1943

di adler_kudo
(/viewuser.php?uid=526296)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1943, Varsavia ***
Capitolo 2: *** 1943, Linea ferroviaria Varsavia-Treblinka ***
Capitolo 3: *** 1943, Treblinka ***
Capitolo 4: *** 1943, Treblinka II ***
Capitolo 5: *** 1943, Treblinka II ***



Capitolo 1
*** 1943, Varsavia ***



1943, Varsavia 

Piove anche stanotte sulla città. Una pioggia di fuoco. Ma non è come se dei fiocchi di neve cadessero e, posandosi, esplodessero rivelando il loro frattale, non sono bombe dal cielo quelle che infuocano la città come dicono accada su altre, sono granate, proiettili, ferraglia, chiodi, polvere da sparo, dardi che sono lanciati in ogni direzione dall'alto dei palazzi e piovono in strada. Non piove in tutta la città, solo qui, solo sugli ebrei. È come se Dio volesse che si ricordassero di essere il popolo eletto: hanno un posto speciale, hanno diritti speciali, hanno doveri speciali e hanno anche un trattamento speciale. Gli ebrei sono speciali. È per questo che vivono nel ghetto ormai in fiamme, perché sono il popolo eletto e non vogliono stare troppo con gente che speciale non lo è. È questo che raccontano ai loro figli, spaventati da quei cambiamenti che li hanno visti protagonisti. È così che consolano i bambini che piangono nel sentire che piove di nuovo sulla loro casa, mentre nascosti stanno ad attendere che smetta e che per anche quella notte abbiano salva la vita.
Lo fa anche lui, che ebreo non è, ma che al ghetto ci passa la maggior parte del tempo. Fin da prima della guerra lo frequenta, come farebbe un qualsiasi giudaico, solo che non porta la stella, non deve distinguersi dagli ariani, lui che ariano lo è. Cosa darebbero gli altri quando lo vedono passeggiare in compagnia di quella che considera sua sorella lungo le vie del ghetto per avere quello che ha lui. Chissà quanto oro tirerebbero fuori per levare di dosso quel simbolo giallo di disgrazia che li accompagna giorno e notte. In molti lo hanno emarginato da quando è scoppiata la guerra, è l'ariano ad essere all'angolo tra gli ebrei, volevano ucciderlo, punire i nazisti con la sua morte. La gente dimentica sempre in guerra il singolo per la categoria; la guerra è più alienante del lavoro, fa confondere gli amici con i nemici. Anche lui, che per la notte piovosa d'armi corre tra i marciapiedi bucherellati da proiettili, l'ha fatto; ha confuso i nemici con gli amici. Sta aiutando gli ebrei in quella che sembra la follia più grande: una rivolta nel ghetto. Non lo fa per la gloria; non vuole farsi vedere bello agli occhi degli alleati che, se un giorno Dio lo vorrà, arriveranno a salvarli; non rischia la vita per portare quel paio di tozzi di pane che regge in mano, scheggiando tra le granate, per noia, diletto o eroismo; non è un eroe: cerca solo di far sopravvivere un giorno in più la sua famiglia adottiva. 
Compie l'ultima svolta a destra che lo separa dal nascondiglio e ne spalanca la porta tuffandovisi dentro e richiudendola in un lampo. Getta sul tappeto i magri generi alimentari che è riuscito ad acquistare al mercato nero fuori dal ghetto nel pomeriggio e trae un sospiro di sollievo. È la terza notte di fila che gli va di lusso; per tre volte è riuscito a sfuggire al blocco nazista che controlla il ghetto in ribellione e ad arrivare salvo a destinazione. Non può dunque trattenere un sorriso mentre si accascia al suolo esausto e una bombarda fa tremare lo stipite della porta del sotterraneo dove è rintanato. -Devi smetterla di fare questo per noi! Finirai per farti ammazzare!- lo rimprovera la sua sorella improvvisata andando a raccogliere quel poco cibo che tanto sforzo ha valso. 
-Devi sempre lamentarti, Wilhelmina?- risponde a tono lui. È da quando si conoscono, da sedici anni, che continua a trattarlo come se fosse sua madre. -Ho fame, Wil! Dai, sorellona!- si lamenta dalla penombra del tugurio che usano come tana una voce giovane. 
-Intanto ringrazia Iddio se questo pazzo non si è ancora fatto ammazzare, Henryk.- lo rimprovera la maggiore passando al fratellino parte di quel pane. -Grazie! Fatto, ora posso magiare?- Mentre il bambino addenta il cibo e così qualche istante dopo fa la sorella, il ragazzo si stende sul divano color senape e rotto che hanno come letto insieme ad un materasso bitorzoluto poco più in là. Lo sgabuzzino dove da quando sono iniziati i rastrellamenti vivono è scarno, spoglio e freddo. Illuminato da una lampada a gas posta al centro della stanza, contiene solo un tappeto sfilacciato che ricopre ogni parte del pavimento, quegli unici due giacigli e una piccola tenda con dietro quei tre servizi igienici necessari alla vita comune; il soffitto basso con le travi in vista trema ad ogni scoppio ai piani superiori facendo precipitare verso il basso, tra capelli, occhi e vestiti di chi ci viveva polvere accumulata da decadi. Per la fretta con cui era stato fatto su era anche troppo attrezzato, senza contare che, su consiglio del ragazzo, l'unico tra i tre che portava notizie dall'esterno, avevano cosparso la porta di una sostanza tale infastidire l'olfatto di cani che usano per cercare gli eventuali fuggiaschi e quindi, almeno a rigor di logica, sarebbero dovuti essere al sicuro per un po'. 
Non hanno intenzione di restarci troppo a lungo, assolutamente impossibile come idea, solo tanto quanto basta affinché i nazisti abbassino un po' la guardia e non notino tre ragazzi uscire dal ghetto, troppo presi da altro. La ribellione, scoppiata appena tre giorni prima, è stata una manna dal cielo per loro, l'occasione con la quale finalmente fuggire da quella gabbia. 
-Domani.- annuncia il ragazzo soddisfatto -Domani vi porterò i vestiti nuovi. È l'occasione perfetta. Starete a casa mia per un po'. Il tempo necessario perché vi procuri un paio di passaporti falsi e poi ce ne andremo in Inghilterra.- -Non faremo prima ad andare in Russia, Mail?- domanda il ragazzino con la bocca ancora piena di quel semplice pasto che ha imparato a gustare come il più divino. 
-La Russia non è sicura perché ci sono i comunisti. Non piacciamo molto neanche a loro.- 
-Piacciamo?- chiede la ragazza scettica -Tu non sei ebreo. Non rientri i questa categoria.- -È scortese categorizzarvi. Preferisco così. Siamo una famiglia, no?- Wilhelmina annuisce poco convinta. Lei pensa ancora che sia sbagliato; pensa ancora che ariani ed ebrei non dovrebbero stare vicini, è pericoloso. Sono stati bravi i nazisti a inculcare nella mente di chiunque idee come queste; idee di divisione: lontani per pericolo, lontani per odio, lontani e basta. Che sia odio o che sia paura non cambia la separazione che comporta. 
Mail lancia uno sguardo ai due fratelli che sono capitati sotto la sua ala protettiva quasi per caso e riflette sul da farsi; non può abbassare la guardia proprio ora. Nella sua dimora poco distante ha qualche indumento vecchio di sua madre e di quando era bambino che potrebbe fare al caso loro; fisicamente l'unico problema è il maschietto, circonciso alla nascita, è così che i nazisti scoprono chi si finge ariano tra gli uomini e le punizioni sono più severe di quelle date per il tentativo di fuga dal ghetto. Ma di per sé potrebbe non dovrebbe rivelarsi un problema: ambedue i fratelli sono più alti della loro età, con capelli e occhi chiari, facili da prendere per ariani a colpo d'occhio, più che è altro è lui il problema con i suoi capelli rossi e gli occhi verdi ad essere come un faro nella nebbia. -Wil, domani fatti le trecce.- la avvisa accennando ai suoi capelli perennemente lasciati liberi sulle spalle. 
-Devo farmi carina per farmi ammazzare?- domanda questa ironica. Ha solo sedici anni, ma pare già una trentenne dal modo di porsi e dalla complessità di pensiero; la guerra fa maturare tutti tranne coloro che ne hanno più bisogno, coloro che l'hanno voluta. -E tu, Hen, vedi di tenere a freno la tua solita boccaccia. Se ti tirano giù i pantaloni per controllare sei fritto.- 
-Lo so. Lo so.- Anche Henryk è più maturo dei suoi soli otto anni, ma si comporta come un piccolo scaricatore di porto per compensare alla perdita dell'infanzia. Perennemente stravaccato sul materasso a leggere qualsiasi cosa gli venga portata, non può evitare di fare commenti sprezzanti su qualsiasi argomento. -Conviene dormire, ora.- annuncia la ragazza andando ad accucciarsi con il fratello. -Ma io non voglio!- si lamenta l'altro facendo immediatamente uno sbadiglio che testimonia il contrario. -Dormi anche tu, Mail.- Il sorriso mesto che la sorella porta in volto parla da sé, sorriso di ringraziamento per gli forzi non necessari di quel ragazzo che conosce dalla nascita, di quel pazzo che si farebbe uccidere per loro. 
-Tra poco.- risponde brevemente l'altro abbassando al minimo la luce. Non è saggio chiuderla del tutto, bisogna sempre essere pronti per qualsiasi evenienza improvvisa soprattutto ora che la pioggia di fuoco pare essere calata, presagio dell'imminente nuova e violenta retata nazista. Ora saranno addirittura più feroci del solito, reduci da uno scontro che di sicuro avrà mietuto vittime tra le loro fila; non sopportano di perdere nulla contro chi ritengono inferiore. 
Sente dei passi fuori dalla porta e si irrigidisce, dubita che entrino, spera non lo facciano, non possono, ha promesso che li avrebbe salvati. Quando sente quegli stessi passi farsi più lontani tira un sospiro di sollievo, anche quella notte gli è andata bene. È troppo fortunato ultimamente, deve accadere qualcosa di molto brutto per compensare; lo ha capito ormai che dalla vita bisogna aspettarsi ciò: per ogni cosa bella ne accade una brutta. È stato lo stesso quando sua madre è morta per i bombardamenti su Varsavia o quando suo padre è stato ucciso per essersi opposto ad un tedesco che pretendeva di avere gratuitamente dei rifornimenti dal suo negozio di alimentari. Pochi giorni dal Natale, pochi giorni dal suo compleanno. Pensa poi a quei due ragazzi che considera fratelli; anche per loro non è andata bene; nella prima retata i genitori sono stati deportati entrambi mentre loro erano a scuola. Sono tornati a casa e hanno trovato tutto distrutto, vuoto, il loro nido sparito, così come buona parte dei vicini. Erano corsi da suo padre che li aveva accolti come dei figli, sebbene avessero continuato a vivere nel ghetto, memore della prolungata amicizia con il loro povero padre. Mail era finito così a fare il fratello maggiore ufficialmente, come in effetti aveva sempre fatto da quando era nata Wilhelmina, e dopo la morte di suo padre si era assunto la responsabilità delle loro vite. Solo vent'anni di esistenza e già più lutti di quanti ne sarebbero stati necessari. 
Ad un nuovo accenno di passi fuori dalla porta sussulta; le mani gli tremano, ha bisogno delle sue sigarette per calmarsi, ma non può fumare in un ambiente così chiuso. La mano scivola rapida e silenziosa verso la lampada per aumentarne la luminosità, però così come si erano sentiti i rumori se ne vanno. È una notte lunga da superare, la pioggia è cessata e i cani da tartufo stanno annusando in giro per le loro prede. 
Deve restare sveglio, non può addormentarsi, non può smettere di stare all'erta, è in guerra con il mondo di fuori che d'improvviso può irrompere dentro e distruggere ogni cosa che ha costruito, e non può permetterlo. Ma l'aria viziata della stanza ha uno strano effetto su di lui, ne irretisce i sensi, ne intorpidisce le membra, così si abbandona al sonno, maledicendosi per essere così stanco. 
A svegliarlo stavolta non è la solita Wilhelmina. Ne conosce il tocco delicato e deciso al contempo. Non è neanche Henryk. Non ha le mani così grosse. E nessuno dei due parla tedesco. 
Si tira su di scatto stravolto. La prima cosa che vede è la scarna faccia di un militare ariano sorridergli sornione. -Ben svegliato, fatto buona nanna, ebreo?- gli dice in un polacco stentato come presa in giro. Mail non sa come rispondere, non sa cosa rispondere, vede solo i suoi fratelli trascinati violentemente fuori per i capelli e non può far altro che ordinare di lasciarli stare in tedesco. I militari si arrestano, sono stupiti che parli la loro lingua. 
-Sei tedesco, ebreo?- domanda lo stesso. -No, sono polacco.- -E perché sai il tedesco?- -Mia madre e mio padre erano tedeschi.- Non ha intenzione di aggiungere nulla, non vuole dire di come suo padre si sia valorosamente battuto nella Grande Guerra, pure persa dalla Germania tra l'altro, di come sua madre si sia sempre prodigata per il bene comune a Berlino con le sue donazioni agli orfanotrofi, di lui e della sua razza ariana. Non ha intenzione di proclamarsi ariano e di uscirsene a testa alta da lì, mentre i suoi amici finiscono in pasto al carnefice. 
L'uomo, che a giudicare dalla divisa è un tenente, ordina di radunare tutti nella piazza, compreso lui. I residui della guerriglia della sera prima sono ben visibili e i superstiti raccolti al centro delle macerie si confondono con il resto dei ruderi con i loro abiti grigi e sgualciti su cui non può fare a meno di brillare la stella gialla a sei punte che li condurrà alla morte. L'unica cosa che pare non essere stata toccata da quella disperazione è appunto quel distintivo, che cosa buffa. 
Una volta tutti in riga, un capitano alza la voce e inizia a parlare senza interprete; è tutto così calcolato da parte loro, ovviamente quasi nessuno sarebbe stato in grado di intendere e il primo che si fosse sbagliato ci avrebbe rimesso per tutti. -Traduci.- ordina il tenente a Mail non appena il capitano ha terminato il discorso. Senza attendere risposta lo trascina di fronte a tutti di mala grazia e con uno spintone gli fa cenno di parlare. 
Il ragazzo esordisce con un sospiro -Dovete lasciare qui ogni oggetto personale. Vi è concesso portare solo il soprabito e per le donne anche una piccola borsa. Dovrete dividervi. Le famiglie a destra, quelli da soli a sinistra. I bambini tutti con le loro madri. Seguite poi il soldato che vi condurrà fino al camion.- 
Mentre gli altri eseguono, il capitano lo ferma. -Perché tu non porti la stella, ebreo?- gli domanda con sufficienza. 
Mail sta per rispondere di essersi scordato la giacca, nonostante fosse appena aprile e non facesse assolutamente caldo, ma la voce acuta e femminile di Wilhelmina giunge alle loro orecchie prima di ogni altra cosa. -Lui è ariano! Lui non è ebreo!- grida con foga, strattonando il soldato che la tiene ferma per un braccio, non appena riesce a sgusciare via corre verso di loro e con le lacrime agli occhi grida disperata -Lui è qui per errore! È ariano! Non ebreo! Non deve venire con noi!- 
Un pugno nello stomaco da parte di uno dei soldati che assistono la fa crollare al suolo senza fiato. -Sei ariano?- domanda il capitano scrutandolo nel profondo. I suoi occhi sono disgustosi, da serpe, occhi di chi ha riso in faccia alla morte, non alla sua però. Mail prende un respiro profondo prima di prendere parola. Sa già che si guadagnerà l'odio di sua sorella, ma risponde a pieni polmoni -No, sono ebreo! Ebreo di nascita e di religione!- 
L'uomo guarda con disprezzo la ragazza ancora a terra. -È tua sorella?- -Sì.- -Dille di stare zitta la prossima volta. So riconoscere gli ebrei anche se fossero travestiti da führer.- -Sì.- 
Prende per le spalle Wilhelmina e la riaccompagna al suo posto con il fratello minore sotto shock. -Avresti dovuto andartene.- sussurra con il volto rigato di lacrime -Stai mentendo su chi sei.- -Non è importante mentire con dei ratti del genere, non riconoscono la differenza tra bugia e verità altrimenti non farebbero ciò che fanno.- 
I soldati iniziano poi ad urlare a destra e a manca di muoversi, c'è un gran putiferio, la gente è spaventata, la gente si dichiara ariana e viene picchiata, vengono caricati su camion aperti che sballottano il carico ad ogni buca. Wilhelmina è zitta, ferma, immobile, come una leonessa ferita, regge in braccio il fratellino che vuole, desidera ardentemente ignorare tutto, non lo comprende, è troppo piccolo; dagli occhi della ragazza Mail scruta che però quella ferita non si chiuderà mai più. Guarda il cielo grigio che promette pioggia, vera questa volta, e non se ne stupisce quando sente una delle prime gocce arrivargli sul naso. Vede la gente che li guarda dalla strada, li addita, alcuni li salutano pure. Sembra un addio, un commiato... Esagerati, in fondo stanno solo per prendere il treno.

Angolo Autrice:
Salve! È da un secolo che non pubblico, che gioia...
Spero che questo primo capitolo sia stato di gradimento. Non sono io in prima persona una grande fan delle au soprattutto di questo genere, ma l'ho scritta tempo fa su capricciosa richiesta di una mia cara amica e le è piaciuta così tanto che non potevo lasciarla nel cassetto.
Grazie e al prossimo capitolo!
-AK

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 1943, Linea ferroviaria Varsavia-Treblinka ***


1943, Linea ferroviaria Varsavia-Treblinka




Piove. Piove sul tetto arrugginito dello scomparto di treno dove in cinquanta stanno ammassati dalla mattina senza acqua né cibo. Piove sul serio. Si sente il ticchettio incessante delle gocce trapanare con perizia la scarna carrozza merci dove su pagliericcio sporco stanno coricati i passeggeri. C'è silenzio, nessun mormorio umano, solo il rumore rapido delle ruote sui binari che, come una melodia, li accompagna cullandoli nella monotonia di un viaggio senza poter scorgere un briciolo di paesaggio se non attraverso piccoli buchi per l'aria dai quali gocciola pure la pioggia. È umido l'ambiente, umido e caldo, lurido. Non ci sono molti bambini e quei pochi che ci sono sono orfani aggrappati alle gonne di zie o sorelle. Sono nello scompartimento per i soli, non per famiglie. C'è chi dice che in quello per famiglie ci sono i sedili. È passato un po' di tempo da quando sono partiti quella mattina; l'orario di pranzo è di sicuro passato dati i gorgoglii dello stomaco di molti, ma nessuno ha fatto ancora fermare il treno per dare loro da mangiare o anche solo da bere, o solo per vuotare il maleodorante secchio che funge da latrina comune posto all'angolo. Non c'è stata distinzione tra maschi e femmine e di questo Mail ne è grato; è ancora con sua sorella e suo fratello anche se non si sono più rivolti la parola da quella mattina. Non appena erano arrivati alla stazione erano stati caricati indistintamente su vagoni merci quasi fossero animali, ma in fondo è ciò che sono gli uomini, niente più che animali; sono stati spinti con la forza a salire, ci sono state urla, gente che si opponeva, piangeva, implorava; sono stati loro i primi ad essere buttati dentro. Non ci si deve far individuare dai tedeschi, se sai stare al tuo posto te la cavi più a lungo.

Mail si sistema meglio; la schiena appoggiata alla fredda parete scorrevole di metallo gli duole, così come il sedere su quella paglia usurata, ma non può alzarsi per sgranchirsi le gambe: pesterebbe solo le persone intorno a lui. Si scrocchia il collo in alternativa, ma così facendo attira l'attenzione di un vecchio dalla lunga barba seduto dirimpetto a lui.

-Tu che sei ariano dovresti startene fuori di qui.- gli dice con aria stanca.

-Lo decido io cosa sono. Voglio essere ebreo.- gli risponde Mail trattenendo il nervosismo. Non ha voglia di dare motivazioni, non sa perché ha fatto ciò che ha fatto, ma non vuole dare motivo a sua sorella di odiarlo ancora di più. Sente altri occhi puntati su di lui, occhi che negli anni ha imparato a conoscere; desidera più di ogni altra cosa una sigaretta, la sua unica compagna fedele, la tiene in tasca, ma non ha da accendere e non può fumare lì dentro. Se i tedeschi dovessero ucciderlo, vorrebbe solo fare un ultimo tiro.

-Non conosci la religione.- replica il vecchio.

-Non importa ai nazisti, nonno.-

-Ma importa a noi.-

La conversazione è costretta ad essere interrotta. D'un tratto si sentono stridere i freni e le rotaie sibilano sotto lo sforzo di arresto del bastimento. Molti si alzano. Attendono in trepidazione. Sarà cibo? Sarà morte? Nulla di tutto ciò. Le porte scorrono lateralmente e rivelano una normalissima stazione ferroviaria. Il mormorio si diffonde generale, mentre, invitati più cordialmente del previsto dai militari, i primi cominciano a scendere. C'è musica da sala d'aspetto nell'aria. La stazione è nuova, pulita, ben tenuta; cartelli indicano dove prendere i treni per svariate direzioni, l'orologio al muro indica le ore sei, vicino troneggia il cartello con la scritta della località nella quale si trovano: Treblinka.

-Statemi vicino.- consiglia Mail aiutando il fratellino e la sorella a scendere dal vagone. Vuole essere gentile, ma si guadagna solo un occhiata sprezzante da parte di lei, il bambino invece preferisce rimanere nell'ignoranza, è solo un bambino.

Mail ha notato che nella stazione qualcosa non va. È troppo perfetta per essere usata abitualmente; non una crepa, non un difetto d'usura, l'orologio ha la lancetta dei minuti ancora ferma nello stesso punto: è finto. La stazione è falsa, una copertura per tranquillizzare i più. 

I militari radunano tutti lungo il binario. Danno ordini in tedesco che quasi nessuno capirà e pretendono di essere intesi; per fortuna arriva un soldato, un ucraino, a fare da interprete. Mail non sa da chi abbia imparato il polacco, ma è di sicuro molto scadente come insegnante.

-Uomini sopra i sedici anni a destra. Donne e bambini a sinistra. Per la registrazione.-

Un ordine chiaro semplice e tondo. In fretta viene eseguito, ma prima di andare in molti si salutano, speranzosi di rivedersi. 

-Non vi preoccupate...- inizia Mail, ma viene interrotto da Wilhemina con un solo sguardo.

-Non ci serve la tua pietà, ariano.- sibila con durezza -Se vuoi soffrire per noi fallo pure. Noi non soffriremo per te.- 

Prende per mano i fratellino volutamente spaesato e cerca di trascinarlo via, ma questi si aggrappa ai pantaloni di Mail, rimasto senza parole.

-Il fratellone torna, vero?- domanda Henryk; nei suoi occhi e nel suo tono c'è tutta l'infantilità possibile, infantilità che ha perso troppo in fretta.

Mail si china alla sua altezza e lo guarda con un sorriso. Vuole rispondere di sì; vuole illuderlo che andrà tutto bene come molti padri stanno facendo in quel momento con i loro figli, ma sa che non è stupido e che quella domanda così bambina è solo il frutto della nuova maschera che ha indossato.

-Lo spero.- dice posandogli la mano tra i capelli chiari e scompigliandoglieli tutti -Tieni d'occhio Wil, conto su di te.-

-Sì.- annuisce anche con la testa e si lascia tirare indietro dalla sorella che non si volta indietro; ha già dato il suo addio.

Mail li guarda affiancarsi al resto delle donne e dei bambini. L'ultima immagine che vuole conservare di loro è quella di una giovane e fiera donna accolta tra le madri e di un piccolo e forte bambino pronto a sostenerla. Guarda per l'ultima volta i due fratelli, così diversi dal resto della folla che stonano quasi tra quella massa di capelli bruni; sorride nel vedere una donna raccogliere tra le mani i lunghi capelli biondi della maggiore e complimentarsene. Attende che siano entrambi entrati nella sala successiva dove le militari dicono loro di andare prima di accodarsi con gli altri uomini.

Nella sua fila c'è silenzio, non come in quella delle donne, dove si sentono il flautato vociare delle signore e i gridolini dei più piccini; gli uomini stanno in silenzio, i più a testa china, sfilano di fronte ai soldati armati. Debbono fermarsi di fronte ad un tavolo dove uno domanda l'età in polacco. Gli uomini rispondono e in base a questo viene indicata loro una porta a destra o una a sinistra. I più anziani vengono spediti tutti a sinistra, ma anche qualche altro più giovane si accoda a loro: sono per lo più magri, affaticati, vistosamente zoppi o storpi.

Tocca anche a Mail quel processo e risponde risoluto la sua età -Venti.-

-Porta a destra.- gli viene comunicato e lui esegue. Quando entra non vede la stanza che si aspettava di trovare. C'è un corridoio senza finestre illuminato solo da qualche rada lampada pendente dal soffitto; non è molto lungo, in breve arriva ad una porta dove c'è scritto Ankleideraum, spogliatoio, in tedesco. Avverte altri passi dietro a sé, ci sono altri che sono stati mandati con lui; apre la porta ed entra in uno stanzone grigio, anch'esso senza finestre e illuminato da poche lampadine, dove si sono ritrovati gli uomini già selezionati. C'è una porta di fronte a quella d'ingresso, ma è sorvegliata da una SS e da un ucraino in divisa tedesca; c'è anche un rubinetto gocciolante in un angolo, ma il cartello sopra di esso è a dir poco ironico verschmutzt Wasser, verboten, zu trinken: acqua inquinata, vietato bere.

Mail sbuffa. Ha la gola arida e sentire il gocciolio di quell'odioso rubinetto del quale non si può usufruire è deleterio, ma immagina siano questi i modi con i quali i nazisti intendevano logorare dal profondo la stirpe ebraica.

Attende in piedi per non sa nemmeno quanto tempo, mentre il corpo richiede sempre di più acqua e cibo, fino a quando l'ultimo arrivato chiude la porta. Sono in più di cinquecento in quella stanza, ma Mail ha notato essercene molte altre raggiungibili dal binario.

La SS prende dunque parola.

-C'è qualcuno che sa il tedesco?- domanda nella sua lingua natia. Nessuno alza la mano, forse molti per paura, ma Mail si sente in obbligo di farlo. Non che voglia riconoscimenti speciali, ma non ci tiene ad attendere la sfuriata dell'ufficiale su qualche malcapitato.

-Tu.- lo indica la SS dopo averlo individuato -Traduci.-

Mail annuisce e attende che questi inizi a parlare.

-Vi dovrete spogliare. Di tutto. Se avete orologi, portafogli o quant'altro di valore riponetelo accuratamente nelle scarpe e legatele insieme, così non si perderanno. Mettete i vostri pantaloni nell'angolo a destra e il resto a sinistra. Quando sarete tutti pronti verrete inviati a fare la doccia nella stanza accanto. Ci saranno dei controlli medici per la vostra salute e poi vi saranno assegnate le mansioni e verrete inviati al vostro alloggio.-

Mail traduce ogni cosa nel tono più chiaro possibile, alla parola “doccia” vede già gli occhi di molti tremare, il viso impallidire. Sono giunte alcune notizie fino a Varsavia e non sono promettenti.

Tuttavia eseguono tutti. Mail è stupito di vedere quanti oggetti di valore molti di loro possiedono, le loro scarpe luccicano d'oro da quanto sono piene; probabilmente pensano di potersi comprare i militari con quello. Per quanto lo riguarda non ha nulla di valore, l'unica cosa che ha in tasca è la sigaretta, ma si guarda bene dal lasciarla nei pantaloni dato che probabilmente verranno lavati. La ripone nelle usurate scarpe nere e si accoda con gli altri già pronti per la doccia. Non ha mai visto così tanti uomini nudi, di tutte le età, ma cerca di non farsi notare troppo: non è ebreo, non è circonciso, e le SS questo non lo devono vedere o gli farebbero domande.

Entrano veloci nelle docce, ci hanno messo fin troppo tempo e la SS si è spazientita, lo vedono dai suoi occhi. Una volta in quel nuovo stanzone dal pavimento concavo per far scorrere l'acqua attendono sotto innumerevoli soffioni. Quando la porta si chiude cessano il respiro per un attimo. Cosa accadrà? 

Mail avverte il pavimento bagnato sotto i suoi piedi; le docce sono state usate da poco, semplice acqua è infatti quella che tra lo sgomento generale esce. Tutti i beano sotto quella fredda cascata, emettono suoni di piacere, bevono quell'acqua e si rigenerano sotto di essa. Sono lieti di non essere morti.

Mail fa altrettanto: si sciacqua, ne inghiotte ingenti quantità e poi d'improvviso il getto cessa e una nuova porta si apre. Viene chiesto loro di mettersi in fila ordinata e di attendere il loro turno. Eseguono, ma fa freddo una volta bagnati. Per fortuna la coda si svolge veloce e quando Mail arriva sulla soglia immediatamente due spazzole spelacchiate dall'odore di tintura di iodio gli vengono passate su tutto il corpo alla bella e meglio, gli viene piazzato in mano un logoro indumento piegato e viene spinto in avanti. Giunge di fronte ad un banchetto dove un soldato ha posato sopra un registro con dei numeri.

-68 098- dice questo ad quello accanto a lui che gli tira il braccio sinistro verso di sé e inizia a imprimergli qualcosa con un attrezzo da tatuatore. Non è per nulla delicato, preme sul muscolo e non si cura della precisione della cosa; in pochi attimi ha terminato e Mail viene sospinto avanti verso un nuovo spogliatoio dove viene invitato a vestirsi. Si osserva il braccio dolorante: 68 098 impresso ad inchiostro blu sulla pelle circondato da un alone rosso. Vede altri con un numero simile al suo ai quali cambiano però le ultime cifre; comprende in un attimo cosa è: il suo nuovo nome.

Indossa quella che deve essere un uniforme dato che tutti l'hanno uguale, a righe verticali bianche e blu, ma gli è troppo grande e prude senza uso di alcun tipo di biancheria intima, senza contare che è troppo leggera per stare così all'aperto; nota che anche lì vi è appiccicata una stella gialla. È la prima volta che ne porta una e, non sa perché, se ne sente lieto; in qualche modo non lo disturba.

Ci sono anche degli scarponi marroni e usurati ai lati della larga stanza e ne prova un paio sfilandoseli immediatamente: sono ruvidi e scomodi, troppo grandi e senza calze sono improponibili. Tuttavia viene loro ordinato di farlo e così deve calzarli ripromettendosi di toglierli non appena arrivato dovunque doveva arrivare. D'un tratto la porta davanti a lui e ai suoi compagni si apre facendo entrare una ventata d'aria gelida; pian piano gli uomini escono, spinti anche dai soldati che intimano loro di andare, e rabbrividiscono al contatto con il freddo ambiente. Quando Mail esce si accorge che non è più giorno, il sole è calato, ma il campo non è buio: ci sono fari accecanti in ogni angolo che rischiarano quasi a giorno ogni centimetro quadrato. C'è ancora della neve ai lati di alcuni edifici e si gela con solo quella camicia indosso; nuvole di vapore escono dalle bocche dei suoi compagni che ansimano per il freddo e per l'attesa, alcuni di loro si stringono insieme per scaldarsi a vicenda. Ci sono muri di filo spinato che dividono le varie sezioni del campo, un cartello capeggia su di essi, Hochspannung, alta tensione; sentinelle armate monitorano i confini di ogni zona e non vi è quasi nessuno in giro tra i detenuti, quei pochi che ci sono stanno avanzando verso di loro con una grossa e pesante marmitta. La posano per terra, ma mentre già alcuni corrono attirati dall'odore di zuppa del contenuto, una SS spara verso l'alto riportandoli ai riga sull'attenti. Giungono con lui anche alcune guardie ucraine e altri due della sua specie; li fissano, li squadrano con disprezzo e odio. Mail ricorda in quel momento che sua madre diceva sempre che se una persona odia qualcosa è perché ne è spaventata, ma cosa di temibile hanno cinquecento uomini infreddoliti e disarmati per degli agenti del führer?

Lo stesso che ha sparato grida per farsi sentire da tutti.

-Qualcuno sa il tedesco?-

Mail non si offre volontario questa volta, non vuole farsi identificare subito e la sua zazzera fulva non aiuta di certo, ma al posto suo alcuni lo indicano e lo spingono in avanti. È già iniziata dunque la folle perdita di umanità nella quale uno sopravvive a discapito del prossimo. Se ciò che voglio farne dei semiti è distruggerli ci stanno riuscendo: stanno distruggendo la loro umanità.

La SS, un bruno dagli occhi verde marcio a giudicare con la luce artificiale disponibile, non si degna nemmeno di dirgli cosa fare, deve averlo già capito, e inizia subito a parlare in modo veloce, probabilmente pensando di metterlo in difficoltà.

-Cercate la vostra baracca, contrassegnata da due numeri con un intervallo di cinquanta. Cercate quella corrispondente alla vostra identificazione. La normale prassi è, per l'igiene, quella di radere i capelli, ma è tardi perciò verranno solo rasati coloro che portano barba e baffi. Mettetevi in fila, mostrate la vostra identificazione e riceverete il pasto. Portate la gavetta con voi. Una volta terminato andate nei vostri alloggi e attendete istruzioni da parte dei responsabili.-

Ordini chiari e puntuali che Mail traduce alla lettera. Si dispongono in fila e ricevono la cena: zuppa di acqua sporca e verdure mal curate. Mentre desina, osserva i tre ufficiali e uno di loro lo colpisce particolarmente: non ha lo stesso sguardo impassibile degli altri due, nonostante abbia il volto nascosto dalla visiera del cappello, si nota rabbia nei suoi occhi azzurro ghiaccio; pare che abbia i denti digrignati, celati dalle labbra ben serrate; è giovane, molto giovane, avrà sì e no la sua età. Ma è tedesco, nazista, e tanto basta ad avvertirlo che non si possa fidare di lui, anzi molto probabilmente è uno dei più violenti. Il dubbio diviene certezza quando ad un uomo di quelli che servono la zuppa cade di mano una delle ciotole e questi si avventa su di lui con forza inaudita trascinandolo dietro la baracca più vicina. L'uomo implora, piange e strepita, ma la mano della SS è già sul manganello che porta al fianco; svoltano l'angolo e si sente un primo violento colpo seguito da suppliche. Mail non sa cosa fare, vorrebbe porre fine a quella violenza, ma non sa se ne è in grado. Gli altri già ignorano quei pianti e quei colpi, ma lui non può fare a meno di udirli, li sente come se fossero sulla sua pelle. La cosa continua per un po'; molti hanno finito il loro magro pasto e si sono già avviati agli alloggi diligentemente, gli ufficiali e le guardie sono tornate alle loro mansioni. Strisciando tra la folla, dunque, si avvicina al retro della baracca e restando nella penombra scorge a terra l'uomo, seduto, sporco, ma non ferito; l'ufficiale invece ha percosso una botte e delle assi di legno che ora sono sfasciate al suolo. Mail guarda la scena allibito e fa un passo avanti non appena vede il tedesco offrire la mano per rialzarsi all'uomo.

-Vedi di non farti più beccare, Henryk.-

-Lo farò, grazie, signore.-

Questi sguscia via incolume e il soldato ripone il manganello sospirando, per poi riafferrarlo pronto per attaccare Mail, che con il pesante scarpone ha accidentalmente smosso delle schegge di legno.

-Che ci fai qui?- domanda acidamente. È diverso dagli altri nazisti, pare che voglia giustificare il suo comportamento, quando invece dovrebbe sentirsi superiore.

-Volevo vedere se stava bene.- confessa Mail non riuscendo a trattenere un piccolo sorriso. Sa che non deve fidarsi, quello potrebbe essere stato solo un favoritismo in nome di una vecchia conoscenza, ma l'ufficiale risponde -Certo che sta bene. Andrai a dirlo ai superiori, vero? Per un trattamento di favore.-

Mail scuote la testa in segno negativo.

-No? Mi ricatterai allora?-

È strano il tono calmo con cui lo dice.

-No.-

-Perché no?-

-Perché mi uccideresti prima che possa farlo.-

-Solo per questo?-

-Credo di sì.-

-Mi hai dato del tu.- gli fa notare l'ufficiale voltandosi finalmente a guardarlo negli occhi.

-Hai la mia età, perché dovrei darti del lei?-

-Come ti chiami?-

Mail è già pronto a sollevare la manica del braccio sinistro per mostrargli il numero, ma l'altro lo ferma.

-Il tuo vero nome.-

-Mail.-

-Come mai sai il tedesco?-

-I miei genitori erano di Berlino.-

-E ora sono..?-

-Morti.-

-Qui?-

-Oh, no. A Varsavia.-

C'è un attimo di pausa in quella strana conversazione tra un nazista e quello che tutti credono essere un ebreo.

-Vai al tuo alloggio, Mail.- fa infine il ragazzo allontanandosi.

-E tu?- lo blocca Mail.

-Io cosa?-

-Come ti chiami?-

Nota nei suoi occhi ghiaccio una sfumatura di sorpresa; nessuno gliel'ha mai chiesto forse?

-Mihael.- risponde grave e si allontana senza girarsi indietro.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 1943, Treblinka ***


1943, Treblinka

 

“Piove” è il primo pensiero di Mail quando si sveglia. No, non è pioggia quella che sente gocciolare  poco distante, sono perdite di tubi dell'acqua. Si stropiccia gli occhi provando a girarsi un po'; è impossibile trovare una posizione comoda su quei tavolacci di legno impilati gli uni sugli altri nei quali dormono per ogni riga minimo in venti. Mail è al terzo piano, non gli è andata affatto bene: fa freddo, si sentono gli spifferi dal soffitto a capriate lignee e gocciolano i tubi che passano sopra la sua testa. Per ogni detenuto c'è una sorta di tavolozza ricoperta di stoffa che funge da cuscino e un panno talmente usurato da non essere buono ormai più per nulla. Guarda fuori dalle poche finestre che ci sono e nota che è già l'alba; la prima notte al campo è passata piuttosto bene in fin dei conti, non c'è stato nessuno che lo ha disturbato, nessuno che gli ha gridato di andare al lavoro nel cuore della notte, nessuno che lo ha ucciso nel sonno. Ne è lieto, e pare che questo sia il sentimento comune di ogni persona ogni mattina a giudicare dalle espressioni dei suoi vicini di letto appena svegli. Si chiede come mai lo siano, perché già svegli quando è solo l'alba, ma la risposta gli arriva poco dopo quando una sirena riecheggia per tutto il campo destando chiunque.

Tutti cominciano a scendere in fretta e furia, a sistemarsi e molti, con la gavetta in mano, tirano già su la manica sinistra per rivelare il nome. In poco tempo sono tutti schierati in righe e file e la porta si apre rivelando due cambusieri che portano dentro un pentolone di zuppa e pane che finisce in un lampo. Dopo che se ne sono andati compare una guardia ucraina che, con manganellate e spintoni non necessari, butta fuori ogni uomo dalla baracca. Parla con uno di loro, l'unico tra tutti ad essere armato di un corto e spesso legno, questi dunque, quando la guardia se ne va, inizia a dare ordini sbraitando come un ossesso.

-Quelli nuovi vadano alla fabbrica! Gli altri alle loro mansioni! Veloci!-

Mail si accoda ai suoi compagni incerto mentre osserva l'uomo spingere con brutalità un altro che è inciampato. Si domanda perché nessuno lo fermi, non è un nazista, non è un soldato, è un deportato come tutti gli altri.

-Quello è un kapo.- gli sussurra uno tirandolo per farlo allontanare e non perdere il gruppo. Quando Mail si gira nota che è lo stesso della sera prima, quello che il tedesco ha coperto.

-Cos'è un kapo?-

-È uno di noi... Che si è venduto ai nazisti in cambio di favoritismi. Fa lo stesso loro lavoro, solo  con più violenza.-

Mail annuisce facendo segno di avere inteso; aveva sospettato ci fosse una gerarchia del genere in quel posto.

-Tu non sei nuovo.- dice svoltando a destra attorno ad un'altra baracca mentre segue gli altri -Perché vieni con noi?-

-Perché lavoro lì-

-Ma non facevi il cambusiere?-

-Imparerai presto che per chi vive non c'è un solo lavoro da saper fare.-

Quando raggiungono la fabbrica si rendono conto che in realtà sono ben tre: una fucina, un calzaturificio e un'armeria. Vengono smistati in modo del tutto casuale tra le varie mansioni e a Mail tocca il calzaturificio; è fortunato, pensa, è il lavoro meno pesante tra i tre, ma presto l'ottimismo svanisce. È seduto con altri attorno ad un immenso tavolo rettangolare sul quale vi sono innumerevoli suole da incollare al rispettivo involucro e non c'è il tempo per una matricola di imparare, tutto deve essere fatto alla svelta e con precisione, le guardie osservano.

-Così ci metti una vita, fai come me.- gli dice il medesimo uomo di prima sottovoce. Quasi nessuno parla, tutti lavorano in silenzio, stanchi, affamati, con gli occhi cerchiati di nero per le sostanze chimiche che sono costretti a maneggiare senza protezioni. Probabilmente anche lui diventerà così in poco tempo: un fantasma tremante senza più la forza di alzare lo sguardo o aprire bocca.

-Perché siete quasi tutti pelati, Henryk?- domanda ad un tratto come se avesse notato solo in quel momento quel particolare.

-È la prassi di quando siamo arrivati. Ma non la fanno sempre. A volte è tardi e si dimenticano. Non fa molta differenza dopotutto.- risponde questi, ma poi aggiunge stranito -Come ti ricordi il mio nome?- 

-È lo stesso di mio fratello. Sei qui da molto?-

-Quasi un anno.-

-Sai dove sono le donne?-

Quella domanda gli nasce spontanea sulle labbra; non l'ha premeditata, in realtà non aveva nemmeno intenzione di porla, ma inconsciamente non desidera altro che conoscere la sorte della sua famiglia.

-Sono nell'altro campo. Non so altro.-

-Voi due! Basta parlare!- ordina una delle guardie con la minaccia di piantargli un proiettile in fronte se lo rifaranno di nuovo.

Mail si ammutolisce e riprende il lavoro; ha già le dita che bruciano, annerite, per la colla che usano, ma continua a fare ciò che gli è stato ordinato a ritmo quasi meccanico. Comprende il piano dei nazisti: non è solo uccidere, è togliere ogni dignità umana a coloro che ritengono umani non esserlo. Ingegnoso, non sa in che altro modo definirlo.

Il tempo scorre lento e tutto uguale in quella sordida baracca colma di effluvi chimici che già gli stanno dando alla testa; non appena arriva ora di pranzo fa in fretta ad abbandonare il lavoro e a mettersi in fila per la zuppa come tutti gli altri; è appena arrivato e già ha compreso l'andamento del campo e ne ha acquisito i ritmi, non male. Ha ancora le mani luride di quella colla industriale disgustosa, ma dubita che ci sia un modo per lavarsele che non sia sfregarle sulla camicia. Pranzano vicino alla fabbrica, all'aperto; per fortuna sta arrivando la bella stagione o gelerebbero. Non fa nemmeno in tempo a terminare il magro pasto che una guardia viene a chiamarlo. Non si tratta di un ordine casuale dato al primo che passava come ha visto talvolta accadere ai suoi compagni nel corso della mattina, ma proprio di una richiesta rivolta a lui in persona, e di questo se ne stupisce molto.

-Tu, sei quello che parla tedesco?- domanda sbrigativo il nuovo arrivato. Ha il fiatone, deve aver corso molto per arrivare fino a lì nel minor tempo possibile.

Annuisce circospetto; è un male che si ricordino di lui, vorrebbe solo passare inosservato.

-Vieni.- ordina la guardia e lo spinge via dal resto del gruppo. Prima di svoltare l'angolo, Mail si volge dalla parte di Henryk che lo guarda quasi affranto. Dovrebbe esserne felice che qualcuno si preoccupi per lui, ma riesce a leggere chiaramente anche nei suoi occhi, come in quelli degli altri del resto, una sfumatura di sollievo: non tocca loro oggi.

Portato con parole offensive dentro la zona adibita ad alloggi dei militari, rimane un attimo spiazzato quando viene spinto dentro un ufficio e cade, alza la testa e alla scrivania vi trova l'ufficiale della sera prima che ricambia il suo sincero sconcerto.

-È lui?- domanda stranito il ragazzo biondo alla guardia.

-Sì. Con permesso, tenente.- e si congeda con un altisonante saluto militare nazista che fa rabbrividire il sangue nelle vene a Mail.

Dopo che la porta si è chiusa, sente il ragazzo gettarsi all'indietro sulla sedia e sospirare. Si alza facendo attenzione a non sporcare troppo il pavimento di legno con le sue mani lorde di nero e attende a testa china. Non è ancora troppo sicuro che sia un buon soggetto, ma di sicuro non l'ha mandato a chiamare per farlo uccidere o non avrebbe chiesto la conferma della sua identità.

-Perché te tra tutti!- sbuffa d'un tratto l'ufficiale quasi in tono isterico.

-Come?-

-Sei sordo? Ho detto perché te tra tutti! Ho chiesto un polacco che sapesse il tedesco, non quello dai capelli rossi che sa il tedesco! Stupidi ucraini che non sanno un cazzo di tedesco!- si lamenta mentre si ravviva i capelli biondi, un po' troppo lunghi per essere di un militare. È seduto sbracato sulla sedia e non indossa la giaccia, che è sull'appendiabiti.

-Cosa ti occorre?- domanda Mail incuriosito. Vede delle carte sulla scrivania, ma sono tutte di lingua tedesca, non comprende a cosa gli occorra un interprete.

-Mettiamo in chiaro una cosa. A me non occorre nulla, tanto meno da un ebreo, ma sono così magnanimo nei confronti di voi poveri esseri da concedervi di potermi dare una mano.-

-Ok, in cosa potrei darti una mano, io povero essere?- ironizza, ma se ne pente un secondo dopo. Non può scherzare con il suo aguzzino, anche se ha la sua età può ucciderlo a ragione per un solo dito alzato.

-Ti senti spiritoso, feccia? Apri quel fottuto armadio e metti in ordine alfabetico tutti gli... Aspetta, aspetta, aspetta! Cosa sono quelle luride mani?- indica quasi sconvolto il nero che avvolge ogni singolo polpastrello dell'altro che, a sua volta, le osserva per nulla scioccato.

-Ho lavorato fino ad adesso in fabbrica.-

-Tu conciato così qui non ci lavori. Vai a fare la doccia.-

Il cuore di Mail perde un battito a quella parola; non quella doccia però gli viene indicata, ma una direttamente dentro l'alloggio del tedesco. Alla vista di un bagno così lindo, non può fare a meno di imbambolarsi come se avesse appena visto un tesoro; non ha il tempo però di contemplarla così a lungo perché l'altro lo ha già spinto dentro e ha tirato il paravento di fronte.

-Cinque minuti solo. Il sapone è a destra.-

Il tono con cui il biondo pronuncia quella frase pare carico di rimprovero verso se stesso; probabilmente sta pensando a quanto idiota deve sembrare a fare tutto questo per un ebreo. Mail non ci impiega molto e non ha intenzione di fargli pesare quel gesto, ma all'uscita deve per forza chiedere un asciugamano.

-Tieni.- 

Il soldato scosta appena il paravento, si può notare il rossore imporporagli le gote, ma con lo sguardo più stoico possibile gli passa il telo ordinando di sbrigarsi.

-Non sei circonciso!- esclama però senza riuscire a trattenersi.

Mail non si scompone, sapeva che prima o poi qualcuno lo avrebbe notato, anche se non immaginava in quella circostanza.

-No.- 

Non lo nega; perché negarlo quando è così lampante? Ma non vuole nemmeno lasciarsi sfuggire la ghiotta occasione che il tedesco gli ha inconsciamente dato.

-Ti piace guardarlo agli uomini?-

-Che dici!- replica il soldato imbarazzato e torna alla scrivania con lo sguardo rivolto verso le tende della finestra.

Mail ride di gusto; era da un po' che non lo faceva. Ormai vestito, esce dalla doccia e chiede all'altro -Cos'è che dovevo fare?-

Il sorriso che ha stampato in faccia provoca nell'altro una reazione differente da quella che si aspettava, questi infatti abbassa lo sguardo come se triste. 

-Sei un idiota.- mormora.

-Come fai a dirlo? Non mi conosci neanche.-

-Lo sei di sicuro perché sennò sei pazzo.-

Mail non è sicuro di capire a cosa si riferisca e dunque fa per parlare, ma l'altro lo blocca tirandolo steso sulla scrivania e piantandogli addosso due perforanti occhi ghiacciati.

-Sai dove sei, vero?- chiede con durezza; si vede il dolore colorare i suoi occhi sorprendentemente chiari.

-In un campo di lavor...-

Il tedesco lo interrompe strattonandolo per le spalle -Sbagliato! È un campo di sterminio dall'anno scorso!-

Mail impallidisce a quella rivelazione, ma non ha tempo di preoccuparsi di come reagire: è più impegnato a studiare la bocca dell'altro contorcersi in una smorfia e mollare una bestemmia in tedesco; sa che non doveva dirlo, ma ormai non può far altro che proseguire.

-Ed è per ebrei principalmente! Tu cosa cazzo sei?-

-Ariano.- risponde senza alcun problema. È certo che tanto non lo rispedirà a casa, piuttosto lo ucciderà definitivamente; sarebbe la cosa migliore per tutti dato quello che sa.

Tocca al tenente impallidire stavolta; lascia la presa su di lui lentamente e si getta sulla sedia con un sospiro, è visibilmente sconvolto.

-Che ci fai qui?- esala chiudendo gli occhi.

-Ho seguito i miei fratelli.-

Mail vede l'altro fare un respiro profondo e strizzare gli occhi; sta cercando di calmarsi.

-E che cazzo ci fanno i tuoi fratelli qui! Cazzo, devo cavarti le parole di bocca?!-

-Sono ebrei loro. Gli hanno presi a Varsavia.-

Ora l'altro è piuttosto stranito; sbatte le palpebre un paio di volte prima di domandare -Se loro sono ebrei perché tu no?-

-Perché non sono miei fratelli veri. Mio padre li ha adottati prima di morire, nulla di legale ovviamente.-

-I tuoi genitori erano tedeschi ariani, sono morti in Polonia, ma prima hanno preso sotto la loro ala due ebrei e tu li hai seguiti fino a qui... per?-

-Perché non posso lasciarli soli. Sono il maggiore.-

Il tedesco si passa la mano su tutta la faccia e sospira forte.

-Alzati da lì.- ordina -Hai dato asilo a due ebrei, secondo le regole è sufficiente per stare qui, non ti fa migliore di loro.-

-Anche tu, ieri...-

-Stiamo parlando di te, ora! Continuerai a lavorare per me. Ogni pomeriggio vieni qui e ogni sera tornatene al tuo alloggio. Darò disposizioni perché ti lascino passare. Non dire a nessuno di questo o ti faccio fuori.-

Mail non fatica a crederlo, così si limita ad annuire. Dentro di sé, però, sorride: non è cattivo, è nazista, ma non è cattivo. Come ci può essere finito uno così in un posto del genere? È con la guerra che si vedono se le persone sono davvero d'animo buono o cattivo.

-Cosa dovrò fare?-

-Mi...-

-Ti?-

-Insegnerai.-

-Come?-

-Mi insegnerai il polacco, dannazione!- strepita l'ufficiale incrociando le braccia.

-Va bene, va bene! Non c'è bisogno di urlare...-

Mail si ricompone e lo aiuta a tirare su le carte che sono cadute dalla scrivania poco prima.

-Inizia a riordinare l'armadio.- ordina il biondo riprendendo il suo lavoro.

-Va bene, Mihael.-

-Chi ti ha detto che puoi chiamarmi per nome?-

-Perché, non posso?-

-No, ma non te l'ho concesso.-

C'è un attimo di silenzio tra loro nel quale entrambi si guardano negli occhi e poi iniziano a ridere sommessamente per prendere sempre più foga.

-Sul serio, lavora ora.- fa Mihael ritrovando la serietà.

Mail apre l'armadio e una catasta di fogli cade in ogni direzione. Sospira sconsolato e si accascia sul pavimento per iniziare a riordinare. Sfoglia le carte e le impila diligentemente in base alla lettera del tipo di rifornimento che trattano; nota che sono tutte bolle di spedizione.

-E quindi ti occupi dei rifornimenti?- 

-Sì.-

-Quando non fai finta di fare il duro.-

L'altro sbuffa -Io sono un duro.-

-E quando non fai finta di picchiare la gente.-

Mihael taglia corto in un modo che Mail non può che definire adorabilmente odioso -Meno parlare e più lavorare.-

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** 1943, Treblinka II ***


1943, Treblinka II

 

Sono passate due settimane da quando è arrivato a quello che si è rivelato essere un campo di sterminio. È un buon risultato quello di essere ancora vivo, anche se gran parte del merito non è suo. Continua a ripeterselo, è troppo fortunato, tra poco succederà qualcosa che gli presenterà il conto di tale fortuna. Lavora, tanto; ogni giorno, la mattina con la colla industriale che gli appiccica le mani e gliele tinge di nero, dal pomeriggio a sera nell'ufficio del tenente biondo che ha la presunzione di imparare il polacco in pochi giorni. Sono sempre strepiti quando deve insegnargli, soprattutto da quando hanno iniziato a studiare i verbi giacché pretende di saperli senza nemmeno ripassarli. Spera vivamente nessuno lì senta, o dalle conversazioni potrebbero trarne conclusioni piuttosto errate. Si sente un po' stupido a sorridere mentre i miasmi delle sostanze che è costretto maneggiare gli irritano occhi e naso; stupido perché, invece di pensare a sopravvivere come chiunque in quel campo cerca di fare, sta pensando a come fare entrare in testa l'avere a quello zuccone di un tedesco. Il che potrebbe essere anche pensato come uno stratagemma per vivere; in  solo due settimane ha visto così tanti suoi compagni passare per il camino solo perché erano divenuti innecessari per le SS, qualsiasi fosse il loro ruolo. Ogni giorno vede vecchi volti scomparire d'improvviso, vede i loro giacigli, sporchi e freddi, riempiti da nuovi arrivi alcuni dei quali non fanno nemmeno tempo ad arrivare al primo pasto che già sono selezionati. Ha visto in soli quattordici giorni così tanti uomini arrendersi al loro destino, venire brutalmente picchiati, ammalarsi ed esser gettati via come stracci usati che si domanda come faccia ancora ad essere incolume. Il merito non può essere certo di quel ragazzo del quale è diventato praticamente amico, è solo un tenente, non ha il potere di tenerlo in vita. La sua buona stella deve aver fatto la sua parte affinché riuscisse a sfuggire ad ogni chiamata casuale alla morte, ma se è finito lì un motivo c'è, solo il conto sarebbe arrivato più tardi, questo è il mantra che ripete per convincersi a non abbassare la guardia. Non può dire certo di fare la bella vita, nessuno lì la fa. Sa di aver perso molti chili in poco tempo e sa ancora meglio che l'unico motivo per il quale non si è ancora ammalato di tifo è che il tedesco lo obbliga a lavarsi ogni giorno prima di iniziare il suo lavoro, tuttavia già si fa sentire la tosse secca che arrochisce la voce di tutti i suoi compagni più anziani. Henryk, che si è rivelato essere un ex-professore, gli ha spiegato che è dovuta, oltre che alle sevizie, agli agenti chimici che sono costretti a maneggiare senza alcuna protezione. Si è domandato spesso, Mail, come avesse fatto da solo a non cedere quell'uomo. Lui ce la stava facendo a malapena, si è calato in una maschera di apatia, ignorando ogni cosa a partire da una parte di sé che continua ripetere di esser solo. Si ricorda con un mesto ghigno di quando ne ha avuto la certezza. Era arrivato da appena quattro giorni, era pomeriggio, il sole già calava all'orizzonte. Mihael aveva insistito per conoscere di più su i suoi fratelli. Non si fidava ancora di lui, ma il sapere che non era concesso a chi stava in quel campo di passare in quello accanto e che ad ogni detenuto veniva riservato lo stesso trattamento lo convinsero a parlare. Raccontò, dei due fratelli ebrei, di come erano diventati anche i suoi. Ricordò le trecce che Wilhelmina non aveva mai voluto portare, la sua precoce maturità, il carattere tutto pepe del piccolo Henryk, così diverso dall'omonimo che conosceva ora. Durante la storia, si era accorto delle mani di Mihael, tremavano. Lo sguardo basso, colpevole. Quando gli aveva chiesto se qualcosa non andava l'unica cosa che aveva fatto era stata quella di mordersi il labbro inferiore. Ricorda ancora il tono, indescrivibile, di come aveva pronunciato quelle semplici quanto avvelenate parole. “Mi dispiace”, aveva detto solo questo. Si era alzato di scatto ed aveva sciacquato il viso con l'acqua gelata. Mail non aveva inizialmente capito a cosa si riferisse. Fu duro. Come uno schiaffo in faccia, come se gli avessero strappato il cuore dal petto quando, accasciandosi, l'altro confessò in un sussurro che dal carico arrivato con lui avevano avuto l'ordine di tenere solo gli uomini abili; neanche le donne atte al lavoro erano potute rimanere, non c'era posto nel loro piccolo dormitorio. Mail si inginocchiò con lui. Non piangeva, ma gli occhi gli dolevano come se lo stessero facendo, colpa delle colle che intorpidivano le mucose. Non sa nemmeno a distanza di giorni perché lo fece, ma quella volta allungò la mano verso la spalla di Mihael, la strinse come a cercare un appiglio. Cercare appiglio nel proprio carnefice. Si era mai vista una cosa del genere? Porta ancora con sé il ricordo del sussulto dell'altro e ciò che ne seguì. Un fugace sguardo alla porta chiusa e Mail si trovò avvolto tra le sue braccia. Non lo poteva vedere in faccia, tanto era premuto, quasi spupazzato, contro il suo petto, ma avvertì lo stesso una goccia bagnata cadergli sulla testa. Solo una; una sola goccia di pioggia che cadeva dalla volta color ghiaccio sopra di lui. Non aveva però cuore per sentire il calore che quel gesto trasmetteva; come poteva riceverne da uno dei responsabili? “Scusami”, si sentì dire. Non bastava solo quello però a far perdonare un assassinio. La presa di Mail era ancora solo sulla spalla, dal suo lato l'abbraccio era freddo, gelido. “Non sono qui per scelta”, gli aveva detto, “La mia famiglia vuole che faccia qualcosa per il Reich. L'unica cosa che vorrei davvero fare è farlo a pezzi”. Nemmeno quella confessione, stranamente senza uso di intercalari, ebbe la forza di fare sciogliere l'apatia di difesa nel quale era caduto il ragazzo, come fosse stato da sempre sull'orlo di un baratro e ora vi fosse caduto davvero. Era sopravvissuto per quattro giorni solo per sentirsi dire che poteva morire, nessuno avrebbe pianto per lui. A risvegliarlo dallo stato catatonico nel quale avrebbe voluto restare per quel poco che gli restava fu il gesto più sconsiderato che mai potesse essere fatto: un bacio. Un caldo, casto, violento bacio. L'aveva tirato su per il colletto dello straccio che lo copriva e aveva gettato con foga le labbra sulle sue. Il cuore che prima aveva cessato il battito, aveva ripreso a pompare. Gli arti, divenuti inermi, avevano riottenuto vitalità. Gli occhi, che non vedevano altro che nebbia, erano chiusi, serrati, per assaporare ogni attimo di quel gesto che sarebbe stata la loro condanna a morte. Come se rinato, fu lui a prendere il controllo di quel contatto che diventava sempre più profondo e se ne stupì quando l'altro glielo lasciò fare. Il sole era calato all'orizzonte, ma era come se fosse sorto in una sola persona per loro due. Al ricordo di questo, Mail scrolla le spalle e riprende a concentrarsi nel lavoro; non può sorridere tutto il giorno come una ragazzina innamorata, soprattutto non può pensare a lui senza doverlo associare al più testardo tra i tedeschi, già testoni di loro. Non ha idea di cosa prima lo faccia morire: la colla o lui. In ogni caso sa di avere il destino segnato, attende solo il momento per saperlo e sa che non è lontano, tuttavia perché non godere della gioia effimera di cui due idioti vittima dei due più grandi mali del mondo possono avere. Sta ancora sorridendo e se ne rende conto. Se ne rende conto però anche una guardia ucraina che lo tira giù dalla panca su cui è seduto facendolo sbattere sul pavimento lurido.

-Tu, non stai lavorando!- gli urla contro e gli assesta un calcio potente all'addome. A Mail manca immediatamente l'aria; annaspa cercando di recuperare il respiro, ma un nuovo calcio più in alto glielo impedisce. Il pesante stivale dell'uomo si infrange di nuovo sul suo corpo indebolito e ne colpisce la schiena ai reni, il volto più volte; usa anche il calcio della carabina che porta alla spalla. Con quei pochi movimenti che Mail riesce a fare per ripararsi vede la follia omicida in quegli occhi giallognoli. Un nuovo calcio gli fa saltare via un dente, annaspa di nuovo, si sente come le formiche da piccolo si divertiva a torturare. Gli altri attorno a lui non lo aiutano, non lo guardano nemmeno. Ha imparato che deve essere così per sopravvivere, ma fa male. Fatica a sorreggersi, scivola sul suo stesso sangue schizzato a terra e l'altro continua a percuoterlo con sempre più foga. Non ha ancora perso conoscenza e se ne domanda il perché. Soffre, vuole finire quel supplizio. Se la fortuna lo ha abbandonato in quel momento però non c'è altro da fare che attendere. Ma non è finita per lui. D'un tratto entra una SS e senza scomporsi richiama l'ucraino per un altro lavoro; è immediata l'esecuzione dell'ordine. Mail ora è terra, privo di forze, ma vivo. Respira a fatica, gli duole ovunque; tenta di rialzarsi, ma si accascia nell'immediato sputando sangue. Deve avere qualche costola rotta. C'è un'altra guardia che lo osserva poco distante: sta sicuro valutando se portarlo a morire o no. Ma lui non vuole morire. Non ora che ha trovato qualcosa di nuovo per cui vivere. Nasconde lo sforzo sovrumano con cui si solleva in piedi barcollante, morde a sangue il labbro per non mostrare segni di cedimento e si risiede al suo posto riprendendo il lavoro. Si asciuga in fretta  parte del sangue che continua a sgorgargli dalle ferite sul volto e comincia di nuovo. La colla brucia ancora di più sui tagli, vede il sangue già annerirsi come imputridito per reazione con gli agenti che contiene il composto, ma non cessa di incollare suola e scarpa, suola e scarpa. Basta un solo segno di cedimento e verrebbe spedito in infermeria e lì non ci vuole andare. È finta, lo sanno tutti molto bene: chi finisce lì, finisce ai forni. Raccoglie dell'altro sangue sulla manica della camicia che è più  lorda di prima. Cosa stava dicendo sul verbo avere?

 

Cammina a fatica alla fine del turno. Quando le guardie li hanno lasciati liberi di mangiare, solo Henryk gli ha teso una pezza bagnata per pulirsi, ma nulla di più. È anche troppo quel gesto tenendo conto che non sa nemmeno dove abbia raccattato quello straccio pulito inumidito con disinfettante. Se lo passa sul volto, non percepisce neanche il bruciore sulle ferite da quanto male prova nel resto del corpo. Non pranza neppure, ha perso l'occasione: la zuppa è finita nel frattempo che lui si è ripulito. Va immediatamente al suo prossimo incarico ignorando il fisico che lo implora di fermarsi.

Bussa come al solito alla porta e semplicemente gli viene ordinato di entrare; zoppica dentro e chiude a chiave l'uscio. Mihael non è al suo solito posto in ufficio, sente l'acqua scorrere dal bagno poco distante.

-Vieni.- lo chiama la sua voce in tono suadente, Mail non recepisce subito il messaggio implicito, anzi, controvoglia, avanza verso di lui e si rende conto solo in quel momento di non aver una scarpa. Mihael pare accorgersi che qualcosa non va, infatti esce dal bagno avvolto nel solo asciugamano e sgrana gli occhi a vederlo. 

-Sono ridotto così male?- domanda Mail con un sorriso, smorfia sdentata che gli procura solo dolore.

-Che cazzo ti è capitato?- replica l'altro e recupera la camicia dall'attaccapanni, se la rimette veloce addosso e lo afferra per un polso per avvicinarlo.

-Ahia! Fai piano, dannazione!- 

Mihael ritira la mano quasi spaventato e usa modi più delicati di farlo accomodare sulla sua sedia. Osserva attentamente le ferite che il compagno mostra sulle parti esposte del corpo; le mani annerite e insudiciate coperte di sangue, il volto macchiato da ematomi, il labbro spaccato... Mail è convinto di vederlo rabbrividire quando gli sfiora il naso rotto; come poi folgorato da un pensiero gli apre la camicia fulmineo e impallidisce a vedere il corpo costellato di lividi.

-Chi cazzo ti ha ridotto così?- sibila, ha ancora gli occhi allibiti puntati sul suo torace.

-Non è nulla. Sono solo...-

-Non provare a dire che sei caduto! Non sono deficiente, idiota!- 

Il suo tono di voce è più alto di almeno un ottava; è rabbioso, lo nota bene Mail dai suoi occhi ghiacciati che ha imparato a conoscere e ad amare in così breve tempo.

-È colpa mia. Mi ero distratto al lavoro.-

-E c'è bisogno di ridurti così?!-

“Sì” risponde mentalmente Mail. È ovvio che sia così. Non è in villeggiatura, sta cercando di vivere in un posto dove la vita pare un privilegio ed è un bene che sia capitata una cosa del genere: si stava abituando troppo a rifugiarsi nella sua mente; era troppo convinto che la vita fosse quella piccola baracca dove, silenziosamente, due persone diverse come l'acqua e il fuoco avevano il loro connubio e ignoravano, sfidavano, le leggi che li condannavano come mostri.

-Chi?-

-Una delle guardie, non ho idea del nome...-

-Dimmi chi cazzo è stato! Gli farò ingoiare la carabina!-

-Mihael, calmati! Anche se ti indicassi chi è stato cambierebbe qualcosa? Andrai là a frustarlo davanti a tutti per cosa? Per aver dato una lezione ad un ebreo? Ti sfido a farlo.-

Mail sa di aver ragione e infatti vede l'altro ammutolirsi per qualche attimo. Forse si è meritato, in fondo, di finire in quel campo, si è finto ebreo per entrarci, ma ci sarebbe finito lo stesso se avessero scoperto il suo orientamento; anzi, no, non ci sarebbe finito: nemmeno lui lo avrebbe scoperto se non avesse incontrato il tedesco biondo che ora lo sta fissando negli occhi. 

-Spogliati.- gli ordina dopo un po'.

-Mihael, non mi sembra il caso di far...-

-Spogliati che vediamo di fasciarti le ferite. Se si infettano, sei spacciato. Non pensare sempre male, pervertito.-

-Io sarei il pervertito?- domanda Mail mentre, ridacchiando, si lascia portare in bagno. Nota solo quando l'altro comincia a passargli l'acqua fredda sui lividi che oltre alla camicia non indossa nulla a coprirlo.

-Non puoi metterti un paio di pantaloni?-

-Hai qualche problema, idiota?-

-No, solo che...-

-Lo vedi che sei tu il pervertito?-

Mail non può fare a meno di ridere, ma si interrompe per il volto che gli duole. Mihael gli passa la spugna sulla guancia ripulendolo dal sangue e dalla sporcizia.

-Quei bastardi nazisti...- sussurra con rabbia.

-Ti ricordo che anche tu ne fai parte. Dovrei odiarti, specialmente dopo stamattina.-

-Dovresti farlo, sì, ma chi ti leccherebbe le ferite se non ci fossi io?-

-Non stai leccando.-

Il tedesco alza il sopracciglio scettico -Vuoi che lo faccia?-

-No, no, scherzo.- sorride e si accorge che l'altro è rimasto con la spugna a mezz'aria, perso a fissarlo.

-Che c'è?- gli domanda in tono dolce.

Mihael risponde in tono malinconico -Mi chiedo solo come fai a sorridere ancora.-

-È proprio brutto vedermi sdentato?-

-Idiota! Non intendevo questo!-

 

Il pomeriggio passa rapido. Per non perdere tempo, il biondo insiste affinché, mentre gli fa le spugnature con il disinfettante, ripassino i verbi in polacco. È un ovvio disastro. Mail che trattenendo a stento le lacrime lo corregge tra i gemiti di dolore e Mihael che, arrabbiato per non riuscire, lo cura in modo sempre più violento. Il sole è già calato quando Mail ritiene di dover far ritorno alla baracca; lo hanno già beccato una volta fuori oltre il coprifuoco e lo hanno minacciato, dopo il trattamento di quella mattina non ci tiene a subirne ancora. Si riveste e mentre lo fa carezza il torace, le mani, il viso fasciato; è di spalle, l'altro non lo vede, ma sorride al pensiero di quella gentilezza solo per lui. Sorride anche quando, prima di aprire la porta, il biondo gli si attacca delicatamente al braccio. 

-Puoi restare, per stanotte.- gli concede.

-No, lo sai.-

Gli posa un bacio sulla fronte e gira la chiave.

-Ehi, non sono un bambino!-

Un fugace bacio a fior di labbra e tutto quello che si concedono prima che Mail noti l'ora tarda e scappi via, con una scarpa sì e una no, al dormitorio. Fa male ancora tutto il corpo, ma il dolore è ben compensato da altro. Fino ad allora non aveva mai creduto possibile che un uomo potesse essere davvero felice pur sapendo di dover morire.

Veloce, raggiunge gli altri suoi compagni per la cena e per fortuna ne trova ancora di zuppa riempiendosi la gavetta quanto più possibile. Non si cura troppo degli sguardi stralunati attorno a lui che lo vedono come un fantasma; a fargli notare la stranezza è il suo amico Henryk.

-Sei ancora vivo?- gli domanda come fosse impensabile.

-Certo.-

-Ti sei presentato dai crucchi conciato come stamattina e sei vivo. Non noti che qualcosa non va?-

-In che senso?-

-Sei rotto. Ti avrebbero dovuto buttare via.-

Sorride lieve mentre ripensa a ciò che dovrebbe essere e ciò che invece è: la realtà nascosta è diversa da quella che tutti credono.

-Non dirmi che vai ancora da quel tedesco!-

Stranamente Henryk pare conoscerlo troppo bene per essersi parlati poche volte ed è un male; non riesce a nascondere nulla a uno che gli ricorda la sua famiglia. Non risponde, ma per l'altro è come se fosse stata un'affermazione.

-Devi smetterla! Stai tirando troppo la corda! Lui è magnanimo, ma non vuol dire che non possa decidere della tua vita. È un tedesco bastardo come tutti gli altri!-

-Non è vero!- risponde con durezza, ma dallo sguardo dell'altro sa di avere esagerato e se ne pente.

-Ce qualcosa che dovrei sapere?-

-Nulla.-

-Tu non vai solo là per lavorare, vero? Sei suo amico? Oppure…-

Negare. Negare fino alla morte, è ciò che deve fare. Non può compromettere Mihael più di quanto abbia già fatto. 

-Che dici! È solo per sopravvivere. Lo hai detto tu. O così o il camino.-

Taglia corto, troppo corto perché la conversazione decada sul serio e si ritira nella sua cuccetta di legno umida al terzo piano. Si addormenta in fretta, nonostante sia davvero scomodo stare stesi su duri tavolacci di legno con le costole rotte. Prima di chiudere gli occhi pensa alla conversazione di poco prima con Henryk; non crede che lo vada a dire alle SS, in fondo anche lui è stato salvato più volte da Mihael, al massimo non gli parlerà più come prima. Esausto, si addormenta, sentendo la pioggia ticchettare sul legno accanto al suo.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** 1943, Treblinka II ***


1943, Treblinka II

 

Un'altra mattinata uguale identica alle altre, le uniche cose che cambiano sono i volti delle persone. Si capisce subito chi sono i nuovi arrivati: spaesati, persi e soprattutto ancora in possesso di una carnagione vitale. Il resto dei deportati è spento, la pelle è ingrigita in poco tempo e gli occhi cerchiati infossano ancora di più il volto scarno. Mail si alza insieme ai suoi compagni di sventura e si avvia alle fabbriche, domandandosi come tutti gli altri quanto tempo ci vorrà prima che lo passino per il camino. Quel giorno però gli duole ovunque, specialmente in viso. Prima di iniziare il turno, durante la colazione si tasta le ferite e i lividi sul corpo scoprendosi molto più vulnerabile in punti che nemmeno immaginava fossero stati colpiti. Quando comincia a lavorare gli ci vuole qualche attimo per capire che una delle guardie che di solito li sorveglia è diversa. Sa che non può certo chiedere in quel momento informazioni sulla sorte dell'altra, ma crede di poter immaginare di chi sia la responsabilità; in fondo è proprio la stessa che l'ha picchiato il giorno prima a mancare. Si concede solo questa rapida osservazione e si appunta mentalmente di rimproverare il suo... Di rimproverare Mihael per questo, poi si concentra sul lavoro, memore del trattamento ricevuto per la distrazione. È da asini non imparare dai propri errori e lui non lo è di certo.

Mangia in fretta finito il turno, come al solito, perché Mihael non tollera ritardi e lui non riesce ad attraversare tutto il campo in soli dieci minuti con la gamba zoppicante. Manca ancora una scarpa all'appello; si è improvvisato un calzino con uno straccio trovato in giro, ma non riesce ad andare veloce come prima. Sta camminando rapido tra le baracche infette per raggiungere la sua meta e gli viene alla mente un dubbio: dov'è Henryk? Non lo ha visto dall'alba e non se ne sente rassicurato, ma le retate che i nazisti fanno nelle baracche comprendono più di un solo uomo e oltre a lui non se ne è andato nessuno, lo devono aver obbligato a fare qualche altro lavoro. Non gli torna neanche in mente la discussione della sera precedente, non la ritiene importante. Finalmente raggiunge la casupola di legno, ufficio del tenente, e vi entra al solito: bussa, attende di essere invitato e chiude a doppia mandata. Un sorriso gli nasce spontaneo sulle labbra quando vede il militare e si trasforma in riso quando lo nota con con viso sporco di qualche sostanza marrone; pare divertito da ciò che sta masticando, quasi appagato.

-Vedo con piacere che non ti hanno pestato a sangue oggi.- lo saluta il tenente con la bocca piena.

-Non sono così stupido da farmi beccare due volte.-

-Siediti.- gli indica la sedia di fronte alla scrivania sulla quale poggia i piedi fasciati dagli stivali militari in totale noncuranza.

-Che stai mangiando?- domanda Mail curioso; l'odore che sente è certo di averlo già sentito da qualche parte.

-Cioccolato.-

-Cioccolato?! Come l'hai avuto? Siamo in guerra e ti forniscono il cioccolato?!-

-Non me lo forniscono, me lo sono procurato.- risponde l'altro semplicemente addentando un nuovo boccone dalla stecca che regge in mano.

-È da un secolo che non ne mangio. Credo da quando abbiamo lasciato Berlino.-

Mihael lo guarda di sottecchi e con uno sbuffo ne stacca un pezzo davvero piccolo e glielo getta in grembo.

-Tieni, mangialo.-

Quella puntina di dolcezza agli occhi di Mail è la cosa più grande che abbia mai ricevuto, la assaggia quasi con reverenza e la gusta a fondo prima di inghiottirla. Deliziosa, non la ricordava così buona, la cioccolata. Vorrebbe un altro pezzetto, ma lo sguardo del tedesco gela sul nascere la sua domanda: la cioccolata è sua e sua soltanto.

-Tieni. Avevi detto che ti piacevano.- gli fa però e gli lancia un pacchetto che Mail conosce molto bene.

-Sigarette?- domanda balbettando; è dalla sera prima di essere catturato che non ne fuma una e non si rende conto di quanto gli manchi il fumo fino a che non ne porta una alle labbra e l'accende con un cerino. Già la prima boccata è paradisiaca per lui.

-Queste me le forniscono, ma io non fumo... E detesto chi lo fa, ma non puoi uscire dalla stanza quindi ti concederò di farlo qui.- gli comunica Mihael spazientito dall'odore che già si diffonde per la piccola stanzetta.

-Solo una.- lo rassicura Mail estasiato dalla nuova boccata. Il poter di nuovo fumare, l'essere con la persona che ama, questa che da sfogo ai suoi vizi, tutto dentro pochi metri quadrati che sono diventati la salvezza delle loro anime... È perfetto; sono fuori dal mondo pur essendo nella disperazione fino al collo. La guerra in fondo fa bene: rende capaci di cogliere il meglio in ogni sfumatura, in ogni gesto scontato che, in tempo di pace, si dimentica esistere.

Mentre fuma osserva l'altro e quello che pare un connubio con la sua cioccolata. La guarda, la morde, la lecca quasi lascivo.

-Devo essere geloso di quella cioccolata?- gli domanda divertito ad un tratto.

-No. La cioccolata è la mia priorità, devi solo fartene una ragione.-

Mail si finge offeso -Ah! La tua priorità? Benissimo... Vedrò di farti dimenticare della tua priorità.-

Spegne la sigaretta contro la superficie del posacenere intonso e si avvicina all'altro restando dietro la scrivania. I due volti ora sono a pochi centimetri l'uno dall'altro, i due respiri si mescolano, profumo di cioccolata legato a quello del fumo di sigaretta.

-Non puoi separarci.- gli fa notare il tedesco, leccando una nuova volta la superficie scura di quella sostanza dolciastra.

-Vedremo.-

Mail cattura le labbra dell'altro in un bacio che di casto ha molto poco e il tenente se ne lascia in balia. Intrappola anche le sue mani in una stretta e le costringe ferme sulla scrivania; è indebolito per la vita che conduce, ma riesce ad essere comunque più forte dell'altro se si impone. Lascia che il tempo scorra, che tutto il resto scorra, che il camino bruci, che la disperazione continui e loro rimangono lì, nell'attimo effimero di qualcosa di sbagliato per tutti tranne che per loro.

Alza una mano per andare a passargliela tra i capelli biondi, ma un forte colpo alla porta e il suono di una pistola caricata lo costringono a fermarsi.

-Basta così.- ordina una voce alle sue spalle. Mail apre gli occhi, si stacca e si gira in velocità; ciò che vede lo lascia attonito. La porta è sfondata, tre guardie ucraine tra le quali quella del giorno prima sono lì a puntare contro di loro le armi, due SS sono entrate; il generale e il suo capitano li guardano con disgusto più che disprezzo e, con la coda dell'occhio, Mail vede Mihael bianco in volto come non mai, ha paura. Sa per certo che è la fine, spera almeno di potersi addossare tutta la colpa. È sua colpa di averlo fatto innamorare, lui si è presentato lì e solo lui merita la punizione. Si è già costruito la storia in mente quando si accorge che non occorre: sa dove è, sa chi è per loro e sa che cosa lo attende già dall'inizio. 

-Gen...- tenta Mihael alzandosi, ma il generale con un forte colpo al volto fa accasciare Mail contro il muro e così il tenente strepita -Bastardo!-

Mail vede la scena ad occhi socchiusi; il colpo che ha ricevuto è stato molto violento e sente del sangue dove la testa ha picchiato contro la parete. Vede Mihael fronteggiare a viso aperto il suo superiore, non ha cercato nemmeno una giustificazione: o vuole morire con dignità o non gli interessa affatto di morire, eppure gli basterebbe una parola per far uccidere solo lui.

-Tenente Klein... Non immaginavo che la grande Germania covasse una serpe in seno. La tua famiglia non ne sarà felice.-

-Lo spero vivamente.- chiosa caustico Mihael.

-Il carattere non ti manca... Ma è disgustoso. Con un ebreo...-

-Il problema è che è ebreo?-

-È disgustoso che sia un uomo. Dovresti saperlo. È disgustoso pensare che potresti averci attaccato la tua malattia, ma non temere. Ti curerò personalmente.- 

Il tono con cui il generale pronuncia l'ultima parola e dardeggia con lo sguardo nella direzione di Mail lo fa rabbrividire. E nemmeno lo schiocco di dita in sua direzione è più di tanto rassicurante. Viene sollevato per le braccia in malo modo da due delle guardie e la terza, la stessa che lo ha picchiato, gli da un colpo allo stomaco. Mail annaspa in cerca di aria ed emette un urlo strozzato al secondo colpo più in basso; sputa sangue e sente la gola ardere, non una lacrima scende però dal suo viso. Occhieggia verso Mihael, che è trattenuto dal capitano; si sta mordendo il labbro inferiore quell'idiota, a sangue per di più. Non capisce che farebbe prima a non curarsi di lui?

A un nuovo colpo si accascia e viene lasciato cadere sul pavimento dalle guardie. Ha lo sguardo basso, sta cercando di riordinare i pensieri, di riavere lucidità, e intanto sente il generale commentare.

-Stiamo solo picchiando un lurido ebreo effeminato. Non vedo quale sia il problema, tenente. E lei?-

-Crepa, lurido bastardo.- sibila in risposta l'altro. Mail alza la testa appena in tempo per vedere il pugno chiuso del gerarca sollevarsi contro il viso del biondo e, fulmineo, scatta in avanti per riceverlo al posto suo. Cade di nuovo a terra ai piedi del tenente che si accuccia con lui.

-Mail, sei un idiota!- gli sussurra pulendogli il sangue dal naso.

-Me lo dici ogni volta... Dì loro che è colpa mia. Diglielo e ti lasceranno stare.-

-Scordatelo.-

Il generale interviene trascinando Mail per la camicia e sbattendolo sul selciato di fuori. Il nuovo colpo che riceve con l'urto gli fa perdere una piccola stilla dagli occhi che cade sul terreno sterile. Non riesce a rialzarsi, le gambe gli cedono.

-Raduna un plotone.- comunica il gerarca al capitano con le guardie che lo hanno seguito di fuori, poi si volta verso Mail ed accenna sadico ai prigionieri che si stanno fermando per spiare -Vogliamo ricordare ai tuoi amici il loro posto?-

-Credo se lo ricordino benissimo.- esala il ragazzo riuscito a mettersi a carponi.

Il gerarca coglie immediatamente l'occasione per zittirlo con una violenta gomitata ai reni e lui rovina di nuovo al suolo inerme.

Il tenente ringhia -Bastardo!- e si scaglia contro di lui, ma il capitano lo ferma con un pugno alla bocca dello stomaco che lo fa inginocchiare.

-Fa pena, tenente.- commenta il capitano. 

Tra chi accorre per primo, Mail vede Henryk, è diverso, però, da come lo ricordava; vede offuscato, però gli pare che abbia addosso una giacca oltre alla camicia e delle scarpe differenti.

-Non ci si può fidare proprio più di nessuno, eh?- sospira il gerarca fingendo contrizione ed indicando Henryk appunto, aggiunge poi -Non riesco nemmeno ad immaginare cosa facciate senza vomitare, deplorati.-

L'idea nella mente di Mail, l'idea che voleva rifiutare, ormai non ha più ragione di essere negata: Henryk lo ha venduto per giacca e scarpe ai nazisti. E alle parole del tedesco in piedi accanto a lui non può che pensare che se lui è un deplorato cos'è uno che vende gli amici? Probabilmente la risposta è: non ci sono amici qui. Mail se ne rende conto solo in quel momento; non avrebbe dovuto legarsi a nulla. Comprende i kapo, comprende la loro apatia. È il solo modo per sopravvivere.

Il largo spazio vuoto tra le baracche dei militari è ora gremito di persone, tutte uguali e al contempo tutte diverse, dall'altro campo che si affaccia su quello spiazzo, anche alcune donne scrutano la situazione e si stringono tra loro comprendendola. Come vorrebbe, Mail, che tra loro ci fosse anche sua sorella.

Un plotone di esecuzione arriva in pochi istanti di fronte a lui e i mitra vengono caricati e puntati. Che onore gli spetta! Tra i pochi a morire ucciso direttamente, non con le docce, non di stenti o mali, direttamente, con i proiettili. Chissà se poi l'avrebbero passato per il camino lo stesso.

Il generale si allontana dal raggio di gittata dei proiettili, ma prima di dare l'ordine di sparare ci ripensa e fa cenno al tenente di avvicinarsi.

Mihael esegue meccanicamente, ma non evita di lanciargli uno sguardo carico d'odio. Il gerarca sorride invece e gli tende una pistola.

-Fallo tu.-

Viene sospinto in mezzo allo spiazzo con quell'arma in mano che continua a fissare. Mail si alza a fatica e riesce a mettersi solo dritto in ginocchio. Ora sono uno di fronte all'altro, a neanche un metro di distanza; mille e mille occhi li fissano, ma è come se fossero soli.

-Non ci riesco.- mormora Mihael con la testa bassa.

-Devi farlo, invece. Preferisco morire così che per mano di quei bastardi.-

Mail dovrebbe odiarlo, dovrebbe odiare tutti quanti, dovrebbe disperarsi e invece sorride. Le lacrime gli scendono quasi naturali dagli occhi; sono stille nere, nere per ciò che ha dovuto sopportare in così poco tempo, nere per la colla. Gli rigano il viso, glielo segnano, solcandolo e infiltrandosi nelle ferite.

-Mi spiace che la tua famiglia non potrà più essere orgogliosa di te e del tuo lavoro per colpa mia.-

Mihael alza lo sguardo su di lui e finalmente fa vedere le lacrime che gli bagnano le guance pallide.

-Fregatene di quei deficienti! Io decido per me... E non ho mai avuto onore più grande che stare con te.-

-Bugiardo.- sorride l'altro. Mihael prepara la pistola e gliela punta in fronte. Mail continua a sorridere nonostante il suo cuore abbia preso a battere più veloce. 

-Non te l'ho mai detto sul serio. Kocham Cię.-

Il grilletto viene premuto. Un solo secco colpo squarcia il silenzio.

-Ich liebe dich.-

Mihael si gira verso i suoi commilitoni che lo tengono sotto tiro, verso i superiori e verso la folla. Getta di lato la pistola e alza il braccio facendo il saluto nazista.

-Heil bastard Hitler.- 

Una serie di colpi crivellano il suo corpo e cade. La mano tesa, aperta su quella chiusa dell'altro.

Quando gli addetti si avvicinano per portarli ai forni crematori notano sulle labbra di entrambi un sorriso, felici di morire perché lo erano già il giorno del loro incontro.



Angolo Autrice:
Ebbene è così dunque che finisce. 
Spero vi sia piaciuta almeno tanto quanto è piaciuto scriverla a me. Grazie.  
-AK

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3646251