, pur sapendo che quelle della donna potessero essere per lui che promesse da marinaio. «Non abbiate pensiero per me. Io sarò libero molto presto. Piuttosto, voi cosa ci fate qui? In genere a nessuno dovrebbe essere concesso arrivare a me».
«Sono qui perché desideravo arrivare alla Grande Cattedrale… dovevo trovare il luogo in cui si è destata la Prima Sposa. Pensavo di aver sbagliato direzione ma pare io sia sulla strada giusta».
«Oh. Allora so perché siete qui. Il nostro incontro non è casuale. Io so dove si trova».
Il tono di voce della donna assunse un tono di serietà. «Vi sarei molto grata se mi diceste come arrivarci».
«Vede l’organo? Bene. Sfogliate lo spartito, c’è una melodia chiamata Notturno. Ottimo, ora cercate l’opera numero nove. Suonatela e si aprirà il passaggio».
Mithra restò per qualche istante sorpresa. «Tutte le opere del Notturno furono bandite, perché erano una ode alla Luna e alla notte. Chi ha deciso di usare questa melodia sapeva esattamente cosa faceva… e cosa nascondeva».
«Nessuna musica dovrebbe essere bollata come malvagia, signorina. Sono gli uomini ad esserlo. La musica, la buona musica, non ha parte: chiede solo di essere apprezzata».
La fanciulla si sedette e prese a suonare. Non ricordava più così bene le poche lezioni che aveva preso da fanciulla, e il pezzo che stava riproducendo era anche molto complesso. Tuttavia, dopo qualche tentativo, riuscì finalmente a suonarlo e inondò quella chiesa piccola e in rovina con una melodia soave e gradevole. Al termine, pigiato l’ultimo tasto e suonata l'ultima nota, una porta si aprì sul pavimento antistante l’altare e rivelò una scala.
«Vi ringrazio» fece la donna, prima di apprestarsi a scendere.
Lui fece un cenno del capo. «A buon rendere».


19.2 Primi rintocchi di Solstizio


Quando il sistema di catene e ingranaggi si fermò, le porte in ferro scricchiolarono rugginosamente. Rosanne tirò un sospiro di sollievo, anche se non era certa di aver seminato i suoi inseguitori. Varcò quella soglia speranzosa di aver guadagnato abbastanza tempo da correre via, pur non sapendo esattamente dove. Con sua grande sorpresa, si ritrovò immersa da alcune rovine di epoche così remote che non seppe riconoscerne l’origine. Si guardò attorno ed ebbe l’impressione che si trattasse di un qualche genere di santuario. “Dove sono finita?” si domandò, sorpresa.
Avanzò tra le rovine, fino ad arrivare in una zona più in basso, dove notò un’area circolare: centro, probabilmente, di antichi e perduti rituali. Al centro, solenne nonostante il passare delle danze, una statua.
«Questo è… un santuario dedicato alla Dea Luna. Come può esisterne uno proprio sotto la capitale?»
Incredula, Rosanne avanzò per sfiorare la statua quando una voce la sorprese.
«Fai un passo falso e ti ritroverai una freccia nella testa, donna». Un arciere, esile e ricoperto da una leggera armatura di cuoio, le intimò di non muoversi dall’alto di una postazione sopraelevata: si era posizionato nei pressi di una finestra di quella che, evidentemente, doveva essere una stanza adiacente al santuario; metà della struttura era crollata o era stata distrutta, motivo per cui l’unico accesso possibile a quella postazione era, evidentemente, arrampicarvisi. E Rosanne conosceva bene qualcuno abbastanza agile da salire fin lassù.
«Abbassa l’arco, Gunmar. Sono io, Rosanne» gridò lei, cercando di farsi riconoscere. Il compagno mercenario, udendola, abbassò immediatamente l’arma e con un agile balzo fu subito giù.
«Rosanne?» fece, incredulo. Quasi lacrimò. «Cosa ci fai qui da sola? Dopo il casino scoppiato in città, credevamo che…»
«Tante cose, Gunmar. Ti spiegherò tutto con calma. Ma dimmi, sei solo?»
«No. Gli altri sono nascosti nei dintorni. Vieni, ti mostro la strada».


19.3 Equinozio


Il Sommo Cardinale d’Agosto Bēl e suo fratello Anum, il Sovrano di Gennaio, stavano seduti ad un tavolo conversando del più e del meno. Sul piatto delle opinioni, il dibattito imperversava, non senza una certa verve velenosa, sulla situazione generale nel regno. Era evidente -lo era sempre stato- che i due fratelli non condividevano affatto la stessa opinione, benché, contrariamente a quanto si possa pensare, erano affiatati nel tenere le redini di tutti i cittadini.
«La situazione nella capitale è ancora instabile ma è molto migliorata», fece il Sovrano.
«Ciò nonostante, ho saputo di un incidente tra i templari e la milizia reale» commentò il Sommo Cardinale.
«Mi è arrivata voce. Attendo che Johanna Bow faccia rapporto: sta indagando sull’accaduto e, ti posso garantire, che nel suo ruolo è impareggiabile».
«Invero, anche io ho chiesto ad Eaco di occuparsi a sua volta della questione».
«Come mai sguinzagliare addirittura colui che presiede l’Insonnia? Non dovrebbe occuparsi semplicemente di accusare gli eretici e trovarli colpevoli?»
«Tu poni la tua fiducia in Johanna Bow, che rammento essere una umana molto ligia e devota, vero, ma pur sempre umana; Eaco è uno dei miei asteroidi e, come tale, ha ereditato da me tutte le proprietà tipiche di una divinità. Se la tua umana è brava, lui è infallibile».
«Avrei potuto anche io affidare ad uno dei miei figli il compito, ma non ho avuto l’azzardo di metterli in posizioni di prestigio, come hai fatto tu».
«Sai bene che, a differenza di noi Satelliti, gli Asteroidi mantengono una notevole parte della loro natura umana, ma che questa viene raffinata dal potere divino ricevuto: Eaco, tra tutti, era il più qualificato per quella posizione. Il suo odio per gli eretici è una fiamma che non si spegnerà mai».
«Non intendo aprire certo una sfida con te, fratello. Ma non mi fido dei miei figli. Gli umani, invece, una volta plagiati sono molto più facili da indirizzare; e molto più semplici anche da rimpiazzare».
«Come i gladiatori» ironizzò il Sommo Cardinale.
«A proposito. Intendi continuare la celebrazione di domani?»
«Certamente. Domani andremo comunque ai giochi. Lì terrò un sermone che ci aiuterà a calmare gli animi. Tu, in qualità di Re, estenderai la tua influenza su di loro. Le mie parole, combinate ai tuoi poteri, estingueranno ogni rimanente fiaccola di spavento o rivolta nella città».
In quel preciso momento, il suono di nocche sulla porta li sorprese. Entrarono, inchinandosi rispettivamente, prima Johanna Bow, Alto Comandante delle milizie reali, e poi Eaco Garura, Vescovo dell’Insonnia. Il Sovrano e il Sommo Cardinale si alzarono e, privatamente, consultarono i propri sottoposti.
Il Re seppe che una banda di mercenari era stata avvistata e ingaggiata poco fuori le mura cittadine, ai limiti del bosco nero. La loro fuga verso l’interno del bosco e la situazione in città avevano però sconsigliato un rischioso inseguimento. Alcuni uomini della Gendarmeria erano stati trovati assopiti nella casa di tal Mizar Merak, fratello di Alcor Merak; data l’assenza reiterata dello stesso, Johanna suggerì che, probabilmente, era invischiato insieme al fratello in atti di eresia. Oltre a ciò, la tranquillità nella capitale era ormai cosa fatta: i soldati dispiegati erano riusciti a calmare le acque quasi ovunque.
Il Sommo Cardinale, invece, seppe che uno dei suoi sacerdoti era stato assopito prima delle Orme Bianche; quest’ultime erano state nascoste all’interno delle celle dove venivano conservati bambini assopiti o che non si erano mai destati. Ognuno di essi presentava tracce di una colluttazione, facendo intuire che, probabilmente, il sacerdote era stato costretto ad eseguire un Rito del Riposo, richiamare le Orme, per poi essere assopito a sua volta. Una volta aperto il passaggio e messi fuori giochi i figli di Cipride, ignoti sconosciuti si erano potuti facilmente infiltrati nei passaggi segreti utilizzati dagli stessi,così da muoversi con comodità in ogni angolo della capitale. O peggio, nella Grande Cattedrale. Uno degli ignoti, tuttavia, era rimasto ferito, dal momento che una scia di sangue priva di corpo correva fin fuori alle Case di Cura.
Non appena ebbero ricevute le informazioni, Bēl e Anum, rispettivamente, si mentirono. «Nulla di nuovo, fratello» si dissero, reciprocamente. Pur sapendo che fosse una menzogna, non desiderarono interferire l’un contro l’altro. Poiché gli affari della Corona erano della Corona, e gli affari dell’Ordine erano dell’Ordine.
Così si separarono, per tornare ognuno al proprio scranno, da dove riprendere nuovamente a governare.

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Capitolo 21
*** Capitolo 20 - Buonanotte Prima Sposa ***


20.1 380° Danza Solare

 

Il gradevole odore delle rose saliva verso il cielo, in un profumo dalle mille fragranze. Mithra stava seduta sul rudere di una colonna, mentre Sal sfiorava con le dita la sua cetra; pizzicando con delicatezza le corde, ogni nota che componeva si incastonava magistralmente in una sinfonia leggera e gradevole.

«Oggi sei silenziosa. A cosa stai pensando?»

Lei sorrise. «Che sono felice».

Gli occhi di lui la seguirono, sui lineamenti del suo viso. «Se tu sei felice, anche io sono felice», rispose.

«Però ho anche paura».

«Di cosa?»

«Che tutto questo potrebbe finire. Ho... visto qualcosa, nel mio Sogno».

Lui rallentò la musica, per poterla meglio ascoltare. «Davvero? E cosa?»

Allora Mithra portò le mani sul petto e le strinse sul cuore.

«Ho visto me stessa, camminando in un campo di fiori bianchi, e attorno a me ci sono tante rovine e palazzi antichi. Poi, da lontano, una musica mi attira a sé e, seduto sui gradini di una scala, c'è qualcuno».

Sal notò nel viso di lei un certo sgomento e ne fu preoccupato. «E chi è costui?»

Allora Mithra alzò la mani e indicò il divino Sole, ardente e radioso nel cielo. «Mi accoglie come se mi conoscesse da sempre».

«E poi?»

Mithra prese a tremare. «Io mi avvicinavo. Lui mi dice "bentornata, mi sei mancata" e mi viene incontro. Con me ho qualcosa, non so cosa però: qualcosa che può fargli del male. Mi avvicino e sto per vibrare a tradimento il colpo fatale, ma decido di non utilizzarlo più. Una sensazione di nostalgia mi assale. Cado in ginocchio e inizio a piangere. Lui mi stringe a sé e mi consola».

Sal interruppe la melodia, senza nemmeno farci caso. Deglutì sonoramente e osò chiederle: «E perché piangevi?»

«Perché era la mia ultima occasione per vendicarti».

«Vendicarmi? Perché, pensi che il dio Sole mi farà qualcosa?»

«Non lo so».

 

20.2 384° Danza Solare

 

Sal e Mithra erano amici da sempre, e da sempre quel sentimento puro e innocente che noi chiamiamo amore si era risvegliato nel cuore di entrambi; quando entrambi avevano che quindici danze per ognuno, furono costretti a separarsi per lunghe danze. Quando, alla soglia della 384° Danza Solare poterono finalmente rivedersi, compresero fin da subito che quei lunghi tempi d'assenza avevano rinvigorito nel sentimento, sbocciando nella convinzione che mai più dovessero separarsi.

Così, quell'Ide d'Oro, si sposarono. Un piccolo santuario dedicato alla Dea Luna sorgeva sopra un colle; celebrarono lì, alla presenza di poche persone, la loro unione. Si giurarono amore eterno e, come nelle più belle fiabe, di amarsi e onorarsi finché il sonno eterno non li avrebbe separati.

Ma la loro fu una storia sfortunata. In quei tempi, gli uomini si combattevano ferocemente: fratelli contro fratelli, genitori contro figli, finché il sangue non divenne l'unica valuta corrente che potesse acquistare, sui mercati della violenza, qualsiasi cosa si volesse. Sul volgere dell'Ultima Ide di quella Danza, strane calamità colpirono quella landa baciata dal Sole. Terremoti nelle lande dell'Est, strani geli improvvisi al nord, fiumi essiccati a sud e straripanti ad Ovest; quanto più aumentavano le violenze, le guerre e gli scontri, tanto più sembrava che la natura volesse porre un freno a quelle lotte senza senso.

Poi accadde, al volgere della nuova Danza, che il Sole divenisse improvvisamente scuro: un anello di fuoco lo circondava intorno, mentre quel suo viso sempre luminoso era ora come un abisso senza fondo. Si levò così, tra alcuni cori, la denuncia che l'operato degli uomini aveva indotto il Dio in collera e che, per tanto, quei cataclismi erano una conseguenza del divino iracondo.

Mithra, da quel fatidico suono, quando raccontò all'amato Sal di ciò che aveva visto nel Sogno, non fu più la stessa; lui però la seguì comunque ovunque, senza domandarsi né come e nemmeno perché.

Come spinta da una energia sconosciuta, la fanciulla girovagò in lungo e in largo per quel regno malandato. Lì dove doveva, si fermava e operava carità. Laddove era necessario, impiegava il suo tempo per lenire i malati e i sofferenti. Sal, fedelmente al suo fianco, si batteva contro i marrani e le creature selvatiche che, spesso, li aggredivano; era inoltre un ottimo cuoco, e sapeva bene come accamparsi anche nei posti più impervi. Per tre lunghe danze i due girovagarono, guadagnandosi lentamente una ricca nomea: di una santa e il suo cavaliere, giunti per ripristinare ciò che di buono c'era nel cuore degli uomini.

Un suono accadde, che fermatisi a riposare presso un ruscello, Mithra rimase ferma in silenzio. Sal, sempre vicino a lei, intonò un canto per rassicurarla e iniziò a suonare. Lei però, di lì a poco, lo interruppe.

«Sal» iniziò, tremante.

«Dimmi».

«Viaggiamo da così tanto. Ancora non so se ciò che ho visto nel Sogno sarà realtà o meno. Ogni nuovo dì ho paura che ti capiti qualcosa, ma il pensiero che tu non sia qui, vicino a me, mi terrorizza. Avresti potuto abbandonarmi tante volte: perché mi hai seguito fin qui?»

Sal sorrise e si avvicinò a lei, abbracciandola.

«Per starti vicino».

 

20.3 388° Danza Solare

 

Sal stava a terra, ferito e agonizzante. Su di lui un manipoli di soldati lo tenevano ben fermo, puntellando le armi; se avesse fatto un movimento sbagliato, o al primo comando del Sommo Sacerdote, l'avrebbero infilzato.

«Mithra! Mithra!» gridava.

Lei era poco più avanti, vestita di bianco. Camminava accompagnata da molti sacerdoti, lungo una scalinata bianca. Sal la chiamò, fin quasi a perdere la voce. Lei però non si voltò. Quando giunse in cima, fu distesa su di un altare e il più alto tra i sacerdoti impose le mani sul ventre di lei. Una luce mistica, radiosa e dirompente, li avvolse.

Ci fu un breve momento di disattenzione. Sal, cogliendolo al volo, si liberò e sguainò la sua fidata spada. Corse come un forsennato verso la cima di quella scalinata, mentre, in estremo ritardo, le guardie reagivano alla sua corsa. Le poche che fecero in tempo a frapporsi sui suoi passi, furono assopite rapidamente. Anche i sacerdoti e l'officiante, senza rimorso, furono aggrediti con violenza. Quando finalmente fu presso la sua amata Mithra, la luce che proveniva dal suo corpo esplose e, poco dopo, d'entrambi non rimase più niente.

 

20.4 Grande Casa del Cosmo

 

Sal cadde con il viso a terra. Si sentiva stanco e affaticato. A malapena riusciva a reggersi in piedi ma, nonostante tutto, si sforzò oltre ogni umano limite; barcollò malfermo nel niente, avendo come unico punto di riferimento una grossa costruzione all'orizzonte.

Il luogo dov'era finito aveva un che di idilliaco: un prato di fiori bianchi si estendeva a perdita d'occhio, mentre rovine e colonne, bianche come marmi, svettavano alla rifusa ovunque. Sal non aveva mai visto quel genere di architettura e non comprese, non subito, dove fosse finito.

«Mithra?» chiamò.

Alzò il tono di voce. Non ricevette nessuna risposta.

Lacrime solcarono il suo viso iracondo. La mano tremava attorno all'elsa della spada. Folle e incontrollabile, un passo dopo l'altro, giunse al capezzale del Dio Sole. E lì li vide.

Lei era tra le sue braccia, immobile. Lui, in lacrime, la adagiava su di un giaciglio. Sal gridò con tutto il fiato che avesse nei polmoni e si avventò contro la divinità. Questa, indecisa su come reagire, attese un attimo di troppo e la spada dell'aggressore, con sua enorme sorpresa, si conficcò nel fianco. Spaventato, il Dio Sole emise un lampo di energia e colpì il suo aggressore. Scaraventandolo via, per molti e molti metri.

«Mi dispiace» fece il Dio, sfiorandosi il fianco ferito. Gocce di luce imperlavano i suoi abiti e il pavimento.

«Non avrei voluto che finisse in questo modo. Perdonami».

Sal, che ancora stringeva la sua lama, riuscì a lanciare un ultimo feroce ruggito.

«Tu sia maledetto. Verrà il giorno che la mia spada, di nuovo, ti trafiggerà!»

E sparve in un lampo di luce, bandito per sempre dal quel luogo, a molti, irraggiungibile.

 

20.5 Luogo ignoto

 

I primi a trovarlo furono un gruppi di pescatori. Lo aveva visto prima un bambino del vicino villaggio, che andava spesso lì a giocare. Poco dopo, tre adulti gli erano già vicini e cercavano di rianimarlo. Aveva profonde ustioni su gran parte del corpo; la corazza che indossava si era quasi disciolta su di lui, mentre la spada, misteriosamente, era perfettamente intatta. I pescatori tentarono di rianimarlo, ma non riuscirono a capire le parole che pronunciava. Tutto ciò che riusciva a ripetere era Sal, forse il suo nome.

I pescatori che lo trassero in salvo e gli salvarono la vita, da quel giorno gli affibbiarono un nomignolo: in uso al loro antico dialetto, al nome della persona si aggiungeva un termine che ne descrivesse, in qualche modo, la personalità.

Lui divenne Sal'Olmar.

Sal venuto dal mare.

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Capitolo 22
*** Capitolo 21 - Terzo Crescente dell'Ultima Ide ***


21.1 Primi rintocchi di lode.


Sebastian non si aspettava di trovare un luogo così ampio. Si sentiva ancora affaticato: la battaglia precedente, anche a causa del suo arto fratturato, si era rivelata più ostica. I suoi avversari non erano che sgorbi, armati male e addestrati anche peggio; in circostanze comuni, li avrebbe sgominati senza difficoltà, ma aveva dovuto pagare dazio per la sua disattenzione. A peggiorare le cose, non aveva chiuso occhio o riposato per tutta la durata dei Patti: sentiva le palpebre pesanti come macigni.
Il tempietto in legno in cui era entrato faceva da facciata a una spaccatura nella roccia, che conduceva, tramite un passaggio, ad un’altra caverna. Un posto immenso.
“Sotto la capitale… è come se ci fosse un’altra città. Incredibile” ma la sua sorpresa non era certo conclusa lì: una torre si ergeva dal basso, occupando un’area circolare delineata da un anello di colonne e architravi. Dalla posizione in cui si trovava, il sicario notò dapprima la sommità della torre: una scala solitaria, ormai unica testimone degli antichi fasti, correva a chiocciola verso il cielo alla ricerca di qualcosa che non c’era più. Un piccolissimo accenno di pavimento, un rettangolo di marmo, stava sospeso alla fine dell’ultimo gradino; l’estremo atto di coraggio di quel rudere, per raccontare ai visitatori la gloria di un tempo perduto.
Sebastian allora seguì con gli occhi il profilo della struttura, ammirando come la serie continua di archi, sovrapposti alla parete, oltre a fungere da elemento puramente decorativo, mettessero in risalto le line curve del monumento. Scendendo con lo sguardo, contò a mente un massimo di otto anelli o piani, di cui l’ultimo per metà delineato ormai soltanto da ciò che ne restava di archi e pareti. Sbirciando oltre il bordo in rovina, era certo che la torre fosse cava al suo interno, avendo per tanto due sole stanze di conseguenza: una alla sommità, che conteneva forse una campana, e l’ultima alla base. Ironicamente, la cella campanaria ora si trovava a pochi passi dall’ingresso della torre: la sommità era crollata, rovinando a terra e trascinando con sé la campana e la porzione di colonnato su cui era andata schiantandosi. L’impatto doveva essere stato tremendo, dal momento che le fondamenta avevano ceduto facendo pendere da un lato la torre e allagando per metà l’anello di colonne ancora intatte. “Certa gente non sa proprio prendersi cura delle proprie cose” ironizzò la Serpe, nonostante comprendesse che i danni alla struttura erano stati provocati da qualcosa di molto più dannoso dell’uomo. Forse, un dio.
Sebastian raggiunse presto un nuovo punto da cui osservare meglio la torre. Una scalinata scolpita nella roccia scendeva sul fianco della caverna, giungendo in uno spiazzo a strapiombo sul vuoto. Quivi mani artigiane avevano smussato, levigato e disegnato colonne ed architravi; formavano una porzione di rettangolo nella parte più interna del costone di roccia, aprendosi poi la torre tramite un ponte di legno.
«Una topaia degna di voi, grande madre!» gridò allora il sicario, consapevole che l’eco del suo veleno avrebbe rimbombato nella caverna. Così fu. La sua voce sprezzante, s’impregnò del suo dileggio e corse ad informare la dea Cipride che lui era sempre più vicino. Poi la vide, affacciarsi all’interno di un anello e sporgersi dagli archi.
«Bifolco!» berciò. «Essere inferiore! Profani la mia casa! Assopisci i miei figli! Mi insulti e mi umili! Ho diritto alla mia vendetta, dovrai pagare col sangue per ciò che hai fatto! E dopo di te, i tuoi amici. O forse pensi di poterti prendere la mia testa? Sei un folle. Sì, cos’altro potresti essere: un folle privo di senno!»
Sul volto di Sebastian capeggiò un sorriso maligno. Spalancò le braccia e fece pochi passi in avanti.
«Non siete la sola che cerca vendetta, grande madre. Non siete la sola che brama vedere qualcuno affogare nel suo stesso sangue. Vedete, sarei una brutta persona se avessi mentito ai miei compagni, pur di avere l’occasione di essere qui e darvi la caccia». Rise e fece spallucce. «Ma in realtà, io sono una cattiva persona. Mi hanno pagato profumatamente per staccarvi la testa dal collo e non ho intenzione di fallire: ne va della mia reputazione!»
Un grido di rabbia seguì. «Per così poco dovevano addormentarsi i miei figli?»
«Non state guardando la cosa dalla giusta prospettiva», replicò l’altro, corrompendo il viso con una smorfia indisponente. «I vostri figli adorati ora dormono per una giusta causa: la mia ricompensa. Vi sembra poco?»
Un altro urlo emerse dal torace della dea. Occhi vispi e maligni si aprirono nel buio della caverna, e lentamente presero a risalire verso l’alto, arrampicandosi lungo le pareti di roccia.
«Miei figli adorati!» chiamò la Grande Madre. «I vostri fratelli chiamano! Quest’uomo è sporco del loro sangue: banchettate sul suo cadavere!»
Rapidamente, Sebastian si fiondò verso il pontile di legno e vi giunse esattamente a metà. Le Orme Bianche, furono presto ammassate ai due lati dello stesso. Ora che erano prive dei caratteristici manti bianchi, il sicario poteva finalmente vederli per quel che erano: creature amorfe, solo vagamente umane, prive di pelle e deformi. Esseri che nemmeno la luce del divino sole amava riscaldare, poiché essi erano ripugnanti. Allora la Serpe alzò la sua spada e, fissando bene un braccio attorno a una delle funi portanti, lanciò un ultima invettiva.
«Spero tu abbia ancora fiato in gola per gridare Grande Madre, perché tra poco metterò a dormire i tuoi schifosi figli!»
E tagliò.


21.2 Rintocchi di Solstizio


Rosanne aveva passato la mattinata a ricongiungersi con tutta la banda di mercenari, partiti in missione assieme a lei, Mithra e Claudiette. Gunmar le fece da cicerone, mostrandole il luogo ove si erano rifugiati e spiegandole anche che cosa era successo nel contempo.
«Eravamo accampati poco distanti dal bosco. Nessuno di noi si aspettava una sortita del genere! Ma la Luna nel cielo e il caos nel regno sono stati un tiro mancino del fato: un drappello di cavalieri ci ha scovati e ha tentato di arrestarci con la forza. Ovviamente abbiamo risposto all’aggressione ma non eravamo pronti. Alla fine ho ordinato la ritirata, e l’unica soluzione era addentrarci nel bosco!»
Rosanne si guardò intorno. La capitale si ergeva su sette colli ma, tra ognuno di questi e intorno, una fitta boscaglia si estendeva e copriva, in particolare, tutto il versante settentrionale fin dove l’occhio poteva ammirare. Dal momento che la boscaglia era a un livello notevolmente più basso rispetto alla città, e poiché quel bosco era comunque sotto la benedizione della dea Luna, nessuno si era mai azzardato a danneggiarlo. Solo i taglialegna avevano accesso libero ad esso e, inoltre, proprio in virtù del fatto che le foreste erano sacre alla Luna, erano anche i soli ad avere permesso speciale di officiare antichi riti propiziatori.
«Come siete arrivati qui?» domandò la donna, curiosa.
«Una cosa assurda! Ci siamo persi, abbiamo vagato fino a ieri senza trovare una via di uscita. Non puoi capire: questo posto è peggio che un labirinto! Abbiamo girato in tondo non so quante volte, poi Vlad ha notato un lago. E indovina? C’era una scala! Una scala! E indovina? Abbiamo trovato una tribù di taglialegna!»
Rosanne inarcò un sopracciglio. «E cosa c’è di strano?»
Gunmar sorrise. «Che non sono quei taglialegna. Capisci? Sono eretici: quelli che non vollero scendere a patti con il Sommo Sacerdote e l’Ordine, e si dispersero nei boschi».
«Incredibile» fece stupefatta la donna.
Gunmar non riuscì a trattenere l’enfasi. «Questi tizi vivono qui da solo il divino Sole sa quanto! Non ci hanno ospitati ma ci hanno detto di aver ricevuto dalla loro dea il compito di farci passare e condurci qui».
Rosanne si guardò nuovamente intorno. «Qui?»
«Questa è l’antica città dei taglialegna!» rispose l’uomo, visibilmente emozionato. «Questa città, o ciò che ne resta, è la più antica costruzione mai eretta dall’uomo. E risale al periodo perfino precedente alla nascita della Prima Sposa!»
«Frena Gunmar, aspetta». La donna, visibilmente confusa, agito le mani per interrompere l’altro; e subito aggiunse: «Io sono arrivata qui da un ascensore, che porta a una chiesa, che a sua volta fa parte della vecchia Ras Alhague. La vecchia capitale era in rovina, c’erano i resti dei precedenti abitanti ovunque e un sigillo del Sommo Cardinale Tabit Ori che…»
Allora Gunmar a sua volta la interruppe, dicendo: «Lo so da dove vieni, i taglialegna ce l’hanno detto. Ci hanno raccontato tutto: una grande fetta del loro popolo si è spostato assieme ai membri dell’Ordine e alle famiglie fondatrici della capitale. Da dove pensi che abbiano preso il legname per alzare una città? Avevano un patto con il Sommo Sacerdote: avrebbero potuto continuare a venerare segretamente la dea Luna, in cambio del legname.
Per motivi che nemmeno loro sanno, quella parte della loro tribù si assopì quasi completamente nell’incendio che divorò la vecchia capitale. Gli unici passaggi, quello che hai preso tu, e quello usato da noi, erano conosciuti solo alle due tribù di taglialegna. Assopiti gli uni, sono rimasti solo quelli incontrati da noi. Ma, ovviamente, chi sarebbe così folle da entrare nella foresta sacra alla Luna, ora che la Luna è addirittura in cielo?»
Rosanne restò un attimo in silenzio, come pensosa. Poi esordì: «Non mi piace tutto questo, Gunmar».
L’uomo espresse perplessità. «Che intendi?»
«Sappiamo che sotto la Grande Cattedrale c’è la casa della Prima Sposa e che, secondo Mithra, nasconde un altro grande segreto: qualcosa di potente, che perfino il Dio Sole teme e che l’Ordine ha voluto sigillare.
Non esiste nessuna via per arrivare alla vecchia capitale. Ci hanno letteralmente costruito la nuova sopra, e il colle su cui era stata eretta è in parte sprofondato rivelando la presenza di un sistema di caverne e grotte. Mi segui?»
L’altro annuì. «Direi di sì».
«Non vi è accesso diretto alla vecchia capitale, se non usando i passaggi delle Orme Bianche. Tuttavia, seppure tu trovassi queste vie, due servi della dea erano a guardia. Perché? Perché proteggevano ciò che Mithra sta cecando!
Ecco cosa penso Gunmar: l’insediamento originale cresce perché, come leggenda vuole, la Ventesima Sposa nasce esattamente dove era nata la Prima. Crescendo, si rivolgono ai taglialegna per farsi aiutare. Una bella fetta accetta, l’altra si disperde. Quelli rimasti però scovano, forse per caso, l’oggetto che anche noi dovevamo trovare. Il Sommo Cardinale, che intanto aveva allargato la città, decide di seppellire quel segreto col fuoco: assopisce tutti, incendia tutto e sigilla la porta.
Poi, non so come, mettono una divinità a sorvegliare quel posto, sicuro che nessuno risalirà verso la vecchia capitale per la via che avete usato voi. Forse qualche taglialegna sopravvive nella parte povera della nuova città, così da fuoco anche a quella per essere sicuro di liberarsene.
O forse sto solo farneticando».
Gunmar scosse il capo. «Non saprei dirti. Il tuo ragionamento fila; cosa può mai esserci sotto questa benedetta capitale di così importante, da arrivare a commettere simili atrocità?»
«Mi è venuta a mente prima, mentre parlavo. Te la ricordi la storia della Prima Sposa?»
«Certo, tutti la sanno: salvò il mondo e…»
«Non quella, l’altra».
Gunmar trasalì. Si alzò in piedi. «Tu pensi che Mithra sia venuta qui per prendere Eclissi?»
Rosanne lo guardò. «Claudiette è stata assopita. Voi siete allo sbando. Sebastian è disperso e lei non si sa dove sia. Secondo te?»
«Per la barba di Giove».
«Se Mithra trova Eclissi e, ammesso che riesca a maneggiarla, nessuno potrà più fermarci.
Nessuno».


20.3 Ultimi rintocchi di solstizio


Meroll era ormai certa del da farsi: avrebbe preso una delle carovane fuori città, per fare ritorno al suo villaggio natio. Mancava da così tanto tempo; si domandò in che condizioni fosse il piccolo tumulo di pietre che aveva fatto per sua figlia. La piccola Serene: quel ricordo non l’aveva mai abbandonata. Ricordava ancora la strana visione che aveva avuto sotto l’Arco del Trionfo, ed era ormai certa che non fosse più un caso. Qualcuno o qualcosa le stava dicendo che era giunto il momento di tornare a casa. Non era ancora sicura di cosa avrebbe fatto di preciso, ma una volta arrivata lì, senza dubbio, avrebbe omaggiato il ricordo della sua amata Serene e, solo dopo, avrebbe deciso il resto.
L’ingresso della città era stato eretto sul colle più basso dei sette, che si innalzava lentamente dal livello del mare come una rampa naturale. Approfittando di questa conformazione, col tempo l’accesso alla capitale era stato ulteriormente fortificato: una struttura che ricordava l’Arco di Trionfo, dunque quadrata e scolpita nel marmo, ma di portoro fino ai capitelli e pentelico sulla parte superiore, poggiava su un piedistallo a gradini ricavato anch’esso dal marmo pentelico. La singola facciata era caratterizzata da una costruzione a volta con un solo arco, da cui lati si alzava o si abbassava l’enorme e robusto cancello in ferro.
Ai lati dell’arco, due imponenti torri si alzavano poco oltre l’architrave, congiungendo internamente le mura fortificate con gli ambienti di guardia. Meroll ricordava che tale misura era stata adottata dopo che Rober il Senza Padre, con la complicità di alcuni soldati e popolani, era riuscito a farsi aprire il cancello della capitale, entrandovi trionfante e senza assediarla, come aveva orchestrato il Sovrano dell’epoca.
Una piccola area esterna, al termine del ponte d’ingresso, era stata dedicata alla regia dogana: qui era possibile trovare ogni genere di merce diretta a Ras Alhague, oltre che carovane in attesa di ripartire. Ai commercianti, abilitati all’ingresso nella capitale dopo aver pagato un dazio, erano concesse alcune vie secondarie costruite appositamente per far facilitare i cavalli e i carri merci; questi percorsi erano collegati a un sistema di chiuse, in modo tale che potessero essere inondati in qualsiasi momento, cosicché nessuno le adoperasse per infiltrarsi rapidamente in città.
Meroll si avvicinò all’area delle carovane, cercando qualcuno diretto verso nord. Trovò rapidamente un mercante, riconoscendo dall’accento la sua provenienza. Gli si avvicinò, porgendogli una piccola sacca di monete.
«Ho bisogno di un passaggio; oltre a pagarvi il servigio, sono abile a cacciare, ad occuparmi delle vettovaglie e a combattere. Posso proteggervi durante il cammino».
Era costume offrire danaro per un viaggio ma, in molti casi, era ancora più abitudine offrire altro al proprietario della carovana: una persona capace di combattere o cacciare, ad esempio, era assai gradita durante i viaggi verso il freddo nord; in caso di incidenti, vuoi di banditi, vuoi di danni alla carovana, il mercante e chi trasportava avrebbero resistito più a lungo. L’uomo, per tante, accettò ben volentieri, ma di lì a poco un’altra mano paventò dal nulla un altro sacchetto di monete.
«Mi aggrego alla signorina», fece la voce gelida di un uomo con abiti sacerdotali. «Due persone capaci di combattere sono meglio di una e, inoltre, avrete dalla vostra anche la benedizione del divino».
Il mercante si ritenne particolarmente fortunato, quel dì: due sacchi d’oro, una cacciatrice e un sacerdote al seguito, entrambi condottieri. Cosa poteva andare storto?
«Spero condividere il posto con un uomo dell’Ordine non sia per voi sgradito, signorina».
«Signora» puntualizzò lei.
«Perdonatemi, allora» e si apprestò ad eseguire un baciamano elegante. Meroll, benché ne fosse infastidita, si finse cortese e accennò un sorriso. «Mi chiamo Undine Basile, lieto di accompagnarla in questo viaggio».
«Io sono Meroll. Il piacere è mio».
A dispetto della loro cortesia, una strana tensione c’era tra i due: il sacerdote avvertiva ciò che si nascondeva nell’animo della donna e ne aveva, senza ragione, un vago timore; lei riusciva ad avvertire, con i suoi sensi sviluppati, che quell’uomo dovrebbe essere più vecchio di quanto suggerito dal suo aspetto; ed emanava uno odore particolare, come di terra e fiori tombali.

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Capitolo 23
*** Capitolo 22 - Quarto Crescente dell'Ultima Ide ***


22.1 Primi rintocchi di lode


Se aprire gli occhi costasse fatica e impegno, forse il tentativo di Mithra di risvegliarsi avrebbe meritato un posto nell’olimpo delle gesta eroiche. Inizialmente, fu come se fosse cieca: annaspò, cercando aria neanche fosse emersa giusto in tempo da un profondo abisso; le mani cercavano freneticamente qualcosa a cui aggrapparsi, trovando solo il vuoto e il freddo contatto del pavimento. Le gambe le rispondevano a malapena, insubordinate ai comandi e agli stimoli. Lentamente gli occhi ripresero luce e, con essa, anche la memoria di cosa le era capitato.
Dopo aver aperto il passaggio segreto con la melodia del pianoforte, aveva percorso una breve scala in pietra che conduceva ad una stanza di notevoli dimensioni. Sul fondo, sola e abbandonata, una casupola di legno si ergeva su quel che un tempo doveva esser stato un giardino. Il viso di Mithra fu rigato da lacrime, che sgorgarono inattese al riaffiorare di un sentimento dimenticato. Seppe, per le storie che le avevano raccontato e per la tradizione dell’Ordine, che quella era la casa dove la Prima Sposa si era destata; dove era stata cresciuta, prima che si rivelasse la salvatrice del genere umano.
La fanciulla era avanzata a passo lento, aprendo la porta della vecchia casa dolcemente e fermandosi poco dopo l’uscio. D’incanto, l’abitazione aveva preso colore: il sole splendeva fuori dalle finestre, il cielo era di un azzurro intenso e una dolce aria d’estate spirava oltre la porta. Una ragazzina dai capelli neri le era corsa di fianco Mithra, ma il suo fantasma era svanito poco dopo. Di lì a poco altri due figure erano apparse: un uomo che stava sistemando un attrezzo da lavoro e sua moglie, poco più in là, che preparava il pranzo. Mossa dall’istinto, Mithra aveva tentato di raggiungerli ma li vide svanire in fumo e cenere quando fu a pochi passi dallo sfiorarli. Le sue lacrime aumentarono, esplodendo in un pianto a dirotto che l’aveva costretta a cadere sulle ginocchia. A quel punto aveva perso i sensi, rivedendo nel suo Sogno ciò che era stato nel passato e che era accaduto alla Prima Sposa e al suo amato Sal.
Con estrema fatica, infine, Mithra riuscì a tornare in piedi. Si guardò attorno, col viso sporco di lacrime e terra, provando una fitta al cuore ogni volta che si soffermava sulla desolazione e l’abbandono che si erano rampicate come ragnatele e polvere ovunque. Un moto di rabbia e risentimento ora la dominavano, dandole la forza necessaria per avvicinarsi al quella spada che stava affissa con ganci e corde, a dispetto del luogo in cui era, sul caminetto in pietra. Con poca difficoltà Mithra la prese e la estrasse dal fodero. Come ridestata da un sonno incantato, l’arma brillò di luce dorata e fu attraversata da scariche elettriche; intanto che lei stava specchiandosi nella lama, l’emblema del Sole marchiato sul suo corpo rispose all’unisono e fu come se una strana eufonia avesse avvolto il luogo.
Di nuovo, tra rinnovate lacrime, la donna sentenziò:
«…quanto a lungo abbiamo atteso, Sal. Ti prometto che presto tutto questo avrà fine».


22.2 Lode inoltrata


Si narra, nelle tante ballate e nelle tante canzoni del regno, che il più grande dei guerrieri del Re avesse chiesto di rimanere a combattere fino alla fine delle sue danze. Allora il Sovrano di Gennaio, pur intristito di vedere il suo caro amico cimentarsi ancora in battaglie pericolose, ma non volendo venire meno alla sua richiesta, designò un luogo ove avrebbe potuto dare battaglia a chiunque egli volesse; così Galgamisul trascorse il tempo affrontando mille uomini e ancor più bestie feroci, per il solo divertimento. Ma quando il suo Re e suo caro amico Eabani Sal’Olmar si assopì, il campione del regno partì in un lungo e periglioso viaggio credendo che avrebbe trovato l’eterno risveglio. Della sua sparizione pianse tutto il regno, e il Sovrano di Gennaio che succedette Eabani volle erigere l’Arena Massima in loro ricordo e onore.
Il dì che si faceva risalire all’assopimento di Eabani e alla partenza di Galgamisul era per il regno una festa importante. Del ricordo di quell’amicizia, tutti si fermavano, dagli uomini devoti agli eretici, dai più valorosi ai più meschini; nell’Arena Massima, dove le statue dei due compagni si ergevano solenni, grandi lotte si tenevano in loro memoria. Prima di tale evento, un grande banchetto era allestito ai gladiatori, mentre cibo era servito ai coloro che erano riusciti a ottenere posti sulle tribune.
Il Sovrano di Gennaio metteva a disposizione le sue cucine e quelle dei nobili della sua famiglia affinché le vivande più ricercate e delicate fossero preparate; il Sommo Cardinale, invece, inviava i suoi sacerdoti presso i gladiatori affinché fossero benedetti dalla luce divina e consegnati, qualora dovessero addormentarsi, alla Sera.
Durante il grande banchetto però serpeggiava una strana paura, poiché molti sapeva che quello poteva essere il loro ultimo duello. Sicché, dal momento che non nel cuore di tutti gli uomini era di casa il coraggio, alcuni tenevano pronte una o due monete d’oro, ottenute illecitamente, per pagare cuochi o commensali: gocce di veleno da versare nei boccali, cibi avariati o altri trucchetti per facilitarsi la vittoria e la sopravvivenza. Aulix bevve e mangiò senza timore, giacché il suo corpo non avrebbe sofferto di alcunché; ragionò bene, tuttavia, su chi avvisare del pericolo e chi no. Sapeva in quali uomini correva la paura e la malignità e in quali avrebbe trovato fedeltà e coraggio: così divise gli uni dagli altri, lasciò morire gli indegni e salvò, ingraziandosi, chi lo meritava.
Frattanto che mangiavano, il lanista provvide a raccontare la storia di Galgamisul ed Eabani ai gladiatori, concludendo quel breve e non molto preciso racconto con tono solenne:
«Rammentate che vi è lo spirito di grandi eroi fra queste mura. Che su questo tavolo hanno mangiato e bevuto valorosi gladiatori; ed anch’io, ai miei tempi, ho superato scontri e il destino fatale per essere qui a parlarvi. Non cedete il passo. Non temete l’ora ultima. Combattete con coraggio e con forza! Ciò che non avete avuto qui, quando vi siete svegliati tra le cosce di vostra madre, lo avrete dall’altra parte: la Sera vi è stata già promessa, è vostra. Eppure, non si è mai sentito di un gladiatore che abbia varcato la Grande Casa del Cosmo da pavido o da codardo! Perciò, se questo sarà l’ultimo dì, che almeno vi veda andare trionfanti lì dove i vostri e i miei fratelli ci attendono!»
Aulix sorrise. Certo era un discorso di un certo effetto, utile per lavarsi via la coscienza e per convincere dei poveri bifolchi amarti a pugnalarsi gli uni con gli altri. Considerando quanto a cuore avevano alcuni la propria pellaccia, tanto da assicurarsela con qualche soldo, era evidente che le parole coraggio e gloria erano solo fandonie e poco altro. La Luna che dalla Grande Casa del Cosmo proveniva e che dei sogni umani era custode si guardò attorno divertita.
“Poveri stolti” e terminò il suo pranzo.


22.3 Primi rintocchi di Solstizio


Ser Alcor si avvicinò all’Arena Massima vestito con una grossa mantella e un cappuccio atto a coprirgli il volto. Si favorì di un vecchio e conosciuto costume, cioè quello di alcuni nobili: fra molte caste del sangue blu, le lotte tra gladiatori erano ritenute spettacolo per il volgo e gli zotici. Il sangue e le battaglie attiravano soltanto gli uomini più vicini alle bestie. Sicché, per un nobile, solo il teatro e la musica lirica potevano ritenersi attività edificanti. Tuttavia, non erano certo pochi i nobili che amavano guardare i gladiatori darsi battaglia, sicché erano soliti coprirsi bene il volto e andare ad assistere ai giochi di nascosto. Nonostante col passare delle danze il vedere un volto incappucciato fosse ormai associato alla nobiltà della persona, nessuno si sarebbe certo permesso di denunciarlo e denigrarlo pubblicamente. In questo modo, ser Alcor poté facilmente introdursi nell’Arena Massima senza che nessuno lo riconoscesse.
Il cavaliere si avventurò nella cavea: l’insieme di gradinate diviso in settori, dove avrebbe trovato posto per sedersi. L’intera struttura era in marmo e suddivisa, tramite fasce divisorie in muratura, in cinque settori orizzontali riservati a tre diverse tipologie di pubblico: al settore inferiore, costituito da gradini ampi e bassi che ospitavano seggi di legno, al costo di dieci Raggio d’oro, avevano accesso i nobili e la famiglia reale.
La seconda fascia, al prezzo di due Raggi d’argento, era costituita da una sezione di venti gradini di marmo e un’altra superiore di undici gradini lignei, posti all’interno del colonnato che coronava la cavea e riservato alle donne. Infine, la parte superiore al colonnato era riservata alla plebe, costretta a stare in piedi.
Verticalmente, i settori erano scanditi da scalette e accessi alla cavea, protetti da transenne anch’esse in marmo. Alle due estremità, laddove vi era l’asse minore, esternamente precedute da una parte sporgente rispetto al corpo dell’intera struttura: sull’avancorpo si trovavano due palchi: entrambi formavano, se visti dall’alto, l’emblema solare ed erano destinati rispettivamente al Sommo Cardinale e al Sovrano di Gennaio.
Le uniche altre strutture a svettare oltre gli spalti, ma molto meno dell’avancorpo, erano le balaustre su cui stavano i banditori che ripetevano, urlando, le parole delle due alte cariche del regno, in modo tale che fossero udibili a chiunque in tutta l’arena.
Ser Alcor scelse di sedersi nella seconda fascia di gradinate, posizionandosi il più vicino possibile all’avancorpo, così da poter guardare meglio il Re e il Sommo Cardinale. Li vide entrare di lì a poco, superando i passaggi nella cavea a loro esclusivamente riservati. Le due più alte figure di potere dell’intero regno erano solite incontrarsi sono in evenienze come quella odierna, eppure Alcor credette di vedere, nel modo con cui parlavano, una strana familiarità. L’intuito e i ricordi dei giorni passati con l’amato fratello Mizar gli facevano leggere, laddove pochi avrebbero fatto caso, un filo che legava quei due uomini potenti e irraggiungibili. Si domandò se non fosse quello il motivo per cui Artume aveva scelto di diventare un gladiatore.
“Sapeva che quest’oggi sarebbero apparsi, come lo sa chiunque altro. Forse non le bastava mostrarsi al popolo, apparendo nel cielo: ha in mente altro, sicuramente. Gareggerà oggi, davanti a loro, e farà qualcosa. Lo farà davanti a tutto il popolo e davanti alle due figure più potenti del regno: scoccherà una freccia avvelenata nel cuore del nostro mondo e lo farà davanti a tutti. Avrà organizzato tutto questo nei minimi dettagli, a perché? Cosa spera di ottenere?”
Le domande del cavaliere avrebbero avuto presto risposta, sebbene, in cuor suo, ne ebbe timore: ammise di non voler sapere cosa la dea Artume, ora Aulix, avesse in serbo. Aveva parlato di volere un castello, ma cosa se ne faceva un divinità come lei di un palazzo, quando aveva definito i monumenti umani senza valore? Forse le mire di una divinità erano ben oltre la comprensione di un misero uomo, si disse. Lo vide, infine. Colui che fu il giovane servo di Mizar Merak, il Satellite della dea Luna, calcò il suolo dell’arena nel gruppo di dieci gladiatori. Girarono, marciando, intorno agli anelli degli spalti, per concludere il passo militare presso l’avancorpo. Qui il Sovrano di Gennaio, e poi il Sommo Cardinale, si avvicendarono a parlare a quei guerrieri e al popolo. Fu allora che ser Alcor capì, o meglio vide: distinse chiaramente una strana energia diramarsi intorno. La voce del Re e del Sommo Cardinale, similmente alle onde dell’acqua colpita da un sasso, si espandevano sempre più; i banditori sulle balaustre, irrorati da questa misteriosa energia, la ritrasmettevano amplificata inondando tutta l’Arena. Il cavaliere, che ne era stranamente immune, intuì la vera natura di coloro che stavano ora parlando.
“Sono Satelliti. Il Re e il Sommo Cardinale… sono semidei! Stanno usando i loro poteri sulle persone! Ma non dovrebbe essere loro vietato? La dea Gaia non stabilì che ai Satelliti era proibito abusare dei propri poteri per control-lare le vite e il destino degli uomini? Eppure eccoli, due di loro, che parlano e soggiogano le persone!” Quella rivelazione lo terrorizzò. Comprese di esserne immune perché la dea Luna gli concedeva la sua protezione e, in un lampo, comprese anche che suo fratello aveva avuto quella protezione fin dal giorno in cui aveva preso Aulix nella sua casa. Mizar, il suo amato fratello, aveva visto la verità molto prima di lui ma non aveva potuto confidarglielo: non aveva potuto cercare il suo aiuto, perché come tutte le persone ora presenti nell’Arena, anche Alcor era stato a lungo tempo schiavo dei poteri di quegli esseri divini. Lacrime copiose, di colpo, gli solcarono il viso.
«Fratello mio… perdonami. Sola ora io vedo. Soltanto adesso io so che il tuo sacrifico non è stato vano. Finalmente so cosa vuole fare Artume: lo avevi prima di me e avevi deciso di aiutarla. Oh Mizar, ma era davvero necessario che tu ti addormentassi perché io comprendessi l’inutilità della mia esistenza?»
Nelle grida generali, nella ritrovata armonia e coesione, schiavi di un Sovrano che detta legge su chiunque e di un Sommo Cardinale che impone l’ordine dove vuole, iniziarono i giochi celebrativi. I gladiatori avevano già preso a darsi battaglia, incitati da un popolo, ora, stranamente in festa.

Presto però quelle catene sarebbero state spezzate, perché la Luna dall’alto della Grande Casa del Cosmo tendeva il suo arco ed era pronta a colpire.

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Capitolo 24
*** Capitolo 23 - Quarto Crescente dell'Ultima Ide ***


23.1 Rintocchi di Equinozio


Rosanne, Gunmar e un piccolo drappello di mercenari avevano deciso di risalire lungo il percorso che la donna aveva usato per fuggire. Scoprirono, non senza dispiacere, che l’ascensore non permetteva di risalire, poiché evidentemente il sistema di leve e catene si era rovinato definitivamente quando la guerriera lo aveva usato. Decisero allora di esplorare i resti dell’antica città dei taglialegna; si mossero dal santuario in rovina verso l’alto, fiancheggiando il costone di un dirupo: una scala scavata nella roccia li conduceva ad un’altra in legno, che fiancheggiava quello che doveva essere stato un acquedotto. Proseguirono entrando in quello che doveva essere il canale di manutenzione, da cui però scorreva ancora abbastanza acqua da bagnarli fino al ginocchio.
«Una città di eretici a due passi dal cuore dell’Ordine», commentava sorridendo Gunmar. Quando giunsero alla parte più elevata del borgo, si resero conto che i taglialegna e i primi fondatori di Ras Alhague avevano convissuto a stretto contatto per molto più tempo di quanto si potesse immaginare.
Il rosso si grattò la barba, fingendo di trarre dal quel gesto maggiore acume. «Devono aver pensato di sfruttarli fino a quando gli è convenuto. Tanto, quando hanno iniziato a importare il legno dai confini occidentali, non avevano più bisogno di portare rispetto alla dea Luna. Quella di sterminarli perché avevano scoperto di Eclissi deve essere stato un utile pretesto».
«Sono più sorpresa dal fatto che non si siano scannati da soli molto prima», aggiunse Rosanne.
Lui ridacchiò. «Avranno fatto buon viso a cattivo gioco».
Inoltratisi maggiormente nel luogo, si imbatterono molto spesso in attrezzi da falegnameria di ogni genere e foggia. Come molti sapevano, le compagne del legname di Antares avevano da molte danze esportato tale materiale presso la capitale, dopo aver occupato con la forza quei territori che appartenevano alle originarie tribù eretiche. Nel passato, tra Ras Alhague e Antares, si estendeva uno dei più grandi boschi conosciuti, tagliato a metà soltanto dall’enorme fiume che scorreva tra i colli della capitale; il versante boscoso che dava verso il regno occidentale era stato sottratto alla dea Luna impunemente, creando delle vere e proprie aree di disboscamento che, col passare delle danze, avevano trasformato la valle in un arcipelago di boschi e boschetti. Tra un’isola verde e l’altra, le compagnie di falegnami avevano creato veri e propri villaggi che, con il trascorrere degli eoni, si era trasformato nella città di Antares: case sepolte tra gli alberi o alberi sepolti tra le case, ormai la differenza era nulla.
«Ci sono ancora progetti e disegni», fece Gunmar indicando delle incisioni. «L’intera struttura della prima capitale è qui», commentò scivolando con le dita lungo i solchi. «Per arrivare alla chiesa da dove sei scappata, possiamo sia salire su questa torre o fare il giro più lungo».
Notarono dopo che l’impianto urbano originario era cambiato col tempo, poiché le crepe che davano sulle grotte sotterranee avevano creato dei dislivelli innaturali. Così, l’originaria città si era suddivisa su piani, a seconda di come e di quanto il terreno aveva ceduto. Dovettero quindi arrampicarsi, usando le macerie, palazzi distrutti e scale malmesse fino ad aprirsi un varco, sfondando una parete malconcia, per uscire nella piazzola che fiancheggiava la chiesa: quella da cui era stato possibile accedere alla torre campanaria e aggredire l’arciere Golgo.
«Mi stavate aspettando?»
Seduta su un pezzo di pietra stava Mithra, con le gambe incrociate e l’aria di chi era ormai scevro alle moine del tempo. Rosanne le fu subito incontro per abbracciarla, ma si fermò quando vide la spada poggiata affianco a lei.
«È ciò che penso?». Mithra annuì.
«Ci sono riuscita, amica mia. Missione compiuta».
Rosanne titubò. «Molti di noi si chiedevano cosa c’era sotto la Grande Cattedrale di così importante. Abbiamo creduto che si trattasse di qualcosa utile per avvalorare la nostra causa: screditare il Sovrano o aizzare il popolo contro il Sommo Cardinale. Ma perché Eclissi?»
Mithra guardò brevemente la spada. L’elsa terminava con un opale tondeggiante, che era rimasto danneggiato fin da quel lontano dì; scariche elettriche, imbrigliate nel monile, testimoniavano la ferita che Sal inflisse al Dio Sole.
«Sal non sapeva di avere avuto in dono una spada ricavata dalla materia oscura. Né sapeva -come avrebbe potuto- che la sua arma ha il potere di ferire gli dei: una lama così potente da far sanguinare finanche il più potente tra essi». Rosanne seguì, confusa. «Il mio obiettivo –anzi, il nostro obiettivo è sempre stato quello di mettere fine all’Ordine e liberare il regno dall’oppressione della Corona. Tuttavia, se tagli semplicemente una testa, prima o poi un'altra seguirà al suo posto».
Gunmar replicò: «Ma un giorno la gente capirà e non si farà più ingannare!»
Gli occhi di Mithra lo interrogarono. «Non si tratta solo della gente, e non si tratta soltanto di chi la governa. Non ti sei mai domandato come mai, da quasi novemila danze, niente sia realmente cambiato? Ci sono state guerre civili, in passato come poche danze fa; la gente si ribella, quando non sopporta più i soprusi. Eppure, nulla cambia».
«Non ti seguo» ammisero gli altri due.
«Sono Satelliti». Un silenzio imperò tra i presenti. «Il Sovrano di Gennaio e il Sommo Cardinale d’Agosto sono semi-dei. Ciclicamente, trasmigrano da un umano all’altro e mantengono, da chissà quanto tempo, un dominio assoluto sugli umani. Uno ha la facoltà di imporre la sua volontà sugli altri; il fratello, invece, il potere di riportare ogni cosa in ordine, sedando ogni genere di perturbazione».
«Sai benissimo che agli dei non è concesso tutto questo! La dea Gaia impose severe regole a chiunque dei suoi fratelli o sorelle avesse avuto intenzione di scendere tra noi. Lo sanno tutti!» protestò Gunmar, incredulo su ciò che stava udendo.
«E tu poi come fai a dirlo?» aggiunse Rosanne. «Non ne hai mai parlato prima, in base a cosa fai queste rivelazioni?»
«Non ricordavo ma ora, invece, sì. Ora ricordo e so la verità. Ero debole allora, mi sono lasciata convincere ed usare. Tutto questo è colpa mia, ed è mio compito portarlo a termine».
Rosanne non seppe cosa dire. Gunmar, invece, era palesemente preoccupato: «Di che parli? Cosa hai iniziato?»
Allora Mithra si alzò in piedi, sfoderò Eclissi e un bagliore dorato circondò la sua figura. Lo Stemma del Sole, ben visibile sotto gli abiti, emerse dai bendaggi sotto cui era nascosto palesandosi a tutti.
«Io sono la Prima Sposa e giuro, su tutto ciò che mi era caro e che mi è stato portato via, che sarò anche l’ultima».


23.2 Nel frattempo


I giochi gladiatorii proseguirono fino ai rintocchi di equinozio come da programma: la Lode, come da programma, era caratterizzata dalla caccia alle belve feroci. Le creature, portate nell’arena da ogni angolo del regno, rappresentavano il vanto dei nobili; la vendita di creature feroci era, nell’alta classe, non solo un passatempo ma anche un motivo di vanto. Fin dalle epoche più antiche, un nobile poteva vantarsi contro gli altri e aumentare il suo prestigio se la sua belva avesse ferito o addormentato quanti più gladiatori possibile.
Non quel dì però. Quando le creature sciamarono ruggendo nell’arena, superando in gran corsa i cancelli, ebbero poco tempo per saggiare la carne degli uomini. Le più fortunate poterono a malapena addentare qualche arto, prima che, improvvisamente, iniziassero a comportarsi in modo strano. Il primo gladiatore ad approfittarne fu Aulix che, rapido, aggredì un leone conficcandogli una spada nel cranio. Vedendo che gli animali non reagivano, anche gli altri gladiatori si fecero coraggio e in breve tempo ebbero ragione delle bestie. Tra lo stupore degli spettatori tutti, quasi nessun condottiero era stato ferito così gravemente da dover lasciare il campo e si procedette allo spettacolo principale.
I duelli tra gladiatori erano certamente la parte preferita dello spettacolo. Gli scontri erano violenti e senza esclusione di colpi. Se contro le belve feroci vi era stata vittoria facile, i giochi che videro gli uomini alzarsi gli uni sugli altri durarono, invece, molto più a lungo e con molta più difficoltà. Tra tutti, Aulix era quello che si rivelò migliore: sapeva maneggiare la spada come se lo avesse imparato alla nascita e si muoveva con agilità quasi animalesca. Lentamente ma inesorabilmente, tra feriti e uomini assopiti, gli scontri diminuirono in numero e quando alla fine Aulix ne risultò campione, il boato della folla acclamò l’avvento de nuovo ed inaspettato campione.
Così, come da tradizione, così come gli era stato spiegato dal suo lanista, il giovanotto fece il giro dell’Arena recandosi infine al cospetto del Sovrano e del Sommo Cardinale. Questi si alzarono, prossimi a dire qualcosa ma si interruppero. Videro il giovane alzare la mano indicando la Luna e, subito dopo, disegnò sul terreno il simbolo lunare: una falce con due punte ben marcate; vi aggiunse, al centro, lo stemma più piccolo del Sole.
Nel silenzio e nello stupore che quel gesto rappresentò, la sua voce la si udì ben chiara.
«Io regno sopra la Notte e su coloro che la attraversano. Io sono la regina dei boschi e delle belve. Io sono la protettrice di coloro che cacciano per sopravvivere.
Io sono Artume!»
A quella affermazione e prima che il caos e la paura avessero il sopravvento sui presenti, il giovane imitò il gesto di pugnalarsi al cuore e, in concomitanza ad esso, il Sovrano e il Sommo Cardinale sentirono come un dolore lancinante afferrarli. Un grido di dolore li colse e riconobbero subito la voce: Cipride, la loro amata sorella, stava chiamandoli disperatamente in preda al terrore, prima di esalare l’ultimo respiro e perdersi per sempre.
E quell’eco straziante fu per loro come una lama conficcata nel cuore.


23.3 Qualche rintocco prima


«Perché devo vedere sempre il tuo brutto muso ogni volta che apro gli occhi?»
Nonostante il piglio ironico e velenoso, Sebastian sentiva dolore in quasi ogni pare del suo corpo. A sento riuscì a mandare a quel paese il fantasma di Lucius, il suo defunto amico e rivale in amore. Lo vide svettare dritto, con ancora le ferite aperte di quando lo aveva assopito a suon di spada, che digrignava i denti mostrando chiaramente il marciume e i vermi che divoravano la sua carcassa.
«E cos’hai da ridere poi? Non è ancora il mio momento. Non ancora. Ho del lavoro da svolgere».
Biascicò lamentandosi. Si alzò a fatica ma era a malapena in piedi quando un violento colpo lo sorprese al costato, alzandolo da terra e facendolo ruzzolare più in là. Rotolò nell’acqua salmastra e fangosa, ritrovandosi a viso all’insù.
La voce di Cipride gli parve sgradevole come non mai.
«Allora, serpe, con chi stai parlando? Hai forse perso il lume della ragione?»
Sebastian rise dolorante. «Perché non vieni a dirmelo di persona?» Un altro colpo lo raggiunse: un servo della Grande Madre, bardato di tutto punto, grugnì sopra il sicario e piantò il piede sul suo sterno, spezzandogli il fiato e danneggiando ulteriormente la gabbia toracica.
«Anche se nessuno è mai arrivato così lontano quanto te, non sono così sciocca da non premunirmi. Ti presento Robert detto il Senza Padre. O ciò che ne resta».
Il cavaliere grugnì ancora, sbuffando oltre la visiera dell’elmo; Sebastian riuscì a scorgere una frazione del suo viso e denotò che qualsiasi cosa fosse adesso non era più umano.
«Quel Robert?» fece sorpreso il sicario. «Quello che ha fondato la Gendarmeria?»
La dea accompagnò la domanda con una risata malefica. «Proprio lui. E chi altrimenti? Il migliore condottiero mai esistito qui, al mio servizio. Avrei voluto disporre anche di Giovanni da Cura ma quel furbastro ha lasciato che il suo corpo fosse dato alle fiamme».
«Che gli hai fatto?»
«Quello che faccio a tutti i cadaveri che arrivano qui da me: gli infondo una scintilla di potere e ne prendo il controllo. Come una madre legata al figlio da un filo invisibile, così io controllo quelli che voi chiamate Orme Bianche a piacimento. Sono come burattini per me».
La Serpe assunse una smorfia di disgusto.
«A cosa pensavi che servisse il Rito del Riposo? Dove credevi che finissero tutti i corpi portati via dalle Orme? Qui, da me. Mi proteggono. Mi tengono compagnia. Lentamente crescono in numero e quando sarà il momento, riemergeremo da questo lurido posto e mi prenderò quello che mi spetta assieme agli altri».
«Non capisco».
«È semplice piccolo uomo: i miei fratelli Bēl ed Anum possiedono rispettivamente lo scettro dell’Ordine e quello della Corona. Mi rinchiusero qui dopo aver tentato di usare il corpo di una Sposa per raggiungere il mio amato Sole ma poi mi proposero un patto: se avessi servito fedelmente la loro causa, creando ordine e armonia tra gli uomini, avrei avuto il mio perdono.
Ma le danze passano e nessuno dei due viene a farmi visita. Le danze passano e del mio amato Sole vedo il volto per pochi istanti. Ed intanto, mandano da me questi corpi pregni di energia solare. All’inizio non capivo, come potevo. Poi un giorno la vidi, chiaramente: uscì dalla mia prigionia per brevi momenti e attorno alla città c’era come una bolla. Una grande e immensa bolla che la circonda e la difende».
«Una bolla?»
«Una barriera. Una gigantesca e lucente barriera, forse capace di reggere perfino al Bacio del Sole».
«E perché mai la capitale dovrebbe avere una barriera?»
«In quanto Sposa te lo posso rivelare, piccolo uomo. Nessuna Sposa si consegna al Dio di propria volontà. Mio fratello Bēl le impone uno stato di tranquillità e l’altro fratello Anum le cancella la volontà. Per una lunga danza, la poveretta con il Marchio è sottoposta a un lavaggio del cervello e, quando inizia il suo Viaggio di Nozze e arriva all’Altare non è che un guscio vuoto. Nulla di più. Nulla di meno. Io fui un caso unico: mi offrii di mia volontà e non ce ne fu bisogno. Ma dopo l’incidente avvenuto con me, il Dio Sole adirato scagliò la sua ira sulla capitale e aprì uno squarcio nel ventre dei colli».
«Sono onorato per la bella lezione di storia».
Lei rise ancora. «Devi perdonarmi. Non ho visite da così tanto tempo e i miei figli, per quanto adorati, non sono adatti ad ascoltare. Ma ora che mi torna a mente, due figli adorati che potevano ascoltare li avevo e me li avete portati via!»
All’aumentare della tensione della voce divina, il fu Robert aumentò la forza del suo pestone ed era quasi sul punto di fracassare il petto dell’assassino. Questi, lasciandosi sfuggire un grido di dolore, di lì a poco prese a ridere nonostante stesse gemendo.
«Non devi preoccuparti, tra non molto li raggiungerai».
La Grande Madre fu sul punto di dare l’ordine, per finirla una volta per tutte, quando un malore improvviso la colse. Abbassò lo sguardo e vide, all’altezza di una gamba, un coltellino conficcato nella carne. Lo tirò via con rabbia e non appena ne riconobbe il materiale lo scagliò via, gridando dallo spavento. Si portò le mani alla gola, sentendosi come soffocare, mentre striature nere si arrampicavano come ragnatele lungo le sue vene e i suoi nervi.
«Quando? Quando hai?»
«Eri così distratta a raccontarmi la tua storia che mi era sembrata una buona occasione».
Di pari passo al malore della dea, il suo cavaliere perse la linfa vitale che lo sorreggeva e cadde a terra tornando nuovamente immobile. Così, libero, Sebastian si portò in piedi, non senza estrema fatica e incredibile dolore.
«Mi avevi fatto una domanda prima, lascia che io ti risponda» e issò la mano indicando la pallida Luna, il cui volto faceva capolino nel cielo tra una delle spaccature della grotta sotterranea.
«È lei a volere la tua testa».
Cipride, in preda al panico, riuscì a malapena a lanciare un grido estremo. Chiese aiuto ma, prima che potesse ricevere risposta, il suo corpo divenne nero come la pece e si sgretolò come polvere.
«La mia missione è compiuta… ora posso avere la mia ricompensa?»
Voltatosi a guardare la Luna, vide uno stupendo cervo avvicinarsi per bere. Il sicario allora accennò un sorriso e disse grazie. Quindi, si accasciò.

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Capitolo 25
*** Capitolo 24 – Buonanotte Sebastian ***


Fin dalla sua fondazione, Alcyone era stata come un piccolo fungo immerso in una grande giungla. Adagiata placidamente sulle sponde del lago delle Pleiadi, si era ingrandita molto lentamente se confrontata alle città confinanti. Distante all’orizzonte ma ben visibile stava Aldebaran, capoluogo dell’emisfero del Toro; la città delle dune, le cui mille torri si elevavano fin quasi alle nubi, danzava come presa da una strana melodia per coloro che vi si avvicinavano attraversando il grande deserto delle Iadi; divenuta così grande che Alcyone sembrava trovarsi direttamente sotto le sue possenti mura, anziché essere distante chilometri.
I primi fondatori di Alcyone furono un gruppo di mercanti, scappati da Aldebaran al tempo della Grande Sete durante la Danza Solare numero quattromila; si avventurarono verso est e si narra che quivi il Dio Sole indicò loro la presenza del lago delle Pleiadi: una ricca area boscosa, nel bel mezzo del deserto, nascosta agli occhi degli avventurieri da incantesimo chiamato miraggio, lo stesso che faceva sembrare Aldebaran più vicina di quanto non fosse in realtà.
Col passare delle Danze, Alcyone venne conosciuta come il Bazar del Sud. Non vi era una sola spezia o merce pregiata che non passasse dai banconi dei suoi mercanti. Vi fu istituto durante la Danza Solare numero quattromilatrecentottanta anche il famoso Comizio dei Mercati, che raccoglieva sotto la sua ala tutti coloro che vendevano o compravano merci. Ciò nonostante, mentre le vicine Elnath e Alheka crescevano a loro volta, Alcyone rimase sempre una località contenuta e non superò mai del tutto i confini imposti dal miraggio, tale che quest’ultimo lo si poteva considerare un vero e proprio muro di cinta. Lo stesso ingresso alla città era segreto tra tutti i mercanti, tanto che allo scoppio della Caccia alla Luna al volgere della Danza Solare numero cinquemilanovecentosettantaquattro, l’ingresso per Alcyone scomparve per oltre trecento danze. Al termine del lungo periodo di isolamento, i mercanti decisero di istituire un ordine cavalleresco che potesse difenderli. L’Ordine dei Cavalieri divenne col passare delle danze perse la sua natura originaria e molti di coloro che originariamente facevano parte della scuola di Alcyone divenne mercenari che servirono i nobili di tutto il regno.
Per questo la graziosa Alcyone, adagiata sulle sponde del lago delle Pleiadi, nel bel mezzo del deserto delle Iadi, stava come un fungo in una giungla: i problemi del mondo, tutto ciò che accadeva fuori dal miraggio che la proteggeva, a malapena scalfivano la sua tranquillità; una città di commercio per i commercianti, dove l’unica vera valuta era il danaro e perfino Dio poteva essere venduto e ricomprato.
 
La dea Artuma era seduta su di una panca, guardando il via vai affollato delle persone che si disperdevano nel bazar. Volti privi di espressione, quasi cancellati, poiché per lei non avevano quasi nessun valore. Di lì a poco, vide un giovanotto inciampare davanti a lei e si alzò per aiutarlo.
«Stai bene?» chiese, stranamente cortese.
Il fanciullo si pulì il viso arruffato e sporco di terra, alzando lo sguardo e sorridendole.
«Ora sto bene, grazie!»
Sfiorò delicatamente le sue guance con il dorso della mano, carezzandone la pelle delicata. Quindi, con un tono pregno di malinconia aggiunse: «Tutti noi vorremmo riabbracciare le persone a noi care scomparse: non a tutti è concesso ma tu ti sei ampiamente guadagnato questo privilegio. Hai atteso così a lungo per rivedere tuo padre, vuoi far tardi proprio adesso?»
Con un gesto deciso ma aggraziato, la dea indicò al fanciullo il cavaliere che, dall'altro capo della strada, stava chiamandolo a gran voce. Non appena lo vide, o ancor prima di realizzare chi fosse, il ragazzino corse come mai in vita sua e gli fu presto tra le braccia. A cingere le spalle di entrambi, con moto d'affetto, stava sorridente il fratello del cavaliere nonché zio del giovane.
Così il trio si avviò verso la luce che ora inghiottiva l'intera città e lentamente la sgretolava, finché di loro non rimase più niente.
Ora sola nella sua piccola stanza grigia, la dea Artume alzò lo sguardo per ammirare la Grande Casa del Cosmo, tanto bella quanto impietosa.
«Buonanotte (addio), Sebastian».

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