Tomba di fuoco

di stellumicans
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** ἀρχή ***
Capitolo 2: *** θάλασσα ***
Capitolo 3: *** παιδεία ***
Capitolo 4: *** πατήρ ***
Capitolo 5: *** φιλία ***
Capitolo 6: *** θάνατος ***
Capitolo 7: *** ερως ***
Capitolo 8: *** ὓπνος ***
Capitolo 9: *** πλεονεξία ***
Capitolo 10: *** χάρις ***



Capitolo 1
*** ἀρχή ***


«Dunque?»

La parola risuonò per la cella, colpendo le grigie mura di pietra e arrivando alle sue orecchie così fioca che gli parve di averla immaginata. «Dunque cosa?»

«Dunque cosa dirai al mio funerale adesso che mi hai ucciso?»

«Glice, ti prego, non essere drammatico--» 

«Drammatico!» Glice voltò la testa con tanta ferocia che quasi colpì il muro dietro di lui. I suoi occhi ambrati - vitrei sotto la debole luce della prigione - sembravano quasi tremare con il suo corpo, muovendosi rapidamente per non incrociare il suo sguardo. Sprofondò le dita dei piedi nella polvere della cella. «So perché sei qui. Non avrai il mio perdono, stai solo perdendo tempo.» Athanasiade trasalì davanti al veleno di quelle parole. Era surreale sentire tanto odio da quelle labbra che poco tempo fa lo avrebbero difeso con l'ardore che solo un fanciullo infatuato possiede. Morse il labbro e abbassò la testa. «Non osare versare libagioni sulla mia tomba», e con questo Glice si spinse ancor più dentro la cella, ancora più lontano dalle fragili grate che lo separavano da lui.

Athanasiade fece per dire qualcos'altro, ma la conversazione era finita. Aveva provato più volte, dopo il suo arresto, a farlo parlare, sperando in qualche tipo di perdono, ma senza successo: rimaneva incollato alla parete fredda della cella, fissando un punto a caso dietro di lui, il corpo fremendo per la rabbia e il dolore, ma comunque muto. Almeno stavolta riuscirono a parlare.

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Capitolo 2
*** θάλασσα ***


Lasciò di fretta la piccola e unica prigione sull'isola, passando dall'aria fresca e umida delle celle a quella secca e affannosa dell'esterno. Era mezzogiorno e la processione per il funerale di suo padre sarebbe cominciata solo più tardi, prima dell'alba. Il caldo era opprimente e nessuno si sarebbe sognato di marciare con il sole dell'Egeo che batte sulla sua testa e un morto in mano.

Vagava per le strade di Psittalea, evitando quelle più popolate - non che fosse difficile, su un isola con appena mille abitanti. Dopo la morte di suo padre gli era stato proibito di allontanarsi dalla reggia, per paura di essere anche lui preso di mira da congiure e assassinii. Gli avevano assegnato anche delle guardie del corpo - due nerboruti della villaggio con grossi muscoli e poco cervello - ma faceva di tutto per evadere la loro vigile guardia.

Fortunatamente loro erano tanto entusiasti del loro nuovo impiego quanto lui lo era di essere tenuto sotto controllo da due paesani che puzzavano di capra, dunque anche oggi era sgattaiolato fuori dalla sua camera, dirigendosi a piedi nudi verso la prigione, con un sottile velo bianco in testa per proteggersi dal sole e non farsi riconoscere, e qualche moneta nel caso dovesse convincere la guardia a farlo entrare.

E così aveva fatto per gli ultimi due giorni. Era il terzo giorno dei riti funerari del re, e la mattina seguente, dopo la processione, Glice sarebbe stato condannato per alto tradimento e lapidato. Athanasiade non era superstizioso né credulo quanto i suoi compaesani, che si facevano spaventare da assurdi presagi e indovini di strada, ma la notte dell'omicidio di suo padre - mentre il pugnale di Glice penetrava tra le costole del re e lui dormiva nel suo letto due stanze accanto - aveva sognato il corpo di Glice, coperto da lividi e sangue, prima ancora che fosse morto, che lo fissava con occhi bianchi.

Così aveva provato inutilmente a ricevere il suo perdono, spaventato dalla possibilità di essere perseguitato dal suo spirito. Non ci credeva nelle Erinni, ma in Glice sì.

Respirò profondamente l'aria salmastra, a occhi chiusi, lasciando che la brezza marina gli sfregasse le guance, compiacendosi dell'aria fresca dopo così tanto tempo chiuso nella sua stanza. Davanti a lui, l'Egeo bagnava con furia le coste dell'isola di Salamina, la più vicina a Psittalea. Nel pieno dell'estate, il mare sembrava finto, un velo di seta che sventolava nel vento, battendo ferocemente contro gli scogli grigi in lontananza, e accarezzando le spiagge bianche sotto i suoi piedi. Oh, quanto sarebbero piaciute a Glice queste similitudini.

Affondò le dita dei piedi nella sabbia rovente per svegliarsi e riprese a camminare verso la reggia. Aveva a disposizione mezz'ora per tornare nella sua stanza e pranzare.

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Capitolo 3
*** παιδεία ***


Glice era bello quanto stupido.

Forse stupido non è la parola giusta. Era esperto suonatore di lira e flauto, la sua calligrafia era chiara e delicata, recitava con passione testi omerici e inni, e scriveva le più belle poesie che Athanasiade avesse mai letto. Anche la sua retorica, nonostante superficiale e facilmente sfatabile, era bella a sentirsi e convinceva i meno esperti.

Ma era stupido. Stolto, ingenuo, sciocco. Si faceva ingannare facilmente, credeva a tutto ciò che gli veniva detto, si sforzava davanti a problemi che non richiedevano imparare a memoria le soluzioni, non era in grado di leggere l'atmosfera, e impiegava ore per capire semplici barzellette. Era esilarante per tutti vederlo rispondere con abilità a domande di storia e letteratura, per poi vederlo cadere a pezzi davanti a semplici battute di spirito. Perfino il sarcasmo e i modi di dire lo bloccavano. ("Beh, non mi sorprende: un pesce comincia a puzzare dalla testa in giù." "Che pesce? Io non sento niente." "Cazzo se sei stupido.")

Athanasiade in particolare si divertiva a metterlo in imbarazzo davanti al loro pedagogo, tormentandolo con indovinelli e paradossi, che Glice insisteva di essere in grado di risolvere. Amava vedere quel visetto scuro imbronciarsi per lo sforzo mentale - arricciava le folte sopracciglia, corrugava la fronte e apriva le labbra leggermente, emettendo piccoli 'ah...' - per poi vederlo schiarirsi in un sorriso quando finalmente ci arrivava. Ma nonostante fosse lo zimbello di tutti (nemmeno Cleito, suo nonno e loro pedagogo, si asteneva da stuzzicarlo quando si perdeva davanti alle sue domande), restava il più dolce e gentile ragazzo dell'isola. Forse era per questo che Athanasiade l'aveva scelto.

Aveva conosciuto Glice all'età di dodici anni. Da tempo la sua famiglia, rispettata dagli abitanti quasi quanto quella del re, aveva generato sapienti, maestri e filosofi - cosa non da poco su un'ammasso di terra così isolato, dove era già tanto per la famiglia reale saper leggere - e quando fu il momento di preparare Athanasiade a diventare un principe degno di nome, il vecchio Cleito fu più che felice di farlo, a condizione di poter istruire il suo nipotino assieme a lui.

Il giorno in cui lo incontrò, Glice era steso su una coperta di lana sull'erba, con il viso verso il cielo, le gambe leggermente divaricate e un braccio che gli proteggeva gli occhi dal sole: l'espressione perfetta dell'ozio.

«Glice, ti prego» - una frase che usciva frequentemente dalle labbra di Cleito, spesso accompagnata da un sospiro - «sei in presenza di un principe, stai composto.»

Glice si alzò con un balzo, quasi rovesciando la brocca d'acqua vicino ai suoi piedi. Si strofinò le mani sulla tunica, tese bruscamente il braccio verso di lui e con un sorriso disse «Ciao, sono Glice», prima di ripensarci e fare un profondo inchino. Ripeté il saluto con tanto più entusiasmo di prima.

Athanasiade fece per tirarsi indietro, stupito da così tanta arroganza da parte del ragazzo. Psittalea non era certo Micene - con i suoi due chilometri quadrati e le sue terre spoglie - ma lui era sempre e comunque figlio di re e non gradiva essere mancato di rispetto.

Osservò il ragazzo attentamente. Era più basso di lui - riusciva a malapena, da seduto, a toccare la terra con i piedi - ma per la statura compensava con l'energia: anche da fermo non smetteva mai di muoversi, di dondolare le braccia e saltellare. I suoi capelli bruni sembravano non essere stati spazzolati da settimane e la sua tunica era coperta da macchie di erba e polvere, ma il ragazzo era, inequivocabilmente, di alto rango. C'era qualcosa nel modo in cui teneva le spalle dritte, la testa alta, che Athanasiade conosceva benissimo.

Lo guardò intensamente, sperando di poterlo intimidire con gli occhi, ma il sorriso di Glice era immovibile. Si morse l'orgoglio e tese il braccio per ricambiare. «Athanasiade», rispose, sperando che almeno il suo tono da nobile avesse un effetto su di lui.

Cleito si sedette su una delle seggiole, davanti a un basso tavolino coperto da carte, penne e strumenti musicali, e ammiccò ai due di fare lo stesso, alzando un dito osseo, ignaro o incurante tanto quanto Glice della tensione tra i due ragazzi.

In quella loro prima lezione parlarono, con tante introduzioni e tante, tante spiegazioni, dell'importanza della scrittura per l'uomo, della relazione tra mente e corpo, della breve e poco emozionante storia di Psittalea. Per tutto il tempo, Glice aveva preferito giocare con le dita, dondolare il piede destro e osservare i piccoli fili d'erba mossi dal vento. La voce di Cleito era debole e monotona, rallentata dall'età, e al vecchio piaceva divagare e trarre esempi dalla sua lunga vita, prima di dimenticarsi completamente quello di cui stava parlando. Infine si passò alla lezione di musica che, a dispiacere di Glice, consistete nel racconto dell'invenzione dei vari strumenti musicali da parte degli dei.

Finirono dopo tre strazianti ore, accompagnate dal dondolio della gamba di Glice. Athanasiade si alzò per primo, desideroso di ritornare nella sua stanza immediatamente, ma l'altro ragazzo lo fermò. «Ehi», disse, e Athanasiade si sforzò di non alzare gli occhi al cielo in modo troppo evidente.

«Sì?»

«Sei silenzioso, sai.»

Athanasiade non rispose. Come si risponde ad un'affermazione del genere? "Hai ragione"? "Mi dispiace"? Era silenzioso per carattere, vero, ma essere in cospetto di una persona che gli faceva salire la tensione per quanto era fastidiosa non aiutava di sicuro. E poi chi si credeva per parlargli così? Fece passare qualche altro minuto di silenzio per far capire al ragazzo che un principe non doveva dare spiegazioni a un figlio di scriba, nonostante il suo prestigio, e si girò per tornare nella sua stanza. 
Da dietro sentì «A domani allora».

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Capitolo 4
*** πατήρ ***


Prima di tornare verso la reggia, Athanasiade decise di fermarsi in centro. L'isola era piccola e riusciva ad attraversarla in pochi minuti, dunque non si preoccupava di non arrivare in tempo per pranzo. E di sicuro quei due idioti non lo stavano cercando, troppo immersi nel loro inutile gioco di petteia.

Arrivò vicino al tempio in poco tempo, passando attraverso il mercato e la piccola piazza. In città l'umore era cupo: si era in lutto per la morte del re. La comunità era stretta e possessiva, e la morte di chiunque lasciava un terribile segno ogni volta che accadeva. Anche quella del re, nonostante la distanza sociale, aveva colpito i cittadini.

Psittalea era un'isola minuscola e con pochi abitanti: tutti conoscevano tutti. Passando per le strade la mattina si potevano sentire infiniti saluti e conversazioni, giovani che chiacchieravano allegramente del più e del meno, bambini che giocavano tra di loro conoscendosi a malapena. Le vecchie e le dame sposate si fermavano all'ombra per sparlare, con una cesta di lenzuola sotto il braccio ed una mano sul fianco, e anche gli uomini si incontravano in piazza per discutere e bere. Dovunque si camminava si rischiava di essere fermati e salutati da un anziano ricurvo, che sembrava sempre sapere tutto su tutti e non aveva intenzione di mollare la conversazione. Perfino Athanasiade era spesso importunato da cittadini troppo entusiasti di parlare con lui come se fosse uno di loro. Non aveva neanche bisogno del velo, ma gli piaceva sognare.

Che bello essere sovrano di un'isola di pastori e capre.

In centro, nel tempio, era esposto il corpo fresco di suo padre. Entrò di fretta, scappando per poco a paesani curiosi e lanciando un'occhiataccia alle guardie che cercarono di fermarlo. Si tolse il velo e sospirò, grato per l'ombra del tempio che gli rinfrescava la pelle e calmava le sue membra stanche.

Athanasio era steso su un letto funebre, immobile, freddo, morto. Athanasiade si avvicinò con cautela, avendo quasi paura di svegliarlo. Il re era vestito dei suoi migliori abiti, seta porpora con delicati ricami d'oro che ritraevano fiori e uccelli e scene mitologiche sulle maniche – le stesse vesti che portò il giorno del suo matrimonio e il giorno del funerale di sua moglie – e portava una corona di fiori in testa. Aveva le braccia conserte sullo stomaco e le palpebre chiuse dolcemente, come se fosse assolto in un pisolino pomeridiano. Sotto la gola, Athanasiade poteva ancora intravvedere una delle tante ferite da cui Athanasio era stato ucciso, probabilmente quella fatale: un lungo taglio rosso che partiva da appena sotto l'orecchio e finiva vicino alla clavicola, cucito e nascosto in malo modo dalle donne addette alla preparazione del cadavere. Era morto da quasi tre giorni, e puzzava di carne marcia e olio di rosa.

Athanasiade disse una preghiera sotto voce e sputò per terra. Ci sono uomini nati per regnare: uomini leoni, con volontà di ferro e il coraggio di peccare di hybris. E ci sono uomini nati per essere sudditi: uomini pecora. 

Suo padre faceva parte della seconda categoria: mite, indulgente e bonario. Era contento di governare quell'isoletta in pace, incurante delle ricchezze e del potere delle altre isole. "Athi, la miglior ricchezza è quella di essere contento con poco." diceva, le volte in cui si atteggiava da filosofo.

Ma Athanasiade aveva altri piani. Come poteva quell'uomo essere contento di governare una terra misera, spoglia, con più caproni che abitanti quando Salamina era lì, a pochi passi, perfettamente visibile da ogni punto di Psittalea? Certo, non sarebbero riusciti a conquistarla con così pochi soldati, neanche se tutti i cittadini – anziani e donne incluse – avessero preso le armi. Ma suo padre non era ambizioso, non sognava. Avrebbero potuto conquistare una delle altre migliaia di isolette ancora più deboli di loro o attaccare le navi che passavano vicino a Psittalea per arrivare a Salamina e poi forzare i marinai a diventare loro soldati. E dopo avere conquistato Salamina? Atene. L'Attica. La Tessaglia. L'intera Grecia. Avrebbero potuti essere grandiosi, se solo Athanasio si fosse destato.

È per questo che Athanasiade aveva deciso che era tempo di prendere le redini in mano, e non avrebbe più aspettato suo padre.

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Capitolo 5
*** φιλία ***


Con il tempo Athanasiade capì che ignorare Glice era inutile. Passavano tre ore della giornata insieme, oltre ai pasti e agli eventi pubblici, seduti su degli sgabelli ad ascoltare Cleito parlare e parlare di storia e scienza. Decise che provare almeno ad essere suo amico gli sarebbe stato vantaggioso: non si sa mai quanto un amico intimo possa essere d'aiuto. E Glice gli è stato d'aiuto, eccome.

Glice dimostrò da subito una passione per la recitazione e la poesia. Recitava diligentemente a richiesta di Cleito inni e passaggi omerici: il proemio, la morte di Patroclo, la lotta tra Achille ed Ettore. Anche il catalogo delle navi, se ne aveva voglia. Dopo le lezioni, passeggiavano per la città, per sgranchirsi le gambe, e Glice si divertiva a scegliere oggetti e persone a caso e inventare piccole poesie sul momento. Diceva "Guarda qui!", come se stesse per fare qualche folle acrobazia, poi puntava verso un usignolo o un narciso e poetava. Sembrava che tutto gli venisse al volo, senza neanche doverci pensare. Finiva con un grande inchino e si girava verso Athanasiade sorridente, aspettando la sua reazione.

«Guarda», puntò, un giorno, verso una fanciulla che stava mangiando dei fichi, e si schiarì la voce.*

 «Lei dice
"Lui mi riempie la bocca di nettare e succo;
spreco tutti i miei soldi per lui."
"Chi" chiedo, "il tuo uomo?"
"No, un fico."»    

Con l'età le poesie diventarono più complesse, più melodiose, più sconce. Anche i soggetti diventarono più seri: il mare, la guerra, la morte. Recitava come se conoscesse a profondo ogni male. Cominciò a scrivere anche poesie su Athanasiade, sulle sue labbra, sui suoi occhi – cosa che preoccupò non poco i genitori di entrambi – ma era bravo, non c'era niente da dire, e Cleito lo incoraggiava a scrivere, qualunque fosse il soggetto.

Diventarono entrambi, a detta delle vecchie balie e le fanciulle del villaggio, dei bei ragazzi. Athanasiade crebbe, diventò alto quanto suo padre. Il suo viso perse l'adipe della fanciulleza e diventò aspro, scolpito nella pietra, con dei zigomi severi e le labbra carnose perennemente imbronciate, proprio come Athanasio. Portava i capelli corvini – prediletti dalle poesie di Glice – lunghi sulle spalle, legati solo da sottili fasce di lino. Era più in carne dalla nascita, ma si allenava ossessivamente per perdere il grasso in più. Non si sarebbe mai permesso di diventare debole.

Non come Glice, che aveva lasciato che quello strato di grasso si depositasse tranquillamente. A dispetto del padre e del nonno, evitava l'esercizio come la morte. Non era piatto e teso ad ogni punto come Athanasiade, ma soffice, come se fosse ancora bambino. Era cresciuto poco, cosa che Cleito attribuiva alla terribile nutrizione, ma non sembrava interessarsi. Non sembrava interessarsi di niente. Preferiva oziare tutto il giorno, scrivendo poesie e cantando. Passava una mano tra i capelli corti e bruni e intonava inni e cantilene da mattina a sera, dilettando l'intero villaggio.

Lentamente la presenza di Glice non gli dispiacque più; certi giorni addirittura non vedeva l'ora di incontrarlo e ascoltarlo blaterare. Glice gli insegnava a suonare la lira e lui gli spiegava nozioni scientifiche e teorie filosofiche. Ma rimase comunque uno stolto, e Athanasiade si trovava spesso a doverlo proteggere dalle burle degli altri o dalla propria idiozia.

Un giorno, quando avevano ormai quattordici anni, durante una lezione particolarmente noiosa di Cleito, Glice sussurrò ad Athanasiade «Ehi, dopo ti faccio vedere una cosa figa, va bene?»

Athanasiade sapeva in cosa consistevano, per Glice, le cose "fighe" – una conchiglia rosa trovata per spiaggia, un piccione mezzo morto, una pietra che assomiglia ad un pene – e così non fu sorpreso quando, dopo la lezione, vide Glice correre velocemente verso casa e tornare con una manciata di candele.

«Sono magiche» disse, svuotando la sua tunica e rovesciandole per terra.

«Certo che lo sono.»

«Seriamente! Fanno avverare i desideri. Ne accendi una, intoni una preghiera agli dei e le lasci accese per tutta la sera. E quando tutte si spengono, poof! Ricevi quello che hai desiderato!» Spiegava con così tanto entusiasmo che Athanasiade non potè fare a meno di sorridere.

«Ah, sì? E chi te le ha date?»

«Filandro.»

Athanasiade scoppiò a ridere. «Allora non funzionano proprio.»

«Eh dai! Ti prego, proviamoci almeno.» Glice incrociò le braccia e si imbronciò, guardandolo con occhi da cervo. Non potè dire di no.

Si nascosero nel dormitorio vuoto di un servo. Accesero le candele – Athanasiade accese le candele, non si fidava né di Glice né del fuoco – e si sedettero a gambe incrociate davanti ad esse. «Adesso cosa si fa?» chiese. A Glice piaceva quando era qualcuno a chiedere spiegazioni a lui, e non viceversa.

«Devi pregare per qualcosa che desideri tanto. Guarda.» Si mise in posizione di preghiera e chiuse gli occhi. «Oh Dei, desidero tranquillità e pace nell'animo. Proteggetemi dai mali, dal Male, e da chi mi vuole male.» Riaprì gli occhi e si girò verso Athanasiade. «Vedi?»

Sorrise di nuovo, inconsciamente. Che dolce. Che stupido. Ma non lo sorprendeva, era da lui fare così: desiderare qualcosa che aveva già. Qualcosa di inutile. Athanasiade si girò anche lui verso le candele e chiuse gli occhi, tanto per accontentarlo. «Oh Dei, desidero...» esitò. Nel silenzio della camera sentiva il suo fiato impaziente. «Desidero la Grecia.»

Glice scoppiò a ridere. «Dai, si serio!»

«Lo sono.» Rise anche lui, e continuò tra sogghigni «Dunque se me la potreste dare, sarebbe davvero figo. Grazie.»

Glice gli diede un pugno sulla spalla. «Sei uno scemo.» Si alzò da terra e tese un braccio ad Athanasiade. «Andiamo, le dobbiamo lasciare accese per tutta la sera.»

«Scherzi? Cazzo, no» disse Athanasiade, bagnandosi le dita e afferrando lo stoppino di ogni candela una ad una per spegnerle, «questa roba è pericolosa.»

---

*basato su una poesia di Amir Khusrow

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Capitolo 6
*** θάνατος ***


La processione del funerale di suo padre fu lunga e noiosa. Di notte, poco prima dell'alba, il corpo fu messo su una barra di legno, dipinta d'oro e intagliata da narcisi e da foglie d'alloro. Una donna, vestita di nero e con in mano un vaso di vino misto a miele e acqua, guidava la folla verso la necropoli, mentre dietro di lei altre donne della famiglia si battevano il petto e si tiravano i capelli. Gli uomini più forti dell'isola portavano in spalle la bara con il corpo, dato che a Psittalea non c'erano carri – non ce n'era bisogno. La processione era chiusa da cantori e flautisti che intonavano melodie funebri, e ai lati giovani portavano in mano torce per far luce. I cittadini, vestiti dei loro abiti migliori, camminavano lentamente, passo dopo passo, con la testa bassa. Ognuno di loro aveva portato doni, libagioni e miseri gioielli per ricordare il caro Athanasio, il più mite e dolce dei re. L'isola era vuota, come se fosse passata la Morte per ogni casa.

Athanasiade stava in mezzo alla folla, tra le coefore e il corpo di suo padre, vestito di una lunga tunica nera che gli arrivava fino alle caviglie e gli rendeva difficile il camminare. Anche lui procedeva a testa bassa, tenendo in mano la corona del re ed il suo scettro. Aveva ricevuto, dall'inizio della processione, molte condoglianze e pacche comprensive sulla spalla. Era soprappensiero, sì, ma non gli interessava l'anima di suo padre, bensì quella di Glice. Che cosa stava facendo lui, adesso? Sopportava il caldo, in quella cella stretta ed opprimente? Gli avevano portato da mangiare? Era riuscito a dormire, sapendo che domani si sarebbe svegliato per l'ultima volta? Teneva la corona in mano stretta, quasi tagliandosi con i suoi bordi affilati. Glice era cambiato, in quei pochi giorni, diventato più teso, più serio. In fondo il sangue ha questo effetto su chi si bagna di esso. Oh, Glice, Glice. Che cosa ti ho fatto?

Diede un'occhiata tra la folla, in cerca di Menodora e Policarpo, ma non si vedevano da nessuna parte. La famiglia di Glice era tenuta in gran rispetto a Psittalea, ed oltre ad avere il privilegio di curare l'educazione della casata reale, erano partecipi di ogni banchetto che il re organizzava e da sempre si arrangiavano matrimoni tra le due famiglie. Menodora stessa, sua madre, era amata in particolare dagli abitanti, quasi quanto Glice, per aver dato vita al raggio di sole che ogni giorno passeggiava per la città, cantando e recitando.

Da quando si diede notizia che le guardie lo avevano trovato nella stanza del re, con un pugnale in mano e la tunica insanguinata, non erano più usciti di casa, e in città molti dicevano che fossero scappati di notte a Salamina, per la vergogna di quello che Glice aveva fatto. Altri invece sognavano complotti e contese tra famiglie, dicendo che Menodora stessa avesse incaricato il figlio con la morte del re, affinché la loro famiglia potesse prendere sopravvento. Ormai sull'isola restavano solo lontani cugini e parenti che negavano l'appartenenza alla famiglia e insistevano di aver sempre saputo che c'era qualcosa di marcio in Glice.

Arrivarono alla necropoli quando il sole stava di già sorgendo. Deposero il suo corpo su una lastra di pietra nella tomba reale e, uno ad uno, il più anziano di ogni famiglia entrò nel sepolcro e lasciò i propri tributi attorno al re. Ad Athanasiade fu chiesto di tagliarsi una ciocca di capelli e deporla sul corpo, cosa che fece con non poco disgusto.

Dopo che le libagioni furono versate, un uomo si fece avanti, schiarì la voce e recitò, davanti agli anziani e ai parenti del re:

«Quale dolore ha conquistato gli animi di noi semplici mortali,
quale dolore! Da quando tu, Athanasio, 

hai abbandonato il tuo trono dorato per la cinerea dimora che è l'Ade...»

Athanasiade fece una smorfia. Chi era questo? Glice non avrebbe mai scritto qualcosa del genere, qualcosa di così banale e melodrammatico. Glice avrebbe saputo comporlo sul momento. Avrebbe solo guardato il volto grigio di Athanasio o le sue mani o i suoi vestiti o la palpebra destra, e subito sarebbe stato in grado di eseguire il più toccante e commovente elogio mai sentito dagli abitanti di Psittalea, come se fosse lui stesso figlio di Athanasio. Ed era come se lo fosse: il re era affezionato a lui, e gli chiedeva spesso, da quando aveva scoperta la sua abilità innata per la poesia, di comporgli e recitargli poesie. Da sempre era rimasta una decisione sottintesa e ovvia che sarebbe stato lui a comporgli anche l'elogio.

Ma Glice non poteva più farlo, e avevano dovuto chiamare questo dilettante.

«...figlio di Santippo, a sua volta figlio di Teofilacto,
lasci qui, figlio, Athanasiade, somigliante a te
in viso e carattere, mite e bonario come il mare che...»

Athanasiade dovette trattenere un'altra espressione di disgusto. Per cosa si meritava, suo padre, un elogio? Non era un eroe di guerra – Psittalea non aveva neppure un'armata: era troppo spoglia e misera per necessitarla – né aveva mai partecipato ai giochi Olimpici. C'erano numerosi uomini sull'isola che si meritavano elogi: l'anziano Diocle – che si diceva fosse così anziano d'aver partecipato alla guerra di Troia – morto annegato cercando di salvare il pronipote; Trifone – il vecchio e abile dottore dell'isola – morto dopo aver contratto una malattia che stava cercando di curare. Perfino il caro Cleito, che aveva curato così diligentemente l'educazione di tre generazioni di principi, si meritava un elogio quando era morto. Perfino Glice se lo meritava. Ma suo padre? No. Era solo un uomo che era per caso nato da un re, anche lui uomo nato da re. Suo padre non aveva mai fatto niente. Niente di niente.

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Capitolo 7
*** ερως ***


All'età di sedici anni, nascosti in un magazzino del palazzo, tra le botti di vino fermentato e i vasi di olio, Glice baciò per la prima volta Athanasiade.

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Capitolo 8
*** ὓπνος ***


Si allontanò dagli altri uomini. L'aria della tomba era stantia e soffocante, e le coefore avevano acceso numerose candele profumate per far luce. Si nascose, per evitare altre domande e preoccupazioni, dietro a una delle tante pile di doni da parte delle famiglie: un miscuglio fitto di vasi, coppe e botti piene di vino. Lì si adagiò, tenendo le gambe e le braccia strette al corpo, come per abbracciarsi, e avvolgendosi ancora di più nella sua tunica. Coricò il capo sulla pietra fresca della tomba e chiuse gli occhi, lasciando che rivoli di sudore freddo gli attraversassero la fronte. Glice, Glice, Glice. Intanto il poeta continuava, piangendo la bontà e bravura del re.

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Capitolo 9
*** πλεονεξία ***


Un giorno, Athanasio aveva fatto convocare il figlio.

Athanasiade entrò con cautela nella sala del trono. Il palazzo era come l'isola: povero, spoglio, piccolo, ma non la sala del trono. Essendo usata specialmente per banchetti e per feste, era, relativamente, la più bella tra le stanze del palazzo: mura di pietra grezza adornate, all'interno, da arazzi semplici e modesti; lampade ad olio di terracotta, con motivi floreali e piccole gemme incastonate, poste ad ogni angolo della sala; enormi finestre che davano sull'Egeo e lasciavano entrare la brezza marina; un soffice tappetto rosso-porpora che attraversava l'intera stanza. Nel centro, il trono di legno, coperto in alcuni angoli da una sottilissima fascia d'oro: umile e sobrio, adatto ad un re come Athanasio, ma non ad uno come Athanasiade.

Il re gli dava le spalle. Era in fondo alla sala, davanti alla finestra più grande. Guardava il mare e sembrava aspettare che Athanasiade fosse il primo a parlare.

«Padre?» chiese, infine.

Il re non si girò. «Voglio che tu resti nella tua stanza per i prossimi giorni. Per il tuo bene.»

«Perchè? Cosa sta succedendo?» Athanasio non rispose, ma emise solo un lungo respiro. «Padre!»

Athanasio si voltò bruscamente, guardando negli occhi suo figlio. La sua voce, di solito così mite e pacata, era amplificata dall'ampiezza della sala. «Ti conosco, Athi, e ti voglio bene. Ed è per questo che voglio che tu resti nella tua camera.» Si avvicinò a lui ed abbassò la voce. «Ieri sera, mentre dormivi, ci ha visitato un ambasciatore persiano. Serse vuole che ospitiamo alcuni dei suoi soldati per qualche giorno, in preparazione di un attacco. C'è tensione tra lui ed Atene.»

«I Persiani?!» Athanasiade esclamò, incredulo dell'audacia del padre. I Persiani! La più potente forza marina che la Grecia avesse mai conosciuto! Conquistatori di isole, oppressori di uomini, e re indiscussi dell'Egeo. Finalmente suo padre stava cominciando ad atteggiarsi da re. «Ma è fantasico! Padre, ti prego, ti prego dimmi che hai detto di sì! Oh, è magnifico, magnifico...» Cominciò a gesticolare violentemente. «La guerra più importante che vedrà mai la Grecia... Possiamo avvicinarci ai Persiani, entrare nelle loro grazie, aiutarli con le battaglie...Padre, non hai idea di quanti uomini su quest'isola farebbero di tutto per portarle gloria! Immagina: "Psittalea, isoletta che da inutile ammasso di terra diventò la migliore alleata di Serse—"»

«Noi non faremmo niente!» il re tuonò. Athanasiade si bloccò, con le mani in aria. «Gli ospiteremo solo perchè ci hanno offerto seta e frutti esotici. Non faremmo niente di più. Questa guerra non ci riguarda. Non siamo qui per prendere parti.»

«Ma papà—»

Le spalle di Athanasio si rilassarono, e sul suo volto comparve di nuovo un debole sorriso. «Figlio mio, te l'ho detto: ti conosco, e so che ti piace metterti certe idee in testa.» Mise una mano sulla spalla di Athanasiade. «Prendi quel ragazzo con te, sono sicuro che gli farà piacere. Adesso vai. Ti farò chiamare quando tutto si sarà calmato.»

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Capitolo 10
*** χάρις ***


Trascorse i seguenti cinque giorni nella sua stanza, le finestre coperte, la porta serrata e custodita per la maggior parte del tempo. Da fuori sentiva, a stento, rumore di navi e soldati in marcia. Era riuscito a farsi dare notizie da una delle guardie: i Persiani si erano accampati in città in preparazione di una spedizione militare contro Atene, a causa di chissà quale offesa subita dal Gran Re. Era straziante. Tutto quello che avesse mai sognato, a pochi passi dalla sua porta.

Suo padre aveva avuto ragione: Glice era più che contento di fargli compagnia. Recitava su sua richiesta i suoi episodi preferiti e, a volte, riusciva a intromettere anche Athanasiade stesso, facendogli fare la parte di Agamennone o di Creonte o di qualunque altro megalomane che lui preferiva. A pranzo inventava filastrocche e cantilene basandosi su qualunque piatto gli fosse servito, e in cambio Athanasiade gli illustrava famose battaglie, usando fichi e ossa di pesce. La notte si baciavano, castamente – senza fretta, senza furia – con una coperta di lino che gli separava e le mani serrate. Erano cresciuti, ormai quasi uomini, ma niente era cambiato.

La quarta sera, una guardia gli riferì che i Persiani stavano per andarsene, e che la sera seguente si sarebbe schiarito tutto ("Di già?" "Di già"). Tornò al suo posto vicino a Glice con un nuovo ardore dentro. Suo padre l'aveva, per un'altra volta, tenuto lontano dalla grandezza che Athanasiade sapeva di possedere.

«Di cosa parlavi con quella guardia? Cos'è successo?»

«Niente. Tieni, mangia» disse, e porse i piatti di cibo ai suoi piedi, sedendosi vicino a lui.

Glice prese incurante una sardina e la buttò in aria, prendendola poi con la bocca. «Ascolta qua.» Finì di masticare e cominciò a poetare. Era sempre di sera che diventava più romantico.

«Alba nemica degli amanti, perchè sorgi così in fretta
quando sono sotto le sue braccia?
Non puoi girarti, tornare indietro ed essere notte,
e cessare quella luce che come veleno sgorga nella mia stanza?
Non puoi aspettare a gettare la tua luce sui nostri—»*

«Glice?»

Glice si fermò. «Sì?»

«Tu mi ami?»

«Certo che ti amo.»

Athanasiade aveva smesso di essere sorpreso dalla sua sincerità. Glice non esitava; lo diceva con così tanta convinzione che si domandava perchè l'avesse chiesto. Lui non ci riusciva. Negli anni in cui si erano divertiti a baciarsi nescosti dentro a sgabuzzini o dietro ai cespugli che crescevano fitti vicino a casa sua, Athanasiade non gli aveva mai detto di amarlo. Forse perchè credeva non fosse vero. Forse perchè sapeva che se l'avesse detto, tutto sarebbe diventato molto più reale. Ma Glice aveva sempre risposto così, ed avrebbe sempre risposto così.

Si alzò dal suo posto e si avvicinò al suo letto, filando la mano sotto il cuscino. Tirò fuori un pugnale con il manico d'oro. Lo pose a Glice. Aveva preparato un intero discorso per fargli intendere quello che voleva e per convincerlo ma ora, nel silenzio di quella stanza, Glice sembrava, per una volta, capire.

«Mio padre dorme senza serrare le porte, e le guardie si fidano di te. Mi inventerò qualcosa da dire quando ti troverano, non lascerò che ti succeda niente.» Glice non rispondeva, lo sguardo che si muoveva tra il pugnale e lui. «Ti prego.»

«Perchè?»

«Perchè tu mi ami.»

La quinta sera, Glice entrò nella stanza del re.

Athanasiade fu destato il sesto giorno da un'ancella: poteva finalmente uscire. Disse di non aver idea di come il pugnale ricevuto in regalo da suo nonno fosse finito tra le mani di Glice o tra le costole del padre.

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*poesia basata sul frammento 172 di Meleagro di Gadara

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