Snowman di Zenya Shiroyume (/viewuser.php?uid=656927)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Snowy Night - First ***
Capitolo 2: *** Snowy Night - Second ***
Capitolo 3: *** Snowy Night - Last Night ***
Capitolo 1 *** Snowy Night - First ***
Snowman pt.1 html
Disclaimer:
la storia è ispirata alla
canzone Snowman di
Kaito Shion e sarà una storia dalle poche pretese. Sebbene
abbia
inserito nelle note il tipo di coppia Shounen-ai,
ciò che toccherà quella tematica sarà
estremamente leggera;
inoltre, per tematiche delicate, intendo parlare di di problematiche
famigliari e solitudine, che portano le persone a isolarsi e aver
bisogno di aiuto, di qualsiasi tipo esso sia. La storia vuole essere
una cosa abbastanza leggera, niente che possa avvicinarsi a trattati
sulla psicologia o altro, perché
dopotutto
si scrive per esprimere le proprie emozioni u.u
Ricordo
a chi passasse a leggere causa link di spam che i personaggi sono OOC
e non è necessaria alcuna conoscenza della canzone da cui il
tutto
ha preso spunto. Buona lettura!
Snowy
Night – First
I suoi occhi fissavano i
leggeri
fiocchi di neve che volteggiavano in quel cielo stellato, attorno a
sé il candore di una notte di dicembre.
Seduto su quella panchina, il bianco
ricopriva ogni cosa sotto a cumuli di soffici cristalli, molti dei
quali rilucevano al bagliore dell’unico lampione ad olio
acceso,
forse l’ultimo retaggio del secolo scorso rimasto intatto in
quel
paesino. In mezzo alla piazza circolare, il ragazzo sedeva avvolto
nella sua giacca gialla, la condensa che saliva al cielo stellato da
quelle labbra socchiuse e le guance che si tingevano di quel rossore
tipico del freddo pungente. Se ne stava rannicchiato con le mani in
tasca a giocherellare con qualche cianfrusaglia raccolta per strada,
qualche monetina e forse un pezzetto di carta. Alla fine, non faceva
nemmeno caso al lento movimento delle sue dita infreddolite e avvolte
in morbidi guanti.
Il vento soffiava leggero smuovendo
quegli arruffati capelli biondi che sfuggivano al cappello di lana
rossa faticosamente calcato sulla testa, mentre i fiocchi di neve si
poggiavano sulle sue spalle incurvate. Davanti a sé il
nulla, solo
il bianco e una solitudine quasi opprimente: nelle orecchie, quel
silenzio era quasi assordante, come fosse in grado di sentire ogni
cristallo toccare il suolo e tintinnare come bicchieri di vetro
durante un brindisi.
Len non sarebbe dovuto essere lì a
quell’ora, ma da un paio di mesi a quella parte continuava a
sedersi su quella panchina, da quando finivano le lezioni fino a
quando tutti se ne tornavano nelle proprie case, che fossero
studenti, bambini o lavoratori.
Non faceva nulla di particolare, se
ne stava semplicemente seduto là sopra a rimuginare e a
guardarsi
intorno, mentre tutta la gente del suo paesino dormiva profondamente,
ignara della sua presenza ormai costante nel freddo della notte. Non
aveva molti motivi per ritrovarsi a sedere in un posto del genere
dopo oltre la mezzanotte, nemmeno i ragazzi più grandi
passavano
tanto tempo fuori, ma a lui non importava: non era importante il
giudizio delle altre persone, non era necessario dar peso a quelle
parole che però venivano pronunciate proprio per ferire quel
povero
ragazzo.
«Sono un buono a nulla…»
ripeté,
le parole accompagnate da una leggera nuvola di condensa che
investì
qualche fiocco di neve, sciogliendolo all’istante di fronte
agli
occhi di Len. Il ragazzino si morse le labbra per non dire altro,
sentì i denti sulla sua carne e un dolore molto
più forte di quello
che si aspettava: il freddo aveva preso il sopravvento sul suo corpo,
ogni movimento pareva fin troppo macchinoso e pungente per essere
compiuto, perciò Len preferiva rimanere immobile con lo
sguardo che
ogni tanto si alzava alle stelle e poi di nuovo sulla neve che
imbiancava le strade.
«La mamma è ancora arrabbiata, ma
non ho la forza di fare del mio meglio… Voglio
aiutarla…»
Il ragazzo si lasciò andare in un
sospiro, la sua mente che lottava per non pensare a tutte le brutte
cose che gli stavano capitando in quei giorni, a come tutto quello
che si era costruito a scuola e con gli amici fosse stato spazzato
via e nascosto dalla neve, che in quel momento era l’unica
cosa a
tenergli compagnia. Dolcemente, questa danzava davanti ai suoi occhi
azzurri e lui desiderò che la sua vita potesse essere come
quella di
quei fiocchi, senza nessuna preoccupazione o problema. Ma ovviamente
non poteva essere così.
Non sarebbe dovuto essere là, a
quattordici anni non poteva permettersi di stare fuori così
tanto a
lungo, quando anche gli stessi adulti dormivano già tra le
braccia
di Morfeo. Eppure Len era ancora là, al freddo e solo con i
suoi
pensieri.
«Non voglio tornare a casa…»
mormorò, il gelo ormai penetrato nelle sue ossa e nella sua
carne,
ma sapere che il giorno dopo tutto sarebbe ricominciato da capo lo
rendeva nervoso, frustrato: l’indomani mattina sarebbe dovuto
andare a scuola e tutto sarebbe ricominciato, con quei suoi silenzi
imbarazzanti di fronte ai professori, quella sua poca voglia di
impegnarsi e quella sua apatia che non riusciva a scrollarsi di
dosso; la sua mente non era affatto pronta a mettersi
d’impegno su
qualcosa che non ritenesse importante, c’erano tanti altri
pensieri
ad affollare la sua testa e i compiti non erano uno di questi.
Nemmeno gli amici erano più una sua priorità,
perché aveva
l’impressione che non riuscissero a capirlo, come se le sue
parole
e il suo bisogno di aiuto venissero perennemente ignorati. Tutte le
cose che di solito lo interessavano, le materie scolastiche, la
musica, l’arte, parevano aver perso
quell’importanza che lui
aveva sempre dato loro, sostituite e oppresse da un senso di
inutilità che non voleva accettare, ma che ormai aveva
lasciato
correre, perché troppo pressante per poter essere messa da
parte.
Il ragazzo portò nuovamente lo
sguardo al cielo punteggiato di stelle e fiocchi di neve, per poi
andare con la mente alla malattia che affliggeva la madre: per quello
che gli era stato detto dalla donna, era qualcosa che riguardava i
polmoni, ma lei non si era mai voluta sbilanciare, forse con
l’intento di non far preoccupare il suo piccolo Len e
lasciare che
il giovane si concentrasse sugli studi senza penarsi per lei.
Infatti, la madre era sempre stata
una donna forte, di quelle in grado di spronare chiunque a dare il
meglio di sé e Len non faceva eccezione: renderla fiera era
la cosa
che più lo rendeva felice, gli dava quella carica necessaria
per
mettersi d’impegno in ogni cosa volesse fare, che fosse lo
studio o
lo sport; anche fare amicizia e crearsi quella cerchia di persone
fidate era stato possibile solo con il supporto di quella donna che,
nonostante la perdita del marito, non si era mai data per vinta e
aveva continuato a vivere, un po’ forse per l’amato
ormai
scomparso, un po’ per essere la roccia che potesse sostenere
il suo
unico figlio. Eppure, in quei mesi quella donna che Len credeva
immutabile nella sua forza era cambiata, aveva assunto un
atteggiamento molto più pessimistico nei confronti stessi
della
vita: non aveva mai perso la voglia di vivere nemmeno quando il
marito era passato a miglior vita e aveva continuato ad essere un
punto fermo per il figlio, ma Len aveva notato il suo cambiamento.
Non sembrava più importarle di apparire bella e gentile con
tutti,
era diventata scorbutica persino con il figlio, che era il suo
migliore amico e il suo confidente, era persino diventata molto
più
chiusa in sé stessa e aveva dato a tutti
l’impressione che quel
morbo la stesse divorando, non solo fisicamente ma anche mentalmente.
E di conseguenza, proprio per quello
che Len vedeva ogni giorno in sua madre, il ragazzo aveva smesso di
impegnarsi perché afflitto da una preoccupazione che
cresceva ogni
istante di più, che gli impediva di concentrasi
perché desideroso
di mettere le sue forze a disposizione della donna per riuscire a
darle un minimo di sollievo.
«Non ti azzardare a dirmi bugie
o prendere brutti voti! Devi solo
pensare a studiare e svolgere le tue
attività!»
aveva sbraitato l’ultima volta, quando il ragazzino era
tornato a
casa saltando le attività con il circolo di atletica
leggera. Quel
giorno, Len non aveva voglia di correre per quel circuito con il
freddo dell’inverno a sferzargli le gambe, voleva solo
precipitarsi
a casa e aiutare la madre nelle sue faccende e permetterle di
riposarsi, ma la risposta che ottenne non fu quella che lui aveva
sperato. Qualsiasi cosa lui avesse fatto per renderle quella malattia
più sopportabile incontrava solo il suo disappunto, tanto
che le
cose che per Len avevano importanza avevano perso tutta la loro
rilevanza.
Ed
era proprio per quella lunga serie di motivi che il ragazzino
continuava a passare il tempo fuori, a
non tornare a casa e a infrangere il suo coprifuoco, perché
proprio
stufo di quelle aspettative che non poteva raggiungere a causa di un
equilibrio mentale che non riusciva a mantenere. Era
difficile doversi mettere a studiare quando sentiva la madre tossire
violentemente nella stanza accanto, non riusciva a tenere alta la
concentrazione sapendo che la donna passava il suo tempo a pulire e
rassettare senza mai chiedere aiuto, non era facile rimanere
lì a
vederla tremare e perdere la sua bellezza mentre lei stessa
allontanava il figlio, spesso con parole dure che mai avrebbe potuto
dirgli.
Len
sospirò e con un balzo si mise in piedi scrollandosi di
dosso la
neve, i muscoli di tutto il suo corpo irrigiditi
come fosse stato
un ghiacciolo ambulante. Non aveva nemmeno idea di che ore fossero,
ma il sonno era diventato quasi un optional per uno come lui, che
tanto preferiva rimanere sveglio ad osservare un mondo addormentato
in cui lui
era l’unica
anima sveglia. Chiuse gli occhi e, senza pensare, si chinò
sulla
neve che fino a quel momento aveva sommerso i suoi piedi, per poi
prenderne una manciata e iniziare ad ammucchiarne
un po’ in un piccolo tumulo.
Nel silenzio della notte, Len si
ritrovò a costruire un pupazzo di neve senza che la sua
mente avesse
deciso di farlo. Così, senza una ragione apparente. Alla
fine, per
come andava la sua vita, tutte le sue azioni erano mosse da
motivazioni futili che nemmeno lui conosceva, perciò si
lasciò
andare a quell’ennesimo istinto che cercava di impedirgli di
pensare alla madre. Qualsiasi cosa facesse e indirizzasse il suo
cervello verso qualcosa di tranquillo era bene accetto, proprio
perché necessario alla sua psiche ormai sul punto di
crollare.
Ammucchiò
tanta di quella neve in due grosse palle, finché questa non
ebbe
raggiunto la stessa altezza delle sue spalle, per poi fermarsi a
guardare il suo operato. Aveva liberato quasi un sesto
del piazzale e mancava
poco
per dare una testa a quell’uomo di neve, che però
non aveva ancora
niente che lo facesse assomigliare ad un vero pupazzo.
Perciò Len
continuò alla luce di quel lampione ad olio,
finché non ebbe tra le
braccia la testa da mettere sopra la sua creazione. Era così
diversa
la neve che teneva in mano rispetto a quella che cadeva sopra la sua
testa: quella era tanto più leggera, non opprimeva il corpo
come
quella che teneva in
braccio.
E quando la poggiò sul resto del
corpo di neve, Len si chiese cosa potesse rendere quel pupazzo
più
reale, magari per avere qualcuno a cui confidare tutti i suoi
problemi.
«Che idea del cavolo…»
borbottò
infilandosi le mani in tasca, per poi sentire di avere ancora dei
vecchi bottoni che aveva perso proprio dalla giacca che indossava.
Non li aveva più fatti ricucire alla madre, lei era
diventata fin
troppo irascibile per poterle parlare.
Len
inclinò la testa di lato e fissò quella sfera
bianca, per poi
poggiare un bottone rosso a destra
di quel volto candido e a sinistra
un bottone nero. Il
ragazzino
fissò per un istante quegli occhi non proprio usuali per un
pupazzo
di neve ma, per come lo vedeva lui, aveva un certo fascino. Ma
mancavano ancora tante cose per poter considerare finito
quell’uomo
di neve.
Len frugò ancora nelle tasche dei
pantaloni e della giacca, per poi trovare due pezzetti di nastro
adesivo rosso che, in sostituzione della classica carota, potevano
tranquillamente indicare la presenza di un naso; fu così che
cercò
di appiccicarli alla bene e meglio sulla sfera di neve, incrociandoli
come se il pupazzo si fosse fatto male al naso.
Ma
ancora non bastava. Il ragazzo iniziò a cercare in giro dei
sassolini che potessero fare da bocca, oppure un rametto, e poi dei
bastoncini più grandi che potessero fare da braccia, ma
tutto quello
che trovò fu un vecchio secchiello da mare abbandonato
dietro ad un
albero assieme al suo piccolo rastrello di plastica. Per quanto non
convenzionale, il secchiello a
strisce bianche
e rosse
parve essere un ottimo sostituto per un cappello a cilindro e la
paletta una particolare alternativa a una mano. Arrivato a quel
punto, bastò trovare un altro ramo per dare al suo pupazzo
il suo
braccio sinistro.
«Non è male, magari farà paura a
qualcuno!» fece ridacchiando, per poi accorgersi che forse
mancava
ancora qualcosa. Len si guardò di nuovo attorno e poi gli
arrivò
un’illuminazione: il pupazzo di neve avrebbe sentito freddo,
perciò
si sfilò la sciarpa rossa e l’avvolse al collo
della sua creatura
che finalmente gli parve veramente completa.
Gli occhi azzurri del ragazzino si
posarono quindi su quel volto inanimato, a guardare quegli occhi
privi di vita che lo fissavano insistentemente, mentre sulle labbra
di sassolini c’era quel cipiglio divertito, forse un
po’ troppo
sprezzante. Il sorriso che aveva Len sul volto si spense, tutta la
gioia di essere tornato un bambino coperta da una leggera coltre di
neve candida.
«Dovrei
tornare a casa… Sarebbe bello se tu fossi reale, almeno
avrei
qualcuno con cui confidarmi…»
La
condensa uscì nuovamente dalle sue labbra in un sospiro
rassegnato,
poi Len si voltò per tornare a casa.
Mosse
qualche passo, il suo desiderio di dar vita a quella creatura di
cristalli bianchi che ancora premeva contro il suo cuore. Semmai
qualcosa del genere fosse successa davvero, forse sarebbe stata la
spinta necessaria per rialzarsi dal suo stato di catalessi.
Iniziò
a dirigersi verso
casa in quel silenzio opprimente, nemmeno la neve faceva più
alcun
suono. Si sentivano solo i suoi scarponi su quei morbidi cumuli di
neve che aveva iniziato a scendere per la prima volta quella mattina
stessa. Len aveva sempre trovato rilassante guardare quei cristalli
scendere dal cielo e forse quello era uno dei motivi che lo portavano
a stare fuori per tanto tempo. Non aveva bisogno di pensare, solo di
camminare e di godersi quella sensazione che l’inverno
riusciva a
dargli.
Eppure
qualcosa non andava, era come se sentisse di non essere proprio solo,
in quel paesino addormentato ormai da qualche ora. Sapeva
che nessuno si sarebbe avventurato in pieno inverno per le strade a
quella data ora, nessuno che fosse sano di mente, perlomeno.
Camminò
ancora e cercò di non prestare attenzione a quella buffa
sensazione,
perché di tutto quello che gli stava capitando,
pensò che
un’allucinazione non potesse essere poi essere
un’opzione da
scartare.
Abbassò
lo sguardo e chiuse gli occhi per un paio di secondi, ma di nuovo si
sentì osservato e seguito, ma dietro di lui non
c’era nessuno. Si
voltò, infatti, solo per ritrovare alle sue spalle il suo
pupazzo,
che lo guardava da lontano con quegli strani occhi nero e rosso. Si
diede dello stupido per quella sua paranoia, non aveva motivo di
temere alcunché, ma il suo istinto gli diceva che
c’era qualcosa
di fuori posto nella normalità del suo paesino.
Len
prese un profondo respiro e inspirò con la stessa forza, sentendo
l’aria
gelida infiammargli i polmoni, camminando poi più
velocemente verso
casa sua.
«Per
quanto ancora hai
intenzione
di ignorarmi?»
A
quelle parole, Len si voltò di scatto, con il cuore che
aveva
iniziato a battere più velocemente. Eppure non aveva paura,
si
sentiva semplicemente osservato. Ma quando si girò non vide
nessuno.
Nemmeno il pupazzo di neve. O almeno fu quello che credette,
perché
magari la fiamma del lampione poteva
essersi finalmente estinta. Oppure
perché doveva essersi allontanato dalla piazza
più di quanto
credesse. Ma non aveva l’impressione di aver fatto
chissà quanti
metri.
«Sono
un idiota…» borbottò, ma quando si
girò nuovamente verso la
strada di casa, si ritrovò faccia a faccia con un ragazzino
dall’aspetto strano. Len
indietreggiò, ma i suoi piedi incespicarono l’uno
con l’altro,
facendolo cadere in un cumulo di neve fresca, tanto che questa si
sollevò e finì per ricoprire buona parte del suo
corpo.
Il
misterioso ragazzo lo guardava con un sorrisetto beffardo,
l’angolo
destro delle
labbra
candide
rivolto verso l’alto ad accentuare quella sua espressione.
Indossava
abiti bianchi
dall’aspetto sgualcito e toppe rosse a decorare il tessuto, i
pantaloni bianchi
e
corti nonostante il freddo quasi insopportabile a coprirgli fino al
ginocchio le gambe pallide; in testa, invece portava un curioso
cappello a cilindro con strisce rosse e bianche.
Len cercò immediatamente di
alzarsi, però il suo corpo non riusciva a connettersi con il
cervello, spento da quello strano incontro che non sarebbe potuto
accadere in tutta la sua vita. Dopotutto, nel suo paesino non abitava
nessuno dall’aspetto così eccentrico.
Il
misterioso giovane ridacchiò sotto ai baffi e si
sfilò il cappello
per compiere un inchino quasi teatrale, rivelando una massa
indefinita di capelli rossi, punteggiati
da grossi cristalli di neve,
che spiccavano sulla sua pelle nivea. Poi
questo rise nuovamente e offrì a Len la mano destra che
però lui
non vide nemmeno, perché attratto da una sciarpa rossa di
sua
conoscenza che dondolava dal collo del ragazzo.
«Ma quella è mia! L’hai rubata
dal mio pupazzo di neve!»
L’altro sorrise e mosse di nuovo
la mano per attirare l’attenzione di Len che finalmente si
ritrovò
a fissare l’arto. Quello che vide quasi gli fece prendere un
colpo:
non era una normale mano in carne e ossa, era rossa e pareva fatta di
plastica, ma dalle sue movenze pareva effettivamente vera.
Lo
sguardo di Len corse quindi alla piazza in cui era stato e
strizzò
gli occhi, per vedere meglio attraverso la coltre di neve che ancora
scendeva delicata dal cielo. L’impressione che aveva avuto
prima
sul pupazzo di neve si rivelò esatta: la sua creazione non
era là.
Eppure, non volle crederci. Come
poteva? Si portò le mani agli occhi e se li
stropicciò
energicamente, ma ancora il pupazzo non c’era.
«Hai intenzione di congelarti il
fondoschiena? Su, su! In piedi!»
Len
obbedì senza
pensare
e afferrò quella mano, che anche al contatto gli parve di
plastica,
gelida e inanimata. Ma la mano rossa del giovane strinse la sua,
esattamente come avrebbe fatto una mano vera,
in carne e
ossa.
Appena
Len fu in piedi, indietreggiò nuovamente e
osservò quel ragazzo:
nella mano sinistra teneva un vecchio bastone da passeggio a cui era
appoggiato, ma il colore del pezzo di legno gli ricordò
quello che
aveva usato per fare il braccio sinistro del suo pupazzo; di
nuovo fu attratto dalla sciarpa e fu certo che fosse la sua, aveva
persino quel piccolo difetto di fabbrica che aveva lasciato una delle
estremità bianca; passò poi gli occhi sul volto
del giovane e
probabilmente fu
quella la cosa a spaventarlo di più. Non riusciva a credere
a quello
che aveva davanti. L’occhio sinistro era normale, come quello
di
qualsiasi essere umano, ma quello destro no: era completamente rosso,
senza pupilla, come un bottone; come la mano, anche questo sembrava
reale, se non fosse stato per il colore quasi
preoccupante.
«T-Tu… Cosa sei?»
«Non
te ne sei accorto? Prima ero là
-disse indicando la piazza, nella voce una nota canzonatoria- e ora
sono qua! Tu volevi
che fossi vivo, no?»
«Non è possibile! Starò
sognando…
Tu non puoi essere vero!» obbiettò.
«L’Inverno ha qualcosa di
magico, non trovi? La neve, le stelle, la magia. Piacere, io sono
Fukase! E sono qui perché l’Inverno
ha esaudito il tuo
desiderio!»
*****
Len
non riusciva a capire cosa gli stesse succedendo e ritrovarsi di
nuovo su quella panchina fu ancora più strano. Fukase
camminava
avanti e indietro davanti a lui, saltava sulle altre sedute,
addirittura sopra i bidoni della spazzatura, accompagnando tutti i
suoi movimenti con il roteare del suo bastone da passeggio. Aveva
lo sguardo vivace, continuava sorridere e lanciare occhiate divertite
nella direzione di Len, che per tutta risposta se ne stava immobile,
su quella panchina, cercando di capire in che tipo di situazione si
fosse cacciato.
«Allora, avevi detto che qualcosa
ti affliggeva… Oppure lo hai pensato mentre mi
costruivi?»
Fukase balzò giù dal bidone con
grazia, non sembrò nemmeno atterrare sulla neve, ma fu come
se un
fiocco fosse caduto giù dal cielo. Il movimento tanto
aggraziato del
giovane stupì Len, che finalmente si ridestò da
quello stato di
stupore in cui era caduto: non riusciva a credere a quello che gli
stava succedendo, ma pareva realmente che Fukase lo conoscesse, che
sapesse esattamente quali tasti toccare con le sue parole.
«H-Hai detto che l’inverno ti ha
portato… Ehm, in vita?» chiese perplesso, forse
sul fondo della
gola una nota di sarcasmo che Fukase notò comunque.
«Non l’inverno come lo intendi
tu, come una semplice stagione! Ma l’Inverno!
Con la lettera
maiuscola! Perché si sa, esista una notte ogni anno in cui
l’Inverno
stesso esaudisce i desideri di un qualche fortunato
individuo!»
Gli occhi di Fukase si posarono su
Len e questo ebbe un brivido. Non riusciva a guardare quel volto
senza esserne in qualche modo turbato, quell’occhio rosso,
quel
bottone, era davvero fin troppo inquietante per
riuscire a
sostenere anche solo un’occhiata. Allora Len prese un
profondo
respiro, l’aria gelida a congelargli i polmoni, per poi
cercare di
focalizzarsi su una domanda che continuava a pressarlo.
«P-Perché sei qui?»
«Te l’ho appena detto, sei tonto?
-chiese avvicinandosi in un attimo, il pugno rosso a bussare sulla
testa di Len- È stato il volere del grande Inverno!»
«Ho capito, ma perché a me? Che
motivo avresti per essere qui con me?»
Fukase rise di nuovo con quella sua
risata cristallina, che ricordava proprio quella neve da cui aveva
preso vita. Len non era ancora riuscito a lasciarsi abbastanza andare
da farsi contagiare da quel suono, eppure ascoltarlo ridere lo fece
sentire bene, come fosse stato una specie di panacea. Il pupazzo di
neve fece un altro paio di balzi in avanti, quasi a raggiungere il
centro della piazza, poi fece una giravolta su se stesso e
posò di
nuovo lo sguardo su Len, offrendogli ancora quella mano di plastica
rossa mentre l’altra pizzicava la visiera del suo particolare
cilindro.
«La mia purezza è data dal bianco
di questa neve con cui mi hai creato, ho il potere di scacciare le
tenebre che ti affliggono! Ti conosco molto più di quanto
immagini,
perciò ho il potere di aiutarti.»
Len, a quelle parole, ebbe l’impulso
di controbattere, di dire che tutto quello che stava succedendo non
poteva essere reale, che si trattava solo di un sogno o che magari
poteva essersi addormentato sotto la neve ed essere morto assiderato:
quella poteva essere forse la spiegazione più logica a
quella
situazione, ma di nuovo Fukase si avvicinò con quella sua
grazia da
fiocco di neve e allungò le mani verso il volto di Len. Il
ragazzino
si immobilizzò all’istante e vide le mani chiuse
dell’altro, gli
indici puntati verso la sua bocca, e un sorriso formarsi forzatamente
per colpa di quel contatto. Fukase continuava a premergli le guance e
a costringerlo a tirare su un sorriso a trentadue denti, poi il
pupazzo parlò di nuovo.
«Non ci vuole un genio a capire che
tipo di persona sei! Diligente, sei lo studente modello che ha avuto
un crollo psicologico, no?»
Len scacciò via quelle mani
dall’aspetto inquietante e si mise sulla difensiva, certo che
quel
tipo non potesse essere davvero là per volontà di
una stagione che
lui personalmente adorava, ma che venisse a dirgli che lo conosceva
così a fondo da potersi concedere tutte quelle
libertà non poteva
accettarlo.
«E tu come dovresti saperlo?! Non
puoi nemmeno essere reale!»
«E se non fossi reale, potrei farti
questo?» chiese, pizzicando con forza la guancia destra di
Len con
la mano normale. Il ragazzo quasi urlò
dal dolore, gli aveva
fatto davvero male e sentiva la guancia pulsare e scaldarsi a causa
di quel pizzico: una sensazione del genere non poteva che essere
reale, perché sapeva che il dolore, nei sogni, non avrebbe
potuto
percepirlo senza svegliarsi. Eppure, era ancora seduto su quella
panchina.
«Ebbene? Io sono reale, così come
la neve che ricopre ogni cosa! Il mio candore è dato da
questi
cristalli che ci circondano, posso aiutarti a liberarti
dall’oscurità
che ti opprime. Basta che io resti al tuo fianco!»
Quelle parole restarono sospese per
una manciata di secondi, poi qualcosa accadde in Len. Fukase era uno
sconosciuto, un prodotto della sua mente stanca, non era nessuno di
così importante con cui confidarsi e spiattellare tutte le
cose che
lo affliggevano, ma improvvisamente un senso di angoscia
salì su per
la gola di Len, che esasperato, sarebbe potuto esplodere da un
momento all’altro.
Non ci fece nemmeno caso, ma poi il
calore delle sue lacrime iniziò a sfiorare le sue guance
infreddolite, portando con sé una serie di segreti che mai
avrebbe
detto a nessuno. La storia riguardo alla malattia della madre, la
paura di perderla, il terrore di deluderla e continuare a comportarsi
nel modo sbagliato: tutte queste uscirono dalla sua bocca come una
tempesta perché Fukase era lì, ad ascoltarlo come
nessuno aveva mai
fatto prima.
Angolo
di Zenya ^^
E
torno di nuovo, questa volta con un pairing che non avevo mai e dico
MAI preso in considerazione! Dopo quello che ritengo essere il
successo che è stato Wish Your Smile, torno qui con
un’altra
coppia che coinvolge il nostro Len, ossia una LenxFukase! E vi
starete chiedendo perché non sia una LenxKaito, visto che la
canzone
è del nostro amante dei gelati. E nemmeno io lo so, ho
iniziato a
shippare Len e Fukase dopo aver sentito la canzone Game Over e ho
trovato che fossero carini in una storia ispirata a Snowman :3
Sì,
ho bistrattato Kaito e mi dispiace un casino, ma probabilmente non
sarei riuscita a scrivere questo se ci fosse stato lui >.<
La
storia ha anche preso una piega leggermente creepy, ma giuro che non
volevo far prendere un colpo a nessuno, fossi stata io in Len me la
sarei fatta nei pantaloni a vedere uno come Fukase xD Ah, e ringraziate
tutti Zenya perché ha fatto inserire Fukase nella lista dei
personaggi, perché prima non c'era, povero cucciolo u.u
Io
impunto tutto al fatto che WYS sia stata molto pesante, anche a
livello di horror, quindi sarà rimasto qualche refuso da
quella
storia là, però mi serviva una pausa prima di
riprendere in mano la
prossima fic sui VanaN’Ice, quindi grazie per essere arrivati
alla
fine di questa minilong di non so quanti capitoli e alla prossima :3
|
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Capitolo 2 *** Snowy Night - Second ***
Snowman pt.2 html
Snowy Night—Second
Era tornato. Len era di nuovo in
quel piazzale dopo aver litigato nuovamente con la madre
perché quel
giorno era tornato a casa prima, verso l’ora di pranzo,
saltando
tutte le lezioni del pomeriggio.
Il ragazzino aveva detto
all’insegnate di non sentirsi bene e che aveva bisogno di
tornare a
casa; era stato trattenuto per un paio d’ore in infermeria,
evitando in tutti i modi che l’infermiera della scuola lo
toccasse
e verificasse che stesse realmente bene: quasi si era barricato
dietro alla tendina che separava il letto dalla scrivania della donna
per evitare che questa gli si avvicinasse e gli parlasse.
Len non aveva mai smesso di pensare
alla notte precedente e continuava a chiedersi se quel
Fukase
fosse reale, ma non poteva credere nella sua esistenza: insomma, quel
ragazzino aveva un occhio che pareva fatto di plastica! Oppure non
voleva crederci perché, davvero, tutto quello che era
successo, le
sue movenze, persino il suo modo di parlare esulava da qualsiasi cosa
umana. Nessuno avrebbe mai potuto credere a Len, se
questo
avesse deciso di raccontare a qualcuno di quello strano incontro.
Un ragazzo dalla pelle quasi bianca
e i capelli rossi, con in testa un secchiello da mare e un rastrello
di plastica a fargli da mano destra non poteva essere reale. Poteva
essere l’invenzione di uno scrittore, di un mangaka o di
chiunque
altro avesse una fervida immaginazione, ma Len sapeva di non avere
chissà quale spiccata vena artistica da poter creare un
personaggio
particolare come Fukase. Eppure, quello stesso Fukase pareva
conoscere Len molto più di quanto lui avesse fatto intendere
dopo
quella sua figuraccia, in cui il suo sedere era rimasto per quasi
troppo tempo nella neve fresca.
Il giovane si era seduto di nuovo su
quella panchina da cui tutta quell’assurdità era
partita, mentre
attorno a sé mamme e bambini giocavano attorno a quel
pupazzo che
lui stesso aveva costruito la notte prima. Nessuno pareva volersi
avvicinare, nessuno lo aveva toccato o aveva rivendicato quel
secchiello divenuto di stoffa la notte precedente, per poi continuare
ad essere di plastica di fronte agli occhi dei comuni
mortali.
Len doveva in qualche modo sentirsi
speciale per quello che gli era stato concesso e non capiva come
potesse essere possibile quello: il suo pupazzo lo
fissava
alla luce di quel Sole calante di dicembre, sul volto tondo e bianco
quella fila di sassolini a disegnare un sorrisetto quasi malizioso.
Di fronte a quel volto che lui aveva creato, non riusciva a capire da
dove fossero usciti fuori quei particolari del vero
volto di
Fukase: lo aveva notato, nonostante fosse terrorizzato da
quell’occhio rosso, che fosse un ragazzo carino,
dall’aria
piacevole. Certo, era inquietante, ma aveva trovato quei lineamenti
belli, quasi affascinanti e magnetici. E tutte quelle piccole
caratteristiche che lui aveva messo sul volto del pupazzo erano
rimaste sul viso di Fukase: quei pezzetti di nastro adesivo che Len
aveva messo sulla neve erano rimasti sul suo viso, un’altra
forte
nota di colore su quel volto bianchissimo.
«Se avessi avuto due bottoni neri,
magari a questo punto non sarebbe stato così tanto
inquietante…»
disse in uno sbuffo di condensa, con la strana consapevolezza di star
iniziando a credere per davvero nell’esistenza di Fukase. Len
si
era ritrovato a pensare a lui tutto il giorno, chiedendosi cosa
avesse fatto per tutto il tempo, se quella sua immobilità
fosse
dovuta alla presenza di altre persone che non
fossero Len o
se, molto semplicemente, se ne fosse stato immobile così
come
sarebbe dovuto essere normale per un pupazzo di neve.
Len tornò a fissare quella versione
inanimata di Fukase e notò che parte della neve che
componeva il
corpo era stata spostata, da una parte sciolta, dal Sole e dai
bambini che giocavano con la neve. Un pensiero strano gli
attraversò
la mente e si chiese se magari quegli abiti stracciati fossero dovuti
alla sua poca dimestichezza con la scultura, magari perché
non aveva
prestato tutta quell’attenzione per far sì che il
suo corpo fosse
ben levigato e liscio. Insomma, se il suo viso e la sua mano avevano
quelle due caratteristiche tanto peculiari, la sua supposizione
poteva anche essere vera.
Len si alzò e andò verso il
pupazzo, cercando di trovare della neve che non presentasse tracce di
sporco a causa di tutti i bambini che erano venuti a giocare: se
davvero quel problema con i suoi abiti fosse stato provocato dalla
sua poca cura, allora tanto valeva cercare di sistemare il pasticcio
fatto la notte prima.
«E se cambiassi quel maledetto
occhio rosso? E quella mano?» si chiese, il labbro inferiore
stretto
tra i denti in un’espressione perplessa. Ma poteva davvero
farlo?
Insomma, finché si trattava di sistemare quelli che potevano
essere
i suoi abiti non sembravano esserci problemi, ma toccare il suo volto
e modificarlo a suo piacimento! Len sentì un brivido
percorrerlo
dalle dita dei piedi fino alla punta dei capelli biondi, come se si
sentisse di nuovo osservato da quel ragazzo di neve. Scosse la testa
per togliersi di torno quella brutta sensazione, poi allungò
una
mano verso il piccolo rastrello rosso. Parve normale, di comunissima
plastica, ma quando fece per tirarla via, ebbe come
l’impressione
che questa si muovesse e cercasse di allontanarsi dalla sua presa.
Il gesto fu così concreto che Len
credette per davvero a quello che era successo la notte prima, ma la
sua parte più razionale non voleva ancora darla vinta a
quell’assurdità partorita dalla sua mente sul
punto di un
tracollo.
«Ok, non vuoi che ti tocchi! Ho
capito l’antifona!» disse Len alzando le braccia,
rassegnandosi
agli strani giochetti a cui lo stava sottoponendo la sua mente,
perciò tornò al suo posto e continuò a
rimanere con lo sguardo
fisso su quel pupazzo, posizionato proprio sotto ai raggi del Sole.
Rispetto alla notte precedente, quel
giorno pareva anche fare leggermente più caldo, la neve che
c’era
per terra non era poi molta, ma poi un’altra domanda sorse
spontanea nella sua mente: cosa ne sarebbe stato di Fukase se avesse
smesso di nevicare? Nel suo paesino era normale che nevicasse, ma
questa non durava mai più di una settimana perché
finiva per
sciogliersi in poco tempo, tra sbalzi di temperatura non da poco e i
soliti spazzaneve. Quindi cosa sarebbe successo a quel dono
dell’Inverno, come si era chiamato Fukase
stesso, se la neve
si fosse sciolta tutta? Per quello che poteva saperne Len, poteva
solo aspettare di nuovo che quel pupazzo si animasse e gli parlasse
di nuovo. O meglio, sarebbe rimasto seduto ad aspettare che Fukase si
ripresentasse, in modo da capire se quello che era successo potesse
essere per davvero reale. Se poi non fosse successo nulla, Len
avrebbe potuto finalmente metterci una pietra sopra e dare una
spiegazione più logica a quello che aveva provato,
catalogando tutto
sotto la voce “allucinazione”.
Eppure c’era qualcosa di
affascinante in quella storia, perché era certo di essere
tornato a
casa quasi alle tre di notte, non aveva sognato di aver confidato a
quel ragazzo tante di quelle cose che nessuno nemmeno sospettava, era
certo di avere i vestiti bagnati impregnati di acqua e ghiaccio. In
più era tornato a casa senza la sua sciarpa, quella era
ancora là
al collo di Fukase.
«So perché sono qui…
È perché
quel coso mi impedisce di pensare alla mamma, alle bugie che le dico
per non farla arrabbiare. Però tanto lei lo capisce subito
se
mento…»
E di nuovo, Len ripensò a quello
che gli aveva detto il pupazzo, mentre le sue mani premevano sulle
sue guance. Lui sapeva che tipo di persona fosse Len, che tipo di
studente era e che cosa stesse passando. Glielo aveva fatto intendere
con quello sguardo quasi agghiacciante.
«Ha detto di essere in grado di
scacciare le tenebre che mi affliggono… Lui la fa facile, ma
come
può conoscermi così a fondo?»
ripeté per l’ennesima volta.
Quella domanda continuava a ronzargli in testa, infastidendolo come
fosse una zanzara d’estate. Eppure gli aveva creduto, gli
aveva
raccontato davvero tanto, ma solo in quel momento, dopo essere
tornato, si era reso conto del fatto che quella sua confessione era
composta da tutti i suoi pensieri mentre lo costruiva. Se davvero
Fukase aveva sentito quelle sensazioni, il momento della sua
creazione avrebbe dovuto rappresentare un qualche tipo di legame
inscindibile tra i due.
Len si passò una mano tra i
capelli, arruffando quella chioma già di per sé
indomabile,
chiedendosi da dove avesse tirato fuori un discorso tanto assurdo su
un legame di quel tipo. Il destino non esisteva, era quello che si
era sempre detto, e credeva che ogni cosa accadesse in base alle
decisioni fatte nella vita: Fukase non era stato una decisione, era
stato un modo per ammazzare il tempo e se davvero il destino fosse
esistito sul serio, allora aveva deciso di tirargli uno strano tiro
mancino.
Tornò a fissare quel pupazzo e gli
fece una linguaccia, sperando che questo, magari, rispondesse e si
facesse vedere, ma ovviamente tutto ciò non sarebbe successo
di
fronte alle persone normali, che dall’Inverno
non avevano
ottenuto nessun tipo di dono. Avrebbe voluto chiamarlo e intimargli
di farsi vedere ma, dopotutto, lui era già là,
sotto gli occhi
delle persone comuni.
Un bambino corse velocemente accanto
al pupazzo, un’altra lo rincorreva con una palla di neve in
mano,
per poi colpire la testa di Fukase; Len ebbe una brutta sensazione e
strizzò gli occhi per vedere i danni fatti: il sorriso di
sassolini
aveva finito per piegarsi di lato, dando a quel pupazzo
un’espressione interrogativa. Len cercò di
trattenere una risata,
quella faccia non s'addiceva al ragazzo che aveva conosciuto la sera
prima, tanto che decise di lasciarlo in quelle condizioni per vedere
poi come si sarebbe trasformato il suo volto. Non lo avrebbe di certo
cambiato lui, ma se qualcun altro lo faceva al posto suo, il ragazzo
poteva stare tranquillo.
Attese per ore, senza che nulla
accadesse. Si era mosso giusto un paio di volte per sistemare il
corpo del suo pupazzo e per riscaldare il suo; ogni tanto se ne
andava fino al bar dall’altra parte della strada e si
prendeva
qualcosa di caldo da bere, senza mai distogliere lo sguardo dal
pupazzo in mezzo alla piazzetta.
Quel locale era il posto preferito
da Len e dai suoi amici, ci avevano passato spesso interi pomeriggi a
chiacchierare e a scherzare: avevano addirittura fatto amicizia con i
proprietari, ma da quando sua madre si era ammalata, Len aveva
iniziato a non sopportare più nemmeno quel luogo.
Non aveva tempo per nessuno, nemmeno
per quei due ragazzi che conosceva da anni e a cui voleva un bene
dell’anima, ma aveva davvero troppe cose a cui pensare. Non
solo la
madre era cambiata, ma i suoi amici avevano detto che anche lo stesso
Len non era più quello di una volta: se prima il giovane era
un
ragazzo pieno di vita e dalla grande forza di volontà, da
qualche
tempo appariva come una persona fredda, apatica e scorbutica. Il suo
peggioramento era dovuto a quel morbo, il comportamento della madre
si era riflesso nelle sue azioni e nel suo carattere, che aveva
assorbito tutta quell’energia negativa che lo faceva sentire
una
persona orrenda. Si portò nuovamente la tazza alle labbra e
fissò
Fukase dalla vetrina del bar, mentre i bambini ancora gli correvano
attorno.
Len non vedeva l’ora che la piazza
si liberasse, che l’intero paesino andasse a dormire,
perché era
davvero troppo curioso di sapere cosa sarebbe successo, un
po’ per
semplice divertimento, un po’ per curiosità, un
po’ per quel
senso di benessere che gli aveva fatto provare il pupazzo.
«Ma dovrei essere a casa a fare i
compiti… Dovrei cercare di aiutare la
mamma…»
E di nuovo Len venne investito da
quel senso di inutilità che lo aveva accompagnato per tutti
quei
mesi, per poi venir soppresso dal suo senso di apatia tanto pesante
da lasciarlo senza forze. Era stufo della situazione, era stanco di
doversi mettere da parte e dover guardare la madre stare male senza
che lui potesse muovere un dito.
E se Fukase, o qualsiasi cosa lui
fosse, poteva aiutarlo a rendere la sua vita un pochino più
sopportabile, allora avrebbe aspettato, anche a costo di rimanere
sotto la neve per tutta la notte.
*****
Alla fine, anche Fukase si
ripresentò. Len aveva notato il cambiamento nel suo corpo, i
suoi
vestiti avevano un aspetto decisamente migliore, anche se leggermente
più sporco. Si notava la neve appena appena macchiata, non
era più
candido come la notte precedente ma in questo modo riuscì a
dare
conferma alla sua piccola tesi, secondo il quale qualsiasi cosa fosse
accaduta al pupazzo questa si ripercuoteva su Fukase.
Il giovane di neve camminava in
tondo per la piazza, con un atteggiamento molto meno giocoso rispetto
a quando Len lo aveva conosciuto, ma sul viso continuava a mantenere
quello stesso sorriso, senza mai smettere di guardare il suo
creatore. Camminava con il bastone da passeggio in bilico sulle mani,
quella rossa di plastica a tamburellare sulla superficie in legno,
mentre sul volto si alternava quello strano cipiglio a metà
tra il
divertito e il perplesso.
«Che hai?» chiese Len, che lo
seguiva a pochi passi di distanza mentre questo girava attorno alla
sua postazione da uomo di neve. Il ragazzino non sapeva se essere
divertito dalla faccia di Fukase, da una parte ne era intimorito, ma
di paura non ne aveva mai avuta. Il pupazzo inclinò la testa
di lato
e fece un balzo, allontanandosi da Len per poi atterrare sulla
panchina preferita del ragazzo.
«Non ti è venuto in mente di
sistemarmi la faccia?»
«Eh?»
«Mi hai sistemato i vestiti! Potevi
anche darmi un’aggiustata, dopo che quella ragazzina mi ha
tirato
una palla di neve in faccia! Mi sento tutto
scombussolato…»
«Ma tu hai allontanato la mano,
volevo mettertene una normale! Quella mi mette
ansia…»
«Ma a me piace! Non ti azzardare a
togliermi il mio occhietto rosso! E la mia mano!» disse,
tirando
fuori il labbro inferiore e assumendo un’espressione a
metà tra il
sarcastico e l’imbronciato.
Len piegò la testa di lato e fissò
intensamente quel volto bianco e rosso, sbirciando cosa potesse
combinare quel ragazzo sotto al suo cappello a cilindro. Fukase
teneva lo sguardo leggermente abbassato, un sorrisetto strano a
incresparli le labbra: Len non riusciva infatti a vedere il suo
volto, perciò corse nella sua direzione. Il ragazzino era
incuriosito dall’improvvisa calma di quel giovane che si era
intromesso nella sua vita come una bufera di neve, senza nessun
preavviso.
E quando Len fu abbastanza vicino,
il movimento repentino di Fukase quasi lo vece finire con le gambe
all’aria, poi il suo bastone iniziò a picchiettare
sulla chioma
bionda del ragazzino.
«Che diavolo ti prende? Mi hai
fatto venire un colpo!»
Fukase ridacchiò e saltò
giù
dalla panchina, per poi mettersi davanti a Len e spingerlo per terra,
nella neve, con entrambe le mani che poi rimasero per aria. Aveva
ancora quell’espressione strana in volto, poi questo si
contrasse
in un sorriso a trentadue denti mentre fissava il suo creatore di
nuovo col sedere surgelato. Parve improvvisamente tornare quello
della sera precedente, infatti iniziò a girare attorno a Len
roteando il suo bastone, poi si chinò dietro al ragazzo e
poggiò le
mani sulle sue spalle.
Len non capiva dove volesse andare a
parare, non aveva detto poi molto quando aveva preso di nuovo vita da
quel pupazzo; eppure non ebbe il tempo di pensarci che qualche fiocco
iniziò a cadere di nuovo dal cielo, ma in un modo che Len
non aveva
mai visto. Attorno a sé il suo paesino già
dormiva, pareva essere
tutto immobile, tanto che nemmeno il vento soffiava più, ma
sulle
strade non vi era neve: sembrava che questa non arrivasse nemmeno
sulle vie, ma si concentrasse solo su quella piazzetta circolare,
solo per quelle due anime ancora sveglie in quella notte
d’inverno.
Len rimase incantato da quella vista, era come se fosse stato messo
dentro una di quelle palle con la neve finta, in una specie di bolla
di pace in cui c’erano solo lui e Fukase.
«È opera tua? Puoi anche far
nevicare?»
Fukase rise e avvicinò il volto a
quello di Len, soffiando sul suo orecchio un fiato gelido dai suoi
polmoni di ghiaccio; la vicinanza fu quasi imbarazzante, il ragazzo
non aveva mai avuto nessuno così vicino, tanto che le sue
guance si
tinsero di un rosso peperone, che però svanì
appena sentì la presa
della mano di plastica farsi leggermente più stretta.
«Io posso fare un sacco di cose,
mio caro!» disse il pupazzo, per poi mostrare i denti bianchi
come
la sua neve. Quella fu l’ultima cosa che
Len vide, perché
si ritrovò poi sommerso da un morbido cumulo di cristalli
bianchi.
Fukase rise di nuovo e si allontanò,
lasciando Len sdraiato a terra senza capirne il motivo; non ci volle
molto che il ragazzino si rimise in piedi, scrollandosi il gelo di
dosso nonostante qualche fiocco si fosse insinuato nel colletto del
suo maglione.
«Questo significa guerra!»
urlò
Len, senza pensare al fatto che la sua voce tanto gioiosa potesse
svegliare l’intero vicinato: non gli importava di farsi
sentire,
nessuno aveva importanza in quel momento, doveva solo farla pagare a
Fukase per quel suo gesto e, per quanto ne sapeva, fu davvero come
trovarsi in uno di quei souvenir con la neve finta.
Len si chinò a prendere una
manciata di quel morbido cumulo in cui era stato gettato, ma non ebbe
nemmeno il tempo di formare una pallina che venne colpito in faccia
dal suo pupazzo. Fukase continuava a ridere con quella sua risata
cristallina, rilassante, poi nella sua mano si formò
un’altra
sferetta candida, delle stesse dimensioni di una pallina da tennis;
continuava a farla saltare nel palmo rosso, continuando a
sbeffeggiarsi di Len con quel suo viso tanto particolare. La sfera
saltava e roteava come avrebbe fatto un pallone da basket, tra le
dita di Fukase pareva avere tutta un’altra fisica, come se
anche le
leggi della gravità e della scienza non potessero nulla
contro quel
dono dell’Inverno.
Il ragazzino cercò quindi di
evitare l’ennesimo proiettile bianco, ma Len non aveva
possibilità
di vincere contro Fukase. Per quanto corresse per la piazza, per
quanto cercasse di evitare i suoi colpi, sapeva di non poter vincere
una battaglia a palle di neve con un pupazzo venuto fuori da
chissà
dove, composto per il 99% da cristalli di ghiaccio: lui aveva dalla
sua parte il potere dell’Inverno, del suo
padrone magico che
lo aveva portato alla vita, quindi era ovvio che, qualsiasi gioco
comprendesse un loro elemento, Len non aveva
possibilità di
vittoria.
Ma nonostante ciò continuò a
correre, a cercare di avvicinarsi a Fukase per riuscire a prendere
meglio la mira, fissando quei due pezzetti di nastro adesivo rosso
come fossero il suo bersaglio. Proprio sul naso, in mezzo agli occhi.
Avrebbe tanto voluto riuscire a spiaccicargli una palla di neve su
quel visto troppo sprezzante, avrebbe voluto fare quello che aveva
fatto la bambina quello stesso pomeriggio, giusto per togliersi dalla
testa quello sfizio. Fino a quel momento, Len non si era mai sentito
tanto vivo, non aveva mai provato un simile calore, perché
aveva
come l’impressione che Fukase riuscisse a toccarlo in modo
più
profondo, riuscendo a raggiungere aspetti del suo carattere che
nessuno dei suoi amici riusciva a conoscere. Non era in grado di dare
un nome a quella vitalità che lo aveva investito, non
riusciva a
credere a quanto Fukase riuscisse ad attirare la sua attenzione,
tanto che aveva smesso di pensare agli avvenimenti della sua vita per
lasciare che la sua mente si concentrasse solo su quella battaglia a
palle di neve.
«Pensi davvero di riuscire a
battermi?» lo provocò ancora Fukase, che
portò poi la mano di
plastica al cilindro, per toglierselo quindi con le stesse movenze di
un prestigiatore. Per un istante, Len credette che il pupazzo potesse
anche far apparire un coniglio di neve dal cappello, ma non era
sicuro di questa sua seconda tesi, perché, dopotutto, non
aveva
aggiunto nulla di strano al suo pupazzo perché potesse fare
qualcosa
del genere. Tanto valeva rimanere in allerta e cercare di capire le
azioni di un tipo tanto strano come Fukase.
«Che fai?»
Len si immobilizzò, incuriosito dal
gesto del suo fantoccio. Lo vide sorridere e ammiccare nella sua
direzione, il bastone da passeggio tenuto a mezz’asta a
picchiettare sul cappello. Si mise ad osservare attentamente quei
gesti da mago, in seguito Len si mosse di qualche passo, sempre
riluttante dopo l’ultimo spavento che Fukase gli aveva fatto
prendere.
«Cosa staresti facendo? Guarda che
questa volta non mi farò fregare!»
Fukase ignorò tranquillamente le
parole di Len, poi balzò di nuovo di fronte a lui. I suoi
piedi
atterrarono di nuovo nella neve con la stessa grazia di un fiocco,
poi, con la pesantezza di un masso, Fukase calcò sulla testa
di Len
il suo cappello a cilindro, spingendo talmente forte da infilare
quasi tutta la testa del ragazzo nel secchiello di stoffa. Il pupazzo
riprese a ridere e continuò a spingere, divertito
dall’ennesimo
scherzo fatto ai danni del suo creatore, che cercava disperatamente
di togliersi quel coso dalla testa.
Len non riusciva a vedere, sentiva
solo il fiato freddo di Fukase davanti al naso, la sua risata e il
movimento convulso delle sue mani per costringerlo a rimanere con la
testa incastrata: il ragazzino iniziò ad inveire contro il
pupazzo,
ma non sembrava veramente arrabbiato, nemmeno infastidito,
perché
dopotutto si stava divertendo.
«Allora, hai detto una bugia a tua
madre! E tu non mi racconti niente?»
«Eh?»
La testa di Len riuscì finalmente a
liberarsi del cappello, gli occhi si posarono sul viso candido di
Fukase per poi guardarlo di traverso. Che senso aveva rovinare un
tale divertimento con quella domanda? Len accennò una faccia
contrariata, resa comica dalla neve che aveva sul naso, per poi
ritrovarsi a fissare direttamente quegli occhi.
Non lo aveva ancora guardato
attentamente negli occhi, lo turbavano ancora, ma in quel momento non
ci fece caso. Voleva divertirsi, Fukase aveva reso tutto
così bello
e spensierato che Len si era sentito leggero, quasi potesse essere un
fiocco di neve lui stesso. Ma poi il pupazzo aveva rovinato tutto.
«Come pensi che possa aiutarti, se
non mi dici niente? -Fukase inclinò la testa di lato, la
lingua a
spuntare tra quelle labbra candide per prendersi gioco di Len- Su,
su! Sputa il rospo! Prima il dovere, poi il piacere!»
Fukase si allontanò di nuovo, per
poi rimettersi in testa il suo cappello a cilindro. Len lo
osservò
spostarsi con le solite movenze talmente leggiadre da non sembrare
reali, chiedendosi cosa gli fosse preso.
«Quanto tempo credi che possa
avere? Quanto credi che possa durare un miracolo?»
«Miracolo? Ti sei appena chiamato
“Miracolo”?» chiese
Len, ridendo sotto ai baffi.
«Non era quello che intendevo, ma
sì! Io sono un Miracolo, su questo non
ci sono dubbi! -disse,
fin troppo spavaldo per i gusti di Len- Ma rispondi alla mia
domanda.»
«Non molto?»
«Non rispondermi con un’altra
domanda! Ma sì, i miracoli durano poco; ti conviene
sfruttare il tuo
finché dura!»
Il tono di Fukase non sembrava
ammonitore, Len era certo che prima o poi si sarebbero dovuti
salutare, ma non si aspettava che lui gli dicesse certe cose senza
peli sulla lingua. Il pupazzo gli aveva fatto quel quesito con il
sorriso sulle labbra, non si era mai scomposto, ma prima che Len
potesse di nuovo controbattere, Fukase saltò via.
«In che modo dovrei sfruttare
questo?»
Fukase atterrò sulla panchina e si
sedette, gli occhi puntati sulla figura di Len. Il pupazzo dondolava
le gambe pallide ed esposte alle intemperie, i gomiti poggiati sulle
ginocchia e il volto sui palmi; sul viso, Len vide
quell’espressione
strafottente che da una parte lo irritava, dall’altra lo
divertiva.
«Cosa hai fatto oggi?» chiese
Fukase, d’un tratto e senza mezzi giri di parole.
«Eh?»
«Cosa hai fatto oggi?»
«S-Sono stato ad aspettare che
tornassi! Mi hai visto, sei stato tutto il tempo di fronte a
me!»
replicò Len, leggermente stizzito. Non gli piaceva la piega
che
aveva preso la situazione, aveva solo intenzione di divertirsi e
l’idea di doversi mettere lì a parlare non gli
andava a genio.
Aveva già detto abbastanza la prima sera, non aveva
intenzione di
rinunciare ad un tale svago: nemmeno con i suoi migliori amici
riusciva a sentirsi così, libero e senza pensieri.
«BIIIP! Risposta sbagliata! Saresti
dovuto andare a casa dalla tua mamma!»
«Ma ti ho già detto tutti i miei
problemi, ero più interessato a te! Volevo vedere se non mi
fossi
immaginato tutto!»
«BIIIP! Di nuovo risposta
sbagliata! Devi interessarti a tua madre!»
Len digrignò i denti e sentì la
rabbia montargli su per la testa. Era stufo di dover continuare a
pensare a tutte quelle cose che lo mettevano di cattivo umore, gli
piaceva l’idea di essere lì a notte fonda con una
creatura magica
e non aveva intenzione di sprecare il suo tempo in quel modo. Ma
nonostante la sua rabbia fosse ben visibile sul suo volto, Fukase non
accennava a cambiare espressione, attendendo ancora che il giovane
gli desse la risposta che si aspettava.
«Perché credi che io sia qui? Sono
tuo amico, questo sì, ma quale credi sia il motivo per cui
sono
apparso e per cui l’Inverno ti ha concesso
un tale
Miracolo?»
«Dimmelo tu! Se continuo a
sbagliare risposta, allora dimmi tu perché sei qui! Io
proprio non
lo so, ma so solo che voglio passare qualche ora con te. Con te sto
bene e non voglio passare il tempo a deprimermi!»
sciorinò Len ,
ormai al limite dell’esasperazione.
Fukase inspirò, alzandosi dalla
panchina e muovendosi verso Len. Non aveva smesso di sorridere, era
come se quelle parole lo avessero lusingato e gli avessero dato nuova
energia, tanto che gli ultimi passi furono compiuti quasi galoppando.
Allungò la mano rossa verso Len e gli pizzicò di
nuovo la guancia,
per poi strattonarla a mo’ di nonna. Il sorriso che si
formò sulle
labbra di Fukase era chiaro, si stava apprestando a prendersi di
nuovo gioco di lui, ma ciò che fece il pupazzo
lasciò Len
interdetto.
«Sono reale, questo ormai è un
dato! Però sono qui per aiutarti a capire che quello che fai
non è
giusto, sia nei confronti di tua madre, dei tuoi amici e sia nei
tuoi… Io posso farti divertire, posso aiutarti a rimetterti
in
sesto, ma sei tu quello che deve fare il grosso del lavoro!»
La mano di Fukase si allontanò dal
volto di Len, poi il pupazzo si voltò facendo roteare il suo
bastone
da passeggio. Riprese infatti a camminare come aveva fatto quando era
tornato ad essere il Fukase animato; dava le spalle
a Len e
fischiettava, la neve che ancora cadeva solo sulle loro teste, come
fosse stato l’ennesimo dono dell’Inverno.
Len si guardò attorno e la sua
mente corse alla madre e ai suoi amici, chiedendosi come avrebbero
reagito loro alla vista di Fukase: per un attimo, avrebbe voluto
condividere quel Miracolo con loro, far vedere
loro la
meraviglia che poteva accadere a notte fonda e condividere con loro
quella gioia che Fukase riusciva a dargli. Ma non avrebbe potuto
farlo, almeno non con quel suo atteggiamento tanto pessimistico e
scorbutico che li aveva allontanati. Si era comportato male, con
tutti, e Fukase aveva fatto chiarezza su quell’aspetto che
lui non
riusciva a vedere. Len era certo che il suo atteggiamento fosse
lecito: la madre non era stata buona con lui, perciò il suo
modo di
fare si era riflesso in quel tipo di risposta nei
confronti di
quella donna malata, ma era sbagliato.
«Allora, abbiamo capito? Len,
sei davvero un testone!»
Len sentì il suo nome per la prima
volta da quel giovane di neve che lo aveva sempre chiamato testone,
capoccione o tonto. Quel suono fu
incredibilmente dolce,
non si aspettava che il suo nome potesse farlo trasalire in quel
modo, ma Fukase davvero era in grado di scombussolarlo dalla testa ai
piedi. Il ragazzino prese un respiro più profondo del solito
e
annuì, consapevole che qualcosa andava fatto, che non poteva
continuare ad agire in quel modo così egoistico.
Non era colpa di nessuno se le cose
avevano preso quella piega, ma era lo stesso Len il responsabile per
aver peggiorato la situazione a tutti con il suo comportamento e
finalmente lo aveva capito. Tutto grazie a quel dono dell’Inverno
che prendeva il nome di Fukase.
Angolo
di Zenya ^^
E
Zenya torna di nuovo, prima che il semestre la divori e non si faccia
più vedere! E voi vi chiederete quando posterò
l’ultimo capitolo,
ma nemmeno io lo so >.< Ebbene sì, siamo a
metà della storia
tra Len e Fukase, perciò il prossimo capitolo
sarà l’epilogo (mi
piacciono le three shots ^^). Come al solito ringrazio chiunque abbia
letto/ricordato/visto di sfuggita/recensito questa storia e spero che
il finale possa essere di vostro gradimento, anche se mi sento
rallentata dalla mole spropositata di storie sui VanaN’Ice
che mi
stanno venendo in mente! Vi ricordo che sono sempre aperta alle
critiche e a qualsiasi cosa vi venga in mente, quindi non esitate a
dire la vostra :3 Ci vediamo alla prossima o quando mi
deciderò a
finire quella KaitoxGakupo a cui sto lavorando in contemporanea a
questa ^^
Un
saluto,
Zenya
:*
|
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Capitolo 3 *** Snowy Night - Last Night ***
Snowman pt. 3 finale html
Snowy
Night – Last Night
Len sedeva alla sua
scrivania, gli
occhi puntati su quella pila di compiti fatti. Non ricordava nemmeno
quanto fosse piacevole mettersi così tanto
d’impegno in qualcosa:
si sentiva davvero soddisfatto e fiero di sé per essere
tornato in
carreggiata.
Quel giorno
stesso era tornato a
casa appena terminate le lezioni, sul viso un’espressione
così
determinata che la madre non sembrava averlo riconosciuto tanto era
stata la foga con cui aveva aperto la porta. Il ragazzino aveva
varcato la soglia di casa come un fulmine, sfilandosi le scarpe senza
nemmeno fermasi a sedere, per poi tornare dritto quasi con un
saltello; era poi entrato in cucina come se fosse stato inseguito dal
Diavolo in persona e aveva scoccato un bacio sulla guancia della
madre, guardandola come se la litigata del giorno prima non fosse mai
avvenuta. Non aveva nemmeno detto niente, semplicemente si era
fiondato in casa con un’energia tale che la donna non era
riuscita
a capire cosa fosse appena successo. Fu come se in quella piccola
abitazione a due piani si fosse insinuata una piccola tormenta di
neve gialla, che aveva scombussolato qualsiasi cosa si fosse
ritrovata davanti.
E non ci mise
nemmeno un minuto a
salire per le scale del duplex in cui viveva. Era salito per quella
rampa quasi due gradini per volta, si era infilato in camera e si era
chiuso la porta alle spalle. Len non si era nemmeno reso conto di
tutta la forza che aveva ottenuto in poco meno di ventiquattro ore,
eppure si era ritrovato chino sulla sua scrivania a studiare e finire
una valanga di compiti che aveva lasciato indietro. Prima di lui,
Len non si sarebbe aspettato un recupero di quel tipo, si era sentito
un po’ come quei corridori che, a pochi metri dal traguardo,
riuscivano a compiere quegli scatti in grado di rimetterli in pari
con gli altri, riuscendo anche a sorpassarli e vincere la corsa. Un
po’ come quella sensazione che aveva durante gli allenamenti
del
circolo di atletica leggera a cui presto sarebbe tornato.
Certo, la sua
mente era sempre
rivolta a Fukase, molti dei suoi appunti erano intervallati da strani
schizzi prima del volto del suo magico amico, poi
da disegni
più semplici di qualche pupazzo di neve.
Se ne accorse,
infatti, solo quando
ebbe finito di studiare e rise di fronte ai suoi tentativi di
disegnare Fukase: non era mai stato bravo in arte, ma una parte di
sé
continuava a pensare al suo pupazzo di neve. In sole poche ore, quel
giovane figlio dell’Inverno era riuscito a
farlo tornare
sulla retta via, le sue parole lo avevano scosso talmente tanto che
per un attimo ebbe l’impressione di essere stato buttato in
mezzo a
una tormenta di neve. Un pizzicotto sulla guancia, un paio di frasi
dette nel modo giusto e Fukase era stato in grado di mettergli
davanti al naso la dura verità: il suo comportamento era
stato il
riflesso dello stress della madre. Lui aveva semplicemente messo in
chiaro quanto fosse stata sbagliata la sua reazione, tanto che Len
non ebbe modo di obiettare e dire la sua. Ma, alla fine, non poteva
dire comunque nulla, perché il pupazzo aveva ragione e lui
torto
marcio.
«Ma
potrò vederlo oggi?» si
chiese Len, stiracchiandosi e portandosi le mani ai capelli lasciati
sciolti. Dondolava la testa e fissava, tra tutti quegli scarabocchi,
quello che più di tutti somigliava a Fukase, tanto che aveva
persino
colorato i suoi tratti distintivi con la penna rossa. Nel suo
disegnino, il pupazzo aveva gli occhi molto più grandi
rispetto alla
realtà, aveva il solito sorriso sprezzante e il suo cappello
a
cilindro, che però Len aveva rappresentato nella sua forma
di
secchiello da spiaggia. Anche in quello scarabocchio, aveva
quell’espressione incoraggiante che Len aveva apprezzato e di
cui
aveva un disperato bisogno; ebbe come la sensazione di aver voluto
ritrarre quel volto proprio per non dimenticare, nemmeno per un
secondo, la sensazione benefica che lui era riuscito a dargli.
Poi il suo
sguardo corse alla
finestra e vide quel tramonto limpido, seguito di una giornata in cui
il cielo era stato tutto il tempo privo di nuvole. Sorrise e si
lasciò andare in una risata liberatoria, eccitato per quello
che il
pupazzo si sarebbe inventato al suo ritorno in piazza. Lo faceva
arrabbiare, lo faceva ridere, Fukase riusciva a fargli provare
talmente tante sensazioni contrastanti che non riusciva proprio a
inquadrarlo.
Quando sarebbe
uscito di casa?
Avrebbe detto alla madre dove sarebbe andato? Alla fine, poco
importava, perché sicuramente Fukase sarebbe stato
là ad
aspettarlo.
«Chissà
cosa potrebbero dire Kaito
e Gakupo se lo vedessero? Se glielo raccontassi soltanto, mi
prenderebbero in giro a vita!» ridacchiò, gli
occhi chiusi a
pensare ai suoi due migliori amici, che in quel periodo aveva
ignorato e certamente ferito.
Quella mattina
era infatti riuscito
a ricucire, almeno un pochino, i rapporti con quei due ragazzi: Len
era arrivato a scuola con un grosso sorriso sul volto al posto di
quella sua espressione mogia degli ultimi mesi, aveva preso posto
accanto a Gakupo e gli aveva rivolto un’espressione
raggiante. Il
suo compagno di banco non poté fare a meno di guardarlo di
traverso,
passandosi le dita tra i lunghi capelli porpora tenuti sempre legati
con un elastico, confuso da un cambio tanto repentino
nell’umore di
Len.
Ma il
ragazzino sembrò non aver
notato l’espressione perplessa dell’amico, nemmeno
lo sguardo che
questo aveva lanciato a Kaito come se necessitasse del suo aiuto.
Come a chiedergli se il loro vecchio amico fosse stato sostituito da
qualche alieno che avesse preso il suo posto.
Per tutta la
durata della giornata
scolastica, Len era stato di buon umore, pensando di tanto in tanto a
Fukase, per poi approcciarsi di nuovo agli amici di una vita.
Il ragazzino
aveva chiesto loro
scusa per il suo comportamento e aveva promesso loro che sarebbe
tornato quello di prima, che avrebbero di nuovo giocato ai
videogiochi tutti e tre insieme e che si sarebbe dato una calmata,
non solo per il bene dei due ma anche per quello della madre. Certo,
la reazione dei due non fu proprio delle migliori, ma Len
pensò
fosse normale per loro essere abbastanza titubanti, perché
dopotutto
si era ripreso in modo tanto inaspettato. Ma le sue intenzioni erano
buone e avrebbe fatto di tutto pur di dimostrarlo. A loro teneva
davvero molto e non avrebbe permesso a una situazione del genere di
allontanarli in modo irreparabile.
Dei due, Kaito
era quello che aveva
preso peggio il cambiamento di Len, eppure non gli ci volle molto per
dare all’amico di sempre una seconda chance, tanto che quel
moto di
entusiasmo aveva preso sia lui, sia Gakupo. Proprio non era riuscito
a tenere il broncio, Len lo aveva notato perché, come lui,
anche
Kaito aveva passato l’ultimo periodo con i nervi a fior di
pelle:
certo, lui non aveva problemi gravi in famiglia, ma semplicemente si
era fatto influenzare dal comportamento dello stesso Len, andando a
stressare di conseguenza il più paziente Gakupo. Per Kaito
era stato
un continuo lamentarsi di come Len sembrasse snobbarli, guardarli
dall’alto in basso e di continue mani passate tra i corti
capelli
azzurri per cercare di ovviare allo stress sempre in agguato.
Alla fin fine,
Len era riuscito a
capire quanto potesse essere distruttivo un tale comportamento,
quanto una reazione sbagliata potesse mettere in difficoltà
non solo
lui, ma anche le persone che aveva accanto. Se ne era accorto in
tempo e a quanto pareva le cose avevano iniziato a girare per il
verso giusto. Lentamente, ma verso la strada giusta.
Però
ovviamente Len non aveva
affatto detto loro il perché del suo mutamento improvviso,
non
sapeva se fosse possibile dire loro di Fukase. Però dato che
le cose
sembravano aver ripreso il loro corso originale, ci aveva fatto un
pensierino. Kaito e Gakupo erano sempre stati due ragazzi divertenti
e pieni di vita, un po’ come Fukase, e Len si era chiesto
più
volte, dopo aver chiesto scusa, come sarebbe stato poter giocare con
tutti e tre. Magari, con loro due al suo fianco, sarebbe riuscito a
battere Fukase in una battaglia a palle di neve, oppure semplicemente
i tre sarebbero caduti di fronte all’invincibilità
del miracoloso
pupazzo di neve.
Il pensiero
scatenò in Len un’altra
risata liberatoria, tanto che afferrò al volo il cellulare e
compose
le prime cifre del numero di Kaito, proprio per invitare lui e Gakupo
a vedere Fukase. Arrivato a metà, le sue dita si bloccarono.
«Ma
sarà possibile condividere un
miracolo?» chiese, guardando fuori dalla finestra di fronte
alla sua
scrivania. Il Sole, quel giorno, era stato particolarmente caldo.
Insomma, una giornata non propriamente invernale, ma che un
po’
rifletteva l’umore più raggiante di Len.
La domanda
continuò a ronzargli per
la testa per un paio di minuti, senza però riuscire a
trovare una
risposta. Ovviamente, come aveva ribadito Fukase, un miracolo non era
fatto per durare a lungo. Era tanto più
un’occasione, che qualcosa
da godersi per molto tempo. E quasi sicuramente Fukase era quel tipo
di miracolo che durava quanto uno schiocco di dita.
Come la
neve sotto al Sole.
Senza
accorgersene, aveva continuato
a comporre il numero dell’amico di sempre, aggiungendone
forse
qualcuno di troppo che avrebbe potuto cancellare per chiamarlo
veramente. L’idea
non era poi così malvagia, perché per quanto
Fukase si fosse reso
importante nella vita di Len, ovviamente non poteva prendere il posto
degli amici di sempre.
E condividere con loro un miracolo
poteva solo fare che bene.
Cancellò
i pochi numeri di troppo e
si portò l’oggetto all’orecchio. Questo
squillò per due volte,
prima che Kaito rispondesse.
«Pronto?»
Len
ridacchiò appena, sentendo la
voce dell’altro impastata dal sonno, segno che Kaito si fosse
appena svegliato da un riposino pomeridiano.
«Len?
Che diavolo ridi?»
«Niente,
scusa! Mi chiedevo cosa
stessi facendo e se tu e Gakupo foste liberi.»
«Mmmh,
credo di sì, non mi pare di
avere impegni particolari… -uno sbadiglio interruppe la voce
del
ragazzo- E non credo che Gakupo sia occupato oggi.»
«Vi
andrebbe di fare un giro? Dopo
cena?»
Len
avvertì nel tono di voce
dell’altro una certa perplessità, come se non
fosse convinto
dell’invito del ragazzino. Dopotutto si trattava di dover
uscire a
notte fonda, d’inverno e con un freddo tale da rendere
chiunque un
ghiacciolo ambulante. Kaito riprese a mugugnare qualcosa, continui
sbadigli a interrompere il filo dei suoi pensieri tanto che Len non
riuscì a fare a meno di scoppiargli a ridere in faccia.
Lo prese in
giro, mandandolo a
dormire perché ancora troppo assonnato per riuscire a
mettere in
ordine le idee. L’altro ridacchiò, un
po’ come facevano prima,
tanto che il sonno scomparve in pochi attimi sostituito da quelle
risate tipiche dei quattordicenni. Tra una risata e l’altra,
finalmente Kaito riuscì a dare a Len una possibile conferma
per
quella sera, soprattutto se anche Gakupo si fosse rivelato libero da
impegni.
Len
annuì con forza, con la
consapevolezza che l’altro non lo potesse vedere e lo
salutò con
un tono di voce fin troppo gioviale, che forse non gli apparteneva
più da molto tempo.
«Beh,
se non verranno, mi divertirò
lo stesso con Fukase!» fece, riagganciando e lanciando il
telefono
sul suo quaderno di letteratura.
Con quel
pensiero, Len si chinò
nuovamente sulla sua scrivania, con la penna in mano e tanta buona
volontà. Ciò che aveva fatto Fukase aveva un
qualcosa di
incredibile, Len era stato influenzato da quel ragazzo con una forza
quasi travolgente, tanto che non riusciva a credere che quello che
stava succedendo alla sua vita fosse davvero reale. Credeva ancora di
essere in una specie di sogno fatto di neve e silenzio, la quale
aveva scacciato tutte le voci cariche di rabbia della madre e degli
amici. Ebbe davvero l’impressione che tutti i suoi problemi
fossero
stati sommersi da quella bellissima coltre candida che aveva dato
vita a Fukase, come se la sua sola presenza avesse scacciato le
tenebre come aveva proferito quella stessa notte di tre giorni prima.
E alla fine,
era riuscito a credere
a tutte le promesse che gli aveva fatto Fukase: il suo modo di porsi
così cristallino aveva messo fine alla tristezza che lo
aveva
assalito, per cui non aveva più nessun motivo per
comportarsi a quel
modo tanto indisponente. Fu come se il pupazzo di neve gli avesse
aperto gli occhi per la prima volta: grazie a lui, aveva avuto la
conferma di quanto le sue azioni si fossero rivelate sbagliate, per
cui l’unica cosa che poteva fare era cambiare. Ma cambiare
non
poteva di certo essere facile, non in un lasso di tempo tanto breve:
però, se davvero quel suo miglioramento fosse stato dovuto
al
pupazzo di neve, significava che quello potesse solo che essere un
miracolo concesso dall’Inverno,
per far sì che la
sua vita tornasse a prendere la sua piega originale. E anche se
Fukase fosse sparito dalla sua vita, perché era ovvio che
ciò
sarebbe accaduto, Len non poteva far altro che conservare la marea
di insegnamenti che questo gli aveva dato, per non ricadere
più in
errori del genere.
*****
Len era
davvero di buon umore,
soprattutto dopo una cena che si era rivelata molto più
gioiosa e
divertente di quanto si aspettasse. Alla fine, era riuscito a
convincere Kaito e Gakupo a venire a cena a casa sua, per poi
dirigersi tutti assieme in piazza a pochi minuti dalla mezzanotte.
A loro non
aveva esattamente detto
quali fossero i suoi piani, ma aveva preferito godersi
quell’eccitazione che gli dava mantenere un segreto fino al
momento
più opportuno. Inoltre, la presenza dei suoi amici aveva in
qualche
modo ravvivato la madre, che pareva essersi lasciata alle spalle
quella sua indisposizione come se il ritorno del figlio da quella
giornata di scuola l’avesse risvegliata. La mente di Len si
era
spesso persa tra i ricordi delle parole di Fukase e si era ritrovato
molte volte, nel corso della serata, a ripetersele mentalmente come
una specie di mantra. Aveva bisogno di ricordare ogni sillaba uscita
fuori da quella bocca, la quale aveva pronunciato tutta una serie di
frasi il cui senso era talmente specifico che dovevano essere state
composte solo e soltanto per Len.
Il continuo
rimembrare quelle parole
aveva dato a Len una certezza, che si era rivelata esatta mentre
assisteva a quella cena tanto desiderata. La madre aveva ripreso a
cucinare qualcosa di veramente commestibile, senza più
limitarsi a
quei pasti precotti che Len mal sopportava, aveva ripreso a sorridere
e chiacchierava con Kaito e Gakupo interessandosi alle loro
attività
scolastiche. Nessuno si era mai posto il problema di tirare in ballo
tante di quelle problematiche che sembravano essere svanite con uno
schiocco di dita. Era tutto come sarebbe dovuto essere e Len
ringraziò ancora per quel miracolo che
gli era stato
concesso, proprio perché questo era stato in grado di dargli
quello
stimolo giusto per riprendersi le redini della propria vita.
E tutti e tre
si erano finalmente
ritrovati in quella piazzetta circolare, illuminata
dall’unico
lampione ad olio di tutto il paesino.
Len camminava
attorno a Fukase,
aspettando che questo si rianimasse. Mancavano circa dieci minuti
alla mezzanotte. La voce di Kaito continuava a raggiungere le
orecchie di Len chiedendogli cosa stesse aspettando, alternando
quella domanda ad un continuo evocare l’estate e il Sole: Len
infatti sapeva di aver messo Kaito in una situazione abbastanza
difficile da sopportare per lui, in quanto a conoscenza di
quell’amore spropositato che il ragazzo provava per
l’estate e
per tutti i gelati che avrebbe potuto mangiare. Tutto il contrario di
quello in cui Len lo avesse costretto a vivere. Invece,
dall’altra
parte, Gakupo osservava incuriosito i movimenti dell’amico,
senza
chiedere nulla perché armato di quella sua solita pazienza
che il
più basso ammirava.
I due ragazzi
rimasero in silenzio,
mentre Len dava l’ennesima occhiata all’orologio da
polso. Aveva
ripreso a controllare il volto di Fukase, che quel giorno non aveva
visto a causa della foga che questo gli aveva dato per tornare a
studiare.
Il viso del
pupazzo di neve aveva sì
qualche cosa che non andasse, il Sole non era stato clemente nei suoi
confronti, ma non aveva di certo deturpato quello che era
l’assetto
di base del pupazzo. Il sorriso di sassolini pareva quello che
più
di tutte le sue caratteristiche era cambiato, perché le
piccole
pietruzze avevano iniziato a cedere sotto al proprio peso su quella
neve leggermente sciolta. In quanto al cappello, agli occhi e al
naso, tutto pareva nella norma, se non fosse che il lato destro del
volto fosse stato leggermente più deformato.
«Qualcuno
deve avergli tirato
un’altra palla di neve in faccia…»
constatò Len, massaggiandosi
il meno con due dita. Gakupo lo guardò di traverso, poi
chiese a
cosa si riferisse.
«Oggi
ha fatto caldo. Vero?»
«Ehm…
Sì? Che cosa dovremmo fare
qui?»
«Aspettate
solo un altro po’!
Devo farvi vedere una cosa fantastica! Non ve ne pentirete»
replicò
il ragazzino, guardando Gakupo con quei suoi occhioni azzurri pieni
di speranza ed eccitazione. L’altro si limitò a
scuotere la testa,
senza però dire ancora niente, magari in attesa che Len si
decidesse
a dire cosa avesse in mente. Il ragazzino si passò di nuovo
la mano
tra i capelli biondi, sempre con la stessa espressione sul viso
mentre attendeva che Fukase si muovesse. Dall’altro capo
della
piazzetta, Kaito borbottò ancora a causa di quel freddo che
proprio
non riusciva a digerire; fu allora che Gakupo lo raggiunse per
sedersi accanto a lui e aiutarlo a rendere quell’attesa meno
irritante.
Len non
notò il fatto di essere
rimasto l’unico accanto a Fukase, ma un altro pensiero
sopraggiunse
a quelli che aveva sempre dedicato al ragazzino dai capelli rossi e
il volto niveo. Che non si volesse muovere perché non era da
solo?
Oppure era proprio dovuto al fatto che Len lo stesse fissando? Il
ragazzino non ci aveva mai fatto caso, ma Fukase era sempre apparso
nel momento esatto in cui la sua attenzione era rivolta a
qualcos’altro, come se volesse approfittare
dell’elemento
sorpresa che tanto lo caratterizzava. Per quanto poco lui lo
conoscesse, Len aveva capito in parte che tipo di persona
lui
fosse, ossia un amante delle entrate in scena particolari, capace di
far mancare un battito al suo malcapitato spettatore.
Tornò
perciò dai suoi amici. Kaito
se ne stava ancora con le ginocchia strette al petto, tremando come
fosse stato attraversato da migliaia di scosse elettriche, mentre
Gakupo lo guardava con quell’espressione a metà
tra compassione e
divertimento. Il più alto gli aveva poggiato un braccio
sulle spalle
per cercare di scaldarlo, senza però distogliere lo sguardo
da Len
che si era messo a camminare davanti ai due, con le mani dietro la
schiena. Un po’ come faceva Fukase.
«A-A-Allora,
che d-dobbiamo fare
qui?» balbettò Kaito, i denti che stridevano a
causa del gelo.
«Vi
chiedo sono un attimo di
pazienza! Voglio mostrarvi qualcuno di fantastico
che mi ha
aiutato tantissimo!»
«Qualcuno?»
chiese Gakupo,
storcendo il naso. Len annuì con convinzione, forse cercando
di
trasmettere ai due quella sua stessa energia derivata dall’Inverno.
Ovviamente l’idea di incontrare uno sconosciuto a notte fonda
non
sembrava proprio allettante, Len lo aveva notato guardando
l’espressione perplessa di Gakupo, ma lasciò
correre sperando che
Fukase si decidesse a farsi vedere.
Len si
inginocchiò e prese una
manciata di neve dalla consistenza sgradevole, tipica della neve
sciolta e nuovamente congelata dagli sbalzi di temperatura. Mentre
formava una piccola sferetta, sentì Kaito scalciare come a
volersi
nascondere letteralmente dentro il giubbotto di Gakupo.
«Non
avrai intenzione di giocare a
palle di neve?! Non senti che cavolo di freddo fa?!»
«Potresti
scaldarti, se ti muovessi
un po’… -constatò Gakupo- E potresti
anche non starmi così
tanto appiccicato…»
Len
fissò Kaito mentre questo
sbuffava scocciato nella direzione dell’altro, una nuvoletta
di
condensa ad accompagnare il gesto. Un po’ era dispiaciuto nel
dover
coinvolgere il povero Kaito in quella fredda situazione, ma Len era
certo che una volta apparso Fukase, anche lui si sarebbe divertito e
avrebbe fatto sparire quell’espressione infastidita dal
volto.
Dopotutto, il pupazzo di neve era capace di quello e tanto altro.
«Dai,
giochiamo!» esordì Len,
dopo qualche secondo. Gakupo inclinò la testa di lato e
lasciò
andare la spalla di Kaito, per calcarsi il berretto viola sul capo e
prepararsi; l’altro gli lanciò
un’occhiata interrogativa, con
quella nota perplessa con cui gli chiedeva se fosse davvero serio
riguardo a quella faccenda.
Len sorrise
alla spavalderia del più
alto dei tre, perciò fece un passo indietro, accogliendo lo
sguardo
di sfida che aveva illuminato il volto di Gakupo. Avrebbe atteso
Fukase in quel modo, certo che prima o poi questo sarebbe arrivato e
si sarebbe unito alla battaglia. Dopotutto, quel dono dell’Inverno
era il tipo di persona la cui voglia di stupire era
sempre
pronta a colpire per mettersi in mostra.
Len
iniziò a correre per la
piazzetta, lo sguardo puntato su Gakupo. L’altro lo inseguiva
col
sorriso sulle labbra da cui uscivano irregolari nuvolette di
condensa. I due continuavano a prendersi di mira ma senza riuscire a
mettere a segno un singolo colpo, tanto che finirono per darsi degli
scemi a causa della loro pessima mira. Ma il ragazzino non si era di
certo dimenticato di Kaito: si girò verso di lui, lasciando
che
Gakupo riprendesse fiato e mettesse insieme un’altra manciata
di
neve, mentre la sferetta che teneva in mano rimbalzava sul suo palmo.
Il sorriso di
Len si allargò in un
ghigno pestifero, come a minacciare scherzosamente l’amico
che
ancora si rifiutava di alzarsi e unirsi al gioco. Tremava ancora e
dalla sua faccia temeva quello che avrebbe potuto fare Len: Kaito
iniziò a guardarsi attorno, cercando con lo sguardo Gakupo,
il quale
parve prenderlo di mira anche lui. Tra i due, né Len
né Gakupo
parevano avere una buona mira, ma si limitarono a fissare il volto
congelato e spaventato di Kaito con quelle palle di neve in mano.
Peccato per
lui che qualcun altro
non fosse d’accordo con l'impasse dei due. Len vide
sfrecciare con
la coda dell’occhio una terza sfera di neve, che
andò a
sfracellarsi proprio sul naso del povero Kaito. La neve
schizzò in
tutte le direzioni, leggera e soffice come fosse appena caduta dal
cielo, poi una risata cristallina si levò per quella
piazzetta
deserta.
Il volto di
Len si illuminò come un
Sole a mezzogiorno, tanto che gettò a terra la pallina che
aveva in
mano per correre al centro dello spiazzo. Fukase aveva finalmente
deciso di farsi vedere, esattamente all’ultimo rintocco della
mezzanotte.
Dondolava la
testa, allo stesso
ritmo del suo corpo che oscillava sui talloni; teneva le mani dietro
la schiena, il bastone stretto tra le dita, e osservava i due
ragazzini con cui Len aveva deciso di condividere il suo miracolo.
Len si avvicinò quasi saltellando e prese il pupazzo per le
spalle,
guardando attentamene il suo volto in cerca di imperfezioni
sopraggiunte mentre lui non c’era. Non riusciva a smettere di
sorridere, raccontando al suo pupazzo tutto quello che aveva fatto
quel giorno; non aveva smesso di ringraziarlo, tanto che le sue
parole parevano un continuo susseguirsi di concetti ripetuti quasi
fino alla nausea. Lo sciorinare di Len venne interrotto da una palla
di neve, caduta esattamente sopra la sua testa bionda. Non
riuscì a
capire da dove diavolo fosse arrivata. Si girò verso i suoi
due
compagni di classe, ma l’unica cosa che ottenne fu una serie
di
sguardi persi, confusi e forse terrorizzati.
«Non
sono mica stati loro a
colpirti! Certo che sei pedante, caro mio testone!»
fece
Fukase, allontanando Len e mettendosi al centro della piazza, dove
prima era presente la sua forma inanimata. Il ragazzino scosse la
testa per liberarsi dalla neve, poi osservò i movimenti del
suo
magico amico, mentre roteava il suo bastone da passeggio e si esibiva
in un inchino quasi teatrale. Sfilò quindi il cappello e
mostrò un
ammasso di capelli rossi come il fuoco, i quali stonavano con la sua
pelle di ghiaccio.
«L-Len?»
balbettò Gakupo, le cui
mani avevano abbandonato la sfera che voleva tirare a Kaito;
l’altro,
invece, fissava la scena con gli occhi sgranati, il corpo che aveva
smesso di tremare.
«Vedo
che stai meglio, capoccione!
Questi sono i tuoi amici? -fece Fukase, i cui occhi continuavano a
guizzare sulle figure dei due ragazzi- Piacere! Io sono Fukase e sono
qui perché l’Inverno ha voluto
esaudire il desiderio di
questo tonto!»
«Potresti
non offendermi? Almeno
non davanti ai miei amici?»
Fukase rispose
con una linguaccia e
si diresse verso Gakupo, girandogli attorno e squadrandolo dalla
testa ai piedi. Len notò una nota di inquietudine
nell’amico, il
quale, probabilmente, aveva visto l’agghiacciante occhio
rosso del
pupazzo e la sua altrettanto terrificante mano di plastica. Gakupo se
ne stava infatti rigido, trattenendo il respiro che nemmeno la
condensa usciva più dalle sue labbra, ma Fukase non
sembrò farci
caso e iniziò a dargli degli amichevoli colpetti sulla testa
con il
suo bastone da passeggio.
Poi il pupazzo
cambiò vittima e
si diresse verso Kaito che, a differenza di Gakupo, iniziò
ad
intimargli di stare lontano. Len corse verso l’amico e
cercò di
tranquillizzarlo, agitando le braccia dietro a Fukase come se quello
potesse essere sufficiente a dare a Kaito la sicurezza necessaria per
fidarsi di quello strano ragazzino.
I tentativi di
Len non sembrarono
sortire effetto alcuno e per un attimo pregò che Fukase
potesse
dargli almeno un quarto della pazienza che aveva invece Gakupo, il
quale, dopo un attimo di inquietudine, era riuscito ad avvicinarsi a
Len per studiare meglio la situazione.
«Kaito!
Non è cattivo, è mio
amico!»
«Ma
quel coso ha fatto
apparire una palla di neve dal nulla! E il pupazzo di neve non
c’è
più! Che diamine sta succedendo?!»
«Intanto
non chiamarmi coso,
ho un nome, io! Ed è Fukase!» rimbeccò
il ragazzino di neve,
allungando la mano di plastica verso il giovane. Kaito si
lasciò
sfuggire un grido che cercò di fermare tappandosi la bocca e
Len non
riuscì a trattenere una risatina, per poi anticipare il suo magico
amico e afferrare la mano del compagno di classe, con
l’intento di
strapparlo via da quella panchina.
«Vuoi
dirci che sta succedendo?»
chiese Gakupo, in piedi accanto a Fukase mentre ne studiava
interessato i lineamenti di neve. Len fu contento di vedere
l’amico
tanto incuriosito, almeno non si sarebbe dovuto mettere a
tranquillizzare anche lui. Aveva sempre apprezzato quella
caratteristica di Gakupo, quella sua pazienza che forse aveva
impedito a Kaito di troncare completamente la loro amicizia con lui.
«È
difficile da spiegare -rispose
Len, lasciando andare il braccio di Kaito- Ma credo che l’Inverno
mi abbia concesso una specie di miracolo…»
«Non
una specie di miracolo.
Io sono un miracolo! Sotto ogni
punto di vista!»
Fukase rise
alle sue stesse parole e
si portò la mano al cilindro, spiegando in poche parole come
lui
fosse nato, tre notti prima, per mano di Len. La sua mano di plastica
continuava a seguire più volte la linea della visiera del
suo
cappello, mentre la sua voce si perdeva nell’aria senza che
dalla
sua bocca uscisse il minimo alito di condensa. Spiegò come
fosse
nato, da una paletta e un secchiello da spiaggia, da una fila di
sassolini e dei pezzetti di nastro adesivo. E poi, quale fosse il suo
compito.
«Ma
vedo che ormai avete fatto pace
con questo capoccione. Ne sono davvero felice!
Quindi immagino
che le cose vadano meglio anche con la tua mamma, vero?»
Len
annuì e si avvicinò un po’,
ma Fukase balzò via per atterrare sulla cima
dell’unico lampione
che illuminava ancora la piazza. Len emise un brontolio contrariato,
ma sapeva che un movimento del genere sarebbe stato seguito da una
delle solite trovate del suo pupazzo. Ne seguì le mosse con
gli
occhi, dimenticandosi quasi di essere in gran compagnia. Fukase si
mise in equilibrio su un piede solo, fingendo di essere un
equilibrista su una corda tesa, nonostante le sue movenze fossero
tanto innaturali che la gravità non sembrasse in grado di
toccarlo.
«Sono
davvero soddisfatto di come
le cose si siano sistemate! Credi di riuscire a farcela senza di me,
Len?»
«Eh?»
«Mi
rispondi sempre con questo
solito “Eh?”! -fece dopo un
balzo e atterrando con grazia
di fronte al ragazzino- Sai bene che i miracoli
durano poco!»
Len si morse
il labbro inferiore e
distolse lo sguardo dal giovane di neve, di nuovo infastidito dal
fatto che questo avesse voluto interrompere qualcosa di bello con la
solita paternale. Si passò una mano tra i capelli e
cercò i volti
dei suoi amici, i quali avevano assistito a tutta la scena in
silenzio. Nei loro sguardi, Len notò un certo dispiacere:
quel
qualcosa di così particolare stava per finire.
«So
che te ne dovrai andare e
sospetto che succederà in poco tempo… -fece una
pausa, per poi
accennare un sorriso, guardando prima Kaito, poi Gakupo e infine
Fukase- Ma pensi che potremmo giocare un’ultima volta tutti
insieme?»
Il volto di
Fukase si allargò in un
enorme sorriso e si sfilò un’altra volta il
cappello a cilindro
bianco e rosso per esibirsi in un altro inchino plateale. Fece poi
roteare il bastone da passeggio e di nuovo la neve riprese a scendere
delicata solo su quella piazza circolare. Kaito e Gakupo fissarono la
scena stupefatti, lasciandosi andare in versi di stupore che fecero
ridere Len: vedere i suoi due migliori amici in quel modo, averli
coinvolti in un miracolo del genere aveva
alleggerito il cuore
del ragazzino, nonostante questo fosse stretto nella morsa di un
imminente addio. Ma Len era sempre stato un ragazzo dalla mente
razionale, era quel tipo di persona che non faticava a capire
situazioni del genere, che sapeva che voler bene a qualcuno
significasse anche lasciarlo andare. Dopotutto, erano i ricordi la
cosa più importante. Tutti gli insegnamenti che gli aveva
lasciato
il suo pupazzo di neve.
«Allora?
Ti sei imbambolato?»
chiese Fukase, allungando la mano di plastica verso il volto di Len e
pizzicando di nuovo la guancia del giovane. Il gesto lo
infastidì,
ma appena venne liberato da quelle due dita rosse, il suo sorriso si
allargò per far sì che le sue labbra mimassero
l’ennesimo grazie.
Fukase ammiccò con quell’occhietto scarlatto, che
forse non era
poi così tanto spaventoso.
I quattro si
ritrovarono immersi in
quel gigantesco souvenir con la neve dentro, quelli che agitati
coinvolgevano le figurine al loro interno in una tormenta bianca.
Eppure la sensazione che aleggiava in quella bolla di divertimento
non era così pesante come Len credeva. Per quanto si fosse
affezionato a Fukase, lui non poteva diventare una presenza costante
della sua vita perché la neve non è fatta per
durare a lungo. Non
aveva nulla a che vedere con il candore eterno delle montagne
più
alte, non aveva nulla a che fare con il bianco dei ghiacciai: era
soltanto una nevicata cittadina, quelle che dopo poco spariscono.
Len corse,
rise e sorrise. Vide i
suoi amici giocare e correre, vide nei loro occhi la stessa scintilla
di meraviglia che aveva riempito il suo sguardo alla prima nevicata
di Fukase e ne fu felice.
«Non
è un addio, vero?» chiese ad
un certo punto, mentre Gakupo era sul punto di colpire Fukase con una
palla di neve. Il pupazzo evitò il colpo e sorrise al
giovane i cui
desideri gli avevano dato vita.
«Nah!
L’Inverno torna ogni
anno e, per quanto freddo, come torna se ne va. Non è detto
che il
prossimo anno tu sia tanto fortunato, ma è vero che il Suo
intervento resta. E poi, sono stato così
fantastico che non
credo vi dimenticherete facilmente di me!»
«Sei
sempre tanto modesto! Vero,
Signor Miracolo?» fece eco Len, le labbra
contratte in un
cipiglio divertito e gli occhi offuscati da un velo di lacrime calde
che non avrebbe versato.
Fukase rispose
al suo sorriso e fece
un inchino, come un attore pronto a lasciare la scena.
*****
La mattina
seguente il Sole brillava
sul piccolo paesino, i suoi raggi che si riflettevano sulla poca neve
rimasta per le strade.
Len camminava
tra Kaito e Gakupo, i
quali non avevano detto più nulla riguardo alla notte
precedente. Lo
stesso Len aveva mantenuto un certo riserbo per
quell’argomento,
forse perché non del tutto pronto a tirare di nuovo in ballo
Fukase.
«Stai
bene?» azzardò Gakupo,
accelerando il passo per fermare Len. Senza accorgersene, i tre si
ritrovarono nei pressi della piazza, in mezzo alla quale
c’era
ancora la versione inanimata del ragazzino di neve. Immobile, sotto
ai caldi raggi del Sole, Len sapeva che quella notte non si sarebbe
mosso, che sarebbe rimasto là finché la neve
avesse retto agli
sbalzi di temperatura, per poi sciogliersi alla prima giornata troppo
calda.
Accennò
un sorriso e si diresse
verso Fukase. Solo allora si rese conto di aver lasciato la sua
sciarpa rossa su di lui per quattro giorni di fila.
Venne
raggiunto dai suoi due amici,
mentre ancora guardava quel volto tanto famigliare e allo stesso
tempo inquietante. Allungò le mani verso quel viso e
aggiustò
quello che ne rimaneva: mise in linea gli occhi, sistemò il
sorriso
di sassolini e i due pezzetti di nastro adesivo.
«Sto
bene… Ho fatto pace con voi
due, con la mamma… Era tutto quello che Fukase voleva, che
io
stesso desideravo! Quindi sì, sto bene!»
Ciondolò
un pochino la testa,
contemplando la sua opera e prese un profondo respiro che gli
congelò
i polmoni; le sue mani si mossero verso la sua sciarpa e la sfilarono
via, per poi piegarla alla bene e meglio.
«Non
credo ne avrà più bisogno!
-disse, rivolgendo ai due un sorriso raggiante- Andiamo! Non vorremmo
far tardi!»
.
.
.
«Alla
fine, non posso essere
triste. I miracoli non sono fatti per durare e Fukase era proprio
questo. Un miracolo che mi ha permesso di capire cosa fosse giusto e
cosa sbagliato.»
Angolo di Zenya
^^
E
finalmente eccoci qui! Anche questa storia è finita e
già mi manca
T.T Che dire? Di solito, scrivo delle stagioni in cui mi trovo,
quindi scrivere di neve e gelo quando fa caldo mi ha messa in
confusione xD A parte gli scherzi!
Non
credevo avrei aggiunto Kaito e Gakupo (non riesco a separare i
VanaN’Ice, è ufficiale, perché come in
Fleeting non doveva
esserci Len, in questa non dovevano esserci loro due… Soooo,
fair
enough), ma alla fine credo fosse la cosa più giusta da
fare: il
percorso di Len è stato proprio questo! Iniziare da solo e
concludere con i suoi amici, proprio come aveva detto Fukase.
Perciò
credo davvero che questa sia la conclusione più appropriata
per la
loro breve avventura ^^
Inoltre
questa storia mi ha divertita e mi ha permesso di fare pace col
cervello. Se vi è capitato di seguire i miei vari
aggiornamenti,
allora saprete che mentre ero presa dalla stesura di Snowman ho
lavorato anche a Fleeting Moon Flower, la quale mi ha mandato
letteralmente fuori di testa perché una vera yaoi esplicita
>.<
Mi sono portata dietro Snowman per un bel po’ di tempo,
proprio
perché rappresentava quella bolla di pace dai miei soliti
schiaffeggiamenti/risate isteriche per via della smut. Quindi eccola
qui, conclusa e meno depressa del previsto u.u
Ringrazio
chiunque abbia letto questo lavoro, chi ha
recensito/ricordato/preferito questa storia, un grazie ai lettori
silenziosi e un augurio che un miracolo accada a chiunque ne abbia
bisogno. Già scrivere questa storia per me è
stato un miracolo,
nel senso che mi ha dato la stessa leggerezza che ha dato Fukase a
Len. Perciò grazie ancora e alla prossima!
Zenya_
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