Snowman

di Zenya Shiroyume
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Snowy Night - First ***
Capitolo 2: *** Snowy Night - Second ***
Capitolo 3: *** Snowy Night - Last Night ***



Capitolo 1
*** Snowy Night - First ***


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Disclaimer: la storia è ispirata alla canzone Snowman di Kaito Shion e sarà una storia dalle poche pretese. Sebbene abbia inserito nelle note il tipo di coppia Shounen-ai, ciò che toccherà quella tematica sarà estremamente leggera; inoltre, per tematiche delicate, intendo parlare di di problematiche famigliari e solitudine, che portano le persone a isolarsi e aver bisogno di aiuto, di qualsiasi tipo esso sia. La storia vuole essere una cosa abbastanza leggera, niente che possa avvicinarsi a trattati sulla psicologia o altro, perché dopotutto si scrive per esprimere le proprie emozioni u.u
Ricordo a chi passasse a leggere causa link di spam che i personaggi sono OOC e non è necessaria alcuna conoscenza della canzone da cui il tutto ha preso spunto. Buona lettura!

Snowy Night – First


I suoi occhi fissavano i leggeri fiocchi di neve che volteggiavano in quel cielo stellato, attorno a sé il candore di una notte di dicembre.
Seduto su quella panchina, il bianco ricopriva ogni cosa sotto a cumuli di soffici cristalli, molti dei quali rilucevano al bagliore dell’unico lampione ad olio acceso, forse l’ultimo retaggio del secolo scorso rimasto intatto in quel paesino. In mezzo alla piazza circolare, il ragazzo sedeva avvolto nella sua giacca gialla, la condensa che saliva al cielo stellato da quelle labbra socchiuse e le guance che si tingevano di quel rossore tipico del freddo pungente. Se ne stava rannicchiato con le mani in tasca a giocherellare con qualche cianfrusaglia raccolta per strada, qualche monetina e forse un pezzetto di carta. Alla fine, non faceva nemmeno caso al lento movimento delle sue dita infreddolite e avvolte in morbidi guanti.
Il vento soffiava leggero smuovendo quegli arruffati capelli biondi che sfuggivano al cappello di lana rossa faticosamente calcato sulla testa, mentre i fiocchi di neve si poggiavano sulle sue spalle incurvate. Davanti a sé il nulla, solo il bianco e una solitudine quasi opprimente: nelle orecchie, quel silenzio era quasi assordante, come fosse in grado di sentire ogni cristallo toccare il suolo e tintinnare come bicchieri di vetro durante un brindisi.
Len non sarebbe dovuto essere lì a quell’ora, ma da un paio di mesi a quella parte continuava a sedersi su quella panchina, da quando finivano le lezioni fino a quando tutti se ne tornavano nelle proprie case, che fossero studenti, bambini o lavoratori.
Non faceva nulla di particolare, se ne stava semplicemente seduto là sopra a rimuginare e a guardarsi intorno, mentre tutta la gente del suo paesino dormiva profondamente, ignara della sua presenza ormai costante nel freddo della notte. Non aveva molti motivi per ritrovarsi a sedere in un posto del genere dopo oltre la mezzanotte, nemmeno i ragazzi più grandi passavano tanto tempo fuori, ma a lui non importava: non era importante il giudizio delle altre persone, non era necessario dar peso a quelle parole che però venivano pronunciate proprio per ferire quel povero ragazzo.
«Sono un buono a nulla…» ripeté, le parole accompagnate da una leggera nuvola di condensa che investì qualche fiocco di neve, sciogliendolo all’istante di fronte agli occhi di Len. Il ragazzino si morse le labbra per non dire altro, sentì i denti sulla sua carne e un dolore molto più forte di quello che si aspettava: il freddo aveva preso il sopravvento sul suo corpo, ogni movimento pareva fin troppo macchinoso e pungente per essere compiuto, perciò Len preferiva rimanere immobile con lo sguardo che ogni tanto si alzava alle stelle e poi di nuovo sulla neve che imbiancava le strade.
«La mamma è ancora arrabbiata, ma non ho la forza di fare del mio meglio… Voglio aiutarla…»
Il ragazzo si lasciò andare in un sospiro, la sua mente che lottava per non pensare a tutte le brutte cose che gli stavano capitando in quei giorni, a come tutto quello che si era costruito a scuola e con gli amici fosse stato spazzato via e nascosto dalla neve, che in quel momento era l’unica cosa a tenergli compagnia. Dolcemente, questa danzava davanti ai suoi occhi azzurri e lui desiderò che la sua vita potesse essere come quella di quei fiocchi, senza nessuna preoccupazione o problema. Ma ovviamente non poteva essere così.
Non sarebbe dovuto essere là, a quattordici anni non poteva permettersi di stare fuori così tanto a lungo, quando anche gli stessi adulti dormivano già tra le braccia di Morfeo. Eppure Len era ancora là, al freddo e solo con i suoi pensieri.
«Non voglio tornare a casa…» mormorò, il gelo ormai penetrato nelle sue ossa e nella sua carne, ma sapere che il giorno dopo tutto sarebbe ricominciato da capo lo rendeva nervoso, frustrato: l’indomani mattina sarebbe dovuto andare a scuola e tutto sarebbe ricominciato, con quei suoi silenzi imbarazzanti di fronte ai professori, quella sua poca voglia di impegnarsi e quella sua apatia che non riusciva a scrollarsi di dosso; la sua mente non era affatto pronta a mettersi d’impegno su qualcosa che non ritenesse importante, c’erano tanti altri pensieri ad affollare la sua testa e i compiti non erano uno di questi. Nemmeno gli amici erano più una sua priorità, perché aveva l’impressione che non riuscissero a capirlo, come se le sue parole e il suo bisogno di aiuto venissero perennemente ignorati. Tutte le cose che di solito lo interessavano, le materie scolastiche, la musica, l’arte, parevano aver perso quell’importanza che lui aveva sempre dato loro, sostituite e oppresse da un senso di inutilità che non voleva accettare, ma che ormai aveva lasciato correre, perché troppo pressante per poter essere messa da parte.
Il ragazzo portò nuovamente lo sguardo al cielo punteggiato di stelle e fiocchi di neve, per poi andare con la mente alla malattia che affliggeva la madre: per quello che gli era stato detto dalla donna, era qualcosa che riguardava i polmoni, ma lei non si era mai voluta sbilanciare, forse con l’intento di non far preoccupare il suo piccolo Len e lasciare che il giovane si concentrasse sugli studi senza penarsi per lei.
Infatti, la madre era sempre stata una donna forte, di quelle in grado di spronare chiunque a dare il meglio di sé e Len non faceva eccezione: renderla fiera era la cosa che più lo rendeva felice, gli dava quella carica necessaria per mettersi d’impegno in ogni cosa volesse fare, che fosse lo studio o lo sport; anche fare amicizia e crearsi quella cerchia di persone fidate era stato possibile solo con il supporto di quella donna che, nonostante la perdita del marito, non si era mai data per vinta e aveva continuato a vivere, un po’ forse per l’amato ormai scomparso, un po’ per essere la roccia che potesse sostenere il suo unico figlio. Eppure, in quei mesi quella donna che Len credeva immutabile nella sua forza era cambiata, aveva assunto un atteggiamento molto più pessimistico nei confronti stessi della vita: non aveva mai perso la voglia di vivere nemmeno quando il marito era passato a miglior vita e aveva continuato ad essere un punto fermo per il figlio, ma Len aveva notato il suo cambiamento. Non sembrava più importarle di apparire bella e gentile con tutti, era diventata scorbutica persino con il figlio, che era il suo migliore amico e il suo confidente, era persino diventata molto più chiusa in sé stessa e aveva dato a tutti l’impressione che quel morbo la stesse divorando, non solo fisicamente ma anche mentalmente.
E di conseguenza, proprio per quello che Len vedeva ogni giorno in sua madre, il ragazzo aveva smesso di impegnarsi perché afflitto da una preoccupazione che cresceva ogni istante di più, che gli impediva di concentrasi perché desideroso di mettere le sue forze a disposizione della donna per riuscire a darle un minimo di sollievo.
«Non ti azzardare a dirmi bugie o prendere brutti voti! Devi solo pensare a studiare e svolgere le tue attività!» aveva sbraitato l’ultima volta, quando il ragazzino era tornato a casa saltando le attività con il circolo di atletica leggera. Quel giorno, Len non aveva voglia di correre per quel circuito con il freddo dell’inverno a sferzargli le gambe, voleva solo precipitarsi a casa e aiutare la madre nelle sue faccende e permetterle di riposarsi, ma la risposta che ottenne non fu quella che lui aveva sperato. Qualsiasi cosa lui avesse fatto per renderle quella malattia più sopportabile incontrava solo il suo disappunto, tanto che le cose che per Len avevano importanza avevano perso tutta la loro rilevanza.
Ed era proprio per quella lunga serie di motivi che il ragazzino continuava a passare il tempo fuori,
a non tornare a casa e a infrangere il suo coprifuoco, perché proprio stufo di quelle aspettative che non poteva raggiungere a causa di un equilibrio mentale che non riusciva a mantenere. Era difficile doversi mettere a studiare quando sentiva la madre tossire violentemente nella stanza accanto, non riusciva a tenere alta la concentrazione sapendo che la donna passava il suo tempo a pulire e rassettare senza mai chiedere aiuto, non era facile rimanere lì a vederla tremare e perdere la sua bellezza mentre lei stessa allontanava il figlio, spesso con parole dure che mai avrebbe potuto dirgli.
Len sospirò e con un balzo si mise in piedi scrollandosi di dosso la neve, i muscoli di tutto il suo corpo irrigidit
i come fosse stato un ghiacciolo ambulante. Non aveva nemmeno idea di che ore fossero, ma il sonno era diventato quasi un optional per uno come lui, che tanto preferiva rimanere sveglio ad osservare un mondo addormentato in cui lui era l’unica anima sveglia. Chiuse gli occhi e, senza pensare, si chinò sulla neve che fino a quel momento aveva sommerso i suoi piedi, per poi prenderne una manciata e iniziare ad ammucchiarne un po’ in un piccolo tumulo.
Nel silenzio della notte, Len si ritrovò a costruire un pupazzo di neve senza che la sua mente avesse deciso di farlo. Così, senza una ragione apparente. Alla fine, per come andava la sua vita, tutte le sue azioni erano mosse da motivazioni futili che nemmeno lui conosceva, perciò si lasciò andare a quell’ennesimo istinto che cercava di impedirgli di pensare alla madre. Qualsiasi cosa facesse e indirizzasse il suo cervello verso qualcosa di tranquillo era bene accetto, proprio perché necessario alla sua psiche ormai sul punto di crollare.
Ammucchiò tanta di quella neve in due grosse palle, finché questa non ebbe raggiunto la stessa altezza delle sue spalle, per poi fermarsi a guardare il suo operato. Aveva liberato quasi un sesto del piazzale e mancava poco per dare una testa a quell’uomo di neve, che però non aveva ancora niente che lo facesse assomigliare ad un vero pupazzo. Perciò Len continuò alla luce di quel lampione ad olio, finché non ebbe tra le braccia la testa da mettere sopra la sua creazione. Era così diversa la neve che teneva in mano rispetto a quella che cadeva sopra la sua testa: quella era tanto più leggera, non opprimeva il corpo come quella che teneva in braccio.
E quando la poggiò sul resto del corpo di neve, Len si chiese cosa potesse rendere quel pupazzo più reale, magari per avere qualcuno a cui confidare tutti i suoi problemi.
«Che idea del cavolo…» borbottò infilandosi le mani in tasca, per poi sentire di avere ancora dei vecchi bottoni che aveva perso proprio dalla giacca che indossava. Non li aveva più fatti ricucire alla madre, lei era diventata fin troppo irascibile per poterle parlare.
Len inclinò la testa di lato e fissò quella sfera bianca, per poi poggiare un bottone rosso a destra di quel volto candido e a sinistra un bottone nero. Il ragazzino fissò per un istante quegli occhi non proprio usuali per un pupazzo di neve ma, per come lo vedeva lui, aveva un certo fascino. Ma mancavano ancora tante cose per poter considerare finito quell’uomo di neve.
Len frugò ancora nelle tasche dei pantaloni e della giacca, per poi trovare due pezzetti di nastro adesivo rosso che, in sostituzione della classica carota, potevano tranquillamente indicare la presenza di un naso; fu così che cercò di appiccicarli alla bene e meglio sulla sfera di neve, incrociandoli come se il pupazzo si fosse fatto male al naso.
Ma ancora non bastava. Il ragazzo iniziò a cercare in giro dei sassolini che potessero fare da bocca, oppure un rametto, e poi dei bastoncini più grandi che potessero fare da braccia, ma tutto quello che trovò fu un vecchio secchiello da mare abbandonato dietro ad un albero assieme al suo piccolo rastrello di plastica. Per quanto non convenzionale, il secchiello a strisce bianche e rosse parve essere un ottimo sostituto per un cappello a cilindro e la paletta una particolare alternativa a una mano. Arrivato a quel punto, bastò trovare un altro ramo per dare al suo pupazzo il suo braccio sinistro.
«Non è male, magari farà paura a qualcuno!» fece ridacchiando, per poi accorgersi che forse mancava ancora qualcosa. Len si guardò di nuovo attorno e poi gli arrivò un’illuminazione: il pupazzo di neve avrebbe sentito freddo, perciò si sfilò la sciarpa rossa e l’avvolse al collo della sua creatura che finalmente gli parve veramente completa.
Gli occhi azzurri del ragazzino si posarono quindi su quel volto inanimato, a guardare quegli occhi privi di vita che lo fissavano insistentemente, mentre sulle labbra di sassolini c’era quel cipiglio divertito, forse un po’ troppo sprezzante. Il sorriso che aveva Len sul volto si spense, tutta la gioia di essere tornato un bambino coperta da una leggera coltre di neve candida.
«Dovrei tornare a casa… Sarebbe bello se tu fossi reale, almeno avrei qualcuno con cui confidarmi…»
L
a condensa uscì nuovamente dalle sue labbra in un sospiro rassegnato, poi Len si voltò per tornare a casa.
Mosse qualche passo, il suo desiderio di dar vita a quella creatura di cristalli bianchi che ancora premeva contro il suo cuore. Semmai qualcosa del genere fosse successa davvero, forse sarebbe stata la spinta necessaria per rialzarsi dal suo stato di cata
lessi. Iniziò a dirigersi verso casa in quel silenzio opprimente, nemmeno la neve faceva più alcun suono. Si sentivano solo i suoi scarponi su quei morbidi cumuli di neve che aveva iniziato a scendere per la prima volta quella mattina stessa. Len aveva sempre trovato rilassante guardare quei cristalli scendere dal cielo e forse quello era uno dei motivi che lo portavano a stare fuori per tanto tempo. Non aveva bisogno di pensare, solo di camminare e di godersi quella sensazione che l’inverno riusciva a dargli.
Eppure qualcosa non andava, era come se sentisse di non essere proprio solo, in quel paesino addormentato ormai da qualche ora.
Sapeva che nessuno si sarebbe avventurato in pieno inverno per le strade a quella data ora, nessuno che fosse sano di mente, perlomeno. Camminò ancora e cercò di non prestare attenzione a quella buffa sensazione, perché di tutto quello che gli stava capitando, pensò che un’allucinazione non potesse essere poi essere un’opzione da scartare.
Abbassò lo sguardo e chiuse gli occhi per un paio di secondi, ma di nuovo si sentì osservato e seguito, ma dietro di lui non c’era nessuno. Si voltò, infatti, solo per ritrovare alle sue spalle il suo pupazzo, che lo guardava da lontano con quegli strani occhi nero e rosso. Si diede dello stupido per quella sua paranoia, non aveva motivo di temere alcunché, ma il suo istinto gli diceva che c’era qualcosa di fuori posto nella normalità del suo paesino.
Len prese un profondo respiro e inspirò con la stessa forza, sentendo l’aria gelida infiammargli i polmoni, camminando poi più velocemente verso casa sua.
«Per quanto ancora
hai intenzione di ignorarmi?»
A quelle parole, Len si voltò di scatto, con il cuore che aveva iniziato a battere più velocemente. Eppure non aveva paura, si sentiva semplicemente osservato. Ma quando si girò non vide nessuno. Nemmeno il pupazzo di neve. O almeno fu quello che credette, perché magari la fiamma del lampione
poteva essersi finalmente estinta. Oppure perché doveva essersi allontanato dalla piazza più di quanto credesse. Ma non aveva l’impressione di aver fatto chissà quanti metri.
«Sono un idiota…» borbottò, ma quando si girò nuovamente verso la strada di casa, si ritrovò faccia a faccia con un ragazzino dall’aspetto strano.
Len indietreggiò, ma i suoi piedi incespicarono l’uno con l’altro, facendolo cadere in un cumulo di neve fresca, tanto che questa si sollevò e finì per ricoprire buona parte del suo corpo.
Il misterioso ragazzo lo guardava con un sorrisetto beffardo, l’angolo destro del
le labbra candide rivolto verso l’alto ad accentuare quella sua espressione. Indossava abiti bianchi dall’aspetto sgualcito e toppe rosse a decorare il tessuto, i pantaloni bianchi e corti nonostante il freddo quasi insopportabile a coprirgli fino al ginocchio le gambe pallide; in testa, invece portava un curioso cappello a cilindro con strisce rosse e bianche.
Len cercò immediatamente di alzarsi, però il suo corpo non riusciva a connettersi con il cervello, spento da quello strano incontro che non sarebbe potuto accadere in tutta la sua vita. Dopotutto, nel suo paesino non abitava nessuno dall’aspetto così eccentrico.
Il misterioso giovane ridacchiò sotto ai baffi e si sfilò il cappello per compiere un inchino quasi teatrale, rivelando una massa indefinita di capelli rossi, punteggiati da grossi cristalli di neve, che spiccavano sulla sua pelle nivea. Poi questo rise nuovamente e offrì a Len la mano destra che però lui non vide nemmeno, perché attratto da una sciarpa rossa di sua conoscenza che dondolava dal collo del ragazzo.
«Ma quella è mia! L’hai rubata dal mio pupazzo di neve!»
L’altro sorrise e mosse di nuovo la mano per attirare l’attenzione di Len che finalmente si ritrovò a fissare l’arto. Quello che vide quasi gli fece prendere un colpo: non era una normale mano in carne e ossa, era rossa e pareva fatta di plastica, ma dalle sue movenze pareva effettivamente vera. Lo sguardo di Len corse quindi alla piazza in cui era stato e strizzò gli occhi, per vedere meglio attraverso la coltre di neve che ancora scendeva delicata dal cielo. L’impressione che aveva avuto prima sul pupazzo di neve si rivelò esatta: la sua creazione non era là.
Eppure, non volle crederci. Come poteva? Si portò le mani agli occhi e se li stropicciò energicamente, ma ancora il pupazzo non c’era.
«Hai intenzione di congelarti il fondoschiena? Su, su! In piedi!»
Len obbedì senza pensare e afferrò quella mano, che anche al contatto gli parve di plastica, gelida e inanimata. Ma la mano rossa del giovane strinse la sua, esattamente come avrebbe fatto una mano vera, in carne e ossa.
Appena Len fu in piedi, indietreggiò nuovamente e osservò quel ragazzo: nella mano sinistra teneva un vecchio bastone da passeggio a cui era appoggiato, ma il colore del pezzo di legno gli ricordò quello che aveva usato per fare il braccio sinistro del suo pupazzo;
di nuovo fu attratto dalla sciarpa e fu certo che fosse la sua, aveva persino quel piccolo difetto di fabbrica che aveva lasciato una delle estremità bianca; passò poi gli occhi sul volto del giovane e probabilmente fu quella la cosa a spaventarlo di più. Non riusciva a credere a quello che aveva davanti. L’occhio sinistro era normale, come quello di qualsiasi essere umano, ma quello destro no: era completamente rosso, senza pupilla, come un bottone; come la mano, anche questo sembrava reale, se non fosse stato per il colore quasi preoccupante.
«T-Tu… Cosa sei?»
«Non te ne sei accorto? Prima ero -disse indicando la piazza, nella voce una nota canzonatoria- e ora sono qua! Tu volevi che fossi vivo, no?»
«Non è possibile! Starò sognando… Tu non puoi essere vero!» obbiettò.
«L’Inverno ha qualcosa di magico, non trovi? La neve, le stelle, la magia. Piacere, io sono Fukase! E sono qui perché l’Inverno ha esaudito il tuo desiderio!»

*****

Len non riusciva a capire cosa gli stesse succedendo e ritrovarsi di nuovo su quella panchina fu ancora più strano. Fukase camminava avanti e indietro davanti a lui, saltava sulle altre sedute, addirittura sopra i bidoni della spazzatura, accompagnando tutti i suoi movimenti con il roteare del suo bastone da passeggio. Aveva lo sguardo vivace, continuava sorridere e lanciare occhiate divertite nella direzione di Len, che per tutta risposta se ne stava immobile, su quella panchina, cercando di capire in che tipo di situazione si fosse cacciato.
«Allora, avevi detto che qualcosa ti affliggeva… Oppure lo hai pensato mentre mi costruivi?»
Fukase balzò giù dal bidone con grazia, non sembrò nemmeno atterrare sulla neve, ma fu come se un fiocco fosse caduto giù dal cielo. Il movimento tanto aggraziato del giovane stupì Len, che finalmente si ridestò da quello stato di stupore in cui era caduto: non riusciva a credere a quello che gli stava succedendo, ma pareva realmente che Fukase lo conoscesse, che sapesse esattamente quali tasti toccare con le sue parole.
«H-Hai detto che l’inverno ti ha portato… Ehm, in vita?» chiese perplesso, forse sul fondo della gola una nota di sarcasmo che Fukase notò comunque.
«Non l’inverno come lo intendi tu, come una semplice stagione! Ma l’Inverno! Con la lettera maiuscola! Perché si sa, esista una notte ogni anno in cui l’Inverno stesso esaudisce i desideri di un qualche fortunato individuo!»
Gli occhi di Fukase si posarono su Len e questo ebbe un brivido. Non riusciva a guardare quel volto senza esserne in qualche modo turbato, quell’occhio rosso, quel bottone, era davvero fin troppo inquietante per riuscire a sostenere anche solo un’occhiata. Allora Len prese un profondo respiro, l’aria gelida a congelargli i polmoni, per poi cercare di focalizzarsi su una domanda che continuava a pressarlo.
«P-Perché sei qui?»
«Te l’ho appena detto, sei tonto? -chiese avvicinandosi in un attimo, il pugno rosso a bussare sulla testa di Len- È stato il volere del grande Inverno
«Ho capito, ma perché a me? Che motivo avresti per essere qui con me?»
Fukase rise di nuovo con quella sua risata cristallina, che ricordava proprio quella neve da cui aveva preso vita. Len non era ancora riuscito a lasciarsi abbastanza andare da farsi contagiare da quel suono, eppure ascoltarlo ridere lo fece sentire bene, come fosse stato una specie di panacea. Il pupazzo di neve fece un altro paio di balzi in avanti, quasi a raggiungere il centro della piazza, poi fece una giravolta su se stesso e posò di nuovo lo sguardo su Len, offrendogli ancora quella mano di plastica rossa mentre l’altra pizzicava la visiera del suo particolare cilindro.
«La mia purezza è data dal bianco di questa neve con cui mi hai creato, ho il potere di scacciare le tenebre che ti affliggono! Ti conosco molto più di quanto immagini, perciò ho il potere di aiutarti.»
Len, a quelle parole, ebbe l’impulso di controbattere, di dire che tutto quello che stava succedendo non poteva essere reale, che si trattava solo di un sogno o che magari poteva essersi addormentato sotto la neve ed essere morto assiderato: quella poteva essere forse la spiegazione più logica a quella situazione, ma di nuovo Fukase si avvicinò con quella sua grazia da fiocco di neve e allungò le mani verso il volto di Len. Il ragazzino si immobilizzò all’istante e vide le mani chiuse dell’altro, gli indici puntati verso la sua bocca, e un sorriso formarsi forzatamente per colpa di quel contatto. Fukase continuava a premergli le guance e a costringerlo a tirare su un sorriso a trentadue denti, poi il pupazzo parlò di nuovo.
«Non ci vuole un genio a capire che tipo di persona sei! Diligente, sei lo studente modello che ha avuto un crollo psicologico, no?»
Len scacciò via quelle mani dall’aspetto inquietante e si mise sulla difensiva, certo che quel tipo non potesse essere davvero là per volontà di una stagione che lui personalmente adorava, ma che venisse a dirgli che lo conosceva così a fondo da potersi concedere tutte quelle libertà non poteva accettarlo.
«E tu come dovresti saperlo?! Non puoi nemmeno essere reale!»
«E se non fossi reale, potrei farti questo?» chiese, pizzicando con forza la guancia destra di Len con la mano normale. Il ragazzo quasi urlò dal dolore, gli aveva fatto davvero male e sentiva la guancia pulsare e scaldarsi a causa di quel pizzico: una sensazione del genere non poteva che essere reale, perché sapeva che il dolore, nei sogni, non avrebbe potuto percepirlo senza svegliarsi. Eppure, era ancora seduto su quella panchina.
«Ebbene? Io sono reale, così come la neve che ricopre ogni cosa! Il mio candore è dato da questi cristalli che ci circondano, posso aiutarti a liberarti dall’oscurità che ti opprime. Basta che io resti al tuo fianco!»
Quelle parole restarono sospese per una manciata di secondi, poi qualcosa accadde in Len. Fukase era uno sconosciuto, un prodotto della sua mente stanca, non era nessuno di così importante con cui confidarsi e spiattellare tutte le cose che lo affliggevano, ma improvvisamente un senso di angoscia salì su per la gola di Len, che esasperato, sarebbe potuto esplodere da un momento all’altro.
Non ci fece nemmeno caso, ma poi il calore delle sue lacrime iniziò a sfiorare le sue guance infreddolite, portando con sé una serie di segreti che mai avrebbe detto a nessuno. La storia riguardo alla malattia della madre, la paura di perderla, il terrore di deluderla e continuare a comportarsi nel modo sbagliato: tutte queste uscirono dalla sua bocca come una tempesta perché Fukase era lì, ad ascoltarlo come nessuno aveva mai fatto prima.


Angolo di Zenya ^^

E torno di nuovo, questa volta con un pairing che non avevo mai e dico MAI preso in considerazione! Dopo quello che ritengo essere il successo che è stato Wish Your Smile, torno qui con un’altra coppia che coinvolge il nostro Len, ossia una LenxFukase! E vi starete chiedendo perché non sia una LenxKaito, visto che la canzone è del nostro amante dei gelati. E nemmeno io lo so, ho iniziato a shippare Len e Fukase dopo aver sentito la canzone Game Over e ho trovato che fossero carini in una storia ispirata a Snowman :3 Sì, ho bistrattato Kaito e mi dispiace un casino, ma probabilmente non sarei riuscita a scrivere questo se ci fosse stato lui >.<
La storia ha anche preso una piega leggermente creepy, ma giuro che non volevo far prendere un colpo a nessuno, fossi stata io in Len me la sarei fatta nei pantaloni a vedere uno come Fukase xD Ah, e ringraziate tutti Zenya perché ha fatto inserire Fukase nella lista dei personaggi, perché prima non c'era, povero cucciolo u.u
Io impunto tutto al fatto che WYS sia stata molto pesante, anche a livello di horror, quindi sarà rimasto qualche refuso da quella storia là, però mi serviva una pausa prima di riprendere in mano la prossima fic sui VanaN’Ice, quindi grazie per essere arrivati alla fine di questa minilong di non so quanti capitoli e alla prossima :3


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Capitolo 2
*** Snowy Night - Second ***


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Snowy Night—Second


Era tornato. Len era di nuovo in quel piazzale dopo aver litigato nuovamente con la madre perché quel giorno era tornato a casa prima, verso l’ora di pranzo, saltando tutte le lezioni del pomeriggio.
Il ragazzino aveva detto all’insegnate di non sentirsi bene e che aveva bisogno di tornare a casa; era stato trattenuto per un paio d’ore in infermeria, evitando in tutti i modi che l’infermiera della scuola lo toccasse e verificasse che stesse realmente bene: quasi si era barricato dietro alla tendina che separava il letto dalla scrivania della donna per evitare che questa gli si avvicinasse e gli parlasse.
Len non aveva mai smesso di pensare alla notte precedente e continuava a chiedersi se quel Fukase fosse reale, ma non poteva credere nella sua esistenza: insomma, quel ragazzino aveva un occhio che pareva fatto di plastica! Oppure non voleva crederci perché, davvero, tutto quello che era successo, le sue movenze, persino il suo modo di parlare esulava da qualsiasi cosa umana. Nessuno avrebbe mai potuto credere a Len, se questo avesse deciso di raccontare a qualcuno di quello strano incontro.
Un ragazzo dalla pelle quasi bianca e i capelli rossi, con in testa un secchiello da mare e un rastrello di plastica a fargli da mano destra non poteva essere reale. Poteva essere l’invenzione di uno scrittore, di un mangaka o di chiunque altro avesse una fervida immaginazione, ma Len sapeva di non avere chissà quale spiccata vena artistica da poter creare un personaggio particolare come Fukase. Eppure, quello stesso Fukase pareva conoscere Len molto più di quanto lui avesse fatto intendere dopo quella sua figuraccia, in cui il suo sedere era rimasto per quasi troppo tempo nella neve fresca.
Il giovane si era seduto di nuovo su quella panchina da cui tutta quell’assurdità era partita, mentre attorno a sé mamme e bambini giocavano attorno a quel pupazzo che lui stesso aveva costruito la notte prima. Nessuno pareva volersi avvicinare, nessuno lo aveva toccato o aveva rivendicato quel secchiello divenuto di stoffa la notte precedente, per poi continuare ad essere di plastica di fronte agli occhi dei comuni mortali.
Len doveva in qualche modo sentirsi speciale per quello che gli era stato concesso e non capiva come potesse essere possibile quello: il suo pupazzo lo fissava alla luce di quel Sole calante di dicembre, sul volto tondo e bianco quella fila di sassolini a disegnare un sorrisetto quasi malizioso. Di fronte a quel volto che lui aveva creato, non riusciva a capire da dove fossero usciti fuori quei particolari del vero volto di Fukase: lo aveva notato, nonostante fosse terrorizzato da quell’occhio rosso, che fosse un ragazzo carino, dall’aria piacevole. Certo, era inquietante, ma aveva trovato quei lineamenti belli, quasi affascinanti e magnetici. E tutte quelle piccole caratteristiche che lui aveva messo sul volto del pupazzo erano rimaste sul viso di Fukase: quei pezzetti di nastro adesivo che Len aveva messo sulla neve erano rimasti sul suo viso, un’altra forte nota di colore su quel volto bianchissimo.
«Se avessi avuto due bottoni neri, magari a questo punto non sarebbe stato così tanto inquietante…» disse in uno sbuffo di condensa, con la strana consapevolezza di star iniziando a credere per davvero nell’esistenza di Fukase. Len si era ritrovato a pensare a lui tutto il giorno, chiedendosi cosa avesse fatto per tutto il tempo, se quella sua immobilità fosse dovuta alla presenza di altre persone che non fossero Len o se, molto semplicemente, se ne fosse stato immobile così come sarebbe dovuto essere normale per un pupazzo di neve.
Len tornò a fissare quella versione inanimata di Fukase e notò che parte della neve che componeva il corpo era stata spostata, da una parte sciolta, dal Sole e dai bambini che giocavano con la neve. Un pensiero strano gli attraversò la mente e si chiese se magari quegli abiti stracciati fossero dovuti alla sua poca dimestichezza con la scultura, magari perché non aveva prestato tutta quell’attenzione per far sì che il suo corpo fosse ben levigato e liscio. Insomma, se il suo viso e la sua mano avevano quelle due caratteristiche tanto peculiari, la sua supposizione poteva anche essere vera.
Len si alzò e andò verso il pupazzo, cercando di trovare della neve che non presentasse tracce di sporco a causa di tutti i bambini che erano venuti a giocare: se davvero quel problema con i suoi abiti fosse stato provocato dalla sua poca cura, allora tanto valeva cercare di sistemare il pasticcio fatto la notte prima.
«E se cambiassi quel maledetto occhio rosso? E quella mano?» si chiese, il labbro inferiore stretto tra i denti in un’espressione perplessa. Ma poteva davvero farlo? Insomma, finché si trattava di sistemare quelli che potevano essere i suoi abiti non sembravano esserci problemi, ma toccare il suo volto e modificarlo a suo piacimento! Len sentì un brivido percorrerlo dalle dita dei piedi fino alla punta dei capelli biondi, come se si sentisse di nuovo osservato da quel ragazzo di neve. Scosse la testa per togliersi di torno quella brutta sensazione, poi allungò una mano verso il piccolo rastrello rosso. Parve normale, di comunissima plastica, ma quando fece per tirarla via, ebbe come l’impressione che questa si muovesse e cercasse di allontanarsi dalla sua presa.
Il gesto fu così concreto che Len credette per davvero a quello che era successo la notte prima, ma la sua parte più razionale non voleva ancora darla vinta a quell’assurdità partorita dalla sua mente sul punto di un tracollo.
«Ok, non vuoi che ti tocchi! Ho capito l’antifona!» disse Len alzando le braccia, rassegnandosi agli strani giochetti a cui lo stava sottoponendo la sua mente, perciò tornò al suo posto e continuò a rimanere con lo sguardo fisso su quel pupazzo, posizionato proprio sotto ai raggi del Sole.
Rispetto alla notte precedente, quel giorno pareva anche fare leggermente più caldo, la neve che c’era per terra non era poi molta, ma poi un’altra domanda sorse spontanea nella sua mente: cosa ne sarebbe stato di Fukase se avesse smesso di nevicare? Nel suo paesino era normale che nevicasse, ma questa non durava mai più di una settimana perché finiva per sciogliersi in poco tempo, tra sbalzi di temperatura non da poco e i soliti spazzaneve. Quindi cosa sarebbe successo a quel dono dell’Inverno, come si era chiamato Fukase stesso, se la neve si fosse sciolta tutta? Per quello che poteva saperne Len, poteva solo aspettare di nuovo che quel pupazzo si animasse e gli parlasse di nuovo. O meglio, sarebbe rimasto seduto ad aspettare che Fukase si ripresentasse, in modo da capire se quello che era successo potesse essere per davvero reale. Se poi non fosse successo nulla, Len avrebbe potuto finalmente metterci una pietra sopra e dare una spiegazione più logica a quello che aveva provato, catalogando tutto sotto la voce “allucinazione”.
Eppure c’era qualcosa di affascinante in quella storia, perché era certo di essere tornato a casa quasi alle tre di notte, non aveva sognato di aver confidato a quel ragazzo tante di quelle cose che nessuno nemmeno sospettava, era certo di avere i vestiti bagnati impregnati di acqua e ghiaccio. In più era tornato a casa senza la sua sciarpa, quella era ancora là al collo di Fukase.
«So perché sono qui… È perché quel coso mi impedisce di pensare alla mamma, alle bugie che le dico per non farla arrabbiare. Però tanto lei lo capisce subito se mento…»
E di nuovo, Len ripensò a quello che gli aveva detto il pupazzo, mentre le sue mani premevano sulle sue guance. Lui sapeva che tipo di persona fosse Len, che tipo di studente era e che cosa stesse passando. Glielo aveva fatto intendere con quello sguardo quasi agghiacciante.
«Ha detto di essere in grado di scacciare le tenebre che mi affliggono… Lui la fa facile, ma come può conoscermi così a fondo?» ripeté per l’ennesima volta. Quella domanda continuava a ronzargli in testa, infastidendolo come fosse una zanzara d’estate. Eppure gli aveva creduto, gli aveva raccontato davvero tanto, ma solo in quel momento, dopo essere tornato, si era reso conto del fatto che quella sua confessione era composta da tutti i suoi pensieri mentre lo costruiva. Se davvero Fukase aveva sentito quelle sensazioni, il momento della sua creazione avrebbe dovuto rappresentare un qualche tipo di legame inscindibile tra i due.
Len si passò una mano tra i capelli, arruffando quella chioma già di per sé indomabile, chiedendosi da dove avesse tirato fuori un discorso tanto assurdo su un legame di quel tipo. Il destino non esisteva, era quello che si era sempre detto, e credeva che ogni cosa accadesse in base alle decisioni fatte nella vita: Fukase non era stato una decisione, era stato un modo per ammazzare il tempo e se davvero il destino fosse esistito sul serio, allora aveva deciso di tirargli uno strano tiro mancino.
Tornò a fissare quel pupazzo e gli fece una linguaccia, sperando che questo, magari, rispondesse e si facesse vedere, ma ovviamente tutto ciò non sarebbe successo di fronte alle persone normali, che dall’Inverno non avevano ottenuto nessun tipo di dono. Avrebbe voluto chiamarlo e intimargli di farsi vedere ma, dopotutto, lui era già là, sotto gli occhi delle persone comuni.
Un bambino corse velocemente accanto al pupazzo, un’altra lo rincorreva con una palla di neve in mano, per poi colpire la testa di Fukase; Len ebbe una brutta sensazione e strizzò gli occhi per vedere i danni fatti: il sorriso di sassolini aveva finito per piegarsi di lato, dando a quel pupazzo un’espressione interrogativa. Len cercò di trattenere una risata, quella faccia non s'addiceva al ragazzo che aveva conosciuto la sera prima, tanto che decise di lasciarlo in quelle condizioni per vedere poi come si sarebbe trasformato il suo volto. Non lo avrebbe di certo cambiato lui, ma se qualcun altro lo faceva al posto suo, il ragazzo poteva stare tranquillo.

Attese per ore, senza che nulla accadesse. Si era mosso giusto un paio di volte per sistemare il corpo del suo pupazzo e per riscaldare il suo; ogni tanto se ne andava fino al bar dall’altra parte della strada e si prendeva qualcosa di caldo da bere, senza mai distogliere lo sguardo dal pupazzo in mezzo alla piazzetta.
Quel locale era il posto preferito da Len e dai suoi amici, ci avevano passato spesso interi pomeriggi a chiacchierare e a scherzare: avevano addirittura fatto amicizia con i proprietari, ma da quando sua madre si era ammalata, Len aveva iniziato a non sopportare più nemmeno quel luogo.
Non aveva tempo per nessuno, nemmeno per quei due ragazzi che conosceva da anni e a cui voleva un bene dell’anima, ma aveva davvero troppe cose a cui pensare. Non solo la madre era cambiata, ma i suoi amici avevano detto che anche lo stesso Len non era più quello di una volta: se prima il giovane era un ragazzo pieno di vita e dalla grande forza di volontà, da qualche tempo appariva come una persona fredda, apatica e scorbutica. Il suo peggioramento era dovuto a quel morbo, il comportamento della madre si era riflesso nelle sue azioni e nel suo carattere, che aveva assorbito tutta quell’energia negativa che lo faceva sentire una persona orrenda. Si portò nuovamente la tazza alle labbra e fissò Fukase dalla vetrina del bar, mentre i bambini ancora gli correvano attorno.
Len non vedeva l’ora che la piazza si liberasse, che l’intero paesino andasse a dormire, perché era davvero troppo curioso di sapere cosa sarebbe successo, un po’ per semplice divertimento, un po’ per curiosità, un po’ per quel senso di benessere che gli aveva fatto provare il pupazzo.
«Ma dovrei essere a casa a fare i compiti… Dovrei cercare di aiutare la mamma…»
E di nuovo Len venne investito da quel senso di inutilità che lo aveva accompagnato per tutti quei mesi, per poi venir soppresso dal suo senso di apatia tanto pesante da lasciarlo senza forze. Era stufo della situazione, era stanco di doversi mettere da parte e dover guardare la madre stare male senza che lui potesse muovere un dito.
E se Fukase, o qualsiasi cosa lui fosse, poteva aiutarlo a rendere la sua vita un pochino più sopportabile, allora avrebbe aspettato, anche a costo di rimanere sotto la neve per tutta la notte.

*****

Alla fine, anche Fukase si ripresentò. Len aveva notato il cambiamento nel suo corpo, i suoi vestiti avevano un aspetto decisamente migliore, anche se leggermente più sporco. Si notava la neve appena appena macchiata, non era più candido come la notte precedente ma in questo modo riuscì a dare conferma alla sua piccola tesi, secondo il quale qualsiasi cosa fosse accaduta al pupazzo questa si ripercuoteva su Fukase.
Il giovane di neve camminava in tondo per la piazza, con un atteggiamento molto meno giocoso rispetto a quando Len lo aveva conosciuto, ma sul viso continuava a mantenere quello stesso sorriso, senza mai smettere di guardare il suo creatore. Camminava con il bastone da passeggio in bilico sulle mani, quella rossa di plastica a tamburellare sulla superficie in legno, mentre sul volto si alternava quello strano cipiglio a metà tra il divertito e il perplesso.
«Che hai?» chiese Len, che lo seguiva a pochi passi di distanza mentre questo girava attorno alla sua postazione da uomo di neve. Il ragazzino non sapeva se essere divertito dalla faccia di Fukase, da una parte ne era intimorito, ma di paura non ne aveva mai avuta. Il pupazzo inclinò la testa di lato e fece un balzo, allontanandosi da Len per poi atterrare sulla panchina preferita del ragazzo.
«Non ti è venuto in mente di sistemarmi la faccia?»
«Eh?»
«Mi hai sistemato i vestiti! Potevi anche darmi un’aggiustata, dopo che quella ragazzina mi ha tirato una palla di neve in faccia! Mi sento tutto scombussolato…»
«Ma tu hai allontanato la mano, volevo mettertene una normale! Quella mi mette ansia…»
«Ma a me piace! Non ti azzardare a togliermi il mio occhietto rosso! E la mia mano!» disse, tirando fuori il labbro inferiore e assumendo un’espressione a metà tra il sarcastico e l’imbronciato.
Len piegò la testa di lato e fissò intensamente quel volto bianco e rosso, sbirciando cosa potesse combinare quel ragazzo sotto al suo cappello a cilindro. Fukase teneva lo sguardo leggermente abbassato, un sorrisetto strano a incresparli le labbra: Len non riusciva infatti a vedere il suo volto, perciò corse nella sua direzione. Il ragazzino era incuriosito dall’improvvisa calma di quel giovane che si era intromesso nella sua vita come una bufera di neve, senza nessun preavviso.
E quando Len fu abbastanza vicino, il movimento repentino di Fukase quasi lo vece finire con le gambe all’aria, poi il suo bastone iniziò a picchiettare sulla chioma bionda del ragazzino.
«Che diavolo ti prende? Mi hai fatto venire un colpo!»
Fukase ridacchiò e saltò giù dalla panchina, per poi mettersi davanti a Len e spingerlo per terra, nella neve, con entrambe le mani che poi rimasero per aria. Aveva ancora quell’espressione strana in volto, poi questo si contrasse in un sorriso a trentadue denti mentre fissava il suo creatore di nuovo col sedere surgelato. Parve improvvisamente tornare quello della sera precedente, infatti iniziò a girare attorno a Len roteando il suo bastone, poi si chinò dietro al ragazzo e poggiò le mani sulle sue spalle.
Len non capiva dove volesse andare a parare, non aveva detto poi molto quando aveva preso di nuovo vita da quel pupazzo; eppure non ebbe il tempo di pensarci che qualche fiocco iniziò a cadere di nuovo dal cielo, ma in un modo che Len non aveva mai visto. Attorno a sé il suo paesino già dormiva, pareva essere tutto immobile, tanto che nemmeno il vento soffiava più, ma sulle strade non vi era neve: sembrava che questa non arrivasse nemmeno sulle vie, ma si concentrasse solo su quella piazzetta circolare, solo per quelle due anime ancora sveglie in quella notte d’inverno. Len rimase incantato da quella vista, era come se fosse stato messo dentro una di quelle palle con la neve finta, in una specie di bolla di pace in cui c’erano solo lui e Fukase.
«È opera tua? Puoi anche far nevicare?»
Fukase rise e avvicinò il volto a quello di Len, soffiando sul suo orecchio un fiato gelido dai suoi polmoni di ghiaccio; la vicinanza fu quasi imbarazzante, il ragazzo non aveva mai avuto nessuno così vicino, tanto che le sue guance si tinsero di un rosso peperone, che però svanì appena sentì la presa della mano di plastica farsi leggermente più stretta.
«Io posso fare un sacco di cose, mio caro!» disse il pupazzo, per poi mostrare i denti bianchi come la sua neve. Quella fu l’ultima cosa che Len vide, perché si ritrovò poi sommerso da un morbido cumulo di cristalli bianchi.
Fukase rise di nuovo e si allontanò, lasciando Len sdraiato a terra senza capirne il motivo; non ci volle molto che il ragazzino si rimise in piedi, scrollandosi il gelo di dosso nonostante qualche fiocco si fosse insinuato nel colletto del suo maglione.
«Questo significa guerra!» urlò Len, senza pensare al fatto che la sua voce tanto gioiosa potesse svegliare l’intero vicinato: non gli importava di farsi sentire, nessuno aveva importanza in quel momento, doveva solo farla pagare a Fukase per quel suo gesto e, per quanto ne sapeva, fu davvero come trovarsi in uno di quei souvenir con la neve finta.
Len si chinò a prendere una manciata di quel morbido cumulo in cui era stato gettato, ma non ebbe nemmeno il tempo di formare una pallina che venne colpito in faccia dal suo pupazzo. Fukase continuava a ridere con quella sua risata cristallina, rilassante, poi nella sua mano si formò un’altra sferetta candida, delle stesse dimensioni di una pallina da tennis; continuava a farla saltare nel palmo rosso, continuando a sbeffeggiarsi di Len con quel suo viso tanto particolare. La sfera saltava e roteava come avrebbe fatto un pallone da basket, tra le dita di Fukase pareva avere tutta un’altra fisica, come se anche le leggi della gravità e della scienza non potessero nulla contro quel dono dell’Inverno.
Il ragazzino cercò quindi di evitare l’ennesimo proiettile bianco, ma Len non aveva possibilità di vincere contro Fukase. Per quanto corresse per la piazza, per quanto cercasse di evitare i suoi colpi, sapeva di non poter vincere una battaglia a palle di neve con un pupazzo venuto fuori da chissà dove, composto per il 99% da cristalli di ghiaccio: lui aveva dalla sua parte il potere dell’Inverno, del suo padrone magico che lo aveva portato alla vita, quindi era ovvio che, qualsiasi gioco comprendesse un loro elemento, Len non aveva possibilità di vittoria.
Ma nonostante ciò continuò a correre, a cercare di avvicinarsi a Fukase per riuscire a prendere meglio la mira, fissando quei due pezzetti di nastro adesivo rosso come fossero il suo bersaglio. Proprio sul naso, in mezzo agli occhi. Avrebbe tanto voluto riuscire a spiaccicargli una palla di neve su quel visto troppo sprezzante, avrebbe voluto fare quello che aveva fatto la bambina quello stesso pomeriggio, giusto per togliersi dalla testa quello sfizio. Fino a quel momento, Len non si era mai sentito tanto vivo, non aveva mai provato un simile calore, perché aveva come l’impressione che Fukase riuscisse a toccarlo in modo più profondo, riuscendo a raggiungere aspetti del suo carattere che nessuno dei suoi amici riusciva a conoscere. Non era in grado di dare un nome a quella vitalità che lo aveva investito, non riusciva a credere a quanto Fukase riuscisse ad attirare la sua attenzione, tanto che aveva smesso di pensare agli avvenimenti della sua vita per lasciare che la sua mente si concentrasse solo su quella battaglia a palle di neve.
«Pensi davvero di riuscire a battermi?» lo provocò ancora Fukase, che portò poi la mano di plastica al cilindro, per toglierselo quindi con le stesse movenze di un prestigiatore. Per un istante, Len credette che il pupazzo potesse anche far apparire un coniglio di neve dal cappello, ma non era sicuro di questa sua seconda tesi, perché, dopotutto, non aveva aggiunto nulla di strano al suo pupazzo perché potesse fare qualcosa del genere. Tanto valeva rimanere in allerta e cercare di capire le azioni di un tipo tanto strano come Fukase.
«Che fai?»
Len si immobilizzò, incuriosito dal gesto del suo fantoccio. Lo vide sorridere e ammiccare nella sua direzione, il bastone da passeggio tenuto a mezz’asta a picchiettare sul cappello. Si mise ad osservare attentamente quei gesti da mago, in seguito Len si mosse di qualche passo, sempre riluttante dopo l’ultimo spavento che Fukase gli aveva fatto prendere.
«Cosa staresti facendo? Guarda che questa volta non mi farò fregare!»
Fukase ignorò tranquillamente le parole di Len, poi balzò di nuovo di fronte a lui. I suoi piedi atterrarono di nuovo nella neve con la stessa grazia di un fiocco, poi, con la pesantezza di un masso, Fukase calcò sulla testa di Len il suo cappello a cilindro, spingendo talmente forte da infilare quasi tutta la testa del ragazzo nel secchiello di stoffa. Il pupazzo riprese a ridere e continuò a spingere, divertito dall’ennesimo scherzo fatto ai danni del suo creatore, che cercava disperatamente di togliersi quel coso dalla testa.
Len non riusciva a vedere, sentiva solo il fiato freddo di Fukase davanti al naso, la sua risata e il movimento convulso delle sue mani per costringerlo a rimanere con la testa incastrata: il ragazzino iniziò ad inveire contro il pupazzo, ma non sembrava veramente arrabbiato, nemmeno infastidito, perché dopotutto si stava divertendo.
«Allora, hai detto una bugia a tua madre! E tu non mi racconti niente?»
«Eh?»
La testa di Len riuscì finalmente a liberarsi del cappello, gli occhi si posarono sul viso candido di Fukase per poi guardarlo di traverso. Che senso aveva rovinare un tale divertimento con quella domanda? Len accennò una faccia contrariata, resa comica dalla neve che aveva sul naso, per poi ritrovarsi a fissare direttamente quegli occhi.
Non lo aveva ancora guardato attentamente negli occhi, lo turbavano ancora, ma in quel momento non ci fece caso. Voleva divertirsi, Fukase aveva reso tutto così bello e spensierato che Len si era sentito leggero, quasi potesse essere un fiocco di neve lui stesso. Ma poi il pupazzo aveva rovinato tutto.
«Come pensi che possa aiutarti, se non mi dici niente? -Fukase inclinò la testa di lato, la lingua a spuntare tra quelle labbra candide per prendersi gioco di Len- Su, su! Sputa il rospo! Prima il dovere, poi il piacere!»
Fukase si allontanò di nuovo, per poi rimettersi in testa il suo cappello a cilindro. Len lo osservò spostarsi con le solite movenze talmente leggiadre da non sembrare reali, chiedendosi cosa gli fosse preso.
«Quanto tempo credi che possa avere? Quanto credi che possa durare un miracolo
«Miracolo? Ti sei appena chiamato “Miracolo”?» chiese Len, ridendo sotto ai baffi.
«Non era quello che intendevo, ma sì! Io sono un Miracolo, su questo non ci sono dubbi! -disse, fin troppo spavaldo per i gusti di Len- Ma rispondi alla mia domanda.»
«Non molto?»
«Non rispondermi con un’altra domanda! Ma sì, i miracoli durano poco; ti conviene sfruttare il tuo finché dura!»
Il tono di Fukase non sembrava ammonitore, Len era certo che prima o poi si sarebbero dovuti salutare, ma non si aspettava che lui gli dicesse certe cose senza peli sulla lingua. Il pupazzo gli aveva fatto quel quesito con il sorriso sulle labbra, non si era mai scomposto, ma prima che Len potesse di nuovo controbattere, Fukase saltò via.
«In che modo dovrei sfruttare questo
Fukase atterrò sulla panchina e si sedette, gli occhi puntati sulla figura di Len. Il pupazzo dondolava le gambe pallide ed esposte alle intemperie, i gomiti poggiati sulle ginocchia e il volto sui palmi; sul viso, Len vide quell’espressione strafottente che da una parte lo irritava, dall’altra lo divertiva.
«Cosa hai fatto oggi?» chiese Fukase, d’un tratto e senza mezzi giri di parole.
«Eh?»
«Cosa hai fatto oggi?»
«S-Sono stato ad aspettare che tornassi! Mi hai visto, sei stato tutto il tempo di fronte a me!» replicò Len, leggermente stizzito. Non gli piaceva la piega che aveva preso la situazione, aveva solo intenzione di divertirsi e l’idea di doversi mettere lì a parlare non gli andava a genio. Aveva già detto abbastanza la prima sera, non aveva intenzione di rinunciare ad un tale svago: nemmeno con i suoi migliori amici riusciva a sentirsi così, libero e senza pensieri.
«BIIIP! Risposta sbagliata! Saresti dovuto andare a casa dalla tua mamma!»
«Ma ti ho già detto tutti i miei problemi, ero più interessato a te! Volevo vedere se non mi fossi immaginato tutto!»
«BIIIP! Di nuovo risposta sbagliata! Devi interessarti a tua madre!»
Len digrignò i denti e sentì la rabbia montargli su per la testa. Era stufo di dover continuare a pensare a tutte quelle cose che lo mettevano di cattivo umore, gli piaceva l’idea di essere lì a notte fonda con una creatura magica e non aveva intenzione di sprecare il suo tempo in quel modo. Ma nonostante la sua rabbia fosse ben visibile sul suo volto, Fukase non accennava a cambiare espressione, attendendo ancora che il giovane gli desse la risposta che si aspettava.
«Perché credi che io sia qui? Sono tuo amico, questo sì, ma quale credi sia il motivo per cui sono apparso e per cui l’Inverno ti ha concesso un tale Miracolo
«Dimmelo tu! Se continuo a sbagliare risposta, allora dimmi tu perché sei qui! Io proprio non lo so, ma so solo che voglio passare qualche ora con te. Con te sto bene e non voglio passare il tempo a deprimermi!» sciorinò Len , ormai al limite dell’esasperazione.
Fukase inspirò, alzandosi dalla panchina e muovendosi verso Len. Non aveva smesso di sorridere, era come se quelle parole lo avessero lusingato e gli avessero dato nuova energia, tanto che gli ultimi passi furono compiuti quasi galoppando. Allungò la mano rossa verso Len e gli pizzicò di nuovo la guancia, per poi strattonarla a mo’ di nonna. Il sorriso che si formò sulle labbra di Fukase era chiaro, si stava apprestando a prendersi di nuovo gioco di lui, ma ciò che fece il pupazzo lasciò Len interdetto.
«Sono reale, questo ormai è un dato! Però sono qui per aiutarti a capire che quello che fai non è giusto, sia nei confronti di tua madre, dei tuoi amici e sia nei tuoi… Io posso farti divertire, posso aiutarti a rimetterti in sesto, ma sei tu quello che deve fare il grosso del lavoro!»
La mano di Fukase si allontanò dal volto di Len, poi il pupazzo si voltò facendo roteare il suo bastone da passeggio. Riprese infatti a camminare come aveva fatto quando era tornato ad essere il Fukase animato; dava le spalle a Len e fischiettava, la neve che ancora cadeva solo sulle loro teste, come fosse stato l’ennesimo dono dell’Inverno.
Len si guardò attorno e la sua mente corse alla madre e ai suoi amici, chiedendosi come avrebbero reagito loro alla vista di Fukase: per un attimo, avrebbe voluto condividere quel Miracolo con loro, far vedere loro la meraviglia che poteva accadere a notte fonda e condividere con loro quella gioia che Fukase riusciva a dargli. Ma non avrebbe potuto farlo, almeno non con quel suo atteggiamento tanto pessimistico e scorbutico che li aveva allontanati. Si era comportato male, con tutti, e Fukase aveva fatto chiarezza su quell’aspetto che lui non riusciva a vedere. Len era certo che il suo atteggiamento fosse lecito: la madre non era stata buona con lui, perciò il suo modo di fare si era riflesso in quel tipo di risposta nei confronti di quella donna malata, ma era sbagliato.
«Allora, abbiamo capito? Len, sei davvero un testone!»
Len sentì il suo nome per la prima volta da quel giovane di neve che lo aveva sempre chiamato testone, capoccione o tonto. Quel suono fu incredibilmente dolce, non si aspettava che il suo nome potesse farlo trasalire in quel modo, ma Fukase davvero era in grado di scombussolarlo dalla testa ai piedi. Il ragazzino prese un respiro più profondo del solito e annuì, consapevole che qualcosa andava fatto, che non poteva continuare ad agire in quel modo così egoistico.
Non era colpa di nessuno se le cose avevano preso quella piega, ma era lo stesso Len il responsabile per aver peggiorato la situazione a tutti con il suo comportamento e finalmente lo aveva capito. Tutto grazie a quel dono dell’Inverno che prendeva il nome di Fukase.


Angolo di Zenya ^^
E Zenya torna di nuovo, prima che il semestre la divori e non si faccia più vedere! E voi vi chiederete quando posterò l’ultimo capitolo, ma nemmeno io lo so >.< Ebbene sì, siamo a metà della storia tra Len e Fukase, perciò il prossimo capitolo sarà l’epilogo (mi piacciono le three shots ^^). Come al solito ringrazio chiunque abbia letto/ricordato/visto di sfuggita/recensito questa storia e spero che il finale possa essere di vostro gradimento, anche se mi sento rallentata dalla mole spropositata di storie sui VanaN’Ice che mi stanno venendo in mente! Vi ricordo che sono sempre aperta alle critiche e a qualsiasi cosa vi venga in mente, quindi non esitate a dire la vostra :3 Ci vediamo alla prossima o quando mi deciderò a finire quella KaitoxGakupo a cui sto lavorando in contemporanea a questa ^^
Un saluto,
Zenya :*

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Capitolo 3
*** Snowy Night - Last Night ***


Snowman pt. 3 finale html

Snowy Night – Last Night


Len sedeva alla sua scrivania, gli occhi puntati su quella pila di compiti fatti. Non ricordava nemmeno quanto fosse piacevole mettersi così tanto d’impegno in qualcosa: si sentiva davvero soddisfatto e fiero di sé per essere tornato in carreggiata.
Quel giorno stesso era tornato a casa appena terminate le lezioni, sul viso un’espressione così determinata che la madre non sembrava averlo riconosciuto tanto era stata la foga con cui aveva aperto la porta. Il ragazzino aveva varcato la soglia di casa come un fulmine, sfilandosi le scarpe senza nemmeno fermasi a sedere, per poi tornare dritto quasi con un saltello; era poi entrato in cucina come se fosse stato inseguito dal Diavolo in persona e aveva scoccato un bacio sulla guancia della madre, guardandola come se la litigata del giorno prima non fosse mai avvenuta. Non aveva nemmeno detto niente, semplicemente si era fiondato in casa con un’energia tale che la donna non era riuscita a capire cosa fosse appena successo. Fu come se in quella piccola abitazione a due piani si fosse insinuata una piccola tormenta di neve gialla, che aveva scombussolato qualsiasi cosa si fosse ritrovata davanti.
E non ci mise nemmeno un minuto a salire per le scale del duplex in cui viveva. Era salito per quella rampa quasi due gradini per volta, si era infilato in camera e si era chiuso la porta alle spalle. Len non si era nemmeno reso conto di tutta la forza che aveva ottenuto in poco meno di ventiquattro ore, eppure si era ritrovato chino sulla sua scrivania a studiare e finire una valanga di compiti che aveva lasciato indietro. Prima di lui, Len non si sarebbe aspettato un recupero di quel tipo, si era sentito un po’ come quei corridori che, a pochi metri dal traguardo, riuscivano a compiere quegli scatti in grado di rimetterli in pari con gli altri, riuscendo anche a sorpassarli e vincere la corsa. Un po’ come quella sensazione che aveva durante gli allenamenti del circolo di atletica leggera a cui presto sarebbe tornato.
Certo, la sua mente era sempre rivolta a Fukase, molti dei suoi appunti erano intervallati da strani schizzi prima del volto del suo magico amico, poi da disegni più semplici di qualche pupazzo di neve.
Se ne accorse, infatti, solo quando ebbe finito di studiare e rise di fronte ai suoi tentativi di disegnare Fukase: non era mai stato bravo in arte, ma una parte di sé continuava a pensare al suo pupazzo di neve. In sole poche ore, quel giovane figlio dell’Inverno era riuscito a farlo tornare sulla retta via, le sue parole lo avevano scosso talmente tanto che per un attimo ebbe l’impressione di essere stato buttato in mezzo a una tormenta di neve. Un pizzicotto sulla guancia, un paio di frasi dette nel modo giusto e Fukase era stato in grado di mettergli davanti al naso la dura verità: il suo comportamento era stato il riflesso dello stress della madre. Lui aveva semplicemente messo in chiaro quanto fosse stata sbagliata la sua reazione, tanto che Len non ebbe modo di obiettare e dire la sua. Ma, alla fine, non poteva dire comunque nulla, perché il pupazzo aveva ragione e lui torto marcio.
«Ma potrò vederlo oggi?» si chiese Len, stiracchiandosi e portandosi le mani ai capelli lasciati sciolti. Dondolava la testa e fissava, tra tutti quegli scarabocchi, quello che più di tutti somigliava a Fukase, tanto che aveva persino colorato i suoi tratti distintivi con la penna rossa. Nel suo disegnino, il pupazzo aveva gli occhi molto più grandi rispetto alla realtà, aveva il solito sorriso sprezzante e il suo cappello a cilindro, che però Len aveva rappresentato nella sua forma di secchiello da spiaggia. Anche in quello scarabocchio, aveva quell’espressione incoraggiante che Len aveva apprezzato e di cui aveva un disperato bisogno; ebbe come la sensazione di aver voluto ritrarre quel volto proprio per non dimenticare, nemmeno per un secondo, la sensazione benefica che lui era riuscito a dargli.
Poi il suo sguardo corse alla finestra e vide quel tramonto limpido, seguito di una giornata in cui il cielo era stato tutto il tempo privo di nuvole. Sorrise e si lasciò andare in una risata liberatoria, eccitato per quello che il pupazzo si sarebbe inventato al suo ritorno in piazza. Lo faceva arrabbiare, lo faceva ridere, Fukase riusciva a fargli provare talmente tante sensazioni contrastanti che non riusciva proprio a inquadrarlo.
Quando sarebbe uscito di casa? Avrebbe detto alla madre dove sarebbe andato? Alla fine, poco importava, perché sicuramente Fukase sarebbe stato là ad aspettarlo.
«Chissà cosa potrebbero dire Kaito e Gakupo se lo vedessero? Se glielo raccontassi soltanto, mi prenderebbero in giro a vita!» ridacchiò, gli occhi chiusi a pensare ai suoi due migliori amici, che in quel periodo aveva ignorato e certamente ferito.
Quella mattina era infatti riuscito a ricucire, almeno un pochino, i rapporti con quei due ragazzi: Len era arrivato a scuola con un grosso sorriso sul volto al posto di quella sua espressione mogia degli ultimi mesi, aveva preso posto accanto a Gakupo e gli aveva rivolto un’espressione raggiante. Il suo compagno di banco non poté fare a meno di guardarlo di traverso, passandosi le dita tra i lunghi capelli porpora tenuti sempre legati con un elastico, confuso da un cambio tanto repentino nell’umore di Len.
Ma il ragazzino sembrò non aver notato l’espressione perplessa dell’amico, nemmeno lo sguardo che questo aveva lanciato a Kaito come se necessitasse del suo aiuto. Come a chiedergli se il loro vecchio amico fosse stato sostituito da qualche alieno che avesse preso il suo posto.
Per tutta la durata della giornata scolastica, Len era stato di buon umore, pensando di tanto in tanto a Fukase, per poi approcciarsi di nuovo agli amici di una vita.
Il ragazzino aveva chiesto loro scusa per il suo comportamento e aveva promesso loro che sarebbe tornato quello di prima, che avrebbero di nuovo giocato ai videogiochi tutti e tre insieme e che si sarebbe dato una calmata, non solo per il bene dei due ma anche per quello della madre. Certo, la reazione dei due non fu proprio delle migliori, ma Len pensò fosse normale per loro essere abbastanza titubanti, perché dopotutto si era ripreso in modo tanto inaspettato. Ma le sue intenzioni erano buone e avrebbe fatto di tutto pur di dimostrarlo. A loro teneva davvero molto e non avrebbe permesso a una situazione del genere di allontanarli in modo irreparabile.
Dei due, Kaito era quello che aveva preso peggio il cambiamento di Len, eppure non gli ci volle molto per dare all’amico di sempre una seconda chance, tanto che quel moto di entusiasmo aveva preso sia lui, sia Gakupo. Proprio non era riuscito a tenere il broncio, Len lo aveva notato perché, come lui, anche Kaito aveva passato l’ultimo periodo con i nervi a fior di pelle: certo, lui non aveva problemi gravi in famiglia, ma semplicemente si era fatto influenzare dal comportamento dello stesso Len, andando a stressare di conseguenza il più paziente Gakupo. Per Kaito era stato un continuo lamentarsi di come Len sembrasse snobbarli, guardarli dall’alto in basso e di continue mani passate tra i corti capelli azzurri per cercare di ovviare allo stress sempre in agguato.
Alla fin fine, Len era riuscito a capire quanto potesse essere distruttivo un tale comportamento, quanto una reazione sbagliata potesse mettere in difficoltà non solo lui, ma anche le persone che aveva accanto. Se ne era accorto in tempo e a quanto pareva le cose avevano iniziato a girare per il verso giusto. Lentamente, ma verso la strada giusta.
Però ovviamente Len non aveva affatto detto loro il perché del suo mutamento improvviso, non sapeva se fosse possibile dire loro di Fukase. Però dato che le cose sembravano aver ripreso il loro corso originale, ci aveva fatto un pensierino. Kaito e Gakupo erano sempre stati due ragazzi divertenti e pieni di vita, un po’ come Fukase, e Len si era chiesto più volte, dopo aver chiesto scusa, come sarebbe stato poter giocare con tutti e tre. Magari, con loro due al suo fianco, sarebbe riuscito a battere Fukase in una battaglia a palle di neve, oppure semplicemente i tre sarebbero caduti di fronte all’invincibilità del miracoloso pupazzo di neve.
Il pensiero scatenò in Len un’altra risata liberatoria, tanto che afferrò al volo il cellulare e compose le prime cifre del numero di Kaito, proprio per invitare lui e Gakupo a vedere Fukase. Arrivato a metà, le sue dita si bloccarono.
«Ma sarà possibile condividere un miracolo?» chiese, guardando fuori dalla finestra di fronte alla sua scrivania. Il Sole, quel giorno, era stato particolarmente caldo. Insomma, una giornata non propriamente invernale, ma che un po’ rifletteva l’umore più raggiante di Len.
La domanda continuò a ronzargli per la testa per un paio di minuti, senza però riuscire a trovare una risposta. Ovviamente, come aveva ribadito Fukase, un miracolo non era fatto per durare a lungo. Era tanto più un’occasione, che qualcosa da godersi per molto tempo. E quasi sicuramente Fukase era quel tipo di miracolo che durava quanto uno schiocco di dita. Come la neve sotto al Sole.
Senza accorgersene, aveva continuato a comporre il numero dell’amico di sempre, aggiungendone forse qualcuno di troppo che avrebbe potuto cancellare per chiamarlo veramente. L’idea non era poi così malvagia, perché per quanto Fukase si fosse reso importante nella vita di Len, ovviamente non poteva prendere il posto degli amici di sempre. E condividere con loro un miracolo poteva solo fare che bene.
Cancellò i pochi numeri di troppo e si portò l’oggetto all’orecchio. Questo squillò per due volte, prima che Kaito rispondesse.
«Pronto?»
Len ridacchiò appena, sentendo la voce dell’altro impastata dal sonno, segno che Kaito si fosse appena svegliato da un riposino pomeridiano.
«Len? Che diavolo ridi?»
«Niente, scusa! Mi chiedevo cosa stessi facendo e se tu e Gakupo foste liberi.»
«Mmmh, credo di sì, non mi pare di avere impegni particolari… -uno sbadiglio interruppe la voce del ragazzo- E non credo che Gakupo sia occupato oggi.»
«Vi andrebbe di fare un giro? Dopo cena?»
Len avvertì nel tono di voce dell’altro una certa perplessità, come se non fosse convinto dell’invito del ragazzino. Dopotutto si trattava di dover uscire a notte fonda, d’inverno e con un freddo tale da rendere chiunque un ghiacciolo ambulante. Kaito riprese a mugugnare qualcosa, continui sbadigli a interrompere il filo dei suoi pensieri tanto che Len non riuscì a fare a meno di scoppiargli a ridere in faccia.
Lo prese in giro, mandandolo a dormire perché ancora troppo assonnato per riuscire a mettere in ordine le idee. L’altro ridacchiò, un po’ come facevano prima, tanto che il sonno scomparve in pochi attimi sostituito da quelle risate tipiche dei quattordicenni. Tra una risata e l’altra, finalmente Kaito riuscì a dare a Len una possibile conferma per quella sera, soprattutto se anche Gakupo si fosse rivelato libero da impegni.
Len annuì con forza, con la consapevolezza che l’altro non lo potesse vedere e lo salutò con un tono di voce fin troppo gioviale, che forse non gli apparteneva più da molto tempo.
«Beh, se non verranno, mi divertirò lo stesso con Fukase!» fece, riagganciando e lanciando il telefono sul suo quaderno di letteratura.
Con quel pensiero, Len si chinò nuovamente sulla sua scrivania, con la penna in mano e tanta buona volontà. Ciò che aveva fatto Fukase aveva un qualcosa di incredibile, Len era stato influenzato da quel ragazzo con una forza quasi travolgente, tanto che non riusciva a credere che quello che stava succedendo alla sua vita fosse davvero reale. Credeva ancora di essere in una specie di sogno fatto di neve e silenzio, la quale aveva scacciato tutte le voci cariche di rabbia della madre e degli amici. Ebbe davvero l’impressione che tutti i suoi problemi fossero stati sommersi da quella bellissima coltre candida che aveva dato vita a Fukase, come se la sua sola presenza avesse scacciato le tenebre come aveva proferito quella stessa notte di tre giorni prima.
E alla fine, era riuscito a credere a tutte le promesse che gli aveva fatto Fukase: il suo modo di porsi così cristallino aveva messo fine alla tristezza che lo aveva assalito, per cui non aveva più nessun motivo per comportarsi a quel modo tanto indisponente. Fu come se il pupazzo di neve gli avesse aperto gli occhi per la prima volta: grazie a lui, aveva avuto la conferma di quanto le sue azioni si fossero rivelate sbagliate, per cui l’unica cosa che poteva fare era cambiare. Ma cambiare non poteva di certo essere facile, non in un lasso di tempo tanto breve: però, se davvero quel suo miglioramento fosse stato dovuto al pupazzo di neve, significava che quello potesse solo che essere un miracolo concesso dall’Inverno, per far sì che la sua vita tornasse a prendere la sua piega originale. E anche se Fukase fosse sparito dalla sua vita, perché era ovvio che ciò sarebbe accaduto, Len non poteva far altro che conservare la marea di insegnamenti che questo gli aveva dato, per non ricadere più in errori del genere.


*****


Len era davvero di buon umore, soprattutto dopo una cena che si era rivelata molto più gioiosa e divertente di quanto si aspettasse. Alla fine, era riuscito a convincere Kaito e Gakupo a venire a cena a casa sua, per poi dirigersi tutti assieme in piazza a pochi minuti dalla mezzanotte.
A loro non aveva esattamente detto quali fossero i suoi piani, ma aveva preferito godersi quell’eccitazione che gli dava mantenere un segreto fino al momento più opportuno. Inoltre, la presenza dei suoi amici aveva in qualche modo ravvivato la madre, che pareva essersi lasciata alle spalle quella sua indisposizione come se il ritorno del figlio da quella giornata di scuola l’avesse risvegliata. La mente di Len si era spesso persa tra i ricordi delle parole di Fukase e si era ritrovato molte volte, nel corso della serata, a ripetersele mentalmente come una specie di mantra. Aveva bisogno di ricordare ogni sillaba uscita fuori da quella bocca, la quale aveva pronunciato tutta una serie di frasi il cui senso era talmente specifico che dovevano essere state composte solo e soltanto per Len.
Il continuo rimembrare quelle parole aveva dato a Len una certezza, che si era rivelata esatta mentre assisteva a quella cena tanto desiderata. La madre aveva ripreso a cucinare qualcosa di veramente commestibile, senza più limitarsi a quei pasti precotti che Len mal sopportava, aveva ripreso a sorridere e chiacchierava con Kaito e Gakupo interessandosi alle loro attività scolastiche. Nessuno si era mai posto il problema di tirare in ballo tante di quelle problematiche che sembravano essere svanite con uno schiocco di dita. Era tutto come sarebbe dovuto essere e Len ringraziò ancora per quel miracolo che gli era stato concesso, proprio perché questo era stato in grado di dargli quello stimolo giusto per riprendersi le redini della propria vita.

E tutti e tre si erano finalmente ritrovati in quella piazzetta circolare, illuminata dall’unico lampione ad olio di tutto il paesino.
Len camminava attorno a Fukase, aspettando che questo si rianimasse. Mancavano circa dieci minuti alla mezzanotte. La voce di Kaito continuava a raggiungere le orecchie di Len chiedendogli cosa stesse aspettando, alternando quella domanda ad un continuo evocare l’estate e il Sole: Len infatti sapeva di aver messo Kaito in una situazione abbastanza difficile da sopportare per lui, in quanto a conoscenza di quell’amore spropositato che il ragazzo provava per l’estate e per tutti i gelati che avrebbe potuto mangiare. Tutto il contrario di quello in cui Len lo avesse costretto a vivere. Invece, dall’altra parte, Gakupo osservava incuriosito i movimenti dell’amico, senza chiedere nulla perché armato di quella sua solita pazienza che il più basso ammirava.
I due ragazzi rimasero in silenzio, mentre Len dava l’ennesima occhiata all’orologio da polso. Aveva ripreso a controllare il volto di Fukase, che quel giorno non aveva visto a causa della foga che questo gli aveva dato per tornare a studiare.
Il viso del pupazzo di neve aveva sì qualche cosa che non andasse, il Sole non era stato clemente nei suoi confronti, ma non aveva di certo deturpato quello che era l’assetto di base del pupazzo. Il sorriso di sassolini pareva quello che più di tutte le sue caratteristiche era cambiato, perché le piccole pietruzze avevano iniziato a cedere sotto al proprio peso su quella neve leggermente sciolta. In quanto al cappello, agli occhi e al naso, tutto pareva nella norma, se non fosse che il lato destro del volto fosse stato leggermente più deformato.
«Qualcuno deve avergli tirato un’altra palla di neve in faccia…» constatò Len, massaggiandosi il meno con due dita. Gakupo lo guardò di traverso, poi chiese a cosa si riferisse.
«Oggi ha fatto caldo. Vero?»
«Ehm… Sì? Che cosa dovremmo fare qui?»
«Aspettate solo un altro po’! Devo farvi vedere una cosa fantastica! Non ve ne pentirete» replicò il ragazzino, guardando Gakupo con quei suoi occhioni azzurri pieni di speranza ed eccitazione. L’altro si limitò a scuotere la testa, senza però dire ancora niente, magari in attesa che Len si decidesse a dire cosa avesse in mente. Il ragazzino si passò di nuovo la mano tra i capelli biondi, sempre con la stessa espressione sul viso mentre attendeva che Fukase si muovesse. Dall’altro capo della piazzetta, Kaito borbottò ancora a causa di quel freddo che proprio non riusciva a digerire; fu allora che Gakupo lo raggiunse per sedersi accanto a lui e aiutarlo a rendere quell’attesa meno irritante.
Len non notò il fatto di essere rimasto l’unico accanto a Fukase, ma un altro pensiero sopraggiunse a quelli che aveva sempre dedicato al ragazzino dai capelli rossi e il volto niveo. Che non si volesse muovere perché non era da solo? Oppure era proprio dovuto al fatto che Len lo stesse fissando? Il ragazzino non ci aveva mai fatto caso, ma Fukase era sempre apparso nel momento esatto in cui la sua attenzione era rivolta a qualcos’altro, come se volesse approfittare dell’elemento sorpresa che tanto lo caratterizzava. Per quanto poco lui lo conoscesse, Len aveva capito in parte che tipo di persona lui fosse, ossia un amante delle entrate in scena particolari, capace di far mancare un battito al suo malcapitato spettatore.
Tornò perciò dai suoi amici. Kaito se ne stava ancora con le ginocchia strette al petto, tremando come fosse stato attraversato da migliaia di scosse elettriche, mentre Gakupo lo guardava con quell’espressione a metà tra compassione e divertimento. Il più alto gli aveva poggiato un braccio sulle spalle per cercare di scaldarlo, senza però distogliere lo sguardo da Len che si era messo a camminare davanti ai due, con le mani dietro la schiena. Un po’ come faceva Fukase.
«A-A-Allora, che d-dobbiamo fare qui?» balbettò Kaito, i denti che stridevano a causa del gelo.
«Vi chiedo sono un attimo di pazienza! Voglio mostrarvi qualcuno di fantastico che mi ha aiutato tantissimo!»
«Qualcuno?» chiese Gakupo, storcendo il naso. Len annuì con convinzione, forse cercando di trasmettere ai due quella sua stessa energia derivata dall’Inverno. Ovviamente l’idea di incontrare uno sconosciuto a notte fonda non sembrava proprio allettante, Len lo aveva notato guardando l’espressione perplessa di Gakupo, ma lasciò correre sperando che Fukase si decidesse a farsi vedere.
Len si inginocchiò e prese una manciata di neve dalla consistenza sgradevole, tipica della neve sciolta e nuovamente congelata dagli sbalzi di temperatura. Mentre formava una piccola sferetta, sentì Kaito scalciare come a volersi nascondere letteralmente dentro il giubbotto di Gakupo.
«Non avrai intenzione di giocare a palle di neve?! Non senti che cavolo di freddo fa?!»
«Potresti scaldarti, se ti muovessi un po’… -constatò Gakupo- E potresti anche non starmi così tanto appiccicato…»
Len fissò Kaito mentre questo sbuffava scocciato nella direzione dell’altro, una nuvoletta di condensa ad accompagnare il gesto. Un po’ era dispiaciuto nel dover coinvolgere il povero Kaito in quella fredda situazione, ma Len era certo che una volta apparso Fukase, anche lui si sarebbe divertito e avrebbe fatto sparire quell’espressione infastidita dal volto. Dopotutto, il pupazzo di neve era capace di quello e tanto altro.
«Dai, giochiamo!» esordì Len, dopo qualche secondo. Gakupo inclinò la testa di lato e lasciò andare la spalla di Kaito, per calcarsi il berretto viola sul capo e prepararsi; l’altro gli lanciò un’occhiata interrogativa, con quella nota perplessa con cui gli chiedeva se fosse davvero serio riguardo a quella faccenda.
Len sorrise alla spavalderia del più alto dei tre, perciò fece un passo indietro, accogliendo lo sguardo di sfida che aveva illuminato il volto di Gakupo. Avrebbe atteso Fukase in quel modo, certo che prima o poi questo sarebbe arrivato e si sarebbe unito alla battaglia. Dopotutto, quel dono dell’Inverno era il tipo di persona la cui voglia di stupire era sempre pronta a colpire per mettersi in mostra.
Len iniziò a correre per la piazzetta, lo sguardo puntato su Gakupo. L’altro lo inseguiva col sorriso sulle labbra da cui uscivano irregolari nuvolette di condensa. I due continuavano a prendersi di mira ma senza riuscire a mettere a segno un singolo colpo, tanto che finirono per darsi degli scemi a causa della loro pessima mira. Ma il ragazzino non si era di certo dimenticato di Kaito: si girò verso di lui, lasciando che Gakupo riprendesse fiato e mettesse insieme un’altra manciata di neve, mentre la sferetta che teneva in mano rimbalzava sul suo palmo.
Il sorriso di Len si allargò in un ghigno pestifero, come a minacciare scherzosamente l’amico che ancora si rifiutava di alzarsi e unirsi al gioco. Tremava ancora e dalla sua faccia temeva quello che avrebbe potuto fare Len: Kaito iniziò a guardarsi attorno, cercando con lo sguardo Gakupo, il quale parve prenderlo di mira anche lui. Tra i due, né Len né Gakupo parevano avere una buona mira, ma si limitarono a fissare il volto congelato e spaventato di Kaito con quelle palle di neve in mano.
Peccato per lui che qualcun altro non fosse d’accordo con l'impasse dei due. Len vide sfrecciare con la coda dell’occhio una terza sfera di neve, che andò a sfracellarsi proprio sul naso del povero Kaito. La neve schizzò in tutte le direzioni, leggera e soffice come fosse appena caduta dal cielo, poi una risata cristallina si levò per quella piazzetta deserta.
Il volto di Len si illuminò come un Sole a mezzogiorno, tanto che gettò a terra la pallina che aveva in mano per correre al centro dello spiazzo. Fukase aveva finalmente deciso di farsi vedere, esattamente all’ultimo rintocco della mezzanotte.
Dondolava la testa, allo stesso ritmo del suo corpo che oscillava sui talloni; teneva le mani dietro la schiena, il bastone stretto tra le dita, e osservava i due ragazzini con cui Len aveva deciso di condividere il suo miracolo. Len si avvicinò quasi saltellando e prese il pupazzo per le spalle, guardando attentamene il suo volto in cerca di imperfezioni sopraggiunte mentre lui non c’era. Non riusciva a smettere di sorridere, raccontando al suo pupazzo tutto quello che aveva fatto quel giorno; non aveva smesso di ringraziarlo, tanto che le sue parole parevano un continuo susseguirsi di concetti ripetuti quasi fino alla nausea. Lo sciorinare di Len venne interrotto da una palla di neve, caduta esattamente sopra la sua testa bionda. Non riuscì a capire da dove diavolo fosse arrivata. Si girò verso i suoi due compagni di classe, ma l’unica cosa che ottenne fu una serie di sguardi persi, confusi e forse terrorizzati.
«Non sono mica stati loro a colpirti! Certo che sei pedante, caro mio testone!» fece Fukase, allontanando Len e mettendosi al centro della piazza, dove prima era presente la sua forma inanimata. Il ragazzino scosse la testa per liberarsi dalla neve, poi osservò i movimenti del suo magico amico, mentre roteava il suo bastone da passeggio e si esibiva in un inchino quasi teatrale. Sfilò quindi il cappello e mostrò un ammasso di capelli rossi come il fuoco, i quali stonavano con la sua pelle di ghiaccio.
«L-Len?» balbettò Gakupo, le cui mani avevano abbandonato la sfera che voleva tirare a Kaito; l’altro, invece, fissava la scena con gli occhi sgranati, il corpo che aveva smesso di tremare.
«Vedo che stai meglio, capoccione! Questi sono i tuoi amici? -fece Fukase, i cui occhi continuavano a guizzare sulle figure dei due ragazzi- Piacere! Io sono Fukase e sono qui perché l’Inverno ha voluto esaudire il desiderio di questo tonto
«Potresti non offendermi? Almeno non davanti ai miei amici?»
Fukase rispose con una linguaccia e si diresse verso Gakupo, girandogli attorno e squadrandolo dalla testa ai piedi. Len notò una nota di inquietudine nell’amico, il quale, probabilmente, aveva visto l’agghiacciante occhio rosso del pupazzo e la sua altrettanto terrificante mano di plastica. Gakupo se ne stava infatti rigido, trattenendo il respiro che nemmeno la condensa usciva più dalle sue labbra, ma Fukase non sembrò farci caso e iniziò a dargli degli amichevoli colpetti sulla testa con il suo bastone da passeggio.
Poi il pupazzo cambiò vittima e si diresse verso Kaito che, a differenza di Gakupo, iniziò ad intimargli di stare lontano. Len corse verso l’amico e cercò di tranquillizzarlo, agitando le braccia dietro a Fukase come se quello potesse essere sufficiente a dare a Kaito la sicurezza necessaria per fidarsi di quello strano ragazzino.
I tentativi di Len non sembrarono sortire effetto alcuno e per un attimo pregò che Fukase potesse dargli almeno un quarto della pazienza che aveva invece Gakupo, il quale, dopo un attimo di inquietudine, era riuscito ad avvicinarsi a Len per studiare meglio la situazione.
«Kaito! Non è cattivo, è mio amico!»
«Ma quel coso ha fatto apparire una palla di neve dal nulla! E il pupazzo di neve non c’è più! Che diamine sta succedendo?!»
«Intanto non chiamarmi coso, ho un nome, io! Ed è Fukase!» rimbeccò il ragazzino di neve, allungando la mano di plastica verso il giovane. Kaito si lasciò sfuggire un grido che cercò di fermare tappandosi la bocca e Len non riuscì a trattenere una risatina, per poi anticipare il suo magico amico e afferrare la mano del compagno di classe, con l’intento di strapparlo via da quella panchina.
«Vuoi dirci che sta succedendo?» chiese Gakupo, in piedi accanto a Fukase mentre ne studiava interessato i lineamenti di neve. Len fu contento di vedere l’amico tanto incuriosito, almeno non si sarebbe dovuto mettere a tranquillizzare anche lui. Aveva sempre apprezzato quella caratteristica di Gakupo, quella sua pazienza che forse aveva impedito a Kaito di troncare completamente la loro amicizia con lui.
«È difficile da spiegare -rispose Len, lasciando andare il braccio di Kaito- Ma credo che l’Inverno mi abbia concesso una specie di miracolo…»
«Non una specie di miracolo. Io sono un miracolo! Sotto ogni punto di vista!»
Fukase rise alle sue stesse parole e si portò la mano al cilindro, spiegando in poche parole come lui fosse nato, tre notti prima, per mano di Len. La sua mano di plastica continuava a seguire più volte la linea della visiera del suo cappello, mentre la sua voce si perdeva nell’aria senza che dalla sua bocca uscisse il minimo alito di condensa. Spiegò come fosse nato, da una paletta e un secchiello da spiaggia, da una fila di sassolini e dei pezzetti di nastro adesivo. E poi, quale fosse il suo compito.
«Ma vedo che ormai avete fatto pace con questo capoccione. Ne sono davvero felice! Quindi immagino che le cose vadano meglio anche con la tua mamma, vero?»
Len annuì e si avvicinò un po’, ma Fukase balzò via per atterrare sulla cima dell’unico lampione che illuminava ancora la piazza. Len emise un brontolio contrariato, ma sapeva che un movimento del genere sarebbe stato seguito da una delle solite trovate del suo pupazzo. Ne seguì le mosse con gli occhi, dimenticandosi quasi di essere in gran compagnia. Fukase si mise in equilibrio su un piede solo, fingendo di essere un equilibrista su una corda tesa, nonostante le sue movenze fossero tanto innaturali che la gravità non sembrasse in grado di toccarlo.
«Sono davvero soddisfatto di come le cose si siano sistemate! Credi di riuscire a farcela senza di me, Len?»
«Eh?»
«Mi rispondi sempre con questo solito “Eh?”! -fece dopo un balzo e atterrando con grazia di fronte al ragazzino- Sai bene che i miracoli durano poco!»
Len si morse il labbro inferiore e distolse lo sguardo dal giovane di neve, di nuovo infastidito dal fatto che questo avesse voluto interrompere qualcosa di bello con la solita paternale. Si passò una mano tra i capelli e cercò i volti dei suoi amici, i quali avevano assistito a tutta la scena in silenzio. Nei loro sguardi, Len notò un certo dispiacere: quel qualcosa di così particolare stava per finire.
«So che te ne dovrai andare e sospetto che succederà in poco tempo… -fece una pausa, per poi accennare un sorriso, guardando prima Kaito, poi Gakupo e infine Fukase- Ma pensi che potremmo giocare un’ultima volta tutti insieme?»
Il volto di Fukase si allargò in un enorme sorriso e si sfilò un’altra volta il cappello a cilindro bianco e rosso per esibirsi in un altro inchino plateale. Fece poi roteare il bastone da passeggio e di nuovo la neve riprese a scendere delicata solo su quella piazza circolare. Kaito e Gakupo fissarono la scena stupefatti, lasciandosi andare in versi di stupore che fecero ridere Len: vedere i suoi due migliori amici in quel modo, averli coinvolti in un miracolo del genere aveva alleggerito il cuore del ragazzino, nonostante questo fosse stretto nella morsa di un imminente addio. Ma Len era sempre stato un ragazzo dalla mente razionale, era quel tipo di persona che non faticava a capire situazioni del genere, che sapeva che voler bene a qualcuno significasse anche lasciarlo andare. Dopotutto, erano i ricordi la cosa più importante. Tutti gli insegnamenti che gli aveva lasciato il suo pupazzo di neve.
«Allora? Ti sei imbambolato?» chiese Fukase, allungando la mano di plastica verso il volto di Len e pizzicando di nuovo la guancia del giovane. Il gesto lo infastidì, ma appena venne liberato da quelle due dita rosse, il suo sorriso si allargò per far sì che le sue labbra mimassero l’ennesimo grazie. Fukase ammiccò con quell’occhietto scarlatto, che forse non era poi così tanto spaventoso.
I quattro si ritrovarono immersi in quel gigantesco souvenir con la neve dentro, quelli che agitati coinvolgevano le figurine al loro interno in una tormenta bianca. Eppure la sensazione che aleggiava in quella bolla di divertimento non era così pesante come Len credeva. Per quanto si fosse affezionato a Fukase, lui non poteva diventare una presenza costante della sua vita perché la neve non è fatta per durare a lungo. Non aveva nulla a che vedere con il candore eterno delle montagne più alte, non aveva nulla a che fare con il bianco dei ghiacciai: era soltanto una nevicata cittadina, quelle che dopo poco spariscono.
Len corse, rise e sorrise. Vide i suoi amici giocare e correre, vide nei loro occhi la stessa scintilla di meraviglia che aveva riempito il suo sguardo alla prima nevicata di Fukase e ne fu felice.
«Non è un addio, vero?» chiese ad un certo punto, mentre Gakupo era sul punto di colpire Fukase con una palla di neve. Il pupazzo evitò il colpo e sorrise al giovane i cui desideri gli avevano dato vita.
«Nah! L’Inverno torna ogni anno e, per quanto freddo, come torna se ne va. Non è detto che il prossimo anno tu sia tanto fortunato, ma è vero che il Suo intervento resta. E poi, sono stato così fantastico che non credo vi dimenticherete facilmente di me!»
«Sei sempre tanto modesto! Vero, Signor Miracolo?» fece eco Len, le labbra contratte in un cipiglio divertito e gli occhi offuscati da un velo di lacrime calde che non avrebbe versato.
Fukase rispose al suo sorriso e fece un inchino, come un attore pronto a lasciare la scena.

*****


La mattina seguente il Sole brillava sul piccolo paesino, i suoi raggi che si riflettevano sulla poca neve rimasta per le strade.
Len camminava tra Kaito e Gakupo, i quali non avevano detto più nulla riguardo alla notte precedente. Lo stesso Len aveva mantenuto un certo riserbo per quell’argomento, forse perché non del tutto pronto a tirare di nuovo in ballo Fukase.
«Stai bene?» azzardò Gakupo, accelerando il passo per fermare Len. Senza accorgersene, i tre si ritrovarono nei pressi della piazza, in mezzo alla quale c’era ancora la versione inanimata del ragazzino di neve. Immobile, sotto ai caldi raggi del Sole, Len sapeva che quella notte non si sarebbe mosso, che sarebbe rimasto là finché la neve avesse retto agli sbalzi di temperatura, per poi sciogliersi alla prima giornata troppo calda.
Accennò un sorriso e si diresse verso Fukase. Solo allora si rese conto di aver lasciato la sua sciarpa rossa su di lui per quattro giorni di fila.
Venne raggiunto dai suoi due amici, mentre ancora guardava quel volto tanto famigliare e allo stesso tempo inquietante. Allungò le mani verso quel viso e aggiustò quello che ne rimaneva: mise in linea gli occhi, sistemò il sorriso di sassolini e i due pezzetti di nastro adesivo.
«Sto bene… Ho fatto pace con voi due, con la mamma… Era tutto quello che Fukase voleva, che io stesso desideravo! Quindi sì, sto bene!»
Ciondolò un pochino la testa, contemplando la sua opera e prese un profondo respiro che gli congelò i polmoni; le sue mani si mossero verso la sua sciarpa e la sfilarono via, per poi piegarla alla bene e meglio.
«Non credo ne avrà più bisogno! -disse, rivolgendo ai due un sorriso raggiante- Andiamo! Non vorremmo far tardi!»
.
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«Alla fine, non posso essere triste. I miracoli non sono fatti per durare e Fukase era proprio questo. Un miracolo che mi ha permesso di capire cosa fosse giusto e cosa sbagliato.»




Angolo di Zenya ^^

E finalmente eccoci qui! Anche questa storia è finita e già mi manca T.T Che dire? Di solito, scrivo delle stagioni in cui mi trovo, quindi scrivere di neve e gelo quando fa caldo mi ha messa in confusione xD A parte gli scherzi!
Non credevo avrei aggiunto Kaito e Gakupo (non riesco a separare i VanaN’Ice, è ufficiale, perché come in Fleeting non doveva esserci Len, in questa non dovevano esserci loro due… Soooo, fair enough), ma alla fine credo fosse la cosa più giusta da fare: il percorso di Len è stato proprio questo! Iniziare da solo e concludere con i suoi amici, proprio come aveva detto Fukase. Perciò credo davvero che questa sia la conclusione più appropriata per la loro breve avventura ^^
Inoltre questa storia mi ha divertita e mi ha permesso di fare pace col cervello. Se vi è capitato di seguire i miei vari aggiornamenti, allora saprete che mentre ero presa dalla stesura di Snowman ho lavorato anche a Fleeting Moon Flower, la quale mi ha mandato letteralmente fuori di testa perché una vera yaoi esplicita >.< Mi sono portata dietro Snowman per un bel po’ di tempo, proprio perché rappresentava quella bolla di pace dai miei soliti schiaffeggiamenti/risate isteriche per via della smut. Quindi eccola qui, conclusa e meno depressa del previsto u.u
Ringrazio chiunque abbia letto questo lavoro, chi ha recensito/ricordato/preferito questa storia, un grazie ai lettori silenziosi e un augurio che un miracolo accada a chiunque ne abbia bisogno. Già scrivere questa storia per me è stato un miracolo, nel senso che mi ha dato la stessa leggerezza che ha dato Fukase a Len. Perciò grazie ancora e alla prossima!



Zenya_

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