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di nitin
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** capitolo 15 (pt.1) ***
Capitolo 16: *** capitolo 15 (pt.2) ***



Capitolo 1
*** capitolo 1 ***


Okay, fondamentalmente avevo voglia di scrivere questa cosa, e quindi l’ho scritta.
Più che altro questa fanfic si articola in sms, di tanto in tanto interrotti da qualche spiegazione giusto per far capire che, in realtà, c’è un filo logico dietro a questa trashata. Ma avevo voglia di angst, e quindi angst sia!
 
IMPORTANTE:
1) Ovviamente non vi dirò dove abitino i due personaggi, ma per far capire che non si dicono il gender ho messo gli asterischi (es: “l*i” al posto di “lui”, “stanc*” al posto di “stanco”). In inglese mi sarebbe stato tutto più semplice, ma per qualche motivo mi sono buttata sull’italiano.
2) L’ora dei messaggi è vista dal fuso orario di Lance.
3) “xxx” è Lance, “xxx” è Keith.
4) Penso che aggiornerò abbastanza regolarmente, ma devo conciliare questa storia con lo studio e con gli aggiornamenti del mio romanzo.
4) Lo dico subito: MI DISPIACE. PER TUTTO.
 
Vorrei dedicare questa storia alla mia preziosa gemella Marika, che desidererei tirare un po’ su di morale con una sana Klance! Besos bella, goditi quest’obbrobrio.
 
CAPITOLO 1
 
31/03; 11:03
 
Quando Lance si svegliò la mattina seguente, ricordava solo pochi istanti della sera prima. Era uscito con suo fratello Dom a mangiare qualcosa al “Manzana Juice”, il pub-pizzeria vicino a casa loro, aveva fatto un giro con lui, e tutto per dare tempo al resto dei propri fratelli di organizzargli una festa di compleanno a sorpresa.
Avevano preparato tutto in casa: una miriade di invitati che Lance neppure conosceva, cartelloni con il numero “21” ben stampato sopra in vari colori, candeline, dolci, cibi vari… E Alcol.
E lì finivano i propri ricordi di quella serata.
Si rigirò un po’ nel letto, sentendo la testa sempre più pesante ogni volta che la muoveva. Perché diamine si era svegliato? Lui voleva dormire, voleva-
Bzz bzz. Bzz bzz.
Il proprio telefono aveva iniziato a vibrare in maniera estremamente irritante. Chi diamine avrebbe potuto cercarlo a quell’ora del mattino di una domenica? Era praticamente l’alba! Cioè, erano ormai le undici, ma per coloro che sono in post-sbornia anche le undici del mattino sono l’alba.
Il castano allungò un braccio, stringendo tra le dita quell’incubo vibrante che era il proprio telefono, e con gli occhi stretti e addormentati cercò di leggere i messaggi che gli erano arrivati. Il numero era sconosciuto. Peccato, avrebbe voluto prendere a pugni chiunque il mittente di quei maledetti messaggi fosse.
Il contenuto di essi, però, fu capace di fargli scattare le palpebre come due fulmini.
Cosa diamine era successo, la sera prima…?
 
31/03
11:04
“Appena puoi, dimmi se ti senti meglio.”
11:04
“Bellissima dichiarazione, comunque. Dovresti fare il poeta.”
11:04
“Adesso vado a dormire. Vedi di non chiedermi di sposarti in questo lasso di tempo.”
 
… Cosa?
Chi era il mittente di quei messaggi?
Lance sbloccò il telefono, aprendo la conversazione. In quel momento, in quel preciso istante, Lance McClain avrebbe voluto morire d’infarto.
Non importava il dolore dei propri fratelli, della madre, del padre.
Voleva solo seppellirsi nelle coperte e non uscirne mai più.
 
30/03
02:38
“FRUNCJS TI AM OOO”
02:38
“SN IO LSNCVE RISP”
02:40
“PERCHW NN RISP penSAV DI PIACERTI!!!!!”
02:48
“ok vadi a bllerre ciaooop”
03:01
“Chi sei? Penso che tu abbia sbagliato numero.”
03:03
“FRANCIS SN IO XKE NON MI HAIII RISPUSTO”
03:04
“Io non sono Francis, e tu sei ubriac*.”
03.05
“Come nn seu Francuss???”
03:05
“Chee palel VABB E TI AMU LO STSSOOO SI BALLA POVERI”
03:06
“… Buona serata.”
03:10
“BUNA SETATA FRANCISSS”
03:11
“Non sono Francis.”
 
Così si interrompeva quella conversazione, prima di riprendere con il nuovo messaggio di quella persona. Che poi… Chi era Francis? Si ricordava di una ragazza bionda a cui aveva chiesto il numero di telefono… Erano stati i propri fratelli ad invitare gente a caso tra gli amici di Lance, quindi conoscendosi era molto probabile che ci avesse provato con qualcuna.
E le ipotesi erano due: o era stato così sbronzo da digitare male il numero, o la fatidica Francis gli aveva dato il numero sbagliato.
Arricciò il naso. Uffa.
Si tirò un po’ su con il busto, Lance, cercando di ignorare i dolori a testa, schiena, spalle, gambe, piedi, tutto ciò che avrebbe potuto dolergli, e sbatté gli occhi, tentando di scrivere un messaggio decente.
A dormire? Alle undici del mattino? Quale lunatico andava a dormire alle undici del maledettissimo mattino?
 
11:08
“Uhh… Scusa per ieri sera… Giuro che ora sto bene…”
11:10
“Avevo appena preso sonno. Grazie mille.”
11:10
“Sono felice che tu stia bene. Bevi un caffè.”
11:10
“E raccontami di Francis. Ti rispondo domani.”
 
Lance rimase un po’ interdetto di fronte a quei messaggi.
Ma che aveva di meglio da fare?
Sicuramente non si sarebbe alzato dal letto in quel momento, o in quelle condizioni.
Quindi perché non raccontare gli affari propri ad un perfetto estraneo?
 
11:21
“Non so chi sia Francis. Mi ha dato il numero sbagliato, so solo questo…”
11:21
“Quale stronzo dà il numero sbagliato ad una persona? Perché dovrebbe??? Che ho fatto di male?????”
11:22
“Forse ci ho provato un po’ troppo… Lo faccio spesso… Ma altrimenti non mi noterebbe mai nessuno! E non penso di non essere attraente! Ho anche la simpatia dalla mia parte! Sono uno spasso! Eppure non mi vuole nessuno!!!”
11:23
“Morirò in solitudine. Morirò con la casa piena di gatti. Morirò giovane.”
11:24
“Magari morirò sotto la doccia. Nel caso, grazie per esserti interessat* a me. Grazie per il tuo supporto. Non mi dimenticherò di te.”
11:30
“Buona… Notte???? Penso… Hahaha!”
 
31/03
21:00
“Sei viv*?”
21:04
“Sfortunatamente sì… Hahaha!!!”
21:04
“Buongiorno!!! Suppongo”
21:04
“??”
21:04
“Buongiorno anche a te.”
21:05
“Come mai la sbronza?”
21:07
“Era il mio compleanno ieri sera!!! I miei fratelli mi hanno organizzato una festa a sorpresa ma non mi ricordo molto hahaha”
21:09
“L’hai bevuto il caffè?”
21:10
“Ne ho bevuti quattro in due ore!!!”
21:12
“Mi sembra esagerato. Morirai davvero giovane, se continui così.”
21:12
“Tanto che motivo ho per vivere???”
21:14
“Su su, hai dei fratelli che ti organizzano le feste a sorpresa, dovresti ringraziare di avere una famiglia che ti vuole bene.”
21:16
“Mi hai appena tirato su il morale”
21:16
“Sei una persona dolce”
21:16
“Forse dovrei lasciar perdere Francis e chiederti di uscire”
21:17
“Non te lo consiglio.”
21:18
“Perché no??? Ti prendi cura di me!!! Mi chiedi persino se sono viv*!!!”
21:19
“Perché sarei peggio di Francis.”
21:20
“Nessuno è peggio di Francis!!! Mi ha spezzato il cuore”
21:22
“Neppure ti ricordi che faccia abbia.”
21:28
“Non importa! Eravamo innamorati!”
21:30
“Vado a leggere. Parlami pure dei tuoi problemi di cuore, sarò felice di leggere quando avrò finito.”
 
In un primo momento, Lance si chiese ancora una volta quale psicopatico iniziasse a studiare alle nove e mezza di sera.
Ma d’altronde non conosceva quella persona, era un numero sconosciuto, probabilmente non era neanche di Cuba.
Annuì tra sé e sé. Alla fine, chi altri aveva con cui parlare?
 
21:45
“Buona lettura!!!”
21:45
“A dire il vero non ho problemi di cuore… Cioè, sto bene così, penso ?? Ma mi diverto a provarci con le persone. Solo che poi nessuno mi dà corda. Che tristezza.”
21:46
“Ma stasera ho mangiato la carne, quindi sono felice!!!”
21:47
“Anche se penso che andrò a letto presto. Ho la testa in fiamme e domani devo lavorare. Odio essere legalmente maggiorenne.”
21:48
“Anche se lavoravo anche prima quindi effettivamente non cambia molto”
22:24
“Smettila di leggere, io sono più importante”
22:28
“Dammi attenzioni”
23:35
“Eccomi, ho finito. Odio questi libri.”
23:41
“Sei viv*?
23:43
“Non so che ore siano dove vivi tu, ma proverò a supporre che tu ti sia semplicemente addormentato.”
23:43
“Buonanotte. Penso.”
 
01/04
09:12
“Buongiorno principessa!!! Sono viv* e veget* e il lavoro mi aspetta!!!”
09:12
“Penso seriamente che preferirei stare a letto in post-sbronza”
09:14
“Sono felice che tu sia viv*. Quasi ero in ansia.”
09:17
“Che dolce!!!!! Sono troppo bell* per morire, non preoccuparti!!!”
09:20
“Quando finisci di lavorare?”
09:21
“Uhmmm… Tra quattro ore, penso!!!”
09:22
“Dubito che riuscirò a non dormire per quattro ore.”
09:24
“Dobbiamo vivere proprio lontani se vai a dormire a quest’ora del mattino!”
09:25
“Suppongo di sì.”
09:28
“Dove abiti???”
09:28
“Segreto.”
09:28
“Ma io voglio saperlo!!!”
09:28
“Se ti dico dove abito io mi dici dove abiti tu??”
09:29
“No.”
09:31
“Sei una persona misteriosa…”
09:31
“Pensavo di essere dolce.”
09:32
“Ora non più!!!”
09:33
“Vai a lavorare. Ti risponderò domattina.”
09:37
“Ufffffff”
09:37
“Buonanotte L”
 
14:02
“Ho fame, sono stanc* e voglio dormire…”
14:04
“Ho lavorato mezz’ora in più perché mio padre mi ha fatto iniziare l’inventario, è ingiusto!!!”
14:05
“Oggi pomeriggio basta. Ho troppe serie tv con cui mettermi in pari!”
14:06
“Dai smettila di dormire voglio attenzioni”
14:10
(“Sta scrivendo…”)
14:20
“???”
14:30
“Mi illudi”
 
17:00
“Ho dormito tre ore.”
17:04
“Perché???”
17:05
“Ho voluto battere un record personale e sono stato svegli* ad aspettarti.”
17:05
“E quando mi hai scritto mi sono addormentat*.”
17:05
“Peccato che mi sia suonata la sveglia.”
17:07
“Mi hai sul serio aspettat* svegli* fino a chissà quale ora del mattino???”
17:08
“Non è che ho aspettato te. Non riuscivo a dormire e mi sono mess* a leggere. Ma appena mi hai scritto sono crollat*.”
17:09
“Ma è una cosa dolcissima!!!!!”
17:10
“Ho dormito tre fottute ore. Ti è chiaro il concetto?”
17:10
“Inoltre, non ho molto di meglio da fare. Non parlo praticamente con nessuno.”
17:12
“Allora sei davvero una persona misteriosa!!!”
17:12
“E dolce!”
17:14
“Ringrazia Dio che non viviamo vicini, o ti avrei strappato le braccia a morsi. Ho sonno. Voglio dormire.”
17:15
“Invece devo studiare. Che vita tremenda.”
17:16
“Non studiare!!! Parla con me”
17:17
“… Okay.”
 
E fu così che tutto iniziò.
Lance e quella persona misteriosa iniziarono a parlare praticamente ogni giorno, anche se per poche ore. Solitamente, quando uno era sveglio l’altro dormiva, quindi era difficile per loro trovare quelle poche ore in cui potevano chiacchierare un po’.
Non si dissero nulla: né il nome, né l’età, né il luogo in cui abitavano.
Avevano persino posto un patto di non darsi del maschile o del femminile quando parlavano di loro stessi.
Lance si trovava sempre più a proprio agio a parlare con quella persona.
Non si dicevano granché, solitamente parlavano delle loro giornate, degli avvenimenti quotidiani, e solo Lance a volte dettagliava un po’ la propria vita, raccontando a quella persona del negozio del padre, degli orari di lavoro, di qualcuno dei propri fratelli.
Era diventata un’abitudine.
E piano piano, col passare dei giorni, parlare con quella persona diventò il proprio passatempo più piacevole, l’unica cosa davvero divertente delle proprie giornate.
Si stava quasi affezionando a quelle parole anonime scritte sullo schermo del telefono. E se ne accorgeva, perché più volte si era addormentato alle quattro o alle cinque del mattino, solo per stare a parlare con l*i.

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Capitolo 2
*** capitolo 2 ***


Pensavate che ci avrei messo dei mesi? E invece ci ho messo un giorno.
Ho scoperto che mi diverte scrivere in questa maniera un po’ diversa dal solito! E le idee mi stanno spuntando fuori come funghi.
 
In questo capitolo si saprà un po’ di più sia di Lance che di Keith, ma vi dovrete comunque tenere la suspance fino alla fine. Sono un po’ sadica, sì. Ma ne varrà la pena, lo prometto!
 
Fatemi sapere cosa ne pensate, tutto è ben accetto (soprattutto dolci e soldi ma quelli dovrei darli io a voi per farvi leggere ‘sta roba).
Besos!
 
CAPITOLO 2
 
06/04
20:21
“bUONASERA.”
20:22
“…”
20:22
“Parliamo da sei giorni e non hai mai scritto nulla in maiuscolo…”
20:22
“Sei ubriac*??? Bevi un caffè!!!”
20:24
“Ho solo schiacciato per sbaglio il tastino del maiuscolo. Sono una persona matura e responsabile, non scrivo messaggi quando sono ubriac*.”
20:24
“Non che mi sia mai ubriacat*.”
20:25
“Cosa??? Non hai mai bevuto???”
20:26
“Dove vivo io noi ragazzi non possiamo bere.”
20:28
“Cos’è, una specie di proibizionismo?!? In quale paese non si può bere???”
20:28
“Lo cerco su Google così scopro dove abiti”
20:30
“Non ho trovato niente”
20:31
“Infatti non intendevo nel mio paese. Intendevo nella casa in cui vivo.”
20:32
“Potevi dirmelo subito!!!”
20:32
“Nah. Volevo vedere fino a dove ti saresti spint* per scoprire dove abito.”
20:35
“Sei una persona malvagia.”
20:35
“Comunque, i tuoi non ti lasciano bere?”
20:55
“Diciamo di sì.”
20:57
“Dov’eri finit*!!!?”
21:00
“Stavo leggendo.”
21:00
“Ti scrivo tra un’ora, okay?”
21:02
“Ma! Grrr, okay!”
 
In quei giorni, Lance era tornato alla propria vita normale.
Spesso aiutava il padre a mandare avanti il piccolo supermercato vicino a casa loro, poi a volte se ne andava in giro per Varadero, incontrava qualcuno dei suoi amici, andava insieme a loro in spiaggia o in macchina fino a Santa Marta, solo per passare un po’ il tempo. Il tutto conciliato con le ore di sonno di quella persona con cui aveva iniziato a parlare.
Sapeva di poterlo sentire solo a determinate ore del giorno, quindi in quelle ore vedeva di tenersi ben stretto il telefono in modo da rispondergli.
Non c’era un motivo preciso: non sapeva se quella persona fosse un ragazzo o una ragazza, non sapeva dove abitasse, non sapeva il suo nome, non sapeva praticamente nulla. Sapeva solo che quella persona amava leggere, odiava studiare, dormiva poco (non per sua volontà), e a volte spariva senza dire nulla per poi ricomparire una o due orette dopo.
Sapeva che gli piacevano i dolci, che detestava il pesce, che amava il viola e il rosso e odiava l’arancione e il verde. Sapeva che non gli piaceva quando Lance insultava la propria famiglia o faceva battute sul suicidio, quindi Lance aveva smesso di menzionare quegli argomenti, anche se ne aveva sempre parlato solo per scherzo.
Sapeva che teneva molto alla punteggiatura e alla grammatica, ma che ogni tanto sbagliava qualche parola, quindi probabilmente non parlavano la stessa lingua e l*i l’aveva semplicemente imparata. Ma la parlava comunque molto bene.
Sapeva che non conosceva lo spagnolo, invece, perché aveva provato a scrivere qualcosa in spagnolo, e l*i gli aveva chiesto cosa quelle parole significassero. Quindi, tristemente, aveva escluso dalla possibile lista dei paesi in cui l*i avrebbe potuto abitare tutti quelli di lingua spagnola.
E, infine, sapeva che, di tanto in tanto, l*i non scriveva solo in maniera triste. Era triste. Non sapeva perché, ma a volte percepiva dai suoi messaggi un senso di isolamento e distrazione che gli metteva un po’ di angoscia.
Per questo motivo, ogni volta che si parlavano, cercava di essere sempre gentile, di raccontargli cose divertenti, come gli scherzi che gli facevano i propri fratelli, o cose belle, come qualche descrizione della meravigliosa spiaggia di Varadero.
“Mi piacerebbe vedere una spiaggia, un giorno”, aveva detto l*i, e Lance aveva intuito che non potesse abitare in una città di mare.
Gli sarebbe tanto piaciuto, un giorno, portarl* a Varadero, fare il bagno con l*i in quelle acque azzurre, portarl* a mangiare la pizza in riva al mare, introdurl* nella propria vita.
Ogni tanto si perdeva in questi pensieri, e si ritrovava assorto a guardare il muro della propria camera con un sorriso sulle labbra.
 
22:24
“Ci sei?”
22:27
“Principessa!!!”
22:27
“Ti prego, non chiamarmi così.”
22:28
“Uffa”
22:28
“Hai studiato???”
22:30
“No.”
22:30
“Che hai fatto? Io sto guardando Pirati dei Caraibi!!!”
22:33
“Johnny Depp è così figo”
22:40
“Ho dovuto fare una commissione per un professore.”
22:45
“Mi dici solo se sei al liceo o all’università?”
22:46
“Nessuno dei due.”
22:46
“Sono ufficialmente confus*…”
22:47
“Mi sei mancat*, però.”
 
Lance rilesse quel messaggio almeno cinque o sei volte.
“Mi sei mancat*”.
In quei giorni era sempre stato Lance a dirlo a l*i, a scrivere che gli era mancat* quando andava a studiare o a dormire, ma quella persona non aveva mai risposto allo stesso modo. Non che Lance ci sperasse, a dire il vero… Ma vederselo lì, scritto bianco su nero, lo fece sorridere particolarmente.
 
22:50
“?”
22:50
“Anche tu!!! Mi piace parlare con te”
22:52
“Non sono poi così interessante.”
22:54
“Lo sei, per me!!”
22:55
“Sono felice che Francis mi abbia dato il numero sbagliato”
22:56
“Parlare con te mi tira su il morale, qui è sempre tutto così monotono!!”
23:00
“Anche se non so niente di te ??? ma è comunque bello”
23:05
“Principessa?”
23:32
“Non chiamarmi principessa.”
23:36
“Dimmi che ci sei ancora. Il professore mi ha chiamato di nuovo, perdonami.”
23:45
“Svegliati. Dai.”
23:55
“Buonanotte.”
 
Lance aveva finito per addormentarsi sul divano, davanti alla tv accesa. Suo fratello Dom era andato a dormire dopo averlo coperto con un plaid leggero e lo aveva lasciato lì: conosceva il rischio che avrebbe corso se l’avesse svegliato.
Quando si svegliò il mattino dopo, la madre, Athalie, era in cucina, ed era da lì che proveniva un dolce, caldo profumo di pancakes.
« Buenos dias, mamà… » sussurrò Lance, alzandosi in piedi barcollando. Il suo telefono giaceva ancora sul divano, i messaggi di quella persona ancora non visualizzati sullo schermo nero.
« Ay, sei vivo, allora! » esclamò la madre, una donna bassina e dai lunghi capelli castani, con un vestitino floreale coperto da un grembiule che le ricopriva la pelle olivastra. « Il tuo telefono ha vibrato, prima! »
E fu in quel momento che Lance ricollegò: la sera prima non aveva risposto a quella persona perché si era addormentato… Oh, diamine, che idiota.
Corse a prendere il telefono, sbloccandolo e sdraiandosi ancora una volta sul divano.
Erano le dieci e mezza. ‘Fanculo.
Lesse i messaggi della sera precedente, e già il cuore aveva preso a scalpitargli nella cassa toracica. Ma perché, poi? Che idiozia.
Poi, infine, lesse quelli nuovi… Che risalivano a un’ora prima.
 
07/04
09:12
“Forse stai ancora dormendo, ma io vado a dormire adesso.”
09:14
“Ti prego, sii svegli*. Ho bisogno di parlare con qualcuno.”
09:18
“Non riesco a dormire. Svegliati. Svegliati.”
09:23
“Mi sento uno schifo. Non so neanche perché te lo sto dicendo. Non ho nessun altro con cui parlare.”
09:27
“Non so il tuo nome, ti prego, dimmi che ci sei…”
09:36
“Okay, sto meglio. Nel caso, scusa se ti ho svegliato. Ti scrivo domattina.”
09:38
“Buonanotte.”
 
Lance si sentì crollare il mondo sotto i piedi.
Da quando quel rapporto era diventato così… Serio? Da quando aveva iniziato a sentirsi in colpa per non aver risposto subito a quella persona?
Eppure, ora, all’idea di non esserci stato per l*i, si sentiva uno schifo.
Non avevano mai parlato di cose serie, non si erano mai sfogati su questioni importanti, e Lance non pensava che sarebbe mai accaduto!
Aprì subito la tastiera, prendendo a scrivere freneticamente.
 
10:37
“PRINCIPESSA DIMMI CHE STAI BENE”
10:37
“Sono in ansia. Però hai detto che stai meglio quindi sono meno in ansia… Però dimmi comunque come stai appena ti svegli”
10:37
“Mi dispiace, mi dispiace!!! Mi sono addormentat* sul divano e non ho sentito i suoi messaggi… AAH svegliati e dimmi che stai meglio!!!”
10:38
“No, non svegliarti e dormi bene. Scrivimi appena ti svegli, nel momento stesso in cui apri gli occhi, e dimmi se stai bene!!!”
10:38
“Buonanotte!!! Duermas bien!!!”
 
La giornata passò troppo lentamente.
Era ancora preoccupato per quei messaggi, continuava a leggerli e rileggerli, sforzando tutta la propria capacità di empatizzare per capire cosa avesse potuto avere, perché fosse stat* male.
E, soprattutto, continuava a ripetersi che non fosse colpa propria.
Non la era! Come avrebbe potuto sapere che… Principessa era stat* male?
Nonostante ciò, per tutto il giorno, non fece altro che perdersi nel vuoto a pensare.
« Lancey? Estas bien? » gli chiese Lucil, la propria sorellina minore, poco prima di cena, avendolo visto preparare il sugo per la carne in maniera un po’ troppo assorta. O meglio, stava per versare l’olio nel rubinetto.
« Ay, tranquilla, tesoro… Sono solo un po’ stanco. » sussurrò lui, ricomponendosi e versando l’olio nella padella, dove avrebbe dovuto versarlo.
Il telefono sempre accanto a lui, sempre con la suoneria attivata.
Mise a cuocere la carne, e solo in quel momento il telefono vibrò.
Oh, finalmente.
 
19:27
“Ti ho detto di non chiamarmi così.”
19:28
“Comunque, sto bene. Non preoccuparti, davvero, non avrei neanche dovuto parlartene.”
19:28
“ECCOTI”
19:28
“Parlami di quello che vuoi!!! Ora sta cuocendo la cena quindi ho tutto il tempo del mondo”
19:29
“Davvero, non è nulla. Sono solo stat* un po’ male.”
19:29
“Se mai avrai ancora bisogno prometto che terrò la suoneria accesa, così sentirò i messaggi!!!”
19:30
“Non è necessario, davvero.”
19:31
“Lo farò lo stesso!”
19:32
“Cosa stai cucinando?”
19:32
“Carne di manzo con patate e fagioli!!!”
19:34
“Un piatto leggero, insomma.”
19:35
“Leggero per niente, ma è buonissimo!!! Amo cucinarlo”
19:37
“Mi piace che tu sappia cucinare. Penso sia carino.”
19:38
“Non farmi arrossire, Principessa!”
19:38
“Non. Chiamarmi. Principessa.”
19:40
“Uffa”
19:45
“Comunque… Per informazione, devo dirtelo.”
19:45
“So che parliamo solo da pochi giorni, ma…”
 
Lance posò il guanto da cucina, tenendo gli occhi incollati al telefono.
Cosa stava succedendo?
Perché gli tremava la mano, mentre quella persona scriveva il prossimo messaggio?
 
19:50
“A volte, quando sparisco, è perché mi prendono attacchi di panico. Tipo ieri sera. Non so perché te lo dico, ma penso sia giusto che tu lo sappia se, insomma, vuoi continuare a parlare con me. Non vedo neanche perché dovresti voler continuare a parlare con me, ma non si sa mai. Prometto che non ti tirerò più in mezzo. Scusa ancora se ti ho fatto preoccupare.”
19:53
“Non dirlo neanche per idea!!! Non so bene come funzioni un attacco di panico, ma se hai bisogno di parlare io ci sono, davvero! Tirami in mezzo quanto ti pare e non chiedermi scusa!!”
19:54
“E poi, se tu vuoi continuare a parlare con me, a me piace parlare con te!”
19:58
“Anche a me piace parlare con te. E… Grazie.”
19:58
“Cambiamo argomento?”
20:01
“Certo!!! Cosa farai oggi?”
20:03
“Preparati a (non) esserne stupit*.”
 
I giorni passarono, ma quella persona iniziò a comportarsi molto più tranquillamente.
Non si sbilanciava mai troppo, ma un paio di volte gli aveva persino mandato degli smile! Tuttavia, non gli aveva mai più parlato dei suoi problemi, o dei suoi attacchi di panico. Era chiaro che preferisse evitare l’argomento.
Ma Lance no.
Lance aveva fatto ricerche su internet sugli attacchi di panico, sulle cause e sugli effetti, e sapeva che internet tendeva ad esagerare le cose, ma… Non sembravano per nulla cose piacevoli.
L’idea che la sua Principessa ne soffrisse lo faceva stare male.
In quei giorni sì, oh, eccome se gli sarebbe piaciuto portarl* sulla spiaggia bianca di Varadero.

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Capitolo 3
*** capitolo 3 ***


Lo so, sto aggiornando una volta al giorno. Lo so.
Il punto è che scrivere questi capitoli mi viene estremamente facile, so già cosa fare, so già cosa far dire a questi due belini, quindi… Meh.
Quindi, ecco il terzo capitolo. Mi dispiace, mi dispiace veramente, ma in questi giorni ho bisogno di angst, quindi la dono anche a voi. A dire il vero non mi dispiace più di tanto.
 
Si scoprono sempre più cose su entrambi i personaggi – ovviamente non le cose salienti, per quelle dovrete aspettare, ops – e il loro rapporto diventa sempre più stretto. E io muoio dentro scrivendo questa fanfic perché, beh, chi ha avuto relazioni a distanza può capire.
 
Enjoy, e lasciate tutti i commenti che volete! ♡
 
CAPITOLO 3
 
Cinque giorni erano passati da quella sera, ma non avevano più parlato di nulla che fosse anche solo relativo agli attacchi di panico di "Principessa".
L*i non voleva parlarne, e a Lance andava bene.
Cioè... Si auto-convinceva che andasse bene, ma in realtà, con i giorni, era divenuto sempre più curioso.
Ogni parola, ogni frase, ogni segno di punteggiatura che quella persona gli scriveva, Lance la analizzava, cercava di capire più cose possibile di l*i, aveva persino iniziato a scrivere, su un quadernetto, una lista delle sue caratteristiche, un elenco di ciò che gli piaceva e di ciò che non gli piaceva, appunti su appunti di tutti gli indizi che ricavava su di l*i.
Le poche cose che si era appuntato erano abbastanza superficiali, ma ora, per qualche motivo, aveva iniziato a pensare che l*i vivesse in un collegio, o qualcosa del genere.
Non parlava mai dei suoi genitori, parlava sempre e solo di professori e altri ragazzi.
E, per qualche altro motivo, se l* immaginava con i capelli neri.
Questa era l'unica immagine mentale che si era fatto di l*i: una bella ragazza, un bel ragazzo, non importava poi molto, non si sarebbero comunque mai visti, ma con dei morbidi capelli corvini.
Moriva dalla voglia di sapere se avesse ragione o meno.
 
12/03
20:41
"Posso chiederti solo una cosa?? Solo una, promesso..."
20:43
"Sentiamo."
20:43
"Di che colore sono i tuoi capelli??"
20:45
"Perché dovrei dirtelo?"
20:45
"Perché ho una teoria e voglio sapere se ho ragione!!!"
20:50
"..."
20:50
"Neri. Lunghi fino alle spalle. È tutto ciò che saprai di me."
20:50
"AAH LO SAPEVO!!!"
20:51
"Ti ho sempre immaginat* coi capelli neri!!!"
20:52
"... Oh."
20:52
"Perché 'Oh'??"
20:55
"Non sapevo ti facessi immagini mentali di me."
20:56
"Me ne faccio sempre!!! Mi diverto a immaginare come tu possa essere, tutte le volte aggiungo un dettaglio nuovo, ma l'unica cosa di cui ero quasi cert* era che tu avessi i capelli neri!!!"
21:00
"È una cosa... Carina."
21:01
"Lo pensi davvero??"
21:03
"Forse."
21:03
"Anche io, a volte, immagino come tu possa essere."
21:04
"Davvero??? E come pensi che io sia???"
21:05
"Non te lo dirò mai."
21:06
"Dai, solo un dettaglio!"
21:08
"Solo uno."
21:08
"Okay!!!"
21:10
"Ti immagino bellissim*."
 
Lance stava bevendo del succo di ananas da una tazza a forma di Stormtrooper, con il telefono sbloccato aperto sulla chat "Principessa", e teneva gli occhi fissi su di esso.
Quando comparve quel messaggio, però, metà del contenuto di quella tazza si riversò sulla propria maglia, mentre Lance prendeva a tossire come un impossessato.
Gli era andato di traverso il succo, sì. A dire il vero, probabilmente, non era neppure andato nell'esofago: si era infilato nelle vene e gli aveva infettato il cuore.
Aveva il cuore annegato nel succo d'ananas. Ne era sicuro.
Almeno, così si sentiva.
"Ti immagino bellissim*".
Lance non sapeva nulla di l*i, niente di niente, non sapeva neanche il suo nome, il suo sesso... Ma, quando gli scriveva cose del genere, arrossiva come un idiota, e il cuore prendeva a scalpitargli contro la cassa toracica.
Erano solo parole su uno schermo.
Era solo una persona conosciuta per caso.
Non era un'amicizia seria o reale, la loro.
Ma quella persona era diventata una delle poche cose piacevoli della propria vita, uno dei motivi per cui si svegliava al mattino, per cui si trovava a sorridere come un idiota nel mezzo di un pensiero.
Quella persona era sempre seria, sempre cupa e di poche parole, ma a volte tirava fuori frasi come quelle, e... E Lance iniziava a saltellare sul posto, a stringere il telefono tra le dita affusolate e olivastre mentre rileggeva e rileggeva il messaggio.
Solo dopo qualche minuto riuscì a rispondergli.
 
21:15
"Scusa, mi sono rovesciat* addosso il succo d'ananas--!!"
21:16
"... Perché? Stai più attent*."
21:16
"Perché se mi dici cose del genere-!!!"
21:17
"È solo un'idea che ho. Per quanto ne so, potresti essere brutt*."
21:17
"Solo, dubito che tu sia brutt*."
21:17
"Perché lo pensi??"
21:19
"Non lo so. Lo penso e basta."
21:20
"E poi, sei di un paese di lingua spagnola, no? Questo vuol dire che c'è una buona possibilità che tu abbia la pelle olivastra, o scura. E non ho mai visto qualcuno con la pelle olivastra che non fosse attraente. Forse lo avete nel DNA."
 
Questo voleva dire solo una cosa: Lance non era l'unico a fare ipotesi su di l*i.
Anche l*i si faceva film mentali pensando a sé! Anche l*i studiava i propri comportamenti per comprendere qualcosa di sé!
Dire che era emozionato era dire poco. Si stava divertendo da morire.
 
21:21
"Ci hai preso, ho la pelle olivastra... E questa è l'unica cosa che saprai del mio aspetto!!"
21:22
"Ne so due, di cose sul tuo aspetto."
21:23
"Qual è la seconda cosa...?"
21:25
"Che sei bellissim*."
 
« Madre de Dios, madRE MIA. Maldido- Malediciòn. Cazzo. » Lance si era strozzato di nuovo, ma se non altro era riuscito a salvare i propri pantaloni dal succo.
« Lancey, estas bièn? » mormorò la madre, sbucando dalla cucina solo con la testolina scura.
« Sì, mamà! Solo... Mi è andato di traverso il succo. » la rassicurò lui, portando in cucina la tazza ormai vuota.
Aveva bisogno di andare in camera e... Probabilmente morire.
Solo una volta che si fu infilato sotto alle coperte, alla sola luce delle stelline fluorescenti attaccate al soffitto, Lance riuscì a rispondere al messaggio.
 
21:35
"Dove sei finit*?"
21:40
"Scusa!!! Mi sono mess* a letto!!!"
21:40
"E ho cercato di non morire"
21:40
"Che palle mi fai arrossire"
21:42
"... Calmati."
21:42
"Cioè, aspetta, cosa?"
21:42
"Ti faccio arrossire?"
21:43
"A volte!!! Mica sempre... Non sono abituato a sentirmi dire cose così carine"
21:44
"Non- Dah."
21:44
"Cambiamo argomento."
21:45
"Volentieri perché devo calmarmi!!!"
21:45
"Che fai??"
21:50
"Sto riordinando la mia camera. Non mi piace averla in disordine."
21:52
"Beat* te che ne hai voglia... Io sono troppo pigr*"
21:53
"Una camera disordinata è segno di una mente disordinata."
21:54
"Quindi io confondo le persone mettendo a posto la camera: faccio credere a tutti di essere una persona tranquilla e poi li sconvolgo con la mia psicopatia."
21:55
"Oh, sì."
21:57
"Allora io le confonderò tenendo tutto in disordine e mostrandomi tutt* dolce e calm*!!!"
21:58
"Non è così che funziona..."
22:00
"Ma almeno potremo confondere le persone insieme!"
22:02
"Suppongo che sarebbe divertente. :)"
22:03
"È LA TERZA!!!"
22:03
"La terza faccina che mi mandi!!!"
22:03
"Che bello!!!"
22:04
"Woah. Festeggiamo. Che emozione."
22:05
"Guastafeste :("
22:06
"Come stai, per il resto?? Hai dormito bene??"
22:07
"Sì. Da un po' di sere riesco a dormire meglio."
22:08
"Ne sono felice ♡!!"
22:10
"Da quando ci mandiamo i cuoricini?"
22:11
"Ti danno fastidio??"
22:12
"No, penso di no."
22:12
"Ottimo! Allora te ne manderò qualcuno, ogni tanto!!"
22:15
"Ottimo."
22:16
"Ottimo!!"
22:19
"Ascolta, devo seriamente finire di mettere a posto la camera... Se vuoi andare a dormire vai pure, ci metterò un bel po'."
22:20
"Allora vado, che ho la sveglia presto... Ci sentiamo domani?? Cioè, per te sarebbe, tipo, dopo?"
22:22
"Ci conto. Scrivimi, hm?"
22:23
"Lo farò!! Buonanotte, Principessa ♡"
22:24
"Non chiamarmi Principessa."
22:26
"E... Buonanotte."
22:27
""
 
Lance rimase cinque minuti buoni con il telefono aperto sulla chat, prima di posarlo sul comodino e di mettersi a dormire.
Rigorosamente, tenne la suoneria attivata: non voleva rischiare di non esserci per l*i in un momento di bisogno, nonostante gli avesse detto che era tutto a posto.
Prima di riuscire ad addormentarsi, passò qualche minuto buono a pensare a ciò che gli era accaduto in quei giorni.
Si sentiva estremamente infantile.
Aveva ventuno anni, eppure si era trovato legato ad una persona che, probabilmente, non avrebbe neppure mai incontrato. E non legato in modo leggero, ecco! Perché uno non arrossisce se qualcuno che non conosce e che non l’ha mai visto prima ammette di pensare al suo aspetto fisico! Si morse le labbra sorridenti, affondando il viso nel morbido cuscino, nella sottile federa blu decorata con tanti piccoli disegni di pianeti e stelle. Lance amava anche solo l’idea di “spazio”. Lo faceva sentire in pace.
Gli sarebbe piaciuto da morire studiare astronomia, o ingegneria aerospaziale, o comunque qualcosa che c’entrasse con lo spazio, ma nella propria famiglia erano in tanti, e i soldi erano pochi. Inoltre, Cuba era praticamente isolata dal mondo, e anche solo il pensiero di allontanarsene appariva tremendamente lontano, a Lance.
Anche se gli sarebbe piaciuto. Gli sarebbe piaciuto da morire.
Ora che aveva conosciuto Principessa, gli sarebbe piaciuto ancora di più.
 
Quando si svegliò la mattina seguente, qualcosa non andava.
C’era qualcosa di sbagliato… Ma non capiva cosa. La porta era chiusa come sempre, nessuno era nella propria stanza, la finestra dava sul cielo sereno dove il sole era già… Già alto…
« Mi ammazza. Mi padre me va a matar. Me va a matar. » sussurrò tra sé, scattando in piedi. Erano le dieci e mezza, maledizione! Aveva promesso al padre che sarebbe stato in negozio alle dieci! Si mise addosso i primi vestiti che trovò, afferrò il cellulare e corse giù dalle scale, uscendo di casa senza neanche salutare la madre.
La macchina, doveva prendere la macchina… Dov’era la macchina?
« Dom è uscito, Lancey! Ha preso la macchina! ¿Necesitas algo? » esclamò la madre da dentro casa, e Lance perse ogni traccia di carnagione scura, tanto divenne pallido.
Dovette usare la bici. La maledettissima bici.
Scrivere a Principessa era fuori discussione… Ma si sarebbe fatto perdonare! Gli/Le avrebbe scritto appena uscito da lavoro!
 
Uscì dal lavoro alle tre del pomeriggio, tre ore dopo l’orario normale.
Come punizione per essere arrivato tardi, il padre gli aveva fatto fare l’inventario e gli aveva fatto pulire tutto, tutto il maledetto supermercato.
E non era neppure riuscito a scrivere a Principessa. Sentiva la sua mancanza, maledizione… Ma, stando ai giorni precedenti, entro poco l*i si sarebbe svegliat*!
Avrebbe potuto mandar* un bel messaggio di buongiorno!
Uscito dalla doccia rinfrescante, Lance si sdraiò sul letto, inumidendo la federa con i capelli corti e bagnati di acqua gelida. Si asciugò le mani sull’accappatoio, aprendo la chat. Voleva scrivere qualcosa di carino, in modo da farsi perdonare.
 
13/03
15:46
“Buongiorno, raggio di sole!! ♡
Perdonami per non averti scritto stamattina (stasera? per te), mi sono svegliat* tre ore dopo e sono arrivat* in ritardo a lavoro, quindi mio padre mi ha fatto restare tre ore in più…
Non commettere il mio errore e scrivimi appena ti svegli, che mi manchi!!! ♡♡♡”
 
18:02
“… Raggio di sole? Forse è quasi meglio Principessa.”
18:02
“Mi sei mancat* anche tu.”
18:05
“Raggio di sole!!! Hai dormito bene??”
18:06
“… Sei senza speranze.”
18:06
“Sì, bene. Tu? Sei stanc*?”
18:07
“Mort*, ma almeno oggi pomeriggio mi sono riposat* un po’, sono andat* a casa di un amico e abbiamo visto una serie tv!”
18:09
“Ne sono felice.”
18:09
“Abbiamo visto Game of Thrones, lo conosci???”
18:12
“Sì.”
18:13
“Ti piace???”
18:17
“Non molto.”
18:18
“Ehi, stai bene?”
18:20
“Sì.”
18:21
“Ti scrivo dopo.”
18:21
“Uh… Sei sicur*? Mi sembri un po’ giù, non mi piace saperti giù…”
18:25
“Sto bene, davvero. Solo un po’ di ansia. Sono anche molto stanc*.”
18:25
“Ansia?? Come mai?”
18:28
“Nulla di che. Davvero.”
18:28
“Dai, raggio di sole, dimmelo!!”
18:30
“Vorrei essere il tuo amico.”
 
Lance era nel giardino della propria piccola villetta.
Il sole era ancora lontano dal tramontare, l’aria era ancora calda, ma il cielo era già sfumato in varie tonalità di azzurro, rosa e arancione.
Stava dando l’acqua ai gerani rossi che aveva piantato qualche mese prima insieme alla sorellina Lucil: tutti in quella famiglia amavano i fiori, ma lei li amava più di qualsiasi altra cosa. Ne avevano piantati tantissimi: gerani rossi e bianchi, una pianta di rose rosa e una di rose gialle, qualche piantina di lavanda dal profumo intenso e dolce, e persino qualche cactus e qualche pianta grassa.
Nonostante ciò, era spesso Lance a prendersene cura: lei era ancora piccola, e preferiva guardare i cartoni piuttosto che dare l’acqua ai fiori che lei aveva voluto piantare. Ma a Lance andava bene così.
Nonostante ciò, quando quel messaggio gli arrivò, posò l’annaffiatoio accanto alle rose gialle, rileggendolo un paio di volte.
Cosa voleva dire? Perché Lance era solito farsi molti castelli mentali, era vero, ma era anche vero che l’unico significato che quel messaggio potesse avere era: “Vorrei essere lì con te”. Si morse il labbro inferiore. Era ciò che avrebbe voluto anche lui.
 
18:33
“Vorresti essere qui?”
18:37
“Sì.”
18:38
“Sto dando l’acqua ai fiori, non so quanto potrebbe essere entusiasmante…”
18:39
“Adoro i fiori.”
 
Lance se lo sarebbe segnato sul quadernetto, questo era poco ma sicuro.
Era un’altra delle tante cose che avevano in comune.
E l’idea di averl* lì, seduto sulle scalette di casa mentre lo guardava innaffiare i garofani sotto al cielo variopinto era… Era bellissima.
Gli si strinse lo stomaco: non sarebbe mai accaduto.
 
18:40
“Quali sono i tuoi fiori preferiti?”
18:41
“Le rose bianche.”
 
Un flashback passò per la testa di Lance: lui che, da piccolo, piangeva e piangeva perché i genitori non gli lasciavano annusare la pianta di rose bianche del loro vicino di casa. Aveva sempre amato le rose bianche, la loro purezza, la loro delicatezza, il loro profumo proibito. Ancora una volta, sorrise.
 
18:42
“Le rose bianche sono anche i miei fiori preferiti!!”
18:42
“Ti facevo più un* tip* da rose rosse, non so perché.”
18:42
“Forse perché sei un* romanticon*.”
18:43
“Come darti torto??”
18:45
“Un giorno ti regalerò una rosa bianca, allora!!”
18:50
“Promesso?”
18:52
“Promesso. ♡”
 
Lance non osò più parlare di ciò che l*i gli aveva detto, di quel “Vorrei essere il tuo amico”. Gli faceva male, e non si aspettava che sarebbe andata a finire così.
Essere dipendente da qualcuno di cui non conosceva praticamente nulla non era affatto una cosa buona… Ma era così.
I giorni passavano, e mai una volta loro non si scrissero. La sera di Lance era il mattino di quella persona, e viceversa, ma riuscivano comunque a parlare.
 
Vicino ai gerani, qualche giorno dopo, comparve una pianta di rose bianche.

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Capitolo 4
*** capitolo 4 ***


Ecco a voi il vostro capitolo quotidiano, breve ma intenso!
(Non) vi chiedo scusa per l’angst.
In questo capitolo si scoprirà una cosa molto importante su Raggio di Sole, quindi… Preparatevi. Perché Lance non era preparato ed è andato più nel panico di lui.
Besos, e fatemi sapere! ♡
 
CAPITOLO 4
 
20/04
21:14
“Aspetta, non puoi essere seri*. Davvero non hai mai visto Breaking Bad???”
21:15
“Non ne ho neppure mai sentito parlare.”
21:15
“Ma dove vivi, su un pianeta alieno???”
21:15
“Ti prego, dimmi che vivi su un pianeta alieno...”
21:15
“Verrei a trovarti tipo immediatamente”
21:15
“O potresti venire a prendermi su un’astronave!!!”
21:17
“Non vivo su un pianeta alieno. Semplicemente, non conosco Breaking Bad.”
21:18
“The Walking Dead. Questo lo devi conoscere, altrimenti ti disconosco!”
21:18
“Sono io un* mort* che cammina, perché dovrei vedere serie tv sugli zombie?”
21:18
“… Pensavo… Pensavo fossi divers*…”
21:19
“Non mi vuoi più bene?”
21:20
“Certo che ti voglio bene!”
 
Perché, sì, avevano iniziato a dirselo.
Lance non sapeva bene come ciò fosse iniziato, probabilmente con un “Ti voglio bene perché ti piace la pizza con le patatine fritte”, ma la cosa non gli dispiaceva. Da un po’ di giorni a quella parte avevano iniziato a mandarsi sempre più spesso i cuoricini (in particolare, era Lance a mandarglieli), e ogni tanto, ma solo ogni tanto, e quasi solo quando si davano la buonanotte, se lo ripetevano. “Ti voglio bene”.
Lance non aveva pensato a cosa ciò significasse.
Era passata una settimana dal loro discorso sui fiori, e sempre più cose si erano aggiunte alla lista di indizi che Lance teneva su “Raggio di Sole” (“Principessa” era passato di moda). Aveva scoperto che tipo di musica ascoltasse, ed era completamente diversa dalla propria. Lance preferiva di gran lunga le “trashate” (così le chiamavano i propri fratelli) commerciali, le canzoni latino-americane, insomma, le cose che sentiva alla radio del supermercato del padre o della macchina che condivideva con il fratello Dom. L*i, invece, era un* più da rock che da altro. Era strano a dirsi, ma alcune delle canzoni che gli aveva consigliato erano davvero… Allegre! Come alcune dei “Fall fall boy” o “Panic e poi non mi ricordo”, come le chiamava Lance. Poi, però, c’erano altre canzoni, come quelle dei “McChemical”, che tornavano a farlo preoccupare. La canzone preferita di Raggio di Sole era loro, e nel titolo c’era la parola “deathwish”. Lance c’era passato sopra, ma non più di tanto.
Non era più accaduto, comunque: l*i non aveva più avuto attacchi di panico, non da quando avevano iniziato a scriversi in ogni momento possibile.
C’era stato un po’ di imbarazzo dopo il su “Ti immagino bellissim*”, ma Lance aveva provato a passare sopra anche a quello.
Tuttavia, era difficile. Lance si sentiva male, quando non poteva scrivere a Raggio di Sole. Provava un forte desiderio di prendere il telefono e scrivere un messaggio, anche solo un “Mi è caduta la penna e non ho voglia di raccoglierla”, così, solo per sentirl* vicino.
La situazione stava degenerando.
Più volte la madre lo aveva ripreso perché spesso stava al telefono durante la cena, più volte i fratelli avevano dovuto chiamarlo più volte perché si incantava a guardare il vuoto. “Sono solo stanco”, aveva sempre risposto, “Non dormo bene con questo caldo”. E loro gli avevano creduto. Perché Lance soffriva seriamente il caldo.
 
21:47
“Com’è possibile che io metta a posto ogni giorno e, nonostante ciò, la mia camera sia sempre disordinata?”
21:50
“Io non metto a posto mai ed è disordinata comunque, ma almeno non perdo tempo!”
21:52
“Tu vivrai in un porcile.”
21:53
“Hey, mi ferisci!!”
22:02
“Che hai fatto oggi pomeriggio mentre dormivo?”
22:04
“Sono uscit* con un amico, siamo andati in una città qui vicino a comprare delle cose elettroniche… Lui costruisce computer, è una cosa piuttosto figa!!”
22:05
“Sembra divertente.”
22:05
“A dire il vero è noiosissimo, non ci capisco nulla…”
22:12
“Hey, ascolta, adesso ho un impegno, non ne uscirò per le prossime due ore… Tu vai a dormire?”
22:13
“Penso che andrò tra poco, mi si chiudono gli occhi… Non ti dico che ti aspetterò svegli* perché so che non accadrà!!”
22:14
“Ti do la buonanotte, allora. Dormi bene, okay?”
22:14
“Ti voglio bene.”
22:15
“Buona giornata, Raggio di Sole!!!”
22:15
“Ti voglio bene anche io!! ♡”
 
Lance ancora non ci si era abituato. Ne aveva di persone a cui voleva bene, ne aveva eccome! I propri fratelli, i propri genitori, Hunk, che ormai era parte della famiglia, Pidge, che si era trasferito in quel quartiere solo qualche mese prima per il lavoro del padre, tutti i ragazzini di Varadero che conosceva dall’infanzia…
Ma quella persona era diversa. A l*i Lance voleva bene in un modo differente, si era affezionato a l*i in maniera particolare… A dirla tutta, ne era dipendente.
Un po’ come quando si ha una cotta. Non che Lance avesse una cotta per Raggio di Sole, assolutamente! Era impossibile.
E anche se avesse avuto una cotta per l*i, sarebbe stato controproducente. Non si sarebbero mai visti. Non si sarebbero mai neppure detti i loro nomi, forse. Probabilmente abitavano a migliaia e migliaia di chilometri di distanza, anzi, sicuramente. Il petto gli faceva male di nuovo.
Si era messo a letto un’ora e mezza prima, e non aveva fatto altro che pensare a l*i, a immaginare come potesse essere, cosa stesse facendo, se anche l*i stesse pensando a sé, immers* nel suo impegno.
Si morse il labbro inferiore, prendendo il cellulare. Voleva sentirl*. Ma era impegnat*, non gli avrebbe risposto! Si strinse il telefono al petto.
E il telefono vibrò.
 
23:40
“Dimmi che ci sei.”
23:40
“Mi è successo di nuovo. So che non dovrei coinvolgerti ma ho bisogno di te.”
23:40
“Raggio di Sole, sono qui… Che succede?”
 
Okay, doveva stare calmo. Gli aveva scritto, ma non era un bene. Ora l*i stava male. E non si erano mai sentiti mentre l*i stava male.
Cosa diamine avrebbe dovuto fare?
 
23:42
“Odio questo posto. Odio tutti. Odio i miei professori e i ragazzi che sono qui, odio tutti quelli che gestiscono questo posto, mi sento in una cazzo di trappola e vorrei solo scappare.”
23:42
“Vieni a prendermi.”
23:42
“Ti prego, vieni a prendermi.”
 
Ora, anche Lance era nel panico.
Quei messaggi gli fecero scatenare il cuore, gli fecero stringere lo stomaco alle dimensioni di un bottone. Avrebbe venduto l’anima a Satana per andarl* a prendere… Se solo Satana fosse esistito.
 
23:43
“Hey, hey, calmati… Sono qui, okay?”
23:43
“Non so dove tu sia, ma un giorno uscirai da lì, okay? E allora ti verrò a prendere. Te l’ho promesso!”
23:45
“Manca ancora troppo tempo.”
23:45
“Non ce la faccio più. Vorrei solo che finisse tutto.”
23:45
“Non so neppure cosa farò quando uscirò da qui.”
23:46
“Raggio di Sole, non hai… Non lo so, dei genitori, qualcuno che possa aiutarti?”
23:47
“No.”
23:47
“I miei genitori sono morti.”
23:47
“Sono in un cazzo di orfanotrofio.”
 
Lance sbiancò.
Tutto si era collegato.
Il fatto che l*i non parlasse mai dei suoi genitori, della sua famiglia, che invece lodasse la propria, di famiglia, e gli dicesse di non comportarsi male con i propri fratelli… Ora tutto aveva un senso.
Ma Lance non sapeva cosa fare.
 
23:48
“Dios, mi dispiace… Non lo sapevo…”
23:48
“Ma uscirai da lì, okay? E troverai qualcuno che ti aiuterà, perché sei la persona più dolce del mondo e meriti solo cose belle, okay??”
23:50
“Neppure conosci la mia faccia.”
23:51
“Non ha importanza. Ti voglio bene, non ho bisogno di sapere nient’altro.”
23:52
“Dah.”
23:52
“Che succede??”
23:54
“Sei tu la persona più dolce del mondo.”
23:55
“Sei tu che mi fai parlare così!”
23:58
“Comunque, per la cosa di prima. Sono morti quando ero piccol*, quindi non me li ricordo neanche. Mi sento solo un po’ dispers*, a volte. E non aiuta il fatto che io sia stat* in quattro famiglie affidatarie e che tutte mi abbiano rimandat* indietro perché, e io cito, ero matt*.”
23:59
“TI ADOTTO IO”
24:01
“Sarebbe bellissimo. Saresti un genitore modello.”
24:01
“Sei sarcastic*?”
24:02
“Decisamente.”
24:04
“Comunque, sono tutti dei bastardi. Sono così fortunati ad averti lì, e ti trattano male… Mi fanno arrabbiare da morire…”
24:05
“Ci sono abituat*, ormai. Come hai detto tu, presto finirà.”
24:05
“Quanto presto??”
24:06
“Quando sarò maggiorenne.”
24:06
“E quando sarai maggiorenne? E intendi diciotto o ventuno anni?”
24:07
“Se te lo dicessi, rivelerei la mia età, no?”
24:08
“Sei troppo furb* per i miei gusti!”
24:08
“Però ora so che sei più piccol* di me.”
24:08
“Lo ammetto: sono maggiorenne!!!”
24:10
“Aspetta. Sei più grande di me…?”
24:11
“Sì!!”
24:13
“Siamo messi bene.”
24:13
“Farò finta di non averlo preso come un insulto!!”
24:15
“Hm, hm.”
24:16
“Raggio di Sole?”
24:16
“Sì?”
24:16
“Un giorno, ti verrò a prendere. ♡”
 
La notte passò, e loro rimasero a parlare fino alle quattro del mattino.
Lance riuscì a dormire solo altre quattro ore, e neppure molto bene.
Ciò che Raggio di Sole gli aveva raccontato la sera prima lo aveva lasciato a dir poco senza parole. Che brutta situazione, doveva essere la sua…
Essere senza genitori, vivere in un collegio per orfani, non riuscire a trovare una famiglia che l* accettasse e l* accudisse…
Era ingiusto. L*i meritava davvero il meglio. Meritava di essere amat* e protett* e curat*. Meritava Lance che l* amasse, proteggesse e curasse.
Si era addormentato con quel pensiero in testa.
La mattina dopo, quando si svegliò, Raggio di Sole stava andando a dormire. Fecero in tempo a darsi la buonanotte, a ripetersi che si volevano bene, e così l*i andò a dormire tranquill* e col sorriso sulle labbra. Questo era tutto ciò che contava, per Lance. Lance che aveva capito.
E che in quei giorni lo comprese sempre di più.
Si era preso una cotta.
Si era preso una cotta per una persona orfana, dal sesso e dal nome sconosciuti, alla quale aveva promesso che, un giorno, sarebbe andato a prenderla.
Si era preso una cotta per una persona che non avrebbe saputo vivere senza di sé… Ma andava bene, perché neppure Lance voleva vivere senza di l*i.

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Capitolo 5
*** capitolo 5 ***


Lo ammetto: sono troppo felice di questo capitolo.
Ho aggiunto un po’ di aneddoti e dettagli su Cuba e su dove abita Lance, ho aggiunto – finalmente – il personaggio di Hunk, ho accennato a Shiro…
E ho sganciato una bomba, anzi, due bombe, alla fine.
(Marika, questo è per te.)
Buona lettura!
 
CAPITOLO 5
 
22/04
08:24
“Buonasera!! ♡”
08:24
“Buongiorno a te. Hai dormito bene?”
08:25
“Benissimo, a dire il vero!! Anche se ora devo andare al lavoro e non ne ho voglia per nulla… Ma per un po’ di soldi farei di tutto, in questo periodo!”
08:25
“E tu come sei stat* oggi? Hai studiato?”
08:26
“Ho avuto una lezione. Neurochimica. Da spararsi.”
08:26
“Immagino!!!”
08:26
“Adesso preparo i pancakes per i miei fratelli e mia madre, così poi raggiungo mio padre al supermercato!”
08:28
“Io finisco di leggere questo capitolo e vado a dormire.”
08:30
“Cosa stai leggendo?”
08:31
“’Il Vecchio e il Mare’ di Hemingway. Non mi aspetto che tu lo conosca, è una delle tante cose depresse che amo leggere.”
08:32
“Di che parla??”
08:36
“Si ambienta a Cuba. Fondamentalmente è un’allegoria sull’uomo che non riesce a raggiungere la soddisfazione. Parla di un vecchio che va a pescare ma non riesce a prendere neppure un pesce.”
 
La felpa che Lance stava tenendo in mano scivolò dalle proprie dita quando lesse la prima frase. Stava leggendo un libro ambientato a Cuba! Ambientato nella propria terra! Oh, quanto avrebbe voluto dirglielo…
 
08:38
“Conosco Hemingway! Sai che gli si attribuisce l’invenzione del mojito?”
08:40
“Non mi aspettavo una così grande conoscenza dell’autore, da parte tua.”
08:40
“E di questi dettagli così importanti, poi.”
08:40
“Sono molto impressionat*.”
08:41
“Non prendermi in giro!! Il mojito è buonissimo.”
 
E Lance lo sapeva bene, perché… Beh, era di Cuba. Patria del rum e della canna da zucchero. Patria del mojito. E lui se ne intendeva.
 
08:45
“Adesso vado a dormire, mi si chiudono gli occhi. Passa una bella giornata.
08:45
“E tu dormi bene!! Buenas noches, Rayo de Sol ♡”
 
Erano passati appena un paio di giorni dalla confessione di quella persona sui suoi genitori, ma non ne avevano più parlato. Lance non voleva tirare fuori argomenti che potessero anche solo lontanamente renderl* triste.
Ma lui ci aveva pensato. Eccome se ci aveva pensato.
Aveva pensato a come aveva risposto a quel messaggio, “Forse avrei dovuto dirgli qualcosa in più?”, “Forse avrei dovuto mostrarmi più dispiaciuto?”, “Forse avrei dovuto chiedere più informazioni, farl* sfogare?”, questo aveva pensato Lance.
Ma come mai avrebbe potuto reagire ad una notizia così orribile?
Non tanto per la morte in sé per sé dei suoi genitori, perché l*i non li aveva mai neppure conosciuti, quindi non ci era rimast* male… Quanto per la sua situazione attuale. Viveva in un collegio di orfani, maledizione.
E Lance si era andato ad informare: fino alla maggiore età si poteva trovare una famiglia in affido, ma dopo… Dopo i ragazzi dovevano cavarsela da loro, trovare un appiglio, un lavoro, crescere da soli. E nessuno aveva mai adottato Raggio di Sole.
Ogni volta che ci pensava, stringeva i pugni.
Come potevano non prendersi cura di l*i? Come potevano non volere bene ad una persona così dolce, anche se fragile?
Ci riusciva Lance a migliaia di chilometri di distanza e non ci riusciva nessuno di vicino a l*i? Ma erano stupidi?!
In ogni caso, non c’era molto che potesse farci. Parlare con l*i al telefono, farl* distrarre e sfogare era tutto ciò che poteva fare. Ma avrebbe voluto fare molto, davvero molto di più.
 
La mattinata trascorse velocemente: al supermercato non venivano poi molti clienti, perché quella zona non era esattamente abitata.
Era vero, abitava a Varadero, una località turistica meravigliosa… Ma lui abitava in periferia di Varadero.
Varadero era una specie di striscia di terra, una lunga penisola che si staccava dall’isola di Cuba, e lui abitava vicino alla terra vera e propria, vicino ad una cittadina di nome Santa Marta.
Era un bel posto, lo era davvero, ma lo era per quelli che stavano bene economicamente, non per quelli come Lance che era già tanto se riuscivano a mangiare la sera.
Per questo motivo Lance era parecchio magro: non tanto perché mangiasse poco, ma perché raramente gli veniva fame. Era una persona allegra, ma fondamentalmente era uno di quelli che ridevano per non piangere.
 
Uscito dal lavoro, si prese giusto un panino per arrivare a fine giornata, e in bici si avviò verso casa di Hunk.
Hunk era il proprio migliore amico, anzi, più di questo: era come un fratello, ormai, come Dom, come Lucil, come il piccolo Adrian.
Hunk abitava nel centro di Santa Marta, ma in bici ci volevano solo una ventina di minuti in bici quando partiva dal supermercato del padre.
Quel giorno, però, pioveva.
A dire il vero pioveva spesso, a Cuba, soprattutto in quei mesi di passaggio tra l’inverno e l’estate, e quando pioveva… Pioveva forte.
Non faceva freddo, quello mai, ma era difficile andare per le strade quando tutte le macchine – che già non seguivano tragitti ordinati di loro – si impilavano l’una dietro l’altra, quando i suoni dei clacson lo facevano sobbalzare sul sellino della bici.
Ma arrivò comunque sano e salvo a casa dell’amico.
« Ay, mi amòr. » scherzò Hunk, accogliendo l’amico fradicio in casa. I capelli di Lance si erano tutti premuti sulla sua fronte ambrata, la sua felpa grondava acqua da tutte le parti, così come i pantaloncini neri lunghi fino alle ginocchia.
Ma nulla gli impedì di sorridere all’amico.
« Hola hola, hermano. » esclamò, battendo un pugnetto sull’ampia spalla dell’amico.
Hunk non era di Cuba. Lui era originario di Apìa, la capitale delle isole Samoa, al largo delle coste dell’Australia. Era davvero divertente sentirlo parlare la sua lingua originaria con sua madre: Lance non capiva davvero nulla, ma Hunk gli aveva insegnato qualche parola divertente come “faamolemolecalecal”, che significava “per favore”. Era davvero una lingua buffa.
Lance si asciugò, Hunk gli prestò qualcuno dei suoi – enormi, per Lance – vestiti, che furono tuttavia capaci di riscaldarlo un po’.
Hunk aveva comprato un nuovo videogioco, quindi passarono praticamente tutto il pomeriggio a giocarci. Ma Lance era scarso, ai videogiochi, quindi moriva sempre.
E si arrabbiava, eccome se si arrabbiava! Ma Hunk si divertiva tantissimo a vederlo gridare in spagnolo contro lo schermo della tv, quindi continuava imperterrito ad ammazzarlo a tradimento.
« Dai, Lance, ma che hai per la testa? Sarai morto tre volte nel giro di un minuto! Sei forse innamorato?! » esclamò Hunk, ridendo… Ma smise di ridere quando Lance non gli rispose. Di solito, Lance rispondeva alle provocazioni.
Ma non questa volta… Perché c’era un motivo se era andato a casa di Hunk.
« Bro, ti devo parlare. » iniziò il castano, ma non ebbe neppure il tempo di parlare.
« Oddio, di cosa? Ti sei innamorato?! Ti sei fidanzato?! »
« Lasciami parlare! » esclamò, guardando l’ora. Erano le cinque e mezza del pomeriggio. Solitamente Raggio di Sole gli scriveva verso le sei e mezza… Quindi aveva un po’ di tempo per raccontare tutto a Hunk. E lo fece. Fin dall’inizio.
 
« Quindi, aspetta… » alla fine del racconto, Hunk era confuso. Lance gli aveva detto tutto, gli aveva detto di Principessa/Raggio di Sole, gli aveva detto di come avevano iniziato a parlare, del fatto che non si fossero detti nulla l’uno dell’altr*, dei suoi attacchi di panico, dei suoi genitori… E, infine, del fatto che a Lance piacesse da morire, quella persona.
« Hai una cotta per una persona di cui non sai né nome né sesso né dove abiti? » gli chiese l’amico, e Lance annuì gravemente, seduto a gambe incrociate sulla grande sedia girevole, mentre Hunk stava seduto sul letto.
« Sì. E anche parecchio. Penso che abiti a tantissima distanza da qui, perché il fuso orario è completamente sballato… Ma non mi dice neppure che ore sono da lui-slash-lei, perché non vuole che io sappia dove abito. » sussurrò Lance, stringendosi nelle esili spalle del colore dell’ambra.
« Bro, questa è una cosa malata. » fu il commento di Hunk, e il castano non poté che dargli ragione. Era da psicopatici, da alienati, ma non poteva farne a meno.
« Lo so, Hunk, ma… Non capisci. Io vorrei essere sempre lì per Raggio di Sole… Vorrei andare da lui-slash-lei, dargli, o darle, tutto ciò di cui ha bisogno, portarlo, portarla via con me, a vivere qui con me… » Lance sospirava e sospirava, guardando la pioggia che ancora cadeva fragorosa fuori dalla finestra.
Hunk rimase in silenzio per qualche secondo.
« Ma così non sarai mai felice… Quando mai potreste vedervi? » gli chiese, e il castano scrollò la testa.
« Non lo so. So solo che tra un po’, non so quando, sarà maggiorenne, quindi uscirà dall’orfanotrofio. Magari potrei dirgli, o dirle, insomma, di venire qui a Cuba? Pensi che lo farebbe? » Lance sperava in un sì. Ci sperava da morire.
« Chiederesti ad una persona che non sa nulla di te di fuggire per amore e di correre tra le tue braccia? Lance, sii realistico… » Hunk era stato crudele. Ma aveva ragione.
« Ma… Io non riesco ad allontanarmici, sto male solo al pensiero… » Lance aveva le lacrime agli occhi. Non era una novità, piangeva spesso, anche per motivi di cuore, quando le ragazze lo rifiutavano… Ma raramente nella propria vita si era sentito così male. Così bloccato in quel mondo.
« Magari… » continuò il castano, asciugandosi gli occhi azzurri « Magari potrei mettermi da parte dei soldi! Nel frattempo impareremo a conoscerci e ci diremo tutto, i nomi, i sessi, dove abitiamo, e poi ci vedremo! »
« Stai sognando ad occhi aperti. E non pensare che io condivida quest’idea: è da pazzi, e penso che tu dovresti allontanartene subito. » Hunk soffiò, e Lance lo guardò demoralizzato come poche volte in vita propria… Ma Hunk riprese: « Tuttavia… Tu sei come un fratello, per me. E se parlare con una persona sconosciuta ti rende così felice, allora io sono felice per te. »
Lance scese dalla sedia girevole, stringendo tra le braccia il corpo robusto e morbido dell’amico, come a ringraziarlo mentre cercava conforto.
Aveva bisogno di qualcuno che lo appoggiasse.
Aveva bisogno che quel qualcuno fosse Hunk.
Poi, magari, ne avrebbe parlato anche alla piccola Pidge.
 
Quando Lance tornò a casa, sempre ben custodito dai vestiti di Hunk, aveva smesso di piovere. Mise i propri vestiti ad asciugare, e si sdraiò sul letto con il telefono tra le dita. Era quasi ora. Era decisamente quasi ora. Era…
 
18:35
“Buongiorno.”
18:35
“Principessa!!!”
18:36
“Ah, siamo tornati a Principessa? Ottimo.”
18:36
“Sì!!! Hai dormito bene??”
18:37
“Vorrei dire di no, ma… Ho dormito benissimo.”
18:37
“Menomale, menomale!!!”
18:37
“Io sono appena tornat* da casa di Hunk!!! Oggi diluviava, quindi mi sono infradiciat* in bici… Ma gli ho parlato di te!!”
18:41
“… Cosa?”
18:41
“Cosa gli hai detto? Perché gli hai parlato di me?”
18:42
“Gli ho detto che ho conosciuto questa persona dolcissima per caso e che ho iniziato a parlarci per tre settimane di seguito!! E gli ho raccontato un po’ di cose di te!”
18:43
“Perché?”
18:43
“Perché sei parte della mia vita ormai!!”
18:43
“Ha detto che siamo pazzi perché non ci incontreremo mai ma io gli ho detto che non è vero e che ci vedremo quando uscirai dall’orfanotrofio e allora lui ha detto che è contento per me ??? e nulla di più!”
18:45
“Oh…”
18:45
“Ne sono felice. Davvero.”
18:45
“Davvero?”
18:45
“Davvero.”
18:45
“Anche io ho parlato di te a un mio amico. Cioè, al mio unico amico, a dire il vero. Si chiama Shiro.”
18:46
“Sul serio??? Che gli hai detto?”
18:46
“Praticamente tutto di te.”
18:46
“Tipo??”
18:48
“Tipo che sei dolce, che mi fai divertire e rilassare, che mi piace parlare con te. Mi ha detto le stesse cose che Hunk ha detto a te, praticamente. Mi ha detto che aveva notato di avermi visto più seren*, in questi giorni.”
18:48
“Quindi, sì, che mi fai stare bene. Gli ho detto questo.”
 
Lance aveva le braccia strette attorno al cuscino, il telefono stretto tra le dita, la pancia magra premuta contro il materasso… E un sorriso enorme sulle labbra.
L* faceva stare bene.
Ne era felice da morire.
Ma non avrebbe menzionato ciò che provava per l*i. Avrebbe rovunato tutto, se l’avesse fatto, questo era sicuro, perché entrambi avrebbero solo sofferto ancora di più. L’amicizia era un conto, ma una relazione… Dio, quella sì che li avrebbe distrutti. E poi, non poteva stare con qualcuno di cui non sapeva nulla.
Prima, avrebbe voluto scoprire tutto di l*i.
 
18:50
“Anche tu mi fai stare bene…”
18:51
“Sono felice anche di questo.”
18:52
“Uh… Raggio di Sole?”
18:52
“Sì?”
18:52
“Voglio sapere qualcosa di te…”
18:53
“No.”
18:54
“Ti prego! Solo… Se sei un maschio o una femmina! Per favore, non il nome, non dove abiti, solo questo!”
18:55
“No.”
18:55
“Farò tutto quello che vuoi!”
18:56
“… Tutto?”
18:56
“Tutto!”
18:56
“… Allora ci sto.”
18:56
“A ciò che dovrai fare, ci penserò su. Ma dovrai farlo.”
18:56
“Te lo giuro!!!”
19:02
“Sono un ragazzo.”
 
Lance aveva tenuto gli occhi fissi sul telefono per sei minuti di seguito, attendendo la sua risposta. Avrebbe scoperto il suo sesso, almeno quello! E, Dio, gli andava bene tutto! Gli andava bene una ragazza, un ragazzo, non importava, non-
“Sono un ragazzo.”
Ecco la risposta.
Lance sbatté un po’ gli occhi. Aveva chiamato “Principessa” un ragazzo. Per settimane e settimane. Aveva consolato un ragazzo. Aveva una cotta per un ragazzo.
Aveva appena scoperto di essere gay.
 
19:03
“Anche io!!! Quante cose abbiamo in comune!!!”
19:04
“Aspetta. Cosa.”
19:04
“Cosa cosa?”
19:04
“Sei… Un ragazzo?”
19:05
“… Ne sei deluso?”
19:05
“No, cioè, meglio, perché sono gay come poche persone al mondo, ma…”
19:05
“… Ma?”
19:05
“Come puoi essere un ragazzo e ascoltare Britney Spears?”
 
Lance sbatté le palpebre… E scoppiò a ridere.
Dio, aveva la tachicardia! Aveva pensato a chissà cosa! Aveva pensato che non volesse più parlargli ora che aveva scoperto che Lance era un ragazzo, e invece…
… Cosa c’entrava il fatto che lui fosse gay?
 
19:06
“MI HAI FATTO PRENDERE UN COLPO”
19:07
“E NON INSULTARE BRITNEY”
19:07
“Comunque…”
19:07
“Scusa se te lo chiedo”
19:07
“Perché mi hai detto di essere gay? Cioè… Perché è un bene che io sia un ragazzo?”
19:15
“Vado a lezione, a dopo.”
19:15
“PRINCIPESSA NON OSARE”
19:15
“SONO SERIO”
19:15
“SE NON mi scrIVI APPENA FINISCI MI ARRABBIO”
19:17
“A dopo, uff.”
 
Lance rimase a rileggere quei messaggi ancora qualche minuto, prima di scendere a preparare la cena.
Perché gli aveva detto quella cosa? Lui… Non era interessato a sé in quel senso, vero? Perché, se così fosse stato, quei sentimenti sarebbero stati reciproci, e…
E poi? Non voleva saperlo. Sul serio. Non ora. Doveva metabolizzare.
Scese a preparare la cena, rimase con la propria famiglia, parlò un po’ con loro della giornata, coccolò il fratellino di pochi mesi al quale già si era affezionato da morire.
Cercò di distrarsi.
 
22:18
“Perché altrimenti sarei dovuto diventare etero, per te."

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Capitolo 6
*** capitolo 6 ***


Buonasera bois and gals, eccomi con il sesto capitolo!
Finalmente un po’ di gioie, dico solo questo.
Ho introdotto il personaggio di Pidge, ho deciso di renderlo un transkid perché ghhh è così dolce e bello che mi viene da piangere.
Buona lettura! ♡
 
CAPITOLO 6
 
A dirla tutta, Lance non aveva mai avuto una relazione.
Non aveva mai esattamente pensato al proprio orientamento sessuale, aveva sempre assunto di essere etero per il semplice fatto che gli piaceva provarci con le ragazze, nonostante venisse puntualmente rifiutato.
Tuttavia, era con i ragazzi che si era sempre sentito davvero a proprio agio: non aveva amiche femmine – o meglio, c’era Pidge, ma fin da quando l’aveva conosciuta lei, cioè, lui, gli aveva chiesto di chiamarlo con pronomi maschili. Quindi, insomma, non contava perché, se Pidge voleva venire considerato un ragazzo, allora Lance rispettava la sua decisione e lo chiamava Pidge, e non Katie, che era il suo nome di battesimo. E la cosa non gli aveva mai creato disturbo, anzi! Pidge era speciale, era dolce e attento, anche se a volte Lance lo considerava un po’ troppo chiuso in se stesso. Ma se Pidge amava i computer e l’elettronica, se si sentiva felice nel costruire un portatile tutto da solo, allora Lance era felice con lui.
In ogni caso, Lance di amiche ragazze non ne aveva. E non sapeva neppure cosa volesse dire stare insieme a qualcuno, provare veri sentimenti per qualcuno.
Non lo aveva mai saputo.
Non fino a quel momento.
 
“Veri”, però, era una parola grossa. Lance era un ragazzo intelligente, sotto quell’aria da ragazzo idiota che lo aveva sempre contraddistinto.
Ciò che provava per Principessa… Non poteva essere considerato “vero”.
Erano sentimenti virtuali, che Lance provava per qualcuno del quale sapeva solo il sesso e pochi altri dettagli. Ma erano sentimenti, ed erano terribilmente forti.
L’unico a cui ne avesse parlato fino a quel momento era Hunk… E ancora non si sentiva pronto a parlarne con altre persone. Sapeva cosa avrebbero pensato: avrebbero pensato che tutta quella situazione era da pazzi, gli avrebbero detto di smettere immediatamente di parlare con quel ragazzo prima che la situazione degenerasse in maniera irreparabile.
 
Ma la situazione era già degenerata.
Era degenerata alle 22:18 del 22 aprile.
Era degenerata con quel messaggio, quel messaggio che Lance non comprese.
In che senso?
In che senso Principessa avrebbe dovuto diventare eterosessuale… Per sé?
Lance non… Non gli piaceva, giusto? Insomma, magari era solo sarcastico! Era necessario che fosse così, perché erano passati dieci minuti da quando aveva ricevuto quel messaggio, ma non aveva avuto il coraggio di visualizzarlo.
Non aveva idea di come rispondere.
Cioè, che contava l’orientamento sessuale, che contava il sesso in generale? Non si sarebbero comunque mai visti! A malapena riuscivano a sentirsi, figurarsi il mettersi insieme a così tanta distanza!
Eppure, Lance non riusciva a smettere di sorridere. Non aveva idea di cosa lui intendesse con quel messaggio, magari stava davvero scherzando, magari quella che lui aveva per sé non era neppure una cotta, magari gli voleva solo bene…
Magari voleva solo sentirlo vicino, magari desiderava solo, un giorno, di poter stare con sé, come Lance sperava di poter stare con lui…
Ma a Lance andava bene. Gli andava benissimo.
Tuttavia, era stupido. E nel panico. E uno stupido, quando è nel panico, cosa fa? Risponde scherzando? Elude l’argomento? Entrambe le cose.
 
22/04
22:30
“Lo vedi? Non devi neanche cambiare te stesso per avermi con te!!”
 
Furbissimo. Ottimo. Una grande risposta.
“Avermi con te”? Ma che diamine significava? Si pentì di averglielo scritto nel momento stesso in cui il telefono inviò il messaggio.
Ma che altro avrebbe potuto fare? Non era sicuro di nulla! E certamente non si sarebbe dichiarato ora, non così, non senza sapere niente di lui…
 
22:41
“Già.”
22:41
“Non hai capito niente, vero?”
22:42
“Capito cosa?”
22:42
“Nulla, non preoccuparti.”
22:42
“Parli di… Britney?”
22:43
“Cosa c’entra Britney?”
22:43
“Non lo so!!! Non si sa mai”
22:44
“…”
22:44
“Passiamo oltre. Come stai?”
22:45
“Oh, bene!! Mi sono messo a letto ma non ho molto sonno, quindi ci sarò ancora per un po’!!”
 
Non che non avesse sonno: semplicemente, aveva il cuore in gola.
Era vero, Lance non aveva capito cosa Principessa intendesse, e non aveva neppure il coraggio di chiederglielo… Ma era chiaro che si stessero parlando in maniera imbarazzata! Persino lui, che già non era di molte parole, ora era chiaro che stesse cercando di cambiare argomento! Chiunque ci sarebbe arrivato!
 
22:46
“Io devo andare, invece. Ho tre ore di lezione, quindi non potrò stare al telefono.”
22:47
“Oh, uffa… Mi mancherai!!”
22:47
“Ah sì?”
22:47
“Certo…”
22:48
“Anche tu. Scrivimi quando ti svegli. Stanotte starò sveglio fino a tardi.”
22:48
“Ti scriverò, allora!!”
22:48
“Buonanotte.”
22:48
“Aspetta… Stai bene? Cioè, è tutto a posto, no?”
22:49
“Certo, perché?”
22:49
“Non lo so, mi sembri… Non lo so??”
22:50
“Sto bene, sul serio. Sai che te lo direi.”
22:50
“Allora, ti lascio alla tua lezione!! ♡”
22:51
“Buonanotte.”
22:51
“… Ti voglio bene.”
22:52
“Ti voglio bene anche io!! ♡”
 
Era stato… Imbarazzante.
Era più che ovvio che lui si stesse praticamente bloccando da solo, era chiaro che qualcosa non andasse…
Forse era perché si erano rivelati il sesso? Forse.
Ma pensare che Principessa fosse un ragazzo… Maledizione, non faceva che farglielo piacere ancora di più. Forse era bisessuale? O forse pansessuale? Perché a pensarci bene non sapeva come fosse fatto Principessa…
Ci stava pensando troppo.
Si mise a fissare le stelline luminose sul soffitto, addormentandosi poco dopo.
 
23/04
09:12
“¡Buenos dias, Princesa! Come stai? Sei già a letto?”
09:17
“Menomale che dovevi stare sveglio fino a tardi!!”
09:22
“Eddai. Mi manchi! Ho bisogno di un cuoricino!”
09:28
“No, anzi, no! Non svegliarti, dormi bene e riposati, te lo meriti!
09:32
“Buonanotte!! Ti voglio tanto bene. Davvero tanto.”
09:32
“Anche se siamo lontani, te ne voglio comunque!!”
09:33
“E non mi importa se sei un ragazzo, proprio come avevo previsto non mi interessava il tuo sesso… Ti adoro comunque. Sei importante per me. Non so neanche perché te lo sto dicendo ??? ma è vero!”
09:34
“Scrivimi quando ti svegli ♡”
 
Lance andò al lavoro, ne uscì, vide Hunk, Principessa gli scrisse, i giorni passarono… E nessuno dei due tirò più in ballo la questione del messaggio.
Lance era troppo intimorito dal parlarne, e Principessa, evidentemente, aveva preferito evitare l’argomento. Ma entrambi sapevano che ci fosse qualcosa di diverso. Perché era ovvio. Era ovvio, perché ultimamente entrambi scrivevano in maniera diversa, scrivevano come se avessero avuto timore di non pesare abbastanza le parole, non si sentivano più in maniera spensierata come prima. Era chiaro che stessero pensando a qualcosa. Ma Lance poteva parlare solo per sé.
 
01/05
11:03
“Posso chiederti una cosa? Sempre che tu sia sveglio… Non ti ho mai scritto a quest’ora, ora che ci penso!”
11:05
“Sono sveglio. Che succede?”
 
Qualcosa era decisamente cambiato. Lui era sveglio… E non gli aveva scritto.
Perché? Che aveva fatto, Lance, di male?
Lo avrebbe scoperto subito.
 
11:06
“Ecco, perdonami la domanda… Ma, come dire, è successo qualcosa? Tra di noi, intendo”
11:08
“Non capisco che intendi.”
11:09
“Intendo, ultimamente ti sento… Distante, ecco”
11:09
“Ho per caso fatto qualcosa di male? O stai male tu? Perché sai che puoi parlarmi di quello che vuoi…”
11:12
“Non hai fatto nulla di male. Non mi sento bene in questi giorni, ti chiedo scusa se ti ho fatto preoccupare. A dire il vero, ti avrei scritto domattina per dirtelo.”
11:13
“Ma ora ti senti meglio??”
11:15
“Sì, sto meglio. Ho avuto molto per la testa.”
11:16
“Tipo? Se posso sapere!!”
11:18
“Solite cose. Questo posto mi deprime.”
11:18
“Ma dovrò starci ancora un po’, quindi me ne sono fatto una ragione.”
11:19
“Lo immagino… E per il resto? Hai avuto altre cose per la testa??”
11:23
“Sì, a dire il vero.”
11:23
“Te.”
 
Lance deglutì di colpo.
Una settimana. Era passata una settimana da quel suo messaggio ambiguo. Lance pensava che quella storia fosse finita, ora che avevano ripreso a scriversi in maniera più tranquilla e meno… Ossessionata, ecco.
Non che la cotta gli fosse passata, perché non gli era passata per nulla. Anzi, se possibile, era diventata ancora più forte. Ne aveva parlato con Pidge, gli aveva raccontato tutto, e lui gli aveva risposto proprio come Hunk… Ma gli aveva dato delle speranze. “Sono felice per te”, aveva detto, “Sono sicuro che riuscirete a incontrarvi, un giorno”.
Poi, Principessa aveva iniziato ad allontanarsi… E il dolore che ciò aveva provocato nel petto di Lance era stato inimmaginabile. Dormiva male, ora che lui non gli scriveva più i cuori quando si davano la buonanotte, ora che ogni secondo doveva studiare o andare a lezione, ora che si sentivano così poco.
 
Ma ora gli aveva scritto quel “Te”.
E Lance… Lance era in giardino, stava parlando con Dom, e di scatto si alzò in piedi e corse in camera. Aveva bisogno di essere concentrato.
 
11:25
“Hai pensato a me?”
11:26
“Ogni giorno.”
11:26
“Anche io ho pensato a te…”
11:27
“Mi dispiace. Se ci sono stato così poco, intendo.”
11:27
“Mi sono affezionato davvero troppo a te.”
11:27
“Ho pensato che magari, se mi fossi allontanato, mi sarebbe passata. Ma mi sono sbagliato. Ha solo fatto più male.”
11:28
“Quindi… Mi dispiace. Prometto che ora ci sarò di più, non voglio allontanarti da me. Ho bisogno della tua presenza nella mia vita.”
11:30
“Sarei sempre qui per te, lo sai…”
11:30
“E… Stessa cosa. Tengo a te come tengo a poche persone nella mia vita…”
11:30
“Mi spaventa un po’, a dire il vero, visto che siamo così lontani…”
11:31
“Ma quando non parliamo mi sento male, vorrei fare quei discorsi che facevamo all’inizio, vorrei conoscerti sempre di più! E non importa se siamo lontani, se ti voglio bene mi basta così…”
11:34
“Mi vuoi bene?”
11:34
“Certo che ti voglio bene!!”
11:35
“Solo ‘bene’?”
11:35
“Molto bene!”
11:35
“Allora sono felice.”
11:35

11:37
“Rayo de Sol, non è tardi dove abiti tu?”
11:39
“Sì, ma avevo bisogno di parlare con te.”
11:40
“Se non la smetti di parlarmi così mi affezionerò ancora di più!!”
11:41
“Allora continuerò a farlo.”
11:42
“Domani, però. Ora vado a dormire.”
11:42
“Buonanotte, Cariño! ♡”
11:42
“?”
11:42
“Significa, tipo… ‘Tesoro’???”
11:43
“Oh.”
11:43
“Buonanotte, uh… Tesoro?”
11:43
“No, no, suona troppo gay. Buonanotte e basta.”
 
Lance aveva sprofondato la faccia nel cuscino.
Lo aveva chiamato “Tesoro”… Diamine, lo aveva chiamato “Tesoro”!
Lo sapeva, sapeva che non significasse nulla, ma ne era così… Maledettamente felice. E non riusciva a smettere di sorridere.
Le cose si erano davvero appianate, allora! E Principessa aveva avuto i suoi motivi per allontanarsi da sé, proprio come Lance aveva avuto i propri motivi per stare male. E i motivi erano gli stessi: entrambi si erano affezionati troppo.
Lance in modo un po’ diverso, ma… Più o meno, era la stessa cosa, no?
Socchiuse gli occhi, rimanendo un po’ a letto a sorridere prima di scendere a preparare il pranzo per tutti.
 
Quel pomeriggio, Hunk e Lance andarono a casa di Pidge a giocare alla play.
Se Hunk era bravo, Pidge era una specie di mostro. Conosceva ogni trucco, ogni passo, ogni dettaglio di ogni gioco, quindi era facile, per lui, vincere.
Il fratello di Pidge, Matt, aveva preparato i pop corn per tutti prima di tornarsene in sala con i genitori.
Lance era seduto a gambe incrociate sulla sedia della scrivania del più piccolo, mentre questo, insieme a Hunk, era seduto sul letto.
« Allora, Lance? Sei sempre innamorato? » gli chiese Pidge, che come al solito di tatto non ne aveva minimamente, e Lance arrossì di colpo, cercando di non strozzarsi con la manciata di pop corn che si era messo in bocca.
« Non sono innamorato-! Solo… Sì, ecco, ho una cotta. E forse anche io gli piaccio. Ma non ce lo siamo detti. » soffiò Lance a bocca piena, distogliendo lo sguardo, con le guance piene tutte arrossate. Pidge arricciò le labbra ammiccando. Hunk, invece, roteò gli occhi.
« Amico, non ti ho mai visto così persistente! » esclamò il moro sdraiato sul letto, mettendosi in bocca un pop corn alla volta.
« Cosa vuoi? Mi piace! Ecco, è dolce, e simpatico, e mi vuole bene, e io ne voglio a lui, anche se è un ragazzo… Non mi importa. » sussurrò il castano, scrollando un poco le spalle.
E non gli importava davvero.
Tutto ciò che voleva era sapere che Principessa gli volesse bene, e che entrambi volessero stare vicini l’uno all’altro. Non aveva bisogno di nulla, se non di quello.
Per ora.
 
Nel frattempo, a dodicimilaseicento chilometri da Varadero, un ragazzo dai capelli neri era sdraiato nel letto della sua stanza dell’orfanotrofio, sveglio nonostante fossero quasi le quattro del mattino.
Ma, per una volta, era sveglio perché era felice.
Non nel panico, non triste, non depresso, solo… Sereno.
E non c’era abituato, perché nessuno lo aveva mai reso sereno finché quel ragazzo sconosciuto non era entrato nella propria vita.
Il ragazzo sdraiato nel letto non riusciva a smettere di pensare a quell’idiota che lo chiamava “Principessa”, che gli parlava in spagnolo, che gli faceva provare sensazioni nuove e sempre più belle.
Il ragazzo sdraiato nel letto sognava ad occhi aperti di incontrare quell’idiota, anche solo per caso, in giro, magari, o davanti alla porta dell’orfanotrofio con un biglietto aereo in una mano e un mazzo di rose nell’altra.
Il ragazzo sdraiato nel letto era innamorato perso di quell’idiota.

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Capitolo 7
*** capitolo 7 ***


Forse vi sto dando un po’ troppe gioie, ma insomma… Non abituatevici, ecco.
Finalmente ho inserito un po’ di Keith!pdv perché, beh, ce n’era bisogno.
E si scopre anche dove abita. Quindi… Beh. Povero Lance.
Leggete le note finali per le mie apologie.
Buona lettura!
 
CAPITOLO 7
 
08/05, Seul, Corea del Sud, ore 16:21.
 
« Keith? Keith, mi stai ascoltando? » Shiro era in piedi davanti alla poltroncina dell’amico, sulla quale questo stava seduto con gli occhi persi nel vuoto.
L’espressione sul viso del più grande era seriamente preoccupata: il ciuffo di capelli bianchi che aveva sulla fronte ricadeva sulle sue sopracciglia spesse e corrugate, le quali a loro volta mettevano in ombra i suoi occhi sottili e castani.
Keith alzò lo sguardo, scrollando un poco la testa.
« Uh… Hai detto qualcosa? » sussurrò, sbattendo un paio di volte le palpebre assonnate. Non era strano che Keith apparisse così stanco, così stravolto, anzi, solo… Di solito, se non altro, almeno ci provava, a stare attento.
Ma da un po’ di giorni Shiro aveva notato che qualcosa era cambiato, in lui.
I suoi attacchi di panico si erano ridotti parecchio, ma dall’altro lato ora passava gran parte delle giornate al telefono, o sdraiato sul letto senza dire nulla.
Keith non era mai stato un ragazzo al quale piacesse parlare, sfogarsi, riflettere con altre persone, ma Shiro era il suo migliore amico, erano praticamente fratelli, ormai, e nel bene o nel male si erano sempre detti tutto.
Fino a quel momento.
« Ti ho chiesto com’è andata! Hai avuto un colloquio con un’altra famiglia, no? »
Keith distolse lo sguardo.
Sì, aveva avuto un altro colloquio. E non era andato meglio di tutte le altre centinaia di colloqui che avesse già tenuto. Aveva visto una coppia felice pronta ad accudire chiunque, un bel bambino piccolo, un adolescente pieno di vita, chiunque, ma non Keith. Perché Keith aveva la sofferenza scritta in faccia, aveva una cartella medica piena di fogli, aveva precedenti psicologici da far impallidire chiunque, e nessuno aveva voglia di prendersi cura di un ragazzino di diciassette anni affetto da una leggera sindrome bipolare, da una pesante depressione e da disturbi ossessivi.
« Non mi importa. Ancora qualche mese e sarò fuori da qui. » rispose semplicemente, accavallando le gambe tutto stretto nelle spalle.
Non gli importava davvero. Non gli importava più trovare una famiglia che lo aiutasse e lo accudisse, aveva sempre risolto tutto da solo e così avrebbe continuato a fare. Lavorando per il collegio si era già messo un po’ di soldi da parte, quindi una volta uscito da quell’inferno si sarebbe cercato un altro lavoro, una casa in cui vivere, una vita nuova e migliore.
Ancora non capiva come Shiro, che ormai era grande, fosse rimasto a lavorare in quel posto orribile. Era bravo nel suo lavoro, era bravo ad accudire i ragazzini rimasti orfani e a gestire le loro vite, ma era uno dei pochi bravi, purtroppo.
Shiro si abbassò sulle gambe, arrivando con il viso all’altezza di quello di Keith, e con una dolcezza capace solo di lui gli accarezzò i capelli corvini.
« Keith… Che ti succede, in questo periodo? » gli chiese, una volta per tutte.
E il moro schiuse le labbra, prendendosi il labbro inferiore tra i denti. Keith voleva bene a Shiro, gli aveva sempre confidato tutto, spesso aveva pianto con lui nel mezzo degli attacchi più forti… Ma come mai avrebbe potuto spiegargli cosa fosse successo con quel ragazzo dall’altra parte del telefono, per il quale da settimane a quella parte provava sentimenti così forti?
« Se te lo dicessi, mi prenderesti in giro. » sussurrò Keith, osando abbassare lo sguardo per fissare gli occhi in quelli del più grande.
« Mettimi alla prova. » fu la risposta di questo, e il moro sospirò.
« Penso di essermi innamorato. »
 
 
08/05, Varadero, Cuba, ore 05:32.
 
Svegliarsi così presto era, per Lance, una vera e propria tortura.
Non accadeva spesso, fortunatamente, perché solitamente riusciva a dormire almeno fino alle otto prima di andare al lavoro, ma quel giorno doveva raggiungere prima il padre Charles McClain al supermercato: era il giorno dell’arrivo dei rifornimenti, e Lance doveva aiutare il padre a mettere la roba nuova sugli scaffali.
Era stancante da morire, ma erano sempre soldi in più.
La sera prima aveva avvisato Principessa che non sarebbe riuscito a scrivergli, quella mattina, e che quindi si sarebbero sentiti più tardi, nella sera di Lance e, quindi, nella sua mattina.
Ogni tanto, Lance ci pensava.
Aveva fatto un paio di conti… E, sicuramente, c’erano più di dieci ore di differenza nel loro fuso orario. Dovevano essere terribilmente lontani. Aveva fatto un po’ di ricerche, ed era arrivato alla conclusione che Principessa potesse abitare in un paese dell’Asia dell’est. Tipo Cina, Giappone, o qualcosa del genere.
Ed era lontano. Non solo come distanza… Ma come mondo in generale.
Lance aveva sempre vissuto a Cuba, aveva rinunciato da tempo all’idea di trasferirsi in America per studiare, anzi, solo pensare di andare a L’Avana in un’università gli sembrava lontano anni luce, e L’Avana distava appena un paio d’ore in macchina!
Figurarsi andare in Asia. Era fuori discussione.
Eppure, come un gatto aggrappato ad un ramo sul punto di spezzarsi, lui persisteva, continuava a pensare che ce l’avrebbe fatta, che sarebbe andato a prenderlo, e che insieme avrebbero viaggiato per il mondo.
Poi tornava nella realtà dei fatti, sbatteva un paio di volte le palpebre e si trovava ad osservare le targhette dei prezzi del “Tienda de comestibles McClain”.
Era un incubo.
Aveva sempre amato quel posto, Varadero, Santa Marta, le spiagge, il sole, la gente che andava e veniva, tutto nonostante la condizione economica della propria famiglia.
Quella non gli era mai importata.
Aveva la madre, Athalie, una donna di quarantadue anni che ne dimostrava sì e no una ventina, una dolce casalinga che amava i suoi figli più della sua stessa vita e che avrebbe fatto di tutto per renderli felici, la donna che gli aveva insegnato a cucinare e a cambiare il pannolino ad Adrian, proprio come Dom aveva imparato a cambiarlo a lui quando era piccolo.
Aveva il padre, Charles, di origine inglese ma nato e vissuto a cuba, di tre anni più grande della moglie, che era severo al punto giusto, a volte un po’ troppo, ma bravo e onesto e capace di tutto per portare soldi a casa.
Aveva i fratelli, Dom, di trent’anni, che gestiva un’officina nella periferia di Santa Marta, Lucil, di quattordici anni, e il piccolo Adrian.
Aveva gli amici, Hunk e Pidge in particolare.
E questo gli era sempre bastato, fino a quel momento.
Gli era sempre bastato… Perché non aveva mai realizzato quanto grande fosse il mondo all’infuori di Cuba. Aveva sempre pensato alla vastità dell’universo, ma mai a quella del pianeta sul quale viveva.
E, ora che ne era conscio… Avrebbe preferito non scoprirlo mai.
 
 
08/05, Seul, Corea del Sud, ore 18:41.
 
« Keith, sai che io ti ho sempre appoggiato tutto… Ma questa è una cosa da pazzi. »
Keith sapeva benissimo come avrebbe reagito Shiro se gli avesse raccontato di quel ragazzo, ma aveva deciso di farlo comunque.
Gli aveva raccontato di come si erano conosciuti, del fatto che avessero iniziato a parlare ogni giorno, di come si sentisse bene ora che aveva qualcuno al quale importasse di sé, oltre a Shiro.
« Shiro, lo so. Lo so, va bene? Solo… Lui mi ha promesso che ci vedremo, un giorno. E se devo aspettare, allora aspetterò! Tanto che ho di meglio da fare? » Keith stava lacrimando, ma non se n’era neppure reso conto. Piccole gocce di acqua e sodio gli bagnavano gli occhi verdi, scivolando giù lungo lo zigomo magro ogni volta che sbatteva le palpebre.
« Perché non gli dici nulla di te, allora? » Shiro gli chiese, confuso. Era una domanda lecita. Perché mai due persone che si piacevano non avrebbero dovuto dirsi tutto l’uno dell’altro? Perché avrebbero dovuto tenere tutto segreto?
Keith sbuffò, asciugandosi gli occhi con i dorsi delle mani.
« Perché mi legherei ancora di più a lui, Shiro, maledizione! Se io sapessi il suo nome, se sapessi dove abita… Mi sentirei ancora più legato, e quindi starei solo peggio. Preferisco non sapere nulla, preferisco che lui non sappia nulla. Almeno finché non avrò la certezza che ci vedremo, un giorno. Non sono pronto. »
Shiro era in piedi, era rimasto in piedi per tutto quel tempo, con le braccia robuste incrociate al petto e lo sguardo fisso sull’amico.
Cioè, il braccio, incrociato al petto. Perché l’altra era una protesi metallica.
« Gli dirai mai cosa provi per lui, almeno? » gli chiese il più grande, e il moro scosse la testa rapidamente.
« No – rispose – Non ora, almeno. Lo allontanerei e basta. E penso che potrei sentirmi morire, se lo allontanassi. »
Shiro annuì, come a far cenno di avere compreso.
Keith si tirò giù le maniche della felpona grigia che indossava, alzandosi da quella sedia troppo scomoda per il proprio corpo così delicato, e andando a sedersi sul rigido letto. Le sue dita giocavano con i lembi delle maniche, nervosamente e ripetutamente.
Mai, mai e poi mai si sarebbe tolto la felpa davanti a qualcuno di diverso da Shiro, questo era sicuro. Non avrebbe lasciato che qualcuno osservasse quello schifo di corpo in cui era intrappolato, così magro, così pallido, pieno di cicatrici per tutte le operazioni mediche alle quali lo avevano sottoposto quando era ancora piccolo, pieno di tagli sulle braccia, sui fianchi e sulle cosce.
L’unica cosa che odiasse più di quell’orfanotrofio era se stesso.
« Ora torno a studiare. Prima arriva domani, meglio è. » scrollò le spalle, allungandosi per prendere uno dei libri sparsi sul letto.
Shiro annuì. Era il caso di lasciarlo un po’ da solo.
Ma Keith non aveva bisogno di studiare. Non gli importava più, perché ora neppure quello riusciva a distrarlo. Si prese un paio delle pillole che prendeva per dormire, le buttò giù con un po’ d’acqua e si sdraiò, attendendo che il sonno dovuto a tutte quelle notti turbolente prendesse il sopravvento.
Voleva solo aprire gli occhi e trovarsi un messaggio del ragazzo che gli piaceva.
 
 
08/05, Varadero, Cuba, ore 18:32.
 
Lance era appena tornato a casa dopo aver passato il pomeriggio con Dom alla ricerca di pezzi di ricambio per un’automobile che stava aggiustando. Gli piaceva fare le commissioni con Dom, passare del tempo con lui, fermarsi ogni cinque minuti per un caffè o per discutere su quale episodio di Star Trek preferissero.
Ma ora voleva solo riposare.
Riposare e scrivere a Principessa.
Non si sentivano da un giorno, praticamente. Era già successo, naturalmente, a volte non si sentivano per due giorni di seguito quando lui doveva preparare un compito o quando Lance doveva lavorare anche la sera… Ma gli mancava.
Gli mancava troppo.
 
18:34
“Buongiorno, Principessa…”
18:34
“EccOTISDF”
18:34
“Perdonami, mi è impazzita la tastiera.”
18:35
“Oh, pensavo fossi contento di sentirmi!!”
18:35
“Lo sono. Mi sei mancato.”
18:35
“Anche tu mi sei mancato♡♡”
18:36
“Hai dormito bene??”
18:37
“Bene, sì. Mi sono svegliato poco fa.”
18:37
“Menomale!! Io oggi sono stato con mio fratello maggiore, abbiamo fatto un po’ di commissioni e ora sono appena tornato a casa!”
18:37
“Devo parlarti.”
18:38
“Che succede??”
18:40
“Ho raccontato al mio migliore amico di te. Cioè, l’avevo già fatto, ma gli ho detto le cose che sono successe ultimamente. E volevo chiederti una cosa.”
18:41
“Dimmi tutto!”
18:42
“Per te… Ha senso?”
18:42
“Intendo, continuare a parlare con me. Penso sia passato più di un mese, ormai, e… Ecco, lo sai quanto tengo a te. Ma ha senso continuare a parlare?”
18:43
“Rayo de Sol, non capisco cosa intendi…”
18:45
“Intendo dire che… Oh, non lo so neanche io cosa intendo. Forse avrei dovuto prepararmi un discorso.”
18:46
“Aspetta, stai dicendo che preferiresti che non ci sentissimo più…?”
18:48
“Non lo so. Voglio sapere cosa ne pensi tu.”
18:50
“Io non voglio smettere di parlare con te, però non voglio che tu stia male…”
18:50
“Intendo, so che abitiamo lontani, ma… Oddio, forse avrei dovuto prepararmi un discorso anche io perché non so cosa dire”
18:52
“Shiro mi ha detto che ciò che facciamo è da pazzi.”
18:53
“E perché? Siamo solo amici a distanza, che male c’è?”
18:55
“Penso sia questo il punto. Quello che intendo dire è… Tu sai che io non sto bene. Che sono un casino. Quindi perché continui a parlare con me?”
18:56
“Tu stai male quando ti scrivo?”
18:57
“Uh, no, non intendo dire questo…”
18:57
“Facciamo che ne parliamo quando avrai un discorso pronto? Perché mi stai confondendo, Rayo de Sol, e sto iniziando a tremare”
18:59
“Perché stai tremando?”
19:01
“Non voglio smettere di scriverti…”
19:01
“Perché?”
19:02
“Lo sai il perché! Perché ti voglio bene”
19:03
“Questo è il punto. Non pensi che ci illudiamo quando ci diciamo che un giorno ci vedremo? Come mai potremmo vederci?”
19:04
“Io… Non lo so, ma so che succederà…”
19:06
“Mi conosci da neppure un mese, non sai nulla di me e mi prometti che mi verrai a prendere. Capisci che non è una cosa credibile?”
19:08
“Pensavo che fossi d’accordo, non pensavo ti dispiacesse”
19:10
“Non mi dispiace. Cristo, darei tutto ciò che ho perché tu mi venga a prendere.”
19:11
“E allora non puoi semplicemente aspettare, e intanto continuare a parlare con me??”
19:12
“Okay, te lo dirò.”
19:12
“Cosa mi dirai?”
19:20
“Ti ricordi quando ti dissi che stavo male perché mi ero affezionato troppo a te? Quando ti chiesi scusa per essermi allontanato da te? Quando ti confessai che volevo tenerti nella mia vita? Era vero, era vero da morire. Ma non lo vedo possibile. Perché tu sei troppo lontano, okay? E io sono troppo incasinato. E nonostante ciò che provo per te penso sia il caso di chiuderla qui. Starò male, lo so già, ma non ho bisogno di illusioni, non in questo momento. Mi dispiace.”
19:25
“… Cosa intendi con ‘ciò che provo per te’?”
19:25
“Uhm”
19:25
“Adesso ti chiamo. Rispondi.”
 
E Lance lo fece. Lo chiamò.
Lo chiamò davvero.
Lance era in lacrime, aveva le mani che tremavano, gli occhi rossi, il cuore in gola che minacciava di uscirgli dalla bocca mentre il telefono squillava.
“Tanto non ti risponderà”, pensava, “Non ti risponderà mai”.
Poi sentì una voce.
 
« Uh… Pronto? »
 
Era lui. Era la sua voce. Incerta, tremula… Ma era la sua voce.
Lance rimase in silenzio per qualche secondo. Poi, parlò.
 
« Principessa…? »
« Non chiamarmi Principessa. »
 
Quindi quello era il tono con cui gli scriveva quelle parole. Secco… Ma marcato da un sorriso. Perché Lance lo sapeva, sapeva che lui stava sorridendo.
 
« No, no, zitto e lasciami parlare. Tu puoi anche non parlare, non importa. Non puoi chiedermi di non scriverti più e poi dirmi di provare qualcosa per me. Non mi importa se non sai manco il mio nome, davvero, non mi importa di sapere il tuo, e so che questa è una cosa da pazzi, perché la è e io mi sento un ragazzino senza speranze, ma non puoi chiedermi una cosa del genere. Diòs, Princesa… Che diamine provi per me? Non puoi pensare che io possa smettere di scriverti! Non hai la minima idea di cosa io faccia nelle mie giornate per guadagnare dei soldi! Per venirti a prendere, poi! Non dirmi di smettere di scriverti. Mi hai cambiato la vita, malediciòn, mi hai fatto aprire gli occhi, è grazie a te se ho trovato una singola, maledettissima gioia in questa schifosa esistenza, e ora mi chiedi di buttarla via? Dimenticatelo! Io… Non lo farò. Mi dispiace, ma non lo farò. »
 
Lance stava gridando. E piangendo. Gridava, poi abbassava la voce, singhiozzava e riprendeva a gridare, senza neppure dare il tempo all’altro di reagire.
Tuttavia, quando finì di parlare… Realizzò tutto ciò che aveva detto. Si sarebbe volentieri buttato dalla finestra anche solo per il fatto di averlo chiamato.
Ma ora voleva una sua risposta. Anche solo un “Addio”, ma voleva qualcosa.
E quel qualcosa giunse, dopo qualche secondo di silenzio.
 
« … Hai una bella voce. »
« Ti sembra che questo sia ciò che voglio sentirmi dir-… Oh… Grazie… »
« Prego. Ora posso parlare io? »
« Certo, io-… Scusa… »
 
Lance si mise seduto.
Non si sentiva molto bene la voce di quel ragazzo… Ma era bella. Era dolce, un po’ roca, anche se spezzata. Probabilmente anche lui stava piangendo.
Ma ora Lance voleva sentire cosa avesse da dire.
 
« Allora. » iniziò la voce al telefono, con un sospiro profondo « Per prima cosa, non chiamarmi se non ti do il permesso. Mi hai fatto prendere un colpo. E non sono nelle condizioni di prendere dei colpi. Secondo… Ecco, dovevo appuntarmi le cose da dire. Mi hai detto troppa roba. »
 
La voce di quel ragazzo, ora, era… Divertita? Lance non lo sapeva. Era chiaro che non parlasse come lingua madre quella che parlava Lance, aveva un accento estremamente carino, ma parlava comunque parecchio bene.
Il castano rimase in silenzio. Non voleva peggiorare la situazione.
 
« Non scusarti. Io… Oh, non lo so che mi prende a volte. Non so neppure cosa voglio. Come forse sentirai dalla mia voce, sto piangendo anche io. Non sono bravo con le parole, okay. Uh. Sì, prima ho scritto una cosa che non avrei dovuto scrivere. Quella cosa sul provare qualcosa per te. Vorrei dire che non lo intendevo. » e qui la voce si interruppe per sospirare, poi riprese « Ma lo intendevo. Provo qualcosa per te. E me ne vergogno, perché non so nemmeno chi tu sia. Ma sei tutto ciò che ho. E… Se so che non posso averti, preferisco allontanarmi da te. Perché sento di aver appena rovinato tutto. E, Dio, sto male da morire, okay. Ma starei peggio continuando ad attaccarmi a te sapendo di non poterti vedere piuttosto che perderti una volta per tutte. Quindi… Questo. »
 
Per dire tutto ciò, quel ragazzo ci aveva messo dieci minuti.
Ogni tanto si fermava, piangeva, sospirava, tossiva e si ricomponeva prima di riprendere a parlare con le frasi formali che era solito usare chiunque non parlasse frequentemente quella lingua.
In tutto ciò, Lance era rimasto immobile. Sdraiato sul letto, sopra alle coperte, con il telefono in mano, i denti stretti e le lacrime che gli sgorgavano dagli occhi.
Prese un sospiro profondo quando sentì quella voce bloccarsi per qualche secondo… E poi riprese a gridare.
 
« Ma quanto puoi essere idiota?! »
 
Non il modo migliore per iniziare un discorso, poco ma sicuro.
 
« Te l’avrò promesso dieci volte che ti verrò a prendere, malediciòn! Perché mai dovrei mentirti quando so che stai così?! Ti sembra che per me questa cosa tra di noi sia una stronzata?! Anche io provo dei sentimenti per te, huevòn! »
 
Gli aveva appena dato del “coglione”, sì. Ma tanto lui non avrebbe capito.
Ciò che avrebbe capito sarebbero state le parole prima.
E Lance era gelato solo nel pronunciarle.
Voleva chiudere la telefonata, scoppiare a piangere e accettare che non l’avrebbe mai più sentito, che lui stava male quando parlava con sé, e che quindi tutto ciò che aveva sognato in quelle settimane, andare via da Cuba, andare da lui, prenderlo e portarlo via, non sarebbe mai accaduto.
Ma quel ragazzo scoppiò a piangere ancora più forte.
 
« D-… Da-… Davvero…? »
 
Stava sorridendo. Lance glielo sentiva nella voce. Stava comunque piangendo, ma… Ma era come se le sue labbra fossero inarcate in un sorriso, mentre lacrimava, singhiozzava e parlava. Lance era confuso, confuso da ciò che aveva detto, confuso dalla situazione in generale. Ma parlò comunque.
 
« Non era ovvio…? »
« No che non era ovvio, i-idiota. »
« … E ora che si fa? »
« Uh… Non lo so, mi ero appena ripromesso che non ti avrei mai detto cosa provo per te, ma ormai penso che sia un po’ tardi. »
« Già… »
« Penso… Ecco… Quello che ti ho detto prima sul non sentirci più… »
« Sì…? »
« Cancellalo. »
« Volentieri. »
« Mh. »
« Ti senti… Meglio? »
« Sì e no. »
« Già, anche io. »
« Abbiamo fatto un casino? »
« Decisamente, Princesa. »
« Oh, ti prego, chiamami Keith. »
« Keith…? »
« Il mio nome. Keith. »
« … Il tuo nome. »
« Sì. Il mio nome. »
« Oh, uh, Lance. Piacere…? »
« Piacere mio, penso. »
« … »
« … Lance? »
« Sì? »
« Stai bene? »
« No. No, tipo, no. Per niente. Sto sorridendo come un idiota. »
« Oh… Anche io. E io non sorrido mai quindi, ecco, è strano. »
« Keith… »
« Dimmi. »
« Nulla. Mi piace il tuo nome. »
« Anche a me piace il tuo nome. »
« … Penso, ecco, è strano. Perché fino a poco fa ci stavamo gridando addosso, e… »
« Eri tu che gridavi. Io ero troppo nel panico. »
« … Hai ragione. Uh, senti, io, ecco, devo preparare la cena, e… »
« Non preoccuparti. Scrivimi pure sui messaggi. Se ti va, ovviamente, ecco. »
« Certo che mi va! »
« Allora… A dopo, uh, Lance? »
« Sì, a dopo… Keith. »
 
All’inizio della telefonata, entrambi erano in lacrime.
Alla fine, anche. Ma erano lacrime completamente diverse.
E lo smettere di sentirsi… Era fuori discussione.
 
 
NOTE FINALI:
Quindi, sì, Keith è più piccolo di Lance. Ed è disturbato come pochi, perché quando mai io scrivo di persone normali?
E… Si sono parlati. Una piccola gioia, suppongo… O forse no?
Ci vediamo al prossimo capitolo, e grazie ancora (E SCUSATEMI, SCUSATEMI DAVVERO) per aver letto questa… Cosa.
 

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Capitolo 8
*** capitolo 8 ***


Mi odierete. Io lo so che mi odierete, mi odierete da morire, ma devo farlo, capite? Devo, me l’ha detto Apollo quando mi ha ispirata.
Chiedo scusa soprattutto a chiunque, come me, sia o sia stato in una relazione a distanza. Ma vi giuro che le cose si sistemeranno.
Forse.
Buona lettura ♡
 
CAPITOLO 8
 
09/05, Varadero, Cuba, ore 16:12.
 
Erano passate meno di ventiquattro ore dalla telefonata tra Lance e Keith.
Lance aveva convocato d’urgenza i suoi amici, e ora erano nella sala da pranzo della sua scadente villetta nella periferia di Varadero.
Pidge era seduto a gambe incrociate su una delle sedie attorno al tavolo: era davvero basso, e le sue gambine esili gli permettevano di stare seduto in modi improponibili senza cadere di sotto. Hunk era seduto accanto a lui, con le braccia incrociate al petto e le folte sopracciglia corrugate sui piccoli occhi marroni.
Dall’altra parte del tavolo c’era Lance, in piedi, con le braccia distese lungo i fianchi e l’espressione di un assassino che stava per confessare un omicidio alla polizia.
I genitori e i fratelli di Lance erano tutti fuori di casa: la madre era da un’amica, il padre era al lavoro, mentre Dom aveva portato Lucil e Adrian in spiaggia a giocare.
Era il momento perfetto, perché Lance non voleva assolutamente che la propria famiglia ne sapesse qualcosa. Non ora.
 
« Allora, Lance? Perché ci hai convocati? » Pidge era decisamente curioso. Lui era quello che lo sosteneva di più in quella… Ragnatela di situazioni che si erano venute a creare. Hunk, invece, era più scettico. Diceva sempre cose del tipo “Ci soffrirai, Lance, smettila, stai attento”, cose del genere, ma Lance non poteva lasciarsi influenzare. Non dopo ciò che era accaduto.
Il castano prese un respiro profondo, mordendosi il labbro inferiore, sottile, secco, già graffiato a causa di tutti i morsi che ci tirava.
« Allora… Grazie per essere venuti. Adesso parlo io, quindi… Domande alla fine, grazie. » sussurrò Lance, appoggiando i palmi delle mani al tavolo. Voleva raccontare loro della telefonata, del fatto che lui e Keith si fossero detto i loro nomi, ma soprattutto… Voleva dire loro che si erano confessati a vicenda ciò che provavano l’uno per l’altro.
In maniera imbarazzata e non molto comprensibile, ma l’avevano fatto.
E ora era giunto il momento di aprirsi completamente con i propri amici.
« Io… Ieri sera, ho chiamato quel ragazzo. L’ho chiamato perché lui mi aveva detto che non voleva più sentirmi, e io non avevo capito, sono andato nel panico e l’ho chiamato. E, ecco… Mi ha detto che prova dei sentimenti per me e che aveva paura, e che per questo non voleva più sentirmi, ma poi io gli ho detto che anche lui mi piace, e lui si è messo a piangere, e anche io mi sono messo a piangere. E mi ha detto il suo nome. Si chiama Keith. E ha una voce, tipo, bellissima… Una cosa dolcissima, anche se piangeva quindi non l’ho capito bene, e aveva un accento strano! Ma era bellissimo. E… Niente. Tutto qui. »
Pidge e Hunk avevano gli occhi sgranati, le labbra leggermente schiuse, e nessuno dei due sapeva bene come reagire.
Passarono numerosi secondi di silenzio, ma Hunk fu il primo a parlare.
« Amico… Lo sai che ora non c’è più modo di tornare indietro, vero? » sussurrò, aggiustandosi con una mano i capelli neri nella fascetta che portava attorno alla fronte. Pidge sospirò, annuendo come a concordare.
« Cioè, potresti anche tornare indietro, ma… Ma non so chi ci starebbe peggio tra te e lui. Insomma, hai detto che lui soffre di attacchi di panicoe altre cose, no? E che tu sei probabilmente l’unica cosa che ha, quindi… » aggiunse Pidge, stringendosi nelle esili spalle mentre alzava lo sguardo su Lance.
Lance che aveva i denti serrati attorno al labbro inferiore.
« Hai ragione – sussurrò – ma io non… Non voglio smettere di sentirlo. A dire il vero, il motivo per cui vi ho chiamati qui è… Ho bisogno di un lavoro. »
Hunk sbatté le palpebre un paio di volte.
« Ma tu non lavori per tuo padre? »
« Sì, ma ho bisogno di soldi. Ho bisogno di molti soldi, e i miei genitori non devono sapere assolutamente nulla. Potrei lavorare al pomeriggio e alla sera… »
« E a che ti servono questi soldi? » chiese Pidge.
« Hai idea di quanto costino i biglietti aerei? »
 
 
10/05, Seul, Corea del Sud, ore 07:00.
 
Puntuale come sempre, la sveglia di Keith suonò alle sette.
Aveva lezione, quel giorno, ma anche quel giorno non ne aveva voglia.
Anche quel giorno non sarebbe uscito da lì una volta per tutte.
No, per quel giorno dovevano ancora passare mesi. Tanti mesi. Cinque mesi.
Aprì gli occhi stanchi, si tirò in piedi e, come prima cosa, prese il cellulare.
Era… Era il caso di scrivere a Lance? Il giorno prima, dopo la telefonata, non avevano parlato molto. Si erano solo fatti complimenti a vicenda sulle voci e sugli accenti che avevano quando parlavano, ma non avevano menzionato il fatto che si fossero dichiarati a vicenda.
Keith doveva ammetterlo: da un lato, era felice da morire. Pensava di aver rovinato tutto quando gli aveva scritto, senza pensare, quel “Nonostante ciò che provo per te”, e invece anche Lance gli aveva rivelato di provare sentimenti per sé.
Lance. Quello era il suo nome. Era un nome meraviglioso.
Ma, dall’altro lato… Ora non sapeva come comportarsi. Non aveva mai avuto una relazione, non aveva mai neppure pensato all’averne una, a dire il vero. Non aveva mai pensato che qualcuno potesse provare sentimenti per sé.
Da quella sera, da quando Lance era andato a dormire, non avevano più parlato. Lance non gli aveva scritto quando si era svegliato, ma Keith sapeva che fosse per via del lavoro. Era per via del lavoro, vero? In realtà, non lo sapeva. E, quella notte, il moro non aveva dormito per niente. Quella notte, lui l’aveva passata con gli occhi sgranati, a pensare e pensare, e piangere mentre pensava, e pensare mentre piangeva.
Aveva paura. Aveva paura di aver davvero rovinato tutto.
Osservò un poco lo schermo del cellulare… Digitando un messaggio.
 
09/05, Varadero, Cuba, ore 17:05.
 
« Peccato, con le tue gambe saresti bravo… »
« Non ho intenzione di fare lo spogliarellista, Pidge! » sbottò Lance, non riuscendo a credere di aver appena dovuto pronunciare quelle parole, e sia Pidge che Hunk scoppiarono sonoramente a ridere.
Nella tasca della felpa del castano, il telefono vibrò.
« Voi due continuate a pensare ad un lavoro decente. Io vado in bagno. » soffiò lui, correndo su per le scale.
 
17:05
“Buongiorno.”
17:07
“Buongiorno, Keith! ♡”
17:08
“Oh, è la prima volta che mi chiami per nome sui messaggi. Molto meglio di ‘Principessa’ e ‘Raggio di Sole’.”
17:08
“Nulla è meglio di ‘Principessa!!”
17:08
“Hai dormito bene?”
17:09
“Non molto. Puoi parlare? Non preoccuparti, non è nulla di grave.”
17:09
“Uh, a dire il vero sono nel mezzo di un discorso con Pidge e Hunk… Mi invento una scusa e li mando a casa, okay? Dammi un minuto.”
17:09
“Non è davvero necessario, può aspettare.”
17:12
“Lance?”
17:20
“Eccomi, ho detto loro che dovevo andare da mio padre e se ne sono andati. Aspetto che spariscano dietro l’angolo e torno in casa!!”
17:21
“Dico sul serio, non era necessario.”
17:23
“Non importa!! Di cosa volevi parlarmi?”
17:23
“Di, uh… Di quello che ci siamo detti ieri.”
17:24
“Sì, penso sia meglio parlarne…”
17:24
“Te ne sei pentito??”
17:24
“No. E tu?”
17:25
“Nemmeno io, assolutamente!”
17:25
“Quindi…”
17:26
“Quindi proviamo qualcosa l’uno per l’altro…”
17:26
“Sì. E quello che provo io è, ecco, forte.”
17:26
“Anche quello che provo io lo è…”
17:29
“Lance. Ti sto per dire una cosa. E te la dirò solo se tu sei sicuro, e intendo al cento per cento, che ci vedremo.”
17:29
“Novanta per cento basta?”
17:30
“Me lo farò bastare.”
17:30
“Esco da qui tra cinque mesi.”
 
Lance era seduto sul divano, con le gambe incrociate, la schiena rigida e il collo piegato verso il basso mentre teneva gli occhi fissi sullo schermo del computer.
Cinque mesi.
Aveva cinque mesi di tempo per mettere da parte i soldi.
Ce l’avrebbe fatta. Anche a costo di fare lo spogliarellista, ce l’avrebbe fatta.
 
17:31
“Allora sono già al novantacinque per cento!!”
17:31
“Speravo in una risposta del genere.”
17:32
“Solo… In questi mesi, sappi che ci sentiremo un po’ di meno, a volte!!”
17:32
“Come mai?”
17:35
“Avrò due lavori.”
 
 
Più di un mese dopo.
18/06, Santa Marta, Cuba, ore 23:30.
 
“Ti scrivo appena finisco di lavorare!!” aveva scritto Lance a Keith, come faceva ormai da qualche settimana.
Alla fine, l’aveva fatto davvero: aveva trovato un altro lavoro. A dire il vero, più di uno. Al mattino, dalle otto all’una, stava al supermercato del padre; al pomeriggio faceva il babysitter, il dogsitter, il catsitter, cose del genere; la sera, infine, lavorava come cameriere in un pub di Santa Marta, l’Amarillo.
Quest’ultimo lavoro era decisamente quello che disprezzava di più.
Aveva detto ai genitori di aver trovato lavoro in un bel ristorante, ma… In realtà, quel posto era tremendo. Non esteticamente, perché era grande, bello, e la clientela era composta per la maggior parte da ragazzi giovani, ma perché… Non era coperto.
Non il lavoro. Lance.
Fondamentalmente, aveva in parte seguito il consiglio di Pidge.
Non che fosse diventato uno spogliarellista! Solo, le mance erano molto, molto più abbondanti se si andava in giro senza maglietta a servire alcolici in un gay pub.
A dire il vero, erano altissime.
Bastava sorridere un po’, e alcuni arrivavano a lasciargli anche trenta pesos (nda: circa ventisei euro), a volte dandoglieli in mano, a volte infilandoglieli direttamente nelle tasche dei pantaloni.
Odiava quel lavoro, odiava finire all’una, a volte anche alle due di notte… Ma a quell’ora Keith era ancora sveglio, quindi riuscivano sempre a parlare un po’.
Anche a Keith Lance aveva rifilato la scusa del ristorante.
Se gli avesse detto che doveva far vedere i capezzoli per guadagnare un po’ di soldi, sarebbe stato Keith a nuotare da dove diamine abitava a Cuba. O a volare. Con ali vere, probabilmente, o costruite sul momento.
Ovviamente non erano ancora ufficiali, ma… Chissà, magari di lì a poco sarebbe successo qualcosa di grosso. A Lance piaceva pensarci.
Ma non aveva detto a Keith cosa avesse in mente di fare. Quella, oh, quella era una sorpresa. Gli aveva solo detto che si sarebbero visti, in ottobre, una volta che lui fosse uscito dal collegio… Ma non gli aveva detto come.
A dire il vero, Lance stesso non voleva metterci il cuore sopra.
Aveva già messo da parte parecchi soldi facendo tre lavori, ma c’erano state delle riparazioni alla macchina da pagare e c’era la spesa da fare e Lance sapeva di dover contribuire almeno per se stesso, per non essere un peso alla famiglia.
Doveva solo continuare così per altri quattro mesi.
… Se non fosse morto prima.
 
« Cubalibre? »
« Per me, dolcezza. » soffiò un ragazzo visibilmente più grande di sé, alzando appena il braccio. Era seduto in mezzo ad altri ragazzi, che erano già stati serviti.
Lance prese il bicchiere tra le dita, sentendolo gelido a causa del ghiaccio contro le proprie dita bollenti, e lo porse al ragazzo, che nel prenderlo gli sfiorò la mano.
« Hai una bella pelle. » sussurrò quello, e Lance finse un sorriso « Hai da fare, più tardi? » e Lance non sorrise più.
« Ho da dormire, più tardi. » esclamò sbattendo le palpebre, sforzando una risatina per non sembrare troppo scortese. Ma quel ragazzo era ostinato. A Lance dava fastidio, gli davano fastidio le persone che non sapevano stare al loro posto.
Lui aveva Keith, ed era Keith che voleva.
Nonostante non avesse mai visto il suo viso.
E, tristemente, il viso di quello sconosciuto, sotto le fioche luci del pub, era tremendamente bello. Era magro, la sua pelle era scura, ma i suoi capelli erano lunghi fino alla schiena e bianchi come una nuvola.
Se non ci fosse stato Keith, nella propria vita, Lance avrebbe persino potuto pensare di dirgli “Sì, sono libero”.
Ma Keith c’era eccome, ed era il motivo per cui Lance si trovava lì.
Senza rispondere ulteriormente, prese i bicchieri vuoti e tornò verso il bancone.
Ancora un’oretta. Ancora poco, e sarebbe stato libero.
 
Verso l’una, il proprio turno finì.
Si rivestì per bene, e corse via da quell’inferno in un battito di ciglia.
L’aria fuori era calda, bollente, anzi, nonostante fosse notte. Cuba era sempre calda, ma a Lance non aveva mai dato fastidio. Non fino a quel momento.
Sciolse la bici dal catenaccio alla quale l’aveva legata, ma non fece in tempo a salirci sopra. Una voce lo fermò, e subito dopo una mano sulla spalla.
« Ci si rivede, meraviglia. »
Era di nuovo quell’uomo, quello dai capelli bianchi, ora legati in un codino dietro le spalle, quello di poco prima.
Stava fumando una sigaretta, e il fumo che uscì dalla sua bocca arrivò dritto in faccia a Lance, che tossì sonoramente.
« Ti dispiace? Sto morendo di sonno. » soffiò il castano, scostando la sua mano dalla propria spalla e fissando lo sguardo nei suoi occhi giallastri. Mano che si posò sul proprio fianco. Occhi che lo guardavano fisso.
Lance si sentiva in soggezione.
Voleva correre via.
Da quando Keith era entrato nella propria vita, si era completamente dimenticato del mondo che lo circondava. Non aveva mai neppure pensato all’avere una relazione con qualcuno del luogo, qualcuno di vicino. Non ora che sapeva per certo che si sarebbero visti così presto. Tuttavia…
« Il mio nome è Lotor. E tu sei? » soffiò lo sconosciuto, e Lance impallidì.
Quell’uomo aveva un buon profumo, un misto di rum e muschio, e il fatto che fosse più alto di sé lo portava ad imporsi sulla propria figura, di gran lunga più esile.
Lance sbatté le palpebre.
“Potrei farlo”, pensò. “Potrei sporgermi un po’, baciarlo, andare a casa sua, sentirmi voluto da qualcuno che potrei veramente avere”.
Lo fece? No. Nemmeno per idea.
Lance era innamorato perso di Keith.
Lance voleva Keith. E Keith aveva i capelli neri, non bianchi.
« Il mio nome è Addio. » sbottò Lance, salendo in bici e scappando via, verso casa, con le mance ancora infilate nell’elastico dei boxer.
 
01:24
“Sono arrivato ora a casa… Sono a pezzi. Quel posto è fighissimo, ma mi fanno sgobbare parecchio!!”
01:25
“Lance, ciao. Mettiti in pigiama e vai a dormire, mh? Non voglio che ti stanchi.”
01:25
“Sì, sì, tra poco!! Tu come stai, invece?”
01:26
“Sto bene, ho finito da poco di pranzare, e tra una ventina di minuti ho lezione.”
01:27
“Divertiti!! Ci sentiamo appena mi sveglio?”
01:28
“Certamente. Uh, Lance?”
01:28
“Ti voglio bene. Grazie per tutto quello che stai facendo. Ma non stancarti troppo, okay? Riposa bene.”
01:30
“Ay, da dove arriva questa dolcezza? Sto benissimo, mh? Stasera mi hanno dato tantissime mance!!”
01:30
“Buona lezione, mio Keith ♡”
01:31
“Buonanotte, mio Lance.”
 
Perché, sì, avevano iniziato a chiamarmi “mio”.
Ed era questo a ricordare a Lance chi volesse davvero.
Nessun Lotor avrebbe mai potuto fargli provare ciò che Keith gli faceva provare con un semplice messaggio.
E Lance ne era convinto.
Per il momento.

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Capitolo 9
*** capitolo 9 ***


Signore e signori, buonasera!
In questo capitolo ci saranno quasi esclusivamente gioie, siete felici? Me lo auguro, perché non so quanto durerà. ♡
Scherzi a parte, buona lettura, sappiatemi dire e leggete le note finali!
 
CAPITOLO 9
 
30/06, Varadero, Cuba, ore 20:34
 
20:34
“Insomma che il gattino nero, che si chiama Joses, non è un maschio come io ho sempre pensato, ma è una femmina, ed è incinta!”
20:34
“Non è una cosa bellissima?!”
20:35
“La è. Più gatti ci sono al mondo, meglio sto.”
20:35
“Vero?? E poi Joses è così dolce e piccola! Non so che razza sia ma non è diventata molto grande quindi sembra una cucciola eppure è grande e sta per avere dei cuccioli ancora più piccoli!!”
20:35
“Mi piacerebbe vederla.”
20:36
“Ti mando una foto?? Ne ho una marea!”
20:36
Immagine inviata.
20:37
“Oh. Mio. Dio.”
20:37
“Qui è nel giardino della signora Montez, sta giocando con dei fiorellini!”
20:38
“Penso di essere appena morto di tenerezza.”
20:38
“Un giorno ci compreremo uno, anzi, cinque gatti!!”
20:39
“Mi sembra un’idea meravigliosa.”
20:39
“Per non parlare di tutte le foto che mi sono fatto con quella povera gatta!! Però mi adora quindi il massimo che fa è fare facce annoiate o mordicchiarmi il naso, ma in una foto mi dà persino un bacino!!”
20:41
“Mandamela.”
20:41
“… Ma ci sono io nella foto”
20:42
“Mandamela lo stesso.”
 
Lance aveva finito da poco di cenare, ed era seduto sul divano. Essendo domenica sera, fortunatamente non doveva andare al lavoro… Ed era un bene, perché fare da catsitter ad una micia incinta era parecchio stancante!
Il lavoro al pub gli stava andando bene: non aveva più avuto problemi simili a quello che aveva avuto con quell’uomo, Lotor. Lui non si era più fatto vedere, e Lance ne era davvero felice. Non voleva che qualcuno si immischiasse nella ‘relazione’ tra sé e Keith. E poi… Le mance erano comunque altissime!
Aveva già messo da parte parecchi soldi, ma sapeva che non sarebbero stati abbastanza per tre biglietti aerei. Insomma, uno di andata e due di ritorno.
Tuttavia, se avesse continuato così, ne avrebbe sicuramente guadagnati a sufficienza! E poi, ormai, si era abituato ad avere tre lavori. Era vero, non dormiva molto, e non parlava molto con Keith, ma quando parlavano era sempre bellissimo. Soprattutto quando si davano la buonanotte. Soprattutto quando lui lo chiamava “Mio Lance”.
 
Ma più nulla era accaduto.
Lance aveva fatto due più due e aveva capito che Keith dovesse avere diciassette anni, e non venti, perché in molti stati i diciotto anni erano considerati la maggiore età. In alcuni i ventuno, in alcuni i sedici, ma… Ma Keith gli sapeva di diciassettenne, non di quindicenne o di ventenne.
Non si erano rivelati nient’altro, menchemeno il volto.
Fino a quel momento.
Fino a quel “Mandamela lo stesso”.
Lance, titubante, osservò lo schermo del telefono. Erano passati quasi tre mesi da quando avevano iniziato a parlare, e mai una volta era saltato fuori quell’argomento. Lance aveva sempre voluto mostrarsi a Keith, ma lui non sembrava mai, ecco, disposto a vederlo o a farsi vedere.
E ora lui voleva vedere una propria foto.
 
Era una foto semplice: Lance indossava una canottiera azzurra e semplice, lievemente scollata, che lasciava intravedere giusto un poco le clavicole.
La qualità non era il massimo, perché la risoluzione dell’iPhone4 (rubatissimo) che gli avevano regalato tre anni prima era a dir poco indecente, ma si vedevano gli occhi azzurro cielo, la pelle color caramello, i capelli corti e castani, i denti bianchi aperti in un sorriso… E una micia nera con il nasino sulla propria guancia.
Lance osservò quella foto.
 
20:44
“Sei sicuro…?”
20:45
“Sicurissimo.”
20:47
Immagine inviata.
20:50
“… Keith?”
20:52
“Quello sei tu?”
20:53
“Beh, uh, sì…”
20:59
“Keith perché sparisci”
21:02
“Scusa, io”
21:02
“Sei stupendo.”
21:02
“Non pensavo che ti avrei mai visto.”
21:03
“Non avrei dovuto farlo.”
21:03
“Sei bellissimo, Lance.”
21:03
“E hai un gatto che ti dà un bacino, io… Non ci riesco.”
21:03
“KEITH KEITH CALMATI”
21:04
“Sono pure venuto malissimo sul serio calmati”
21:04
(((Anche se sono più emozionato di te ???)))
21:07
“Okay, sto bene. Solo. Per quanto ne sapevo avresti potuto avere cinquant’anni ed essere una donna. E invece sei davvero un ragazzo. E sei bellissimo.”
21:07
“Mi viene da piangere.”
21:08
“No, ehi, non piangere…”
21:09
“Tu mi farai mai vedere una tua foto?”
21:12
“Mai e poi mai.”
21:13
“Ma io ti ho mandato una mia foto!”
21:14
“Non importa. Non ho una grande autostima.”
21:15
“Oh, uffa!”
21:18
“Magari, un giorno.”
21:20
“Davvero???”
21:22
“Si vedrà.”
21:23
“Ho lezione. Ti scrivo dopo.”
21:24
“Uh, okay!”
 
 
01/07, Seul, Corea del Sud, ore 11:26
 
Keith non aveva nessuna lezione.
Sì, aveva rifilato una scusa a Lance per non sentirlo per un po’. Aveva bisogno di tempo, tempo per elaborare.
Era sdraiato a letto, Keith, con il telefono in mano… E gli occhi fissi su quella foto.
Era lui. Quello era il ragazzo che amava. Quel ragazzo con gli occhi dello stesso colore del cielo primaverile, con un sorriso così bianco e smagliante da far vergognare la neve, con la pelle simile a caramello; quello era il ragazzo con il quale aveva parlato per i precedenti mesi, il ragazzo di cui si era innamorato.
Keith tenne lo sguardo fisso sullo schermo del telefono. Non riusciva a crederci.
Non gli era mai importato dell’aspetto fisico di Lance; onestamente non gli sarebbe importato proprio nulla se fosse stato esteticamente brutto. Per Keith, l’unico essere umano al mondo era lui stesso.
Ma Lance non era solo ‘bello’… Lance trascendeva la bellezza, la dominava come un dio dall’alto della sua ingenuità, della sua innocenza.
Keith aveva letto troppe poesie, troppi libri di filosofia.
Si girò a pancia in su, tenendo il telefono sopra al viso, stretto tra le dita in modo che non gli cadesse sul naso.
Voleva quel ragazzo. Dio, lo voleva da morire.
Aveva fatto male a chiedergli una foto, non avrebbe mai dovuto farlo, avrebbe dovuto tenersi tutto segreto e aspettare la sorpresa. Invece non aveva resistito, nonostante tutto gli aveva chiesto la foto, e lui gliel’aveva mandata.
E ora Keith aveva gli occhi che vagavano sui dettagli visibili del corpo di Lance, sulle sue labbra sottili, sul suo collo magro e slanciato, sulle sue clavicole ben evidenti, sulle sue spalle perfettamente proporzionate.
E moriva dalla voglia di affondare i denti in quella pelle, in modo da sentire se avesse anche il sapore, oltre che l’aspetto, del caramello.
 
Keith non aveva mai provato nulla del genere.
Non ‘sentimenti’ o ‘amore’, quelli sapeva di non averli mai provati. Ciò che non pensava che sarebbe mai arrivato a provare era il desiderio.
Il desiderio per quel ragazzo, il desiderio di trovarsi quel viso accanto appena sveglio, ogni mattina della propria vita, di accarezzare quegli zigomi e di baciare quelle labbra, e quel collo, e quelle clavicole.
Il desiderio di stringersi al suo corpo, di sentirsi avvolto dalle sue calde braccia (perché nel suo pensiero erano calde, le braccia di Lance), di lasciarsi manipolare in qualsiasi modo dalle sue dita.
Keith prese un sospiro profondo.
Non aveva aperto le persiane, quindi la sua camera era ancora in penombra. Ed era lunedì mattina, quindi non c’erano lezioni. E la porta era chiusa.
E lui non aveva mai fatto ciò che stava per fare.
Non aveva mai fissato gli occhi su una foto, alzandosi la maglia fino al petto, immaginando che fosse qualcun altro a scoprire quel corpo orribile, esile e marchiato dalle cicatrici. Non si era mai sfiorato la pelle con le dita gelide, mordendosi le labbra al minimo tocco. Non era mai sceso con la mano più in basso dell’ombelico, tra le cosce magre, quasi troppo magre per reggerlo in piedi. Non aveva mai passato il palmo della mano tra di esse, sentendosi caldo proprio nel mezzo.
Non si era mai toccato in vita propria.
Non avrebbe mai voluto farlo.
Ma lo fece. Oh, se lo fece, gemendo tra i denti stretti il nome del ragazzo che amava.
 
10/07, Santa Marta, Cuba, ore 22:43.
 
Era un’altra serata come tante, all’Amarillo.
Di gente ce n’era, ce n’era fin troppa, ma più gente c’era, più erano le banconote infilate nell’elastico dei pantaloncini di Lance.
Quello non era male: ultimamente, grazie a quei soldi, era riuscito a prendersi cura di sé in maniera migliore, quindi aveva messo su un corpo un po’ più decente. A dire il vero, c’era persino un accenno di addominali!
Lance stava portando su un vassoio diversi bicchieri di alcolici, attento a dove metteva i piedi per non inciampare nei ragazzi che, in piedi, muovevano i fianchi al ritmo di musiche latino-americane. Oh, Lance amava quelle canzoni! Avrebbe voluto ballarle lui stesso, se solo avesse potuto!
« Ho due mojitos, una caipiroska e un cubalibre. » soffiò, in piedi di fronte ad uno dei tavolini del pub.
« Il cubalibre è per me, dolcezza. » soffiò una voce… E Lance sentì il sangue bollente nelle proprie vene gelarsi come un ghiacciolo. Alzò gli occhi. Era lui. Era Lotor, quell’uomo dai capelli bianchi e dagli occhi ipnotici che aveva chiaramente posato lo sguardo su di sé, una sera di qualche settimana prima.
Da allora, non si era mai più fatto vedere.
Ed ora era lì, era lì davanti a sé, con una mano che afferrava il cocktail che gli aveva appena porto. Lance sorrise con innocenza, fingendo di non ricordarsi di lui.
« Dovete pagarmi subito. » aggiunse con tranquillità, posando sul tavolo dei signori lo scontrino con un bel “25 pesos” stampato sopra.
50 pesos, però, furono quelli posati nel palmo della propria mano.
« Tieni il resto. » soffiò l’uomo, fissando gli occhi dorati nei propri, azzurri e lievemente arrossati dalla stanchezza. Lance sapeva di dover ringraziare a modo.
Arricciò le labbra, gli fece un occhiolino veloce, si voltò e se ne andò, muovendo con grazia i fianchi nel farlo.
Chiunque avrebbe potuto guardarlo; l’importante era che nessuno osasse alzare una mano su di sé.
 
Ma per Lotor quella regola non valeva.
Era mezzanotte e mezza, ma la serata sembrava ancora lunga.
Lance prese il telefono, determinato a prendersi una piccola pausa per scrivere a Keith, ma non ebbe il tempo di uscire dal locale, perché una mano robusta e bollente gli strinse il polso delicato, facendolo voltare.
« Non mi ringrazi per la mancia? » la voce di Lotor era bassa e roca, ma Lance riusciva a sentirla distintamente nonostante la musica alta.
Non ci voleva stare, lì. Voleva uscire e scrivere a Keith, sentirlo un po’, dirgli che si sarebbero sentiti meglio quando Lance fosse tornato a casa.
Ma Lotor non attese neppure un secondo, e prese a trascinarselo dietro verso il centro del locale, dove i ragazzi erano soliti ballare.
‘Ballare’ era una parola grossa: fondamentalmente si strusciavano gli uni sugli altri, scavalcando quasi il volume delle canzoni con i loro ansimi e suoni di labbra su pelli madide di sudore.
Era eccitante, come spettacolo… Ma non per chi lavorava lì come Lance, che era costretto a subirselo tutte le maledette sere.
« Ti pregherei di lasciarmi andare. » soffiò Lance, cercando di tirare indietro il polso… Ma Lotor non accennava a mollare la presa. Anzi, la intensificò, posando entrambe le mani sui fianchi morbidi del più giovane.
« Una canzone e ti lascio stare. » mimò quell’uomo con le labbra, mentre un terribile remix di “Dessert” di Dawin partiva in sottofondo.
Lance fece per tirarsi indietro ancora una volta… Ma gli occhi di Lotor si ancorarono nei propri. Una canzone, e poi lo avrebbe lasciato stare? Se Lance non avesse amato alla follia quella canzone, gli avrebbe detto di no.
 
Alla fine, era corso via.
Non aveva idea di come tutto fosse accaduto: per i primi dieci secondi tutto era stato normale, Lance sorrideva forzatamente, muovendo i fianchi al ritmo della musica, Lotor glieli accarezzava, ballando a sua volta, poi… Poi si era sentito completamente inebriato. Aveva perso la concezione di qualsiasi cosa, del tempo, dello spazio, della temperatura, e si era trovato a ballare, anzi, a strusciarsi contro il massiccio corpo del più grande, ad accarezzare i suoi muscoli, il suo petto, i suoi capelli, senza capirci più nulla. Sentiva solo… Profumo. Un profumo forte, virile, di muschio misto ad alcol. E quel profumo lo aveva mandato fuori di testa.
Ma quando Lotor gli si era avvicinato, viso contro viso, labbra a pochi centimetri le une dalle altre, Lance lo aveva spinto via, correndo via dalla pista e andando a rinchiudersi negli spogliatoi dello staff.
In lacrime.
Cosa diamine era successo? Quello… Lance non lo aveva mai voluto. E non gli era piaciuto. Non gli era piaciuto sfregare il culo contro l’inguine di quell’uomo, non gli era piaciuto inspirare il suo profumo direttamente dal suo collo, aveva odiato ogni singolo secondo. Eppure era seduto a terra, con le mani tra i capelli e un’erezione dolorante nei pantaloncini sottili.
Immobile, come paralizzato, Lance lasciò che le lacrime sgorgassero dai propri occhi. Perché era accaduto? Perché si era lasciato toccare così? Ma soprattutto… Perché non aveva fatto altro che pensare al nome di Keith?
Keith…
 
Bzz. Bzz.
Il proprio telefono vibrò.
Lance lo tirò fuori dalla tasca. Era Keith. “Visualizza immagine”, diceva lo schermo.
Immagine? Quale… Quale immagine?
Lance  sbloccò il telefono… Smettendo di respirare.
Gli aveva mandato una foto. Una sua foto.
La foto di un ragazzo allo specchio, con una felpona nera lunga fino alle cosce,  con i capelli neri lunghi fino alle spalle che gli ricadevano sul viso, con gli occhi verdi come il mare… Il ragazzo più maledettamente bello che gli fosse mai capitato di vedere. Il ragazzo che amava. Quello era il ragazzo che amava, il ragazzo che voleva toccare, il ragazzo con il quale voleva ballare Dessert tutta la notte, fino a svenire.
Quella foto era tutto ciò di cui aveva bisogno. Gli avrebbe risposto dopo.
Ora voleva solo scacciare dalla propria mente l’immagine orribile di quell’uomo che lo toccava con quelle sue robuste mani da adulto, e sostituirla con l’immagine delle dita di Keith, quelle lunghe, candide dita che reggevano il suo telefono nella foto.
Erano quelle le dita che lo stavano toccando, nella mente di Lance.
Erano quelle le dita infilate nei propri pantaloncini, strette attorno alla propria erezione, che lo facevano dimenare e gemere al buio in preda al piacere più violento che avesse mai provato, con la mente annebbiata, i sensi offuscati… E gli occhi fissi sullo schermo del telefono, anzi, sulle labbra di Keith.
 
11/07
00.49
“Keith”
00:50
“Perché cazzo hai visualizzato senza rispondere. Lo sai che sono paranoico. Lo so che faccio schifo. Ma ci tenevi, quindi te l’ho mandata. Okay? Okay. Ma almeno rispondimi. Dio.”
00:51
“Sono nello spogliatoio dello staff e”
00:51
“Aspetta”
00:53
“Okay, ci sono”
00:53
“Keith… Sei stupendo”
00:53
“Non lo dico per dire”
00:53
“Non so neanche come esprimermi”
00:53
“Non riesco a scrivere perché mi tremano le mani”
00:54
“Mierda, Keith, sei il ragazzo più bello che io abbia mai visto, dios, mi piaci così tanto che mi viene da piangere…”
00:56
“Okay, Lance, ora calmati.”
00:57
“Ascolta, ti scrivo domani, okay? Sto andando a casa e non posso davvero scrivere, non posso reagire come vorrei reagire”
00:57
“Perché non puoi…?”
00:58
“Perché stp piangwndo e non cu lwggo”
01:00
“Sei serio-? Ti piaccio davvero?”
01:02
“Dpmani ti dirò mwglio quanto mi piaci, promwsso”
01:02
“Buonanotte, mio Lance.”
01:03
“Buunantte amirw”
01:05
“Primo, qui non è notte, e lo sai. Secondo, sei ubriaco? Terzo… Mi hai appena chiamato ‘amore’?”
01:10
“Sì, sei ubriaco. Buonanotte.”
 
Lance era tutto meno che ubriaco.
Probabilmente era fatto, probabilmente gli avevano dato qualcosa, uno stupefacente o una droga, perché si sentiva completamente annebbiato.
Ma ragionava benissimo. Sapeva di essere in un vicolo vicino all’Amarillo.
Sapeva di essere in lacrime, sapeva che gli tremavano le mani a causa di ciò che aveva appena fatto, sapeva di avere le dita sporche di secco liquido bianco.
Ma, peggio ancora, sapeva di aver chiamato Keith “amore”.
 
 
NOTE FINALI:
Qui trovate la canzone che balla Lance all’Amarillo, vi invito assolutamente ad ascoltarla perché è la mia fissa:
https://www.youtube.com/watch?v=D47ZdJ2Ae-0
Allora, contenti? Un po’ di quasi-sexting (non temete, arriverà anche quello) fa sempre bene al cuore.
Alla prossima!

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Capitolo 10
*** capitolo 10 ***


E quindi, dopo le gioie del capitolo scorso, ho pensato bene di darvene altre.
Mi sento generosa, in questi giorni… Forse fin troppo. Vedrò di rifarmi. Non mi piace essere troppo buona con i miei personaggi.
Ma per ora vi dono un po’ di cose belle, su.
Buona lettura!
 
CAPITOLO 10
 
11/07, Varadero, Cuba, ore 10:43
 
Lance aprì debolmente gli occhi, sbattendo un paio di volte le palpebre ornate dalle lunghe ciglia scure. La luce che filtrava dalla finestra della propria camera era forte, e dava parecchio fastidio ai propri occhi chiari e stanchi.
Cosa diamine era successo, la sera prima? Gli ci volle qualche secondo per ricostruire la situazione.
Era stato al pub, aveva lavorato, non era successo nulla di che… Poi, era arrivato Lotor. E Lance aveva ballato ‘Dessert’ con lui. E da quel momento in poi tutto era estremamente confuso. Si ricordava concretamente, tuttavia, di essersi sentito annebbiato, confuso e… Terribilmente eccitato. Si ricordava di aver iniziato a strusciarsi sul corpo robusto di quell’uomo, di averlo accarezzato, di essersi lasciato andare come non aveva mai fatto prima, e, soprattutto, di aver sussurrato il nome di Keith nel farlo.
Keith. Ecco la cosa importante. Keith gli aveva mandato una foto.
Lance tenne gli occhi chiusi, sforzandosi ancora e ancora di ricordare. Quando Lotor aveva provato a baciarlo, era corso via nello spogliatoio e aveva iniziato a piangere.
In quel momento gli era arrivata la foto di Keith. Lance non ricordava molto, di quella foto… Ma ricordava perfettamente di averla guardata per cinque minuti buoni, con i denti stretti, con le lacrime che gli invadevano le guance, con una mano nei pantaloncini azzurri lunghi, o meglio, corti fino a metà coscia.
« No… No puede ser… » sussurrò tra sé e sé, con la faccia letteralmente affondata nel morbido cuscino del proprio letto. Che diamine aveva fatto?! Gli era bastato guardare la foto di Keith per iniziare a toccarsi… Ma in che condizioni era?!
Qualcuno doveva avergli fatto qualcosa. Magari Lotor gli aveva dato una droga senza che se ne accorgesse, perché non aveva bevuto niente se non acqua.
Magari gli aveva davvero messo qualcosa nell’acqua! Cioè, lo aveva fatto sicuramente. Perché, da quel momento in avanti, Lance non ricordava più nulla. Ma era estremamente felice di essere a casa propria.
Allungò una mano, afferrando immediatamente il telefono.
Era… Tardissimo, maledizione-! Perché il padre non l’aveva svegliato per andare al lavoro? Che accidenti di giorno era?
Oh. C’erano dei messaggi, nella conversazione con Keith, messaggi che Lance gli aveva mandato la sera prima dopo aver fatto… Beh, quello.
 
Oh, Dio.
« No, no, ¿qué hice? Diòs… » lance non riusciva a staccare gli occhi dallo schermo del telefono. Non per la foto, no… Ma perché lo aveva chiamato “Amore”, cazzo!
Cioè, a dire il vero lo aveva chiamato “Amirw”, ma lui aveva capito! E aveva pensato che fosse ubriaco… Ma non era vero! Era solo… Fatto-!
Ma come avrebbe potuto spiegarglielo, senza dirgli che il proprio lavoro consisteva nel servire tavoli mezzo nudo in un gay bar e non elegantemente vestito in un ristorante di lusso, come gli aveva detto?
Immediatamente, digitò un messaggio.
 
10:46
“KEITH”
10:46
“kEITH dimmi che sei sveglio, ti prego”
10:46
“Anche se da te penso che sia tardissimo… Ma ho bisogno di parlarti!!!”
10:47
“Tranquillo, tranquillo, sono sveglio. Che succede?”
10:47
“Ti ho svegliato io??”
10:49
“Non importa. Mi spieghi che è successo ieri sera?”
10:49
“Sì! Ecco, io… Non so come spiegarlo…”
10:50
“Non so come funzionino gli attacchi di panico, ma quando mi hai mandato la tua foto penso di averne avuto uno”
10:52
“… Cosa?”
10:53
“Spiegami come funzionano gli attacchi di panico per te!!”
10:55
“Io, uh… Si annebbia tutto, non capisci più niente e inizi a sentire il mondo che ti crolla addosso, poi inizi a piangere fino a non riuscire a respirare e non smetti per un sacco di tempo, a volte inizi anche a gridare. Ma è un sentimento bruttissimo e se la mia foto te l’ha causato giuro che mi sentirò in colpa fino alla morte.”
10:57
“No, okay, non era un attacco di panico…”
10:58
“Si è annebbiato tutto?”
10:58
“Sì-“
10:58
“Hai pianto?”
10:58
“Sì…”
10:59
“Ti sei messo a gridare?”
11:02
“Dipende… Ti sei mai toccato durante un attacco di panico?”
11:04
“… No?”
11:05
“Allora non era un attacco di panico… Però poi non mi ricordo più niente, ero nello spogliatoio del ristorante e poi in qualche modo sono arrivato a casa”
11:06
“Lance.”
11:07
“Uh, sì…?”
11:09
“Ti sei per caso masturbato sulla mia foto nello spogliatoio del ristorante in cui lavori in preda ad una crisi di pianto?”
11:11
“… Forse.”
11:12
“Sei… Squallido. Non so se sentirmi onorato, imbarazzato o disgustato.”
11:13
“Keith, ero praticamente fatto! Probabilmente c’era qualcosa nell’acqua, mi sono sentito stranissimo e poi tu mi hai mandato quella foto ed è andata a finire così…”
11:15
“Ero praticamente tutto coperto. Con i capelli davanti agli occhi. E una felpa letteralmente enorme. Come diamine hai fatto ad eccitarti.”
11:16
“Oh, ma che ne so??? Penso sia successo e basta! Ero emozionato!”
11:17
“Ti prego, non parliamone mai più. Mai più. E non ti manderò mai più una mia foto ora che so come reagiresti.”
11:17
“NO NO KEITH è successo solo ieri sera e perché ero strano!! Non accadrà mai più! Mandamene ancora, per favore!!”
11:19
“Sicuramente non adesso. Sono quasi le due di notte, qui.”
11:20
“Woah, oddio, scusa!! Vai a dormire!!”
11:21
“Come pretendi che io dorma, con quest’immagine in mente?”
11:21
“L’immagine di me fatto?”
11:24
“L’immagine di te che ti tocchi, stupida testa di cazzo.”
11:25
“Oh”
11:25
“Pensa a me fatto, magari ti distrae-!!”
11:26
“Comunque Keith, prima che tu vada, visto che ieri sera non sono riuscito a dirtelo bene”
11:27
“?”
11:27
“Sei… Davvero bellissimo. E non lo dico perché sono di parte!! Sei davvero stupendo e mi sento fortunato da morire ad averti nella mia vita. Un giorno sarò io la tua felpa e ti abbraccerò tutto!!”
11:28
“Io… Davvero? Cioè, oddio, grazie. Sono davvero felice che lo pensi.”
11:29
“Davvero… Adoro il tuo viso, è così dolce, Dio, voglio riempirtelo di baci”
11:30
“Lance, ti prego, smettila…”
11:30
“Piuttosto. C’è una cosa che devo chiederti.”
11:30
“Rispondimi onestamente.”
11:31
“Dimmi!!”
11:32
“Ieri sera… Volevi chiamarmi ‘Amore’ o ti è solo partita la tastiera?”
11:35
“Ti rispondo onestamente e ti dico: non ne ho idea… Non me lo ricordo per nulla! Sono sicuro che qualcuno mi abbia fatto uno scherzo e mi abbia drogato o qualcosa del genere, ma non ricordo quella parte…”
11:35
“Ti sei, uh, arrabbiato?”
11:36
“No. Ero solo parecchio stranito, ma ho assunto che avessi bevuto. Anche se forse sarebbe stato meglio così, piuttosto che saperti fatto di qualcosa. Stai attento.”
11:37
“Starò più attento, promesso!! Ora vai a dormire, uh?”
11:38
“Sì, sarà meglio. Buona giornata, Lance, ti scrivo appena mi sveglio.”
11:39
“Buonanotte, mio Keith!! Fai sogni d’oro!”
 
 
12/07, Seul, Corea del Sud, ore 02:40
 
‘Sono un idiota’, questo era tutto ciò a cui Keith riusciva a pensare.
Per tutte quelle ore, per tutto quel tempo, il moro si era illuso che Lance lo avesse davvero chiamato ‘Amore’, ma non era così. Erano solo sentimenti lievi, quelli che lui provava per sé. Era Keith quello innamorato, non Lance. A Lance poteva piacere Keith, Lance poteva provare desiderio per sé, ma non poteva amarlo come lo amava lui. Perché, se così fosse stato, una persona estroversa come Lance non sarebbe riuscita a tenersi dentro un sentimento così forte.
Piuttosto. Desiderio…?
Lance gli aveva detto di essersi toccato pensando a sé, in quella situazione, e lo aveva fatto con una leggerezza tale da far arrossire Keith come un pomodoro maturo. E Keith stesso gli aveva detto di trovarlo disgustoso, quando lui era stato il primo a sfogare la propria frustrazione baciando lo schermo del telefono con la foto di Lance… E non era fatto o ubriaco, quando ciò era accaduto!
Il moro si girò su un lato, chiudendo gli occhi.
Doveva assolutamente levarsi l’immagine di Lance, sudato e confuso, chiuso in un angolo con una mano tra le cosce. Non poteva assolutamente accadere di nuovo ciò che era successo qualche giorno prima. Non si sarebbe mai più toccato pensando a lui, era squallido, era inutile e lo metteva a disagio.
Ma ci mise ancora mezz’ora per prendere sonno.
 
 
11/07, Varadero, Cuba, ore 12:02
 
« Buongiorno, dormilòn! Stai bene? Tuo padre ti ha visto molto stanco, quindi ti ha lasciato dormire. » sussurrò la madre, vedendo il figlio scendere le scale che portavano in sala da pranzo con le stesse movenze di un morto che camminava.
Lance sorrise lievemente, annuendo piano, e la aiutò subito a preparare il pranzo.
Cucinare lo aiutava a pensare, e aveva bisogno di pensare. Aveva davvero chiamato Keith ‘Amore’, quindi. E si era davvero toccato pensando a lui.
Non che non l’avesse mai fatto, insomma, per i ragazzi come lui era normale alleviare la tensione in quel modo, ma… Ma la sera precedente, oh, era stato bellissimo. Davanti alla foto di Keith, ad immaginare le sue mani, le sue labbra, il suo corpo sotto al proprio, o sopra, non gli importava… Era stato magico.
E non si pentiva di averglielo detto.
Non avrebbe avuto altre spiegazioni logiche per la sera prima! La cosa importante era tenere segreto il pub in cui lavorava. Keith avrebbe dato di matto, e questo non era ciò che Lance voleva.
Piuttosto… Lance amava Keith? Non lo sapeva. Era difficile da dire.
Sapeva di non volere nessun altro, accanto, se non lui.
Sapeva di aver rifiutato le attenzioni di uno degli uomini più belli che avesse mai visto solo per l’idea che, un giorno, avrebbe incontrato Keith.
Sapeva di essersi eccitato immaginando che quell’uomo fosse Keith.
Ma l’amore… Lance non sapeva cosa fosse l’amore.
Provava per Keith sentimenti che non aveva mai provato per nessuno, questo era chiaro: protezione, desiderio, affetto, emozioni fortissime, che rasentavano la dipendenza. Per lui stava facendo di tutto, stava lavorando tutto il giorno tutti i giorni solo per andarlo a prendere, nonostante di lui sapesse ancora troppo poco.
Aveva annotato tutte le sue caratteristiche in un quadernetto che aggiornava tutte le sere prima di andare a dormire, che rileggeva per saper sempre cosa dirgli quando stava male, quando era felice, quando si annoiava o quando, semplicemente, non sapevano di cosa parlare.
Non pensava ad altro che a lui. Giorno e notte, il proprio primo pensiero era Keith, ed era così da mesi e mesi.
 
Ma amarlo…? Quella era una cosa diversa, no? Lance non lo sapeva. Ma avrebbe dato oro per scoprirlo al più presto. Perché ormai mancavano solo tre mesi. Tre mesi… E Keith sarebbe uscito dal collegio.
« Mamà, dov’è Dom? »
« In garage, sta dando un’occhiata alla macchina! »
Lance corse fuori, raggiungendo il fratello maggiore che, con le maniche tirate su, avvitava un bullone nel cofano dell’automobile di famiglia.
Dom era estremamente bravo nel suo lavoro: amava riparare le macchine, gli era sempre piaciuto fin da quando era bambino, ed era una fortuna per la famiglia McClain, che di soldi per un meccanico proprio non ne avrebbe avuti.
Sentendo arrivare il fratello minore, Dom tirò la testa fuori dal cofano della macchina, e gli rivolse un sorriso ornato da una riga di denti perfettamente dritti e bianchi come il marmo.
« Ay, come sta il mio hermanito? » esclamò, notando chiaramente l’espressione di stanchezza mista a morte sul volto di Lance.
« Domingo, devo parlarti. » rarissime volte Lance aveva usato il suo nome intero, per chiamarlo. Dom lo notò, e sembrò rabbrividire sul posto.
« Non mi chiami così da anni. Che ti succede? »
« Devi spiegarmi cosa significhi ‘amare qualcuno’. »
 
Dom corrugò le sopracciglia folte e chiare, piegando appena il viso di lato. Era chiaro che una domanda del genere da parte di un ragazzo come Lance lo avesse lasciato interdetto. Nonostante ciò, incrociò al petto le braccia sporche di olio, appoggiandosi con la schiena al cofano dell’automobile.
« Perché? Sei innamorato, hermanito? » gli chiese divertito, facendogli cenno di avvicinarsi in modo da poter continuare a manovrare con i vari cavi e bulloni della macchina mentre gli parlava.
« Tu sai che io sono stato innamorato solo una volta, quindi ti dirò solo ciò che so per esperienza personale. Quando ero fidanzato con Marina, penso che sarei anche morto se lei me l’avesse chiesto. A volte mi faceva dare di matto, lo sai, a volte stava male e io non sapevo come tirarla su, ma mi sarei tagliato le vene pur di renderla felice. E anche se ora non stiamo più insieme, non mi pento di nulla. » Dom non guardava Lance in faccia, mentre parlava, ma era chiaro che stesse sorridendo.
« Essere innamorato è tanto bello quanto terribile. Accade che tu diventi dipendente dalla felicità della persona che ami, anzi, da lei in generale, e che vorresti solo stare con lei, e che faresti di tutto per stare con lei e ti venderesti pure l’anima per vederla sorridere. E non riesci a smettere di pensare a lei neppure per un secondo, e tutto ciò che vedi, tutto ciò che ti accade, tutte le canzoni che ascolti, tutti i posti in cui vai, ricolleghi tutto a lei. E vorresti solo averla completamente nella tua vita, attirarla a te, e se ciò non accade sei… Sei triste. Capisci cosa intendo, Lancey? L’amore è bellissimo, anche se ti distrugge. Ne vale comunque la pena. »
 
Lance aveva capito benissimo cosa Dom intendesse.
E, come aveva detto lui, ogni parola che fosse uscita dalla sua bocca, il castano l’aveva ricondotta a Keith.
Il voler ballare ‘Dessert’ con lui, non con Lotor, non con nessun altro, e così tutte le canzoni che amava, tutta la discografia di Shakira e di Lady Gaga, e ballare con lui in sala, in giardino, per le stradine di quella città, di notte e di giorno.
Il volerlo portare sulle spiagge di Varadero, mangiare il gelato d’inverno con lui in costume da bagno all’ombra delle palme e stare lì seduti tutto il pomeriggio, aspettando insieme il tramonto.
Il volerlo al cento per cento nella propria vita, così da potergli regalare tutte le rose bianche del mondo anche solo per vederlo sorridere per un secondo.
Tutto ciò gli salì alla mente, e fu in quel momento che capì.
Non importavano i chilometri, non importavano i mesi.
Sapeva di Keith tutto ciò che doveva sapere, e ciò gli bastava per amarlo.
 
Ma non gliel’avrebbe detto. No, avrebbe aspettato.
Avrebbe aspettato che quei mesi passassero, e glielo avrebbe detto faccia a faccia.
Si sarebbe trattenuto, e solo una volta che lo avesse avuto davanti glielo avrebbe detto, gli avrebbe detto ‘Keith, io ti amo, e ora ti porterò via con me’.
 
Ciò che doveva fare ora, era licenziarsi da quel pub.
Non avrebbe mai detto nulla a Keith, ma non voleva più dirgli bugie, per quanto fossero a fin di bene. Non voleva rischiare, perché stava rischiando grosso, e se i propri genitori o Keith stesso l’avessero scoperto tutto sarebbe andato in frantumi.
Lance non era mai stato maturo come lo era da quando aveva conosciuto Keith.
 
 
12/07, Varadero, Cuba, ore 23:36
 
23:36
“Stasera non vado al lavoro, comunque! Ho una novità”
23:37
“Ovvero?”
23:37
“Mi sono licenziato! Ho trovato un posto decisamente migliore e la paga è molto più alta, ed è anche più vicino a casa mia!”
23:38
“Ne sono felice, Lance. Quando inizi?”
23:38
“Domani sera! Ho avuto il colloquio oggi pomeriggio e vogliono tenermi in prova, quindi domani sera farò il primo servizio e vedranno come sono bravo!”
23:39
“E come sei modesto, soprattutto.”
23:40
“Certo che sono modesto!!”
23:40
“E tu? Hai lezione oggi?”
23:41
“Sì, ma tra quattro ore. Adesso sono in camera a finire di riordinare.”
23:42
“Sei proprio un maniaco dell’ordine!!”
23:43
“Lance, è sera lì da te, giusto?”
23:44
“Uh, sì!”
23:46
“Sei in camera tua?”
23:47
“Sì, a dire il vero dormono già tutti… Perché?”
23:50
“Vorrei parlarti di una cosa. Non preoccuparti, non è nulla di brutto.”
23:51
“Va bene, dimmi tutto!”
23:53
“Riguarda ciò che mi hai detto l’altro giorno. Su ciò che hai fatto al ristorante dopo che ti ho mandato la foto.”
23:54
“Sei… Arrabbiato?”
23:55
“No. Perché l’ho fatto anche io. A dire il vero… Mi eccita solo il pensiero.”
 
Lance sbatté le palpebre e inspirò a fondo.
Doveva trovare la risposta giusta. Ma, per prima cosa… Ringraziò chiunque ci fosse in cielo che tutta la propria famiglia stesse già dormendo.

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Capitolo 11
*** capitolo 11 ***


Fondamentalmente, questo capitolo è un sexting unico. Fyi.
A dire il vero sto accontentando le richieste di varie amiche (e del mio subconscio, perché in realtà è ciò che voglio anche io), ma suppongo che un po’ di gioie non facciano mai male, no?
 
Perdonate il lessico ‘leggero’, è comunque un rating arancione e non rosso.
Magari un giorno scriverò qualcosa a rating rosso. Anzi, nero. Nero come il carbone, proprio. Una cosa da manicomio.
Ma per ora dovrete accontentarvi di questo.
 
Besitos, spero apprezzerete!
 
CAPITOLO 11
 
12/07, Varadero, Cuba, ore 23:55
 
Faceva caldo.
Certo, faceva sempre caldo, a Cuba... Ma quello era un caldo diverso. Era un caldo che avvolgeva il ragazzo dai capelli castani e dagli occhi azzurro cielo fin nelle ossa, entrandogli nei muscoli lievemente accennati, nel midollo, nei pori della pelle dello stesso colore di un marshmallow bianco immerso in una fiamma, appesantendo i suoi arti e, quindi, il suo intero corpo.
Era un caldo più figurato che altro, a dire la verità.
Lance si tirò su con il busto, nel buio della propria camera.
Le stelline fluorescenti che aveva attaccato al soffitto quando era solo un bambino erano le uniche forme a vegliare su di sé. Quelle e la luna, che fuori dalla finestra aperta illuminava indistintamente ogni zona di terra e di mare, estranea ed indifferente al mondo umano, lontana, troppo lontana perché gliene importasse qualcosa di qualcuno come Lance.
E Lance la osservò per qualche secondo. Ma non era la luna ad essere al centro dei propri pensieri.
 
Era qualcosa di completamente diverso.
Era quel messaggio di Keith.
"No, perché l'ho fatto anche io".
"Mi eccita il solo pensiero".
Quelle due frasi avevano lasciato Lance immobile, abbandonato solo al proprio respiro.
Erano successe troppe cose in troppo poco tempo.
Gradualmente, a poco a poco, erano venuti a scoprire sempre più cose l'uno dell'altro... Ma ultimamente, una dopo l'altra, le informazioni erano saltate fuori come funghi durante le prime piogge autunnali.
Prima il sesso, poi la voce, poi il nome... E ora il viso.
Ora entrambi conoscevano l'uno il viso dell'altro, ne conoscevano le parti principali, il colore e la grandezza degli occhi, lo spessore e il colore delle labbra, la forma il naso, i lineamenti degli zigomi, il colore e la lunghezza dei capelli, la sfumatura di rosa più o meno scuro a cui tendeva la pelle.
 
Ma era un altro ancora l'argomento che era venuto fuori. Non la luna, non il viso l'uno dell'altro, ma il fatto che, l'uno pensando all'altro, si fossero toccati.
Perché anche Keith si era toccato davanti alla propria foto. Lance non lo sapeva, non avrebbe mai potuto immaginarlo, e menchemeno se lo sarebbe aspettato, da qualcuno di calmo e pacato come Keith. Keith che era stato il primo a criticarlo, quando gli aveva confidato cosa fosse accaduto al ristorante! E ora ammetteva di aver fatto la stessa cosa. E lui non era stato drogato quando l'aveva fatto. Lo aveva fatto spontaneamente, trasportato dal desiderio e dall'eccitazione e dalla curiosità, e nulla di più.
Ma Lance non sapeva nient'altro.
E aveva parecchia voglia di scoprire di più.
 
23:58
"Quindi... L'hai fatto anche tu?"
00:00
"Te l'ho appena detto, no?"
00:01
"Sì, no, sì, giusto..."
00:03
"Sei... Arrabbiato?"
00:05
"A dire il vero penso di esserne fin troppo contento-.."
00:05
"È almeno stato bello??"
00:06
"Non lo so. Non ho termini di paragone, non l'avevo mai fatto prima. Ma è stato piacevole."
00:07
"Davvero non lo avevi mai fatto prima? Cioè, non ti sei mai neppure sfiorato??"
00:09
"Mai. Non mi sento a mio agio con il mio corpo."
00:10
"... E perché l'hai fatto, allora?"
00:12
"... Perché ne ho sentito il bisogno, ovviamente."
00:13
"Questa conversazione è strana"
00:13
"Ma io mi sono sentito benissimo mentre lo facevo!! Ero tutto assorto nella tua foto e penso di aver gridato parecchio, onestamente è anche per quello che mi sono licenziato, ho paura che qualcuno mi abbia sentito..."
00:14
"Almeno io ero chiuso in camera e sicuro di essere da solo, quando l'ho fatto."
00:15
"Non prendermi in giro!!"
00:15
"Comunque... Perché me l'hai voluto dire??"
00:17
"Per nessun motivo in particolare. Pensavo fosse giusto che tu lo sapessi."
00:18
"Oh, beh... Allora conserverò cara questa informazione!!"
00:20
"Dovremmo fare finta che sia una cosa da nulla?"
00:21
"Dimmi cosa ne pensi tu..."
00:23
"Per me è strano. Non pensavo che qualcuno potesse provare, ecco, qualcosa del genere per me. E invece tu lo provi, e me l'hai anche detto con leggerezza."
00:25
"A dire il vero, è stato l'orgasmo più forte che abbia mai avuto--"
00:27
"Oh, quindi sei stato con altre persone, prima?"
00:28
"... A dire il vero, no"
00:28
"Intendevo, ecco... Dato da me stesso ???"
00:30
"Oh. Bene. Penso."
00:30
"Ovviamente, neppure io sono mai stato con nessuno."
00:30
"Ma mi fa strano sapere di te. Sei un donnaiolo, pensavo che almeno qualcuna ci fosse stata."
00:32
"Questo è un colpo bassissimo al mio orgoglio"
00:33
"Ops, scusa!"
00:34
"Sarcasmo?"
00:34
"Come sempre."
 
Lance non era sicuro di dove Keith sarebbe andato a parare con quel discorso, ma era pronto a tutto.
Cioè, più o meno a tutto... Perché l'idea che quel ragazzino così piccolo in confronto a sé, almeno di corporatura, si fosse messo una mano tra le cosce, Dio, gli faceva infiammare le guance.
Socchiuse gli occhi per qualche secondo, immaginando la scena.
Le dita che reggevano il telefono nella foto che Keith gli aveva mandato erano corte, sottili, quasi ossute, candide ed eleganti.
Non si distingueva bene il suo corpo sotto a quella felpa così larga, ma le sue cosce si intravedevano... Ed erano magre, coperte da un paio di pantaloni grigi, e... E Keith poteva metterci le mani quando voleva.
Lance deglutì sonoramente, con il telefono stretto tra le dita.
E il suo viso, poi... I suoi occhi color grigioverde, il suo naso sottile e dai lineamenti dolci, e le sue labbra così carnose e morbide anche attraverso uno schermo del cellulare... Quelle labbra si erano schiuse, mentre si toccava? E quegli occhi erano diventati tutti lucidi, mentre stringeva i denti tutto eccitato, dimenandosi sul letto?
Lance riaprì gli occhi, sentendosi andare a fuoco.
 
00:38
"Non avremmo mai dovuto iniziare questa conversazione..."
00:40
"Sono d'accordo con te."
00:40
"Perché?"
00:41
"Per una serie di vari motivi."
00:41
"Sarebbe imbarazzante se ti scrivessi senza filtrare ciò che penso?"
00:42
"Non sono uno che si imbarazza facilmente, mio Keith..."
00:45
"Vorrei che tu fossi qui."
00:45
"Anche io vorrei essere lì, con tutto me stesso"
00:46
"Nessuno ha mai visto il mio corpo. Non pensavo che avrei mai voluto mostrarlo a qualcuno."
00:47
"Probabilmente se tu fossi qui non te lo mostrerei, ma non ci sei, quindi ti dispiace se immagino di mostrartelo?"
00:48
"Non mi dispiace assolutamente"
00:48
"Se lo vedessi, lo tratterei come se fosse una piuma"
00:49
"Mi accarezzeresti, se fossi qui?"
00:50
"Forse dopo, per prima cosa ti abbraccerei con tutta la forza che ho"
00:50
"Poi sì, ti accarezzerei ovunque"
00:52
"Io vorrei solo baciarti. Ovunque. Soprattutto sul collo. Adoro il tuo collo."
00:52
"E la tua pelle. E il tuo viso. Voglio baciarti le guance mentre mi abbracci."
00:52
"Non ho mai parlato così a nessuno e mi sento un idiota. Ma è ciò che voglio e non riesco a trattenerlo."
00:53
"Penso che mi farei fare di tutto da te, Lance, se solo me lo chiedessi."
 
Lance aveva perso la testa. Non capiva più niente, non sentiva più il freddo, il caldo, non percepiva neppure il contatto del lenzuolo che lo copriva, della maglietta che indossava, si sentiva spogliato di tutto.
Keith. Keith gli stava scrivendo quelle cose. Il ragazzo che per mesi gli aveva tenuto nascosto persino il nome gli stava confessando di volergli baciare il collo.
Quelle labbra. Sul proprio collo.
Quelle labbra così carnose, così soffici all'apparenza, sul proprio collo teso, mosso dall'aria che gli passava nell'esofago.
La propria mano destra reggeva il telefono. La sinistra, invece, era scivolata tra le proprie cosce senza che lui stesso se ne accorgesse.
 
00:55
"Di tutto?"
00:57
"Di tutto. Perché so che lo faresti bene."
00:58
“E che mi rispetteresti. Lo faresti, no?”
01:00
“Certo che lo farei, sei prezioso per me…”
01:02
“Quindi faresti tutto con calma?”
01:03
“Se fossi lì, probabilmente mi prenderei almeno venti minuti per ogni parte del tuo corpo…”
01:04
“E cosa faresti?”
01:05
“Ti bacerei. Tipo, ovunque. Piano, perché secondo me hai un profumo buonissimo e penso che mi perderei su ogni centimetro della tua pelle.”
01:06
“Ti piaccio davvero così tanto?”
01:08
“Ti trovo stupendo, mio Keith… Sono felice da morire per la foto che mi hai mandato, per te vale la pena fare tutto ciò che sto facendo, solo per vederti”
01:08
“Dimmelo ancora.”
01:09
“Che mi piaci?”
01:10
“Sì, per favore.”
01:12
“Mi piaci da morire, Keith. Non mi importa se è stupido, infantile, da pazzi… Mi piaci tantissimo, mi piace tutto di te, voglio solo prenderti e portarti e con me e abbracciarti e baciarti per tutta la vita”
01:12
“Voglio prenderti le guance tra le mani e baciarti con tutta la forza che ho”
01:12
“E levarti quella felpa e dirti che sei bellissimo, perché non mi importa cosa ci sia sotto quella felpa, per me sarà bellissimo”
01:14
“Non sono bellissimo.”
01:14
“Lo sei per me, okay?”
01:17
“Lance?”
01:18
“Sì, Keith?”
01:21
“Voglio che tu sia la mia prima volta.”
 
Lance sbatté le palpebre una, due, cinque volte.
Sapeva che fosse quello l’ambito del discorso… Ma non si sarebbe mai, mai aspettato di leggere quelle parole da parte di Keith.
E se prima si stava solo sfiorando il corpo con i polpastrelli freschi delle dita, nel leggere quelle parole la propria mano si strinse dove mai avrebbe dovuto stringersi, e un sottile ansimo fuoriuscì dalle proprie labbra, andando ad infrangersi sul cuscino.
 
01:23
“Lo vuoi davvero?”
01:24
“Lance, posso dirti una cosa?”
01:24
“Puoi dirmi tutto quello che vuoi…”
01:27
“Ho voglia di te. Da morire. Non riesco a togliermi il tuo viso dalla testa e… Mi sto sentendo andare a fuoco, te lo giuro. Non mi sono mai sentito così, ma è bellissimo.”
01:28
“Appena sarò più lucido mi vergognerò da morire.”
01:29
“Lance, posso gemere il tuo nome?”
 
Lance non sapeva più come reagire alle parole di Keith. Quando mai gli era accaduta una cosa del genere? Mai, diamine! Mai nessuna ragazza si era dimostrata interessata in quel modo a sé! Qualche ragazzo sì, nelle ultime settimane all’Amarillo… Ma quei ragazzi non erano Keith!
‘Keith’, soffiò lance, con i denti stretti attorno al lenzuolo, il telefono malamente tenuto nella mano sinistra e la mano destra infilata nei corti pantaloncini neri.
Cosa diamine stavano facendo…? Non ne aveva idea, e il giorno dopo si sarebbe picchiato da solo, probabilmente, ma in quel momento non avrebbe smesso neppure sotto minaccia di morte.
 
01:30
“Puoi gemere tutto quello che vuoi, se io posso gemere il tuo”
01:32
“Fallo.”
01:32
“Di’ il mio nome, mio Lance.”
01:33
“Keith, ti voglio così tanto”
01:33
“Io”
01:33
“Kwitj”
01:35
“Fermo. Non scrivere. Pensa a me, come io penso a te.”
 
I minuti passarono. Lance al buio della sua camera, con le labbra serrate e affondate nel cuscino mentre mugolava cercando di non farsi sentire. Keith allo stesso modo, nel suo letto in Corea del Sud, raggomitolato su se stesso, con gli occhi serrati, ignorando il sole del primo pomeriggio che filtrava dalle persiane.
L’uno pensando all’altro, l’uno gemendo il nome dell’altro, entrambi con il telefono stretto in una mano e l’altra mano stretta in altre parti del corpo.
Quattordici ore di fuso orario dividevano quei due ragazzi, ma gli istanti erano gli stessi, le sensazioni che provavano erano le stesse, e questo neppure la distanza avrebbe potuto negarlo.
 
Lance non riusciva a scrivere, ma Keith sì. Keith ci riusciva, e gli scriveva.
Gli scriveva messaggi su messaggi, e Lance teneva lo sguardo fisso sul cellulare, con gli occhi lucidi e i denti stretti attorno al cuscino, e ad ogni messaggio sentiva il proprio corpo sussultare, tremare, andare in fiamme al semplice contatto dell’aria.
“Lance, vieni qui e toccami”.
“Voglio che mi spogli, voglio che tu mi stringa e mi baci e che tu mi dica che ti piaccio per davvero”.
“Voglio che tu faccia piano come sto facendo io in questo momento”.
“Voglio le tue mani su di me”.
“Distruggimi e basta, Lance”.
 
“Distruggimi e basta, Lance”.
E Lance lo rilesse, quel messaggio, lo rilesse almeno dieci volte.
E iniziò a tremare, a serrare e riaprire gli occhi, ad inspirare profondamente per limitare quei versi acuti che gli fuoriuscivano dalle labbra bagnate e semichiuse.
La testa gli girava; le immagini di ciò che stava facendo Keith, l’idea della sua voce dolce e spezzata che pronunciava quelle parole, pensieri su pensieri, figure mentali si rincorrevano e si accavallavano dentro di sé, portandolo di nuovo al limite, ma questa volta per davvero. Questa volta, a mente lucida. Questa volta, dandogli un piacere che non si sarebbe mai e poi mai dimenticato.
 
E Lance, con il fiato pesante, la mano sporca, accasciato sul letto, pensò: ‘Se è così ora, dal vivo quanto potrà essere bello?’.
 
 
01:52
“… Okay, è stato intenso…”
01:55
“Lo è stato, uh?”
01:56
“E anche strano, penso…?”
01:58
“Se devo dirtelo onestamente, non mi importa.”
02:00
“Già, neanche a me…”
02:01
“Lance, che diamine di ore sono dove abiti tu?”
02:02
“Uh, le due di notte…”
02:02
“Vai a dormire.”
02:03
“Come puoi chiedermi una cosa del genere in questo momento…”
02:04
“Non disubbidire. Dormi.”
02:04
“Woah, da quando prendi tu il comando, Principessa?”
02:05
“… Come distruggere l’atmosfera. Un libro di Lance… Uh, non so il tuo cognome.”
02:05
“Forte. Mi sono appena masturbato pensando a te e non so il tuo cognome.”
02:05
“Ma non dirmelo. Non ho spazio nella testa per informazioni nuove, in questo momento.”
02:07
“Unf, va bene!”
02:07
“Mio Keith?”
02:08
“Sì?”
02:10
“Dovremmo farlo di nuovo, prima o poi!!”
 
Keith lo insultò con una leggerezza degna solo di lui, ma nulla impedì a Lance di andare a dormire col sorriso.
Si sentiva rilassato come mai prima d’ora. E non si sentiva in colpa… Perché sapeva di amare Keith. Quindi non c’era nulla di sbagliato in ciò che aveva fatto.
Ma su questo ci avrebbe riflettuto meglio il giorno seguente, a mente lucida, magari.

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Capitolo 12
*** capitolo 12 ***


Penso che questo sia il penultimo o terzultimo capitolo.
Ma, per ora, le gioie sono finite.
Buona lettura!!!
 
CAPITOLO 12
 
22/07, Varadero, Cuba, ore 16:21
 
Erano passati alcuni giorni da quella sera, ma Lance non aveva smesso di pensarci neppure per un secondo. Il mattino seguente, quando si era svegliato, aveva riletto tutta la conversazione con Keith… E si era vergognato così tanto che non era riuscito a scendere in sala prima di aver sbattuto ripetutamente la testa contro il cuscino.
Insomma, lui e Keith non erano neppure fidanzati!
Era vero, provavano sentimenti l’uno per l’altro, sentimenti forti, Lance lo amava, a dire il vero, e probabilmente era lo stesso anche per Keith… Ma ciò non toglieva che fossero estremamente lontani. E che fosse ancora difficile immaginare un vero e proprio futuro insieme. Perché sì, Lance aveva lavorato parecchio, aveva messo da parte parecchi soldi, ma non aveva detto a nessuno quali fossero i propri piani. E non sapeva neppure dove abitasse Keith, maledizione!
Più volte aveva voluto chiederglielo, giusto per sapersi regolare con i tempi di volo, con i prezzi, cose del genere, ma alla fine il discorso non saltava mai fuori.
E Lance aveva troppo per la testa.
In quel periodo, il paese natale di Keith era passato in secondo piano.
A dire il vero… Stava avendo dei ripensamenti.
 
Questo era appurato: Lance amava Keith. Ma il castano ci aveva pensato, ci pensava ogni giorno, ogni secondo, e ciò che stava accadendo tra di loro aveva del malato.
Lance era diventato dipendente da Keith, e Keith da Lance.
Perché era vero, ultimamente era accaduto di meno… Ma Keith era depresso. E lo era anche pesantemente. E decine erano state le volte in cui Keith gli aveva scritto quando meno se lo aspettava, dicendogli di essere in lacrime, dicendogli che non riusciva a reggere tutti i problemi della sua vita, che voleva solo che tutto finisse.
E Lance non poteva fare altro che dirgli di non preoccuparsi, che tutto sarebbe finito in pochi mesi, che si sarebbero visti, e Keith si calmava, la maggior parte delle volte. A dire il vero, Lance avrebbe anche voluto chiamarlo, ogni tanto. Insomma, si erano già chiamati una volta… E lui ci aveva anche provato, a chiamarlo, durante i suoi attacchi di panico, ma Keith non aveva mai risposto.
Diceva di odiare la sua voce, il suo corpo, tutto di sé.
Lo aveva detto anche dopo ciò che era successo poche sere prima. Era accaduto ancora: Keith gli aveva scritto nel bel mezzo della sua notte, quindi nel primo pomeriggio di Cuba, gli aveva detto che non avrebbe mai più voluto fare una cosa del genere, che si sentiva un idiota, che si faceva schifo, che si odiava. Aveva anche quasi insultato Lance, gli aveva detto di smetterla di mentirgli, di dirgli che gli piaceva il suo corpo, perché non gli credeva. Lance aveva sopportato in silenzio, lo aveva fatto con piacere, e solo quando a Keith si schiarì la mente riuscì a rassicurarlo, a dirgli che gli piaceva davvero, e anche tanto.
Ma ora bastava anche solo nominare la foto che Keith gli aveva mandato, e quello scoppiava in lacrime o iniziava ad essere freddo e distaccato.
E a Lance faceva male da morire.
 
Lance si era innamorato di quel lato di Keith, ma proprio quel lato era il più difficile da amare. Si era preso responsabilità delle quali avrebbe anche potuto fare a meno, si era legato ad un ragazzo triste, sull’orlo del baratro, cercando di tirarlo lontano dai suoi problemi con semplici parole scritte su uno schermo.
Ed era da pazzi. Quello era un lavoro per gli psichiatri, per i medici, non per un ragazzino allegro e spensierato come Lance.
Eppure, Lance stesso non riusciva a farne a meno.
Lance, che mai in vita propria aveva conosciuto l’ansia, la preoccupazione, il dolore al petto dovuto ad un amore eccessivo, ora si trovava a combattere contro demoni che non conosceva… E a lasciarli vincere.
Perché Lance si stava distruggendo da solo per vedere un ragazzo che, a dirla tutta, avrebbe anche potuto non essere neppure reale. Si stava massacrando dentro per andare a prenderlo dovunque abitasse, per portarlo con sé, per trascinarlo nella propria vita, per dargli tutta la felicità che a Keith era sempre stata negata, ma che meritava più di qualsiasi altra persona al mondo.
 
Il punto era… Perché?
In quale momento, esattamente, era scattata nella propria testa la molla che lo aveva portato a dire “Sì, io amo questo ragazzo così distrutto, e rimetterò insieme i suoi pezzi”? Lance non avrebbe saputo dirlo. Non avrebbe saputo dire quando aveva iniziato a desiderare di prendere i pezzi della sua mente e rimetterli insieme, come si faceva con i vasi che si spezzavano in pochi, grandi cocci.
Ma i cocci della mente di Keith non erano pochi, e non erano grandi.
Erano come quelli di un vaso che si frantumava a terra, come la creta o il marmo o il vetro che, a volte, si spezzavano in briciole così piccole da poter essere scambiate per granelli di polvere. E quei granelli erano impossibili da ricucire al vaso originale.
 
Ma ora stava accadendo di nuovo.
Lance era sdraiato sul proprio letto, e se il suo petto non si fosse mosso grazie all'aria che gli entrava nei polmoni qualcuno avrebbe potuto scambiarlo per morto.
Le lunghe, magre gambe coperte fino alle ginocchia da un paio di pantaloncini azzurri; il busto scoperto, avvolto in un sottile velo di sudore dovuto al calore torrido di quella giornata e al riflesso del sole che entrava dalla finestra; le braccia flesse al petto, con le dita che reggevano il telefono; gli occhi spalancati, infine, e fissi sullo schermo, rossi, gonfi, bagnati di lacrime che non sarebbero mai scivolate sulle proprie guance se lui non avesse sbattuto le palpebre.
Ma era vivo... Era vivo, respirava, e tremava. E voleva solo che quell'incubo finisse, che Keith stesse bene, ma quel momento sembrava non sarebbe mai arrivato.
 
14:06
"Keith, ti prego, smettila, ascoltami solo per un secondo"
14:08
"No, Lance, non ti ascolto. Ho detto che voglio lasciar perdere. Ho detto che non ce la faccio più. Tanto non ci vedremo mai. Smettila di illudermi."
14:09
"Keith, Cristo, ho lavorato tutta l'estate per mettermi da parte dei soldi e ora ne ho a sufficienza, e ho ancora più di un mese di tempo, e te l'ho detto decine di volte che ci vedremo..."
14:12
"Vuoi sapere dove abito, Lance? Vuoi sapere per dove dovrai prendere il biglietto dell'aereo?"
14:13
"Seul. Corea del Sud. Hai una vaga idea di dove sia? Hai una minima idea di che merda sia questo posto? Lascia perdere, Lance. Non accadrà mai."
14:16
"Ho controllato i voli, sono venti ore di volo, i prezzi sono vari ma penso di potercela fare"
14:18
"Ti ho appena detto dove abito e tu reagisci così?"
14:18
"Come altro avrei dovuto reagire, Keith???"
14:19
"I voli per domani, ad esempio, costano tipo... 600 pesos, e non li ho, ma se li prenoto ora per ottobre vado a pagare molto meno... Anche se dovrò lavorare ancora"
14:23
"Pesos... Messicani?"
14:23
"Pesos cubani. Sono di Cuba. Giusto perché tu lo sappia."
14:25
"... Avrei preferito non scoprirlo mai. Sei lontanissimo. Sei più lontano di quanto pensassi."
14:25
"Lance, ti prego, ti sto pregando, lascia perdere. Lasciami perdere. Mi dispiace, mi dispiace, ma non scrivermi mai più. Sto troppo male, Lance, e non mi passerà mai."
14:27
"Ci sono dei voli che durano 18 ore invece che 20... Ma a questo punto due ore in più o in meno non penso facciano differenza"
14:28
"Lance. Lance, la devi smettere. Non voglio che tu venga qui. Non voglio che tu venga a prendermi. Voglio che ti dimentichi di me, perché ti farei solo stare male."
14:29
"Lo sai che farei scalo in Giappone??? Magari ti porto del sushi!!"
14:30
"Lance..."
14:32
"KEITH MA CHE CAZZO C'È"
14:32
"Sono mesi che mi faccio il culo per farmi dei soldi per venire da te"
14:33
"Non mi sembra di averti mai costretto a farlo."
14:34
"Non l'hai fatto, e io l'ho fatto con piacere perché ti voglio qui con me! E tu staresti bene, se fossi qui, no? Me lo dici sempre, mi dici 'vienimi a prendere', e ora mi dici queste cose? Keith, cazzo, riprenditi un attimo!"
14:36
"Lance, che cazzo di risposta è."
14:36
"Tu non puoi salvarmi, Lance. Non puoi e basta. Non è colpa tua. Ma sei troppo lontano. Non sei qui. Quando ci sarai, sarà troppo tardi. Lascia perdere."
14:37
"Vuoi che non ti scriva mai più?"
14:38
"Esatto."
14:38
"Voglio dimenticarmi di te."
14:38
"Perché tanto non verrai qui per davvero."
14:39
"Quindi vattene dalla mia vita e smettila di illudermi che qualcuno possa volere bene ad una persona come me."
14:40
"... Non voglio"
14:40
"Keith, ti prego..."
14:43
"Keith, rispondimi..."
14:49
"Keith. Sono serio, ti prego, rispondimi"
15:32
"Sei uno stronzo"
15:32
"Vaffanculo"
15:33
"Non me ne frega un cazzo se stai male, sei un maledetto stronzo"
15:34
"Tranquillo, entra pure nella mia vita, sconvolgila e vattene come se nulla fosse"
15:36
"Adesso con tutti i soldi che ho messo da parte ci compro un cazzo di condizionatore, ecco cosa ci faccio"
15:56
"Keith, ti prego, rispondimi"
16:32
"Keith?"
16:35
"Okay. Addio, allora."
 
16:36
"Addio."
 
 
23/07, Seul, Corea del Sud, ore 04:46
 
Rosso. Era tutto estremamente rosso. Rosso come migliaia e migliaia di petali di rosa che si accavallavano l'uno sull'altro, scivolando, annegando sotto il peso di tutti gli altri che li ricoprivano.
Rosso come un mare di fuoco, come un fiume di lava che scivolava giù da un vulcano in eruzione, bruciando alberi, prati, fondendo rocce e sassi e qualsiasi altra cosa gli ostacolasse il percorso.
Rosso come il sangue, e questo era ciò che era.
 
Ma non colava giù da un vulcano.
Colava lungo i muri, lungo gli specchi, gli asciugamani e la ceramica candida del lavandino.
Colava lungo un paio di braccia candide, vergini, lungo mani coperte da una pelle soffice, eppure graffiata da pellicine, lungo dita diafane e scheletriche.
Sgorgava da tagli profondi. Tagli verticali. Tagli letali. Tagli che non avevano lo scopo di fare del male, ma di uccidere. Di lasciare che la linfa vitale ne fuoriuscisse. Questo era il loro scopo, e ci stavano riuscendo.
Ci sarebbero riusciti.
 
Keith stava annegando. Stava annegando nel suo stesso sangue, sdraiato a terra sul pavimento gelido del bagno, sulle piastrelle dove il bianco della ceramica di mischiava a macchie rosse.
Stava annegando in quella vita che di gioie non gliene aveva mai date, e quando gliene aveva data una gliel'aveva portata subito via.
Stava annegando in quella testa anormale, in quel cervello deforme che gli diceva che tutto ciò che aveva fatto fino a quel momento, tutte le poche cose felici che gli erano capitate, non gli sarebbero mai dovute accadere.
C'erano persone che nascevano meritando di essere felici.
E Keith non era una di quelle persone.
Keith ci stava riuscendo, e quella sarebbe stata la volta buona. Non avrebbe mai più riaperto gli occhi, non avrebbe mai più rivisto Shiro... Non avrebbe mai visto il ragazzo che amava. Non avrebbe mai visto Lance. Non avrebbe mai visto il suo sorriso. Ma non l'avrebbe visto comunque, perché Keith non sarebbe mai riuscito a far sorridere una persona così speciale. Lance meritava di meglio, Lance meritava tutto, ma non Keith.
Ci sarebbe riuscito, quella volta.
Chiuse gli occhi.
Non sentiva nulla, non sentiva dolore, dispiacere, non gli importava più di niente, non gli era mai importato, non aveva mai voluto essere vivo, non era stato lui a chiedere di essere messo al mondo.
Ci sarebbe riuscito... Se non avesse sentito una voce. Il suono di una porta che veniva sfondata. Di nuovo quella voce.
"Keith", gridava Shiro, "Keith! No, no, Keith, devi restare con me, ti prego!”, ma Keith non sentiva nulla se non suoni ovattati.
Poi chiuse gli occhi. E più nulla.
 
 
30/07, Varadero, Cuba, ore 17:24
 
Lance era morto. Sfortunatamente, lo era solo metaforicamente. Almeno, lo era da qualche giorno.
Lo era da quel pomeriggio.
Era morto a quell'"Addio".
Keith... Non gli aveva mai più scritto. Non era mai più accaduto nulla.
Lance aveva lasciato il lavoro. Non lavorava più con il padre, non lavorava più né al pub, né al ristorante dove aveva fatto appena un paio di serate, non faceva più nulla.
Si alzava al mattino, sforzava parole, sorrisi e appetito, e poi tornava a dormire. Ma non dormiva davvero. E non mangiava davvero. E non sorrideva davvero.
Aveva scoperto di essere bravo a mentire. Non voleva l'aiuto di nessuno, né dei genitori né dei fratelli, non voleva sentire Pidge e Hunk dire "Te l'avevo detto", non voleva nulla. Evitava l'argomento 'Keith' come la peste. E andava avanti così.
Pranzare e cenare, però, era difficile. Era difficile dare nutrimento a un corpo che non ne voleva sapere di essere messo in piedi. Era difficile anche dare sonno ad un organismo che, nel sonno, avrebbe voluto rimanerci per sempre.
Pidge e Hunk avevano sempre avuto ragione. Lance avrebbe dovuto lasciar perdere fin dall'inizio.
 
Keith non aveva portato altro che sofferenza. Con quel suo sarcasmo pungente, quelle sue battute sottili, con la sua tristezza, con tutti i suoi difetti. Con tutti i suoi pregi. Con il suo viso bello come quello di un angelo caduto dal cielo, con i suoi “Non l’ho mai visto, ma se piace a te allora proverò a guardarlo”, e quindi con passioni in comune che crescevano, con il suo “Ora ho capito perché ti piace Star Wars”.
Lui e tutte queste cose avevano preso la propria vita e l’avevano cambiata con uno schiocco delle dita. Poi, proprio nel più bello, se n’era andato.
Era andato via. Gli aveva detto “Addio”, e ‘Addio’ era stato.
E mai più nulla.
 
Lance era in camera, sdraiato sul letto, a pensare a tutto e a niente.
Pensava a Hunk, al videogioco che avevano provato quel pomeriggio a casa sua; pensava alla madre, che era in cucina con la sorellina Lucil; pensava al padre, che era al supermercato a guadagnare soldi per la famiglia.
Pensava a Keith, e a lui non aveva mai smesso di pensare.
“Lasciami andare”, gli aveva detto, “Dimenticati di me”, ma come avrebbe potuto, Lance, dimenticarsi di lui? Lo amava.
Lo amava con ogni cellula del proprio corpo.
Ma l’amore non importava: no, quello che importava era la voglia che c’era in sé di averlo lì. Non importava come. Come amico, come fidanzato, come conoscente, non importava. Lo voleva lì, a Cuba, a Varadero, nella propria camera; voleva guardare film di fantascienza con lui e portarlo al Manzana Juice, il pub dove si era ubriacato la prima volta che gli aveva scritto, e ancora voleva portarlo in spiaggia, prenderlo a schiaffi, insultarlo e dirgli che gli aveva rovinato la vita.
E voleva baciarlo. E farlo stare bene. E fargli capire che era lui ad aver sbagliato, nel dirgli addio, perché Lance sarebbe stato con lui nonostante tutti i suoi difetti, e lo avrebbe aiutato a superarli.
 
Ma era finita. Era finita per sempre, e Lance sapeva di non poter tornare indietro nel tempo. Era finita irrimediabilmente, perché Keith gli aveva detto di non volersi illudere. L’aveva fatto innamorare e se n’era andato. E Lance si sentiva vuoto.
Le giornate non passavano più, ora che il proprio telefono non vibrava a causa dei suoi messaggi, dei suoi cuoricini, dei suoi “Mio Lance”.
Lo aveva fatto suo, maledizione. Lance gli apparteneva. Gli era appartenuto. E lui lo aveva abbandonato.
Lance sospirò. Doveva dimenticarlo. Doveva andare avanti con la propria vita.
Doveva dimenticarsi di quel ragazzo, che ci volessero settimane, mesi, anni, lui doveva andare avanti e riprendere da dove si era interrotto.
Doveva spegnere il telefono e smettere di sperare in un suo messaggio.
E lo fece. Prese il telefono, premette il pulsantino… E il telefono vibrò.
Vibrò per una chiamata.
Da parte di Keith.
 
 
« Keith! »
« Uh… No. Sono Shiro. Ciao, Lance. »
« Shiro…? Sei l’amico di Keith? »
« Sì, esatto. Scusa se ti ho chiamato così all’improvviso. Devo parlarti. »
« Oh, non preoccuparti… Ecco, come sta Keith? Lui, uh, è lì con te? »
« Ti volevo parlare proprio di questo. Lance, che cosa è successo l’ultima volta che vi siete sentiti? »
« Io-… Noi- uh… Abbiamo discusso. Lui ha detto di non volermi sentire mai più… Non so perché, insomma, era già successo che gli venissero attacchi di panico, ma non mi ha mai detto cose del genere… »
« Lance, sto per dirti una cosa, ma ho bisogno che tu finisca di lasciarmi parlare prima di rispondermi. »
« … D-Dimmi. »
« Keith ha tentato il suicidio. Di nuovo. »
 
Lance si tirò in piedi. Non seduto, in piedi. In piedi davanti al letto, immobile, con gli occhi già umidi anche solo al pensieri di Keith.
Quelle parole gli perforarono l’orecchio come un proiettile.
Gli fracassarono il petto come se ci fosse caduto sopra un masso.
Keith… Il suo Keith. Il suo Keith aveva fatto una cosa del genere. E la colpa era solo e soltanto propria.
Lance rimase in silenzio. Non avrebbe comunque saputo cosa dire.
 
« La sera in cui avete litigato l’ho trovato sul pavimento del bagno. Era… Si era tagliato i polsi. Sapevo che lo avesse già fatto, ma solo per farsi del male. Quelli… Quei tagli erano… Verticali. E i tagli verticali sono quelli letali. Io… Se non avessi sfondato la porta, se non avessi chiamato un’ambulanza, io… »
 
La voce di Shiro era spezzata. Sospirava ogni due parole, singhiozzava, ed era chiaro che stesse tremando. Ma Lance lo lasciò parlare. Lo lasciò parlare con il cuore in gola, che minacciava di uscirgli dalla bocca.
 
« L’hanno portato all’ospedale. Era in coma, ha perso tantissimo sangue… Ma ora si è svegliato. Ho preso il suo telefono dicendogli che avrei chiamato l’orfanotrofio, ma in realtà volevo chiamare te. Lance, non so cosa sia successo tra voi due, non conosco tutta la storia, ho solo letto alcuni messaggi di quella sera… Ma io ti giuro, Lance, ti giuro che lui ti ama tantissimo. Mi dispiace, mi dispiace da morire, ma senza di te lui non ce la farebbe. Mi dispiace, ma Keith ha bisogno di te… Altrimenti io- altrimenti… Se lo facesse si nuovo, se io non arrivassi in tempo, io… »
 
« Shiro… Rilassati. Va tutto bene. »
 
Lance aveva ritrovato la forza di parlare. A dire il vero era una necessità inconscia: non sapeva cosa stesse dicendo, era confuso, era a pezzi, tremava, lacrimava, ma la propria voce era inspiegabilmente calma.
Piano piano, nella propria testa, tutto si stava ricomponendo.
Keith lo amava. E Lance amava lui.
E proprio quando aveva pensato di doverlo lasciar andare, lui era tornato. Era tornato in maniera terribile, ma almeno c’era ancora.
E Lance, Dio, Lance non lo avrebbe mai, mai più lasciato.
 
« Non dispiacertene, non è colpa di nessuno. Penso sia semplicemente accaduto. Io non potevo sapere dei problemi di Keith, lui non poteva sapere che ci saremmo affezionati, e tu, tu sei quello con meno colpe in assoluto… Quindi, stai calmo, okay? Grazie, grazie per esserci stato per lui, grazie per averlo salvato, grazie per tutto. Ora, se non ti dispiace, vorrei parlare con lui. »
 
« Te lo passo. Starò accanto a lui. »
 
E Lance attese. Attese in piedi, immobile, con il telefono attaccato all’orecchio, con l’aria che entrava flebile nei propri polmoni.
Sentì delle parole in coreano, parole sussurrate, sussurrate dalla voce di Keith.
Poi, la sua voce. Nella propria lingua. Che chiamava il proprio nome.
 
« … Lance? »
« Mio Keith… »
« C-Ciao… »
« Stai bene? Ti senti bene? »
« Io… Sì, penso. Non lo so… Perché Shiro stava parlando con te? »
« Ha voluto dirmi cos’è successo. »
« Oh… Oh. »
« Keith… Mi dispiace, ma non posso fare ciò che mi chiedi. Non posso dimenticarmi di te. Non lo farò mai, scusami. »
« Lance… »
« Sì…? »
« … M-Mi dispiace. Mi dispiace… Mi dispiace da morire, scusa, mi dispiace, non avrei mai dovuto, io… Lance, ti prego, perdonami… Io- è stato orribile, sono così felice di sentirti, Lance… »
« Keith, Keith, ehi… Rilassati, okay? Non piangere, sono qui… »
« Lance, Lance, mi dispiace… Non accadrà più, te lo prometto, io- »
« Keith, non mi devi spiegazioni, va bene? Stai tranquillo… Sono solo, io- sono felice che tu stia bene… »
« Lance-… »
« Smetti di piangere, okay? Non piangere. Non piangere mai più… »
« Lance… Vieni a prendermi? »
« Dammi un mese, amore mio. Aspetta solo un mese… »
« Giuramelo. Giuramelo, ti prego. »
« Te lo giuro. Te lo giuro, okay? Adesso stai con Shiro, lui si prenderà cura di te, e prima che tu te ne accorga io sarò lì, okay? »
« Sì… Sì, va bene… »
« Bravo, respira, smetti di piangere… »
« Lance? »
« Sì? »
« Questa volta… Questa volta mi hai davvero chiamato “amore mio”, vero? »
« Sì, Keith… Sì, l’ho fatto. Ti ho chiamato così. »
« Quindi… Non mi odi? »
« Non ti odio. Non ti odio, Keith… Non ti odierei mai. »
« Lance… »
« Shh, zitto, ora. Adesso riposa, va bene? E stai con Shiro. Riposati e non pensare a nulla, io sono qui. Scrivimi, quando starai meglio. »
« Sì, io… Va bene… Allora, ci sentiamo, uh? »
« Sì, mio Keith… Ci sentiamo. »
 
Lance riattaccò.
Riattaccò e lasciò delicatamente cadere il telefono sul letto.
E uscì dalla camera, e, lentamente, scese le scale che portavano in sala, dove Lucil stava guardando i cartoni animati, dove Adrian dormiva raggomitolato sul divano, dove la madre stirava le camice del marito.
Lance prese un innaffiatoio e lo riempì d’acqua. Poi, uscì in giardino.
La pianta di rose bianche gli era sembrata bisognosa di qualcosa di fresco.

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Capitolo 13
*** capitolo 13 ***


Ed eccomi tornata.
Mi piace il fatto che io scriva un capitolo al giorno. Anche se dovrei studiare. Tipo, davvero tanto… Ma non importa.
Perché ormai è quasi finita.
 
Importante!!!
Queste sono le canzoni che ho usato nel capitolo, andate ad ascoltarvele se vi va:
Nelly Furtado – Manos Al Aire https://www.youtube.com/watch?v=n5c3tfvp4Lc
Bomba Estereo – Soy Yo https://www.youtube.com/watch?v=bxWxXncl53U
MCR – Na Na Na https://www.youtube.com/watch?v=egG7fiE89IU
 
CAPITOLO 13
 
 
03/08, Seul, Corea del Sud, ore 09:34
 
Gli occhi di Keith si aprirono debolmente, infastiditi dalla luce del sole che entrava dalle finestre di quella camera di ospedale. Nelle proprie narici, l'aspro odore di agenti chimici gli pungeva i sensi, facendogli arricciare il naso.
Lenzuoli bianchi coprivano il suo busto magro, spesse bende gli fasciavano gli avambracci, e due piccoli tubi gli entravano direttamente nelle vene di entrambe le braccia, rifornendoli di sangue e nutrimento.
E a Keith andava bene. Keith si lasciava nutrire, si lasciava rinvigorire senza esserne arrabbiato. Gli stava bene, essere vivo.
Da quando aveva sentito Lance, non aveva smesso neppure un attimo di pensare a lui. A lui, al suo sorriso, alle sue promesse, alla sua voce che lo chiamava 'amore mio'.
Lo aveva chiamato così... Lo aveva chiamato così per davvero, quella volta, non se l'era immaginato, non si era illuso.
Lance lo amava. E Keith amava lui.
Stanco, spossato, spostò gli occhi stanchi sulla figura che, seduta accanto al letto, si era appisolata sulla poltroncina con la testa appoggiata sul lettino.
Keith lo osservò per qualche secondo, con le labbra inarcate in un piccolo, leggero sorriso.
Shiro lo aveva salvato... Di nuovo. Ma, questa volta, ne era valsa la pena.
Allungò appena una mano stanca, facendo attenzione a non staccare la flebo dal braccio, e incastrò le dita nel ciuffo bianco di quello che era per sé un amico, un fratello e un padre allo stesso tempo.
Shiro aprì gli occhi stanchi, tossendo un paio di volte prima di tirarsi su con il busto, e Keith poté sentire le sue ossa scrocchiare sonoramente nel suo collo e nella sua schiena.
 
« Sei rimasto qui per tutta la notte...? » gli chiese il moro a bassa voce, mentre l'amico gli prendeva delicatamente la mano per stringerla un poco, annuendo delicatamente.
« Ti senti riposato, Keith? » e il moro annuí, anche se non molto convinto. Era stanco, diamine se lo era. Aveva dormito parecchio, ma così profondamente da non essere ancora propriamente 'sveglio'.
Era come se stesse vivendo un sogno. I suoni che sentiva erano ovattati, la vista annebbiata a causa di tutta quella luce, i sensi come ipnotizzati da quel profumo di agenti chimici e di disinfettante.
Ma gli piaceva, sentirsi così, ora che... Ora che aveva sentito la voce di Lance.
« Shiro... Tu e Lance avete più parlato, dopo che mi sono addormentato? »
« Sì, gli ho scritto dal mio telefono e gli ho dato il mio numero. Volevo avere il suo contatto, in caso di bisogno... Ma poi più nulla. Mi ha solo chiesto di stare accanto a te. »
Keith sorrise a quelle parole, tirandosi su con il busto, anche se con parecchia fatica.
Lance doveva essere preoccupato da morire. E arrabbiato, magari... Anzi, sicuramente.
Keith socchiuse gli occhi. Era stato un idiota... E lo aveva fatto soffrire terribilmente, e preoccupare, e lo aveva fatto sentire arrabbiato e abbandonato e inutile, e Keith sapeva che fosse così.
Perché Lance era così, si preoccupava per sé, gli rispondeva anche nel mezzo della notte pur di farlo stare meglio.
Keith sentiva di non meritarlo, sapeva di non meritarlo... Ma, forse, quella decisione non spettava a sé. E se Lance avesse voluto stargli accanto, allora tutto ciò che Keith avrebbe potuto fare sarebbe stato farlo stare bene, farlo sorridere e non farlo preoccupare.
« Shiro... Mi passi il telefono? »
 
 
02/08, Varadero, Cuba, ore 19:42
 
Lance non stava esattamente 'bene'. Stava meglio, questo era sicuro, ma era scosso. Estremamente scosso.
Nei giorni precedenti si era rassegnato all'idea di aver perso Keith per sempre. Se n'era fatto una ragione, nonostante non avesse esattamente accettato con piacere l'idea.
E ora... Ora era tornato. Era tornato tentando il suicidio.
Se Shiro non fosse stato lì, se fosse arrivato anche solo cinque minuti dopo, Keith sarebbe morto.
E Lance non l'avrebbe davvero sentito mai più.
Sarebbe morto, e per Lance era difficile pensare che non fosse colpa propria. Non c'erano colpe, non era colpa di nessuno, era colpa della vita, del destino, del cielo, ma non di Lance, e non di Keith.
Eppure, il castano ancora faticava a farselo entrare in testa.
 
Era in cucina, Lance, con addosso un paio di boxer blu e delle grosse ciabatte a forma di pinguino, e con il busto coperto solo da un grembiule bianco con il disegnino di una mucca stampato sopra.
Muoveva i fianchi ripetutamente al ritmo dell'intro di "Soy Yo" di Bomba Estéreo, che era appena partita alla radio, mentre le sue labbra si muovevano canticchiando, e mentre le sue mani agili tagliuzzavano finemente un pomodoro.
Quella canzone gli metteva allegria. Tutte le canzoni stupide, latine o, beh, stupide e latine, gli mettevano il buonumore.
Lucil entrò in cucina, tutta contenta nel suo vestitino blu, e iniziò a ballare insieme al fratello maggiore.
« Ay, c'è "Soy Yo", Lance! Cantamela, cantamela! » esclamò agitando i lunghi capelli castani e muovendo le delicate braccia color caramello.
Lance posò il coltello che teneva in mano, posando gli occhi su di lei, guardandola un poco e scuotendo la testa... Prima di strapparsi di dosso il grembiulino, iniziando ad ondeggiare il busto snodato.
 
« Yo caí, me paré, caminé, me subí; me fui contra la corriente y también me perdí; fracasé, me encontré lo viví y aprendí ¡cuando más te pegas fuerte más profundo es el beat! » sì, Lance sapeva cantare. Sapeva cantare, ballare, suonare la chitarra, praticamente... Viveva per la musica. Amava ascoltarla, amava lasciarsi andare al ritmo latino, amava muovere agilmente le braccia e i fianchi, e prendere la sorellina per mano e insegnarle a muoversi, a cantare con scioltezza le veloci parole spagnole di quelle canzoni.
E Lucil rideva sempre tantissimo, tanto che Lance sentiva il cuore scaldarglisi nel petto.
Amava vederla felice, amava vederla ballare spensierata, innocente, ingenua, intoccata da qualsiasi preoccupazione.
 
« Y no te preocupes si no te aprueban, cuando te critiquen tu solo di... ¡Soy Yo! » la sorellina muoveva i fianchi con le braccia flesse al petto, mentre Lance, agitando il grembiulino, piegava le gambe scendendo con il bacino, ondeggiando agilmente, senza pensare a nulla.
Lance era sereno. Era sereno per davvero. Pensava solo alla musica, al profumo del sugo che stava preparando, alla risata e alla voce acuta della sorellina, alla madre che li guardava dalla sala da pranzo con un sorriso enorme dipinto sulle labbra.
 
Lance amava sentirti così.
Non gli era mai interessata la felicità: sapeva che essere felici era una fortuna di pochi. E la felicità, inoltre, non era uno stato duraturo. Era un istante, un piccolo spezzone di tempo estatico, una piccola frazione in cui solo la gioia pervadeva i sensi, e nient'altro. Ma durava poco.
Lance non voleva essere felice, perché sapeva che non sarebbe mai accaduto, o almeno non spesso. Aveva sempre avuto troppe preoccupazioni: la situazione economica critica, il dover accudire i fratelli più piccoli, il lavoro, lo stress, e ora anche la situazione che c'era con Keith era abbastanza tesa... Ma andava tutto bene.
Keith non voleva essere felice, lui voleva essere sereno. Voleva stare bene, avere tutto a posto, non pensare a nulla, o pensare poco.
Voleva ballare, voleva sapere che Keith era vivo e stava bene, e sapeva che fosse così, perché c'era Shiro con lui.
Era tutto a posto, e Lance non voleva smettere di ballare.
 
Poi, il telefono vibrò sul bancone della cucina. Era Keith, Keith lo stava chiamando. Lance sorrise, afferrando il telefono, e lasciando la sorellina a ballare da sola prima di correre in giardino per rispondere.
 
« Keith! »
« Hey, Lance... Mi sono svegliato poco fa, penso di aver dormito per due giorni di fila! »
« Sono felice di sentirti... Ti senti meglio? »
« Sì, sì, sto meglio. Domani mi rimandano all'orfanotrofio, ma per oggi vogliono tenermi ancora qui. Mi hanno dato delle pillole da prendere ogni tanto, ma ho rifiutato la consulenza psichiatrica. Penso che d'ora in poi starò meglio. »
 
Lance sorrideva, accarezzando con le punte delle dita tutti i fiori estivi e colorati nel proprio giardino.
Era felice da morire. Scosso e teso, ma non voleva pensarci. Voleva solo sentire la voce di Keith, sentirgli dire che stava bene, e che tutto si sarebbe sistemato.
 
« Ne sono felice, Keith... E invece- !Lucil! ¿Que estas haciendo?... ¡Ay, ay, un momento, ahora vengo! »
« ... Lance? »
« Perdonami, è mia sorella... Mi hai chiamato mentre stavamo cantando insieme, quindi mi sa che passerò la serata a cantare Shakira insieme a lei... »
« ... Ugh, povero te. »
« Povero me? Io amo Shakira! »
 
Lance non aveva mai sentito Keith ridere. Lo aveva chiamato solo due volte, e in quelle due volte Keith non aveva mai riso, aveva solo pianto.
Ma, a quelle parole, Keith rise. Rise sonoramente, rise tranquillo, e fu il suono più bello che Lance avesse mai sentito.
Il castano si sedette sul muretto accanto alla propria villetta, vicino ai tulipani, sorridendo felice sotto al cielo tinto dei colori del tramonto.
 
« Se non smetti di ridere canto Shakira anche a te, eh! »
« Oh, ti prego, risparmiamene... »
« Hah, non vuoi sentirmi?! »
« Magari canterai per me quando ci vedremo, huh? »
« Puoi giurarci che lo farò! »
« Solo... Non Shakira. »
 
Ed entrambi risero ancora. Entrambi erano tesi, erano entrambi scossi, ma erano anche entrambi felici.
 
« Hah, Keith... »
« Sì, Lance? »
« Sai... È agosto. »
« E quindi... Mancano due mesi. »
« Già. Mancano due mesi. »
« Già. »
« Sei con Shiro? »
« No, è uscito a prendere un caffè. Era stanco morto. »
« Posso... Chiamartici di nuovo? »
« Uh… S-Sì, certo che puoi… »
« Solo, ora devo preparare la cena che mi si sta bruciando il sugo, quindi… Ti scrivo dopo, va bene? Tu riposa, uh? »
« Sì, va bene… »
« Allora, a- uh… A dopo… Amore. »
« … »
« Keith? »
« Sì, no, sì, certo. A dopo. »
 
Lance riattaccò la chiamata, lasciandosi cadere in ginocchio sulla fresca erba del proprio giardinetto. Un sorriso enorme nacque sul proprio volto, un solco che gli andava da guancia a guancia, mentre teneva le mani premute sul viso.
Era felice da morire. Cioè, da vivere, a dire il vero, perché voleva vivere, voleva che Keith vivesse, e voleva essere felice con lui… Da vivo.
Rientrò in casa, infilandosi il telefono nell’elastico dei boxer mentre riprendeva il grembiulino che aveva lasciato cadere a terra prima di mettersi a ballare.
La radio stava passando “Manos Al Aire” di Nelly Furtado.
Lance socchiuse gli occhi mentre riprendeva a tagliuzzare i pomodori, unendoli al sughetto che aveva lasciato sbollentare nella padella.
 
« Y yo no tengo armas para enfrentarte, pongo mis manos, manos al aire… Sólo me importa amarte en cuerpo y alma, como era ayer…  »
« Tienes la voz de un angel, Lancey… » la madre lo stava osservando di nascosto, appoggiata allo stipite della porta della cucina.
Lance si voltò, sorridendole con le guance tutte rosse.
Ultimamente, nessuno in casa lo aveva visto felice. Aveva detto ai genitori di essere stanco per i vari lavori, ovviamente non aveva ancora detto a nessuno di loro di Keith e dei piani che aveva per la propria vita.
La madre, oh, Athalie si sarebbe arrabbiata, forse… Ma il padre lo avrebbe ucciso. Non perché gli piacesse un uomo, ma perché gli piacesse un coreano. Della Corea. E perché volesse andarlo a prendere. Ecco perché.
Quindi si limitò a sorridere e a ringraziarla con dolcezza, riprendendo a preparare la cena con estrema tranquillità.
Data anche dal fatto che avesse appena parlato con Keith.
E dal fatto che fosse ignaro che Lucil l’avesse sentito, mentre aveva chiamato Keith “Amore mio”.
 
 
15/08, Varadero, Cuba, ore 21:42
 
I giorni passarono, e tutto sembrò tornare al suo posto.
Lance aveva ripreso a lavorare dal padre e come babysitter, catsitter, qualsiasi cosa-sitter, in modo da arrotondare un po’ i guadagni per andare a Cuba. Ancora non aveva abbastanza soldi, ma… Li avrebbe avuti. Li avrebbe avuti presto.
Lance si sentiva bene.
Keith era tornato all’orfanotrofio, Shiro era sempre accanto a lui e lo teneva d’occhio, ma non ce n’era bisogno: era chiaro, dai messaggi che gli mandava, che stesse bene.
Non aveva mai più anche solo accennato ad ansie o attacchi di panico, anzi, a dire il vero spesso diceva a Lance che, mentre studiava, si trovava senza accorgersene a canticchiare Rihanna e i Black Eyed Peas (perché Lance lo costringeva ad ascoltare le loro canzoni, ecco perché). Lance, invece, aveva imparato ad apprezzare i My Chemical Romance (o i McChemical, come li chiamava lui). A dire il vero preferiva l’ultimo album, Danger Days, perché era “gay e allegro, non come gli altri che tendono all’omicidio”.
E ogni tanto, mentre annaffiava i fiori, si trovava a muovere i fianchi al ritmo di “Na Na Na”, facendo sorridere il piccolo Adrian, che lo guardava comodamente adagiato tra le braccia della madre.
Lance era sereno. Era sereno da giorni, e tutto in casa si era stabilizzato.
Non che avessero mai sentito la crisi economica, perché sì, non avevano un soldo, ma si avevano l’un l’altro. Lance aveva loro, così come loro avevano Lance. E alla famiglia McClain bastava una buona canzone alla radio per stare bene.
 
Lance era uscito con Dom, erano andati al Manzana Juice a festeggiare il fatto che Dom avesse finito di costruire la sua moto.
Non erano neppure le dieci, era vero, ma Lance non era uno che reggeva molto l’alcol in generale, quindi era già parecchio alticcio.
Dom lo prendeva in giro, gli diceva che non era un vero McClain perché era andato fuori di testa solo con un paio di cubalibre, ma quei maledetti cocktail erano parecchio carichi!
« Dai, Lance, ammettilo! Ammetti che non reggi un cazzo! »
« Lo ammetto! Lo ammetto, okay? Ma è così bello, e mi sento così bene… » esclamò il castano, accasciandosi malamente sul tavolino di legno.
Dom sorrise, portandosi alle labbra la cannuccia colorata che sgorgava dal suo tequila sunrise. Era vero, Dom era il più grande, ma lui e Lance erano legati in maniera speciale. Erano “partners in crime”, erano “hermanos” nel vero senso della parola.
« Lance, parli come una ragazzina. Rimettiti in sesto, fratello, la serata è ancora giovane! Magari sarà la volta buona che una ragazza ci starà, no? »
Lance sorrise ad occhi chiusi, alzando un poco le spalle. Una ragazza? Starci? Oh, ma a lui mica importava più, delle ragazze… Gli importava solo di Keith, e delle canzoni che passavano alla radio di quel pub.
« Non mi importa delle ragazze, io ho Keith. » sussurrò, tirandosi su con il busto con uno scatto che fece sobbalzare il fratello.
Forse era davvero troppo carico, quel cubalibre. Ma Lance non si pentì di aver pronunciato quelle parole. Era troppo brillo per farlo.
« Lancey…? Chi è Keith? » Dom lo guardò un po’ interdetto, ma non sembrava sorpreso. L’innocente viso di Lance mutò in un’espressione interrogativa.
« Keith? Keith è il mio ragazzo. Cioè, non proprio il mio ragazzo. Però lo amo. E penso che anche lui mi ami, ma non stiamo mica insieme! » la voce di Lance ondulava e cantilenava, facendo sorridere divertito il fratello maggiore.
Per un secondo, Lance pensò di chiedergli perché non ne fosse sorpreso. Ma se ne dimenticò il secondo subito dopo.
« Ay, il mio hermanito è innamorato di un ragazzo? Questa è nuova! Hai rinunciato alle chicas, hermano? » Dom rideva, rideva e rideva. Ma lui poteva permetterselo, perché lui di cocktail ne aveva già bevuti tre.
« Certo! Non era ovvio? Diòs, hermano, sono gay come un poggiolo. »
« Penso si dica “Sono fuori come un poggiolo”… » lo corresse Dom, un po’ confuso sulla terminologia, ma Lance lo interruppe immediatamente.
« Sì? Non importa, i poggioli sono gay, e io con loro! Che poi… » il castano sfilò il cocktail di mano al fratello, finendolo con pochi, lunghi sorsi « Non è che sono gay. Mi piace solo Keith. Lui è bello. »
Dom curvò il viso, non molto dispiaciuto per il cocktail, bensì interdetto dalle parole del fratellino. Nessuno dei due riusciva a seguire il filo della conversazione.
« E conoscerò ma questo Keith? »
« Sì, sì! Tra un mese e mezzo! Vado a prenderlo in Corea e torno. Perché lui è della Corea. Abita in Corea. E io lo vado a prenderlo. Ma non dirlo a mamà y papà, che altrimenti si arrabbiano. » lo ammonì Lance, e Dom annuì convinto.
« E come ci vai, in Corea? »
« In aereo. Perché ho lavorato tanto e ho tanti soldi, quindi vado in aereo. Cioè, non è che mi compro un aereo… Mi compro solo il biglietto. » Lance ci teneva a puntualizzare la cosa. Aveva bevuto decisamente troppo.
« … Non potresti comprare direttamente la Corea? » sussurrò Dom, e Lance ci pensò su prima di scuotere con energia la testolina coperta da tanti corti fili castani.
« No, no. In Corea non c’è Varadero. Mi prendo solo Keith e poi me ne vado. » stava pronunciando quelle parole con un’innocenza estrema, degna di un ragazzino innamorato ed estremamente sbronzo quale era lui.
« Ma non dirlo a papà y mamà, Dom! Questo è il nostro segreto! »
« Lo è. Starò zitto, zitto, zitto. »
Lance sciolse la rigidità delle proprie sopracciglia, rilassandole… E, come se nulla fosse stato, riprese a bere.
 
 
16/08, Varadero, Cuba, ore 02:12
 
02:12
“KEITH MI AMOR COMO ESTAS”
02:14
“… Co-cosa?”
02:15
“Devo insegnarti lo spagnolo!!! Come stai??”
02:15
“Sì, decisamente... Sembra la lingua di Satana.”
02:15
“Sto bene, Lance. E tu? Ti sei divertito?”
02:18
“Da morire!!! Ora sono appena arrivato a casa e mi sono messo a letto e non so come sto facendo a scrivere senza fare errori di ortografia ma penso si dover ringraziare il correttore automatico”
02:20
“Mi fai morire, quando sei ubriaco.”
02:23
“Lo dici come se accadesse spesso!!!”
02:23
“Amore, amore”
02:23
“Ti rendi conto di quanto poco manchi”
02:23
“Io ti porto via con me”
02:25
“Lance…”
02:25
“Hai ragione. Manca pochissimo.”
02:26
“Lo so!!! Manca tipo un mese!!! E io ho i soldi, Keith!!!”
02:27
“Ci crederò solo quando ti vedrò qui, mi dispiace.”
02:28
“Allora preparati gli occhi!!!”
02:29
Immagine inviata.
 
La testa di Lance girava in maniera esagerata. Era sdraiato a letto, ed era come se il mondo gli stesse ruotando attorno… E gli piaceva da morire. Ma riusciva solo a stare sdraiato sulla schiena, perché sentiva che se si fosse messo di fianco sarebbe sprofondato nel vuoto.
Quindi così, preso dall’euforia, si era scattato una foto alla luce della lampadina accanto al proprio letto.
Si era preso dall’alto. Era senza maglia, lievemente sudato a causa di quel maledetto caldo, con un braccio flesso e l’altro teso a reggere il telefono, e la mano del braccio flesso era accasciata sul proprio ventre ben segnato dalla ‘v’ degli addominali.
La foto si fermava al ventre, ma in ogni caso il bacino sarebbe stato coperto.
A dire il vero, Lance voleva solo mandargli una foto del proprio sorriso bianco e sereno, così, giusto per fargli vedere che fosse felice, in quel preciso istante.
Non era colpa propria, il fatto che il proprio corpo nudo fosse venuto nella foto.
 
02:32
“… Dio, Lance. Avvertimi.”
02:33
“Che ho fatto???”
02:33
“Sei… Scoperto.”
02:34
“Lo so! Fa caldo, a Cuba, sai???”
02:35
“No, intendo. Il tuo corpo”
02:35
“è”
02:35
“Perdonami, mi è partita la tastiera. Dicevo, hai un bel corpo.”
02:37
“Ho un bel corpo???”
02:38
“Sì. Molto bello.”
02:39
“Ti piacerà di più quando sarà sopra di te”
 
 
16/08, Seul, Corea del Sud, ore 17:40
 
Keith aveva deglutito sonoramente, seduto sulla poltroncina della propria scrivania, davanti a un paio di quaderni pieni di appunti che non erano più stati degnati della minima attenzione.
Quella foto di Lance lo aveva distrutto.
Fino a quel momento, aveva potuto vedere solo le sue clavicole.
Ma lì… Lì si vedeva ben di più. Si vedevano le sue braccia, il suo collo, il suo petto, i suoi addominali, la sua pelle ambrata… Il suo sorriso così meravigliosamente bianco. E per Keith quello era troppo. Perché era di buonumore, in quei giorni, lo era davvero, ora che pian piano si avvicinava il giorno in cui sarebbe uscito da lì.
E foto del genere, quelle non facevano altro che renderlo ancora più euforico.
E, con “euforico”, intendeva “eccitato”.
Perché, fino a quel momento, decine erano state le volte in cui, prima di andare a dormire, si infilava una mano nei pantaloncini pensando anche solo all’idea di Lance. Anche solo al suo collo o alle sue labbra.
Ma ora, davanti, aveva il suo corpo.
Seduto a gambe incrociate sulla poltroncina, si strinse tra le dita della mano l’inguine già bollente da prima.
Poi digitò la risposta.
 
“Dimmi perché dovrei crederti.”
 
Non l’avesse mai fatto.
 
 
17/08, Varadero, Cuba, ore 14:23
 
Le ultime ore, Lance le aveva passate ad autocommiserarsi. Perché questa era la propria dannazione: ubriacarsi, e poi ricordarsi tutto il giorno seguente.
E lui ricordava tutto. Ricordava ciò che aveva detto a Dom. Ma, soprattutto, ricordava ciò che era successo con Keith. E, anche se non l’avesse ricordato, c’erano i messaggi sulla conversazione a fare da testimoni.
Alla fine… La situazione era degenerata. Lance aveva, se non altro, avuto almeno la decenza di nascondersi sotto alle coperte prima di iniziare a gemere.
E i messaggi che aveva mandato a Keith… Dio, si vergognava da morire anche solo rileggendoli, ora.
“Toccati di più, pensa alle mie mani”
“Voglio prenderti quelle cosce e aprirle davanti a me”
“Sei così bello, voglio morderti ovunque”
Poi era giunto il peggio del peggio, alla fine, quando era quasi giunto al limite, e di quello si sarebbe pentito e vergognato fino al giorno della propria morte.
“Voglio fare l’amore con te finché non mi viene un infarto”
(Alla quale, per inciso, Keith, che era sobrio, aveva risposto “Anche io.”)
 
Ma, ora, c’era un’altra questione da risolvere.
C’era la questione di Dom, che da tutta la mattina gli lanciava occhiate su occhiate, segno che volesse parlare. Ma Lance… Non ne aveva le forze.
Sapeva di doverlo fare, ma come? Come avrebbe potuto spiegare una cosa del genere? Come avrebbe potuto chiedergli di tenere segreta la propria toccata e fuga in Corea del Sud, che si sarebbe svolta a distanza di un solo mese?
« Dom. Se lo dici ai nostri genitori, giuro che ti brucio l’officina. » così, ecco, così glielo avrebbe potuto chiedere. E così fece.
Dom, chiudendo la porta del garage dall’interno in modo che nessuno potesse sentirli, si voltò, guardando il fratello.
« Lance, Lance, calmati. Lo sapevo già. Sapevo che tu avessi un fidanzato, o quello che è. » sussurrò… E Lance sgranò gli occhi.
Cosa? Come poteva saperlo? Lance non aveva mai detto nulla, aveva messo la password al cellulare, era sempre stato attento a non farsi sentire…
« Me l’ha detto Lucil. Ha detto che ti ha sentito parlare con un ragazzo, e che tu l’hai chiamato “amore mio”… Ma non l’ha detto a mamma e papà, non preoccuparti. »
Lance stava per scoppiare in lacrime dall’ansia.
Doveva ringraziare Lucil per averne parlato solo con Dom. E doveva anche gridarle un bel “Vedi di farti gli affari tuoi”. Ma sapeva di non averne il coraggio, non avrebbe mai fatto del male psicologico alla propria sorellina.
« Quindi… Per questo mi hai portato a bere? Volevi che ti raccontassi? » Dom annuì alla propria domanda, e Lance pestò il piede per terra. Non era arrabbiato, solo… Non aveva bisogno di sentirsi rimproverare da Dom. Non aveva bisogno di bastoni tra le ruote. Non aveva bisogno di-
« Se hai bisogno di aiuto, ho dei soldi da parte. Per i biglietti dell’aereo, intendo. Sono il fratello peggiore del mondo, ma… Se lo ami tanto da farti il culo al lavoro come non hai mai fatto prima, allora per me puoi anche vivere quest’avventura. Ma stai attento, okay? Perché se papà lo scoprisse ci caccerebbe di casa. »
Lance gli si fiondò addosso. Questo era ciò di cui aveva bisogno. Questo era ciò che avrebbe voluto sentirsi dire da lui.
« Sei il miglior hermano del mondo. »
 
Quanto a Keith… Ne parlarono. Oh, ne parlarono eccome, di ciò che era successo quella sera. Ma mai una volta venne fuori la parola “Scusa”, perché nessuno dei due poteva dire di aver mentito.
Era chiaro cosa volessero. Erano chiari i sentimenti che provavano, così come era chiara l’emozione dovuta al fatto che, presto, si sarebbero visti.
E Keith, soprattutto, aveva poco di che lamentarsi. Lance aveva paura che fosse rimasto stranito dai propri messaggi, ma lui gli aveva confidato che, quando il castano gli aveva detto di volergli aprire le cosce, aveva davvero aperto le cosce, sulla sua poltroncina, e che aveva dovuto copiare gli appunti su un altro foglio perché quello che era sul tavolo in quel momento si era sporcato tutto di liquido bianco.
Lance, a quelle sue parole, aveva sbattuto la testa contro un palo, perché le aveva lette mentre era andato a fare la spesa, e si era ritrovato a dover raccogliere arance e pacchi di pasta per ogni dove.
… Ma era sereno da morire. E non vedeva l’ora che accadesse di nuovo.
 
In ogni caso, mancava poco più di un mese.
Keith sarebbe uscito dall’orfanotrofio il primo di ottobre, e Lance aveva scoperto che i biglietti gli sarebbero costati più del previsto. Qualcosa come poco meno di cinquemila dollari americani. Alla notizia era sbiancato, era vero… Ma li aveva. Aveva i maledetti soldi. Anche grazie a Dom, ma li aveva. Cioè, gliene mancavano ancora un po’, ma li avrebbe avuti.
E i voli erano lunghissimi. Avrebbe dovuto fare cambi con l’aereo in qualsiasi caso, o a New York, o a Dallas o a San Francisco, o addirittura in Giappone.
E Lance non era mai neppure salito su uno skateboard, figurarsi su un aereo.
Era… Terrorizzato. Più quel giorno si avvicinava, più aveva paura. Paura di perdersi, di perdere l’aereo, di trovarsi senza soldi, di non trovare Keith… Stava andando alla cieca. E Lance non era una persona organizzata. Non trovava neppure le chiavi di casa in tasca, come diamine avrebbe viaggiato per la Corea del Sud senza neanche capire la lingua? Come sarebbe arrivato al collegio di Keith? Che moneta usavano, in Corea? Avrebbe avuto abbastanza soldi? E i propri genitori, oh, loro come avrebbero reagito, vedendosi arrivare un nuovo ragazzo in casa?
Lance si stava davvero muovendo nel buio. Non dormiva di notte per cercare di organizzare i propri pensieri.
 
Nel caso, beh… Si sarebbe fatto una vacanza a Seul.

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Capitolo 14
*** capitolo 14 ***


Sono viva.
Vi chiedo scusa per il ritardo, sono stata impedita da un po’ di interrogazioni a scuola e solo ora sono riuscita a pubblicare il capitolo. Penso sia uno dei capitolo di cui vado più fiera, quindi spero seriamente che ne rimaniate soddisfatt*!
Importante:
Alla fine, questo è il penultimo capitolo. Presto pubblicherò l’ultimo, ma se ne avessi scritto uno solo mi sarebbe venuta una roba lunghissima e meno bella di ciò che avevo in mente, quindi ecco a voi!
Superimportante:
Ecco la canzone protagonista di questo capitolo. Non vi dico chi la canta.
https://www.youtube.com/watch?v=4JipHEz53sU
 
Buona lettura, gioie ♡
 
CAPITOLO 14
 
01/09, Santa Marta, Cuba, ore 15:36
 
Anche settembre, a Cuba, era estremamente caldo. Anzi, a dire il vero, era decisamente il mese più caldo. E terribilmente umido, come se non bastasse. La temperatura media durante quel mese era di 29 gradi Celsius, ma in certi giorni si alzava addirittura a 35. Se non altro, pioveva spesso.
Per chi amava il caldo, quella era una benedizione: al mare si stava bene, l'acqua era piacevolmente rinfrescante, e in riva alle spiagge la brezza era fresca, quando accarezzava i corpi umidi delle persone.
Che poi, a dire il vero, agosto e settembre erano i mesi peggiori per andare a Cuba perché pioveva spesso e c’era sempre il rischio di una tempesta tropicale, ma fondamentalmente ai turisti non importava, quindi ci andavano lo stesso.
Cuba era piena di persone in ogni singola stagione. Fin da sempre, ma in particolare dall'inizio dell'Embargo, l'economia dell’isola si era basata principalmente sul turismo, quindi chiaramente gli abitanti locali non avrebbero mai rinunciato ad accogliere persone su persone provenienti da qualsiasi parte del globo, giorno e notte, d’inverno o d’estate.
Effettivamente, Cuba era un posto meraviglioso. Turisti da tutto il mondo e di tutte le età giungevano a riempire le strade e le spiagge, a renderle un misto di varie etnie, di vari colori di pelli, dalle più chiare dell'Europa del nord alle più scure dei popoli afro-americani, e di varie forme del viso, dagli occhi più assottigliati dei turisti orientali alle labbra più carnose delle donne delle isole esotiche.
E ancora, le città brulicavano di vestiti diversi, di camicie a fiori classiche degli americani, di veli tutti colorati tipici dei paesi mediorientali, di ragazze in bikini fantasiosi e ragazzi in costumi monocromo.
La fortuna di quel caldo afoso erano i venti alisei, freschi e rinvigorenti, che permettevano la pesca, le escursioni in vela, e davano alle persone un minimo di sollievo da quel caldo, insopportabile per la maggior parte degli abitanti.
 
Quel giorno, l’aliseo soffiava forte.
A dire il vero, la temperatura in generale era parecchio bassa, grazie al vento e alla pioggia, ma per chi era abituato al caldo quello era un vero toccasana.
Le spiagge erano vuote a causa dei forti rovesci d’acqua, ma le strade no, quelle erano sempre piene di gente, ora coperta da mantelline e ombrelli.
Alle persone non importava il tempo: Cuba era bella, le persone erano dolci, e tutti, nel loro minimo, nel loro microcosmo, stavano bene.
 
Lance e Pidge erano a casa di Hunk, nel centro di Santa Marta, seduti sul divano davanti alla televisione e allo schermo di un computer.
Il volume della tv, già basso di suo, era reso completamente inutile dal suono della pioggia che sbatteva contro i vetri e contro le strade, e dal vento che muoveva le persiane e le foglie degli alberi che costeggiavano i viali.
Ma non era la tv il soggetto principale di quel momento, bensì lo stesso computer, e Lance, che sull’orlo delle lacrime lo guardava. Gli occhi rossi, le borse scure sotto di essi, le mani che tremavano sulla tastiera. Una mano di Hunk sulla spalla destra, una mano di Pidge su quella sinistra. E sospiri che uscivano dalle sue labbra.
« Non ce la farò mai. » ripeteva da almeno cinque minuti, singhiozzando senza lasciare che lacrime isteriche gli solcassero gli zigomi abbronzati.
Lo sguardo era fisso sul prezzo dei biglietti aerei per il primo del mese di ottobre, direzione Seul, Corea del Sud. E gli occhi stessi erano vuoti di tutto, se non di panico.
« Lance… Ci hai pensato a fondo? » la vocina di Pidge ruppe il silenzio, accompagnata dalla pioggia in sottofondo e dai sottili singhiozzi del ragazzo dai capelli castani e dagli occhi blu mare.
« Sì. Sì, ci ho pensato. Solo… Pensavo costassero meno. » soffiò questo, ritirando le mani dalla tastiera del computer e posandosi i palmi davanti agli occhi, come sperando che, levandoli, si sarebbe trovato davanti un prezzo dimezzato.
Costavano. Costavano tantissimo. E lui i soldi li aveva, certo, li aveva per davvero, perché aveva lavorato sodo e Dom gli aveva prestato ciò che aveva potuto, ma… Ma quello era il momento in cui avrebbe dovuto decidere tutto.
Avrebbe dovuto decidere se comprarli o meno, quei biglietti. Avrebbe dovuto decidere se spendere o meno tutti i soldi che aveva, che erano più di quanti ne avesse mai avuti, per andare a prendere un ragazzo che non aveva neppure mai visto dal vivo. Dall’altra fottuta parte del mondo, per di più.
« Lance… Devi decidere ora. Più i giorni passano, più i biglietti costeranno. » sussurrò Hunk, con la voce profonda che tremava dal nervosismo quasi più di quella dello stesso Lance. E Lance, dal canto suo, aveva posato una mano sul mouse.
Il cursore del computer pronto sul tasto “Acquista”.
Il cuore che gli batteva nel petto come un martello pneumatico.
Avrebbe dovuto decidere in fretta.
 
Se avesse premuto quel tasto, avrebbe comprato i biglietti. Se avesse comprato i biglietti, avrebbe dovuto trovare un modo per dire ai propri genitori che sarebbe stato via per almeno tre giorni, senza far scoprire loro assolutamente nulla.
Si sarebbe dovuto arrangiare da solo per città che non conosceva, lui, che da solo non riusciva neppure ad andare a L’Avana.
Avrebbe dovuto mantenere la calma, una volta arrivato in Corea, perché se si fosse perso a Seul non avrebbe assolutamente capito come uscirne vivo. I Coreani lo parlavano l’inglese, tra le altre cose? Lance lo sperava davvero.
Avrebbe dovuto cercare il collegio di Keith da solo, organizzarsi una mappa per arrivare dall’aeroporto a lì.
Avrebbe dovuto mantenere il segreto… Perché a Keith non avrebbe detto niente di niente. Voleva fargli una sorpresa, proprio come aveva sempre sognato di fare. Voleva farsi trovare sotto al suo orfanotrofio, salutarlo, abbracciarlo per ore e ore, regalargli una rosa, magari, e renderlo felice. E quello, mantenere il segreto, sarebbe stata la parte più difficile.
 
Se non avesse premuto quel tasto, invece, tutto sarebbe finito.
Non avrebbe mai più avuto il coraggio di scrivere a Keith ancora, perché ciò avrebbe significato un fallimento.
Avrebbe avuto in sé la consapevolezza di aver illuso Keith per tutto quel tempo, di aver infranto le promesse che gli aveva – troppo presto e troppo ingenuamente – fatto, di avergli spezzato il cuore.
Avrebbe avuto su di sé il peso di qualsiasi cosa fosse capitata a Keith, perché se lui avesse ripreso a farsi del male, se lui fosse ricorso a maniere drastiche per superare quel casino che era la sua vita, la colpa sarebbe stata solo propria.
E Lance non era disposto ad accettarlo, perché ormai era troppo tardi. Anche se non gli sembrava vero, non gli sembrava vero che un ragazzino ingenuo e stupido come lui si fosse preso tali responsabilità, responsabilità che avrebbe potuto benissimo evitarsi se solo non avesse mai continuato a rispondere a quei messaggi, cinque mesi prima, quella sera dell’ultimo giorno di marzo.
Ma ormai se le era prese. E voleva tenersele.
E voleva viaggiare per mezzo mondo, vivere una fiaba, andare a prendere il ragazzo che amava e portarlo via con sé. Anche se quella non era una fiaba, era la vita reale, e Lance non aveva soldi neppure per respirare, la maggior parte delle volte.
Ma non gli importava. Per cinque mesi era stato innamorato di lui. E ora, ora sarebbe andato a prenderlo, nonostante tutto.
 
Lance premette il tasto “Acquista”.
 
« … Okay. Bene. L’ho fatto. » furono le proprie parole, sussurrate solo numerosi secondi dopo che, sullo schermo, era apparsa la scritta “Grazie per aver acquistato i nostri biglietti, le auguriamo una buona vacanza!”.
Un biglietto di andata per Seul, due biglietti di ritorno da Seul.
Pidge e Hunk stavano ancora osservando lo schermo, increduli. Era chiaro che non pensassero che Lance sarebbe andato fino in fondo, era chiaro che pensassero che si sarebbe fermato, ma non l’aveva fatto. E Hunk fu il primo a parlare.
« Sei una grandissima testa di ca- »
« Lo so, Hunk! Lo so, ma ormai l’ho fatto. L’ho fatto, okay? Me ne vado a Seul. Me ne vado a prendere Keith. Tra un mese esatto. Se non torno, vi ho voluto bene. » la voce di Lance era isterica, nervosa e tremula, e un sorriso a dir poco inquietante gli solcava le labbra. Era euforico e terrorizzato al tempo stesso.
E come avrebbe potuto non dirlo a Keith? Come avrebbe potuto non dirgli “Ehi, quando esci non scappare subito che devo venirti a prendere”? Come avrebbe potuto mantenere quel segreto per fargli una sorpresa? Perché, se gli avesse detto che non sarebbe potuto andare a prenderlo, lui ci sarebbe rimasto malissimo… Ma se gliel’avesse detto sarebbe saltato tutto!
Doveva pensare a qualcosa.
« Pensi che lo dirai al suo amico, come si chiama, Shiro? » soffiò Pidge, e a Lance si illuminarono gli occhi. Giusto, Shiro! Si sarebbe decisamente fatto consigliare da lui!
« Sei un grande, Pidge. Ho un’idea fantastica. »
 
 
01/09, Varadero, Cuba, ore 18:35
 
Lance aveva il telefono tra le dita, gli occhi fissi sul contatto di Shiro, ed era estremamente indeciso sul chiamarlo o meno.
Sicuramente lui avrebbe potuto consigliarlo bene, conosceva Keith meglio di chiunque altro e aveva la possibilità di vederlo quando voleva, quindi sarebbe stato un bene, parlarne con lui.
Quindi, sconfiggendo le proprie paure, Lance lo chiamò, sperando seriamente che fosse già sveglio.
 
« Uh, pronto, Shiro? »
« Hm… Chi è? »
« Oh, sono Lance! Sai, il Lance di Keith… »
« Oh, certo, certo. Dimmi tutto, Lance. »
« … Ti prego, dimmi che non ti ho svegliato o mi sentirò in colpa per tutta la vita… »
« Non preoccuparti, sono sveglio da un po’. Di cosa hai bisogno? »
« Ecco, io… Vorrei chiederti un consiglio. Insomma, oggi ho preso i biglietti dell’aereo, no? E, ecco- »
« Aspetta, cosa? »
« Cosa devo aspettare…? »
« Hai… Preso i biglietti? Per venire qui? »
« Beh, certo che li ho presi… »
« Nel senso… Parti e vieni qui a prendere Keith? Tra un mese? »
« Io- Certo che ci vengo! Avevi dubbi? »
« Ovviamente avevo dei dubbi. Non pensavo che volessi farlo davvero. »
« Shiro, Keith ha praticamente tentato di uccidersi per colpa mia, penso che portarlo via da lì sia il minimo che posso fare, no? »
« Lance, quella, uh, non è assolutamente stata colpa tua. »
« Sì, sì, non è questo il punto. Insomma, ho preso questi diamine di biglietti e- »
« Lance, fermo. Tu pensi davvero che, una volta uscito da qui, Keith potrà fare ciò che vorrà? »
« … Non… Non è così? »
« Maledizione, Lance! Ti rendi conto dei problemi che ha quel ragazzo? Ha bisogno di cure e di persone che gli stiano accanto, non può permettersi di prendere e volare fino a dove diamine abiti con qualcuno che non ha mai visto prima! »
« Shiro, tu invece ti rendi conto che io e lui di questa cosa ne abbiamo parlato e che lui non vede l’ora che io venga a prenderlo, vero? »
« Non è assolutamente rilevante. Non posso lasciarlo andare con qualcuno del quale non so nulla in un paese ad anni luce da qui. »
« Shiro, tu non sei suo padre! E se lui mi ama e io amo lui allora io vengo in quella città di Satana in cui abitate, me lo carico in spalla e me lo porto dove mi pare, okay? Ti è chiaro il concetto? »
« Lui ti ama. Questo è innegabile. E so benissimo che vorrebbe venire via con te. Ma non funziona così nella vita reale, Lance. »
« Allora, dimmi cosa devo fare per guadagnarmi la tua fiducia. »
« Dimmi dove abiti. »
« Varadero, Cuba. A dire il vero, un po’ in periferia di Varadero… Più vicino a Santa Marta, ecco. »
« Che lavoro fanno i tuoi genitori? »
« Mio padre gestisce un supermercato, mio fratello maggiore ha un’officina, mia madre invece non lavora. »
« Hai altri fratelli? »
« Una sorella di quattordici anni e un fratello di due. »
« E tu, tu lavori? »
« Lavoro al supermercato di mio padre tutte le mattine, ho lavorato come babysitter, dogsitter, catsitter, ho anche tenuto una tartaruga e dei pesci rossi, e ho lavorato come cameriere in un pub e in un ristorante. Ti basta? »
« No. Non frequenti un’università? »
« Mi sarebbe piaciuto studiare ingegneria aerospaziale, ma non, uh, non potevamo permettercelo. »
« A quanto ammonta il reddito annuo della tua famiglia? »
« Uh… Il cosa? »
« Fammi un elenco delle vostre assicurazioni. »
« Non so se abbiamo assicurazioni… Cosa sono? »
« I tuoi genitori sanno di questa storia che hai con Keith? »
« No, ma mio fratello lo sa! »
« Quindi, se Keith venisse con te, per i tuoi genitori sarebbe una sorpresa? »
« Sì! »
« Risposta sbagliata. Richiamami quando saprai rispondere a tutte le mie domande e quando l’avrai detto ai tuoi genitori. Allora, magari, ti darò una mano con Keith. »
 
Shiro riattaccò il telefono in faccia a Lance.
… E Lance non si sarebbe mai, mai aspettato parole del genere da parte sua.
Ma avevano senso. Odiava ammetterlo, ma avevano senso. E odiava ammetterlo perché, e solo ora lo realizzava, aveva davvero cercato di vivere una fiaba.
 
Che poi, insomma. Keith sarebbe diventato maggiorenne, no? Quindi che senso aveva, per Shiro, porgli tutte quelle domande? Perché non avrebbe potuto fare quel che diamine voleva?
Non era importante; ora come ora, doveva solo informarsi. Doveva saper rispondere a tutte le domande di Shiro. E doveva parlarne con i propri genitori.
Ecco, quella sarebbe stata la parte più difficile. Non solo dire loro che era innamorato di un ragazzo, ma anche aggiungere che lui, quel ragazzo, non l’aveva mai visto. Non aveva idea di come l’avrebbero presa. Se gli avessero detto di no? Se gli avessero vietato di andare in Corea, come avrebbe fatto? Sarebbe scappato di casa? E poi?
Non poteva saperlo. Per prima cosa, ne avrebbe parlato con la madre.
 
 
01/09, Varadero, Cuba, ore 21:36
 
21:36
“Keith, ti scrivo tra poco, okay? Devo parlare a mia madre di una cosa!”
21:37
“Va bene, non è un problema. Ci sentiamo dopo.”
 
Il momento era arrivato. Il padre era andato a dormire presto, quella sera, perché la mattina seguente si sarebbe dovuto svegliare parecchio presto; la sorellina stava tenendo Adrian, e insieme guardavano la tv; Dom era in camera sua: tutto era perfetto. La madre Athalie stava pulendo la cucina, con i capelli castani raccolti in un muccetto e un grembiulino rosso legato attorno alla vita, in maniera tale che le coprisse il leggero vestito a fiori rosa e arancioni.
Lance la osservò per qualche secondo.
Mai e poi mai, in famiglia, era saltata fuori quella conversazione. Mai Lance aveva parlato di ragazzi, mai aveva anche solo accennato ad un’ipotetica omosessualità di qualcuno. Non aveva idea di come la propria famiglia avrebbe reagito.
« Uh, mamà? Posso parlarti un secondo? » sussurrò il castano, varcando la soglia della cucina e chiudendosi alle spalle la porta di legno.
La madre, con una spugna impregnata di sapone in una mano e lo sgrassatore nell’altra, posò lo sguardo su di sé, annuendo con un sorriso dolce dipinto sulle labbra sottili. Lei e Lance avevano sempre parlato di tutto, non c’erano mai stati segreti, tra di loro… Fino a cinque mesi prima.
« Lancey, certo che puoi. Vieni, dimmi tutto. » la sua voce era tenera e rassicurante, morbida come zucchero filato. E Lance, ora, doveva solo radunare tutte le forze che aveva in corpo per sputare fuori i propri segreti.
« Ecco, io… Uh… Mi- mi sono innamorato. Penso. Cioè, ne sono sicuro. »
« Patito, cosa mi dici mai? Di chi? Oh, sono così felice! » stava gridando, quella donna, con la sua vocina acuta ed emozionata! Lance le fece segno di rimanere in silenzio, posandosi l’indice davanti alle labbra.
« Mamà, por favor… Non voglio che lo sappiano tutti, è un segreto! » sì, Lance stava cercando di prendere tempo. Non sapeva come dirglielo. Non sapeva che parole usare, che faccia fare… Forse avrebbe solo dovuto dirglielo con naturalezza? Sì, avrebbe fatto così. Sarebbe andato tutto bene.
« Ecco, io… Di… Di un ragazzo. Si chiama Keith. »
L’aveva detto. L’aveva fatto. Aveva detto alla madre di essere innamorato di un ragazzo. Aveva ammesso di non essere più eterosessuale. E non riusciva a guardarla in faccia, ora, perché sapeva benissimo che faccia avesse: confusa, interdetta, e probabilmente non sapeva cosa dire. Ed era così.
Athalie sbatté le palpebre un paio di volte, prima di piegare appena il viso di lato. Lance, in silenzio, aveva lo sguardo fisso sui propri piedi.
“Parla”, pensò, “ti prego, di’ qualcosa”; e Athalie parlò.
« Oh, beh… Non- Non me l’aspettavo. Sei sempre stato un tale donnaiolo… Mi hai colta proprio di sorpresa. » la sua voce era nervosa, ma non arrabbiata. Lance tirò un sospiro di sollievo. Ma, ora, sarebbe arrivata la parte più difficile.
« E dimmi, Lancey… Di dov’è questo Keith? Abita a Santa Marta? »
Ecco, appunto. Lance, ancora una volta, sospirò. Doveva dirglielo in quel momento o mai più, non poteva aspettare, doveva dirle tutto, così poi avrebbe richiamato Shiro e si sarebbe messo d’accordo con lui.
Doveva farlo per il suo Keith.
« Oh, lui è di… Uh… Seul. Corea. Corea del Sud. Sai, tra Cina e Giappone, penso. »
Aveva fallito in pieno. Aveva pronunciato quelle parole con tranquillità, con vaghezza, e Athalie aveva sgranato gli occhi. No, così non andava bene. Lance doveva riprendere a parlare prima che lei iniziasse a rispondergli.
« Sai, ci siamo conosciuti per caso, sul telefono, qualcosa come… Cinque mesi fa, e abbiamo legato tantissimo! Lui è una persona dolcissima! Cioè, soffre di depressione, quindi a volte sta un po’ male, ma la maggior parte delle volte sta bene, anzi, a dire il vero ultimamente sta sempre bene! E insomma, soffre di depressione perché vive in un orfanotrofio, perché i suoi genitori sono morti quando era piccolo, ma tra un mese ne uscirà, no? Quindi ora sta davvero meglio! »
La madre non aveva smesso un attimo di guardarlo, con gli occhi chiari sgranati e con le dita strette attorno alla spugna, tanto da sporcarsi tutta la mano di sapone.
Poi, il silenzio calò. Il respiro di Lance era irregolare, le proprie gambe tremavano, ma ormai aveva detto tutto. Tranne la parte in cui lui voleva scappare, andare a prenderlo, tornare e vivere come se nulla fosse stato.
E già fin lì la madre non sembrava essere molto contenta di quelle nuove notizie, anzi, sembrava confusa, preoccupata e… Senza parole. Ma alcune parole uscirono comunque dalle sue labbra.
« E tu… Tu sei, ecco, innamorato? Di questo ragazzo della Corea. Che è depresso… E che suppongo tu non abbia mai visto? »
Lance annuì. Non sapeva che altro fare se non annuire con tutta la convinzione che avesse in corpo. Sapeva che la madre non si sarebbe mai aspettata una cosa del genere da sé, sapeva che la situazione non si sarebbe risolta facilmente, ma aveva già dimostrato di saper gestire la propria vita, no? e di essere una persona responsabile, quando voleva! E aveva mostrato anche di sapere cosa volesse davvero, perché Lance era testardo, otteneva sempre ciò che voleva. Tranne le ragazze, quelle non le aveva mai ottenute… Ragion per cui, ora, doveva assolutamente impegnarsi con Keith!
« Lancey, mi amor. La Corea è molto lontana, e io… Non voglio vederti triste, capisci cosa intendo dire? »
Lance lo capiva benissimo, quindi annuì. Capiva cosa intendesse: intendeva dire che non pensava che quella situazione sarebbe mai andata a finire bene, che Lance era un ragazzo emotivo e si sarebbe lasciato trasportare, e che, di conseguenza, avrebbe sofferto. Ma lei non sapeva che Lance avesse un piano.
« Lo capisco, lo so… Per questo ho un piano! Tra un mese vado in Corea e lo vado a prendere, così lo porto qui! »
Athalie lo guardò. Sbatté ancora le palpebre chiare, poi sospirò, e infine appoggiò la spugna sul bancone della cucina. Poi, sospirò ancora una volta.
« … Perdonami? »
« Insomma, ho lavorato tutta l’estate e sono riuscito a mettere da parte dei soldi, quindi oggi ho comprato i biglietti e me vado in Corea! Verso il primo di ottobre, ecco, e starò via in tutto tre giorni. Va bene, no? »
No. Non andava bene per niente.
 
« Lance, amorcito… Tu non vai da nessuna parte. » soffiò lei, scoppiando in una risatina a metà tra il confuso e il divertito.
E Lance la seguì, sorridendo. Sull’orlo delle lacrime.
Lo sapeva. Cioè, era ovvio. Era ovvio che non avrebbe mai approvato, era ovvio che non l’avrebbe lasciato andare in Corea, era ovvio che Lance sarebbe dovuto rimanersene lì a Cuba e lasciar perdere tutto.
 
Era ovvio che non l’avrebbe fatto.
Era ovvio che sarebbe scappato.
 
 
04/09, Varadero, Cuba, ore 19:12
 
Lance, ovviamente, a Keith non aveva detto nulla.
Da quella sera, da quella confessione che il castano aveva fatto alla madre, l’argomento non era più saltato fuori. Lui le aveva fatto promettere di non dire nulla al padre, lei lo giurò. In cambio, lui la rassicurò, dicendole che “non era nulla di serio” e che “avrebbe potuto lasciar perdere.”
In tutto ciò, erano tre notti che Lance non chiudeva occhio.
Dopo la discussione con Shiro, aveva fatto una marea di ricerche su cosa fossero le assicurazioni (per inciso: la propria famiglia non ne aveva), su cosa fosse un reddito annuo (per inciso: quello della propria famiglia era bassissimo) e, se non altro, aveva provato a parlarne con la madre.
Ora doveva solo… Mentire. E Lance avrebbe saputo farlo. Perché si era preparato un discorso, aveva imparato a mantenere la calma, e così avrebbe fatto.
Quindi, nel vialetto della propria casa, con il telefono in mano, premette sul tasto per chiamare Shiro. Era pronto a tutto.
 
« Pronto, Lance? »
« Sì, ciao. Allora, non abbiamo assicurazioni, ne avevamo una sulla casa ma tanto se crolla ci fa solo un piacere. Il reddito annuo non sto manco a dirtelo, è basso, ma abbiamo entrate sufficienti per sostenere quattro ragazzi e due adulti, e se mi metto a lavorare come ho fatto in questi mesi entro poco sarò in grado di prendermi un appartamento tutto mio. E ne ho parlato a mia madre. E sai che ha detto? Ha detto che va bene. Ha detto che vuole vedere se sarò in grado di cavarmela, ha detto che si fida di me e che mi lascerà venire in Corea. Okay? »
« … O-Okay? »
« … Davvero? Tutto a posto? »
« Beh, no, non è tutto a posto, ma… Ho parlato con Keith. »
« Che? Che hai fatto? Non gli hai mica detto che vengo, vero? »
« No, no, tranquillo. Gli ho solo chiesto se… Se ne fosse sicuro. »
« E…? »
« E ha detto che se non vieni a prenderlo si mette a nuotare fino a Cuba. A questo punto, preferisco saperlo su un aereo, piuttosto che in mezzo all’oceano. »
« Io… Oh. »
« Quindi, insomma, io non sono suo padre. Ma lui, per me, è come un fratello. Devi capire che ho bisogno di garanzie, ho bisogno che tu mi assicuri che non lo lascerai neppure per un secondo. Quel ragazzo è fragile, Lance, e se tu lo lasci cadere lui cade. E non si rialza. »
« Shiro… Puoi stare tranquillo. Davvero. Non penso ad altro da mesi, non dormo di notte per pensarci, e ho capito che è ciò che voglio davvero. Voglio stare con Keith, lo voglio avere qui con me. »
« Anche perché, se gli farai del male, ti giuro su ciò che ho di più caro che sgancio una bomba su tutta Cuba. Giusto per essere sicuro di non mancare la tua casa. »
« Concetto afferrato. »
« Allora… Mi sembrava volessi chiedermi qualcosa, no? »
« Sì, giusto! Ecco… Vorrei fargli una sorpresa. Hai qualche consiglio? »
« Per tua fortuna, sì. »
 
La conversazione andò bene.
Shiro gli diede degli ottimi consigli, gli disse di dire a Keith che sarebbe andato a prenderlo una settimana dopo la sua uscita dall’orfanotrofio, e che nel frattempo Shiro lo avrebbe fatto dormire a casa sua. In questo modo, presentandosi davanti al collegio il giorno stesso della sua uscita, gli avrebbe fatto una bella sorpresa.
Inoltre, Shiro gli diede indicazioni su come arrivare all’orfanotrofio dall’aeroporto, su come muoversi per Seul, consigli che Lance annotò immediatamente nel proprio quadernino degli appunti su Keith.
Al castano cadde l’occhio su alcune parole.
 
“Gli piacciono le rose bianche come a me!!!”
“Ascolta band sconosciute ma fighe”
“Non lo ammette ma secondo me ha un debole per i 5sos”
“Ama il rosso, voglio regalargli qualcosa di rosso, magari una maglietta?”
“Non indossa magliette, quindi gli regalerò un maglione”
“Non indossa magliette perché non gli piace il suo corpo”
“Anche se è bellissimo”
“Il suo migliore amico si chiama Shiro, è alto e potrebbe spezzarmi il collo con un mignolo (parole di Keith)”
“Non si è mai ubriacato”
“Ogni tanto fuma (!!!)”
“Mi ha mandato una sua foto, la stampo qui:”
 
E la foto che Keith gli aveva mandato stampata su un foglietto di carta e incollata sotto a quelle stesse parole. Lance la guardò. Osservò il suo viso dolce, i suoi capelli scuri, quelle mani che presto avrebbe stretto tra le proprie.
Sarebbe scappato in quel preciso istante, pur di andarlo a prendere.
 
 
07/09, Seul, Corea del Sud, ore 14:23
 
Dalla camera di Keith proveniva un suono molto strano. E Shiro se ne accorse, perché non era un suono che si pensava potesse provenire dalla camera di qualcuno come Keith. Erano… Gemiti, possibile? Sembravano gemiti femminili. O gemiti di una voce molto femminile.
Shiro si avvicinò alla porta, sentendosi in colpa e terribilmente incuriosito allo stesso tempo. Possibile che… Keith stesse facendo qualcosa? Con qualcuno? No, era impossibile che stesse tradendo Lance, quindi… Possibile che quella fosse la sua voce? Che fosse lui a gemere? Shiro arrossì di colpo. Keith era come un fratello minore! Non poteva fare quelle cose! Non poteva toccarsi, non era… Giusto! Era troppo piccolo ed indifeso per gesti del genere, per gemiti così spinti, così…
Shiro bussò alla porta. E Keith aprì.
 
« Keith…? »
« Sì, Shiro? »
Shiro non aveva parole per descrivere la scena che aveva davanti.
C’era Keith. In piedi, sulla soglia della porta della sua camera, con una pila di magliette piegate nelle mani, uno sguardo confuso, e… Un paio di pantaloncini addosso. Un paio di rossi pantaloncini corti. E una maglietta nera a maniche corte che gli copriva il corpo magro, lasciando ben evidenziate le braccia candide e piene di cicatrici.
Ma Keith sembrava non essersene neppure accorto. Aveva un’espressione tranquilla e confusa dipinta sul bel viso, i capelli tirati indietro in un codino, la faccia di un gatto al quale era appena stata pizzicata, per gioco, la coda.
Shiro voleva fargli una foto e mandarla a Lance in quel preciso istante. Anzi… Un video, perché i gemiti femminili di sottofondo c’erano ancora.
« Keith… Stai davvero ascoltando Nicki Minaj? »
 
Keith scoppiò in una risata cristallina, facendo cenno all’amico di entrare in camera mentre riponeva nel cassetto dell’armadio la pila di magliette ben piegate.
« Beh, sì! Me l’ha consigliata Lance! A dire il vero non la capisco molto, dice spesso parole buffe… Ma è allegra! » esclamò Keith, volteggiando per la sua cameretta al ritmo di “Super Bass”.
« Io… No, certo… »
« Shiro, stai bene? Sembri sconvolto… » Keith si incrociò le braccia il petto, forse realizzandolo solo in quel momento, il fatto che esse fossero scoperte « Oh, è per questo? Ho deciso che voglio abituarmi! Insomma, a Cuba fa caldo, e non potrò stare in felpa tutto l’anno… Inoltre, non voglio che Lance mi veda come un debole. Ha fatto tutto questo per me, voglio ricambiare diventando più forte! Posso permettermi questi pantaloncini, no? » aggiunse, indicando i pantaloncini rossi che indossava, che gli arrivavano fino alle ginocchia magre.
E Shiro, confuso ed estasiato al tempo stesso, annuì.
« Boy, you got my heartbeat running away! Beating like a drum, and it’s coming your way! Can’t you feel that bum, badum bum bum, badum bum bay? »
Keith cantava, muovendosi agilmente per la stanza mentre riordinava tutti i vestiti in ordine di colore. E Shiro, in piedi e immobile, pensò che, forse, non aveva commesso un errore poi così grande, incoraggiando Lance a venirlo a prendere.
 
« Keith? Posso farti una foto? Ti prego. Per Lance. Lui merita di vederti. » soffiò Shiro, e Keith, con il codino di capelli che ancora ondeggiava al ritmo della musica, annuì lievemente, sorridendo in direzione del proprio telefono, stretto tra le dita del migliore amico.
 
 
07/09, Varadero, Cuba, ore 00:23
 
00:23
Immagine ricevuta.
00:24
“KEITH”
00:24
“KEITH SEI TU?”
00:25
“keITH AVEvo appena preso sonno ma quESTA COME ME LA SPIEGHI”
00:25
“Keith mioddio sei l’essere più meraviglioso che sia mai stato creato da quando sei così bello io non pensavo fossi così tanto bello io”
00:25
“Keith sto avendo un attacco di panico??”
00:28
“Lance, sono Shiro. Keith dice: ‘Finisco di ascoltare Super Bass e ti rispondo’.”
00:29
“Di’ a quel ragazzo che sono pazzo di lui”
00:30
“Keith dice: ‘E io sono pazzo di te’.”

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Capitolo 15
*** capitolo 15 (pt.1) ***


Lo so, ci ho messo secoli, e indovinate? Non è ancora l’ultimo capitolo!
Mi stava venendo troppo lungo, e per la seconda parte ci impiegherò ancora più tempo, visto che fino a venerdì dovrò studiare.
Ma prometto che, entro settimana prossima, pubblicherò la seconda parte di questo capitolo, ovvero la parte finale.
Non odiatemi, vi prego.
 
Ecco le canzoni trash di questo capitolo:
Alvaro Soler – El Mismo Sol: https://www.youtube.com/watch?v=aNHwNreDp3A
Rihanna – Where Have You Been: https://www.youtube.com/watch?v=HBxt_v0WF6Y
 
CAPITOLO 15 (pt.1)
 
28/09, Varadero, Cuba, ore 10:35
 
Come era stato durante tutta la settimana precedente, così fu anche quel giorno. Pioveva, a Varadero, e pioveva anche parecchio. Pioveva così forte che non si sentivano neppure i rumori delle macchine che passavano in strada, le voci delle persone che parlavano tra di loro coperte da grandi ombrelli colorati, ogni rimbombo veniva confuso con un tuono, e ogni tuono veniva confuso con un suono qualsiasi.
A dire il vero, pochi erano i coraggiosi che si avventuravano sotto ad una pioggia così fitta. Fortunatamente, se non altro, non c’era vento. Ma l’aria era calda, umida, e la pioggia non rinfrescava poi molto.
Cadeva pesantemente sull’asfalto delle strade, con ticchettii veloci e fitti, come se stesse ballando sul pavimento. Era fastidiosa, nelle orecchie delle persone.
Soprattutto di quelle che non dormivano da notti intere.
Era fastidiosa per chi, dall’interno di un piccolo supermercato, cercava di riordinare gli scaffali dei biscotti con scrupolosa meticolosità, distraendosi con le note di “El Mismo Sol” di Alvaro Soler, che stava passando alla radio.
Era fastidiosa per Lance, che non riusciva a smettere di pensare a cosa sarebbe accaduto due giorni dopo.
L’ultimo giorno di settembre. Il giorno in cui sarebbe partito per Seul, senza dire nulla a nessuno. Il giorno prima del proprio incontro con Keith.
 
“Aquì todos estamos, bajo el mismo sol.”
 
Quella canzone era allegra, ne passavano i remix nei pub e nelle discoteche di Cuba, ma Lance sentiva solo le parole che voleva sentire.
Lui e Keith non erano sotto lo stesso sole. Erano lontani migliaia di chilometri, erano distanti quattordici ore di fuso orario… Ma, almeno, erano sotto lo stesso cielo. Respiravano la stessa aria. Vivevano sullo stesso mondo, e questo nessuno avrebbe potuto portarlo via da loro.
Per quanto lontani fossero, entrambi respiravano negli stessi istanti, i cuori di entrambi battevano allo stesso tempo, e Lance ne aveva la piena consapevolezza. E, presto, non avrebbe più pensato a nulla del genere. Non avrebbe più avuto in mente certe idee, perché Keith sarebbe stato lì con sé.
 
Lance aveva paura. Aveva paura da morire. Si era organizzato, questo era vero, aveva nascosto i biglietti dell’aereo sotto al materasso del letto, aveva disegnato e studiato mappe su mappe, orari su orari, aveva persino imparato qualche parola in coreano, così, giusto per essere sicuro.
Ma era terrorizzato. Non avrebbe saputo cosa fare, una volta tornato a Cuba. La madre… Lei sarebbe divenuta matta. Il padre, lui probabilmente si sarebbe arrabbiato così tanto da cacciarlo di casa. Perché nella famiglia McClain non c’erano mai stati segreti, non c’erano mai stati problemi, e presto ne sarebbe arrivato uno bello grosso.
Se non altro, Lance aveva Dom dalla propria parte. Lui lo avrebbe protetto, lo avrebbe coperto e difeso, e così avrebbe fatto Lucil, perché lei era intelligente, nonostante la sua età. Avrebbe capito, lei.
Forse, col tempo, anche i genitori avrebbero capito.
Ma Lance aveva paura lo stesso. Avrebbe compiuto quell’impresa da solo, nonostante Shiro, a Seul, avesse già organizzato e sistemato parecchi dettagli del piano. Lance sarebbe salito su un aereo da solo – Dom lo avrebbe portato all’aeroporto – e avrebbe fatto scalo a San Francisco. Dall’altra parte dell’America. In un aeroporto enorme. Avrebbe avuto due ore di tempo per trovare il gate dell’aereo che lo avrebbe portato in Corea, questo era vero, ma… Aveva il terrore di perdersi. Aveva il terrore che il proprio aereo facesse ritardo. Aveva il terrore di dover chiamare la madre e di doverle dire “Mamma, sono a San Francisco, vieni a prendermi?”, aveva il terrore di troppe cose. E per questo motivo era da almeno una settimana che non riusciva a chiudere occhio, la notte, e che ora, sotto ai suoi occhi azzurri, due enormi chiazze scure si estendevano fino agli zigomi.
Era stanco, sì… Ma non vedeva l’ora. Era troppo euforico per essere stanco.
 
“Saca lo malo, malo; no digas “paro, paro”; vale la pena, mi amor.”
 
Lance canticchiava tra sé mentre spostava i pacchi di biscotti dalle scatole agli scaffali, mettendoli in ordine per bene, cercando di concentrarsi sul lavoro che stava svolgendo per non pensare ad altro.
« Lance, ven aquì un momento, por favor. » la voce profonda del padre lo distolse dal proprio compito, e il castano gli si avvicinò lentamente, con le labbra lievemente arricciate tipiche di quando ascoltava una canzone che gli piaceva, come se stesse ballando internamente.
« Dime, papi. »
« Ti senti bene? Sembri stanco morto. » gli chiese il padre in un sussurro, con un’espressione preoccupata che non donava molto al suo viso severo. Ma Lance sapeva bene che, sotto sotto, era un uomo estremamente dolce.
« Estoy bien, papi. Sono solo un po’ stanco, sai che soffro il caldo, quindi di notte non dormo bene. » la voce di Lance era ferma e tranquilla. Ultimamente, era diventato estremamente bravo, a mentire.
“Mentire”, ora, non stava esattamente mentendo. Il caldo lo uccideva. Ma non era principalmente quello il motivo della propria insonnia.
« Menos mal. Oggi esci un po’ prima, okay? »
« Està bien, gracias, papi. » soffiò il ragazzo, tornando al proprio compito. Era un bene, che il padre gli avesse intimato quelle parole. Lance aveva seriamente bisogno di iniziare a farsi un minimo di valigia.
 
 
29/09, Seul, Corea del Sud, ore 09:24
 
A Seul, invece, il sole splendeva alto nel cielo limpido, illuminando indistintamente qualsiasi oggetto, qualsiasi persona incontrassero i propri raggi. Neppure una nuvola impediva il suo passaggio, e l’aria, all’esterno, era resa piacevolmente fresca da una brezza leggera.
Nella camera dell’orfanotrofio in cui aveva sempre vissuto, Keith era seduto a gambe incrociate sul letto, con le mani posate sulle ginocchia e il collo lievemente piegato, con un’espressione attenta sul viso, con i capelli legati nel solito codino.
Quei maledetti capelli. Shiro gli aveva sempre detto di lasciarseli tagliare, ma lui ormai si era abituato a tenerli lunghi, e gli piacevano. Solo, spesso doveva legarseli in un muccetto dietro la testa, perché erano fastidiosi.
Prima, a dire il vero, non li legava quasi mai. Li legava solo ogni tanto, quando studiava, ma non aveva mai realizzato quanto fastidioso fosse averli davanti agli occhi mentre parlava con qualcuno. Questo, ovviamente, perché prima non era solito parlare con… Beh, con nessuno.
Ma, da qualche settimana, Keith aveva iniziato a cambiare. A dire il vero, tutto era iniziato quel pomeriggio in cui Shiro lo aveva trovato a ballare sulle note di Nicki Minaj, con le braccia scoperte e un’espressione spensierata sul viso.
Quel giorno, si era sentito bene da morire. Quel giorno, aveva deciso di volersi sentire sempre così.
Era vero, era tutto merito di Lance. Suo, delle sue canzoni tanto stupide quanto allegre, della sua voglia di vivere e di combattere nonostante tutto, del sorriso che aveva visto solo un paio di volte in foto. Ed era anche merito dell’amore che Keith provava per lui, e per tutte le sue piccole cose.
Era solo grazie a lui se anche Keith aveva deciso di iniziare a sorridere un po’ alla vita, di smettere di vedere solo i lati negativi delle situazioni, di cominciare a ballare sulle note delle canzoni di Shakira e di Lady Gaga, invece che piangere sulle parole di quelle dei Three Days Grace. Per quanto amasse i Three Days Grace, ovviamente.
Keith voleva che Lance lo vedesse sorridere, perché se lo meritava. Se lo meritava perché lo stava venendo a salvare, e meritava di trovare un Keith felice, un Keith che avrebbe potuto dargli ogni cosa di cui avesse bisogno. Perché era questo che Keith voleva essere per lui: non un peso, ma una fonte di felicità, e nient’altro.
Era così maledettamente stufo di stare sempre male. E, forse, aveva trovato una cura.
 
« Allora, Keith… Come ti senti? » sussurrò Shiro, in piedi e sorridente di fronte al moro, ancora seduto sul letto.
« Oh, bene! Benissimo, a dire il vero. Solo, ho paura che non mi basti una valigia… Non sapevo di avere così tanti vestiti. Indosso sempre le stesse cose, che me ne faccio di tutti questi vestiti? » sorrise Keith, e così sorrise anche Shiro.
« Te ne procurerò un’altra, allora. Comunque… Manca poco più di una settimana, uh? » esclamò il maggiore, incrociandosi le braccia al petto. Riuscire a mantenere il segreto di Lance era stato più difficile di quanto pensasse. Dover tacere il fatto che Lance sarebbe arrivato solo un paio di giorni dopo, e non una settimana… Gli faceva stringere lo stomaco. Moriva dalla voglia di dirglielo.
« Lo so! Ti rendi conto? Non pensavo che sarebbe successo davvero… Invece viene davvero a prendermi… Shiro, sono così fortunato! »
 
Shiro, invece, si sentiva in colpa. E pure tanto.
Aveva davvero dubitato di Lance. A dire la verità, ne dubitava ancora. Aveva paura che Lance non sarebbe mai venuto a prendere Keith, che lo avrebbe deluso, e se lo avesse deluso Keith sarebbe rimasto a terra, e non sarebbe mai più riuscito a rialzarsi.
Aveva dubitato di Lance, della sua capacità di prendersi cura del proprio fratellino, di renderlo felice una volta per tutte, e per sempre.
Aveva dubitato anche di Keith, del suo amore per quel ragazzo di Cuba, del fatto che si fosse potuto affezionare così tanto a qualcuno che non aveva neppure mai visto.
Shiro si sentiva in colpa per aver dubitato di tutto ciò… Ma non solo.
Un ragazzo a migliaia di chilometri da lì era riuscito a far stare bene Keith, mentre lui, che gli era sempre stato accanto, non c’era riuscito. Lo aveva salvato più volte, lo aveva tirato in piedi, ma Keith era sempre ricaduto.
Lance, invece, con un paio di messaggi, qualche foto e qualche telefonata, era riuscito a renderlo una persona diversa, una persona migliore, un ragazzo sereno, normale, gli aveva ridato la speranza di vivere una vita più bella.
E Shiro non c’era riuscito.
Si morse il labbro inferiore, secco e screpolato a causa di tutte le dentate che ci tirava.
« Shiro… Ti senti bene? » gli chiese Keith, facendogli stringere un poco il cuore nel petto. Perché sì, Keith stava male, ma Shiro era paranoico come poche persone al mondo. Bastava una parola fuori posto, un’idea male espressa, e lui iniziava a rimuginarci sopra, a creare castelli dal nulla, a ritorcersi contro la sua stessa mente.
« Sì… Sto bene. Sono davvero felice per te, Keith. » ma Shiro non avrebbe mai espresso nessuno di quei pensieri. Non avrebbe mai anteposto se stesso al ragazzo che adorava come un fratello, non lo avrebbe mai fatto sentire in colpa.
Doveva solo convincersi che era merito proprio se Keith era ancora vivo, e grazie ai fatti, non grazie a parole scritte su uno schermo.
Ora, però, anche Lance avrebbe avuto dalla sua parte i fatti. E Shiro avrebbe dovuto farsi da parte, e lasciar andare il ragazzo che aveva cresciuto, poiché ora questo era pronto a spiccare il volo.
 
Keith si alzò dal letto, prendendo le mani del maggiore tra le proprie.
« Grazie, Shiro. Grazie per tutto ciò che hai sempre fatto per me. Ti devo tutto. » sussurrò, e i pensieri nella mente di Shiro si frantumarono come un vetro preso a pugni. Tutte le volte che Shiro aveva fermato Keith dal farsi del male, tutte le volte che lo aveva abbracciato per farlo stare meglio, tutte le volte che lo aveva consolato quando una famiglia adottava qualcun altro al posto suo: tutto ciò si realizzò nel sorriso di Keith, che scaldò corpo e anima al maggiore.
Shiro lo abbracciò senza ripensamenti, e Keith, pur non essendo un amante degli abbracci, lo lasciò fare. Shiro era sempre stato quanto di più vicino alla parola “famiglia” Keith avesse mai avuto. Ma anche le famiglie, ad un certo punto, andavano lasciate.
« Voglio che tu sia felice, Keith. Felice come non sei mai stato, felice come meriti di essere. Sono sicuro che Lance sarà capace di renderti tale. »
Keith sorrise tra le braccia dell’unico fratello che avesse mai avuto. Sorrise apertamente, perché sapeva che stesse dicendo la verità.
 
 
28/09, Varadero, Cuba, ore 14:03
 
La pioggia cessò nel momento stesso in cui Lance mise piede fuori dal supermercato del padre. Ne fu estremamente contento, perché aveva dimenticato di portarsi dietro l’ombrello. E inoltre, ora che il vento si era abbassato, sarebbe stato molto più facile evitare le pozzanghere con quel catorcio di bicicletta che lo aspettava fuori dal negozio. Perché, ovviamente, la macchina l’aveva presa Dom, quindi il castano aveva dovuto farsi la strada in bici, e pure veloce, altrimenti si sarebbe preso tutta l’acqua che sarebbe venuta giù.
Lance voleva tornare a casa. Stare intorno alla propria famiglia era diventato impossibile, non riusciva a smettere di sorridere, di incantarsi, di rimuginare a ciò che sarebbe accaduto di lì a poco. Era diventato pesante, perché doveva sempre inventare scuse del tipo “Sono stanco”, “Ho dormito male”, “Sono felice perché i cactus stanno fiorendo”, e così via. Anche se i cactus erano davvero fioriti, ma quella era un’altra storia. Una storia lunga e piena di sentimenti tra Lance e i suoi mini-cactus.
In ogni caso, era necessario che tornasse a casa. Doveva finire la valigia e riposare, perché il giorno successivo sarebbe partito presto. Dom l’avrebbe portato all’aeroporto, era vero, ma avrebbero dovuto essere lì un’ora prima del proprio volo per il check-in. Quindi doveva contare due ore e mezza di viaggio fino a L’Avana, un’ora di attesa, e solo dopo sarebbe partito. E, visto che l’aereo partiva alle dieci, sarebbero dovuti partire per le sette, forse sei e mezza.
 
In realtà, sarebbero partiti alle quattro del mattino. Lance aveva il terrore di perdere l’aereo, Dom non conosceva bene la strada, ma soprattutto… Non dovevano farsi scoprire dai genitori. Dom avrebbe lasciato la macchina già pronta nel vialetto, in modo che nessuno potesse sentire il motore avviarsi. Aveva detto ai genitori che avrebbe passato la notte da una ragazza – cosa che faceva spesso, perché bello com’era aveva più ragazze che capelli in testa – e avrebbe aspettato Lance fuori di casa, pronto a caricarlo in macchina e a partire.
E a Lance andava più che bene. In ogni caso, non avrebbe certamente dormito. Era troppo euforico, troppo preoccupato, troppo emozionato.
… Mancava meno di un giorno alla propria partenza. E, tempo di arrivare, contando il fuso orario, sarebbe stato già il primo di ottobre, a Seul.
E Keith sarebbe uscito. E, magari, gli sarebbe corso incontro con quelle labbra così morbide tutte sorridenti, con le braccia aperte pronte a stringersi attorno al proprio corpo, con il viso tutto arrossato e i capelli mossi dal vento, nei quali fiori di ciliegio si sarebbero posati come farfalline…
Lance stava sognando ad occhi aperti, tanto da cadere con la bicicletta.
Insomma che, quando arrivò a casa, aveva le spalle stanche, il viso rosso e la gamba destra piena di sangue e sassolini.
 
« Lance! Sei caduto? » Lucil esclamò, seduta sulle scalette davanti a casa, mentre lo indicava tutta divertita dall’espressione imbarazzata del fratello maggiore.
Insomma, capitava a tutti di cadere in preda ad un sogno ad occhi aperti!
« Uh, sì… C’era una buca nella strada. » mentì con facilità, zoppicando fin dentro casa per sciacquarsi la gamba dai graffi, dai sassolini e dal sangue.
Fantastico, ora Keith lo avrebbe visto con una bella fascia sul ginocchio! Ci mancava solo questa. Anche se, a pensarci bene, nessuno dei due avrebbe pensato poi molto alla fattezze fisiche dell’altro, in quel momento.
Lance si avvolse la gamba con una garza bianca, dopo aver disinfettato la ferita. Non era un ragazzo con una soglia del dolore elevata, anzi, ne provava tantissimo anche solo quando prendeva una botta delicata, o quando la sorellina gli tirava, per scherzo, degli schiaffetti sulla schiena. Ma in quel momento, estatico com’era, avrebbero potuto tagliargli un braccio, e lui non se ne sarebbe comunque accorto.
 
Inoltre, non aveva tempo di lamentarsi: doveva farsi la borsa, prepararsi per quella notte, sistemare ogni cosa... Realizzare che per almeno un paio di notti non avrebbe dormito in letto, bensì sul sedile di un aereo.
Non voleva davvero sapere in che condizioni sarebbe arrivato in Corea. Probabilmente avrebbe avuto giusto il tempo di abbracciare Keith prima di addormentarsi a peso morto su di lui. Oh, non gli importava! Era emozionato da morire! Emozionato all'idea di scappare di casa, di lasciare Cuba per la prima volta, di andare in un altro stato, in un altro continente, da solo, solo per andare a prendere il ragazzo che amava.
Era felice da morire, mentre infilava in una grossa borsa nera da viaggio qualche maglia a caso, qualche pantalone, qualche calzino spaiato, senza preoccuparsi di piegare nulla. Vi infilò dentro anche le cuffie (rubate a Dom), senza le quali non sarebbe andato proprio da nessuna parte, il grosso quaderno a fiorellini rosa (rubato a Lucil) con tutti gli appunti che aveva accumulato su Keith, il vocabolario inglese-coreano, le fotografie del moro, che aveva stampato a casa di Hunk, le mappe di Seul e le indicazioni che gli aveva dato Shiro, ogni cosa che potesse servirgli anche solo minimamente.
Ma le cose non ci stavano, in borsa, quindi Lance decise di piegare i vestiti e di sistemare tutto un po' meglio. Ecco, Lance non sapeva piegarli, i vestiti. E, sì, andò a cercare su internet "Come piegare una maglietta", lo fece davvero, e guardò persino alcuni tutorial.
Insomma che, dopo aver finalmente sistemato i vestiti e le altre cianfrusaglie, si rese conto di non aver scelto come vestirsi quella sera stessa, per andare all'areoporto.
Com'era il clima in Corea del Sud? Faceva caldo? O avrebbe dovuto cambiarsi in un bagno? Magari, durante lo scalo a San Francisco, si sarebbe cambiato nei bagni dell'aeroporto...
Decise di partire vestito leggero. Poi, nel caso, si sarebbe vestito. Mise già sul letto un paio di pantaloncini neri lunghi fino alle ginocchia, una t-shirt a righe orizzontali azzurre e blu, una felpa rosso scuro che si sarebbe legato in vita, e l'unico paio di scarpe che avesse: un paio di Converse basse e grigie, che Converse non erano, perché erano tarocche come poche cose al mondo, e mancava poco che si suicidassero lacerandosi da sole. Ma Lance teneva a quelle scarpe, erano state il primo capo d'abbigliamento che avesse mai rubato da un negozio, insomma, ci si era affezionato! E, benché queste fossero rotte, lui teneva a loro, quindi le puliva in ogni momento possibile... Con lo sgrassatore per i piatti, perché Lance mica lo sapeva che quella roba non si sarebbe dovuta usare su un paio di scarpette di tela.
Ma erano le uniche che aveva, quindi avrebbe indossato quelle a prescindere.
 
Le ore passarono, e Lance non faceva che fissare la grande borsa nera, aggiungervi cose, toglierne altre, fare inventari su inventari per vedere se si stesse dimenticando qualcosa. I biglietti dell'aereo nella bustina di plastica sul cuscino, i contanti nel portafogli degli Avengers, così come i documenti e tutto il resto, il passaporto pronto. Perché aveva il passaporto, poi? Forse se l'era fatto anni prima, quando aveva deciso di andare in vacanza in Inghilterra con Dom, ma non avevano avuto i soldi e tutto era saltato. L'importante era averlo.
Aveva tutto, ed era pronto a partire. Ciò che aveva più di ogni altra cosa era l'ansia. L'ansia di perdersi, di perdere l'aereo, di confondere i voli e ritrovarsi in Portogallo, in Italia, o magari in Sud Africa, invece che in Sud Corea.
Doveva assolutamente mantenere la calma. La calma portava concentrazione, così era solito ripetersi. Ed era sicuro che, se si fosse concentrato, sarebbe arrivato a Seul con tutta la calma del mondo.
Era sera, ormai, e l'orologio segnava le 19:34. Magari... Magari avrebbe potuto scrivere a Keith.
 
19:34
"Buonasera, Rayo de Sol! Come ti senti? Sei emozionato per domani??"
19:40
"Oh, ciao Lance. Ho passato la giornata a fare i bagagli. Sono contento da morire. Shiro ha detto che il suo appartamento è pronto per ospitarmi, così starò da lui per questa settimana. Lui sembra essere più emozionato di me."
 
Era un altro, il motivo per cui Shiro era emozionato... Ma Lance non poteva di certo dirglielo e farsi saltare la copertura!
 
19:42
"Immagino, immagino!! Io sono ancora in alto mare con i bagagli, ma ti prometto che entro questa settimana sarò pronto!"
19:43
"Ci credi? Ci vediamo tra così pochi giorni..."
19:45
"Io ancora non ci credo."
19:45
"Davvero vieni a prendermi? Davvero mi porti a Cuba? Ho ragione ad avere paura?"
19:47
Immagine inviata.
19:47
"Questi sono i biglietti, ti bastano come garanzia?"
 
Lance aveva fatto attenzione a coprire la data, naturalmente.
Non aveva mica intenzione di farsi saltare la copertura! Era un ragazzo attento ai dettagli, lui! … E, comunque, il proprio telefono non aveva una buona risoluzione.
 
19:48
"Mi viene da piangere."
19:50
"Non piangere! È un lungo viaggio da qui in Corea, sono io quello che dovrebbe preoccuparsi!!"
19:54
"Lance... Ti confesso che ho paura. Intendo, se le cose non funzionassero? Se la tua famiglia mi odiasse? Se tu mi odiassi? Ho così tanta paura..."
19:58
"Mi amor, non devi avere paura. Andrà tutto benissimo! Mio fratello ci sostiene in pieno, anche i miei amici ci sostengono, vedrai che i miei genitori se ne faranno una ragione, okay?"
20:00
"Mi fido di te."
20:02
"Fai bene!! Sono una persona più che responsabile"
20:03
"Come no. Ti ricordo che stavi per infilare un gatto in una lavatrice, una volta."
20:04
"È stato un incidente, e comunque mi sono fermato in tempo!!"
20:05
"In ogni caso, devo preparare la cena! Ti scrivo dopo?"
20:07
"A dopo, mio Lance."
 
Lance amava cucinare le chicharritas come accompagnamento ai piatti di carne. Si parlava semplicemente di banane verdi fritte in olio di semi, insomma, erano praticamente le patatine fritte di Cuba.
Lance prendeva le banane, le tagliuzzava in perfette rondelle di due millimetri di spessore, e si divertiva a vederle friggere, a sentirle sfrigolare con quel buon profumo, un misto tra dolce e salato.
Amava cucinarle, ma amava ancora di più il viso della sorellina quando le cucinava, poiché si illuminava alla sola idea di mangiare quel piatto.
« ¡Sòlo un momento! Hai apparecchiato la tavola? »
Sorrise Lance, diretto alla ragazzina che saltellava di qua e di là per la cucina, mentre la madre sfilava le fette di carne di maiale dalla padella per metterle nei piatti, condite con sale e accompagnate da qualche verdurina.
« ¡Sì, hermanito! Veloce, veloce, ho fame! »
La vocina di Lucil risuonava per la casa, mentre Adrian, tenuto dal padre Charles tra le braccia, batteva allegro le manine. Lance prese la terrina in cui aveva rovesciato tutte le chicharritas, portandola in tavola insieme ai piatti di carne.
Quella cena gli sarebbe dovuta bastare per almeno due giorni... Perché dubitava che avrebbe mangiato altro, oltre magari a qualche caramella comprata in aeroporto.
« ¿Dònde està Dom? » chiese Charles, mentre Lance e Athalie si sedevano ai loro posti, attorno al tavolo di legno.
« ¡Creo que Dom es con una chica! El dijo que dormirìa fuera... » sussurrò la madre, senza nascondere la malizia nella voce, e facendo così scrollare sconsolata la testa del marito. I McClain amavano spettegolare sui loro figli e fratelli. E a Lance la cosa tornava decisamente utile, perché i genitori dovevano essere convinti del fatto che Dom avrebbe dormito fuori… Quando, in realtà, lo avrebbe aspettato in macchina. “Povero Dom”, pensò Lance, prima di scrollare le spalle tra sé e sé. D’altronde, era stato il fratello maggiore a proporre quel piano, no?
 
Lance passò il resto della serata davanti alla tv con Adrian tra le braccia, sopportandosi tutti i cartoni animati possibili e immaginabili. “Fantastico”, pensò, “mi farò tutto il viaggio in aereo con l’opening di Teen Titans in testa”. Anche se, e non poteva mentire, ma non l’avrebbe mai ammesso, Lance amava i Teen Titans.
Aveva deciso di non scrivere a Keith. La madre aveva notato tutto il tempo che il castano passava al telefono, e ora che ne conosceva il motivo era meglio se lei avesse pensato che tutto era finito. Ma non era finito… Era appena iniziato. E Lance non aveva idea di come avrebbe mai potuto farsi perdonare una cosa del genere.
Verso le 22, si chiuse in camera. Diede la buonanotte ai genitori, un bacio sulla guancia della madre e una scompigliata ai capelli del padre, poi a Lucil, pinzandole delicatamente lo zigomo, e infine al piccolo Adrian, sfregando il naso sulla sua testolina ornata da pochi soffici capelli biondi.
Quindi, chiuse a chiave la porta della propria stanza, accese la lucina sul comodino… E chiuse la valigia, ora sicuro che dentro vi fosse tutto.
Si cambiò, indossò i vestiti che aveva scelto per partire, le scarpe, preparò il borsone e lo zainetto in cui avrebbe messo le cose essenziali, strinse tra le dita i biglietti dell’aereo, spense la luce… E prese il cellulare.
Era questione di poco più di ventiquattro ore, e poi avrebbe visto Keith. Ormai ne era sicuro: quello era un punto di non ritorno.
 
22:36
“Keith, mi amor! Perdonami, mi sono messo a guardare i cartoni con mio fratello…”
22:49
“Ma è una cosa dolcissima. Anche se non penso che tu abbia dovuto ‘sopportare’ poi molto, huh?”
22:50
“Stai dicendo forse che amo Teen Titans? Perché è così!!”
22:50
“Oh, lo so.”
22:51
“Come stai, Rayo de Sol?”
22:53
“Euforico. Insomma, tra poco più di ventiquattro ore uscirò da qui. Ci credi?”
22:53
“Ci credo eccome!!”
22:54
“Mi sembrava che il tempo non passasse mai. Se non ci fossi stato tu, non so come avrei fatto.”
22:54
“Dai, dai! Queste cose me le dirai dal vivo, uh? Ora pensa ad uscire da lì!!”
22:55
“Hai ragione. Te lo dirò dal vivo. Lance, te lo dirò dal vivo.”
22:56
“Sì, amore mio, me lo dirai dal vivo…”
22:56
“Ti dispiace se piango e ti scrivo tra dieci minuti?”
22:58
“Non pensarci neanche!”
23:04
“Troppo tardi.”
23:05
“Ti sei davvero messo a piangere?!”
23:06
“In realtà stavo mettendo a posto i libri… Piangendo.”
23:07
“Oh, ma dai!!”
23:08
“Cosa vuoi. Sono felice.”
23:09
“Anche io sono felice…”
23:10
“Lance, ho notato… La tua grammatica è migliorata moltissimo. Anche la tua punteggiatura. Sono estremamente fiero di te.”
23:11
“E questo cosa c’entra??!!”
23:11
“Ho parlato troppo presto.”
23:12
“Gne, gne, gne!”
23:13
“Comunque, domattina devo essere al lavoro alle sei quindi non penso che riuscirò a scriverti, è la giornata dei rifornimenti e dovrò mettere tutto a posto!!”
23:12
“Non preoccuparti, non è un problema. Anzi, vai a dormire adesso. Non voglio che tu sia stanco, domani.”
23:13
“Va bene, amore, allora vado!!”
23:14
“Fckop”
23:14
“Stai… Bene?”
23:15
“Sì. Mi si fotte il cervello quando mi chiami così.”
23:16
“Pensa a quando ti ci chiamerò dal vivo!!”
23:18
“… Buonanotte, Lance. Dormi bene.”
23:19
“Buonanotte a te, dolcezza!”
 
Per Lance, tuttavia, quella non fu affatto una ‘buona notte’.
Passò il resto della sera al buio, rannicchiato nel letto, con i biglietti aerei stretti al petto e il cuore che gli rombava contro la cassa toracica.
Passò un’ora. Ne passarono due, poi tre. Ora mancavano venti minuti, e solo allora Dom avrebbe acceso i fanali della macchina, facendogli cenno di uscire dalla finestra della camera.
Lance era pronto a tutto. Sarebbe uscito da lì, avrebbe messo i piedi sul tettuccio del garage, poi si sarebbe lasciato cadere a terra, e quindi sarebbe corso verso la macchina, stando attento a non fare rumore con le borse.
Ci aveva provato almeno dieci volte, e nove volte era andata bene. La decima si era preso una storta, ma nulla di grave: Lance era agile, molto agile.
E così fece, mettendo in atto il proprio piano. Non fece un rumore, aprì la finestra e la richiuse da fuori, si resse con le braccia lasciandosi cadere sul tetto del garage, e quindi, un po’ come un gatto, si tenne alle tegole di questo, scivolando fino a toccare i ciottoli del cortile con le converse stracciate.
Appena i propri piedi toccarono terra, corse verso la macchina del fratello, con i biglietti in mano (aveva paura di dimenticarli), la borsa su una spalla e lo zaino sull’altra; entrò in macchina e chiuse la portiera, e Dom, senza pronunciare parola, mise in moto… Lasciandosi prima la casa, poi Varadero, alle spalle.
 
 
29/09, Seul, Corea del Sud, ore 12:04
 
Keith stava davvero piangendo, mentre metteva a posto i libri. Insomma, come avrebbe potuto non piangere? Lui meritava di piangere, sapeva di essere forse una delle persone che più al mondo meritassero di piangere.
Piangeva perché era sconvolto, impaurito, felice, tranquillo, e non era abituato a sentirsi così. Piangeva perché quell’inferno era finito, e ora avrebbe davvero potuto scoprire come fosse fatto il mondo. Piangeva perché Lance stava per attraversare mezzo globo terrestre per venirlo a prendere, perché Keith aveva il terrore di iniziare quel viaggio da solo e lui non voleva farlo sentire preoccupato.
Piangeva perché, dopo diciotto anni di vita, si sentiva finalmente libero. Si sentiva pieno di speranza, pieno di vita, consapevole che sarebbe riuscito a sfuggire a quella malattia che gli affliggeva la mente, che lo bloccava a tal punto da farlo tremare anche quando non pensava a nulla.
Piangeva perché stava superando la depressione, perché era felice di non essere morto, perché era grato a Shiro per averlo salvato tutte quelle volte, perché sapeva che, presto, ogni traccia di tristezza sarebbe svanita, e si sarebbe dimenticato di qualsiasi cosa brutta, di ogni anno passato in quell’orfanotrofio.
 
E ora, mentre sistemava i propri libri in un borsone nero, si asciugava le lacrime con il dorso della mano a ritmo di “Where Have You Been” di Rihanna, sempre colpa di Lance e delle sue stupide canzoni pop.
 
“I’ve been everywhere, man, looking for you, babe.”
 
Keith cantava sottovoce, muovendo spensieratamente il capo al ritmo del beat di quella canzone. Come avrebbe potuto negarlo? La amava.
Amava quella canzone. Amava la propria cazzo di vita. Amava Lance, amava la propria amicizia con Shiro, amava la Corea e amava Cuba. Amava Shakira, Rihanna, Lady Gaga e persino i One Direction, ogni tanto.
Con una tragedia di Shakespeare tra le mani usata come microfono, si mise a muovere i fianchi e a cantare.
 
“You can have me all you want, any way, any day, to show me where you are tonight. Where have you been all my life?”
 
Solo un giorno. Solo un giorno al proprio diciottesimo compleanno, e poi sarebbe uscito da lì. E Shiro si sarebbe preso cura di sé durante quella settimana, proprio come aveva sempre fatto.
Keith era pieno di serenità. Si sentiva come drogato, ecco, sebbene non sapesse che effetto avesse la droga sulla mente umana. Si sentiva privo di pensieri, leggero, come se avesse potuto spiccare il volo da un momento all’altro.
Si lasciò cadere sul letto.
Aveva paura di pensare a cosa sarebbe successo se avesse iniziato a rimuginare sul viaggio di Lance. Verrà? Non verrà? Mi amerà? Questo si stava trattenendo dal chiedersi. Per una volta in vita propria, avrebbe riposto la propria fiducia in qualcuno. Sapeva che, se Lance non fosse venuto a prenderlo, avrebbe seriamente rischiato di non rialzarsi più, perché ora che era lucido riusciva a ragionare. Quindi, una buona volta, decise di vedere il lato positivo della vicenda.
Sperava solo che quel lato positivo durasse abbastanza a lungo. Giusto una settimana. Per una settimana, doveva evitare categoricamente ogni pensiero negativo, ogni “rimuginazione fobico-ossessiva”, come diceva lo psichiatra.
Quello stupido psichiatra. Quello stupido dottore. Quel vecchio idiota con i baffetti bianchi e gli occhiali troppo grandi per i suoi occhi troppo piccoli.
Anche se, in quel momento, Keith amava anche lui.

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Capitolo 16
*** capitolo 15 (pt.2) ***


IMPORTANTE: leggete in fondo per le note. ♡
Dico solo: scusate.
Song Thread:
Shakira – Dare: https://www.youtube.com/watch?v=aUxuQ6cxfT0
Deorro – Cayendo: https://www.youtube.com/watch?v=7p3ZbzYYFv0
Christina Aguilera – Candy Man: https://www.youtube.com/watch?v=-ScjucUV8v0
The White Stripes - Seven Nation Army: https://www.youtube.com/watch?v=-m7e7tCn7Bk
 
 
CAPITOLO 15 (pt.2)
 
29/09, Santa Cruz del Norte, Cuba, ore 04:46
 
« Dom, secondo te, se quelli che guardano anime sono otaku… Io sono un otacos? »
« … Cosa? »
« L’hai capita? Per i tacos! »
« I tacos sono un piatto messicano, non cubano. »
« Oh… Hai ragione. »
 
Questa era la situazione dei due fratelli McClain alle cinque meno un quarto del mattino, mentre il maggiore faceva benzina in una specie di scadente autogrill sulla Via Blanca, che collegava il nord di Cuba con la tangenziale di Varadero.
La strada per l’aeroporto Jose Martì era ancora lunga, erano entrambi stanchi, e Lance alternava minuti di sonno a minuti di totale iperattività, durante i quali Dom lo avrebbe volentieri buttato fuori dal finestrino.
Perché sì, Dom era un ragazzo paziente, ma c’era un limite a quante volte una persona potesse ascoltare “Dare” di Shakira (chiaramente la versione in spagnolo) di seguito senza sentire il cervello iniziare a sfrigolare.
Che poi, povero Dom, in quella situazione ci si era messo da solo. Era ovvio che avrebbe preferito essere nel proprio letto a dormire piuttosto che accompagnare quello scandalo vivente del proprio fratellino fino a L’Avana, ma… Ma poi Lance sorrideva, arrossiva, gli parlava di Keith e di tutte le cose che avrebbe voluto fare con lui, e il maggiore si convinceva sempre di più che stesse facendo la cosa giusta.
“Mamà y papà no tienen que saber nada. Nada, Lance, claro?” aveva premurato il fratellino con quelle parole, e il più piccolo lo aveva rassicurato. Ma sarebbe davvero riuscito a mantenere quel segreto? Sospirò.
 
« Senti, ho fame. Vado a prendere delle caramelle, okay? » sussurrò Lance, uscendo dalla macchina senza neppure aspettare la risposta del maggiore (che, peraltro, sarebbe stata un sonoro ‘sì’, perché Dom amava le caramelle).
Si infilò in tasca il portafogli, entrando nel negozietto accanto al distributore di benzina. Fuori era ancora buio, le stelle brillavano nel cielo, ogni cosa era tranquilla, poche erano le macchine che passavano in strada, e ancora meno erano quelle che si fermavano a fare benzina.
Lance, invece, dentro di sé, aveva una tempesta. Era agitato come non lo era mai stato prima, ma se non altro conosceva la fonte della propria ansia.
« Prendo queste. » sussurrò all’uomo al bancone, mostrandogli una manciata di varie caramelle alla fragola e ai frutti rossi, che pagò con gli spiccioli di meno valore. I soldi più grossi se li sarebbe dovuti tenere per girare per Seul.
Prese le caramelle, infilandosele nelle tasche della felpetta rossa, che aveva indossato per colpa della fresca aria mattutina, prima di uscire dal negozio. Dom lo stava già aspettando davanti al volante, con la macchina accesa e rombante, con un gomito fuori dal finestrino, con un paio di occhiaie che gli contornavano le iridi chiare.
« Ti muovi, hermanito? Guarda che parto senza di te. » lo stuzzicò il maggiore, e Lance salì in macchina, porgendogli subito una caramellina.
E Dom, tenendo la caramellina alla ciliegia tra i denti e la lingua, ripartì verso quello stramaledetto aeroporto.
 
 
Mezz’ora dopo erano sul Primer Anillo, la tangenziale che circondava L’Avana, con i finestrini abbassati, gli occhiali scuri e la musica a tutto volume. Il sole era sorto e, nonostante i fratelli McClain non fossero esattamente tipi mattutini, la grande stella sembrava aver infuso in loro la linfa vitale necessaria a farli risvegliare completamente, o almeno fino al loro arrivo all’aeroporto.
Lance teneva una mano sulla spalla del fratello, l’altra fuori dal finestrino, e faceva muovere quest’ultima come un’onda mossa dal vento, come i bambini amavano fare per passare il tempo in macchina. Lui, invece, lo faceva perché era felice, felice da morire, e perché anche lui, come quella mano, stava per spiccare il volo. Verso Keith.
 
« Mira mi amor, quisiera hacerte entender como los besos de tus labios me enloquecen a mí me tienen cayendo… Cayendo, oh, oh! »
 
Così cantavano, insieme, i due fratelli, con tutto il pathos e la tragicità della quale fossero capaci, con le mani l’uno dell’altro usate come microfoni, con Dom che sbandava un po’ con la macchina sulla strada deserta, con Lance che ballava allegro nel sedile accanto a lui.
Erano le cinque e un quarto del mattino, era sveglio da tutta la notte, era in una macchina estremamente scadente e stretta… Eppure, nonostante ciò, Lance sapeva essere sensuale. Sapeva muovere i fianchi, le braccia, il viso, sapeva lanciare occhiate al cielo che avrebbero fatto vergognare persino il sole stesso, con quegli occhi di puro ghiaccio, eppure estremamente caldi. Non lo faceva consapevolmente, non era qualcosa che controllasse: semplicemente, era nato per ballare, per cantare, per muovere i fianchi attorno ad un falò sulla spiaggia.
 
« Bésame la espalda, léntame las curvas de mi cuerpo con tu lengua, si me escuchas no sé qué estoy diciendo, oh, oh… Estoy cayendo, oh, oh!  »
 
Anche Dom, però, non era esattamente male. A dire il vero, beh, era stato lui ad insegnare al fratellino come muoversi.
Dom aveva il viso da adulto, gli occhi dello stesso colore di quelli di Lance, la pelle solo leggermente più chiara… Ma il sangue che scorreva nelle loro vene era lo stesso, ed era caldo. Era sangue latino, era sangue McClain, e ai McClain bastava davvero una buona canzone e qualche caramella alla frutta per essere felici.
Tranne per Lance. Lance era felice soprattutto per i biglietti dell’aereo che aveva posato cautamente all’interno della borsa. Ecco perché era felice.
 
Effettivamente, però, erano parecchio in anticipo. Tra una cosa e l’altra, tra il traffico che si era venuto a formare all’uscita dal Primer Anillo e le soste di Lance che, furbamente, si era fatto venire la tachicardia a furia di cantare, erano arrivati all’aeroporto poco prima delle sei del mattino.
« E adesso che facciamo, per tre ore? » sbuffò Lance, sbattendo la portiera della macchina e prendendo tutte le valigie « Potremmo fare un giro per L’Avana! Sono anni che non ci andiamo! »
« Lancey, con la fortuna che hai, perderesti l’aereo. Stiamo qui e spiegami cos’hai intenzione di fare, una volta arrivato a Se… Su… Sol? »
« Seul! E comunque, mi duole dirlo, ma hai ragione. Andiamo dentro, magari c’è l’aria condizionata. »
E dentro l’aeroporto, dove c’era tutto meno che l’aria condizionata, Lance attese il volo che gli avrebbe cambiato la vita.
 
 
29/09, Seul, Corea del Sud, ore 20:15
 
« Che leggi? » la voce di Shiro, appoggiato allo stipite della porta, era bassa e tranquilla, segnata da un sorriso.
« Joyce. "The Dubliners". » rispose Keith, mostrandogli la copertina del libro, mentre stava seduto a gambe incrociate sul letto, esattamente dove avrebbe dovuto esserci il cuscino.
« Quale racconto? » Shiro gli si avvicinò piano, le mani in tasca, i passi brevi e leggeri, mentre stava attento a farsi strada tra le valigie e i sacchetti pieni di libri e altri vari effetti personali.
« "Eveline". » il moro sussurrò disinteressato, con gli occhi (quel giorno erano di uno scuro colore grigio) che scorrevano orizzontalmente lungo la pagina macchiata da paroline nere.
Keith era assorto. Aveva letto quel racconto almeno una ventina di volte, ma ogni volta era come la prima.
Non amava lo stile di Joyce, anzi, gli sembrava complicato e difficile da seguire... Tuttavia, ormai, gli sembrava di essere diventato amico di quella ragazza, Eveline, la quale, per quanto desiderasse scappare dal mondo in cui viveva, da quel mondo che la faceva sentire triste, bloccata, insoddisfatta, finiva comunque per rimanere lì. Buttava via le sue possibilità di cambiare vita, e rimaneva lì.
Keith si era sempre rivisto in lei. Si era rivisto in quel desiderio di evadere, eppure anche in quella sensazione di essere legato a quel posto infernale da una forza maggiore, che andava oltre le proprie possibilità.
Ma Keith aveva sempre dato torto a Eveline. Perché lei, a differenza propria, aveva avuto la possibilità di scappare da Dublino, ne aveva avuto i mezzi, e li aveva distrutti. Aveva fatto male. Avrebbe dovuto scappare, andare via, andare a Buenos Aires e sposare il ragazzo che amava.
E ora, in quel preciso momento, Keith realizzò completamente, al cento per cento, che Eveline aveva sempre avuto torto.
Perché Keith avrebbe fatto il contrario, lui avrebbe lasciato quel posto e sarebbe scappato, sarebbe andato a Cuba con il ragazzo che amava, e non avrebbe cambiato idea all'ultimo, non avrebbe lasciato che i brutti pensieri lo tenessero inchiodato a quell'inferno.
 
Keith sorrise, leggendo l'ultima riga di quel racconto con tutto il cattivo giudizio possibile raccolto negli occhi, poi chiuse il libro.
« Ci pensi, Shiro? » sussurrò il moro, alzando lo sguardo « Questa è la mia penultima sera, qui. Poi non ci tornerò mai più. »
« Lo so, » rispose il più grande, sedendosi sul bordo del letto dell’amico « e ammetto che mi mancherai. Ma sono terribilmente felice per te. »
« Perché dovrei mancarti? Sarò il tuo coinquilino per una settimana! »
Shirò simulò una risatina. Aveva rischiato di far saltare la copertura a Lance.
« Hai ragione. E non pensare che sarà facile! Io dovrò lavorare, quindi sarai tu la donna di casa! » rise il maggiore, e il moro mise da parte il libro, con un sorriso dipinto sulle labbra.
« Ma se non so neanche cucinare… »
« Ti insegnerò io! Pensi che Lance ti cucinerà tutto, quando sarai a Cuba? »
Keith sorrise, se possibile, ancora di più. Oh… Lance. Anche solo l’idea di mangiare un piatto cucinato da Lance lo faceva elettrizzare, gli faceva aprire lo stomaco, e Keith non era esattamente uno che amava mangiare.
« Beh… Lance ama cucinare, non si sa mai… » sussurrò, scrollando un poco le esili spalle coperte dal tessuto scuro e leggero di una maglietta.
Shiro si morse il labbro inferiore. L’idea che Keith fosse stato capace di farsi del male gli aveva sempre fatto stringere il cuore. Ma ora, vederlo sfoggiare quelle spesse e profonde cicatrici biancastre sulle braccia come se fossero state nulla più che un minimo difetto fisico lo faceva sentire estremamente contento.
Shiro la vedeva così: al mondo, c’erano persone e persone. Certe persone riuscivano a gestire bene i loro problemi, mentre altre, al contrario, non erano in grado di sopportarli più di tanto. Ma tutti, alla fine, dovevano andare avanti, in un modo o nell’altro; e Keith ne era l’esempio lampante.
Orfano, solo, depresso, con il cervello in lotta con se stesso, era riuscito a sopravvivere nonostante tutto, e ora aveva trovato la sua felicità. Aveva trovato la speranza, e nessuno avrebbe potuto portargliela via.
Quella sua speranza era fragile, questo era vero, ma era pur sempre una speranza. Lance gli aveva dato speranza. Shiro stesso gli aveva dato speranza, salvandolo.
Con il tempo, e il maggiore ne era sicuro, Keith sarebbe diventato più forte di se stesso e Lance messi insieme.
 
« Comunque, è ora di cena. Scendi con me? » Shiro si alzò in piedi, porgendo al più piccolo una mano robusta. Cioè, l’unica mano ‘vera’ che avesse, essendo l’altra una protesi di metallo leggero. Aveva perso un braccio quando era ancora un ragazzino, in un brutto incidente. Un’automobile lo aveva preso in pieno, strappando via il suo avambraccio destro, mentre il resto del braccio avevano dovuto amputarglielo. Era sopravvissuto per miracolo.
Keith strinse la sua mano, alzandosi in piedi.
« Andiamo. Ho fame! » esclamò, e Shiro poté davvero confermare che, sì, quel ragazzino stava finalmente guarendo.
 
 
29/09, L’Avana, Cuba, ore 09:51
 
Quei poveri biglietti aerei dovevano avere la nausea, ormai, tanto che Lance se li rigirava tra le dita mentre aspettava il volo.
Quegli stupidissimi biglietti, quegli stupidissimi soldi che aveva pagato per comprarli, quegli stupidissimi lavori che aveva fatto per guadagnare i soldi.
Tutte quelle cose, ora, trovavano un senso. Trovavano un senso nella tachicardia del castano, nei suoi occhi sgranati, nel sorriso nervoso sulle sue labbra. Nella voce al microfono che annunciava l’inizio dell’imbarco.
Lance si alzò in piedi, prese la valigia con una mano e si mise lo zaino sull’altra spalla, presentando il biglietto e il passaporto quando giunse il proprio turno.
Poi, con la mente assente, percorse il lungo corridoio che portava al volo. Davanti a sé c’erano poche persone: piano piano, tutte attraversavano una specie di canale, ed era tutto un po’ claustrofobico, ad essere onesti.
Dalle finestre del corridoio, Lance poteva vedere l’aereo che l’avrebbe portato fino a San Francisco. Cinque ore di volo, e poi sarebbe giunto in California. Dall’altra parte dell’America, in una terra che mai e poi mai avrebbe pensato di vedere.
E l’aereo era… Era enorme. Era almeno due volte più grande persino della casa in cui viveva, quello era certo. Era così alto, così imponente, gli faceva quasi paura.
Ma doveva essere grato a quell’aereo, perché lo avrebbe portato più vicino a Keith.
 
A proposito di Keith.
Lance si sedette al suo posto, vicino al finestrino, anzi, appiccicato al finestrino, perché desiderava tantissimo guardare di sotto, vedere la terra che si allontanava, percepire la distanza farsi più breve.
Ancora non riusciva a credere di averlo fatto. Di essere scappato solo per andare da un ragazzo che, per quanto ne sapeva, poteva anche non esistere. Forse, era ciò di cui aveva sempre avuto bisogno. Aveva provato a se stesso che, con un bel po’ di impegno e una buona motivazione, avrebbe potuto fare di tutto.
Prima di spegnere il telefono, tuttavia, mandò un ultimo messaggio a Keith.
 
“Mio amore, mi dispiace di non poterci essere tra oggi e domani… Devo organizzare ancora troppe cose per il viaggio, e non ho un secondo da perdere!! Sono felice da morire… Comunque, scrivimi appena esci che voglio sapere come ti senti! E anche quando arrivi da Shiro! A presto, Rayo de Sol. ♡”
 
Poi spense il cellulare, infilandolo insieme ai biglietti nello zainetto nero e giallo. Il giallo era dato dal simbolo di Batman ben stampato sul tessuto.
Ma, insomma, era l’unico zaino decente che avesse. E poi, a Lance piacevano i supereroi! Guardava sempre i cartoni, quando era piccolo, e poi correva per la strada con un lenzuolo legato attorno al collo, con un pugno per aria, imitando oggi Superman, oggi Capitan America, oggi Batman, mentre la povera Athalie gli gridava dietro “Lance, stai sporcando tutto il lenzuolo!”.
Lance sorrise a quel pensiero, sorrise pensando alla madre, e sorrise un po’ meno pensando alla faccia che avrebbe fatto quando si sarebbe visto un ragazzo straniero piombare in casa.
“Un passo alla volta, Lance, un passo alla volta”, pensò. Stranamente, quel pensiero prese la voce del padre, roca ma dolce, e sempre composta.
Oh, quanto gli avrebbe gridato addosso, quella voce…
“Un passo alla volta”.
 
Poi, l’aereo partì.
Lance strinse automaticamente le dita attorno ai poggia gomiti, mentre quell’enorme, mostruosa macchina di metallo si staccava dal terreno, partendo in picchiata – o almeno così sembrò al ragazzo – verso l’alto, verso il cielo, facendolo sentire schiacciato contro il sedile, piccolo come una mosca, eppure… Eppure emozionato come non lo era mai stato prima. Il cuore gli tremava nel petto, come se avesse voluto uscirgli dalla bocca; lo stomaco gli vibrava, pieno solo di qualche caramellina; le mani gli sudavano, scivolando sui poggia gomiti in pelle; gli occhi erano lucidi, colmi di lacrime nervose e fredde che non gli avrebbero mai segnato gli zigomi.
E così, schiacciato contro il sedile, Lance iniziò il suo viaggio.
 
 
29/09, San Francisco, California, ore 11:12
 
Quel maledettissimo fuso orario.
Dopo cinque ore di volo, dopo essere partito alle dieci del mattino, era arrivato a San Francisco solo un’ora dopo, sull’orologio. A dire il vero, l’ora sul proprio cellulare segnava le quattordici, e Lance aveva fame, aveva voglia di mangiare qualcosa, ma erano ancora le undici!
Inoltre… La grandezza di quel posto gli fece cambiare idea. Gli fece chiudere lo stomaco. Il “San Francisco International Airport” era enorme. Forse era persino più grande di Santa Marta, anzi, quasi sicuramente. Sembrava una specie di grandissimo hotel di lusso, con tutte quelle vetrate e quelle luci e quelle persone che correvano di qua e di là. Ma Lance aveva tre ore prima del prossimo volo, e aveva tutto il tempo di rilassarsi un po’.
Tirò fuori il squadernino degli appunti, aprendolo su un foglio pieno di numeri, di ore, di vari fusi orari. Aveva fatto una marea di ricerche, in modo da calcolare le ore di arrivo nei vari paesi secondo il fuso orario. E, oh, sarebbe stato terribile.
Sarebbe arrivato a Seoul intorno alle sedici del giorno successivo, il 31 settembre, un giorno prima dell’uscita di Keith dal collegio.
Ringraziò qualsiasi forza motrice governasse il cielo che Shiro si fosse messo a disposizione per ospitarlo a casa, quella notte, altrimenti avrebbe dovuto dormire sotto un ponte. Ed era più che sicuro che avrebbe dormito come un sasso. Un jet lag di tre ore lo aveva massacrato, figurarsi uno di quattordici.
 
Un mare di persone fluiva per il San Francisco International Airport, come un'onda di uno tsunami che prendeva possesso di una spiaggia, implacabile, indifferente a qualsiasi cosa, formata da gocce d'acqua tutte diverse l'una dall'altra.
C'era chi correva verso i vari gates trascinandosi dietro la valigia con un'espressione preoccupata per paura di perdere l'aereo; c'era chi, invece, se la prendeva con calma, tirando i bagagli con un suono delle rotelle sul pavimento un po' più leggero e costante; e infine c'era Lance.
Lance, immobile in mezzo a tutta quella folla, con lo zaino sulle spalle, la valigia nella mano destra, il telefono nella tasca dei pantaloncini stropicciati, la pelle d'oca sulle braccia, e la mano sinistra che tremava, abbandonata lungo il fianco.
Il castano si guardava intorno con gli occhioni azzurri spalancati e disidratati, un po' confuso, ma comunque deciso a non darlo a vedere.
Cercò sui tabelloni il proprio gate, seguì le frecce delle indicazioni come se avesse capito tutto, quando in realtà era terrorizzato dall'idea di sbagliarsi.
 
"Alla peggio finisco in Norvegia. Mi inventerò qualcosa."
 
Questo pensava il ragazzo dai capelli color cioccolato al latte, mordendosi il labbro inferiore, ormai martoriato da numerosi, piccoli, pungenti taglietti.
Le cinque ore d'aereo che erano appena passate gli avevano immesso nel corpo un'euforia pari a quelle delle droghe. Lo avevano spaventato, emozionato, stancato, confuso, sconvolto. E ora nella sua mente c'era un po' di nebbia. Foschia, non nebbia fitta, solo un po' di fumo che, ogni tanto, non lo lasciava pensare decentemente.
Non aveva dormito per nulla, anzi, dopo che l'aereo era decollato, Lance non aveva smesso neppure per un secondo di rimanere appiccicato al sedile, con le iridi blu fisse sul cielo altrettanto blu, al di fuori del finestrino.
"Forse", aveva pensato, "forse dormirò sull'aereo per Seul."
E sarebbe stato meglio per lui, o Keith, dopo averlo visto, avrebbe pensato di essere innamorato di un cadavere.
 
« Sweet, sugar, Candy Man. » canticchiava Lance, facendosi spazio tra le persone.
La radio stava passando "Candy Man" della Aguilera e, oh, il ragazzo amava quella canzone. Tutte le volte che passava alla radio, lui prendeva Athalie tra le braccia, e insieme iniziavano a ballarla con un delizioso swing dei fianchi.
Lance scrollò la testa. Non poteva pensare alla madre in quel momento: si sentiva già abbastanza in colpa. Quindi, deciso e sicuro – o almeno così appariva a chi lo vedeva da fuori –, si avviò verso il gate, seguendo le frecce colorate.
E, una volta al gate, attese. Attese cinque, dieci, venti, trenta minuti, e ogni minuti gli sembrava durare ore. Le gambe gli formicolavano mentre stava seduto sulla poltroncina metallica della sala d’attesa, in mezzo a tante altre persone, tante altre valigie, tante altre vite diverse. Con gli occhi fissi sulle luci a led del soffitto, Lance giocherellava con la cerniera del proprio zaino, tenendola tra i polpastrelli e tirandola di tanto in tanto, in silenzio, con il respiro pesante.
Poi, fu scosso da una voce. Una voce metallica.
 
“I passeggeri del volo delle ore 14:15 diretto a Seul sono pregati di presentarsi al bancone dell’imbarco provvisti di biglietto e passaporto.”
 
Lance scattò in piedi, correndo letteralmente verso il bancone, dove si mise in fila con le mani tremanti, le gambe deboli e il respiro affannoso. Le luci a led biancastre che illuminavano quella stanza facevano ombra sulle linee incavate del suo viso, mentre con gli occhi lucidi di stanchezza, nervosismo e altre miriadi di sensazioni presentava i vari fogli all’uomo in divisa dietro al bancone.
Poi, salì sull’aereo. Salì su quell’enorme macchina meccanica che, in dieci ore, lo avrebbe portato in Corea del Sud, attraversando tutto l’Oceano Pacifico, tutto il Giappone, bucando il cielo e le nuvole.
Si sedette al proprio posto, in silenzio.
… Keith gli mancava. Dio, Keith.
E se fosse successo qualcosa, nel frattempo? Se Shiro l’avesse chiamato? Cosa sarebbe successo? Se avessero avuto un contrattempo?
Perché, insomma, alla fine Shiro aveva deciso di andarlo a prendere all’aeroporto, così da non farlo perdere. Perché Lance non avrebbe potuto usare il telefono in Corea, a meno che non avesse trovato una qualche rete wi-fi, e anche solo l’idea di non poter contattare Shiro lo aveva fatto andare in paranoia. Quindi, per tranquillizzarlo, questo gli aveva promesso che si sarebbe fatto trovare all’aeroporto, che lo avrebbe aspettato lì, e che sarebbero andati a casa sua insieme.
Ma… Se qualcosa lo avesse trattenuto? Se avesse trovato traffico? Se se ne fosse dimenticato? Allora Lance che avrebbe fatto? Avrebbe dovuto aspettarlo? Perché, sì, sapeva come arrivare all’orfanotrofio, ma… Cosa sarebbe accaduto, se si fosse perso?
 
Improvvisamente, l’aria attorno a sé si strinse.
L’aereo decollò, e la pressione iniziò a stringere il corpo e l’anima del ragazzo dai capelli castani. La testa gli girava, mentre teneva le dita strette attorno ai poggia gomiti in plastica del proprio sedile. Il respiro gli si mozzò, e i propri polmoni iniziarono a non riempirsi più a dovere.
Cosa stava accadendo? Perché aveva iniziato a lacrimare?
Da quando si sentiva così… Paranoico? Non gli era mai accaduto. Mai, prima di conoscere Keith. Quindi era quello, il significato di “amore”? Si diventava paranoici, si pensava il peggio, si iniziava a tremare senza riuscire a smettere? O era solo qualcosa che si manifestava quando si amava qualcuno come Keith?
“Qualcuno come Keith”, poi? E quel pensiero da dove veniva fuori?
Perché, sì, era innegabile. Lance aveva dovuto essere estremamente forte, per Keith. Lance aveva fatto di tutto per Keith, e lo aveva fatto con estremo piacere. Aveva represso qualsiasi brutto pensiero, gli era rimasto accanto in ogni momento, nonostante tutto. Lo aveva appoggiato, aiutato, a volte anche salvato, forse, perché Keith non era un ragazzo facile da amare. Era depresso, era malato, e non era colpa sua. Aveva passato una vita orribile, e ora per qualche motivo era Lance a dovergliela migliorare. E a Lance andava bene, perché, diamine, Keith era il ragazzo che amava! Solo… Mai con nessuno si era sentito così.
Mai per nessuno si era sentito così spaventato, così… Paranoico.
Perché quello era l’aggettivo adatto. Lance stava andando in paranoia. Stava avendo un attacco d’ansia, o qualcosa del genere.
Non poteva essere un attacco di panico, perché Keith gli aveva spiegato come funzionavano quelli, e Lance riusciva ancora a controllare ciò che pensava. Riusciva a capire di stare immaginando solo gli scenari peggiori, e sapeva che avrebbe dovuto pensare positivo. Solo… Non ci riusciva.
Quindi rimase con lo sguardo fisso fuori dal finestrino. Gli occhi gli si riempirono di lacrime, ma la testa gli girava troppo, quindi li chiuse. Tutto il proprio corpo tremava come una foglia mentre l’aereo iniziava la sua salita verso le nuvole, il suo percorso verso Seul.
E, con la testa piena di pensieri che sbattevano l’uno contro l’altro cozzando con rumori tremendamente fastidiosi, come vetri infranti e unghie che sfregavano contro un muro di gesso, Lance attese in silenzio, trattenendo le lacrime, pensando positivo, immaginandosi già tra le braccia di Keith. O, quantomeno, tra quelle di Shiro.
Che poi… Chissà che aspetto aveva Shiro. Non aveva mai visto sue foto, ora che ci pensava. Come avrebbe potuto riconoscerlo? Magari lo avrebbe riconosciuto lui? Beh, non sarebbe stato difficile riconoscere un povero, disperso ragazzino cubano sconvolto da un jet lag così violento.
A riconoscere Shiro, ci avrebbe pensato una volta arrivato a Seul. Dieci ore dopo.
 
 
31/09, Seul, Corea del Sud, ore 15:04
 
« Allora, Keith, io esco. Ci vediamo domani, okay? Così ti vengo a prendere. » sussurrò Shiro, con un tono di voce così roco, calmo e pacato che avrebbe potuto convincere chiunque a fare tutto ciò che lui stesso voleva, mentre con una mano si sistemava i bottoncini della camicia bianca sul polso dell’altro braccio.
Keith, nel frattempo, era impegnato a rivedere maniacalmente qualsiasi cosa avesse messo in valigia, a riordinare i libri prima per autore, poi in ordine alfabetico, a piegare le magliette per colore, formando un arcobaleno di colori alquanto spenti che andavano dal nero, al marrone, al verde scuro, al grigio, al bianco.
Perché sì, aveva anche dei vestiti bianchi, ma mica se li metteva. Andava bene lasciarsi andare, indossare qualche t-shirt ogni tanto, entrare a contatto col proprio corpo, ma mai si sarebbe vestito con qualcosa di chiaro. Andava contro i propri principi, contro i propri ideali, contro il proprio essere.
« Perché esci ora? Dove vai? » chiese il moro, alzando distrattamente il viso verso il migliore amico. Spesso Shiro usciva prima dal lavoro, specialmente se non aveva nulla da fare, ma… Ma Shiro aveva da fare, in quel momento. Doveva sostenere i propri scleri e le proprie grida di gioia, emesse a intervalli regolari di dieci o dodici minuti. Diamine, il giorno successivo sarebbe uscito da quell’inferno, aveva bisogno di essere felice con qualcuno!
« Ho un paio di commissioni da fare. » tagliò corto Shiro, esitando tuttavia un poco « Ho ordinato una… Lettiera nuova per il mio gatto, e alle quattro arrivano gli uomini a portarmela, quindi devo essere a casa. »
Keith incurvò un poco le folte sopracciglia scure, guardandolo. E Shiro si sentì morire dentro. Aveva sbagliato qualcosa nell’alibi? Aveva un gatto, vero? Sì, aveva un gatto. E Keith sapeva che Shiro avesse un gatto, quindi non c’era nulla di strano nell’aver ordinato una lettiera, giusto?
« Tch. Tieni più a Korry che a me. » soffiò Keith, con tono naturalmente sarcastico. Non si sarebbe mai arrabbiato con Shiro: quell’uomo avrebbe anche potuto pugnalarlo, e lui probabilmente lo avrebbe ringraziato.
Il maggiore, di nascosto, tirò un sospiro di sollievo.
« Ti voglio bene anche io, Keith. » mormorò, avvicinandoglisi per lasciare una piccola pacca sulla spalla esile del più piccolo « Sono sicuro che troverai conforto anche con il tuo cuscino. Grida e prendilo a pugni quanto vuoi, mh? » scherzò poi, salutandolo con un cenno della mano mentre si voltava di spalle.
« Che stronzo. » sussurrò Keith, solo per sentire da Shiro una rispostina altrettanto sarcastica. D’altronde, era stato lui ad insegnare al più piccolo la grande arte del sarcasmo.
« A domani, Principessa! » e Keith arrossì di colpo. Non avrebbe mai dovuto dire a Shiro i nomignoli con cui Lance lo chiamava.
… Lance. Mancava una settimana, ormai, al suo arrivo.
E, in quella settimana, Keith avrebbe fatto di tutto per migliorarsi, per diventare il ragazzo perfetto per lui. Si sarebbe tagliato i capelli, si sarebbe preso cura di sé, una volta tanto. Perché, ormai, Keith era sicuro che Lance sarebbe venuto. Aveva visto i biglietti dell’aereo, insomma! E… E si sarebbero trovati all’aeroporto, e si sarebbero stretti forte, e Keith gli avrebbe portato un bel mazzo di fiori e lo avrebbe atteso con un sorriso enorme dipinto sulle labbra, solo per mostrargli come Lance lo rendesse. Felice. Felice da fare schifo.
Scrollò la testolina mora. Aveva ancora una settimana per emozionarsi così: ora doveva pensare ad uscire dal collegio.
 
Nel frattempo, Shiro correva verso la macchina. Aveva poco meno di un’ora per arrivare all’aeroporto, ma aveva calcolato i tempi, e ce l’avrebbe fatta.
Doveva solo… Sperare di non incontrare traffico, o Lance avrebbe dovuto aspettarlo, e quel ragazzo non sembrava uno disposto ad aspettare, considerando con che foga aveva comprato i biglietti per la Corea. Così, senza neppure pensarci.
Quale persona faceva una cosa del genere? Diamine, lui e Keith si conoscevano solo da qualche mese, e non si erano neppure mai visti! E Keith era… Era un casino di ragazzo! Mentre Lance, al contrario, era calmo, sereno, tranquillo, sembrava nato per vivere una vita serena e priva di preoccupazioni.
Come avevano fatto a trovarsi? Come avevano fatto ad innamorarsi?
Shiro non capiva.
Insomma… Conosceva Keith. Lo conosceva da tutta la vita, praticamente. Conosceva ogni lato di lui: il suo lato triste, il suo lato depresso, il suo lato distrutto, il suo lato tranquillo… Ma non aveva mai visto il suo lato felice.
Forse anche Lance aveva lati del genere? Forse anche lui aveva nati tristi, complessi, dietro a quelli più felici e sereni?
Forse… Forse non l’avrebbe mai saputo.
L’importante, per Shiro, era che Keith stesse bene. E, oh, se Lance non si fosse fatto vedere, allora Shiro stesso sarebbe partito per Cuba, avrebbe preso quel ragazzino e se lo sarebbe trascinato dietro. A nuoto.
Dare fiducia alle persone, per Shiro, era difficile.
Lavorava in luogo dove la fiducia nel genere umano scendeva parecchio, a dire il vero. Nel vedere tutti quei ragazzi, tutti quei bambini, orfani o abbandonati dai genitori, lasciati a loro stessi, affidati a completi estranei, Shiro non riusciva più a fidarsi di nessuno se non di se stesso. Dava il proprio meglio per renderli contenti, per metterli a loro agio, per salvarli da loro stessi, e c’era sempre riuscito.
E ora… Ora un ragazzo completamente sconosciuto, straniero, lontano, aveva salvato Keith meglio di quanto lui avesse mai fatto.
E lo aveva fatto così, senza neppure accorgersene, con qualche parolina sullo schermo di un cellulare. Come poteva essere possibile? Come aveva fatto?
Shiro, tra sé e sé, scrollò la testa.
Non gli importava: ciò che gli importava era la salute di Keith, di quel ragazzo che ormai considerava un fratello minore, e se Lance fosse stato disposto a rendere quel ragazzo felice allora Shiro glielo avrebbe lasciato fare.
 
« I’m gonna fight ‘em off, a seven nation army couldn’t hold me back. »
Un terribile remix di Seven Nation Army rimbombava nel suv nero di Shiro, che dominava la strada in direzione dell’aeroporto.
Il ragazzo teneva un braccio fuori dal finestrino completamente abbassato, muoveva a ritmo la testa con le labbra arricciate, percependo il ciuffetto bianco accarezzargli la fronte ad ogni movimento.
Shiro non era tipo da remix, a dire il vero. Amava il rock classico, quello anni ’70 e ’80, amava i Guns, gli ACDC, i Maiden, i Sabbath, persino i Motley Crue gli davano qualche bella sensazione. E amava i The White Stripes, in particolare quella canzone. Il remix l’aveva trovato per caso, a dire il vero, come sottofondo di un video su Youtube, e se l’era scaricato.
Con la macchina che quasi tremava per il rimbombo causato dall’aux cord, dai bassi che quasi causavano un terremoto, Shiro parcheggiò direttamente di fronte all’”Aeroporto Internazionale di Seul-Incheon”. Probabilmente era una zona a traffico limitato, ma non poteva permettersi di cercare parcheggio: mise le frecce e si fiondò fuori dall’auto, correndo verso l’entrata dell’aeroporto.
Lesse il tabellone: aveva quindici minuti prima dell’arrivo dell’aereo di Lance, quindi si mise lì davanti, davanti alla porta scorrevole dalla quale usciva chi arrivava in aereo, con le braccia incrociate al petto, la camicia bianca ben stirata lungo il busto, le gambe rette e ferme… E la mano metallica nascosta.
Non vedeva l’ora di vedere lo sguardo di Lance quando l’avrebbe notata.
Conoscendolo, da ciò che Keith gli aveva raccontato di lui, si sarebbe perso ad osservarla. Keith gli aveva detto che a Lance sarebbe piaciuto studiare robotica, ingegneria aerospaziale o cose del genere, e che non aveva avuto abbastanza soldi per farlo, quindi… Quindi Shiro gli avrebbe tranquillamente lasciato analizzare il proprio braccio bionico.
Perché, insomma, era bellissimo avere un braccio bionico.
Era tragico, perché perdere un arto era stato terribile, aveva perso una parte di sé, del proprio corpo, in condizioni peraltro abbastanza tragiche, ma… Ma ormai si era abituato a quel braccio metallico che lo rinfrescava nelle notti più afose.
Era triste pensare che, accanto a sé, ci fosse solo un braccio bionico… Ma Shiro non era un ragazzo da relazioni amorose.
 
In ogni caso, quello non era il momento di pensarci. Mai sarebbe stato il momento di pensarci, a dire il vero… Tuttavia, le porte scorrevoli iniziarono ad aprirsi.
Persone su persone iniziarono ad uscire, tutte insieme, senza ordine, chi in gruppi, chi con qualcuno, chi da solo. Vecchi, adulti, giovani, famiglie con bambini. Persone americane, asiatiche, europee, di qualsiasi continente, di qualsiasi luogo.
Ma nessuna traccia di un ragazzo cubano.
Shiro era lì davanti, sicuro che avrebbe riconosciuto Lance perché, insomma, aveva visto sue foto per mesi e mesi dal telefono di Keith. Capelli castani, pelle abbronzata, espressione dispersa: sarebbe stato facile riconoscerlo.
… Ma non lo vide.
Lance non stava uscendo da quelle porte.
Non ne uscì per uno, cinque, dieci minuti, e Shiro stava iniziando a perdere la pazienza. Ad andare nel panico, più che altro, perché non lo sentiva da quando era partito da Cuba.
Se fosse successo qualcosa al suo aereo? Se si fosse perso? Cos’avrebbe fatto? Come l’avrebbe detto a Keith?
Iniziò a guardarsi intorno freneticamente, chiamò qualche volta il nome di Lance, giusto per essere sicuro di non esserselo perso, ma nulla. Non lo vedeva. Non c’era.
Lance non era uscito da quella porta scorrevole.
 
 
31/09, Seul, Corea del sud, ore 16:18
 
Fondamentalmente, Lance si era perso nell’aeroporto.
Non ci capiva nulla. Sui cartelli c’erano segnetti strani, disegnini, e solo alcune indicazioni erano in inglese. Cercava disperatamente la scritta “exit”, ma ogni volta che la trovava finiva col trovarsi al punto di partenza.
Dov’era? Cos’era successo? Era a Seul, vero? Non era finito all’inferno, vero?
Poi… Poi una luce illuminò la fine del tunnel.
“Exit”, e una grossa porta scorrevole proprio sotto di essa.
Lance si sistemò lo zaino sulle spalle, afferrò la valigia… E iniziò a correre.
 
Fuori dalla porta scorrevole, un ragazzo stava chiamando il proprio nome.
“Lance”, chiamava quel ragazzo, guardandosi intorno agitato nel suo vestito elegante, formale, da lavoro. La voce di quel ragazzo era roca, e Lance la riconobbe, perché l’aveva sentita al telefono. Quello… Quello doveva essere Shiro.
Ora, quella era una maledizione della Corea del Sud, e non poteva essere altrimenti: conosceva due ragazzi coreani, ed entrambi erano belli come dei.
Shiro era alto, molto alto, decisamente più alto di sé, e aveva le spalle che potevano comodamente essere il doppio delle proprie. Aveva un viso ben definito, una mandibola spessa, dei capelli… Strani? ma decisamente belli, perché Lance amava le cose strane.
Il castano, esitante e con il fiato ridotto ad un sospiro, con i bulbi oculari rossi dalla stanchezza e incavati in grosse occhiaie scure, gli si avvicinò, alzando una mano tremante.
« Shi-… Shiro? » sussurrò, chinando appena il viso.
E quel ragazzo si voltò, fissando gli occhi neri come la pece nei propri, di un vago colore grigio-azzurro a causa della mancanza di sonno.
« … Lance? » quella voce pronunciò, mentre Shiro gli si avvicinava lentamente, sollevato, con un ampio sorriso che gli rigava le labbra sottili, che metteva in mostra i denti ben allineati e perfettamente bianchi.
« Io-… Scusa il ritardo, io… Mi sono perso. » confessò Lance, senza ben sapere cosa dire. Ora, Lance era di madrelingua inglese e spagnola. Parlava lo spagnolo facilmente come bere un bicchier d’acqua, e l’inglese lo maneggiava a dir poco perfettamente. Eppure, l’accento che gli venne fuori in quel momento fu un misto tra british, neozelandese e, probabilmente, dialetto del Galles del sud.
Shiro non si trattenne dal ridere, e immediatamente gli porse la mano destra. Quella bionica. Quella che, nella teoria dei fatti, avrebbe dovuto far gridare Lance come un fanboy impazzito.
Ma Lance, semplicemente, lo guardò negli occhi… E scoppiò in lacrime.
 
« Lance-? »
« Shiro! » gridò il castano, fiondandosi tra le braccia del maggiore « Shiro, sono così contento che tu sia qui… Pensé que me perdì… Tenia miedo, Shiro… »
E Shiro, che in lingua spagnola sapeva giusto dire “vamos” e “alè”, lo guardava disperso, confuso, tenendolo comunque tra le robuste braccia.
Lance era… Piccolo. Era davvero piccolo, in confronto a sé. Non piccolo come Keith, perché Keith era davvero pelle e ossa, ma in quel momento quel ragazzo così stanco, tremante, dai capelli castani tutti scompigliati, dagli occhi azzurri rossi di stanchezza, era così… Indifeso. Debole. Perso.
E Shiro era abituato ai ragazzi così.
Quindi lo abbracciò, lo strinse forte, gli accarezzò la schiena, gli baciò persino la tempia, cercando quantomeno di farlo smettere di singhiozzare.
« Lance… Hey, Lance, è tutto a posto, sei qui… Adesso andiamo a casa, mh? Hai bisogno di dormire. » Shiro parlava l’inglese perfettamente, ma onestamente non si aspettava una reazione del genere da parte di Lance. Si aspettava sorrisi, non lacrime; abbracci, non tremori; battute, non singhiozzi. Invece, quel ragazzo a malapena respirava. Quanto stress doveva avere accumulato? Quanta paura doveva avere avuto? E pensare che aveva fatto tutto ciò solo per vedere Keith.
Shiro si sentì rabbrividire. Inaspettatamente, sentì un’ondata enorme di rispetto nei confronti di Lance. Aveva attraversato il mondo per andare a prendere un ragazzo che non aveva neppure mai visto.
Avrebbe voluto avere la sua forza d’animo.
 
Piano piano, Lance riprese a respirare. Gli ci volle almeno un quarto d’ora, a dire il vero, ma riuscì a smettere di singhiozzare, limitandosi semplicemente a lacrimare in silenzio. Sciolse un poco l’abbraccio con il più grande, che invece non si era mosso per nulla, e aveva continuato ad accarezzarlo e a rassicurarlo con la voce più dolce e sicura che Lance avesse mai sentito.
Il castano alzò lo sguardo, incontrando nuovamente i suoi occhi mentre tirava su con il naso arrossato.
« Perdonami, io… D-Davvero non pensavo che… Che sarei riuscito ad arrivare, avevo così tanta paura, e… »
« Lance, sei qui, ora. Ce l’hai fatta. Mi hai allagato la camicia di lacrime, ma ce l’hai fatta. »
Lance sorrise un poco, scusandosi con un piccolo inchino del capo per lo stato in cui aveva ridotto la sua camicia bianca, e… E sgranando gli occhietti azzurri.
« Aspetta, ma… Sei un robot? » soffiò, fissando il braccio di Shiro. E Shiro scoppiò a ridere, alzando la mano bionica.
« Più o meno. Vieni con me, intanto ti racconto. »
 
Neppure il tempo di arrivare alla macchina, che già Shiro aveva elencato al castano, praticamente in estasi dall’emozione, materiali, funzioni e legamenti del proprio braccio bionico. Lance sembrava impazzito: faceva domande su domande, lo ascoltava rapito, toccava le varie componenti di quell’arto con gli occhi rossi tutti luminosi.
Shiro non si trattenne, gli raccontò tutto: l’incidente quando era piccolo, la perdita del braccio a causa dei gravi ematomi e delle tremende fratture, il giorno in cui gli impiantarono quella protesi, l’emozione di poter di nuovo tornare a vivere.
Certo, non come prima, perché quello non era un arto vero. Riusciva a muovere le dita con impulsi nervosi che si trasmettevano lungo le articolazioni metalliche, ma di certo non era come avere un braccio vero.
Salirono in macchina, e Lance, emozionato, si allacciò la cintura. Sentiva il proprio desiderio di studiare robotica crescere sempre di più dentro di sé: immaginare, disegnare, progettare e costruire braccia, gambe, protesi, ma anche altri attrezzi, magari corpi interi, che si muovessero come veri e propri corpi umani. Regalare a Shiro un arto bionico praticamente vero, connesso al cento per cento con la sua mente, solo per ringraziarlo di esserlo andato a prendere, di aver sostenuto il proprio viaggio e le proprie idee. Senza vergogna, gli espresse quel pensiero.
« Ti ci vedo, come ingegnere robotico. » asserì Shiro, annuendo tra sé mentre metteva in moto la macchina – anch’essa oggetto di ammirazione, da parte di Lance, perché una BMW X6 nera aveva pur sempre il suo fascino.
Ammettendolo… Shiro era parecchio ricco. Aveva ereditato parecchio dalla famiglia: il padre dirigeva un’azienda di costruzioni, la madre era un noto avvocato civilista, quindi i soldi non gli erano mai mancati. Inoltre, oltre a lavorare al collegio, Shiro stesso lavorava per un’agenzia pubblicitaria, e fin da sempre aveva avuto parecchio successo.
Raccontò tutte queste cose a Lance, il quale, esausto, lo ascoltava, guardando fuori dal finestrino con aria sperduta.
Gli piaceva ascoltare Shiro, aveva una voce davvero dolce ed era carino sentire la storia della sua vita, ma… Ma Lance aveva davvero altro per la testa. Tipo la mattina successiva. Tipo il proprio incontro con Keith.
 
« Shiro, perdonami la domanda, ma… Puoi mettere un po’ di musica? Sono stravolto, e non voglio addormentarmi, altrimenti il jet lag mi distruggerebbe… » mormorò il castano, un po’ imbarazzato. Shiro era comunque più grande di sé, era un adulto, lavorava, quindi Lance cercava di rivolgerglisi sempre con parecchio rispetto.
« Pensavo non me l’avresto mai chiesto. » fu la risposta del maggiore, mentre attaccava il cavo dell’aux. Oh, Shiro sapeva benissimo come svegliare un ragazzino addormentato. « Conosci gli ACDC? »
« Oh, sì, li ascolta mio fratello. Lui è, tipo, un fan di queste band vecchie, ma io non li ho mai, ecco, ascoltati. Conosco solo qualche canzone. »
« “Highway to Hell”? »
« Oh, quella la amo! »
« Allora, lascia che ti introduca io alle band vecchie. » soffiò il maggiore, premendo play.
 
 
« No stop signs, speed limit, nobody's gonna slow me down! » Shiro cantava con il braccio normale fuori dal finestrino, con quello bionico sul volante, e muoveva il capo in avanti, facendo ciondolare il ciuffo bianco sulla fronte.
« Like a wheel, gonna spin it, nobody's gonna mess me around! » Lance, invece, teneva entrambe le braccia piegate, muoveva i fianchi magri mentre intonava una delle poche canzoni rock che conoscesse a memoria. Colpa di Dom, lui gliele faceva ascoltare fin troppo, quelle canzoni.
« Hey Satan, payin' my dues, playin' in a rockin' band! » si alternavano i versi, usando l’uno la mano dell’altro come microfono, poi tornando ad agitare le braccia fuori dai finestrini abbassati, in giro per le strade di Seul.
« Hey Mama, look at me, I'm on my way to the promised land… » questo verso lo cantò Lance, dedicandolo al cento per cento alla madre. Lei non sapeva nulla… E a Lance, in quel momento, importava meno di zero. Aveva fatto ciò che aveva voluto fare, c’era riuscito senza aiuti e senza rimpianti. Si era fatto il culo, e c’era riuscito. E ora stava davvero andando nella “Terra Promessa”: tra le braccia del ragazzo che amava, a salvarlo, a portarlo via, in direzione delle bianche spiagge di Varadero.
« I’m on the highway to hell! »
Cantarono insieme il castano e il maggiore, muovendosi insieme, uno felice per una ragione l’altro per un’altra, ma entrambe queste ragioni avevano in comune un nome, e quel nome era Keith Kogane.
 
« Te la cavi bene a cantare, McClain! » esclamò Shiro, quaranta minuti e diverse canzoni dopo, mentre scendeva dalla macchina sbattendo la portiera.
« Sì, beh, e tu? Sei fantastico! Anche se è un genere diversissimo da quello che ascolto io… » Lance scese dalla macchina a propria volta, chiudendo con cura la portiera, e correndo immediatamente ad affiancarsi al maggiore.
« Intendi cose tipo… Beyoncé? » Shiro scherzò, alzando un sopracciglio scuro in direzione del castano, che subito si posò una mano sul petto con tono tragico, solenne, come se gli avessero appena insultato la madre.
« Beyoncé è la mia dea. Lei e Shakira mi adotteranno, un giorno. Me l’hanno promesso. » sussurrò il castano, seguendo automaticamente Shiro, che rideva divertito mentre apriva la porta di casa.
Vista da fuori, casa di Shiro era davvero carina: era una villetta bianca, con un porticato che portava all’ingresso attraverso delle scalette, relativamente modesta. Dentro, invece, cambiava completamente. I pavimenti erano quasi tutti in parquet, le stanze erano ampie e grandi, l’arredamento puntava sul bianco e sul nero. Nella sala c’era un divano enorme, scuro, direttamente di fronte ad una grande tv appiccicata al muro. Nella sua innocenza, Lance si mise ad osservare quella casa come se fosse appena entrato in un museo di arte moderna.
« Questo posto è… Fantastico. » soffiò il castano, abituato a vivere in una casa piccola e piena di roba inutile e poco costosa, ad un televisore vecchio di dieci anni e ad un pavimento di piastrelle sfasate e crepate, a spacchi nei muri di cartongesso e a gente che scorrazzava di qua e di là per le stanze strette.
Quella casa in confronto, sembrava il paradiso: pulita, ordinata, vuota, silenziosa.
Molto vuota. Insomma, Shiro non aveva un… Fidanzato, una fidanzata, una moglie? Sarebbe stato scortese chiederglielo? Magari, ecco, avrebbe potuto… Farlo con discrezione. Buttare lì l’argomento.
« Vivi da solo? » mormorò, appendendo educatamente la felpa stropicciata all’appendiabiti accanto all’ingresso. Aveva un po’ di freddo, ora, con i pantaloncini lunghi fino al ginocchio e la t-shirt a coprirlo, ma in casa sua c’era il riscaldamento, quindi presto gli sarebbero passati i brividi.
« Oh, sì. Non… Non ho esattamente tempo per le relazioni, sai. Mi piace stare da solo. » sussurrò Shiro, appendendo la sua elegante giacca nera da lavoro, e facendo al castano cenno di seguirlo. Lance, intanto, era soddisfatto della sua risposta, perché aveva ottenuto senza destare sospetto l’informazione che voleva ottenere. Si sentiva abbastanza fiero, per qualche motivo.
Shiro lo condusse al piano di sopra, salendo dei gradini in legno scuro, e lo portò in una stanza in fondo ad un lungo corridoio. Era una camera parecchio grande, illuminata da un grosso lampadario tondo al centro del soffitto, provvista di un ampio letto dalle lenzuola rosso scuro e di un grosso mobile nero.
« Questa è la stanza degli ospiti. A dire il vero non ho mai avuto ospiti ma, insomma, ora torna utile, no? » soffiò Shiro, quasi divertito da quel pensiero, e Lance sorrise a propria volta, appoggiando a terra la valigia e lo zaino.
Ora… Dire che era sconvolto era dire poco. Era una specie di zombie, quel ragazzo dai capelli castani. Castani, scompigliati e pieni di nodi, nonostante fossero corti. Non dormiva da così tante ore che neppure si ricordava come fosse fatto un letto, a dire il vero, ed era chiaro che fosse a tanto così dall’addormentarsi in piedi.
L’adrenalina e l’euforia avevano fatto la loro parte, ma un essere umano, soprattutto Lance, aveva bisogno di dormire.
« Ascolta, fatti un bel bagno caldo e mettiti comodo, okay? Io intanto ti preparo qualcosa da mangiare, ne avrai bisogno. E non provare ad addormentarti, altrimenti domani ti servirà un carro armato per alzarti dal letto! » mormorò Shiro, con quella voce dolce che avrebbe potuto ammaliare chiunque, allontanandosi dalla stanza per scendere al piano inferiore. E Lance, senza fare obiezioni, seguì i suoi consigli. Aveva bisogno di un bagno come aveva bisogno dell’aria per respirare, a dire il vero.
 
« Allora. Spara. Cosa vuoi sapere di Keith? »
Shiro era appoggiato al bancone della cucina, in piedi, con una gamba flessa e le braccia incrociate davanti all’ampio petto. Guardava Lance dall’alto, mentre questo, seduto al tavolo di fronte a sé, sorseggiava direttamente dalla ciotola una calda, profumata zuppa di verdure.
Il castano posò la ciotolina di ceramica sul piano di legno, pulendosi con il dorso della mano le labbra umide.
« Tutto quello che non so. Com’è dal vivo? Insomma, è davvero così bello? Pensi che riuscirò a farlo stare bene? Gli farà piacere vedermi domani? Qual è il suo colore preferito? Non me lo ricordo, quello… »
« Okay, okay, una cosa per volta! » il maggiore rise, alzando la mano bionica come a dirgli di aspettare, di andarci piano.
Poi, si sedette di fronte a Lance. Un lieve sorriso solcava le sue labbra sottili.
« Sì, Keith è davvero così bello. Lui è l’unico a non vedersi bello. Penso che tutto il collegio lo ami segretamente, a dire il vero, ma lui non è mai stato uno da… Interessi romantici, per così dire. » sussurrò Shiro, sempre a braccia incrociate, sempre con quella meravigliosa voce roca.
Lance lo guardava ammirato, curioso, desideroso di sapere il più possibile su quel ragazzo che avrebbe incontrato l’indomani mattina. Due occhiaie profonde segnavano i suoi zigomi, la stanchezza gli scorreva nelle vene, ma l’euforia di quel pensiero lo scuoteva a tal punto da riuscire a tenerlo sveglio.
Poi, Shiro riprese a parlare.
« Almeno finché non sei arrivato tu. Io… Io non so come tu abbia fatto. Vi siete conosciuti così, per caso, via telefono. All’inizio non sapevate neppure i vostri nomi, ma già i primi giorni lui sembrava diverso. Come assorto, ecco. Stava sempre al telefono, controllava l’ora, non mi ci è voluto molto per capire che ci fosse qualcuno, dall’altra parte di quello schermo. »
Lance aveva il fiato corto mentre ascoltava quelle parole, con la tazza calda tra le mani, mai calda quanto le proprie guance. Stava parlando di sé. Quella persona dall’altro lato dello schermo era Lance… E ora era lì. In silenzio, continuò ad ascoltare il maggiore.
« Tu l’hai cambiato con così tanta facilità. Non dico che tu l’abbia guarito, perché non si guarisce in qualche mese da problemi come i suoi, ma… Gli hai dato un motivo. Con così tanta facilità, con una tale leggerezza. Gli hai dato una ragione per arrivare a questi giorno, a domani, quando uscirà da lì. E l’hai fatto con qualche messaggio, ascoltandolo, parlandogli di te, senza lasciarlo andare. »
Il castano quasi si sentiva in colpa. Sapeva di aver fatto molto per Keith, sapeva di averlo aiutato, e lo aveva sempre fatto con il cuore in mano, ma… Ma Shiro era sempre stato accanto a lui. Non dietro ad un cellulare. Era un tale paradosso.
… Tuttavia, la vita stessa era un paradosso. Fino a qualche mese prima, Lance era un ragazzino eterosessuale, povero, dissoluto e superficiale. Ora era in Corea del Sud, era scappato di casa dopo essersi fatto il culo per tutta l’estate per guadagnare abbastanza soldi, aveva una conoscenza decisamente più profonda della psiche umana, e per di più gli piaceva un ragazzo.
Sì, Lance aveva salvato Keith, ma Keith aveva aiutato Lance. Lo aveva aiutato a crescere, a maturare, a valutare le situazioni, e ora tutta la vita gli sembrava più facile. Dopo aver avuto a che fare, per così dire, con qualcuno come Keith, niente e nessuno avrebbe più potuto buttarlo più giù, o tirarlo più su.
Keith, quel Keith, il Keith sereno e bellissimo di cui si era innamorato, era il ragazzo perfetto per Lance, quel Lance, l’attuale Lance.
Il Lance che aveva capito come girasse il mondo.
« Riuscirò a renderlo felice, Shiro? »
« Sì, » rispose il maggiore « ci riuscirai. Perché non l’avevo mai visto cantare Lady Gaga in maniche corte, prima che tu entrassi nella sua vita. »
E Lance, fiero come mai prima d’ora di quel moro che gli aveva rubato il cuore, non poté trattenersi dal sorridere.
 
La serata finì nel modo seguente.
Lance si addormentò con la testa sul tavolo. La sua ultima parola fu un sussurro: “Domani”. Shiro lo prese in braccio con facilità – quel ragazzino era leggero come una piuma – e lo portò in camera, lo mise a letto e gli rimboccò le coperte. Il castano grugniva, si muoveva, ma non si svegliò.
Shiro si soffermò a guardarlo, dopo averlo messo a letto. Doveva tutto a quel ragazzo. Fino all’ultimo non ci aveva creduto, ma era davvero volato da Cuba a Seul solo per portarsi via Keith. E Shiro lo sapeva, oh, sapeva bene che fosse scappato di casa. Sapeva che dei genitori normali non avrebbero mai lasciato partire un figlio ventunenne così, senza preavviso, verso la Corea.
Ma Lance era lì. E il giorno dopo sarebbe stato il giorno più bello della vita di Keith, grazie a lui. Shiro si chinò, guardandolo dormire, e come un padre che dà la buonanotte al figlio posò le labbra sulla sua fronte tiepida.
« Grazie. » sussurrò, prima di spegnere la luce e di uscire dalla stanza.
 
Lance dormì per dodici ore filate. Senza accorgersene, si era addormentato alle otto di sera, e solo alle otto del mattino successivo i propri occhi, disturbati dalla luce che entrava dalla finestra, che filtrava attraverso le tende bianche della stanza, si degnarono di aprirsi.
« Cazzo. Keith. » sospirò, e fu così che quella giornata iniziò.
Con Lance che, senza neppure avere gli arti completamente svegli, saltava giù dal letto, rovesciando tutte le coperte, e si precipitava giù dalle lignee scale a due a due.
Shiro era sul divano, vestito di tutto punto. Camicia, giacca e cravatta. Le gambe incrociate, un libro sulla coscia, gli occhi sottili puntati su Lance.
« Sono solo le otto. Cosa ci fai già in piedi? »
Lance sbiancò, cercando con gli occhi rossi come mele mature un qualsiasi orologio, e trovandone uno tondo appiccicato al muro. Erano le otto e dodici minuti. Era tardissimo.
« Shiro, maledizione-! Sono già le dieci! Quando esce Keith? O è già uscito? Vado a vestirmi! » strepitò il castano, non riuscendo però a fare altro che girare su se stesso come una trottola impazzita.
Shiro sorrise, si alzò dal divano e gli si avvicinò.
« Esce tra due ore, Lance. Rilassati. »
E Lance si rilassò… Prima di sgranare gli occhi. “Due ore”? Aveva forse detto “due ore”? Nel senso… Centoventi minuti?
« Ma sei impazzito? Devo ancora vestirmi, e voglio comprargli dei fiori! Shiro, devo comprargli un mazzo di rose, capisci? E quanto ci si mette ad arrivare al collegio? Diamine, stai scherzando? »
« Ci si mettono cinque minuti ad arrivare al collegio. Vedi, è dietro l’angolo alla fine di questa strada. » la voce di Shiro era calma, pacata, le sue dita tenevano stretto il libro che stava leggendo, ormai chiuso. E Lance si sedette sulle scale, perché le gambe gli avevano ceduto.
« Mi stai… Mi stai dicendo che sono a cinque minuti di distanza dal ragazzo che amo e non posso vederlo? Che ho dormito a cinque minuti di distanza dal mio Keith? » la voce gli tremava in un misto tra nervoso, frustrato e qualche altro sentimento senza nome. Shiro lo guardò dall’alto, chinando appena la testa.
« Beh, certo. Keith uscirà da lì alle dieci, non c’è modo per te di vederlo prima, quindi- » ma le parole di Shiro vennero interrotte da Lance, il quale, incurante, si scagliò verso la porta. Bastò un braccio del maggiore a bloccarlo.
« Lance, sei in pigiama. Vestiti, mangia qualcosa e andiamo a comprare i fiori per Keith, se proprio ci tieni, ma stai calmo o giuro che ti rimetto a letto. »
« No, Shiro, no, tu non capisci. Non capisci. Fammi uscire, devo andare da lui, io- perché non me l’hai detto prima?! »
« Perché saresti scappato di casa e ti saresti fatto arrestare per violazione di proprietà privata, McClain! » rise Shiro, per nulla adirato. Comprendeva Lance, sapeva che avrebbe reagito così a quella notizia, e sapeva anche che non avrebbe potuto fare nulla per far uscire prima Keith.
« E io cosa dovrei fare, per due ore? Morire dentro? Non mi sento lo stomaco! Shiro, Shiro, mi si sta restringendo lo stomaco. Mi viene da vomitare. Devo vomitare, Shiro, aiutami. » Lance tremava, si alzava, si sedeva nuovamente sulle scale, girava a vuoto per la stanza tremando, agitando le braccia, guardando fuori dalla finestra del salotto, che dava sulla strada.
« Lance. Lance, ascolta me. » Shiro lo prese per le spalle, fissando gli occhi scuri e sottili nei suoi, grandi e del colore del cielo. Lo scrollò un poco, gli accarezzò le braccia, gli sorrise finché lui non smise di tremare.
« Adesso tu prendi i vestiti più belli che hai, anzi, ti presto qualcosa io, e ti fai bello per Keith. Poi andiamo a comprargli tutti i fiori che vuoi. Okay? Devi rilassarti. » sussurrò il maggiore, dolce, comprensivo, con estrema gentilezza « Hai una vita intera da passare con lui. Hai aspettato per mesi e mesi, un paio d’ore non ti uccideranno. »
 
“Un paio d’ore” lo uccisero.
E, alla fine, aveva vomitato per davvero. Non aveva fame, sete, sonno, a dire il vero, potendo, avrebbe persino smesso di respirare. Non voleva aspettare. Non riusciva ad aspettare. Non aveva più scritto a Keith, non gli aveva più scritto neppure un messaggio, gli aveva detto che non ci sarebbe stato in quei giorni, ma si sentiva in colpa. E se si fosse arrabbiato? Se ci fosse rimasto male?
Lo stomaco gli si strinse mentre si guardava allo specchio della propria camera. Quello che lo guardava, il ragazzo riflesso nello specchio, era un Lance mai visto prima. Era un Lance in jeans scuri e camicia nera, che indossava lucide scarpe eleganti, con i capelli ben sistemati, con un mazzo di rose bianche tra le mani. Era il Lance pronto ad incontrare Keith.
« Quando sei pronto. » Shiro lo guardava dallo stipite della porta, appoggiato con la schiena ad esso, e Lance, lievemente, annuì.
« Sono pronto. » sussurrò. Mancavano quindici minuti alle dieci.
Uscirono di casa in silenzio. Shiro era emozionato, ma sapeva come non darlo a vedere. Lance, invece, sudava freddo. Camminava tutto rigido, non abituato a quegli abiti eleganti, e continuava a rischiare di pungersi con le spine del mazzo di rose. Rose bianche. Le rose di cui lui e Keith erano tanto innamorati. Le rose che Lance aveva piantato in giardino, nella sua casetta di Varadero, quando ancora mai avrebbe potuto pensare che, qualche mese dopo, sarebbe volato fino in Corea.
La vita gli passò davanti agli occhi, durante quel tragitto. Letteralmente. Vide la propria famiglia davanti a sé, sentì la mano di Dom sulla propria spalla, il debole abbraccio di Lucil, la vocina acuta di Adrian, gli sguardi dolci dei propri genitori. Percepì la presenza di Hunk e Pidge che lo incoraggiavano ad andare avanti, a prendere Keith e a portarlo via.
Tutte mere illusioni. Forse solo Dom era dalla propria parte, anzi, forse neppure lui. Pidge e Hunk erano sempre stati scettici riguardo al proprio desiderio di andare a prendere Keith, i propri genitori, oh, a loro non voleva neppure pensare, mentre i propri fratellini… Erano troppo piccoli per capire.
Forse anche Lance era troppo piccolo. Ma ormai era troppo tardi per tornare indietro.
E non sarebbe tornato indietro neppure sotto tortura.
 
Stava accadendo. Sei mesi dopo il loro primo messaggio, Lance era lì. Solo sei mesi.
Chiunque avrebbe potuto dire “sei mesi non bastano”. Avrebbero anche avuto ragione: sei mesi, nella vita di un ventunenne, erano pochi. Erano un istante. Erano un nulla, sarebbero potuti volare in un attimo.
Il punto era che a Lance non importava. Perché non era questione di tempo, non era questione di età. Era questione della persona che gli aveva fatto realizzare tutto ciò.
Tutti parlavano sempre di coloro che stavano male, ma poche volte si leggeva in giro di coloro che stavano accanto a chi stava male.
Quelle persone, quelle che sopportavano e supportavano, quelle che, nonostante tutto, erano lì. Perché Lance, nonostante tutto, era lì. Nonostante le paranoie di Keith, le sue grida, i suoi dolori, nonostante il casino che c’era nella sua testa, Lance gli era rimasto accanto. E lo aveva fatto con tutto il piacere del mondo. Perché Lance si sentiva fortunato, si sentiva soddisfatto quando riusciva a far sorridere Keith, quando il ragazzo che amava stava male e lui riusciva a tirarlo su di morale. Aveva imparato così tanto, grazie a lui. Aveva imparato a crescere, a maturare, a non sottovalutare niente e nessuno, ad aprire gli occhi su ciò che era veramente il mondo.
Doveva a Keith la vita tanto quanto Keith la doveva a lui.
E, oh, lo avrebbe fatto stare bene. Lo avrebbe ringraziato. Non avrebbe fatto finire male quella storia, non avrebbe lasciato che tutti quei mesi, tutti quei pianti, tutti quei messaggi andassero sprecati. “Fanculo la distanza”, pensò, “e fanculo i soldi, perché io sono qui”.
 
Ed era lì.
Era davanti ad un edificio grande, antico, con i muri esterni dipinti in colori scuri, che andavano dal grigio al nero. Era… Triste. Era il luogo più triste che avesse mai visto. Lance, abituato com’era alle palme, alle spiagge, al sole, detestava quel colore scuro.
Prima dell’ingresso, prima del grande, ampio portone in vetro, una ringhiera interrotta da un cancello con un’ampia insegna portava il nome di quell’orfanotrofio, ma le lettere erano strane, e Lance non capiva cosa ci fosse scritto. Probabilmente era solo il nome dell’orfanotrofio. E non gli importava.
Ciò che gli importava era il ragazzo che, dietro a quella porta, aspettava che Shiro lo andasse a prendere.
« Aspettami qui. Vado a prenderlo. » sussurrò il maggiore, e Lance, di scatto, gli afferrò un polso. Gli si avvicinò piano, lentamente, avvolgendo le calde, toniche braccia attorno al suo ampio busto.
« Grazie. Grazie per aver creduto in me. Grazie per avermi aiutato. » sussurrò Lance, con la voce spezzata « Ora portalo da me. »
E Shiro entrò nell’orfanotrofio, con un sorriso dipinto sul volto… E con gli occhi lucidi di calde lacrime.
 
 
01/10, Seul, Corea del Sud, ore 09:56
 
Nella propria stanza ormai vuota, Keith era seduto sul letto, e lasciava ciondolare le gambe, lasciando che le suole delle scarpe sfregassero contro il pavimento.
Le valigie pronte, le mani giunte sulle ginocchia, lo sguardo fisso davanti a sé.
Una felpa grigia gli copriva il busto, un paio di pantaloni neri gli fasciavano le cosce magre. Un paio di denti bianchi mordevano le labbra che li ricoprivano.
La sua mente era vuota. Aveva aspettato quel giorno per diciotto anni, e ora non sapeva più cosa provare. Confusione, gioia, malinconia, stanchezza. Se non altro, non era panico.
Knock knock, qualcuno bussò.
« Entra. » soffiò il moro con voce flebile, e Shiro aprì la porta. Keith voltò il viso, solo il viso, e lo guardò. Lo guardò in maniera vaga, vuota, confusa.
« Quindi… Il giorno è arrivato. » sussurrò, guardando il maggiore che, con quel dolce sorriso sulle labbra, lo guardava annuendo.
Keith si alzò dal letto, muovendo qualche lento passo verso le valigie, e prendendo le due borse più leggere. Shiro pensò al resto: il suo braccio bionico non era esattamente delicato, e i muscoli nella spalla li aveva ancora.
« Keith, se vuoi qualche minuto… »
« Portami via da qui. » la risposta del moro arrivò secca alle orecchie del maggiore, e lo fece sorridere. Fuori dalla porta, il direttore del collegio lo attendeva insieme allo psichiatra che lo aveva sempre seguito.
Il direttore era un uomo anziano, con il viso ornato da orribili baffi bianchi all’insù, troppo grasso, ma sempre ben vestito. Forse per mantenere quel minimo di dignità che gli rimaneva, pensava Keith.
« Allora, Kogane. Il tuo primo giorno nel mondo reale. » l’aspra voce del direttore fece arricciare le labbra di Keith, che annuì. Firmò quello che c’era da firmare, prese i fogli che c’erano da prendere, e non si scomodò a salutare, prima di iniziare a scendere le scale dell’orfanotrofio, quelle che portavano all’ingresso.
Le avrebbe percorse per l’ultima volta. Poi, mai più. Mai più avrebbe varcato la soglia di quel luogo. Mai più avrebbe rivisto quelle facce. Mai più avrebbe anche solo osato pensare a quell’inferno.
Perché ora aveva Shiro. E, una settimana dopo, avrebbe avuto Lance.
 
« Keith! Keith, hey. Rallenta. » Shiro lo rincorse giù per le scale, con la borsa più pesante retta dalla mano ‘normale’, e con quella più leggera a tracolla sull’altra spalla.
« Non rallento. Portami via da qui, Shiro. Solo allora sarò felice. » la voce di Keith tremava, i suoi occhi erano fissi sulla porta di uscita del collegio, ma Shiro gli prese un polso.
« C’è una cosa che devo dirti, prima. » Keith lo guardò confuso, interdetto, e corrugò le sopracciglia scure. Ma Shiro stava sorridendo. Sì, lui sorrideva sempre, ma questo voleva dire che ciò che stava per dirgli non sarebbe stata una brutta notizia.
Shiro posò le borse a terra, proprio dietro la porta d’ingresso. Si avvicinò a quel ragazzo, al ragazzo che aveva accudito per tutti quegli anni, al proprio fratello. Lo guardò negli occhi, mentre una mano gli si posava sulla spalla. Poi, schiuse le labbra.
« Buon compleanno. » sussurrò, e Keith distolse lo sguardo. Lo posò sulla porta di vetro dell’uscita, e lo sguardo attraversò la vetrata, percorse le scalette, il cortile, il cancello, il marciapiede appena fuori, la strada.
La figura che lo stava guardando.
 
Sbatté le ciglia, le lunghe ciglia scure che coprivano quegli occhi tendenti al violaceo, ma la figura non svanì. Stava in piedi davanti al cancello, come una statua, come una cera, con quella postura rigida e quel mazzo di rose in mano.
Keith lasciò cadere le borse, incurante, e in silenzio aprì la porta del collegio per l’ultima volta. Ma non fece caso al fatto che fosse l’ultima volta. Onestamente, tutto il mondo si era silenziato. Il proprio passato svanì, e anche solo l’idea di futuro si cancellò dalla propria mente. Solo il presente gli pareva plausibile.
Il cancello, quel grande cancello in ferro dipinto di un verde parecchio scuro, era aperto. E la figura era ancora lì.
Keith la fissava, mentre piano piano, passo dopo passo, in silenzio, scendeva i cinque scalini che lo separavano dal cortile.
Vedeva i fiori. Vedeva le rose. Le rose bianche.
E fu in quel momento che capì.
 
Alzò lo sguardo, e vide quel viso. Lo avrebbe riconosciuto dovunque, in mezzo ad una folla di migliaia, no, miliardi di persone.
Quegli occhi azzurro cielo, quella pelle color caramello, quelle labbra così sottili.
Ma… Quegli occhi. Quegli occhi lo stavano guardando, e la propria testa iniziò a girare vorticosamente.
Keith non capiva. Non capiva perché non era possibile. Quello non poteva essere lui. Lui sarebbe arrivato una settimana dopo. Lui non poteva essere lì, con un mazzo di rose in mano, davanti al proprio collegio.
… Ma lui era lì. Lance era lì. Quello era Lance.
 
« Lance. » la voce del moro era debole. Non era una voce, era un soffio. Mosse un passo, poi un altro, poi un altro ancora, e Lance era ancora lì. Lance era lì davanti a sé. Aveva gli occhi rossi, era immobile, ma stava lacrimando. Stava tremando, cercava di non scomporsi, ma non ci riusciva.
Anche lui mosse un passo.
« Keith. » soffiò, ma Keith poté semplicemente vedere le sue labbra muoversi. Non lo sentì, ma sapeva di aver letto, sulla sua bocca, il proprio nome.
Scrollò la testa: nulla, Lance era ancora lì. Gli si stava avvicinando, e lui si stava avvicinando a Lance.
Il castano varcò la soglia del cancello, mosse passi leggeri attraverso il cortile, e Keith fece lo stesso. Passi sempre più veloci, sempre più decisi, finché non furono l’uno davanti all’altro.
Occhi grigi in occhi azzurri. Viso contro viso, busto contro busto, divisi solo da un mazzo di fiori. Le guance di entrambi rosse, gonfie, umide.
Lance sbatté le ciglia, alzando le mani, porgendogli le rose. La voce uscì spezzata dalle proprie labbra, ma stava cercando di non perdere i sensi.
 
« … Sorpresa. » soffiò, e Keith prese i fiori. Li prese e, con estrema, delicata cura, li posò a terra.
Solo dopo, solo quando fu sicuro di non rovinarli, fissò di nuovo gli occhi in quelli di Lance, e così accadde.
Scoppiò a piangere, e furono le lacrime più piacevoli che gli avessero mai solcato le guance. Tutto accadde nel giro di un minimo istante. Le braccia del moro si flessero, le sue mani si premettero contro il petto di Lance, e spessi singhiozzi presero a scuotergli il corpo, ormai preso da spasmi incontrollabili. Gli spasmi più belli al mondo. Perché Lance non attese: lo avvolse tra le braccia, lo strinse con tutta la forza che aveva in corpo, con le lacrime che gli colavano sulle guance, sulle labbra sul collo, e insieme a Keith crollò in ginocchio. Le loro gambe cedettero insieme, e si trovarono per terra, inginocchiati l’uno davanti all’altro, stretti l’uno tra le braccia dell’altro, ma neppure le ginocchia ressero. Cedettero, e si sedettero, si sdraiarono sui ciottoli del cortile, senza riuscire a respirare, con i polmoni compressi, i volti completamente bagnati, mentre singhiozzi spezzati uscivano dalle loro labbra.
Fu Lance il primo a parlare, con una forza che neppure credeva di avere.
« Keith, sono qui. Sono qui. » soffiava tra i singhiozzi, le mani tra i capelli corvini del ragazzo che amava, sulla sua schiena, sui suoi fianchi, ovunque. Keith piangeva, piangeva e sorrideva, bagnava la camicia nera del castano di lacrime, la tirava tra le dita, la sgualciva, la strattonava.
« Lance, » chiamava « Lance, Lance… » e Lance lo accarezzava, sdraiato su quei ciottoli polverosi, davanti a quell’edificio che, ormai, non era altro che un ricordo passato. Keith lo guardava, poi piangeva, cercava di rialzarsi e crollava di nuovo, e rimasero così per due, cinque, dieci minuti, nessuno dei due avrebbe saputo dirlo.
Solo la voce di Shiro riuscì a riportarli in loro stessi.
« Sembrate due topi. Vi prego, alzatevi da lì. »
Colti da tremiti e spasmi, e senza lasciarsi un attimo, riuscirono a rialzarsi. Le gambe deboli, i vestiti sporchi di polvere e terra, i visi completamente deformati dalle lacrime. L’uno tra le braccia dell’altro. Dopo tutti quei mesi, dopo tutti quei giorni.
« Che- Che cazzo… Che cosa ci fai qui, io pensavo… Pensavo… Lance… » Keith faticava a parlare, respirava male, ma sorrideva. Sorrideva così tanto che sembrava ci fossero due soli, ora, ad illuminare quella giornata.
« Io… Volevo farti una sorpresa, e- ecco… » anche Lance ansimava, mentre parlava. Le dita arpionate alle spalle di Keith, gli occhi che esploravano il suo viso, il suo collo, il suo corpo esile e minuto, tutto di lui.
« Io vi aspetto a casa mia. Prendetevi il vostro tempo, non voglio saperne nulla. » Shiro li liquidò, naturalmente con il solito sorriso sul volto. Aveva visto Keith felice, quindi la sua missione era completa. Uscì dal cancello, svanendo dietro l’angolo, mentre i due, con le guance dolenti dai sorrisi, si guardavano negli occhi.
« Sei… Sei qui. » Keith non riusciva, non voleva staccarsi da lui. Gli stava stretto al corpo come se ne fosse andato della sua vita, lo guardava con gli occhi colmi dei sentimenti più forti al mondo, che andavano oltre l’amore, oltre la gratitudine.
« Sono qui. E… Scusa se non ti ho scritto. Ora che ci penso- »
 
Non finì mai quella frase.
Le labbra di Keith erano sulle proprie, e non vi si sarebbero staccate per minuti interi. Si baciarono a lungo, corpo contro corpo, bocca contro bocca, prima più piano, poi con tutto il desiderio che si erano tenuti dentro per tutti quei mesi. Fu denti contro denti, lingua contro lingua, labbra contro labbra, l’uno con le mani sull’altro, tra i capelli dell’altro, sulla schiena dell’altro. E il mondo svanì. Non c’era nulla intorno a loro. Erano nel vuoto, in una bolla fatta di tutta quell’attesa, tutta quell’angoscia, tutto ciò che avevano sempre provato. E quella bolla esplose.
« Sono qui, amore mio. »
Solo allora uscirono dal cancello, e Lance lo baciò ancora. Ma non poteva più vedere l’orfanotrofio: il dito medio di Keith lo copriva fin troppo bene.
Quello era il definitivo addio al proprio passato, era la fine della propria vita precedente, l’inizio di una vita nuova. Una vita con Lance. Una vita lontano dal mondo, dalla quale niente e nessuno avrebbe potuto portarlo via.
« Prendi le valigie. Ti porto a Cuba. »
 
Non si lasciarono neppure per un secondo. Con i fiori in una mano e una valigia nell’altra, Keith rimase comunque stretto al corpo di Lance, del ragazzo che amava, ora più che mai. Quello non era un sogno. Keith ne aveva letti di libri, e quello non era un libro, bensì la realtà. Era il proprio lieto fine. Era l’unica medicina in grado di curare i propri problemi. Quelle labbra, quegli occhi, quelle mani, quella voce: quello era tutto ciò di cui aveva sempre avuto bisogno.
Un mondo nuovo, una vita nuova, una persona nuova.
Un futuro tutto da scoprire, un cervello da sistemare piano piano, con il suo aiuto. Migliaia e migliaia di CD di Beyoncé, Shakira, chiunque Lance volesse, da ascoltare nella sua camera da letto, prima di andare a dormire. Mattina dopo mattina, sera dopo sera, perché quelle migliaia di chilometri che li avevano sempre divisi erano stati annientati. Erano stati annientati da Lance, un ragazzo che non aveva mai saputo fare altro se non compilare inventari e suonare la chitarra.
C’era riuscito, Lance. E c’era riuscito anche Keith. E, a casa di Shiro, due biglietti aerei per Cuba li aspettavano posati sul letto.
Su quell’aereo, poi, ci salirono eccome. Ridendo, piangendo, stringendosi l’uno all’altro, confusi, increduli, ma felici nel vero senso della parola. Non sereni, non contenti: felici.
Sui sedili dell’aereo, tra i loro corpi abbracciati, proprio nel mezzo, il mazzo di rose bianche illuminava entrambi, catturava i loro sguardi, li faceva sorridere.
Parlavano a malapena, tremavano, più che altro, ma avrebbero avuto una vita intera per parlare, per regalarsi fiori, per essere felici.
 
Perché si erano cercati, si erano voluti, e si erano trovati.
 
 
 
NOTE FINALI:
Per prima cosa, mi scuso davvero per il ritardo. Tenevo troppo a questo capitolo, so che è venuta fuori una cosa colossale, quindi mi ci è voluto tempo.
E… Niente. Non so che dire. Ho amato scrivere questa storia, anche se ora che la rileggo so che avrei potuto scriverla molto meglio, ma considerando che era iniziata come una cosa da nulla sono piuttosto soddisfatta.
Vi ringrazio per aver letto questa… Cosa.
Non escludo un sequel, giusto per raccontare cosa accadrà a Lance e Keith una volta arrivati a Cuba, ma prima… Prima, oh, mi dedicherò a qualcosa di smut. Spero mi seguirete anche allora! ♡
Ringraziamenti:
Ringrazio ancora Marika, la mia preziosa geme, per essere la mia musa ispiratrice.
Ringrazio le persone che mi hanno resa ciò che sono, grazie alle quali ho potuto immedesimarmi così tanto in Lance.
Ringrazio la mia vita, per quanto strana e, a volte, odiata, per avermi fatto capire che ciò che non uccide, fortifica.
E ringrazio Lance. Perché lui ce l’ha fatta.
 
E infine ringrazio voi, che avete letto, seguito, messo tra i preferiti e recensito questa storia. Spero davvero che vi sia piaciuta, e spero anche che lascerete qualche commento per farmi sapere cosa pensate di questo finale.
Un bacio, e alla prossima storia.

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